A place for us

di paffywolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rachel - L'arrivo ***
Capitolo 2: *** Santana - La scoperta ***
Capitolo 3: *** Quinn - L'incontro ***
Capitolo 4: *** Rachel - Yoga a Central Park ***



Capitolo 1
*** Rachel - L'arrivo ***



A place for us
 

Salve a tutti! Ho deciso di inizare questo progetto a causa della voglia di leggere qualche FF sul futuro di Rachel, Quinn e Santana a New York. Il finale di stagione ha lasciato aperte fin troppe pagine e così ho deciso di provare io stessa a riordinare un po' le idee che mi frullavano in testa e riassumerle in una storia.
New York è l'emblema del sogno americano, eppure è una città tutt'altro che perfetta. Saranno proprio le 3 protagoniste di questa FF a svelare i lati nascosti di una delle città più famose al mondo. E forse dovranno fare i conti con i fantasmi del loro passato.
La storia tratterà tematiche forti, ma cercherò comunque di non rendere il tutto troppo pesante visto che Glee nasce come comedy.
Ma non voglio anticiparvi nient'altro, buona lettura! :)




Capitolo I: Rachel - L'arrivo

Rachel Berry


Un formicaio.
Quella fu la prima impressione che ebbi del teatro della NYADA. Non notai le lussuose poltrone di velluto rosso, né le luci accecanti che inondavano il legno scuro dell’immenso palcoscenico, né l’enorme tendaggio del sipario.

No, la prima cosa che mi colpì fu l’assoluta e precisa organizzazione di ogni singola cosa in quel luogo. Proprio come tante piccole formiche, ogni studente trascinava la propria valigia con sé, osservava il proprio biglietto e ordinatamente arrivava al proprio posto. Persino chi non era mai stato in quel luogo, come me d’altronde, riusciva immediatamente a trovare la propria poltrona e vi si sedeva in attesa dell’assemblea d’inizio anno.

Quella mattina i miei genitori, in ansia come mai prima di allora, mi avevano salutato con un sorriso dalla porta del loro appartamento nuovo di zecca nel pieno centro di New York. I risparmi di una vita avevano permesso loro di comprare un bilocale nel costosissimo Upper East Side, il quartiere della socialite, la gente che a New York contava davvero. E poco importava se per comprare quel piccolo appartamento avessero dovuto vendere la nostra vecchia casa a Lima, in Ohio. Era un patto da sempre sancito, un tacito accordo tra noi tre: dove va uno, vanno tutti gli altri.
L’autista del mio taxi – giallo come tutti quelli di New York – mi chiese con un sorriso dove desiderassi essere portata. E fu con immenso orgoglio che gli risposi: “Alla NYADA, l’accademia di arti drammatiche”.

NYADA, New York, Broadway. Tutti i miei sogni erano diventati realtà: una realtà in cui mi trovai a mio agio fin dal mio primo giorno nella Grande Mela, quasi come fossi nata per appartenere a quella magica città.
Le lacrime versate durante quel lungo viaggio in treno non furono l’ultima cosa che portai con me dalla mia vita passata: vi furono anche dozzine di sms dei miei vecchi compagni di scuola, amici straordinari che mi avevano accompagnato nel corso di quegli anni e ai quali sarei rimasta per sempre legata.

Appena arriverò a Yale ci vedremo, te lo prometto. Ti voglio bene - Quinn

Ciao piccola stella. Domani mattina DEVI andare da Tiffany e fare colazione con quei deliziosi bagel, come quando eravamo insieme. A presto – Kurt

Ogni giorno controllerò i giornali, per essere sicura che il tuo nome non appaia sui tabloid prima del mio. :)  - Mercedes

Avrai sempre un posto speciale nel mio cuore. Quando avrai un’enorme piscina nella tua villa da riccona, ricordati del tuo fratellone. ;) - Puck

Lessi e rilessi i messaggi di tutti loro più e più volte durante il viaggio, in attesa dell’unico messaggio che davvero desideravo. 

Finn però non si fece sentire né quel giorno, né durante i mesi successivi: gli scrissi tre volte e non ebbi mai risposta. Probabilmente avevo frainteso il significato delle sue parole: credevo ci saremmo impegnati in quella che solitamente viene definita “relazione a distanza”, ma evidentemente lui non era dello stesso avviso quando aveva pronunciato le parole che ci avevano separato per sempre.
Quella sera, sdraiata nel mio letto nel nuovo appartamento, mi addormentai con l’anello regalatomi da Finn al dito. Il suo lieve bagliore fu l’ultima cosa su cui posai lo sguardo, prima di chiudere gli occhi.
L’indomani quell’anello era sparito. A nulla erano valsi i tentativi dei miei papà di convincermi che l’avevo perso: ricordavo distintamente il modo in cui le luci di New York si specchiavano in quel piccolo brillante mentre poggiavo la mano sul cuscino. Lo cercai ovunque nell’appartamento: svitai addirittura il sifone del lavandino, ma dell’anello non vi era più alcuna traccia.

Persino in quel momento perfetto e che aspettavo da tutta una vita, seduta sulla mia poltrona e in attesa dell’assemblea di inizio anno, il pollice della mano sinistra sfiorò l’anulare, alla ricerca di quell’anello andato perduto. Era un gesto meccanico, un’abitudine consolidata che faticavo a perdere. Sospirai affranta.
La voce di una ragazza mi risvegliò all’improvviso.

“Tu devi essere Rachel, giusto?”
Alzai lo sguardo e mi ritrovai di fronte a una ragazza della mia età, la cui pelle color dell’ebano riluceva delicatamente. Il suo viso mi era familiare, grazie al fascicolo che la NYADA forniva a ogni studente il primo giorno: il mio recitava stanza 302, terzo piano, corridoio A, letto 2. A lei apparteneva il letto 1: era la mia coinquilina.
I suoi lunghi capelli erano raccolti in tante piccole trecce che le ricadevano sulle spalle, ciascuna fermata da un minuscolo fermaglio colorato. Sorrise appena e le sue labbra piene rivelarono una schiera di denti perfetti e bianchissimi. Un piccolo bagliore catturò la mia attenzione sul suo naso affilato: un brillantino sulla narice sinistra.
“E tu sei... Violet?”le risposi, allungando una mano con un sorriso. Lei la strinse tra le sue e sussurrò qualcosa in una lingua a me sconosciuta. Non feci in tempo però a chiederle cosa significasse, perché la direttrice dell’accademia salì sul palco e le luci intorno a noi si spensero per fare spazio a un unico accecante faro che puntava verso di lei. La riconobbi all’istante.
“Buongiorno e un bentornato a voi, piccole star in erba. E un caloroso benvenuto a tutti i nuovi studenti del corso di arti sceniche. Come penso tutti sappiate, io sono Carmen Tibideaux e sono qui per presentarvi il programma di questo nuovo anno accademico. Prima di fare qualsiasi cosa, però, come d’abitudine lascio il palcoscenico ai nostri studenti dell’ultimo anno.”
“Abitudine?”chiesi, allungandomi verso Violet.
“Sì, ogni anno allestiscono un piccolo spettacolo di una decina di minuti circa. Sono canzoni classiche, ma a volte vengono arrangiate in modi diversi dagli studenti.”mi sussurrò lei, mentre il sipario si alzava e mostrava una sagoma nera che riproduceva i grattacieli di New York. Riconobbi chiaramente l’Empire State Building al centro della scena, prima che la mia attenzione venisse catturata da un ragazzo biondo che indossava un impermeabile color ghiaccio.

Start spreading the news,
I'm leaving today.
I want to be a part of it,
New York, New York.

La sua voce era indescrivibile e all’istante mi sentii una stupida nell’essere stata tanto presuntuosa gli anni precedenti. Capii subito cosa chiedeva da me quella scuola, cosa sarebbe riuscita a garantirmi in caso di successo: perfezione assoluta nel canto e nella danza.
I ragazzi sul palco che eseguivano la coreografia erano tutti perfettamente a tempo, ugualmente aggraziati e precisi mentre intonavano la melodia che accompagnava quel misterioso ragazzo biondo mentre cantava uno dei più grandi classici della storia della musica.
I minuti trascorsero velocemente mentre altri ragazzi e ragazze si unirono a lui per altre battute di quella stessa canzone, rincorrendosi l’un l’altro alla ricerca di note sempre più alte. 

Quando la magia di quello spettacolo finì, rimasi impietrita al mio posto, incapace persino di battere le mani per applaudire. Continuavo a scrutare i volti di quei ragazzi sorridenti mentre camminavano ordinatamente verso il pubblico per dare il loro saluto.
Mi voltai verso Violet, sul cui viso era stampato un sorriso entusiasta. Mi ritrovai anch’io a sorridere insieme a lei, quasi senza nemmeno accorgermi della preside che saliva sul palco e iniziava a elencare i nomi di quei ragazzi, che facevano un passo avanti e si inchinavano.
Al nome del ragazzo biondo – tal Andrew Cohen – il teatro sembrò tremare tanto era il caos di applausi e fischi di approvazione.
Carmen Tibideaux concluse l’assemblea leggendo gli orari dei corsi e presentando uno a uno i nostri insegnanti, tutti professionisti di prim’ordine nel campo. Già solo osservandoli fu facile capire chi di loro insegnasse danza, chi canto, chi recitazione. Fra tutti si distinse un’eccentrica ragazza di qualche anno più grande di noi, che al sentir pronunciare il suo nome intonò qualche nota, quasi a sottolineare il fatto che fosse la professoressa di canto lirico.
“Sì professoressa Connelly, la ringraziamo tutti per i suoi vocalizzi. Comunque, l’assemblea è conclusa. Chiunque non sia iscritto al primo anno può andare, gli altri restino qui.” 

