Bloody Carnival

di Mikaeru
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Greg ***
Capitolo 2: *** Red ***



Capitolo 1
*** 01. Greg ***



"Tutti i personaggi di questa storia sono maggiorenni, i fatti e i personaggi non sono esistiti o esistenti."
{e chi mancherebbe altro, per Dio}



Capitolo primo. “Greg”

Sull’uscio di casa era già percepibile, forte e distinto in mezzo a mille altri odori, il caratteristico aroma di “casa”. Quella fragranza, quel profumo caldo, piacevole, l’unico capace di avvolgere col suo tepore chiunque abbia la fortuna di sentirlo, chiunque abbia il suo luogo da definire “casa”.
Inserii la chiave color arancio nella toppa. Entrai in casa, con una rinnovata allegria.
“Seeeera! Aah, che buon odore che c’è, Greg! Che si mangia?”
“Metti la giacca sull’attaccapanni, ruffiano.”
Ben consapevole delle mie abitudini, preferì ricordarmi le sane consuetudini, comune alla gente normale – poggiare gli abiti in posti umani piuttosto che per terra a fare da nuova colonia per le formiche o altri insetti fastidiosamente simili, ad esempio.
“Che si mangia di buono?” ripetei, recandomi in cucina con lo stomaco che brontolava – altro mio vizio era saltare sempre il pranzo.
“Pollo arrosto.”
“Oh, caaarne…”
“Niente bava sul cibo, incivile. Fila a lavarti le mani, subito.”
“Ti stuferai mai, un giorno, di farmi da mamma?”
“Mai, finché ne avrai bisogno.”
“Ti verrà un esaurimento nervoso, se continui a seguirmi come fai ora!”
“Capita.”
Parlandomi, non aveva alzato un istante gli occhi dalla cena. Non stava bene.
Un suo grosso difetto era tentare di scacciare il dolore – o il fastidio, o comunque un sentimento simile – impegnandosi molto in una cosa (essendo disoccupato, in quei giorni metteva tutto se stesso nelle faccende di casa), credendo così che i brutti pensieri non gli avrebbero poi fatto più visita, finendo solo per assimilare negatività che, data la sua indole esageratamente tranquilla trovava difficile sfogare.
“Non hai visto Christine neppure oggi, vero?”
“No.”
“Lavora tanto in questo periodo?”
“Lo sai. Non fare domande inutili, per favore. Va a sciacquarti.”
“Vaaa bene…”
La sua ragazza, in quel periodo, era impegnata a fare carriera come avvocato. Non si vedevano da un paio di settimane, ma al mio amico pareva un’eternità, amandola così tanto.
Christine… la bellissima Christine…
Togliendomi di dosso la polvere – simbolica e reale – accumulata durante la giornata, scossi forte la testa, in modo che lei si levasse dalla mia mente. Non potevo avere alcun pensiero su di lei, ch’era la fidanzata del mio migliore amico.
Non potevo.
Lei era di un altro. Pensare a lei era come tradire la persona a me più cara al mondo.
Respirai a fondo e, per non dare ulteriori pensieri alla “mamma” indossai nuovamente una bautta costruita con fili di pura allegria che, autonomamente, mi ero confezionato – inconsapevole, sciocco. Non che di mio non fossi vivace (anche troppo, soleva borbottare Greg quando facevo troppa confusione con gli amici), ma quella mia compagna impediva di farmi esternare ogni sentimento negativo, che avrebbe causato solo altro dolore e preoccupazione.
Ed era l’unica cosa che non volevo.
Uscii dal bagno, raggiungendolo nuovamente.
