Inconscio.

di Buildingalife
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inconscio -1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** L'amore. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 6: *** Colori. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. ***
Capitolo 14: *** Fine. ***



Capitolo 1
*** Inconscio -1 ***


Posizione fetale su un letto, accucciata su sé stessa.
Delle specie di vene artificiali connesse alle orecchia appiccicate ad un apparecchio che riproduce musica.
Vita infranta.
Vita finita.
Vita iniziata.
Il mondo gira, ah-ah.
E come gira.
Posacenere.
Prendi, aspira, espira, fumo che vola via.
Occhi chiusi, palpebre con una leggera sfumatura di trucco.
Aspira, espira, fumo che vola via.
Solo quello?
Silenzio.
Piede mosso, vaso rotto.
Mondo crollato addosso.
Ma la ragazza non ricorda.
Oh, com'è possibile? Possibile non ricordare niente?
Ma chi era la ragazza?
Chi ero io?
La ragazza - ah, ancora non riesco a dire IO, non  mi riconosco più!-, la ragazza dicevo, ormai era devastata. 
Ricordi? No.
Ogni tanto qualche flashback di un secondo, troppo veloce per riuscire a coglierlo e ricordare la storia di una vita arrivata in cima alla felicità.
Quanti anni aveva la ragazza?
Diciotto? Venti? Quaranta? Cinque?
Diciassette mi dissero, diciassette!
Così giovane?
Così giovane? Così giovane già doveva riiniziare una vita?
Non doveva prima morire per poi rinascere in un'altra vita?
Aspetta, ero morta?
No no.
"Sono morta?" chiesi d'un tratto.
Ma non c'era nessuno.
Un bigliettino sul comodino: "Torno tra poco. Baci, mamma."
Uh, avevo anche una mamma?
Chissà se avevo un fratello, o una sorella.
Ad un certo punto sentii urla di qualche canzone provenienti da una stanza, mi alzai, e percorsi quei posti sconosciuti, che però componevano qualcosa che veniva chiamato "casa". Mi dissero che era anche mia quella casa.
Arrivai nella stanza da dove provenivano i rumori. Bussai.
Sentii la musica abbassarsi, e la porta si aprì davanti a me.
"Buongiorno." disse un ragazzo bellissimo sorridendomi.
"Buongiorno anche a te..." mi bloccai, non sapevo il suo nome.
"Davide." disse lui sorridendo.
Lo guardai ancora un po' confusa "Davide, tuo fratello." disse lui, quasi piangendo, ma forzando un sorriso.
"Ma che bel fratello che ho." dissi sorridendo cercando di allentare la tensione.
Scoppiò a piangere, e mi abbracciò fortemente.
Ricambiai l'abbraccio, forse un giorno sarei riuscita a ricordare qualcosa.
"Ti voglio bene Giò."
Giò viene da Giorgia no? Quindi mi chiamavo Giorgia a quanto pare.
Bel nome.
Sbadigliai, avevo ancora un po' di sonno.
Mi guardò e mi disse: "Dai che hai ancora sonno, ti riaccompagno in stanza."
Mi riportò in stanza e dopo che mi stesi sul letto, sentii lui accanto a me. 
"Ho sonno anche io." disse, e anche se non ricordavo nulla, qualcosa di vecchio in me era rimasto, era rimasto l'affetto per lui. Sentivo che era speciale, e così lo abbracciai.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Ma tanto, non riuscii a dormire.
Quindi osservai mio fratello.
L'essere umano dormiva così facilmente? 
Io avevo troppi pensieri, in mezzo a quelli non c'era spazio per dormire!
Ma torniamo a lui, ah, come si chiamava?
Davide mi sembra.
Dicevo, rimasi ad osservare Davide.
Era... Era bellissimo.
C'era qualcosa, qualcosa nella sua bellezza di particolare.
Non sapevo cosa.
In quel momento, in quello stato di incoscienza, l'unica cosa di cui ero sicura era di aver dimenticato qualcosa. Qualcosa di importante.
Ormai mi ero persa nel suo viso, e non mi accorsi che lui aveva aperto gli occhi e mi sorrideva, ma nei suoi occhi si vedeva malinconia.
Mi guardava in un modo...In un modo strano.
Il suo viso si avvicinava sempre di più verso il mio...
Ma si tolse furtivamente.
Cosa? Cos'era successo?
Confusione.
Qualcosa squillò, Davide si alzò ed andò ad aprire la porta.
Mia madre aveva in mano delle buste, a quanto pare aveva fatto spesa.
"Grazie...Davide." disse a mio fratello che la stava aiutando a portare le buste in cucina.
Ma c'era qualcosa che non andava.
Aveva detto "grazie Davide" in un tono, non so come dire. In un tono non materno, diciamo.
Gli lanciò anche uno sguardo comprensivo, che tentarono di nascondermi.
Ma non ci riuscirono.
 
Era tutto così strano, tentavano di tenermi nascosto qualcosa.
Chiesi varie volte "Cosa mi è successo?" ma non rispondevano, e iniziavano a parlare di altro.
Ci avrei riprovato il giorno dopo, tanto avrei dovuto scoprirlo prima o poi, no?
Ma in quel periodo strano, ciò che mi preoccupava di più non era cosa mi era successo, era il fatto che mi ricordavo tutte le immagini, tutti i sogni e i pensieri contorti, di quel posto buio e oscuro, di quella camera nera enorme dove tu sei minuscolo, anzi di più, e accucciato in un angolo, così piccolo che senti che quelle mura e quel soffitto ti crolleranno addosso.
In quella stanza ti senti troppo estraneo.
Ti senti troppo solo, e non hai neanche un appiglio, rimani in quell'angolino, e hai paura che il pavimento possa crollare da un momento all'altro.
Non hai voce, non hai forza, non hai il coraggio di gridare "Aiuto.".
Una parola che magari potrebbe aiutarti se qualcuno la sentisse.
Ma anche se avessi voce, non c'è nessuno, e i più vicini, che comunque sono fuori da quella stanza, sono troppo sordi per ascoltare gli altri.
Sapete come si chiama quel posto?
Ma soprattutto, volete saperlo?
Ve lo dirò allora.
Si chiama Inconscio.
Nel mio lettino all'ospedale, mentre dovevo restare semplicemente in un profondo sonno per riposarmi, sotto anestesia, senza sensi, e mi sarei dovuta risvegliare non ricordandomi niente di quella dormita, al massimo qualche sogno, io ricordavo tutto.
L'Inconscio era per me un posto nuovo, quindi direi che posso dire di aver fatto un viaggio.
Il viaggio peggiore della mia vita direi!
Cerco ancora di eliminare tutto di quei ricordi, ma non ce la faccio!
Ci provo, ci riprovo, ma i fantasmi di quella stanza...
Fermi, fermi.
Non vi avevo parlato dei fantasmi vero?
Ebbene sì, c'erano dei fantasmi.
Fantasmi che si vedevano benissimo, avevano una luce bianca, che era impossibile non vedere in quella stanza buia.
Mi ricordo che tutti insieme mi andavano addosso, e con delle urla stridule - che però dubito fossero loro, i fantasmi non dovrebbero urlare così, quindi c'erano altre creature? - mi stordivano.

Davide e mia mamma continuavano a tenermi nascoste parecchie cose.
E Davide, vedevo che aveva una particolare tristezza nascosta, peggio che la mamma. 
C'era qualcosa che mi voleva dire ma non poteva.
Sentii anche una volta mia madre e lui in cucina che ne parlavano:
"Devi aspettare!" disse la voce femminile.
"Ma non posso più..."
"Si che puoi."
Molte volte chiesi a Davide cosa stava accadendo, cosa mi teneva nascosto.
"Non posso dire niente per ora." diceva lui.
Sentii qualcosa bagnarmi il viso, qualcosa che lo solcava impetuosamente, e gli occhi che si strizzavano un po'.
Questa cosa bagnata arrivo sulle mie labbra, decisi di assaggiarla. Era salata.
Avevo dimenticato anche il sapore delle lacrime ora?