Le luci principali si accesero e il teatro si svuotò ordinatamente: a rimanere in quella sala fummo solo noi del primo anno, che sussurravamo intimiditi tra di noi. Madame Tibideaux scese dal palco ridendo.
“Ragazzi, calmatevi. Sembra vi abbia punto qualcuno con uno spillo! Rilassatevi.”disse con un sorriso incoraggiante, frugando in una cartelletta. Ne estrasse un foglio e chiamò i nostri nomi uno a uno in ordine alfabetico, consegnandoci le chiavi delle stanze e un orario delle lezioni. Quando fu il mio turno, un lieve sussurro si alzò dai miei compagni.
“Ah, Rachel... Quante grane mi hai dato lo scorso anno.”borbottò con fare seccato, ma con gli angoli della bocca che trattenevano a stento un sorrisino.
“Guardate bene questa ragazza e statele alla larga.” continuò ridendo, rivolgendosi ai miei compagni. “Mai nella mia carriera ho conosciuto un tale concentrato di bravura, testardaggine e petulanza.”
Mi diede un lieve buffetto sulla mano, mentre mi allungava una scheda e un mazzo di chiavi. Concluse rapidamente la procedura, rivolgendo sorrisi a ciascuno studente. Ma quando chiamò l’ultimo nome della lista – Jessica Zenit – e si rivolse di nuovo a tutti noi, non vi era alcuna traccia di sorrisi sul suo volto.
“Le regole qui alla NYADA sono poche, ma semplici. Vi è concessa una sera libera alla settimana, ma dovrete venire personalmente in ufficio da me per richiedere un permesso per uscire dalla struttura. Se si tratta di appuntamenti che ripetete settimanalmente, come andare a trovare i vostri parenti oppure assistere a funzioni religiose, vi compilerò un permesso speciale che varrà per tutto l’anno. E’ categoricamente proibito fumare all’interno dei locali, così come abusare nel consumo di alcolici. Qualsiasi comportamento scorretto o dannoso per voi o i vostri compagni, verrà severamente punito e a seconda della gravità potrebbe anche garantirvi l’espulsione. Ma confido nel vostro buon senso. Vi auguro buona serata ragazzi, ci vediamo domani mattina per la prima lezione.”

*-*-*-*-*-*

Terzo piano, stanza 302. Lanciai uno sguardo d’intesa a Violet e insieme poggiammo la mano sul pomello della porta, spingendo appena. 

La prima impressione che ebbi fu di luce. La parete di fronte alla porta era interamente composta di pannelli di vetro, lasciando intravedere l’intera città sotto di noi. Il panorama era mozzafiato. La stanza era piccola, ma comunque accogliente. Una porta laccata d’oro conduceva al bagno. Due letti gemelli con i rispettivi comodini davano le spalle alla parete di vetro e un enorme armadio bianco occupava gran parte della parete destra. 
“Rachel, è bellissimo!”esclamò Violet, sfilandosi le scarpe e lanciandosi sul letto. Io mi fiondai nel bagno e quasi gridai dalla felicità.
“Violet, abbiamo una vasca! Una vasca con le zampe di leone!” esclamai ridendo, contagiata dal suo entusiasmo. Temevo di ritrovarmi una doccia angusta, invece avevo a mia disposizione un’enorme vasca da bagno. Con l’idromassaggio!
Appoggiai compiaciuta il mio beauty case sul ripiano del lavandino, uscendo poi dal bagno. Presi la mia valigia e la aprii davanti all’armadio. Appesi ordinatamente i vestiti e le gonne, poi passai ai pantaloni e alle t-shirt, che ripiegai con cura e infilai nei cassetti. Violet, accanto a me, faceva lo stesso. Era un incarico esclusivamente meccanico, così decisi di iniziare a conoscere meglio la mia compagna di stanza. 

“Da dove vieni, Violet? Prima in teatro mi era sembrato di sentirti sussurrare qualcosa, ma non ho capito bene cosa di preciso.” La ragazza sospirò, d’improvviso ogni traccia di ilarità sembrò sparire dal suo viso.
“Sì, hai ragione. La frase che ho pronunciato si usa dire quando ci si presenta a qualcuno. Comunque no, non sono americana, i miei erano originari del Rwanda.”
“Erano?”
“Sono morti quando ero piccola. Io sono stata cresciuta da mia nonna.”
Capii che l’argomento era difficile da affrontare per lei e mi scusai per la mia invadenza. Lei rispose con un sorriso appena accennato, mentre ripiegava un paio di pantaloni.
“Tu invece? Vieni dall’Ohio, giusto?” chiese dopo un po’.
“Affermativo. Ma i miei papà si sono trasferiti qui a New York con me, così potremo vederci senza spendere milioni.
“I tuoi... papà?”
“I miei genitori sono gay. Ancora oggi non sappiamo chi dei due sia il mio padre biologico, ma va bene così.”dissi, tirando fuori dalla valigia le mie lenzuola preferite, di un bel rosa confetto. Presi il cuscino e iniziai a infilare la federa, canticchiando distrattamente. 

“E come mai la Tibideaux ti conosce così bene?”
“La mia prima audizione fu un disastro completo. Decisi di cantare 'Don’t rain on my parade' e dimenticai le parole.” Violet si portò le mani alla bocca con un gemito, quasi come se avessi appena bestemmiato.
“Come hai fatto a essere qui?” Mi squadrò con aria critica, probabilmente convinta che io avessi corrotto la preside con chissà quanti milioni di dollari per garantirmi l’ammissione.
“E’ stata la mia... petulanza.”dissi con una smorfia. ”La tartassai di telefonate e andai personalmente a trovarla in un teatro vicino Lima. Tutto pur di convincerla a venire ad assistere alle Nazionali del mio Glee Club a Chicago.”
“Oh, capisco. Scusami se ho insistito.”
“Figurati, non c’è problema. Piuttosto, avevi anche tu un Glee Club a scuola?”
“Sì, ma lo scorso anno non ci classificammo per le Nazionali. Ebbi una brutta laringite pochi giorni prima delle nostre Regionali e fui costretta al mutismo più totale, oltre a dover subire una lunga serie di riti sciamanici per scacciare il malocchio. Hai presente, no? Teschi di topo...”disse ridacchiando.
“Sacrifici di animali?”proseguii io, reggendole il gioco.
“Sì, milioni di antilopi.” ridacchiò lei.
“Assassina! Io rifiutai di dissezionare la mia rana al laboratorio di scienze. Però quando successe a me, mi presentai a scuola in pigiama, mangiando cereali.”
“Oh, io ti batto di sicuro. Pensa che una volta...”

Violet, nel giro di poche ore, era diventata come un’amica di vecchia data. Ci scambiammo aneddoti divertenti sui nostri rispettivi Glee Club, i primi approcci al canto, gli insuccessi e le vittorie che avevamo ottenuto. Ma quando si trattava di indagare più a fondo nel passato, entrambe glissavamo rapidamente e cercavamo di distogliere l’attenzione dell’altra dai nostri veri problemi.
Quando fu l’ora di cena, scegliemmo di indossare la divisa estiva dell’accademia. Non era obbligatorio indossarla, ma sia io che Violet eravamo entusiaste di provarla. Era composta da un gilet di cotone blu, sotto il quale andava indossata una camicia bianca a nostra scelta. A completare l’uniforme, una gonna azzurra a pieghe, che terminava appena sopra il ginocchio.
“Sai dov’è il refettorio?” mi chiese lei, premendo il pulsante dell’ascensore.
“Non di preciso, ma ho visto una piantina dell’accademia accanto al bancone della reception. Magari è indicato lì.” Uno scampanellio risuonò nell’aria e le lucide porte di metallo si aprirono lentamente. L’ascensore era già occupato da una coppia di ragazzi che chiacchieravano fra loro, entrambi appoggiati alla parete di acciaio.
“Secondo me è al piano terra. A meno che non ci sia una sala da pranzo in terrazza.” replicò Violet, premendo il pulsante del primo piano. Una voce alle nostre spalle interruppe le nostre chiacchiere.
“La sala pranzo è all’ultimo piano, ragazze. Al piano terra c’è solo l’entrata.” Mi voltai e riconobbi all’istante quel ragazzo biondo che poche ore prima mi aveva tanto fatto emozionare con la sua voce. Dal palco non si notava, ma era incredibilmente alto. I suoi occhi grigi incrociarono i miei per un istante e sorrise con fare affabile, costringendomi ad abbassare lo sguardo. Violet, più spigliata di me, ricambiò il sorriso.
“Dodicesimo piano, signor?” Oh sì, Violet. Come se non sapessimo alla perfezione chi fosse. O forse ero soltanto io quella tra le due ad aver impresso nella mente il suo nome. 
“Andrew. E lui è Martin.”disse, indicando il suo amico. Erano molto simili fisicamente, entrambi magri e altissimi, ma i capelli color paglia di Andrew erano l’opposto di quelli di Martin, neri e leggermente ricci.
“Io sono Violet.” Disse, stringendo loro la mano. “E lei è la mia compagna di stanza, Rachel.”
Prima di poter dire qualsiasi cosa, quell’imbarazzante corsa in ascensore ebbe termine.
“Settimo piano, noi scendiamo qui.”disse Andrew, superandoci.
“Ci vediamo in giro!” salutò Martin, uscendo dall’ascensore e agitando appena la mano. 