“Pronto per mangiare!”
“Okay, si mangia…”
Alzando finalmente lo sguardo grigiastro verso di me, il volto gli si pietrificò. Nel medesimo istante, iniziai a sudare freddo.
“Hai-fatto-di-nuovo-a-botte?!” mi chiese, a denti stretti, indeciso su che frusta usare per darmi una definitiva lezione sulla convivenza civile tra esseri umani.
“Mentre consegnavo un pacco un tipo ha attaccato briga e io l’ho steso! Rompeva!!” risposi, come per giustificarmi, sapendo benissimo che questo non mi avrebbe tirato fuori dai guai comunque.
Irato, mirò tutta la mia figura, centimetro per centimetro. Io rimasi immobile, osservando la sua rabbia crescere ogni attimo di più.
Detestava dal profondo vedere che mi facevo male. Il suo senso di protezione era gigantesco.
Contemplò i lividi sulle gambe che gli abiti corti dovuti alla stagione mostravano in tutta la loro gloria, le ferite del ginocchio destro e di entrambi i gomiti. Fissandomi negli occhi, arrivò l’orrore per l’occhio destro pesantemente nero, il labbro inferiore spaccato e la grossa ferita ancora intensamente rossa sulla guancia.
“Greg, non è niente, sono due graffi! Dai, ho fame, mangiamo?”
“In bagno.”
“Ho fa--”
“In bagno.”
“Ma ti ho detto che non è nien--”
“In bagno. Oppure vedi che ti convincerai che ci sarà qualcosa da medicare.”
Dietro-front, seduto sulla tavoletta del water. Lo guardai prendere, frettoloso, cotone, cerotti, bende e alcool, borbottando in malo modo. Sembrava dovesse curare un esercito.
“Sempre in giro a fare a cazzotti, a litigare come un moccioso, senza neppure disinfettarsi… hai perso il lavoro?”
“…sì.”
“Eh, ovvio! Sono stufo di contare sempre sui tuoi genitori, Ace!!”
Mezzo infuriato, imbevette di disinfettante un batuffolo di cotone, portandolo senza grazia alcuna sul ginocchio, procurandomi una fitta allucinante.
“Cazzo, brucia!! E stai attento, cavolo!!”
“Te lo meriti, imbecille!!”
“Non rompere!!”
“Non rompere tu!! Perdi un lavoro dopo l’altro senza la minima preoccupazione e a noi tocca campare sulle spalle dei tuoi, ma ti sembra logico?! Non te ne eri andato di casa per cavartela da solo?! Hai ventitrè anni, non sei un bambino, te ne vuoi rendere conto?! Sono stufo di te che continui a recitare la parte del bamboccio!!”
No, mi sbagliavo. Riusciva a sfogarsi. Rimproverando me.
Ogni sua parola stillava verità e mi colpirono come frecce avvelenate. Abbassai la testa, sconfortato, mentre mi metteva i cerotti.
“Mi dispiace…” sussurrai – poiché la rabbia era del tutto sparita.
“Non serve a nulla! Mi dai sui nervi quando fai così, quando ti comporti da irresponsabile e rischi la vita per cretinate! Ci sarà la volta che becchi uno fatto o ubriaco e ti accoltella! Sempre fuori a menare le mani e perdere lavori! E neanche un sfottuto salto al pronto soccorso! Un giorno dovrò venire all’ospedale a riconoscere il tuo corpo!”
“Scusami…”
Greg aveva questo terribile vizio: quando si trattava di me, diventava estremamente logorroico nei rimproveri. Ripetitivo, pessimista, arrabbiato – ma solo nei miei confronti.
Con nessun altro.
“Non capisco poi perché tutta sta voglia d’immischiarsi in scazzottate, sei incomprensibile…”
“…è eccitante?”
“IDIOTA!!”
