La cosa che ha amato di più è stata l'aria

di Glenda
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


ti guardiamo noi della razza

di chi rimane a terra

 

(E.Montale)

 

 

C'era una sola persona che desideravo davvero conoscere, ed era Filippo Scizio.

Abitava di fronte a casa mia, sul lato opposto della strada, ed era il direttore di "Cambio Rotta", una rivistina di scarsa tiratura, ma piuttosto popolare presso i vari gruppi di impegnati pseudo-politici che svolazzavano a sciami per la facoltà di lettere.

Io ne avevo sentito parlare proprio da loro, benché si trattasse di persone con cui avevo a che vedere ben poco. Anche lui, tuttavia, non apparteneva a quella cerchia: anzi, ci teneva a chiamarsi fuori dall'ambiente studentesco, nonostante ne fosse uscito da così poco.

Era giovane, Filippo: aveva appena ventiquattro anni, si era laureato in fretta, e già era riuscito a far sì che il proprio nome non rimanesse del tutto ignoto nell'ambito della pubblicistica d'avanguardia fiorentina. Chi aveva avuto l'occasione di parlarci di persona gli attribuiva una cultura straordinaria, che però non disdegnava di esibire in troppe occasioni. Era superbo, volitivo, sicuro di sé; prendeva sempre posizioni nette, si alterava facilmente e non scendeva mai a compromessi: non solo...era talmente testardo che portava con orgoglio alle estreme conseguenze le proprie prese di posizione anche quando era chiaramente in torto. Parlava di tutto e bene: grazie alla sua conversazione appassionante, piena di sfide e sarcasmi, non c'era modo di annoiarsi con lui.

La sua rivista intratteneva contatti con un circuito culturale molto più vasto; il giovane direttore e il suo piccolo nucleo di collaboratori erano riusciti a stabilire legami con grandi giornali, locali e non, a cui Filippo inviava articoli regolarmente.

Era un essere infaticabile: sempre in agitazione, sempre attivo, non si fermava mai.

Io lo avevo eretto a modello di tutto ciò che non sarei mai riuscito a diventare: per me il mondo si era fermato all'ultima pagina del libro di storia, e, fino solo a pochi mesi prima, avrebbe pure potuto rimanerci, se non fosse subentrata all'improvviso nella mia vita quella scomoda coscienza di ritardo e insoddisfazione che mi aveva portato lì, a Firenze, sullo strascico dell'estate.

Davvero non sapevo niente della gente della “razza degli Scizio“, eppure quel vicino di casa d'eccezione, forse per la stessa carica carismatica con cui si era fatto strada negli ambienti intellettuali della propria città, forse solo per l'abbaglio della sua giovinezza intensamente vissuta, esercitava su di me un fascino irresistibile.

Il nostro primo incontro fu, tuttavia, soprattutto uno scontro.

 

Mi ero trasferito a Firenze a fine settembre, per seguire i corsi della facoltà di lettere e filosofia. Avevo poca dimestichezza con la città, poco orientamento, pochi soldi, niente casa, nessun mezzo di trasporto. Ma amavo molto gli autobus: tutti, quelli urbani e quelli non, quelli nuovi e quelli vecchi, quelli vuoti e quelli pieni, e proprio là, sul 17 C, linea Cascine-Campo Marte, conobbi Camilla, la mia "ancora di salvezza". Affabile per indole, disinibita per partito preso, fu lei ad "attaccar bottone" per prima e a proporre quasi subito di subaffittarmi una stanza del suo appartamento: "cucina e salotto comuni, telefono a scatti, le altre spese divise...Va bene ?". Bene. Benone, benissimo: accettai senza troppo pensarci, col tiepido entusiasmo di chi non spera gli si offrano opportunità migliori che quella di sacrificare, suo malgrado, la riservatezza alla convenienza. Solo col passare dei giorni ebbi modo di riconoscere quanto l'incontro con Camilla fosse stato provvidenziale, anzi - non fosse per la mia reticenza alle parole "assolutizzanti" - meglio direi "decisivo" (...Ma esistono forse scelte che non sono decisive? E, frasario a parte, "decisivo" che vuol dire?...).

Quando misi piede per la prima volta nel nostro appartamentino al terzo piano, anche lei vi abitava da pochi mesi. Abitava, come me, a Firenze da poco, e poiché - cosa che notai subito - le piaceva non far mistero delle proprie avventure amorose (e con più gusto se non propriamente di avventure ma di disavventure si trattava), mi raccontò seduta stante di esser capitata lì "sedotta e abbandonata" da un bel toscano. Però la città le piaceva - oh, lei era nata in un paese di montagna “tra i lupi con la sciarpa“! - e ci rimaneva volentieri anche sola, nonostante le "finanze" scarseggiassero sempre e trovare un lavoro redditizio fosse un’impresa veramente titanica.

Le sue misere entrate provenivano dalle serate in discoteca: faceva la cubista, ma era un impiego limitato ai fine settimana, tutt’al più a qualche giovedì, e non certo fruttuoso. Più tardi sarebbe stata assunta dal proprietario del dancing che aprirono in autunno vicino casa, per cantare dal vivo e animare le serate. Aveva una splendida voce, anche se, probabilmente, dovette quel lavoro al proprio aspetto. Era davvero molto bella, nonostante manifestasse apertamente di rinunciare a fatica e controvoglia, per lavoro - o per amore (sic!) -, a quel non so ché di trascuratezza (vestitoni immensi, frangia a spiovente sugli occhi e affettate occhiatine infantili) a cui era affezionata e che, vivendo con lei, finirono con l'essere, non senza orgoglio, quasi un mio appannaggio privato, come, del resto, a causa della sua già menzionata trasparenza sentimentale, accadde coi suoi chiodi fissi, le sue contraddizioni, le sue insicurezze continue.

Insicurezze, ho detto: ma in realtà troppo spesso si trattava solo di un desiderio un po' maniacale di conferme, perché, di fatto, nel sottile equilibrio che si era creato tra noi il polo forte fu, fin dal principio, lei. Anzi, dal giorno in cui mi trasferii nel suo appartamento, smisi definitivamente di occuparmi di tutto ciò che riguardava la vita pratica, compresi i versamenti per le mie tasse universitarie; ci volle poco perché da coinquilini divenissimo amici: un'amicizia strana che era in parte tenerezza, in parte tensione protettiva, in parte (e specie da parte sua) spudorata confidenza. Per me era anche una sorta di comodità, una scappatoia alla vigliaccheria di non affrontare di petto il mondo, neppure adesso che ero solo. Tanto che qualche volta me ne sentivo in colpa.

 

Filippo Scizio era il proprietario del nostro appartamento. Io non lo sapevo, e probabilmente neppure Milly, altrimenti saremmo stati più attenti a non farci scoprire.

Venne da noi un mattino, mentre io mi trovavo in facoltà, ed ebbe con la sua affittuaria un colloquio tutt'altro che amichevole.

Che subaffittare non fosse legale, in teoria lo sapevo, ma per quello strano effetto di cui parlavo, mi riusciva facilissimo nascondermi all'ombra di Camilla e scaricare su di lei le infrazioni comuni come le responsabilità individuali.

Quando rientrai era furente: detestava la superbia, e trascorse mezzo pomeriggio a deprecare il modo in cui il "signor Scizio" l'aveva trattata. Conoscendolo, in seguito, mi figurai alla perfezione la scena: Filippo era irruente e spesso non gli mancava una punta di sadismo nell'umiliare le persone che riteneva inferiori. Era un sistema per rafforzare il proprio possesso di sé: si comportava con la gente come coi bersagli dei suoi articoli polemici. Di solito si trattava di atteggiamento, altre volte credo non lo facesse di proposito, ma solo a causa della forza dell'abitudine. Poi si accorgeva di aver ecceduto, ma gli mancava l'umiltà sufficiente per rimediare. Presto imparai a leggere le buone intenzioni, sotto quelle goffe dimostrazioni di pentimento, ma nei nostri primi colloqui mi parevano esclusivamente riaffermazioni della sua arroganza.

Filippo aveva posto un termine alla mia permanenza lì: due settimane per trovarmi un nuovo alloggio, se non volevamo incorrere entrambi in una denuncia per abuso di domicilio. - Io, con quel presuntuoso, non ci parlo! - sentenziò Milly - Stavolta spetta a te!...Magari hai più sangue freddo...E poi sei tu il diretto interessato, no? -.

Questo fu il primo incarico oneroso devoluto a me dall'inizio della nostra fortunosa convivenza, e non potei sottrarmi. Ma di cosa discutere e perché, se eravamo bellamente in torto? Ci pensai a lungo, la sera, prima di addormentarmi, e continuai a rifletterci anche il mattino dopo, mentre mi incamminavo verso l'ufficio di redazione di "Cambio Rotta".

Ricordo che era una giornata meravigliosa: eravamo in pieno autunno, faceva freddo, ma il cielo era limpidissimo, senza l'ombra di una nube, e d'un celeste intenso. L'aria frizzante, e il profumo di sottobosco bagnato che saliva dai mucchi di foglie secche ammassate lungo il marciapiede infondevano vitalità e mi stimolavano a camminare in fretta, col coraggio di un entusiasmo insperato. Ero solo: le vie larghe erano deserte, l'orologio segnava le dieci, e la gente era già tutta a lavoro. Ero più tranquillo della sera precedente, la trasparenza di quel mattino di novembre mi inebriava, e valutavo la situazione con maggiore distacco, quasi dall'esterno. Questo non era però sufficiente a eliminare del tutto la tachicardia, da sempre legata alla mia timidezza cronica.

La redazione era istallata al primo piano di un palazzo antico: gli ingressi erano ampi e luminosi, a pian terreno il sole irradiava il pavimento da una grande porta-finestra, ma la sensazione di umido che passava dalle spesse mura a quel soffitto di un'altezza innaturale tradiva il bell'effetto di tepore creato dal filtrare della luce attraverso i vetri.

Lo staff del "Cambio Rotta" disponeva di sei stanze. Filippo possedeva un ufficio personale, segnalato da una targhetta rotonda d'ottone affissa sulla porta. - Si fanno le cose sul serio! - pensai.

Il direttore sedeva dietro una scrivania, su di una poltroncina girevole, e stava leggermente voltato verso la grande finestra che aveva alle spalle e che offriva una piacevole veduta sul cortiletto interno. Sembrava assorto, teneva tra le dita una penna, e ne mordicchiava l'estremità. Appena gli fui di fronte mi squadrò dall'alto in basso, sfilò elegantemente gli occhiali, e mi invitò ad accomodarmi. Lo conoscevo già, di vista, ma non l'avevo mai guardato direttamente in faccia. Aveva due occhi scuri intensissimi e un profilo lineare tagliente, addolcito appena da un mezzo sorriso di cortesia che era buona educazione regalare ad un ospite.

- Buongiorno - mi disse - in che posso servirla? -

All'improvviso mi sentii svuotare d'ogni spirito d'inventiva: tutti i discorsi progettati la sera, nel dormiveglia, erano sfuggiti dalla testa nel giro di pochi istanti. - Buongiorno - ripetei, meccanicamente - io mi chiamo Mattia Loira. Lei ieri pomeriggio è venuto a casa mia, cioè, sua... - - Ah - m'interruppe - Il subaffittuario della signorina DeGaddi-Ciuffino... - Annuii, stringendomi nelle spalle. Mi aspettavo una sfuriata del tipo di quella descritta da Camilla, invece rimase zitto e attese che parlassi. Credo che fu quest'apparenza di disponibilità (insieme al pensiero di come Milly avrebbe reagito di fronte ad una resa senz'armi) che mi spinse a chiedere uno strappo alla regola, ma credo anche che farfugliai tante di quelle sciocchezze, che Filippo a stento comprese dove volevo arrivare. Inutile dire che la risposta fu un secco no, anzi, il tono che assunse per illustrare i motivi del suo rifiuto eliminò in un attimo quel fragile alone di affabilità che si era appena costruito intorno alla sua figura. - Mi spiace - mormorai io, puntando come meglio potevo sulla carta della cortesia - Non pensavo si trattasse di una trasgressione tanto grave. Vorrà dire che mi troverò al più presto un nuovo alloggio; ma, per piacere, sono costretto a chiederle un po' più di tempo...: mi sono trasferito qui da poco, e sono economicamente in serie difficoltà... - - le difficoltà le abbiamo tutti, signor Loira, - sentenziò lui - ma non autorizzano l'abuso della legge. Dura lex, sed lex.- E detto fatto mi sviscerò una ad una tutte le violazioni che avevo commesso (puntualmente corredate di tutte le conseguenze cui avrei potuto andare incontro) con un fare professorale e tracotante, tale da far perdere la pazienza anche ad uno come me.

- Lei ha ragione - lo interruppi - le difficoltà le abbiamo tutti, ma dovrebbe quantomeno riconoscere che si affrontano più a cuor leggero quando ci si può permettere di dare appartamenti in affitto e collocare la redazione della propria rivista in un magnifico locale che basterebbe da solo a togliere dalla strada una buona parte dei senza tetto di cui parla così bene nella sua inchiesta. - E, non soddisfatto della citazione - Anno due, numero dieci - precisai - ottobre scorso. E se risaliamo al precedente non si contano le sue appassionate parole in difesa dell'uguaglianza sociale, della parità di cultura, e i tanti bei progetti in proposito! Scrive proprio dei begli articoli, signor Scizio: peccato che non sappia nemmeno che la sua affittuaria è costretta a lavorare in una squallida discoteca per pagarle l'appartamento...e le danno pure fastidio il fumo e il volume alto! Evviva la coerenza! -

Mi accorsi di avere esagerato, e mi vergognai, ma forse colsi nel segno, perché Filippo non reagì, e permise che, con più quiete, aggiungessi dell'altro a sostegno della mia "accusa", senza risparmiare in ulteriori prestiti dai suoi articoli. Poi, ad un tratto, mi fermò con un lieve gesto del braccio

- Lei studia, signor Loira? - appoggiò la testa tra le mani e mi guardò fisso.

Annuii.

- Cosa studia? -

- Lettere -

- Un "letterato"- soggiunse - un idealista! -

Il suo tono, adesso, era canzonatorio, ma non ostile. Io, però, stavo ancora sulla difensiva.

-Anche lei non scherza. - ribattei.

S'alzò, e mi accompagnò all'uscita

- Ci penserò, signor Loira - disse, congedandomi - e le farò sapere -.

 

Il colloquio con Filippo Scizio mi scombussolò la giornata: l'intero pomeriggio se ne andò in fumo a rimuginare su ciò che avevo detto e non detto, e sulle risposte che avevo ricevuto. Mi pareva di aver fatto una pessima figura e provavo un avvilente senso di vergogna, e con esso, una gran rabbia verso me stesso, perché mi preoccupavo dell'impressione suscitata su quel presuntuoso, che si era probabilmente divertito un mondo a mettere in risalto le mie difficoltà. In fondo, non avrei potuto reagire diversamente: i cavilli giuridici che mi aveva rovesciato addosso li ignoravo del tutto e non avevo nemmeno la minima parte della facilità di parola con cui Filippo era riuscito tanto bene a mettermi in soggezione. Per quel giorno dimenticai anche la cosa più importante, ossia cercare un nuovo alloggio. Lo stato di sospensione in cui Scizio mi aveva lasciato, infatti, non prometteva niente di buono.

Ero stanco. Stanco di agitarmi perché nella mia vita tutto filasse sempre alla perfezione, stanco di soffrire per cose di poca importanza, una sofferenza che non era mai vero dolore, ma era sempre disagio, fastidio, inerzia.

La vitalità che credevo, nonostante tutto, di possedere, era meno grande dei limiti che mi impedivano di esprimerla. Quali limiti, non lo sapevo...ma li sentivo, e questo bastava.

C'era poco da difendersi: i problemi volevano esistere per forza, e per farlo rubavano le mie energie, ed io rimanevo solo come quella sera, al tavolino vicino la finestra, in un gorgo di emozioni sempre in contrasto.

Con la mia assonnata voglia di fare...

...il timore di me stesso....

...la paura della gente...

Adesso so che conobbi Filippo Scizio proprio nel momento in cui avevo bisogno di lui...

 

La seconda volta che lo incontrai fu in modo più casuale. Ci trovammo per strada, vicino casa, in una traversa della via dove abitavamo. Non mi era mai capitato di imbattermi in lui da quelle parti. Dal giorno della mia visita ai locali della redazione non era passata una settimana.

Anche quel mattino il sole splendeva in un cielo terso, l'aria era gelida e immobile, e luce tutt'intorno: il trionfo della limpidezza.

In quelle giornate cristalline, Firenze era più bella del solito. Di tutto il tempo che vi ho trascorso, ricordo specialmente le giornate così. Per me era la città solare.

Filippo percorreva la strada larga a passo veloce: anche il suo modo di camminare sembrava emanare vivacità e brio. Teneva la fronte alta e il sole gli brillava sulla faccia guarnendo d'un tremante luccichio il ciuffo di capelli nerissimi che portava ben aggiustato sul lato destro del viso. Sorrideva, guardando davanti a sé, per la via dritta, con negli occhi la serietà dell'uomo adulto e l'entusiasmo dei suoi ventiquattro anni.

Io finsi di non accorgermi di lui, ma fu inutile.

- Salve! - esclamò venendomi incontro - Mi rammento di lei, signor Loira. Il letterato! -

Doveva essere allegro, quel mattino: teneva sotto braccio il giornale, e con la mano che aveva libera afferrò energicamente la mia. Poi scosse la testa, e finse uno sguardo di disapprovazione

- Non ci siamo, signor Loira - commentò - un minimo di partecipazione quando mi dà la mano! Una bella stretta, così... - E ripeté il gesto, scoppiando in una fragorosa risata.

Anch'io cercai di ridere, ma mi sentivo molto in imbarazzo.

- Lo sa - insistette - che stringere la mano con debolezza è indice di scarsa personalità? -

- Perché? - protestai - Potrebbe solo essere indice di timidezza! -

Filippo abbozzò quel sorrisetto pericoloso che accompagnava sempre la sua ironia - E dunque lei sarebbe un timido! -Esclamò - Possibile che siano tutti timidi i letterati che conosco? - Questa volta la risposta mi venne istantanea - Perché la timidezza è spesso un attributo della profondità, signor Scizio! - dichiarai, e finalmente in silenzio ci rimase lui. Ma per poco, per fortuna: altrimenti avrei finito col sentirmi ancor più a disagio!

Cambiò discorso, però. Mi chiese se tornavo dall'università, che lezioni avevo seguito, cosa pensavo dell'ambiente accademico, e via dicendo. Camminava a mio fianco, rallentando un po' la sua andatura per stare al passo con me: aveva voglia di chiacchierare. Eppure non osai domandargli cosa avesse deciso per la questione dell'appartamento.

Seguì la mia stessa strada quasi fino a casa, non so se per necessità, o solo per non interrompere la discussione che s'era fatta animata. Parlammo del ruolo della letteratura nella società: lui, da bravo intellettuale impegnato, non si mostrò del mio parere, ma non riuscii a capire se fosse solo un espediente per polemizzare, cosa che - e questo sì, lo afferrai all'istante - gli piaceva molto.

Io, invece, avevo, in proposito, idee fin troppo chiare, e fui felice di costatare un fatto: se non ero capace di destreggiarmi nella civil conversazione, almeno nel campo a me proprio sapevo esprimere il mio pensiero. Lo notò anche Filippo, con piacevole sorpresa, tanto che mi disse che avrei dovuto partecipare ai dibattiti che si svolgevano durante le riunioni della redazione, perché c'era un tal suo amico letterato che si sentiva in imbarazzante minoranza.

Pensai ancora che volesse prendermi in giro, e lo precedetti, sforzando una risata. Lui, però, sorrise soltanto, cortesemente - Lei è un timido davvero, Loira - fece - ma impari a stringere la mano lo stesso. -

Ci separammo a pochi passi dal mio portone. Lui attraversò la strada di corsa, e mi salutò ancora, agitando il braccio. La sua ombra sottile si allungò sull'asfalto, sotto il sole infreddolito di novembre. Ho ben fissa nella memoria quest'immagine, perché avevo abbassato di nuovo gli occhi, timoroso di guardarlo in viso.

E mi venne in mente un pensiero: anche Filippo era una "creatura solare", e sprizzava luce ed energia come la sua città.

 

Pochi giorni dopo lo rividi all'università, ma non mi aspettavo che fosse lì per cercare me. Mi attendeva fuori dell'aula, alla fine della lezione. Era pomeriggio, verso le cinque, e fuori stava già rabbuiando.

Stavolta evitai la cattiva figura di sfuggire il suo sguardo, e in fondo, dopo l'ultima conversazione, mi sentivo meno inibito.

- Buona sera, signor Scizio - dissi - ci incontriamo spesso, ultimamente! -

- Pare di si - rispose lui - Usque tenebo. Persequar! - (niente da fare - pensai - proprio non perdeva occasione per dar sfoggio della propria sapienza!) - Ero venuto qui - continuò, frugandosi caoticamente nelle tasche - Per darle una cosa...Ah, ecco - esultò, estraendo finalmente un foglietto sgualcito da uno degli scomparti del suo porta documenti e porgendomelo - L'ho trovato! -

Istintivamente lo spiegai, e, sul momento, nella luce un po' fioca del corridoio, mi parve di distinguervi solamente una serie di allegri scarabocchi tracciati da mani fantasiose.

- E che sarebbe? - Sbottai, incuriosito, ma sempre nel sospetto che ci si facesse beffa di me.

- Il mio biglietto d'invito alla riunione di giovedì sera. - fece Filippo, con naturalezza, sfoderando un sorriso - Me la riporti in redazione commentata, e poi ne discutiamo. -

Guardai con più attenzione il foglietto, e mi accorsi che, in realtà, i due scarabocchi erano niente meno che parole, scritte a mano in una pessima calligrafia, e che, a giudicare dalla disposizione sulla pagina, avevano la pretesa d'esser versi.

- Che vuol dire "discutiamo"? - Domandai, allarmato, temendo che Filippo mi stesse sottoponendo il compito a casa per poi divertirsi a distruggermi davanti ai suoi colleghi

- Scherzo, signor Loira! - si avvide subito delle mie perplessità, lui - Era solo un pretesto per averla come ospite giovedì. Le prometto - mi assicurò - che non avrò nulla da ridire su qualsiasi cosa lei scriverà. -

Io mi lasciai sfuggire un sorriso

- Ride, eh? Lo so che non è da me accogliere pareri in silenzio. Ma quando prometto, prometto. Chiaramente, non posso obbligarla, ma mi farebbe piacere. -

Annuii, rassicurato.

- Allora siamo intesi - concluse - l'aspetto alle nove, e, se verrà, le garantisco che sarò muto come una tomba! -

Volle stringermi di nuovo la mano, poi scappò via, giù per le scale, dileguandosi come un fantasma nella penombra del cortile della facoltà.

Era davvero la persona più affascinante che avessi mai conosciuto.

 

Vent'anni sono pochi per decidere della propria vita.

Per me erano pochi anche per decidere cosa fare il mattino dopo, o per scegliere se andare o no alla riunione del giornale di Filippo. Mi sentivo onorato dell'invito ed eccitato dell'occasione che mi veniva offerta di ficcare il naso in quel mondo tanto distante da me, ma anche allora la paura era più forte dell'entusiasmo.

"Non sai neanche da dove cominciare" mi diceva il foglio bianco sulla scrivania, tagliato a metà dalla luce geometrica della lampada da tavolo. Anzi: non avevo neppure deciso se era il caso di cominciare o no!

Però quella poesia era bella. Davvero molto bella.

Era sera, il sole era tramontato da un pezzo, e dalla finestra al terzo piano si vedeva la luce dei lampioni. Camilla preparava la cena, era il suo turno, e sulla via del ritorno ero passato a comprarle i surgelati. Era una frana in cucina, ed io anche, ma dai fornelli veniva un buon profumo e metteva appetito.

Con la testa tra le mani, finii per perdere il filo dei pensieri

Mi capitava, a volte, nei momenti di minore tensione, di trovarmi a vedere superficiali tutte le piccole ansie che costituivano la mia vita, lo studio, gli orari, gli impegni, le banali vittorie, e mi invadeva l'illusione di poter vivere più tranquillo.

Cominciai a scrivere così: per gioco, per sfogo di rilassatezza, pensando che non valeva la pena di angosciarsi per una simile stupidaggine, e che, in ogni caso, potevo sempre non dare il mio lavoro a Filippo, anzi, non dividere più con lui nient'altro che la questione di un contratto d'affitto.

Mi ci misi con l'intento di essere tecnico, di giocare a fare il critico letterario: metrica, linguaggio, figure retoriche, rilievo dato alle singole parole...Invece, alla fine, avevo riempito ventiquattro fogli, cacciandovi dentro di tutto: emozioni, sentimenti, frustrazioni, ingombranti porzioni di autobiografia che mi erano usciti spontanei, forse per voglia di confessione, o rabbia per qualcosa...desiderio di affermare la mia personalità. Un po' era anche come dire a Filippo "sono diverso da te" e proclamare con orgoglio ciò che un orgoglio non sentivo: essere quello che ero, così distante da lui e magari vicino - perché no? - a quell'anonimo poeta, che riempiva il vuoto della vita con parole così belle.

Quando rilessi il mio scritto, però, provai una tale vergogna all'idea che qualcuno potesse leggerlo, che ebbi voglia di chiuderlo in fondo ad un cassetto, e non pensarci più. Il momento di rilassatezza era finito, e con la stanchezza erano tornate le preoccupazioni. Tra l'altro ero nervoso perché mi ero accorto che era tardi, e il mattino dopo avevo lezione presto.

Infilai il pigiama e spensi la luce sulla scrivania. In questo modo, dalla mia finestra si vedeva benissimo quella dell'appartamento di Filippo, nel palazzo di fronte, dall'altro lato della strada. La sua luce era ancora accesa, sola, sulla facciata buia. Rimasi un attimo in piedi ad osservarla, con gli occhi stanchi, domandandomi cosa stesse facendo, a quell'ora.

Avrei voluto decidere subito se consegnargli o meno il mio commento, ma ormai ero esausto.

- Domattina - pensai

 

- Accidenti, Mattia! La sveglia! -

Milly era piombata nella mia stanza come una furia scatenata, senza bussare, gridando a viva voce. Se anche mi avesse sorpreso nudo, credo che non sarebbe rimasta turbata neppure un po'. Non guardava in faccia nessuno, quando un rumore molesto la buttava giù dal letto prima del previsto, il mattino dopo una nottata di lavoro, e la mia sveglia faceva, per l'appunto, un fracasso tale da svegliare tutto il palazzo, figuriamoci chi dormiva nella stanza vicina.

Io sonnecchiavo, agitandomi continuamente sul cuscino, con la testa dolente che cercava la giusta posizione, e non avevo ancora trovato la forza per allungare la mano a far tacere lo squillo fastidioso

- Dio... - farfugliai - già mattino? -

- Per me forse no - mi rimproverò Camilla, irritata - Se una buona volta fai tacere questo dannato aggeggio! - e, con un colpo indelicato, schiacciò giù la cresta del buffo galletto di plastica che ancora non aveva messo fine al suo concerto mattutino.

- Scusami... - mormorai, cercando di prevenire la sfuriata - Non mi sento molto bene, stamattina... -.

Lei neppure mi ascoltò.

- Beh, - disse, masticando le parole - torno a dormire - e poi, tra sé -Sperando di riuscirci... -.

Sentii i suoi passi allontanarsi dal mio letto, col rumore casalingo delle ciabatte sulle mattonelle. Sapevo che si sarebbe riaddormentata subito, non appena infilata la testa fin sotto le coperte, e si sarebbe regolarmente alzata per pranzo, senza nemmeno ricordare l'inconveniente di poche ore prima. Avrei voluto poterlo fare anch'io, ma purtroppo non ero mai stato capace di proseguire le cose da dove si erano interrotte. E il malessere anticipato dei sensi di colpa mi imponeva di filare all'università, e di affrettarmi, oltretutto, perché ero, come al solito, in ritardo.

Presi il coraggio di affrontare il freddo del pavimento sotto i piedi, e, finalmente, mi alzai.

Del pensiero che mi aveva impedito di prender sonno la sera precedente, m'ero quasi dimenticato.

Salii in autobus, c'era gente, mi trovai spiaccicato tra una scolaresca in gita e il finestrino: mi sentii d'improvviso uno fra i tanti, una vita tanto inventata e poco vissuta che si mescolava a tutta quella quotidianità, agli stress degli impiegati come quello lì vicino che mi premeva il ginocchio con una valigetta, alle cartelle e le auricolari degli studenti...Chissà come vivevano la loro, queste persone, se si ponevano come me il problema di non sfruttarla abbastanza, se sentivano la sofferenza di sperperare, ogni ora, manciate di minuti, avvinti a volte dal breve sogno di valere davvero qualcosa, a volte riscaraventati nell'insignificante, a risollevarmi dal quale non sarebbe certo bastato essere amico di un pubblicista mediamente noto.

Il mio scritto ristagnò nel cassetto per due giorni, finché non decisi di andare alla riunione. Allora dovetti lavorarci di nuovo sopra per ridurre le 24 pagine a tre. Terminata la revisione non mi pareva più tanto male, solo non riuscivo a liberarmi del sospetto di essermi sbilanciato troppo nelle osservazioni personali, che, nella mia operazione di labor limae, non ero proprio riuscito a "cestinare" del tutto. La carta aveva su di me un terribile potere: distruggeva le mie reticenze e mi rendeva pericolosamente espansivo.

Non volli arrivare alla sede della redazione in anticipo, per paura di dovermi trovare a tu per tu con qualcuno che non conoscevo ed esser tenuto a dar spiegazioni riguardo la mia presenza, nel caso Filippo non avesse reso conto ai colleghi dell'invito.

Così tardai qualche minuto.

Quando mi affacciai nel corridoio, c'era già il silenzio totale. Non c'era, a differenza di quanto avevo immaginato, gente a chiacchierare o fumare, le porte delle stanze erano tutte chiuse, e da dietro una di esse udii qualcuno parlare, anzi, probabilmente leggere, perché la voce fluiva distesa, senza gli intoppi e le esitazioni di un comune discorso orale.

Bussai, e nessuno mi sentì. Pensai che anche le nocche delle mie dita difettassero di energia, ma non riuscii ad imporgli di ripetere il gesto più forte. Avevo cominciato a tremare, mi stringevo nel cappotto inutilmente, come se avessi dovuto proteggermi dal freddo polare di quella serataccia di novembre, che forse mi aveva seguito lungo le scale approfittandone per scivolare nelle stanze. Avrei voluto quasi tornare a casa, e mettermi a letto: per un momento non seppi più cosa stavo a fare lì. Poi, però, ci fu un attimo di silenzio e provai a bussare di nuovo.

- Avanti! - rispose stavolta, chiara e squillante, la voce di Filippo.

- E' permesso? - mormorai, facendo capolino dietro la porta.

Lui si alzò in piedi e mi venne incontro

- Come no! - disse - Aspettavamo giusto lei -.

Mi indicò l'attaccapanni (mi ci vollero dieci minuti per togliere la giacca, e ora sentivo più freddo che mai), mi invitò a sedere vicino a lui, e - frettoloso o poco cortese - non si curò nemmeno di fare le presentazioni.

Curiosavo con lo sguardo intorno al tavolo, restando attento a non indugiare troppo con l'attenzione su quelle facce sconosciute. Era un gruppo molto eterogeneo di persone di diverso stile ed età: a giudicare da una sommaria occhiata, Filippo doveva essere il più giovane, ma era anche quello che fra tutti più si atteggiava a voler fare la persona seria.

Io, frattanto, avevo estratto dalla tasca le mie tre paginette faticosamente sintetizzate e gliele porsi.

- Ah, bene. - fece lui, senza neppure stendere i fogli piegati in quattro - Questo, Rino, è per te. - e passò il mio scritto ad un giovanotto con due grossi occhiali seduto dall'altra parte del tavolo.

Poi si rivolse a me e rise

- Signor Loira - disse - le presento l'autore! -

Non c’erano specchi per costatare di quanti colori divenne la mia faccia: molto più tardi, ricordando l'accaduto, Rino mi assicurò che mi limitai a incrociare il suo sguardo e sorridere, ma, conoscendo il mio recidivo imbarazzo e la sua proverbiale cortesia, non ci metterei la mano sul fuoco neppure oggi.

Ricordo invece molto bene il modo in cui quel singolare personaggio (singolare per me, a prima impressione, e singolare lì, tra quella gente) ricambiò il mio sorriso, e mi ringraziò, con un’inclinazione così confortante nella voce, da farmi provare subito per lui un moto spontaneo di simpatia.

Rino Daniel: l'amico "letterato" di Filippo, il poeta triste con cui, senza saper chi fosse, ero riuscito a dividere una familiarità che a volte mi mancava anche con gli amici. Ebbi modo successivamente di conoscerlo, e così seppi anche che, quella infausta, inverosimile sera, lo stesso sollievo che avevo ricevuto io nel guardare in faccia lui, lo aveva provato lui sorridendo a me.

- Lo leggo a casa... - mormorò, rivolgendomi un’occhiata quasi interrogativa.

- Si, magari è meglio - intervenne Filippo, pensando si chiedesse a lui - così andiamo avanti -.

La riunione fu lunga, finimmo che era quasi mezzanotte.

Io non parlai mai, ero troppo teso ed estraniato, mi sentivo fuori posto: ma la gente non fu né ostile né diffidente con me; alcuni mi ignorarono, altri, se incrociavo il loro sguardo, sorridevano. All'uscita mi salutarono con cortesia e qualche formalità di troppo: dovetti stringere la mano a tutti, ma per fortuna nessuno aveva il commento facile come Filippo.

Quando tornai a casa non sapevo se essere sconvolto, sorpreso, o felice...di cosa, poi, un premio a chi lo sa...forse di me stesso, d'aver avuto il coraggio di andarci...

L'unica emozione sicura era che mi sentivo veramente libero di un peso.

Prima di dormire ripensai a lungo a tutto quello che era successo, e presi di nuovo sonno molto tardi.

Il mattino seguente, quando uscii di casa per andare in facoltà, trovai un biglietto attaccato sulla porta con un pezzo di scotch, e il biglietto recitava così:

" Rino ti ringrazia. Ti aspettiamo giovedì prossimo.

Filippo."

Non riuscii nemmeno a restare stupito: la mia vita cambiava percorso.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


II

 

 

Ora passa e declina

in quest'autunno che incede con lentezza indicibile

il miglior tempo

della nostra vita

e lungamente ci dice addio.

 

(V. Cardarelli)

 

 

 

Cominciai a partecipare alle riunioni del "Cambio Rotta" in principio come spettatore passivo. Spesso doveva essere Filippo a sollecitare il mio intervento, con una domanda ormai diventata canonica: "Loira: pareri in proposito?". Quanto era formale! Tutto era così meccanico che ogni sera avrei potuto prevedere come sarebbero andate le cose fin nei minimi particolari, eppure, tutte le volte, quelle sedute erano una provocazione e una sfida, e bisognava stare tesi, preparati.

Camilla si aspettava che, da un momento all'altro, saltasse fuori la questione dell'affitto, e mi incoraggiava vivacemente a sollevare il discorso, ma io speravo che l'iniziativa venisse da lui, e non osavo rischiare di distruggere per mia colpa la silenziosa intesa che si era creata tra noi. Così feci scadere le fatidiche due settimane senza aver fatto niente per sistemare la situazione, e quando, la sera stessa, Filippo non vi fece accenno, rimasi, a dire il vero, molto turbato.

Il coraggio uno "non se lo può dare", ma a volte le circostanze ci costringono a farcelo venire, ed io andai in redazione il mattino dopo, con tutto il mio discorso pronto nella testa, preparato in partenza ad una discussione niente affatto più piacevole della prima. Invece - Che ci fai quassù a quest'ora? - mi accolse, piazzandomi in mano una copia della rivista tirata di fresco - Non vai all'università? -

Solo allora ricordai che era il giorno dell'uscita del nuovo numero

- Veramente - dissi - Venivo per altro... -

Mi imbarazzava un po' il dover parlare davanti agli altri membri dello staff, e c'era, purtroppo, molta confusione, gente che andava e veniva, nel corridoio largo...

- Dimmi, dimmi pure - fece lui, ma non mi lasciò il tempo neppure di cominciare, attaccando invece a dissertare a ritmo serrato, ora con me, ora con chi gli passasse accanto, dei pregi e difetti del fascicoletto che mi aveva appena elargito, e che in quel momento non era proprio - ohimè! - al centro dei miei interessi.

Gli ci volle qualche minuto perché la correttezza prendesse il posto dell'eccitazione, e finalmente mi permise di esordire con la mia frasina formale, condita dai soliti preliminari di cortesia

- Scusami - dissi - lo so che non è il momento, ma volevo parlarti di quella questione dell'affitto... -

Filippo fu un attimo smarrito, come se non ricordasse

- L'affitto... - mormorò, tra sé, stropicciandosi, pensoso, la fronte con due dita - Già, l'affitto. Ci sono problemi? -

Io rimasi, come al solito, esterrefatto

- No - presi coraggio - Cioè, SI! Insomma: io, da ieri, non avrei più dovuto neanche esserci, nel tuo appartamento! -

Lui si fece improvvisamente serio: mi fissò con due occhi inquisitori, e dopo, - credo - essersi divertito un po' col mio imbarazzo, scoppiò in una risata colossale:

- Stai scherzando! - esclamò - Ora, secondo te, potrei cacciare di casa il mio solo recensore? Perdonami, sai...ma l'auto danneggiamento non rientra nelle mie strategie! -

Anche se ero ancora sbigottito dall'inaspettato "miracolo di gentilezza", e stordito a causa dell'improvviso scarico di tensione, quel saggio di buonismo mi suscitò un inevitabile sorriso

- Ma come - dissi - E tutti i discorsi di appena due settimane fa? La burocrazia, l'abuso di domicilio, il "Dura lex, sed lex"...dove sono andati a finire? -

Filippo scosse il capo, benevolo

- Andiamo, Loira!...Vuoi far funzionare questa robaccia anche con gli amici? -

E la faccenda fu chiusa per sempre, all'insegna di questa sorta di "investitura" prestigiosa.

Per tutto il resto del giorno fui molto contento: trovavo gratificante esser considerato "amico" da un personaggio illustre. Benché, da parte mia, non mi sentissi tale.

Già...perché in fondo stare vicino a lui mi metteva sempre in una condizione di disagio, diminuiva la mia autostima, e mi faceva venire voglia di diventare una persona diversa, il che non era proprio - almeno credevo - ciò che l'amicizia avrebbe dovuto essere.

Ma faceva lo stesso: a suo fianco c'era la tensione, c'erano la fatica, l'energia. Ed era questo che mi serviva: coraggio, entusiasmo...

 

Camilla fu felicissima. Ci inoltravamo in dicembre e le cose cominciavano davvero a filare liscio. Lei aveva trovato il nuovo lavoro al dancing, io davo ripetizioni di latino, e Filippo aveva a tutti i costi voluto pagarmi l'articolo che aveva pubblicato sul "Cambio Rotta" (a mia insaputa!). Avevo finalmente capito come funzionava il complicato meccanismo della facoltà di lettere, e studiavo per il primo esame. C'era molto tempo prima della sessione estiva, tuttavia, per difetto di serenità, non riuscivo a prendermela comoda, così rimanevo spesso alla scrivania fino a tardi, magari a controllare se qualche volta la luce del nostro vicino si fosse spenta prima della mia, anche perché, tanto, Camilla voleva che andassi a prenderla all'uscita del lavoro in bicicletta tutte le sere. Non si fidava - diceva - a tornare da sola, la notte, ma era tacitamente inteso che si trattava di un pretesto per avere per qualche minuto a disposizione un confidente fidato e dotato di tacita pazienza, a cui fare a caldo il resoconto di quelle serate, sua "croce e delizia", quasi fin dal principio.

Si era innamorata, innamorata alla follia. Diceva: "Non m'è mai presa, così!", eppure ero sicurissimo che non fosse vero. Lei, la pronunciava facilmente questa grossa parola, "Amore", perché amava tutte le volte, ed amore voleva dire anche gelosia, passione, sofferenza: erano i suoi corollari fondamentali.

Aveva una relazione col proprietario del locale, un uomo adulto, che poteva avere il doppio dei suoi anni, per quanto Camilla lo accusasse di infantilismo, lo definisse "un bambino" e aggiungesse, quando era arrabbiata "e per di più deficiente".

- E allora - facevo io, provocatorio - Perché ci stai insieme? - e lei, che non capiva l'intento malevolo della domanda, e prendeva ogni mia parola con una serietà spiazzante, restava zitta e pensosa a cercare una risposta esaustiva, finché tirava un lungo sospiro e cantilenava:

- Mah...boh...non lo so: perché lo amo. -

Ed ecco di nuovo questa parola pesante di cui si faceva gran dispendio, anche solo nel vano tentativo di dir qualcosa che non sembrasse stupido.

E che vuol dire?“ avrei voluto insistere; ma stavo zitto, non tanto per il desiderio di non infierire, quanto perché, troppo spesso, arrivato a quel punto, inspiegabilmente mi accorgevo di essere io a trovarmi banale, e una volta di più mi capitava di sentirmi inferiore a chi, un attimo prima, stavo tacciando, tra me, di scontatezza.

Lei, comunque, non si avvedeva di tutto questo, e apprezzava in ugual modo le mie parole e il mio silenzio: rimasi sempre il suo confidente privilegiato, l'appoggio sicuro, forse perché ero tanto cerebrale da sembrarle obiettivo, forse solo perché il distacco che mi dava l'inesperienza veniva confuso con la saggezza....o magari perché nessun altro si sarebbe prestato a girare fino a tarda notte in bicicletta per le strade deserte aspettando che il freddo e la stanchezza le avessero fatto passare la voglia di piangere, e a me quella di pedalare.

Una volta la portai fin su a Fiesole, per quelle viuzze strette e ripide che affaticano il respiro, ma riscaldano il corpo, alla faccia del gelo che diviene sempre più intenso quanto più si sale. Era un tragitto che mi aveva insegnato Rino: lo avevamo fatto una volta che ero passato dalle sue parti uscito dall'università. Lui aveva molto più fiato di me, era molto più agile e resistente di quanto la sua corporatura robusta e un po' impacciata non promettessero (ma questo fu molto dopo che l'avevo conosciuto, già tardo febbraio, e, alle porte, profumo di primavera...)

Camilla amava molto quelle nostre passeggiate notturne, non aveva mai freddo, e, a meno che non fosse proprio a terra, chiacchierava senza posa, e ad ogni frase di senso compiuto inseriva almeno una domandina rivolta a me, senza curarsi troppo se ciò che gli arrivava in risposta era solo un respiro affannoso.

Aveva preso a chiamarmi con uno strano soprannome: Dido. L'aveva disgraziatamente letto su non so più che mio quaderno di appunti, e me lo aveva affibbiato senza colpo ferire. Diceva che mi stava bene, perché evocava qualcosa di piccolo e tenero, con quella grafia tonda tutta "D".

- Dido - diceva - Secondo te che devo fare? - - Accidenti Dido! Chissà come ci prova, con tutte quelle là! - - Dido... secondo te dovrei lasciarlo? - e ancora: "Dido, la porta!", "Dido al telefono" e via dicendo; la solita quotidianità...

Se avessi dovuto scegliere, certo mi sarei trovato un nome diverso, ma purtroppo non potevo negare di somigliare all'immagine che quel nomignolo suscitava alla fantasia di Camilla, e ne detestavo soprattutto un aspetto, mai menzionato, ma tuttavia evidente: la fragilità. Soprannome friabile, immateriale, fatto quasi di carta dipinta da bambini, Dido: biglietto da visita che presentavo di me, e di cui la mia ambizione sperava un giorno di liberarsi. Ma che farci? Non tutti hanno la capacità di ritagliarsi un nome a misura dell'immagine che si vuol dare alla gente, tanto meno la faccia tosta di farne mostra, e io non ero né un Gabriele L'Annunzio nato Rapagnetta, né un Samuel Rosenstock meglio noto come Tristan Tzara, e i nomi altisonanti non potevo permettermeli.

A ognuno lo pseudonimo che si merita, o la dignità nell'accontentarsi, come Filippo, che firmava orgogliosamente col suo stridente cognome, e come Camilla che con invidiabile leggerezza si portava dietro quel terribile "De Gaddi-Ciuffino" che sarebbe bastato, con la sua imponenza, a schiacciare una persona tanto meno esile di lei.

 

C'erano anche le volte, per fortuna, che Milly usciva dal locale entusiasta. Lo capivo subito quando la vedevo comparire sulla soglia: se si era struccata e cambiata l'abito, voleva dire che non era scappata via in fretta e furia, e che era, perciò, di ottimo umore....Perché anche questo c'era da dire di Camilla: che, come Filippo, pur se in maniera diversa, non conosceva le mezze misure. Il suo stato d'animo aveva escursioni improvvise dal cielo a sottoterra, e questo era un tratto del suo carattere che mi era difficile assecondare quanto mi era facile invidiare: a volte avrei pagato per soffocare la mia stanca apatia con uno dei suoi schizzi di felicità gridata o di cupa disperazione.

Quando era allegra la passeggiata in bicicletta si limitava al tratto di strada che separava l'appartamento dal dancing. Durante il breve tragitto si sgolava a cantare le canzoncine del momento, nonostante non avesse fatto altro per l'intera serata, e, spesso e volentieri, prendeva delle tonsilliti fenomenali. Aveva una voce profonda, accorata, quando cantava; a volte "non sembrava la sua". Questo, in verità, fu un giudizio di Filippo, che, ovviamente, volle fare la parte anche del critico musicale. Lui e Camilla ancora non si frequentavano, ma si conoscevano già da tempo.

In principio Filippo non la stimava molto. Me lo confidò una sera che la riunione finì presto e volle fare la strada con me, nonostante gli avessi spiegato che mi fermavo al locale per recuperare la mia coinquilina. Bicicletta a mano, camminammo vicini, per quella strada che passava davanti a casa nostra, e poi, alla prima traversa, portava al dancing.

Avevamo già camminato insieme una volta, su quel marciapiede, una mattina di luce in cui mi ero sentito chiamare "uno di scarsa personalità" e ricordo di aver sperato che a quel punto avesse cambiato idea.

Lui aveva lo stesso passo di allora, sicuro, spedito, un passo che, non so come mai, mi pareva stonasse con la notte, strideva, non vi si adattava.

- Non passa una macchina! - esclamò, saltando in mezzo alla strada - Che pace! - e poi, ispirato e farsesco - “Che fai tu luna in ciel?” - citava - “dimmi, che fai, silenziosa luna?” - lanciandomi uno sguardo d'intesa. Ed io - “Sorgi la sera e vai, contemplando i deserti; indi ti posi“ - serio, quasi tra me - “Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli?” -.

C'era una splendida luna davvero, quella sera. Citazione più appropriata non si sarebbe potuta trovare.

Subito dopo Filippo tornò vicino a me, e mi chiese, a bruciapelo, se andavo d'accordo con Camilla. - Perché? - sbottai, sorpreso. Beh...Perché era una "ragazza bizzarra", un pò squallida, e frequentava dei pessimi ambienti...gli sembrava troppo diversa (voleva essere un complimento?) dal sottoscritto. Disse che la vedeva spesso rientrare la notte, quando restava in piedi a correggere bozze fino a tardi: la accompagnava una sua amica, “tutta rifatta dalla testa ai piedi“. E poi non gli piaceva come si truccava: troppo volgare.

Non l'avrei mai sospettato: Filippo era un moralista!

Sulla cosa principale, però, come al solito aveva visto giusto: eravamo molto diversi, e neanche io amavo le discoteche di Camilla...non sapevo nemmeno ballare. Ma amavo avere vicino quella luminosità di lei, o anche solo l'immagine che ne avevo io. Vagli ora a spiegare che la trovavo invece molto simile a lui!... La solarità e lo scatto, l'equilibrio di camminare veloci per strada senza inciampare in un sasso, la destrezza di non dover afferrare i bicchieri con due mani per paura di farli cadere... Naturale che preferii eludere l'argomento! - E' brava - risposi - ci si sta bene insieme. E se si trucca così, è solo per lavoro -

Per quella sera il discorso finì lì, e Filippo si limitò ad apprezzare molto le doti canore della sua affittuaria: amicizia nacque molto dopo, quando quelle due persone erano ormai diventate parte integrante della mia vita.

Intanto correvano veloci le fredde giornate di dicembre, ed io mi trovavo spesso ad interrogarmi sul senso di tutto questo, del mio arrabattarmi tra autobus e libri, del mio essere lì, a Firenze, e anche del mio essere lì nel mondo senza saper a chi servivo...tutte domande che riempiono le pagine della letteratura e della filosofia da tempo immemorabile, e che non avrebbero certo avuto la grande soluzione da parte di un cretino qualsiasi.

All the lonely people, where do they all come from?

 

L'amore, questa cosa strana...

Mi trovai a pensarci in quel periodo, perché Milly ci pensava.

