Draw your future: traccia la tua rotta.

di but honestly
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Il silenzio del vuoto. ***
Capitolo 2: *** I. Verso il fondo ***



Capitolo 1
*** Prologo: Il silenzio del vuoto. ***


Puntò lo sguardo sulla parete spoglia della stanza, un po’ scrostata, ma che manteneva ancora quel colore di pittura verde acqua che aveva deciso di donare alla stanza per far piacere a suo padre, quando sarebbe tornato. Sapeva che lui amava quel colore, gliel’aveva rivelato la madre in uno dei suoi tanti racconti su quel marito un po’ silenzioso, che di tanto in tanto si presentava alla porta di casa con una sacca di  tela rattoppata sulla spalla ed i segni di un’avventura sulla pelle, ma che non possedeva mai abbastanza tempo per regalarsi dei momenti con il suo piccolo Jim. E lui, ormai, stava crescendo. Jim Pleiadi Hawkins aveva ormai nove anni, e passata la mezzanotte ne avrebbe compiuti ben dieci, tondi e pieni. Inaspettatamente, quel giorno, suo padre, di cui a stento ricordava il nome, aveva bussato all’entrata del Benbow, gli aveva passato una mano tra i capelli castani con delicatezza e quasi una spinta d’affetto, poi aveva schioccato un bacio sulla fronte della madre e si era diretto senza troppi complimenti verso la camera che un tempo era dei due coniugi, mentre ora, per la maggior parte del tempo, di Sarah soltanto.  Jim era rimasto in piedi, davanti alla porta di quella stanza, per più di due ore, attendendo che uscisse; ma non si era presentato. Il viaggiatore, esploratore, padre nel poco tempo libero, era rimasto chiuso tra le sue quattro mura per tutto il pomeriggio, senza dare cenni di cedimento. E non aveva fatto il suo ingresso in salone neanche per mangiare. Così, Jim si era coricato con l’amaro in bocca, mentre continuava a scrutare la parete verdastra con i grandi occhi di zaffiro, brillanti, pieni di decisione.
Gliel’avrebbe chiesto. Dopotutto, domani è il mio compleanno. Sospirò,  cercando coraggio dentro di sé. Lo stesso coraggio del Capitano Flint, della sua flotta, come per prepararsi al più duro degli assalti.  Non gli ho mai chiesto niente. Non può dirmi di no. Levò il busto dal letto, scosse il capo per sistemare i capelli arruffati, e si gonfiò il petto, pronto alla sua personale battaglia. Si sarebbe fatto valere, come un coraggioso soldato di prima linea. Come un pirata, attento e deciso, sempre attento per sferrare il colpo decisivo sulla sua vittima. Gli avrebbe domandato di rimanere al suo fianco, di non fuggire più, di non abbandonarlo, perché aveva bisogno della sua presenza con costanza, con affetto, per crescere. Era la caccia per trovare il suo personale tesoro, qualcosa che andava al di là di ogni pietra preziosa o di ogni singolo doblone d’oro. Portò i piedi scalzi sulle assi lignee del pavimento. Poi, un tuono sordo, come ovattato; trasalì. La porta principale? Suo padre era davvero uscito dalla sua camera senza che il piccolo Jim se ne rendesse conto? Forse si era addormentato?
Non poteva essere. Si stava sbagliando. Non poteva credere che se ne stesse andando ancora, per tornare chissà quando. Semmai sarebbe tornato. Sentì il sangue pulsargli nelle vene, nelle tempie. Cominciò una precipitosa corsa verso il piano inferiore della locanda, dove si trovavano gli ospiti. Quasi inciampò, tra gli scalini, ma riuscì a sorreggersi grazie alla presenza del corrimano, vecchio, eppure saldo. Spalancò le labbra per urlare il nome di lui, dell’uomo che stava partendo senza neanche salutarlo, ma non ne uscì alcun vocabolo riconoscibile: solo un grido strozzato, spezzato dal pianto e dalla paura. Con gli occhi lucidi, puntò le iridi azzurre verso la madre, seduta ad un tavolaccio, in lacrime, mentre dava le spalle alla porta chiusa, forse per sempre. Trasalì, ancora. No, non sarebbe scappato. Non senza salutarlo.