Finì di medicarmi col silenzio assoluto, naturalmente solo spezzato dai suoi sbuffi di rabbia e preoccupazione.
“Insomma…!” iniziò, alzando il capo e fissandomi negli occhi. Sbuffò, soffiando verso l’alto e spostando un ciuffo di capelli ebano. “Se non ci fossi io, dove finiresti?”
“Sottoterra.”
Non avrei potuto dare risposta più veritiera. Mi era impossibile procedere per la retta via senza avere lui al fianco, a reggermi mentre inciampavo, a indicarmi la strada.
Finita la medicazione, mi tirò un ceffone dietro la nuca.
“Su, che il pollo si sarà già freddato…”
“Cibo, cibo, cibo!!”
Sedendoci a tavola, Greg accese la televisione, appena in tempo per la principale notizia del telegiornale locale. La voce monotona (senza anima) nel giornalista parlava di qualcosa d’estremamente grave. Ci sistemammo e subito i nostri occhi furono catturati dalle immagini che scorrevano sullo schermo.
“Salgono a dodici le vittime del mese del maniaco che sta terrorizzando la città e l’America intera. Questa volta si tratta di una bambina di dodici anni, figlia di immigrati, entrambi onesti lavoratori. Come al solito si è potuti arrivare all’identità grazie alla testa, unico resto che l’assassino che sembra scegliere le vittime a caso lascia su luogo del delitto, assieme alla firma ‘Redrum’, di calligrafia infantile, scritta col sangue del morto sulla sua fronte. Diamo la voce al padre, distrutto, che non chiede altro che giustizia per la sua piccola…”
“Vedi?”
“Cosa?”
“Potresti finire così anche tu, se non la pianti di metterti nei guai.”
“Ma figurati! Mi so difendere! Più che bene! Sei tu quello deboluccio tra noi due, nonostante l’altezza!”
“Ma mangia e sta zitto, tappo.”
“Non sono un tappo. Sono alto.”
“Beh, comunque sei più basso di me.”
“Non ci vuole tanto, pertica!”
Da lì, cominciammo a discutere, a parlare di cavolate, partendo dall’altezza arrivando alla virilità, alla legge della L (“Io ce l’ho più lungo perché sono più basso!” “Ma i bassi se li filano in pochi.” “Ma quei pochi godono di più!” “Ma i bassi rischiano più cecità, cuccando di meno.” “Cosa stai insinuando?!” “Il motivo per cui ci metti così tanto al bagno la mattina…”), dall’abilità nella lotta e nello studio. Arrivammo alle due di notte senza che ne accorgessimo. Quando ci rendemmo conto dell’ora tarda, filammo a letto, senza sparecchiare. Mentre Greg mi dava la buonanotte, fu come se qualcuno mi pugnalasse più volte allo stomaco, con sempre più forza. Di scatto, senza pensarci, lo abbracciai, stringendolo forte. Fu naturalmente una mia impressione, ma sentii il suo calore sfumare poco a poco, come rubato. Un brivido mi traversò la schiena.
Rimani…
“Che hai?” mi domandò, scettico.
“Niente.” Risposi, staccandomi, imbarazzato. “Ehi, Greg…”
“Che c’è?”
“Posso… dormire con te?”
“Non hai le tette, non sono eccessivamente contento di questa richiesta…”
“Daaai, ho paura del buio! Dormiamo insieme! Fai la brava mamma! I genitori non lasciano mai da soli i figli!”
“…su, marmocchio che ce l’ha più lungo, muoviti.”
Abbaiai, in segno di giubilo, infilandomi sotto le sue lenzuola in boxer. Mi strinsi come ad un enorme pupazzo. Imitando un gatto, cominciai con le fusa e gli leccai il viso, una cosa che odiava sopra ogni dire, tutto con l’obiettivo di dargli fastidio.