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Capitolo 3
*** L'amore. ***


Mi sentivo una bambina.
Avevo diciassette anni, ma ero una bambina, in fondo, ero appena rinata!
Sapevo solo camminare, parlare e ogni tanto trovavo nella mia borsa delle cose simili a dei cilindri  fini fini dentro ad un pacchetto. "Camel" c'è scritto sul pacchetto.
Mi ricordavo i gesti...prendi una cosa che emette un leggero fuochino, così accendi il cilindro, aspiri ed espiri, e toh, guarda un po' esce del fumo!
Mi divertivo a vedere il fumo uscire dalla mia bocca. Tentavo di fargli creare delle forme, ma non ci riuscivo.
Sul pacchetto c'era scritto qualcosa che non mi sarei mai aspettata: "Il fumo uccide.".
Oddio! Ma forse era per questo che ero caduta nello stato di inconscio?
Non penso...
"Mamma!" urlai immediatamente.
"Cosa?? Cos'è successo?" si precipitò in camera mia preoccupata.
"Ma...io sono morta a causa di questo??" e le mostrai l'etichetta del pacchetto.
Ridacchiò per un secondo, forse pensava alla mia tenera ingenuità, ma poi tornò seria: "Morta? Tu non sei morta. Giorgia, non sei morta!"
"Beh, allora meglio così."
Non sapeva che dire.
"Non ti preoccupare mamma." e con questo diciamo, rassicuramento, se ne andò.
 
I giorni passavano, e mi fecero vedere dei libri, ma non erano libri per studiare, erano libri di puro piacere. Mi dissero che leggerli non doveva essere una forzatura.
Lessi un libro fantastico, chiamato "Cime Tempestose", da quei libri cercavo di imparare cos'erano i sentimenti, e cos'era la vita. 
Quindi, dedussi che per amare veramente qualcuno lo devo un po' odiare, no? Mi sembrava così da ciò che mi dissero i personaggi, Heathcliff e Catherine.
Ma se ami, come fai ad odiare? Me lo chiesi per vari giorni.
Avevo un foglio con scritte tantissime supposizioni sui sentimenti. Soprattutto sull'amore, quel libro mi aveva lasciata così confusa!
Dopo qualche giorno, decisi che ero pronta a leggere qualcos'altro, lessi "Orgoglio e pregiudizio". Due nuove parole: l'orgoglio e il pregiudizio. Ma quella che più mi colpì, fu la seconda, davvero si può cadere nell'inganno in questo modo? Nessuno va mai a fondo a scoprire le anime altrui?
Nel mio quadernino dove davanti scrissi "Impariamo i sentimenti", aggiunsi due nuove sezioni.
L'amore in quel libro era un po' diverso, all'inizio sì, c'era un po' d'odio, ma superati l'orgoglio e il pregiudizio, Elizabeth e Darcy riescono a stare finalmente insieme.
Che confusione!
Decisi di chiedere a Davide.
"Davide puoi venire un attimo!" urlai tentando di farmi sentire. Nemmeno finita la frase era vicino a me.
"Sì?" chiese come se volesse aiutarmi in qualunque modo, ma questo lo dissero i suoi occhi. 
Sentirlo accanto a me mi faceva quasi svenire, ma dalla felicità, e dalla sicurezza, e, oddio volevo stare di più con lui! Che sentimento era questo?
Solo dopo mi accorsi che mi scuoteva la spalla mentre continuavo a fissarlo. "Tutto apposto?" chiese.
"No...Non capisco quand'è che si ama. Ho letto questi due libri, ma sono in contrapposizione, così non capirò mai..." dissi io un po' giù con il morale.
"Vuoi sapere cos'è l'amore, quindi?" disse lui a bassa voce, e con il volto abbassato.
Non riuscivo quasi a trattenermi, volevo saltargli addosso e tenermelo stretto.
Cosa stava succedendo?
"Si, voglio saperlo!"
"Te lo spiego se tu prometti che mi rispondi sinceramente alle domande che ti sto per fare. Prometti? E' l'unico modo per farti imparare."
"Si, certo, risponderò a tutto." fremevo dalla voglia di sapere cos'era l'amore.
Stava esitando, non riusciva a dirmi nulla, era...non sapevo la parola! Abbassava lo sguardo, le guance erano diventate leggermente arrossate.
"Cosa senti quando sto accanto a te?" riuscì a dire finalmente.
Mi colse di sprovvista, ma dovevo dirgli la verità, no?
"Mi sento al sicuro. Mi sento svenire. Svenire da un misto di felicità e frenesia di non so che. Sento di voler stare di più con te. Sento di volerti saltare addosso, tenerti stretto. Non staccarmi più. Oddio non riesco a trattenermi, mi sento strana...Non capisco cosa succede. Non capisco cosa MI succede!" mi fermai un attimo, ero troppo veloce, presi fiato, e vidi che piangeva. Stava piangendo!
"Cosa ho fatto? Non piangere, ti prego! Un'altra cosa che sento, non voglio che tu sia triste, farei qualunque cosa! Ti prego, cosa succede?"
"Sono lacrime di gioia..." disse lui.
"Lacrime di gioia?" esistevano anche le lacrime di gioia?
Qualcuno poteva spiegarmi? O l'Inconscio stava ancora emanando gli ultimi effetti?
"Si! Lacrime di gioia!" disse soffocandomi in un abbraccio.
Quando le sue braccia mi strinsero, mi sentii tranquilla, bastava quello, e le mie domande si mettevano da parte.
 
Dopo il lungo abbraccio, disse che doveva andare a parlare con mia madre, e nonostante non volessi lasciarlo andare, lo feci comunque.
Per un momento pensai di chiedergli se potevo venire anche io, volevo sapere che si dovevano dire, ma c'era un motivo se non mi chiamò, no?
Quindi lasciai stare, tentando di pensare ad altro.
Ma ero troppo curiosa, quindi, finii per origliare.
"Devi resistere, per favore! Aspetta che ricordi qualcosa!" disse una voce femminile, mia madre suppongo.
Sentii un lamento, non capii bene cosa, da parte di mio fratello.
Sentii le loro grida espandersi, finchè la mamma non iniziò a consolare Davide.
Sentii anche che stavano per aprire la porta, quindi scappai in camera.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***


"Ti sto venendo a prendere! Scappa finchè puoi!"
"Non mi prenderai!" dissi ridendo, e facendogli una linguaccia.
"Allora scappa!"
Corsi tantissimo, ma mi sentii delle braccia che mi strinsero fortemente da dietro, a quanto pare, fu più veloce di me.
"Non mi sfuggirai, riuscirò a riprenderti tra le mie braccia, nel caso tu scivolassi, o qualunque cosa, ti terrò stretta..." la sua voce era una melodia.
"Menomale..." dissi. Più che altro pensai, ad alta voce. Non volevo andarmene, mai più.
Ma qualcosa che non potei fermare accadde. 
La realtà venne a svegliarmi.
 
