Sorcerers' Dreaming

di Shark Attack
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La leggenda di Aldeolar ***
Capitolo 2: *** Portale per Bastreth ***
Capitolo 3: *** I Quattro fratelli ***
Capitolo 4: *** Quando si è Soli ***
Capitolo 5: *** Duplice Grotta ***
Capitolo 6: *** Duplice Inganno ***
Capitolo 7: *** Giochiamo ***
Capitolo 8: *** Corpi Freddi ***
Capitolo 9: *** Arancione Casa ***
Capitolo 10: *** Il Sole splende per Tutti ***
Capitolo 11: *** Regole di Vita ***
Capitolo 12: *** Phil ***
Capitolo 13: *** Insistenza ***
Capitolo 14: *** Il Male Minore ***
Capitolo 15: *** Lo strano Trio ***
Capitolo 16: *** Il Costo ***
Capitolo 17: *** Veleni ***
Capitolo 18: *** I mal'Kee ***
Capitolo 19: *** Primo Approccio ***
Capitolo 20: *** Rivelazioni ***
Capitolo 21: *** Un Tavolo per Nove ***
Capitolo 22: *** Riflettere ***
Capitolo 23: *** La Festa ***
Capitolo 24: *** Postumi, sorprese e domande ***
Capitolo 25: *** Incontro Ravvicinato ***
Capitolo 26: *** I dipinti parlano ***
Capitolo 27: *** Di sigilli e di Fiducia ***
Capitolo 28: *** Signori, la cena ***
Capitolo 29: *** Piani ***
Capitolo 30: *** Fine dei Giochi ***
Capitolo 31: *** Basta una Telefonata ***
Capitolo 32: *** Muri e Pareti ***
Capitolo 33: *** L'ex-consigliere ***
Capitolo 34: *** Questa è la nostra Missione ***
Capitolo 35: *** Il Fiore Nero ***
Capitolo 36: *** Rosa del Deserto ***
Capitolo 37: *** Addio ***
Capitolo 38: *** Marmo Incrinato ***
Capitolo 39: *** AVVISO AI NAVIGANTI ***



Capitolo 1
*** La leggenda di Aldeolar ***





”Ho vissuto dentro ad un incubo per così tanti anni che ormai era diventato quasi piacevole. Avevo sempre paura, terrore di poter finire male, con l'anima divorata, senza riuscire a raggiungere la superficie, paralizzato o intrappolato in cose orribili che nessuna creatura vivente potrebbe mai immaginare.
Ora che tutto è finito... sono di nuovo al mondo, nella pace e mi sento male.
Laggiù potevo sempre aspettarmi il peggio ed ero allenato. Ma qui, ora, cosa posso aspettarmi?
Del bene? Affetti, calore, bontà?
Non sono preparato.”

[Memorie di Aldeolar, estratto del volume 2, edizione 139 l.k.]



SORCERERS' DREAMING



1
La Leggenda di Aldeolar



Nehroi scese vittorioso dalla scala della libreria, agitando con il braccio sinistro un voluminoso tomo di mitologia antica.
«Guarda un po' cosa ha trovato il genio di famiglia?», gongolò alla sorella, arrampicata sulla scala alle sue spalle. «Sono o non sono il miglior cercatore di...»
«Passa e taci!»
Il ragazzo soppesò il volume e un sorrisetto beffardo gli si dipinse sul volto mentre lo lanciava senza avvertire verso la testa di Savannah, di spalle e con un braccio teso verso di lui. Il libro fece una parabola in aria, sfiorando l'enorme lampada al neon che illuminava a stento gli scaffali, lasciando una scia di polvere dietro di sé, e stava per piombare violentemente sui capelli neri della ragazza quando si fermò ad appena un centimetro da loro, come se fosse appeso al soffitto da un filo.
Savannah si voltò lentamente, gli occhi ridotti a due fessure e il libro ancora sospeso sopra di lei. «Molto maturo, complimenti», sibilò acida.
«Non eri tu quella che voleva impratichirsi di più con gli incantesimi sulla Terra?», rispose innocentemente Nehroi facendo spallucce.
La ragazza abbassò un angolo della bocca con disappunto. «Questo non è un incantesimo», borbottò mentre il libro si depositava dolcemente sul suo braccio ancora teso.
Saltò giù dalla scala e prese posto ad un tavolo lì vicino, iniziando a sfogliare il tomo mentre il fratello la imitava e si sedeva di fronte a lei. Portò due dita sotto il collo della maglietta e ne estrasse un ciondolo di legno bianco decorato in oro per giocherellarci nell'attesa.
Le pagine frusciavano rumorosamente mentre Savannah le girava rapida in cerca del documento di interesse. «Sai che non devi mostrarlo in giro», lo ammonì.
Nehroi si guardò attorno con spavalderia, indicando il muro alle sue spalle e gli scaffali straripanti di libri ai suoi lati, tanto pieni che a stento si intravedeva qualcosa del resto della biblioteca. «Davvero credi che qualcuno possa riconoscerlo? Qui? O anche solo vederlo....»
«Il contatto con il calore corporeo gli fornisce l'energia necessaria a proteggerti, non dovresti tenerlo così», proseguì lei ignorandolo come se non avesse parlato.
«Lo sto toccando anche ora e mi ritengo sufficientemente protetto per...»
«Rimettilo a posto!»
Nehroi si accigliò. «Tra noi due dovresti essere tu a indossarlo...», bofonchiò tra i denti, irritato.
Altre pagine svolazzarono sotto il naso impolverato della ragazza. «Oh, ecco qui!», trillò soddisfatta non appena i suoi occhi incrociarono qualcosa di interessante.
Si schiarì la voce e iniziò a leggere. Nehroi rimise il medaglione al suo posto e si sistemò sulla sedia, attento.

“C'è una grotta, a Bastreth, ed è diversa dalle altre della valle.
È incastonata come una gemma nera in un oceano di rocce piene di muschio e solo gli scalatori più esperti e coraggiosi possono raggiungerla.
C'era un tempo in cui questa grotta era più accessibile, accanto al lago ai piedi della montagna, e si vociferava che chi ne uscisse vivo sarebbe stato investito dei migliori e più magnifici poteri che un uomo potesse anche solo immaginare.
In molti vi si addentravano.
Pochissimi ne uscivano.
Perché quando le tenebre di Mjoklur ricoprivano il corpo del coraggioso o avventato visitatore, ricoprivano anche la sua anima, e difficilmente potevano liberarsene.
Quando Aldeolar, figlio di Mehinlar e valoroso guerriero del sud, vi si addentrò e riuscì a tornare alla luce, dopo otto lunghi anni, tutti in paese sapevano che ogni cosa in lui era cambiata.
Portava un talismano al collo, grande come il pugno di un neonato e duro come il diamante più pregiato, ma non era solo quello a rendere il valoroso guerriero diverso: nessuno a Bastreth non aveva potuto notare il fisico, lo spirito, il nuovo modo di guardare il mondo e di affrontarlo.
Aldeolar era diventato potente, oltre ogni dire, e cupo, pieno delle peggiori tristezze e atrocità che un umano potesse sopportare, fino a diventare qualcos'altro, qualcosa che nessuno a Bastreth aveva mai incontrato.
Ma prima di annegare in quel mare nero, denso e nebuloso che era diventato il suo cuore, aveva fatto un dono alla comunità spostando, pietra su pietra, la grotta un po' più in su, laddove nessun altro avrebbe potuto addentrarsi e patire le sue stesse sofferenze. Poi si sfilò il potente medaglione, lo scaraventò all'interno della grotta e si lasciò cadere da quell'altitudine, provando forse un ultimo istante di vita prima di addormentarsi, finalmente in pace.”

«Che ne dici? Partiamo?»
Savannah gli scoccò un'occhiataccia e chiuse di scatto il librone, generando una nuvola di polvere che fece tossicchiare il ragazzo. I suoi occhi affilati sbucavano spettralmente dalla spessa coltre grigia.
«Non essere sciocco, è solo una leggenda infondata», soffiò.
«Noi viviamo di leggende infondate», le fece notare Nehroi con uno sguardo derisorio. «Se non te ne fossi accorta non abbiamo mai fatto altro che impossessarci di tesori dimenticati dall'umanità e dal mondo perché appartenenti al regno delle “favole della buonanotte”.»
Savannah sbuffò, allontanò da sé il libro e si afferrò una ciocca di capelli rigirandosela tra le dita, in cerca di doppie punte. Era il suo modo per manifestare irritazione.
«Meno male che c'è il mio fratellino a farmelo notare, se no non saprei affatto che siamo nei file dell'Interpol dalle elementari...»
Il ragazzo le afferrò la mano e la tirò verso il tavolo, facendo abbassare di colpo la sorella, presa di sorpresa. «Shh! Che fai, ci vuoi far beccare come dei principianti?»
Savannah alzò gli occhi e si staccò dalla presa con un gesto secco, tornando alla sua attività di ricerca delle doppie punte, incrociando stizzita le gambe sulla sedia accanto. «Beccare da chi, dalla bacucca in cassa? Quella è già tanto se si sveglia la sera per tornare a casa, lo sai.»
«Quindi io non posso giocherellare con il medaglione ma tu puoi parlare della nostra vita tranquillamente?», sottolineò piccato. Lo sguardo indifferente della sorella fu una risposta sufficiente, anche se non si sentiva per niente soddisfatto.
Nehroi sbuffò e scosse la testa, poi la sua attenzione tornò a Bastreth e ad Aldeolar. Savannah strappò con decisione un capello nero e lo gettò trionfalmente a terra.
«Il nonno aveva detto che la grotta esiste sul serio, però...», tentò lui a voce bassa rivangando ricordi vecchi e un po' sbiaditi.
La ragazza si inumidì le labbra ed annuì impercettibilmente. «Che una grotta esista è un conto, che porti effettivamente a Mjoklur e ti uccida o che ti faccia uscire potentissimo e mentalmente instabile è un altro. Inoltre non ci ha fornito alcuna indicazione sul talismano... questo testo è inutile, genio di famiglia.»
Nehroi corrugò la fronte e il suo viso si fece più serio. Abbassò lo sguardo sul titolo del volume che la sorella aveva lasciato sul tavolo e storse il naso. «Secondo me questa storia è nel volume sbagliato», esordì. «Troppe persone credono che Mjoklur esiste veramente per poter essere solo una favola.»
«Molti credono anche a Babbo Natale», puntualizzò la ragazza in tono scettico.
Nehroi scosse la testa. «Fingono di crederci per divertimento.»
Si portò le mani fredde sulla maglietta, per spostare il colletto che gli pizzicava la pelle, scoprendo per un istante un tatuaggio rosso e viola che spiccava da sotto la cordicella del medaglione.
«Il sigillo fa ancora il suo effetto?», domandò lei preoccupata senza alzare gli occhi.
Nehroi mugugnò e annuì. «Però non sarebbe male avere qualche potere in più per...»
Le mani di Savannah si mossero rapidamente e sbatterono sul tavolo metallico con la potenza di un fulmine, mentre la faccia della ragazza entrava rapidissimamente nel campo visivo del ragazzo, fermandosi solo quando tra i loro nasi non passava più di un centimetro.
«Non andrai a cercare deliberatamente la morte perché forse puoi diventare più forte, capito? Un conto è rubare oggetti magici qua e là, un altro è sperimentare sulla propria pelle se una leggenda di chissà quanti secoli fa è reale o no! Noi eravamo interessati solo al talismano di Aldeolar, non andremo ad abbracciare le tenebre di Mjoklur perché un testo ammuffito dice che è stato lanciato lì vicino!», tuonò minacciosa, con gli occhi ostinatamente puntati nei suoi.
Nehroi deglutì, intimidito, e si inumidì le labbra nervosamente. Poi però prese per mano il suo coraggio e si alzò in piedi, riscattandosi dall'attacco psicologico della sorella. «Smettila con queste scenate da mammina, è dalla morte di Lorwaar che ti sei rammollita e ormai non vedi più con chiarezza il nostro lavoro!»
Le guance di Savannah avvamparono. «N... no, non è vero!»
«Sì invece!»
La ragazza indurì lo sguardo e catalizzò la sua determinazione in uno sguardo furente. «La prudenza non è debolezza», sibilò velenosa.
Nehroi schioccò la lingua contro il palato e guardò altrove, ticchettando nervosamente la punta del piede a terra. La vita era già stata abbastanza complicata senza che morisse anche il loro unico amico. Lui era rimasto ustionato dall'esplosione del tempo di Ajak e Savannah era riuscita ad impossessarsi del diadema della regina appena in tempo... ma al loro ritorno Lorwaar era stato catturato dai sacerdoti reali e giustiziato sotto i loro occhi per il furto. Savannah non aveva superato facilmente lo shock, ed erano passate settimane su settimane prima che fosse riuscita ad aprire nuovamente un portale che li riportasse alla base.
E una volta arrivati lì, tornò la guerriera di sempre e si dedicò anima e corpo per stilare una lista di nuovi manufatti da rubare, per fortificarsi e impedire che un evento del genere potesse riaccadere. Passarono anni pensando solamente al lavoro, con un unico punto fisso scolpito nella mente: la missione. La missione prima di tutto.
Fu Nehroi a trovare una traccia sulla leggenda di Aldeolar e a convincerla a scendere sulla Terra a raccogliere informazioni tra gli appunti del nonno nascosti nelle sezioni di Mitologia.
«Tanto sono tutte frottole, no?», la provocò divertito. «Di cosa hai paura?»
Le labbra rosee della ragazza si piegarono in un ghigno e piccoli denti bianchi fecero capolino da dietro di esse, candidi e luminosi in quell'area buia di una biblioteca dimenticata di New York.
«E va bene, vengo con te», ammiccò spavalda. «Non posso perdermi l'occasione di canzonarti con il mio adorato “te l'avevo detto”, no?»
Nehroi sorrise a sua volta, beffardo. «Lo vedremo.»



*-*-*-*




Hola! ^^ Ed ecco che mi metto a pubblicare una long originale, lontano dai fandom irrequieti e popolati a cui sono avvezza!
Non ho mai realmente pensato di pubblicare una originale -ho fatto un paio di tentativi e, appunto, si sono rivelati disastrosi- perché sono una scrittrice che ha bisogno del contatto col pubblico e solitamente non ce n'è molto da queste parti... ma io ci provo lo stesso. Metti che a qualcuno piace la mia storiella... :)
Ah, voi di qui non mi conoscete ancora: io sono Shark Attack, scrivo una caterva e pubblico relativamente poco, recensisco a periodi e rispondo sempre alle recensioni, ci tengo personalmente anche se a volte è stato più un suicidio che un atto di gentilezza xD

Considerate questo capitolo il pilot di un'idea nata decisamente dal nulla che non so come e in che modo porterò avanti nel tempo, costruendo la trama capitolo dopo capitolo... magari sostenuta e consigliata da qualche lettore di passaggio che butta giù una parolina ^^
Ho iniziato con così tanta volontà e ispirazione solo un'altra storia originale, ed era davvero angosciante -a detta dei lettori; a me non dispiaceva xD.
Questa storia toccherà probabilmente ogni avvertimento e genere (oltre a quelli indicati, intendo), essendo io ormai in grado di parlare tanto di amore e amicizia quanto di torture, morte e violenza, quindi se vi sentite abbastanza coraggiosi da voler staccare dalla monotonia e semplicità della vita quotidiana in questo mondo reale per immergervi in un ben diverso... siete i benvenuti! ^^

A presto!
Shark

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Capitolo 2
*** Portale per Bastreth ***





2
Portale per Bastreth



«Riesci a crederci, Annah? Siamo arrivati fino a qui... noi due, soli, senza poteri o amici a sostenerci...»
Attorno a loro, le persone in coda al confine estremo alzavano gli occhi al cielo e si allontanavano da loro, come se fosse troppo nauseante ascoltare le loro chiacchiere. Nehroi non aveva udito il bisbiglio della sorella di abbassare la voce e aveva proseguito imperterrito. «Abbiamo attraversato le Lande di Feinreth, camminando senza tregua giorno dopo giorno, senza altra famiglia se non noi...»
«Sì, ehm...»
Alcuni bambini li additavano alle loro madri ed erano stati prontamente distratti perché non li osservassero troppo. Ogni parola che usciva dalle labbra di Nehroi era come un biglietto da visita, agli occhi di tutti, ma lui non se ne era mai curato e aveva sempre parlato di tutto liberamente.
«Siamo stati grandi, lo capisci? Contando unicamente sulle nostre forze ora siamo qui, ai confini di Ataklur, e fra poco scenderemo sulla Terra, tra gli umani! Magari lì troveremo una nuova casa e... sarà bellissimo, vedrai!»

Savannah ricordava quel giorno, quel sole che cuoceva le loro teste stanche dopo aver percorso a piedi o su mezzi di fortuna un percorso desertico che non poteva che sembrare infinito e doloroso per due ragazzini di dieci anni o giù di lì. Ricordava le guance sporche di terra di Nehroi mentre impallidivano e i suoi occhi sgranarsi per lo stupore, l'incredulità, la delusione.
Jiin e brehmisth, chi possiede le doti magiche e chi no, le parole che dividevano due realtà. Era un concetto che nessuno aveva mai messo in discussione, eppure quel giorno aveva stravolto tutto.
Non avevano vissuto a lungo con i loro genitori e l'unico familiare che li aveva cresciuti almeno un po' era stato nonno Ughrei, padre di loro padre, e di lui si potevano dire tante cose -che fosse un visionario, spesso ubriaco, musone e scostante in tutto- ma non che non avesse due capisaldi fissi: la pistola terrestre nella cinta dei pantaloni che custodiva orgogliosamente con due soli proiettili in canna e la convinzione che nella loro famiglia il dono passasse di padre in figlio, e che Nehroi l'avrebbe ereditato, diventando jiin; per Savannah non c'era altro da fare che accettare di essere una brehmisth e sostenere il fratello nell'apprendimento delle leggi magiche.
Ughrei non era un tipo di molte parole e dei ragazzi non gli era mai importato nulla, tanto da lasciarli crescere come cagnolini nel campo di erbacce che era la loro casa, ma quando lucidava la sua arma i ricordi di un tempo e di uno spazio lontanissimo riaffioravano così prepotentemente in lui che gli finivano subito sulle labbra e i due fratellini non se le erano mai lasciate sfuggire.
All'epoca Savannah e Nehroi erano solamente due bambini a cui erano stati tolti gli affetti ancor prima che potessero conoscerli e chiamarli tali. Potevano contare solamente su di loro e sulle loro forze, crescendo assieme come solo due orfani di strada con una missione avrebbero saputo fare. Nehroi si era sempre preso cura di Savannah e lei di lui, facendosi da genitori a vicenda, dal momento che nessuno -nemmeno Ughrei, che se li era ritrovati sul groppo all'improvviso- sapesse dire chi fosse il maggiore tra i due. Effettivamente, non sapevano con precisione nemmeno quanti anni avessero.
La parete rocciosa si ergeva di fronte a lei, come sempre.
Savannah sapeva perché le stessero ritornando in mente quel sole e quelle guance sporche mentre guardava un viso rasato e la pioggia le bagnava i capelli: il confine era di fronte a loro e lei stava per aprire il portale, esattamente come quella volta di una decina di anni prima.

«Mettersi in posizione», aveva mugugnato atono l'uomo gigantesco che controllava e gestiva il flusso di migranti ,seppur svogliatamente. La sua stazza era tale da far sentire minuscolo anche il lottatore di montagna alle spalle di Nehroi, che era sul punto di credere di esser stato rimpicciolito tra un passo e l'altro un attimo prima.
Il bambino aveva annuito con fierezza, non lasciandosi intimorire troppo, e aveva fatto un passo in avanti tendendo orgogliosamente il viso verso il guardiano. Il gigante aveva riso di gusto. «Non credo proprio, brehmisth!»
Nehroi, disorientato all'improvviso, si era sentito gelare il cervello e la gola si era fatta più arida del deserto che avevano attraversato per giorni. Aveva aperto la bocca per balbettare qualcosa -che c'era sicuramente un errore e che lui non era un brehmisth ma un jiin- ma il guardiano aveva indicato Savannah con una smorfia. «Non hai un briciolo di magia, bimbo, cosa speri di combinare? Lei, forse...»
La bambina aveva deglutito rumorosamente, sorpresa e stupita come poche volte in vita sua. Aveva sgranato gli occhi e guardato Nehroi in cerca di una spiegazione, ma non aveva trovato altro che un volto ferito e deluso.
Si era impegnata molto per rendere la sua voce il più ferma e tranquilla possibile, per fronteggiare la situazione. «Non l'ho mai fatto prima, non so se...»
Il guardiano aveva sbuffato, visibilmente seccato. «Hai qualche nozione di base, almeno?»
Aveva annuito, sicura di sé. «Chi esce deve rientrare entro sei mesi per non perdere i poteri e non si riattraversa il portale se non si è lo stesso gruppo alla partenza.»
«Intendevo nozione pratica, mocciosetta, e comunque non sono più sei mesi ma due. La Terra è sempre più avida.»
Savannah era arrossita violentemente, imbarazzata per la figuraccia e la sua ignoranza. Aveva scosso la testa, lentamente, come se non volesse mostrare troppo vistosamente la sua ammissione. In fondo, aveva appena scoperto di non essere una brehmisth...
«Mai studiato, eh?», ridacchiò l'omaccione facendosi di lato. Aveva afferrato un vetro rotondo e opaco che teneva incastrato su un bracciale alla spalla sinistra e lo aveva posto di fronte agli occhi di Nehroi, come se stesse controllando se ci si vedesse attraverso, e non ci fu alcun cambiamento nel vetro; poi lo aveva posto di fronte a Savanna e, da trasparente che era, il rilevatore si era riempito di un fumo giallo pallido, fluttuando dal punto corrispondente alle sue pupille, e il guardiano aveva riso.
«Neanche tu puoi aprirlo, ti ammazzeresti. Torna quando sarai più forte.»


Nehroi si accorse della sua aria corrucciata e si intromise prepotentemente nel campo visivo della sorella, facendo inquietanti rumori con le scarpe nel fango. «Cos'hai?», domandò quasi con impertinenza.
Savannah lo guardò storto. «Le persone normalmente dotate hanno dei pensieri, a volte», sibilò seccata sotto lo scroscio d'acqua, «E nessuna legge mi impone di dirteli.»
Il ragazzo scacciò la sua pungente ironia con la mano. «Secondo me sei sovrappensiero per via del portale, non ricordi più come si evoca», la provocò.
Savannah rise all'improvviso, irruente come lo scoppio di un palloncino. «Non ricordo come si evoca! Buona questa!», la sua voce trillava come un campanello tra i tuoni del cielo. «Non sono così tonta da scordare cose tanto importanti da un mese all'altro.»
«E allora perché siamo sotto l'acquazzone a non far niente? A cosa pensi?»
«Alla...» sorrise. «Alla prima volta», confessò infine. In fondo non sapeva arrabbiarsi troppo a lungo con Nehroi.

«Con questo livello di magia, è già tanto se riesci a passare tu da sola.»
La voce del gigante aveva tuonato minacciosa e derisoria nelle orecchie di Savannah e in quelle di tutti gli altri presenti che iniziavano a ridacchiare di nascosto. Nehroi aveva afferrato prontamente il braccio della sorella e l'aveva trascinata fuori da quella dogana crudele prima che la sua psiche potesse risentirne troppo, sgomitando senza sosta tra gli altri in coda, che li additavano e mormoravano tra loro.
Però quando la luce del sole era tornata a colpire i loro visi, le lacrime della bambina avevano già bagnato completamente le guance rosee, gli occhi erano ormai arrossati e il singhiozzo inevitabile.
Nehroi aveva abbassato violentemente lo sguardo, solo per nascondere i suoi occhi altrettano lucidi, e l'aveva abbracciata, anche se senza passione. Il nonno si era sbagliato e lui non aveva alcun potere. Tra la loro gente, “brehmisth” non era sinonimo di debolezza, no: era direttamente il modo per descriverla. Un brehmisth non è molto diverso da un umano, li differenziava solo la conoscenza della magia e dei suoi meccanismi.
«Neh...», lo aveva chiamato piano, in un sussurro spezzato.
Il bambino aveva sciolto l'abbraccio e si era ritrovato di fronte il volto più distrutto che avesse mai visto . «Neh, adesso cosa facciamo?»

Nehroi sospirò e si sistemò meglio sulla fronte il cappuccio della felpa, ormai completamente zuppo e inutile sotto quella pioggia battente. «A volte torna in mente anche a me...», disse in un sospiro.
Iniziò a pensare che se e quando sarebbero riusciti a tornare a casa, avrebbero passato mesi a letto con la febbre o con una polmonite.
Savannah invece sembrava non accorgersi minimamente del tempo. «Per tutta la vita avevamo pensato che tu avessi ereditato i poteri... e invece ce li avevo io.»
«Ce li hai tu», precisò il fratello, con un pizzico di nervosismo. «E che ne dici di usarli?»
La sorella gli fece la linguaccia e si voltò verso la parete rocciosa. Cercò due punti in cui una scia violacea di minerali era più visibile, segno della rottura della materia tra le dimensioni, e vi ci posò le mani. Chiuse gli occhi e le dita iniziarono a tremarle.
Nehroi si avvicinò alla roccia, abbastanza da entrare nel raggio di trasporto ma non troppo perché venisse bruciato dall'incantesimo. Qualche secondo dopo, la concentrazione di Savannah aveva raggiunto livelli tali da farle da far diventare incandescente la scia violacea, che si allargò sempre di più fino a disegnare uno squarcio nella montagna. Savannah tolse le mani e se le pulì sui pantaloni, mentre un sorriso soddisfatto le si disegnava sul volto.

«È evidente che devi prendere tu i compendi e i libri del nonno», aveva detto Nehroi mentre tirava su con il naso, intento a non mancare di rispetto alla sorella che lo aveva sostenuto tanto quando le parti erano invertite. «Per fortuna ti ho sempre detto tutto ciò che mi insegnava, quindi adesso puoi iniziare ad esercitarti...»
Aveva alzato gli occhi al cielo, come se stesse cercando la forza di andare avanti, poi li aveva abbassati sulla sorella, incrociando uno sguardo impaurito e sconvolto. «Avremmo dovuto accorgercene prima che non sapevo spostare neanche una piuma se non soffiando...», la sua voce era amara e spezzata.
«Il nonno ha sempre detto che non è male essere un brehmisth...»
«Lo diceva per consolarti, Annah!», aveva sbottato Nehroi nervoso, prima di accorgersi di ciò che aveva realmente detto. Adesso che il brehmisth era lui, capiva quanto era stato cattivo e ingiusto a credere di essere superiore alla sorellina, la sua nuova unica ancora di salvezza per tutta la vita.
«Per prima cosa, esercitati sull'apertura del portale», aveva cercato di riprendersi trovando risolutezza nella sua coscienza. «Al resto penseremo dopo, tra gli umani.»
Il tempo sembrava non scorrere mai. Avevano passato giorni e giorni studiando le tecniche magiche ed appurando che effettivamente Savannah era un jiin, e neanche troppo debole. Ogni mattina, puntualmente, si presentavano di fronte al guardiano, chiedendo di controllare se il suo livello di magia fosse sufficiente per lasciarsi alle spalle quel mondo che non portava alcun futuro per due orfanelli come loro, e il gigante si era stupito per primo vedendo un pallido fumo arancione scivolare nel vetro dopo una sola settimana. «La gente normale ci mette almeno un anno a passare di grado, lo sai bimba?», le aveva detto soddisfatto. «Esercitati ancora un po', però... meglio non correre rischi con una novellina. Mica vuoi che il tuo fratellino arrivi squarciato a destinazione, no?»
I ragazzi erano impalliditi a quella battuta, non riuscendo minimamente a ridere di gusto come il gigante.
Tanti soli erano sorti e tramontati sulle loro piccole teste, mentre decine di altri migranti erano andati e tornati attraverso il portale, lamentandosi dello stato della natura e dei malcostumi degli umani. «Non c'è niente per voi, là sotto», aveva detto loro una vecchia dalla faccia arcigna.
«Non c'è niente per noi nemmeno qui», aveva ribattuto Savannah aggrottando la fronte.
La vecchia era sembrata sorpresa, ma solo per un attimo. «Beh, c'è sempre il piano di sopra! Ah!»
La mattina successiva Savannah e Nehroi si erano presentati ancora di fronte al guardiano, molto più fiduciosi della prima volta che lo avevano visto in faccia, ormai tre settimane prima.
Il gigante aveva già il rilevatore in mano, come se quello fosse diventato un vero e proprio rituale, e aveva indicato a Savannah il punto in cui i jiin aprono il portale. Con il vetro posto di fronte agli occhi, la bambina aveva osservato un fumo arancione molto intenso e scuro, che per poco non era rosso, e ne era rimasta soddisfatta.
«Ottimo progresso», aveva detto il guardiano riponendo il rilevatore al suo posto. «Ottimo davvero... ora puoi attraversare il confine tra i mondi.»
Savannah si era voltata soddisfatta e felice verso il fratello, ma non era riuscita ad incrociare il suo sguardo: stava sistemando con insistenza qualcosa dentro lo zaino, a capo chino.
Il guardiano aveva presole mani di Savannah e la sua attenzione si era focalizzata su ciò che aveva imparato dai libri, dai consigli del gigante e dall'osservazione delle altre persone che erano già transitate nei giorni precedenti. «Rilassati», le aveva detto, guidando le sue mani su un'incrinatura colorata della roccia.
Savannah aveva annuito, raccogliendo il coraggio e la forza di volontà con ogni fibra del suo corpo, e aveva chiuso gli occhi, cercando di concentrarsi solo sulle scie verdastre, sulla loro consistenza, sull'affondare le dita in quelle increspature della montagna fino a toccare la parete corrispondente nell'altro mondo, in chissà quale montagna di chissà quale paese umano. Quando il calore della roccia era svanito, Savannah aveva capito di essere arrivata dall'altra parte e aveva immaginato di aprire il portale, esattamente come se fosse una finestra o una porta.
Aperti gli occhi, si era ritrovata di fronte un velo liquido e, in lontananza, un paesaggio totalmente nuovo, molto più verde e rigoglioso del deserto alle sue spalle.
Si era voltata verso Nehroi, bloccato con una mano a metà nello zaino e la bocca semiaperta per lo stupore. Negli occhi, qualcosa di insolito, forse timore per ciò che li stava per attendere.

«Muoviti, fifone», disse al fratello un attimo prima di attraversare il velo liquido che nascondeva le alture di Bastreth, ricordando quella prima volta.


*-*-*-*



E siamo al secondo capitolo, incredibile! XD Ho avuto vari problemi nel realizzarlo perché mi ero accorta che stavo correndo troppo facendo accadere troppe cose... così mi sono limitata ad introdurre una questione importante, la distinzione tra chi ha il dono magico (i jiin) e chi no( i brehmisth) e come si relaziona la gente rispetto a queste categorie. Certo, niente al mondo è o bianco o nero, ma questa è una cosa che vedremo nel prossimo capitolo... Spero di non aver fatto pastrocchi ^^ nel prossimo capitolo scopriremo qualcosa in più sulla missione dei ragazzi, magari con meno ricordi, e ci sarà un bel po' di azione, si entra nel vivo della storia! :D

Ringrazio le mie tre donzelle -le tre marie, ahah- che seguono con un certo masochismo le mie fic da... beh, da un sacco direi :P Grazie!
E coloro che leggono “tacitamente”... fatevi avanti e lasciate due righe, non siate timorosi! ^^

Alla prossima, people!
Ciao!
Shark

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Capitolo 3
*** I Quattro fratelli ***





3
I Quattro Fratelli



Bastreth. Letteralmente: “terra di rocce”.
Se si dovesse entrare in un'agenzia di viaggi, nessun dipendente saprebbe quale immagine scegliere per invogliare i clienti ad andare in una simile località. Le opzioni sarebbero le radure rocciose, immense distese di sassi grigi di ogni dimensione, senza alcuna forma di vita per chilometri e chilometri, oppure le alture verdeggianti, casa di intricatissimi rovi e alberi velenosi o inavvicinabili; per non parlare della cittadina in sé, famosa per la “cordialità” degli abitanti e per la ricchezza di cui dispongono...
No, un'agenzia di viaggi non avrebbe mai sprecato nemmeno un dépliant o una parola per invogliare qualcuno ad andare lì.
L'unica attrazione, per così dire, era la grotta, quel buco nero che si stagliava sulla montagna più alta, che osservava la città dall'alto, come un falco attento o un avvoltoio affamato.
Nehroi era elettrizzato all'idea di andare laggiù per poter seguire le orme di Aldeolar e scoprire se non c'era nient'altro che una leggenda, come una favola della buona notte, o se invece la verità aleggiava da qualche parte su quella parete ripida oltre la vegetazione, magari assieme al potere immenso che tanto lo incuriosiva ed attirava.
«Ricordi quello che ci diciamo sempre? Che la missione va sopra ogni altra cosa?», gli disse Savannah non appena la pianura rocciosa comparse nel loro campo visivo, dopo quattro lune di cammino dall'ingresso tramite il portale, scalando la montagna da cui erano arrivati.
Il fratello calciò un sasso e osservò il suo andamento irregolare tra i massi, fino al suo arresto per incastro sotto un'altra pietra, metri più in basso. «Sì, certo», mugugnò.
«Stavolta non vale.»
Nehroi aggrottò le sopracciglia e si voltò di scatto. «Stai scherzando?», si innervosì. «Certo che la missione è sopra tutto, di che diavolo stai parlando? Vuoi tirarti indietro?!»
Savannah gli scoccò un'occhiata gelida e pungente. «Se ci dovessimo trovare in pericolo di morte si fa marcia indietro!», intimò seria come poche volte in vita sua.
«Se ci dovessimo trovare in pericolo di morte sapremmo che stiamo raggiungendo qualcosa di importante, per cui vale la pena...»
«Morire?!»
«No! Avremo le nostre difese e... andiamo, non siamo degli sprovveduti! Continueremo a... a cercare, a combattere! Quel potere di cui parla la leggenda è preziosissimo, dovresti saperlo!»
Savannah distolse lo sguardo dal fratello, piccata, e sbuffò sonoramente. «È prezioso, sì», ammise, «... ed è proprio perché so quanto è importante per noi avere un simile potere che non posso permetterti di trasformare quel “noi” in un “io”...»
Nehroi si morse il labbro inferiore e la sua furia si placò all'improvviso. L'espressione triste di Savannah lo aveva colpito come uno schiaffo e le sue parole anche più violentemente. In quegli occhi abbassati, Nehroi riusciva a leggere chiaramente che il potere non era l'unica cosa preziosa, per lei... ma se invece ci fosse riuscito? Se avesse preso il medaglione di Aldeolar e avesse ottenuto i poteri che bramava da una vita intera? Finalmente non sarebbero stati più solo una jiin e un brehkisth...
«Non preoccuparti», le disse dopo un po'. «Se la situazione dovesse peggiorare, prometto che mi metterò in salvo.»
«Davvero?»
Annuì molto faticosamente, tentennante, ma con sincerità.

Scesero non senza fatica il versante della montagna, impiegandoci un'altra giornata di intenso sforzo di gambe, fino ad arrivare alla prima abitazione, ancora lontanissima da Bastreth, a notte fonda. Sembrava più un capannone che una casa, forse un monolocale di fortuna che chissà perché era stato costruito in un posto tanto ostico. Il giardino era fatto interamente di pietre, non potendo crescere alcun tipo di vegetazione in un posto tanto arido, ma era ordinato e curato: aiuole di sassi, massi particolari a fare da ornamento qua e là, alcune piccole sculture imprefette...
Sperando in un po' di ospitalità, bussarono svariate volte prima che un ragazzino serio e con due medaglioni, forse amuleti, in mano aprisse loro la porta.
«Ciao piccolo! Potresti ospitarci per una notte?», domandò Nehroi con un gran sorriso.
Il bambino lo squadrò da capo a piedi, serissimo. «No.»
«Vedi quella montagna?», indicò alle sue spalle, «Ecco, qualche luna fa eravamo dall'altro lato e... Che te ne fai?», domandò Nehroi, incuriosito, indicando i medaglioni.
«Chi siete?», sibilò il ragazzino, che non avrà avuto più di dieci anni.
Savannah alzò gli occhi alle stelle e arretrò di un passo, prevedendo l'evolversi della discussione tra un bambino ed un immaturo. «Ehi, non si risponde ad una domanda con un'altra domanda!», gli rispose Nehroi.
«E non si bussa a casa mia a quest'ora di notte!»
«Ti ho appena raccontato il nostro viaggio e siamo stanchi, affamati e non dormiamo in un letto da cinque giorni!»
«Volete rubarmi la casa!»
«Ma sei matto?!»
«Beh, io non ti ospito!»
«Bravo, davvero gentile da parte tua!»
«E chi lo dice che devo esserlo?»
«Ah, non saprei, forse... il senso di umanità verso il prossimo?», lo canzonò stancamente Nehroi, decisamente esausto dalla scalata e da quella complicazione.
«Il senso di cosa?»
Savanna si allontanò maggiormente da loro e si accucciò su una roccia, sul lato sinistro della casa, portandosi un ginocchio sotto al mento e osservando quella scenetta infantile da lontano.
Le ricordava quando anche lei e Nehroi erano due bambini e litigavano alla stessa maniera su tutto, anche solo per il gusto di battibeccare e animare alcune delle troppe notti buie e solitarie che hanno passato assieme. Spingendo la mente in spazi e tempi lontani, non riusciva a trovare il primo litigio tra loro, tanti ce n'erano stati, né aveva mai trovato il primo ricordo della loro vita assieme, o se ci fosse mai stato un periodo senza il fratello. Osservò la scenetta per qualche minuto ancora, chiedendosi se Nehroi la stesse prolungando apposta per divertirsi spensieratamente come quelle volte in cui scambiarsi battute sempre più argute o acide era l'unico passatempo, almeno quando non si doveva rimanere in assoluto silenzio per non essere catturati dai Garlh o mangiati da un gruppo di mal'Kee. Anche Lorwar si univa a loro, quelle poche notti che avevano passato assieme prima che il fato li dividesse per sempre; anche lui credeva fosse un buon modo per passare il tempo, dovendo scegliere tra l'annoiarsi e l'annoiarsi in silenzio...
Spostò lo sguardo sulla finestra della casetta -davvero piccola ma dall'aria di essere sicura come una grotta- e la luce accesa le fece immaginare che ci potessero essere altri all'interno; poi Savannah ricordò la frase del bambino sul rubargli la casa (non “rubarci”) e i due ciondoli che stringeva in mano quando aveva aperto la porta e ipotizzò...
Un rumore soffuso, simile a quello di un sacco di stoffa caduto, e un bisbiglio attirarono la sua attenzione e scattò immediatamente in piedi, come se fosse stata morsa alla schiena. Girò la testa per cercar di percepire meglio altri suoni, ma non percepì nulla. Stava muovendo il terzo passo verso la casetta quando un ago metallico la colpì alla spalla sinistra e un altro alla coscia. Mentre cercava di sfilarsi il primo, un altro centrò la mano destra e un gemito di dolore sfuggì dalle sue labbra. «Via, muovetevi!», urlò ai ragazzi sulla soglia, ignari di cosa stesse succedendo.
«Ma io non ho ancora deciso se... ahia!», pigolò il bambino mentre cadeva a terra per lo spintone di Nehroi spinto a sua volta dall'irruente spallata della sorella.
«Se vuoi morire fuori o dentro casa?», sibilò Savannah nervosamente, intenta a sbarrare la porta con il tavolo da pranzo. «C'è qualcosa là fuori.»
Nehroi le si avvicinò e si accorse degli aghi, lunghi come un dito della mano e spessi meno di una matita, che costellavano la sorella. «Te li tolgo, aspetta.»
Le mise una mano sulla spalla e fece per afferrare l'ago grigio ma, non appena lo sfiorò, la pelle di Savannah si tinse di nero, come se una goccia d'inchiostro ci fosse caduta sopra, e la ragazza cacciò un urlo che fece rabbrividire i presenti.
Ansimante, allontanò il fratello bruscamente e si toccò la ferita, sfiorando quello che molto probabilmente era veleno. «Veleno intriso di magia», constatò.
«Io non... scusami, volevo solo...», boccheggiò Nehroi, addossandosi una colpa sua solo in parte.
Savannah si voltò a slacciare i nastri che stringevano le tende e le sciolse tutte rapidamente, impedendo a chi fosse all'esterno di spiarli. «Non è colpa di nessuno, eravamo entrambi stanchi e...» I suoi occhi si posarono sul bambino, accucciato nell'angolo della stanza, con gli amuleti ancora in mano, stretti come se ne andasse della sua vita. «Quelli non servono a niente, lo sai, vero?», gli disse.
Il bambino abbassò gli occhi e li osservò come se li vedesse per la prima volta. «Me li ha lasciati mia sorella Mirey prima di partire...», si difese in un sussurro. «Ha detto che mi avrebbero protetto.»
«Da chi?»
«Da chi ha cattive intenzioni.»
Nehroi fischiò sorpreso. «Amuleti dell'anima», commentò mentre spostava leggermente la tenda e sbirciava fuori, «Non è roba per bambini.»
«Dove sono i tuoi genitori?», domandò rapidamente Savannah un istante prima di stringere i denti e strappare l'ago dalla mano destra, ancora non intrisa dal veleno. «Come mai... sei da... da solo?», ansimò.
«Papà è il Capo Reggente di Bastreth», disse lentamente e quasi con rimorso mentre passava le piccole dita sulle catenelle. «E mamma è sempre con lui.»
«Tua sorella dov'è andata?»
«Ha seguito i miei fratelli maggiori, loro volevano sfidare la leggenda e...»
«La leggenda di Aldeolar?», esclamò Nehroi come pervaso da una scossa. «Sono andati alla grotta? Quando?»
Il bambino si morse il labbro inferiore. «Dieci giorni fa. Ma hanno detto che io sono troppo piccolo per andarci e quando la mamma l'ha scoperto, una settimana fa, Mirey gli è corsa dietro per riportarli qui.»
Il terzo gemito di Savannah interruppe il suo racconto e fu il tintinnio dell'ago appena estratto dalla coscia e gettato a terra a farlo riprendere. «Voi invece chi siete?»
I due fratelli si scambiarono un'occhiata dubbiosa, indecisi su quale versione della storia da raccontare, e, dopo una breve lotta di sguardi e di rapidi cenni, Nehroi prese la parola. «Tua madre si è accorta che due figli le erano spariti... dopo tre giorni?»
«Non cambiare discorso», gli occhi del bambino si assottigliarono e strinse maggiormente i suoi amuleti. «Chi siete?»
Nehroi lasciò cadere lo sguardo in giro per la stanza colorata di un fastidioso giallo intenso, osservando l'onnipresenza di disegni e oggetti vari costruiti da mani infantili, e poi annuì a sé stesso. «Siamo due fratelli.»
Savannah si spiaccicò sonoramente una mano in faccia. Il bambino sbuffò.
«Ok, ok, lei è una jiin e se là fuori c'è qualcosa di pericoloso ci può salvare la pelle... però se c'è qualcosa di non troppo magico lo posso prendere a pugni io! Va meglio così?», guardò la sorella in cerca di approvazione, ma la trovò intenta a strapparsi via rabbiosamente tutti gli altri aghi, ingoiando gemiti e urla a denti stretti, come se si fosse appena ricordata del pericolo che stavano correndo e dovesse controbattere. «Tira via quello sulla schiena, per favore», sussurrò al bambino, avvicinandoglisi e scoccando uno sguardo gelido e piuttosto assassino a Nehroi.
«Perché non lo fa lui?», domandò nel tintinnio dell'ago sul pavimento, gettato via rapidamente come se scottasse o mordesse.
«Perché è complicato.»
La ragazza si alzò in piedi e massaggiò tutte le ferite, semplici forellini rossi simili a punture, e si soffermò particolarmente su quella spalla in cui regnava un rovo di veleno scuro. «Questa dopo andrà curata per bene», constatò.
Nehroi annuì serio e sbirciò da dietro una tenda. Oltre quel vetro freddo, si potevano vedere sassi per un metro o due, poi ogni cosa era inghiottita dall'oscurità. Nehroi strizzò gli occhi e notò qualcosa di diverso dalle rocce comparire al limitare del buio profondo della notte. «Ehi piccolo, hai detto di avere due fratelli e una sorella, giusto?», domandò senza staccare gli occhi dalla finestra.
«Mi chiamo Horud», rispose il bambino con aria saccente.
Il ragazzo sbuffò nel tessuto verdognolo. «Bene, Horud, sai dirmi se quei tre mocciosetti là fuori sono i tuoi fratelli?»
Il bambino scattò in piedi come se le pareti a cui era appoggiato fossero diventate incandescenti e gettò gli amuleti a terra mentre correva alla finestra, per strizzare gli occhi nello spazietto tra la tenda e il vetro. «Sì!», esclamò euforico, «Sono loro!»
Spinse via con tutte le sue forze il tavolo che Savannah aveva usato per sprangare la porta e corse nel giardino di rocce, confermando il riconoscimento con la luce che fuoriuscì dalla casa.
Due adolescenti, sbarbati ma piuttosto ben piazzati, e una ragazza dall'aspetto più maturo del dovuto abbracciarono Horud senza esitazioni e si strinsero altrettanto velocemente di fronte a lui come un unico scudo non appena videro Savannah e Nehroi uscire dall'abitazione. «Perché erano dentro con te?», sibilò Mirey, «Speravo che gli aghi l'avessero spaventata abbastanza!»
La jiin ridusse gli occhi a due fessure e puntò un dito contro la ragazza. «Sei stata tu!», la accusò. Fece due passi verso di lei e Nehroi si piazzò prontamente tra loro a braccia aperte, pronto a contenere qualunque guerra si sarebbe scatenata di lì a poco.
L'espressione di Mirey si fece incredula e uno dei suoi fratelli ridacchiò spavaldo. «Erano solo aghi, carina», la derise, «Non farne una tragedia!»
Nehroi si voltò verso di loro e osservò attentamente i loro volti. Sembravano convinti che non fossero altro che aghi, un po' più lunghi della norma per via dello scopo bellico, ma tutto sommato innocui, puntura a parte. Alle sue spalle, Savannah giunse alla stessa conclusione. «Quindi non sapete niente del veleno magico che contengono?», domandò tranquilla.
I ragazzi rimasero impietriti, degni figli di Bastreth. «V-veleno?», balbettò Mirey.
Savannah inclinò la spalla in modo che la luce della casa potesse illuminare la macchia nera e la ragazzina si portò le mani alla bocca per lo stupore e la colpa. «Non lo sapevamo, te lo giuro!», esclamò con voce sincera e fin troppo squillante. «Pensavamo fossero semplici aghi da lancio, noi non...»
«Entriamo in casa», ordinò il piccolo Horud riemergendo dal parentado. «Le avete fatto molto male e adesso è giusto ospitarli per la notte.»
Qualche minuto dopo, erano tutti seduti educatamente al tavolo che prima era stato arruolato per bloccare la porta d'ingresso e Mirey servì una zuppa calda, stranamente di un colore diverso per ogni ciotola in cui veniva versata.
«Dove avete preso quegli aghi?», domandò Savannah con la stessa tranquillità che aveva sfoderato quando aveva chiesto del veleno. Nehroi ebbe l'impressione che si stesse controllando e che volesse vendicarsi su quei marmocchi ma che, proprio perché lo erano, non volesse fare stupidaggini.
Sorseggiò la sua zuppa arancione e scoprì che sapeva interamente di finocchio.
«Nella grotta della leggenda.»
Nehroi per poco non si strozzò e sputacchiò la brodaglia, schizzando sul tavolo mentre il cucchiaio di Savannah le cadeva rumorosamente di mano. «Siete entrati», sussurrò come in trance.
Il minore dei due fratellini abbassò lo sguardo e annuì, a disagio. «Però per poco», disse a mo' di scusante. «Quando ho sentito Jut gridare sono corso da lui e l'ho tirato subito fuori!»
«Ce l'avrei fatta», mugugnò l'altro, stringendo le mani a pugno. «Non era niente di che.»
«Che cosa non era niente di che?», domandò Nehroi, tanto curioso da riuscire a stento a trattenersi dal saltellare per la stanza in attesa di risposte.
Jut gli lanciò un'occhiataccia, dopo guardò male anche il fratello, poi Mirey e anche Horud; quando incrociò gli occhi di Savannah, così gelidi e fermi, sentì la sua rabbia sbattere contro un muro, poi deglutì e scosse la testa. «Niente», borbottò turbato alla zuppa verdognola.
Suo fratello posò con forza il cucchiaio sul tavolo, facendo trasalire tutti; sembrò volersi avventare sul fratello maggiore, ma afferrò con entrambe le mani il suo braccio sinistro e lo sbatté tra le ciotole come se fosse un pezzo di carne morta. Poi pestò un pugno sulla mano e fu solo il rumore ad innervosire Jut. «Ha perso sensibilità dal gomito in giù», spiegò il ragazzino.
«Klov», lo chiamò l'altro.
«Credo sia stato a contatto con una sostanza inibitoria che...»
«Klov! Non sono affari tuoi né loro!», tuonò.
Savannah guardò Nehroi e lui sentì fremere le mani al vedere l'espressione saputella tipica del suo “te l'avevo detto”. Un sorriso beffardo si dipinse sulle labbra della jiin quando vide la reazione desiderata. Alzò trionfalmente la ciotola di zuppa gialla al viso e la svuotò quasi totalmente, riuscendo a nascondere una smorfia di disgusto.
«Mirey, sei tu la maggiore?», domandò dopo essersi passata il tovagliolo sulla bocca.
«No, è Jut. Poi ci siamo io, Klov e Horud», snocciolò educata, «Perché me lo chiedi?»
Savannah fece spallucce e indicò la porta con la testa. «Solo per sapere se ci possono essere altri fratellii in giro che ci credono malintenzionati», ridacchiò e Nehroi sorrise beffardo. «A proposito, quell'amuleto dell'anima funziona solo in mano a un jiin, lo sapevi?»
Gli occhi di Mirey saettarono verso quelli di Horud, che andarono a posarsi altrove per sfuggirvi. «Ogni tanto lui combina qualcosa», proseguì la ragazza cercando di riprendere il controllo di sé, «Crediamo che un giorno riuscirà ad essere un jiin. Come papà, Jut e Klov.»
Seguirono vari minuti di relativo silenzio, occupati dai rumori della zuppa che scendeva nelle gole, dei cucchiai che raccoglievano le ultime gocce e delle rotelline che si erano messe in moto nei cervelli di Savannah e Nehroi, intenti a confrontare il fatto che in quella famiglia fossero jiin solo i maschi e che nonno Ughrei, tra un alcolico e l'altro, avesse sempre sostenuto lo stesso per loro.
«E voi invece?»
La voce profonda di Jut distolse tutti dai loro pensieri.
«Noi cosa?», domandò Nehroi, caduto dalle nuvole.
Jut appoggiò i gomiti sul tavolo e si sporse verso di lui. «Vi ospitiamo e non ci raccontate nulla? È scortese.»
Fratello e sorella non si guardarono. Abbassarono entrambi lo sguardo, come se stessero eseguendo un ordine, e passò qualche abbondante manciata di secondi prima che uno dei due si decidesse a parlare. «Fai tu le domande», propose Savannah, sperando di aver fatto la scelta giusta.
Jut sorrise e si appoggiò indietro sullo schienale, con l'aria vincitrice di chi sa di averla spuntata almeno un po'. «Benissimo», esclamò, «Iniziamo con la più semplice: chi siete?»
«Due fratelli», rispose in una risatina il piccolo Horud.
Nehroi annuì. «Due punti al non-ancora-jiin!»
Jut però non sembrava soddisfatto. «Nomi? Famiglia? Da dove venite? Stato?», mitragliò con irritazione.
«Savannah e Nehroi», rispose la ragazza.
«Hai un nome molto buffo», coomentò Mirey, «Il tuo invece ce l'aveva anche un nostro cugino.»
Nehroi alzò un sopracciglio. «Aveva?»
«Andate avanti», sibilò Jut, sempre più spazientito.
Savannah iniziò a sentirsi spazientita quanto lui: non le era mai piaciuto dover parlare liberamente della sua vita, ma sapeva che se non voleva dormire tra i sassi avrebbe dovuto scucire qualcosa. Quel letto dall'altra parte della stanza era così invitante...«Sulla famiglia non abbiamo nulla da dire, nemmeno sul “da dove venite”, e i nostri stati sono di jiin e bremisth», sputò in fretta e con riluttanza.
«Non avete genitori?», pigolò Horud.
«E voi?»
L'interrogatorio si concluse.

La mattina dopo lasciarono un bigliettino sul tavolo, ringraziando dell'ospitalità; aprirono e richiusero la porta senza fare rumori e partirono alle prime luci dell'alba, facendo attenzione a non far rotolare nessun sasso in giardino per non svegliare nessuno e non dover salutare di persona.
«Non credi che saranno delusi di non vederci?», domandò Nehroi non appena si furono allontanati a sufficienza.
«Che lo siano.»
Savannah aveva evidenti occhiaie dovute alla mancanza di sonno: la zuppa le aveva messo in subbuglio lo stomaco, il letto era sfondato al centro impossibilitando la scelta di una posizione decente per dormire, con i suoi continui sbuffi e sospiri aveva svegliato Klov e avevano chiacchierato in un angolo della stanza per mezz'ora. Lei aveva cercato di ottenere indizi sul medaglione di Aldeolar e indicazioni su come arrivare alla grotta, lui voleva semplicemente che le raccontasse qualche avventura.
«Perché credi che ne abbia vissute?», gli aveva chiesto sorpresa.
Lui si era grattato la nuca e aveva fatto spallucce. «Non siete di qui», si era limitato a dire.
«A Bastreth non si vivono avventure?»
«Dai, almeno una!», aveva supplicato.
Savannah aveva lasciato cadere lo sguardo nel buio, frugando nella sua mente alla ricerca di un aneddoto avvincente che avrebbe potuto ripagare le informazioni ottenute su Aldeolar. Aveva pensato a un paio di scontri con animali selvaggi sulla Terra, a quella volta che il nonno aveva sparato contro lei e Nehroi perché non avevano comprato abbastanza alcolici e li voleva rimandare indietro al negozio di corsa, e anche a quando erano tornati per la prima volta nel loro mondo, attraverso un portale trovato per caso in un tempio greco, e si erano ritrovati dall'altra parte del mondo, a centinaia di giorni di cammino da casa.
Aveva deciso che forse avrebbe potuto raccontare quella, ma quando si era voltata verso Klov e aveva aperto bocca, lo aveva trovato addormentato con la testa appoggiata scomodamente all'indietro contro il muro e il collo in una posizione così innaturale che sembrava rotto. Aveva sorriso alla sua buona sorte e aveva fatto un ultimo sforzo di dormire su quel materasso demoniaco.
«Non manca molto», le disse Nehroi all'improvviso, richiamando la sua attenzione dopo venti minuti di camminata ininterrotta e silenziosa tra i massi e un lieve pendio, mentre famoso monte contenente la più misteriosa, intrigante e pericolosa grotta dei due mondi iniziava a svettare di fronte a loro.
Savannah rallentò un poco e osservò la montagna da quella distanza. La vegetazione era fittissima su tre quarti della superficie, arrivando fino in cima, ma sul versante a est, quello esposto verso di loro, si poteva notare che non crescevano né alberi né cespugli e il terreno era così scuro che probabilmente non cresceva nemmeno l'erba; al centro esatto di quel piccolo deserto, un puntino nero. La ragazza inspirò profondamente e corse per recuperare il fratello.
«Come va il sigillo?», domandò con finta noncuranza dopo un po'. Nella sua voce traspariva una lieve angoscia che aumentata man mano che quel puntino nero diventava sempre più grande e Nehroi non faticò a notarla.
«Perfettamente intatto», rispose tranquillo.
«Fammi controllare», l'angoscia aumentò.
«Ti ho detto che è intatto!», protestò lui.
«Meglio che ci dia un'occhiata!», ribatté lei stizzita e con voce tremante.
Nehroi si fermò riluttante e la guardò male. Non riuscendo a convincerla con lo sguardo, alzò gli occhi al cielo e sbuffò mentre posava a terra la tracolla e si toglieva la felpa blu e sbiadita. Il vento si levò gelido nell'istante in cui la testa del ragazzo si liberò dalla presa del colletto, scompigliandoli i ciuffi di capelli scuri come se fossero dotati di vita propria.
«Visto?», Nehroi indicò soddisfatto il tatuaggio rossastro che correva dal fianco sinistro fino alla spalla, con simboli e ghirigori provenienti da varie mitologie. «Tutto a posto.»
«Queste sfumature viola non c'erano prima», constatò Savannah ad un centimetro dal tronco non troppo muscoloso del fratello, come una restauratrice di fronte al dipinto. «Forse ti sono venute dopo che ieri hai scatenato la magia dell'ago.»
«Sì, il potere più figo del mondo ce l'ho io», commentò amaro. «È involontario, lo sai.»
«Non ti sto dando la colpa, dico solo che il sigillo si è indebolito», commentò innervosita. «E se non ha funzionato per uno stupido ago, e se quello stupido ago veniva davvero dalla grotta, questo è un chiaro segnale che...»
Nehroi rabbrividì di colpo e infilò rapidamente la felpa, poi raccolse la tracolla e si rimise in marcia con passi veloci, staccando di nuovo la sorella. Non avrebbe sopportato di essere trattato come un bambino ancora una volta.
La sentì pestare i piedi alle sue spalle, sfiancata dalla corsa per raggiungerlo una seconda volta e, non percependo un'altra paternale in agguato, rallentò lievemente.
«Non voglio che sembri che non ho fiducia in te», mugugnò Savannah dopo un po', con quel tono di voce che a Nehroi ricordava tanto la brehmisth che gli piaceva da piccolo. «Ma non sai nemmeno tu perché il sigillo ha cambiato colore, no?»
«Io non ho sentito nulla, quindi non era grave.»
Da quando aveva scoperto di essere una jiin, sua sorella era diventata gradualmente sempre più autoritaria, dandogli spesso degli ordini perché lei percepiva questo, lei poteva fare quell'altro, lei, lei, lei... e questo spesso lo infastidiva, anche se non lo dava mai a vedere.
«Però non è sbagliato pensare che è stato causato dalla maledizione che hai toccato in Perù, non credi?», proseguì lei imperterrita.
«Il grandioso potere di respingere e fare danni involontari in presenza di magia, intendi?»
Savannah rise amaramente. Nehroi si fermò e voltò verso di lei, deciso a concludere il discorso una volta per tutte. «Non è tanto grandioso se vivi gomito a gomito con una jiin e rischi di ucciderla anche se sei in bagno, lo so, ma quella grotta è straripante di magia e se posso respingerla o ritorcerla contro il mittente... beh, non è una cosa positiva?»
La ragazza aprì la bocca per ribattere, ma lui continuò a parlare prima che le uscisse qualche suono.
«Tu dovresti continuamente alzare barriere, distruggere i punti magici e sprecheresti un mucchio di energie mentre io cammino beato tra incantesimi e trappole che si distruggono da soli! Quindi se c'è qualcuno che può sopravvivere a qualsiasi cosa magica ci ritroveremo di fronte... quello sono io! E ce la farò, credimi!»
Savannah esaminò il viso di suo fratello, perdendosi nei lineamenti maturi e nelle sopracciglia sotto la fronte ampia, corrugate in quel modo serio e potente che tanto le piaceva, passando poi agli occhi verdognoli, smeraldini o castani a seconda delle luci dei due mondi; stava fissando un ricciolo scuro tra i tanti che gli ricadevano sul viso vicino alle tempie quando annuì lentamente, regalando una piccola vittoria a quel ragazzo tanto impaziente di non esserle più di peso e di prendere veramente parte alla loro missione.
Lo stava ancora fissando quando il suo viso diventò la nuca e il petto la schiena. Lo osservò allontanarsi di qualche passo, scalare un paio di rocce ed esaminare la vegetazione e chinarsi ad osservare le tracce lasciate dagli animali.
Savannah guardò in alto, quel buco nero che ormai era decisamente distinguibile e riconoscibile nell'assenza di piante ed erba, e si domandò cosa sarebbe successo ad un brehkisth, creatura che repelle la magia per natura acquisita, se fosse riuscito a fare sua l'immensa magia della grotta...


*-*-*-*



Olé, terzo capitolo! :D Ed essendo tale, non potevo più fare delle specie di introduzioni... nel primo vi ho illustrato a graaaaaaandi linee come sarà la storia, nel secondo ho presentato meglio i protagonisti e adesso... un pochino di azione! E nuovi dettagli più o meno succulenti ^^
Prima che mi linciate, no: non ho infilato i 4 marmocchi tanto per. Mi serviranno più avanti, anche se effettivamente ho scritto fin troppo su di loro... chiedo venia xP Diciamo solo che non riuscivo a trovare un buon momento per far finire la narrazione, così ho inserito anche la spiegazione del brehkisth, variante maledetta dei brehmisth... capiremo meglio l'entità di questo nuovo stato (antimagia involontaria, ahah!) più in là! :]

Ringrazio ancora le mie carissime recensitrici! Non credo continuerei a postare questa storia se non ci foste voi a commentarla! <3 E un grande grazie a Silvar, arrivata dopo ma alla grande!


Al prossimo capitolo! Finalmente entriamo nella grotta, yuhuu (xD)!

Ciao!

Shark

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Capitolo 4
*** Quando si è Soli ***





4
Quando si è soli



La montagna diventò sempre più ripida, costringendo i due fratelli a fare diverse soste lungo la scalata e numerosi cambi di rotta. Spesso imboccavano sentieri sbagliati, false piste o rischiavano di cadere in crepacci pericolosi mentre animali feroci minacciavano di attaccare. Quando scoprirono che per raggiungere la grotta avrebbero dovuto arrampicarsi su un versante così tanto ripido che poteva definirsi verticale, Savannah tentò di salire con la magia in vari modi, fallendo con ognuno: cercò di farsi trasportare immaginando una carrucola, di sfruttare un meccanismo simile a quello visto nei film di uno strano supereroe, e anche di fare un balzo potente con sostegno magico. Ogni volta piombava nuovamente a terra, faccia nella polvere.
«Ti sei appesantita sulla Terra?», domandò Nehroi. Lei minacciò di lanciargli una scarpa.
«Te l'avevo detto che quei cheeseburger prima o poi si sarebbero vendic-ahia!»
Savannah fece poi un consistente utilizzo di magia per evocare dalla casetta in Virginia il kit di arrampicata, svenendo per lo sforzo non appena le funi e i moschettoni comparvero nelle sue mani. Nehroi la portò in spalla fino ad un posto più sicuro, lontano da pericoli geologici e faunistici, e la assistette perché si riprendesse in fretta con erbe trovate nei paraggi e il talismano benefico che custodiva gelosamente nella tracolla.
La mattina dopo, gli occhi viola di Savannah erano vispi e attivissimi, così i due fratelli iniziarono a scalare la roccia verticale che portava, dopo molti metri di moschettoni e paletti, alla loro meta.

Nehroi guardò quella che finalmente era un'enorme grotta, alta almeno due metri e larga tre, così tanto lunga e buia che si poteva vedere ben poco dall'esterno. Le rocce rosse che formavano l'arco e le pareti erano giganti, sembravano lavorate a mano, in alcuni punti come se fossero fatte di argilla e in altri di legno: la leggenda diceva che Aldeolar spostò materialmente la grotta e che la mise così in alto perché non vi entrasse più nessuno. Il suo sforzo, però, fu vanificano nei secoli: «Non si può impedire a qualcuno di fare qualcosa in un mondo dominato dalla magia», constatò il ragazzo, mentre ammirava estasiato l'enorme vallata grigia di Bastreth che si erano lasciati alle spalle, con la città che si estendeva in lontananza fino a formare una sottile linea biancastra sull'orizzonte.
«Ai suoi tempi c'erano meno persone e meno jiin», sottolineò una Savannah molto provata, intenta ad esaminare la zona circostante. Trovava curioso e raggelante il modo in cui la vegetazione (cespuglio, albero o filo d'erba che fosse) non riuscisse a vivere in nessun centimetro nel raggio di sei o sette metri dalla grotta, in nessuna direzione, e ne dedusse che la magia della grotta che non permetteva la vita fosse la causa dei suoi fallimenti per salire senza scalare.
«Il nonno diceva che qui venivano spediti in punizione i criminali e gli assassini, proprio perché sapevano che non ne sarebbero usciti», proseguì Nehroi, ricordando un'altra variante della leggenda, «Che l'ha costruita un gruppo di jiin potentissimi come canale per arrivare al regno degli inferi...»
«A Mjoklur, sì.» Savannah sospirò e si sedette nella polvere, esausta. «Sempre che la mitica grotta non sia frutto delle dicerie di gente impaurita e niente più che una grotta.»
Nehroi ridacchiò e la guardò incredulo. «Sei ancora scettica!»
«Ora e sempre», sorrise beffarda. Non era da lei credere troppo facilmente in ciò che diceva la gente, nemmeno se fosse stata l'intera popolazione del mondo di qua, di là e di sopra.
«Jut ha avuto quell'incidente, però», insistette il fratello, sicuro di aver ragione, «E quegli aghi? E il fatto che la vegetazione qui non può crescere?»
Savannah increspò le labbra e corrugò la fronte. «Una spiegazione ci sarà, ma io non credo ancora che la grotta sia veramente un canale per Mjoklur.»
«Io vado lo stesso.»
La ragazza ebbe un fremito nervoso e si sistemò a gambe e braccia così tanto incrociate che al fratello diede l'impressione di non essere in grado di districarsi prima di qualche ora. «Nel nostro programma di viaggio non era ancora compresa una tappa per l'inferno, ricordi?»
Nehroi fece spallucce. «Tanto è una grotta normale, no?»
Savannah lo fulminò con lo sguardo. Il ragazzo alzò gli occhi e sbuffò. «Senti, ci interessa il medaglione o no?»
«Non se è laggiù.»
«Adesso hai cambiato idea?», la derise; poi tornò serio. «Prima o poi dovremo andarci, comunque», ribatté acido.
«Solo quando avremo un piano per tornare indietro!», abbaiò. «Non faremo i turisti nell'aldilà!»
«Faremo?», sibilò Nehroi portandosi di fronte alla sorella, ancora seduta, e svettando troneggiante di fronte al suo viso. «Tu non entri!»
Gli occhi di Savannah si ridussero a due fessure e la stretta sugli arti aumentò. «Mi stai mettendo da parte, per caso? Dopo tutto quello che ho fatto per portarti quassù?»
Lo scambio di sguardi di fece sempre più intenso ad ogni gelido secondo che passava tra di loro, in quel luogo sperduto e temuto dal mondo. Le iridi verdastre di Nehroi erano incatenate stabilmente a quelle violacee di Savannah che, con i capelli corvini al vento, non accennava minimamente a volersi fare da parte. «Se speri che io ti lasci andare da solo ad affrontare tutto quello che...»
«Se tu speri che io ti lasci venire con me, tu che sei l'unica che saprebbe far funzionare i nostri tesori, il lavoro di una vita, e che potresti portare avanti la missione e...»
«Non stiamo più parlando della missione, lo sai bene! Tu cerchi il potere della grotta, vuoi diventare un jiin!»
Nehroi esitò. Socchiuse gli occhi e si allontanò dalla sorella, ferito nell'orgoglio. «Cosa ci sarebbe di male?», domandò con un filo di voce. «Ti sarei solamente d'aiuto.»
La ragazza si alzò rapidamente in piedi, sciogliendo la sua posizione marziale in un battito di cuore, e gli si avvicinò di corsa, come se stesse per cadere a terra. Gli accarezzò la guancia con due dita e sorrise. «Tu mi sei già di immenso aiuto, e lo sai», disse dolcemente.
L'altro scostò il viso. «Portarti in spalla, dici? Lorwar, lui sì che ti era d'aiuto», commentò aspro. «Ti aiutava ad aprire i portali, sapeva attivare gli incantesimi e...»
«Lorwar è morto», disse con fermezza. «E tu non sei lui.»
Nehroi sgranò gli occhi, incredulo e divertito. «Infatti! Infatti, è proprio questo che cerco di dirti! Io non posso fare nulla! Se c'è un pericolo sei sempre tu ad alz-»
Savannah gli afferrò un braccio e lo strattonò con forza. «Non osare dire che sei sempre rimasto in disparte!», lo interruppe bruscamente. Poi qualcosa nei suoi occhi cambiò radicalmente, il viola divenne più tenue e il suo viso si rabbuiò. «Se fossimo realmente di fronte alla leggenda, sapresti che hai una possibilità su un milione di tornare indietro... eppure sei così tanto impaziente di lasciarmi.» “Sola”, avrebbe aggiunto, ma quella parola si impigliò nella sua gola e non ne uscì.
«Non voglio lasciarti», rispose lui dopo un po'. «Lotterò al meglio che posso e resisterò fino alla fine, che spero sia in questo punto, qui, all'aria aperta... ma se non ce la dovessi fare, so che troverai un rimpiazzo migliore del pezzo originale. Lorwar lo era, e quando l'ho visto morire io...»
Savannah gli tirò uno schiaffo che riecheggiò per tutta la valle, assieme al “ouch!” addolorato del ricevente. Le cinque dita rimanevano rosse sulla guancia e non accennavano a sparire, né a diminuire d'intensità.
Si guardarono ancora una volta, poi Nehroi strinse la cinghia della tracolla per farsi forza, aprì la borsa e controllò i suoi amuleti e armamentari vari; infine, si voltò verso la grotta. «Rompi il sigillo», disse a voce bassa.
Savannah tentennò ed esitò. Poi sospirò rassegnata, alzò una mano e sfiorò la sua schiena, sulla scapola. Chiuse gli occhi e immaginò il sigillo tatuato che scivolava via come acqua, disperdendosi come aveva imparato anni prima, poi si ritrasse in fretta e si allontanò dal fratello come se scottasse: la maledizione aveva già iniziato a respingerla.
Nehroi si sentì più leggero e, senza voltarsi, si lasciò avvolgere dall'oscurità della grotta.
Tirò fuori la fedele torcia elettrica dopo aver rischiato cinque volte di inciampare fra le rocce e dopo averlo effettivamente fatto due. Il soffitto andava via via abbassandosi mano mano che proseguiva, costringendolo a chinarsi per evitare di prendere anche qualche botta in testa, oltre che sulle ginocchia. Ogni tanto si voltava indietro e l'ingresso luminoso della grotta diventava sempre più piccolo.
«Tutto bene fin qui», disse a sé stesso, e proseguì.
Qualche metro dopo, mentre era intento ad illuminare le numerose stalattiti che minacciavano le sue tempie, i passi di Nehroi mutarono suono radicalmente. Tump, tump, splash.
Abbassato lo sguardo a terra, il ragazzo si accorse di essere finito in una pozzanghera.
«Non è ancora niente di male, tutto bene», si disse fiducioso, «Anche se ora avrò i piedi bagnati...»
Si domandò quando avrebbe iniziato ad incontrare qualche ostacolo, di quelli che rendevano la grotta degna della sua fama e, come se gli stesse rispondendo, una parete franò alla sua destra come sabbia. Nehroi scartò in avanti per evitare le rocce che crollavano e ringraziò gli dei di tutti i mondi di aver avuto dei riflessi così tanto pronti. Ma cosa aveva fatto franare all'improvviso la parete? Nehroi si avvicinò al punto in cui intuiva ci fosse stata la prima crepa e notò diversi cerchietti dipinti in verde sulla parete e su alcune pietre più grosse. «Qualche forma di magia che doveva arrivare a me», constatò. «E si è ritorta sulla parete... chi è che deve dire “te l'avevo detto”, eh, Annah?», urlò verso la fine del tunnel, nulla più di una capocchia bianca di spillo nel nero totale.
Forte di questa scoperta, Nehroi proseguì, sempre più curioso di sapere cos'altro lo attendesse nella leggenda.

Savannah era rimasta seduta lì fin troppo tempo.
Non appena lo pensò, però, rimase immobile ancora molti minuti, prima di riuscire a schiodare gli occhi da quel buco nero che aveva di fronte. Sperava che il fratello sarebbe tornato indietro, piagnucolando di non riuscire a procedere oltre? O magari saggiamente, come una persona matura, dicendo che il gioco non valeva la candela...
Però Nehroi era entrato ormai da tre ore. E lei era rimasta seduta lì per quasi tutto il tempo.
Fu il gelo della notte ad alta quota a risvegliarla e a farle prendere la decisione più dolorosa e scomoda: scendere e trovare un riparo, magari costruendosi una tenda magica che la proteggesse dai pericoli esterni così che non dovesse preoccuparsene anche mentre dormiva, dato che non aveva nessuno con cui fare turni di veglia.
Le giunture scricchiolarono quando si alzò, poi andò a raccogliere fune e moschettoni per prepararsi alla discesa e improvvisamente si sentì vecchia. Sapeva che prima o poi avrebbe assaporato l'amaro momento in cui si sarebbe separata dal suo onnipresente fratello, ma aveva sempre immaginato di farlo alla fine della missione, quando entrambi avrebbero potuto farsi una vita per conto proprio...
Legò saldamente la corda in vita, la fece passare sotto le braccia per creare una doppia sicurezza e sistemò ogni cosa per la scalata di ritorno, maledicendo ancora una volta la grotta e il suo scudo di magia che le impediva di scendere come se fosse stata una bambina sullo scivolo, senza rischi né intralci.
Le dita premevano sulla roccia ruvida e fredda mentre i polpastrelli diventavano sempre più bianchi man mano che il peso gravava su di loro. Quando si sentì sicura di poter partire, Savannah posizionò i piedi e scese la parete con grande calma e attenzione. Stava procedendo bene, se ne rassicurò, ma ad un certo punto le mancò l'appiglio sotto al piede; avrebbe dovuto appoggiarlo un paio di centimetri più in basso, ma la sensazione di cadere le fece mancare la concentrazione e la presa delle dita si allentò troppo: prima che si accorgesse di tutte queste cose, Savannah era a terra dopo un volo di una quindicina di metri e una ruzzolata che le era sembrata infinita. Fu il dolore lancinante in ogni punto del corpo e l'odore intenso di pino muschiato a farle intuire cosa fosse successo.
La schiena poggiava su un ramo spezzato, la testa ciondolava all'indietro senza forze e le braccia erano incapaci di muoversi. Savannah vedeva solo la grotta buia, oltre i ciuffi neri che le erano caduti sul viso, e le sembrava che la stesse guadando divertita per l'accaduto.

Nehroi era stufo di camminare. Secondo il suo orologio trovato nelle patatine prese in biblioteca era entrato nella grotta da almeno un'ora, senza mai fermarsi, ma del medaglione che Aldeolar avrebbe lanciato lì dentro... neanche l'ombra. «Con che forza l'ha lanciato, per farlo arrivare ancora più là?», domandò esausto e affamato.
Con la fidata torcia esaminava ogni sasso che incontrava, normale o strano che fosse, certo che non potesse aspettarsi di trovare il medaglione per il suo luccichio, sicuramente andato perduto in secoli di umidità e incuria.
«Dovresti tornare indietro», udì in lontananza.
Il brehkisth sobbalzò per lo spavento, poi ritrovò le energie per reagire e si mise sull'attenti. «Chi è là?», domandò fermamente.
«Non dovresti essere qui», proseguì imperterrita la voce, impregnata di note forti e sibilline. «Non è il tuo posto...»
«Decido io se è il mio posto o no!»
«Decidi anche se è il momento di morire o no?», proseguì la voce, dando l'impressione a Nehroi di essere divertita.
Il ragazzo non rispose, incerto su cosa sarebbe potuto accadere. Impugnò di nuovo la sua torcia e la puntò dritto di fronte a sé, nel buio profondo, senza cambiare panorama. Eppure la voce gli sembrava più vicina...
Ricominciò a camminare. «Chi sei?», domandò.
«Sei tu che mi stai cercando.»
«Sei il medaglione di Aldeolar?»
«... dovrei?»
Nehroi sbuffò. «Mi prendi in giro? Io sto cercando il medaglione, se non sai cosa voglio allora non fare questi giochini da vecchio saggio!»
Per qualche istante nella grotta tornò a regnare il silenzio. Il ragazzo si accorse di ciò che effettivamente aveva detto e in che modo solo dopo aver finito l'ultima parola e pensò che, se fosse sopravvissuto, sarebbe stato un grandioso aneddoto da raccontare.
Ma quando sentì dei passi non suoi riecheggiare e farsi sempre più vicini, la spavalderia si estinse e al suo posto arrivò una scarica di adrenalina portata dalla paura, che divenne sgomento quando i passi finirono e la torcia illuminò una sagoma ben scolpita nei suoi ricordi.
«Ug... Ughrei?»

La prima cosa che percepì fu il tepore di qualcosa di diverso dal gelo notturno. Poi si ricordò che aveva perso i sensi dopo essere ruzzolata giù per la montagna ed essersi ritrovata contro un tronco robusto, sostituito da un materasso sfondato verso il centro...
Savannah aprì immediatamente gli occhi e la visione della casetta gialla le accecò la vista.
«Oh, ti sei svegliata!», trillò Mirey alla sua destra, annegata in un camice da infermiera troppo grande per lei. «Iniziavo a temere che fossi finita in coma!»
La jiin sentì il battito cardiaco accelerare all'improvviso man mano che il sangue fluiva nel cervello e le faceva ricordare cose più importanti di un coma. «Come mi avete trovata?», era una di esse.
Mirey sorrise e scosse la testa, materna. «Jut ha tentato di nuovo la sua impresa eroica... e quando io e Klov siamo arrivati per fermarlo, abbiamo alzato gli occhi e visto qualcuno cadere violentemente tra gli alberi», raccontò a voce bassa, cosa che le membra doloranti di Savannah apprezzarono molto. «Eravamo preoccupati perché non abbiamo sentito neanche un grido d'aiuto e siamo corsi su per la montagna... siamo scesi a fatica trascinandoti in modo da non farti male, poi Jut ha sentito che chiedevamo aiuto e siamo tornati tutti qui per curarti.»
Savannah respirò lentamente. Si sentiva come se fosse morta e reincarnata in una famiglia normale, dove una mamma ti cura amorevole e sei protetto sempre, perché c'è qualcun altro che pensa a te. Qualcosa nel suo spirito si rilassò, ma il rimpianto -o desiderio- di una vita e una famiglia normale svanirono nell'attimo in cui si ricordò della sua, di famiglia. Quella vera. «Non avete visto Nehroi?», domandò all'improvviso, facendo sussultare Mirey.
«No, noi... volevamo proprio chiedertelo, perché non era con te?», la sua voce era candida e preoccupata. «Lo abbiamo chiamato ma non ha mai risposto...»
Savannah gettò indietro la testa ed ebbe l'impulso di piangere, ma non lo fece. Chiuse saldamente le palpebre e le riaprì dopo qualche lunghissimo secondo. «Lui è nella grotta», confessò.
Jut, da seduto al tavolo che era, si precipitò al suo letto, dando una gomitata alla sorella perché gli facesse spazio.
«Ahia!», protestò, ma Jut non le diede ascolto. I suoi occhi erano sgranati e puntati sulle iridi di Savannah. «Da quanto tempo?», domandò avido.
La jiin si sentì spaesata. «Credo che fossero passate tre ore e qualcosa quando sono caduta...», cercò di ricordare. «Da quanto tempo sono qui?»
«Quasi quattro giorni», soffiò rapido il ragazzo, trepidante.
Fu il turno degli occhi di Savannah di rimanere spalancati per la sorpresa. «Sono rimasta incosciente per così tanto tempo?!», esclamò con voce stridula in iperventilazione crescente.
Mirey spintonò via il fratello e mise prontamente un panno imbevuto di acqua gelida sul petto della ragazza, poi le mise le mani a conca sulla bocca e aspettò che il respiro si regolarizzasse. Ci vollero due minuti interi di angoscia prima che la jiin riuscisse a tranquillizzarsi. La stessa cosa che prima le aveva scaldato il cuore al vedere qualcuno che si prendeva cura di lei come una madre la istigava a non protestare e seguire le istruzioni di guarigione che Mirey prontamente le dava.
La presa delle mani si sciolse solo quando la consapevolezza che agitarsi non l'avrebbe aiutata si stabilizzò nella sua testa e il respiro si regolarizzò. «Nehroi è lì dentro da quattro giorni», constatò con un filo di voce.
«Se torna vivo sarà il nuovo record a memoria d'uomo», aggiunse Jut, prontamente fulminato dalla sorella.
Savannah però non sentì quella frase. Era alla ricerca di un tassello del puzzle della ricostruzione dell'accaduto che non le tornava giusto... però non riusciva nemmeno a tornarle in mente.
Aprì la bocca per domandare un chiarimento sul racconto di Mirey quando tutto tornò e la frase che le uscì era tutt'altra. «Perché hai detto che siete saliti per venirmi a prendere?»
Mirey e Jut si guardarono interrogativi, incerti se la caduta le avesse fatto perdere l'orientamento o se fosse convinta di ciò che stava chiedendo. «Perché eravamo alla grotta...?»
«Ma la grotta è in alto, bisogna scalare la roccia ripida per arrivarci!», ribatté Savannah, ormai certa di aver trovato il dettaglio giusto. Ma perché quei due la guardavano così male?
«Sav, la grotta è in basso, vicino allo stagno», disse Mirey dolcemente.
«Noi abbiamo scalato...»
«Ma la grotta è alle pendici e non c'è nulla da scalare.»
«No! La leggenda!», Savannah sentì ribollire il sangue in tutto il corpo e scacciò la coperta con un gesto improvviso del braccio. «Aldeolar ha spostato la grotta in alto perché non entrasse più nessuno!»
Jut rise di gusto. «Spostare una grotta? Sul serio?», la derise.
La jiin si sentì mancare. Si alzò in piedi e raggiunse il tavolo barcollando come un'ubriaca, poi si lasciò cadere su una sedia e vi rimase, immobile, a fissare la parete.
Non capiva.
Possibile che ci fossero due grotte? Cosa significava quel documento trovato nella biblioteca?
E se la grotta che stavano cercando era in basso... dov'era entrato Nehroi?



*-*-*-*



Bene, sono riuscita ad arrivare al quarto capitolo ^^ oggi miss ispirazione mi ha colta e folgorata più del normale e ho scritto fino al capitolo 6 e mezzo, per cui per un po' gli aggiornamenti sono assicurati e magari anche più regolari! Olé! XD
La storia mi ha presa, ve lo confesso senza paura. Era da tantissimo che una trama non mi prendeva tanto e ora che siamo realmente nel vivo dell'azione, ammetto che anche i personaggi mi piacciono, soprattutto mi piace (e spero vi piacerà allo stesso modo) Savannah quando inizierà sul serio le ricerche del fratello... lì capirete anche perché ho inserito il rating arancione ^^

Ringrazio, come mio solito, chi ha recensito (<3), ma anche chi ha letto in silenzio (…) e/o messo solamente la storia tra i preferiti/seguiti/ricordati/checavoloneso, perché vuol dire che qualcuno che segue cmq c'è ^^ magari due paroline, eh? XP

Alla prossima!
Ciao!

Shark

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Capitolo 5
*** Duplice Grotta ***





5
Duplice Grotta



«Sono morto?»
«A te che sembra, sbarbatello?»
«Beh credo di... di no, ecco io...»
«E allora perché dici di esserlo?»
«Perché tu sei morto!»
Ughrei rise di gusto e l'eco che divampò raggelò il poco sangue ancora caldo che scorreva nel brehkisth. «Ragazzo, vedo che sei cresciuto parecchio... ma sei stupido uguale», constatò il vecchio nonno. «Mi dici perché se io sono morto dovresti esserlo anche tu?»
Nehroi deglutì e si diede a sua volta dello stupido, sentendosi improvvisamente tornare il bambino scapestrato e sregolato che si crogiolava nel sogno di sviluppare i suoi poteri e diventare jiin. «Se non sono a Mjoklur, allora...»
Il nonno era esattamente come se lo ricordava -più sui sessanta che sui settanta, la barba incolta e bianca, gli occhi chiari e gelidi- ma meno burbero e minaccioso. Forse ricordava quell'impressione solo perché da piccolo era molto più basso e inesperto di lui e si sentiva inevitabilmente inferiore...
«Nel regno dei morti, dici?»
«Sì.»
I capelli bianchi del vecchio risplendevano alla luce della torcia elettrica e le rughe erano così profonde che avevano ognuna la propria ombra. «Io vi sto ancora aspettando lì, marmocchi! Avevate promesso di tirarmi fuori, ricordi?»
Nehroi ricordava, ricordava bene. Era una tappa fondamentale della loro missione, ma non era nella lista delle priorità. «Non abbiamo ancora trovato abbastanza potere», confessò il ragazzo, quasi timoroso di deludere il vecchio, «È per questo che sono qui.»
«Siete davvero disperati, allora! A proposito... tua sorella? Non dovrebbe essere qui ad aiutarti?»
Il ragazzo si morse il labbro e improvvisamente ricordò una cosa che Ughrei non poteva conoscere.
«Ti sbagliavi, nonno», disse con antica amarezza, «Non ero io quello che avrebbe ereditato i poteri di jiin, ma lei.»
La fronte rugosa si increspò e i sopraccigli bianchi si inarcarono. «Cosa stai farfugliando, nipote!»
«Io sono un brehmist», proseguì. «O meglio, un brehkisth, dopo che in Perù ho dato fastidio a una reliquia e...»
«Non sei tu il jiin?»
Nehroi sospirò e roteò gli occhi. «È ciò che ti ho appena detto.»
Attese qualche secondo prima che il nonno dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, e quando il ragazzo si ritrovò a pregare anche che chiedesse nuovamente una spiegazione purché dicesse qualcosa, Ughrei scoppiò a ridere e svanì.

Savannah non capiva. Due grotte erano qualcosa molto vicino all'impensabile, dal momento che non aveva mai dubitato che fosse una sola, leggendaria o meno. La cosa che la turbava maggiormente era il racconto di Jut e Klov su quella che avevano visitato loro alla luce degli incantesimi di protezione che aveva aggirato faticosamente per far entrare Nehroi nell'altra: se fosse stata la grotta bassa, quella magica, perché l'altra era protetta così tanto bene?
Scosse la testa, sempre più confusa. Jut avrà anche avuto quell'incidente col braccio, ma le rocce plasmate da mani umane le aveva viste di persona e combaciavano troppo con il frammento di leggenda ritrovato in biblioteca...
Non tornava nulla, se non il pericolo che stava correndo suo fratello.
«Mamma ti ha curato il veleno», disse Mirey per distogliere la sua paziente dai pensieri che le offuscavano il viso. «Da sola non ce l'avrei mai fatta. Non so se ci è riuscita del tutto, ma credo che sia riuscita ad arginare il suo raggio d'azione. Avevi tutto il braccio nero, sai? Fino al polso e anche il busto, fino allo sterno.»
Savannah sembrò ricordarsi solo in quel momento del veleno che aveva nella spalla e sollevò la manica scarlatta della maglietta, scostando il giacchetto, per scoprire una fasciatura pulita e precisa, come non ne aveva mai viste prima, e la pelle chiara tutt'intorno, dove le era appena stato riferito che c'era solo nero.
«Deve averci messo molto ad entrare in circolo», commentò la jiin, «Non ricordo di aver provato nulla.»
«Quando ti abbiamo trovata nella foresta la macchia era molto più grande di quando ci siamo incontrate», proseguì Mirey con una calma molto adulta. «Anche la mamma crede che sia un Veleno Peggioratore.»
Era una categoria di veleni magici molto fastidiosa: se chi lo riceveva non si accorgeva visivamente della sua presenza, non sapeva di essere stato infettato, ma se il suo corpo avesse avuto bisogno di energie per recuperare le forze e rimettersi in salute dopo uno sforzo fisico o magico o dopo una ferita, il veleno si sarebbe attivato per impedire alla sventurata vittima di riprendersi, peggiorando le sue condizioni e velocizzandone la morte e le sofferenze. Savannah ipotizzò che si fosse attivato dopo essere svenuta per l'evocazione dell'attrezzatura per la scalata e che avesse dato il meglio di sé dopo essere caduta giù per la montagna.
Non appena arrivò a quella conclusione e la trovò plausibile, la porta d'ingresso si aprì e una bella donna sulla quarantina, dai capelli biondo cenere identici a quelli di Horud e Jut, fece il suo ingresso con passo rapido. Indossava anche lei un camice da infermiera, slacciato sul davanti, e la sua era la tipica espressione di un medico, seria e sicura; una di quelle che Savannah e Nehroi temevano di più.
«Finalmente so di che colore sono i tuoi occhi, signorina», la salutò con voce amabile e modi garbati. Stava posando sul tavolo un fagotto di erbe e rami secchi mentre Horud e Klov entravano dopo di lei nella casetta gialla. «Come ti senti?»
Savannah non era mai stata così tanto a contatto con una famiglia intera, una con tutti i ruoli al loro posto, e non poté evitare di sentirsi lievemente a disagio. Si trattenne dal darlo a vedere. «Meglio, grazie.»
«Mi chiamo Helea», si presentò porgendole la mano. «Sono un'infermiera di Bastreth, nonché moglie del Capo città e madre... di questi signorini combina-guai.»
Tutti e quattro i figli sorrisero e ridacchiarono a quella battuta, certi di rispecchiare la descrizione.
«Io mi chiamo Savannah», si presentò a sua volta la jiin, per educazione e rispetto verso chi l'aveva curata.
«Sì, questa era l'unica cosa di te che già sapevo», la liquidò Helea con sguardo fin troppo pungente. «Questa e il fatto che tuo fratello è andato nella grotta.»
«Dev'essere un'attrattiva comune per i maschi che passano di qui», rispose ostile. La piega che improvvisamente aveva preso il discorso non le piaceva minimamente e Savannah fu felice di poter esporre il suo scudo di difesa e le parole taglienti.
Helea non sembrò raccogliere la sfida e aprì il fagotto di erbe, selezionando quelle meno rovinate in una ciotola. «Devo cambiare l'impacco che ti ho messo sulla spalla o il veleno tornerà a darti fastidio e non guarirai più... poi ti porto in ospedale, ora che puoi camminare, così farai dei controlli più sicuri.»
«Grazie per la prima e no grazie per la seconda», rispose la jiin. «Apprezzo il suo aiuto, ma devo tornare alla montagna il più in fretta possibile.»
Helea annuì. Poi lasciò le erbe e prese posto dall'altra parte del tavolo, seduta di fronte a Savannah.
La fissò con i suoi occhietti scuri. «Credi di poterlo ancora riprendere?»
La ragazza non ebbe incertezze. «Sì.»
«Da quanto tempo è entrato?»
«Fosse anche un mese, lo riprenderò.»
«Hanno detto che sei una jiin, ma sei troppo giovane per essere abbastanza potente.»
Gli occhi di Savannah si ridussero a due fessure. «Mi metta alla prova.»
Mai nessuna madre si era opposta alle sue decisioni e non avrebbe ceduto nemmeno ora.
Helea annuì convinta e tuffò una mano nella grande tasca del camice, estraendone un oggetto che Savannah aveva visto tante volte in passato, prima fra tutte sulla spalla dell'uomo gigante al confine tra i mondi.
Il disco di vetro luccicò di fronte a lei e per un istante tornò bambina, immaginandosi fumo giallo a diffondersi di fronte ai suoi occhi. Ma quando intravide che il fumo era ben più scuro dell'ultima volta che l'aveva visto, Helea abbassò il rilevatore di colpo sul tavolo, coprendolo con entrambe le mani. «Ragazzi», esclamò all'improvviso. «Tutti fuori.»
I quattro fratelli si guardarono tra loro spaesati, ma non appena aprirono la bocca per protestare, la madre urlòdi nuovo e alzò un braccio verso la porta. «Fuori!»
Solo quando fu certa che nella stanza ci fossero solo loro due, Helea tolse le mani dal vetro, di nuovo limpido e vuoto, e lo sollevò nervosamente verso il viso di Savannah. Il fumo divenne blu, molto intenso. Scuro quasi come la notte.
«Mio marito ha una sfumatura di blu più luminosa», disse in un sussurro, le dita tremanti. «Lui è il miglior jiin di Bastreth da anni, come puoi essergli superiore?»
Savannah fece del suo meglio per non notare il tremolio nella voce della donna, sinceramente sorpresa e shockata. Non lo sapeva nemmeno lei il motivo, sebbene fosse a conoscenza della graduatoria e delle percentuali di individui ad ogni scalino. Primo fra tutti era il nulla, ciò che rimaneva prepotentemente di fronte a Nehroi e a tutti i brehmisth; poi c'era il giallo, tipico di ogni neonato jiin o di quelli che non hanno mai usato molto i poteri, e l'arancione, per i jiin fino ai dieci anni circa; seguivano il rosso, per chi ha studiato fino ai vent'anni e ha una buona posizione nella società, e il blu, per chi ha studiato, si è esercitato molto e ha un'ottima posizione, generalmente di comandanti e responsabili di qualcosa, come le città; oltre il blu c'era il viola, ma raramente si arrivava a quel livello e, ancora più avanti, il nero. Si diceva che i jiin che crearono la grotta di Aldeolar fossero tutti neri. Oltre al nero, il bianco. Ma nessuno sapeva se fosse un vero livello o un'invenzione.
«Perché hai fatto uscire i tuoi figli?»
«E fargli vedere che una ragazza comparsa dal nulla è più potente di loro padre?», ribatté in fretta, agitata. «Non devono smettere di credere in lui, o tutta Bastreth li seguirebbe a ruota.»
Savannah non trovò nulla da obbiettare, ben consapevole dei metodi di elezione dei Capi Reggenti di Ataklur.
«Io devo andare», esordì dopo un po', cercando di riportare il discorso dove voleva lei.
Helea sospirò e non accennò a lasciarle gestire la conversazione. «Come hai raggiunto un livello così alto? Che scuola hai frequentato?»
Alla jiin venne da ridere e soffocò a stento quell'impulso. «La vita», rispose seria.
«I tuoi genitori sono potenti?»
«E chi lo sa?»
Qualcosa cambiò negli occhi scuri dell'infermiera, ma la ragazza non seppe identificarlo. Poi Helea sospirò e annuì, lasciando perdere le molte domande che probabilmente le frullavano in mente.
«Ti accompagnerò per controllare e curare eventuali ricadute durante il percorso, se vuoi», propose. La jiin accettò.

Nehroi iniziò a dubitare della sua salute mentale, ma non trovò nulla a cui attribuire un crollo tale da fargli immaginare di parlare col fantasma di suo nonno, così decise di continuare camminare. La torcia iniziò a funzionare ad intermittenza dopo pochi passi e, nel giro di pochi metri, il brehkisth si ritrovò nel buio più totale. «Merda!»
Premette un pulsantino sull'orologio e utilizzò la debole luce dello schermino digitale per cercare le pile nuove nella borsa, pile che però non aiutarono la torcia a riprendere il suo lavoro, anzi: si spense persino l'orologio.
“Savannah avrebbe formato una palla di luce”, pensò involontariamente, dandosi poi dell'idiota.
Udì uno scricchiolio in lontananza, proveniente da destra, e la tranquillità di cui aveva disposto fino a poco prima svanì completamente. Si accucciò a terra e camminò quasi carponi, tastando il terreno portando in continuazione in avanti le mani.
La tattica si rivelò vincente: in quel modo riuscì ad evitare tutte le rocce che l'avrebbero fatto inciampare e quelle appuntite che lo avrebbero ferito dall'alto. Le mani tastavano il terreno duro e ruvido quando, gradualmente, questi divenne più morbido e liscio, come velluto.
Nehroi si fermò: anche l'aria era diventata diversa, più... zuccherosa?
«Sono finito in una fabbrica di dolciumi?», si domandò quando la consistenza del pavimento divenne fin troppo morbida, elastica e soffice come marshmallows.
«Come sognavi da piccolo.»
La voce di nonno Ughrei lo fece sobbalzare e il cuore gli batté in petto fin troppo velocemente. Nehroi si mise a sedere, evitando la possibilità di andare a sbattere con la testa contro qualcosa che non poteva vedere, e cercò di capire da dove avesse parlato il vecchio. «Che significa?»
«Ti ho fatto una sorpresa», disse amabilmente il nonno. «Ricordi quando siamo andati in città a fare provviste e non riuscivo più a scollarti da quelle vetrine di dolciumi vari?»
Nehroi sorrise e probabilmente arrossì. Per tanto tempo il suo sogno più grande era quello di sfruttare i poteri che un giorno avrebbe avuto per riempirsi di caramelle gratis a non finire, dato che lui e Savannah potevano gustarne un pacchetto ogni due o tre mesi, quando il nonno aveva vinto qualcosa di più con le scommesse o giocando a poker nel mondo di là.
«“Potresti comprare un po' di rhum in meno e qualche dolce in più”, era stato il tuo disco rotto per giorni.... ora che siete cresciuti, sei riuscito ad abbuffarti come volevi?»
Il ragazzo annuì sorridente. «Al mio compleanno Savannah modifica l'aspetto di entrambi e andiamo a strafogarci di ogni schifezza nei grandi centri commerciali nel mondo di là, e quando è il suo compleanno facciamo lo stesso ma nei negozi di tecnologia. Ovviamente senza pagare. »
«Perché vi camuffate?»
«Telecamere di sicurezza.»
Il nonno sospirò amareggiato. «Ai miei tempi non c'erano quelle diavolerie, gli umani ci rendono la vita sempre meno divertente...»
Nehroi avrebbe passato ore a raccontare al nonno le avventure che lui e la sorella avevano fatto in entrambi i mondi, in una breve ma intensa vita passata in assenza di regole e di divieti, di obblighi e … Nehroi gliene avrebbe parlato a lungo, anche solo per avere finalmente qualcosa da raccontargli, come mai aveva potuto fare quando era solamente il vecchio a ricordare il passato avventuroso e far sognare i nipotini.
«Che ci fai qui?», gli domandò dopo un po'.
«Ti guido.»
Il ragazzo alzò un sopracciglio. «Questa grotta non è per niente pericolosa, sai?», constatò spavaldo, «Hai sempre ingigantito la storia, volevi spaventarci e basta, vero?»
«No. Sei tu che sei... la grotta non capisce come prenderti, ma presto ce la farà e sarai spacciato.»
Quelle parole rimasero sospese tra i due come un ponte instabile fatto di dubbi e sincerità indistinguibili. «La grotta... pensa?»
«La grotta reagisce. È stata progettata per portare in disgrazia chiunque la varchi, indipendentemente da chi sia.»
Una mano si posò sulla spalla di Nehroi. «Lasciati guidare», gli disse il nonno, «Ti porto al medaglione.»

Helea non si scostava da Savannah neanche di un passo. La ragazza era consapevole di camminare veloce, ma non riusciva più a capire se lo stesse facendo per la fretta di arrivare da Nehroi o per vedere se riusciva a seminare la donna, instancabilmente al suo fianco. Ogni volta che le chiedeva se dovesse rallentare, l'altra rispondeva categoricamente no, sebbene avesse il fiato corto, e proseguivano imperterrite.
Arrivate alle pendici della montagna, dopo ore di cammino estenuante per entrambe, Helea prese Savannah per un braccio e le indicò un'altra strada. «La grotta è di qua», le disse.
La jiin appuntò mentalmente il nuovo percorso e la seguì. «Con Nehroi siamo andati più in alto, vedi lassù?»
Alzò gli occhi e un dito per indicarle il buco nero circondato dalla moria vegetativa che ancora la incuriosiva, ma non lo trovò. «Vedo dove?», domandò la brehmisth.
Savannah strizzò gli occhi e guardò in diverse direzioni: la roccia ripida c'era, le distanze combaciavano, ricordava quella zona di alberi... ma dov'era la grotta? «Era lassù, te lo giuro!», balbettò frenetica, presa da un attacco di panico. «Quella roccia ripidissima, la vedi? Noi l'abbiamo scalata! La grotta era là in cima, era lì!»
«Calmati, Savannah.»
«E non c'erano tutti quegli alberi e i cespugli e... era tutto morto! Non cresceva nulla lì attorno!»
Gli occhi scuri della donna si assottigliarono, attenti. «Ne sei sicura?», le domandò.
Savannah annuì, ancora sconvolta. «E mi era anche impossibile arrivarci con la magia, abbiamo scalato come gli umani...»
Helea trattenne il respiro e si portò le mani alla bocca. «Avete trovato quella vera!», esclamò a bassa voce, come se non dovesse farsi sentire da nessuno.
«“Vera”?»
La brehmist accelerò il passo e raggiunsero la grotta bassa in meno di un quarto d'ora: era più piccola dell'altra, circondata da una vegetazione così tanto rigogliosa che la copriva parzialmente ed era vicina allo stagno che le avevano detto i ragazzi, dove le rane gracidavano in maniera quasi assordante. La luce filtrava a stento tra le foglie dei rami e toccava terra disegnando qualcosa di simile ad una rete bucherellata o una scacchiera.
«Questa grotta è stata costruita per chi vuole sfidare la leggenda», spiegò Helea con voce sempre più timorosa. «In pochissimi lo sanno... io lo so perché mio marito è il capo della città e non può ignorarlo.»
«L'hanno costruita per sviare la gente?»
Helea annuì. «Non si poteva rischiare che andassero nella vera grotta, incontro ad una continua morte, così già da generazioni la leggenda è stata modificata e si narra che questa è la grotta giusta.»
Savannah trovò che la cosa avesse senso. «E qui dentro cosa c'è?», domandò.
«Qualche trappola e incantesimo, più che altro per spaventare i ragazzi. Niente di pericoloso, ma sono principalmente loro che vogliono entrarci, non più i disperati o chi vuole morire.»
«E per alimentare la leggenda della pericolosità continui a far inseguire Jut e Klov dalla sorella, giusto?»
Helea sorrise. «Se scoprissero che non c'è pericolo inizierebbero a cercare l'altra, e solo gli spiriti sanno cosa potrebbero trovare.»
Savannah chiuse le palpebre ed inspirò profondamente. Aveva provato a fare lo stesso anche quando Nehroi stava per entrare nell'altra grotta, ma la magia contraria glielo aveva impedito.
Dilatò i sensi e lasciò vagare la mente dentro la grotta, nel buio, in cerca di conferme. Incontrò vari incantesimi, poco pericolosi, e qualche trappola per far prendere spaventi ai più coraggiosi. Una materializzava delle mani che sfioravano le caviglie, altre due o tre facevano cadere fluidi dal soffitto, altre ancora attivavano urla e illusioni, ma in fondo...
Savannah aprì gli occhi di scatto, respinta da qualcosa che non seppe identificare.
«Cosa c'è?», le domandò Helea, preoccupata.
«In fondo», disse. «Laggiù c'è qualcosa.»
La donna sbiancò.
«Ok, io entro.»
Helea aprì la bocca all'improvviso, ma spezzò le parole in gola e le uscì solo un verso soffocato. La mano era ancora alzata a metà, incapace di afferrare realmente il braccio di Savannah, come se fosse stata trattenuta da qualcosa o ci avesse ripensato. La ragazza si voltò e la guardò stupita, poi comprese. «Non sei più preoccupata per la mia salute», asserì atona.
La donna non fu in grado di rispondere e chiuse la bocca.
Savannah ridacchiò. «È perché sono un'orfana, giusto?»
Non ricevette risposta. «È sempre stato così, tranquilla», disse la jiin beffarda.
Si sentì un'illusa per aver creduto che diventando adulta le cose sarebbero cambiate: agli occhi del mondo magico, essere orfani rimaneva una gravissima macchia, anche fuori dall'infanzia e dall'adolescenza.
Helea chinò la testa. «Mi dispiace, io...»
«Tutto a posto. È già tanto che mi hai curata. Aspettami qui, però.»
Si voltò nuovamente verso la grotta ed imitò il fratello, lasciandosi avvolgere dall'oscurità.

«Ehi, nonno!»
La presa sulla spalla lo guidava a destra e a sinistra, si faceva più pesante se doveva abbassarsi e gli faceva malissimo quando era il caso di fermarsi.
«Ci tengo alla spalla, sai?»
«Sei entrato in una grotta magica affidandoti ad una fonte di luce umana», borbottò il vecchio alle sue spalle, «Ringrazia che ci sono io, sciagurato.»
Nehroi non se la sentì di ribattere, ma nemmeno di ringraziare. Mentre faceva il burattino, iniziò invece a domandarsi cosa avrebbe detto Savannah del suo incontro con il nonno, sempre se gli avesse creduto; probabilmente sarebbe rimasta incredula per qualche istante per poi buttarlo giù dalla montagna dicendo che non era vero.
Alzò un sopracciglio e il suo passo rallentò. «Che ti succede?», domandò Ughrei, turbato.
Tralasciando il fatto che Savannah non credesse a niente e a nessuno per principio, perché lui accettava di buon grado il ritorno del vecchio?
«Chi mi assicura che sei realmente tu?», domandò all'improvviso.
Il nonno ridacchiò. «Non è un po' tardi per questi dubbi?»
Dalla sua c'era il ricordo dei dolciumi, una cosa che potevano sapere solo lui, Ughrei e la sorella.
«Sono io, quant'è vero che avete seppellito la pistola con me per aiutarmi a proteggermi nel Mjoklur», continuò il vecchio.
Nehroi si sentì confuso: anche quello era un ricordo esatto. Ma non era convinto.
«Quando sei morto eravamo ancora troppo piccoli per fare due più due», disse, «Anche se sapevamo come cacciare e usare armi umane e non... comunque adesso posso chiedertelo.»
«Cosa?»
«Tu sei nostro nonno, giusto?»
Il vecchio rise di gusto e Nehroi ebbe l'impressione che le pareti della grotta tremassero. «Allora prima non sbagliavo a darti dello stupido!»
«Rispondi», sibilò gelido.
La presa sulla sua spalla diminuì d'intensità.
«Sì, certo.»
«E chi è nostro padre, tuo figlio?»
Ughrei sembrò turbato. «Non vi è mai importato nulla dei vostri genitori», bofonchiò.
Nehroi sentì la rabbia ribollire nelle vene. «Non ci è mai importato nulla!», urlò fuori di sé, «No, certo che no! Perché mai a due bambini dovrebbe importare qualcosa dei propri genitori, eh? Perché mai dovrebbero sapere chi sono la loro mamma e il loro papà, perché mai dovrebbero chiedersi perché tutti gli altri bambini ce li hanno e loro no? E perché mai...», la sua voce non vacillò neanche per un istante: Nehroi era davvero furioso e l'aver taciuto quei pensieri per tutta la vita non aveva contribuito a dargli pace. «Perché mai avrebbero dovuto chiedersi perché gli altri bambini e la gente di strada tirava loro sassi e verdure marce quando passavano, additandoli come dei criminali...»
Ughrei non disse nulla.
«Dopo la tua morte non avevamo più nessuno», proseguì il ragazzo, ormai senza voce e senza furia, solo odio. «In questo mondo i bambini senza famiglia sono come la peste, e tu lo sapevi.»
«Cosa vuoi che ti dica?»
«Chi è nostro padre, almeno lui.»
«Non cambierà nulla.»
Nehroi annuì irritato. Lui e Savannah conoscevano a memoria le cicatrici subite da entrambi durante i vari linciaggi dalla scomparsa del vecchio ed erano entrambi decisi a non voler cercare mai di togliersele con l'aiuto della magia. Erano parte di loro, li avevano forgiati e iniziati alla solitudine e all'aiuto reciproco come unica forma di sopravvivenza. Sapere chi fosse suo padre non le avrebbe tolte né avrebbe cambiato il fatto che c'erano, erano lì, sulla loro pelle.
«Dimmelo.»
Però ora aveva la possibilità di chiederlo. Ora non era troppo piccolo per capire, non stava chiedendo un capriccio.
«No.»
«Risposta sbagliata.»
Il vecchio ridacchiò. «C'è una sola cosa sbagliata, qui nei paraggi, ed è la tua presenza qui.»
La presa sulla spalla aumentò all'improvviso, ma non per guidarlo: Nehroi si sentì spinto in avanti con violenza, come se dietro di lui ci fosse una calca di persone che dovevano superarlo di corsa.
Mosse qualche passo in avanti, cercando di non cadere, ma il pavimento della grotta scomparve.
Nehroi precipitò.





*°*°*°*





Questo è il tipo di finale che adoro lasciare in giro :3
In realtà ero mooolto tentata di unire 5 e 6, ma lasciare un po' di suspance in questo punto mi attirava all'inverosimile, e così ho ceduto.

Per chi se lo stesse chiedendo (... non faccio nomi :P), Helea io la pronuncio "Hilia", perché all'inizio la volevo chiamare Eleanor e poi ho de-umanizzato il nome. Diciamo così.

E' un immenso piacere vedere che la storia vi ha ormai catturate e leggere le vostre impressioni è davvero inebriante: a volte mi sembra che scriva nuovi capitoli solo per leggere le vostre impressioni e bearmene! x3
Quindi ringrazio tantissimo chi recensisce e anche chi legge e basta, perché il contatore non mente e qualcuno SO che c'è ^^

Alla prossima, belli!
Ciao!

Shark

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Capitolo 6
*** Duplice Inganno ***





6
Duplice Inganno



Savannah rise. Dapprima lievemente, incredula, poi di gusto, davvero divertita.
Era arrivata in fondo alla grotta senza particolari problemi, salvo l'angoscia del buio che la attanagliava da quando aveva memoria, disattivando le varie trappole e fatture disseminate per spaventare gli avventati avventurieri.
Si era ritrovata di fronte al “qualcosa” che aveva percepito da fuori e che l'aveva incuriosita guidandola fin lì. Nehroi comparve alla luce del suo globo luminoso.
«Perché ridi?», chiese il ragazzo.
«Perché non sei mio fratello.»

Quando Nehroi finì di precipitare, le prime cose che percepì erano il dolore, simile a quello di mille pugnalate in ogni centimetro del corpo, e una sensazione orribile e viscida che lo copriva dalla testa ai piedi, dall'odore così ferroso che gli ricordava solamente il sangue; poi notò l'ingresso della grotta: di fronte a sé, come se fosse entrato da pochi metri. La luce esterna lo accecava e gli occhi bruciavano al vedere tanta luminosità dopo ore e ore di buio intenso, ma non c'era parte di lui che non fosse contenta di vedere l'uscita da quel buco infernale.
Si alzò in piedi barcollando per il dolore e uscì rapidamente, finalmente convinto che non valesse più la pena rimanere lì a cercare un medaglione che non c'era e a subire i giochetti di un morto.
«Annah», soffiò a voce spezzata. «Savannah!», urlò poi a gran voce oltre la vegetazione inesistente.
La chiamò svariate volte, poi rimase in silenzio e tese le orecchie. Alla sorella non piaceva urlare, così avevano escogitato uno stratagemma: ogni volta che si perdevano, lui la chiamava e lei rispondeva inviando una farfalla completamente rosa che lo guidasse per trovarla.
Rimase ad occhi chiusi in ascolto per alcuni minuti, ma non sentì nessun battito d'ali familiare.
Alzò il braccio per pulirsi il viso con la manica e si stupì vedendo che non era diventata rossa come immaginato. Abbassò gli occhi su di sé e non vide nessuna macchia, nessun liquido, niente di niente: era pulito. Ma continuava ad avere la sensazione di essere ricoperto di sangue. Sentiva i capelli appiccicati alla fronte, i rivoli che colavano lungo le guance e sul torace, ma non trovò nessuna conferma di tutto ciò: i capelli erano a posto e sotto la maglia c'era solo la pelle.
Scosse la testa. «Sto davvero impazzendo», commentò, poi notò che la corda per scalare era ancora lì per terra, così decise di scendere a cercare la sorella.
La trovò poco dopo, intenta ad arrostire un uccellino nel rifugio che si era creata tra gli alberi.
«È così che aspetti il ritorno dell'eroe?»
Gli occhi viola saettarono verso di lui e un gran sorriso splendente li accompagnò. «Sei tornato!», trillò gioiosa.
Nehroi incassò l'abbraccio come mai aveva fatto prima, serenamente. «Avevi ragione tu», le disse all'orecchio. «Quella grotta è inutile.»

«Sì che lo sono.»
«No.»
Savannah ammise che quel ragazzo avrebbe potuto ingannare molte, davvero molte persone tra tutte quelle che avevano incontrato Nehroi almeno una volta nella vita, ma non lei.
Quella copia era lievemente più bassa dell'originale, e più magra. Su quello non si sarebbe mai potuta sbagliare: un disco rotto che spesso tornava a galla tra loro era la pancetta di uno e il sederone dell'altra.
«Senti», gli disse spazientita, «Puoi uscire di qui e prendere in giro chi ti pare, ma non me.»
Il falso Nehroi alzò un sopracciglio, divertito. «Davvero posso?»
«Accomodati!»
Il ragazzo fece un passo, osservando la reazione della jiin; ne fece altri due, tre e quattro, poi rovinò a terra, le caviglie unite da un lazo di corda per scalate.
«Dovresti imparare a capire quando la gente ti prende in giro, sai?»
«Amabile come sempre, sorellina.»
Il lazo tornò nelle mani di Savannah e si arrotolò nuovamente al suo fianco. «Non sono tua sorella.»
Alzò il palmo della mano destra e, prima che riuscisse a sfuggire, il falso Nehroi si ritrovò imbrigliato in una rete invisibile che gli impediva di camminare liberamente.
Savannah gli afferrò un braccio e lo trascinò fino all'ingresso della grotta, stupendosi che Helea fosse rimasta realmente lì ad aspettarla.
«È lui? L'hai trovato?», le domandò trepidante.
La ragazza lasciò cadere a terra il prigioniero senza complimenti. «Ha il suo aspetto, ma non è mio fratello.»
«Oh!»
Si chinò verso di lui e lo esaminò attentamente. «Sei persino rasato», commentò, «Credi davvero che Nehroi avrebbe avuto il tempo di farsi la barba in cinque giorni di speleologia?»
La copia non seppe cosa ribattere. «Bene bene», sorrise, «Mi hai smascherato davvero... complimenti! Di solito la gente impazzisce un po' prima di arrivarci, sai?»
Helea trattenne il respiro. «Ecco perché dicevano di aver visto i loro cari!», esclamò.
«Chi?», domandò Savannah.
«Ogni tanto si sentono voci di persone che dicono di aver ritrovato persone defunte ancora in vita, ma non avevano mai ammesso di essere venuti qui alla grotta!»
La copia di Nehroi ridacchiò divertita. «Non tutti capiscono il trucco...»
La jiin stese le dita e gli fece perdere il sorriso facendogli esplodere un bomba sonora vicino alle orecchie. Helea non riuscì a capire cosa fosse successo, ma sobbalzò lo stesso per la sorpresa dello scoppio improvviso.
«Dov'è Nehroi?», sibilò Savannah.
Il prigioniero stava ancora facendo delle smorfie per lo shock dell'esplosione. La ragazza lo scrollò per le spalle: “Dov'è Nehroi”, scandì direttamente nella sua testa.
«Stronza.»
«DOV'È!», urlò a pieni polmoni, rossa in viso.
«Lalala... non ti sentooo...»
Scosse elettriche si diffusero nel corpo del falso Nehroi a partire dalla presa di Savannah sulle braccia. Il prigioniero si contorse da capo a piedi come un'anguilla.
«Che stai facendo!», squittì Helea alle sue spalle; Savannah la ignorò e non smise di scaricare.
«Rispondimi!», abbaiò in iperventilazione, fuori di sé.
Sentì la presa di Helea su una spalla. «Finiscila, ora!», la intimò. «Lo stai uccidendo!»
Non era vero, ma la jiin diede comunque tregua alla copia, anche solo per dargli modo di parlare.
Quando vide nuovamente il suo sorrisetto, però, non riuscì a risparmiarsi un pugno ben assestato sul naso.
«Smettila, Savannah!»
«Helea, ascoltami: se questa creatura ha le sembianze di mio fratello, sicuramente l'ha incontrato nella grotta», spiegò come se stesse parlando ad una ritardata, «E se mantiene le sue sembianze anche sotto tortura, mio fratello è ancora vivo! Queste creature devono mantenere la connessione con l'originale che copiano, capisci? Io sto solo provando che...»
Il viso della donna si indurì come marmo e i suoi occhi divennero pungenti come spilli e Savannah non si stupì nell'accorgersi che non era la prima volta che ne vedeva di simili.
«Ecco perché gli orfani devono essere isolati», sputò Helea acidamente. «Tu e tuo fratello sareste dovuti rimanere ai servizi sociali per sempre.»
Savannah sorrise, non riuscendo a provare altro che desolazione e pena per quella donna tanto radicata nei principi di quel mondo malsano.
«Già, peccato che i vostri servizi sociali cerchino solo di ucciderli, gli orfani», sottolineò amaramente.
«I jiin orfani sono violenti e senza controllo, lo sanno tutti!», sbraitò Helea, fuori di sé dalla rabbia. «Avrei dovuto immaginarlo prima, ma Mirey mi aveva assicurato che non eri pericolosa!»
Savannah sentì risalire nelle vene il disprezzo provato in tutta la vita nei confronti di persone che la pensavano come Helea: uccidere gli orfani da piccoli, per non avere problemi una volta cresciuti.
«Che sorpresa, eh?», disse con malizia. «Hai curato me, una di quelli che odi di più, e hai pure visto di persona che sono più forte del più forte in tutta Bastreth.»
Non sapeva perché si stesse rivoltando tanto contro Helea, in fondo non era lei ad aver cercato di annegarla nel sonno o di farla divorare dai cani o, ancora, di averle sparato come una vile umana mentre giocava... ma i suoi pregiudizi la rendevano poco diversa dalle persone che aveva incontrato nell'infanzia.
«Cosa ti conviene fare?», le domandò retorica. «Rimanere con me e chiudere la bocca o cercare di scappare? Chissà se sono più veloci le tue gambe o la mia magia.»
Helea deglutì, bianca come un cadavere, e si sentì impotente, in trappola come un topino da laboratorio.
Savannah non amava dover usare i suoi poteri per ricattare la gente, ma non era nemmeno la prima volta che le accadeva di dover usare quella carta. Tornò china sulla copia di Nehroi, divertito dalla discussione, e gli appoggiò un ginocchio sullo sterno, premurandosi di fargli sentire tutto il suo peso.
«Lo chiederò ancora, una volta ma solo una», disse, «Poi non mi sarai più utile.»

Lo stomaco di Nehroi brontolò così tanto che temette di sentirne l'eco nella valle.
«Ho come l'impressione che tu sia affamato», commentò Savannah.
«Acuta come sempre... quell'ex pennuto ti va tutto?»
La ragazza gli porse la coscia di carne non senza esitazioni.
«Sicura?», domandò Nehroi mentre lo divorava senza pietà.
«Ne prenderò un altro più tardi...»
Savannah rimase ad osservare il fratello trangugiare quel piccolo pasto come se non avesse mangiato nulla per mesi e la sua espressione lasciava trasparire senza dubbi il suo scetticismo. «Come mai tanta fame?», domandò.
«È stata una gran brutta esperienza», si limitò a dire. Poi gettò alle sue spalle l'osso, perfettamente ripulito, e si tolse la tracolla di dosso, non senza gemiti. «Cerca delle bende, per favore», le disse mentre si sdraiava. «Ho male ovunque e non so nemmeno cosa mi è successo...»
Savannah inclinò la testa di lato, sorpresa. «Che intendi?»
Nehroi alzò le braccia e fece spallucce. «Davvero, Annah, non ne ho idea. Quando sono entrato nella grotta è andato tutto bene, ho evitato la magia come immaginavo e poi...», alzò gli occhi su di lei, deciso a scolpirsi nella mente ogni singolo cambiamento nella sua espressione mentre gli rivelava i dettagli sull'incontro con il nonno.
Osservò i suoi occhi viola stringersi come se stesse cercando di metterlo a fuoco, poi sgranarsi del tutto per la sorpresa, mentre le labbra disegnavano una O perfetta. «L'hai incontrato?», soffiò.
Il ragazzo annuì. Non era il genere di espressione che si sarebbe aspettato, ma non gli dispiaceva non essere stato mangiato vivo come ogni volta che cercava di dirle qualcosa di strano a cui non poteva credere.
«E com'era?»
Nehroi corrugò la fronte. «Era come sempre, sai... esattamente come lo ricordavo.»
«Ma certo», commentò lei, «Un fantasma rimane identico al momento in cui muore, no?»
«Ammesso che fosse un fantasma.»
«E che altro poteva essere?», ridacchiò lei. «Poi che è successo?»
Nehroi abbassò lo sguardo sulle sue scarpe, forse ciò che era rimasto più provato dall'ingresso nella grotta del suo equipaggiamento, e rimuginò sui piccoli dettagli che lo stavano facendo impazzire. Savannah era anormale. Più solare del solito, comprensiva e paziente, senza manie di onniscienza e... troppo simile alla sorella che lui vedeva oltre la realtà, quella che a volte si ritrovava a desiderare di avere. Ma perché improvvisamente era lì e non solo nella sua mente? Il brehkisth non sapeva cosa pensare. Inoltre ancora non sapeva cosa fosse successo nella grotta, dove fosse caduto e come fosse tornato all'ingresso: era un loop? O semplicemente un vicolo cieco che riportava alla partenza? No, si disse, non aveva patito neanche un milionesimo di ciò che si narrava sulla grotta, anche se la sua maledizione avesse deviato ogni cosa diretta a lui passo dopo passo.
“La grotta reagisce”, aveva detto il nonno. Non poteva essere gà finita.
«A cosa stai pensando?», la voce di Savannah lo distrasse all'improvviso, come un graffio sul disco di vinile.
Riportò lo sguardo su di lei e mise da parte le sue supposizioni. «Al fatto che mi sono ritrovato all'uscita all'improvviso, con la sensazione di esser stato trafitto da mille coltelli e di essere ricoperto di sangue.»
Qualcosa negli occhi della ragazza si indurì. «La “sensazione”?», domandò in un sibilo, come faceva quando era nervosa.
«Sì... ti dispiace?», la punzecchiò. «Avresti preferito vedermi tutto bucherellato?»
«Perché allora hai chiesto le bende?»
Nehroi si morse un labbro. «Perché non so con precisione se non sono stato ferito da nessuna parte», mentì.
La ragazza alzò un sopracciglio, vagamente sorpresa, ma nei suoi occhi era rimasto il fastidio per quella notizia. Poi fece spallucce, si alzò e si avvicinò alla tracolla del brehkisth, per cercare le bende, ma lui le afferrò il polso.
«Che fai?», domandò. Impallidì quando vide l'espressione truce, arrabbiata, inviperita del ragazzo.
«Non ti fa niente?», domandò indicando la sua mano sul polso.
Savannah boccheggiò, completamente persa nel panico di quell'imprevisto.
«Chi sei tu?», scandì Nehroi rialzandosi in piedi e trascinando con sé quella che ormai era sicuro non fosse più la sorella.
«S... sono io, che stai dicendo! Sei caduto di testa nella grotta?»
«Ancora non ti fa nulla?»
«Non stai stringendo molto, io...»
Nehroi ridacchiò, incredulo della sua leggerezza. «Mia sorella», sottolineò, «La mia vera sorella è una jiin, lo sapevi?»
La finta Savannah cercò di liberarsi dalla presa.
«Al mio contatto si sente bruciare, affogare e bombardare... intrigante, vero?»
La prigioniera aprì la bocca, visibilmente presa in contropiede. «Perché?», domandò semplicemente.
«Perché mi ha sciolto il sigillo prima di entrare nella grotta... quindi adesso tu, mia cara, dovresti urlare di dolore fino ad impazzire mentre ti contorci a terra finché non riesci a rotolare ad almeno due metri da me. Ora dimmi: chi sei?»
La finta Savannah smise di dimenarsi.
«Ok, beccata», ammise ammiccando. La sua figura divenne completamente nera, senza forme precise come un manichino dei centri commerciali umani, e Nehroi la lasciò andare all'istante. I suoi occhi erano bianchi e lucenti come l'uscita dalla grotta.
«Tu sei...»
L'ipotesi del brehkisth era così assurda che non riuscì ad arrivare alle labbra per essere pronunciata.
«Sì», confermò comunque la creatura, la cui voce era diventata lontana ed atona. «Ho dovuto elaborare quest'illusione per capirti, Nehroi, e ora so come distruggerti. Sarai davvero delizioso, forse anche più di tutti gli altri che ti hanno preceduto...»
Il ragazzo cercò di deglutire, ma la gola era troppo secca e si ritrovò a boccheggiare come un pesce improvvisamente all'asciutto.
«Sei la grotta?», finalmente domandò.
La figura nera si dissolse in un battito di ciglia. «Non avrai mai il mio potere.»

La creatura-copia aprì la bocca, ma non uscì alcun suono.
Savannah inspirò rabbiosa e strinse i pugni con forza, sbiancando le nocche come mai prima di allora, tanto che credeva le sarebbe saltato qualche legamento.
«Allora?», sibilò inviperita.
«Ti ho detto tutto», la provocò la copia. «Tuo fratello è nella grotta.»
«Ma non vedo più dov'è.»
«Incredibile, eh? Secondo te perché tutti hanno creduto alla bugia di questa grotta inutile e nessuno ha alzato gli occhi?»
Savannah riconobbe che era un dubbio che rientrava nella sua lista di misteri da svelare e anche Helea, fermamente immobile alle sue spalle, era curiosa di sentire quella risposta.
«La grotta si nasconde», ipotizzò la jiin.
«No», rispose, «La grotta gioca, bambina. Proprio con tipi come te. La tua presenza è una sfida per lei.»
La jiin allentò la presa ma rimase appoggiata col ginocchio sul suo sterno. Il viso di Nehroi provato dalle scariche elettriche era stravolto da spasmi, ma lei non se ne curava affatto; la cosa faceva sussultare solamente Helea.
«Come si vince?»
La copia rise. Rise, rise di gusto, rise fragorosamente, come se gli avessero raccontato tutte le barzellette dei due mondi in un istante solo e gli facessero anche il solletico. Sembrava non voler smettere mai.
«Ok, ho capito», tagliò corto Savannah, ammettendo di aver fatto una domanda stupida.
«Complimenti!»
«Almeno dimmi come fare a entrarci di nuovo», la sua voce tornò ferma e seria, «Io devo riprendere mio fratello.»
La creatura smise di essere interessata alla conversazione. «Arrangiati», disse dopo un po' nel suo brodo di apatia.
Helea si avvicinò alla ragazza e si inginocchiò per arrivare alla sua altezza e guardarla negli occhi.
«Savannah», le disse con voce affabile, «Non ricaverai niente da questo... da lui. Andiamo via, forza.»
La jiin non si diede per vinta. «Hai ancora l'aspetto di mio fratello», disse alla copia ignorando completamente il tentativo dell'infermiera di farla desistere. «Sei ancora in contatto con lui, o sbaglio?»
La creatura schioccò la lingua sul palato, annuendo.
«Sai dov'è», più che una domanda era un'affermazione.
«E te l'ho anche già detto...»
Savannah rinsaldò la presa sulle spalle del falso fratello. «Con più precisione!», sbraitò, nuovamente spazientita.
Gli occhi verdi si piantarono nei suoi con beffarda decisione. Poi la creatura ammiccò. «Fottiti.»
Le dita di Savannah non tremarono mentre immaginava di staccare la testa della creatura e di lanciarla lontano e non lo fecero nemmeno mentre la magia defluiva dai suoi polpastrelli per dare corpo a quel pensiero.
«Ultima possibilità», intimò di fronte ad una Helea così tanto scandalizzata da non sapere che espressione assumere e ad una creatura che rideva allegramente.
«Benissimo.»
Non appena Savannah si allontanò da lui, il collo della creatura si spezzò come si spezza il pane con le mani. Dal tronco mozzato brutalmente sgorgava sangue nero, tipico delle creature nate nell'ombra e nelle illusioni. La jiin abbassò lo sguardo su Helea, ancora inginocchiata a terra, e sulle sue dita alzate a metà che non l'avevano raggiunta abbastanza in fretta per fermarla.
«Lo hai...»
La testa senza volto della creatura rotolò nello stagno, interrompendo il gracidare delle rane.
«Ora avrai meno matti in città», disse; poi puntò gli occhi viola e gelidi verso la donna. «Prego», aggiunse diabolica.
Helea inorridì e si sentì svuotata dalla crudeltà a cui aveva appena assistito. Girò sui tacchi e corse via, più in fretta che poté, dimenticando la minaccia che Savannah le aveva fatto poco prima. Non sarebbe rimasta in compagnia di una persona simile neanche un secondo di più.



*-*-*-*



Oppalà, sono riuscita a fermarmi dal risistemare questo capitolo, non mi piaceva mai! :S
L'avventura dei protagonisti ha visto questo parallelismo tra grotte e inganni (da cui il titolo, lol) ma adesso è tempo che i due si ritrovino e, anzi, che Savannah riesca a far uscire Nehroi dalla grotta sano e salvo... già. *sghignazza* Lo so, è un po' crudele che io vi scriva queste cose quando ho già scritto i prossimi due capitoli e ideato il resto della trama per un bel pezzo (andare in bicicletta si sta rivelando essere una fonte d'ispirazione continua ._.) ma è crudele anche per me che devo misurare le parole per non spoilerare nulla! xD
Tra l'altro, il prossimo sarà molto lungo (una pagina in più della media) e stra-denso di azione...!

Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, è bellissimo leggere le vostre impressioni e vedere dove si sofferma di più la vostra lettura, se su Nehroi, su Savannah o su questo o quel particolare evento... mipiacemipiacemipiace! :3 Per cui grazie!