Appena prima che le porte si chiudessero, li intravidi incamminarsi lungo il corridoio, mano nella mano.
“Cavoli, Andrew è uno schianto.”esclamò Violet. Rimasi in silenzio, meditando su ciò che avevo appena visto.
“Ehi, sto parlando con te?”ridacchiò lei, dandomi un colpetto sull’avambraccio.
“I maschi etero non camminano nei corridoi tenendosi per mano. Giusto?”
“Diamine, non dirmi che loro due...”Sul suo volto si dipinse un’espressione sconsolata.
“Già, credo proprio stiano insieme.”continuai io, ridendo.
“Cavoli, è proprio vero. I bei ragazzi sono tutti impegnati.”
Eppure c’era qualcosa nell’espressione di Andrew che non mi convinceva.
Affatto.

 

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Capitolo 2
*** Santana - La scoperta ***


A place for us

Salve a tutti! Il primo capitolo ha avuto un buon impatto con più di 100 visite in solo 3 giorni, quindi non posso che esserne più che soddisfatta. Grazie alle mie 3 meravigliose ragazze che hanno recensito e a tutti quelli che hanno aggiunto la prima storia tra le seguite o le preferite. E' bello sapere di avere la vostra fiducia, mi emoziono tanto. :)

Ho trovato una beta fantastica, Micol alias LionQuinn, la persona più "Santana" che io conosca. E' la beta perfetta per questo secondo capitolo, dato che a parlare è proprio la nostra latina preferita. Ho cercato di variare il più possibile lo stile, inserendo addirittura qualche parola o frase in spagnolo qua e là. Non preoccupatevi comunque, la lettura mi sembra abbastanza scorrevole . Mi scuso in anticipo per eventuali errori grammaticali in questa lingua, non l'ho mai studiata quindi è altamente probabile ci sia qualche castroneria. Fatemeli notare attraverso un messaggio o una recensione e correrò immediatamente a correggere, cospargendomi il capo di cenere e implorando il vostro perdono!

In questo capitolo una scena in particolare è stata difficile da scrivere, spero di essere riuscita a darle comunque il giusto risalto e la giusta importanza.
E niente, la smetto di dire scemenze e vi lascio alla lettura!
Un bacio enorme e grazie a tutti voi :)
Roberta



Capitolo II: Santana - La scoperta
Santana

Il suo respiro mentre dormiva era la cosa che più mi sarebbe mancata di Lima.
Brittany riposava accanto a me nel mio letto a una piazza e mezzo, troppo piccolo per dormirci comodamente in due. La mia ragazza si addormentava sempre rannicchiandosi a mo’ di gattino, appoggiando la testa sul mio seno con un sorriso felice sul volto. Le piaceva dormire così, la faceva sentire protetta. Il giorno dopo sarei partita per New York e mia madre ci aveva concesso un permesso speciale: una serata solo per noi due. Le accarezzai i capelli, baciandola sulla fronte, ripensando agli avvenimenti del pomeriggio.

*-*-*-*-*-*

Ero andata da mia nonna, su insistenza di mio padre.
“E’ sempre mia madre, Santana. Passa a salutarla.”
A nulla erano valsi i tentativi di mamma di dissuaderlo, né i miei. Per editto paterno, dovevo andare dalla nonna che mi aveva ripudiato con tanto amore. Ma l’avrei fatto a modo mio.
Durante il breve viaggio, avevo già programmato tutto. Volevo mi conoscesse per chi ero davvero: basta nascondere sentimenti, era il momento per esternarli e per farle capire cosa significasse davvero la parola verguenza.
Ero entrata in casa senza bussare, stringendo la mano di Brittany, presentandola fieramente come mi novia. L’espressione sconvolta sul volto di mia nonna rimarrà per sempre nei miei ricordi. Le sue urla in spagnolo avevano spaventato la povera Britt, convinta che quella donna fosse la strega voodoo di una raccolta di leggende portoricane che le avevo regalato.

Mio padre non aveva avuto nemmeno il tempo di parcheggiare la macchina: la mia adorabile nonnina ci aveva già sbattute fuori di casa. Io, in tutta risposta, lungo il vialetto che conduceva nell’antro della strega baciai appassionatamente Brittany, incurante della gente che passava. E fu solo quando mio padre ci separò, leggermente a disagio, che alzai lo sguardo e vidi il disgusto negli occhi di quella donna mentre ci spiava dalle tendine verdi della cucina. Salii sulla decappottabile di papà, indifferente alle occhiatacce dei passanti mentre abbracciavo e tentavo di consolare la mia ragazza.

“Sai Santana, immaginavo avessi qualcosa in mente quando mi hai detto che Brittany sarebbe venuta con noi, ma davvero non mi aspettavo questo.”disse mio padre, osservandoci dallo specchietto retrovisore.
“Cosa ti aspettavi, che giocassimo con le bambole?”ribattei io, infastidita.
“Un bacio di sicuro, su quello sei prevedibile. Ma non in mezzo alla strada, con i passanti e tutto il resto.”
“Non ho niente da nascondere. E probabilmente quei bigotti che ci osservavano avranno pensato stessimo girando un video amatoriale per Youporn. Hijos de puta.”

*-*-*-*-*-*

“San?”sussurrò lei, la voce impastata dal sonno.
“Dimmi, Britt.” Intrecciai distrattamente le dita tra i suoi capelli.
“Ho fatto un brutto sogno” mugugnò, abbracciandomi stretta e affondando il viso nell’incavo del mio collo. Il suo seno nudo contro il mio mi scatenò un brivido di eccitazione, ma cercai di porre un freno alla mia lussuria.
“Cosa hai sognato?” Le presi il mento con due dita, invitandola ad alzare lo sguardo. I suoi occhi cerulei erano impauriti.
“Lord Tubbington voleva venire con te a New York.”
Le accarezzai la guancia e la grattai appena sotto il mento, come avrei fatto con un cucciolo desideroso di coccole. “Sai benissimo che non succederà, Britt. Il tuo gatto mi odia perché non gli ho mai offerto uno dei miei sigari cubani.”
“Fallo partire da solo. Tu non andare via.”
“Britt, lui vuole andare a New York soltanto per trovare i suoi cuccioli. Giusto per vederli prima che vengano serviti nella zuppa scadente di qualche ristorante orientale. Io vado lì perché voglio rincorrere i miei sogni.”
“Ma tu corri veloce anche qui. A New York c’è una palestra speciale, che ti insegna a prendere i sogni?”
“Palestre specialissime. Ti allenano a acchiappare i sogni più grandi di tutti.” Sfregai il naso contro il suo zigomo, annusando il suo dolce profumo. Lei mugugnò qualcosa, ma non riuscii a capire bene.
“Puoi ripetere? Non ti ho sentito.”
“E non vuoi aspettarmi?”disse, la voce spezzata.
“Oh no Britt, no.”dissi, mentre una lacrima le rigava la guancia.
“Non vuoi più stare con me, San?”
“Certo che voglio stare con te, Brittany. Non voglio nessuna che non sia tu. Non voglio i baci e gli abbracci di altre donne, solo i tuoi. Sei la ragazza più dolce e perfetta che potessi mai trovare. Persino le tue lacrime sono dolci.” Le presi il viso fra le mani, sfiorando con le labbra quell’unica goccia di solitudine e tristezza. Poi le solleticai la pancia con la punta delle dita, facendola ridacchiare.
“Ma quando piangi non sei bella come quando sorridi. Quando sorridi il mondo sembra avere di nuovo un senso, Britt. E io voglio vederti sorridere domani, promesso?”
Brittany annuì, alzando il mignolo della mano destra.
“Promesso.”

*-*-*-*-*-*

Passammo la mattinata a casa di Brittany, in compagnia di sua madre: Susan Pierce mi sarebbe mancata terribilmente. Quella donna era più tosta di un muro di cemento armato, ma i suoi favolosi biscotti avrebbero fatto sciogliere persino un generale nazista. Quel giorno decise di affidarmi la sua ricetta segreta, così anche a New York avrei potuto avere un pezzettino di casa Pierce. Peccato non potessi portare con me anche i morsi delicati con cui Brittany rubava metà del biscotto che trattenevo tra i denti.
“Quando tornerai, Santana?”mi chiese, mentre stendeva l’impasto sul piano di marmo. Brittany era seduta su uno sgabello e ritagliava i biscotti utilizzando delle formine.
“Per Halloween di sicuro. E probabilmente anche per la festa del ringraziamento, dipende se papà sgancia i quattrini.”dissi, rubando un pezzetto di impasto crudo e infilandomelo in bocca.
“Santana!”esclamò, ridacchiando.
“Che c’è? Lo sai che vado pazza per i tuoi biscotti!”ribattei, leccandomi le dita.
“Sì, ma prima vanno cotti!”esclamò, colpendomi scherzosamente sulla testa con il mattarello di legno.
Trascorsi in quella casa le ultime ore a Lima. Susan preparò ben due teglie di biscotti, che poi ripose con cura in un barattolo dopo averli fatti raffreddare. Brittany prese poi dei pennarelli per vetro e iniziò a decorare quell’anonimo contenitore, rendendolo ai miei occhi la più meravigliosa opera d’arte.
Quando concluse, vi incollò sopra un’etichetta di carta plastificata – “Biscotti felici” - e sigillò il tutto con un bacio, lasciando che il segno del suo lucidalabbra fosse ben visibile sul coperchio.
“Così ogni volta che mangerai i biscotti della mamma potrai darmi un bacio.”

