My Dearest Flower

di but honestly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. The Sea Daughter ***
Capitolo 2: *** II. Healer ***



Capitolo 1
*** I. The Sea Daughter ***


Sente la sabbia sotto di sé, nei vestiti, tra i capelli. Giace a terra come una bambola abbandonata sulla spiaggia, a pochi passi dalla riva, mentre una luce tiepida le illumina il volto diafano, dai lineamenti dolci di una bambina, così candido da sembrare di porcellana. Vorrebbe aprire gli occhi, ma sente le palpebre pesanti e la gola le brucia terribilmente; il fastidio poi si espande, dalla gola passa al petto, alle braccia, alle punte delle dita, poi tocca la cute che ricopre il suo piccolo corpo. Deve essere stato il calore del sole a bruciarla, ma il suo colorito è rimasto stranamente latteo, immutato. E' sorpresa: non ha mai provato un tepore simile. Lentamente volge il primo sguardo a ciò che la circonda, ma subito deve rinunciare all'impresa, poiché l'intenso bagliore proveniente dal cielo le ferisce gli occhi affetti da un'inspiegabile eterocromia.
Le necessitano una manciata di minuti per abituarsi all'ambiente circostante. Per qualche secondo una tosse convulsa ed incontenibile la soffoca, poi si riprende e inspira profondamente: un forte odore di salsedine le invade i polmoni e si sente subito meglio. Alza il busto con leggera fatica, il suo corpo è dolente, come reduce da un incredibile sforzo. Si guarda intorno, curiosa. Dinnanzi a lei, si espande un'immensa distesa in perenne movimento, di un colore azzurro intenso, che avvicinandolesi si mescola ad uno spazio altrettanto ampio, ma solido, statico. Vi passa una mano sopra. E' uno strato composto da migliaia e migliaia di minuscoli granelli solidi, pietre probabilmente. Non ha mai visto qualcosa di simile, ma ricorda di aver sentito di qualcosa di simile da qualche parte. La chiamano “sabbia”, che le scorre tra le dita rapidamente, frammento dopo frammento, e si mescola al paesaggio. Vorrebbe rammentare altro, ma le immagini che si susseguono nella sua testa si mescolano, si confondono, e compongono un puzzle incomprensibile, impossibile da ricostruire. Dunque, la bambina dalla pelle di porcellana si volta e prende visione di ciò che la sovrasta alle sue spalle: alberi alti e robusti compongono una piccola foresta, sormontata più avanti da alcune montagne. Sono alte, maestose, alla piccola sembra che tocchino il cielo. Questo ha uno strano colore celeste, che per qualche motivo le pare innaturale. Non è abituata a quel chiarore, nella sua mente, i pochi frammenti di luoghi che affiorano sono illuminati da una luce spenta, opaca, ovattata. Forse è un luogo al riparo dal calore che l'ha bruciata.
Lo stomaco si lamenta, gorgoglia appena, duole un po'; non ricorda quando è stata l'ultima volta che ha mangiato qualcosa, né vi bada, si limita ad alzarsi e a dirigersi verso una direzione puramente casuale. Decide di seguire la foresta e raggiungere i monti, magari per scovare una grotta in cui sostare piacevolmente, lontano dall'astro che pare fissarla malevolmente, così procede a passo spedito. Dopo breve tempo, la sabbia diventa una distesa rocciosa, poi si trasforma in terra, ricoperta da foglie scricchiolanti e rami secchi. Inciampa sempre più frequentemente, senza intendere il motivo di tanta goffagine. Ruzzola, si macchia l'abito già abbastanza logoro, eppure le sembra di poggiarsi nei punti giusti. Prova ancora a dirigere il piede in avanti, alzandolo per evitare una radice, ma non lo solleva abbastanza e cade ancora. Si chiede per quale ragione non riesca ad evitare ostacoli tanto banali. Poi la coglie un presentimento. Si porta una mano davanti al viso e sussulta silenziosamente, si spaventa, deglutisce. Ne riesce a vedere solo una metà, quella sinistra, mentre l'altra è totalmente buia, quasi cieca. Chiude l'occhio destro, ma non avverte alcuna differenza rispetto a quando lo teneva aperto. Teme di non poterlo più utilizzare, in verità non ricorda di averlo mai fatto, ma trattiene le lacrime e deglutisce ancora. E' sola e se piangesse nessuno potrebbe sentirla.
