C'eravamo fatti un bel film, amore.

di elans
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio ai sensi di colpa ***
Capitolo 2: *** Rose (appassite al ramo) ***
Capitolo 3: *** When the night is cloudy ***



Capitolo 1
*** Preludio ai sensi di colpa ***


001. Preludio ai sensi di colpa

 

"I am half-sick of shadows."
                              
[Lord A. Tennyson, The Lady of Shalott]



Poetici estratti dalle Lettere di Arwen Undomiel ad Aragorn, chiuse in un baule in attesa del suo ritorno.
Domenica, 1° dicembre
Amore, è passata solo una settimana da quando sei partito. Il cuore mi si riempie di un mare di lacrime ogni volta che ti penso, ma non posso fare a meno di navigare in quel mare.
[…]
Venerdì, 13 dicembre
Amore, non smetto un attimo di pensare a te. Ti vedo in ogni volto, in ogni nuvola, in ogni riflesso sull’acqua.
[…]
Sabato, 28 dicembre
Non condivido le idee di mio padre. È convinto che la vostra impresa sia fallita ancora prima di cominciare, sfiduciato. Inoltre non approva il nostro amore, lo considera una cotta adolescenziale, e vorrebbe che mi concentrassi su uno dei suoi noiosi amici plurimillenari. Ma io ti amo alla follia.
[…]
Lunedì, 6 gennaio
Vuole che parta per i rifugi oscuri. Gli ho detto che parta lui, ma per andare a quel paese. Comincio a dubitare della sua lucidità. Nonna Galadriel mi ha mandato una cartolina criptica della sua collezione. Una città piena di luci, un’altra dimensione. Chicago. Pare che tutti mi mandino messaggi subliminali, qualcosa come stai-sprecando-la-tua-vita-fuggi-finché-sei-in-tempo. Ma insomma, anche se a conti fatti non avete una possibilità una di tornare, io di qui non me ne vado.
[…] […] […] […]
Venerdì, 17 gennaio
Sta facendo i bagagli. Vuole partire per i Rifugi oscuri entro un mese.
Anch’io ho fatto i bagagli e parto. Me ne vado da qui. C’eravamo fatti un bel film, amore.

Venerdì, 2 febbraio, ore 07.40
Stanza 39, Motel U.S.A. Paradise
Chicago, USA

Elizabeth lanciò un’occhiata torva alle nuvole colme di pioggia che si rincorrevano al cielo in un buffo, impacciato inseguimento in slow motion. Pioveva anche l’ultima volta che aveva visto Will vivo. A volte, Liz si chiedeva se sarebbe mai riuscita a passare oltre, a dimenticare, a innamorarsi ancora. Anche se non fosse stato quel grande amore totalizzante, da adolescenti appassionati senza precedenti né esperienza, le sarebbe andato bene: sarebbe bastato che le togliesse dalla bocca e dai pensieri quel sapore stagnante e al contempo duro come metallo, quel sentore di impotenza che ribolliva e si dibatteva negli ultimi spasimi sotto la rassegnazione. Eppure ogni volta che un uomo le parlava si ritraeva, inventava impegni inesistenti, era gelida e lontana; le ritornava in mente sempre la stessa calligrafia aggrovigliata, la stessa frase rabbiosa e nostalgica al tempo stesso…
Ed ho solo vent’anni, si disse.
Cercò di scacciare con un gesto della mano quei pensieri e accese la radio a tutto volume.
Wen si rigirò sul letto mugolando. (Come la minuscola stanza del motel riuscisse a inglobare cucina, sala da pranzo e camera da letto in sei metri per sei, era un mistero per entrambe.) “Che stai facendo, Liz?” borbottò, squadrandola con gli occhi socchiusi alla tenue luce del sole.
Liz aveva ancora i capelli fradici e indossava solo un cardigan di lana a righe bianche e blu abbottonato sulla pelle nuda, mutandine a vita bassa di lycra nera e le solite pantofole con la testa del Muppet. Bevve un sorso di caffè. “Lo so, è presto e sveglio tutti. Ma…”
“Will?” chiese Arwen mettendosi a sedere sul letto.
“Will” sospirò Elizabeth. “Wen, prima di andare via Will mi diede un libraccio sconquassato, vecchio già allora. Il diario di Davy Jones.” Fece un mezzo sorriso. “Sì, lo so che sembra il film su Bridget Jones. Però… Io speravo di trovarci qualche indicazione, un modo per salvare Will da quella merdata, per sciogliere la maledizione. E invece… Invece è un testo introspettivo. A un certo punto Jones comincia una specie di soliloquio ossessivo diretto alla sua amante.”
“Che paroloni. Chi era la sua amante? Calypso?”
“Sì. Come fai a sapere tutto? Comunque, alla fine tutto si riduce alla stessa frase, ripetuta migliaia di volte.”
“E cioè?” chiese Wen. Liz non sapeva come, ma l’elfa riusciva sempre a capire quando era il momento di cavarle le parole di bocca, e la cosa la faceva sentire bene. Era felice che qualcuno la comprendesse, in un certo senso.
“La frase dice: Perché tu non c’eri?
Wen taceva, arrotolandosi una ciocca di capelli intorno all’anulare.
“E se col tempo Will mi dimenticasse? E se io mi dimenticassi di lui? E se…”
“Liz, in cinquant’anni io non mi sono mai dimenticata di Aragorn. Piantala con queste… queste seghe mentali.” Di solito Arwen non era volgare. Mise un pentolino di latte al fuoco e lanciò un’occhiataccia alla gabbia dello scoiattolo.
“È alto un francobollo messo in orizzontale, ma russa” sorrise.
“E puzza come una fogna” aggiunse Liz. Prendere in giro Voldemort era l’unica cosa che riusciva a tirarle su il morale in questi giorni. “Se non troviamo un posto dove nasconderlo e non gli facciamo il bagno nello Chanel n. 5, ci defenestrano.”
“Ho osservato attentamente Saphira, e comincio a pensare che…” la interruppe Wen.
“Si vede lontano un miglio che è innamorata” abbaiò lo scoiattolo con una terribile voce profonda, e Liz sobbalzò. “Puah. Questa gabbietta fa schifo.”
“Senti, Lord Voldemort, sei tu che hai voluto trasformarti in uno scoiattolo” bofonchiò Elizabeth in direzione della gabbietta. “Oh, Wen rendi conto che ha sentito tutto quello che abbiamo detto? Ti rendi conto che ci vede nude ogni volta che usciamo dalla doccia? Ti rendi conto di che filmini si fa? Ti rendi conto…”
“No” grugnì cupo Lord Voldemort. “Gli scoiattoli devono essere presbiti. Comunque, se volete il mio modesto parere, quel rettile è innamorato perso.”
“È arrivata la Posta Del Cuore” sbuffò Liz. “E non chiamarla rettile! Proprio tu, poi. La tua unica relazione affettiva è stata con un serpente, e hai anche avuto il coraggio di chiamarla Nagini. Se qualcuno mi chiamasse Nagini mi suiciderei.”
“È innamorata, e la cosa manderà a farsi fottere parecchie cose, se non starà attenta” pronosticò Lord Voldemort.
“Cerchi di usare un linguaggio un po’ meno scurrile, per favore” lo pregò Arwen. “Stiamo parlando di un drammatico amore che probabilmente non riuscirà a consumarsi.”
“E a me non pensi?” gemette lo scoiattolo. “Pensa a me e al Potterino. Insomma, pensavo sempre a lui. A come farlo fuori, va bene, ma era il senso delle mie giornate. E quello cosa fa? Ti illude di essersi fatto ammazzare, poi risorge e ti fa nero.”
“Amor non corrisposto, soffro e dimagrisco” lo prese in giro Liz. “Wen, accendi la tv. Fra due minuti comincia Queer As Folks, e visto che qui accanto abbiamo un ex dominatore del mondo fallito, adesso scoiattolo omoserpentofilo, direi che non puoi dire di no.”
“Comunque, personalmente credo che tra Brian e Justin non possa durare” disse Arwen, mettendo a scaldare nel microonde degli spinaci cosparsi di tè al ginseng per il suo piatto elfico del giorno.
“Avevo due mangiamorte di nome Brian Lenoch e Justin Caldwell. Poi ho dovuto ammazzarli” sospirò Lord Voldemort con uno squittio malinconico.
“Ma stia zitto.”

 


 

Venerdì, 2 febbraio. Ore 20.10.
Grotta Di Saphira
c/o Foresta Elfica Dal Nome Impronunciabile Che Comincia Con Du,
Alagaesia.

“Waaargh”.
Saphira si lasciò cadere mollemente a terra, e mentre l’impatto dei suoi tremilaseicentododici chili dragoneschi con il terreno della grotta provocava un boato tremendo cercò di pensare a qualcosa di insulso, come la bellissima sciarpa verde di Arya, una canzone americana, o Leonardo DiCaprio.

[Negli ultimi mesi era andato tutto a scatafascio (e qui comincia un brevissimo riassunto che, se ricordate ancora cos’è successo in Eragon ed Eldest, potete anche risparmiarvi).
Per la precisione, i problemi erano iniziati alla morte di Brom, il cantastorie jedi/talent scout che aveva scoperto lei ed Eragon in un paesino sperduto tra le montagne e li aveva accompagnati in un viaggio attraverso il loro continente, l’Alagaesia, in fuga dall’imperatore Galbatorix (cattivo) verso un gruppo di ribelli chiamati Varden (buoni).
Brom in realtà non era solo un cantastorie, un talent scout e l’unico ottantenne in grado di intrigare Saphira con il suo charme da macho macho man mentre cuoceva coniglio all’ortica. Era anche stato un Cavaliere dei Draghi, un bravissimo spadaccino e una guida spirituale per lei ed Eragon, tipo Obi Wan Kenobi. Morale della favola, senza di lui – e insieme a una specie di ibrido tra Bambi e Kurt Cobain di nome Murtagh – la loro avventura era diventata il sequel di Casino Royale per fantasy lovers: erano riusciti a penetrare, non vi dico con quanto sforzo e con quante indicibili stronzate commesse da Eragon, nella macabra fortezza di uno scagnozzo psicopatico del re munito di poteri soprannaturali, un certo Durza, in cui era rinchiusa un’elfa di nome Arya; e, contro ogni pronostico, erano riusciti anche a salvarla e ad andarsene tutti interi. Ora, Saphira avrebbe dovuto essere riconoscente ad Arya, perché proprio lei aveva custodito per molti anni l’uovo da cui era nata; solo che la dragonessa non riusciva a capire come l’elfa potesse sembrare uscita dal catalogo di un sexy shop dopo svariati mesi di durissima prigionia, e neanche come facesse a risvegliare gli ormoni di Eragon pur trovandosi in stato comatoso.
Comunque, erano riusciti ad arrivare dai Varden e, dopo aver combattuto una tremenda battaglia dentro una montagna, ucciso Durza e sostenuto un migliaio di consigli di guerra noiosissimi e lunghi ore ed ore, senza mai mangiare o andare alla toilette, avevano acconsentito a raggiungere la Meravigliosa Magica Foresta Elfica Du Weldenvarden (nome da pronunciarsi con erre moscia e tono estatico) per “completare il loro addestramento”. Lì avevano incontrato, oltre alla regina degli elfi che altri non era se non l’adorabile mammina di Arya (la quale, nel frattempo, si era svegliata dal letargo e sculettava dappertutto), anche un Cavaliere vecchio come la morte e il suo drago dorato, entrambi muniti di una saggezza e una tranquillità quasi insopportabili. Ah, a proposito, Murtagh/Bambi era sparito nel nulla quando l’allegra comitiva si trovava ancora presso i Varden. Saphira sospettava che si fosse unito a una cover band dei Nirvana e se ne fosse andato a cantare Smells Like Teen Spirit a qualche troll puzzolente. Con quest’ultima insignificante notizia, possiamo chiudere il nostro riassunto.]