Alla prossima, ciao!
Shark

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Capitolo 7
*** Giochiamo ***






7
Giochiamo



Savannah si ritrovò per la seconda volta in meno di una settimana di fronte a quella odiosa parete rocciosa, troppo ripida e protetta per essere affrontata in qualsiasi modo riuscisse ad immaginare naturalmente. Aveva dubitato di poterla ritrovare, ma con un po' di fortuna il suo senso dell'orientamento e la memoria non la abbandonarono del tutto e così ebbe l'occasione di vedere la grotta in versione “botanica”, nascosta da arbusti, erba alta, cespugli e rami vari come la sua gemella alle pendici della montagna.
La corda per scalare era ancora lì, fedele al suo fianco, ma quando la impugnò e iniziò a legarsela in vita, il suo sguardo si soffermò su moschettoni spezzati e chiodi ricurvi sparpagliati alla base della parete. Pensò che fossero una conseguenza della sua caduta di qualche giorno prima, una poco logica conseguenza, e provò a prendere un chiodo per aggiustarlo e rimetterlo nella parete. Il chiodo si spostò.
Come due magneti di poli uguali, Savannah e il chiodo non riuscivano a toccarsi, costretti a rimanere sempre a cinque centimetri di distanza.
Provò ad avvicinarlo con un bastone, ad aiutarsi coi piedi, a prenderlo con la magia, a lanciargli un sasso per tenerlo fermo... ma tutti quei tentativi non servirono a nulla: non riusciva a toccare nessuno di quegli attrezzi, le sfuggivano tutti come saponette.
Fu quando alzò gli occhi e vide che la parete rocciosa non era più scalabile ma liscia come marmo levigato che comprese cosa stesse succedendo.
«Allora è vero che ti piace giocare...»

Nehroi si diede dello stupido.
Non che lo fosse, o almeno era quello che aveva sempre pensato e che si era spesso confermato con idee geniali su come uscire dalle più disparate situazioni in cui lui e la sorella si cacciavano. Aveva solo lasciato che stupidamente finisse in un'illusione («E lo sanno tutti che è una roba mentale e non magia pura, ma io pensavo di essere immune anche a quella!»), che si facesse fregare stupidamente da un morto («Un fantasma, andiamo! Davvero non potevo trovare niente di meglio?») e che ci mettesse troppo tempo a rendersi stupidamente conto che quella che pensava fosse sua sorella non lo era affatto («Dalla mia, posso solo dire che ero stanco e appena caduto da un pozzo o non so che.»).
Nella sua analisi si ritrovava in contrasto continuo tra il darsi dello stupido e il darsi risposte logiche e persino serie ad ogni evento che gli era capitato: «L'odore dell'illusione? Zuccherino! E io cosa vado a fare? Mi faccio fregare dal nonno!», mugugnava a ripetizione. «Ma sì, Neh, fatti convincere da un ricordo o due pescati all'inferno! Se prima avevamo dei dubbi... ora è chiaro come il sole che quella grotta non è normale. E l'ho pure conosciuta di persona!»

La jiin smise di muoversi e tese le orecchie. Sentiva un brusio strano nell'aria, come se qualcuno stesse parlando in continuazione senza pause. Il suono si avvicinava sempre più, dalle sue spalle, dal versante della foresta. Come se volesse arrivare alla grotta come lei.

«Meno male che Savannah non è venuta con me, chissà cosa sarebbe riuscita a...»
Si fermò e notò qualcosa di diverso nella parete rocciosa che lo separava dalla grotta, circondata come sempre da moria vegetativa. Era qualcosa di simile ad una presenza e per un attimo temette di rivedere il fantasma di Ughrei.
«Aveva ragione lei», si disse sconsolato. «Sono uno stupido.»

Savannah non smise di girare su sé stessa e guardarsi attorno, come un animale in trappola o come un predatore nella disperata ricerca dell'obbiettivo.
Il suono si era attutito, ma ancora non era riuscita ad identificarlo per bene e la cosa la faceva impazzire.

Nehroi abbassò lo sguardo e vide i chiodi usati nella scalata e i moschettoni, tutti rotti a terra.
Poi lo vide. Vide il gruppo di impronte che si formavano e sparivano in continuazione nella terra appena davanti alla parete rocciosa in uno strano vortice circolare. Le impronte erano piccole, di una persona probabilmente bassa ed esile, che portava scarpe da ginnastica... ma a lui non servivano tutte quelle analisi per identificarle. Era una vita che le vedeva sulla sabbia, nel fango, sotto la pioggia...
«Annah?»

Savannah si bloccò all'istante.
“Annah”.
L'aveva sognato?
Il suo desiderio di ritrovare il fratello poteva essere arrivato a farle immaginare che la stesse chiamando? Mai nessuno aveva abbreviato il suo nome, sebbene fosse lungo e strano.
«Neh?», provò con un filo di voce.
Chiuse gli occhi. Scosse la testa.
Cosa si aspettava, una risposta?

Quando Nehroi vide nuovamente le impronte, che da banderuola impazzita erano diventate un passo fermo, si chiese se non avesse causato lui quel cambiamento aprendo bocca. Con tutti i guai che si era trascinato addosso in pochissime ore, si disse, poteva benissimo aver allungato la lista.
Poi udì una voce, la voce che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Diceva semplicemente “Neh”, con il tono titubante e l'aria di un sussurro timoroso che gli riportava immediatamente davanti agli occhi il ricordo di una piccola bambina con gli occhi viola e i capelli neri, corti e arricciati sulle punte, che si nascondeva sotto il letto quando il nonno era di cattivo umore, che correva con lui nel deserto di Feinreth, che imparava ad usare i poteri in un mondo non suo, che sfuggiva alla morte ancora e ancora, quando i coetanei giocavano a pallone in bei giardini fioriti.
Se fosse stato un jiin avrebbe pensato “come per magia”, eppure fu quella l'impressione che gli diede veder comparire le scarpe rosse e rotte della sorella nel punto in cui prima c'erano solo orme, impressione che proseguì alzando lo sguardo sui jeans infangati e sgualciti, sulla maglietta bordeaux con due grandi triangoli gialli sulle maniche - sotto una delle quali c'era un'enorme benda che non aveva mai visto - e infine su quei capelli neri che le arrivavano oltre le scapole e sugli occhi viola, sempre viola, ma smarriti e sconvolti.
“Neh”, aveva detto.
Per lui era un intero universo che si riapriva in una sillaba.
«Savannah! Finalmente!», esclamò gioioso.

La ragazza sentì di nuovo il brusio e collocò la sua origine da qualche parte di fronte a sé, non troppo distante. Guardò ancora intorno, per essere sicura che non le stesse sfuggendo qualcosa, ma non vide assolutamente nulla di strano.

Nehroi non capiva. Perché la sorella guardava tutto il resto e non lui? Erano a meno di un metro di distanza, lui era perfettamente di fronte a lei. Anzi, gli avrebbe chiesto di allontanarsi e darle spazio, ma i suoi occhi lo superavano, come se fosse... invisibile.

Scosse la testa e si voltò nuovamente verso l'attrezzatura rotta ai piedi della parete rocciosa.
«Vuoi fregarmi, eh?», disse con una punta di odio e di nervosismo, «Questi trucchetti per confondermi non hanno effetto, grotta ruba-fratelli che non sei altro.»
Esaminò la parete liscia come il vetro e si domandò come avrebbe potuto scalarla ancora, senza aiuti di nessun tipo, né magico né umano. Non c'era nessun appiglio da sfruttare, neanche sul versante adiacente della montagna, improvvisamente levigato a sua volta.
Si guardò attorno: nella nuova vegetazione scorgeva piante a lei note e una soluzione le solleticò la mente; si tolse le scarpe e le legò assieme con un nodo tra i due lacci, poi si tolse anche i calzini, li mise in tasca e si precipitò fra i cespugli. Strappò tantissime foglie di diversi tipi e le schiacciò con un sasso per farne uscire il nettare. Poi sputò sul ricavato e impastò la poltiglia con le mani. Non era abbastanza densa per ciò che aveva in mente, così piantò le unghie nella corteccia di un albero, per strapparla via. Le ci vollero svariati tentativi prima di riuscire ad ottenere la tanto cercata resina: aggiunse anche quella alla poltiglia di foglie e sputo e sorrise soddisfatta. Si cosparse le piante delle mani, si avvicinò alla parete e le appoggiò su di essa: faticavano a staccarsi. Fece scorta di quel miscuglio colloso, si mise le scarpe al collo e si cosparse di poltiglia anche le piante dei piedi, poi iniziò la scalata.
Reggeva. Faceva fatica, rischiava di scivolare ad ogni respiro e si faceva male alle dita per lo sforzo impossibile di reggere tutto il corpo, ma con quel metodo riusciva a salire la pietra liscia senza magia e senza aggeggi umani.

Il brehkisth non capiva cosa stesse facendo la sorella. Perché si era tolta le scarpe e stava scalando con l'aiuto di quella schifezza vegetale? Corrugò la fronte e le si avvicinò. «Che stai facendo?», domandò con convinzione, anche se senza aspettarsi una risposta.
Osservò la sua tecnica di arrampicata e non la trovò affatto logica: perché evitava tutti gli spuntoni della roccia e le insenature dove avevano appoggiato i piedi la volta prima?
Sbuffò frustrato, poi afferrò la parete a sua volta e iniziò l'arrampicata con lei. Non capiva cosa stesse facendo né perché volesse salire una seconda volta, ma era suo fratello: avevano condiviso tutto, da sempre... avrebbero condiviso anche quello.

Ogni volta che staccava una mano o un piede per metterli un po' più in su si sentiva morire e pregustava il sapore della terra che l'avrebbe accolta dopo essere caduta, magari con qualche osso rotto. Non c'era istante in cui non pensasse che se si fosse rotta qualcosa forse non sarebbe riuscita a guarire in tempo per salvare Nehroi ed era quella la sua forza per non sbagliare mai e non arrendersi. A metà strada le scivolò la corda per scalate che portava arrotolata al fianco e non poté far altro che guardarla volare sotto di lei. «Quella mi sarebbe stata utile», commentò con rammarico. Continuò la salita tra uno sbuffo e un sospiro, tra un gemito e un'imprecazione, fino a quando i metri che la separavano dal suolo non divennero più di quelli che mancavano all'arrivo.
Quando le dita non incontrarono più l'odiosa parete liscia ma la roccia muschiata che circondava la grotta, Savannah si concentrò ancora di più per non sbagliare proprio all'ultimo a causa di un sospiro di sollievo tirato troppo presto.
Arrivò in cima dopo un'eternità, l'aria lassù sembrava essere più pulita, più fresca, più profumata più... tutto. Aver superato l'unico ostacolo che poteva metterla seriamente in difficoltà era già una mezza vittoria. Questa e altre mille cose pensava mentre posava la schiena sulla roccia, lasciava i piedi a penzoloni e apriva le braccia doloranti come se si stesse arrendendo al cielo sopra di lei.
Chiuse gli occhi. Il vento era stupendo.
Ma non si concesse quella pace tanto a lungo: si mise a sedere e cercò di togliersi quella poltiglia dalle mani e dai piedi, adesso che era inutile e solamente schifosa, usando un sasso piuttosto piatto come rasoio. Non se ne andò del tutto, ma la maggior parte sì; si rimise calzini e scarpe, si pulì le mani sulla giacchetta e sentì ancora quello strano brusio.
Ora che le sue preoccupazioni erano diminuite, decise di fare più attenzione a quel suono. Non sembrava provenire da nessun insetto, a volte sembrava un motore, di quelli con tanti scoppi e sbuffi, ma come se fosse ovattato e lontano, e altre volte una caffettiera. La cadenza con cui si ripresentavano alcuni suoni, però, le ricordava le parole in una frase, ma non riusciva a comprendere mai molto.
Ormai era convinta che avesse solamente immaginato che Nehroi la stesse chiamando per nome.
Perché non si sarebbe fatto vedere o sentire meglio, se fosse stato realmente lui?

Non fu facile. Nehroi si ricordò perché era stata necessaria l'attrezzatura per scalare non appena si ritrovò a meno di un metro da terra: era faticoso, pericoloso, quasi mai c'erano gli appigli giusti sia come distanza (a volte metteva il piede così tanto vicino alla mano che si ritrovava a darsi una ginocchiata) che come dimensione (spesso non riusciva nemmeno ad appoggiare una falange). Però Savannah, accanto a lui, continuava a salire imperterrita e lui la imitò come se fosse uno specchio, cercando anzi di non rimanere mai troppo indietro. Quando la corda per scalare cadde a terra, non aveva appigli abbastanza solidi per allungare una mano ed afferrarla, così non aveva potuto fare altro che guardarla volare in basso con lo stesso rammarico di Savannah.
Raggiunta la cima, tirò un gran sospiro di sollievo, parallelo a quello della sorella, e sorrise. Ce l'avevano fatta. Ancora non aveva capito perché Savannah non riuscisse a vederlo e perché avesse scalato in quella strana maniera, ma ce l'avevano fatta. Insieme.
Si voltò verso di lei e la vide pulirsi tutte quelle schifezze con cui si era cosparsa e ancora non riusciva a capire a cosa le fossero servite. «Ora qual è la prossima mossa?», domandò più al vento che alla jiin. «Vuoi entrare anche tu?»
Savannah stava tendendo le orecchie e corrugando la fronte come se stesse cercando di origliare qualcuno. «Puoi sentirmi?», domandò Nehroi entusiasta. «Se tu riuscissi quantomeno a sentire la mia voce sarebbe già grandioso!»
Quando la vide sedersi e guardare verso quel buco nero infernale, però, la desolazione tornò a sopraffarlo. No che non lo sentiva. Sembrava che provenissero da due dimensioni parallele stranamente a contatto, come succedeva spesso nei film fantascientifici degli umani.
Savannah guardava nella grotta ma non sapeva che la grotta guardava lei.
Nehroi la notò subito, un paio di metri più indietro a sinistra della ragazza: figura nera umanoide senza sesso né dettagli. Solo nero, e due occhi luminosi come piccoli fari incastonati lì per caso.
«Cosa sta succedendo?», le domandò il brehkisth, diretto verso di essa. «Perché non riesce a sentirmi e a vedermi?»
«Te l'ho detto, ho elaborato un'illusione per te.»
La sua voce era fredda, distante, come quella di un adulto quando risponde al bambino senza volerlo fare, solo per potersene liberare il prima possibile. Non aveva una voce cavernosa, per essere una grotta, ma decisamente normale. Solo apatica e atona.
«Quindi lei è nel reale e io nell'illusione, giusto?», assimilò il ragazzo, trovando stranamente logica la rivelazione. Solo perché si era allontanato dalla figura della grotta poco fa non voleva dire che avesse finito di essere alla sua mercé.
“Illusione o no”, pensò, “Io ho ancora fame.”
Savannah sembrava essere caduta in contemplazione mistica della grotta davanti a lei e la grotta, alle sue spalle, sembrava di rimando in contemplazione della jiin.
Nehroi ruppe il cerchio di osservazioni con un pacchetto di patatine, parente di quello in cui aveva trovato l'orologio scarico che aveva al polso.

Savannah non sapeva cosa fare. Entrare nella grotta ora che sapeva che era il luogo più pericoloso dei due mondi? Non era esattamente l'idea migliore che avesse avuto in vita sua.
Ma come avrebbe recuperato suo fratello senza entrarci?
Sembrava non esserci altra soluzione... ma sembrava anche che la grotta non avesse ancora voglia di metterla alla prova così in fretta.
Cercò di approfittare di quel momento di pace per rielaborare le idee. Perché non c'era più la moria vegetativa che aveva visto arrivando la prima volta? “La grotta gioca”, aveva risposto la creatura nell'altra caverna. Sì, giocava ed era evidente, ma non sapeva quali fossero le regole, come potesse uscirne e cosa fare esattamente per recuperare Nehroi.
Savannah si sentì spacciata.
“Sono entrata in una cosa più grande di me”, si disse. “E tutto per colpa di quello scemo.”
Si alzò in piedi e si stiracchiò le giunture. «Se non c'è altro modo...»
Si tolse la polvere di dosso con qualche manata e si guardò attorno accuratamente, in cerca di altri guai imminenti. Poi entrò nella grotta.

Savannah era entrata. Il rammarico nella sua voce sembrava più resa nei confronti di una sfida molto impegnativa che non poteva permettersi di perdere, ma Nehroi era sicuro che fosse solo apparenza.
La figura nera non si perse un passo della ragazza. I suoi occhi erano ridotti a due fessure, come se stesse cercando di leggere parole troppo piccole o di vedere immensamente lontano.
Nehroi finì le patatine e gettò il pacchetto nella borsa. «Secondo giro, allora...»
Guardò la silenziosa e inquietante compagnia, ancora immobile ad osservare la jiin. Quando Savannah scomparve completamente nella grotta e accese un globo luminoso, la figura si mosse e fece per seguirla. Nehroi scattò in avanti e le si piazzò di fronte prima che potesse raggiungere la sorella.
Gli occhi della figura nera scintillarono come gemme. «Credi di potermi fermare fermando questa mia rappresentazione?»
«Non l'avresti assunta di nuovo se non avesse qualche utilità.»
Nehroi aveva la sensazione di iniziare a capire come ragionava quella “cosa”, anche se la lista dei dubbi continuava ad essere più lunga di quella delle certezze. Di una sola cosa era certo: non avrebbe mai permesso alla grotta, in qualunque forma si fosse presentata, di fare del male a Savannah.
La bloccò solo per una manciata di secondi, però, perché dopo quel breve scambio di battute la figura nera sparì.

Savannah aveva già bloccato una quantità enorme di intralci che l'avrebbero fatta perlomeno cadere a terra: fili invisibili, getti d'aria, scosse energetiche... erano molti gli avvertimenti inseriti nella grotta per allontanare le persone comuni e far avanzare solo chi resisteva, molti di più rispetto alla grotta fittizia. Si appuntò di tornare laggiù quando tutto fosse finito e di aggiungerne altri lei stessa, per renderla più interessante ora che la creatura in fondo alla caverna non c'era più.
Dopo un po' che camminava, evitò una pozzanghera e poco più in là trovò una parete franata; stava per aggirarla ma, mentre metteva il piede oltre il cumulo caduto, dalla parete opposta vennero lanciate piccole bombe, grandi come palline da ping pong e piene di esplosivo, che Savannah scoprì solo quando le esplose la prima vicino all'orecchio sinistro.
Materializzò una barriera tra lei e il mondo esterno, modellandola come se fosse una tuta da palombaro per non sprecare energie proteggendo spazi inutili, e le piccole bombe esplosero contro di essa senza che lei si ferisse.
Nehroi, alle sue spalle, comprese cosa era riuscito a respingere inconsapevolmente causando la frana che la sorella stava scavalcando.
«Vedi Annah?», le disse dopo aver scavalcato anche lui le rocce cadute, «È esattamente questo quello che cercavi di dirti qualche ora fa, che io evito tutto e tu no! Ecco, sei già stanca e ancora non abbiamo fatto nulla!»
La jiin scosse la testa per allontanare quel fastidioso ronzio che aveva ricominciato a sentire. Il ragazzo rise, quella situazione era decisamente assurda. Mai nella vita avrebbe pensato di diventare una persona invisibile ed inaudibile, se non in circostanze più divertenti.
La ragazza smise di camminare. Fu colpita come da una folgorazione, in maniera così evidente che fece pensare a Nehroi che fosse caduta vittima di qualche sortilegio.
Savannah lo stupì annusando l'aria con quel nasino che si ritrovava, piccolo come tutta la sua corporatura che “ti serve solo per sviare le prime impressioni”, come le diceva il fratello; annusava intensamente, come un cane in cerca della traccia da seguire.
«Patatine», disse. L'aveva trovata.
Nehroi fu percorso da un fremito e non sapeva come fosse riuscito a trattenersi dall'urlare di gioia: Savannah aveva sentito l'odore delle patatine che aveva mangiato prima di entrare nella grotta, poteva percepire di più la sua presenza!
Ma l'adrenalina della gioia si trasformò in ansia quando scorse due occhi scintillanti di fronte alla sorella. «Attenta!», le disse, poi accaddero diverse cose tutte contemporaneamente: la figura nera alzò un braccio, Savannah percepì un pericolo imminente ed irrobustì la sua barriera; Nehroi ebbe l'istinto di mettersi tra lei e l'ondata di energia che avrebbe dovuto tramortire la sorella prima ancora che il suo “No!” diventasse un pensiero formulato. Il colpo venne rispedito al mittente e si schiantò contro la parete rocciosa, che si disintegrò come un foglio carta nel fuoco.
La jiin sgranò gli occhi. «Che...?»
Non riusciva a capire cosa fosse successo: il pericolo non era per lei? Chi aveva lanciato quell'ondata energetica tanto devastante? Si voltò in cerca di chi le aveva protetto le spalle, ignorando che era proprio di fronte a lei.
«Stai bene, Annah?»
«Possibile che...»
Provò a ricollegare la sua intuizione di prima sulle patatine e sul ronzio con quello strano episodio e i suoi occhi si illuminarono.
«Possibile, sì», le disse Nehroi ma lei stava già correndo verso l'uscita attirata da un'ombra vista all'esterno.
«Neh!», gridava verso l'uscita.
«No, io sono qui! Savannah!», urlò il ragazzo alle sue spalle.
La jiin correva e schivava le frane che la figura nera, comparsa nuovamente accanto al brehkisth, provocava muovendo repentinamente due dita in tutte le direzioni mentre una risata soddisfatta riempiva l'aria circostante. Nehroi si gettò contro la figura nera, cercando di impedirle in ogni modo di continuare quella distruzione scriteriata, ma non riuscì a fermarla quanto voluto. Le abbassò il braccio, cercò di accecarla, la spintonò e provò anche a tirarle dei pugni, ma le frane si susseguivano ancora ed ancora. «Scappa, Annah, scappa!»
Savannah era vicina all'uscita quando un sasso rotolato davanti a lei all'improvviso la fece inciampare; si trascinò verso la luce puntellandosi sui gomiti e sulle ginocchia, cedendo una volta sul lato destro, una volta sul lato sinistro.
La grotta si richiuse alle sue spalle appena un istante prima che riuscisse a tirare i piedi a sé.
Si alzò zoppicante in piedi e si agitò in tutte le direzioni in cerca della sagoma di suo fratello che aveva intravisto prima, gli occhi fuori dalle orbite per la preoccupazione.
«No, no...», mormorava angosciata man mano che la consapevolezza di essere stata presa in giro si intrufolava nella sua mente. Espanse i suoi sensi, cercò in ogni centimetro della montagna che la circondava. «No!»
Esaminò l'ingresso in cerca di uno spiraglio e poi tirò un calcio all'ammasso di rocce che la bloccava inevitabilmente fuori. «NO!», urlò ancora, testimone il cielo che non era mai stata così infuriata. «Sono una stupida! Ho visto ciò che volevo vedere e...»
Un pensiero le attraversò la mente all'improvviso, ritardatario: l'energia che avrebbe dovuto distruggerla era tornata indietro. “Come se fosse stata respinta.”
Savannah si sentì svuotata di tutte le forze. Comprese cosa era accaduto, la trappola in cui era caduta, cosa aveva intuito... e cosa stava perdendo.
«Nehroi!»
Si portò le mani alla bocca, come se quell'urlo non sarebbe dovuto uscire dalle labbra. Si lasciò cadere a terra, la caviglia non era messa male ma le ginocchia iniziavano ad accusare i colpi della caduta in corsa e le energie erano scomparse con il senso di desolazione e perdita che l'aveva pervasa. Lui non era fuori come aveva creduto, era lì, era lì dentro... sigillato oltre macigni e rocce. Lo sconforto la prese vigliaccamente e una, due lacrime sfuggirono al suo ferreo controllo. Era ferita, indebolita, la grotta aveva manifestato il suo potere e Nehroi era ancora proprio lì dentro, completamente in balia sua.
Scacciò le lacrime con schiettezza soffocandole nella manica, si mise a sedere in maniera composta e cercò di programmare la prossima mossa. No, non si sarebbe mai arresa, e adesso era pure furibonda. «Stronza di una grotta, me la pagherai», sibilò velenosa.
La rabbia crescente però non poteva nascondere il flusso di pensieri che la pervadevano: se la presenza di Nehroi fosse effettivamente stata il motivo della deviazione di quel colpo micidiale... perché non l'aveva visto? Perché poteva solo sentire parzialmente odori e suoni?
Nehroi era ancora vivo, ne era più che certa. E tutte le frane che aveva scatenato fuggendo erano una conferma che la grotta non era contenta della sua scoperta.
Si trascinò indietro, sollevando non più polvere ma foglie secche e rovinando fili d'erba, poi alzò una mano, palmo aperto in direzione della grotta chiusa.
Stese le dita fino a sentirle doloranti per lo sforzo, poi portò l'altra mano sul dorso della prima, come se avesse paura che cadesse. Il gesto poteva sembrare semplice visto dall'esterno, ma la sua concentrazione era tale da farle comparire perle di sudore in fronte.
Prese un bel respiro, poi chiuse gli occhi ed ampliò la mente.
Raccolse tutte le vibrazioni sonore che riusciva a percepire nell'ambiente che la circondava – cinguettii, fruscio di foglie, rumori vari e di ogni intensità, anche lo sbocciare di un fiore – e le incanalò nel palmo della mano aperta.
Aspettò un minuto prima di essere sicura di aver fatto una buona raccolta, dopo di ché...
Prese un altro bel respiro.
Poi prese la mira.
Savannah immaginò di indirizzare tutte quelle onde sonore contro l'ingresso della grotta e venne spinta all'indietro mentre i macigni si sgretolavano con un frastuono assordante e l'oscurità che celavano si mostrava di nuovo al mondo.
Impolverata e tossicchiante, fortificata dall'adrenalina ed indebolita dalla magia utilizzata, Savannah si alzò nuovamente in piedi e si diresse verso la grotta riaperta.
Nei suoi occhi rosa, la determinazione era dipinta a caratteri cubitali.
«Ora giochiamo in due.»



*-*-*-*



La situazione si scalda davvero!
Che succederà ora? Savannah e la grotta si sfideranno all'ultimo sangue, sarà una lotta incredibile, piena di magia e... e Nehroi? Eh. Non voletemi male ^^

Cercate di capirmi, io sono stata colta da un raptus dello scrittore (malattia ultra-rara difficile da curare) e ho scritto fino al capitolo 12 compreso. Poi ho sistemato il mio file con ordine e già che c'ero ho sistemato anche i capitoli qui, come avrete notato all'inizio (nuova intestazione). Poi ho scovato una trama lunghissima che fa al caso nostro e, conclusa la "saga" di Aldeolar, sto già lavorando alla prossima. Il tutto mentre studio e passo (passo! Miracolo!) gli esami... Non curatemi! xDD

Ringrazio come sempre chi mi ha recensita allo scorso capitolo, ve ne sarò debitrice all'eternità ^^

Alla prossima, allora!
Ciao!

Shark

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Capitolo 8
*** Corpi Freddi ***






8
Corpi Freddi



Una pioggia di fuoco fu la risposta immediata della grotta, una risposta che si era fatta aspettare solo per dieci passi.
Quelle fiammelle non sorpresero Savannah e non la preoccuparono più di tanto, almeno fino a quando non iniziò a sentirsi bruciare sulle spalle e si rese conto che erano in grado di perforare la sua barriera. «Merda!»
Creò immediatamente una seconda barriera e poi una terza attaccata ad essa, ben distanti dalla prima ormai lacerata. Immaginò queste ultime più simili a vetri antiproiettile che ai materassi a cui si ispirava per le barriere per proteggersi dagli urti, come quella che si stava sciogliendo in quel momento, e poté tirare un sospiro di sollievo quando vide che non era più in pericolo. Le fiamme erano riuscite a bruciarle la spalla destra, incenerendo la manica della maglietta, parte della giacchetta e la bendatura che Helea le aveva rifatto mentre si riposavano prima di arrivare alla grotta inferiore. Se la strappò via e in quel momento si rese conto che l'avambraccio era nuovamente nero, il foro della puntura dell'ago ormai infettato. «E sarebbe un'infermiera?», commentò con voce amara quando era sicura di aver evitato la zona fiammeggiante. Il veleno si era attivato nuovamente e le forze iniziavano a latitare. «Merda.»
Nell'evitare un serpente bianco che cercava di morderla finì nella pozzanghera che al primo passaggio aveva evitato accuratamente. Il serpente si dissolse come fumo di sigaretta non appena sentì il rumore dell'acqua e la sensazione di bagnato fino alle caviglie.
Si chinò e osservò l'acqua: sembrava una semplice pozzanghera, ma in una grotta simile non poteva esserlo e basta.
Non percependo nulla di nuovo, decise di spostare quel lago in miniatura un po' più in già nella lista delle priorità. Per prima cosa doveva ritrovare Nehroi, per seconda portarlo fuori; per terza, e si augurava di seguire quell'ordine e di riuscire ad eseguire ogni passaggio, sigillare per sempre quel buco infernale.
Poi avrebbe preso il fratello a schiaffi.
Accese attorno a sé diversi globi di luce col preciso intento di non farsi più cogliere di sorpresa e proseguì con grande cautela. Camminò a lungo, per quasi un'ora, finché non vide una figura davanti a sé.
Era addormentata, forse, sdraiata su un fianco che le dava la schiena... ma Savannah non aveva bisogno di vederla in faccia per sapere a chi appartenesse quella borsa a tracolla e quella maglia sbiadita a maniche lunghe.
Ebbe l'impulso di precipitarsi da lui, ma immaginò che fosse un'esca, uno stratagemma della grotta per farle abbassare la guardia. Continuò a camminare lentamente, come se non l'avesse visto e il cuore non le stesse saltando nella cassa toracica in attesa di conoscere le condizioni di salute di Nehroi, di sapere se è vivo, se è ferito, se sta bene, perché dorme lì, cosa gli è successo...
Quando fu abbastanza vicina espanse le sue barriere come una bolla di sapone per inglobare il fratello e cercò di chinarsi su di lui lentamente, ma le riuscì solo di gettarsi a terra come un'affamata di fronte al suo cibo preferito.
Gli sfiorò le tempie e portò due dita al collo. Trattenne il respiro, in attesa di essere respinta dalla maledizione, ma non accadde nulla. Il panico si fece nuovamente largo nei suoi pensieri.
Ebbe paura di non sentire nulla o, peggio, di sentire un battito che non c'era per il solo piacere dell'auto-convincimento che no, non era troppo tardi e sì, poteva ancora salvarlo e lasciare quel capitolo alle spalle...
Percepì il suo respiro sul dorso della mano e l'ansia si sciolse come burro fuso; il suo viso si distese e sentì di aver raggiunto una piccola e significativa vittoria. Potevano ancora farcela.
Voltò il fratello verso di lei, a pancia in su, e lo esaminò con cura: non era minimamente ferito.
«Il tuo piano non era tanto strampalato, eh?», gli disse con voce spezzata. Un'ora prima pensava di averlo perso per sempre, rinchiuso nel luogo peggiore del mondo, e ora poteva finalmente essere sicura che fosse vivo...
Ma non si muoveva. Non poteva non notare che il respiro era piatto e troppo tranquillo, che non poteva non aver sentito di essere stato spostato da qualcuno, che non aveva nemmeno sentito cosa gli aveva detto... tutte queste piccole cose fluirono dentro Savannah come un fiume in piena e il panico si impossessò nuovamente di lei.
Si sentì schiacciata una forte pressione sulla barriera e scoprì che la volta della parete si era trasformata in un enorme martello che ritmicamente, come un pistone, cercava di abbattersi su di loro.
Creò una quarta barriera sopra le loro teste, più spessa delle altre, ma sapeva benissimo di non poter resistere a lungo contro tutto quel peso. Si accucciò vicino al bacino di Nehroi, gli prese le braccia e se le portò sopra le spalle, poi lo issò sulla schiena, non senza fatica («Non sono solo io ad aver esagerato coi cheesbugers, eh?»), e si spostò dal martello gigante. Quando si girò per essere sicura di essere abbastanza lontana, la volta della grotta era tornata normale.
Posò il fratello a terra e gli mise una mano sulla fronte: era freddo. Non caldo come un febbricitante né fresco come una persona sana, era proprio freddo.
«Oh no», mormorò preoccupata. Gli prese il viso tra le mani e cercò di trasferire un po' di energie in lui, stupendosi e preoccupandosi del fatto che potesse toccarlo e addirittura usare la magia su di lui senza danni collaterali: il sigillo della maledizione era ancora sciolto, l'anti-magia avrebbe dovuto fare effetto... e invece no.
«Che ti è successo, Neh, cos'hai fatto?», domandava alla rinfusa come un disco rotto. Nehroi non accennò nemmeno a variare il suo respiro calmo ma prese un po' di colore.
Staccò le mani e sospirò affranta. Forse era troppo tardi, sembrava davvero in coma.
Il suo sguardo cadde sulla borsa a tracolla del fratello e decise di togliersi un dubbio. La aprì e frugò in lungo e in largo ma non trovò buste di patatine aperte, solo una ancora chiusa. L'odore che aveva percepito prima non proveniva dal suo corpo, dunque. Che qualcun altro le avesse mangiate nei paraggi? Sorrise del suo pensiero stupido: non era certo una meta turistica, quella.
Chiuse la borsa e sospirò amareggiata. La brillante soluzione che aveva trovato poco prima di fuggire sembrava esserle scivolata via dalle mani. Cosa avrebbe dovuto pensare se l'odore non fosse effettivamente appartenuto a Nehroi? Poteva essere stato un trucco della grotta per indurla a quella conclusione... magari spingendola a crederci facendole pensare che le frane per impedirle di uscire fossero ira per la sua scoperta. Savannah si sentì venir meno: se non poteva più contare nemmeno su sé stessa e sulla sua capacità di giudizio, cosa stava facendo? Ogni deduzione poteva essere sbagliata, ogni mossa e contromossa poteva portare a conseguenze sbagliate, poteva non uscirne mai più e forse Nehroi era già con un piede a Mjoklur!
Corrugò la fronte. Forse non aveva analizzato bene la situazione. E se invece...
Alzò una palpebra del fratello e trovò la conferma che cercava. Gli occhi sono lo specchio dell'anima: quando non ci sono più, anche lo spirito è altrove, e l'iride verde e la pupilla di Nehroi non c'erano.
«Ecco cos'hai!», sussurrò soddisfatta. «Sei vittima di un'illusione! Una premorte, direi...»
C'erano tanti tipi di illusioni, in tutti i mondi, ma quella premorte era una delle peggiori: la vittima non comprendeva il suo stato e continuava a vivere normalmente parallelamente alla realtà fino a quando non si accorgeva che qualcosa nell'illusione era sbagliata, non reale. Era una tecnica usata come tortura per indebolire facilmente anche le persone più robuste ma era anche largamente usata dalle spie e dai fifoni per osservare l'ambiente circostante senza correre alcun pericolo di essere visti e sentiti; per contro, il corpo rimaneva alla mercé di chiunque se non sorvegliato a dovere e, se abbandonato per troppo tempo, il fisico non aveva più le energie necessarie a mantenere l'illusione e a vivere. Non era raro che la gente morisse perché indugiasse troppo nell'esplorare inosservati...
«Non ti preoccupare», gli disse Savannah con convinzione. «Non so perché la maledizione non mi respinge ma va benissimo così: ti passo altra energia... non morirai, te lo prometto. Ti troverò, credimi.»
Mentre lo rassicurava con varie frasi che non riusciva a controllare, gli metteva nuovamente le mani sul viso e cercava di recuperare le energie necessarie a farlo sopravvivere senza prosciugarsene lei stessa. La conferma che aveva trovato sembrava averle infuso nuova speranza: nell'illusione premorte Nehroi poteva mangiare, la mente e lo spirito erano ancora con lui e... improvvisamente si rese conto di un'altra cosa.
«Che stupida», commentò sorridendo. Si passò le mani tra i capelli e sospirò sollevata: lo spirito di Nehroi era ciò che di lui era maledetto, non il corpo. Finalmente riuscì a mettere a posto anche l'ultimo tassello del puzzle dei suoi dubbi: sì, era proprio stato lui a proteggerla dalla distruzione che aveva rischiato di disintegrarla poco prima che fuggisse all'esterno. «Grazie», sussurrò.
Poi un rumore sordo alla sua destra la distrasse e la fece balzare in piedi, pronta a difendersi e a difenderlo da qualsiasi cosa.
«E se fossi anche tu caduta nella mia illusione?», domandò una voce atona.
Savannah chiuse immediatamente un occhio e tastò la palpebra: percepiva ancora lo spessore di iride e pupilla, il suo spirito era ancora lì.
«Sei più sveglia di quanto pensassi», ammise la voce, completamente invisibile ai globi luminosi della jiin. «Sicuramente più del tuo amato fratello... ha mai pensato che essere protetto dalla magia non fosse sufficiente per proteggere anche il fisico e la mente?»
Savannah non poté che trovarsi d'accordo. «È un gran testone», commentò. «Chi sei?»
Due puntini luminosi brillarono nel buio più profondo.
«Questo gioco si fa in due», disse la voce.
«Ah, bene», la jiin sentì l'eccitazione vibrarle nelle vene. «Finalmente un incontro ufficiale.»

La figura nera riusciva a malapena a distinguersi dal resto dell'oscurità che avvolgeva ogni cosa e che lasciava intravedere qualcosa solo grazie alla luce dei globi fluttuanti di Savannah. All'inizio la ragazza aveva pensato che anche quei due puntini luminosi fossero altri globi, poi aveva intuito che la grotta avesse assunto una sembianza umanoide e si era convinta che quelli fossero occhi.
«Sei la prima jiin abbastanza forte che viene qui da quando sono nata, lo sai?», disse la voce senza bocca. «Chi entra è sempre un disperato in cerca di potere, non è mai capitato che arrivasse qualcuno che il potere lo avesse già.»
«Se ti può consolare non avevo nemmeno intenzione di farlo», commentò Savannah, ancora incredula di stare effettivamente parlando con un'entità di tale levatura. Le sembrava di vivere uno stranissimo sogno, o meglio un incubo, perché mai avrebbe potuto immaginare che la grotta avrebbe assunto sembianze umanoidi e che ci avrebbe parlato faccia a faccia.
«Sì invece», rispose la figura nera con tono seccato. «Volevi entrare con tuo fratello fin dall'inizio, io me lo ricordo bene.»
La ragazza sì sentì colta in flagrante ed annuì suo malgrado. «Era solo per proteggerlo, non mi interessa prendere il tuo...»
«Voi lo chiamate “medaglione di Aldeolar”», la interruppe, «Ma rimane il fatto che quello è stato il mi regalo per lui e che conteneva parte del mio potere. Voi lo volevate eccome.»
«Per questo credi che ti abbia sfidata?»
La voce fece un breve sospiro. «Hai anche ucciso il mio amico, e in una maniera così barbara...»
«Io gli avevo detto che pot-»
«Tu non sei niente!», scoppiò la voce, facendo tremare tutte le pareti. «Tu sei una mocciosa, polvere!, in confronto a lui che ha vissuto con me così tanto a lungo.»
La jiin fece spallucce. «Allora scommetto che non è nemmeno morto.»
«Certo che no.» La voce della grotta sembrò tranquillizzarsi. «Ma morirai tu, per l'affronto che hai recato ad entrambi.»
«Senti», Savannah alzò le mani per calmare l'entità e si rese improvvisamente conto che il veleno peggioratore era arrivato ad annerirle completamente gli arti; non lo avrebbe mai ammesso ma si sentiva indebolita e non avrebbe resistito tanto a lungo, soprattutto se fosse stata ferita ancora. «Io non ho niente contro di te. Mi dispiace averti offesa e aver fatto fuori il tuo amico, ma...»
«Staccato la testa», sottolineò la voce, seccata.
«Sì, sì, gli ho staccato... comunque hai detto che è vivo, no?», allargò le braccia e sorrise, cercando di mascherare la sua paura. «Nulla di fatto! Io voglio solo ritrovare mio fratello e andarmene, non mi interessa più l'amuleto o...»
«Parli tanto», la interruppe la figura nera. «Troppo.»
Alzò una mano - o almeno Savannah immaginò lo avesse fatto perché aveva intravisto qualcosa simile a delle dita alzarsi nel buio della creatura – e i suoi occhi si ridussero a due fessure. Savannah sudò freddo. «Mi chiedo se sarai così loquace anche senza aria.»
La jiin non fece in tempo a riempire i polmoni o a creare una bolla attorno alla testa che si ritrovò subito a boccheggiare, schiacciata dall'assenza di ossigeno. Si sentì soffocare e si portò istintivamente le mani alla bocca, come se non volesse far scappare gli ultimi respiri che possedeva.
«Sì, ottima scelta», la canzonò la grotta in una risatina lugubre. «Così quanto resisterai, un minuto? Due?»
La mano nera si spostò verso il corpo di Nehroi, ancora addormentato e freddo contro la parete rocciosa. «E a lui quanto rimarrà?»
Savannah spalancò gli occhi, allarmata. “Anche lui non respira!”, realizzò. Stava iniziando a pensare a cosa fare per non soccombere così miseramente quando vide che la volta sopra il fratello si stava staccando. Il martello di roccia stava per cadere di nuovo su di lui.

Il suo cervello si spense, forse per l'assenza di ossigeno, e fu l'istinto a fare tutto.
A posteriori si sarebbe data sicuramente dell'idiota suicida ma in quel momento, mentre un macigno di chissà quante tonnellate si stava per abbattere su di lui, inerme e inconsapevole, Savannah non riuscì a fare altro che mettersi fra di loro, carponi sopra il fratello, pregando di avere le forze per un'altra barriera. Riuscì solamente a crearne solamente una, piuttosto piccola e troppo vicina al suo corpo per attutire abbastanza il colpo.
Il martello di roccia si abbatté su di lei, stupido scudo di carne.
Il rumore delle ossa riecheggiò in tutta la caverna, accompagnato dalla risata della figura nera e da un urlo disumano, ladro dell'ultimo respiro della ragazza.
Dei globi luminosi che aveva formato ne rimasero solamente due, gli altri esplosero come bolle di sapone non appena il martello toccò la schiena di Savannah e lei si sentì morire.
Quando il masso si sollevò, pronto per un secondo attacco, la jiin non percepiva più nulla: aveva di fronte a sé il viso spento e addormentato di Nehroi, nascosto dai suoi capelli lunghi, e non vedeva altro. Non sentiva il sangue che correva via dai polsi e dalle ginocchia, o che le scendeva lungo le braccia nere dalle spalle e dalla schiena, probabilmente rotte; non sentiva più le mani, non sentiva più l'assenza di aria, non sentiva più nulla. Solo dolore indistinto, l'unica cosa che le facesse intuire di essere ancora viva, e ridotta malissimo.
Non respirava, tremava convulsamente ma resisteva, anche se non riusciva a distinguere se fosse la sua volontà a farlo o la sua incapacità di muoversi, reagire, prendere per un braccio Nehroi e trascinarlo altrove, fuori dal raggio d'azione di quel maledetto macigno.
Sentì il sibilo della seconda discesa e fu solo capace di chiudere gli occhi.
“È finita.”
Il rumore della roccia giunse in un lampo, lo schianto no.
Savannah avrebbe ansimato per la paura, ma senz'aria non riusciva nemmeno a boccheggiare, decisamente al limite delle sue possibilità fisiche. Girò lentamente la testa verso l'alto, timorosa, come se avesse paura che le si sarebbe rotto il collo muovendolo o che avrebbe attivato il meccanismo guardando le pietre, ma vide solo la roccia che cercava di scendere, bloccata da qualcosa di invisibile che poi la spinse contro il soffitto.
«NO!», urlò la grotta, intenta in una battaglia che la jiin non poteva vedere.
Savannah abbassò nuovamente la testa, per evitare la polvere e i frammenti del macigno distrutto contro la sua stessa volta, mentre un ronzio ormai familiare le arrivava alle orecchie.
Perse i sensi con un sorriso morto sulle labbra. I globi luminosi si spensero.


Nehroi, legato da lacci d'ombra alla parete della grotta, osservava sua sorella e la figura nera fronteggiarsi in duelli di magia e di nervi saldi. La creatura oscura la metteva a dura prova e la jiin non sembrava essere messa male, pensava lo spettatore con un pizzico d'orgoglio.
La grotta si era molto arrabbiata quando Savannah aveva intuito il trucco che aveva scelto per logorarlo, un'illusione davvero impeccabile, e si era decisamente infuriata quando lui aveva cercato di impedirle di ucciderla mentre scappava verso l'uscita.
«Vile brehkisth, pagherai per quest'affronto!», aveva urlato facendo tremare ancora di più le pareti della grotta, «Sei uno stupido se pensi di potermi mettere nel sacco come un pivello!»
E si era ritrovato lì, la testa martellante come se ci avessero giocato a calcio e lo spirito percorso da sensazioni viscide che salivano e scendevano da capo a piedi, legato alla roccia con lacci neri, robusti e ruvidi come l'inquietudine e la paura del buio.
Poi aveva assistito all'ingresso trionfale della sorella, non potendo non notare i suoi occhi: rosa. Le iridi viola erano una sua caratteristica peculiare, non poteva farsi sfuggire un simile dettaglio, non mentre le fiamme che le piovevano addosso illuminavano tanto bene il viso della jiin, ma non riuscì a darsi alcuna spiegazione per quel cambio di tonalità. Sapeva che le iridi in alcuni casi riflettevano una qualche condizione magica, come gli occhi gialli dei trasformati, ma non che potessero cambiare colore così all'improvviso.
Poco dopo aveva trovato il suo corpo abbandonato e Nehroi l'aveva vista prendersene cura rassicurandolo, proteggendolo dalla volta della caverna che cercava di spiaccicarli e rinforzandolo indebolendosi di conseguenza. «Non sprecare energie preziose, Annah.», aveva sussurrato quando lei gli carezzava le guance e il colore tornava su di esse. «Dovevi restare fuori da questo buco.»
La figura nera gli aveva lanciato addosso una scossa per zittirlo, lui aveva avuto degli spasmi e la sua testa aveva sbattuto contro la parete; il rumore aveva fatto scattare subito in piedi Savannah, ignara che la sua pelle era diventata nera fino alla mascella e all'orecchio sinistro.
«E se fossi anche tu caduta nella mia illusione?», le aveva domandato la figura nera, come se non avesse appena finito di torturare il brehkisth.
Lei si era tastata l'occhio per fugare il dubbio e Nehroi aveva annuito, era la mossa giusta ma lui aveva capito di essere in un'illusione quando ormai era troppo tardi e constatarlo non avrebbe risolto nulla.
«Sei più sveglia di quanto pensassi», aveva detto la figura nera, scoccando un'occhiata a Nehroi, ormai abituato a distinguere la sua oscurità da quella circostante. «Sicuramente più del tuo amato fratello... ha mai pensato che essere protetto dalla magia non fosse sufficiente per proteggere anche il fisico e la mente?»
Nehroi alzò gli occhi al cielo: lui era protetto contro la magia e contro la possessione grazie al talismano che aveva al collo, non aveva semplicemente immaginato che la grotta – una grotta, andiamo! Nessuno aveva mai detto che fosse un'entità pensante! - potesse anche ricorrere a trucchi mentali simili.
«È un gran testone», aveva commentato Savannah. Nehroi aveva messo il broncio e aveva iniziato a pensare a cosa le avrebbe detto quando sarebbe rientrato nel suo corpo, ma non aveva avuto molto tempo per giocare all'offeso perché poco dopo era diventato spettatore di una sorella boccheggiante per l'assenza d'aria.
La vide preoccuparsi ancora per lui e trovò istintivo scuotere la testa e dirle no, pensa a te e basta, ma nell'istante in cui stava pensando quelle parole c'era un macigno in procinto di staccarsi dalla volta e di precipitare sul suo corpo. Desiderò essere lì, libero e fisico: avrebbe potuto respingerlo, lui poteva respingerlo! Ma non poteva muoversi.
Nella sua mente immaginò di avere il corpo spiaccicato come una formica quando invece si ritrovò a guardare con occhi sgranati il gesto eroico di Savannah, carponi sopra di lui, incassare il colpo e urlare, urlare con la sua ultima aria in corpo, urlare il dolore e la frustrazione per quell'inutilità che era diventata nel giro di pochissimi secondi.
Il brehkist si sentì pervaso da una sensazione orribile.
La figura nera rideva di gusto e lui, impotente, legato, invisibile e decisamente inutile si sentiva morire. La grotta si stava davvero godendo la sua vittoria e non potevano farci niente.
Quando il macigno si sollevò mostrando che Savannah era ancora lì, distrutta ma irremovibile, ferma e decisa, Nehroi ingenuamente pensò che sarebbe finita. Invece il macigno stava per cadere di nuovo.
Si sentì pervadere da un fremito sconosciuto, sentiva gli occhi uscire dalle orbite, le braccia e le gambe agitarsi sotto i lacci, le vene gonfiarsi e tutto lo spirito agitarsi come se stesse per scoppiare.
Stringeva i denti e sentiva una qualche forma di energia corrergli sottopelle dalla testa ai piedi e, quando il macigno si stava staccando per la seconda volta, la sentì defluire da lui e correre verso Savannah. Fu come sollevare mille chili con un braccio solo, ma se lei aveva potuto sopportarlo per lui, lui non sarebbe stato da meno per lei.
«NO!»
La grotta urlò furibonda e strinse i lacci di che imprigionavano Nehroi strizzandolo fino al midollo, tanto che gli sembrò di entrare nella pietra, ma lui riuscì a far rialzare il pietrone e lo fece con così tanto impeto e disperazione che si frantumò contro la volta e si sgretolò, colpendo Savannah solo con qualche sassolino e calcinaccio. Non fece in tempo ad esultare, però, che la vide svenire al suo fianco, sanguinante come mai prima di allora e con la pelle completamente nera, fino alle caviglie. Ogni cosa precipitò nell'oscurità totale non appena i suoi occhi si chiusero.
Rimase solo la risatina vittoriosa della figura nera, nulla più di due brillanti luminosi nel buio assoluto. «Che spine nel fianco», disse con tranquillità, «Ma non avete mai avuto alcuna possibilità contro di me.»
Nehroi si sentì morire. Ansimava per lo sforzo e si sentiva svuotato, come un palloncino sgonfiato di colpo: aveva cercato di fare del suo meglio, aveva respinto il macigno... ma era arrivato troppo tardi.
Se solo l'avesse protetta prima che si sacrificasse a quel modo per lui...



*-*-*-*



Per postare questo capitolo mi ci è voluta mezz'ora di smadonnamenti qui su EFP perché non so come ma succedevano sempre cose a caso del tipo...
Shark:"Ora modifico la storia per sistemare il titolino in alto..."
EFP:"Non vuoi finire a casaccio nelle faq? :D"
Shark:"Anche no, grazie, torniamo all'account..."
EFP:"Eccoti nel forum! :D"
Shark:"Ma cacchio, devo solo mettere il titolo in alto!"
EFP:"Et voilà, sei entrata nei preferiti!"
Shark:"Mi prendi in giro?? Ci sto impiegano un sacco per una cavolata!"
EFP:"Così mi offendi... allora io dico che questa storia non è tua e non la puoi modificare! Gnegnegne! :P"
Shark:"@_@ una cosa dovevo fare, UNA!"
E cose così, una triste lotta impari tra me e il sito... per fortuna dopo un po' si è ripigliato e siamo tornati d'accordo ^^

Ora posso parlarvi del capitolo!
Anzi no, LOL! *frega stronzaggine da efp* Vi lascio così! xP Col dubbio su cosa succederà e sulla salute di Savannah fino al prossimo aggiornamento! Ricordo solamente il titolo "corpi freddi", un nome un programma... ^^

Grazie del supporto e dei vostri preziosisssssssimi commenti! =)
Ciao!

Shark

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Capitolo 9
*** Arancione Casa ***






9
Arancione Casa



«Deve ancora nascere il jiin in grado di battermi.»
I lacci si dissolsero e Nehroi cadde a terra come un pupazzo. L'incredulità era l'espressione predominante sul suo viso sbigottito: aveva appena assistito alla morte di sua sorella.
Aveva sempre pensato che il suo lavoro fosse quello di proteggerla, unica cosa che potesse fare per aiutarla... e aveva fallito. Si sentì svuotato di ogni energia che aveva sempre ignorato di avere.
«Per te c'è ancora futuro, se vuoi», blaterava la figura nera allontanandosi verso le profondità della grotta. «E se riesci ad uscire, certo.»
Il brehkisth recepì quelle parole con qualche minuto di ritardo, quando ormai la figura nera si era dissolta nel suo trionfo, ridacchiando malefica. Si trascinò a fatica verso i due corpi morenti, muovendosi a tentoni nella grotta buia. Sfiorò la pelle di Savannah e la sentì fredda e liscia, probabilmente completamente nera a causa del veleno che si era espanso dappertutto in lei. Sarebbe morta entro pochissimo, nel caso in cui non lo fosse già stata.
Nehroi abbracciò il corpo della sorella e non riuscì a piangere: era colpa sua, solo e unicamente sua. Non se lo sarebbe mai perdonato. Piangere sarebbe stato liberatorio, lui doveva essere punito per non averla protetta prima.
Pensò che sarebbe stato utile farle un massaggio cardiaco, forse nella speranza che l'aria potesse rientrare nei polmoni, ma si fermò subito: c'era ancora l'aria nella grotta? Lui era solo uno spirito, non badava a quelle cose. E in che condizioni era il suo corpo? L'avrebbe uccisa più in fretta? Riusciva solamente a sentire il sangue che la copriva e lo scricchiolio delle ossa sotto le sue mani mentre la stringeva a sé...
«È stata...»
Il brehkisth trasalì e alzò il volto di scatto. Non ebbe esitazioni nel riconoscere la voce del nonno, poco distante da lui. Si voltò e vide il suo viso, rischiarato da un piccolo globo luminoso, meno intenso di quelli di Savannah ma ugualmente utile nel nero universo che li aveva inghiottiti.
«È coraggiosa», commentò il vecchio con amarezza, «Da piccola non era così determinata.»
Nehroi non riuscì a rispondergli subito. Si portò una mano sugli occhi e non riuscì nel suo proposito di non piangere. “Siamo cresciuti”, avrebbe voluto dire, ma la miriade di ricordi legati a quelle due parole l'avevano sopraffatto e la conseguente consapevolezza lo aveva schiacciato inesorabilmente: era solo, solo, solo.
«Perché diamine stai piangendo, ora!», borbottò il vecchio con più vitalità nella voce di quanta Nehroi avrebbe potuto sopportare.
«Perché è morta, idiota!», sbraitò con voce roca e tremante. «Cosa credi sia successo? Abbiamo fatto una partita con quella stronza, non lo sapevi? ... e ha vinto! Ecco perché piango!»
Tirò su col naso e si passò le mani tra i capelli, stringendoli come se se li volesse strappare. Aveva gli occhi appannati e sentì improvvisamente freddo.
I passi di Ughrei risuonarono nettamente dopo quelle frasi e dissiparono la disperazione di cui erano intrise fermandosi accanto ai due corpi. Il nonno si accucciò accanto ai nipoti, i suoi occhi chiari rischiarati dal globo opaco.
«Non mi sbagliavo, prima», disse tranquillo. «Sei davvero stupido.»
Nehroi si sentì ancor più esasperato.
«È colpa mia, è vero, lo ammetto: ho sbagliato. No, non quel “prima” - rimani sempre stupido - intendevo che ho sbagliato credendo che saresti diventato jiin.»
«Ma di che diavolo stai parlando?», soffiò incredulo il ragazzo, ormai senza voce, «Ti sembra il momento di...»
La mano di Savannah iniziava ad essere fredda e il nonno parlava a caso. Se Nehroi avesse avuto ancora qualche forza lo avrebbe preso a calci... ma Ughrei non perse il filo del discorso.
«Insomma: non sei un jiin, e d'accordo. Ma prova anche solo a ragionare come se lo fossi... prova, su!»
«...»
«Pensa come un jiin.»
Nehroi si domandò perché quel vecchio - reale, illusione, ricordo o fantasma che fosse – non lo lasciasse stare e basta, ma qualcosa in lui decise di seguire quel ragionamento bislacco e lo trattenne dal prenderlo a pugni per ricacciarlo a Mjolur.
«Cosa potresti fare ora?», lo incalzò il nonno con un malsano ottimismo.
Il brehkisth abbassò lo sguardo sul suo corpo pallido e su quello annerito e sanguinante di Savannah. I suoi capelli neri erano tanto sporchi di polvere e di grumi rossastri ovunque da non sembrare più lisci e le sopracciglia erano contratte, non rilassate come quelle di un morto: sembrava in tensione.
«Proverei a... a guarirla?», tentò con un barlume di speranza. Pensò al prezioso amuleto che aveva nella tracolla, ma il vecchio lo precedette.
«Riprova.»
Nehroi si accigliò. «Vogliamo perdere tutto il giorno così? Dammi la soluzione!»
«No.»
«Perché no!»
«Perché ce l'hai già», gli disse. «L'hai fatto poco fa, ti ho visto.»
Nehroi corrugò la fronte e si domandò cosa avesse fatto per far pensare al nonno che sapesse ragionare come un jiin, ma non poté domandargli altro che lui parlò ancora. «E perché non sei ancora rientrato nel tuo corpo? A me non dispiace un po' di compagnia, ma vuoi davvero morire ora?»
Nehroi si sentì travolto da varie sensazioni, prima fra tutte una timida felicità. L'idea di poter rimettere a posto un tassello alla volta gli aveva infuso nuova vitalità e i suoi occhi verdi si accesero non poco. Savannah non sembrava più tanto spacciata.
Guardò intensamente la sorella, promettendole tacitamente che non avrebbe sprecato neanche un respiro, poi si alzò e andò verso il suo corpo. Se quello di Savannah gli era sembrato freddo, il suo era decisamente gelido. Sarebbe riuscito a rientrarci o sarebbe morto? La speranza di qualche secondo prima iniziò a vacillare, ma subito dopo si ricordò che se lui era ancora nell'illusione, il corpo aveva almeno le forze necessarie a mantenerla attiva.
Chiuse gli occhi e si chinò..
«Aspetta», gli disse il nonno. Anche lui abbassò le palpebre e si concentrò serioso: qualche istante dopo Nehroi sentì una vibrazione tutt'attorno a loro due, proveniente da molti punti indefiniti. Ughrei alzò una mano e la mosse come se stesse immaginando di toccare qualcosa di invisibile o impalpabile. «Credo di aver sistemato l'aria...», disse. «Fatti il massaggio cardiaco, ricorda che anche tu non hai respirato per un po'.»
Nehroi annuì ed incrociò le mani sul suo stesso petto. Pensò per un istante che fosse la prima persona in assoluto a farsi il massaggio cardiaco da solo, poi premette una volta. Due volte, tre volte. Sentì il suo battito riprendere e, nel sollievo di non essere morto, in un battito di ciglia percepì la dura roccia contro la schiena e sulla nuca.
Aprì gli occhi e si sentì immediatamente più pesante e più stanco. Prese un bel respiro e la vita, assieme all'aria, tornò a fluire in lui. Finalmente reale: era rientrato nel suo corpo.
«Bravo figliolo», commentò Ughrei con un mezzo sorriso. «Ora fatti da parte e mangia qualcosa, che ti spiego cosa può fare un jiin. O meglio, te lo dimostro.»

«Cosa provi quando fai una magia?», le aveva domandato una volta, tanto tempo fa. I riccioli neri erano più ribelli e i suoi occhi verdi brillavano come smeraldi, tanto erano pieni di curiosità verso i due mondi.
«Sento l'energia!», aveva risposto Savannah in un sorriso mentre un autobus sfrecciava accanto a loro
«Ma come fai a fare quello che vuoi?», insisteva curioso.
«Lo immagino!»
«... e basta?»
La bambina aveva fatto spallucce, l'innocenza dipinta sul viso e nei grandi occhi viola. «Se lo immagino tanto, poi succede!»


Nehroi deglutì e si inumidì le labbra. Forse era quella la lezione che avrebbe dovuto imparare tanti anni prima: ampliare la mente e rendere ogni cosa possibile. In cuor suo aveva sempre creduto di farlo, ma aveva realmente compreso cosa significasse quando aveva respinto il macigno che li avrebbe spiaccicati. Aveva desiderato essere lì a proteggere Savannah e c'era riuscito.
Aveva sentito l'energia - come l'aveva chiamata la piccola sorellina – e aveva immaginato cosa fare.
Ughrei si mise seduto sulle ginocchia e portò la testa di Savannah sulle sue gambe, come se la volesse tenere in grembo. Guardò Nehroi e gli fece l'occhiolino. «Non sono un fantasma», disse in un ghigno.
«Sei uno spirito posseduto», commentò il ragazzo con titubanza, non del tutto sicuro di quell'intuizione che aveva appena avuto guardando i suoi occhi chiari. Quando l'aveva visto la prima volta, alla luce della tua torcia elettrica, non era riuscito a notarlo bene, ma dopo aver visto quelli di Savannah non aveva potuto non confrontarli e ricordare: il nonno che lo aveva gettato nell'illusione aveva gli occhi troppo luminosi, come quelli della figura nera. Era stato posseduto.
«E aveva cercato di farlo anche con te», rispose il vecchio con amarezza, «... e anche con lei. Hai presente la pozzanghera all'ingresso?»
Nehroi annuì. «Era il suo contatto?»
Chi volesse possedere qualcuno deve mettere il bersaglio in una condizione di contatto tra loro e il contatto della vittima deve avvenire in maniera non volontaria, o la possessione non è totale. La grotta aveva scelto un'innocua pozzanghera perché nessuno ci sarebbe entrato volontariamente e avrebbe sicuramente toccato la pelle della preda, legandola a sé: in un secondo momento, poi, lo avrebbe reso il suo burattino. L'involontarietà della preda nel ricevere il contatto era essenziale, o la possessione non sarebbe stata efficace fino in fondo.
«Mi ha preso a Mjoklur», confessò il nonno mentre posava le mani sulla fronte e sul collo di Savannah, «Mi aveva offerto di rivedervi perché stavate venendo qui, ma credevo che mi avrebbe reso solamente uno spirito e mi avrebbe usato solo per torturarvi psicologicamente... e ti dirò, non mi sarebbe dispiaciuto rivedervi e prendervi un po' in giro. Poi ho capito che mi stava possedendo e non ho più potuto farci niente, se non ribellarmi un po' adesso che pensa di aver vinto. Mi dispiace, Nehroi, non volevo farti precipitare nell'illusione.»
“Precipitare” era il termine più adatto, pensò il brehkisth ricordando la caduta che lo aveva condotto all'ingresso della grotta con quell'orribile sensazione di ferite e sangue ovunque.
Stava per rispondergli qualcosa quando vide il petto di Savannah sollevarsi di nuovo in un respiro, uno di quelli che riempiono completamente i polmoni. Le palpebre nere si sollevarono e Nehroi tornò alla vita con lei.

“Casa”.
Savannah aveva sempre immaginato quella parola di un colore arancione spento, lo stesso che il sole donava ad ogni cosa quando moriva di sera e che dominava incontrastato a Feinreth ad ogni ora del giorno, stendendosi come un mantello sulle rocce e sulla sabbia, quando correva con Nehroi e giocavano in continuazione, come due selvaggi senza dimora. Ma lei una casa ce l'aveva, incastonata tra le montagne, fatta di un legno sbiadito – arancione – e pericolante. Ogni volta che vedeva un tramonto in entrambi i mondi, pensava di essere a casa solo per la sensazione calda che gli dava quel colore; per questo pensò all'arancione quando i suoi occhi si aprirono e la prima cosa che videro fu il volto rugoso di nonno Ughrei illuminato da un fioco bagliore.
«Bentornata, piccola», bofonchiò il vecchio in uno stentato sorriso.
Savannah scattò a sedere all'improvviso, come se la pietra l'avesse sollevata con una molla, e si voltò ad occhi sgranati verso Ughrei, assolutamente certa di essere morta.
«Oh no», mormorò affranta. “Ho fallito.”
Il nonno alzò un sopracciglio. «Speravo fossi un po' più contenta di rivedermi», commentò scettico mentre incrociava le braccia.
«Più contenta di essere morta, dici?», soffiò stizzita. «Scusa ma non riesco a... NEHROI!»
La sua voce esplose come una bomba atomica nel silenzio della grotta, tanto che sia il brehkisth sia il nonno sobbalzarono per lo spavento. Savannah si gettò a braccia aperte verso il fratello ma il loro abbraccio durò un istante: l'istante in cui la jiin si sentì bruciare e respingere dalla maledizione.
«Ah, giusto», si scusò il ragazzo, «Non sono ancora stato ri-sigillato...»
Savannah si tirò immediatamente indietro e l'urto con la roccia le fece vedere le stelle: fitte provenienti da ogni parte del corpo la pervasero senza pietà e si morse la lingua per non urlare di dolore, anche se qualche gemito le uscì comunque.
«Se la smettessi di agitarti finirei di toglierti almeno quel fastidioso veleno», commentò acido Ughrei agitando una mano verso di lei. «Vieni, su!»
Savannah lo osservò seriamente per la prima volta dopo anni e anni in cui si era solamente sforzata di tenere stretto tra le piccole dita un ricordo lontano e troppo spesso sbiadito. Era proprio lui, una sensazione positiva glielo confermava a pelle e qualcosa di caldo le scivolò nel petto.
Ci mise un po' a capire a cosa si stesse riferendo il vecchio, ma quando abbassò lo sguardo sul suo braccio completamente nero e rischiò un infarto per lo spavento, ricordò il veleno degli aghi di Mirey e si fiondò da lui obbediente come da bambina.
Le sue mani gelide sulla spalla la fecero in un primo momento trasalire, poi diventarono piacevoli quando iniziarono ad attenuare il bruciore del veleno che veniva risucchiato da tutto il corpo, permettendo alla sua pelle di tornare bianca sotto il velo di sangue che la ricopriva.
«Non so se riesco a tirarlo via fino in fondo», confessò a malincuore il vecchio. «È da tanto tempo che non uso la magia e ho paura di fare danni e... bene, da qui in poi te lo sistemi tu.»
Savannah aveva osservato estasiata la macchia nera scomparire gradualmente dagli arti, come se venisse risucchiata con un aspirapolvere dalla mano ferma del nonno, e Nehroi aveva visto anche il suo viso tornare chiaro come sempre. Quando Ughrei si staccò dalla spalla della ragazza, vi era rimasto solo un pallino nero, grande poco meno di una biglia da spiaggia.
«Grazie», disse la jiin.
«Grazie a te», le rispose ammiccando. «Sei stata grande, lo sai? Io l'avrei lasciato lì a spiaccicarsi!»
Nehroi fece un brontolio sommesso. «Grazie...»
«Ora basta sdolcinatezze», la voce ferma di Ughrei rimise i nipoti in riga e prese il comando. «Solo perché la grotta non è qui visivamente non vuol dire che non sappia cos'è successo, quindi dobbiamo prepararci a nuovi attacchi. Savannah, come stanno le tue ossa?»
La ragazza provò ad alzarsi in piedi e crollò a terra gemente ancor prima di sollevarsi. Il vecchio annuì e le si avvicinò. «Come pensavo. Nehroi, per ovvi motivi non posso guarire anche te, quindi raccogli le forze e preparati perché adesso sarai la nostra protezione.»
Le mise un braccio dietro le ginocchia e uno dietro la schiena e la prese in braccio. Era la prima volta che qualcuno che non fosse Nehroi la sollevava in quel modo e Savannah si sorprese a sorridere come una bimba, anche se il corpo freddo di Ughrei non era esattamente confortante e piacevole come una volta.
«Qual è il piano?», domandò il brehkisth.
«Farvi uscire di qui.»

Savannah alzò due dita e altri globi luminosi comparvero attorno alla piccola comitiva. Per riportarla alla vita, la cura di Ughrei era principalmente basata sul trasferimento di energie magiche da un corpo all'altro, quanto bastasse perché Savannah non fosse assoggettata alle ferite dovute al macigno. Che la magia in un jiin di alto livello fosse robusta come un secondo scheletro lo sapeva già, ma non aveva mai avuto modo di appurarlo così in prima persona. Quando aveva cercato di alzarsi il suo errore principale era stato affidarsi troppo al fisico, che non aveva altro che ossa rotte e perdite consistenti di sangue. «Quello non posso ridartelo», le aveva detto il nonno, «Dovrai aspettare che si riformi e cercare di non svenire più.»
Avanzarono nella grotta rapidamente ma con cautela, cercando qualsiasi punto di riferimento che li aiutasse a ricordare quale fosse l'uscita per non correre il rischio di andare in direzione opposta.
«Perché non ci ha ancora attaccati?», bisbigliò Nehroi, gettando uno sguardo preoccupato verso Savannah e il nonno.
«Starà ancora decidendo il metodo migliore per distruggerci...», mormorò la jiin con lugubre ironia. «Forse è ancora offesa perché non sono morta come pensava.»
«L'hai sfidata per bene», constatò Ughrei con una punta di fierezza che non sfuggì a Nehroi.
La ragazza corrugò la fronte. «Tu che avresti fatto?», domandò.
Il vecchio fece molti passi in silenzio prima di rispondere e, quando si decise, la sua voce sembrava distante, come se non avesse voglia di parlare. «Qualcos'altro», si limitò a dire.
Savannah non si arrese. «Che jiin eri?», continuò.
«Ti sei ripresa fin troppo, eh!»
«Dai, nonno...», lo pregò con una voce così dolce e infantile che Ughrei sentì il pavimento mancargli sotto i piedi per un attimo. «Ti prego...»
«B... blu, ero blu», disse dopo un po'.
Nehroi fu tentato di riprendere il discorso sui loro genitori, ma un conto era farlo da solo, con un controllo maggiore della situazione, un altro era in presenza di Savannah. Non che a lui facesse piacere quell'argomento, ma era una questione che odiava discutere quando erano assieme perché si sentiva più debole di fronte all'unica persona che conosceva la vita che avevano vissuto senza madre né padre. Non sapeva perché, ma quando c'era lei non riusciva mai a parlarne razionalmente.
Mentre pensava quelle cose non si accorse di un detrito e zoppicò per evitarlo, accorgendosi inevitabilmente di quanto instabile fosse il suo fisico a causa dell'abbandono. «Possiamo fare una pausa?», pigolò con vergogna.
«Sei già stanco?», domandò Ughrei con voce cavernosa. «Non ti avevo detto di mangiare?»
«Cos... Non mi sono portato dietro tacchini arrosto!», sbuffò il ragazzo.
«È tutto a posto, Neh, tranquillo», disse Savannah, «Anche io voglio fare una pausa.»
Nehroi si sentì meno in colpa e si sedette a terra esausto e sfinito con un sorriso in volto. Il nonno sospirò amaramente e fece scendere la nipote, aiutandola a mettersi accanto al fratello. «Io vado in perlustrazione più avanti», annunciò.
Savannah annuì e lasciò che uno dei suoi globi luminosi lo seguisse.
I due ragazzi rimasero in silenzio per un po', indecisi su cosa dirsi dopo che così tanti avvenimenti strani si erano susseguiti a ripetizione. Fu Nehroi a prendere la parola. «Sei stata...»
«Avrei dovuto spostarti», lo interruppe lei, intuendo subito a cosa si stesse riferendo.
Il ragazzo alzò gli occhi e si stropicciò la faccia con una mano. «Non avresti fatto in tempo», rantolò.
«Forse, ma di certo non sono fatta di ferro e... non so, credevo che avrei avuto abbastanza forze per fare una barriera.»
Nehroi sorrise e si voltò verso di lei. I suoi occhi viola erano la migliore consolazione che potesse avere e si augurò di vederli per mille anni ancora. «Non è vero», le disse con dolcezza, «Altrimenti avresti alzato le mani e avresti fatto la barriera. Come fai sempre.»
Savannah rimase sorpresa da quell'analisi così precisa e si sorprese a bocca aperta. Annuì. «Volevo essere sicura di fare qualcosa di concreto per non aggrapparmi solo ad una speranza...»
«E ora hai le ossa rotte.»
«Disse il cadavere ambulante.»
«Ehi!», Nehroi la punzecchiò con un dito e lei si ritrasse all'istante al contatto. «Non sono un cadavere ambulante!»
«Ah, è a questo che stiamo giocando?», gli fece cadere un globo in testa ma questi rimbalzò e si dissolse in una nuvoletta di fumo dorato.
«Non funziona su di me, lo sapevi?»
Savannah afferrò un sasso ed alzò il braccio per lanciarglielo addosso ma si bloccò. Si udì un rumore profondo e sinistro provenire da tutte le parti, come il brontolio di uno stomaco sentito dall'interno o il rumore di un motore di aeroplano. Le pareti della grotta tremarono violentemente e i ragazzi si coprirono le teste con le mani. «Fai una barriera!», urlò Nehroi.
«Ma proteggerà solo me!»
«Tu falla lo stesso!»
Savannah non fece in tempo a decidere se obbedirgli o no che Ughrei comparve davanti a loro, facendo cenno con la mano di seguirlo.
Nehroi si alzò in piedi non senza fatica, barcollando nel terremoto generale, e stava facendo il terzo passo verso il nonno quando notò che Savannah non aveva mosso un muscolo.
Le lanciò uno sguardo interrogativo, indeciso se non volesse o non potesse alzarsi, e la sua gelida occhiata di risposta gli tolse ogni dubbio.
«È di nuovo posseduto», realizzò con un filo di voce.
Lei annuì. «I suoi occhi erano meno luminosi quando mi curava», constatò, «E il globo che era con lui ha percepito la figura nera.»
Nehroi la guardò scettico. «... il globo.»
«Sì!», soffiò stizzita, «È parte della mia energia, l'ho sentita e...»
«Okay, okay!»
Ughrei comparve nuovamente alle loro spalle, scuro in viso. «Volete muovervi o no?», sbraitò nervoso.
I due fratelli lo guardarono in viso e non ebbero più incertezze: quello non era più loro nonno.



*-*-*-*



Non riesco a non immaginarmeli duri e potenti come le montagne ma ancora un po' bambini dentro, che tendono ad orientarsi come girasoli verso gli affetti più cari... Credo che sia un lato molto importante dei loro caratteri e non sapete quanto mi faccia piacere vedere che praticamente TUTTI coloro che hanno (gentilissimamente ^^) recensito hanno fatto riflessioni simili <3
Ultimamente ho aggiornato la fic nel giro di 4-5 giorni, ma adesso ho deciso: calendario alla mano (?), i nuovi capitoli arriveranno tutti di sabato! :D Non frega niente a nessuno? Ok, volevo dirlo u.ù

Grazie infinite a tutti coloro che hanno deciso di dedicare un po' di tempo alla lettura di questo bislacco fantasy, garantisco che il prossimo capitolo sarà... [spoiler?] una bomba! xD LOL, mi diverto così...

A presto!
Ciao!

Shark

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Capitolo 10
*** Il Sole splende per Tutti ***






10
Il Sole splende per Tutti



Al posto del vecchio, dissolto come un ologramma sbiadito, comparve la figura nera, indistinguibile come sempre dall'oscurità generale se non per gli occhi luminosissimi. «Dovrei temervi?», disse atona e vagamente annoiata.
Il terremoto cessò e Nehroi recuperò l'equilibrio. Si erse in tutto il suo metro e ottanta di fronte alla sorella, ancora seduta, e puntò un dito contro la creatura buia. «Non hai giocato abbastanza?», le disse con voce dura. «Lasciaci andare, sicuramente presto arriverà qualcun altro con cui divertirti!»
La figura nera ridacchiò. «Credevo che ormai avessi iniziato a comprendermi...»
Savannah si mise in ginocchio, pronta ad alzarsi per fronteggiare la creatura, ma titubante: le articolazioni la stavano facendo soffrire all'inverosimile. L'urto del macigno non era stata una passeggiata e la paura di dover di nuovo combattere l'aveva più indebolita che caricata.
Deglutì. «Io ho capito che...», disse misurando ogni parola come se potesse condannarla, «Che sei una creatura completamente sola e arrabbiata, ma anche che la causa del tuo dolore e disagio non siamo noi.»
Non era il genere di frase che avrebbe mai detto, ma sapeva perché le era uscita dalle labbra: ripensando alla sua recente quasi-morte e a quella del fratello, all'aiuto insperato di un nonno che si era ritrovata miracolosamente davanti che era tornato in possesso della grotta, chissà dove, e alle loro attuali condizioni fisiche a dir poco disastrose, forse era solamente arrivata alla conclusione che un'altra battaglia non sarebbe stata l'ideale, se non per assicurare la vittoria definitiva alla grotta.
La figura nera assottigliò gli occhi e la ragazza si sentì di nuovo senz'aria. «Non ho finito con te», la minacciò aspra. «La tua fortuna è spropositata, ma non avrai un'altra occasione per rimetterti in sesto.»
Savannah si chinò in avanti e posò le dita a terra per aiutarsi ad alzarsi. Piegata in quella maniera, sentì una piccola protuberanza che aveva dimenticato da anni nella giacchetta e improvvisamente le probabilità di sopravvivenza non erano più tanto sotto lo zero. Il suo viso si illuminò di speranza per un secondo, poi piombò nella progettazione di un piano attuabile, possibilmente attuabile usando quell'inaspettata scoperta.
Decise di iniziare prendendo tempo per riflettere. «Sei nettamente più forte tu, non ho mai sperato di vincerti», le disse con umiltà.
La grotta sembrò sorpresa dalla sua affermazione. «Hai detto che avremmo giocato in due», le ricordò.
Savannah deglutì e pregò tutti gli dei di tutti i mondi perché non venisse scoperta. Aveva solo bisogno di tempo, un disperato bisogno di tempo. «Volevo imparare qualcosa da te, sei infinitamente più forte di me e... quanti anni hai, cinquecento? Di più? Io qualcosa attorno a venti e non posso certo competere...»
Si alzò in piedi, lentamente, fingendo di doversi reggere l'addome per il dolore. Tempo, tempo e fortuna.
Nehroi la guardò con un punto interrogativo disegnato in piena faccia. Non riusciva a capire se stesse bluffando o si stesse arrendendo miseramente. Quando intravide del movimento sotto la giacca, però, non ebbe più dubbi e riconobbe la guerriera che conosceva.
«Hai ucciso il mio amico», sibilò la grotta con rancore.
«Quasi, l'hai detto tu stessa», sottolineò la ragazza, deglutendo. «E tu hai quasi ucciso me. Non siamo pari, ora?»
La voce della figura nera si fece più squillante, forse perché certa di avere il potere assoluto sul destino dei due ragazzi. «Decido io quando siamo pari», sentenziò con solennità, «E quando si gioca ancora.»
Le dita di Savannah non trovavano il filo da scucire e il polso le faceva così male che le venne da imprecare. Iniziò a sudare: tra il cercar di mantenere la calma e il piano che non riusciva a far partire si sentiva davvero come un topo in trappola. Cercò il sostegno di Nehroi e la sua voce pronta venne subito in suo aiuto.
«Prima di morire, se me lo permetti», esordì con tranquillità, «Vorrei sapere come sei nata. Sai, le leggende narrano tante cose diverse e...»
«Vuoi prendere tempo?», domandò la grotta.
Savannah si sentì gelare da capo a piedi, strinse i denti e smise di respirare per la paura. Nehroi si sentì mancare ma mantenne il sangue abbastanza freddo per non cadere nel panico come la sorella.
«Tanto non possiamo far nulla, no? Siamo bloccati in tutte le direzioni, immagino. Deboli e inermi di fronte a te... non ti costa nulla raccontarci...»
Le dita della ragazza ripresero a lavorare, finalmente era riuscita ad afferrare il filo di quella taschina interna che aveva cucito fin troppo bene diversi anni prima, dopo aver trafugato l'ennesimo manufatto indiano che nessun umano avrebbe mai potuto usare.
«... come sei arrivata qui! Sei nata in questa grotta o prima eri qualcos'altro?»
La parlantina di Nehroi stava diventando davvero provvidenziale, constatò Savannah con fiducia. Il filo iniziò a staccarsi con un impercettibile “tac”.
«Ero una ragazza», iniziò la grotta, persa in ricordi infinitamente lontani, «O forse un ragazzo, non ricordo più. Un gruppo di stregoni che scendeva dalla montagna mi disse che un coniglio era rimasto incastrato qui dentro e mi consigliarono di entrarci per curarlo.»
Savannah non ascoltava una parola, fissava gli occhi luminosi della figura nera e annuiva, come aveva fatto a scuola quelle poche volte che un poliziotto o una guardia l'aveva obbligata ad andarci. Tac, tac, tac. La cucitura si stava rompendo sempre di più sotto le sue unghie avide.
«Ti attirarono qui dentro con l'inganno», dedusse Nehroi, veramente interessato al racconto.
La grotta sembrò innervosirsi alla sua comprensione. «Dei bastardi beati del loro potere, ma io li uccisi tutti, uno ad uno, dopo che mi fecero l'immenso piacere di incatenarmi qui dentro perché il mostro che vi abitava prendesse possesso del mio corpo e lasciasse libera la valle! Ora siamo una cosa sola e due formiche come voi non possono minimamente immaginare cosa significhi.»
Savannah riusciva a sfiorare il sacchettino di plastica che cercava ormai da troppi estenuanti minuti e si trattenne dal sorridere troppo. «E poi che successe?», domandò per non farsi scoprire. Non sapeva più distinguere se le dita le stessero tremando per la paura o per l'eccitazione.
«Arrivò Aldeolar», disse la grotta con semplicità, come se fosse ovvio. «Lui era il primo.»
Nehroi aggrottò la fronte. «Il primo?», domandò. La leggenda narrava che prima di lui erano morti in tantissimi.
«Il primo che non voless...»
La figura nera non finì la frase: il suo sguardo malefico saettò verso Savannah e la sua giacca non appena le dita sfiorarono il contenuto del sacchettino di plastica.
Gli occhi luminosi si spalancarono inviperiti. «Ancora tu!», sbraitò nella sua direzione, «Stavolta ti ucciderò strappandoti via un pezzo di carne alla volta e starò a guardare ogni centimetro, puoi starne certa!»
Dalla parete alle spalle di Savannah uscirono una ventina di artigli rocciosi acuminati e affilati che iniziarono a muoversi come dei dannati per cercare il suo corpo e lacerarlo. La ragazza attivò una robusta barriera alle sue spalle ma quelli la perforarono come carta velina.
«Non te ne uscirai così facilmente!»
La voce della grotta era carica di isteria omicida e la cosa non fece che aumentare l'adrenalina dei due fratelli. Poi Savannah percepì un'orribile sensazione che mai aveva provato prima: il suo braccio non si muoveva più.
Abbassò lo sguardo per controllare che non le fosse caduto a terra ma era tutto normale. Semplicemente, per qualche motivo, non riusciva più a muoverlo e il sacchettino era nascosto nella taschina interna, inutile, vicino a dita incapaci di fare altro che non fosse sfiorare inerti la polvere marrone che vi era contenuta.
La jiin deglutì e divenne pallida in viso. Gli artigli alle sue spalle si placarono e rimasero fermi sulla parete, inerti come stracci appesi.
«Fregata da una pozzanghera», constatò la grotta con soddisfazione. «Ti ho in pugno.»
Savannah collegò tutti i tasselli e arrivò alla conclusione mentre Nehroi la sussurrava con voce sconfitta. «Ti ha posseduta...»

La mente di Savannah andò in black out completo, come se fosse stata mangiata dall'oscurità della caverna e non fosse più in grado di vedere o pensare altro che un vuoto e penetrante nero. Solo nero.
Il brehkisth notò che qualcosa stava scomparendo nei suoi occhi e strinse i denti, deciso a fare qualcosa. Guardò la figura nera e alzò un braccio verso sua sorella, come se la volesse proteggere a distanza. «Lasciala andare», intimò increspando le sopracciglia scure, più serio che mai.
Una risata bassa e irritata fu la sua risposta. «Non osare intralciarmi», lo liquidò.
La voce della grotta era diventata molto più ruvida e ferma, come se avesse voluto far sentire il peso dei suoi secoli di vita tutti in poche parole. Nehroi rabbrividì ma finse di non accorgersene.
«Non ti lascerò giocare con mia sorel...»
«Tu non lascerai me?», ribatté sprezzante la creatura, inalberata. «Muovi anche un solo pensiero per contrastarmi e la ragazza muore all'istante, mi hai capito? E stavolta non ci sarà niente e nessuno ad aiutarvi, te lo posso giurare.»
Nehroi aprì la bocca e la richiuse subito dopo, impotente. Non c'era nulla che potesse offrire alla grotta per scongiurare quel destino? Guardò Savannah e le sue iridi che iniziavano ad essere più luminose.
Il brehkisth abbassò la testa e strinse i pugni.
«Bravo», commentò la creatura, «Finalmente.»
Nehroi percepì il metallo freddo della catenina del medaglione che portava al collo e improvvisamente ne sentì tutto il peso, come se fosse fatto di piombo o di pietre. Lui lo sapeva, l'aveva sempre detto: avrebbe dovuto indossarlo Savannah, ma non gli aveva mai dato ascolto...
Chiuse gli occhi e soffiò nervoso: lei era sull'orlo della possessione e lui portava al collo l'unico artefatto dei due mondi che avrebbe potuto impedirlo.
«Potrei farti esplodere come un palloncino», disse la grotta con vivo divertimento, rivolta alla pietrificata Savannah. «Spremerti come un limone. Staccarti la testa come hai fatto col mio amico.»
Savannah sentiva il suo corpo diventare sempre più leggero, come se stesse subendo un'anestesia totale. Vide con la coda dell'occhio la testa chinata di suo fratello e qualcosa, in quel mare di impotenza che la stava inondando e travolgendo, urlò. Non voleva perdere il controllo del suo corpo, come poteva? Significava arrendersi, arrendersi per sempre alla propria condanna a morte e, sentendo i progetti che la grotta aveva per lei, non era decisamente una proposta allettante.
Ma il suo urlo non smosse la potenza della creatura malefica.
«Oppure farti uccidere tuo fratello», proseguì la figura nera, veramente indecisa su quale morte donarle. «Se tu sigillassi quella maledizione fastidiosa non avresti problemi... sarebbe interessante, sì.»
Nehroi deglutì ed alzò lo guardo verso la sorella, timoroso come un bambino. Non era da lui arrendersi, ma non si sorprese troppo nello scoprirsi totalmente abbattuto. Vide il volto di Savannah e temette che fosse l'ultima volta che avrebbe potuto vederlo, anche se posseduto.
«Ho deciso», la voce della grotta risuonò nelle orecchie della jiin come se le avesse impiantato un microfono nel cervello e quelle sue parole dondolarono nella mente, luminose e scolpite nel nero che la pervadeva. «Dirigi tutta la tua magia contro Nehroi, un unico colpo», sentenziava. «E non ti proteggere quando rimbalzerà su di te.»
La jiin sentì un fremito e sentì le sue braccia muoversi senza che lei muovesse un muscolo. Le era tutto estraneo, come se fosse attaccata ad uno schermo e non fosse suo il corpo che reagiva al comando.
Vide le mani annerite alzarsi verso un impallidito brehkisth che balbettava cose che le suonavano incomprensibili, forse cercando di spostarsi dalla traiettoria e pregandola di riprendersi.
«Non farlo, Annah, puoi resisterle, io so che puoi!»
«Taci. E tu, jiin, muoviti.»
Savannah vide dei granelli di polvere marroncina sui polpastrelli dell'indice e del pollice, il contenuto del sacchetto: la sua pelle li aveva sfiorati un istante prima di essere posseduta.
Non riusciva minimamente a comandare il suo corpo, ma un solo pensiero, piccolo e debole, attraversò il mare nero che aveva inondato la sua mente. «Questa polvere ha il potere del cuore della terra», aveva detto la sacerdotessa indiana a cui l'aveva rubato. «Sono poche le cose che possono darle vita.»
Una lacrima scivolò lungo le sue guance pallide, scappando dagli occhi luminosi e spenti. Il pensiero era piccolo, ma molto preciso.
“Incendia.”
La polvere divenne improvvisamente bollente e bruciò la pelle delle due dita come acido. Nehroi notò quello strano fenomeno e la sua espressione era un misto di stupore e angoscia.
«Che succede!», sbraitò la grotta, sensibilmente seccata da quell'intoppo.
In un orribile istante Nehroi intuì cosa stava cercando di fare quella pazza e si sentì dilaniato dalle diverse sensazioni che quel gesto gli provocavano. Intuiva, ma pregava tutti gli spiriti di tutti i mondi di sbagliarsi.
Savannah sentì la presa della possessione allentarsi e riuscì a scuotersi abbastanza da tuffare la mano ferita nella tasca interna della giacca per afferrare goffamente il sacchettino. Infilò le due dita bruciate, raccolse con fatica altra polvere e se la gettò sull'addome. “Incendia”, ordinò di nuovo e la sua maglietta si distrusse come carta nel fuoco, mostrando la pelle annerita che diventava sempre più bruciata.
«Ferma!», urlò la grotta e Savannah sentì la pressione della possessione allentarsi molto di più.
«Non puoi possedere un corpo ferito», ansimò sovrastando la fatica, il dolore lancinante e la mente sempre meno offuscata ma comunque troppo provata. «Se lo possiedi mentre muore, muori anche tu.»
Gli occhi di Nehroi si spalancarono terrorizzati e si fiondò verso la sorella, a braccia aperte. L'avrebbe stretta a sé e sarebbe diventato istintivamente il suo scudo, ma si ricordò della sua dannata condizione e il suo impeto si trasformò in un'estensione della maledizione che prese la forma di un mantello o un'ala, che la abbracciò a distanza al posto suo, senza ferirla.
«Sei impazzita!», le urlò contro a pieni polmoni, fuori di sé, non appena fu certo di averla salvata. «Non puoi farti ammazzare!»
In un lamento furioso, la barriera di Nehroi aveva interrotto il contatto tra la creatura nera e Savannah, che si sentì completamente libera e un po' sollevata. La jiin gli sorrise debolmente, ma con lo sguardo vispo, tornato finalmente quello di sempre. «Neanche lei si sarebbe fatta ammazzare», lo consolò.
Barcollò all'indietro, ma gli artigli nella roccia si rianimarono all'improvviso e più pericolosi di prima, costringendola a raddrizzarsi in un istante.
Il ragazzo sospirò e ridacchiò a sua volta. «Sei... no, “pazza” non basta. Ora che facciamo?», domandò poi frapponendosi anche tra la jiin e gli artigli, avvolgendo la ragazza più o meno da tutti i lati. Non aveva mai provato nulla del genere e si sentiva davvero inebriato da quella sensazione... potente.
La sorella però non ebbe il tempo per accorgersene. «Continua a coprirmi e lasciami un varco», gli disse sbrigativa.
Savannah alzò una mano e generò un vortice d'aria ad un paio di metri da sé, e lo immaginò sempre più grande e veloce. Lo diresse verso la figura nera e barcollò più volte nel cercare di mantenere l'equilibrio contrastando quel vento a spingerla da tutte le parti e il dolore delle ferite che si era appena inferta. I capelli impiastrati dal sangue e dalla polvere di roccia le finirono sul viso e li scacciò via con un gesto nervoso.
Gli occhi della figura nera brillarono con più forza. «Credi di spaventarmi con un po' d'aria?», la provocò.
«No, certo che no!»
Il vortice ingoiò i globi di luce e Savannah li frantumò, trasformando la tromba d'aria in un vortice di luce che accecò la figura nera e la dissolse. «Non puoi sconfiggermi!», urlava da ogni parte della caverna come un ossesso per sovrastare il rumore del vento e dei sassi, rimbombando da ogni parete e da ogni roccia. «Io sono più che semplice ombra!»
Savannah aprì il sacchettino di plastica e vi infilò le due dita ferite. «Neh!», chiamò mentre raccoglieva un po' di polvere, «Vai verso l'uscita!»
«Non ti lascio!»
«Muoviti!»
Non appena il ragazzo si allontanò da lei, gli artigli rocciosi ricominciarono ad allungarsi verso il suo corpo come assetati appena usciti dal deserto e lei li accolse lanciando loro la polvere marroncina.
«NO!», urlò la grotta non appena la parete rocciosa si fuse come cera calda.
Savannah prese il sacchettino e lo scosse per far cadere tanta polvere nel palmo della mano, poi la gettò nel vortice di luce, pregando di riuscire a scappare in tempo prima che tutto si trasformasse in lava grigia e puzzolente.
L'addome bruciato le impediva di correre normalmente e si ritrovò ben presto a zoppicare goffamente, ma lei corse ugualmente, con tutte le poche forze che le rimanevano, come mai aveva fatto in vita sua, mentre cercava di spostare il vortice acido e luminoso immaginandolo sempre più in profondità nella grotta, per distruggerla fino al midollo. Le pareti si storsero come se si stessero piegando su loro stesse tra le urla strazianti della creatura che rimbombavano ovunque spaccando i timpani ai due ragazzi. Savannah riuscì ad uscirne per un pelo, tuffandosi nell'erba e tra le foglie secche, prima che l'ingresso iniziasse a collassare e a sigillarsi del tutto.
Nehroi corse verso di lei per tirarla più indietro e la jiin non si sentì nemmeno incendiare dal contatto con la maledizione, tanto era ferita, avvelenata, bruciata e bisognosa del suo aiuto.
«Dobbiamo chiuderla!», le disse il fratello, urlando per sovrastare i lamenti furiosi della grotta. «Una volta per tutte!»
La jiin non capì cosa intendesse dire finché non guardò oltre le sue spalle e vide tentacoli neri tempestati di occhi luminosi cercare di passare per ogni spiraglio tra una roccia caduta nell'ingresso e l'altra per raggiungerli e riportarli dentro.
Era d'accordo con Nehroi: avrebbe dovuto chiuderla... ma non aveva più polvere distruttiva. Quella che non aveva lanciato nel vortice le era volata via mentre correva.
«E come?», domandò senza fiato.
«Usiamo ancora quella pol...», Savannah lanciò via il sacchetto vuoto. «Come non detto. Senti, io provo a tenerla a bada mentre tu ci pensi, ok?»
Savanna sgranò gli occhi viola. Non le uscì alcun suono, paralizzato dall'idea di dover elaborare un piano simile in così poco tempo e in quelle condizioni; per non parlare del fatto che, nella sua mente, Nehroi veniva imprigionato dai tentacoli e risucchiato per la terza volta di fila nel buco nero, ormai fin troppo arrabbiato per poter sperare di farla franca di nuovo.
Il ragazzo ignorò la sua replica e si voltò verso l'ingresso semi-sigillato. «Prova a prendermi!», gli sbraitò contro.
Savannah si sentì svenire. Lo vide allargare le braccia e percepì il suo vortice ancora attivo all'interno della grotta. Immaginò di farlo girare così tanto da far esplodere completamente la polvere che ancora non aveva sciolto la grotta e la sua magia malefica, ma sentì che probabilmente non avrebbe avuto un effetto abbastanza grande per scolpire la parola “fine” su quelle dannate pietre.
Si domandò cosa avrebbe potuto escogitare di tanto efficace in così poco tempo.
Nehroi stava riuscendo a trattenere quella bestia diabolica con uno sforzo immane – lo deduceva dai gemiti di fatica che sentiva in continuazione tra una frase da spaccone e l'altra – e non riusciva a capire cosa stesse effettivamente facendo. Se lo immaginò stendere un'enorme rete intrisa della sua maledizione che respingesse i tentacoli oscuri e...
Si alzò in piedi ed annuì a sé stessa. Sapeva cosa fare.
«Al mio tre», gli urlò mentre calcolava bene la distanza e si portava più indietro, «Al mio tre ti abbassi, okay?»
Nehroi voltò leggermente la faccia verso di lei, sempre a mani alzate verso la grotta. «Mi abbasso come?»
Savannah indicò il terreno. «Pancia in giù, sdraiato!»
Il ragazzo annuì e lei iniziò a pregare di riuscire a fare quel che voleva senza che la maledizione la intralciasse.
Nehroi venne colpito da un tentacolo nero all'addome, violento come un colpo di frusta, e rimase per qualche istante immobile in piedi, istanti in cui Savannah trattenne il respiro e fu tentata di correre da lui. Ma non era quello il piano. Quando vide il terreno vicino ai piedi del fratello tingersi di rosso e lo vide barcollante piegarsi a metà, comprese che preoccuparsi per lui era solo una perdita di tempo: lei aveva altro da fare.
Ma cosa?
Non riusciva ad immaginare nulla che potesse creare lì in quel momento, nulla di abbastanza distruttivo... non con quelle poche forze che le erano rimaste. Guardò le sue mani, completamente nere. Non aveva più energie e forse sarebbe morta entro poco tempo.
Avrebbe dovuto attingere di nuovo a quelle attorno a sé, nell'ambiente, ormai le sembrava essere quella l'unica soluzione. Si guardò attorno in cerca di una fonte di ispirazione, ma foglie e muschio non sembravano essere per niente utili.
Per distruggere le rocce ed aprire la grotta, prima, aveva usato le onde sonore del bosco amplificandole in un unico colpo molto potente, ma quella era un'idea distruttiva, non avrebbe aiutato a chiudere ma solo a riaprire. Le serviva qualcosa di simile alla polvere che aveva usato all'interno... e la soluzione le venne in mente poco dopo aver immaginato un sigillo reale in ceralacca: voleva riprodurre un raggio di calore che fondesse la pietra. Solo così avrebbe potuto sigillare ogni interstizio tra le rocce.
Non aveva mai fatto nulla del genere né ci aveva pensato anche solo una volta in vita sua, ma la situazione era decisamente importante e richiedeva soluzioni stabili e originali. Chiuse gli occhi e cercò di estraniarsi il più possibile dal casino che stava facendo Nehroi, concentrandosi sulla foresta. C'era tanto calore, tanta energia da utilizzare, ma non era abbastanza. Avrebbe portato a morte certa l'intera montagna se avesse rubato tanto, e forse non sarebbe stato nemmeno utile.
Aprì gli occhi e stava per maledirsi per la mancanza di idee quando si accorse che stava socchiudendo le palpebre per il fastidio della luce del sole.
«Ma certo!», esultò dandosi della stupida.
Si sedette nel punto più soleggiato nei paraggi e mise le mani a terra. La montagna aveva accumulato molto calore durante il giorno, poteva percepirlo.
«Ci sei, Annah?»
Il brehkisth cadde in ginocchio di fronte alla grotta, il fiato corto, tanto sangue a terra e le energie ormai esaurite. Lei era stata curata dal nonno e aveva ricevuto parte delle sue energie magiche, ma lui era messo poco meglio di quando era rimasto mezzo morto per l'abbandono del corpo e iniziava a percepire i suoi limiti in maniera fin troppo evidente... per non parlare della ferita ricevuta poco prima da un tentacolo.
Si voltò, vide la sorella seduta a terra in contemplazione del terreno e roteò gli occhi al cielo. «Direi di no», commentò desolato.
Savannah sentiva che l'idea poteva essere giusta ma anche che ci avrebbe messo troppo tempo; inoltre, il percorso energetico del monte era troppo spesso deviato da fonti fresche come fiumi e terricci umidi e non riusciva a prelevare quanto calore volesse. Tese la mano sinistra con più forza contro il terreno e girò la destra, a palmo in su, verso il sole. “Pannelli solari”, pensò.
La magia non aveva bisogno di aspettare che l'esposizione raccogliesse abbastanza energia: la cercava. Minuscole sfere luminose grandi al più come granelli di polvere iniziarono ad addensarsi sulla sua mano destra, rendendola scintillante come il sole stesso, mentre la sinistra diventava rossa e rovente come il magma.
«Vai a fuoco!», esclamò Nehroi quando vide del fumo attorno a lei.
Savannah continuò a fare ciò che stava immaginando: il suo lavoro non era finito.
Quando però sentì le sue mani effettivamente troppo brucianti («Uno...»), le alzò verso la grotta («Due...») e deviò tutto il calore verso quelle pietre. «TRE!»
Nehroi fece appena in tempo a buttarsi a terra e ritirare l'effetto a distanza della sua maledizione quando due fasci di luce abbagliante come il sole stesso gli passarono sopra la testa ad una velocità incredibile, andando a schiantarsi contro l'ingresso della grotta che diventava sempre più incandescente e luminoso a sua volta. Il brehkist non riuscì a guardare le pietre fondersi come lava e sigillarsi completamente tra loro per non rimanere cieco, ma sentì il lamento della grotta affievolirsi gradualmente.
Quando non lo sentì più, Savannah abbassò stremata le braccia fumanti, senza nemmeno la forza di sorridere della riuscita del suo piano.
Nehroi si voltò verso di lei, incapace di rialzarsi ancora una volta, e si stupì di vedere i suoi occhi viola nuovamente tinti di quell'anormale rosa chiaro. «Cosa ti succede?», le chiese allarmato.
Savannah crollò a terra come una bambola rotta.

*

Si erano sempre presi cura l'uno dell'altra empiricamente, spiando dottori dalle finestre e guaritori di passaggio da dietro i cespugli. Non avevano mai imparato a curare neanche un raffreddore, confidando sempre che nella notte “qualcosa” sarebbe successo.
Avevano visto che i tagli e le sbucciature si rimarginavano da soli dopo un po' e che la febbre spariva se si dormiva un giorno o due: di cos'altro avevano bisogno?
Ma quando Savannah era stata ferita seriamente per la prima volta, ad Ataklur, Nehroi aveva sentito il mondo crollargli addosso. L'aveva presa in braccio e portata di corsa da una guaritrice cieca poco distante da Feinreth, dove il nonno aveva consigliato loro di andare se si fossero cacciati nei guai, invece di scocciare lui.
«Cos'è successo?», aveva domandato la donna puntando su di lui i suoi occhi spettrali occhi bianchi.
«Un incidente», aveva mentito, «Potete guarirla?»
La guaritrice non era stata contenta di ricevere una bugia come causa di malattia, ma le erano bastati pochi istanti esaminando al tatto la piccola per trovare la risposta che cercava. «Agli orfani capitano sempre cose brutte, lo so», aveva commentato.
Nehroi si era sentito colto nel sacco. Aveva chinato la testa, affranto, e guardato i suoi piedi scalzi.
«Perché la signora istitutrice ci ha fatti inseguire da quei cani cattivi?», aveva domandato timidamente, come se temesse che anche la guaritrice si sarebbe accanita su di loro.
Era rimasto sorpreso dal suo sorriso candido e un piccolo calore gli si era diffuso nel petto.
«Chi odia senza ragioni è come l'erba malata che cresce nei campi e cerca di infettare le altre», aveva detto, «Non produrrà mai nulla e le piante attorno a lei continueranno a crescere.»
«Ma tanti bambini sono...»
La sua mano piena di bracciali pesanti ed enormi anelli si era posata sulla sua testolina riccioluta, gli occhi bianchi persi in chissà quale orizzonte. «Tua sorella sta bene», gli aveva detto con voce materna, «E lo sarà se tu ti prenderai sempre cura di lei come lei farà con te. Questa è la cosa più importante.»

«... ti curerò io...», sentì dire in lontananza, come se lei fosse su una barca al largo e qualcuno le stesse parlando dalla costa.
Savannah aprì lentamente gli occhi e non si sentì accecare come immaginava: erano sotto le fronde di un albero, giù dalla rupe della grotta malefica.
Qualche benda lassa e qualche altra troppo stretta le cingevano le mani, l'addome e le ginocchia, coi jeans tirati su fino alle cosce. Sentiva un impacco di foglie fresche sulla fronte e la sensazione di disidratazione sulle labbra. «Neh?», chiamò in un pigolio debolissimo.
Il ragazzo era sdraiato accanto a lei, addormentato profondamente, e bisbigliava frammenti di ricordi nel sonno.
Savannah si lasciò incantare dalla visione dei suoi riccioli castano scuro che pendevano inerti sulla fronte e sul naso, disegnando ghirigori che non aveva mai apprezzato tanto.
Era vivo. Era viva.
Dopo chissà quanto tempo erano riusciti ad uscirne, uscirne per sempre.
Il suo ultimo ricordo era l'ingresso della grotta chiuso ermeticamente, come avrebbe dovuto essere fin dall'alba dei tempi, e poi il terreno che si avvicinava sempre di più ai suoi occhi mentre il buio e la stanchezza la trascinavano a terra.
Abbassò lo sguardo sulla ferita all'addome del fratello che lo tingeva di rosso e strinse i denti per il nervoso: non poteva guarirlo, era fin troppo debole. Imprecò.
Cercò di alzarsi per mettersi a sedere e si stupì quando sentì lamentarsi meno ossa, muscoli e pelle del previsto. Spostò di lato i brandelli della maglietta bruciata e vide con rammarico che il suo busto era completamente nero, in balia del veleno peggioratore che si era espanso ancora una volta. A stento riusciva a credere di essere riuscita a schivarne ancora una volta il suo effetto mortale ma non avrebbe potuto fare nulla per migliorare le loro situazioni per un bel po' di tempo.
Si trascinò lentamente e faticosamente verso il piccolo ruscello che scorreva ad un metro da lei, riempiendosi di terra ovunque, e si specchiò: aveva il viso scuro fino al naso, come se indossasse una mascherina antismog nera. Probabilmente in lei c'era ancora qualche traccia della magia che le aveva infuso il nonno, o avrebbe avuto la pelle completamente oscurata dal veleno e sarebbe morta ancor prima di uscire dalla caverna, soprattutto dopo il suo gioco autolesionista con la polvere.
Il suo sguardo si perse sul pelo dell'acqua, naufragando nel mulinello di domande che la attanagliavano: era realmente riuscita a chiudere la grotta? Non le sembrava di vivere un sogno o un'illusione o una mera speranza... E cos'era successo a Ughrei? Era ancora lì o era tornato nel Mjoklur?
Sorrise: Ataklur, l'insieme di tutte le terre magiche, era letteralmente il “regno dei vivi”; non era per niente il luogo adatto per un defunto. Alzò gli occhi al cielo e pregò perché non fosse rimasto intrappolato nella grotta ma fosse finalmente in pace nel regno dei morti.
Si lasciò cadere all'indietro e guardò ancora suo fratello, sentendosi felicemente stupita di vederlo ancora lì, anche se gravemente ferito, lì con lei e non scomparso come si era sorpresa a temere. Ma aveva finito di lottare, ne era convinta.
Dovevano solamente riposare... e ripartire.

Un'altra volta era stata Savannah a portare il fratello all'ingresso di un pronto soccorso umano.
«Ha un'assicurazione sanitaria?», le aveva domandato la donna dietro un bancone nell'ospedale.
Savannah reggeva il fratello bianco come un cencio sulla schiena e aveva gli occhi così tanto spalancati dallo spavento che non era riuscita a dire altro che: «Eh?»
La donna glielo aveva chiesto più lentamente, ma lei continuava a non capire cosa le stesse dicendo. «Sta morendo!», aveva urlato infine nel bel mezzo del pronto soccorso. «Non è qui che si curano le persone?»
Un vecchio dottore dotato di più tatto di quell'infermiera l'aveva notata e aveva lasciato le persone a cui stava parlando per soccorrere quella bambina disperata. «Parla con me», le aveva detto, «Cosa gli è successo?»
Savannah sapeva di essere entrata nella tana del lupo e che presto le avrebbero chiesto perché non avessero dei genitori a prendersi cura di loro, come avesse fatto Nehroi ad infettarsi la gamba in quel modo e a perdere tanto sangue, da dove venissero e dove abitassero, ma non sapeva come salvare suo fratello e non aveva visto altra via d'uscita che l'ospedale, luogo che le avevano detto essere pieno di persone che fanno quello di mestiere.
Ma come avrebbe potuto dirgli che erano stati aggrediti in un altro mondo da dei banditi e che scappare attraverso il portale aveva peggiorato la sua situazione?
«Lo curo io, tranquilla», le aveva detto il dottore prendendo il braccio il fratellino. «Non ti preoccupare.»

Savannah sorrise, finalmente tranquilla. «Adesso penserò io a te, promesso.»



*-*-*-*


Fan art della scena



*-*-*-*



Capitolo extralungo per una successione di eventi che proprio non riuscivo a tagliare o ridurre! Spero vi sia piaciuto abbastanza da perdonarmi ^^
In realtà anche il prossimo sarà di lunghezza simile... temo. Però moooolto più leggero, eh! Ormai i guai li abbiamo sistemati per un po'! (pochino, anzi, perché finita la "saga" di Aldeolar... la storia non è mica finita! :D)
Mi spiace per i fan della grotta (che sono molto più di quanto mi aspettassi ._.) ma ormai è sigillata e bon, tanti saluti! Che poi stessi pensando di ripescarla in un futuro decisamente lontano come "saghe" è un altro conto, per ora è finita e ciaociao, smettila di maltrattare i miei personaggi ç_ç
Per chi invece si sta chiedendo che fine ha fatto il nonno, credo che lo rivedremo spesso perlomeno nei ricordi dei ragazzi, ma... chissà, in fondo la loro missione non è ancora terminata, giusto? :P

Ancora una volta GRAZIE per il supporto fantastico su cui ormai sento sempre di poter contare! <3 Unico ed insostituibile!

Alla prossima, miei cari!
Ciao!

Shark

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Capitolo 11
*** Regole di Vita ***





11
Regole di Vita



«E adesso?»
«Adesso?»
«Sì.»
«Adesso cosa
«Che si fa, intendo.»
Nehroi alzò un sopracciglio e smise di fissare il cielo notturno per scoccare un'occhiata interrogativa alla sorella, sdraiata accanto a lui a giocherellare con le molte punte di una foglia secca.
«Vuoi tornare a casa?», le domandò incerto.
Lei sbuffò e gettò via la foglia. «Prima, Neh, prima di quello!»
Il ragazzo tornò a guardare il cielo filtrato dagli alberi. Era la terza notte che passavano lì, considerando che la prima era giunta non appena lui era riuscito a scendere per miracolo dalla rupe – non perché avesse molte energie da sprecare, solo per allontanarsi di più da quell'infernale grotta maledetta. Sospirò e riconobbe che non aveva una risposta per lei.
«Dovremo andarcene», si limitò a dire. «Non so tu ma io non riusco più a mangiare neanche una sola bacca, ho la nausea! Anzi, è riduttivo...»
«Abbiamo spaventato gli animali», sottolineò la jiin con tranquillità, «Con tutto quello che è successo l'altro ieri non c'è più nemmeno un lombrico, siamo fortunati che non siano scappate anche le more.»
«Chissà quanto hanno fruttato i nostri titoli in borsa», disse lui sovrappensiero, già con la mente nell'altro mondo.
Savannah rise. «Con le tue abilità incredibili... molto probabilmente ci hanno già preso la casa. O magari siamo solamente al verde, dipende.»
«Ah, che peccato... non mi dispiacerebbe festeggiare la vittoria con qualche sfizio, tipo... ti piacciono le Bentley?»
La ragazza storse il naso e fece un versaccio. «Tu pensi in piccolo», lo rimproverò, «E io voglio un jet.»
Nehroi rise di botto, poi si ricompose. «E come lo prendiamo un jet?», domandò scettico per un istante, ridendo ancora.
«Sai che ho un certo feeling con il bancomat...»
«Non credo che tu possa ordinargli di prelevare così tanto.»
Sentirono un gufo in lontananza ed entrambi sussultarono, gli occhi spalancati e le bocche improvvisamente più secche e bisognose, ma nessuno avrebbe mai mosso un muscolo per prenderlo e cuocerlo. Tornarono al pacato e riposante silenzio che aveva caratterizzato l'intera giornata e Savannah trovò un'altra foglia interessante, molto gialla.
«Allora...», esordì Nehroi dopo un po', quando il panorama fisso del cielo stellato iniziò a stufarlo. «Proviamo a tornare da quei ragazzini?», ipotizzò svogliato, per non soffermarsi troppo sui brontolii del suo stomaco e sull'immagine di un pasto a base di insetti.
Savannah ci mise molto a rispondere. I suoi occhi si erano incupiti al ricordo di cosa aveva combinato con Helea e non le sembrò una soluzione attuabile. «No», disse solamente.
Il ragazzo sbuffò. «E perché?»
«Lei non ci aiuterà mai.»
«Minny?»
«Mirey.»
«Sì, lei?»
«No. Helea.»
Il ragazzo rimase con la bocca aperta per un secondo. «Io... mi sono perso.»
Savannah roteò gli occhi: aveva dimenticato che non aveva ancora raccontato al fratello cosa le era successo quando si erano separati dopo il suo ingresso nella grotta. Si schiarì la voce e lo mise al corrente della sua caduta, del suo ritrovamento da parte di Mirey e Klov, dell'incontro con Helea e del viaggio verso la grotta inferiore, senza soffermarsi troppo sulla minaccia che le aveva fatto e sul collo che aveva strappato alla copia che lo aveva imitato, sebbene la grotta avesse già provveduto ad accennarlo.
«... tutto qui?», domandò ironicamente il ragazzo alla fine del racconto. «Mi aspettavo anche un assalto delle forze armate e una riunione al tribunale dei Capi Reggenti di tutta Ataklur! Mi deludi!»
«Ma vuoi restare serio per cinque minuti?», gli lanciò una pigna che gli rimbalzò rumorosamente in testa.
«Ok, ok... beh, odia gli orfani ma ti ha curata, no? Non è positivo?»
Savannah fece un brontolio.
«Non è abbastanza positivo ma non credo che potrebbe lasciarci morire sulla porta di casa, no?»
«Secondo me sì.»
«Secondo me no.»
Savannah alzò le braccia esasperata. «Non l'hai nemmeno mai vista! Aveva quegli occhi, sai? Quelli dell'istitutrice, del giudice, del poliziotto, di quel vecchio a Lagireth, dei bambini per strada... di tutti! Mi stava odiando a priori come hanno sempre fatto! Perché ora dovrebbe volerci aiutare, eh? Il mondo non è mai buono, Neh. Quante conferme dobbiamo farci dare prima di riuscire a crederci?»
Il ragazzo sospirò affranto.
«Andiamoci comunque», disse dopo un po'. «... quando riuscirò a muovermi, s'intende.»
Savannah lo guardò di sbieco. Le occhiaie scure e profonde che nascondevano le iridi verdi e il viso smunto come quello di un malato terminale non la lasciavano indifferente, nonostante fossero ormai giorni che li vedeva. Dopo l'immenso sforzo di scendere dalla rupe della grotta, Nehroi non aveva mai mosso un muscolo, né per curarla né per curarsi. Era solamente capace di muovere la testa e, soprattutto, la bocca. Ingoiava bacche a non finire ma non erano mai sufficienti a dargli neanche un briciolo delle energie necessarie per riprendersi e spesso perdeva i sensi. Sembrava irrimediabilmente sul baratro di una cosa più grande di entrambi, soprattutto di una jiin che non riusciva a curare neanche sé stessa.
Lei stava tendenzialmente meglio, sicuramente rispetto al fratello. Riusciva a camminare a sufficienza, sebbene non fosse riuscita a recuperare neanche la metà delle sue forze, ma non osava ancora fare alcuna magia.
«Come ci arriviamo, allora? Non possiamo rimanere qui per sempre», mugugnò pensierosa, persa nell'osservazione della foglia. «Io non posso toccarti né portarti e tu... ehi, mi senti?»
Si voltò e lo trovò addormentato.

Quando Nehroi si accorse che il sole era alto sulle loro teste, non poté non accorgersi che non c'erano alberi a proteggerlo dai raggi e che il panorama era radicalmente cambiato. Aprì gli occhi rapidamente e fu altrettanto rapidamente accecato dalla luce riflessa da migliaia di rocce chiare davanti a lui. Era ben più in basso di quanto ricordasse e la sua schiena era a contatto con un grosso pezzo di corteccia che sembrava gli facesse da scafo.
«Ma che...»
Il suo farfuglio arrivò alle orecchie di Savannah, un metro più avanti, voltata verso di lui che camminava all'indietro con la corda per scalate che le passava su un avambraccio, dietro al collo e poi sull'altro avambraccio a formare una specie di arco; il resto della fune era legata attorno sotto le braccia e alle gambe di Nehroi per tenerlo ancorato alla corteccia che gli faceva da tavola sotto la schiena.
«Sei impazzita!», esclamò scandalizzato il ragazzo quando si rese conto di cosa stesse succedendo. «Mi hai trascinato giù per tutta la montagna?!»
Savannah ridacchiò e annuì con un miscuglio di stanchezza e vitalità nello sguardo mentre continuava a camminare all'indietro, voltando la testa di tanto in tanto per non inciampare nei sassi.
«Non c'erano più bacche e sai com'è, dovendo cercare del cibo... camminare da sola o in due non è poi così diverso, no? Sulla corteccia scivoli bene, non è tanto male.»
Il brehkisth aveva gli occhi così tanto spalancati che iniziavano a fargli male. «Non puoi sforzarti così, non guarirai mai!», la sgridò, «Ma ti sei vista? Sei di nuovo tutta nera! E più di prima!»
«Sto bene», Savannah fece spallucce e guardò altrove. «Preoccupati per te, il tratto con un residuo di terriccio sta per finire: è ora dei sassi della vallata e ballerai un po'...»
L'avvertimento non era stato lanciato a caso: finita la discesa dalla montagna, attraverso sentieri già esistenti o altri che la schiena di Nehroi aveva forgiato inconsapevolmente, iniziava la distesa di rocce che caratterizzava Bastreth da secoli. La casetta gialla con le sue finestrelle brillava come una piccola gemma nella distesa di sassi, ma al ragazzo parve troppo distante. «Non stai allungando la strada?», domandò alla sorella con scetticismo.
«Io sto andando all'ospedale.»
La pelle di Savannah sanguinava laddove la corda strusciava di più: sugli avambracci, sui dorsi delle mani, sul collo. Rivoli rossi tingevano teatralmente il corpo annerito, rendendo la jiin piuttosto spaventosa. E preoccupante.
«Smettila», la pregò il fratello.
Lei non gli diede ascolto. «Non riuscirò mai a curarmi se non sarai a posto anche tu», borbottò quando non poté più sopportare quegli occhi verdi piantati così addosso.
«Andiamo dai ragazzini, Ann!», insistette Nehroi. «La zuppa cangiante sarà perfetta per noi... e scommetto che Mirey non vede l'ora di poterti curare di nuovo.»
Savannah lo fulminò.
«Oh, certo!», ironizzò lui, «Dimenticavo che hai paura della perfida madre! Ilis, già il nome è inquietante!»
«È Helea.»
Il suo tono derisorio non si attenuò. «Ancora peggio, tremo al solo pensiero di... ehi!»
Savannah si bloccò di colpo e gettò le funi a terra. «Non è divertente!», urlò fuori di sé.
Si allontanò da lui di molti metri, come se volesse abbandonarlo nel bel mezzo di quell'oceano di sassi, e si sfogò sbraitando cose incomprensibili al vento. Nehroi provò ad alzarsi ma non riusciva ancora a muovere nemmeno un muscolo e, anzi, si sentiva vicino allo svenimento per la stanchezza di quello stupido sforzo. «Torna qui!», le urlò dietro.
La vide allargare le braccia al cielo e prendersela con le nuvole; se non fosse stata avvelenata, sarebbe diventata paonazza in viso, Nehroi ne era sicuro.
Il ragazzo non riusciva ad attirare l'attenzione della sorella con la voce e desiderò poter alzare le braccia per poter raccogliere un sasso e lanciarglielo, ma non poté far altro che rimanere spettatore della sua isteria. Il suo panorama era costituito unicamente dalle rocce bianche e grigie, dalle montagne in lontananza, dalla testolina nera della sorella che si muoveva a destra e a sinistra freneticamente e dal cielo immensamente azzurro sopra di lui, macchiato in un paio di punti da nuvole passeggere e dall'aspetto molto morbido.
«Ok, andiamo da quei ragazzini!», sputò dopo qualche minuto Savannah avvicinandosi al fratello ad ampie falcate e raccogliendo la fune con movimenti bruschi e nervosi. «Ma sappi che lo faccio per provarti che Helea e i suoi pregiudizi non ci regaleranno un'altra cura più che per riceverla effettivamente!»
Il suo sguardo era davvero cambiato, ma Nehroi apprezzò il fatto che le iridi fossero tornate al loro normale viola.
Lo trascinò in modo rude, non facendo più attenzione ai sassi sfasati che lo facevano sobbalzare, e non si dissero una sola parola per tutto il tragitto, fino a che la casetta gialla non divenne ben più grande del puntino luminoso e solitario che era prima. Due corvi gracchianti volarono sopra le loro teste come granelli di polvere con le ali, distanti, liberi, insofferenti. Nehroi sapeva di non poter comprendere ogni sfaccettatura dei motivi che avevano portato la sorella ad un simile sfogo, ma li collocò tutti nella stanchezza, nella debolezza e nell'odio di Savannah per la schiavitù dall'impotenza fisica: anche andare all'ospedale sarebbe stato ben oltre i suoi attuali limiti, anche lei sapeva che quello che il fratello le chiedeva non era un capriccio ma non poteva ammettere di avere bisogno di essere curata prima di attraversare tutta la sterminata Bastreth.
La jiin rischiò di inciampare molte volte e spesso le sue gambe tremavano sensibilmente, ma lei proseguì imperterrita.
Quando la porta si aprì e tutti e quattro i ragazzi uscirono ad acclamare il loro ritorno, Savannah abbandonò ancora le funi e si lasciò cadere seduta a terra, soffiando sulle mani e sugli avambracci per alleviare la sensazione di bruciore. Era diventata una creaturina completamente nera, poco meno oscura della creatura della grotta, dalla punta dei lunghi capelli alle dita dei piedi nascoste in quelle scarpe da ginnastica di un colore ormai decisamente lontano dal loro rosso naturale.
La figura snella e adulta di Helea comparve dietro di loro, la sua voce autoritaria li richiamò indietro prima che potessero avvicinarsi ai forestieri e Nehroi comprese il motivo dell'isteria della sorella: aveva realmente quello sguardo. Sentì il sangue gelarsi nelle vene, ma ancora non riusciva a pentirsi della sua richiesta di fare tappa lì.
Gli occhi stanchi e viola incrociarono quelli piccoli e scuri e il tempo, per qualche lunghissimo secondo, si fermò. I quattro fratelli spostavano lo sguardo dalla jiin alla madre, senza capire cosa stesse succedendo tra loro e si domandavano in silenziosi bisbigli perché l'infermiera più volenterosa di Bastreth rimanesse così immobile e ostile di fronte a due feriti tanto gravi.
Helea interruppe il contatto visivo con uno sbuffo irritato ed entrò in casa, ordinando ai figli di seguirla.
Savannah si avvicinò a gattoni al fratello, con meno grazia del previsto, e si inginocchiò vicino al suo petto. «No?», gracchiò Nehroi.
«No», rispose lei.
Posò una mano su di lui, quella con le dita bruciate, ed inspirò profondamente. “Ora o mai più”, si disse. Non poteva aspettare ancora per curarlo. Il solo tentativo avrebbe potuto ucciderla all'istante, ma almeno lui sarebbe stato salvo.
Sentì l'energia fluire faticosamente dal cuore e dalla mente lungo tutto il braccio, fino alle dita sanguinanti. La sentì bloccarsi nei polpastrelli: non voleva farla scorrere oltre, consapevole che il suo dolore fisico sarebbe aumentato all'improvviso non appena la magia fosse entrata in contatto col corpo maledetto di Nehroi.
Inspirò ancora, mise anche l'altra mano sull'addome del fratello fasciato da bende fin troppo rosse e, incurante delle sue piaghe che lo macchiavano ulteriormente, progettò due flussi distinti, uno per proteggersi dalla maledizione e uno per curare. Poi li liberò in lui.
Il suo urlo spezzò la quiete di tutta la regione di Bastreth, ma Savannah non cedette di un centimetro. Mirey e Klov scapparono in casa, Horud e Jut rimasero pietrificati spettatori.
Con tutte le sue forze, Savannah guidò la magia nel corpo di Nehroi, ordinandole di curare ogni tipo di ferita che incontrasse, per quanto difficile potesse essere. Le mani le bruciavano come se le avesse immerse nella lava fusa e nel ghiaccio più gelido contemporaneamente. Sentiva tutto il suo corpo sull'orlo del collasso, immaginandolo spezzarsi in continuazione in più parti come uno specchio caduto a causa del contatto con la maledizione, lacerarsi in mille pezzi come la grotta aveva desiderato fare.
Udì di sfuggita qualcosa simile a delle urla provenire dalla casetta, ma la concentrazione per non svenire era tale da non prenderle troppo sul serio.
Ogni fibra del suo corpo non smetteva di sembrare di essere dilaniata da lame invisibili, artigli e zanne di ogni tipo; pugni le martellavano le braccia e sibili fastidiosi si riversavano nelle orecchie: tutto il suo corpo era sul punto dell'autodistruzione. Aprì faticosamente gli occhi e se li sentì pungere da migliaia di spine. Vide Nehroi, lo vide soffrire come mai prima di allora e il motivo si figurò rapidamente nella sua testa: sentiva la magia fluire in lui come ogni volta che lo aveva curato in precedenza, ma la sentiva anche indebolita, come se la maledizione stesse bombardando quell'energia benefica mentre cercava di riparare i tessuti da sigillare e ferisse anche lui.
«Ti aiuto io!»
Mirey comparve nel suo campo visivo con bende, bottigliette ed erbe varie. Se Savannah non fosse stata così impegnata, avrebbe riso.
Nel momento in cui lo pensò, tutto si fece buio. Le mani diventarono dure e immobili come marmo, le energie mancarono all'improvviso e sentì un enorme impatto contro il torace, come se avesse fatto un frontale contro un albero correndo a tutta velocità.
Sentì le rocce sbattere violentemente contro la testa e la schiena, poi vide nient'altro che il cielo , le sue nuvole morbide e svenne.


«Credete che tutto questo vi farà sentire meglio?», aveva chiesto loro l'istitutrice con quei suoi occhi crudeli. «Prendervela con noi non sistemerà nulla.»
Un ragazzino di poco più di undici anni si era avvicinato verso di lei trascinandosi sui gomiti nella polvere del pavimento di assi di legno rotte. «Signora, mi sono rotto una caviglia...», piagnucolava.
«Un giorno diventerete adulti anche voi, ci avete mai pensato?», lei lo aveva ignorato, così come aveva ignorato le bruciature sulla pelle dei bambini che non erano riusciti a rientrare nell'edificio nelle ore roventi dell'estate precedente o i tagli sui piedi di quelli che non avevano più le scarpe perché erano cresciuti o ne erano stati derubati dagli altri. «Un giorno avrete una coscienza a cui rispondere, non vorrete macchiarla per una stupida vendetta infantile.»
Savannah l'aveva guardata con un certo interesse, trovando terribilmente discordanti quelle parole con tutte le azioni che le aveva visto fare nel corso degli anni. Lei e suo fratello avevano aperto gli occhi e deciso di non rimanere bambini inermi tanto a lungo. Il nonno era morto da poco, non avrebbero più avuto niente e nessuno a cui fare affidamento... quando l'unica cosa che rimane è un sistema che ti odia, perché non crearsi delle nuove regole e odiarlo a tua volta?
«Da adulti sarete ancora più emarginati e continuerete a soffrire, lo capite? Questo gioco non vi porterà a nulla.»
All'inizio erano solamente quattro regole, le loro, solo quelle che credevano basilari per la loro vita e per ignorare la società che li rifiutava e schiacciava in continuazione. Da quando dovevano preoccuparsi solo del loro nuovo sistema, la vita era più giusta.
O almeno, così credevano.
La bambina era tornata ad Ataklur dall'altro mondo e aveva visto le cure che laggiù tutti si prodigavano a donare felicità e amore ai bambini sfortunati. Sarebbe rimasta per sempre, lei e suo fratello sarebbero rimasti di là e avrebbero vissuto bene. Semplicemente, non potevano perdere la magia che avevano appena scoperto di avere, loro unica arma contro due mondi.
Entro tre mesi sarebbero dovuti tornare indietro per non rimanere troppo tempo senza respirare la magia e loro erano tornati. Non erano bambini senza regole, le seguivano, le seguivano eccome.
Si erano semplicemente fatti un paio di domande, avevano iniziato a
pensare.
«Smettila... fe-fermati!»
Il viso del bambino diventava sempre più rosso man mano che Savannah immaginava di stringergli il collo. Lei aveva ancora le impronte delle dita sul suo e stava solamente regolando i conti, come una delle loro nuove regole imponeva di fare. “Restituiamo i favori.”
«Nehroi, almeno tu...»
Il bambino era in piedi sul letto con la gamba di un tavolo in mano, una delle tante che gli orfani più grandi avevano usato più volte con lui come una mazza. «Ora ci temete?», aveva domandato. «Ora che abbiamo anche noi la magia siamo più pericolosi, eh?»
I suoi occhi erano accesi come smeraldi che brillavano sotto una luce nuova, ma quel ghigno che gli ornava il viso roseo non era di godimento, e nemmeno di vendetta o di un bisogno malato di giustizia. «Vi rendete conto adesso?», diceva Savannah mentre il bambino paonazzo tornava a respirare. «Capite?»
L'istitutrice si era alzata in piedi e aveva camminato verso di loro. Si era chinata all'altezza della piccola jiin e aveva fatto un cenno anche a Nehroi di avvicinarsi, con un sorriso amorevole.
«Siete due bravi bambini», aveva detto mentre li abbracciava. La sua voce era diventata gentile per la prima volta, ma subito dopo era tornata tagliente come nei loro ricordi. «Esattamente quelli che la società vorrebbe evitare di avere.»
Aveva afferrato saldamente i fratellini per il colletto e li aveva lanciati contro la parete grigia del dormitorio; una delle orribili farfalle violacee che vi erano disegnate sopra si era staccata e si era frantumata a terra. La donna poi era uscita dalla finestra e aveva alzato le mani verso l'edificio pieno di bambini e ragazzini urlanti di ogni età: una rete impediva loro di uscire e lei sorrise sollevata. «Noi istitutori abbiamo il compito di cercare di rendervi bambini buoni e comprensivi, adatti a vivere senza problemi in una società magica con tutto ciò che essa comporta», aveva recitato a pappagallo come altre miliardi di volte da quando le avevano appuntato il cartellino sul petto. «Ma se non ci sono speranze, c'è un'unica soluzione.»