- Sei mai stato innamorato? -

- No, non credo. A volte...Beh, a dir il vero, una volta credo di aver preso la mia piccola cotta. Era una mia compagna di liceo, una moretta che piaceva a tutti ed era tanto se mi salutava. Del resto non potrei biasimarla: io a volte non facevo neanche quello! Il mio più gran successo con lei fu ottenere una foto in cui mi teneva sottobraccio, e, pensa un po', non vado a perdere i negativi? -

- Che disastro! -

- Eh, puoi dirlo!...E tu? Quante volte...? -

- Mica poi tantissime: due o tre. L'amore, quello SERIO... -

Facevamo simili discorsi in bici, o il lunedì sera, accoccolati sul divano sotto una coperta a guardare la T.V. perché era il suo giorno libero. In quei momenti parlavo più volentieri anch' io: mi ispirava il calore, l'intimità domestica.

L'amore, "quello serio", intensità e passione, sesso e sofferenza: spesso, a sentir lei, provavo un gran desiderio di sperimentare di che si trattasse. Non mi sarebbe dispiaciuto che uno scombussolamento catastrofico scombinasse tutte le coordinate della mia vita, e potessi finalmente prendermi il lusso di star male e lamentarmi per qualcosa di reale, e magari scoprirci gioia, insieme. In vero c'era una buona dose di presunzione nel pensare di scovare una gioia segreta in Camilla, anche quando mi ripeteva in cantilena "Sono uno straccio, sono a pezzi", ma non potevo non sospettare che il gioco dovesse valere la candela. Non si leggeva persino nei testi sacri che siamo nati per amare, e c'era gente che realizzava la propria vita nell'amore? Poteva darsi. Ma forse non era il mio caso, e il mattino dopo, finiti quel tepore di coperta e l'odore di camomilla, il mattino, con la luce, erano pensieri lontani, e c'erano, vicini, soltanto il 17 ed i libri dei miei poeti.

- E te, quindi, non hai mai avuto una ragazza? -

- No -

- Ma come? Bellino come sei...Io dico che non l'hai mai voluta, oppure hai un po' paura -

Mi piaceva quando Camilla cercava di farmi dei complimenti, la sua voce aveva un tono incoraggiante, ma non riuscivo a non essere infastidito da quelle frasi fatte che è così semplice sfornare in materia di sentimenti. La paura, ad esempio: parola facile, per rinunciare a darsi delle spiegazioni o per togliersi d'impiccio se non si è all'altezza di darle. Io sapevo invece benissimo quanto poco essa avesse a che fare con la mia sfera affettiva. E non per questo mi vantavo di coraggio: avevo paura quasi sempre, paura delle malattie, paura degli esami e delle brutte figure, ma di tante altre cose che non si fanno, che non si capiscono o che ci sfuggono mi piaceva già allora pensare esistessero motivi più insondabili, tali da rivestirli di quella sacralità che si concede al mistero...Ci rientravano la sospensione, gli schizzi della follia, le occasioni mancate e quelle che non ci sono, e anche gli istinti irrazionali della nostra corporeità e gli slabbrati margini della fantasia.

E siccome ce ne erano fin troppi e non mi piaceva parlare in generale, era sempre più salutare andare a dormire e rimandare a domani.

Però era vero che ero incompleto, o almeno avevo questa sensazione. Poi, siamo tutti incompleti, ma buona parte della gente non se ne accorge - il che è un po' lo stesso che non esserlo - ed è anche molto felice. Io, purtroppo - che farci? - rientravo in pieno nella parte restante.

 

Camilla fu triste di avere un Natale senza neve. Lei era nata in montagna, era abituata al "Natale in bianco", e diceva di non riuscire a sentire l'atmosfera. Neppure io la sentivo, e da molti anni, ormai, ma non certo a causa della neve. Forse era solo segno che ero cresciuto, e non mi accontentavo più di eccitarmi per tante lucine accese per le strade, o per quell'alone di festa che la notte di vigilia, quando ero piccolo, aveva quasi un profumo, odore di nebbia e brina. Eppure, ogni tanto, mi stupivo a cercarlo per i viali di Firenze, quell'odore: a volte mi sembrava di trovarlo voltato l'angolo di una strada silenziosa, tornando dalla riunione, il giovedì, a sera tarda, ma non c'erano più le sensazioni corrispondenti, e quel profumo, un istante percepito, spariva in una folata di vento, mentre cercavo frettolosamente le chiavi, sotto il portone di casa

- Che freddo maledetto, stanotte! -

Io e Milly, però, festeggiammo lo stesso quelle giornate di vacanza, e anche l'inverno passò rapidissimo, il più rapido e il più strano che ricordi, frugando indietro, nella mia vita...

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


III

 

 

 

...Pensare [...]

cosa può essere un uomo in un paese

sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante

e dopo

dentro una polvere di archivi

nulla nessuno in nessun luogo mai.

 

(V. Sereni)

 

 

Tra la gente della redazione quello che preferivo era Rino Daniel, il poeta timido. Con Filippo, erano amici da sempre: infanzia insieme, scuole insieme...si erano separati solo all’università. Eppure, non riusciva ad immaginare due persone più diverse. Se Filippo alzava la voce, io mi soffermavo sul controcanto delicato del suo sorriso mite.

Avevo cercato fin dal principio di guadagnarmi la sua simpatia, quasi fosse stato la sola persona di cui potersi fidare in quell'ambiente straniero.

Ma entrare in confidenza con lui non mi fu facile.

In principio mi aveva messo spesso nella condizione di non sapere come comportarmi e mi aveva indirettamente costretto a farmi forte di una loquacità che non credevo di possedere, solo per sottrarmi - e sottrarlo - a quei silenzi prolungati che ci mettevano entrambi a disagio.

Poi, però, quasi all'improvviso, era diventato vivacissimo, e aveva cominciato a rivelare uno spirito salace, degno di un buon toscano quale era, ma sempre condito di innocenza, mai fuor di luogo e di misura, e privo degli intenti di malignità così ben radicati in gran parte dei sui concittadini.

Gli piaceva vantarsi del suo nome curioso, che, per un semplice scivolamento di accento, richiamava quello del famoso provenzale Arnaud, e, per giocare fino in fondo sull'affinità onomastica, si era ingegnato nel comporre una buffissima sestina lirica, in perfetta osservanza delle regole del genere, scegliendo come parole-rima i nomi di sei degli "illustri redattori". Scriveva in metrica con la facilità con cui si compila la lista della spesa: aveva studiato a lungo la letteratura italiana delle origini, il greco e il latino, e tuttavia si intendeva abbastanza anche di lettere moderne, benché prediligesse sempre ciò che aveva sapore d'antico o, comunque, di fiabesco e lontano. Era molto colto, ma, a differenza del suo compagno, sembrava vergognarsi di darlo a vedere, e, a volte, toccava anche a lui la fatidica domanda di Filippo che sollecitava una presa di posizione. Con me esprimeva i suoi pareri più disinvoltamente, ma sempre con quella titubanza, quell'aria da "può darsi che io sbagli", che mi faceva sentire meno ignorante.

Le sue parole erano reticenza ed entusiasmo, così sulla carta come nella vita. Un giorno mi disse, citando Calvino, che la pagina doveva sapere di vita, la voglia di vita che faceva correre le strade...quelle corse pazze, insensate, in cui si lanciava quando usciva dai locali della redazione, all'improvviso...tutto teso ad inseguire qualcosa di straordinario o a fuggirlo.

E scriveva cose bellissime.

Fra me e lui c'era un rapporto che tuttora non riuscirei a definire. Basti pensare che non seppi mai neppure se viveva da solo o in famiglia, se aveva fratelli, se era fidanzato. Non mi disse mai nulla, né, tutto sommato, io gli dissi di me tanto di più. Ma c'era una sintonia tra noi che andava molto al di là della comune confidenza, un'intesa straordinaria che mi permetteva di capire benissimo tutto ciò che in lui poteva sembrare strano, e sentire che mi apparteneva, anche se cercavo di nasconderlo.

Se bisognava rispondere ad una telefonata, entrare in contatto con sconosciuti, ci guardavamo negli occhi - e a volte non era necessario - e sapevamo che ciascuno stava pensando a come esprimersi, a quali parole pronunciare, a quali gesti compiere per risultare adeguato alla situazione: estenuante sforzo di adattamento.

Solo che in lui tutto ciò era un po' più evidente che in me.

Riusciva meno a controllarsi o era più sincero? Sono stato sempre incerto...A volte mi sembrava voglioso di essere diverso...che si sentisse soffocato da questo suo modo stonato di rapportarsi al mondo, che cercasse la sicurezza. Più spesso, invece, metteva nei suoi atti una spontaneità, un'energia, una gioia anche nelle stranezze, che sembrava impossibile pensare fosse solo un sistema per far buon viso a cattiva sorte.

Credo che, piuttosto che un amico, Rino fosse per me una sorta di alter ego, lo specchio che mi faceva capire come davvero ero e che non dovevo vergognarmi dell'essere così. Lo amai sempre e fortemente, sebbene preso, a volte, dal terrore di somigliargli troppo. Ero allo stesso tempo respinto e coinvolto da lui, e spesso temevo (avidamente proteso verso Filippo e il suo luminoso coraggio) di essergli talmente uguale da non potermi riservare ancora una chance di diventare del tutto diverso.

Ma il mio era un sentimento che non poteva essere spiegato, come niente altro si poteva spiegare di lui, dopotutto. Sarebbe come voler mettere in ordine il caos, e dal caos non nasce più niente, se lo si mette in ordine.

Anche il suo aspetto esteriore mi arriva alla memoria confuso: frugo e frugo nei ricordi e nei cassetti per impedire che la sua figura svanisca nel nulla come i fantasmi di certe sue fiabe, ma a soccorrermi non c'è neppure una fotografia. Naturale: non volle mai farsene scattare una, non so se per disaffezione alla propria immagine, o per una generale indifferenza a tutto ciò che è capace di fissare solo l'involucro esterno del mondo, quel mondo che tuttavia non si stancava di osservare fino nella sua fisicità più bassa, con uno sguardo appassionato e mai severo.

Eppure, memoria visiva a parte, continuo a ripetere a mente i suoi versi, ricordo alla perfezione tutte le cose che diceva, e, - un flash dal passato - quel suo paio di occhiali spessissimi, che un giorno, parlando, si era tolto per cercar di pulirli con un fazzoletto di carta, uno di quelli profumati che esalava odore di mentolo tutto intorno, mentre lo strofinava con energia sulle lenti appannate.

Era mattina, non ero andato in facoltà, e stavamo seduti al tavolo di una delle sale della sede. Rino mi aveva fatto leggere una poesia, l'aveva scritta quella stessa notte, mentre - aveva detto - le macchine ogni tanto sfrecciavano sotto la sua finestra e non lo lasciavano dormire, nervoso com'era.

- E' una poesia triste... - mormorò.

Eravamo soli, la finestra era aperta sul cortiletto interno, da fuori veniva un profumo di erba tagliata, ed era un po' piovuto, anche se c'era tanta luce. Tirava vento, e uno spiffero mi ghiacciava la schiena, perché ero vestito leggero, invitato dal principio di bella stagione. Ero malinconico.

- Perché la vita è triste - dichiarai, posando sul tavolo quel foglio quadrettato di blocco notes e lo sguardo sulla sua mano paffuta che strofinava e strofinava quel paio di lenti.

- No - mi rispose - la mia vita è triste. Come sia quella di altri, non so - e abbozzò la risatina di noncuranza di cui faceva sempre largo uso se si scivolava in discorsi che gli parevano troppo impegnativi o mettevano in gioco opinioni generali su qualsivoglia cosa.

Non si voleva prendere sul serio - questo lo ripeteva sempre - perché “non ci si doveva prendere sul serio", mai. Gli piaceva tanto quel "mai" in fondo frase, era ammonitivo, assoluto, lo usava tutte le volte che si sforzava di dire qualcosa di cui era profondamente certo. Io, invece, mi prendevo "sul serio" anche troppo: non conoscevo l'ironia, e se a volte fingevo di sminuire le mie convinzioni e di riderci su, dentro di me, in faccia a me stesso, ero quasi sempre serissimo.

- Mi spiego - riprese Rino - forse la vita di uno come Filippo non è triste. O almeno non posso stabilirlo io. La mia vita invece si, è triste, lo garantisco. -

Mi sorprese quel naturale parlare di sé: non esternava mai i suoi sentimenti, e, se proprio si voleva conoscerli, bisognava sforzarci di leggerli tra le righe, magari dei suoi scritti. Ma subito cambiò tono, si rimise gli occhiali, riprese il suo foglio, se lo mise in tasca, e senza lasciarmi un istante di tempo per interiorizzare quell'atmosfera di intimità, saltò in piedi quasi scavalcando il tavolino, piazzò il suo naso ad un centimetro dal mio e mi fece una boccaccia:

- Buuu! - esclamò - Si ride? -.

Io non reagii, sperando di recuperare la sottile empatia di un istante prima, e cercai di riagganciare il discorso.

- Forse - dissi - Filippo non ci pensa mai. Ha tanto da fare, vede tanta gente, e la tristezza non ha tempo neppure di bussare alla sua porta - ma anche questa era una espressione che veniva da una testa troppo infarcita di letteratura, un’idea sentita e risentita che proponevo invano come pensiero mio, e d'un tratto mi sentii completamente inadeguato alla situazione.

- E' naturale - rispose, rilassatissimo, lui - ne sono sicuro anch'io. Solo che io sono ROSPO. -

- Che ?!? - sbottai, colto di sorpresa da quella parola corposa e concreta che proprio non mi ero aspettato.

- Ho detto: Sono rospo. - ripeté. E poi sottovoce - ... mi piace stare solo - .

Ecco cosa voleva dire "Rospo"..., già, era ovvio...Ma perché, dietro quei tentativi di sembrare buffo, tanta malinconia?... Non gliel'ho mai chiesto. Lo sapevo, forse, ma non si poteva dire: non se ne parlava in osservanza ad un tacito patto che imponeva alla discrezione di stare al di sopra del desiderio di confidenza. E, nonostante questo, ciò che fu sempre meraviglioso in lui - ricordo indistruttibile, purissimo - fu il suo saper essere, di volta in volta, ora la frase azzeccata, ora la risata sguaiata, ora la parola giusta al momento giusto, che mi rimettevano in equilibrio quando mi sbilanciavo non importa su che cornicione - anche se oggi che lo cerco col pensiero, e vorrei riaverlo vicino, non riesco a fissarlo in nessuna delle facce che mi vengono incontro da quegli anni.

"I guai non finiscono mai", diceva sempre: era il suo motto, la sintesi in cinque parole della vita triste. Il mio era invece "nihil sub sole novi ", trovavo si adattasse perfettamente alla mia esistenza, e siccome era piaciuto molto anche a lui, l'aveva combinato col suo, dichiarando - Niente di nuovo, hai ragione: sempre e solo guai ! - e rideva come di una battuta della cosa che lo faceva soffrire.

 

La vita triste mi accompagnò a lungo, in quell'anno che cominciava nuovo, lontano da casa. In principio, appena ero arrivato a Firenze, avevo provato momenti di sconforto perché non riuscivo ancora ad orientarmi: era come ricostruire sul niente un costume di vita andato distrutto, crearmi un nuovo reticolo di abitudini e ritagliare un nuovo ambiente in cui potersi muovere con disinvoltura. Di fatto, non ero adattabile, la mia paura delle novità era sempre sufficiente a reprimere il mio desiderio di esperienze differenti, e forse solo in quell'occasione, prima d'allora, avevo saputo vincerla per andare incontro ad un domani non programmato.

Ma io non ero fatto per vivere da solo, non bastavo a me stesso, e, al di là di quel generalizzato senso di "sprotezione", c'era da aggiungere che sentivo la città troppo stretta per me, che venivo dal mare, e insieme troppo vasta in rapporto ad un paese piccolo come lo era il mio.

Ebbi comunque poco tempo per soffrire di nostalgia, perché i “guai” erano più forti e numerosi ed ebbero subito la meglio. Più che "la vita triste", lì per lì era "la vita difficile"....mentre fu d'inverno che conobbi la desolazione. Forse un po' della colpa fu di Filippo, di Camilla, di Rino, del mondo che avevo intorno e ogni mattina si imponeva come termine di paragone a me che, la sera, dovevo sempre riconoscere di non aver fatto un solo passo avanti per entrarvi e diventare grande. E quella era la prima cosa che sapevo di dover fare assolutamente: crescere. Impresa dura, impresa grossa; forse non c'è neppure troppo motivo di sentirsi in colpa quando, nonostante tutto, ci si accorge di non averla mai compiuta fino in fondo: ma più duro è vedere che gli altri sono già tutti al di là della linea di demarcazione, e che anche se (sempre se...) ti tendono una mano, potrai al massimo sfiorarne le dita, senza che questo basti per essere uno di loro.

All'amore come completamento della vita non avevo mai pensato, e nemmeno mai ne avevo sentito il bisogno: fu Camilla a farmi sentire diverso perché non l'avevo mai provato. Invidiavo visceralmente la sua gioia e con ugual forza il suo dolore. Mi sentivo inferiore a lei.

Eppure non trovavo l'occasione per uguagliarla e non capivo - sgomento sempre maggiore - per quale ragione, se per sfortuna o per natura, non riuscivo anche io a provare brividi e eccitazione come accadeva a lei quando, in autobus o sui banchi dell'università, sedevo accanto ad una ragazza che mi sembrava bella.

Ma la maggiore fonte sofferenza fu, in quei mesi, prima e sopra tutto lo scontro col mondo di Filippo: un rapporto difficile fin dall'inizio, ogni giorno più duro e più irrinunciabile. Anche io ero indispensabile a lui, e lo dimostrava in modo molto più palese di me. Dopo neanche un mese che ci conoscevamo cominciò a venirmi a suonare sotto casa tutti i giovedì prima di andare alla riunione, e ci incamminavamo assieme, così fui obbligato ad arrivare in redazione sempre in largo anticipo.

Mentre aspettavamo gli altri, facevamo lunghe chiacchierate, e litigavamo almeno una volta su due. A Filippo piaceva alzare la voce anche quando non era necessario, ed io, che ero sensibile anche ad una lieve alterazione dello sguardo, non riuscivo proprio ad abituarmici.

Spesso discutevamo per sciocchezze, ma c'erano dei tasti particolari che lui toccava con molta frequenza che mi ferivano in profondità. Uno dei tanti era la mia estraneità al mondo contemporaneo, gli piaceva criticare la mia mancanza di nette convinzioni politiche, e - questo lo sosteneva lui - il fatto che, ammesso ne avessi avute, mi sarebbe mancata la spina dorsale per difenderle. Di qui passava rapidamente a rinfacciarmi di vergognarmi delle mie idee, e quest'ultima accusa era purtroppo veritiera, ma non tanto perché non ci credessi abbastanza, quanto perché le ritenevo talmente piccole e infondate da non avere voglia di sputtanarmi in faccia al mondo per esprimerle.

Le poche alle quali tenevo davvero, poi, mi piaceva che volutamente restassero segrete: pensavo ci dovesse sempre essere, anche quando mi lasciavo coinvolgere e catturare, un luogo sicuro in cui nessuno ficcasse il naso e che rimanesse solo mio... un posto inaccessibile in cui non dipendevo da nessuno ma dove finivo col sentirmi sempre più solo.

Me ne accorgevo quando mi ci rifugiavo scappando da Filippo e dalla sua aura travolgente e stavo male.

Filippo non mi feriva con cattiveria, ma nemmeno - come mi spiegavano, ogni volta che si avvedevano della situazione, i suoi colleghi - per il mio bene, perché avrebbe voluto rendermi più deciso e sicuro di me, ma semplicemente perché era il suo modo di fare, perché solo così credeva di poter esistere, e perché - come diceva sempre lui - lotta di idee era soprattutto rabbia.

I primi tempi io stavo zitto e mi sfogavo con Camilla, poi cominciai a accusarlo di ottusità, testardaggine, incapacità di mettersi in discussione, tutti difetti che per lui costituivano probabilmente dei pregi!

Si comportava con me come con un bambino da istruire, mi trattava come una persona che vale poco...tuttavia, se c'era bisogno di qualcosa, o cercava una garanzia di fiducia, veniva sempre da me, e prediligeva la mia compagnia in modo particolare all'interno dello staff, anche per lo svolgimento di ordinarie faccende di routine. Me ne accorsi col tempo, dopo lunghi mesi di assidua frequentazione.

- Io - finì col confidarmi una volta - Ho bisogno di avere intorno persone come te. Riesci a calmare la mia irruenza e a farmi portare a termine un discorso serio senza degenerare. E' incredibile: con te non sono capace di arrabbiarmi - ...Eppure, sincero o no tale parere, le sue "arrabbiature" furono, almeno in principio, l'aspetto caratteristico della nostra difficile convivenza, ed io ero sempre più convinto che non lo avrei sopportato a lungo.

Spesso uscivo dalle riunioni col ferreo proposito di lasciare una volta per tutte quel mondo ostile e non tornarci mai più. Poi, quando passavo sotto la finestra di Filippo per andare alla fermata dell'autobus e capitava che lui si affacciasse a salutarmi, le mie drastiche risoluzioni avevano già perso di forza. - Ti passo a chiamare domani? - - Boh, non so, avrei un po' da studiare... - Ma la sera successiva, appena suonava il campanello, ero bell'e pronto, e scendevo giù con l'aria - Camilla dixit - che sembrava quella di un condannato a morte.

- Dido - mi chiedeva lei - Se ti fa tanta rabbia perché lo frequenti? - - Boh...Mah...perché devo farcela... - E lei rideva e diceva - Sei uguale a me...! -

Ma non era vero, e lo sapevamo entrambi benissimo. L'amore "è cieco": questo mio spirito autodistruttivo era, invece, anche troppo razionale.

La realtà era che su tanti aspetti del mio carattere Filippo coglieva nel segno, e io non avevo il coraggio di riconoscerlo. Ritirarmi sarebbe stato come doverlo ammettere.

Mai come in quel periodo il mio stato d'animo fu precario e oscillante: certe mattine mi alzavo pieno di entusiasmo, ma quasi sempre, la sera, ero triste. Pensavo a tutte le cose che avrei dovuto fare nel corso della giornata e non avevo fatto, ai colloqui coi professori che rimandavo sempre a domani per evitare quel contatto ravvicinato col prossimo che mi metteva in difficoltà, all'amore che oggi non era arrivato e non sarebbe arrivato il giorno dopo, e al mio "tempo sperperato" di ora in ora.

Molto dipendeva dall'università: talvolta una lezione che mi aveva particolarmente appassionato mi procurava stati di euforia che duravano anche per due o tre giorni. L'entusiasmo letterario mi regalava attimi di illusione di essere parte di quel "partito degli intellettuali sopra i partiti" di cui si parlava tanto nelle riviste di primo Novecento. Ma il sogno si esauriva presto, ed io tornavo a tormentarmi col pensiero che se non facevo in fretta qualcosa della mia vita, sarei rimasto un fallito per sempre.

Il periodo più drammatico fu febbraio: il tempo era pessimo, c'era umidità, aria pesante; ricordo ancora alcune giornate grevi in cui venivano posti limiti al traffico a causa dell'inquinamento e gli autobus filavano velocissimi su strade sgombre, ma lungo i marciapiedi stagnava un aria irrespirabile.

Spesso, più che psicologicamente, non stavo bene fisicamente: una strana emicrania mi martellava la tempia sinistra e non mi lasciava studiare con concentrazione. Ero assillato dall'idea di non riuscire ad essere pronto in tempo per l'esame: dovevo sostenere un colloquio preliminare di latino ad aprile, e quelle dannate nozioni di metrica non volevano ancora entrarmi in testa; non avevo mai letto un esametro in vita mia e avrei avuto bisogno di una mano, tuttavia non osavo chiedere aiuto a Rino per paura di violare la sua "rospaggine".

Il pensiero di non farcela mi inquietava: dovevo come dimostrare di essere all'altezza almeno del ruolo che mi ero scelto... la mia sola vera scelta, sentita, motivata. Ero sempre stato abituato ad essere uno tra i tanti, uno qualsiasi, ma non riuscivo ad accettare di esserlo anche nell'ambito della mia grande passione...."tuttavia" mi dicevo nei momenti di maggior sconforto "se pur dovessi mantenere la media del trenta e laurearmi col massimo dei voti, che cosa me ne verrebbe, quando non sarò mai intero come uomo?". Era questo chiodo fisso di una mia presunta, eterna incompletezza che mi faceva sentire schiacciato di fronte a Filippo, e mi toglieva capacità di sfoderare rabbia ed energia contro quel giovane straordinario che sembrava sapere tutto della vita.

 

Una sera di fine febbraio litigammo violentemente, e la questione era sempre la stessa: io ero quello fuori dalla realtà, l'incapace, l'illuso (se voleva esser complimentoso, “l'idealista”) e lui invece quello che tutto sapeva tutto faceva e che aveva sempre le idee chiare come il sole. C'era per forza bisogno di tutti quei requisiti per essere uomo...

- E allora - ricordo che gli gridai, quasi in fuga verso la porta - smetti di frequentarmi, così elimini il problema senza bisogno di urlare tanto! - C'era anche Rino, e mi rivolse un'incoraggiante occhiata di solidarietà, quando gli scivolai vicino guadagnando finalmente il corridoio.

Ero davvero a pezzi, non avevo neanche il desiderio di difendermi, era tardi e volevo solo dormire. Me ne andai senza dare a Filippo la possibilità di finire di esporre i suoi "eloquenti pensieri", e, come sempre, mi addormentai rimuginando parole udite e pensando a cosa avrei dovuto dire e non ero stato nemmeno capace di lasciare intuire, e a come avrei potuto rifarmi, davanti a lui, di quella rinuncia alla lotta che era come una tacita ammissione della mia permalosità. In vero, permaloso non mi ero mai ritenuto, ma mi sentivo scoperto, sempre sotto accusa, sotto inchiesta, e forse, alla fine, ero diventato davvero incapace di tollerare qualsiasi rimprovero da parte degli altri.

Me lo faceva capire anche il cuore, che spesso, la notte, cominciava a battere più forte, e mi faceva balzare in piedi col respiro strozzato. Allora dovevo inspirare profondamente e cercare di sgombrare la testa dalle preoccupazioni: preoccupazioni prima di tutto per la mia salute, per quella maledetta tachicardia di cui non conoscevo le ragioni, e che non mi dava tregua.

La paura di stare male era un'altra delle mie fobie. Forse sarebbe stato diverso, se fossi stato a casa...

 

La giornata successiva fu la peggiore. Mi svegliai stanchissimo, con forti dolori alle ossa: pensai che fosse colpa dell'umidità e mi dissi che sarebbe piovuto. Il cielo, infatti, era plumbeo, e la mia stanza sembrava piccola e oppressiva, in quella poca luce.

Provai un senso di claustrofobia simile a quello della notte, e spalancai la finestra, ma da fuori filtrò un gelo così intenso che dovetti chiuderla in fretta e furia e stringermi intorno alle spalle la coperta di lana per fermare i brividi di freddo, ma inutilmente.

Dovevo passare l'intera giornata all'università, e quel giorno non avrei proprio voluto pranzare da solo, soprattutto se la pioggia mi avesse impedito di andare a sedere all'aperto. Trovavo che i corridoi dell'università fossero atrocemente tristi, quando non ci batteva il sole che, filtrando dai vetri, non di rado diventava troppo caldo anche d'inverno, ma che infondeva quella rilassatezza, quel senso di quiete meridiana che mi faceva vedere tutta la realtà così distante...

Quel giorno no: la realtà sarebbe stata lì senza schiodarsi, col suo viso corrucciato che ti rimprovera il tempo perso, e su cui si toccano con mano paure, stizza, noia, che, guardate da una certa angolazione sembrerebbero tanto vane, che basterebbe voltare la schiena per cominciare ex novo. Però la vita, non è vero che sorride se la guardi sorridendo: ti sorride un mattino, quando salti su un autobus al volo, leggero, e fuori c'è un bel sole scacciapensieri...ma poi basta un istante perché i pensieri tornino, e non dipende da noi che ci piombino addosso o si allontanino. Si può provare a far finta che non ci siano, e forse è l'unico sistema, anche se è una strategia vecchia e stantia, e ora sono più che mai convinto che funzioni solo quando ci sono cose più grandi per cui valga la pena ignorare tutto il resto.

...

Stetti, dunque, l'intero pomeriggio solo, e non penso, o non ricordo, di aver fatto niente di costruttivo o di interessante.

Rimuginavo ancora sulle parole di Filippo, ma alla rabbia si stava lentamente sostituendo un senso di spossatezza, come nel sonno, nel cui sopraggiungere la realtà si attenua senza sparire, in un annebbiamento inquietante.

Ed avevo sonno, infatti.

Mi sentivo tutto intorpidito, e contavo i minuti che mi separavano dal ritorno a casa, dalla tavola apparecchiata, e dalla compagnia di Camilla, se l'avessi trovata ad aspettarmi.

....

Verso le cinque la lezione finì.

Rientrando mi imbattei in una manifestazione in piazza S.Marco e mi trovai a camminare contro corrente cercando di aprirmi la strada tra la folla. Piovigginava appena, l'umidità penetrava da tutte le parti ed io non stavo bene.

I ragazzi gridavano in coro slogan che non capivo, ogni tanto prendevano a saltare tutti insieme, sollevando cartelli e striscioni. Una ragazza con la faccia stranamente dipinta quasi mi travolse.

Chissà per cosa protestavano...! E dove prendevano tutta quella energia, con un tempo tanto balordo? Provai invidia per loro, ma anche fretta di fuggire, e di nuovo quel terribile senso di soffocamento. L'odore della pioggia si mescolava ad un puzzo di macchine e smog...non capii da che parte venisse...stava facendo buio ed avevo la vista confusa.

Finalmente fui fuori dal corteo e respirai. Ora stava piovendo: non me ne ero accorto, veniva giù a dirotto. Mi appoggiai al palo della fermata dell'autobus con tutto il peso del corpo.

Mi girava la testa.

 

- Milly, sto male! -

Ero arrivato a casa per miracolo: avevo dovuto scendere due fermate prima perché in quella costipazione la mia pressione era scesa sotto zero. Mi misi subito a letto, senza neppure cenare, tremando di freddo.

Camilla mi portò il termometro: desiderai intensamente avere la febbre, una febbre altissima in cui si sarebbe sfogato tutto il malessere degli ultimi mesi, e in cui avrei dimenticato i miei pensieri. Giustificazione degli acciacchi fisici e mentali...

E infatti mi ero preso un’influenza fenomenale: passai l'intera settimana con la temperatura sopra i trentotto.

Mi imbottii letteralmente di medicine; per diversi giorni non feci che tremare e sudare, mentre la febbre scendeva e saliva. I medicinali mi toglievano un po' di lucidità, ero assonnato, e il tempo passava senza che quasi me ne accorgessi. Quando non dormivo, fissavo il lampadario e la luce troppo intensa disseminava davanti ai miei occhi pallini agitati multicolori che, quando strizzavo le palpebre per il fastidio, non volevano più andarsene, continuando il loro lavorio vivace tra la vista e me...Scintille variopinte accese nell'oscurità diffusa...: fosfeni (avevo sentito dire che si chiamavano così...peccato, strano nome tecnico per un fenomeno tanto fantasioso!) che turbinavano silenziosi, ed erano il miei soli compagni nella innaturale dimensione in cui trascinavo quelle giornate stanche e stranianti...in cui dimenticavo anche il dolore, a volte...

Avevo bisogno di questo - mi dicevo - avevo bisogno del bruciore degli occhi, della febbre sempre più alta, del martellare alle tempie, del caldo e del freddo, delle guance infiammate che scoppiano per un male che non vuole uscire...

Ma il male fisico cancella, purifica, ed io dovevo toccare il fondo: dovevo toccare il fondo per risalire...

Ecco che veniva sera e una luce fioca saliva dalla strada...Rumori di macchine arrivavano fino alla finestra...

...suoni di clacson e riflessi di fanali...e le facciate tutte accese del palazzo di fronte...

...la casa di Filippo...

Avevo tanto, tanto sonno...

 

Dovevo star sognando quando mi svegliò il suono del campanello e udii voci provenire dal corridoio. Mi accorsi di aver sudato molto, non avevo più i brividi, e la febbre doveva essersi abbassata.

Aguzzai le orecchie per distinguere meglio le voci che si stavano avvicinando alla mia stanza...stentavo a crederci, ma una mi sembrava proprio quella di Filippo: proseguimento dell'inquieto sogno (o dell'incubo)?

- Aspetta - risuonarono forti e chiare le parole di Camilla - Vedo se sta dormendo -

- Sono sveglio, sono sveglio - la prevenni, mentre la sua mano faceva cigolare la maniglia della porta - Entra pure -

Filippo fece capolino dietro l'uscio, saggiando prima con lo sguardo l'ambiente in cui stava mettendo piede; poi, adocchiatomi, mi fece un largo sorriso e si accomodò su una sedia accanto a me, disinvolto.

- Allora? - domandò, con dolcezza - Che ci combini? -

- Io? Nulla! - mi affrettai a rispondere, avvertendo come un'invasione forzata della mia intimità anche quella premura gentile - un po' di febbre -

- Una bella "marmotta", altro che! - puntualizzò scherzosa Camilla, che era rimasta sulla soglia - Aveva un febbrone tale che chiacchierava da solo. Te lo immagini? -

E, rivolta a me con tono quasi materno

- Scherzi a parte, come va ora? -

Assicurai di stare molto meglio, ma lei volle a tutti i costi andare a prepararmi una tazza di latte e biscotti, così mi riempivo lo stomaco e potevo prendere le medicine, e mi lasciò solo con Filippo in una situazione di scomodissimo imbarazzo.

Mi sollevai quasi a sedere sul letto, appoggiando le spalle sulla parete, e, per la prima volta in quei giorni di indisposizione, guardai fuori. Era sera, verso le sei: pioveva ancora a dirotto. Forse quella pioggia era la stessa che mi aveva inzuppato sorprendendomi in mezzo alla strada, forse non aveva mai smesso - non avrebbe mai smesso - di piovere.

Era molto buio e doveva esser freddo, là, sul viale...Lungo i marciapiedi si accendevano le luci dei lampioni, e la gente rientrava a casa. Se mi fossi affacciato, probabilmente avrei visto una fuga di impermeabili e ombrelli sotto un alone acquoso...Ma i vetri erano appannati per il calore della mia stanza; avevano catturato qualche grammo di calore tutto per me, per stemperare quella freddezza che mi bloccava le parole.

- Non sapevo che fossi malato - disse Filippo - Altrimenti sarei venuto prima. Mi ha informato Rino stamani. Ti ha telefonato perché non ti aveva più visto sull'autobus, ed era in pensiero, ma tu dormivi e Camilla gli ha detto che avevi l'influenza. A proposito, mi ha chiesto di domandarti se hai bisogno che vada al tuo posto all'università a seguire i corsi per prenderti gli appunti... - - Davvero? Molto gentile...Ma non importa proprio, figurati... -

All'improvviso mi parve strano essere lì, a letto, con Filippo seduto vicino, neanche fosse stato uno di quei miei compagni delle elementari che mi prendevano sempre in giro, ma che erano venuti in frotta a trovarmi in ospedale quando mi avevano operato di appendicite: mi sembrò di non conoscerlo, mi sembrò un'altra persona, troppo vicina per il genere di rapporto che ero abituato ad avere con lui.

- Alla riunione non verrai, perciò. Giusto? - riprese

- No - risposi - Ma in realtà non so comunque se sarei venuto, a prescindere dalla febbre... -

Mi lasciai sfuggire quelle parole con la complicità di quel clima innaturale e dell'impressione che mi dava la malattia di essere in una posizione di privilegio e poter dire qualunque cosa mi saltasse in testa e poi magari negare tutto senza litigare.

Filippo rimase un attimo interdetto, poi, un po' smarrito, mi domandò il perché.

- Non so... - sussurrai io - mi sento...come dire...fuori posto, ecco: fuori posto in mezzo a voi -

- Scusa se insisto - fece allora lui, secco - ma questo discorso non fila per niente -

Il suo tono era di nuovo inquisitorio: non c'era niente da fare, sapeva far vibrare ben di rado la corda della delicatezza

- Che significa - incalzò - "sentirsi fuori posto"? -

- Significa - ribattei, cogliendo l'occasione - rimanere spiazzato quando usi questi toni forti con me, perché...perché stonano troppo coi miei, e io non li sostengo, Filippo! -

- "Toni forti"? - fece eco lui, perplesso - Questo è la prima volta che qualcuno me lo dice... -

- C'è sempre una prima volta - sdrammatizzai - Anche se non credo che nessuno te l'abbia mai fatto notare -.

- Che vuol dire "toni forti"? - ripeté lui senza badare al mio sotterraneo tentativo di metter la questione a tacere - Ora me lo devi spiegare, Mattia! -

Ecco, ci era riuscito: mi aveva messo in difficoltà, perché sapevo benissimo che la visione che avevo io di lui dipendeva esclusivamente dalla mia attitudine a selezionare l'umanità in categorie di stampo tutto letterario, che Filippo non poteva certo condividere, ma di cui sentivo di aver bisogno, se non altro per spiegarmi come mai io, lui e la stessa Camilla ci muovessimo su frequenze tanto diverse. Ora avrei dovuto raccontargli che lui per me era la solarità e l'energia, la corda che vibrava con più forza ma che col suo suono dominante annullava noi altri, i toni deboli...invece...

- Nulla - mormorai - Fai finta di niente, Filippo. E' solo che in questo periodo tutto va a rovescio, e perciò mi sento sempre sotto inchiesta quando qualcuno alza la voce con me -

Non ero riuscito a chiarirgli per niente i miei sentimenti, ma almeno ero stato sincero.

- Non mi dire - rifletté lui, abbozzando un sorriso - che sei ancora offeso per la discussione dell'ultima volta! - Aveva colto nel segno e mi affrettai a scuotere la testa, negando senza pudore, tanto che quel movimento brusco mi appannò un istante la vista.

- E invece si - insistette - Ti si legge in faccia! Come ho fatto a non pensarci?...Certo che sei proprio uno sciocco, Mattia. Quando io alzo il tono, uso il "tono forte" per dirla come te, non lo faccio certo per incolparti di qualcosa. Non è colpa tua se non la pensi come me, se non ti arrabbi come me verso il mondo che non funziona, che non è mai come lo vorrei io... -.

Questo spontaneo tentativo di discolpa mi intenerì

- Non è mai neppure come lo vorrei io, Filippo... - dissi - Solo che tante volte temo che non sia il mondo, ma sia io a non funzionare! E credo sia questa consapevolezza a farmi sentire sempre inquisito...deve essere questa la differenza che passa tra me e te. -

Rimanemmo un poco in silenzio. Fuori la pioggia cadeva più forte: ne ascoltai il rumore contro il vetro, che si mescolava a quello del latte che bolliva sul fornello nella stanza accanto. Era un'atmosfera splendida, avrei voluto che fosse sempre così, tra Filippo e me.

- Mattia...? - mi domandò ad un tratto (forse voleva giocare a fare anche lo psicanalista, e le condizioni c'erano: io su un lettino, nel pieno delle mie crisi esistenziali, lui lì, con tutte le sue idee chiare come il giorno, seduto vicino alla mia scrivania) - Cos' è che pensi non vada, in te? -

Arricciai il naso, facendo il disinvolto

- Tutto - dichiarai - la mia vita è un disastro -

Poi tornai serio, e cercai di far vibrare la corda dell'intensità, il mio "tono debole" che però pretendeva sempre di saper scendere nel profondo

- Vedi Filippo... - spiegai - tu riversi nelle tue battaglie ideologiche fino all'ultimo grammo della tua energia. Lo vorrei fare anche io, ma penso che non valga la pena. Ci deve pur essere (mi dico) ci deve pur essere qualcos'altro, qualcosa che conti di più, che mi spieghi tutto, che io senta davvero che vale, che ne ho bisogno, che non posso farne a meno; qualcosa verso cui l'istinto mi spinga senza sforzo, che all'improvviso mi spalanchi davanti una luce abbagliante e forte, dallo splendore incontenibile, che sia speciale, speciale per me... -

Mi bloccai, conscio d'un tratto di essermi lasciato trasportare

- ...Per carità, non badarmi: leggo troppi libri. Troppe poesie, e a volte troppi slanci mistici...E pensare che nemmeno ci credo, in Dio!...Mi piacerebbe crederci, però: invidio molto chi ci crede. Renderebbe tutto più facile...Ma forse è una cosa, la fede, troppo grande per poterla cercare in questo "tono basso", in una vita così inutile... -

- Ma non esistono vite inutili! - mi interruppe Filippo - ...A parte - ironizzò - quelle di qualcuno dei nostri giornalisti, dei nostri politici o uomini di spettacolo...! -

Poi rise sommessamente, e si stropicciò col palmo della mano aperta i capelli che gli ingombravano la faccia, sfregandoseli sulla fronte: sembrava quasi un gesto di imbarazzo.

- Stavo scherzando - riprese - Il demone fustigatore non riesce a tacere neppure quando sono in intimità con gli amici. Ti volevo solo dire che hai ragione quando dici che non posso capirti...nemmeno Rino, a volte, lo capisco. Ma non devi sentirti "sotto accusa" solo perché io penso che invece valga sempre la pena lottare per delle idee, scontrarsi col mondo a tutti i costi, anche quando si sa che nulla andrà a finire come vorresti tu. Questo non vuol dire che io sia una persona felice e tu no, non significa nemmeno che la mia vita, a differenza della tua, non possa essere tutta uno sbaglio...Ma in ogni caso, giorno per giorno, che si parli di politica, di solidarietà, di arte o di che altro, io credo che il mondo offra delle occasioni. - Si voltò verso la finestra e sfocò lo sguardo all'infinito; poi, parlò come a sé stesso - Non sprecare le tue occasioni... -

 

Camilla arrivò con un vassoio e due tazze fumanti. Riuscimmo a convincere Filippo a farsi offrire latte con miele e biscotti. - Previene il raffreddore - disse lei - sempre che Dido non te l'abbia già attaccato - - Dido? - rise lui, che per la prima volta veniva a conoscenza del mio buffo soprannome (e che da allora non smise mai più di prendermi in giro) - E' per caso - s' informò, col suo spirito ironico - un modo per non sentirti la sola ad esser bollata da un nome ridicolo?...De Gaddi-Ciuffino!!! -

Scoppiai a ridere anche se mi facevano male le tonsille, e poco mancò che non rovesciassi il latte sulle coperte.

Poi Filippo ci salutò e imboccò la via delle scale

- Allora, cosa dico a Rino? -

- Niente - risposi - lo chiamo io -

Rimasi solo nella mia stanza, colmo delle emozioni di quel pomeriggio, e, prima di ripiombare nel sonno, pensai a lungo anche a questo: Rino mi aveva telefonato.

Strano, avrebbe dovuto sembrarmi una cosa del tutto normale, invece mi invase un profondo sentimento di riconoscenza, forse per tutto ciò che quel suo gesto aveva permesso, e che significava, adesso, per me.

Pensai che di certo, se un giorno fosse passato per caso davanti a casa mia, senza avere assolutamente nulla da fare, non avrebbe neppure osato suonare per sapere se c'ero, e, anzi, sarebbe andato dritto, passo veloce e sguardo basso, per non rischiare di incontrarmi per strada e sentirsi dire “Ehi! Che ci fai da queste parti?”...

Eppure, per pochi giorni che non mi aveva visto in autobus, si era affrettato a chiamarmi, col fare che gli era solito di chi si sente un po' protetto e un po' protettore, un po' distaccato e un po' solidale, verso colui che potrebbe anche essere il “vero amico“. Se io fossi poi un vero amico, per lui, non lo so...Tuttora non so neppure se io sia mai stato degno di questo: d'essere importante - intendo - per quella creatura evanescente e magica, che stenta ancora a fissarsi in un corpo fisico e in un volto, e che forse era un figlio dell'aria, un folletto venuto da un altro mondo, verso il quale aveva smarrito la strada del ritorno, ed era rimasto, per nostra buona sorte, qui tra noi.

Mi addormentai pensando un po' a lui e un po' a Filippo...ero di nuovo stanco, spossato, e il tempaccio mi metteva un gran sonno.

Ma la febbre non c'era più: era passata la malattia portandosi con sé anche un po' di brutti pensieri.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


IV

 

Di che cosa soffri?

Dell’irreale intatto dentro il reale devastato

 

(R. Char)

 

 

"Mi sento bene anch'io quando il sole mi scalda le mani, sono anch'io luminoso e solare come Firenze" pensavo una mattina di fine aprile, correndo per piazza Santissima Annunziata, appena uscito dall'università. Era un lunedì, ed avevo appena sostenuto il pre-colloquio di letteratura latina: il mio primo esame, il mio esame numero uno!...Non sapevo se mi stessero cambiando l'abitudine e l'esperienza, o se c'entrasse il fatto che con Filippo non litigavo quasi più, o solo se fosse la bella stagione a portare giovamento alla mia salute, ma d'improvviso non avevo più tanta paura, sentivo forte il caldo sulla faccia, non prendevo più la valeriana per dormire, e la tachicardia l'avevo riavvertita solo quel mattino, e non, come avevo immaginato, sedendomi davanti alla scrivania del professore, ma quando lui aveva scritto un trenta a chiare lettere sul suo verbale personale.

"Forse ce la posso fare, forse ce la posso fare. Anche io."

Me lo ripetevo quasi a fior di labbra, senza vergognarmi che la gente potesse sentire...e poi non c'era tanta gente...era vuota, la piazza, vuota e luminosissima.

Era il culmine di un periodo sereno, la risalita lenta e continua degli ultimi mesi, e mi sentivo parte del mondo, in quel mattino di primavera.

 

Tutto era cominciato poco dopo la malattia.

Ricordo ancora i gesti caotici delle mani di Filippo. Gesticolava spesso quando doveva esporre un progetto che lo entusiasmava.

- Creiamo il "Cambio Rotta letterario"! - aveva esclamato stringendomi insieme tutte e due le mani - Non è un'idea fantastica, eh Mattia? -

- Se mi spieghi di che si tratta - risposi, freddino - magari ti rispondo -

- Uff! Quanto sei scettico! - mi rimproverò - Peccato, perché sarò costretto a coinvolgerti con la forza...Il progetto si basa praticamente su Rino e te! -

Tirava un po' di vento, eravamo per strada.

- Anzi - disse - dovresti proprio venire a casa mia, oggi pomeriggio: chiamerò anche lui e così ne parliamo -

- Veramente, avrei lezione... -

E invece, come al solito, alle quattro e trenta ero regolarmente lì, sotto la sua porta, e quasi non osavo suonare, anche se ero, almeno quella volta, molto curioso.

Non avevo ancora avuto l'opportunità di vedere la casa di Filippo dall'interno, e mi era sempre piaciuto poter pensare le persone inserite nel loro ambiente, ma fino ad allora mi ero ben guardato dall'introdurmi o dal lasciarmi introdurre in quella dimensione estranea che di solito sbirciavo solo la sera, dalla finestra.

Invece, da quando ero guarito, all'improvviso era successo qualcosa: avevo voglia di correre, di accelerare i tempi, quasi che volessi recuperare i giorni perduti, o farmi perdonare da qualcuno i momenti di crisi, le esitazioni dell'inverno. Fu per questo che accettai subito quella grossa responsabilità: grossa lo stesso, anche se la dividevo con Rino.

L'idea di Filippo consisteva nel pubblicare un fascicoletto di poche pagine da distribuire assieme alla rivista, e la cui direzione sarebbe spettata a Rino e me. Rino vi avrebbe pubblicato i suoi racconti, io avrei recensito nuovi libri, scritto articoli sui classici della letteratura e via dicendo.

Filippo ci lasciava una grande libertà di iniziativa, salvo riservarsi una finale "revisione" sul nostro operato, per controllare che non ci lasciassimo andare a troppe "romanticherie da poeti".

- Purché non mi venga chiesto di fare letteratura impegnata! - mise le mani avanti Rino, che, nonostante lavorasse su riviste da anni, si era mostrato molto più esitante di me.

- Non ti credo capace di tanto - rispose Filippo, a tono.

Fu un pomeriggio piacevole: rimanemmo a chiacchierare fino a tardi, ma la casa non ebbi quasi modo di guardarla, dato che non ci muovemmo mai da quel salottino, se non per il breve tratto d'ingresso che da esso portava all'uscita. Probabilmente Filippo non era il tipo da portare gli ospiti in giro panoramico per le stanze, o forse non immaginava - non ricordava - di non avermi mai invitato lì. Il divano su cui ero seduto, però, era diverso dalle poltroncine dell'ufficio di redazione, e sapeva di triste. Sui braccioli la pelle era tutta consumata, ci strofinai due o tre volte la mano e me la trovai piena di briciole appiccicose. Pensai che Filippo magari ci aveva passato pomeriggi di studio, come facevo io, al liceo, su quello del salotto, quando avevo preso la fissazione di avere problemi di cervicale, e studiavo sdraiato, coi piedi sollevati appoggiati sul bracciolo, e il libro sospeso a mezz'aria finché non mi dolevano le braccia. Anche lì, quel giorno come allora, stavo scomodo: non trovavo mai la posizione, ricordai i rumori del corridoio di casa, la mamma che ciabattava per le stanze, io che mi giravo continuamente, appoggiando il capo ora da una parte ora dall'altra, le braccia sospese sempre più stanche, le occhiate continue all'orologio, il grande orologio da muro che pendeva dritto davanti a me, incoraggiante. Ne avevo anche uno al polso, ma l'altro lo amavo molto di più: aveva i numeroni fosforescenti, grossi numeri brillanti e lancette enormi che si inseguivano sul quadrante: sembrava che il tempo passasse prima, là dentro.