Una mano mi accarezzava i capelli, ci giocherellava.
Sentii sussurrare qualcosa, non capii cosa, ma la voce era quella. Era la voce che conoscevo meglio da quando mi svegliai.
Ad occhi chiusi, (volevo fosse una cosa inaspettata, visto che sicuramente pensava stessi dormendo), allungai il mio viso, e sfiorai le mie labbra contro le sue.
Oddio, cosa avevo appena fatto?
Non mi ero controllata.
Avevo fatto la cosa giusta?
Ma capii che non mi importava, ero felice di averlo fatto.
Aprii gli occhi.
Non era lui.
Un mostro si era impossessato del ragazzo a cui avevo dimostrato...qualcosa. Quel qualcosa si poteva chiamare amore?
I suoi occhi diventarono di fuoco.
Avevo paura.
Sentii una campanella nella mia testa, l'Inconscio chiamava. "Torna da me..." diceva.
La confusione si impossessò di me, ormai non capivo più niente tra il suo viso che mutava, e l'Inconscio che chiamava.
Dovevo lasciar andare qualcosa, almeno per quel momento, sennò rischiavo di scoppiare.
Decisi di mettere silenzio (per quanto fosse possibile, e per quanto poco sarebbe durato) alla campanella.
"Cosa ho fatto?" chiesi innocentemente.
"Non capisci quanto sia difficile per me?" rispose con un'altra domanda.
Lo osservai attentamente, e notai che nessun mostro si era impossessato di lui, faceva soltanto finta.
"Perchè deve essere difficile?"
"Perchè dovrei aspettare che tu ricorda qualcosa, che tu sia sicura di ciò che fai, dovremmo aspettare..."
"Dovremmo."
"Si."
"E' ciò che vuoi tu?"
"Cosa dovrei risponderti? Vorrei tornassimo come prima, ma dovrei aspettare, e anche tua madre vorrebbe così..."
Mi ritornarono in mente quei discorsi che avevo origliato. E' questo ciò che mi nascondevano, allora.
"Forse non mi vuoi abbastanza."
Cos'erano quelle frasi che stavo pronunciando? Non ne ero mai stata capace prima di quel momento, da quando mi risvegliai nel lettino dell'ospedale.
Stavo diventando padrona di me stessa, riuscivo a dire cose forti e sensate.
"Non pensarla così...Io ti voglio. Non hai idea di quanto ti voglia. Starei tutto il tempo con te a baciarti e...Non importa. Ti vorrei far vivere i momenti migliori della tua vita. Ma magari per capire se siamo li stessi di prima, per capire se tu provi ancora lo stesso per me, devi aspettare che la memoria torni."
"Sei stupido. Infinitamente stupido. Pensi che in questo momento, come se non avessi già abbastanza problemi, io abbia voglia di giocare con l'amore? Pensi che io non sia consapevole di provo? Pensi che io abbia sempre prensato che tu fossi mio fratello?"
Il suo sguardo, diventò interrogativo, poi stupito, capendo che aveva finto senza motivo, visto che non ci misi molto a capirlo.
Lo guardai annuendo. "Non riesci proprio a capire..."
Non riusciva a capire che quando lo vidi, capii che non dovevo avere paura di lui come di un estraneo, ma che potevo fidarmi, che... Non sapevo più come esprimere tutto ciò.
"Oddio, lasciamo stare." dissi tentando di lasciare quella stanza. La mia stanza, tecnicamente era lui a doversene andare, ma non ci badai molto, e decisi di farlo io.
Una mano mi fermò. Venni tirata indietro improvvisamente, e finii con il mio viso a poca distanza dal suo.
"Spiegami, per favore."
"Non è importante."
"Ora sei tu a non capire. Tutto ciò che riguarda in qualche modo te, o noi due, è importante. O almeno per me."
"Non riesco...Non riesco a spiegare. Non riesco a farti capire cos'è successo. Non riesco a esprimere i miei sentimenti. E' difficile."
Sorrise. 
"Che ingenua...Prometti però, che mi spiegherai un giorno."
Che dovevo fare? Promettere?
"Si, va bene lo prometto."
Cosa dovevo fare ora? Avevo visto qualche film durante quei giorni, e dopo questo tipo di frase, ci stava sempre un bacio. Almeno lì. Ma nella vita era così? Eppure, spesso gli attori erano così credibili!
Potevo dargli un misero bacio? Non chiedevo troppo, no? O forse ero nel film sbagliato?
In quel momento suonò la campanella dell'Inconscio che mi chiamava, non era tempo di pensare a un bacio.
Stavolta, decisi di ascoltarlo, infondo ero rinata insieme a lui, è lui che mi accompagnò nel percorso di guarigione.
Si torna a casa, stavolta.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. ***


Oook. Chiedo scusa per aver pubblicato il capitolo così in ritardo, ma ho avuto da fare e bla bla bla roba varia.
Comunque, spero che il capitolo piaccia, anche se forse è un po' una schifezza visto che ho scritto un pezzo tipo un mese fa e l'altro pezzo oggi, quindi potrebbero esserci delle differenze nel modo di scrivere...
Enjoy!



Buio totale.
Era un incubo?
Mostri che incombevano su di me, fantasmi forse. Ma io non avevo paura, mi volevano bene.
Mi proteggevano dalla Luce.
I loro mormorii impercettibili dicevano che la Luce poteva avere gravi conseguenze, ma io volevo provare. Volevo sapere cosa c'era là fuori, un mondo nuovo, un mondo a me sconosciuto, voglia di provare emozioni.
I portieri dell'Inconscio mi chiesero se volevo provare ad uscire, e che se avessi voluto tornare ero la benvenuta, bastava cedere al suono della campanella.
Mi feci spazio tra i fantasmi, e trovai la porta.
"Ci sei? Cristo, svegliati!" disse una voce preoccupata.
Aprii gli occhi.
"Sei sveglia?"
"Perchè, ho dormito? Sono solo caduta."
"Beh, questo lo vedo."
"Allora che problema c'è?"
"Sciocca..."
"Può essere. Ora voglio farti una domanda seria."
"Qualche altro sentimento da scoprire?"
"No. Cos'è successo?"
Stava per chiedermi a cosa mi riferivo, ma poi lo capì benissimo.
"Sicura di voler affrontare l'argomento?"
Annuii.
"Eri una ragazza sana, una tipa apposto. Non fumavi, era raro che ti ubriacassi troppo, molto pulita. Il caso ha voluto che un incidente arrivò nella tua vita. Fine della storia."
"Così riassuntivo?"
"Si." disse lui guardandosi attorno. Continuava a nascondermi le cose.
"Dimmi di più."
Intanto pensai a ciò che aveva detto "non fumavi".
Perchè al mio risveglio lo stavo facendo?
Ero convinta di essere stata una dipendente, e la dipendenza da qualcosa non va via facilmente.
"Aspetta...Non fumavo?"
"No. Cos'è questo stupore?"
"Dopo il mio risveglio ho fumato, non so neanche il perchè. Non è neanche tanto bello e entusiasmante. Cioè, non mi è servito a un cazzo. Però ho fumato, non so perchè. Sai spiegarlo?"
"Penso di sì..." dopo queste parole, fece una piccola pausa, alla quale seguì subito il discorso.
"Hai presente i bambini piccoli, no? Loro prendono tutto ciò che trovano, che gli capita sotto mano. Non ci pensano, lo fanno e basta. Sono curiosi, esplorano ciò che hanno attorno, vogliono scoprire cose nuove. Ma lo fanno senza una certa coscienza, è per questo che bisogna stare attenti con loro. Tu, sei come una bambina. Sei "rinata" poco fa, hai dovuto iniziare tutto daccapo. E a quanto pare, da ora dovrò stare più attento a ciò che fai, mi dovrò prendere cura di te."
Decisi di stendermi sul mio letto, era più facile così concentrarsi sui pensieri che circolavano nella mia mente.
"Vuoi rimanere un po' da sola?" chiese con tono affettuoso.
"Non avevi detto che ti dovevi prendere cura di me?"
Mi guardò e fece un sorrisetto sghembo.
Si sdraiò accanto a me, poggiai il mio viso sul suo petto, e lui mi cinse con le sue braccia.
Mi stavo per addormentare, talmente mi sentivo serena in quel momento.
Ma non potevo, sennò sarei tornata nella mia "docile" casetta.
In quel preciso istante risuonò la campanella. Guarda un po', parli del diavolo e spuntano le corna...
Feci finta di niente.
Risuonò.
Soffocai un "basta" sul cuscino.
"Basta cosa?" chiese lui.
"La campana...Continua a suonare."
"Quale campana?"
"Niente, lascia stare, è una cosa che riguarda me e Lui."
"Mi stai spaventando. Cosa sta succedendo?" chiese preoccupato.
Scossi la testa, come per dire che non importava.
"Pretendo di saperlo. Sputa il rospo."
Stavo per dirgli "No sai è giusto la campanella dell'Inconscio, una cosa che accade a tutti, ma mi sono rotta le palle!". Poi mi resi conto che no, non era una cosa da tutti. Almeno non in questa vita.
Non mi andava di mentire, dissi tutto.
"Hai presente quando prima sono caduta, cioè svenuta. Caduta o svenuta, quel che sia. Dicevo, hai presente, no? Mi hanno chiamata! Anzi, mi ha chiamata. Mi ha chiamato casa, una piccola e buia casetta chiamata Inconscio. E' situata nella mia testa, e ci vivo quando dormo e quando cedo al suono della campana. Quando sono svenuta, ho ceduto al suono della campana. E' un suo richiamo, se cedo troppo facilmente, mi strappa da ovunque io sia e qualunque cosa stia facendo. Strano, vero? I fantasmi che sono lì però sembrano volermi  
bene...Però per i miei gusti, è un po' troppo buio là dentro." dissi io con nonchalance.
Mentre ascoltava, mi guardava stupefatto. Non capiva se parlavo sul serio, o se scherzavo. 
Dopo un po' capì che era la prima opzione.
Impallidì.
Tornò del suo colore.
Impallidì di nuovo.
Ritornò del suo colore.
Dedussi che il mutamento della sua faccia era il suo punto forte, era già successo un'altra volta.
Mentre lui era senza parole, la campanella risuonò "E' l'occasione perfetta..." diceva.
Stavo lentamente cedendo, ma l'eroe del film mi salvò.
Del  mio film.
"Come facciamo?"
Non ne avevo la minima idea, stetti zitta e basta.
"Dovrò tenerti sveglia in qualche modo senza farti cedere, anche se nel sonno comunque tornerai là, e hai bisogno di dormire, ma a quello ci penserò dopo. Come ti terrò sveglia?"
Fece l'ultima domanda con un piccolo sorrisetto accennato.
Mi concesse un piccolo bacio.
Il film era a buon punto.

