Forbidden Love - Amore Proibito

di Khadija
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Forbidden Love - Amore Proibito

 

 

 

Edward pov:

 

La sveglia suonò dirompente alle 6:30 del mattino, come suo consueto fare. Nonostante le tapparelle erano ancora abbassate, da qualche spiraglio, proveniva un chiaro bagliore che illuminava per metà la moquette bordeaux. Ero seduto sul ciglio del mio letto da ormai quasi mezz’ora, con la testa fra le mani, e la mente occupata da mille pensieri. La sigaretta si era spenta soltanto da poco, e nell’aria ormai aleggiava l’odore insistente del fumo, e le due birre che mi ero appena tracannato erano riverse sul pavimento. Il telefono, posto accanto a me, squillava insistente, una volta, poi due, poi tre, fino a quando non si spense definitivamente. Non avevo bisogno di guardare il nome, per sapere chi era. Ormai tutto di lei irrompeva nella mia vita, e come una cane fedele al suo padrone, lei con la sua ossessione  voleva avere almeno un minimo di rapporto con me. Dopo l’accaduto, tutto era cambiato. Dico tutto, escluso i miei sentimenti. Volevo rispondere. Volevo sentirla, e mai era stato così forte il desiderio di averla accanto, come allora. Di stringerla fra le mie braccia, e inebriarmi del suo dolce profumo. I miei occhi si colmarono di lacrime, ma alzando la testa verso il soffitto, orgoglioso com’ero, le ricacciai dentro, evitando che anche la minima goccia finisse sprecata. Perché quello era uno spreco, pensare a lei come non avevo mai pensato nessuno, pensare ad un possibile futuro, e di vedermi accanto a lei proprio in quel distinto futuro, che ormai da giorni era uno sfocato ricordo. Lei doveva diventare il ricordo di una bella esperienza che avevo vissuto. Niente di meno, niente di più. Dovevo cambiare, e rinchiudere gli ultimi quattro mesi passati, in una remota parte del mio cuore. Avrei cominciato da lì. Da quella stretta camera di un malaticcio motel.

Isabella pov:                                            

 

I giorni si confondevano l’uno con l’altro. Sembrava un’eternità, ma erano passati solo due giorni dal mio arrivo.

L’arrivo a Forks era stato uno dei miei più lunghi e scoraggianti viaggi. Lungo il tragitto in aereo non avevo potuto fare a meno di soffermarmi sul perché della mia improvvisa partenza, anche se la risposta era una sola e io la conoscevo bene. Trovare mia madre intenta a riempire frettolosamente la mia valigia, buttandoci dentro qualche vestito stropicciato, senza proferire parola, indicandomi solo con un cenno del capo il biglietto di sola andata per Forks, posto in bella vista sul comodino, accostato a una lettera che mia madre aveva scritto con “affetto” per me, era stata una delle scene più divertenti di un’intera esistenza. Sembrava tutto ancora così irreale, ma essere cacciate di casa non era poi così male. Aveva sicuramente i suoi lati positivi, come il fatto di avere indubbiamente più libertà. Il fatto di non dover più dar conto a nessuno. Non dover più giustificare i tuoi sbagli, e in un certo modo poter finalmente e incondizionatamente vivere la tua vita e non quella che qualcuno sogna e ti impone.
Tutto questo fino a quando non scopri di dover andare a vivere da tuo padre che peraltro è sceriffo.
Niente di più ironico.

Quella mattina presi il biglietto, ma lasciai sotto gli occhi di mia madre, pieni di lacrime, la lettera. Posai le chiavi di casa sul letto, così come anche quelle della macchina.
Presi di petto quella situazione. Avevo imparato a gestire le mie emozioni, così come avevo imparato a essere responsabile e a cavarmela da sola. Se anche era mio diritto ricevere spiegazioni, non le chiesi. Il suo sguardo diceva molto.

Era rimasta incinta di un altro uomo. Un uomo che a malapena conosceva. I soldi scarseggiavano, e io ero senza ombra di dubbio un peso troppo grande da gestire. Dio sa solo quanto però mi dispiacesse per la povera creatura che di lì a breve sarebbe nata.
A nessuno avrei mai augurato una vita infelice, deprimente e solitaria come la mia, fatta solo di rinunce, e che solo una madre come la mia aveva da offrirti.

Non la salutai. Presi la valigia e uscii fuori, inspirando per l’ultima volta l’aria afosa di Phoenix. L’uomo di mia madre, dal nome ignoto, si offrì di scortarmi fino all’aeroporto, ma schifata dal suo sguardo eccitato che correva lungo tutto il mio corpo, rifiutai.