Trovai dell'aria di casa, delle atmosfere complici, lì. Qualcosa avvicinava quel posto a me: forse il divano, la televisione vecchio modello, il pianoforte vicino alla parete.

- Sai suonare? - provai a chiedere a Filippo.

- No - mi rispose - La casa l'hanno arredata i miei. Rino suona, ma si rifiuta di farmi sentire.-

- Non è vero - si ribellò lui, arrossendo e battendo i piedi come un bambino - Io non suono. Strimpello! -

Anche io sapevo suonare, ma Filippo lo scoprì più tardi, per caso, e da allora non sfuggii più ad un'esibizione tutte le volte - e furono, dopo quel pomeriggio, molto frequenti - che misi piede in casa sua. Io mi facevo sempre un po' pregare, ma in realtà ero contento che mi si chiedesse, quasi si trattasse d'un favore, di non rinunciare ad un'abitudine cara di cui pensavo che, una volta trasferito a Firenze, avrei dovuto per forza fare a meno.

A Filippo piaceva moltissimo l'adagio in sol minore di Albinoni, e me lo faceva suonare continuamente. Mi stupiva che potesse amare così quel motivo tanto triste - più triste del suo divano sdrucito e delle poesie di Rino - ma lui diceva sempre che ogni tanto le note davano un guizzo, come un rigurgito vitale, con un senso di ribellione dell'animo che infondeva piacere.

- "Piacer figlio d'affanno?" - lo stuzzicavo.

- No - rispondeva - e non cercare di spiegare anche la musica con la letteratura, se non sei capace -

Ma io non volevo razionalizzare: volevo solo capire dove stava di casa quel piacere che non sentivo, e come potesse abitare - e convivervi - in mezzo a tutta quella disperazione...

- Mah - bisbigliavo, frastornato, scrollando le spalle - se lo dici tu, sarà vero... -

 

Cominciammo a lavorare con un entusiasmo che non avrei mai sospettato di scoprire né in Rino né in me. Ci vedevamo spesso anche da soli, trascurando i nostri rispettivi impegni per pomeriggi interi.

Quando avvertimmo le prime avvisaglie della primavera, e si usciva coi golfini di cotone, prendemmo l'abitudine di salire verso Fiesole facendo lunghe chiacchierate. Ricordo un giorno che mi portò in un "luogo ameno" - come diceva lui - quasi sulla cima di monte Ceceri, e che per arrivarci dovemmo scarpinare per mezz'ora su una salita ripidissima. Quando giungemmo in cima ero esausto, e mi sembrò che quella vista, per quanto piacevole, non valesse una tale fatica.

Rino sedette sull'erba, estasiato, rosso sulle guance (diventavano sempre rosse, le sue guance, quando faceva qualche sforzo).

- Beh, e allora? - domandai, sdraiandomi, braccia e gambe allargate, in mezzo al prato umidiccio

- Nulla - rispose lui - Non ti sembra che qui si è più vicini a Dio? -

- mm... - sussurrai - non saprei... -

Una nuvola gonfia oscurò il sole: ero sudato, e sentii freddo. C'era uno splendido silenzio.

- ...E tu pensi... - ripresi - che Dio ci veda meglio qui che laggiù? -

Avevo voglia di essere ingenuo: era lui a farmi sentire così. Mi sembrava di essere un bambino, e Rino un bambino come me, ma più furbo.

- No - rispose - Non penso niente, io...Solo che credo di avere una religiosità profonda, e l'ammirazione è religiosità, no?... -

- Io... - chiusi gli occhi, e mi rilassai - Io non ne sono sicuro. Penso che la fede non si possa andare a cercare. Né in cima ad una montagna né in chiesa. Se la senti vuol dire che ci credi...Un po' come...l'amore... -

- E' vero - ammise - i sentimenti si sentono -

Io mi ero alzato a sedere col busto eretto, come lui, e Rino mi fece cenno di dargli la mano. Si divertiva a mettere alla prova il mio pessimo rapporto con la fisicità

- E così cosa senti? - chiese

- Che hai la mano calda - scherzai, con tono scontato

- Bravo - confermò lui, che, a differenza di Filippo, non insisteva mai - e la tua è gelida. Vestiti più pesante! -

- Non ne avrei bisogno se non conoscessi certa gente che per farsi venire l'ispirazione deve portarmi con sé "in alta montagna" -

Rino rise: per quel giorno parlammo poco o niente del "Cambio Rotta letterario".

 

La prima uscita riscosse molto successo, arrivarono diverse lettere in redazione, e mi accorsi che gli altri membri del gruppo cominciavano a nutrire per me se non stima, senz'altro simpatia. Rino ed io, poi, lavoravamo in un'intesa straordinaria. I momenti di tristezza non erano scomparsi del tutto, ma spesso ne parlavo come di un fatto normale, una piega del mio carattere che non si poteva raddrizzare, ma poteva, di tanto in tanto, essere ignorata; e così finii col conferire a quella malinconia un alone di leggerezza che non mi sembrava stonasse con slanci di spensierata allegria.

Quei giorni di vitalità ebbero i loro luoghi e i loro profumi, ed anche una musica, il canone in re maggiore di Pachelbel, che fischiettavo per la strada la mattina, sulla fermata del 17, o ascoltavo nelle cuffie, mentre attraversavo piazza SS. Annunziata: s'adattavano, musica e piazza, si fondevano in un'atmosfera che sembrava quella di un film con la propria colonna sonora. Mi sentivo al centro di una rinascita come al centro di quella piazza ariosa: lì si respirava aria pura, aria non viziata che circolava da tutte le parti, e mi sembrava di poter vedere tanto spazio intorno, anche al di là di quelle logge maestose, dietro le gradinate su cui stava sempre seduta tanta, tanta gente.

Proprio così, tremante di tensione e frenesia, con le gambe ancora un po' impacciate, ma vogliose di sgranchirsi correndo, mi trovavo lì quella mattina, ad attraversare la piazza in fretta e furia, quasi spinto da quella musica complice nelle orecchie, sentendomi dinamico e scattante, in mezzo a tanta luce.

Questo ricordo di quei giorni in modo epidermico: luce e vento, vento e luce sulla faccia e tra i capelli, un venticello di primavera che certamente non dava fastidio, perché io mi toglievo sempre la giacca, e la lanciavo, ridendo, per aria.

 

- Complimenti Mattia! - m'accolse Filippo sulla porta di casa quella stessa sera - Spero che adesso ti prenderai un po' di riposo! -.

Mi aveva invitato per "propormi un affare" - o almeno così diceva il bigliettino che aveva attaccato sulla mia cassetta delle lettere quel pomeriggio - "che faceva proprio per me": eppure aveva tutta l'aria di chi sta per lanciare un'idea che gli sembra molto bella, ma che è quasi sicuro di sentirsi ridere in faccia.

- Di' un po' - esordì - non avresti voglia di fare un bel viaggetto? -

Non lo presi sul serio e sbadigliai

- Tutto ciò che vorrei ora è una sola cosa - risposi - dormire per una settimana di fila -

- Beh - riprese lui - vorrà dire che dormirai a Torino, tanto con D'orsi si lavora poco! -.

Subito lo guardai di sotto in su con diffidenza, e cercai di capire se il nome che aveva appena pronunciato poteva appartenere a qualcuna delle nostre conoscenze comuni, ma non mi sembrò.

- Chi è D'orsi? - .

- Come...non te ne ho mai parlato? -

- Mai -.

Alberto D'orsi era un affermato giornalista torinese, amico di Filippo da almeno quattro anni: lui stesso aveva cominciato a fare pratica proprio scrivendo sulla sua rivista, un organo - mi spiegò - molto più vasto e articolato del nostro "Cambio Rotta".

- Io - disse - vado spesso a Torino per collaborare ad alcuni numeri, e anche lui è capitato diverse volte qui a Firenze. Si è sempre interessato molto del mio lavoro, e quando ha ricevuto il numero del "Cambio Rotta letterario" si è mostrato molto desideroso di parlarne di persona. Non possiamo rifiutare: è grazie a queste sue preziose attenzioni che la nostra rivista ha abbonati anche là -

- E allora vai - lo esortai, cercando di liberarmi di quella responsabilità sgradita - Vorrà vedere te -

- Veramente - insistette - Alberto aveva chiesto esplicitamente del responsabile. Ed io non mi allontano da Firenze nei giorni dell'uscita del nuovo numero. Lo sai. -

- Beh, manda Rino -

- Rino? E tu pensi che si assenterebbe dal "suo nido" tanti giorni? -

Non era molto carino nel giudicare il suo amico, e glielo feci notare: ritenevo infatti, in tutta sincerità, che Rino valesse molto più di me. Mi venne in mente più tardi che forse Filippo l'aveva chiesto prima a lui, e non me lo aveva detto solo per farmi sentire importante.

Tuttavia faceva lo stesso: comunque stessero le cose io, senza il mio "fido compare" sarei stato un vero disastro.

- No, Filippo - rifiutai - Non me la sento proprio. Non conosco la città, non ho senso dell'orientamento, mi perderei già dentro la stazione. E oltretutto sono davvero molto stanco... -

In realtà mi vergognavo a morte, mi vergognavo al solo pensiero, e, chiaramente, Filippo lo capì subito

- Bugiardo - mi freddò - questa non è stanchezza: è timidezza, timidezza della peggior specie -

Arrossii, e dovetti ammettere, rassegnato

- Stai tranquillo - disse allora lui, battendomi ripetutamente la mano sulla spalla - ti garantisco che questa sarà una cura eccezionale...una "terapia d'urto": Alberto è proprio la persona che fa per te! - e scoppiò in una larga risata, rovesciando la testa sullo schienale del divano.

In sostanza: tanto disse e tanto fece che, prima con titubanza, quasi costretto, poi con la progressiva certezza che quel viaggio fosse davvero un bene per me, mi apprestai a partire per Torino, e anzi, a forza di immaginare possibili disavventure, figuracce, smarrimenti per la città epersino disastri ferroviari, cominciai ad entusiasmarmi all'idea di quella ventata di novità che, nel bene o nel male, avrebbe dato una scrollata alla mia vita, e ad essere curioso di verificare di persona come le cose sarebbero andate realmente.

Iniziai innanzi tutto a preoccuparmi della mia presentabilità: non sapevo, ad esempio, come vestirmi, problema non insignificante, dati i vantaggi che una buona impressione porta con sé...Che tipo poteva essere l'amico di Filippo? Ovvio che non osassi chiederlo a lui: sarebbe stato come andare incontro a sfoggi di sarcasmo più che certi; per cui mi affidavo ad uno sforzo immaginativo, che, purtroppo, mi proponeva davanti invariabilmente niente più che una copia ingigantita del mio giovane direttore: distinto, elegante, di gran classe, glaciale ai primi approcci, brillante nella conversazione, e, ohimè, con qualche chilo di superbia di troppo. A sentir Filippo era "un vero, un grande intellettuale", appellativo che non gli avevo mai sentito usare neanche a proprio riguardo, il che era come dire che lo considerava superiore a sé, e questo lo faceva già apparire ai miei occhi un mostro di cultura, figuriamoci quanto severo nel valutare tutto ciò che gli circolava intorno...! Vestirsi, dunque, ci si doveva vestir bene. Me lo consigliò anche Camilla, che fu l'unica a darsi pensiero insieme a me della faccenda.

Recuperai dal fondo dell'armadio la mia unica giacca, che con quei grossi quadrettoni scozzesi aveva piuttosto l'aria di una vecchia tovaglia: l'avevo portata da casa per sfizio, convinto che, dopo l'occasione mondana per cui era stata acquistata, non ne avrei mai più fatto uso. La trovavo orrenda, ma a Camilla piaceva molto, e, come sempre, i suoi pareri in materia estetica, avevano la rara dote d'incoraggiarmi.

Lei sembrava un po' dispiaciuta della mia partenza, anche se le avevo garantito che avrei costretto Filippo ad andarla a prendere all'uscita del dancing tutte le sere. - Con quel presuntuoso - aveva rifiutato - non ci farei neppure due metri di strada. E poi non ha la bicicletta -.

Anche io ero convinto che avrei dormito sonni meno sereni, lontano da casa: ma mi illusi che quella fobia avrebbe potuto fare parte della tante altre per cui, nell'opinione di Filippo, questo viaggio prometteva sicuri benefici.

Vuotai e riempii la valigia infinite volte, indeciso su ciò che dovevo portare, e sospettoso, ogni volta, di aver dimenticato qualcosa di indispensabile per cui valesse la pena smontare tutto, pur di accertarmi d'averla con me. Quando finalmente fui in stazione, l'ultimo pensiero fu l'aver lasciato il biglietto sul tavolo del salotto, ma Filippo, che mi aveva accompagnato fin lì, me lo sventolò sotto il naso, dopo averlo estratto dalla tasca anteriore della mia valigia. - Non scordarti di vidimarlo - mi raccomandò, ed io, se non avessi compreso il senso generale del discorso, avrei forse dovuto domandargli il significato di quella parola strana, ma sicuramente comune quanto "biglietto" e "scordare" nella cerchia dei suoi amici "intellettuali". "...In che bella impresa mi vado a imbarcare!" pensai "...E dire che la colpa è tutta d'un periodo di entusiasmo!".

Salii sul vagone quasi in corsa perché indugiai a lungo sulla banchina per farmi dare da Filippo le ultime - ripetute fino alla noia - direttive. Trovai posto a sedere vicino al finestrino, sistemai la valigia e la giacca, e, mentre il treno cominciava a muoversi, sentii un brivido d'eccitazione scorrermi lungo la schiena. La stazione di Firenze all'alba, mentre s'allontanava succhiata via in fondo al binario, mi parve particolarmente bella, con tutto il suo va e vieni senza orario, e la sua gente che non conosce riposo: c'era chi andava, chi veniva, chi correva, in ritardo, al suo treno, o chi si affannava come me a far entrare il biglietto nelle apposite macchinette "obliteratrici", e c'erano i turisti stranieri, rigorosamente in pantaloni corti e scarpe da trekking, coi calzini arrotolati alle caviglie e gambe bianche e grossotte...Arrivavano ora per visitare la città, o partivano, malinconici, alla fine della vacanza? Forse, se fossi stato più vicino, su alcune delle loro facce avrei potuto vedere lo stesso rossore d’attesa che mi stava bruciando le guance.

Anche io partivo per una vacanza: vacanza dalla mia vita comune, da una routine che fino ad allora non avevo avuto modo, neanche un giorno, d'interrompere.

Amai quella stazione e quella gente, le macchinette vidimatrici, il mio treno, Firenze, chi viene e chi va. Ero davvero emozionato.

 

Durante il viaggio provai a immaginare il mio incontro con il signor D'orsi a Torino: mi avrebbe aspettato al binario, indossando un impermeabile blu e tenendo un giornale sottobraccio, in modo che io non avessi difficoltà a identificarlo. A quel pensiero ebbi un sussulto: avevo dimenticato di portare con me una copia del "Cambio Rotta", il mio segno di riconoscimento!...Ero veramente uno sbadato: ora avrei dovuto trovarlo io, e Filippo del suo aspetto fisico mi aveva detto ben poco; anzi, le sole "informazioni" che possedevo erano "uomo sulla quarantina, alto, con gli occhiali"...Si cominciava bene!

Cercai di non agitarmi: il viaggio era lungo, e cinque ore di tachicardia erano davvero faticose da sopportare. Il tentativo riuscì, se si escludono le quattro o cinque volte che dovetti ripetermi a fior di labbra la frase autoicoraggiante "non c'è di che preoccuparsi", compresa tra esse quella appena sceso dal treno, quando constatai con smarrimento che, lungo il binario, di uomini in blu col giornale non ve ne era nemmeno l'ombra.

Mi guardai meglio in giro: la stazione era affollatissima, era mezzogiorno, e per spostarsi bisognava quasi aprirsi la strada a spintoni. Cominciai ad ispezionare tutta la zona vagabondando a destra e a manca, con il peso del mio borsone trascinato con malagrazia su una spalla, alla disperata ricerca di un impermeabile blu: vidi moltissime persone alte e con gli occhiali, ma assolutamente nessun giornale. Avrei potuto attaccarmi sulla giacca un cartello con su scritto "Mattia Loira: Cambio rotta", ma scartai subito l'idea al pensiero degli sguardi curiosi di tanti sconosciuti puntati su di me, ivi compreso quello del signor D'orsi, sempre che si trovasse realmente - eventualità di cui cominciavo a dubitare - in mezzo a quella folla.

Scoraggiato dal contrattempo, girovagai ancora un po' senza meta, finchè mi trovai di fronte all'uscita principale, e decisi di mettere il naso fuori e sbirciare la città. Un traffico caotico costipava la via, in mezzo alla quale, come un isoletta affollata di gente in partenza, si ritagliava il suo spazio la pensilina dell'autobus, che raggiunsi in pochi passi, per poter ammirare da di fronte la bella facciata della stazione Porta Nuova.

Era freddo, ma c'era un gran bel sole: "Pensa un po': sono a Torino...una metropoli!"

Mi sentii di nuovo coraggioso e intraprendente. Una soluzione si sarebbe trovata, potevo sempre chiamare Filippo e farmi dare l'indirizzo, prendere un taxi, o magari "sperimentare" il tram, quell'autobus parente dei treni, con rotaie e fili, dal sapore antico, che a Firenze non esisteva più. Mi accorsi anche di avere fame, e comprai un panino che mangiai per strada, sotto il sole, seduto sul bordo di un'aiuola.

Rientrai in stazione che erano passate le una: il via vai s'era attenuato, pochi i treni fermi, e decisamente meno gente. Notai che lungo il "mio" binario passeggiava su e giù un uomo che rispondeva alla perfezione ai requisiti fisici della persona che cercavo, pur se non era affatto vestito come Filippo aveva detto.

Non osando farmi avanti presi a fissarlo; non pareva proprio un quarantenne: avrei stentato a dargli più di trent'anni, almeno a guardarlo da quella distanza; aveva un volto accattivante e disteso, grossi occhiali di tartaruga, e la fronte più geometrica che avessi mai visto, addolcita a fatica da capelli scuri pennellati di grigio, spartiti altrettanto geometricamente nel mezzo e pettinati all'indietro dalla leggera arietta di quel mattino. In complesso - pensai - nulla aveva a che vedere con la persona che avevo immaginato, fosse stato anche solo per il giubbotto sportivo che in quel mentre si era sfilato ed aveva velocemente legato alla vita...Aveva forse caldo? - mi chiesi...e pensare che io, un po' per il diverso clima, un po' per il disagio, sentivo già le punte delle dita tutte gelate!

Mi chinai per cercare in fondo alla borsa un paio di guanti, e, quando rialzai gli occhi, mi accorsi che anche lo sconosciuto mi stava guardando.

- Scusi! - domandò, trattenendo un sorriso - ma lei si chiama per caso Loira? -

Scattai in piedi, e sospirai di sollievo - Si - risposi - E lei è il signor D'orsi, suppongo -

- Proprio... - mi guardò - ...ma dove l' ha messo il giornale? -

Sorrisi, con un cenno di rassegnazione -

- E lei, l'impermeabile? -

Ci venne da ridere, e ci stringemmo la mano sempre ridendo, così - pensai - non diede peso alla mia stretta debole e non avrebbe potuto dirmi né che ero un timido, né che avevo scarsa personalità.

- Posso offrirle qualcosa? - propose mentre ci avviavamo alla sua macchina - un caffè? -

- No, meglio di no. Sono tachicardico -

- Allora una birra, un the, una cioccolata, una fetta di torta... -

Rifiutai di nuovo, per una distorta forma di cortesia.

- Insomma - si impuntò lui, afferrando la mia valigia e caricandola sul sedile di dietro - si faccia offrire qualcosa, qualunque cosa: glielo impongo! -

Alterò teatralmente la voce e mi fece sorridere

- Su, c'è un ottimo bar qui vicino. Ci arriviamo in due passi -

Attraversammo la strada sulle strisce pedonali, e per poco una macchina che correva per la città almeno agli ottanta all'ora non mi mise sotto.

- Accidenti! - esclamai - E’ impazzito? -

D'orsi sollevò le sopracciglia e arricciò la fronte: - Che vuol farci? - disse - Benvenuto a Torino! -

 

Seduti ad un tavolino davanti ad un the, quello strano personaggio chiacchierone parlò per almeno mezz' ora a velocità sostenutissima per spiegarmi perché non aveva indossato l'impermeabile "stabilito": sembrava che gli avessero dato solo quel pomeriggio per parlare, dopo averlo tenuto imbavagliato per giorni e giorni. Prima di arrivare a dirmi di aver macchiato l'impermeabile di caffè al bar, di essere dovuto tornare a casa a cambiarsi, di aver fatto tardi per il traffico e perciò di non aver trovato il tempo di comprare il giornale, mi fece in dettaglio la cronaca della propria mattinata-tipo: quando si era alzato, cosa aveva mangiato a colazione, quante parole aveva detto alla moglie, quanti scalini aveva sceso, e parla parla parla...si dimenticò anche di chiedere a me come mai non avevo in mano una copia del "Cambio Rotta".

Tanto meglio: evitai di far la figura dello sbadato.

Ma in fondo, di fronte a quell'uomo così diverso da come me lo ero figurato e da tutte le persone che avessi mai conosciuto, valevano ancora qualcosa le mie strategie comportamentali? Alberto era un capolavoro di spigliatezza e spontaneità, rideva volentieri e non per compiacenza, e si sforzava di far ridere anche me; conversare con lui, o anche solo starlo ad ascoltare era un piacere che non ricordavo di aver provato in nessun genere di relazione sociale. Al bar, in macchina, per tutta la durata del tragitto che ci condusse fino a casa sua non lasciò un secondo al silenzio: mi ricoprì di domande, dissertò un po' di tutto, del tempo, di politica, di arte e di letteratura; elogiò la bellezza di Firenze, il vernacolo e lo spirito sempre pronto dei toscani, raccontò persino barzellette e cantò canzoncine in dialetto piemontese, delle quali adduceva, volta per volta, la traduzione.

Io mi sentivo sbilanciato da tanta confidenza, non riuscivo quasi a partecipare alla conversazione, e lasciavo ben volentieri che tenesse banco lui: tuttavia fui felice che l'amico di Filippo fosse così tanto bizzarro e così poco "intellettuale" da far saltare in aria tutte le mie categorie preconcette.

 

La casa era un po' fuori città, in una viuzza linda, costeggiata da villette dall'aspetto elegante. Alberto mi portò la valigia su per i gradini dell'ingresso, e la lasciò in un angolo, vicino all'attaccapanni. Io rimasi immobile sulla soglia a guardarmi attorno, finché lui non chiuse la porta e m'invitò ad accomodarmi in salotto. Tutto era luminoso, anche gli oggetti: sembrava una stanza fatta di vetro, tanti erano i ninnoli che ricoprivano i mobili e riflettevano sulle pareti i raggi del sole che entravano dalla finestra

- sono la passione di mia moglie! - spiegò lui, vedendomi smarrito - E' bene se li goda ora, perché non oso pensare alla fine che faranno quando la bambina comincerà a camminare! - e cercò ancora di coinvolgermi a sorridere del suo commento.

Io rimanevo fermo in piedi: mi pareva di essere stato sbalzato in un’altra dimensione: era tutto diverso da Firenze, tutto diverso da come avevo immaginato. Alberto venne alle mie spalle e quasi mi spinse a sedere su una poltrona

- La vedo teso, Loira - rise, benevolo - si rilassi, si rilassi! Se la sta cavando benissimo! -

Arrossii, abbassando gli occhi

- Lei è proprio molto giovane. Quanti anni ha? -

- Quasi ventuno -

- To', ma guarda. Scizio che finalmente si sceglie un collaboratore più giovane di lui! Scommetto che "gioca al maestro" con lei, eh? -

Scherzò; poi cambiò tono

- Loira, mi è piaciuto ciò che ha scritto, davvero. Ha messo molto in gioco sé stesso nelle sue considerazioni, senza tuttavia perdere il distacco critico: e questo è più apprezzabile di quanto creda -

Era seduto davanti a me, la schiena un po' curva, le braccia poggiate sulle ginocchia. Aveva uno sguardo particolarmente dolce, ma non paterno: sembrava parlarmi da pari a pari, e mi fece sentire sopravvalutato.

Mi diede una serie di consigli per l'impostazione del lavoro, citò alcuni passi dall'articolo con cui avevo aperto il "Cambio Rotta letterario", ed elogiò il mio saggetto sulla poesia del Novecento. Non rideva più, ora: aveva una voce diversa, profonda e pacata, ma che ugualmente conservava la sua distintiva nota di affabilità e leggerezza. Finalmente non mi fu più difficile sostenere l'attenzione dei suoi occhi azzurrissimi puntati nei miei, e mi venne da pensare che dovevo avere di fronte un uomo veramente straordinario, se era riuscito in così poco tempo a smontare un'atmosfera e costruirne una del tutto nuova in cui mi sentivo perfettamente a mio agio. Credo d'essere stato in grado anche di "esprimermi bene", di dire ciò che avevo da dire senza schermi di formalità.

Poi lui sollevò il busto e si appoggiò allo schienale, sempre tenendo quello sguardo incoraggiante su di me: - "Maturità di foglie arco di lago" - citò - "altro evo mi spieghi lucente. / In una strada senza vento inoltri / la giovinezza che non trova scampo" -

Pronunciati così all'improvviso dalla sua voce intensa, quei versi sembravano quasi una battuta di dialogo, un giudizio sintetico sui miei scritti, o anche solo un commento al mio modo spaurito di presentarli...

- Il mio poeta preferito... - sussurrai, estasiato.

- Davvero? - fece lui - Sa che ci avrei scommesso? -

Poi rimanemmo un istante zitti, un istante solo, quasi per rispetto alla "sacralità" che per entrambi spettava alla poesia: non avevo mai "ascoltato" il silenzio come allora, ovvero, non mi era mai capitato di sopportare una pausa di silenzio senza provare disagio; ma sentivo chiaramente che per Alberto aveva un valore: era un'interruzione, uno stacco che lui si concedeva in mezzo al tanto parlare, forse per una sorta di tributo alle cose veramente belle.

"Ecco" pensai "Così vorrei essere. Se dovessi, se potessi rigirare come un calzino la mia vita, scarabocchiare sul mio carattere, essere nuovo, cominciare dal principio, io vorrei essere come lui...".

Aveva ragione Filippo: la frequentazione di quell'uomo, per me, sarebbe stata una cura: in poche ore già aveva conquistato la mia stima.

- Bene Loira - disse ad un tratto, alzandosi - Lei mi piace. Sono sicuro che lavoreremo benissimo, insieme -.

 

Fui ospite della famiglia D'orsi tutta la settimana: non vollero assolutamente che cercassi un albergo, nonostante le spese non fossero a mio carico personale. Filippo doveva aver previsto anche questo, perciò si era rifiutato di farmi prenotare una camera in anticipo.

La signora D'orsi mi trattò con affetto quasi materno: era una donna bellissima, di grande eleganza e di modi raffinati, ma quel suo accento straniero le dava un non so che di sbarazzino che toglieva ogni sospetto di affettazione alle troppe espressioni di cortesia che uscivano dalla sua bocca. Era molto più giovane di Alberto: lui l'aveva conosciuta in Francia, durante un lungo periodo trascorso lì per ragioni di studio, e si erano sposati quasi subito.

Erano una coppia vivace, che amava la vita di società: la loro casa era piena di gente tutte le sere, c'era sempre qualcuno invitato a cena, si trattasse di membri della redazione, di vicini, di conoscenti illustri, o, più di rado, di parenti. Mi trovai seduto allo stesso tavolo con professori universitari, studiosi, consiglieri comunali e giornalisti televisivi, ed alcuni - loro si! - erano davvero "intellettualoidi" come e peggio di Filippo, cosicché dovetti imparare a fare largo uso dell'espressione "non ho le competenze necessarie per esprimere un parere", per evitare probabili pessime figure. Tuttavia, con certi colleghi del signor D'orsi riuscii ad intavolare anche qualche piacevole conversazione e a riuscire - nonostante i miei timori - persino simpatico.

Mi piacevano quella casa aperta a tutti, la cortesia di Alberto e consorte - la stessa con cui trattavano me - lo spazio sempre lasciato, in mezzo a tante grosse parole, al sorriso, allo scherzo, al pettegolezzo banale. Ricordo che una sera - l'ultima o la penultima che mi trattenni a Torino - ebbi l'occasione di partecipare persino ad una festa (ne facevano spesso, a turno, a casa dei loro numerosi amici) organizzata alla buona in salotto. Giocammo a carte, cantammo e ballammo fino a tarda notte: o meglio, ad onor del vero Alberto suonò e cantò, ed Elodì ballò tutta la sera con ciascuno degli amici del marito, rischiando più volte, nell'euforia della danza, di urtare qualche mobile e mandare in frantumi un buon quantitativo dei suoi preziosi ninnoli. L'avrei con facilità paragonata ad uno di essi, quella sera: tutta scintillante in un abito di seta, tutta ingioiellata, fragile come una bambolina di vetro, con quella testa piccola e bionda che lei voltava ad ogni ballo verso Alberto, in richiesta di approvazione, con tanta grazia. Sembrava una ballerina vera - non fosse stato che conosceva due o tre balli a stento - e usava sempre un profumo dal sapore dolce, che quella sera si diffondeva in tutta la stanza e dava quasi alla testa. Mi chiese persino di farle almeno una volta da cavaliere, ma Alberto mi salvò con un intervento provvidenziale: - Facciamo un pezzo classico! - propose - Il signor Loira sa suonare il pianoforte -.

Voleva che accompagnassi il suo violino: tra le mille attività dell'illustre D'orsi, infatti, si potevano contare anche diversi anni di conservatorio. Accettai per ripiego, evitando le penose scuse per "rifiutarmi" a Elodì, ma certo non mi espressi al meglio delle mie possibilità. Ero troppo scombussolato, e, per tutta quella sera, sarebbe stato impossibile prestare attenzione ad altro che all'accozzaglia caotica delle mie emozioni: la festosità del salotto affollato, la tristezza della partenza, e insieme l'ansia, la fretta di essere a Firenze per raccontare, Elodì col suo profumo inebriante, e Alberto che suonava divinamente, con la testa inclinata su un lato, la sua distesa, geometrica fronte, e quelle mani così mobili e vitali...

D'un tratto, chissà perché, pensai a quella bimba di nemmeno un anno, che dormiva già da qualche ora nella camera da letto al piano di sopra, a quando sarebbe stata grandicella, avrebbe camminato e rotto tutti quei bei ninnoli, e poi, più tardi, da ragazzina, avrebbe organizzato le sue feste in quel salotto, senza Alberto, senza i suoi colleghi, senza di noi, magari con tante compagne di classe goffe e stonate, che come me non sapevano ballare, ma che ugualmente lo avrebbero fatto, senza pudore. Per un istante mi parve di vederlo: si, sarebbe andata così...ed io avrei voluto essere lì allora, bambino anch'io, senza nulla da dimostrare...Libero come Elodì che balla tra i suoi soprammobili...

 

Tra le tante attività che in quei sette giorni non mi lasciarono un minuto di respiro, ciò che ricordo con meno piacere furono proprio le sedute della redazione a cui partecipai, e la stesura di quell'articolo che Alberto - tanto pignolo sul lavoro quanto indulgente al di fuori di esso - mi fece correggere almeno cinque volte. Alla fine, però, trovai il mio nome in fondo alle colonne di una rivista importante, che sarebbe passata tra le mani degli abitanti di quella affascinante città.

Presi molti appunti, durante le riunioni, contagiato dalla fissazione del direttore per l' "organizzazione mentale del lavoro" - sic! - e costretto dalle disposizioni rigorose di Filippo (che in questo caso specifico aveva giocato a fare il maestro, era vero) in proposito. I membri dello staff erano almeno tre volte quelli del nostro: sembrava la redazione di un quotidiano, non di una rivista di varia cultura. "Cosa diceva il signor direttore?" annotai per scherzo in calce a uno dei miei fogli "Che a Torino non si lavora?".

Stavo vivendo veramente un'avventura "fuori dalla realtà": ne ebbero colpa e merito quei grandi locali in cui aveva sede l'equipe, quell'andirivieni produttivo e organizzato, Alberto e il "suo mondo" e anche Torino, che era una città d'atmosfere tutte diverse da quelle fiorentine, o almeno così era nell'impressione che di riflesso ne ricevevo. Grande che avrei potuto perdermi anche conoscendola da anni, crepuscolare, meditabonda, estranea del tutto all'ampia luminosità di Firenze, ma pervasa fin negli angoli delle strade da quell'atmosfera di fine ottocento, o tutt’al più inizio del secolo successivo, forse conferitagli dalla scacchiera dei fili dei tram sopra le teste, dai chilometri di portici che il re si era fatto costruire per le sue passeggiate invernali, o solo dalla mia visione troppo letteraria anche dei posti, che mi pareva di aver fatto un viaggio nel tempo, oltre che nello spazio (e pensare che a Firenze, di antichità ce n'erano da santificare e benedire!).

Lo confessai ad Alberto, il giorno che mi aveva accompagnato al museo risorgimentale ed ero rimasto estasiato per ore a "contemplare" gli scritti autografi dei grandi personaggi di quell'epoca.

- Io credo - mi rispose - che sia lei ad essere fuori dal tempo. E credo che il buon creatore abbia commesso un errore, e l'abbia collocata nel secolo sbagliato -

Lo disse così serio che mi fece ridere

- E di che secolo avrei dovuto essere? -

- Boh...rivoluzione francese...Italia d'inizio Ottocento...non so...un epoca di grandi ideali... -

Un'altra volta commentò il mio gilet serioso e la mia camicetta ben stirata dicendo che somigliavo a Monsù Travét: non osai chiedere "chi fosse costui", anche se a quel tempo lo ignoravo completamente. Tuttavia, Travét o giacobino o risorgimentale, che non ero un uomo di fine novecento Alberto me lo ripeté in mille altre occasioni.

 

Ecco, un ricordo bellissimo. Le fotografie scattate in piazza Castello.

D'orsi e un suo collega, uno a fianco dell'altro, entrambi in camicia bianca e pantaloni scuri - e sullo sfondo un antico tram, piccolo, di color rosso acceso, messo lì probabilmente per figura. Alberto mi stava facendo un cenno strano con le dita, credo volesse indicarmi qualcosa a proposito della macchina fotografica, che era la sua, e avevo appena imparato a usare. Sì, perché lui - e ormai non me ne stupivo più - era anche fotografo, e le immagini che comparivano spesso sulla sua rivista erano selezionate dai servizi che realizzava insieme a quel suo compagno.

Quando seppe che la fotografia era sempre stata una mia passione trascurata, lo invitò subito ad uscire con noi per una "passeggiata fotografica" per la città. Era un uomo rotondo, alto, con grossi baffi e pochi capelli, fanfarone e pacioso; portò con sé la sua attrezzatura professionale, e m'illustrò per tutto il pomeriggio le tecniche del mestiere. A me era già capitato di fare un po' di pratica, ma poi, così come per il pianoforte e tante altre attitudini sviluppate e non, per motivi che non erano chiari nemmeno a me, avevo preferito lasciar perdere. Amavo però profondamente l'album con le mie vecchie foto, affiancate ciascuna da luogo e data. Non quelle di quando ero bambino, però: soltanto quelle che avevo fatto, o che avevo voluto farmi fare, nei precisi luoghi e tempi che avevo scelto io. Era questo che amavo nell'arte del fotografare: selezionare pezzi di tempo, bloccarli, isolarli dal resto e renderli limpidamente definitivi, intoccabili, mai più scalfibili dal sospetto che non si fosse stati felici. Avevo sempre avuto il senso della fine e del tempo...

- E come mai - mi chiese Alberto - non ha sviluppato questa sua passione? -

- Forse ne ho sempre avute troppe - filosofeggiai - e per non essere mediocre ovunque bisogna scegliere - mi venne da ridere - Tanto fumo e niente arrosto, insomma! -.

- Non direi! - mi incoraggiò lui - Forse non si fida abbastanza di sé stesso, perché sono certo che potrebbe coltivarle tutte! -

Mi accorsi di aver cercato il suo complimento di proposito, con la mia manifestazione di modestia, e lo trovai vile, tuttavia non resistetti dal rincarare la dose, ma solo per restituirgli il complimento e chiamare ad un tempo in causa quella persona che era pur sempre al centro dei miei pensieri.

- Beh signor D'orsi, io non sono lei - dissi - e, per grazia o per sventura, non sono neanche Filippo -.

- Per grazia, senz'altro! - esclamò - altrimenti il "Cambio Rotta" si trasformerebbe in un ring -

- Beh - risposi a tono - guardi che non ci manca poi molto! -.

Alberto reagì con una sana risata, ma la sera, rientrando a casa, riprese il discorso seriamente, e mi domandò che genere di rapporto ci fosse tra Filippo e me. Gli parlai di un filo sempre in tensione che sembra sempre sul punto di spezzarsi e non lo fa, anzi, di un filo di "alta tensione", perché tra noi, o almeno da lui verso me, scorreva una forte energia, ed io finivo sempre col prendere la scossa.

- Sa - mi disse allora con dolcezza - Io credo che lei, per Scizio, sia un grande amico. E non si stupisca tutte le volte che le parrà di non essere accettato per se stesso, ma solo osservato e giudicato. Penso che lo faccia anche con me, e mi risparmi soltanto in virtù della mia presunta cultura: è un vizio che non si toglierà mai. Ma lei dovrebbe ritenersi fortunato a rientrare nello stretto novero di coloro per i quali al giudizio non segue mai una condanna senza appello...Creda a me: quando Scizio ha scelto l'amicizia di qualcuno, la conserva e la coltiva per sempre, con una fedeltà, una tenacia, una testardaggine, persino, che nessuna delle persone che conosco ha mai saputo dimostrare. -

Rimasi in silenzio, stupito

- Mattia - mi confidò allora lui - Io ritengo Filippo una persona meravigliosa. E' intraprendente, ottimista, brillante, ha una costanza che gli permette di ottenere quasi sempre ciò che si propone. E quando non riesce nei suoi intenti è sempre pronto a cominciare ex novo, non si abbatte mai...E in fondo, sa, dietro quell'apparente facciata di concretezza e praticità, è un inguaribile idealista, e credo sarebbe pronto a sacrificare qualsiasi cosa, per i suoi ideali... -

Non aggiunse altro, facendo in tal modo sì che il suo eroico ritratto si chiudesse con quella dichiarazione altisonante, che mi sarebbe parsa retorica in bocca a chiunque altro che non fosse lui, o a proposito di qualsivoglia altra persona, e mi lasciò zitto a contemplare la figura astratta che aveva costruito in pochi schizzi davanti a me, e che non corrispondeva affatto all'impressione che di solito Filippo dava alla gente, ma si sarebbe volentieri adattata alle immagini create della mia fantasia. Provai a lasciare libero campo a loro, per una volta, e allora il ritratto di Alberto mi parve ancora più bello. Anzi, trasferii anche loro due, quella sera, nel secolo decimonono, nella antica piazza dell'antica Torino, loro eroi del Risorgimento, io dietro, coi miei fogli in mano, a guardarli, senza trovare le parole per immortalarli lì, a futura memoria.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


V

 

 

 

E gli alberi son alberi

le case sono case

le donne che passano sono donne

e tutto è quello

che è, soltanto quello che è

 

(C. Sbarbaro)

 

 

 

Il rientro a Firenze fu traumatico. Sui tavoli della redazione trovai un plico di lettere a cui rispondere, siccome Filippo passava a me tutte quelle che gli parevano poco importanti; a casa dovevo recuperare i due turni di pulizie saltati durante la mia assenza, in programma avevo tre ripetizioni di latino per la settimana successiva, e i sensi di colpa per il tempo sottratto allo studio cominciavano a farsi sentire.

In principio mi consolò il tanto raccontare della mia straordinaria esperienza da "inviato speciale": a Filippo, al resto dello staff, a Rino, a Camilla...era un po' un sistema per recuperare delle immagini, e inoltre mi sentivo orgoglioso: ero stato in gamba, avevo dimostrato di essere in grado di superare brillantemente l'impatto con un ambiente estraneo e di sopravvivere benissimo alla distruzione delle mie brave abitudini.

Poco tempo dopo arrivò in redazione la rivista di Alberto, accompagnata da alcune righe di ringraziamento a noi tutti, e, a parte, una busta chiusa intestata a me. Me la consegnò Filippo, sorpreso, e aspettò che la aprissi, speranzoso che non lo costringessi a far mostra davanti a tutti della sua natura di ficcanaso.

Anche io ero curioso, non mi aspettavo quel riconoscimento personale, e aprii la busta immediatamente. Conteneva due fotografie: l'una raffigurante Alberto e me a sedere sui gradini di una chiesa, l'altra quella che avevo scattato io, in piazza Castello, con dietro una breve scritta: "Fossi in lei, non rinuncerei alla mia vocazione di fotografo! A. D'orsi". Per non essere scortese, offrii a Filippo di leggere il messaggio, evitandogli il disturbo di chiedermi di che si trattasse. - Beh - fu l'unica cosa che seppe dire - E' stato un pensiero gentile - - si - gli risposi, lusingato - molto. Come tutte le cose che dice o fa - .

Non ho mai capito se in quella occasione fosse stato stupito, invidioso, o solo soddisfatto di me: fatto sta che dopo di allora mi spedì a Torino molte altre volte, tanto che finii per conoscere la città come le mie tasche e per essere amico di Alberto almeno quanto lo era lui. Solo che me, non mi chiamò mai più "signor Loira", e non riuscì mai più neppure a darmi del lei.

 

Mi affannai talmente per recuperare il tempo perduto, che credo persi la già scarsa attenzione che avevo agli stati d'animo della gente. Così non notai il malumore di Camilla fino a quella sera grottesca, quando la sorpresi ad asciugarsi le lacrime davanti ad un film comico, alla T.V.

Ricordo che scoppiò in una innaturale risata non appena si accorse che la guardavo, e mi colse uno strano sbandamento, prima ancora di sapere cosa fosse successo, come tutte le volte che qualcosa veniva a turbare il mio equilibrio emotivo.

- Dai, vieni qui anche tu, Dido - mi invitò - questa trasmissione è divertentissima. E' una selezione delle migliori scene comiche del cinema italiano -

Con la coda dell'occhio intravidi sullo schermo un uomo grasso, con un faccione rubicondo, che cadeva dalla bicicletta, e Camilla sfoderò una nuova risata. L'audio era pessimo, un brusio di sottofondo disturbava le orecchie: doveva essere un film molto vecchio.

Il salottino era buio, fissai lo sguardo fuori dalla finestra, si vedevano i tetti delle case, le luci accese della strada e dei balconi: tutto era silenzioso e pacifico, tranne quella scatoletta rumorosa, con quel ronzio insopportabile.

Il cielo mi sembrò più scuro del solito: era nero e lucido nonostante il chiaro delle stelle, e rassomigliava ad una superficie acquosa immobile nella notte; i contorni delle case erano nitidi, nulla sfumava o si confondeva all'oscurità, proprio come in certe notti d'estate una città di mare. Mi sarebbe bastato sfilare gli occhiali per dissolvere quell'atmosfera: avrei ottenuto l'effetto di una strisciata col dito su un disegno a carboncino, e non avrei nemmeno più visto le nette linee delle lonze sulla pancia di quell'omone alla TV.

Camilla rise di nuovo

- Allora, non vieni? Guarda che è uno spasso... -

Mi sedetti accanto a lei: era già in pigiama, indossava quei suoi calzettoni di lana rosa lunghissimi, tirati su quasi fino al ginocchio, per rimediare alla misura dei pantaloni che erano invece troppo corti e larghi, con un elastico all'estremità talmente consumato che non teneva più. Ricordo che mi soffermai a guardarle i capelli, corti corti sulla nuca e tutti arruffati sulla testa, gonfi e corposi, anche se li aveva lisci come spaghetti, finché lei non se li spazzolò con una mano, liberandosi la fronte

- Pioverà - disse - i miei capelli sentono l'umido, sono diventati elettrici -

- Già...anche le mie ossa se ne accorgono... -

- Le ossa? Via, non hai novant'anni! -

- E' vero, ma sono già un relitto -

Volevo chiederle cos'avesse ma non trovavo l'occasione. Si mostrava talmente allegra che mi pareva di farle un torto ad immischiarmi in affari che non mi confidava spontaneamente; anzi, sperai di essermi sbagliato, e che gli occhiali ormai vecchi m'avessero giocato uno scherzetto.

- Allora - provai a esordire - che hai fatto, in questi giorni, senza di me? -

Non glielo avevo ancora domandato. Ero stato talmente intento a raccontare che non sapevo nulla di cosa era accaduto a Firenze durante la mia assenza.

- Ah... - fece lei, quasi straniata - non ti ho detto proprio niente? -

- No -

Esitò, poi assunse un'aria misteriosa e cercò di costruire un'espressione da "evento straordinario"

- Ho fatto amicizia con Filippo Scizio - sillabò, con chiarezza - Non te ne ha parlato neanche lui, il chiacchierone?...Non ci credo! -

Lì per lì rimasi stordito: possibile che bastasse allontanarsi un attimo per ritrovare, al ritorno, i propri equilibri tutti scombussolati e rimontati in modo tale da far fatica a ritrovare il proprio posto?

- No, non mi ha detto un bel nulla - risposi, e le chiesi di raccontarmi ogni cosa per filo e per segno.

Camilla mi riferì che lui era andato regolarmente a prenderla tutte le sere, al locale, come gli avevo chiesto io: la prima volta le aveva suonato alle spalle con il clacson - Eilà, signorina, vuole un passaggio? - e lei lo aveva scambiato per il play-boy di turno e lo aveva mandato al diavolo. - Signorina De Gaddi-Ciuffino...non mi avrà mica preso per il tipo che rimorchia le ragazze per la strada a quest'ora di notte - e qui Camilla si alzò in piedi imitando il cipiglio serioso di Filippo e calcando la voce con faccia contrita - Sono una persona seria, io! -.

Ma poi aveva acconsentito, e, al di fuori del suo ruolo di proprietario dell'appartamento e cercando di vederlo solo - tenne a precisare - come "l'amico di Dido" era riuscita a trovarlo anche simpatico.

- Sono contento - seppi solo dire - in fondo Filippo è una bravissima persona -.

Milly mi interruppe con una nuova colossale risata, puntando col dito un'altra strana faccia sullo schermo. Teneva la testa rovesciata sullo schienale, il collo lungo riverso all'indietro, la fronte tutta sgombra dalla frangia...aveva gli occhi lucidi e le gote arrossate.

Poi d'un tratto non rise più.

- Dido - mi disse (e la sua mano cercò il telecomando, schiacciò un pulsante e cancellò insieme figure e rumori ) - lo lascio -

Non risposi: mi presi un istante di tempo per capire di cosa stesse parlando e per difendermi da quella valanga di tensione rotolata sulle vecchie comiche all'improvviso

- Non ne posso più - riprese, cercando di mantenere ferma la voce - Io non credo che...che amare voglia dire per forza...soffrire...Vorrei avere una storia tranquilla anch'io per una volta. Sono stufa di essere usata solo per il sesso! -

Erano parole pesanti, non me le sarei aspettate.

- Che è successo, Milly? - chiesi, sforzandomi di esprimere partecipazione dove c'era piuttosto solo stordimento emotivo

- Indovina? - fece lei -...Mi ha fatto le corna, Dido. Se la faceva con una cretina che mi salutava con centinaia di moine quando mi incontrava! E il bello è che non è la prima volta! Lo so perché me lo ha detto... - mi guardò di sottecchi e sforzò un sorriso - l'ho costretto io, l'ho minacciato -

Provai vergogna tra me di un pensiero che mi venne spontaneo: Milly che sbatte al muro il suo ragazzo e gli grida "verme, confessa!"...Era un'immagine buffissima, pur nella sua drammaticità: mi figuravo la sua faccia alla perfezione, una scena molto realistica...e il proseguo non era difficile intuirlo: lui non le aveva chiesto perdono, non l'aveva supplicata di credere che l'amava, che era stata solo un'avventura e tutte le altre cose che si dicono in simili circostanze per togliersi d'impiccio, e magari le aveva detto "ormai è successo, decidi tu"...e lei, chissà, forse era lì a tormentarsi, piuttosto che sul tradimento, sul perché di questo mancato tentativo di riconquista, sull'assenza di una scena passionale di lacrime e pentimento come quelle che le piacevano tanto e la facevano sentire inesorabilmente viva.

...No, checché potesse dirne, lei, una storia tranquilla, non l'avrebbe sopportata, e ora - continuavo a ipotizzare - avrebbe finito di godersi anche il dolore, e a lui avrebbe fatto scontare, a peso di sofferenze inaudite, istante per istante l'oltraggio recato alla sua dignità, armata di quel temibile spirito di vendetta che solo in Camilla sarei riuscito a immaginare...