Si alza una lieve brezza, che comincia a spirare alle sue spalle. Rabbrividisce vertiginosamente, solo allora si rende conto di essere totalmente fradicia; è vestita con un abito sporco e strappato dalle numerose cadute, ma è bagnato e non la riscalda come dovrebbe. Si rende conto di aver bisogno di un riparo. Non ha idea di come procurarsene uno, così si rialza e accelera il passo. Continua a cadere, ma lentamente si abitua al suo svantaggio e perfino i graffi smettono di bruciarle. Passa il tempo, ma il sole continua ad osservarla e a menare fendenti sul suo corpo. Non riconosce assolutamente nulla di ciò che le si presenta intorno e ciò la inquieta parecchio. Vuole raggiungere al più presto qualcuno, chiunque, o almeno un riparo al caldo. Si stringe nelle spalle e ad ampie falcate procede verso destra, dove le sembra di intravedere un sentiero privo di rami e radici. Ed ha ragione: ha scorto una strada di montagna, che appare ripida e impervia. Ha due direzioni: una in salita ed una in discesa. Quest'ultima si presenta come la scelta più allettante per la bambina, che è stanca, desidera riposarsi e ripararsi dal vento, sa che non potrebbe mai sostenere la traversata su una via ripida.
Cammina per parecchio, non sa dire quanto tempo sia passato da quando ha imboccato la discesa, ma non riesce ancora a vederne il termine. I capelli sporchi le ondeggiando impertinenti davanti al viso, la infastidiscono, ma non può fare null'altro che sopportare. Procede lentamente, senza una meta, si sente debole, in condizioni normali sarebbe crollata da un pezzo: ma è il terrore di morire a spingerla, o forse la fame, non sa dirlo. Inciampa, cade. Punta i piedi a terra, si fa forza con le braccia, ma non riesce ad alzarsi. Ha paura. Nelle vicinanze le sembra che non ci sia nessuno, è sola, sa che nessuno verrà a prenderla.
Per qualche minuto resta a terra, immobile, come morta. Sembra che dorma, ma ha gli occhi spalancati verso il vuoto, dinnanzi a lei. Con il pensiero raggiunge la fine della strada, è a valle, ci sono persone, c'è un pasto caldo, c'è un giaciglio semplice, ma comodo e tiepido. Ma con il corpo è ancora lì, sulla terra fredda, con gli abiti fradici ed insudiciati dal terriccio umido, senza forze. Poi sente qualcosa. E' un rumore flebile, quasi impercettibile, un sussurro, un fruscio. Le ci vuole pochissimo per capire che quel suono si fa strada solo nella sua mente, non è esterno. Si amplifica sempre più, diventa una voce, piccola, di una bambina, e recita una litania lenta e ammaliante. E' una lingua che non conosce, è viscida, pastosa, ma in qualche modo ne intende il senso. Il suo occhio destro le duole, ma non vi bada, è completamente assorta nel canto della voce. Presto i suoni della natura che la circondavano scompaiono, quella voce la solleva, le dona forza, il suo corpo si muove senza che lei lo comandi, ma è troppo stanca per tentare di riprendere il controllo, così lascia che sia quel sussurro a dirigerla, come la marionetta fa con il burattinaio. Ora è davvero una bambola nelle mani di qualcuno.
