Tragedia in tre atti di Elizabeth_Tempest (/viewuser.php?uid=104074)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I- I personaggi in scena ***
Capitolo 2: *** Atto II, Scena I- Dramma ***
Capitolo 3: *** Atto II, Scena II- Fuggire ***
Capitolo 4: *** Atto III- Addii ***
Capitolo 1 *** Atto I- I personaggi in scena ***
Nick Autore:
o0°Lucetta_Streghetta°0o/Elizabeth_Tempest
Titolo: Tragedia in
tre atti
Rating: Arancione
Genere: Generale,
Introspettivo, Triste, Malinconico, Drammatico
Note/Avvertimenti: Long-Fic
Introduzione: La
gente pensa sempre che l’amore sia bello, allegro, privo di
preoccupazioni. Uno stato delle cose in cui non esiste né
dolore né dispiacere,
una specie di perfetto (e perverso, a ben vedere) locus amoenus, che ci
viene
inculcato fin dalla culla.
NdA: Amore sbagliato. Un amore che non
ha sempre ragione,
che non è sempre una favola: ho voluto descrivere
l’amore violento, malvagio,
di cui ogni giorno sono vittime moltissime donne.
Per
il suo contenuto, questa Long-Fic può non essere
adatta a persone particolarmente sensibili.
Atto
I- I personaggi in scena
La
gente pensa sempre che l’amore sia bello, allegro, privo di
preoccupazioni. Uno
stato delle cose in cui non esiste né dolore né
dispiacere, una specie di
perfetto (e perverso, a ben vedere) locus amoenus, che ci viene
inculcato fin
dalla culla. E così, nella nostra infanzia è un
susseguirsi di principesse salvate
da aitanti principi, personaggi dei cartoni che irrimediabilmente
s’innamoreranno dell’eroico protagonista e povere
contadinotte elevate a regine
da amabili re.
Poi
si cresce e si nota che la vita non è così:
tranne una trascurabile minoranza,
le ragazze non sono alte, bionde, con delle perfette chiome lunghe e
lisce
oppure arricciate in boccoli perfetti che non si rovineranno nemmeno ad
attraversare
Trieste con la bora che soffia o ad affrontare l’uragano
Katrina.
E
allora ecco che le principesse si trasformano in ragazzine impacciate,
goffe,
per poi rivelarsi bellissime, ammirate, intelligentissime e senza una
pecca:
mai un capello fuori posto; mai una citazione meno dotta di Jane
Austen, ma
sempre e rigorosamente romantiche, saltando a piè pari il
significato
femminista dei libri dell’autrice inglese, o delle sorelle
Brönte; mai,
assolutamente mai, problemi più seri del non sentirsi
accettata quando
evidentemente tali personaggi fanno di tutto per rendersi odiosi.
Troppo
perfette? Ecco comparire all’orizzonte le
“innamorate” gieffine, che
dimostravano uno spirito di adattamento unico: erano in grado di
cambiare
fidanzato e o amante alla stessa velocità con cui una
normale ragazza si
cambierebbe la biancheria.
A
15 anni mi era venuto l’odio per l’amore, sommersa
da questi stereotipi.
Semplicemente, non sapevo che farmene di un sentimento insulso, privato
da
secoli di matrimoni combinati, vuote poesie e ancor più
vuoti romanzi di ogni
significato: esso era divenuto, per me, nulla di più che un
buon argomento per
un poemetto da quattro soldi.
Di
amore vero, non ne avevo mai conosciuto: i miei genitori stavano
assieme per
consuetudine, dimentichi della passione e dell’affetto che, a
conti fatti,
probabilmente non avevano mai provato. Certo, si erano di sicuro
stimati, in
passato, ma una stima basata su fondamenti errati: la bellezza di mia
madre e
la sua educazione, che la rendeva una donna di aspetto piacevole e con
cui un
discorso da salotto della durata di dieci minuti poteva essere anche un
momento
di svago, ma che portato a livelli superiori, diveniva sterile e
superficiale e
la posizione di mio padre, che aveva una piccola impresa: forse non
rendeva
quanto la Apple, ma di certo ai miei nonni era bastato per rinunciare
senza
troppi indugi alla figlia minore, ben contenti che questa non morisse
zitella e
che avesse a disposizione un patrimonio da scialacquare che non fosse
il loro.