- Purtroppo - confessò invece, quasi mi avesse letto nel pensiero - non riesco neppure a farlo sentire colpevole. Anzi: ci credi che a volte è capace di far venire i sensi di colpa a me? -

- Non è possibile! - esclamai, sfoderando un po' di rabbia, da bravo difensore - Ha sbagliato lui. Tu non hai proprio nulla da farti perdonare! -

- Lo so - mormorò, abbattuta - lo so. Ma...ma tu riesci a immaginare una dialettica migliore di quella di Filippo Scizio? -

Scossi il capo, abbozzando un sorrisetto

- Ecco - disse - Lui ce l'ha: e rovescia i discorsi così bene che sembra voglia farmi capire che la responsabilità delle sue scappatelle è anche mia. La realtà è che io sono certa di essere nel giusto, certissima, Dido, lo giuro...ma quando lui mi dice certe cose non riesco a non pormi mille domande, e tutto questo mi fa sentire ancora più debole e incapace!...Invece ha torto lui, vero? - cercò conferma, stringendomi la mano - Torto marcio, Vero Dido? -

- Certo, torto marcio - incalzai - E fai benissimo a lasciarlo -

Di fronte a questa asserzione, Camilla di colpo divenne tristissima

- E allora perché non ce la faccio? - gemette, raccogliendo le ginocchia al petto, coi piedi sul divano - Perché non ce la faccio, Mattia? -

Nascose il capo tra le gambe e il seno e scoppiò a piangere.

Era una situazione spiazzante...

- Non lo so - dissi, turbato, abbracciandola - Penso di non essere competente... -

Non lo ero davvero, purtroppo. Io che riuscivo sempre a trovare alla vita qualche pecca per compiangermi senza provar vergogna di me stesso, non riuscivo ancora a capire come e perché si potesse soffrire per amore.

M'accorsi allora che non avevo mai chiesto nemmeno a Camilla se e quanto fosse felice. Ero stato distratto in maniera direttamente proporzionale a quanto mi imponevo di essere profondo nel leggere una poesia. E adesso mi vedevo proprio fuori posto, a cercare a fatica parole e gesti adeguati, ma ben sapendo di essere un gradino più in basso, fuori della sua dimensione, in procinto di proferire una serie di sciocchezze, e per di più terrorizzato dal sospetto che lei se ne rendesse conto.

D'un tratto mi ritrovai nuovamente gettato nel gorgo della vita triste, legato alla mia impotenza, svanito in poche ore l'ultimo residuo di una breve vacanza da questa mia esistenza futile e incasinata. Milly era abbracciata a me...avrei dovuto...proteggerla...coccolarla...invece...l’unica cosa che le stavo offrendo era quell’abbraccio forzato senza dolcezza e senza partecipazione...Volevo scappare, tornare a Torino, cambiare sempre posto, non fermarmi più in nessun luogo, non condividere più nulla con nessuno, non avere nulla da dare e da desiderare...Era tutto questo che mi teneva lontano dalle grandi passioni che lei incarnava ora tra le mie braccia intorpidite, e m'impediva di rispondere in franchezza, in libertà, alle altrettante sofferenze che loro elargivano a larga mano.

...Andare via. Andare via...

- Dido? - mormorò senza alzare il naso dalla mia camicia - Mi dispiace farti rimanere alzato fino a tardi -

Sentii la sua voce rimbombarmi nel petto, tanto la sua testa era vicina a me, neanche fosse quella della coscienza che mi rinfacciava tutta quella vigliaccheria

- Figurati - feci - Dato che è la sola cosa che posso fare... -

Mi interruppe, e sollevò finalmente la faccia, soffiandosi energicamente il naso al fazzoletto che aveva estratto con un gesto velocissimo dalla manica del pigiama

- Senti - propose - Mi fai le crepes? -

- Alle due di notte? -

- Perché no? -

Mi alzai, la precedetti in cucina senza replicare. In fondo - mi dissi - era una buona idea: fare qualcosa di concreto sarebbe servito a scalzare il mio disagio.

- Sai - spiegò lei, come elettrizzata da una nuova, improvvisa scarica di allegria - Si dice che la carenza d'affetto faccia venir voglia di dolci... -

- Allora io sono sempre in astinenza? -

- Può darsi. Anzi, di sicuro. Io non sopravvivrei così come fai te -

- così come? -

- Così...così da solo. Insomma, vent'anni senza amore. Per me sono stati già troppi dieci mesi! E' stata la mia massima resistenza. I dieci mesi prima di questa fottutissima fregatura!...Tu che ne pensi? Magari ho accumulato troppo desiderio, ed ora è esploso tutto insieme! Garantisco - dichiarò, alzando la mano destra, la sinistra sul petto a mo’ di giuramento - che se lascio lui, me ne faccio venti, e dopo entro in clausura! -

...Che si sarebbe fatta suora non l'avrei mai creduto, mentre sulla faccenda dei venti uomini, beh...: mi sentii moralista e mi vergognai, e per arginare il fastidio stetti al gioco

- Ah si? - dissi - Spero di rientrare almeno tra gli ultimi cinque! -

- Mi prendi in giro? - rispose - Tu saresti senz'altro il primo! -

Tirò fuori la padella dall'armadietto, e una pila di pentole rotolò per terra facendo un fracasso infernale

- Accidenti - mi allarmai - domattina chi li sente quelli del piano di sotto? -

Camilla sembrava ubriaca: aveva preso a ridere a crepapelle, chinata con la testa sul tavolo e la padella in mano, dopo essersi gettata a sedere su una sedia con altrettanto rumore

- Ridi ridi - protestai, bonariamente, con l'effetto di raddoppiare la sua irreale euforia - Tanto il ramaiolo in testa lo tirano a me, quegli isterici dei vicini, e poi si lamentano col mio "capo"! -

- Ma no, ma no - esclamò Camilla a voce ancora più alta - vedrai, corromperò anche il vicino, e anche Filippo, se è necessario, sai?...Si, anche Filippo!...Tanto non è per nulla brutto! -

- Già, e ti diminuirebbe l'affitto! -

La tensione si era allentata, eppure non mi sentivo affatto meglio. Era come se quella gioia amara venisse da me, come se fossi stato io ad averla provocata. Era strano, non mi dava sollievo...C'era insofferenza, senso di colpa, non capivo per cosa o per chi. Forse perché quella non era la via di fuga di Camilla, ma la mia? Perché non m'importava nulla se lei stesse realmente meglio, perché ciò che contava era l'aver liquidato il disagio di sentirsi impotenti e inopportuni? Probabilmente tutto questo, e qualcos'altro che non riuscivo ancora a spiegarmi e capire...

Il cielo oleoso fuori dalle finestre era tagliato solo dai lampioni: sulla facciata di fronte non c'era più una sola lucina accesa.

 

Il mattino mi svegliai che Milly ancora dormiva. Erano già le dieci, fortunatamente non avevo lezione, ma dovevo incontrarmi con Rino di lì a poco.

Il tempo era pessimo, il cielo s'era rannuvolato, e forse avrebbe piovuto. Avevo molto sonno, ma pensai che l'aria umida e odorosa avrebbe compensato la fatica di quell'uscita obbligata.

Pedalando in bicicletta mi rinfrescai i polmoni inspirando aria a pressione per strade vuote. Il vento mi si rompeva sulla faccia, mi frizzavano le gote, e dovevo lisciarmi ogni tanto con la lingua le labbra screpolate dal freddo. Trovai Rino che m'aspettava sulla porta di casa, un libro sottobraccio, i vestiti leggeri, quasi estivi. Non portava mai l'ombrello: “Mi piace l'acqua” diceva.

Camminammo verso Maiano, sotto alberi frondosi coi tronchi che odoravano di bosco e di montagna. Non facevo mai caso agli odori, non ho avuto mai cura delle mie sensazioni, ma quando c'era acqua nell'aria il mio rapporto coi sensi fisici diventava più forte e più preciso. Rino, invece, si estasiava di fronte ad ogni alito di vento, ad ogni profumo o colore, e qualsiasi scricchiolio provenisse dal ciglio del sentiero era di sicuro prodotto da qualche animale rarissimo che per puro caso doveva essere sbucato lì proprio mentre passavamo noi. Come al solito, dell'editoriale che dovevamo buttar giù sembrava importargliene poco o nulla.

- Rino? - chiesi ad un tratto, dopo dieci minuti che scarpinavo in salita faticando a morte per esporgli le mie idee tra un respirone e un altro - Ma mi stai ascoltando? -

Lui rallentò, mi guardò con un'aria stranita, si passò una mano dietro la testa e poi abbozzò un sorriso pacifico e arrendevole, che tuttavia proprio per questo non lasciava scampo

- Si - disse - ma io ho una cosa molto bella da scrivere sull'editoriale -

- Beh - ironizzai - è quello che ti sto chiedendo da un'ora -

Ero teso, infastidito: la faccenda della sera prima mi intorpidiva la testa, i pensieri e l'entusiasmo, e mi spaventava il fatto che non facevo che constatare, passo dopo passo, che il senso di estraneità che mi separava da Milly e dalla sua vita sentimentale, quel mattino ugualmente mi separava da Rino, e probabilmente dall'editoriale, dagli animali strani, dal brutto tempo e da tutto il resto.

- Fermiamoci - fece lui.

Si guardava intorno, come indeciso sulla strada da prendere nel bel mezzo di quel viottolo diritto, poi si mordicchiò nervosamente le nocche della mano, si accoccolò per terra e sedette.

Disarmato, non potetti far altro che imitarlo.

Sentii uno strano rumore sopra la testa, più su delle chiome degli alberi, quasi un tintinnio impercettibile...forse erano gocce, forse stava già piovendo...ma sotto quelle fronde fitte eravamo al riparo, e l'unico umido con cui sentivo contatto era quello del terriccio su cui ero seduto.

- Una volta, - cominciò Rino, sempre più astratto dalla realtà e da me - d'inverno, raccolsi un piccione ferito in mezzo alla strada e lo portai a casa nascosto nel mio cappello...in estate, col caldo, se n'è volato via e non è più tornato...Era importante...Una volta, al mare, un'onda mi ha travolto e mi ha bagnato i pantaloni. Era tanto freddo e io ero felice...Era importante...Una volta che avevo la febbre, qualcuno mi ha dato la vitamina all'arancia e mi ha raccontato fiabe fino a tarda notte...Era importante...Ieri sono entrato in una chiesa, così, per curiosità, e non c'era nessuno. Sono rimasto sulla soglia, in piedi sul primo gradino, ed ho sentito l'odore che veniva da quell'interno raccolto e buio. Ed anche quello è stato molto, molto importante... -

Rimasi zitto, immobile, stordito...non capivo cosa volesse dirmi, non capivo cosa c'entrasse tutto questo con l'editoriale, con Filippo, con quel posto e con me, ma come sempre restavo incantato di fronte al potere espressivo di Rino, di fronte alla fiumana di emozioni di cui mi ricopriva e mi investiva, anche quando non ne avevo affatto voglia.

- Questo, sai... - mormorò allora, quasi a spiegazione, a postilla non necessaria al suo discorso - E' quello che io cerco nella poesia. Le cose importanti. Importanti senza precisazioni...è l'unica parola che so usare a proposito, la parola più bella e più espressiva. Nella poesia, e nella vita, perché la poesia è il mio varco per la vita...il mio ponte con le cose che sono importanti per gli altri, per tutta la gente...E io non...io non vorrei sentirmi solo mai, Mattia...Mai -

Una goccia aveva trapassato la barriera di rami e foglie: mi colpì sulla fronte, scivolò sul naso e lungo il collo. Rino saltò in piedi all'improvviso, rompendo con la stessa magia con cui l'aveva costruita, l'atmosfera di un istante prima, e scoppiò in una strana risata

- Dai Mattia! - esclamò - facciamo una gara! -

E si lanciò in una corsa su per la salita.

Più avanti gli alberi sfoltivano, faceva freddo, ci saremmo bagnati, ma quella terribile magia mi trascinò dietro a lui.

Ne avevo paura, ma non riuscivo a ribellarmi.

 

Camilla aveva stabilito che quella sera avrebbe lasciato il suo ragazzo, ma mi aveva supplicato di di andare a prenderla fin dentro il locale: si sarebbe sentita più sicura sapendo che mi avrebbe trovato lì una volta voltate le spalle a lui. Temeva (o s'aspettava) che le sarebbe corso dietro per trattenerla, e lei avrebbe ceduto, non avrebbe resistito.

- Tu mi devi assicurare che ho preso la decisione giusta - mi ripetè per tutto il pomeriggio - faccio bene, non è vero? - - Credo proprio di si... - le rispondevo con scarsa partecipazione, ancora sospeso tra lo stordimento provocato dalle vibranti e inspiegate parole di Rino e il timore dell'incarico che mi sarebbe toccato tra poche ore. - Accidenti, Dido! - protestava allora lei - cerca di essere più convincente! - ed io mi sforzavo di addurre al mio debole incoraggiamento qualche valida argomentazione, facendomi forte di quel che mi restava in quei momenti di un'eloquenza acquisita nello studio delle "belle lettere" tutt'altro che adeguata alla circostanza...Per fortuna le bastava qualche frase fatta tirata fuori dal buon senso comune, purchè pronunciata in un certo modo e con una certa energia: in fondo non aveva affatto bisogno di essere persuasa, aveva bisogno solo di sentirsi nel giusto, di avere un appoggio fuori da sé.

Mi impose di ripeterle gli stessi discorsi per tutto il tragitto da casa al locale - mi ero offerto di accompagnarla, squallido tentativo di far pari con la mia ormai accertata incapacità di comprenderla - finché non la "scaricai" davanti all'entrata e pedalai via, per la strada buia.

Avrei potuto entrare con lei, e sedermi a consumare qualcosa, ascoltarla cantare, ma desideravo solo chiudermi fuori per un poco da quella situazione spiacevole e faticosa: spiacevole prima di tutto perché mi accorgevo di quanto ero inopportuno lì, e perché non riuscivo, per quanto mi impegnassi, a rendermi partecipe, e faticosa perché ero emotivamente stanco, confuso, e quell'atmosfera di sofferenza generalizzata era causa di un dispendio energetico del tutto più grande delle mie possibilità.

Pedalai veloce, contromano, sotto i lampioni disposti a larga distanza lungo il marciapiede: non passavano macchine e il viale era vuoto.

Pedalai con tutta la forza che mi era rimasta nelle gambe, fino a sentirmi il sudore grondare sulla fronte. Contavo l'alternarsi di chiazze di luce e buio sull'asfalto, e cercavo di rasserenarmi, ripetendomi che quella faccenda in fondo non mi riguardava, e che, per male che m'andasse, non avrei dovuto fare altro che scarrozzare Camilla per quelle stesse strade fino a notte fonda, o prepararle di nuovo un vassoio di frittelle.

Eppure c'era qualcosa...qualcosa che non quadrava, una casella vuota, un tassello mancante che mi impediva di razionalizzare con distacco quell'imprecisato senso di disagio che avevo avvertito fin dalla mattina...

Il movimento dei pedali era diventato una corsa involontaria dei miei piedi...

Mi sforzavo di ripercorrere una ad una le sequenze di quella giornata...

Camilla che si lamenta, piange o grida e poi ride come un'isterica rovesciando il capo sulla tavola...il cielo lucido, la pioggia...gli animali strani, il piccione ferito, la vitamina all'arancia...Rino Daniel...

Rino Daniel e le cose importanti.

Le cose importanti...

Alzai la testa sulla strada: mi ricordai che una sera ci ero passato con Filippo, attraversando senza disturbo la stessa quiete immobile e disarmante. Lui aveva citato Leopardi guardando la luna, e poi mi aveva parlato di Camilla, ed io non avevo avuto il coraggio di confidargli quanto li trovassi simili.

Ma perché, perché li trovavo simili?

Perché quella sera mi sembravano ancora più simili, loro tutti, Filippo, Camilla, Rino, così distanti, così estranei da me?

Forse se avessi io l'ale... - mi tornò in mente senza ragione - forse se avessi io l'ale da volar su le nubi...

- il cielo era scuro, sopra i confortanti coni gialli dei lampioni -

...più felice sarei, dolce mia greggia

più felice sarei, candida luna...

Il movimento dei pedali era ormai una fuga.

Mi salivano a fior di labbra alcune parole che mi sembrava dovessero acquistare senso una volta pronunciate.

Rino Daniel.

Le cose importanti.

(La bicicletta correva su quella strada dritta, senza pietà...)

Pedalare lontano.

Lontano.

Lontano.

Andare via.

Andare via.

Andare via.

 

Tornai al locale mentre Milly stava ancora cantando. Le gambe mi reggevano a stento, e sentivo i piedi gonfi pulsare nelle scarpe.

Il grande stanzone era annebbiato dal fumo, che frizzava nelle narici e arrossava gli occhi...il suono della musica era forte, molta la gente ai tavoli, luci soffuse sul soffitto e qualche coppia che ballava in mezzo alla pista. In fondo alla sala il palco, con Camilla in piedi col microfono in mano, accanto a un tizio seduto a una tastiera.

La guardai: sembrava "finta" in mezzo a quelle luci - un alone di fumo che saliva dai tavolini - poteva essere benissimo una di quelle donne della televisione disinvolte e disinibite, padrone del loro pubblico, e non avere niente a che fare con me.

Era bellissima nel suo abito da sera, e ci sapeva fare con quelle occhiate espressive e quella voce intensa e possente che pareva scaturire dall'interno, e che - davvero - non sembrava sua.

No, non sembrava lei.

Non era Camilla - la "mia" Camilla - quella creatura eterea, fatta di aria, tutta rosa anche lei nel suo vestito e sotto le luci, che incantava tutta quella gente fumosa ai tavolini, e probabilmente si trovava lì per beffa a quel luogo squallido e puzzolente...e io non ci vedevo più bene, non sopportavo più il calore che mi aveva appannato gli occhiali...non riuscivo a mettere ordine nelle immagini come nella testa, e in quel fastidio delle ore prima che ancora non si allentava...

Poi ad un tratto Camilla annunciò: - Per concludere la serata, questa canzone la dedico ad un uomo che mi ha fatto soffrire - e con la naturalezza di un'attrice nel ruolo della donna coraggiosa che rinuncia per sempre al “grande amore“, cantò una canzone d'addio struggentissima, con un testo perfettamente adeguato alla circostanza.

Mi spaventò la lucidità con cui immaginai dovesse aver organizzato minuziosamente, nei giorni precedenti, la "solenne chiusura" della sua avventura...forse lo aveva fatto per sorprendere lui, per farlo arrabbiare, costringerlo a mangiarsi le mani per non aver potuto partecipare a quel film se non nella parte di comparsa...o forse solo per potersi rivedere un domani star di quella fine romanzesca....

...Sì, quella era una "vera fine", un "gran finale", una chiusa definitiva senza svolazzi e senza strascichi.

Mi convinsi che le creature vive e solari fanno tutte così, conoscono il definitivo "alla grande", escono di scena trionfanti e una volta per sempre, mentre noi dall'altra parte li guardiamo estasiati, e non sappiamo mai bene dove le cose finiscono o vanno fatte finire, e non siamo mai capaci di premere stop, di dire basta, capolinea, addio.

Alzai il capo che lei era già uscita di scena. Immaginai che stesse parlando con lui in qualche stanzetta sul retro del palco, e infatti poco dopo la vidi schizzare fuori, e venirmi incontro di corsa senza essersi neppure struccata e cambiata come faceva di solito.

Un altro complesso stava giusto iniziando a suonare: la presi per mano e le feci strada tra la folla.

- Aspetta - mi trattenne - Per piacere, balla con me questo pezzo. E' sempre stato il mio preferito -

Immaginai che fosse "la loro canzone", quella che ballavano insieme, o che solo faceva da colonna sonora alle loro serate su quei divanetti di velluto ai margini della sala

- Non so ballare... - mormorai

- Non importa - disse appoggiandomi le mani sulle spalle - tanto bisogna solo stare abbracciati e dondolare un po'. E' un lento... -

Mi trovavo in uno stato emotivo confusionale che lentamente si stava trasformando in disagio fisico, e faceva ruotare la stanza, la musica, il mondo intorno a me. Mentre Camilla mi stringeva le braccia nude e fredde dietro il collo, le parole di Rino continuavano a ronzarmi nella testa, e continuavano a mescolarsi senza armonia né continuità alla sensazioni che venivano dall'esterno...il profumo dei capelli di Camilla, la sua gonna che mi frusciava tra i piedi, i suoni troppo forti nelle orecchie, il contatto con la pelle gelida di quelle mani appoggiate su di me, l'ondeggiare morbido di lei...

- Dido - mi bisbigliò all'orecchio, con voce rotta - ce l'ho fatta, sai? -

Poi chinò il capo tra il mio collo e la mia spalla e le sue lacrime mi bagnarono la camicia.

La strinsi forte dietro la schiena, e un brivido forte mi scivolò lungo la spina dorsale. E il brivido non cancellò quel brusio, quel chiacchiericcio mentale senza fine.

...

Il pianto di Camilla, la fine definitiva, la vera fine.

Le cose importanti.

Rino Daniel e le cose importanti.

Rino Daniel che non vuole essere solo. Mai.

 

"Le cose importanti" fu il titolo del nostro editoriale, e lo scrisse Rino in pochi minuti. Uno scritto meraviglioso.

Beh, "meraviglioso" per me, ovviamente, ma avevo già previsto che Filippo non sarebbe stato dello stesso parere.

- Una romanticheria - aveva detto, infatti - possibile che voi letterati non vi lasciate mai sfuggire l'occasione di anteporre l'intimismo appiccicoso a ciò che è serio veramente, oggi? - tuttavia volle blandire la sua stroncatura con un insolitamente remissivo "Fate vobis".

Io, invece, non gli usai la stessa cortesia: del resto, una volta stretto un rapporto di familiarità con il resto dello staff, avevo cominciato a rispondergli per le rime, anzi, il più delle volte mi piaceva mettermi alla prova facendolo

- Scusa se ti contraddico - ribattei - ma si dà il caso che il criterio con cui separare le "cose serie" da quelle che non lo sono non sia univoco. E gira voce che il mio sia come al solito diverso dal tuo -

- Esponimelo, di grazia -

- Beh, prima di tutto Rino ed io non limitiamo il campo d'azione della parola “serietà” alla politica -

- Io nemmeno... -

- Ma dai, Filippo: non lo sappiamo tutti a cosa ti riferisci quando parli di "cose serie"? -

Riuscii a suscitare uno scoppio di risa tra i presenti, tanto che, incoraggiato dall'approvazione, rincarai la dose

- Noi - e strizzai l'occhio a Rino, che non sembrava divertirsi molto - non volevamo parlare di "ciò che è importante oggi", quanto di ciò che è "importante" fuori dal tempo -

Filippo non volle farsi togliere di bocca l'ultima parola e sentenziò, tutto risentito

- "Fuori dal tempo"? Niente è fuori dal tempo -

Ma ormai lo staff era tutto schierato a nostro favore, e il signor direttore dovette arrendersi.

Non se la prese, però: anzi, quella sera stessa, in separata sede, mi fece persino i complimenti. Chissà, forse era convinto di essere lui il mio mentore, come sospettava Alberto.

- Accidenti - mi disse - sei stato agguerritissimo. Se continui così un giorno o l'altro mi darai filo da torcere! -

Io, che, riuscivo a essere battagliero solo sotto provocazione, e neanche sempre, farfugliai poche parole, impacciato.

- Macché...è che mi stava a cuore l'argomento -

- davvero? Perché? -

- Beh, perché... -

Perché.

Già: perché? Per la stessa ragione - avrei potuto dirgli - per cui avevo corso dietro a Rino su per una salita ciottolosa sotto la pioggia anche se ero stanco e inerte e avrei pagato per restare seduto su quel sasso; per la stessa ragione per cui avevo pedalato senza meta per ore fino a farmi gonfiare i piedi, in un viale in piena notte...Nulla trovava il suo posto, in quei giorni: c'era qualcosa che mi dava fastidio e che non riuscivo a focalizzare, un qualcosa di ineffabile e indistinto, irrisolto e irrisolvibile, ma che doveva avere a che fare con Camilla e me, con quella situazione, e coinvolgere per qualche strana ragione Rino e il suo discorso.

- Perché - dissi, invece - è una domanda che non mi ero mai fatto -

- quale? Le cose importanti? -

- Si -

- Oh, per carità! -

Filippo saltò a sedere sulla scrivania, non so se sorpreso o seccato, o solo rassegnato a quei miei ghirigori mentali che gli davano tanto fastidio. Io non gli diedi peso e insistetti: avevo troppo bisogno di chiederglielo.

- Perché - dissi - tu sai quali sono? -.

Lui mi guardò con un'aria compassionevole, scoppiò in una risata sfacciata, poi appoggiò un plico di fogli sul piano del tavolo, s'alzò, venne verso di me.

- Ci tieni così tanto a saperlo? -

Annuii.

- Ce ne sono un'infinità. Così tante che se solo dovessi pensare d'elencarle impazzirei, e, come hai detto alla riunione tu, non coincidono certo con quelle che lo sono per te. Comunque... - strinse le labbra in un sorriso un po' storto, istantaneo, non so se per beffa verso di me o per sostegno alla propria serietà - quello di cui sono sicuro è che la cosa più importante per me sono io -

- Che? -

Non mi aspettavo una così franca dichiarazione di egocentrismo: rimasi un attimo interdetto

- Non credi - mi azzardai - che sia un concetto un pochino egoista? -

- Per niente - rispose con naturalezza lui, appoggiando le spalle al davanzale della finestra - Credo invece che sia il presupposto dell'altruismo e della disponibilità affettiva e intellettuale. Non si può mettere a disposizione qualcosa del cui valore non si è sicuri. Io voglio...anzi, io ho sempre voluto e ottenuto di essere importante per me, per me prima di tutto e tutti, e in questo pronome ci metto tutte le cose che apprezzo o disprezzo di me stesso, le idee, la combattività, la rabbia, l'impegno, il lavoro che faccio, ciò che dico e che non dico. Mi piace l'immagine che ho di me stesso, mi compiaccio di me quando parlo o agisco o scrivo, e per le cose in base a cui lo faccio...ciò non toglie - all'improvviso cambiò espressione, fece leva sulle mani e sollevò le gambe rigide, dondolandole leggermente per aria - che sarei disposto a morire pur di non perdere tutto questo -

Non compresi, in verità, se si trattasse di un autoritratto un po' romanzesco - come quelli che lui tanto disprezzava ma a cui tanto spesso mi pareva somigliasse - tratteggiato solo per deridere me e il mio "intimismo appiccicoso", o se fosse stato uno sfoggio di sincerità, una dichiarazione di coerenza. Quest'ultimo tratto glielo avrei attribuito volentieri: mi piaceva immaginarlo fedele a se stesso e vedere nella sua caparbietà nient'altro che un'emanazione di tale virtù.

Avrei voluto poter dire lo stesso di me...Avrebbe significato possedere un punto fisso che non si muove mai, anzi, meglio ancora si sposta seguendo i miei passi....

Ecco, cominciava ad agitarsi qualcosa: il disagio stava prendendo forma.

Dovetti faticare per combatterlo, sforzandomi di gestirlo alla meglio, senza fomentare in me quel senso di esclusione che gli sfoghi di Camilla mi provocavano, quando sedevamo, sera dopo sera, su quel divanetto sempre più sfondato, con le molle sporgenti che pungevano la schiena.

Per scacciarlo scelsi il sistema peggiore: mi feci scudo delle mie tristezze, presenti o passate, cercando di recuperarne alcune che contassero, che valessero quanto le sue, e così non fui mai capace di dargli quel consiglio scontato che si dà in queste occasioni, e che ero tuttavia convinto che fosse il più giusto: lasciar perdere, mollare tutto, malinconia compresa, darsi da fare, cercarsi una nuova attività, uscire, divertirsi, dimenticare ogni cosa.

In realtà, ciò di cui avevo più paura era proprio l'attaccamento con cui lei coltivava la sua sofferenza: temevo che spronarla a staccarsene l'avrebbe offesa, l'avrebbe fatta sentire sminuita e umiliata. E, ciò nonostante, condividere con lei le mie magagne recuperate per solidarietà non bastava a rendermi suo complice: guardavo da fuori, con paziente lentezza, qualcosa che mi stava scivolando sopra, che non mi apparteneva e di cui avrei voluto liberarmi presto.

 

Un pomeriggio tornò a casa nervosa. Sbattè la porta con violenza e scaricò a terra i pacchi della spesa, mandando in frantumi nell'impatto un bicchiere colorato ricevuto in omaggio coi punti del supermercato.

Io stavo sfogliando il numero - pronto per la stampa - del "Cambio Rotta letterario". Alzai la testa appena, strizzando gli occhi stanchi per la lettura: dalle tende passava poca luce e fuori pioveva.

- Scusa... - disse - Ti ho spaventato? -

- No - risposi, assente - avevo sentito la chiave girare nella porta -.

Si tolse l'impermeabile, e lo appoggiò sul termosifone, ma quando fece per allontanarsi questo scivolò, rimanendo appeso per un lato e strusciando con l'altro sul pavimento.

- Maledizione! - esclamò lei - maledizione, oggi va tutto storto! -.

Lo lasciò lì, a gocciolare sulle mattonelle lucide, e raccolse invece i vetrini colorati, ponendoseli delicatamente, uno ad uno, sul palmo teso della mano.

- Ti aiuto? - mi offrii

- No, ho già fatto -

Poi rovesciò i pezzi di vetro nella spazzatura

- Peccato - mormorò - era molto bello... -

Mi raccontò di averlo incontrato: lui l'aveva salutata e lei aveva finto di non vederlo. Avrebbe preferito che l'avesse ignorata o trattata male: detestava la sua correttezza, quel comportarsi come se tutto fosse normale, come se fossero stati amici da sempre.

- Garantisco - dichiarò - che quel "ciao" detto così è stato peggio di una pugnalata! -

Si calmò, camminando su e giù per la stanza, finché s'avvicinò alla finestra e stampò l'impronta delle mani e della fronte sull'appannatura dei vetri. La pioggia stava picchiando sul davanzale e faceva un bel suono nel silenzio, ma quel silenzio mi era insopportabile.

- Sai - dissi allora, tanto per parlare - abbiamo terminato il nuovo numero -.

Sapevo di essere completamente fuori luogo, ma erano proprio quelle le volte in cui le mie paranoie saltavano fuori in ribellione e mi dicevano che avevo diritto ad essere più triste di lei, anche senza che ne esistessero ragioni plausibili.

- Ah, bene - commentò, fredda - Filippo sarà contento -

Mi sentivo incompreso, mi dava fastidio la consapevolezza che il mio disagio contasse meno del suo, che la mia esclusione non avesse un peso, e mi pareva terribilmente ingiusto non poter affermare che, in modo indiretto, non so per quali direzioni, quella situazione stava suscitando un dramma di non minore violenza anche in me, e che la colpa era sua e lei non poteva e non doveva ignorarlo.

- Non era molto soddisfatto, invece - risposi, scostante - trova l'argomento una romanticheria -

Si vedeva lontano un miglio che quella conversazione era per entrambi totalmente priva di interesse, e niente ci impediva di interromperla. Tuttavia procedevamo per inerzia, ognuno per conto proprio, e più parlavamo, più una distanza incolmabile si poneva tra noi.

Lei prese in mano la pagina dell'editoriale.

- Non è una romanticheria - disse, un po' acida - è una scontatezza -

Volevo risponderle che le vere scontatezze erano le canzoni languide su cui si commuoveva la sera prima di andare a letto, ma stetti zitto. Lei fece lo stesso, e prese a disegnare ghirigori sulla finestra appannata: il rumore stridulo del suo dito contro il vetro era più fastidioso del silenzio di poco prima.

Rimanemmo così non so quanto, ognuno chiuso nel proprio isolamento senza sbocco.

Poi, nel momento in cui meno me l'aspettavo, Camilla sorrise, e riprese a parlare con totale spontaneità e dolcezza

- Importante, Mattia... - sussurrò con una voce che sembrava quasi la stessa di quando cantava - è quello che noi sappiamo rendere importante nel momento in cui lo viviamo. Ed è importante continuare a credere in sé stessi, perché anche se tutto... - e qui incespicò, inghiottendo rumorosamente - anche se tutto prima o poi finisce, se tutto è destinato a finire, ci sei sempre te...e sai che potrai trovare altre cose importanti -

Si voltò a guardarmi, e io m'accorsi di essere di nuovo spaventato e turbato, come quella mattina sulla salita con Rino

- E se una cosa ti manca - dichiarò, con quella bellissima voce incrinata, ma quasi solenne, oracolare - vuol dire che quella cosa era davvero importante...E bisogna...essere contenti -

Senza accorgermene, ineffabilmente, alle sue ultime tre parole mi era venuto da piangere: un pianto velocissimo e impercettibile, che Camilla non vide, e che, del resto, non era per lei. Non era per lei né per me, né per le cose importanti che finiscono e di cui bisognerebbe essere felici.

Mi ero invece commosso per lo sconcerto del mio disagio diventato finalmente toccabile, per l'improvvisa certezza che delle centinaia di cose che costituivano la mia vita ce n'erano un'infinità di utili, di valide, di piacevoli, e nemmeno una veramente irrinunciabile, e che questo fatto che avevo sempre creduto un punto di forza, invece di rendermi libero mi rendeva vuoto.

Avrei voluto anche io, fosse pure per una sola volta, trovarmi di fronte a qualcosa di così grande forte e terribile per cui valesse la pena mettere in gioco tutto, a qualsiasi costo: essere pronto a sacrificare ogni cosa e sentirmi tragicamente vivo.

Essere pronto a morire...

D'un tratto mi venne da pensare che Alberto aveva ragione: avrei dovuto nascere in un altro tempo, uno di quei secoli di grandi ideali collettivi, dove non ci vuole sforzo per sentirsi parte di una comunità, si resta coinvolti per forza.

O forse avrei dovuto solo nascere una persona diversa, capace e vitale, aperta e disponibile a tutte le emozioni, ben inserita nella realtà pratica che gli gira intorno.

Un uomo che sa di contare qualcosa per il mondo, consapevole del suo valore, col coraggio di fare e di disfare, un uomo libero, forte, fiducioso e ottimista.

Attivo ed entusiasta, come Filippo.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


VI

 

 

Uomo che speri senza pace

stanca ombra nella luce polverosa

l'ultimo caldo se ne andrà a momenti

e vagherai indistinto

 

(G. Ungaretti)

 

 

Il suono del campanello mi sorprese ancora in canottiera, mi infilai la camicia al contrario, così come l'avevo lasciata sulla sedia la sera prima, e scattai ad aprire.

- Sorpresa!...Non mi dire che dormivi! -

- Alberto...! -

La mia espressione di imbarazzo lo fece scoppiare in una sana risata: alle sue spalle Filippo, che non mi aveva messo al corrente di quella visita, ridacchiava.

- Sono arrivato ora - mi informò - e la prima persona che ho pensato di incontrare è stata l'esimio signor Loira, il responsabile della più grande rivista letteraria fiorentina! - e strizzò l'occhio a Filippo, ammiccando.

- Fossi in te - risposi - prenderei meno in giro, e comincerei con lo spiegare cosa ti ha condotto in questa torrida città spopolata in pieno luglio, con le Alpi a due passi da casa -

- Me lo domandi? - esclamò, contraendo il volto in una di quelle sue espressioni da teatro - Il lavoro, il lavoro!...Ahi lasso, quale fardello sulla mia schiena curvata dalle fatiche! Non vedi come il sudore mi gronda dalla fronte? -

- Io dico che è per il caldo - lo smontò Filippo - Non mi hai appena detto che di luglio la rivista non la compra nessuno e che quei pochi non s'accorgerebbero nemmeno se l'editoriale fosse scritto all'incontrario? -

- Si, è vero - ammise lui, continuando ad atteggiarsi a istrione - Ma pensa... - piagnucolò - come sarebbe più bello essere sdraiati su una stuoia in riva al mare: sole, “cocco bello“ e granita! Certo che è dura fare l'uomo di cultura...Sai che ci vorrebbe per me? Il "lavoro intellettuale part-time" - scattò in piedi come se avesse appena avuto un'idea grandiosa - E nel tempo rimanente potrei fare...vediamo...L'animatore turistico!...Che ne pensi, eh, Mattia? -

- Che non saresti niente male! - commentai.

- Vedi Scizio? Il ragazzo è un intenditore! -

Alberto - mi riferirono più tardi - non era venuto a Firenze per Filippo, ma perché era mebro della giuria di un premio letterario e la premiazione si sarebbe tenuta in quei giorni.

La città era quasi deserta, e un caldo umido l'avvolgeva in una cappa pesante; ma il cielo era sempre sereno, tranne qualche alone di foschia che gli si stendeva sopra ogni tanto. Mi piaceva camminare per le strade vuote, amavo la magia sospesa di quelle ore morte in cui tutto sembra fermo, e insieme pare che ci sia sempre qualcosa che sta per succedere.

Stavo trascorrendo un periodo di riposo: con la prima settimana del mese si era chiusa la sessione estiva, e credevo d'aver diritto a un meritato ozio, interrotto solamente dalle poche faccende del "Cambio Rotta".

Camilla, invece, si dava un gran da fare: lavorava contemporaneamente in tre discoteche e al mattino non la svegliavano nemmeno le cannonate, mentre una volta alla settimana si era presa l'incarico di pulire le scale del palazzo e l'ingresso. Di solito la aiutavo anch'io: ci mettevamo lì, con spazzoloni e granate, la sera, verso le sette, per non soffrire troppo l'afa estiva, e giù di brutto a spazzare, spolverare, e lavare per due o tre ore...Ricordo che avevo preso quel lavoro come una cura: la fatica era salutare, avevo la sensazione che mi servisse per purificarmi dall’inerzia dei pomeriggi inoperosi e assonnoliti, e mi trasmettesse nuove energie, fremiti estivi e vitali.

Al termine del lavoro, ci sedevamo sul gradino del portone, con le gambe allungate sul marciapiede, le spalle all'opera finita, e guardavamo venire buio, e il cielo tra i tetti che diventava sempre più scuro, stupiti di essere seduti come vecchiette di paese su una porta di una casa di città, su un marciapiede lungo una strada di città, nel bel mezzo d'una città affollata e anonima che in quei giorni era quasi esclusivamente nostra.

 

- Ci andiamo davvero al mare, Dido? Dimmi che non scherzi! -

Camilla aveva cominciato a saltellare per la casa, esaltata, dopo aver accolto la mia proposta con un urletto d'eccitazione.

- Ci andiamo eccome - le ripetei io - lo hanno deciso Alberto e Filippo. Il giorno dopo la premiazione, si parte: andiamo con la macchina di Alberto e poi lui torna direttamente a Torino e noi prendiamo il treno per Firenze -

- Ma posso venire anche io? Te lo hanno proprio chiesto loro? -

- Ti ho detto di si, Milly. E' stato proprio Filippo a insistere, me lo ha persino raccomandato due o tre volte! -

- Dio, che bello, che bello!...Sono almeno quattro anni che non vedo il mare! Non immagini che voglia ne ho! Credi che riuscirò finalmente ad abbronzarmi?...Ehi, Dido, che dici, con gli spiccioli racimolati con la discoteca me lo potrò permettere un costume nuovo? -

- Ma certo che si, certo che si. Si vive una volta sola -

Assecondavo il suo entusiasmo senza troppi sbilanciamenti, ma in realtà l'idea della partenza eccitava molto anche me, e non tanto per il fatto di andare al mare, quanto perché Rino mi aveva talmente parlato della meta, che non mi pareva possibile dovesse essere un luogo meno bello di come me l'aveva descritto. Lo testimoniava innanzi tutto il suo slancio nel decidere di partire, nello "spostarsi dal suo nido" senza l'esitazione e la titubanza consuete, che irridevano alle malignità di Filippo a questo proposito: ma Rino era uno strano personaggio, e nello stesso modo in cui si vergognava a partecipare con noi ad una cena di redazione, era capace di fare le valige avvertito solo poco prima, e partire per una settimana insieme a due colleghi e due altri semisconosciuti, per raggiungere il "suo posto"...

Ci andava in vacanza da bambino, con la sua famiglia e quella di Filippo: era un paese a nemmeno due ore di viaggio da Firenze, appena fuori toscana, eppure lui non c'era più tornato.

Dall'ultima volta che era stato lì erano passati quindici anni.

 

Ci lasciammo alle spalle l'afa calda cittadina un bel mattino all'alba, con la macchina carica di bagagli, gli occhi abbottonati e l'atmosfera da gita scolastica. Senza riguardo a Filippo, conquistai il sedile davanti, e chiacchierai con Alberto tutto il tempo, senza posa. Lui mi sottopose a un vero e proprio interrogatorio sulla mia vita privata, in cui, per forza di cose, venne coinvolta anche Camilla, che s'era messa in mezzo, sul sedile di dietro, e ogni tanto inseriva la sua faccia da furetto tra i due schienali anteriori, sbirciando ora Alberto ora me, ora l'autostrada Firenze mare che si srotolava veloce sotto di noi.

Mi sentivo libero e contento, e non tanto, o non principalmente, per quella nostra aria vacanziera, quanto per la soddisfazione di riuscire per una volta a dare a Filippo un'immagine di me ben diversa da quella che conosceva. Con la complicità di Alberto, e l'appoggio della sua leggerezza senza finzione, il ragazzetto lamentevole e spaurito che si era lagnato davanti a lui della sua "vita così inutile", si prendeva una rivincita - o almeno così pareva a me - sull'uomo serioso del sedile di dietro, nella parentesi imprevista della “non finalità“, dove il trionfo dell'inutilità diventava semplicemente allegria.

Ero completamente concentrato sulla mia frivolezza, su quell'immagine gradevole e sconosciuta di me, e più credevo di riuscire a scandalizzarlo e infastidirlo, più ero, nel vero senso del termine, profondamente orgoglioso di me.

Come ammiravo Alberto! Come mi piaceva quell'uomo senza vincoli di ruolo, capace di passare con tanta naturalezza da un’irreprensibile dedizione al lavoro e alla cultura, a una totale consacrazione alla banalità, come mi piacevano l'agilità e la destrezza con cui saltava, senza strascichi o stonature, da una dimensione all'altra della vita, come riusciva a trascinarmi con sé, dalla sua parte, senza remore...!

Era meravigliosamente limpido, aereo e veriopinto, ed io pensavo che nessuno, tranne lui, avrebbe potuto permettersi di cantare "luglio col bene che ti voglio..." senza per questo perdere di credibilità davanti allo sguardo giudice del severissimo Filippo Scizio, e che quel giorno stava permettendo lo stesso a me, solo in virtù della sua abbagliante presenza...Pensai che lui era come l'estate, la stagione in cui tutto può essere bello e facile - la stagione che non era mai stata davvero così, per me - e che quel momento era il mio vero “cambio di stagione“: non il ventuno di giugno, ma quel giorno in quell'ora...L'aria entrava a pressione dai finestrini: per riuscire a sentire le nostre proprie voci bisognava cantare a squarciagola: Firenze e la vita comune erano già molto lontane, e Filippo là dietro era diventato uno spettatore bonario e indifferente.

 

La stessa atmosfera non venne meno una volta arrivati: sembravamo davvero un gruppo di ragazzotti in vacanza, anche quando Filippo cercava di riprendere sotto controllo la situazione. Tuttavia finalmente credevo di aver trovato delle cose che lui non sapeva fare e lo osservavo che ci guardava correre dietro una bandierina sulla spiaggia con quel mezzo sorriso di superiorità e invidia che immaginavo di avere io quando mi cadeva l'occhio su quei due scolaretti che si scambiavano effusioni alla fermata del diciassette.

Ma forse il sicuro Filippo non provava invidia: forse aveva rinunciato da sempre all'interezza di uno come Alberto, e sapeva semplicemente distinguere ciò che era importante da ciò che non lo era, per lui. E solo quello che riteneva importante lo faceva a qualsiasi costo. Doveva essere il segreto della soddisfazione di sé, e certamente i nostri giochi di società non contribuivano né a rafforzarla né a scalfirla: era per questo che poteva rimanere serenamente impassibile.

Per me, invece, era diverso: per me, a differenza di Filippo, quella vacanza una certa importanza doveva averla.

Mi sentivo stranamente leggero, autosufficiente e improvvisatore, credevo di somigliare al personaggio di un cartone animato (dirò meglio: avevo voglia di sforzarmi per esserlo), fatto di carta colorata svolazzante, che sbatte la testa conto il muro e precipita da un grattacielo senza farsi male, capace di uno straordinario, indescrivibile equilibrio, ed avevo bisogno di questa conferma, di sapere che c'era anche per me una possibilità del genere, un modo d'esistere diverso.

L'unico contatto col mio universo reale, e non per questo sgradito in quella circostanza, furono i versi di Sereni, che Alberto declamava continuamente e ad ogni occasione, felice di aver trovato una persona che lo amasse quanto lui. Anzi, ho un diario di viaggio tenuto su un quadernaccio a quadretti che si apre così: " - sono andati via tutti - blaterava la voce dentro il ricevitore, e poi, saputa - non torneranno più - "...Filippo disse che questo era un diario che cominciava dall'ultima pagina, e forse era vero: rispondeva benissimo alla mia propensione a vivere tanti momenti della vita partendo dal fondo, col presentimento ossessivo della fine che getta sempre un'ombra di inquietudine sullo srotolarsi dei giorni e irridendo alla serenità.

Inoltre, a chiusura di vacanza, davvero fine e principio di quel quaderno vennero a coincidere, perché le pagine centrali furono strappate via via per lasciare o prendere indirizzi, e ne rimasero solo due.

"Vicende vacanziere” recitava la prima “Camilla ha rimorchiato un ragazzo. Mattia si mette le mani nei capelli e dice: siamo da capo"

...Lo pensai davvero, come no, ma non lo dissi, nonostante la malignità che Filippo volle attribuirmi riportandola sulla nostra agenda...In effetti mi scoraggiava il rischio di una nuova odissea amorosa in cui, volente o nolente, sarei stato trascinato, e bisognava, ad essere onesti, aggiungere anche il solito senso di fastidio dato non so se dalla facilità con cui lei sapeva vivere l'amore, da una punta di moralismo o d'invidia, o anche solo dal fatto che quel suo nuovo compagno mi pareva veramente stupido...

Di fatto, criticavo spesso il suo ossessivo refrain di auto assoluzione "Son cose d'estate: ci si diverte e poi ognuno a casa sua", e gli opponevo alti ideali di intensità, sincerità e passione che, in fondo, difendevo più per partito preso che per esperienza personale. Non so con quale spirito di sopportazione riuscì a non rispondermi mai: "ma che ne sai dell'amore, tu!", anche se il pensiero le si leggeva nitidamente in faccia.

Filippo, invece, ascoltava i nostri battibecchi con compassionevole disinteresse, e anche con una punta di soddisfazione quando una frase fatta, o una risata sguaiata di Camilla seduta sulle ginocchia di lui sembravano confermargli la sua certezza di averla già "inquadrata realisticamente da tempo", al contrario di quanto credeva avessi fatto io.

Non per questo la giudicava: si limitava a constatare e a esporre lucidamente i suoi pensieri a me, e se io gli sollecitavo una presa di posizione, abituato com'ero alla sue sentenze senza scampo, scrollava le spalle sorridendo e diceva: "E' giovane, ed è al mare", parlando pacificamente come un adulto di una ragazzina, ed escludendo in partenza se stesso dal concetto di giovinezza, con una nota di orgoglio, quasi si fosse trattato di una fase della vita da superare bene e presto.

Gli interessava di più, invece, il mio atteggiamento di fronte a tutto questo: era abituato a come di solito fossi io ad assolvere tutto e tutti, e in men che non si dica formulò anche la sua diagnosi.

- Dimmi una cosa - mi chiese una sera che era in vena di conversazioni senza impegno - Da quanto tempo sei innamorato di Camilla? -

Io strabuzzai gli occhi che pure, data una certa stanchezza, non vollero spalancarsi abbastanza per rendere la giusta espressione di stupore

- Da quanto tempo...Ehi!...Ma sei impazzito?!? -

Filippo scoppiò a ridere

- Ma dai! Si vede lontano un miglio! -

Poi si accorse di star perdendo una splendida occasione di auto elogio e si corresse

- Cioè, gli altri potranno non essersene accorti, ma io... -

- Ma tu - gli completai la frase sicuro di avere uno scarso margine d'errore - data la tua straordinaria intelligenza hai già capito ogni cosa, ben prima...vediamo...ben prima che lo capissi io stesso! -

- Appunto - stette allo scherzo - ...Allora? -

- Allora niente - feci io, un po' spazientito - Sono amareggiato di causare un simile smacco al tuo geniale potere intuitivo, ma stavolta sei davvero fuori strada -

- Ehi! - mi rabbonì lui, sorridendo - Non ti sarai mica offeso! Come sei suscettibile Mattia. Stavo solo cercando di motivare le tue manifestazioni di insofferenza verso le scappatelle della signorina De-Gaddi Ciuffino!...Scherzi a parte, non c'è bisogno di questa grande capacità d'intuizione per vederle! -

Quell'insolita disponibilità mi tranquillizzò, e cercai di prenderlo sul lato serio

- No, non mi sono offeso - dissi - figurati. Solo...è un argomento di cui non saprei parlare...E' una faccenda...un po' delicata, ecco, e non saprei dirti precisamente cosa mi innervosisca nell'atteggiamento di Camilla...l'unica cosa che ti posso garantire è che non sono innamorato di lei...Io non sono mai stato innamorato di nessuna - e aggiunsi, grave, un poco costretto, un poco per attirare l'attenzione - Io non mi innamoro mai -

Filippo si stiracchiò le braccia, poi se le potrò incrociate dietro la testa

- Prima o poi ti capiterà - disse solo, niente affatto sorpreso o, come più sospettavo, infastidito dalla mia netta sentenza - Non avere fretta. E' una cosa di natura. E bisogna prenderla così. Con naturalezza -

Parve non avere da aggiungere altro, e io ne approfittai per troncare la conversazione. Quella sera, però, prima di dormire, provai a immaginare come potesse comportarsi Filippo con una donna. Mi accorsi di non sapere proprio niente della sua vita sentimentale: forse era fidanzato, credeva nei valori della famiglia...Mah...in vero non mi sembrava il tipo...Il suo temperamento me lo faceva vedere solo come il leader di un gruppo, e non riuscivo a figurarmelo adatto alla vita in due.