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Capitolo 6
*** Colori. ***


L’Inconscio era più colorato del solito quella notte.
Mi  mandava delle immagini, ma non riuscivo a capire cosa fossero.
Erano veloci, terribilmente veloci. D’un tratto mi sembrarono missili, diventarono più strette, e venivano verso di me finché, ecco qua, sparivano.
Che messaggio mi stava mandando?
Poi capii.

Stavano arrivando i ricordi del mio Prima. Appena la parola “ricordi” piombò nella mia testa, il mio Prima sparì.
Arrivarono gli ultimi avvenimenti del Dopo.
L’Inconscio diventò tutto rosso d’un tratto, e l’immagine furtiva di un bacio comparve, e scomparve, in un nano secondo.
Da quel giorno (forse è più corretto dire “da quella notte”) per me il rosso era il colore dell’amore.
Poi  la mia stanza (mentale) diventò celeste, e l’immagine fu una raffigurazione del mio lettino con le coperte di appunto questo colore.
Da quella notte, celeste fu il colore della comodità.
Diventò bianca, l’immagine era un sorriso pacifico.
Da quella notte, bianco era il colore di tranquillità e pace.
Bianco però, era stato anche il mio lettino d’ospedale.
Ora, verde. Verdi erano i suoi occhi, come d’altronde lo erano i miei, aspettavano qualcosa di grande.
Verde diventò speranza.
Arrivò il rosa, la proiezione era una ragazzina che avevo visto in una foto nella mia stanza, con un vestito rosa e le guance altrettanto.
Rosa era infanzia.
E imbarazzo. La ragazzina sembrava timida.
Giallo. Giallo (un po’ arancione forse) era il Sole. Stavolta non apparve un’immagine, ma dei suoni. Sentii frasi come: “Guarda che bella giornata fuori, c’è il Sole!”. Quindi il Sole richiamava attenzione.
Gialla era anche la campanella.
Giallo diventò attenzione.
Lilla. Lilla era il fiore  che pochi giorni prima, con tanta gentilezza, mi diede  mia madre. Lillà era anche il nome di quest’ultima.
Lilla era gentilezza e delicatezza.
Marrone e grigio non sapevo ancora cos’erano.

Nero invece, era cedere.
Cedere sempre alla campana nonostante non volessi.
Cedere e cadere in quella stanzina.
Cedere era non avere forza.
Nero era questo.

Mi  svegliai.
Cibo.
Avevo bisogno di cibo.
Andai in cucina, presi una ciotola e la riempii con latte e cereali.
Che ore erano? Che ne so, la condizione del tempo era l’ultima cosa che acquisii.
Volevo capire di più.
Quelle immagini così veloci, non riuscii a captarle.
Volevo tornare per capire, ma il nero, d’un tratto, mi spaventava.
La mia faccia, senza che me ne accorgessi, mutò in un’espressione di paura.
“Cosa ti spaventa?” disse Davide, che a quanto pare si trovava là.

“Il
 nero.”

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


“Voglio lottare per qualcosa.” mi ritrovai a dire in mezzo alla stanza, con la ciotola in mano.
“Cosa vorresti dire?”
“Non sto combinando nulla. Non ho uno scopo. E’ come se non stessi vivendo! Me ne accorgo solo adesso… Se fosse così per sempre? Non voglio rimanere intrappolata. Dentro di me, qualcosa sta tentando di uscire.  Non voglio rimanere intrappolata. Non voglio.”
“Mantieni la calma…” disse lui tranquillo.
“Fottiti tu e la tua calma.”

Non so perché lo dissi.
Quel qualcosa dentro di me stava diventando un mostro, mi faceva dire cose che non volevo dire.
Andai in camera mia, sbattei  la porta.
Urlai.
Un urlo prolungato.
Misi tutta la mia forza dentro quello.
La voce non finiva.
Continuai.
Soffrivo.
Ancora stavo urlando.
Finché non mi lacerai.
Crollai sul mio letto.
“Tu mi ami?” chiesi senza pensare.
Mi guardò rimanendo fermo accanto alla porta, evidentemente aveva paura di qualche altro mio urlo.
“Mi ami?” chiesi con una voce bassa e roca, come se fossi disperata.
“Io?”
“Si, con chi parlo sennò? Sarò smemorata, ma non sono matta.” Forse.
“Sì.”
“Bene.”
Ne avevo bisogno. Avevo bisogno di sapere che nonostante la mia confusione in quei giorni, su qualcuno potevo contare, e se qualcuno ti ama, si prende cura di te, no?
Una lacrima. Due lacrime.
Gocce che scorrevano frettolosamente sulle mie guancie, senza fine.
Quelle gocce erano fragili, come me.
Erano cristalline, e mentre scendevano nulla le ostacolava.
Io ero cristallina. Ero troppo “piccola” (si intende da quando ero rinata) per essere macchiata già da qualche peccato che avrebbe alterato la mia cristallinità.
Era il nulla che le ostacolava che le rendeva diverse da me.
La memoria mi ostacolava.
Cos’era successo di così terribile da tormentarmi?

“Non ce la faccio più.”
“Rivivrai.”
“Cosa vorresti dire?”
“E’ difficile. Rivivrai. Fidati di me, arriverà il momento in cui le cose cambieranno. Sarai pronta a sapere la verità.  Sarai pronta ad affrontare tutto quello che ti circonda. Sarai pronta a respirare un’aria nuova.” Fece un lungo respiro e riprese: “Ma non puoi affrontare tutto ciò da sola. Ricordati che ti amo, che io ci sono, e che puoi dirmi tutto ciò che vuoi. Ovviamente ciò non vuol dire che tu mi debba amare.”
Disse l’ultima frase abbassando lo sguardo.
Perché pensava che il suo sentimento non fosse contraccambiato?
Come potevo non amarlo?
Lui c’era sempre.
Neanche mia madre era così presente nella mia vita.
Scoppiai in una risata fragorosa.
“Che è successo?” mi chiese sorridendomi.
“Puoi ripetere l’ultima frase?”
“Che è successo…?” chiese stupito.
“No, prima.”
Gli prese lo sconforto.
“Ovviamente ciò non vuol dire che tu mi debba amare…” disse a bassa voce.
Mi sembrò di sentire il modo gelido in cui il suo cuore si spezzò. Come vetro.
Iniziai a scuotere la testa.
Ripresi a ridere.
“Mi potresti spiegare?” disse lui con tono nervoso, guardandosi attorno.
“Vuoi che sia sincera? Se sì, allora ti dirò che ti amo anche io. Per quanto possa saperne. Mi sento ancora una ragazzina piccola, appena rinata, e quello che provo per te è il concetto di amore che ho sviluppato. Ma non saprò mai se è questo quello che viene chiamato amore. Può essere di più, come può essere di meno. No, di più non può essere. Ti dirò solo che per quello che vale per me, ti amo anche io. Non sei svanito, sei concreto, sei qui per me. Io sono qui per te, è questo ciò che conta.”
“Mi dispiace.” sussurrò al mio orecchio.
“Per cosa?”
“Per ciò che è successo.”
Non gli feci domande, capivo che una risposta non sarebbe arrivata.
Mi abbracciò.
Non volevo andare da nessuna parte, volevo rimanere lì per sempre.
Senza che me ne accorgessi, l’Inconscio mi rapì, e non potei sfuggire.
Davide lo capì, mi fece stendere sul letto, senza mollare la presa, e dormimmo così.
Quella notte non ci furono fantasmi.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. ***