Su queste delicate fondamenta si era basato un veloce fidanzamento e un
matrimonio che durava da ben venticinque anni. Dopo sette anni ero
arrivata io
e, nonostante fossero state avviate le pratiche per una separazione
milionaria,
che aveva scandalizzato le famiglie e i conoscenti, i quali si
sperticavano in
lodi immeritate per l’uno o per l’altra e in ancor
più immeritate ingiurie;
queste erano state sospese.
La
rispettabilità prima di tutto. E io me ne ero altamente
fregata, lasciando il
“nido” paterno, tanto per parafrasare Pascoli, alla
prima occasione: avevo 18
anni, un diploma in mano (ragioneria, giusto per fare un dispetto ai
miei, che
speravano di vedermi in uno dei licei privati più illustri
della città), una
valigia con dei vestiti comprati su un catalogo e tanta voglia di
mandare al
diavolo la mia famiglia.
Ebbi
la mia prima esperienza in amore: il Chitarrista, un trentenne fuori
corso
all’università, che passava il tempo a suonare la
chitarra col suo gruppo di
amici, almeno, quando non erano troppo fatti. Fu deludente, dopo sei
mesi di
tira e molla, liti furibonde e riappacificazioni false, ma mi feci le
ossa per
le future delusioni. E furono tante…
Insomma,
alla soglia dei ventitré anni, aveva sinceramente smesso di
sperarci (ammesso
che l’abbia mai fatto… forse è
capitato, no, di certo è così: quegli uomini
avevano stuzzicato la naturale vanità che risiede in ogni
essere umano e questa
era stata una debolezza inaccettabile), dopo storie disastrose che mi
avevano
portata sempre più in basso. Dovetti abbandonare il mio
spazioso appartamento
da studentessa, trasferendomi in periferia, in un monolocale
fatiscente,
lasciai gli studi e iniziai a saltare da un lavoro all’altro
come una rana
impazzita.
Una
cosa l’avevo imparata: l’amore faceva male. E io
non ero più disposta a
sopportarlo. Smisi di uscire con i ragazzi, dedicandomi al primo lavoro
stabile
trovato dopo tempo: lavoravo in un café. Certo, forse non
era uno di quei
lavori di cui ci si sogna sopra la notte, a dodici anni, ma mi accorsi
con
piacere che mi piaceva. Stavo iniziando di nuovo a riprendere in mano
le redini
della mia vita, quando arrivò lui.
Sulle
prime, non mi pareva diverso dai ragazzi che frequentavano il locale:
un
giovane musicista squattrinato, non di buona famiglia e con
quell’aria da artista
maledetto tipica di chi o “se la tira”,
per dirla in gergo, o di chi nella vita ne aveva viste talmente tante
che le
esperienze fatte lo avvolgevano come un alone mistico.
Le
mie colleghe pendevano dalle sue labbra e spesso ebbi il dubbio che
Jay, così
si chiamava, o almeno diceva di chiamarsi, se ne fosse portato a letto
almeno
un paio, ma non ebbi mai conferma, e sinceramente non la cercavo: se
inizialmente di lui non mi importava, troppo presa dal mio progetto
“Riprendiamo in mano la mia vita”,
poi
rimasi troppo invischiata nella sua ragnatela per avere la voglia e il
coraggio
di scoprirlo.
Terza
classificata (1):
Oo°LucettaStreghetta°oO
Tragedia in tre atti
PARAMETRI
DI GIUDIZIO:
Grammatica
e lessico: 10/15( di cui
Grammatica: 3,5/7, Lessico: 4,5/5 e Punteggiatura: 2/3)
Stile: 7/10
Originalità: 10/10
Riferimento al contest: 10/10
Gradimento personale: 4,5/5
Totale: 41,5/50
GIUDIZIO:
Grammatica
e lessico: 8/15 (di cui
Grammatica 4/7, Lessico 4,5/5 e Punteggiatura 2/3)
Inizierei
dalla Grammatica, quella che
più ti ha tolto punti: ciò che ti ha penalizzata
di più è stato aver sbagliato
i passati remoti (la prima persona singolare esce in
“ii”, la terza in
“ì”, non
il contrario) e qualche coerenza dei tempi verbali, ma ho notato che
sono
soprattutto i passati remoti a crearti qualche problema (non
preoccuparti,
spesso succede, poiché siamo abituati ad usare di
più il passato prossimo.)