Muove passi lenti verso la foresta, ancora una volta, felpati, silenziosi. Sa di cercare qualcosa. Sente che dal suo occhio sta scendendo qualcosa, un liquido viscoso, caldo, denso. Non vi bada, ancora.
In lontananza si muove qualcosa. Il suo cuore sussulta, il battito accelera, il suo respiro si fa sempre più silenzioso, appena percettibile. E' un fantasma, invisibile. Ciò che le si presenta davanti è un cerbiatto, non è molto più alto di lei. Se l'avesse incrociato poco prima, l'avrebbe accarezzato, l'avrebbe osservato con ammirazione, con curiosità.
Ma ora, la bambina era una cacciatrice, una predatrice, e quel cervo il suo obiettivo, il suo fiero pasto. L'animale ha appena il tempo di accorgersi della sua presenza, quando viene sovrastato dal suo peso. La bambola candida afferra un ramo piuttosto lungo, poi con una forte pressione lo conficca nella gola del cervo, dalla quale schizza una sostanza vermiglia e maleodorante. Nella sua bocca, quella sostanza assume un sapore agrodolce. E' un sapore disgustoso, ma allo stesso tempo sente di averne sete, di volerne ancora. Il cerbiatto rantola, muove convulsamente le zampe, è terrorizzato. Viene colpito ancora, e ancora, e più volte finchè non soffoca nel suo stesso sangue. La cacciatrice non ha nulla di umano, è solo una bestia affamata, non ha alcun riguardo per la sua vittima. Ne addenta la carne avventandovisi sopra con violenza, la strappa, la ingoia intera, e non si ferma finchè non è sazia. Il sapore della carne cruda le da la nausea, ma si abitua presto a quello della sostanza che ne fuoriesce, le pare delizioso, non riesce a placare la sua sete e ne vuole ancora. Poi la voce torna ad essere un sussurro ed infine solo il silenzio.
La bambina non si rende conto di ciò che è accaduto. Ha solo paura. Si alza in piedi, cerca di ragionare, di capire. Non ha più fame, ma non riesce a pensare. La sua mente è vuota. Le gira la testa, cade carponi, guarda innanzi a sé. Ciò che le si presenta davanti non è una carcassa, ma un ammasso putrido e informe di interiora e sangue, uno spettacolo davanti al quale la bambina non resta indifferente; è completamente immersa in un lago cremisi, maleodorante, misto al terriccio. Vorrebbe urlare, le grida le muoiono in gola, soffocate dalla sua stessa paura. Si alza, scappa, inciampa più volte, ma è troppo sconvolta per fermarsi. Si muove a caso, ma qualunque posto è meglio di quel cruento spettacolo. Lungo la strada la coglie un conato di vomito ed è costretta a fermarsi; sente il suo corpo debole, le gambe cedevoli. Procede per pochi altri metri. Scorge la sagoma di un torrente, di un fiume di scarsa portata, vorrebbe lavarsi, strofinarsi le mani tanto forte da scorticarle, ma non può più avanzare. I suoi piedi sono immobili, incollati al terreno, pesanti come macigni. Poi il suo corpo cade come inanimato. Il buio la avvolge e perde ogni sensibilità o coscienza di sè.
 
Quando Rovi sale sul suo carro è ormai mezzogiorno: il sole è alto nel cielo e trionfa maestoso. Il vecchio si porta una mano ai capelli radi e brizzolati, inumiditi dal sudore di una giornata di lavoro. Sa di essere in ritardo e che questo graverà sul suo lavoro: arriverà al mercato in quattro giorni, ma tutti i posti migliori saranno già occupati e dovrà accontentarsi di un banco appena lontano dalla via principale. Prende tra le mani le redini dei cavalli, i quali nitriscono con vigore. Saluta dei passanti, non è preoccupato, riuscirà comunque a vendere la maggior parte della sua mercanzia. Ci riesce sempre.