Non senza spiegargli perché.
Spalancò le fauci, prese fiato e coraggio, quindi si spinse in avanti e cominciò una corsa frenetica verso l’esterno. La frangia castana gli solleticava appena la fronte, scostata dal vento dell’esterno, mentre la porta si richiuse alle sue spalle con uno scatto secco. Sarah non si accorse nemmeno della sua fuga, forse troppo presa dal dolore della separazione: restò a fissare la finestra ologrammatica che mostrava chissà quale scenario idilliaco cui probabilmente non badava nemmeno.
Il bambino corse a piedi nudi sulla roccia fredda del suo piccolo, piuttosto inospitale pianeta. Quello che per tanto tempo aveva sognato di abbandonare con il padre e la madre, alla volta di qualche fantastica avventura, quando proprio in quel momento il genitore aveva preso la decisione di partire senza di lui, senza neanche voltarsi indietro. «Pa… Papà!» urlò, con quanto fiato aveva in gola, mentre scendeva degli scalini bagnati dalla pioggia della notte. Era appena l’alba, l’acqua non era ancora evaporata. Scivolò a terra. Sbattè con violenza il capo sulla pietra. Dolore. Un bruciore lo sorprese all’altezza della guancia, sovrastato dalla fitta alla fronte, dove aveva intaccato una roccia. Digrignò i denti. Decise di non pensarci, perché qualche passo più avanti stava accadendo l’irreparabile. Le mani gli tremavano senza che potesse dar loro un contegno. Poteva distinguere nettamente la sagoma del padre in controluce, che si apprestava a prendere posto a bordo di una piccola imbarcazione a energia solare, in compagnia di qualche individuo di dubbia onestà ed origine. Non sembravano neanche esseri umani. «Aspetta!» urlò. Era già troppo tardi. Gli ormeggi sciolti, le vele spiegate e gonfie.
Si alzò in piedi e continuò a correre verso il ciglio del promontorio dal quale si stavano allontanando. Il pigiama strappato, sporco di fango, gli occhi azzurri come il cielo terso spalancati in una disperata richiesta di aiuto. «Aspetta!» gridò ancora. Oltre al rivolo di sangue che gli scendeva denso e caldo dalla guancia sinistra, già arrossata dallo sforzo e dalla fatica, ora grosse lacrime gli rigavano il volto, mentre si  sfogava in un pianto disperato, tendendo le braccia alla piccola imbarcazione. Il padre, oh, lui non si voltò neanche. Si sedette da qualche parte sulla nave in cui aveva preso posto, dopo aver posato a terra i bagagli, ed aveva già iniziato a godersi il viaggio.
Jim avvertì distintamente qualcosa rompersi, dentrò di sé, nel suo petto, con un lamento straziante, eppure immerso in un assordante silenzio. Il cuore perse uno, due, tre battiti. Era come se, improvvisamente, si fosse sgretolato e diluito in una tinozza di acqua gelida. E mentre il sole faceva capolino in cielo, il suo corpo stanco cadde riverso a terra, privo di forze, con gli occhi puntati verso le rocce umide e il volto sporco di sangue e lacrime ed imperlato da un sudore freddo. Si morse un labbro, con forza, quasi lasciandosi il segno, tanto da farsi male. «Non lasciarmi solo…» sussurrò appena. Poi dischiuse le labbra, singhiozzando fin quando non ebbe terminato il fiato che aveva in corpo, abbandonandosi ad un sonno leggero e tormentato. 