Cito da te:
- Persi
il lavoro qualche mese dopo e
finì in ospedale per
diversi giorni
- E
alla fine capì che
dovevo andarmene
- Lo
capì troppo,
troppo tardi
- una
sera lo colpì
violentemente con una padella
- riempì
una borsa,
rubai i miei risparmi e scappai
Inizialmente
pensavo fosse un errore
singolo, ma vedendo che si ripete parecchie volte non ho potuto far
altro che
toglierti punti, soprattutto perché non fa comprendere chi
dei due personaggi
compie l’azione (nel caso della seconda frase citata, per
esempio, non riuscivo
a capire come mai Jay avesse dovuto capire che lei doveva andarsene.)
Riguardo al Lessico, va abbastanza bene, anche se avresti potuto usare
sinonimi
che avrebbero reso la lettura più piacevole e scorrevole, ma
nel complesso non
è male.
Invece, sulla punteggiatura, ho qualche obiezione in più:
spesso salti virgole,
oppure usi le parentesi quando i trattini sarebbero più
eleganti e adatti. I
problemi di punteggiatura si incentrano soprattutto nell’Atto
I, mentre negli
altri non ci sono grossi problemi, se non per qualche punto e virgola o
virgola
qua e là.
Stile: 7/10
Lo stile
è quanto – di solito – guardo
di più in una storia, e il tuo è molto
coinvolgente, è impossibile non trovarsi
dentro le vicende che racconti, catapultati nei pensieri della
protagonista.
Soprattutto nei momenti in cui lei racconta come è iniziato
il suo calvario, mi
ha molto impressionata il modo in cui hai descritto i suoi pensieri e
sentimenti, ma soprattutto il ribrezzo che prova per sé
stessa, in un certo
senso si ritiene responsabile di ciò che le è
successo, senza che ne abbia
davvero la colpa.
Nonostante ciò, però, la Mini-Long presenta
diversi e – ahimè – numerosi errori
sui tempi verbali – per esempio, spesso hai iniziato al
presente per poi finire
al passato, errore che anche io spesso commetto, e per questo,
ricontrollo
moltissime volte le mie storie .
Questi errori, purtroppo, oltre a farti perdere diversi punti nella
grammatica,
te ne hanno tolti anche nello stile, perché rendono la
lettura più difficile
alla comprensione e meno gradevole.
Originalità:
10/10
La tua
storia non è la prima che leggo
con tematiche simili, ma non ne avevo letta mai nessuna che la
trattasse così,
analizzando così profondamente i pensieri della sfortunata
protagonista, e
quindi ho deciso di darti i voti pieni su questo parametro.
Riferimento
al contest: 10/10
Anche su
questo parametro hai
indubbiamente raggiunto i pieni voti, infatti l’amore che hai
descritto - che
poi era amore solo dalla parte della protagonista -, è
indubbiamente un amore
‘sbagliato’, un amore che non sarebbe dovuto
nascere e che, infatti, ha portato
alla rovina della protagonista, sia dal punto di vista fisico che
psicologico.
Gradimento
personale: 4,5/5
Con molte
cose che hai scritto mi trovo
d’accordo, spesso anche io le ho pensate, come per esempio
quelle dell’inizio,
sul fatto che in noi ragazze l’idea del principe azzurro e
del “per sempre
felici e contenti” viene inculcata fin dalla più
tenera età, portandoci poi ad
illudere noi stesse con uomini immaginari che non esistono
più.
L’unica cosa che ha minato il mio giudizio personale sono
stati, appunto, i
numerosi errori nei verbi, ma altrimenti avresti avuto di certo il
massimo.
PREMIO
STORIA DRAMMATICA: Oo°LucettaStreghetta°oO, Tragedia
in tre atti
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Atto II, Scena I- Dramma ***
Atto
II, Scena I- Dramma
Iniziai
ad uscire con Jay circa sei mesi dopo
averlo conosciuto: si era attirato la mia simpatia coi suoi modi di
fare e le
sue osservazioni… o forse con la sua bellezza.
Più
avanti avrei capito che le sue
osservazioni “argute”
erano in realtà
banali e vuote di riflessione e logica e che la sua musica, oltre che
sterile,
era anche tecnicamente pessima.
All’inizio
si era dimostrato un ragazzo affettuoso,
dolce, pacato e romantico, mi portava fuori il più spesso
possibile: concerti,
ristorantini, passeggiate, festival e manifestazioni, ogni occasione
era buona
per stare assieme.