Si mette in viaggio da solo, come sempre, nonostante i rimproveri altrui. Ormai è vecchio, e alla sua età si diventa facili bersagli dei briganti, soprattutto considerato il suo mestiere di mercante. Un aiutante potrebbe essergli utile, un apprendista magari. Ma Rovi non è stanco, né affaticato: è gracile, ma abbastanza esperto da conoscere i comportamenti da adottare per le emergenze. In più, le sue merci non sono tanto ricche da rischiare di essere rubate: trasporta pelli, mentre i ladri prediligono il bestiame, poiché si vende a miglior prezzo e funge da cibo nelle emergenze.
Raggiunge le porte del piccolo paese in cui si trova entro una mezz'ora, imbocca il sentiero del Promontorio Ultimo che presto lo condurrà al Porto di Giafta. Da lì, si recherà al mercato di Barahar, dove si rifornirà ancora di provviste per il suo viaggio verso una nuova meta. La strada è lunga e silenziosa, quasi interminabile, vorrebbe procedere velocemente senza mai fermarsi. Odia le lunghe traversate, perchè il silenzio lo spinge a ricordare il passato, la sua amata Desia, che da molti anni ormai è mancata. Comincia a distrarsi, a vagare con la mente verso posti lontani, che con lei ha visitato molto tempo prima, felicemente. Ha davvero molti anni alle spalle, più di novanta, ma è ancora un uomo sveglio, non ha alcun problema di memoria, e di questo forse si rammarica. Non ha figli a cui trasmettere un'eredità, né una famiglia o degli amici, poiché i suoi viaggi occupano tutto il suo tempo. Con sé ha solo il peso degli anni, che lo opprimono come pesanti macigni. Ha troppa paura per abbandonare il suo mestiere, ed è troppo stanco per proseguire con esso. Si trova in una situazione di stallo che abbandonerebbe volentieri.
Quando il calore del sole si attenua, decide di sostare presto il fiume per lasciare che i cavalli si riposino e si rifocillino con dell'acqua fresca. Conduce il carro all'interno della foresta, è un carretto piccolo, che non ha problemi a farsi strada tra un albero e l'altro. Trovato uno spiazzo tranquillo, smonta dal suo veicolo e scioglie i nodi che legano i cavalli ad esso. Poi, li conduce a piedi verso il piccolo fiume, a passo lento. Li accarezza, quelle due nobili bestie lo accompagnano da dieci anni e sono i suoi unici compagni. Ha donato loro dei nomi: Thoon e Hvases, entrambi dal pelo nero e la criniera bianca. «Cari compagni,» sussurra loro, a tre o quattro piedi dallo specchio d'acqua, «concedetevi un po' di riposo.» poi sorride, e li lega ad un tronco presso di esso.
Nell'attesa, si siede su una roccia, all'ombra delle fronde di un'altra pianta, alta e possente, robusta come era stato lui in gioventù. Da ragazzo era alto, dalle spalle larghe; non bello magari, ma non era per il suo aspetto che Desia si era innamorato di lui. Era un uomo comune, come ce ne sono tanti, ma era allegro, dall'aria vivace, ed era questo che aveva catturato l'attenzione della sua donna. Cos'era rimasto dell'uomo virile e forte del passato? Soltanto un vecchio gracile e debole, cui resta solo una mente lucida e i suoi cavalli. Sospira. Si rende conto di come il tempo in solitudine lo abbia cambiato e ciò gli lascia l'amaro in bocca.
E' immerso nei suoi pensieri quando la nota. E' una sagoma piccola, coperta di stracci umidi, dai colori che non riesce a definire, poiché la sua vista non è più acuta come quella di una volta. Qualcosa nella sua testa gli suggerisce di allontanarsi, di tornare sui suoi passi e procedere verso Barahar alla massima velocità.
