Sogni di Rock n' Roll

di Eryca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Porto di Città ***
Capitolo 2: *** Pesche e Vagine ***
Capitolo 3: *** Colpevole ***
Capitolo 4: *** Mostro ***
Capitolo 5: *** Mad ***
Capitolo 6: *** Intoccabile e Afferrabile ***
Capitolo 7: *** Perdersi ***
Capitolo 8: *** Sogni di Rock n' Roll ***
Capitolo 9: *** Mai più sporca ***
Capitolo 10: *** Lacrime di verità ***
Capitolo 11: *** Il suono del silenzio ***
Capitolo 12: *** Oh, amore. Oh, amante. ***
Capitolo 13: *** La strada del successo ***
Capitolo 14: *** Insieme, per sempre. ***
Capitolo 15: *** Mentre il caffè si raffreddava ***
Capitolo 16: *** Epilogo-Sognando l'America ***



Capitolo 1
*** Il Porto di Città ***


1.

Il Porto di Città

 

 

 

 

Pioveva di nuovo, quella sera, notò non appena vide una piccola goccia di acqua sul suo braccio sinistro. Riusciva a sentire l’odore di bagnato e umido.

Succedeva sempre così: quando decideva di fare una delle sue campatine per i locali, il cielo cominciava a ruggire minaccioso, per poi lanciarle addosso litri di pioggia.

Scosse il capo senza speranze, conscia del fatto che, molto probabilmente, si sarebbe presa un altro di quei stramaledetti raffreddori, dando a sua madre una nuova scusa per rimproverarla.

Sembrava che Charlotte Dupont si divertisse moltissimo a riprenderla per il fatto che non aveva messo in ordine camera sua, non aveva lavato i piatti oppure perché era rientrata troppo tardi la sera prima; ma la miglior scusa per urlarle contro parole arrabbiate era il suo scarso interesse per lo studio, nonostante l’Esame di Maturità in vista.

L’Esame di Maturità.

Il solo nome le faceva venire i brividi, per questo evitava spesso di soffermarsi sull’argomento, preferendo schivarlo e rimandare di continuo lo studio: in fondo aveva ancora qualche mese a disposizione, prima di dover affrontare le fatidiche prove.

L’autoconvinzione è pur sempre un’arma potente.

Se ne stava impalata in mezzo al lato della strada, appoggiata ad un muretto sporco, in attesa di quel ritardatario di Matteo, che le dava gli appuntamenti ad ore che non riusciva mai a rispettare.

La via sembrava piuttosto trafficata quella sera, forse perché l’evento  ̶  a cui stava per partecipare anche lei  ̶  era previsto come uno spettacolo mai visto prima d’allora; ma, in fin dei conti, si diceva sempre che le serate organizzate erano “da non perdere”, quindi non vi aveva riposto troppe speranze.

Il marciapiede su cui era appostata anche lei era gremito di gente decisamente stramba: una ragazza, che avrà avuto una ventina di anni, portava una lunga gonna nera che le sfiorava le caviglie e dei capelli viola, i quali le davano una certa somiglianza ad una mora matura.

Un tizio rasato, coperto di tatuaggi dalla testa ai piedi, la sorpassò dandole una spallata; avrebbe voluto gridargli di fare attenzione, ma non appena vide la sua stazza decise che forse era meglio far finta che nulla fosse accaduto: ci mancava solo un occhio nero e poi sua madre l’avrebbe spedita dai suoi parenti, in Francia.

Charlotte le ricordava ogni tre per due che sarebbe potuta tornare alle origini, ovvero in quel piccolo paesino nelle vicinanze di Parigi, dove abitavano i suoi severi nonni; l’idea non le andava per niente a genio, quindi cercava di evitare lo scontro decisivo con sua mamma.

A volte pensava che quella donna fosse così frustrata perché si era ritrovata incastrata con un marito e una figlia, in quel buco di fogna che era Torino; ma in fondo non era colpa di nessuno se si era innamorata di Paolo Melì, giovane contabile per un’azienda di elettrodomestici torinese, e aveva deciso di lasciare Parigi definitivamente.

Abbandonò quei pensieri non appena vide arrivare, in lontananza, una figura alta e snella, dai capelli castani a spazzola e il portamento di una diva di Hollywood.

Matteo Damiani, suo migliore amico da così tanto tempo che neanche si ricordava la prima volta in cui avevano parlato, si avvicinava con la camminata sicura di sé e sensuale, che solo lui riusciva ad assumere; quel ragazzo mediterraneo dallo sguardo assassino avrebbe fatto innamorare qualsiasi fanciulla, il fatto era che non le interessavano le signore.

Matteo era omosessuale.

Molto omosessuale, avrebbe detto lui, con il sorriso malizioso di chi aveva appena passato qualche ora di sesso selvaggio, rinchiuso in qualche luogo angusto.

La cosa che più la mandava in bestia era che Matteo le rubava tutti i ragazzi più carini, mentre a lei rimanevano solo gli sgorbi affamati che avrebbero offerto da bere anche ad una vecchia di ottant’anni, pur di ricavarci una scopata; ma in fin dei conti a lei non importava molto abbordare bei maschioni e abbandonarsi ai piaceri del sesso, non era mai stata una di quelle ragazze. Certo, anche lei aveva fatto sesso, qualche volta, non era di certo Suor Claretta, però non desiderava trovare l’uomo giusto per la sua vita.

Lei aveva altri sogni.

«Anne, ti prego, non mi uccidere, ho avuto da fare!»

Anne Melì, un metro e sessantacinque, trentasette di scarpe, capelli rosso schifo e così ricci da non avere alcuna possibilità di domarli, occhi verdi ed un grande, immenso sogno nel cassetto: sfondare nel mondo della musica.

Ecco chi era, si disse ripassando a memoria la presentazione che avrebbe dovuto fare al suo primo provino con una major. Era sempre così bello fantasticare…

Se solo fosse riuscita a mettere su un gruppo, allora si che avrebbe potuto vedere i suoi sogni prendere dei contorni reali e non solo più astratti, come erano in quel momento; ma dove li trovava dei ragazzi appassionati di rock, in quella Torino fatta solo di discoteche?

Certo, Matteo condivideva il suo amore per Jimi Hendrix, ma non potevano formare una band con solo una chitarra basso ed una voce solista: avevano bisogno di batteria e chitarra elettrica.

Avevano discusso così tanto di quella questione che a volte le sembrava di non avere alcuna speranza di poter cantare su un palcoscenico internazionale.

Stupidi sogni da diciottenne.

«Scommetto che il tuo concetto di “avere da fare” equivale con il mio di “avevo qualche cazzo da succhiare”.» così dicendo prese il suo amico sotto braccio e si incamminarono verso l’entrata del locale in cui facevano musica live.

Fai che sia rock n’ roll.

 

 

 

 

****

 

 

 

 

 

Fai che sia rock n’ roll, pensò Davide seduto ad uno di quegli squallidi tavoli di legno che il pub Porto di Città aveva messo a disposizione della fetida clientela; in effetti i frequentatori del locale non erano di certo parte dell’alta borghesia torinese, ma membri ufficiali della feccia della società.

Ma in fondo, si disse, anche lui era in quel locale e, a causa della sua onnipresenza in quel posto, i baristi erano divenuti suoi amici.

Pessimo. Proprio pessimo.

Era così preso dalla sua musica che, a volte, si dimenticava di essere una persona reale, con il bisogno di una casa, un lavoro. Soldi.

Dannazione, quelli mancavano sempre, nonostante si facesse in quattro per cercare di rimediarli, lavorando in quell’odiosa officina di meccanica in compagnia di un datore di lavoro non propriamente cordiale.

Si spezzava la schiena dalle otto di mattina alle otto di sera, per dover condividere un appartamento  ̶  che non meritava quell’appellativo  ̶  con quel ritardato di Riccardo che, in quello stesso istante, stava in piedi su un tavolo rettangolare cercando di bere un boccale di birra senza prendere il respiro.

Riccardo Sacco.

Il suo amico dai tempi liceali, che lo aveva accompagnato in quella che poteva entrare nella classifica delle “Vite più misere dell’anno” senza mai lamentarsi troppo; la cosa che più gli andava a genio di Ricca era che non riuscivi a togliergli il buon umore neanche con la notizia più tragica, forse anche grazie alla quantità industriale di erba che riusciva a fumarsi.

Ma chi era lui per dirgli ciò che doveva fare?

Si guardò intorno in cerca di qualche bella ragazza con cui passare la serata e magari andare a letto; tutti i sabato sera era la stessa storia: adocchiava una preda, la insaponava per bene e poi la convinceva ad aprire le gambe.

Certo, non era proprio un granché, però doveva pur sfogare i suoi istinti maschili in qualche modo e l’idea di trovarsi una ragazza fissa con cui condividere esperienze e consigli gli faceva accapponare la pelle: aveva solo ventitré anni, non poteva mettere su famiglia.

Qualche volta, però, quando era nel letto e le luci erano spente, lasciando spazio al buio della notte, si chiedeva quando la sua vita sarebbe cambiata, se avrebbe mai combinato qualcosa di buono oltre alla musica, che era l’unico suo vero amore.

Certi giorni, quando Ricca era fuori, si sentiva così solo che gli sarebbe quasi piaciuto tornare all’infanzia, a casa con una madre e un padre in preda ad un chiassoso litigio.

Oh, se la ricordava alla perfezione la separazione dei suoi genitori.

Quando suo padre aveva scoperto che la moglie andava a letto con più o meno mezza Torino, tradendolo abitualmente e facendolo passare come il marito scemo che non si accorgeva di nulla, era andato su tutte le furie e aveva chiesto il divorzio immediato; la madre non voleva Davide tra i piedi, così era stato affidato al padre, che non gli dava molta retta, troppo preso a darsi da fare con ogni donna che incontrava.

La solitudine era stata un punto fisso nella sua vita, che non se ne sarebbe mai andato, ormai si era rassegnato a quell’idea.

Se solo fosse riuscito a creare una band…

Ma tutti i suoi amici erano buoni ad ascoltare musica, non a comporla, quindi il problema di trovare ragazzi in gamba con cui mettere su un gruppo diventava serio; non avrebbe potuto di certo andare al Conservatorio e domandare se qualcuno degli studenti voleva fare un po’ di rock.

Lo avrebbero cacciato a suon di calci, molto probabilmente.

Abbandonò quei pensieri non appena vide la band salire sul piccolo palco di legno marcio, munita di strumenti e amplificatori che Davide agognava più di un aumento di stipendio.

Le luci furono abbassate e l’atmosfera divenne molto underground, cosa che gli fece volare la mente al CBGB & OMFUG  ̶  il cui nome completo “Country, BlueGrass, Blues and Other Music For Uplifting Gourmandizers” lo divertiva sempre  ̶  , club dove si erano esibiti i più famosi dei del rock n’ roll: dai Ramones a Patti Smith, i Talking Heads , gli Heartbrakers e tanti altri.

Si vide nel piccolo pub con una chitarra in mano, intento a suonare un assolo impossibile degno di Slash, mentre una folla di persone impazziva per lui, chiedendogli di fare il bis.

Davide, hai ventitré fottutissimi anni, dovresti smetterla di fantasticare.

Probabilmente si perse la presentazione di quel favoloso gruppetto di imbecilli, che sembravano essere appena usciti da una rivista per ragazzine adolescenti: portavano jeans così stretti che si chiedeva come facessero a non dolergli le palle e le loro magliette avevano delle stupide scimmiette disegnate sopra.

Dove finiremo?

«Sai, Dav, credo che questi qua abbiamo scambiato il Porto per un saggio scolastico.» la voce di Ricca, che sembrava essere sbucato dal nulla, risultava così bassa e sbiascicante che era difficile prendere sul serio ciò che diceva: era sbronzo, come al solito.

Si era portato dietro una ragazzetta dai capelli blu, con tutta l’aria di chi non vede l’ora di farsi scopare in tutte le posizioni esistenti.

Buon per Ricca.

In effetti, Davide non aveva mai visto Riccardo con una ragazza; cioè, il suo amico lo aveva beccato più volte a letto con qualche ragazzetta nel loro appartamento, ma lui non si era mai trovato di fronte Ricca in compagnia di una bella donna.

Lo vedeva solo pomiciare qua e là per i bar, ma niente di più. Forse quel bastardo aveva davvero un minimo di pudore che lui, invece, aveva perso per strada.

«Mi avevi detto che avrebbero suonato rock, cazzo! Che diavolo stanno facendo quei quattro deficienti?»

Una voce squillante pronunciò quelle parole, sovrastando il rumore insopportabile che il gruppo stava facendo uscire dai loro strumenti.

Davide si voltò e intravide una ragazza con dei selvaggi capelli rossi farsi spazio tra la folla, seguita da un giovane che doveva avere più o meno la stessa età della prima.

Cercò di allungare il collo per vedere meglio, ma li perse di vista del tutto e dovette sedersi rassegnato, lanciando un’occhiataccia alla sgualdrina in compagnia di Riccardo.

Aveva appena trovato una persona che, come lui e Riccardo, sperava che il gruppo della serata suonasse del rock n’ roll, cosa decisamente rara a Torino.

E se l’era fatta sfuggire.

Ok, non aveva senso quella sua mania per le persone che amavano la buona musica, come lui, ma aveva proprio voglia di fare due chiacchiere con qualcuno che parlasse di Guns N’ Roses e non di odiosi ragazzini in gonnella che cantavano stupide musichette commerciali.

Perché era così ossessionato dalla musica?

Si lasciò andare sulla sedia, ormai disperato dal suo comportamento infantile; era immaturo, lo sapeva, lo era sempre stato, ma ultimamente era così peggiorato che avrebbe potuto iscriversi di nuovo all’asilo nido.

Quand’è che sarebbe diventato un uomo, avrebbe messo da parte i sogni adolescenziali per concentrarsi sulla vita reale?

«Andiamocene Ricca, domani dobbiamo lavorare e questa roba fa così pena che me lo fa ammosciare.»

L’amico, invece di protestare per il forzato distacco dalla vogliosa fanciulla, scrollò le spalle e la abbandonò senza curarsi degli insulti che quest’ultima gli stava lanciando.

Quel ragazzo era davvero strano.

Spintonò un giovane ragazzo dai capelli blu che gli rivolse uno sguardo non del tutto amichevole, per arrivare finalmente al bancone, dove trovò subito una ragazza dal viso dolce presa a lavare bicchieri e riempire boccali di birra.

«Marta!»

La barista si guardò intorno in cerca della persona che aveva appena urlato il suo nome e quando vide Davide e Riccardo, sul suo viso comparve un sorriso sincero.

Abbandonò il suo lavoro per un solo attimo e si sporse per baciare i due ragazzi sulle guance.

«Delusi, eh?» scherzò, indicando con la testa la “boy band” adolescenziale, sul palco.

Deluso non rendeva bene come si sentiva, il termine giusto era frustrato.

Il mondo aveva smesso di interessarsi al suono che fuoriusciva da una chitarra e aveva preferito concentrarsi su registrazioni e voci manomesse in studio.

Frustrante.

«Fa così schifo che stiamo scappando.» intervenne il suo coinquilino, tutto preso a ispezionarsi le unghie, in un comportamento tipico di una donna.

Certe volte Ricca lo lasciava perplesso.

«Almeno voi che potete!»

Salutarono ancora una volta Marta, prima di incamminarsi verso l’uscita, che sembrava lontana miglia, se si stava a guardare la marea di gente stipata in quel buco.

Tutti venuti a vedere questi quattro ritardati.

L’aria fresca gli diede una sensazione di benessere, ormai abituato a quell’odore stantio che donava al Porto un marchio di fabbrica.

Era così tanto tempo che passava le serate in quel pub che si era dimenticato che nella vita potevano esserci altre cose, come il cinema, il teatro, una passeggiata tra i portici di Via Roma…

Ma continuava ad andare al Porto, sperando di sentire della musica.

«E io che speravo di ascoltare musica!»

Di nuovo quella voce forte e determinata, quella che aveva sentito prima all’interno del locale, quella che aveva usato in una frase la parola “rock”.

Davide si voltò incontrando due grossi occhi verdi.

 

Aveva trovato qualcuno che conosceva il significato della parola musica.

 

 

 

****

 

 

 

Note dell’Autrice:

 

Questa mia Storia Originale vuole trattare  ̶  come già si nota in questo primo capitolo di introduzione  ̶  l’argomento della musica, in particolare quella rock.

I personaggi principali sono quattro, già presentati in questo capitolo: Davide Lombardo, Anne Melì, Matteo Damiani e Riccardo Sacco.

Il contesto è la Torino dei giorni nostri, un po’ priva di quel rock che farebbe piacere ai protagonisti.

Ovviamente, verranno trattati tanti altri argomenti, non solo quello della musica, che però farà da contorno a tutta la storia. Tema molto importante  sarà anche l’omosessualità.

In questo primo capitolo  ̶  e anche nel secondo  ̶  verranno per lo più presentati i personaggi, in modo che capiate bene con chi avete a che fare.

Per ora non voglio aggiungere altro, in modo da non rovinarvi il prossimo capitolo.

Se avete letto, vi prego di lasciare un commentino, così potrò sapere se l’idea vi piace e se vi sembra giusto continuare.

 

Un abbraccio,

Eryca.

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Capitolo 2
*** Pesche e Vagine ***


2.

Pesche e Vagine

 

 

 

 

Non gli erano mai piaciute le pesche.

Erano troppo morbide, con quella peluria sulla buccia che gli faceva venire i brividi sulla schiena; per non parlare dell’odioso succo: non appena addentavi il frutto, quello si schiacciava e il liquido fuoriusciva macchiandoti i vestiti. La parte che più detestava, però, era il colore: l’arancione era così demodé e pacchiano che avrebbe potuto vomitare alla sola vista; le fragole avevano quelle belle sfumature rosate, i limoni erano uno sprizzo di vita con il loro giallo solare.

Ma l’arancione no, era un pugno in un occhio.

E quel nocciolo. Quell’odioso seme che se ne stava al centro quasi fosse il Papa, spaccando i denti ad ogni povero essere umano che cercava di dare un morso al frutto.

Di certo l’odore e il gusto delle pesche non erano d’aiuto, perché Matteo detestava con tutto sé stesso quel sapore dolciastro ma nello stesso tempo amaro, che ti lasciava la bocca impastata e maleodorante.

Non poteva soffrire le pesche, no.

L’immagine di una donna dai capelli grigiastri raccolti in una crocchia, il grembiule rosa ricoperto di odiosi margherite e una mano che si avvicinava verso la sua bocca, con una pesca stretta nel palmo, riaffiorò nella sua mente quasi a volerla stuprare.

«Mangia la pesca, Matteo. Mangiala o dovrò punirti.»

La voce di quella strega sembrò rimbombare nel suo cervello come quelle vecchie cassette con il nastro un po’ consumato, che facevano sembrare l’audio lontano.

Non ne poteva più di sentire le parole di quella megera, doveva smetterla di ricordare.

Doveva cancellare.

Lui non la voleva la pesca, ripudiava le pesche, le odiava; se solo avesse potuto fare un falò, allora avrebbe raccolto tutti quei frutti e ne avrebbe fatto una montagna, che avrebbe successivamente bruciato, godendo come un porco nel vederle sciogliere.

Sentiva il suo pianto in lontananza, mentre la mano di quella donna  ̶  quella che era sua madre  ̶  si abbassava fino a scontrare la sua guancia, facendo un forte rumore al contatto; Matteo poteva sentire il dolore, lo percepiva come se fosse stato ancora quel giorno.

Come quando sua madre lo prendeva a calci nello stomaco, costringendolo a rintanarsi sotto il letto, mentre lei gridava di uscire, che lo avrebbe ammazzato, che lo avrebbe fatto diventare normale.

«Un abominio, ecco cosa sei! Dio ti ripudia, io non ti voglio qui! Non sei mio figlio!»

E quella pesca sembrava sempre più vicina, sempre più grande e puzzolente, e Matteo dovette scostarsi sì, perché non voleva mangiarla.

Non voleva diventare normale, perché lui normale lo era già.

Abominio.

«Matteo»  lo chiamò dolcemente Anne  «hai sentito cosa ho detto? Ho comprato le pesche fresche dal fruttivendolo, devono essere buone. Ne vuoi una?»

La ragazza se ne stava sullo stipite della porta, una borsa di plastica nella mano, mentre nell’altra teneva stretta una grossa pesca arancio, che si portò alla bocca.

Eccolo, quel dannato succo.

«Non sono un fan delle pesche, mi dispiace ma passo.»

Matteo era fatto così: sapeva fingere bene, lo aveva fatto sin da piccolo, quando sua madre usciva di casa per comprare il pane e lui si intrufolava nel suo armadio, provandosi quel bel vestito a pois rossi che tanto adorava.

Anche in quel momento, con Anne che gli puntava gli occhi intelligenti addosso, aveva tirato fuori il suo lato di attore, sfoderando un sorriso e usando quella sua voce squillante come scudo: non voleva che la sua migliore amica iniziasse a chiedergli cosa c’era che non andava.

E poi, era solamente colpa delle pesche.

La ragazza abbandonò la busta con i frutti sul piccolo tavolo di legno, per poi andarsi a sdraiare sul divano, che divideva l’ingresso dal salotto. Aveva fatto ciò che poteva con quel buco di appartamento, certo, ma non era proprio la villa moderna che si era sempre immaginato; ma aveva afferrato l’occasione al volo, quando aveva sentito parlare di un alloggio in affitto a basso costo: tutto pur di fuggire da quella stramaledetta casa.

Ormai era quasi un anno che viveva da solo in quel piccolo loft di città, senza dover più subire le botte dei suoi genitori, che gli rimproveravano di non essere nato normale.

Solo perché, a lui, gli piaceva prenderlo nel culo.

Abominio.

Avrebbe buttato nel cassonetto dell’immondizia quelle maledette pesche non appena Anne se ne fosse andata via, cosa che sarebbe successa qualche ora dopo.

Avrebbe sopportato fino ad allora.

«Che cosa hai fatto questa mattina, mio pigrissimo amico?»

Anne riusciva sempre a farlo sorridere, anche nelle situazione meno appropriate, anche quando sembrava che il sole fosse scomparso dietro a quella marea di nubi, anche quando c’erano le pesche sul tavolo di casa sua. Quella ragazza aveva un modo di fare così mascolino, che qualche volta Matteo si era domandato se non fosse lesbica, cosa smentita in fretta, vista la sua burrascosa relazione con un idiota impacchettato.

Aveva imparato ad apprezzare le battute taglienti della sua amica, quel modo di fare strafottente della serie “niente mi tocca”, quel suo modo di vestirsi sciatto e slabbrato che non valorizzava per niente il suo bel corpo di donna.

L’aveva apprezzata perché lei aveva apprezzato lui.

Normale.

«Ho dormito. Sai, è domenica. Ho fatto finta di studiare per il Compito in Classe di Filosofia e, rullo di tamburi, ho suonato.»

Forse il vero motivo per cui Anne e Matteo erano diventati amici per la pelle era stata la passione per la musica che avevano in comune: adoravano entrambi il modo in cui Mick Jagger muoveva i fianchi sul palco, mettendo in evidenza il suo spropositato pacco, per non parlare delle alzate di ginocchio che Axl Rose si faceva durante i live dei Guns N’ Roses.

Insomma, rock n’ roll e maschioni era la combinazione giusta per i due ragazzi.

Matteo lanciò uno sguardo alla sua chitarra basso, appoggiata alla televisione  ̶  pagata pochi euro ad una svendita di elettronica  ̶  : quello strumento era tutto ciò che lo aveva salvato, quando si sentiva solo, chiuso nella sua piccola stanza, quando le lacrime gli bagnavano le guance arrossate dalle manate ricevute dalla madre, quando avrebbe voluto strapparsi tutti i capelli perché iniziava a credere di essere davvero anormale.

Quando succedeva qualcosa di simile, be’, Matteo prendeva il suo basso e iniziava a suonare, estraniandosi dal mondo, sentendosi a casa una volta per tutte.

«Ti ricordi quel maniaco che ha cercato di placcarmi, ieri sera al Porto?»

Oh, si che se lo ricordava.

Era un gran bel pezzo di uomo, con due enormi occhi chiari e dei capelli neri, decisamente maltenuti e tagliati alla bell’e meglio. Beh, quel tizio tutto pepe era arrivato quasi correndo, bloccando Anne per un braccio e iniziando uno sproloquio incomprensibile con parole del tipo “Tu”, “Rock N’ Roll”, “Ti ho sentita dentro al locale”.

I due amici si erano guardati con aria preoccupata e se l’erano data a gambe prima di sentire cosa quel malato aveva da dirgli; era sicuramente un ubriacone che stava cercando di portarsi a letto la sua amica, Anne.

«Si, era un bel bocconcino.»

Guardò l’amica e si rese conto che se fosse stato eterosessuale, probabilmente, sarebbe stato attratto da lei, perché era proprio una gran bella ragazza.

Peccato, le donne glielo facevano ammosciare.

«Credo di averlo già visto da qualche parte, sai?»

Beh, lui se li ricordava i bei ragazzi quando li vedeva e se avesse già incontrato lo psicopatico della sera precedente, se lo sarebbe certamente appuntato al cervello con un Post-it.

Si limitò a scrollare le spalle, certo che Anne stesse dando troppa importanza ad un tipo arrapato con tanta voglia di andare a letto con lei.

Certe volte era così ingenua e lui doveva proprio insegnarle tutto.

«Anne, dolcezza.» disse con tono risoluto, stringendole le mani nelle sue «Non è stato un incontro alla Dirty Dancing, anche perché Patrick è decisamente più sexy di quel ceffo di ieri… Ma… Oddio, cosa stavo dicendo? Oh, sì, giusto. Dimenticati l’accaduto, fidati.»

L’amica sbatté le palpebre due o tre volte con aria stordita, poi prese a ridere a crepapelle, quasi avesse appena sentito la battuta più divertente del mondo. Matteo si sentiva offeso nel personale: stava ridacchiando forse per le sue parole?

Le diede le spalle, mettendole il broncio proprio come fanno i bambini piccoli quando la mamma dimentica di comprargli le caramelle.

«Oh, Dio, Matte! Sei esilarante! Volevo solo dirti che quell’imbecille l’ho visto alla lavanderia a gettoni di Corso Duca!» riuscì infine a dire non appena le risate furono placate.

Oh, certo, sono proprio esilarante.

Ecco, lo sapeva, era uno dei lati del suo carattere che più detestava, ma non riusciva a trattenersi, ci aveva provato diverse volte, eppure continuava a farsi prendere dal nervoso.

Sì, era decisamente permaloso.

«Ma certo, la lavanderia a gettoni.» sbuffò alzandosi a prendere un bicchiere d’acqua, con colonna sonora il risolino di Anne.

Quelle dannate pesche erano ancora sul suo tavolo.

Maledizione!

 

 

****

 

 

Riccardo guardò per l’ennesima volta il suo orologio da polso comprato per due soldi al mercato dell’usato, dove si trovavano sempre buone occasioni.

Tre minuti.

Solo più tre dannatissimi minuti e poi sarebbe potuto andare in pausa pranzo, per mangiare il solito schifoso panino al bar dietro l’angolo, in compagnia di Davi.

Si piegò, sentendo la schiena dolergli atrocemente, mentre prendeva un altro scatolone di conserve e lo posizionava sul grosso scaffale del supermercato.

Fare il magazziniere non era proprio il massimo, no.

Gli era andata ancora bene se si stava a guardare lo stormo di giovani disoccupati, senza diploma e in cerca di un lavoro: si doveva ritenere fortunato, aveva una casa e un coinquilino che non rompeva le palle.

Ed è anche esageratamente carino.

No. No, quella non ero un concetto che doveva stare nella sua mente. Forse in quella di una bella ragazza con una quarta di reggiseno, ma non nella sua. Ecco.

Si costrinse ad eliminare quell’ultimo pensiero, sudando freddo per lo sforzo di sopprimere ogni riflessione simile.

Che diavolo hai nel cervello, Riccà?

«Due minuti, Riccardo!» gli sorrise Francesca, una dolce ragazza che lavorava con lui da ormai un annetto; era una di quelle donne che avrebbero fatto andare fuori di testa qualsiasi uomo: un bel seno abbondante, due lunghe gambe magre e un sedere alto e sodo. Per  non parlare del viso angelico e i capelli biondi e lisci.

Una vera fata.

E, si, ci provava spudoratamente con lui da mesi a quella parte; aveva cercato in tutti i modi di uscire con lui: gli aveva chiesto di andare a bere qualcosa dopo il lavoro, di fare una serata tra colleghi. Ma lui non aveva alcuna voglia di vedersi con lei.

Prima cosa perché era troppo perfetta per avere a che fare con un poco di buono, vecchio punk dai cappelli verdi come lui, che nella vita aveva solo un obiettivo: fare musica.

E, come seconda cosa, proprio non gli andavano a genio quelle grosse tette. Sembravano due respingenti pronti a mangiarti e a risucchiarti: in effetti gli facevano un po’ di paura.

Che cazzo stai dicendo, Riccardo?

Ci aveva provato, davvero. Una volta, prima dell’orario di chiusura, era andato da lei deciso a proporle di uscire, perché Davide sarebbe stato fiero di lui se gli avesse detto che si era portato a letto una gnocca del genere, ma non ci era riuscito: aveva guardato quelle sue gambe sinuose, i fianchi morbidi e… la sua vagina.

Dovette coprirsi la bocca per non far vedere l’espressione disgustata che era apparsa sul suo viso.

Poteva sopportare le carezze, la mani lungo la schiena, persino i baci, ma non la vagina.

Non la reggeva, nonostante gli sforzi per farsela piacere: aveva guardato ore e ore di porno, sperando di vedere il suo pacco alzarsi e invece niente, era rimasto tutto come prima.

Forse dovrei andare da un andrologo. Forse ho una disfunzione erettile o qualcosa del genere.

Si girò di nuovo verso Francesca, ammirando quei lunghi capelli setosi, che avrebbero fatto impazzire qualsiasi uomo sulla faccia della Terra.

Tranne lui.

Un minuto.

Solo più un fottutissimo minuto e poi sarebbe potuto scappare, addentando un grosso panino alla mortadella, cercando di dimenticare il viso dolce della sua collega.

Non sopportava di essere osservato da lei.

Every single day, every word you say, every game you play, every night you stay, I’ll be watching you…

Si, quella situazione gli aveva fatto tornare in mente una canzone dei Police che aveva ascoltato parecchie volte, durante le notti buie della sua vita.

Posizionò un altro barattolo di sugo al pomodoro sull’apposito scaffale, quello vicino alle olive in scatole, alle acciughe e ai cetriolini.

“Niente è lasciato al caso al Supermercatino”

Che razza di slogan poteva mai essere? Di sicuro non faceva venire voglia alle persone di andare a fare la spesa in quel buco di fogna! Faceva quasi più schifo del nome stesso del supermercato.

Cazzo, ho finito il turno.

«Siamo liberi!» esclamò sorridendogli Fra, che si fiondò all’uscita nel retro.

Liberi un cazzo, pensò Ricca scendendo dalla scala a pioli con una certa disinvoltura. Si sarebbe dovuto subire l’ennesima ondata di lamentele di Davide, che avrebbe preso a raccontargli quale grandiosa occasione si era lasciato sfuggire, la sera precedente; il suo amico si era fissato con una ragazzetta adolescente che aveva detto qualcosa a riguardo del rock, al Porto.

Si era anche fatto una clamorosa figura di merda, cercando di attaccare bottone.

Che coglione.

Riacciuffò il giubbotto di pelle che aveva abbandonato sopra una pila di scatole, per poi uscire finalmente all’aria aperta, inebriandosi dell’odore di inquinamento della splendida Torino.

Sfilò dalla tasca dei jeans un pacchetto di Winston Blue: Davi diceva che quella marca di sigarette faceva proprio schifo e che non capiva come potessero piacergli; d’altra parte, anche lui detestava le Marlboro Rosse, fedeli compagne del suo coinquilino.

Si accorse che il suo accendino aveva stampata la foto di una bionda dalle tette enormi e un sedere così spropositato che sembrava finto. Si dovette trattenere per non bestemmiare.

Svoltò l’angolo e si ritrovò davanti al solito, piccolo bar dove lui e Dav consumava i pranzi nelle giornate di lavoro. Quando spinse la porta, un campanellino tintinnò, dando il segnale che un nuovo cliente era entrare nel locale.

«Cazzo, Ricca! Potevi metterci un po’ più di tempo!»

Buongiorno anche a te, Davide.

«Vaffanculo! Lo sai che in quel cesso di negozio spaccano il minuto.»

Il suo amico indossava una tuta blu da meccanico, sporca di olio e altre sostanze come benzina, proprio per via del lavoro che svolgeva.

Davi era entusiasta di smontare pezzi di carrozzerie almeno quanto lui lo era di mettere in fila stupidi barattoli di sottaceti; ma in qualche modo dovevano procurarsi i soldi per il cibo, le spese dell’affitto e per “lo sballo del sabato sera”.

Perché senza lo sballo del sabato sera saremmo tutti e due fottuti.

Ordinarono due sandwich con cotoletta e maionese e due birre medie, mentre Riccardo pensava a tutta la cocaina che si era sniffato in vita sua; aveva iniziato precocemente a far uso di droghe, forse a causa del suo malessere interiore, per la sua voglia di voler scappare da sé stesso.

Continuava a pensare che se si fosse ridotto in uno stato così pessimo da non capire più niente, allora magari sarebbe finalmente riuscito ad andare a letto con una donna e a vedere il suo pene dare segni di vita.

Era una cosa tanto stupida?

«Cazzo, Ricca! Girati!» Gli occhi di  Davide erano sgranati e la sua voce così emozionata che sembrava aver appena visto…

Oh, la tipa di ieri sera.

La ragazzina dai capelli simili ad una criniera di un leone era appena entrata nel bar e si guardava intorno in cerca di un posto a sedere; aveva una stramba pettinatura, si, ma nel complesso era una ragazza carina che emanava determinazione da tutti i pori.

Si girò, quasi stesse cercando qualcuno e, in effetti, qualcuno lo stava davvero cercando: dietro di lei comparve un ragazzo alto e snello, con due occhi enormi da cerbiatto, i capelli scuri e a spazzola e un portamento degno di Ricky Martin.

Riccardo dovette sbattere più volte le ciglia prima di rendersi conto che non era un allucinazione, ma c’era davvero un uomo così sexy a Torino.

Ok, Ricca, questo non è un pensiero che fa per te.

Ma come poteva distogliere gli occhi da un essere del genere? Non si poteva, si disse cercando di auto convincersi che fosse normale che un uomo rimanesse sconvolto alla vista di una persona del suo stesso sesso, solo perché molto attraente.

Ma poi gli uomini pensano che altri uomini sono attraenti?

«Oh, Fanculo, Matte! C’è quel pazzo di ieri sera!»

Be’, Davide, ti ha riconosciuto. Ma adesso ho anch’io un motivo per perseguitare la tua rossa.

 

 

****

 

 

 

Salve miei cari lettori,

sono di nuovo io, Eryca, con un altro capitolo di “Sogni di Rock n’ Roll”.

Tanto per iniziare spero che abbiate gradito il testo e che abbiate apprezzato questo mio soffermarmi sui pensieri e i malanni di Matteo e Riccardo, due dei quattro protagonisti; Matteo è omosessuale dichiarato  ̶  come già detto nel primo capitolo  ̶  mentre invece, per Riccardo, la situazione è un po’ più complicata: come si è già capitolo, il personaggio è gay, però non sa di esserlo o meglio non vuole ammetterlo a sé stesso.

Quindi, cosa succederà a questi due poveri ragazzi? :D

Nel prossimo capitolo ci sarà da ridere, perché sarà il primo incontro effettivo tra i quattro protagonisti.

 Spero la storia vi stia incuriosendo, se vi è piaciuta o avete qualcosa da dirmi lasciate una recensione e vi risponderò molto volentieri.

 

Eryca.

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Capitolo 3
*** Colpevole ***


3.

Colpevole

 

 

 

 

For the music is your special friend
Dance on fire as it intends
Music is your only friend
Until the end
Until the end
Until the end

The Doors, “When the Music’s Over”

 

 

 

 

 

 

Davide alzò i suoi grandi occhi in tempesta e incontrò quelli di una riccia che sembrava esplodere dalla follia, cosa che lo affascinava estremamente.

Era lei.

Era la tipa della sera precedente, quella che lo aveva fatto dannare, quella che conosceva il significato della parola “musica” e lo comprendeva anche.

Pensò che avrebbe dovuto dire qualcosa di così tosto che la ragazza non avrebbe aspettato altro che sedersi al tavolo con lui, per mettersi a discutere su quale fosse il sottogenere del rock più forte, quale meno d’impatto.

Ma Davide non era uno che diceva cose toste; era piuttosto il tizio che amava fare casino, stonarsi, quel “bello e dannato” che incantava le ragazze ma poi non aveva niente di interessante da offrire, se non la lista dei cento chitarristi più bravi al mondo. Forse era per quel motivo che le sue relazioni non erano mai andate in porto, se non per una scopata o due.

Ma adesso non stava pensando ad altro se non a chiacchierare di musica con quella ragazzetta.