Non riuscii a prendere sonno per un paio d’ore. Si era radicato in me un’odiosa sensazione, dal sapore amaro e acido. Al momento non seppi spiegarmi cos’era. Stavo male senza dare un nome al morbo che mi stava succhiando ogni barlume di felicità. Sapevo solo che non volevo che la notte finisse. Non volevo lasciare la vita di Greg. Non volevo più abbandonare quel luogo, perché avevo paura che, al ritorno, avrei trovato solo macerie di una vita serena che con lacrime e sangue mi ero finalmente costruito. Non volevo assolutamente chiudere gli occhi perché nessuno mi assicurava che, una volta riaperti, avrei trovato ciò che volevo.
Ma Morfeo fu prepotente ed inopportuno, rapendomi quando ancora ero nel mezzo della mia afflizione.

Quando mi svegliai, il letto era vuoto. Altre volte mi era capitato, ma in quelle occasioni le lenzuola odoravano di sesso consumato, mentre quelle di Greg, appena lavate, portavano ancora l’odore del detersivo.
Il malessere della sera prima s’impadronì nuovamente del mio essere. Come sconvolto – come se avessi visto il fantasma del mio migliore amico – iniziai a gridare il suo nome, cominciando a camminare per casa con passo febbrile. In cucina, però, trovai quasi subito un suo biglietto che mi comunicava, nella sua calligrafia lunga e sottile – non comprensibile a tutti gli umani, però –, leggermente animata dall’allegria, che Chris l’aveva chiamato e che quindi era uscito presto per comprarle un regalo e organizzare per bene il loro primo appuntamento dopo tanto. Diceva anche che mi aveva lasciato per pranzo un po’ di pasta. Tirai un sospiro di sollievo e il masso sullo stomaco fu distrutto.
Osservai l’orologio; le lancette nere segnavano le undici passate. Nell’istante in cui distolsi lo sguardo da esse, il cellulare iniziò a squillare.
Don’t wanna be an american idiot…
“Pronto? Qui Ace Ventura Missione Africa!
“Ti sei appena svegliato, vero?”
“No!”
“Lo sento dalla voce, non mi freghi mica. Hai letto il biglietto?”
“Sì, mamma, e ti assicuro che mangerò tutta la pappa!”
Ridacchiò. Buon segno.
“Allora ci vediamo stasera sul tardi. Forse.”
“Se Chris non incatena al letto.”
“Appunto. Per la cena forse è meglio se ti arrangi, che tanto a trovare cibo sei un asso. Oggi non uscire, okay?”
“Perché?”
“Non vorrei trovarti solo carne NON respirante.”
“Okay, okay, che palle…”
Fui stranamente docile. Non protestai, non feci storie. Gli ubbidii semplicemente.
Fui così salvo. Altrimenti, forse, al suo posto ci sarei stato io…
E forse sarebbe stato un bene."
Trovati qualcosa da fare in casa, tipo lavare i pia--”
“Giocare con la PSP!!”
“…io pensavo a qualcosa di più utile e meno distruttivo per le tue cornee, però okay, basta che non incendi casa.”
“Neanche un piccolo fuocherello per le salsicce?”
“Neppure per i marshmallow.”
“No!! Non puoi togliermi i marshmallow!! Aguzzino!! Crudele!! Pisello corto!!”
“…quest’ultimo commento non so che c’entri. E comunque ti sembra normale a MAGGIO mangiare robe bollenti? …mi rispondo da solo: sì. Chiudo, ci vediamo.”
“Buon appuntamento, capo!”

Verso le otto di sera gli occhi, forzati da quasi sei ore sul piccolo schermo della consolle, iniziavano a tradire segni di cedimento – nel senso più letterale possibile; poco ci mancava che uscissero dalle palpebre.
Svogliato, mi alzai dal letto, trascinandomi in cucina, con la precisa intenzione di farmi un panino per cena, infilandoci qualsiasi cosa commestibile avessi trovato in frigo. Accesi la televisione a caso e cominciai a fare una pila di varie cibarie. Esattamente mentre, in cima alla torre (di wurstel, uova, pomodori, mozzarella, pane italiano, insalata, radicchio) il tubetto di maionese, il cellulare squillò. In fretta e furia, riposi tutto sul tavolo.
“Pronto?”
“Ace?”
“Che c’è, Christine?”
“Greg è lì?”
Il masso si riformò, maledetto.
“Eh? No, dovrebbe essere con te…”
“Appunto… avevamo appuntamento tre quarti d’ora fa per il cinema… non è mai arrivato in ritardo, è molto strano…”
“Se arriva ti faccio sapere.”
Chiusi bruscamente la telefonata. Il macigno si fece più pesante, fino quasi a bloccarmi il respiro. D’improvviso, le orecchie furono catturate dalla voce della reporter.
“Sì, salgono ora a tredici le vittime di Redrum. Questa volta si tratta di un giovane maschio, di razza bianca…”
Lo schermo mi attirò a sé. Le gambe risposero.
“…di cui è stata già riconosciuta l’identità. Si tratta di John Gregorian Matthews, di ventisei anni…”
La telecamera stava inquadrando la testa mozzata di Greg. Gli occhi grigi sbarrati, l’orrore dipinto nelle iridi.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAARGH!!!"

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Capitolo 2
*** Red ***


Capitolo secondo. “Red”

 

“Stasera sto da Christine. Mangia roba del frigo. NO ristorante. Bye bye. Greg”

 

“Ace!! Ace ti prego apri!! Sono Chris, ti prego aprimi!! Per favore…”

Le ubbidii. Era in lacrime, distrutta. Il macigno l’aveva travolta. Aveva la morte dipinta nelle iridi notturne. Ma, in quegli attimi, non riuscivo a provare pietà per nessuno – non per la sua ragazza, non per i suoi genitori, non per i suoi amici. Non per me.