Le sue idee trasgressive e liberali mi avrebbero spinto a pensarlo piuttosto un "libertino", ma era già stato dimostrato abbondantemente come tutti gli schemi mentali che mi ero costruito per analizzarlo cadessero inesorabilmente in pezzi di fronte alla sua sfaccettata personalità.

Era inutile farsi strane idee, quindi; ma prima di crollare nel sonno mi sorpresi a porre a me stesso un interrogativo: possibile che mi affascinasse di più una sola frase di Filippo che non tutti gli atteggiamenti di Camilla messi insieme? Altro che innamorato! Vivevo ancora nel mondo dei romanzi, io: mi piacevano i personaggi costruiti da me, non le persone vere!

 

Nell'altra delle pagine salvate dallo scempio restava un'annotazione in lettere grosse e tonde: "Oggi spedite cartoline: le ha scritte tutte Filippo perché il suo livello cognitivo molto elevato fa sì che lui s'esprima meglio di noi"...la grafia stavolta è quella di Alberto, sotto ci sono i commenti di Camilla e me e la risposta dell'interessato, e non so ancora se preferisco considerarla una testimonianza della capacità di Alberto di abbassarsi a simili giochetti stupidi o un ricordo del bellissimo dialogo con Filippo che venne dopo. Fatto sta che allora servì a immortalare quella gloriosa affermazione che gli sfuggì scherzosamente e con cui lo prendemmo in giro molto a lungo.

- Potete tranquillamente sfottere - mi disse lui quella sera che fu tra le più importanti trascorse in sua compagnia, e una delle ultime passate lì - Non mi offendo mai quando le cose sono vere. Mi indigna solo la falsità!...E io sono un superbo esemplare, giusto? -

Stavo per dare sfoggio di buona educazione cantilenando "certo che no, figurati", ma lui non me ne lasciò il tempo

- Del resto sarà la prima impressione che ti ho fatto - disse, cogliendo, come al solito, nel bel centro del tiro a segno - un superbaccio altezzoso! E non avresti avuto torto: ma la differenza tra me e la gran maggioranza dei superbi è che io ne sono orgogliosamente consapevole. E' una delle mie migliori doti! -

Sorrise, saltando su uno scoglio (la scogliera era già quasi in ombra, erano circa le sette...Camilla e Alberto non erano ancora tornati dalla scarpinata nell'interno dove li aveva trascinati Rino): non mi sarei mai aspettato che fosse in vena di confidenze.

- Sai - spiegò - io apprezzo molto l'ostentazione della superbia, almeno quanto detesto quella della modestia. Anzi, ti dirò che mi diverto parecchio a scandalizzare gli altri con i miei auto elogi: se non ricordi male ci ho provato anche con te!...Mi piace vedere la faccia che fanno le persone, dato che in genere, nella civile convivenza, sì è abituati piuttosto alla falsa modestia -

- E invece la tua - ironizzai, lanciando un sasso nell'acqua - è falsa superbia, suppongo... -

Mi pareva che volesse andare a parare in quella direzione, e tentai di fare per una volta anch'io un centro nel bersaglio

- Niente affatto - mi rispose - Io sono e rimango fondamentalmente un superbo. Ma credo che confidare nella propria intelligenza, sentirsi "bravi", sentirsi "più bravi" di tanti altri, possa considerarsi un pregio anziché un difetto -

- ...Ma quella di cui parli - lo interruppi all'improvviso - non è superbia in senso stretto. E' sicurezza di sé. E' diverso -

- Non così diverso da... -

Rimase in silenzio un attimo, serissimo, guardando l'orizzonte. Poi rannicchiò le ginocchia al petto (ci eravamo frattanto seduti, gli schizzi delle onde sulla scogliera ci stavano bagnando l'estremità dei pantaloni) e vi appoggiò sopra il mento, pensieroso. Era un'espressione "nuova" per me...

- Sai Mattia... - riprese - che sei veramente acuto? -

Sorrisi al complimento, benché sorpreso

- Comunque - insistette - io conosco anche la superbia in senso stretto, e, credici o no, è un aspetto di me che non mi piace molto, o non mi piace sempre, e avverto come una limitazione di me stesso il fatto di non riuscire a eliminarlo -

- Cioè? - chiesi io, perplesso

- Cioè - fece eco lui, deciso - Cioè mi accade molto spesso, in qualsiasi tipo di relazione umana, con qualsiasi tipo di persona, di pensare "ecco, questo uomo, questa donna che ho davanti è scontata e superficiale, io, senz'altro, sono intellettivamente molto più capace"...e ti garantisco che un tipo simile di approccio all'altro inibisce parecchio non solo le possibilità di relazione, ma anche una schietta e aperta coscienza critica. In sostanza, si tolgono della possibilità all'interlocutore e a se stessi, e alle volte è frustrante -

Rimasi colpito nel sentirlo parlare tanto lucidamente dei propri difetti: aveva sempre così ostentato di non ritenere d'averne che quasi me ne ero convinto anche io...Ma appena un istante dopo il mio pensiero si era già rivolto al sospetto di tutte le volte che probabilmente aveva pensato quelle stesse cose di me, e l'idea mi turbò.

- Vedi - proseguiva intanto lui - un caso esemplare è Camilla. Se non ci fossi stato tu, io avrei continuato a dire a me stesso, tutte le volte che la incontravo "che ragazza frivola e stupida. Non potrei mai riuscire a sopportarla"...E quello che mi pesa, con tutto il rispetto per lei, è che a volte mi succede tuttora, così come con moltissimi altri -

Stavolta fu lui a lanciare un sasso in acqua, e lo fece rimbalzare tre volte sulla superficie

- Bravo! - esclamai, e poi, ridendo, e cercando di fingere disinteresse - ...Chissà quante volte hai pensato lo stesso nei riguardi del sottoscritto! -

Filippo si voltò a guardarmi serio serio, e all'improvviso scoppiò a ridere

- Ah! - fece - ecco cosa ti preoccupa! -

Saltò in piedi sullo scoglio, e mi squadrò dall'alto in basso: non aveva una gran statura, ma da quella posizione la sua figura era davvero sormontante, fosse stato anche solo per l'ombra lunga che si era stesa comodamente su di me

- Beh, ti sbagli di grosso - dichiarò - dal primo giorno che ti ho conosciuto ho subito pensato che valesse la pena frequentarti. E' vero, devo confessare che ti ho sempre ritenuto sprovveduto e ingenuo, ma ho anche sempre avuto l'impressione che dovessi solo essere "svegliato". E qui ecco il non plus ultra della superbia: credevo di poterlo fare io...! Non ti illudere: lo credo ancora. Solo che penso anche che tu possegga certi aspetti che io non posso capire, che non mi apparterranno mai, che fanno sì che tu sia così come sei, così diverso da me, e che tuttavia non per questo reputo inferiori, e credo che valga la pena di valorizzarli. ...Pensi forse che mi sarei scelto un cretino come collaboratore?...Non sia mai. Il mio livello cognitivo elevatissimo non lo consente! -

Non avevo motivi di credere a quel complimento: tante e troppe volte, e soprattutto "il primo giorno che mi aveva conosciuto" aveva dimostrato di sentirsi superiore a me perché potessi pensare che si trattasse solo di manifestazioni di sicurezza fatte con l'intento di "svegliarmi". Tuttavia, siccome quanto ero bravo ad auto deprimermi, ugualmente sapevo esserlo nel raccontarmi le favole, mi piacque supporre che davvero, frequentandolo, fossi stato io a fargli cambiare impressione, e mi chiesi se non avessi davvero un "segreto nascosto", un pregio speciale che Filippo non poteva apprezzare del tutto.

Fu allora, credo, che mi resi conto che in fondo, tutte le volte che avevo discusso con lui, non mi ero mai sentito veramente inferiore: mi era capitato spessissimo di farmi scudo di un silenzio protettivo dietro il quale tra me dicevo: "inutile insistere: non capirà mai, non può capire", e così far pari con la consapevolezza di essere debole di fronte a lui, che era forte.

Eh sì, era proprio la verità: accidenti, era Filippo, altro che io, ad essere acuto! Ora capivo che ero superbo anche io, ero sempre stato superbo e avevo sempre voluto dare l'impressione del contrario. Ed era una superbia molto più subdola della sua, era un vile alibi per cercare di credersi bravi e belli quando non si ha il coraggio di darne prova all'esterno.

Tantissime volte, anche solo parlando con gli altri, mi era capitato di sentire ciò che diceva lui...mi era capitato con Camilla, quando mi faceva ripetere le solite frasi fino alla noia per farsi convincere di qualcosa, coi compagni d'università, a volte con lo stesso Rino...

Era spaventoso: si poteva essere insieme sfiduciati, insicuri e terribilmente superbi. E soprattutto: com'era facile perdere stima di sé, di fronte ad una scoperta di questo genere! In quel momento sì che mi sentivo davvero inferiore a quel giovane straordinario, schietto e intelligente: superbo, sì...ma ugualmente capace di delicatezza, sincero nelle antipatie come negli affetti...! L'ombra lunghissima di lui in piedi mi copriva ormai del tutto, riportava perfettamente sullo scoglio il suo profilo affilato come lo spigolo di un mobile, quel suo naso dritto dritto, un po' all'insù, che avrebbe voluto sfidare persino il venticello marino di quella sera, la sua fronte piana e le sue dita esili, ancor più sottili in quella sagoma lunga...Avrei potuto confonderlo con le onde, così pacate e così maestose, col loro moto continuo, infaticato, e coi colori di tutta l'aria e di tutto il cielo, quella sera...un essere etereo e corposo insieme.

Ad un tratto Filippo si voltò, e saltò giù dallo scoglio, lasciando che il sole mi colpisse dritto in faccia.

- Dove vai? - chiesi.

- All'albergo. Stanno tornando -

E mi indicò in lontananza Rino Alberto e Milly che s'avvicinavano, ciondolanti sulla strada polverosa

- Ehi - aggiunse - cos'è questo sguardo assorto? -

Poi fissò anche lui il tramonto, con tutto quel rosso ovunque, che sembrava che il sole si stesse squagliando come un gelato.

- Già... - disse - dimenticavo. Tu sei un "letterato"...ti lascerai commuovere dai tramonti -

Quel commento mi riportò ad una dimensione più naturale; sorrisi

- Proprio commuovere no... - risposi - Ma devi ammettere che sono molto belli -

Esitai un istante e mi venne voglia di dire una cosa

- E, a proposito - ripresi - io non sono un "letterato"...Insomma, credo che la letteratura non sia, non sarà lo scopo della mia vita, anche se, ora come ora, la mia vita è limitata a questo. Un vero letterato credo che sappia vivere del suo amore per l'arte. Io, invece, penso di aver bisogno di altre cose...Quali cose, non so: ma ci penso spesso -

Non so dove andai a pescare un commento del genere, che non aveva motivo alcuno di inserirsi proprio lì...Certo lo dissi più a me stesso che a Filippo, tanto che neppure ricordo se e cosa mi rispose. Ma fatto sta che, come se mi fossi liberato di un pensiero e lo avessi affidato a quel mare - al suo moto continuo, infaticato -, immortalandolo per sempre, scesi anch'io dallo scoglio e precedetti Filippo incontro a Rino e gli altri, con una corsa che mi sembrò tanto, tanto leggera.

 

L'ultima sera fu un freddo bestiale. Era piovuto, la sabbia era umidiccia, il mare si accaniva contro la riva così arrabbiato che definirlo mosso sarebbe stato riduttivo.

Eppure Alberto insistette per non rinunciare al classico falò sulla spiaggia: ci saremmo armati di giacche a vento e coperte - diceva - tanto "che volete che sia, che volete che sia un po' di tempesta!"...eh no, proprio no: non si poteva davvero fare a meno del romantico addio alla vacanza, del sommario, del momento conclusivo...lui, da giovane, non lo avrebbe fatto neppure...

- Neppure a rischio di una broncopolmonite!...Insomma, Mattia: è una cosa basilare!... -

Una "cosa basilare".

Già...già...Più o meno come per Rino la "cosa importante"...!

Era proprio sorprendente come Alberto fosse capace di giocare, senza essere offensivo, sulla mia naturale inclinazione a trasportare tutto in una dimensione più poetica e irreale: lui poteva pure scherzare, ma mi aveva convinto sul serio che si trattava di una tappa inevitabile per fare sì che questa settimana occupasse, in seguito, un posto di privilegio nella mia memoria!

...(E, scherzo per scherzo, così fu. Realmente. Così fu...)

Soffrivo il freddo, io. Sopportare le sferzate del vento che infuriava dal mare, a quell'ora, con quell'umido che entrava fino nelle ossa, con persino gli spruzzi delle onde che ogni tanto arrivavano fino a noi, fu un sacrificio non indifferente: a nulla valsero coperta e giacche a vento. Tuttavia, lo sforzo che mi costava rafforzava il valore di quell'impresa.

Lo facevo più per dovere che per piacere, come quando si deve dare una prova di coraggio se pure a caro prezzo (cosa che a me non era mai capitata, se non forse quando avevo dovuto metter piede per la prima volta nell'ufficio di redazione del "Cambio Rotta"!)...Ma la situazione esterna era felicemente complice del mio strano sadismo "solennizzatore": il cielo che minacciava pioggia per una stagione e lo scroscio violento delle onde sugli scogli sembravano essere stati volutamente accostati alla canzone country che Alberto strimpellò sulla chitarra, ai versi marini recitati sottovoce, a certe sensazioni forti che a volte sembrano più infallibili delle cose che si toccano e si vedono, e alle quali, veritiere o no, non sono mai stato capace di non badare.

Credo fu per questi motivi tutti assieme che quando Rino propose di aspettare l'alba, mentre dal mare veniva un vento sempre più freddo e il cielo diventava ogni istante più nero, non mi pareva più una cosa inopportuna, e mi sembrava ormai naturale che quella faccenda potesse concludersi solo così.

- Non ne vale la pena - commentò Filippo, che probabilmente era lieto dell'occasione che gli veniva offerta di esibirsi anche come buon meteorologo - con un tempo così domattina non ci accorgeremmo nemmeno di quando si leva il sole -

- Ti sbagli - fece Rino, annusando profondamente l'aria, estraniato - domani sarà bel tempo, l'orizzonte sgombro, e il cielo limpido come non mai -.

Filippo lo squadrò di sotto in su, ironico

- E in base a cosa lo sostieni? -

- Perché lo so - fece lui, con un sorriso sicuro - Io conosco questo posto. E l'alba di domani sarà meravigliosa, se io glielo chiedo -

Mi piacque tantissimo quell'espressione di confidenza nei confronti di un luogo, o del tempo, o di Dio, chissà, che proclamai entusiasta

- Andiamo! Non vi giochereste uno starnuto per un'alba?...E’ un’idea bellissima! -

E fu così che restammo soli.

In due.

Rino ed io.

Ricordo che guardai fisso, a lungo, la chitarra di Alberto che gli rimbalzava sulla schiena ad ogni passo mentre si allontanava lento lungo la spiaggia; ricordo che pensai che Filippo avrebbe potuto dirmi: "dimentico che sei un letterato, ti lascerai commuovere da un’alba", e che invece non aveva detto niente; ricordo che Rino mi sorrise, quasi riconoscente, e che all'improvviso mi disse

- Sai, tornare qui mi ha fatto uno strano effetto -

Gli chiesi perché, e lui mi rispose:

- Non so. Pensavo che sarei impazzito di gioia, che avrei saltato, gridato. Invece niente. Tutto mi pare naturalissimo. Non riuscirei a scrivere un rigo su questo viaggio. E' stato tutto drammaticamente normale: arrivare, andare via...e sento uno strano nodo alla gola al pensiero...che so...che potrei vivere altri dieci, vent'anni, nel miraggio di questo posto, e che poi quando ci torni è tutto già passato, che il momento che aspettavi è già fuggito, che potrei non tornare più, che stasera è così freddo e che tutto finisce sempre... -

- Sembra... - mormorai - che tu parli di un luogo lontano miglia e miglia... -

- ...eppure è a due passi da casa mia. Lo so. E anche questo è molto buffo...Sai, a volte mi sembra di non parlare di un posto, ma di un luogo della mia fantasia...E si può esserne davvero lontani mille miglia... -

Appoggiò la testa sulle ginocchia e non disse altro.

- Anche io - incominciai allora - ho trovato questo viaggio molto strano. Forse perché è capitato all'improvviso e non me l'aspettavo, o perché non vedevo il mare da tanto tempo. Ma è stata una parentesi, una strana parentesi di libertà e leggerezza che mi spaventa e mi stupisce. Mi stupisce perché è insolita, e mi spaventa...perché... -

Avrei potuto ripetere le sue parole e dire "perché tutto finisce sempre", ma rimasi zitto.

In realtà parlammo poco o niente, e attendemmo il mattino quasi in silenzio.

- Senti Mattia - mi disse Rino quando già l'orizzonte cominciava a schiarire - mi prometti che un giorno tornerai qui insieme a me? -

- Certamente - risposi.

Poi successe qualcosa che non dovevo mai più dimenticare.

Era ormai mattino, le nuvole si erano diradate.

Venne un'alba meravigliosa, la più bella che mi fosse mai capitato di vedere.

Il mare era ancora infuriato, le onde tormentavano la riva e soffiava un vento di tempesta, che però aveva spazzato via il brutto tempo, liberando il cielo.

Rino saltò in piedi, come colto da uno spasmo improvviso, e si slanciò verso la riva, immergendosi in acqua fino alle ginocchia: allora si voltò di scatto verso di me, un'onda enorme gli si ruppe sulla schiena, e lo inzuppò da capo a piedi. Lui spalancò in alto le braccia grondanti d'acqua e sfoderò un sorriso radioso, guardandomi...

- Io amo questo posto!!! - urlò forte, gridando sopra il fracasso del mare e del vento, perché lo potessi sentire...quasi che il mondo intero dovesse sentirlo...

Provai un brivido gelido lungo tutta la schiena: avrei voluto piangere, singhiozzare, o scoppiare a ridere, non so...Quello di cui sono certo è che non mi ero mai sentito - e non mi sono più sentito - così.

Avevo freddo, tanto freddo.

Stavo tremando.

Il freddo della notte era venuto fuori lì, tutto insieme.

Era come se quell'onda avesse bagnato, insieme a Rino, anche me...

 

Ritornammo verso l'albergo camminando in silenzio sul lungomare. Le sagome delle barche erano ancora scure nei colori pallidi dell'alba.

Voltandomi a guardare l'orizzonte incrociai la figura di un uomo che gettava l'ancora della propria imbarcazione. Era stato fuori la notte come noi e tornava solo ora? Quell'immagine mi suggerì il ricordo di un passo di Svevo (...lo stavo "studiacchiando" per l'esame di settembre): il marinaio che allenta il nodo alla barca per salvarla dalla tempesta, e il protagonista che pensa che se avesse avuto la buona sorte, per una volta, di compiere un atto di cui si vedessero immediatamente le conseguenze, sarebbe stato meno debole e meno infelice...

Anche io non ero mai stato capace di vedere immediatamente la conseguenza pratica delle mie azioni: faccio un nodo, salvo una barca; scrivo un articolo, credo di cambiare la società...Non sapevo, non so niente di queste cose. Vorrebbe conoscerle l'istinto solo standoci in mezzo vivendole e non per svago. A questo patto solo...

D'un tratto mi accorsi d'aver paura che quella leggerezza facile scomparisse da un momento all'altro, così come era venuta, magari dietro la porta di casa. E per quel mio terribile difetto di voler trovare per forza uno scopo nelle cose, finii per vedere quanto inutile fosse anche quella spensieratezza che mi aveva quasi illuso che fosse quello, essere felice.

Bisognava sempre agire in fine di qualche altra cosa; che poi fosse o meno quella giusta era secondario...

Non sarei mai stato capace, era contro la mia natura che io mi accontentassi di una gioia fine a sé stessa, nata spontanea e spontaneamente finita. Perché io - e che questa si potesse davvero chiamare superbia non bastava a togliermi questo pensiero - ero diverso dagli altri, e la serenità, la soddisfazione di una risata spontanea, del divertimento per il divertimento, proprio non mi bastavano.

Sì, la mia allegria non aveva sbocco, era sorta senza ragione, suscitata troppo facilmente da un bel sole e da un bel posto, e se ne sarebbe andata ugualmente senza lasciare nulla, senza che io mi fossi svegliato una persona diversa, l'indomani, quando Filippo avrebbe ritrovato la sua politica, Alberto moglie e figlia, Camilla forse un nuovo amore, ed io il mio bus diciassette, i libri di poesia, e Vittorio Sereni che forse mi avrebbe detto: "Tardi anche tu li hai uditi...".

Anzi, non li hai uditi affatto, hai solo scherzato, e ora sei da capo.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


VII

 

 

Non mi piaci per quello che sei ma per

quello che sono io quando sto con te

Non mi piaci per quello che hai fatto di te, ma per

quello che stai facendo di me

 

(Anonimo)

 

 

 

Forse si trattava di un fattore meteorologico, ma la differenza che c'era tra Filippo e me si avvertiva meglio in certi mesi particolari, e me ne accorsi specialmente in quel settembre, che, se per lui fu un momento di rumorosa ripresa, per me era, quell'anno come sempre, il mese triste.

Probabilmente bisognava dare la colpa al retaggio della mia vita di liceale, che mi faceva percepire il settembre come la fine dell'anno e l'inizio di uno nuovo, ma anche quella volta, mentre tutto intorno a me la gente infilava i binari diritti del vivere quotidiano, mi trovavo a fare dei conti, e - inutile a dirsi - a rimproverare a me stesso che un altro periodo era trascorso a vuoto.

Eppure avevo molte esperienze da mettere in bilancio: mi ero adattato a vivere da solo, avevo dato dimostrazione di grande autonomia, ero rimasto in pari con gli esami, avevo conosciuto Filippo Scizio e lavoravo stabilmente come recensore sulla sua rivista...Davvero non so che avrei voluto aggiungere a tutto questo!

Magari, se non fossi stato condizionato da quel viziaccio di riportare ad un "alto sentire" anche le banalità, mi sarei messo l'animo in pace ammettendo che il microbo insidioso era solo la fine dell'estate, la stagione delle occasioni e del tempo sospeso, in cui bisognerebbe riuscire a fare tutto ciò che si vuole e in cui si allentano tutte le tensioni, per poi saltare di nuovo fuori in quel mesaccio sereno variabile sempre incerto tra l'attivismo e l'inerzia...!

Ma questo, no, non si poteva dire: o almeno, non potevo farlo io dal momento che, nella mia "superbia nascosta", pensavo che fatica di ripresa e nostalgia della bella stagione fossero sentimenti troppo scontati, per me.

 

Il mattino che rientrai nell'ufficio di redazione del "Cambio Rotta" dopo la chiusura d'agosto, il contrasto fu subito evidente: dei membri dello staff nessuno pareva essere in preda alla mia stessa svogliatezza settembrina.

Del resto, avevo capito subito che nell'aria circolava qualcosa di strano, lo avevo sospettato già dalla sera precedente, quando Filippo mi aveva insolitamente telefonato per assicurarsi che sarei stato presente, e che sarei venuto "più presto possibile".

In vero, avevo cercato di arrivare con un buon anticipo, ma gli altri redattori parevano essere stati più solleciti di me, e li trovai tutti lì, in piedi, in gruppetti sparpagliati, nel corridoio sommerso da un chiacchiericcio implacabile. Io mi diressi spedito all' "ufficio del direttore", effettuando uno slalom acrobatico tra i crocchi dei miei colleghi, incuriosito e un po’ ansioso.

Trovai Filippo che parlava al telefono, con la cornetta schiacciata tra la guancia e la spalla, il capo reclinato, e i capelli neri, ancora più lucidi al riverbero del sole, che gli ricadevano sulla fronte e sugli occhiali in una specie di lungo ciuffo: ricordo di aver pensato ad uno di quei personaggi dei telefilm o dei fotoromanzi, dall'eleganza che vuole apparire spontanea quando in realtà è curata in ogni minimo particolare, ma la nota di preoccupazione improvvisa che sfuggì alla sua voce fu così sincera che mi riportò subito alla concretezza.

Filippo annotò qualcosa sulla sua agenda, e appena s'accorse di me sollevò lievemente la mano per accennarmi di sedere e attendere. Dovetti aspettare molto prima che si liberasse, e nel frattempo cercai vanamente di ricostruire, dai mozziconi di conversazione che riuscivo a strappare, che cosa mai stesse capitando quella mattina.

- Che idioti - fece ad un tratto lui, riattaccando la cornetta.

Poi si ricordò che ero lì, e ritornò formale e impassibile

- Ah, meno male. Avevo bisogno di te -

Io sorrisi, cordiale

- dimmi tutto, farò quel che posso -

Ma Filippo, serissimo, mi guardò fisso e disse

- Caro Mattia, siamo in un guaio enorme -.

Sgranai gli occhi senza parlare

- La Lefis vuole farci causa per diffamazione. Non hanno apprezzato la nostra inchiesta sul numero di luglio. Parto domattina per Milano, la redazione l'affido a te -

Le ultime parole finsi di non sentirle.

- Ci denunciano? - esclamai, esterrefatto - Ma come, Filippo? Se io non mi ricordo neppure che c'era scritto, in quell'articolo! -

- Me ne ricordo abbastanza io per tutti e due - ironizzò lui, e poi, professionale - E' una questione che mi sta piuttosto a cuore. Non è la prima volta che ne parlo -

- Ah! L'articolo era tuo! -

- Te ne stupisci?...Ma via!...Quasi che qualcuno potesse mai denunciare il mite Rino, o te! -

Non volli prendere il commento come un'offesa, e non reagii, anche perché Filippo si era fatto all'improvviso molto pensieroso

- Vedi - disse - il resto dello staff è infuriato con me. Credo che se non risolvo il guaio presto e bene saranno tempi duri per il "Cambio Rotta", e mi dispiacerebbe, perché io ci tengo molto, lo sai... -

Questa nota affettiva nei confronti della propria rivista mi intenerì, e mi mise molta voglia di essergli solidale

- E che ci vai a fare a Milano? -

- A discutere con qualcuno dei "capoccioni", per vedere se l'affare si sistema. Suppongo convenga anche a loro evitare di procedere per vie legali... -

Io non avevo ancora capito bene di che si stesse parlando, ma continuavo ad annuire meccanicamente come tutto fosse chiaro

- Ti affido la rivista perché non voglio che questo incidente di percorso ostacoli la regolare uscita del numero di settembre - disse - D'altra parte non ho altri a cui rivolgermi: data "l'ostilità del clima" nessuno si prenderà la briga di rimediare ad un danno che ho fatto io. E Rino non si assumerebbe mai una responsabilità del genere -

Lo guardai a lungo cercando di trasmettergli le mie riserve, e siccome le mie occhiate non erano abbastanza eloquenti azzardai un titubante “Vedi, Filippo...“, ma lui troncò ogni mio accenno di protesta

- Non fare il pusillanime, Mattia - fece - E poi ci sei dentro anche tu -

Avrei potuto approfittare di quell'evidente momento di debolezza e obiettargli che di fatto io non ci ero dentro proprio per niente, ma invece "Demitto auriculas ut iniquae mentis asellus" (e gli evitai anche la citazione, al contrario di quanto avrebbe fatto senz'altro lui al mio posto!)

- E quand'è che torni? - chiesi

- Non so - rispose, con l'espressione un po' stanca e un po' ansiosa di uomo d'affari sotto stress - Ma di sicuro te la caverai anche senza di me. Ti lascerò un recapito per ogni necessità -

Quel sovrappiù di fiducia fu peggio di una mattonata sulla testa, piombata nel pieno della mia assorta pigrizia tardo vacanziera, eppure, in fondo, non potevo negare di essere orgoglioso che, in una situazione di difficoltà, quando tutti i suoi colleghi gli voltavano le spalle, l'illustre direttore Filippo Scizio, avesse chiesto aiuto proprio a me: allo spaurito vicino di casa, al "letterato"!

Il mattino dopo mi impegnai come il precedente per arrivare all'ufficio per primo, e, ugualmente, trovai di nuovo tutto lo staff già lì, ad attendermi, stranamente e minacciosamente seduto attorno al tavolo delle riunioni.

Cianetti, il più anziano del gruppo, mi chiese se avessi riletto l'articolo posto sotto accusa, e mi colse impreparato, perché, nonostante gli avessi dato una scorsa la sera prima, avevo capito poco o niente della faccenda. Sfoderai accenti da uomo colto che finge di non veder chiaro in un problema quando ha già in mano la situazione (come direttore sostitutivo dovevo pur darmi un contegno!), ma lui mi interruppe quasi subito, e disse

- Scizio è impazzito -

Poi si accese una sigaretta, pensieroso.

- Non sarei così inappellabile! - mi provai a replicare, sperando che questo lo inducesse, senza bisogno di un'umiliante richiesta a fornirmi spiegazioni dettagliate - Filippo ha sempre agito con misura. E' uno che sa il fatto suo! -

- E si rovinerà con le proprie mani - rincalzò quello, inflessibile.

- Insomma - fui costretto a protestare, spudoratamente - qualcuno vuol farmi capire che ha combinato di tanto grave? -

Saltai su una sedia e presi a risfogliare rumorosamente il numero di luglio per attirare l'attenzione.

- Bastava che sconfessasse, Loira! - quasi imprecò Cianetti, come parlando di cosa risaputa - Diammine, alla Lefis bastava solo questo: un ingenuo articolino di ritrattazione. E lui...possibile?...In fondo è una sciocchezza, pensaci bene, solo una sciocchezza! Ne succedono ogni giorno, oggi come oggi, di cose del genere! -

A questa notizia mi incupii anch'io. Filippo non mi aveva affatto parlato della possibilità di un facile accomodamento tramite ritrattazione: mi aveva presentato, al contrario, la Lefis come la parte più restia ad un accordo.

Sul momento mi sforzai di spiegare quella menzogna riportandola al carattere di Filippo. Uno come lui non si sarebbe mai abbassato a confessare una colpa pubblicamente, e i suoi amici e colleghi non dovevano conoscerlo così bene se credevano che gli sarebbe costato tanto poco farlo.

Tuttavia, per evitare in futuro pessime figure come quella, pensai bene di andare a rileggermi il pezzo incriminato, e lo feci quella sera stessa, dopo che per l'intera giornata la redazione era stata bombardata di telefonate per Filippo, che mi avevano convinto che l'affare dovesse essere proprio serio.

L'articolo portava l'indicativo titolo di “Indifferenze“, era lungo si e no due colonnette, e, tra le cose che avevo letto su quella pagina, non mi parve nemmeno dei più feroci.

Filippo avanzava il sospetto che una non ben precisata industria chimica toscana, con sede a Grosseto, avesse elargito tangenti alla regione per smaltire i suoi rifiuti in una tal area in Maremma, e, senza aggiungere niente di preciso o di particolarmente compromettente, si slanciava in una lunga tirata su come non si potesse restare impassibili di fronte al continuo scempio dell'ambiente in cui viviamo, su quanto fosse inammissibile che nessuno alzasse mai un dito di fronte a fatti simili, e giù di brutto con tutte le varie frasi di circostanza con cui Filippo condiva le proprie invettive, quasi fosse l'unico al mondo ad assumersi l'onere di "risvegliare le coscienze"...

La Lefis doveva essersi riconosciuta in quello scritto per il fatto che già un'altra volta, quando ancora non lavoravo al "Cambio Rotta", Filippo aveva affrontato l'argomento, affiancandosi alla feroce polemica condotta un gruppo ecologista, che aveva portato la società quasi sull'orlo del fallimento: non c'era perciò da stupirsi se per tutelare la propria immagine davanti all'opinione pubblica i dirigenti denunciavano il direttore di una rivistina diffamatrice che non sapeva come riempire le “pagine verdi“...!

Finalmente, forte delle mie nuove conoscenze, telefonai a Rino, che non s'era fatto vivo per tutto il giorno, per sapere che ne pensasse, e dall'altro capo del telefono mi rispose una voce ansiosa

- Ah, sei tu Mattia...Notizie di Filippo? -

Tanta fretta di ricevere informazioni fu una sorpresa: credevo che fosse rimasto molto fuori da questa vicenda

- No, nessuna. Ma mi aveva lasciato capire piuttosto chiaramente che per qualche tempo ci avrebbe lasciati al "nostro destino" -

- Davvero? Ho provato a rintracciarlo tutto il giorno, ma niente da fare -

- Non sei stato il solo: ho fatto il centralinista per tutto il pomeriggio -

- ah. Hanno chiamato in molti? -

- In troppi, un'infinità - calcai la mano per farmi commiserare un po'

- Accidenti - disse invece lui - sono preoccupato... -

Quella confidenza inaspettata mi stordì: aveva forse bisogno di spaventarmi per farsi perdonare di non essersi neppure fatto vivo e avermi lasciato solo con tutto quel daffare? Ma lui cambiò subito discorso

- Ascolta, Mattia - disse - tu approvi tutto questo? -

Mi aspettavo che ne avremmo parlato, ma quella domanda a bruciapelo mi lasciò interdetto, ed esitai a rispondere, sicché lui, credendo che non avessi colto il nocciolo della questione, ripetè, più chiaramente

- Voglio dire, stai dalla sua parte, pensi che Cianetti e gli altri lo abbiano assalito ingiustamente, e che la Lefis abbia davvero offerto tangenti ai politici e per questo vada "severamente fustigata", a qualunque rischio, a qualunque costo? -

Non capivo quali fossero i rischi ed i costi di cui parlava, ma chiesi, a mia volta

- Tu no? - e la mia reticenza a rispondere direttamente fu presa da Rino come un si.

- Io no - sbottò, secco - per niente -

Poi, come spaventato dalla propria stessa reazione, cambiò tono

- Non fraintendermi. Io non sono arrabbiato con Filippo. Tu mi conosci, è proprio difficile che io mi arrabbi. E Filippo è mio amico, è un mio grande amico, mentre il resto dello staff, ti garantisco, è per me poco più che una folla estranea senza nome. Solo che...che è un maledetto testone, alle volte, e prende tutte le cose che succedono come problemi enormi, ed io mi sento un po' mal disposto verso un atteggiamento del genere... -

Capii al volo ciò che intendeva dire, avevo saggiato già una volta il suo concetto di "cose importanti" - e lo condividevo, oltretutto! - ma ebbi stranamente voglia di spezzare ancora una volta una lancia in favore dell'assente.

- Ma Filippo ha detto che è una questione che gli sta molto a cuore -

- Si, come le centomila altre con cui riempie gli articoli di fondo del "Cambio Rotta"!...Insomma, non voglio biasimarlo, apprezzo il suo lavoro, e dirò di più, è grandiosa l'apertura di orizzonti con cui spazia su ogni aspetto del vivere e ne fa quasi una battaglia privata...ma questo non vuol dire che tutto debba essere ugualmente indispensabile allo stesso modo. E soprattutto quando l'interessato, dell'ecologia, se ne infischiava fino a qualche mese fa! -

Si era un po' accalorato, e mi intimidì

- Beh - bisbigliai - in parte hai ragione...lo so bene che a volte Filippo spara a zero soltanto per criticare...Ma io... - ammisi - ma io non sono stato mai capace di dirgli di no, fin qui. E poi...insomma...non so se vorrei farlo...Mi piacerebbe stare per una volta dalla sua parte...Una volta che mi sento la spalla e non il bersaglio...mi capisci, Rino? -

- E' vero. - accondiscese - Lo vorrei anch'io. E infatti se dovessi sentirlo non gli dirò niente di tutto questo. Dovevo solo un po' sfogarmi: mi sono fatto prendere la mano. E' che la faccenda non mi piace, è che sono ansioso, è che dello smaltimento rifiuti non me n'è mai fregato niente, ecco... -

Rise, e con lui anch'io

- Come sarebbe a dire? - esclamai - Un fanatico del verde ameno quale sei! -

- Si, è vero. E infatti io, nel mio piccolo, faccio grandi cose, sai? Porto anche il becchime ai piccioni di nascosto! -

- E se ti scoprono fanno causa anche a te! -

- Beh , e io sai che gli rispondo?..."Ma voi, l'avete mai provata, la fame?" -

 

Filippo non rientrò la settimana dopo, e neppure quella successiva. Fin quasi alla fine del mese rimase lontano da Firenze, facendosi vivo solo ogni tanto e dettando direttive che a lui parevano più che esaurienti e a me non bastavano neppure per portare avanti il lavoro del mattino successivo.

Poi spariva di nuovo, non so neppure dove.

Di cosa si stesse occupando, nessuno di noi era a conoscenza: preferiva non parlarne, voleva risolvere tutto da sé e si riservava anche di farci sapere se il processo si sarebbe svolto o meno.

Io stavo perdendo la testa: benché i membri dello staff, che alla fine si erano lasciati commuovere dalle mie fatiche per far uscire regolarmente il numero di settembre, cercassero di venirmi incontro, restava il dato di fatto che, normalmente, la metà almeno degli articoli era opera dell'ingegno del nostro direttore. E lui - di questo proprio non riuscivo a capacitarmi - sembrava essersene scordato.

Non mancava una settimana alla data in cui avremmo dovuto mandare la rivista alla stampa, e ancora non sapevamo come riempire gli ampi spazi rimasti vuoti.

Alle riunioni ci interrogavamo sul da farsi, tutte le iniziative alla fine ci sembravano ridicole, perdevamo tempo a lamentarci della diserzione del "capo", e nessuno aveva voglia di far niente. Sperai fino all'ultimo che qualcuno prendesse in mano la situazione, invece un mattino li trovai tutti coalizzati a mio danno attorno al fatidico tavolo, per intimarmi di telefonare immediatamente a Filippo e avvertirlo che la rivista non sarebbe uscita.

Avanzai subito una serie di scuse: che Filippo era irrintracciabile, che in una settimana poteva ancora verificarsi il miracolo, persino che il signor direttore sarebbe andato su tutte le furie, e che le sue scenate non le auguravo nemmeno al mio peggior nemico.

Mi replicarono che Scizio aveva ben poco da protestare, poteva pure rovesciare cielo e terra e mandare in pezzi la scrivania: la responsabilità era quasi del tutto sua, e, per la restante parte, guarda caso, mia, che m'ero sobbarcato un compito cui non ero tenuto. Ne conseguiva necessariamente e inesorabilmente che se c'era qualcuno che doveva vedersela in prima persona con Filippo, quello ero io.

- E cosa gli dirò? -

Chiesi, intimidito un po' dall'ultimatum dei signori colleghi un po' dal pensiero delle saette del signor direttore.

- La verità - fece Cianetti - Che non abbiamo fatto in tempo perché ci è mancato un coordinamento efficiente -

Questa motivazione poteva suonare insieme sia come un rimprovero all'assenteismo di Filippo che come una critica a me. Ma dovevo riconoscere che non aveva torto: io non avevo la stoffa dell'organizzatore: era già abbastanza se riuscivo ad incastrare tra loro in maniera vivibile gli orari delle mie lezioni.

Così anche quel pomeriggio andò perduto al telefono: finii per odiare quella voce che tutte le volte ripeteva: "Tim, informazione gratuita l'utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile", e quando finalmente Filippo mi rispose avrei voluto veramente attaccare, fare finta di niente, e raccontare ai colleghi che aveva tenuto il cellulare spento tutto il giorno.

Ma non mi riuscì.

- Ciao Mattia, come va? -

Fu la prima cosa che mi chiese, proiettandomi una bella voce squillante dritto dritto nell'orecchio

- Sopravvivo - risposi - e tu? -

- "Sopravvivo" anch'io - scherzò - per il momento. Ma non ancora a lungo se non riesco a tuffarmi sopra un letto e a dormire per dodici ore almeno! -

- Ah si? - colsi l'occasione - Io, invece, morirò domattina se non vieni in mio soccorso con qualche trovata degna del tuo "elevato livello intellettivo" -

- Perché? - domandò, quasi avessi detto qualcosa di impensabile - ...Qualche problema in redazione? -

- Si - ammisi - qualcuno. Anzi...uno e bastevole. E temo che se non torni, il numero di settembre ristagnerà nel tuo cassetto molto a lungo -

- Starai scherzando - fece lui - e per quale motivo, scusa? -

Mi sentii indagato, e ribattei a tono

- Uno: perché il lavoro non è neanche a metà, due: perché lo staff protesta, tre: perché non sappiamo come riempire le "tue" pagine personali, e, quarto e non ultimo, perché io non sono te -

- Lo so che non sei me, ci mancherebbe! - disse - Ma devi per forza trovare una soluzione. Il numero nuovo deve uscire tassativamente -

- Tassativamente... - feci eco io, atono - già mi aspettavo una risposta del genere. Tuttavia sono costretto a insistere. Tanto - e mi sforzai di ridere - o affronto la tua ira, o quella di Cianetti & C. -

- Ah. Ti fanno fare il portavoce! -

- Così pare... -

Rimasi zitto, nella speranza di ricevere un segno di incoraggiamento che mi mettesse addosso un po' di buona volontà, e mi accorsi in quel momento che se avevo insistito per tutto il giorno nel cercare di rintracciare Filippo, era stato perché ero sicuro che, davanti alla sua insistenza, alla fine mi sarei lasciato convincere e gli avrei dato retta.

Eh si, di fatto mi dispiaceva arrendermi alla situazione avversa, e avrei voluto proprio allora dare una valida prova di me...Invece lui non sembrava affatto aver voglia di arrabbiarsi.

- Ti capisco - disse - Ma io non posso davvero tornare...Ho beghe troppo grosse qui, non è pensabile che io rientri proprio ora. Bisognerebbe però che tu almeno provassi a inventarti qualcosa, e quel che viene viene. Riduci pure il numero delle pagine, gioca tutto sul supplemento letterario, ti lascio carta bianca, ma provaci -

Solitamente questo sovraccarico di responsabilità mi metteva nel panico peggio che una partaccia, ma quella volta era diverso, e quella sua concessione alla libera fantasia pareva cadere a proposito a stimolare il mio innaturale desiderio d'attivismo, irrisione al mese triste.

- Vuoi davvero che mi "inventi" qualcosa, Filippo? - chiesi conferma - Ma non dici sempre che noi letterati... -

- lascia stare ciò che dico sempre! Questa è un'emergenza! -

- Guarda che corri un grosso rischio -

Lui la prese leggera, rise

- I rischi sono il mio pane quotidiano! -

Ecco, erano bastate quelle poche parole e nella mia testolina ancora piena di annunci della tim si era già messa in moto un'idea, e la curiosità di vedere se sarei riuscito o meno a realizzarla.

- Preferisci che sia io a chiamare Cianetti? - s'informò Filippo, stranamente premuroso

- No - dissi - tanto credo sospettasse come sarebbe andata a finire. Io non sono molto grintoso, mi conosce -

- E allora perché ha voluto che telefonassi tu? -

- perché... - esitai - perché sono io il responsabile! -

Sfoderai una punta di energia allegra, mi sentivo bene

- E' vero - confermò lui - il responsabile sei tu, adesso -

Forse Filippo aveva altro a cui pensare e problemi più seri della buona riuscita del numero di settembre. Forse anche io avevo altro a cui pensare che non fossero gli appelli autunnali o la malinconia del dopo-ferie. Ci pensai, feci un breve conto: era da quasi un anno ormai che mi trovavo continuamente di fronte a emozioni che non avevo mai provato, ed ero talmente cambiato io stesso che mi scoprivo capace di passare quasi a volo da una leggerezza così eccessiva da sembrare innaturale alla frenesia di una corsa contro il tempo per ottenere un risultato di cui in fondo, fino al giorno prima, non mi era importato niente...

Eppure così stava passando il mio settembre.

 

Era, nonostante tutto, una bellissima giornata. La sala delle riunioni era luminosa, e il riflesso sul tavolo lucido mi dava fastidio.

Stavano tutti seduti lì davanti a me, ad aspettare la mia relazione: nessuno si era mai disposto ad ascoltarmi in tanto silenzio, e l'insolita atmosfera mi conferiva - credo - almeno a guardarmi dall'esterno, una certa importanza.

Sistemai un foglio sulla scrivania, gli diedi un'ultima occhiata veloce e mi aggiustai gli occhiali sul naso - Ho steso un piano di lavoro - dissi, sbrigativo - comincerò subito e conto di finire per sabato. Mi auguro vogliate fare altrettanto. -

I presenti, che si aspettavano almeno un accenno alla mia conversazione con Filippo, rimasero, sul momento, ammutoliti. Poi, interdetto più che seccato, Cianetti osò sollevare la fatidica domanda

- Ma non dovevi parlare con Scizio per...? -

Lo interruppi, con sufficienza

- Ah, si. Giusto - dissi - Non l'ho trovato, è irreperibile. E mi pare improduttivo che io debba perdere altre dodici ore al telefono, per poi sentirci dire che il numero di settembre deve uscire...tassativamente -

Per concludere da protagonista avrei dovuto aggiungere "ed io sono d'accordo con lui", ma quello sarebbe stato proprio troppo.

- Posso illustrarvi il mio progetto? - chiesi invece, educatamente, e i membri dello staff mi risposero con un perplesso “sentiamo...”

Nei giorni successivi non mi mossi più dall'ufficio di redazione: era come se per me esistesse solo il "Cambio Rotta", ed una cosa così non mi era mai successa. Contattai Alberto, mi feci inviare con urgenza del materiale, strappai un articolo persino a un mio professore, e mi parve d'aver compiuto l'impresa del secolo.

Mi comportavo proprio in modo strano, me ne accorgevo e non riuscivo a stupirmene. Era come se Filippo mi avesse lasciato la delega di "essere un po' lui", e questo - si sa - poteva avvenire solo in sua assenza. C'era di più: era come se la sua assenza mi avesse costretto a tutto questo, eppure non riuscivo a sentirla come un'imposizione, almeno nel mezzo della frenesia che avevo addosso.

Era una trappola pericolosa: quando lui non c'era, finivo sempre per stare dalla sua parte, così come in sua presenza avrei lottato per scappare dalla sua aura travolgente che sembrava annullare la mia personalità. Ne ero lucidamente consapevole e non mi volevo ribellare: mi ero adagiato senza riflettere in quello stato che mi aveva dato un'insolita fiducia, un'insolita energia, e soprattutto una nuova, innaturale immagine di me, a cui mi sarebbe piaciuto affezionarmi.

Se avessi avuto tempo di pensarci o anche solo di sperare, credo avrei espresso il desiderio che durasse. Ma non me ne capitò nemmeno l'occasione, e forse fu per questo che durò a lungo.

 

gAnno tre, numero 9“ - l'annotazione a margine, lungo la costola del "Cambio Rotta" di settembre, che uscì puntuale, il 28 mattina del corrente mese, due giorni prima che rientrasse anche Filippo, stanco come non mai, ma contento.

Nonostante avesse molto lodato il mio impegno per telefono, ancor prima di poter leggere la rivista, quando l'ebbe avuta finalmente tra le mani e mi volle d'urgenza a casa sua per discuterne, il sangue mi si gelò nelle vene.

L'intraprendenza l'avevo deposta insieme al mio ruolo di coordinatore, e adesso il pensiero dell'inevitabile giudizio mi spaventava a morte, e già, attraversando la strada, stavo passando in rassegna le critiche che Filippo mi avrebbe di sicuro fatto e gli argomenti per controbattere, non escluso il vigliacco rinfacciargli il suo disinteresse.

Trovai la porta aperta, e, prima di entrare, spiai timidamente attraverso la fessura. Scorsi Filippo profondamente assorto di fronte ad un pezzo di carta che teneva tra le dita, strofinando il margine tra il pollice e l'indice, ed esitai ad interromperlo. Ma lui si avvide della mia presenza, abbandonò distrattamente il foglio sdrucito sull'angolo di un mobile, e si voltò

- Fantastico! - mi accolse - Veramente fantastico! -

Afferrò sul bordo del divano il numero di settembre, e mi venne incontro piazzandolo tra le mie

- Tu sei straordinario! Una vera rivelazione! Se lo avessi anche solo sospettato, ti avrei affidato la direzione molto più spesso! -

La prima cosa che mi saltò in mente fu che quel dispendio di complimenti fosse il suo modo di sdebitarsi per aver salvato la puntualità del "Cambio Rotta", schierandomi contro tutto lo staff e sobbarcandomi l'intero lavoro, ma mi pareva che un encomio tanto appassionato non s'intonasse con il classico stile di Filippo Scizio, che non sprecava mai superlativi, se non riguardo a se stesso.

- Ah... - fui solo capace di dire - ti è piaciuto? -

- Mi è piaciuto...? - esclamò lui, trascinandomi a sedere sul divano, e saltandoci su anche lui, con le gambe incrociate e raccolte al petto - non avresti potuto fare niente di meglio....Viste, soprattutto, le circostanze. Dai retta a uno che se ne intende, Mattia: tu ci sei tagliato, per questo lavoro. Hai stile, originalità, tatto, senso dell'umorismo, profondità e leggerezza!...Certo, ti manca la frusta, ma si provvederà col tempo... -

Lo ascoltavo sempre più incredulo: sembrava proprio sincero! Mi era successo di vederlo così infervorato solo quando aveva da illustrarmi qualche brillante progetto, mai per tessere le lodi di una persona, figuriamoci poi di me!