Per un istante, si soffermò sulle caratteristiche fisiche di lei: aveva una massa di capelli rossi indomabili che le davano un’aria ribelle, ma allo stesso tempo la sfiguravano, nascondendole il viso dai lineamenti dolci; portava una maglietta slabbrata dei Ramones, che cadeva morbida sui suoi larghi pantaloni di jeans.

Era una di quelle ragazze nella media, che non noti per strada: non era brutta, non era bella.

Carina, si disse Davide soffermandosi sul culo della rossa che, a differenza del resto, valeva dieci e lode.

«Ehi!» la chiamò, cercando di attirare la sua attenzione.

La ragazza si girò, l’espressione del viso altezzosa di chi non ha tempo da perdere, un sopracciglio inarcato come a dire “Che cazzo vuoi, adesso?” e una mano sul fianco.

Questa tipa è tosta.

Il tipo che stava dietro di lei sembrava appena uscito da un salone di bellezza, ma allo stesso tempo riusciva a risultare convinto di sé stesso; indossava una felpa dei Guns N’ Roses: bingo, pensò Davi, un altro.

I due si avvicinarono al loro tavolo e Davide si sentì emozionato come un bambino non appena riceve una bicicletta in regalo, forse perché era da troppo tempo che attendeva di fare una discussione come si deve con qualcuno che non fosse Ricca.

Ricca che sembrava essersi incantato sul ragazzo dall’aria curata.

La rossa appoggiò un gomito sul tavolo, in una posizione a novanta gradi che fece venire a Davide strane idee.

«Che cazzo vuoi da me? » domandò con un sorriso, come se gli avesse appena chiesto di offrirle un drink o di accompagnarla a casa per una scopata.

Adesso, si disse, adesso devi dire una frase d’effetto.

Ma lui non stava pensando a nessuna stupidissima frase ad effetto, perché quella non era una commedia con Hugh Grant e Cameron Diaz che si incontrano in un parco e si baciano al chiaro di luna; quella era la fottutissima realtà e lui smaniava per chiederle se secondo lei i padri del Classic Rock erano i Doors o i Velvet Underground.

Si sarebbe accontentato di poco.

«I Doors.» disse infine, un solo nome, un cenno con la testa ad invitarla a sedersi.

Lei sembrò confusa, si girò verso il suo amico quasi a volergli domandare silenziosamente cosa ne pensasse di questo maniaco che continuava a tormentarla e che adesso se ne usciva con il nome di una band a casaccio.

Ma doveva rispondergli.

Doveva. Altrimenti Davide si sarebbe definitivamente rotto il cazzo della musica, avrebbe smesso di inseguire quel suo stupido sogno e si sarebbe messo a lavorare sul serio, avrebbe messo su famiglia e sposato una donna a cui sarebbe venuto il seno cadente e la pancia flaccida.

Se non avesse risposto alla sua domanda, avrebbe smesso con il rock.

Non si rendeva conto del perché proprio quella ragazza dovesse avere un ruolo tanto significativo nel prendere una scelta così importante per la sua vita, anche se sentiva nel profondo che quella sarebbe stata l’ennesima sconfitta nel mondo della musica; era come una metafora: la ragazzina con la maglia dei Ramones era paragonabile ad un’Etichetta discografica che rifiutava di metterlo sotto contratto.

Rispondimi, ti prego.

«I Doors sono la storia del rock, hanno dato inizio a tutto. Altro che Beatles!»

Mentre lei si sedeva e il suo amico prendeva una sedia mettendosi al tavolo anch’egli, Davide sentì che un sorriso si stava aprendo sul suo volto, anche se non lo voleva, anche se avrebbe voluto fare la figura del ragazzo misterioso che non ride mai.

La cameriera arrivò e prese le ordinazioni dei due nuovi clienti: coca cola e patatine fritte.

Non dovevano avere più di diciannove anni, probabilmente frequentavano ancora il liceo, perché non aveva ancora quell’espressione rassegnata sul volto, quella che era nata in Davide tanti anni prima; non avevano ancora quegli occhi privi di spirito di iniziativa, perché quel verde smeraldo che popolava le iridi della rossa era ancora colmo di sogni e speranze.

Era ancora una ragazzina.

Anche Davi, anni prima, aveva la mente ricca di obiettivi e, invece di ascoltare le lezioni della scuola professionale, si concentrava sull’assolo di chitarra elettrica che avrebbe voluto fare, davanti ad un migliaio di persone.

Poi aveva preso la maturità con un calcio nel culo, era uscito e si era reso conto che la vita non era proprio come aveva pensato: non c’era un gruppo di persone con carta e penna, pronti ad aspettarlo per fargli firmare il suo primo contratto. Non c’era nemmeno più suo padre ad aiutarlo, troppo avido per continuare a mantenerlo.

Si era dovuto confrontare con la vita reale, con il vivere da solo perché i tuoi genitori non sono più obbligati a mantenerti, con il lavoro quotidiano, l’affitto mensile e la vicina di casa che urla di pulire le scale, una volta tanto.

Ma quel giorno, aveva voglia di sentirsi ancora un po’ bambino.

«No, dai! E i Velvet Underground, dove li metti?» intervenne Riccardo, visibilmente eccitato dal dibattito appena nato.

Tutto, in quel tavolino, sembrava avere finalmente iniziato a vivere.

Forse se qualcuno avesse potuto leggere nella mente di Davide avrebbe pensato che fosse un esagerato, che respirava anche prima, mentre montava il tergicristallo di quella vecchia Uno grigia. Ma loro non potevano capire, non potevano sapere.

Perché Davide non respirava.

Davide viveva con il fiato corto, con il setto nasale deviato, con i polmoni atrofizzati, con la vista annebbiata.

Ma in quel momento, sentì che stava davvero smettendo di agonizzare e iniziando a inspirare.

Inspirare. Espirare.

Non sembrava troppo difficile, in fondo, se c’era la vita a contornarlo, se c’erano persone con il cuore che batteva non perché così doveva essere, ma perché desideravano disperatamente sentirlo pulsare, perché si aggrappavano alla vita e gioivano per essa.

Vivevano.

Perché, in quel tavolino, tutto sembrava avere finalmente iniziato a vivere.

La musica era vita.

Davide respirò.

 

 

****

 

 

 

Anne guardò uno ad uno i compagni che aveva appena acquistato: i loro occhi brillavano di una luce diversa da quella che si accende la sera quando è buio, ma più simile a quella che si intravede filtrare dalle tende della finestra, la mattina appena svegli.

Vita.

Aveva dato del maniaco, la sera precedente, ad un ragazzo che in realtà condivideva quel suo modo di vedere il mondo, la vita, le cose. Di respirare.

Quel modo che era la musica.

Non appena il ragazzo dagli occhi chiari aveva pronunciato il nome della band più strepitosa di tutti i tempi, il suo cuore aveva preso a battere all’impazzata, perché si era appena reso conto  ̶  senza l’approvazione del cervello  ̶  che aveva trovato un nuovo compagno di giochi.

Così le sue gambe avevano camminato senza di lei, i suoi piedi si erano fermati senza che la sua mente glielo ordinasse, la sua bocca aveva parlato senza che lei potesse frenarla.

Vita.

«Suoni?» chiese improvvisamente il maniaco, interrompendo lo sproloquio che il suo amico stava tenendo.

Una domanda. Rivolta a lei.

Era una semplice domanda, non era difficile rispondere, eppure sentiva che la voce non riusciva a uscire, perché… era emozionata.

Nessuno avrebbe mai compreso, avrebbero tutti detto che era pazza, che non poteva commuoversi nel sentirsi domandare una cosa del genere, eppure il suo corpo aveva reagito senza che lei potesse fare nulla.

Le era venuta la pelle d’oca.

Le era venuta la pelle d’oca perché sapeva cosa quel quesito comportasse.

Lei sapeva.

Lui sapeva.

Vita.

«Canto.»

Gli occhi del ragazzo si spalancarono per un attimo solo, prima di luccicare nuovamente, con quello sprizzo di vita che solo i quattro ragazzi in quel tavolo poteva comprendere fino in fondo.

La testa scura si rivolse a Matteo, che subito si rese conto della domanda implicita che il ragazzo gli stava rivolgendo.

Anne non sentiva più niente se non il suo sangue scorrere impazzito, come stesse facendo a gara con il respiro: vinceva chi andava più veloce.

Afferrò il bicchiere di vetro davanti a lei e prese a sorseggiare la Coca Cola, quasi fosse un tic, un’azione che non poteva evitare di fare, perché da quella bevanda dipendeva tutta la sua vita.

Da quella conversazione dipendeva tutta la sua vita.

«Chitarra Basso.»

Le parole di Matteo si persero nell’aria, ma rimasero impresse nella mente di ognuno di loro, come se da esse potesse scaturire il buco nell’ozono, la pace nel mondo, la guerra con gli alieni.

Vita.

Tutto era diventato vita. Tutti i sospiri, tutti gli sguardi, tutti i silenzi, gli attimi di condivisione, perché ogni piccolo segno di vita voleva significare che loro non erano lì perché le loro madri li avevano messi al mondo.

Loro erano lì perché erano in vita.

Fu il ragazzo dai capelli verdi a parlare. «Batteria.»

Vita vita vita vita.

Si sentiva un po’ come un albero che dipende dalla fotosintesi, con la linfa che scorre nelle sue nervature, con quella vita che faceva nascere i frutti, nuove vite.

Ora non sentiva più le urla dei vecchietti che se ne stavano seduti in quella bettola, intenti a guardare il telegiornale. Vide il proprietario del bar con indosso uno strambo grembiule spiegante che “il cuoco più sexy del mondo” era proprio lui.

Anche quel rumore che fuoriusciva dalle casse, e che doveva essere musica, scomparve dalla mente di Anne, che non riusciva più a sentire niente.

Niente se non ciò che stava accadendo intorno a quel tavolino.

Vita.

«Chitarra Elettrica, Acustica e Canto.» spiegò infine il maniaco, guardando dritto nei suoi occhi.

Sentì che si sarebbe potuta perdere in quell’oceano azzurro che l’aveva catturata, impedendole di girare lo sguardo verso qualcos’altro che non fossero quegli occhi.

Vita.

Si liberò da quella gabbia celeste e prese a scrutare uno ad uno i suoi compari, proprio come se stesse cercando di individuare un assassino, un colpevole.

Lei era colpevole.

Colpevole di essersi innamorata di un essere che non intendeva sentirsi respingere, che poteva essere placato solo con il sangue, solo donandogli l’anima, per sentirsi completamente assuefatti ad esso, senza potersi sottrarsi, senza volersi sottrarsi.

Colpevole.

Era colpevole di non essersi alzata da quel tavolo e aver iniziato a correre lontano da quel bar, da quelle sensazioni, da quei tre ragazzi che ormai l’avevano legata a loro, per sempre.

Colpevole.

Era colpevole di aver rovinato i piani di Matteo, che voleva starsene in casa sua tutto il giorno per suonare un po’, e invece l’aveva fatto uscire, l’aveva fatto andare dentro a quel locale, dove si erano incatenati a due perfetti estranei, per sempre.

Colpevole.

Era colpevole di non aver ascoltato sua madre, di non essere rimasta in camera sua, il libro aperto sulla scrivania a studiare una di quelle tante materie inutili che le avrebbero fatto prendere un pezzo di carta utile per fare qualsiasi cosa nella vita.

Colpevole.

Era colpevole di essere sé stessa, di non poter fare semplicemente quello che le persone le consigliavano, di non poter dire “sì”, di non poter rimanere in casa a studiare, di non poter lasciare Matteo solo a vegetare, di non poter alzarsi dal tavolo e correre, di essersi innamorata.

Era colpevole di aver donato tutta la sua anima alla musica.

Non c’era persona più colpevole di lei.

Era colpevole anche in quel momento, mentre tutti sapevano ciò che stava per accadere, ma nessuno aveva il coraggio di dire nulla o muovere anche solo un muscolo.

C’era musica nell’aria, lei la sentiva.

Loro la sentivano.

Vita.

Poteva udire il silenzio trasformarsi in un grido acuto, in un pianto disperato, in un urlo di gioia; sentiva il rumore dei bicchieri mutarsi in un do acuto, in una richiesta di aiuto, in un’indulgenza.

Ogni cosa, in quel momento, stava girando attorno alla musica.

Anne stracciò un pezzo di quella tovaglia di carta, una di quelle che si trovano al discount per pochi denari o  ̶  come stava pensando Riccardo, anche se lei non poteva saperlo  ̶  al Supermercatino.

Aprì la borsa rovinata e prese a rovistare in quella confusione che solo lei riusciva a creare, finché non trovo ciò che stava cercando: l’astuccio per i trucchi.

I ragazzi la guardavano incuriositi, intimoriti di fare anche solo una semplice domanda, spaventati dall’interrompere quel momento di condivisione assoluta, dove anche ciò che stava facendo Anne aveva un senso.

Fece scorrere la cerniera lampo del beauty case e si rese conto che aveva tutti gli occhi puntati addosso, come se stesse aprendo una bomba a mano, in uno di quei film hollywoodiani.

Tirò fuori un il rossetto che era solita applicare sulle sue labbra, nelle serate brave della sua giovinezza, e prese a scrivere una serie di cifre sul pezzo di tovaglia.

Tutti loro sapevano cosa stava a significare.

C’era musica nell’aria.

Schiaffò il biglietto sul tavolo, proprio sotto al viso di Davide  ̶  un viso che era bello come pochi  ̶  e guardò dentro a quegli occhi azzurri  ̶  quegli splendidi occhi azzurri.

Tutti stavano aspettando la sua prossima mossa.

C’era musica nell’aria.

Si alzò dal tavolo  ̶  seguita a ruota di scorta da Matteo, che sembrava essere realmente interessato al ragazzo dalla cresta verde  ̶  e puntò di nuovo il suo sguardo in quello del maniaco.

«Io sono Anne. Lui è Matteo.» il tono di voce neutro «Quello è il mio numero di telefono, chiamami e ci metteremo d’accordo per il prossimo incontro.»

Tutti sapevano cosa stava a significare.

Non erano in cerca di un appuntamento, di una scopata, di una storia d’amore; non stavano pensando all’attrazione fisica, alla pelle contro la pelle.

C’era musica nell’aria.

«Io sono Davide.» disse il “maniaco” «e lui è Riccardo.», il ragazzo dal crestino verde salutò con un’espressione del viso divertita.

«E ti chiamerò.»

Sul viso di Anne apparve un sorrisetto sghembo, uno di quelli che le uscivano fuori solo quando sapeva di aver ottenuto esattamente quello che voleva, quando sapeva di aver vinto.

Girò sui tacchi, senza accertarsi che il suo migliore amico fosse dietro di lei, perché sapeva che era dietro di lei, sempre e comunque.

Tutti sapevano che si era appena verificato uno di quei cambiamenti che accadono una volta su mille, nella vita.

Si era appena creata una nuova rock band.

 

Colpevole.

 

 

****

 

Eccomi qua, ragazzi.

Questo capitolo è quello che da la svolta alla storia: si è formato finalmente il gruppo, composto dai nostri quattro protagonisti.

Vorrei farvi soffermare sulle considerazioni personali di Anne, perché sono le mie: esattamente, è ciò che penso io quando canto. Sorpresa! Si, canto. Beh, era un po’ impossibile, altrimenti, scrivere una storia del genere senza sentire la musica un po’ personale.

Ma, in fondo, lo si può benissimo fare anche solo ascoltando una canzone allo stereo: la musica è patrimonio di chiunque.

 

Ok, dopo questo piccolo svarione vi chiedo di recensire se leggete, perché mi farebbe davvero un immenso piacere conoscere i vostri pareri su questa storia, altrimenti non saprei proprio se piace oppure meno.

Un abbraccio,

Eryca.

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Mostro ***


4.

Mostro

 

 

 

 

I mostri che abbiamo dentro

che vagano in ogni mente

sono i nostri oscuri istinti

e inevitabilmente

 dobbiamo farci i conti.

 

Giorgio Gaber – I mostri che abbiamo dentro

 

 

 

 

Riccardo diede un ultimo sguardo alla stanza stracolma di strumenti: la sua batteria se ne stava buona in un angolino, lontana dai microfoni, vicini all’ingresso.

Gli piaceva così tanto contemplare il luogo in cui tutto nasceva, in cui le loro menti si univano per tracciare nuove linee musicali, nuove strofe, nuovi giri di chitarra.

Il quaderno ad anelli di Anne era appoggiato al pavimento, con le sue macchie di caffè e quell’aria vissuta, le pagine un po’ stropicciate e ancora aperto sul foglio sporco di inchiostro, pieno di scarabocchi, di parole che avrebbero dovuto dar vita ai loro pensieri, riunendoli in un testo.

Quanto tempo era che andavano avanti con quella storia?

Mesi.

Dovevano essere passati mesi dal fatidico incontro in quel bar di periferia, dove avevano stabilito che si sarebbero uniti per formare un gruppo musicale.

E l’abbiamo fatto, pensò Ricca guardando la chitarra di Davide abbandonata sul pavimento rivestito di moquette grigia.

Il suo coinquilino aveva veramente richiamato Anne e si erano messi d’accordo per un nuovo appuntamento nello stesso bar, dove avevano preso a parlare di genere musicale, luogo dove avrebbero potuto fare le prove e incontri settimanali.

Tutta una questione burocratica, si disse Ricca, nonostante non conoscesse il significato della parola “burocratico” e non sapesse neanche se fosse il termine giusto per quel contesto; ma lui non si poneva certe domande.

Gli bastava sapere che fuori da quella Sala Prove che affittavano tre volte alla settimana c’erano Anne, Davide e Matteo intenti a fumare una sigaretta, come per consacrare la fine di quelle prove.

In realtà Riccardo aveva una voglia tremenda di avere le sue ferie annuali, ma era solo Maggio e le vacanze sarebbero arrivate non prima di Agosto, quindi doveva mettersi il cuore in pace e sfogarsi in quelle serate dopo il lavoro.

In quei mesi di musica, era finalmente rinato. Quando era incazzato, triste o semplicemente non aveva voglia di confrontarsi con quel mondo difficile, chiedeva ai ragazzi di andare alla Sala Prove e si mettevano a comporre musica, a strimpellare.

E tutto andava meglio.

Vita.

Per il primo periodo avevano solo suonato qualche cover, in modo da prendere confidenza l’uno con l’altro, di capirsi nel piano musicale e di conoscersi bene come musicisti; era servito un po’ per far sciogliere il ghiaccio.

Da qualche settimana, invece, Davide aveva buttato giù l’idea di comporre dei brani, di far uscire la loro creatività e dar sfogo alle idee; si erano subito trovati sulla stessa lunghezza d’onda.

Ma ciò che aveva sconvolto di più i ragazzi era stata la genialità di Anne; oltre ad avere una voce spettacolare  ̶  una voce molto underground, forte, gracchiante e sicura  ̶ , la ragazza si era rivelata una compositrice all’altezza dei più grandi artisti della storia della musica.

I suoi testi erano inni alla libertà, che allo stesso tempo cantavano il suicidio, la morte e il dolore; riusciva a esprimere tutte le emozioni più profonde e malate dell’animo umano, senza vergognarsi del fatto che stava mettendo su un foglio di carta il suo disperato bisogno di sentirsi in vita.

Quando Anne iniziava a canticchiare, per far sentire ai compagni ciò che aveva buttato giù, tutti gli occhi si puntavano su di lei, incapaci di guardare altrove.

Magnetica.

E di certo Riccardo non si era fatto scappare il fatto che Davide sembrava avere occhi solo per lei, quando era con loro.

Sperava che il suo coinquilino avesse avuto meno intuito di lui e non avesse notato quanto non riuscisse a smettere di fissare il perfetto culo sodo di Matteo; quel sedere era così bello che avrebbe fatto commuovere persino uno stilista di alta moda.

Perché pensi queste cose, Riccà?

Ormai si poneva quelle domande mentali quasi per disperazione, senza più rabbia ma con un filo di rassegnazione, perché sapeva che non sarebbe stato capace di cambiare ciò che sentiva.

Non poteva cambiare il fatto che davanti a Matteo il suo cuore prendesse a battere come in uno di quei film strappalacrime hollywoodiani, quelli che si guardavano le donne di mezza età rassegnate e zitelle.

Riccardo comprendeva di essere diverso.

Lui sapeva che anche se si ostinava ad andare in giro per locali con Davide, in cerca di belle ragazze con le tette grosse  ̶  respingenti abnormi che lo facevano rabbrividire  ̶ , non avrebbe mai provato delle emozioni guardandole. Si rendeva conto che non avrebbe mai smaniato per tenere una di quelle donne tra le braccia, per sentire il suo cuore battere sul suo.

Però sentiva che avrebbe voluto che Matteo lo stringesse forte, che gli accarezzasse i capelli e gli mormorasse stupide paroline romantiche da dodicenne, che lo coccolasse e lo viziasse.

Avrebbe voluto sentire Matteo dentro di sé.

Mentre si rendeva conto di quel pensiero alieno, Davide entrò nella saletta, inducendolo a mettersi una maschera di apatia per nascondere lo sgomento che era sorto in lui.

«Niente sigaretta magica post-prove, oggi?» lo canzonò l’amico, mentre prendeva la sua chitarra pronto per andare verso casa.

Altro che sigaretta magica, mi ci vorrebbe una quantità industriale di cocaina.

Si sentiva un mostro.

Avrebbe voluto prendere quella cazzo di testa che si ritrovava e sbatterla contro il muro finché non avrebbe smesso di fare certi squallidi pensieri.

Perché era da deviazione mentale pensare di voler andare a letto con un uomo, che non aveva la vagina ma bensì un fottutissimo pene.

“Riccà, bello mio, li vedi quei due che si baciano vicino alla fontana? Sono mostri! Non sono mica normali, sai?”, gli ripeteva sempre suo padre, da piccolo, con quel marcato accento di Roma che, nonostante abitasse a Torino da anni, non riusciva a far sparire.

Mostro.

E quel maledetto di suo papà aveva ragione, perché era nel normale ciclo della vita che un uomo fosse attratto da una donna per procreare, per istinto di sopravvivenza.

Era anormale vedere due uomini avvinghiati, perché non poteva riprodursi, non erano essenziali né utili per la continuità del genere umano.

Seguì il suo amico fuori dalla stanza e si fermò per chiudere il portone del vecchio garage che il padre di Anne aveva loro prestato per fare le prove.

Mostro.

Non appena si voltò incontrò gli occhi da cerbiatto di Matteo, che lo fissava con l’aria di volerselo mangiare, pezzo per pezzo, gustandoselo come un piatto prelibato.

Riccardo avrebbe disperatamente voluto farsi mordicchiare da lui.

Si sentiva un mostro.

Si accese una Winston Blue, cercando di non pensare a quanto le spalle del bassista fossero grosse. Sarebbe dovuto essere così bello aggrapparsi ad esse…

No.

«Andiamo a bere qualcosa tutti insieme?»

La voce di Matteo ruppe il silenzio, ponendo una domanda per tutti loro, ma che fece comunque battere il cuore di Riccardo, incapace di non comportarsi come una ragazzina mestruata quando c’era il ragazzo nei paraggi.

«Io passo. Ho lavorato come un pazzo oggi, poi le prove… Sono spento. Facciamo la prossima.»

Piuttosto, dì che non vedi l’ora di arrivare a casa, aprire la scatolina delle meraviglie e rollarti una bella canna, mio caro Davide.

Il suo coinquilino spense la sigaretta e posò i suoi occhi su Anne, pensando che nessuno lo avesse visto in quel gesto immensamente dolce.

«Sono già in ritardo di un quarto d’ora e mamma Charlotte potrebbe fucilarmi se non torno immediatamente!» si scusò la rossa, facendo spallucce.

Quegli enormi occhi castani si puntarono su di lei, che ormai aveva perso ogni cognizione della realtà, resosi conto di essere rimasto l’unico a dover rispondere.

E la voce? Dove diavolo erano finite le sue corde vocali?

‘Fanculo!

«Dai, Ricca! Non darmi forfet anche tu!» scherzò il ragazzo, aprendo le braccia in segno di disperazione.

Riccardo si sentiva la gola secca, come quando lavorava ore e ore nei magazzini del Supermercatino e si dimenticava di bere; la parola doveva essere disedretato, o qualcosa del genere.

Guardò quel perfetto viso da statua greca e non poté nascondere a sé stesso che non aspettava altro che l’occasione per rimanere solo con Matteo.

Si fece schifo per quello che disse, ma lo disse.

«Va bene, andiamo a bere qualcosa.»

Si sentiva un mostro.

 

 

 

 

****

 

 

 

Si sentiva un dio.

Quando guardava dentro quei grandi occhi marroni, non vedeva solo il riflesso di un bel ragazzo e la sua simpatia; riusciva a scorgere tutto il malessere che il suo animo conteneva.

Matteo intravedeva in quelle pupille lo stesso dolore che aveva afflitto anche lui, anni prima, quando sapeva di essere diverso ma non voleva ammetterlo a sé stesso.

Era sicuro che Riccardo fosse omosessuale, perché non si poteva fare a meno di notare che quando Matteo si chinava per prendere qualcosa l’altro faceva finta di niente e, non appena tornava dritto, allontanava lo sguardo con una nota di panico nell’espressione.

Si sentiva un dio quando il batterista lo squadrava dalla testa ai piedi credendo di non essere visto; e lui glielo faceva credere, in modo che non smettesse di osservarlo con quegli occhi colmi di desiderio represso da anni.

A volte gli sembrava un piccolo cucciolo smarrito che aveva perso la strada di casa e non sapeva più dove andare, e avrebbe voluto così tanto prenderlo tra le braccia e accarezzargli la fronte mormorandogli che andava tutto bene, che d’ora in poi non sarebbe più stato solo.

Ma sapeva benissimo che non poteva usare un approccio diretto con lui, perché quando non si è ancora pronti a fare coming-out tutto è complicato e fragile: se maneggi male la situazione può andare in frantumi, rovinando per sempre la psiche del diretto interessato.

E Matteo non aveva alcuna intenzione di rovinare la mente del povero Riccardo.

Il povero Riccardo che ora gli camminava così vicino che le loro braccia facevano contatto e le loro mani si sfioravano, facendo salire i brividi a Matteo.

Non era abituato ad avere a che fare con vergini, quindi non sapeva come comportarsi; di solito “usciva”  ̶  forse il termine giusto era scopava  ̶  con uomini più grandi di lui e molto esperti, che non avevano alcun problema in una relazione alla “botta e via” e non gli creavano pasticci di cuori infranti e chiamate nel mezzo della notte.

Non aveva mai voluto buttarsi in una storia, forse perché aveva scoperto di essere omosessuale per il fatto che si era innamorato del suo istruttore di pallanuoto, a quattordici anni, e quando gli aveva confessato di provare dei forti sentimenti per lui, quest’ultimo era rimasto scandalizzato e aveva evitato di avere a che fare con lui, se non per pura necessità; aveva avuto il cuore infranto per mesi, anche perché il suo allenatore era andato da sua madre a dirle ciò che era successo e da lì la sua vita era diventata una tortura lenta e dolorosa.

Si era sentito tradito, ferito, abbandonato, solo.

Si sentiva da dio, invece, quando Riccardo gli sorrideva di sottecchi, prima di rendersi conto di ciò che aveva appena fatto e abbassava lo sguardo, grattandosi le mani con ansia.

Gli faceva così tenerezza che avrebbe voluto riempirlo di baci e accudirlo come fa una madre con un figlio. Quello era un fatto veramente strano, perché non aveva mai avuto alcuna voglia di mettersi a fare da balia agli omosessuali non ancora dichiarati.

L’egoismo era una parte integrante del suo essere, esatto; lo aveva scoperto una volta, quando si trovava da Gucci in cerca di un borsellino da uomo, e un ragazzo in fila prima di lui stava per comprare l’ultimo modello, proprio come quello che voleva lui; aveva tirato fuori le unghie e non appena l’avversario si era girato per guardare una sciarpa, gli aveva sgraffignato il prodotto e lo aveva pagato.

Gliel’ho fatta vedere a quell’eterosessuale da riproduzione.

Si rese conto che il punto della situazione non era né il suo egoismo, né il borsellino di Gucci, così gettò uno sguardo a Ricca, che si teneva le mani in tasca cercando di puntare gli occhi ovunque se non su di lui.

Tenero come un bignè.

«Che ne dici di andare al Parco e prenderci un gelato al chiosco? È Maggio, credo sia ancora aperto.»

Usò un tono gentile, sincero, cercando di trasmettergli tutto il bene possibile, per non farlo sentire a disagio.

Doveva capire che con lui non sarebbe mai stato giudicato.

Riccardo annuì semplicemente, seguendolo verso la stradina che s’intricava tra le aiuole, senza mai alzare gli occhi, senza mai provare a buttare giù una conversazione.

Matteo si rese conto che per il bene comune avrebbe dovuto fare il primo passo, proprio come in quegli stupidi libri della “Harmony”.

Che amarezza.

«Sai, continuo a trascurare lo studio, eppure tra nemmeno un mese dovrò affrontare l’Esame di Maturità. Io ed Anne siamo messi proprio male…» rise.

Vide Riccardo sogghignare, mentre oltrepassavano una panchina ospitante due vecchietti che si stavano teneramente tenendo per mano, in compagnia di un cagnolino scodinzolante; gli sarebbe piaciuto, nonostante i suoi sforzi di sembrare un tosto, di poter ritrovarsi a quell’età con un compagno fisso con cui condividere esperienze e ricordi.

«Non ti ho mai chiesto che cosa fai oltre a suonare la batteria…» scherzò, provando a metterlo a proprio agio, visti gli scarsi risultati precedenti.

Arrivarono al chiosco e si sedettero in uno di quei tavolini di plastica della Sammontana che i commercianti mettevano a disposizione dei clienti passeggeri.

Torino in primavera rinasceva, proprio come quell’albero che stava davanti a lui, pieno di piccoli fiorellini lillà e foglie verdi dall’aria vitale.

«Lavoro come magazziniere al Supermercatino! Lo so, è patetico.»

Alleluia, sa parlare.

Ordinarono due coni gelato: Matteo prese i soliti gusti di sempre, quelli che Anne detestava, ovvero melone e pompelmo, mentre Riccardo scelse cioccolato e nocciola.

Un tipo dolce.

«No!» esclamò Matteo ridendo «Niente è lasciato al caso al Supermercatino!» quella volta Ricca si unì alle sue risate e la tensione sembrò finalmente sciogliersi.

Torino in primavera era come un bel vestito lasciato nell’armadio tutto l’inverno, che veniva tirato fuori per la rinascita, più bello che mai.

Vita.

«E tu? Vivi con i tuoi?» domandò l’altro, in un palese sforzo di parlare.

Allarme rosso. Domanda sbagliata.

Se fosse stato qualcun altro, sarebbe già scattato urlando che non erano affari suoi di dove viveva o con chi, ma si rese conto che raccontare un po’ la sua storia avrebbe potuto aiutare Ricca ad aprirsi con lui, in modo da convincere sé stesso di essere omosessuale.

Trasse un profondo respiro.

«No, non più, da quasi un anno.» il batterista aveva un’espressione interrogativa «Mi hanno reso la vita un vero inferno, quando hanno scoperto che io sono…»

Guardò Riccardo e si rese conto che anche lui aveva trattenuto il respiro.

Quindi sapeva già cosa stava per dirgli.

«…che io sono gay.»

Ok, l’aveva detto, adesso poteva di nuovo inspirare ed espirare, niente di troppo difficoltoso.

Nonostante fossero passati tanti anni da quando lo aveva ammesso a sé stesso, era sempre un trauma dirlo ad alta voce, soprattutto perché non lo faceva da moltissimo tempo, abituato com’era ad avere a che fare quasi solo con Anne, l’unica con cui parlava di quell’argomento.

E ora l’aveva appena detto ad un perfetto estraneo.

Il tuo terapista sarebbe orgoglioso, Matteo, hai fatto dei passi da gigante.

Aveva sperato che Riccardo fosse rimasto, che avrebbero intrapreso una chiacchierata piacevole, anche se avesse sviato il discorso dell’omosessualità.

Si rese conto che aveva fantasticato. Era troppo per lui, sopportare quel peso.

Non era ancora pronto e lui l’aveva spinto nel burrone.

Si alzò goffamente dalla sedia, impigliandosi nelle gambe rischiando quasi di cadere, cosa che non avvenne grazie ai suoi riflessi pronti.

Rimase in piedi impietrito a guardarlo come se avesse appena visto il fantasma della sua trisnonna.

«Io…D-devo andare…» balbettò prima di correre verso casa sua.

In quel momento arrivò la cameriera con i due coni gelati che gli rivolse uno sguardo indispettito, della serie “Adesso te lo paghi tu, ‘sto gelato”.

E così fece.

Mentre guardava il cono cioccolato e nocciola sciogliersi davanti a lui, si rese conto che si era comportato come un mostro, perché sapeva benissimo che Riccardo non era pronto a sentire quella storia, né tantomeno a parlare di omosessualità.

Si sentiva un mostro.

 

 

****

 

 

Miei cari lettori,

spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento, per me è stato un vero parto e ne sono abbastanza orgogliosa.

Ora, vi volevo parlare di una questione abbastanza rilevante: questa storia è il mio vero e grande amore e mi piace scriverla almeno quanto mi piace il rock; ma vedere che nessuno mi dice cosa ne pensa o mi dona un piccolo segno di vita mi intristisce un po’, forse perché vorrei davvero sapere cosa ne pensate voi, i miei lettori.

Quindi vi chiedo per favore, se leggete, sarebbe carino se mi deste il vostro parere.

 

Con affetto,

Eryca.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Mad ***


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5.

Mad

 

 

 

 

 

 

Never fell in love until I fell in love with you
Never know what a good time was until

I had a good time with you
If you wanna get the feeling and

you wanna get it right
Then the music gotta be loud for when the music hit

 I feel no pain at all

 

 

Rancid – “Radio”

 

 

 

 

 

 

 

Siamo pronti.

«Non credo di essere pronta.»

Anne lo guardava con l’aria di chi è sull’orlo di una crisi di nervi; si mangiucchiava le unghie, chiaro segno del suo livello di ansia.

Ma Davide era sicuro che quella fosse la loro occasione, che la loro cantante aveva una voce così potente e seducente da poter incantare chiunque, anche il migliore dei musicisti; perché insieme erano una forza della natura, sincronizzati al minuto, fratelli, se non di sangue, di anima.

Guardò il viso della ragazza e si rese conto che le erano apparse delle rughe sulla fronte, a forza di corrugarla causa nervoso.

Per l’ennesima volta, mentre guardava in quegli occhi scintillanti, si ritrovò a dirsi che no, non era bella, che avrebbe potuto avere di meglio  ̶  molto di meglio  ̶ ; eppure non riusciva a far tacere quella voglia di prenderle il viso tra le mani e posare le labbra sulle sue.

Non riusciva a non ridere di cuore quando Anne faceva una delle sue battute taglienti rivolte ad uno di loro, con quel suo tono da comizio e l’espressione furba e maliziosa, di chi nella vita sa esattamente ciò che vuole e come prenderselo.

Forse, l’attrazione che nutriva nei suoi confronti, era dovuta alla faccia tosta di lei.

Quella faccia tosta che ora sembrava essere scomparsa, per dar posto al panico dovuto al loro imminente concerto, al Porto di Città.

Ormai era inizio Giugno, formavano un gruppo da mesi ed erano in perfetta sintonia, per non parlare dei brani che avevano creato insieme: avevano mischiato la strafottenza di Davide, la ribellione di Anne, l’eleganza di Matteo e l’immaginazione di Riccardo, dando vita a pezzi senza precedenti, con suoni forti e delicati, allo stesso tempo.

Avevano discusso diverse volte riguardo all’argomento concerto ed erano, infine, giunti alla conclusione che erano in grado di affrontare la “pretenziosa” folla del Porto di Mare; così avevano organizzato una serata, grazie all’aiuto della barista, Marta.

«Tu sei più che pronta, Anne.» iniziò «La tua voce è un dono pazzesco! Non si trovano facilmente in giro persone con il tuo potenziale, ricordatelo! Insieme siamo una bomba!»

Davide non era mai stato un tipo affettuoso, uno di quelli che regalano rose rosse e fanno le serenate sotto i balconi delle fidanzate; era, piuttosto, il classico ragazzo da palazzina torinese, che si fa i fatti suoi, cambia spesso ragazze e non dà nell’occhio.

Eppure, in quel momento, avrebbe voluto abbracciare la cantante, trasmetterle tutta la forza che aveva nel suo corpo, per farle capire che pensava davvero ciò che aveva appena detto, perché non era uno che parlava se non credeva in quello che diceva.

Avrebbe voluto sussurrarle che, di voci come la sua, non ne aveva mai sentite in tutta la sua vita, che si sognava ancora la sua voce, quando fuori dal Porto di Città, la sera in cui si erano incontrati per la prima volta, aveva detto ad alta voce ciò che sentiva riguardo la musica.

Avrebbe voluto dirle quanto, anche se erano ingombranti, inutili e vistosi, adorava quei suoi capelli ribelli, che la rispecchiavano tanto.

Magnetica.

«Ragazzi, è ora.» la voce di Riccardo lo richiamò alla realtà, quella realtà dove loro dovevano salire sul palco nei successivi cinque minuti.