“Greg… Greg è…”

“L’hanno ucciso. L’ho visto in tv.”

“…vuoi che entri?…”

“No.”

Richiusi l’uscio in malo modo. Dirigendomi nella mia stanza, mi riflessi nel piccolo specchio rotondo appeso al muro. Facevo paura, tanto sembravo morto.

Mi accasciai sul letto, come corpo privo d’anima.

Il cervello rifiutava di connettersi. Negava che le immagini appena viste corrispondessero alla realtà, che quell’unico resto appartenesse a lui.

Era un film, solo un film, un film realistico, ma un film. Tutta finzione, menzogna, irrealtà…

Doveva essere solo un brutto sogno.

 

Ma c’era una vocina –piccola, sottile, quasi incalcolabile- che mi avvertiva che, anche se mi fossi svegliato, avrei odiato anche la verità.

 

Risultandomi detestabile restare fermo, impiegai le ultime forze per un’insensata camminata avanti e indietro per il nostro piccolo appartamento, mangiandomi le unghie con isteria. Dovevo fare qualcosa che mi distrasse. O sarei impazzito ancora di più.

“Non è vero non è vero non è vero non è vero non è vero non è vero non è vero…”

Ripetendo mille volte la stessa frase ad alta voce, tentavo di convincere il mondo intero (me stesso) che ogni cosa che il telegiornale aveva trasmesso era tutta una bugia.

Senza accorgermene, tornai dinanzi lo specchio. Guardai il riflesso: vi era ritratta una persona che non conoscevo: i tatuaggi, l’orecchino, quelli erano miei, ma quegli occhi infossati, quel volto bianco, diafano –vene visibili- non potevano appartenere a me.

Non sono io, quello… io indosso una maschera, l’allegria, non posso essere io quel morto vivente…

Toccai la superficie liscia e fredda dello specchio con le dita.

Ero io.

Colpii il riflesso con un pugno, mandandolo in frantumi. Alcune schegge mi entrarono nella mano.

Per il dolore bruciante di corpo e anima, iniziai a piangere per la prima volta dopo aver visto la televisione.

“Greg… mi fa male… ti prego… medicami… per favore… io non lo so fare… non so fare niente da solo… Greg… ti prego…”

 

 

Non volli nessun funerale per lui. Mi opposi con forza, perché lui non credeva in nessun dio. Credeva nelle persone e basta.

Rubai la sua testa dalla polizia, per tenerla solo per me, come un uccello impagliato.

I suoi genitori non si fecero sentire.

Christine marciva dentro – ad agosto, il tanto agognato matrimonio.

Gli inquirenti mi fecero, con malcelato disinteresse, le domande di routine. Il caso Redrum era così oscuro che ogni cosa pareva inutile. Avrei voluto ucciderli tutti nell’istante in cui uno sbadigliò nel chiedermi informazioni su Greg.

Io mi resi inavvicinabile. Dal due al sei maggio, come lui era ufficialmente morto, io ero scomparso dal mondo , scappando dalle sue persone – mi chiusi in casa, fuggendo ogni contatto.

Per quei giorni non mi lavai, non mangiai, non dormii. Sopravvissi come una pianta, ma nutrendomi di ombre (la luce non era più per me). Privato di lui, ogni cosa per me aveva perso di bellezza, di splendore.

 

Lui era per me quello che per i bambini è un genitore – il nido a cui far ritorno, il punto di riferimento. Era indispensabile come l’aria. Come i marmocchi hanno radicato nel profondo il puro, intenso sentimento nei confronti di chi dà loro la vita, così era per me, perché lui me l’aveva ridata. E cos’ero io, se non un fottuto moccioso? Come si può privare una creatura del suo unico sostegno?

Vivere è la cosa più rara del mondo. La maggior parte della gente esiste, e nulla più, diceva uno scrittore. Per me, anche esistere era dannatamente difficile – impossibile. Poiché svegliarmi mio malgrado ogni giorno, trovare la casa vuota, era orrendo, più di quanto potessi immaginare. Ogni volta era una nuova pugnalata. Spesse volte, nell’arco di una singola giornata, prendevo piatti, bicchieri, frantumandoli a terra, urlando istericamente. Spesse volte desiderai con intensità che il mio corpo si tramutasse in porcellana. In fine, preziosa, fragilissima porcellana…

 

“Ace?”