C’era
sempre qualcosa da fare, qualcosa da
vedere, fiori, regali e biglietti, canzoni scritte per me e attenzioni.
Mi
innamorai follemente di lui ed iniziai a rivedere anche le mie idee
sull’amore,
che iniziarono a parmi fin troppo ciniche e cattive: forse davvero le
ragazze
banali potevano attirare l’attenzioni di perfetti e
talentuosi adoni o educati
e poetici gentleman.
E
io ero e sono la quint’essenza della
banalità: capelli castani (no, non color mogano,
né castano dorato, né dai
riflessi color miele: castani, stop), che si aggrovigliano in una
matassa
riccia e crespa indefinita; pelle abbronzata, ma non dorata come quelle
delle
attrici di film per adolescenti: un marroncino chiaro, tipico delle
popolazioni
mediterranee, un po’ slavato per la mia tendenza a chiudermi
in casa con un
buon libro, invece che indossare flip flop e bikini e passeggiare sulla
spiaggia assolata; fisico un filino troppo sovrappeso, tette poche,
sedere
tanto. Non ero una bellezza hollywoodiana, di certo, ma
l’idea che Jay mi trovasse
attraente mi fece sentire la Bella Swan della situazione.
Quello
fu un errore, uno dei tanti che
commisi, con lui e che avrebbe irrimediabilmente segnato la mia vita.
Penso
fosse maggio, quando, per la prima
volta, ebbi una dimostrazione di chi fosse veramente Jay.
Sì, doveva essere
maggio, poiché ricordo che era una giornata bellissima e le
temperature erano
decisamente al disopra delle medie stagionali: insomma, quel genere di
giorni
che ti ispirano buon umore e in cui non può accadere nulla
di cattivo per forza
di cose.
Almeno
questo era il mio pensiero.
Jay,
ormai ufficialmente il mio ragazzo, dopo
quattro mesi di uscite, era venuto a vivere da me e quella mattina
avevo deciso
di preparargli la colazione.
Mi
ci misi d’impegno, padellando e ascoltando
la radio, che trasmetteva le ultime hit o pezzi storici… che
sciocchezze sto
scrivendo… non ricordo nulla del mio sedicesimo compleanno,
nemmeno la torta,
ma ricordo ogni insignificante dettaglio di quella mattina.
Ad
un certo punto Jay si alzò, entrando in
cucina e sedendosi al tavolo, senza salutare.
La
sera prima era tornato tardi,
ufficialmente lui e i suoi amici si erano fermati fino a tardi da uno
di loro…
Ricordo
che l’emittente radofonica mise su
“Keep me hanging on” di Kim Wilde. Feci una battuta
spiritosa… qualcosa come “adesso
non si usa più salutare?”,
insomma, cose che mi diceva mia nonna quando avevo quattro anni.
Poi
ho un black out di diverse ore. So per
certo che Jay mi picchiò fino a farmi perdere i sensi e poi
mi portò in
ospedale, dove mi diagnosticarono due costole incrinate. So per certo
che
raccontai, terrorizzata e ancora spaventata di essere caduta dalle
scale. So
per certo che ero scesa a patti col mio nemico per la prima volta e che
a
quella ne sarebbero succedute delle altre, moltissime altre.
Da
ragazzina avevo sempre disprezzato quelle
donne che si facevano maltrattare e mettere i piedi in testa dagli
uomini. Per
me anche già il solo far decidere agli uomini dei propri
figli era un segno di
inammissibile debolezza in una madre; era per me inammissibile essere
un
soprammobile che accrescesse lo sfarzo del focolare domestico, come lo
era
stata mia madre, ma farsi picchiare o violentare da un uomo…
no, quello, nella
mia mente di ragazza benestante e beneducata, era molto peggio.
Significava
essere deboli, indegne di essere considerate donne.
Mi
era stato inculcato, come è stato per
molti altri giovani prima di me e per come sarà per molti
altri dopo la mia
generazione, che quelle donne erano donne sbagliate: queste cose
succedevano
solo a ragazze di dubbia morale o forza mentale. Di botto, venni
catapultata
nella più atroce realtà.
E
l’abbassarmi a coprire Jay non fu segno di
scarsa morale: fu paura, istinto di sopravvivenza e soprattutto, una
disperata
voglia di non vedere. Nonostante le costole doloranti, i lividi e le
escoriazioni, non volevo –né
potevo-
ammettere che l’uomo di cui mi ero follemente e stupidamente
innamorata fosse
un violento. Archiviai l’episodio come incidente
e la vita riprese.