*-*-*-*-*-*

Mia madre e la madre di Brittany chiacchieravano sedute su una panchina, lasciandoci quegli ultimi preziosi minuti. Ridevano e scherzavano tranquille, ma potevo leggere sul volto di entrambe una velata tristezza che però mai ci avrebbero mostrato. In attesa che il treno partisse, Brittany rivelò il misterioso contenuto di una piccola borsa che aveva portato con sé fino in stazione.
“Aprila.”mi disse con un sorriso.
Il suo orsacchiotto preferito...
“Da stringere forte forte mentre dormi.”
... un campioncino del suo profumo...
“Così puoi spruzzarlo sul cuscino ed è come se dormissi assieme a te.”
... il suo bagnoschiuma preferito...
“Per ricordarti delle nostre docce assieme negli spogliatoi della scuola.”
... e la cosa più bella di tutte, un anello d’argento con all’interno inciso il suo nome.
“E’ un regalo di nonna, ma voglio che lo abbia tu.”
Presi tutti quei regali sentendomi scoppiare il cuore di felicità e tristezza al tempo stesso. La abbracciai stretta, sentendomi la persona più fortunata al mondo.

Il fischio del capotreno mi richiamò all’attenzione. Mancavano due minuti alla partenza e mi avviai alla porta dello scompartimento, tenendo per mano Brittany. Appoggiai il mio trolley rosso in una nicchia nella carrozza, in quel momento era l’ultima cosa di cui mi importava.
Rimasi fino all'ultimo secondo sulla banchina, continuando a baciarla e stringerla forte a me. Lacrime amare velavano lo sguardo di entrambe, ma riuscimmo a mantenere la promessa stretta la sera prima.
Il capotreno si avvicinò a noi e con fare sconsolato ci annunciò che il treno doveva partire. Lo maledissi non tanto velatamente. Quei cazzo di treni erano sempre in ritardo, invece quel giorno il mio era perfettamente puntuale. Merda.
Brittany mi prese la mano fra le sue, mi guardò seria negli occhi e con tono solenne annunciò:
“San, ti prometto che l’anno prossimo verrò da te e ti aiuterò ad acchiappare i sogni. Piazzeremo delle trappole per sogni ovunque. Sono come le trappole per topi, ma al posto del formaggio bisogna metterci tanti glitter colorati.” Sorrisi della sua dolce ingenuità.
“Certo Britt, ti aspetterò.”

Un ultimo bacio a suggellare quella promessa e le porte automatiche ci tranciarono in due.

Rimasi immobile di fronte alla porta, osservando Brittany attraverso il velo di sporcizia di quel piccolo finestrino.
“Ti amo.”mimò lei con le labbra, formando un cuore con le dita.
“Ti amerò per sempre.”le risposi io, appoggiando una mano sul vetro mentre la sua sagoma svaniva dalla mia vista.
Recuperai il mio bagaglio e mostrai al controllore il mio biglietto.
“Mi dispiace di avervi interrotte prima.”disse a mo’ di scusa. I suoi lunghi baffi grigi davano al suo volto un’espressione terribilmente comica. In altre occasioni avrei trovato qualche soprannome perfetto, ma in quel momento avevo altro per la testa.
“Non si preoccupi.” Un sorriso amaro comparve sul mio volto.
“Mi dia la sua valigia, signorina. La accompagno al suo posto.”
E mentre percorrevo quei pochi metri in quel treno traballante, il cellulare vibrò nella mia borsa.

Mi manchi già, San. Ma la tua mamma ha detto che tornerai ad Halloween, come le streghe. Ma tu non sei una strega, vero San?

Appoggiai le labbra sulla foto di Brittany che usavo come sfondo del cellulare con un sorriso.
Fottetevi, maledetti 900 chilometri. Io e Brittany ce la faremo.


*-*-*-*-*-*

“Santana, 4 hamburger al tavolo 6.”
Detestavo quel grasso signore dalla testa pelata, che ci aveva provato spudoratamente con me fin dal primo giorno in quel fottuto ristorante. Detestavo la sensazione di unto sulla pelle e l’odore delle cipolle che impregnava i miei poveri capelli. Detestavo dover indossare con quella ridicola divisa, con quella gonna troppo corta, fatta apposta per far arrapare qualche signore di mezza età.

Detestavo il mio appartamento, in cui a stento avevo un letto su cui dormire e un bagno in cui pisciare. Detestavo cucinare su un unico fornello a gas, avere un frigorifero rotto e non poter fare il bucato in una cazzo di lavatrice privata. Detestavo la padrona di casa, che si presentava puntualissima a casa mia con quella sua aria da stronza snob per riscuotere l’affitto. O meglio dire, a rubare i miei soldi guadagnati con fatica, visto che quell’appartamento era una merda. L’unico motivo per cui l’avevo scelto era che la linea internet funzionava abbastanza decentemente. Poter parlare e vedere Brittany, anche se solo attraverso il monitor del mio pc, era l’antidoto perfetto a tutto il veleno di quelle interminabili giornate newyorkesi.

Ma quella sera, tutto sarebbe stato diverso. Quella era la serata degli artisti dal vivo, in un piccolo bar vicino casa mia, e io ero riuscita a trovare un buco per il programma di quella serata: due minuti appena, ma mi sarebbero bastati. Avevo davvero bisogno di tirarmi su con un po’ di sana musica e scaricare un po’ di rabbia in una canzone. Ma quale scegliere?

In attesa della metropolitana che mi avrebbe ricondotto a casa, feci scorrere con il dito la lunga lista di canzoni sul mio iPhone. Avevo un dannatissimo bisogno di qualcosa di forte, così impostai la riproduzione casuale e iniziai a godermi la musica a un volume da spaccare i timpani. E poco importava che mi trovassi in una galleria piena di gente che mi fissava, io la musica la ascoltavo come cazzo mi pareva, ok?
Arrivata alla terza canzone, trovai quella perfetta per quella serata.

*-*-*-*-*-*

Santana Lopez e la sua prima esibizione nella Grande Mela.
O per meglio dire, Santana Lopez e la sua prima canzone arrangiata alla bell’e meglio su un palco sgangherato di un piccolo bar. Ma ero pur sempre a New York, da qualche parte dovevo pur iniziare.

Appena entrai nel locale mi presentai al proprietario, pagando la mia piccola quota per iscrivermi a quello strano concorso che aveva ben 500 dollari come primo premio.
Mi ero preparata in modo impeccabile per quella serata. Un microabito di pelle nera fasciava alla perfezione le mie curve, tacchi vertiginosi e capelli raccolti in una lunga e sinuosa coda di cavallo. Senza parlare della fascia rossa allacciata appena sotto le gemelle per metterle in risalto. A proclamare il vincitore sarebbero stati quei beoni ubriachi che frequentavano il bar, quindi più ero appariscente meglio era.
A esibirsi sul palco in quel momento c’era un ragazzo dannatamente scarso, che tracannava birra tra una parola e l’altra. Alla fine della canzone proruppe in un sonoro rutto, che venne accolto da grasse risate. Idioti.
Quando fu il mio turno salii sul palco improvvisato, accolta da un coro di fischi di approvazione. Passai lo spartito al chitarrista e gli feci segno di venirmi dietro.
“Always dei Blink? Ragazza, questa canzone dura più di due minuti.”replicò lui.
“Zitto e suona. ” gli intimai io. Si limitò a scuotere la testa, il mio sguardo furente lo indusse a non aggiungere altro.
Chiusi gli occhi per un istante, immaginando di essere a casa di Brittany. La vidi distesa sul suo letto, con Lord Tubbington sul grembo, che mi guardava adorante mentre cantavo per lei.


I've been here before a few times
And I'm quite aware we're dying
And your hands they shake with goodbyes
And I'll take you back if you'd have me
So here I am I'm trying
So here I am are you ready

Come on let me hold you, touch you, feel you
Always
Kiss you, taste you all night
Always

And I'll miss your laugh, your smile
I'll admit I'm wrong if you'd tell me
I'm so sick of fights I hate them
Lets start this again for real


Mentre cantavo, quel branco di Vichinghi privi di cervello smise di fare baccano. Erano bastate poche note per farli voltare tutti nella mia direzione. Erano tanti stupidi topolini che seguivano il loro pifferaio, senza sapere a cosa stessero andando incontro.
La mia esibizione durò ben più dei due minuti concordati con il proprietario. Quella sera cantai per quasi un quarto d’ora, ricoperta da applausi e fischi di approvazione da quella folla, incantata dalle mie capacità di pifferaia. E di cantante, ovviamente.