- Che vuol dire "col tempo"? -

Avevo fatto subito mente locale su quella conclusione sospetta: temevo che tutta quella sviolinata fosse volta a convincermi ad avventurarmi di nuovo in qualche città sconosciuta a far compagnia ai grossi cervelli dei suoi amici, o a introdurmi con delicatezza qualche idea di scarso gradimento

- Niente - rispose invece lui - son cose che si dicono, no? Sai, l'esperienza, la pratica...frasi fatte. Non scattare sull'attenti ad ogni mia parola, Mattia, ti prego!...Non sono il professore che ti interrogherà all'esame -

Questo commento mi riportò finalmente coi piedi per terra, ben piazzato sul pavimento a mattonelline marroni dell'appartamento del mio amico.

- Il professore che non m'interrogherà, ohimè! - dissi - non ho più aperto libro, e il mio Svevo ristagna sulla scrivania da quasi un mese: per l'appello d'ottobre non c'e speranza! -

- Davvero? - fece lui, mostrandosi per un istante dispiaciuto dell'inconveniente - E a quando rimandi? -

- Gennaio - risposi, con leggerezza, per non colpevolizzarlo.

Ma Filippo aveva già recuperato l'espressione professionale che mi era più nota, e disse

- Beh, forse è meglio. Avrai più tempo a disposizione per me, perché da oggi sei il mio vice -

- Che? -

Non avevo capito davvero, aveva parlato piano e fuori molte macchine facevano rumore, perché erano le sei di sera, l'ora di punta, la sola in cui la nostra via potesse dirsi trafficata.

- Ho detto che mi fa comodo che tu non sia troppo impegnato nello studio - ripeté, cortesemente, a voce più alta, con un tocco di ufficialità che precedentemente aveva sacrificato alla confidenza - perché da oggi tu sei il vice direttore del "Cambio Rotta" -

Stavolta era stato anche troppo chiaro.

- Io? - sbottai

- Proprio -.

Scattò in piedi, riprese a sfogliare le pagine della rivista, compiaciuto

- D'ora in avanti avrò molto bisogno d'aiuto - spiegò - e tu sei il solo su cui possa contare - Poi forse gli parve di non avermi "adulato abbastanza", mi sorrise - e, se mi permetti un complimento, quello che ritengo più all'altezza -

Non mi chiese neppure se accettavo, se mi consideravo in grado di sostenere un impegno del genere, se mi faceva piacere. Come al solito considerò il mio momentaneo silenzio d'esitazione valido più che un consenso. E, come al solito, finì per essere così.

- Allora... - divagai - il processo si farà -

- E' naturale - sentenziò lui - non sono il tipo da farmi mettere i piedi in testa! Ma anche questo, tu lo sai meglio degli altri -

Stavolta ammisi, onorato del riconoscimento

- Già - dissi - ti conosco -

- Più ancora di quanto credi - aggiunse lui, un po' solenne, a voce sommessa, fattosi all'improvviso pensieroso - più ancora di quanto credi... -

Si chiuse così, con questo tono “alto“, il percorso a ostacoli del mio settembre, nel giorno in cui, ebbi modo di notare più tardi, era trascorso un anno esatto da quando vivevo lì.

Mi parve una coincidenza molto bella, e segnai con un cerchio il numero trenta sul calendario, pensando che questa attenzione ossessiva ai numeri e alle date era, al momento, tutto ciò che mi restava di comune con Zeno Cosini e la sua “coscienza“.

Un anno preciso, mi ripetei, da quando avevo deciso di ribaltare per sempre le coordinate della mia vita.

Un anno preciso da che abitavo nella città del sole.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


VIII

 

 

 

"Non si passa!", quasi

urlava. E teneva

- ritto in mezzo alla strada -

le braccia aperte, quasi

bastasse quella barriera

a bloccare l'irrompere

- fulmineo - della sera.

 

(G. Caproni)

 

 

 

La mia nomina a vice direttore non fu accolta, come temevo, con scontento, bensì con una serie di apprezzamenti benevoli, e, nei casi peggiori, con educata indifferenza. Non per questo mi illusi che i colleghi avessero completa fiducia nelle mie capacità: vedevo fin troppo bene come stavano le cose: nessuno voleva prendersi a cuore la sopravvivenza della rivista, e, se c'era chi si assumeva questo onere di spontanea volontà, non si poteva che accoglierlo con buon viso.

Per cui, nessuna questione.

L'unico che si sentiva continuamente spupazzato qua e là, sradicato da un posto e piazzato a incastro in un altro, ero io.

Tuttavia non mi lamentavo, ora perché il troppo daffare non me ne lasciava il tempo, ora perché la soddisfazione di essere tanto importante per Filippo mi toglieva ogni desiderio di protesta. E di beghe, bisogna riconoscerlo, ne avevo davvero tante: mi erano state affidate almeno la metà delle pratiche che prima spettavano al direttore, e a complicarmi l'esistenza si aggiungevano le sue sparizioni continue in chissà che uffici legali, e le interminabili giornate in cui si piazzava fisso al telefono e, qualunque problemuccio saltasse fuori, esclamava, tappando con una mano la cornetta “Mattia, questa è roba per te!”, o, a eventuali 'intrusi esterni', “Adesso non posso, ma c'è il vice direttore, il signor Loira: può rivolgersi a lui”.

A questo, poi, ci avevo fatto il callo: le volte che lui non c'era, infatti, ogni tipo di pubblica relazione toccava a me. Fu giusto in un'occasione del genere che conobbi Mauro Nissori, l'uomo col pizzetto di capra che cominciò da quel giorno in poi a ronzare costantemente nell'ufficio, sfoggiando cravatte multicolori che gli strozzavano il collo.

Arrivò per la prima volta in redazione una mattina di metà ottobre, mentre io ero alle prese con un articoletto inutile che proprio non voleva lasciarsi buttar giù in corretto italiano, e col telefono che, come sempre, squillava senza pietà.

Quando sentii Ricci che rispondeva al citofono e diceva “Primo piano a destra!”, lì per lì finsi di non essermi accorto della visita, sperando che si trattasse solo di posta da firmare, ma poi una voce roca e un po' nasale mi raggiunse dal corridoio

- Ho urgenza di parlare col direttore. Me lo faccia chiamare subito, per piacere -

- Il signor Scizio non c'è - fece Ricci - se vuole le chiamo qualcuno di competenza -

Prima di costringerlo a scomodarsi, mi ero già affacciato all'uscio dello studio

- C'è bisogno di me? - domandai.

Ma l'ospite, con cipiglio irriverente, mi squadrò di sotto in su, aggrottando la fronte e disse

- Lei chi è? -

- Il signor Loira - mi presentò Ricci, togliendomi le parole di bocca - Il vice direttore -

- Ah. Ho capito. Allora, signor Loira - calcò minacciosamente le lettere del mio nome - sia gentile: mi chiami subito Scizio, e gli dica che c'è qui Mauro Nissori della Lefis, che è venuto apposta per parlargli -

- Filippo non c'è - ripetei, intimidito, sforzandomi di credere che non avesse capito bene - E' a Grosseto, per la causa... -

Lui si guardò intorno, indagatore, e rimase zitto, quasi cercasse di udire qualche suono che confermasse il suo sospetto

- Mi auguro davvero - disse allora, volutamente ad alta voce - che il “signor direttore” sia a conoscenza del fatto che io non amo essere snobbato, e men che mai sopporto aspettare -

- Mi scusi, ma non capisco -

- Andiamo, Loira: ha capito perfettamente. So bene che Scizio è qui in città. Vengo ora da Grosseto, e le assicuro che lassù di lui non c'era nemmeno l'ombra. Per cui smettetela coi giochetti infantili, e provi invece a insegnare al suo capo a non fare troppo il prezioso, dato che già le circostanze non stanno ruotando a suo favore -

Ricci ed io ci scambiammo uno sguardo spazientito

- Se ha bisogno di una visita guidata per il corridoio per accertarsi che Filippo non è in redazione - dissi - ben venga. Se invece preferisce prendersi un caffè e sedersi ad attendere, altrettanto libero: non sarò io a mandarla via. Solo, non so quanto le convenga, se è vero che non le piace aspettare... -

Nel pronunciare l'ultimo pezzo di frase, mi auto compiacqui della bella dimostrazione: il signor Nissori, intanto, aveva già tirato fuori dalla tasca della giacca un biglietto da visita col suo nome, sotto la sigla Lefis in stampatello rosso, e me lo stava porgendo

- Tornerò domani - dichiarò - spero non a vuoto. Ma lei, signor Loira - volle puntualizzare - riferisca a Scizio che se continua a non lasciarsi trovare si butta a capofitto in un mare di guai, ben peggiori di quelli in cui già sta annaspando -

Io ostentai condiscendenza e gli porsi la mano, con un cordiale sorriso

- Glielo farò sapere - assicurai.

Mi tuffai sulla poltroncina girevole di Filippo, spossato dal breve colloquio, che mi aveva richiesto più energie del previsto, ma soddisfatto di come ero riuscito a liquidare lo scocciatore in poche battute di dialogo.

Solo, avevo un pensiero: come mai Filippo mi aveva mentito dicendomi di andare a Grosseto, e, soprattutto, se ciò che aveva detto quel Nissori era vero, come mai mi aveva fatto credere fino allora che tutto filasse per il meglio? Non capivo come quella reticenza potesse conciliarsi con tutta la fiducia che mi aveva accordato ultimamente, e, per la prima volta da quando era cominciata quella faccenda, pensai che era il caso di preoccuparsi per qualcos'altro che non fossero le mie responsabilità personali nei confronti suoi e in quelli dell’equipe.

Quasi d'istinto composi il numero del suo cellulare, mentre tenevo il capo ancora affondato nella sua poltrona, nel suo studio, davanti alla sua scrivania..."Tim, informazione gratuita..."

- Al diavolo! -

Rino fece capolino dietro lo stipite.

- Che hai? -

Mi massaggiai le tempie e la fronte: mi sembrò di avere la testa pesa per colpa della frangia troppo lunga

- Nulla... -

- Cercavi Filippo, vero? Suppongo che quell'uomo fosse lì per lui -

Si sedette davanti a me, dall'altro lato della scrivania, nel posto che di solito occupavo io, e allungò una mano alla brutta copia del mio articolo.

- Non vai avanti? -

- Ora no...Sono...preoccupato -

- Ah -

Mi guardò negli occhi e io gli fui grato di non voler aggiungere nessun "te l'avevo detto".

- Filippo non ci ha mai raccontato la verità...ho ragione? -

Scrollai le spalle, in un gesto di impotenza

- lo suppongo - ammisi - dato che non è mai partito per Grosseto -

- No? E dove pensi che... -

- Non lo so. Non credo di sapere più niente, a questo punto. Ma, che vuoi farci...non capisco nulla di queste cose...è tanto se ho imparato a pagare da solo le tasse all'università... -

Questo Rino lo sapeva, e non c'era bisogno che glielo ripetessi, ma ero io che avevo bisogno di evitare il baratro del silenzio: sarebbe stato peggio del "te l'avevo detto" che Rino non si lasciava sfuggire.

- Chissà che starà combinando... - proseguii.

Rino si alzò dalla scrivania, e mi riporse il telefono con un gesto di insolita decisione

- Prova a chiederglielo. - disse - Visto che sei il solo che lo aiuta - (e si escluse modestamente dal numero) - credo te lo dirà -

 

Uscii dall'ufficio per ultimo, a tarda sera. Chiusi la porta e scesi a capo basso per le scale.

Fuori era già buio e le chiazze ovali di luce dei lampioni sull'asfalto sapevano d'inverno.

Ero stanco.

Ma era presto per dormire, non erano nemmeno le otto, e Camilla mi aspettava per cena: erano piuttosto i miei occhi a doversi ancora adattare al veloce imbrunire di un ottobre già avanzato.

Stava anche tornando un gran freddo: me ne accorsi proprio quel giorno, ritrovandomi all'improvviso, mentre la testa se ne andava a spasso per conto suo, sul marciapiede deserto, senza cappotto, sorpreso da un brivido intenso e lungo, uno spiffero di vento sotto quella frangia troppo pesante.

Mi sentii solo. Terribilmente abbandonato e solo. Ma fu la sensazione di un istante, e se ne scappò subito, intimidita dall'energia forzata con cui corsi sull'altro marciapiede, e poi rapido fino a casa.

Passava veloce il tempo, e non mi concedeva indugio, stavo sorpassando degli anni senza ripassarli, senza fissarli perché restassero...Filippo Scizio non conosceva queste attese: il suo tempo era senza pose e senza pause, freddo polare o caldo soffocante che fosse, lui non vi avrebbe colto lo spunto per restare fermo in piedi in mezzo ad una strada. Me ne accorgevo vivendo un po' della sua vita, ma più ci riflettevo sopra, più capivo che, direttore di una rivista o studente da quattro soldi, io di una cosa, la sola che mi avrebbe potuto rendere simile a lui, non sarei mai stato capace: credere importanti le cose che facevo, pensare che ogni gesto, ogni parola, o ogni impresa da compiere fossero essenziali, si trattasse di scelte o anche solo di faccende che mi capitavano tra le mani per sventura o errore...E mi balenava in mente questa idea, quella sera, sempre la stessa, la stessa doccia fredda, ogni volta: a che gli serviva? Chi glielo faceva fare? Se se lo fosse chiesto una anche solo per un minuto, chissà cosa avrebbe risposto...

Certo se glielo avessi domandato io mi avrebbe mandato al diavolo, o mi avrebbe rovesciato addosso grandi parole per dimostrarmi, una volta di più, di star compiendo la più grande opera della sua vita, la missione straordinaria che avrebbe cambiato il mondo...Anche a me sarebbe piaciuto cambiare il mondo, sentirmi destinato a grandi cose...prima, però, avrei dovuto trovarne almeno una talmente bella, talmente luminosa e grande, da non crollare come un castello di carta al primo cambio di stagione.

Ero già sotto la porta e suonai.

Camilla mi aprì con un viso raggiante, che stonava parecchio con quello che doveva essere il mio

- Sempre più tardi! - protestò scherzosamente - non spererai di 'sgamare' il turno di cucina anche stavolta! -

- No, se ti accontenti di cenare a tarda notte - provai a rispondere a tono - e poi, è molto più faticoso rigovernare che friggere due patatine -

- Coi piatti usa e getta? Bella forza! -

Passai in cucina, e la vampa di un enorme mazzo di rose lucide e ben confezionate in mezzo alla tavola bastò a spiegarmi in un'occhiata il motivo dell'euforia di Camilla

- Visto? - fece lei senza darmi il tempo di chiederle nulla - E' stato Vito -

Lì per lì non aggiunse altro e si guardò bene anche dal richiedermi commenti quando io rimasi stranamente lì, zitto zitto e per nulla stupito. Forse sospettava che le avrei rinfacciato il troppo entusiasmo, e si accontentava di un auspicabile pietoso silenzio: invece ero soltanto distratto, e non avevo ancora messo a fuoco il nome del misterioso spasimante. Non ricordavo che il suo ex si chiamasse Vito, tanto ero abituato a sentirlo definire piuttosto, a seconda degli stati d'animo, con epiteti quali "il mio amore" "il mio uomo", o, all'evenienza, "il cretino" "il maledetto", oppure ancora, solamente, con un tono traducibile su carta per mezzo della lettera maiuscola "Lui"...Era sempre stato quasi un'entità astratta!

- Ritorno di fiamma? - chiesi, mettendo fine a quel mutismo imbarazzante.

Lei agitò il capo frettolosa, in segno di discolpa

- Non ci torno mica insieme! - disse.

Poi sorrise, trasognata

- Ma sono felice perché mi ha chiesto scusa -

Esitò, cercando di nuovo di giustificarsi, di trovare delle motivazioni razionali alla sua allegria da potermi elencare a scopo probante

- Ho avuto la soddisfazione di averlo cambiato: prima non si sarebbe mai abbassato a chiedere scusa a una donna. Ricordi? Detestavo il suo orgoglio. Invece stamattina è arrivato qui con questi fiori e mi ha detto che ora si sente un uomo diverso, e che lo deve a me, perché se non lo avessi lasciato, se non fosse stato privato della cosa più importante, cioè io, non si sarebbe mai accorto di quanto era stato bastardo... -

Le brillavano gli occhi, aveva un tremolio strano persino nella voce, si era già rimesso in moto tutto, insomma, ed io, che avevo voglia di sentirmi cattivo, pensai che ogni cosa procedeva secondo copione: il brillio degli occhi, il tremolio della voce, il bel discorso sdolcinato, amore e sofferenza...Se avessi voluto esserlo fino in fondo avrei potuto anche farglielo notare: ma preferii usarle la stessa cortesia che Rino aveva usato poco prima a me.

E poi volevo proprio che il discorso finisse lì, per quella sera: a coronare la paranoia di una simile giornata ci sarebbe giusto mancata la consulenza sentimentale.

- Beh, lui mi pare ancora innamorato di te - affermai, addentando quel che rimaneva di un panino svuotato della mollica da Camilla, che aveva sfogato l'emozione facendone tante piccole palline e allineandole sul bordo del tavolo

- Si - confermò - me lo ha confessato. Ma mai tornare sui propri passi, giusto? Una decisione presa è un punto e a capo per sempre -

Mi divertiva quando diventava sentenziosa per suggellare dignitosamente le sue riflessioni spicciole di auto convincimento: sembrava sempre che dovesse blandire e persuadere un giudice implacabile, incarnato, chissà come, nella mia persona, per essere sicura di rimanere ferma sulle proprie posizioni...Quando poi sapevamo già benissimo entrambi che non sarebbe successo!

- Non essere tassativa - feci io, bonariamente - non si sa mai - e Milly, che non si aspettava una simile manifestazione di "indulgenza" - credi? - disse - pensavo saresti stato più rigoroso... - Mi alzai dalla tavola: mi venne su dalla gola una nota di tristezza - forse... - bisbigliai - non stasera, comunque... -

 

Mauro Nissori tornò in ufficio il giorno dopo, e ancora il successivo, e via così per tutti quelli a venire, finchè un mattino di primo novembre non riuscì ad incontrare Filippo, che era tornato allora allora e non aveva ancora avuto neppure il tempo di scambiare qualche parola con noi.

- Ti ha cercato continuamente - gli sussurrai all'orecchio, fingendomi scherzoso, mentre gli andava incontro davanti alla porta - quell'uomo è una mignatta! -

Filippo mi rivolse uno sguardo complice, sorrise

- Lo so - disse.

Un attimo dopo lo vidi percorrere il corridoio in senso opposto, seguito dall'ospite, e andare a chiudersi con lui dentro il suo ufficio. In vero non avevo intenzione propriamente di origliare, ma dalla mia posizione le loro parole si sentivano così bene, che sarebbe stato uno sforzo troppo grosso per me rinunciare ad ascoltarle. Del resto, nessuno dei due sembrava molto interessato a mantenere la conversazione chiusa tra quelle quattro pareti: entrambi tenevano un tono di voce piuttosto sopra il livello della pacifica conversazione. Nissori, soprattutto, sembrava davvero molto acceso...

- Io, signor Scizio, proprio non riesco a capire la sua ostinazione autodistruttiva nel rifiutare i nostri accordi!...Non vuole ritrattare? E' una questione di prestigio? Va bene! Le siamo venuti fin troppo incontro chiedendole la semplice garanzia di non toccare mai più l'argomento sulle pagine della sua rivista. Non mi pare una gran pretesa...E lei invece?...Non si degna nemmeno di darci una risposta. A questo punto, credo ci dovrebbe proprio delle scuse! -

- D'accordo. Mi scuso, se può farle piacere. Ma questo non cambia i fatti: garanzie o ritrattazioni, sempre di un compromesso si tratta. Ed io non scendo a compromessi -

- Mi permetta di farglielo presente, Scizio: lei è un uomo irragionevole. Per un orgoglio che non giova a nessuno, persiste nel voler affrontare gli inconvenienti di un processo presumibilmente lungo e costoso per entrambi -

- Parli al singolare, di grazia -

- Scizio, per l'amor del cielo!...Lei sarà pure ricco, ma pensa davvero di vincere la causa? -

- Questo non lo so. Ma ora come ora è nel mio interesse che il processo si faccia -

- Nel...suo interesse?...Ma se l'abbiamo sporta noi, la denuncia! -

- Esatto. E adesso, chissà come mai, vi vendereste l'anima perché tutto saltasse. Strano, molto strano, davvero... -

Ci fu un attimo di silenzio, poi udii di nuovo la voce di Filippo, distesa, naturale.

- Ha nient'altro da dirmi? Perché altrimenti... -

Nissori rispose con un tono più dimesso, ma austero.

- Mi arrendo, Scizio. Lei è davvero più agguerrito di quanto credessi. Le confesso che avevamo minacciato il processo solo nella certezza che lei si sarebbe lasciato intimidire e ci avrebbe fatto pubbliche scuse. -

- Ah, ma guarda -

- Ciò non toglie che le sue accuse siano completamente insussistenti, e se lei vuole ostinarsi nel suo intento, le garantisco che ci toglieremo la soddisfazione di dimostrarglielo. Vedremo in seguito quanto tutto questo potrà continuare a rientrare nel "suo interesse" -

Ci fu un nuovo, prolungato silenzio prima che Filippo riprendesse la parola. Io già mi aspettavo una bella frecciata pungente, o anche solo un cortese invito a guadagnare la porta, invece lui, cambiando tono e discorso all'improvviso, disse

- Cosa sa della Canavan-trasporti, signor Nissori? -

Silenzio.

- Niente. L'ho solo sentita nominare -

- Peccato. Pensavo che avessimo delle conoscenze comuni -

Il telefono squillò e dovetti rispondere, così non potei capire cosa c'entrasse quell'intermezzo inspiegato nella loro conversazione. Ma li ritrovai poco dopo, nell'atrio dell'edificio, davanti al portone a vetri, mentre tornavo dal distributore del caffè, e mi attardai sulle scale per aspettare Filippo.

Nissori era molto più arrabbiato di prima.

- La sua testardaggine rasenta il fanatismo, signor Scizio. Ma la rovino, le giuro che la rovino! -

- Mi conceda il beneficio del dubbio -

- Lei mi renderà ragione! -

- Lo vedremo al processo -

Nissori scrollò le spalle, e, senza un cenno di saluto, si avviò alla sua macchina con passo nervoso. Anche Filippo si voltò dall'altra parte, stizzito

- Che schifo! - bisbigliò mangiandosi le lettere, ma non appena vide me, in piedi, lì impalato, mi venne incontro tutto gioviale.

- Mi aspetti Mattia? Prendo un caffè anch'io e saliamo insieme -

Bisognava che approfittassi dell'occasione se volevo chiedergli conto di tutte le balle che mi aveva raccontato, perciò lo assecondai volentieri e, salendo tre gradini alla volta, gli andai dietro.

- Che voleva il Nissori? - esordii disinvolto, come si stesse chiacchierando dei cornetti mangiati a colazione.

- Romper le scatole - fece Filippo, a tono, lasciando scivolare una monetina nella fessura del distributore automatico - Hai qualche spicciolo? -.

Mi frugai nelle tasche e tirai fuori una manciata di monete di vario calibro.

- Grazie, grazie mille. In ufficio te li restituisco -

- Figurati! -

Quello scatolone azzurro faceva un gran tramestio per colar giù un mezzo bicchierino di caffè: sembrava una manifestazione di insofferenza...Ma guarda un po'! Con lo schifo di acqua macchiata che ci propinava!

- Senti Filippo - presi coraggio - E' vero quel che Nissori ci ha detto, che non sei mai stato a Grosseto, e che non hai avuto più relazione con la Lefis da almeno un mese? -

Lui non parve colto sul vivo, e mi sorrise con gran naturalezza, quasi affettuosamente

- Ah, si è lamentato anche con te? -

Poi sorseggiò il suo caffè, si scottò le labbra, fece una smorfia.

- Si, è vero. Ma non mi pare il caso di discuterne, ora. Se mi inviti a cena stasera, ti spiego tutto -

Fui felice che non volesse tenermi fuori dalla questione, e acconsentii di buon grado, sforzandomi, o almeno fingendo di essere, assolutamente tranquillo

- Senz'altro! - dissi - ma mi devi concedere di rientrare in casa ad un’ora ragionevole, o Camilla mi bandirà per sempre dal suo appartamento! -

Filippo scoppiò a ridere

- Ed io le aumento l'affitto! - esclamò.

 

Cercavo le chiavi rovistando nel mio marsupio, quando vidi due figure avvicinarsi lungo il marciapiede. Per quanto le mie lenti sempre più graffiate potevano permettermi di vedere, una delle due mi pareva proprio Camilla, e l'altro era indubbiamente un uomo, che sospettai trattarsi del noto Vito.

Quando mi fu vicino, Milly arrossì, perché s'era accorta che l'occhio mi era subito caduto sulla mano che teneva stretta in quella di lui

- Eh si... - disse - E' come pensi... -

Le sorrisi, senza commentare

- E' cambiato... - aggiunse, piegando il capo su un lato e guardandolo

- Si - confermò lui - sono molto diverso, ora. Ho sofferto tutta l'estate, ma mi è servito di lezione -

Mi sentii cattivo, sfoderai un sorriso ancor più largo, e non poco ironico

- L'amore fa brutti scherzi! - dissi - Tuttavia ti trovo in ottima forma! -

Lui reagì con un’occhiata feroce, ma Camilla non aveva colto la battuta e pensò che volessi solo fargli un complimento. Ne fui felice, perché un attimo dopo mi ero già pentito di quello sprazzo di malignità. In fondo ero proprio meschino: avrei dovuto augurarmi che davvero fosse tutto diverso e che Camilla fosse per sempre felice, invece avevo persino sperato di ricevere da quel breve scambio di battute la conferma che il bel Vito era ancora un mascalzone tal quale a prima.

Scivolai su per le scale, lasciandoli che si baciavano sul portone.

Filippo doveva venire a cena, e mi convinsi che il mio solo desiderio, in quel momento, fosse sentirmi essenziale per lui.

 

- Bravi, complimenti! Facile con i cibi precotti, eh? -

Ci prendeva in giro, con una benevolenza che doveva servire a non screditare troppo il proprio status simbol di superbo, dopo i colpi persi recentemente. Ma benché ostentasse quell'atteggiamento, quella sera ogni suo gesto finiva con l'apparirmi inesorabilmente insicuro ed esitante. Mi dissi che dovevano essere i pasticci a renderlo così simpatico, e proprio di quelli mi aspettavo che mi parlasse.

Invece tirammo tardi giocando a carte, e al motivo per cui era lì, neppure un accenno.

Poi, quando Camilla si fu avviata a lavorare alla discoteca, mi sorprese

- Ti scoccia se usciamo?...E' tanto tempo che vorrei tornare in un locale che conosco... -

- Va bene - acconsentii - è distante? -

- Non tanto. Ma prendiamo la mia macchina -

- D'accordo -

Filippo guidava disinvolto, distogliendo spesso lo sguardo dalla strada per dire qualcosa a me; teneva una sola mano sul volante, con l'altra scorreva le frequenze dell'autoradio, protestava

- Che robaccia, di questi tempi... -

Era la prima volta, notai, che sperimentavo la sua guida, e mi dissi che, guai a prescindere, si muoveva sulla carreggiata come sui nostri marciapiedi o nel corridoio dell'ufficio: energico e sciolto. Ecco....io, invece, non avrei mai imparato a guidare...

- A che dobbiamo quest'idea? -

- Quale? -

- Quella di uscire... -

- Perché, non ti va? -

- Si, figurati. Solo, mi avevi sempre lasciato capire di detestare discoteche e locali...di divertirti in altre maniere...Ma come sempre non ho capito nulla -

- Come sempre hai capito benissimo, invece. Ma a volte ho voglia di fare cose che in altre occasioni non farei. Gusto di varietà. Sai, oggi compio venticinque anni -

Rimasi piacevolmente sorpreso: era dunque questa la ragione del suo insolito auto-invito!

- Potevi anche dirmelo prima! - lo rimproverai - Avrei preparato almeno la torta! -

- Si...lo sospettavo...Per questo ho preferito passare sotto silenzio la "grandiosa ricorrenza". Detesto i festeggiamenti. Le ultime candeline che ho spento erano dieci. Dieci e amen. Poi non se ne è fatto più di niente -

Credevo mi avrebbe spiegato anche il perché, ma lui non aggiunse altro.

- Io, invece - dissi allora - Presto molta attenzione alle "grandiose ricorrenze". Mi piace pormi delle scadenze: mi servono a sentire il tempo -

Filippo spense la radio, rise.

- Io il tempo non lo "sento", lo attraverso! -

Forse voleva solo sfoderare una bella frase conclusiva, e non pensò neppure al senso delle sue parole, ma calcò talmente bene il verbo finale che da allora non sarei più riuscito a separare quelle terribili quattro sillabe dal concetto di tempo, e dalla faccia solare di Filippo Scizio, per tutte le volte che mi sarebbe capitato di trovarmi di fronte a date significative.

Chissà che voleva dire, poi, "attraversare il tempo"!

 

Nel locale aleggiava un'atmosfera opaca, staniante, tra luci soffuse, fumo di sigarette, e strani colori nei bicchieri. A guardarsi in giro le persone potevano sembrare tutti uguali, i lineamenti sfocavano negli strani riflessi di quel posto. Solo quelli di Filippo spiccavano decisi nel tenue chiarore della lampada che pendeva bassa poco sopra i nostri capi, credo, più che per l'effettiva vicinanza, proprio per quell'effetto di sempre che faceva in modo che neanche il torpore di quel luogo fumoso riuscisse a smorzare il nitore essenziale dei suoi tratti e dei suoi gesti.

Il posto, però, non era bello: in questo non aveva avuto buon gusto. Ma faceva niente. Valeva bene la dimensione di confidenza che aveva contribuito a creare tra di noi.

Filippo non aspettò neppure l'ordinazione, venne subito al dunque.

Accavallò le gambe, braccia conserte in atteggiamento distinto da grande uomo d'affari (...nuovo salto di dimensione, nuova atmosfera, certo meno cordiale, ma più consueta, per me...) e cominciò

- Innanzi tutto ti sarai stupito della mia apparentemente ingiustificata testardaggine nel voler portare avanti la causa, dopo aver rassicurato tutti, alla mia prima partenza, di avere in serbo i migliori propositi accomodanti. In effetti l'accordo si sarebbe potuto raggiungere con facilità: interesse precipuo della Lefis era che l'argomento venisse una volta per tutte accantonato. Tuttavia la loro urgenza di mettere tutto a tacere mi ha insospettito parecchio, e purtroppo, sai, quando io sospetto qualcosa è molto difficile che sbagli -

Questa candida dichiarazione di infallibilità fu l'ultima tappa del cammino di ridiscesa nei nostri ruoli abituali, ma proprio perciò servì a rilassarmi.

- E quindi? - lo sollecitai, curioso.

Lui si fece serio, indossò l'espressione più grave tra quelle di cui disponesse il suo repertorio

- E quindi sono tutti dei grandissimi delinquenti! Ma ti giuro che li incastro, Mattia. Non gliela faccio passare liscia -

Rimasi di stucco, zitto a contemplare sul suo volto quel misto di istinto temerario, e di adulta consapevolezza.

- Disperdono nell'ambiente sostanze tossiche - spiegava lui, cercando di mostrarsi professionale e competente - servendosi dei famigerati mezzi di cui li accusavo, chiaramente. Conoscerai la zona, immagino...non è molto lontana da... -

No, non conoscevo la zona. Ma questo non aveva alcuna importanza.

Filippo mi stava confessando cose assurde, mi raccontava delle indagini che aveva svolto in quei mesi, mi diceva di voler sfruttare l'occasione del processo per smascherarli, mi assicurava di essere riuscito a raccogliere prove inconfutabili, mi trattava come la sua fida spalla in un folle, inverosimile film...

- E di che prove si tratta? - chiesi, illudendomi ancora che si sbagliasse, che fosse tutta una macchinosa farsa.

- Una prova schiacciante - disse - Ho una bolla di consegna. L'ho avuta dalla Canavan trasporti: sono loro che sbrigano il servizietto per la Lefis...Perché, ne dubitavi? -

- Beh, scusami...ma se la Canavan è coinvolta, che interesse aveva a dare a te una bolla di consegna? -

Filippo mi lanciò un'occhiata ambigua, tra il l'ironico e il compassionevole

- Suvvia, Mattia. E' ovvio che non gliel'ho gentilmente chiesta -

Mi guardò, sperò di ricevere uno sguardo d'intesa, ma non lo ottenne

- L'ho rubata, no? - disse allora a chiare lettere - Come dovevo fare? Non avevo altri mezzi -

Mi lasciai sfuggire un gridolino strozzato di sconforto

- Rubata? Ma sei matto! -

Filippo scrollò la testa in segno di disappunto

- Non essere eccessivo - mi sgridò - E' solo un pezzo di carta che non serve a nessuno. E lo faccio per una giusta causa. -

Poi si fece più bonario, e, amaro, sorrise

- Non te l'aspettavi, eh? -

 

Non me l'aspettavo, no! Noddavvero.

Ero rimasto ghiacciato. Non avevo mai provato lo sconforto di trovarmi così all'improvviso calato in una situazione tanto estranea alla mia ottica di vita, tanto incredibile, e che era invece così reale da far sì che l'irreprensibile Filippo Scizio diventasse ladro ed io - perché c'ero anch'io, nel bel mezzo della faccenda, era innegabile - vice direttore di una rivista, e magari (ormai non ci voleva poi molto!) complice di lui, che mi aveva abilmente inserito, a mia totale insaputa, in quel progetto pazzesco.

La macchina sfrecciava per la strada deserta sulla via del ritorno.

Stavolta ero io che scorrevo nervosamente le frequenze sulla radio non trovando una stazione su cui valesse la pena fermarsi, mentre lui guidava serio, taciturno, guardando fisso l'asfalto davanti a sé.

- Tu non credi... - mi disse ad un tratto - che serva a qualcosa...La pensi come Rino, vero?...Che non vale la pena, che sono altre le cose...importanti... -

Stavo per rispondergli, ma non me ne diede il tempo

- Lascia perdere... - troncò il discorso - tanto so quel che faccio -

"Io non credo niente" avrei voluto spiegargli "E' proprio questo il guaio"...Invece stetti zitto, una volta di più, e continuai a far scivolare rapida la mano sulla rotellina rossa e ad osservare assorto la stanghetta fosforescente che illuminava uno dietro l'altro fitti numerini disordinati.

Avrei potuto rompere quel silenzio inquietante assecondandolo nella critica ai "pezzi forti" del momento, ma non sarei stato sincero: anzi, la mia attenzione si fermava quasi ogni giro delle dita, a strappi, su pezzi di frasi, e metteva insieme, come in uno strano puzzle di parole, i mozziconi di strofe che sfuggivano alla fretta del mio zapping radiofonico, veloci come i coni dei lampioni sulla strada.

In questi tempo di grandi cambiamenti

you always shared my deepest thoughts

finché la paura non mi abbandonerà

...

la cosa che ha amato di più è stata l'aria

...

Mi fermai.

Inciampato in un ricordo

Camilla, che nei primi tempi che stavo da lei, mi cantava sempre quella canzone.

La sentiva sua: parlava di una donna di acqua e sole, che si era trasferita a Firenze. E di persone come noi, perse nelle sue strade, “fottute di malinconia”...

Guardai Filippo: era ancora immobile, con la stessa espressione, col suo perfetto profilo diritto, e per un lunghissimo momento, e neppure capivo perché, mi sembrò che quella fosse la nostra canzone, che io, Camilla, Rino, Alberto, fossimo tutti come quei personaggi, calati in un'atmosfera, in un'empatia destinata a finire prestissimo, di cui era colpevole lei, la città, e di cui la causa era stata lui, Filippo Scizio. Perché Filippo era così, come la donna della canzone, era fatto di aria, e diafano e puro come l'aria voleva rendere tutto ciò che vedeva, tutto quello che toccava, col duro mezzo delle sue azioni concrete, corpose e materiali, che tanto più difficili dovevano risultare, alla fine, per un essere così leggero.

Poi mi sentii stupido, e risi da solo. Filippo si voltò sorpreso, ed io arrossii, giustificandomi con una risata ancor più sonora.

Ma il mio gesto dissolse la tensione, ed anche lui parve stare meglio.

Eravamo ormai quasi sotto casa.

- Mi faresti un favore? - chiese, timido, come pronto a ricevere un rifiuto.

- Dimmi pure -

- Dovresti andare alla biblioteca della tua facoltà, e prendermi in prestito a tuo nome un libro: il manuale di archivistica di Eugenio Casanova, edizione del 1928. Ti spiace? -

Non compresi il perché di tanto ritegno per una richiesta così facile da esaudire

- Senz'altro. Ma tu toglimi una curiosità: a che ti serve? -

- Mi serve... -

Parve volesse attaccare un nuovo lungo sermone, condito con un'altra serie di rivelazioni scottanti, ma si riprese, frettoloso:

- Curiosità. Non lo sai che io sono un tuttologo? - disse.

- Consideralo già fatto - gli assicurai uscendo dalla macchina - te lo porto domani in giornata -

 

In dicembre la situazione precipitò. La prospettiva del processo era ormai quasi una certezza, Nissori ci bersagliava di telefonate, Filippo era diventato ancor più misterioso e aveva ripreso a sparire per giorni interi senza lasciar traccia di sé. Dalla sera del suo compleanno non mi aveva più parlato della causa, né delle sue indagini di detective improvvisato (giusto questo ancora gli mancava!), e vista la noncuranza con cui lui stesso pareva vivere quello strano frangente, anche io avevo finito per calarmi senza più troppo pensarci in quella strana atmosfera da film...Bizzarro scherzo del destino che mi toccasse tornare nel mondo reale quel mattino tetrissimo di nubi e tuoni, adatto più che mai alla tensione di un romanzo giallo!

Nissori si era precipitato in redazione iracondo e stranamente elettrico: pareva sentisse freddo, non voleva sfilarsi i guanti e si stringeva nell'alto bavero d'un cappotto spigato grigio. Da un po' di tempo le cravatte colorate non le indossava più.

- Devo vedere Scizio - irruppe sbrigativo - Fatemi parlare subito con Scizio -

E ripeteva quel nome con un'insistenza fastidiosa.

Filippo, una volta di più, era uscito.

- Non c'è - gli obiettai - Torna stasera, credo...sul tardi -

- Devo vederlo prima -

- Non so dove sia, mi spiace -

- Loira, mi faccia la cortesia: prenda quel telefono e me lo chiami -

Mi apostrofò con una pacatezza affettata che tradiva l'urgenza: lo assecondai, sicuro che mi avrebbe risposto di nuovo la vocetta della signorina Tim, come difatti accadde mentre facevo aderire la cornetta all'orecchio dello scocciatore, a carattere dimostrativo.

Era però visibilmente scosso quel giorno, il Nissori, e per un momento fui tentato di chiedergliene ragione, ma la mia premura si dileguò in men che non si dica nello scontro con la sua irruenza

- Loira - disse (e ripeteva anche il mio cognome con un'insolita pregnanza) - Loira, ci metterei la mano sul fuoco che lei sa dove si è cacciato quel... - sembrò correggersi in extremis dallo sciogliersi in epiteti irripetibili - quell'incosciente del suo capo! -

- Mi dispiace - cercai di rabbonirlo - Ma non credo che un paio di bestemmie servano a far sì... - e ammiccai all'apparecchio telefonico - ...che "l'utente sia raggiungibile" -

Mi fulminò con un'occhiataccia, serrò le labbra

- Lei è un po' troppo superficiale, signor “vice direttore” - bisbigliò masticando le sillabe - Saprà almeno se Scizio è rimasto in città? -

- Lo suppongo...Non mi ha lasciato detto diversamente -

- E allora per il momento lo cercherò nei luoghi dove potrebbe trovarsi. Al peggio sarò qui stasera. Se lei lo sente, mi faccia chiamare -

Non tornò, invece, quella sera, e nemmeno Filippo si fece vivo.

Lo attesi in ufficio almeno fino all'ora di cena, solo, passeggiando su e giù per il corridoio vuoto. Mi scorrazzavano per la testa brutti pensieri, primo tra tutti che la Lefis avesse scoperto il furto di documenti, o chissà che altre cose che Filippo non m'aveva mai detto.

Tornando a casa provai anche a suonare il campanello del suo portone, poi, scoraggiato, salii svogliatamente le scale del mio palazzo.

L'ultima cosa di cui avevo bisogno era trovare Camilla con quella faccia da funerale che aspettava ansiosa il rientro del suo terapeuta personalizzato con un'aria di speranza e insieme di pretesa che quasi mi rimproverava una mancanza di sollecitudine.

Ciò che fu peggio, non ebbe nemmeno il coraggio di interpellarmi subito, e, incurante del tutto del mio morale visibilmente sotto i piedi, sedette zitta zitta per tutta la sera, sperando che il suo mutismo mi inducesse presto o tardi alla fatidica domanda "qualcosa non va?" che, invece, non voleva proprio salirmi alle labbra.

Alla fine cedette, cominciò a mordicchiarsi un unghia laccata, si tuffò sul "divanetto dell'analista" e disse:

- Dido, secondo te ho sbagliato? - .

Sapevo già a cosa si stesse riferendo

- Perché? -

- Perché...Non so... - continuava a mangiarsi le unghie, graffiandosi lo smalto - temo di non essere sicura....Certi giorni tutto mi sembra perfetto, ma altri...lo trovo così poco interessante...E mi sembra che...che tutti gli uomini che incontro abbiano qualche dote in più di lui... -

Mi aveva ripetuto queste stesse considerazioni centinaia di volte: non capivo se lo facesse apposta o se, davvero, non ricordasse. In ogni caso, non mi pareva un problema tanto grave.

- Insomma - profferì tutto d'un tratto - gli ho fatto le corna -

Io la guardai, estraniato, in silenzio

- Sono stata a letto con un altro, Mattia - ripeté, quasi seccata per la mancanza di un mio subitaneo intervento - e ora non so che fare, non so proprio che fare! -

Non so se mi dava più fastidio la sua pretesa di attenzioni fuori luogo, o la facilità con cui mi confidava i suoi affari sessuali. Eppure, ero abituato alla leggerezza di Camilla (una leggerezza diversa da quella tutta letteraria e solare di Filippo, ma pur sempre leggerezza), e forse quello che mi disturbava era piuttosto il fatto che mi facesse sentire un moralista schifoso.

- Dov'è il problema? - domandai, freddo - Non hai che da scegliere -

- Macché, macché... - protestò - Ho già scelto da un pezzo. E' stata solo un'avventura...Il guaio - e s'accalorò, indispettita dalla mia sufficienza - Sta nel fatto che se son stata capace di questo, è evidente che non amo Vito quanto pensavo -

- Questo mi pare chiaro -

- Ecco, però... -

- Però non riesci a lasciarlo perché non hai il coraggio di stare sola -

Camilla mi elargì un'occhiata feroce che voleva mettermi in guardia che stavolta stavo proprio passando il segno

- Vorrei tanto sapere - mi aggredì - che razza di idea ti sei fatto di me! -

Scattò in piedi e mi diede le spalle

- Nessunissima in assoluto - ribattei, a tono - solo che quelli come Filippo e te, che "sanno sempre quel che fanno" dovrebbero cominciare a prendersi qualche volta le loro responsabilità, e smetterla di trascinarsi appresso quelli che non sono capaci a stare al passo con loro! -

Alzai talmente la voce che Camilla finì per sentirsi colpevole, serrò le labbra e tornò a sedersi in silenzio accanto a me

- Scusa... - bisbigliai allora - Scusa, sono veramente...veramente... -

Non trovavo le parole per giustificarmi, e sforzai un sorrisino indicandole con un cenno del capo il cielo rabbioso fuori dal piccolo rettangolo della finestra

- Sai...credo di essere meteoropatico! -

Lei tirò fuori il fazzoletto dalla manica del pullover e si soffiò il naso - Io raffreddata, invece... - disse - ...raffreddata... -

Mi sorse un dubbio: sapeva cosa voleva dire "meteoropatico" o aveva già scusato il mio malumore con l'attenuante d'una fastidiosa malattia? Tutto sommato avrei desiderato fosse proprio così...

 

Fui in redazione tutto il giorno successivo, affondato in un'inerzia di attesa che interrompevo solo per stancare il centralino con chiamate inutili.

Filippo si presentò finalmente nel tardo pomeriggio, trovandoci tutti sfaccendati, con ancora sulle scrivanie i bicchieri di carta del distributore di caffè.

Cianetti aveva messo su un cd di musica classica: il tempo sembrava ovattato e immobile. Suoni rotondi e nuvole gonfie.

Lui comparve sulla porta serio, con un impermeabile sotto braccio, nell'altra mano la sua immancabile ventiquattrore lucida, il viso molto pallido, d'un languore che si intonava alla stagione, ma su cui sprizzavano come sempre quegli occhi penetranti che non smettevano un attimo di promettere e minacciare grandi imprese.

- Beh, che succede? - domandò, stupito, e, almeno all'apparenza, sereno, quando si trovò puntati addosso svariati paia d'occhi e di occhiali - Ok, scusate - disse, guardando l'orologio - ho avuto dei problemucci, ma ora eccomi...Mattia, ti posso parlare in privato? -

Ci trasferimmo nel salottino d'attesa che si apriva accanto all'ingresso, e appena fummo soli, Filippo lasciò cadere del tutto quell'aria di pacatezza costruita male e sprofondò sul divano, respirando in profondità come per soffiar fuori qualcosa di ingombrante. Sembrava me alle prese con la tachicardia, e mi faceva venir voglia di fare lo stesso: non pensavo che mi sarebbe mai venuto in mente un paragone del genere...

- Allora? - chiesi

- Ho incontrato Nissori - mi spiegò, quasi a titolo informativo.

- Ah bene. Quasi dimenticavo di dirti che ti aveva cercato -

- Si - mi interruppe subito - lo so. Aveva un affare da propormi...Volva offrirmi un..."compenso", per dirla come lui...perché stessi zitto, zitto vita natural durante... -

- Che?... -

Filippo fece l'indifferente, sforzandosi di non mostrarsi nemmeno turbato

- Hai capito bene. Pagherebbero il mio silenzio. Pagherebbero profumatamente il mio silenzio...E' tutto vero, Mattia. Non avevo sbagliato di una virgola. I miei sospetti, le mie supposizioni...Tutto assolutamente vero. E ora hanno paura... -

Esitò, aspettando la domanda di rito, che non tardò a seguire

- E tu che farai? -

- Che farò? E' naturale. Andrò fino in fondo...Tu che altro faresti? -

Lo sguardo tradì il tono fermo della voce: affondò il capo tra le mani e fissò il pavimento. Come era molto bravo a rivestire ruoli, Filippo lo era anche nel capire quando non tenevano più.

- Mattia - disse - In realtà c'è dell'altro -

- Ovvero...? -

Cercò di esprimersi senza dover spiegare, serrò le labbra in una strana smorfia, mezzo sorriso mezzo paura, e non mi disse una parola. Rimase lì con quello sguardo per terra, sospeso e triste...Forse era vero che non mi considerava un cretino.

- Filippo - colsi al volo - non scherzare. Chiamiamo subito la polizia! -

- Ma no, ma no! - si schermì subito - Neanche per idea!...Forse...forse non ho neppure capito bene...forse mi sbaglio...Sono...sono solo un po' spaventato...Sai, me ne stanno capitando un po' troppe...Io...io non capisco più bene neppure cosa stia succedendo...! -

Era la confessione più autentica, più sincera e disarmata che mi avesse mai fatto, ma io ero già entrato nel panico completo.

Cominciò a girarmi la testa, avevo freddo, mi tremavano le gambe: non ricordavo da diverso tempo di aver avuto tanta paura, né di essere stato così stordito...

Come era possibile? Come si poteva concepire una cosa del genere? Come si poteva incassare minacce, giocare col rischio, pensare alla morte e alla vita, e dire con quel mezzo sorriso stanco "sai, me ne stanno capitando troppe"...? No, proprio no! Non valeva la pena: Rino aveva ragione. Filippo era un pazzo egocentrico, preso da manie di eroismo che non servivano a nessuno...In fin dei conti eravamo dei ragazzini, niente più che dei ragazzini, lui ed io!

- Sei scemo o ci fai! - proruppi - Qui c'è da lasciar perdere ogni cosa e darsela a gambe: qui c'è davvero da star zitti "vita natural durante"!...Altro che "non capisco cosa stia succedendo": mi pare che l'abbiamo capito benissimo, cosa succede! -

Alla mia reazione Filippo recuperò in un sol colpo tutta la propria grinta: saltò in piedi, mi sfidò

- E' vero - disse - abbiamo capito. Ma non sono un vigliacco, io! - e si battè una mano sul petto con una solennità che poteva sembrar ridicola e invece, in quella situazione, assumeva una gravità veramente spiazzante - Tu e Rino pensatela pure come volete, pensate pure alle vostre "cose importanti"...! Per me, oggi, è questa la cosa importante, e ci basta già lo staff della rivista a farmene una colpa. Per cui, se vuoi metterti anche tu a fare il saggio di turno, fammi il piacere di togliere il disturbo! -

Non gli lasciai dire altro, non potevo lasciarlo parlare, ne avevo abbastanza del senso di colpa, ne avevo abbastanza anche della mia paura e persino di quei continui tremiti alle gambe...Dovevo usarle per scappare, le mie gambe, e per uscirmene da quel pantano e da quella stanza prima di farmi strappare un nuovo consenso, un altro come i precedenti che, un passettino dopo l'altro, da un anno a quella parte, mi avevano trascinato fin lì.