Anne sgranò gli occhi, puntandoli dritti nei suoi, probabilmente in cerca di conforto, forse di una pacca sulla spalla, di un augurio, di un insulto…

E chi le capisce, le donne?

Si limitò a sorriderle, mormorandogli qualcosa come “coraggio”, prima di accompagnarla su quello che doveva essere un palco, invece assomigliava più ad una piattaforma di vecchio legno marcio.

Per quanto avesse cercato di far vedere agli altri membri della band che era rilassato e non temeva il loro primo show in luogo pubblico, dentro di lui stava scoppiando la Terza Guerra Mondiale, con tanto di bombe atomiche e fucili a canne mozze.

Rilassati, coglione.

Grazie al cielo la sala era caduta nell’oscurità, cosa che non avrebbe aiutato solamente lui, ma anche la bella Anne, alle prese con la sua autostima e sicurezza.

Doveva andare tutto alla perfezione, perché se qualcosa fosse andato storto, allora nessuno li avrebbe più richiamati e la loro carriera sarebbe morta lì, insieme alle mosche abbrustolite dalle candele alla citronella.

Come poteva andare per traverso qualcosa? Era primavera.

Si, già, allora cambia tutto.

Vide Anne avvicinarsi timidamente al microfono, i movimenti impacciati, il viso arrossato dall’imbarazzo; era strano vederla così a disagio, lei che aveva sempre qualcosa da ridire su tutti e non si lasciava mettere i piedi in testa da nessuno, lei che camminava con grosse falcate per attirare l’attenzione(,) perché sapeva benissimo di essere sensuale.

Gli fece tenerezza, avrebbe voluto pizzicarle le guance, come si fa con una bambina paffutella.

Ma che cazzo stai pensando? Concentrati, piuttosto.

«Ciao» cominciò «Noi siamo i Mad e questo è il nostro primo concerto, quindi …» la ragazza scoppiò in una risatina isterica, che la rese irresistibile. Magnetica. «… siate clementi.»

Mad.

Ovvero, folle.

La questione di come chiamarsi era uscita quando si erano trovati davanti al foglio da compilare per poter esibirsi, dove c’era la casella che chiedeva di segnare il nome del gruppo; Matteo aveva proposto degli appellativi osceni, come “Bambole Psichedeliche” o “Drag Queen”. A volte, il bassista riusciva a divenire esilarante, quando la sua omosessualità si faceva sentire e lui non riusciva più a contenerla: era forte, quel ragazzo.

Gli era venuta l’illuminazione grazie all’impazienza di Riccardo, che aveva lanciato il documento per aria urlando “è folle.” E anche lui era stato folle, la sera in cui aveva fermato Anne, braccandola come un pazzo: se così non avesse fatto, loro non sarebbero mai esistiti.

Mad.

Davide si mise in linea con gli altri e ascoltò il suono della batteria che dava il via alla prima canzone che avevano scritto: Garbage, spazzatura. Il testo era un’opera di Anne, che aveva dato il meglio di sé descrivendo la “Torino pattumiera” e le sue squallide periferie.

Le dita si mossero senza il suo segnale e pizzicarono le corde della chitarra, dando vita al giro su cui avevano lavorato intere serate, prendendosi per i capelli e facendo volare insulti; non era di certo tutto rose e fiori fare musica, soprattutto se si doveva collaborare con altre persone, magari con idee diverse dalle tue.

Ma i momenti come quello, in cui stavi su un palco, la gente che ascoltava te e solo te, pagavano tutte le giornate a sgobbare, tutte le magliette sudate e i soldi spesi alle lavatrici automatiche.

Non ha prezzo, no.

Davide non seppe perché, ma penso a sua mamma, quella che aveva tradito il marito e aveva fatto la sciacquetta in giro, senza preoccuparsi del figlio, a casa a piangere stretto al suo orsacchiotto di pezza, suo unico e fedele amico.

Pensò a quella donna e l’immagine di lei che usciva di casa con il trucco pesante spalmato in viso, l’ombretto viola a ricoprirle le palpebre, il lucidalabbra rosso a donarle quell’aspetto per cui ogni uomo avrebbe pagato.

Rivolse i pensieri a quella donna e non poté trattenere un sorriso soddisfatto, accompagnato dalla magnetica voce di Anne, che aveva iniziato a cantare.

Vorrei tanto che mi vedessi per mangiarti la mia merda, mamma cara.

 

 

 

****

 

 

 

 

Vorrei tanto che mi avessi vista per capire qual è il motivo del mio disinteresse per lo studio, mamma cara.

Ecco a cosa stava pensando Anne mentre beveva la sua dissetante birra bionda, seduta ad un tavolo del Porto di Città, in compagnia dei suoi compagni di band.

Il concerto era finito, loro avevano dato il meglio di sé, avevano sperimentato la loro sintonia, che li aveva spiazzati, perché nelle prove nessun brano era mai venuto bene come quella sera.

Era stato un vero successo, le persone presenti avevano saltato, spinto, urlato, acclamato e chiesto perfino il bis, cosa che li aveva lasciati interdetti.

Il sorriso strafottente che comparve sul suo viso non fu fermato, anzi, esposto al mondo come un trofeo che diceva “andatevene tutti a fare in culo”.

Non si erano esibiti a San Siro, certo, ma in un pub maltenuto, in presenza di una quarantina di persone, eppure il suo cuore non riusciva a smettere di battere.

Ci era riuscita.

Aveva lottato, sognato, sperato così tanto di trovare un gruppo di persone con la sua stessa passione, di riunire un gruppo, che alla fine qualcosa o qualcuno, lassù o laggiù, l’aveva ascoltata.

«Siamo delle bombe!» esclamò Matteo, sovreccitato come nessun altro, mentre si scolava la sua ennesima media.

Il suo migliore amico si era ritrovato in una situazione a dir poco sconveniente, ovvero l’essere attratto da un gay non dichiarato, quale Riccardo; il moro era sicuro che il batterista fosse omosessuale, nonostante i suoi modi di fare fossero quelli di un tipico eterosessuale e Anne non poteva dargli torto: lo aveva visto un paio di volte mentre fissava il sedere del bassista.

Matteo non era di certo un santo, anzi, aveva l’orgoglio di detenere una fedina penale decisamente lurida, per quanto riguardava storielle disinteressate e follie notturne, ma nonostante questo, si era veramente preso a cuore Ricca, che, però, lo trattava come se avesse la lebbra.

Nessuno aveva mai rifiutato il bel ragazzo dal fascino mediterraneo, il quale era decisamente irritato da quella storia, a differenza di Anne che la trovava esilarante.

Davide batté le mani arricciando il naso, in un’espressione che lo rese assolutamente sensuale.

Dio, quanto sei bello.

«Allora, propongo di brindare a questo successo!» propose il chitarrista.

La voce di Matteo risuonò in tutto il locale: «E lunga vita ai Mad!»

Che diventino i migliori di sempre.

Quello non era il suo sogno, ma era il loro; era la loro occasione, la loro condivisione. Non si trattava più di essere un singolo, Anne lo sapeva, non sarebbe mai più stata capace di pensare solamente per sé stessa, ormai doveva mettere in conto che, qualsiasi cosa avrebbe fatto, si sarebbe potuta riscuotere sul bene del gruppo.

Erano un’unità.

«E vaffanculo!» concluse Ricca, dando il suo tocco elegante al brindisi.

Scoppiarono a ridere, condividendo un momento di pura genuinità, uno di quelli che nessuno avrebbe potuto toglierli, perché era solo loro.

Con il sorriso ancora stampato in viso, incontrò lo sguardo di Davide che increspò le labbra facendole un occhiolino di congratulazioni: lui aveva sempre saputo che sarebbe stata capace di sostenere quella prova, aveva creduto in lei, senza dubitare delle sue capacità.

Avrebbe dovuto  ̶  voluto  ̶  ringraziarlo, facendogli capire che il suo gesto non era passato inosservato, esattamente allo stesso modo delle sue labbra carnose, quegli occhi color oceano, i capelli corvini e la mandibola squadrata, che lo rendeva mascolino.

Magari ometti tutto il resto, Anne, fermati al gesto.

Gli altoparlanti sparavano una canzone dei Guns N’ Roses  ̶  Nightrain  ̶  che lei adorava e non poté trattenersi dall’alzare le braccia al cielo, chiudere gli occhi e prendere a cantare a squarciagola; non si interruppe quando si accorse che Davide la stava accompagnando in quel brano, anzi, presero a canticchiare  ̶  urlare  ̶  guardandosi negli occhi e ridendo, come due bambini piccoli davanti al nuovo videogioco di Spiderman.

«… feelin’ like a space brain, one more time tonight! I’m on the Nightrain!»

I vecchi bavosi che li guardavano con desiderio sparirono, esattamente come le risate di Riccardo e Matteo che li filmava con il cellulare, sperando di ridicolizzarli alla prima occasione. C’erano solo più loro due e quella canzone.

Occhi negli occhi.

Anne dovette concentrarsi per non sospirare guardando quella bellezza perfetta, così affascinante perché non si curava affatto, anzi, lasciava i capelli arruffati e maltenuti, vestiva vecchi jeans sbiaditi e felpe sformate.

Eppure era bellissimo.

«Che spettacolo!» gridò il chitarrista battendo le mani, non appena finì il brano.

Non se ne era resa conto, troppo concentrata sulle labbra del ragazzo, che sembravano invitarla a baciarle.

L’alcol.

Doveva essere tutta colpa della quantità industriale di birre che avevano già bevuto, per festeggiare il loro strepitoso debutto; non poteva semplicemente trovare il chitarrista bello, nonostante avesse due enormi occhiaie nere e… due dolcissime fossette, sulle guance.

Sospirò, rassegnandosi all’idea che non poteva farci niente se uno dei membri della sua band era estremamente affascinante; il fatto era che aveva sempre pensato ad un gruppo musicale come un unità, come essere tutti fratelli e non qualcosa di più.

Incontrò gli occhi foschi di Davi, proprio mentre si stava convincendo che non avrebbe dovuto più guardare dentro a quegli oceani blu, altrimenti sarebbe annegata.

E, infatti, stava proprio annegando.

Le sembrò di tornare bambina, quando andava dai suoi parenti, e suo nonno la guardava con quel viso solcato dalle rughe e le puntava addosso quegli stanchi occhi smeraldini, ricordandole che erano identici ai suoi, che non si sarebbero mai separati. Si ricordava ancora alla perfezione le volte in cui lei e suo nonno Jérôme sgattaiolavano dalla cucina, sfuggendo ai pranzi familiari per rifugiarsi nel piccolo bosco dietro casa, dove passavano intere ore a leggere libri fantastici, che parlavano di folletti, elfi e fate; mentre l’anziano suonava il suo flauto traverso, la piccola Anne immaginava di essere una principessa con l’elmo, di cavalcare per enormi steppe incantate e uccidere la strega cattiva e snobbare il principe azzurro: era sempre stata una combattente.

Suo nonno le aveva insegnato a sognare.

Certe volte, quando tornava in Francia a trovare la nonna rimasta vedova, si soffermava sui dipinti dell’uomo a cui aveva voluto bene e, contemplando le spiagge e i castelli medievali disegnati sulle tele, le sembrava di tornare ai momenti in cui il nonno era ancora vivo e le leggeva storie di magia.

E adesso arrivava quel ragazzo dai capelli corvini e pretendeva di ricordarle il nonno.

Doveva concentrarsi sulla musica, null’altro.

«Sono sbronzo.» sentenziò Riccardo, alzandosi dalla sedia.

Era notte inoltrata e il giorno dopo lei e Matteo si sarebbero dovuti presentare in classe, per la prova d’esame; tra due sole settimane avrebbero dovuto affrontare la Maturità e lei non era neanche lontanamente pronta, viste le sue occupazioni.

Il fatto era che se non avesse preso il diploma sarebbe rimasta bloccata in quella Torino per tutta la vita, probabilmente a lavorare come cameriera e lei…

… lei doveva sognare.

Lei era aggrappata alle sue ambizioni quasi fossero la sostanza della sua anima, per questo spesso si dimenticava di essere solo una ragazzina di diciotto anni che doveva sostenere un esame. Se avesse smesso di dedicarsi completamente alla sua musica, allora sarebbe stata vinta.

«Va bene» Davide si alzò, prendendo il suo amico per le spalle «ti porto a casa»

Vide Matteo seguirli fuori dal locale, ormai vuoto. Rimase a fissare tutti quei tavoli di legno, la barista che asciugava gli ultimi bicchieri e il palco dove avevano suonato poche ore prima.

Possibile che una bettola del genere gli avesse regalato tante emozioni?

Si decise ad andare, salutando con la mano la giovane cameriera, che le sorrise di rimando; doveva essere un vero schifo lavorare in quel posto lurido.

Non mi ridurrò mai così, promesso.

Subito fuori trovò i suoi compagni di gruppo accasciati sul marciapiede: Riccardo sdraiato, si teneva la pancia, visibilmente ubriaco, mentre Davide si accendeva una sigaretta poco lontano.

Era affascinante quando si avvolgeva in quella sua nube di misterioso silenzio.

«Buona notte, ragazzi» salutò il chitarrista, alzando il coinquilino e portandoselo a alla macchina.

Matteo alzò la mano e prese ad incamminarsi verso la sua utilitaria, mentre Anne rimase ferma a fissare la sagoma dei due ragazzi che scomparivano.

Prima che fosse impossibile riconoscerli, vide Davide voltarsi e sorriderle dolcemente. Fu un attimo, un istante quasi impercettibile, prima che rimanesse da sola nel buio.

Non poteva smettere di sognare, pensò guardando quel luogo dimenticato da Dio.

Sarebbe stato folle.

 

Mad.

 

 

 

 

****

 

 

 

 

Salve lettori,

Il capitolo prende il titolo dal nome della nostra nuova rock band: i Mad.
Che ne pensate di questo nomignolo?

Approfitto per ringraziare Aniasolary per lo splendido banner, ma anche per il suo sostegno continuo e la sua amicizia, che mi danno coraggio.

Un grazie di cuore anche alla mia beta reader, Lavisvampita, che mi aiuta e mi riempie di buoni consigli, mi sostiene.

E, ovviamente, grazie a voi, che mi leggete. Non smetto di chiedervi un commento, farebbe piacere sapere i vostri pensieri riguardo a questa storiella.

 

Eryca.

 

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Capitolo 6
*** Intoccabile e Afferrabile ***


6.

Intoccabile e Afferrabile

 

 

 

 

 

 

Started at the age of four

My mother went to the grocery store

Went sneaking through her bedroom door

To find something in a size four

Sugar and spice and everything nice

Wasn’t made for only girls

 

Green Day – “King For A Day”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’erano momenti in cui Matteo si sentiva intoccabile.

E quello, si disse alzandosi dalla sedia per mettersi in spalla lo zaino con una mossa spavalda, era proprio uno di quegli splendidi attimi.

Consegnò il foglio a protocollo riempito di scritte in inchiostro, di lettere e parole, che si univano a formare frasi; la sua calligrafia era così anonima che lo faceva sembrare altrettanto, quindi doveva rivederla.

Intoccabile.

Il professore dai folti capelli bianchi e gli occhialetti antiquati lo squadrò quasi fosse un esperimento genetico, per poi alzare le sopracciglia con fare incredulo; il ragazzo gli rispose con una scrollata di spalle, girò sui tacchi e sfilò per la stanza, come se in realtà fosse sul tappeto rosso.

Niente e nessuno avrebbe potuto rovinargli quella giornata, perché aveva appena dato dimostrazione del suo innato talento di faccia da culo, nonché scritto un tema degno del più merdoso intellettuale.

Intoccabile.

Prima di uscire dalla sala, diede uno sguardo ai ragazzi con cui aveva condiviso cinque anni, nella stessa classe, con gli stessi problemi adolescenziali; probabilmente avrebbe dovuto commuoversi, scoppiare in lacrime, così quei piccoli bastardi avrebbero avuto ragione a dire che era una “checca frignona”.

La verità è che avrebbe voluto sputare in faccia ad ognuno di loro, magari togliendo loro l’uso di un occhio. O due, anche meglio. Quegli stronzetti dalle polo bianche e i pantaloni cachi, gli avevano reso la vita un inferno, canzonandolo e stuzzicandolo con frasi offensive, degne di qualsiasi stupido eterosessuale da riproduzione.

E ora, mentre li osservava scrivere panicati, i volti chini sui loro fogli, si prendeva la sua rivincita; perché loro non potevano sapere quanto il suo tema fosse stato geniale, il migliore testo che avesse mai scritto in tutta la sua vita. Forse era stata davvero una questione di illuminazione o ispirazione, come scrivevano nei romanzi, ma a Matteo piaceva di più pensare che fosse stata semplicemente la voglia di umiliare tutti i suoi merdosissimi compagni di classe.

Intoccabile.

Lanciò un’occhiata ad Anne, ancora indaffarata a scribacchiare, mentre si ravvivava i capelli ricci, più scompigliati del solito; la sera prima lo aveva chiamato in lacrime, dicendogli che era stata una stupida a non studiare, che aveva una paura folle e che l’avrebbero bocciata. Era tipico della sua migliore amica, farsi prendere dagli attacchi di ansia all’ultimo momento, pentendosi di tutto ciò che aveva fatto, o meglio, che non aveva fatto.

Uscì dall’aula e si chiuse la porta dietro, con la sensazione di aver appena lasciato dietro di sé un passato che non aveva alcuna intenzione di riportare a galla; aveva lasciato alle sue spalle non solo una semplice porta di legno, ma un Matteo un po’ più giovane, con i capelli meno curati e l’espressione del viso meno strafottente, meno sicura di sé.

Era ora di ricominciare.

Intoccabile.

Nessuno  ̶  nessuno  ̶  avrebbe potuto più farlo sentire un piccolo verme indegno di essere al mondo, perché, ora, riusciva a camminare a testa alta, senza vergognarsi di essersi innamorato di un uomo, di essere andato a letto con un uomo.

Era consapevole di non essere un mostro.

Normale.

Aveva superato la prima prova d’esame in modo più che degno, facendo vedere a tutti quanto valeva, cosa che attendeva fin da piccolo, quando aspettava che sua madre uscisse per provarsi tutti i suoi vestiti scollati.

Ora sapeva molte più cose rispetto ad allora, come ad esempio il fatto che le gonne a pois della madre non gli donavano per niente ed era meglio optare per una semplice maglietta.

Non si fermò nell’atrio del liceo, dove stavano seduti diversi suoi professori, ma tirò dritto, la nuova sensazione di vittoria ormai sorta dentro di lui che gli suggeriva la via da percorrere.

Mi presento.

Matteo Damiani, diciotto anni compiuti da poco.

Una nuova persona.

Avrebbe voluto gridare al mondo quanto quello stupido tema avesse significato, perché non era un semplice testo di esame, era il traguardo finalmente raggiunto, la linea di orizzonte non più così lontana.

Era un nuovo inizio.

Intoccabile.

Spalancò con una mano la porta che aveva dovuto varcare per cinque eterni anni, affiancato dall’unica persona che lo avesse fatto sentire normale, Anne.

Non appena si ritrovò alla scalinata d’entrata del Liceo Statale Giovanni Pascoli di Torino, si sentì libero come non lo era stato in tutta la sua vita; la voglia di provare nuove esperienze, di riprovare in ciò in cui non era riuscito, scalare nuove montagne, anche se sembravano insormontabili.

Inspirò. Espirò. E si rese conto che era proprio bello respirare.

Prese a scendere le scale, soffermandosi  sul gruppetto di ragazzini  ̶  probabilmente del biennio  ̶  intenti a fumare le loro sigarette, l’aria di chi della vita ha già imparato ogni cosa e non ha alcun bisogno di ascoltare ciò che i più grandi suggeriscono; li vide tirare boccate di fumo, avidi, come se la nicotina fosse l’unica cosa importante nella loro esistenza, esattamente come i motorini truccati e il gel per capelli.

E poi c’erano quelle bambine di quattordicenni con il trucco pesante sulle palpebre, le guance rosee infantili coperte da strati di fondotinta, i capelli tirati così tanto da sembrare di plastica; se ne stavano in compagnia di quei finti uomini, aspettando che uno di loro gli chiedesse di aprire le gambe per qualche minuto da donna matura.

Ma a Matteo non importava  ̶  non poteva importare  ̶  perché doveva concentrarsi sui suoi problemi, sulla sua vita, e non aveva alcuna intenzione di dire a quei bambocci quanto risultassero ridicoli.

Intoccabile.

Mentre faceva mente locale su cosa aveva o no negli scaffali della sua cucina, e a cosa doveva o no comprare da lì a pochi minuti  ̶  salsa di pomodoro, sì, maionese... sì, la maionese serve sempre  ̶  , notò una figura magrolina appoggiata al muro che separava la scuola dalla strada.

Matteo dovette sbattere più volte le palpebre per essere sicuro di essere sveglio e non in uno di quei sogni favolosi; si rese conto di essere fermo a metà scalinata, una sopraciglia inarcata e lo zaino di scuola su una sola spalla.

Non doveva sembrare poi così affascinante agli occhi del suo spettatore, Riccardo.

Riccardo che lo guardava con un espressione che era a metà tra il divertito e l’intimorito, le mani nella tasche degli sgualciti jeans e il viso di chi ha passato tutta la notte in piedi, tirando cocaina.

Non era poi più tanto intoccabile, ora.

Non sapeva bene come comportarsi: il ragazzo che lo attendeva pochi metri più in là era un membro del suo gruppo musicale, quindi, per logica, avrebbe dovuto assumere quell’aria da ragazzo svelto e socievole; ma quello che sembrava in apparenza il tipico rockettaro eterosessuale, con tanto di cresta verde, era un gay non dichiarato che faceva arrapare Matteo.

L’apparenza inganna, pensò in modo sarcastico.

Stare lì impalato non aiutava di certo a migliore la tensione, quindi si costrinse a scendere le ultime gradinate e a fermarsi davanti al suo amico, che si massaggiava le mani con fare ansioso, quasi fosse stato lui ad aver appena affrontato l’esame di Maturità.

Adesso doveva parlare, e lo sapeva, perché se avesse aspettato Ricca, probabilmente sarebbero rimasti zitti e muti finché quello dai capelli verdi non si fosse agitato e sarebbe scappato.

Quanto sei cinico e negativo, Matteo.

«Per quanto ancora hai intenzione di fissarmi senza dire una parola?» commentò infine, rendendosi conto di non avere fatto affatto una mossa furba; ma d’altronde si stava parlando si sé stesso, come poteva abbandonare quel suo istinto che gli faceva dire cose offensive?

Ricca sembrò sbiancare un po’, poi il suo viso mutò forma, come quel pongo con cui si gioca da bambini, e prese a ridere di gusto, quasi avesse appena sentito la barzelletta più esilarante del mondo.

Matteo era perplesso: solitamente quando se ne usciva con una delle sue frecciatine taglienti, le persone ne rimanevano ferite e lo evitavano.

Perché, adesso, quell’imbecille dai capelli inguardabili rideva come un matto?

«In realtà» disse quando si fu ripreso e reso conto del fatto che Matteo non si stava per niente divertendo «ero venuto a chiederti scusa per il gelato che ti ho lasciato da pagare…»

Si era aspettato di tutto: la scusa di una nuova canzone, il pretesto di aver finito prima lavoro o di aver fatto il turno di mattina, ma non aveva messo in conto la verità.

Quel ragazzo impacciato e timido, incapace di ammettere di essere omosessuale, aveva appena spiazzato il veterano.

Che cosa si rispondeva ad un’affermazione del genere?

“Scuse accettate” ?

Si, “Scuse accettate” andava benone.

«Andiamo a prenderci un caffè, Ricca.» nessuna domanda, era un’affermazione.

Sarebbe stato molto meglio il famoso “Scuse accettate”, ma Matteo non sapeva fare le cose che si prefissava, sapeva di poter dire ciò che voleva.

Intoccabile.

 

 

 

****

 

 

 

Afferrabile.

Riccardo non poteva che sentirsi esposto alla vista di una bellezza perfetta, come quella del bassista, che lo aveva appena obbligato ad andare in un bar insieme a lui. E se qualcuno li avesse visti? Se avessero subito pensato al peggio?

Riccà, rilassati. Le persone non pensano a due omosessuali, se vedono due uomini prendere un caffè insieme.

Il fatto era che la sua coscienza era, per così dire, sporca; sapeva benissimo che non stava andando a fare due passi con un amico, come poteva essere con Davide, ma non riusciva a smettere di fissare il sedere perfetto di Matteo.

Ecco, quella non era una cosa normale, una cosa che un ragazzo virile ventenne come lui non avrebbe dovuto pensare neanche nei sogni più deviati; era meglio concentrarsi su una bella ragazza immagine, magari vestita da infermiera, come piaceva a tanti uomini viscidi e schifosi e …

No, di certo quelle riflessioni non lo stavano portando ad un buon traguardo.

Matteo gli lanciò un’occhiata di sottecchi, mentre camminavano fianco a fianco per le vie di Torino, facendo sentire il già abbastanza ansioso Riccardo, ancora più a disagio.

Afferrabile.

«Va bene qua?» domandò il moro, fermandosi davanti al molto frequentato bar che, a quanto poté notare Ricca, era stracolmo di gente.

Si guardò intorno in cerca di un locale meno affollato, dove sarebbero passati indiscreti e, se gli fosse andata bene, non sarebbero passati come una coppia di froci.

Dio, che cazzo pensi, Riccà?

Adocchiò un bar che non prometteva un eccellente servizio, le vetrine impolverate e l’insegna al neon bruciata in diversi punti, cosa che rovinava la scritta “Caffè” in “Cfè”.

Era il posto perfetto.

Sei ridicolo, mormorò la sua coscienza, che nell’ultimo periodo lo martellava togliendogli anche la fame, nei giorni peggiori.

Ma Riccardo non aveva alcuna intenzione di ammettere che stava cercando di sotterrare i problemi e le paure, invece di affrontarle, perché voleva dire di essere un vigliacco, un codardo; così continuava a scusarsi, dicendosi che forse era normale essere un po’ nervosi, quando si aveva un gruppo musicale di successo, richiesto da decine di locali di Torino.

I Mad stavano facendo scintille. La notizia del loro concerto al Porto di Città si era sparsa in fretta, come un virus, ed in poco tempo erano diventati popolari nei sobborghi urbani, inducendo i pub più squallidi a contattarli per le loro serate.

Erano abbastanza esaltati, nonostante tutto.

«Che ne dici di quello là?» incominciò «Sai, ho dei problemi con la folla nei luoghi chiusi…» balbettò in un modo non troppo convincente.

Si rese conto che Matteo aveva un espressione saputa sul viso, il ghigno beffardo appena comparso, come se gli stesse dicendo “Ci sono passato anche io, bello, chi vuoi prendere in giro?”.

«Oh, non ne ho dubbi… Infatti suoniamo sempre in enormi stadi olimpici e parchi naturali.»

Afferrabile.

Cercò di trattenere il rossore, che però non tardò ad arrivare, facendolo sprofondare in quello che era un imbarazzo assoluto, senza ritorno. Avrebbe dovuto immaginarlo, che non avrebbe potuto prendere in giro un tipo sveglio come Matteo.

Comunque, il bassista non fece altri commenti e attraversò la strada, seguito da un Riccardo sempre meno sicuro di sé, avente la sola voglia di tornarsene a casa per rintanarsi nell’oblio della droga.

Non credere di scappare da te stesso creandoti una dipendenza da cocaina, amico, borbottò la sua coscienza, sempre più spazientita dal suo comportamento infantile.

Anche sua madre, che andava a fargli visita all’appartamento, lo ammoniva quando notava bustine con della polvere bianca sparse un po’ ovunque, in quella casa; un giorno, quando lo aveva trovato stordito sul letto, con occhi simili a due palline da tennis, era scoppiata a piangere, urlando che suo figlio era un drogato.

Ma cosa ne poteva sapere lei di ciò che significava essere un mostro?

Lei non doveva scappare costantemente dalla verità, dai suoi desideri, che erano così malati da indurlo a graffiarsi la pelle, cercando di farsi del male, perché si odiava.

Perché non si accettava.

Perché non poteva essere così.

La cocaina mi aiuta, concluse zittendo quella stupida voce che continuava a parlare, dentro di lui.

Si sedettero in uno dei tanti tavolini impolverati, prima di rendersi conto che quel posto faceva veramente pena; sembrava un luogo abbandonato, talmente era maltenuto e la cameriera era una vecchia anziana, probabilmente con otto ernie, che si avvicinava a loro con fare infastidito, come se gli unici clienti che aveva da un mese fossero indesiderati.

«Un caffè» disse Matteo, non appena vide la nonnina.

«Anche per me.»

Ci mise un po’ a tornare dietro al bancone, la vecchia, e con molte probabilità avrebbero atteso fino al giorno dell’Apocalisse per avere i loro due caffè, che sarebbero stati bruciati.

«Se scappi anche questa volta ti vengo ad acchiappare per la pelle del culo, perché non ti pago di nuovo il conto.»

Risero entrambi e per un attimo Ricca abbandonò il pensiero di essere sbagliato, perché stava ridendo di gusto, come non succedeva da parecchio tempo.

Forse, era perché non si sentiva giudicato, perché Matteo non si faceva problemi a dire ad alta voce di essere gay  ̶  dio, che pensiero  ̶ , anzi sembrava esserne fiero.

«Direi che rimango, anche perché scommetto che Davide non ha rispettato il turno in cucina e mi lascerà senza cena, quindi il caffè sarà il mio pasto.»

Matteo ridacchiò, sfoderano un sorriso che avrebbe lasciato senza fiato anche Brad Pitt.

No. Brad Pitt no, perché lui era normale.

Non avrebbe voluto finire in un altro bar, avrebbe preferito passeggiare, aveva pensato ad una camminata di cinque minuti di numero, giusto il tempo di scusarsi, per poi tornare da dov’era venuto con molta nonchalance.

Ma, ovviamente, la cosa non aveva funzionato, perché niente  ̶  ma niente per davvero  ̶  di quello che Ricca programmava, andava in porto.

«Allora, ehm, quest’esame?»

Ma certo, la prossima volta chiedigli se ricama la sera, prima di andare a dormire.

«Oh! Alla grande!» riuscì a vedergli gli occhi illuminarsi, in un emozione palpabile «li ho stesi tutti, quei figli di puttana! Non avrei potuto scrivere qualcosa di migliore.»

Modesto, il ragazzo.

Matteo era l’incarnazione della sensualità, cosa che lo rendeva estremamente sicuro di sé, quasi borioso, in effetti; ma lui non si preoccupava di apparire petulante o fastidioso, perché sapeva di essere affascinante ed interessante.

Riccardo si sentiva solo un completo idiota.

Afferrabile.

«Se fossimo stati in una commedia americana, a questo punto avremmo discusso riguardo a qualche merdoso filosofo, facendo uscire tutte le cose che avevamo in comune.»

Se lo lasciò sfuggire, perché non voleva davvero dire ad alta voce che stava pensando a loro come una coppietta  ̶  eppure l’idea di avere un ragazzo come Matteo glielo faceva venire duro  ̶ , però la sua bocca aveva agito senza il suo permesso.

«Si… lo stramaledetto colpo di fulmine! E poi magari saremmo andati a pattinare sul ghiaccio di notte, per poi coricarci sulla neve a guardare le stelle!» continuò Matteo, che non sembrava affatto sconvolto dalla sua affermazione, ma sembrava condividere quegli stupidi pensieri.

Riccardo trattenne a stento il sorriso che fremeva per uscire, perché l’emozione lo aveva messo sotto: ne aveva detta una giusta e il disagio sembrava essere improvvisamente svanito, come in quei cartoni animati in cui gli oggetti spariscono con un “puff”; stava ridendo tranquillamente insieme al ragazzo più intrigante che avesse mai conosciuto, parlando di film e musica, sorseggiando un caffè che avrebbe fatto vomitare chiunque.

Eppure lui era contento, contento come non lo era mai stato in vita sua.

Il fatto era che solo con Matteo riusciva ad abbandonare l’idea di sentirsi diverso e giudicato, ma allo stesso tempo la consapevolezza si faceva sempre più martellante, facendolo soffermare sul pacco del bassista.

Non mi rovinare anche questi momenti, coscienza del cazzo, pensò prima di mettere a tacere tutte le sue ansie sulla questione omo… omoses… omos… No, non riusciva neanche a pensarla, quella parola.

Mentre ridacchiavano per l’ennesima battuta tagliente di Matteo riguardo la donna della lavanderia di Corso Dante, Riccardo si chiese da quanto tempo erano seduti a quel tavolino, parlando di cose futili, che però erano essenziali.

Doveva tornare al lavoro, il turno probabilmente stava per iniziare e se fosse arrivato in ritardo, il capo del Supermercatino del cazzo non ne sarebbe stato molto felice. E nemmeno la sua paga.

E il suo stipendio era la cosa più importante.

«Devo tornare al lavoro…» mormorò guardando la tazza di caffè vuota.

Matteo non rispose, sorrise e andò alla cassa  ̶  una calcolatrice dei primi del Novecento  ̶  con quel passo seducente che non permetteva a nessuno di distogliere lo sguardo, nemmeno se fossi stato il più eterosessuale di tutta Torino.

Come poteva essere così bello? Avrebbero dovuto mettere dei divieti per la troppa bellezza, perché per le persone deboli come Riccardo non era un bene vedere tutto quell’armamentario.

Pagarono quello schifo che si ostinavano a chiamare caffè, per poi uscire nuovamente in strada, la consapevolezza di essere in compagnia di un uomo gay affascinante tornò a colpirlo e con essa il disagio e l’introversione.

«Ci separiamo qua, allora, io devo andare nella traversa a sinistra…» sussurrò debolmente Ricca, sperando che l’amico non si offendesse per quell’evidente imbarazzo di arrivare al lavoro con lui.

Ma Matteo non disse assolutamente nulla, non espose nessuna espressione, nessun segno di aver sentito ciò che il batterista aveva detto, ma fece una cosa così inaspettata che Riccardo rimase attonito. Si avvicinò a lui e, semplicemente, come se fosse stata la cosa più normale del mondo, appoggiò le labbra sulle sue, prendendo a baciarlo.

Non è normale. Non è normale. Non è normale.

Mandando a quel paese tutto il buon senso del mondo, rispose al bacio, inducendo Matteo a far scivolare la lingua nella sua bocca, prendendo ad esplorarla in ogni suo centimetro; le mani del bassista si erano strette alla vita sottile di Riccardo, che ormai aveva perso qualsiasi cognizione di tempo e luogo, perché se avesse saputo che due anziani li avevano visti ed erano inorriditi, gli sarebbe preso un colpo al cuore.

Ma non importava, non aveva più alcuna importanza, perché le loro labbra sembravano essere fatte per stare unite, le loro lingue per roteare in quella danza d’amore, le loro mani per intrecciarsi in quella morsa senza via d’uscita.

Era intontito, ma non aveva alcuna intenzione di fermare le sue mani, che toccavano i morbidi capelli del bassista.

Pelle, profumo, labbra, lingue…

Matteo e Riccardo.

Uomo e uomo.

La consapevolezza tornò all’attacco nel momento meno inopportuno, scuotendolo quasi fosse un frullatore, per urlargli nel cervello che erano in mezzo ad una strada, Matteo era un maschio e lui lo stava baciando. Contro natura. Mostro.

Si staccò dal bassista, guardandolo con gli occhi sgranati, la paura leggibile sul suo viso, la voce che era scappata dal suo corpo.

Si girò e prese a correre verso il Supermercatino, lasciando Matteo lì, come un pollo, mentre le lacrime correvano veloci lungo le sue guance, incapaci di rimanere dentro.

Mostro.

Mostro.

Mostro.

Gli sarebbe servita una quantità industriale di cocaina, quella sera, per addormentarsi.

 

Afferrabile.

 

 

 

****

 

 

Miei cari lettori,

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che la scena del bacio tra Matteo e Riccardo sia stata abbastanza veritiera, ci ho messo me stessa lì dentro, cercando di renderlo reale.

Ho voluto rendere l’idea dell’immensa differenza tra i due ragazzi con le parole opposte “Intoccabile” ed “Afferrabile”.

Un grazie speciale alla mia beta reader, Lavisvampita, che non si è ancora stufata di me e mi sopporta con pazienza e dedizione.

Vi sarei grata se lasciaste una piccola recensione.

 

Un abbraccio,

Eryca.

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Capitolo 7
*** Perdersi ***


7.

Perdersi

 

 

 

 

 

They know how to break all the girls

Like you

And they rob the souls of the girls

Like you

And they break the hearts of the girls

 

 

Hole – “Awful”

 

 

 

 

 

 

 

Non aveva bisogno di un uomo.

Poteva sentirsi donna anche senza un essere del genere opposto, che non sarebbe servito a nulla, se non a procurarle una serie di fastidi sui vestiti da indossare, la ceretta da prenotare e le unghie da smaltare.

Non aveva bisogno di un uomo, perché era una donna del ventunesimo secolo, fiera ed orgogliosa, che si sarebbe trovata un lavoro ed un alloggio in città, avrebbe fatto musica e si sarebbe divertita; un compagno sarebbe servito solo ad opprimerla, toglierle quella libertà che aveva tanto sudato per ottenere, per cui lottava da quando era solo una bambina.