Arrivata alla fine della quarta canzone, un uomo in giacca e cravatta salì su quel palco improvvisato e mi mise tra le mani una busta di carta contenente il mio premio. Ironia della sorte, mia nonna faceva la stessa cosa alla fine degli anni scolastici in cui ero stata particolarmente brava. Bustarella di soldi e poi via a comprarmi quello che mi pareva: in fin dei conti, accompagnare la sua nipotina a scegliere un regalo oppure prenderne uno lei stessa sarebbe stata la stessa cosa, no?
“Te li sei meritati tutti, ragazza. Brava. Posso offrirti da bere?”
“Se paghi tu. E niente droga nel drink.”
Trascorremmo la serata assieme. Si chiamava Jonathan Gills, sposato e con due figlie. Ma finché continuava a pagarmi le consumazioni e offrirmi sigarette di marca, andava tutto bene. Poteva anche essere il padrino della mafia newyorkese e a me sarebbe andato bene comunque.
Si offrì di accompagnarmi per quello scarso chilometro che separava il bar da casa mia nella sua Mercedes nera, parcheggiata fuori il locale. Rifiutai l’offerta e mi incamminai. Si avvicinò a me sfiorandomi il braccio. Eh no, carino...

“Tenta di stuprarmi e prima ti acceco, poi ti prendo le palle a calci fino a farti azzerare qualsiasi possibilità di riproduzione. Entiendes?” sibilai, facendolo gelare.
“Voglio solo aiutarti. Ti accompagno a piedi, va bene?”
“Sii schietto e piantala di rompermi i coglioni.”dissi, incrociando le braccia. “Le maniere buone non mi piacciono, quindi vuota il sacco e dimmi cosa cazzo vuoi da me.”
“Sarò chiaro con te, moretta. Hai delle gran tette e un bel culo. E sei abbastanza magra e alta da poter guadagnare ben più dei 500 dollari che hai raggranellato stasera.”
Yo no soy una ramera!”Chi diavolo era quel cretino, una specie di protettore per puttane?
“Che cazzo hai detto? Ok, non mi interessa. Ti andrebbe di fare qualche foto per pubblicità?”

La sua offerta mi spiazzò e mi lusingò al tempo stesso. Ma capii subito che qualcosa non andava.
“Io non sono una modella, io canto.”risposi, vaga.
“Me ne fotto che tu canti. Hai carisma e questo è quello che serve nel mondo della moda. Se vuoi raggranellare qualche soldo in modo onesto, qui a New York ci sono tante possibilità per farsi notare.”
Continuavo a camminare più velocemente che potevo. Maledetti tacchi. La mia mano frugava all’interno del la borsetta alla ricerca del flaconcino con lo spray urticante.
“Un mio amico è in cerca di un paio di ragazze per una campagna pubblicitaria. Domani mattina fa un casting, tu vacci e mostragli questo.”disse, raggiungendomi e mettendomi in mano un biglietto da visita. “Saprà lui cosa fare. Il casting inizia alle 10, sul retro del biglietto trovi le info. Buona serata.”
E nel giro di pochi istanti, andò via. Senza lasciarmi nient’altro che quel bigliettino verde menta con su scritto il suo nome e qualche numero di telefono. Sul retro, vergato con una grafia spigolosa, c’era un indirizzo.

Quello fu l’inizio della mia scalata al successo. Ma anche della mia discesa.

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Capitolo 3
*** Quinn - L'incontro ***


A place for us

Buongiorno a tutti e buona Domenica. :)
Finalmente il terzo capitolo, con la storia di Quinn a New Haven. Come mi è stato giustamente fatto notare, questo capitolo è più "moscio" rispetto a quelli di Santana e Rachel che lo hanno preceduto. Il fatto è che per lei, in questo momento, la vita è tranquilla e serena. Unica novità è la sua convivenza con un ragazzo, il cui nome è volutamente non scritto, ma se siete degli acuti lettori riuscirete a indovinare chi possa essere. Scoprirete la sua identità nel nono capitolo circa. ;)

Premessa per chi non lo sapesse: Animaniacs era un cartone animato della Warner Bros. che veniva trasmesso un po' di anni fa in televisione. Tra i protagonisti c'erano tre creaturine bizzarre e matte da legare, due fratelli e una sorella che di cognome facevano proprio Warner: Yakko, Wakko e Dot. Per questo Matt (lo conoscerete in questo capitolo) chiama i suoi cuccioloni Animaniacs.

Vista l'attesa per questo terzo capitolo, ho deciso di postare quanto prima il quarto, che è completo e già nelle mani della mia scrupolosissima beta LionQuinn (e non avete idea di quanti erroracci mi abbia corretto in questo capitolo, non sono abituata a usare il presente nella narrazione!).
Mi appresto a scrivere il quinto, ho già ben chiaro quanto accadrà e voglio renderlo nel modo migliore possibile perchè sarà uno snodo fondamentale nella vita di Santana.
Grazie davvero a tutti i visitatori, i preferenti e i seguenti (LOL) e specialmente a chi ha il tempo di commentare e lasciarmi una recensione. Mi fate davvero una donna felice. 
A presto con il quarto capitolo! :)


 




Capitolo III: Quinn - L'incontro

Quinn Fabray



Il risveglio tra le sue braccia ha l’odore del suo profumo.
Ha delle note forti, leggermente agrumate, ma è un odore così inconfondibilmente maschio che a volte mi stupisco mi piaccia così tanto. Rimango qualche secondo accoccolata a lui, accarezzandogli l’avambraccio. Dormirà ancora? Una sonora russata mi dà la risposta.

Amanti per caso, fidanzati per scelta, oggi ricorre il primo mese dall’inizio di questa convivenza. Credevo ci saremmo frantumati piatti in testa fin dal primo istante, ma sorprendentemente così non è stato.
E’ il mio primo giorno di corsi e ne sono elettrizzata, ma in quel momento l’unica cosa che desidero è poter restare in quel letto per tutto il giorno, fra quelle lenzuola che profumano d’amore.
Controvoglia mi alzo e sguscio via dalla sua presa. Mi siedo sul bordo del letto e gli accarezzo la guancia, sulla quale sta crescendo una rada barba che punge appena sotto il mio tocco.

Il bagno di quella piccola casa è stato l’unico lusso che mi sono concessa: forse troppo piccolo per quell’enorme doccia che per me era assolutamente indispensabile. Mi lavo in fretta, i minuti scorrono rapidi e alle nove devo essere in aula per il mio primo corso. E sono in ritardo. Scatto in cucina ancora in accappatoio, con l’intento di trangugiare qualcosa al volo e correre a vestirmi.
L’ultima cosa che mi sarei aspettata è una tavola apparecchiata di tutto punto, con un piatto di uova e caffè caldo e fumante ad aspettarmi. E lui che, in boxer neri e canottiera, lascia cadere dalla padella qualche strisciolina di bacon croccante nel mio piatto. Bacon! Quest’uomo sì che mi ama.

“Buongiorno.”gli dico, schioccandogli un bacio sulla guancia.
“Buongiorno anche a te.”
Ci sediamo a tavola insieme e per cinque minuti dimentico cosa sia la fretta, dimentico che l’università dista parecchi chilometri da casa e che devo prendere almeno 2 autobus.
“Ti accompagno io.”mi dice, inghiottendo l’ultimo boccone e alzandosi da tavola.
“Sai, a volte credo davvero tu mi legga nella mente!” gli urlo dietro. Una risata sguaiata arriva dal bagno.

Più passa il tempo, più mi convinco non ci sia nulla di più bello che rimirare il suo corpo nudo, così familiare eppure ancora così estraneo. Rimango imbambolata appoggiandomi allo stipite della porta, osservandolo mentre prende dal comò una canotta nera e un paio di jeans. E’ solo quando tossisce e mi indica l’orologio alla parete che realizzo quanto sia dannatamente tardi.
“Dai, piccola, è ora di andare a scuola!”
Non gli rispondo, sono troppo impegnata a vestirmi in fretta e furia. Mi siedo davanti allo specchio e apro il beauty case, alla ricerca del fondotinta. Dal riflesso lo vedo mentre con aria scherzosa si avvicina a me con passo felpato.
“Oh no, non ci provare. ”
“Non dicevi così ieri sera.”ridacchia lui, avvicinandosi di un altro passo. Le sue mani guizzano sui miei fianchi e le sue dita giocose scatenano un violento attacco di risate.
“Oddio, ti prego, basta.” Biascico tra una risata e l’altra. Mi ritrovo boccheggiante, ansimando appena per riprendere fiato.
“Stasera me la paghi.”dichiaro, dandogli un morso al collo.
“Non vedo l’ora.”sussurra lui, baciandomi delicatamente sulle labbra.

*-*-*-*-*-*

Persino mentre guida, il suo sguardo ogni tanto ricade su di me, mentre gli racconto dei corsi che ho seguito durante la giornata. Niente di straordinario, era solo il primo giorno, ma sono comunque entusiasta.
“E tu che hai fatto oggi?”gli chiedo, accarezzando la sua mano posata sul cambio.
“Niente di particolare, sono andato da Bill. Gli sono arrivate delle ottime chitarre a un buon prezzo.”
“Ricordati di non esagerare.”lo ammonisco. “Massimo...”
“... 5 pezzi. Lo so, mammina. ” prosegue lui, sul volto il mio sorriso preferito.
“Dovresti smetterla di chiamarmi così. Mi dà sui nervi che mi chiami mammina. E c’è un semaforo rosso, frena!”
“Sempre a preoccuparti per me, mammina cara. So badare a me stesso, sai?”ridacchia, mentre l’auto si ferma all’incrocio. Si volta nella mia direzione, prende la mia mano e se la poggia sul volto con delicatezza, sfiorandomi come se avesse paura potessi rompermi in mille pezzi. Accarezzo la sua guancia, ritrovando ancora quell’ispida barbetta al contatto con le dita.
“Dovresti farti la barba, sai? Pungi come una pianta grassa.”
D’improvviso avvicina il volto al mio, fermandosi a pochi centimetri dalle mie labbra.
“Allora niente baci?”mi sussurra con voce suadente.
Il suono di un clacson dietro di noi mi fa sobbalzare. Il conducente di quella Mercedes grigia ha l’aria di avere fretta.
Lui si allontana da me e ingrana la marcia infastidito, premendo sull’acceleratore con foga.