Insomma, non erano passati neanche due mesi dal loro arrivo nella Du Weldenvarden, e Saphira non vedeva già l’ora di andarsene. Si sentiva sola come un cane e piena di nostalgia. E di conseguenza, aveva un umore da George Orwell col mal di pancia.
Quella sera non faceva eccezione.
Aveva passato una giornata odiosa, sotto un insopportabile sole elfico gelido e palliduccio, a fare esercizi simili, più che a manovre di volo, a lezioni di kamasutra formato drago.
Come al solito, inoltre, il suo già fragile sistema nervoso era stato bersagliato dagli onnipresenti coglioni elfici che popolavano quel cavolo di boschetto. (Non che la razza elfica le desse fastidio. Anzi. Quegli esseri alti e sottili "come fuscelli" le ricordavano tempi migliori, mondi migliori. Li adorava: erano quasi tutti affascinanti, intelligenti e comprensivi. Gli unici spilungoni orecchielunghe vanesi, gelidi e ottusi avevano messo su casa, per l’appunto, nella Du Weldenvarden.)
Lanciò un'occhiata al fondo della sua caverna intrisa di gelo e umidità. Da qualche parte, in una scatola di cartone mangiucchiata poco a poco dall'acqua, c'erano i vestiti che Arwen ed Elizabeth le avevano prestato la settimana precedente: una corta gonna a fiori, calze smagliate troppo leggere, un maglione di lana grigia, un enorme trench nero.
La non ancora signora Aragorn e la troppo tardi signora Turner avevano preso in affitto insieme la camera di un motel a Chicago, nel secolo ventunesimo, prima che Saphira partisse per la Du Weldenvarden. (Non era granché. Anzi, la dragonessa non riusciva a capire come facessero a vivere in una stanzetta di quindici metri per quindici ingombra di libroni, carte geografiche, bottiglie di rum e mantelli di Lothlorien senza soffocare.) Arwen aveva in mente già da tempo di lasciare la Terra di Mezzo a tempo indeterminato, e quando era venuta a sapere che Elizabeth si era vista morire Will davanti agli occhi, aveva deciso di non aspettare oltre. Gli elfi erano strani. Saphira non era mai riuscita a capirli. Alcuni si divertivano a rovinare la vita degli apprendisti Cavalieri dei Draghi passeggiando per la Du Weldenvarden con le loro faccette ebeti; altri scoprivano di essere innamorati di te cinque minuti prima che fosse troppo tardi; altri ancora prendevano decisioni importanti per la loro vita solo quando c'era un amico a cui salvare la vita.
Il giorno in cui aveva lasciato la Terra di Mezzo, Arwen era comparsa all'improvviso nella radura dove Saphira stava riposando, bellissima nei ricami del suo vestito bianco dalle lunghe maniche, l'aveva presa per un braccio e l'aveva trascinata su un'isoletta sperduta in mezzo al Pacifico. Elizabeth era distesa sulla spiaggia gelida e spazzata dal vento, tra un tronco caduto e un fagotto di pochi vestiti arrotolati. Fissava in silenzio il mare lambito dal tramonto. Aveva grumi di capelli sudici appiccicati al viso e si era quasi strappata la pelle dalle ossa a forza di graffi. Saphira ricordava di essersi chiesta se l'amore fosse davvero in grado di trasformare la gente in quel modo, e di aver avuto paura per sé stessa.
Arwen le si era avvicinata piano. "Liz, vieni via" aveva sussurrato, prendendole la mano. Le sue curve sembravano ancora più sinuose, confrontate al corpo spigoloso e alle braccia sottilissime di Elizabeth.
Liz non aveva detto niente. L'aveva seguita, bagnandosi gli orli strappati del vestito sulla battigia. Da allora nessuna delle due aveva più messo piede nella propria vita. E per entrambe era stato un toccasana. Si erano trovate un lavoro in un luogo chiamato "nightclub" di cui Saphira non era ancora riuscita a cogliere l'essenza e, dai discorsi misteriosi in cui la coinvolgevano, sembrava che stessero architettando un piano diabolico per conquistare il mondo, o qualcosa del genere. Elizabeth aveva persino rimesso su qualche chilo (tra gli hobby pluricentenari di Arwen c'era anche Cucina Tipica Elfica Con Forno A Microonde e Surgelati Del Lidl). Pareva che per tutta la loro vita non avessero aspettato altro che aggirarsi per le sudicie Avenue americane con addosso vestiti vintage di seconda mano, alla ricerca di un libro, un oggetto, una persona che le aiutasse a risolvere le questioni che riempivano le pagine ingarbugliate di decine di block notes nella loro stanza.
A volte - spesso, negli ultimi tempi - Saphira faceva un salto a trovarle. E anche da questo punto di vista quella sera non faceva eccezione.
Gli occhi persi nell'ennesimo poetico tramonto, Saphira pensò alla nottata alternativa che le si prospettava davanti.
Ma all’improvviso le parve che un esercito di minuscoli spilli le si stesse conficcando in fronte. Gli inconfondibili pensieri lamentosi del Cavaliere le riempirono la testa.
“Eragon, se non è una cosa seria ti impicco. Ti prego, ho il mal di testa. Si tratta della sgualdrina?” chiese Saphira.
“Sgualdrina? Oh, Saphira, come puoi… Arya è… I suoi occhi sono profondi come due laghi neri di perdizione…” cominciò Eragon. (Ebbene sì. Se la scusa del mal di testa riusciva a convincere migliaia di mariti a convertire una serata piccante in una sessione avanzata di Yoga e meditazione, beh, non bastava a sedare un teenager preda del suo primo amore.)
“All’inizio era gentile con me, e sembrava quasi che potesse esserci qualcosa tra noi. Ma poi s’è fatta sempre più distante, e ora dice che tra noi non può esserci nulla.” Si fermò, inspirato. “Oh, Saphira, non faresti così se avessi dato un morso al biscotto dell’amore e poi fossi stata costretta a rinnegarlo per sempre.”
Il fatto che Eragon fosse così ottuso quando si trattava della sfera sentimentale della dragonessa abbassava il morale di Phy in modo devastante.
Possibile che negli ultimi tre mesi non si fosse accorto che Saphira, la sua Saphira, avevauna serata prima raggiunto picchi di euforia, poi di malinconia e infine di completa sfiducia e depressione? Quale altro Cavaliere dei Draghi avrebbe mai ignorato che i battiti del cuore del suo compagno di vita stavano rallentando sempre di più? In altre parole, non aveva capito, Eragon, che Saphira era innamorata?
Si sentì come se un gigante le avesse preso il collo e glielo avesse annodato due volte di seguito. Tutto il fuoco che le ardeva dentro sembrò congelarsi e diventare un pesantissimo, gelido iceberg pieno di spigoli.
“Saphira? Saphira? Stai bene? Mi senti?” chiese Eragon, abbandonando la voce triste e profonda da declamazione a quella squillante e insopportabile da interrogatorio.
“Maremma cane, Eragon! Non è che se mi sfracelli del tutto i coglioni poi vinci la bambolina!” abbaiò Saphira. “Passo e chiudo” aggiunse, e oscurò la propria mente.
Le sembrò quasi di sentire la voce di Glaedr che sbraitava: Tu e il Cavaliere dovete condividere TUTTO!
Ma che andasse a farsi fottere, si disse, e andò a nascondersi nel punto più buio della grotta perché nessuno potesse vederla mentre diventava umana.

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Capitolo 2
*** Rose (appassite al ramo) ***


002. Rose (appassite al ramo)



Speravi in un amore come l'infante
Che ti segue reggendoti in mano.
E invece che fiori, versi e collane
La morte ti diede rose - appassite al ramo.

[F. Garcìa Lorca, Elegia a donna Giovanna la Pazza
]