Non aveva bisogno di un uomo perché le avrebbe fatto male.

Ma il punto non era il desiderare o meno un uomo nella sua vita, perché sapeva benissimo di poter vivere da sola, come aveva sempre fatto, spensierata e svampita in compagnia del suo migliore amico, Matteo.

Non era un maschio in generale, ciò che voleva.

Era Davide.

Non riusciva a smettere di osservare tutti i gesti involontari del suo corpo, il modo in cui si scompigliava i capelli con la mano destra, lo strizzare gli occhi ogni cinque minuti e quel sorriso senza barriere.

Il fatto che il chitarrista non avesse paura ad esporsi, a mostrare sé stesso alle persone, era una cosa che aveva affascinato l’introversa Anne fin dal primo istante, rendendole impossibile perdersi una sola parola di ciò che il ragazzo diceva.

La cosa bizzarra era che riusciva ad apparire estremamente misterioso, nonostante non facesse alcuno sforzo per nascondere il suo animo alla gente; era spontaneo, sincero in tutto ciò che faceva, dal sorridere gioiosamente allo scrivere musica.

Era una cosa che la mandava in bestia, forse perché ne era invidiosa, lei che si era creata uno scudo protettivo, in modo che nessuno potesse guardare dentro di lei; aveva messo tutta la dedizione del mondo per oscurare la sua vera personalità, per essere una persona che non era, infossando tutti i suoi sentimenti, timorosa che qualcuno potesse ferirla di nuovo.

E ora si presentava quel ragazzo un po’ cresciuto, con gli occhi brillanti e colmi di sincero affetto, a sconvolgerle ogni certezza.

L’ironia della vita.

«Tutto bene, Annegata?» si rese conto che Riccardo era comparso al di sopra della sua spalla, intento a scrutare ciò che lei stava osservando.

Da qualche giorno a quella parte, il batterista aveva iniziato ad affibbiarle dei soprannomi senza senso, che si collegavano al suo nome di battesimo.

“Annegata” doveva essere la sua ultima invenzione.

«E tu, Riccardodioso?» lo fronteggiò beffarda «ti comporti in modo strano, ultimamente.»

Il ragazzo sgranò gli occhi improvvisamente, in un'evidente confessione del fatto che stava nascondendo qualcosa, per poi scrollare le spalle, sperando di risultare indifferente.

Non ci cascherebbe neanche il più idiota degli idioti, amico.

Non aveva potuto fare a meno di notare l’elettricità che sembrava essersi creata tra Ricca e Matteo, che cercavano in tutti i modi di starsi alla larga, eppure sembravano attrarsi a vicenda, come due poli opposti di una calamita.

«Il tuo segreto è al sicuro con me» concluse il batterista voltandosi.

Anne rimase di stucco, il panico si era appena impossessato di lei, mentre cercava una soluzione al quel casino; a cosa si stava riferendo Riccardo?

«Quale segreto, imbecille?» gli urlò dietro, ottenendo la reazione desiderata: il ragazzo compì quei pochi passi che lo aveva portato lontano da lei, andandole ad un centimetro dal viso, la puzza di alcol che invase le narici di Anne.

Dio, Ricca, perché ti sballi perennemente?

Doveva esserci qualcosa di tormentato, nell’animo del batterista, per indurlo a cercare sempre la perdita del controllo, dei sensi, del tempo.

«Non dirò a nessuno che sbavi guardando il nostro piccolo Davide.»

Cazzo.

Si ritrovò a ridere istericamente, gesticolando in modo nervoso, in cerca di una delle sue tante battute taglienti che riuscivano sempre a fare centro; ma sembrava esserne a corto, perché rimase impalata come una stupida a guardare quel ragazzo dall’oscena cresta verde.

«Lo guardo cercando di capire come può essere una persona così…» Bella? Affascinante? Solare? «brutta, ecco.»

Nella vita ne aveva dette a marea di bugie, non era una di quelle brave ragazze che dicevano sempre la verità e sorridevano al mondo, anzi, faceva parte della fetta di donne che riuscivano ad ingarbugliare fatti per girare le situazioni a loro vantaggio. Ma non aveva mai  ̶  mai  ̶   detto un’idiozia simile a quella.

Non era neanche credibile, pensò, perché Davide poteva avere un centinaio di difetti, ma l’essere brutto non rientrava nella lista. No, di certo.

Forse fu per quello che Ricca scoppiò in una di quelle risate che riusciva solo a lui ad emettere, forti e rumorose, che ti facevano vergognare di essere in un pub pieno di gente(,) in sua compagnia.

La barista, Marta, si voltò per cercare la fonte di tutto quel frastuono e sorrise scuotendo la testa, non appena si accorse che era solo un’altra delle stramberie di Riccardo.

«Ne ho sentite tante su Davide» riuscì a dire tra un risolino e l’altro «ma nessuno aveva mai osato dire che è brutto, Annebbiata.»

Quella conversazione non stava portando a nulla di buono e lei non aveva nessuna intenzione di rivelare ciò che aveva nell’animo al batterista; non perché non gli andasse a genio o avesse qualche tipo di problema con lui, ma Anne non si esponeva. Mai.

E l’unica persona che era sempre stata in grado di sondarle il profondo, nonostante lei lo infossasse sempre più giù, era stato Matteo, con cui aveva condiviso anche le lacrime.

Quel luogo era diventato troppo piccolo, troppo affollato, troppo caldo. Non riusciva più a guardare dentro agli occhi di Riccardo, perché si sentiva esposta, alla sua mercé e non poteva semplicemente far vedere quanto fosse debole.

Non rispose al ragazzo, ma si voltò e prese a sgomitare tra la gente, cercando di farsi strada in mezzo a quella ressa di uomini ubriachi e puzzolenti, donne svestite e cameriere indaffarate.

Cozzò con una ragazza ossigenata che la squadrò dall’alto in basso; se fosse stata in condizioni normali l’avrebbe fulminata con un’occhiataccia, ma non aveva più il controllo di sé stessa.

Persa.

Dove cazzo era Matteo, quando serviva?

Aprì la porta di legno marcia e non appena sentì l’aria sfiorarle il viso respirò di nuovo, facendo uscire tutta la tensione dai suoi polmoni. Si accostò al muro del piccolo vialetto stretto in cui sorgeva il Porto di Città ed estrasse una sigaretta del pacchetto che teneva in tasca.

Si era lasciata prendere dal panico non appena qualcuno aveva osato metterla al muro, lasciandola senza alcuna via d’uscita. Sapeva benissimo perché aveva avuto quell’esagerata reazione, ma continuò a far finta di non saperlo, mentre faceva un altro tiro dalla sua Lucky Strike.

Non poteva permettersi di apparire fragile. Doveva essere quella ragazza risoluta e cocciuta, con la passione per il rock e gli anfibi neri. Se non avesse tenuto quell’aria strafottente sul volto, allora sarebbe finita di nuovo male.

«Non devi nasconderti a me, Anne. Io so tutto.»

Scacciò dalla mente gli incubi che infestavano le sue notti, per scompigliarsi i capelli con la mano destra, in un evidente gesto di impazienza.

Non riusciva più a convivere con quel dolore.

Ci aveva provato, aveva tentato di nascondere quel buco nero, che però era solo aumentato minacciando di inghiottirla nella sua oscurità; c’erano giorni, in cui Anne non riusciva neanche a respirare, talmente le faceva male e sentiva il fiato scomparire, così doveva aggrapparsi alla sua forza di volontà, alla sua fama di sopravvivenza.

Il passato non si poteva cambiare, ne era consapevole, ma avrebbe tanto voluto poterlo cancellare.

Persa.

«Vaffanculo!» esclamò tirando un calcio ad una lattina di birra scadente, per non pensare alla morsa che le aveva preso lo stomaco.

«Non dovresti essere così volgare, Anne.»

Quella voce.

Davide se ne stava a pochi passi da lei, una nube di mistero avvolta intorno a lui e la sigaretta accesa, penzolante tra le sue labbra a donargli quell’aria da straccione.

Anche la sua presenza nell’ombra la impauriva, quella sera, così si lasciò andare a terra, rimanendo seduta sul marciapiede umido e i mozziconi di sigaretta, pensando che non era poi tanto differente da quella spazzatura: usata e gettata via, come un fazzoletto sporco, una carta straccia senza alcun valore.

La cantante udì dei passi e un calore inaspettato alla sua sinistra, segno che il chitarrista si era appena seduto vicino a lei, tenendole compagnia in quello schifo; Davide non poteva sapere cosa significasse, che si fosse seduto tra l’immondizia insieme a lei, ma Anne dovette mettere tutta sé stessa per trattenere le lacrime: la stava accompagnando nella sua fogna interiore.

«Non credo sia bello stare seduti tra le sigarette spente.» mormorò la ragazza, con una voce debole e sottile, che non si avvicinava neanche lontanamente a quella sicura della Anne di sempre.

Ma la Anne di sempre era solo una maschera.

«Appunto.» sussurrò convinto, guardandola negli occhi. «Non è bello in compagnia, figurati da soli.»

Anne non poté che rispondere al sorriso che era apparso sul volto di lui, sincero e luminoso, in grado di accendere il mondo, di far sembrare quella merda un po’ meno dolorosa.

Non le chiese niente, nonostante sapesse benissimo che qualcosa non andava; rimase in silenzio, a fumare la sua sigaretta, la coscia che sfiorava quella di lei, facendole ricordare che non era da sola.

Rimasero zitti a scrutare dentro i loro abissi.

Persa.

 

 

 

****

 

 

 

 

 

Davide non sapeva dire con certezza per quanto tempo rimasero in silenzio.

La pioggia aveva preso a cadere rovinosamente, in quella Torino a cui non interessava che fosse estate e faceva scendere l’acqua comunque.

Anne non aveva accennato ad entrare al riparo, era rimasta accucciata su quel lurido marciapiede, le mani strette alle ginocchia e il viso impassibile di chi sta nascondendo un tormento infinito.

L’aveva vista correre fuori dal pub, il viso sfigurato dal terrore e la fretta di chi ha il fuoco alle calcagna; non aveva voluto lasciarla sola in quelle condizioni, chiaramente pietose, così era uscito per tenerle compagnia nell’agonia.

Anche se aveva rispettato le sue volontà, non poteva di certo negare che la curiosità lo stava attanagliando: avrebbe desiderato con tutto sé stesso conoscere le pene interiori della cantante.

 Si ritrovò a seguire con gli occhi la linea curva della sua mascella, per poi soffermarsi su quella bocca di fragola, che aveva l’aria di essere morbida come le nuvole, come i sogni. Gli sarebbe piaciuto così tanto posare una mano sulla sua guancia, seguire con il dito i contorni delle sue labbra, per constatare quanto potesse essere liscia la sua pelle.

Perso.

Le persone si fermavano solamente alla Anne strafottente, forte, sicura di sé stessa, che non aveva problema a dirti le cose in faccia, anzi, non aspettava altro che  lanciarti una delle sue frecciatine per farti sentire piccolo ed umiliato; ma era lui a vederla piccola ed impaurita, una bambina che giocava  a fare l’adulta per scappare da una sofferenza che la stava facendo perdere.

Avrebbe voluto prenderla tra le braccia e mormorarle che andava tutto bene, che avrebbe potuto volare sulle ali del vento per sempre, se solo l’avesse voluto.

Perso.

Gli faceva così tanta tenerezza, con quei suoi occhi pieni di lacrime represse, per non apparire sensibile ai suoi occhi. Ci metteva così tanto impegno a sembrare una dura, pensò Davide, che ti faceva pensare a quale dovesse essere il motivo di tanto sforzo.

Il suo trucco nero diceva di starle alla larga, perché era una ragazza con gli attributi, che non aveva alcuna paura di dirtene quattro; ma i suoi occhi tristi raccontavano mille storie drammatiche, di dolori in sospeso e solitudine.

«Just take this song and you’ll never feel left all alone.» canticchiò improvvisamente Davide, sperando che la ragazza capisse il messaggio di quelle parole.

Prendi questa canzone e non ti sentirai sola.

Incontrò gli occhi azzurri di Anne e ci scorse dentro il mare di emozioni che stava cercando con tutta sé stessa di sotterrare, per continuare a far finta che tutto andasse bene, che l’unica cosa importante nella sua vita era la musica.

«I’m on my way, home sweet home.»

Anne riprese la canzone, senza smettere un attimo di incatenargli gli occhi con i suoi, in una silenziosa richiesta di aiuto, che Davide non poteva non afferrare. Doveva fare qualcosa per quella bambina, perché avrebbe voluto essere lui il motivo per cui i suoi occhi sarebbero tornati a sorridere e le sue labbra a risplendere.

Quella canzone conteneva un messaggio di condivisione, che valeva più di un centinaio di parole, utili solo a far sentire tutti a disagio e fuori luogo.

Perso.

La vide prendere in mano il cellulare, mentre il silenzio tornava a regnare in quella notte malinconica.

«Matteo è già a casa, si scusa per non avermi aspettata, ma non mi ha trovata.»

Quindi sarebbe dovuta andare a casa, da sola, con quella paura che le si poteva leggere nelle iridi?

No, cazzo, no.

Cercò un centinaio di buoni motivi per non proporle ciò che aveva in mente, ma non ne trovò neanche uno: non aveva alcuna intenzione di lasciarla vagare in solitudine per le vie malfamate di Torino.

Sembrava una preda perfetta per qualsiasi malvivente, senza più la sua faccia tosta e l’aria da donna vissuta, che l’avevano abbandonata.

«Ti accompagno io.» non era una domanda, ma una semplice constatazione. Non propriamente un ordine, ma un invito senza via d’uscita.

La ragazza inarcò un sopracciglio, in cerca di una proposta, non di un obbligo; ma non poteva di certo accontentarla.

Sarebbe andata in macchina con lui, senza storie, in modo che nessuno avrebbe potuto ferirla ulteriormente. Era già piena di cicatrici, non poteva permettersi di vederla ancora più sfigurata.

«E mi offri una sigaretta.» scherzò, senza però essere realmente divertita.

Il chitarrista sbuffò teatralmente, estraendo dal pacchetto una Marlboro rossa, per poi porgerla alla ragazza, che la aspettava con espressione vittoriosa.

Sembrava essersi rasserenata da quando gli aveva detto che non l’avrebbe lasciata a piedi per tornare a casa; era evidentemente impaurita, ma Davide ne ignorava il motivo.

Le tese la mano, aiutandola ad alzarsi da quello schifo in cui erano rimasti seduti per un tempo indefinito; probabilmente puzzavano come due senzatetto.

«E Riccardo?» mormorò allarmata, mentre salivano nella vecchia Uno color diarrea, comprata di seconda mano ad uno di quei concessionari in cui nessuna persona sana di mente metterebbe mai piede.

«Lo accompagnerà Marta, come ogni sera in cui è fatto.»

Cazzo, il suo amico stava davvero prendendo una brutta piega con quella droga; aveva cercato di parlargliene più volte, ma sembrava dover dimenticarsi di un dolore che gli prendeva lo stomaco.

Erano settimane che andava avanti a mele, e quando mangiava un pasto completo, Davide lo sentiva vomitare in bagno.

Aveva un serio problema di dipendenza dalla cocaina.

Si sedette sul sedile del guidatore e fu una strana sensazione avere Anne accanto, pronta a farsi portare ovunque da lui, incline  ̶  se solo gliene avesse data l’occasione  ̶  a fidarsi di lui.

Non fu una di quelle scene in cui il rombo del motore spezzò il silenzio, facendo sembrare Davi un vero uomo: il silenzio fece di nuovo da sfondo ad una situazione emotiva, mentre la macchina partiva dolcemente, cullandoli.

Non avevano alcun bisogno di azioni adrenaliniche o selvagge, perché il chitarrista sapeva che Anne aveva bisogno di tranquillità, di essere rassicurata, proprio come una bambina che avesse appena fatto un brutto sogno.

Bambina mia, ti cullerei fino a che non ti addormenteresti…

Perso.

Continuò a tenere gli occhi puntati sulla strada, perché se avesse dato uno sguardo alla sua destra non avrebbe resistito all’impulso di fermare l’auto e fare sua la cantante, lì su due piedi.

Si figurò l’immagine dei suoi folti capelli ricci aperti a ventaglio, mentre la teneva ferma sotto il suo peso, chiusa in una morsa alla quale non sarebbe potuta scappare; avrebbe preso a baciarla con passione, ma allo stesso tempo dolcemente, per farle sentire tutto l’affetto di cui aveva bisogno.

‘Fanculo, Davide! Concentrati sulla strada.

Quel collo…

Cosa non avrebbe fatto per toccare la sua pelle candida, anche solo per un istante, giusto per il gusto di poter sentire tutta quella morbidezza sotto le sue dita.

Passò il resto del viaggio a fissare con sguardo spiritato la strada, cercando di non dare importanza ai movimenti impercettibili della ragazza, che continuava ad avere quell’aria impaurita.

Quali sono i tuoi demoni, Anne?

«Guarda, è quel complesso in fondo alla strada.» mormorò con voce flebile «Mia mamma mi ammazzerà, questa volta…»

Davide non vide l’ansia di essere sgridata dai genitori nei suoi occhi, ma l’amarezza causata da qualche ricordo, da qualche incubo represso e messo a tacere, tornato a ruggire più forte che mai; se si concentrava riusciva a sentirlo, quel leone dentro Anne, e doveva essere arrabbiato.

Perso.

Perché stava prendendo tanto a cuore la questione di quella ragazzina? Avrebbe dovuto interessarsi solo di come cantava, delle sue prestazioni sul palco, non del perché sembrava essere morta dentro.

Non riusciva a guardare dentro a quegli occhi tristi, gli faceva male vedere quanto dolore contenessero; poteva scorgere le spine che infestavano le sue piante rigogliose, gli artigli scalfire quell’anima pura e renderla sofferente.

Anne, compariamo le nostre ferite e vediamo quale delle due è più profonda.

«Beh, allora… ci vediamo per le prossime prove, eh?» balbettò non appena la portiera della sua macchina venne aperta da Anne, intenta a scendere.

Era così bella, quando abbandonava per qualche istante la sua maschera personale.

«Certo.»

Si fermò un attimo, sembrava voler dire qualcos’altro; rimase ferma con la bocca semi aperta, l’aria di chi sta lottando con sé stessa, cercando di mormorare qualche ringraziamento, forse.

Non ne sarebbe stata capace, Davide lo sapeva bene, così la precedette.

«Prego, Anne.»

La ragazza sfoderò un sorrisino sghembo, e se non fosse stato per quegli occhi piangenti, sarebbe assomigliata ad una bambina. Una bambina pestifera.

La guardò aprire la porta del cancelletto, per poi fermarsi sulla soglia e alzare la mano in segno di saluto, lo sguardo un po’ imbarazzato; Davide increspò appena le labbra, ricambiando.

Quella serata era stata una rivelazione, una serie di eventi che lo avevano mandato in corto circuito totale, pensò mentre faceva manovra per riprendere il corso principale.

La sua testa era scombussolata, aveva preso a roteare, come se fosse ubriaco.

E in effetti, un po’ ubriaco lo era.

Ubriaco di Anne.

 

Perso.

 

 

 

****

 

 

 

Questo capitolo è qualcosa di davvero intimo per me; scriverlo mi ha iniziata in un percorso di uccisione delle mie paure. Quindi, devo ringraziare ancora una volta Aniasolary per avermi sostenuta in questa battaglia.

Ma ancora di più, devo tutto alla mia beta-reader, che non smette mai di stupirmi, Lavisvampita; tra l’altro vi consiglio caldamente la sua storia, Hereafter, perché è davvero una chicca.

 

Eryca.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Sogni di Rock n' Roll ***


8.

Sogni di Rock n’ Roll

 

 

 

 

 

 

You feel you're winning, that's what it's all about,

Knowing you are winning, oooh,
And it could be the very last time,
I could be in a rock 'n' roll dream,
I could be in a rock 'n' roll dream

 

AC/DC – “Rock n’ Roll Dream”

 

 

 

 

 

 

 

 

Sognare.

Gli era sempre piaciuto come verbo, aveva una cadenza originale, un suono interessante, mistico, che ti faceva volare sulle ali della libertà, dell’immaginazione; era perfetto per il significato che conteneva, in poche parole.

Nella sua vita, quella voce verbale era stato un punto fisso, un chiodo impuntato proprio nel suo cervello, che aveva prolificato mandandogli in corto circuito i sistemi razionali, per far prevalere quelli dell’irrealtà; forse era per quel suo ostinarsi a viaggiare sulla cresta dell’onda, che si era ritrovato, a ventiquattro anni, con un lavoro umiliante e la maturità di un bambino di sette.

Ma, anche se stava affondando nel baratro causato dal voler nascondere l’evidenza e la droga che lo stava facendo inginocchiare, Riccardo non aveva ancora smesso di sentire dentro di sé quell’impeto di eccitazione che solo un sogno riusciva a donargli.

Il sogno.

Quello che si era portato dietro per tutta la vita, fin dal giorno in cui sua mamma lo aveva accompagnato al negozio di musica, cercando di tranquillizzarlo; non aveva mai creduto ai colpi di fulmine, all’amore a prima vista, erano cosa da romanzi rosa e la sua vita non era di certo paragonabile ad un di essi, ma era più che sicuro che quella volta, davanti alla batteria tenuta in esposizione, si era davvero innamorato.

E da lì il sogno aveva preso piede, diventando sempre più insistente con gli anni, fino a che non lo aveva portato da Davide, Matteo ed Anne.

I Mad.

I Mad con le loro sensazioni, i loro testi mistici, colmi di emozioni e paure represse, quelle canzoni scritte di notte che ti toglievano il fiato, cantate dalla donna più seducente e tenebrosa che esisteva; il loro mondo, messo su un piatto d’argento e servito, in quella serata estiva, ad un pubblico silenzioso, incapace di esaltarsi veramente.

Il fatto che  ̶  mentre sbottava sulla sua batteria, estraniato da tutto e da tutti  ̶  gli spettatori non stessero urlando e saltellando, com’erano soliti fare, lo irritava enormemente, rendendo la sua musica più forte e rabbiosa, inducendolo a picchiare sui tom-tom in modo esagerato.

Avrebbe voluto immortalare quel momento, per sempre.

Imprimerlo nella sua mente come una cartolina di saluti, un breve messaggio d’amore, perché era l’unica sensazione che nella sua vita aveva veramente importanza; quando se ne stava seduto dietro il suo strumento non si doveva preoccupare di sembrare troppo gay, troppo drogato.

Si sentiva un dio.

E sapeva di poter continuare a sognare, ancora per qualche istante, per il momento del suo assolo, per quegli attimi in cui si innalzava e non faceva più parte del mondo terreno, ma entrava in una dimensione che solo pochi privilegiati riuscivano a raggiungere.

E mentre la voce di Anne lo guidava in quel luogo spirituale, Riccardo non aveva più paura di mostrarsi per quello che era, non doveva nascondere chi era, perché alla musica non interessava nulla, se non il suono che stava nel suo cuore.

Il sogno.

Si lasciò guidare dalla danza sciamanica che stava prendendo piede dentro di lui, la batteria che scandiva il tempo di ogni cosa, della canzone, della sua vita; gettò un’occhiata a Matteo, le gocce di sudore che gli imperlavano il viso, gli occhi chiusi e l’espressione persa in un’altra dimensione: non riusciva a non essere bello.

Riccardo non seppe con certezza per quanto tempo suonarono quella sera, forse anche a causa della dose massiccia di cocaina che aveva tirato, prima di salire sul palco; stava esagerando con quella merda, se ne stava rendendo conto, ma appena rimaneva lucido per troppo tempo  ̶  di solito quando era al lavoro  ̶  tornava alla sua mente l’immagine di lui e Matteo che si baciavano, in mezzo alla strada, alla mercé di chiunque.

L’unica soluzione a quei tormenti era la sua fedele cocaina, mischiata con un bel po’ di erba; probabilmente anche Davide, che aveva spesso sniffato in sua compagnia, si stava chiedendo se non stesse andando troppo in là.

Forse la signora Sacco non aveva tutti i torti, forse suo figlio era davvero un drogato, pensò il batterista mentre dava l’ultima botta sul piatto, in chiusura del brano.

Vide Anne prendere in mano il microfono quasi fosse una pistola: «Siete un pubblico di merda! Fate schifo!» sputò, il viso disgustato.

In effetti quell’esibizione era stata una vera vergogna, soprattutto a causa degli spettatori noiosi e poco di compagnia, che non avevano fatto neanche un po’ di sano pogo.

Seguì Davide giù dall’improvvisato palco in legno, domandandosi come potesse reggere tutto quel peso: era stata una fortuna che non fosse crollato mentre suonavano; avrebbero dovuto pensarci due volte prima di accettare un incarico, la prossima volta.

Ma fare concerti in piccoli locali angusti e maltenuti gli serviva come allenamento, e Riccardo aveva notato che in quel modo si stava affiatando, capendosi meglio a vicenda e provando nuovi riff, assolo e quant’altro; era un’attività produttiva, che aiutava parecchio.

Sprofondò in un divanetto bucato, con molte probabilità mangiucchiato dai topi, seguito da una decisamente incazzata Anne, che si sdraiò sopra di lui, appoggiando la testa sulle sue gambe.

Doveva essere lo spazio vip, quello?

Matteo  ̶  il suo Matteo  ̶  era al bancone a ordinare i litri di birra che avrebbero dovuto aiutarli a superare quel tristissimo fallimento; il fatto che il ragazzo stesse appoggiato con i gomiti alla base di legno, mentre il suo sedere statuario se ne stava in esposizione, non era per niente d’aiuto allo scarso autocontrollo di Riccardo Sacco.

Quel luglio era relativamente fresco, anche per Torino, dove di solito l’afa regnava, contrastandosi solo con l’umidità, e Ricca era stato costretto a mettersi i pantaloni di jeans.

«Eccomi, bei fusti.» esordì Matte, il vassoio colmo di boccali «Ho portato la consolazione. Anche se potrebbero essercene di migliore, in effetti… » brontolò irritato, fissando il batterista che, scioccato, si rovesciò la bevanda addosso.

Grazie, Matteo del cazzo, grazie tante.

Non si era contenuto all’idea che il bassista avesse fatto un allusione sessuale così esplicita davanti a Davide ed Anne, senza preoccuparsi che loro potessero scoprire qualcosa o pensare male di lui; la consapevolezza che la cantante potesse essere già a conoscenza di ciò che era successo tra di loro lo invase come un vento gelido, lasciandolo di marmo.

Merda merda merda merda merda merda merda merda merda merda merda.

Ma la ragazza rimase muta e buona sulla sue gambe, senza dar cenno di vita, se non per la sigaretta che diventava sempre più corta, lasciata penzolare tra le sue labbra, proprio come avrebbe fatto un bravo camionista.

D’un tratto, senza alcun preavviso, Davide scattò in piedi e, come se avesse appena ingerito una pasticca eccitante, salì sul tavolo, mettendosi ad urlare a squarciagola, in un’imitazione di un indiano pellerossa, o forse di un tricheco, non ne era sicuro; poi, non contento, prese un bicchiere e lo scaraventò a terra, mandandolo in frantumi.

Cosa cazzo sta facendo?

Prese a saltellare su due piedi, alzando prima una gamba poi l’altra, le mani intorno alla bocca mentre ululava come se fosse uno di quei licantropi che si vedevano nei film. Matteo sembrava spaesato, invece, Anne se la rideva allegramente e, da brava psicopatica qual era, decise che doveva essere una gran bell’idea unirsi al chitarrista: così gli schizofrenici divennero due, le urla raddoppiarono, seguite però dalle risate fragorose dei ragazzi.

Riccardo sapeva  ̶  lo sapeva veramente  ̶  che Anne e Davide erano un po’… particolari, ma non avevano mai inscenato un simile spettacolo che, a quanto sembrava, stava intrattenendo tutto il pub, ancor più del loro concerto; fu in quel momento che si rese conto di quanto il suo coinquilino e la cantante fossero immensamente rock star. Non si limitavano a fare una musica grandiosa, loro davano al pubblico un vero e proprio show, fatto di follie e eccessi smisurati, senza doversi sforzare neanche tanto, visto che gli veniva in modo naturale.

E allora Ricca non si trattenne più, neanche mentre il sorriso da ebete gli si apriva in viso: si puntellò con le braccia e si fece spazio sul tavolo, per seguire quei due malati nella loro danza sciamanica, prendendo a muovere le braccia come se fosse un uccello.

Il fatto che dovessero sembrare tre idioti non colpì troppo Matteo, che si fece convincere a mandare avanti quel ballo: tutti e quattro i Mad erano impegnati in quella che sembrava essere, più di ogni altra cosa, una crisi epilettica collettiva.

E, mentre girava su stesso, si rese conto che un uomo di mezza età, in giacca e cravatta, si stava avvicinando a loro, il sorriso benevolo stampato in faccia e l’aria di chi ha preso per il culo una centinaia di persone.

Fu in quella sera di luglio, durante il loro spettacolo post-concerto, che ebbero l’onore di incontrare per la prima, fatidica volta Mauro Polloni.

 

 

 

 

****

 

 

 

«Mauro Polloni» disse l’uomo, mentre allungava la mano in un cordiale gesto di presentazione: nessuno però la afferrò, così l’uomo fu costretto a tirarla indietro senza averne stretta alcuna. Comunque, non ne sembrò troppo infastidito.

Pareva, con quei suoi Ray-Ban sul naso, il tipico uomo d’affari che sarebbe stato capace di contrattare con chiunque e di vendere persino la moglie, per un prezzo abbordabile; un vero e proprio avvoltoio in valigetta e scarpe lucidate.

Il fatto che avesse abbinato in maniera eccellente la camicia e la cravatta, stava a significare quanto egli desse importanza al primo impatto e di certo loro, con i jeans stracciati e le magliette di gruppi musicali, non avevano passato il test. Eppure, Mauro Polloni non diede alcun segno di disgusto, anzi, non sembrava avere alcuna intenzione di togliersi dalla faccia quel sorriso da ebete.

Questo è un vero coglione.

Ecco ciò che stava pensando Matteo, seduto in uno dei tanti tavolini del pub, in evidente imbarazzo nel trovarsi di fronte ad un simile individuo, che non ti faceva sicuramente sentire a tuo agio.

Il bassista lanciò uno sguardo sghembo a Riccardo, intento a mangiucchiarsi le unghie con fare nervoso, in un comportamento tipico di lui.

Erano passate diverse settimane dal loro passionale bacio, gli esami erano finiti, per sua grande gioia, ed era anche riuscito a passare con ottantatre; ad Anne non era andata ugualmente bene e se l’era cavata con un sessantanove e un calcio nel culo, dovuto al fatto che i professori non avevano alcuna intenzione di sopportare le sue rispostacce per un altro anno.

Ovviamente, la sera dell’esame orale, si erano ubriacati e avevano fumato erba a volontà, in compagnia di un amichevole Davide ed un decisamente taciturno Riccardo, troppo sballato per capire anche solo dove si trovasse.

Matteo aveva cercato più volte di rimanere solo con il batterista, per cercare di parlargli, di fargli uscire dalle labbra quella fatidica confessione, perché solo in quel modo avrebbe potuto essere in pace con sé stesso, senza dover ricorrere alle sostanze stupefacenti; Ricca doveva solamente ammettere ad alta voce di essere omosessuale, gay, frocio, finocchio, checca, prendi in culo.

Prima o poi avrebbe dovuto farlo, volente o nolente, perché la vita glielo stava spiattellando in faccia e non intendeva sentire un rifiuto.

Le sue considerazioni vennero interrotte dal raschiamento di gola di Davide, che cercava di portare l’attenzione del signore su di loro e smorzare quel silenzio imbarazzante; in effetti, Polloni li aveva avvicinati, dicendogli che aveva una proposta da far loro, ed ora se ne stava zitto e muto a fissarli con un sorriso plastificato.

Qual è il tuo problema, bello mio?

La clientela del locale non era minimamente interessata allo spazio intimo che si erano creati, piuttosto concentrati sulle cameriera affascinanti che si aggiravano tra i tavoli, in minigonna e maglietta estremamente scollata; gli uomini di mezza età ubriachi e sudici erano le creature che facevano più ribrezzo sulla faccia della terra, avevano un che di laido.

Quelle povere bariste dovevano sopportare le pacche sul sedere e le allusioni sessuali di un branco di eterosessuali vecchi e allupati.

Se solo il mondo fosse interamente gay…

Si girò verso Riccardo  ̶  il suo Riccardo  ̶  e incrociò il suo sguardo tenebroso: nelle iridi castane del ragazzo c’era una tempesta in atto, si poteva vedere il vento del senso di colpa spazzare via tutte le insicurezze; ma ciò che ti impediva di distogliere gli occhi dai suoi era quel dolore, quelle gocce di sofferenza che sembravano implorarti aiuto.

Guardare dentro a quegli occhi faceva male, nel senso più stretto del termine.

«Signori, la vostra esibizione è stata grandiosa!» la voce di Polloni interruppe il dialogo silenzioso tra i due ragazzi, improvvisamente; Matteo si ritrovò con la testa roteante, in sincronia con quella della Terra.

I tuoi sogni repressi mi fanno male, Riccardo.

Si costrinse ad osservare Anne mentre, risoluta come al suo solito, si metteva a sedere e prendeva un cipiglio aggressivo, segno che quel tizio non le andava per nulla a genio.

La canottiera della cantante era così scollata che, quando si piegò appoggiandosi al tavolo, a fronteggiare Mauro Polloni, rimase ben poco all’immaginazione.

Matteo era convinto di aver visto un guizzo negli occhi di Davide, palesemente perso per la sua migliore amica.

«La sai una cosa, amico?» chiese la ragazza, così vicina al viso dell’uomo che, se avesse voluto, avrebbe potuto baciarlo. «Abbiamo fatto schifo. È stato il concerto più penoso che io abbia mai fatto.»

Il nuovo arrivato si abbandonò ad una di quelle risate di convenienza, in cui non ridi perché sei divertito, ma perché stai per dire qualcosa di molto serio, o in alternativa per fare una steccata.

Ora, il timore aleggiava nell’aria, quel tizio metteva inquietudine.

«Se permetti, sono un produttore discografico e credo che il vostro show sia stato a dir poco… coinvolgente.»

Produttore discografico.

Produttore discografico.

Produttore discografico.

Produttore discografico.

Produttore discografico che era appena riuscito a zittire Anne, sconvolta apparentemente quanto il resto del gruppo, consapevole di trovarsi davanti ad una vera possibilità per la loro carriera.

Ed eccolo lì, insistente come mai prima d’allora: il sogno.

«Il finale, in cui hai esplicitamente insultato il pubblico, era molto rock e durante tutto il concerto si poteva sentire la rabbia…» cominciò, il tono mellifluo, mentre cercava le parole giuste «e agli spettatori, la rabbia, piace. E se piacete a loro, signori, allora siete nelle mie grazie.»

Matteo dovette ragionare due o tre volte per connettere la situazione: loro piacevano al pubblico, quindi, di conseguenza piacevano anche a quel tizio in giacca e cravatta che altro non era se non un fottutissimo produttore discografico.

In effetti, erano diversi mesi che facevano serate per Torino, la gente ormai li conosceva, li apprezzava e si portavano dietro sempre un piccolo seguito di fan, che sembravano andare matti per Anne, più che altro.

Non avevano mai pensato seriamente ad un possibile futuro, era già abbastanza avere a che fare con una piccola cerchia di persone, un gruppo; ma ora, con quel tipo che gli stava realmente offrendo un’opportunità, il sogno prese a stiracchiarsi, ad uscire dal sonno e ruggire, facendosi sentire.

Era sempre lì, non se n’era mai andato, il sogno di rock n’ roll.

Davide, di solito loquace e benevolo, era rimasto come ammutolito di fronte ad un uomo così potente, che li teneva in pugno e avrebbe potuto decidere se farli salire, oppure gettarli nel cassonetto dell’immondizia, insieme alle lattine di birra vuote; Riccardo, dal canto suo, manteneva quell’espressione annebbiata dovuta agli effetti della cocaina.

Nessuno osava più spiccicare una parola.

Mauro Polloni aveva il controllo della situazione, se non il coltello dalla parte del manico.

Dannati avvoltoi affaristici…

«Questo significa, signorina, che mi siete piaciuti. E se qualcuno piace a Mauro Polloni, allora vuol dire che ha un colloquio assicurato con Franco Tasso.»

Chiunque avesse a che fare con la musica, o se ne interessasse anche solo minimamente, era a conoscenza di chi fosse il proprietario dell’Etichetta discografica più in voga nella scena underground italiana: Franco Tasso.

Con la sua Alternative Productions, Tasso aveva scoperto alcuni dei migliori gruppi alternativi d’Italia, facendo salire di livello la sua Etichetta; ogni persona che aveva intenzione di sfondare nel mondo della musica underground puntava ad un contratto con la Alternative.

E adesso, davanti a loro, sedeva uno degli agenti discografici di quella Casa, sorridente come un bambino, ben consapevole di aver fatto colpo.

Il sogno.

Eccolo di nuovo, forte, determinato, a spingere con tutto sé stesso per uscire dalla custodia ermetica in cui Matteo lo aveva rinchiuso, sperando di poterlo placare, di poter vivere andando al lavoro e tornando a casa da un compagno.