«Fottiti»,era stato ciò che mi aveva, per la prima e l’ultima volta sentito pronunciare. 

Tirai fuori dalla tasca del jeans il cellulare. Non esitai a chiamare Alice. Lei unica e inseparabile amica fidata.
Nemmeno il tempo di sedermi che subito si presentò di fronte a me, con il suo pick-up rosso fiammeggiante. Tre valigie sul retro del furgone. Era pronta a partire con me, era pronta a intraprendere quel percorso con me. Non potevo, infondo, definirmi proprio sola.
Lei c’era, e ci sarebbe stata.

Non sapevo bene cosa aspettarmi. Non sapevo come ricrearmi una vita. Non sapevo nemmeno se era possibile. Non avevo una base solida a cui appoggiarmi. In bilico… tra tutti i miei “vorrei”. Sorretta da un’insensata voglia di equilibrio.

Quella sera non dormii molto bene pur avendo un letto comodo, a causa dei sogni strani. Sotto la mia finestra, un cane ululò tutta la notte e forse era quella la causa, come potrebbero esserlo le patatine alla paprika perché bevetti tutta l’acqua della bottiglia senza riuscire a spegnere la sete.
Verso mattina mi addormentai, e fui risvegliata da un insistente bussare alla mia porta.

Avevo scordato, ma quello sarebbe stato il mio primo giorno di scuola. Chissà perché, ma l’idea non mi allettava per niente. Ma avevo ancora diciassette anni, e fino ad allora ero sotto la tutela di un genitore. Che sia un padre o una madre, non faceva la differenza. Il problema era se tali gli avrei dovuti definire.

Un padre che si risveglia, e si accorge di avere una figlia, dopo diciassette anni. Una madre alcolizzata, che se non avessi avuto un padre,mi avrebbe sicuramente venduta per qualche dollaro.

No, non potevano essere, da me, definiti genitori. Non lo erano, e mai avrebbero imparato a esserlo.

Seppur con qualche sforzo, Charlie era però riuscito a garantirmi un posto accogliente in cui dormire. E mi stupii del fatto che, senza alcun indugio, accettò di far vivere con noi anche Alice. Ero pronta a scappare, se solo la sua risposta fosse stata negativa. Forse, lui sapeva che molto probabilmente avrei preso quella decisione. “Meglio non rischiare”, sicuramente pensò.

Quando sia io che Alice eravamo pronte a partire verso scuola, senza però la macchina di quest’ultima, che purtroppo aveva lasciato a Phoenix, una delle sorprese più belle e inaspettate fece capolino lungo il portico di casa nostra. Un pick-up chevy di un rosso scolorito faceva bella mostra di sé. E quante volte avevo sognato che qualcuno mi regalasse una macchina.

Dall’auto scese un Charlie impacciato.
«Non è un granché, ma con un po’ di manutenzione potrà tornare la vecchia signora di una volta» rise grattandosi la testa e guardando la macchina.
«E’ quello che posso offrirti. Spero ti piaccia» disse infine avvicinandosi a me con passo felpato. Prese la mia mano e vi posò le chiavi. Avrei voluto abbracciarlo o solo anche ringraziarlo. Ma non lo feci. Non ci riuscii.
«Perdonami Bella» è ciò che disse prima di lasciare me e Alice da sole.
«Dovresti perdonarlo. Sembra veramente intenzionato a cambiare. Una seconda possibilità non si nega a nessuno» disse Alice con tono accusatorio.
«Andiamo» dissi io schiarendomi la voce, per non far trapelare nel mio tono quel senso di angoscia misto a felicità. Avrei voluto piangere, ma come tante altre cose, non lo feci.

La scuola distava solo poche miglia. Già mi preparavo mentalmente a ciò che avrei dovuto subire in quella giornata. Avrei preferito la morte a quello. Uno scenario alquanto pauroso. Un branco di ragazzine squittanti, corse davanti la mia auto e quasi non le investivo.
Diverse cheerleader che saltavano da una parte all’altra, mettevano in bella mostra il loro fisico palestrato e senza alcuna imperfezione. Un gruppo di maschioni pompati ridevano e fischiavano ad alcune ragazze dall’altro lato della strada. Quello era l’inferno.
Era, invece, di tutt’altro parere Alice, che emozionata scese dalla macchina appena riuscii a trovare un parcheggio, preferibilmente più lontano rispetto alle altre auto. «Questo è il paradiso, Bella» urlò, indicando la possente struttura.
«Qui potremmo rifarci una vita! Ne sono sicura. Dai, muoviti!» mi incitò, prendendomi per un braccio e cominciando a saltellare verso l’entrata della scuola. Non sapevo se era solo la mia fervida immaginazione che mi giocava brutti scherzi, ma ero sicura che metà scuola si fosse fermata a guardarci. Alice non notò nulla, e a me non importò più di tanto. Ero abituata a essere guardata con circospezione, con disprezzo e quant’altro. Forse, però ero solo un po’ paranoica.

