Lo chiamavano “Il mani di forbice”

di Kyoya Ootori
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - Letter to Robert ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - Letter to Ochiya ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Lo chiamavano "Il mani di forbice"
Questo primo capitolo, ad Emil' e a Martì.

Ero bambina, eppure ricordo perfettamente sia l’interno che l’esterno del locale in cui lui compiva le sue magie, spezzava cuori e si beccava improperi da parte delle clienti che restavano comunque affezionate. Il locale in cui sopportava, con classe e raffinatezza, ogni visita sgradita da parte del padre, che coglieva ogni occasione per ricordargli quello che avrebbe potuto essere e che invece non era. Ricordo l’insegna elegante, costituita dal suo cognome scritto in corsivo, che prometteva un servizio professionale e di classe, e ricordo l’interno luminoso e grande, con tantissimi specchi che riflettevano le sue opere d’arte. Lo definivano il più bravo di tutta Bunkyo, ai miei occhi di bambina appariva come il più capace di tutta Tokyo, se non di tutto il Giappone. Era solo un parrucchiere,  ma lo chiamavano “Il mani di forbice”.

 

Un uomo alto e slanciato, dal portamento elegante e dai soffici capelli biondi, attraversò la strada tenendo per mano una bambina dal viso paffuto, molto più bassa di lui, che nonostante i suoi modesti cinque anni, si dimostrava, nella pratica, essere più grande. L’uomo, prima di entrare in quella che nelle sue fiabe aveva descritto alla figlia come “la magica bottega”, si concesse un attimo per guardarla negli occhi e regalarle un sorriso malinconico mentre ammirava gli occhi scuri e profondi, testimoni di un dolore che egli stesso tentava di non mostrare, di comprimere nel suo cuore e di chiudere in un cassetto per poi buttare via la chiave. L’uomo si accosciò, attirando lo sguardo di qualche cliente curiosa che lo osservava da dentro il negozio, sfruttando la porta di vetro, e prese il viso paffuto della bambina fra le mani, poggiando sulla sua fronte un bacio amaro.

<< Lo sai che il tuo papà ti vuole tanto bene, Haruhi? >> chiese con voce tremante, quasi commosso dall’affetto che lo legava alla bambina. << Certo otoo-san, e io ne voglio a te >> rispose lei, sorridendogli sinceramente e prendendolo per la mano. L’uomo passò una mano fra i capelli della figlia, di un marrone scuro, si rimise quindi in posizione eretta e volse lo sguardo all’interno del negozio, sapendo che nella porticina che conduceva al retrobottega si nascondeva, anzi, l’aspettava, lui: Il mani di forbice.

<< Tamaaaaaa-chaaaaaaaaaaaan! Haru-chaaaaaaaaaaaaaaaan! >> ad accogliere il duo ci pensò la voce squillante di un ometto non troppo alto che dalla sedia di fronte alla cassa, fece un salto fino ai piedi dell’amico e sollevò in aria Haruhi, facendola girare in tondo. Si chiamava Mitsukuni, era un asso in matematica e distribuiva dolci sorrisi, che non erano mai finti, a tutte le persone che incontrassero il suo sguardo color nocciola; Mitsukuni, altrimenti noto come Honey, lavorava per Il mani di forbice, si diceva che fossero amici dai tempi del liceo e che oltre a quell’impiego, che lui considerava più come un hobby, gestisse anche il dojo della sua famiglia, la famiglia Haninozuka. Dopo aver poggiato delicatamente la bambina per terra, Honey estrasse dalla tasca un lecca-lecca e glielo offrì, facendole un sorriso a trentadue denti. << Oh grazie mille Honey-chan,  la fragola è il mio gusto preferito! >> << Ma lo mangerai dopo cena, altrimenti ti passa l’appetito >> le raccomandò il padre, scompigliandole i capelli << Hai, hai >>.