Venerdì, 2 febbraio, ore 22.10
Stanza 39, Motel U.S.A. Paradise
Chicago, USA
“Ahiaaa, Dio margherita! Mi stai strappando la pelle dalle ossa! Wen, se finisci subito ti offro la cena, giuro su Jude” ululò Elizabeth, coprendosi con le lunghe mani il volto ridotto a una maschera di dolore.
Nella stanza malandata del motel, i bei lineamenti corrugati in una smorfia di elfica concentrazione, Arwen stava passando con precisione clinica un rombante esemplare di silk-épil sulle gambe dell’ex piratessa. Quest’ultima era riversa sul letto agonizzante, gli occhi rivolti verso il poster di Jude Law largo due metri e alto tre che lei ed Arwen avevano acquistato per il non-compleanno di Voldemort.
“Senti, donna, l’ultimo sudicio maghetto a cui ho inflitto la maledizione cruciatus strillava la metà di te, e lo faceva in modo molto più elegante” sbuffò il Voi-Sapevate-Chi dalla gabbietta in cui si era ritirato in buon ordine dopo aver attaccato al chiodo bacchetta e Mangiamorte e aver assunto sembianze di scoiattolo. “Se bella vuoi apparire, un po’ devi soffrire. E se non appari bella stasera ti licenziano, quindi. Mettici un po’ d’impegno.”
“Disse quello che s’era perso il naso per strada” lo redarguì Elizabeth.
“Come osi? Lurida babbana.”
“Topaccio puzzone.”
“Scampolo di cambusa.”
“Fattucchiero da quattro soldi.”
“Stolida bucanieretta.”
Arwen dovette alzare la voce per interrompere il battibecco.“Et voilà. Finito” sorrise, e si alzò con grazia per raggiungere il termosifone e prendere solennemente in mano il vecchio diario di Davy Jones. La luna le si riversava addosso attraverso i vetri opachi, insinuandosi tra le maglie del pull enorme di lana grigia che indossava a mo’ di vestito. Brillava come una stella lei stessa, ma non c’era nessun Aragorn a vederla e ad andarsene a letto col cuore in tumulto, quella sera.
In quel momento Voldemort trasalì e corse a nascondersi sotto la sua ciotola. “Per Salazar Serpeverde, pace all’anima sua!” esclamò terrorizzato. “Gli Auror! Sapevo che mi avrebbero scovato, prima o poi!”
“Ma che cavolo va blaterando?” sbuffò Elizabeth, che si stava massaggiando le gambe con il Cremoso Infuso Idratante Ingrediente Segreto di Arwen, gli occhi chiusi e i lineamenti distesi in un’espressione di estrema beatitudine (probabilmente non sarebbe stata così sollevata se avesse saputo che l’Ingrediente Segreto da mescolare a miele, olio di jojoba e funghi tritati era latte acido di pipistrello silvestre). “Cosa sono gli Auror?”
“Gli Auror sono l’FBI del mondo magico, se non ricordo male” spiegò Arwen. “E tra l’altro, Lord Voldemort, non capisco proprio come le sia venuta in mente un’assurdità del genere. Non la scoprirebbero mai. Nessuno andrebbe mai a pensare che Voldemort possa nascondersi a Chicago. Sarebbe statisticamente più probabile trovare mio padre in vacanza alle Hawaii. E poi cosa le fa pensare che siano qui proprio adess…”
Un tramestio di passi affrettati e incerti si riversò nel corridoio del motel, seguito da un paio di tonfi contro le pareti e uno, molto plateale, sul pavimento. Pochi secondi dopo, la porta della camera cominciò a tremare sotto una frenetica pioggia di colpi.
Elizabeth si alzò drammaticamente e andò a sbirciare all’occhiello, dopodiché aprì la porta roteando gli occhi mentre Voldemort lanciava un gridolino da Rossella O’Hara e si accasciava sulla paglia semisvenuto.
Una massa informe di capelli ramati si catapultò nella stanza, inciampò e crollò a sedere, distrutta, sull’unica poltrona della stanza, un relitto foderato da un liso tessuto a fiori.
“Phy?” chiese Elizabeth andando a versarle un bicchiere d’acqua. “Tutto bene? Abbiamo appena finito col silk-èpil, mi dispiace che te lo sia perso” ghignò. “Se non rischiassi di essere licenziata, non ti dico cosa gli farei, a quell’arnese.”
La massa informe, adesso che era ferma, aveva assunto le sembianze di una ragazza piuttosto sottile, col volto sporco di terra e seminascosto da una criniera rossa che schizzava in tutte le direzioni. Indossava un maglione nero e una minigonna verde a fiori troppo leggera. Le gambe pallide erano tutte graffiate e chiazzate di rosso.
Costei prese una lunga boccata d’aria e poi dichiarò: “Io in quella foresta di merda non ci torno più. Il cavaliere mi perseguita. Non fa niente dalla mattina alla seria. Niente. Aria.”
"Quell'Arya?" ammiccò Elizabeth.
"Sì. Quell'Arya. Stramaledetta stangona. (Con tutto il rispetto, Wen.) E poi parla! Parla in continuazione!"
“Saphira…” provò a dire Arwen, assumendo un’espressione da saggia e moderata vecchia elfa.
Saphira le puntò un dito contro con fare minaccioso. “No. Non farmi il discorso della comunione di pensieri, perché i miei maestri” fece una pausa significativa, durante la quale assunse un’espressione indescrivibile “mi ci fanno un capo grosso così. Vorrei però ricordare ai miei maestri” e qui cominciò ad agitare il piede in un tic nervoso “che non ci sono mica sposata, io, con quello lì.”
Elizabeth storse il naso. “Ah, dalla Terra di Mezzo nessuna notizia, prima che tu lo chieda” annunciò. “Nemmeno una letterina. Arwen non lo ammetterebbe mai, ma cerca di mettersi in contatto con lo Specchio di Galadriel tre volte al giorno.” Indicò una bacinella colma d’acqua appoggiata nel lavello. “E quella vecchia risponde sempre che non ha nulla da dire e poi zum, chiude la linea. Ha provato anche a buttarci lo Svelto per i piatti per vedere se riusciva a far assumere a quest'acqua qualità chiaroveggenti, ma niente.”
"Tentar non nuoce" sorrise Arwen.
“Ah.” Saphira si guardò i pollici in silenzio. “Ormai è più di due mesi che sono partiti” constatò, alzandosi per raggiungere il frigorifero e agguantare la Riserva Segreta di gelato all’amarena di Arwen. Si accanì sul coperchio tentando di aprirlo con furia dragonesca, finché Arwen non le mostrò che bastava tirare su una levetta.
Il nasino nero di Voldemort spuntò guardingo da sotto un cumulo di paglia e annusò l’aria. “Ah, sei tu” disse con noncuranza uscendo dal suo nascondiglio e ravviandosi il pelo con un colpo di coda. “Certo che potresti anche fare un po’ meno confusione. Che maniere sono queste?” la rimproverò impavido.
“Guarda che ti mangio” mormorò Saphira scoccandogli un’occhiata sanguigna, passandosi una mano tra i capelli per rovesciarli all’indietro e ottenendo solo di aggrovigliarseli ancora di più attorno al polso. Affondò il cucchiaio nel gelato per estrarne una generosissima porzione, metà della quale le finì sulla gonna. “Ridivento un drago e ti mangio.”
“Saphira, ignoralo. Piuttosto, dovresti farti una doccia” osservò Liz in tono piatto. “Tra mezz’ora dobbiamo essere a lavoro.”
“Quindi dobbiamo uscire? Di nuovo?” gemette Saphira ingoiando un’enorme amarena tutta intera e volgendosi verso il bagno. “Tu non sai cos’ho fatto per arrivare qui. Voglio dire, tutto è andato bene finché non è spuntato un tizio che voleva inseguirmi. Dopo che mi sono trasformata, nella mia grotta, ho fatto lo Zum Zum e sono arrivata sulla Flist Avenùe (credo di averlo letto bene, il cartello), e da lì…”
“Lo Zum Zum sarebbe una Smaterializzazione?” la interruppe Voldemort in tono petulante, mentre lei si faceva largo nella microscopica stanza da bagno e imprecava contro l’acqua gelida. “Ah, quando avevo ancora i miei poteri era robetta da niente, per il sottoscritto. La sapeva fare anche Potter” ventilò Voi-Sapevate-Chi. Elizabeth intonò una marcia nuziale.
“Comunque” stava proseguendo Saphira, urlando per sovrastare lo scrosciare dell’acqua “poi mi sono fatta dire dov’eravate. Ho fatto attenzione. Non ho fatto sbandare nessuno di quegli affari con le ruote. Ho anche rispettato i cosi a luci rosse.”
“Vuoi dire i semafori?” suggerì Arwen.
“Esatto. Insomma, stavo benissimo finché non sono arrivata qui vicino. A un certo punto è arrivato un tizio tutto ubriaco che ha cominciato a farmi proposte incidenti.”
“Indecenti, Saphira” sussurrò Arwen.
“Sì, quelle lì. Sono rimasta un po’ ferma come un orso strafatto di erba gatta, ma quello lì ha cominciato a inseguirmi! L’ho fatta tutta a corsa, dalla Quindicesima a qui. Ditemi che non ho manie di persecuzione… Ma come diavolo si apre ‘sto balsamo?”
“Benvenuta tra gli esseri umani, Phi” annunciò Elizabeth, recuperando le sue calze da sotto il letto. “Tranquilla, non hai manie di persecuzione. Invece a Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato gli è preso un mezzo infarto quando ti ha sentita arrivare. Visto, Voldie? Niente Auror.”
“Ma io li avevo sentiti” si lamentò Lord Voldemort, parlando più al poster di Jude Law che ad Elizabeth.
“Beh, c’è una spiegazione, Lord Voldemort” disse Arwen in tono rassicurante, e andò a soccorrere Saphira, che era scivolata nella doccia e stava snocciolando un rosario di imprecazioni particolarmente fornito contro Eragon e i Cavalieri, tanto per cambiare. “Gli scoiattoli hanno l’udito finissimo, come gli elfi. Anch’io ho sentito la baraonda per le scale. Lei ha pensato che fossero gli Auror. È un po’ suggestionabile ultimamente, mio caro ragazzo.”
“Capito? La mancanza del Potterino ti ha rammollito” lo prese in giro Elizabeth, riponendo le ciabatte dei Muppets e tirando fuori un grosso fermacapelli dei Gremlins, che venne immediatamente bocciato da Arwen.
Davanti allo specchio ossidato che il geniale arredatore del motel aveva piazzato sopra i fornelli, Arwen avvolse un asciugamano bitorzoluto attorno ai capelli di Saphira e sussurrò una preghiera ai Valar perché l’aiutassero a trovare la spazzola (finita, come al solito, tra i vecchi dizionari di sortilegi di Elizabeth). “Puoi gettare la testa all’indietro? Ecco, bravissima.”
Mentre una pioggerellina gelida le scivolava lungo la schiena e Arwen le passava le mani tra i capelli, Saphira rabbrividì. Gli elfi hanno tutti dita lunghe e fredde, quando ti sfiorano sembrano impercettibili soffi di vento, o labbra sul collo. Nel riflesso opaco del volto dell’elfa, Phi riconobbe quello di Legolas e si mordicchiò pensosamente la lingua, chiudendo gli occhi. Il mormorio della voce di Arwen, che cantilenava una vecchia canzone della sua gente, capovolse il suo orizzonte.
Un bosco così bello e la certezza di non rivederlo. Il dolore e la malinconia nello stormire delle foglie, clorofilla sulle dita, sotto le unghie l’odore del muschio bagnato. I pensieri piatti del cavaliere ad agitarsi come deboli scarabocchi in sottofondo, Saphira si era chiusa a chiave e l’aveva lasciato fuori.
Legolas la guardava e canticchiava piano nella propria lingua. In seguito, Phi si sarebbe corrosa per giorni interi nel tentativo di ricordare le parole, senza riuscirci. Per fortuna non aveva ancora dimenticato la melodia, si portava con sé la sua voce, la sua pelle bianca, il calore nel centro del bosco gelido, tra le foglie morte, alle soglie dell’inverno. Il morbido uragano della sua bocca, le sue dita sulla schiena nuda.
Al mattino si era ritrovata tutta sola, distesa sul terreno umido, un mantello elfico avvolto attorno al suo stupido minuscolo corpo. Quella storia avrebbe dovuto finire così, com’era iniziata. Ma il suo profumo…
“Phi. Phi, dobbiamo andare.” Arwen le stava tendendo uno straccetto che avrebbe dovuto essere un vestito da sera. “Ti ho preso un libro di poesie, così se vuoi puoi esercitarti a leggere” sorrise. Indossava ancora il suo maglione, e un paio di vecchi jeans. Si sarebbe cambiata nel locale.
Elizabeth si diede una ripassata di rossetto e agguantò Colui-Che-Non-Può-Essere-Nominato a tradimento dopo averlo attirato con un’amarena grande quanto un mandarino.
“Andiamo, Colui-Che-Non-Può-Uscire-Dal-Grande-Fratello. Chissà che non trovi l’amore della tua vita, stanotte. Una bella vecchietta senza naso in calze a rete” sbuffò, cacciandoselo nella tasca della giacca.
Voldemort tacque, lanciando a Jude Law un’occhiata del tipo “solo tu mi capisci” mentre se ne andavano.
Prima di Durza
Nelle sue ore di nullafacenza meditativa privata, Saphira era tornata almeno un miliardo di volte, spinta da un lungo fiume melmoso di sensi di colpa, a com’era cominciata la faccenda. Sola con Glaedr che schiacciava il suo eruditissimo pisolino su una rupe, non faceva che riempirsi di tutti i se e i ma con cui la storia non si fa, senza trovarvi un capo.
All’inizio era stato solo un gioco. Mentre Eragon e Brom si allenavano, tra una città e l’altra, tra un guaio e l’altro, Saphira era costretta a passare ore da sola nella foresta. Si annoiava terribilmente e non poteva farci nulla. Era stufa perfino di cacciare. Passava le giornate distesa sulle rive dei fiumi, guardava l’acqua scorrere e si dava ai sogni ad occhi aperti. Fingeva di essere una delle belle ragazze, un po’ grassottelle, simpatiche, sboccate, che a volte, durante i suoi voli solitari, intravedeva passeggiare per le strade con i vestiti troppo scollati e i riccioli in disordine.
Una notte Brom l’aveva cercata per ore nel bosco senza trovarla, si era infuriato, aveva borbottato incantesimi complicatissimi per scoprire dov'era. Alla fine la magia si era fermata ai piedi di un albero, dove una ragazza dai riccioli rossi disordinati, nuda, dormiva avvolta nella coperta di Eragon. Aveva pensato fosse una mendicante, l’aveva svegliata per mandarla via.