Ma il sogno era lì.

Non se ne sarebbe mai andato, perché lui era stato toccato dal dono della musica, dal talento di saperla creare, di essere in grado di parlare quel linguaggio, di captare i segnali; non si poteva voltare le spalle alla musica, lei te lo impediva.

Davide, improvvisamente, era diventato pallido come un lenzuolo, inducendo i suoi amici a preoccuparsi per la sua salute, ma presto si resero conto che era solo estremamente sotto choc.

«Franco Tasso dell’Alternative Productions?» domandò Anne, a quel punto estasiata e dimenticata del fatto che quel tipo proprio non le piaceva.

Polloni, a quel punto, tirò fuori dalla tasca della giacca un biglietto da visita, sul quale erano incisi il numero di telefono, il suo nome e cognome e il logo famosissimo dell’Etichetta indipendente; sorridente, sapeva di aver appena acciuffato un banco di pesci.

Il chitarrista sembrò riscuotersi dallo stato di semi-trance nel quale era calato, prese in mano il biglietto e lo esaminò a lungo, probabilmente intimorito di incontrare lo sguardo pieno di giudizio del produttore.

«Chiamatemi.» disse solamente, senza mai cambiare espressività «E pensateci. Potrebbe essere il vostro trampolino di lancio.»

Detto questo, si alzò, allungò nuovamente la mano in segno di commiato, sapendo che, questa volta, tutti avrebbero ricambiato la stretta, cosa che, in effetti, successe.

Era davvero ridicolo come le persone cambiassero di fronte ad elementi da cui avrebbero potuto dipendere, pensò Matteo, mentre sentiva la pelle liscia di Polloni sulla sua mano.

Rimasero soli e il silenzio prese a ruggire, mentre scariche di adrenalina si propagavano per tutti loro, che non stavano più nella pelle.

«Ehi, tu! Portaci un altro giro, cazzo! Dobbiamo festeggiare!» esclamò infine Davide, scaturendo l’urlo liberatorio di Anne, che sembrava essere sull’orlo delle lacrime.

Tutti stavano pensando allo stesso identico fardello, il quale li seguiva indomato da troppo tempo.

Le cose sarebbero cambiate, d’ora in poi.

 

 Il sogno stava diventando sempre più reale

 

 

 

 

****

 

 

 

Capitolo importantissimo, questo qua, perché d’ora in poi inizieranno i veri e proprio disastri e la scalata dei nostri quattro ragazzi verso il successo.

Ovviamente, Mauro Polloni, Franco Tasso e la Alternative Productions  sono frutto della mia fantasia, perché mi sembrava giusto così, invece di usare Etichette realmente esistenti e figure di spicco nel mondo dell’underground.

Nel prossimo capitolo ci saranno delle grandi sorprese, la festa inizierà ad entrare nel vivo e finalmente si scoprirà qualcosa di più del complicatissimo personaggio di Anne; ma soprattutto, le cose tra Davide e Anne si faranno, diciamo… più calde.

Ragazzi, vi chiedo di lasciare un commentino se leggete, perché mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate, altrimenti gli stimoli per continuare la storia diventano davvero pochi.

 

Grazie a tutti, come sempre,

Eryca

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Capitolo 9
*** Mai più sporca ***


9.

Mai più sporca

 

 

 

Mi rivolgo direttamente a te,

con la speranza che la vita ti possa portare

il peggio;

ricordati sempre di questa bambina con le trecce

che ti ha rovinato la vita,

almeno quanto tu l’hai rovinata a lei.

 

*

*

 

 

 

«Ci vuole più coraggio per dimenticare che per ricordare.»

 

Sören Kierkegaard

 

 

 

Sporca.

Non c’erano altri modi per descrivere il modo in cui Anne Melì si sentiva, quel giorno di fine luglio.

Si era alzata con il cuore che martellava, dopo l’ennesimo rude incubo che aveva come protagonista lui, il lurido bastardo.

Aveva fatto almeno tre docce di seguito, quella mattina, sperando di potersi sentire purificata, cosa che ovviamente non era accaduta; sua madre l’aveva pregata di ingerire qualcosa, per pranzo, ma la fame aveva abbandonato il suo corpo quando la mente l’aveva costretta a rivivere quei terribili momenti di anni prima.

Per quanto avesse cercato di fuggire dai suoi demoni, da quegli occhi azzurri, pallidi e vitrei, che le mettevano i brividi, il passato tornava imperterrito a bussarle alla porta.

Sporca.

Così, il suo ingegno infallibile, le aveva consigliato di fermarsi al negozio di liquori sulla traversa di casa sua, comprare una bottiglia di Jack Daniel’s e sbronzarsi alle tre di pomeriggio, per dimenticare quella pelle abbronzata e quel ghigno malefico; il fatto che, invece di stare su quella lurida panchina a bere come una vecchia ubriacona, sarebbe dovuta essere agli studi della Alternative Productions, non l’aveva toccata minimamente.

Davide aveva contattato Mauro Polloni, il produttore che li aveva avvistati durante un loro concerto, e avevano fissato un incontro con la Casa Discografica, per discorrere delle loro qualità e cercare di trarne fuori un contratto.

Anne si ritrovò a ridere di gusto, pensando che, con tutte le probabilità di quel mondo, stava mandando a rotoli la sua carriera musicale per colpa di lui, o forse, a causa della sua incapacità di reagire alla vita.

Bevve un lungo sorso di liquore, sentendo la gola infiammarsi al suo passaggio.

I suoi compagni di gruppo dovevano essere neri di rabbia, convenne la ragazza, rendendosi conto di avere un centinaio di chiamate perse sul cellulare; quello era il lato di Anne che i suoi amici non avevano ancora conosciuto: nessuno poteva imporle di fare qualcosa, se voleva comportarsi da testa di cazzo, allora lo faceva. Punto e basta.

Sporca.

Dio, faceva proprio schifo. Da quanto era finita così in fondo? Aveva dimenticato il momento in cui aveva iniziato ad affondare; forse era successo dopo la vittoria in tribunale che, invece di rincuorarla, l’aveva fatta scivolare ancora più sul lastrico.

Si alzò dalla panchina, barcollando in modo ridicolo, e prese a camminare per le strade di Torino, con la bottiglia di Jack Daniel’s vuota nella mano sinistra.

 Era una persona sporca, non sarebbe mai potuta essere pulita.

Dio, si faceva ribrezzo a tal punto che se avesse avuto un oggetto contundente, probabilmente si sarebbe tagliata, cercando di far sgorgare dalle vene quel sangue putrido e fangoso.

Che cosa ci facevano al mondo persone sporche come lei?

Quegli occhi continuavano ad incendiarle i pensieri, ora annebbiati dall’alcol, e vedeva quelle iridi azzurrine guardarla con gusto, mentre il suo padrone godeva, il sudore che gli scendeva dalle tempie, quel ghigno perverso.

Non poté fare a meno di far scendere le mani sul suo ventre, lasciandosi crollare in un prato dei Giardini Reali, facendo fuggire una coppia di fidanzatini innamorati; sentì le lacrime rigargli le guance, il sapore salato sulla lingua e la consapevolezza che sarebbe rimasta sporca, per sempre.

Prese la testa tra le mani, appoggiandosi al tronco di un albero, cercando di mettere a fuoco la situazione, tentando in tutti i modi di tornare cosciente, di spazzare dalla mente quei ricordi sporchi.

Probabilmente prese a piangere rumorosamente, con tanto di singhiozzi e gemiti, perché le sembrò di vedere delle persone fermarsi e guardarla con fare preoccupato; ma non poteva essere sicura di niente, così sopraffatta dalla quantità industriale di alcol che aveva ingerito.

Si sentì la testa completamente vuota e prese ad entrare e uscire da uno stato di semi-incoscienza, che la faceva sentire in un altro universo; era quasi certa di essere svenuta per un periodo indefinito, perché quando riuscì a mettere a fuoco il cielo si rese conto che il sole era tramontato e il parco era quasi deserto.

Ma nulla aveva un senso, quel giorno, perché di nuovo sprofondò in una dimensione alternativa, dove vide lui mentre la sottometteva, legandole le braccia e la mani, tenendole un coltello puntato alla gola... ora le stava aprendo le gambe, la guardava con quel ghigno malato...

Riaprì gli occhi improvvisamente, probabilmente perché la sua mente si impose di non rivivere quei momenti, conscia che la ragazza non avrebbe potuto sopportarli.

Si guardò intorno, cercando un segno per riconoscere il luogo in cui si trovava e si rese conto di essere ancora appoggiata all’albero e seduta su un prato d’erba fresca; l’aria era tiepida e afosa, la luce aveva ceduto il posto alle tenebre ed Anne realizzò di trovarsi nei Giardini Reali, di notte.

Dio, la testa le faceva così male... Sembrava che l’avessero picchiata con un bastone.

Acciuffò il cellulare nella tasca e i sensi di colpa le artigliarono lo stomaco quando si accorse delle numerose chiamate che gli amici e sua madre le avevano fatto; dovevano essere tutti così in pena per lei. Aveva fatto un enorme casino e a causa della sua irresponsabilità, aveva mandato a puttane il provino con l’Etichetta. Se fosse stata fortunata, avrebbe solamente dovuto subire l’umiliazione di essere sbattuta fuori dai Mad, che per colpa sua avevano perso l’occasione della loro vita.

Sei una stupida, Anne.

L’animo tormentato, il dolore sempre più forte man mano che riprendeva il controllo di sé stessa, si alzò e decise che era ora di andare a fare rifornimento di alcol: se doveva affrontare, oltre ai ricordi tenebrosi del suo passato, anche quell’aggiuntiva consapevolezza di aver mandato a rotoli il sogno della sua vita, allora aveva bisogno di estraniarsi dalla realtà.

E al diavolo i conati di vomito che le intimavano pietà.

Si rese conto di avere i jeans sporchi di fango in diverse zone e la maglietta macchiata di liquore; quando vide il suo riflesso in una vetrina, si rese conto di aver toccato il fondale: aveva delle profonde occhiaie nere, i capelli arruffati e il volto di chi si è completamente smarrita.

Persa.

Sporca.

«Anne!»

Si voltò, stupita di sentirsi chiamare, persa com’era nelle sue considerazioni da depressa cronica; ma ciò che vide non la rincuorò affatto.

Davide si era sporto dal finestrino della sua vecchia macchina, fermo con le luci di emergenza, il volto contratto dalla rabbia, gli occhi infuocati di chi aveva aspettato tutto il giorno una pazza psicotica che non si era fatta vedere.

Sei nei guai, Anne, cara.

Non seppe bene cosa la spinse a rispondere nel modo in cui fece, ma, la sua faccia tosta, le impose di sfoderare un sorriso sfacciato, l’aria strafottente e di alzare il dito medio, in segno di saluto.

Davide parve prendere fuoco, mentre smontava dall’automobile, raggiungeva la cantante e la prendeva per un braccio, in una maniera così forte che lei non poté che spaventarsi; dio, non lo aveva mai visto così incazzato, sembrava fuori di sé.

«Che cosa cazzo ti è venuto in mente, eh? Si può sapere?» prese a sbraitare, la vena sul collo visibile e il viso arrossato «Hai mancato all’appuntamento più importante della nostra carriera e non ti sei neanche degnata di rispondere alle chiamate! Che cosa cazzo hai in quel cervello?»

Poi, d’un tratto, Dav prese ad annusare l’aria, la sua faccia si sfigurò in una smorfia disgustata, mentre prendeva una ciocca dei capelli di Anne e se li portava al naso, per poi lasciarli cadere, l’aria di chi ha capito tutto.

Questa volta, lo sguardo che le rivolse era peggiore della rabbia, peggiore della tristezza e di qualsiasi altra emozioni: quella che si era dipinta sul volto del chitarrista era delusione.

«Puzzi di alcol.» disse semplicemente, il tono piatto, che le fece più male di una pugnalata.

Aveva deluso l’unica persona di cui gli era mai importato veramente qualcosa, oltre a Matteo; lui si era fidato di lei, aveva riposto le sue speranze nella sua voce, nella loro musica e aveva sperato di poter avere un futuro con il gruppo.

E, in un modo che era estremamente tipico di lei, aveva calpestato ogni cosa, rovinato tutto e buttato nel cesso, tirando lo sciacquone; il fatto era che non sapeva come comportarsi quando le cose iniziavano ad andarle bene, reagiva male alle notizie positive e si rinchiudeva nel suo bunker solitario, crogiolandosi nelle brutte esperienze passate.

Dio, quanto avrebbe voluto poter abbracciare Davide, dirgli che era una stupida e far finta che nulla fosse successo.

«Ti interesserà sapere  ̶  o forse no, in effetti  ̶  che siamo riusciti a farci dare un’altra possibilità dall’Alternative» cominciò «Erano molto seccati dal fatto che la nostra cantante avesse deciso di non degnarci della sua presenza, ma alla fine hanno consentito a venire a vederci ad un live.»

Probabilmente erano riusciti in quell’impresa solo grazie alla personalità di spicco ed eccentrica di Davide, che li aveva incantati con il suo bel parlare. Non di certo grazie a lei.

Fanculo. Fanculo tutto.

Il chitarrista si scompigliò i capelli corvini, guardandola con occhi diversi, sinceramente preoccupati, nonostante la rabbia visibile.

«Ti porto a casa, Anne.»

«No!» si ritrovò ad urlare, gli occhi sgranati. Non voleva tornare a casa, con sua madre che avrebbe iniziato a farle il terzo grado, a piangere per la sua ennesima ricaduta nella spirale della depressione; per non parlare di suo padre che si sarebbe rinchiuso in quel suo silenzio assordante, sperando che le cose si sarebbero messe a posto da sole.

«Non voglio andarci a casa, ti prego.»

Dovette sembrare davvero disperata, perché Davi la guardò per un lungo momento, gli occhi indagatori, prima di annuire e montare sull’auto.

Dio, come poteva anche solo rivolgerle la parola? Dopo tutto quello che gli aveva fatto...

«Riccardo è andato da sua madre per il week-end, quindi c’è la sua stanza libera. Puoi dormire lì.»

Il tono di voce del ragazzo era freddo, lo sguardo fermo sulla strada, eppure le mani tradiva la sua apparente calma: stringeva così forte il volante che le nocche erano divenute bianche.

Per tutto il resto del tragitto rimasero in silenzio, la tensione palpabile nell’aria; ma Anne era troppo sconvolta, troppo persa nei suoi pensieri per preoccuparsene.

Voleva solo svanire, scomparire...

Scesero dalla Uno e Davide aprì il portoncino di un vecchio condominio maltenuto; le scale erano sporche e le piastrelle rotte, qua e là, segno che doveva essere una costruzione piuttosto vecchia e fatiscente. Non dovevano passarsela bene, i due membri più anziani della band.

La band che tu hai quasi mandato a puttane, idiota.

L’appartamento la lasciò di stucco: si era aspettata un vecchio sottoscala puzzolente, lasciato a marcire, con la muffa sui muri e il caos ovunque. Invece si ritrovò in un si, piccolo alloggio, ma decisamente artistico: la sala principale era occupata da un piccolo divanetto verde, posizionato sul muro di fondo, proprio sotto una grossa vetrata circolare, che assomigliava ad un oblò; il pavimento era in parquet, lucidato e ben tenuto, mentre i muri erano tappezzati da foto di qualsiasi genere: alcune ritraevano vecchie signore con un cane, altre dei paesaggi, mentre alcune facevano vedere Davide in compagnia di Riccardo, oppure delle semplici istantanee di vita quotidiana; erano foto di qualità altissima e decisamente molto artistiche.

Al lato della sala, sulla destra, era situato un piccolo cucinino, con i fornelli e giusto due mobiletti, dove poter mettere i cibi e le pentole; sul piccolo frigorifero arrugginito era situata una televisione di vecchia generazione, con tanto di antenna. Sul lato sinistro del soggiorno stava una piccola porta che, probabilmente, portava alle camere da letto e al bagno.

La parete dove stava il divano era invasa da mensole, ricavate da vecchi assi di legno, colme di libri di qualsiasi dimensione e dischi musicali.

Era una casa magnifica.

«Adesso tu mi spieghi che cosa ti è preso, oggi.»

«Vaffanculo, Davide.»

Il ragazzo le si scaraventò addosso, bloccandola con il suo peso al muro, facendola sentire in gabbia; fu una questione di un attimo: i ricordi tornarono veloci nella sua mente e l’immagine di lui che la teneva ferma, senza impedirle di uscire, la paralizzò.

Poi scoppiò in lacrime.

Sporca.

Dio, non riusciva più a sopportare quei dannati occhi deviati. Perché non sparivano?

Perché non spariva lei?

Davide si scostò, l’espressione del viso mortificata, di chi sa di aver fatto la mossa sbagliata; aveva lo sguardo doloroso, che chiedeva scusa anche solo con le onde magnetiche.

«Anne» prese a chiamarla dolcemente, mentre se la stringeva al petto e le massaggiava i capelli, in un movimento così affettuoso  che la ragazza si sciolse tra le sue braccia, aggrappandosi a lui come se fosse l’unica cosa che contava.

«Anne, piccola» disse mentre la guardava con quei suoi occhi color oceano, che avrebbero incatenato qualsiasi donna sulla faccia della Terra.

«Non c’è la faccio più, Davide...» singhiozzò «fa così male.»

Il ragazzo continuò con le sue carezze docili, che ebbero un effetto calmante su di lei; aveva bisogno di quell’abbraccio, di quell’affetto, ne aveva così dannatamente bisogno che sentiva il cuore esplodere, perché non riusciva più a nascondersi.

Basta.

«Qual è il tuo dolore?» Fu una domanda semplice, senza doppio fine, senza inganno, perché Davide era così: chiaro, puro, vero; lui non mirava ad un qualche scopo, era troppo buono, troppo limpido per pensare a qualcosa del genere.

E fu grazie a quei suoi occhi veri che Anne prese a parlare.

No, a raccontare.

«È successo due anni fa. Lui era un amico di famiglia, di mia madre; era simpatico, divertente, l’amico dei bambini che era in grado di far ridere chiunque. Era un bel tipo, non poteva non andarti a genio. Mi si avvicinò, durante un periodo che non ricordo, accompagnandomi in macchina un po’ ovunque, comprandomi il cibo che volevo.»

Prese una boccata d’aria, perché sapeva che dire ciò che era venuto dopo le avrebbe fatto male, ma non più di chiuderlo dentro sé stessa.

E Davide aveva gli occhi saggi, di chi stava iniziando a capire.

«Un giorno, non ricordo di preciso quando, iniziò a parlarmi di cose che riguardavano il sesso. Io ridevo, ero curiosa, ero ingenua, ero una bambina. Gli piaceva spiegarmi le posizioni sessuali, i giochi erotici. Godeva, si vedeva in quei suoi occhi deviati. Poi, un giorno decise che era arrivato il momento di più. Mi portò a casa sua, con la scusa di farmi ascoltare il nuovo album dei Green Day e…»

La voce le venne meno, gli occhi si riempirono nuovamente di lacrime e solo quando sentì la mano di Davide accarezzarle un braccio, lo sguardo che la invitava e la rassicurava silenziosamente, si decise a proseguire.

Doveva finire, ormai era ora, lo doveva a sé stessa.

Mai più sporca.

«Mi stuprò.»

 

 

 

****

 

 

 

Lo sapeva già.

Quando la ragazza, che sembrava essere una bambina sperduta, pronunciò quelle fatidiche parole, Davide ne era già consapevole, lo aveva capito. Era evidente.

Ma non poté, comunque, rimanere impassibile. Anzi, ne fu sconvolto. Scioccato.

Si sentiva uno stronzo per averla insultata, per essersi arrabbiato così tanto con lei, prima; se solo avesse saputo, non avrebbe mai osato trattarla in quel modo...

Sei così piccola, Anne.

Lei lo stava guardando, gli occhi stanchi, gonfi e arrossati, cercava di trattenere le lacrime che, però, scesero comunque, rigandole quelle guance rosee, di una ragazza che ero poco più che bambina.

Le parole che sentiva dentro, semplicemente, uscirono fuori, come un fiume.

«Se potessi guarire i tuoi mali, li guarirei tutti.»

Le baciò l’occhio sinistro.

«Se potessi alleviare i tuoi dolori, li allevierei tutti.»

Le baciò l’occhio destro.

«Se potessi rendere mio il tuo male, lo renderei mio.»

Le baciò il naso.

«Se potessi renderti felice, Anne, ti renderei felice.»

Si calò lentamente e dolcemente  a sfiorarle le labbra, senza toccarle: voleva che fosse lei ad avvicinarsi a lui, a desiderare quel bacio, perché non aveva alcuna intenzione di fare qualcosa che facesse scattare i suoi ricordi.

La reazione della ragazza non tardò ad arrivare e fu dolce come se l’era aspettata: si avvicinò al suo viso, unendo i loro fiati, strofinò il naso sul suo, in un gesto estremamente intimo e delicato ed infine unì le labbra alle sue.

In un primo momento, Davide non rispose, facendole capire che non aveva alcuna fretta, che non l’avrebbe costretta a fare niente, senza il suo consenso; poi, quando Anne prese a muovere le labbra con le sue, fece pressione con la lingua, delicatamente, entrando nella sua bocca ed esplorandola, assaporandola in ogni centimetro.

La cantante aderì di più al suo corpo, facendo scendere la mani sulla sua schiena, per poi tornare su, sui suoi capelli. Davide era su di giri, se avesse dato ascolto al suo istinto, l’avrebbe presa lì, in piedi, con mascolinità a rudezza; ma la ragazza aveva bisogno di affetto, di amore.

E lui voleva essere la sua fonte di guarigione.

Conscio che ora avrebbe potuto osare un poco di più, appoggiò delicatamente le mani sui fianchi della ragazza, massaggiandoli con cerchi circolari, con dolcezza estrema.

Si staccò da quelle labbra di cotone solo per poter gustare la morbidezza della pelle del suo collo, lasciando una linea di baci teneri, ma allo stesso tempo infuocati, sulla sua mascella.

L’ansimo della ragazza fu il segnale che gli permise di far scivolare con estrema cautela le mani sull’orlo della maglietta sudicia, per poi, introdurne una al di sotto, a toccare la pelle fresca di lei.

Dio, sei perfetta.

Davi poggiò il suo palmo sul ventre della ragazza, lasciandolo dapprima abbandonato, mentre si concentrava di nuovo sulle sue labbra, trasmettendole tutto il suo sentimento.

Come se le stesse lasciando il suo marchio.

Anne raggiunse la mano di lui e, imprigionandogli gli occhi nei suoi, spinse il suo palmo più in su, facendolo fermare sopra il reggiseno.

Davide si rese conto che ora, la sua eccitazione era evidente nei pantaloni di jeans e, sicuramente, Anne la sentiva anche aderire a sé, ma non sembrò esserne scandalizzata.

Dio, aveva così paura di fare qualcosa di sbagliato con lei...

La cantante gli sorrise debolmente, illuminando tutto il suo mondo con quel raggio di sole, prima di afferrare i lembi della t-shirt di lui e sfilargliela dalla testa, facendolo rimanere a torso nudo; gli occhi di lei si posarono sul suo torace, esplorando ogni minima parte del suo corpo, infine, timida, appoggiò la mano sul suo petto, proprio vicino al cuore.

Poteva sentire il calore di lei penetrargli la carne e finire lì, proprio dentro all’organo vitale, che aveva preso a pulsare all’impazzata.

La desiderava.

Davide si impossessò nuovamente delle sue labbra, accendendo con le sue mani, ogni parte del corpo della ragazza in cui passava, prima di baciarle l’orecchio e guardarla negli occhi, mentre prendeva l’orlo della sua maglietta, in una silenziosa richiesta di assenso.

Lei gli sorrise di rimando, e lui seppe che poteva toglierle di dosso quell’indumento; rimase affascinato, come se stesse guardando una statua greca, mentre osservava il torace di Anne, coperto solo da un anonimo reggiseno nero.

Sei bella come nessun’altra lo è.

Le scostò una ciocca di ricci ribelli e le baciò affettuosamente il collo, mentre con le mani, senza fretta, le slacciava il reggiseno, per poi abbandonarlo sul pavimento; la ragazza si strinse di più a lui, evidentemente eccitata, almeno quanto lui.

A quel punto, Anne prese ad armeggiare con il bottone dei suoi jeans, lasciandolo stupefatto da tanta iniziativa: aveva pensato che sarebbe stata restia, anzi, non aveva proprio messo in conto l’idea di rimanere senza pantaloni.

Ma quella ragazza era una scoperta dietro l’altra.

Strattonò i jeans e li scalciò via senza troppo riguardo, suscitando la prima risata di Anne della serata, anzi, probabilmente della giornata. Risero insieme, in un momento di completa intimità e condivisione, senza alcuna fretta di romperlo.

Fu la rossa ad avventarsi nuovamente sulla sua bocca, lasciandolo senza fiato ed eccitato, per poi scendere lungo il suo collo e sul suo petto muscoloso, riempiendo di baci ogni parte della sua pelle.

Sei un angelo.

Con quei baci stordenti e le carezze sul suo corpo di uomo, Anne gli fece capire che poteva lasciarsi andare un po’ di più, così la prese sotto le ginocchia e le passò una mano intorno al collo, alzandola dal pavimento e scortandola fino alla sua camera da letto, dopo la porta, in fondo al corridoio.

La adagiò sul letto ad una piazza e mezza, rimanendo in piedi ad osservare la perfezione del suo corpo: le curve seducenti ma non volgari, la pelle candida e pura, i capelli lunghi e infuocati.

Dio, avrebbe potuto guardarla per ore, se solo non avesse avuto la voglia di assaggiarla pezzo per pezzo, fino a prenderla tutto per sé.

La sovrastò senza schiacciarla o farla sentire in gabbia, la baciò a lungo e dolcemente prendendole il viso tra le mani, accarezzandole la guance e succhiandole i residui delle lacrime, cercando di far scomparire dal suo animo il dolore.

Scese verso il basso, abbandonando la sua bocca, per andare a posare le labbra, dischiuse, su un capezzolo; non appena toccò la sua pelle, la ragazza si inarcò, gemendo dolcemente e in un modo che fece perdere il controllo a Davide.

Prese a succhiare con trasporto il seno, mentre con le mani scendeva verso l’orlo dei jeans, per armeggiare con i bottoni e aprire la cerniera: Anne non aspettava altro e alzò il sedere dal letto, in un invito esplicito a levargli di dosso quell’ostacolo.

Rimase in mutandine e il chitarrista fece scivolare la mano dalla punta dei piedi fino all’interno coscia, dove si soffermò a lungo pizzicandole la pelle e farle capire quali erano le sue intenzioni, mentre la sua bocca era impegnata a stuzzicare il suo seno sinistro.

Continuò la sua salita e si fermò non appena arrivò alla mutandine, il palmo appoggiato delicatamente e possessivamente sulla sua intimità, sopra la biancheria; aspettò un segno della ragazza, che, infine, si inarcò avvicinandosi di più alla sua mano.

Davide si lasciò sfuggire un sorriso vittorioso, mentre alzava i bordini di tessuto e si infiltrava in quella che era una zona segreta, per lui; prese a stuzzicarla dapprima in superficie, strappandole qualche ansimo insoddisfatto e al limite, con l’intenzione di farle volere di più, sempre di più, cosa che in effetti successe: fu Anne a raggiungere la mano di lui e a spingerla più in giù, mentre catturava le sue labbra in un bacio appassionato.

Lui, palesemente eccitato, insinuò un dito dentro di lei, ansimando e gemendo insieme a lei ogni volta che toccava una parte più sensibile; fece roteare il dito, a cui poi ne aggiunse un altro, ormai smanioso di porre fine a quel supplizio e farla sua, all’istante.

Eppure, c’era una cosa che bramava fare...

Le sfilò le mutandine, sorridendole complice, mentre sul viso di lei nasceva un sorriso colpevole e malizioso; le aprì le gambe, posizionandosi all’interno, incapace di trattenersi ancora un solo istante da quel suo desiderio irrefrenabile...

Abbassò la testa e prese in bocca la sua intimità, strappandole un gemito rumoroso. Era così morbida che avrebbe potuto assaggiarla per ore, senza mai stancarsi; prese a mordicchiarle le labbra interne, leccandole la pelle, facendole ansimare e pregarlo per averne di più...

Si stava ubriacando della sua pelle, del suo sapore intimo e segreto, che lo mandava fuori di sé e gli faceva perdere completamente il senso della ragione, perché nulla in quel momento contava, se non Anne, la sua Anne.

Anne morbida, dolce, accogliente.

Le labbra di lui sul suo sesso, in un bacio languido e divino, gli occhi di lei nei suoi, la mano di lui che andava ad unirsi all’amore che la sua lingua le stava già procurando, aumentando il desiderio, incrementando la passione.

Alzò finalmente la testa, notando che la ragazza era pronta, mentre spingeva in su i fianchi, per chiederne di più, per averne di più...

Percorse a ritroso il suo corpo, il ventre, la pancia, il seno, fino a tornare sulle labbra di lei, morbidi, dolci ed accoglienti come la sua intimità, sigillando il loro legame, per sempre.

Anne fece scivolare le mani lungo i fianchi di lui, fino a strattonare i boxer, in un vano tentativo di sfilarglieli, che fece ridere Davide.

«Ci penso io» disse con il fiato corto, mentre si disfaceva di quell’ultimo fastidioso intralcio.

Lei rise sulle sue labbra, scaturendogli mille brividi nel corpo, che lo accompagnarono per i successivi istanti.

Dio, quella ragazza lo mandava completamente fuori, come nessuna era mai riuscito a fare; forse era per via dei suoi modi intraprendenti, della maniera in cui riusciva a passare da bambina desiderosa di affetto a donna bisognosa di carne.

O forse, più semplicemente, perché era ubriaco di Anne.

Si guardarono per un solo istante, prima di capire che entrambi avevano bisogno di unire il loro legame e non avrebbero sopportato più a lungo quel supplizio: erano arrivati al culmine, il membro di Davide fremeva per avere ciò che desiderava, esattamente come la sua mente.

Le diede un ultimo lunghissimo bacio, mentre scendeva di nuovo verso il basso, lambendole l’ombelico, soffermandosi sul ventre, per poi, infine, puntellarsi sulle braccia e imprigionarle gli occhi nei suoi.

Occhi negli occhi.

Scese su di lei e le baciò lievemente la fronte, prendendosi con estrema lentezza possesso di quel corpo, maltrattato da un essere che meritava solamente di morire.

Si fece spazio dentro di lei, non trovando alcun ostacolo, come già sapeva, quindi la riempì fino in fondo, tremando dal piacere che lo stava portando al limite.

Anne spinse in alto il bacino, in un’esplicita richiesta per averne di più e Davide la accontentò: uscì di nuovo lentamente da lei, per poi affondare con una sola spinta, fino in fondo, abbandonandosi ad un gemito animalesco, godendo di quel piacere estremo, mentre sentiva la ragazza inarcarsi sotto di lui e ansimare. Allora Davi prese ad ondeggiare, facendo sfregare i loro bacini, per farla abituare a quella intrusione e il piacere iniziò a prendere il posto della ragione, annebbiandogli la mente.

Non ci fu tempo per altre considerazioni, perché Davide aumentò il ritmo, entrando ed uscendo da lei con un nuovo impeto passionale.

I loro gemiti uniti.

Le loro labbra unite.

I loro sessi uniti.

Si fecero trasportare dal piacere, volando sopra il mondo, liberandosi dai pensieri tristi e dai ricordi dolorosi, mentre tutto diveniva sfocato e perdeva consistenza.

«Sarò la tua cura, Anne...» riuscì a mormorare tra un gemito e l’altro.

Quegli occhi verdi erano la cura.

La voce di lei nella sua.

Il sesso di lui nel suo.

E poi gridò  ̶  la voce di lui in quella di lei  ̶  mentre toccava il culmine, inebriandosi della sua pelle, del suo odore, dei suoi occhi, di lei.

Fu scosso da numerosi fremiti, mentre si accasciava su di lei, stremato.

Rotolò su un fianco, il petto che si alzava e abbassava al ritmo incostante del suo cuore, i battiti cardiaci al massimo, reduci da quell’esperienza estrema.

Anne si accoccolò su di lui, appoggiò la testa sul suo petto e Davide la abbracciò, intrecciando le gambe con le sue, in una morsa che non aveva niente di pericoloso, ma significava solo appartenenza.

Non si rese conto del momento preciso in cui chiuse gli occhi, ma, prima che venisse trascinato nel mondo dei sogni, sentì due labbra morbide depositare un bacio sul suo petto.

Profumo di vita.

Profumo di Anne.

 

 

****

 

 

 

Angolo Autrice:

Per tutti quelli che sono abituati a leggere delle vere scene Rosse, chiedo scusa umilmente a causa di questo capitolo, che ho provato a rendere rosso; questa è stata la prima scena “hot” scritta in vita mia, quindi vi prego di essere clementi e perdonare questo orrore e, vi chiedo di dirmi cosa ne pensate in tanti, davvero una recensione sarebbe ben gradita, perché è importante.

In più, è un capitolo in cui ho messo anima e corpo, soprattutto per quanto riguarda l’esperienza di stupro di Anne e ci tenevo a precisare che le parole ad inizio capitolo, quelle senza alcune firma, sono mie.

Grazie a tutti per il sostegno, in particolare ad Aniasolary, per i suoi consigli riguardo ogni scena di questa storia, commentando in anticipo; sei stata essenziale.

A Postergirl per l’aiuto riguardante la fatidica scena rossa, sei stata la mia consigliera e senza te probabilmente avrei fatto un vero disastro.

Ed infine, come sempre, un enorme ringraziamento alla ragazza che si subisce tutti i miei errori e le mie insicurezze, che corregge con dedizione, anche se pensa di essere una “beta-reader sciagurata”: Lavisvampita.

 

Grazie a chiunque abbia letto, un abbraccio,

Eryca.

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Capitolo 10
*** Lacrime di verità ***


10.

Lacrime di verità

 

 

Has someone taken your faith?
Its real, the pain you feel
The life, the love
You die to heal
The hope that starts
The broken hearts
You trust, you must
Confess

Foo Fighters – “Best Of You”

 

 

 

 

 

Era sempre stato più facile, per Riccardo, mentire piuttosto che raccontare la verità.

Quando era solo un bambino, sua madre gli ordinava spesso di mettere in ordine la sua stanza e lui, piuttosto di non farlo, decideva di fare la faccia d’angelo e nascondere la polvere sotto il letto.

Non aveva mai provato sensi di colpa, nel dire bugie; aveva sempre pensato che oscurare la verità non avrebbe ferito nessuno, in fondo erano solo piccole trasgressioni.

Eppure, con il passare degli anni, mentire era divenuta una vera e propria mania per lui, che gli impediva di essere sincero con il mondo ma, soprattutto, con sé stesso.

E continuava a raccontarsi delle fandonie, pensando che stesse facendo del bene.

E invece si stava torturando.

Aveva sempre pensato che ci fosse un confine sottile tra realtà e finzione, le cose possono fondersi a formare una crema densa e succosa, a tal punto da impedirti di riconoscerle; ma non si era mai soffermato sul fatto che quel limite era maledettamente importante.

Impediva di perdere sé stessi.

E adesso, dove sei tu, perso nel nulla, Riccardo?

Se ne stava seduto sul piccolo letto singolo in cui aveva dormito tutte le notti della sua infanzia, dentro quella stanza un po’ troppo piccola e un po’ troppo grossa; la trapunta era di un blu intenso con macchine disegnate sopra, sempre la stessa, si ritrovò a pensare sorridente.

Si alzò e si diresse verso il piccolo armadio nel quale si nascondeva quando aveva paura di sé stesso. Riccardo contemplò la sua immagine nello specchio affisso alla parete: occhi vitrei, assenti, di chi ha imparato a mentire.

Mentire era respirare per lui.

Si ricordava vagamente dei momenti spensierati che aveva passato in quella casa, cucinando torte al cioccolato in compagnia di sua madre, giocando a prendersi con la sorellina, Caterina. Poi era subentrata l’adolescenza e con essa i dolori, il suo sentirsi costantemente inadeguato e fuori posto; al liceo era un ragazzino strano che se ne stava sempre per i fatti suoi, lo zainetto nero sulle spalle, l’album dei Ramones custodito nella tasca interna.

D’un tratto sentì una fitta lancinante al petto, come se il cuore dovesse implodere da un momento all’altro. Fu costretto ad accasciarsi al pavimento, abbracciandosi le ginocchia come a nascondersi dentro di sé, mentre si rendeva conto che la testa minacciava di spaccarsi in due, il dolore insopportabile.

Il cervello concentrato su una sola, malatissima cosa.

Cocaina.

«No, no, no, no, no...» si ritrovò a balbettare come un pazzo, il terrore impadronitosi del suo corpo, conscio solo della sua disperazione.

Doveva fare qualcosa, trovare una soluzione.

Il suo corpo non ammetteva scuse, voleva una sola cosa in quel momento e se non l’avesse ottenuta allora, probabilmente, si sarebbe rivoltato contro la mente.

Cocaina.