Ferma nell’aria frizzante del mattino, fui percorsa da un brivido. Tirai su la zip della felpa con il cappuccio, poi continuai ad avanzare verso l’entra, preceduta da Alice.
Sentivo che qualcuno mi guardava. Il parcheggio si era ormai svuotato e diversi ritardatari non fecero nemmeno caso alla mia figura immobile.
Era pazzesco, ma non riuscivo a liberarmi dalla sensazione che da qualche parte ci fosse qualcuno, in agguato là vicino ma nascosto al mio sguardo. Tutto era immobile. Quel silenzio cominciava a inquietarmi, così procedetti facendomi strada rumorosamente, tanto per sentire qualche suono.
«Che idea stupida» pensai raggiungendo la segreteria con l’intento di chiedere il foglio con le lezioni che avrei dovuto sopportare quel giorno. “Negli ultimi tempi ho passato troppe notti a guardare film” pensai ancora. Mi girai comunque, guardandomi ancora intorno alla ricerca di qualche movimento fra gli alberi e cespugli che circondavano la struttura. «Tieni!» disse la segretaria, porgendomi seccata il foglio.

Mi diressi verso l’aula 14. Biologia alla prima ora. Fantastico!

Esitai, davanti la porta dell’aula, quando sentii la voce del professore che imprecava contro uno studente distratto. Bussai, e frettolosa entrai dentro. Il professore senza presentarmi mi disse di accomodarmi. Il posto accanto al mio era vuoto.

Per il resto della lezione, mi ero limitata a sbadigliare. Non potevo credere che avrei passato sei ore in quel modo. Fra una lezione e l’altra.
Quando uscii dall’aula, dopo aver aspettato che uscissero tutti gli altri, mi incamminai verso il bagno, quando improvvisamente andai a sbattere contro qualcosa o qualcuno. Un profumo suadente mi invase le narici, e quasi non cadevo a terra, se non fosse stato per il braccio di lui che mi sorreggeva. Due occhi verdi si incatenarono ai miei. «Perdonami» mormorò lui, accennando un sorriso. «N-no, perdonami tu!» esclamai, sorridendo a mia volta.

«Sei nuova?» chiese infine, accorgendosi forse, del mio più totale e plausibile imbarazzo. Feci cenno di si. Reagisci Bella, pensai.

Hai di fronte a te un uomo fantastico, quasi etereo, che ancora ti sorregge, con il suo braccio intorno alla tua vita, e tu che fai? Non parli. Decisamente la “conversazione” più imbarazzante di tutta la mia vita.

«Devo proprio andare, ora. E’ stato un piacere…»si fermò lui, non sapendo ovviamente il mio nome. «Isabella, ma puoi chiamarmi semplicemente Bella» affermai. Un secondo dopo il ragazzo annuì lento e mi lasciò ricompormi.

«Edward Cullen. A presto Isabella. Scusa, Bella» si corresse sorridendomi ancora.

«A presto» mormorai io, assuefatta ormai del suo profumo.  

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Forbidden Love - Amore Proibito

 

 

 

Isabella pov:

Erano le quattro del mattino, maglietta leggera, scarpe da ginnastica, e cominciai a correre, stranamente senza sentire freddo.
Il mio corpo profumava più del solito quella notte, fresco nel vento, di quel profumo rassicurante che spesso mandava.
Correvo senza mai fermarmi, i muscoli che dolevano, ma era un dolore sopportabile, che preferivo ignorare.
Era come se il mio corpo non esistesse, non mi appartenesse più.
Alzai il volume della musica, accelerando quella corsa sfrenata, senza mai fermarmi, senza guardarmi indietro. Senza sapere dove andare.

I wish I was free of this
I see her in my dreams
Wish that she wasn't there.