- Lo tolgo eccome, il disturbo! - esclamai - fallo pure da solo il paladino della giustizia! -

E in men che non si dica scattai fuori dalla porta, quasi sbattendomela alle spalle.

No...non potevo davvero lasciarlo più parlare.

Non potevo davvero più stare a sentire una parola.

Mi avrebbe convinto, lo sapevo, e quella volta sarebbe stato per sempre...

...Ma “per sempre” cosa?

...Per sempre con lui, come nei film, come nei romanzi, come per i grandi della storia, nella morte, nella vita...?

Oh,no... - mi ripetevo caoticamente, forse a fior di labbra, o tra le labbra e la testa - no, non si poteva più fare...Eravamo quasi nel duemila, i tempi erano cambiati...non si muore più per le idee!...

Filippo era forse fuori dal tempo?

Anche lui, come me?

Mi fermai che ero appena a metà del corridoio. Mi pareva d'esser scappato via veloce come un lampo e invece non m'ero quasi mosso, e le pareti tutt'intorno continuavano a dondolare...Stavo in piedi davanti alla sala delle riunioni e da dentro venivano le voci dei colleghi, sopraffatte tutte dalla musica del cd di Cianetti...

Dopo quel pomeriggio lo conoscevo a memoria: ecco, cominciava l'aria sulla quarta corda di Bach...

...

Non riuscirei tutt’oggi a spiegarmi per quale 'sortilegio' perverso o per quali casi mai inopportuni una musica giusta abbia fatto sempre da sfondo a situazioni fondamentali della mia vita, o per quale stimolo ad associare forzatamente suoni ed eventi mi è sempre parso fosse così, ma fatto sta che in quel momento l'intromissione improvvisa del prestigioso Bach mi costrinse per un attimo determinante a sostare sulla porta senza aprirla...

...Un attimo, e pensai che se me ne andavo adesso, sarei per sempre stato costretto ad associare quello splendido pezzo alla mia misera fuga, ad un pomeriggio terribile, al corridoio che gira e alle occasioni perse....

...Un attimo, e mi ricordai quel giorno in cui il tempo era più brutto di quello, tuonava forte e giù acqua a catinelle, che sembrava non voler mai smettere, e Filippo con la stessa faccia assorta che avevo notato poco prima, quando era entrato lì, che aveva bisbigliato, un po' accorato, tra sé e sé "Non sprecare le tue occasioni"...

....

Non sprecare le tue occasioni...

....

Feci retro marsh: il corridoio non girava più, infilai il capo tra lo stipite e l'uscio del salottino e rientrai.

Filippo aveva di nuovo la testa tra le mani, i gomiti appoggiati sulle ginocchia leggermente divaricate: alzò appena gli occhi e mi guardò senza pretesa.

Io, invece, ero molto imbarazzato: imbarazzato e insieme commosso, non so se da lui, dal mio stesso gesto o dal pensiero che almeno per una volta tutto nella mia vita non cadeva balordamente a caso.

- Beh - mormorai, dolcemente - Questa potrebbe essere la mia occasione, vero? -

Sapevo che in un’altra circostanza avrebbe risposto “Non lo saprai mai se non provi “, ma lui sorrise, con affetto triste

- Chi lo sa - disse solo.

Gli sedetti accanto e mi rilassai.

Ci provai, almeno.

Fuori dalle finestre baluginavano lampi enormi: il cielo imbruniva e avrebbe potuto piovere da un momento all'altro.

Rimanemmo non so quanto così, calmandoci al silenzio isolato del salotto, rotto solo una volta dai passi e dai saluti dei colleghi che si affrettavano a casa per non essere sorpresi dall'acquazzone, incuranti di tutto ciò che stava succedendo a due passi da loro.

Finalmente Filippo s'alzò, andò alla finestra.

Io pure mi tirai su faticosamente per estrarre dalla tasca stretta un fazzoletto di carta, e nel farlo, altri caddero fuori, sul pavimento, sparpagliati.

A quel punto avrei dovuto chinarmi per raccoglierli, e invece rimasi lì fermo, a guardare quei pezzetti di carta morbida - nient'altro che volgarissima carta - che mi erano sfuggiti dalle mani, e pensai di essere sospeso tra il desiderio di raccattare tutte le cose che scappavano via senza avvertirmi, e la consapevolezza che tutte queste cose, in realtà, erano proprio nulla.

- Mattia - disse, allora, Filippo guardando fuori dalla finestra, con la gota quasi aderente al vetro appannato - Che ne diresti se adesso gettassi una bomba micidiale da questa finestra e facessi saltare in un momento questo mondo infame? -

Io mi chinai finalmente su un ginocchio per raccogliere i miei fazzoletti

- Direi - risposi - che sarebbe una politica rinunciataria -

- Hai ragione - troncò lui, serio - allora vorrà dire che non lo farò... -

Rimanemmo lì fino a tardi, non ricordo nemmeno a parlare di che; poi scendemmo in strada perché Filippo era stanco, e il mattino doveva alzarsi presto.

Ancora non pioveva: tuonava molto e l'aria era umida, ma non fredda, per esser dicembre.

Filippo aveva la macchina parcheggiata sulla strada

- Ti accompagno? - chiese, ma io non avevo voglia di rientrare subito, volevo andare da Camilla al locale, e avevo molto bisogno di prendere aria.

- No - rifiutai - E' una notte meravigliosa! Farò due passi... -

Lui non insistette: forse aveva bisogno quanto me di stare un po' solo.

- A proposito - disse - Ricordi il libro che ti ho dato da restituire in biblioteca? Vorrei che ti appuntassi da qualche parte la collocazione. Potrei averne ancora bisogno -

- Tranquillo - garantii - tengo sempre le collocazioni. Ho una rubrica apposita, così evito di frugare in quei maledetti cataloghi! -

- Ooh! - ironizzò - che organizzazione! -

Lo accompagnai alla vettura in silenzio: per tutto il breve tragitto avevo avuto sulla punta della lingua una domanda, che però avevo paura lo irritasse. Ma in fondo, quella sera, ero io in credito di un favore, così, mentre era curvo sullo sportello, cercando di inserire nella toppa la chiave giusta...

- Senti Filippo - dissi - Tu un giorno mi hai detto che io e Rino siamo diversi da te, e credo sia vero. Tu, intendo, non pensi...non ti domandi mai se quello che fai ha un valore che va al di là del momento in cui lo fai...Tu non hai, voglio dire, il "grande sogno", la sola grande cosa che sai di voler fare per tutta la vita, che sai che darà senso alla tua vita...O pensi davvero che il tuo scopo sia cambiare il mondo? Ma tutto questo lo cambierà, il mondo?...E, in fondo, cambiare il mondo servirebbe a qualcosa?...Cambierebbe anche la nostra vita, il nostro modo di essere? Cambierà anche me e te? -

Lui aveva già aperto il suo sportello, si sfilò l'impermeabile, lo lanciò sul sedile posteriore

- Le classiche "domande esistenziali"? - mi interruppe, divertito, ma non offeso.

Poi si voltò, sfoderò un sorriso raggiante, il più luminoso che avessi mai visto esplodere sul suo viso, e spalancò le braccia, i palmi tirati e aperti in segno di rassegnazione, la voce più cristallina e gioiosa che potesse tirar fuori in una sera del genere

- Non ci ho mai pensato! - esclamò, anzi, quasi gridò, nel silenzio della strada deserta.

Mi strizzò l'occhio, salutò, e sedette al posto di guida.

Io rimasi immobile, zitto a guardarlo, così...abbagliato da quella risata, e ne fissai ogni particolare, qui nella testa, con attenzione e incanto, come, davvero, se fosse l'ultima.

Anche se allora non lo sapevo.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


IX

 

 

 

 

 

Ma un'ombra mi è rimasta e mi accompagna lieve come il volo di una nuvola, e quando, con le nobili forme danzanti dell'antilope nella vastità soffocante dell'aria d'oro, mi ha rasserenato, ancora mi tenta:

- Solo la morte è seria.

- Giovine moderno, guardati intorno...Anche la vita è seria

 

(G. Ungaretti)

 

 

 

 

Filippo morì durante un furioso temporale d'inverno, la notte tra il tre e il quattro dicembre.

Quando arrivai là, avvertito non so più come o da chi, l'ambulanza era chiusa - sul lato della strada il guardrail sfondato e i resti della macchina andata in fiamme.

Non avevo l'ombrello, faceva freddo, ero tutto bagnato. Desiderai che non succedesse più niente, che la pioggia mi inzuppasse fino alle ossa, che mi facesse sentire pesante, così pesante da poter non capire più nulla, stendermi e dormire, solo dormire, essere pieno di quel liquido greve che mi avrebbe ingombrato, mi avrebbe schiacciato per terra e non mi avrebbe lasciato più muovere...

Camilla arrivò dietro di me con la sua giacca per ripararmi: glielo impedii.

C'era un po' di gente sparpagliata qua e là, intorno al luogo dell'incidente...soccorritori, poliziotti e curiosi...

L'ambulanza non se ne voleva ancora andare via, la sua sirena stava zitta e mi costringeva ad ascoltare solo lo scroscio d'acqua sulla strada...sulla mia testa...incessante...incessante...

Sentii la voce di un tizio che parlava ad un poliziotto, un giovane con gli occhi un po' languidi, alto e lungo. Disse - Si chiamava Filippo Scizio, aveva venticinque anni - .

Venticinque anni...

Guardai il riflesso dei fanali specchiarsi nelle pozze: tra auto e lampioni c'era luce dovunque, luce a giorno, innaturale, ne rimanevo abbagliato e non vedevo quasi nulla...O forse era quel velo d'acqua che si era steso sui miei occhiali? Avrei dovuto muovere le braccia - le braccia che stavano inerti lungo i fianchi, paralizzate - per pulirli...tirare fuori dalla tasca il fazzoletto...

...Pensai ai miei fazzoletti...Pensai a poche ore prima, che non pioveva, che l'aria era fresca e Filippo mi stava salutando sul portone dell'ufficio...

Barcollai. Mi accorsi che le gambe si erano intorpidite e non riuscivano più a tenermi in piedi, le orecchie ronzavano come assalite da uno stormo di zanzare, e intanto la tachicardia si stava sprigionando tutta insieme e mi sembrava che l'aria non mi arrivasse ai polmoni...

Ebbi paura: chiesi aiuto, mi misi a gridare che stavo male, che stavo soffocando, ma la voce uscì fuori come un sussurro sottile, impercettibile...

...Non vedevo più niente...

Qualcuno alle spalle mi sorresse, e mi stese piano per terra. Sentii la mia mano che affondava in una pozza, mentre un uomo mi teneva il polso dell'altra e ripeteva - Su, su, Mattia, coraggio...non è niente, respira, stai calmo... -

Sentii anche la voce di Milly che mi chiamava Dido, cercai di riaprire gli occhi per vederla ma non mi riuscì. Per cui li tenni chiusi, stretti, sempre più stretti, e mi abbandonai a quello strano torpore che forse era provvidenziale, che forse mi avrebbe salvato...

 

Mi svegliai stordito di primo mattino, in una stanzetta linda con una luce grigiastra ma intensa, tagliata a spicchi dalle tende su tutte le pareti. Le ante della finestra erano semi aperte e da là proveniva uno spiffero gelido che mi aveva intorpidito il braccio rimasto fuori dalla coperta.

Mi ci volle un po' per rimettere insieme l'accaduto, avevo la testa confusa e le orecchie fischiavano ancora. Vidi sul comodino una mascherina a ossigeno ed ebbi un sussulto al ricordo dello spavento provato, quasi mi mancava il fiato di nuovo, avevo davvero temuto chissà che cosa...Ma, in fondo, che cosa sarebbe potuto accadermi?

Morire anche io?

...Avevo paura della morte, ma forse a spaventarmi era sempre stato piuttosto il suo pensiero, quel pensiero: che potesse portarsi via le persone di cui avevo bisogno, che senza di loro non ci fosse proseguo, non ci fosse vita.

Che Filippo se ne era andato davvero.

Che quella era davvero una Fine.

Bussarono alla porta: era Camilla.

Io mi ero già sollevato a sedere sul letto e mi alzai per andarle incontro. Ci abbracciammo senza una parola, zitti come se il nome di Filippo fosse impronunciabile, fosse una specie di tabù. Le chiesi invece degli altri, di Rino, le confidai le mie preoccupazioni riguardo alla salute e lei mi riferì che i medici volevano tenermi sotto osservazione per qualche giorno.

Quando se ne fu andata mi rimase solo l'amaro di quella naturalezza indifferente, da cui mi sollevò quasi subito l'arrivo di un medico, con la sua brava cartella clinica sotto braccio e il camice bianco, che se non altro - pensai - mi avrebbe obbligato a rispondere a domande tecniche e di routine su malattie passate e presenti senza che io potessi provarne frustrazione. E poi era liberatorio sentirsi trattare da malati, il male rendeva tutto più tollerabile, attenuava la consapevolezza di quel che era successo e i sensi di colpa - se c'erano, se c'era motivo che ce ne fossero, se mai fosse vero che si provano sempre e comunque, di fronte alla morte..

- Ha mai sofferto di attacchi di panico, signor Loira? -

Il dottore era seduto su un panchetto a tre piedi vicino al bordo del letto su cui me ne stavo inerte, gambe penzoloni e schiena curva verso di lui.

- No - risposi - E non mi era mai capitata una cosa del genere. Ma la tachicardia, quella sì. Ce l'ho da quando sono entrato alle superiori... -

- Che tipo di tachicardia? Battiti irregolari o solamente accelerati? -

- Entrambi. A volte ho il classico "tuffo al cuore". Mi sveglia anche di notte. -

- Si è mai sottoposto a delle analisi? -

- No, mai -

Rimasi tutto il giorno in ospedale per una serie di accertamenti: fui sballottato continuamente da una saletta all'altra, non mi diedero alcun tempo, sul momento, di pensare.

- Il suo cuore non ha nulla - credette di rincuorarmi il dottore - ma lei soffre di una forma di ansia, signor Loira. Dovrebbe - (la frase di rito) - tenerla sotto controllo... -

- Avrei bisogno di uno psicologo, non di un medico, lo so... - ammisi

- Lei ha bisogno anche di un medico - mi sorrise, cordiale - affinché la persuada di essere perfettamente sano -

Fui tentato di dirgli che avrei preferito scoprire di essere malato, invece: ma in fondo era una cosa inutile...In fondo io sapevo benissimo quale fosse stato il motivo del mio malessere, lo sapevo dal momento stesso che avevo perso i sensi, come una donnicciola, sulla strada, abbagliato dalle luci riflesse nelle pozze - anche lui, certo, doveva saperlo.

- Lei conosceva bene Filippo Scizio? - chiese, con una nota di partecipazione

- Si - risposi, assente - era il mio migliore amico... -

Volevano trattenermi un giorno ancora per ulteriori analisi: rifutai, e firmai per uscire. Lo sentii come atto di coraggio, ne avevo bisogno, volevo sentirmi forte, convincermi che sarei stato in grado di superare il dolore che mi aspettava...

Mi riportò a casa Cianetti, in macchina. Fu molto, molto premuroso e gentile. Ma anche con lui, della disgrazia non facemmo parola.

 

"Esistono gli altri per noi? Vorrei che non fosse vero, per non star male. Vivo come in una nebbia, pensandoci sempre ma vagamente. Finisce che si prende l'abitudine a questo stato, in cui si rimanda sempre il dolore vero a domani, e così si dimentica, e non si è sofferto"...

Ricordavo di aver sentito quello stato d'animo appena lettolo, molto tempo prima, molto prima che esistesse, per me. E così anche in quel momento non fui capace di risparmiarmi di fare i conti con la letteratura, o di avere un pensiero che fosse soltanto mio.

Fu per questo che accettai di suonare l'adagio di Albinoni al funerale: per rompere una catena, per non negarmi fino alla fine il diritto al dolore vero.

In realtà, all'inizio, quando i membri dello staff me lo avevano chiesto, avevo rifiutato. Poi credo che a persuadermi ci si mise di mezzo proprio Filippo. Incredibile - mi dicevo - mi perseguitava anche ora, come quando andava via e la minaccia della sua assenza mi costringeva a dire sempre si, ad accondiscendere alla sua volontà con la stessa rassegnazione in fondo soddisfatta con cui, in sua presenza, mi fingevo condannato all'obbedienza e volentieri, passo passo, gli andavo dietro.

Sperai di non commuovermi, avevo paura che se fossi scoppiato a piangere non sarei riuscito più nemmeno a leggere le note sullo spartito.

Invece, piansi dall'inizio alla fine, non lessi niente di niente, e scoprii di conoscere il pezzo a memoria, e di essere persino capace di improvvisare a orecchio laddove non ricordavo.

Ripensai a tutte le volte che Filippo mi aveva spinto a sedere al suo pianoforte e aveva insistito perché gli suonassi quell'adagio lì, sempre quello. Naturale che dovevo averlo imparato, alla fine...

Che strano, però...non me ne ero mai accorto, e pensare che avrei potuto sbalordirlo con una prestazione mnemonica straordinaria, come la prima volta che, a casa sua, avevo strimpellato Pachelbell...

Ma no...Filippo non si stupiva: Filippo diceva "bravo, complimenti", così, francamente e senza problemi...Ero io quello che restava a bocca aperta, che si sorprendeva sempre, che amava guardare e ammirare, senza essere capace di dire niente...Anche in quella situazione sarebbe stato diverso, se fosse stato me: certo non avrebbe suonato coi lucciconi agli occhi e Camilla accanto che cercava di asciugarmeli perché non mi si appannassero gli occhiali...Avrebbe trovato qualcosa da dire: avrebbe trovato parole grandi per me...sarebbe stato assoluto, totale, solenne...

Era un terribile scherzo del destino. Lui per me era sempre stato tutto ciò a cui avrei voluto somigliare: lui era la solarità, lo scatto, l'energia, la luce abbagliante cui non ci si può sottrarre, lui era la guida, il punto di riferimento...e nulla di tutto questo aveva mai avuto occasione di sentirsi dire da me! Era capitato semmai il contrario: era capitato che fosse lui a far complimenti, schietto e spontaneo com'era sia nell'amare che nell'odiare...quando di sicuro, se fossi stato sincero io, avrei potuto tessere per ore le sue lodi, senza bisogno di sporadici momenti di intimità e confidenza. E magari lui, invece di insuperbirsi più di quanto non fosse già pieno di sé, avrebbe potuto pensare che quel suo vicino di casa che parla sottovoce e non sa stringere la mano, non dicesse così perché aveva scarsa personalità e si sentiva inferiore, ma solo perché gli voleva molto bene.

...E io, gli avevo davvero voluto bene?

...Ma si può gioire e soffrire per un anno intero a causa di una persona senza voler bene?

 

Uscii dalla chiesa tra i primi, respirai un po' di silenzio e di cielo grigio, e poi vidi Alberto, in piedi vicino al cancello, vestito di scuro, con la cravatta lucida stretta intorno al collo, i capelli un po' increspati dall'umidità che parevano più del solito spruzzati di borotalco. Elodì, poco distante, era appoggiata alla ringhiera, la sua testolina bionda stava china sul lastricato, sulle pieghe morbide della gonna all‘antica.

Alberto venne verso di me ed io, che mi ero appena calmato, ebbi di nuovo una gran voglia di piangere: gli andai incontro e lo abbracciai forte, nascondendo la faccia sulla sua spalla e prendendo a singhiozzare così forte, che lui si vide costretto a bisbigliare una frase di circostanza che forse avrebbe volentieri sostituito con un rispettoso silenzio - Su Mattia, non piangere... -

Mi carezzò anche sulla testa, con un gesto affettuoso, quasi impercettibile, e insolito, da parte sua, considerato che era abituato a trattarmi come un intellettuale di prestigio piuttosto che come un giovane di vent'anni che avrebbe potuto essere suo figlio.

Credo apprezzai quella dolcezza proprio perché veniva da lui, che, chissà come, avvertivo essere l'unica persona a pensare quel che pensavo, a sentire quel che sentivo lì, in quel frangente; se a fare lo stesso fosse stato Cianetti, o anche Camilla, o addirittura Rino, probabilmente mi avrebbe solo infastidito.

Alberto no, invece...Di Alberto avevo bisogno.

Guardai la sua faccia dimessa, due occhi un po' incavati e una profonda ruga che accompagnava il suo mezzo sorriso consolatorio partendo dal labbro fino alla narice corrispondente, che per una volta irrideva, cattiva, alla sua figura di adulto mai invecchiato, abusiva in quel volto giovanile e sempre tanto giocondo.

Non mi sarei mai immaginato, se non fosse capitato disgraziatamente di doverlo vedere, un Alberto D'orsi rassegnato e sofferente, toccato dal segno del tempo.

Questo - mi dissi - con Filippo non sarebbe mai successo. Questo almeno la morte aveva portato (inutile corollario a tutte le "fini definitive"): che Filippo Scizio ora sarebbe rimasto per sempre il giovane sicuro e entusiasta, aggressivo e mai arrendevole che avevo conosciuto, e che l'ultimo giorno della sua vita (ahi, la mia dannata attenzione alle date!) aveva riso in faccia a me e alle mie domande pseudo-filosofiche esclamando trionfante e con noncuranza "Non ci ho mai pensato".

 

Non ci aveva mai pensato. Non ci aveva mai pensato e io invece ci pensavo sempre. E ora lui non c'era più, e io invece sì, lì, solo, nella mia stanza che dava sulla strada e sulla sua finestra, in compagnia di quella folla di pensieri inutili.

Chissà dov'era, chissà se c'era un aldilà da cui potesse affacciarsi per sentirmi, chissà se c'era anche Dio, quel dio in cui forse avevo creduto quand'ero più piccolo, e con che criterio sceglieva chi doveva rimanere e chi se ne doveva andare.

Erano pensieri così stupidi, così banali che c'era da vergognarsi a riempirci pagine d'agenda, ma io lo feci lo stesso: volli sempre, giorno dopo giorno, che ingombrassero bene non solo quelle pagine ma anche la mia testa. Era bello, era bene attaccarsi a questo frasario, a queste domande scontate, a quegli assurdi sensi di colpa, a quegli interrogativi futili del tipo "perché lui non io", perché se avessi smesso di pensare, se avessi fatto come diceva lui, allora fuori da quei pensieri sarebbe finito tutto davvero, avrei trovato il vuoto, ed avevo tanta paura di sentire che sensazione dava.

Fu così che passai dicembre, senza vedere più nessuno tranne Camilla e Alberto, che aveva voluto rimanere per un po' di tempo qui, credo per farmi compagnia, magari invitato dalla stessa empatia che avvertivo io nei suoi confronti.

Con Rino, dopo l'incidente non ci eravamo scambiati altre parole che le due frasette di saluto con cui discretamente s'accomiatò da noi partendo per il "suo" posto - Non pensavo ci sarei tornato così presto. Ma ho bisogno di star...solo - e scandì una ad una quelle quattro lettere - Mi farò sentire presto -

Anche a me sarebbe piaciuto partire, sparire per un po' da quella città dove ogni angolo, ogni incontro, persino lo sguardo sconosciuto di un passante che camminava troppo sicuro, con la fronte troppo alta e assolata sui nostri marciapiedi, erano un ricordo: mi trattennero la presenza di Alberto, l'illusione di poter combinare ancora qualcosa per l'università prima della fatidica scadenza di gennaio, le condizioni economiche e il fatto che a casa mia, tra gente estranea a tutto ciò che mi era successo in quell'anno infinito, non volessi proprio tornare.

Ma al di là di questo, o sopra a questo, sopra a tutto il resto, c'era anche un altro motivo che mi impediva di allontanarmi da lì, un motivo che in principio non aveva avuto voce in capitolo, e che invece con il passare del tempo e il sostituirsi del dolore vero e proprio con stati di lenta apatia, aveva cominciato a imporsi alla mia attenzione in maniera pressante: Mauro Nissori, con la sua Lefis e le sue minacce.

Non avevo intenzione di continuare a tenere i piedi dentro un film, e tutte le volte che l'idea si intrufolava tra le altre cercavo di convincermi che fossero solo pericolose bizzarrie messe in moto da una fantasia resa fervida dalla troppa tensione, o dalla mia voglia di darmi delle risposte e di trovare dei capri espiatori al destino: eppure proprio non riuscivo, per quanto mi sforzassi, a non collegare l'incidente di Filippo a ciò che lui in persona mi aveva confidato proprio la sera prima. Mi dissi anche che doveva trattarsi di una strategia difensiva del mio cervello volta a costruire una realtà parallela complicatissima da sostituire a quella vera, e che, proprio in virtù della sua inverosimiglianza, mi avrebbe fatto soffrire meno; ma più passavano i giorni, più avrei desideravo mettere qualcuno a parte di tutto questo, senza trovarne il coraggio.

Intanto era quasi Natale, le vie della città illuminate erano belle come l'anno prima: atmosfera di festa e gente piena di pacchetti...i negozi aperti la domenica pomeriggio...

Per me, quell'anno, di vacanze non si sarebbe parlato. Non riuscivo a concepire l'idea del riposo nel mezzo d'un lungo periodo di insana apatia. Festa o non festa, così stavano le cose: nulla sarebbe cambiato. Era ormai almeno un mese che non godevo più dei salutari stacchi dalla fatica, perché non conoscevo più i ritmi canonici di alternanza tra riposo e lavoro.

Tutto era scombussolato: la morte di Filippo aveva distrutto all'improvviso anche gli schemi in cui si divideva e diveniva gestibile la mia vita.

Avevo avuto sempre bisogno di schemi: gli ultimi, però, potevo davvero dire che li avesse creati lui, come aveva modellato a suo arbitrio, me non invitus, molte altre cose, e lo aveva fatto così bene, con tal sottigliezza, che non riuscivo a rendermi conto che, in fondo, erano relativamente vicini i tempi in cui la mia esistenza aveva funzionato diversamente.

Lontanissimi, purtroppo, cominciavano ad apparirmi invece gli ultimi mesi divisi con Filippo: presente c'era solo quel Natale senza ferie, irrisione crudele alla mia venerazione per le grandi ricorrenze, e la domanda se ci fosse ancora spazio per salvare qualcosa, per far sì che, passata quella parentesi, superato il trauma - io pacificamente assopito nei ritmi di un equilibrio nuovo - non mi restasse davvero solo questo: che Filippo non c'era più, che era sparito per sempre dalla mia vita senza che fosse cambiato niente.

 

Il "Cambio Rotta" aveva sospeso le pubblicazioni e persino gli incontri della redazione: in luogo del numero di dicembre era stato stampato un fascicoletto commemorativo con una foto di Filippo seduto alla scrivania, scattata due anni prima che lo conoscessi quando - mi raccontò Cianetti - erano tutti pieni d'entusiasmo all'idea di fondare una rivista, entusiasmo che poi solo Filippo aveva mantenuto fino alla fine.

Sull'ultima delle quattro scarne facciate si avvertivano i gentili lettori che il "Cambio Rotta" avrebbe cessato per il momento di uscire causa "scomparsa del direttore" che ancora veniva elogiato con parolone di cordoglio che neppure lui, qual superbone convinto che era, avrebbe osato riferire a se stesso senza provar vergogna.

Quanto all'esitante "per il momento", tutti sapevano bene che si sarebbe trattato di un momento permanente.

Anche il processo, ovviamente, saltò: Nissori si mise in contatto telefonico niente meno che con me, si rammaricò del "disgraziato caso" e mi annunciò che "venuta meno la ragione del diverbio" né lui né la Lefis (onestissime persone!) avevano intenzione di "infierire" sui "reduci del Cambio rotta", e, anzi, personalmente si augurava che un "tanto valido strumento al servizio della cultura" riprendesse presto la sua attività.

Io gli risposi con freddezza, quasi con un pizzico di cattiveria, e conclusi invitandolo a non farsi sentire mai più. E anche per tutto il tempo di quella telefonata non riuscii per un attimo a separare quella voce insopportabile con quanto era successo, quasi che la stessa voce volesse smentire una colpa, e testimoniasse come la Lefis avesse un ruolo di primo piano in quella tragedia paradossale.

...Ma perché? - Mi domandavo - Era per caso preferibile convincermi che Filippo fosse morto per un banale danno ecologico, per un fottuto processo, per scelta di altri uomini piuttosto che per il volere di un destino più grande, di un'oscura, sconfinata fatalità?

No, non era preferibile: era una fine molto meno sublimata, molto meno dignitosa, e, a pensarci, non era neppure eroica...ma sarebbe stata senz'altro quella che Filippo avrebbe scelto per sé: morire per un'idea, per la sua idea. E in fondo, cosa di più romantico, di più adatto a lui, di più coraggioso poteva esserci che andare incontro alla morte "lottando per qualcosa"? Più me lo ripetevo, e meno mi parevano inverosimili i miei pensieri, anche se sapevo che questo avrebbe portato con sé una conseguenza inevitabile, alla quale sempre più cominciavo ad accorgermi di non potermi sottrarre: che l'assenza di Filippo mi avrebbe condannato ad averlo presente per sempre, e mi avrebbe costretto ad agire in ogni occasione come mi avrebbe imposto lui, nello stesso modo in cui mi aveva "convinto" a suonare al suo funerale.

Non mi ero mai ribellato alle sue scelte e ora non potevo farlo più.

Era quasi buffo: Filippo che nella vita - e nel nostro rapporto - si era improvvisato mille cose, pubblicista, amministratore, critico letterario e musicale, meteorologo, psicanalista e persino investigatore, era stato prima di tutto, nei miei confronti, un veggente, la sera che, all'università, mi aveva minacciato citando Orazio: "Usque tenebo, persequar"...

Ora davvero mi avrebbe “tenuto fino all'ultimo“, mi avrebbe “perseguitato“.

Lui era la strada segnata, era quello che sarebbe stata la mia vita da quel momento in poi.

Ma, alla fin fine, non era ciò che avevo sempre voluto, camminare spedito a testa alta, per le vie dritte, insieme a Filippo?

Ma mano che me ne convincevo, e il "cammino intrapreso" diventava finalmente sensato, finalizzato - persino - a tutto questo, cominciavo anche a chiedermi se fosse stato giusto o meno sopprimere il "Cambio Rotta" senza neppure lasciargli una chance di sopravvivenza. Il padre di Filippo aveva fatto sapere che il figlio teneva talmente tanto a quella sua rivistina che volentieri ci avrebbe finanziato ("Oh, naturalmente non dovete sentirvi obbligati!"), se solo avessimo voluto continuare, e anche Alberto aveva provato a farmi presente che Filippo sarebbe stato felice che la sua "grande impresa" non fosse cessata con lui, ma visto come mi ero mostrato elusivo in proposito, non aveva osato insistere.

Per tutto il tempo che rimase qui, non gli confidai niente, né cosa pensassero Cianetti e gli altri, né io che intenzioni avessi.

Anche perché ancora non ne avevo...

Ma il giorno prima della sua partenza, mi arrivò una cartolina di Rino (non si era "fatto vivo presto" - come invece aveva garantito - ma per via di quella nostra intesa quasi telepatica l'avevo capito fin dal principio): era una foto di un bellissimo paesaggio sbattuto dal vento, accompagnato sul retro da poche righe delle sue, sgangherate, quasi spezzate in versi, scarne e spigolose:

"Un giorno mi dicesti che la vita era triste, ed io ero così impegnato a pensare quanto lo fosse la mia che non avevo mai pensato che con la sola presenza si potesse rendere un po' meno triste quella degli altri. Ed ora che Filippo non c'è più mi sembra quasi impossibile...Non è giusto, vero?"

Seppi solo più tardi come queste parole avessero un riferimento concreto, cui Rino volutamente non accennò, ma quel giorno, messe lì così, dietro quel vento di tempesta che pareva proprio rispecchiare il paesaggio che vedevo dalla mia finestra - pioggia e grandine tormentosi di gennaio - sembrava un Monitum ("che vien dagli dei per ammonire", diceva nel mio aprile solare il professore di latino) rivolto esplicitamente a me.

Ed in effetti, ora che mi ci faceva pensare: no, non era affatto giusto. E per fortuna non era neanche impossibile.

 

Nel pomeriggio Alberto ed io uscimmo. Avevamo deciso di passeggiare tutto il giorno senza meta 'armati' solo di ombrelli e di biglietti dell'autobus. Gli avevo detto che quella giornata di pioggia battente e intensamente profumata di asfalto annaffiato mi pareva avesse un misterioso potere catartico.

Capitava spesso che il mio umore si adattasse al tempo, ma in quell'occasione credo fu il tempo ad adeguarsi al mio stato d'animo, e non viceversa. E volevo proprio sfruttare quell'insperata coincidenza.

Del resto, già dal mattino, di punto in bianco, mi ero detto che dovevo essere capace di regalarmi una giornata che fungesse da frontiera tra due periodi attigui ma diversi. In fondo era trascorso più di un mese, l'indomani Alberto se ne sarebbe andato, forse al suo posto sarebbe tornato Rino, di lì ad una settimana si apriva il primo appello, e poi sarebbero ricominciati i corsi: a quel punto non sarebbe stato più possibile continuare a rimandare il rientro nella vita consueta.

Così scelsi quel giorno, che, a prescindere dalla retorica o dalla troppo insistita attenzione agli eventi, penso di poter ricordare come uno dei più importanti della mia vita, un po' perché lo volli, un po' perché successe.

Alberto, come sempre, aveva preso su di sé la mia stranezza, e si mostrava entusiasta come se fosse stata un'idea sua. Salimmo sul 17 C ed arrivammo fino al capolinea: mi ero spesso proposto di percorrere il tragitto da un capolinea all'altro, una volta, ma fino ad allora non mi ero ancora sentito in diritto di concedermi quella perdita di tempo.

Gran danno - mi dissi - non me ne era venuto: il posto non era certo granché...Niente di niente tranne due tristi viali, sotto tristi alberi, strapazzati da grigia pioggia, al lato dei quali scorreva un Arno d'un brutto colore marrone verdastro, gonfio per gli acquazzoni dell'ultimo mese...insomma, una desolazione totale.

Ma faceva lo stesso: per passeggiare così, sotto la pioggia, un posto valeva l'altro...anzi, a ben pensarci, quasi quasi quella sorta di scenario da "discesa agli inferi" poteva sembrare scelto apposta...

- Non sembra nemmeno lo stesso Arno che scorre tanto pacifico sotto Ponte Vecchio - disse Alberto

- Già, proprio per niente -

Ci infilammo nei sentieri sotto gli alberi, con le scarpe che affondavano nel fango: l'odore di umido mi scese fin nei polmoni e mi diede una strana sensazione di sollievo...sollievo, soprattutto, da quel nuovo malanno - l'ansia che mozza il fiato - che s'era da un po' crudelmente aggiunto alla mia tachicardia, e a cui non desideravo finire con l'affezionarmi, così come era accaduto per quest'ultima.

Ma respiravo bene quel giorno. Le chiome degli alberi intrecciate in reti ossute sopra di noi sembravano un pergolato impermeabile, che lasciava passare solo pochi schizzi delle secchiate d'acqua che si rovesciavano a scroscio, solo poco prima, sui nostri ombrelli; sentivo forte il rumore di grosse gocce che si rompevano sull'asfalto lì accanto: mi ricordai della prima volta che mi ero stupito di come potessero essere grosse le gocce, un giorno che le avevo viste dipingere a enormi pois il selciato polveroso davanti casa.

Era la stessa sensazione di freschezza, lo stesso benessere, anche se sapevo che sul viale attiguo s'offriva uno spettacolo ben diverso: un secondo fiume sporco che scivola su ghiaia e asfalto neri; sull'altro lato dell'argine macchine frettolose a tergicristalli sguainati e fanali accesi per difendersi da tutto quel grigiore...all'imbrunire lampioni irreggimentati a ugual distanza a evidenziare invernalmente coni lucidi di pioggia...

L'Arno sciabordava rumoroso alla nostra sinistra, e a destra c'era silenzio, tranne il tic tic delle poche gocce che arrivavano sui nostri ombrelli, finché non arrivammo in una piazzetta aperta, di nuovo in balia di un acquazzone sempre più violento.

- Dove siamo? - chiese Alberto.

- Non lo so - dissi, e lo precedetti ad osservare, da un parapetto, il fiume che si rovesciava in una cascata di spuma bianca in netto contrasto con quel colore sempre più marrone, sempre più fangoso.

Poi mi guardai intorno e detti in un “Ah!“ di scoperta, scorgendo la strada sopraelevata che passava poco distante di lì

- Siamo al viadotto dell‘Indiano! Se troviamo il modo di arrivare lassù torniamo indietro con il 5! - e sorrisi, come se stessi parlando di un'eventuale grande emozione - Sai, non ci sono mai salito! -

- Sul viadotto? -

- No. Sul 5! -

Passammo un ponticino, ci inoltrammo in stradicciole sterrate sconosciute, e arrivammo ad una pensilina pedonale proprio al di sotto della strada sopraelevata. Lì ci fermammo, al riparo dalla pioggia, e, a tratti, anche dal suo rumorino nervoso, ogni volta che una macchina sfrecciava veloce sopra la nostra testa e rovesciava giù dal ponte schizzi e confusione.

L'Arno, però, non taceva un istante col suo gorgoglio continuo: là sotto il flusso della cascata si annodava in ghirigori contorti, e dall'alto lo vedevamo arrotolarsi su se stesso e poi sciogliersi, trascinando con sé tronchi, erba, bottiglie vuote e altri rifiuti di vario genere e natura.

Eppure trovavo gradevole quella pensilina, così incerta e sospesa tra un fangoso largo fiume e un imponente viadotto trafficato.

Avevamo chiuso gli ombrelli, e il mio, che dondolava appeso al manico di corda infilato al polso, mi aveva bagnato una gamba fino quasi al ginocchio.

S'era chiacchierato talmente tanto durante il tragitto che ora stavamo zitti e io mi lasciavo frustare le mani dal freddo, tenendole parallele, ben serrate, sulla ringhiera del ponticello....

...Da quanti giorni pioveva?

Ancora una volta avevo perso il conto, ma tutta quell'acqua mi aveva davvero gonfiato la testa e la sentivo pulsare come un martello tra la fronte e il naso quando chinavo il capo verso il basso.

- Mattia - disse Alberto - tu l'hai mai visto quel film con Robin Williams...quello dove citano sempre Whalt Whitman? -

- L'attimo fuggente? - azzardai

- Ecco, bravo, quello lì...Sai, io non posso dire che Whitman sia proprio il mio poeta, ma mi ha sempre incuriosito quel discorso del "barbarico yawp" che risuona "sui tetti del mondo"...A quanto ho capito dovrebbe essere una sorta di grido liberatorio, o di ribellione, che so...e mi domandavo se funzionasse davvero, se non possa essere salutare, per esempio, adesso, scagliare un bello yawp a viva voce giù nell'Arno - ridacchiò - scusa, sai...ma l'unica volta che ho pensato di provare a gridarne uno per la rampa delle scale, un giorno che mi era andato tutto a rovescio, Elodì mi minacciò che se avessi svegliato la bambina mi avrebbe torto il collo! -

Risi anch'io

- Se è una richiesta, tranquillo: non ho figli che dormono! -

- Sicuro? -

- Fidati! -

Tossì due o tre volte, si schiarì la voce, finse di gonfiare il petto in un poderoso respiro e poi, sporgendosi pericolosamente dalla pensilina, facendo leva su ambo le braccia, cacciò un grido lungo che più che uno yawp poteva suonare come uno strascicato "oohh!!", ma che, amplificato dalla volta del viadotto, vibrò echeggiando da ogni parte

- Alla faccia, che voce! -

- Molto virtuoso vero?...Forse un giorno mi si apriranno le porte della lirica!...Comunque è stato molto bello -

- Ah si? -

- Provati! -

- No, grazie. Whitman non è nemmeno il mio poeta! -

- Beh, ma potremmo inserire una modifica, e invece di gridare suoni senza senso potremmo buttare giù in Arno tutte le cose o persone che ci restano sullo stomaco! -

- E magari con una pietra al collo per affogarle? -

- Perché no? -

- Te che ci butteresti? -

- Vediamo... -

Esitò un attimo, poi prese di nuovo fiato, urlò contro vento

- Gli straordinari di domenica!!! -

Scoppiai a ridere all'idea che il primo desiderio di Alberto potesse veramente essere il liberarsi di qualche ora di lavoro straordinario, ma il gioco cominciava a coinvolgermi, e lo imitai

- Va bene - dissi - sta a me - e, raccolta la voce, sollevando l'ombrello al cielo come uno stendardo, esclamai:

- l'esame di letteratura! -

Alberto non mi lasciò neanche finire

- le pellicole bruciate! -

E io, a ruota

- la bolletta del telefono! -

- le scale quando sei stanco! -

- L'umidità di Firenze! -

- La nebbia di Torino! -

- Rino quando vuol farmi correre! -

- E i colleghi che mi chiamano alle sette del mattino! -

- L'inverno! -

- La fatica! -

- La timidezza! -

- La tristezza! -

- Mauro Nissori! -

- E anche la sua Lefis! -

Quest'aggiunta complice mi fece sorridere

- Senti Alberto - chiesi - che pensi direbbe Filippo se sentisse queste scemenze? -

- Penso - mi rispose tra il solenne e l'affettuoso - che ci chiamerebbe lamentevoli, e ci direbbe che lui, al nostro posto, non avrebbe pensato alle cose da buttare via ma alle cose da salvare -

- E tu...cosa salveresti? -

- Io avrei salvato lui. Salverei la mia famiglia, mia moglie, mia figlia, i miei genitori, e salverei te, e tutte le persone a cui tengo... -

Sorrise

- E' naturale no? E te? -

- Anch'io... - mormorai, meditabondo - Anch'io, certo...E poi...salverei anche il "Cambio Rotta" -

Mi era venuta voglia di dirlo all'improvviso, anche se già da qualche giorno me lo chiedevo: ma lì, quella sera, in quella strana situazione, mi pareva di avere miracolosamente a disposizione uno di quegli attimi che sono fatti per le decisioni importanti, in cui tutto pare chiaro come il sole.

Alberto annuì, senza parlare, e tutto per qualche minuto fu in silenzio, anche il viadotto, assopito in una breve tregua con le ruote della vetture in corsa.

Se non fossi scettico di fronte alle rivelazioni improvvise e alle grandi formule di salvazione, potrei affermare che per me in quel piccolo spazio di tempo successe qualcosa. Invece, probabilmente fu solo il normale chiudersi di un processo, di una sorta di itinerario di formazione, il naturale maturarsi delle esperienze di un intensissimo anno di vita.

Sia come si vuole, mi piacque convincermi - allora come oggi - che, se un "punto e a capo" doveva esserci, quello avrebbe dovuto collocarsi lì.

E poi ventun anni erano così pochi per decidere della propria vita?

Prima ancora che me ne rendessi conto un mio pensiero si era già materializzato in parole: "Son proprio stupido" avevo detto, e Alberto si era voltato a guardarmi, stupito.

Io, sfuggendo l'imbarazzo, lo fissai a mia volta, e, con il timbro di voce di chi sta per compiere un'impresa importante, e grande, e inaspettata...

- Alberto - chiesi - come si fa per fare una denuncia? -

 

La catena telefonica aveva funzionato molto bene perché c'erano proprio tutti, tranne Rino, ad attendermi nella sala delle riunioni. Il mio esordio dev'esser stato del tipo "ci ho pensato molto", perché ricordo che m'aspettavo di sentirmi chiedere "a cosa?" e invece nessuno disse nulla. E poi neppure era vero, ci avevo pensato poco o niente: questa volta avevo agito d'istinto sul serio, ero impazzito, ero finito fuori dal tempo una volta per tutte, e più di quanto fossi sempre stato quando affondavo il naso tra i miei libri e mi scordavo del mondo.

Era cambiato tutto davvero: ora sapevo che da quando avevo conosciuto Filippo la mia vita aveva realmente "cambiato rotta", ed ora, senza lui, non poteva più cambiarla di nuovo.

- Ci ho pensato molto - ripetei - e credo che dovremmo continuare la pubblicazione del "Cambio Rotta". Filippo sarebbe stato...molto contento...Penso che avrebbe detto che, ci fosse o meno lui, la rivista avrebbe dovuto sempre uscire tassativamente... -

Non ci fu bisogno di insistere molto: pareva che la mia proposta non avesse fatto altro che dar voce a quella che era l'esigenza di tutti. Le questioni tecniche furono messe a punto sbrigativamente e fissammo già una riunione per il mattino successivo.

- C'è un'altra cosa che devo dirvi - aggiunsi però io, serio, quasi solenne, e tacqui per aspettare che tutti gli sguardi fossero concentrati su di me - Ho sporto denuncia contro la Lefis. L'ho accusata di smaltimento non autorizzato di sostanze tossiche. -

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


X

 

 

 

 

 

"E adesso so che bisogna alzare le vele

e prendere i venti del destino,

dovunque spingano la barca.

Dare senso alla vita può condurre a follia ma una vita senza senso è la tortura dell'inquietudine

e del vano desiderio -

È una barca che anela al mare eppure lo teme".

 

(E.L. Masters)

 

 

 

 

 

- Signor Loira, santo Iddio, lei è impazzito! - esordì Mauro Nissori non appena io fui comparso sulla soglia di casa e gli ebbi teso la mano.

Era venuto addirittura a suonare il mio campanello, non avendo saputo aspettare di trovarmi in redazione il mattino successivo. Fui costretto ad invitarlo a passare in salotto, mi aveva fatto subito capire che non sarebbe stato affare da poco sbarazzarsi di lui.

- Si rende conto di che cosa ci accusa? E' una calunnia, perbacco, è un'infamia! Siamo lavoratori onesti, siamo sempre stati in regola...Scusi se mi scaldo, sa, ma qui si va ben oltre le insinuazioni del suo scomparso collega. Scizio, almeno, si "limitava" a rinfacciarci delle presunte tangenti! Ma da questo a pensare...Come diavolo le è saltato in mente, Loira? Se non altro mi spieghi in base a che criterio, con quali prove, lei abbia potuto mettere su una montatura del genere! -

Non mi scomposi: il modo in cui il terribile dirigente si accalorava con me, che aveva sempre trattato come il galoppino di Filippo Scizio, mi procurava una cattiva soddisfazione. Ma guarda un po': mi considerava persino più avventato dell' "implacabile direttore"!...Aveva forse paura, il Nissori?

- Spiacente di doverla contraddire - risposi, ostentando una sufficienza glaciale - Ma è stato proprio il mio "scomparso collega" a fornirmi i dati in base a cui formulare la denuncia. Abbia pazienza, sa, ma sto dando per scontato che lei rivesta un ruolo di un certo peso, e quindi non sia estraneo alle sfere di gestione della sua prestigiosa società...Ma naturalmente è più che possibile che mi sbagli! Comunque sono sicuro che lei fosse al corrente che Filippo Scizio avrebbe formulato un'accusa del tutto analoga in sede di dibattimento. Lo so perché me lo ha detto, per cui, la prego, non faccia finta di cadere dalle nuvole -

La faccia allampanata di Nissori si contrasse in decine di rughette minute. Pensai di aver ecceduto, e svicolai

- Del resto, se non avete nulla da nascondere, di che si preoccupa? Vorrà dire che nel peggiore dei casi vincerete il processo, nel migliore non si arriverà neanche a svolgerlo! -

In realtà non capivo niente di questioni giuridiche, anche se mi ero scrupolosamente documentato, ma cercavo di dare l'impressione di intendermene moltissimo

-Tutto sommato vi restituisco solo pan per focaccia: anche voi avevate denunciato la nostra rivista! -

- Dunque la sua non è altro che una sorta di vendetta! Mi permetta, Loira, ma come risarcimento dei danni morali questo mi pare un po’ eccessivo -

- Se le piace pensare ad una vendetta, padronissimo. Per me, si tratta piuttosto di un caso di coscienza. Ma questo lei non lo capirebbe -

Non lo capiva, infatti, e provare a spiegarglielo non sarebbe certo bastato a imbonirlo e mandarlo via: così dovetti inventarmi una scusa per togliermelo di lì.

Mi sentivo forte: ciò nonostante dovevo riconoscere che il suo era un ragionamento sensato; fatta eccezione della testimonianza di Filippo, del resto insussistente senza prove, la mia accusa poteva apparire poco più che una supposizione.

Lui, invece, se le era procurate, le prove: aveva rubato alla Canavan una bolla di consegna...! Chissà se Nissori, che faceva tanto lo sprovveduto, ne era a conoscenza...Io, tra me e me, ero certo di sì: non avrebbe avuto ragioni, altrimenti, di minacciare Filippo...

Se solo avessi saputo dove diavolo era andato a cacciarlo, quel documento, sarebbe stato tutto più semplice! Mi proposi di cercarlo, ma la frenesia di quel mese affannoso mi distolse spesso e volentieri da un'impresa che sembrava, almeno dalle premesse, tanto impossibile, e mi indirizzò invece più spesso agli impegni meno eroici che mi si prospettavano quale nuovo direttore in carica della rivista.