«Non so perché mia madre non ti ha aiutata», stava bisbigliando in continuazione, «Ti giuro che me la pagherà, stanne certa...»
Sentì una pezza fresca sulla fronte e le mani di Mirey sulle braccia. «Non ho idea di come si curi questo veleno, mi spiace, forse dovrai chiedere ad uno specialista...»
Udì un suono soffuso, morbido, assimilabile a quello di un fazzoletto di stoffa. Savannah aprì la bocca per dirle di non preoccuparsi, ma non biascicò niente di comprensibile.
«Una volta mi aveva detto che queste pasticche sono state forgiate con la magia e fanno riprendere il paziente rapidissimamente», continuava imperterrita l'altra, probabilmente ignorando il tentativo della jiin di parlare. In ogni sua parola si sentiva il desiderio ardente di aiutare gli altri, ma anche la sua impotenza ed inesperienza nel farlo.
Savannah sentì le dita sottili sfiorarle le labbra, una sensazione mai provata, e dischiuderle gentilmente. Non capiva cosa stesse per succedere, ma il suo subconscio assecondò il movimento e aprì un poco la bocca. Una pasticca grande, dura e liscia le ruzzolò nella bocca e subito dopo il suo busto venne tirato su all'improvviso, potenti manate gliela fecero scendere giù per la gola e Savannah scoprì a sue spese il metodo meno ortodosso per ingoiare qualcosa.
«Ghaaa!», fu solo capace di esclamare prima che le mani di Mirey le tappassero la bocca.
«Non sputare!», le intimò seria. Savannah per poco non si strozzò e un remoto senso di gratitudine verso i guaritori le si risparmiò di dirle che quello invece era il metodo perfetto per far sputare qualcosa a qualcuno...
La vista della jiin era ancora piuttosto annebbiata, ma riusciva ad intravedere bene la fronte corrugata della giovane e la schiena di suo fratello, seduto al tavolo con Horud.
Il respiro le si interruppe per un istante mentre lo realizzava.
Nehroi era lì. Seduto al tavolo. In buona salute, o almeno più in salute di lei che non riusciva ancora a stare dritta col busto. Savannah ricadde sul materasso sfondato come una marionetta senza fili e fu allora che si accorse che le manate sulla schiena gliele aveva date Jut, scoperto in piedi a fissarla.
«È stato incredibile!», le disse dall'alto, «Sembrava che Mirey ti avesse spazzata via come una foglia, sai? Almeno, da fuori è stato fortissimo... non avevo mai visto tanta magia tutta insieme! Ma che è successo?!»
La sua voce era troppo squillante e intensa per le sue orecchie e si ritrovò involontariamente a fare smorfie per il fastidio. La jiin avrebbe voluto chiedere tante cose (quali fossero le condizioni del suo corpo, dove fosse Helea, se stavano tutti bene, se Nehroi stava effettivamente bene), ma si sentì nuovamente spossata e non riuscì ad impedire alle palpebre di scivolare giù, sigillate.


Mentre diceva quelle parole, tutti i bambini pensavano al piccolo cimitero “degli incidenti”, come lo chiamava lei, quel demonio in uniforme.
L'edificio aveva poi iniziato ad essere sempre più caldo, i bambini sudavano. «Andiamo a fuoco!», aveva urlato qualcuno dal piano di sopra, ruzzolando giù per le scale.
Nehroi aveva preso per mano la sorellina e l'aveva condotta sotto a quello che era stato il loro letto - loro e di altri due bambini - facendo attenzione ad evitare le molle che sporgevano fino a toccare il pavimento; aveva sollevato alcune assi e l'aveva fatta scendere in quel piccolo tunnel che aveva progettato tempo prima, nei giorni e nelle notti in cui non voleva farsi trovare per saltare le poche lezioni o le innumerevoli punizioni.
Usciti da quell'inferno bruciante che crollò troppo rapidamente perché riuscissero a tirare fuori qualche altro bambino, avevano seguito le orme dell'istitutrice lasciate nel deserto di Feinreth e l'avevano trovata in una taverna. Chiedeva conforto per l'incendio. «Quelle povere anime...», fingeva di piangere tra i tavoli, in cerca di attenzioni.


«Quindi il tempo scorre diversamente?»
Per i gusti e le orecchie di Savannah, la voce di Jut suonava sempre troppo entusiasta ed allegra quando l'argomento era la grotta. Alzò pigramente le palpebre e lo vide al tavolo con una matita in mano e un blocchetto sotto al naso intento a segnare ogni cosa che Nehroi, seduto di fronte a lui, gli dicesse. Chiuse gli occhi e cercò di non far troppo caso a loro e a quei discorsi che sperava di evitare il più a lungo possibile.
«Sì, è evidente», proseguiva il brehkisth saccente con voce ferma. «Se mi dici che quando Annah è tornata alla grotta erano già passati cinque giorni da quanto ero entrato io e per me erano trascorse poche ore... deve esserci stato per forza uno sbalzo temporale.»
«Che forza! E come ci si sente ad aver sconfitto la famosa grotta di Aldeolar? Siete una leggenda anche voi, è grandioso!»
Nehroi ridacchiò amaramente ed ebbe una fugace visione di Jut in giro per Bastreth a vantarsi di averlo conosciuto. «Noi... no, noi non meritiamo di entrare nella leggenda», disse umilmente, perdendo il briciolo di orgoglio che aveva provato un istante prima.
Jut alzò un sopracciglio e rimase visibilmente deluso da quella risposta, ma anche molto confuso. «Ma ne siete usciti vivi...»
«Aldeolar ha fatto tutto da solo e non era nemmeno forte come Savannah quando è entrato», spiegò.
Il ragazzino corrugò la fronte ed indicò la jiin semi-addormentata. «... quant'è forte lei?», sussurrò a voce bassa, quasi con timore.
Nehroi gli fece l'occhiolino. «Abbastanza da avermi salvato il culo più di mille volte», disse. «E anche da sigillare con la forza del sole l'ingresso in modo che la creatura non uscisse mai più.»
Gli occhi di Jut e del piccolo Horud seduto accanto a lui in silenzio si spalancarono stupefatti e si illuminarono per l'ammirazione.
«Ma perché dici che non meritate una fama come quella di...»
«Lui ha sconfitto la grotta, ne è uscito tranquillamente vincitore», rispose Nehroi. «Noi l'abbiamo... fregata, ecco.»
Un borbottio sommesso proveniente dal letto della jiin li distrasse e li fece voltare nella sua direzione. Savannah si accorse presto che avrebbe preferito continuare a rivivere il ricordo della grotta piuttosto che trovarsi due paia di occhi puntati addosso; tre, contando il piccolo Horud sbucato all'improvviso dietro di loro.
«Come ti senti?», trillò Mirey. Quattro, quattro paia di occhi solo su di lei che improvvisamente desiderò essere ancora semi-morta.
«Osservata», bofonchiò a disagio.
Tutti ridacchiarono e l'atmosfera tornò ad essere più leggera. «Sto bene, sto bene», disse annoiata agitando una mano per scacciare gli sguardi come mosche, «Tornate alla favoletta, su.»
Mirey si chinò su di lei e le mise una mano sulla fronte, annuendo a sé stessa; le tastò la spalla avvelenata e corrugò la fronte; infine premette le dita sulle ginocchia e Savannah saltò sul letto con un gemito di dolore. «Oh», esclamò la piccola guaritrice, «Abbiamo ancora qualcosa da aggiustare, lì.»
La jiin non seppe decidere se quel tono di voce indicasse che era triste per il suo dolore fisico o contenta per avere ancora un paziente ferito con cui giocare.
«Grazie ma... per favore», disse mentre si metteva rapidamente a sedere, «Non curarmi più.»
La ragazzina arrossì imbarazzata e fece un sorriso sbilenco. «Mi piacerebbe diventare come la mamma, lei è tanto brava...»
Savannah alzò una mano come se volesse stringere la sua, adagiata pigramente sul cuscino, ma un pensiero la bloccò e non lo fece. «Invece spero propr...»
Non finì la frase perché Helea spalancò la porta come un ariete ed ispezionò a distanza i due ospiti con sguardo cinico. Fece loro cenno di uscire. «Siete guariti», disse atona, «Sloggiate.»
I suoi figli la guardarono come se fosse impazzita e probabilmente le sarebbero saltati addosso se non avesse prontamente minacciato di riferire tutto al padre. Savannah si domandò che tipo di padre avessero per poter esercitare una tale autorità anche a distanza, usando come tramite una brehmisth tanto odiosa.
«Non mi avete sentito?», domandò Helea sputando acidamente ogni sillaba. «Vi siete ripresi, è fantastico. Ora fuori.»
«Ma lei non può ancora alzarsi...», pigolò Mirey, subito zittita.
«Può eccome! Vero, cara?»
Savannah pregò di riuscire a camminare o addirittura correre, pur di levarsi di dosso quella donna tronfia nei suoi giudizi e pregiudizi. Si mise a sedere e poggiò i piedi a terra, provando una strana sensazione nel sentire il contatto del suolo dopo esser stata tanto sdraiata. Nehroi si era alzato senza problemi, invece, e le si era avvicinato per sorreggerla. «Ce la fai?», le chiese sforzandosi di non sfiorarla.
La jiin annuì, afferrò saldamente la testiera del letto e si alzò. Stava peggio di quanto sperasse, ma la voglia di riprendersi che le aveva messo la presenza di Helea era poderosa e camminò senza troppe storie, cercando di mascherare le smorfie di dolore per dimostrare a Mirey che aveva fatto un buon lavoro. Era il suo modo di ringraziarla e quel sorriso timido che la ragazza le rivolse la ripagò dello sforzo.
All'esterno, il sole era nascosto da una spessa coltre di nuvole scure, segno che presto sarebbe arrivato il famoso mese delle piogge continue, l'unica fonte annuale d'acqua per la valle. Helea camminò di fronte a loro tenendosi bene a distanza e li guidò oltre il giardino di sassi che circondava l'abitazione. Si voltò e li esaminò in uno sguardo. «Sì, state bene», appurò quasi con delusione.
«Non sapevo che si buttassero i pazienti in strada a metà del ricovero», commentò Nehroi con lieve ironia.
La donna fece spallucce e guardò altrove. «Spiacente, sareste dovuti arrivare all'ospedale.»
«Saremmo morti prima.»
L'espressione che le si dipinse sul volto non fu difficile da decifrare: avrebbe preferito di gran lunga segnalare due cadaveri nella valle che dover sopportare la loro presenza accanto ai figli. Incrociò le braccia con aria risolutiva. «Beh, non lo siete. Ora andatevene.»
I due fratelli pensarono la stessa identica cosa ed ebbero gli stessi istinti; si scambiarono un'occhiata fugace e ricordi, piani e regole si librarono tacitamente tra di loro.
Savannah si avvicinò ad Helea senza traballare. Non avevano mai sopportato chi si imponeva con troppa insistenza, era anche tra le loro regole.
La squadrò da capo a piedi con lo sguardo più gelido che potesse avere e infine sorrise serenamente maliziosa. «È ancora nella tasca, vero?»
Il volto di Helea s'indurì improvvisamente e una sensazione di disagio le attanagliò le viscere.
«Lo tiri fuori, infermiera. Mi misuri di nuovo.»
Nehroi si avvicinò a sua volta per inchiodare quella brehmisth troppo sicura di sé. «Sì, prenda il rilevatore, sono curioso di vedere se sarà così spavalda anche dopo la sua valutazione.»
«Mi... mi stai minacciando?», sibilò la donna, il disco di vetro ancora in tasta, nascosto tra le dita affusolate e tremanti. Probabilmente avrebbe aggiunto “ancora” alla sua frase, ma qualcosa glielo impedì... gli occhi gelidi e inquietanti di quei due ragazzi, forse.
«Lo alzi, forza», suggerì la jiin, la voce persuasiva come quella di un demonio. «E mi risponda.»

Quando aveva incrociato due occhi verdi e due viola, la recita aveva subito una brusca interruzione.
«No, non asciughi quelle belle lacrime», le aveva detto Savannah mentre Nehroi si appendeva al suo braccio e la trascinava fuori sotto gli occhi scandalizzati o indifferenti degli altri consumatori.
«La aiutiamo noi a sembrare più credibile...»

Il fumo si espanse rapidamente all'interno del rilevatore e la gamma di colori si intravide a malapena, sovrastata da un irremovibile viola splendente e veramente intenso.
Helea si lasciò sfuggire un gemito e il suo occhi si spalancarono per il panico che l'aveva pervasa mentre il rilevatore le cadeva di mano.
Savannah ridacchiò e Nehroi si chinò a raccogliere il disco. Glielo porse educatamente. «Ce lo dica lei», domandò. «Ci sta minacciando?»

Una buca più grande delle altre comparve nel cimitero degli incidenti. Sopra di essa, una pietra con un'incisione grezza, fatta a fatica con un coltellino, che recita:

Non ci si abbandona.
Restituiamo i favori.
Non prendiamo ordini.

Non dimentichiamo.




*-*-*-*




Poniamo la parola "fine" alla saga della grotta, di Aldeolar e dei 4 marmocchi? Eh direi proprio di sì, anche se non è da escludere che qualche personaggio (non dico chi ^^) potrebbe ricomparire più avanti nella storia... che è tutt'altro che finita! :P
Nel prossimo capitolo *spoiler: on* farà il suo ingresso un nuovo personaggio, contente? :D io lo conosco già e vi posso dire che non vedevo l'ora di poterne iniziare a parlare! x)

As usual, GRAZIE tutti i supporters della storia, siete grandi! E io sono ufficialmente dipendente (leggi: drogata) dalle vostre recensioniimpressionisensazionicommenti...!
Alla prossima, dunque!
Ciao!

Shark

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Capitolo 12
*** Phil ***





12
Phil



Il salone del ricevimento era ampio e buio, grande come una piazza cittadina di modeste dimensioni, ornato da alte colonne scolpite con motivi floreali e dei più fastosi dipinti che i pittori di tutta Ataklur avevano donato nel corso dei secoli. Solitamente era il luogo più luminoso del palazzo del Consiglio, spesso sede di feste, riunioni e ricevimenti vari alla presenza dei Capi Reggenti delle otto regioni e dei nobili invitati; quel giorno, però il salone non era addobbato a festa e il giovane uomo che lo attraversò tutto cercò di farlo di corsa, per evitare il senso di inquietudine che uno spazio tanto enorme e desolato gli metteva addosso inesorabilmente.
«Sei molto lento», commentò il vecchio che lo aspettava in un piccolo balconcino rotondo, affacciato su un'immensa foresta lussureggiante al chiaro di luna. «Sono tutti così gli umani?»
Il giovane chinò la testa e sorrise nell'ombra, imbarazzato. «Forse solo io, chiedo scusa.»
Il vecchio si voltò e la sua chioma rada e morbida risplendette argentea, mentre gli occhi vispi e scuri scrutavano il suo ospite da sotto folte sopracciglia scure. «La tua presenza qui mi porta a supporre che li abbia trovati», commentò con voce possente.
«Sì signore, sono di nuovo nell'altro mondo. Hanno varcato un portale proprio tre giorni fa.»
«E dove sono arrivati?»
«Negli Stati Uniti, signore», rispose rapidamente il giovane ostentando sicurezza e fierezza nelle sue scoperte. «Dove erano già stati avvistati prima che giungessero a Bastreth.»
Il vecchio si lisciò la folta barba chiara e annuì sovrappensiero. Si voltò nuovamente verso la foresta e i grandi bottoni rossi sul suo doppio petto elegante scintillarono nel movimento. «Quando sarà la prossima riunione dei sette Reggenti?», domandò dopo un po' di silenzio.
Il giovane corrugò la fronte e si sforzò di ricordare. «Tra due settimane, signore», rispose infine.
«Non c'è tempo da perdere. Raggiungili subito», ordinò. «Saremo in nove.»


Nehroi era il tipico ragazzo che sapeva adattarsi e trarre il meglio dall'ambiente circostante: ad Ataklur era un immaturo, comprensivo e mite ragazzo sempre disposto a sacrificarsi per salvare la sorella, ma non appena varcava il portale, quando le case contadine venivano sostituite da grattacieli in vetro e i carri fluttuanti diventavano automobili puzzolenti, anche lui cambiava: era sempre il solito immaturo, comprensivo e mite ragazzo che non lasciava mai la sorella da sola, ma era anche un ingordo divoratore di dolci, uno sbruffone che si vantava coi coetanei della sua libertà assoluta e, purtroppo, un incallito giocatore d'azzardo.
Savannah invece subiva una mutazione minore: da sottovalutata e poi temuta jiin potente diventava una sottovalutata e poi ignorata ragazza senza nulla di particolare se non un caratteraccio da evitare e degli strani occhi. Purtroppo per lei, da quando aveva preso in mano le lettere accumulatesi sullo zerbino d'ingresso, quelle erano le sue ultime preoccupazioni.
Era la passione più recente del fratello a preoccuparla: «Sai cosa vuol dire “bancarotta”?», gli domandò al tavolo della colazione, bloccando a metà il suo morso ad un triplo toast alla marmellata.
«Senza un dinero?», le rispose.
Savannah gli lanciò la lettera della banca in faccia. «Oggi dovremo procurarci dei soldi o ci prendono la casa.»
Nehroi ingoiò rumorosamente l toast e afferrò il foglio volante di fronte al suo naso. «Scherzi?», lesse con attenzione macchiando di rosso la lettera, poi alzò un sopracciglio. «È una cosa che possono fare?»
«Perché ti stupisci? Lo si fa anche da noi.»
«Ma solo per chi non... no, ci abbiamo messo tanto a trovare questo posto!», esclamò scandalizzato quando gli zuccheri iniziarono a circolargli nel sangue e ad attivargli il cervello.
Savannah corrugò la fronte e si domandò che concezione del tempo avesse suo fratello per definire “tanto” quelle tre orette passate ad hackerare il sistema delle agenzie immobiliari per prendere l'appartamento senza che venisse rivelato da nessuna parte. Come se fosse stato dimenticato da tutti o non esistesse più. La tecnologia era molto gentile con chi aveva le parole giuste per lei... e la magia per poterle usare, certo.
«Va bene», disse Nehroi dopo un po' di elaborazione di concetti, «E dove vorresti prenderli?»
La jiin inclinò la testa e sorrise innocentemente. «Hai presente i titoli che hai deciso di giocare in borsa?»
Il ragazzo fece un ghigno. «Non sono del tutto un disastro, eh?»
«Non sei del tutto un disastro, quindi possiamo convincere il sistema a farci “vincere”...»
Nehroi le applaudì e la indicò con entrambe le mani mentre il suo viso diventava sempre più radioso. «Signori, io adoro mia sorella!»

A parte i vestiti e un paio di dipinti fatti da loro, non c'era nulla che potesse far capire che quella era una casa e non un appartamento da affittare a rotazione: nessuna foto, nessun oggetto particolare, solo qualche rivista in giro, di cucina come di automobili o di computer.
Era un loft ammobiliato con mobili di vari stili, movimenti ed epoche – il bagno rifletteva l'arte liberty e la cucina era pienamente moderna, mentre il salotto era in pieno stile country, col divano pezzato e una sedia a dondolo – semplicemente perché ai due fratelli piacevano così. Non si ponevano il problema di un'idea generale, non avevano neanche la difficoltà economica di dover buttare via tutto e ricominciare daccapo, per non parlare della loro ferma volontà di non voler mai essere identificati o analizzati da nessun poliziotto, brehmisth, jiin o umano che fosse.
Ciò che più importava loro in quella casa, comunque, era l'enorme vetrata che attirava gli occhi immediatamente sulla città sottostante, simbolo del misero potere umano, memorandum del loro potere magico, l'unico in grado di permettere di possedere qualsiasi cosa, fiumi di soldi inclusi.
Avevano appena chiuso la porta di casa quando un vicino li salutò imbarazzato. «Oh, salve... siete voi che abitate lì?»
Nehroi gli diede una pacca sulla spalla e lo prese subito in simpatia. «Finalmente qualcuno con cui guardare le partite senza che sbuffi ad ogni istante!», esclamò entusiasta, «Non ti ho mai visto prima, sei nuovo del palazzo?»
«Sì, mi sono trasferito proprio oggi...»
Savannah lo squadrò da capo a piedi e la prima parola che le balenò in mente guardandolo fu “damerino”. Forse a causa della cravatta nera e stretta o della camicia assolutamente bianca che poi andava a perdersi in un paio di jeans scuri, o forse ancora per via di quei capelli biondo spenti un po' lunghi e pettinati diligentemente all'indietro... non lo sapeva di preciso. Aveva una corporatura slanciata ma non possente e sembrava che avesse poco più di una trentina d'anni. Ipotizzò anche che fosse un impiegato, un cameriere o un maggiordomo, ma la prima impressione rimase quella.
Damerino.
«Noi siamo tornati da pochi giorni da una vacanza», stava dicendo Nehroi mentre la mente della sorella verteva su quei pensieri e la porta gli si chiudeva alle spalle.
La mano del vicino saettò a metà altezza, tesa verso Savannah in una posa più da corteggiamento che da presentazione cordiale. «Mi chiamo Phil Mayson», disse con voce controllata, sebbene non riuscisse a non essere agitato, gli occhi puntati con voracità sulla ragazza. «Molto piacere.»
Nehroi guardò quella mano con aria schifata, domandandosi con un pizzico di delusione perché si fosse presentato prima a lei, che non l'aveva minimamente considerato, invece che a lui dopo avergli esposto tanta cordialità. Incrociò le braccia. “Stupidi umani”, pensò piccato.
«Savannah», disse semplicemente la jiin senza stringere la mano che aveva davanti e guardando altrove.
Phil sembrò spaesato di fronte a quel saluto così gelido ma non rimase imbambolato troppo a lungo. La mano ruotò verso Nehroi e un nuovo sorriso si dipinse sul viso del damerino.
Il brehkisth lo guardò storto. «Sono il ripiego?», borbottò esibendo il suo broncio migliore.
Savannah attraversò il pianerottolo e premette il pulsante dell'ascensore, che comparve al piano poco dopo con un gioioso “ding”. Nehroi si voltò senza dire nulla al nuovo vicino con cui sicuramente non avrebbe guardato nessuna partita di nessuno sport.
Entrarono e premettero il pulsante del piano terra. «Complimenti per l'abilità nelle presentazioni, signor Phil.»

La borsa di New York era il nuovo parco giochi di Nehroi e la nuova fonte di sfide tecnologiche per Savannah: il primo si divertiva a ficcare il naso in un ambiente completamente nuovo ed estraneo fingendosi un capace impiegato di questa o di quell'azienda, talvolta spacciandosi anche per direttore o importante e giovane imprenditore; la seconda si sedeva semplicemente ad un banco informazioni o prendeva posto vicino ad un computer e iniziava a lavorare per entrare nel sistema chiacchierandoci amabilmente, sperando di ottenere favori che agli apparecchi sembravano semplici giochi di numeri.
Quel giorno Savannah camuffò le loro identità prendendo ispirazione dai personaggi di un telefilm di avvocati: corti capelli biondi a caschetto e tailleur blu perlato per lei, ispidi capelli rossicci a spazzola e completo identico a quello del nuovo vicino per lui. «Perché io devo assomigliare a quel cascamorto?», si lamentò Nehroi non appena intuì cosa avesse prodotto l'immaginazione della sorella.
«Sta meglio a te che a lui», si limitò a rispondergli, poi gli fece un occhiolino malizioso. «Ti fa più sexy.»
Entrarono alla borsa esibendo documenti falsi a delle guardie magicamente illuse di veder passare volti noti e si mescolarono alla gente che urlava numeri e ordini a non finire senza alcuna difficoltà.
«Quanto credi che ci possa servire?», domandò la jiin con tranquillità mentre adocchiava il computer che faceva al caso suo.
«Prendi poco in più del necessario stretto», rispose Nehroi. «Tanto per star sicuri senza attirare troppo.»
I due si divisero. Nehroi si gettò in mezzo alla folla urlante e iniziò a gridare qualcosa anche lui, chiedendo di bloccare titoli, vendere e comprare completamente a caso. Notò che tutti gli altri parlavano costantemente anche al cellulare e si ripropose di averne uno anche lui la prossima volta.
Savannah si avvicinò al computer che le interessava e scoprì con disappunto che c'era un impiegato della borsa ad usarlo. «Posso aiutarla, signorina?»
La jiin aveva sperato di poter lavorare senza persone di mezzo, ma si rese conto che in un posto tanto affollato quella poteva essere solamente un'utopia. «Sì, vorrei controllare i miei titoli», disse con noncuranza.
L'uomo, un pinguino in giacca nera e cravatta bordeaux, la guardò di sbieco ed alzò un sopracciglio.
«Per favore», insistette lei avvicinandosi una sedia ed accavallando dolcemente le gambe. «Non ci capisco molto di queste cose, ma mio marito oggi era impegnato e ha spedito me...»
La sua voce si era fatta estremamente suadente e Savannah si sorprese di essere ancora così brava ad ammaliare dopo aver passato una vacanza ad un passo dall'inferno.
L'uomo si guardò attorno con il viso tutto arrossato e premette velocemente qualche tasto: la schermata cambiò e comparve un'enorme e infinita tabella straripante di numeri e qualche nome.
«Quali titoli ha?», le domandò.
Lei si sporse in avanti quel tanto che bastava per poter mettere la mano sulla tower del computer, ma riuscì ad arrivare solo al desktop. «Uhm, non ricordo bene...», iniziò a prendere tempo.
Ampliò la mente e sentì la magia fluire dal suo palmo ai circuiti del computer, percorrendo strade immensamente lunghe piene di codici, numeri, strane parole e tanti, tanti dati. Per un attimo si sentì persa e temette di non riuscire a convincere un computer tanto potente, poi vide un nome sullo schermo e lo pronunciò poco convinta. «General... Motors?»
L'uomo la guardò ancor più sospettoso di quanto già non fosse. «GM? Davvero?», le chiese scettico.
«È sbagliato?», domandò candida. Sbatté le ciglia per essere sicura di non perdere il suo potere femminile, dal momento che quello magico non riusciva a scalfire il sistema del computer.
«No, certo che no... allora», digitò varie cose sulla tastiera e il monitor cambiò ancora colori, diventando una tabella meno fitta ma variegata e incomprensibile come la precedente. «Sono in lieve calo.»
«Oh. E come mai?»
«Miss, questo non è un buon periodo perché con la crisi che c'è...»
Iniziò a disquisire sulle cause di un simile risultato e Savannah ringraziò tutti gli dei di entrambi i mondi per avere una simile copertura. Proprio mentre annuiva ad una frase che le sembrava meritevole di un cenno di assenso, trovò un punto di contatto con il computer. Si concentrò al massimo per non perdere quell'opportunità. “Ciao computer”, gli disse cordiale, “Come stai?”
Se c'era una cosa che aveva imparato dalle sue esplorazioni nella tecnologia, era la tranquillità. Ad un computer non serve sempre e solo l'ordine, o il suo firewall non aprirà mai lo spiraglio necessario ad ottenere ciò che si vuole. “Stanco”, le rispose rapidamente con voce meccanica e spezzata.
Savannah sorrise all'uomo e sperò che non le chiedesse di rispondere a nulla per almeno due minuti.
“Vuoi divertirti un po'?”, gli domandò. Il computer fece uno strano rumore e l'uomo della borsa si voltò di scatto.
«Che hai adesso...», borbottò nervosamente. Il computer ripeté il verso e ricevette un pugno sulla tower. «Mi perdoni, signorina... dov'ero rimasto?»
Savannah sbiancò. «Oh, beh, credo che fosse al...»
«Alla politica estera, ma certo!», l'impiegato si illuminò e riprese il monologo.
“Hai visto come ti ha trattato?”, disse Savannah al computer. L'uomo spostò il monitor per indicarle una fila di numeri e lei perse parte del contatto. Le sue dita tremarono. “Che ne dici di fargli uno scherzo?”, domandò rapidamente in un soffio prima di perdere definitivamente il contatto.
«... e sostanzialmente è per questo che i suoi titoli sono così in ribasso e le sconsiglierei di ... di... ma che succede?»
L'uomo si avvicinò così tanto e così improvvisamente allo schermo che Savannah ebbe l'impressione che ci volesse entrare anche lui per parlare col computer. «Non è possibile...», sussurrava shockato.
Savannah staccò la mano dal monitor e sorrise soddisfatta. «Allora, mi dica», domandò serena sfoderando un enorme sorriso, «Se li vendessi ora quanto ne ricaverei?»

Tornarono all'appartamento dopo aver visto due film al cinema, aver prenotato una vacanza vera su un qualche atollo paradisiaco e aver comprato legalmente una marea di videogiochi, dolci, vestiti... e un paio di birre.
«Ma non ti avevo chiesto di prenderne pochi in più?», esclamò Nehroi non appena il loro altissimo palazzo comparve sulla strada svettando luminoso nella città profondamente addormentata.
«Non è colpa mia se quell'uomo era tanto odiato dal computer!», Savannah rideva come poche volte in vita sua, spensierata e tranquilla, in quel felice momento che intercorreva tra una caccia ai tesori e l'altra. «Io amo il mondo degli umani!», urlò davanti ad un paio di barboni che si scambiavano i giornali per la notte.
«Ann, non esagerare...»
La ragazza gli infilò una mano in tasca e ne estrasse una manciata di caramelle incartate in mille modi diversi. «Tu non ami forse questi loro piccoli elaborati di zucchero?», gli domandò con impertinenza.
«Sì ma non lo urlo in giro per la città! Smettila, dai... sei ubriaca!»
Savannah alzò le braccia al cielo e rise ancora.
«Ok», brontolò il fratello senza riuscire a trattenere un sorriso, «Tu non bevi più!»
Entrarono nell'ascensore ridendo e ne uscirono ancora col sorriso sulle labbra. Fu solo quando sentirono dei passi alle loro spalle sul pianerottolo che l'ilarità venne meno e la mente tornò lucidissima.
«C'è una festa?»

Nehroi sbuffò e lo guardò male. «Capiti al momento sbagliato», gli sibilò innervosito mentre alle sue spalle la serratura di casa scattava con un suono metallico.
«Mi spiace, volevo solo essere partecipe», rispose Phil garbato, sistemandosi la cravatta nera come se l'avesse appena messa.
Savannah afferrò il braccio di Nehroi e lo trascinò verso il loro zerbino. “Stay away”, recitava coi crini scuri.
«Non c'è nessuna festa, siamo solo noi due e...»
«State insieme da molto?»
La domanda spiazzò i due ragazzi senza riserve e li fece sentire pesci fuor d'acqua. «Cosa?», balbettarono all'unisono.
Phil sorrise ed alzò le mani in segno di scuse. «Ma certo, non sono fatti miei», disse senza sembrare minimamente dispiaciuto. I suoi occhi, solo allora Savannah li notò, erano di un castano così chiaro che potevano sembrare gialli.
Nehroi afferrò a due mani il damerino per il colletto della camicia e lo sollevò da terra, immobilizzandolo contro il muro. Un braccio premeva sulla spalla e l'altro tendeva pericolosamente verso il collo con le dita strette a pugno. «Hai perso le tue occasioni di essere un vicino sopportabile», sibilò a denti stretti.
Savannah lanciò la sua borsa sul divano pezzato e si avvicinò ai due. «Lascialo, Neh, ha capito», disse con tranquillità. Ci vollero molti secondi e molte occhiatacce tra i due maschi perché la tensione si allentasse un po'. Phil sembrava davvero mingherlino e debole in confronto al fisico robusto di Nehroi: appeso a quel modo contro al muro, non era molto più di un manichino inerme.
Il brehkisth lasciò la presa e l'umano tornò coi piedi per terra in un sospiro di sollievo.
Non appena ebbe appurato che il vicino impiccione non avesse problemi di salute, la jiin si voltò rapidamente e varcò la soglia di casa. Nehroi stava per seguirla quando la voce di Phil tornò a sovrastare il silenzio del pianerottolo.
«In realtà», aveva esordito con voce tranquilla ed imperiosa, «Una festa c'è. Ma non in questo mondo.»
L'attenzione dei due ragazzi si era centuplicata e improvvisamente nessuno dei due stava più muovendo un muscolo per entrare in casa.
Attimi di silenzio in cui sudarono freddo, mille ipotesi e previsioni di cosa sarebbe potuto accadere che vorticavano rumorosamente nelle loro menti.
Si voltarono verso quello che probabilmente non era più un semplice vicino impiccione e le espressioni sui loro visi erano decisamente diverse da pochi secondi prima.
«Un attimo...» Phil alzò un dito verso di loro ed entrò nel suo appartamento; ricomparve un istante dopo con una lettera in mano. La porse ai due fratelli e sorrise compiaciuto.
«Ecco qui. Direttamente dai Capi Reggenti di Ataklur.»
Savannah fissò quella busta come se fosse pronta a scoppiare da un istante all'altro.
«Non morde», si limitò a dire Phil, girandola in tutte le direzioni. «Visto? È solo una busta. Non mi direte che i sopravvissuti alla famigerata grotta di Bastreth hanno paura di...»
Nehroi gliela strappò violentemente di mano. «Dai qua!»
Guardò la sorella ed entrambi si resero conto di essere in presenza di qualcuno che sapeva molte cose su di loro, molto più di quanto avesse dato a vedere, e di cui invece non sapevano assolutamente nulla. «Il tuo nome, Phil Mayson», domandò Savannah mentre Nehroi passava un dito sotto l'apertura della busta e la dissigillava. «Almeno quello è vero?»
Il giovane uomo di passò una mano tra i capelli perfettamente in ordine e fece spallucce. «Tutto di me è vero, cara Savannah. Non ho mai mentito.»
Nehroi estrasse la lettera e si avvicinò alla luce di una lampada della cucina. Stese il foglio e lesse, rapidamente; poi alzò gli occhi verso Savannah ma non sapeva quali parole usare per raccontarglielo, così la rilesse. Le sue espressioni variarono ad ogni lettura, tanto che la ragazza decise di sfilargli il foglio di mano e scoprire il contenuto da sola.
Corrugò la fronte. «Siamo...»
Si avvicinò a Phil e gli sventolò il foglio di fronte al naso. «È uno scherzo?», disse con un tono di voce più alto di quanto volesse. Si maledì, poi si guardò attorno e afferrò il braccio di Phil, trascinandolo in casa e chiudendo rapidamente la porta dietro di sé.
Il “vicino di casa” non fece in tempo ad ammirare i diversi stili che dominavano nell'appartamento: i due fratelli più potenti e pericolosi di tutto il mondo magico lo stavano fissando minacciosamente e una sensazione di disagio gli attanagliò le viscere.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma il suo corpo venne paralizzato completamente dalla vita in giù e ne rimase sorpreso. «Ebbene?», domandò garbato.
Nehroi alzò un sopracciglio. Non sembrava scandalizzato dalla magia come tutti gli altri umani, pensò. Lo osservò tentare di muovere il bacino inutilmente, curioso e divertito come un bambino.
«Cosa significa questa lettera?», scandì Savannah avvicinandosi a Phil.
«Mi sembrava che sapeste leggere, o quella di prima era una recita? Se così fosse dovrei farvi i complimenti... Conoscete Broadway? No? Dovreste andarci.»
La jiin inspirò profondamente. «Siamo invitati al consiglio dei Capi Reggenti?»
Phil allargò le braccia e annuì. «È quel che c'è scritto.»
La ragazza non si sentì per niente soddisfatta da quella risposta. «Perché», sillabò con i nervi a fior di pelle. Iniziava a sembrare una situazione da candid-camera: non aveva senso, non aveva alcun senso. Perché i Capi Reggenti, i sette capi delle grandi regioni e città di tutto il mondo di Ataklur, coloro che decidevano come un unico governo cosa sarebbe successo nel regno... perché avevano deciso di invitare proprio loro due, orfani senza alcun merito né posizione, qualifica o autorità?
«Alle riunioni dei Reggenti sono ammessi solamente i sette Capi», commentò Nehroi sulla stessa lunghezza d'onda della sorella.
Phil inclinò la testa e sorrise. «Solo loro, sì, ma a volte anche i più potenti. Uno jiin viola potrebbe essere... interessante, non credete?»



*-*-*-*



Siete adorabili. No, dico sul serio, le vostre congetture su chi sarebbe tornato in scena sono davvero interessanti! Per ora avete scelto ognuno il proprio personaggio preferito... e sono contenta di sapere chi ci ha visto giusto e chi no! xP
Spero che il nuovo personaggio, nell'attesa del vecchio-che-ritorna, vi piaccia! E' antipatico o simpatico? Vi piace esteticamente? Credo sia il primo che ho descritto fin da subito e che ha lasciato meno spazio alla vostra fantasia... ma non volevo che vi faceste prime impressioni sbagliate. Phil è così e sarà piuttosto presenteimportantedecisivotraipiedi per i prossimi... boh, molti capitoli, quindi accettatelo (zzzac!) e fatevene una ragione! ^^

Grazie millemila per le recensioni, l'ardore che avete dimostrato nel leggere della nuova saga mi ha fatto venire voglia di saltare un sabato negli aggiornamenti! xD LOL, scherzo. O no, in fondo il dubbietto mi è venuto... ma è tempo che la smetta di dire fesserie. U_U

Alla prossima, people!
Ciao!

Shark

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Capitolo 13
*** Insistenza ***





13
Insistenza



«Uno jiin viola? Quindi solo lei?»
Phil schioccò la lingua sul palato e fece vagare lo sguardo in giro per la stanza. «L'idea era questa...»
«Senza Nehroi non vado da nessuna parte.»
L'uomo sorrise ed indicò la jiin. «... ed è esattamente per questo che ho consigliato di invitare entrambi.»
I due fratelli assottigliarono lo sguardo e lo osservarono come se fosse appena comparso di fronte a loro. Sembrava non ci fosse una sua frase che non avesse il potere di riempirli ancor più di domande.
«Tu hai consigliato?», chiese Nehroi, «Tu?»
Phil allargò le braccia, offeso. «Sono un consigliere, è il mio lavoro!», brontolò.
Le espressioni sui visi dei ragazzi, però, non cambiarono: scettiche erano, scettiche rimasero.
«Sei un umano», constatò Savannah con delicatezza, come se temesse che stesse rivelando qualcosa di sconosciuto e che avrebbe potuto shockarlo.
Phil alzò un sopracciglio, seccato. «E allora? Non siamo mica esseri inferiori. Il cervello è lo stesso. Solo perché noi non respiriamo magia dalla nascita non vuol dire che...»
«Sì ma... Ataklur. Come puoi essere un consigliere del nostro mondo?»
Il biondino sospirò e scosse la testa più volte. «Oh, poverini...», disse fingendo desolazione, «Quante cose che non si sanno se si vive ai margini della società...»
Nehroi alzò gli occhi al cielo, gli fece il verso con una smorfia e sbuffò. Poi si voltò, aprì un'anta della credenza e tirò fuori due bicchieri colorati. «Acqua?», domandò alla sorella.
«C'è dell'altro?», domandò lei con tranquillità.
Il ragazzo aprì la porta del frigo e scrutò cos'aveva da offrirgli.
«Mi state ignorando?», domandò Phil, ancora immobilizzato al centro della stanza.
«Un succo alla pesca», rispose il brehkisth, «O anche una coca e...»
«Ehi!»
«Il succo va bene, grazie.»
«Molto, molto divertente», disse l'ospite sbracciando come un profugo sull'isola deserta. «Siete permalosi! Bene! Benissimo! Se mi liberate aggiungo questo dettaglio nelle note del vostro fascicolo, così i prossimi malcapitati che avranno a che fare con voi saranno più preparati!»
Savannah e Nehroi bevvero con tranquillità e senza alcuna fretta le loro bibite, disquisendo su quanto fossero dissetanti; la jiin fece anche il bis e sgranocchiò un paio di patatine.
«Quando avete finito...», brontolava Phil, ormai seccato, «Io vorrei potermi muovere, inizia ad essere una posizione fastidiosa.»
Il brehkisth camminò verso di lui, alleviandogli per un istante le pene facendogli credere che lo avrebbe liberato o almeno considerato, poi lo superò e si tuffò sul divano. Il canale sportivo comparve subito dopo sul grande schermo che troneggiava in mezzo alla libreria vuota.
«Sempre più divertenti», mormorò l'umano.
Savannah iniziò a lavare i bicchieri. «Non ci piaci.»
Le sue parole furono quasi risucchiate dal rumore dell'acqua che scorreva, ma Phil non se le lasciò sfuggire. «Evidentemente ho iniziato col piede sbagliato, chiedo scusa.»
La voce del biondino aveva una sfumatura che Savannah non riuscì ad identificare alla perfezione ma che, in qualche modo, la toccò. Decise di dargli almeno la possibilità di raccontare la sua storia.
«Allora, sei davvero un consigliere?», domandò per prima cosa.
«Potresti liberarmi, per favore?», domandò lui di rimando, sforzandosi inutilmente di muovere il bacino. «Inizio a non sentire più i piedi...»
Savannah annuì e in quell'istante Phil per poco non cadde a terra per la perdita di equilibrio.
La jiin si sedette sulla sedia a dondolo tra la zona tv e la cucina e invitò il vicino di casa a prendere posto su una poltroncina lì accanto. «Grazie», sussurrò lui mentre si avvicinava traballante.
Alzò gli occhi su di lei e la trovò in attesa. «Ah, giusto!», si ricordò. «Sì, sono un consigliere. Di Mas Heim, Capo Reggente di Norreth, precisamente.»
La ragazza si inumidì le labbra. «Norreth», assaporò ogni lettera di quel nome, un nome che la spediva in ricordi lontani. «Ci siamo stati...»
«Sei anni fa, sì», rispose prontamente Phil, mordendosi poi la lingua. «Scusa», soffiò.
Gli occhi viola di Savannah erano sgranati e puntati su di lui come se le avesse sputato addosso. «Quante cose sai di noi?», domandò ferita spostandosi agitatamente sulla sedia a dondolo.
Non riusciva a capire come potesse essere a conoscenza di una cosa del genere, poi si ricordò del fatto che lui aveva nominato un “fascicolo” su di loro, mentre lei e Nehroi avevano giocato ad ignorarlo, e si domandò chi fosse interessato a registrare la loro vita così minuziosamente e da così tanto tempo.
Phil si limitò a fare spallucce e si grattò la nuca. «Quante cose so? Un po', vedi... mi hanno affidato il vostro caso e ho dovuto studiare qualcosa per capirvi meglio.»
«Quindi... c'è qualcuno che tiene il conto di ciò che facciamo?»
«C'è sempre qualcuno che tiene il conto. Soprattutto ai piani alti, c'è gente che non fa altro in tutta la vita. Tra i jiin come tra gli umani.»
Lo sguardo di Savannah si fece ancora più pungente e una strana sensazione pervase Phil da capo a piedi, ma non comprese esattamente a cosa fosse dovuta. Cercò di mantenere il sangue freddo e si ripeté mentalmente il suggerimento del suo mandante prima che varcasse il portale.
«Fai attenzione», gli aveva detto, «Il fascicolo non mente: sono pericolosissimi.»
«Vi dimostrerò di essere all'altezza della situazione», era convinto di potercela fare. «Solo un consigliere che porta un messaggio, non mi uccideranno.»
L'altro aveva riso con voce roca. «Credi che a loro importi quale carica ricopri? Se ti vedono come un pericolo... sei finito.»
Qualcosa nell'aria che si respirava nella stanza cambiò e la situazione divenne più spinosa del previsto. Phil deglutì e si sforzò di ritrovare la sua parlantina efficace. L'unica arma che aveva.
«È normale che un consigliere sappia così tanto su di noi?», gli occhi viola si ridussero a due fessure e le sue dita, inermi sulle gambe, si irrigidirono. La sua non era una vera domanda, Phil lo sapeva: era una trappola. Probabilmente mortale.
«Volevo solo conoscervi», disse facendo spallucce con tranquillità, «Tra l'altro io... credo di essere un vostro fan.»
L'atmosfera cambiò radicalmente non appena i due ragazzi si ritrovarono spiazzati da quella frase e tutto sembrò più leggero e confuso. «Fan?», sussurrò Nehroi guardandolo di sbieco da oltre lo schienale del divano, senza abbassare il volume della telecronaca di una partita di baseball.
«Perché?»
Phil si rilassò sulla sedia e si sistemò meglio i ciuffi all'indietro. «Non capita tutti i giorni che due orfani arrivino a tanto», disse lentamente, ma con una certa vitalità nella voce. «Ho seguito i vostri successi da quando siete scesi nel pozzo di Sty. Ero appena diventato consigliere, ancora un neofita del vostro mondo, e la notizia di quell'impresa mi era subito arrivata alle orecchie. Nessuno avrebbe puntato su di voi, ma io sì e sono contento di sapere che avrei vinto.»
Savannah si alzò e andò a prendersi un altro bicchiere d'acqua. Sty Mehu era una jiin rossa, famosa principalmente per la sua caduta in una buca profondissima nel terreno durante l'inseguimento di un brigante per vendicarsi della morte di sua figlia. Una leggenda popolare diceva che le sue ossa fossero ancora lì, intrise del suo odio e rese più potenti di uno jiin nero a causa del tempo e del rancore latente che ancora le abitava, e loro due avevano deciso di testarne la veridicità quando erano poco più che adolescenti.
«Dicevano che sarebbe crollato tutto e che non ne sareste mai usciti», disse Phil con malcelato entusiasmo.
Erano a Lagireth ed era successo sette anni prima di quel momento imbarazzante in cui uno sconosciuto umano dimostrava di essere a conoscenza della loro riuscita. E di aver tifato per loro.
«Poi siete usciti con le ossa di Sty e senza che le vostre fossero rotte e... all'improvviso tutti hanno capito che avevate delle capacità non comuni, sapete?»
Nehroi spense il televisore e si girò sul divano, sedendosi sul bracciolo per vedere la sorella e quello strano ospite che non sembrava voler smettere di stupirli.
«Cosa vuoi da noi?», disse Savannah con voce esausta e stremata. All'improvviso non le importava più quando Phil sapesse su di loro, voleva solo che sparisse per sempre dai loro occhi.
Alzò lo sguardo su di lui e lo vide indicare con un cenno della testa la lettera che le aveva dato poco prima, abbandonata sul bancone della cucina. «Sono qui per accompagnarvi alla riunione dei Capi», disse con semplicità.
Nehroi ridacchiò ed attirò l'attenzione del consigliere. «Non andremo da nessuna parte», gli rispose con altrettanta tranquillità. Se non fosse stato per le parole utilizzate, poteva sembrare che stessero parlando del tempo.
Phil aprì la bocca per rispondergli ma la voce di Savannah alle sue spalle bloccò ogni frase e lo fece voltare verso di lei. «Esatto, non ci muoviamo da qui finché non vogliamo farlo», disse la jiin.
«Non prendete decisioni affrettate, per favore», il lato diplomatico di Phil Mayson tornò a galla con imponenza. «Mancano ancora una decina di giorni e considerate ogni aspetto dell'invito, è un'occasione unica!»
«La perderemo volentieri», commentò il brehkisth, gettando l'ospite in mezzo a due fuochi di nuovo nemici.
«Ma le opportunità che conoscere i Capi Reggenti vi offre sono...»
«Non c'interessa», proseguì Savannah, facendo ruotare ancora la testa di Phil.
«Molto probabilmente vi offriranno un ruolo importante ne...»
Nehroi si alzò in piedi ed attirò lo sguardo del consigliere ancora una volta. Si sistemò la camicia a scacchi blu con noncuranza. «Perché due coniglietti entrano nella tana del lupo?», domandò beffardo, un ghigno amaro dipinto sul viso.
Phil alzò una mano per fermarlo e puntualizzare. «Non è questo il caso, non c'è nessun lupo.»
«E noi non siamo coniglietti», commentò Savannah alle sue spalle, «Ma la risposta alla domanda è una sola: non ci vanno.»
Phil iniziò a sudare. «State guardando la cosa da un lato sbagliato...»
«E tu non stai guardando la nostra risposta», ribatté Nehroi, appoggiato allo schienale del divano e intento a giocherellare con la cordicella del paralume.
Phil alzò entrambe le mani, come dovesse chiedere una pausa all'arbitro. «Potreste mettervi entrambi da un lato?», domandò esasperato. «Non ce la faccio più a girarmi da una parte all'altra, mi sento una trottola.»
Savannah ridacchiò e si avvicinò alla porta. Abbassò la maniglia e lo invitò ad uscire dal loro appartamento con un movimento garbato del braccio. «Vada a riposare, allora», gli disse maliziosa, «Non vorremmo mai avere un damerino come lei sulla coscienza.»
Phil schioccò nervosamente la lingua sul palato. Non avrebbe ottenuto altro e la cosa lo irritava parecchio. Strinse i pugni e marciò verso l'ingresso trattenendosi dal pestare i piedi: non gli piaceva essere preso in giro e quei due fratelli l'avevano davvero messo alle strette. Nel fascicolo non era segnato nulla su quel lato crudelmente scherzoso del loro carattere.
«Avete vinto la battaglia», disse un attimo prima che la porta sbattesse. Guardò il legno chiuso di fronte a sé e si voltò. «... ma non la guerra.»
Entrò nel suo appartamento e chiuse con cura la porta, poi si voltò e sospirò. Una casa di facciata, pochi mobili vuoti nell'ingresso e quasi niente nelle altre stanze; solo una brandina, alla fine del corridoio.
Sollevò la cornetta del telefono cord-less e si appoggiò con la fronte al vetro della finestra, lasciando vagare lo sguardo alla ricerca della luna nascosta dalle nuvole passeggere.
Digitò tre cifre sul tastierino e il suono dell'attesa si insinuò nel suo orecchio.
«911, qual è l'emergenza?»
La luna illuminò l'espressione soddisfatta sul viso del consigliere.

Il giorno successivo uscirono dall'appartamento attorno a mezzogiorno, svegliati da poco a causa della nottataccia che aveva seguito l'odiosa scoperta dell'odioso vicino consigliere dell'odiosa Ataklur. Avevano deciso di fare colazione pranzando ad un fast-food, meta di un peccato di gola che attraeva entrambi fin dal loro primo attraversamento del portale.
Il locale era luminoso e dall'arredamento moderno, pieno di famiglie con bambini troppo chiassosi ed energetici per i loro gusti. Fecero la coda con i brontolii degli stomaci come unico sottofondo musicale, a tratti più rumoroso della musica che usciva continuamente dagli altoparlanti disseminati sopra le loro teste, poi riuscirono ad ordinare e, vassoi in mano, a prendere posto nel tavolino più defilato e pacifico che riuscirono a trovare.
Ma la pace durò ben poco.
Prima sentirono le sirene delle volanti, poi videro le auto sfrecciare in strada oltre le enormi vetrate del fast-food e infine assistettero all'invasione del locale da parte di agenti in divisa scura, tutti muniti di giubbotti antiproiettile e di pistole alzate a metà viso.
«Oggi c'è pure lo spettacolo dal vivo», commentò Nehroi con una punta di divertimento nella voce, afferrando il bicchierone di carta della sua bibita.
«Fermi tutti!», tuonò l'agente appena entrato di corsa nel locale, tra le grida spaventate e gli occhi sgranati di tutti i clienti; i bambini ritirati tra i genitori come le onde marine poco prima di uno tsunami.
L'agente si guardò attorno muovendo gli occhietti scuri velocissimamente e individuò ciò che cercava.
Savannah si era appena portata due patatine alla bocca quando lui piombò di fronte a loro, pistola alzata e sguardo fermo. «Siete in arresto!»
Lo guardò perplessa e smise di masticare. «Ah sì?»
Alla sua sinistra Nehroi tirò rumorosamente su con la cannuccia e il rumore della bibita fece voltare la sorella verso di lui. «Buffo», disse il brehkisth con innocenza.
L'agente, ora attorniato da tre colleghi, sembrò spazientirsi parecchio. «Mani bene in vista e alzatevi lentamente. Forza, non fate storie.»
«Ma è sicuro che siamo proprio noi quelli che cerca?», domandò Nehroi tranquillamente rigirandosi la cannuccia tra le dita. «Magari si sbaglia. Sa che figura ci farebbe?»
L'uomo sbuffò e mise via la pistola, facendo cenno ai suoi colleghi di rimanere immobili, bersagli nel mirino. Prese una sedia dal tavolo accanto e si sedette con loro, braccia incrociate sul tavolo e sguardo torvo. «Siamo sicuri», disse con voce ferma e baritona.
Savannah prese un'altra patatina, molto lunga, e se la piegò in bocca. «Accidenti. Se me lo dice così potrei anche crederci», lo provocò.
Non era semplicemente possibile che li avessero trovati, nessuno dei due aveva mai messo in dubbio di poterla sempre fare franca e non avevano mai pensato di finire in prigione. C'erano stati solo una volta, ma era uno stato di fermo cautelare ed era successo dopo il loro primo passaggio da Ataklur al mondo degli umani.
Nella loro terra i soldi non hanno molto senso, dal momento che i jiin possono fabbricarseli da soli, quindi ci erano rimasti molto male scoprendo che gli umani dovevano pagare prima di prendere le cose nei negozi e che promettere un favore in cambio non sarebbe bastato...
L'agente ridacchiò sottovoce e scosse la testa. «Divertente, davvero divertente.»
I clienti del fast-food erano impietriti sulle loro sedie, immobilizzati come se una bomba potesse scoppiare da un momento all'altro. E non sapevano nemmeno che con Savannah e Nehroi non era un'idea tanto impossibile...
«Siete accusati di frode e truffa aggravata. Forse riusciamo a trovare le prove per incriminarvi di omicidio, quindi fossi in voi non riderei troppo.»
«Accidenti.»
I due fratelli si guardarono tra loro, fecero spallucce e ripresero a mangiare.
Tre pistole erano ancora puntate contro di loro, ma non erano minimamente preoccupati: dopo lo scontro con la creatura della grotta di Bastreth, Savannah aveva imparato a sviluppare barriere in grado di resistere a molto più che un colpo di proiettile. Sarebbero potuti rimanere nel bel mezzo di una sparatoria e viverla con i popcorn in mano.
«Prendeteli», ordinò l'agente seduto ai suoi colleghi, «Continueremo questa conversazione in carcere.»
Due dei tre uomini riposero le armi e afferrarono le manette, ma non appena queste tintinnarono nel locale Savannah alzò l'indice verso di loro, come se li volesse mettere in attesa.
Agenti nel ristorante, agenti fuori, genitori, bambini, studenti, inservienti, cuochi... tutti rimasero paralizzati.
Come se il tempo si fosse fermato o tutti fossero diventati di ghiaccio, nessuno mosse più un muscolo o fece un respiro.
«Wow», soffiò Nehroi con viva sorpresa, agitando una mano davanti al naso dell'agente capo, ancora a metà del suo movimento per alzarsi in piedi. «Non sapevo si potesse fare!»
Savannah si asciugò una gocciolina di sudore e annuì soddisfatta. «Nemmeno io, ma perché non provare?»
«Grande! … Ora come ce ne andiamo?»
«Possiamo fare un po' di fumo per offuscare le telecamere», propose la ragazza alzando gli occhi verso i dispositivi. Ne contava quattro in tutto il locale. «Così non spariremo all'improvviso e li rallenteremo quel che basta per tornare a casa, prendere i vestiti e andarcene.»
Nehroi annuì convinto, prese la sua bibita e si alzò in piedi.
Savannah immaginò di condensare l'acqua presente nell'aria, nella cucina e nelle varie bibite per creare un effetto fumogeno simile a quello che vedeva spesso nei concerti musicali e in poco tempo tutto il locale divenne completamente biancastro.
Uscirono tranquillamente dal fast-food, ora strabiliante museo delle cere, e aspettarono di perdersi un po' tra la folla delle vie laterali prima di restituire la mobilità a tutti quanti.
Era un piano geniale, sarebbero arrivati al loro appartamento prima che avessero il tempo di fare manovra con le volanti e avrebbero avuto tutto il tempo che volevano per uscire dalla città senza problemi.
Purtroppo, per quel giorno le sorprese non erano ancora finite.
Le porte dell'ascensore si aprirono e l'azzurro chiaro delle pareti del pianerottolo venne soffocato dal nero delle divise degli agenti federali. Di guardia all'ascensore, di guardia alla porta, dentro l'appartamento, in ogni stanza: erano dappertutto.
«Merda.»



*-*-*-*



So che siete tutti pieni di sconvolgimento perché non ho aggiornato ieri, ma la mole di cose che avevo da fare e che poi ho realmente fatto era tale da non permettermi di avere tempo per mettere il capitolo on line. Anzi, mi sono ricordata di farlo quando sono finalmente tornata a casa e mi sono messa sotto le coperte alle 3 di notte e... beh, ho problemi con l'html quando è giorno e sono reattiva, a quell'ora non era proprio il caso ^^"

Oggi capitolo corto, abbastanza di transizione e abbastanza d'azione, stiamo iniziando a conoscere meglio Phil e la saga #2 sta per prendere forma e inizio! Tremate tremate, le trame son tornate! *Halloweenata*

Grazie millemila per le recensioni che lo scorso capitoletto ha guadagnato! Noi (io e lui) siamo molto contenti! <3
Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 14
*** Il Male Minore ***






14
Il Male Minore



Le manette erano fredde e davano particolarmente fastidio ai due fratelli, memori delle corde con cui una volta erano stati trascinati ad una gogna pubblica nella periferia di Feinreth, prima che una donna si gettò verso di loro e morse il braccio dell'uomo che li tirava, permettendo la loro fuga.
In fin dei conti la situazione era la stessa: anche all'epoca avevano cercato di imbrogliare i mercanti, facendo una da elemento disturbante e l'altro da ladro vero e proprio.
«Avete il diritto di rimanere in silenzio, qualunque cosa direte potrà essere usata contro di voi.»
Ritrovavano spesso negli incubi peggiori quella donna che era stata maltrattata al posto loro e per anni erano sempre andati a trovarla nella sua casetta d'isolamento dispersa nello sterminato deserto della contea, prima che il tempo la consumasse del tutto.
«Avete diritto ad un avvocato, se non l'avete ve ne verrà offerto uno d'ufficio.»
I due si guardarono e sembrarono pensarci su seriamente. «Ne vogliamo uno?»
«Non so, poi dovremmo pagarlo?»
«Credo di sì.»
«Allora no.»
Gli agenti federali ridacchiarono e i loro distintivi sulle cinture scintillarono freneticamente nel pianerottolo affollato.
Le porte dell'ascensore si aprirono e comparve l'agente con cui avevano parlato al fast-food e i suoi tre colleghi, sempre al suo fianco come degli angeli custodi.
Puntò il dito contro i ragazzi e la sua espressione si fece divertita, come se avessero appena detto una battuta spiritosa. «Bello scherzetto, siete stati davvero bravi!», esclamò avvicinandosi ad ampie falcate. «Molto fantasioso... quando arriviamo in centrale me lo raccontate.»
Savannah guardò il suo appartamento e si congratulò da sola per la scelta di non volerci mai lasciare nulla che li potesse incastrare. Ogni loro tesoro trafugato in tutta la loro vita, ogni mappa, ogni diario trafugato, ogni loro cosa era nascosta nella casettina in Virginia, a molte miglia di distanza, in un luogo troppo sicuro, disperso ed irrintracciabile per potersene preoccupare.
Due agenti tornarono dall'ispezione nella loro stanza e non trovarono altro che abiti, alcuni con ancora il cartellino del prezzo.
«Capitano, non c'è nulla», riferì all'agente di fronte ai ragazzi.
L'uomo increspò la fronte e guardò prima il poliziotto e poi gli arrestati. «Che significa?», domandò a tutti e tre.
«Non ci sono fotografie, rifiuti, memoria nei computer, messaggi, lettere... niente, signore.»
Il capitano scosse la testa in un gesto nervoso e si fece largo per entrare a guardare di persona. Prese due guanti azzurri da un collega e iniziò a frugare dappertutto, ma ben presto ebbe una strana sensazione, come se stesse frugando in un'esposizione di mobili.
«Non può essere...»
Si sedette di fronte al computer e assistette a schermate vuote e standard, come se fosse stato appena comprato e nemmeno del tutto installato.
«È uno scherzo.»
Spostò i letti e premette col piede ogni mattonella e asse del parquet e bussò in vari punti di ogni parete. Poi tornò dai due fratelli e li agguantò in una presa ferrea, una mano sul braccio di uno e una su quello dell'altra.
«Tutti», esclamò rosso in volto, affaticato ed esasperato, visibilmente scosso e irritato. «Tutti hanno delle cose! Non potete non avere nulla!»
«Ci siamo trasferiti da poco», borbottò Nehroi in un ghigno. Il capitano strinse la presa su di lui.
«Se così fosse avreste qualcosa! Non è possibile, sembra che qui non ci viva nessuno!»
Savannah ridacchiò e le sue manette tintinnarono. «Davvero?», domandò candidamente, «Ci sta arrestando perché amiamo lo stile minimale? Non è tipo... sbagliato?»
Il detective si voltò di scatto verso gli agenti e fece loro un cenno rabbioso con le mani. «Ribaltate l'appartamento da cima a fondo, demolitelo!, se necessario.»
«Sissignore!»
«E voi due... non avete idea del casino in cui vi siete cacciati.»
Savannah gli sorrise pacatamente, come una bimba contenta. «Ma lei che prove ha contro di noi?»
Il capitano sembrò vacillare; il ragazzo prese la palla al balzo. «Se a casa nostra non trovate nulla, dubito seriamente che abbiate qualcosa di valido.»
«Un te...»
«Potremmo anche fargli causa», disse Savannah.
«Oh sì, se ci rompono la casa è proprio il caso di...»
«Un testimone!», sbottò il detective, una vena ingrossata fin troppo in fronte. I fratelli persero la voglia di scherzare ed immediatamente pensarono a quel vecchio che li aveva visti mentre cambiavano aspetto dopo aver tolto di mezzo una ligia guardia giurata del negozio di tecnologia che avevano appena alleggerito, prima di andare a Bastreth.
Sguardi infuocati sembravano correre tra le iridi viola e quelle smeraldine. “Dovevamo farlo fuori”, sembravano dire quelle della jiin; “Ero convinto che non ci avesse visto”, ribattevano quelle del brehkisth.
Il detective li osservò soddisfatto e annuì serenamente tra sé e sé mentre si asciugava la fronte con la manica. «Finalmente», mormorò.

La centrale di polizia era il tipico luogo che la maggior parte della popolazione spera sempre di non dover conoscere in prima persona. Tra loro, anche due ragazzi che semplicemente non avevano mai pensato di poterlo fare veramente, troppo furbi e dotati per farsi beccare.
I loro piedi varcarono la soglia dopo aver salito sette scalini bianchi e le scrivanie, le sale interrogatori e gli uffici privati dei più alti in grado comparvero di fronte a loro. L'odore di carta, caffè e umani colpì le loro narici come uno schiaffo ma da qualche parte, in un angolino remoto della loro coscienza, sapevano che prima o poi sarebbero stati arrestati sul serio; nonostante ciò, continuavano a rimanere sereni.
Salutavano i poliziotti allegramente come se fossero vecchi amici, si lasciavano stupire dall'arredo e dalle armi nelle fondine di tutti quanti, continuavano a scherzare tra di loro come se fossero invitati ad una festa.
«Non vi preoccupa più il testimone?», domandò il detective mentre si toglieva il giubbotto antiproiettile e lo posava sulla sua scrivania, una catasta indefinita di fogli in cui trovava posto a fatica la targa del suo proprietario. Detective M. Stalsky, a quanto vi si leggeva.
«Stals...», disse Nehroi facendo attenzione alla pronuncia, «Stalsky, voi non avete nulla.»
Il detective gli lanciò un ghigno beffardo e indicò ai due poliziotti che li scortavano di andare in sala interrogatori.
Savannah stava osservando attentamente il computer del detective, cercando di entrarci a distanza per testare se potesse farlo, ma non ebbe il tempo di terminare il tuo tentativo che il poliziotto alle sue spalle la strattonò. Alzò lo sguardo su di lui e solo allora si accorse di chi stava entrando in quel momento nella centrale, scorgendolo alle sue spalle, oltre la divisa blu.
«Oh no», mormorò esasperata. «Non lui.»
Phil Mayson strappò un gemito anche a Nehroi, gemito che poi divenne ringhio stizzito.
«Perché è qui?», abbaiò al detective. Ricevette un'alzata di spalle per risposta.
«Il vostro vicino di casa dice di essere una persona informata sui fatti, abbiamo il dovere di ascoltare chiunque.»
Il biondino salutò a distanza i due fratelli e sembrò affrettarsi ad aggiustare la camicia. Pollice e indice si unirono in maniera troppo larga per dover sistemare dei bottoni così piccoli e ad entrambi gli arrestati sembrò proprio che formassero il simbolo dell'ok, lanciato proprio nella loro direzione.
Stavano per pensare che fosse stato casuale, ma quando Phil alzò gli occhi su di loro in maniera così intensa non poterono che considerare l'ipotesi che quello sguardo fosse intenzionale e... complice.
Non lo videro accomodarsi alla scrivania di un agente perché vennero portati rapidamente e in maniera piuttosto rude in due sale interrogatorie.
Il detective entrò in quella di Savannah e prese posto di fronte a lei, un fascicolo giallo materializzato in mano che venne aperto subito di fronte a lei come se stessero discutendo una pratica d'affari.
«Per prima cosa parliamo della frode finanziaria, in borsa si stanno ancora chiedendo cosa e come avete fatto.»
«Perché dobbiamo essere stati noi?»
Stalsky alzò gli occhi su di lei e solo in quel momento Savannah lo considerò abbastanza da poter osservare il suo viso. Portava degli occhiali senza montatura con lenti a forma rettangolare molto discreti che conferivano al viso un'aria seria ma non pesante. Gli occhi erano castani, nulla di speciale, e i capelli folti erano scuri come quelli di Nehroi, ma il viso che aveva di fronte aveva anche delle buffe basette lunghe fino a metà guancia.
«Non “dovete” essere stati voi... ma siete stati identificati dopo essere usciti dalla borsa con altre sembianze. Tu eri bionda», mentre lo diceva estrasse una fotografia piuttosto sgranata in cui si vedevano piuttosto chiaramente lei e il fratello. Savannah si morse il labbro e si maledì: per non sforzarsi troppo dopo la guarigione miracolosa che l'aveva rimessa in piedi, aveva deciso di non modificare i loro connotati, fermandosi a dettagli secondari come vestiti e capelli. «E tuo fratello era rosso, un travestimento davvero perfetto ma stare così a viso aperto... Chi vi ha aiutato?»
La jiin sospirò stancamente e si domandò se avesse davvero voglia di sopportare quell'umano. Non poteva avere nulla contro di loro e quella fotografia rubata ad una stupida telecamera di sicurezza poteva accidentalmente prendere fuoco sotto i loro occhi senza problemi.
Le venne in mente il simbolo che Phil aveva fatto loro poco prima e si chiese cosa volesse dire.
Lui era davvero una “persona informata sui fatti”, probabilmente più di loro stessi. Perché era lì?
«Nessuno», disse infine, decidendo di fare contento il detective e di dedicargli un po' di tempo. In fondo non avevano altro da fare.
Poi ci ripensò: se li avessero arrestati non avrebbero potuto andare alla riunione dei Capi Reggenti.
Phil non poteva che essere lì per scarcerarli.
«Cos'è quella faccia?», domandò il detective, incuriosito dal mutamento di espressione della jiin.
Savannah si ritrovò combattuta: avrebbe dovuto incriminarsi per evitare la probabile trappola che li attendeva ad Ataklur? Però poi avrebbe dovuto escogitare uno stratagemma per evadere prima che scadesse il tempo massimo di permanenza tra gli umani e perdesse i poteri.
«Io...», iniziò tentennante, catturando il detective inesorabilmente e facendolo pendere dalle sue labbra incerte. Non sapeva minimamente cosa fare.
«Voglio parlare con mio fratello», disse infine.
Stalsky rise di gusto e sorprese la ragazza che alzò i suoi occhi violacei innocentemente su di lui.
«Ma allora non hai davvero capito che sta succedendo!», esclamò divertito e spazientito allo stesso tempo, «Non puoi avanzare richieste così, confessa i tuoi crimini e finiamola!»
Nei telefilm polizieschi che guardavano qualche sera sdraiati sul divano pezzato ingozzandosi di pizza, gli interrogatori erano di diversi tipi: c'era il poliziotto buono che cercava di far crollare i sospettati con gentilezza, e c'era quello cattivo che li picchiava e impauriva. Savannah collocò il detective di fronte a lei tra i buoni e si sentì un po' più tranquilla. «Se vuole», esordì dopo un po' di silenzio, «Confesso la frode.»
«Sarebbe un buon inizio. Come siete entrati?»
«Dalla porta.»
«Perché?»
«Perché è comodo.»
«Spiritosa. Perché avete fatto il colpo?»
«Perché servivano soldi.»
«Documenti all'ingresso?»
«Falsi. E non se ne sono accorti», aggiunse poi precedendo la domanda successiva.
Stalsky prese un appunto sul fascicolo e si voltò nervosamente per un attimo verso lo specchio alle sue spalle. Poi tornò alla ragazza.
«Come hai manomesso i computer?»
«Gliel'ho chiesto.»
«A... a chi? Al complice?»
Savannah sorrise. «Al computer.»
Quand'erano piccoli giocavano spesso a far impazzire i loro coetanei dicendo semplicemente la verità. Per loro erano cose naturali, per gli altri erano semplicemente impossibili e alla fine venivano sempre etichettati come matti. Lo sarebbero stati, se tutto ciò che dicevano non fosse stato semplicemente vero.
Il detective abbassò la penna sul fascicolo e guardò Savannah con lo sguardo obliquo tipico di chi non crede. Alzò un sopracciglio. «Come no», disse scettico.
«Lei ha chiesto di confessare e io lo sto facendo!», protestò la jiin. Avrebbe allargato le braccia ma le manette erano ancora salde ai suoi polsi e non poté far altro che agitare i gomiti. «Se non le sta bene è colpa sua, non sto mentendo!»
«Ok, hai chiesto al computer», la assecondò Stalsky divertito. «E cosa hai chiesto?»
«Di spostare qualche numero. Per loro non significano nulla, sono gli umani a decidere che uno è un orario e l'altro una somma di denaro.»
Le mani del detective fremettero per qualche istante e la vena che aveva in fronte tornò ad ingrossarsi. Poi chiuse gli occhi, prese un bel respiro e sembrò riprendere il controllo di sé stesso. «Va bene», disse pacato, «Ci ritorniamo più tardi. Ora...»
La sua frase venne interrotta da un agente che aprì la porta della sala interrogatori, gli si avvicinò rapidamente ad ampie falcate e gli bisbigliò qualcosa nelle orecchie. Il viso del detective passò da incuriosito a shockato. «Sicuro?», domandò in un balbettio irritato.
L'altro annuì. «Dice di essere pronto anche a giurarlo e metterlo per iscritto.»
«B... bene, prendi la deposizione.»
Passarono alcuni istanti in totale silenzio, rotti solamente dal rumore delle scarpe dell'agente e da quello della porta che veniva chiusa. Savannah si ritrovò a sudare freddo. Parlava di Nehroi?
Aveva ceduto?
No, non avrebbe mai... o sì?
«Il signor Mayson ha le prove che quel giorno eravate tutti e tre a teatro», disse funereo, «Biglietti nominativi originali e timbrati. Perché non l'ha detto subito?»
Savannah fece spallucce e si sentì molto sollevata. «Lei era tutto convinto che dovessi essere io la colpevole», disse semplicemente mentre si chiedeva perché Phil li stesse aiutando tanto. Quei biglietti non sarebbero nemmeno dovuti esistere, come aveva fatto ad ottenerli?
Stalsky si passò lentamente le mani sul volto, sfibrato e spossato. Mai, nella sua lunga carriera, aveva avuto a che fare con un sospettato simile. “Rilassati e fai il tuo lavoro, Mark, sei tu il poliziotto, non ti preoccupare”, si disse.
«Ammettiamo che per la frode siate puliti», iniziò ragionevole, «Abbiamo un testimone oculare per l'omicidio. Sei salva per il male minore.»
Savannah sbuffò. Il detective si accigliò, poi ritornò calmo. «Partiamo da qualcosa di più semplice.»
Sollevò il fascicolo e lo sfogliò come una rivista, poi lo riabbassò e indicò un foglio pieno di riquadri, spesso vuoti.
«Come ti chiami.»
Savannah strinse i pugni e prese a sua volta un bel respiro.
«Abbiamo motivo di credere...», l'uomo tirò fuori dalla cartellina vari fogli e un paio di fotografie, in una delle quali la jiin si riconobbe come la bambina con la felpa rossa e gli occhi bassi. «Che abbiate cambiato molto spesso i vostri nomi. Ecco, questo qui: Jim e Grace Kyles. Oppure Liam e Jennifer Richfield, Fred e Mary Collins, Oliver e Wendy Holmes...»
I primi tempi passavano molti mesi tra una capatina tra gli umani e l'altra e ogni volta erano cresciuti abbastanza da non essere riconosciuti facilmente. Inoltre i nomi umani erano così buffi e carini che non resistevano e ne volevano sempre provare di nuovi. Che male c'era?
«Però i primi erano di gran lunga i migliori: Nehroi e Savannah Atanis. Cos'è successo, avete perso la fantasia crescendo?»
La jiin non riuscì a non sentirsi a disagio per quella situazione. Sapere che tutti, umani e non, li avevano sempre osservati e registrati minuziosamente in attesa di presentare il conto dopo anni e anni, quando ormai non si pensava più che fosse possibile rintracciarli era decisamente insopportabile. Non avrebbe più scherzato, non avrebbe più permesso ad un umano simile di rovistare nella sua vita facendo domande a raffica e, soprattutto, non avrebbe mai parlato di Ataklur né della magia né dei portali. Non era più importante passare per matti solo per essere lasciati in pace: il gioco era durato troppo.
Fece per alzarsi in piedi ma il detective si fiondò su di lei e le premette le spalle verso il basso, impedendole di muoversi. «Dove credi di andare?»
«Abbiamo finito», sibilò la jiin velenosamente.
«Non credo proprio.»
Un'agente aprì la porta proprio in quell'istante ma non entrò. «È arrivato», disse la donna in un soffio.
Stalsky annuì e la presa sulle spalle scivolò sulle braccia. Si chinò verso le orecchie della ragazza e le indicò lo specchio di fronte a lei con un cenno del viso. «Ora stai qui ferma e buona, capito? Ci vorrà solo un attimo», le sussurrò suadente.
Savannah ampliò la mente come aveva fatto nella grotta inferiore a Bastreth e percepì delle presenze oltre il vetro. C'erano due uomini, poi stavano entrando una donna, la poliziotta che era appena comparsa da loro, e un vecchio. Il testimone.
La jiin chiuse gli occhi ed inspirò profondamente. Riuscì ad arrivare al suo viso, lo vedeva chiaramente nella testa.
«Apri gli occhi!», le intimò il detective strizzandole un braccio.
Lei obbedì: ormai aveva finito.

Occhi sgranati, viso impallidito e gola secca.
Mark Stalsky era il perfetto ritratto dello stupore assoluto.
«Ripetilo», intimò al collega.
L'agente annuì debolmente. «Il testimone... non ricorda più.»
«Ma com'è possibile!», sbraitò il detective facendo sussultare tutti i presenti. «L'abbiamo sentito settimana scorsa! Ha detto che l'identikit corrispondeva! L'ha guardata bene?»
«Ha guardato benissimo entrambi e per molti minuti», mugugnò l'agente, «Non ricorda nessuno dei due.»
Stalsky si voltò verso la porta degli interrogatori e la fissò, incapace di muovere i due passi necessari per varcarla e comunicare alla ragazza seduta dall'altra parte che non avevano più nulla per incriminarla: niente per la frode, niente per l'omicidio, nessuna prova in casa, nessun dato su di lei e sul fratello, neanche i loro nomi.
Niente.
Era come se non esistessero.

Nehroi li raggiunse per ultimi, il tempo di decidere con quale grafia avrebbe dovuto firmare per il rilascio e poi fuori dalla centrale di polizia, giù per gli scalini bianchi veloce come un fulmine.
Abbracciò la sorella, poi si voltò verso Phil e gli diede una pacca sulla spalla, ancora incredulo di ciò che era appena successo.
«Perché l'hai fatto?», gli domandò mentre si incamminavano verso il loro condominio.
Phil sorrise e fece vagare lo sguardo lontano da loro, tra le facciate dei palazzi circostanti. «Sarebbe stato difficile portarvi alla riunione se foste finiti in cella, non trovi?»
I due fratelli si guardarono per qualche istante, quel che bastava perché decidessero cosa fare. Entrambi sospirarono senza riuscire a nascondere la frustrazione. «Credo che tu ci abbia fatto un favore togliendoci da quella situazione antipatica», ammise Savannah controvoglia, «E noi li restituiamo sempre, quindi... verremo con te. Ora siamo pari.»



*-*-*-*



Ebbene sì, ho saltato una settimana... ma ero a Lucca e il capitolo non era ancora stato riletto abbastanza volte per essere pubblicato... e va beh, sono tornata all'una di notte a cavallo tra domenica e lunedì, lunedì sono stata un lombrico in catalessi e martedì mi sono ammalata (rimasta in quello stato pietoso fino a ieri), quindi mi è stato *ah-ehm* difficile postare.
Purtroppo, sebbene la lucidità sia stata recuperata (... seeee come no xD), il capitolo non mi soddisfa manco per sbaglio, quindi attendo con ansia il prossimo sabato perché da adesso la storia ritroverà un po' di punti salienti e d'azione! ^^
Guardare ossessivamente The Vampire Diaries ha aperto qualche squarcio nella mia trama, costringendomi a modificarla in alcuni punti e non posso che esserne contenta. Ad esempio, già nel prossimo capitolo incontreremo un nuovo pg (anzi due :P) che se no avrei messo moooooolto più avanti, e non mi dispiace affatto la piega che la storia prenderà da questo momento! ^^
Come sempre e spero che non arriverà mai il momento in cui mi stancherò di dirlo, GRAZIE a tutte le anime pie che hanno letto e commentato lo scorso capitolo! Siete indispensabili per questa storia, ai lov iu! <3

Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 15
*** Lo strano Trio ***






15
Lo strano Trio



«Due entrano, due escono. Chi apre all'andata, apre al ritorno. Massimo due mesi di permanenza o l'umano ad Ataklur muore e il jiin sulla Terra perde i poteri. È la leggenda del Fiore Nero, nessuna eccezione!»
Savannah si tappò le orecchie con entrambe le mani per non sentire più i discorsi saccenti di Phil, posizionato stabilmente tra lei e il fratello, fin troppo intenzionato a far capire ad entrambi che sapeva tutto sui due mondi. “Non credete che sia un novellino”, aveva esordito dopo un'innocua battuta sugli umani e sulla loro ignoranza di un altro mondo e di altre popolazioni, città e creature oltre a quelle che conoscevano.
«La Terra è immobile ma Ataklur varia», continuò imperterrito l'umano, allegro come un maestrino alla sua prima lezione alla classe. «Venendo qui sai dove arriverai ma non è lo stesso nel tornare di là. Per questo avete quel rifugio in Virginia? Sapere sempre dove tornare, effettivamente è comodo.»
«Stai zitto o ti uccido.»
«Ma avete promesso che avrei potuto accompagnarvi alla riunione», ribatté il consigliere senza nemmeno preoccuparsi di fingersi offeso o spaventato. «Non potete uccidermi.»
Nehroi deviò dal loro percorso e andò volontariamente a sbattere contro un masso, simulando il suicidio.
«Siete sempre così simpatici o vi sentite ispirati dalla mia presenza?», domandò Phil lievemente irritato da quella scenetta.
«Sei tu», tagliò corto Savannah.
Si fermò alla base del sentiero che conduceva in cima alla montagna, dove la vegetazione e il panorama aspettavano i turisti da sempre in quel parco naturale che l'aveva sempre affascinata. L'avevano scoperto la prima volta che avevano dovuto far ritorno ad Ataklur e da allora non avevano mai cambiato posto per varcare la barriera.
Savannah si avvicinò alla parete rocciosa nascosta da un cartello informativo sugli alberi della zona ed esaminò attentamente tutto ciò che sporgeva dal muschio verde e umido. Dopo qualche minuto di ricerca, individuò le venature tipiche della rottura tra i due mondi e sorrise soddisfatta.
«Visto che sai tutto», indicò all'umano la roccia e fece un ghigno. «Come pensi di attraversarla?»
Phil le sorrise pacatamente, assolutamente a suo agio. «Proprio come ho fatto per seguirvi. Con il mio passepartout.»
Nehroi tornò tra loro e si trovò interessato al discorso. «Il tuo cosa?», domandò curioso.
«Prego, state indietro.»
Si portò due mani al collo e sollevò la cravatta nera, rivelando quello che sembrava un piccolo ciondolo che aveva fissato con una spilla sotto al nodo. Il ciondolo non aveva alcun dettaglio interessante; quando Phil premette sui bordi e fece scattare il coperchio come un orologio da taschino, però, l'interno si dimostrò essere pieno di intarsi e decorazioni molto precise, che circondavano con estrema eleganza una pietra scura che sembrò emettere luce da solo non appena fu avvicinato alla venatura viola individuata da Savannah nella roccia.
«Una Stella», sussurrò la jiin con una punta di ammirazione. «Ti farà passare? Anche se non hai un briciolo di magia?»
L'umano annuì soddisfatto. «Ormai lo uso da anni e non ho mai avuto problemi. Prima le signore...»
«Non se ne parla, passi prima tu», ribatté la ragazza.
«Certo, così non appena sono di là voi sgattaiolate via! Sono così fesso?»
Nehroi sbuffò ed afferrò la mano di Savannah appoggiandola con forza sulla roccia. «Fai come vuole il damerino, su, andiamo prima noi.»
La ragazza alzò un sopracciglio. «Gliela dai vinta?»
«Per qualche istante di silenzio dall'altra parte? Sì.»
Tutti e tre si zittirono all'improvviso non appena un turista ben piazzato passò accanto a loro, completamente legato al suo grande zaino da escursionista, l'aria impacciata e stanca.
L'uomo disse qualcosa in una lingua che Phil etichettò come spagnolo e lo guardò in attesa di risposta. Il consigliere scosse la testa e sorrise impacciato. «Non ti capisco, scusa», gli rispose allontanandosi. L'espressione stralunata che si dipinse sul viso del turista gli fece comprendere che non capisse nulla d'inglese.
«Più avanti c'è un bivio», rispose Savannah con naturalezza all'uomo nello stesso inglese che aveva usato Phil. Il turista esibì un enorme sorriso e le disse qualcos'altro in spagnolo; Savannah rispose nuovamente in inglese e Phil si ritrovò a fissarla con gli occhi sgranati non appena l'uomo ebbe finito di ringraziarla.
«Che c'è?», gli domandò la jiin.
Il consigliere si inumidì le labbra e cercò di rispondersi da solo, ma non riuscì a mettere assieme nessuna spiegazione logica. Lui aveva parlato in inglese e il turista non aveva capito; lei aveva parlato in inglese e il turista aveva capito e risposto in spagnolo. Non aveva senso.
«Sai lo spagnolo? Perché quel tizio ha capito il tuo inglese e non il mio?», domandò non appena l'uomo si fu allontanato abbastanza, seguendo le indicazioni della ragazza.
La jiin fece spallucce e si concentrò sulla venatura della roccia, intenta ad aprire il portale. «Pulisciti la bava», gli disse in un ghigno divertito, «Non ho parlato nessuna lingua diversa da quella che parlo con te.»
«Ma...»
Nehroi afferrò Phil per un braccio e lo allontanò dalla sorella per farla concentrare meglio. «A te è sembrato inglese e a lui spagnolo, okay? Se qui ci fosse stato un polacco avrebbe capito anche lui. È la magia, ci permette di parlare direttamente alla persona, senza le vostre... lingue diverse.»
Phil alzò un sopracciglio e rimase pensieroso per parecchi istanti. Non era un'informazione che gli era mai stata data né aveva mai pensato di poterla avere, ma effettivamente si era sempre chiesto come mai chiunque ad Ataklur parlasse perfettamente inglese pur usando simboli simili ai geroglifici per scrivere. «Ogni umano comprende ciò che dite in maniera diversa?», domandò titubante.
«Come se fossimo madrelingua per ogni ascoltatore.»
«La magia può fare questo? Anche tu che non sei jiin?»
«So che è difficile da capire... oh, non perché sei un umano, certo. Anche noi abbiamo problemi a capire perché voi avete tante lingue diverse anche se siete tutti uguali!»
Il rumore delle rocce che si spostavano li distrasse e il velo liquido comparve tra le dita di Savannah, già sospese tra i due mondi. Dall'altra parte sembrava ci fosse una collina verdeggiante e un raggio di sole arrivò fino ai suoi piedi.
Si voltò verso i due uomini e sorrise loro, indicando con un cenno l'altra dimensione. «Se la lezione di glottologia è finita, possiamo andare?»

Non appena quel raggio di sole sfiorò delicatamente il viso di Savannah, la jiin sentì i polmoni riempirsi di aria nuova, come se fosse rimasta sott'acqua o chiusa in una scatola per tutto il tempo che aveva trascorso sulla Terra. La stessa sensazione colpì anche Nehroi e sul viso di entrambi si dipinse un sorriso puro e genuino.
«Non siamo proprio a casa», disse la ragazza sistemandosi la giacchetta di jeans, «Ma è sempre bello tornare di qua.»
«Se solo non fossimo costretti ad andare dai Capi Reggenti», commentò il brehkisth con amarezza.
«Costretti», ripeté Savannah assaporando ogni lettera di quella parola. «Credo sia il termine più giusto. Sono solo io o anche tu hai la sensazione che ci abbia fregati?»
«Abbiamo deciso entrambi di venire, però.»
«Dovevamo comunque attraversare il portale a giorni.»
Nehroi non fece in tempo a controbattere qualcosa a sua volta che Phil comparve dalla roccia alle loro spalle, con quei capelli pettinati perfettamente all'indietro che lo contraddistinguevano tra mille e il ciondolo passpartout nuovamente sotto il nodo della cravatta.
Lo vide guardarsi attorno curioso e lievemente spaesato e solo in quel momento si accorse che avrebbe dovuto anche lui provare a capire dove fossero finiti.
Savannah, alle sue spalle, si stava arrampicando sulla collina che avevano visto dalla Terra.
La sentì dire qualcosa, ma era fuori dalla sua portata e il vento mangiò le sue parole prima che lo raggiungessero. Si avvicinò di corsa alla sorella e comprese cosa avesse detto contemporaneamente alla visione del panorama che lo colse non appena arrivò accanto a lei.
«Haffireth», dissero all'unisono.
Phil arrivò in cima alla collina poco dopo Nehroi. «La regione dei laghi?», disse senza riuscire a celare il suo sconforto.
Savannah lo guardò incuriosita. «Non ti piace? L'alba è stupenda da queste parti.»
«Peccato che non siamo qui per ammirare i giochi di luce», replicò seccato il consigliere, presa ogni traccia del divertimento che sfoggiava fino a poco prima. Si mise le mani in tasca e calciò via un sassolino. «Sapevate che la riunione è a Tolakireth, vero?»
«Intendi la regione diametralmente opposta a dove siamo ora?»
Phil grugnì. «Dobbiamo attraversare tutta Ataklur, maledizione!»
Savannah lasciò vagare il suo sguardo sul magnifico panorama che aveva di fronte agli occhi. Ai piedi della collina che li sopraelevava, una valle completamente piana si estendeva a perdita d'occhio e sembrava un collage di strisce di terre verdi e rigogliose, fiorite e pacificamente bellissime intervallate da innumerevoli laghetti di ogni forma e dimensione. La si poteva definire anche come un oceano d'acqua dolce su cui era stata distesa una sottile ragnatela d'erba smeraldina.
Il sole, alto sopra le loro teste, splendeva in ogni specchio d'acqua, rendendo il paesaggio a tratti illuminato come se ci fossero centinaia di lampadine e a tratti azzurro come il cielo che si rifletteva e immergeva senza sosta.
«Ricordi quante volte ci siamo caduti dentro?», disse Nehroi sull'onda di un ricordo della loro infanzia.
«Tu cadevi», sottolineò la jiin in un largo sorriso, «Ma riuscivi sempre a trascinarmi giù.»
Phil sbuffò e s'incamminò di fronte a loro, verso i laghi. «Ricorderete strada facendo», disse schiettamente. «Andiamo, su.»
«No.»
Il consigliere si voltò verso il brehkisth a viso duro, senza lasciar trasparire alcuna emozione. Essere ad Haffireth aveva a dir poco stravolto i suoi piani e se c'era una cosa che sapeva fare bene e che aveva sempre fatto in vita sua era proprio la pianificazione di ogni cosa. Tabelle di marcia comprese.
«Avete riconsiderato il nostro patto?», domandò garbato e irritato allo stesso tempo.
«Dal momento che siamo in questa regione, c'è una persona che dobbiamo incontrare», rispose Nehroi con simile classe.
Phil si portò due dita alle tempie e sospirò. Gestire i suoi ospiti iniziava ad essere difficile. Si voltò verso i laghi e, sovrastato dall'immensità della regione di Haffireth e dalla coscienza delle distanze che li dividevano da Tolakireth, sede della riunione, si voltò nuovamente verso il brehkisth, sbuffando aspramente. «Non siamo in gita turistica!», sibilò esasperato.
Nehroi sospirò. «Lo so. Quanti giorni mancano?»
«Dieci.»
«Allora dobbiamo davvero incontrarla.»
Savannah sollevò la mezza manica della sua maglietta marrone e rivelò all'umano una fasciatura che Phil non aveva mai notato. Era indistintamente sporca di sangue e di qualche cosa nera e si sorprese di sentirsi preoccupato per quella scoperta. «Cos'è?», domandò con più apprensione di quanta volesse mostrarne.
«Souvenir dalla grotta... abbiamo provato a sistemarlo sulla Terra ma abbiamo combinato un vero pasticcio ed è peggiorato. Qui c'è qualcuno che può curarmi seriamente. E sì, è una tappa necessaria, Mayson: quella di mio fratello non era una richiesta ma un'informazione. Io devo essere curata.»
«Ma...»
«Non vorrai che arrivi morta alla riunione, vero?»
Phil sbuffò frustrato e le diede le spalle di scatto, strappando l'erba sotto alle sue scarpe eleganti. «Purché ci muoviamo.»

Il sole scese nel cielo così rapidamente che il tempo era diventato sempre più un'idea immaginaria e non la stessa entità eterna che li aveva accompagnati nelle loro vite. Era alto quando avevano attraversato il portale, poco più che all'orizzonte quando la sterminata distesa di laghetti era rimasta alle loro spalle e le piccole case della fangosa città di Haffireth comparivano di fronte ai loro occhi stanchi. Normalmente quella zona della regione dei laghi era attraversabile in un giorno intero di cammino, ma le falcate giganti di Phil non avevano lasciato alternative ai due fratelli che ben presto si erano ritrovati a corrergli dietro.
Quando incontrarono la prima locanda in periferia, qualcosa di molto simile ad una catapecchia con un'insegna da osteria sul tetto, Savannah e Nehroi ansimavano e Phil sembrava meno irritato.
«Almeno non abbiamo perso troppo tempo», diceva soddisfatto tra sé e sé. «Mi sarebbe scocciato molto impiegarci di più.»
Si avvicinò alla porta della locanda e invitò la jiin ad entrare. «Prego», le disse con un mezzo inchino. Lei però non si mosse.
«Che c'è?», domandò il consigliere.
«Non vorrai entrare lì dentro vestito in quel modo, vero?»
Phil alzò le sopracciglia sorpreso, poi abbassò gli occhi sui suoi abiti e non comprese ciò a cui Savannah stesse alludendo.
«Camicia bianca, cravatta, pantaloni eleganti, scarpe costose... e vuoi entrare in una bettola.»
«Non giudicare dalle apparenze, magari dentro è meglio.»
La ragazza scosse la testa. «Ci siamo già stati qui, credimi se ti dico che ti staccherebbero la testa pur di non vederti... così.»
«Perché?»
Nehroi ridacchiò. «Non ci arrivi?»
Phil corrugò la fronte per qualche istante, poi il suo viso si illuminò. «Odiano i funzionari», ipotizzò.
I ragazzi annuirono. «Anche noi ti faremmo a pezzi se fossimo lì dentro.»
Savannah si avvicinò al consigliere e lo fissò intensamente negli occhi, poi abbassò lo sguardo sulla camicia e, col tremolio di due dita, creò un'illusione sui suoi abiti. Nehroi fece un grugnito d'approvazione. «Ora possiamo entrare», disse e aprì la porta della locanda.
Phil si guardò nuovamente e non notò alcuna differenza. «Ma...»
La jiin gli fece l'occhiolino. «L'importante è ciò che vedono gli altri.»
La porta era stata aperta solo per metà quando un terribile tanfo di liquori, sudore e fango colpì le narici dei tre viaggiatori, dipingendo smorfie disgustate sui loro visi.
«Ciò che vedono gli altri, eh?», ironizzò Phil a Savannah in un orecchio, «Di certo non è quel che pensa il proprietario del locale!»
La jiin ridacchiò e prese posto al bancone, accanto a due ubriaconi. «Ti aspettavi lo champagne e un pianista?»
Dire che il locale fosse sudicio sarebbe stato un eufemismo. Come ogni edificio ad Haffireth, era stato costruito su terreno così tanto impregnato d'acqua da essere fangoso e, ad ogni passo, proprio quel fango usciva dalle fessure tra le assi del pavimento e colorava di grigio e marrone i tappeti che probabilmente erano stati messi a terra per contenere il problema. La clientela era decisamente di basso livello, il rumore che facevano gli strapazzava le orecchie e la luce era così fioca che si stupì nel vedere che proveniva sa una lampada ad olio e non dall'esterno. In definitiva, quel locale era quanto di più lurido, buio, promiscuo e angosciante che Phil avesse mai potuto immaginare... e aveva addirittura chiesto lui di entrare. «Ho cambiato idea», disse quando notò un topo sbucare da dietro le bottiglie di alcolici sul bancone. «Dormo volentieri all'aperto.»
Savannah ridacchiò e fece un gesto al barista. «Non sai quello che dici, domattina non riusciresti a muoverti per l'umidità!»
Due bicchieri comparvero di fronte a loro con un tonfo sul bancone. «Il più forte che hai», ordinò la ragazza; «Acqua», chiese il consigliere.
Il barista lo squadrò con un'occhiataccia che non lasciava spazio alle repliche. «Anche di lago», balbettò comunque il giovane, «Quella che vuoi ma... non il suo, ecco»
Quando il barista si allontanò, Phil si acquattò il più vicino possibile a Savannah, cercando la maniera di poter parlare in modo che fosse udito solo da lei. «Perché siamo qui dentro?», domandò in un filo di voce.
«Si ottengono le migliori informazioni in posti così, sai?»
«Ma da come ne avevate parlato, credevo che sapessi bene dove fosse la vostra guaritrice...»
Il liquore che comparve nel bicchiere di Savannah era rosso come un rubino e profumava di qualcosa che Phil non ebbe neanche il coraggio di immaginare; il suo bicchiere conteneva qualcosa di trasparente, invece, e non poté che esserne felice come un bambino nel non sentire alcun odore alcolico provenire da esso.
«Meede è in questa regione», proseguì la jiin prima di buttar giù un sorso del liquore. «Ma dove di preciso, non so. Vuoi assaggiare? È rinfrescante!»
Phil scosse la testa e prese il suo bicchiere con un sorriso soddisfatto. Bevve tutto d'un fiato e gli ci vollero meno di due secondi per rendersi conto che quella che aveva mandato giù non era affatto acqua.
Scattò sullo sgabello e corse fuori dal locale velocissimamente tra le grasse e grosse risate di tutti i presenti. Tuffò la testa nel laghetto più vicino tanto che l'acqua gli entrò nelle orecchie, ma riusciva ancora a sentirli ridere di lui, ingenuo cittadino troppo poco bifolco per poter passare inosservato tra quella gente in cui invece Savannah e Nehroi sembravano sapersi immergere perfettamente.
Bevve tutta l'acqua fresca che sentiva di aver bisogno per spegnere i bollori che lo avevano pervaso e poi si lasciò incantare dalla volta stellata sopra di lui, un enorme manto nero costellato di diamanti di ogni dimensione. Una fugace immagine del piccolo Phil di quattro o cinque anni che sognava di poter vedere un simile spettacolo anche dal suo appartamento di Manchester gli gettò addosso una scarica malinconica che lo fece rabbrividire.
Si chinò a bere altra acqua e rimase lì, fermo inginocchiato di fronte al laghetto, per molti minuti. Il vociare della locanda si spegneva e si riaccendeva ogni volta che qualcuno entrava o usciva, e la luce che sfuggiva dalla porta aperta raggiungeva i suoi talloni infangati.
Phil guardò ancora le stelle e si domandò se fossero le stesse che avrebbe visto nel suo mondo.
«Ma che sto facendo?», domandò loro in un sussurro. Scrutò il cielo alla ricerca della stella più luminosa, quella che gli ricordava di più quel viso...
L'odore e il vociare della locanda lo raggiunsero di nuovo e qualcosa di viscido gli attanagliò lo stomaco.
Riflesso nello stagno, vide un uomo biondo dall'aspetto non troppo diverso da quelli che popolavano la taverna e ne rimase sorpreso; ci mise un po' per riconoscere sé stesso nei vestiti che Savannah aveva scelto per lui. Abbassò lo sguardo sul suo busto e ritrovò l'adorata camicia bianca con cravatta nera. Scosse la testa e sorrise tristemente. «Dovrei essere nello studio legale di papà...»
Allungò una mano nel laghetto e scacciò con un gesto secco quel biondino con una casacca marrone e una maglia verdognola. Si decise a rientrare nel locale solo dopo essersi accertato di non avere più alcuna traccia di malinconia sul viso e, quando spalancò la porta, si stupì di due cose: prima, che l'odoraccio del locale non era pungente come quando era entrato con i due fratelli; seconda, che qualcuno aveva preso il suo posto accanto a Savannah.
Si voltò verso Nehroi e lo vide impegnato a scucire informazioni tra i meno ubriachi, esattamente dov'era quando erano entrati dopo di lui. Non riuscendo ad incrociare il suo sguardo, si avviò verso lo sconosciuto e sperò di non ricevere nessun altro tiro mancino per quella serata.
«Mi sei familiare», diceva l'uomo alla jiin mentre lei fissava ostinatamente il poco liquore rimasto nel suo bicchiere.
Phil si sedette ad un paio di sgabelli di distanza, quanto bastava per poter origliare ma senza sembrare che volesse intromettersi. Era in situazioni come quelle che odiava a morte la sua misera condizione di umano, impotente anche tra i bambini dell'asilo.
Lo osservò con la coda dell'occhio: folti capelli un po' brizzolati, qualche ruga da quarantenne, abiti trasandati e l'aria di chi ne ha vissute tante. Phil aveva visto quel genere di persone solamente nelle fotografie dei rapporti che era solito esaminare come consigliere.
«Aiutami a ricordare, bellezza...», lo sentì dire.
«Sparisci», sibilò Savannah.
Phil si voltò impercettibilmente verso di lei e la vide, con la coda dell'occhio, scendere dallo sgabello e venire nella sua direzione. Stava per allargare le braccia invitandola da lui e per chiederle se quell'uomo l'avesse infastidita quando lo sconosciuto la afferrò per un braccio, le fece lo sgambetto e la fece cadere a terra. Il secondo successivo, nel locale nessuno sembrò sconvolgersi per quell'uomo a cavalcioni su una ragazza e che le teneva immobilizzati entrambi i polsi con le mani, guardandola divertito.
«Ah ecco», disse in un ghigno.
Il petto di Savannah si alzò e si abbassò lentamente e Phil, notando le fiamme nei suoi occhi, si rese conto che probabilmente si stava trattenendo dal staccargli la testa col pensiero.
«In questa posizione sì, mi ricordo di te...», proseguì lo sconosciuto con malizia. «Savannah.»
Nehroi corse rapidamente verso di loro e comparve alle spalle di Phil prima che se ne accorgesse; osservò la scena in un battito di ciglia e il consigliere rimase quasi a bocca aperta quando comprese che il brehkisth non aveva intenzione di muovere un dito. «La feccia non muore mai», lo udì invece mormorare.
«Purtroppo è proprio così, Nehroi, siamo una razza longeva!», rispose l'uomo in una risata divertita. Savannah strattonò le braccia ma non riuscì a liberarsi. «Molto sexy», commentò lui, «Sei cresciuta davvero bene... e vedo che viaggi sempre in uno strano trio, uh? Due uomini. I vizi non si perdono mai! Eheh!»
«Uno è sempre mio fratello», puntualizzò velenosa la jiin.
L'uomo lanciò un'occhiata fugace a Phil, immobilizzato sul suo sgabello per l'indecisione che lo attanagliava da un paio di minuti. «E l'altro è il ragazzo tuo o suo?», domandò sfrontato.
Nel locale si levò di nascosto qualche risata affogata nei boccali e per i gusti di Savannah il gioco iniziò a farsi troppo lungo.
«Togliti di mezzo, Toco», sibilò la jiin. «Sei pesante.»
«Non è quello che avevi detto dieci anni fa quando stav-»
Non poté finire la frase perché Savannah lo fece volare fuori dall'unica finestra della taverna con un'ondata di energia così forte che sì sentì il suo tonfo in un laghetto molto distante dopo parecchi secondi.
La jiin si alzò in piedi e si tolse il fango di dosso con tranquillità, imprecando per lo stato dei suoi capelli. «Non si preoccupi per la finestra e per la parete», disse al barista impietrito alle sue spalle. «Glieli aggiusterò domattina prima di andarcene. A proposito, ha tre letti per la notte?»
«Non ho mai visto tanta potenza nel mio locale...», balbettava l'uomo ancora visibilmente sconvolto.
«Mi dispiace per l'inconveniente. Ah e... mi può dare un altro bicchiere di quel liquore di prima, per favore? Ora ne ho più bisogno.»



*-*-*-*



Wow, siamo davvero già al 15° capitolo? O_o Non sembrano così tanti! Nella mia testa la storia scorre così liscia che fa impressione vedere un numero tanto grande ad accompagnare un tratto di trama tanto... indietro? Devono succedere ancora così tante cose, insomma! >.< Credo che inizierò a mettere più roba nei capitoli, non posso arrivare a millemila ^^"
Nel prossimo conosceremo meglio questo nuovo personaggio, Toco, (che immagino simile a Pierce Brosnan in Mamma Mia!, non so se avete presente...) e la fin ora solo nominata Meede (info: si pronuncia "Mide" ^.-) ; credo già nel 17°, arriveremo *finalmente* alla riunione dei Capi Reggenti! Olé, si entra nel vivo-vivo della storia! xD
(P.S. chi è curioso di sapere com'è arrivato Phil ad Ataklur e perché è tanto malinconico? :P)

Grazie infinite a chi ha recensito lo scorso capitolo e al nuovo lettore che ha appena iniziato la storia! =D

Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 16
*** Il Costo ***






16
Il Costo



Nehroi si schioccò le dita e guardò minacciosamente l'uomo uscito dal laghetto e tornato nella locanda non meno trionfalmente di quando vi aveva messo piede la prima volta quella sera. Toco era una vecchia conoscenza, una di quelle che il brehkisth, e soprattutto sua sorella, si auguravano da sempre di non incontrare di nuovo in vita loro.
«Non bazzicavi dalle parti di Eastreth?», sentì Savannah domandare alle sue spalle. A quelle parole seguì il suono delle sue scarpe lanciate sul pavimento con tutta la stanchezza della camminata di una giornata che ancora non voleva concludersi.
Phil era rannicchiato sulla sua branda sudicia con l'aria di uno che probabilmente non sarebbe mai riuscito a chiudere occhio, non dopo aver visto su che razza di “letto” avrebbe dovuto dormire e quanti nervi erano stati scoperti con l'arrivo di uno sconosciuto indesiderato.
«Ataklur non è poi tanto grande», rispose Toco con l'aria stanca mentre si rigirava tra le dita la lama di un coltello da caccia. «Un giorno sei qui, l'altro chissà.»
«E oggi sei qui. Che fortuna.»
Toco stava passando il dito su una venatura del legno del manico con tranquillità. «Vi hanno avvistati mentre attraversavate i laghi», disse, «Dopo quel che avete combinato a Bastreth la gente è tornata a parlare di voi, sapete? Non è stato difficile intuire che sareste stati qui stasera.»
I due fratelli si scambiarono un'occhiata e si dissero tacitamente molte cose. Si domandarono perché non avessero previsto di essere tornati sulla bocca di tutti e cosa avrebbero sentito in giro se si fosse scoperto che viaggiavano con un consigliere. Non avrebbero fatto una bella figura.
Phil osservò i loro sguardi con molta attenzione, intento a cogliere tutto ciò che poteva per comprendere meglio di fratelli che gli erano stati affidati, ma venne distratto dal ringhio a voce bassa di Toco, che lo stava guardando decisamente male. Nehroi si alzò in piedi subito dopo quel suono. «Vado a... a prendere una boccata d'aria», decise lì per lì, lasciando alla sorella il compito di scoprire le novità del giro e di salutare degnamente lo sgradito ospite.
«Vengo con te!», soffiò Phil all'improvviso, rianimato dalla probabilità di ritrovarsi ancora in mezzo a Savannah e quell'individuo misterioso. «Vengo anch'io, qui si soffoca... voi non sentite caldo?»
Seguì Nehroi fuori dalla stanza come se fosse la sua ombra e non se ne pentì neanche per un istante, non dopo aver sbirciato di sottecchi gli sguardi infuocati che si stavano scambiando la jiin e lo sconosciuto.
Attese che fossero sul bordo di un laghetto abbastanza distante per dare voce ai suoi pensieri. «Chi è quello?», domandò a bruciapelo, come se la sua vita ne dipendesse.
Nehroi scosse la testa. «Brutta storia», si limitò a dire facendo spallucce. Poi si chinò a raccogliere un sasso e lo soppesò sovrappensiero. «Lunga, più che altro», si corresse.
«A cosa alludeva prima? Quella cosa di dieci anni fa...»
«Per questo è lunga. E non credo che Savannah vorrebbe che te la dicessi.»
Phil alzò un sopracciglio e squadrò il ragazzo con un'aria che l'altro non seppe identificare.
«Cosa?», gli domandò il brehkisth.
«Secondo te andrei a spifferarle tutto?»
«Diciamo che non mi piace correre questo rischio.»
«Hai... paura?»
«È mia sorella», tagliò corto Nehroi lanciando il sasso. «Non violerò la sua privacy con te.»
La pietra piombò con un tonfo due laghetti più in là, affondando assieme ad alcune speranze di Phil di poter scucire facilmente qualcosa al suo scontroso compagno.
Quello che Nehroi non aveva considerato, però, era il dovere di un consigliere fidato di sapere il più possibile sulle persone con cui aveva a che fare, per non essere mai colto impreparato.
«Mi sembra di ricordare», esordì con voce tranquilla, come se non gli importasse nulla di quello che stava per dire, «Che abbiate incontrato per la prima volta il signor Toco in occasione di un vostro ritorno a Feinreth, all'inizio dell'adolescenza.»
Nehroi sgranò gli occhi per un istante, poi li socchiuse e scosse la testa. Sorrise. «Avrei dovuto aspettarmelo», bofonchiò tra sé e sé.
«Ora la storia è meno lunga?», domandò Phil mentre raccoglieva a sua volta un sassolino. «Credo di aver saltato un paio di noiose premesse.»

Savannah si massaggiò il collo con entrambe le mani e sospirò grave. «Perché il mondo è così tanto piccolo?», domandò retorica.
«Coraggio... ammettilo che sei contenta di rivedermi!»
La jiin lo fulminò con lo sguardo. «Potrei», concesse poi, «Ma solo se sai dirmi dov'è Meede.»
Toco corrugò la fronte e il suo viso si fece immediatamente serio. «Non ha niente per te.»
Si alzò in piedi e si avvicinò alle assi di legno della parete, sbirciando tra i tanti spiragli che correvano tra una e l'altra. «Ricordi? Il patto prevedeva che sarebbe stata lei a contattarti.»
«Infatti non è per quello che mi serve», tagliò corto Savannah, improvvisamente irritata. «Non devi fare il saccente, ho fatto solo una domanda.»
«Sei ferita?»
La jiin ci mise qualche manciata di secondi per annuire, gli occhi ostinatamente puntati sulle assi del pavimento.
«Un vero peccato», disse Toco con voce melodrammatica, «Così giovane e così destinata al terribile abbraccio della...»
«Non preoccuparti tanto, non sto morendo!»
«Meno male... pensa che danno sarebbe per la vostra missione, uh?»
Savannah si morse il labbro inferiore e guardò altrove. «Sei sempre dalla nostra parte?»
Toco annuì senza esitare, neanche per un istante.

«Dunque? O preferisci che prosegui io fin dove so?»
Nehroi strinse entrambe le mani a pugno e guardò di sottecchi l'umano. «Non ti brucia più la gola?», ghignò.
«Ah, vedo che ti è piaciuto lo scherzo del liquore.»
«Era da tanto che non mi divertivo così!», esclamò Nehroi senza nascondere quanto avesse riso di lui nel vederlo schizzare fuori dalla locanda alla disperata ricerca di acqua fresca. «Hai incarnato proprio lo stereotipo dell'umano che ignora i nostri costumi...»
L'espressione gioiosa del brehkisth non contagiò neanche per un istante quella scocciata del consigliere. «Ora torniamo a Toco, se non ti dispiace», disse con voce piatta.
Nehroi inspirò profondamente e nella sua mente riaffiorarono ricordi ingialliti e scheggiati come ogni cosa a Feinreth, la terra dei deserti in cui ha vissuto per quasi tutta l'infanzia e l'adolescenza assieme alla sorella. Phil non sbagliava: avevano incontrato Toco dopo qualche anno passato a girare tra Ataklur e la Terra alla ricerca dei primi manufatti, talismani e oggetti rari che hanno trafugato nelle varie regioni. Iniziavano ad avere un nome ed una taglia, degli identikit appesi su qualche muro nei paesi e la gente mormorava.
Lui urlava.
Toco parlava sempre ad alta voce, gridava tutto a tutti e otteneva informazioni manifestando a chiunque che non aveva paura di due “mostriciattoli insabbiati” e che li avrebbe trovati presto.
«Lui era un cacciatore di fuorilegge», esordì Nehroi faticosamente. Lo sguardo invariato di Phil gli fece capire che non gli aveva rivelato nulla. «Lo sapevi già?»
«Ha prestato servizio ai Capi Reggenti di molte regioni per molto tempo.»
«Però in realtà era uno di noi. Ladro fuorilegge.»
Phil annuì. «Per questo è stato bandito da ogni Capo ed è tuttora ricercato, più di voi due messi assieme.»
«Sì... può darsi. Comunque lui era venuto da noi perché era arrabbiato e voleva farci fuori.»
«Perché?»
Nehroi ridacchiò e raccolse un altro sassolino, più grande del precedente ma ugualmente rotondo. «Perché gli abbiamo soffiato via alcuni tesori su cui stava lavorando da tempo!»
Il consigliere ridacchiò e si chinò a sua volta. «E com'è che non vi ha uccisi?», domandò mentre sfiorava un sasso con le dita.
«Lui è uno jiin arancione e a quell'epoca Savannah stava per salire di grado a rosso, io ero già piuttosto sviluppato per la mia età e non gli sarebbe convenuto neanche prendersela con me. Così ha proposto di fare squadra.»
Il sasso di Nehroi cadde con un sonoro tonfo tre laghetti più in là e sarebbe stato seguito a ruota da quello di Phil se il braccio del consigliere non fosse rimasto bloccato in aria a metà del movimento. «Squadra», ripeté come se non avesse capito bene. «E voi avete accettato? Non risulta che abbiate mai avuto altri membri nel gruppo.»
Nehroi si bloccò a sua volta e sul suo viso si dipinse un sorriso amaro, appena accennato agli angoli della bocca. I funzionari non sapevano, non tutto. Avevano ancora un certo margine di vantaggio per la missione.
Guardò Phil ed allargò il sorriso, rendendolo meno criptico. «Pare che non siate tanto onniscenti su di noi», disse trionfale.
Il consigliere non si lasciò distrarre. «Perché siete così ostili con Toco, se siete stati voi a rifiutarlo?»
Il brehkisth strinse le labbra e si irrigidì completamente.
«Nehroi?»

«Esattamente cosa significa “non sono riuscita a scoprirlo”?»
Savannah si era stretta nelle spalle e aveva abbassato lo sguardo. «Mi spiace...»
Le pareti di pietra rossastra li circondavano da ogni angolazione e la luce del tramonto rendeva la stanza infuocata come il grado di Savannah e il viso irato di Nehroi.
«Sono mesi che ci stiamo lavorando!», urlava il ragazzino. «Non è possibile che è andato tutto all'aria!»
«L'archivio è stato incendiato, non è colpa mia!»
«Dovevi trovare quella pista molto prima! Annah, ci eravamo divisi i compiti: tu le ricerche e io il lavoro pesante!»
«Lo so, Neh, ma...»
Nehroi aveva pestato i piedi per terra con violenza, facendo sobbalzare la sorellina quasi in lacrime. «Devi rimediare!»

Phil si intrufolò nella sua visuale con prepotenza, scrutandolo coi suoi occhi che alla fioca luce della locanda e della luna sembravano ancora più giallognoli e inquietanti del solito.
«Era molto informato», sputò Nehroi controvoglia, desideroso solo di finire quella conversazione e andarsene a dormire. «Lo abbiamo consultato un paio di volte, nulla di più.»
Phil però non aveva lo stesso piano. «A cosa si riferiva prima alla locanda, con quella scenetta sul pavimento?», domandò attento.
Il ragazzo allontanò da lui con un gesto secco. Sentiva gravare sulle sue spalle il peso di una colpa che non si sarebbe mai perdonato, che gli faceva odiare sé stesso, che gli mozzava il fiato come se stesse correndo, o scappando.
«Ogni informazione ha un costo.»

Savannah sollevò la manica della maglietta bordeaux e si lasciò sfuggire un'imprecazione: aver aperto il portale aveva riattivato il veleno più di quanto avesse sperato e quella benda ormai non serviva più a nulla.
«Fa male?»
Alzò lo sguardo su Toco, sdraiato sulla branda di Phil a braccia incrociate dietro la testa. La stava guardando con la coda dell'occhio, troppo pigro per girare completamente la testa verso di lei.
«Perché sei venuto a cercarci se né tu né Meede avete novità sulla missione?»
L'uomo sbuffò e si voltò dandole le spalle. «Eri più divertente da piccola», borbottò a mezza voce.
«Col tempo si cresce, capita.»
Toco ridacchiò. «Già...»
«Allora?»
«Sei sicura di volere un'informazione da me?», le domandò con voce melliflua.
Savannah tirò un angolo della bocca verso l'alto e i suoi occhi si tinsero di un viola molto vivace. «Sono sicura che offrirà la casa», disse pacata.
Toco scattò rapidamente in piedi e cancellò la distanza tra loro in pochi e lunghi passi, come se avesse un vitale bisogno di avvicinarsi a lei. Piantò il viso a due centimetri da quello della jiin, tanto che i loro respiri sbattevano l'uno contro l'altro mescolando l'alcol che aleggiava in entrambi.
Gli occhi piccoli e neri che sbucavano da sotto le folte sopracciglia non riuscirono a farsi strada in quelli violacei della giovane donna, fallendo nell'impresa che era riuscita loro molti anni prima.
«Bene», disse Toco senza allontanarsi.
La mano destra scivolò lentamente sotto il suo mantello sudicio mentre la sinistra si appoggiava con noncuranza alla parete alle spalle di Savannah. «Sembra che stavolta ti darò delle informazioni gratuite», constatò.
La punta delle sue dita aveva appena sfiorato il coltello da caccia che teneva nella cintola quando la mano ferma della jiin gli afferrò il braccio e lo avvicinò alla parete come l'altro.
«Non provarci nemmeno», gli intimò la ragazza perentoria. «Ora parla.»
«Si trova al confine con Norreth.»
«Meede?»
Toco annuì.
«Confine tra Haffireth e Norreth, intendi?»
«Può darsi.»
«Dove, di preciso», intimò spazientita.
L'uomo le sorrise in un ghigno divertito e soddisfatto. «Informazioni gratis sono informazioni di poco valore, lo sai bene...»
Savannah abbassò lo sguardo e sentì il sangue ribollire mentre le mani fremevano.
«Ogni informazione ha...»
«Un costo, sì», concluse lei frettolosamente.
Una mano di Toco scivolò giù dalla parete e sentì due dita sfiorarle le guance, dal basso verso l'alto e poi di nuovo in basso, verso le labbra. Savannah si sentì pietrificare come la prima volta che aveva percepito quel tocco sulla pelle ed inspirò lentamente.
Alzò lo sguardo e non video l'uomo trasandato con una barba incolta e profonde occhiaie a solcargli le guance; non vide gli abiti sudici e i capelli che iniziavano a farsi brizzolati. Rivide l'uomo che anni prima l'aveva convinta che non ci potesse essere altro modo per risolvere una situazione disperata, quando la pista era andata perduta e lui, il doppiogiochista per eccellenza, colui che sapeva lavorare bene nella malavita quanto tra i funzionari, lui aveva le informazioni e le risposte che le servivano per dimostrare a Nehroi che poteva fidarsi di lei, che non era vero che non sapeva fare altro che qualche magia, che poteva portare avanti assieme la loro missione.
Il tocco delle due dita si fece più intenso quando la mano si piegò per afferrarle il volto con delicatezza e decisione. Il pollice seguì il disegno delle labbra e il viso di Toco si fece ancora più vicino.
Un angolo della bocca sfuggì alla linea seguita dal dito non appena Savannah sorrise di gusto.
«Mi diverte vedere che tu credi che ci cascherò di nuovo», gli disse velenosa.
Toco sembrò vagamente sorpreso. «Non ti avevo teso alcuna trappola, bambolina», si finse offeso. «Quello era un metodo di pagamento come un altro.»
Savannah gli afferrò il braccio e scattò in piedi sulla branda. Strinse la presa tanto da fargli male con le unghie, poi Toco sentì la pelle bruciare e iniziò a gemere e ad ansimare.
«Stavolta decido io questo tipo di termini», esclamò la ragazza con voce potente. L'espressione che si era disegnata sul suo viso era tra le più serie che l'uomo avesse mai visto. «E decido che o mi dici tutto quello che voglio sapere e poi sparisci per sempre... o ti uccido.»
Toco rise tra i lamenti, ma la jiin estese il bruciore fino al torace e iniziò a martellargli la mente, tanto da fargli uscire qualche urlo soffocato.
«Ngghh... va bene, va bene!»
Savannah non smise di torturarlo.
«Ok, hai vinto! Ti dirò tutto, niente più giochetti!»
La pelle continuò ad essere incandescente e la mente non smetteva di sussultare sotto i colpi che la ragazza metteva a segno. Le iridi viola si schiarivano sempre di più ad ogni secondo che passava, ad ogni secondo in cui la jiin desiderava infliggere nient'altro che dolore. Senza ferite, senza impicci. Puro dolore.
«Sav... annah...»

Nehroi spinse la porta di legno marcio della locanda e varcò la soglia subito prima di Phil. Era notte fonda, fuori faceva decisamente freddo ed entrambi non vedevano l'ora di schiacciare un pisolino su quelle brande orribili ma calde.
Il fango sgusciava fuori dalle assi del pavimento come quando il locale era affollato e caotico, i tappeti si impregnavano al loro passaggio e le scale scricchiolavano come in una casa stregata.
«Quel costo...»
Nehroi si voltò verso Phil con aria stanca e abbattuta. Il consigliere si sentì in colpa per la domanda che stava per fare, ma ne sentiva il bisogno. Aprì la bocca per riformulare la domanda ma la mano del brehkisth saettò per zittirlo.
«Non chiedere», disse in un sussurro, «Perché non ti saprò rispondere.»
«Ma...»
«Lei non mi ha mai raccontato esattamente cosa successe e non ho mai voluto saperlo.»
Phil abbassò lo sguardo e corrugò la fronte. I suoi pensieri lo impegnarono abbastanza da non permettergli di sentire il mormorio amareggiato di Nehroi e i suoi sensi di colpa. «Ragazzi!», esclamò Savannah quando varcarono la porta della stanza.
La sua espressione gioiosa rallegrò il fratello e preoccupò l'umano in ugual misura, soprattutto non appena videro Toco dolorante in un angolo tastarsi le tempie e le braccia immerso in gemiti e occhiatacce scontrose.
«Che succede?», domandò Nehroi senza nascondere un velo di felicità nella sua voce.
«Sappiamo dov'è Meede!»



*-*-*-*



Ci ho messo un paio di eternità ad aggiornare, lo so, ma a volte mi scordavo e altre non avevo decisamente tempo... il capitolo era già scritto da un mese, ormai, è stato solamente il tempo a farmi ritardare! ^^"
Sorry!
Però almeno è un capitolo un po' più succulento dei precedenti, contenti? :D Possono i nostri eroi avere un passato meno torbido? Certo che no! E quindi ecco riesumato un ricordo di quando Savannah era ancora giovane e meno autoritaria, Nehroi era il capo e... beh, gli inconvenienti capitano apposta per far crescere, no?

Grazie mille alle povere anime pie che mi hanno recensita l'altra volta, Killu e Karen! Gli altri sono scappati? :(

Alla prossima!
Ciao!

Shark

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Capitolo 17
*** Veleni ***





17
Veleni



L'alba arrivò così presto che a Nehroi era sembrato di aver appena appoggiato la testa su quel cuscino ruvido e umidiccio. Roteò pigramente gli occhi semi chiusi in giro per la stanza alla ricerca della sorella, la prima cosa che vedeva ogni mattina da quando nella sua vita c'erano state mattine e soli e nuvole, ma si ritrovò ad alzare un sopracciglio con scetticismo quando vide Phil occupare la sua branda.
La sera prima l'umano era stato l'ultimo a riuscire ad addormentarsi e il brehkisth rimase davvero sorpreso nel vederlo sdraiato al posto di Savannah, che aveva chiuso gli occhi ben prima di lui.
«Do... dov'è?», biascicò con metà bocca attaccata alla iuta del cuscino.
Phil girò pesantemente la testa verso di lui, esibendo occhi gonfi e sguardo spento. «Eh?», domandò con la stessa vitalità.
Nehroi si decise ad alzarsi ed ebbe un brivido quando i suoi piedi scalzi toccarono le assi impregnate d'umidità del pavimento. «Mia sorella», mugugnò con quella che voleva sembrare decisione, «Perché sei nel suo letto?»
Il consigliere scattò a sedere come se fosse stato punto sulla schiena e si svegliò in un attimo. «Detta così suona molto male! Comunque, ha voluto fare cambio di branda durante la notte», spiegò mentre si sistemava i capelli, pettinandoli con le dita. «O almeno credo; in realtà mi ha svegliato e trascinato via da sotto le coperte senza una parola.»
Il brehkisth annuì. «Di solito lo fa con me, tranquillo.»
«Ad ogni modo, credo sia andata giù a fare colazione.»
Nehroi si voltò verso la porta come se Savannah fosse comparsa all'improvviso. «Giù?», disse stupito. «Non hanno solo alcolici?»
Phil fece spallucce e iniziò a sistemarsi le scarpe. «Avrà bisogno di una bella sveglia...»
Quando scesero le scale, la jiin stava riparando il muro e la finestra che aveva distrutto la sera prima scagliando Toco tra i laghetti. Aveva i capelli raccolti in una coda fluente che oscillava in continuazione al ritmo dei suoi movimenti di taglialegna e carpentiere.
«Buongiorno», le disse Nehroi sedendosi ad un tavolo poco distante da lei, alla sua destra. Phil prese posto sulla sedia accanto.
La jiin rispose con un grugnito distratto.
«Troppo impegnata per rispondere, eh?»
Guardò verso il proprietario della locanda ed indicò la ragazza. «Da quant'è che lavora?», domandò.
«Più di un'ora», rispose con aria tetra. «Mi ha svegliato nel cuore della notte per avvisarmi che avrebbe iniziato prima dell'alba.»
Nehroi sbadigliò e si alzò verso il bancone, lasciando Phil ad essere l'unico spettatore di quella ragazza che aveva tagliato varie travi di legno e che le inchiodava su ciò che rimaneva della parete rotta. «Perché non usi la magia?», le domandò candidamente l'umano.
Savannah sbuffò, appoggiò il martello sul tavolo, tolse i due chiodi che stringeva tra le labbra e si voltò controvoglia. Solo in quel momento Phil notò che la pelle del suo braccio sinistro era nera fino al gomito e si morse la lingua nel cercare di non sembrare scortesemente sorpreso ed incuriosito.
«La magia ha distrutto, la manodopera aggiusta», disse la jiin scandendo con durezza ogni sillaba, ignorando le reazioni dell'umano. Poi afferrò il martello e ricominciò ad infilare chiodi nel legno scuro.
«Dove hai imparato?», domandò ancora il consigliere, tentando di non pensare al veleno che la pervadeva.
La jiin socchiuse gli occhi ed inspirò profondamente. Riprese a martellare come se non l'avesse sentito, ma a Phil non piaceva essere ignorato. «Una ragazzina senza muscoli che ha sempre usato la magia per tutto non può avere grandi conoscenze di falegnameria...», la provocò con voce melliflua e sguardo languido.
Il martello venne fatto cadere sul pavimento con un tonfo e si infangò. «Tu sai chi ci ha cresciuti?», domandò con visibile irritazione.
«Vostro nonno», rispose prontamente Phil, sicuro di poterla gestire.
«E credi che abbia mai alzato un dito quando il vento del deserto staccava le assi del tetto e delle pareti? O che ci abbia mai aggiustato i letti o i mobili quando le termiti li divoravano?»
Alle sue spalle, Nehroi si era appollaiato su uno sgabello e dondolava stancamente la testa sul bandone. «Le ha offerto qualcosa per colazione?», domandò all'uomo per nulla toccato dallo sfogo di Savannaha alle sue spalle. Quand'erano piccoli avevano sempre maledetto quell'uomo che li accudiva il minimo indispensabile ma, crescendo, non avevano potuto far altro che apprezzare la vita dura che avevano sempre fatto: un bagaglio di esperienza senza pari che li aveva salvati in molte occasioni, si erano sempre detti.
L'uomo dietro il bancone alzò gli occhi al cielo e continuò ad asciugare un bicchiere di vetro molto spesso. «Per quest'ora ho solamente acqua», bofonchiò scocciato, «Acqua di lago.»
Phil si rizzò sulla sedia come se avesse preso la scossa e dimenticò il suo imbarazzo per le domande indiscrete che avevano turbato la jiin.
Il proprietario della locanda rise di gusto per la sua reazione e la sua voce fece vibrare il legno delle pareti. «Non quella che hai bevuto ieri sera, arh! Quella è troppo forte e pregiata per le sei del mattino!»
«Cosa?», domandò il consigliere con gli occhi sgranati. «Ieri sera mi aveva servito acqua di lago?! Ma era fort...»
«È il nome del liquore ammazzagole tipico di Haffireth», spiegò Nehroi con un ghigno.
«Io però intendevo acqua normale!»
«Tu hai chiesto Acqua di lago.»
«Volevo far capire che mi bastava solo un...»
«Piagnucola altrove, devo riparare la parete!»

Mezz'ora dopo, con gli stomaci vuoti, le ossa indolenzite dall'umidità e le teste pesanti per il sonno, l'eterogeneo trio si mise in marcia verso il luogo che Toco aveva gentilmente indicato la notte precedente come ultimo rifugio accertato di Meede.
Phil era l'unico a mostrare scetticismo nei confronti della veridicità di quell'informazione.
«Non è un truffatore da sempre?», lamentava. «E se ci sta spingendo in una direzione sbagliata? Non siamo neanche di strada per Tolakireth!»
«Ci arriveremo, tranquillo...», sbuffò Savannah. «Non sei contento di tornare a casa?»
Phil alzò un sopracciglio e la sua bocca rimase aperta per molti istanti. «Casa?», domandò dopo un po'.
«Non sei consigliere del Capo di Norreth?»
«Ah, quello...», annuì, «Ma non è casa mia. Di tutta Norreth conosco solo gli uffici centrali, non viaggio molto.»
«Ecco perché non sai che arriveremo a Tolakireth in tempo», concluse Nehroi con un ghigno.
La fronte di Phil si corrugò tanto da formare due lineette verticali molto profonde tra le sopracciglia. «Quanto durerà la visita?», domandò rude.
La jiin girò lentamente i piedi per non cadere in uno dei due laghetti che la braccavano a destra e a sinistra e lo guardò storto. «Quanto basta», sibilò. «So che per te la riunione è importante ma vedi?», indicò il suo braccio e Phil distolse lo sguardo. «Fa impressione, lo so, e non fa altro che peggiorare! Io sto male, capisci? Non è un tatuaggio, devo farmelo curare ad ogni costo! E lei è l'unica che so che può farlo.»
L'espressione dura di Phil si addolcì un po'. Abbassò gli occhi al riflesso del sole sulla superficie dell'acqua e l'azzurro immenso e splendido lo travolse come le parole preoccupate di Savannah. La salute prima di tutto, si usava dire fra gli uomini, ma spesso aveva visto che non valeva anche tra i jiin. Evidentemente, non era una regola sempre vera.
«Per questo hai riparato a mano quel muro?», disse sulla scia di un pensiero che l'aveva toccato all'improvviso. «Non volevi usare la magia.»
Savannah annuì e sentì la tensione scivolare via dal corpo mano a mano che vedeva la ragionevolezza tornare nel consigliere. «Ieri ho fatto fin troppo tra Toco e il portale e... e questo è il risultato.»
«Allora muoviamoci.»