Il giorno dopo nevicò.
Costrinsi Davide a farmi respirare quella che lui chiamava “aria nuova”.
Era uno spettacolo.
Tutto ricoperto da un velo di bianco che donava purezza alla città, tranquillità e felicità.
I ragazzini correvano per le strade a tirarsi palle di neve, e anche gli adulti lo facevano in realtà.
Il mio “accompagnatore” era assorto nei  pensieri, decisi di fare una cosa importante.
Mi chinai, raccolsi tanta neve, e ne feci una palla. La cosiddetta palla di neve.
Sì, starete sicuramente ridendo visto che l’ho considerata una cosa importante, ma cosa volete, era la mia prima palla di neve.
Stavo dicendo, mi caricai di energia, e gliela tirai nel modo migliore che potevo.
Ovvero in faccia.
Mi nascosi dietro un albero, così non poteva rincorrermi e mandarmene un’altra.
Ma non si mosse.
Mi avvicinai a lui, facendo piccoli passi.
Niente.
A due centimetri distante da lui, lo vedo girarsi di scatto, e improvvisamente mi ritrovai con la faccia completamente bagnata.
E fredda, molto fredda.
Iniziai a picchiarlo come una matta, e lui continuava a dire “ai”.
“Occhio per occhio, dente per dente!” disse lui.
“Sì ma io sono una donna!”
“E quindi?”
“E quindi dovresti fare il gentleman!”
Girai la testa dall’altra parte, facendo la finta offesa.
Sentii un risolino.

 
“Non puoi tornare a casa.
Parole liquide.
Bei calzini.
Una foto del tuo ricordo migliore.
Ho avuto da fare.
Questa è claustrofobia.
Infinito.
Basta.
Noi non abbiamo paura.
Ci faremo male.
Quanto sono alti i miei sogni?
Voglio essere cieca per sempre.
Non sarò mai il supereroe.
Ho smesso.
Ci stringeremo eternamente.
La luce si confonde con la felicità.
Dove sei?
Questa è la bugia perfetta.
Ti ucciderò.
Non l’avevo previsto.
Chi sei veramente?
Chi sono veramente?
Cosa sto facendo.”

Quelle erano cose senza senso che ho ritrovato tra le mie vecchie cartacce.
Cerco ancora ora una spiegazione.
Quella era claustrofobia.
Claustrofobia:  “Sensazione patologica di paura, di angoscia, indotta dai luoghi chiusi.”
Ma quel luogo chiuso, potevo vederlo solo io.


“Cosa ti spaventa?” chiese Davide, che a quanto pare si trovava là.
“Il nero.”

Non ero più sicura di voler essere cieca per sempre.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. ***


Mi svegliai con un rumore che stava turbando la mia tranquillità.
Mentre leggete questo capitolo, voglio avvertirvi di una cosa: da quel giorno, la mia innocenza fece una brutta fine.
Stavo dicendo, quel rumore, a quanto pare era qualcuno che bussava con impeto alla mia porta.
L’aprii, e vidi uno sconosciuto.
No, non era uno sconosciuto.
Assomigliava terribilmente a qualcuno che avevo già visto.
Lo guardavo con gli occhi spalancati, non riuscivo a capire.
Ebbi un veloce flashback.
Vi ricordate la notte in cui veloci immagini apparvero nella mia umile “casa”?
Lui era tra quelle.
Lo riconobbi.
Ma assomigliava anche a qualcun altro.

Assomigliava a Davide.
Era bellissimo.
“Chi sei?” chiesi con una voce lievemente preoccupata.
“Come chi sono? Giò, ti sei completamente dimenticata. Non può essere.” mi disse guardandomi con occhi spenti.
“Io, io, io non…” dissi balbettando finché non mi interruppe.
“E’ colpa mia…”
“Come fa ad essere colpa tua?”
“Non ti hanno mai detto niente?”
Scossi la testa per dire un “no”.
“E’ terribile…”
Anche nella disperazione il suo viso era pazzesco.
Non riuscivo a togliergli gli occhi di dosso.
Cos’aveva di tanto interessante da attirare a tal punto la mia attenzione?
Chi era? Cosa stava succedendo?
Guardai fuori dalla finestra, notai che la pioggia scendeva a catinelle.
Notai subito che i suoi capelli e il suo viso sgocciolavano.
“Scusami, non ci ho pensato prima, vuoi un asciugamano?”
“Si, grazie.” disse accennando un sorrisetto.
Andai in bagno per prenderne uno, e mentre tornavo in camera, mi fermai sulla soglia della porta, e lo sentii imprecare.
Entrai, e lo beccai con le mani che gli coprivano il viso, mentre scuoteva la testa.
Rimasi ferma ad aspettare che lui si calmasse.
Ci mise un po’, visto che non si accorse della mia presenza.
Quando se ne accorse, si alzò e mi disse “grazie” per l’asciugamano.
Mi guardò.
“Sai, forse è meglio che vado.”
Le sue parole erano fredde.
Fredde e tristi, oserei dire.
Mi sembrava un addio.
Perché ci stavo rimuginando così tanto?
Perché era così importante?
Fu questo ciò che mi chiesi.
Non riuscivo a dargli una risposta.
Rimase fermo per un po’, poi prese il casco, e si avviò verso l’uscita.
Senza accorgermene, lo bloccai con una mano.
“Tornerai?”
Cosa avevo appena detto?
Come aveva potuto la mia bocca emettere una parola simile?
Come si permetteva?
Mi sorrise.
Uscì.
Si poteva essere così senza cuore?
Una risposta poteva darmela.

Mi parlarono di un posto chiamato “discoteca”.
Si ballava là, e in genere iniziava verso le undici di sera.
Decisi che quella sera ci sarei andata.
Ero stanca di essere chiusa dentro quella casa, e nessuno mi poteva impedire di uscire, l’avrei fatto e basta.
Era la prima volta che aprivo l’armadio per esaminarlo attentamente.
Quella sera avrei provato di tutto.

Arrivò il momento tanto atteso.
A casa mia non c’era nessuno, come sempre.
La discoteca era vicino casa mia, andai tranquillamente a piedi.
Entrai, pagai, e osservai quel posto a me totalmente nuovo.
La musica era a palla. La cosa mi piaceva, ero troppo confusa, e per una volta, volevo che qualcosa zittisse l’Inconscio.
La musica ci riuscì.
Avevo deciso che quella sera non avrei detto di no facilmente, quindi appena un ragazzo si avvicinò per ballare con me, non mi tirai indietro.
Avevamo ballato per un po’, poi mi chiese se volevo bere qualcosa.
Non mi feci problemi.
Mentre andavamo in direzione del bancone, vidi là seduto, qualcuno che mi sembrava familiare.
Era lui.
Non mi poteva confondere nuovamente le idee.
Feci finta di niente, e mi sedetti al bancone, ordinando qualcosa che sentii da qualcun altro che ordinava.
“Non è troppo alcolico?” mi chiese il ragazzo che stava accanto a me.
“No.”
Fece un sorrisetto compiaciuto.
Mentre mi sedetti al bancone, il ragazzo che mi teneva compagnia si scusò per andare un attimo in bagno.
Intanto, qualcuno si girò verso di me e con un fare un po’ brillo mi tese la mano dicendomi : “Piacere io sono  Leo." - si fermò - "Tu?"
Ma nello stesso istante alzò la testa verso il mio viso, e fece una faccia stupita.
Iniziò a balbettare: “S-scusa. Ciao Giò.”
Cosa gli dovevo rispondere? “Ciao" - aspettate come si chiamava?
Leo, ecco, dovevo dirgli “Ciao Leo”?
Rimanemmo fermi per un po’, fissandoci per capire cosa pensava l’altro.
Tentavamo di capire cosa c’era negli occhi dell’altro, le parole invisibili che mandavamo in segno di aiuto.
Tutto quello che lessi nei suoi occhi era frustrazione.
Ma anche disperazione: era evidente che non sapeva proprio come reagire.
E neanche io.
Il suo sguardo si spostò e diventò allarmato.
Non capivo, allora mi girai anche io.
Davide.
Davide mi stava cercando.
Avemmo la “brillante” idea di uscire dal retro.
“Lo conosci?” chiesi innocentemente io.
“E’ mio fratello.”