“Che c’è?” aveva mugolato Saphira, assonnata, nella testa di Brom – in quanto dragonessa, non poteva parlare, ma solo far arrivare i suoi pensieri alla mente dell’interlocutore.
Brom si era infuriato. “Dove diavolo sei finita?”
La ragazza aveva aperto un poco gli occhi e Brom l’aveva scossa per le spalle, le aveva ordinato di parlare. Lei aveva mosso la bocca, confusa, e aveva pronunciato qualche sillaba sconnessa con scarsa convinzione, trasalendo al suono della sua stessa voce.
Brom aveva imprecato, mandato fanculo in culo affanculo tutte le divinità dell’Alagaesia, detto che una certa Eva era una gran puttana, e aveva abbaiato: “Saphira, sei tu?”
“Certo che sono io” aveva protestato Saphira nella sua mente. La ragazza aveva sbadigliato e aveva cercato di mettersi a sedere, ma era caduta. Aveva visto il suo riflesso nell'acqua e le era preso un attacco di panico.
Il cantastorie jedi aveva tentato di calmarla, ma non aveva saputo darle una spiegazione. “Te l’ho detto un miliardo di volte che la magia dei draghi è incomprensibile. Ma di questa trasformazione nei libri non si parla.” Aveva fissato il corpo della ragazza, pallido nella luce lunare, con uno sguardo strano. “Copriti” aveva borbottato, allungandole il suo mantello, e l’aveva issata in piedi. Le sue mani ruvide contro la pelle così sottile di Phy le avevano dato un brivido. “Non voglio che Eragon ti veda così. Mai. Ci mancherebbe altro che s’innamorasse di te. Vedi di trasformarti di nuovo, prima che arrivi. Non me ne importa di come fai. Saphira, per una volta nella tua vita…”
Saphira si era impegnata. Dopo due notti insonni era riuscita a trovare la sensazione giusta, l’incastro mentale che le permetteva di tornare ad essere una dragonessa.
All’inizio, mortificata, aveva evitato accuratamente di pensare troppo agli umani, per non trasformarsi ancora. Teneva la mente occupata a contare i rami, le stelle, le rane. Una noia.
Poi si era detta che era una dragonessa, che aveva perfettamente tra le zampe il controllo della situazione. E qualche giorno dopo aveva costretto anche Brom a convenire che quell’incantesimo strano che aveva trovato avrebbe potuto tornarle utile, in situazioni di estremo pericolo, se avesse avuto bisogno di non essere notata. Così, suo malgrado, lui l’aveva aiutata. Tutte le notti si era seduto di fronte a lei e, con la sua solita pazienza, aveva cercato di insegnarle come si fa ad essere una mezzasega di essere umano (anche se non capiva come facesse a preferire di essere un mucchietto di duecentootto ossa senza artigli, invece che un bestione di novecento chili grosso come un armadio).
“Fai schioccare le labbra tra loro, così. Prova a dire 'ba'. Andiamo, Saphira. Ba. Ba. Porrrca miseria, e io che pensavo di essere troppo vecchio per avere figli da accudire”. “Devi trovare l’equilibrio. Non stare gobba. Cammina.”. “Prendi il vestito così, prima il buco della testa, poi le maniche, poi tiri giù tutto. Andiamo.” Quanto doveva volerle bene…
Mentre Eragon e Brom erano in città, Saphira si metteva a correre attraverso la foresta, cadeva e si rialzava, ripeteva balbettando frasi stentate. “Sopra la panca la campra panca… Fanculo!”
Era strano: aveva sempre considerato gli umani come esserini troppo fragili e nella maggior parte dei casi sciocchi e insulsi. E in quel corpo si sentiva veramente spaesata: non aveva la lunga coda azzurra a bilanciarla, il suo campo visivo si era ristretto e i movimenti rallentati, e le sembrava di udire tutto come se avesse dell’ovatta nelle orecchie. Ogni tanto le tornava a galla l’idea che, se avesse dovuto difendersi, non avrebbe potuto spiccare il volo né incenerire nessuno, per non parlare poi del fatto che la sua pelle nuda, sottile e senza scaglie avrebbe potuto tagliarsi anche solo sfiorando un coltello. Si sentiva goffa, vulnerabile e, cavolo, estremamente piccola.
Ma dall'altra parte, nel recesso paradossalmente più selvatico e istintivo della sua mente, troneggiava una sensazione meravigliosa, leggerezza, libertà. Come volare.
Sabato, 3 febbraio. Ore 03.30
Black Angel, nightclub equivoco.
Chicago, USA
“Senti qui: Speravi in un a... amore c-come l’infont... ehm, l'infante, l'infante! l'infante che ti... che ti segue reggendoti in-in mano.... E inv... invece di f-fiori, versi e collane, la... morte ti diede rose. Ap... appassite al ramo.” Saphira chiuse il libro tenendo il segno con un dito, e guardò Elizabeth con un sorriso. Certo, urlare una poesia in mezzo a un locale di spogliarelliste tentando di sovrastare Mr. Sexobeat non è mai stato il modo migliore per declamarla, ma Liz non faceva caso a quelle piccolezze da “romanticismo sublunare”, come lo chiamava.
Non era cambiata affatto. Portava un trucco leggerissimo, brandiva lo shaker come un coltello a serramanico e teneva ben nascosto nella scollatura il ciondolo che la insigniva del titolo di Re dei Pirati (Arwen le aveva consigliato di appenderlo ad una catenina di finto argento, dal momento che l’originale era sbrilluccicosa e pacchiana come solo una collana di fine Seicento sa essere).
"Ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale, eh, Phi? Mi piacerebbe entrare in quella testolina di drago e scoprire in quale amore speravi” gridò Liz, rovesciando indietro la testa per dare aria ai capelli biondi. “Garcìa Lorca, vero? Adoro quel poeta. E adoro. Quella. Donna.”
Sulle sue labbra spuntò un sottile, triste sorriso quando Saphira le lanciò un’occhiata interrogativa.
“Ehi, Signore Oscuro, passami il lime.”
Una bottiglia di lime si mosse silenziosamente sul tavolo. Nascosto nella tasca dell’elegante (e cortissimo) grembiule nero di Liz, Lord Voldemort sbuffò. “Lo sai che mi stancano gli incantesimi.” Lei lo ignorò.
“Giovanna la Pazza era la regina di Spagna ai tempi del mio bis-bis-bis-bis-nonno, sarà stato il Cinquecento. Non mi ricordo bene cosa c’era scritto nei miei libri di storia” urlò. “Una ragazza ribelle, comunque, alla corte di Borgogna. Nella sua famiglia c’erano stati piccoli episodi di follia, niente di serio. Poi sposò Filippo il Bello. Se ne innamorò. Lui morì e lei impazzì. La rinchiusero in un castello a Tordesillas per trent’anni, finché non tirò le cuoia.” Shakerò il cocktail in silenzio.
Saphira rabbrividì nel maglione di Arwen, i capelli rossi sparsi sul viso come per nascondersi. Il silenzio di Elizabeth la intimoriva quasi più della folla e della musica rombante, perché sapeva benissimo che cosa significava. Anche lei, per quanto quella città potesse illuderla di essere lontana dai suoi guai, era succube dei propri sensi di colpa.
Qualcuno caracollò sul bancone e biascicò che voleva scopare sulla spiaggia.
“Vuole un Sex On The Beach?” chiese Elizabeth inarcando un sopracciglio. Idiota, pensò. “Cocktail? Qui io servire cocktail” aggiunse, vedendo che il signore non recepiva. “Glu glu?” sbuffò alla fine, mimando l’azione dell’attaccarsi a una bottiglia e sollevando un’ondata di doppi sensi.
Tortuga. Ah, quanto le ricordava Tortuga... Almeno lì la gente non era falsa, e non credeva neanche di essere la padrona del mondo.
“Sì. Con poooooca crema chantilly, grazie” precisò il gentleman.
Elizabeth lo fissò con aria di sufficienza. “Crema chantilly?”
Il lord le rivolse un’occhiata che sottintendeva: “Certo, donna, cosa credi, di saperne più di me?”
“Plebeo. Crucio. Crucio!” sibilò Voldemort con odio, ma ottenne solo che il gentleman si grattasse dietro un orecchio. Almeno sull’infermità mentale dei clienti lui e Liz erano d’accordo.
Fare il barman in un locale di spogliarelliste era un lavoro che non doveva piacere a molte rappresentati del gentil sesso, ma Liz lo odiava con tutto il suo cuore, e non cercava neanche di nasconderlo. Sebbene non lo dicesse mai ad alta voce – non parlava mai di Will lì – lo sguardo che rivolgeva ai clienti, alle bottiglie, allo shaker e a tutto ciò che incappava nella traiettoria del suo sguardo gelido significava: A quest’ora potrei essere in mezzo all’oceano Pacifico a guardare le stelle con l’amore della mia vita, bere rum e scopare come una coniglia, quindi per piacere cerca di non rompere le palle.
Saphira mosse la bocca sventolandole davanti un foglietto che aveva tratto dal libro di poesie, e Liz schizzò in avanti a toglierglielo di mano. “Cos’era?” lesse nel labiale della dragonessa in incognito.
“Non qui” sillabò Elizabeth, nascondendolo nella propria scollatura. “Non. Qui! To’, guarda, Arwen sta ballando.”
Voltò suo malgrado la testa. La grazia di Arwen rimaneva immutata anche sulla passerella. Riusciva a trasformare l’ancheggiare scoordinato delle sue colleghe in una specie di danza solenne. I piedi sembravano tentare di non sfiorare la superficie sporca d’alcool del bancone, nonostante li separassero almeno dieci centimetri di plateau. Le gambe nude sibilavano nelle luci livide mentre si attorcigliavano al palo. Un po’ triste, ma bellissima.
Uno avrebbe anche potuto chiedersi perché quello schifo e non Granburrone, ma Liz conosceva la risposta. Era anche nella sua mente.
Saphira si mordicchiò il labbro. “A proposito, Liz” esclamò, sempre gridando. Ho sentito Eragon tradurre il titolo di un manoscritto interessante… Strapparsi il cuore. Catalogo degli incantesimi di separazione.
Per un momento gli occhi di Elizabeth s’illuminarono; poi, delusa, abbassò gli occhi su un bicchiere vuoto. “Però sarà in rune. Io non lo so tradurre, dobbiamo chiedere a Wen… – Mi puoi versare il gin nello shaker? – Purtroppo le mie conoscenze non vanno oltre l’inglese, il francese – quanti cubetti di ghiaccio? – e un po’ di coreano che mi ha insegnato Gibbs.” Gli occhi di Liz, colmi di nostalgia, vagarono per un momento in un paesaggio che solo lei poteva vedere, perdendosi nelle luci colorate che impazzivano sopra la pedana delle spogliarelliste, mentre le mani, abbandonate a sé stesse, agitavano svogliatamente lo shaker. “Ma forse Wen ci riuscirebbe. Dio santo, è stata mille anni a non fare un emerito cazzo, l’avrà trovato il tempo di studiare un po’ di rune. – Ce lo vuole il limone?”
In quel momento vide Lord Voldemort schizzare dal suo grembiule alle ginocchia di Saphira con un gridolino da ninja. “Guarda che se l'Ufficio d'Igene o quella roba lì ti pesca qua, puoi fargli tutte le avade kedavre che ti pare, finisci comunque in un cassonetto” lo avvertì. "Non l'hai mai visto Ratatouille?"
Il Signore Oscuro-ma-non-troppo finse di non sentire e gridò qualcosa nell’orecchio di Saphira, uno strisciante mix di sibili e fischi. Ecco, era matto. Ma la cosa peggiore fu che Saphira gli rispose tranquillamente nella stessa lingua, come se non avesse fatto nient’altro in tutta la sua vita.
Liz indirizzò un sorriso angelico al sant’uomo che le aveva appena chiesto di fargli una vodka alla pesca e dargliela (non si specificava, qui, se il complemento oggetto fosse ancora la vodka), si voltò e agguantò lo scoiattolo per la coda.
“Grasso vecchio sciuride puzzone, si può sapere che c’è?”
“P-potter. Potter è qui” mormorò Voi-Sapevate-Chi guardandola terrorizzato.
“Voldemuccio, per favore, ragiona. Secondo te cosa ci fa il Potterino alle tre e mezza della notte in un club di spogliarelliste? Eh? Visto che per tua sfortuna sta anche con l’amichetta rossa. Andiamo.”
“Ti dico che è qui!” balbettò la povera mente criminale.
“Tu te lo sogni la notte, quel povero ragazzo. E dire che t’ha pure ammazzato, per farti capire che non ti voleva intorno.”
“Veramente, non è andata proprio così. Ma è irrilevante! Sta venendo a prendermi.”
Elizabeth lo depositò di nuovo nella sua tasca e chiuse la zip. “Quel vecchietto sta veramente perdendo il senno, parola mia” disse.
“Perché, l’ha mai avuto?” domandò una voce alle sue spalle.
Prima che potesse voltarsi, Elizabeth vide, con la coda dell’occhio, un lampo di luce azzurra volare appena dietro di lei, dritto contro i ripiani di Martini, che esplosero.
“Oh, cazzo” mormorò quando, in mezzo alla folla affastellata intorno al bancone, vide un ragazzo pallido, dai capelli rossi, accasciarsi per terra. “Voldie, ma che hai fatto?”
“Non è stato lui” sussurrò Saphira. “Sono stata io.”
In quel momento, in un affannoso ticchettio di tacchi, un paio di gambe chilometriche raggiunse il balcone e per poco non infilzò i presenti estasiati. “Muoversi, muoversi” sussurrò Arwen sopra le loro teste, agguantando Saphira per un braccio e issandola sul bancone. “Liz, sbrigati.” Il volto perfetto era imperlato di minuscole goccioline di sudore, e il kajal nero con cui si era incorniciata gli occhi sopra l’ombretto sfumato stava cominciando a sbavarsi.
Corsero, per quanto permettevano loro i tronchetti, lungo la pedana, verso un’altra sala, nella parte interna del locale, sollevando un concerto di fischi.
“Arwen, ma che diavolo…”
“Gli Auror, Lizzie. Voldemort aveva ragione.”
Il fermaglio argentato che Arwen si era appuntata tra i capelli si confuse nella folla danzante.
Saphira chiuse gli occhi per controllare l’attacco di panico che stava accelerando i battiti del proprio cuoricino ridicolmente piccolo e si lasciò guidare dalla mano di Elizabeth, mentre il suo corpo veniva risucchiato da un’onda di altri corpi e le pareva improvvisamente di non riuscire a respirare.