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Capitolo 2
*** I. Verso il fondo ***


Sole alto nel cielo, neanche una piccola nuvola dispettosa ad oscurarne i raggi luminosi. Il Benbow, come ogni giorno, era pieno di clienti: bambini che correvano allegramente tra i tavoli agitando le piccole gambe (o tentacoli), clienti impazienti che sbattevano bicchieri e posate per ricevere un piatto pieno di qualche squisita pietanza, altri che consumavano i loro pasti in religioso silenzio ed, infine, il vecchio Delbert Doppler comodamente seduto al suo solito tavolo sulla destra, davanti ad una buona zuppa fumante di croccantini e semi di solaris. Quest'ultimo si guardava intorno con circospezione, non tanto perchè fosse preoccupato da qualcosa, ma poiché, in quanto amante appassionato della quiete e dell'osservazione oggettiva, detestava con tutto sé stesso il caos provocato dai piccoli di chissà quali ospiti che si aggiravano rumorosamente per il locale.
Di tanto in tanto puntava lo sguardo verso Sarah, la locandiera; ne osservava i lineamenti e l'espressione affaticata dipinta in volto imperlato di sudore, su cui scendevano morbidamente le poche ciocche impertinenti che, di restare raccolte nella cuffietta bianca, non volevano saperne. Si passò una mano sul viso e si alzò dal tavolo con la solita calma serafica, prestando attenzione a non scontrarsi con nessuno dei cuccioli che giocavano tra una sedia e l'altra. Sbuffò sonoramente e, scuotendo appena il capo con rassegnazione, si avvicinò all'amica paziente, intenta a portare quattro o cinque piatti a diversi tavoli. Ne prese qualcuno tra le mani, incedendo con un «Ci penso io.» accompagnato da un sorriso gentile.
Difficilmente Delbert si comportava con tanta gentilezza con qualcuno. Fin dagli anni del liceo era stato un tipo schivo, più dedito allo studio che ai rapporti sociali. Ma la famiglia Hawkins gli era stata tanto vicina da diventare, un po', anche la sua. Aveva imparato, passo dopo passo, ad assumere un comportamento educato ed ad apprezzare la presenza fisica altrui al punto da volersi rendere utile, di tanto in tanto, per affievolire il pesante carico che gravava interamente sulla esili spalle della non più tanto giovane Sarah, da quando il marito se n'era andato, diretto chissà verso quale avventura o luogo lontano.
Lei si voltò verso di lui con un sorriso stanco, appena percettibile sulle sue labbra rosee che ben risaltavano sul volto pallido. Non negava mai queste attenzioni al suo buon amico. «Non preoccuparti, Bert, posso farcela.» mormorò, avanzando verso i tavoli con quante più pietanze riusciva a portare ed adottando l'espressione più cordiale possibile. Mentiva, certo. E questo, Delbert, lo sapeva benissimo. Glielo si leggeva negli occhi celesti e spenti, nelle occhiaie scure che le scavavano il volto. Eppure, aveva ancora la forza di reagire. La verità? Il Dottor Doppler aveva sempre stimato ed ammirato quella talentuosa donna dalla ferrea volontà, che era riuscita a superare con le sue sole forze ogni difficoltà. Gli sembrava di vederla come il più fulgido degli astri splendenti che era abituato ad osservare nel suo studio, nella speranza di potersi godere almeno un piccolo frammento di quella immensa luce che emanava.
Non riusciva a capacitarsi di come una rosa magnifica come poteva essere Sarah avesse dovuto sorbire la presenza quasi fastidiosa dell'irrecuperabile figlio; l'ennesimo fardello che il marito le aveva affibiato. D'altra parte, Bert non aveva mai amato i bambini, tantomeno gli adolescenti. Avrebbe dovuto essere nella locanda, ad assistere la madre, ed invece, come sempre Jim era altrove, a cacciarsi nei guai, alla ricerca di qualcosa cui neanche lui sapeva dare un nome.