Forse, se fossi
stata più esperta, avrei
fatto armi e bagagli subito, cambiato città e gettato il
telefonino nel primo
cestino. Non lo feci e ben presto alle mie spese se ne aggiunse
una fissa: il fondotinta, che mai avevo usato
prima e che ora mi serviva per mascherare il fiorire di fiori violetti
e
giallognoli sulla mia pelle.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Atto II, Scena II- Fuggire ***
Atto
II, Scena II- Fuggire
I seguenti due anni da quel
maggio passarono lenti, seguendo una perversa routine: lavoro, il
più possibile, casa e botte.
Ogni tanto finivo in
ospedale, ma mi rifiutavo di ammettere la realtà.
Perché ammetterla significava ammettere una debolezza
imperdonabile, non solo per me stessa, ma per il resto della
società. Una reietta.
Avevo odiato
l’amore, per poi desiderarlo ed ora tornavo ad odiarlo.
Odiavo Jay, che mi aveva illusia e tradita, odiavo me stessa, per la
mia debolezza, odiavo gli altri, perché avrebbero potuto
aiutarmi, perché sapevano, ma non fecero nulla. Rimasi
vittima della mia vergogna e del menefreghismo altrui, ma ancor
più di quell’amore non corrisposto.
Egli era ossessionato da me,
ma non innamorato: non potevo più mettere gonne, uscire con
altri uomini e tanto meno con le mie poche amiche, dovevo riferirgli
ogni mia singola spesa nonostante fossi io quella che guadagnava e se
per disgrazia spendevo più di quanto mi fosse dovuto, la
punizione erano botte tanto forti da lasciarmi doloranti anche le ossa.
Dovevo riferire al mio amante-aguzzino ogni singolo passo, ogni singola
parola… ad un certo punto prese ad accusarmi di tradirlo e
finì per tagliarmi ogni sostentamento. Ogni singolo
centesimo che mi ero guadagnata finiva nelle sue tasche ed era Jay a
decidere quando e quanto denaro darmi. Ero diventata succube di quel
mostro aitante e non riuscivo più ad uscirne.
Fino
a quando non ne ebbi abbastanza: racconti alcuni vestiti e un paio di
libri, scappai, recandomi alla stazione di polizia più
vicina.
I poliziotti non ebbero
nemmeno bisogni di chiedermi cosa mi fosse successo: la mia faccia
tumefatta parlava da sé. Avevo visto la gente voltare la
faccia per strada o indicarmi, avevo visto la loro indifferenza, lo
schifo e la pietà. Ero stanca.
Denunciai Jay e chiesi
aiuto: uno dei poliziotti, una donna sulla quarantina
dall’aria navigata mi accompagnò in una casa per
donne maltrattate e io credetti davvero di rinascere. Avevo lasciato il
mio aguzzino, l’avevo denunciato, non poteva farmi
più niente, no?
No, sbagliavo. Non so come,
mai Jay riuscì a rintracciarmi: si piazzava sotto la mia
finestra ad orari improponibili, urlando all’inizio minacce,
poi implorando il mio perdono, dicendo che si sentiva perso, senza di
me. Più volte minacciò di suicidarsi, mi
urlò che mi amava.
La mia fuga durò
tre settimane: alla fine della terza ritirai la denuncia e tornai a
casa. Ricorderò per sempre quello che la poliziotta gentile
che mi aveva portata al rifugio mi disse: “non lo
faccia. Uomini come quello non cambieranno mai, per quanto promettano.”
Ancora oggi mi rammarico per
non averla ascoltata, perché aveva ragione: il benvenuto del
mio amore fu una razione di botte, onde evitare che ci riprovassi. Ma
ormai ero entrata anima e corpo in quel sadico meccanismo.
Persi il lavoro qualche mese
dopo e finì in ospedale per diversi giorni, con un braccio
rotto. Poi fu la volta di quella volta in cui gli avevo accidentalmente
stinto la camicia preferita, poi la cena che “era
troppo salata”, le ciabatte non in ordine, la spesa
“troppo costosa”, la birra che
non era arrivata abbastanza in fretta…
Stavo sempre peggio per
quella vita: ne avevo cercata una lontana da quella famiglia finta e
vuota ed ora ero finita intrappolata in un incubo che non augurerei
nemmeno al mio peggior nemico.