Toco era stato molto chiaro: stavano cercando una casa verde, mimetizzata nella foresta che segnava l'inizio della regione di Norreth, “terra degli alberi”. I laghetti erano andati via via disperdendosi diventando sempre più piccoli e trasformandosi prima in pozzanghere, infine in un'unica pianura, divenuta ben presto terreno ricoperto di foglie secche di molti tipi diversi. Gli alberi di Norreth erano l'unica cosa che regnava nella regione più piccola di Ataklur e gli abitanti li veneravano e rispettavano: fonti di vita, protezione continua. Nessun abitante di Norreth avrebbe mai osato abbattere un albero, perciò tutte le case erano incastonate tra i tronchi saldamente radicati e vivi o appese tra più alberi, come zattere sospese da terra e spesso anche a più piani.
Savannah aveva scucito a Toco l'informazione più preziosa: come riconoscere la casa della guaritrice. «È mimetizzata, quindi non sarà facile scovarla», disse ai suoi compagni di viaggio.
Phil annuì controvoglia. «E com'è fatta?», domandò.
«L'ha costruita attorno ad un albero.»
«Attorno?»
«Sì, nel senso che... beh, se troviamo una casa con un albero dentro che sbuca dal tetto, è molto probabile che sia quella.»
Ogni regione di Ataklur aveva una capitale, l'unico posto popolato, e quella città rappresentava la grandezza del paese con le loro dimensioni. Eastreth e Bastreth erano le più popolate ma Haffireth era la città più estesa, dal momento che ogni casa era posizionata strategicamente tra un laghetto e l'altro, solo laddove ci fosse un terreno non troppo fangoso; a Norreth, la seconda regione più piccola, le case erano praticamente ovunque, riempiendo ogni spazio disponibile, ma avevano un terribile difetto: spesso non si riuscivano a distinguere dalla vegetazione, troppo fitta per poter distinguere un verde o una corteccia artificiale da tutta la vegetazione che li circondava.
«Quella lì?», indicò Nehroi facendo voltare i compagni.
«Non è verde», commentò Phil.
Savannah sbuffò e si passò la mano sulla fronte, scoprendosi sudata. Il passaggio da una regione completamente areata ad una in cui non filtrava molto neanche il sole non era stato senza conseguenze, almeno per lei.
«Forse... ecco, quella!», urlò Phil a qualche albero di distanza. Savannah si voltò e lo vide sbracciarsi verso qualcosa che un enorme tronco pieno di muschio le nascondeva.
Quando si avvicinò, vide una casetta rotonda dalle pareti tinte alla stessa maniera delle felci che la circondavano e celavano, con piccole finestre simili ad oblò e un tetto che abbracciava l'albero al centro come un colletto color del tronco. Un piccolo camino, molto simile al grosso ramo che lo nascondeva, smascherava quella che poteva non sembrare affatto una casa. Ma ad Ataklur, si sa', ogni casa rispecchia l'anima della sua regione.
«Bel lavoro», sentì suo fratello dire al consigliere. Savannah stava per distogliere gli occhi dalla casetta per complimentarsi a sua volta quando vide qualcosa attraverso il vetro di una finestra. Assottigliò gli occhi ed alzò una mano per zittire i ragazzi alle sue spalle.
Si avvicinò lentamente come un felino, senza mai distogliere lo sguardo da quel dettaglio che l'aveva incuriosita fin troppo. Quando fu abbastanza vicina da riuscire a vedere il suo stesso riflesso, il viso dall'altra parte del vetro scomparve e Savannah sorrise.
Poco dopo, una donna magra con lunghi capelli completamente grigi sbucò da dietro la porta nello svolazzare di una gonna fatta di stracci colorati e il suo urlo di gioia nel vedere la jiin riecheggiò per un bel po' nella foresta.
«Lo sapevo, lo sapevo!», trillò Meede agitando i pugni in aria. «Tutti cercavano di convincermi del contrario ma io me lo sentivo davvero e glielo ripetevo sempre: “no che non sono morti!” I miei ragazzi... venite qui, fatevi abbracciare!»
Savannah e Nehroi non se lo fecero ripetere due volte e corsero dalla guaritrice che li aveva cresciuti per un po' dopo la scomparsa del nonno, quando avevano circa una decina d'anni. Le braccia di Meede erano secche come ricordavano, ma per entrambi il contatto con esse era il più morbido che potessero agognare.
La donna non era cambiata molto dall'ultima volta che si erano visti, rughe a parte. «Inizi ad invecchiare, eh?», scherzò il brehkisth pieno di gioia.
«Credo che alla mia età si possa iniziare... dai, entrate e raccontatemi tutto!»
Nehroi non se lo fece ripetere e varcò la soglia leggero come un bambino invitato a far merenda e Savannah lo seguì a ruota. Stava per sfiorare l'uscio quando la presa ferrea di Meede sul suo polso la fermò. Il tempo sembrò congelarsi mentre la guaritrice osservava preoccupata la pelle nera.
Alzò gli occhi verso il viso di Savannah, in cerca di una spiegazione, ma lei fece spallucce e cercò di divincolarsi per entrare nella casa.
«E... quello?», domandò la guaritrice in un sibilo innervosito, richiamandola.
La jiin seguì il suo sguardo e quasi si stupì nel vedere Phil, camicia bianca e cravatta nera, impalato nel bel mezzo di una foresta che non gli apparteneva minimamente, pesce così tanto fuor d'acqua che sembrava essere nel deserto.
«È con noi, tranquilla», disse Savannah cercando di infondere sicurezza.
«Un funzionario», sottolineò Meede.
«Storia lunga, lascialo entrare... fidati», disse infine la ragazza, certa di aver toccato il tasto giusto per convincere la donna. La discussione terminò lì e la guaritrice non ebbe più da ridire.
Un minuto dopo, tutti e quattro sedevano in vari punti del salotto con il tronco al centro, una tazza di the alle erbe in mano e tante cose che frullavano nella testa.
«La grotta di Bastreth? Davvero?», domandò Meede dopo aver ascoltato un piccolo resoconto dei ragazzi dall'ultima volta che si erano incontrati, molti mesi prima, quando Nehroi era stato colpito dalla maledizione e si erano recati da lei in cerca d'aiuto. «Ma come diavolo vi è venuto in mente? Lo sapevate che era il posto più...»
«Più pericoloso dei due mondi, sì», la precedette Nehroi. «Per questo ci siamo andati. Sai...»
La donna annuì e si tuffò nella tazza di the prima che in Phil potesse nascere qualche domanda.
«Quello è l'unico souvenir?», disse con un cenno verso il braccio nero.
Savannah e Nehroi si lanciarono un'occhiata mista tra strafottenza e colpevolezza e poi entrambi annuirono. «Siamo riusciti a sistemare tutto il resto, però», disse Savannah con sicurezza.
Il fratello si schiarì la voce con un colpo di tosse e le rubò il sorriso. «Ma non sappiamo come curare quel veleno.»
La guaritrice sollevò un sopracciglio e sorrise divertita. «Non siete diventati così onnipotenti, uh? Fregati da un veleno... posso?»
Savannah posò la tazza a terra e sollevò la manica sinistra con riluttanza. Sperava di poter trascorrere più tempo in tranquillità prima di ricevere una cura probabilmente asprissima.
Meede corrugò la fronte e si fiondò immediatamente ad esaminare il braccio di Savannah così da vicino che sembrava lo stesse annusando. Esaminò la benda e fece una smorfia, poi la sfilò via con un gesto secco e la sua espressione si fece decisamente disgustata.
«Cos'hai combinato!», la sgridò. Laddove tempo prima c'era solo un puntino arrossato a ricordo dell'iniezione del veleno da parte dell'ago da lancio, ora c'era un taglio lungo qualche centimetro e piuttosto profondo da cui fuoriuscivano grumi di sangue e veleno.
Meede passò un dito sulla ferita e grattò via parte del sangue incrostato mentre attendeva una risposta da sotto quelle sopracciglia grige così tanto minacciosamente incurvate che fecero sussultare Savannah come una bambina impaurita.
«Abbiamo...», pigolò la ragazza, arrossita per la vergogna di quel gesto che improvvisamente le sembrava incredibilmente stupido. «Ho cercato di far uscire il veleno perché pensavo che fos-»
Uno schiaffo troncò la sua frase a metà.
Meede si ergeva imperiosamente di fronte a lei e la guardava con un viso così serio che avrebbe messo i brividi. Phil trattenne il fiato e sgranò incredulo gli occhi mentre Nehroi, accanto a lui, abbassò colpevole lo sguardo, come se fosse stato schiaffeggiato assieme alla sorella.
Savannah incassò senza controbattere; rimase con gli occhi bassi e non si portò nemmeno una mano sulla guancia. Sapeva che era meritato. «Non sapevamo se e quando saremmo riusciti a venire qui...», pigolò nuovamente. La mano della guaritrice si abbatté nuovamente sul suo viso e il silenzio tornò a regnare incontrastato dopo il rumore potente dello schiaffo.
«Si sentono tante storie su di voi», disse Meede dopo quasi un minuto. «Tante cose, tante... imprese, ai limiti dell'eroismo.»
La sua voce era carica di amarezza, con una velata nota di orgoglio nei confronti dei ragazzini che spesso aveva aiutato durante la loro breve vita. «Siete cresciuti, decisamente. Ma non pensavo tanto da dimenticare il potere dei veleni. E le loro reazioni con la magia! Ma cosa vi dice il cervello...»
«L'ho fatto sulla Terra» ribatté la jiin con meno convinzione di quanto sperasse. Lo sguardo attento e giudicante di Meede la perforò come mille aghi, o come una spada affilatissima. «Speravo che laggiù, dove non c'è magia...»
«Cosa?», sibilò Meede, la mano pronta a cadere ancora sulla guancia arrossata. «Che il veleno sarebbe scivolato via come olio, come ti ho insegnato a fare col sigillo di Nehroi? Lo sai che i veleni cambiano natura quando li si curano a caso... o si curano bene, o è meglio lasciarli come sono.»
Savannah abbassò ancora lo sguardo a terra e non provò nemmeno a pensare a cosa dire per giustificarsi o portare a casa un punto: era una battaglia che non poteva vincere perché si era schierata tra i perdenti fin dall'inizio e se ne fece una ragione.
Meede si voltò verso Nehroi e neanche lui sfuggì alle sue occhiatacce di rimprovero. «Schiaffeggerei anche te», disse minacciosa, «Ma credo di aver esagerato quando hai preso la maledizione, quindi per stavolta sei graziato. La prossima volta, però...»
«Cercherò di non fare altri danni, promesso.»
La donna annuì convinta, a labbra serrate, poi scoccò un'occhiataccia a tutti e si defilò in quella che sembrava essere una cucina, oltre la porta stortignaccola verde a destra di Phil. Poco dopo si sentì il rumore inequivocabile di boccette spostate freneticamente che raschiavano il legno e tintinnavano tra di loro in mezzo ai borbottii continui di Meede.
Ricomparve poco dopo nel salotto circolare, sbucando da dietro l'enorme tronco, e fece cenno a Savannah di alzarsi e seguirla nella stanza dove solitamente operava. «Sdraiati lì, svelta, e mastica questa radice», disse senza troppe cerimonie.
«Anestetico?», domandò la jiin mentre posava la testa su un cuscino duro.
Meede grugnì per tutta risposta, poi si voltò e chiuse la porta della stanza, escludendo i ragazzi dallo spettacolo della cura. «Fatevi un giro», li liquidò.

Per almeno dieci minuti, né Phil né Nehroi osarono schiodarsi da quella casetta così strana e curiosa. Entrambi rimasero in silenzio, passando gli occhi da un gingillo non meglio identificato ad uno scarabocchio di qualche rimedio lasciato su una parete chiara.
«Questo cos'è?», domandò il consigliere indicando dei simboli per lui incomprensibili, alcuni tra i tanti che ornavano tutta la casa.
«Curare i veleni è un'arte, almeno stando a quanto dice lei. Le vengono in mente in qualsiasi istante e allora annota strategie, metodi o ingredienti non appena può, dove capita.»
Phil annuì e rimase in contemplazione di quel pastrocchio come avrebbe fatto di fronte alla stele di Rosetta. Fece una smorfia piegando gli angoli della bocca all'ingiù e sospirò stancamente.
«Facciamo un giro?», suggerì annoiato.
Nehroi alzò la testa verso la porta che li separava dalle due donne e sperò ardentemente che si aprisse. Tese le orecchie ma non percepì alcun suono. «Probabilmente sta esaminando l'entità del veleno...», disse sovrappensiero.
Phil sbuffò più sonoramente di prima, distraendo il brehkisth dalle brillanti deduzioni con cui si stava esibendo. «E vuoi restare qui finché non ha finito?»
Un urlo squarciò le loro chiacchiere da sala d'attesa come fa un artiglio affilato su un foglio di carta. Entrambi i ragazzi deglutirono e sentirono una sensazione viscida e gelida scendere giù dal loro collo, lungo tutta la colonna vertebrale. Era stato un urlo agghiacciante, come se Meede avesse all'improvviso strappato un braccio a Savannah.
«Riesci a muovere qualche muscolo, ora?», sussurrò Nehroi senza voce.
Phil non rispose.
Rimasero entrambi immobili lì, le tazze fredde in mano e gli occhi puntati su quella porta che nascondeva chissà cosa.
Si udirono altre urla simili alla prima, ma non altrettanto intense. Erano intervallate da imprecazioni ora di Savannah, ora di Meede; un paio di volte si era sentito il rumore di qualcosa che cadeva a terra con un tonfo e dopo un'ora, una interminabile ora, gli unici suoni che si percepivano erano faticosi ansimi che segnarono la fine della tortura.
Il cielo imbrunì, le ombre si allungarono, la luce non entrò più nella casetta e la porta si aprì.
L'unica fonte luminosa era la candela che era stata accesa all'interno della stanza e che illuminava anche il salotto rotondo, irradiando principalmente l'enorme tronco al centro.
Phil e Nehroi si sentirono immediatamente sollevati nel vedere che l'oscurità in cui erano immobilmente precipitati era stata rischiarata, ma non appena videro Meede uscire da sola, un'orribile sensazione attanagliò le viscere di entrambi.
«È...», sfuggì alle labbra di Phil. La guaritrice aveva gli occhi troppo bassi per i suoi gusti.
Nehroi preferì non pensare a nulla.
«Quella stupida radice non è servita a nulla, mi dispiace.»
«Ma lei è... sta... come sta?»
Meede schioccò amaramente la lingua contro il palato e scosse la testa, lugubre.
Il consigliere si sentì svuotato come mai prima d'allora ma il brehkisth, nell'ombra alle sue spalle, non ebbe la stessa reazione. «Vecchia stronza», sibilò divertito.
Phil si voltò incredulo verso di lui e quel sorriso sghembo, in un primo istante decisamente inappropriato, lo colpì come un pugno. Poi si voltò verso Meede, gli occhi ancora sgranati, e la trovò ben più radiosa di prima. Il commento di Nehroi gli sembrò all'improvviso molto azzeccato, ma non sarebbe mai uscito nulla di simile dalle sue diplomatiche labbra.
Appoggiò frettolosamente la tazza di the ormai gelido su un ripiano accanto alla porta e spostò bruscamente la guaritrice. Sentì i passi di Nehroi subito dietro di sé ma fu lui il primo ad inorridire.
«Che diavolo...»
Un'enorme foglia sulla pancia, infilata sotto la maglietta tirata su, gocciolava qualcosa di bianco e denso, probabilmente la stessa cosa che ricopriva in alcuni punti il viso completamente pallido, privo del benché minimo colore. Le palpebre tremavano, incapaci di restare aperte, e dal braccio ferito era colato tanto sangue e veleno da tingere di nero tutto il pavimento prima color corteccia.
«Ho dovuto depurarla per bene», spiegò Meede appoggiata sullo stipite.
«Dissanguandola?», esclamò Nehroi con più terrore di quanto avesse voluto.
La guaritrice strinse le braccia a sé e si inumidì le labbra. «Non appena ho iniziato ad operare il veleno si è espanso di nuovo... è stata davvero una lotta impossibile. Ogni cosa che facevo per curarla lo aiutava a guadagnare terreno. Ad un certo punto ho temuto che se avessi continuato, sarei stata io ad ucciderla, e non il veleno.»
La desolazione nella voce di Meede fece venire i brividi ai presenti, anche a Savannah, inerme sul letto, spettacolo insopportabile. Phil scosse la testa e spintonò via Nehroi e Meede per uscire dalla stanza. Sentirono la porta d'ingresso aprirsi e chiudersi subito dopo, poi qualche passo tra le foglie secche e, infine, il silenzio.
«Però ora è guarita?», disse Nehroi con cautela, temendo una risposta negativa.
Meede annuì e si chinò accanto al letto. «Deve riposare un paio di giorni, ma... sì. Per riuscire a debellare il veleno anche lei si è sforzata. Ha diretto il veleno verso il braccio con l'aiuto della magia, anche se dopo le vostre "cure" era diventato un peggioratore della magia e non delle ferite ricevute. Ho cresciuto due idioti.»
Savannah sorrise debolmente nel chiarore della candela e strizzò gli occhi.
«Quanto ci vorrà perché si riprenda del tutto? Quello là adesso farà un'altra scenata perché perderemo tempo...», si lamentò Nehroi.
La guaritrice alzò un sopracciglio, incuriosita. «Oh, giusto di lui volevo parlarti. Perché un funzionario vi accompagna? Gli siete simpatici?»
Nehroi ridacchiò. «I tuoi ragazzi fanno carriera! Siamo ufficialmente invitati ad una riunione dei Capi Reggenti... pazzesco, vero?»
Meede si irrigidì immediatamente e il suo viso perse ogni accenno di ironia. Prese le mani del ragazzo tra le sue e le strinse con forza. «È una trappola», disse a bassa voce ma con molta convinzione.
Il brehkisth annuì. «Lo sappiamo.»
La donna spalancò incredula gli occhi. «E andate comunque?», domandò stupita.
«Potremmo scoprire qualcosa di utile per la missione e... beh, non avevamo di meglio da fare. Se i nostri informatori non scoprono nulla, non possiamo fare sempre tutto da soli.»
«Oh, adesso è di me che stai parlando?», Meede si offese e slegò le mani. «Credi che sia in questa foresta per caso? Sto lavorando ad un contatto con la natura, posso scoprire dov'è quella porta, ormai sono...»
«Shhh», la zittì il ragazzo. La donna si morse il labbro inferiore e tornò al capezzale di Savannah, sostituendo freneticamente la foglia sull'addome per tenersi subito impegnata. Nehroi uscì dalla stanza ed attraversò rapidamente il salotto buio, facendo attenzione a non inciampare in nessun libro, tavolino o qualsiasi cosa fosse depositata a caso su quel pavimento affollatissimo.
Uscì dalla casetta e la luce della luna lo aiutò ad individuare subito la camicia bianca di Phil, appoggiato ad un tronco con entrambe le mani. Teneva la testa china a terra, come se pesasse troppo per poterla sostenere.
Nehroi gli si avvicinò rapidamente. «Ti senti bene?», domandò apprensivo. Improvvisamente gli era venuto in mente che non tutti erano abituati a sostenere la vista di tanto sangue in una volta sola.
Stava per appoggiargli la mano su una spalla quando Phil si rianimò di colpo e lo afferrò a sua volta, sbattendolo contro l'albero esattamente come il brehkisth aveva fatto con lui nel pianerottolo in cui si erano conosciuti, ormai una settimana prima.
«No, non mi sento affatto bene», gli alitò aspramente sul viso, con meno di due centimetri a dividerli. «Dite che verrete alla riunione, ma quello che vedo io è un contrattempo dietro l'altro e la cosa non mi piace, non mi piace affatto. Dimmi, Nehroi, quanti giorni mancano? Lo sai, vero?»
Il ragazzo sbuffò divertito. Sebbene avesse sicuramente qualche anno in più, Phil era la metà di lui: avrebbe potuto ribaltarlo in qualsiasi momento. «Cinque», gli rispose.
Phil annuì. «Cinque, giusto», ripeté. «Cinque giorni. Cinque. Quasi quattro. Sai che noi siamo ad almeno tre settimane di cammino da Tolakireth? E che Savannah ora è in uno stato improponibile? Come credi che arriveremo, eh? Volando? Sapete fare anche questo?»
Nehroi sbatté più volte le palpebre, perplesso. La grinta che il consigliere, dal basso delle sue possibilità, stava dimostrando era decisamente inaspettata. «Perché ci tieni tanto?», domandò semplicemente. Sembrava innaturale, per lui, un simile attaccamento ad un impiego non troppo eccezionale come quello di un accompagnatore di criminali.
Phil tirò nervosamente un angolo della bocca verso l'alto, poi lo lasciò cadere rapidamente verso il basso. «Sono fatto così.»
«Lasciami.»
«No, prima mi fornisci una soluzione al problema che tu e la tua adorabile sorellina avete faticato tanto a creare.»
Passò qualche minuto prima che uno dei due osasse rompere la guerra di occhiatacce che si era instaurata tra loro. Immobili come statue, in tensione come animali pronti a scattare. Gli occhi verdi scrutavano quelli giallognoli, inquietanti alla luce della luna, in cerca di un tasto da premere per spegnerli una volta per tutte.
«Sei stato tu a chiamare la polizia, vero?»
Nehroi non sapeva perché, tra tutte le cose che avrebbe voluto dirgli, gli fosse venuta in mente proprio quella, ma la cosa spiazzò anche l'umano. Lo vide vacillare e la mossa successiva fu rapida e decisa come uno scacco matto. «I tuoi occhi non sono naturali.»
Quel commento tolse ogni forza al consigliere. Le sue mani si staccarono immediatamente dalla maglia di Nehroi e le ginocchia gli cedettero tanto da farlo cadere sul terreno come un burattino senza fili.
«Tu... tu sei...»
Phil chiuse gli occhi e strinse i pugni. «Controllato, sì», concluse per lui a denti stretti.
Chinò il capo come se Nehroi fosse il suo boia, ma tutto quello che arrivò fu uno sguardo terrorizzato e in parte inorridito; poi passi, veloci passi che si allontanavano di corsa.
La porta della casetta di Meede si chiuse sbattendo e il consigliere rimase al buio, nella fredda foresta, infinitamente solo.


*-*-*-*



Chiedo scusa per l'immensa lunghezza di questo capitolo ma le cose da dire erano un bel po' e non potevo liquidare Meede senza averle dette tutte! ^^” Però non potevo neanche farle occupare ben due capitoli, scherziamo? XD Nel prossimo compare per un attimo, giusto per un salutino (cosa che Toco non meritava, ahahah!) perché dobbiamo passare velocemente alla riunione! Di cose da far succedere ce ne sono ancora molte, ma almeno adesso Savannah è guarita! :D
Quanta roba ho ficcato in questo capitolo? "Veleni" si riferisce ovviamente a ciò che affliggeva la jiin, ma ho messo il plurale per non far passare in secondo piano ciò che capita anche a Phil, "controllato"... poi vedremo meglio che cosa comporta questa novità! ^^

Grazie infinitamente infinite alle mie supporters! La storia non avrebbe molto senso di essere pubblicata se non ci foste voi <3

Alla prossima, dunque! Ce ne saranno ancora di belle, ohohoh! *Santa's style*
Ciao!

Shark

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Capitolo 18
*** I mal'Kee ***





18
I mal'Kee



«Phil è controllato.»
Sembrava strano, ma gli dispiaceva aver scoperto una cosa simile. L'unica cosa che avevano sempre realmente avuto lui e Savannah era stata la libertà, forse fin troppa, e non poteva che sentirsi male all'idea che qualcun altro ne fosse totalmente privo.
«Ecco perché deve portarci a tutti i costi laggiù...»
La sorella aprì impercettibilmente di più le palpebre e strinse le labbra con le poche forze che aveva, incapace di pronunciare qualcosa.
«È orribile, proprio come temeva il nonno! “Chi domina la gente è il signore della guerra che non ci sarà”, ricordi?», proseguì Nehroi.
Camminava su e giù per la stanza, aprendo continuamente la bocca per dare fiato a quello che più che un dialogo sembrava un monologo. Savannah ascoltava in silenzio obbligato, ma non era affatto tranquilla. Ricordava anche lei i cattivi presagi del vecchio Ughrai, anche se li avevano sempre classificati come pessimismi ingigantiti.
«Non abbiamo mai creduto che si potesse fare sul serio... ma l'ho visto, quegli occhi sono davvero gialli! E se è così... significa che chi l'ha fatto è molto forte! Annah, non dobbiamo andare laggiù!»
La ragazza corrugò la fronte, turbata.
«Tu sapresti controllare qualcuno a quel modo? Se tu sei già uno jiin viola e non è una cosa che sai fare, chi ci sta aspettando a Tolakireth? E non guardarmi così, sai che ho ragione!»
Meede passò di fronte alla porta, gli lanciò un'occhiataccia torva e sparì nel buio del salotto dal quale era sbucata.
Il ragazzo alzò le braccia con la stessa irritazione che avrebbe portato altri a spaccare qualche mobile. «Sono l'unico a pensare che dovremmo fermarci qui?», domandò a voce alta.
Savannah mormorò qualcosa in un sussurro così impercettibile che il fratello dovette avvicinarsi tanto da sfiorarle il viso con un orecchio.
«... ro...mess...», disse la jiin in un debole fiato.
Nehroi alzò un sopracciglio. «Sai che non gli dobbiamo nessun favore perché è stato lui a denunciarci?»
«Promesso», ripeté la ragazza con più forza e convinzione, usando quel tono di voce che non ammette facilmente repliche.
Il brehkisth si morse un labbro e sospirò pesantemente. Si sedette a gambe incrociate a terra, accanto al letto di Savannah, e si portò le mani tra i capelli scuri. «A volte dovremmo infrangere le nostre regole», disse quasi sovrappensiero. Alzò lo sguardo verso gli occhi semichiusi della sorella e subito si pentì di ciò che si era lasciato sfuggire. Tolte le loro regole, cosa restava a tenerli in piedi? Tolta la loro moralità, per quanto sbagliata potesse sembrare agli occhi di chiunque altro sul pianeta, cosa rimaneva delle loro coscienze?
«Ma è controllato...», disse ancora il ragazzo, come se stesse dibattendo più contro sé stesso che contro Savannah. «Non possiamo fidarci.»
La jiin fece impercettibilmente spallucce.
«Giusto», annuì Nehroi con un ghigno. «Non dobbiamo farlo per forza.»

Quando aprì la porta, la luce della candela che reggeva saldamente in mano rischiarò un raggio di pochi metri di fronte alla casetta, ma a Nehroi non serviva neanche un centimetro di più. Non passò molti istanti a strizzare gli occhi per cercare nel buio della notte e nel fitto della foresta una camicia bianca e dei capelli biondicci: Phil era accucciato sullo stipite della porta, tutto raggomitolato ed intirizzito.
«Entra, dai», gli disse il brehkisth, «Non fare lo scemo.»
Phil svuotò i polmoni e si accasciò ancora di più contro la parete. «Dovreste lasciarmi fuori, non vi biasimerei mai», disse malinconico mentre stringeva le braccia attorno al busto.
«E chi biasimerebbe chi se tu dovessi ammalarti e non riuscire nella tua missione di portarci laggiù?»
Il consigliere rimase a bocca aperta per qualche secondo, sufficientemente spiazzato da non riuscire a trovare una risposta.
«Savannah ed io abbiamo deciso... che non importa. Controllato o no, verremo con te alla riunione. Magari potremmo aiutarti a liberarti, se ci dicessi chi è che...»
«Non posso.»
Nehroi sospirò. «Bene, allora veniamo e basta.»

Tutti e tre passarono la notte seduti sulle sedie della cucina o sdraiati a terra, dal momento che l'unico letto disponibile era quello di Meede e che lo stava occupando Savannah.
La mattina dopo, la jiin fece capolino in salotto e lasciò che gli sguardi preoccupati e critici dei suoi compagni di viaggio la esaminassero centimetro per centimetro.
«Fai schifo», le disse Nehroi. «Senza offesa, eh.»
«Ti ringrazio», gracchiò la ragazza. La sua pelle era molto più bianca del normale ma aveva le guance rosse come bacche selvatiche. «Partiamo?»
Meede le lanciò un'occhiataccia ma la jiin sembrò non vederla. Phil si schiarì la voce ed attirò la sua attenzione. «Sicura che le tue condizioni siano...»
«Dobbiamo arrivare lì o no?»
«Ma non se...»
«Te l'abbiamo promesso, ricordi?»
Il consigliere sentì la gola improvvisamente secca. «Quella promessa non è valida», disse, «Io vi ho ingannati, ho...»
«Lo so», lo frenò Savannah. «E so anche la roba del controllo. È vero che uccidono chi non adempie al compito?»
Phil chinò la testa e strinse i pugni.
«Il nonno ci ha sempre visto giusto...», mormorò la jiin quasi con disappunto. «Vuoi partire o aspetti che ti puniscano loro per incentivarti?»
«Annah», la richiamò dolcemente il fratello, come se stesse parlando ad una bambina. «Come credi di muoverti? Lo vedi anche tu che sei uno straccio. Devi riposare.»
«Ho tanti giorni per riposare», rispose lei con convinzione. Esibiva un sorrisetto diabolico e pericoloso.
Il brehkisth sospirò. «... sulla mia schiena?»
Nehroi odiava quel sorriso.
«Bene», disse Meede battendo le mani con uno schiocco, «Io ora vado al mercato. Quando sarò di ritorno non vi voglio vedere ancora qui, intesi? Se mi costringerete a fare una di quelle scenette strappalacrime da addio, vi uccido tutti. Uno per uno.»

«Tu sei sempre convinta di non essere ingrassata?»
«Tu sei sempre convinto che quella palestra funzioni?»
«Intendi la tua schiavitù?»
«Quella a cui ti sei iscritto per rimorchiare.»
«Non è vero! È per i muscoli!»
«Se così fosse non dovresti lamentarti tanto del mio peso.»
Phil si voltò ed allargò le braccia esasperato. «Sul serio, ragazzi? Volete continuare così per il resto del viaggio?»
Ricevendo due occhiatacce come risposta, il consigliere scosse la testa e continuò a camminare di fronte a loro ad ampie falcate, desideroso di allontanarsi il più rapidamente possibile da quella foresta troppo umida ed ombrosa per i suoi gusti.
Dopo un po' che marciava, sentì alle sue spalle i fratelli fargli il verso ed accelerò il passo per impedire alla loro pungente ironia di arrivare alle sue orecchie.
«Ehi», disse Savannah, «Tu lo sapevi che Mayson fosse un maratoneta?»
Phil alzò gli occhi al cielo e sbuffò.
«Agli umani piacciono sport davvero strani», constatò Nehroi. Si fermò un istante per sistemare meglio la sorella sulla schiena, avvinghiata a lui come un koala sull'albero, e ricominciò ad inseguire il consigliere.
Attorno a loro, la vegetazione stava diventando sempre meno fitta: si erano prefissati di attraversare Norreth solamente lungo il confine, per non correre il rischio di perdersi nella foresta infinitamente verde, ma era una scelta che allungava tremendamente la strada.
La decisione aveva donato a Phil un umore decisamente mutevole: era contento di non dover fare lo scout nella foresta ma molto scontento di dover perdere ancora tempo.
Quando il consigliere si voltò e vide che Nehroi stava facendo scendere Savannah a terra, quasi urlò dalla rabbia. «Che state facendo!», sbraitò mentre tornava indietro verso di loro, agitando le braccia come un folle.
Non si lasciò sconvolgere dal viso smunto e accaldato della jiin, dal suo colorito rossastro e dal tremore delle mani; dopo quasi un giorno di cammino era abituato a vederla in quello stato. «Non possiamo fermarci ogni volta che sta male...», brontolò.
Nehroi lo guardò di sbieco ed inspirò. «Possiamo», scandì, «E lo faremo, se necessario.»
Si chinò verso Savannah e le scostò i capelli dal viso sudato.
«Mi spiace, Mayson», disse la jiin, «Non avrei mai pensato che eliminare quel veleno mi avrebbe devastata tanto... Mayson?»
Phil stava estraendo dalla tasca dei pantaloni un bigliettino ed una matita piccolina.
«Che fai?», domandò il brehkisth.
Il consigliere scrisse finché l'intero foglietto, su entrambe le facciate, non fu completamente pieno di numeri e nomi. «Tenete», glielo porse come se volesse liberarsene. «Sono le persone che vi pregherei di contattare se dovessi morire. Cioè, quando morirò... perché se andiamo avanti così è certo che non vedrò l'alba del mese prossimo.»
La jiin soffiò tra i denti, irritata, e ricevette uno sguardo glaciale da parte degli occhi giallognoli. «Non morirai!», gli disse, «Arriveremo in tempo alla riunione, abbi fede.»
Phil rise. «Sai una cosa? Ho cambiato idea. Se non dovessimo arrivare alla riunione in tempo, uccidimi.»
«Scherzi?»
«Però fallo in fretta, ok? Chi mi controlla non ama i fallimenti e vorrei morire evitando la parte delle torture...»
«Ora smettila!», sbottò il brehkisth. «Abbiamo promesso che arriveremo in tempo a quella stupida riunione e sappiamo anche come fare! Non morirai!»
Nehroi sorrise soddisfatto e Phil si sentì meglio per un istante, un caldo istante in cui sorrise a sua volta, convinto quanto i suoi ospiti che tutto sarebbe andato per il verso giusto. Poi l'espressione di Nehroi divenne troppo contenta, quasi divertita, e una sensazione viscida attanagliò il consigliere.
«Aspetta», disse, «È una soluzione illegale?»
I fratelli si scambiarono un'occhiata vaga, poi Savannah tossì e Nehroi fece spallucce. «No... non proprio», rispose il ragazzo.
«Allora è pericolosa?»
«Dipende dalla tua scala di pericolosità.»
«Si rischia la vita?»
«Solo se cadi. Dovrai aggrapparti bene.»
Phil alzò un sopracciglio e improvvisamente sentì venir meno le forze per portare avanti il suo ordine. «Aggrapparmi... a cosa?»
Nehroi si limitò a sghignazzare e non gli rispose. Sollevò nuovamente la sorella e il trio si rimise in viaggio come se non ci fosse stata alcuna interruzione.
Raggiunsero una piccola zona collinare sul limitare del confine tra Norreth e Lagireth, la terra delle montagne imponenti e cupe. Oltre quel residuo di zona verdeggiante, si stendeva una regione relativamente vasta ma concentrata: solo montagne, una più alta e grigia dell'altra. Se ad Ataklur fossero esistiti i cambiamenti meteorologici, sarebbero state sicuramente imbiancate. Le case, se potevano essere definite tali, erano incastonate nelle grotte, tra un precipizio e l'altro o nei pochi spazi in cui la roccia appuntita e fredda dava una tregua alle creature viventi.
La meta del trio di viaggiatori era un territorio misto, una piccola zona collinare non propriamente della terra degli alberi e neanche della terra delle montagne. L'erba non era più brillante come quella che tappezzava Haffireth e gli alberi erano molto più piccoli e grigi dei loro fratelli di Norreth.
«Cosa c'è qui?», domandò Phil notando la frenesia dei fratelli nell'esaminare il terreno.
«Un'entrata», rispose Savannah da sopra la spalla di Nehroi. «Di una tana.»
Il consigliere abbassò automaticamente lo sguardo per aiutarli, ma non fece in tempo a focalizzare lo sguardo su un lembo di terra che una lampadina si illuminò nella sua mente. «Non starete mica cercando i mal'Kee!», esclamò scandalizzato.
«Sono eccellenti nella corsa.»
«Stai parlando di quelle specie di talpe giganti che la vostra gente caccia per la pelliccia?»
«E che cacciano quella stessa gente per la carne morbida, sì», concluse Nehroi annoiato.
Il consigliere si sentì male ed impallidì più della jiin.
«Ma noi abbiamo salvato un cucciolo, una volta, e abbiamo fatto una specie di patto di neutralità», proseguì Savannah mentre dava uno scossone al fratello per farlo voltare a sinistra. «Guarda là, quella zolla...»
Si avvicinarono lentamente: era una zona del terreno molto meno compatta del resto della collinetta, come se qualcuno vi avesse scavato di recente. L'erba era calpestata o strappata e grumi di terra giacevano sparsi nel disordine caratteristico delle tane scavate.
Nehroi posò Savannah a terra ed entrambi si misero a cercare a mani nude quella che per loro era una buca richiusa da sotto. «Lo fanno sempre», spiegava il brehkisth, «Per proteggersi dai Garlh, bestiacce davvero pericolose... con quegli artigli enormi e il verso spacca-timpani...»
«Credete che una talpa gigante gradirebbe farci da cavallo?», domandò Phil non senza marcare il suo scetticismo. «E se invece volesse mangiarci come i cacciatori?»
La terra franò nel punto in cui i due ragazzi stavano scavando. Sotto le loro unghie sporche, comparve subito il muso di un'enorme animale tigrato grigio e arancione, un inquietante incrocio tra un orso ed un lupo, dalle dimensioni simili a quelle di un elefante giovane. A differenza di quanto immaginava il consigliere, il mal'Kee non assomigliava per niente ad una talpa e non era cieco, non con quei due grandi occhioni neri che sembravano brillare vedendo i ragazzi.
Uscì dalla sua tana distruggendo tutto il terreno circostante e, quando fu completamente alla luce del sole, Phil notò anche che scodinzolava con una coda dal pelo molto lungo e folto. Subito dopo quell'esemplare, alle sue spalle sbucarono altri tre mal'Kee, altrettanto enormi, tigrati e contenti.
«Si ricorda di noi, visto?», esclamò Savannah con gioia mentre si allungava per accarezzarlo sulla testa. Il mal'Kee vide Phil e fece un verso misto tra un ringhio e un barrito, ma la jiin non smise di accarezzarlo. «Buono cucciolone, buono... è con noi, tranquillo!»
Il consigliere si sentì come se avesse appena visto la morte in faccia, accorgendosi solo dopo le parole di Savannah di essere rimasto senza respirare per almeno un minuto.
«Adesso... che si fa? Gli chiedete di accompagnarci?», domandò con cautela e trattenendosi dal fare troppe smorfie preoccupate.
Nehroi si alzò in piedi ed accarezzò le grandi orecchie del mal'Kee. «Hanno già detto sì!»

Phil era già salito in groppa ad un animale; per la precisione, su un cavallo, su un cammello e su un cane, ma quella era una storia nascosta così tanto in profondità nella sua infanzia che non poteva essere considerata. Quando però si ritrovò sul dorso del mal'Kee dovette ammettere che non esisteva confronto: il pelo morbido e folto rendeva la cavalcata decisamente confortevole, tanto che i due giorni di traversata ininterrotta scivolarono via senza portare dolorosi ricordi. A malincuore aveva capito alla perfezione il motivo per cui ad Ataklur ci fossero cacciatori che non cercavano altro che quel pelo morbido... e anche perché i mal'Kee dessero loro la caccia alla stessa maniera, con tanto spirito di sopravvivenza da guadagnare la fama di creature più pericolose esistenti sulla faccia del pianeta. Stando sempre a palazzo, non ne aveva mai visto uno dal vivo, ma era stato avvertito che quelle bestiacce non avrebbero mai esitato ad infilare gli artigli e le zanne nella sua carne.
Mai avrebbe immaginato di ritrovarsi a cavalcarne uno in tutta tranquillità. “Dovrò dirlo a Heim quando torno”, aveva pensato, “Non mi crederà mai!”
Le gambe dolevano quanto avrebbero fatto su una comoda poltrona e nascondersi nella pelliccia folta e calda gli aveva evitato anche gran parte del vento gelido che una corsa ad altissima velocità generava.
La partenza era stata la cosa più critica.
«Ora sali qui e metti la gamba dall'altra parte», gli aveva detto Nehroi non appena un mal'Kee si era accucciato accanto al consigliere. «Siediti verso il collo, non sulla schiena, e aggrappati come se lo stessi abbracciando. Ricorda: non incitarlo mai come faresti con un cavallo. Ci stanno accompagnando da pari a pari, è solo cortesia.»
«Da pari a pari?»
«Sono molto più intelligenti di quel che i cacciatori e gli umani possano credere.»
«Perché associ gli umani ai cacciatori?», aveva domandato Phil offeso.
Nehroi aveva sorriso amaramente e fece spallucce. «Hai mai visto un fantino che non picchi il destriero per incitarlo?»
Quell'affermazione aveva dato molto da pensare a Phil, tanto che non era più riuscito a trovare nulla per ribattere. Si era voltato verso il mal'Kee col viso rosso dalla vergogna, poi era salito non senza timori. L'inaspettata morbidezza del contatto lo aveva messo subito a suo agio e gli aveva fatto dimenticare lo spiacevole scambio di battute. «Così?», aveva chiesto al brehkisth più sorridente di quanto si aspettasse.
Aveva visto alla sua sinistra Nehroi sistemare Savannah esattamente come si era seduto lui e ne aveva tratto una conferma; poi era salito anche il brehkisth, alle spalle della sorella e, con uno strano grido di incitamento, i due mal'Kee si erano alzati sulle quattro enormi zampe pelose, per nulla simili a quelle di un animale da corsa, avevano urlato di rimando ed erano scattati veloci come un treno, un'auto da corsa, un tornado, una stella. Phil non sapeva quale termine di paragone scegliere mentre Lagireth spariva dalla sua visuale come una foglia trascinata dal vento e si faceva sempre più vicina la zona desertica di Feinreth.
I suoi occhi lacrimavano tanto che non riuscì più a tenerli aperti. Si accucciò dietro il collo del mal'Kee usandolo come scudo e da lì riuscì solamente a farsi cullare dal ritmo potente e rassicurante delle zampe di quell'enorme animale che mai avrebbe pensato di cavalcare in tutta la sua vita.
Avrebbe dovuto fare molto caldo, essendo in un deserto e sotto il sole a picco, ma a quella velocità non se ne accorse mai.
«Come va'?», domandò Nehroi. Il suo mal'Kee si era avvicinato così tanto velocemente a quello di Phil da farlo sobbalzare per lo spavento. Il consigliere rimase affascinato per un lunghissimo istante dalla naturalezza con cui i due animali abbaiavano tra di loro con toni giocosi mentre continuavano a correre a velocità rapidissime, tanto che il deserto di Feinreth non era nulla di più che un tappeto giallo-arancione che scivolava come seta sotto le loro possenti zampe.
«Senza parole, eh?»
Phil annuì e il mal'Kee di Nehroi si allontanò di qualche metro dal suo, superandolo.
«Non vorrai mangiare la sua polvere!», disse divertito al mal'Kee. L'animale fece quel verso strano che ormai Phil iniziava ad apprezzare e la forza nelle sue zampe aumentò, facendolo quasi volare su quel mare di sabbia.

Tolakireth comparve all'orizzonte quando quell'infinita distesa di sabbia smise di dominare il panorama, dopo che due soli e due lune si erano alternati sopra le loro rapide teste.
Quando il deserto si era fatto sempre più verde fino a diventare una pianura di medie dimensioni, lì in mezzo spiccava un enorme palazzo di marmo bianchissimo e lavorato con grande cura, unico nel suo genere. Spiccava nel buio della sera come se emanasse una delicata luce propria, rendendolo molto affascinante ed elegante.
Non era una regione come tutte le altre, con un vasto territorio ed una più o meno grande città-capitale: nonostante la sua bellezza, Tolakireth era solo un palazzo, molto grande ma nulla di più. Conteneva ampie sale, sontuose camere da letto, svariati uffici, balconi e nascondigli a non finire. Alle sue spalle si estendeva il prezioso giardino coloratissimo che solo un ristrettissimo numero di persone in tutta Ataklur era riuscito a vedere; dentro quel magnifico castello, i Capi Reggenti.
Nehroi scese dal mal'Kee e poi tirò giù la sorella. Mise un braccio attorno alla sua vita per aiutarla a sorreggersi, ma lei posò una mano sulla sua schiena e gli sciolse il sigillo. Il tatuaggio rossastro svanì dal torace del brehkisth e Savannah si allontanò rapidamente.
«Che state facendo?», domandò Phil.
«Ci prepariamo a conoscerli.»


*-*-*-*



Olèèèèèè abbiamo finito anche il viaggio! :D (ma quanto sono bad ass i nostri eroi in quest'ultima scena? =3)
Piaciuti i mal'Kee? A me è piaciuta la storia che sono i cacciatori dei loro stessi cacciatori, trovo che molti animali dovrebbero avere il diritto di farlo anche qui! >.<
Cmq sia, siamo a Tolakireth! Ora sì che iniziamo a divertirci! Tanto per darvi un'idea: la "saga" della riunione è così tanto contorta e densa di molta roba che ogni giorno aggiungo dettagli, pezzi, rivelazioni, intrighi, scene e... devo ancora mettere tutto per iscritto in qualcosa che assomigli ad un capitolo ^^"
Però ci siamo, eh, i capitoli più scottanti sono vicinissimi!

Grazie tremila (xD) per i commenti allo scorso capitolo! <3

Alla prossima, e BUON NATALE! :D
Ciao!

Shark

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Capitolo 19
*** Primo Approccio ***





19
Primo Approccio



«Sono arrivati, signore», disse in un piccolo inchino il valletto, poco più che un bambino avvolto in una divisa che lo faceva sembrare più grande. «Sono in anticipo.»
L'uomo si lisciò la barba, posò i documenti sul tavolo e sorrise soddisfatto.
Il bambino si raddrizzò come un fuso e proseguì impettito. «Se vi sporgete dalla vostra finestra, signore, li vedrete da voi.»
Il Capo Reggente si erse in tutta la sua stazza e sovrastò il valletto, poi si voltò verso la finestra e vide due enormi animali pelosi. Strizzò gli occhi e riuscì a scorgere tre figure sui loro dorsi, intente a scendere. «Bravo Phil», disse in un sussurro compiaciuto.
«Signore», il valletto si intromise educatamente. «Devo avvisare gli altri Capi?»
«No, lasciali arrivare con i loro tempi... li riceverò io per primo.»
Rimase ad osservare i nuovi arrivati con strana curiosità: non solo il suo consigliere era stato in grado di adempiere al compito, l'aveva fatto in anticipo e addirittura convincendoli ad usare degli animali proibiti e letali pur di arrivare in tempo.
«Sarà molto interessante.»

Phil era agitato.
Lo si vedeva dalla frenesia con cui si muovevano i suoi occhi e dal respiro corto ed accelerato.
L'atteggiamento diffidente e fin troppo in guardia che i due fratelli stavano dimostrando sembrava una dichiarazione di guerra preventiva verso i Capi Reggenti e un buon consigliere, diplomatico fino al midollo, non lo avrebbe mai permesso.
«Perché credete che verrete attaccati?», domandò con una calma ritrovata a fatica da qualche parte della sua mente sconvolta. «Questo è un luogo pacifico, non dovete temere nulla!»
«Hai letto il nostro fascicolo», disse Nehroi. La sua voce era piatta, semplice, seria. «Sai le cose che abbiamo fatto.»
Phil sorrise nervosamente e congiunse le mani. «Non siete stati invitati per un processo...»
«Tutto quello che abbiamo fatto», proseguì il brehkisth come se non lo avesse sentito, «Tutta la nostra vita è stata colpa loro. Sentiremo cosa vogliono dirci, cosa vogliono da noi... ma non possono averci invitato senza sapere che a noi non importa nulla della pace.»
Savannah si portò rapidamente le braccia attorno al petto, scossa da un vistoso tremito. Nehroi mosse un passo verso di lei ma si fermò subito: il sigillo era rotto, l'avrebbe solamente ferita.
La ragazza si voltò ed abbracciò il mal'Kee su cui aveva attraversato mezza Ataklur, trovando in lui e nel suo pelo morbido calore e stabilità.
«Qual è la vostra missione?», domandò l'umano dopo un po', completamente atono, mentre anche l'altro mal'Kee si avvicinava a Savannah.
Nehroi storse il naso. «Devi anche scoprire questo?», domandò portandosi sulla difesa. Che i Capi Reggenti li spiassero da sempre era un conto; che fossero anche al corrente dei loro piani futuri, decisamente un altro. I due fratelli si erano impegnati a portare avanti la missione tanto quanto a tenerla segreta, spesso ricorrendo a metodi estremi. Se avessero scoperto che tutti loro sforzi erano stati vani...
Il consigliere scosse la testa con decisione e Nehroi si sentì sollevato. «Ve ne sento parlare... è solo curiosità. Sono giorni ormai che vivo gomito a gomito con voi e credo di iniziare a capirvi, sapete? Vedo l'attaccamento che vi lega, gli sforzi che fate, le azioni, le sofferenze... incolpate i Capi Reggenti, ma spesso avete fatto delle scelte davvero strane e sbagliate. E tutti quei tesori trafugati, sembra che dobbiate...»
«Rimanere in vita.»
Il biondino rimase perplesso. Alzò lo guardo verso Savannah, faticando a trovarla oltre le sagome enormi dei mal'Kee, ed incontrò un'espressione seria di cui non riuscì a dubitare, non del tutto.
Alzò un sopracciglio. «… davvero?», le domandò scettico. Anche Nehroi sembrava turbato.
La ragazza gli sorrise amareggiata e fece spallucce, come se la sua risposta fosse la cosa più ovvia del mondo. «Per noi è già una sfida enorme, ma se la chiamiamo “missione” diventa ancora più importante. Hai visto anche tu che non è sempre facile portarla a termine, no?»
«Questo però non spiega perché volete attaccare i Capi! Sapete che sono i più potenti jiin delle loro regioni d'origine, no? Per questo ricoprono la loro carica... e per questo mi chiedo come possiate credere di poterli sconfiggere!»
Nehroi sgranò gli occhi e ridacchiò. «Sconfiggere? No, Mayson, no... non hai capito nulla.»
«Ma...»
«E va bene così», tagliò corto Savannah, ancora tremante. I mal'Kee si stavano rannicchiando a terra e la notte era ormai avanzata. Molte stelle splendevano con tutta la forza di cui disponevano sopra le loro teste stanche. «Entriamo, su. Lasciamoli riposare... e io sto morendo di freddo.»
Phil scattò rapidamente e corse di fronte alla jiin, le braccia aperte per sbarrarle il cammino. Gli occhi giallognoli erano così accesi che sembravano ognuno una copia perfetta delle stelle che li sovrastavano e Savannah ne rimase sorpresa. «Che fai?», domandò stupita.
«Non vi lascerò entrare», rispose faticosamente il consigliere, «Non se lui è senza sigillo.»
Nehroi rise, dapprima lievemente, sottovoce, e poi in maniera sempre più fragorosa. «Sembri davvero convinto che ti ascolteremo! Sei il consigliere loro, non nostro!», disse a fatica tra una risata e l'altra. Phil rimase imperturbato.
«Fatti da parte», suggerì Savannah con dolcezza. Non ci fu alcuna reazione. «Spostati», intimò minacciosa.
«No», rispose il consigliere. Strinse le labbra per un attimo e cercò di sostenere lo sguardo contro gli occhi viola della jiin, potenti ed inquietanti; poco dopo, però, abbassò lo sguardo. «Non posso», sussurrò abbattuto.
«Che vuoi dir... oh.»
Il viso di Savannah si illuminò non appena collegò quell'affermazione con quegli occhi troppo gialli. «Loro?», disse solamente.
Phil annuì. «Ti prego...», pigolò.
La jiin sbuffò e si voltò verso Nehroi. Ignorò le sue lamentele e lo trascinò dietro i due mal'Kee accucciati, alti fino ai loro fianchi. Sparirono dalla vista del consigliere per qualche istante, poi Savannah esalò un grido strozzato e si sentì un tonfo attutito dall'erba verde.
Nehroi riemerse dalle montagne pelose con la sorella tra le braccia.
«È svenuta?», domandò Phil preoccupato.
Il brehkisth gli rispose con un grugnito irritato e la adagiò tra i mal'Kee come se fossero due enormi cuscini.
L'umano scosse la testa e sospirò. «Non sarebbe successo se non foste scesi dal cavallo col piede di guerra», commentò.
«Tu ed io non abbiamo poteri magici, ma posso stenderti in un attimo se non chiudi la bocca.»
Nehroi si fece largo tra i due bestioni, si sedette accanto alla sorella e lanciò un'occhiataccia a Phil, incapace di rispondergli per le rime.
«Hai ottenuto tutto ciò che volevi, no?», sputò il brehkisth, velenoso. «Ora io sono sigillato e siamo entrambi qui. Riesci sempre a convincere lei ma con me non attacca.»
Phil non disse nulla. Nehroi indicò il palazzo con stizza.
«Vai a dire al tuo prezioso Capo che siamo arrivati. Ci rivediamo domattina, può smetterla di spiarci.»

Phil varcò le soglie del sontuoso palazzo da solo, lasciando i fratelli al caldo rifugio offerto dai mal'Kee. Le enormi porte di legno pregiato e massiccio, alte quanto due piani di una palazzina inglese, si chiusero alle sue spalle con un forte suono sordo e il salone d'ingresso, bianco per il marmo e rosso per le tende spesse che lo adornavano, lo accolse in tutta la sua freddezza.
«E la tua compagnia?», sentì domandare dalle scale oltre il salone, sulla destra.
Il consigliere si affrettò per raggiungerle prima che chi stava parlando toccasse il pavimento.
«Capo Heim, signore», lo salutò Phil portandosi un pugno al petto e chinando la testa.
«Rilassati, rilassati... ho visto i vostri destrieri», disse l'uomo da sotto la sua folta barba bianca. «Sarai stanco per il viaggio.»
«Molto, signore.»
«I nostri ospiti non vengono?»
Phil sospirò. «Desolato, signore, rimarranno fuori per la notte.»
Heim alzò un sopracciglio e si grattò una tempia, perplesso. «Non sono stanchi e affamati?»
«Sì, ovviamente.»
«E hai detto loro che sono ospiti e che avrebbero un letto e molto cibo?»
«Non credo gli interessi, signore. Anzi, se mi è permesso fare un'ipotesi... credo che non voglia entrare proprio perché sono stanchi.»
«La ragazza?»
«No, lei è svenuta... ma fino ad un attimo prima era disposta a venire dentro. Il fratello ne ha approfittato per decidere da solo e sono rimasti fuori.»
Heim rimase sorpreso per una frazione di secondo, poi annuì soddisfatto. «Quando avrai finito di rimetterti in sesto, vieni nel mio ufficio. Scommetto che hai molte cose da dirmi.»
Il consigliere chinò la testa come sempre facevano tutti coloro che si congedavano dai Capi Reggenti, ossequiosamente. Heim era già a metà della scalinata quando una sensazione di profonda ed inquietante solitudine pervase il petto di Phil, ma il consigliere la ignorò e si rifugiò rapidamente in cucina.
Ci avrebbero pensato gli chef e le cameriere a riempire quello strano buco.

Savannah aprì gli occhi e vide il morbido pelo dei mal'Kee attorno al suo corpo e a quello del fratello. Sorrise e si ricordò di essere a Lagireth, sulle tracce delle famose Stelle Rosse, diamanti in grado di incanalare la magia per usarla al momento opportuno.
Si stiracchiò con calma e svegliò Nehroi punzecchiandolo col piede. «Muoviti pigrone», gli disse, «Le Stelle non si troveranno da sole!»
Nehroi alzò a fatica una palpebra e la guardò interrogativo. «Ma di che parli?», biascicò ancora mezzo addormentato.
Savannah sbuffò e si alzò in piedi cercando di individuare le zampe dei mal'Kee sotto a tutto quel pelo per non calpestarle. La jiin corrugò la fronte e si domandò perché a Lagireth ci fosse così tanta erba e troppo sole ad illuminarla. Poi vide la sagoma del palazzo di Tolakireth e precipitò nella consapevolezza che quello che credeva di vivere era solamente un ricordo.
«Sei buffa», disse una giovane donna alla sua sinistra, tra i mal'Kee assonnati e l'ingresso del palazzo.
Entrambi i fratelli scattarono sull'attenti, ma si accorsero presto che non serviva mettersi in guardia: la donna era minuta e graziosa, come una principessina. Avrà avuto sicuramente più anni dei due fratelli, ma ne dimostrava di meno con quel viso delicato e gli occhi vispi. «Tu invece sei carino», disse rivolta a Nehroi, indicandolo da sotto il pregiato copri-spalle rosa che la avvolgeva.
«Eh?»
«Io sono Deiry, piacere!»
Guardarono la mano bianchissima e delicata come se stesse grondando di veleno.
«Non si usa stringere la mano dalle vostre parti?», domandò Deiry, vagamente confusa.
«Ignorateli, miss Deiry», intervenne Phil spuntando alle sue spalle all'improvviso, con un enorme vassoio stracolmo di cibo tra le mani ed una cartellina sotto braccio. «Quei due non sono altro che selvaggi.»
Nehroi alzò gli occhi al cielo e borbottò qualcosa mentre Savannah regalò un sorriso all'uomo che la stava per salvare dai morsi della fame.
Phil le porse il vassoio elegantemente e si sedette a terra con le gambe incrociate. Indossava una giacca blu che conferiva più umanità e naturalezza al tipico aspetto da damerino, pur indossando sempre la sua cravatta nera.
«Dovrei aver preso cibo sufficiente per cinque persone ma, considerando che in due giorni di viaggio non abbiamo quasi mai mangiato... forse dovrò andare a prenderne altro.»
«Mangi con noi?», domandò Savannah, indecisa sulla divisione di una pagnotta.
«No, io ho già fatto colazione da un pezzo. È tutto solo per voi due, non fate complimenti.»
Nehroi allungò un braccio e, sporgendosi rudemente sulla sorella, afferrò un piattino colmo di formaggio. Ricevette un'occhiataccia da parte della jiin ed una stupita da parte di Deiry ma le ignorò entrambe ed addentò un pezzo di formaggio più grande di quanto la sua bocca potesse contenere.
Briciole di cibo caddero come pietre lanciate lungo il versante di una montagna, inesorabilmente, e si persero nel pelo dei mal'Kee ancora addormentati.
«Comunque sia», esordì Phil quando il vassoio iniziava ad essere vuoto, «Mi è venuto in mente che potreste avere delle difficoltà nel conoscere tante persone in una volta sola.»
Savanah deglutì rumorosamente. «Non ci sono solo i sette Capi?»
«Anche tu dovevi essere da sola», le rispose Phil con voce pacata. «Tutti si fanno accompagnare da qualcuno, familiari o assistenti che siano.»
Deiry uscì dal suo silenzioso osservare i fratelli e i mal'Kee e si rianimò. «Io sono la figlia di Kaloi Goon, Capo di Haffireth», comunicò diligente, «Ho preceduto mio padre perché volevo conoscervi prima di lui!»
La risata divertita e cristallina che seguì la sua affermazione lasciò perplessi tutti i presenti, gettando una manciata di sconforto sulla jiin e sul fratello. «Perché?», domandò lui con diffidenza.
Deiry finse di mettere il broncio. «Siete passati nella nostra regione senza neanche salutare», li rimproverò.
«Eravamo di fretta», tagliò corto Nehroi. Poi si rivolse a Phil con un cenno del mento mentre afferrava un pezzo di pane. «Chi era quello che ci spiava ieri sera, allora?»
Il viso di Savannah si accese di curiosità e voltò rapidamente la testa dal fratello al consigliere e viceversa.
Phil si inumidì le labbra e scosse la testa. «Non vi stava spiando, osservava gli animali.»
«Allora avevo ragione!», disse Savannah allarmata. Nehroi annuì grave e la ragazza si fece seria. «Meno male che ci siamo nascosti...»
«Di che parlate?», domandò Phil senza nascondere la sua irritazione. Poi alzò le mani e scrollò le spalle. «No, non mi importa. In questa cartellina ho raccolto fotografie, didascalie e qualche dato sulle persone che incontrerete. Tutti sapranno chi siete voi, in questo modo potrete non essere svantaggiati e...»
Allungò la cartellina a Savannah ma la mano delicata e svelta di Deiry la prese prima della jiin.
«Ehi!»
La donna estrasse alcuni documenti e li osservò con molta cura, annuendo di tanto in tanto. «Oh, Decra ha solo tre figli?», commentò incuriosita, «Non l'avrei mai detto, è sempre incinta...»
Phil si alzò in piedi e tese una mano per riprendersi la cartellina ma Deiry non la considerò minimamente. «Dov'è quella stronza...», diceva tra sé e sé mentre scorreva rapidamente i fogli e li disordinava.
«Ridatemela, non sono informazioni per Voi!», cercò di imporsi il consigliere. Deiry non si impressionò e continuò la sua ricerca. Phil le si avvicinò e provò a sfilarle la cartella dalle mani ma la donna si divincolò e spostò un po' più in là. Pochi istanti dopo, un'inevitabile guerra per contendersi i documenti arrivò puntuale e ai due fratelli venne offerto lo spettacolo di un consigliere che rincorreva una donna che continuava a cercare ciò che le interessava mentre scappava come una bambina.
«Miss Deiry, fermatevi! Vi prego...»
Savannah finì di degustare con calma la frutta, ultima cosa rimasta sul vassoio, prima di sfilare con la magia i documenti alla donna, facendoli fluttuare a quasi un metro al di sopra della sua testa. Fu un'impresa più difficile del previsto: Deiry usò a sua volta la magia per tentare di riprendere il maltolto, mettendo alla prova la resistenza della jiin viola. Savannah corrugò la fronte ed escogitò un metodo per tenere lontani gli artigli trasparenti che si dimenavano verso la cartellina con la furia di una frustata. Phil smise di correre e si fermò a riprendere fiato, poi lanciò un sorriso alla jiin e la ringraziò mentre lei finiva di architettare la cassa di protezione per placare una volta per tutte i tentativi di Deiry.
I documenti atterrarono dolcemente fra le braccia della jiin e finalmente anche lei e Nehroi poterono vederli.
«Ho messo per primi i Capi Reggenti», disse Phil mentre tornava ansimante verso di loro. Scoccò un'occhiataccia a Deiry, ma venne ignorato. Proseguì. «In fondo sono coloro che conoscerete meglio. Seguono alcuni consiglieri e familiari, i più importanti, e tutti quelli che solitamente non mancano mai alle riunioni e alle feste. A proposito, ce ne sarà una dopo la riunione.»
«Una festa?»
«Sapete cos'è?»
Il foglio che Savannah stringeva tra le dita si stropicciò.
«Scusa», disse Phil, «Non intendevo che...»
«Chi è la stronza che volevi vedere, Deiry?», domandò Nehroi con voce annoiata.
La donna fece un ghigno e si sistemò lo scialle. «La principessa, ovviamente», sibilò con malizia.
I due fratelli rimasero immobili, come statue di sale. Deiry ne rimase stupita.
«Non la conoscete? Mai sentito parlare di lei?»
«Lei... chi?»
«La principessa!»
«Lo è sul serio?»
«Certo che no! … però lei vuole quel titolo e ha l'appoggio di molta gente.»
«Ma ad Ataklur non c'è nessun trono.»
Deiry sorrise. «Spiegaglielo tu, magari è la volta buona che lo capisce.»
Un mal'Kee si scrollò la pelliccia e si alzò sulle quattro enormi zampe all'improvviso, come se fosse stato svegliato da un suono orribile. Si guardò attorno spaesato, poi riconobbe Savannah e Nehroi e fece uno dei suoi versi strani, quello di gioia. Vide anche Phil e scodinzolò: era il mal'Kee su cui aveva viaggiato il consigliere.
Quando vide Deiry, però, l'atmosfera cambiò completamente e il ringhio basso dell'animale svegliò anche il suo simile. Entrambi si misero sull'attenti e mostrarono i lunghi canini alla donna, stampandole un'espressione terrorizzata sul viso.
I fratelli non fecero in tempo ad aprire la bocca per cercare di calmare gli animali che una ventina di guardie, completamente bardate nelle loro divise marroni tra armatura ed elmo, fuoriuscirono dal palazzo e corsero nella loro direzione. Ognuna aveva in mano un'arma ben conosciuta dai due: il Vaìn, un bastone liscio lungo quando un avambraccio che, sulla sommità, esibiva una pietra azzurra, luminosa ed acuminata: una Stella, in grado di digerire la magia altrui.
«Proteggete la signorina Goon, muovetevi!», urlava quello che sembrava essere il comandante. «Circondate le belve!»
Savannah immaginò una barriera a forma di bolla che separasse lei, il fratello e i mal'Kee da Deiry, Phil e dai soldati e la eresse prima che gli uomini in uniforme potessero sferrare anche un solo attacco agli animali.
«Non opponete resistenza», intimò il comandante. Tutte le guardie erano in posizione d'attacco con i Vaìn rivolti verso la barriera, pronti a mangiare la magia di cui era costituita.
«Non toccherete i mal'Kee», replicò Nehroi con la stessa fermezza.
«Abbiamo il compito di proteggere i civili e quegli animali sono i più pericolosi che esistano!»
Savannah allargò la barriera e i soldati furono costretti ad indietreggiare.
«Non opponete resistenza», ripeté il comandante, «O sarò costretto a comandare un attacco.»
Era una barriera molto ampia e grande, semisferica e robusta. Ognuno dei mal'Kee era alto almeno mezzo metro più dei due ragazzi e lungo più di uno stallone in forma; con la testa abbassata all'altezza degli uomini che stavano per azzannare sembravano più bassi, ma Savannah aveva creato la bolla per ogni evenienza.
«Quelle bestie non possono restare qui», proseguì il comandante, un uomo sulla quarantina con i capelli radi che sbucavano a mala pena sulla nuca da sotto l'elmo, «A meno che non siano prive di vita. In quel caso sarebbero un dono che i Capi Reggenti accetterebbero con gioia.»
Tra i soldati della guardia non esitò a levarsi qualche risatina divertita e la cosa fece infuriare i mal'Kee più della loro stessa presenza.
Lo sguardo dei due fratelli si accese con lo stesso impeto degli animali che proteggevano. Stavano per mostrare anche loro i canini e zittire le guardie una volta per tutte quando la mano di Phil toccò la barriera e li distrasse.
«Non fate stupidaggini», suggerì. La sua voce era ovattata e distante, filtrata dalla barriera come se fosse un vetro spesso. «Pensate bene a ciò che state per fare.»
Savannah lo fissò come se stesse scrutando un paesaggio lontano cercando di scorgere qualcosa sull'orizzonte. Poi sorrise e Phil si sentì male.
Una seconda bolla comparve alle spalle delle guardie e circondò ogni soldato, fino a richiudersi come mezza ciambella oltre la barriera che conteneva i mal'Kee, i due fratelli e Phil, appena inglobato; poi la prima bolla scoppiò, il suono costrinse tutti a tapparsi le orecchie tra mille smorfie e, quando riaprirono gli occhi, gli unici rinchiusi erano proprio e solamente i soldati. Con Deiry.
I mal'Kee ulularono allegri e Savannah rise fragorosamente mentre Nehroi incrociava le braccia soddisfatto. «Ecco, ora va meglio!»
Deiry stava urlando qualcosa, ma nessuno al di fuori della bolla riuscì a sentirla. Il comandante si fece largo tra i soldati e picchiò i pugni contro la barriera, ottenendo lo stesso effetto che avrebbe avuto con un muro. «Questo è un affronto!», urlava fuori di sé, «Noi rappresentiamo la giustizia e la sicurezza ad Ataklur, resisterci è contro la legge!»
Savannah alzò un sopracciglio e sorrise ancora di più. «Ops», disse innocentemente.
«Rompiamo la barriera!», urlò il comandante. Tutte le guardie attivarono i Vaìn e le pietre sui loro bastoni si illuminarono come tante lucciole azzurre non appena iniziarono a colpire la parete magica che li rinchiudeva. Savannah percepiva quell'attacco come una serie di pizzicotti e pugnetti sul corpo, vittima del contatto magico che la univa alle sue creazioni, ma fu la prima a stupirsi quando vide che una ventina di Vaìn non riuscivano a rubare abbastanza magia per disintegrare la sua enorme barriera. In qualche punto riuscivano ad aprire un varco, quando univano tanti Vaìn e combinavano un attacco, ma la jiin riusciva ogni volta a spostare quella breccia sulla cupola, così che non potessero sfruttarla; e mentre provavano ad aprirne una nuova, quella in cima si ricomponeva e veniva sostituita dalla nuova breccia, in un ciclo continuo.
«Qualche problema?», li provocò con meno esuberanza di quanto avesse sperato. Quella lotta era più stancante del previsto, ma la divertiva come una sfida.
Nehroi si chinò a raccogliere la cartellina e la sventolò di fronte al comandante e a Deiry con aria soddisfatta. «Ora, se non vi dispiace... dobbiamo studiare.»
Alle sue spalle, Phil si passò le mani tra i capelli con gli occhi fuori dalle orbite. Sì, era ufficiale: quei due l'avrebbero fatto impazzire. E presto, anche.

Kaloi Goon arrivò al palazzo di Tolakireth solo nel primo pomeriggio, sbarcando da un maestoso carro fluttuante color grano. Era una vettura che Savannah aveva visto spesso, ma non era mai riuscita a salirci sopra perché riservata alle alte cariche: simile ad un palloncino, era di forma mista tra un ovale, sul retro, ed una sfera, sul davanti, dove c'era un'enorme finestra scura che fungeva da parabrezza e mappa interattiva. Ai lati aveva due ali molto piccole che servivano solamente per impedire che il carro si capottasse quando non animato dalla magia e sul tetto c'era un'altissima cresta, simile ad un vessillo alzato che non sembrava avere alcuna utilità.
Ogni carro era dotato di riserve magiche immagazzinate tramite Stelle più o meno grandi, caricate di magia indipendente da speciali addetti, e si spostava sulla base degli ordini del passeggero, comodamente seduto all'interno, senza usare neanche una briciola delle sue energie.
Quando il Capo di Haffireth mise piede sulla piccola prateria che circondava il palazzo, Savannah lo stava osservando dalla sua comoda posizione in groppa ad uno dei due mal'Kee. Appena finito un giro di perlustrazione nella piccolissima regione e stava tornando da Nehroi, immerso nella lettura dei documenti che Phil gli aveva passato.
Avevano chiarito il malinteso con i soldati qualche ora prima e aveva sciolto la barriera che li rinchiudeva a patto che non avessero toccato i mal'Kee, e così era stato.
«Nella foto era più giovane», commentò il brehkisth quando vide che Goon stava camminando ad ampie falcate nella loro direzione. Sollevò l'immagine per un confronto diretto ed inclinò la testa. «E più magro.»
Goon era un uomo piccolo, di bassa statura, decisamente pienotto. Sul suo ventre gonfio spiccava un orologio da taschino molto pregiato e la catenina che lo fissava al gilet ondeggiava ipnotica ad ogni passo. I capelli erano brizzolati e non aveva molte rughe ad intaccare il viso roseo.
«Buon giorno, cari», li salutò cortesemente tendendo loro la mano.
«È inutile, padre, non la stringeranno», commentò Deiry con voce divertita. «Non sanno come si fa.»
Il Capo Reggente scoccò un'occhiataccia alla figlia e la sua espressione pacata si trasformò radicalmente. «Perché sei seduta lì a terra?», domandò in un tono che a Savannah fece subito venire in mente una ramanzina.
Deiry sbuffò, mise il broncio e, per tutta risposta, si alzò in piedi dandogli le spalle. Camminò verso il palazzo pestando i piedi e manifestando in ogni maniera che era stata offesa.
Goon sospirò e provò a tendere di nuovo la mano verso i ragazzi. «Piacere di conoscervi, io sono...»
«Kaloi Goon, jiin appena blu, Capo della ridente Haffireth. Ah sì, padre di quella svitata di Deiry e marito di una defunta Jilion», lo precedette Nehroi leggendo dal documento corrispondente. «Dimentico qualcosa?»
Il Capo strinse le labbra e sembrò essere molto seccato dalla piega che una normale e semplice presentazione aveva preso. «Sì», sputò nervoso, «Che sono l'uomo che vi interesserà di più.»
Savannah scese dal mal'Kee e si avvicinò incuriosita. «Ci dirà cosa vogliono i Capi Reggenti da due delinquenti come noi?», domandò.
Goon sorrise. «Esattamente. Entriamo?»


*-*-*-*



Bon, quante cose che sono successe in questo capitolo! Sarà difficile o no per i nostri eroi entrare a far parte di questo nuovo mondo politico e decisamente fuori dai loro schemi? Che ne pensate di Deiry? E di Goon? Nel prossimo capitolo scopriremo moooolte cose! ^^

Grazie mille ai miei sostenitori, pochi ma buonissimi!
Alla prossima! E BUON ANNO!! <3

Ciao!
Shark

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Capitolo 20
*** Rivelazioni ***





20
Rivelazioni



All'interno, il palazzo di Tolakireth regalava emozioni contrastanti ai propri visitatori. Sembrava costruito unendo due parti differenti che si alternavano in continuazione: talvolta era spoglio, freddo e solitario, talvolta accogliente, arredato e lussuoso.
I corridoi di ogni piano erano ampi, freschi e luminosi, pieni di superfici lisce e libere su cui il sole poteva dipingere di giallo ogni centimetro che desiderava, senza intralci. Pesanti tendoni affiancavano ogni finestra, unici addobbi in mezzo a tutto quel marmo bianco, colorando l'ambiente con cenni di rosso, verde, blu o qualsiasi tonalità possedessero, diversa ad ogni piano.
Le finestre non portavano ad alcun balcone ma, davanti ai loro davanzali, si stendeva libera ed immensa l'intera Ataklur: uno spettacolo in grado di mozzare il fiato di chiunque, anche del più insensibile tra tutti.
La sala in cui Goon condusse i due fratelli era posta al primo piano e si raggiungeva dopo aver oltrepassato un ingresso addobbato con enormi tendoni rossi, una scalinata spoglia ed inquietante con gradini bassi e larghi seguita da un corridoio lunghissimo e freddo; il sole baciava qualche altra ala del palazzo, lasciando quella zona abbandonata dalla luce.
Oltre la porta di legno nero si celava un tavolo rotondo ed immenso che Nehroi immaginò di poter attraversare diametralmente con ben quattro passi. Attorno al tavolo c'erano tante poltroncine rosse pregiate con un telaio robusto ed argenteo. Le pareti erano tempestate di quadri di ogni dimensione, fattura e soggetto, tutti così vicini tra loro che sembrava fossero stati stipati a forza, come se non ci fosse altro spazio per appenderli.
I fratelli osservarono con gli occhi sgranati tutto quello sfarzo e i meravigliosi paesaggi raffigurati nelle tele e rimasero così incantati che si accorsero molti minuti più tardi che il Capo di Haffireth e Phil avevano preso posto e li stavano aspettando educatamente in silenzio.
Con viso rosso per l'imbarazzo, Savannah e Nehroi si fiondarono su due poltroncine, molto vicini tra loro e molto distanti dagli altri presenti.
«Cari», li chiamò Goon con la sua voce tranquilla e confortante. «Venite più vicini, non vi succederà nulla.»
I ragazzi rimasero piuttosto immobili, come se stessero immaginando cosa potesse effettivamente accadere.
«Non amo urlare», proseguì il Capo Reggente con il tono di colui che non vuole tornare più sull'argomento. Indicò a Savannah la poltroncina accanto alla sua e a Nehroi quella subito adiacente. I ragazzi presero posto dove indicato con non poca esitazione.
«Voglio essere chiaro e veloce con voi, cari», disse rapidamente Goon a voce bassa, come se temesse di essere spiato. «Ci sono molte cose che dovete sapere prima che tutto cominci e...»
«Perché ce le dice?», si intromise la jiin.
Il Capo sorrise e fece spallucce. «È tanto strano che qualcuno voglia aiutarvi?», domandò candidamente. Un istante dopo si accorse quanto infelice e fuori luogo fosse stata quell'affermazione e scosse la testa mortificato. «Ad ogni modo, ci sono molte cose che dovete...»
«Sapere, sì, l'ha già detto», tagliò corto Nehroi. «Ma prima ancora la cosa che dovete sapere voi è questa: non siamo interessati.»
«Certamente, ma non è ciò che dobbiamo discutere ora.»
«Noi non accetteremo nulla da voi», lo interruppe ancora il brehkisth, ruvido. «Siamo qui solo per curiosità e non...»
«Puoi», la voce di Goon sovrastò quella del ragazzo e la cosa stupì tutti i presenti. «Puoi stare zitto? Per qualche minuto?»
Nehroi si ritrovò addosso tre paia di occhi perplessi e chiuse la bocca rapidamente, come un bimbo sgridato. Il consigliere e il Capo Reggente, però, non fecero in tempo a tirare un sospiro di sollievo che la pace si spezzò e il ragazzo tornò all'attacco, più infervorato di prima.
«Voi, con le vostre preziose leggi e gli incantevoli costumi, non avete mai fatto altro che desiderare la nostra morte», sibilò Nehroi con uno sguardo tagliente come rasoi. «Perché adesso vorreste la nostra presenza qui?»
Le parole uscirono così in fretta e bene allineate dalle sue labbra che tutti ebbero la sensazione che le avesse rimuginate molto a lungo fino ad arrivare ad impararle a memoria. Il tono con cui le aveva pronunciate, inoltre, era fin troppo concitato ed emozionato per poter sembrare una domanda normale e nata sul momento. Anche Savannah era sorpresa e lo fissava con un misto di ammirazione e curiosità negli occhi. Goon notò il modo in cui era stata posta la domanda e non poté che sentirsi a disagio per l'ansia che stava regnando su quello che doveva essere un colloquio tranquillo. «Oh caro ragazzo, non farla tanto tragica...», lamentò sofferente.
«I lupi invitano gli agnelli a casa propria solo per un motivo», commentò Savannah, improvvisamente risvegliata dalla sua quiete. «Ci crede tanto stupidi da non poterci pensare?»
«Fino a prova contraria, gli unici lupi che ci sono nei paraggi sono quelli che avete portato voi», replicò prontamente il Capo.
«Sono mal'Kee, non lupi.»
Goon alzò una mano e scacciò quella precisazione come una mosca fastidiosa. «Le nostre intenzioni sono buone, vogliamo solamente che anche voi entriate a far parte del...»
«Annah», esclamò Nehroi sovrastando quella voce supplichevole, «Siamo stati scortesi: toglimi il sigillo, non ho ancora stretto la mano al nostro caro Goon...»
Gli occhietti del Capo Reggente si spalancarono terrorizzati non appena la jiin avvicinò una mano verso il brehkisth e il corpo grassoccio stretto nel gilet si agitò in un fremito improvviso ancor prima che il tatuaggio rosso scivolasse via dal petto del brehkisth. «No, per carità!», esclamò stridulo mentre si arrampicava sulla sedia per evitare il contatto col ragazzo, «Vi spiegherò tutto, non perdiamo la calma!»
I due fratelli si guardarono soddisfatti e Phil desiderò morire.

«Avete presente le statistiche riguardanti gli orfani?», iniziò titubante il Capo Reggente, guardandosi nervosamente attorno. Udì un fruscio oltre la porta e la cosa sembrò agitarlo maggiormente. «Dovete sapere che mi mettete davvero in imbarazzo, una situazione simile non è...»
«Statistiche, sì», Savannah riprese le redini del discorso e iniziò a fingersi spazientita per velocizzare la confessione.
Il Capo si bloccò per un istante, irritato per aver visto la sua frase troncata ancora una volta a metà in quel modo irriverente. Incrociò le dita sul panciotto e ritrovò in parte la tranquillità. «Nell'altro mondo ci sono milioni e milioni di orfani, ma loro sono sei miliardi o forse più e non è una cosa paragonabile con la nostra situazione... Ad ogni modo, le cause di scomparsa prematura dei genitori tra gli umani sono minori: loro hanno certamente incidenti meccanici, malattie e omicidi, ma da noi ci sono quelle stesse e altre cause, quali gli incidenti magici, le maledizioni e la carestia in alcune regioni, non sono cose da poco. Senza contare le guerre che scoppiano in continuazione per inezie, i jiin sono davvero delle teste calde.»
«Non si perda...»
«Come, cara? Ah sì. La percentuale di orfani in tutta Ataklur è del 37%.»
Nehroi si lasciò sfuggire un suono gutturale, Savannah abbassò lo sguardo sul tavolo e Phil si sentì in colpa per le loro reazioni sorprese, lui che era a conoscenza di quei dati già da tempo.
«Questa è una media... e i dati sono vecchi», disse dopo un po' come per scusarsi, trovando finalmente la voce.
Il Capo Reggente annuì desolato. «In alcune regioni ci sono picchi maggiori, come nella vostra natale Feinreth, purtroppo.»
«Lì la percentuale sarà della metà», sbuffò Nehroi.
«57%, dolente. Ma non sono questi i numeri più importanti.»
La jiin rialzò gli occhi sul Capo Reggente, tremendamente curiosa e spaventata allo stesso tempo.
«Solo il 14% di tutti questi orfani in tutta Ataklur supera gli otto anni di vita ed appena il 2% arriva all'adolescenza.»
I due fratelli sbiancarono.
Passarono parecchi secondi di tetro silenzio prima che l'aria tornasse nei loro polmoni e abbastanza sangue affluisse al cervello. «È una mortalità... assurda! È allucinante!», esclamò sconvolta Savannah. Il Capo Reggente sospirò amareggiato e le fece cenno di sedersi sulla sedia. La jiin si accorse solo in quel momento di essersi alzata in piedi.
«Il vostro sistema è malato», aggiunse infine, solo per avere l'ultima parola.
«... c'è dell'altro?», domandò spazientito il brehkisth. Aveva improvvisamente voglia di andarsene il più lontano possibile o di spaccare la faccia a tutti i Capi, anche se non li aveva ancora mai visti di persona.
Goon annuì grave con occhi bassi. «Prima di voi, nessun orfano è mai arrivato a vivere tanto. Ci sono stati altri ragazzi che si sono affacciati ai vent'anni, certo, ma state segnando un nuovo record.»
La jiin si sentì pervadere da diversi stati d'animo in sequenza: sorpresa, dolore, frustrazione, odio, rabbia. Non appena finirono di susseguirsi, non riuscì più a trattenersi e si alzò di nuovo in piedi, con tanta violenza da far cadere la pesante poltrona rossa. Si avvicinò al Capo Reggente tendendo le mani minacciosamente verso di lui, ignorando le guardie e Phil che stavano intervenendo per proteggerlo.
«Queste statistiche sono perverse!», urlò fuori di sé mentre respingeva una guardia schiantandola dall'altra parte del salotto prima che potesse puntare il suo Vaìn. «Tutto il vostro sistema è perverso! Neanche la metà di quei bambini sarebbero morti se non aveste istigato voi tutti quanti perché succedesse!»
Si liberò di altre due guardie e spintonò Phil. Da dove erano comparsi gli uomini in uniforme? Non aveva importanza: nessuno l'avrebbe fermata, sentiva i muscoli forti come mai prima di allora, come se non le servisse più la magia per vendicarsi e distruggere.
Con la coda dell'occhio vide Nehroi avvicinarsi verso di lei e trovò altra forza pensando all'aiuto che stava per ricevere. Levarsi di dosso tutti quei soldatini e i loro rinforzi che si prodigavano tanto per proteggere un assassino compiaciuto sarebbe stato più facile con il suo fratellone affianco.
«È solamente colpa vostra, vostra! E avete anche il coraggio di chiamare noi fuorilegge e assassini?!», sbraitò ancora.
Nehroi la afferrò per un braccio e la allontanò a fatica dal Capo Reggente, paonazzo dalla paura e protetto da una quindicina di barriere che aveva iniziato ad innalzare da quando Savannah si era alzata e che lei non aveva minimamente considerato. «Che stai facendo», gli gridò contro, «Che stai facendo!»
Il brehkisth le prese il viso tra le mani e cercò di attirare la sua completa attenzione per calmarla.
«Guardami», disse con voce ferma. «Guardami!»
Ci volle qualche secondo perché le iridi viola si posassero su quelle verdi e il viso smettesse di cercare di sfuggire alla presa ferrea. Savannah si ritrovò improvvisamente svuotata di ogni furia e il suo corpo iniziò a rilassarsi. Il respiro, però, rimaneva affannato ed ansioso.
«Non è con lui che dobbiamo prendercela», le disse il fratello.
«Non si lascia nulla in sospeso», mugugnò lei come in trance. «Non dimentichiamo...»
«E non ci abbandoniamo.»
«Restituiamo... i favori», insistette lei recitando anche la loro ultima regola.
«Ma non ci abbandoniamo. Mai.»
Savannah perse anche l'ultimo briciolo di combattività e solo in quell'istante si accorse che loro due erano completamente circondati da uno o più squadroni di guardie in uniformi marroni, costellati di luci azzurre come se fossero loro il cielo e i Vaìn le costellazioni.
«Ricorda la missione», le disse Nehroi. Lei annuì e la questione si risolse.
La jiin guardò verso il Capo Reggente e notò che le barriere che lo avvolgevano erano circa una ventina, più spesse di una parete in pietra. «Mi dispiace», disse pacata, mostrando completamente un'altra ragazza rispetto alla furia distruttiva di poco prima. Si morse la lingua e lasciò che lo sguardo vagasse frenetico in giro senza riuscire a trovare un centimetro su cui posarlo. «Temo di non aver ancora imparato a gestire le emozioni con così tanta energia in corpo, se può... perdonarmi...»
Si rese conto che non era mai stata brava con le parole e che probabilmente non lo sarebbe diventata in quell'istante, così pensò che chinare la testa potesse essere un buon modo per dimostrare meglio ciò che non era riuscita a dire. Dare la colpa al suo nuovo status di jiin viola era la cosa più banale e stupida che potesse venirle in mente per giustificarsi, ma parte di lei credeva che potesse essere persino vera.
Stava iniziando il movimento dell'inchino quando il Capo Reggente batté le mani e le fece rialzare la testa di scatto, con gli occhi sgranati.
«Credi che ci sarebbe stato un simile spiegamento di forze nei paraggi se non l'avessi previsto?», disse con semplicità. «Certo, dopo la bravata con i mal'Kee di stamattina sono tutti sospettosi... mia cara, fai un po' di sano allenamento magico in futuro e non pensiamoci più.»
Entrambi i fratelli, ma anche Phil e tutti i soldati, rimasero a bocca aperta. Si guardarono tra loro stupefatti e fu solo la voce soave del Reggente a farli smettere.
«Tuttavia», proseguì mentre faceva cenno alle guardie di uscire dalla stanza, «Tuttavia non era mia intenzione disquisire solamente su percentuali tanto tristi. Vogliate sedervi di nuovo, miei cari, non ho finito. Ecco, ora possiamo ricomin... sì, Savannah, puoi sederti di nuovo qui accanto a me.»
La jiin cancellò la sua titubanza e si schiodò dall'angolino in cui Nehroi l'aveva spinta. Sollevò la poltrona rossa e la rimise al suo posto, poi vi si sedette e il Capo Reggente proseguì il suo discorso con un sorriso compiaciuto.
«Ho detto che solamente voi siete vissuti tanto a lungo», disse con molta calma, osservando attentamente le reazioni dei suoi ospiti. Riprese dopo una piccola pausa. «E non credo proprio sia un caso se avete raggiunto un simile potere e controllo della magia. La vostra impresa a Bastreth ha fatto il giro di tutte le valli, cari ragazzi, ma alle mie orecchie erano giunte notizie da molto, molto prima.»
«Qual è il punto, signore?», domandò Nehroi, mordendosi la lingua subito dopo. «Se non le dispiace...»
Il perdono era una cosa che aveva sempre lasciato perplessi i due fratelli. Un po' perché non avevano avuto molte occasioni di riceverne e un po' perché non erano mai riusciti a provarlo seriamente, per loro aveva assunto un significato mistico e abbastanza divino; di fronte ad esso, venivano spazzati via molti dei loro tratti principali e si sentivano un po' più piccoli, nudi e stupidi.
«Il punto è che tutti i Capi Reggenti - sì mia cara, proprio tutti – hanno capito che siete molto più utili da vivi che da morti. Voi due... voi due siete il rinnovamento di questo mondo vecchio e un po' logoro. Quelle percentuali non saranno altro che un ricordo, si procederà al reinserimento degli orfani e tutti i jiin, chiunque essi siano, avranno le stesse possibilità di scolarizzazione ed integrazione nella società», disse trionfante. «Dovreste essere orgogliosi di voi, ragazzi: avete scosso l'intera Ataklur.»
Quelle parole entrarono nelle loro orecchie come una cannonata, ma impiegarono molto tempo prima di arrivare al cervello.
I ragazzi si sentirono vacillare e si voltarono l'una verso l'altro con strana lentezza, impauriti e spaesati come pochissime volte prima di allora. Phil corrugò la fronte e si domandò perché avessero una simile reazione, anormale considerando il contenuto del discorso di Goon. «Avete capito?», domandò loro come un maestro stupito. «Il sistema degli orfanotrofi verrà modificato definitivamente, non ci saranno più quelle tragedie e l'odio e...»
«Abbiamo...», sussurrò Savannah come in trance. «Sì, abbiamo capito.»
I fratelli continuavano a fissarsi tra loro come se si fossero scoperti a vicenda per la prima volta.
Phil si portò due dita alle tempie e sospirò. «E non siete contenti?»
Si domandò tra sé e sé perché quei due non avessero mai una reazione normale e si comportassero sempre all'opposto di come ci si potrebbe aspettare.
Nehroi annuì e tirò le labbra in un sorriso stretto. «Certo, è quello che abbiamo sempre sognato, giusto Annah?»
La jiin annuì e sorrise a sua volta con titubanza. «Credo di sì.»
Stavano per lasciare la sala con l'enorme tavolo quando Goon si sentì tirato per un braccio. Si voltò e vide la fronte corrugata di Savannah. «Perché ce ne ha parlato in privato?», gli domandò.
Il Capo annuì: si aspettava quella domanda.
«Volevo solamente che lo sapeste nella giusta maniera», rispose, «Non tutti i Capi sono contenti di quest'iniziativa.»
La jiin sollevò un sopracciglio. «Prima ha detto che tutti erano d'accordo...»
«Sul fatto che siate più utili da vivi che da morti, ovviamente. Non siete gli unici orfani che ci hanno colpito, sai? Sicuramente i più longevi...», precisò Goon a bassissima voce. Si guardò attorno con sospetto poi le fece cenno di chinarsi alla sua altezza. «Non impazzire ancora», premise con le labbra ad un centimetro dal suo orecchio. «Io non ero ancora Capo quando la legge venne istituita, è una cosa vecchissima, ma... la politica che è sempre stata seguita era quella di rafforzare i piccoli futuri jiin... per averne di grandi e forti un giorno.»
Savannah si sentì svenire. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma nessun fiato venne in suo soccorso. «Era solo un gioco di sopravvivenza?», esalò dopo molti secondi agghiaccianti.
Nehroi era già uscito dalla sala con Phil e gli occhi viola lo cercarono disperatamente come se avessero bisogno di vederlo per rimanere aperti e svegli. Poteva essere tutto un incubo?
Il Capo Reggente si allontanò di qualche centimetro ed osservò la ragazza come se avesse appena detto una stupidaggine. «Tutta Ataklur si basa sulla legge del più forte», la informò con un tono che sottolineava l'ovvietà della frase, «Come credi che si eleggano i Capi?»
«Ma... i bambini... avete fatto un... un test sugli orfani?»
«Non è una scelta felice, lo capisco benissimo», ammise.
Savannah si portò le mani tra i capelli e cercò di tranquillizzarsi stringendo le ciocche nere con forza. «È assurdo!», disse, «Assurdo ed autolesionista! Questi... questi jiin “grandi e forti” vi odieranno come facciamo noi! Useranno il loro potere per distruggervi, perché...»
Goon alzò entrambe le mani con tranquillità. «Saranno grati per il potere che li abbiamo aiutati ad ottenere. Ed è quello che cercheremo di far capire anche a voi in questi giorni. Adesso però tutto cambierà. Hai la mia parola, è una svolta già messa in moto.»
La ragazza si sentì svenire e le venne la nausea in un solo istante. Mentre pensava che avrebbe rigettato di lì a poco la colazione, tingendo di un orribile beige quel marmo immacolato, Goon la prese per un braccio e la fece avvicinare agli innumerevoli dipinti sulle pareti.
«Cosa vedi?», le domandò con gentilezza, come se non avessero passato mezz'ora a parlare di morti e di bambini abbandonati e sacrificati.
Savannah si sforzò di recuperare lucidità e deglutì rumorosamente. Alzò controvoglia lo sguardo sulle tele che quasi si sovrapponevano di fronte a lei e si ritrovò senza parole.
Ogni dipinto era unico e ricco di colori, vitalità, dettagli e un'altra infinità di cose che non era riuscita a notare dalla poltroncina rossa su cui sedeva prima. «Sono bellissimi», disse in un soffio, pronunciando l'unica cosa che riuscisse a pensare.
«I ritratti», spiegò Goon con prontezza ma senza un atteggiamento da guida del museo, «Sono i Capi Reggenti del passato. Incastonati tra vari scorci delle loro regioni e città, vedi?»
Le indicò un paesaggio tetro e sinistro, prevalentemente nero; al centro della tela, in lontananza, si scorgevano zolle enormi di terra simili a piccoli triangoli; alcuni erano appoggiati al terreno tramite il loro vertice, altri fluttuavano, ma tutti erano avvolti da una strana cortina violacea e sinistra.
«Kyureth», disse la jiin, associando a quella visione tutte le voci che aveva sentito su una delle due regioni di Ataklur che non aveva ancora mai visitato.
«Brava. Scommetto che riconoscerai meglio questo, però.»
Si spostò di qualche passo verso destra, dove i panorami dipinti erano più dorati, arancioni e caldi. Savannah si sorprese a sorridere. «Sono molto realistici», commentò.
Il deserto di Feinreth sembrava vero, come se fosse stato dipinto con la sabbia, con il sole e con i suoi occhi di bambina.
«Riconosci qualcuno dei Capi passati?»
La jiin scosse la testa ancor prima di guardare alcun ritratto. «Non mi sono mai importati», sibilò.
Diede le spalle al Capo Reggente e a tutti i suoi predecessori con uno scatto secco, marciò rapidamente verso la porta ed afferrò la maniglia della porta di legno nero.
La voce lontana di Goon la fece rallentare sull'uscio. «È un peccato», diceva.
Savannah fu tentata di continuare ad andarsene, ma parte di lei voleva sapere cosa avrebbe detto quell'uomo panciuto ed irritante. Passò delicatamente due dita sulle venature del legno nell'attesa del resto della frase.
«Nessuno sa mai dove andare se non sa da dove viene. Le radici sono importanti.»
«La mia unica radice è Nehroi», replicò prontamente.
Goon non disse più nulla e Savannah scomparve nel lungo corridoio spoglio.


*-*-*-*



Credo che sia il capitolo più lineare, senza salti e "pulito" che abbia fatto fin ora. Mi sono accorta che ogni tanto (sempre) interrompo la narrazione di un pg per spostare l'azione altrove e poi tornare dall'altro, ma stavolta dovevo spiegare *finalmente* (o almeno iniziare a farlo) la questione orfani che è rimasta un po' in sospeso dai primi capitoli! ^^
Happy?
Ma non è stato un capitolo solo di spiegazioni, ho gettato le basi di altre "rivelazioni" che però troveremo solo in futuro... beh, spero vi sia piaciuto il capitoletto! L'ho scritto quando stavo scrivendo ancora le vicende della grotta, all'improvviso mi era venuta in mente 'sta scena e l'ho scritta in fondo al file! Attualmente ho già altri 5 mezzi capitoli buttati giù a caso... sono fatta così! (anzi, ora che ci ripenso... stanotte ne avevo sognato un altro! o.o e l'ho scordato! D:)
Comunque sia, spero che i botti di Capodanno non vi abbiano spaventati o ferito troppo, perché vedo un inizio 2013 piuttosto magrino dal pov della fic xD

Alla prossima, muchas gracias (?) a chi legge, segue, recensisce o mette tra i preferiti e basta! (una parolina no, eh? ^^)

Ciao!
Shark

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Capitolo 21
*** Un Tavolo per Nove ***





21
Un Tavolo per Nove



I Capi Reggenti che non erano già nel palazzo arrivarono ad intervalli irregolari, ognuno sul proprio carro fluttuante ed accompagnato da una o più persone. Ogni volta che un veicolo fermava la sua velocissima corsa nella pianura smeraldina di Tolakireth, una decina di guardie si avvicinava e scortava i passeggeri nel palazzo attraverso un percorso sicuro, lontano dai mal'Kee.
I due animali erano rimasti dove Savannah e Nehroi avevano detto loro di rimanere, accucciati come cuccioli obbedienti alti due metri che occupavano tanto quanto un carro. Osservavano il via vai di gente e i loro ringhi facevano sobbalzare ora alcune guardie, ora i Capi sorpresi della loro presenza.
«Dovreste farli andare via», suggerì Phil lanciando l'argomento tra loro come un nemico che prima o poi avrebbero dovuto fronteggiare.
Lui, Nehroi e Savannah erano appoggiati al davanzale di una grande finestra che dava sull'ingresso, come tre gufi taciturni che scrutavano attenti gli avvenimenti dal loro ramo sicuro.
«Se li dovessero attaccare ancora...», iniziò Nehroi minaccioso.
Il consigliere scosse la testa. «No, non è per quello. Li vedi? Sono spaventati da tutta questa gente e allo stesso tempo vogliono staccare la testa a morsi ad ognuno. E le guardie non aspettano altro.»
Savannah alzò la testa per riuscire a vederlo oltre i capelli del fratello e gli lanciò uno sguardo obliquo. «Da quando sei così sensibile nei loro confronti?», domandò incuriosita.
L'uomo sbuffò aspramente e lasciò il davanzale spingendosi indietro con le mani. Ataklur scomparve dalla sua visuale e ai suoi occhi tornarono a regnare solo i blocchi marmorei delle pareti. «In ogni caso non abbiamo di che sfamare due bestie tanto enormi, quindi rimandateli indietro. O fate come volete, come sempre.»
Un carro color acquamarina, l'ultimo che doveva arrivare, aveva appena sfiorato l'erba verdissima quando Nehroi e Savannah si scambiavano impressioni ed occhiate eloquenti, e i suoi passeggeri avevano già iniziato ad incamminarsi verso il palazzo mentre i due scendevano le scale e varcavano l'enorme portone d'ingresso, svicolando tra le guardie.
Non fu facile allontanare le uniche creature che rappresentavano un appiglio, un'ancora sicura e familiare in quella regione minuscola ma affollata di potenti sconosciuti, dalle intenzioni ancora non del tutto chiare. Li guardavano con i loro occhioni scuri e profondi e i versi gutturali che pronunciavano erano soffusi e morbidi all'udito quando i fratelli si avvicinarono. Phil però aveva ragione: era troppo pericoloso.
Il pelo scivolò rapidamente tra le loro dita quando gli animali si voltarono e corsero via più veloci del vento, lasciando ai fratelli solo il ricordo della morbida e calda sensazione che li aveva sempre incantati. I loro passi pesanti e potenti rimasero nel terreno come squarci profondi, pieni della forza che i mal'Kee mettevano in ogni cosa che facevano.
«È giusto così», disse Savannah dopo un po', come se volesse convincersene anche lei.
Nehroi le diede le spalle e tornò nel palazzo. Stava iniziando ad imbrunire.

Vociare, rumore e confusione regnavano in ogni centimetro della stanza. Troppe persone tutte assieme, adulte e mature, chiacchieravano in maniera decisamente. Discutevano, disquisivano, si complimentavano o lamentavano a vicenda.
Il pesante librone sbatté sonoramente sul tavolo, sollevando fogli e polvere e disperdendoli da tutte le parti. La voce potente di Mas Heim seguì quel tonfo che zittì tutti i presenti. «Se permettete, sediamoci e iniziamo la riunione.»
La sala era al piano superiore rispetto a quella in cui Goon aveva portato Savannah e Nehroi poco prima e, quando vi arrivarono, si stupirono della sua dimensione, notevolmente maggiore rispetto alla gemella sottostante. Il tavolo centrale era rotondo come l'altro, ma ancora più grande e sommerso di fogli e disegni di vari tipi. Le pareti erano ancora una volta stipate di ogni dipinto possibile, nel solito netto contrasto con il corridoio adornato solamente dai tendoni rossicci delle finestre.
Ma la prima cosa che notarono i due fratelli non era né l'arredamento né la galleria d'arte o la confusione generale: la loro potenza sembrava essere palpabile, come se ognuno emanasse autorità, fermezza e magia da ogni poro e riempisse con essi l'aria, che all'improvviso era sembrata più rarefatta. Erano i Capi, i Capi Reggenti. Tutti riuniti in una sola stanza.
Tutti con gli occhi puntati su di loro, entrati per ultimi.
«Hai finito di farci perdere tempo? E di rubarmi il consigliere?», proseguì Heim sbuffando verso Goon, appena entrato assieme a Savannah. Phil provò una scossa lungo tutta la schiena e scattò dietro la poltroncina del suo Capo, ritto come un fuso, e una sensazione di disagio gli attanagliò le viscere.
Il Capo di Haffiret ridacchiò facendo sobbalzare il panciotto. «Sei solo invidioso perché ti ho rubato l'esclusiva delle prime parole ai nostri ospiti.»
Una ruga sulla fronte del Capo di Norreth si fece più profonda e l'espressione dell'uomo canuto si indurì come la pietra. Strinse un pugno per trattenersi dallo sbottare qualcosa di cui si sarebbe pentito e fece un bel respiro. «È vero, sono irritato perché avrei voluto conoscerli anch'io prima della riunione... d'altronde è stata mia l'idea di invitarli», si premurò di sottolineare.
«Non aspettavo altro!», esclamò una vecchia dall'altra parte della sala, agitando pericolosamente un braccio ossuto. «Ora so con chi prendermela quando andrà tutto a rotoli!»
«Se lo scorderà tra dieci minuti...», borbottò qualcuno sulla sinistra e ci furono un paio di sghignazzate.
Savannah si voltò verso Nehroi e domandò in un bisbiglio chi fosse quella donna, più simile ad una arpia pazza che ad un Capo. «È Sat Hartis, Capo di Lagireth», rispose prontamente in fratello.
Ammiccò verso Phil e lo ringraziò tacitamente per i documenti che dalla colazione gli stavano permettendo di non sentirsi un perfetto estraneo ignorante.
Heim borbottò qualcosa e prese posto sulla sua poltroncina rossa, che scricchiolò sotto il suo generoso peso. «Comunque sia stavo lavorando, c'è stata un'esplosione nella foresta... ma non importa, sediamoci tutti e arriviamo all'ordine del giorno.»
La notizia dell'esplosione non sconvolse nessuno dei presenti, intenti a fare quel che era stato suggerito dal Capo di Norreth, tranne i due fratelli, che pensarono subito a Meede e si domandarono se fosse rimasta coinvolta. Se provarono apprensione, non lo diedero a vedere: non si sarebbero mai permessi di sembrare deboli, preoccupati o peggio, impauriti di fronte a tutti i jiin più potenti di Ataklur.
La prima a prendere posto, come se non riuscisse più a stare in piedi, fu una donna giovane e molto bella, dai lineamenti decisi ma non troppo marcati; aveva lunghissimi capelli castano scuro intrecciati così tanto elaboratamente che non sembravano potessero essere mai liberati e i suoi occhi erano di uno splendido verde acceso che a Savannah ricordarono subito quelli di suo fratello. Indossava una raffinata camicetta di raso color panna che avvolgeva le sue forme come una velo e un'espressione scocciata che puntava ostinatamente verso il tavolo.
Accanto a lei si era seduto un uomo sulla quarantina, abbronzato e con folti capelli neri un po' imbiancati sulle tempie; portava una maglietta blu a maniche corte sbiadita dal sole e dal vento. La jiin non ebbe bisogno di chiedere al fratello chi fosse: assomigliava troppo al piccolo Horud per non essere il Capo di Bastreth.
Dal lato opposto del tavolo si sedettero Goon e Heim, ad un posto di distanza l'uno dall'altro. Alla destra di Goon e alla sinistra della donna con i capelli intrecciati che fissava il tavolo si sedette un vecchio che sembrava più una mummia che una persona viva: la sua lunga barba bianchissima pendeva crespa sul torace pelle e ossa e la sua testa pelata, costellata di pochi capelli quasi invisibili, era lucida come se ci avessero passato sopra la cera. Indossava un elegante vestito viola scuro così largo che non faceva altro che esaltare ogni osso che sporgeva da sotto il tessuto e aveva uno sguardo a tratti assente, a tratti acceso.
Non appena si sedette, un uomo sulla trentina si affrettò a spingere la sua poltroncina rossa sotto al tavolo e poi prese posto alle sue spalle, in piedi come un soldato. Lanciò un'occhiata amichevole verso i fratelli quando si accorse che lo stavano osservando ed entrambi si affrettarono a guardare altrove.
Phil si avvicinò alla poltroncina di Heim e, come quel giovane alle spalle del vecchio, rimase in piedi mentre, un paio di posti più a destra, si sedeva una donna abbronzata col pancione e una giovane ragazza dalla pelle molto scura si posizionava dietro il suo schienale.
«Ragazzi...», disse la donna verso gli ospiti non appena ebbe posato la testa bionda sullo schienale. «È un piacere rivedervi.»
«Decra», salutarono a loro volta. Il Capo della loro regione era l'unico che avessero conosciuto prima di quel giorno: né loro né Decra Algia erano in grado di numerare le volte che durante la loro infanzia erano finiti nei suoi uffici con tutte le accuse possibili ed immaginabili.
«Siete così poco abbronzati... non fate onore al sole del nostro deserto!»
«Abbiamo girato così tanti posti che quel sole non ci colora ormai da anni», rispose Nehroi educatamente. Savannah non poté non notare che la donna con i capelli intrecciati aveva alzato lo sguardo non appena suo fratello aveva iniziato a parlare, ma l'aveva riabbassato meno di un istante dopo, come se si fosse pentita di aver mosso il collo.
«Feinreth è quasi noiosa da quando siete partiti», disse Decra con un sorriso divertito, la mano sul pancione. Il ricordo della routine frenetica e a volte asfissiante che aveva regnato per anni nella sua vita le fece quasi confessare di essere grata a quei delinquenti di averle fatto fare tanta esperienza in poco tempo. «Ma non azzardatevi a tornare.»
«Hartis?», domandò Heim alzando lo sguardo dall'altra parte del tavolo. «Non ti siedi?»
La vecchia lanciò un'occhiata così tanto acida verso Nehroi e Savannah che tutti pensarono li volesse bruciare sul posto. Increspò le labbra e fece un verso gutturale e nervoso. La sua pelle era così tanto rugosa che sembrava potesse sgretolarsi da un momento all'altro se non avesse smesso di fare espressioni tanto arrabbiate. «Con quelli non voglio averci niente a che fare», borbottò pestando un piede a terra. «Che crepino, dico io, maledetti! Non resterò in questa stanza con loro, me ne torno a Lagireth! Vieni, Fest, andiamo! … Fest?», si voltò su sé stessa con gli occhi spalancati. «Dove diavolo sei finito, dico. Sempre a bighellonare... Fest!»
Il padre di Horud si alzò in piedi e posò entrambe le mani sulle spalle della vecchia, cingendola delicatamente per paura che si potesse rompere come una bambola antica. «Hartis, signora... Fest se n'è andato da mesi, ormai.»
La sua voce era dolce, profonda ed affidabile. Hartis sembrò tranquillizzarsi ma il suo sopracciglio non smetteva di essere sospettosamente inarcato all'insù. «Andato?»
«L'avete licenziato voi, non ricordate?»
«... no, non ricordo.»
A Savannah quel suo sguardo smarrito nelle memorie logore fece venire in mente una povera vecchina indifesa, ma quell'impressione durò solo un attimo: Hartis sembrò vedere di nuovo per la prima volta i due fratelli e la rabbia tornò a scorrere nelle sue vene, rinvigorendola come pochi minuti prima. «Voi due!», sbraitò nuovamente. «Che siate maledetti!»
Nehroi sogghignò. «Già fatto», sussurrò impercettibilmente.
«Avete ucciso Menno!»
Quell'affermazione fece voltare tutti i Capi e i rispettivi aiutanti verso i due fratelli, ancora in piedi vicino alla porta. Tante importanti e potenti persone che li fissavano li fecero sentire due bambini, piccoli e nudi di fronte a qualche entità più grande di loro ed insostenibile, come quando venivano beccati dalla signora istituitrice mentre facevano qualcosa di sbagliato.
Per un lunghissimo istante non ci fu alcun rumore a contrapporsi tra gli sguardi sorpresi, curiosi e spaventati dei presenti e quelli spaesati ed altrettanto sorpresi di Savannah e Nehroi, che non seppero rispondere altro che un malaugurato: «Chi?»
Hartis sembrò avere un attacco di cuore.
«Il suo predecessore», rispose loro Phil con non poca agitazione.
«E mio successore!», strepitò la vecchia in un ansimo.
Savannah allargò le braccia ed inarcò le sopracciglia. «Ma di quanta gente sta parlando?»
Heim batté la mano aperta sul tavolo, una, due volte. Strinse le labbra ed inspirò profondamente prima di parlare. «Hartis era il Capo di Lagireth molti anni fa, poi è andata in pensione e Menno l'ha sostituita. Quando è morto, lei era ancora la jiin più forte della regione ed è tornata alla vecchia carica.»
«Noi non abbiamo ucciso nessuno!»
«E invece sì!», ribatté Hartis prontamente, gli occhi così tanto accesi che sembravano infuocati. «Siete venuti a bucherellare le nostre gloriose montagne facendole saltare in aria pezzo dopo pezzo...»
«Saranno stati un paio di fori», bisbigliò Nehroi.
«Un paio, dico io? Un paio?», urlò la vecchia, ormai paonazza. «Ne dobbiamo ancora chiudere tredici, e solo nella zona occidentale!»
Goon alzò due dita e fermò per un momento la diatriba. «Cosa stavate facendo laggiù, ragazzi?», domandò col tono di un genitore che ostenta tranquillità.
«Te lo dico io, Kaloi! Stavano cercando di rubarci le nostre Stelle Rosse!»
Quell'ultima intromissione di Hartis fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nehroi sentì fremere le mani e Savannah sbatté le mani prepotentemente sul tavolo, facendo sobbalzare tutti i presenti.
«È per questo che siamo venuti qui! Per essere accusati e processati!», esclamò rossa in viso, gli occhi viola ardentemente accesi che passavano in rassegna tutti gli sguardi sorpresi ed offesi dei Capi Reggenti, quasi tutti in procinto di alzarsi e difendersi da un eventuale attacco della jiin. La donna con i capelli intrecciati continuava a fissare il tavolo, con evidente sforzo ed insistenza mentre Decra stringeva le braccia attorno al pancione e si rannicchiava su di esso, come se volesse proteggerlo da quel caotico esterno.
Savannah non si lasciò intimidire da nessuna reazione. «Non dobbiamo giustificare a nessuno le nostre azioni e di certo non staremo qui ad ascoltare le farneticazioni di una vecchia! Sì, proprio così, Hartis: farneticazioni! Puoi sbiancare quanto vuoi, ma la verità è una sola e se quel vecchio che si ha rincorsi sulle montagne era il tuo prezioso predecessore, successore o quello che ti pare... beh, è morto di infarto! Ecco, ora puoi morire in pace anche tu!»
La sua voce aveva scosso le ossa dei presenti come un terremoto. Nascosti accanto alla porta, dietro la poltrona di Goon e nell'ombra dell'ingresso della sala, quella ragazza con i capelli lunghi e la pelle un po' pallida e quel ragazzone che non prendeva mai niente sul serio non sembravano corrispondere alla famigerata descrizione che tutti i Capi conoscevano bene da tempo. Quella sfuriata, però, e quello sguardo smeraldino convinsero tutti quanti di avere di fronte i veri “Fein Anis”, i Fratelli del Deserto. Praticamente tutta Ataklur aveva vissuto il loro passaggio.
«Io...»
Goon si schiarì la voce ed appoggiò le dita sul tavolo, tentando di stabilire un contatto con le mani di Savannah ancora premute sul legno robusto. «Vi ho promesso che nessuno vi avrebbe processato... mi dispiace che stia andando così, cari. Siamo tutti riuniti per molti altri motivi, ve l'avevo già accennato.»
La tensione che regnava nella sala era palpabile quanto le cornici dei quadri che soffocavano le pareti.
«E quali sono, questi altri motivi?», domandò Nehroi con voce controllata.
Heim indicò le poltroncine vuote, una alla sua destra e una alla sua sinistra. «Potete sedervi, così possiamo parlare da persone civili? Hartis, anche tu. Per favore.»
La vecchia aveva un'espressione ancora molto contrita, ma non più inferocita. «Davvero è stato un infarto?», domandò a Savannah.
La jiin annuì e quel cenno sciolse le smorfie del Capo di Lagireth. Si sedette subito dopo e il padre di Horud la aiutò a mettere le gambe sotto al tavolo come il giovane dall'altra parte del tavolo aveva fatto prima con il vecchio barbuto. Poi l'uomo tornò rapidamente al suo posto e si accomodò sporgendosi in avanti sul tavolo.
Savannah prese posto lì dov'era, dove aveva sbattuto le mani, tra Goon ed Heim, mentre Nehroi si sedette tra Heim e Decra, sotto lo sguardo attento di una non più arcigna Hartis. Mas Heim aprì l'enorme e pesante librone che aveva di fronte a sé e fece svolazzare qualcuno dei molti fogli sparsi sul tavolo nel sfogliarlo. Arrivò oltre la metà, spostò il segnalibro, una corda verde, e si schiarì la voce con un paio di colpi di tosse. Savannah non lo vide con precisione, ma per un attimo le sembrò che le pagine si fossero illuminate. «Conoscete già tutti quanti i nostri ospiti», esordì Heim con la sua tipica imperiosità. «Sono i Fein Anis, Nehroi e Savannah Krajal di Feinreth. Sappiamo tutti che i loro precedenti non sono luminosi...»
Sulle pagine iniziarono a comparire sottili righe scure che si susseguivano al ritmo della voce del Capo, come se una mano invisibile stesse prendendo nota di ogni cosa che pronunciava. La giovane jiin si chinò verso Goon ignorando il proseguimento del discorso introduttivo di Heim. «Krajal?», domandò Savannah in un sussurro. Non avevano mai sentito quel cognome.
Il Capo ammiccò. «Avremo modo di parlare anche di questo, tranquilla cara.»
L'attenzione di Savannah tornò ad essere rivolta verso Heim e le sue belle parole, ma non del tutto.
Avevano accettato l'invito al palazzo di Tolakireth per poter scoprire qualcosa di interessante ed utile per la loro missione, ma mai avrebbe immaginato che avrebbe potuto scoprire qualcosa anche su di loro.
La donna con i capelli intrecciati aveva alzato lo sguardo su di lei nell'istante in cui Goon le aveva promesso risposte e i loro occhi entrarono in contatto per più di una manciata di secondi. Le due jiin si osservarono a vicenda, come se entrambe non volessero perdere l'occasione di imprimere nella mente i lineamenti dell'altra. Poi la principessa tornò a fissare il tavolo con ostinazione ed irritazione, lasciando Savannah ancora più confusa e piena di domande.
«Ragazzi», li chiamò Heim, terminato il suo discorso introduttivo. Le righe scure e fitte di parole si interruppero e smisero di comparire sulla pagina del librone. «Voi invece conoscete i Capi Reggenti, i jiin più potenti di tutta Ataklur?»
Savannah si sdraiò sullo schienale e lasciò a Nehroi il piacere di rispondere.
«Mas Heim, Capo di Norreth», iniziò lui esibendo il frutto dei suoi studi di quella mattina. Indicò la sorella e fece una smorfia annoiata, strappando un paio di risatine ai presenti, poi puntò il dito verso Goon.
«Kaloi Goon, di Haffireth», disse. «Prachis Kin, di Kyureth, e Silar Gerit, futuro successore.»
Il giovane alle spalle del vecchio barbuto tirò un angolo della bocca in un sorriso sbilenco mentre il dito di Nehroi si spostava verso la sua sinistra, procedendo all'appello in senso orario.
«Poi c'è Mief Chawia da Eastreth... Capo o Principessa, mi hanno detto. Quale preferisci?»
La donna coi capelli intrecciati non lo degnò né di uno sguardo né di una risposta. Nehroi fece spallucce e proseguì. «Accanto alla scorbutica c'è Kof Olus, Capo di Bastreth e padre, devo dirlo, di quattro insopportabili marmocchi.»
L'uomo abbronzato rise fragorosamente.
«Anche se la ragazzina è una promettente guaritrice... poi c'è Sat Hartis da Lagireth e Decra Algia in formato famiglia dalla rovente Feinreth.»
«Molto bene», commentò Heim, «Bravo. Adesso possiamo parlare di cose serie. La prima è che questa non è una riunione dei Capi come l'abbiamo sempre intesa. Tranquilli, non è niente di che. Non parleremo delle questioni delle rispettive regioni, è... un'edizione straordinaria.»
Non furono poche le smorfie piccate da quell'affermazione. Kin esibì per l'occasione uno dei suoi rari sguardi svegli, senza piombare subito nell'apatia dei suoi vecchi occhi: era veramente interessato. «Sono il Capo più anziano di tutti», disse con voce flebile dalla sua posizione incurvata sul tavolo, «Questa è la mia poltrona da più di quarant'anni e non c'è...»
Si tirò su puntellandosi sui braccioli e si schiarì la voce mentre alle sue spalle Gerit si preparava ad assisterlo con premura. «Non c'è mai stata un'edizione straordinaria. Dobbiamo l'onore agli ospiti?», domandò con voce profonda, più potente di quanto la sua esile corporatura potesse lasciare ad immaginare.
«A loro e alla decisione che abbiamo preso qualche tempo fa, onorevole Kin», gli rispose Goon affabile. «Ricordi? Il corpo di guardia?»
Quella parola fece scattare sull'attenti entrambi i fratelli, improvvisamente tesi come corde di un violino. «Guardie?», domandarono con malcelata irritazione.
Heim ridacchiò per un attimo, poi tornò serio. Le pagine del libro si illuminarono di nuovo, Savannah stavolta ne era certa, e le righe ricominciarono a fendere il bianco non appena le labbra del Capo si schiusero. «Nessuno, in tutta Ataklur, può affermare che non vi siate fatti valere. Certo, non c'è mai stato un giorno in cui non avete infranto qualche regola del regno, ma guardando le vostre vicende da un altro punto di vista... e, citando il mio giovane consigliere, siete stati grandi.»
I fratelli si voltarono all'unisono verso Phil, ancora ritto dietro la poltrona di Heim, improvvisamente arrossito.
«Posso presupporre che Goon vi abbia parlato della questione orfani?», proseguì Heim guardando il suo collega più che i diretti destinatari della domanda.
Il Capo di Haffireth annuì ripetutamente.
«E anche del sistema, della sopravvivenza e della posizione che siete riusciti ad ottenere? Ho sentito molto trambusto stamattina, quindi suppongo di sì.»
Savannah ignorò l'allusione alle sue reazioni esagerate che avevano mobilitato un intero corpo di guardia e cercò di far tornare Heim al punto che più le interessava. «Posizione che siamo riusciti ad ottenere?», domandò nervosa.
Stava guardando in faccia tutti i Capi Reggenti, si riferiva forse a quello, alla riunione straordinaria che li avevano inconsapevolmente portati a fare? O al fatto che li avesse tutti a portata di mano per vendicarsi di tutti i giovani visi che aveva visto spegnersi durante l'infanzia? Degli istitutori, dei maltrattamenti, degli innumerevoli tentativi di toglierli di mezzo?
Decra abbassò lo sguardo, come se avesse intuito la vera domanda della ragazza. Li aveva visti crescere con i piedi scalzi e la pelle bruciata dal sole, con i lividi sulle braccia e gli sguardi che diventavano sempre più freddi e crudeli nel corso degli anni mentre lei cresceva tranquilla tra le pareti del suo ufficio e di un focolare. Anche lei era colpevole, colpevole di non aver mai potuto fare niente per aiutarli.
Heim ignorò quelle invisibili questioni e proseguì seguendo il suo filo del discorso. Le parole continuarono a susseguirsi sulla pagina, ormai completamente piena. «Siete forti. Siete adulti. Preparati a tutto. Conoscete le logiche criminali e quelle poliziesche. Conoscete tutte le regioni, le creature, le città, le popolazioni. Conoscete anche l'altro mondo. Non è vero che non sapete seguire le regole, perché abbiamo ricevuto testimonianze sull'esistenza di un codice tutto vostro. Volete dare un colpo di spugna ai vostri precedenti ed essere integrati nella società?»
Due Capi mostrarono piccoli accenni di nervosismo, ma generalmente non ci furono reazioni. Era tutto sotto controllo.
Solo Nehroi si era quasi strozzato con la sua stessa saliva e Savannah era andata in apnea, scordandosi entrambi del loro proposito di non sembrare mai deboli di fronte a quella gente.
La pagina del libro si sollevò come se un soffio di vento l'avesse colpita, si adagiò sull'altro lato e le righe di parole si allungarono anche lì, poi si fermarono, come se fossero in attesa di conoscere la risposta per poter continuare.
«Che cosa?», balbettò a fatica Nehroi, gli occhi sgranati e puntati verso il Capo alla sua sinistra.
«Quello che ho detto», rispose Heim con invidiabile calma. «Sarà come se non foste mai stati dei fuorilegge, come se non aveste mai dato problemi alle autorità o ai civili. Vi offriamo di entrare nel corpo di guardia del regno di Ataklur. Magari un giorno diventerete dei Capi come noi, ma nel frattempo niente più vita ai margini della società, mai più ricercati, mai più banditi. Saremmo onorati di proteggervi. Di proteggere i giovani più valorosi e determinati che si siano mai visti.»


*-*-*-*



Tan-tan-taaaaaannn! Due settimane d'attesa e 9 capitoli (ammazza ._.) per scoprire finalmente le intenzioni dei Capi Reggenti! Ma ovviamente tutto questo non è che l'inizio ^.-

Alla prossima!
Ciao!

Shark

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Capitolo 22
*** Riflettere ***





22
Riflettere



«Così è questo il vostro piano?», mormorò odiandoli.
La voce della giovane jiin suonava così atona che non sembrava le appartenesse. Phil pensò per un istante alle voci artificialmente prodotte per gli apparecchi elettronici degli umani e si sentì preoccupato, prevedendo uno spettacolo simile a quello offerto dalla ragazza poche ore prima. Alzò lo sguardo su Silar Gerit, in piedi come lui dall'altra parte della sala, e non riuscì a non sorridere della sua espressione tranquilla ed ignara.
«Tutti gli orfani vengono messi nell'orfanotrofio. Si istiga la società perché non li facciano mai sentire amati. Li fate soffrire, patire, morire.»
Savannah snocciolava i concetti estrapolati dalle due riunioni con tanta freddezza da mettere a disagio i presenti, nonostante fossero già tutti al corrente di ogni cosa.
«Non sopravvive quasi nessuno. Ma se qualcuno ce la fa è perché è diventato abbastanza forte da poter diventare interessante per voi. Poi lo convocate e gli offrite una vita nuova e un posto in alto nella catena come premio e come colpo di spugna per cancellare l'odio verso il mondo. È così, Capi? O dovrei dire Assassini?»
Non una mosca avrebbe osato volare in una sala dall'aria tanto irrespirabile.
Nessuno disse nulla. Forse nessuno respirò.
Solo le righe scure sulla pagina del librone si mossero, allungandosi freneticamente ad ogni parola pronunciata dalla ragazza, po si fermarono.
Dopo quella che era sembrata un'infinità, il vecchio Kin posò le mani sui braccioli della poltroncina rossa ed iniziò a spingerla indietro. Gerit, alle sue spalle, lo aiutò prontamente e, non senza fatica, il vecchio barbuto si alzò in piedi, ergendosi per intero ed orgogliosamente nella sua piccola statura.
«Sono l'unico responsabile, qui dentro», disse con voce ferma e cristallina. Non era alto né fisicamente imponente, ma la sua presenza ricordava quella di una montagna e nessuno poteva dubitare che ne avesse anche la forza. Il suo sguardo era ancora più acceso di prima e sembrava provenire da tempi antichi ed immemori. «Nessun altro c'era quando il sistema è stato approvato. Se vuoi prendertela con qualcuno, io sono qui.»
Savannah si alzò in piedi a sua volta senza emettere un fiato. Lo fece lentamente, come se fosse stanca e ferita.
Gli occhi viola incrociarono quelli azzurri di Prachis Kin, il più anziano di tutti, e per un attimo l'atmosfera sembrò elettrica. L'espressione della jiin era indecifrabile ma questo non esulò i presenti dal convincersi che avrebbe accettato l'invito del Capo.
Quando schiuse le labbra rosee, tutti trattennero il fiato.
«La vendetta contro un vecchio», disse lentamente, con fatica ma fermezza. «Non riporterà indietro nessuno, e non ci toglierà le cicatrici.»
Kin abbassò la testa come se si stesse inchinando alla ragazza. Con enorme sorpresa di Savannah, non sorrideva.
«Sei saggia ed intelligente, Savannah di Feinreth. Confido che comprenderai il vero valore della proposta.»
Dette quelle solenni parole, Kin si sedette nuovamente sulla poltroncina e si richiuse in sé stesso e nello sguardo assente che aveva mostrato per la maggior parte del tempo. Si spense come se avesse finito le batterie e l'unico suono che provenne da lui fu quello della poltroncina che veniva spostata da Gerit, grattando sul pavimento.
L'atmosfera della sala sembrò rilassarsi con le sue membra stanche e tutti fecero un profondo respiro o due. Savannah rimase in piedi e immobile, tremendamente confusa. Provò un'orribile sensazione di vuoto allo stomaco e si scoprì ansimante.
Cosa voleva dire tutto ciò? Quale messaggio aveva cercato di farle arrivare il vecchio di Kyureth? Perché credeva che sarebbe stata all'altezza delle richieste dei Capi? E cosa gli faceva credere, dopo quel suo spietato resoconto sul sistema degli orfani, che avrebbe accettato di stare ancora alle loro regole?
Il respiro accelerò man mano che quelle e altre mille domande si affacciavano nitidamente nella sua mente e ben presto la ragazza si ritrovò sull'orlo dell'iperventilazione.
Girò su sé stessa ed uscì dalla sala veloce come un fulmine e nessuno, neanche Phil o Nehroi, riuscì a fermarla.
«Tra tutte le reazioni possibili... questa è quella che mi piace di più», commentò Goon ripensando a ciò che aveva rischiato poche ore prima. Si rilassò sullo schienale ed alzò una mano verso Nehroi, scattato a sua volta verso la porta ancora aperta. «Ti prego, caro, resta ancora con noi.»
«Devo an...»
«Tua sorella ha un terribile problema di autocontrollo, non credi? Forse è meglio che impari in fretta a gestirlo.»
Nehroi sbuffò stizzito mentre la porta sbatteva rumorosamente. «Ha un terribile problema con voi, non crede?», ribatté aspro.
Goon sorrise sereno e lo invitò a sedersi con un cenno della mano. «Sicuro che sia solo con noi?»
Il brehkisth smise definitivamente di tendere verso la porta. Tornò sui suoi passi ed appoggiò entrambe le mani sullo schienale della sua poltroncina. «Giusto, ha ragione. Krajal?», domandò pungente.
Phil si morse un labbro ma Goon sorrise ancora di più. «Come ho detto a tua sorella, avremo modo di parlare anche di questo.»
«Perché non me ne parla subito, invece?», tagliò corto Nehroi, «Perché ci avete chiamati con questo cognome? Nostro nonno è morto senza avercelo mai detto... ce l'avete dato a caso o è vero?»
La principessa sembrò agitarsi sulla sua poltroncina come se fosse diventata improvvisamente scomoda, ma non sollevò lo sguardo. «Siamo ancora indispensabili qui?», domandò con voce delicata e ferma. Nehroi realizzò solo in quel momento che era la prima volta che parlava e non riuscì a non sembrare sorpreso. Forse ormai iniziava a pensare che fosse muta.
Goon ed Heim si scambiarono una strana occhiata e scossero la testa quasi contemporaneamente.
«No, la riunione è sciolta. Stasera c'è una festa nella sala grande, sarà meglio che iniziamo tutti a prepararci...»
Nehroi allargò le braccia, sconfortato. «Quindi?», domandò. Nessuno lo udì, troppo impegnati a raccogliere le proprie cose e ad uscire nel corridoio spoglio come impiegati alla fine del turno di lavoro. «Non abbiamo finito!»
Il consigliere lo prese per un braccio e lo costrinse ad uscire, facendogli cenno di non dire altro, allontanandolo da Heim prima che lo disturbasse. Si era chinato sul librone e stava scrivendo qualcosa pronunciandolo sottovoce, alimentando ancora una volta le righe che comparvero magicamente sulla pagina. Nehroi e Phil camminarono seguendo la folla per un po', poi salirono una rampa di scale che nessuno stava prendendo e raggiunsero un terzo piano identico ai due sottostanti, con lo stesso corridoio spoglio. L'unica variante erano i tendoni delle tende, bianchi, e molte più porte.
«Ora possiamo parlare?»
Il tono di Nehroi lasciava perfettamente intuire la sua irritazione per essere stato zittito.
«O il nostro cognome è un segreto di stato?»
«Smettila di essere infantile», lo rimproverò il consigliere. «Goon vi ha promesso che avrebbe risposto ad ogni domanda, no? Saprai tutto, non fare il bambino esigente.»
Il brehkisth ridacchiò incredulo. «E da quando credi che vogliamo fidarci di questi tizi? O di te, ora che ci penso. Non so se eri attento, poco fa, quando Annah ha raccontato cosa...»
«Sì, c'ero anch'io», troncò Phil. «E vi sarei grati se la smetteste di fare le vittime e iniziaste ad essere adulti maturi.»
Nehroi si allontanò da lui indietreggiando di un paio di passi. Il suo sguardo obliquo non scalfì la determinazione del consigliere. «Parli sul serio?»
«Certo», disse, e Nehroi non dubitò di quell'affermazione.
«Quindi cosa, dovremmo dimenticare? Fare finta che non sia successo nulla?», domandò nuovamente, con la stessa insistenza che non smetteva di mostrare a tutti.
«No, no... ma superare la cosa? Credi che sarebbe così tragico?»
«Allora non hai capito niente!», sbottò furibondo.
Phil si inalberò. «Certo che ho capito! Ho visto anch'io cosa succede negli orfanotrofi di questo mondo, cosa credi? Non sono uno stupido e non potrei lavorare se non sapessi in che razza di posto mi trovo. Ho parlato con vari bambini che hanno passato esattamente quello che avete passato voi! Non siete speciali, raccontate tutti la stessa storia perché le vostre infanzie sono state tutte più o meno uguali, piene di dolore, perdite, mancanze...»
Nehroi si ritrovò per un attimo senza parole e senza fiato.
«Allora perché vogliono noi?», domandò dopo un po'.
«Adesso sei tu quello che non era attento prima.»
«Solo perché siamo ancora vivi?»
«Non tutti gli orfani si sono messi a girovagare per i due mondi come avete fatto voi, e forse è stata proprio questa la vostra salvezza. L'esperienza che avete guadagnato non la imparano neanche i jiin “normali”, quelli che studiano fino alla vostra età.»
Il brehkisth iniziò a sentirsi a disagio, incapace di ribattere alcunché.
Phil proseguì imperterrito, anche se la sua voce si incrinò. «Ma se non volete accettare la generosa proposta dei Capi, non se ne faranno una malattia. Aspetteranno che gli altri ragazzi in osservazione crescano e, se saranno idonei, proporranno lo stesso anche a loro. E voi avrete perso un'occasione irripetibile. Pensateci su.»
Phil fece per voltarsi e scendere le scale ma Nehroi lo afferrò per un braccio e lo fermò.
«Aspetta.»
«Devo andare a cercare Savannah e tu devi iniziare a prepararti per la festa», disse il consigliere senza neanche guardarlo in faccia.
Il ragazzo prese un bel respiro e lasciò la presa. Phil ricominciò a camminare, ma la voce desolata di Nehroi lo fece fermare.
«Cosa devo fare?», aveva detto.
Phil osservò la fronte corrugata di Nehroi, le sue labbra mordicchiate e gli occhi bassi, portatori di uno sguardo frenetico che non sapeva dove posarsi. «La tua stanza è la seconda su questo piano», gli rispose, «Dì alla cameriera di aiutarti, saprà cosa fare.»
L'umano svanì giù per le scale velocemente, prima che Nehroi si potesse accorgere che aveva evitato accuratamente di rispondere a ciò che gli stava chiedendo veramente.