Ma l'indole curiosa del giovane Rovi si fa strada nel suo cuore e supera la diffidenza del vecchio, spingendolo a scoprire di cosa si tratti. Si avvicina, cauto, alla figura lontana, che lentamente assume nitidezza. Quando si rende conto che la sagoma è quella di una bambina, si allarma e, facendosi forza, le corre incontro, per prestare soccorso. Quando finalmente si china su di essa, si rende conto delle sue condizioni. E' avvolta in un abito logoro e fradicio, inzuppato nel sangue. Toccare quel drappo sporco lo fa rabbrividire, non ha mai assistito ad uno spettacolo abominevole come quello. Inoltre, il fatto che abbia tra le mani il corpo di una bambina, e non di un guerriero, lo terrorizza. E' solo un mercante, può prestare solo delle cure primarie, provvisorie, un primo soccorso. Si avvicina al volto e si accorge che la piccola respira, è viva, e questo da una parte lo rincuora. E' un respiro forte, non è flebile. Forse può aiutarla. Mette da parte il pudore verso un corpo femminile e comincia a toglierle l'abito, alla ricerca della ferita che l'ha ridotta in quello stato. Il solo pensiero che qualcuno possa osare tanto su una bambina lo fa aborrire, come si può calare la spada su una creatura tanto indifesa? Passa uno sguardo rapido sul suo corpo: con sorpresa si accorge che è del tutto illeso. Si chiede come sia possibile, ma prima di indagare oltre, la veste rapidamente, ancora una volta colto dal pudore. Da dove può provenire tutto quel sangue? Non può aver ucciso qualcuno, no, non può essere stata lei: è davvero troppo piccola, avrà non più di tre o quattro anni.
Poi un pensiero gli trapassa la mentre come una pugnalata e il vecchio si irrigidisce, senza fiatare. Che si tratti del sangue dei genitori?
Vorrebbe scartare quest'opzione, ma presto si rende conto che è l'unica spiegazione plausibile; inoltre, gli omicidi di stato sono all'ordine del giorno: probabilmente erano rivoltosi, e lei ora è una piccola fuggitiva. Da sola, nella foresta, non sopravviverà più di un giorno. Forse non mangia da giorni, forse è malata, ma di certo da sola anche la più piccola speranza sarà inutile. Ancora una volta, nella sua testa, il vecchio Rovi incomincia una discussione animata con il giovane sé stesso. L'anziano commerciante vorrebbe andarsene, proseguire come se non avesse visto nulla: se la bambina è malata, morirà prima dell'arrivo comunque, portarla con lui è un rischio inutile; i sicari potrebbero essere nelle vicinanze, potrebbero trovarli, potrebbero uccidere anche lui. Ma il giovane impavido di un tempo si fa avanti, con forti urla e incitamenti soffoca la voce del vecchio. Non può lasciarla lì. E' una bambina, è sola e soprattutto è viva.
Prende dalla sacca che porta sempre a tracolla qualcosa: è un panno, un pezzo di stoffa piuttosto vecchio. Lo immerge nell'acqua del torrente, la sente scorrere tra le dita, è fresca, la sensazione è piacevole. Poi, con delicatezza, passa il piccolo drappo inumidito sul volto della minuscola vittima. Quando ha terminato, si accorge di quanto sia chiara la sua carnagione. E' bianca come il latte, il volto sembrava quello di una bambola di squisita fattura, incorniciato dai capelli che, una volta lavati, dovrebbero presentarsi tanto biondi da parere bianchi, candidi, come la neve. Le labbra, invece, sono color pesca, piccole, socchiuse nel respiro.
Il pensiero di doverla portare con sé, da un lato, è insostenibile. Come potrebbe un vecchio prendersi cura di una ragazzina? Si tratta di un'utopia: Rovi ha passato da un pezzo i novant'anni, potrebbe essere il suo bisnonno; probabilmente si sarebbe ammalato presto, lasciando da sola la piccola ancora una volta. L'unica soluzione plausibile per entrambi era raggiungere Barahar al più presto e lì recarsi presso l'orfanotrofio. Sicuramente, in quel luogo la piccola avrebbe potuto vivere in tranquillità, magari trovare una famiglia.