“Mamma.”

“Perché non vieni a stare a casa da noi?”

“No.”

“Non ti fa bene rimanere lì…”

“Qui c’era Greg. Resterò qui.”

“Ma…”

“Io starò sempre con lui.”

“Ma, Ace…”

“Arrivederci, mamma. Vedi di non telefonare più per queste cazzate.”

 

In quei quattro giorni, in mezzo alla morte e alla vendetta, mi capitò anche di impazzire. Ma fu una pazzia lucida, un’allucinazione di cui ricordo ogni minimo particolare.

Il sei maggio, di mattino presto, fui svegliato presto da un odore dolce. Ne fui rapito e mi alzai, come se qualcuno mi tirasse su ma con una contemporanea dolcezza nel gesto (esattamente come faceva Greg). Mi diressi in cucina.

Lì vidi Greg.

“Amen, allora esisti. Sono appena tornato. Sono rimasto da Christine più del previsto e mi sono totalmente scordato di avvertirti, mi dispiace. Per farmi perdonare almeno un po’ ti ho comprato un sacco di paste così potrai ingozzarti, okay?”

Era ritto, in piedi. Vivo. Niente di lui era diverso da quattro giorni prima. I capelli neri, un po’ lunghi –odiava andarseli a tagliare, quindi lo faceva da solo quando ne aveva il tempo-, ma ordinati e puliti; la bocca dalle labbra leggermente screpolate. Le mani, che preparavano la tavola, grandi e ruvide, rovinate per il lavoro a cui era stato abituato sin da piccolo. L’espressione un po’ dura, levigata dal tempo e le intemperie –come le rocce, come le pietre, come la grandine–, il cipiglio un po’ severo, sotto il quale era autorizzato a vedere solo chi lui amava di più.

Gli occhi iniziarono a bruciarmi per le lacrime che obbligavo a morire prima di segnarmi la pelle.

“Beh, che hai?”

Avevo il corpo totalmente scosso da brividi. Tutto ciò che avevo passato nei giorni trascorsi era scomparso sotto la luce del mio migliore amico.

“Sei… tornato…”

“A quanto pare, sì.”

Lo abbracciai, stringendolo forte.

“Non andare più via…”

“Mh…”

“Ti prego…”

“Mi dispiace…”

“Di che pa…”

Alzai leggermente lo sguardo. Lo fissai. Gli occhi si era svuotati. Perdeva denso liquido rosso dalle palpebre e dal collo. Mi sporcò.

“Ace…aiutami…”

Gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni.

Sparì.

Mi ritrovai sdraiato sul freddo pavimento.

Niente più odore.

Niente più voce.

Niente più calore.

Niente più Greg.

Iniziai ad urlare, urlare, urlare fino a che la gola non iniziò a dolermi, tenendomi il capo con le mani, piangendo come non mai, come se solo in quel momento cominciassi a capire quel ch’era successo.

Rimasi in quello stato pietoso per ore mentre, dentro di me, scattò qualcosa che, immediatamente, fui incapace di classificare. Un’ emozione parente dell’odio, ma più costruttiva, più utile –lacerante, distruttiva, infettiva, ma con uno scopo- del detestare semplice e della rabbia pura. Mentre gli arti smettevano di tremarmi e la bocca di farmi male, esso si fece più vivo, quasi palpabile, così tanto che riuscii a dargli un nome.

Avrei reso io stesso Redrum carne per avvoltoi, sarei stato io a recidere il filo della sua vita sostituendomi alle Parche.

Appena mi resi conto di tutto ciò, come un pazzo scesi in strada, incurante del mio aspetto esteriore – che doveva essere di certo terribile. Nessun pensiero traversava la mia mente, nessun’idea, nessun piano: era solo attecchita in me l’assoluta certezza che in un modo o nell’altro lo avrei trovato.

Esattamente come se il mio cervello fosse del tutto partito, corsi di qua e di là, senza meta, come se avessi potuto trovarlo in un bar o in un negozio di scarpe.