Savannah era in giardino.
Phil non ci mise molto a trovarla, sebbene fosse nascosta dalle fronde coloratissime di uno dei tanti alberi rari e pregiati che vivevano lì da tempo immemore.
«Come stai?», le domandò quando fu abbastanza vicino da essere udito.
La ragazza lasciò cadere la foglia rossa che si stava rigirando tra le dita e si stiracchiò sull'erba, a braccia incrociate dietro la testa. «Mi sembra di non capire nulla», disse sconsolata.
L'uomo si sedette accanto al suo fianco ed alzò la testa: il cielo era scomparso quasi del tutto tra le foglie bianche, verdi e rosa dell'albero.
«Può consolarti sapere che tuo fratello è nella stessa situazione?»
«No.»
Phil sorrise. «Stasera c'è la festa, ricordi?»
«Perché Krajal?», domandò invece lei.
«Non ne sono sicuro... ma credo che il cognome di una persona provenga da quello del padre.»
Savannah gli lanciò una manciata di foglie colorate addosso. «Spiritoso!», soffiò, «Ma io dicevo sul serio...»
«Anch'io, cosa credi? Se potessi scegliere cambierei subito il mio, “Mayson” non mi piace per niente.»
«Cos'ha che non va?»
«Sono nato a Settembre.»
«Allora è tuo padre il “figlio di Maggio”?»
«Non ho idea di chi sia nato a Maggio. E ora andiamo, su, una festa ci attende.»
Si alzò in piedi e tese una mano verso la ragazza sdraiata tra le foglie. Quegli occhi viola spiccavano tra i colori tenui come gemme in un mosaico, protagoniste tra mille altre tessere anonime.
La bocca gli si fece improvvisamente arida e la mano sembrò vacillare mentre la pelle di Savannah la toccava, accettando la cortesia. «Grazie», disse lei.
Lui irrigidì il braccio più che poté per nascondere l'attimo di debolezza che l'aveva colto e la aiutò ad alzarsi. «Hai delle... delle foglie tra i capelli.»
Ci stavano bene, come delicate decorazioni floreali nella fluente chioma nera, ma non glielo avrebbe mai detto.
Savannah passò le dita tra i capelli e si tolse ogni foglia. Erano principalmente rosa e ne tenne una in mano, per giocherellarci.
Phil la condusse attraverso il giardino, tra tutti gli alberi variopinti, e non appena entrarono nel palazzo le indicò la strada per raggiungere le sue camere. «Una cameriera ti aiuterà a prepararti», la informò infine. «Ci rivediamo quaggiù alle dieci.»
Savannah annuì con un sorriso, poi sparì sulle scale.

Effettivamente, una cameriera c'era. Era una donna sulla cinquantina, dai lineamenti marcati e per niente dolci, lo sguardo piuttosto severo e la corporatura robusta. «Buon giorno», le disse con quello che forse voleva sembrare un tono cordiale. «Mi permette di aiutarla?»
Savannah deglutì e credette di aver sbagliato porta. Fece per voltarsi ed uscire ma la donna batté le mani con così tanta forza che le tremarono le ossa.
«Il mio compito per stasera è prendermi cura di lei, signorina», le disse marziale, ignorando il fatto che la sua sembrasse più una minaccia che una premura. «Mi segua nella camera del bagno.»
«So lavarmi da sola...», pigolò la ragazza.
Lo sguardo severo della donna si abbatté su di lei. «Mi permette di aiutarla?», domandò nuovamente. Savannah non ebbe la forza di contraddirla e la seguì a testa bassa.
Malgrado i suoi modi fin troppo energici, quella donna aveva saputo lavarla, curarla e sistemarla come mai nessuno aveva fatto prima di allora. All'inizio aveva provato imbarazzo nel togliersi i jeans, la maglietta bordeaux e l'intimo, ma non c'era voluto molto perché sprofondasse nelle piacevoli sensazioni che quell'esperta donna aveva saputo riservarle. Per qualche istante, Savannah si era domandata se una madre avrebbe fatto le stesse cose e quanti momenti simili avesse perso per sempre, avendoli finalmente conosciuti per poterli rimpiangere.
Si lasciò coccolare dai saponi, dall'acqua calda, dalle bollicine e dagli asciugamani soffici per una piacevolissima eternità e si sentì quasi triste quando fu il momento di uscire dal bagno per passare alla seconda fase della preparazione.
«Scelga l'abito», le comunicò la cameriera con il suo solito tono rude, come se fosse una questione di vita o di morte.
Aprì una piccola porta perfettamente mimetizzata con la parete e un'enorme cabina armadio comparve di fronte agli occhi sgranati di una jiin incredula.
La donna la prese per mano e la condusse nella stanzetta. «Gli abiti da sera sono di qua», disse.
«Sono... non ho mai visto tanti vestiti in vita mia! Neanche nei negozi!», esclamò la ragazza, incerta se lasciarsi andare all'euforia o se rimaner coi piedi per terra.
Solo quando la donna smise di camminare e la lasciò di fronte ad un'esposizione di tutto rispetto, Savannah realizzò che quelle cose color azzurro chiaro non erano delle custodie protettive degli abiti: erano gli abiti. Tutti dello stesso identico color nuvola.
«Sono tutti azzurrini?», domandò sorpresa.
La donna rise fragorosamente per un breve istante, poi scosse la testa e tornò seria. «Le feste dei Capi sono per i Capi e i loro ospiti. I Capi indossano abiti dello stesso colore del loro grado di magia e gli ospiti qualsiasi colore che non stia nella scala cromatica. Vanno bene anche bianco e nero, tanto tutti sanno che non esiste nessuno tanto potente.»
«Ma io non sono un Capo», concluse la ragazza, sforzandosi di non sembrare troppo sorpresa per la lunghezza e naturalezza della risposta appena ricevuta. Stava iniziando a pensare che non fosse in grado di mettere insieme più di quattro parole.
Allungò la mano per sfiorare quegli abiti splendidi e scoprire se fossero davvero morbidi e pregiati come sembravano. «Quindi avrò un vestito celes... ehi! Ma che diavolo!»
Il tessuto si era tinto di viola non appena la sua pelle l'aveva sfiorato. La cameriera ridacchiò ancora. «Non so chi sia e cosa faccia qui», le disse, «Ma mi hanno detto che lei deve mettere uno di questi abiti cangianti, ne scelga uno.»
Savannah provò una strana sensazione nell'osservare la rapidità con cui i tessuti si tingevano e stingevano tutti della stessa tonalità color glicine che aveva visto l'ultima volta nel rilevatore di Helea. Giocò per un po' a far scorrere le dita su tutti i capi, come se fossero i tasti di un pianoforte, e la scia violacea le seguiva perfettamente colorando ad intermittenza i vari vestiti.
«Scelga», le intimò la donna con un tono tanto scorbutico da far sobbalzare la ragazza. Le goccioline dei capelli scesero gelide lungo la sua schiena amplificando l'effetto agghiacciante dei modi bruschi della cameriera.
«Tu che colore fai?», le domandò candida, ancora meravigliata da quella scoperta.
La cameriera si alzò in piedi controvoglia, afferrò un attaccapanni a caso e sfiorò il busto di un abito senza maniche che terminava con una gonna rotonda e gonfia ricoperta completamente di altri pezzi di tessuto che svolazzavano come piccole ali. Non era uno dei vestiti più elaborati che ci fossero, né uno dei più belli, solamente il primo che la donna aveva vicino. Il vestito si tinse di un tenero color giallo canarino e Savannah trovò che fosse adorabile.
«Le piace?», abbaiò la donna. «Lo guardi lei.»
La jiin non fece in tempo a realizzare che la donna aveva pensato che la sua espressione sorridente fosse per l'abito e non per il colore quando si ritrovò il vestito, ora viola chiaro, tra le mani. «Sì, io... mi piace», balbettò. Non ne era per niente sicura, aveva adocchiato un altro paio di abiti più dettagliati ed affascinanti, ma non le andava più di stare in quello stanzino in compagnia di una presenza tanto ingombrante.
Quando lo indossò, però, dovette ricredersi e guardarsi più volte allo specchio. Non aveva mai indossato un abito del genere e vedersi lì, in quel rettangolo, tutta pulita, curata e racchiusa nel busto a tubino che si lasciava andare in mille veli sovrapposti l'uno sull'altro fino alle ginocchia... alzò un braccio e lo agitò per convincersi che quello fosse proprio il suo riflesso.
«Le piace», domandò o affermò la donna, Savannah non ne era sicura.
«Sì...»
Quell'abito non era niente di speciale, persino in un film di media qualità avrebbero trovato di meglio, ma era la cosa più bella che la jiin avesse mai indossato... o pensato che si sarebbe vista addosso.
La donna interruppe le sue fantasie con un grugnito. «Allarghi le braccia.»
«Perché?»
«Tolgo le cicatrici», rispose la cameriera con quella che voleva sembrare naturalezza.
Savannah fece un balzo all'indietro e la sua espressione contenta si trasformò subito in una smorfia impaurita. «No!», esclamò all'improvviso, spaventando la donna. «Se avessi voluto togliermele con la magia l'avrei fatto molto tempo fa, non credi?»
«Ma sono brutte», disse lei. «Rovinano la sua bella figura.»
La jiin scosse la testa con vigore. «Fanno parte di me, non le toglierò mai. Toglieresti i miei capelli se fossero brutti?»
«I suoi capelli sono belli.»
«Anche le mie cicatrici.»
La cameriera chinò il capo. Savannah capì solo qualche istante più tardi che la discussione era finita e si riavvicinò lentamente allo specchio. Quando rivide il suo riflesso, però, si accorse all'improvviso che la cameriera aveva ragione: quelle cicatrici, ora che gliele aveva fatte notare, erano davvero un pugno in un occhio. Ce n'erano due sul petto, vicino alla spalla sinistra, una sul collo, innumerevoli sulle braccia -compresa l'ultima arrivata, la più rossa, quella che Meede le aveva appena regalato – e altrettante più profondi sulle gambe. Non erano mai state così vistose, merito del lavaggio profondo ed accurato che aveva appena ricevuto, o forse non ci aveva mai fatto caso e non le aveva mai realmente viste.
In viso ce n'era una sola, vicina all'attaccatura dei capelli, e permise alla donna di farle un'acconciatura che lasciasse un ciuffo a coprirla, facendola felice almeno per un istante.
Mentre le ciocche nere venivano pettinate, ordinate arricciate od intrecciate a dovere grazie alla poca magia che la cameriera era in grado di usare, Savannah tese un braccio verso lo specchio e cancellò le cicatrici dal riflesso, immaginandosi come tutte quelle ragazze che non avevano mai dovuto lottare in vita loro. La sua immagine aveva tremato per momento, poi si era trasformata e la ragazza fece ancora più fatica di prima per riconoscersi. Immaginare di essere diversa, anche se solo in uno specchio, faceva uno strano effetto.
«È bellissima», disse la cameriera con un tono di voce così gentile e sincero che fece sussultare Savannah.
«Sembra una bambola.»
«Bella come una lady.»
Un pensiero attraversò la sua mente rapido come un fulmine, poi Savannah vide i suoi occhi riflessi trasformarsi e diventare da viola a verdi; i suoi capelli si schiarirono e diventarono castani. Guardò incredula il suo riflesso e questa volta ne fu certa: non era lei. Era la principessa Chawia.
Quando si accorse che era stata solo un'allucinazione, però, aveva già iniziato a sudare freddo e la cameriera si era allarmata. «Cosa succede», domandò di nuovo rude e scocciata.
Savannah provò a deglutire ma la gola era troppo secca. «Niente», sussurrò.
Il suo riflesso era tornato normale.
«Ha cambiato idea?»
La ragazza chiuse le mani a pugno. «No, assolutamente. Io non sono una lady.»
“E neanche una principessa.”



*-*-*-*



Sì, ci ho messo un po' (un beeel po') e sì, questo capitolo, come molti successivi, era già prontofattoefinito nel mio piccì da almeno un mesetto. Boh, diciamo che non avevo voglia di aggiornare, ma adesso sì ^^
Iniziamo a spostarci verso i capitoli più colorati, allegri e un po' frivoli di tutta (tutta!) la storia! ... godeteveli! xD
Sapete che ho scritto a mo' di puzzle tutta la storia fino al capitolo 54? O_O Sono pazzaaaa ma se mi viene l'ispiration all'improvviso devo metterla al sicuro, no?

Ah, adesso conoscerete meglio Silar! ^^ Poi voglio un parere tutto vostro su questi Capi e la vostra previsione su cosa succederà! Ahahah! <3

Alla prossima!
Ciao!

Shark

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Capitolo 23
*** La Festa ***





23
La Festa



Nehroi bussò alla porta della sua camera mentre la cameriera era ancora intenta a truccare la sorella. «Faccio io», abbaiò la donna. Posò sul tavolino il pennellino che stava impugnando come un coltello e andò ad aprire.
«Non è pronta», informò col suo tipico tono rude, poi sbatté la porta prima che il ragazzo potesse anche solo pronunciare un suono, lasciandolo inebetito nel corridoio vuoto.
La donna tornò al tavolino come se non fosse successo nulla e continuò il suo lavoro con tranquillità e dedizione, corrugando la fronte rugosa.
«Le piace», domandò dopo un po', omettendo ancora il punto di domanda.
Savannah portò a sé lo specchietto rotondo e si sorprese più del previsto. Sulla Terra aveva provato qualche volta a truccarsi, ma solo per gioco e per provare quell'attività che faceva impazzire tutte le ragazze e donne di ogni età in entrambi i mondi. Quando però aveva visto che non sapeva assolutamente cosa fare e che Nehroi era riuscito a ridere per ore anche dei suoi tentativi meglio riusciti, aveva compreso una volta per tutte che non era cosa per lei e aveva lanciato tutto quanto fuori dalla finestra con odio.
Il riflesso nello specchietto, però, sembrava darle torto. «Sei bravissima!», esclamò con più sorpresa di quanto volesse mostrare.
«Siete pronta.»
«Grazie, davvero!», le disse ancora, cercando di non notare che la cameriera la stava praticamente spingendo verso la porta per buttarla fuori. «Sul serio!»
«Buona festa!», le augurò, anche se sembrava che la stesse mandando al diavolo.
Savannah si ritrovò dall'altro lato della porta prima che potesse riuscire a dire un'ultima parola a quella donna dai modi più che ruvidi e smise di pensare a lei solo quando si accorse che Nehroi non stava ridendo.
«Allora?», lo provocò con tono di sfida mentre mascherava lo stupore per quel silenzio.
Lui rimase qualche istante a squadrarla da capo a piedi, senza emettere suono o fare alcuna espressione. Come la sorella poco prima, ci mise un po' per rendersi conto che quella ragazza agghindata, elegante e bella fosse veramente Savannah, la ragazzina impolverata ed irascibile con cui viveva gomito a gomito da sempre, quella che da bambina era sempre stata una piagnucolona per poi evolversi in una potente tigre intoccabile.
«Nessun commento? Nessuna risata?»
«Quel colore fa schifo», si limitò a constatare.
Savannah alzò gli occhi al cielo e si sentì sollevata. «Sei solo invidioso», commentò in un sorriso. Non aveva considerato il colore dell'abito, essendo l'unica cosa che non poteva essere modificata in nessuna maniera, ma ammise a sua volta che effettivamente era un po' troppo delicato per i suoi gusti. Fu allora che notò le tinte che rivestivano suo fratello, verdi e intense come il sottobosco dopo un acquazzone.
«... comunque anche il tuo. Cos'è, verde marcio?»
Nehroi fece spallucce. «Una delle tante tonalità che si intonano con i miei occhi, cara zuccherina.»
«Zuccherina?»
«Hai il colore di una caramella.»
«Non mangiarmi.»
«Acida come sei? No, tranquilla, non rischierò un'indigestione.»
Finiti i complimenti, scoppiarono a ridersi in faccia a vicenda e, senza bisogno di aggiungere altro, si avviarono verso la festa, limitandosi a seguire semplicemente il rumore della musica e del vociare confuso.
La sala al pian terreno non era più spoglia come l'avevano vista in precedenza: drappi colorati pendevano dal soffitto come morbide onde di velluto e tantissime lampade disseminate tra essi come stelle conferivano calore al freddo marmo bianco della stanza, le cui pareti adesso erano dipinte con colori vivaci e ampi disegni che sembravano narrare una storia. Un'enorme area della sala era occupata da lunghissimi tavoli sommersi dai vassoi di cibo a disposizione di tutti gli invitati e tantissime sedie dalle apparenze molto comode erano state posizionate da tutte le parti, forse con un ordine preciso.
I due fratelli avevano pensato che alla festa avrebbero partecipato solo i Capi e un paio di persone in più, ma si erano sbagliati di grosso: non era ancora giunto l'orario che Phil aveva comunicato loro, ma la sala era già gremita, tanto che le decorazioni dipinte sulle pareti erano praticamente invisibili.
«Sarà facile riconoscere i Capi», commentò Nehroi tendendo la testa per sovrastare la folla di persone, «Sono praticamente tutti blu.»
Una musica dolce e ritmata diffondeva da ogni angolo della sala ma ad un volume sufficientemente basso da non costringere le persone ad urlare come un una discoteca. C'erano dame agghindate come principesse, signore con abiti che ricordavano di più lo stile e le mode di Ataklur con fiori veri, farfalle, ruscelli o simili decorazioni magiche e ragazze che sembravano appena uscite da Hollywood; lo stesso valeva per gli uomini, alcuni erano più eleganti nei loro completi umani mentre altri indossavano il meglio che il mondo magico fosse riuscito a produrre in termini di abbigliamento. L'attenzione di Nehroi fu catturata immediatamente da un uomo biondissimo con delle piccole spiagge sulle spalle, complete di stelle marine, ombrelloni e due bimbi che si lanciavano la palla da una parte all'altra del colletto. Il brehmisth lo trovò bislacco, ma non poté impedirsi di pensare, almeno per un momento, che il suo abito era troppo semplice e umano per un'occasione del genere.
«Vedi Phil?», domandò Savannah mentre si sforzava di non concentrarsi troppo su una signora sulla cinquantina che le era appena andata addosso per la distrazione, facendole perdere l'equilibrio su quelle scarpe impossibili.
Il fratello si erse come una vedetta ed iniziò a setacciare con lo sguardo tutti i presenti, scoprendo tanti altri modi di sprecare energie magiche per farsi notare da chi contava di più ad Ataklur. «Verso la balconata che porta al giardino», comunicò preciso, «Sì, credo proprio sia lui. Ha un vestito tutto bianco, spicca come un ghiacciolo...»
Savannah lo guardò con un sopracciglio alzato.
«Sì beh...», Nehroi corrugò la fronte per cercare un paragone migliore, poi capitolò. «Insomma, è lui che è mingherlino! Se poi si veste da gelataio non è colpa mia! Almeno non ha addosso dei gelati veri...»
«Iniziamo bene, io sembro una caramella e lui un ghiacciolo... Lanciati sul tavolo delle vivande prima che ti ritrovi ad azzannare qualcuno. E attento al cibo che vedi sui vestiti altrui: è tutto finto. Io vado da Phil.»
Ruotò su sé stessa e si pentì della naturalezza con cui aveva voluto muoversi: rischiò di rompere un tacco e si ricordò che ancora non aveva avuto abbastanza tempo per impratichirsi e sopravvivere. Fissò i suoi piedi e borbottò contrariata qualcosa, come se fosse colpa loro se non riusciva a camminare come voleva.
Ci mise un po' ad immaginare come avrebbe potuto migliorare la situazione, ma alla fine si complimentò con sé stessa: immaginò sostegni invisibili e un allargamento del tacco, e muoversi non fu più impossibile come muoversi in una foresta infestata.
Savannah non fece in tempo ad allontanarsi dal fratello di qualche passo che una voce conosciuta trillò alle sue spalle e la fece voltare di scatto. «Nehroi!», esclamò mentre l'irritazione saliva sotto l pelle della jiin.
«Deiry...», la salutò il ragazzo con lieve disagio. «Bel rosso.»
La figlia del Capo di Haffireth si passò una mano lungo il fianco sinistro fingendo di lisciarsi il tessuto. Il suo abito era lungo fino alle caviglie, con uno spacco lungo la coscia destra e uno sul seno, e il tessuto era così liscio e lucente che sembrava fuoco liquido. La schiena rimaneva completamente scoperta, lasciando la scena ad un lungo tatuaggio ramificato ed elaborato che risaliva lungo tutta la colonna vertebrale come un rovo sottile, perdendosi tra i capelli raccolti da un lato. «Ti piace?», gli domandò con un tono malizioso che non sfuggì a Savannah, ad una certa distanza da loro ma non troppo da non sentirli.
«Sì, molto acceso», rispose lui con lo sguardo incatenato al vestito. «Sembri una...»
La jiin viola alzò gli occhi al cielo e temette un altro paragone dolciario.
«Non importa», risolse lui scuotendo la testa, ma senza staccare gli occhi dalla giovane donna.
La mano di Deiry si spostò sul braccio di Nehroi e tastò con nonchalance la manica della giacca come se stesse veramente ammirando il vestito e non i muscoli sottostanti. «Anche a me piace molto il tuo colore... insolito, decisamente.»
«Capita.»
«Non sei un jiin?»
«Già... il rilevatore rimane trasparente di fronte a me, come se non mi vedesse.»
Deiry scostò una ciocca bionda dal viso con un movimento fluido che la fece avvicinare di più a Nehroi senza che lui potesse accorgersene. «Saresti potuto venire con un vestito trasparente, allora», sussurrò veemente.
Il brehkisth ridacchiò nervoso mentre uno strano calore lo pervadeva da cima a fondo e a Savannah venne la nausea. Girò sui tacchi modificati e fece per riprendere la sua ricerca di Phil, unica persona oltre al fratello con cui avrebbe voluto fare una chiacchierata, ma incappò in un completo viola elegantissimo, adornato solamente con un'elaborata spilla dorata che spiccava su un fazzoletto bianco, e fu costretta a fermarsi.
«La signorina Savannah, finalmente.»
La jiin tirò con nervosismo gli angoli della bocca all'insù. «Silar Gerit, giusto?», cercò di ricordare.
I capelli ramati gli coprivano la testa mostrando con corti ciuffi ribelli la loro indipendenza. Aveva gli occhi castani, era alto come Nehroi ma meno piazzato e, come aveva potuto notare durante la riunione del pomeriggio, aveva sempre e costantemente un'espressione divertita e soddisfatta.
Il futuro Capo di Kyureth le sfiorò la mano e la baciò sul dorso come un vero gentiluomo, lasciandola così tanto spiazzata da quel gesto da farle quasi paura. «Chiamatemi pure Silar. Potete concedermi l'onore di conoscervi?»
«Non c'è bisogno di tutti questi modi gentili e riverenti... Silar», disse decisamente innervosita mentre si guardava attorno.
«Oh. Vi ho messa a disagio?»
Lei gli scoccò un'occhiataccia e lui sorrise imbarazzato. «Chiedo scusa, sono abituato a dover parlare così con tutti da sempre... possiamo darci del tu?»
Savannah vide Phil in lontananza con la coda dell'occhio. Nehroi aveva visto bene, era davvero vestito di bianco, ma a lei non sembrava proprio un gelataio o un ghiacciolo.
«Sì», rispose in un soffio dopo un po', come se si stesse per scordare la domanda. Phil si stava allontanando con la principessa Chawia, immersa in uno splendido abito viola intenso dalla gonna molto ampia e voluminosa che le permetteva di non avere nessuno vicino nel raggio di un metro. Aveva lunghi guanti che le coprivano le braccia fin sopra il gomito e su di essi erano disegnati due serpenti bianchi che sembravano attorcigliarsi e muoversi come se fossero vivi, scivolando di tanto in tanto sulla gonna, dove giocavano a rincorrersi.
Tornò a guardare Silar, temendo di esser rimasta silenziosa per troppo tempo. «Sì», ripeté, «Non potrei sopportare una chiacchierata più lunga di tre frasi se dovessi stare attenta ad ogni parola...»
L'uomo sorrise sollevato. «Lo trovo naturale. Posso portarti qualcosa dal buffet?»
«Non saprei cosa scegliere», ammise.
«Ti accompagno», disse in un sorriso. Piegò un braccio orizzontalmente e glielo porse. «Permetti?», la invitò galante.
Savannah aveva visto quel genere di cose solamente nei film e si sforzò di ricordare cosa andava fatto immedesimandosi nelle nobili protagoniste. Fosse dipeso da lei, avrebbe marciato verso il cibo come aveva sempre fatto e, sicuramente, non avrebbe indossato quegli abiti scomodi... ma da qualche parte, dentro di sé, sentiva di dovere almeno provare a sembrare una persona normale, anche solo per non sentirsi osservata da tutta quella gente. Alzò una mano e la posò incerta sul suo avambraccio. Silar annuì e la ragazza tirò un sospiro di sollievo mentre veniva scortata in mezzo ad una folla variopinta verso il tavolo delle vivande.

Purtroppo per lei, Silar era noioso.
Savannah se n'era accorta mentre le spiegava cosa contenesse ognuno delle decine di vassoi che riempivano il lunghissimo tavolo e più volte si era ritrovata a doversi voltare dall'altra parte perché stava sbadigliando e non voleva farsi scoprire.
«... infine ci sono queste tartine che contengono...»
«Lasciamelo scoprire», propose lei pur di ritrovarsi di nuovo interessata a qualcosa. «Poi mi dici se ho indovinato.»
Silar sorrise e si mise in un piattino una porzione di carne di qualche animale che la jiin aveva già scordato condito con una salsa rossastra molto densa fatta con chissà quale bacca.
«Che ne pensi?», le domandò all'improvviso.
Savannah lo guardò interrogativa. «Di cosa?», disse un istante prima di addentare la tartina.
«Dei Capi, della proposta, di Tolakireth... della tartina...», Silar sorrise ed afferrò un tovagliolo. «Scegli tu.»
La jiin osservò il contenuto della sua mano e se lo portò alla bocca. Il sapore era molto variegato, ma sembrava qualcosa che aveva già assaggiato prima. «I Capi sono... interessanti», disse mentre masticava, «E questo palazzo è stranissimo.»
«In che senso?»
«Perché lo hanno lasciato tutto spoglio solo per poter soffocare centinaia di dipinti in un paio di sale?»
Silar sorrise e posò il piattino sul tavolo. «Ah, quello...»
Allungò un braccio per afferrare due bicchieri di cristallo finemente lavorato ed elaborato in un motivo astratto ed indicò alla ragazza l'assortimento di vini e bevande. «Quale scegli? Posso spiegarti cosa contengono se...»
La jiin scosse immediatamente la testa. «No! Va bene tutto, scegli pure!», esclamò terrorizzata dall'idea di un nuovo monologo culinario. Si accorse che sudava freddo solamente pensando di dover sopportare ancora tanta noia.
«Dicevamo, perché ci sono solo quadri di paesaggi, scorci vari e Capi del passato?», riepilogò Silar mentre le porgeva il bicchiere. «Perché quello è ciò che dobbiamo sempre tenere a mente.»
Savannah prese il bicchiere e annusò il contenuto, un vino molto limpido e rosato. «Dovete ricordarvi delle vostre regioni?», domandò scettica. Sembrava una cosa molto stupida.
Silar però non sembrava divertito da quella battuta e le rispose serio. «Di tutta Ataklur, che sia un albero, un fiume, una roccia o una tra le creature magiche più potenti che la natura ci ha donato per guidarci saggiamente e per proteggerci. Ovvero un Capo.»
La ragazza annuì e prese un'altra tartina. «E perché non li mettete in giro per tutto il palazzo?»
«Perché quando i Capi si riuniscono, è come se tutti i terreni e la popolazione che rappresentano si unissero con loro. I loro colori, il loro passato storico, i loro costumi... si uniscono tutti e si fondono per qualche ora alla ricerca di una pace costante e di soluzioni a problemi comuni e non. Com'è il vino?»
Savannah si affrettò a berne un sorso e fece qualche verso di apprezzamento per rasserenare l'espressione curiosa dell'uomo. «Dissetante», commentò. Era un po' aspro, ma non osò commentare oltre. Poi mangiò un'altra tartina e ancora non riuscì ad identificare il sapore che esplodeva nella sua bocca.
«Quindi state cercando di scoprire le vostre origini?», esordì Silar con innocenza, facendo andare di traverso il cibo nella gola della ragazza.
Savannah mandò giù tutto il vino restante nel suo bicchiere per non strozzarsi e tossicchiò un paio di volte prima di poter tornare a parlare tranquillamente. «Che stai dicendo?», lo accusò.
L'aver gettato un argomento così importante e così anomalo in un momento di tranquillità aveva fatto piombare la jiin in uno stato di agitazione totale.
«Tuo fratello ha chiesto con insistenza del vostro cognome, domando scusa», provò a giustificarsi lui facendo spallucce. La jiin ebbe la strana sensazione che non fosse affatto dispiaciuto, ma preferì ignorarla.
«Quando?»
«Quando sei scappata via dalla riunione.»
Savannah strinse le labbra, punta nel vivo. Annuì distrattamente e guardò altrove: si era pentita di quella fuga nell'istante stesso in cui era uscita dalla stanza, ma non sarebbe mai rientrata.
«Voi...», la voce di Silar era diventata improvvisamente gentile ed interessata. «Davvero non lo sapevate?»
Savannah scosse la testa e si versò altro vino, più che altro per avere qualcosa da fare.
«E come vi siete chiamati? Avete inventato altri cognomi?»
«Solo di là.»
«Tra gli umani?»
La jiin annuì contrariata e bevve un sorso esagerato, rischiando di sbrodolarsi. «Lì fanno molte più domande», disse dopo aver svuotato il bicchiere con una smorfia.
«Attenta o ti ubriacherai...»
«Tranquillo, qui so reggere l'alcol», troncò subito. «È nell'altro mondo che non riesco a sostenerlo.»
Silar alzò le mani in segno di resa ed inarcò le sopracciglia con naturalezza. «Come preferisci...»
Savannah posò la bottiglia più forte di quanto volesse e un po' di vino traboccò sul tavolo. Le vennero in mente i modi bruschi della cameriera nella sua stanza e sorrise stupidamente.
«Perché me l'hai chiesto?», domandò di nuovo in tono d'accusa, cercando di recuperare il sangue freddo che la stava abbandonando.
«Dell'alcol?»
«Delle origini. Sai qualcosa?»
Silar si sistemò i bottoni della giacca ed annuì sicuro di sé. «La genealogia è la mia passione», la informò con voce imperiosa. «Se me lo permetterai, domani potrò illustrarti i tuoi avi.»
«Non mi interessano», sputò lei.
L'espressione sconcertata che si era dipinta sul viso del futuro capo di Kyureth le fece capire quanto infantile si fosse dimostrata. Prima chiedeva risposte, poi non le voleva più. Forse aveva sopravvalutato la sua capacità di reggere il vino. Chiuse gli occhi e trasse un breve respiro.
«Scusami», disse sconsolata, «A volte non so nemmeno io se voglio saperne di più o no.»
«E perché non dovresti?»
Savannah fece per afferrare nuovamente la bottiglia di vino, ma la mano di Silar gliela allontanò in tempo. «Non so come ci si senta», le disse dolcemente mentre la posava a qualche vassoio di distanza. La festa sembrava essere distante chilometri, la musica non martellava loro le orecchie, era come se non ci fosse altro oltre a loro due e a quelle pesanti parole che si scambiavano. «Non so com'è non avere i genitori... ma capisco benissimo il tuo desiderio di conoscerli.»
«No, io non voglio.»
Savannah ricordò improvvisamente la calda sensazione di protezione e di cure affettuose che aveva provato nella vasca da bagno. Quella donna estranea le aveva fatto provare nostalgia per una situazione familiare che non aveva mai vissuto, se non con il fratello alle fontane sporche delle piazze cittadine: si era sentita terribilmente bene e al tempo stesso dannatamente a disagio.
Guardò Silar negli occhi castani e non si domandò come mai le fosse così facile parlare di simili questioni con un perfetto sconosciuto. Le parole uscirono dalle sue labbra prima che riuscisse a rendersene conto, ma non provò a fermarle. «Non si può sentire la mancanza di qualcosa che non si conosce, giusto?»
L'uomo non parlò.
«Non ci mancano i nostri genitori, semplicemente perché non sappiamo com'è averne... e credo che sia per questo non ci importa più chi siano e perché ci abbiano abbandonati. Da piccoli, per qualche mese ci eravamo interessati e avevamo provato a cercarli, ma è stato tempo sprecato. Tra il passare i giorni a scoprire il passato e l'usarli per vivere le nostre vite e potenziarci, abbiamo scelto la seconda e... no, non ci siamo mai pentiti di quella scelta.»
«Però... ora senti che ti manca qualcosa, non è così?»
Savannah batté più volte le palpebre ma non disse nulla. Non era sicura che avesse detto una cosa vera, ma non riusciva neanche a dire che fosse totalmente falsa.
«È proprio come la storia dei dipinti», proseguì Silar, «Senti il bisogno di sapere chi c'è stato prima di te, per conoscerti meglio e sentirti più completa.»
Il tempo sembrò appannarsi mentre il respiro di Savannah rallentava inesorabilmente. Non si era mai sentita così, e non sapeva nemmeno come descrivere quella sensazione di vuoto che provava. Ciò che passava di fronte ai suoi occhi sembrava appartenere a qualcun altro, come se lei fosse svanita lontano, distante da quella strana festa a cui mai avrebbe pensato di partecipare. Silar era di fronte a lei e non sorrideva sicuro di sé come aveva fatto per tutta la serata, non la stava annoiando con stupide rassegne gastronomiche. «Come fai a...», balbettò svuotata.
«A volte parlare con gli estranei fa bene», si limitò a dire lui, con l'aria di chi ne sa qualcosa. «Vuoi fare una passeggiata in giardino?»
Savannah scosse la testa, dapprima lentamente e poi con più decisione. Si voltò verso il tavolo del buffet e prese un'altra tartina, sempre dallo stesso vassoio. «Parlami della principessa», ordinò.
Avrebbe avuto modo di pensare ad altre cose e si sarebbe ripresa, distraendosi.
Silar sospirò e tornò a sorridere soddisfatto. «La principessa Chawia è solamente un Capo che ha preso in mano l'albero genealogico facendo due più due, sfrutta il buon nome della sua casata e l'eredità magica che possiede, nulla più. Crede di poter unire tutta Ataklur sotto un solo Reggente, cioè lei, e... beh, purtroppo c'è qualcuno che la sta a sentire.»
«Ha sostenitori?»
«Tutta la sua regione», rispose prontamente e con amarezza, «E sembra che qualcun altro dei Capi sia d'accordo col suo progetto, anche se non so ancora chi. Spero che non ci sia una branca di ribelli anche a Kyureth, sarebbe una vera scocciatura doverli piegare.»
Savannah approfittò di un momento di distrazione di Silar e si versò di nascosto un altro goccio di vino. Non sopportava di essere rimasta così priva di vitalità dall'analisi troppo accurata di uno sconosciuto e cercava energie nell'alcol, nuovamente certa che lo avrebbe retto senza problemi. Lo bevve tutto d'un fiato prima che l'uomo si voltasse ancora verso di lei e si sorrisero a vicenda con imbarazzo.
«Il mio amore per la genealogia è nata dalla voglia di scoprire le origini del potere magico tra le persone, capisci?», proseguì lui, ignaro di cosa fosse successo alle sue spalle.
Savannah annuì convinta, pur consapevole di non aver prestato molta attenzione a ciò che aveva appena detto.
«Un giorno stavo passeggiando nelle strade di Kyureth, ho osservato con attenzione il popolo e mi sono domandato: chi sono stati i primi jiin? Perché ci sono i brehmisth? Così ho deciso di incentrare le mie ricerche partendo dagli alberi delle grandi famiglie nella mia regione, quelle che vantano una dinastia potente da generazioni, e via via un po' tutte le altre. Chawia può vantarsi di molti avi illustri, ma suo padre era un umano e questa è una grande pecca. Un giorno, se avremo dei figli, potremo istituire una vera discendenza monastica, potente come un mondo simile richiede, e tutta Ataklur la riconoscerebbe e rispetterebbe come tale... Non credi?»
La jiin annuì inerte, più annoiata dalla sua voce che interessata dall'argomento, ed ingoiò un'altra tartina verde. Le trovava davvero squisite e continuava a mangiarne nella speranza di scoprire di cosa fossero fatte, ma non si era ancora mai avvicinata alla soluzione. Ne aveva ancora una in mano quando si domandò perché Silar fosse tanto certo che suo figlio avrebbe ereditato abbastanza potere da diventare principe di Ataklur... non che le potesse importare. In fondo di due fratelli, uno era nato brehmisth e l'altra jiin, non sapeva dire se da quel dato si potesse determinare la potenza dei suoi genitori. Trovava solamente curioso pensare che la gente potesse rispettare un principe la cui madre ha sempre vissuto ai margini della società, facendo sempre e solo il suo interesse ed infrangendo spesso le regole sia dei Capi Reggenti sia del buon costume; d'altronde era l'idea di Silar, non la sua. Era lui quello che si curava di politica del regno e...
La tartina le cadde di mano non appena ebbe collegato due tasselli fondamentali del discorso di quel borioso uomo che stava sopportando ormai da un'ora. Savannah increspò la fronte e improvvisamente la tranquillità in sala che era riuscita a conquistare mangiando e bevendo svanì: di fronte ai suoi occhi, gli invitati continuavano a chiacchierare, sorridere e scherzare tra loro amabilmente, ignari del senso di inquietudine che la stava attanagliando.
La tartina toccò il tavolo e quel rumore delicato risuonò nella sua mente come vetri in frantumi. Si voltò verso Silar con il viso ancora pensieroso e corrucciato; vide il suo sguardo sereno e compiaciuto ed alzò le sopracciglia con uno scatto, rendendo il suo stupore così manifesto che anche un cieco se ne sarebbe accorto.
«Il tuo plurale era per noi due!», esclamò shockata, realizzando finalmente l'intera discussione fatta con lui. «Noi! Insieme! Non intendevi un “avremo” generico, ognuno per conto suo...!»
La sua voce era di una tonalità più alta del normale e Silar ne sembrò divertito, ma anche lievemente imbarazzato e irritato. Si guardò attorno con sospetto, rincuorandosi nel vedere che non avevano attirato l'attenzione quanto temeva.
«L'alcol inizia ad annebbiarti, vedo. Forse dovremmo riprendere il discorso domani ma... non dirmi che non ci hai pensato neanche per un istante», le disse ammiccando in maniera provocante e sporgendosi verso di lei.
Savannah non riuscì ad impedirsi di scuotere vigorosamente la testa ed indietreggiò barcollando e pestando i piedi a qualcuno. «No! Cioè, io non... non è una cosa che rientra nei miei piani e... non ci ho mai pensato... comunque no!»
Si accorse che stava balbettando molto più di quanto avesse voluto. Cercò di mantenere la calma, anche se la mano che reggeva il bicchiere tremava vistosamente e la cosa non faceva che agitarla di più. Si appoggiò al tavolo del buffet ed incrociò il suo riflesso in un vassoio argenteo: non riusciva a capire se fosse arrossita, impallidita o un patetico miscuglio delle due cose.
«Ovviamente non intendevo spaventarti a questo modo», Silar cercò di riprendere in mano la situazione. Le sfiorò delicatamente la spalla e le indicò la balconata che portava allo splendido giardino del palazzo. «Una boccata d'aria?», propose sicuro.
La jiin rifiutò. Dopo quella rivelazione, non avrebbe più corso il rischio di rimanere da sola con lui.
Silar si passò una mano sul viso e sospirò amareggiato. «Forse sono stato un po' troppo precipitoso, puoi scusarmi?», domandò con sincerità.
«Sei impazzito?», lo aggredì Savannah a denti stretti, cercando di non attirare l'attenzione degli invitati circostanti. Una coppia di mezza età aveva lanciato un paio di occhiate allarmate nella loro direzione, ma qualcosa -forse il colore dei loro abiti- li aveva dissuasi dall'intervenire.
«Conosci una persona da meno di un'ora e proponi subito di combinartici in matrimonio... parlando pure di figli? Lo fai con tutte le ragazze o io ti ispiro tanta possibilità di successo?», abbaiò ancora la jiin, inalberata.
Silar deglutì e si affrettò a versarsi qualcosa in un bicchiere per non mostrare di esser rimasto senza parole e con un'espressione troppo imbarazzata in viso. «No che non lo propongo a tutte. E poi pianificazioni di questo tipo non sono da prendere alla leggera o da rifiutare a piè pari», la rimproverò serio.
Savannah sgranò gli occhi e gli prese il bicchiere, privandolo della sua occupazione. «Stai scherzando? Tu dici a me che non è da prendere alla leggera?»
«Si vede che non sei abituata a questo lato del mondo, ma io posso aiutarti a...»
«A convincermi che è giusto fare come fai tu?», soffiò con stizza. «Hai ragione, non sono per niente abituata a queste cose politiche, nobiliari, territoriali o come preferisci chiamarle. Ma sai una cosa? Preferirei stare con un umano che legarmi con un pallone gonfiato come te!»
Si godette l'espressione stupefatta e sconvolta di Silar Gerit, uomo così tanto tronfio e pieno di sé e del suo stile di vita che non avrebbe mai immaginato di essere messo a tacere da una ragazza orfana dei bassifondi del deserto, poi si voltò trionfale su sé stessa e si allontanò con un sorriso enorme stampato in faccia.
Iniziò a cercare il fratello come l'ago di una bussola cerca il nord, ignara che Nehroi, dalla parte opposta della sala, stava salendo le scale accompagnato da una giovane donna molto attraente, avvolta in un elegantissimo abito rosso fuoco che le lasciava scoperta la schiena.
Una schiena candida e pulita.



*-*-*-*



Ci ho messo un bel po' ad aggiornare, che cattiva ^^" il capitolo, come molti altri, era già pronto da un pezzo, ma volevo lasciarlo "decantare" per un po' perché non mi convinceva e stamattina mi sono svegliata col piede giusto per impreziosirla ed aggiungere un pezzettino... va beh, non vi interessa! xD

L'importante è che abbiate notato la descrizione di Deiry all'inizio e come è finito il capitolo xD e sì, anche i tentativi di Silar di concupire con Savannah... beh, avremo molti sviluppi interessanti, promesso! ^^

Ho visto che il numero di recensori è calato vertiginosamente ma sono fiduciosa e di certo non smetto di pubblicare e di scrivere! Anche perché i capitoli più belli ed intensi (a mio parere, quelli che mi hanno impegnata di più e che sono decisamente... beh, lo vedrete :P) sono ancora un po' lontanucci e va bene fare qualche pausa nel postare ma se non mi sbrigo li posterò l'anno prossimo! xD

Alla prossima guys!!
Ciao!

Shark

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Capitolo 24
*** Postumi, sorprese e domande ***






24
Postumi, sorprese e domande



Cercò suo fratello nella sala gremita ormai da metà dei partecipanti iniziali, ma non riuscì a vederlo svettare da nessuna parte. Continuò a girare e a cercarlo con gli occhi, ma non riuscì a far altro che imbattersi nuovamente in Silar, evitandolo alla velocità della luce, e poi in una infastidita principessa Chawia.
Quando le loro strade si incrociarono, i loro sguardi non si legarono come era accaduto durante la riunione: gli occhi di Chawia erano puntati verso l'abito di Savannah, con la stessa ostinazione con cui avevano fissato il tavolo due piani più in alto ore prima.
«Viola», bisbigliò il Capo di Eastreth.
«Come, scusa?»
Le iridi smeraldine della principessa si posarono ferocemente sul viso di Savannah, poi tornarono a fissare un punto indefinito nei pressi del giardino. Con ampie falcate e tendendo con determinazione il mento all'insù, la donna si allontanò rapidamente dalla ragazza. «Ma che problema ha?», si domandò la jiin, poi scosse la testa e tornò a cercare suo fratello.
Seduta su una sedia, poco distante dall'ingresso della sala, Decra accarezzava il suo pancione e sorseggiava una bevanda trasparente. Indossava un abito liscio e senza fronzoli, blu come il suo grado di jiin, macchiato solo da getti di sabbia che spiccavano su una spalla, sul fianco, dall'orlo inferiore.
Savannah fu tentata di ignorarla, ma vederla così sola e sconsolata le fece passare in un paio di istanti la rabbia che le aveva sempre gettato addosso con la sua indifferenza verso tutti i ragazzini che erano scomparsi durante i suoi anni al governo. Le parole solenni che aveva udito durante la riunione dal vecchio Kin e la sua risposta definita saggia stavano iniziando a mettere radici in lei, così si avvicinò al tavolo del buffet e prese un po' di tutto, comprese le tartine misteriose.
Attraversò la sala e porse con poca delicatezza il piattino ad una sorpresa Decra, che temette di vedersi sovesciato addosso tutto quel cibo.
«Acqua di lago?», le domandò Savannah indicando il bicchiere, mentre il disagio per quella situazione la colpiva ad ondate come un mare in tempesta.
Il Capo di Feinreth inclinò il liquido come se lo stesse esaminando e schioccò la lingua. «No, solo acqua. In gravidanza non si possono bere alcolici, lo sai?»
Afferrò delicatamente il piattino ed invitò la ragazza a sedersi accanto a lei facendo fluttuare una sedia verso di lei. «È molto gentile da parte tua, grazie.»
Savannah si morse un labbro e si maledì per aver deciso di rallegrare la serata del suo nemico.
«Cosa contengono quelle tartine verdi?», non riuscì però a trattenersi dal chiedere e Decra la guardò stupita. La musica cambiò e divenne meno ritmata, ma avvolgente come una coperta morbida.
«La prima volta che sei entrata nel mio ufficio avevi chiesto qualcosa di simile, sul contenuto di una cassetta di cuoio», ricordò la donna. Savannah rimase sorpresa e scosse la testa con un gesto secco.
Decra sorrise ed addentò una patatina blu e bianca. «Beh, è normale che non ricordi, eri molto piccola... dimmi, quanti anni hai ora?»
«Non ne sono sicura», rispose titubante la jiin, «Più di venti, credo.»
«Oh.»
Il tono della donna era sinceramente addolorato e non troppo stupito.
«Il nonno non ha mai saputo decidere quanti anni avessimo», continuò la giovane jiin quasi con bisogno, come se non potesse non dire quell'ultimo pezzo di risposta.
«Non ricordava neanche da quanto vi avesse con lui?»
Savannah si morse un labbro. «Sì...»
Le faceva uno strano effetto parlare del nonno con il Capo di Feinreth, ma sentiva che le sue confidenze sarebbero rimaste, in un certo senso, a casa. Non aveva mai percepito un legame speciale nei confronti della sua regione natale, ma Decra l'aveva vista crescere, sebbene solo attraverso guardie ed imputazioni di reati vari, e provava un irrazionale senso di fiducia nei suoi confronti che non sapeva spiegarsi. Forse aveva davvero bevuto troppo... «Quello lo ricordava», proseguì comunque, «Solo non sapeva quanti anni avessimo quando ci ha presi con sé. Poi non siamo mai riusciti a tenere il conto degli anni da quando è morto, e questo è quanto.»
«Mi dispiace», commentò Decra. Una briciola di pane nero scivolò giù dal piattino e rotolò sul suo vestito color blu elettrico confondendosi per un istante tra i granelli di sabbia, rimbalzò su una gamba e cadde a terra.
Decra sollevò la tartina verde e la allungò verso Savannah. «Quindi non sei ancora riuscita a capire cosa contiene?»
La jiin sorrise ed inclinò la testa di lato.
«Non te l'ha spiegato il tuo nuovo amico, Silar?»
Il sorriso si incrinò. «È troppo noioso», si limitò a dire.
«Penso che dovresti tenertelo davvero vicino», le disse con voce materna. «Ha una grande passione per la genealogia, lo sapevi? Scommetto che può scoprire tutto anche della tua famiglia, se solo glielo chiedi.»
Savannah incrociò le braccia e sbuffò con nervosismo. Silar era dall'altra parte della sala, immerso in una animata conversazione con Olus, in una giacca blu scuro che faceva risaltare la sua carnagione abbronzata e dei pantaloni bianchi come i sassi di Bastreth con dei motivi così elaborati ed originali che la ragazza ci mise un po' a capire che erano effettivamente ricoperti di pietre, e con sua moglie Helea, con un abito rosa che la faceva sembrare fin troppo bella. La ragazza fece una smorfia quando la vide e la donna ricambiò dandole le spalle con un'occhiataccia.
«Sì, me l'ha detto...», rispose a Decra con enorme ritardo.
Il Capo sembrò non essersene accorta. «Potresti approfittarne, scoprire quello che ti interessa e mollarlo, no?»
Savannah increspò le sopracciglia e lanciò uno sguardo obliquo alla donna col pancione che le sedeva accanto. Lei finì di masticare ciò che stava mangiando e scrollò le spalle. «Cosa? Ti stupisci che abbia imparato come ragionate fate tu e tuo fratello? E poi non è una tattica malvagia... io lo farei. Credo sia parte dello stereotipo della donna in carriera.»
«Sedotto e abbandonato?»
«Sedotto, sfruttato e abbandonato, sì.»
La giovane jiin ridacchiò. «Non mi interessa sapere nulla, sto bene così», disse, ma la determinazione della sua frase venne meno quando abbassò lo sguardo sul pancione del Capo.
Lei aveva un'aria così felice ogni volta che lo sfiorava... l'aveva avuta anche sua madre? Oppure per qualche motivo li aveva odiati, lei e suo fratello, e ripudiati condannandoli a quel modo? Spesso Savannah si era chiesta se i suoi genitori non fossero davvero morti, ma li avessero semplicemente abbandonati.
Scrollò le spalle. Quegli stupidi pensieri erano rimasti sepolti in lei da anni, precisamente dal momento in cui aveva scoperto di essere una jiin, varcato il portale e viste le nuove prospettive che la vita aveva da offrire loro. Che da qualche parte ci fossero una mamma e un papà anche per loro oppure no non aveva più alcuna importanza: avrebbero dovuto vivere comunque da soli.
Decra ammiccò complice, ignara dei mille pensieri contrastanti che stavano animando la ragazza.
«Questo è il posto giusto per le risposte, facci un pensierino.»
Savannah la guardò per un lunghissimo istante, cercando di sforzarsi e ricordare di cosa stessero parlando prima che si perdesse nei suoi pensieri. Infine ridacchiò. «Ho capito!», esclamò alzandosi in piedi. Si piantò di fronte al Capo a gambe larghe, con le mani sui fianchi ricoperti di stoffa svolazzante e con un'espressione trionfale sul viso. «Stai cercando di convincermi ad accettare la proposta dei Capi! Credi che mi importi così tanto delle miei origini da poter cadere in una trappola simile? Non mi interessano affatto, né i miei genitori né quegli stupidi Capi!»
Decra fece spallucce e si rituffò nel piattino a spiluccare qualcosa, con un'espressione più indifferente del previsto. «Io parlavo per il tuo bene, Savannah, mi dispiacerebbe vedervi in situazioni irreparabili...»
La jiin viola scacciò la sua ultima frase come una mosca fastidiosa e si allontanò con ampie falcate.
Trovò Phil poco più in là, intento a tamponare con un fazzolettino una vistosa macchia arancione sulla manica destra. «Mayson!», lo chiamò. Lo vide gettare via il fazzoletto e nascondere il braccio dietro la schiena. «Che ti è successo?»
Lui sembrò accorgersi solo in quel momento di essere sporco e si guardò la macchia con stupore.
«Mi hanno spinto», fu il suo unico e desolato commento. Guardò la ragazza con un sopracciglio alzato. «Hai bevuto?»
Savannah sbuffò ed annuì. «Era necessario... per poter sopportare Silar.» Allungò una mano verso di lui, immaginò di pulire la manica e la macchia scivolò a terra così come era caduta sul vestito nuovamente immacolato.
«Non dovevi», le disse il consigliere con un mezzo sorriso.
«Puoi ringraziarmi scoprendo dov'è quello scemo di mio fratello», propose lei con fermezza. «Lo sto cercando da un po'.»
«Ah!», esclamò Phil illuminandosi. «L'ho visto prima, stava salendo le scale.»
«Quindi è tornato nelle sue stanze?»
Il consigliere tossicchiò ed attirò l'attenzione della jiin. «Veramente...», iniziò.
«Cosa?»
Phil si grattò la nuca e lasciò vagare gli occhi giallognoli nel salone, posandoli ora su un invitato, ora su un drappo sul soffitto, ora sugli affreschi sulle pareti. «Era con Deiry», disse infine, mentre si domandava perché la sua vita si fosse riempita di momenti imbarazzanti da quando aveva conosciuto i Fratelli del Deserto.
Savannah batté le palpebre più volte ed aprì la bocca con uno scatto, per poi richiuderla ed aprirla nuovamente, pur senza riuscire ad emettere suoni. Dopo qualche istante, però, scrollò le spalle e scosse la testa. «Non mi interessa», disse risoluta, cercando di non pensare a cose di cui si sarebbe pentita.
Phil annuì. «Sono d'accordo. Una passeggiata nel giardino?»
Indicò l'ampia finestra che conduceva alla balconata da cui si accedeva alla distesa degli alberi variopinti sotto i quali si erano incontrati qualche ora prima. La luna accarezzava ogni foglia ed ogni filo d'erba e li tingeva d'argento, donando all'atmosfera qualcosa che l'umano non avrebbe esitato a definire “magico”.
Savannah annuì e per la seconda volta in quella serata prese sotto braccio il suo accompagnatore e si lasciò guidare fuori dalla sala, lontano dai problemi e dalle questioni irrisolte, almeno per qualche minuto.
O forse più.

Nehroi si sentiva bene e si stupì quando se ne accorse.
Per tutta la serata non aveva fatto altro che chiacchierare amabilmente con Deiry e la cosa che aveva reso tutto possibile era l'atteggiamento molto aperto e spontaneo della ragazza, che sembrava aver gettato dalla finestra la spocchia e le arie da miss che lo avevano annoiato quando era sbucata all'improvviso di fronte a loro prima di colazione.
Si era rivelata essere una compagnia davvero interessante, attraente in tutti i sensi e Nehroi non era riuscito a smettere di sorridere neanche per un istante, o di staccare gli occhi da lei.
La sala era gremita di gente e la musica era orecchiabile: la sensazione che lo aveva pervaso fin da subito era stata di calore, un grande calore nel petto. Aveva dimenticato tutto, dalla prima all'ultima delle sue preoccupazioni.
C'era solo Deiry.
Nehroi si mise a sedere e si guardò attorno.
Si sentiva ancora straordinariamente bene ma... c'era qualcosa di strano. Innanzitutto, aveva l'impressione di essere diviso a metà: una parte era ancora euforica dalla festa ma un'altra si domandava con ragionevole sospetto dove fosse finito.
La stanza era molto simile a quella in cui la cameriera lo aveva lavato e vestito di tutto punto, ma era piuttosto sicuro che non fosse la stessa. L'albero che vedeva fuori dalla finestra era scomparso e oltre il vetro regnava solamente un panorama illuminato dal nuovo giorno.
Un pezzo di stoffa azzurrino lanciato su una sedia dall'altro lato della stanza attirò la sua attenzione e due dita che gli passeggiavano sul braccio lo fecero rinsavire del tutto.
«Deiry!», esclamò all'improvviso. Quello laggiù era il suo abito, non più rosso, e lei era sdraiata accanto a lui, nuda. Improvvisamente si rese conto di essere nudo anche lui e non gli ci volle molto per intuire cosa fosse successo.
«È già mattina?», biascicò lei mentre si stropicciava un occhio con la mano. I suoi capelli biondissimi erano sparsi sul cuscino come i raggi del sole e Nehroi sentì uno strano balzo al petto quando lo pensò.
Si affrettò a trovare i suoi boxer o pantaloni o un qualunque pezzo di stoffa che potesse coprirlo e alla fine tirò a sé il lenzuolo. Si alzò in piedi ed iniziò a cercare i suoi vestiti in giro per la stanza quando si accorse che prendendosi il lenzuolo aveva lasciato Deiry scoperta e la cosa lo gettò ancora di più nel panico. «Ma che diavolo è successo?», borbottava in continuazione.
Trovò i suoi boxer e li infilò alla velocità della luce, lanciando altrettanto rapidamente il lenzuolo addosso alla ragazza.
«Ci siamo trovati, non è meraviglioso?»
La voce di Deiry era candida e dolce, ma Nehroi scosse la testa e cercò di non lasciarsi incantare. Di nuovo, evidentemente. «”Trovati”, dici? È impossibile, decisamente incredibile.»
I suoi pantaloni erano dalla parte opposta della stanza, accanto al letto. Deiry sorrise e non appena le si avvicinò gli afferrò delicatamente il braccio prima che potesse toccare la stoffa del suo abito.
«Hai mai sentito parlare del colpo di fulmine?», gli disse soave. Lui sentì venir meno la sua determinazione, ma non cedette e lei neppure. «Abbiamo solamente compreso che siamo fatti l'uno per l'altra... non sei felice?»
«Sì...»
Nehroi smise di respirare per qualche istante, come se fosse andato in cortocircuito. Cosa stava dicendo? Non era felice, era angosciato. «Mi hai drogato?», domandò con titubanza, ridendo assieme alla ragazza quando la sua voce trillò divertita.
«Drogato d'amore, ovviamente.»
Le mani di Deiry salirono lungo le braccia piene di cicatrici e si intrecciarono sulla sua nuca. Nehroi dimenticò ogni preoccupazione e si tuffò sul letto legando la ragazza a sé in un lunghissimo bacio.
Poi sentì di nuovo una strana sensazione, là dove il tatuaggio del suo sigillo nasceva e moriva ogni volta che veniva sciolto e rifatto, e la allontanò bruscamente.
Deiry sbuffò e si sistemò i capelli spettinati lontano dal viso. «Cosa ti prende?», domandò senza zucchero nella voce. Sembrava irritata.
Nehroi si passò una mano sul torace e massaggiò un punto preciso tra i simboli del sigillo rossastro. «Io... credo che...»
Deiry era nuda, in piedi di fronte a lui e la finestra la rifletteva di spalle.
«Ehi, dov'è il tuo tatuaggio?», le domandò notando la sua schiena immacolata.
Poi un ricordo attraversò la sua mente e si sentì confuso e disorientato come se stesse cadendo da un'altezza incredibile. Qualcosa cambiò, ad un tratto vide immagini di paesaggi splendidi e si sentì di nuovo tranquillo. C'era un riflesso, uno specchio d'acqua illuminato nella luce soffusa del tramonto, e tutt'attorno erba smeraldina finissima. Un refolo di vento la scuoteva dolcemente, cullando il paesaggio tra le sue braccia fresche e invisibili.
In mezzo a tutto questo, Deiry gli tendeva le mani, splendida come un angelo.
Il suo sorriso sembrava lucente come la luna e i capelli ondeggiavano delicatamente come una cascata di fili dorati. Nehroi alzò le braccia e cercò di afferrare le sue mani candide. Una musica dolce e suadente mescolava quelle immagini e le univa in maniera indissolubile.
Deiry strinse Nehroi in un abbraccio e il ragazzo si sentì svuotato di ogni pensiero.
Lasciò che lei lo trascinasse con sé sul letto e le loro labbra si unirono nuovamente.
«No!»
Nehroi saltò fuori dal letto, prese in fretta e furia tutti i pezzi del suo vestito e si fiondò in corridoio.
Chiusa la porta, rimase attaccato alla maniglia per qualche istante come se temesse che avrebbe dovuto lottare per tenerla chiusa, poi corse rapido per qualche metro prima di ricordarsi che fosse ancora in mutande. Imprecò ed indossò in fretta pantaloni e camicia, dopodiché provò ad indovinare in quale ala del palazzo si trovasse ed iniziò a percorrere tutti i piani come uno spaesato.
Trovò la stanza di Savannah dopo una decina di minuti di tentativi a vuoto e di salite e discese rapide delle infinite scale che li separavano, scoprendo che in effetti non era poi così lontana.
«Chi è?», domandò lei dall'altra parte della porta e Nehroi ringraziò che non fosse andata da nessuna parte. La sua voce fu il balsamo che addolcì il suo stato di agitazione: lei era lì, insieme avrebbero scoperto cos'era successo in un batter d'occhio.
«Sono io», ansimò, accorgendosi finalmente in quali pietose condizioni si stesse ritrovando.
Savannah aprì la porta e la prima cosa che notò fu la camicia aperta del fratello e la sua pelle sudata. Venne travolta dal suo ingresso nella stanza ancor prima che potesse salutarlo e improvvisamente le passò la voglia di augurargli un buon giorno.
«A cosa devo l'onore», borbottò contrariata.
«E quello?», domandò lui indicando il pigiama che stava indossando. Savannah si strinse nelle spalle ed abbassò anche lei lo sguardo sulle stelline che la ricoprivano fino alle caviglie. «La mia cameriera è molto premurosa», si limitò a dire. «Allora, che ti è successo?»
Nehroi si sedette pesantemente sul letto ed inspirò più volte, come se si fosse appena tratto in salvo da un mostro che voleva ucciderlo. «Non ci crederai mai», esordì.
«Che sei stato con Deiry?»
Lui la guardò stupito ed un'espressione stupefatta gli si disegnò in viso. «Come lo sai?»
«Ho le mie fonti. Non pensavo fosse il tuo tipo...»
Il brehkisth scattò nuovamente in piedi come una molla e l'agitazione tornò a pervaderlo. «Infatti è così! Non è per niente il mio tipo, non sarei mai andato a letto con lei se non... se...»
Savannah inarcò un sopracciglio e fece un passo avanti. «Se non?», lo incalzò.
Lo sguardo del fratello si fece sempre più vacuo e le sue parole si persero nella nebbia che gli stava attanagliando la mente. Sul viso, un'espressione ai limiti dell'inebetito si faceva largo rapidamente.
Savannah lo scrollò per un braccio e il ragazzo sembrò riprendersi. «Cosa?», domandò confuso.
«Che stai facendo?»
«Che sto facendo?»
«Stavi dicendo una cosa e ti sei imbambolato!»
«Ah, sì! Non ci crederai mai.»
«Questo l'hai già detto, perché non provi a proseguire? Che è successo con Deiry?»
L'attenzione di Nehroi venne catturata da un enorme mazzo di fiori splendidi e dai colori molto accesi che troneggiavano assieme ad un bigliettino su un tavolino in mezzo alla stanza. «Quelli da dove arrivano?», domandò invece.
«Sono fatti miei, puoi finire il tuo discorso?», replicò stizzita la jiin.
«Scioglimi il sigillo!»
«Cosa? Ma che...?»
«Anzi no, facciamo così», si avvicinò scombussolato alla porta e si passò entrambe le mani tra i capelli. «Sto benissimo, non ho bisogno di nulla ed è tutto a posto!»
Savannah si portò due dita alle tempie e roteò gli occhi. «A me tu sembri tutt'altro che a posto...»
La porta si chiuse durante il suo borbottio e l'esagitato fratello svanì dalla stanza con la stessa rapidità con cui era era comparso.
La jiin si avvicinò al mazzo di fiori e sfiorò distrattamente qualche petalo. Non aveva mai ricevuto omaggi del genere e si sentì in qualche modo lusingata dai modi fin troppo gentili di Silar, sebbene la sua proposta di unire le famiglie per creare una discendenza potentissima continuava ad aleggiare attorno ai suoi tentativi di piacerle come uno spettro angosciante.
«Suo fratello era turbato», disse la cameriera sbucando dalla cabina armadio.
Savannah annuì. «Credo gli sia successo qualcosa, ma non ho capito nulla... sono due giorni che mi sembra di essere ritardata.»
«Oggi incontrerà il signor Gerit», affermò l'altra nel suo strano modo di porre domande.
La jiin sospirò. «No, non credo... anche se ha promesso di raccontarmi della mia famiglia», rispose sovrappensiero.
Durante la passeggiata con Phil nel giardino del palazzo aveva avuto modo di incontrare seriamente Olus e Helea, scoprendo un'altra donna rispetto all'acida insensibile che li aveva curati il minimo indispensabile perché i suoi figli fossero contenti. Vederla così tranquilla e rilassata nel giardino le aveva fatto credere che sarebbero riuscite a parlare senza minacce reciproche, ma l'impressione durò un attimo. «Non credere che mi lascerò incantare dalle tue recite da brava bambina», le aveva sibilato rapidamente prima che il marito le raggiungesse. «Io ricordo perfettamente che razza di assassina pericolosa tu sia.»
Quando il Capo di Bastreth arrivò ad un passo da loro, la donna cambiò completamente umore ed indossò una maschera di allegria e cordialità che spaventò Savannah. Suo marito invece sembrava veramente esaltato all'idea di aver avuto l'opportunità di conoscerla di persona, elogiandola per aver liberato la valle dalla presenza inquietante della grotta.
«E grazie anche per esservi presi cura dei miei ragazzi, davvero!», non aveva mai smesso di dire.
Lei aveva provato a spiegargli in tutti modi che era successo l'esatto contrario, ma lui sembrava essere sordo alle sue repliche. «Helea mi aveva raccontato di una jiin molto forte e giovanissima che era andata temerariamente a sfidare il mostro», proseguiva secondo il suo discorso preimpostato, «E quando i ragazzi mi hanno detto che eravate riusciti a sconfiggerlo... beh, potrai immaginare quanto sono stato contento di sapere che ci saremmo incontrati qui! Avrei voluto fissarvi un incontro per un ringraziamento ufficiale già quando eravate a Bastreth, ma mi è stato detto che avevate fretta di andarvene e che non sono riusciti a trattenervi...»
Savannah non riusciva a credere che il Capo Reggente si fosse bevuto una simile balla, ma lo sguardo beato di Helea mentre lui diceva quelle cose non le aveva fatto dubitare per niente che lui ignorasse davvero quale arpia insensibile fosse sua moglie.
«In realtà non deve ringraziarci», gli aveva detto rossa in viso, «Non abbiamo sconfitto niente, solo intrappolat...»
«Ancora meglio!»
Qualunque cosa Savannah avesse provato a dire, Olus aveva sempre trovato il modo di elogiarla ed esserle grato. Al terzo tentativo di farlo ragionare, la jiin aveva abbandonato ogni speranza e pregato Phil di trovare un espediente che le facesse sparire quei due dalla vista. E in caso di questioni diplomatiche, lui era veramente imbattibile. Sarebbe riuscito ad indorare qualsiasi pillola e a convincere chiunque, e Savannah sentì di ammirarlo e di temerlo per quello strano potere, la strana arma di un semplice umano che usava le parole come unico scudo.
Avevano passeggiato in lungo e in largo nell'immenso giardino, poi lui l'aveva galantemente riaccompagnata nella sua camera e lei era andata a dormire con un sorriso sereno stampato sul viso.
La mattina dopo, l'enorme mazzo di fiori aveva catturato la sua attenzione fin dal primo battito delle palpebre e la raffinata “s” impressa sul bigliettino le aveva fatto ricordare che bisognava essere pronti a combattere e difendersi anche nel mondo raffinato dei modi gentili e delle tattiche silenziose. Possibilmente senza distruggere nulla, come aveva faticosamente dovuto promettere al consigliere.
«Anzi... sì», rispose alla cameriera dopo un'infinità di ricordi. «Oggi lo vedrò.»
«È una brava persona. Ha carisma.»
Savannah ridacchiò. «Non ne dubito, anche se ha dei modi decisamente... insomma, non credo sia normale proporre di fare un figli con una persona che conosci appena, no?»
Tornò per un attimo sulle sue, poi il silenzio che aveva ricevuto come risposta la incuriosì. Ruotò la testa verso la donna, immobile come una statua vicino alla porta della cabina armadio, ed aggrottò le sopracciglia. «Beh?», le domandò. «Nessun commento?»
La cameriera scosse la testa, vagamente impaurita.
«Cosa c'è?»
«Il mio era un commento oggettivo, non dico altro.»
«E un commento soggettivo?»
I suoi piccoli occhietti scattarono in ogni angolo della stanza, come se temesse che qualcuno potesse comparire all'istante e sgridarla per chissà quale motivo.
«No», disse solamente.
Savannah fece qualche passo e le prese le mani tra le sue. La guardò negli occhi e lesse un timore familiare, lo stesso che aveva visto nelle espressioni di molti altri bambini e ragazzi tremanti di fronte all'aspettativa di una punizione, solitamente corporale. «Non dirò nulla a nessuno», le disse con tranquillità, cercando di sembrare il più affidabile possibile. «Hai la mia parola.»
«E lei la mia», rispose. Fece un bel respiro. «Il signor Gerit è un ottimo partito.»
Savannah fu sorpresa da quell'affermazione. A giudicare dalle silenziose premesse, sembrava che avesse da dire qualcosa di cattivo, maligno o che potesse in qualche modo alimentare i sospetti della jiin nei confronti del futuro Capo.
«Davvero?», le domandò scettica.
L'altra annuì. «Non dovrebbe respingerlo. È sempre gentile, premuroso, educato.»
«Perché avevi paura di dirlo, allora?»
«Le ho rammendato e lavato i vestiti», disse invece la donna, porgendole cosa stava tenendo tra le mani da quando era entrata nella stanza. «Se no l'armadio è pieno di altri, scelga.»
Savannah scosse la testa. «Non sono una lady», le ricordò.

«Dov'è Goon?», domandò ad un cameriere nell'enorme sala in cui c'era stata la festa la sera prima.
Altri due uomini stavano tirando giù i drappi dal soffitto facendoli fluttuare con attenzione verso terra e una donna rimpiccioliva le sedie sfiorandole.
«Desolato, miss, non glielo so dire.»
Savannah sbuffò, era stufa di sentir parlare tutti in quella maniera assurda. «Fa niente», sputò rude. «E Heim?»
Il cameriere non sembrò minimamente toccato dai suoi modi popolani e le rispose con la stessa educazione che avrebbe riservato a chiunque, forse anche al vassoio che portava tra le mani e alle tartine verdi che conteneva. Savannah si sentì tentata dall'idea di mangiarne ancora una e scoprire finalmente cosa contenessero.
«È in procinto di partire, miss. Sta per tornare a Norreth.»
La jiin non perse tempo per ringraziarlo e corse verso l'ingresso, varcando il portone immenso in tutta fretta. Si ritrovò vagamente disorientata dalla quantità e dalla dimensione dei vari carri fluttuanti che erano parcheggiati a qualche centinaio di metri dal punto in cui si era accampata con Nehroi e i mal'Kee due sere prima. Strizzò gli occhi e vide un uomo panciuto e dai capelli bianchi camminare rapidamente verso un carro marrone seguito da due valigie che volavano a mezz'aria.
«L'hai caricato?», lo sentì domandare ad alta voce mentre riprendeva a correre verso di lui.
Un ragazzino stringeva tra le dita sottili un'enorme gemma e sussultò per lo spavento quando la voce imperiosa di Heim lo colse di sorpresa. La jiin non riuscì a sentire cosa gli avesse risposto.
Il Capo gli strappò la Stella dalle mani e la strinse a sua volta. Non appena un lieve bagliore rosa venne sprigionato, Heim lanciò la gemma al ragazzino e gli ordinò qualcosa con un tono molto sbrigativo.
Savannah corse più che poté ma quando arrivò sufficientemente vicina al Capo di Norreth per potergli parlare, questi salì sul carro e schizzò via ad una velocità incredibilmente elevata, facendo perdere l'equilibrio al ragazzo e gettandolo sull'erba umida.
«Merda», imprecò la jiin con stizza.
Il ragazzo, più mingherlino e smunto di quanto avesse potuto immaginare da lontano, la guardò e sembrò spaventarsi.
«Cosa ti ha chiesto?», gli domandò lei cercando di ignorare le sue strane reazioni.
Il ragazzo sembrò essere pervaso dallo stesso timore che aveva bloccato la cameriera poco prima, nella stanza. «Non lo dirò a nessuno», gli disse lei sperando che la tattica usata con la donna potesse funzionare di nuovo. «Te lo prometto.»
Il ragazzo sembrò rifletterci seriamente per qualche istante, poi annuì debolmente. «Mi ha sgridato», disse con voce flebile, «Non ho caricato la Stella abbastanza in fretta.»
Ogni carro si muoveva grazie ad una Stella, la gemma speciale in grado di immagazzinare energie magiche e di rilasciarle successivamente. Era un sistema principalmente usato dai soldati per non rimanere mai esausti durante una guerra o a causa dei macchinari perché potessero funzionare.
«Non sei abbastanza forte per poterlo fare?», ipotizzò Savannah. Quel ragazzo non sembrava essere essere un jiin di livello elevato e il suo cenno di assenso glielo confermò.
«Sai dov'è Goon?», domandò imperterrita.
Il ragazzo scosse la testa e la jiin tornò sconsolata verso il palazzo.
Incontrò nuovamente il cameriere con cui aveva parlato prima, trovandolo impegnato a lucidare un lampadario controllando a distanza una spugnetta gialla.
«Non ha visto Goon?», gli domandò ancora.
«Nuovamente desolato, miss.»
Si accorse solo in quel momento degli affreschi che avevano adornato le pareti bianche e che la donna che poco prima stava rimpicciolendo le sedie stava cancellando facendoli scivolare in una scatola. Era già a metà dell'opera ma parte della storia che era stata rappresentata era ancora visibile, sebbene Savannah non sapesse interpretarla o non vi trovasse nulla di familiare.
«Invece Mayson, il consigliere?», domandò infine, sperando in una risposta positiva, tanto per cambiare.
«L'ho visto andare verso la biblioteca con il signor Gerit, miss. Quasi un'ora fa.»
Savannah sorrise. Lo ringraziò e si voltò, fece qualche passo e poi tornò immediatamente da lui. Il cameriere le sorrise comprensivo. «Quarto piano, corridoio di sinistra prendendo quelle scale laggiù», la precedette.
Quando la jiin finì di salire gli infiniti e candidi gradini, trovò solo un grande pianerottolo che si diramava in due direzioni, nessuno tra coloro che stava cercando era nelle vicinanze. Il corridoio era spoglio e vuoto come sempre, riempito solamente dalla forte luce del giorno e dal cielo blu che si rifletteva sulle finestre aperte. Savannah si sporse da un davanzale e girò la testa all'insù, strizzando gli occhi per non accecarsi: la statua del fondatore di Ataklur e creatore della barriera era lì, con un braccio teso verso l'orizzonte e un piede alzato, come se volesse attraversare l'immensa terra che aveva riservato ai jiin millenni addietro. Non era mai stata un'appassionata di storia se non di quelle che portavano a preziosi manufatti utili per la missione, ma non si poteva vivere ad Ataklur senza sapere come fosse nata la loro terra e chi fosse stato il jiin più grande di tutti i tempi.
Il rumore di una porta che si aprì e chiuse rapidamente le fece quasi perdere l'equilibrio. Vide con la coda dell'occhio due persone che discutevano piuttosto animatamente, seppure nelle linee rigide del buon costume che regnava tra quelle mura. Non ci mise molto a capire chi fossero: Phil e Silar, entrambi con un'espressione molto tesa ed irritata sul viso.
Savannah si accoccolò in fretta sul davanzale facendo meno rumore possibile e cercò di spiarli attraverso i vetri delle finestre aperte, sperando di non essere vista.
«Ne sono più che certo, invece, l'ha detto in senso generale», disse Silar con un tono strafottente. «Mettiti l'anima in pace, non hai speranze.»
«Ma certo, infatti anche voi siete sempre rimasto vago, sbaglio?», replicò Phil con decisione.
Savannah ebbe l'impressione che stavano combattendo una strana guerra di trincea fatta solamente di parole e visi duri, una guerra che nessuno dei due sembrava intenzionato a perdere.
«Questi non sono affari che ti riguardano, babysitter.»
Phil sospirò ed abbassò le spalle. «Ancora?», domandò esausto.
«Il tuo Capo è tornato a casa e tu sei ancora qui, e pure tra i piedi...»
«Faccio solo il mio lavoro», sbottò a denti stretti l'umano. «Voi, piuttosto, non avete nient'altro da fare?»
Silar ridacchiò. «La differenza tra noi due è proprio questa, Mayson, io posso decidere cosa fare e tu no. Ma...»
I suoi occhi rotearono rapidamente verso la finestra dove Savannah li stava spiando e la jiin si spostò rapidamente per nascondersi meglio. Aveva una gamba distesa lungo la parete esterna e si stava reggendo a fatica al cornicione quando Silar comparve accanto a lei con aria dapprima truce e poi preoccupata. «Per gli spiriti!», esclamò mentre la afferrava per un braccio e la faceva rientrare. «Volevi cadere di sotto?»
Savannah gli scoccò un'occhiataccia. «Ho sconfitto cose più pericolose e letali di una caduta dal quarto piano, non sono una bambina...»
Il suo sguardo si spostò su Phil. «E non ho bisogno di babysitter.»
Il consigliere sbuffò nuovamente e aprì la bocca per correggere quell'affermazione ingiusta, ma un altro pensiero rubò il posto alla protesta. «Dov'è tuo fratello?», domandò.
Ormai erano quasi due settimane che viveva gomito a gomito con loro e vedere solo uno dei due Fratelli del Deserto gli faceva uno strano effetto, come di qualcosa sgarbatamente incompleto.
La jiin mugugnò frustrata e, per la prima volta nella sua vita, alla quella domanda rispose: «Non lo so.»


*-*-*-*



Non è proprio per niente così che volevo terminare il capitolo ma non mi è riuscito niente di meglio. Di cose succulenti ed importanti ne avevo già messe abbastanza, ho anche eliminato una parte troppo lunga con la cameriera e cercato di alleggerire il capitolo... poi boh, adesso mi direte voi se è piaciuto o no! XD
Dico solo che nei prossimi capitoli vedremo Phil e Silar scontrarsi per bene su un campo decisamente particolare, che Nehroi uscirà ancora di più di zucca e che Savannah e Chawia avranno modo di “confrontarsi” a dovere! ^^
Un po' di casino a Tolakireth, olè! Ché se no ci si annoia in quell'enorme palazzo, no?

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Capitolo 25
*** Incontro Ravvicinato ***






25
Incontro Ravvicinato



Tolakireth era sempre stato un tranquillo luogo di pace, emblema della serenità tra regioni e Capi, tra brehmisth e jiin, tra cielo e terra. Tra le mura marmoree si discutevano questioni di ogni tipo, talvolta si stilavano trattati di guerra e dichiarazioni ostili, ma sempre seguiti da tregue e promesse positive per un futuro più radioso.
Da un paio di giorni, però, il palazzo dei palazzi era scosso da due giovani forze che non seguivano esattamente quella tradizione e in particolare quella mattina una delle due stava mettendo a soqquadro ogni sala e persona che incontrava, servitore o funzionario che fosse, con lo sguardo di chi avrebbe messo tutto a ferro e fuoco.
«Possibile che oggi sia così tremendamente difficile trovare qualcuno in giro?», borbottò Savannah quando un altro cameriere le disse di essere desolato senza saperle rispondere.
Saettò verso il terzo piano, immaginando che la camera di Nehroi fosse, se non proprio accanto, quantomeno nelle vicinanze della sua. Lo aveva cercato in ogni angolo del palazzo, ormai mancavano all'appello solo le camere personali degli ospiti.
Arrivò di fronte alla porta e contò le stanze che la affiancavano: tre a sinistra, due a destra.
Si posizionò di fronte alla prima a sinistra, cercando di carpire voci o suoni dal suo interno, ma non riuscì ad udire nulla. Appoggiò un orecchio sulla porta con delicatezza e rallentò il suo respiro abbastanza da non disturbarla, ma nel giro di pochi istanti Savannah iniziò a credere che fosse finita in una dimensione totalmente estranea al rumore.
«Non puoi.»
La principessa Chawia era appena comparsa dalle scale, con i capelli sempre perfettamente intrecciati ed un vestito azzurro adornato qua e là da piccole gemme verde acqua che non sembrava assolutamente casual, come una giornata senza programmi ufficiali avrebbe dovuto suggerire. Il suo sguardo era tagliente come una lastra di ghiaccio incrinata, condito con uno scarlatto sorriso annoiato.
«Perché no?», le domandò Savannah con un velo di nervosismo. Si rese conto che le prime parole che la principessa le stava rivolgendo erano un divieto e la cosa la irritò non poco.
La donna non se ne curò. «C'è un incantesimo.»
Savannah fece spallucce. Aveva sentito dire che gli incantesimi erano magia particolare e un po' più elaborata del normale pensiero di un jiin, specialmente per quanto riguardava la durata dell'effetto ideato, ma non si era mai posta problemi in merito.
«Sempre magia è», borbottò la ragazza.
La risata di Chawia la irritò ancora di più: era divertita, sorpresa e sprezzante allo stesso tempo.
Si spense in un attimo, così com'era iniziata, e rimase solo il suo irritante eco ad aleggiare le corridoio. «Allora non avrai problemi», la provocò la principessa.
Savannah sentì il sangue ribollirle nelle vene: era la sua occasione per dimostrare a quell'ochetta di cosa era capace e non se la sarebbe lasciata sfuggire. Senza farselo ripetere due volte, si aggrappò agli stipiti di marmo, sollevò una gamba, la caricò immaginandola pesante e violentissima e tirò un calcio ben assestato sul legno. Prima che potesse toccarlo effettivamente, la jiin si ritrovò sbalzata all'indietro contro la parete con un urto micidiale.
Udì il rumore delle sue ossa scricchiolanti fin dentro il cervello e una sensazione nauseata la pervase come una scossa elettrica, più rapida del battito delle sue stesse ciglia stupite. Il freddo del muro di marmo la colpì come ghiaccio e rovinò a terra ancor prima di capire da che lato del corridoio fosse. La testa pulsava come se contenesse un martello e qualcuno lo stesse agitando senza tregua e la vista le si annebbiò completamente.
«Si dice che gli stolti capiscano qualcosa solo quando ci sbattono il naso contro», commentò ilare la principessa, senza neanche disturbarsi di sembrare addolorata o sconvolta. «Non credevo fosse tanto vero...»
Savannah rimase sdraiata a terra per un po', intontita dalla botta e shockata da ciò che era appena successo. Il marmo le stava raffreddando la pancia, il seno, le cosce, le braccia e una guancia, ma ciò che le bruciava di più era la schiena e la nuca. Imprecò mentalmente, senza voler sprecare forze preziose per farlo ad alta voce. In più, non vedeva altro che le scarpe della principessa e non erano neanche messe bene a fuoco.
Piano piano l'aria ricominciò a tornarle nei polmoni e il sangue tornò a fluire nelle giuste direzioni. «Sono stata... rimbalzata?», soffiò incredula. Alcuni punti del suo corpo pulsavano, sicuramente adornati da enormi lividi che presto l'avrebbero fatta sembrare un dalmata, e non riusciva ad alzarsi in piedi.
Chawia si chinò su di lei con un'espressione sprezzante, ben attenta a non avvicinarsi troppo.
«Con la stessa stupida forza che volevi riservare alla porta», la informò soave.
Stava per sparire di nuovo verso le scale quando la ragazza riuscì ad alzarsi in piedi e a correrle dietro, ignorando le sue stesse ossa che urlavano pietà. «Tu!», le disse così seriamente da costringerla a fermarsi. Prese fiato e si portò una mano alle costole, ma non si lasciò distrarre. «Tu devi dirmi cosa ti ho fatto!»
La principessa alzò entrambi le sopracciglia e ridacchiò nuovamente. «Perché credi di essere così importante da avermi fatto qualcosa?», domandò.
«Alla riunione mi hai degnata appena di uno sguardo», iniziò la ragazza.
«Non ti dovevo altro.»
«Alla festa mi hai quasi mangiata con gli occhi perché avevo un vestito viola.»
«Puro stupore.»
«E adesso questo!», sbottò infine.
La donna sorrise angelica e nuovamente sprezzante. «“Questo”... cosa, la tua devastante ignoranza? Non è colpa mia se non sai le cose e in più non ascolti i consigli.»
Savannah incrociò le braccia al petto e piantò i suoi occhi viola in quelli verdi con determinazione, fino ad odiare il fatto che fossero così simili a quelli di suo fratello. «Sai una cosa? Sono proprio curiosa di sentirli, i tuoi consigli. Se la tua reale testolina può accettare l'idea di parlarmi per più di un secondo, certo.»
La principessa sembrò stupita. Socchiuse gli occhi per esaminare meglio il viso di quella ragazzina insolente, analizzandola come se disponesse di raggi x, e poi annuì, non senza un ghigno malizioso che avrebbe fatto rabbrividire chiunque. «Bene», le disse. «Vieni nelle mie stanze e parliamo.»
Savannah sentì di aver guadagnato un punto. «Anche subito», sfidò.
Rimase ad un solo passo di distanza da lei fino al quinto piano, sforzandosi per tutto il tempo di convincersi che non stava poi così tanto male. Lassù le porte erano solamente due e così tanto lontane tra loro che sembrava dovessero contenere una sala da ballo ognuna. «Le altre camere sono troppo piccole», asserì la principessa prima che la ragazza potesse aprire bocca. Savannah avrebbe invece voluto domandarle quanta spocchia e strafottenza potesse contenere una sola persona, perché la stanza che le avevano assegnato era grande quanto il suo attico di New York e non l'avrebbe mai definita “piccola”.
Chawia aprì la porta sollevando delicatamente il mento, permettendo a profumi intensi e magnifici di riversarsi nel corridoio bianco, poi invitò la ragazza ad entrare con un gesto minimale della mano.
«Prima tu», le disse Savannah.
La principessa varcò l'uscio con un sorriso, per poi trasformarlo in un ghigno quando sentì le imprecazioni della ragazza alle sue spalle, bloccata contro un muro invisibile.
«Ops», disse innocentemente. Si voltò e la vide battere le mani contro l'aria solida come un mimo isterico. «A quanto pare oggi sei una calamita per gli incantesimi.»
Savannah sbuffò fuori di sé e continuò a tastare la parete invisibile che le impediva di entrare nella stanza in cerca un passaggio o di romperla. «Ancora la cosa della privacy?», domandò inviperita. Chawia era di fronte a lei, meno di un metro a separarle, e non poteva avvicinarsi neanche di un centimetro. Picchiò i pugni e provò a dare qualche calcio, guardandosi bene dall'usare la stessa potenza di prima, ma avrebbe avuto più effetti su una roccia granitica; inoltre dovette smettere subito, non appena il suo corpo le ricordò che non era una mossa saggia sbatterlo ancora contro superfici solide.
Una poltrona dorata dall'aria comodissima, gonfia come un palloncino e sicuramente soffice come una nuvola, si avvicinò alla principessa e lei vi si sedette con tranquillità esasperante scostando di lato l'abito azzurro. «No, ho bloccato solo te.»
La ragazza fu tentata di insultarla. «Mi inviti e poi mi blocchi? Cos'ha che non va la tua logica?»
«Guardarti è un vero spasso.»
Savannah spalancò il palmo della mano e le lanciò un fulmine ma quello evaporò contro il muro come acqua sul fuoco.
Schiumò di rabbia ancora per qualche istante, poi le venne in mente un'idea che non ci mise molto a definire “geniale” ed annuì a sé stessa. «Sai cos'altro è uno spasso?», disse mentre scompariva dalla visuale.
Chawia rimase per qualche minuto seduta lì, sulla sua bella poltrona comodissima, in attesa di scoprire cosa avrebbe escogitato quella ragazza strana e impulsiva. Era certa che nulla avrebbe potuto scalfire il suo incantesimo, fin troppo chiaro e preciso per poter essere raggirato: “Impedire categoricamente l'accesso a Savannah Krajal”. Elementare.
Rimase lì seduta per almeno un minuto, forse due. Qualsiasi cosa quella ragazzina stesse organizzando era terribilmente lenta ed iniziava ad annoiarla.
Quando però si rese conto che non sentiva alcun rumore e che la cosa divertente a cui si riferiva era lei che l'aspettava inutilmente, si alzò e si precipitò nel corridoio, girando la testa in tutte le direzioni per cercarla.
«Ora la faccia spassosa è la tua», la sentì dire a qualche metro da lei, con la voce diffusa nel corridoio vuoto. Era seduta su un davanzale, intenta a controllarsi con tranquillità estrema le pellicine sulle dita.
Chawia inclinò la testa su un lato e sorrise con semplicità, senza malizia o sadismo. «Complimenti, mi hai fregata», ammise vagamente soddisfatta.
«Sciogli l'incantesimo.»
La principessa si immobilizzò. Rimase in silenzio per qualche secondo, come se fosse caduta in trance o in coma profondo all'improvviso.
Savannah non sapeva cosa pensare, dire o fare, quindi rimase immobile anche lei, osservando la principessa nell'attesa che si animasse di nuovo. Non l'avrebbe mai ammesso, ma iniziava ad essere preoccupata. Era stata colpita anche lei da un incantesimo? Non aveva ancora ben capito come funzionasse la cosa...
Poi, con la stessa rapidità con cui si era imbambolata, Chawia schioccò le dita. «Fatto», comunicò.
«... tutto qui?», domandò la ragazza con scetticismo.
La principessa roteò gli occhi e sorrise ironica. «Certo che no, genio, ho predisposto tutto mentre mi fissavi come un'ebete.»
Probabilmente non l'avrebbe mai trattata con la gentilezza o il rispetto che le riservavano Silar e Phil, ma la cosa non ebbe alcun effetto su Savannah: anzi, si scoprì contenta di aver trovato qualcuno con cui poter essere sé stessa.
Chawia tornò alla sua poltrona dorata mentre Savannah scendeva dal davanzale e varcava finalmente la soglia. Provò qualcosa di simile a piccoli pizzicotti un po' ovunque, ma considerò che non aveva mai avuto a che fare con un incantesimo e lo interpretò come una conseguenza del transito.
La stanza, o meglio la piazza d'armi, era quanto di più bello, raffinato e ricercato che Savannah avesse mai visto. Il pavimento non era in marmo bianco come il resto di Tolakireth, ma rivestito di un caldo parquet con assi larghe quanto tronchi d'albero tagliati semplicemente a metà, sovrastato da una cascata di diamanti trasparenti come gocce di rugiada che si stendeva lungo tutto il soffitto.
Le pareti erano tappezzate di specchi, arazzi magnifici o scaffali di legno robusto e scuro straripanti di pendagli sontuosi, libri dalle copertine ricche ed elaborate, fiori freschi di ogni tipo e molte altre cose che la giovane jiin non riuscì ad identificare bene. Era entrata in un ingresso molto ampio che si trasformava in un salotto di tutto rispetto, con tre divani dorati e morbidi come la poltrona che era fluttuata davanti alla porta, disposti attorno ad un pregiato tappeto che sosteneva un tavolino di cristallo rosso che brillava come diamanti in fiamme; sopra di esso, libri scuri e con migliaia di pagine ingiallite l'uno si alternavano ad oggetti magici di varia provenienza e forma. A dividere due porte, una delle quali portava alla camera da letto di cui si intravedeva la testata e le decine di cuscini foderati come i divani e l'altra chiusa, c'era un caminetto spento così grande che la ragazza ipotizzò di poterci entrare senza neanche abbassare la testa.
Non appena mise piede dentro lì dentro, però, la luminosità che la riempiva calò drasticamente. Di colpo tutto si fece nero, i dettagli sfumavano lontani e Savannah si sentì annebbiata e immobilizzata.
Cadde inerme a terra, priva di sensi.

La prima cosa che notò era il freddo che le attanagliava le braccia. Assomigliava a quello del pavimento, ma era più opprimente.
Provò a ricordare, poi aprì gli occhi, la luce la accecò e ripiombò nella consapevolezza di cosa fosse successo, desiderando di non averlo mai fatto.
«“All'ignoranza segue solo ingenuità”, dicono.»
Chawia la stava fissando incuriosita dalla poltrona e sembrava che non avesse mosso un dito per tutto il tempo che Savannah era rimasta svenuta. Sorseggiava un drink rosa chiaro che tingeva la strana forma ondulata del bicchiere. «Incredibile quanti proverbi prendano vita solo guardandoti.»
La ragazza abbassò lo sguardo e si scoprì incatenata ad una sedia di legno, troppo poco pregiata per poter provenire dalla stanza della principessa più spocchiosa ed odiosa di tutti i mondi. Strattonò le braccia, inutilmente. Si concentrò e catalizzò ogni suo pensiero ed energia sul desiderio di sgretolare quelle robuste catene come se fossero di carta, come aveva fatto spesso con le manette dei poliziotti umani. Non accadde nulla.
Provò ad allentarle, farle svanire, cambiarne il materiale e persino scioglierle, sebbene la cosa le avrebbe procurato bruciature non indifferenti. Nessuno di quei tentativi ebbe effetto e le catene rimasero perfettamente immutate.
«Possibile che non si riesca a vedere qualcosa se non la si conosce?», domandò retorica la donna.
Savannah sbuffò sconfitta ed alzò gli occhi al cielo di gocce diamantine. «Un altro incantesimo», comprese. Odiava quella sensazione di impotenza e odiava essere costantemente alla mercé di quella donna odiosa.
«“Non ricevere effetti dalla magia di Savannah Krajal”, per l'esattezza. E dovresti essere onorata, è un incantesimo difficile da elaborare perché bisogna immaginare tutti i modi in cui potresti romperle ed ordinare che non funzionino... davvero non hai mai fatto niente del genere? Ma che hai imparato a scuola?»
Savannah le lanciò un'occhiata di fuoco.
«Ah», la principessa ricordò con una smorfia finta. «Già.»
Staccò le dita dal suo drink e quello rimase sospeso nell'aria. Andò a posarsi delicatamente sul tavolino tra i tre divani, posizionandosi graziosamente in mezzo ad un gruppo di pietre ovali e nere perfettamente allineate tra due pile di libri, mentre Chawia si alzava in piedi e si avvicinava alla giovane prigioniera.
«Usi la magia per queste stupidate?», domandò lei con sorpresa. «Sempre?»
Le era stato detto dal nonno che la magia era importante, che faceva la differenza e che aveva un ruolo basilare nella vita di Ataklur. Quando era piccola e credeva che sarebbe rimasta una brehmisth per tutta la vita, quelle parole avevano avuto un impatto così forte su di lei che a volte si era scoperta contenta di sapere che non sarebbe mai stata una jiin: avrebbe potuto continuare a fare ciò che sapeva fare contando sulle sue sole forze, senza barare come avrebbe fatto Nehroi. Ancora non sapeva che anche la magia faceva parte delle “sue sole forze”, ma comunque non aveva mai pensato di svilirla usandola in maniere così poco edificanti come posare il bicchiere o aprire la porta.
Chawia non sembrò toccata. «Più la usi e più diventi bravo, no? Più diventi bravo e più sei forte, resistente, capace e... beh, lo sai anche tu che qui la legge che regna è quella del più forte.»
Savannah non poté non ritrovarsi d'accordo con quel pensiero e la cosa la fece sentire stranamente in sintonia con la sua rapitrice. Se ne disgustò abbastanza da non dire nulla ed iniziò a cercare una scappatoia alla sua prigionia: avrebbe slegato quelle catene a tutti i costi, trovando un modo che la donna non avesse immaginato e previsto. Ce l'avrebbe fatta, era solo una questione di tempo.
«Gli stessi Capi Reggenti hanno la loro carica per questo motivo, sono i più forti della loro regione… e abbastanza istruiti da prendere il titolo, certo. Nessuno vuole un idiota potente a regnare su qualcosa di più elevato dei suoi capelli.»
La principessa sorrise e Savannah ebbe l'impressione che quello non sarebbe stato un monologo inutile e noioso come quelli di Silar sulla gastronomia. «Non capisco dove vuoi arrivare», la incalzò.
Improvvisamente si accorse che non aveva più tanta voglia di liberarsi. Si costrinse a non lasciarsi distrarre dall'affascinante mobilio e si sforzò di sostenere lo sguardo della principessa, sebbene la cosa le desse il mal di stomaco.
«In tutto questo ci siamo noi, lo sapevi?», disse la donna.
Chawia le accarezzò una guancia con delicatezza, sfiorandola appena, e Savannah si domandò se avrebbe anche provato a staccargliela.
Lei proseguì come se niente fosse. «O meglio, ci sono io perché voglio essere più forte di tutti i Capi. Vedi, io voglio... essere l'unica. La Regina. Il capo dei Capi, la prima di una stirpe. Un capo per tutta Ataklur, la più potente che esista.»
Si beò di quell'idea tanto in fretta e a lungo da rendere il suo viso gonfio di trionfalismo, rendendolo quasi illuminato dalle sue stesse fantasie, come se il sole non facesse abbastanza. Poi si ricordò di Savannah, la guardò come se fosse uno scarafaggio e qualcosa nel suo viso si incrinò. «E poi ci sei tu.»
Si allontanò da lei lascivamente, con stanchezza, e le girò attorno come se fosse un totem, scalpicciando sul parquet scandendo un ritmo asfissiante. «Tu», sputò quando arrivò dall'altra parte, «Tu che arrivi qui candida e tranquilla, ingenua nel tuo non sapere nulla, un accidenti!, di come funzionano le cose fuori dal buco in cui vivi e dai bassifondi che frequenti da quando hai smesso il pannolino. Sarai anche una jiin viola, ma sei altro che una ragazzina con in mano un'arma che non sa usare. Ma non importa che non sappia riconoscere un incantesimo quando ci sbatte contro, non importa quante persone abbia fatto fuori col suo adorabile fratellino brehmisth solo per una vendetta cretina e non importa neanche se non sa neppure il suo cognome! Lo vedi, Savannah? Tu arrivi e tutti... ti acclamano, ti vogliono, ti conoscono, dimenticano i tuoi precedenti e... e non sai nemmeno perché.»
Si appoggiò pesantemente sui braccioli incatenati e si sporse verso Savannah fino ad arrivare a meno di un centimetro dal suo viso, ignorando che si stesse appoggiando anche sulle sue braccia. Potevano contarsi le ciglia a vicenda e la tensione che si stava generando era sempre più palpabile. Chawia socchiuse le palpebre come se volesse leggere qualcosa di molto piccolo nelle iridi di Savannah e le sue labbra rosse rimasero aperte, in attesa del consenso della principessa per poter continuare a srotolare frasi.
«Te lo dirò io, il perché», le mormorarono all'orecchio con voce profonda e suadente.
Chawia scostò un ciuffo nero dal viso della jiin e si allontanò da lei, dandole le spalle e incrociando le braccia. «Sei il sassolino che intralcerà la mia ascesa al trono. Ma stai tranquilla, ti calcerò via senza problemi. È solo questione di tempo.»
Savannah si inumidì le labbra e si accorse che non sentiva più le dita della mano sinistra. «Non c'è nessun trono», disse lentamente.
«E qui... ti sbagli. Ma non preoccuparti, non lo vedrai mai.»
Chawia sospirò brevemente, poi scosse la testa e si voltò verso la jiin con l'espressione più divertita e incredula che avesse mai sfoggiato. Allargò le braccia e il vestito azzurro tirò sui fianchi asciutti come una tendina. «Per gli spiriti, sei davvero così stupida? Tutti i Capi Reggenti non vogliono far altro che togliermi di mezzo e cercano di accaparrarsi i favori della nuova paladina, l'orfanella giovane e viola e... davvero tu non hai nessun sospetto? Ancora non ci sei arrivata?»
Savannah si sentì a disagio: evidentemente la sensazione di essere ritardata non l'avrebbe abbandonata molto presto. Era dolorante, in balia di un incantesimo, incatenata ed inondata di troppa dannata politica che non faceva altro che confonderle le idee. «Arrivata a cosa?»
«A capire che ti stanno usando per sbarazzarsi di me e poi di te, naturalmente.»
La jiin sbatté più volte le palpebre sulle iridi viola e il suo respiro si interruppe per una manciata di secondi. Non riusciva a seguire bene tutti quei ragionamenti e le macchinazioni di un mondo che evidentemente non le apparteneva; temeva di aver perso molti passaggi, ma il discorso di Chawia era spaventosamente comprensibile e plausibile. Piuttosto raccapricciante, se preso per vero.
Le scese una gocciolina di sudore lungo la tempia. «Stanno usando me per sbarazzarsi di... me?»
L'ultima parte l'aveva confusa più del solito.
Stava per dire che non aveva alcun senso quando gli occhi glaciali della principessa la colpirono violentemente e all'improvviso Savannah non riuscì più a paragonarli a quelli del fratello.
«Ti hanno offerto una carica?», disse la donna con voce paziente.
«No, loro... beh in effetti sì, un ruolo nella guardia per...»
«Che bravi, vero? Gentili, soprattutto. Credi anche tu che saresti fantastica come poliziotta?»
Le si avvicinò e schioccò le dita. Le catene persero il loro incanto e Savannah si sentì improvvisamente libera di respirare a pieni polmoni, come se l'ora di prigionia fosse durata anni.
Avrebbe potuto spezzarle come avrebbe fatto fin dall'inizio ma rimase immobile, aspettando che la principessa finisse il discorso.
«Tutta impegnata a ripulire le strade e le regioni dai manigoldi, troppo occupata per fare altri danni nei due mondi e dar loro altri pensieri... il tutto mentre gliene togli. Non sono adorabili?»
Savannah era ancora coperta di catene quando la porta si chiuse alle sue spalle e la principessa scomparve dalla sua vista, lasciando dondolare quell'ultima frase davanti ai suoi occhi.


*-*-*-*



Oh, da quanto volevo pubblicare questo capitolo ed approfondire la stronzaggine di Chawia ^3^
Confesso che lei è nata in questo capitolo, la prima scena che mi è venuta in mente con questo personaggio è quella in cui lei si appoggia sulle braccia incatenate di Savannah e si fissano a vicenda negli occhi, con un po' di odio a condire il tutto perché non fa mai male...

Grazie infinite alle mie recensitrici (sapete già che vi lovvo ma lo ribadisco <3) e anche alle ormai molte persone che mettono la storia tra preferiti/seguiti/ricordati o_o ma quanti siete?? Palesatevi! [cit. Spotted EFP] (... ho la febbre, scusate xP)
Alla prossima!
Ciao!

Shark

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Capitolo 26
*** I dipinti parlano ***





26
I dipinti parlano



«Savannah!», esclamò Phil senza riuscire a nascondere la sua preoccupazione.
Il quarto piano era ancora luminoso come la prima volta che l'aveva visto, quando aveva rischiato di volare di sotto per spiare due uomini, gli stessi che le stavano correndo incontro proprio in quel momento. Non aveva ancora finito di salire le scale del quarto piano che la sensazione di essere controllata come una bimba o una impedita si stava riaffacciando dentro di lei, opprimendole un poco il petto.
«Ti stiamo cercando da più di un'ora! E... è sangue, quello?»
La jiin si morse il labbro inferiore e distolse lo sguardo con nervosismo mentre si portava le mani sul viso. Non aveva fatto i conti con la facilità con cui riusciva sempre a sanguinare, sebbene si fosse pulita pochi minuti prima apposta per evitare domande fastidiose. «No», disse comunque, anche se si sentiva come se stesse cercando di nascondere un elefante nella tasca.
Lasciò che Phil la esaminasse per qualche istante, quel che bastava per fargli capire che stava sufficientemente bene, poi gli scoccò un'occhiataccia e l'umano comprese che era scaduto il tempo a sua disposizione. Sperò solamente che i lividi non si affrettassero troppo a comparire, o avrebbe avuto qualche difficoltà in più a mentire a tutti continuamente.
«Non hai ancora trovato Nehroi?», le domandò rapido il consigliere, intuendo che il momento delle preoccupazioni fosse finito.
La ragazza scosse la testa e Silar spintonò Phil per avvicinarsi a lei, sorridendo smagliante come suo solito. «Pronta a scoprire il tuo passato?», le domandò affabile, impegnandosi per non guardare il taglio e il livido sulla guancia e le altre due chiazze violacee che stavano iniziando a comparirle sulle braccia nonostante gli spergiuri.
Savannah lo scrutò attentamente e rimase in silenzio per qualche istante.
«E Nehroi?», gli ricordò corrugando le sopracciglia scure. «Sono salita apposta per chiedervi di aiutarmi a trovarlo, io continuo a perdermi qui dentro...»
Lui scacciò quell'esitazione con naturalezza e le mise un braccio intorno alle spalle stando bene attento a non toccarla se non lievissimamente, guidandola verso la biblioteca con sicurezza. «Tutto a posto, quando lo ritroveremo potremo raccontare tutto anche a lui... o glielo dirai tu, come preferisci.»
La ragazza voltò faticosamente la testa all'indietro e scorse a malapena un Phil con gli occhi bassi.
«Allora», la incalzò ancora Silar facendola voltare di nuovo verso di lui. «Sei dei nostri?»
Savannah ansimò. La quantità di informazioni e di decisioni da prendere la stava soffocando in una maniera che non avrebbe mai immaginato... e l'idea di doverlo fare da sola perché Nehroi era disperso chissà dove e in chissà quali attività non la aiutava per niente.
Il giorno prima i Capi Reggenti avevano proposto loro di essere integrati nella società, di poter essere persone normali, di non dover più essere costretti a nascondersi e a viaggiare come vagabondi. Avrebbero avuto un lavoro di tutto rispetto e delle vite da vivere, non solo da salvare.
Era un'offerta davvero allettante, a dir poco strepitosa, e forse fin troppo bella per essere vera.
E infatti, neanche un'ora prima, Chawia era intervenuta prepotentemente aprendole gli occhi, certo, ma dandole quello che sembrava comunque un parere di parte. Savannah non era abile nel districarsi tra le vicende politiche che regnavano a Tolakireth, ma non le era sfuggito il vantaggio che la principessa avrebbe tratto dal suo abbandono ai giochi. Di certo non le avrebbe mai fatto il favore di lasciargliela vinta e si ritrovò inevitabilmente separata in due: accettare o no?
Ogni cosa aveva i suoi pro e i suoi contro, ma non poteva scegliere su due piedi.
In mezzo a tutto c'era Silar, così gentile e disponibile, affascinante e sicuro di sé: non fidarsi sembrava una cattiveria, in fondo Savannah non aveva mai ricevuto tante attenzioni.
Silar, tanto disposto ad aiutarla a scoprire qualcosa sulla sua famiglia, tralasciando il fatto che poi volesse anche allargarla in futuro. Non era da ignorare neanche lui.
Savannah ripensò alle parole di Decra e a quelle di Phil, aggiungendo altra confusione sulle sue incertezze.
«Io...», iniziò. Ma perché doveva decidere in quel momento?
Alzò lo sguardo verso la porta della biblioteca: era bella, robusta, di un pregiato legno scuro e rossiccio. Dai cardini si districavano decori dorati che scintillavano lungo tutta l'arcata, tanto in alto quanto in basso, dove si trasformavano in biondi fili d'erba. Le risposte che cercava da tutta una vita erano lì dietro, non doveva far altro che abbassare la maniglia.
Era tutto lì, pochissimo la separava da...
«No.»
La risposta lasciò i due uomini con la bocca semiaperta e gli occhi sgranati. «No?», ripeté Silar, ormai certo che avrebbe sentito l'esatto contrario. Stonava come un graffio su un bel tessuto o un colore sbagliato in una composizione. Glielo aveva letto negli occhi, era pronta, si vedeva che desiderava l'opposto...
«No», ripeté.
Le voleva, quelle risposte, non importa cosa sarebbe successo.
Lei avrebbe scoperto chi era ma non lo avrebbe fatto lì, in quel momento.
«L'unica famiglia che mi interessa ora è da qualche parte in questo palazzo, ma non dietro quella porta. Io devo trovare mio fratello.»

Il sole era ormai alto, e non era un bene.
Per la seconda volta in una sola mattina si domandò cosa stesse facendo lì, in quel letto, con una donna che conosceva appena e di cui inspiegabilmente non riusciva a liberarsi.
Nehroi la scrutò con la coda dell'occhio e sospirò nel vederla addormentata. Con la faticosa delicatezza di chi non vuole far rumore, sollevò il lenzuolo ed afferrò con le pinze ad uno ad uno i suoi vestiti, nuovamente sparsi in giro per la stanza, indossando subito solamente i boxer, ripetendo quello che stava iniziando ad essere un fastidioso rituale.
Poi abbassò la maniglia della porta, e lo fece così lentamente che probabilmente ci mise addirittura un minuto. Se la richiuse alle spalle e corse più veloce che poté senza guardarsi indietro.
Per la seconda volta in una sola mattina, si ritrovò di nuovo di fronte alla porta di Savannah. Bussò, ma il viso assonnato della sorella non fece capolino come sperato.
«Maledizione», imprecò a bassa voce, temendo che Deiry potesse in qualche oscuro modo sentirlo anche a diversi piani di distanza. «E ora dove la cerco?»
Approfittò di quel momento di solitudine e relativa tranquillità per indossare i pantaloni e la camicia, lasciando la giacca di fronte alla porta della stanza come biglietto da visita o deposito di fiducia improvvisato.
Scese le scale fino ad arrivare nella sala dove c'era stata la festa. Si sentì molto spaesato nel vederla completamente vuota e deserta, praticamente l'opposto di come l'aveva vista la sera prima; era colpito così tanto che uscì e provò a cercare altre porte simili per assicurarsi che avesse sbagliato posto. Confermata l'idea che pareti niente dipinti e nessun mobilio potessero effettivamente rendere una sala molto diversa da quella ricordata, non si lasciò distrarre oltre e si diresse a grandi passi verso il giardino.
«Annah!», chiamò ancor prima che un raggio di sole lo accecasse. Ricevette un'occhiata scocciata da parte di un giardiniere barbuto, inginocchiato vicino ad un'aiuola di fiori neri.
«Ha visto mia sorella?», gli domandò allarmato.
L'uomo conficcò la paletta nella terra ed afferrò con due mani la base di una pianta. «E tu chi sei?», disse mentre iniziava a tirare con tutte le sue forze.
Nehroi sospirò e scese la breve scalinata che lo condusse sull'erba verde. Perlustrò il giardino correndo tra gli alberi dalle foglie variopinte, stupendosi della loro quantità e della loro effettiva bellezza e la chiamò ancora, ma non la trovò. Aveva sperato di trovarla facilmente come era riuscito a Phil il giorno prima, ma evidentemente non era altrettanto fortunato.
Si stava avviando nuovamente verso la sala della festa quando la sua mente si annebbiò e provò qualcosa che ormai stava diventando familiare: si sentiva svuotato, leggero e confuso.
E vide Deiry.
Bella, incantevole, ammaliante.
Si portò rapidamente le mani sul viso e tappò gli occhi, ma scoprì con angoscia che la visione era nella sua mente. Lei era ancora lì, sotto le sue palpebre.
«No, no, no!», gridò nel panico. Attraversò rapidamente il salone e corse via ma riuscì a fermarsi appena in tempo, un istante prima di aprire di nuovo quella maledetta porta. Come ci era arrivato? Eppure gli sembrava di aver preso altri corridoi e cercato di allontanarsi...
Iniziava ad essere molto inquietato dal potere di quella donna.
Si voltò su sé stesso e ricominciò a salire le scale, tutto sudato, sperando che Tolakireth avesse abbastanza piani da mettere una bella distanza tra lui e quell'ammaliatrice bionda che non avrebbe voluto vedere mai più nella sua vita.
«E tu che ci fai qui?»
Nehroi interruppe la sua corsa e strizzò gli occhi per vedere chi avesse parlato dal fondo di un corridoio che non aveva mai visto prima.
Bastarono pochi passi perché il brehkisth intuire chi fosse quell'uomo. Si stropicciò due riccioli scuri che gli si erano appiccicati sulla fronte. «Gerit?», ipotizzò.
Silar sembrò sorpreso ed irritato di vederlo lì e non si sforzò troppo per nasconderlo.
«Che cosa», ripeté mentre si aggiustava il fazzoletto viola nella tasca della camicia come se potesse scappare, «Ci fai qui?»
«Dov'è Savannah?», gli domandò invece il brehkisth, per nulla interessato a dargli spiegazioni.
L'uomo socchiuse gli occhi ed inspirò profondamente. Ci mise un po' a rispondere, quanto bastava perché Nehroi ricominciasse a sentirsi di nuovo angosciato da Deiry e da qualunque cosa gli avesse fatto. Preoccupato com'era di vederla sbucare da qualche parte o di ritrovarsi incapace di ordinare alle sue gambe di non tornare in quella camera, non si accorse della lotta interiore che stava avendo luogo nella mente del suo interlocutore.
«Vieni», disse Silar dopo almeno un minuto. Lo afferrò per un braccio e lo condusse giù per le scale. «Ti sta cercando da ore.»

La stanza che raggiunsero era la sala in cui Goon li aveva radunati per fare la piccola riunione speciale prima di quella ordinaria. La porta di legno era aperta per metà e la luce che filtrava disegnava un bel parallelepipedo sul pavimento marmoreo.
Silar mollò il suo braccio solo quando dovette usare entrambe le mani per spalancare del tutto i battenti della porta in una maniera che Nehroi non esitò a definire teatrale.
«Savannah!», lo sentì esclamare trionfante. «L'ho trovato!»
Nehroi roteò gli occhi e pensò che fosse decisamente odioso essere trattato come un cucciolo smarrito riportato dalla padroncina. Non fece in tempo a fare un passo per seguirlo ed entrare a sua volta nella sala che la ragazza gli corse incontro e gli tirò un forte pugno in pieno viso al grido di “Idiota!”.
Silar rimase senza parole e la sua bocca rimase aperta per metà mentre li osservava. «Non è la reazione che mi aspettavo...», balbettò perplesso.
Phil annuì solenne. «Con quei due non è mai la reazione che ci si aspettava», sentenziò.
Rimasero a guardare i due fratelli che si azzuffavano in corridoio come se ne andasse della loro vita e si sentirono allo stadio.
«Perché mi stai picchiando!», urlò Nehroi dopo aver schivato ed incassato una considerevole quantità di colpi, improvvisamente pentito di averle fatto vedere tanti film d'azione.
Savannah non rallentò e continuò ad inseguirlo a mani alzate. «Perché sei uno stupido!»
Il ragazzo riuscì ad afferrarle le braccia, farle lo sgambetto ed intrappolarla tra sé e il pavimento, tenendole fermi i polsi. La ragazza soffiò dal dolore alla schiena, ma lui non ci badò.
«... non è mai stato un buon motivo...», protestò invece, convenendo di non essere nuovo all'appellativo.
«Oggi lo è di più», rispose lei con aria truce. «Che stavi facendo con Deiry?»
Nehroi rimase dapprima sorpreso, poi ridacchiò sollevato. «È questo, allora? Sei gelosa?»
Savannah lo scaraventò dall'altra parte del corridoio con un'ondata di energia inferiore a quella che aveva fatto volare Toco giorni prima, per evitare che si ritrovasse malmenato anche lui dalle mura di Tolakireth. Non appena cadde a terra con un tonfo si precipitò su di lui e lo immobilizzò a sua volta. «Sei venuto tu stesso a dirmelo stamattina», soffiò a denti stretti. «Eri stranissimo.»
Nehroi rimase in silenzio. Silar e Phil erano appena usciti dalla sala e li stavano guardando ancora, ma lui si curò solamente degli occhi lucidi di sua sorella. «Te l'ho detto io?... ed eri preoccupata?», domandò lentamente. Ogni suo ricordo dall'inizio della festa era assolutamente sfuocato e confuso, a meno che non riguardasse Deiry, e la cosa lo faceva sentire malissimo.
Savannah si morse il labbro inferiore e sbuffò. «Chiunque si sarebbe preoccupato», minimizzò. «Sembravi scappato dal manicomio.»
Il brehkisth annuì ma si trattenne dall'ammettere che non era una considerazione troppo lontana dalla realtà.
«Perché hai un livido sulla guancia?»
La ragazza alzò gli occhi al cielo con stanchezza e scelse le parole da usare per riassumere tutto quello che le era successo in poco tempo.
«Ho imparato che gli incantesimi sono più difficili da gestire di quanto pensassimo», disse. Lasciò i polsi del fratello e si sedette mettendosi comoda sul suo addome, ignorando le sue proteste. «Che non bisogna parlare con Chawia perché è una stronza di prima categoria, che anche Decra è da evitare, che c'è qualcosa di molto strano nella servitù, che è dannatamente facile perdersi in questo stupido palazzo e che posso convincere Silar a fare quello che voglio solo sbattendo le ciglia.»
Nehroi inclinò la testa di lato e tirò un angolo della bocca in un sorriso sghembo. «Wow, tutto questo prima di mezzogiorno?»
«Purtroppo sì, ma temo che avrò scoperto tutti i segreti di Tolakireth solo quando riuscirò a capire anche cosa contengono quelle tartine verdi», commentò con un'alzata di spalle e un mezzo sorriso.
«Quali, quelle con le ortiche dolci?»
Savannah sgranò gli occhi e rimase con la bocca aperta.
«Volete rimanere in quella posizione ancora per molto?», li interruppe Silar con lo stesso tono di un insegnate che riprende gli alunni indisciplinati. Attraversò il corridoio con rapide falcate e si chinò lievemente sui ragazzi, incrociando le mani sulla schiena con aria saccente. «Ora che siete finalmente riuniti potreste scoprire ciò che dovete sulla vostra famiglia, non trovate?»
Savannah lo squadrò a viso duro. «Ti ho già detto che non ci interessa», ricordò decisa.
Silar non si lasciò intimorire. «Hai detto che tu non sei interessata, ma non credo che stessi parlando a nome anche di tuo fratello. Nehroi, c'è una cosa molto importante che vorrei mostrare almeno a te. Poi sarete liberi di fare quel che vi pare ma...»
Si rimise dritto e porse una mano al brehkisth per invitarlo ad alzarsi, come due avversari leali a fine partita. Il ragazzo guardò la mano, poi la sorella e fece spallucce. Se la scrollò di dosso in silenzio come se fosse un gatto, ignorando le sue proteste; si alzò in piedi poggiandosi sul ginocchio e senza sfiorare la mano di Silar.
Iniziarono ad avviarsi verso la sala riunioni con passi tranquilli.
«Pare che alla mia sorellina siano capitate tantissime cose stamattina», esordì il brehkisth tanto per intavolare una chiacchierata e riempire almeno con le parole quel corridoio spoglio e terribilmente bianco.
«Sorellina?», domandò la jiin ironicamente.
Silar rise più del previsto a quella battuta. «Non... non sapete neanche chi è il maggiore tra i due?», esclamò veramente divertito. «Come avete fatto a vivere fin ora!»
Nessuno dei due fratelli, e neanche Phil, rise con lui.
«Ci sono cose più importanti di una scheda anagrafica», sottolineò Nehroi con fermezza.
Silar si schiarì la voce ed annuì. «Scusatemi, non volevo...», indicò la sala con un gesto del braccio e li invitò ad entrare. «Da questa parte, sulla sinistra.»
Phil e Savannah rimasero all'ingresso, lei ferma e impuntata sulle sue come una statua e lui comodamente sprofondato in una poltroncina.
Nehroi superò l'enorme tavolo di legno, alzò lo sguardo e finalmente ebbe un momento per accorgersi della bellezza di tutti quei dipinti e ritratti che soffocavano le pareti della saletta. La cura dei dettagli era magnifica e lasciava senza fiato, che stessero rappresentando un albero, una casa o una persona.
Il giorno prima non si era accorto che Savannah fosse rimasta dentro con Goon solamente perché stava parlando con Phil, ma quando l'aveva vista arrivare scura in viso non si era neanche chiesto cosa si fosse perso e lei non aveva menzionato nulla.
«Siamo stati su questa montagna», commentò osservando un quadro particolarmente pieno di toni grigi e marroni. «E questo è...»
Silar non lo ascoltò e si posizionò di fronte alla serie di dipinti più gialli e luminosi come se lo avessero chiamato. Nehroi continuò ad osservare ogni tela quasi una ad una, allungando il collo quando erano posizionate troppo in alto persino per lui, finché non arrivò a quelli che stava fissando il futuro Capo.
Seguì la linea del suo sguardo e ciò che vide gli tolse il respiro.
«Oh.»
«Questi sono i ritratti dei Capi Reggenti del passato», spiegò Silar con tranquillità. Aveva previsto che lo avrebbe stupito, così non forzò le sue reazioni ed attese il tempo necessario perché elaborasse ciò che stava vedendo.
Nehroi deglutì e credette che dovesse esserci qualcosa di sbagliato.
«No, non...»
L'altro annuì affermativo.
«Che c'è?», domandò Savannah da lontano, troppo impegnata a tenere le braccia incrociate e a tenere il broncio vicino alla porta per poter seguire la mostra d'arte.
Nehroi la guardò con un'espressione che la convinse subito ad avvicinarsi. «Il nonno», disse.
Silar arricciò il naso e gli scoccò un'occhiataccia. «Come, prego?», domandò perplesso.
Il brehkisth allungò un braccio ed indicò un quadretto dalla cornice di legno nero appeso poco sopra le loro teste. Su uno sfondo rossiccio, un Ughrei con pochissime rughe e i capelli ancora scuri sorrideva sicuro di sé e i suoi occhi erano così luminosi che sembravano veri.
La jiin accelerò il passo senza lasciarsi distrarre dalle bellissime tele che superava in fretta.
Silar sbuffò ed afferrò bruscamente la mano di Nehroi, abbassandola. «Questo», disse scocciato facendogli indicare il quadro sottostante. «Io volevo farti vedere questo.»
Savannah si intrufolò tra loro ed alzò il naso verso i ritratti. Rivedere quell'uomo che li aveva faticosamente cresciuti e che occupava senza riserve un posto nel loro cuore e nel loro spirito la lasciò con la bocca schiusa dallo stupore. La tela raffigurante il nonno la colpì particolarmente perché era ben più giovane e aitante del ricordo vecchio e logoro che conservavano, ma quello sottostante la lasciò ancora più basita.
«Neh?», le sfuggì.
Silar rise sotto i baffi e Nehroi aggrottò le sopracciglia. «Non sono io», disse convinto, «Ma cavoli, sembra di stare allo specchio!»
La ragazza si alzò sulle punte ed esaminò più da vicino quel ritratto impossibile: dalle spalle massicce al più ribelle dei ciuffi di capelli, passando per gli zigomi asciutti e lo sguardo fiero, quello era in tutto e per tutto suo fratello. C'era solo un dettaglio che stonava e il pittore aveva dimostrato molta cura nel sottolinearlo. «Gli occhi...»
«Sono viola, sì», rispose prontamente Silar. La sua voce era calda e soddisfatta, come quella di chi è contento di aver fatto qualcosa di utile. «E i capelli più scuri di quelli di Nehroi. Non vi viene in mente nessuna ipotesi su chi potrebbe essere?»
Ogni Capo dipinto aveva una spilla sul petto, identica per tutti in quella sua forma strana che a Nehroi ricordò tre patatine rotonde sovrapposte. Ognuna era uguale alle altre, ma con incisioni diverse: su quella del nonno c'era scritto “Ughrei Krajal”, su quella del ritratto sottostante “Nehroi Krajal”.
I ragazzi sbiancarono.
«Siete i figli del penultimo Capo di Feinreth.»