La prende in braccio gentilmente, è così leggera che, nonostante l'età avanzata, riesce a tenerla senza problemi. La conduce sul carro, dove la adagia con adeguata attenzione, poi recupera i due cavalli e riprende il cammino verso la meta. E' giunta la sera.

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Capitolo 2
*** II. Healer ***


Quando la bambina inizia a riprendere conoscenza è ormai sera. Il sole non le brucia più la pelle diafana: l'immenso calore si è ridotto ad un flebile tepore, piacevole, quasi confortevole. Tiene gli occhi ostinatamente chiusi, ha paura di ciò che potrebbe scorgere con lo sguardo. La fame è del tutto svanita, ora prova solo un forte senso di nausea e un dolore atroce alla nuca, dove ha probabilmente subito un forte colpo dopo la caduta. Lentamente riaffiorano i ricordi di poco prima, come bolle d'aria che salgono verso la superficie di un immenso lago. Il cerbiatto, il sangue, la sete, il desiderio irrefrenabile di dilaniare la carne della sua vittima. Il suo atto non somiglia affatto alla caccia per fame: la bambina sa perfettamente di aver compiuto un assassinio. E' terrorizzata e si lascia sfuggire un gemito, che attira l'attenzione di qualcuno. Una presenza di cui lei non si è accorta. Sente dei rumori soffocati, ovattati; solo a quel punto si accorge di non essere a terra, ma su una piattaforma in movimento, che viene scossa dalla presenza di piccoli ciottoli sulla via che percorre. Le sembra che il cuore sia rimasto immobile con lei, ad ascoltare ciò che la circonda, all'erta, pronto ad accelerare improvvisamente con una scarica di adrenalina. Si aspetta una voce gelida e sibilante ad assalirla, di qualcuno di potente che forse ha deciso di punirla per il suo peccato; hai dilaniato le spoglie di un cerbiatto che hai assassinato con le tue mani, hai bevuto il suo sangue! Le sembra di vivere la scena nella sua testa, come in un sogno, ma in cuor suo sente di essere sul ciglio di uno strapiombo senza fine. Quale creatura immonda potrebbe mai compiere un atto del genere!? Ma, al contrario delle sue aspettative, il tono di voce dell'uomo che la chiama è stanco, soffocato dagli anni, appesantito dalla fatica. «Sei sveglia?» ma la bambina resta in silenzio, immobile: non ha la certezza che lo sconosciuto stia parlando con lei. Però la domanda si ripete ancora una volta, le viene rivolta con un tono un po' più alto, intento a farsi sentire, e lo sconosciuto le sfiora un braccio. La reazione della piccola è immediata: sobbalza, poi socchiude gli occhi e lo vede. Anche stavolta la luce del sole mena fendenti ai suoi occhi, ma la bambina si impone di non farvi alcun caso e continua ad esplorare il volto dello sconosciuto. E' un individuo anziano, dalle guance scavate e il corpo curvo, vestito di abiti semplici, di colore scuro, con una giacca di pelle affatto pregiata e rammendata sul fianco in modo piuttosto approssimativo. Ha i capelli radi, bianchi e candidi, mentre le iridi degli occhi sono ormai chiarissime, quasi bianche, sembra che quello sguardo rasenti la cecità, eppure mantiene uno stato di tranquillità che diffonde come con un'aura, intorno a sé. La piccola è incuriosita dal suo aspetto, che le pare per qualche ragione insolito. Ancora una volta le viene posta una domanda: «Ti senti bene? Ti fa male qualcosa?». Lei esita appena a rispondere, ma lo sguardo del vecchio la scruta, le si posa addosso con delicatezza, ed è così gentile, quella premura, che per finire non può fare a meno di rispondergli: «Non mi fa male nulla.» mormora, con un filo di voce appena sufficiente a farsi intendere dall'anziano conducente