Più avanti, un secondo dipendente del mani di forbice stava svolgendo il suo lavoro, sfruttando il suo “tocco speciale”: Takashi Morinozuka, cugino di Mitsukuni, stava massaggiando il capo di una donna che sembrava quasi in preda ad un orgasmo, per il piacere fisico che esprimevano le sue espressioni facciali. Takashi sollevò lo sguardo non appena sentì il campanello del negozio suonare, già, come in una vecchia bottega, e rivolse a Tamaki un silenzioso segno d’intesa, ritornando al proprio lavoro. Takashi non usava mai, come invece Mitsukuni poteva permettersi, allontanarsi dalla sua postazione durante le ore di lavoro, considerando che se l’avesse fatto si sarebbe sentito il flebile gemito della cliente che stava trattando che gli chiedeva, implorante, perché si fosse interrotto. Così il Morinozuka rimase, in silenzio, a lavare i corti capelli rossi della cliente. La sua postazione era quella più nascosta e quella più vicina alla porta del retrobottega, che aveva l’occasione di aprire dopo pochi passi e che pure non apriva mai, poiché non ne aveva bisogno. Il mani di forbice era stato chiaro fin dall’inizio: mai disturbarlo a meno che non fosse strettamente necessario, in quel caso Takashi dava un colpo secco con la nocca per avvertirlo e lui si faceva subito vedere, per poi ritornare nel suo studio.

Nella parte più luminosa del negozio, invece, lavoravano gli ultimi due assistenti, due gemelli dai capelli fulvi e dagli occhi d’ambra che si occupavano delle pieghe, pubblicizzavano prodotti per capelli e intrattenevano le clienti con battute spiritose. Hikaru e Kaoru Hitachiin sfruttavano il lavoro part-time che Il mani di forbice aveva loro offerto per mantenersi e per pagarsi gli studi, oltre che per corteggiare le belle ragazze che frequentavano il locale abitualmente. << Hikaru, vedi anche tu quello che vedo io? >>
<< Non saprei Kaoru, si tratta per caso di una bellissima principessa oppure del suo
 vecchio padre? >> << Vecchio a chi discoli?! Come vi permett…!>>  << Otoo-san, siamo in un luogo pubblico, contieniti! >> proclamò la figlia, incrociando le braccia e inchiodandolo con lo sguardo. A quel punto, Tamaki dovette arrendersi e accontentarsi di fulminare i due perfidi gemelli con un’occhiataccia, prima di dirigersi a passo svelto, dopo aver affidato Haruhi a Mitsukuni, verso la porta del retrobottega e battere lì un colpo secco sul legno, entrando senza nemmeno chiedere il permesso.

<< Non lo vedevo così dal quindici-diciotto >> mormorò Takashi più a se stesso che agli altri, mentre massaggiava il capo della cliente, conscio del fatto che almeno uno, in quella sala, l’aveva sentito.

Tamaki chiuse la porta dietro di sé, incrociando le braccia ed appoggiandosi quindi ad essa, mentre percorreva con gli occhi tersi come il cielo la stanza non troppo grande, arredata semplicemente, al centro della quale si trovava una scrivania in mogano e di fronte a questa una sedia barocca di legno, sopra la quale era seduto un uomo di circa ventisette anni, dai lineamenti affilati e dalla carnagione chiara, che nemmeno considerò Tamaki, preso com’era dai conti che svolgeva quotidianamente. Tamaki, in silenzio, aspettò che finisse invano: l’uomo alla scrivania non avrebbe mai sollevato lo sguardo su di lui, benché fosse più che conscio della sua presenza in quella stanza, a meno che la situazione non l’avesse esplicitamente richiesto. E non importa cosa intendesse l’uomo alla scrivania con esplicitamente, fatto sta che Tamaki raggiunse il tavolo a grandi falcate e chiuse di scatto il portatile dell’uomo, sporgendosi verso di lui finché i loro sguardi, entrambi duri, non furono allo stesso livello. Non una parola, non un sorriso, solo un pesantissimo silenzio.

L’uomo alla scrivania, constatò Tamaki, non era cambiato di una virgola dall’ultima volta che l’aveva visto: sempre apparentemente freddo, cinico, affascinante e fiero come solo lui sapeva essere. Gli occhiali, dalla montatura leggera, gli si poggiavano leggermente sul naso, dandogli un’aria da intellettuale, i capelli, neri come piume di corvo, erano lisci e corti, ordinati. Gli occhi infine, erano plumbei. L’uomo alla scrivania poggiò i gomiti sul ripiano di legno, facendo coincidere i polpastrelli delle mani, e si esibì in un sorriso da Stregatto, che fece tremare le ossa di Tamaki, prima di accingersi a parlare.

<< Desideri, Tamaki? >>

Kyoya Ootori: Il mani di forbice.


Non fornirò spiegazioni di alcun tipo, non ora, non adesso. Se sarete così gentili da commentare per farmi sapere ciò che ne pensate, mi fareste un grande piacere. 
Buona notte
Kyoya Ootori

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Lo chiamavano "Il mani di forbice"
Questo secondo capitolo, ad Elisa e Cassandra.