«Non è possibile.»
La voce di Savannah era molto più roca di quanto si aspettasse, ma la cosa stranamente non la stupì o non ci fece particolarmente caso. Nehroi non riusciva a pensare a molte cose, se non a tutte le fantasie che aveva avuto quando giocava ad immaginare l'aspetto delle persone che li avevano malauguratamente messi al mondo.
Sì, aveva immaginato spesso il padre simile a lui, ma neanche nelle sue notti più buie aveva osato attribuirsi tanta somiglianza. Tutto ad un tratto, quest'uomo che altro non sembrava se non una sua proiezione lievemente più avanti negli anni, era reale e si stava imponendo nei suoi ricordi immaginati. Sua sorella non sapeva tutte le fantasie che si era fatto su di lui e sulla loro madre, non gliele aveva mai raccontate per paura che si sarebbe intristita.
Silar si voltò ed andò a sedersi ad una delle poltroncine rosse congiungendo le mani sull'addome.
«Perché no? I Capi hanno figli come tutti quanti e, come chiunque, possono morire e lasc...»
«No, non è possibile che tu ce lo stia dicendo ora.»
Anche Phil aggrottò la fronte perplesso. «Che intendi dire?», le domandò dalla sua poltroncina dall'altro lato della sala, facendo rimbombare la voce tra le quattro mura.
Nehroi continuava a fissare il ritratto di suo padre, preda di mille e più domande. Una sensazione gelida gli attanagliò le viscere e sentì il cuore stringersi come se qualcuno lo stesse tenendo in una mano chiusa a pugno.
Sua sorella, dietro di lui, respirava velocemente e cercava di ignorare quella sensazione. «Io ho rifiutato di sapere la nostra storia, ho rifiutato di “essere dei vostri”!», replicò combattuta. «Perché adesso me la racconti comunque?»
Silar sorrise dolcemente, lo stesso sorriso che le aveva donato durante la festa, quando le aveva letto nella mente e nei sentimenti. «Perché so che stai mentendo a te stessa, che muori dalla voglia di riempire quell'enorme buco nero che ti brucia nel petto, che non puoi non voler sapere perché hai pianto tutte quelle notti sotto le coperte, perché siete sempre stati sulla strada e chi ha permesso tutto questo. Dimentico qualcosa? Si legge tutto nei vostri occhi.»
Savannah si sentì destabilizzata e vacillò. Anche Nehroi non si sentì più tanto in sé, ma a quella sensazione associò ciò che aveva sentito in giardino e con Deiry per molte ore. Chiuse gli occhi ed inspirò lentamente, scacciandola. «Quindi questo era l'assaggio», concluse atono. «Ora hai gettato l'amo e non ti resta altro da fare che rimanere in attesa. Scommetto che hai imparato benissimo l'arte della pazienza, dopo aver passato un'intera vita aspettando che il tuo vecchio tiri le cuoia e ti lasci il titolo, uh?»
Fu Silar a sentirsi mancare un po' di terreno da sotto i piedi, ma non lo diede assolutamente a vedere. Era tra le prime cose che aveva imparato da piccolo: mai mostrare il vero viso al nemico.
Lasciò che le reazioni palesi le manifestasse tutte Savannah, che strabuzzava gli occhi verso il fratello e lo guardava con un misto di ammirazione e di estraneità. Forse non si aspettava tanta arguzia politica dal suo “stupido” fratello.
«Dev'essere davvero divertente giocare così con le persone», terminò Nehroi con asprezza e con un ghigno.
«Un Capo fa gli interessi di tutti», sentenziò Silar come se stesse ripetendo una cosa che sapeva a memoria, per nulla toccato dalle sue insinuazioni.
«Ma davvero? E i tuoi quali sono? Che ci guadagni facendoci entrare nel corpo di guardia?»
Savannah alzò un braccio sul petto del fratello e scosse la testa. Sapeva già cosa avrebbe provato a guadagnare. Si voltò verso Silar e lo investì dell'occhiata più sprezzante che potesse fare in quel momento di instabilità emotiva. «Ti ho detto di no una volta e lo farò ancora. Provaci quanto ti pare, non ci avrai mai.»
L'uomo si sistemò meglio sulla poltroncina e non staccò gli occhi dal viso di Savannah neanche per un istante. «Perché sei ancora convinta che non ti importa di loro?», domandò tranquillo, come se le avesse chiesto che tempo facesse fuori.
La ragazza strinse i denti e non si lasciò ingannare dai suoi giochi. «Perché non li abbiamo mai conosciuti e la nostra vita è andata avanti lo stesso», affermò decisa.
«Ma... potendo conoscerli?»
Savannah scoppiò in una risata improvvisa come fa un palloncino vicino ad un ago. «Come potrei?», esclamò ilare. «Non so che faccia abbiano...»
Silar alzò una mano e materializzò sul tavolo una montagna di fotografie che svolazzarono su tutto il grande tavolo. La jiin non se ne curò e si sforzò di non guardarle neanche con la coda dell'occhio.
«Né i loro nomi», proseguì imperterrita.
«Adalè Tonkins e Nehroi Krajal.»
Una vena iniziò a pulsarle sulla tempia. «Il suono della loro voce», continuò. Si materializzarono scatole auditorie di vari modelli e fatture, provenienti da periodi di tempo anche molto distanti tra loro.
«Che hanno fatto nella vita...», comparvero anche vari plichi di documenti, rapporti e resoconti vari.
«Smettila!», sbottò all'improvviso con ferocia. Silar ridacchiò. «Non inizierò a voler bene ai miei genitori con i ricordi di qualcun altro!»
Phil si morse un labbro e sospirò; Nehroi prese la sorella per le spalle cercando di calmarla, ma anche di trattenersi dall'afferrare tutto quel materiale che era stato materializzato sul tavolo e berlo con avidità.
Savannah aveva sempre dimostrato di avere un atteggiamento strano nei confronti dei genitori, passando continuamente dall'apatia al desiderio morboso, passando per lunghi periodi di amarezza. Per lui, invece, era stata una costante: non aveva mai accettato di buon grado l'idea di non sapere, ma il nonno non era mai stato loquace in merito e la sorella aveva sempre evitato di farsi del male con domande inutili. Ma dopo aver visto il ritratto, le somiglianze, essere a così pochi centimetri dal sapere tutto... sudare freddo gli era semplicemente inevitabile e le mani gli tremavano non poco.
«Annah, io...»
Silar parve disorientato da quel repentino cambiamento d'umore, poi ricordò che qualcosa di simile era avvenuto anche la sera prima alla festa e si tranquillizzò, consolandosi che non ci fosse alcol nei paraggi. «Io volevo solo darti l'opportunità di...»
«Continuerà sempre a non importarmene nulla, quindi smettila!», sibilò inviperita, ma senza riuscire a mascherare un pizzico di rammarico. «Io sono io, sono contenta di ciò che sono e non lo sono certo grazie a loro!»
«Invece è proprio grazie a loro se sei così potente.»
La ragazza sospirò esausta. Nehroi era ormai un grumo di nervi indistinto e nei suoi occhi si poteva iniziare a vedere il disegno di un piano futuro. Lui voleva sapere.
«Perché non lo capisci?», proseguì lei noncurante. «A me non importa dei poteri, mi andava bene essere una brehmisth, ero già pronta! È grazie a loro se sono potente, dici? Ma anche l'essere orfana, o sbaglio? E anche l'avere avuto un fratello, e l'aver vissuto così!»
Phil non seppe cosa avrebbe potuto dire per calmarla; desiderò solamente avere a che fare con qualcuno di più ragionevole e malleabile. Ebbe una fugace visione di Savannah fatta di roccia immutabile, una bellissima statua pregiata, e gli sfuggì un sorriso.
La jiin scosse la testa la testa, si divincolò dalla presa di Nehroi e si avviò verso la porta. «Non comincerò a chiamare “junior” mio fratello perché un tale si chiamava così prima di lui.»
Uscì dalla stanza.
Aveva appena iniziato ad allontanarsi che la porta alle sue spalle si riaprì facendo comparire Silar in mezzo al corridoio. «Puoi mentire quanto voi, ma a me non la darai mai a bere!», le disse con un tono che non aveva ancora mai usato con lei.
Savannah si voltò e lo guardò incuriosita, lasciandolo continuare. Era una sua impressione o era addirittura lievemente rosso in viso?
«Dici che ti andava bene essere una brehmisth, eh? Mi spieghi allora perché non hai mai smesso di ricercare nuovi fonti di potere in entrambi i mondi? A cosa ti servono tutti quei talismani, quelle reliquie, i codici nascosti e le Stelle se non a diventare più potente?!»
Le puntò contro un dito e i suoi occhi si accesero ancora di più. «Tu ed io siamo uguali. Entrambi cerchiamo il potere e non so come puoi non aver ancora capito che con me puoi averne più di quanto potresti riuscirci raccogliendo antiche e inutili carabattole!»
Savannah gli si avvicinò a passi lenti, senza mai smettere di scrutarlo attentamente, come se si stesse aggrappando al filo invisibile che univa i loro sguardi per tirarsi avanti. Osservò la sua mandibola serrata, i capelli pettinati, lo sguardo intenso e il sorriso di chi sa che sta per vincere.
Alzò una mano ed afferrò la sua. La spinse via con violenza e fece un altro passo per arrivargli il più vicino possibile.
«Posso insegnarti tutto, Savannah», proseguì lui senza scomporsi. Il suo respiro era caldo e sfiorò il viso della ragazza. «Posso aiutarti a raffinare il tuo potere grezzo con magie ed incantesimi che non potresti nemmeno immaginare. Il tuo livello salirà ancora e avrai tutto il potere che desideri.»
Pochi millimetri separavano i loro nasi. Savannah sorrise.
«Puoi conoscere tutto del mio passato, ma non sai niente di me.»
Silar stava per replicare quando Deiry comparve in quel corridoio con esasperante tempismo. Aveva i capelli vagamente pettinati in uno chignon ed indossava solamente un golfino rosa largo e lungo che la copriva fino a metà cosce.
«Oh», fu il placido suono che fece scattare tutti nella sua direzione come molle cariche.
Nehroi stava per fiondarsi tra quei documenti rimasti sul tavolo quando quella unica sillaba ebbe il potere di farlo sudare in un istante e di fargli sparire dalla mente tutta la questione dei genitori. Guardò Phil con gli occhi fuori dalle orbite per il panico ma l'umano non poté fare altro che sollevare le spalle, ignorante ed impotente.
«Miss Goon», la salutò Silar non senza nervosismo. Batté le palpebre più volte e si allontanò da Savannah come se scottasse. «Che visita... inaspettata.»
«Sto cercando Nehroi», disse lei candidamente indicando la porta della sala con un dito sottile. « E ho la netta sensazione di averlo trovato.»
Savannah sbuffò come un toro infuriato, gli occhi accesi dalle troppe emozioni che si ritrovò a provare in una sola volta. Si voltò di scatto verso la biondina alle sue spalle e fece esplodere le finestre nelle sue vicinanze, facendo attenzione che tutte le schegge di vetro le andassero addosso, indirizzandole come onde del mare.
Silar non ebbe il tempo di reagire o dire alcunché, troppo sorpreso da una mossa troppo avventata , improvvisa per i suoi modi pacifici. Phil e Nehroi udirono il frastuono ed accorsero a vedere cosa fosse successo, sgranando gli occhi di fronte ad una Deiry rannicchiata tra frammenti di vetro di ogni dimensione e con le mani portate d'istinto sulla testa. Una barriera l'aveva protetta dalla testa ai piedi e non aveva neanche un graffio.
«Sei impazzita?», riuscì finalmente a dire Silar scrollando Savannah per un braccio, senza controllare la sua espressività. «Avresti potuto ferirla gravemente!»
La jiin ridacchiò e la indicò con disprezzo. «È illesa, non vedi?»
Un'altra risata si diffuse nel corridoio, ma non a causa dell'eco. Deiry si alzò in piedi e si aggiustò la maglia. «Così hai capito tutto?», domandò diabolica, dimenticando la sua maschera candida tra le schegge.
Savannah si inumidì le labbra, guardò il fratello e poi di nuovo lei. «Forse no», ammise con una scrollata di spalle, «Ma credo che colpirti a priori non sia mai una cattiva idea.»
Deiry non si lasciò sconvolgere quanto Phil e Silar. Si passò sensualmente le dita tra i capelli, sciogliendo lo chignon, ed ammiccò in direzione del giovane brehkisth. «Nehroi», lo chiamò con voce nuovamente zuccherosa mentre i boccoli biondi scivolavano morbidi sulle sue spalle. «C'è qualcosa che vorresti dire a tua sorella?»
Savannah aveva già aperto la bocca per ridere di quella domanda insulsa quando udì qualcosa che non avrebbe mai pensato sarebbe arrivato alle sue orecchie. «Che... che cosa?», balbettò incredula.
Gli occhi di Nehroi si posarono su di lei con freddezza. «Ho detto che ti odio.»




*-*-*-*





I capitoli che mi piacciono di più? Il 35 e il 43.
Perché ve lo dico anche se siamo solo al 26? Perché sono perfida ;)
Direte voi: “non ti basta tutto ciò che hai ficcato nel capitolo? C'è bisogno di altra perfidia?”

*canticchia* ~ il meglio deve ancora veniiiireeeeeeee

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Capitolo 27
*** Di sigilli e di Fiducia ***





27
Di sigilli e di Fiducia



Il vento caldo della sera sfiorava la loro pelle come carezze morbide e soffuse, smettendo i panni taglienti e crudeli che lo caratterizzava in altri periodi dell'anno, quando la gente si ritrovava sfreghi e graffi in faccia e non sapeva perché.
L'aria scivolava leggera sulle assi di legno, sollevando abbastanza sabbia e terra da disegnare fugaci forme impalpabili e dalla vita più breve di un battito, fantasmi o forse spiriti. Il sole scendeva rapido oltre le dune dorate, infiammandole come ogni sera, e il cielo era una distesa arancione tanto affascinante che il piccolo Nehroi aveva alzato una mano e teso le dita per cercare di toccarlo, immaginandolo liquido e dolce.
Liquido come il liquore che comprava sempre in paese.
Aveva allungato il collo ed alzato la testa verso il nonno, intento a giocare sovrappensiero con il fumo della pipa bianca trasformandolo in anelli spazzati via nell'aria agitata, e non si era stupito di trovarlo più arancione anche lui.
«Nonno», lo aveva chiamato mentre un ricciolo gli dondolava davanti agli occhi, pizzicandogli il naso.
Il vecchio aveva fatto un verso con la gola e aveva spostato pigramente lo sguardo verso il bambino, senza smettere di fumare. Un anello di fumo si stava infrangendo contro il colonnato del portico.
Nehroi si era rotolato sulla schiena e appoggiato la testa sulle mani, sollevandosi sui gomiti. Le assi del portico avevano scricchiolato sotto il suo lieve peso, ma non più del solito. «Nonno, perché le nuvole sono bianche di giorno e nere al tramonto?»
Ughrei aveva ridacchiato ed abbassato la pipa con un'espressione malinconica. «Non sono nere, bimbo, sono ancora bianche», aveva risposto con voce solenne ma divertita. A volte Nehroi gli faceva delle domande davvero strane...
«Ma io le vedo nere!», aveva protestato il piccolo, corrugando le sopracciglia ed arricciando il labbro inferiore. Aveva iniziato a dondolare i piedi scalzi, su e giù, picchiandoli talvolta sul legno con pesanti “toc” che il vecchio non aveva mai potuto sopportare.
«È la loro ombra, è quella la cosa scura che vedi!», aveva replicato Ughrei mostrando nervosismo e Nehroi aveva smesso subito di fare rumore. Aveva smesso anche di respirare per lo spavento, ma aveva ripreso poco dopo.
«Sono contento di essere a casa», aveva detto nell'istante successivo.
Il vecchio aveva sollevato le sopracciglia bianche e si era voltato verso di lui con vivo stupore. Molte rughe si erano rimarcate sulla sua fronte man mano che scrutava il piccolo nipote sorridente.
«All'orfanotrofio ci sono molte ombre», aveva proseguito il bambino, riprendendo lentamente ad agitare i piedini. «Qui c'è molta luce ed è bello!»
Ughrei aveva ridacchiato emettendo un suono grave e si era alzato in piedi facendo attenzione a tutte le giunture. Aveva appoggiato la pipa bianca sul davanzale della finestra della casa, lasciando che il tabacco uscisse dalla caldaia per volare con la sabbia, e aveva stretto le dita robuste attorno alle bretelle scure, sistemandole dopo esser rimasto seduto per tanto tempo. Il suo sguardo vagava all'interno dell'abitazione cadente, oltre la porta spalancata che mostrava una bambina addormentata, quattro anni o poco più, su cui era stata adagiata una coperta grigia ed infeltrita.
«Qui c'è molta luce perché le assi sono mal ridotte e ci sono fessure ovunque», aveva commentato amaro il vecchio.
«Ci rimanderai ancora là?»
La sua voce era timida ma decisa come quella di un pulcino nell'aia e aveva toccato qualche corda del cuore del vecchio jiin.
Ughrei si era passato una mano sulle tempie stanche. Non si era voltato verso il nipote, aveva continuato ad osservare i giochi di luce che striavano di arancione il viso di Savannah.
«No», aveva risposto, «Siamo una famiglia.»

Il tempo si bloccò e l'aria si fece improvvisamente densa, come se si stesse respirando melassa.
«Ho detto che ti odio.»
Savannah sbatté le palpebre tante di quelle volte che pensò le sarebbero cadute a momenti. Il suo viso sbiancò e gli occhi persero parte della loro lucentezza. No, si diceva, non poteva aver capito bene... eppure era sicura di non aver neanche capito male.
Si inumidì le labbra ed aprì la bocca per dire qualcosa, ma non le uscì altro che un'espressione stupita.
«Tu...»
«Odio quando credi di sapere tutto, odio quando mi tratti come un bambino, odio quando credi di poter decidere della mia vita!», sbraitò il brehkisth crudelmente e con ferocia. «E ti odio anche adesso, ora che ti ostini tanto per non sapere nulla dei nostri genitori! Sono anche miei, non puoi mettermi da parte!»
Deiry spazzò via i frammenti di vetro con un gesto della mano e camminò sinuosamente verso gli altri, come se indossasse ancora uno splendido abito da sera e non un semplice maglione gigante e un po' sfilacciato. Sul suo viso era dipinto il sadismo allo stato puro, ma la cornice era angelica. «Non volevo iniziare una seduta dallo psicanalista ma il concetto è molto chiaro. Vieni con me, Neh, noi due non abbiamo ancora finito...»
Afferrò il polso del ragazzo con semplicità, lui la seguì con naturalezza e Savannah si sentì venir meno.
«No... », sussurrò impercettibilmente.
Mosse un piede nella loro direzione, alzò la mano per poterli fermare ma le gambe vacillarono. Troppe emozioni tutte insieme per poco non la fecero rovinare a terra, ma le braccia di Silar la sostennero appena in tempo. Si lasciò pervadere inerme dal suo profumo di pulito mentre la mente vagava lontana.
«Mayson», lo sentì dire. La sua voce suonava distante metri e metri, non un paio di centimetri. Il consigliere afferrò saldamente la jiin al posto suo prendendola per le spalle e lo lasciò inseguire Deiry.
«Savannah?», domandò apprensivo mentre provava a girarla verso di sé come una bambola di delicatissima porcellana. La ragazza sembrava fissarlo e non vederlo, come se la sua mente fosse sparita in un'immensità lontana. Gli occhi viola erano opachi e non brillavano più.
Istintivamente la abbracciò e seguì con la coda dell'occhio quel jiin di cui non si sarebbe mai fidato, ma che sperava avesse qualche chance per rimettere le cose a posto.
Con Savannah fuori gioco, era l'unico tra loro abbastanza potente per poter fermare Deiry.
«Non ha senso», disse la ragazza in trance come a confermare i suoi timori.
Phil le accarezzò la testa e la strinse più forte. «No che non ha senso», la rassicurò. «Si sistemerà tutto. Tranquilla.»

Silar accelerò il passo e fermò Deiry e Nehroi sulle scale, a metà tra un piano e l'altro. «Che stai facendo!», la aggredì scendendo rapidamente i gradini che li separavano.
La biondina si limitò a fare spallucce e il suo sguardo tornò più languido che glaciale. «A te che sembra?», domandò candida.
Sul viso di Nehroi non sembrava esserci posto per nient'altro che non fosse il vuoto assoluto, e un vago sorriso. Nonostante questo, i suoi occhi erano accesi, brillanti come smeraldi appena tagliati, sebbene il loro sguardo sembrava essere proiettato verso un orizzonte ben più lontano delle pareti.
Silar le si avvicinò di più ed abbassò la voce, guardandosi attorno con sospetto. «Ti stai spingendo troppo oltre, non erano questi i piani», sibilò rapido e velenoso.
Deiry gli posò una mano sulla spalla e lisciò delicatamente il tessuto, come se stesse rimuovendo delle briciole. Strinse dolcemente le labbra e si finse corrucciata. «Tu hai lei e io ho lui. Non erano questi i piani? Tutto come previsto.»
Silar fermò il suo gesto afferrandole il polso con fermezza. Il suo sguardo era duro e gli scuriva il viso. «Tu non dovevi “avere” lui», disse mentre stringeva la presa. «Credevo dovessi solamente rimanere incinta.»
La donna sorrise contenta ed alzò le mani come se volesse applaudirsi. «E l'ho fatto! Te l'ho detto, tutto come previsto!»
«Allora perché non lo molli e ci giochi a questo modo? Si vede subito che è posseduto, sei fortunata che Savannah non l'abbia notato... Che significa?»
Deiry si voltò verso Nehroi e lo esaminò come se lo stesse guardando per la prima volta. Quando tornò a Silar aveva ancora un'espressione felice. «Ho scoperto che ha delle difese mentali che fanno veramente pena», disse con naturalezza. «Non è colpa mia se si è lasciato influenzare così tanto. Ho scoperto che su di lui la mia maledizione funziona alla perfezione... dici che ci può essere un legame speciale tra maledetti?»
L'uomo sbuffò e si passò pesantemente una mano sul volto curato ed irritato. Alzò lo sguardo verso il corridoio sperando che il consigliere non venisse a cercarlo e il solo pensiero di essere scoperto in combutta con la figlia del Capo di Haffireth con un piano così losco in gioco lo gettò ancora di più nel panico. La sua carriera sarebbe finita ancor prima di cominciare e avrebbe detto addio alla sua reputazione in meno di un attimo.
Alzò un indice e lo puntò vicinissimo al naso di Deiry. «Fai in modo che scordi tutto», le intimò serio. «Non possiamo mandare all'aria ogni cosa solo perché vuoi divertirti di più.»
«Intuisco che tu invece non sei riuscito ad andare in porto», ridacchiò lei.
«Non posso fare nulla finché continui ad intralciarmi!», sbottò il jiin adenti stretti. «Abbiamo sottovalutato il loro legame, tenerli separati non è una buona idea. Ogni volta che provo a fare qualcosa salta fuori lui o lei lo cerca, è esasperante!»
Deiry liberò il suo polso dalla presa. «Problema tuo», disse serena, «Soluzione tua.»

Phil si chiese se si fosse addormentata.
Tolse una mano dalla sua schiena e le afferrò il viso con due dita, scostandolo leggermente dal suo petto. Gli occhi erano aperti ma non sembravano essere meno abbandonati di poco prima.
«Savannah», la chiamò dolcemente.
La ragazza non ebbe reazioni.
«Annah», disse con più decisione.
Ricevette un gemito come risposta e la cosa lo rallegrò immensamente. «Dì qualcosa», la esortò.
«Non ha senso», ripeté lei per la seconda volta.
Phil sospirò e provò a farla rientrare nella sala riunioni per metterla a sedere su una poltroncina. I piedi di Savannah non si mossero e il consigliere si ritrovò a doverla trascinare sollevandola di peso.
La adagiò sul tessuto rosso con tutta la delicatezza che potesse usare, pur pensando che probabilmente la jiin non se ne stesse neanche accorgendo e che non sarebbe cambiato nulla se l'avesse lasciata cadere a terra.
Prese un'altra poltroncina e si avvicinò a Savannah più che poté. Con le mani attorno alle sue, cercò di farla tornare vitale. «Non ha senso», disse lui accondiscendente.
«Non ha senso», disse ancora lei, come se fosse l'unica cosa che potesse uscire dalle sue labbra. La sua testa pendeva inerte verso una spalla e sembrava così pesante da far sembrare rotto il suo collo chiaro.
«Nehroi non ti odia. È stata Deiry a farglielo dire.»
Savannah sbatté le palpebre. Phil lo interpretò come un buon segno e proseguì. «Sai come può aver fatto?»
La ragazza tornò ammutolita per più di un minuto e il consigliere temette di aver perso il suo piccolo progresso.
«I suoi occhi», disse poi la jiin.
«Cosa?»
«Troppo verdi.»
Phil increspò le sopracciglia e strinse le mani con più determinazione. «Sai che significa?», domandò per il solo bisogno di sapere che Savannah era ancora in grado di ragionare e di reagire. Lui la risposta la conosceva benissimo, la vedeva riflessa ogni giorno nello specchio.
«Lo ha controllato», rispose la ragazza con naturalezza.
Phil prese un lunghissimo respiro e si sdraiò sul suo schienale, sciogliendo la presa tra le loro dita. Ripensò alla sua condizione, così simile da quella attuale del brehkisth eppure così diverse; una sensazione gelida gli scivolò lungo la colonna vertebrale quando si immaginò così perso e alla mercé del suo controllore.
«Anche lei è maledetta.»
Quell'ultima affermazione della jiin lo fece tornare sull'attenti. Le afferrò nuovamente il viso, troppo lasciato a cadere su un lato perché potesse essere una posizione voluta, e la costrinse a metterlo dritto. «Ripetilo», le ordinò. Staccò le dita con cautela, temendo di sentire un “crack” e di peggiorare le condizioni in cui la jiin si trovava di già.
«La sera della festa aveva un tatuaggio sulla schiena, ma adesso non ce l'ha più.»
«E tu come l'hai visto?»
«Arrivava fino al collo», disse lei ancora completamente atona, come se fosse in trance e lui l'ipnotizzatore che la controllava. «Cioè, alla nuca. Quando si è abbassata per evitare le schegge non c'era.»
Phil si allontanò da lei e strabuzzò gli occhi sorpreso. Savannah spostò lo sguardo su di lui e i suoi occhi tornarono vispi come al solito, sebbene la sua espressione fosse ancora molto abbattuta e pensierosa. Non aveva ancora recuperato tutto il suo colorito, ma sembrava essere uscita da quella fase di stallo in cui era piombata.
«Sapevi tutto fin dall'inizio?», domandò l'umano in un soffio. Provava tantissima ammirazione ed inquietudine nei confronti di una ragazza così giovane e sveglia.
Savannah scosse la testa e la cosa confuse ancora di più l'uomo. «Ho appena finito di rianalizzare il ricordo», rispose stringendosi nelle spalle con umiltà. «Grazie a Chawia ho potuto collegare i pezzi...»
«Chawia?»
«Ho provato un incantesimo: ho pensato con molta insistenza “visualizzare di nuovo gli ultimi ricordi”, credo, anche se non so cosa ho fatto... e ancora non ha senso.»
Phil improvvisamente comprese. «Allora non continuavi a ripetere che non ha senso pensando alle parole di Nehroi! Stavi già pensando a Deiry e alle sue mosse!»
La ragazza inclinò la testa e lo guardò vagamente divertita. Sorrise e per Phil fu la più esauriente delle risposte.
«Ok, quindi qual è il piano? … no, aspetta: perché bisogna ringraziare Chawia?»
Savannah si alzò in piedi e si voltò verso i ritratti di suo padre e del nonno. Sorrise loro, con una certa complicità. Rimase a distanza: non aveva bisogno di avvicinarsi per poter vedere i dettagli, erano già ben scolpiti nella sua mente.
«Diciamo che mi ha fatto sbattere il naso», rispose, «Andiamo a... Neh!»
Nehroi comparve sull'uscio della sala, visibilmente sciupato e sconvolto, con l'aria di chi è appena uscito da un frullatore; perlomeno gli occhi non erano più troppo brillanti e a Savannah bastò quello per farle tornare il sorriso.
Gli corse incontro e schivò le sue mani sollevate in posizione di difesa per evitare un altro pugno. Si intrufolò sotto le braccia e lo abbracciò con tutta la forza che aveva, ritrovando con gioia il suo profumo caratteristico sotto tutti quegli strati di influenza di Tolakireth.
Nehroi abbassò le mani e la abbracciò a sua volta. «Però non ho capito cos'è successo», confessò dopo un po', arrossendo imbarazzato.
Phil gli diede una pacca sulla schiena e sorrise soddisfatto. «Tranquillo, sei in compagnia.»
«Mi sono perso il lieto momento?»
I fratelli sciolsero l'abbraccio e si irrigidirono: Silar era appena comparso accanto a loro e Deiry era al suo fianco, tenuta per un braccio come un carcerato. Fissava il pavimento con aria abbattuta e non aveva più neanche un briciolo della malizia e della strafottenza di pochi minuti prima.
Sembrava una ragazzina qualunque, e per di più in tenuta casalinga.
«Perché invece non ci spieghi cos'è successo, Gerit?», lo invitò Phil ponendosi tra i fratelli e la strana coppia.
Silar alzò un sopracciglio e l'ilarità prese possesso del suo volto. «Cosa credi di fare, cavaliere impavido?», lo prese in giro.
Il consigliere si erse in tutto il suo metro e ottanta e richiamò a sé tutti i tratti che distinguevano da un comune essere umano: diplomazia, sangue freddo, conoscenza. «Loro due sono sotto la mia tutela. Le cose mi saranno anche sfuggite di mano ma voglio vederci chiaro in questa storia. A meno che non voglia parlarne in una riunione straordinaria, certo.»
Savannah si affiancò a Phil e scrutò attentamente la jiin rossa. Non c'erano dubbi, sembrava essere tornata la stessa persona che avevano incontrato la mattina precedente, quella che aveva starnazzato come un'oca quando era stata rinchiusa nella bolla gigante assieme alle guardie di Tolakireth.
Perlomeno all'epoca non aveva intenzione di traviare la mente di suo fratello.
Silar incrociò il suo sguardo severo ed indicò Deiry con riluttanza. «Ho scoperto che è vittima di una maledizione», iniziò controvoglia. «Una che manipola le persone, vulnerabili o non. Normalmente è innocua ma in qualche modo è riuscita a liberarsi del sigillo che aveva per proteggere sé stessa e gli altri e... insomma, avete visto com'era diventata.»
«Esattamente che maledizione è?», si informò Nehroi.
«Confonde le menti imponendo ricordi e visioni estranei in grado di far perdere l'orientamento anche della persona più seria ed inquadrata del mondo. Purtroppo pare che anche la sua mente non sia totalmente immune alla maledizione e si è ritrovata vittima di un cambio di personalità... alquanto imbarazzante.»
La scrollò bruscamente per un braccio e Deiry sussultò. «Scusatemi», disse desolata a voce bassa. Silar tornò a guardare il consigliere e sfoggiò la sua espressione trionfale. «Contento, Mayson?», lo sfidò.
L'umano si inumidì le labbra ed era in procinto di replicare che no, non era affatto contento e soprattutto convinto ma Savannah lo precedette e gli rubò la parola. «Come sei ben informato», disse tagliente.
Il consigliere e Nehroi si stupirono del tono astioso della ragazza, ma nessuno poté dubitare che fosse meritato o giusto. Il futuro Capo di Kyureth si morse il labbro inferiore ma non distolse lo sguardo.
Piegò lievemente la testa in un inchino educato, poi lanciò Deiry a Phil come se fosse una bambola e porse una mano aperta a Savannah, invitandola replicando una scena che avevano già vissuto durante la festa. «Possiamo parlare?», domandò cortese.
La ragazza scoppiò in una risata frizzante e fu tentata di fargli un gestaccio, ma si limitò ad indirizzargli un'orribile smorfia. Poi diede le spalle a tutti quanti, aprì una finestra e si mise in piedi sul davanzale. Saltò in su con una piccola spinta e sparì.
«Credo che tu debba startene tranquillo per il resto del pomeriggio», suggerì il consigliere al brehkisth senza staccare gli occhi dallo jiin infuriato che se ne andava pestando i piedi. «Non so tu, ma io mi sento piuttosto confuso.»
Lasciò la presa su Deiry e le fece cenno di sparire a sua volta, constatando non appena si voltò che aveva effettivamente un tatuaggio sul collo, fino all'attaccatura dei capelli arruffati.
«Mayson, la mia mente è stata traviata per più di dodici ore, non ho idea di quello che ho fatto e mia sorella sta iniziando una guerra feroce contro quello che per me è praticamente un perfetto sconosciuto», gli fece notare il ragazzo. «Credo che una solenne dormita fino all'ora di cena sia l'unica cosa che potrei riuscire a fare.»

Il carro marrone scuro di Heim comparve qualche ora dopo, scintillante nel tramonto che iniziava a colorare il cielo.
Savannah osservò il suo arrivo senza perdersi un momento dello sbarco e la intristì un poco vedere quel ragazzino che il Capo aveva spintonato e sgridato quella mattina accorrere con tanta foga per assisterlo. Si lasciò allora distrarre dal sole e dalle nuvole pigre che non si muovevano mai e pensò a quando passava le ore ad osservarle, a piedi nudi con il fratello, nelle desolate giornate all'orfanotrofio della loro infanzia.
Stava sorseggiando un tè con Phil, le gambe che penzolavano dal tetto del palazzo, appoggiati ognuno da un lato della statua verde del fondatore di Ataklur, perennemente in procinto di camminare tra le regioni.
Videro il Capo di Norreth scendere dal carro e varcare l'enorme porta incastonata nel marmo, con una valigia che fluttuava al suo seguito e il ragazzino a seguirlo come un'ombra. Indossava gli stessi abiti con cui era partito e persino la stessa espressione infastidita.
«Secondo te ci ha visti?», domandò Phil con lieve apprensione.
Parte di lui sapeva di dover onorare il suo lavoro di consigliere correndo dal Capo, ma nella battaglia interiore stava vincendo su tutta la linea la parte che voleva rimanere lassù, lontano dal mondo, di fronte a quello spettacolo immenso e magnifico che erano le regioni, bevendo un amato tè con una delle due persone che doveva tener d'occhio, mentre l'altra dormiva nella sua stanza, libero da una Deiry sottochiave. Fu quell'ultimo dettaglio a convincerlo che in realtà stava già eseguendo gli ordini di Heim e a dissuaderlo dal muovere qualche muscolo.
«Quello guarda solo ciò che gli interessa», bofonchiò Savannah senza esitazione. «Non è uno che alza la testa.»
Il cucchiaino di Phil tintinnò sul piattino. «Già...»
Davanti a loro si stendevano come un enorme tappeto tutti i diversi luoghi di Ataklur, in un'immensa visione mozzafiato che iniziava con la prateria di Tolakireth, trasformandosi nel mare giallo del deserto di Feinreth; in fondo, come una sottile e corta linea verde, la foresta di Norreth, seguita dall'imponente linea grigia degli altissimi monti brulli di Lagireth, che visti così da lontano non erano altro che un mucchio di puntini chiari ed indistinguibili. Alla loro destra, invece, regnavano i profili dei grattacieli della moderna e vicina Eastreth; subito dopo, le montagne nere e avvelenate di Kyureth tendevano verso il cielo come mani protese.
Il creatore di Ataklur aveva deciso che la barriera formasse pareti invalicabili che si innalzavano al limitare di ogni regione, e tutto il regno era circoscritto da montagne oltre le quali c'era solo il nulla. «Hai mai provato ad andare oltre?», domandò Phil ripensando ai rudimenti di geografia che aveva ricevuto durante il suo primo soggiorno nel regno dei jiin, quand'era poco più di un bambino.
“Oltre” era quanto bastava per intuire a cosa si stesse riferendo. Una parola che bastava per descrivere tutto ciò che non c'era ma che si immaginava, e aveva pure un bel suono. Oltre le foreste, oltre i deserti, oltre le montagne, oltre le nuvole, oltre il cielo...
Savannah ridacchiò e lo guardò di sottecchi come se avesse detto una stupidata solo per farla ridere. Gli ricordò sua madre e l'aria scivolò rapida fuori dai suoi polmoni.
«Certo», disse la ragazza non appena si rese conto che la domanda era più seria di quanto avesse immaginato. «Non si può fare neanche un passo.»
«Come andando contro un muro?»
Lei annuì. «Proprio come un muro. La nostra terra è vasta ma ha un limite... e non è rotonda come quella degli umani, dove teoricamente prima o poi puoi tornare al punto di partenza. Qui si sbatte contro i confini e non c'è nulla da fare.»
Aveva concluso la frase arricciando le labbra e il suo tono era sembrato alle orecchie del consigliere più pensieroso che sconsolato, ma preferì sorseggiare il tè e non indagare.
Alle loro spalle il sole iniziava a nascondersi dietro le montagne bianchissime che segnavano la fine di Tolakireth e le ombre iniziavano ad allungarsi fino ad unirsi tra loro e mangiare molta luce dalle superfici che sfioravano. Phil posò tazzina e piattino a terra e si alzò in piedi, passando le mani sui vestiti per togliere la polvere. «Iniziamo a prepararci per la cena», le disse.
Savannah soppesò la sua tazzina con fare pensieroso, inclinandola avanti e indietro e sorreggendola con due sole dita. La proposta di Phil rimase inerte nell'aria di fronte a lei, senza che sorbisse alcun effetto.
«Perché bevi tanto tè?», domandò infatti, condendo la parola “tè” con una nota che l'umano non riuscì o preferì non identificare.
Le parole del consigliere caddero definitivamente a terra, morte. Phil sospirò e si rassegnò all'idea di rimanere ancora un po' sul tetto.
«Perché depura, è buono e rilassante», rispose stanco come se stesse leggendo un opuscolo pubblicitario. Riprese in mano la sua tazzina e bevve l'ultimo sorso che aveva lasciato, ormai freddo, abbandonando solamente un gruppetto di foglie marroni sul fondo. «E poi sono inglese», aggiunse con calma.
Savannah alzò un sopracciglio e gli lanciò uno sguardo obliquo attraverso il manico della tazzina che aveva avvicinato all'occhio a mo' di cannocchiale. «Che ci fa un inglese ad Ataklur?», domandò osservandolo come se fosse un panorama lontano.
«Storia lunga», tagliò corto lui guardando altrove.
«Un giorno me la racconterai?»
Phil ci mise molto a rispondere. Annegò quasi un minuto silenzioso tra le foglie sul fondo della tazzina, fissandole così intensamente che sembrava stesse provando a leggervici il suo futuro, poi alzò lo sguardo sulle montagne oltre le quali non c'era più nulla; infine guardò Savannah. Smise di essere pensieroso e le sorrise educato.
«Può darsi.»
La aiutò ad alzarsi e varcarono la piccola botola che conduceva ad una scalinata di legno che li portava nel sottotetto abbandonato. Passarono attraverso un piccolo percorso segreto che li condusse in una ala della biblioteca, una piena di molta polvere e ragnatele.
Uscirono dal tempio dei libri del regno magico, contenente una copia di tutti i volumi che siano mai stati scritti fin dalle origini, dai più preziosi e rari fino ai manuali di cucina, e poi andarono a svegliare Nehroi. Probabilmente l'incantesimo della privacy non funzionava sui consanguinei, perché Savannah riuscì ad aprire la porta senza difficoltà.
«A lui ci penso io», si offrì Phil quando si rese conto che destare il brehkisth dal sonno si stava rivelando un'impresa più difficile del previsto. «Vai pure a prepararti per la cena... mi raccomando: pulita ed elegante. E non inimicarti nessun altro.»
Savannah roteò gli occhi e borbottò qualcosa sull'addomesticamento, poi scrollò le spalle ed entrò nella sua stanza, poco distante.
La sua cameriera saltò in piedi non appena la porta venne aperta e la marzialità che non smetteva di manifestare era degna di un soldato scelto. «Buonasera», abbaiò. «Deve prepararsi, mi permette di aiutarla?»
La ragazza sospirò. «Sì, certamente...», disse esasperata dall'idea di dover avere di nuovo a che fare con quella donna.
Dal momento che le pulizie profonde erano state fatte la sera prima, il tempo passato in bagno fu molto inferiore rispetto a quanto temuto e, per quanto riguardava la scelta degli abiti, Savannah decise di evitare l'argomento delegando alla donna la scelta. La vide scomparire nell'enorme cabina armadio e ricomparire pochi attimi dopo con un vestito nero con una spallina sola, una gonna a pieghe che le sarebbe arrivata sopra le ginocchia e piccoli fiori veri gialli e arancioni disseminati in ordine sparso lungo tutto il fianco sinistro.
«Le piace», domandò o affermò la donna non appena Savannah vi posò gli occhi sopra.
«Molto carino», mentì. Non aveva mai amato vestirsi di nero perché i suoi lunghi capelli scurivano a sufficienza la sua persona, ma la cameriera glieli aveva già intrecciati sui lati e raccolti in una coda, così si convinse che quell'abito sarebbe andato sufficientemente bene. Non che le importasse, ma Phil le aveva implicitamente chiesto di fare bella figura e, dopo tutti i guai che aveva combinato in meno di due giorni, sentì di doversi almeno sforzare.
La cena venne servita in giardino, dove tavoli rotondi di metallo finemente decorato erano stati disposti tra gli alberi variopinti e lanterne di carta erano state appese tra i loro rami.
«Non c'è fuoco vero», la informò Olus non appena Savannah si avvicinò per osservarle ammirata. La luce che sprigionavano era fioca ma sembrava la giusta quantità per creare giochi di colore con le foglie sovrastanti trasformando gli alberi in lampioni variopinti. L'atmosfera che una soluzione tanto piccola e banale creava era spettacolare.
«Stelle bianche?», ipotizzò la ragazza. Anche lei e Nehroi avevano avuto delle piccole Stelle bianche per illuminare le scure notti del deserto, ma quella misera eredità del nonno gli era stata trafugata da orfani più grandi di loro e da allora non ne avevano mai più avute nessuna, costretti ad farsi luce solo con i deboli globi creati dalla piccola jiin, finché non si addormentava e si spegnevano come bolle di sapone.
Il Capo di Bastreth annuì e la guidò verso uno dei tavoli apparecchiati con cura. Lì Silar corse loro incontro con un gran sorriso e chinò la testa di fronte alla ragazza, mostrando un'umiltà che gli stava stranamente bene.
«Non cambierà nulla», disse freddamente la jiin mentre Olus si allontanava con discrezione.
«No», convenne Silar, «Hai tutto il diritto di essere arrabbiata, sono stato maleducatamente insistente.»
Le spostò la panca e la invitò con garbo a sedersi. «Prego», aggiunse.
Savannah stava per muovere le gambe verso la sedia ed accettare la galanteria quando una strana accoppiata di voci giunse alle sue orecchie. Voltò la testa a metà del movimento dirigendo tutta la sua attenzione verso l'ingresso del giardino e il suo stinco sbatté contro qualcosa di duro ma lei non se ne accorse nemmeno.
«Quindi crede che in tre anni potrei essere capo di uno squadrone?», domandava con vivo interesse Nehroi.
«Se riesci a non creare incidenti di nessuna sorta e se ottieni la fiducia dei tuoi uomini... anche in un paio. Un'abilità come la tua è una perla rara in questo settore», rispondeva altrettanto amichevolmente Mas Heim.
Stavano scendendo le scale con naturalezza e il loro atteggiamento cordiale e caloroso avrebbe fatto pensare a chiunque che fossero amici di lunghissima data.
Quando passarono accanto a Savannah, la sua espressione era ancora sbigottita.
Heim ridacchiò per una battuta del ragazzo e strizzò l'occhio a sua sorella. «E tu, mia cara?»
La giovane jiin ci mise un po' di secondi a carburare. «Io cosa?», balbettò cadendo completamente dalle nuvole.
«Quando ti unirai al corpo di guardia?»
Qualcosa crollò nella ragazza, o si schiantò o scomparve improvvisamente lasciandola senza un sostegno. Si sentì la testa vuota e pesante al tempo stesso, mentre le palpebre non smettevano di muoversi rapidamente e le labbra si seccavano sempre più.
Incapace di dire alcunché, si rivolse verso Nehroi e fu il suo sguardo sconvolto a farle da voce.
«Ho deciso di accettare la loro offerta», la informò serio e sorridente, mentre si guardava attorno come se volesse essere sicuro che lo sentissero tutti. «Non ha senso continuare a camminare dal lato sbagliato della strada, giusto? Se ci pensi bene vedrai anche tu tutti gli enormi vantaggi di questa scelta.»
Fu in quel momento che la ragazza comprese cosa le fosse venuto a mancare nel petto, lasciandole quell'inquietante sensazione. Si alzò sulle punte con forza come se volesse saltare e si aggrappò con le mani alla camicia del fratello. Lo tirò a sé e gli scrutò gli occhi con attenzione ma, non appena si accorse che non c'era neanche l'ombra di un barlume della possessione in quelle iridi che erano solamente verdi, sentì che non aveva afferrato solo la camicia. Sollevò il tessuto bianco e scorse il medaglione di legno, quello con qualche ghirigoro dorato, quello che lei aveva sempre preteso che indossasse lui facendo nascere mille liti.
Il medaglione contro la possessione, quello che non aveva funzionato contro la grotta ma che avrebbe fatto il suo dovere in quei due giorni con Deiry.
Nehroi le afferrò con delicatezza le mani e la allontanò garbato. «Scusa, quando me l'ha tolto alla festa chiedendo di osservarlo meglio non credevo potesse essere tanto pericolosa», disse a bassa voce con pentimento. Savannah lo guardò storto e fu tentata di rimproverarlo come suo solito, ma vide che non aveva finito di parlare e rimase in silenzio.

Tre istitutori erano venuti alle prime ore del mattino, avvolti dalla frescura e dalle prime luci dell'alba. Erano due uomini e una donna; indossavano una divisa grigia e blu sulle spalle e i loro sguardi erano indecifrabili.
Ughrei era già sul portico, o lo era ancora. Non aveva potuto dormire neanche per un istante e le molte bottiglie vuote ai suoi piedi erano una prova della seconda ipotesi.
Quando gli istitutori avevano cominciato a comparire all'orizzonte, si era alzato fiero e ferito come un vecchio leone e nessuno dei tre aveva avuto di dire alcunché. Ughrei li aveva squadrati a lungo, come se avesse cercato di imprimere il loro aspetto con tratti nitidi e precisi nella sua mente annebbiata. Poi aveva fatto loro cenno di entrare e aveva atteso che i loro piedi calcassero le secche assi di legno prima di urlare i nomi dei nipotini addormentati.
Sono cresciuti, pensava mentre i due uomini li prendevano per le braccia e la donna si prodigava in rassicurazioni smielate e moine da madre mancata.
Nehroi inizia ad essere un ometto, si diceva con orgoglio guardando con che furia scalciava e mordeva e urlava.
Savannah presto non sarà più una bambina, notava quando gli sfilava accanto dimenandosi tra fiumi di lacrime.
«Vuole dir loro qualcosa?», aveva chiesto con dolcezza la donna, sfoderando un sorriso che irritò il vecchio nonno. «Nel caso in cui succeda quel che teme.»
Ughrei aveva annuito con un gesto secco e per un istante i due bambini avevano sperato che volesse dire che cambiava idea e che li avrebbe tenuti con sé. Che non era troppo in là con gli anni, che la sua salute non era troppo precaria, che l'alcolismo poteva essere sconfitto, così come la sua depressione cronica. Che erano stati anni difficili, ma che ce l'avrebbero fatta.
«Io non sono la scelta migliore per voi», aveva detto invece, gettando piombo nei loro piccoli petti.
Savannah singhiozzava senza tregua e Nehroi fremeva come se il sangue gli stesse ribollendo nelle vene e fosse sul punto di esplodere. I loro piedi scalzi affondavano nella sabbia che iniziava a scaldarsi sotto al sole sempre più giallo e il vento si levava tra loro freddo e tagliente come un rasoio.
«Ma neanche loro», aveva proseguito il vecchio con amarezza e con gli occhi lucidi. Gli istitutori avevano corrugato le sopracciglia confusi ed offesi, ma una delle loro poche mansioni era di sembrare rispettabili agli adulti che li affidavano prima che gli orfani non avessero proprio più nessuno al mondo e non avevano osato fiatare.
Ughrei si era appoggiato ad una colonna del portico e la sua voce si stava spezzando sempre più, man mano che si rendeva conto di cosa stesse facendo. «Voi siete la vostra migliore speranza!»
«Noi vogliamo restare con te...», aveva piagnucolato Savannah ma il nonno non l'aveva sentita.
«Rimanete sempre assieme e le nuvole non saranno mai nere per voi. Nehroi, affido tua sorella a te. Un giorno sarai jiin, proteggila sempre e Annah, tu dovrai stargli sempre accanto. Siete una famiglia.»
Gli istitutori avevano ascoltato quelle parole con l'apatia sul viso, ma forse non nel cuore. Quando il vecchio aveva finito di parlare, avevano capito che era giunto il momento di portare a termine il loro lavoro e avevano ripreso a trascinare i ragazzi con loro ma Nehroi era sfuggito come un serpente del deserto ed era corso verso la casa. Aveva piantato i piedi a pochi centimetri dal primo gradino del portico, senza salirvi.
Il suo sguardo era quanto di più arrabbiato, tradito, deluso ed infuriato che Ughrei avesse mai visto, e se ne rincuorava.
«Ero piccolo ma lo ricordo bene», aveva sibilato il ragazzino con voce dura. «“Siamo una famiglia”.»
Il nonno era stato tentato di sorridergli soddisfatto -quanto era cresciuto, il suo bimbo- ma invece aveva fatto un cenno all'istitutore che se l'era fatto sfuggire e lo aveva fatto avvicinare.
«Infatti», aveva detto a Nehroi mentre l'uomo iniziava a muoversi. «Ricorda sempre le mie parole.»
La sabbia scottava, le mani dell'uomo erano troppo forti sulle sue braccia gracili di decenne o poco meno, il sole era alto nel cielo terso. Ma mentre la casa di legno storta e sgangherata diventava sempre più piccola alle loro spalle e l'uomo stanco spariva tra le sue assi rotte, qualcosa cresceva in Nehroi, una sensazione nuova e pesante, dall'importanza assoluta.

«Fidati di me», disse il brehkist sottovoce.





*°*°*°*





Capitolo extra-lungo, lo so u_u Ha sfiancato anche me. In prima battuta (anche detto: da dicembre fino a ieri sera xD) non c'erano i due pezzi di ricordi passati e quelli sono venuti fuori lunghissimi, ahimè e ahivoi. Poi la parte finale, la decisione di Nehroi... anche quella è nata in queste ultime ore, all'inizio nessuno accettava la proposta e bon, si proseguiva con gli eventi! E invece no!
spero vi sia piaciuto cmq e che i vostri occhietti non se la siano presa troppo! ^^"

Grazie infinite per le recensioni allo scorso chap, voi non avete idea delle mie feste quando vedo una recensione all'orizzonte, soprattutto se vostra! Ancora un po' e scodinzolo! :3

Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 28
*** Signori, la cena ***






28
Signori, la cena




Era un uomo fisicamente imponente, muscoloso, dall'aria scaltra e minacciosa allo stesso tempo.
Entrò nel giardino poco dopo Nehroi e Heim e molti visi si voltarono nella sua direzione quando lo fece.
Aveva la pelle ambrata dal sole che lo aveva accompagnato in mille battaglie, capelli neri ma talvolta ingrigiti prematuramente dal tempo e occhi blu scuri, profondi, che saettavano freneticamente in giro tra i presenti come se ne stesse analizzando e memorizzando ogni dettaglio.
Indossava la tipica divisa delle guardie, ma non era marrone come quella di tutti i soldati che i Fratelli del Deserto avevano incontrato nel corso della loro scapestrata vita: era una divisa color avorio, una tonalità così elegante che l'uomo sembrava un sontuoso principe arabo.
Scese gli scalini bianchi affiancato da due guardie, alla sua destra ed alla sua sinistra come ali spiegate tra i civili. Indossavano la divisa marrone, senza alcun segno speciale se non una stellina rossa al posto dell'ultimo bottone del colletto; uno dalla carnagione chiarissima e i capelli rossi come rame lucente, con occhiali dalla montatura ampia e spessa; l'altro scuro come la corteccia di un albero, dall'aspetto meno robusto del collega, con occhi azzurri come il timido cielo dell'alba che vagavano attenti tra le fronde degli alberi variopinti.
Si muovevano con lo stesso passo dell'uomo che li divideva con imponenza, come burattini legati dai fili al loro marionettista. Savannah si voltò verso Phil quando immaginò sovrappensiero a quel modo i due ragazzi e si stupì di non essersi accorta prima che anche l'umano aveva lo stesso atteggiamento con Heim, il Capo a cui faceva da consigliere, e che lo stesso comportamento lo manifestavano anche la ragazzina che era accanto a Decra durante la riunione e persino Silar con suo nonno, sebbene l'anziano reggente non fosse ancora comparso quella sera e non potesse fare un paragone in diretta.
Fu Olus il primo ad accogliere il trio di guardie e si prodigò in poderose strette di mani e pacche sulle spalle dell'uomo al centro.
«Ani, carissimo, che piacere rivederti!», esclamò col viso talmente illuminato da sembrare ringiovanito.
L'uomo in avorio sorrise a sua volta e rispose con la stessa cordialità al saluto visibilmente entusiasta. «Quanto tempo!», commentò con nostalgia.
«Sei ancora sposato con Sanlia?»
L'altro fece una smorfia e poi scoppiò in una fragorosa e breve risata, facendo notare la sua presenza anche a chi ancora non se ne fosse accorto. «Oh no, l'ho rispedita da sua madre! Meglio a Eastreth che ad asfissiare me, le ho detto!»
Olus rise della sua battuta e mentre Savannah lo osservava ripensando all'ottusità che aveva dimostrato nei suoi confronti la sera della festa, Heim pose una mano sulla sua spalla e la fece sussultare. «Aner!», chiamò con la sua voce profonda e imperiosa. «Posso presentarti anche la sorella del tuo nuovo cadetto?»
«Futuro cadetto», sottolineò l'uomo tornando serio ma sempre solare. Si avvicinò alla ragazza con ampie falcate e i due angeli custodi tennero il passo con naturalezza.
«Aner Nekkis, capo delle guardie di Ataklur», disse marziale sollevando una mano, e Savannah pensò alla sua cameriera e ai suoi modi ugualmente bruschi. Poi l'uomo indicò il ragazzo rosso alla sua destra, «Fazil Menthis», e il nero alla sua sinistra, «Ur Kal. Piacere di conoscerti.»
Quando vennero nominati, i due soldati fecero un lieve cenno con la testa e la jiin rispose di riflesso imitandoli. «Savannah», disse poi lei alzando una mano per stringere quella che Nekkis le stava porgendo.
«Savannah Krajal», precisò il capo delle guardie mentre scuoteva le loro mani con forza. «Ho già sentito parlare di te, molti miei sottoposti hanno avuto molte gatte da pelare a Feinreth negli anni scorsi...»
Savannah inspirò, sorprendendosi di essere svuotata di ogni interesse per quei nuovi volti e per ciò che le stavano dicendo. Provò però irritazione sentendosi correggere il suo nome e la manifestò arricciando il naso con uno scatto.
«Anche voi ne avete date a noi», soffiò tra i denti ritirando la mano dolorante. Un paio di fiori del suo abito si chiusero nel bocciolo come se si fossero spaventati dal suo cambio d'umore e qualche petalo arancione cadde a terra.
Il capo delle guardie tirò in su un angolo della bocca, divertito, e i suoi occhi sembrarono accendersi. «A ognuno il suo punto di vista. Noi siamo dalla parte della legge e della giustizia, e credimi quando dico che regolare un mondo di jiin non è affatto facile... per fortuna ci sono giovani talentuosi pronti ad offrire il loro aiuto tra le forze dell'ordine!»
Si voltò verso Nehroi ed alzò un braccio come se volesse accoglierlo. «Lui, cara ragazza, ha capito tutto. Sarà un piacere vederlo in azione.»
Savannah assottigliò lo sguardo. «Non le importa quanti dei suoi soldatini abbia fatto fuori nella vita, quindi. Chissà che penseranno i “suoi uomini”...», sibilò senza neanche curarsi dell'espressione basita del fratello.
I suoi occhi violacei erano incatenati solamente a quelli del capo delle guardie, in una battaglia trincerata tra espressioni finte e corporature sproporzionate.
Aner Nekkis sostenne quello sguardo senza battere ciglio e, anzi, si chinò per raggiungere l'altezza della ragazza e fissarla più da vicino. «Credi che le guardie siano tutti dei sangue blu?», domandò con vaga soddisfazione.
Savannah non rispose. Si inumidì le labbra e la sua mente si arrovellò rapidamente sulle ipotesi e le nuove informazioni che quella semplice frase stava aprendo, ma tutto quello che fece fu cercare di non sembrare troppo sorpresa.
La comparsa sui gradini di una affaticata Decra, morbidamente avvolta in un lungo abito verde che svolazzava sotto il pancione ad ogni passo come una bandiera al vento, divenne il pretesto della giovane jiin per evitare quel campo minato che si era creato tra lei e Nehroi. Esclamò rapidamente un «Ti aiuto!» e saettò verso l'ingresso del giardino, porgendole un braccio come sostegno.
«Disinteressatamente?», domandò Decra con un piccolo ghigno. Accettò il suo braccio e riuscì a scendere le scale con più facilità.
«Immagino che una donna incinta non debba sforzarsi troppo...», buttò lì la ragazza. Seguì con la coda dell'occhio gli spostamenti di suo fratello e delle tre guardie, sentendosi tradita nel vedere i tentativi del brehkisth di seguire i movimenti di Nekkis come le due marionette che gli facevano da ombra.
«E io immagino che tu voglia solo evitare tutto quel testosterone ambulante.»
Attraversarono il boschetto di alberi variopinti, seguendo il percorso di lanterne di carta fino al centro del giardino. Uno spiazzo di erba perfettamente verde e curata si stendeva come un frusciante tappeto fino alla foresta scura che precedeva i monti della barriera, che si ergevano alti fino a nascondere molte delle stelle nel cielo.
Al centro del prato, circondato da fiaccole accese e piantate nel terreno come picche, c'era un tavolo rotondo e persino più grande di quelli delle sale delle riunioni. Era solo una striscia di legno, lunga e robusta, con tante gambe arcuate a sorreggerla; a differenza degli altri due tavoli che Savannah aveva visto a Tolakireth, al centro era cavo ed ospitava un grande falò che rischiarava l'ambiente imbrunito come su una spiaggia d'estate.
Era circondato da quindici sedie e ad ognuna corrispondeva una disposizione impeccabile di stoviglie lucenti; non c'era un'unica tovaglia ma tante strisce di tessuto bianco che separavano piatti e posate dal legno scuro, pendendo all'interno ed all'esterno del cerchio come drappeggi medievali. Non appena qualcuno si sedeva, sul lato della tovaglia rivolto verso il fuoco compariva la sua iniziale finemente ricamata e decorata con elementi floreali.
Presero posto solo dopo aver osservato chi si era già seduto e calcolato la posizione migliore per evitare Nekkis, Heim, Silar, Chawia...
«Non possiamo metterci lontane da tutti!», aveva protestato Decra con una risatina frizzante. «Ci sarà almeno una persona che puoi sopportare di avere accanto per qualche ora.»
Nehroi si era seduto tra Nekkis e il soldato di colore, mentre l'altro si sedeva accanto al suo capo.
Dietro Savannah e Decra erano comparsi anche Hartis e Kin, impegnati in una complessa conversazione sul mondo ai tempi della loro gioventù, poi un infastidito Goon con Deiry al seguito, gli occhi così tanto fissi al terreno che rimase un mistero come riuscisse a non andare a sbattere contro nulla e nessuno, e infine Helea, che aveva donato subito un'occhiataccia ai due fratelli ed aveva sbuffato.
«Dubito che ci sia qualcuno di realmente sopportabile», aveva commentato amaramente la jiin mentre si immaginava a gambe incrociate per terra, col piatto sulle ginocchia, che mangiava lontano da tutti.
Decra si sedette su una sedia a caso e la ragazza sentì un fremito lungo la schiena vedendo che non era troppo distante da Chawia. «Non devi avercela con Nehroi», disse il Capo di Feinreth con voce materna, invitandola a prendere posto accanto a lei battendo una mano sul tessuto della sedia. «Sta solo facendo la scelta migliore per la sua vita.»
«Tu non sai cosa sta facendo.»
La donna alzò un sopracciglio e il suo sguardo si addolcì. «Non sta per arruolarsi tra le guardie?», domandò candidamente.
Savannah sospirò e si guardò attorno come se stesse per fare una cosa proibita. Poi si sedette e si voltò completamente verso Decra, dando le spalle a chiunque si sarebbe seduto alla sua sinistra.
«Lascia perdere», tagliò corto con decisione e desolazione.
Alla destra della donna comparve la raggiante e sfrontata Helea, che posò una borsetta lilla sulla sedia e poi sparì nel percorso illuminato dalle Stelle bianche.
«Perché sei sempre così scontrosa?», chiese Decra. Stava lisciando il tessuto della tovaglia che pendeva sulle sue gambe e lo sguardo era fisso sulle posate scintillanti che circondavano in gran numero i due piatti impilati di fronte al viso.
«E perché tu sei sempre così gentile con me?», sputò Savannah con indifferenza. Intuì dalle chiacchiere alle sue spalle che i posti liberi alla sua sinistra erano stati occupati dai due anziani del gruppo, Hartis e Kin.
«Perché sono il tuo Capo», rispose con naturalezza la donna incinta.
Savannah rise, dapprima soffiando dal naso, a labbra serrate, poi in maniera sempre più vivace.
«Scherzi?», disse con irriverenza agitandosi sulla sedia. Dall'altro lato del tavolo circolare si stavano sedendo Phil, Heim, Silar, Olus e Goon praticamente in contemporanea, l'uno accanto all'altro come compagni di banco dall'infanzia.
«Ad un tratto sono degna di un qualche cortesia perché sei il mio Capo?»
Decra non sollevò il suo sguardo dalle posate e si morse un labbro.
«Tu non potevi non conoscere i tuoi predecessori, sapevi chi erano, sapevi che... chi, sapevi chi eravamo. Chi siamo. E non hai mai fatto nulla!»
«So cosa stai pensando», esalò Decra con voce colpevole. «Perché non vi ho mai trattato con riguardo, lasciandovi vivere a quel modo.»
Savannah annuì e sembrò tranquillizzarsi almeno un po'. Vide con la coda dell'occhio che Helea stava per arrivare assieme a Chawia ma la cosa non la interessò troppo. Il cielo era ormai scuro, la sera era calata rapidamente in quelle chiacchiere che scioglievano gli attriti e scaldavano gli animi prima della cena e il fuoco al centro della tavolata circolare iniziava ad essere davvero brillante ed imponente, bello come il sole. Nehroi sembrava davvero a suo agio tra le guardie, dall'altro lato della tavolata...
«È un inizio», asserì Savannah dopo un po'.
La donna si sfiorò il pancione ed abbassò lo sguardo su quell'ingombro che le impediva di avvicinarsi di più al tavolo. I suoi occhi si trasformarono in pozzi liquidi quando si persero nella contemplazione del fuoco e la giovane jiin sentì che il vociare che le circondava si stava indebolendo man mano che la sua attenzione aumentava.
«Io non volevo fare il Capo», esordì Decra con voce stanca. «Ma i miei genitori mi iscrissero comunque al Gran Torneo per l'elezione e per non deluderli feci del mio meglio. Non mi interessava vincere, ma per loro sarebbe stato un grandissimo onore... in effetti non li biasimo. Io ho sempre vissuto la cosa dal punto di vista della ragazzina capace e abbastanza sveglia, avevo sedici anni e non me ne poteva importare di meno della politica e del governo di una regione come Feinreth. Avevo altri progetti per la mia vita, volevo viaggiare e...»
Savannah corrugò la fronte e si sentì confusa. Sapeva bene come venivano eletti i nuovi Capi, sebbene non avesse mai avuto l'occasione di assistere ad un Torneo e alle sfide che dieci tra i più anziani della città organizzavano per testare i candidati, ma non capiva come quel ricordo potesse rispondere ai suoi dubbi. «Cosa c'entra?», domandò quindi.
«Sai quanti anni ho?»
La giovane jiin si sentì spaesata e la osservò come se la stesse vedendo per la prima volta, guardandola per davvero. La sua pelle era abbronzata a causa del sole del deserto, ma non era particolarmente rovinata. Poche rughe, nessun capello bianco, sguardo vispo, ma sapeva che quello in arrivo non era di certo né il primo né il secondo figlio. «Quaranta?», ipotizzò con un'alzata di spalle. Un cameriere in divisa comparve tra tavolo e fuoco ed iniziò a versare vino scarlatto nei calici di tutti e quindici gli ospiti versandolo da una bottiglia apparentemente inesauribile.
«Trentasette», precisò Decra con un sorriso complice. «Brava, di solito me ne danno di meno.»
«Ancora non capisco cosa c'entra con noi», commentò Savannah senza scomporsi. Il cameriere era ancora a due metri da lei, stava versando il vino nel calice di un Phil immerso in una conversazione con Heim, tanto fitta che sembrava una confabulazione.
Decra annuì e riprese il suo racconto. «Io sono il Capo da ventuno anni, voi due eravate già nati ma eravate troppo piccoli per ricordare. Nehroi aveva succeduto con talento e successo alla guida già prolifica di Ughrei, e insieme avevano condotto Feinreth in un felice ventennio d'oro. La nascita del suo primogenito era stata celebrata con gioia da tutta la regione, perché si sperava che avrebbe proseguito l'epoca positiva con un terzo mandato in famiglia... ma la morte di Adalé fu un colpo troppo duro per vostro padre, e questo fu l'inizio della fine. L'inizio dei problemi.»
La jiin posò entrambe le mani sul tavolo con tanta forza da far tintinnare le posate e i bicchieri anche degli ospiti accanto a lei. I suoi occhi erano sgranati e le palpebre si muovevano febbrilmente con stupore. Provò ad immaginare Feinreth in festa per la nascita di suo fratello, provò a trasformare il ricordo di una festa che aveva vissuto in quella che non aveva visto, ma le venne solo un gran mal di testa.
«Impossibile. E... nostra madre è morta prima... nostro padre non ha retto?», domandò con un filo di voce, credendo di aver capito male.
Cercò di far combaciare quelle informazioni con l'idea che aveva cullato con gelosia per tutta la vita, anche se in poche ore erano molte le finte certezze che le erano crollate addosso. Ogni sogno, ogni convinzione, ogni ipotesi sulla verità... era tutto sbagliato.
«Sì», confermò Decra con più asprezza del previsto. «Tanto da fargli perdere il senno. Iniziò a diventare un Capo sempre meno presente, più avventato che saggio. Non sembrava che gli importasse più la guida della regione, aveva occhi solo per i figli. Voi due, l'ultima cosa che gli rimaneva della sua amata.»
Qualcosa di caldo ed allo stesso tempo spiacevole cadde lascivo nelle viscere di Savannah, improvvisamente a disagio. Non li avevano abbandonati, non erano scappati, li avevano amati. Erano stati amati dai loro genitori, suo padre aveva occhi solo per loro... Il cameriere arrivò a lei e riempì il suo calice, ma la ragazza non se ne accorse nemmeno.
«Però eravamo anche in guerra con Lagireth e un Capo che non sapeva più fare nulla non era di alcun aiuto», proseguì Decra. «La gente iniziò ad insorgere contro di lui, chiedendo che si facesse da parte o che tornasse a lavorare seriamente. Quando le truppe di Lagireth iniziarono a farsi troppo vicine alle soglie della città, quelle proteste lo smuovettero e finalmente Nehroi tornò in azione. Combatté in prima linea dando tutto sé stesso, ma ormai era così poco in grado di ragionare che non riuscì a farcela. Fu la sua ultima battaglia e la popolazione chiese a Ughrei di tornare a rivestire la carica di Capo, sperando che portasse ancora anni di felice prosperità e, magari, una tregua con la regione delle alte montagne.»
Savannah spostò lo sguardo da Decra, immersa fino al midollo nel mare dei ricordi, al falò. Oltre quelle fiamme gialle ed accecanti c'era il suo viso, quello dell'unico Nehroi che lei avesse mai conosciuto. Provò a figurarsi gli eventi appena uditi immaginando un uomo identico al fratello che amava, che aveva figli, che governava, che sedeva a Tolakireth come avevano fatto loro in quei due giorni. Chissà se aveva avuto una cena simile, se si era seduto anche a quello stesso tavolo, se sarebbero stati vicini di stanza...
Le fiamme tremarono e Savannah credette di aver visto un altro Nehroi, ombra del fratello, fissarla con i suoi stessi occhi viola. Non era fiero e sicuro di sé come nel ritratto nella sala delle riunioni, non guardava in faccia il futuro, non era speranzoso. Guardava la morte, la disperazione, con un viso impazzito come la ragazza immaginava dal racconto di Decra. Aveva perso la moglie, a casa c'erano due bambini piccoli ad aspettarlo, ma lui fronteggiava la battaglia senza curarsi delle ferite, attaccando e rifiutandosi di tornare, forse era meno doloroso stare lì e...
L'ombra sparì in una fiamma più alta delle altre e Savannah tornò a guardare la donna. La stava fissando in attesa di poter continuare.
«Poi?», domandò la ragazza. Provò un'orribile sensazione di vuoto allo stomaco e si sentì a disagio.
Decra esitò e il suo sguardo divenne indecifrabile. Probabilmente era solo un effetto della luce danzante del fuoco davanti a loro, ma i suoi occhi divennero stranamente vitrei.
«Nehroi era crollato per la perdita di Adalé, Ughrei crollò per la perdita di Nehroi. In più c'eravate voi, i suoi figli, così piccoli che non poteva che badare a voi e fare il nonno. Neanche lui riuscì a guidare la regione a lungo, così istituì il Gran Torneo. Si ritirò nella vostra abitazione e sparì dalle scene, ricomparendo solo alla bottega degli alcolici, nelle giornate più cupe.»
Iniziarono a servire le prime portate e Savannah se ne accorse solo quando il vociare si attenuò e venne sostituito dal tintinnare delle posate nei piatti. Abbassò lo sguardo al suo e non riuscì nemmeno a distinguere cosa le avessero servito.
Nella sua mente c'era solo Ughrai, il vecchio burbero che aveva conosciuto, amato ed odiato durante l'infanzia. Cercò di scavare nella sua mente fino a far riemergere il ricordo più lontano che possedesse, ma fallì. Provò allora ad immaginarlo con due bambini piccoli, lei con gli occhi del padre e Nehroi che probabilmente era la sua copia rimpicciolita...
«Feinreth conobbe i suoi due anni più bui della sua storia grazie a loro. Metà città era ridotta a ruderi, cenere, e Lagireth aveva mietuto molte vittime», proseguì Decra dopo aver assaggiato il pesce che le era stato posto nel piatto. «Quando salii al potere, sebbene fossi solo una ragazzina, gravò su di me il peso e la responsabilità anche delle loro azioni. La popolazione li odiava, dimenticando le due decadi di prosperità che i tuoi parenti avevano consentito prima di quel rapido declino, e io non potei fare altro che ignorarli. La guardia cittadina si rifiutava di proteggervi dalle loro angherie e la vostra casa prese fuoco due volte. Ughrei vi portò nella casetta fuori città in cui avete vissuto e fu un'altra mossa degna del saggio Capo: così lontani dalla folla, finì nel dimenticatoio e non ci furono più dispetti nei suoi confronti.»
Savannah schioccò la lingua contro il palato ed annuì, intuendo quale sarebbe stata la frase successiva. «Aggiungiamo il naturale odio per gli orfani e abbiamo trovato i bambini con tutte le carte in regola per essere odiati fin dalla culla.»
Con grande sorpresa di Savannah, due lacrime rigarono il viso di Decra. Tirò su con il naso, poi infilzò rapidamente un boccone con la forchetta, mandò giù e si passò il tovagliolo sul viso, fingendo di doversi pulire la bocca.
«Io non vi ho mai odiati», disse con voce strozzata. «Non vi ho mai incolpati del crollo dei nostri Capi, non pensarlo... ma la gente a volte è folle, soprattutto quando è indebolita dalla guerra e mezza città era distrutta e voi due eravate l'unica causa visibile, tangibile e... ogni volta che le guardie mi riferivano cosa vi succedeva, io... mi veniva voglia di scendere in piazza e difendervi a viso scoperto, ma che avrebbe pensato la popolazione? Ormai ero un Capo, non potevo più fare la prima cosa che mi passava per la testa. La regione intera si aspettava che fossi responsabile, così non potei fare altro che insabbiare moltissime accuse che pendevano su di voi in continuazione da quando siete finiti negli orfanotrofi. Quando vi richiamavo nel mio ufficio volevo solo controllare che cresceste sani, volevo vedere che...»
La sua voce sparì in un singhiozzo e Savannah intuì che la storia era finita.
«Avevamo puntato tutto sulla ragazza», commentò pensieroso Heim mentre la osservava, lisciandosi la barba biancastra. La giovane jiin stava pateticamente consolando il suo Capo con timide ed imbarazzate carezze sulla spalla, balbettando qualcosa mentre si guardava attorno con nervosismo. «... e invece il più sentimentale tra i due si è rivelato il fratello.»
Silar fece spallucce e si grattò una tempia. Allontanò da sé il piatto ed alzò una mano per chiamare il cameriere, indicandogli il suo bicchiere vuoto. «I rapporti sulla loro infanzia dicevano che lui era duro e testardo e lei incapace di fare un passo da sola, che altro potevamo pensare?»
«Che dobbiamo aggiornarli?», suggerì Olus mentre si sistemava con astio il nodo della cravatta, facendo cadere il tovagliolo dal tavolo.
«Decisamente. Dirò a Mayson di farlo non appena torna nell'archivio.»
«Ad ogni modo... l'importante è che li abbiamo presi, bel colpo!», commentò contento Silar.
Le sue labbra si distesero in un largo e soddisfatto sorriso mentre gli occhi si illuminavano, e non era merito del fuoco. «Nehroi sarà la fine di tutte le rivolte monarchiche, il sogno di Chawia non potrà che frantumarsi ancor prima di nascere e andrà tutto per il meglio.»
Omise ciò che avrebbe pensato per sistemare anche Savannah, ma la sua mente continuò a correre anche dopo aver terminato la frase.
Olus prese tre calici, ne porse due ai colleghi e sollevò il suo con un sorriso soddisfatto. «Un brindisi?»

Più tardi, quella sera, quando ormai mancava solo il dolce, Nekkis si alzò da tavola stagliandosi possente nel cielo stellato e picchiettò il coltello sul bicchiere, richiamando l'attenzione di tutti i presenti.
«Signore e signori», tuonò con la sua voce potente. «Volevo innanzitutto ringraziare Tolakireth e la splendida cena che ci è stata offerta, se si potesse mangiare così tanto e bene tutti i giorni nel corpo di guardia... avremmo dei soldati più larghi che alti!»
Qualche risata si levò da vari punti del tavolo, ma Nekkis alzò una mano e le spense prima che si potessero diffondere ulteriormente. «Ma non è di questo che volevo parlare. Questa sera stiamo festeggiando il grande passo che il qui presente Nehroi Krajal ha deciso di affrontare! Chiedo il permesso ai nostri Capi di istituire un piccolo torneo, diciamo, uno spettacolo improvvisato per testare le uniche e speciali abilità del nuovo cadetto!»
Per qualche istante la proposta rimase sospesa in un lugubre silenzio, come se i presenti avessero bisogno di qualche momento in più per comprendere cosa avesse detto. I primi ad acclamarla furono Silar e Olus, alzando i bicchieri, seguiti a ruota da Heim, che batté i piedi a terra con ritmo, e persino da Phil, finendo per smuovere un po' tutti. I due soldati, Menthis e Kal, aumentarono il tono delle approvazioni battendo le mani e facendo incitamenti da stadio mentre Nehroi si lasciava trasportare dall'entusiasmo e si alzava in piedi come una star al concerto.
Solo Helea e Chawia sembravano non aver mai avuto meno voglia di sorridere ed entusiasmarsi in tutta la loro vita e ripresero le loro chiacchiere tra donne come se non fosse successo nulla, tornando nel piccolo ed isolato mondo in cui si erano rintanate lungo tutta la serata. Si erano interrotte solamente quando Decra aveva iniziato a piangere, ma la presenza di Savannah aveva reso vana ogni speranza che potessero intervenire.
Nehroi aggirò tutti i commensali fino ad arrivare alle spalle della sorella, intenta a passare il dito sul bordo del suo bicchiere con un'espressione annoiata.
«Annah», la chiamò con un sorriso. Lei si voltò lentamente e lo guardò di sbieco.
La sua voce scattò secca come una trappola per topi. «Vuoi che ti tolga il sigillo per far divertire i tuoi nuovi amici?»
Nehroi però non si lasciò demoralizzare e voltò subito lo sguardo verso i Capi. «Oh no! Sono nei guai!», esclamò ironico enfatizzando la sua finta disperazione portandosi le mani al viso. «Dove potrò mai trovare un altro jiin abbastanza potente da aiutarmi?»
Questa volta le risate furono più fragorose e persino le due dame spocchiose aggiunsero la loro voce al coro. Rise anche Goon, e Deiry accanto a lui; risero i vecchi Kin e Hartis, rise Decra, rise Phil.
Savannah desiderò sprofondare nel terreno o incendiarli tutti, il suo animo furibondo ed imbarazzato era molto combattuto.
Cercò di non guardare nessuno di quei volti tronfi e divertiti e si focalizzò sulle fiamme. Senza che se ne rendesse conto, si sentì ribollire tanto che immaginò di essersi data fuoco da sola e le risate si spensero come se qualcuno avesse premuto l'interruttore.
«Annah, i tuoi...», sussurrò Nehroi con voce stupita.
«I miei?», domandò voltandosi rapidamente verso di lui, allarmata.
Lo vide alzare un dito verso la sua testa, senza scostare lo sguardo da lei. «I tuoi capelli», disse.
Savannah afferrò un cucchiaio ed immaginò di allargarne il metallo dilatandolo fino a farlo diventare grande e piatto come uno specchietto. Lo alzò e si osservò la testa mentre i presenti continuavano a rimanere in silenzio, come se la sua reazione potesse scatenare qualcosa.
Le labbra della ragazza disegnarono una tonda O non appena comprese cosa avesse ammutolito e stupito tutti quanti. Alcune ciocche dei suoi capelli neri come la notte sopra di loro erano diventate rosse incandescenti, incredibilmente simili al fuoco che danzava tra loro. Non bruciavano, non scottavano: si erano tinte all'improvviso, fiammeggianti, e senza che la loro proprietaria se ne accorgesse. Persino il suo viso era più rosso.
«Non l'ho fatto apposta!», esclamò Savannah come se volesse giustificarsi, sorprendendosi del suo tono lievemente impaurito.
Hartis, alla sua sinistra, le posò una mano sul braccio e la fece voltare verso di sé. «Attenta, giovane jiin: troppo potere senza controllo ti può sfuggire di mano», disse con serietà.
«Questo è il prezzo da pagare se non si ha un'istruzione magica alle spalle», commentò aspramente Helea con una punta di soddisfazione, ma lo sguardo torvo di suo marito la fece tornare in silenzio.
Savannah gettò il cucchiaio-specchio sul tavolo e si alzò freneticamente dalla sedia come se qualcosa l'avesse morsa. Si voltò verso Nehroi e gli posò una mano sul petto, nello stesso punto in cui la metteva da anni senza mai spostarsi di un centimetro, ed immaginò il sigillo scivolargli via dalla pelle e dallo spirito, liberandolo dall'oppressione e rilasciando la maledizione che li allontanava.
«Divertiti», gli disse quando fu costretta ad interrompere il contatto fisico. Ritrasse la mano in fretta mentre, alle sue spalle, Decra scattava in piedi gemendo di dolore con una mano stretta sul pancione. Contemporaneamente si alzarono anche Hartis, Kin e Chawia; le posate e i piatti tintinnarono nell'agitazione dei loro movimenti e un paio di sedie caddero a terra.
Si allontanarono di qualche passo da Nehroi e anche lui indietreggiò per non danneggiarli. «È un buon inizio, Nekkis?», domandò ad alta voce. I quattro Capi avevano sul viso espressioni miste di dolore e stupore e continuavano a spostarsi indietro, mentre si chiedevano quanti metri dovessero mettere tra loro per non sentire gli effetti anti-magici della maledizione.
Il capo delle guardie batté le mani soddisfatto e gli si avvicinò con i due soldati al suo fianco. Furono loro i primi a non riuscire a resistere alla vicinanza, ma il loro capo non durò molto di più ed alzò le mani sconfitto a due metri e mezzo dal ragazzo.
Con un'espressione davvero colma di ammirazione si voltò verso Savannah, ad appena una ventina di centimetri di distanza, per nulla turbata. «Complimenti! Che splendida forza di resistenza fisica!», la elogiò.
La jiin sbuffò e guardò altrove, provando disgusto mentre ad uno ad uno tutti i Capi si avvicinavano a Nehroi, ingaggiando una specie di gara per vedere chi riuscisse a rimanere più tempo degli altri in quella zona opprimente per tutti i jiin. Sfidando i tormenti che bruciature, soffocamento e pressione fisica abbattevano su di loro, sembravano bambini entusiasti di un nuovo giocattolo. Non sapevano come Nehroi se lo fosse procurato, né dove né perché, ma la cosa che fece irritare Savannah più di tutte fu la loro ignoranza dei problemi che quella maledizione aveva causato ai due fratelli negli anni, e il fatto che non se ne curassero affatto.
«Voglio provare anch'io!», esclamò Kin, ma Silar accorse rapido sostenendo che avesse un'età troppo veneranda per potersi sottoporre ad un gioco simile. La giovane jiin strinse i pugni con stizza e si allontanò dalla folla.
Rimasero sedute solamente Deiry, Helea e Phil, la prima perché le era stato vietato in ogni modo di avvicinarsi ancora ai due fratelli e gli altri due perché una brehmisth e un umano non avrebbero avuto nulla da testare. Helea stava giocherellando con il coltello quando due mani sulle spalle la fecero sobbalzare, il suo viso ruotò all'improvviso e le sue labbra incontrarono quelle del marito. Si baciarono con dolcezza per un lungo istante, poi lui le fece cenno di seguirlo. «Ho la vincitrice!», esclamò il Capo di Bastreth, poi spinse la donna nel raggio d'azione della maledizione e le fece un gran tifo mentre la guardava avvicinarsi sempre più al ragazzo senza incontrare il minimo ostacolo, scatenando le acclamazioni degli jiin sconfitti.
«Un potere davvero unico», commentò un Heim col fiatone. Nehroi lo ringraziò sorridente e si voltò verso sua sorella per dire che non sarebbe riuscito a sopportarlo senza di lei, ma non la trovò.
Helea stette al gioco facendo un inchino e prendendo in giro chi ancora testava la propria resistenza, poi diede loro le spalle e si indirizzò a Nehroi, distraendolo dalla ricerca di Savannah.
«Potete anche aver avuto il peggior passato del mondo e potete pure imbrogliare tutti, dal primo all'ultimo, ma non ingannerete mai me», sibilò velenosa. «Non importa dietro quante divise vi nasconderete: non siete nient'altro che assassini fuorilegge e lo resterete per sempre.»


*-*-*-*



Per scrivere questo capitolo (terminato ad un orario improponibile e soprattutto tra lo scritto e l'orale di un esame <.<) mi sono aiutata con un po' di canzoni malinconiche, una su tutte In my arms, in modo da migliorare il racconto di Decra... spero abbia fatto l'effetto che speravo, soprattutto le reazioni di Savannah!
Grazie ancora una volta a chi mi ha seguita fin qui, capitolo dopo capitolo!
Alla prossima!
Ciao!

Shark

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Capitolo 29
*** Piani ***





29
Piani



Helea si rimise composta e sorrise allo sguardo perplesso del marito, tranquillizzandolo abbastanza da farlo tornare alle sue chiacchiere con Silar. Quella frase aveva graffiato il ragazzo quanto sperato e la donna si beò nel vederlo con le labbra schiuse e lo sguardo vacuo.
Il cielo nero si stagliava sopra tutte le teste come un mantello oscuro e protettivo, privato delle sue stelle argentee da una luna prepotente che rischiarava con forza bianca ed ammaliante tutta la volta e pure la terra. Le montagne erano contornate di luce e così anche i boschi, gli alberi, l'erba, il palazzo, le persone. Tutti erano avvolti da una doppia luce, quella calda delle fiamme danzanti e quella fresca della luna imponente.
Nehroi se ne accorse mentre si guardava attorno alla ricerca della sorella, scorgendo la dualità luminosa su ogni cosa. C'era chi era rivolto verso l'una o l'altra fonte e agli occhi del ragazzo sembrava che indossassero tutti una maschera, senza riuscire a capire se il vero volto fosse illuminato dal cielo o dal fuoco. Scorse Savannah mentre si allontanava, troppo lontana e nascosta per poter essere illuminata distintamente da qualcosa, e scorse anche Phil, ancora seduto al suo posto oltre il falò, che lo fissava senza espressioni, lasciando che fossero i suoi occhi giallognoli e più accesi del solito a parlare per lui.
Non ingannerete mai me”, aveva detto la donna di Bastreth. Nehroi si domandò quanta verità potesse effettivamente circondarlo.
Tra chi si alzava per andarsene e chi si muoveva per parlare con altri, le due luci illuminavano alternativamente ed in maniera indistinta tutti quanti, in un gioco bianco e arancione che divenne subito molto confuso.
Il brehkisth abbassò lo sguardo su di sé e provò una strana sensazione quando notò che lui stesso era illuminato perfettamente per metà dalle fiamme e per metà dalla luna.
Le persone attorno a lui si agitavano come demoni infuocati o angeli candidi, ma non se ne curò più e li lasciò alle loro nature ed intenzioni.
Si allontanò dal gruppo e rincorse Savannah.

«Fermati!», urlò affannato sugli scalini.
La jiin era già dall'altra parte del salone vuoto e non accennò minimamente a rallentare il passo marziale con cui metteva in fretta e furia parecchi metri tra loro due. Pestava i piedi a terra come quando era bambina, pensò lui, e il suo vestito ondeggiava come mare in tempesta.
Nehroi si allargò il colletto della camicia con un dito e riprese la corsa senza scoraggiarsi, accompagnato solamente dal rumore dei loro passi che rimbombava sulle pareti spoglie come proiettili.
Savannah stava per salire la rampa di scale che portava ai piani superiori, diretta verso la sua stanza, quando le venne afferrato l'orlo della gonna e perse l'equilibrio.
Cadde all'indietro, ma suo fratello la prese al volo e se la caricò su una spalla come un sacco di patate senza alcuna cerimonia.
«E adesso noi due... dobbiamo parlare», disse mentre cingeva le gambe di Savannah con un braccio per evitare i calci che la ragazza stava cercando di dargli.
«Mollami!», sibilò irritata agitando i pugni. «La maledizione, mi fai male!»
Nehroi se la issò meglio in spalla facendole fare un saltino e, ignorando completamente le sue proteste («Brucia!», «Ho appena mangiato!»), varcò il portone d'ingresso con la tranquillità di chi fa quattro passi per sgranchirsi le gambe dopo la lunga cena. Camminò sull'erba fresca e scura, all'ombra dell'enorme palazzo, svicolando con calma tra i carri fluttuanti dei Capi e di tutti gli ospiti di Tolakireth, fino ad arrivare in un punto abbastanza lontano da orecchie non desiderate. Non erano troppo lontani dal punto in cui si erano fermati con i mal'Kee un paio di notti prima e fu solo allora che mise Savannah a terra.
La ragazza aveva un'espressione furibonda, innervosita da capo a piedi, e le mani le fremevano vistosamente. «Questo è uno di quei momenti in cui adoro essere maledetto», commentò Nehroi ringraziando lo scudo che lo proteggeva da anni dagli attacchi d'ira della sorella e che non gli impediva di finire arrosto un giorno sì e l'altro pure.
«Tranquillo, conserverò il rancore per quando ti sigillerò di nuovo», ribatté la jiin con un ghigno malefico.
Nehroi si lasciò cadere a terra con un piccolo tonfo e i fili d'erba gli solleticarono i palmi delle mani, i polsi e le caviglie scoperte. Alzò lo sguardo sulla sorella, ancora in piedi come un soldato, e sospirò mentre la invitava a sedersi a sua volta con un cenno della testa.
Savannah corrucciò le labbra ed assottigliò lo sguardo. «No», si impuntò mettendo il broncio.
«Sei arrabbiata?», domandò il brehkisth dopo aver fatto spallucce.
«E perché mai», sbottò la ragazza incrociando le braccia, «In fondo io pensavo che saresti andato a dormire e invece hai avuto il tempo di andare da Heim e Nekkis ad accettare la proposta senza dirmi nulla. Oh, dimenticavo la figura da imbecille che mi hai fatto fare stasera, grazie davvero. Poi te ne esci con un bel “fidati di me”, molto teatrale e convincente, sì, anche se non so bene come potrei effettivamente fidarmi di chi fa tutto alle mie spalle. Per non parlare dello spettacolo con la maledizione, non credo di aver mai assistito a nulla di tanto patetico ed irritante ma, chissà perché, la parte del buffone ti è riuscita in pieno.»
Le parole scivolarono fuori dalla sua bocca ancor prima che il cervello potesse sistemarle o approvarle; scapparono dalla sua presa come acido, esplodendo nell'aria quieta più di una bomba innescata da un timer al termine del conteggio.
Nehroi non replicò né sembrò particolarmente offeso o colpito da quella sfuriata velenosa. Lasciò scivolare gli arti e si sdraiò completamente sull'erba, confermando a sé stesso che quella era proprio una notte senza stelle.
Savannah sciolse l'incrocio delle braccia e le tese lungo i fianchi con rigidità. «Non dici nulla?», domandò inquisitoria senza togliersi quell'aria arcigna dal viso.
«Sei tu che mi devi dire un po' di cose», si limitò a dire il ragazzo.
La jiin rimase per qualche istante immobile, incredula. Poi, come un palloncino, la sua tensione scoppiò e si trasformò in ilarità tramite una risata nervosa. «Io?», scandì ironica. «Adesso sono io quella che deve dire un po' di cose?»
«Tu e Decra avete parlato un sacco.»
Savannah sentì i polmoni rimanere vuoti per un attimo, poi si riprese come se qualcuno l'avesse punta sul viso. «E questo che c'entra, stavamo parlando di te», ribatté con meno determinazione ma più nervosismo.
Nehroi le fece nuovamente cenno di sedersi accanto a lui e stavolta obbedì.
«Allora è come avevo immaginato», commentò la ragazza non appena ebbe finito di sistemarsi la gonna in modo da coprirsi le gambe dal contatto con l'erba fredda. Alzò la testa e si guardò attorno con sospetto, socchiudendo gli occhi per vedere meglio al buio eventuali spioni e ficcanaso. A causa della prospettiva, una parete del palazzo si stagliava più in alto delle altre nel cielo nero e copriva la luna, rendendo quel fazzoletto di terra particolarmente oscuro e vanificando il tentativo di Savannah. Chiuse gli occhi ed ampliò i sensi come aveva fatto a Bastreth per ispezionare la grotta finta e cercò di individuare degli intrusi, ma incappò nel muro eretto dalla maledizione del fratello e la sua mente venne allontanata come se qualcuno le avesse colpito la testa con una mazza da baseball.
Cadde confusa e dolorante con la faccia sul terreno mentre si portava le mani sulle tempie pulsanti e le sfuggiva un gemito soffocato. Nehroi scattò a sedere come una molla e fu tentato di precipitarsi su di lei per aiutarla, ma dovette invece allontanarsi, ricordandosi con un istante di ritardo che avrebbe peggiorato le sue condizioni.
«Scusa», soffiò dispiaciuto.
Savannah digrignò i denti ed inspirò profondamente tra sibili e gemiti ma non rispose nulla. Rimase sdraiata immobile per un po', le mani sempre alla testa, e ciò fece sentire il fratello ancora peggio.
«Era da tanto che non ci succedeva, eh?», tentò di spezzare la tensione con una battuta.
La jiin non disse ancora nulla e il tentativo fu effettivo quanto un buco nell'acqua.
«Mi dispiace», sussurrò affranto.
«Non è... è colpa mia, ho sbagliato io...», pigolò la ragazza.
Savannah si rimise a sedere faticosamente, sentendo la testa girare e pulsare come se stesse affrontando una sbornia. Abbozzò un sorriso e calmò il respiro. «Hai ragione, era da un po' che non facevo l'errore di sottovalutare o dimenticare la tua maledizione», ammise.
Nehroi sorrise a sua volta e si sentì molto sollevato. Si lasciò di nuovo andare sull'erba e distese gambe e braccia come un gatto pigro e un po' assonnato. «Anti-magia allo stato puro, baby, solo roba buona!», disse imitando una voce pubblicitaria.
La jiin ridacchiò del tono di voce buffo che aveva appena utilizzato, poi sbadigliò e si sdraiò anche lei. Rotolò su un fianco, senza badare ai pizzichi dell'erba sulle sue gambe e braccia nude, e posò una mano sul torace del fratello. Da fuori non si notò la differenza, ma sotto quella camicia chiara si stava disegnando un tatuaggio rossastro senza un motivo o un disegno preciso, accozzaglia di vari simboli e forme senza uno schema logico, ma molto lineare per la mente di Savannah.
Quando il sigillo fu terminato, la ragazza si avvicinò ancora di più al fratello, incastrandosi tra il suo busto e il braccio ancora alzato.
«Dov'eravamo rimasti...», chiese Nehroi mentre cingeva la sorella. «Decra, giusto?»
Savannah si inumidì le labbra. «Immagino che mi abbia parlato solo perché tu stavi collaborando con le guardie», ipotizzò.
«Eccellente, Watson.»
«Hai davvero intenzione di diventare una guardia?»
Nehroi rise e Savannah sentì le vibrazioni di quel suono pervadergli il petto e scuoterle in viso, fino ad entrare in lei come se fossero sue.
«Un bravo soldatino, votato al “bene”, armato di Vaìn, che vive in attesa degli ordini di qualche pallone gonfiato che abbiamo già preso a calci...? No, non credo che faccia per me.»
«Stai giocando col fuoco», commentò la jiin con serietà. Il suo tono era piatto ma preoccupato e al brehkisth non sfuggì.
«Sì», ammise con rammarico. «Ma non sarei mai riuscito ad andarmene di qui senza... sapere. E questo mi sembrava l'unico modo.»
Savannah non disse nulla. Rimase ad ascoltare il respiro di suo fratello con l'orecchio premuto sul suo torace, trovandolo rilassante.
«Tu non sei d'accordo», disse Nehroi.
«No.»
Il respiro del ragazzo divenne più frenetico e il petto iniziò a sollevarsi ed abbassarsi più spesso.
Savannah mantenne il suo tono calmo e controllato e proseguì. «Questo però lo sapevi già, o non avresti fatto tutto tenendomi all'oscuro fino all'ultimo...»
«Finché non pronuncio il giuramento non sarò altro che parole, non sarò legato da alcun vincolo contrattuale», obbiettò Nehroi con convinzione.
«E ti lasceranno andare via prima di allora? Non hai pensato che potrebbero trovare il modo di trattenerti fino a quel momento? Poi saresti loro per sempre, ricordatelo.»
«Lo so bene!», sbottò a denti stretti. «Lo so», aggiunse poco dopo, con una calma nervosa, finta.
Savannah strinse un pezzo di tessuto tra le dita, la sua gonna, ed iniziò a stropicciarlo nervosamente. Non c'era più il cielo nero di fronte ai suoi occhi, né l'erba ormai gelida sotto di loro. Solo le conseguenze di quelle scelte avventate popolavano la loro mente, nient'altro contava o era degno di essere visto.
«Almeno ti ha detto qualcosa di interessante?», domandò Nehroi con un velo di speranza.
Savannah annuì e lui si sentì tranquillizzato.
«Però adesso non è una priorità, Neh, dobbiamo trovare il modo di...»
Il brehkisth strinse la presa su di lei, sul suo braccio nudo e freddo, interrompendola. «Scappiamo adesso», propose.
La ragazza non rispose subito. Sbatté le palpebre perplessa, aprendo e richiudendo la bocca più volte, senza riuscire a trovare una risposta adatta. «Adesso?», domandò dopo un po'.
«Ti dispiace?»
Savannah si tirò su, puntellandosi su un gomito per vedere il fratello in viso. «Qual era il tuo piano, esattamente?», domandò aggrottando le sopracciglia scure e senza preoccuparsi di nascondere il suo scetticismo.
Il ragazzo sbuffò annoiato e la guardò obliquo. «Non avevamo superato quel passaggio?», sbadigliò contrariato.
«Promettere di entrare nel corpo di guardia a patto che mi rivelassero un tassello delle nostre origini, poi lasciarli a bocca asciutta e andarcene come se nulla fosse?», ipotizzò lei.
Nehroi si grattò la nuca e si guardò attorno nervosamente. «... ehm, può darsi?»
Savannah parve trattenersi con estrema difficoltà dall'alzare gli occhi al cielo o dal tirare uno schiaffo al fratello. «Passando il resto dei nostri giorni come ricercati di livello massimo in ogni regione? Neh, lo sai che quelli hanno un codice d'onore severissimo e che non tollerano i tradimenti della loro gente! Se se la prendono sul personale... al confronto adesso non siamo altro che due ragazzini che hanno giocato un po' troppo! Non potremo più mettere piede ad Ataklur, capisci?»
«Io non sono ancora dei “loro”, non possono considerarlo un tradimento!», replicò vigorosamente lui.
Savannah però non smise di guardarlo con ferocia.
«... possono?», pigolò il ragazzo con una nota di angoscia.
Un vociare lieve ed indistinto li distrasse dalle elucubrazioni sull'onore del corpo di guardia ed entrambi ruotarono la testa come girasoli verso la fonte di quel suono mentre si appiattivano al terreno imitando felini pronti all'agguato.
Erano due le sagome che scorsero vicino alle pareti esterne del palazzo, molto vicine tra loro ed evidentemente agitate. Parlavano velocemente ed in maniera molto concitata, ma non riuscivano a distinguere neanche una parola nitidamente.
«Riesci a vedere chi sono?», domandò Nehroi con curiosità.
Prima che Savannah potesse rispondere di no, una delle due persone si allontanò dalle mura abbastanza da essere illuminata per un istante dalla luna bianca e una folta chioma bionda rese inconfondibile la sua proprietaria.
«Deiry», sibilarono all'unisono i Fratelli del Deserto.
«Scommetto una gamba che l'altro è Silar», aggiunse Savannah con astio.
Nehroi annuì convinto. «Quanto ti fidi della sincerità del suo aiuto di oggi per sigillare quell'oca manipolatrice?», domandò pensieroso.
Savannah ridacchiò brevemente e il suo sguardo si assottigliò. «Zero.»
Appoggiò entrambe le mani sul terreno ed inspirò lentamente mentre lasciava che parte della sua magia fluisse dai polpastrelli come piccoli fiumi. Si stavano per unire tra loro intrecciandosi come fili di una maglia ed ergendosi formando un muro tra le due coppie quando Nehroi afferrò la sorella per i polsi e la distrasse, rompendo quella costruzione fluida sul nascere. Il muro non ancora formato scoppiò nell'erba come una bollicina.
«Che fai?», le sibilò preoccupato. «Quello è uno jiin viola, ricordi? Non riuscirai mai a fregarlo con un trucchetto così banale!»
Il suo sguardo continuava a rimbalzare da Savannah a Silar, sperando che non li avesse notati, e l'ansia aumentava ad ogni occhiata.
«Quanti scudi camaleontici credi che abbia visto nel suo ufficio? E poi è una mia invenzione, non lo scoprirà mai», ribatté infastidita la jiin.
«E se invece lo facesse?»
«Lo affronterò.»
«Usa il plurale, genia, ricordati che anche Deiry è una jiin...»
Savannah lo guardò storto ed incrinò le labbra in una smorfia contrariata. «Un attimo fa stavi progettando di peggio», gli fece notare.
Nehroi lasciò la presa sulle sue braccia ed imprecò. «Fa' come ti pare!», si arrese esasperato.
La jiin annuì soddisfatta e gli fece cenno di seguirla tra i carri fluttuanti parcheggiati alle loro spalle.
Come ninja esperti, si mimetizzarono nella notte e nelle loro ombre, scivolando dietro l'uno e dietro l'altro, correndo silenziosi e rapidi come il vento, fino ad arrivare al più vicino alle mura del palazzo. Non riuscivano ancora a distinguere bene ciò che i due si stavano dicendo, così Savannah ricominciò a tessere il suo muro magico, filo dopo filo, con cura e precisione: un solo punto sbagliato e non sarebbero più stati protetti e nascosti.
Lo fece largo e alto abbastanza da potervisi nascondere dietro entrambi rannicchiati, poi costruì due maniglie verticali al centro del muro e fece un cenno con la testa al fratello quando ebbe finito il tutto.
Non era la prima volta che usavano uno scudo simile per passare inosservati, sebbene non fosse il metodo migliore: essendo costruito interamente utilizzando la magia di Savannah, alimentarlo e mantenerlo attivo era molto difficile e dispendioso, rendendolo di breve durata. Per quanto riguardava il suo funzionamento, era molto semplice: come i camaleonti sono in grado di mimetizzarsi con l'ambiente, così quello scudo avrebbe fatto con loro, nascondendoli a sguardi indiscreti ed indesiderati.
Si rannicchiarono dietro il muro appena costruito ed afferrarono una maniglia a testa, poi sollevarono di poco lo scudo e si avvicinarono a piccoli passi ai due confabulanti. Si fermarono solo quando arrivarono anche loro alle pareti esterne del palazzo, ad una buona distanza per origliare indisturbati.
Eppure non riuscivano ancora a capire cosa si stessero dicendo.
«Credi che abbia fatto un incantesimo per far sentire agli altri qualcosa di sbagliato?», ipotizzò Savannah scervellandosi per trovare una soluzione a quel problema. Deiry e Silar -da quella distanza si vedeva bene che era lui- erano stati troppo viscidi e strani in quei giorni per poter ignorare cosa si stessero dicendo con così tanta urgenza.
«No», disse Nehroi con certezza. «So che cos'è. L'ho sentito da Phil, oggi pomeriggio.»
La ragazza lo guardò stupita e lui si beò della sensazione di esserle un passo avanti. Un'occhiataccia lo fece tornare coi piedi per terra. «È una lingua strana che parlava con Heim, non l'ho mai sentita ma loro la parlavano con naturalezza senza curarsi di chi ci fosse attorno...»
«Quindi erano tranquilli e sicuri che nessuno li avrebbe capiti?», ipotizzò Savannah con sorpresa. «Se non è madrelingua la magia non ci aiuta a capirli... Ingegnoso.»
Nehroi annuì e sospirò contrariato. «Ci serve Mayson per tradurre», commentò.
La jiin si abbatté di meno: strinse una mano a pugno e si concentrò per qualche istante, poi schiuse le dita ed una piccola farfalla completamente azzurra si librò dal suo palmo steso.
La piccola creatura svolazzò per qualche decina di centimetri avanti e indietro, con un moto confuso, come se stesse cercando di capire come si muovessero le ali o dove si trovasse; poi, tutto ad un tratto, varcò la soglia del palazzo di Tolakireth con decisione e sparì al suo interno.
Savannah fece un cenno del capo a Nehroi ed entrambi imitarono la farfalla, svicolando tra i battenti aperti ed intrufolandosi in un corridoio del piano terra, oltre le scale che li avrebbe condotti alle loro stanze. Si affacciarono con attenzione e cautela ad ogni finestra, fino alla dodicesima: era lì sotto che Silar e Deiry stavano parlando animatamente e, con solamente il vetro a separarli, ogni parola era perfettamente comprensibile.
«Quanto ci mette?», borbottò Nehroi con nervosismo strizzando gli occhi nel corridoio buio. «Se non arriva in fretta finiranno di parlare!»
Savannah si passò stancamente una mano sul viso e lo guardò storto. «Vuoi darti una calmata?», sibilò.
Il fratello però non la considerò minimamente. «E come faremo a sapere che non ci sta riferendo cose a caso ma la traduzione esatta?», protestò.
Un rumore di passi, dapprima tanto lieve e distante da sembrare un'illusione, tranquillizzò entrambi.
Phil comparve alla base della scalinata bianca, vagamente spaesato, poi si accorse dei due ragazzi in fondo al corridoio, alla sua sinistra, e li raggiunse con ampie falcate.
«Era ora!», esclamò sottovoce il brehkisth indicandogli la finestra. «Ci servi per qualche minuto, c'è un...»
Il consigliere però non lo ascoltò e fissò Savannah con severità. Alzò una mano e le indicò il dorso. «Non sei simpatica», soffiò contrariato.
Sulla sua pelle erano stati scritti dei simboli in parte rotondi e in parte squadrati, una composizione che ricordava la struttura di una parola.
La jiin fece spallucce con candore. «Credevo che sapessi leggere la nostra lingua», si scusò senza convinzione.
«Questo è il dialetto del deserto, io non lo capisco!»
Savannah alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. «Scusa, conosco solo quello. Ora vieni qui e tendi le orecchie, ci serve un traduttore simultaneo e alla svelta.»
Afferrò l'umano per la mano piena di pastrocchi e lo avvicinò alla finestra con mal grazia. Entrambi i fratelli si zittirono e crearono un silenzio a dir poco tombale attorno all'umano, rimasto solo con i bisbigli di Silar e Deiry da decifrare.
«Non sono il vostro giocattolino», brontolò contrariato, «... e poi avevate promesso che vi sareste comportati bene», capitolò in un sospiro affranto sotto lo sguardo fermo della jiin.
Nehroi fece spallucce. «È quello che stanno dicendo loro? Se no non ci interessa.»
«Scusaci Phil», disse Savannah con serietà, anche se al consigliere sembrò solo un modo per ottenere più in fretta ciò che voleva da lui.
«Allora, riesci a capire cosa si stanno dicendo?», disse la ragazza un istante dopo, come se non dovesse fare altro che confermare la teoria di Phil.
L'umano annuì e i ragazzi sembrarono contenti.
«Stanno parlando di patti, di piani riusciti a metà», comunicò sottovoce. «Deiry si lamenta che non è riuscita a fare tutto ciò che voleva e accusa Silar di averla abbandonata.»
I Fratelli del Deserto erano in religioso silenzio alle sue spalle, attenti a non perdersi neanche una parola come se ne dipendesse della loro vita.
Phil sorrise e sentì un briciolo di potere scorrergli sottopelle mentre rifletteva sull'importanza del suo ruolo in quel momento.
Le lingue straniere erano sempre state il suo forte, aiutandolo a qualificarsi molto bene nel mondo del lavoro sulla Terra. Nello studio legale di suo padre arrivavano in cerca di aiuto moltissime persone di svariate etnie e quella sua piccola arma in più si era spesso dimostrata utile.
Approdando ad Ataklur, quell'abilità era rimasta importante, per aiutare creature capaci di intendere e farsi intendere da tutti a mantenere un po' più private le loro conversazioni. La prima volta che aveva sentito parlare di jiin intenzionati ad imparare le lingue umane era rimasto decisamente sorpreso.
Phil aveva imparato il francese dalle scuole primarie e non aveva alcuna difficoltà nel comprendere cosa si stessero dicendo quelle due persone oltre il vetro, sebbene non si sentisse totalmente a suo agio in quel ruolo da spia improvvisata.
Vide con la coda dell'occhio Nehroi impallidire e lanciare uno sguardo allarmato alla sorella, ma lei non ebbe reazioni e Phil continuò a tradurre. «Sta parlando di una gravidanza», comunicò.
«Chi?»
«Deiry. Da come ne parla sembra pure imminente...»
Si voltò verso i ragazzi e li scoprì con le fronti corrugate e gli sguardi cupi. «Cosa?», domandò loro. Nehroi sbiancò e si ritrovò due paia di occhi curiosi a fissarlo.
«Neh», lo chiamò la sorella con voce ferma e seria. «Tu sai a cosa si sta riferendo?»
Il ragazzo ridacchiò nervosamente e si passò le mani sul volto. «Pensa a cosa mi ha fatto fare Deiry quando ero posseduto e vedrai che non è difficile da immaginare...», commentò desolato con lo sguardo spento e un'espressione abbattuta sul viso.
Silar si allontanò dalla ragazza e scomparve dietro l'angolo, tornando al tavolo della cena, e Deiry andò dalla parte opposta, verso l'ingresso del palazzo. Udirono il suo lieve scalpicciare sui gradini e anche lei scomparve dalla vista, salendo ai piani superiori senza accorgersi delle tre persone nascoste nell'ombra in fondo al corridoio.
«Una sola domanda: perché?», domandò l'umano, corrugando la fronte tanto da striarla con profonde rughe.
«Dato che lei ha una maledizione...», esordì la ragazza con aria ancora più corrucciata di lui. «E che anche tu sei maledetto... cosa si aspetta che succeda?»
«Un bambino doppiamente maledetto, direi», suggerì Phil con crescente angoscia. Quel discorso iniziava ad essere terribilmente inquietante, e non era nemmeno sicuro di poterne comprendere ogni sfaccettatura.
Nehroi sembrava in preda ad un attacco d'ansia: si portò le mani tra i capelli, imprecò ed iniziò ad agitarsi, mentre nella sua mente iniziavano ad affacciarsi decine di scenari di possibili conseguenze, uno peggiore dell'altro. Un figlio capace di respingere la magia e di manipolare le menti delle persone? Decisamente l'incubo più brutto che avrebbe mai potuto immaginare. Una persona con quelle capacità non sarebbe potuta essere altro che un mostro crudele e devastante, la rovina di ogni mondo e società, magica e non.
Savannah gli afferrò un braccio e gli intimò di tranquillizzarsi. «Adesso non ci pensare», suggerì pacata, «Fino a prova contraria non può succedere nulla nell'immediato, no?»
Il brehkisth annuì vigorosamente ma l'angoscia non smise di avvinghiarlo nella sua morsa.
«Bene. Andiamo ad escogitare qualcosa.»
Le mani di Phil scattarono in avanti come se fosse stato morso da un insetto e il consigliere indietreggiò di qualche passo. «Non coinvolgetemi in nessun piano», intimò serio ai ragazzi. «Non voglio saperne, tiratemene fuori.»
Savannah annuì e l'umano si sentì vagamente sollevato ma non fece in tempo ad allontanarsi di un paio di metri che la ragazza gli immobilizzò completamente il corpo, una mossa simile a quella che gli aveva riservato a New York durante il loro primo incontro, e non poté più muovere neanche un muscolo.
«Per essere chiari», la sentì dire alle sue spalle con voce grave. «Tu ci hai riferito ciò che loro stavano realmente dicendo, vero?»
Phil cercò di annuire, ma anche il collo era paralizzato. «Sì», ansimò.
I passi della ragazza si avvicinarono lenti ed inesorabili, rimbombando nel corridoio spoglio come colpi di cannone.
«Ci saranno delle conseguenze», lo informò non appena gli entrò nel campo visivo. Il suo sguardo aveva qualcosa di diabolico e Phil sudò freddo quando se ne accorse. «Se ci hai mentito, dillo ora prima che ti veniamo a cercare qui, a Norreth, a Londra o ovunque tu vorrai andare a nasconderti. Perché ti troveremo, umano, e non ci metteremo neanche molto tempo.»
Phil inspirò lentamente e sostenne il suo sguardo, sebbene in quegli occhi viola così glaciali e duri non ci fosse neanche un barlume della profondità e dello spirito che lei gli aveva mostrato nei giorni scorsi. «Non ce n'è bisogno», disse faticosamente. «Non ti ho mentito. Mai.»
Savannah piegò un angolo della bocca verso l'alto ma sul suo viso non si addolcì nient'altro.
La paralisi che intrappolava l'umano svanì come nebbia diradata dal vento e la ragazza si allontanò da lui soddisfatta.
Sebbene fosse immersa in un bell'abito, indossasse scarpe eleganti e sembrasse a tutti gli effetti una delicata e giovane miss, Phil dovette suo malgrado constatare che il carattere di una persona rimaneva la cosa meno lucidabile del mondo.
Osservò i fratelli percorrere il corridoio in silenzio, l'uno accanto all'altra, ed ebbe l'impressione che nessuno dei due avesse mai avuto intenzione di togliersi neanche una sola macchia di dosso.
Erano ormai arrivati al salone quando un'idea colse il brehkisth all'improvviso. Afferrò il braccio della sorella un attimo prima che mettesse un piede sul primo scalino e la costrinse a voltarsi verso di lui.
«Helea, prima... mi ha detto che noi siamo degli assassini e che non saremo mai nient'altro», sussurrò Nehroi quasi impercettibilmente. I suoi occhi brillavano di una luce che Savannah aveva sempre trovato adorabile e lei sorrise di rimando.
«Pensi anche tu quello che penso io?»
La jiin si voltò verso l'ingresso del giardino, dove il falò era nascosto dagli alberi variopinti e il vociare dei Capi riempiva l'aria senza preoccupazioni.
«Nove mesi sono decisamente tanti», constatò lei con un ghigno. Adorava la sensazione di essere sulla stessa lunghezza d'onda del fratello e, senza bisogno di aggiungere altro, un piano venne ideato e costruito tra i loro sguardi d'intesa. «E poi non sarebbe terribilmente scortese deluderla?»



*-*-*-*



Avrei dovuto postare questo capitolo sabato scorso e invece ci ho messo un sacco a terminarlo... perché in realtà era già scritto, ma improvvisamente mi ha fatto schifo xD
Grazie infinite a tutte le anime pie che seguono le vicende di questi due ragazzacci! <3
Alla prossima!
Ciao!

Shark

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Capitolo 30
*** Fine dei Giochi ***





30
Fine dei Giochi



«Signor Goon! Signor Goon!»
Il cameriere entrò nella sala con passo rapido ma composto, facendo svolazzare freneticamente le code della sua giacca nera.
Tutte le poltroncine rosse erano vuote ed allineate tra loro attorno all'immenso tavolo di legno scuro, eccetto una. Lì sedeva un uomo panciuto dall'aria depressa, con gli occhi rivolti verso un punto indistinto tra i quadri appesi sulla parete di fronte a lui.
«Signor Goon, signore...»
Il Capo di Haffireth si ricompose sulla poltroncina e si schiarì la voce con un piccolo colpo di tosse. Si voltò verso il ragazzo in divisa e scrutò la sua aria affaccendata e vagamente sconvolta. Sospirò.
«Che c'è?», domandò Goon con tranquillità.
«I Fein Anis, signore, stanno... hanno allestito una specie di palco nel salone delle feste e nessuno sa cosa vogliono farci. Anzi, non si sa nemmeno dove siano...»
Il sopracciglio bianco del Capo si arcuò molto udendo quelle parole. «Un palco?», ripeté confuso.
Provò ad elaborare una spiegazione logica ma ricordò i due soggetti dell'informazione e rinunciò ad andare oltre. Scattò in piedi con un gesto rapido e secco e scomparve nel corridoio, diretto verso le scale con ampie falcate.
Il giovane cameriere fece un debole inchino quando gli passò di fronte, poi sistemò la poltroncina sotto al tavolo, allineandola con le gemelle, e si avvicinò alla parete dei dipinti.
Oltre le acque limpide di Haffiret e le montagne nere di Lagireth, c'era il caldo oro di Feinreth. Col naso all'insù, il ragazzo cercò il volto che gli era stato indicato tra i tanti disseminati tra i paesaggi.
Allungò un braccio e riuscì a staccare la cornice dal muro senza problemi, orgoglioso della sua posizione di Custode che permetteva a lui e a pochi altri di prelevare i dipinti, altrimenti ancorati alle pareti come se ne facessero parte. Si issò sulle punte dei piedi ed afferrò anche il ritratto sovrastante con un piccolo salto.
Infilò le due tele con cura sottobraccio, attraversò la sala riunioni, chiuse con cura i pesanti battenti e salì una rampa di scale.
Lì due ragazzi lo stavano aspettando a mani tese.
«Ti ha visto qualcuno?», domandò Savannah mentre afferrava il ritratto del padre.
Il cameriere scosse energeticamente la testa e si inumidì le labbra.
«Chi c'era nella sala?»
«Solo il signor Goon. Non ha sospettato di nulla», rispose prontamente.
Nehroi si rigirò tra le mani il ritratto del nonno ed annuì soddisfatto. «Benissimo, puoi andare.»
Il cameriere sbatté più volte le palpebre e guardò nervosamente prima il brehkisth, poi la jiin e infine nuovamente il brehkisth. «Non erano questi i piani, voi avevate promesso che...»
«Che ti avremmo lasciato vivere se ci avessi fatto un favore?»
«Nient'affatto!», sbottò il ragazzo tingendo di rosso il viso. Gli fremevano le mani per la rabbia, ma anche per la frustrazione.
Savannah si portò un indice sulla tempia e guardò il fratello con un'espressione pensierosa. «Ho come l'impressione che ci siamo dimenticati di avvisarlo dei nuovi termini dell'accordo», disse candidamente.
Nehroi sgranò gli occhi e si finse indignato. «Oh cielo, no!», esclamò teatrale portandosi una mano sulla bocca.
Il cameriere scoccò occhiatacce astiose ad entrambi ed iniziò a pensare a cosa avrebbe potuto fare per ottenere comunque ciò che gli avevano promesso, poi girò sui tacchi ed iniziò a correre disperatamente giù per le scale, ma una rete comparve improvvisamente di fronte a lui e lo imprigionò ancor prima che riuscisse ad aprire la bocca per urlare aiuto. Avvolto come un salame, fluttuò verso i due fratelli e venne depositato ai loro piedi come un pacco. Nehroi si chinò su di lui e gli sorrise desolato. «Le Stelle sono troppo preziose... davvero pensavi che te ne avremmo data una?», domandò sottovoce, poi gli afferrò la testa e la picchiò contro la parete. Fece un suono sordo, un “tunc” che si spense subito dopo.
Il cameriere perse i sensi e Savannah lo fece fluttuare nella sala riunioni, chiudendo con cura i battenti.
«Grazie dei dipinti.»

Era effettivamente un palco.
Non molto grande né particolarmente solido, ma alto più di un metro e dotato di tre gradini sul fondo, verso la parete. Era fatto di pietra, più precisamente di marmo bianco, come se avessero utilizzato una parete o due del palazzo di Tolakireth per costruirlo spostandone i blocchi.
Goon non si stupì quando pensò che poteva realmente essere andata così.
«E nessuno li ha visti mentre lo facevano? Sarà anche stato di notte, ma qualcuno deve averli visti!», stava squittendo il Capo Hartis dall'altra parte della sala inveendo contro chiunque passasse nei paraggi mentre Goon entrava nella sala.
Heim comparve dal giardino poco dopo, intento a riporre l'orologio da taschino nella sua tasca, e rimase impietrito sulla soglia quando notò quello strano cambiamento. Anche Phil, al suo fianco, strabuzzò gli occhi.
«I tuoi ospiti!», sputò Hartis agitando un pugno ossuto nell'aria verso il Capo di Norreth. «Bell'affare! Adesso la cucina da' sulla prateria e gli animali entrano liberamente! Se dovessi trovare anche un solo pelo nel mio piatto...»
Phil imprecò mentalmente e si vietò di immaginare quali possibili piani potessero avere in testa quei due demoni: la loro mente era troppo strana per poter essere facilmente prevista.
«Qualcuno ha provveduto?», domandò imperioso Heim con il suo vocione.
Olus comparve dal corridoio inferiore ed alzò una mano per far notare la sua presenza. «Ho chiuso il muro, problema risolto», informò soddisfatto ma visibilmente irritato. «Ora l'unica cosa che può entrare è la luce, non mi è riuscito particolarmente spesso come la parete vera...»
Heim non sembrò tranquillizzato. «Andrà benissimo», disse. «Qualcuno sa dirmi dove sono i Fein Anis al momento?»
«La porta della biblioteca è stata sfondata», giunse dalle scale. La voce era quella di Chawia, ma i presenti nella sala delle feste dovettero attendere parecchi passi sui gradini prima di vedere la sua provenienza. La principessa comparve avvolta in un abito largo giallo striato delicatamente di arancione chiaro che fluttuava attorno a lei come una nuvola e che stonava con la sua espressione nervosa.
«Sfondata», ripeté Goon con desolazione. «Quante altre sorprese ci vogliono riservare oggi?»
Silar, Nekkis e i suoi due soldati stavano camminando tranquillamente nel giardino, tra gli alberi variopinti, quando udirono l'insolito vociare nel salone e si avvicinarono curiosi. La prima cosa che li spiazzò fu vedere praticamente tutti i Capi riuniti lì senza un apparente motivo, sottratti dai loro compiti amministrativi che normalmente li teneva occupati nei rispettivi uffici; notarono solo qualche istante più tardi la costruzione insolita che campeggiava nella sala e tutti e quattro iniziarono a chiedere spiegazioni al riguardo.
Il vociare aumentò sempre di più, alimentato da ipotesi su dove potessero essere i due fratelli e sul perché di quegli strani gesti; c'era chi accusava l'idea di averli invitati ed essere stati generosi con loro e chi sosteneva che dovesse esserci qualcosa di serio sotto e che non necessariamente potesse essere negativo.
«Hanno rubato qualcosa dalla biblioteca?», domandò Olus indirizzandosi verso Chawia, poco distante.
La donna fece spallucce e sbuffò. «Non mi interessa, ero solamente salita perché avevo sentito il botto», disse annoiata.
«Spostiamo le pietre e rimettiamole in cucina!», propose Hartis tra un'imprecazione e l'altra verso tutti.
«Anche mio nonno aveva detto di aver sentito qualcosa ma non avevo pensato potessero essere loro», sussurrò Silar ad Heim. «Sono stati scaltri, io non ho sentito nulla...»
Il Capo di Norreth gli pose una mano sulla spalla e strinse le labbra. «Qualche guardia ha sentito dei rumori nella notte, ma non hanno visto nulla.»
Il suo sguardo vagò verso Nekkis e i soldati che lo fiancheggiavano e non si stupì nel vederli lividi di rabbia. Dalle loro espressioni non trapelava altro che offesa ed oltraggio e stavano confabulando in maniera così concitata che nessuno avrebbe scommesso alcunché contro il loro piano di contrattacco.
«Ad ogni modo», tuonò Heim per sovrastare le voci dei presenti. Le sue mani alzate attutirono i suoni come ovatta e pian piano tutti si zittirono e lo ascoltarono. «Ad ogni modo dobbiamo ancora ascoltare la loro versione e capire come sono andate le cose. Ci sarà una spiegazione per tutto.»
«Dov'è Decra?», domandò Olus ricordandosene all'improvviso.
Anche gli altri ruotarono la testa e gli occhi per cercarla, ma nessuno la vide. «Sarà ancora in camera», ipotizzò Goon con apprensione. «Ieri sera ha parlato con la ragazza e mi è sembrata scossa, forse sta ancora riposando...»
Chawia ridacchiò e ricevette molte occhiatacce di rimando.
Nekkis si portò prepotentemente in mezzo alla sala, di fronte ad Heim, e lo fissò dritto negli occhi.
«Qualunque scusa abbiano, hanno messo in ridicolo i miei uomini di guardia», sibilò tagliente.
Silar ridacchiò. «Se non hanno visto nulla si sono messi in ridicolo da soli», commentò con più irriverenza del dovuto.
Nekkis si infervorò e stava per rispondergli per le rime quando Heim si frappose tra loro ed alzò una mano con solennità. «Pace, Aner, non è colpa delle guardie. Silar, non siamo qui per seminar zizzania. Abbiamo ben altri probl...»
Si interruppe.
Uno strano botto proveniente dall'ala opposta del palazzo li zittì e mise sull'attenti, come se non lo fossero stati già abbastanza. Il sorriso svanì lentamente dal viso di Silar non appena la vide.
Savannah stava scendendo le scale con tranquillità e catturò l'attenzione di tutti i presenti, dal primo all'ultimo. Non ebbero modo di reagire in alcuna maniera, né a parole né con qualche magia o incantesimo, che l'attenzione venne di nuovo catturata, e in maniera più potente, da Nehroi.
Scendeva le scale tenendosi a pochi scalini di distanza dalla sorella e aveva tra le braccia una ragazza bionda svenuta. La sua testa gli pendeva oltre il gomito, inerte, ed erano molli e lascivi anche tutti gli arti.
«Deiry!», esclamò Goon con gli occhi fuori dalle orbite. Spintonò chi lo separava dal brehkisth ma non riuscì a muovere un passo di più, respinto da una forza invisibile e dolorosissima. «Che avete fatto a mia figlia!», ringhiò allora, guardando con strano astio il brehkisth non sigillato.
I due fratelli non dissero nulla e continuarono a camminare, respingendo chi cercava di avvicinarsi troppo con la naturale forza della maledizione. Salirono sul palco, il loro palco, e ancora non dissero neanche una parola. I loro sguardi erano fermi, decisi, non guardavano distintamente nessuno né mostravano alcuna emozione.
«Insomma, si può sapere che intenzioni avete?», sbottò Heim paonazzo. Improvvisamente era diventato molto difficile essere la voce neutrale e saggia del gruppo. Il suo sguardo era incatenato al corpo immobile di Deiry e gli occhi erano assottigliati come lame nel tentativo di constatare se stesse respirando o no.
«Perché non lo chiedete al pupillo di Kyureth?», disse Savannah atona e fredda.
Gli sguardi dei presenti si focalizzarono su un agitatissimo e già sudato Silar. «Non so di cosa stia parlando», balbettò nel disperato tentativo di sembrare disinvolto. Le espressioni poco convinte che ricevette in risposta gli fecero capire che stava fallendo nell'impresa.
Nehroi mise Deiry in piedi e la scollò finché non si svegliò. I suoi occhi chiari si aprirono sulla folla dei Capi che la fissavano preoccupati ed angosciati, gettando anche lei nel panico. Con un istante di ritardo stropicciò il suo bel visino in numerose e varie smorfie di dolore quando il contatto con la maledizione la colpì come bastonate o esplosioni lungo tutto il corpo. Iniziò a gemere e a contorcersi convulsamente, poi sentì una presa sul suo braccio e il dolore si attenuò lievemente.
«Hai la resistenza di una formica», soffiò irritata Savannah mentre se la trascinava ai piedi, lontano da Nehroi. Fece un cenno della testa al fratello non appena la biondina ricominciò a lamentarsi e il ragazzo saltò giù dal palco con un'alzata di spalle. Allargò le braccia ed immaginò di erigere un muro con la sua maledizione, esattamente come aveva fatto contro la grotta di Bastreth, quando niente era più importante che proteggere sua sorella. Tutti i presenti si allontanarono di almeno tre metri da lui, stipandosi da soli contro la parete opposta. Un ampio corridoio deserto separava i Capi dai due fratelli, una striscia bianca invalicabile.
Phil fece un passo in avanti, umanamente invulnerabile ad ogni sorta di maledizione contro la magia, ma la mano salda di Heim gli afferrò il braccio e lo costrinse a rimanere con lui.
Savannah si chinò su Deiry e le afferrò il mento con due dita. «Perché non racconti tutto da brava bambina? Scommetto che neanche il tuo caro papà è al corrente di ogni dettaglio...»
Le ruotò il volto verso i Capi, oltre Nehroi, mentre due lacrime le bagnavano le dita.
Osservò Goon impallidire e cercare di affrontare l'antimagia, ma era troppo per lui e rimase bloccato dov'era, i pugni che fremevano e la frustrazione dipinta a chiare pennellate sul suo viso paffuto.
«So della maledizione mentale», disse con voce roca. Al sol ricordo si sentì squarciare da un senso di agonia che raramente riusciva a seppellire. «L'ho sigillata io.»
Savannah non fu l'unica a rimanere stupita da quella frase: Heim per primo sgranò gli occhi verso il suo collega e amico, incredulo. Aprì la bocca per dire qualcosa ma non uscì alcun suono.
«Molto bene», proseguì la giovane jiin senza scoraggiarsi. «Deiry cara, sai dirmi cosa succede quando sei maledetta?», domandò con voce pungente.
La ragazza di Haffireth deglutì. «Non sei più padrone del tuo corpo, né della tua vita», esordì faticosamente. «Nella tua mente scatta qualcosa di nuovo e le priorità cambiano.»
«Nehroi», chiamò Savannah interrompendo il racconto. «Confermi?»
Il brehkisth annuì grave.
«Prosegui.»
Deiry si puntellò su un gomito e si mise un po' più dritta, sebbene la maledizione di Nehroi fosse ancora troppo vicina per poter essere sopportabile. Pianse altre due lacrime, che caddero sul marmo e lo scurirono con grossi punti. «Sai che è una punizione per qualcosa ma non puoi farci niente, cerchi solo di sfruttarla e fai molte cose, anche sbagliate... perché senti che devi fare così, la tua nuova natura te lo impone e... non puoi farci niente...»
Savannah la afferrò per i boccoli biondi e la scrollò come uno straccio. «Dì loro cosa hai fatto in questi giorni senza sigillo. Dì quali cose sbagliate la tua maledizione ti ha portata a fare», ordinò.
Deiry singhiozzò e la sua vista si appannò completamente. Strizzò le palpebre ed altre lacrime caddero sul palco, ma tutto rimase sfuocato e non cambiò nulla. «Ho...», singhiozzò ancora, più violentemente. «Ho costretto Nehroi a...», la sua voce si interruppe, ma la presa di Savannah sui suoi capelli si fece più forte. «A mettermi... incinta...»
Sebbene avesse pronunciato quelle ultime parole quasi impercettibilmente, tutti i presenti compresero benissimo e un coro di esclamazioni di vario genere aleggiò tra loro.
Savannah li osservò ad uno ad uno, constatando che l'unico non stupito era ovviamente Silar. «Vuoi proseguire tu?», gli domandò mentre apriva le dita e lasciava cadere a terra Deiry bruscamente. «Signor Gerit. Cosa ne avresti fatto tu, del bambino?»
Silar tornò a fissare il pavimento sotto lo sguardo scandalizzato di chi gli stava attorno. Olus scavalcò Chawia e si allontanò da lui come se avesse la peste.
Il futuro Capo guardò la giovane jiin in cagnesco, visibilmente irritato. «Assolutamente niente», rispose ostentando la sua solita fermezza e una certa ferocia.
Savannah tirò un angolo della bocca in su e il suo sorriso si trasformò in un ghigno. «Ma certo. Avevi altri progetti, non un figlio doppiamente maledetto ed ingestibile ma una linea di discendenza più stabile e comunque potente... tu volevi me. Non è così?»
Un silenzio tombale accolse le sue parole mentre uno scontro tra sguardi di fuoco si svolgeva tra Nehroi e Heim, poi con Goon, con Chawia e infine Nekkis. Ogni volta che qualcuno sembrava resistere un po' troppo alla maledizione, il brehkisth si spostava di qualche centimetro in avanti e li costringeva tutti ad arretrare ancora.
«Non c'era niente di male», si limitò a dire Silar come unica difesa. Non smise di lanciare occhiatacce alla ragazza, così come lei non smise di ignorarle. «Te l'ho detto, le pianificazioni coniugali non sono roba dell'altro mondo... anzi, anche tra gli umani ci sono da secoli.»
Savannah alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Risparmiaci la lezione di storia, non siamo qui per questo. Deiry, tu invece devi spiegarmi che cosa speravi di ottenere.»
Si chinò su di lei e la costrinse a rialzarsi almeno di qualche centimetro, ignorando i fiumi di lacrime che le scorrevano lungo le guance. Piantò gli occhi viola su di lei, incutendole timore. Erano freddi e cupi, privi di qualsiasi luce. «Cosa speravi di fare con un bambino in grado di manipolare le menti altrui e di respingere la magia di chiunque? E nel momento in cui sei riuscita a perdere il controllo anche solo di te stessa, come credevi di poterlo crescere come volevi? Sarebbe diventato ingestibile, un mostro contro tutte le genti...»
Deiry singhiozzò ancora e si passò i palmi delle mani sugli occhi, pulendoli dalle lacrime. «Perché parli col condizionale?», pigolò con voce spezzata.
Savannah le sorrise diabolica e la jiin rossa si sentì male.
«Qual è lo scopo di questa messinscena?», sbraitò Nekkis allo stremo delle forze. Era il più vicino a Nehroi tra tutti quanti, ma era anche madido di sudore e il suo respiro iniziava ad essere affannato.
«Tu», lo additò. «Tu ti stai rovinando una brillante carriera ancor prima di farla nascere!»
Le spalle di Nehroi sussultarono e il suo petto iniziò a tremare. La risata scoppiò lentamente ma inesorabilmente, inondando la sala e le orecchie dei presenti nell'intero palazzo. «Sul serio? Avevi creduto sul serio che potessi diventare un tuo soldatino?», esclamò ilare facendo gelare il sangue ai tre membri del corpo di guardia davanti a lui.
«Ma non capisci che così vai contro il volere del regno?», sibilò Nekkis con voce ferma e uno sguardo a dir poco infuocato.
Nehroi assottigliò lo sguardo e lo colpì con altrettanta potenza, trasformati i suoi occhi in due lame smeraldine. Brillavano di speranza e di eccitazione, ma nessuno riuscì ad accorgersene.
«Sei tu che non capisci... dovresti pensarci due volte prima di metterti contro di noi. Per proteggere la nostra famiglia siamo pronti a scontrarci con il regno e con il mondo intero.»
Savannah si alzò in piedi con imponenza e guardò verso le scale: infervorati come mai li aveva visti prima di allora, il vecchio Capo di Kyureth, Prachis Kin, e il Capo di Feinreth, Decra Algia, stavano scendendo con rapidità. Rimasero basiti vedendo la scena che comparve ai loro occhi: tutti i Capi, compreso il capo delle guardie, premuti contro una parete di fronte ad un Nehroi senza sigillo, impotenti nei confronti di una ragazza su un palco che sovrastava la figlia di un Capo come se fosse una bambina impaurita.
«Siamo al completo», commentò Savannah con un una punta di gioia nella voce. Nehroi allungò una mano verso di loro e un ramo della maledizione li prese alle spalle, costringendoli ad unirsi al gruppo.
«Stavamo giusto per spiegare ai vostri colleghi che questa non è una messinscena», disse la jiin viola con voce affabile ed ostentando un sorriso cordiale. «È una regolazione di conti.»
«Già», proseguì Nehroi, «Non ci sono piaciuti i vostri scherzetti da palloni gonfiati, così abbiamo deciso di cambiare qualche regola. Questa è la fine dei giochi, signori ospiti, e la morale della favola è che non si possono prendere in giro i Fein Anis senza assaggiarne le conseguenze.»
Nekkis ed Heim ridacchiano in contemporanea. «Credete di essere gli unici a poter passare al contrattacco?», disse il Capo di Norreth.
«Questo posto pullula di guardie», intervenne Nekkis con orgoglio. «Non potete bloccarci qui per sempre e quando la situazione uscirà dallo stallo arriveranno squadroni a...»
La voce cristallina di Savannah lo interruppe. «Oh! Per guardie intendi... quei polli che ho stordito e rinchiuso negli scantinati?», disse divertita. «Ma tu continua pure, sono sicura che troverai qualcun altro ad aiutarti... a parte la servitù di Tolakireth. Abbiamo messo fuori combattimento anche loro.»
Parecchi visi sbiancarono e i Capi vacillarono.
«Siamo previdenti», commentò infine Nehroi con un'alzata di spalle.
Heim rifletté per qualche istante sull'entità di ciò che avevano appena ammesso -era piuttosto impensabile una tale dimostrazione di potere: smisurata, completamente inosservata e sotto i loro occhi- e sentì mormorii di sbigottimento anche da parte dei suoi colleghi. Quando si riprese batté un piede a terra e richiamò l'attenzione su di sé, visibilmente alterato. «Vi abbiamo aperto tutte le porte del palazzo!», sbottò infuriato, «Vi abbiamo accolto tra noi senza se e senza ma! Vi abbiamo offerto un futuro che nessuno si sarebbe mai aspettato o sognato... perché fate questo! Noi vi abbiamo dimostrato fiducia!»
Savannah soffiò dal naso e ridacchiò tra i baffi. «Fiducia?», ripeté, «Ma se non ti fidi neanche del tuo stesso consigliere! Hai bisogno di controllarlo, di tenerlo al guinzaglio come un cagnolino, ordinandogli cosa fare e cosa non fare! Come possiamo fidarci di chi controlla i suoi più stretti collaboratori in questo modo assurdo? Minacciandoli, poi!»
Phil si morse un labbro ed abbassò lo sguardo tanto al pavimento da stare in realtà guardando la sua cravatta. Heim si voltò verso di lui con un'espressione stupita e sconvolta, con le labbra schiuse e il respiro mozzato. Anche gli altri rimasero stupefatti da quella rivelazione e spostavano increduli lo sguardo dall'umano alla jiin sul palco come se potesse dire ancora qualcosa di più shockante.
«Ops», sussurrò la giovane jiin. Questo non era previsto.
«Sei... sei controllato?», balbettò Heim, impietrito, con un filo di voce. «Guardami, Phil.»
Phil non si mosse. Abbassò ancora di più la testa, sentendo tutti i muscoli e i tendini del collo tirare fino a fargli male.
«Guardami!», tuonò il Capo, pulsante di rabbia. L'umano tremò e deglutì, ma non eseguì l'ordine. «Chi ti controlla? Dimmelo, Phil! Lavoriamo assieme da anni, perché me l'hai sempre tenuto nascosto e... perché non mi guardi? Alza gli occhi, ti prego, mostrami le tue vere iridi!»
«Non posso», sussurrò l'uomo, ombra di quel che era fino a poco prima: sicuro, padrone della situazione, abile, talvolta saggio. Tenne lo sguardo a terra come il più vile dei vermi e non disse più nulla.
Fu Goon ad interrompere quel momento di rivelazione e a riportare l'attenzione su sua figlia, ancora indebolita e rannicchiata ai piedi di un'insensibile Savannah. «Vi prego», supplicò quasi urlando, «Lasciate andare la mia bambina... vendicatevi con noi, se volete, prendete me! Prendete me!… ma lasciate lei...»
I Fein Anis non lasciarono passare neanche un istante. «No», dissero all'unisono.
Chawia fece un passo avanti, dimostrando una notevole forza fisica per resistere più degli altri alla maledizione, pur con il viso contratto. «Così è questa la vostra vendetta? Metterci in un angolino e sentirvi potenti per dieci minuti? È questa la famosa “missione” che sbandierate ai quattro venti senza dire mai in cosa consiste?», domandò con voce calma e solenne. Man mano che le parole fluivano dalle sue labbra, l'espressione tornava ad essere rilassata come sempre, con il tipico accenno di noia che caratterizzava la principessa. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e se le rimirò distrattamente. «Come intendete regolare i vostri conti? Qualunque cosa farete sarete voi ad assaggiare le nostre conseguenze e, per quanto potenti possiate essere, noi non siamo da meno. Perderete questa stupida battaglia, anzi: vi state scavando la fossa da soli e giocate ai duri illudendovi che non sia così.»
Savannah sollevò Deiry tirandola per il vestito, poi le mise una mano sul volto e con l'altra le tenne fermo il busto. Ruotò la testa di lato, lentamente, ma senza mai staccare lo sguardo dalla sedicente principessa.
«Un paio di centimetri», disse seria. La furia verso tutto e tutti stava montando in lei così in fretta che avrebbe potuto aggredire da un momento all'altro chiunque le fosse capitato a tiro. Deiry gemette e cercò di ribellarsi, ma la magia che provò ad indirizzare verso Savannah -una raffica di lame taglienti- venne deviata dalla maledizione di Nehroi, che avvolgeva la jiin viola come un mantello, e si ritorse contro di lei. Braccia, gambe e busto divennero costellati di tagli di piccole dimensioni, i vestiti si lacerarono in tantissimi punti e si tinsero di rosso non appena la pelle iniziò ad essere lacerata in profondità.
Goon aveva gli occhi più sgranati che mai, la bocca spalancata e la faccia tonda paonazza sotto gli arruffati capelli brizzolati. Trattenne il respiro e si sentì mancare quando provò a fare un altro paio di passi in avanti, in quel corridoio intangibile che separava il brehkisth dai Capi. Cadde in ginocchio e picchiò i pugni a terra con rabbia. «Prendete me!», urlò disperato.
Erano lontane le sue moine da zio gentile e premuroso, lontani i suoi modi garbati e un po' buffi, lontana ogni apparenza inutile. Lassù, su quel palco gelido ed improvvisato, la star dello spettacolo era sua figlia, la sua bambina, l'unica cosa che gli era rimasta in tutto il mondo. Jilian era morta, crescere una bimba così piccola da solo l'aveva cambiato e reso migliore. Se lo era sempre detto, era il suo credo e non poteva perderla così, per una regolazione di conti, per una vendetta, per un'ambizione di potere che non...
Savannah gettò Deiry alle sue spalle, come una bambola, facendola sbattere contro il muro. La sua mano ancora tesa verso di lei si illuminò lievemente e lo scoppio di un'esplosione riempì l'aria in tutta la regione di Tolakireth. Le pareti tremarono e solo allora i Capi si accorsero del motivo di tanta sicurezza da parte dei due fratelli: alzarono gli occhi al soffitto marmoreo e lo videro costellato di sfere bianche di varie dimensioni, appese come lanterne e perfettamente mimetizzate.
«Bombe», sussurrò Olus un attimo prima di gettarsi su Decra per proteggerla.
I Fein Anis scattarono come lepri verso l'ingresso non appena le sfere iniziarono ad esplodere una dopo l'altra, innescate da quel colpo che aveva lasciato Deiry stordita lì sul palco, in un lago di sangue.
Il soffitto crollò blocco per blocco ed enormi pezzi di marmo iniziarono a riempire il pavimento rendendolo impercorribile. I Capi di protessero ergendo sulle loro teste un gran numero di barriere e l'unione fu la loro forza contro quella pesantissima tomba che stava per seppellirli; ne crearono anche qualcuna su Deiry, coprendola appena in tempo.
La scalinata crollò poco dopo il passaggio dei ragazzi e i due svicolarono tra i battenti dell'enorme porta d'ingresso, inclinati e presto trascinati giù dalle pareti danneggiate da altre bombe.
Savannah e Nehroi corsero come poche altre volte in vita loro, quando era particolarmente essenziale non essere beccati. I polmoni si riempivano e svuotavano velocemente, i loro ansimi impedivano qualsiasi parola inutile. Le gambe scattavano leggere e al tempo stesso pesanti tra i carri fluttuanti, arrivando al più lontano del gruppo, l'unico che dava sulla prateria sgombra e pronto alla partenza.
«Stanno scappando!», urlò Hartis da sotto la sua cupola protettiva, sommersa dalle macerie. Spostò qualche detrito e si voltò verso Kin, alla sua destra, trovandolo stranamente immobile a terra, sebbene le barriere degli altri Capi avessero protetto anche lui. «Prachis!», lo chiamò in preda al panico, «Prachis!»
Silar sentì le urla disperate del Capo di Lagireth ma era troppo lontano per correre in aiuto di suo nonno: spostate le macerie con non poca difficoltà e indebolito dall'esposizione troppo prolungata alla maledizione, era partito all'inseguimento dei due delinquenti e con lui Chawia e Heim. Olus era riuscito a proteggere Decra e il bambino che portava in grembo e stava gioendo per il successo, mentre Goon spostava pezzi di marmo su pezzi di marmo, con la magia o più spesso a mani nude, e cercava in tutti i modi di raggiungere sua figlia.
Il rumore del carro fluttuante che filava via sorvolando con un fruscio inconfondibile l'erba di Tolakireth fece realizzare a tutti quanti che ormai era troppo tardi per riuscire ad acciuffare i Fein Anis.
Heim salì su un carro e cercò di inseguirli a parità di mezzi. «Non possono farla franca!, sbraitò fuori di sé.
Diede l'ordine mentale alla Stella per avviarsi e partire, ma era priva di magia e non successe nulla.
Chawia e Silar continuarono a correre dietro ai fuggitivi, ma si fermarono a metà della prateria smeraldina, ormai troppo distanti dal carro per poterlo raggiungere; fu la loro magia a proseguire l'inseguimento.
Silar si lasciò cadere a terra e vi appoggiò con forza le mani, conficcando le unghie nel terreno mentre borbottava qualche incantesimo ad una velocità incredibile. Chawia invece analizzò l'ambiente di fronte al carro e trovò il modo di far crollare il terreno in un punto che avrebbe sorvolato poco dopo, sperando di riuscire ad affondarli e frenarli una volta per tutte.
La terra tremò e il carro vacillò. Savannah si sporse da un lato e riuscì ad immaginare un tappeto elastico appena in tempo, prima che cadessero inesorabilmente nell'abisso che Chawia aveva progettato per loro. Il carro saltò letteralmente fuori dalla voragine, come un chicco di riso, e riprese la corsa dopo aver rotolato per un po' ed essersi rimesso dritto a dispetto delle ammaccature.
Chawia imprecò quando li vide farla franca e si chinò su Silar con le mani tremanti. «Riesci a prenderli? Quanto manca?», gli domandò ansiosa e visibilmente impaziente, smessi per l'occasione i panni da perfetta e nobile principessa.
Il futuro Capo inspirò brevemente e i suoi occhi rimasero immobili per qualche istante. Le sue dita si illuminarono e la terra attorno ad esse sembrò sciogliersi come acqua, poi tornò normale. Silar chinò la testa con desolazione. «Troppo lontani, mi dispiace», mormorò affranto.
«Signor Heim, signore!», urlò un ragazzino alle loro spalle, sbucando dagli altri carri parcheggiati.
Il Capo si voltò e non seppe identificare la sensazione che provò nel vedere il custode delle vetture venire verso di lui tutto pimpante. Provò odio perché tutti i carri con cui stava provando a partire avevano Stelle scariche di magia per potersi muovere e provò sollievo nel vedere sia che il ragazzino stava bene sia il suo sorriso candido, un po' anomalo in una situazione del genere.
«Che c'è», sputò innervosito.
«Signore, sono riuscito a togliere parecchia magia dalla Stella del carro che stanno guidando!», esclamò il ragazzino con orgoglio.
Heim lo guardò corrucciato. «Sapevi quale avrebbero preso?», domandò sospettoso.
Il ragazzino annuì. «Mi avevano chiesto di caricare la Stella mentre svuotavano le altre, signore, ma li ho sabotati! Ho pensato che non fosse giusto ciò che facevano e...»
Heim avrebbe voluto dargli un bacio in fronte ma abbozzò un “bravo” e scappò all'interno di ciò che rimaneva dell'ingresso di Tolakireth, ignorando il tuffo al cuore che la vista della devastazione che in pochi minuti era stata portata lì gli provocò. La statua del Creatore di Ataklur pendeva pericolosamente verso il basso, indicando non più le vaste terre magiche ma un punto indistinto tra i fili d'erba; i suoi piedi non erano più in procinto di camminare nel mondo che aveva creato, ma di cadere inesorabilmente verso il basso.
«Nekkis!», urlò Heim ancor prima di infilarsi tra i battenti inclinati dell'ingresso. «Aner!»
Il capo delle guardie segnalò la sua posizione spostando di botto un masso enorme usando solamente la sua forza muscolare. Accanto a lui, in una nuvola di polvere biancastra, Ur era stato ferito ad una gamba da un detrito pesante che gli aveva schiacciato il femore e lo stava liberando con l'aiuto di Fazil.
«State bene?», domandò Heim in un soffio, poi scosse la testa. «Non abbiamo tempo per i soccorsi. Il carro su cui stanno scappando ha un'autonomia limitata. Se proseguono dritti arriveranno alle montagne tra Kyureth ed Eastreth ma dovrebbero fermarsi nella zona di confine, prima delle colline.»
Aner Nekkis si illuminò e un sorriso gli si allungò sul viso impolverato e stanco. «Chiamo subito i miei uomini», disse deciso mentre affidava il lavoro di soccorso al suo assistente rosso. Estrasse un rotolo di pergamena ed una matita dalla taschina interna della divisa, poi iniziò a scrivere freneticamente. Bruciò il foglio con un po' di magia e sorrise alle ceneri che svolazzavano ai suoi piedi. «Ci penseranno loro a dare a quei bastardi un caloroso bentornati.»