Un tonfo.

“Merda!”esclama, fiondandosi fuori dall’auto.
Io rimango impietrita sul sedile, incapace di muovermi. Quello era l’inconfondibile rumore di qualcosa che è stato preso in pieno. Qualcosa di vivo, a giudicare dai lamenti. Qualcosa che uggia, dolorante. Slaccio la cintura e apro la portiera. Sdraiato a pancia in su c’è un cucciolo di gatto, sembra dolorante ma non ferito, a parte un’abrasione su una zampa da cui spillava poco sangue.
“E’ stordito, ma credo stia bene.”mi dice lui, esaminando l’animale.
“Non vedi che è ferito? Dobbiamo portarlo al pronto soccorso.”le parole mi escono di bocca istintivamente. E se stesse peggio rispetto a come appare?
“Sei impazzita? Devo tornare in negozio! Non posso lasciare Kevin da solo, a stento distingue una chitarra da un basso!”
Sbuffo appena. Certe volte è davvero egoista.
“Va bene, andiamo in negozio e poi lo porto io dal veterinario, tanto è di strada. Mettilo nel sedile posteriore, ma sta’attento a non strapazzarlo troppo.” Gli apro la portiera, facendo attenzione che non venga maltrattato troppo.
“Ci muoviamo lì davanti, sì o no? Ci sono i Giants stasera!”

*-*-*-*-*-*

Il veterinario che lavora al pronto soccorso è fortunatamente il nostro vicino di casa Matt, con il quale siamo in ottimi rapporti. E’ un ragazzo bizzarro, che passa il suo tempo esclusivamente in quella piccola stanza della clinica.

Infila un paio di guanti monouso, poi passa del disinfettante sulla superficie del tavolino e vi poggia su il gatto, chiedendomi cosa sia accaduto.
“Adesso investi anche i gatti, eh Quinn?”mi dice, esaminando la zampa ferita.
“E’ stato quel cretino! Non è colpa mia.”borbotto, arrossendo lievemente. D’improvviso si fa serio,  mentre gira intorno a quel tavolino e controlla l’animale. Gli alza la coda, gli fa aprire la bocca, controlla i denti e la lingua prima di passare alle orecchie.
“Comunque è gravissimo, non sopravviverà.”dice ridendo, infilandogli un pezzo di carta nell’orecchio con l’ausilio di un bastoncino. Lo guardo disgustata mentre gira e rigira quel fazzoletto, con il micio che scuote la testa e inizia a giocare con il braccio di Matt. Afferra il polso con le zampine e vi affonda i dentini aguzzi, mordicchiandolo appena.
“Non gli fa male?” Lo guardo girare e rigirare quel fazzoletto, prima di estrarlo e passare all’altro orecchio.
“No, a meno che non vuoi che gli buchi un timpano. Vuoi vedere?” Riesco appena a distinguere una macchia giallo-marrone su quel fazzoletto, prima di voltare la testa disgustata.
“No, grazie. Sta bene quindi?”
“Sta benone, la ferita guarirà da sola. Però se vuoi posso sempre ammazzarlo adesso, se ti era così antipatico.”
“No, vorrei evitare di ritrovarmi addosso l’ira del suo padrone.”Matt è distratto, mentre passa una specie di rilevatore. 

Dopo qualche minuto mi guarda e scuote la testa.
“Non ha microchip, quindi deduco che il padrone di cui parli non esista. Io però non posso tenerlo... Dot potrebbe accettarlo, ma dubito che Yakko e Wakko siano dello stesso avviso.” Annuisco, ricordando i tre giganteschi Terranova che portava a spasso ogni giorno.
“Quindi che si fa?”gli chiedo, preoccupata.
“O lo prendi tu, oppure devo spedirlo al gattile. Mi dispiace, ma non potrei proprio portarlo a casa con me.”
“E la madre?”
“Probabilmente lo ha abbandonato. Succede spesso che qualche bambino si avvicini a dei cuccioli e li tocchi, senza sapere che poi la madre non li accetterà più. Sente l’odore dell’uomo e li lascia lì.”

Guardo quel micino rossiccio, che mi scruta con quei profondi occhi verdi. E' sporco e puzza un po’, ma ha un’aria vispa e intelligente.

“E’ maschio o femmina?”
“Credo sia femmina.” Mi avvicino a lei e allungo una mano. La gattina inarca la schiena e si lascia accarezzare. Le mie dita affondano in quel pelo morbido, mentre il gratificante suono delle fusa si fa largo nella stanza.
“Se decidi di tenerla, le faccio un bagno antipulci e le prime vaccinazioni. E ovviamente inserisco il microchip. E poi la uccido e ne faccio un pupazzo per i miei Animaniacs.”
“E’ in salute?”
“Quando sono cuccioli spesso hanno infezioni agli occhi o qualche problema respiratorio, lei invece mi sembra sana come un pesce.”mi rassicura, sfilandosi i guanti di lattice. “Può darsi abbia i vermi, ma con un vermifugo vanno via senza troppi problemi.”

Sono combattuta. Da un lato, mi dispiacerebbe se quella deliziosa micina tornasse sulla strada, dall’altro ho paura della reazione del mio coinquilino. E non ho esperienza con gli animali. Dopo un lungo silenzio nel piccolo ambulatorio, Matt riprende la parola.
“Cosa vuoi fare?”mi chiede.
“Se mi distrugge casa, sappi che sarà tutta colpa tua. Dai, la prendo.”
“Ringrazia quell’energumeno del tuo fidanzato, non me!” ridacchia lui, infilandola in una gabbietta. “Passa a prenderla qui alle sette. Oh, a proposito. Serve un nome per iscriverla all’anagrafe. Qualche idea?”

Con una smorfia, medito sul nome giusto per quella piccola palla di pelo rossiccia. La sua somiglianza con il colore di capelli di Nicole Kidman in Moulin Rouge è impressionante. Satine? No, non mi piace. Delle canzoni del film, però, la mia preferita era il tango di Roxanne.
“Roxie?”Appoggio un dito sulla grata di ferro, infilandolo tra le sbarre.
La gattina continua con le fusa e poggia la zampina sul mio dito, quasi ad affermare che sì, quello è il nome giusto per lei.
“Se ci sbatte fuori di casa sarà colpa tua, bel musino.”le sussurro, mentre lei mordicchia l’unghia.
“Matt, hai un letto in più per stanotte? Dubito che il mio ragazzo accetterà di farsi mordere da questa rompiscatole.”
“Ah no, io sono neutrale. Guarda che non voglio ritrovarmi coinvolto nel tuo omicidio. Quella motosega che  avete nel garage è dannatamente inquietante.”

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Capitolo 4
*** Rachel - Yoga a Central Park ***



A place for us

Salve a tutti! :)
Due premesse fondamentali, prima dell'inizio di questo capitolo.
1) Questo capitolo non è betato, di conseguenza è probabile troviate erroracci qui e lì che possono essere sfuggiti alla mia rilettura. Chiedo scusa in anticipo! :|
2) Non conoscendo una beata mazza di canto, tecniche e quant'altro, non leggerete in questa FF nemmeno una volta una descrizione precisa di una lezione di Rachel. Al massimo saranno presenti dei piccoli riferimenti, ma niente di eccessivo. Sarebbe ridicolo da parte mia inserire scale, arpeggi o che so io quando in realtà non conosco niente di musica, quindi ho deciso di proseguire così. :)
Il capitolo è praticamente incentrato in toto sulla relazione tra Rachel e Andrew. Sarà un rapporto chiave nella trama della vita di Rachel a NYC, quindi ho deciso di renderlo ancora più "realistico" lasciandovi anche intravedere quale sia l'aspetto fisico di Andrew. (QUI la foto) Inizialmente il suo comportamento potrà sembrarvi da pazzo furioso, ma il tutto avrà senso più avanti, lo giuro! XD
E vipregovipregoviprego recensite un pochino che sennò mi deprimo tantissimo. Anche solo per dire "mi fa schiferrimo", ma ho davvero tanto tanto bisogno di feed. :(
Non aggiungo altro a questa mega introduzione (diamine, quanto sono prolissa!) e vi lascio al capitolo. :)
Buona lettura!




Capitolo IV: Rachel - Yoga a Central Park

Rachel Berry


Svegliarmi al mattino con lo skyline come panorama era il meglio del meglio.
Le mie giornate iniziavano alle 6 del mattino: mi vestivo in silenzio, attenta a non svegliare Violet, e attraversavo i corridoi vuoti della scuola. Ogni tanto incrociavo qualche studente più grande, che salutavo con un cenno della mano e un sorriso. Un autista aspettava noi pazzi mattinieri nell’atrio e alle 6:30 in punto entravamo tutti in un vecchio pulmino Volkswagen, destinazione Central Park.
Poi solitamente ci separavamo: ciascuno aveva un proprio percorso preferito da affrontare per la sua corsetta mattutina. O semplicemente desiderava quei preziosi 45 minuti tutti per sé.