Doveva trovare della dannatissima cocaina o sarebbe andato completamente fuori di testa nel giro di pochi minuti. La consapevolezza di essere un tossicodipendente alle prese con una crisi d’astinenza non lo toccò: non era ancora il momento per la lucidità.

Ricca si prese le mani tra i capelli mentre, come un cane da caccia, prese a frugare nei cassetti della piccola scrivania, nella sua piccola borsa da viaggio, sperando di trovare le dosi che si era abbondantemente fatto la notte prima, quando sua madre lo pensava addormentato.

Cazzo, cazzo, ne ho bisogno. Ne ho bisogno.

Si rese conto di sembrare un ladro, di essere arrivato proprio al fondo, perché stava cercando la droga nella casa in cui era cresciuto, ma non gliene importò nulla.

Doveva avere della cocaina, altrimenti non sarebbe sopravvissuto. Sentì le viscere contorcersi, gli organi interni contrarsi e rimpicciolire... si ritrovò ad urlare.

Urlò come mai aveva fatto prima.

Urlò disperazione.

Urlò sofferenza.

Urlò stanchezza.

Urlò.

Urlò.

Urlò.

E pianse.

Si abbandonò al flusso scorrevole delle lacrime, rannicchiandosi sul pavimento come un verme e si sentì veramente come se fosse uno di quegli animaletti.

Lacrime di acqua piovana, bagnate, sporche, contaminate dalla droga in circolo nel suo corpo, ormai impadronitasi di ogni suo neurone. E Riccardo si sentì così viscido e squallido che non riuscì a smettere di piangere, neanche quando si rese conto della madre ferma sullo stipite della porta.

Pianse per la sua dipendenza dalla cocaina.

Pianse per la sua dipendenza dalle bugie.

Pianse per la sua dipendenza dall’autodistruzione.

Pianse per il sé stesso che era andato perduto.

Pianse perché sapeva che se avesse smesso sarebbero ricominciate le convulsioni e avrebbe rubato del denaro a sua madre, pur di avere la sua maledettissima cocaina.

Pianse perché se lo meritava, di piangere per sé stesso.

Sentì le braccia fragili di sua madre avvolgersi attorno al suo corpo scosso dai tremori e non si oppose, non ne aveva la forza, non ne aveva il coraggio.

Si costrinse ad aprire gli occhi per incrociare il suo riflesso nel piccolo specchio della parete.

Vide il fantasma distrutto di un ragazzo solare, giocoso, divertente e un po’ tonto, come gli avevano sempre detto tutti.

Vide sé stesso sgretolarsi, mentre le sue menzogne lo mangiavano.

Basta.

«Basta... » mormorò asciugandosi le labbra, incapace di controllare gli spasmi delle gambe.

Desiderava la cocaina, in quel momento. La voleva e sarebbe stato capace di uccidere pur di averla.

Guardò sua madre, guardò i suoi occhi e si rese conto che la stava uccidendo.

Basta.

Basta mentire.

«Mamma» sussurrò attirando lo sguardo addolorato della donna che lo aveva messo al mondo.

Cercò di fermare la mandibola, che continuava a battere.

Basta mentire.

«Sono un drogato.»

Basta mentire.

«Sono un drogato in crisi d’astinenza.»

Basta mentire.

«Sono un drogato in crisi d’astinenza e...»

Basta mentire.

«… e sono gay.»

 

 

 

****

 

 

 

 

 

Fu mentre sgranocchiava i deliziosi biscotti al cioccolato di Charlotte Melì, in compagnia di Anne e Davide, che il cellulare di Matteo prese a squillare insistente, spezzando le risate con la suoneria dei Guns N’ Roses.

«Pronto?»

Silenzio.

Forse qualcuno aveva sbagliato numero contattandolo, eppure sentiva un respiro affannato provenire dall’altro capo del telefono, come se qualcuno stesse cercando le parole.

«Chi parla?» Lanciò un’occhiata furtiva ai suoi due amici, che ricambiarono con uno sguardo interrogativo.

Si stava stancando di quel silenzio e di quel fiato corto, lo mettevano in soggezione, lo rendeva angosciato e preoccupato, cosa che non gli piaceva affatto.

«Matteo...»

Quella voce.

Sgranò gli occhi, il panico impossessatosi immediatamente della sua mente, lasciando poco spazio alla sensazione di serenità che stava provando pochi attimi prima di ricevere quella chiamata.

Era lui. Lui. Lui.

«Riccardo!» Non appena udirono quel nome, i compagni di gruppo misero in moto le orecchie; soprattutto Davide, amico da sempre dell’introspettivo batterista.

Di nuovo silenzio.

E un respiro.

Un singhiozzo.

Di colpo la paura prese il posto del panico, rendendolo conscio che, se lo chiamava mentre stava da sua madre, con una reazione così preoccupante, Ricca non doveva stare assolutamente bene; strinse il cellulare all’orecchio per udire meglio.

«Che cosa succede, Riccardo?» la voce preoccupata «Ci sei?»

Davide si avvicinò velocemente a Matteo, facendogli segno di passargli il telefono, evidentemente in ansia per la salute dell’amico; il chitarrista doveva volere un bene inimmaginabile a quel ragazzo testardo ed infantile che era Riccardo, altrimenti non avrebbe avuto quell’espressione ansiosa sul bel viso.

«Non c’è la faccio... Ho bisogno di cocaina... La voglio... Non ci riesco...»

Merda.

Fu come se gli avessero appena tirato un enorme pugno nello stomaco, anzi, il dolore fu più forte e il colpo inaspettato: come avevano potuto sottovalutare la dipendenza del loro amico dalla droga?
Aveva sempre sminuito l’uso che il batterista faceva di sostanze stupefacenti, più preoccupato di fargli ammettere di essere omosessuale; e invece aveva sbagliato tutto, era stato egoista.

E ora Riccardo stava soffrendo, a casa di sua madre.

«Dove sei, Ricca? Dimmi dove sei!»

Altri singhiozzi.

Dannazione.

«Davide lo sa... M-ma...» sembrava che stesse lottando contro i tremori «… Vieni da solo, ti prego»

Merda, merda, merda!

Lo poteva fare, lo doveva fare.

Prese un grosso respiro e si fece coraggio, per il suo amico, perché aveva il disperato bisogno di aiuto e voleva il suo. Glielo doveva, non lo avrebbe abbandonato.

«Arrivo, Riccardo. Arrivo.»

Chiuse la chiamata.

Guardò i suoi amici, improvvisamente avvolti da un silenzio tombale, gli occhi ansiosi di sapere ciò che stava succedendo.

«Davide, ho bisogno che tu mi dica dove vive la madre di Riccardo.»

Per te, Ricca.

Solo per te.

 

 

La proprietà non era fatiscente, maltenuta e con le foglie d’edera che si arrampicavano sulle pareti di pietra, come Matteo se l’era immaginata; si trattava, piuttosto, di una piccola casetta di campagna, poco fuori Torino, con un giardino curato e decorato da tanti fiori colorati.

Scese dalla macchina e si fece strada lungo il vialetto, fermandosi davanti alla porta in legno, che portava su di essa la scritta “Baldi – Sacco”.

Ci siamo.

Il campanello emise un piacevole rumore di campana quando Matteo lo pigiò, riportandogli alla mente che il suo piccolo alloggio non possedeva uno di quegli oggetti.

Se ne sarebbe procurato uno, ma ora non era quella la sua priorità.

Quando il bassista si ritrovò di fronte alla donna che gli aveva appena aperto la porta, dovette concentrarsi per rendere imperscrutabile la sua faccia; era una signora sulla cinquantina, con due grosse occhiaie nere sotto gli occhi gonfi, segno che doveva aver smesso da poco di piangere. Doveva essere stata una ragazza affascinante, da giovane, perché possedeva due labbra carnose e, dietro tutto a quel dolore, nei suoi occhi si intravedeva un azzurro tenue.

Dio, Ricca. Guarda come hai ridotto tua madre...

«Salve, signora. Sono Matteo, un amico di Ri...»

«Lo so. Mi ha chiesto di comporre il tuo numero di telefono.»

Oh.

«Entra.» disse senza curarsi troppo della sua presenza, in realtà.

Non aveva mai visto una donna tanto distrutta. Ma, in fondo, cosa voleva saperne lui di madri e figli? Come poteva anche solo provare ad immaginare cosa doveva significare per quella signora vedere il suo bambino in quello stato?

Sembrava che le avessero portato via un pezzo di sé stessa.

Gli fece strada dentro la casa e Matteo notò che anche l’interno aveva l’aria di un’abitazione modesta, ben tenuta e vissuta.

Ma c’era troppo silenzio.

«Ti avverto, non risponde delle sue azioni.» disse fermandosi davanti ad una porta, gli occhi fissi nei suoi, quasi ad implorarlo di riportargli indietro il suo piccolo. «Non... non è più lui.»

Non posso farcela a guardare negli occhi di questa madre.

La donna bussò leggermente alla porta, per poi aprire uno spiraglio che non gli lasciava intravedere molto; mise la testa dentro la camera e la vide trattenere un sussulto.

«Riccardo, c’è il tuo amico...» la voce dolce, premurosa, ma nello stesso impaurita.

Che strazio.

La madre gli fece cenno di entrare, per poi sorridergli amaramente e dirigersi verso qualche altra parte della villa, probabilmente a rintanarsi dentro ciò che rimaneva di lei.

Non si torna indietro.

«Ricca, sono io, Matteo.»

Nessuna risposta. Solo rantolii, gemiti, sussurri.

Matte dovette ricorrere a tutto il suo sangue freddo e alla capacità di mascherarsi, per non mettersi le mani nei capelli e scappare alla vista di quel ragazzo solare, raggomitolato in fondo ad un letto da bambino, le braccia intorno alle sue gambe.

Oh, dio, Riccardo...

Come poteva un uomo ridursi in quel modo con le sue stesse mani?

Ciò che Matteo provò fu solo un enorme senso di colpa per non essersi accorto che Ricca stava soffrendo, si stava annullando cercando conforto in una finzione che non lo avrebbe portato ad alcuna soluzione, se non quella di morire.

Oh, Dio. Come aveva potuto non rendersi conto di quanto il suo amico stesse soffrendo?

Proprio lui che di nascosto aveva passato interi pomeriggi a scrutarlo di sottecchi, nella sala prova, non aveva notato il cambiamento radicale nei suoi occhi.

Come diavolo aveva potuto essere così cieco?

All’improvviso, Riccardo alzò gli occhi su di lui e Matteo non poté fare a meno di sussultare.

Occhi sofferenti, rossi e vitrei come quelli di un morto; occhi feriti, sciupati, privati di qualsiasi emozione e lasciati marcire come se niente fosse.

Dove sei finito, Riccardo?

Occhi in lacrime.

Il batterista che si dava tante arie, che faceva finta di essere eterosessuale, che aveva sempre la battuta pronta, l’animo del gruppo... stava piangendo implorando pietà.

Fu in attimo che il bassista si ritrovò sul letto, le braccia intorno al corpo magro del ragazzo a stringerlo forte contro il suo petto, per fargli sentire che no, non era da solo in quel mondo infame, che c’era qualcuno a cui importava della sua vita, della sua anima.

Riccardo si aggrappò disperatamente alle spalle di Matteo, lasciandosi accarezzare i capelli della mani gentili dell’altro, facendosi cullare, sentendosi un po’ a casa.

E Matteo non poté fare a meno di piangere a sua volta, perché non voleva che Ricca morisse, voleva che tornasse il ragazzo svampito e simpatico con cui aveva riso quel giorno al bar, lo stesso ragazzo che lo aveva baciato appassionatamente per poi darsela a gambe levate.

«Ho detto... Gliel’ho detto... A mia mamma...» prese a farneticare il batterista tra un singhiozzo e l’altro, sforzandosi di mettere insieme un discorso.

«Che cosa gli hai detto, Ricca?»

Il ragazzo si nascose nel petto di Matteo, che non smise nemmeno per un attimo di massaggiargli la schiena, di farlo sentire al sicuro e protetto, sperando che potesse essergli di aiuto.

«Che sono un drogato... e...»

A quel punto, alzò gli occhi e li fissò su quelli di Matteo, privandolo di qualsiasi capacità discorsiva, seccandogli la bocca.

Tutto con un semplice, intenso sguardo.

«... Che sono gay.»

Oh, porca puttana.

Si era aspettato una qualche strana confessione, magari per aver rubato con l’intento di trovare i soldi per la cocaina o chissà quale altra cosa, ma... non quella confessione. Ormai aveva perso le speranze di sentire la verità sulle labbra di Riccardo, ma quel ragazzo non smetteva mai di stupirlo.

Lo abbracciò dolcemente, possessivamente, rendendosi conto che tante cose stavano cambiando e non era tutto negativo quello che stava succedendo: Ricca aveva deciso di dire la verità.

Avrebbe affrontato ciò che la vita aveva messo in serbo per lui.

Era omosessuale, era drogato.

Per la prima confessione ci sarebbe stato lui al suo fianco... e anche per la seconda.

«Va tutto bene, piccolo...» sussurrò baciando i capelli verdi «Ci sono io qui con te.»

Ed era vero.

Non lo avrebbe lasciato solo mai più, neanche per un secondo; avrebbe assistito alle visite mediche, alle discussione con la famiglia che sarebbe venute, alla confessione davanti ad Anne e Davide.

Sarebbe sempre stato al suo fianco.

 

 

****

 

 

 

Angolo Autrice

Lo so, è un capitolo straziante, è stata una vera e propria agonia scriverlo, lo giuro; ma questa era la svolta che avevo in mente fin dall’inizio per il nostro caro Riccardo e, in fondo, anche per Matteo.

Era necessario che Riccardo capisse veramente cosa era importante nella sua vita e cosa doveva fare di sé stesso: aveva bisogno di sbattere la testa contro il muro, come succede spesso anche nella vita reale. Quante volte è successo a me!

Una cosa importante: non so di preciso quali siano i sintomi dell’astinenza da cocaina, visto che non ne faccio uso (xD), ma ho trovato questo leggendo; se ci sono scemate vi prego di scusarmi.

Mi trovo nuovamente a chiedervi di recensire, perché, come potete vedere, i commenti sono scarsi e io non so se la storia è apprezzata oppure no, cosa vi piace e cosa vorreste che io migliorassi.

Quindi, per favore, lasciatemi un pensiero, io rispondo sempre.

 

Grazie ad aniasolary, Chiku, Kureiji, Miliko_Akiko chan, MoonLilith, Neal C_, oOo LaViSvampita oOo, postergirl84, RoxannePotter, Stella94, Zonami84 per aver inserito la storia nelle Seguite.

Grazie ad  a n t o  per aver inserito la storia tra i Preferiti.

E un grazie va anche a tutte le persone che hanno recensito: postergirl84, aniasolary, Miliko_Akiko chan, Roxanne Potter, cami_country dreamer, Neal C_,Yellow Daffodil, Zonami84.

 

Se avete voglia di chiacchierare, di parlare un po’ di questa storia, aggiungetemi su Facebook, cercando Eryca Efp

 

La vostra Eryca.

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Capitolo 11
*** Il suono del silenzio ***


11.

Il suono del silenzio




 

All I ever wanted

All I ever needed

Is here in my arms

Words are very unnecessary

They can only do harm

 

Depeche Mode – “Enjoy the Silence”

 

 

 

 

Davide non aveva mai pensato di essere un uomo forte.

Lo aveva sempre saputo; quando preferiva stare in silenzio piuttosto che creare una discussione, quando di fronte al divorzio dei suoi genitori si era nascosto nella musica.

Non si era mai fatto false speranze, pensando che un giorno sarebbe stato lui a dettare le regole, aveva preferito arrendersi davanti all’evidenza del suo essere mite.

Ora, si concentrò di più sul suono struggente dalla sua chitarra, facendo uscire melodie lente e drammatiche che rispecchiavano appieno il suo stato d’animo. Si abbandonò alla musica, lasciandole le redini della sua vita, sperando che lo salvasse da quella situazione terribile.

Dio, non sarebbe stato in grado di essere forte a tal punto, proprio lui che aveva sempre evitato i problemi per non doversi ritrovare rinchiuso.

Il suo migliore amico era drogato.

Alzò lo sguardo per un momento dal suo strumento musicale, rivolgendo la sua attenzione verso Matteo. Riccardo aveva voluto lui, aveva chiamato lui, si era lasciato salvare da lui.

Probabilmente avrebbe dovuto essere contento del fatto che Ricca, dopo tanto tempo, si fosse deciso a chiedere aiuto, eppure non poteva che crogiolarsi nella gelosia: il suo migliore amico di sempre, con cui era cresciuto e condiviso tutto, non aveva chiamato Davide, ma Matteo.

Il suo migliore amico era drogato e lui non se ne era accorto.

Viveva con lui giorno e notte, come aveva potuto non accorgersi della sua dipendenza? Si diede dello stupido rendendosi conto che aveva sempre preferito attribuire l’uso di stupefacenti alla voglia di andare un po’ su di giri, giustificandolo per la giovane età.

I sensi di colpa lo facevano sentire a pezzi, lo stavano mangiando da dentro, impedendogli di pensare a qualcosa che non fosse Riccardo.

Il suo migliore amico era drogato e lui non se ne era accorto.

L’immagine del batterista che entrava nel loro alloggio accompagnato da Matteo, gli occhi neri cerchiati dalle occhiaie, imploranti pietà, continuava a riaffiorare nella sua mente come un pugno nello stomaco. Quando lo aveva visto in quello stato, qualche giorno prima, la consapevolezza era entrata improvvisamente nel suo animo, come una nube tossica venuta a distruggerlo.

La consapevolezza che il suo migliore amico era drogato e lui non se ne era accorto.

La consapevolezza del fatto che la sua debolezza aveva fatto ridurre il suo migliore amico a un fantasma lo aveva investito come un treno in corsa, togliendogli il fiato.

Il suo migliore amico era gay.

Non era stata una grande rivelazione, dopotutto; quando Riccardo lo aveva detto ad alta voce, aveva tutta l’aria di essersi tolto un peso dallo stomaco, quindi la cosa non aveva provocato del dolore a Davide, oltretutto ancora concentrato sul fatto che il suo migliore amico era drogato.

Il fatto che a Ricca piacessero gli uomini al posto delle donne poteva essere vista come una diversità dalla massa ma, in fondo, il suo migliore amico era sempre stato una persone che andava controcorrente, quindi ce lo si poteva aspettare da lui, se lo si metteva in quei termini.

No, non era rimasto scioccato dalle sue preferenze sessuali, in fondo non era una cosa che lo riguardava. Ciò che veramente lo aveva segnato e aveva intaccato nel profondo era stato l’apprendere che il suo migliore amico era drogato.

Nella frase “il mio migliore amico è gay”, Davide non trovava niente di sbagliato, doloroso; l’essere omosessuale non l’avrebbe di certo portato alla morte o all’autodistruzione, mentre invece fare uso di stupefacenti lo aveva reso una specie di non-morto.

Do.

Do era la nota iniziale, quella senza cui non sarebbe esistita la scala.

Do era l’inizio di tutto, l’origine del suono, della musica.

Do era rinascita.

Do era un nuovo inizio.

E Davide aveva il disperato bisogno di credere che avrebbe potuto rinsavire dalle sue ceneri, che avrebbe potuto abbracciare il suo migliore amico chiedendogli scusa per essere stato un debole.

«Ragazzi, dobbiamo finire qui.» la voce di Matteo  Matteo che era stato scelto dal suo migliore amico – lo riportò alla realtà, mentre la musica interrotta lasciava un silenzio malinconico nella Sala Prove.  «Devo andare a prendere Riccardo alla terapia di gruppo, ha detto che oggi finiva prima.»

Terapia di gruppo lo catapultò nuovamente al punto di partenza: il suo migliore amico era drogato.

Da quando era tornato da casa di sua madre, Ricca aveva iniziato una terapia disintossicante che gli portava via gran parte del suo tempo: doveva partecipare a conversazioni con altre persone, sedute dallo psicologo e visite mediche per accertarsi che non fosse ricaduto nella spirale della droga.

Tutto ciò comprometteva la sorte dei Mad, che stavano aspettando il prossimo concerto per poter finalmente avere a che fare con l’Alternative Productions; il fatto che il loro batterista fosse in cura per smettere di usare stupefacenti non donava una bella immagine al gruppo e per di più non potevano prepararsi all’evento come avevano progettato.

Davide aveva, certo, pensato a questi lati della medaglia, ma il suo rammarico e la preoccupazione per il suo migliore amico superavano il desiderio di sfondare nel mondo della musica: se Riccardo non avesse fatto parte di tutto quello che stava accadendo, allora per il chitarrista non valeva neanche la pena sforzarsi.

Quello che era nell’interesse di tutti, ora, era che Riccardo Sacco rimanesse pulito e smettesse una volta per tutte con la cocaina.

«Come sta andando?» chiese Anne – la sua Anne, quella con cui aveva condiviso la notte più emozionante di sempre –

«Non ha più toccato alcun tipo di droga, quindi credo stia funzionando, ma è troppo presto per poter dire qualcosa... I medici dicono che bisogna vedere come risponderà alla terapia, se sarà abbastanza forte da rimanerne fuori definitivamente...»

Riccardo era forte.

Anche se aveva sempre fatto la parte del bambino fragile, Ricca era sempre stato più duro di Davide; ultimamente si era rintanato nella cocaina, era vero, ma era stato solo un periodo, ora si sarebbe rimesso in carreggiata, tornando con il suo sorriso contagioso.

Che cosa pretendeva di saperne, Matteo?

La rabbia nei confronti del bassista, l’infantile senso di tradimento che sentiva e i sensi di colpa che lo stavano mangiando all’interno lo portarono a lanciare la chitarra a terra e uscire a grandi passi dalla Sala, per dirigersi senza meta lungo la strada.

Il suo migliore amico era gay.

Ok, lo poteva accettare, non era la fine del mondo. In realtà non gliene fregava proprio niente.

Il suo migliore amico era drogato.

Quello era il vero problema che avrebbero dovuto affrontare insieme. Perché Davide sentiva che avrebbe dovuto essere al fianco di Riccardo, in quel momento... perché non potevano essere uniti anche in quella disgrazia?

Il suo migliore amico era drogato e lui non se ne era accorto.

Si abbandonò alle lacrime, mentre il fiume scorreva impetuoso sotto di lui.

 

 

****

 

 

 

Davide le aveva donato il suo silenzio, quando non aveva avuto la forza fisica per parlare.

Davide le aveva donato il calore del suo corpo, quando nient’altro avrebbe potuto rinfrancarla.

E ora lei aveva il dovere di ripagarlo con la stessa moneta, di sedersi accanto a lui e mettergli una mano sulla spalla, mentre se ne stava seduto a fissare l’acqua.

Anne si avvicinò con lentezza e notò con stupore che non alzò lo sguardo su di lei, come faceva ogni volta.

La consapevolezza poteva fare male come nient’altro quando avevi passato tutta la vita ad infossare una verità dolorosa: Davi ne era distrutto.

«Come stai?»

La domanda più stupida che si potesse fare ad una persona sofferente era appena uscita dalle sue labbra, ancora prima di rendersi conto della stronzata che aveva appena detto.

Si maledisse per tanta mancanza di tatto, ma ormai il danno era fatto e finalmente Davide – il suo Davide – alzò gli occhi andando ad incontrare quelli di Anne.

La scoperta della condizione psichica e fisica di Riccardo aveva sconvolto tutto il gruppo, compresa lei stessa, ma il chitarrista sembrava sconvolto, come se un mostro lo stesse divorando dall’interno.

Un mostro che nessuno avrebbe potuto sconfiggere.

«Ho mal di testa, sono fuggito per questo.»

La ragazza gli rivolse uno dei suoi sguardi più affettuosi, mentre si inginocchiava per afferrare una pietra grigiastra.

«Non si puoi scappare ogni volta che hai mal di testa, Davide. Tornerà, non sarà l’ultima volta, questa. A che cosa serve sottrarsi al dolore del momento se non lo curi? Spegnere la musica ti allevierà l’acutezza del male per un po’, certo, ma poi tornerà ancora. E ancora. Sempre più insistente, sempre più forte. E finché non prendi le medicine non smetterà mai.»

Anche il tuo dolore, Anne, non cesserà mai se non ti prendi cura di te stessa.

Lei non provava pietà per Riccardo. Neanche un po’.

Lo invidiava.

Anne era estremamente seccata dal fatto che il batterista fosse riuscito a tirare fuori il coraggio sepolto dentro di lui, a gridare al mondo intero che anche se era un drogato ed era omosessuale faceva parte di quella Terra anche lui, e aveva il diritto come tutti gli altri ad essere felice.

Aveva smesso di correre dal passato, aveva preso coscienza di ciò che era e chi voleva diventare.

Lei non era mai riuscita a farlo.

L’azzurro degli occhi di Davide era opacizzato dalle lacrime che oscuravano tutto il resto con la loro sofferenza.

«Stiamo parlando ancora del mal di testa, Anne?»

«Abbiamo mai parlato del mal di testa?»

Ed eccolo di nuovo tornare come un tornado insistente, uno di quegli elementi che, nonostante tu cerchi in tutti i modi di eliminare, sono una costante nella tua vita e non ti abbandoneranno mai.

Il silenzio.

Il silenzio era la caratteristica principale della loro relazione, era ciò che la rendeva così particolarmente straordinaria. Non erano una di quelle coppie che parla, parla, parla fino allo sfinimento, no; non avevano discusso riguardo a ciò che si era creato tra di loro, non si erano detti che avrebbe formato una coppia fissa, ma nemmeno che non sarebbe stati altro che amici.

Silenzio.

Era così che doveva andare, perché non c’era alcun bisogno di esprimere a voce ciò che entrambi già sapevano; non avevano alcuna necessità di chiarire la situazione, erano entrambi consapevoli, e allo stesso ignari, di ciò che stava accadendo tra loro due, stavano condividendo.

Una condivisione resa possibile da tutto quel silenzio.

La quiete non era snervante come invece poteva risultare ad altre persone, loro la percepivano: era come se la potessero sentire tramite tutti e cinque i sensi e grazie a ciò, il silenzio poteva trasformarsi in un’infinità di parole, parole di gioia, di amore, di tristezza e di conforto.

Quel silenzio era un fiume in piena, colmo di emozioni e pronto ad essere afferrato da entrambi.

Anne lo sapeva così profondamente che aprì bocca, perché stava già parlando.

Silenzio.

Davide, ti sono vicina.

Silenzio.

Davide, non mi lasciare.

Silenzio.

Davide, non fuggire da me.

Silenzio.

Davide, io ti amo.

Ti amo.

Ti amo.

Ti amo.

Ed Anne non riusciva a togliere lo sguardo da quell’azzurro intenso che la stava incatenando, perché adesso il silenzio stava urlando, stava urlando tutto l’amore che lei provava per Davide, stava urlando e non si sarebbe fermato.

Davide si lasciò sfuggire un’altra lacrima e Anne la vide scorrere frenetica sulla sua guancia, come se stesse cercando un rifugio da quella rivelazione.

Smettila di scappare, Davide.

Smettila di scappare e mi fermerò anche io.

Prendiamoci per mano e diventiamo coraggiosi, insieme.

Come poteva permettersi di essere una vigliacca se il silenzio glielo stava impedendo?

Era arrivato il momento in cui avrebbe dovuto iniziare a seguire quel frastuono inudibile dai più superficiali, avrebbe dovuto smetterla di nascondersi dietro il silenzio, perché lui parlava per lei.

Non avrebbe più potuto dichiararsi traumatizzata e scampare facilmente agli ostacoli, perché la vita non andava così e lei avrebbe dovuto impararlo, passo per passo.

Glielo aveva insegnato Riccardo.

E adesso lei doveva insegnarlo a Davide.

«Se parlo, proprio come sto facendo ora, il dolore sembra più reale, Anne. Il silenzio attutisce.»

Parole.

Le parole facevano male, Anne lo aveva constato decine e decine di volte nella sua vita, per questo aveva imparato a stare zitta quando le cose si facevano dolorose; era capace di essere tagliente come una strega quando le parole non avrebbe fatto male e sé stessa ma a qualcun altro, eppure quando si trattava di parlare – parlare veramente, non per finta – non ne era in grado.

Si avvicinò di più al chitarrista e si fece circondare le spalle con un braccio, per poi appoggiarsi sul suo petto coperto dalla maglietta a maniche corte.

Inalò il profumo intenso della pelle del ragazzo – Mandorle, sapeva di mandorle – e si concesse di abbandonarsi ancora per qualche minuto al suono carezzevole di tutto quel silenzio.

Sapeva che avrebbe dovuto iniziare a parlare, per questo si lasciava ancora la libertà di stare zitta: voleva assaporare per l’ultima volta la dolcezza del mascherarsi dietro ad uno scudo invisibile. La guerra che sarebbe venuta di lì a poco le avrebbe procurato delle ferite terribili.

Ma non avrebbe potuto fare altrimenti, se ne rendeva conto.

Riccardo, tutti i miei pensieri vanno a te.

«Ma non potrai stare in silenzio per tutta la vita, non credi?»

Il sorriso che il chitarrista le rivolse era uno di quelli malinconici e pieni di amarezza, che però al loro interno conservavano un po’ di quell’allegria perduta, un tempo tanto amata.

«Quindi tu sei convinta che questo mal di testa mi passerà?»

Quello che comparve sul volto di Anne, però, era un sorriso così radioso che avrebbe potuto abbagliare qualsiasi notte di qualsiasi anno di qualsiasi secolo. Non aveva tempo.

Cose come quelle non avrebbe mai avuto tempo.

Riccardo, mi hai insegnato cosa significa lottare.

«Certo che passerà. Non si può avere male per sempre, non credi?»

Contro ogni previsione, Dav scoppiò in una fragorosa risata, zittendo il silenzio per qualche istante, facendo apparire sul viso della cantante un’espressione concentrata.

Non aveva mai capito fino a dove quel ragazzo sarebbe stato capace di spingersi, fin dove il suo alone di mistero sopravviveva e dove, finalmente, si intravedeva la vera essenza della sua anima.

Ora la vedeva, in un semplice sorriso.

In un semplice sguardo.

Può essere reale?
«È reale tutto questo, Anne?»

«Come potrebbe non esserlo?»

Si lasciò cullare dalle carezze gentili del ragazzo, mentre puntava gli occhi su quel fiume in cui l’acqua scorreva veloce e sicura, dove i pesci probabilmente stavano banchettando con gli scarti del panino di qualche passante.

Non poteva essere più giusto di com’era, perché se avessero mantenuto il loro silenzio, molto probabilmente, Davide sarebbe stato ancora in preda al pianto e del panico.

«Ho sempre pensato che le dichiarazioni d’amore avrebbero dovuto essere melodrammatiche, un po’ tragiche, sai... tipo i romanzi rosa o quelle cavolate a mo’ di Cenerentola.» Anne lo ascoltava con attenzione e rise con lui, quando lo vide divertito. «Il fatto è che sembrano sempre così tristi. Credo sia migliore dirlo e basta, magari quando ci si sta divertendo  e ammetterlo con un grosso sorriso sulle labbra.»

Ciò che Davide stava cercando di dirle era di non esternare il suo amore per lui in quel momento drammatico, perché lui non avrebbe confessato di amarla con tutta quella tristezza.

“Non ora, Anne.”, erano quelle le parole nascoste sotto tutto lo sproloquio del ragazzo.
Si ritrovò a sorridergli come una  bambina piccola, mentre si diceva che sì, poteva capirlo e sì, poteva accettarlo.

Avrebbe aspettato per la prima volta in tutta la sua vita, perché era giusto, quello non era il tempo per le confessione amorose, era il momento del silenzio.

Erano i loro ultimi istanti di silenzio.

Rimasero in ascolto.

Il suono del silenzio.

 

 

 

****

 

 

Angolo Autrice

Vi chiedo scusa per il ritardo, ma sapete com’è: l’inizio della scuola, le prime verifiche sui compiti delle vacanze che tu non hai fatto... il tempo vola! :D

Comunque sia sono riuscita a scrivere questo capitolo che non è niente di troppo particolare, visto che non succede nulla di straordinario, ma è di passaggio e la cosa del silenzio aveva una certa importanza per me e per la storia.

Quindi, spero lo abbiate importanza!

Sono contenta di dirvi che la storia sta aumentando un po’ i lettori, le recensioni e anche le persone che la seguono: ringrazio tutti coloro che leggono, seguono o recensiscono.

Vi ricordo il mio profilo di Facebook per chi volesse parlare della storia e non: Eryca Efp.

 

Un abbraccio,

la vostra Eryca.

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Capitolo 12
*** Oh, amore. Oh, amante. ***


12.

Oh, amore. Oh, amante.

 

 

 

 

 

Oh Love – Oh Loverboy

What are you doing tonight, hey boy

Set my alarm, turn on my charm

That’s because I’m a good old-fashioned loverboy

Oh, let me feel your heartbeat

(grow faster, faster)

Oh, oh, let me feel your love heat

 

Queen – “Good old-fashioned loverboy”

 

 

 

 

 

«Ci siete piaciuti, ragazzi. Avete carisma, talento e potenzialità per poter sfondare. Siamo disposti a investire una quantità di denaro sufficiente per farmi incidere un primo album e la sua promozione. Nessuno vi toglie la possibilità di firmare un contratto con noi.»

La voce di Mauro Polloni rimbombava nella sua testa come se fosse ancora lì davanti a lui, le mani incrociate sulla scrivania laccata dello studio dell’Alternative Productions e il sorriso stampato in viso.

Riccardo non riusciva a togliersi di mente quelle parole che avevano reso reale il sogno della sua vita, quello per cui lui e Davide avevano sacrificato tutto, dallo studio ad una vita agiata.

Si sentiva così rinato che le sedute terapeutiche non contavano più nulla, esattamente come il fatto che i suoi problemi non erano terminati, perché in quel momento tutto ciò che aveva importanza era che il sogno della sua vita aveva preso consistenza e lui non era più un tossicodipendente alle prese con la disintossicazione, che aveva perso anni della sua vita a nascondere ciò che era.

Lui era semplicemente il batterista dei Mad, il gruppo esordiente che l’Alternative Productions aveva preso sotto la sua ala per lanciarlo nel mondo del business musicale.

Si ritrovò a sorridere come un ebete mentre le braccia forti di Davide lo stringevano come non succedeva da anni; un moto di irrefrenabile affetto nei confronti del suo migliore amico lo travolse, facendolo sentire in colpa per tutti i giorni in cui aveva taciuto con lui.

«Mi dispiace, Dà... Perdonami, per tutto...» mormorò, cercando di fargli capire quanto il bene che gli voleva era reale, come tutto ciò che avevano condiviso nel corso degli anni.

Davide era il suo migliore amico, l’unica persona che gli era sempre stato accanto, anche quando nessuno voleva avere più niente a che fare con lui perché lo reputavano un derelitto. E invece Davide era sempre stato lì, a pulire la sporcizia che lasciava nel loro appartamento, a preparargli i maccheroni della Findus riscaldati nel microonde, a spegnere la luce quando si addormentava davanti alla televisione.

Fratello.

«Non importa, amico... Non importa...»

La voce del chitarrista suonò strozzata e più bassa del normale: Ricca sapeva bene che quando Davide assumeva quel tono vocale era a causa dell’emozione che cercava di trattenere.

Dio, aveva davvero temuto che Davide potesse giudicarlo? Si, ed era stato per quel motivo che aveva taciuto con lui e aveva evitato di aprirsi. Ora si rendeva conto di quanto fosse stato stupido, perché Davi non lo avrebbe mai abbandonato.

Quando sciolse l’abbraccio si rese conto che Anne e Matteo li stavano osservando con commozione, contenti che si fossero finalmente ritrovati e avessero ristabilito il loro equilibrio.

«Merda! E adesso che si fa? Siamo a cavallo, gente!» esclamò Anne, alzando le mani in aria e iniziando a saltellare lungo il marciapiede. Quella ragazza era così esuberante che a volte risultava completamente matta; ma faceva parte della sua personalità talentuosa.

«Propongo di andare a mangiarci una pizza tutti insieme! Che ne dite?»

Riccardo non poté fare a meno di voltarsi a guardare la persona che aveva parlato, che era poi la stessa persona che lo aveva sostenuto ed aiutato in quelle settimane difficili, restandogli vicino quando non si sentiva abbastanza forte, lasciandolo solo quando ne aveva il bisogno.

Matteo.

Matteo che non lo aveva più toccato dopo quel giorno a casa di sua madre, ma si era limitato a stargli accanto, rispettando il suo bisogno impellente di star bene di salute.

Riccardo non riusciva a capacitarsi di ciò che provava quando stava accanto a lui: era qualcosa che andava oltre la sua esperienza, oltre tutto ciò che aveva sempre conosciuto; quando Matteo era nelle vicinanze sentiva il suo corpo tendersi come una corda di violino, tutti i suoi sensi si mettevano in allerta e sembrava che una forza magnetica lo spingesse sempre più vicino al ragazzo.

Erano sensazioni che non riusciva a controllare.

Matteo.

«Si, ehm, sarebbe una buona idea, Matte...» cominciò Davide lanciando un’occhiata complice con Anne, che arrossì visibilmente. «Solo che, ecco, io e Anne avevamo altri progetti...»

Oh, certo. Questa non mi è nuova.