La vedo. La vedo nel mio sogno tendermi le mani, le sue labbra accennano a un sorriso, il suo volto, incorniciato da una folta chioma castana, ha un espressione dolce e serena, ma solo all’apparenza. Dai suoi occhi traspare un senso di sofferenza e infelicità, che sempre hanno caratterizzato il carattere di mia madre. Quasi sento il bisogno di abbracciarla e rassicurarla.

“No, dannata”. Ancora soffoco nelle sue bugie, nel suo odio. Nel suo disprezzo.

Saltai un tombino aperto. Mi fermai a guardare il baratro. Probabilmente saranno stati 12 piani.
Il vento soffiava tra i miei capelli: 12 piani, 43 metri, 3 secondi netti in caduta libera, ma non mi importava, sarei potuta morire in quel preciso istante, e non me ne sarebbe importato nulla. Alzai ancora il volume della musica per cercare di non sentire più nemmeno i miei pensieri. Correvo via dalla rabbia. Pura rabbia, violenta e irrefrenabile. Mi fermai solo quando cominciai a sentire i polmoni bruciare, e perfino le ossa dolere.
Di quella volta ricordo di aver pianto come mai prima. Lacrime che scendevano copiose lungo le guance. E non c’era modo di fermarle. Troppo fragile. Troppo stanca. Stanca di combattere contro il mio passato. Stanca di portarmi dietro quel rancore. Ero convinta di aver finalmente imparato a gestire le mie emozioni, ad accatastare in una remota parte del mio cuore ciò che mi aveva profondamente segnato in passato. Non era così. E ciò mi rendeva ancora più furiosa.

Quando ero piccola provavo molta invidia per le altre bambine perché avevano una mamma sempre pronta a difenderle e a sgridare chi gli portava via un giocattolo o dava loro uno spintone. La mia non interveniva mai. E quando correvo a lamentarmi per una prepotenza o un dispetto, l’invariabile risposta era: «E tu che cosa hai fatto?». Tutto ciò portò all’edificazione di una specie di corazza, intorno a me, che con gli anni e gli avvenimenti drammatici si rafforzò notevolmente. Spesso la sera mi soffermavo nel letto a pensare, e tante volte anche involontariamente, una lacrime scendeva lungo la mia guancia. Pensavo a quanto l’infanzia avrebbe dovuto corrispondere ad una fase della vita spensierata e priva di responsabilità. E per molte altre bambine era così. Ma non per me. Pensavo a cosa avesse mai potuto fare di così dannoso una bambina di soli cinque anni, per essere riuscita a farsi trattare in quel modo? A farsi odiare… in quel modo. Dicevo di aver imparato a sopportare, a fingere di ascoltare, anche solo a capire, ma non era così. Le continue ingiurie che Renee mi lanciava, gli sguardi riottosi e di puro odio, la consapevolezza che fossi un peso, un rifiuto, facevano male, e a quanto pare il ricordo è ancora più doloroso.

«Buongiorno». Papà mi rivolse uno sguardo mentre versava del caffè in un thermos. «Devo partire per diversi giorni. A Seattle. Un caso di massima urgenza, diciamo. Penso che per il prossimo lunedì sarò di ritorno». Battei le palpebre diverse volte; avevo la vista annebbiata. Sentivo il corpo pesante e intorpidito dalla corsa. «E’ inutile che mi parli. Sto ancora dormendo» mentii. Attraverso la nebbia cominciai a sentire un leggero senso di colpa, per non essere stata più gentile. Non lo vedevo da anni, e ora sarebbe partito anche se per poco tempo, ma era passato ancora più tempo dall’ultima volta che avevamo avuto una conversazione che meritasse di essere definita tale. «Devo sbrigarmi. Ci vediamo presto Charlie» lo salutai con un gesto della mano e allontanandomi dalla cucina lo sentii sospirare rassegnato.

Alla prima ora scolastica avremmo dovuto avere lezione di musica, ma il professore, che ancora non conoscevo, era leggermente in ritardo. Pochi secondi prima che entrasse mi abbassai il cappuccio, spensi l’iPod e cominciai a fingere di leggere un libro. Il nuovo professore era favoloso. Lo sapevo senza neanche alzare lo sguardo. Era evidente. D’altronde come poteva essere altrimenti, se due ragazze di fronte a me cominciarono a bisbigliare eccitate. “Edward Cullen è l’uomo più figo che io abbia mai incontrato…” disse una biondina altezzosa, che avrei dovuto imparare a sopportare. Edward Cullen… E-e-edward?