Quel giorno però non avevo voglia di correre. Camminai un po’ nel parco deserto, entrando sempre più nel cuore di quella città verde. Appena giunta in un largo spiazzo erboso, presi il mio tappetino da yoga dallo zaino e lo allargai sul prato. Avevo scoperto di avere un’insana passione per lo yoga da quando ero in quella città, colpa anche dei miei papà, che mi avevano trascinato alla loro prima lezione pochi giorni prima.
Mi sedetti sulla mia stuoia rosa, sfilai le scarpe da ginnastica e chiusi gli occhi. L’unico rumore che si sentiva era il fruscio ritmico delle fronde degli alberi, accompagnato da qualche cinguettio.
Respirai a fondo, unendo i palmi delle mani e allungando le braccia verso l’alto, mantenendo la posizione per qualche minuto. Mi allungai poi in avanti e afferrai le caviglie, sentendo i muscoli tirare. Passai da una posizione all’altra canticchiando serenamente, sentendomi beatamente tranquilla. Ma una voce -una voce che ben conoscevo- mi risvegliò da quello stato di trance.
“Ehi, anche tu qui?”
Andrew. Sbuffai appena, infastidita. Non potevo essere lasciata in pace almeno durante la mia sessione di Yoga mattutina?
“Buongiorno, Rachel.”continuò lui. Non aveva intenzione di andarsene? Decisi di ignorarlo, prima o poi si sarebbe stufato. Il tocco della sua mano sulla mia testa mi fece sobbalzare.
“Ehi, giù le mani!”esclamai, schiaffeggiando il suo palmo.
“Sei viva allora?”ridacchiò, sedendosi sull’erba accanto a me.
“Sto facendo yoga.” Quindi gradirei non essere rotta le scatole.
“Oh lo so, è da dieci minuti che ti osservo.”Sul suo volto c’era ancora quel sorriso strafottente.
“Sai che sei ai limiti dello stalking?”borbottai, chiudendo gli occhi.
“Sono il tuo tutor, è normale che mi preoccupi per te.”

Già, il mio tutor. Ogni anno gruppetti formati da uno o due studenti del primo anno venivano affidati a uno studente dell’ultimo anno, per essere introdotti ai corsi e ai programmi di studio. Era un’attività che aveva sempre portato ottimi frutti nel corso degli anni passati: aiutava gli studenti a collaborare gli uni con gli altri, come si fa solitamente nelle compagnie teatrali.
Quando seppi che Andrew sarebbe stato il mio compagno mi ero sentita al settimo cielo: un ragazzo così capace e così dannatamente carismatico sarebbe stato un tutor perfetto e mi avrebbe aiutato a primeggiare. Ed effettivamente Andrew era un ottimo insegnante: ligio al dovere, severo ma comunque sempre pronto a spronarmi. Anche se quel suo sorrisetto strafottente era sempre pronto ad affiorare.
Ci trovavamo tutte le sere nell’aula di danza classica, con la sola compagnia di un pianoforte. In quei momenti sentivo risalire lungo la schiena brividi di paura: l’eco della mia voce si spargeva in quell’aula il cui unico arredamento erano le sbarre e i grandi specchi che ricoprivano la parete.

Eppure, mentre le sue dita scorrevano sui tasti dell’enorme pianoforte a coda, il suo sguardo era fisso su di me. I suoi occhi mi trapassavano come una lancia, spaventandomi e eccitandomi al tempo stesso. Era una sensazione forte, inebriante: la sensazione di essere desiderata.  A quell’ora su quel piano dell’accademia c’eravamo soltanto io e lui: avrebbe potuto fare qualunque cosa desiderasse e io sarei stata completamente alla sua mercé. Ma era una paura irrazionale, sapevo bene di essere in un istituto con telecamere di sicurezza piazzate praticamente ovunque.
Continuavo però a non capire come fosse possibile che mi guardasse con quella intensità, in fin dei conti lui era gay dichiarato! Lui e Martin facevano sempre colazione insieme, passeggiavano felici mano nella mano nei corridoi e più di una persona si era lamentata in presidenza per i rumori molesti provenienti dalla loro camera. E inoltre, quando mi incrociava per i corridoi, non mi degnava di uno sguardo. Ma allora perché comportarsi così quando eravamo da soli?
Quel ragazzo era per me un vero mistero. Perché poi quella mattina si era venuto a sedere proprio vicino a me, in quel parco immenso? Mi guardava ridendo, quegli occhi glaciali ancora fissi nei miei.   
“Dai, ti insegno qualche posizione. Ho visto che ne conosci poche.”si offrì, alzandosi in piedi. Allungò una mano per aiutarmi, ma la rifiutai.
“E questo sarebbe un aiuto da tutor perché...?”
“Lo Yoga, oltre a favorire il rilassamento, aumenta la flessibilità, indispensabile per diventare una brava ballerina. Su quelle punte sembri una majorette, non una della NYADA.”
Non replicai alla sua critica. In fin dei conti che male poteva farmi variare le mie solite posizioni?
“Dai, fammi vedere.”lo spronai, alzandomi in piedi a mia volta.

Lui chiuse gli occhi, uni le gambe e si allungò fino a toccarsi le ginocchia con la testa. Stavo per prenderlo in giro per quella posizione così semplice, ma poi poggiò i gomiti a terra e alzò le gambe in una perfetta verticale. Lo sentivo respirare ritmicamente, ma come diavolo faceva a non avere mal di testa e l’affanno?
Tentai di assumere anch’io quella posizione e l’unico risultato fu una rovinosa caduta sull’erba. Lo sentii ridacchiare, mentre tornava in posizione eretta. Come aveva fatto?
“Effettivamente questa è una delle posizioni più difficili. Dai, te ne faccio vedere una semplice.”

Chiuse gli occhi e sul suo volto comparve una maschera: i suoi lineamenti, che prima mi erano sempre sembrati troppo duri e mascolini, si addolcirono in una espressione serena e rilassata. Sul suo volto non c’era più quel sorrisetto di scherno e quegli occhi così fastidiosamente insistenti erano celati dalle sue palpebre. Inspirava ed espirava ritmicamente, mormorando un motivetto a me sconosciuto.
Era molto attraente, ma anche ben conscio di esserlo. Persino mentre una goccia di sudore gli scivolava sul profilo della mascella, appariva come una divinità greca ritrovatasi per caso a Central Park. Sembrava più che desideroso di mostrare i muscoli guizzanti, celati dietro una t-shirt attillata, mentre allungava la gamba sinistra e poggiava il piede sul ginocchio destro. Quando alzò le braccia verso l’alto, la maglietta si alzò appena: lo stacco dell’anca appariva nitido appena sopra i pantaloncini e una porzione di addominali faceva capolino dal cotone elasticizzato.
“So di essere sexy, ma se mi guardi così mi imbarazzo.”
Non mi ero nemmeno accorta di averlo fissato insistentemente per tutto quel tempo. Né che lui avesse aperto gli occhi.
“Non ti stavo guardando. Stavo... studiando la posizione, ecco.”
“Sì certo, quanto è vero che io sono etero.”
Ma allora era gay! Lanciai uno sguardo all’orologio e solo allora notai che avevo poco meno di cinque minuti per tornare all’ingresso del parco.
Panico.
“Cavoli, è tardissimo!” presi lo zaino e vi infilai dentro il tappetino, mentre Andrew arrotolava il suo.
“Conosco una scorciatoia. Ti fidi di me, Rachel?”
“Eh?”lo guardai sconvolta. Era la classica battuta da cartone animato, che il principe pronunciava appena prima di fare qualche gesto sconsiderato per difendere la sua bella. Lo vidi prendere il mio zaino e infilarselo in spalla.
“Dai Rachel, la Connelly mi ammazza se arrivo tardi a lezione. E non posso lasciarti qui a Central Park da sola!” Prese la mia mano e mi alzò di peso dal prato.

Era la prima volta che avevo un contatto fisico con un ragazzo da molti mesi. Mentre correvamo mano nella mano in direzione dell’ingresso principale del parco, fui sorpresa di avvertire quel contatto come piacevole. L’ultima volta che qualcuno mi aveva stretto la mano in quel modo era stato il mio fidanzato-quasi marito Finn: le sue mani erano grandi e forti, piene di calli per via dei tanti allenamenti con i pesi. La mano di Andrew invece era calda e delicata, con dita sottili che avvolgevano morbide il mio palmo. Ma perché mi piaceva così tanto il suo tocco? Lui era gay, cavolo! E anche felicemente fidanzato!

Appena prima di uscire dal parco, lasciò la presa e mi distanziò, correndo in direzione del pulmino. Raggiunse Martin e i due si diedero un leggero bacio sulle labbra, prima che il biondo afferrasse la mano del suo ragazzo e la stringesse, proprio come aveva fatto con me. Raggiunsi il Volkswagen ansante e mi scusai per il ritardo con l’autista, promettendo che non sarebbe mai più accaduto. Mentre camminavo per raggiungere un posto vuoto passai accanto a Andrew e Martin; ma quegli occhi profondi non mi cercavano come avevano fatto fino a pochi minuti prima. Il cuore mi batteva forte, ma sapevo bene che non era soltanto per colpa della corsa.