«La Stella è quasi esaurita!»
A Savannah si mozzò il respiro quando Nehroi esclamò improvvisamente quella frase e il suo primo pensiero fu quello di controllare gli indicatori.
Sulla vetrata frontale del carro il disegno corrispondente alla quantità di magia si stava rimpicciolendo sempre di più, inesorabilmente, e il panico le attraversò la mente come una freccia affilata.
«Piccolo bastardo...», sibilò.
Nehroi si chinò sotto la vetrata alla ricerca dello sportellino in cui si inserisce la Stella, ma era tutto perfettamente liscio.
«Si inserisce solo da fuori», gli ricordò la sorella con una nota angosciata.
«Ho solo fatto un tentativo, non possiamo fermarci a fare rifornimento!»
Savannah rimase in silenzio per qualche istante, pensierosa, e Nehroi temette di averle dato una pessima idea. «No», disse alzando le mani verso di lei. «Non lo farai.»
«Abbiamo alternative?»
«Stai seriamente pensando di ricaricarla mentre il carro è in movimento? Stiamo andando ad una velocità troppo elevata, volerai via!»
Savannah fece spallucce. «Modificherò la struttura del carro per crearmi degli appigli», disse tranquilla.
«Perché non lo fai da qui e sposti la Stella più all'interno? Così la carichi senza correre questo rischio inutile!»
«Se la sposto potrei rompere il contatto tra Stella e carro e ci fermeremmo di botto. E in quel caso sì che schizzeremmo via... tranquillo, sarà una passeggiata!»
Nehroi bofonchiò qualcosa contrariato sugli svenimenti, ma le aprì comunque una portiera. Tenne la sorella per un braccio finché non riuscì a sistemarla sulla parte anteriore del carro e un paio di volte rischiò davvero di non riuscire a tenerla abbastanza ancorata. Ad un certo punto, però, la vide aggrapparsi con una mano ad una grossa maniglia, dall'aria robusta, e Nehroi lasciò la presa con più tranquillità. Il carro fluttuava alla massima velocità ormai da dieci minuti, una velocità che solo alcuni tipi di treni al mondo potevano eguagliare, e Savannah era incollata alla vetrata occupando quasi l'intera visuale come un grande moscerino spiaccicato. Eresse una barriera per deviare l'aria che le arrivava addosso, ma si rese conto di essere troppo stanca per riuscire a fare un buon lavoro e rinunciò. Creò altre maniglie lungo tutta la carrozzeria, evitando o sfruttando le ammaccature che la costellavano, e scese con cautela verso lo sportellino che conteneva il prezioso cristallo rosso irradiato da una luce sempre più flebile. Lo divelse ed appoggiò una mano sulla pietra.
«Ci sono!», esclamò entusiasta, ma il vento rubò le sue parole e Nehroi non sentì neanche un sibilo.
Dalla mano la magia iniziò a defluire in un piccolo torrente, scivolandole da sottopelle come se lei fosse un gomitolo e qualcuno le stesse tirando fuori i fili. La pietra iniziò a riscaldarsi e la jiin si sentì sempre più debole.
Il carro riprese velocità e quando Savannah vide che la Stella era tornata ad essere abbastanza luminosa, interruppe il contatto ed iniziò a procedere lentamente indietro, cercando di rientrare nel carro senza “volare via”, come suo fratello giustamente continuava a temere.
Sentì la sua presa su una gamba e un gran sollievo le precipitò nel petto, rendendolo più leggero.
«Ce l'hai fatta», le comunicò lui con orgoglio.
«Una passeggiata, te l'ho detto», ribatté con un'espressione esausta. Con gli occhi semichiusi ed arrossati dal vento, i capelli intricati più di un cespuglio di rovi e gli arti tremanti, tese le labbra chiare in un timido sorriso e poi lasciò cadere stancamente la testa all'indietro.
Passarono pochi minuti quando videro davanti a loro un posto di blocco costituito da tre o quattro squadroni, appostati fin troppo bene per poter sembrare messi lì casualmente. «Ci aspettavano?», domandò sgomenta Savannah. «Non posso affrontarli!»
Nehroi scosse la testa e si chinò verso la vetrata anteriore. Si concentrò e diede l'ordine al carro. «Non li affronteremo», disse sicuro. Il carro aumentò ancora di velocità, con uno scossone che fece sobbalzare entrambi i fratelli, e superarono il posto di blocco come se fosse un castello di carta. Le guardie si spostarono per non essere investiti e la magia che tessero per fermarli era troppo debole e si ruppe.
Proseguirono così la loro fuga, disperatamente diretti verso le montagne più vicine.
Si fermarono appena in tempo, prima di schiantarvisi, e Savannah si avvicinò barcollante alle rocce. Le sue dita tastavano la pietra in cerca della sottile linea viola che avrebbe segnato il passaggio tra i due mondi mentre Nehroi, messo in spalla lo zaino contenente i due ritratti e i libri trafugati dalla biblioteca, recuperava la Stella rossa e gliela porgeva.
«Ha ancora un po' di magia, prendila», le suggerì. «Sei troppo stanca, non riusciresti ad aprire un portale neanche per un gatto.»
Savannah rimase in silenzio per un po', come se stesse verificando quanta ragione avesse Nehroi, poi annuì con un grugnito stanco, gli occhi fuori dalle orbite, ed appoggiò entrambe le mani sul diamante color amaranto. Era poco illuminato, ma aveva ragione il brehkisth: non avrebbe potuto concedersi il lusso di snobbare anche la più piccola forma di energia magica, non dopo aver messo a tacere decine di guardie e servitori, aver posizionato tantissime bombe, aver spostato pesanti blocchi di marmo, aver creato un robusto tappeto elastico, aver sfidato la velocità e il vento su un carro in movimento...
Mentre pensava quelle cose si sentì venir meno ma la magia cominciò a fluire in lei come un'ondata calda, simile al vento del deserto che le bruciava il viso da bambina, e si sentì sollevata. Inspirò profondamente e fu come se i polmoni potessero di nuovo respirare, freschi e liberi.
«Non è molto...», disse Nehroi.
«È abbastanza.»
Spostò le mani sulla linea viola e si concentrò. Focalizzò i pensieri sulla barriera, sul velo tra i mondi, sulla sua voglia di arrivare tra gli umani, alla loro amata casetta in Virginia. Desiderò arrivare lì e dormire per una settimana o più, coccolarsi per un po' e ricaricare le batterie usando i loro preziosi tesori nascosti in quella baita abbandonata che nessuno aveva mai scoperto...
Aprì gli occhi e le sue dita stavano già sfiorando il confine trasparente ed immateriale. Oltre, c'era un paesaggio che i due fratelli conoscevano bene.
Si presero per mano e varcarono la soglia senza esitazione, ma rimasero impietriti quando arrivarono dall'altra parte.
La loro casetta c'era ancora, era lì come sempre. Purtroppo, era anche piena zeppa di poliziotti e agenti di ogni tipo, bardati di giubbotti antiproiettile, etichettati con varie sigle, armati fino ai denti. Decine di armi puntavano minacciosamente verso di loro e Savannah sentì venir meno le forze.
Ebbe un mancamento e cadde a terra come una foglia secca, lasciando Nehroi solo, schiacciato contro una parete che ormai non era altro che nuda roccia e nel mirino di chissà quanti agenti.
«Merda.»




*-*-*-*





Questo capitolo è stato... stranamente non il più difficile che abbia scritto, avevo in mente ogni cosa da mesi e mesi e neanche mettere tutto nero su bianco è stato complicato. È il rendere ogni cosa con il giusto grado di azione, suspense, descrizione (che purtroppo qui è dovuta un po' mancare o sarebbe venuto un capitolo infinitamente infinito!), coinvolgimento, introspezione (che ha fatto un po' schifo)... no, non mi è riuscito alla perfezione. A voi forse piacerà comunque ma a me no e quindi continuerò a modificarlo dettaglio su dettaglio, finché leggendolo non mi dirò “massì, dai, può andare” con più convinzione di quanta non ne abbia ora.
Enjoy it anyway ^^
Erano decisamente troppe le cose da dire e converrete con me sul fatto che non si poteva tagliare prima! >.< Nel prossimo capitolo avremo qualche spiegazione in più, poco poco... diciamo un paio di info che potrebbero chiarire cos'è successo in questo capitolone! Ah, se vi sentite un po' confusi e sbigottiti dalla piega che hanno preso gli eventi: è ok. E' tutto ok.

Immensamente grazie alle mie donzelle che recensiscono con costanza invidiabile! :D
Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 31
*** Basta una Telefonata ***





31
Basta una Telefonata



La bianca, la pacifica, il palazzo dei palazzi, la casa del Creatore: erano tanti i nomi che erano stati rivolti a Tolakireth nel corso dei secoli, ognuno con una storia e un motivo, finendo per essere parte integrante della tradizione orale e della cultura del mondo magico.
Non importava il rango, lo status, lo stile di vita: negli occhi di tutti appariva solo distruzione e nei loro cuori qualcosa si frantumò inesorabilmente quando quel pezzo della loro storia smise i suoi splendenti panni.
«Come è stato possibile?»
Era questa la domanda che rimbombava nelle menti di tutti e scivolava quasi automaticamente fuori dalle loro labbra.
Capi, guardie, camerieri, gente di passaggio.
Quell'edificio parzialmente squarciato, con le pareti crollate che mostravano il giardino e la foresta che avevano sempre celato al mondo magico, era una vista straziante.
«Chi è stato?»
Era la domanda successiva, quella che forse nasceva ancora più spontaneamente nella folla che era accorsa dopo aver sentito il boato nelle regioni accanto.
Sembrava che un animale gigantesco avesse abbattuto la sua possente zampa e avesse dilaniato il palazzo come un castello di sabbia sulla spiaggia, rompendolo in due e lasciandoci un buco profondo nel mezzo.
«Dove sono i Capi?»
L'ultima domanda, la più diffusa.
Dove erano i Capi, perché non l'hanno impedito? E dove sono adesso, che stanno facendo?
Tolakireth è il simbolo dell'unione loro e delle regioni, perché non l'hanno protetta?
«Qualcuno deve pagare!»

Completamente circondato da decine di agenti di varie agenzie, si sentì come un topolino in trappola. Savannah era svenuta dopo tanti sforzi, ma nulla toglieva che quel gesto, per quanto ben giustificato, lasciava Nehroi completamente indifeso e solo in mezzo a fin troppi ed ingestibili nemici.
«Siete in arresto», disse un giovane poliziotto dai biondi capelli a spazzola.
«Siete completamente fottuti», corresse accanto a lui un collega più anziano, con la barba ispida e i capelli ingrigiti. Si avvicinò al brehkisth con fare trionfante, la pistola sempre puntata al suo viso, e gli intimò di voltarsi lentamente. «Mani bene in vista», aggiunse con voce seria e vibrante.
Nehroi sospirò abbattuto, sconsolato, sconfitto, e obbedì. Alzò le mani come ordinato e si voltò verso la parete rocciosa dando, non senza un brivido gelido e un'agitata sensazione di disagio, le spalle a quell'esercito umano.
I suoi occhi videro la striscia violacea che Savannah usava da anni per aprire un portale in quel punto, proprio lì, accanto alla loro casetta, la loro amata base. Come avevano fatto a trovarla? Si erano traditi in qualche modo, avevano lasciato indizi?
L'agente gli afferrò un polso, poi si udì un rumore metallico; Nehroi sentì la fredda manetta legarlo come una pesante catena, pendendo sui tendini e sulle vene pulsanti, dopo di ché gli venne afferrato anche il secondo polso e l'arresto fu completato.
Accanto a loro due un altro paio di agenti stavano facendo lo stesso procedimento con la svenuta Savannah, chinandosi sul suo corpo addormentato con cautela; un terzo poliziotto copriva loro le spalle puntando continuamente la pistola verso la sua testa.
Una volta ammanettata, il poliziotto di guardia infilò la pistola nel fodero sul fianco e aiutò i colleghi a sollevarla e a scuoterla per svegliarla.
«Lasciatela stare!», esclamò Nehroi con ferocia, quasi abbaiando loro.
Alcuni poliziotti, tra quelli barricati dietro le molte vetture parcheggiate attorno alla casetta, ridacchiarono divertiti, ma il brehkisth digrignò i denti e continuò a guardare in cagnesco gli agenti che reggevano sua sorella con mal grazia. «Non si sveglierà prima di dopodomani, smettetela!»
«Che cos'ha?», domandò l'agente che lo aveva ammanettato. La sua voce non era né divertita né preoccupata, era solamente interessato all'informazione. «È malata?»
«Troppi shock in poco tempo», si limitò a rispondere il ragazzo. «Forse dovrebbe visitarla un medico», aggiunse poi, sperando di proteggerla mettendola in un ospedale.
L'agente sembrò valutare attentamente quel suggerimento e si avvicinò a Savannah per scrutarla e decidere. Le toccò la fronte e le sentì il polso, poi scosse la testa e fece un cenno ai colleghi che la sorreggevano. «Portiamola in centrale e basta, riposerà in cella», disse risoluto.
Gli lessero i suoi diritti e il ragazzo annuì svogliatamente quando sentiva una parola dal suono carino.
Mentre veniva scortato nell'auto della polizia, però, Nehroi provò una strana sensazione: qualcosa nel suo petto si era incrinato vedendo che la loro casetta, nascosta e ben protetta dalla folta vegetazione di quel parco naturale, era stata completamente svuotata. Quella era la prima terra umana su cui avessero messo piede da bambini, accogliendo i loro corpicini bruciacchiati dal sole del deserto e provati dall'infanzia difficile, con la sua pace e i freschi rami verdeggianti. Quelli che gli scarponi dei poliziotti stavano pestando senza riguardo erano i primi fili d'erba che i Fein Anis, i Fratelli del Deserto, avessero mai visto e toccato; sotto quell'abete avevano riposato esausti e soddisfatti dopo il primo attraversamento del portale, contando le differenze tra il deserto in cui erano nati e cresciuti e quello strano mondo verde.
La casetta l'avevano costruita loro, con assi di legno provate dall'umidità ma rinforzate dalla magia nel corso degli anni, sullo stampo di quella casa in cui avevano vissuto con il nonno, come se non potessero fare a meno di ricordare le loro origini.
E adesso quella casetta, il loro tempio, era stata profanata da umani con le mani ricoperte da guanti blu che fotografavano ogni loro oggetto, lo prendevano e lo infilavano in buste di plastica numerate.
Gli premettero la testa verso il basso per farlo entrare in macchina e il loro piccolo rifugio svanì dalla vista di Nehroi.
Savannah venne adagiata sul sedile di un'altra volante, e il ragazzo per tutto il viaggio non fece altro che chiedersi se fosse caduta dopo la discesa dal sentiero di montagna.
Arrivarono in centrale dopo un'estenuante ora e mezza passata completamente in silenzio o ascoltando le inutili chiacchiere del poliziotto che guidava e del suo collega accanto, immersi nelle loro considerazioni sul derby che ci sarebbe stato di lì ad un paio di sere e sulle ultime novità politiche.
La centrale era la stessa dell'ultimo arresto e Nehroi si stupì quando se ne accorse. Guardò i poliziotti che lo avevano arrestato, che in realtà avevano la scritta “FBI” sui giubbotti antiproiettile, ma la risposta gli arrivò prima che formulasse la domanda.
«Bentornati», disse Stalsky uscendo da una vettura del corteo che era sceso dalla montagna dove c'era la casetta. «Ero impegnato a recuperare tutti i beni che avete trafugato per assistere alla vostra cattura... mi fa piacere rivedervi, ragazzi.»
Nehroi fece una smorfia e guardò altrove. «Commosso», borbottò. Scoccò un'altra occhiataccia ai poliziotti che stavano scortando sua sorella su per i gradini della centrale e non li perse di vista neanche per un istante con uno sguardo tanto attento da sembrare famelico.
«La metteremo in una cella e la lasceremo tranquilla finché non si sveglierà», lo informò Stalsky con una pacca sulla spalla. Nehroi lo guardò così male che sembrava volesse staccargli la mano a morsi e l'uomo ritirò subito il suo gesto. «Ad ogni modo vorrei fare quattro chiacchiere con te», disse serio. Indicò con un cenno della testa un agente dell'FBI alle loro spalle, quello che aveva ammanettato Nehroi, che li salutò alzando distrattamente una mano mentre parlava al cellulare.
«Mi doveva un favore da qualche mese, da un altro caso, così ho ottenuto l'esclusiva di un primo colloquio...»
Nehroi, che lo ascoltava appena e continuava a seguire sua sorella a distanza, sbuffò annoiato.
Stalsky annuì a sé stesso, come se in qualche modo se lo fosse aspettato, e condusse il ragazzo oltre le scrivanie dei poliziotti e dei detective della centrale, facendolo entrare nella stanzetta degli interrogatori in cui aveva parlato con Savannah quasi tre settimane prima.
Lo liberò per pochi istanti, prima di assicurarlo saldamente ad una sbarra sotto al tavolo, facendovi passare attorno la catena delle manette e rimettendogliele ai polsi, poi prese posto di fronte a lui e lo fissò.
Passarono qualche istante in silenzio.
Stalsky fissava Nehroi e Nehroi fissava le sue mani.
Il detective iniziò a tamburellare le dita sul tavolo ma al ragazzo non importò né sembrò accorgersene.
«Vedi?», disse l'uomo indicando il piano vuoto come se gli stesse facendo notare un'ovvietà. «Non ho nulla con me. Perché ancora, per quanto surreale sembri, non abbiamo nulla su di voi.»
Nehroi fece spallucce e non alzò gli occhi. Continuava a dare l'impressione di essere annoiato e ci fu qualcuno, oltre il vetro a specchio, che ne rise.
«Non sappiamo neanche i vostri nomi, se non quelli che avete inventato da bambini e dichiarato in giro. Tutti falsi, ovviamente, tanto che sono ormai molti quelli che vi chiamano Fantasmi.»
Nehroi ridacchiò debolmente ed alzò di qualche centimetro il suo sguardo stanco. «Non siamo ancora morti», sussurrò con voce roca, calcando in maniera inquietante quella parola, “ancora”.
Stalsky si aggiustò gli occhiali sottili con il dito medio e riprese a tamburellare turbato.
«Come ti chiami?», domandò dopo qualche istante.
«“Come non ti chiami” sarebbe più giusto.»
Il detective rimase interdetto per un istante, poi scosse la testa e sorrise. «Va bene. Come non ti chiami?», chiese decidendo di assecondarlo.
Nehroi rimase impassibile e non dimostrò alcuna vitalità. «Dì un nome», lo invitò con voce piatta.
«Martin.»
«Non mi chiamo Martin.»
Stalsky alzò gli occhi al cielo. «Jeremy», riprovò.
«Non mi chiamo Jeremy.»
Sbuffò spazientito. «Quanto andrà avanti questo gioco?»
«Quanti nomi conosci?»
Qualcuno dietro il vetro si mise a brontolare; Stalsky non poteva sentirli, ma avrebbe compreso benissimo perché anche lui iniziava ad essere innervosito da quel comportamento irriverente.
Si alzò in piedi e si appoggiò con entrambe le mani sul tavolo, allungandosi verso Nehroi con lo sguardo più serio che potesse avere. «Siete ricercati da una vita, avete trafugato decine e decine di antichi manufatti e persino moltissimi dipinti che i musei più sicuri del mondo – dal Louvre all'Hermitage, dal Tokyo National al Met - non sono evidentemente riusciti a proteggere da due ragazzini...»
«Non avete idea di quante cose non provengano da questo mondo», lo informò Nehroi in un brontolio annoiato, come se stesse facendo notare una cosa ad un bambino. Stalsky lo ignorò.
«Com'è possibile che abbiate messo a segno tanti colpi? Senza mani essere visti e registrati da qualche parte, per di più! Io mi trovo perfettamente d'accordo con la definizione di Fantasmi, quando riguardo le riprese delle telecamere di sorveglianza... ancora non capisco come abbiate fatto a sfuggirci al fast food il mese scorso, siete semplicemente scomparsi. Ma quest'ultima apparizione...», ridacchiò come se qualcuno avesse detto una battuta. «Stavolta vi siete superati. Siete piombati in mezzo a decine di agenti di polizia e dell'FBI, comparendo all'improvviso.»
Nehroi ridacchiò. «Siamo usciti dalla montagna», disse tranquillo.
Stalsky inspirò profondamente e socchiuse gli occhi per qualche istante. «Smettila», gli intimò alzando un dito robusto verso di lui. «Non è il momento di scherzare.»
«E chi scherza?»

Silar li aveva bloccati sulle scale, stavano salendo in tutta fretta per rintanarsi in una delle loro stanze.
Vederlo lì, stranamente tranquillo e rilassato dopo l'animata conversazione con Deiry, li aveva pietrificati e stupiti non poco.
«Non sei in giardino?», aveva chiesto Savannah con una nota di angoscia nella voce. Erano certi di averlo visto andare di là e di non averlo visti salire o entrare nell'ingresso... quante probabilità c'erano che li avesse anche origliati?
«Dovrei?», aveva domandato lui con garbo. «La mia stanza è su questo piano.»
Nehroi aveva schioccato la lingua sul palato e aveva salito uno scalino per far capire al futuro Capo che volevano andarsene e non rimanere lì in mezzo, ma Silar non si era mosso neanche di un millimetro, come se non lo avesse visto.
Il suo sguardo era su Savannah, come sempre.
«Che espressione cupa», aveva commentato.
«Quale?»
«La tua, sembra che stia progettando un assassinio.»
Savannah era rimasta interdetta e la sua bocca schiusa aveva incuriosito l'uomo.
«Oh», si era limitato a dire lui.
«No, ti sbagli!», si era precipitata la jiin in preda al panico. Aveva immediatamente iniziato a pescare nella sua mente agitata le parole adatte per dissuadere Silar dalla sua intuizione terribilmente corretta ma poi lo aveva visto scuotere la testa con fare quasi materno e decisamente tranquillo.
«La tua testa gira in modo molto interessante», le aveva detto serafico. Non c'era traccia dell'ostilità con cui l'aveva inondata in quei due giorni turbolenti. «Posso suggerire fuochi d'artificio e teatralità? Restano molto più impressi nella memoria e recapitano il messaggio con più efficienza, qualunque esso sia.»
I due fratelli avevano corrugato la fronte con molta perplessità, domandandosi entrambi e in contemporanea se avessero davvero udito bene.
«Ci stai...», aveva balbettato Savannah con vistosa incredulità. Non poteva essere vero.
Anche Nehroi aveva sentito la gola e la bocca farsi immediatamente più secche. «Ci vuoi aiutare?»
Silar aveva un sorriso a dir poco diabolico e sembrava dannatamente serio.

Un forte rumore metallico, squillante ma dal rimbombo sordo, le esplose nelle orecchie.
«Bella addormentata!», urlò qualcuno nelle vicinanze.
Savannah strizzò gli occhi e si portò le mani sulle tempie con un gemito. Ci mise un po' a mettere a fuoco le macchie di muffa sul soffitto e la lampada a neon che friggeva poco più in là, e ancor di più a mettersi seduta.
«Muoviti, non abbiamo tutto il giorno!», esclamò nuovamente quella voce fastidiosa, provocando ancora il suono che martellò nuovamente la testa della ragazza.
«Smettila!», sbraitò lei alzandosi di colpo e voltandosi verso quell'uomo odioso, sorprendendosi per un istante nel notare la sua divisa e le sbarre che la divideva da lui.
«Hey, carina, dormi come un ghiro da due giorni di fila! Non puoi aspettarti un trattamento da hotel di lusso, soprattutto una criminale del tuo calibro!»
Savannah lo mandò al diavolo e si premette nuovamente le dita sulle tempie. Due giorni, era passato molto tempo dall'ultima volta che ci aveva messo così tanto a riprendere le forze.
«Dov'è mio fratello?», domandò in un borbottio impastato.
Il poliziotto di guardia si grattò lo strato sottile di barba e sbuffò sonoramente. «Che palle che siete», si lamentò annoiato. Ficcò una mano in tasca e mosse le dita dell'altra per cercare la chiave giusta per aprire la cella. La fece sbattere un'ultima volta sulle sbarre, ottenendo un'altra occhiata furente da parte della jiin, poi la infilò nella serratura e la girò con uno scatto sordo. «Non sapete chiedere altro? E dov'è mia sorella, e dov'è mio fratello... siete così monotoni che c'è chi si chiede come abbiate potuto fare tanti reati... beh, io di sicuro.»
La afferrò per un braccio e la tirò su di peso. «Muoviti», le borbottò innervosito. «Non hai idea di quanta gente stia facendo la fila per sentire che hai da dire. Ah, solo una cosa: cerca di non dire baggianate come quell'idiota. Se provi a nominare anche tu terre dentro le montagne e cose magiche o maledizioni varie vi sbattiamo a vita in un manicomio.»

Savannah aveva soffiato dal naso, nervosamente, e aveva alzato una mano come per fermarlo. «È una trappola, vero? Un altro dei vostri giochetti da Capi? Non ci cascheremo, anzi ora ce ne andiamo e non è successo nulla... vero, Neh?»
La risata di Silar l'aveva bloccata ancora, inchiodandola un'altra volta su quello scalino che ormai iniziava ad avere la forma delle sue suole, e aveva scosso la testa con un gesto rassicurante.
Persino il suo sorriso si era addolcito, sebbene lo sguardo avesse ancora qualche tratto demoniaco. «Chiamiamolo uno scambio di favori. Voi fate un po' più di casino e io vi do' qualche suggerimento utile. Magari anche una mano.»
Nehroi aveva assottigliato lo sguardo come un leone pronto all'attacco. «Perché?», aveva domandato con voce bassa e vibrante.
Silar lo aveva guardato con superiorità. «Volete uscire vivi da qui o no?»

«Voglio fare la telefonata», disse ancor prima di sedersi.
Stalsky la guardò sorpreso e rimase con la bocca schiusa per qualche istante.
«La mia telefonata», insistette la jiin con sguardo fermo. Era la stessa sala interrogatori in cui l'avevano portata qualche settimana prima e la cosa la mise di cattivo umore in partenza.
«Ne ho diritto o sbaglio?», domandò sbrigativa.
«... ma certo», balbettò il detective dopo un po', voltandosi verso la vetrata a specchio e facendo un cenno con la testa.
Di fronte a Savannah poco dopo comparve un cellulare semplice, un modello decisamente fuori moda, con un piccolo display verdognolo. Stalsky uscì dalla sala interrogatori, indicandole il suo orologio da polso e comunicandole che aveva dieci minuti mentre chiudeva la porta; si spense anche la lampadina rossa della telecamera e Savannah sentì finalmente silenzio e tranquillità.
Alzò le mani verso il cellulare, facendo tintinnare le manette lucenti, e sfiorò con dita tremanti i grossi tasti di gomma appiccicaticcia. Non aveva mai memorizzato alcun numero telefonico in tutta la sua vita perché non aveva mai avuto nessuno da chiamare, ma in quel momento, dopo tutto quello che era successo, c'era una sola voce che voleva sentire.
Solo una voce, quella dell'unica persona a cui sentiva di dover chiedere scusa.
«Spero che non voglia ordinare una pizza a domicilio come il ragazzo... Ha composto il numero?», domandò Stalsky al collega del settore informatico avvicinandosi al suo schermo pieno di cifre e dati di ogni tipo.
Il ragazzo si sistemò meglio le enormi cuffie sulle orecchie, poi digitò qualche cosa sulla tastiera muovendo le dita ad una velocità incredibile e scosse la testa. «Ancora no, detective.»
Savannah afferrò il cellulare con due mani, saldamente, e chinò la testa fino ad appoggiarvisi sopra. «Phil», disse con un filo di voce all'apparecchio. «Trovalo, per favore.»
Il cellulare iniziò a suonare per segnalare la telefonata in corso. Suonava libero e Savannah sorrise un poco nella luce pallida del neon.
«Pronto?», domandò un uomo dall'altra parte della linea.
«Phil», salutò la jiin mentre uno strano calore le scaldava le guance. «Sono... sono io... ciao.»
L'umano dall'altra parte ridacchiò nervosamente. «“Ciao”?», ripeté ironico. «È il meglio che sai dire dopo il tuo uragano?»
Non era né gentile né paziente come suo solito, ma Savannah non si sarebbe aspettata niente di diverso. Nonostante ciò, sentì una spina colpirle il petto e farle male.
«Mi hanno arrestata... la polizia, ci hanno arrestati», disse lentamente. Non sapeva spiegarselo, ma il nuovo atteggiamento di Phil le stava facendo tornare la stanchezza che credeva di essersi tolta con tanto riposo.
«Lo so, Heim mi ha ordinato di fare la denuncia», commentò gelido lui. «Siete fortunati che non vi abbiano preso le guardie o sareste già sottoterra», aggiunse poi.
«Non ce l'avrebbero mai fatta», ridacchiò la jiin ricordando come li avevano superati, facendoli volare come foglie secche, e ignorando il fatto che in vent'anni di vita spericolata era stata arrestata solo due volte ma entrambe per colpa del consigliere.
Phil sembrò sospirare affranto. «Certo che no, sarebbe stata una caduta di stile dopo una così bella esibizione di forza... sono ancora tutti stupiti che siate riusciti a pianificare ed attuare tanto in una sola notte, voi due e basta.»
Savannah non fu tentata neanche per un attimo di rivelare che in realtà erano stati in tre a sistemare le guardie e a creare tutte quelle bombe, e che sarebbero finiti molto peggio se Silar avesse effettivamente attivato il suo incantesimo per fermarli. Erano ancora vivi e i patti vanno rispettati, a ognuno la sua parte di accordo.
«Dovevamo far penetrare un concetto», si limitò a dire, sentendosi improvvisamente stupida ed arrogante. Sapeva bene di avere esagerato, quella volta avevano combinato davvero un bel casino.
Sollevò meglio le mani, poggiando i gomiti sul tavolo freddo, e le manette tintinnarono ancora.
Phil ridacchiò ancora, più lugubre di prima. «Sarete soddisfatti, allora», disse con acida amarezza. «Il vostro concetto è... “penetrato” tanto da essere costato la vita di undici guardie, tre camerieri...»
«Non era previsto.»
Phil non la considerò. «Dell'anziano Prachis Kin», aggiunse con più fervore.
Savannah strinse le labbra ed abbassò lo sguardo. «Mi dispiace», mormorò. Era vero, sebbene avesse intuito che sarebbe stato lui la vittima della richiesta di Silar di creare tanta confusione.
«Come no», ribatté Phil con sprezzo. «E scommetto che ti dispiace anche per Deiry. O l'hai disprezzata tanto da non meritare neanche un falso cordoglio?»
La jiin trattenne per un istante il respiro, poi lo rilasciò. «Ha perso il bambino?», domandò con una nota di speranza. Non era sicura di averla colpita nel modo giusto prima di aver fatto crollare tutto il palazzo, era stata distratta dalla piega degli eventi e...
«Perso... il bambino?», ridacchiò sprezzante l'umano. «Ha perso la vita!»
Savannah si sentì pietrificata e respirò appena.
«È morta», mormorò a fatica non appena ebbe realizzato.
L'umano si passò una mano sul volto stanco e le sue spalle tremarono. «Congratulazioni», le disse freddamente.
I pensiero della jiin schizzarono subito verso il Capo di Haffireth e si sentì orribile. Non pensò al Goon in lacrime che la pregava di non fare del male alla sua bambina ma al Goon gentile e onesto che li aveva accolti il primo giorno e messi in guardia su cosa avrebbero scoperto da lì a poche ore, subendo gli stupidi capricci di una ragazzina con troppo potere in corpo e un caratteraccio indomabile.
Savannah si sentì orribile ed ebbe l'impressione che sarebbe svenuta di nuovo o che avrebbe vomitato, impossibile capire cosa stesse provando esattamente.
«E grazie anche per avermi rovinato completamente con Heim», aveva proseguito Phil senza aspettare che la ragazza si riprendesse. «Se l'avessi saputo prima...»
La jiin tirò un angolo della bocca in un sorriso spento e desiderò concludere la telefonata. «Non ci avresti mai portato a Tolakireth, uh?», disse invece. Non aveva ancora detto ciò che voleva.
«Decisamente, no.»
Savannah si stropicciò gli occhi, improvvisamente inumiditi, senza sapere che si fossero anche arrossati, come se un vento gelido e crudele stesse sferzando con forza sul suo viso. I polsi iniziavano a farle male per la strana posizione, parzialmente afflosciata sul tavolo, e anche i gomiti. Sentiva la testa pesante e frammenti di ricordi di ciò che era successo poco prima, tralasciando il riposo in cella, si susseguivano nella sua mente come schegge di vetro affilatissime in un vortice devastante.

«Credevate davvero di poter dire che Mayson sarebbe stato fuori dai vostri giochi minacciandolo di morte per una traduzione?»
Savannah aveva sollevato entrambe le sopracciglia, stupita. «Sapevi che ti stavamo origliando?», aveva domandato a voce mozza. Si era sentita come se Silar avesse preso la sua autostima a schiaffi.
«Per che razza di babbeo mi hai preso? Non offenderti, ma ho più esperienza di te in spionaggi e cose del genere», le aveva risposto l'uomo di Kyureth con uno sbuffo divertito e vagamente irritato. «Ad ogni modo vi conviene far capire a tutti che l'umano non è in combutta con voi, dato che è il primo a cui chiederanno spiegazioni ed informazioni non appena sarà tutto finito. Ha passato troppo tempo con voi per non sembrare sospetto e... beh, è solo un umano, non durerà neanche un minuto.»
Savannah aveva fatto spallucce, per sminuire la sua preoccupazione, ma la sua espressione si era fatta pensierosa. «Cosa possiamo fare? Dirlo esplicitamente sarà come ammettere il contrario.»
Nehroi aveva scacciato l'argomento con un cenno della mano, come se stesse scacciando una mosca o una zanzara. «Per questo basterà un po' di improvvisazione», aveva suggerito. «Direi che la sostanza del piano ruota attorno a Deiry e non a Mayson.»

«Volevo solo aiutarti, costringerlo a toglierti il controllo e lib...»
Sentì uno strano rumore dall'altra parte della cornetta, di qualcosa che viene sbattuto con forza, forse una porta o una finestra. Savannah si sistemò meglio il cellulare accanto all'orecchio e le manette tintinnarono ancora. Quanti minuti erano passati? Quanto tempo aveva ancora prima che Stalsky comparisse da quella brutta porta e chiudesse la chiamata?
Alzò lo sguardo con timore, come se parte di sé si aspettasse di vederlo già lì, in attesa, e si sentì lievemente sollevata nel non vedere nessuno.
«Non dire “liberarmi”», disse Phil con voce dura e sprezzante, distraendola da quei pensieri. «Non farlo. Ti avevo solamente chiesto di lasciarmi fuori dai vostri piani e invece mi hai rovinato!»
Il respiro di Savannah accelerò e le scappò un singhiozzo, stupendosene tanto da impaurirsi. «Io volevo solo...»
«Non avevi alcun diritto né dovere di... di aiutarmi o qualunque cosa volessi fare! Non te l'ho mai chiesto e non ti perdonerò mai per quest'iniziativa!»
Pessima improvvisazione, davvero pessima, e se lo era detta già nel momento esatto in cui l'aveva pronunciata su quel dannato palco.
La jiin sentì il naso pizzicare e le palpebre appesantirsi. Le sue dita tremavano e sapeva bene cosa stava per succedere, la ragazza riflessa di fronte a lei sembrava in procinto di una sola cosa.
«Phil...», pigolò con voce roca.
Passò qualche istante, qualche straziante ed inquietante istante in cui Savannah temette che l'umano avesse messo giù, prima di sentire di nuovo la sua voce.
«Perché mi hai chiamato?», domandò con stanchezza, con una voce tanto smorta da non sembrare sua.
La jiin soffocò un altro singhiozzo e si sentì incredibilmente stupida. Era tutto andato storto, tutto, tanto che sembrava non avessero avuto neanche un piano da seguire.
Non avrebbe dovuto uccidere Deiry, solo impartirle una lezione; non avrebbe voluto causare la morte del Capo Kin, le stava simpatico, ma era il prezzo da pagare a Silar per il suo aiuto; non avrebbe dovuto smascherare Phil, solo aiutarlo a ribellarsi a chi lo controllava, e nessuna guardia o cameriere avrebbe dovuto perdere la vita, non capiva perché le bombe avessero colpito anche l'ala in cui li aveva rinchiusi per sicurezza... e tutto solo per impedire a Nehroi di giurare per sempre fedeltà al corpo di guardia e per rimediare a quella stupida gravidanza.
E pensare che erano andati a Tolakireth solo per curiosità...

Quante bombe fare a testa, chi avrebbe costruito il palco, chi si sarebbe occupato degli intralci del personale, chi avrebbe sistemato le Stelle e tutto il resto: avevano passato poco più di un'ora in uno stato febbrile ed eccitato, pianificando ogni cosa e dettaglio alla perfezione.
Si stavano separando per iniziare il lavoro quando Savannah aveva sentito un'orribile sensazione attanagliarle lo stomaco. Aveva alzato lo sguardo su Nehroi, corrucciato quanto lei ma più convinto, già sulle scale, e su Silar, più esaltato che preoccupato.
«Hai visto?», le aveva detto avvicinandosi con un'espressione rassicurante sul viso. «Te l'avevo detto: tu ed io siamo uguali e questo lo conferma. È il potere, la magia che ci scorre nelle vene...»
Le si era avvicinato sempre di più, fino a fermarsi a pochi centimetri dal suo viso serio.
«Adesso vedrai poco meno di un assaggio di ciò che potremmo fare assieme.»
Savannah aveva sbuffato e spostato lo sguardo di lato, cercando di mostrarsi annoiata, ma parte di sé le aveva impedito di recitare al meglio e Silar lo aveva notato. Si era allungato verso di lei per cercare di baciarla e lei aveva tirato la testa indietro con uno scatto mentre i suoi occhi si infiammavano indispettiti. Aveva aperto la bocca per dirgliene quattro, ma Silar l'aveva fermata alzando una mano con solennità, ricordando Heim e la sua diplomazia nel calmare le acque.
«Un giorno capirai», aveva solamente detto. Poi si era voltato ed era andato con tranquillità verso la cucina, come se le avesse detto che il giorno dopo ci sarebbe stato il sole.
Savannah aveva sentito qualcosa di viscido scenderle nello stomaco e raggelarla. Aveva pensato a Toco, ringraziando gli spiriti che Silar fosse abbastanza paziente da offrirle aiuto ad un prezzo molto più irrisorio, o molto posticipato... ma anche consolandosi così, non si era sentita meglio.

«Volevo... volevo chiederti scusa», disse con voce spezzata da un altro singhiozzo.
Phil ridacchiò lugubre. «No, tu volevi solo chiedermi di tirarvi fuori di prigione come l'altra volta.»
Savannah appoggiò il cellulare sul tavolo e si asciugò gli occhi con i palmi delle mani, pulendoseli poi sui pantaloni. Riprese in mano il telefono, ma era di nuovo piena di lacrime. «Ti sbagli, volevo davvero chiederti scusa! Mi dispiace, Phil! Non lo meritavi e hai ragione tu, non avevo il diritto di...»
«Annah.»
Savannah se lo immaginò scuotere la testa desolato e stringere le labbra, in cerca delle parole giuste e calcolate da dire in quel momento. La sua piccola arma, l'arma di un consigliere umano in un mondo di jiin. Sorrise immaginandoselo così, come lo ricordava prima di quel disastro e degli occhi bassi e delle parole crudeli, mentre un paio di lacrime le inumidivano le labbra e le entravano salate in bocca.
«Non cercarmi mai più.»

«Che ti ha detto?», aveva domandato il fratello non appena Silar era scomparso dalla vista e dalle orecchie.
Savannah aveva alzato lo sguardo su Nehroi e gli aveva fatto capire con una sola occhiata quanto si sentisse a pezzi, e orribile.
«Te l'avevo detto. Il tuo piano fa davvero schifo.»

Stalsky entrò nel momento esatto in cui la ragazza lanciò il cellulare contro il muro e cacciò un urlo disperato che si sentì in tutto il distretto e anche negli edifici accanto. I pezzi di plastica e i circuiti scricchiolarono sotto le suole del poliziotto mentre si avvicinava ad una Savannah completamente afflosciata sul tavolo che singhiozzava senza controllo. Allungò una mano verso di lei, incerto se consolarla o intimarle di smetterla, ma non riuscì a fare nulla, pietrificato da un tale crollo.
La ragazza continuò a piangere come una bambina, fino a far comparire delle lacrime da sotto le sue braccia che bagnavano il tavolo come se vi ci fosse stato rovesciato sopra un bicchiere d'acqua, e il detective uscì in silenzio, abituato a quelle stesse scenate che vedeva già in casa con la figlia adolescente. Preferì lasciarla sfogare che cercare di calmarla e ricevere la stessa furia usata contro lo sfortunato telefonino...




*-*-*-*





Oh, che lacrimoni che vedo già all'orizzonte... ebbene sì, li vedo anche perché erano venuti pure a me quando ho scritto la scena, e anche adesso che l'ho riletta et aggiustata... Savannah che piange a dirotto? Cosa rara. Però effettivamente le sono scivolati tutto e tutti di mano u_u
Ah-ehm, ship angst in vista... ^^" Mentre scrivevo ho ascoltato a ripetizione Never say Never, canzone struggente dal titolo speranzoso ma che mi ha influenzata più per il continuo "don't let me goooo" che immaginavo durante la parte finale del capitolo e che ho cercato di far permeare nella telefonata :'(

La cosa più brutta è che devo fare la brava autrice e non posso spoilerare dicendo "e questa è finita" o "sì ma in realtà poi" xD
Non voletemene! *prende scudo*

Grazie infinite, come sempre ma ancora di più, alle mie donzelle che leggono e lasciano un pensierino! <3 E sì, anche a coloro che continuano a mettere la storia tra i preferiti/seguiti/ricordati! Grazie anche a voi per avermi dedicato un millesimo del vostro tempo selezionando la fic, dev'essere che vi ha ispirato non abbastanza da scrivermelo ma almeno da appuntarvela ^^"

Alla prossima, altro capitolo interessante ma meno pesante, promesso!
Ciao!

Shark

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Capitolo 32
*** Muri e Pareti ***





32
Muri e Pareti



Stalsky si avvicinò di nuovo al collega informatico e vide che contraeva nervosamente le dita. Masticava una gomma muovendo le mascelle in maniera serrata e rumorosamente ritmica, e il detective non lo interpretò come un buon segno.
«Cosa succede?», gli chiese preoccupato.
Il ragazzo sbuffò e gli indicò il monitor: un planisfero costantemente scansionato da due righe verdi, una verticale e una orizzontale, che si intersecavano in silenzio.
«Hai localizzato la telefonata?»
«Non ho scoperto neanche che numero abbia fatto! Sembra che non abbia premuto alcun tasto la ma la telefonata è partita ed è impossibile localizzarla! Vede? Nessun puntino rosso...»
Stalsky si guardò attorno con nervosismo e scacciò le occhiate curiose dei colleghi, soprattutto quelle degli agenti dell'FBI, che non attendevano altro che mettere le mani su quei due delinquenti.
«La registrazione, almeno, si sente bene?»
Il tecnico informatico ridacchiò per un istante, poi premette due tasti e sullo schermo comparve il grafico di una traccia audio. Si sfilò le grandi cuffie e gliele fece indossare. «Ascolti lei», gli disse con un tono vagamente provocatorio, ma anche frustrato.
Stalsky corrugò la fronte e tese le orecchie, senza riuscire a sentire nient'altro che un fastidioso rumore di sottofondo. Guardò il ragazzo e ricevette spallucce come unica risposta.
«La telefonata c'è stata anche se non sappiamo chi ha chiamato, è tanto impossibile localizzare l'altro telefono che sembra sia su un altro pianeta e la registrazione è vuota», riassunse desolato.
Stalsky sentì l'aria uscire definitivamente dai polmoni. Sgranò gli occhi ma si ricordò di tutti i colleghi che non aspettavano altro che una sua resa per sfilargli il caso di mano e cercò di darsi un contegno.
Strinse i pugni e sentì montare sotto pelle la rabbia per aver dovuto rilasciare i due fratelli poche settimane prima perché non aveva niente su di loro e perché quel poco che aveva si era dissolto in un istante. Non avrebbe permesso niente di simile, non sarebbe diventato lo zimbello ufficiale del distretto.
Tornò con passi pesanti nella sala interrogatori e trovò Savannah perfettamente a posto e posata, senza occhi rossi né una minima parte dell'aria sconvolta che aveva fino a pochi istanti prima, seduta per bene ad un tavolo asciutto e pulito. Sembrava che non fosse assolutamente successo nulla. Persino il cellulare era di nuovo intatto ed assemblato sul tavolo, sebbene le manette stessero ancora legando saldamente la ragazza per i polsi. Ancora una volta era tutto assolutamente impossibile.
Stalsky prese in mano il telefono e constatò che non c'era un solo millimetro incrinato o che mostrasse le spaccature che il lancio contro il muro avevano provocato fino a frantumarlo in mille pezzi.
Guardò Savannah con ammirazione ed inquietudine.
Aveva lo sguardo basso ed annoiato come quello del fratello, come se neanche lei avesse capito cosa stesse facendo lì e, in fondo, non le importasse più di tanto.
«Ma voi chi diavolo siete?»

«Due demoni egoisti, mostri senza cuore!»
«Calmatevi, Hartis, non vi fa bene alla pressione...»
Si sollevò dalla poltroncina con uno scatto e molte ossa scricchiolarono nel suo fragile e vecchio corpo. «Al diavolo la pressione! Quei due non sono persone normali! Nessuna creatura di nessun mondo riuscirebbe a progettare nulla di più diabolico!»
Olus sospirò sconsolato e lanciò un'occhiata alla moglie, dall'altro lato della stanza, intenta a scrivere una lettera lunghissima ai loro figli per rassicurarli sull'accaduto.
Il Capo di Bastreth guardò con la coda dell'occhio la collega di Feinreth, cercando di mascherare la sua apprensione, e la vide ancora depressa e assente.
«Tu sapevi qualcosa?», domandò più che altro per farle dire almeno una parola e sottrarla al suo mutismo autlesionista.
Decra posò entrambe le mani sul pancione e si afflosciò come se volesse addormentarvici sopra. «No», borbottò da sotto i capelli arruffati.
Hartis ritrovò l'autocontrollo solo vedendo l'abbattimento di quella donna che i ragazzi li aveva visti crescere, anche se a distanza, e che aveva scampato per un soffio il pericolo di perdere il suo nascituro. Le sue labbra si incresparono in una rete di rughe sottili mentre rifletteva su quelle e tante altre cose.
«Credi che abbiano fatto tutto da soli?», ritentò Olus, per nulla soddisfatto di quell'unica sillaba ottenuta.
Helea sollevò la penna e smise di scrivere il suo papiro. «Che intendi, amore?», domandò agitandosi all'istante. Anche Hartis e Decra lo fissarono con uno sguardo interrogativo e Olus si rallegrò solamente di aver risvegliato l'attenzione del Capo di Feinreth.
«Insomma...», esordì titubante, messo alle strette da tanti sguardi inquisitori e femminili.
«Saranno stati anche in due ma solo Savannah ha i poteri, giusto? Possibile che abbia spostato quelle pietre pesantissime, neutralizzato tutta quella gente e le guardie, creato tante bombe... e non sembrava neanche molto affaticata. E dove ha trovato la forza di reagire alla voragine di Chawia? Ho visto il solco nel terreno, io non credo che avrei avuto tanto sangue freddo da evitarlo con successo...»
«Oh caro, solo perché tu non sei abituato ad una vita da fuorilegge», lo consolò Helea con un sorriso dolce.
Olus scosse la testa e si portò una mano sulla fronte. «No, non capisci, devi avere il tempo di immaginare e la forza di creare... è complicato. E in un istante, nel panico e durante una fuga, lo è ancora di più.»
«Hanno detto che ha pure aperto un portale», aggiunge Hartis con meno ira dell'ultima volta che aveva aperto bocca. «In effetti non mi stupirei se qualcuno entrasse da quella porta e ci dicesse che è schiattata per lo sforzo. Ah!», ridacchiò.
«Non è divertente», sibilò gelidamente Decra, guardandola storto.
Hartis soffiò dal naso come un gatto infastidito e restituì il veleno nello sguardo. «Per me sì. Dopo tutto quello che ci ha fatto non c'è altra soluzione.»
Decra stava per rispondere quando l'anziana alzò una mano ossuta e la frenò con la consueta diplomazia dei Capi. «Riflettici, Algia, riflettici bene: ammettiamo che un giorno ritorni ad Ataklur, d'accordo? Bene, brava, è ancora viva. E poi? Non possiamo di certo lasciarla girovagare liberamente come se non fosse un pericolo pubblico che ha attentato alle vite di tutti quanti e che ha distrutto il simbolo dell'unità tra jiin! O sbaglio?»
Decra si mordicchiò un labbro e anche Olus comprese che il ragionamento della vecchia, a dispetto della sua pelle, non faceva una piega.
«Quindi non può rimanere in libertà, siamo d'accordo. Il che significa che bisognerà catturarla e incarcerarla, giusto? E poi? Anche se dovessimo effettivamente riuscirci, la lasceremmo in una cella finché non riesce a fuggire? O finché la popolazione non inizia a chiedere che venga giustamente punita? Già li sento, oh sì, una sola voce da Easreth a Lagireth, da Haffireth all'inesistente Ogklur, un coro che attraversa tutte le regioni e le valli e le vette per chiedere la sua testa.»
Decra si alzò in piedi e lasciò la stanza. I suoi passi svanirono rapidamente nel corridoio e Hartis, Olus ed Helea rimasero lì da soli e in silenzio.
L'uomo si alzò prima che una delle due potesse ribattere qualcosa e sparì anche lui oltre la porta, inseguendo la collega. Attraversò uno dei pochi corridoi rimasti intatti, nell'ala del palazzo che le bombe non avevano devastato, e saltò giù oltre le scale, aiutandosi con la magia per atterrare in maniera semplice ed indolore per le sue giunture. Decra era in mezzo alle macerie, nel corridoio scavato tra il maledetto palco e quello spazio contro la parete in cui si erano ritrovati tutti i Capi quell'infausto giorno. Quando Olus la raggiunse, era inginocchiata accanto al sangue secco ed incrostato di Deiry.
Piangeva in silenzio cancellando ogni lacrima prima che cadesse a terra.

«Lo sai che il male non esiste ma lo si crea?»
«Malvagi non si nasce di certo», rispose la donna con un sorriso cordiale.
Savannah annuì. «Lo si diventa», concluse. «Io sono malvagia.»
La dottoressa Blanch strinse le dita attorno all'elegante penna dorata ed accavallò le gambe. Appuntò brevemente qualcosa sulla sua cartellina e sorrise ancora alla sua giovane paziente. «Non è vero», le disse pacatamente.
Savannah sospirò e gettò le braccia all'indietro, stiracchiandosi sulla sedia di legno, con assi separate in cui si infilavano le ossa; una sedia color cioccolato, dura come pietra. La tuta arancione le tirò sul cavallo dei pantaloni e le scoprì le caviglie, così smise si allungare gli arti e si rimise composta. «Perché non lo credi?», domandò mentre si sistemava sullo schienale di legno.
«Hai solo rubato degli oggetti in rovine o musei. Non è un bel comportamento ma non hai fatto nulla di irreparabile, no?»
Gli occhi viola di Savannah rimasero fissi su un elefantino di vetro rosa esposto su uno scaffale poco distante. «Quindi si è malvagi solo se si uccide qualcuno?»
La dottoressa schiuse leggermente le labbra, perplessa per un'uscita del genere. «Sì», disse dopo averci pensato un po'. «Direi proprio di sì.»
La jiin annuì ed incrociò le braccia dietro la testa con fare annoiato. Piegò una gamba e la sollevò al petto, cingendola con un braccio. «Allora sono proprio malvagia.»
La penna grattò sulla cartellina e per qualche istante fu il solo rumore in quel piccolo ufficio del carcere femminile di massima sicurezza. «E chi hai ucciso?», domandò la dottoressa con cautela.
Quella ragazza era il caso più interessante che le fosse capitato dopo mesi di serial killer senza cuore né cervello, affogato in laghi di sangue senza fine.
Savannah e suo fratello, anche lui in cura da lei, erano più fantasiosi e divertenti: parlavano di altre terre, di magia, di complotti, di combattimenti degni di una saga fantasy o di un film. A volte erano storie così coinvolgenti e dettagliate da sembrare persino vere.
«Giusto la settimana scorsa ho causato la morte di sedici persone, credo.»
«Non ne sei sicura? Magari non sei stata tu», la incalzò la dottoressa Blanch con i suoi soliti modi gentili e tranquilli, che non si sarebbero guastati forse neanche durante un maremoto.
Savannah alzò un dito senza districare le mani dai suoi capelli neri che le cadevano spettinati ed arruffati sulle spalle. «Non sono sicura sul numero, sull'averli uccisi sì», precisò con serietà.
La dottoressa strinse le labbra, lievemente piccata, ed annuì. «Perché li hai uccisi?», domandò poi, annotando qualcos'altro sulla cartellina che reggeva sulle gambe accavallate con forza crescente.
«Dovevo solo far abortire una ragazza ma... la situazione ci è sfuggita di mano.»
Melissa Blanch corrugò la fronte di fronte ad una risposta del genere. Era abituata a sentire di tutto su ogni crimine che si potesse anche solo immaginare, ma le risultava piuttosto difficile comprendere come potessero esserci stati sedici morti durante un aborto.
Le circostanze dell'evento la incuriosivano non poco, ma preferì rimanere nel lato psicologico del suo lavoro senza lasciarsi trascinare dalla fantasia galoppante di una mente evidentemente disturbata.
«È vero che avete rubato voi tutti quei manufatti antichi, i reperti archeologici e i dipinti?», domandò quindi.
«Sì, certo.»
«Cosa vi ha spinti a farlo, non vivevate bene lo stesso?»
Savannah sospirò. «Sono necessari.»
«Perché?»
«Perché sono speciali.»
La dottoressa si interruppe ed annotò qualcos'altro sulla cartellina. Si sistemò la ciocca di capelli rossastri più lunga dietro l'orecchio e si accarezzò gli altri, molto più corti. «Speciali», ripeté.
«Hanno tutti proprietà magiche interessanti, roba che voi umani non potete usare... ma neanche capire. Ci servivano e li abbiamo presi», concluse la ragazza con semplicità. «Sai dove li tengono ora?»
Un vistoso orologio dall'aria pesante e dalle rifiniture argentee che troneggiava sulla scrivania della dottoressa suonò per un po' di volte, rintoccando le ore con elettronica solennità e nessuno parlò finché non finì.
Poi la donna inspirò profondamente e si tolse di dosso la tensione scrollando le spalle intorpidite.
«Alcuni sono stati restituiti ai loro musei», disse, «Il resto non lo so... e comunque, anche se lo sapessi, non potrei dirtelo.»
Savannah imprecò irritata e si chinò in avanti con aria pensierosa, poggiando una guancia sul pugno. «Questa non ci voleva, perderemo un sacco di tempo per riprenderceli...», rimuginò.
La dottoressa si portò una mano alla bocca e ridacchiò lievemente, come se non dovesse ma non ne potesse fare a meno. «Non sono vostri», le fece notare.
«Sì invece, li abbiamo presi noi!», protestò la jiin con fervore e convinzione.
«Ma... d'accordo, come vuoi. Allora, a rigor di “logica”, adesso sono della polizia, giusto?»
Savannah ci pensò su per qualche istante e poi annuì. «Giusto», affermò, «Ma ce li riprenderemo e saranno di nuovo nostri.»
La dottoressa tamburellò la penna sulla cartellina, indecisa su cosa scriverci. La premette contro il cartoncino e la punta rientrò con uno scatto, dandole l'ispirazione per dire ciò che aveva in mente.
«Credi davvero di riuscire a farcela? La polizia ti ha arrestata già due volte e il deposito è molto sorvegliato. Senza considerare che... beh, sei in un carcere di massima sicurezza.»
Savannah si rigirò tra le dita una lunga ciocca di capelli e le sorrise serafica illuminando i suoi occhioni viola.
«Oh», esclamò la dottoressa annuendo a sé stessa come se avesse tralasciato una cosa ovvia. «Dimenticavo che tu sei una strega.»
Il sorriso della ragazza si trasformò in una smorfia offesa e gli occhi si ridussero a due fessure. «Jiin», scandì irritata. «Non strega. Non faccio quelle cose con le bacchette e i calderoni.»
La donna sollevò rapidamente i fogli della sua cartelletta e li scorse con gli occhi in un fruscio, cercando qualcosa con urgenza. «Sì, mi avevi già spiegato una cosa del genere...»
«Con quegli inutili cappelli a punta e i rospi», proseguiva intanto la ragazza sputando tutto ciò che si ricordava sugli stereotipi classici di quelle credenze umane. «E non ho mai capito perché le scope dovrebbero far volare!»
«Non tutte le streghe sono così», tentò la dottoressa riemergendo dalla sua cartellina dopo aver ritrovato lo schema che si era fatta elaborando le definizioni e le informazioni raccolte nel corso delle sedute.
Savannah la guardò con superiorità ed incrociò le braccia al petto. «Ne hai conosciute molte, immagino», disse seccata.
La dottoressa Blanch si trattenne faticosamente dall'alzare gli occhi al cielo e cliccò di nuovo la penna facendo uscire la punta scura. La avvicinò al foglio, in attesa, e alzò lo sguardo verso la ragazza. «No», ammise con il suo solito sorriso, tanto largo, luminoso e falso da far tornare in mente a Savannah l'odio per Helea. «Tu invece sì, dico bene? Perché tu sei una...», sbirciò un attimo sulla cartellina, «Una jiin.»
«Lei mi crede pazza.»
La penna non scrisse nulla ma oscillò.
«Credo che tu abbia un po' di confusione in testa», disse misurando le parole con cura.
Savannah fischiò una breve e desolante melodia. «Finalmente!», esclamò poi con vitalità. «Credevo che avrebbe smesso di trattarmi come una deficiente spostata solo alla fine della mia permanenza qui... era ora, sul serio.»
La dottoressa increspò le labbra e cambiò l'accavallatura delle gambe, stringendole fino a sentire una vena pulsare. «Non volevo certo... che intendi con “fine della permanenza”?», domandò incuriosita.
Dopo averla sentita parlare con tanta sicurezza sulla volontà di prendere di nuovo possesso degli oggetti sequestrati, vantando un diritto piuttosto traballante ed infantile, e dopo aver ricevuto l'informazione ufficiale che erano stati effettivamente lei e suo fratello a rubarli precedentemente, non poteva lasciarsi sfuggire un'affermazione del genere.
Savannah fece spallucce e si voltò verso il calendario appeso alla parete. Sotto al gattino nero che sonnecchiava era segnato il mese di Novembre e la jiin contò sulle dita muovendo in silenzio le labbra. «Tra non molto», disse poi soddisfatta e forse sollevata.
La dottoressa sospirò e scribacchiò qualcosa sulla schizofrenia e sui deliri che stava ascoltando da quasi due ore. Guardò fuori dalla finestra, dove la pioggia non smetteva neanche per un minuto di cadere incessantemente ingrigendo tutti i palazzi attorno al carcere, e schioccò la lingua sul palato.
«Come va con gli antipsicotici?», domandò infine, la domanda di routine che non poteva mancare, seduta dopo seduta.
Savannah sorrise a trentadue denti e la dottoressa ebbe una fugace visione delle pasticche che cadevano ancora una volta nello sciacquone dei bagni femminili.

La ricostruzione non poteva avere inizio fino al completo spostamento dei detriti, avevano stabilito i Capi uniti in una voce sola, ma per ogni pietra che riuscivano a portare fuori ed impilare assieme alle altre, ce n'era sempre un'altra che cadeva.
Moltissimi furono i cittadini di ogni regione che accorsero per dare una mano, soprattutto jiin arancioni e rossi in grado di rendere più stabile la struttura in attesa del rifacimento e jiin di livello inferiore o brehmisth occupati in ogni genere di faccende, dall'ordine alla messa in sicurezza oggetti e persone.
I Capi erano tornati alle proprie regioni per redigere i mandati di cattura dei Fein Anis e per tornare a gestire le quotidiane mansioni che spettavano loro.
A Kyureth erano in corso i Giorni del Dolore, quelli che seguivano per tradizione la dipartita di un Capo Reggente. Ogni abitante della regione si vestiva a lutto, con gli abiti più bianchi e puliti che possedesse, e cantava per le strade melodie malinconiche e profonde o omaggiava il dipartito con la migliore manodopera che riuscisse a realizzare, donandola ai più bisognosi secondo il suo insegnamento di carità e amore.
Silar Gerit si affacciò dal palazzo di Kyureth, al centro della piazza grande della Cittadella 3, la più rigogliosa tra le strutture fluttuanti e chiuse come serre che costituivano la città, e la folla si radunò per ascoltare il suo discorso.
Era un discorso pacifico, rassicurante, che ripercorreva la memoria di suo nonno dai primi giorni della sua infanzia, condividendo molti ricordi privati che nessun cittadino aveva mai potuto conoscere, rendendoli tutti parte della sua famiglia.
Più volte fu costretto ad interrompersi a causa degli applausi o delle acclamazioni e ogni volta che succedeva donava un sorriso caldo ma provato dal lutto, un sorriso adornato da occhi tristi.
Il suo abito era più bianco di un fiore e il sole, quel giorno, sembrava aver vinto la sua eterna battaglia contro la foschia dei veleni che fuoriuscivano dal terreno solo per illuminarlo e farlo risplendere, rendendolo simile ad un faro.
«Evviva il nuovo Capo!», esclamò ad un certo punto qualcuno nella folla.
Silar si sentì la bocca insecchirsi improvvisamente. «Non era l'intenzione di mio nonno, lui voleva che istituissi il Gran Torneo», replicò con diplomazia, ma fu tutto inutile: nessuno sentì la sua protesta in quel tumulto di applausi e ovazioni e cori per il nuovo Reggente di Kyureth.
«Splendido discorso», gli disse poco più tardi Nekkis comparendo nel corridoio che portava agli uffici del Capo.
Silar gli strinse la mano con energia e lo invitò ad entrare nell'ufficio accanto, il suo da anni. «Cosa posso fare per te?», domandò cordiale offrendogli un drink dall'armadietto di cristallo.
Aner Nekkis alzò una mano e gli fece cenno di dargli un liquore azzurro, quello che prendeva sempre quando gli faceva visita, e lo ringraziò. «Come mai sei ancora qui?»
L'uomo di Kyureth finì di versarsi un liquore trasparente e fece spallucce. «Non vorrei sembrare troppo frettoloso o...»
«Approfittatore? Sciacallo?», suggerì il capo delle guardie con un ghigno davvero divertito. Ridacchiò con il suo vocione graffiato e stanco e mandò giù un breve sorso. «Sinceramente, Gerit, la gente ti ha acclamato così tanto che si offenderà se non prenderai il posto che loro vogliono per te.»
Silar guardò fuori dalla finestra ed alzò lo sguardo fino al secondo vetro, l'enorme cupola che proteggeva ogni Cittadella dall'aria tossica di quella regione inospitale: il sole era già tornato a soccombere sotto la foschia e le celebrazioni sotto di essa erano cessate. La giostra della vita stava cominciando a ruotare nuovamente come aveva sempre fatto.
«Ci sono ancora molte cose che il nonno non mi ha insegnato...», rimuginò sovrappensiero mentre guardava i panni stesi tra una casa e l'altra, un paio di isolati più in là..
Si voltò e vide Nekkis alle prese con il tavolino posizionato tra due poltrone e con le piccole statuine allineate che reggeva. «Ci giochi ancora?», gli domandò la guardia prendendo posto e tracannando un altro po' di liquore azzurrognolo. «Da ragazzo eri davvero fissato con questi giochi umani...»
Silar sorrise e si sedete dall'altra parte, dove le statuine erano nere. «A te la mossa, bianco.»
«Ah.»
Nekkis indicò il bicchiere pieno e completamente trasparente del nuovo Capo e la sua espressione si incupì in un istante. «Acqua di Lago», notò con amarezza.
L'altro annuì e per qualche istante i loro pensieri viaggiarono sulla stessa lunghezza d'onda, vertendo sugli stessi pensieri. Acqua di Lago uguale a Haffireth, Haffireth uguale a Goon, Goon uguale a...
«Gran brutto affare», commentò infine Silar osservando la mossa dell'avversario: un pedone che percorre due caselle.
Un cavallo nero balzò oltre la fila dei piccoli pezzi che aveva di fronte ed occupò una casella nel lato opposto della scacchiera.
«Giochi sempre in attacco, uh?», soffiò Nekkis con stanca ironia. Fece avanzare un altro pedone, vicino al cavallo.
«E tu sempre in difesa. »
Anche Silar mosse un pedone, quello di fronte all'alfiere destro, e Nekkis ridacchiò.
«Si vede che non sei mai stato in battaglia, una sul campo intendo», gli disse.
Giocarono per un po' senza dire nulla, affogando ognuno nei propri pensieri, nelle strategie, nei ricordi, nei progetti. Era tutto nei loro occhi, come se il colore delle iridi non fosse altro che miriadi di piccolissime parole strette tra loro, ma nessuno dei due li alzava dalla scacchiera e non si lessero. «Notizie dei fuggitivi?», domandò Silar dopo un po', mentre spostava una torre bianca a lato della scacchiera, tra le pedine mangiate.
Nekkis sospirò stizzito. «Sono ancora di là», disse con una nota di impazienza. «Ma torneranno, ne sono sicuro. E quando lo faranno...»
«Perché credi che non rimarranno di là?»
Anche una torre nera venne spostata tra i mangiati, ma in un mucchio meno affollato di quello dei bianchi.
Nekkis fece spallucce ma il suo sguardo si accese. «Tu butteresti all'aria il tuo potere? Jiin viola non è poca roba.»
Silar annuì e non poté che trovarsi d'accordo. Vide il suo avversario sollevare un proprio pedone e rimirarlo come se lo affascinasse, tenendolo stretto tra le sue dita robuste ed abbronzate come se potesse scappare. «Nehroi sarebbe stato un ottimo pedone», disse quasi sovrappensiero.
Scosse la testa un istante dopo e posò sulla scacchiera il pedone, sollevando e guardando allo stesso modo un alfiere. «Anzi no», si corresse.
Rimasero entrambi ad osservare quel pezzo bianco per un po', ognuno rimuginando su quell'affermazione mentre gli occhi scorrevano la forma affusolata e le curve lisce. «Secondo me è un cavallo», disse poi Silar sollevando il suo pezzo per la criniera. «Si muove in maniera imprevedibile e ti finisce tra i piedi come una spina nel fianco.»
Nekkis sollevò il suo, di cavallo, e lo rimirò affascinato. «E può tenere in scacco molti pezzi senza neanche accorgertene... sì, corrisponde. Quel lurido voltagabbana sfruttatore, figlio di una...»
«Savannah invece che pezzo credi che sia?», lo interruppe Silar prima che vomitasse troppo acido sulla scacchiera.
Il capo delle guardie si sdraiò sullo schienale della poltrona con stanchezza ed esaminò attentamente tutti i pezzi. «Il re», disse dopo un po'.
Silar storse il naso e non si trovò d'accordo. «Un solo passo a disposizione?», domandò dubbioso.
«In tutte le direzioni, però, ed è il pezzo più importante. Perso lui hai perso tutto, no? E credo che sia lo stesso nella loro coppia. Nehroi è di difesa, da solo non è niente.»
Silar trasse un lungo e lento respiro.
«Ho capito cos'è Savannah», disse poi. «È una regina.»
Nekkis ridacchiò. «Non dirlo a Chawia!»
«Si muove in tutte le direzioni, come il re, ma per ogni casella che vuole, senza schemi o freni. È il pezzo più potente e prezioso, decisamente.»

Anche quel giorno pioveva.
Savannah e Nehroi avevano passato un mese e mezzo in quel carcere di massima sicurezza e dalle loro finestre con le sbarre non avevano mai visto il sole: sempre e solo nuvole. Nuvole bianche, nuvole nere, nuvole che riversavano acqua come se avessero un impianto di irrigazione difettoso, nuvole che portavano vento freddo che faceva svolazzare tutto... le compagne di cella della jiin avevano ipotizzato un paio di volte che quelle nuvole avrebbero portato anche la neve, ma arrivò solo il suo soffio gelido, una notte.
Era il 28 Novembre, il giorno che i due fratelli avevano concordato senza mai dirselo esplicitamente: lo sapevano e basta, non serviva altro che il loro cervello sulla stessa lunghezza d'onda.
Sei settimane stavano per scadere e, oltre quel tempo massimo, avrebbero perso per sempre la possibilità di evadere, di tornare a casa, di essere ancora “loro”.
«Una sola condizione e vi sveleremo tutto sui furti», avevano detto entrambi al detective Stalsky durante i loro interrogatori.
L'uomo si era raddrizzato gli occhiali sul naso e aveva annuito con serietà e vigore. «Ditemi.»
«Tra sei settimane è il compleanno di mio fratello», aveva detto Savannah con un timido ed impacciato sorriso, certa che anche Nehroi avesse detto le stesse identiche cose. «Potete fare in modo di farmelo incontrare quel giorno?»
E così avevano ottenuto la chiave, il tassello indispensabile per un progetto più ampio.
Le compagne di cella di Savannah non capirono mai perché avesse fatto una richiesta tanto stupida invece che patteggiare per una pena più lieve o per dei comfort nel carcere, ma nessuna riuscì a scucirle il segreto.
I Fein Anis si incontrarono in una sala per interrogatori, l'unica abbastanza sicura per entrambi e per tenerli sotto controllo costante. Un secondino, un alto uomo corpulento e dall'aria decisamente minacciosa, armato di pistola o taser – i ragazzi non riuscirono a distinguere bene - entrò con loro nella stanza e rimase di fronte alla porta fermo come un soldato.
Non passò neanche un secondo prima che entrambi i fratelli scoppiassero a ridere fragorosamente vedendosi. «Auguri barbone!», disse Savannah mentre si asciugava le lacrime dalle guance arrossate.
Nehroi si grattò la barba incolta e ammise a sé stesso che ultimamente non si era proprio preso cura del suo aspetto, non dopo che lo avevano preso in giro perché sembrava troppo giovane per aver fatto tutto ciò di cui era accusato. «Grazie, hai un aspetto terribile anche tu!»
La cosa che i secondini notarono per prima fu una loro strana circospezione, un atteggiamento un po' troppo contenuto per due fratelli che, a detta loro, erano l'uno la sola famiglia dell'altra e che chiedevano quotidianamente come stesse il parente nella sua cella.
La jiin osservò il viso del fratello con attenzione e le sfuggì una smorfia, pur senza spegnere il sorriso. «Almeno io non ho preso quelle stupide pasticche della dottoressa... ti sei scordato che non siamo pazzi?», domandò con un vago scetticismo che assomigliava molto al tono del rimprovero.
Nehroi fece spallucce e non la considerò troppo. «Avevano un buon sapore», si limitò a dire.
Come se qualcuno avesse dato il via, si voltarono in contemporanea verso il grosso secondino che li sorvegliava a vista e tutto si svolse in un attimo.
Quando le guardie del corridoio udirono strani rumori in quella stanzetta e vi entrarono con le pistole puntate ad altezza del viso, era già tutto finito: l'uomo scelto per sorvegliarli, il migliore e più feroce tra i loro colleghi, era riverso a terra privo di sensi senza apparenti ferite o contusioni; nella parete della finestra era stata intagliata la sagoma di una porta come se fosse stata fatta di burro malleabile e un'automobile, cinque piani più in giù, sfrecciava rapida oltre il semaforo rosso tra i clacson di tutte le altre vetture.
Avevano scelto quella sala apposta perché troppo in alto e sorvegliata perché potessero tentare la fuga...
«Non è possibile», sussurrò incredula e basita una delle guardie. L'automobile era già scomparsa dalla vista ma tendendo le orecchie si potevano ancora sentire i freni stridere indemoniati sull'asfalto.
«Sei settimane passate a deridere i loro discorsi sulla magia, uh.»
Il collega sospirò affranto. «Dici che siamo licenziati?»


*-*-*-*



Benebenebene, questi ultimi capitoli sono stati così densi di avvenimenti che mi sono scordata di celebrare il 30° aggiornamento della storia! Olè!! Ma adesso siamo a 32, la solita ritardataria... mannaggia. Oléé di nuovo! xD

E anche qui sono successe moooolte cose! Prima un ultimo sguardo alla centrale di polizia (povero Stalsky ^^)(me lo immagino un po' alla Zenigata xD) e uno a Tolakireth, poi di nuovo tra gli umani con la dottoressa (grazie al mio amico psicologo per la consulenza sulla schizofrenia delirante :P) e ancora ad Ataklur per il passaggio delle redini di una regione e per una partita a scacchi (adoro gli scacchi, che gioco meraviglioso!) e poi ancora qui da noi, ma solo per una breve capatina... di "sfuggita", diciamo.
Che dire? A voi la parola! Io annuncio solamente che il prossimo capitolo è tutto per le Phil-lovers ^.- ma non per le shippers u.u
Incontreremo nuovi pg e nuovi piani da parte di tutte le parti in gioco, perché adesso viene il vero bello della storia! Ohohoh si avvicinano i miei capitoli preferiti...

Grazie ancora a tutti coloro che mi seguono, manifestamente o tacitamente!
Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 33
*** L'ex-consigliere ***





33
L'ex-consigliere



«Philip Gordon Mayson», aveva tuonato Heim facendogli tremare le ossa.
Le macerie ancora lì dove erano cadute, i feriti da curare, la gente da trovare e salvare. Il Capo di Norreth non aveva voluto aspettare altro e l'aveva fatto in quel momento, coi piedi nella polvere e l'adrenalina ancora nelle vene. Sotto un cielo buio e senza stelle, la luna illuminava con forza le rovine bianche del palazzo e gettava ombre scure sul viso del vecchio e del giovane collega, a pochi passi da lui.
Il consigliere aveva cercato di sostenere il suo sguardo ma in quel viso solcato da qualche ruga profonda e nascosto in una ispida barba bianca ben curata non riusciva a scorgere altro che delusione e non aveva retto.
L'aveva vista fin troppe volte nel volto di suo padre da non fargli pensare immediatamente a lui e alla sua convinzione che il figlio, l'unico figlio maschio, l'avesse tradito. Agli occhi di suo padre era sempre stato un fallimento e quegli stessi occhi lo avevano guardato attraverso il viso di Heim.
«Sciolgo solennemente il nostro contratto.»
E così era diventato ex-consigliere.
Bandito da Tolakireth e da Norreth, Phil si ritrovò errante nell'enorme distesa verde che parte dal palazzo bianco e arriva fin oltre Eastreth, la città più a nord di tutta Ataklur, quella con le costruzioni più alte, elaborate e scintillanti; le vedeva da lontano come una azzurra striscia di segmenti di diverse lunghezze ed erano il suo faro per non sbagliare direzione, fiancheggiato dalle sagome altrettanto chiare e distanti delle montagne di confine.
Camminava a piedi, calpestando l'erba smeraldina piena di riflessi prima lunari e poi solari, lasciandosi alle spalle le macerie di un palazzo distrutto. Camminava in senso opposto alla folla che faceva pellegrinaggio per sostenere la ricostruzione, avvicinandosi a fatica alla città.
Metro dopo metro, accompagnando lo schiarirsi del cielo, finalmente arrivò.
La città più moderna e popolata di Ataklur, con più varietà di etnie, con così tanta gente e magia da esser passata alla storia come la città che sprofondò. E dal profondo crepaccio che la avvolgeva come un caldo abbraccio di terra che privava della luce i primi dieci piani di tutti gli edifici, Eastreth guardava il piccolo e giovane uomo con i vestiti sporchi e sudati, il viso provato dalla marcia notturna e le scarpe logore che si apprestava a scendervi.
Camminò apparentemente senza meta per un bel po' di isolati, svoltando a caso tra le ombre degli altissimi edifici che tendevano verso il cielo e la luce, specchiandosi nei vetri colorati che li ricoprivano e decoravano.
Erano a tutti gli effetti dei grattacieli, ma per niente squadrati come quelli umani: alcuni erano avvolti da strutture simili a rampicanti complicati, altri avevano pareti che ricordavano un paio d'ali, altri ancora erano più simili a immense statue con appartamenti e stanze all'interno che a normali edifici, come quello a forma di albero, stretto per quindici piani e poi largo ed imponente come le fronde di una quercia per altrettanti altri, fino a svettare ben oltre il confine del crepaccio. La luce del mattino che i suoi vetri rifletteva era in grado di illuminare tutte le zone più basse della città come un secondo sole.
Ma a Phil interessava una sola costruzione, una che meritava il titolo di palazzo. Era posizionato al centro di Eastreth, circolare, pieno di colonne robuste che lo circondavano, non il più alto ma nemmeno il più basso; era costruito tutto in vetro bianco, come se fosse stato incastonato all'interno delle lastre un po' di latte o di vapore, ed era così elegante e raffinato da sembrare il giostraio di tutte le altre costruzioni che lo circondavano e che, come per riverenza, sembravano rivolte ad esso. “Il palazzo degno di un Capo”, aveva pensato la prima volta che l'aveva visto, molti anni prima, e non si era sbagliato.
Varcò la sontuosa soglia e due guardie completamente immacolate lo affiancarono come l'aria.
«Identificati», gli ordinarono all'unisono e quasi senza aprire la bocca.
«Philip Gordon Mayson», rispose tranquillo. Era la prima volta che entrava in quel palazzo con così poca dignità, ma questo non gli impedì di provare una briciola di calore nel sapersi lì e al sicuro.
Le guardie scattarono come soldatini a molla e lo scortarono nelle stanze che già conosceva: attraverso il breve corridoio d'ingresso, nella sala centrale con il trono di pietra su cui trapelava l'alba rendendo mistica e soffusa tutta l'atmosfera, oltre la piccola porta grigia di legno robusto celata lì dietro e poi verso un altro corridoio pieno di curve che portava in una saletta molto simile a quella delle riunioni al secondo piano di Tolakireth, ma decisamente più piccola.
Lì, la principessa Mief Chawia stava leggendo dei documenti con aria assorta, le gambe piegate sulla poltroncina e il lungo vestito svolazzante verso terra.
«Sua maestà», si annunciarono le due guardie. Entrambe alzarono un braccio dietro la schiena di Phil e gli diedero uno spintone tra le scapole, facendolo quasi cadere nella stanza.
La principessa annuì appena, senza alzare gli occhi dal foglio, e le guardie chiusero la porta dietro l'ex-consigliere con un suono sordo e lieve.
«Perché sei qui», domandò con voce annoiata e stanca la donna. I documenti erano ancora sotto al suo naso e gli occhi smeraldini non smettevano neanche per un istante di scorrere le righe che vi erano scritte sopra.
Era mattina presto, la città si stava appena svegliando e il Capo era già al lavoro. Phil fece un'alzata di spalle e si sentì vuoto. «Non so cosa fare», disse semplicemente.
«Heim ti ha licenziato», proseguì la principessa in un tono che sembrava quello di una domanda ma che non lo era affatto. Una desolata realizzazione, pensò l'umano.
Phil annuì e si pettinò distrattamente con due dita, cercando di sembrare meno devastato dal viaggio di quando effettivamente sembrasse.
Chawia mise un foglio sul tavolo di legno scuro e proseguì la lettura con il successivo, sempre senza degnare l'ex-consigliere di uno sguardo. Un ciuffo castano era sfuggito alla sua lunga treccia e le scivolava lungo la tempia con morbidezza. «Rintraccia i ragazzi», ordinò poi, facendo scattare la sua voce come una tagliola.
Phil spalancò leggermente gli occhi, sorpreso, e si inumidì le labbra con nervosismo. «Perché?», osò domandare. La principessa inspirò profondamente e sembrò che si stesse trattenendo dal fare una sfuriata, ma l'umano non smise si manifestare il suo disappunto. «Cosa ci devo fare una volta trovati? Sono la nostra rovina, non posso...»
«Li devi trovare non appena torneranno qui», spiegò lentamente Chawia con voce sempre più dura e spazientita, come se stesse perdendo tempo prezioso per spiegare simili ovvietà.
«Torneranno?»
«Non c'è niente che li possa trattenere di là e molto che li attrae di qua. Credi che tra gli umani ci possa essere una prigione abbastanza solida per due demoni tanto capaci? Trovali.»
Phil schioccò la lingua contro il palato e spostò lo sguardo altrove, indispettito da quella decisione. «Cosa devo fare una volta trovati?», ripeté impertinente.
Gli occhi verdissimi della principessa si alzarono su di lui con uno scatto e Phil si sentì raggelare. Colto alla sprovvista dal suo sguardo chiaro e serio, deglutì e si raddrizzò tutto, nel fisico e nell'animo, annuendo convinto. Quello era un nuovo compito, che gli piacesse o no, e la sua mente doveva già mettersi all'opera per portarlo a termine.
Stava iniziando a pensare chi avrebbe dovuto contattare per tenere d'occhio i confini montani e quali spie pagare per tendere le orecchie su una coppia che non passava tanto inosservata, quando Chawia lo spiazzò di nuovo: «Dovrai unirti a loro.»
Phil sentì l'aria uscirgli dai polmoni e boccheggiò sorpreso. «È... è uno scherzo?», balbettò incredulo. «Non posso... “unirmi” a loro, non me lo permetteranno mai!»
Lo sguardo severo di Chawia si assottigliò ancora di più, mettendolo in agitazione. «Ti avevo permesso di mostrare a loro le tue vere iridi solo per far leva sulla loro ideologia di ribellione al potere ed eri riuscito a convincerli bene in diverse occasioni. Non avevi stretto una sorta di amicizia?», lo torchiò. «O avevi riferito una bugia?»
All'umano si inaridì la bocca. «Prima del disastro», disse a fatica.
«Le tue iridi torneranno castane, non potranno più vedere il sigillo del controllo e ti crederanno libero e onesto. Ti unirai a loro e scoprirai quale missione stanno cercando di portare a termine, capirai perché è tanto importante per loro e, se tu dovessi ritenere che sarebbe un problema per la comunità o per me, farai rapporto all'istante», snocciolò la principessa con assoluta marzialità in quel tipico tono che non ammette repliche, se non di assenso.
Tornò a leggere i documenti che aveva ancora in mano e gli fece un debole cenno di andare via con due dita. «È tutto.»
Spiazzato dai suoi nuovi compiti, Phil uscì dal palazzo con la testa china e il morale di chi stava per andare alla gogna. Sentì dei passi affrettarsi dietro di lui e poco dopo una delle due guardie che l'avevano scortato avanti e indietro comparve di fronte a lui ansimante. «Da parte della principessa», disse. Gli porse una busta troppo riempita, color avorio, e l'umano la prese senza vitalità e con un sospiro rassegnato.
La guardia tornò dentro al palazzo bianco sparendo tra le colonne, illuminato dai riflessi degli altri grattacieli, e Phil svoltò in un paio di vie che conosceva bene alla ricerca della sua locanda preferita. Era più che altro un buco, uno dei pochi edifici ancora costruiti con la pietra del crepaccio e non con i moderni vetri colorati, ma a lui faceva stringere il cuore e sentire bene. Con delle piante rampicanti sconosciute che risalivano le pareti adornandola di foglie scure e mai ingiallite, con il cartello dell'insegna che sporgeva sopra le teste dei passanti recitando Ye Haunt, con quell'odore di alcol, umidità e casa che tanto adorava: il pub adatto per un umano nostalgico.
«Ma tu guarda chi torna a mostrarci la sua bella cravattina!», latrò divertita una donnicciola malvestita dietro il bancone, con uno straccio per pulire i bicchieri appeso sulla spalla e i folti capelli scuri tutti arruffati sul viso truccato.
«Non sei sotto un sasso a Tolakireth?», ridacchiò qualcun altro dal fondo del locale, troppo in ombra per essere visto ma non abbastanza per un occhio allenato come quello dell'umano.
«Siete delusi?», li provocò Phil sedendosi al bancone appiccicaticcio. «Se vi consola stavolta l'ho vista davvero brutta.»
«Non abbastanza, arh!»
L'uomo nell'ombra spostò rumorosamente la sua sedia e forse anche il tavolo, mosse pochi passi pesanti e comparve accanto all'ex-consigliere con un largo sorriso che sbucava appena dalla barba rossiccia ispida e incolta. «Mi stupisce la fortuna spacciata di un ometto tanto gracile e debole in questo mondo che può schiacciarti senza troppi complimenti...» commentò senza serietà.
Phil appoggiò la busta sullo sgabello accanto e batté le mani sul bancone. «Mi sei mancato anche tu, zio Will. Jenna...», salutò la donna con un mezzo sorriso.
L'uomo barbuto si sedette sull'altro sgabello accanto all'umano e lo fece sussultare quando lasciò cadere il suo enorme peso sulle povere gambe di legno. «È vero che sono stati i Fein Anis?», domandò abbassando il tono di voce e guardandosi attorno con circospezione. Il locale era deserto, ma ad Ataklur non si poteva essere mai sicuri.
Phil annuì e il suo viso si rabbuiò.
«L'ultima volta che ti abbiamo visto stavi andando in missione per portarli là o sbaglio?»
L'umano annuì ancora e fece un cenno alla donna: «King's ginger», disse.
«A quest'ora?»
«Sarà una giornata dura.»
Jenna masticò la sua gomma un paio di volte mentre prendeva un bicchiere, poi lo mise sul bancone con un rovinato sottobicchiere di carta e si voltò verso gli scaffali delle bottiglie. Dietro la prima fila di liquori e alcolici di ogni regione di Ataklur c'erano quelli terrestri, in particolare quelli della loro terra natia. Ogni volta che tornava da Londra aveva sempre con sé un paio di casse piene di “roba buona”, come li chiamavano lei e suo padre, e Phil non si lasciava mai sfuggire l'occasione di bagnarsi le labbra in un pezzo della sua amata Inghilterra.
Il liquido dorato scese nel bicchiere come una piccola cascata e Phil aveva già la mano stretta attorno al vetro quando cessò di scorrere. «Perlomeno nessuno mi incolpa», sputò rapido un istante prima di scolarsi tutto d'un fiato il ginger come un assetato o un disperato.
Jenna riempì nuovamente il bicchiere non appena tornò vuoto sul bancone e poi lasciò la bottiglia accanto al cugino.
Si sporse oltre il bancone fino a sollevare le gambe ed allungò un braccio esile. «E questa busta?», disse mentre la prendeva.
Phil per poco non lasciò cadere il bicchiere per terra pur di fermarla. «Non la toccare!», esclamò agitato, ma la donna aveva già aperto la busta e stava sbirciando al suo interno.
«Due rotoli di Carta Chiacchiera, la solita mappa dei punti di rientro ad Ataklur, un po' di talloncini per le spese, un identificativo reale di Eastreth... e questa? Sarebbe una Stella?», commentò con un po' di sprezzo sollevando quello che effettivamente sembrava più un sassolino colorato che un diamante di energia magica.
«Ridammela», disse Phil, ma senza troppa convinzione. Sapendo quali compiti doveva svolgere, non aveva molta voglia di entrare realmente in possesso di quel minuscolo kit.
«Che te ne fai di una Stella così piccola? Non riuscirai nemmeno ad aprire un portale!», si lamentò lo zio Will con la sua voce tuonante, mettendo in soggezione Phil e facendolo sentire ancora peggio di quanto non si sentisse già prima di entrare nel locale.
L'ex-consigliere afferrò la bottiglia di ginger e si versò un terzo bicchiere. «Non devo fare attraversamenti, stavolta, quella serve solo in casi di emergenza...»
«La principessa non pensa che potresti avere bisogno di un briciolo di protezione in più? O spera che ci finisci stecchito?», proseguì Jenna rigirando il coltello nella piaga. Phil non terminò il suo ginger e sbatté il bicchiere sul bancone con forza, bagnandolo con un po' di liquore.
«So benissimo cavarmela da solo!», sibilò a denti stretti e con così tanta serietà sul viso da non lasciare spazio a repliche.
Lo zio Will sospirò e gli posò una grossa mano calda sulla spalla, poi gli sfregò un braccio. «Lo sappiamo», disse paterno e paziente, «Sei un ragazzo in gamba.»
Phil non si lasciò coinvolgere da quella calma fiduciosa e non smise il muso. «Però continuate a scordarvi che ho 28 anni e che non sono un novellino di qui», borbottò.
«Non scordiamo neanche che sei un umano e... sai che ti dico?», decise Jenna all'improvviso, lanciando in aria lo straccio per i bicchieri con un gesto improvviso che sorprese i due uomini. «Non posso lasciarti andare in giro da solo con questo sassolino a proteggerti, vengo con te! Vado subito a cambiarmi!»
«No!», esclamò Phil esalando tutta l'aria che aveva nei polmoni. Si girò verso lo zio e si aggrappò alla sua camicia stropicciata. «Fermala, non può venire sul serio!»
L'uomo si grattò rumorosamente la barba e il suo viso arrossato dal sole o dall'alcol si corrugò pensieroso. Jenna stava per salire le scale dietro la parete delle bottiglie quando gli scalini si appiattirono tra loro e diventarono uno scivolo, facendola rotolare tra i tavoli del pub come una palla da bowling. «Papà!», urlò stridula la donna. «Non hai il diritto di fermarmi!»
«Ma neanche quello di rovinare il lavoro di Phil con una presenza insopportabile come te», commentò tranquillo l'omaccione mentre strizzava l'occhio all'umano. Phil si sentì sollevato e si riprese la Stella lasciata sul bancone. La infilò nella busta e se la mise sotto braccio.
«Sei mio cugino, non sarei stata insopportabile ma solo d'aiuto...», mormorò Jenna in tono offeso mentre aggiustava i tavoli incrinati dalla sua caduta sfiorandoli con la magia e i gradini tornavano tali alle sue spalle.
«Ti capisco e non credere che non apprezzi», le disse Phil con gentilezza aiutandola a risollevare una sedia. «Ma non temere: con i talloncini di scambio mi procurerò un'altra Stella, una più grande, e non sarò più in pericolo... consolati così, una jiin arancione non sarebbe bastata comunque.»
Gli occhi scuri della cugina si assottigliarono incuriositi ed allarmati e così fecero anche quelli dello zio. Phil si morse la lingua ed iniziò ad arretrare verso l'uscita con grande imbarazzo.
«Non intendevo che... ho sbagliato parole, io...»
«Che razza di compito ti hanno affidato stavolta?», domandò con prepotenza zio Will alzandosi dallo sgabello ed avvicinandosi ad ampie falcate al giovane umano. «Stai ancora rischiando la vita per lei? Non se lo merita!»
Phil mise un piede fuori, sotto il sole e sulla strada, lasciando che il buio del pub avvolgesse solamente Jenna e Will. «Vi racconterò tutto al mio ritorno», disse annuendo a sé stesso, con abbastanza decisione da tranquillizzare la cugina, ma non lo zio.
«Sarà meglio», tuonò infine lui, lasciando andare il ragazzo.

Savannah e Nehroi furono identificati due giorni dopo e la notizia fece un certo scalpore nell'ambiente della sicurezza di Ataklur.
Phil fu il primo a rallegrarsene quando gli venne riferito e rilesse più volte il pezzetto di carta bruciacchiato che aveva ricevuto dal vento per essere sicuro di aver compreso bene i simboli. «Dovrebbero inventare un sistema di comunicazione verbale», brontolò quando dovette sforzarsi per troppi secondi su un carattere particolarmente ostico. «O accettare l'uso dei cellulari.»
Nonostante il disappunto, era visibilmente soddisfatto: il suo metodo stava funzionando.
L'aveva proposto al capitano delle guardie di Eastreth subito dopo il suo incontro con la cugina e il suo commento sul livello di magia.
«Abbiamo già diramato i loro volti e le descrizioni a tutte le regioni», lo aveva accolto freddamente il capitano, con l'aria di chi non ha voglia di farsi dire come fare il proprio lavoro da un umano.
«E non pensate che possano cambiare aspetto?», aveva chiesto Phil con insistenza, per nulla deciso a farsi cacciare via prima di aver detto la sua idea. Ricordava bene i video della sorveglianza alla borsa di New York che li aveva incastrati due mesi prima, video che erano stati utili solo perché Savannah non aveva avuto voglia di modificare troppo i loro lineamenti. Con l'intera Ataklur a cercarli, Phil non si sarebbe stupito di trovarli entrambi maschi o bambini o asiatici o, perché no?, animali. Cosa le avrebbe impedito di modificare i loro aspetti a tal punto?
Il capitano lo aveva guardato con un po' più di interesse, come se effettivamente non avessero calcolato quell'eventualità. «Non abbiamo mai dato la caccia ad una jiin viola», aveva detto come giustificazione. «Di solito queste misure sono sufficienti...»
«Nessuna guardia potrebbe mai scoprirli, sono tutti di livello molto inferiore», aveva continuato imperterrito l'ex-consigliere. «Ma l'unica cosa che i Fein Anis non possono cambiare è proprio questo: il loro status. Il grado di Savannah non passa certo inosservato, no? Può trasformarsi anche in una mosca, ma se si rilevasse che quella mosca è una jiin viola...»
Una luce si era accesa negli occhi del capitano e Phil aveva capito che la sua idea era stata approvata.
La Carta Chiacchiera che aveva in mano ne era la conferma: diversi rilevatori di magia posizionati nella regione di Bastreth, lungo la costa nord-orientale, si erano tinti di viola una sola volta al passaggio di due persone anziane e le guardie avevano fatto scattare subito l'arresto.
Purtroppo avevano fallito, ma quella tecnica si era rivelata così tanto utile e precisa da rendere immediata la produzione di massa dei rilevatori e il loro ritiro ufficiale dalla popolazione per il loro stesso bene.
Nascosti ovunque, da sotto le fronde di un cespuglio all'insenatura di una roccia, Ataklur venne rivestita di rilevatori e di guardie in attesa.
Phil strappò in pezzi piccolissimi il frammento di Carta che aveva appena ricevuto, ripose il resto del rotolo bianco nella sua tracolla di cuoio, assieme alla piccola Stella e agli altri componenti della sua “attrezzatura”, e si mise in marcia.




*-*-*-*



Questo capitolo mi ha vista molto indecisa. Innanzitutto la parte di Phil: non so da dove sono usciti i due parenti, ad un certo punto me li sono ritrovati nel foglio e non sono riuscita a toglierli. Boh. Massì, ci stanno. Magari li incontreremo di nuovo, se ripiombano nel file a tradimento.
Poi c'era la parte di Tarrig, che voi non avete letto... era già lì, sotto il “33” ed era prefissata per questo capitolo da mooooooolto tempo, quindi non potevo farci niente, ma mi è venuta troppo lunga e l'ho tagliata <.< Tanto non era proprio utilissima per la trama... al massimo la ripesco dal file Cutten Scenes (come sono professionale xD) più avanti.
E poi, alla fine del capitolo, dopo la parentesi che ho tagliato con i fratelli alle prese con la costruzione dei rilevatori ('na palla, ora che ci penso ^^), doveva comparire di nuovo Phil ma non avrei finito più (in totale ero già a 8 pagine e mezzo! O_O), per cui lasciamo perdere che già mi sento calzare a pennello il soprannome di Mani di Forbice! XDD
Insomma, niente è venuto come programmato! E quindi bon, ho lasciato il capitolo tutto incentrato su Phil e basta perché è giunto il momento che anche il nostro umano acquisisca più spessore! E infatti è uscito di 5 paginette... va beh, i vostri occhi mi ringrazieranno! ^^
Grazie ancora a tutti (tuttE) per il supporto, siete grandi!
Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 34
*** Questa è la nostra Missione ***





34
Questa è la nostra Missione



C'era qualcosa nell'andatura di quei due uomini che lo insospettì. Indossavano lunghi mantelli beige con un cappuccio parzialmente tirato sul volto, lasciando solamente la barba e il naso a mostrarsi al mondo, e il modo in cui oscillava uno dei due fece corrugare la fronte di Phil. Sembrava zoppicante, a giudicare da quanta terra sollevava ad ogni passo.
«Ehi, voi due!», li chiamò affrettando il passo per raggiungerli. Avrebbe giurato di aver sentito un paio di sbuffi indirizzati a lui non appena fu più vicino. «Da dove venite?»
Erano entrambi biondi, con capelli e barba di un colore molto simile all'oro, e tenevano gli occhi bassi, con sguardi sfuggenti che non si posavano mai sull'ex-consigliere.
«Haffireth», borbottò uno dei due, il più alto, con i capelli rasati quasi a zero. Quello che zoppicava. Phil schioccò la lingua contro il palato e annuì. «Tira una brutta aria laggiù, uh?», domandò con un tono vago. Continuava a fissare i due con insistenza, in cerca di un dettaglio che lo potesse aiutare a capire meglio. Non avevano ciondoli né tatuaggi né cicatrici apparenti, solo un aspetto trasandato e due ampi mantelli, ma quella sensazione strana non smetteva di annidarsi nel suo animo e sentiva il bisogno di indagare più a fondo.
«Dobbiamo andare, faremo tardi», disse l'altro uomo in un sussurro al compagno, con una voce sottile e una folta barba che nascondeva completamente le labbra.
L'ex-consigliere sorrise complice e si avvicinò ai forestieri facendo loro l'occhiolino. «Se volete evitare i controlli... sapete che intendo, no? Seguitemi, conosco una via sicura che le guardie non sorvegliano», propose a voce bassa e guardandosi attorno. Erano alla base della Cresta tra Haffireth e Bastreth, ai piedi delle montagne. Di fronte a loro, a poco meno di un chilometro, la foresta di Norreth, piena di posti di blocco da parte delle guardie con la divisa marrone e il simbolo della regione sul petto.
I due uomini fissarono guardinghi l'umano e lasciarono che una famiglia di cinque persone li superasse con il loro carretto pieno di rocce levigate.
«Chi sei?», gli domandò quello alto con voce profonda.
«Seguitemi, se volete avere dei rami sulla testa entro la sera.»
L'uomo più basso ed esile dei due afferrò il compagno per un braccio e lo strattonò indietro. «Noi non seguiremo nessuno e tu», puntò il dito contro Phil con uno scatto, «Tu faresti bene a sparire.» Phil tirò un angolo della bocca all'insù ed alzò entrambe le mani, come se si stesse arrendendo alla minaccia. Fece anche spallucce, allontanandosi dai due uomini con tranquillità. «Ma certo», asserì sereno, «D'altronde io sono solo un umano e sei tu quella che pianifica tutto, Annah. Giusto?»
Entrambi i viandanti si fermarono e i loro corpi si irrigidirono. L'uomo più basso strinse un pugno. «Che vuoi dire?», ringhiò tra i denti con una voce più robusta. «Chi sarebbe questa...»
Phil sospirò rumorosamente e si voltò verso la strada sterrata che aveva proposto loro per evitare i controlli. «Detto tra noi, ragazzi, non vi siete sforzati più di tanto per cambiare i connotati... potete ingannare guardie che non vi hanno mai visti prima di persona, ma non me. Già, lo stupido umano ha una buona memoria. Che fregatura, uh?»
«Vai a farti fottere», sbottò quello alto.
«Ora sì che rientri nel personaggio, Nehroi. Dai, seguitemi, c'è davvero un percorso per evitare i controlli.»
Phil si voltò e li guidò attraverso un intricato cammino tra le colline che univano dolcemente le montagne della Cresta e la foresta, in un paesaggio che alternava terra, rocce ed erba scura. Si accorse che lo avevano seminato quando non giunse nessuna risposta alle sue domande, ormai veri monologhi, e quando non vide più le due figure incappucciate seguirlo nel territorio ondulato e terroso.
Corse indietro per recuperarli, maledicendo la loro testardaggine, e li trovò nascosti poco più in là, tra due speroni di rocce basse, con i mantelli del colore della pietra e non più della notte.
«Come sapevi che eravamo qui?», domandò Savannah con nervosismo mentre la barba scompariva dalle sue guance e i lineamenti tornavano femminili.
Nehroi, al suo fianco, stava abbandonando le tinte biondicce per tornare castano scuro e i suoi riccioli stavano ricrescendo velocemente, cadendogli sulla fronte come sempre. Incredibile come il taglio rasato gli avesse modificato tanto il volto senza alcun intervento magico.
Phil aprì la bocca per rispondere ma boccheggiò ansimante e si appoggiò con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato dopo la corsa. «Ho immaginato che aveste capito che non stavo mentendo, sul percorso... e che avreste cercato di fregarmi. Di nuovo.»
La ragazza si alzò in piedi e si tolse di dosso la terra mentre anche i suoi capelli tornavano lunghi, coprendo pian piano spalle e scivolando fuori dal cappuccio come una cascata nera.
«L'ultima volta che ci siamo sentiti era piuttosto evidente che non volevi più avere niente a che fare con noi», sputò scettica.
«Quando?», domandò Nehroi con tono sorpreso.
«Quando tu hai ordinato una pizza in sala interrogatori, c'è gente che usa meglio la telefonata», gli rispose la sorella agitando distrattamente una mano. Poi la puntò verso Phil, mentre il suo sguardo tornava ad essere secco e freddo. «Rispondi», intimò seria.
Phil si inumidì le labbra ed annuì lentamente, come se stesse elaborando un'ipotesi convincente.
«I Capi mi hanno cacciato», disse poi, con la voce più desolata che i Fein Anis avessero mai sentito uscire dalle sue labbra. «Sono reietto come voi.»
«Tornatene a casa», disse Nehroi allargando le braccia verso le montagne. «Una striscia viola e sei nella tua terra, no? Con quel tuo passpartout...»
L'umano inclinò la testa di lato e sospirò ancora, brevemente. «Hanno fatto in modo di bruciarmi anche di là, come voi. Per questo ho pensato che...»
Savannah si sistemò il cappuccio sul viso, ricacciando dentro i capelli, ed iniziò a voltarsi per andarsene. «Tre reietti ricercati è meglio di due? Non credo proprio», disse rigida. Nehroi si allargò il nodo dei lacci delle scarpe e la seguì immediatamente.
Stavano per scomparire oltre la collina quando la voce di Phil li raggiunse ancora e li fece fermare.
«Che cos'hai detto?», sibilò Nehroi al limite dell'incredulità.
Phil fece un passo verso di lui e annuì convinto. «Voglio collaborare alla vostra missione. Fatemi entrare nel gruppo, voglio aiutarvi.»
Savannah si avvicinò a loro solo per prendere nuovamente il fratello per il mantello e trascinarlo a sé. «Non sai neanche che missione è!», ridacchiò, «Andiamocene, Neh, lui comunque non ci serve...»
Phil fletté le ginocchia e corse rapidamente di fronte alla ragazza, ancora aggrappata a Nehroi, parandosi di fronte a lei a braccia aperte come la sera in cui erano arrivati a Tolakireth. Nei suoi occhi viola, però, non c'era lo stesso calore di allora.
«Sono sincero, voglio unirmi a voi», disse piano. Continuò a fissarla nelle iridi, sperando che notasse le sue non più gialle... almeno non per lei.
Savannah sorrise. Sembrava aver capito tutto ed essere pronta ad accettarlo, facendo sollevare il petto di Phil con insperato sollievo. Poi gli posò una mano sulla spalla e il contatto divenne così incandescente che la camicia bianca e sporca dell'umano iniziò a bruciarsi come carta mentre la pelle, sotto, si arrossava pericolosamente. Phil cacciò un urlo e cercò di divincolarsi, ma la jiin continuava a sorridere candidamente e non si staccava.
«Non ci serve una spia... e sicuramente non ci serve un umano.»
Phil strizzò gli occhi e desiderò staccarsi il braccio, ma strinse i denti. «La notizia... del mio licenziamento non è... ahh!... ancora diffusa, posso... ti prego, smettila... posso ancora trovare informazioni! Ho un lasciapassare e... Savannah, ti prego! Posso ancora esserti utile! Ahh!»
«Vuoi davvero venire con noi?», proseguì Savannah assottigliando lo sguardo e rendendolo ancora più tagliente.
La spalla di Phil continuò a bruciare come se la mano della ragazza fosse un tizzone ardente, ma l'uomo non si lasciò devastare dalle sensazioni e la guardò negli occhi. «Sì!», rispose non senza affanno.
«Vuoi legare la tua libertà alla nostra?»
L'umano sentì il fiato mozzarsi in risposta a quella strana domanda. Non sembravano le solite parole che la ragazza era solita usare, assomigliavano più ad un rituale uscito da un libro... «Sì», rispose comunque. Se era una prova di forza, quella che voleva, l'avrebbe avuta; per il resto c'era tempo.
Nehroi posò la sua mano su quella della sorella e la sollevò delicatamente. «Basta», disse. Il suo sguardo era fermo e la voce seria simile a quella di un adulto che rimprovera il bambino ma sembrava che ci fosse qualcosa di più, qualcosa che l'umano non riuscì ad identificare.
Phil crollò a terra subito dopo, reggendosi la spalla come se temesse di vederla rotolare giù per la collina.
La jiin fece spallucce e si strinse nel mantello. «Volevo essere molto chiara», si giustificò.
Guardò l'umano quasi con disprezzo osservando il suo contorsionismo nel cercare di tastarsi la spalla con entrambe le mani, perché una non bastava ad attenuare il dolore, e ripensò ancora alle parole dure che le aveva rivolto durante quell'orribile telefonata, quando non le aveva permesso di scusarsi, quando non le aveva creduto, quando l'aveva quasi derisa per le sue azioni, quando le aveva detto di non parlargli mai più.
«Quindi vuoi unirti a noi», ricapitolò con tranquillità, smettendo di pensare a quelle cose.
Phil annuì ancora e cercò di rimettersi in piedi, ma preferì rimanere a terra a respirare affannosamente ancora un po'.
«Stando così le cose, dobbiamo metterti al corrente della missione», aggiunse Nehroi quasi con desolazione. «Tanto siamo legati... e poi non puoi aiutarci se non sai cosa vogliamo fare.»
L'uomo sorvolò ancora su quelle strane scelte di parole, ma non riuscì a non provare un senso di inquietudine. «Farò... tutto il possibile», affermò deciso.
I due fratelli si presero ancora qualche secondo prima di vuotare il sacco e in quel breve momento l'ex-consigliere realizzò che sarebbe stato proprio lui, Philip Mayson di Manchester, la prima persona a venire a conoscenza della fantomatica missione dei Fein Anis che nessuno, in tutta Ataklur, era ancora mai riuscito a scoprire. Erano ormai anni che si vociferava che le loro azioni squinternate fossero dovute ad un piano più grande, e loro stessi non avevano mai smentito le dicerie. Missione, missione, missione: era un ritornello fisso, ma quei due non si erano mai sbilanciati abbastanza da lasciare un indizio che potesse far intuire alcunché al riguardo.
Il prezzo era una spalla ustionata, una costante minaccia di morte e il doverli seguire ovunque, ma per l'umano non era possibile non considerare quel momento una grande vittoria.
Savannah erse una barriera attorno a loro, rendendoli invisibili ed inudibili ad eventuali passanti.
Nonostante quella misura, però, entrambi continuavano a tenere il cappuccio sopra le loro teste.
Nehroi aprì la bocca, pronto a parlare, e Phil tese le orecchie come mai prima di allora.
«Immagina due contenitori», disse. Phil annuì attento.
«Ne riempi uno con l'acqua e l'altro lo lasci asciutto. Ci sei?»
«Non è difficile.»
«Allora immagina che siano attaccati ma che non possano mai comunicare perché c'è qualcosa che ostruisce il passaggio dell'acqua. Cosa succede?»
L'umano temette per un attimo di essere stato ancora preso in giro da quei demoni, portandolo su un discorso che difficilmente poteva essere il concetto della loro missione, ma fece spallucce e rispose ugualmente. «Un contenitore è pieno e l'altro è vuoto.»
«E se togli quell'impedimento?»
Phil sorrise ricordando le lezioni di fisica del liceo e le leggi dei vasi comunicanti. «L'acqua si riverserà anche nell'altro contenitore e sarà allo stesso livello in entrambi.»
Savannah gli si inginocchiò accanto, accucciata come un cagnolino, e rimase in attesa delle reazioni dell'umano. Il fratello annuì soddisfatto della risposta e batté le mani. «Ecco, questa è la nostra missione!»
Phil sbatté le palpebre più volte e cercò di dare un senso alla sua affermazione. Come si era passati dai contenitori d'acqua alla missione? Erano una metafora o dovevano davvero rompere qualcosa, tipo una diga o...
Poi, tutto ad un tratto, il suo viso si illuminò e sgranò gli occhi in un misto di stupore e terrore. «Volete rompere la barriera! L'acqua è la magia e...»
Savannah interruppe il suo entusiasmo spostandoglisi di fronte, sempre inginocchiata a terra.
«Ora che hai scoperto la missione riferirai tutto ai Capi?»
«Cosa? No! Ti ho detto che non ne vogliono più sapere di me...»
«Sarebbe uno splendido regalo per farsi accettare di nuovo, però.»
Phil la esaminò attentamente, in cerca di un indizio per comprendere il suo strano atteggiamento. Anche Nehroi si era abbassato alla loro altezza, e i suoi occhi indagavano sull'umano quanto quelli della sorella.
«Non voglio tradirvi, lo giuro», insistette Phil sentendo l'agitazione crescergli sottopelle. Le iridi erano ancora castane o lo fissavano così perché avevano intravisto qualcosa che potesse tradirlo?
«Vuoi ancora stare dalla nostra parte? Anche ora che... “sai”?», ribatté Nehroi con serietà, la stessa con cui aveva impedito a Savannah di torturargli ancora la spalla poco prima. Al sol ricordo Phil se la tastò nuovamente, ricevendo una fitta di dolore lungo la scapola.
Forse era solamente troppo nervoso e lo stavano mettendo sotto pressione apposta.
«Sì», disse fermamente.
«Un mondo magico non è il sogno più grande di ogni umano? Perché il nostro piano di rovinarlo non ti spaventa? O preoccupa, anche...»
Deglutì. «Ho fatto una promessa a una persona.»
Savannah gli si avvicinò di qualche centimetro, senza smettere di esaminarlo come uno scanner. Phil era sicuro che al suo minimo tentennamento non avrebbe esitato a farlo fuori o fargli dimenticare tutto o metterlo a tacere in qualche modo e cercò di mantenere il sangue freddo come ghiaccio.
«La tua promessa è distruggere la barriera?», domandò ancora la jiin.
L'ex-consigliere pensò molte cose. Prima fra tutte, l'ordine di Chawia: riferirle lo scopo della missione e informarla se avesse rappresentato un danno per lei o per Ataklur.
Rompere la barriera era effettivamente qualcosa di preoccupante e di assolutamente pericoloso, e non avrebbe dovuto attendere un minuto di più per denunciarli, senza neanche pensare a quanto fosse impossibile, irrealizzabile ed alquanto suicida un piano del genere. Scosse la testa e la sua mente vagò in meandri più remoti, dandogli la forza di voltare le spalle al Capo di Eastreth. C'era una persona, quella persona... e lei valeva molto di più.
Al diavolo la principessa.
«No», rispose, «Ma sento che questa missione è un ottimo modo per mantenerla.»
Savannah non sembrò minimamente sollevata e continuò a fissarlo, ma con meno durezza.
Phil piegò la testa all'indietro e sentì la tensione allentarsi man mano che il cielo azzurro gli pervadeva l'animo. Tornò a respirare per un istante, poi la voce della jiin lo fece tornare alla realtà.
«Te l'avevo già chiesto una volta e mi avevi promesso una risposta.»
L'umano si raddrizzò e la guardò vacuo. «Su cosa?»
«Le tue origini. Che ci fa un inglese ad Ataklur.»
Nehroi si sedette definitivamente a terra, gambe incrociate, e rimase in attesa come un bambino davanti alla favola della buona notte. Ogni tanto si torturava le scarpe infilandoci un dito per allargarle e a volte faceva delle smorfie tanto addolorate da far pensare che gli facessero male ma Savannah, accanto a lui, sembrava sempre più diabolica e convinta che avrebbe ottenuto le risposte che voleva e non era minimamente intenzionata ad aiutarlo.
«Avevo detto “può darsi”», replicò Phil non senza un pizzico di disagio. Sebbene la parte più difficile dell'essere accettati da loro fosse andata a buon fine, la tranquillità rimaneva un'oasi troppo distante per le sue dita e, tra loro, il mare di squali si allargava sempre più.
La jiin sbuffò. Non le piaceva essere così tanto dura con le persone, se non strettamente necessario. Phil ormai era una persona conosciuta, ma c'era sempre qualcosa di lui che non la lasciava fidarsi del tutto: sorrisi ambigui, parole stonate, atteggiamenti troppo puliti e risposte pronte. Probabilmente era il suo modo di essere, ma anche la ragazza ne aveva uno ed era pieno di diffidenza.
«E ora mi rispondi», ricapitolò infine. «Perché sei ad Ataklur? Come ci sei arrivato la prima volta? Ha a che fare con chi ti controlla? O controllava... C'entra la tua famiglia o sei l'unico?»
Phil si morse un labbro e guardò altrove. Non disse nulla ma s'incupì.
Savannah sollevò un angolo della bocca con soddisfazione. «Una l'ho azzeccata, allora...»
Passarono alcuni istanti di silenzio in cui la jiin osservava l'umano con attenzione, in cerca di nuovi indizi o tasti da premere per scoprire qualcos'altro di utile, ma lui non disse nulla, neanche in maniera implicita.
Phil fece per alzarsi dal terreno ma una forza incredibile lo respinse nuovamente seduto, immobilizzato dal petto fino alle ginocchia, come se fosse stato legato con una corda invisibile ed impalpabile. Lanciò un'occhiataccia alla ragazza. «Divertente», commentò velenoso.
«Non ti alzi finché non parli», rispose serafica ma con uno sguardo tagliente. Nehroi continuava a torturarsi le scarpe, ma lo spettacolo gli alleviava lo sforzo.
«Sarai una pessima madre», replicò l'umano con falsa ironia.
La jiin sorrise, un sorriso tirato che non le accese gli occhi. «Per fortuna non avrò mai figli! Ora parla.»
Phil sospirò e provò ancora a muovere il proprio corpo, riuscendoci solo fino alle spalle. «Non puoi obbligarmi a rispondere», mugugnò contrariato e senza troppa convinzione.
Savannah stiracchiò le gambe e le braccia, si grattò la nuca e sospirò appena, poi si appoggiò contro il fianco del fratello e guardò l'umano. La sua espressione non era né divertita né irritata, anzi: era il ritratto dell'indifferenza.
«Allora parla di tua volontà», gli suggerì tranquilla.
L'aria sferzò gelida tra loro.