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Capitolo 3
*** When the night is cloudy ***


003. When the night is cloudy
 
Sabato, 3 febbraio. Ore 04.10
Black Angel, nightclub equivoco.
Chicago, USA

“Vedi, lord Voldemort?” ansimò Elizabeth, spalancando la porta con un calcio per ritrovarsi in un cortiletto angusto e invaso da sacchi di rifiuti. “Ecco cosa provano i buoni quando scappano.” Una ventata gelida le scompigliò i capelli e lei, per non perdere l’equilibrio, dovette aggrapparsi alla ringhiera di metallo consumato che dondolava tristemente intorno alle scalette che conducevano al cortile.
Liz sentì Colui-che-non-può-essere-nominato dire qualcosa di poco lusinghiero a proposito delle Babbane, in particolare di quelle con due tette convesse e un passato da filibustiere.
Pochi minuti prima, un esercito di imberbi Auror, rappresentanti di una sorta di FBI del mondo magico, era piombato nel nightclub in cui Arwen ed Elizabeth stavano lavorando. Probabilmente si erano resi conto che quell'Oscuro Signore che per decenni aveva reso loro la vita impossibile, Voldemort, non era proprio morto morto, e veniva ospitato da qualche malvagio babbano; quindi lo stavano cercando. Quello di cui non si erano resi conto era che il suddetto Oscuro Signore aveva adesso le sembianze di uno scoiattolo, e possedeva gli stessi poteri magici di Bob Aggiustatutto. (Quando lo aveva visto nascosto nel tubo di una grondaia per difendersi da un malefico piccione, su un lungo e deserto vialone di Chicago, Arwen non aveva potuto fare a meno di accorrere in suo aiuto, e così Voi-sapete-chi era diventato la mascotte dell'angusta stanza di motel in cui lei ed Arwen alloggiavano.)
Cosa avesse spinto le due oneste lavoratrici e Saphira, loro ospite in forma umana, a tentare di salvarlo per la seconda volta anziché consegnarlo alle autorità e magari beccarsi anche una ricompensa non era chiaro; il succo era che, adesso, avrebbero dovuto trovare un posto dove fuggire, e in fretta. Lord Voldemort, dal canto suo, era aggrappato spasmodicamente alle pareti di stoffa della tasca del cardigan di Elizabeth, e nonostante fosse il diretto interessato, ovvero quello che gli Auror avrebbero fulminato per primo, non si faceva venire in mente nessun piano.
Dopo quattro lunghi anni di malvagia pirateria, Elizabeth sapeva come andavano le cose, e il fatto che fossero passati tre secoli dai suoi, ehm, "commerci marittimi" non le faceva certo pensare che il sistema giudiziario avesse fatto passi avanti: l'impavido maghetto che le avrebbe raggiunte sarebbe stato troppo impegnato a salvare il paese per ascoltare le loro ragioni.
“Wen, non ce l’abbiamo, un piano?” chiese Saphira, facendosi largo tra i sacchi dell’immondizia gettati nel cortile interno del night. Era l’unica a indossare scarpe basse, e il suo abitino a fiori sventolava nella brezza della sera, accarezzandole le gambe. Si strinse nelle spalle.
Arwen si voltò. “Ma certo. Adesso ci fermiamo in un luogo lontano da orecchie indiscrete e aspettiamo i giovanotti. Quando arriveranno, io spiegherò loro le nostre ragioni con affabilità e fermezza. Ho studiato retorica elfica per centoquattro anni, sapete. E nulla da togliere al vostro sistema aggressivo di stampo ciceroniano basato su quelle aggressive propositio e peroratio, ma i nostri discorsi sono sempre meno rumorosi e più efficaci” ammiccò l'elfa, assumendo il cipiglio da vecchio professore che ormai Elizabeth aveva imparato a temere. “Attaccarli non è una buona idea. Non vorrei che facessero troppo baccano, sapete, quei giovani.”
Ecco, pensò Elizabeth. Una bella pallottola dritta tra le budella sarebbe stata la cosa migliore, ora come ora. C’era uno stuolo di maghetti inferociti che non vedevano l’ora di far fuori lo stronzo che aveva seminato il terrore nel loro mondo per decenni, e Arwen come pensava di convincerli? Con un discorsetto pieno di paroloni in latino, elfico e sanscrito bbharsi. La interruppe: “Non ci ho capito niente ma non importa, Arwen, perché prima che tu posta dire 'Helenselatiraperchéèunelfo'...”
“'Elen sila lumenn omentielvo'” la corresse l’elfa. “Vuol dire 'una stella brilla sul nostro incontro'.”
“Corpo di mille balene sventrate e messe sotto sale, Arwen! L’unica  cosa che brillerà tra poco sarà il lumino sulla tua tomba! Lo capisci che se ci daranno una possibilità sarà solo grazie alle tue tette?”
Arwen lanciò un’occhiata offesa al proprio corsetto.
Dal corridoio squallido e appiattito dalle luci al neon che avevano appena percorso cominciarono a provenire grida affannate. Finalmente, la fredda lucidità dell’animale braccato che congela ogni eroe che si rispetti prese piede nella mente di Liz.
Will si sarebbe scagliato dentro alla cieca e avrebbe cercato di ucciderli tutti. Ma Will non c’era.
Bisognava pensare. Pensare, e in fretta, a un piano assurdo.
“Ora apri quelle orecchie a punta” disse in fretta. “Seguiranno quella che si porta dietro Voldemort. Quindi va’ al motel, ficca più roba possibile in una borsa (mi raccomando, non ti dimenticare Jude Law) e fatti trovare al porto, vicino a quel negozio orribile di articoli da pesca che abbiamo visto l’altro giorno, tra mezz’ora, capito? Non un minuto di più. Corri.” Le puntò addosso il più granitico dei suoi sguardi da Re dei Pirati.
Arwen annuì. “Bene, ma prima dammi la pochette.”
“Sbrigati.” Elizabeth estrasse dalla tasca la minuscola borsa a forma di rosa di Arwen, senza capire, poi prese la mano di Saphira e imboccò l’unico, minuscolo vicolo che faceva capolino tra le pareti scrostate delle case.
Con la coda dell’occhio, vide Arwen estrarre dalla pochette un lungo mantello nero e gettarselo addosso, per poi afferrare la grondaia e balzare, leggera e silenziosa come una gatta nonostante i plateau, sul tetto.
Che donna.
In quel momento, la porta di ferro si spalancò con violenza, facendo cadere a terra una pioggia di vernice scrostata. Dopo qualche secondo di silenzio, rotto solo dal rumore dei tacchi di Elizabeth che aggredivano malfermi la strada mentre lei correva a perdifiato, gli Auror trovarono il vicolo e si lanciarono verso di loro.
Liz e Phi svoltarono bruscamente in uno stradone più ampio. “Le mie scarpe” sussurrò l’ex piratessa, fermandosi di colpo. “Puoi crearmi un diversivo, Phi? Mi rallentano troppo, e fanno rumore.” Si chinò e se le tolse, abbozzando una smorfia quando sentì l’asfalto umidiccio solleticarle la pianta dei piedi.
Phi annuì e si voltò. Un cestino della spazzatura prese fuoco, e le fiamme si propagarono tra loro e gli Auror.
“Sì, diciamo che come diversivo magico poteva andare” commentò con sufficienza Voldemort.
“Voldemort, non devi parlare! Ecco. Se avevano qualche sospetto sulla tua presenza, adesso non hanno più dubbi. Gesù, non poteva sparirti la bocca invece che il naso?”
“Dove stiamo andando?” chiese Saphira. Il petto le sobbalzava sotto il vestito ad ogni suo respiro.
“Dall’antiquario, Saphira” rispose lei.
“Dall’antiquario?” ripeté Phi, basita. “Ma non è una specie di robivecchi? Eragon dice che vendono solo paccottiglia.”
Al nome di Eragon, Elizabeth sentì il petto stringersi nei sensi di colpa. Se Saphira fosse morta, l’Alagaesia… “Devo trovare una cosa, non ho tempo di spiegarti. Ascoltami bene, Phi, il negozio è tra due isolati. Quando ci arriveremo, io ti metterò in tasca Voldemort e tu cercherai di confonderli. Gira in tondo, arrampicati sui tetti, fai esplodere una finestra, non m’importa come. Puoi metterti in contatto con Arwen, telepaticamente?” Le sembrava che il cuore stesse per scoppiarle nel petto, e che le sue caviglie fossero diventate due blocchi di pietra. Guardò Saphira dritta negli occhi per essere sicura che la stesse ascoltando con la massima attenzione. Al suo cenno d’assenso, riprese: “Allora fallo. Voldemort ai tempi d’oro era un esperto, lui può aiutarti. Di’ ad Arwen di raggiungerti, e passale lo sciuride. Non devi ammazzare nessuno, è fondamentale che rimaniamo dalla parte della ragione. Intesi?”
“E se qualcosa dovesse malauguratamente andare male?”
Liz aprì le braccia. “Salvati la pelle.”