E alla fine capì
che dovevo andarmene. Dovevo essere forte, smetterla con
quell’amore malato, scappare il più lontano
possibile, rifarmi una vita. Lo capì troppo, troppo tardi,
quando dopo l’ennesimo pestaggio, persi il mio bambino.
Amavo la mia creatura,
l’avevo amata fin da subito, quando il medico mi aveva
comunicato la gravidanza. Non era stata certo concepita in modo
tradizionale, con una madre e un padre che si amavano, pronti a metter
su una famiglia da pubblicità della Mulino Bianco o da
telefilm degli anni 50: madre perfetta casalinga, fresca di messa in
piega e con abitini che potevano calzare a pennello solo ad una modella
e padre impiegato di banca, amante del golf e dei maglioncini portati
attorno alle spalle.
Il mio bambino sarebbe
venuto al mondo da un musicista fallito e violento e da una ragazza
bruttina e sottomessa, ma l’avrei amato.
Jay non fu felice, per
niente, ma rinunciò a farmi abortire: me n’ero
accorta troppo tardi e non si poteva far più nulla. Se avevo
mai sperato che il mio fidanzato cambiasse, mi dovetti ricredere: era
più irritabile del solito e decisamente più
violento; mi picchiava sempre più spesso, incurante del
figlio che portavo in grembo. Non il figlio di qualcun altro. Il suo.
Un calcio di troppo. Uno
stupido calcio di troppo, io che ne avevo sopportato di ogni e mi era
stato strappato anche mio figlio.
Avevo tanto sognato di
stringere tra le braccia il mio bambino, ed invece il medico mi mise in
braccio un cadaverino sottopeso.
Se mi era rimasto un
po’ di amore per Jay, quello venne seppellito assieme a mio
figlio. E al suo posto nacque un odio prepotente, che mi
consumava lentamente, mese dopo mese, mentre il dolore folle che mi
aveva colta dopo la morte del mio piccolo Leo lasciava il posto alla
sete di vendetta: una sera lo colpì violentemente con una
padella, riempì una borsa, rubai i miei risparmi e scappai.
Speravo di averlo ucciso e, come confermarono i fatti, fu
così.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Atto III- Addii ***
Atto
III- Addii
Riuscì
ad arrivare in Germania prima che la
polizia mi trovasse. Rimasi nascosta in un appartamento affittato a
settimana,
pagando in contanti per non farmi trovare per quasi tre mesi. Per me
furono
abbastanza per scoprire l’ennesimo
“regalo” di Jay: un secondo bambino.
Questa
volta mi ripromisi che nessuno me
l’avrebbe tolto. Ancora una volta avevo torto: quando la
polizia mi scovò,
capii quanto in là mi ero spinta. Avevo ucciso un uomo e
poco importava che
fosse un sadico bastardo: ero un’assassina.
Non
provai nemmeno a difendermi e so che
commisi uno sbaglio: io avevo il diritto ad ogni attenuante per
ciò che avevo
passato. Ma mi vergognavo troppo: ero stata maltrattata, violentata,
brutalizzata, la mia psiche era a pezzi così come la mia
autostima, ero stata
così sciocca da credere alle promesse di un violento.
Accettai
la mia condanna all’ergastolo: io
ero colpevole, Jay una vittima. L’ennesimo sberleffo del mio
destino.
Che
fine aveva fatto la vecchia me? La
ragazza che non credeva all’amore? Non lo so. Credo sia morta
col primo
schiaffo. Ora so per certo che l’amore non esiste, ma prima
non avevo mai avuto
la benché minima idea di cosa fosse il mondo.
Passai
in galera gli ultimi mesi della
gravidanza, in attesa di processo, e poi i primi tre anni con la mia
bambina,
Olivia.
Ricorderò
per sempre il suo terzo compleanno,
l’anniversario della sua nascita e l’ultima beffa
del destino, quando gli
assistenti sociali me la portarono via. Ora mia figlia vive con una
vera
famiglia, che la ama. Non si ricorda chi io sia ed è meglio
così. La mia vita è
troppo piena di vergogna perché anche mia figlia ne sia
sporcata. Ogni
decisione, ogni errore, ogni singola violenza sono testimoni silenti
della mia
esperienza.
Ho
amato Jay? Assolutamente sì.
Ho
fatto bene? Non so dirlo. Probabilmente no.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1113714
|