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Capitolo 35
*** Il Fiore Nero ***






35
Il Fiore Nero



Philip alzò lo sguardo al cielo.
Era terso, blu, splendente, perfetto. Come sempre.
Poche nuvole morbide come panna montata transitavano ogni tanto, ma non avevano mai intralciato il bel tempo, mai una goccia di pioggia si era abbattuta su Ataklur, mai un fiocco di neve si era aggiunto a quelli già presenti sulle montagne quando sono state create.
Inspirò a fondo, sentendo quell'aria carica entrargli nei polmoni ormai abituati ad accoglierla, e ripensò alla prima volta in cui il suo naso da bambino l'aveva annusata, come un cucciolo spaurito, e a quanto gli fosse sembrata nauseante. Eppure, già da quella prima volta, non era più riuscito a farne a meno.
Era piccolo, con un medaglione in mano, appena sbucato da una parete rocciosa dopo averne miracolosamente oltrepassata un'altra.
«Avevo appena compiuto dieci anni», esordì con un mezzo sorriso che sprigionava calore, sebbene titubante.
Ripensò ai litigi che si era lasciato alle spalle, alla luce negli occhi che aveva quando aveva sentito parlare di Ataklur per la prima volta, quando aveva stretto tra le mani la sua piccola Stella...
«Mia madre», disse con orgoglio. «Mia madre è di qui. Era di qui. Di Eastreth.»
Nehroi si sentì lievemente abbattuto da quella precisazione. «È... morta?», domandò piano.
All'orfanotrofio era quasi tabù chiedere agli altri bambini perché fossero lì. Passavano le giornate a prendersi in giro e farsi i dispetti a vicenda, ma quando si toccavano certi argomenti non c'era viso che non si rabbuiasse. Molti avevano perso i loro genitori da poco o ne soffrivano comunque la mancanza, così i Fein Anis furono costretti ad imparare ad avere tatto con chi subiva perdite di quel genere, sebbene non avessero alcuna base personale per comprendere il dolore. Lo capirono troppo tardi, quando fu il turno di Ughrei di lasciarli, e allora si sentirono sporchi e crudeli per la loro insensibilità verso gli altri, quando li avevano derisi perché deboli e frignoni.
Phil scosse la testa ma non sembrava affatto rallegrato. «Mi parlava sempre della leggenda del Fiore Nero, sapete? Agli altri bambini le mamme leggevano fiabe piene di sirene e lupi parlanti e fagioli magici mentre la mia parlava in continuazione di una terra magica come le altre ma che nessuno conosceva. Pietre potentissime, acque che bruciano, regni sconosciuti... non credo che possiate capirlo, per gli umani è diverso. Mi parlava di talpe giganti e di mostri alati che le cacciavano, di un sole eterno e della libertà di fare quello che si voleva, sempre, perché bastava volerlo.»
Phil sorrise ma i suoi occhi non si accesero, anzi. «Mio padre la sgridava», proseguì, «Non voleva che mi riempisse la testa di frottole assurde e... e sgridava anche me quando scopriva che avevo condiviso quelle storie con i miei amici. Mamma si incupì col passare degli anni ed iniziò ad avere atteggiamenti sempre più strani. Non aveva più voglia di cucinare perché era cibo senza sapore, non voleva più stare in città perché non era naturale, parlava sempre più spesso di una città nel canyon e degli infiniti prati verdi su cui aveva passato l'infanzia. Diceva che il nostro mondo era uno schifo, che non voleva più viverci e che eravamo tutti grigi ai suoi occhi. A volte urlava parole senza senso, “brehmisth” o “Ataklur”, e non smetteva di parlare della sua vera terra... allora io non potevo capire perché ero cresciuto sapendo che era nata a Londra e che avesse sempre vissuto lì. Fu un brutto colpo quando vidi gli infermieri dell'ospedale psichiatrico venire a casa, una sera, e portarla via di peso.»
Savannah inorridì e sgranò gli occhi trattenendo il fiato. «L'hanno rinchiusa?», esclamò sconvolta.
«Hanno pensato che fosse pazza, che altro potevano fare?»
La ragazza ripensò alla dottoressa della prigione, la strizzacervelli con cui aveva chiacchierato per moltissime ore fino a pochi giorni prima, e a come avesse pensato anche lei che fossero due svitati. Non era troppo strano credere alla sorte toccata alla madre di Phil, ed ebbe i brividi senza riuscire ad immaginare quanta tristezza possa averle causato la perdita del suo mondo e la relegazione in uno che non la comprendeva. Non era pazza, ma gli umani erano semplicemente ignoranti. Savannah l'aveva sempre trattata come una cosa di poco conto, forte del suo potere e della convinzione che avrebbe potuto sistemare tutto fuggendo e distruggendo qualcosa... ma si immaginò brehmisth, in quelle condizioni, e le venne da vomitare per l'angoscia.
Phil si raddrizzò un poco, per quanto riuscisse a muoversi stretto com'era nella morsa invisibile della jiin, e chinò la testa.
«“C'era una volta il Creatore”», esordì con finta allegria, ombra di un cantastorie di paese. «“Era il mago più potente di tutti i tempi e viveva tra gli umani fin dalla preistoria, scoprendo con loro ogni epoca e generazione. Jiin e umani avevano sempre vissuto assieme sulla Terra piuttosto pacificamente, con una scaramuccia ogni tanto”... mamma arricciava il naso e faceva una voce buffa quando diceva questa frase», commentò ridacchiando tristemente. Si ricompose in fretta e riprese la narrazione, scoprendosi di fronte a due ascoltatori piuttosto attenti.
«“Gli umani veneravano i jiin come dei e attribuivano loro molti cambiamenti della natura. Sull'Olimpo come tra gli Egizi, dai Maya agli Zulù, i jiin si distinguevano sempre. Quando però la popolazione umana iniziò a crescere e crescere, i jiin iniziavano a mescolarsi a loro e i brehmisth iniziavano a comparire, figli dell'una e dell'altra specie”...»
Phil dondolò la testa a destra e a sinistra mentre lo recitava, probabilmente imitando istintivamente i gesti della madre chinata su di lui nel lettino, rischiarata dalla candela che accendeva per creare atmosfera. «“I jiin si mescolarono troppo e ritrovarono ad essere sempre meno; divennero minoranza e vennero trattati come tali. Il Creatore” -che tutti sanno che non è una sola persona ma tutti i jiin più potenti, ma nella storia popolare è diventato un unico uomo- “rubò allora pezzi di terreno agli umani e li sigillò dentro un'unica barriera valicabile solo grazie alla magia, delimitando un luogo vasto e libero in cui avrebbero potuto vivere serenamente senza doversi preoccupare degli umani e della loro diversità.
Il creatore era molto contento della sua invenzione ed invitò tutta la popolazione magica ad Ataklur, che all'epoca non si chiamava ancora così ma Jiiklur “Terra della Magia”. Man mano che la gente viveva, nasceva e moriva, Jiiklur diventava sempre più prospera e la magia che veniva scaturita dai maghi rimaneva intrappolata lì dentro, rendendo più magico anche il territorio. Ecco perché è sempre bel tempo!” … e questo, credetemi, per un bambino che vedeva il sole neanche una volta al mese e che viveva perennemente nella nebbia o sotto la pioggia, era già sufficiente a renderlo un mondo magnifico», commentò serio.
Savannah strinse le labbra e sospirò annoiata, ma Nehroi annuì convinto e sorrise, rapito da quel resoconto.
«La prima volta che siamo arrivati sulla Terra pioveva a dirotto, non sai quanto ci siamo spaventati!», disse ridacchiando. «Temevamo che il mondo ci si stesse sciogliendo addosso!»
«E tutto ciò è fantastico», tagliò la jiin con voce secca e irritata. «Ma la leggenda la conosciamo già, Mayson. Qual è il punto?»
Phil schioccò la lingua contro il palato e alzò gli occhi al cielo per un istante, trattenendosi dal dirle qualcosa. Prese un bel respiro e cercò di tornare nella sua atmosfera casalinga, rievocando i giocattoli sul comodino, il sorriso della mamma, i suoi capelli chiari raccolti da un lato...
«“Ben presto il Creatore si accorse che alla sua bella terra mancava qualcosa, perché tutto rimaneva stabile e immutato sebbene la magia operasse tanti cambiamenti a cose e persone. Non c'erano variazioni nel territorio, gli alberi non perdevano le foglie, i fiori non seccavano, le nuvole non portavano mai pioggia o neve. Al Creatore non faceva piacere vedere che il mondo che aveva creato era praticamente finto, così tornò tra gli umani e cercò di capire cosa avesse sbagliato... ma comprese che madre natura era troppo perfetta e vasta perché potesse imitarla ancora.
Comunque felice per aver dato una casa sicura a tutti i jiin e averli protetti da una futura guerra contro gli umani, decise di portare con sé una pianta di ciclamini rossi come ricordo della loro terra d'origine. Dopo qualche mese, però, il fiore iniziò a cambiare: era sempre vivo, ma iniziava a diventare più cupo finché i suoi petali non furono completamente neri.”»
Savannah sbadigliò, ma Phil non smise di parlare e portò a termine il suo racconto come se non l'avesse vista.
«“Cosa significava? Lo capì solo dopo essersi accorto che, passato qualche anno, i jiin che andavano tra gli umani non erano più in grado di tornare: sottrarre la magia alla Terra aveva creato uno squilibrio enorme sul pianeta e l'aveva resa avida di quel potere che le era stato tolto. La Terra continua a volere indietro la sua magia e la strappa via da chi la possedeva... adesso che il pianeta è in crisi questo processo è sempre più rapido e nel giro di pochi anni ti ritrovi completamente a secco.”»
«Dividere il mondo in due poteva essere un'ottima cosa, ma solo entro certi limiti», commentò Nehroi in tono convinto. «Si vede che è una vecchia versione, tua madre è rimasta a quando si avevano anni di tempo per tornare indietro e non poche settimane...»
«Fu allora che il creatore comprese ciò che aveva realmente creato», concluse Savannah con rammarico e desolazione. «Una prigione per i jiin. Il nonno lo diceva sempre.»
«Anche a noi veniva raccontata questa leggenda prima di andare a dormire, tutti la sanno ad Ataklur!», aggiunse il brehkisth con un sorrisetto da bambino che non toccò la sorella, ancora intenta a mostrare la sua noia a tutti i presenti come se ne andasse della sua vita.
Phil serrò i denti ed inspirò lentamente e profondamente. Il viso era corrucciato ma lo sguardo puntava al terreno con insistenza.
«Nessuno vuole scappare dall'unico posto in cui si può essere ciò che si è», stava proseguendo Nehroi, senza accorgersi del cambio d'umore dell'umano. «Soprattutto se poi non puoi tornare più indietro e se, facendolo, non potrai mai più essere te stesso.»
«Per questo la punizione più tremenda è l'esilio forzato. E mia madre... è stata esiliata prima che nascessi. Da allora non è mai tornata qui», concluse infine l'umano con la voce più dura che entrambi i ragazzi avessero mai sentito uscirgli dalle labbra.
Cadde uno strano silenzio tra loro, pesante, rumoroso. Era come se qualcuno di passaggio avesse lanciato un telo invisibile e nessuno fosse stato più in grado di parlare con quell'impedimento di mezzo. Phil smise di guardare il cielo e passò gli occhi castani dalla jiin al brehkisth, bevendo la loro attesa mentre pensava a cosa dire in seguito.
I loro atteggiamenti si erano parificati, senza alcuna manifestazione di noia o eccitazione.
«Perché sei qui?», domandò ancora una volta Savannah, pronunciando le parole con più significato, premendo su ogni lettera.
«Avevo dieci anni», rispose Phil ripetendosi. «Il giorno del mio compleanno mamma mi ha regalato uno strano oggetto. Sembrava un ciondolo, ma troppo grosso e pesante per essere indossato come normale gioiello. Conteneva una pietruzza rossa, tipo un rubino rovinato. Mentre lo esaminavo mi chiedeva di averne molta cura, di non separarmene mai e mi chiedeva scusa. Era il passpartout che uso per venire qui, quello che avete visto anche voi qualche tempo fa.»
«Te l'ha regalato lei, quindi... pensavo che te l'avessero dato i Capi», rimuginò la jiin. «Ma perché ti chiedeva scusa?»
«Perché non poteva più attraversare la barriera, perché lei... è stata marchiata... con quello che mio padre ha sempre definito un bruttissimo tatuaggio che avrebbe dovuto nascondere», sputò amaramente con una smorfia.
Savannah si raddrizzò e le sembrò di vedere Phil per la prima volta, comprendendo qualcosa di più su quello strano umano.
«Perché è stata esiliata?», domandò seria.
Phil socchiuse gli occhi e sospirò. «Io... non l'ho mai detto a nessuno. Qui tutti ignorano chi sia mia madre e non voglio che si venga a sapere...»
Gli occhi di Savannah erano ancora posati su di lui, ma lei non insistette. Sembrava solamente in attesa e la cosa deteriorò i nervi dell'umano. «Ha attentato alla vita del suo Capo», capitolò poco dopo, odiandosi. Anni e anni di segreto infranti da un curioso sguardo viola.
«Hai detto che era di Eastreth», ricordò Nehroi corrugando la fronte. Incrociò le braccia al petto e rimase pensieroso per qualche istante. «No, non so chi fosse il predecessore di Chawia... ma è lui, no?»
Phil annuì.
«Perché?»
«Questo non vi deve importare», troncò l'ex-consigliere scattando come una molla. «Ora sapete tutto... mi liberi? O non avete più voglia di arrivare a Norreth?»
Savannah si alzò in piedi e si pulì i jeans larghi con qualche manata, investendo il fratello con una nuvola di polvere. «Ehi!», protestò lui.
«In realtà non ci hai ancora risposto», fece notare la jiin senza curarsi del tossicchiante Nehroi. «Cosa ci fai tu qui. Sei solo un turista? Non credo. Rischi la vita rimanendo troppo tempo ad Ataklur eppure lo fai. Continuamente. Perché sei stato il consigliere di Heim? Hai anche studiato per poterlo fare?»
«Mi affascinava Ataklur e il suo modo di...»
«Perché vesti sempre da damerino?»
«Sono un avvocato.»
«Oh. Quindi hai studiato anche tra gli umani?»
Phil strinse le labbra e i suoi occhi si accesero di rabbia. «Mio padre voleva che diventassi come lui, affiancandolo nel suo studio.»
Savannah non si lasciò commuovere e rimase in attacco. «E adesso che hai realizzato il sogno del tuo vecchio sei qui a realizzare quello della mammina... ah, no, scusa. Lei non ha un sogno per te. Sbaglio? Ti ha dato modo di vivere la tua avventura e basta...o hai omesso qualcosa?»
La morsa sull'umano venne rilasciata e Phil scattò in piedi come se il terreno fosse diventato lava incandescente. Sovrastava la ragazza in altezza, quasi una spanna più alto, e i Fein Anis non l'avevano mai visto così tanto infervorato. «Vuoi sapere perché sono ancora qui? Bene! Voglio trovare il modo di farla tornare a casa, sei sconvolta? Non siamo tutti come te, egoisti che pensano solo ai propri interessi! Voglio rompere la barriera per lei, per non farla sentire più una pazza, per farla sorridere ancora! A me non importa nulla del vostro stupido mondo perfetto né della magia! Mia madre è nata qui, ha vissuto qui, è stata esiliata perché ha lottato per ciò in cui credeva, lei ama Ataklur, la ama veramente, e voglio fare di tutto per fargliela respirare e vedere e... vivere! Ancora una volta! Dannazione, è così difficile da capire?!»
Savannah sostenne il suo sguardo con altrettanta intensità, senza alcuna reazione. L'umano riprese fiato e ansimò per qualche istante. Tra il viaggio a piedi, l'aver corso per non perdere i due obbiettivi, l'essere stato immobilizzato dalla ragazza e l'aver fatto una sfuriata del genere, i suoi capelli erano completamente spettinati e alcune ciocche bionde gli pendevano fastidiosamente sulle tempie.
«Il marchio che ha addosso le impedisce di attraversare la barriera ma la vostra missione è di rompere questo blocco, no?», proseguì Phil con il fiato corto, accorgendosi di essersi scaldato molto solo in quell'istante. Si passò le dita tra i capelli ma non cambiò nulla. «Le nostre missioni possono coincidere.»
Poi un angolo della bocca della jiin, ancora contratta in un'insensibile riga dritta, si sollevò e il viso si addolcì. «Se è così... benvenuto tra noi», disse soave, come se non fosse appena stata investita da una valanga di parole infervorate.
Nehroi, ancora seduto come uno spettatore al cinema pronto alla scena d'azione, alzò un sopracciglio. «Adesso siamo un trio?», domandò confuso rivolgendosi alla sorella.
Col viso ancora colorato dal furore, gli occhi socchiusi dalla rabbia e poca aria nei polmoni, Philip Mayson si sentì sollevato. Segnò un punto a suo favore nel progetto che aveva custodito in fondo al suo cuore per tanti anni e comprese, finalmente, che le sue probabilità di realizzarlo non erano più sotto lo zero.

Dopo aver testato le sue motivazioni e dopo aver approvato il nuovo membro del gruppo, i Fein Anis lo misero al corrente dei prossimi punti da seguire.
«Per prima cosa dobbiamo andare da Meede, forse ha scoperto qualcosa di utile», gli dissero.
Avanzarono verso il percorso sicuro che l'ex-consigliere aveva suggerito loro, ma assistettero solamente all'allestimento da parte delle guardie di un altro posto di blocco, con transenne, barriere e rilevatori.
Phil scosse la testa e propose di pensare ad un piano B: nessuno dei tre sarebbe riuscito a mettere piede nella foresta senza che un plotone di guardie agguerrite li catturasse.
«Ho un lasciapassare firmato dal Capo Chawia in persona, ma non so quanto potrebbe essere utile. Mi pedinerebbero tutto il tempo, forse, e non potrei parlare con Meede», aggiunse.
L'opzione Norreth era da scartare, ormai sembrava inevitabile.
«Allora passiamo alla fase due», propose Nehroi con vivacità. «Scoprire dov'è la porta di Mjoklur»
Phil lo guardò con un'espressione mista tra l'inebetito e lo sconvolto. «M-Mjoklur?», balbettò. «Che c'entra il... sta scherzando, vero?», indirizzò alla ragazza.
Savannah e Nehroi si scambiarono uno sguardo complice e Phil si sentì fuori luogo.
«Non possiamo rompere la barriera senza Lorwaar, anche lui fa parte della missione», spiegò lei con tranquillità.
Un corvo gracchiò sopra le loro teste, volando in tondo sulla barriera che li nascondeva al mondo.
L'umano sentì un senso di inquietudine salirgli lungo la schiena rigida e scosse la testa. «Ok, devo aver sentito male», alzò una mano per scusarsi e notò che tremava vagamente. «Che c'entra il Regno dei Morti?»
Savannah ridacchiò di gusto come se Phil avesse appena detto una battuta da vero comico.
«Lorwaar è l'ultimo passaggio che ci manca, per il resto abbiamo già fatto tutto.»
Phil rimase imbambolato qualche istante rimuginando su quell'affermazione, poi il suo viso si rilassò e comprese. Gli oggetti che rubavano da una vita, l'ossessione per le Stelle e per il potere...
Silar non aveva capito niente di Savannah, non era affatto come pensava lui perché senza il quadro più grande era impossibile decifrare il codice delle sue azioni... ma ora tutto aveva un senso.
Si stupì della libertà che aveva stranamente guadagnato per scorrazzare nei loro piani come se fossero veramente una squadra, ma cercò di non sembrare troppo eccitato e si irrigidì per mantenere il controllo. Lorwaar... era un nome che non era mai comparso nel fascicolo e si sentiva incerto e a disagio ignorando quello che sembrava essere un passaggio molto importante nelle loro vite, addirittura da non avere problemi di fronte alla probabilità di poterle buttare via per andare a Mjoklur.
«Non possiamo trovare qualcun altro? Tra i vivi, intendo, non è più comodo che...», tentò ancora, ricordando di cosa stessero parlando prima che i suoi pensieri lo distraessero.
«No», troncò la jiin a viso duro.
«Ma è morto, giusto? Certo che sì, non sarebbe da recuperare laggiù... io non credo che un'anima sepolta potrebbe prendersela se non la si...»
Gli sguardi di Savannah e Nehroi erano sulla stessa lunghezza d'onda, identici e infuocati. Sembrava che ogni parola che uscisse dalle labbra dell'umano lo aiutasse a scendere sempre di più in una fossa, irrimediabilmente in pericolo. Comprese dopo troppo sproloquio che il tasto “Lorwaar” non andava neanche sfiorato.
«E Mjoklur sia», asserì l'umano con finta convinzione, pregando in silenzio per la sua vita.
Per entrare nel Regno dei Morti “da turisti”, come dicevano loro, ovvero senza morire, Phil scoprì che era necessaria una preparazione che non erano ancora del tutto riusciti a decifrare e che il libro che avevano rubato a Tolakireth potesse contenere la chiave necessaria.
«Però ce l'hanno i poliziotti», lo informò sconsolato Nehroi con un'espressione mogia. «Assieme a tutti i nostri tesori e ai ritratti...»
«Ritratti?», domandò l'umano.
«Quelli del nonno e di nostro padre», spiegò la jiin con meno desolazione del fratello. «Oltre ai vari dipinti con pittura magica che...»
Phil ridacchiò e si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli un po'. «Avete rubato pure quei ritratti di bassa lega?», esclamò divertito ed incredulo. «Ma siete davvero due criminali incalliti!»
I Fein Anis, però, non riuscirono a mostrare neanche un briciolo della sua allegria e lo fissarono torvi. «Non esistono molti altri oggetti che ci ricordano la famiglia», sibilò Nehroi con un guizzo oscuro negli occhi.
L'umano arrossì di vergogna e guardò altrove.
«Secondo il vostro fascicolo siete entrati e usciti dagli orfanotrofi in continuazione», bofonchiò poco dopo, mentre osservava distrattamente una lucertola azzurra sparire in un buco del terreno.
Nehroi annuì. «Sì», confermò.
«Posso chiedere perché la prima volta che siete stati registrati tu avevi meno di tre anni? Non c'era l'ex-Capo con voi?», proseguì l'umano. Era una successione di eventi che non era mai riuscito a capire e neanche Decra era stata in grado di spiegargli come fossero andate le cose.
Si ricordò solo un istante dopo che a New York gli avevano spiegato che odiavano il fatto che lui avesse letto il loro fascicolo e che disponesse delle loro informazioni private, ma la cosa non sembrò toccarli come l'altra volta. Forse l'aver trovato qualche pezzo del puzzle li aveva resi meno irritabili.
«È perché non sapeva gestirci», rispose Savannah con un'alzata di spalle, quel tipico gesto che poteva voler dire tutto o niente.
«Poi ci ha ripresi per pulirsi la coscienza», proseguì il fratello con altrettanta tranquillità, sebbene il suo viso si fosse rabbuiato.
«Ma è caduto nell'alcolismo.»
«Allora siamo stati rispediti indietro.»
«Per riprenderci ancora finché non è morto», aggiunse lei in tono grave.
«Siamo stati presi di nuovo dagli istitutori...»
«... ma siamo fuggiti», continuò Nehroi con un sorriso furbetto.
«E siamo andati sulla terra perché non ci prendessero più.»
Il viso di entrambi si spense per un attimo. «Peccato per il tempo limite di permanenza...»
Phil non aveva mai assistito ad un dialogo così diviso tra due persone, come una partita di ping pong, e per un attimo immaginò di avere a che fare con due gemelli. «Sareste rimasti là?», domandò quando fu certo che lo scambio di pezzi di frase fosse finito e che non avrebbe infranto alcun idillio fraterno parlando.
Annuirono contemporaneamente e con la stessa triste espressione. «Almeno lì i bambini orfani non sono trattati come animali», commentò Nehroi con un filo di voce. «Ma adesso dobbiamo andare al maniero fantasma di Feinreth, dove sono custoditi un po' di libri interessanti.»
Phil alzò un sopracciglio. «Avevo sentito dire che era un bordello abbandonato e infestato», fece notare con scetticismo.
Nehroi allargò le braccia e fece un gesto vago con la mano, indicando distrattamente la direzione da seguire per raggiungere la regione desertica, nascosta oltre la foresta. «Beh, il nonno aveva degli strani nascondigli per le scoperte delle sue ricerche. Ci aveva fatto sudare anche solo per fargli dire dove tenesse il “grande archivio”, come lo chiamava lui, e non hai idea di quanti mesi... sì, mesi, quanti ne abbiamo passati a spulciare volume per volume tutti i volumi di quella dannata biblioteca a New York! Per fortuna non era una grande, o non saremmo qui adesso. Non tutti sanno quanto fosse appassionato di storia e mitologia, già. Come Silar ma...»
«Ma meno noioso», concluse Savannah saltellando di fronte a loro due. Aveva un sorriso radioso e persino avvolta in quel logoro mantello era una visione speciale, immersa nel sole dorato del tramonto steso di fronte a loro, gentilmente appoggiato sull'orizzonte. «Forza, si parte!»
I suoi occhi brillavano di speranza e di eccitazione.



*-*-*-*



E io piango.
No, non capireste mai... a meno che non rileggiate questo commento dopo aver letto il prossimo capitolo, quindi no e basta ^^
… sono crudele, ossignur ma perché sono così crudele? Sigh.
Anche solo perché vi sto facendo incuriosire, certo u.u
Ahahah!

Tra l'altro è una fortuna che avessi già scritto questi ultimi capitoli e anche i prossimi meeeeeesi fa, con tutti i casini che mi stanno capitando in questo periodo non avrei più aperto neanche il file! xD

E quindi abbiamo scoperto un pezzo molto significativo della vita di Phil! Contente? :) Era da millanta capitoli che lo si aspettava... MA abbiamo anche scoperto un altro tassello, Lorwaar! Che, detto tra noi, sono sicura nessuno dei lettori si sia mai filato sebbene lo abbia sparso in una frase qui, una là, già dal primo capitolo... ma senza mai troppa importanza. Ora ne ha! E ne avrà un botto più avanti! Ma non corriamo, perché poi piango di nuovo. Ripensiamo solamente a ciò che devono fare i nostri eroi adesso, che è già abbastanza xD

Alla prossima ^^
Ciao!

Shark <3

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Capitolo 36
*** Rosa del Deserto ***


Capita che arrivino capitoli così. Quelli densi che vertono in un senso e poi nell'altro e poi nell'altro ancora, appiccicandosi al lettore come cozze finché non gli fa male. O almeno, questo è quello che cerco disperatamente di creare da mesi... Suonerà strano ma spero di ferirvi almeno un po' ^^
Questo capitolo è nato a fine Febbraio, pensate un po', e non mi farà meritare il Nobel ma spero che faccia la sua figura. Lo sto curando da allora, ogni tanto apro il file e ci aggiungo una parola, sistemo una frase, curo un dettaglio visivo... è un figlio difficile, come anche il fratello che lo seguirà.
Sto scrivendo le NdA in alto e non in basso, già, e chi conosce le mie long sa che lo faccio non perché ho voglia di blaterare prima ma per non distrarvi dal finale... insomma, se ci lavoro tanto non voglio rovinarmelo scrivendo scemate giù! xD Ma non potevo neanche non commentare nulla perché sono una rompiscatole, vi ho fatto tanta aspettativa e spoiler e blablabla e quindi sto sclerando. No, non volevo dire questo ma credo di avervi messo in un buon assetto per leggere in maniera consona il capitolo, quindi... via alle danze! ^^
Che la terza saga abbia inizio!! *si nasconde nel bunker*




36
Rosa del Deserto



Una pianura si stendeva delicata, verde e luminosa, solcata dai riflessi del sole che accendevano i fili d'erba striando il manto come una vena bianca che ondeggiava. Il vento era fresco e dolce e lo aveva colpito come un pizzicotto, facendogli arricciare il naso.
«È la magia», aveva detto la donna alle sue spalle, chinandosi verso di lui per arrivare alla stessa altezza. La coda chiara pendeva dolcemente sulla sua spalla destra, morbida e profumata.
Negli occhi castani del bimbo si specchiava il nuovo mondo che aveva di fronte, appena oltre quella strana parete rocciosa che in qualche modo era diventata un velo trasparente. Laggiù, dove la pianura smeraldina finiva, c'era una striscia irregolare con delle frange che puntavano verso il cielo, appena più scuro di quelle sagome irregolari.
«Quella è la città da cui provengo», aveva proseguito la donna con la voce calda che l'aveva sempre caratterizzata. «La mia...»
Si era morsa la lingua mentre pronunciava il suo nome, come se non potesse non provare dolore anche solo ripensandoci. Il suo viso, però, era radioso, rassicurante.
«Eastreth?», l'aveva aiutata il piccolo, riuscendo finalmente a staccare gli occhi da quella strana terra.
Le loro mani si erano intrecciate come tante volte prima di allora ed entrambi avevano provato calore e benessere. Poi il bambino aveva fatto un passo avanti, titubante, fino a far penetrare la punta della scarpa da ginnastica oltre il velo. Non aveva provato nulla, come se avesse attraversato l'aria.
«Coraggio.»
Aveva seguito tutto il piede, poi un braccio, la gamba, parte del busto. Sembrava incredibile il calore e la gioia che riempivano il suo piccolo petto, sovraccaricandolo di emozioni. Si era voltato ancora verso la donna, sorridendo fino a scoppiare di felicità, e pure lei sembrava il ritratto della gioia.
Aveva varcato il velo con la testa, l'altra spalla, l'altro braccio. Mancava solo la mano destra, quella che stava ancora stringendo la presa con l'adulta.
«Mamma?», aveva domandato quando, con stupore, aveva sentito venir meno quel contatto, scivolato via come seta.
La donna era dall'altro lato del velo, con le dita toccava quello che sembrava essere un muro trasparente, incapace di attraversarlo come il piccolo. L'aveva colta un singhiozzo, subito dopo, e si era stretta le braccia attorno al busto come se provasse un gran freddo.
Teneva il capo faticosamente alzato. Gli occhi erano umidi.
«Mamma perché non vieni?»
«Non posso, piccolo mio. Scusa. Il Fiore Nero, ricordi?»
«Ma...»
«Poi mi racconterai com'è, d'accordo? Vai, divertiti, io... ti aspetto qui. Ti voglio bene, Gordon. Non scordarlo mai.»


Phil non era mai riuscito a scordare neanche un istante di quel suo primo passaggio nella splendente Ataklur. Dallo stupore del piccolo sé alla felicità mista a dolore della madre, tutto era rimasto incredibilmente scolpito nella sua mente per diciotto lunghi anni, come se l'avesse appena vissuto.
Davanti a lui adesso c'erano sassi, terra brulla; alle sue spalle una foresta in lontananza che non avrebbe attraversato più e due fuorilegge pericolosissimi non lo lasciavano da solo neanche per un istante.
Non era andato niente come previsto, ma perlomeno era ancora vivo. Forse avrebbe dovuto sprecare un centimetro di Carta Chiacchiera e riferirlo allo zio, pensò con un mezzo e vago sorriso.
«Sono due giorni che cammini a rilento», brontolò Nehroi comparendo alle sue spalle come un ninja. Phil sussultò e il suo battito accelerò di colpo mentre il ragazzo rideva di gusto.
«Mayson, Mayson, Mayson... non fa bene essere sovrappensiero mentre sei ricercato, lo sapevi?», lo canzonò non appena smise di ridere come un matto da sotto il mantello che lo copriva completamente.
L'umano sbuffò ed allungò il passo, cercando di raggiungere la jiin e di distaccarsi abbastanza dal brehkisth.
La ragazza lo guardò sottecchi. «A meno che tu non voglia rallentarci», ipotizzò beffarda con quel tono che l'uomo odiava sopra ogni cosa.
«Ancora dubbi?», sbottò irritato. «Cosa vuoi che ti dica per farti fidare di nuovo di me? Non so davvero dove sbattere la testa!»
Il viso di Savannah si illuminò sotto il cappuccio non appena iniziò a ridacchiare e soffiare dal naso per trattenersi. «“Di nuovo”?», sottolineò. «E chi si è mai fidato prima? Tu?», indirizzò al fratello.
Quello fece spallucce e li raggiunse.
«Coraggio», continuò la jiin prima che l'ex-consigliere potesse replicare alcunché. «Troveremo un modo di metterti ancora alla prova, stai tranquillo.»
Phil alzò gli occhi al cielo e si massaggiò la spalla dolorante. «E perché questo mi dovrebbe tranquillizzare?»
Stavano percorrendo il confine tra Norreth, Lagireth e Feinreth, un triplice punto in cui gli arbusti della regione degli alberi lambivano sospettosi le rocce della terra delle montagne e la sabbia della regione del deserto, in un'unione che univa spiriti completamente diversi tra loro, ma che condividevano quei pochi metri.
Superati quelli, quando l'ultima foglia verde smette di crescere per centinaia di chilometri fino ai confini del mondo, correva il placido Rarom, fiume basso e largo, azzurro come il cielo in superficie e nero come le viscere della terra sul letto. Affiancava le Basse Montagne, la linea di cime di piccole dimensioni che circondavano il cuore roccioso di Lagireth, dividendola dalla Landa Desolata, la prima regione sabbiosa di Feinreth, le cui uniche forme di vita erano scorpioni e cactus rinsecchiti.
«Invitante», commentò Phil non appena quell'insolito panorama gli comparve di fronte agli occhi, coperti da una mano tesa a mo' di visiera. Il sole era incredibilmente più luminoso e caldo, lì, come se non fosse lo stesso che li aveva seguiti nei giorni precedenti e li volesse accogliere degnamente perché stavano entrando nel deserto.
«Se vedi un buco per terra è una tana e non devi calpestarlo», lo informò Nehroi con la serietà di una guida esperta. «E non perdere neanche tempo a cercare di capire di quale animale è, potresti finire mutilato o avvelenato prima di vederlo.»
Si era sfilato la tracolla di dosso e stava trasformando la maglietta in una specie di bandana, rimanendo a torso nudo, mentre il mantello spariva nel nulla.
«Perché non lo tenete addosso?», domandò Phil con curiosità. «Così le probabilità di bruciarsi sarebbero...»
Savannah sbuffò. «Non sono mantelli reali, li ho fatti io con la magia solo per passare inosservati. Non posso mantenerli anche nel deserto, mi prosciugherebbe...»
L'umano rimase sorpreso nel vedere l'enorme il tatuaggio del sigillo della maledizione che percorreva tutto il fianco del brehkisth, dal bacino al petto, fino ad attorcigliarsi sul cuore, rosso come sangue essiccato. Non poté non ripensare a quello che aveva visto sul corpo della madre, che la ricopriva tutta, e provò rammarico.
Nehroi bagnò il tessuto nel fiume, che diventò improvvisamente scuro come la notte, e se lo mise in testa mentre Phil pensava quelle cose. Anche Savannah si era tolta la maglietta e stava arrotolando i pantaloni sopra il ginocchio mentre il fratello dispensava consigli al neofita delle traversate dell'oceano giallo.
Phil la seguì con lo sguardo fino al fiume e fu allora che notò le cicatrici provocate da tagli, bruciature e cuciture maldestre. Le percorrevano tutto il busto come uno strano tatuaggio chiaro, sull'addome come sulla schiena, sulle braccia come sulle gambe, che l'avevano colpito nelle serate eleganti a Tolakireth, quando la jiin indossava la gonna. Un taglio verticale dall'aria mortale sbucava da sotto la spallina del reggiseno e fece rabbrividire l'ex-consigliere, che si perse nell'immaginarne la causa.
Si accorse che non avrebbe dovuto fissarla troppo solo quando Nehroi gli schioccò due dita di fronte alla faccia, scuotendolo dai suoi pensieri. «Mi stai ascoltando?», gli domandò con un tono scocciato che allarmò l'umano.
«Non toccare la sabbia», rispose come in trance, cercando l'ultima parola che credeva di aver sentito. Si sentì come un ragazzino distratto al liceo, ma Nehroi annuì e Phil si sentì sollevato.
«Copriti anche tu la testa», lo liquidò con un cenno della testa verso il fiume, mentre armeggiava con la borsa a tracolla. L'umano iniziò a sbottonarsi la camicia, sentendosi a disagio in quella strana compagnia di viaggio: la sua pelle era bianca e senza alcun segno particolare, sporcata solamente dalla bruciatura di Savannah sulla spalla e da qualche pelo biondiccio che non aveva alcuna storia da raccontare e questo lo faceva sentire un bambino, più nudo degli altri. Il brehkisth aveva pure un fisico da vero avventuriero e Phil quasi si vergognò nel vedere che il suo torace smilzo era paragonabile a quello della jiin, una ragazza, che non a quello di un uomo persino più giovane di lui.
«Bagnala e poi trova il modo di tenerla in testa», proseguiva Nehroi senza interruzioni mentre si aggiustava la tracolla e ne cercava qualcosa all'interno. «Se ti bruci la pelle va bene, ma se prendi un'insolazione sei finito perché è una cosa che Annah non sa curare. E riempi la borraccia, non si può entrare nel deserto senza acqua, sarebbe da...»
«Non ne ho una», confessò l'umano interrompendolo.
Nehroi rimase a bocca aperta ancora per qualche istante, come se stesse cercando la parola che Phil gli aveva rubato. «Da cretini», concluse poi in un soffio.
Savannah estrasse la sua maglietta dal fiume e la posò su una roccia sull'argine, lasciandola immersa per metà, poi si addentrò per un paio di metri nel deserto e si chinò sulla sabbia, come se avesse visto qualcosa di interessante da raccogliere.
Fece dondolare le dita sui granelli, sollevandone alcuni, poi li fece roteare in un piccolo e rapido vortice, per pochi istanti. Una rozza e spigolosa bottiglia di vetro comparve tra loro, riempiendo i tre ricercati di riflessi di luce.
«Tieni», la lanciò a Phil dopo averle strozzato un po' il collo, allungandolo. «Cerca di non romperla.»
L'umano prese al volo la sua nuova borraccia e la rimirò come se fosse un'opera d'arte. «L'hai fatta tu», sussurrò incredulo. Sebbene fosse a contatto con la magia da molti anni, si sentiva sempre affascinato nel vedere cosa fosse in grado di creare.
Savannah fece spallucce mentre raccoglieva i capelli neri in uno chignon strettissimo, poi si sistemò la maglietta bagnata in testa, annodando le maniche tra loro.
Affiancata da un Nehroi contento dalla scoperta di un ramo abbastanza alto da fargli da bastone e da un Phil che li seguiva con passi pesanti che affondavano nella sabbia rovente e con la sua nuova bottiglia appesa alla cintura, iniziò ad avviarsi verso l'oceano giallo.
Il cielo sopra le loro teste coperte era un manto uniforme, di un blu splendente e potente, rotto da un sole dirompente che sembrava voler salutare i Fein Anis con abbracci di luce che lambivano la loro pelle, scurendola come nell'infanzia.

I piedi bollivano nelle scarpe come se invece fossero pentole, rendendo ogni passo pesante e difficile. Nonostante ciò, sempre più metri di deserto rimasero striati dal solco di quelle tre persone che si ostinavano ad avanzare, senza soste, in silenzio per non sprecare troppe energie.
«Siamo stati lontani da casa per troppo tempo», disse comunque Nehroi, un attimo dopo aver aiutato la sorella a rimanere in piedi dopo aver incespicato in una piccola duna.
«Manca l'allenamento», gracchiò lei con la gola arida come la Landa.
Phil accelerò faticosamente il passo e li raggiunse costellando la sabbia di gocce di sudore. Tutti e tre sembravano ghiaccioli che si scioglievano al sole. «Non potresti fare qualche magia per... non so, fare ombra o...», propose debolmente mentre si passava stancamente la mano sul viso, liberando le palpebre dal sudore e riuscendo ad aprire gli occhi di qualche millimetro in più, prima di rimanere accecato dal sole.
Fece comunque in tempo a vedere lo sguardo truce di Savannah, un'occhiata talmente potente da poter essere messa per iscritto. Schiuse le labbra per rispondergli a tono ma la sola idea la stancò e preferì non sprecare alcuna energia parlando, certa che l'umano avrebbe capito perché non ne avrebbe sprecate neanche e soprattutto facendo magie.
«Non avete paura a... a viaggiare così, senza protezioni? Le guardie potrebbero vederci, siamo completamente privi di...»
Savannah sbuffò sonoramente e si voltò verso di lui con stanchezza. «Adesso è l'umano a darci ordini? Sei parte del gruppo, cerca di non essere troppo irritante o torni da dove sei venuto!», sputò inalberata, con un certo colorito sul viso. «Siamo cresciuti qui, sappiamo benissimo tutto ciò che c'è da sapere su questo deserto e soprattutto sappiamo che le guardie non si addentrano mai, mai!, fin quaggiù! Se hanno problemi delegano alle guardie delle regioni vicine che aspetteranno al confine, nessuno mette piede fuori dalla città...»
«Quante volte avete attraversato il deserto?», domandò poi Phil, cercando di allentare la tensione e di svagare la mente dal pensiero dell'insolazione. Giurò di aver visto due scorpioni neri e molto più grandi di quelli che aveva visto nei documentari, ma la visione lo raggelò abbastanza da impedirgli di dire nulla finché non scomparvero oltre una duna.
Il brehkisth sospirò stanco e passò un braccio attorno alla vita della sorella, raddrizzandola. «Un po'», rispose.
«La prima volta quanti anni avevate?», insistette l'umano cercando disperatamente di non pensare a quante e quali creature mortali scorrazzassero sotto i suoi piedi. Iniziò anche a sudare freddo, come se il sole non facesse già abbastanza.
«Forse dieci.»
Phil fischiò colpito. «Complimenti, un'impresa incredibile!», esclamò veramente sorpreso, immaginando quelle stesse fatiche sopportate da due bambini. Lui a quell'età era arrivato a pezzi a Eastreth attraversando solamente una pianura, un deserto sarebbe stato decisamente fuori dalla sua portata.
«La prima volta abbiamo avuto un colpo di sole e stavamo morendo», specificò Savannah mentre ruotava la testa guardinga, in cerca di qualcosa di sospetto.
«La seconda avevamo troppa paura di finire come la prima», proseguì Nehroi scrollando le spalle. Lo sguardo curioso di Phil gli fece proseguire la frase. «Svenuti nella sabbia con avvoltoi pronti a mangiarci. Non so dirti com'eravamo conciati ma ci abbiamo impiegato molte settimane per riprenderci.»
«Ma alla fine ce l'avete fatta», concluse l'umano con un sorrisetto fiero. “Incredibile”, pensò.
Savannah squittì ed alzò un braccio per creare una barriera attorno a loro, ma non fece in tempo.
Si levò una folata di vento che li avvolse come una coperta di fuoco, sollevando un mulinello di sabbia e costringendoli a fermarsi per molti minuti, con le mani sul volto e rannicchiati su loro stessi come tartarughe.
“Formazione a tre”, l'aveva definita Nehroi quando stava spiegando le regole per sopravvivere all'umano, e in quel momento di difficoltà si radunarono in un piccolo cerchio, le teste vicine per cercare di coprirsi a vicenda; il vento non smetteva di soffiare e il cielo era arancione come la terra.
Savannah cercò ancora di creare una barriera attorno a loro, ma la sabbia sembrava indemoniata e le lacerava con crudeltà ogni tentativo, indebolendola e lasciandoli esposti.
Urlò di frustrazione e cercò di chiamare a sé ogni energia, rivolgendola in quella difesa ormai disperata, mentre i primi rivoli di sangue scorrevano lungo le loro schiene sfregiate dal vento e dai granelli taglienti come lame.
Poi, come era cominciato, tutto finì. In pochi istanti la sabbia crollò a terra, il vento si placò, il cielo tornò limpido.
I tre viaggiatori rimasero paralizzati per qualche secondo, increduli per ciò che era successo. I loro cuori battevano tanto che credettero di poterli vedere pulsare a occhio nudo e la sabbia rovente gli si era attaccata addosso, incollata dal sudore.
Se la scrollarono con lentezza, cercando di non ferirsi ulteriormente, ma molti granelli scivolarono lo stesso nei tagli aperti e a tutti e tre scapparono alcuni gemiti degni di un malcapitato in un cespuglio di rovi.
«Che è successo?», domandò Phil confuso, tastandosi la spalla pulsante di dolore.
Alzò lo sguardo verso i due fratelli, una chinata a respirare a bocca aperta e l'altro intento a pulirsi la faccia, ma fu quello che avevano alle spalle che fece sgranare gli occhi all'umano.
Phil scattò in piedi e si guardò attorno.
Tante lampadine appuntite e azzurre che si confondevano nel cielo formavano un cerchio quasi perfetto, illuminando divise scure e rigide. I bastoni scintillanti, Vaìn pronti all'attacco e puntati contro di loro. Un centinaio, forse due. Troppe Stelle blu per chiunque.
«Guardie», soffiò l'uomo esalando l'ultima aria che quello shock gli aveva lasciato in corpo.
Erano circondati.

Un generale avanzò verso di loro con implacabile passo marziale, come se riuscisse ad ignorare la sabbia ai suoi piedi e non avesse difficoltà a solcarla con quei grossi e pesanti stivali.
Si tolse il cappello rigido ad una decina di metri dal gruppo di prigionieri, quando fermò il suo passo marziale. Sotto quei corti rossicci si stagliava il volto chiaro di Fazil Menthis, il braccio destro del capo delle guardie di Ataklur. I Fein Anis imprecarono all'unisono quando lo riconobbero.
«Per i crimini commessi contro la popolazione e la terra di Ataklur! Per la morte dell'onorevole Kin e della jiin Goon! Per la distruzione del Bianco Palazzo! Per le profanazioni e i furti, le estorsioni e i danneggiamenti a cose e strutture, Krajal Savannah!», tuonò scuotendoli con una voce più potente di quanto avessero immaginato, tirando il viso arrossato dal sole con crudeltà. «Su ordine unanime dell'Alto consiglio dei Capi ti dichiaro in arresto!»
Nehroi si erse in tutto il suo metro e novanta e Savannah si alzò poco dopo, sorreggendosi a lui. La mano scivolò sul suo fianco e in pochi istanti il tatuaggio rosso del fratello scomparve come acqua.
Il generale Menthis estrasse una spada azzurra e luminosa, forgiata con le stesse Stelle Blu che splendevano sui Vaìn dei suoi soldati e lo tese di fronte a sé. L'espressione su quel giovane volto era dura e severa, pronta a combattere.
Non appena anche l'ultimo segno del sigillo di Nehroi scomparve, tutta la cerchia delle centinaia di guardie si chinò in avanti, pronta a sferrare un attacco con le armi sempre puntate sui due fuorilegge. In attesa di un ordine, trasformarono l'aria in un miscuglio irrespirabile di terrore e tensione.
«Troppo strano non aver trovato intralci fin qui», commentò amara la jiin mentre si toglieva la maglietta da sopra la testa per muoversi meglio e la gettava a terra. Un paio di ciuffi si liberarono dalla presa dello chignon e le si appiccicarono al viso sudato come una cornice.
Scoccò un'occhiataccia all'ex-consigliere mentre si aggiustava la spallina del reggiseno e scrollò le spalle per tranquillizzarsi. Avrebbe pensato dopo a lui e ad un eventuale tradimento da parte sua, si disse non appena iniziò ad elaborare rapidamente qualche strategia per uscire da quella situazione orribile.
«Vuoi combattere?», domandò Phil con gli occhi sgranati. Forse per il vento di poco prima o per l'adrenalina che quella situazione gli aveva iniettato nel corpo, la sua voce era roca e flebile.
Nehroi inspirò e rilassò i muscoli, cercando di estendere in fretta la maledizione immaginando un manto enorme. Sospirò non appena ci riuscì e una grossa goccia di sudore gli scivolò lungo le tempie per lo sforzo di non toccare anche la sorella, danneggiandola senza motivo. «Ad ogni modo, contro i Vaìn sono inutile», constatò desolato passandosi la mano sul viso, ancora pieno di granelli di sabbia. «Sarebbe fantastico se usassero la magia ma...»
«Le Stelle blu mangiano la magia ma ne sono fatte a loro volta, puoi non essere inutile. E comunque l'importante è avere un'arma in più a disposizione, non si sa mai cosa può succedere», snocciolò rapida Savannah, gli occhi costantemente fissi su Menthis e sulla sua spada azzurra. Non avrebbe dovuto permettergli di sfiorarla neanche per un istante, o sarebbe stata in guai molto seri. Solo una volta era stata ferita da un Vaìn, un graffietto da niente che ci aveva messo mesi a guarire del tutto. Abbassò lo sguardo sull'addome insabbiato in cerca del segno che le era rimasto.
«Perché arrestano solo te?», soffiò Nehroi con irritazione, sentendosi orribile. «Io ho causato tutto il casino a Tolakireth!»
«Ma io ho distrutto e ucciso, per loro la responsabile è chi ha materialmente fatto...»
«Non dovrebbero avercela con me perché ho ingannato Nekkis?», esclamò indicando anche il secondo galoppino del capo delle guardie, lo scuro Ur Kal, tra le fila della muraglia di soldati che li circondava. «Era tradimento!»
Savannah alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Va bene, se fai il bravo dopo gli chiediamo di arrestare anche te. Contento?»
Ad un cenno del braccio di Kal, la cerchia delle guardie avanzò ancora di qualche metro, imperturbabile sotto il sole cocente e sulla sabbia fastidiosa, in un muro di divise marroni, beige e grigie che si stringeva implacabile come un cappio attorno ai due fuorilegge.
Phil fece un passo indietro e si separò da loro. Ricevette due occhiatacce, non scandalizzate ma deluse. Ferite. Sorprese? Quella della jiin mostrava un velo di rassegnazione.
L'umano abbassò lo sguardo e si allontanò di un altro passo.
«Krajal», tuonò nuovamente il generale Menthis, avanzando a sua volta. La spada di Stella blu sempre alzata di fronte a sé, pronta a scattare e affondare. «Vogliamo solo arrestarti, non c'è motivo di rendere tutto più difficile.»
«Non siete un po' troppi per un arresto?»
Il rosso tirò un angolo della bocca e ridacchiò.
Una guardia alle sue spalle fece tintinnare pericolosamente catene azzurre come i Vaìn, lascive lungo il suo corpo robusto fino ad affondare pesantemente nella sabbia. Indossava dei guanti spessi come quelli di Menthis e i Fein Anis non se lo lasciarono sfuggire.
«Sono jiin», sussurrò Nehroi all'orecchio della sorella. In un fulmineo flashback rivide la serata in cui avevano giocato ad avvicinarsi alla maledizione, ma non riuscì a ricordare che reazione avevano avuto i due soldati di Nekkis.
Lei schioccò la lingua contro il palato e lo guardò con ottimismo. «Le possibilità aumentano.»
Eresse finalmente la barriera che voleva fare da ormai troppi minuti, ma il generale balzò in avanti e la lacerò con un colpo secco. La jiin rimase pietrificata per qualche istante, sconvolta dalla rapidità con cui la magia le era stata strappata via mozzandole il respiro; con gli occhi fissi sulla lama blu a pochissimi centimetri da lei, sentì la mente svuotarsi e paralizzarsi.
Nehroi balzò come un felino addosso a Menthis, con una mano gli abbassò il braccio armato e con l'altra gli premette sul volto. Ruzzolarono entrambi a terra, ingaggiando un corpo a corpo agguerrito e violento. Il generale cacciò un urlo di dolore non appena la maledizione lo toccò ed iniziò a contorcersi, ma non per questo smise di lottare con il brehkisth e gli assestò un potente pugno sulla mascella. La spada azzurra scivolò dalle sue dita e Savannah recuperò lucidità.
Si chinò a creare una voragine nel terreno, seppellendo per sempre quella spada pericolosa, poi creò nuovamente la barriera protettiva e si alzò in piedi per correre anche lei verso Menthis, pronta a farlo fuori e a ricambiare il favore di Nehroi, ma piccole punture e pizzicotti lungo tutto il corpo la distrassero e fermarono. La barriera si infranse nuovamente, perforata da troppi Vaìn, molti di più del record che aveva stabilito a Tolakireth neanche due mesi prima.
Savannah cadde carponi, ansimante, troppo lontana da Nehroi per aiutarlo e troppo spiazzata da quella nuova perdita di magia per poter reagire subito. Prese un profondo respiro e riuscì a destabilizzare tutte le guardie che la circondavano simulando faticosamente un terremoto nella decina di metri che li separava, facendo cadere anche loro nel terreno.
La jiin gemette e si portò una mano al petto: una fitta la stava lacerando dall'interno e il dolore era insopportabile. Alzò gli occhi al campo di battaglia e si sentì peggio.
Troppe guardie, troppi Vaìn. Non sarebbe riuscita a liberarsene neanche se avesse di nuovo tutte le energie. Quello non era un mandato di cattura, era la pianificazione di un massacro.
In un fugace istante vide un nuovo squadrone scendere dalle dune a passo di marcia, guidato all'attacco da Ur Kal e dal fuoco nei suoi occhi. Urlava qualcosa ai soldati, indicazioni o forse incitamenti, ma la jiin non ci diede peso.
Nehroi assestò un poderoso pugno sulla tempia del rosso e finalmente riuscì a concludere la sua lotta, sorridendo vittorioso sul corpo immobile. Il ragazzo aveva uno zigomo sanguinante e il labbro rotto, si tastò una costola gemendo ma si sentiva ancora fresco ed attivo come se non avesse appena finito una scazzottata.
«Fuori uno», disse alla sorella un attimo prima di portarsi una mano al fianco, nascondendo il punto in cui Menthis lo aveva pugnalato con un coltellino per non farla preoccupare.
Savannah sorrise appena, poi corrugò la fronte e si voltò fulminea verso Phil, scoprendolo circondato da guardie dall'aspetto minaccioso.
Le sue gambe scattarono da sole, senza ascoltare le proteste dei muscoli o del cervello, e scavalcarono le guardie che aveva fatto sprofondare nella sabbia con il piccolo terremoto. La fitta nel petto si allargò e il respiro accelerò fino a farla andare in iperventilazione, ma non smise di correre verso di lui, neanche quando la vista iniziò ad annebbiarsi e gli arti divennero più pesanti della pietra. Umano o jiin, quei Vaìn rimanevano delle lance pericolosissime e lo avrebbero ferito o ucciso sicuramente.
«Phil!», avrebbe urlato a pieni polmoni, ma dalle labbra rosee e screpolate uscì qualcosa più simile ad un ruggito selvaggio.
Savannah strinse entrambe le mani e impugnò l'aria, compattandola come due bastoni. Immaginò che fossero le impugnature di due fruste e la magia realizzò il suo pensiero, facendole stagliare tra l'azzurro del cielo e il giallo della sabbia. Erano sottili ma robuste, nere come l'angoscia, e saettarono verso le guardie attorno all'umano più veloci di un fulmine. L'aria vibrò e il rumore secco del colpo spaccò l'atmosfera colma di grida di incitamento e di gemiti.
Una frusta si arrotolò alla vita dell'ex-consigliere, l'altra schioccò contro le guardie e le sbalzò via con le divise squarciate.
Phil venne scagliato nella sabbia rovente qualche metro più in là, dove la frusta lo liberò, e rimase rannicchiato nel punto in cui aveva finito di rotolare con gli occhi spalancati dall'adrenalina e dal terrore. Non c'era posto dove nascondersi, non poteva combattere, era solamente di peso. Ficcò una mano in tasca e strinse la piccola Stella che la principessa Chawia gli aveva fornito, ma non riuscì a pensare minimamente a cosa avrebbe potuto farci.
Savannah scoccò nuovamente un colpo di frusta verso le guardie, allontanandole come bestie feroci, ma colpì un Vaìn e la sua arma si distrusse in uno stridio che fece accapponare la pelle ai presenti. L'effetto anti-magico della Stella blu percorse a ritroso tutta la frusta come una scossa elettrica e le attanagliò un braccio. La jiin tremò vistosamente e contrasse il viso in una smorfia mentre le sue armi sparivano nel nulla.
Il secondo squadrone era giunto in soccorso del generale Menthis, tutte le guardie sul perimetro del campo di battaglia si avvicinarono ancora un po' ma l'energia dello scontro iniziò a scemare non appena la jiin cacciò un urlo di dolore ed arrancò a fatica verso l'umano, inciampando nella sabbia. Suo fratello, a metri di distanza, cercò di allontanare le guardie da loro due estendendo ancora di più la maledizione, contraendo i muscoli fino a sentirli tirare tanto da spezzarli, ma il suo sforzo immane non ebbe quasi alcun effetto: troppi pochi jiin tra le loro fila. Esalò esausto e ritrasse il suo stupido potere non appena vide gli occhi ormai rosa di Savannah guardarlo supplici.
Alcune guardie alzarono i pugni vittoriosi, ma la maggior parte rimase in posizione di attacco con i Vaìn abbassati.
Un arciere delle guardie, poco più che un ragazzino ma con l'aria di chi aveva già visto abbastanza battaglie, sbucò da fuori le retrovie e si portò verso il fulcro dello scontro. Incoccò la sua freccia e si piegò su un ginocchio per prendere la mira. La punta azzurra risplendeva come un diamante.
Nehroi corse verso di lui a braccia aperte e liberando la maledizione dal suo corpo come un mantello o un paio d'ali, sperando che reagisse come Menthis e di non colpire di nuovo per sbaglio sua sorella. Quell'arciere portava dei guanti, forse avrebbe potuto...
La freccia scattò nell'aria potenziata da una scia luminosa di magia e schizzò velocissima verso il ragazzo, puntata dritta al suo cuore. Il brehkisth sorrise soddisfatto e non si spostò. «Mancato!», esclamò quando la traiettoria venne deviata dal suo potere anti-magico e la freccia scartò di lato, oltre le sue spalle.
Il soldato, però, non sembrò abbattuto. Sorrise, e Nehroi ebbe un'orribile sensazione.
Si voltò. La freccia non era andata a vuoto.
Savannah boccheggiava in un suono strozzato mentre le dita sottili e tremanti cercavano il legno della freccia per estrarla dal collo.
Kal soffiò furioso dalle narici ed imprecò, poi si rigirò la spada in mano e pugnalò l'arciere al cuore con un colpo secco e rabbioso. Nessun soldato fece qualcosa per impedirlo né fiatò.
Nehroi corse rapido come il vento, ma il suo spirito lo faceva pesare come piombo. Le gambe erano scattate ancor prima che lui potesse realizzare la gravità della situazione: lo fece lungo il tragitto, mentre la figura colpita si ingrandiva ad ogni passo di più. Gli occhi viola si spalancarono increduli e il brehkisth si sentì morire.
Savannah sputò fuori tutta l'aria che aveva nei polmoni e tossì sangue tra fitte lancinanti.
Non sentì più le gambe, le braccia, la pancia e la testa pesava vuota. Vacillò, perse l'equilibrio.
I suoi occhi vagarono inermi sul mare giallo del deserto e un puntino scuro diventava sempre più grande man mano che si avvicinava verso di lei.
Nehroi tagliò gli ultimi metri in scivolata e prese la jiin al volo mentre cadeva al suolo, prima che toccasse la sabbia rovente. «No!», urlò nel polverone che aveva sollevato.
Tuffò una mano dietro il suo collo per sorreggerle la testa e il respiro gli si mozzò quando le dita sfiorarono la punta della freccia, sotto la nuca.
Le sfiorò con la mano tremante la clavicola destra e la punta della freccia incastrata pochi centimetri accanto, a contatto con l'osso. La ferita si illuminò non appena il Vaìn iniziò a mangiare la magia dal corpo di Savannah; Nehroi afferrò il legno ed estrasse l'arma con un colpo secco, gettandola poi nella sabbia come se pungesse. La Stella blu si spense, ma il viso della jiin si accese di smorfie di dolore.
“La mia maledizione!”, pensò il ragazzo in un fugace istante, però non riuscì a staccarsi da lei neanche sapendo che il suo contatto non sarebbe stato per niente d'aiuto. Premette una mano sulla ferita cercando di tamponare il flusso rosso che macchiava vestiti, pelle, capelli, tutto, riversandosi ovunque come un fiume in piena e senza argini. Le gocce che scivolavano sul suo petto tingevano il reggiseno e solcavano la sabbia rimasta sull'addome, mentre quelle che cadevano dalla nuca si incastonavano tra i granelli dorati come rubini liquidi.
Savannah alzò gli occhi con un debole scatto, incatenandoli a quelli del fratello mentre lui blaterava cose confuse, supplicandola: non mollare, resta con me, ce la farai, non è niente, resisti., guardami...
La mano della jiin cercò di tendere verso il viso di Nehroi ma non arrivò neanche a sfiorargli una guancia. Cadde nella sabbia, pesante come un sasso, portandosi con sé la luce di quegli occhi viola ormai immobili, opachi, spenti.
Nehroi scosse la testa e la accarezzò dolcemente, doveva svegliarla, non poteva addormentarsi lì, sapeva come sarebbe andata a finire e non l'avrebbe permesso. Le sue lacrime calde caddero sul viso della ragazza, facendosi largo tra il rosso del sangue. Non riuscì ad urlare il suo dolore e la strinse a sé. Continuò a dirle di non andarsene, perché non era vero, non poteva lasciarlo, non stava succedendo, no...
Attorno a lui i soldati si voltarono in ritirata, allontanandosi soddisfatti da quel ragazzo incredulo e spaventato accucciato sulla sorella. Il generale Menthis venne portato via dalle altre guardie, issato su una barella accorsa poco prima; Kal, imperturbabile, rimase ancora qualche istante ad osservare corrucciato la scena che aveva di fronte e nessun sorriso illuminò il suo volto. Fece cenno a due guardie vicino a lui di recuperare il corpo dell'arciere, poi alzò un braccio e comandò silenziosamente la ritirata.
Phil non sapeva cosa pensare, né come riordinare tutto ciò che aveva visto succedere in pochi e fulminei istanti a meno di cinque metri da lui. Sembravano essere passati molti minuti dallo scocco della freccia, ma il tempo che era trascorso da allora era stato più breve di un cinguettio, che si era spento portando un silenzio assordante tra lui e Nehroi e Savannah.
Shockato e svuotato, trascinò incredulo i piedi pesanti come macigni verso di loro. Cadde anche lui in ginocchio ed esalò l'ultimo fiato che aveva nei polmoni in un «No» flebile e debole, che si disperse nel vento del deserto...



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Capitolo 37
*** Addio ***


37
Addio



Nessun suono osò disturbare la jiin in quello che poteva sembrare un sonno tranquillo, sebbene fosse tanto tinto di rosso e di marrone, di sangue e di bruciature da non sembrare tale.
Nehroi non smise neanche per un istante di stringerla a sé come una bambola rotta che doveva tenere unita ad ogni costo. Le lacrime caddero ancora sul viso sempre più pallido; prima poche, incredule e spaventate, poi tante, tantissime, trasparenti ma nere come la disperazione e la solitudine.
Anche Phil piangeva, ma non capiva quale dolore stesse provando. Non poteva capire cosa significasse aver perso l'unica persona con cui si era passata la propria intera vita. Avrebbe pianto moltissimo per i suoi genitori o per i parenti più cari, ma sentiva nel profondo del suo cuore che non sarebbe stato lo stesso.
Capiva il suo, di dolore, e si sentiva meschino nel provarne così poco di fronte a Nehroi e al suo sconvolgimento. Piangeva anche per lui, per i loro sogni, le speranze, l'amore disperso.
Rimasero immobili così, uno chinato con Savannah tra le braccia e l'altro inginocchiato di fronte a loro, e rimasero fermi per così tanto tempo che quando l'umano si fece forza ed allungò un braccio per separare i fratelli, la ragazza era freddissima e il cielo era imbrunito.
«L'ho sempre stretta così quando stava male», disse Nehroi con voce roca. «Ogni volta che era ferita, ogni...»
Phil spostò la sua mano sul braccio del ragazzo, ma lui non se ne accorse. Era freddo anche Nehroi. «Non è mai stata così...»
«È morta.»
Scandì quelle parole lentamente, con cura, lo sguardo freddo e fermo sul viso del brehkisth. Rimase in attesa che cogliesse il senso della frase, cercando di farlo a sua volta. La consapevolezza aveva strappato quelle parole dal profondo del suo animo, dove stava cercando di nasconderle faticosamente, per lo meno ancora per qualche minuto. Era così assurdo... solo poche ore prima la sua più grande preoccupazione era riuscire a mettersi la camicia bagnata in testa...
Gli occhi di Nehroi scalarono lentamente la figura dell'ex-consigliere. Non avevano nulla dell'acceso smeraldo che li aveva sempre caratterizzati. Erano freddi, piegati, lì dentro qualcosa si era incrinato e li stava ferendo molto più in profondità di quel che potesse sembrare. Phil era certo di non aver mai visto tanta disperazione in un viso così fermamente distrutto, ma si trattenne dal commentare alcunché. L'angoscia era palpabile.
Sembrava che Nehroi fosse invecchiato all'improvviso di mille anni e l'umano si sentì inevitabilmente piccolo e stupido.
«Sono morto anch'io», lo sentì dire con rassegnazione.
Il suo tono era grave come quello di un anziano che ha vissuto troppo, ma la voce strozzata era quella di un ragazzo che non aveva vissuto ancora abbastanza.

Il calore era scomparso a poco a poco dal corpo, lento come nuvole pigre e pesanti.
Nehroi posò una mano sul viso della sorella e premette lentamente le palpebre, per abbassarle. Gli occhi viola erano vitrei, fissavano immobili qualcosa che lui non poteva raggiungere.
Non la lasciò andare, continuò a tenerla stretta a sé, almeno finché non si accorse con orrore che gli arti erano tanto sciolti da sembrare innaturali, rotti, e provò una viscida e lugubre sensazione che gli precipitò gelida nello stomaco e nella mente. Desiderò svenire, scomparire, scappare via, lasciarsi tutto alle spalle, perché non era successo niente in realtà. Ecco, sì, stava sognando tutto. Aveva beccato un'insolazione e tutto quello che era successo non era altro che il frutto del suo delirio, non poteva che essere così...
Le sue mani tremarono e improvvisamente una strana consapevolezza si faceva largo in lui, lacerando convinzioni e illusioni con brutalità.
Ci mise molto a distenderla a terra, come se potesse frantumarsi se avesse sfiorato con troppa forza la sua pelle, e ci mise ancora di più a rompere il contatto tra le sue mani e la sua testa, le sue braccia.
Sembrava semplicemente assurdo, ridicolo, impossibile.
Però era lì, immobile, senza vita.

Utilizzò l'acqua nella sua borraccia e la maglietta raccolta da terra per pulirla con cura e toglierle tutto quello stupido sangue di dosso. Scivolava via facilmente, come se si fosse pentito di essere rimasto tanto a lungo lì fuori dal corpo.
«La tua bottiglia», disse a Phil con voce quasi impercettibile.
Non ricevette risposta e fu solo allora che si accorse che l'umano era a molti metri da lui. «Che stai facendo», gli domandò atono e spento. C'era una sola cosa che contava per lui, in quel momento, e non erano i pensieri dell'ex-consigliere.
Per questo non ebbe alcuna reazione vedendolo nascondere in tasca della carta e un accendino.
«Niente, niente...», rispose l'umano con poca vitalità in più nella voce. «Vuoi la mia acqua?»
Nehroi tornò a guardare la sorella e il suo viso ferito ma pulito, il collo perforato ma bianco.
«No», disse un'eternità dopo.
Phil annuì e si fiondò a cercare nella sabbia la maglietta di Savannah, dopo aver improvvisamente realizzato che la ragazza era ancora svestita per il caldo e per il combattimento. Faticò molto a riconoscere il punto in cui l'aveva gettata poche ore prima e si pentì presto della decisione di ritrovare l'indumento mancante, ma non si arrese e tastò ogni punto in cui le ombre scurivano maggiormente il terreno, sperando che fossero tessuto. Era incredibile come, da rovente che era, il deserto fosse diventato improvvisamente gelido; l'aveva studiato a scuola, anni prima, ma non aveva mai realmente creduto che potesse essere vero.
Si sedette sconsolato per qualche istante, guardandosi attorno in cerca di un punto di riferimento per trovare la maglietta, ma non vide altro che Nehroi e il suo torso ancora nudo. Phil si era rimesso la camicia al primo brivido, anche se non aveva cambiato nulla, ma il brehkisth era diventato così tanto distaccato dal mondo che forse si sarebbe anche stupito vedendo che la notte era già calata attorno a lui.
L'umano ricominciò a cercare e passò ore e ore carponi tastando ogni duna nei paraggi, e non trovò quella stupida maglietta fino al sorgere del sole.
Nehroi sollevò Savannah come una bambola e le tenne il busto dritto mentre Phil infilava prima un braccio e poi l'altro, con la costante paura di sentire rumori strano e di vederla andare in frantumi. Provò una fitta al petto quando realizzò che quella era la prima volta che la toccava e le forze gli vennero meno. Con lentezza e attenzione infilò infine la testa, pericolosamente dondolante, pesante. Le mani tremavano vistosamente e temette più volte di non riuscire a farcela ma trattenne il respiro, si fece forza e la fece passare per la scollatura della maglietta.
Ed eccola lì, Savannah Krajal, tutta pulita e sistemata nella t-shirt marrone e nei jeans chiari che aveva rubato prima di tornare ad Ataklur. Gli occhi chiusi, l'espressione rilassata sul viso, i capelli annodati e sporchi ad incorniciarla.
Nehroi rimase accanto a lei anche dopo aver finito di sistemarla, come se gli fosse stato impossibile muovere le gambe o allontanarsi in alcun modo. Poco importava che il sole stesse ricominciando a rendere bollente la sabbia del deserto sotto le sue ginocchia.
«Meede sarà qui tra poco», gli disse Phil dopo troppe ore di immobilità.
Il brehkisth sembrò risvegliarsi dal suo torpore e riuscì a sollevare per qualche millimetro lo sguardo dalla sorella. «Cosa», gracchiò senza voce.
I suoi occhi erano affossati in occhiaie scurissime che rubavano la luce delle iridi smeraldine, mentre il resto del viso era ancora sporco, insanguinato, ferito e nascosto sotto la sottile barba incolta.
Con la schiena ricurva a quel modo e la vitalità di un vecchio, Nehroi faceva semplicemente impressione.
«Meede», ripeté l'umano grattandosi distrattamente la peluria che anche lui aveva sulle guance. Aveva sempre odiato avere un aspetto trasandato ma non riusciva a pensare ad una cosa così stupida dopo tutto quello che era successo. «Le ho chiesto di raggiungerci il prima possibile, ho pensato che volessi...»
«Quando», soffiò l'altro, continuando a fissarlo con le palpebre semi abbassate.
«Il prima poss... ah, ieri sera», si corresse.
Stava per aggiungere una spiegazione su come l'avesse effettivamente contattata, ma lo sguardo del ragazzo cadde di nuovo a terra e Phil comprese che l'estraniamento era ricominciato.

La vecchia curatrice comparve all'orizzonte un paio d'ore dopo quella brevissima discussione e non lasciò spazio a dubbi sulla sua identità.
La sua gonna candida era come sempre un tripudio di volant agitati ad ogni movimento delle gambe secche e smilze mentre i suoi lunghi capelli grigi e arruffati saltellavano seguendo l'andamento faticoso tra le due del deserto. Aveva con sé un ombrellino costruito con enormi foglie completamente bianche, provenienti da chissà quale pianta, e una borsa a tracolla tanto piccola che si notò solo quando vi ci ficcò una mano dentro.
Al suo fianco c'era una ragazza con cortissimi capelli neri e lisci, con la pelle lievemente olivastra e lineamenti orientali. Magra ma robusta, di un'altezza né troppo alta né troppo bassa, trascinava con sé una voluminosa borsa beige di canne intrecciate dall'aspetto molto pesante.
«Puoi immaginare la mia sorpresa nel leggere il tuo messaggio, umano», lo salutò distaccata l'anziana donna quando Phil corse incontro a loro prima che si avvicinassero troppo.
«Anzi no, non puoi», proseguì Meede con la sua vocina impertinente che la faceva sempre sentire sicura di sé e di ogni frase che le veniva in mente. «Ma vedo che adesso sei neanche la metà del funzionario che eri quando ti ho conosciuto, quindi... ti ascolto.»
“Neanche la metà di ciò che era”, Phil si morse un labbro quando la curatrice azzeccò tanto perfettamente come si sentiva da tempo. Per lo meno indossava ancora la camicia.
«Non è per me», disse poi, ripiombando nella consapevolezza di ciò che stava succedendo e sentendo di nuovo un macigno sulle spalle.
«No, infatti. Hai scritto che serve aiuto per Nehroi», aggiunse la ragazza asiatica.
Meede scorse il busto di Nehroi ancora chinato a terra, esattamente nel punto in cui si era inginocchiato per raccogliere al volo Savannah, e le gambe della ragazza distesa. «Che succede?», domandò allarmata allargando i suoi occhietti chiari. A passi veloci iniziò a scendere la duna gialla e gettò l'ombrello a terra quando comprese perché la ragazza fosse in quella posizione.
Sole a picco, sabbia rovente, lei sdraiata.
Meede si portò le mani alla bocca e soffocò un urlo addolorato e carico di angoscia. Sgranò gli occhi mentre il respiro le si bloccava in gola come un tappo. Arrancò nella sabbia, improvvisamente densa e pesante, e si avvicinò incredula al capezzale scuotendo continuamente la testa.
La ragazza asiatica raccolse l'ombrellino di foglie e le si avvicinò per farle di nuovo ombra ma la curatrice la allontanò e si chinò dall'altro lato di Savannah, accarezzandola incredula, come se stesse sperando che si sarebbe mossa. Il suo viso si tramutò in una smorfia di dolore e invecchiò all'istante di altri dieci anni mentre il respiro accelerava e i battiti si facevano insopportabili nel petto sconvolto.
«Cosa...»
La ferita al collo era evidente e aveva lasciato piccole striature azzurre sulla pelle. «Un Vaìn?», domandò a Nehroi, accorgendosi solo in quell'istante di quanto fosse spento e provato.
Strozzò un altro urlo, mutandolo in gemito concitato, e si chinò oltre il corpo per abbracciare il ragazzo, insensibile al tocco, immobile come una statua.
«Mi... mi dispiace», lo sentì sussurrare nei suoi capelli grigi.
Meede non smise di abbracciarlo e iniziò a piangere, bagnandogli la schiena arrossata con lacrime fresche. Scosse la testa con vigore. «No, non dirlo», gli sussurrò a sua volta.
«Mi avevi detto di proteggerla», continuò il ragazzo in trance. La sua voce, però, non era più atona. Si stava incrinando.
«E l'hai fatto, io sono sicura che l'hai fatto!»
Meede lasciò la presa e si alzò in piedi, aggirò Savannah e si chinò nuovamente sul ragazzo, costringendolo a voltarsi verso di lei. Lo abbracciò ancora, più forte. Provò a dirgli qualcos'altro ma il pianto ebbe la meglio e si abbandonò ai suoi sentimenti. Nehroi sentiva le lacrime lungo la schiena nuda, sentiva i singhiozzi nelle orecchie, sentiva il cuore stringersi ancora di più e si stupì che fosse ancora lì dopo tutto quello che era successo.
«Non ho...», gracchiò debolmente. Phil era alle sue spalle, pietrificato, e si sentiva terribilmente a disagio. Con che diritto era lì e pretendeva di partecipare al loro dolore? Incrociò le braccia al petto ed ingoiò ogni reazione che sarebbe sembrata fuori luogo, ma anche la sua fronte si increspò e strinse le labbra con forza per impedire agli occhi di diventare troppo lucidi.
«Shh», lo zittì Meede accarezzandogli la testa come una mamma col bambino. «Non incolparti, Neh, non dire nulla...»
«Avrei dovuto essere io...»
«Basta, smettila», lo sgridò piano e anche dagli occhi smeraldini caddero lacrime, poche, che si persero nella criniera argentea della curatrice. I singhiozzi scossero la schiena più volte a entrambi.
Phil rimase ad osservarli ancora un po', attendendo la mossa successiva, ma i due rimasero pressoché immobili lì. Meede si era seduta di fronte a lui e gli aveva preso le mani nella sua mentre con l'altra lo accarezzava dolcemente, incuranti del sole, come se il tempo si fosse bloccato.
L'umano si schiarì la voce dopo molti minuti di indecisione.
«Possiamo... scusate, non voglio sembrarvi insensibile ma... possiamo pensare al...»
Nehroi reagì meccanicamente all'ultima parola, quella non detta. Si alzò faticosamente in piedi e si voltò verso l'umano con l'espressione più devastata che si potesse immaginare su un volto che era sempre stato in salute e ridanciano. «Al?», lo provocò senza vita.
Phil inspirò a fondo. «Funerale.»
Nehroi si precipitò nuovamente verso la sorella, quasi cadendole addosso, e scosse la testa convulsamente. «Che stai dicendo, non c'è nessun funerale», ripeteva a bassa voce e a scatti.
«Nehroi...»
L'umano guardò con desolazione la ragazza asiatica e sospirò affranto. Credeva che il brehkisth avesse realizzato che la sorella fosse morta, con quel comportamento non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose.
«Dobbiamo fare qualcosa», suggerì Meede tornandogli ancora vicina. Era straziante vedere la giovane donna che un tempo era stata la sua nipotina acquisita, o una figlia, priva di vita... guardandole il viso non poteva non vedere i suoi sorrisi, o sentire quella voce squillante... «Non la possiamo lasciare qui per sempre.»
Nehroi sbatté le palpebre più volte come se si stesse svegliando in quel momento. Aveva gli occhi arrossati dalla devastazione, dalla stanchezza e da un miscuglio di altre cose che lo distruggevano dall'interno.
«Non voglio cremarla», pigolò con la decisione di un bambino impaurito.
La curatrice scosse la testa e guardò l'ex-consigliere. «Potremmo seppellirla», propose.
Quelle parole ebbero l'effetto di scuotere abbastanza il ragazzo da strappargli una risatina isterica. «Come gli umani?», ribatté sprezzante. «Non la nasconderemo sottoterra...»
«Non è nascondere, è conservare», precisò Phil sentendosi chiamato in causa. Gli dava fastidio il tono di superiorità con cui tutti ad Ataklur usavano parlare della sua gente, come se la sua razza fosse indegna di essere considerata veramente. Non se ne sarebbe mai abituato e non avrebbe potuto mai farci nulla, ma il suo orgoglio di umano gli impedivano ogni volta di passarci sopra. «È un'alta forma di rispetto della loro memoria... oppure puoi seguire i rituali dei jiin e appiccare un falò. Così la perderai davvero per sempre.»
Nehroi piombò di nuovo nel silenzio. Phil e Meede si scambiarono un'occhiata ambigua, guidata dalla consapevolezza che il vecchio Nehroi non avrebbe perso neanche un istante e sarebbe saltato in piedi a difendere con le parole e con i pugni la propria posizione.
Annuì molto dopo, in seguito a chissà quale ragionamento privato.
«Kairyn», chiamò la curatrice.
La ragazza asiatica si avvicinò rapidamente al capezzale e posò con cura la voluminosa borsa a terra. La aprì ed iniziò ad estrarre garze, oli e fili per cucire.
Meede si accucciò sul corpo di Savannah e terminò le cure di pulizia che Nehroi aveva iniziato la sera prima, apprezzandole, mentre Kairyn si avvicinò al brehkisth e gli afferrò un braccio, esaminandolo come un dottore. Il ragazzo si lasciò toccare senza avere reazioni, tanto distaccato dal mondo reale da dare l'impressione di non accorgersi neanche di chi avesse di fronte.
Kairyn sospirò sollevata nel non trovare ferite gravi, solo qualche graffio e lividi. Sulle spalle e sulla parte alta della schiena la sua pelle era evidentemente bruciata dal sole, così la ragazza si chinò sulla borsa e ne estrasse una boccettina bianca con un tappo rotto e rattoppato. Versò parte del contenuto su una garza, tingendola di verde, e deterse la pelle bruciata con delicatezza, come se avesse paura di svegliare Nehroi e portarlo via dal vuoto dei suoi pensieri.
Fu solo quando tentò di pulire via il sangue che ormai gli si era seccato ovunque -su tutto il busto, sulle braccia, sulle gambe e anche sul viso- che il brehkisth si scostò. Era un movimento piccolo, uno scatto istintivo, e Kairyn mise via la sua attrezzatura.
Meede si alzò faticosamente in piedi e tirò su anche il brehkisth, allontanandolo finalmente da Savannah. La maglietta bagnata che Phil gli aveva faticosamente messo in testa quella mattina cadde nella sabbia ma nessuno la raccolse. Meede prese il suo ombrellino bianco e coprì entrambi gli uomini, che la affiancavano come guardie mentre la giovane jiin si preparava alla preparazione della cerimonia. Una forma ovale leggermente più scura della sabbia comparve attorno al corpo, come un tappeto.
«Savannah era una persona... bellissima, guidata solo dall'amore. Le volevano bene tutti», esordì Meede con voce ferma e calma, quella di chi sapeva già cosa avrebbe detto.
Sorrise distrattamente mentre scuoteva la testa. «Sarebbe fantastico iniziare il suo discorso funebre con queste parole e, sebbene molte persone potrebbero essere contrari... lo farò. Perché la conoscevo. Era la mia bambina. Una vera tigre.»
Phil ripensò allo sguardo furente che aveva mentre evocava le fruste da chissà quale remota riserva di energia magica e mentre le schioccava contro le guardie, solo per lui, per proteggerlo.
Aveva gli occhi incendiati dal furore, l'espressione contratta e concentrata, i denti digrignati... Phil si era sentito subito al sicuro quando l'aveva vista lottare a quel modo per proteggerlo.
La voce di Meede proseguì, ma nessuno la stava realmente ascoltando. Solo Kairyn, l'unica di quel piccolo gruppo che non aveva mai avuto modo di conoscere la jiin. Si sentiva a disagio nel presenziare al funerale di una sconosciuta e cercava di stare attenta il più possibile per riuscire a scoprire che tipo di persona fosse per essere tanto amata dalla sua maestra e per aver portato tanta desolazione in lei e in quei due uomini distrutti...
«Il suo nome ha sempre destato domande e dubbi», diceva la voce incrinata della vecchia curatrice mentre Nehroi viveva il vuoto totale della sua mente e sul volto. «Perché non un nome di Ataklur? Cosa significa? Perché ce l'ha? Anche io ero tra quelle persone e sebbene non sia mai riuscita a comprendere per quale motivo i suoi genitori glielo avessero dato, ho scoperto cosa significa. È il nome di una città umana, una città dal territorio brullo e secco come il deserto in cui è nata e che l'ha forgiata. È il nome che gli umani usano per definire la casa dei leoni e dei leopardi, la savana, e trovo ancora che sia un giusto nome per una donna con il suo carattere e il suo temperamento. Ma soprattutto, la nostra tigre porta il nome di una razza di felini splendidi ed eleganti, forti e imponenti... e il mio solo rimpianto è di non aver potuto esserle vicino nel canto del cigno.»
Nehroi non ebbe alcuna reazione ascoltando quelle parole. Il suo sguardo era sempre lì, fermo sulla sorella immobile e senza artigli.
Lei, la sua Savannah, aveva già scoperto da anni il significato del suo nome e lui, Nehroi, aveva visto in lei la tigre e la landa selvaggia che rappresentava già da ben prima che ne venisse a conoscenza.
«Non dirò che meritava la morte», proseguì la donna attirando per pochi istanti l'attenzione del brehkisth. «Ma neanche che se ne fosse tenuta a distanza. Prima o poi sarebbe successo ma... ho sempre pregato gli spiriti perché non avvenisse in un giorno tanto vicino.»
Il sole ormai scendeva verso terra: il bordo delle montagne si colorò di un arancione abbagliante e il cielo iniziò a scurirsi sempre più. La luce morente cadde su Savannah, illuminandole i capelli, le sopracciglia, le labbra opache. Poi si ritirò e la lasciò più buia e solitaria.
Nehroi si sentiva come se molte delle sue poche energie fossero state risucchiate dalla dipartita del sole.
Come Savannah aveva creato una bottiglia dalla sabbia, così Kairyn si sforzò fino allo sfinimento per compattare granello su granello e circondarla con una bara di materiali misti come il deserto. In parte di vetro e in parte di sabbia resa dura come la roccia, le pareti crebbero attorno alla ragazza, sotto e sopra. Con maestria, la jiin dispose le componenti della sua creatura in modo che incorniciassero il viso candido e sereno di Savannah, come in un ritratto delicato.
«È bravissima», si lasciò sfuggire Phil con più sorpresa del previsto.
Meede annuì orgogliosa mentre chiudeva con cura il suo ombrellino di foglie bianche. «La precisione e la costanza sono il suo forte, è in grado di magie incredibilmente difficili e stressanti... però è lenta. Per questo il suo livello è solamente rosso, non riesce ad essere più...»
Cercò la parola adatta mentre osservava quella bara appena forgiata sprofondare delicatamente nel terreno, accompagnata da mani invisibili che la sorreggevano. La sabbia si riversò sopra di essa come una cascata dorata e il deserto inghiottì con solennità il suo bocciolo irruento.
Nehroi gracchiò qualcosa di impercettibile ed attirò l'attenzione dei presenti sotto l'ombrello di foglie.
«Lapide», ripeté agli occhi curiosi che lo fissarono.
Kairyn lo udì a distanza e si adoperò subito per estrarre dalla sabbia una lastra evidente e robusta, grande abbastanza perché la si potesse vedere da lontano e non lasciasse dubbi sulla posizione della ragazza di Feinreth.

“Savannah Krajal
Figlia di Nehroi”

Aveva iniziato ad incidere la giovane jiin, cercando di non fare errori di grafia e di non sbagliare i nomi. Nehroi sopraggiunse alle sue spalle all'improvviso e la fece sobbalzare a metà dell'ultimo simbolo. Le sussurrò qualcosa all'orecchio e Kairyn annuì. I simboli della seconda riga si mossero come con vita propria e un'altra frase comparve sulla lastra:

“Possa il filo mai spezzarsi”

Meede sussultò quando la lesse e un paio di lacrime scivolarono tra le rughe del suo viso commosso.
Nehroi alzò il viso verso di lei e un sorriso pallido lo illuminò da sotto gli occhi tristi. Ripeté a sé stesso quelle strane parole per un po' di volte, come in un mantra interiore che a volte sfuggiva sulle labbra e nel vento, e a Phil sembrò che il suo spirito si stesse rinsaldando, cucendo finalmente qualche strappo.
«Cosa significa?», domandò alla vecchia curatrice sottovoce, cercando di non farsi sentire dal ragazzo seduto sotto la lapide.
La donna scosse la testa e si asciugò il volto con il dorso della mano. «Raccontami com'è morta», disse invece. Anche la sua voce era lieve come quella dell'ex-consigliere e questo, assieme all'espressione provata, lo convinse a posticipare le sue curiosità.
«Ha saputo cosa è successo a Tolakireth?», domandò nella speranza di poter saltare molte premesse. Meede annuì grave e il suo viso si rabbuiò non poco. «Ecco perché diceva che avrebbe dovuto morire lui...», commentò abbattuta.
Phil si mise le mani in tasca e iniziò a torturare il tessuto con nervosismo mentre ripercorreva gli eventi del giorno prima.
«Siamo stati circondati da un sacco di squadroni di guardie, sicuramente più di cento soldati. Avevano le divise di Norreth, Lagireth e Feinreth... non so se ci avessero teso un agguato o se ci avessero semplicemente seguiti, qui nel deserto quei due hanno rinunciato a tutte le difese e le precauzioni. Credevano che nessuna guardia avrebbe mai messo piede in questo forno...»
Lo sguardo di Meede era paziente e tranquillo, tanto che l'umano non fu in grado di comprendere se stesse dicendo cose superflue o no.
«Più di cento», ripeté la donna. «I Capi non volevano proprio correre rischi, uh?»
«Sì, infatti... ma... sbaglio o non mi sembra molto sorpresa?»
Meede scosse la testa e lasciò vagare gli occhi sulle dune attorno a loro, rischiarate dalla luna e fresche come onde del mare. Strinse il manico del suo ombrello e annuì a sé stessa. «Quando sai con chi hai a che fare, prendi misure adeguate», disse saggia e seria.
Phil non poté che trovarsi d'accordo e non disse nulla. Perse qualche secondo guardando Kairyn alle prese con la costruzione di un piccolo accampamento, con due teli spuntati da chissà dove sdraiati a terra, mentre spizzicava una pagnotta.
«Ad ogni modo volevano solamente arrestarli», disse quando si ricordò di non aver finito il rapporto a Meede. «O meglio, arrestare solo lei. Savannah.»
Neanche quelle frasi sorpresero la curatrice e si limitò a tirare in su un angolo della bocca, come se se lo fosse aspettato. «E ovviamente non era d'accordo. Che testardi, uno più capoccione dell'altro. Tipico dei Krajal, si vede l'influenza di quel nonno svitato che...»
Phil corrugò la fronte e la guardò obliquo. «Lei... sapeva? Perché non gliel'ha mai detto?», la interruppe stupito. Le possibilità che quella rivelazione aprivano erano infinite e molte avrebbero impedito tutti i problemi a Tolakireth, le loro strane decisioni, la mentalità selvaggia, magari la missione stessa... o quella morte...
Meede fece spallucce, ma Phil non si sentì per niente tranquillo come lei. «Non capisce che avrebbe cambiato tutta la loro vita conoscere le loro origini?», proseguì ormai scandalizzato.
«Non immischiarti in questioni che non ti riguardano», tagliò corto lei con uno sguardo velenoso. Poi sospirò affranta, soffiando via molta stanchezza.
Phil rimase rigido e fermo sulle sue opinioni. «Sarebbe potuta non morire», sentenziò serio.
Meede scosse la testa. «Sarebbe successo in ogni caso. Hai visto come prendono le decisioni, come affrontano i rischi, come si rapportano con la legge... mi spiace ma se pensi che la colpa sia mia ti sbagli di grosso. Era solo questione di tempo, credimi. Come per quel ragazzino dell'orfanotrofio, Lor... Lowa... beh, quello. È stato il primo segnale che la vita che conducevano era un suicidio continuo ma no, non ascoltiamo i consigli di un'anziana, continuiamo a gettarci in avventure improponibili... Però, sai... ho sempre pensato che tra i due se ne sarebbe andato prima Nehroi. Poverino, senza magia... e con quella stupida maledizione. Oh, ecco che arriva. Non un fiato, mi raccomando», ordinò infine all'umano non appena il brehkisth iniziò ad avvicinarsi a loro.
Oscillava come uno zombie incespicando nella sabbia azzurra e teneva le braccia lungo il busto lasciandole dondolare inerti.
«Sono stanco», disse atono ma con immensa fatica non appena fu abbastanza vicino da non dover alzare troppo la voce. «Di tutto questo. Basta. Sono stanco.»
Il mutismo e lo sconvolgimento che aveva manifestato in quel giorno e mezzo erano stati tali da fargli quasi dimenticare come ci si relazionasse con gli altri. Chiuse gli occhi e si stropicciò il viso con le mani, toccando con pesantezza la pelle disidratata e il sangue ancora incrostato sopra. Sospirò e si lasciò cadere in ginocchio sulla sabbia gelida. «Stanto, stanco, stanco... della morte, di sfuggirla, di combatterla. Io... non ce la faccio più. Seppellire tutti i... i miei... Non ce la faccio più, vorrei tanto sparire anche io.»
Phil lo guardò allarmato e con le labbra schiuse, ma il ragazzo scosse la testa e si asciugò gli occhi con il dorso della mano. «Non ce la posso più fare...»
La sua voce era strozzata e roca. Phil capiva, ma sentiva di non essere neanche lontanamente vicino a ciò che avrebbe dovuto provare per poter capire realmente.
«Almeno è finita», proseguì Nehroi con finto sollievo. «Non mi è rimasto più nessuno.»
La luna era come un faro sopra di loro, inondandoli di luce argentea e di ombre tenebrose in egual misura. Meede abbassò lo sguardo su di lui e gli passò le dita tra i capelli, accarezzandolo con dolcezza.
«Phil», disse il brehkisth lentamente, senza alzare la testa.
L'umano si voltò di scatto e mosse qualche passo nella sua direzione. Non si lasciò sfuggire che quella era la prima volta che lo stava chiamando per nome, ma non era più importante. Il suo sguardo era serio e tranquillo, quello di un uomo in grado di gestire qualsiasi situazione.
«Portami sulla Terra.»
Phil aggrottò le sopracciglia per una frazione di secondo, poi annuì con scatti ripetuti. «Certo», disse concitato.
Camminarono silenziosamente verso i Faraglioni che avevano superato prima dello scontro, rocce rosse e polverose che tendevano verso il cielo come dita giganti di una mano sepolta e che comparivano ogni tanto a rompere la monotonia del deserto. Lo fecero senza scambiarsi neanche un mugolio, come nell'ultima marcia di un condannato. Silenziosa come le stelle nel cielo sopra di loro.
Nehroi teneva costantemente gli occhi bassi, come se fosse veramente intenzionato ad osservare tutti i granelli di sabbia che spostava coi piedi mentre Phil osservava lui apprensivo e preoccupato, costantemente in procinto di dire qualcosa che poi puntualmente inghiottiva.
Non era solo un'impressione: quel ragazzo era a pezzi e presto sarebbe crollato in frantumi, soprattutto se lasciato da solo. Phil, però, non riusciva a dire neanche una parola, né a pensare ad un piano migliore dell'abbandonarlo a sé stesso.
Trovarono un dente roccioso abbastanza ampio per potervi aprire un portale e l'ex-consigliere non ci mise molto ad attivare il suo passpartout custodito nella tasca dei pantaloni, insieme all'inutile kit della principessa. Estrasse il ciondolo e lo posò sulla roccia: la Stella rossa si illuminò e il velo trasparente si srotolò lentamente sotto i suoi occhi, come se avesse appoggiato un telo sulla pietra.
Nehroi schioccò la lingua sul palato ed alzò titubante una mano verso Phil. La lasciò tremare per qualche istante, esitando, poi gliela posò sulla spalla. Pesante come un sasso. «Grazie... Phil», sussurrò senza la minima convinzione.
Aveva già attraversato con una gamba il portale quando finalmente trovò la forza di sollevare lo sguardo sull'umano. Nessuna luce trapelava dalle iridi verdi e scure, tanto che parevano vitree.
«Addio.»

*


«Dovresti avere tu le protezioni», aveva detto di punto in bianco una sera, mentre controllava il bottino dell'ultimo furto. Alla luce fioca della candela, i decori metallici del preziosissimo calice si riflettevano sul suo giovane viso pensieroso. «Anzi no, facciamo così: cercheremo di rubarne o trovarne in doppia copia, così non...»
Savannah aveva stretto le labbra e il suo viso si era incupito per qualche istante, preoccupando il fratello. «E se invece morissimo e basta?», aveva detto poi, seguendo chissà quali pensieri catastrofici.
Nehroi era rimasto molto sorpreso ed inquietato da quella domanda. «Che intendi?», aveva chiesto senza riuscire a nascondere l'agitazione.
Erano giovani, adolescenti, scapestrati, senza meta. Una difficile missione tra le mani.
«Perché cercare tanto di salvarsi se poi alla fine moriremo tutti...»
Era in momenti come quelli che Nehroi sentiva gravare sulle spalle il fardello dell'essere il maggiore tra i due, quello saggio, la guida. Il ricordo di quello che il piccolo aveva interpretato come un passaggio delle redini della famiglia gli era balzato in mente e aveva sorriso amaro.
«Tutti moriamo, sì... prima o poi», le aveva risposto mentre cercava di tranquillizzarla abbracciandola. «Certo, anche noi non potremo evitarla per sempre... ma possiamo provare a decidere quando accadrà, no? Non è giusto rassegnarsi all'idea che si morirà. È vero, e allora? Tra adesso e quel momento -perché alla fine è solo questo, un momento- c'è così tanto tempo che non può essere sprecato pensando alla morte. Promettimi che penserai solo alla vita, intesi?»



*-*-*-*



Mi sono decisamente dilungata troppo, ahimé, ma mi era impossibile tagliare anche solo un paragrafo. L'ho pensato seriamente alla parte della vestizione, ma poi mi sembrava di togliere in qualche modo sacralità alle onoranze di quella che in fondo è la protagonista della storia (che vi sareste ritrovati o sepolta in reggiseno o misteriosamente rivestita e non mi piacevano entrambe) e quindi è rimasto tutto lì, 8 pagine dense e tristi solo per voi! ^^”
… in realtà non avete idea di come si abbatteva il mio umore ogni volta che mettevo mano alle sensazioni di Nehroi. Davvero, la giornata più luminosa si ingrigiva di botto pensando a questi ultimi due capitoli! E anche ad un altro più avanti, perché adesso ci sarà uno stacco ma non è che non rivedremo più il nostro ragazzone, anzi... e va beh, sigh.
Tra l'altro, non me ne vogliate ma questo è forse l'ultimo capitolo che posto prima della mia partenza! Mi era stato consigliato di farne uno doppio lungo infinite pagine, ma avevo paura che vi sareste persi nei troppi avvenimenti.
Se riesco a finirlo posto anche il prossimo così parto lasciandovi meno amarezza addosso, se no ci si rivede a settembre e vi abbraccio calorosamente fin da ora! xD

Alla prossima dunque!
Ciao!

Shark

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Capitolo 38
*** Marmo Incrinato ***






38
Marmo Incrinato



«Savannah Krajal», tuonò la voce imperiosa del Capo di Norreth.
Passò in rassegna i presenti al tavolo delle riunioni con uno sguardo inflessibile, privo di espressioni. Attendevano tutti da lui il verdetto, ancora non sapevano cosa fosse successo in quel deserto, tranne Decra. Silar Gerit trattenne il respiro più degli altri, ma anche Mief Chawia sembrava in tensione.
Il silenzio intenso si protrasse per molti istanti. «È morta», sentenziò infine.
Nessuno parlò per diversi secondi, come se tutti si fossero dimenticati come si facesse. Poi sopraggiunse la voce roca di Hartis.
«Ah», disse, come un assetato che dopo aver bevuto posa a terra il bicchiere per dare sfogo al fiato che aveva trattenuto nel bere. «Finalmente.»
I pensieri dei presenti esplosero subito dopo e in contemporanea, quasi all'unisono, inondando la sala silenziosa con parole e voci confuse che si sovrapponevano.
«Non dovevano solo catturarla...?»
«E il ragazzo?»
«Non erano questi i piani!»
Heim alzò una mano ed arginò quella valanga di commenti con la sola marzialità del suo gesto.
«Davvero è morta?», domandò comunque Olus, con incredulità sincera. La gola gli si seccò all'improvviso quando il vecchio Capo di Norreth annuì grave.
«Un soldato non ha rispettato gli ordini e ha colpito senza lasciarle scampo», informò Heim con voce grave. Il suo sguardo non era più sollevato sul viso degli altri Capi, fissava la penna di fronte a lui, seguendola con gli occhi mentre riportava ogni loro parola e cenno sulle pagine da poco non più immacolate del registro, grattando la carta tanto velocemente da sembrare aggressiva.
«Non ha rispettato gli ordini...», ripeté Olus incredulo e dubbioso, «O ne ha seguiti altri. Ordini non approvati tra queste mura!», esclamò poi battendo una mano sul tavolo con indignazione. Il suo sguardo acceso saettò verso Nekkis e perforò il capo delle guardie con ferocia. L'uomo, però, non si lasciò intimidire né sconvolgere particolarmente.
«Ha già ricevuto la sua punizione», si limitò a dire.
«Non sempre una divisa o uno stemma rivelano per chi lavori», sentenziò Hartis con voce roca.
Per quanto sagge e probabilmente veritiere fossero le sue parole, tutti i Capi ruotarono la testa verso di lei come girasoli e i loro occhi erano sospettosi o arrabbiati. «Che c'è?», sputò la vecchia con malignità.
«Era ai tuoi ordini?», domandò Gerit ostentando tranquillità e diplomazia dietro un viso tirato.
Il silenzio che seguì non venne interrotto da nessun altro Capo e confermò al giovane di Kyureth di aver interpretato bene i loro stati d'animo.
La vecchia Hartis soffiò innervosita e ridacchiò spavalda. «Ben le sta!», abbaiò quasi divertita, illuminandosi per un secondo. «Avrei fatto bene! … ma non sono stata io», aggiunse in fretta quando gli sguardi dei colleghi regnanti si fecero troppo astiosi per i suoi gusti. La penna segnò anche quell'ammissione riempiendo l'aria di graffi.
Chawia sospirò, esalando stanchezza e una certa indisposizione che non sfuggì agli altri Capi.
«Ti stiamo annoiando?», sputò Olus con voce tagliente.
La principessa alzò a malapena lo sguardo verso di lui. «Punta pure il dito contro di me, se ti fa sentire meglio», sentenziò sufficiente. «Non sono la responsabile.»
Olus strinse i pugni fino a farli vibrare per la tensione. Sul suo viso era dipinto il nervosismo tra le rughe sulla fronte contratta. Aprì la bocca per dar fiato a tutta l'ira che gli stava salendo lungo la gola ma Heim lo interruppe ancor prima che pronunciasse un suono.
«C'è di più», disse con la sua voce imponente e ferma. Si prese una piccola pausa, come se stesse ponderando se divulgare quell'informazione oppure tenerla segreta, poi si inumidì le labbra e proseguì. «Nekkis ha dato il via ad un'indagine... vuoi parlarne tu, Aner?»
Il capo delle guardie si alzò dalla sua poltroncina rossa, aggiunta tra quelle di Heim e Hartis, e si schiarì la voce con un colpetto di tosse. La sua divisa quel giorno era completamente nera e i suoi occhi spiccavano sulla pelle abbronzata come gemme chiare.
«Confermo, ho avviato un'indagine interna ai miei uomini, per scoprire chi fosse esattamente Lefaus Jok, l'arciere che ha rotto le fila dello squadrone e che ha scoccato la freccia fatale. Ho letto vari rapporti da parte dei soldati presenti all'arresto, tutti concordano che Savannah non era particolarmente ferita né in punto di morte prima di quel colpo. Le azioni di Jok sono state punite sul posto e anche il mio sottoposto che ha fatto... “giustizia” in quel modo ha ricevuto la sua punizione. Scopriremo la verità e faremo luce sulla faccenda, è una promessa.»
Rimase in piedi ancora per qualche istante, come se aspettasse che uno dei Capi gli facesse qualche domanda in merito, ma non si levò neanche un fiato e Nekkis si sedette poco dopo con un movimento secco e pulito, senza trascinare la poltroncina.
«Grazie Aner, siamo sicuri che riuscirai a risolvere il caso», disse Heim con un breve cenno della mano. Si rivolse verso gli altri Capi, scrutandoli ad uno ad uno. C'era Algia con il suo pancione e il viso rabbuiato, Goon completamente assente, Chawia e la sua solita espressione annoiata, Olus irritato, Hartis che sorrideva vagamente soddisfatta e Gerit che fissava fuori dalla finestra immerso nei suoi pensieri.
«Decra», chiamò Heim con gentilezza, scuotendo il Capo di Feinreth dal suo umore spento. «Hai ricevuto qualche rapporto in merito all'episodio? Qualcosa che ancora non sappiamo?»
La donna spostò a fatica lo sguardo dal tavolo di legno scuro al Capo di Norreth, risalendo lungo quel panciotto pieno e i bottoni dorati con fatica. Incontrò gli occhietti vispi e piccoli, sotto le folte sopracciglia che gli conferivano sempre un'aria seria, e annuì un poco, quasi distrattamente.
«Sì», aggiunse per essere sicura di aver risposto, «Uno. Ho... ho ricevuto un rapporto, sul rito funebre.»
Gerit fece saettare il suo sguardo e la sua mente di nuovo nella stanza non appena captò quelle parole. La donna le aveva pronunciate quasi con dolore e quel tono l'aveva incuriosito.
«Il fuoco ha fatto danni?», domandò Heim per incalzare Decra, che sembrava essersi richiusa in sé stessa come un fiore al tramonto.
Le sue mani scivolarono lungo il pancione, lisciando il vestito color panna che lo rivestiva. «Nessuna cerimonia di fuoco, l'hanno sepolta. Una bara e tutto il resto.»
Hartis increspò la fronte e si sporse in avanti in uno scricchiolio di ossa. «Ci sarà uno squilibrio», sentenziò la vecchia con la voce imponente della conoscenza. «Uno squilibrio magico, non si può seppellire una jiin viola.»
«La magia deve rientrare in circolo», annuì Chawia con convinzione, guardando insistentemente Decra. Trovava irritante e patetico il suo coinvolgimento sentimentale nella vicenda e non riusciva a sopportare quell'atteggiamento da madre ferita che continuava ad avere da settimane. «Devi fare qualcosa», le ordinò dura.
Decra la guardò confusa e spaesata. «Cosa potrei fare?», domandò in un fiato.
Fu Olus a lanciarsi in sua difesa, chinandosi verso il Capo di Eastreth e distogliendola dalle occhiatacce che lanciava a Decra. «Non puoi chiederle di dare l'ordine di bruciare una tomba», protestò. «Ogni creatura ha diritto al suo riposo, Chawia.»
La principessa sbuffò nervosamente e indirizzò a lui gli sguardi furenti. Aveva dipinta sul volto la presunzione di chi sa già come dovrebbero andare le cose e trova assurdo che altri non lo capiscano. «Sono forse l'unica a ricordarsi delle leggi della pace magica, della purificazione tra le fiamme e degli og? O a nessuno importa più l'equilibrio di Ataklur?»
Heim sospirò rumorosamente e catturò la sua attenzione. «Avete ragione entrambi, sono tutte motivazioni valide», asserì convinto. Si sdraiò sullo schienale della poltroncina e guardo i due Capi di fronte a sé come se stesse valutando le loro posizioni semplicemente guardandoli in faccia. Erano anni che aveva tacitamente assunto il ruolo di giudice durante i dibattiti che nascevano puntualmente in ogni riunione e non c'era volta in cui riusciva ad evitare il peso che gli gravava sulle spalle come un macigno. Quella volta, però, sembrava ancora più soffocante. «Ad ogni modo possiamo dire che Savannah ha già ricevuto la sua punizione e che sarebbe eccessivo forzare il rituale funebre. Se suo fratello ha deciso di salutarla così, noi rispetteremo la sua volontà come quella di ogni abitante delle Regioni. Questo è un diritto che non possiamo togliere neanche ai fuorilegge.»
Il viso di Chawia riprese colore e le sue labbra si schiusero per replicare con fervore, ma il Capo di Norreth proseguì e non le lasciò spazio per parlare.
«Avremmo dovuto arrestarla e invece è morta. Abbiamo influito abbastanza sulla sua vita, non trovi?»
«La magia deve tornare nel ciclo vitale del mondo, non può essere chiusa in una bara!», protestò ancora Chawia, stupendo tutti i presenti per la foga con cui difendeva la sua posizione, ben diversa dalla normale apatia che manifestava sempre.
«Ataklur non cadrà perché non ha ricevuto il tributo di una ragazzina.»
«Gli og, allora! Pensate agli og, alla leggenda che...»
La sua voce si affievolì non appena sentì Gerit ridacchiare tra i denti, come se avesse detto una battuta spiritosa. Anche Heim ridacchiò e Hartis li seguì poco dopo.
«Gli og», sottolineò la vecchia con sufficienza. «Adesso tiriamo in ballo le favole per bambini? Mia cara, se dovessimo votare preferirei la tua idea di bruciare quella jiin insolente che può ancora essere pericolosa, ma sono sicura che sai arrampicarti sugli specchi molto meglio di così...»
Gli occhi verdi di Chawia si spalancarono di rabbia e vergogna, ma non aprì più la bocca. Lanciò uno sguardo verso Olus, alla sua sinistra, e la sua espressione desolata le diede tanto sui nervi da farla scattare in piedi e uscire dalla stanza in pochi istanti, sbattendo la porta alle sue spalle con solennità.
«Og», brontolò ancora Heim scuotendo la testa grigia. «Ci mancano solo loro.»
L'uscita di scena del Capo di Eastreth gettò qualche manciata di secondi di assoluto silenzio nella sala, facendo precipitare tutti i presenti nei loro pensieri.
Fu Silar ad interrompere quell'atmosfera pesante ed irrespirabile. Si passò una mano sul volto con stanchezza e puntò i piedi sul pavimento per spostare indietro rumorosamente la sua poltroncina. Si alzò a sua volta e, come la principessa, uscì dalla sala senza una parola.
«Troppo potere in persone troppo giovani», sentenziò Hartis con voce rauca. I suoi occhietti saettavano nella stanza come mosche irrequiete e si posavano indistintamente sui volti di chi era ancora presente.

Quel giorno erano previste due riunioni straordinarie del consiglio dei Capi Reggenti, una di mattina per discutere del caso Krajal e una nel pomeriggio per confrontare le informazioni che ognuno aveva raccolto su una nuova potenziale minaccia per il regno.
Tra le due riunioni erano previste due ore di pausa, per allentare la pressione e per permettere lo spegnimento di tutti i bollenti spiriti che spesso si accendono nei dibattiti.
Heim avvicinò Goon nel giardino degli alberi variopinti, dai colori meno intensi rispetto ad un paio di mesi prima, quando tutto era iniziato.
Il Capo di Haffireth era seduto su una panchina di legno chiaro, decorata con intarsi fini ed eleganti che narravano la favola di una fata, una di quelle che fanno sognare le bambine di ogni regione. Deiry le adorava.
«Posso?», domandò il Capo di Norreth indicando il posto libero accanto a Goon.
L'uomo annuì e si spostò un po' di lato per lasciargli altro spazio. «Prego», aggiunse cortese.
La vista che si godeva da quella posizione non era né speciale né particolarmente mozzafiato: quella era l'unica panchina che non dava sul Palazzo ma solamente sul giardino e sulla foresta in lontananza, la macchia verde che risaliva le montagne della barriera.
Heim tamburellò le dita sulle gambe con breve frenesia e poi si voltò verso Goon col volto carico di domande.
Il Capo lo guardò obliquo ed inarcò un sopracciglio bianco. «Cosa c'è?», domandò sospettoso.
L'altro fece spallucce. «Mi stavo solamente chiedendo come stessi. Alla luce di quel che è successo, sai...»
«Mi stai interrogando?»
Heim scosse la testa con decisione, ma qualcosa nel suo sguardo si addolcì. «Nekkis era convinto che tu potessi essere il sospettato principale, ma gli ho spiegato che non sei quel tipo di persona. Quindi... parliamone tra amici, sei d'accordo? Ormai ci conosciamo da parecchi anni, voglio solo sapere come stai.»
«Sinceramente?», domandò Goon con un tono smorzato. Scosse la testa in un gesto carico di desolazione. «Non lo so. Non so come reagire a questa notizia.»
«Potresti... gioire?»
Goon strozzò un suono sordo e amaro, mentre un ghigno triste gli si dipingeva sul viso stanco. «Gioire per la morte di una ragazzina? Che buon Capo, che bell'esempio sarei...»
«Ma ha ucciso tua figlia», gli ricordò Heim.
Goon si prese la testa tra le mani e mormorò qualcosa di inudibile. «Non ho mai pensato di vendicarmi», ripeté dopo un po' a voce più alta. «Mai.»
«Nessuno ti avrebbe biasimato. L'ha uccisa...»
«No», disse piano. «Non l'ha uccisa.»
Heim ci mise molto a scegliere le parole adatte a replicare, un po' perché sapeva che avrebbe potuto dire qualcosa di irrimediabilmente sbagliato e un po' perché voleva riuscire a comprendere cosa stesse passando per la testa di quell'uomo abbattuto, distrutto, disperato ma comunque misericordioso. Perché si stava comportando così?
«Ne ha causato la morte», disse infine, soddisfatto per la sua scelta. «Non è lo stesso?»
Gli occhi di Goon si levarono su di lui e, per un attimo, Heim credette di aver capito il suo punto di vista.
«No, non è lo stesso», si limitò a dire Goon con antica stanchezza. «Avrebbe potuto farlo, non l'ha fatto. Il resto è conseguenza.»
Heim si accigliò e batté le mani sulle ginocchia con rabbia, stropicciando l'elegante pantalone. «Stai difendendo un'assassina!», lo accusò feroce. «Offendi la sua memoria! Tua figlia! Ciò che rimaneva della tua famiglia!»
Anche Goon si inalberò risentito e gli rivolse un'occhiata cupa, potente e minacciosa. «Io sono il Capo», tuonò adirato, raddrizzandosi sullo schienale. «Haffireth è la mia famiglia, mia figlia si è offesa da sola in vita e questi non sono affari che ti riguardano!»
Non una mosca volò nei minuti che seguirono silenziosamente quello scambio acceso, solo occhiate bollenti, dardi di una guerra di sguardi che si spense con la resa di Goon.
Si lasciò scivolare nuovamente sulla panchina con un sospiro stanco. L'intarsio della fata gli premeva contro la schiena in maniera fastidiosa.
«Dovrei dimettermi», disse abbattuto.
Heim rimase immobile e lo fissò freddamente. «Dovresti, sì.»
La voce di Goon si piegò e il Capo si strofinò le mani sul viso cicciotto e provato. «Non c'è nessun altro, però, che possa prendere il mio posto. Haffireth non brilla certo per i suoi jiin potenti...»
«Anche per questo dovresti essere arrabbiato con Savannah Krajal e contento per la sua morte», commentò aspro il Capo di Norreth. «Ti ha portato via l'unica jiin adatta.»
Quando Goon alzò il viso verso Heim, però, la sua freddezza e determinazione vennero meno. Era invecchiato all'improvviso e forse era un effetto del tramonto nascente che gli colpiva il viso, ma i suoi occhi apparivano vuoti.
«La vendetta contro una giovane», disse con voce lenta e spenta, «Non mi toglierà le cicatrici, e non riporterà indietro nessuno.»
Heim si chiese di quali cicatrici stesse parlando e corrugò la fronte vagamente confuso; poi si rese conto di aver già udito quelle parole in passato e passò qualche istante a ripescarle dalla memoria. Quando realizzò e ricordò, abbassò il capo e guardò altrove. «Capisco», fu il suo solo commento.
Nekkis comparve alle loro spalle poco dopo, trovando i due Capi immersi nella contemplazione di quel ristretto e scuro panorama che avevano di fronte. Erano assolutamente in silenzio, come se stessero pregando alle stelle della notte.
«È ora?», domandò Heim ancor prima che Nekkis avesse aperto bocca.
Il capo delle guardie inclinò la testa su un lato ed annuì alle loro schiene. «Gli altri stanno già prendendo posto», comunicò. «Qui com'è andata?»
Goon si erse con la possanza di un'antica statua e si voltò verso la guardia con severità. Fissò Nekkis negli occhi con un'intensità che raramente mostrava di possedere, poi lo superò con passi decisi e rientrò nel Palazzo senza dire nulla.
«E questo cosa significa?», domandò la guardia al Capo di Norreth.
«Rivolgi altrove i suoi sospetti», gli disse solamente.
La riunione iniziò con quasi venti minuti di ritardo sull'orario previsto a causa di un imprevisto.
Chawia ritardò a presentarsi nella sala, senza avvisare nessuno e senza inviare messaggeri a comunicarlo, e mostrò il suo visto tranquillo e sereno agli altri Capi quando parte di loro era nel corridoio a sgranchirsi le gambe nell'attesa. Le lunghe candele di cera gialla che troneggiavano al centro dell'enorme tavolo delle riunioni erano già parzialmente sciolte e la luce che emanavano riscaldava l'atmosfera gelida che la principessa stava portando.
«Adesso iniziamo ad avere anche queste manie di protagonismo?», domandò pungente Silar non appena la scorse sulle scale.
La donna però non sembrò averlo neanche sentito e proseguì la sua camminata verso la sala delle riunioni col naso nel libro antico che reggeva a due mani.
«Certo che quella ha proprio un carattere d'oro», commentò Olus sottovoce al collega di Kyureth facendo il verso alla donna.
Silar tirò un angolo della bocca all'insù. «Già, e poi con tutti quei sorrisi le faranno male le guance.»
Heim scoccò loro un'occhiata torva e non servirono altre parole o battute per far iniziare finalmente la riunione. Il grande libro del registro era già aperto di fronte a lui e la penna incantata svettava sulle pagine immacolate come una bandiera, pronta ad articolare fiumi di inchiostro ad ogni parola che veniva pronunciata.
«Possiamo iniziare la seconda riunione straordinaria», disse il Capo di Norreth, e la penna intestò la prima pagina.
La principessa Chawia si sdraiò stancamente sul suo schienale e si osservò i guanti bianchi esaminandoli centimetro per centimetro, come se vi stesse cercando una macchia. «I'shea?», ipotizzò con finta tranquillità.
Quelle due sillabe ebbero il potere di agitare tutti i presenti, accendendo gli sguardi e facendoli guizzare tra loro. «Anche tu ne sei al corrente?», domandò Gerit tradendo la sua diplomazia.
«L'avete saputo anche voi!», esclamò Heim con stupore. «Tutti? Tutti quanti abbiamo ricevuto un rapporto su questo...»
Tutti i Capi confermarono con cenni e gesti inequivocabili: I'shea era un nome ormai familiare per tutti.
«I rilevatori delle guardie hanno scoperto uno jiin nero nella mia città», disse Hartis con una smorfia. «Sbucato dal nulla!»
Goon levò lo sguardo verso di lei ed annuì, contemporaneamente a Olus e Gerit.
Decra li osservò stupita e poi guardò Heim, annuendo a sua volta. «Abbiamo ricevuto tutti lo stesso rapporto?», domandò ostentando un miscuglio di confusione e allarmismo.
«Può darsi», bofonchiò Heim mentre si portava una mano sulla barba ispida, grattandola sovrappensiero. «Oppure c'è uno jiin nero in ogni città.»
Olus si alzò in piedi spostando indietro la sua poltroncina e si appoggiò al tavolo con entrambe le mani. La sua chioma fluente gli nascose il viso per un istante, poi lo sguardo chiaro e preoccupato tornò in campo. «Uno jiin nero in ogni città?», sottolineò con finta ironia. «Sette jiin neri... no, è impossibile. E poi perché si chiamano tutti “I'shea”? Sono tutti Demoni?», rimuginò ad alta voce, interpretando il pensiero di tutti i presenti.
Si allontanò dal tavolo e si avvicinò verso la finestra, una composizione di pannelli di vetro che davano sulle ultime macerie di Tolakireth, ferita per fortuna non più sanguinante. In due mesi erano tanti i progressi che erano stati fatti per rimettere in sesto il Palazzo, ma del passaggio dei Fein Anis c'erano ancora molte tracce in giro e alcune così profonde che si era deciso di lasciarle, a memoria futura.
Anche Gerit si alzò in piedi, sentendosi improvvisamente stretto nella poltroncina rossa. «Sette Demoni o uno solo, che in qualche modo si sposta ovunque», ipotizzò con opaca convinzione alzando una mano. «Non posso pensare che ne esistano così tanti... già solo uno è al limite dell'impossibile, come avrebbe fatto a sfuggire per così tanto tempo alla società? Sono secoli che non esiste una creatura così potente!»
«E se i rilevatori avessero sbagliato?», propose Decra con un pigolio. «Nessuno può averne costruito uno in grado di scoprire un livello nero con precisione, servirebbe un artigiano di livello pari o superiore...»
«Sette rilevatori sbagliati?», commentò amaro Nekkis, smettendo il suo isolamento silenzioso. «E tutti in prossimità del luogo indicato come residenza di un I'shea? Non prendermi per uno scettico, Decra, ma credo che questi “sbagli” somiglino troppo a coincidenze che inchiodano.»
Il Capo di Feinreth gli lanciò uno sguardo obliquo e poi incrociò con fastidio le braccia al petto, appoggiandole sul pancione ormai enorme. «Sì ma ci sarebbe troppo squilibrio magico», borbottò piccata. «Se esistessero sette jiin neri, Ataklur ne risentirebbe. È scritto, ci sarebbero conseguenze.»
«Come ad ogni morte importante», Chawia proseguì il discorso per lei, rubandole la parola. «Quello che cercavo di farti capire prima.»
Heim batté una mano sul tavolo e fece svolazzare un foglio tra loro. Anche le pagine dell'enorme registro che aveva di fronte si mossero per un attimo.
«Non è più questo l'ordine della riunione, Chawia!», tuonò. «Adesso stiamo discutendo degli I'shea, quella questione è chiusa.»
La principessa strinse i pugni di seta delicata e le labbra rosse con forza, trattenendosi dall'esprimere verbalmente il suo disappunto. Quando riuscì a contare abbastanza a lungo da far passare la furia, un foglio ed una penna dorata volarono di fronte al suo naso dal centro dell'enorme tavolo. La penna iniziò a prende nota di tutti i suoi pensieri come se la donna glieli stesse dettando in silenzio mentre attorno a lei la riunione riprendeva.
«Ad ogni modo rimangono dli I'shea. Cosa dobbiamo fare? Che misure prendiamo?», domandò Olus tornando seduto. Si passò una mano tra i capelli per scostarli dal viso ma non ebbe grandi risultati.
Hartis ridacchiò appena e poi soffiò annoiata. «Per ora non abbiamo altro che sette rilevatori impazziti, che cosa vuoi fare? Prendere l'artigiano responsabile?», propose ironica. «Oppure andiamo tutti assieme a bussare ad una di queste case in cui si dice che abitino gli I'shea, portiamo dei dolcetti di benvenuto e scambiamo quattro chiacchiere, sì. Di solito funziona.»
La penna dorata di Chawia smise di correre sul foglio di carta e per qualche istante non ci fu alcun suono tra loro.
«Ricordami perché sei ancora un Capo», chiese la principessa con voce tagliente. «Hai sempre delle idee così geniali...»
«Disse quella che ha tirato in ballo gli og», ribatté la vecchia increspando le rughe del volto.
Chawia indicò con decisione il libro con cui era entrata nella sala e catalizzò l'attenzione di tutti i presenti su quella copertina marrone e logora. «Questa è la copia del libro che i Fein Anis hanno rubato prima di distruggere Tolakireth», riferì lentamente, certa di avere i Capi pendenti dalle sue labbra. «Non vi interessa sapere cosa li aveva incuriositi tanto da irrompere nella biblioteca magica?»
«Ovviamente», disse Heim con la sua tipica diplomazia. «Ma non è l'oggetto della questione attuale. Ora stavamo discutendo di...»
Lo sguardo smeraldino di Chawia non lo degnò neanche di un'occhiata, fisso com'era sulla pagina del libro che le si era appena aperto davanti. «Qui», spiegò indicando una riga con il suo esile dito ricoperto di seta bianca, «Si parla di Mjoklur. È un libro che guida al Regno dei Morti.»
Heim alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Intuisco che tu non abbia alcuna voglia di parlare degli I'shea nelle nostre città», commentò con spenta allegria. Scorse di sfuggita Silar e Decra, entrambi con un'espressione corrucciata e cupa sul viso, e corrugò la fronte.
«Vedo che qualcuno ha già intuito la correlazione tra i dati», disse invece Chawia con soddisfazione non appena si accorse di quelle reazioni. «Silar, per cortesia, vuoi illuminare tu il Capo di Norreth?» Silar inspirò e si passò due dita sulle tempie, massaggiandole. Era strano ritrovarsi lì a quel tavolo a parlare di certe pratiche oscure e innaturali, ma Chawia aveva ragione: improvvisamente era tutto più chiaro. Schiuse le labbra e sperò di riuscire a dire ciò che aveva in mente con un senso logico adeguato.
«Probabilmente stanno cercando di riportare in vita i loro genitori. Stavano, cioè. Dubito che Nehroi da solo possa...»
«Decra», lo interruppe la principessa spostando lo sguardo tra loro come una professoressa durante l'interrogazione. «Tu hai intuito qualcos'altro?», domandò con un sorriso malizioso e pericoloso.
La donna incinta annuì debolmente. «Forse Nehroi l'ha fatta seppellire per riportarla in vita», tentò incerta. Era un'ipotesi troppo azzardata, Silar aveva ragione a dire che da solo non avrebbe mai potuto farcela. Ma la parte di lei che li conosceva e che li aveva capiti sentiva che non era un'ipotesi tanto azzardata.
«Bene, e adesso l'ultima correlazione», proseguì Chawia con certezza crescente. Passò in rassegna tutti i Capi beandosi delle loro espressioni così tanto eloquenti: sembravano esser stati messi con le spalle completamente al muro, senza via d'uscita. Finalmente stavano capendo il suo ragionamento. La principessa lasciò l'attesa aumentare ancora un po' mentre si sistemava la stoffa del guanto sul palmo destro.
«Gli og mangiano i morti», disse Olus mentre lo faceva, rubandole la scena.
Le labbra di Chawia si strinsero per il disappunto ma la soddisfazione per averlo condotto fuori dai binari delle sue precedenti convinzioni fu più grande. «Precisamente», commentò con un vago sorriso. «Savannah può ancora essere un pericolo.»
«Perché?», chiese Decra, e il modo in cui si bloccò fece capire come sapesse che quella era una cosa che non avrebbe dovuto domandare. Abbassò rapidamente lo sguardo, sperando di non essere stata udita.
La principessa si beò della sua espressione smarrita e confusa. Le labbra scarlatte si piegarono all'insù. «Mangiano solo quelli che non sono stati privati della loro magia tramite le fiamme, mia cara Decra. È solo una leggenda per spaventare i bambini, lo so, ma in ogni storia c'è sempre un fondo di verità, no? E dal momento che Savannah potrebbe finire nelle loro mani... o meglio, zampe, la sua magia creerà davvero uno squilibrio magico perché non rientrerà mai ad Ataklur come dovrebbe. I primi segnali di questo imminente disastro sono gli I'shea, notoriamente creature magiche anormali come gli og che si impossessano del...»
«Adesso basta!», sbottò Hartis arrivata ormai al limite, picchiando i fragili pugni sul tavolo. «Sono stufa di sentire queste baggianate, gli og non esistono e questi I'shea non sono altro che un equivoco! Quanto alla ragazzina, l'ha detto Heim ore fa: Ataklur non crollerà se non riceverà il suo tributo!»
Si guardò attorno muovendo con decisione gli occhietti vispi in cerca di sostegno. Trovò concordi solamente Heim, Gerit e forse Goon; Olus e Decra sembravano fin troppo pensierosi per i suoi gusti.
«Bene, ah!», terminò la vecchia con ritrovata energia. Scoccò un'occhiata saccente e vittoriosa alla principessa ma la donna non le diede soddisfazione e la sua espressione tornò glaciale come era solita fare. «Siamo in maggioranza, direi. Adesso possiamo riprendere a ragionare come persone sane di mente, accantonando queste teorie fantasiose finché non troverai prove concrete. Perché non parti alla ricerca di una mistica Ogklur? Sono sicura che i tuoi amati og si radunino in una terra segreta oltre l'arcobaleno...»
«Hartis, per cortesia», la richiamò serio Heim mentre la principessa si alzava dalla poltroncina rossa. Il lungo vestito scivolò lungo le sue gambe srotolandosi come una tenda ed oscillò ritmicamente ad ogni suo passo.
«Siamo ad Ataklur, vecchia strega, non te ne rendi conto?», disse acida mentre attraversava rapida la sala delle riunioni, come aveva fatto anche poche ore prima. La sua sagoma illuminata dalla luna e dalle candele si rifletteva sui dipinti che si affollavano sulle pareti, donando ad ogni luogo ed antenato una nuova forma e nuovi colori. «Tutto può accadere in una terra ricca di magia.»
«Scappi di nuovo?», le domandò Silar non appena la donna sfiorò la maniglia della porta.
«Ho altri progetti per la serata», ribatté Chawia un istante prima di chiuderla sonoramente.

Un panettiere dell'area est di Bastreth aprì la porta di casa, quella mattina, ed intravide nella flebile luce dell'alba un piccolo rotolo di Carta Chiacchiera.
«Posta», disse alla moglie assonnata che versava il caffè nella tazzina in cucina.
«Da parte di chi?», chiese lei incuriosita, e lo stesso fece la moglie del sarto, il figlio dell'ortolana, la sorella della dottoressa, il padre dell'artigiano magico. In ogni regione, in ogni città, ad ogni porta di ogni casa era comparso lo stesso rotolo di Carta, recante lo stesso messaggio.
Anche a Tolakireth ne era giunto uno, quella mattina, di fronte al portone principale, e il domestico che lo trovò lo recapitò subito ai Capi Reggenti, chiedendo perdono per il disturbo durante la colazione.
Gerit alzò una mano e il domestico gli porse il rotolo con un movimento rapido ed accurato, prima di sparire nelle cucine chinando la testa umilmente.
«Cos'è?», bofonchiò Hartis sbriciolandosi addosso la fetta di pane che stava masticando.
Il Capo di Kyureth scorse rapidamente il testo, sbiancando man mano che le parole si incastonavano nella sua mente come chiodi.

Popolo di Ataklur,
amici delle regioni vicine e lontane.
I tempi sono cambiati.
Siete ormai guidati da Capi che non sono più in grado di decidere saggiamente per la popolazione, troppo chiusi nelle sale marmoree per poter vedere oltre le loro presunzioni.
Un nuovo pericolo si sta avvicinando alle vostre case e loro non hanno intenzione di fare nulla finché non sarà molto probabilmente troppo tardi.
Io ho deciso di dire no al loro sistema, no alle ingiustizie, no ai Grandi Tornei che ci portano al potere solamente palloni gonfiati. L'era dei Capi è giunta al termine, è giunta l'ora che una persona sola ponga fine ai problemi e alle spaccature che ne provocano sette con decisioni deboli e sbagliate.
Io sono Mief Chawia, Capo e principessa di Eastreth, e vi garantisco soluzioni rapide e decise contro ogni minaccia che affligge le nostre magnifiche e magiche terre!

Le dita di Gerit tremarono mentre porgeva il rotolo anche agli altri Capi.
Deglutì. «È una dichiarazione di guerra.»



*-*-*-*



Shark cattiva vi lascia così in sospeso? SI!
Lettori inquietati ripensano alla richiesta di postare un ultimo capitolo prima della partenza...
Cmq l'avrei scritto identico anche a settembre, tranquille ^^
Se questa storia dovesse mai diventare un libro vero sarebbe diviso in due-tre volumi (mi è stata suggerita l'idea della trilogia ma ormai la fanno tutti xD) e questo sarebbe il finale del primo! Ora capite perché ho corso tanto durante l'anno pubblicando capitoli settimanalmente? Cercavo di terminare questa storia in maniera corretta prima che partissi xD Ho messo abbastanza pedine sul terreno? Cliffhanger? Aspettative?
Grazie infinitamente per avermi sostenuta e seguita fin qui, davvero!!
Adesso io parto e torno a settembre, con i prossimi capitoli già belli pronti da mesi e mesi (esattamente dallo stesso giorno in cui ho scritto gli ultimi disgraziati due u.u) quindi preparatevi a sincronizzarvi su EFP perché Sorcerers' Dreaming will be back! =D
Grazie di nuovo a tutte le anime pie che hanno resistito e letto sempre, nel bene e nel male: Killuale, KiraraMiranda, martnyny, KarenX, Silvar Tales! Vi abbraccio virtualmente tutte! <3
Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 39
*** AVVISO AI NAVIGANTI ***


In un attimo di folgorazione mi sono ricordata di avvisare il gentile pubblico che l'avventura prosegue ma non in questa storia. Sì, sono un tonno.
Nehroi, Savannah, Phil e tutti gli altri regalano nuovi episodi in Sorcerers' Dreaming – La Missione, seconda parte di questa lunga storia che vi siete accollati se state leggendo questo messaggio! XD

Colgo l'occasione per ringraziare formalmente, oltre ai mitici che recensiscono, anche chi ha letto abbastanza da premere “inserisci nei preferiti/seguiti/ricordate” questa storiella fantasy!
Quindi grazie per il sostegno a:

cri_00 
Killuale 94 
KiraraMiranda 
LailaOsquin 
martnyny 
Ser Balzo
CallMeMomoTM 
Carmen Black 
Marina94 
Ieahleen 
KawaiiPanda 
Lady Moonlight 
Nemainn 
NevhariaDGBRys 
rekichan 
Secretly_S 
Severa Piton 
KarenX
Shiho93 
the_Masterpiecer 
Vina

Se e quando vorrete lasciare un parere o commento di qualsiasi tipo, un suggerimento, ancor meglio se una critica... vi ringrazierò di nuovo e sono sicura che potrebbe anche nascerne una buona amicizia virtuale! Adoro il contatto con i lettori, si nota? ^^ (potete anche aggiungermi su fb, per non star dietro alle formali mail interne di EFP!)

Arrivederci nella seconda parte della storia, dunque!
Se lo desiderate, io sarò lì ad intrattenervi di nuovo con magiche terre e destini ingarbugliati!

Shark


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