 
A quel punto era necessario, assolutamente necessario pensare all’oggetto della sua ricerca. Dove poteva essere, all’interno del negozio?
Elizabeth tornò col pensiero ad una mattina afosa della settimana precedente.
Alla luce piatta e soffocante di mezzogiorno, le strade di Chicago le erano sembrate lo sfondo rumoroso di un romanzo di Kerouac, uno dei pochi autori moderni che Liz non trovava alienante e privo di senso. Quando erano scese dall’autobus, una vecchia carrozzeria sbuffante dalla vernice sbiadita color giallo canarino, il vento aveva sollevato il suo vestito preferito, un prendisole azzurro di stoffa leggera che lei ed Arwen avevano comprato in un negozio dell’usato non appena arrivate a Chicago.
L’elfa sapeva già dov’era l’antiquario e procedeva sicura, seguita dalla brezza che gonfiava il suo scialle argentato. “Sei sicura che fosse quello?” continuava a chiederle Elizabeth, in fibrillazione. “Sei sicura?”
 “Sì, Liz, sono quasi sicura che fosse la stessa melodia di cui tu mi parlavi.” Arwen le aveva puntato addosso uno sguardo da vecchia, calmo, pacato.
Elizabeth aveva guardato i piedi dell'elfa avanzare l’uno davanti all’altro sul marciapiede consumato. Era incredibile, aveva pensato, come la propria speranza di ex piratessa, che avrebbe dovuto essere morta stecchita da trecento anni, le scompigliasse i capelli insieme al vento di mare, le pulsasse ancora nelle vene con dolorosa urgenza – mentre quella di Arwen, il cui futuro era ancora da scrivere, taceva  ormai morta e malinconica sul fondo della mente polverosa e sovraffollata di ricordi dell’elfa. C'erano troppe cose che non sapeva sulla Terra di Mezzo e su Arda, l'universo in cui l'elfa viveva.
Il nome del negozio era composto in lettere adesive di uno scialbo rosso scuro sulla vetrina del locale. Al di là dello spesso strato di vetro opaco c'era una distesa di chincaglierie ammassate senza una logica apparente: vecchi mappamondi, abat-jour ingialliti, divani in stile liberty di legno scheggiato. Quando Liz aveva spinto la porta, il trillo di una campanella era rimbalzato su ogni singolo oggetto.
Arwen aveva salutato con un sorriso. “Buongiorno, signor Semel. Questa è l’amica di cui le parlavo, Elizabeth.”
Il signor Semel non sembrava affatto un vecchio antiquario. Non dimostrava nemmeno quarant’anni, aveva il volto appena increspato da sottili rughe d’espressione e teneva una sigaretta bianca e sottile tra due dita. Un’ispida barba brizzolata gli cresceva sul mento.
Liz gli aveva stretto vigorosamente la mano e poi aveva ripreso a guardarsi intorno. Un cassettone barocco identico a quello del negozio si trovava nella sua vecchia stanza nella casa di suo padre, il Governatore, a Port Royal. Doveva essere stato arrostito durante l’incendio che la ciurma di Barbossa aveva appiccato qua e là nella notte in cui l’avevano rapita. Allora lei non conosceva Jack e non sapeva che Will l’amava. Pensava che sarebbe andata in moglie al noioso commodoro Norrington, pace all’anima sua. E guarda che fine avevano fatto tutti. Will chissà se era ancora vivo, da qualche parte nel mare che si stendeva placido davanti a Chicago. Jack era stato brutalmente tagliato fuori dalla vita di Elizabeth per non ricordarle la vita che avrebbe potuto avere se avesse smesso di corrodersi per Will. La vecchia spada del commodoro giaceva da qualche parte a sud, in fondo al mare. Le ossa del suo proprietario dovevano essersi ormai dissolte.
Nella bottega dell’antiquario, Elizabeth aveva sorriso tra sé e sé al ricordo degli stralunati giorni post-Sparrow.
Quando Elizabeth aveva finalmente fatto ritorno nella sua camera da figlia del Governatore, dopo essere riuscita a sventare l’impiccagione di Jack e farsi concedere dal padre il matrimonio con Will (una conquista per la libertà della donna e un Armageddon per le finanze e la reputazione del signor Swann), il palazzo era stato ormai ripulito, e quasi del tutto rimesso in sesto. Certo, mancavano qualche quadro e un numero piuttosto cospicuo di gioielli, e c’era un alone chiaro sulla tappezzeria risistemata alla bell’e meglio, dove prima si trovava il cassettone: gli unici strascichi dell’avventura che avrebbe cambiato la sua intera vita.
In quella tiepida notte settecentesca senza clacson né fanali, la Elizabeth di allora, distesa sul letto nella sua nuova vestaglia bianca secolo Diciottesimo, aveva fissato a lungo la macchia bianca lasciata dal cassettone. Le ultime scintille di adrenalina sfrigolavano ancora nel suo stomaco, sotto la sua pelle, e l’aveva presa un’assurda nostalgia del ponte sudicio della Perla Nera, delle corde ruvide delle vele. Dopo essersi trovata a un punto dalla morte, la routine quotidiana le era sembrata una scialba brutta copia della vita. Avrebbe dovuto immaginarlo: il canto delle onde, che parlavano di avventure e lavavano via la linea nera che separa l’uomo dalla follia, non avrebbe più abbandonato le sue orecchie.
Poi ci sarebbero stati Cutler Beckett, l’Olandese Volante, il forziere fantasma, il cuore di Davy Jones e la spada nel petto di Will. Ma la Elizabeth con la vestaglia bianca secolo Diciottesimo non lo sapeva. Immaginava solo gesta eroiche, cannoni e sale sulle labbra. E forse anche un vestito da sposa.
Persa tra le anticaglie del negozio, la Elizabeth col prendisole azzurro  ci aveva messo un po’ a capire che la melodia che stava ascoltando non era solo un’altra delle sue fantasie che sconfinavano nell’allucinazione: la musica era reale, anche Arwen e l’antiquario la stavano udendo. Note dolci e malinconiche si succedevano in tre quarti, quasi un valzer lentissimo ed esitante, accompagnato dal ticchettio degli ingranaggi che il signor Semel aveva messo in moto girando una manovella rugginosa.
Liz si era voltata di scatto: era quello l’oggetto che cercava, senz’ombra di dubbio.
L’elfa le aveva rivolto un sorriso di quieta soddisfazione, che però era scemato non appena il signor Semel aveva letto l’ultimo zero del prezzo. Avevano tentato di trattare, ma l’antiquario era stato irremovibile: un pezzo unico e molto fragile, risalente all’inizio del Seicento circa (Elizabeth si era trattenuta dal puntualizzare che la datazione era più antica di almeno vent’anni); a nulla erano valsi gli sguardi ammiccanti di Liz e la scollatura di Arwen, così erano state costrette ad assicurargli che sarebbero tornate non appena avessero avuto a disposizione quattrocento dollari.
“LIZ! Ma ci siamo o no?”
La Elizabeth con la vestaglia bianca e quella col prendisole azzurro scomparvero entrambe nella notte gelida. Saphira fissava la Liz presente col il volto imperlato di sudore.
Elizabeth le prese la mano e svoltò di scatto in un vicolo, per intricarsi in un dedalo di stradine secondarie e malsane. Doveva fare in modo che per Phi fosse più facile disperdere gli Auror: l’ex dragonessa, più agile in cielo che sulla terraferma, aveva il respiro affannoso e incespicava in una corsa disordinata che la mandava a sbattere contro le pareti ruvide delle case.
Le grida degli Auror si fecero infervorate e più vicine.
Il vicolo da cui stavano per uscire faceva angolo con l’Avenue in cui si trovava il negozio dall’antiquario e con altre due strade secondarie. Fu proprio da una di esse che  apparve, repentinamente, il corpo robusto di un ragazzo poco più che adolescente, in jeans e felpa. Elizabeth notò con malferma lucidità la bacchetta nella sua mano.
Con quello scatto fulmineo che non s’impara se non a forza di fronteggiare spade, Elizabeth alzò una delle scarpe che aveva in mano e gliela scagliò addosso; con l’altra mano, ficcò Voldemort, che sembrava sul punto di esplodere dal terrore, nella tasca del vestito a fiori di Saphira.
La scarpa di Liz non aveva colpito il baldo giovane, ma era insperatamente finita dritta dritta sulla bacchetta del suo compare appena arrivato, che aveva guardato il plateau attaccato alla punta della sua arma di distruzione di massa con aria piuttosto disorientata. Elizabeth approfittò di quel momento per spingere Saphira nel viale e mettersi a correre  nel senso contrario, verso il negozio. Udì i passi della ragazza-drago allontanarsi dietro di lei, e sperò che la confusione che aveva letto nei suoi larghi occhi si dissipasse in fretta.
Alle sue spalle, un lampione fu colpito da un lampo di luce azzurra, ma non andò in frantumi; semplicemente, si spense.
 
 
Arwen guizzava di tetto in tetto con l’attenta rapidità che aveva acquisito da piccola, quando giocava sugli alberi. Le piaceva ammirare il sole che faceva capolino tra le foglie. La sua vecchia terra, verde e lontana.
I suoi pensieri elfici stavano assumendo una piega molto poco elfica. Così poco elfica che, nel formularli, era stata tentata di usare la squallida e insipida lingua inglese che parlavano a Chicago, dato che in nessun altro idioma a lei noto, nemmeno nel Linguaggio Nero, quello che usavano gli scagnozzi di Sauron per dare ordini ai sottoposti, c’erano parole abbastanza forti da esprimere le sue sensazioni.
Era intrappolata in mezzo agli uomini, senza via di scampo. Che rimanesse a Chicago o in America o in qualsiasi altro caotico sudicio antro di immondizia e smog a cielo aperto di quella terra, o che tornasse a Granburrone a guardare un punto sul soffitto e aspettare che le sue foreste bruciassero tutte, le cose non sarebbero cambiate: sarebbe rimasta intrappolata tra gli uomini.
E gli uomini - si scoprì a pensare Arwen - gli uomini, permettetemi di dirlo, o Valar che abitate i Rifugi Oscuri, sono…
Come avrebbe detto suo padre, deboli e inetti.
Come avrebbe detto Elizabeth, sacchi di merda.
…esseri rovesciati dalle passioni e quindi destinati a fallire.
Una voce cattiva nella sua  testa le ricordò che anche lei si era lasciata rovesciare dalle passioni e aveva probabilmente fallito.
Arwen fece appena in tempo a schivare la punta alta di un lampione, prima di accorgersi che i suoi calcoli erano sbagliati e che era sul punto di schiantarsi contro un muro.
Riuscì ad aggrapparsi con le dita alla grondaia viscida, prima di sentire il proprio corpo sbattere contro l’intonaco ruvido. E che vi ho detto degli uomini? Non sanno nemmeno fare un muro liscio. Questa vernice FA SCHIFO. A Granburrone le pareti erano di… Ed io sto per cadere dal quinto piano di una casa. Così finì la bella Arwen Undomiel. Tutto per colpa di qualche stupido architetto umano che se ne intende di urbanistica come io mi intendo del metodo riproduttivo degli Uruk-hai. Ma porco di quel...
Improvvisamente si sentì pervadere da un’antica, elfica calma. Una voce monocorde e mormorante, ma per Arwen familiare, raggiunse le sue orecchie a punta.
Bambina mia, ma che parole dici? Quella città ti ha rovinata. Afferra la mia mano. Torna alla luce.
Le dita di Arwen affondarono nel soffice manto erboso di una foresta. Lothlòrien. I suoi occhi elfici cominciarono a distinguere, nella luce bianca che li inondava, le vesti candide e leggere della Dama dei Boschi fluttuarle davanti agli occhi.
In cuor suo Arwen sapeva che stava vivendo un’illusione, e che in realtà era ancora aggrappata al tubo di una grondaia, ma apprezzava il pensiero di Dama Galadriel, sempre pronta ad aiutare con i suoi saggi consigli gli amici in difficoltà. Quindi è così che ci si sente quando si vede un'apparizione, pensò. (Arwen era sempre stata quella che appariva, mai quella che vedeva l'apparizione.)
Nonna? chiamò Arwen in elfico. Finalmente. Temevo per la tua salute. È più di un mese che non odo la tua voce… (Il che, tradotto dalla sua lingua Sindarin fin troppo politically correct, significava: Porca miseria, nonna! Avresti anche potuto farti sentire, eh! Ma non lo capisci che razza di periodo di m…)
Arwen Undomiel, Stella del Vespro, non ti crucciare, rispose saggiamente l’antica voce di Dama Galadriel. Arwen cominciava a vederla chiaramente, bionda e splendente della luce del suo anello. Questi tempi bui impegnano me, il mio anello Nenya e…
Anello Nenya un corno, avrebbe detto Elizabeth. Sì, nonnina, ho capito, fece Arwen in tono condiscendente.
Dama Galadriel si fece minacciosa e cominciò ad assumere un colorito verdastro che non prometteva nulla di buono. Arwen vanimelda, carissima, mi chiamo Artanis Nerwen Alatariel Galadriel Dama del Galadhrim, quindi, piccola mia, puoi capire quanto l’appellativo di nonna mi dia fastidio. (Traduzione: Nipote degenere, fammi sentire vecchia un’altra volta e farò un tale casino che anche Sauron invocherà la sua mammina e andrà via dalla Terra di Mezzo a saltelli, con la torre e tutto.)
Perdonami, Dama Galadriel, disse Arwen.
Ad ogni modo, proseguì Artanis Nerwen Alatariel Galadriel Dama del Galadhrim, se non mi sono fatta sentire è stato per ragioni di forza maggiore. Vedi, le tenebre si ottenebrano, come disse il saggio poeta antico…
Arwen non riuscì a contenere i propri pensieri. Abbi pazienza, NONNA, ma sono attaccata a una stupida viscida grondaia in una stupida città fumosa e sinceramente non me ne importa assolutamente nulla del saggio poeta antico il quale comunque, di sicuro, non può essere più antico di TE!
Neanche Dama Galadriel ci riuscì. Abbi pazienza tu, NIPOTE, ma fino a prova contraria l'imbecille decrepita spilungona bionda che è rimasta qui a guardare la sua era che finisce, quella stupida vecchia che prima o poi sarà costretta a lasciare la sua terra – e tra parentesi, che razza di Terra di Mezzo sarà senza elfi, io e Nenya non ce lo immaginiamo nemmeno a piangere – insomma, quell’imbecille sono IO! Pensavo che tu non volessi avere più niente a che fare con questo mondo, che ti fossi nascosta in quello stupido continentello cretino per fuggire dalla tua vita! Insomma, Arwen, non avevo il coraggio di vederti stravaccata davanti a quell’abietta scatola di cavi, a quella trasmissione di stolti che pensano che nel 1300 il caffè venisse frullato [“Jersey Shore”, N.d.A.]. Ti immaginavo in un McDonald’s, a friggerti lo stomaco nella Coca-cola e ingozzarti di panini al gusto di topo morto fingendo che fossero pan di via! E tutto questo mi dava il voltastomaco, e lo sai perché? Non solo perché la mia bambina se l’era data a gambe e io ero rimasta sola a vedere la mia nave metaforica affondare, ma anche perché - perché come credi che diventerà questo mondo meraviglioso quando la stirpe elfica non ci sarà più, eh? Per la grazia dei Valar, Arwen!
La coscienza di Dama Galadriel catapultò Arwen in una discoteca e le mise davanti l’immagine di un uomo in tutto e per tutto simile ad Aragorn che appioppava una gomitata al compare indicando una ragazza bionda pericolosamente simile a Eowyn di Rohan e dicendo “is too young for you, bro!”. Colta dall’orrore, riuscì a malapena a sentire sua nonna ansimare in tono apocalittico: SNOOKI, Arwen. Una delle tue discendenti potrebbe chiamarsi Snooki.
Arwen boccheggiò.
Era sempre stato così: proprio quando le sembrava di essere riuscita a trovare un momento di serenità e a nascondere in un angolo della mente un problema che la opprimeva, sua nonna usciva fuori e le rovesciava addosso il doppio dell’angoscia. Ma in duemilasettecento anni di vita non si era mai sentita così male.
Le due Dame rimasero in religioso silenzio per qualche attimo.
E ora? chiese Arwen un po’ stolidamente.
Dama Galadriel si scostò una ciocca chilometrica di capelli biondi dal volto con aria nuovamente ferma e decisa. Ora? Beh, ora tu salvi la vita a quella scapestrata della dragonessa, perché – e qui assunse il tono severo che usava per rimproverare la Arwen bambina che fracassava i piatti del servito buono – non è che se il nostro mondo sta andando a scatafascio dobbiamo lasciare che anche gli altri naufraghino, intesi? Io invece tengo nascosta a Elrond questa nostra piccola conversazione. E prego in ginocchio il mio Specchio di piantarla con le immagini deprimenti e di sparare a tutto volume quella bella canzone rilassante che ha inventato un giovanotto con la chitarra a Londra, l’altro giorno.
Prima o poi lo Specchio di Galadriel si sarebbe stufato di fare da giradischi alla sua padrona, Arwen ne era sicura.
Le verdi foglie di Lòrien salutarono Arwen con il loro fruscio mormorante, e l’elfa vide la radura dissolversi intorno a sé, mentre la voce melodiosa di Dama Galadriel si univa a quella registrata di un giovane Paul McCartney nel cantare Let It Be.
Si ritrovò seduta sul tetto sotto il cielo umido di Chicago, intirizzita fin nelle ossa.
Che peccato, pensò mentre si rimetteva a correre, si era dimenticata di chiedere di Aragorn.
Poi si accorse di un dettaglio infinitamente peggiore, amaro come cenere in bocca.
O meglio, il dettaglio era stato chiaro fin dall'inizio, ma lei non se n'era ancora resa bene conto: lo scenario terrificante che nonna Galadriel le aveva descritto non si sarebbe realizzato in caso di vittoria di Sauron. Sarebbe diventato vero se avessero vinto gli uomini, i buoni.
 