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. ***


Dopo una “chiacchierata” tra i due vidi Leo allontanarsi.
“Che ci fai con lui?” chiese Davide con tono secco.
Ero ancora confusa per il fatto che erano fratelli.
Prima che potessi rispondere mi interruppe: “E che ci fai qui?!”
“Non puoi sempre controllare dove mi trovo. Mi sono un po’ rotta di stare sempre in casa.”
“Me lo potevi dire.”
“Mi avresti detto di no.”
Non poteva rispondere, sapeva che era vero.
“Torniamo a casa.”
“Tornaci tu, voglio parlare con Leo.”
“Non pu-“ lo interruppi subito.
“Lasciami prendere le mie decisioni.”
“Fai come vuoi.”
Se ne andò con aria strafottente.

Leo stava ancora in giro, iniziai a camminare verso di lui.
Quando alzò lo sguardo, mi vide e mi chiese: “Com’è stai qua? Sei riuscita a non farti rapire?”
Osò un sorrisetto.
Sorrisi anche io, ma dopo poco interruppi il silenzio: “Cos’è successo?”
Non riuscivo a credere che dopo tanto tempo, mi ritrovai a chiedere sempre la stessa domanda ma a una persona diversa.
Dopo la mia domanda, il suo sorriso si spezzò,  e nei suoi occhi vedevo frustrazione.
“Penso sia mio dovere spiegartelo.”
“Non so di chi sia il dovere, voglio solo una risposta.”
“Andiamo a sederci su quella panchina.” disse indicandone una.

Ci fu una pausa di circa cinque minuti, si stava preparando psicologicamente penso.
Anche io.
Non sapevo cosa aspettarmi.
“Io e te stavamo insieme. La nostra era una storia speciale. E’ banale dirti che non eri una delle tante, che eri unica, ma è così. Eri la luce dei miei giorni. Con te potevo fare tutto. E combinavamo anche molti casini, eravamo un po’ spericolati. Giorgia, io non sono un principe azzurro. Non sono l’uomo delle favole. Forse per te lo ero, ma tutti mi hanno sempre visto come un pericolo. E non si sbagliavano, ti ho quasi portato alla morte a causa di un incidente. Sì, sono io la causa di tutto. Non sono stato prudente, e tutto ciò ne è la conseguenza. Vorrei che non fosse mai successo. Vorrei essere stato più sobrio quella sera.”
Rimasi “paralizzata” mentalmente. Non era facile sapere tutto questo in un minuto, e non mi sarei aspettata neanche una storia del genere.
Ma la vera cosa che non riuscivo a capire era questa: perché Davide e la mamma continuavano a  tenermi tutto ciò nascosto?
“Perché non mi hanno detto niente?”
“Chi?”
“Davide e mamma.”
“Ricorda ciò che ti ho detto pochi secondi fa: tutti mi hanno sempre visto come un pericolo. Tua madre non mi ha mai apprezzato molto, ma ha sempre avuto grande stima per mio fratello. Lui è quello che può essere considerato un principe: attento, prudente e tutta quella roba là che non ti sto ad elencare. E a lui…Beh diciamo che a lui non sei mai dispiaciuta.”
Ora ditemi, qualcuno che mi ha tenuta segreta una cosa del genere, per spacciarsi per qualcun altro, giusto per avermi, era un “principe azzurro”?
“Io penso che tu ti sbagli.”
“In cosa? Le cose in cui sbaglio sono talmente tante.”
“Hai definito Davide come il principe della situazione. Ma uno che si comporta così, come può esserlo?”
Rimase in silenzio per un po’.
“Forse hai ragione. Ma per quanto possa essere grave, mi preoccuperei un po’ di più di come abbia potuto agire in questo modo tua madre.”
Anche quello era vero.
Mia madre. La donna a cui avevo associato il colore lilla, che per me significava delicatezza e gentilezza.
Chi era veramente quella donna?
“Il principe azzurro della situazione qua mi sembri tu, sei l’unico che mi ha raccontato le cose come stanno.”
Ridacchiò.
Lui era più bello di Davide.
In quel momento feci l’atto più infantile che avrei mai potuto fare: finsi di addormentarmi sulla sua spalla, per vedere cosa avrebbe fatto.
Non si mosse, mi lasciò dormire là senza approfittarne né niente.
Dopo circa dieci minuti, feci finta di risvegliarmi improvvisamente.
Rise. “Sei sempre la solita!” disse.
“Perché? Che ho fatto?”
“Ti conosco troppo bene.”
Mi aveva scoperto quindi.
Risi anche io.

Lo sentii dire a bassa voce, forse per sbaglio, forse era solo un’allucinazione, ma mi sembrò di sentire: “Quanto ti posso amare?”
“Cosa?” chiesi io.
“Non ho detto niente. E’ tardi ti accompagno a casa.”

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. ***


La mattina dopo, mi svegliai con le idee molto più chiare del solito.
Sapevo cos’era successo.
Mi alzai dal letto, e girovagai per casa senza una meta.
Incontrai Davide nel corridoio.
Perché stava in casa mia?
“Perché sei qua?” gli chiesi con tono serio.
“E’ da un mese più o meno che ci sono, perché me lo chiedi ora?”
“Dovresti saperlo bene.”
Rimase silenzioso per un po’.
Poi scoppiò in una risata.
“Tesoro, dai non te la prendere!” disse continuando a sorridere.
“Stai scherzando vero? Vattene immediatamente.”
Continuò a fare il suo sorrisetto, finché non si rese conto che le mie intenzioni erano vere.
“Va bene.” disse arrabbiato.
In poco tempo raccattò le sue cose, le mise in un borsone, e se ne andò mormorando “troia”.
Ero anche una troia quindi, fantastico.

In quel momento volevo solo una cosa: parlare, oppure stare in silenzio, con Leo.
Non sapevo come contattarlo.
Finché non vidi sulla scrivania un cellulare.
Il mio vecchio cellulare.
Cercai nella rubrica, e lo trovai: “Leo” con un cuore accanto.
Gli mandai un messaggio: “Vieni da me.”
Dopo cinque minuti, ancora non avevo risposta.
Dopo dieci, neanche.
Passato un quarto d’ora, sentii il citofono squillare.
Era lui.
Fortunatamente non c’era pericolo, mia madre stava a lavoro.
Salì le scale, e finalmente lo sentii bussare alla porta.
Aprii immediatamente.
Appena entrò, mi chiese cos’era successo.
“Niente, ho solo cacciato Davide.”
Preferivo risparmiargli ciò che sentii all’uscita di Davide.
Lui comunque non proferì parola, meglio così.
“Allora, cosa vogliamo fare?”
“Non so, avevo solo voglia di stare con te.” dissi a voce bassa.
Mi guardò, e restammo in silenzio.
Fu lui a romperlo, osando una risata e dicendo: “Beh mi fa piacere, ma allora direi di non rimanere sulla soglia della porta!”

Non so come, ma ci ritrovammo sdraiati su un prato a guardare le nuvole.
No, non è una frase filosofica, semplicemente mi chiedevo perché si muovevano.
“Perché le nuvole si muovono?”
“E’ il vento…” rispose lui.
Speravo dicesse qualcosa per spezzare il silenzio, ma niente.
“Perché non parli?”
“Cosa dovrei dire?”
“Non lo so, ma di qualcosa.”
“Zitta.”
Zitta? Mi aveva detto di stare zitta?
Mah.
“Perché?”
Si sedette di scatto, girato verso di me.
“Vuoi saperlo, vuoi saperlo veramente?” disse in un tono aggressivo.
Anche se un poco spaventata, annuii.
“Ogni singola volta che sento la tua voce, giungono troppi ricordi, sento quasi spezzarmi. E tu non ricordi niente. E’ una cosa orribile. Hai perso i nostri momenti. Per colpa mia. E’ frustrante.”
Non risposi.
“Dammi una risposta.” disse lui.
Presi un foglio di carta dalla tasca e chiesi una penna a un tizio che passò.
Scrissi: “Non avevi detto che non volevi sentirmi parlare?”
“Voglio invece, ne ho bisogno.”
“Che razza di lunatico sei?”
“Sono solo un essere umano.”
Lo guardai male, la sua risposta non mi soddisfaceva.
I suoi cambiamenti improvvisi, mi infastidirono.
“Usa le parole.” disse lui.
“Per fare cosa?”
“Per dirmi se mi odi, o no, o cosa stai pensando di me.”
“Non so cosa dirti, io non so chi sei.”
“Già, tu non mi conosci. Ma chi pensi che io sia?”
“Sei Leo.”
“Almeno questo…” disse con un tono di voce basso.
Diventai un po’ triste, i pensieri in testa iniziarono a girare come un uragano, finchè lui non li interruppe: “Neanche io so chi sono.”
Come faceva a non saperlo?
Io lo sapevo.
Io per esempio,  ero Giorgia, no?
Giorgia, una ragazza.
Avevo i capelli rossi, abbastanza magra…
Ma per il resto?
Ma per il resto cos’ero?
Ero Giorgia.
Ma Giorgia cosa voleva dire?