Perchè sul suo surf solare, Jim si isolava da tutto ciò che lo circondava, entrando nel suo mondo, una realtà fittizia ed avventurosa cui lui e soltanto lui aveva accesso. La sensazione del vento tra i capelli castani, che sembra quasi accarezzarlo dolcemente, invitandolo a seguirlo. E lui lo seguiva, eccome. Non c'era niente in quel suo regno che non avesse creato lui: persino la tavola a propulsione che sfruttava l'energia del Sole era stata interamente costruita dalle sue attente mani di quattordicenne, attraverso dei materiali di scarto trovati qua e là durante le sue scorribande, ed era ancora funzionante, dopo quattro anni.
Jim era una continua cascata irruenta di idee, che si infrangeva al suolo travolgendo tutto quanto gli si trovava davanti. Era stata la partenza del padre a conformarsi come la diga in grado di frenare il suo talento ed indirizzarlo verso il vuoto. Il pianeta Montrès era diventato il suo immenso palcoscenico dove inscenare le avventure che da sempre sognava, e il surf solare era il pennello con cui dipingeva i suoi scenari. Una virata a destra, poi a sinistra, ed infine giù in picchiata; quando era sul punto di toccare il suolo, infine, spiegava le vele che aveva cucito con dei materiali raccattati tra navi solari e venditori in nero e si librava ancora in volo come una giovane fenice.
Chiuse gli occhi per qualche istante e respirò a pieni polmoni quell'aria di libertà che tanto agognava, e che, pur sapendo di non poter raggiungere, ricercava costantemente. Poi dischiuse le palpebre e puntò le vibranti iridi azzurre e scintillanti verso un cartello di fronte a sé: aguzzò la vista. Un enorme, palese divieto d'accesso per il generatore di energia numero 8 della città.
Sorrise, beffardo. La parola “proibizione” suonava alle sue orecchie come un'intrigante sfida, un modo per mettere alla prova le sue capacità, di confrontarsi con il rischio e, possibilmente, di ridere a suo danno. «Veloce!» esclamò, entusiasmato dal pericolo, dalla possibilità di essere avvistato da qualche poliziotto e dalla voglia di fuggire, di trovare il suo equilibrio che sembrava poter cercare solo nel brivido dell'aria aperta, della rapidità. Sua madre non ne sarebbe certo stata fiera, ma in quel momento si sentiva come distante da ogni preoccupazione, da ogni legame: esistevano solo lui, la sua tavola e l'immensità dell'Universo di cui finalmente si sentiva parte.
Si gettò a capofitto tra gli ingranaggi della fabbrica: un esempio spettacolare dei progressi che la meccanica aveva compiuto in pochi decenni. Tubi, turbine, pannelli solari ed enormi ruote incastrate tra loro, tutto perfettamente funzionante e sinergico, senza l'ausilio di alcun controllore.
Un immenso parco giochi, per Jim. Prese fiato, si gonfiò il petto, poi lo tirò tutto fuori di getto, in un urlo liberatorio. Via, verso il tramonto! Schivò i tubi, eseguì qualche piroetta, e riuscì a districarsi anche tra gli ingranaggi incastonati tra loro. Quando finalmente fu fuori, per qualche attimo si sentì pervaso da un senso incredibile di soddisfazione; e quel che lo svuotò, una manciata di secondi più tardi, fu la consapevolezza del fatto che nessuno avrebbe mai apprezzato quel suo dinamismo eccentrico che caratterizzava il suo essere, la sua forma d'arte.
Era un qualcosa che, probabilmente, avrebbe apprezzato sempre e solo lui. Sarah l'avrebbe voluto in accademia, e soprattutto, avrebbe adorato un figlio che avesse saputo applicarsi a scuola, per costruirsi una vita. Un futuro. Jim si lasciò sfuggire un sorriso amaro, increspando appena le labbra; A che scopo? Si chiese, chinando all'indietro il capo e lasciando che la brezza leggera gli accarezzasse il volto. Era una favola in cui non credeva più, da molto tempo. Inspirò ed espirò lentamente, recuperando una certa calma. Il pensiero di non poter rendere felice sua madre semplicemente per quello che era, lo sconvolgeva. Al punto che non si accorse neanche di essere vicino ad una pattuglia.