Trattenni il respiro per un tempo indeterminato, mentre il cuore cominciò a scalpitare freneticamente. 

Trovai il coraggio di guardarlo solo quando mi giunse limpidamente il suono della sua voce. Una voce sensuale, calda, rovente… sconvolgente, e… oh mio dio!

Incontrai i suoi occhi verdi che mi guardavano, brillavano di una strana luce. Sorridevano, erano sinceri e maledettamente dolci. Sulle labbra morbide e sensuali stava nascendo un sorriso che non si voleva far notare. Dio, era così sexy in giacca e cravatta.

La prima volta che lo incontrai non feci caso ai particolari del suo viso, non c’era tempo. Ma poi… poi fu incredibile. Mi incantai nel guardarlo. Mi persi nel verde dei suoi occhi, nei suoi folti capelli ramati, scomposti ma comunque perfetti. Che incredibile visione.

Rimasi attenta per tutto il resto della lezione, intenzionata a fare una buona figura. Lo ascoltai parlare. Era senza alcuna ombra di dubbio un uomo di vasto, versatile e colto ingegno. Il modo in cui si esprimeva alla classe, mettendo enfasi e un pizzico di ironia in ogni frase, parola, anche nei silenzi. Riuniva possanza ed eleganza anche nel più banale dei movimenti e poneva precisione e raffinatezza perfino nella grafia.

Non ritenevo possibile che tante qualità, e chissà quante altre, potessero riunirsi in un’unica persona. Ma lui era la prova vivente. Un uomo esemplare.

Il suono della campanella che segnava il termine della lezione era quasi un dispiacere. Mi ero così abituata al suono della sua voce, che speravo non smettesse mai di parlare. Cominciai molto lentamente a raccattare i libri sparsi lungo il banco. Lentamente, perché ero seriamente intenzionata a rivolgerli la parola, anche solo un cordiale saluto. Quando anche gli ultimi alunni uscirono contenti dall’aula, mi preparai mentalmente un discorsetto efficace, ma andò tutto a farsi fottere quando sentii pronunciare il mio nome.

«Isabella…» ripeté Edward, quasi a volersi convincere che fossi io. Ero di spalle, e avrei voluto rimanere tale, ma sentivo il peso dei suoi occhi sulla mia figura immobile, e più che altro era solo questione di maleducazione non rispondere al proprio professore. Sospirai sconfitta e mi girai accennando un lieve e forzato sorriso.

«Professor Cullen» risposi di rimando, stringendo forzosamente i libri, che portai al petto pochi istanti dopo.

«Pensi che come primo giorno di lavoro sia andato bene?» chiese timidamente, portandosi una mano alla testa. Rimasi perplessa dinnanzi a quella domanda, ma feci cenno di si. «Alla grande. Incontrandola ieri non avrei mai immaginato che facesse il professore, anzi a dirla francamente supponevo fosse uno studente» affermai sinceramente. Rise di buon gusto. Che dolce melodia.

«Non sei la prima a dirmelo Isabella… sarà l’apparenza che forse inganna, o anche il fatto di essere abbastanza giovane per questo tipo di lavoro» ribadì. Evitai di chiedere quanti anni avesse, forse perché la paura di sembrare impertinente sovrastava la curiosità. Dunque sibilai pensosa un semplice «probabile…».

 

Rimanemmo entrambi in un imbarazzante silenzio, che durò diversi minuti. Cominciai a guardarmi attorno, a guardami i piedi, le mani. Cominciai a toccarmi i capelli, a mordermi le labbra. Mi sentivo così fuori luogo.

«Bhè non voglio trattenerti più del dovuto, rischiando così di farti tardare alla prossima lezione, perciò a domani… Bella» sorrise, ricordandosi di come il giorno prima gli avevo suggerito di chiamarmi con il mio soprannome. Sorridendoli a mia volta lo salutai e frettolosamente mi incamminai verso l’aula che seguiva.

Una volta fuori, una vocina mi sussurrò dentro un pensiero tentatore…

Un pensiero che subito depennai.

Angolo autrice:

Salve a tutte quante. Allora inizio ringraziando con il cuore chi mi segue, e continuo con il dire che come avete letto voi stesse, in questo capitolo più che altro viene fuori tutto il dolore e tutto l’astio di Isabella nei confronti della madre. Questo è un argomento che sicuramente approfondirò più avanti. Spero comunque che non sia stato troppo noioso, e in caso fatemi sapere. Ci terrei veramente tanto.

Vi mando un bacio e alla prossima.

:*

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