di ciò che sembra essere un rozzo mezzo di trasporto: un carro. Mente, certo, la testa le fa ancora male, ma non ha voglia di pensarci. Vuole dimenticare quel che l'ha coinvolta poco prima e in alcun modo desidera che il suo soccorritore venga a conoscenza della sua colpa. Il vecchio si volta di nuovo e, con un'espressione quasi sollevata, si scusa per non aver potuto trovare un abito migliore da offrirle. «...quello che indossavi era da buttare.» precisò, gesticolando con la mano destra. Allora la bambina posa finalmente lo sguardo su di sé. Deve dargli ragione: non indossa più il vestito logoro e insudiciato che aveva macchiato col sangue del cerbiatto. Ora è avvolta in una coperta asciutta, bucata malamente per permettere il passaggio della testa e delle braccia, e legata alla vita con una fune. Sopra ancora, le è stata infilata una piccola giacchetta di pelle, molto simile a quella dell'uomo con cui sta instaurando una sorta di dialogo. Durante un breve periodo di silenzio, si guarda intorno, e nota che all'interno del carretto sono custodite molte pelli e giacche del medesimo materiale, così si chiede cosa mai possa farsi un uomo così anziano di tanti abiti tutti uguali fra loro, e soprattutto di misure così varie. Non le sovviene nulla, quindi porta lo sguardo su una delle nobili bestia che traina il loro veicolo. E' un cavallo, ma questo lei non lo sa. Per lei è un animale alto e orgoglioso, che tiene la testa in alto nonostante dimostri di avere un'età avanzata. Prova ad accarezzarlo, sporgendosi appena, e non appena ne tocca il manto soffice il destriero nitrisce e rallenta appena. E' ancora il vecchio a intervenire: «Vedo che ti piace il mio vecchio Hvases.» riferisce, a quanto pare, divertito dalla situazione «Ma non viziarlo troppo, è una bestia presuntuosa anche se ormai si approssima alla fine della sua lunga carriera. Non molto diverso dal suo collega, Thoon.». La piccola annuisce. Scruta Hvases con sguardo curioso, lo esplora, rimane incantata dal suo colore scuro, nero come l'inchiostro, e dai suoi occhi celesti che un tempo avrebbero dovuto essere grandi e brillanti, ora stanchi e spenti, ma pur sempre affascinanti. I due viaggiano per molto tempo, la piccola non sa dire quanto, ha perso la cognizione del tempo da quando si è addormentata dopo il misfatto. Il vecchio non osa domandarle alcunchè riguardo ciò che ha sospettato nel soccorrerla, piuttosto si mantiene in religioso silenzio finchè non raggiungono, verso sera, una cittadina piccola, arroccata sul pendi di quella che sembra una montagna. La piccola è stupita: non si era accorta di aver viaggiato così in alto e questo l'affascina. Vorrebbe chiedere perchè esistono di questi promontori, ma non sa con che nome rivolgersi all'anziano che l'accompagna, non ne conosce il nome. Allora si limita a puntargli contro lo sguardo, aspettando di attirare la sua attenzione, e l'evento non si fa attendere troppo. Il mercante si accorge subito degli occhi incuriositi della bambina e subito apre un discorso: «Perchè non mi chiedi semplicemente cosa vuoi sapere?». La risposta arriva immediata: «Non so che nome devo usare.». Il vecchio ferma il carro presso le porte della città, discute qualche secondo con le guardie, che lo lasciano entrare rendendolo libero di fornire responsi alla sua piccola ospite. «Il mio nome è Rovi. Sono un mercante di pelli.» così anche il dubbio sul mestiere dell'uomo è immediatamente messo a tacere. Un mercante di pelli, così anziano, è un'immagine che induce la bambina a provare un profondo rispetto per la sua figura. «Il mercante di pelli Rovi.» ripete, per aiutarsi a