 
Elizabeth corse nel buio. Tutti i lampioni si erano spenti, e lei non riusciva, alla luce della tremula falce di luna appesa nel cielo, a distinguere le sagome che le si paravano davanti. L’insegna accesa di un discount alimentare, a un centinaio di metri da lì, proiettava la sua faccia squallida per terra. Era sicura che il negozio dell’antiquario fosse vicino.
Una merceria, un negozio di articoli da regalo, un bar sprangato, una tabaccheria…
Finalmente, la sagoma scura del cassettone si profilò al di là di una vetrina. Oltre le lettere rosse che recitavano il nome del signor Semel, la distesa di oggetti antichi sembrava un’unica montagna nera.
Si guardò intorno. La strada, buia e lucida, era vuota; un ubriaco russava pacificamente, riverso a terra, con l’aria di chi non si sarebbe svegliato nemmeno se i vandali di Genserico avessero fatto irruzione a Chicago armati di picche infuocate.  (Per un momento le parve di rivedere nel suo naso rosso quello di mastro Gibbs.)
Quanto al resto, le sembrava che nessuno la stesse seguendo.
Non avrebbe potuto essere silenziosa, perciò avrebbe dovuto essere veloce. Squadrò con occhio critico la porta di vetro del locale; l’intelaiatura di metallo la divideva in quattro quadrati di vetro, due in alto e due in basso. (Si chiese se il signor Semel fosse stato così eccentrico da volere che la sua porta fosse un rettangolo aureo.)
Sarebbe stato più facile passare dal basso. Si chinò, brandendo la scarpa che le rimaneva per il plateau, e diede alcuni colpi secchi al vetro con la punta del tacco, finché sulla porta non si disegnò una ragnatela di crepe. Allora si alzò e fece qualche passo indietro, scendendo dal marciapiede sulla strada. Prese la rincorsa e lanciò con tutta la sua forza la scarpa contro la vetrata, che andò in frantumi; dopodiché, sussurrate le proprie scuse al cardigan che indossava, se lo tolse e lo strappò a metà, per poi avvolgersi le due pezze attorno ai piedi.
Piegata carponi, si introdusse cautamente tra i vetri rotti, tastando il terreno davanti a sé per evitare che qualche scheggia le si conficcasse nelle mani, e trattenne un mugolio quando un vetro appuntito rimasto attaccato alla porta le graffiò la schiena. Le cose non migliorarono quando perse l’equilibrio e dovette appoggiare un ginocchio nudo a terra.
Finalmente riuscì a mettersi in piedi all’interno del locale. Sentiva solo il proprio cuore pulsare, e quasi temeva che qualche figura orribile spuntasse dal ciarpame con un grido. Si avvicinò alla scrivania e la circumnavigò. Di fronte a lei, imponente, si ergeva la vecchia credenza di legno di faggio da cui il signor Semel aveva preso il carillon.
I mobili neri incombevano su di lei. Trasalì quando vide la propria ombra riflessa sul vetro. Che diavolo, era bastato qualche mese a farla diventare una vedova paurosa e molliccia? Aprì il primo cassetto che si trovò davanti, poi il secondo, poi il terzo.
Ciarpame.
Vecchie scatolette di latta, forbici da cucito che le punsero le mani, nastri e sacchetti di cellophane. Scatole di collane e braccialetti annodati l’uno nell’altro.
Doveva pur essere da qualche parte quel dannato affare, porca miseria!
Aveva calcolato esattamente la posizione del cassetto durante l’inseguimento, ma non riusciva a ricordarla, adesso. Cominciò a spalancare frettolosamente tutte le ante, gettando scartoffie per terra, ammucchiando statuette di marmo sulla scrivania.
Poi, finalmente, vide un fagotto di velluto spiccare tra gli oggetti nel suo rosso carminio, lo stesso colore delle Valentine che riceveva in Inghilterra quand’era una ragazzina viziata. Nemmeno dieci anni fa, si disse Elizabeth, prima di rendersi conto, come al solito, di quanto tempo fosse davvero passato.
Estrasse cautamente il carillon dal panno. Eccolo lì. Per aprirlo, ricordò, bisognava premere un pulsante all’estremità, dopodiché lo si azionava girando una manovella.
Tolse dal reggiseno trecento dollari e li appoggiò sul bancone. Per una volta voleva rimanere nella legalità, ma quello era il massimo che poteva lasciare al signor Semel.
Chiuse gli occhi e cominciò a girare la manovella, cautamente. Nell’aria si dispersero di nuovo le note struggenti del valzer di Davy Jones.
“Da quando sei andato è solo vuoto”, si scoprì a canticchiare Elizabeth, muovendo passi di danza resi goffi e ovattati dalla stoffa che le avvolgeva i piedi. Avrebbe dato anche la sua, di anime, solo per ricordare tutte le parole… “Cadono a terra le mie lacrime, polvere di cristallo per gli assenti.”
Io ero lì ad aspettarti, aveva detto Davy Jones a Calypso durante la sua penultima notte. Era andato a trovarla sulla Perla Nera, mentre Elizabeth e Jack partecipavano alla fatidica assemblea per eleggere, per la prima volta, un Re dei Pirati. Ti ho aspettato tutto il giorno, ma tu non c’eri. Per un attimo, il mostro era tornato umano.
Perché tu non c’eri?
“Sei il timoniere del mio pianto.”
Elizabeth si morse il labbro e aprì gli occhi.
Fece un passo indietro e andò a sbattere violentemente contro il legno della credenza. Davanti alla porta rotta, a pochi passi da lei, c’era una sagoma nera, immobile.