Fu la sirena dei robot vigilanti a ricondurlo precipitosamente alla realtà. Levò il capo, sgranando gli occhi. «Che diamine..?» balbettò, voltando appena il capo. Eccoli lì: due armadi a due ante, in latta e circuiti, con la divisa blu perennemente dipinta addosso ed il distintivo in bella vista sul torace, che con un cenno della mano gli intimavano di fermarsi.
Una voce dentro alla testa del ragazzo gridava “Corri!”, ma, questa volta, fu l'immagine del volto di sua madre a condizionarlo. Frenò, rallentando gradualmente, e si abbassò di quota fino a sfiorare il suolo. Finalmente posò il piede a terra e il moto del surf solare si arrestò completamente. Si voltò con un sorriso gentile quanto fasullo, pronto a trovare chissà quale scusa per il suo comportamento. «Buonasera, agent...» fu bruscamente interrotto da uno di loro, che lo strattonò per il braccio, allontanandolo dal surf solare. «Ehi!» si lamentò, cercando di divincolarsi. Inutile: avevano una presa d'acciaio, come ci si poteva aspettare da due automi perfettamente funzionanti.
L'altro agente si avvicinò al surf solare, decisamente con poca grazia, pronto ad allungarvi le mani dalla forma di pinza. Jim ebbe un tuffo al cuore, che sembrò tremare per qualche istante. Quella tavola rappresentava le ali di cera attraverso le quali Icaro cercava di volare verso l'astro del Giorno. Erano il suo prezioso cimelio, e nessuno avrebbe dovuto toccarle. Il solo osservare quell'essere meccanico sfiorarlo gli fece ribollire il sangue nelle vene. «Non toccarlo!» ruggì, con gli occhi infiammati da una brace ardente. Cercò di liberarsi dalla stretta del primo poliziotto di pattuglia, ma la frustrazione di non potervi riuscire lo assalì. Assistette alla scena senza poter reagire in alcun modo.
Il robot avanzò impietoso levitando a pochi centimetri da terra, grazie ad alcuni razzi a propulsioni situati al posto di quelle che avrebbero dovuto essere le sue gambe, quindi alzò un braccio, ponendolo parallelo rispetto al terreno, puntandolo contro il mezzo di trasporto. Jim intuì cosa stava per accadere. Ebbe un sussulto. «No, no, aspetti!» lo implorò; ma fu inutile. La creatura di latta stava elaborando chissà quale informazione fornitagli da un pacchetto di dati predefinito, assolutamente privo del concetto di “compassione”. «Violazione dell'articolo 9-0-4, paragrafo 15, comma 6: circolazione con veicolo solare in zona vietata.» sentenziò, con una voce stridente e fastidiosa, metallica, acuta. La pinza si aprì, lasciando che da essa fuoriuscisse una minuscola arma da fuoco, sotto forma di piccola canna d'argento.
Il ragazzo si sentì quasi mancare: respirava tanto rapidamente da rischiare l'iperventilazione. «Pena: requisizione del veicolo.» concluse l'automa. Dalla pistola partì un colpo, che esplose sulla vela, donandola per intero a delle fiamme bluastre che la inghiottirono in un sol boccone. Jim avvertì nettamente la sua libertà scivolargli via dalle dita, come evaporata in una piccola nube di fumo. Lo stesso fumo di combustione che era rimasto del suo surf solare, insieme ad un mucchio di cenere. Si morse il labbro inferiore fino a farsi male, ma non fiatò. Era come se il cielo gli fosse crollato addosso, opprimendogli il petto, impedendogli di respirare.
Stava soffocando. Ancora.
Fu strattonato fino ad una piccola navicella, e spinto all'interno, attraversando uno sportelletto; «Vedremo cosa ne dirà tua madre, ora.» commentò uno dei poliziotti, accomodandosi a sua volta. Ma lui era troppo stanco anche solo per ascoltarlo.

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