Nel mio vagabondare come un forsennato, mi ritrovai in periferia, dinanzi una fabbrica abbandonata. Fui per un attimo disorientato, poi i miei occhi furono guidati verso il logo oramai rovinato da tempo e insetti e mi ricordai di quella vecchia ditta di giocattoli, andata in fallimento quando avevo dieci anni. D’un tratto, mentre tentavo di decifrarne il nome, le orecchie mi si riempirono di urla strazianti di donna e le narici di odore di sangue. Venivano dall’interno: le andai in soccorso, inutilmente.

Lì, lo vidi.

Capelli color rubino, pelle nivea – come il cuore umano prima di Adamo ed Eva –, capo chino. Come una fiera sulla sua vittima, aveva appena iniziato a divorarne le carni per potersene cibare.

Lui non uccideva perché era pazzo – in quel momento lo compresi: lui mieteva così tante vittime per poter sopravvivere a sua volta. Necessitava di carne umana per vivere.

Non riuscivo a muovermi, le gambe erano come paralizzate: osservai quel terrificante spettacolo senza che un muscolo riuscisse a compiere mezza azione – come un incubo a cui ero obbligato a fare da spettatore. Mi risvegliai da quello stato quando il folle stava lasciando la sua firma. Di scatto, senza pensarci, gli saltai addosso.

“Tu…tu l’hai ucciso… e ora morirai anche tu… maledetto figlio di puttana!!”

Non avendo armi, tentai di soffocarlo.

Per tutta risposta, lui sorrise.

Il suo era uno strano sorriso. Era come quello dello Stregatto, come uno spicchio di luna – troppo sottile per poter illuminare alcunché.

“Ah, tu devi essere Ace!”

Appena pronunciò il mio nome, il respiro si fermò in gola e le mani smisero d’esercitare pressione. La paura s’impadronì di me, il disgusto e l’orrore, immobilizzandomi ogni arto. Prendendomi alla sprovvista, Redrum capovolse la situazione, scaraventandomi a terra, bloccandomi. Avvicinò il volto al mio collo, annusando l’odore della pelle. Tentai di fuggire, ma mi fu impossibile.

“Ti conosco, io! Sei l’amico di quello che mi sono mangiato poco tempo fa, no? Uno alto, capelli neri, deboluccio… la voce roca…”

Pronunciai flebilmente il nome di Greg, privato d’ogni forza. Rise.

“Sai, sai, lui ti ha pensato anche nell’ultimo momento… mica eravate froci?”

“Crepa, pezzo di merda…”

“Ha gridato ‘Ace, aiutami…’ mentre iniziavo a mangiarlo dal collo.”

Come… come nella mia visione…

“Sai, di solito non mangio carne viva, ma lui me lo sono fatto mentre ancora respirava… è stato divertente! Non prendertela, non ce l’avevo con lui, era per provare qualcosa di nuovo ogni tanto… ha sentito il dolore fino all’ultimo momento. Ah, gli ho guardato nel portafogli, per curiosità, e lì c’era una tua foto, per questo so chi sei.”

Parlando, aveva la bocca incurvata di felicità come un bambino. Era possibile leggere la gioia nelle iridi sanguigne, mentre mi denudava solo per poter sentire l’odore che il mio corpo emanava. Per lui era tutto un gioco: mi sfiorava con le dita sporche di sangue, unicamente per poter avvertire il piacere di un corpo vivo, di carne che ancora pulsava di vita e sangue e che di lì a poco avrebbe dilaniato.

“Uhm… potrei usare lo stesso trattamento che ho riservato al tuo amico…”

Fai pure, volevo dirgli, ma non ne avevo la forza.

In poche frasi mi aveva svuotato d’ogni cosa. Vendetta, odio, rabbia, dolore – tutto svanito nel nulla. Neppure la rassegnazione mi riempiva.

Non me ne fregava niente di niente.

Mi fissò negli occhi. Non udendo risposta alcuna, una scintilla gli traversò lo sguardo.

Un’idea. Un pensiero. Qualcosa di malvagio.

“Anzi! Con te voglio proprio giocare…”

Mi lasciò andare nell’istante in cui pronunciò l’ultima parola. Andò a sedersi su una pila di scatoloni, con le gambe ciondolanti.

“Bloody Carnival!” esclamò, battendo le mani.

“Che cosa?...”