Il fatto che tra Anne e Davide fosse scattata la scintilla era più che evidente, ma nessuno aveva mai domandato o osato fare qualche battuta sarcastica a riguardo; era una situazione precaria e né lui né Matteo avevano intenzione di rovinargli la festa.

«Ok, ok...» Matteo rise e Riccardo dovette controllarsi, perché quel sorriso lo mandava sempre in corto circuito. Poteva esserci qualcosa di più radioso?

Va bene essere gay, Ricca, ma non comportati da checca.

Si ritrovò a ridere tra sé, rendendosi conto di quanto ormai gli veniva normale scherzare con la sua natura sessuale, proprio come aveva visto fare tante volte a Matteo.

«Beh, io una pizza me la mangerei volentieri, sai Matte?»  Ormai si era sciolto notevolmente con il bassista e riusciva a parlarci senza farsi venire una crisi esistenziale: aveva ammesso di essere omosessuale, quindi riusciva ad accettare con più facilità l’attrazione che provava nei confronti del ragazzo. Ciò aveva implicato anche un miglioramento del loro rapporto.

«Bene. Alla faccia vostra, piccioncini. Non avete idea di cosa vi perderete.»

Il tono di voce con cui pronunciò quella frase, sommato all’espressione del viso da snob, scaturì una risata di gruppo.

Salutarono Anne e Davide per poi incamminarsi a piedi verso il locale preferito di Matteo, dove facevano una squisita pizza napoletana, che non aveva niente a che vedere con quelle che doveva mettere lui nei frigo al Supermercatino, per lavoro.

Il vento era forte, quella sera, e gli alberi si muovevano a destra e a sinistra, perdendo le foglie in quell’autunno un po’ pazzerello. Erano passate settimane, quasi un mese, dall’inizio della terapia e Ricca si sentiva decisamente meglio, come se fosse un’altra persona; tutto ciò che era stato prima non esisteva più, adesso aveva di nuovo voglia di scherzare, di ridere e stare in compagnia.

«Che ne pensi di Anne e Davide?» gli domandò Matte, sorridendogli.

«Una coppia male assortita!» scherzò ridendo, forse per smorzare un po’ quella tensione che si era creata, come ogni volta che rimaneva da soli.

Dio, quanto avrebbe voluto prenderlo, sbatterlo contro un muro e baciarlo fino a che non gli fossero venute le labbra secche. E al diavolo tutto il resto!

Ok, conteniamoci, Ricca.

Il fatto era che quel ragazzo mediterraneo riusciva a mandarlo fuori di testa con quel suo fascino irresistibile: sembrava essere più che consapevole di essere bello e sensuale, per questo ci giocava sopra, scegliendo appositamente i jeans più attillati della nuova collezione.

Quel sedere rotondo e sodo non migliorava di certo la situazione.

Ok, adesso stai rasentando il ridicolo.

«Secondo me finiranno per scannarsi!» adesso Matteo lo guardava «Anne è una vera leonessa e Davide non ha neanche lontanamente idea cosa voglia dire mettersi in gioco con lei.»

Il batterista lo guardò divertito. «Cosa stai cercando di dire?»

«Voglio dire che il tuo amico è immensamente fottuto.»

E mentre si abbandonava ad una risata, pensò che non c’era niente di più normale dell’andare in giro per le strade di Torino, ridendo di gusto al fianco di Matteo. Era una ragnatela perfettamente tessuta dal destino, che sembrava avere in serbo qualcosa di speciale per loro.

Riccardo fu contento di entrare al caldo della pizzeria, riscaldata dal forno a legna dal quale proveniva un delizioso profumino. Si accomodarono in un tavolino appartato, vicino ad un’allegra famigliola con tanto di bimbi piccoli.

Se iniziano a piangere e a scalpitare li fucilo.

«Che cosa prendi?» chiese il bassista allungando la mano verso la sua e stringendogliela, in un gesto estremamente naturale ed ingenuo, che lo fece quasi commuovere.

Occhi negli occhi.

Matteo e Riccardo.

Uomo e uomo.

 D’un tratto si ricordò che erano in una pizzeria, la gente li stava fissando sconvolti per quelle mani intrecciate, per quell’abominio imperdonabile.

Riccardo sorrise.

«Quello che prendi tu.»

Per quanto lo riguardava potevano andare tutti a farsi fottere.

 

 

****

 

 

«Dio, quella pizza era qualcosa di orgasmico!» convenne Riccardo, guardandolo dritto negli occhi.

Avevano passato una serata a dir poco svagante, tra le risa e il cibo, che gli aveva fatto dimenticare per qualche ora i loro problemi e la situazione precaria in cui si trovavano.

E ora Matteo non riusciva a distogliere lo sguardo da quegli occhi infuocati che sembravano volerlo sbranare da un momento all’altro.

Il suo autocontrollo faceva pena e se Ricca non fosse sceso seduta stante dalla sua auto, probabilmente gli sarebbe saltato addosso senza pensarci due volte; il fatto era che il batterista stava attraversando un periodo davvero difficoltoso e aveva solo bisogno di compagnia e sostegno, non certo di un omosessuale arrapato come lui.

Dannazione, un po’ di contegno.

Il silenzio imbarazzante stava iniziando a prendere piede, quando Riccardo si decise a parlare.

«Sali?»

No, no, no, no, no, no.

Forse il ragazzo non aveva la minima idea di ciò che stava rischiando invitandolo ad entrare in casa sua, perché tutti i buoni propositi di Matteo potevano andare in frantumi se fosse rimasto seduto sul divano in compagnia di Ricca. E lui non aveva alcuna intenzione di chiedergli qualcosa che non era ancora in grado di dargli: era troppo debole per poter sopportare delle avances.

«Io... Non credo sia una buona idea»

Il batterista sembrò rattristarsi, abbassò la testa e quando lo guardò negli occhi sembrava lo stesse implorando di non rifiutarlo. Ma che cosa doveva fare?
Matteo non era una persona costante e soprattutto non era monogamo: in tutto quel periodo si era visto con altri ragazzi e con loro era andato a letto, li aveva usati, lasciati, abbandonati. Si era fatto lasciare, usare e abbandonare. E tutto ciò gli andava bene, perché i sentimenti non erano entrati in gioco nemmeno una volta.

Ma ora, mentre guardava il viso tenero di Riccardo, non poteva pensare di poterlo ferire ancora in quella sua anima già tanto graffiata; guardare quegli occhi nocciola era come stare di fronte ad un oceano di ingenuità e bisogno di amore.

«Ti prego...»

E di nuovo quegli occhi lo pregarono, lo implorarono, supplicarono di non lasciarlo da solo in tutto quel dolore che si portava dentro, perché rimanere soli di notte faceva paura, Matteo lo sapeva bene.

C’era qualcosa, nella notte, che induceva le persone ad averne timore; forse era tutto quel buio che, invece di confortare e cullare, infettava gli animi di panico e confusione; forse era perché di giorno si riusciva a fingere meglio, perché ci si poteva nascondere dietro tutta quella luce.

La notte pretendeva, prendeva, rubava i cuori delle persone.

Di notte poteva accadere qualsiasi cosa, perché la mattina ti saresti svegliato e avresti creduto che si fosse trattato solo di un sogno... ma dov’era il confine tra sogno e realtà?

Erano gli occhi di Riccardo ad essere terrorizzati dal buio, forse perché aveva passato troppe notti in stato di semi-incoscienza causato dalla droga.

Matteo si immaginò il batterista mentre si rintanava sotto le coperte, cercando di nascondersi dai mostri della notte, dalla verità che arrivava senza pietà e faceva male.

«Ok...» disse soltanto, smontando dall’auto, consapevole ormai che tutto era perduto.

Aveva ceduto a quegli occhi impauriti e ora ne avrebbe pagato le conseguenze, perché ogni presa di posizione aveva i suoi pro e i suoi contro, questo Matte lo sapeva.

E la notte scalpitava, stava saltellando di gioia, perché sapeva di avere già la vittoria in mano, mentre loro due salivano le scale del condominio fino al piccolo alloggio di Riccardo.

Quando entrarono in casa, trovarono tutto lo spazio invaso dal buio profondo e terribile della notte, e ancora una volta Matteo pensò che nulla succedeva per caso e che loro erano solo delle pedine in una scacchiera troppo grande per essere percepita da loro.

Non c’era bisogno di parlare, perché entrambi sapeva bene ciò che stava per succedere, era già stato scritto e loro non potevano fare nulla per cambiare la sorte, se non assecondarla.

E così il profumo dolce di Riccardo divenne sempre più forte, mentre lui si avvicinava al bassista, poggiandogli le mani all’altezza del cuore, mentre la notte sembrava essersi seduta sugli spalti per godersi lo spettacolo da lei architettato.

E non c’era modo di poter fermare quella vibrazione che partiva dal suo cuore, pensò Matteo, perché era così che rispondeva al tocco morbido delle mani di Ricca, che adesso passavano sulle sue braccia e sulla sua schiena, per poi tornare sul suo petto e iniziare a sbottonargli con lentezza la camicia.

Si sentì impotente Matteo, perché non riusciva a dire di no, non riusciva a farlo smettere, perché il suo corpo ne voleva di più, non ne aveva abbastanza di Riccardo, che sembrava essergli entrato nella pelle e aver preso possesso di tutti i suoi organi interni.

E sentì le labbra scottare quando quelle del batterista di poggiarono sulle sue, dolci, prepotenti, amorevoli e passionali. Era impossibile resistere.

E ora Matteo capiva che le persone avevano paura della notte perché essa tentava, tentava in un modo così impercettibile che ti faceva credere di essere tu a scegliere, quando in realtà eri solo una carta mossa da lei.

Adesso Riccardo gli stava passando le mani sulla vita, stringendolo forte, impregnandolo con il suo odore, impedendogli di sentire qualsiasi cosa che non fosse lui – lui, lui, lui -.

«Lo senti anche tu, Matte?»

Ed era la notte, la sentiva anche Riccardo, adesso stava urlando, gli stava intimando di non fermarsi perché il giorno dopo tutto quello sarebbe stato solo un dolcissimo sogno e loro sarebbe stati lontani, così lontani...

«Si...»

Un sussurro, fu solo un sussurro, poi Matteo si avventò sul collo di Ricca e prese a baciarlo, mordicchiarlo, torturarlo in un dolcissimo supplizio che non avrebbe mai trovato il suo epilogo se il batterista non avesse infilato una mano nei pantaloni dell’altro.

Fu questione di secondi  - minuti, ore, settimane, mesi, anni, secoli – e  i due ragazzi si ritrovarono tra le lenzuola candide del letto di Riccardo, dove aveva versato un mare di lacrime e dove ora avrebbe impresso il ricordo di un sogno.

Matteo era invaso dall’odore del ragazzo, non riusciva a pensare a nient’altro che non fosse lui – lui, lui, lui – perché la notte gli aveva intimato di fare così, non se ne sarebbe pentito.

Quello che accadeva di notte, rimaneva nella notte.

Allora furono labbra, respiri smorzati, pelle contro pelle, corpo contro corpo.

Nessuno di loro due seppe dire a chi apparteneva il gemito che udirono, mentre Matteo aveva sfilato gli slip a Riccardo per avere maggiore accesso a ciò che lo interessava.

E mentre il ritmo aumentava, aumentava anche la consapevolezza che il giorno dopo nulla di tutto quello sarebbe rimasto, perché era successo di notte, e la notte non aveva pietà.

Matteo si ritrovò sopra un Riccardo a pancia in giù, pronto ad offrirsi a lui non perché si fidasse, ma perché era notte, quindi sapeva che non ne sarebbe rimasto ferito, che non avrebbe avuto un’altra cicatrice da andare a sommare alle altre.

Ma Matteo se lo stava godendo quel sogno, lo stava sentendo fin dentro le sue viscere e non credeva realmente che sarebbe potuto svanire come un semplice ricordo sfocato. Era troppo forte.

Furono di nuovo labbra, Matteo le sentì ovunque, sulla sua carne, nel suo stomaco.

Nel cuore.

E poi non ci fu più nulla se non i loro corpi fusi in un unico punto, proprio come doveva essere, perché quello era il puzzle che la notte aveva messo loro a disposizione.

Loro erano due pezzi di un puzzle che era stato completato.

Gemiti. Sospiri.

La notte, la notte, la notte non gli aveva dato pace e gli stava regalando un nuovo inizio che di giorno non avrebbe potuto prendere forma, perché il buio non terrorizzava più, no, ma cullava... stava cullando e cantilenando una canzone mistica.

E Matteo e Riccardo restavano uniti, mentre il ritmo diventava sempre più frenetico e i corpi lasciavano il posto alle anime, che sembravano divenire concrete, prendere forma...

Andarono alla deriva insieme – gemiti, sospiri, pelle – in un oceano che non aveva fine, e l’orizzonte sembrava così vicino e allo stesso tempo così lontano.

Matteo baciò la schiena di Riccardo, prima di rotolare al suo fianco e incatenare i suoi occhi nei suoi, prendendo tutto, tutto ciò che quella notte aveva da offrirgli.

E sorrisero, sorrisero come due bambini, mentre la notte ululava vittoriosa, consapevole di avergli appena regalato un sogno d’amore.

 

 

****

 

 

Angolo Autrice

Spero di non essere stata troppo noiosa, in questa scena Slash, che poi non è molto esplicita e neanche troppo rossa, ecco. Volevo donare a questi due un momento molto poetico, fatto di amore e passione, così ho pensato che non c’era nulla di più dolce della notte... così mi è uscito fuori questo svarione sulla notte xD Spero vi sia piaciuto!

Come sempre ringrazio tutti coloro che leggono, recensiscono ecc.

Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, vi intimo come al solito di lasciare un commentino, perché questa storia ha il disperato bisogno di lettori! Davvero, ragazzi.

Ps. Il titolo è la traduzione di un pezzo della canzone “Good old-fashioned lover boy” dei Queen, che fa anche da introduzione al capitolo; è una canzone che parla di un amore omosessuale, quindi mi sembrava azzeccata.

 

Un caloroso abbraccio,

Eryca

 

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Capitolo 13
*** La strada del successo ***


13.

La strada del successo

 

 

 

 

 

If you think it’s easy

Doing one night stands

Try playing in a rock n’ roll band

It is a long way to the top

If you wanna rock n’ roll

 

AC/DC – “It is a long way to the top”

 

 

 

 

Migliaia di persone.

Isolamento.

Grida. Strilli. Schiamazzi.

Isolamento.

Un prato. Tende. Persone accampate.

Isolamento.

Un palco.

Il suo palco, quello da cui era appena sceso barcollante, confuso dalle tante emozioni, dalle nuove esperienze appena vissute, dall’accoglienza calorosa del pubblico.

Un festival.

Il Rock Emergente Fest, dove partecipavano decine e decine di nuovi gruppi emergenti nel mondo della musica rock. Quello per cui le persone arrivavano da tutta Italia, in macchina, in treno, in autostop, con un solo zaino in spalla e la voglia di divertirsi.

Mad.

I Mad che – Davide ancora non riusciva a crederci – stavano scalando le classifiche con il loro singolo Scared, definito dai critici “Uno dei migliori brani rock degli ultimi anni”.

I Mad pubblicizzati ovunque dalla loro Etichetta, l’Alternative Productions, che non perdeva occasione di farli partecipare ad un qualsiasi evento.

I Mad con il loro primo album inciso, composto da quattordici brani incazzati, tristi, vuoti, allegri, alcuni scritti sotto l’effetto dell’alcol, altri invece nelle notti insonni.

I Mad che non capivano assolutamente niente di ciò che stava loro succedendo, perché gli sembrava un sogno, un sogno troppo bello per essere reale.

Il loro sogno.

Ed era forse per quel motivo che Davide  “l’attraente chitarrista del nuovo gruppo lanciato dall’Alternative”- percorse le scale che portavano nel retro con occhi annebbiati, di chi sta viaggiando in un universo parallelo.

Erano mesi che Davi non capiva assolutamente niente. La sera, prima di andare a dormire, rimaneva con gli occhi fissi al soffitto e pensava – realizzava – che l’unico grande sogno della sua vita stava prendendo consistenza, come uno di quei vasi fatti a mano, che iniziano ad assumere la forma che si vuole solo dopo tanto lavoro ed impegno.

E poi c’erano le sedute di registrazione per il loro album.

Non è possibile.

Le interviste con i giornali di critica musicale.

Non è possibile.

Le riunioni in studio con il resto del gruppo e lo staff  – il loro staff –.

Non è possibile.

Continuava a ripeterlo nella sua mente come un mantra, come una preghiera.

Di notte, di giorno. A pranzo, a cena. Sempre lo stesso pensiero fisso: non è possibile.

Perché era vero, non era proprio possibile che stesse accadendo realmente.

«Davi, vieni di qua, abbiamo l’intervista con Lucia Rocca, del Rock School.»

Anne.

Quando sembrava che stesse per arrivare il peggio e si sentiva sopraffare dal panico, arrivava lei con la sua voce inconfondibile e quegli occhi profondi, lo guardava con aria consapevole e gli sorrideva, prendendolo per mano e sorreggendolo.

Anne.

Anche in quel momento, con i capelli scompigliati e il viso stanco a causa della perfomance appena terminata, risultava imbattibile. Perché Davide non aveva mai pensato che Anne fosse una di quelle donne belle, belle e basta; no, lei era semplicemente una tosta, che si faceva notare per quei capelli ribelli, per le sue battute taglienti e il fare spavaldo.

Bella, no.

Unica.

«Quanto ci manca prima dell’intervista?» chiese portandosi una mano ai capelli e spettinandoseli un po’, l’espressione del viso di chi ha bisogno di una pausa.

«Sei o sette minuti.»

E allora fu Davide a sorriderle in modo colpevole, avvicinandosi pericolosamente a lei, consapevole di essere solo con lei in uno di quei container posizionati apposta per gli artisti supportati da un Etichetta Discografica.

Aveva bisogno di sentirla sua, perché tutto quello stress lo mandava fuori di testa e l’unica cosa che lo riusciva a calmare era lei, Anne.

La baciò a lungo e con intensità, saggiando con avidità ogni parte della sua bocca, giocando con le sue labbra di fragola, mentre le mani cercavano e chiedevano di più.

La vide sogghignare divertita mentre gli sbottonava i jeans e pensò che era proprio per via del suo essere una ragazzaccia che impazziva per lei.

Si lasciò confondere dal suo odore – Anne, odore di Anne – quando la sentì tracciare una linea di baci sul collo, per poi abbassarsi sul petto – si stava perdendo – e continuare in quella discesa pericolosamente dolce – si stava perdendo -, fino al ventre, dove si soffermò a vezzeggiare il suo ombelico con carezze umide.

Dio, Anne, cosa mi fai?

Tra di loro si era creata una linea retta, senza curve e senza intoppi, che portava dritta al cuore di Davide, dove si era radicata nelle vene in un modo così profondo che sarebbe stato quasi impossibile staccarla.

E adesso lo sentiva – lo sentiva fin dentro le viscere – quell’uragano emotivo che gli impediva di respirare alla vista della ragazza.

Era arrivato al punto di non ritorno, quello che non ti permetteva di prendere una strada alternativa, quello che ti indicava con una scritta a caratteri luminosi che eri esageratamente fottuto.

Ecco, fottuto.

Carezze, altre carezze.

Baci, altri baci.

Si sentiva completamente stordito, come se fosse sotto effetto di una qualche droga potentissima, mentre Anne continuava a dedicarsi a lui, la lingua sul suo collo.

E poi, alcune volte, la consapevolezza ti colpisce all’improvviso, come una folata di vento che muove le foglie degli alberi.

E lui lo sapeva, ora lo sapeva, come mai, mai prima d’allora.

Sapeva.

«Anne, io...»

Sapeva. Lo sapeva.

Le sue mani intorno al viso dolce di lei, gli occhi negli occhi, i loro odori che andavano intrecciandosi.

Lo sapeva.

«Io ti... »

«Oh, cazzo!»

Una voce.

Quella irritantissima voce aveva appena rovinato il suo momento.

Mauro Polloni, il produttore discografico dell’Alternative Productions, se ne stava davanti a loro, la porta del prefabbricato spalancata a lasciar intravedere il marasma di persone ammassate nel prato.

Davide sospirò, perché non c’era più nulla da fare, il momento era passato, la magia era stata spezzata e ora non poteva fare altro che tornare alla normalità, a ignorare l’accaduto.

«Dai, dai, dai, ragazzi!» Polloni prese Anne per un braccio, trascinandola verso l’uscita, senza darle scampo, per poi spintonare senza alcuna gentilezza Davi. «Vi stavo cercando ovunque! L’intervista! Non è un gioco, lo capite? L’intervista!»

Non era un gioco nemmeno ciò che stava per dire Davi, ma quello lui non poteva di certo saperlo.

No, non era affatto un gioco.

Fottuto.

 

 

****

 

 

 

Il prato erboso assomigliava ad una grossa tavolozza colorata: le foglie lasciavano la presa ai rami e svolazzavano libere, fino a che non toccavano terra e andavano a formare quel tappeto variopinto su cui sedeva Anne.

Nonostante avesse camminato per qualche chilometro, fino a trovare un po’ di pace, il suono della chitarra elettrica giungeva alle sue orecchie come un fastidioso ronzio; strano a dirsi, proprio lei che apprezzava la melodia di uno strumento musicale più di qualsiasi altra cosa.

Ma, d’un tratto, si era ritrovata in uno di quei momenti in cui si ha il disperato bisogno di rimanere soli con sé stessi e il resto del mondo appare opaco, un po’ scolorito.

Così era partita, senza avvisare nessuno, in cerca di un luogo di calma per poter ritrovare un po’ di quella serenità che, nell'ultimo periodo, le era stata portata via, proprio come era successo con la sua ingenuità.

Sentì il pubblico applaudire rumorosamente, mentre si appostava comodamente all’ombra di una grossa quercia che fungeva da ombrellone.

Oh, Dio. Chiuse gli occhi e si lasciò trasportare da quel nero confortante che la stava chiamando, il sonno che finalmente sembrava essere arrivato dopo notti intere passate a fare musica.

«Si è parlato molto di te, Anne, come leader dei Mad. Sinceramente, non credo sia possibile che una ragazzina come te possa essere l’anima del gruppo. Ma, dimmi, cosa ne pensi a riguardo?»

«Penso – ma è solo la mia umile idea – che tu sia una fottuta stronza al servizio dei Mass Media.»

Per tutta la vita, aveva avuto una acutissima allergia alle persone che, proprio come la donna che li aveva intervistati poco tempo prima, pensava di avere la situazione in pugno e di poter dire o fare tutto ciò che gli passava per la mente.

Non era riuscita a trattenersi. Ci aveva provato, per qualche frazione di secondo, ma poi la sua natura aveva avuto la meglio e aveva dovuto far capire a quella Barbie impacchettata che nessuno poteva prendersi gioco di Anne Melì.

I suoi compagni di gruppo erano stati entusiasti della sua faccia tosta, ma Mauro Polloni non sembrava condividere la loro allegria: avevano appena dato a quella donna un pretesto per scrivere una pessima recensione su di loro.

E addio alle buone critiche prima dell’uscita del disco.

Sbuffò, Anne, e si lasciò scivolare ancora di più tra le foglie umide, sperando che tutto si sarebbe rimesso in ordine.

Aveva sempre pensato che un artista parlasse con la sua musica, che non c’era bisogno di parole inutili sui suoi progetti futuri, per non parlare del dover rispondere a domande private o autobiografiche; non era pronto all’assalto del mondo dello spettacolo, che sembrava aver messo i Mad al centro della loro attenzione.

Era... troppo.

Troppo stancante, troppo costruito, troppo programmato, troppo dettagliato, troppo ordinato, troppo obbligatorio, troppo schematico, troppo limitato, troppo finto.

Le sembrava di essere stata catapultata improvvisamente in una giungla, una giungla dove lei era solo una semplice antilope e i leoni la guardava da lontano, leccandosi i baffi e aspettando solo il momento giusto per assalirla e sbranarla voracemente.

I Mad erano giovani, nati da poco, avevano poca esperienza sul palco e ancor di meno con il pubblico, visto il loro passato da musicisti da pub; quel Rock Emergente Fest li aveva duramente messi alla prova, tra attrezzature professionali, prove microfoni, tecnici del suono, giornalisti appostati in ogni angolo, pass per poter accedere agli stand, transenne e una marea di spettatori accaldati e affannati per l’adrenalina.

Aveva cantano con tutta sé stessa, sapendo di dover dimostrare all’Italia di essere all’altezza della scena musicale; aveva passato egregiamente la prova, il pubblico era andato letteralmente in visibilio per loro, ma lei ne era rimasta segnata.

Dopo quell’esperienza, qualcosa era stato catastroficamente modificato in lei, come se avesse finalmente capito di non essere più Anne Melì, la semplice ragazza di Torino, appena uscita dal liceo con il sogno irrealizzabile per la musica.

Era diventata Anne Melì, la cantante e leader dei Mad, il nuovo gruppo emergente dell’ Alternative Productions, lanciato sulla scena underground italiana.

Era sempre la stessa, eppure non era più la stessa.

Troppo.

«Come al solito trovi sempre i posti migliori per prima, così mi tocca fare la parte del personaggio secondario che disturba il tormentato protagonista.»

Matteo e il suo senso dell’umorismo innato la guardavano dall’alto, i capelli scompigliati e il volto sudato di chi ha solo voglia di farsi una sana dormita. Doveva essere stravolto almeno quanto lei.

Gli sorrise, uno di quei sorrisi che rivolgeva solo al suo migliore amico, e batté la mano sul prato facendogli segno di accomodarsi vicino a lei.

Ci sarebbe sempre stato un posto per Matte, accanto a lei.

«La protagonista ha deciso che il personaggio secondario può farle da spalla in questa scena.»

Un pugno sulla spalla le confermò il fatto che il bassista non aveva affatto apprezzato la sua battuta.

Rimasero in silenzio, il sole dell’ultimo pomeriggio a scaldargli il viso, mentre il vento fischiettava una dolce melodia e le foglie giallastre danzavano in aria.

«L’hai stesa, quella puttanella!»

«Qualcuno doveva pur farle vedere chi comanda!»

E poi risa. Perché ne avevano bisogno entrambi, di dimenticarsi per un solo istante di tutto ciò che li circondava e abbandonarsi al suono della risate, anche se non c’era niente di realmente divertente.

Anne e Matteo avevano sempre affrontato così i moment critici: prima della maturità si erano presi in giro per cose futili, ridendo e scherzando, consci del fatto che dentro di loro si stava svolgendo una vera e propria battaglia.

Ma ridere faceva apparire tutto più semplice.

«Siamo pronti a tutto questo, Annie?»

Come poteva rispondergli se dentro di lei aleggiava la stessa domanda irrisolta?

Forse nessuno poteva dirlo con certezza, non c’era semplicemente un momento perfetto in cui sarebbero stati preparati, perché non si poteva esserlo; bisognava semplicemente tirare fuori gli artigli, guardare in faccia quell’esercito di felini arrabbiati e metterli a tacere.

Non sarebbero mai stati pronti, probabilmente.

«Ha importanza?» domandò più a sé stessa che al suo amico, volgendo lo sguardo verso l’orizzonte.

Stava calando la sera, il sole era sempre meno potente e il cielo andava scurendosi, mentre il suono del rock spezzava quel silenzio di campagna.

Era una scena quasi solenne, pensò Anne, che le faceva tornare alla mente il ricordo di suo nonno che le spiegava come il tramonto fosse un sipario che scendeva, per dare vita a tutto un altro mondo, nascosto dietro a quella grossa tenda.

«Ho deciso che mi comprerò una nuova sciarpa.»

Ogni volta che accadeva un fatto veramente rilevante nella vita di Matteo, lui la guardava e con aria eccessivamente seria le confidava che sarebbe andato a comprarsi una sciarpa; così, nel suo alloggio, possedeva una grossa scatola arancione dove teneva una massa di lana e altri tessuti, di colori sgargianti o tristi, a seconda del fatto di cui si trattava.

Una vera follia. Una vera follia alla Matteo.

«Indaco.»

Il suo migliore amico puntò gli occhi nei suoi, aspettandosi una spiegazione per quella parole che, in apparenza, sembrava senza senso.

«Indaco?»

Anne sorrise. Doveva sempre spiegargli tutto.

Prese fiato e si rese conto che, se avesse espresso ad alta voce ciò che stava pensando, lo avrebbe condiviso con Matteo, lo avrebbe reso partecipe di quel moto che stava avvenendo dentro di lei.

Troppo.

«Dicono che l’indaco sia il colore del risveglio interiore, della presa di coscienza.»

Cambiamento.

Stava succedendo, tutto quello, a lei. A lei. Stava succedendo. A lei. Stava. Succedendo.

Non era un sogno, non era un sogno, non era un sogno.

Era reale.

Risveglio interiore.

«Allora aggiungerò una sciarpa color indaco alla mia collezione.»

Il sole era scomparso del tutto, il sipario era calato, ma, proprio come diceva suo nonno, stava per iniziare un nuovo eccitante spettacolo.

Era arrivato il tempo dei Mad.

Risveglio interiore.

 

 

****

 

 

 

 

 

Angolo Autrice

Sono tornata, Lettori :)

Allora, i Mad sono famosi: interviste, riflettori puntati su di loro, concerti, giornali, album e quant’altro.

Un vero e proprio cambiamento che porta la storia ad una svolta radicale; qui inizia ciò che è importante, quindi spero che seguirete ancora per poter capire ciò che avevo in mente sin dall’inizio.

Sì, sì, il mio cuore mi ha obbligata ad una scena Anne/Matteo, amici da sempre: mi piaceva e spero sia piaciuta anche  a voi.

Grazie a quella pazza scatenata di una beta- reader, Lavisvampita, che non smette mai di stupirmi e farmi ridere; vi consiglio le sue storie, tra l’altro, sono delle vere chicche: fate un giro sulla sua pagina. *__*

Grazie a tutti voi che leggete.

 

Eryca

 

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Capitolo 14
*** Insieme, per sempre. ***


14.

Insieme, per sempre.

 

 

 

 

 

So you say it’s not okay to be gay

Well, I think you’re just evil

You’re just some racist

Who can’t tied my laces

Your point of view is medieval

Fuck you

Fuck you very, very much.

 

 

Lily Allen – “Fuck you”

 

 

 

 

 

 

Il caffè aveva la grande capacità di calmarlo.

Funzionava un po’ come una tisana per le persone normali, ma, questo già si sapeva, Matteo non era propriamente un tipo comune, quindi usava la caffeina come tranquillante.

Il solo odore caldo della bevanda lo faceva sentire meglio, lo invadeva di una sensazione di tiepido calore e quasi gli sembrava di essere a casa, sotto le coperte.

E, proprio in quel momento, in cui uno stormo di ragazzine innamorate – non avrebbe mai pensato che sarebbe stato possibile, ma sì, delle donne lo ammiravano – lo stavano inseguendo per tutta Torino, alla ricerca dell’affascinante bassista dei Mad, il gruppo più in del momento, si disse che non ci sarebbe stato nulla di meglio se non un sano caffè.

Quindi, sgattaiolando dall’uscita di sicurezza dello studio televisivo, nel quale stavano tenendo un’intervista esclusiva con il famoso programma Rock Voice, era riuscito ad arrivare fino ad un piccolo locale in un viottolo sconosciuto; gli sembrava che non avesse mai fatto nulla di più avvincente del sedersi ad un tavolino rotondo e ordinare il tanto agognato caffè.

Pace.

Da quando i Mad avevano iniziato a scalare le classifiche, dopo l’uscita del loro album “Born to be Mad”, non aveva avuto un attimo di pausa, tra concerti, esclusive, interviste e apparizioni televisive. Era una specie di incubo ad occhi aperti.

Il fatto che la loro musica – una grandiosa musica – fosse finalmente ascoltata ed apprezzata da tutta Italia, non poteva che renderlo estremamente orgoglioso e soddisfatto, ma il pacchetto completo, con tanto di Fan Club, non gli andava troppo a genio.

Sbuffò, spettinandosi con impazienza i capelli prima di aprire il giornale posate sul tavolo, sperando di trovare qualche notizia che lo facesse distrarre: a pagina dieci, Gianluca Pezzi aveva scritto un articolo riguardante l’Istruzione a Torino, mentre invece a pagina dodici...

Travolti dalla Follia dei Mad.

«Oh, Cristo! Basta!» sbottò, per poi rendersi conto che aveva urlato e che i pochi anziani presenti nel bar, ora, lo stavano guardando con aria interrogativa, additandolo probabilmente come un pazzo.

Portò la tazzina alle labbra bevendo un piccolo sorso del liquido che lo fece subito rilassare, proprio come poteva fare un Valium.

Dio, non ci poteva credere, ancora non riusciva a rendersi conto di ciò che Mauro Polloni aveva detto a lui e Riccardo, pochi istanti prima. Era così fuori da ogni concezione che non avrebbe mai pensato di poter incontrare un uomo con la faccia tosta di pronunciare certe parole.

Non poteva essere davvero reale. Era successo? Era successo.

Diede un’occhiata nervosa all’orologio da polso: si, lui era in ritardo come al solito e non si sarebbe fatto vedere per almeno altri cinque o dieci minuti. Dannazione.

Avrebbe fatto meglio a muoversi oppure Matteo avrebbe iniziato a dare completamente di matto, urlando e imprecando come il peggiore scaricatore di porto del secolo, perché non era possibile.

Tutta quella celebrità, tutti quegli scatti, quelle fotografie di copertine non erano che un’immagine fasulla e montata di ciò che lui era.

«Scusa...»

La voce docile che aveva appena udito apparteneva ad un’adolescente elettrizzata, con gli occhi scintillanti e un foglio di carta stretto nella mano sinistra.

Ci risiamo.

«Si?» Si costrinse a sorridere, sorridere in modo falso, ovviamente, come tutto ciò che stava capitando ultimamente nella sua già abbastanza confusa vita.

Gli venne in mente sua madre – quella stronza di sua madre – e pensò che probabilmente era stata colpa delle ripetute maledizioni che gli aveva inflitto se ora si ritrovava in un fosso.

Grazie. Grazie tante, mamma cara.

«Sei Matteo, vero? Matteo Damiani, dei Mad!» domandò la bambina, cercando di contenere l’euforia che sembrava fremere per sprizzare da ogni parte del suo corpo.

Avrebbe voluto rispondere a quella fastidiosissima ragazzina che era riuscita a rovinargli l’unico posto di quiete che era riuscito a trovare, che sì, era Matteo Damiani dei Mad, ma che una volta la gente preferiva additarlo come “il frocio”, però lei non poteva ovviamente saperlo perché quella testa di cazzo di Mauro Polloni stava cercando di sotterrare la faccenda...

 

L’intervista era andata alla grande, erano riusciti a rispondere a tutte le domande con estremo sangue freddo e gentilezza degna di un nobiluomo; Davide ed Anne erano già spariti, probabilmente corsi a mangiare un boccone, vista la tarda ora che avevano fatto.

Matteo era pervaso da un senso di serenità, forse perché durante tutta la seduta Riccardo non gli aveva lasciato la mano neanche un secondo, nonostante la telecamere e la diretta televisiva; sapere che il batterista non si vergognava di lui lo rendeva orgoglioso.

Ora, al fianco del suo fidanzato, Matte stava uscendo dal palazzo, chiacchierando con tranquillità, mentre un sorriso aleggiava sulle sue labbra.

«Matte, Ricca!» la voce del loro manager lo costrinse a fermarsi – di malavoglia – e ad attendere che quest’ultimo li raggiungesse.

«Posso rubarvi due minuti del vostro tempo?» domandò, il sorriso di convenienza già apparso sul suo volto incipriato.

«Si, certo.»

Mauro prese a massaggiarsi le mani, guardarsi intorno con fare circospetto, come se stesse controllando che non ci fosse nessuno nelle vicinanze. Un comportamento decisamente strano anche per lui, pensò Matteo.

«Ragazzi, io credo che... Sì, ecco... credo che voi due siate due uomini intelligenti e furbi... quello che volevo dirvi era che... Tutti noi del management siamo a conoscenza del fatto che voi due siete... ehm, sì, gay... Ma, sapete come funziona con il mercato, certe cose sarebbe meglio tenersele per sé... In fondo, a chi importa di sapere che siete fro... omosessuali?»

«Che cosa stai cercando di dire, Polloni?» ringhiò il bassista, la voce tagliente di un vero leone, la rabbia che stava già cavalcando nel suo corpo.

«Non voglio che venga fuori questa cosa dell’essere gay. Preferisco che manteniate una facciata di eterosessualità. Capite, vero?»

 

No, non capiva. Matteo non capiva.

Aveva passato tutti gli anni della sua adolescenza lottando contro il razzismo, cercando di non vergognarsi di ciò che era, per farsi accettare dagli altri, sudando, piangendo, soffrendo, lacerandosi, torturandosi; e ora arrivava quel Mauro Polloni, quel produttore discografico, e pretendeva – pretendeva – che lui rinnegasse ogni sua battaglia per non fare scandalo?

Beh, lo scandalo era il fatto che qualcuno pensasse che potesse essere uno scandalo.

«Ehm, Matteo?»

La ragazzina lo guardava con i suoi occhi grandi e scintillanti, colmi di speranza, attendendo una sua risposta.