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. ***


Chiedo scusa per aver pubblicato così tardi per vari motivi, spero vi piaccia il capitolo e anche la storia in generale, buona lettura!

Due mattine dopo mi risvegliai nel letto di un ospedale.
“Di nuovo.” Pensai.
Era tutto decisamente troppo bianco.
Accanto a me c’era un tavolino sul quale vi era poggiato un vassoio: insalata senza un minimo di condimento, e una mela ammaccata.
Che schifo.
Sulla parete dietro di me c’era un quadro:  “L’urlo” di Edvard Munch.
Inquietante.
Per quanto poteva essere forte il messaggio di quel quadro, e per quanto potesse essere interessante, non valeva come qualcosa di rassicurante per un ospedale.
Che puzza.
C’era un odore di vecchio, e per quanto possa sembrare banale, anche di malato.
“Cosa ci faccio qua?” pensai ancora.
Sul comodino vi era una campanella che potevo suonare se mi servisse qualcosa.
Mi ricordava troppo l’Inconscio per usarla.
Ma la usai lo stesso.
La feci squillare, ma non arrivava nessuno.
Ripetei il procedimento per circa cinque volte, e qualcuno si degnò di venirmi ad aiutare.
Entrò un’infermiera.
“Hai bisogno di qualcosa?” disse con un’aria un po’ stanca.
Mi faceva un po’ pena quando pensavo all’odore che doveva subire ogni giorno.
“Perché sono qua?”
“Lo chiedi a me?”
Non le risposi, mantenemmo il silenzio per qualche minuto, finchè lei non lo interruppe: “Aspetta, tu sei la ragazza dell’incidente senza memoria?”
Che tatto e che sensibilità.
“Si, grazie per averlo specificato.”
“Chiedo perdono….” disse un po’ vergognata.
Silenzio, di nuovo.
L’infermiera si affacciò dietro alla porta per dare un’occhiata nel corridoio.
“Oh, ma guarda un po’, un visitatore! Ti lascio con il tuo parente o chiunque sia…” e scappò, noncurante dell’orario di visita che in quel momento sarebbe dovuto essere proibito.
Entrò mia madre.
“Ciao.” mi disse.
“Ciao…Perché sono qui?”
“Sei svenuta. Mentre stavi con Leo.” disse irritata.
“Che cos’è tutta questa rabbia?”
Esitò per un po’.
“Devi stare attenta, Giorgia. Non voglio vederti con Leo. Ti ha fatto del male una volta, ora casualmente stai con lui e rifinisci in ospedale. Quel ragazzo dovrebbe andare all’inferno.” Disse con asprezza.
Non riuscivo a capacitarmi di quelle parole.
Mia madre diceva questo?
“Disse la donna che mi mentì.”
Mi guardò storto, facendo finta di non rendersi conto cosa intendevo.
Poco dopo capì che parlavo di tutta quella storia di Davide.
“Beh io…”
“No, lascia stare.”
Se ne andò senza proferire parola.
Quella donna era strana.
L’infermiera di prima tornò.
“Sei libera. Tua madre ha firmato all’entrata il consenso per la tua uscita, cerca di riprenderti.” disse tentando di fare un occhiolino che però non le veniva.
Presi le mie cose e  puntai subito verso l’uscita.

Non potevo continuare a stare in quella casa.
Mia madre o non c’era mai, oppure contestava tutto ciò che dicevo o facevo quando c’era.
Avevo associato lei e il colore del suo nome alla gentilezza.
Sarei stata da Leo per un po’.
Mi fece uno squillo e scesi, sapendo che lui stava sotto ad aspettarmi in macchina.
Continuava ad esitare prima di abbracciarmi, non sapeva se poteva farlo o no.
Neanche io lo sapevo, quindi rimandai il momento.
Quando arrivammo spense la macchina e salimmo nel suo appartamento.
“Beh…questo sarà il tuo letto” disse conducendomi nella sua stanza “io userò il divano.”
“Ma…” stavo per precisare che il letto era a due piazze, ma mi resi conto che non era il caso.
“Niente, grazie mille.”  mi limitai a dire.

Eravamo rimasti in silenzio per un po’, finché lui non lo spezzò.
“Hai fatto colazione?”
“No.”
“Bene, neanche io, ti va se vado a prendere dei cornetti al bar qua sotto?”
Feci un cenno di consenso con la testa.
“Semplice, crema o cioccolato? Da bere vuoi qualcosa di particolare? Qua ho tè, latte, caffè…”
“Stai tranquillo, mi va benissimo un po’ di latte. Comunque il cornetto al cioccolato.”
Accennando un sorrisetto disse: “Come sempre…”
Quindi prese il portafoglio e scese giù.
Mentre lo aspettavo andai nella sua stanza, che avrei utilizzato io.
Tastai la coperta, e mi ci avvicinai col naso.
Sapeva di lui.
Sapeva meravigliosamente di lui.
Continuavo a chiedermi perché il destino avesse voluto farmi dimenticare tutto.
L’unica cosa che riuscivo a capire era che a Leo, volevo un bene enorme.
Sentii uno scatto nella serratura della porta, era tornato a quanto pare.
“Ecco i cornetti!” disse esultando come un bambino.
Ci sedemmo sul tavolino della cucina.
“Latte freddo o caldo?”
“Freddo.”
Mi portò il bicchiere e si sedette davanti a me.
Iniziammo a mangiare, e io divorai il mio cornetto.
Mi guardò ed iniziò a ridere: “Sei tutta sporca!”
Mi porse un tovagliolo con cui pulirmi il viso.
Dopo aver mangiato andammo a vedere la tv sul divano, in salotto.
Girammo minimo una ventina di canali, e non c’era niente di interessante.
Mentre cercava attentamente qualche programma decente, io lo osservavo.
Dio se volevo avvicinarmi a lui di più, e magari baciarlo. Sì, baciarlo.
Non capivo cosa mi passava per la testa.
Avevo voglia di avvicinarmi, ma dovevo controllarmi.
Com’è che si baciava?
Non riuscivo a ricordarlo, ma pensavo sarebbe dovuto venire naturale.
Il controllo che speravo di mantenere non c’era più ormai.
Mi avvicinai a lui, gli presi il mento in modo da farlo girare verso di me e avvicinai le mie labbra lentamente sulle sue.
Esitò per un po’, ma poi non aspettò per far si che la sua lingua si facesse spazio nella mia bocca, trovando la mia e giocandoci.
Sembrava quasi si rincorressero.
Non sapevo più dov’ero, e non mi importava.
Non percepivo i rumori della tv, ma non era importante.
Niente importava.
Percepivo solo lui, e le sue braccia attorno a me.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. ***