“E’ il nome del nostro gioco! L’amichetto era per te la persona più importante? Rispondi, su!”

Accennai un affermazione col capo. Abbassai lo sguardo.

“E mi detesti con tutto te stesso perché l’ho fatto fuori, no?”

Ripetei l’azione.

Non riuscivo bene a capire perché rispondessi alle sue domande, o perché non ritentavo di ucciderlo. Era come se fossi sotto un incantesimo. Come se mi ipnotizzasse.

“Beh, ho un modo per farlo tornare in vita!”

Era evidente quanto si divertisse a tenermi nelle sue mani come un burattino.

Per un decimo di secondo la speranza mi illuminò. Poi la ragione la uccise, ricordandomi, con la solita e fredda severità intransigente, che una cosa del genere era del tutto impossibile.

“Stai pensando che sia impossibile? Credevi anche che quelli come me non ci fossero più, no? E invece eccomi qui! L’anima, il soffio della vita e tutte quelle cagate lì possono essere riprodotti facilmente. Se mi dai retta quello tornerà in vita. Anche con la stessa memoria! Per il corpo non ci vorrà molto. In fondo il corpo umano è fatto d’acqua, carbonio, calce, ammoniaca, fosforo, sale, salnitro, zolfo, fluoro, ferro, silicio e altra robaccia, non sarà difficile procurarmela.”

Qualcosa, in lui, mi induceva a credergli, per quanto fosse folle, impossibile.

“… che dovrei fare?”

Mormorando quelle parole ad un tono a malapena udibile, accettavo incoscientemente ogni sua condizione.

Gli occhi gli brillarono. Si leccò le labbra e cominciò a parlare con tono evidentemente eccitato.

“Benissimo, ragazzo! Ecco le regole: entro trenta giorni, cioè entro il sei di giugno, dovrai portarmi, in questo luogo esatto, sei cadaveri di persone che ami, quelle per cui il tuo affetto è smisurato. Dovrai ucciderle quando il tuo sentimento per loro è al culmine e ognuna con un metodo diverso, il divertimento prima di tutto. All’alba, quando la luna è ancora ben visibile, alle sei di mattina, posizione le tue vittime in cerchio. Prendi uno specchio e, col sangue di ognuno di loro che avrai ovviamente conservato misto al tuo, scrivi l’Ave Maria al contrario. Quel giorno, l’amichetto resusciterà! Ch’è poi l’unica cosa che vuoi, nooo?”

“Chi mi dice che non sia tutta una cazzata?! In fondo nessuno crede nelle resurrezioni… mi sembra tutta una cagata!! Insomma, non sei Dio, come pensi di riuscirci?! Creerai un fantoccio?!”

“Io sono la tua unica speranza, Ace.”

Quest’ultima affermazione fu pronunciata come se, all’interno di Redrum, coesistesse un’altra persona che ne aveva preso il posto – un adulto dimentico del senso del ‘divertimento del gioco’.

“Puoi non credermi e finire nel baratro nero che hai già ben troppo bene sperimentato in passato. Puoi avere fiducia in me e anelare alla luce. Io sono in grado di fare ciò che ti sto promettendo, e lo faccio solo perché sono altamente sicuro che mi farai divertire un sacco. Sono anni che mi nutro di uomini, ma mi sono fatto scoprire solo ora per movimentarmi un po’ la vita. Cos’altro, se non un magistrale incantesimo, avrebbe permesso tutto ciò?”

Il sorriso da Stregatto tornò. Mi fissò intensamente, tamburellando con le dita sporche sulla scatola ove era seduto.

“Ebbene?”

“…”

“Su, Ace, che hai da perdere? Niente vale più del tuo amico, no? Tutti gli altri sono sacrificabili per lui, no?”

“…”

“Allora?”

“…accetto.”

Credevo di essere completamente pazzo, invece ero del tutto lucido e conscio delle mie azioni. Quello che aveva detto era vero, totalmente.

“Benissimo!”

Iniziò a ridere, sguaiatamente, di gusto. Rideva di me, della mia stupidità, della mia pazzia.

“Si dia inizio al Carnevale di Sangue, allora!”

In un attimo si volatilizzò, lasciandomi solo con la testa bruna della vittima. Corsi via, per non essere preso per Redrum.

Tutto era iniziato.

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