Il numero di gennaio uscì regolarmente e cominciammo a organizzarci per il successivo: dal mare Rino mi spediva articoli, racconti e poesie, continuava a scrivere a piè di pagina "torno presto" e poi non si aveva notizia di lui fino alla lettera successiva, dove si dimenticava o tralasciava di spiegare il perché della mancata promessa. Anche Alberto mi aiutava spesso con inchieste e recensioni, o semplicemente con sani consigli al momento opportuno. Dulcis in fundo, tentai quasi per gioco l'esame di letteratura e ne ottenni un insperato ventisei, di cui mi vantai per diversi giorni più che del trenta e lode in latino conquistato mesi prima con uno studio "matto e disperatissimo".

In casa, Camilla mi stava vicino con una premura quasi ossessiva: non mi parlava più di Vito, non mi parlava neppure di Filippo se non ero io ad introdurre l'argomento, ma spesso voleva che le raccontassi di me, e volentieri indugiava in lunghi elogi immotivati, con più dolcezza di come non facesse un tempo. Complimentosa lo era di natura, ma fino ad allora aveva sempre cercato in me piuttosto un confidente dei propri guai: dalla morte di Filippo, invece, chissà come, il centro delle cure e delle attenzioni ero stato io, e pareva che questa sollecitudine affettiva le procurasse altrettanto piacere che quando era Dido a coccolarla e sopportare le sue pene d'amore.

Mi faceva sentire in colpa: possibile che fossi soltanto io a provare oppressione di fronte ai dolori altrui? Cercavo di motivare questa differenza col fatto che Filippo fosse stato anche suo amico, ma ciò non mi impediva, di quando in quando, di sospettare che Camilla non soffrisse per lui ma per me.

Un giorno volli provare a ribaltare la situazione, e vedere se mi sarei trovato più a mio agio nel ristabilire l'equilibrio precedente

- E con Vito? - chiesi.

Lei sbuffò, abbozzando un sorrisetto che poteva nascondere un smorfia

- Così così... - poi scrollò le spalle e aggiunse - ho altro per la testa! -.

Il discorso finì lì, senza che nulla del suo atteggiamento cambiasse.

 

Era il primo di marzo quando Rino finalmente tornò. Andai a prenderlo in stazione: non aveva valige con sé, solo uno zaino in spalla e una giacca di lana annodata in vita, perché per lui era già primavera e aveva caldo, era rosso sulle gote e sui polpastrelli gonfi e grassocci delle dita, come sempre.

Ci abbracciammo in silenzio davanti al binario uno, in quell'angolo riposto della stazione che serve solo per le partenze di quei trenini di due o tre vagoni che sono sempre scarabocchiati dappertutto e si fanno tutte le fermate.

Era mattino presto, la sciarpa arrotolata al collo due volte mi arrivava fin sotto il naso e faceva sì che ad ogni respiro mi si appannassero gli occhiali. Li avevo cambiati, però, finalmente: ora ci voleva proprio una bella appannatura perché rischiassi di confondere i numeri degli autobus o gli orari delle lezioni appesi in bacheca nell'atrio della sede di piazza Brunelleschi.

- Quanto tempo... - bisbigliai a Rino, un po' perché non sapevo cosa dire, un po' perché mi sembrava ne fosse passato davvero più di quanto non ne era trascorso in realtà

- Eh, lo so... - fece lui, esitante - ma sono cambiate tante cose -.

Dovevano esserne cambiate molte davvero: me ne ero accorto appena lo avevo visto, nel momento stesso in cui scendeva dal treno, già prima che me lo dicesse, forse per via di quello strano sorriso sulle labbra, incantato e triste, quasi lo stesso che avevo notato sulla sua faccia il mattino che mi aveva ripetuto ritmicamente, come in una formula magica, "era importante"...

Aspettai che mi raccontasse, invece per lì non aggiunse niente e cominciò a rivolgermi domande sulle vicende degli ultimi mesi; gli raccontai di Camilla, dello staff, dell'esame, riuscii anche a confidargli i miei sospetti su Nissori: lui non si pronunciava e annuiva.

- Filippo ci assillerà tutta la vita, eh? - mi sorprese ad un tratto, facendomi sobbalzare.

Poi diventò cupo: cupo e maestoso come se stesse per pronunciare un voto definitivo, o una sentenza inappellabile, ma necessaria, forse garanzia di felicità futura.

- Mattia - disse, quasi senza guardarmi - Io non torno a casa -

Visti i preliminari avevo pensato a qualcosa di peggio, anche se non avevo idea di cosa di tanto grave avrebbe potuto confidarmi, e mi rilassai

- Davvero? - chiesi - E perché?...Ti sposi? -

Lui sorrise, misterioso

- ...Forse! -

Poi si lanciò in una delle sue corsette saltellate liberatorie, tornò indietro, recuperò la serietà, e stavolta mi fissò dritto negli occhi

- Scherzo - disse - Sono entrato in un'opera missionaria. Parto per il Brasile domattina, torno forse l'anno prossimo. Scusa se non ti ho avvertito prima, ho anche provato ma non ce l'ho fatta. Dovevo dirtelo a voce. Lo sai, odio il telefono. Per telefono mi imbarazzo, mi trema la voce: mi fa paura l'idea di non poter vedere...di non riuscire a immaginare la reazione della gente...Sono tornato apposta, riparto stasera. Non dirlo agli altri. Sono venuto solo per te -

Ero rimasto talmente stordito da quell'annuncio frettoloso che non trovai spazio per il pensiero che ero di nuovo di fronte a un addio, forse meno duraturo, ma pur sempre definitivo, come tutte le cose che restano. Me ne accorsi solo più tardi, quando fui rimasto solo lungo lo stesso binario uno, dove lo avevo riaccompagnato verso il tardo pomeriggio, che c'era ancora luce - e notai come erano diventate già lunghe le giornate, meno pungente e cattiva l'aria ghiaccia della sera. Ma nella stazione di Firenze non mancava mai, neanche d'estate, quello spiffero gelido di vento che filtrava da un lato all'altro, lungo una fila di self service e tabacchini ferroviari...

Mi strinsi nel cappotto, posando a terra la valigia piena di libri e cianfrusaglie che Rino aveva preso da casa, e che mi aveva affidato un secondo per potersi frugare nelle tasche e trovare una cosa che aveva preparato - disse - per me.

Ne tirò fuori un pezzo di carta verde, stranamente piegata...

Ma no, ma no...era...un origami...un origami cinese....

Una rana di cartoncino costruita da lui.

Si piegò su un ginocchio, la depose per terra, la schiacciò col dito indice sull'estremità posteriore, e quella spiccò un salto, come spinta su da una piccola molla invisibile.

- Sbalorditivi effetti della tecnologia! - esclamò, alzando la testa, quasi in faccia ad un gruppo di ragazzotti che si erano fermati a guardare e sghignazzavano.

Poi scattò di nuovo in piedi e me la mise in mano: la guardai, ferma sul mio palmo teso, e pensai che io non avevo mai saputo fare neanche le barchette di carta.

- Dentro ho scritto due righe - mi disse - Portano fortuna, ma devi leggerle quando il treno è partito, altrimenti non funziona. E' vero - aggiunse, come per precedere una mia obiezione - sono strano: vengo qui apposta per parlarti, e poi affido l'ultimo saluto alla parola scritta. Ma, checché tu ne pensi, io non sono bravo a parlare. E poi il timbro di una voce è cosa estremamente effimera e sottile, così come momentaneo e passeggero è un viso, che senza difficoltà la memoria confonde, e che nessuna fotografia restituirà. Volti e voci se ne vanno, Mattia, è sempre stato così, e tu, preso come tutti nel giro assurdo delle cose, dei guai che non finiscono mai, li dimenticherai: anche se sono quelli di Filippo, anche se sono i miei...Per me non è mai stato un problema: io sono un essere di passaggio, sono fatto per i rapporti occasionali, sono abituato ad arrivare e a sparire....Così va la vita. E la mia durata è tutta lì, nel salto di quella rana... -

Guardai il treno che partiva: mi sembrò quasi irreale essere io quello che rimaneva a piedi e lui che se ne andava; poi, secondo le istruzioni, cercai sul retro della rana, ritrovai la sua mano incerta, il ghirigoro scarno della sua scrittura, e lessi così:

"Una volta Rino costruiva con cura (a suo modo) una decina di miei simili: ci stampava sopra un numero cerchiato e le allineava sulla riga di una mattonella. Le rane dovevano fare il giro della tavola di salotto e saltare ostacoli di carta. Prima c'era anche Filippo, ed era divertente. Poi non c'era più, ed era triste. Ora anche Rino va via, ma vorrebbe che tu, al posto suo, mi facessi saltare...e vorrebbe che ridessi, e che non ci fosse più posto per la tristezza, nelle migliaia d'anni del tuo sfolgorante avvenire"

Mi chinai anch'io su un ginocchio, curvo per terra, come aveva fatto lui: non mi riuscì far saltare la rana tanto bene, ma gli feci ugualmente percorrere un bel metro e mezzo.

Poi la ripresi, me la infilai in tasca: mi sedetti lì, per terra, lungo il binario, e mi misi a piangere.

 

Tornai a casa che era ormai buio, era proprio molto freddo per essere marzo, e io pensavo ancora al maglioncino leggero di Rino che si gonfiava tutto sotto le sferzate del vento.

Salii le scale fino al pianerottolo del secondo piano, e mi accorsi che la porta del mio appartamento era socchiusa. Lì per lì mi dissi che doveva essere Camilla, rientrata prima del previsto, ma dall'interno venivano strani rumori, e un suono di passi che non mi pareva il suo. Pensai a Vito...che fosse venuto con lei, e, scacciati a forza ancora una volta i pensieri più cinematografici, feci capolino all'interno. Ma mentre allungavo la mano all'interruttore, una stretta violenta mi serrò il polso e me lo storse dietro la schiena, costringendomi a voltarmi e a dare le spalle al corridoio e il viso alla porta d'ingresso.

Stavo per gridare, ma una mano inguantata mi tappò la bocca.

Rimasi paralizzato: il cuore mi batteva così forte che mi sentivo di nuovo mancare il respiro, e quel guanto sulla bocca e quasi anche sul naso non faceva che peggiorare la situazione.

"Calmati" mi ripetevo nella testa "non ora, non adesso, rilassati", ma più mi facevo coraggio, più mi accorgevo di star tremando come una foglia.

Sentii uno scalpiccio di passi alle mie spalle, la persona che mi stava tenendo mi spinse forte per terra, ruzzolai sul pavimento come un sacco di patate e feci appena in tempo a vedere tre individui scivolare via in fretta e furia fuori dalla porta, e l'ultimo prendersi pure la briga di sbatterla in faccia a me, che, pure, non avrei avuto neanche il fiato per rialzarmi e inseguirli.

Mi rovesciai supino e misi a fuoco il soffitto: avrei voluto correre subito ad accendere la luce, ma avevo la sensazione che se mi fossi anche solo sollevato a sedere la pressione sarebbe scesa sotto zero in un batter d'occhio: sentivo un forte pulsare alla testa, poco sopra la tempia sinistra. Mi portai due dita nel punto dolente e mi accorsi di perdere sangue: nella caduta dovevo aver urtato contro lo spigolo del termosifone ed essermi ferito.

Non riuscivo a tener rilassato un solo muscolo: mi aggrappai con un braccio al mobiletto dell'ingresso e tirai su il busto, appoggiando il capo e le spalle nell'angolo tra il termosifone e la parete: di lì potevo arrivare al telefono, allungai una mano all'apparecchio e chiamai Camilla.

 

Quando la chiave girò nella porta ebbi un nuovo sussulto di spavento, ma mi calmai subito, appena la vidi entrare

- Milly - la chiamai con una vocina quasi infantile che a stento riusciva a venir fuori - Milly...è successo un guaio -

Non avevo finito di parlare che lei era già curva su di me e aveva preso a balbettare agitando qua e là le dita mentre cercava di allontanare la mia mano, che sembrava pietrificata, dalla ferita

- Mio Dio, Dido, Dido...! - gridava - Che hai fatto? Che hai fatto? -

Le opponevo esili tentativi di ribellione, quasi che non volessi esser mosso dalla posizione d'equilibrio in cui mi ero faticosamente sistemato

- Lasciami stare, ti prego - bisbigliai - Lasciami stare così...ti spiego tutto -

- Ma Dido, stai sanguinando! - continuò a gemere lei (e mi abbracciò stretto, seduta come me per terra) - stai sanguinando dalla testa! -

Mi sforzai di sorridere

- Lo so - dissi.

Lasciai che mi aiutasse ad alzarmi, offrendomi d'appoggio la sua spalla, e raggiungemmo il divano: lei mi piazzò un bel cerotto sulla tempia, ed io riuscii a raccontarle con una certa lucidità l'accaduto. Poi ci guardammo in giro per constatare l'entità dei danni: ci accorgemmo che la porta era stata forzata, le stanze erano in subbuglio, ogni mensola era stata rovesciata: una babilonia completa.

- Vorrei sapere cosa credevano di rubare qua dentro! - si lamentò Camilla, una volta che si fu tranquillizzata - E poi, con tutti i vicini al lavoro, quando mai i ladri salgono fino al secondo piano?! -

- Sempre che di ladri si tratti - feci io, talmente concentrato su un solo pensiero che non riuscivo a immaginare che quel fattaccio fosse frutto di una pura casualità - E non di qualcuno che ce l'ha con me... -

- Perché tu pensi... -

- Al nome che stai per fare, esattamente -

- Ma è pazzesco, Dido! Che potrebbe mai volere la Lefis, da te? Non è smontandoti la casa che ti convinceranno a ritirare la denuncia -

- Perché no?...Come hanno minacciato Filippo... -

- Hanno minacciato Filippo? Ma...ma come? Ma quando? -

Non glielo avevo mai detto: davvero mi pareva di ricordare il contrario. Ma forse non avevo mai detto niente a nessuno, come con nessuno mi era sfuggita parola sui miei sospetti. Eppure alle volte mi sembrava che tutte le mie congetture mentali venissero fatte alla luce del sole, e che, chiunque conoscesse la storia, dovesse pensare ciò che pensavo io.

Le raccontai di quella sera, della mia paura, della mia occasione ("ora capisci perché li denuncio, vero?"), della bolla di consegna che Filippo aveva preso e che non si trovava...Chissà, - mi venne in mente - forse credevano che l'avessi io, ecco perché avevano rovistato nel mio appartamento...Magari avevano cercato anche in quello di Filippo, vuoto (in quella stanza con la finestra che dava sulla mia...) e nessuno se ne era accorto...Magari volevano fare lo stesso nell'ufficio di redazione...Mi sentivo addosso una grande amarezza, dolente, arrabbiata...

- Che cretino - dissi - e pensare che gliel'ho detto io, a Nissori, di essere molto ben informato sul loro conto...Eppure dovevo già saperlo di cosa erano capaci... -

Rimanemmo in silenzio e ascoltai il divanetto consumato cigolare ai lenti ondeggiamenti della mia schiena, che non trovava una posizione comoda ed era ancora tutta contratta. Per un momento pensai a cosa avrebbe detto di tutta quell'avventura quel divano, se, per qualche fiabesco prodigio, gli fosse stato dato il dono della parola...Oh, sicuramente avrebbe espresso il desiderio che lo togliessero una buona volta di lì, e che, di grazia, non gli toccasse mai più una sorte del genere: dover ascoltare vita natural durante le paranoie dei due inquilini del secondo piano...Era una fantasia appropriata per spiegare i rumori sinistri delle sue molle...Se così non fosse stato, di certo a Filippo non sarebbe sfuggita una simile imperfezione e avrebbe preteso che il divano venisse sostituito o, quanto meno, riparato, prima che l'appartamento fosse dato in affitto...

- Dido... - mormorò ad un tratto Camilla - Tu credi davvero che...Che sia stato assassinato? -

Di fronte ad una domanda tanto diretta, un brivido di terrore mi attraversò tutta la spina dorsale.

Già...ci avevo pensato un'infinità di volte. Avevo addirittura "desiderato" di renderlo credibile...ma adesso, adesso che io stesso ero posto nell'occhio del ciclone, io, e non più Filippo, di fronte ad una vicenda che aveva dell'irreale, e che poteva essere sul serio irreale, ma aveva anche buone chance di essere verissima, mi attanagliava una paura molto diversa da quella che avevo provato fino ad allora, un sentimento molto lontano dai miei toni soft, e mi sentivo insieme eroe e vittima, indegno seguace di Filippo Scizio di fronte allo stesso rischio.

- Non lo so... - risposi, senza tono, in cadenza - Non lo so. Non lo so -

- Mattia - fece Milly, serissima - In che guaio ti sei cacciato... -

Scrollai le spalle, come a dire "oramai..."

- Sei...sicuro di quel che stai facendo? -

- No...non so...neanche questo... -

Lentamente, mi alzai in piedi

- Ma in compenso ora mi sento bene. Andiamo a fare ordine -

 

La mia stanza avrebbe potuto rappresentare l'essenza stessa del caos: non c'era un solo oggetto rimasto al proprio posto, pareva un magazzino in sede d'inventario o un deposito di cianfrusaglie da buttar via...Non c'era più neppure posto per scavarsi un angolino e sedersi per terra.

Passai la notte a risistemare ogni cosa: certo - mi dicevo tra un libro appoggiato su una mensola e un maglione ripiegato nel cassetto - se avessi dovuto fare il conto anch'io, come il Renzo manzoniano, delle conquiste raggiunte nel corso del mio anno d'esilio fiorentino, questo ce l'avrei messo senz'altro: le notti insonni. Un tempo non riuscire a dormire, o anche solo perdere preziose ore di riposo per colpa della tachicardia, o, nei casi più fortunati, di trastulli o faccenducce, mi procurava una strana ansia, quasi che il sonno accumulato non bastasse a sostenermi per il giorno successivo. Adesso ero diventato sereno compagno delle notti bianche e dei caffè neri, e avevo imparato ad apprezzare il piacere che si prova nello spremere il tempo come un'arancia, fino ai limiti della resistenza.

Dalla mia finestra, quella sera, la vista della strada era limpidissima, c'era la luna alta e bei lampioni accesi che parevano emanare una luce più forte del consueto: da un angolo della stanza, a sbirciar fuori, si intravedeva un riflesso strano sul vetro dell'appartamento di Filippo, che poteva farlo sembrare quasi illuminato dall'interno...

Avrei avuto voglia di affacciarmi, e dirgli che mi avevano quasi distrutto la camera per colpa di quel suo benedetto documento....

Chissà dove l'aveva messo...!

Pensai che erano state tantissime le volte che avrei voluto fare lo stesso: affacciarmi e chiedergli cosa stesse ancora facendo alzato a quell'ora, e poi, invece, me ne ero rimasto lì, con le mani in mano seduto alla scrivania, fissando quella finestra sull'altro lato della strada a immaginare dall'esterno un po' della vita che viveva l'incredibile direttore tuttofare, a tarda sera...

Era strano, ma mi sentii bene.

Tutto era caos, la testa mi pulsava, eppure avevo come l'impressione che, proprio mentre mi trovavo all'apice dello sconforto e dell'inverosimiglianza, tutto stesse tendendo lentamente e inevitabilmente verso una fine, una fine al cui centro c'ero io, e che non sarei più stato solo colui che sta fuori a raccontare, non sarei stato più nemmeno quello che può prendersi il lusso di cavillare sui propri sentimenti.

...Ma sì, "segua che può"...in qualsiasi modo fosse andata, sarebbe stato comunque un finale: ne avrei finalmente avuto diritto anch'io!

Mi guardai attorno: avevo finito. Adesso la stanza era vuota e in terra c'erano solo il mio quaderno d'appunti e la mia rubrica delle collocazioni.

La fissai: probabilmente l'avevano sfogliata appena, con noncuranza, e l'avevano buttata lì, senza sospettare...

Oh, non potevano certo sospettare...

...Eppure...erano stati furbi: avevano pensato alla cosa più ovvia, quella a cui, pur nel mio fervido fantasticare, non avevo pensato io: che Filippo avrebbe fatto in modo che una copia del documento finisse in mano a me!

...in un posto che solo io conoscevo...

...in un posto...che solo a me aveva “detto”...

Che idiota!...

Come aveva fatto a non venirmi in mente?

...Dovevo capirlo subito che a uno come Filippo non poteva interessare sul serio un libro di archivistica!

 

Il mattino corsi in facoltà al banco prestiti della biblioteca: la collocazione l'avevo ancora, schedata scrupolosamente in corrispondenza di una letterina rossa sulla mia rubrica. Mentre compilavo il modulo col mio nome stampatello ben leggibile ebbi per un attimo un moto di sconforto, legato ad una pulsione razionale che mi ripeteva che tutto questo era una buffonata, che la notte, e l'eccitazione e lo spavento potevano giocare brutti scherzi, che mi stavo comportando come il pupazzetto di un cartone animato.

Tuttavia mi dissi che ormai era inutile lasciarsi corrompere dalla voce del buon senso, e, poco dopo, potei constatare che il mio slancio intuitivo aveva avuto la meglio sul rispetto della verosimiglianza: la bolla di consegna era lì, fissata con cura sotto il risvolto di copertina, tramite alcuni pezzetti di scotch.

Avrei potuto prenderla, e restituire subito il volume, ma ero - ohimè - già calato fino al collo in una sorta di realtà falsata, che in qualche modo sembrava coincidere sempre con la mia immaginazione, e la paura di essere stato in qualche modo pedinato e osservato mi spinse a lasciare il documento lì dov'era e infilarmi con noncuranza il libro nello zaino.

Tornai verso casa guardandomi in giro circospetto, e, al tempo stesso, sforzandomi di comportarmi con naturalezza, anche se ero certissimo di non riuscirci ed ero ossessionato dal sospetto che qualcuno potesse leggere sul mio viso i segni della mia paura. Ponevo molta attenzione nel selezionare tutti i marciapiedi più trafficati, dove larghe vetrine mi permettevano di scrutare il via vai della gente alle mie spalle; ero talmente convinto di poter incappare in un minaccioso aggressore a qualsiasi angolo della strada che più d'una volta ebbi la sensazione di essere seguito: allora saltavo al volo sul primo autobus e rimanevo al finestrino ad osservare, mentre procedevano imperturbati, per la propria direzione, gli sconosciuto ritrasformati all'improvviso in comuni passanti, completamente ignari non solo della mia paura quanto anche della mia esistenza.

Non mi fidai neppure del telefono di casa e chiamai Alberto da una cabina. Con una lucidità che non mi aspettavo da me stesso gli raccontai a grandi linnee l'accaduto, e mi sentii bravo nel ruolo di chi si sforza di essere realista e non allarmare il prossimo. Gli dissi poi che i particolari avrei preferito riferirglieli di persona, e gli chiesi se poteva fare un salto a Firenze prima possibile, perché avevo nuovamente bisogno delle sue preziose "consulenze".

Purtroppo la mia faticatissima impassibilità ebbe l'effetto contrario: Alberto fu colpito dalla mia freddezza più che da un ennesimo crollo emotivo, e, con una nota d'ansia che non m'incoraggiava affatto, mi promise che sarebbe partito quel pomeriggio stesso.

 

Una cosa non potrò mai inserire, accanto alle notti insonni, nel bagaglio degli apprendimenti: la dissimulazione della stanchezza. Non era ancora sera e già mi sentivo uno straccio. Mi chiedevo se per caso l'insolita elettricità che avevo addosso e l'innaturale ostentazione di coraggio fossero conseguenza di un accumulo di sonno arretrato.

Me ne andai dall'ufficio di redazione un po' prima del solito, e, lungo la via del ritorno, sempre seguendo il principio della strada più popolata, mi capitò di passare vicino al locale di Vito. Pensai che Camilla, novantanove su cento, fosse là, e mi sarei sentito molto meglio se avessi potuto arrivare fino a casa in compagnia.

Entrai, e subito un'ondata di fumo mi travolse e mi costrinse a tossire: pure, il locale non era affollato, ma un gruppetto di persone aspirava intensamente dalle sigarette proprio lì sulla porta, e un anello soffiato fuori da uno di loro mi era salito dritto su per le narici.

Non lo riconoscevo, quel posto, così vuoto e privo della luce soffusa e inebriante con cui ricordavo d'averlo visto l'ultima volta che ci avevo messo piede. Avanzai tra i tavoli vuoti guardandomi intorno, nel tentativo di intravedere Camilla o almeno Vito. Il barman mi fissava curioso; speravo mi domandasse se cercavo qualcuno, ma, siccome non lo faceva, mi sentii in obbligo di avvicinarmi e ordinare un ennesimo caffè. Lo bevvi tutto d'un fiato e mi affrettai a tirar fuori il portafoglio per pagare.

- Non importa, Mattia - mi fermò una voce alle spalle - Offre la casa! -

Sorrisi, imbarazzato

- Figurati, non è il caso - risposi, riconoscendo Vito, che era saltato su uno sgabello e aveva chiesto "il solito"

- Non fare complimenti - insistette lui - in fondo, quasi un anno che ti conosco e mai che ti abbia invitato a bere qualcosa! -

- Mi conosci? -

- Come no! -

Mi trattava con l'affabilità con cui ci si rivolge ad un vecchio amico: mi sentivo spiazzato

- C'è anche Milly? - chiesi.

Sul suo volto comparve un mezzo sorriso ironico

- Milly? - fece eco, scandendo con voce insinuante quel diminutivo, ma subito cambiando tono e diventando serio - Suvvia, non ci credo che non sai... -

Sospettai alludesse alla "scappatella" della sua ragazza, e finsi ingenuità

- Cosa? -

Lui s'accese una sigaretta e - era forse un vizio dei soci del club? - mi soffiò il fumo quasi in faccia

- E' almeno un mese che mi ha lasciato - dichiarò, con una certa noncuranza - Davvero non te lo ha detto?...Pensavo che ti raccontasse proprio tutto! -

Ero rimasto stupito: in effetti pensavo anch'io che, se non proprio tutto, almeno un particolare del genere non me lo avrebbe taciuto

- Sorpreso? - procedette lui - Guarda che non c'è da meravigliarsi molto. Anzi, mi sembrava proprio d'aver intuito che tu lo sospettassi da sempre -

Mi parve di avvertire nella sua voce una nota di astio, che subito però scomparve, lasciando il posto ad un timbro da narratore impassibile che vuol cimentarsi in una tirata di saggezza

- E probabilmente avevi ragione. Ti pare davvero credibile che una come Camilla possa stare con uno come me? Non ho intenzione di auto commiserarmi, ma, capirai, io non sono proprio l'ideale di uomo che va bene per una persona che, in fondo, va alla ricerca di certezze. Ho quasi quarant'anni, Mattia, ne ho fatta di vita, di donne ne ho avute un'infinità, e ho anche intenzione di continuare ad averne, complice, del resto, il lavoro che ho scelto. Te lo dico in tutta franchezza: della stabilità me ne frego da sempre. Mi piacciono il rischio, l'avventura, l'incertezza. Mi sono fatto ingannare dall'apparente leggerezza di Camilla, pensavo che fosse simile a me, e (questo ti prego di crederlo) non ho mai avuto intenzione di farla soffrire. Ma non sono cambiato, in questo ho mentito. E sono felice - e pronunciò questa parola con una intensità inaspettata - che lei se ne sia accorta prima di me -

Non capivo se fosse sinceramente dispiaciuto, se sperava solo che io riferissi quei discorsi a Camilla o se si stesse vendicando per le frecciate che gli avevo lanciato più volte, incontrandolo: mi pareva che mi trattasse da ingenuo, e si divertisse a constatare fin dove quest'ingenuità fosse in grado di persistere.

Eppure il suo discorso, pur nella sua banalità, mi era sembrato onesto.

Da una saletta interna dietro il bancone del bar sbucò una ragazza di forse trent'anni: era molto alta, sensuale, elegantissima nel suo abito lungo di paiettes. Abbracciò Vito da dietro le spalle e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio accostando al suo collo due labbrone pesantemente truccate.

- Monia, questo è Mattia, il coinquilino di Camilla - mi presentò lui

- Ah, Camilla - fece lei, con sufficienza - Salutamela -

Vito sollevò divertito ambo le sopracciglia, come a dire "visto?", non so se riferito alla bellezza della ragazza, al numero delle sue spasimanti, o alla appena decantata facilità di intrecciare nuovi rapporti, in quel posto

- Non guardarmi storto - mi ammonì, fraintendendo la mia espressione disorientata - In fondo è stata lei la prima a ...tradirmi, no? -

Accompagnò quel termine con uno strano ammicco che invitava a non prenderlo nel suo stretto significato letterale, ma io non compresi il senso di quel gesto e chiesi

- Ah si? Sta anche lei con un altro? -

Lui scoppiò a ridere e mi guardò con compassione

- Eh, Mattia, Mattia...ne hai di strada da fare!...No, non sta anche lei con un altro. Diciamo piuttosto che è innamorata di un altro: forse ti piace di più questa parola... -

Rise più forte, ma senza troppa cattiveria

- Tradimento morale!...Il peggiore! -

Poi si ricompose, sfiorò il fianco della compagna con una carezza tutt'altro che discreta, e concluse

- Naturalmente scherzo. Siamo mondo libero, per grazia di Dio! -

 

La sorpresa mi aveva distolto, sul momento, dalla paura del tratto di strada che mi rimaneva da percorrere ora che si era fatto buio e c'era poca gente in giro. Lo attraversai in fretta, spinto da un freddo che penetrava nelle ossa e dal desiderio di incontrare presto Camilla per parlargli. Mi proposi, durante tutto il cammino, di chiederle il motivo per cui non aveva voluto, come era sempre successo, sfogarsi con me e pensai persino alle frasi giuste da rivolgerle non appena entrato in casa.

Invece, sulla porta, ad aprirmi trovai Alberto che era sceso da Torino trafelato ed era arrivato a Firenze già da un'ora.

- Eccoti di ritorno! - esclamò, mostrandosi sollevato - Mi avevi quasi fatto preoccupare: sono passato in redazione verso le sette ma tu eri già uscito. Dove eri andato a cacciarti? -

- Ero stanco - sviai - Mi sono fermato a bere un caffè. Ti ringrazio di essere venuto, non c'era bisogno di tutta questa fretta... -

- Figurati - mormorò lui, sempre più disarmato dal mio comportamento indifferente - figurati... -

Camilla sbucò dalla cucina e mi gettò le braccia al collo

- Tutto bene? -

Annuii, e mi accorsi che i buoni propositi sorti così spontanei qualche minuto prima erano già stati rimandati a data da destinarsi.

- Buone notizie - annunciai - sedetevi che vi spiego - (e nel frattempo mi presi la briga di chiudere la porta a doppia mandata dall'interno, con un sorriso nervoso).

Poi mi accoccolai sul divanetto, mostrai loro la bolla di consegna rubata, e per la seconda volta misi a parte qualcuno della vicenda. Alle minacce di Mauro Nissori e ai miei sospetti sull'incidente non accennai che di sfuggita, ma mi parve, in più occasioni, che Alberto avesse afferrato e non fosse così estraneo al mio pensiero.

- Senti Mattia - disse infatti, ad un tratto, con una serietà che mi spiazzò - So che non posso chiederti di ritirare la denuncia, né del resto lo vorrei. Ma penso che sarebbe una buona idee che te ne andassi per un po' -

Lo fissai interdetto, non comprendendo bene cosa mi stesse suggerendo

- ...Tornare a casa? - improvvisai.

- No - disse - Casa tua è come qui. Non servirebbe a niente -

- In che senso...? -

- Ti spiego. I genitori di Elodì vivono in Francia, in una villa in montagna non troppo lontana dal confine. Il posto non è difficile da raggiungere, ci arriveresti bene, tu ti rilasseresti, e saresti sicuro che, quaggiù, per un po', nessuno saprebbe dove sei... -

Avevo capito, finalmente

- Accidenti! - esclamai, ironico - Sono un “testimone a rischio“!? Chi l'avrebbe mai detto? -

Alberto era sempre più stupito

- Certo che sei proprio strano!...Dove la prendi tutta questa energia? -

- Non so - risposi orgoglioso - la sfrutto finché dura -

- Davvero? - fece lui di rimando - anche per saltare al volo giù da un treno? -

Sgranai gli occhi, interrogativo, e la mia faccia lo fece finalmente scoppiare in una gran risata

- Scherzo! Non spaventarti: volevo solo vedere se esisteva ancora, in qualche angolo nascosto, un pezzettino del Mattia razionale e timido che conosco! -

Il suo "saltare giù dal treno" - come mi spiegò dopo - era un'espressione un po' esagerata per descrivere il suo modo avventuroso di accorciare il tragitto per raggiungere casa dei suoi suoceri. Lui ed Elodì, ai tempi d'oro, avevano scoperto che il treno, tutte le volte, si fermava a dare la precedenza ad un convoglio sull'opposto binario, proprio in corrispondenza della strada che andava su alla villa. Ci voleva un attimo: bisognava solo aprire lo sportello e saltar giù.

- E se il treno non dovesse fermarsi? -

- Niente di male. Vorrà dire che scenderai alla stazione "vera e propria" e ti farai un'oretta di autobus e un buon chilometro a piedi per arrivare. A tutto c'è rimedio: chi non ha fortuna abbia gambe -

- E col "Cambio Rotta"? -

- Non credo che tu abbia di che preoccuparti. I tuoi colleghi sopravvivranno anche senza di te -

 

Alberto aveva ragione: nessuno ebbe da ridire. Furono invece tutti unanimemente d'accordo alla mia partenza, e mi assicurarono che si sarebbero dati daffare, che mi avrebbero tenuto informato, che i numeri sarebbero usciti sempre, tassativamente, quasi che io fossi un vero direttore, come se davvero avessero avuto davanti Filippo.

Li stavo già salutando, quando Mauro Nissori si presentò per l'ultima volta sulla soglia dell'ufficio di redazione e chiese di parlare da solo a solo con me.

Prima di farlo entrare, Cianetti me lo annunciò, e il ricordo della recente brutta avventura, che inesorabilmente non riuscivo a non associare al suo nome, mi mise addosso una certa paura.

- Come se nulla fosse, Mattia - mi bisbigliò all'orecchio Alberto - Come se nulla fosse. Fagli capire che sei tu ad avere il coltello dalla parte del manico -

Io abbozzai un sorriso teso

- Ci proverò - dissi

Lo raggiunsi nel corridoio, e lo invitai a passare in salotto.

Aveva un'espressione cupa, ma l'apparenza come sempre distinta, la faccia scura resa sgargiante dal tocco di una cravatta verde a righette gialline. Io non mi sedetti neppure, gli lasciai appena il tempo di accostare la porta.

- Signor Nissori - esordii - bloccandogli le parole sulla bocca - Non credo lei abbia l'intelligenza per capire cosa sia stato Filippo Scizio per me, ma forse è abbastanza osservatore da constatare almeno di quanta credibilità godesse presso tutti noi. Vede...Lui diceva sempre una cosa: che quando aveva un sospetto era proprio difficile che sbagliasse. E io e lei lo sappiamo bene quanto poco abbia sbagliato -

Nissori mostrò di non capire

- Del resto - proseguii - fanno testo i documenti che qualcuno l'altro giorno cercava in casa mia, e che ora sono custoditi in decine e decine di copie nelle abitazioni di tutte le persone che conosco...Cercarli, stavolta, diventerebbe più macchinoso... -

- Mi scusi, Loira - m'interruppe a quel punto - ma io non so di cosa lei stia parlando -

- Ha ragione - feci, serio - forse lavoro troppo di fantasia. Sa, me ne sono capitate di cotte e di crude ultimamente. Se così non fosse, comunque, spero che vorrà accettare fin d'ora le mie scuse. Nella rimanente ipotesi, avremo modo di chiarirci al processo -

Gli rivolsi un'occhiata allusiva e lui mi rispose con un sorrisetto contratto, stizzito, ma non privo - o almeno a me parve - di un velo d'ammirazione stupita

- Lei ha le idee più chiare di Filippo Scizio - sentenziò.

Lo presi come un complimento: sorrisi.

- Può darsi - dissi.

Quella fu l'ultima volta che gli parlai di persona. Lo rividi anni dopo, in sede di processo, quando fui chiamato a identificarlo come l'uomo che aveva offerto un compenso a Filippo perché stesse zitto "vita natural durante": ma non ebbi occasione nemmeno di salutarlo.

 

Nell'ultimo anno, di treni ne avevo visti tanti: avevo viaggiato in vagoni fitti di gente che sta in piedi a incastro come sul 17 all'ora di punta, o in comode poltroncine di prima classe pagate dal "Cambio Rotta", in scompartimenti separati, rigorosamente per non fumatori, o in sedili disposti a destra e a sinistra lungo i finestrini, senza tavolinetti estraibili e corridoio laterale, ma non ero mai salito sul pendolino dalla stazione di Rifredi: potevo inserire anche questo nel mio gruzzolo di esperienze.

Camilla mi aiutò a preparare la valigia: "Farà freddo? Caldo? Ti basteranno due pigiami? E i libri? Ce li metti i libri? Ma sì, ma sì, secchione che non sei altro!...E la giacca? Non ti servirà, non credo...Il maglione però sì...ti converrà portarlo"...Chiacchierava fervidamente e senza posa, affastellando parole e oggetti in valigia, sembrava più affannata di me, e non mi permetteva di aprir bocca.

Io mi lasciavo trascinare dal suo fiume di frasi come dal flusso di quel tempo strano, ma cercavo, tra un'esclamazione e una domanda, di cogliere un attimo propizio per strapparle la famigerata confidenza oggetto di tanti sensi di colpa.

Inutile dire che non me ne diede modo.

Partimmo da casa in largo anticipo, non fidandoci del traffico e degli autobus, benché fossero le dieci del mattino e le vie fossero relativamente sgombre. Ne seguì che fummo sul binario mezz'ora almeno prima dell'arrivo del treno, e sedemmo ad attendere su una panchina, davanti alla ferrovia.

La stazione di Rifredi non aveva il fascino movimentato di Santa Maria Novella, ma - solitaria sui suoi binari, con uno sfondo di casone ammassate e tozze - aveva un'atmosfera altrettanto struggente, da luogo di passaggio, per chi va di corsa e non ha tempo di restare nemmeno per guardarsi indietro.

Alberto vagava su e giù, io e Milly sedevamo zitti, ascoltando gli annunci dei treni. La giornata era bella, c'era l'aria frizzante della primavera in arrivo, e mi sentivo bene, nonostante l'ennesima notte passata insieme alla mia tachicardia.

Riconoscevo in quel mattino fresco lo stesso clima della partenza, sempre uguale, a prescindere dalla stazione o dalla destinazione, ma ogni volta arricchito di una sfumatura diversa, data da chi si raggiunge o chi si lascia...

Stavolta, quella che lasciavo era seduta a due centimetri da me, e pareva all'improvviso essersi fatta scudo di un silenzio artificiale, come, poco prima, di una parlantina forzata per impedirmi di dire ciò che avevo da giorni a fior di labbra.

Ma poi aveva un senso chiederglielo, adesso?

Pensandoci bene erano mille altre le cose più importanti...Avrei potuto dirle "mi mancherai" o "sono stato benissimo"...Mille altre cose carine che sembrano sottintese e invece a volte hanno proprio bisogno della voce per avere uno spessore ed un senso...

Invece mi strinsi al petto lo zaino, mento sulla tasca anteriore piena di cerniere, e sussurrai

- Sai, ho incontrato Vito... -

Lei non parve scossa, mi guardò, serena, come se quell'allusione, invece di violare la sua intimità, la salvasse da un turbamento di altro tipo

- Davvero? E come sta? -

- Lui bene... - mormorai, stupito - Ma non mi avevi detto che... -

- Non lo trovavo degno di nota, in quei momenti -

- E perché...? -

- Suvvia Dido. Ci sono toccati guai più grossi, mi pare... -

- No, no.... - mi corressi - Intendevo domandarti...perché l'hai lasciato... -

- Ah!!! - tirò una lunga esclamazione divertita - Sei curioso, eh? -

Arrossii.

- No...figurati... -

Ma lei s'era fatta seria seria, scosse il capo

- E' una storia lunga. Te la spiego quando torni. Tanto... - aggiunse, sottovoce - tanto torni presto, vero? -

Il treno sferragliò, entrò col suo fracasso triste in stazione, lucido e maestoso con il suo corredo di porte automatiche e finestrini di vetro a specchio. Mi alzai, la abbracciai stretta, e mi avviai a caricare la valigia su per gli scalini, con Alberto già a bordo che ne aveva afferrato un lato e mi aiutava.

- Bene - dissi, commosso - Io vado... -

Distesi appena la mano, con tutte e cinque le dita, come fanno i bambini, per salutarla di nuovo, ma Milly non me ne lasciò il tempo: mi corse incontro, scoppiò a piangere a dirotto, e mi gettò le braccia al collo

- Dido, Dido, Dido! - singhiozzò, nascondendo il viso nel mio maglione - IO TI AMO TANTO! -

...

Rimasi di stucco, come un cretino, e non fui capace di spiccicare parola.

Era la prima volta nella mia via che una donna diceva di amarmi e io non avevo una parola, una sola parola, da mettere lì, per lei, per Camilla....

Però...cominciai a piangere anch’io, come se mi avessero tagliato sotto il naso due o tre chili di cipolle, e di tutto quel che mi era successo in quei giorni, nella vita a Firenze - nella mia vita, con lei - di quel che mi sarebbe successo dopo, d'allora in poi, smisi di stupirmi lì, una volta per sempre, lungo quel binario...

 

Ma guarda - pensavo - ma guarda dove si conclude l'avventura fiorentina di un ragazzetto sprovveduto che neppure diciassette mesi or sono aveva deciso di affrontare la città per cimentarsi nell'universo affascinante della letteratura: in fuga su un Etr, seduto di fianco a un illustre intellettuale, diretto in un luogo sconosciuto per restarci in solitario esilio a tempo indeterminato!

Eppure questa era una vera fine, un "gran finale": la rivalsa dell'inetto di turno, che sfida la Lefis e non si lascia sopraffare dalle minacce, la partenza improvvisata corredata della prospettiva di un "salto" avventuroso giù dal treno, lo struggente addio lungo il binario...Pareva proprio la naturale conclusione di un romanzo, d'un giallo sentimentale o d'un rito di iniziazione!

Un tempo - non era molto - avevo pensato di non aver diritto alle "fini" in piena regola. E invece laggiù, in fondo ai binari che si congiungevano lontani per l'effetto della prospettiva, c'era davvero, stavolta, qualcosa che finiva. Mi venne in mente un racconto di Rino, uno che - mi aveva confidato - avevo avuto onore di leggere solo io, stancandomi gli occhi su quella sua scrittura a zampa di gallina: si chiudeva proprio così, col bambino protagonista che se ne va su un treno e che s'accorge all'improvviso di lasciarsi inesorabilmente qualcosa alle spalle - qualcosa che finisce, appunto, e non tornerà mai uguale, la fanciullezza...chissà...il passato...

Eppure, incredibile a dirsi, adesso che mi sentivo insignito anch'io dell'onore della fine, anche io, come la gente bella e solare che avevo avuto in sorte di conoscere, mi trovavo a voler credere che, in fondo a quei binari congiunti in un punto che magari Leopardi avrebbe detto d'infinito, potesse esserci, invece, qualcosa che continua.

C'era Camilla, che non avevo mai osato provare ad amare, certo che non avrei mai potuto essere riamato, c'erano il "Cambio Rotta", i miei colleghi, l'università, e c'era, soprattutto, Filippo, di cui, per sempre, mai e poi mai avrei potuto liberarmi...

"Una cosa non è l'altra ma continua l'altra. Ma non ci sono le cose. Ci sono io".

 

A Torino salutai Alberto e salii sul treno a bordo del quale avrei "varcato le Alpi" per raggiungere la villa. Non fu un viaggio sereno, perché avevo paura di non riuscire a scendere al momento giusto: tenevo ben d'occhio l'orologio e le insegne delle stazioni che sfuggivano al di là dei vetri, e intanto seguivo il buio che lentamente si portava via quella limpida, lunghissima giornata, e si inghiottiva le sagome austere delle piante e i pali dritti dell'alta tensione.

Mi piaceva tagliare la notte con il treno, fenderla in due anche solo per guardar sfuggire lucine liquide e tremolanti su uno sfondo scuro, succhiate indietro dalla mia corsa sui binari.

Poi, quando scivolò via strappata in un istante senza che ci fermassimo, l'insegna del paese indicatomi da Alberto, veloce, quasi come un ladro, raccolsi la mia roba e svicolai nel corridoio.

Esattamente come lui mi aveva garantito, nel giro di pochi minuti il treno prese a rallentare, procedendo a passo d'uomo. Preso dalla foga di non fare in tempo a saltar giù (e dall'altra parte quasi desideroso di dare un'ultima, ridicola, sfacciata prova di coraggio che restasse simbolica nella mia memoria) prima ancora che ci fermassimo del tutto, spalancai la portiera, lanciai la valigia, e in un balzo impacciato saltai fuori, perdendo l'equilibrio e ruzzolando senza freno lungo il lieve pendio di prato umidiccio e terra morbida.

- Wow, che volo! - mi venne voglia di dire, col cuore in gola per lo spavento, ma ancora tutto eccitato, a voce alta, come se qualcuno avesse dovuto sentirmi.

Poi mi voltai per andare con lo sguardo dietro al treno che già sbuffava per ripartire, e lo seguii mentre se ne spariva emettendo un fischio squillante, e mi lasciava lì, abbandonato con la mia valigia e i miei pantaloni rovinosamente macchiati d'erba e di fango, impalato a sedere a gambe larghe nel gelo dell'aria di montagna...quell'aria quasi sconosciuta, per me e il mio mare.

Mi alzai a fatica, respirando a fondo.

Tutto mi sembrava andare per il meglio, guardai estasiato quello spazio silenzioso, la distesa notturna della landa desolata: l'aria fredda mi scendeva piacevolmente nei polmoni, il verde si stendeva da ogni lato, non c'era altra luce tranne quella della luna e di un misero lampione lontanissimo lungo la ferrovia, e non tirava alito di vento.

Mi sentii entusiasta, entusiasta dell'impresa compiuta e dello strano senso di libertà che mi dava l'esser lì, con un prato sconfinato a mia disposizione, dove avrei potuto combinare qualsiasi cosa senza esser visto: canterellare, saltare, lanciarmi in una corsa goffa e pazza come Rino, o cambiarmi i pantaloni scorticati dalla caduta per presentarmi ai genitori di Elodì senza sembrare uno straccione.

Ma non feci niente di tutto questo.

Adocchiai invece grossi mucchi di erba tagliata e pagliericcio sparsi qua e là, e, a suggello del gran finale romanzesco, mi ci distesi sopra, fingendo che fosse notte - e non solo le otto appena di sera - ed io non avessi luogo per dormire, e fossi un vagabondo girovago che si corica sotto le stelle e al mattino si alza col sole, senza per questo aver preso una straordinaria infreddatura.

Dal punto in cui ero si vedeva benissimo la strada che mi avrebbe portato in poco più d'un chilometro a destinazione: sarei arrivato lì per l'ora di cena...ma prima di rimettermi in marcia trovai doveroso fermarmi un secondo....

Pensare per almeno un secondo....

...Ed ecco che, allora, nel bel mezzo del fervore vitale della mia avventura, scivolò, non chiamata, una nota di tristezza: pensai che non bisognava illudersi, che tutti gli entusiasmi, i piccoli come i grossi, erano facili a sparire, che non sarebbero durati per sempre, e io sarei tornato, presto o tardi, quello che ero: Mattia Loira il timido, il "letterato" idealista che non sa stringere la mano...e tuttavia ero contento che fosse così, perché sapevo che ciò che era successo una volta sarebbe stato di nuovo possibile: doveva essere quello il segreto della sopravvivenza...

 

****

 

Anche adesso, a distanza di tanto tempo, non posso non ribadire la coincidenza di quel pensiero col mio bilancio finale.

Guardo indietro ai miei vent’anni di ragazzo che ha visto poco, e le poche cose grandi che ha visto forse non le ha capite - e mi domando se aveva un senso dirle, spiegarle, o se solo aveva un senso avere voglia di farlo...

Ma non importa.

L‘ho fatto.

Ho scritto per me, per me solo, per non perdere niente, per parlare con me stesso, come quella volta delle ventiquattro pagine, di cui a Rino volli portarne tre, solo tre.

Già, è stato davvero così, come quel giorno:...scrivere per scrivere, per sapere d'esserci, per chiarire, per finire, per recuperare e per salvare, e magari, tra le pieghe - tra le righe - per rivendicare ancora una volta il fatto di essere diverso dagli altri, per godere ancora una volta della superbia dolce dell'alibi, del gusto di sentirmi piccolo e unico in mezzo ad un mondo che è grande, e del vanto - perché no? - di aver conosciuto grande gente che, per gioco o per vocazione, ha provato a sfidarlo.

Ringrazio Filippo, per averlo sfidato.

Lo ringrazio per essersi fatto forte di quella sfida e per averlo sempre gridato in faccia a me.

E lo ringrazio anche per essersi dimenticato, per caso, del fatto che troppe volte la vita è triste e grande, impossibile da capire, difficile da vivere...

Anzi, come mi ha detto quel giorno lui, per non averci (mai!) pensato...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

Il titolo è tratto dalla canzone del grande Ivan Graziani “Canzone triste”, che è stata per me la “colonna sonora” di questo romanzo.

 

Le citazioni presenti nei capitoli sono tratte da:

 

capitoli 4 e 6: Vittorio Sereni, Poesie

capitolo 9: Cesare Pavese, Il mestiere di vivere

capitolo 10: Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato

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