memorizzare il nome. Una volta entrati nella città, le viene riferito che si tratta di un piccolo villaggio chiamato Rasburg, dove pernotteranno per quella notte, prima di intraprendere un piccolo viaggio verso il porto di Giafta, da cui poi sarebbero ripartiti per raggiungere Barahar. Nessuno di questi nomi le è noto. Si limita ad annuire. Dopo aver sciolto la briglia di Hvases dal carro, Rovi fa lo stesso con Thoon e chiede alla sua soccorsa di attenderla mentre lo porta a rifocillarsi nella stalla. «Tornerò tra poco.» assicura, mentre si allontana lentamente. Si sono fermati nei pressi di una piccola locanda, una donna aspetta presso l'entrata che il mercante abbia finito di occuparsi del cavallo, poi scambia poche fugaci parole con lui e, con un lieve sorriso, rientra nel locale. Rovi pare tornare al carro con aria vagamente perplessa, poi con un piccolo sforzo aiuta la bambina a scendere. Per qualche istante restano immobili davanti al carretto, che viene poi portato via da quattro uomini, probabilmente lavoranti anch'essi alla locanda, mentre il vecchio si massaggia la schiena, esausto. Alla sua età basta poco per affaticarlo, soprattutto dopo un lungo viaggio, nonostante si sia mantenuto piuttosto robusto. In effetti, la piccola non si era accorta di quanto potesse essere alto, nonostante la schiena ricurva. Era un uomo possente nonostante gli anni l'avessero rovinato. Poi si china verso di lei, fino a poterla guardare negli occhi. Solo allora il vecchio si accorge del colore innaturale dei suoi occhi: uno vermiglio, l'altro zaffiro. Sembravano due pietre preziose, due gemme, incastonate nel suo volto diafano. Ne resta ammaliato per qualche secondo, incapace di aprir bocca. Le pone finalmente una domanda, che la lascia senza parole: «Allora, qual è il tuo nome, invece?». La bambina non risponde, non perchè non voglia, ma perchè nella sua mente non c'è nessuna informazione che corrisponda alla richiesta. Non si era accorta, fino a quel momento, di non ricordare il suo nome. Si concentra, cerca una risposta, non la trova. Un senso di inquietudine la assale e balbetta con voce fioca: «N-Non lo so...». Rovi sembra sorpreso dalla risposta che gli viene fornita. Allora gli pone altre domande, sulla sua famiglia, sulle sue origini, sulla terra da cui proviene, ma ogni risposta segue l'altra sempre identica alla precedente. «Non lo so... non me lo ricordo.». Tutto si ferma a quella mattina soleggiata, sulla spiaggia, dove ha scoperto di essere cieca da un occhio, dove ha scoperto l'orrendo piacere dell'uccidere e ne ha sperimentato lo sporco potere. La bambina non ha un nome. Non ha un passato. Senza ciò, Rovi sa di non poterle donare neanche un futuro. Deve darle un nome, a questo punto, e ciò non si presenta come un problema. Il pensiero ricorre subito alla sua defunta moglie, la sua amata compagna di vita, Desia, che per molto tempo aveva desiderato una figlia senza poterne mai concepire. Se arrivasse un dono del cielo, senz'altro il suo nome sarebbe Lilith. E subito gli fu chiaro come avrebbe potuto rivolgersi alla piccola sconvolta dalla sua amara scoperta. «Il tuo nome è Lilith.» proferisce, forse arrogandosi un diritto che non possiede, ma la bambina sembra alquanto soddisfatta di avere un nome. «Finchè sarai con me, sarà questa la tua identità. Tu sei Lilith, e d'ora in poi, questo sarà il tuo prezioso nome. Ti prego di averne cura.». Si avviano, poi, verso la locanda. Il pensiero di Rovi corre subito a Desia, e ad un miracolo che non si sarebbe mai compiuto, senza il suo prodigioso intervento.

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