Ci trascinammo sul letto.
Mi ci poggiò, e si adagiò su di me, iniziando a baciarmi con foga.
Mi tolse la maglietta senza esitare, e così anche con i miei jeans, facendo sì che rimasi in intimo.
Feci lo stesso con lui, tolsi la sua polo con bramosia, e sbottonai i suoi pantaloni, buttandoli per terra.
Pelle contro pelle.
Iniziò a scendere sempre più giù, dandomi piccoli baci sul collo, fino ad arrivare ai miei seni .
Mi slacciò delicatamente il reggiseno, e continuò più giù, togliendomi anche gli slip.
Lo sentii assaporare tutto il mio corpo.
Le sue labbra scorrevano su di me.
“Oddio, sei perfetta!”
Capovolsi la situazione mettendomi a cavalcioni su di lui, e baciai le sue labbra per iniziare.
Scesi sul pomo d’Adamo, e diedi molti piccoli baci sul suo petto.
Gli tolsi l’intimo, e giocai un po’.
Sfioravo il suo petto e i suoi capezzoli in modo molto delicato, quasi per fargli solletico.
Gemette.
I nostri respiri affannati iniziarono a farsi sentire sempre di più.
Catapultò di nuovo la situazione.
Con la mano accarezzò il mio interno coscia, e alzò le mie gambe per poi allacciarle sui suoi fianchi.
Iniziò a fare dei movimenti, prima minimi, poi un po’ più veloci, entrando dentro di me.
Lo sentivo. Lo sentivo diventare una parte di me, stavamo letteralmente diventando una cosa sola.
Lui era me, e io ero lui.
Io ero occupata dalle sue mani, lui dalle mie.
Stavo impazzendo.
Iniziai a tirare fuori un po’ di urla, che lui soffocava con baci voraci, e così facevo io con lui.
Avvinghiai bene le mie braccia sulla sua schiena, graffiandola pesantemente.
Lui teneva le sue mani un po’ più sopra delle mie spalle, quasi strappando i cuscini per sfogo.
Avevamo emozioni  da troppo represse, da troppo in attesa di essere sfogate.
Avevamo amore da scambiare.
Era un momento perfetto, e come urlava il mio nome!
“Giorgia” era stato ripetuto dalla voce più sublime che potessi mai udire.
E anche nel modo migliore.
Io non dissi niente, ero troppo occupata dal cercare di archiviare nella mia mente tutto ciò che stavo provando.
Raggiungemmo l’apice, prima lui, e due secondi dopo io, che mi sdraiai su di lui, per poi addormentarmi.
“Ti amo.” disse ancora con il fiato corto.
“Anche io.”
Finalmente ero sicura di qualcosa.

Ero libera, per la prima volta.
Chi sei, Giorgia? Di nuovo.
Mi sentivo libera, ma allo stesso tempo strana.
Forse la libertà dava un certo senso di frenesia che non ero abituata a provare.
Andai in cucina, vidi che non c’era praticamente niente e decisi di fare la spesa.
Ma prima dovevo farmi una doccia.
Entrai sotto al getto di acqua calda, che mi faceva sentire meglio, l’acqua mi era amica.
Sì, mi era amica, perché a lei permettevo di toccarmi ovunque, di farmi stare meglio di farmi pensare. E lei rispondeva con delle gocce di consolazione. “Qualunque cosa accada, non piangere, saresti brutta. Verserò io delle lacrime per te.” Voleva dire, secondo me.
L’acqua, così taciturna, ma piena di conforto.

Avevo quasi paura, non ero abituata.
Avevo paura. Cosa poteva accadere dopo?
Io sapevo, ne ero sicura, che la mia vita non sarebbe andata avanti normalmente.
Non c’era un motivo, doveva semplicemente essere così.
Non riuscivo a credere che di punto in bianco, tutto poteva cambiare da negativo a positivo.
Ma tutti quei pensieri contribuivano solo a mandarmi in fumo il cervello. Andai a fare un po’ di spesa.
Rimasi nel supermercato per tanto tempo, non sapevo bene cosa prendere, ma riuscii a decidere, sperando che le scelte fossero giuste.
Tornai a casa di Leo, e come benvenuto trovai uno sguardo sconvolto.
“Temevo fossi scomparsa dalla mia vita un’altra volta.”
Non sapevo cosa rispondere.
“Ho fatto la spesa.”
“Non te ne andare di nuovo, per favore.”
“Leo…sono solo andata a fare la spesa. La prossima volta lascerò un bigliettino, promesso.”
“Non intendo questo. Dico in generale.”
“Oh…”
Una lacrima solcò il mio viso.
Perché dovevo essere così drastica?
Non potevo essere semplicemente felice di aver passato una notte bellissima?
Perché dovevo sempre ripensare a ciò che teoricamente era già il passato?
Perché dovevo trovare nuovi problemi in tutte le situazioni?
“Che c’è?” chiese.
“Ho paura.”
“Di cosa, tesoro?” si avvicinò.
“Di perdere tutto.”
Pausa di silenzio.
“Io non voglio soffrire.”


Ok si ho aggiornato tardi scusate c.c
Se vi piace la mia storia, vorrei puntualizzare che a me ricevere recensioni non dispiace mai, quindi fate pure xD

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Capitolo 14
*** Fine. ***


Ebbene sì, siamo giunti alla fine di "Inconscio".
Lo so: 14 capitoli sono pochi. Ma ho preferito finire la storia adesso invece che inventarmi qualcosa che l'avrebbe fatta "calare", se si può dire così. 
Mi sono affezionata molto ai personaggi che io stessa ho creato, soprattutto Giorgia, attraverso la quale ho potuto sfogarmi in dei momenti "bui" e utilizzare la mia creatività mentale, ed è per questo che mi dispiace molto concludere. Ma rimarrà comunque nel mio cuore.
Dopo queste righe "strappalacrime" (ma neanche troppo!), vorrei ringraziare tutti quelli che hanno seguito e recensito, in particolare:
-Blackmidnights, la quale non ho più sentito per molto tempo, ma è stata la prima e grazie a lei sono andata avanti.
-Canada, che mi ha dato enorme piacere con le sue lunghe e colte recensioni.
-livia, che mi ha anche accolto gentilmente nel suo blog.
E anche le altre come ocean_ e GreenEyes97.
Buona lettura!

P.S.: questo capitolo, anche se è l'ultimo, mi dispiace deludervi ma è MOLTO corto, più un epilogo diciamo.



“E io te lo giuro, giuro che non soffrirai!” disse Leo mentre stavamo in macchina.
Direzione? Boh, la sapeva lui.
“Attento Leo…”
“Attento a cosa? A ciò che dico? Ne sono sicuro Giò…” diceva finchè non lo interruppi.
“No, attento alla macchina davanti…”
“Macchina? Quale macchina?”
“Ok no forse l’hai schivata.” dissi.
“O forse no…Leo attento!” continuai.
Stavo rivivendo l’incidente di nuovo?
Avevo finalmente avuto dei chiarimenti.
Mi sobbalzava lo stomaco a causa dei movimenti che stava facendo Leo con la macchina.
Schivata!
No, di nuovo.
Potrei dire che era tutto a rallenty, visto che un semplice incidente di durata massima due minuti, mi risultava stesse durando ore.
‘Di nuovo’ pensai.
D’un tratto non capii.
Stavo vivendo un nuovo incidente/trauma, o no?
Mi sembrava anche un po’ inverosimile.
Sembrava un incubo, non la realtà.
“Giorgia, scusa, scusa, scusa!”

“Scusa, scusa, scusa!” sentii come voce di sottofondo.
“Fermi! Ha mosso le palpebre.”
“E’ viva?!” la stessa voce che diceva ‘scusa’.
“Forse dopo tre settimane di coma si sta risvegliando.”
“Ma poi cos’era quella parola che continuava a mormorare?”
“Non era forse ‘Inconscio’?”
“Beh, possiamo allora ribadire quello che ha detto l’infermiera: forse dopo tre settimane di Inconscio si sta risvegliando.”
“Ma vi sembra il caso di fare queste osservazioni insensate? La mia ragazza si sta risvegliando forse, concentratevi su quello.”
“Leo, un altro incidente?” dissi io aprendo gli occhi di scatto, e sorprendendo tutti.
“E’ viva! Giorgia, oddio quanto mi sei mancata!” disse Leo.
Diedi un’occhiata agli altri presenti nella stanza, felici anche loro, sembrava.
“Aspetta, cosa hai detto? Un altro incidente?”
“Si, beh dopo quello di tempo fa…”
“Giorgia, tutto apposto?”
“E’ ovvio che non è tutto apposto deficiente, si è appena risvegliata.” disse quella che penso fosse mia madre.
“Scusa, da quant’è che sto ferma qui? E quanti incidenti abbiamo fatto? E non c’è stato il periodo in cui non sapevo chi eri?”
“Tre settimane. Un incidente. E no, non mi sembra.”
“Uhm.”
“Giorgia, cos’è l’ ‘Inconscio’? E’ una parola a te familiare?”
“Sì, fin troppo.”

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