Dio, Matte, sei diventato un’icona del sesso etero.

«Sono io.»

«Mi faresti un autografo? Io ti adoro, ho comprato il vostro disco, è strepitoso! Siete grandi!»

Ti adoro, Matteo. Sei grande, Matteo. I Mad sono i migliori. I vostri concerti sono orgasmici. Siete la band migliore del secolo. Matteo, sei bellissimo. Portami a letto, Matteo.

Ne aveva avuto abbastanza.

No, non ti faccio un autografo. «Certo.»

Da quando era diventato così bravo a recitare? Non era mai riuscito a comportarsi in un modo che non rispecchiava la sua personalità, mentre in quell’ultimo periodo stava addirittura fingendo di essere uno stallone eterosessuale. Un sex symbol.

Fai schifo, Matteo. Fai proprio pena.

«Grazie! Grazie mille!» cinguettò la ragazzina e, saltellando, tornò dalla sue amiche che la accolsero con strilla degne di una scimmia urlatrice.

Ne aveva avuto abbastanza di tutta quella montatura: il suo sogno era sempre stato un palcoscenico musicale ma, quello in cui si era ritrovato, gli sembrava più un palco teatrale.

Non era così che sarebbe dovuta andare.

«Ehi, Matte!»

Riccardo.

Riccardo e la sua voce dolce, Riccardo e i suoi capelli bizzarri, Riccardo e il suo sorriso sincero, Riccardo e la sua bocca di fragole.

Riccardo. Riccardo. Riccardo.

«Sei in ritardo, coglione.»

 

 

****

 

 

 

Buongiorno anche a te, Matteo.

Riccardo, l’ombra del sorriso ancora impressa sul suo volto, se ne stava impalato di fronte al bassista, visibilmente ed estremamente seccato.

Ma, a differenza del suo ragazzo, Ricca non si sentiva seccato, ma piuttosto umiliato.

Era riuscito da pochi mesi ad uscire allo scoperto, mettendo da parte l’orgoglio, combattendo le sue dipendenze, divenendo un uomo adulto; e ora un idiota qualunque osava impedirgli di urlare al mondo che lui esisteva ed era ?

Non era riuscito a spiccicare una parola di fronte a Polloni, era rimasto semplicemente impassibile, il volto come una maschera di Carnevale, mentre dentro si stava svolgendo una guerra nucleare.

Matteo, come al solito più espansivo, sembrava una ciminiera dalla quale fuoriusciva una quantità indefinita di fumo: la sua rabbia sarebbe stata visibile anche a chi non aveva a che fare con lui.

«Mi dispiace.» si scusò sedendosi, pensando che mettersi a discutere non avrebbe di certo migliorato la situazione.

Notando il cimitero di tazzine di caffè presente sul tavolo, Riccardo si convinse che il suo amico era estremamente sconvolto e non in grado di prendere una decisione.

Doveva essere difficile, per lui che aveva sempre ammesso di essere diverso nella sua normalità, ritrovarsi di fronte ad un ostacolo del genere; in effetti non era un semplice compromesso, come poteva essere per un atleta non mangiare una torta a tre strati: era una vera e propria imposizione, dovevano fingere di essere chi non erano.

Il fatto più sconcertante, però, era che se non avessero accettato la loro carriera musicale, ormai alle stelle, sarebbe crollata in un nano secondo, rovinando il loro sogno.

Rovinando Il Sogno.

La mente di Ricca lo riportò indietro negli anni, ricordandosi quando lui e Davide passavano le giornate in piazza Castello a suonare, un cappello posate a terra per racimolare quattro lire; la vera ragione per cui si davano tanta pena per un’esibizione di strada era che li rendeva felici, liberi.

Dio, quanto avrebbe voluto potersi sentire di nuovo così, poter suonare come più gli piaceva per esprimere tutto sé stesso al meglio, senza aver paura di non andare a genio al pubblico o, ancor peggio, violare il contratto discografico.

Com’erano arrivati a tanto?

«Guarda, cazzo! Guarda questa merda!» sbottò Matteo passandogli un giornale che li ritraeva in una posa da veri duri, l’ennesima prima pagina dedicata a loro.

C’era qualcosa negli occhi del suo ragazzo che gli rendeva impossibile prendere la questione sottogamba: Matte sembrava aver perso ogni controllo di sé stesso, fatto estremamente raro. Riccardo non poteva semplicemente fingere che tutto andasse bene, perché erano nella merda.

Fino al collo.

Cazzo.

«Si, ho già visto. Com’è che sei così nervoso? Dovresti smetterla con tutto quel caffè.»

Una volta era il bassista che gli rivolgeva quelle raccomandazioni, anche se l’oggetto in questione non era proprio la caffeina, ma piuttosto la cocaina.

Gli capitava spesso di ripensare alla sensazione di completa pace che la droga era sola riservargli, qualche volta gli sembrava come se stesse rimuginando su un vecchio amico perduto, diveniva quasi malinconico; la verità era che Ricca non aveva mai smesso di lottare contro la voglia di una dose, perché quella lo perseguitava dalla mattina appena sveglio alla sera prima di andare a dormire.

Quando si provava l’emozione di un viaggio era semplicemente impossibile ripulirsi completamente, tornare a quando non se ne faceva uso, perché ti rimarrà sempre dentro quella malata e disperata smania per averne anche solo un poco.

E, in una situazione problematica come quella, Riccardo non poteva che sentirne il disperato bisogno, proprio come Matteo e il suo caffè.

«Ci ha chiesto di separarci, lo sai vero, Ricca?»

Gli occhi scuri del bassista si concentrarono sui suoi come se non ci fosse niente di più affascinante, intorno, e forse era proprio così.

Separarci.

Matteo dentro di lui, che scivolava, spingeva, lo rendeva pieno, colmava quel vuoto insopportabile che aveva lasciato la droga; colmava le sue debolezze, le sue rabbie, le sue paure.

Separarci.

Matteo e le sue mani dolci che sfioravano il suo viso, accarezzavano le sue cosce, lasciavano sulla sua pelle impronte digitali, tatuaggi indelebili che mai nessuno avrebbe potuto cancellare, neanche dopo anni e anni.

Separarci.

Matteo e la sua lingua tagliente che lo rimproveravano, lo canzonavano e lo deridevano con quell’aria di superiorità che gli era tanto familiare; ma anche parole dolci, parole confortanti, parole coraggiose che gli impedivano di sprofondare di nuovo.

Separarci.

Matteo, il suo punto di forza.

Matteo.

Matteo.

Matteo.

Matteo.

Insieme, per sempre.

«Niente e nessuno potrà mai separarmi da te. Non mi interessa se questo vorrà dire rinunciare alla musica, ai Mad. Tu sei tutto. Intensi, Matte?»

Insieme, per sempre.

E a Riccardo non importava assolutamente nulla se il bassista non provava ciò che sentiva lui, perché quello che aveva appena confessato era vero, lo sentiva fin dentro lo stomaco e non poteva semplicemente lasciarlo perdere; sarebbe stato come mutilare una parte di sé stesso.

Matteo era penetrato fin dentro al fegato, aveva prolificato nel pancreas e ora se ne stava accoccolata proprio nell’atrio sinistro del suo cuore.

Come poteva separarsi dal suo cuore?

«Te l’ho già detto che ti amo, Ricca?»

Rivelazione.

Non ci fu più niente da fare, non si poteva semplicemente rimanere apatici di fronte ad un’ammissione del genere, soprattutto se la si sentiva dal controllatissimo Matteo, pensò Riccardo.

Si accorse del suo sorriso ebete solo quando vide il suo riflesso sulla vetrata del bar: non sembrava nemmeno lui quel ragazzo felice e spensierato che se la rideva con tranquillità.

Matteo gli faceva quell’effetto.

Matteo.

Matteo.

Matteo.

Insieme, per sempre.

«No, non me lo avevi ancora detto, piccolo. Ma il tuo è un amore ricambiato.»

E poi non ci fu più nulla per cui trattenersi, così scoppiarono a ridere con sincerità, sfogando ogni dubbio, ogni parola taciuta, ogni rabbia, ogni rancore.

Furono risate, giochi di sguardi, mani intrecciate senza paura che qualcuno potesse vederli.

Furono semplicemente Matteo e Riccardo, insieme.

Insieme, per sempre.

 

 

****

 

 

 

Angolo Autrice

Sono tornata, lettori, miei cari!

Spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto, è essenziale per la svolta della storia, che dà inizio all’ultima parte della storia.

Sì, avete capito bene: Matteo e Riccardo decidono di rinunciare al gruppo, piuttosto di fingere di essere eterosessuali; la questione sarà spiegata meglio nel prossimo capitolo.

La fine dei Mad? Chissà.

Lasciate un commentino :D

 

Un abbraccio,

Eryca

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Mentre il caffè si raffreddava ***


15.

Mentre il caffè si raffreddava

 

 

 

 

«Le decisioni devono essere prese con coraggio, distacco e, talvolta con una certa dose di follia – non la follia che distrugge, bensì quella che conduce l’essere umano a compiere il passo al di là dei propri limiti.»

 

Paulo Coelho

 

 

 

 

Fu un sussurro lieve, come quello del vento tiepido primaverile, a svegliarla con una dolcezza estenuante.

Furono delle labbra – morbide, morbidissime – sulla sua spalla nuda, in un tocco paziente, a farle aprire gli occhi, in un movimento estremamente lento.

La prima cosa che Anne vide, furono due enormi occhi chiari che la fissavano con un interesse che uno scienziato è solito rivolgere ad una specie animale protetta.

Poi, un sorriso.

Non uno di quei sorrisi dolci ed amorevoli, quelli che ti strappano il cuore e ti fanno venire voglia di vendere l’anima al diavolo, no. Uno di quei sorrisi che, piuttosto, potrebbe sfoderare un bambino pestifero quando ha appena avuto l’idea geniale di fare un dispetto alla sorellina.

Un sorriso colpevole.

Infine, come previsto, acqua.

Acqua gelida sul suo viso ancora assopito e, seduto sul letto di fronte a lei, un Davide rosso in faccia a causa delle troppe risate con in mano un bicchiere vuoto.

Divertente. Veramente divertente, Lombardo.

Anne si mise in ginocchio sul letto per catapultarsi con rabbia selvaggia su Davi, facendolo rotolare tra le lenzuola ed iniziando così una vera e propria lotta.

«Ho pensato che sarebbe stato carino svegliarti in un modo romantico» iniziò Davide, non appena ebbero terminato quel gioco scherzoso.

La cantante riuscì finalmente a spiegarsi, allora, i baci amorevoli e le carezze che aveva sentito sulla sua pelle quando era ancora nella fase del dormiveglia. Una sensazione magnifica.

«Poi mi sono detto che tutte quelle smancerie non facevano per me, così ho optato per l’acqua.»

Ora è tutto più chiaro.

Davide rimaneva un vero e proprio mistero per lei. Certo, pian piano riusciva a scoprire particolari strambi della sua persona, come ad esempio il fatto che odiasse i piedi e non sopportasse di essere toccato con essi; però sembrava essere sempre circondato da quell’alone di enigma che ti faceva venire voglia di capirne di più riguardo a lui.

Forse era proprio per quel motivo che Anne lo amava tanto.

Lo amava.

Lo amava.

Lo. Amava.

Due semplici parole che erano un’idea concreta nella sua mente, un vero e proprio pilastro impossibile da distruggere; eppure non sentiva il bisogno di confessarlo al suo compagno, perché il loro amore era espresso nelle piccole cose: un sorriso di sottecchi, una carezza di sfuggita, un bacio.

«Ovviamente! Adesso per farti perdonare mi vai a fare il caffè. Su, su.»

Prese a spintonarlo giù dal letto, finché non lo vide rovesciarsi a terra, proprio come un sacco di patate. Rise, perché le veniva spontaneo quando si trovava in compagnia di Davide, che riusciva a rallegrare sempre quella che iniziava come una giornata tempestosa.

Ormai erano mesi che i Mad stavano in testa alle classifiche, i giornali parlavano di loro, i fans creavano dei club per idolatrarli e le loro mamme... continuavano a fare la torta in casa. Ciò che Anne non riusciva a capire era che le persone estranee li vedevano come delle vere e proprie rock star, ma se solo avessero saputo chi erano davvero avrebbero cambiato idea.

Rimase sdraiata sul materasso, le mani dietro la testa, ad osservare con sguardo affamato Davide, soffermandosi con interesse su ogni piccola parte del suo corpo.

Benessere.

Era proprio quello il termine che riassumeva alla perfezione la sua sensazione quando aveva il chitarrista accanto: i pensieri tristi che invadevano le sue memorie svanivano, le sue paure diventavano cenere e le montagne insormontabili sembravano divenire scalabili.

Benessere erano i capelli neri del ragazzo.

Benessere erano quegli occhi chiari che sembravano contenere i segreti dell’universo.

Benessere era il suo sorriso scaltro che ti faceva venire voglia di giocare.

Benessere era Davide.

Anne si chiese da quando era diventata così sdolcinata; se ci fosse stato Matteo accanto a lei, con tutte le probabilità del caso, le avrebbe tirato un quaderno in testa, accompagnato da qualche parola intimidatoria. Ma, in fondo, erano cambiate così tante cose nel giro di pochi mesi che Anne faticava ad assimilarle tutte e a starci dietro senza impazzire.

Allungò la mano verso il comodino e afferrò il pacchetto di sigarette di Davide, estraendone una senza farsi vedere.

«Ti ho vista, volpe.»

O almeno così pensava.

Si accese la cicca sorridendo, prima di smontare dal letto una volta per tutte e raggiungere il ragazzo, intento a versare il caffè in due tazze raffiguranti i personaggi de “I Simpson”.

Lo abbracciò da dietro, appoggiando la testa sulla sua schiena, inebriandosi del suo profumo – profumo di Davide – e pensando che ultimamente le cose andavano davvero per il verso giusto.

«Che ne dici di berlo più tardi, questo caffè?» chiese Davi voltandosi verso di lei, le mani già posate possessivamente sui suoi fianchi, la bocca così vicina da poterne vedere la perfezione.

E Anne non pensò che probabilmente la bevanda si sarebbe raffreddata e sarebbe divenuta imbevibile, perché Davide – lui, lui, lui – la stava baciando ormai, il sapore di lui sulla sua bocca.

Dio, quanto lo amava.

Lo amava.

Lo amava.

Lo amava.

«Ehm, ehm.»

Il suono di una voce che si schiariva la gola li indusse a staccarsi in modo colpevole, consci di essere appena stati colti in flagrante.

Ricca e Matte se ne stavano in piedi davanti alla porta d’ingresso ancora aperta, segno che dovevano essere appena arrivati a casa.

«Tempismo perfetto, ragazzi.» borbottò Davi, ormai concentratosi nuovamente sulle sue tazzine, prima di prenderne altre due dalla credenza. «Caffè?»

Riccardo, però, sembrava essere visibilmente nervoso: continuava a mandare occhiatine a Matteo che, a sua volta, si massaggiava le mani in un gesto che non era da lui.

Qualcosa bolle in pentola.

«Ragazzi, sediamoci un momento... dobbiamo dirvi una cosa importante.»

Centro.

Davide smise di trafficare e Anne, ormai curiosa di sentire cos’avevano da dire, si alzò per andarsi a sedere al piccolo tavolo di legno. Il suo migliore amico puntò subito gli occhi su di lei, quasi volesse farle capire ciò che stava per succedere.

«Allora?» domandò Davide che, come al solito, dimostrava la pazienza di un primate.

E poi ci fu uno di quei momenti che solo loro quattro uniti in una sola stanza riuscivano a creare.

Uno di quelli in cui il tempo sembrava non esistere più, così come lo spazio, il mondo, le galassie, i loro nomi, le loro vite, i loro ricordi.

Solo la musica persisteva.

La musica vera, quella che avevano creato insieme, volando nei cieli inesplorati, tracciando le vie di nuove strade sconosciute.

La musica del prima.

E allora Anne lo seppe.

Lo seppe con certezza.

«Io e Riccardo abbiamo deciso di lasciare i Mad.»

Anne lo seppe mentre il caffè si raffreddava.

 

 

 

****

 

 

 

Davide dovette assicurarsi di essersi lavato le orecchie quella mattina, prima di rendersi conto che ciò che aveva sentito non era finzione, ma la dura e triste realtà.

Io e Riccardo abbiamo deciso di lasciare i Mad.

Il silenzio regnava nella stanza, quasi a voler sottolineare che non potevano davvero esistere parole per esprimere ciò che il chitarrista sentiva dentro di lui: un minestrone di emozioni confuse; gli sembrava quasi che tutto il sangue che aveva in corpo gli fosse improvvisamente salito al cervello, facendogli schizzare i nervi al massimo e il cuore in gola.

«Non prendiamoci in giro, ragazzi.» Fu tutto ciò che Davide riuscì a dire, la voce spezzata, il groppo in gola che gli impediva di deglutire.

C’erano stati momenti nella sua vita, in cui aveva pensato di non potercela fare, come quando Riccardo era stato ricoverato in clinica per disintossicarsi, ma poi si era ripreso e, con la forza di un toro, aveva affrontato ciò che la vita gli aveva posto come ostacolo e ci era riuscito. Il fatto era che ci aveva creduto con tutta la sua anima, il suo cuore, il suo spirito.

Proprio com’era successo fin da quando era un bambino, per via di quello sciocco sogno.

Il sogno.

Il sogno irrealizzabile che, invece, era riuscito a realizzare con lo stupore di ogni persona che lo circondava, mettendoci passione, impegno, sudore e dolore.

Il sogno che ora sembrava crollare piano, così piano che ogni mattoncino che si sfracellava sembrava scavare una ferita nella sua pelle, facendo uscire fiumi di sangue, togliendogli il fiato.

Io e Riccardo abbiamo deciso di lasciare i Mad.

«Davide, amico mio» lo chiamò Ricca, gli occhi dolci puntati su di lui come una richiesta di ascolto in onore di quell’amicizia tanto sofferta e tanto forte. «Non è uno scherzo.»

Sentì il rumore di un bicchiere che si infrangeva e, con occhi allucinati, notò che Anne aveva appena lanciato la sua tazza a terra e ora guardava il pavimento, i pugni stretti lungo i fianchi e l’espressione di viso contratta in una maschera di rabbia.

Per un istante, Davide pensò di abbracciarla, stringerla forte a sé, farle sentire che, dopotutto, erano ancora insieme, che potevano ancora consolarsi con un bacio, ma fu solo un attimo e rimase seduto su quella maledetta sedia, fissando il vuoto quasi stesse cercando nell’aria una risposta.

Sconvolto. Doveva proprio sembrare sconvolto, sì.

«Dopo tutto quello che abbiamo sacrificato! Cosa cazzo vi salta in mente?» urlò Anne, gli occhi iniettati di sangue, la sua ira quasi palpabile.

Matteo doveva essere al corrente degli scatti di rabbia dell’amica, eppure non si era preoccupato della sua reazione, era rimasto seduto a guardarla con occhi impotenti, mentre mormorava delle inutili scuse a bassa voce.

Dio, possibile che quei due fossero diventati così egoisti? Avevano dimenticato tutto ciò che avevano passato per arrivare alla vetta? Non poteva essere già finita, no. Davide non aveva neanche ancora assaporato il gusto dell’essere arrivato al suo obiettivo: voleva sentire le urla degli spettatori mentre si esibiva in un assolo di chitarra degno di Jimmy Page, voleva dischi su dischi, voleva premi, concerti di beneficenza.

Voleva vivere il sogno.

«Polloni ha espressamente chiesto di negare la nostra omosessualità, Anne.» La voce di Matteo gli arrivò pacata alle orecchie, ma attirò lo stesso la sua attenzione, inducendolo ad ascoltare. «Sono disposto a dei compromessi, Annie, davvero. Ma come posso nascondere chi sono dopo tutti questi anni di lotta per vivere alla luce del sole?»

Furono parole amare, parole che colpirono Davide allo stomaco, perché, nonostante tutto, non avrebbe mai saputo cosa si provava a non essere accettati, a dover fingere di essere qualcuno che non si era, in realtà; non poteva dire il suo parere, perché non aveva lottato per la propria libertà, non aveva dovuto combattere contro sé stesso pur di arrivare ad accettarsi.

Voltò lo sguardo verso il suo migliore amico, Riccardo, che lo stava osservando con occhi colpevoli, l’espressione del viso demoralizzata di chi sa di aver deluso una persona a cui si vuole bene. E Davide non seppe più ciò che era giusto perché non poteva rimanere distaccato vedendo quanto il suo amico stesse soffrendo, non poteva negare che ciò che Mauro aveva imposto ai due ragazzi era ingiusto e razzista. Anne si sedette sul pavimento a gambe incrociate e si prese la testa tra le mani, in una posa disperata.

Non c’era più traccia di rabbia nella stanza, no; essa aveva lasciato posto alla tristezza, alla delusione, alla rassegnazione, all’idea che il loro sogno tanto agognato era corrotto.

E Davide dovette trattenersi dall’urlare, perché non poteva credere che tutto ciò per cui aveva vissuto fino a quel momento era finto. Doveva esserci pur qualcosa di reale.

La musica.

La musica doveva essere vera, lei era pura in ogni minimo accordo, in ogni singola nota, in ogni loro canzone. E se i Mad erano davvero destinati a morire, allora la verità sarebbe sopravvissuta nei loro testi, nei video delle loro esibizioni dal vivo, nella loro musica che urlava parole incontaminate dalla commercialità e dal denaro.

E Davi si accorse che erano tutti distrutti da quel mondo che gli stava chiedendo troppo, pretendeva gli abiti giusti, le compagnie giuste, i luoghi giusti, le chitarre giuste, i cocktail giusti. Anne, che il giorno in cui l’aveva conosciuta era energica, schietta e sfrontata, sembrava essere divenuta un fantasma di sé stessa: era dimagrita visibilmente, i suoi sorrisi erano meno arzilli di quelli usuali e aveva preso a fumare come una ciminiera. Anche Matteo, solito curare il suo aspetto fisico in una maniera esagerata, aveva accantonato le camicie di marca per indossare magliette a maniche corte sciupate e nemmeno stirate. Riccardo, poi, sembrava subirne più di chiunque altro le conseguenze: non era ancora del tutto disintossicato, quindi era obbligato a continuare le terapie di gruppo e di certo quell’ambiente in cui la droga era all’ordine del giorno non gli era d’aiuto.

E tu, Davide? Come ti sei ridotto?

Davi si rese conto di aver perso quell’entusiasmo infantile tipico di sé stesso: conservava la voglia di salire sul palco e dimostrare al mondo chi era, ma avrebbe voluto farlo a modo suo e non seguendo le istruzioni di stupidi manager.

Non c’era più tensione.

Non c’era più rabbia.

C’era solo rassegnazione.

E Davide seppe, mentre il caffè si raffreddava, che i Mad erano niente più che un ricordo sfumato.

 

 

****

 

 

Come prima cosa mi scuso immensamente per l’imperdonabile ritardo con cui pubblico questo capitolo, ma la scuola mi sta veramente rubando la vita, ultimamente D:

I Mad si sono sciolti, avete capito bene, non è una finzione e non ci sarà un colpo di scena. La storia si avvicina al termine, i nostri protagonisti stanno prendendo decisioni drastiche.

Dopotutto il mondo della musica è realmente così: difficile, corrotto, per persone forti.

Come sempre vi chiedo di lasciare un commentino se leggete! :D

Grazie mille a tutti per aver letto!

Un abbraccio,
Eryca.

 

 

 

 

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Capitolo 16
*** Epilogo-Sognando l'America ***


16.

Epilogo –

Sognando l’America

 

 

Don’t give up

‘Cause you have friends

Don’t give up

You’re not beaten yet

Don’t give up

I know you can make it good

 

Peter Gabriel – “Don’t give up”

 

 

 

 

 

Riccardo aveva sempre pensato agli addii come dei momenti in cui il cuore ti veniva strappato dal petto con una forza bruta incredibile. Si era sempre immaginato un’atmosfera tagliente, una canzone come “Wish you were here” dei Pink Floyd in sottofondo, mentre le lacrime cominciavano a scorrere come fiumi in piena.

Sì, questi erano gli addii che Ricca aveva sempre preso in considerazione: un’accozzaglia di cliché e stereotipi degni della peggiore commedia hollywoodiana.

Guardò ancora una volta il grosso tabellone che stava davanti a lui: Los Angeles. 19:20.

America.

Sognare l’America era una tradizione radicata nelle persone da secoli e secoli, fin dal momento in cui il Nuovo Continente era stato scoperto e le leggende misteriose su di esso avevano iniziato a viaggiare per chilometri e chilometri. L’America rappresentava quel luogo di rinascita in cui la gente avrebbe potuto riscattarsi, reinventarsi, ricrearsi completamente per risorgere una volta per tutte dalle proprie ceneri. L’America era un sogno lontano, quasi irraggiungibile.

E così, proprio come centinaia di altri uomini, Riccardo e Matteo avevano deciso di sognare l’America: si erano guardati negli occhi, mentre i cronisti li bombardavano di domande relative allo scioglimento dei Mad, e avevano capito di aver il disperato bisogno dell’America e di tutto ciò che essa rappresentava.

Alla fine avevano mollato, pensò Riccardo sconfortato. Aveva abbandonato, dopo alcuni ostacoli, la musica e il suo gruppo, senza farsi troppe domande, senza pensarci su due volte: era stata la scelta giusta? Non lo sapeva, Ricca, e probabilmente non avrebbe mai saputo rispondere a quel quesito esistenziali; tutto ciò che il suo torturato cuore gli stava domandando, ora, era di cercare un nuovo appiglio per poter ricominciare.

Il batterista si strinse nella sua felpa nera, il freddo dell’aeroporto lo faceva sentire ancora più insicuro, rendendogli impossibile pensare a qualcosa che non fosse gli errori commessi durante la sua carriera come musicista.

«Ragazzi, credo che sia ora di andare a fare il check-in» mormorò Anne, la voce bassa di chi non avrebbe veramente voluto dire ciò che ha appena pronunciato. Riccardo si rese conto che doveva essere un dolore immenso quello che Anne stava provando nel dover lasciare il suo migliore amico.

E fu allora che Ricca si voltò verso Davide.

Gli occhi del chitarrista sembravano aver perso ogni traccia di energia: spenti, vuoti; gli occhi di chi ha appena conosciuto una delusione immensa, di chi ha perso la cosa per cui ha sempre lottato e combattuto. Davi si era semplicemente spento, come uno di quei macchinari tecnologici che, con un semplice pulsante, puoi disattivare. Da quando aveva dovuto annunciare al pubblico, in un’intervista riservata a pochi giornalisti, il definitivo scioglimento dei Mad, il suo amico sembrava essersi trasformato in un’altra persona, la quale non conservava nulla di Davide, se non il ricordo.

Anne, per fortuna, le stava sempre vicino, senza mai lasciarlo solo, accudendolo come si faceva come i bambini piccoli e bisognosi e donandogli tutto l’affetto che sembrava bramare. Era diventata, Anne, una madre, un’amica, un’amante.

Ehi, Davide, amico mio. Dove sono finiti i sorrisi solari che riuscivi a strapparmi anche quando le nuvole riempivano il cielo in inverno?

Ehi, Davide, amico mio. Dov’è finito il tuo riso inconfondibile, quello di un mezzo bambino e per l’altra metà un demonio, che sembrava espandersi come una malattia e indurre tutto l’universo a ridere?

Dove sei? Dove sei, dove sei, dove sei, Davide, amico mio?

Riccardo avrebbe voluto afferrarlo per le spalle e scuoterlo, sperando di risvegliarlo da quello stato di catalessi nel quale sembrava essere caduto. Ma come poteva infierire su Davi quando era stato proprio lui ad ucciderlo? Sì, Riccardo sapeva di essere colpevole; era consapevole di essere stato la causa del crepacuore del suo amico perché, se lui e Matteo non avessero abbandonato i Mad, ora Davide avrebbe avuto ancora la voglia di illuminare il mondo con la sua energia.

Ed è per questo, amico mio, che devo partire per sognare l’America.

Si rendeva conto, ora, che gli addii che su cui aveva sempre fantastico erano irreali, dei semplici ghirigori romanzati, dei quadri ben dipinti ma assolutamente astratti.

Un addio non stava nel numero di lacrime che venivano versate e nemmeno significava un abbraccio disperato, no: era di più, molto di più.

Un addio era la fine di un ciclo e l’inizio di una nuova fase.

Addio non era semplicemente morte, dolore, sconfitta, perdita, ma anche la voglia di tentare di nuovo, riscoperta, rinascita, speranza.

Sì, perché era proprio speranza quel ronzio che Riccardo continuava a sentire dentro il suo corpo: nonostante fosse affogato nella melma, avesse toccato l’apice per poi ridiscendere nell’anonimato, il batterista aveva ancora voglia di combattere, di riprovare, perché la vita, in fondo, altro non era che porte che si sbattevano in faccia e altre che, invece, si aprivano.

E lui non aveva nessuna intenzione di fermarsi.

Diede la carta d’identità e il biglietto alla signorina che, con educazione esemplare, gli chiese di appoggiare il bagaglio sul tappetino rullante. Ricca guardò la sua valigia sparire dietro una fila di strisce in plastica, pensando che l’avrebbe ritrovata in un altro continente.

America.

Non avrebbe mai potuto scoprire se ciò che lui e Matteo stavano per fare era una pazzia oppure il giusto cambiamento. Era sicuro, però, che dovevano di nuovo imparare a sognare.

 

E questo gli bastava, perché Riccardo, Riccardo non si sarebbe mai arreso.

 

 

****

 

 

 

Riccardo e Matteo è un calcolo perfetto che dà come risultato Amore.

Era questo ciò che Matte pensava mentre si avvicinava al Gate d'imbarco che avrebbero dovuto prendere per salire sull’aereo. Aveva dovuto attendere anni prima di sentirsi finalmente completato, compreso e amato; poi era arrivato quel ragazzo strano con i capelli verdi e l’animo tormentato, che aveva deciso di impadronirsi del suo cuore senza chiederlo due volte. E ora stava per andare a vivere in America con lui.

Verso il Nulla.

Andare verso il Nulla era una cosa che Matteo sapeva fare alla perfezione, quindi non si preoccupava troppo di cosa lo avrebbe atteso: se fossero rimasti in Italia i media avrebbero continuato a rendergli la vita un inferno, tra interviste e foto di paparazzi. Anne e Davide si tenevano per mano, uniti come mai prima d’allora, in attesa del fatidico saluto che tutti sapevano sarebbe arrivato. Matteo aveva cercato di rimandare il più possibile il momento dell’addio, ma ora, in fila per imbarcarsi, non poteva più fingere di avere ancora del tempo a disposizione.

«Beh, è ora di salutarsi...» concluse spostando il peso da una gamba all’altra, le mani in tasca.

Dio, Matteo trattieniti. Nessuna tragedia greca, per favore.

Anne era stata per più di cinque anni la sua migliore amica, la sua unica confidente, la ragazza che lo aveva sostenuto sempre e comunque, nonostante tutto il resto del mondo fosse contro di lui, anche quando faceva uno dei suoi errori tremendi... Lei era sempre lì, pronta a tendergli una mano e ad aiutarlo a rimettersi in piedi. Anne era stata il suo unico punto di riferimento. E ora come poteva semplicemente stringerle la mano e mormorarle un “Arrivederci”?

Prima ancora che potesse pronunciare una sola parola si ritrovò le braccia di Anne al collo, le sue labbra sul suo collo e il suo corpo aderito al suo.

Ehi, Anne, amica mia. Non ti sto lasciando, piccola bambina. La nostra storia non ha qua il suo epilogo, questo è solo uno di quei climax che devono accadere.

Ehi, Anne, bambina mia. Sei la stella polare della mia vita, quando avrò bisogno di un aiuto chiamerò il tuo nome e tu correrai, perché è questo che sai fare meglio.

Ehi, Anne, mio piccolo amore. Il mio umile cuore ti chiede perdono, sanguina e piange, spera che tu non sia troppo delusa.

Ehi, Anne, mia dolce bambina. Mia piccola, piccola, piccola amica.

E, nonostante si fosse ripromesso di non piangere, Matteo si abbandonò alle lacrime non appena sentì la sua migliore amica fare lo stesso, mentre lo stringeva forte a sé, quasi a non volerlo lasciare.

C’erano amicizie che duravano per sempre, nonostante la distanza, nonostante i litigi, nonostante le delusioni, nonostante le circostanze: Matteo ed Anne non si sarebbe mai divisi, mai, perché i loro cuori sarebbero sempre stati legati. Per sempre.

«Devo andare, piccola Anne...» riuscì a mormorare tra un singhiozzo e l’altro. Sciolse quell’abbraccio – no, Annie, non mi lasciare – e notò con stupore che anche Davide e Riccardo si stavano stringendo con la forza che solo due uomini sapevano usare.

L’amicizia è una forza indistruttibile.

«Chiamateci quando arrivate!» iniziò la cantante, la voce spezzata e il tono di una mamma preoccupata «E ricordatevi di installare Skype, voglio sentirvi almeno una volta al giorno! E per le vacanze tornate qua! E poi...» non riuscì a continuare, perché un nuovo flusso di lacrime le impedirono di far uscire la voce. Davide le mise un braccio intorno alle spalle e le baciò la testa dolcemente, come si fa con i bambini piccoli. Matteo non osò avvicinarsi di nuovo alla ragazza, altrimenti non sarebbe stato più capace di lasciarla.

«Tranquilla, Annie. Non spariremo.»

La ragazza prese a fare segno di andarsene con la mano, mentre nascondeva il viso sul petto di Davi, anche lui con gli occhi lucidi ed umidi.

Arrivederci, Annie, bambina mia. Tornerò, ma per ora conserva il ricordo dei tempi andati, tieni stretto il profumo del nostro ultimo abbraccio. Tornerò, bambina mia.

Ricca afferrò la mano di Matte e, insieme, passarono il nastro che li divideva dai loro amici. Il cuore che palpitava, il moro si fermò a salutare ancora una volta la sua Annie, lo stato d’animo a terra. Non pensava che gli avrebbe fatto così male separarsi da quella piccola ragazzina selvaggia e tutto ciò che lei aveva significato per lui.

«Non voltarti più, piccolo...» lo consigliò Riccardo tenero che, a sua volta, stava soffrendo la perdita di Davide.

Era sconvolgente come, ogni volta, condividessero le stesse emozioni e si capissero alla perfezione, senza il bisogno di fare troppe domande: bastava guardarsi negli occhi e ci si poteva rispecchiare nel compagno.

Continuarono a camminare attraverso il corridoio rialzato che li avrebbe condotti all’aereo, le mani intrecciate, i destini in comune, mentre una parte importante di loro rimaneva in aeroporto, insieme ai loro amici. Le lacrime continuavano a rigare le guance di Matteo, nonostante egli si stesse sforzando di bloccarle, perché doveva essere forte, doveva esserlo, dannazione!

«Buongiorno e benvenuti.» Li accolse gentilmente una hostess in divisa blu, il sorriso cordiale stampato sul volto truccato. Matteo non diede il minimo segno di vita, Riccardo rispose al sorriso per poi farsi spazio tra le file di sedili in cerca del loro posto.

«Eccoli.»

Si sedettero, Matteo rigorosamente vicino al finestrino, e rimasero in silenzio, entrambi persi nei propri pensieri.

Annie, piccola mia, già mi manchi.

Forse stavano commettendo l’errore più grande della loro vita, forse avrebbero dovuto continuare a suonare con i Mad e lottare per i loro diritti; eppure, Matte sentiva che non avrebbero potuto fare in un altro modo: avevano bisogno di nuovi orizzonti.

 

Quando l’aereo decollò, Matteo sentì di aver lasciato a terra un pezzo di sé stesso, un pezzo che non poteva continuare a portarsi dietro, ma che doveva perdere, come la paura. E se per trovare ciò che stava cercando fin da bambino avrebbe dovuto volare fino in America, allora tutto quello avrebbe avuto un senso.

«Cosa ne sarà di noi, Matte?»

Non aveva una risposta a quella domanda, Matteo.

Ma per il momento, gli bastava guardare al futuro.

 

****

 

 

Siamo giunti all’Epilogo di questa storia.

Davide ad Anne rimangono a Torino, quindi, mentre Riccardo e Matteo volano verso un futuro ignoto. Probabilmente mi sembrerà ambiguo, ma è stato scritto appositamente in questo modo, perché volevo lasciare lo spazio per immaginarsi cosa sarebbe successo dopo.

 

Ora passiamo ai ringraziamenti (ne ho davvero molti da fare).

Voglio ringraziare di cuore la mia amica Vì (grandiosa autrice su efp: Lavisvampita) che mi ha corretto ogni singolo capitolo di questa storia, aiutandomi e sostenendomi. Grazie. <3

Ringrazio anche Aniasolary, Postergirl e Miliko Akiko Chan che hanno letto tutti i capitoli, seguendomi e sostenendomi anche quando quasi nessuno leggeva!

Ed infine, grazie a chiunque abbia letto questa storia, l’abbia recensita o inserita tra le Scelte, le Ricordate o le Preferite.

Spero che questa storia vi abbia coinvolti almeno un po’ e vi abbia aiutati a sognare.

 

Un caloroso abbraccio,

la vostra Eryca.

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