*-*-*-*-*-*

Rachel diamine, è Celine! E’ sempre la stessa Celine che tu hai sempre cantato fino a rimanere quasi roca, la stessa Celine di cui sai a memoria ogni singolo brano!
Non puoi non riuscire a cantare Celine solo perché due occhi ti fissano insistentemente.
“Cazzo Rachel, stai cantando da schifo, sei inespressiva e credo di aver sentito above invece di love. Si può sapere che hai stasera? Hai anche scelto tu questo brano!”
“Non lo so che mi prende, ok? Possiamo fare cinque minuti di pausa?”
“NO, cazzo!”urlò lui, alzandosi in piedi. “Fai schifo, porca miseria, SCHIFO. E io non perderò il mio tempo con una che non vuole nemmeno farsi il culo per migliorare!”
Io che mi alzavo alle 6 tutte le mattine, che andavo a dormire e sognavo il palco, che desideravo essere a Broadway fin da quando avevo 2 anni. Io ero quella che non voleva migliorare? Che razza di idiota!
“Benissimo, se faccio così schifo allora vattene!”urlai a mia volta. Lui riordinò i suoi spartiti e li ammucchiò in una pila con gesti rapidi e frenetici.
“Ti stai già arrendendo. Complimenti.”sussurrò rabbioso, avviandosi verso la porta dell’aula. Lacrime di rabbia mi inondarono gli occhi.
“Mi sono già arresa una volta, perchè non avevo scelta!”gli urlai.
“Arresa?”Lui si voltò a guardarmi, gli spartiti stretti in mano.
Mi accasciai sul pavimento, la schiena poggiata alla gamba del pianoforte. Forti singhiozzi mi scuotevano il petto e mugolii isterici risalivano dalla mia gola mentre inondavo il mio vestito blu di lacrime. Stringevo le mani fino a sentire le unghie affondare nella carne, sentivo il respiro affannoso farsi sempre più incerto e irregolare mentre rievocavo l’immagine di colui che mi aveva chiesto di separarci. Io non dovevo arrendermi, sapevo di dover combattere per stare con Finn; eppure mi ero arresa a un destino tanto ineluttabile quanto crudele.

“Rachel?”
Sentivo la mano di Andrew - quella stessa mano che avevo stretto poco più di dodici ore prima - accarezzarmi delicatamente la testa, mentre sussurrava dolci parole di conforto. Quando si era seduto?
“Rachel, calmati ti prego. Ho esagerato prima, scusami. Calmati. Ti prego, Rachel.” Mi sollevò il viso poggiando due dita sotto il mio mento. La vista del suo volto affranto, splendido persino attraverso quel velo di lacrime che mi offuscava la vista, non fece altro che peggiorare le cose.
Sapevo di essere uno straccio in quel momento, ma non mi importava. Lo abbracciai istintivamente, senza nemmeno capire bene perché: sentivo solo che il dolore che mi cresceva nel petto mi avrebbe squarciato in due senza l’aiuto di qualcuno. E poco importava che fosse lui quella persona, quello strano ragazzo che sembrava affetto da doppia personalità e che soltanto pochi secondi prima mi aveva detto quanto facessi schifo.
Strinsi la mano sul suo maglione e poggiai la testa sulla sua spalla, mentre altre lacrime seguivano le precedenti. Sentivo il suo cuore mancare un battito, mentre rimaneva immobile, chiaramente sorpreso dall’accaduto. Qualche secondo dopo sentii le sue braccia avvolgermi delicatamente e stringermi a loro volta.
L’unico suono che si sentiva in quell’aula era l’eco dei miei singhiozzi. Un grido di solitudine, di disperazione e di compianto al tempo stesso.
Rimanemmo in quella posizione per un tempo che mi parve infinito. Andrew non diede mai segno di spazientirsi, ma anzi continuava a stringermi forte in attesa che smettessi di piangere.

Non so come, a un certo momento il flusso incessante terminò. Osservai il suo maglione, ormai probabilmente compromesso per sempre con tutto il trucco che vi era colato sopra.
“Il tuo maglione, cavolo. Mi dispiace.”
“Tranquilla. Posso almeno sapere il motivo di questa crisi isterica?”Il suo tono si era di nuovo fatto un po’ burbero, ma gli lessi in faccia che era sinceramente preoccupato.
Gli raccontai tutto. Di me, di Finn, di quanto lui fosse unico e speciale; del nostro primo bacio, della prima volta che ci lasciammo, di quando lui mi riconquistò, di quando ci baciammo sul palco in quella stessa città; di quando mi propose di sposarlo, del nostro primo matrimonio saltato. Di quella partenza, ripetendo parola per parola tutto quanto mi aveva detto quel giorno in cui ci eravamo separati; e infine di quell’anello andato perduto e del suo silenzio di quegli ultimi mesi. Mi sentii leggera come non lo ero da molto tempo, perché ero finalmente libera da quel peso che mi opprimeva il cuore, libera da quei ricordi dolorosi di cui non avevo parlato con nessuno, nemmeno con Violet.
“Posso essere franco con te, Rachel?”mi chiese lui. Annuii. “Ho come la sensazione che tu fossi assuefatta a lui. Non riesci a lasciartelo alle spalle perché per te era come una droga. E adesso sei a rota.”
“Rota?”
“Sì, in crisi da astinenza. Adesso che lui non è più con te, tu ti senti morire dentro e ne vorresti ancora e ancora e ancora. Ma devi capire una cosa, Rach, perché quello che stai vivendo adesso NON è una cosa sana. Lui non ti vuole.”
“Non dire fesserie, Finn mi ama. Tu non lo conosci.”
“Quando mi trasferii a New York, avevo anch’io un ragazzo nel Tennessee. Si chiamava Tom. Era dolce e gentile, sempre interessato a me, sempre amorevole e premuroso. E a letto era una bomba, sapessi cosa riusciva a fare con quella lingua...”
Mi sentii arrossire. “Non entrare nei dettagli, ti prego.”Lui sorrise, alzando lo sguardo in direzione dell’enorme lampadario di cristallo.
“Scusa. Quando mi trasferii qui, ci salutammo con la promessa di rivederci per Natale, quando sarei tornato lì per stare con la mia famiglia. Per tutta la durata del viaggio in aereo lui mi aveva mandato sms, inviandomi foto del fienile dove andavamo a rifugiarci per una sveltina, oppure del posto dove andavamo a pescare insieme. Appena arrivai a New York e accesi il cellulare vidi tutte quelle premure e attenzioni e... mi sentii come se non fossi mai andato via. Il tuo ragazzo ha fatto questo, Rachel?”
Sentii il cuore stringersi in una morsa mentre gli rispondevo. “No, non l’ha fatto.”
“Non è stata la distanza a uccidere il nostro rapporto. Lo ha fatto un tale Steve, con il quale mi ha tradito.”
“Finn non lo farebbe mai.” Lui non si curò della mia risposta e proseguì imperterrito nel suo racconto.
“Quando andai dai miei a Natale, Tom pensò bene di presentarsi a casa mia per chiedermi scusa per come si era comportato. Lui e Steve si erano mollati e quindi voleva tornare con me. Credo che da allora non sorrida più così spesso, visto il dente che gli ho fatto cadere quando l’ho preso a pugni.”
Sospirò appena, continuando a guardare quel lampadario, perso nei suoi ricordi.
“Trascorsi quell’anno in solitudine, passando dal letto di un ragazzo a un altro. Li vedi quelli del quarto anno? Etero o non, me li sono fatti tutti. Però, quando ho incontrato Martin un anno dopo, è stato come rinascere. Adesso ti sembra che il mondo non abbia senso Rachel, ma tutto si risolverà. E’ solo questione di tempo. ”
“Tu credi?”
Annuì convinto, alzandosi in piedi. Mi offrì di nuovo la mano, come aveva fatto quella mattina. Prese poi un bicchiere di carta dalla sua borsa, diretto al boccione dell’acqua nell’angolo.
“Bevi un bel bicchiere d’acqua. Credimi, ti aiuterà.”
Sorrisi sincera. Era riuscito a trovare il modo migliore per calmarmi senza essere a conoscenza dei poteri terapeutici dei bicchieri d’acqua a casa Berry.
“Grazie, Andrew.”dissi, bevendolo tutto d’un fiato.
“Ti va di provare di nuovo? Inizio io stavolta.” Si sedette ancora una volta al pianoforte, di nuovo negli occhi quell’espressione intensa mentre guardava verso di me. La sua voce mi arrivò dritta al cuore mentre cantava e quelle parole che fino a pochi minuti prima confondevo, mi arrivarono chiare e dirette nel loro vero significato.
 
I can read your mind and I know your story
I see what you're going through
It's an uphill climb, and I'm feeling sorry
But I know it will come to you

Don't surrender 'cause you can win
In this thing called love

 
Mi unii a lui nel ritornello, finalmente di nuovo consapevole di dove fossero le mie corde vocali e di come si cantasse. E poco importava se ero stata inopportuna nell’abbracciare una persona che conoscevo appena: in quel momento rivivevamo i nostri amori passati, con la sola differenza che tra i due quella da guarire ero proprio io, che avevo scelto quella canzone a caso tra tante di Celine Dion.

When you want it the most there's no easy way out
When you're ready to go and your heart's left in doubt
Don't give up on your faith
Love comes to those who believe it
And that's the way it is


Cantammo insieme l’intera canzone, più per piacere che per dovere. In quella sala si respirava un’aria nuova, o forse ero soltanto io a percepire diversamente la realtà che mi circondava.
Alla fine del brano, Andrew mi fece posto sul sedile del pianoforte.
“Sarò io la cura alla tua solitudine, Rachel.”disse dopo un po’, mentre raccoglieva gli spartiti.
“Sai che non sei obbligato, vero?”
“Dovere di Tutor.”


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