 
Saphira, controllati. Non vorrai venirmi a dire che senza quel corpo da rettile ciccione sei meno intelligente del tuo Cavaliere.
Non poteva farci niente. Il panico si stava appiccicando viscoso alle sue gambe malferme, insieme al buio della notte che inghiottiva il suo fiato corto.
Si rivolse di nuovo a Voldemort nella lingua di sibili e sussurri che aveva scoperto di poter parlare nemmeno venti minuti prima. “Ehi, Signore Oscuro, che facciamo adesso?”
“Ci s’impicca” grugnì il criceto. Non era affatto d’aiuto, oltretutto con il suo uso improprio del verbo impersonale come prima persona plurale.
Quando Saphira si accorse di essersi accorta dell’improprietà lessicale sorrise, suo malgrado, perché tutto ciò che stava succedendo era assurdo. Quel mondo coperto di asfalto e petrolio era assurdo, ed assurde erano le sue lunghe gambe lisce, bianche, sotto la stoffa che le prudeva…
Si piantò in mezzo alla strada. Era assurdo anche il suo cervello, si rese conto: sopra lo strato animale del terrore andava creandosi una patina di ironia, come quando s’intrufolava senza farsi notare nei sogni di Eragon e, pur finendo per lasciarsi trascinare, le veniva da ridere per quanto lui era stupido.
Allora: per esercitare la magia doveva ricordarla. Non era semplice. Con la trasformazione in essere umano, Saphira perdeva anche quel naturale impulso magico che di solito si sentiva ribollire nel ventre insieme al fuoco; così le toccava fare tutto razionalmente, come la più stupida delle fattucchiere. Per fortuna in uno scompartimento di quel cervello ridicolmente piccolo c’erano ancora le sensazioni che Eragon provava quando era lui a fare un incantesimo; Saphira scartabellava velocemente tra i ricordi, le ritrovava e cercava di riprodurle.
Frugò la propria mente, cercando di scansare tutto ciò che non c’entrava con l’Alagaesia: Legolas, Elizabeth, Arwen, il cinema di Chicago, il sapore amaro del caffè e quegli edifici strani, sghembi, troppo alti, come sequoie color cenere, che le piaceva guardare col capo rivolto tutto verso l’alto per trasformarli in pennacchi attaccati al cielo lontano. Quando non hai ali, il cielo si allontana disperatamente e assume una bidimensionalità piatta, insopportabile nella sua irraggiungibilità.
Finalmente, l’acqua. Saphira riuscì a concentrarsi sul ricordo dell’essenza dell’acqua, chiuse gli occhi, strinse Voldemort, e fissò lo sbocco circolare dei canali sotto la città, un tondo di metallo nero slavato e punteggiato di gocce d'asfalto. Volgarmente chiamato fogna.
Tre due uno.
Schizzò di lato mentre una colonna d’acqua sudicia erompeva in strada davanti agli Auror appena apparsi dalla parallela, tra i loro lampi colorati che ne fendevano inutilmente la compattezza scivolosa. Andò a sbattere contro il portone metallico di un garage incassato tra due casette e vide il tubo della grondaia. Aveva le mani sudate, ma riuscì ad arrampicarsi ugualmente, calciando via le proprie ballerine e lasciandole atterrare sull’asfalto che andava tingendosi di uno sdrucciolevole grigio sporco in cui affondarono.
Balzò sul tetto, aggrappandosi alle tegole ruvide di licheni e polvere. 
A quel punto non pensava più alla situazione presente, né all’ironia né al terrore. Solo, mettersi in salvo e contattare Arwen, perché non avrebbe potuto mantenere la colonna d’acqua per molto.
Mentre correva scivolando e sbucciandosi le ginocchia, cominciò ad aprire la mente e a serpeggiare tra le coscienze. A pochi metri di distanza una donna che si riteneva troppo vecchia stava facendo l’amore con uno sconosciuto mentre la televisione trasmetteva a tutto volume un programma con delle risate innaturali. Un bambino guardava muto lo spettacolo magico attraverso la tenda a pois rosa della camera di sua sorella, ed era troppo piccolo per rendersi conto che probabilmente sarebbe stato l’unico evento speciale a cui avrebbe assistito durante tutta la sua vita.
Saphira pensò che era crudele essere speciali, ma essere normali e senza qualità lo era ugualmente, forse cambiava solo il momento in cui ti rendevi conto di non avere niente tra le mani se non un destino già scritto.
Un incantesimo deviato dall’acqua colpì un tetto aggettante su quello del garage, e sulla schiena di Phi caddero le tegole rotte. La ragazza-drago sentì un dolore acuto e lancinante alla testa, e il vestito strappato, e i graffi sulla pelle nuda. Inghiottì un grido e si sollevò più in alto. Le proprie mani, attaccate alle tegole, le parevano sul punto di spaccarsi. Il calore del sangue che le scendeva tra le dita, lungo il dorso delle mani, sui polsi, le fece salire alla gola un’ondata di nausea.
Con la mente sfiorò le coscienze e confuse degli Auror, e stolidamente si stupì, come Eragon, quando le sentì troppo umane e troppo vicine alla propria per sembrare malvagie.
Riuscì a rimettersi in piedi e a nascondersi dietro un tetto. Doveva smetterla di concentrarsi sulle menti che schizzavano fuori dal torrente di anime che avvolgeva San Francisco, e cercare Arwen. Zigzagò tra una vecchia convinta che la sua infermiera fosse la figlia che aveva perso in un incidente trent’anni prima e un uomo con una linea di pensieri molto piatta e divertente che faceva i salti di gioia per il suo ultimo successo coi soldi, scivolò sotto i sogni allucinati di un barbone, schivò accuratamente le sensazioni di una prostituta.
Il cielo su di lei splendeva, ancora troppo alto. Si arrampicò sul tetto della casa accanto, puntando un piede sul davanzale di una finestra, e lasciò cadere la colonna d’acqua solo quando fu sufficientemente lontana. I tagli le bruciavano. La pelle squamosa dei draghi riesce a proteggerli meglio dalle abrasioni.
Non trovava la mente di Arwen. Non trovava la mente di Arwen.
Gli Auror stavano correndo sulla strada sotto di lei. Aggrappandosi ad un’antenna parabolica, Phi si diede lo slancio per saltare sul tetto di una casa vicino, e sentì di nuovo il dolore sordo della pelle che si spaccava quando atterrò su un braccio.
Dovevano essere saliti sul tetto. Saphira rotolò di lato, appena in tempo per schivare un lampo di luce blu che s’infranse tra le tegole.
Prima che i volti degli Auror apparissero dall’oscurità, Saphira vide una luce riflettersi sul muro della casa di fronte. Qualcuno, là sotto, era ancora sveglio.
Strisciò carponi, cercando di mescolarsi alla notte, verso il margine del tetto; poi, afferrato il tubo della grondaia, scese lentamente, sdrucciolando con le mani e graffiandosi le ginocchia contro l’intonaco ruvido, finché non si trovò al fianco della finestra illuminata.
Allungò una gamba verso il davanzale della finestra, poi una mano, e riuscì ad afferrarne l’orlo di granito. Cautamente, spinse anche l’altra gamba, cercando di non guardare le piastrelle lucide del marciapiede brillare sotto di lei. Non aveva mai capito cos’era la vertigine prima di trovarsi nell’impossibilità di volare.
Guardò dentro la stanza. In mezzo a tende lilla di una stoffa delicata e vaporosa di cui Phi si rammaricava di non conoscere il nome c’era il bambino che aveva percepito mentre allargava la sua coscienza. Alle sue spalle, la debole campana di luce emanata da una lampada di porcellana foderata di seta illuminava appena, come a carezzarlo, un letto a castello in cui dormiva una ragazzina.
Il piede di un Auror spuntò dal tetto.
Il bambino guardò con un tenue, timido sorriso curioso il volto di Saphira, che si scoprì a chiedersi come gli era apparsa. Phi bussò delicatamente al vetro lucido della finestra, e sillabò: “Fammi entrare…”
Si era completamente fottuta il cervello? Chiedere aiuto ad un bambino.
La mano del bimbo si tese verso la maniglia e aprì, lentamente. Saphira scivolò dentro, lisciandosi le cosce graffiate sulla pietra levigata del davanzale.
Il bambino doveva avere nove, dieci anni. Portava i capelli castani lunghi fin sulle spalle, e Saphira cominciava a chiedersi se non fosse, in realtà, una bambina. “Io mi chiamo James” disse il nanetto dissipando ogni dubbio, e poi sorrise. “A mamma piace Joyce e anche 007, per non parlare di Jim Morrison” aggiunse a mo’ di spiegazione.
Saphira fece in tempo a gettarsi su di lui e spingerlo a terra prima che la finestra andasse in frantumi. L'esplosione avvenne in silenzio, senza suoni.

 
Elizabeth fu quasi sollevata quando la figura nera che si ergeva davanti a lei, nel negozio dell'antiquario, disse “lumos” e le puntò addosso una luce bianca. Abbagliata, la ragazza si schermò gli occhi con una mano, ma l’Auror puntò la bacchetta sul soffitto. Dalla lampadina si diffuse una tenuissima luce.
I due si squadrarono per un momento. Il mago sembrava teso, ma non terrorizzato. Doveva aver visto delle battaglie, Elizabeth riconosceva nei suoi occhi la stessa lucidità fredda che si era sorpresa a scoprire nei propri, tanto tempo prima. Forse aveva combattuto nella Guerra Magica a cui Arwen a volte accennava, e contro cui Voldemort bestemmiava tre volte al giorno.
Il volto rotondo, da adolescente, si abbassò per squadrarla, e quando la vide disarmata, con un rivolo di sangue che le colava da una spalla e le gambe coperte di graffi, rimase per un attimo interdetto. La sua sorpresa crebbe ancora di più quando notò i trecento dollari sul bancone, lontano da Liz.
Continuava, però, a puntare la bacchetta contro di lei, forse solo per scaramanzia.
Non le chiese nulla di Voldemort. “Che cosa cercavi?” domandò invece, più diffidente che aggressivo.
“Ho trovato quello che cercavo” rispose seccamente Elizabeth, guardinga, avvolgendo il carillon nel panno di velluto.
“Perché un carillon?” chiese ancora il mago.
Liz soppesò con calma le parole. Era impossibile che quel ragazzetto non pensasse che lei faceva parte di qualche associazione di fanatici dediti a organizzare in pompa magna il ritorno del Signore Oscuro. L’allarmismo delle forze dell’ordine, continuava a pensare Elizabeth, rasenta sempre la stupidità, specialmente dopo un periodo di crisi. Se gli avesse spiegato, lui non avrebbe capito. Quando hai vent’anni e hai vinto non pensi che ci siano altre verità oltre alla tua.
“Non sono una strega” disse abbassando gli occhi. “Di magia ne ho vista tanta, ma non c’è neanche uno straccio di potere magico, qua dentro.” Sorrise amaramente. “E poi dicono che gli uomini sono tutti uguali.”
Il ragazzo sembrava convinto, ma sussurrò "expelliarmus". Nonostante Elizabeth conoscesse il latino e fosse dotata di un minimo di capacità deduttiva, trattenne il fiato come se temesse di ritrovarsi una pallottola in mezzo allo stomaco.
Non accadde nulla.
Accio bacchetta. Accio bacchetta!” sibilò il mago.
Tutto restò immobile. Elizabeth sorrise. “Se avessi potuto fare così col carillon, mi sarei risparmiata un sacco di fatica” disse. “Dammi la tua bacchetta.”
Il ragazzo non esitò un istante. Sembrava curioso oltre che confuso, adesso, ed Elizabeth conosceva anche quella sensazione: la voglia di stare a vedere cosa succede, per quanto sia inutile, irrazionale e potenzialmente pericoloso. Proprio quella curiosità che se riposta nelle mani sbagliate ti fa fare immancabilmente la fine del povero idiota.
Lei strinse le dita attorno al legno ruvido, puntò la bacchetta contro la porta e, con aria ironica, disse: “Bombarda.” Notò suo malgrado che una parte di sé, nonostante tutto, sperava che tutto andasse in frantumi.
Gli restituì la bacchetta e si avvicinò alla porta, che non aveva subito una scalfitura in più. Si graffiò di nuovo la schiena mentre oltrepassava l’apertura che aveva praticato con il buon vecchio metodo della scarpa.
La voce del mago la fermò. “Aspetta.” Trasse da chissà dove l’altra décolleté di Liz e gliela porse attraverso la fessura. “Nessun altro ti segue.”
Lei gli tese la mano. “Elizabeth Swann.”
“Neville Paciock.”
Elizabeth indossò di nuovo le proprie scarpe e se ne andò, zoppicando appena, seguita dai bagliori tremolanti e malaticci dei lampioni che si riaccendevano uno ad uno, e dal rumore del vetro della porta che tornava magicamente al suo posto.
 
 
L’acqua placida dell’oceano s’infrangeva in silenzio contro il molo abbruttito dal cemento, trascinando con sé  uno strato maleodorante di alghe marroni di cui Arwen preferì non chiedersi la classificazione o la provenienza.
Tutti gli elfi hanno una nostalgia quasi insopportabile alla vista del mare, ma Arwen ne era spaventata come da una tentazione terribile e distruttiva. L'aveva sempre fatta pensare a partenze senza ritorno, separazioni crudeli, disgrazie definitive. Ed ora sapeva perché.
Tra le sagome nere delle navi dondolanti, distinse l’ombra sottile di Elizabeth che si affannava sul ponte di una piccola barca a motore.
La raggiunse a passi felpati e rovesciò nell’imbarcazione le poche borse, piene fino all’orlo, che si era trascinata dietro per una serie infinita di isolati con il solo aiuto della ferrea volontà elfica, e forse di qualche Valar impietosito.
Elizabeth ebbe un breve sussulto, poi si voltò verso di lei con le mani sui fianchi. “Credo di aver capito come funziona questo colabrodo” disse. Un sorriso soddisfatto guizzò tra le ciocche di capelli che erano sfuggite dalla sua coda disordinata. "Jude è al sicuro?" aggiunse l'ex piratessa in tono concitato.
"Sano e salvo" assicurò l'elfa dando una pacca al poster che spuntava da uno zaino.
"Perfetto."
Arwen avrebbe voluto slanciarsi verso di lei e abbracciarla, ringraziarla perché era un’umana ma un’umana furba e questo la faceva sperare per il futuro, raccontarle di nonna Galadriel. Dirle che non aveva smesso di pensare alla sfuriata della vecchia elfa, mentre correva.
Ma non lo fece.
Non lo fece perché sul volto di entrambe era sorta un’unica smorfia preoccupata.
“Wen” disse Elizabeth. “Dov’è Saphira?”




Post scriptum dell'autrice: Sono in vergognoso ritardo e me ne rendo conto: mi dispiace aver fatto aspettare chi si era messo con tanta pazienza e buona volontà a leggere la storia! Purtroppo, come al solito, è sopraggiunto uno di quei periodi terribili dal punto di vista morale, familiare, sentimentale et cetera, accompagnato da una mancanza cronica di ispirazione e voglia di scrivere, ma per fortuna esiste l'estate.

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