Ricordo ancora la prima volta che lo vidi, in tutto il suo splendore. Alto, slanciato, dallo sguardo fiero e penetrante, che sembrava assorbirti l’anima anche solo se ti sfiorava. Lo ricordo perché la rubò a me, l’anima, con quello sguardo che si nascondeva dietro un paio di lenti.

Tamaki aveva sempre pensato che l’aria dello studio di Kyoya, anzi, del mani di forbice, fosse troppo secca, e la prova provata la stava avendo in quel momento, mentre si allentava il nodo della cravatta, sudando freddo. Nonostante entrambi avessero ventisette anni, l’amico aveva ancora il potere di farlo sentire a disagio con un’occhiata, e Tamaki trovava la cosa alquanto allarmante. Il mani di forbice inclinò leggermente il capo a sinistra, e gli rivolse un sorriso obliquo, più duro, mentre lo sguardo, assottigliandosi, si cementificava.

<< Allora? Sei qui da dieci minuti buoni e non hai nemmeno salutato. >> gli fece notare, mentre una ciocca dei capelli corvini gli scivolava di lato, frammentando le occhiate di fuoco che gli lanciava. Era furioso, Il mani di forbice, se non, per dirla alla maniera dei comuni mortali, incazzato nero. E non aveva intenzione di non darlo a vedere, anche se si era comunque ripromesso che non sarebbe uscito nemmeno un urlo dalla sua bocca, a costo di mordersi la lingua a sangue.

<< Io avrei del lavoro da sbrigare, se non devi dirmi nulla puoi anche andartene. >>  concesse, non interrompendo il contatto con gli occhi marini dell’amico.

<< Invece devo dirti moltissime cose! Quindi tu adesso mi ascolti! >> dichiarò quest’ultimo, allontanandosi di scatto e puntandogli un indice contro, deciso a combattere anche con eventuali guardie di sicurezza pur di avere il diritto alla parola. Accadde però che piombò nella stanza un imbarazzantissimo silenzio, il biondo poté quasi sentire il frinire delle cicale, che fece dedurre al mani di forbice di essere stato amico di un completo idiota per anni. Kyoya inarcò un sopracciglio, appoggiando il capo ad una mano e portando l’altra giocare con il tappo di una penna: << Parla. >> disse  annoiato.

E fu quello che fece traboccare il vaso. << Di' un po’, tu, parrucchiere da quattro soldi! Com’è che il mio volo e quello di mia figlia per la Francia sono stati cancellati proprio oggi che dovevamo partire? Com’è che le nostre valigie sono andate perse e poi magicamente ritrovate poco prima della partenza? Com’è che dal jet che avevo prenotato sono passato ad un aereo che per lei non è abbastanza sicuro?!! Eh? Com’è? >> ogni contrattempo che Tamaki Suou e figlia avevano trovato, quel giorno, portava la firma di Kyoya Ootori, altrimenti conosciuto come Il mani di forbice, e persino un completo idiota (vedi Tamaki) se ne sarebbe accorto e sarebbe andato a pretendere spiegazioni al diretto interessato. Kyoya rimase indifferente alle pseudo- accuse del Suou, concentrando la sua attenzione sul tappo della penna, e alzando appena lo sguardo per rivolgergli un’occhiata: << Mi sembra ovvio, no? Qualcuno non voleva che tu e Ochiya partiste. >> << NON CHIAMARLA OCHIYA, KYOYA! >> Tamaki si fermò prima di urlare di nuovo, prendendo un respiro profondo: << Il suo nome è Haruhi. >> completò poi, sforzando un sorriso tremolante.

<< Per quanto tempo vuoi continuare ad illuderti che sia lei? >> quella domanda congelò definitivamente il rapporto che si era creato tra di loro nel corso del tempo e che, dalla morte della moglie di Tamaki, aveva cominciato a sfaldarsi, << Per quanto tempo vuoi continuare a fuggire? >> quella lo distrusse definitivamente. Kyoya spostò indietro la sedia, alzandosi e riordinando quel che era già ordinato, concentrando la sua attenzione su alcuni documenti; Tamaki, nel frattempo, aveva abbassato lo sguardo, assumendo un’aria più tetra, e chiuso le mani a pugno, stringendole. Si mordeva un labbro, per evitare di urlare ancora. Un colpo secco alla porta di legno, era il segnale di Takashi. Kyoya superò Tamaki, non guardandolo nemmeno, e calpestò quel che erano i resti della loro amicizia, sputandoci sopra: << Haruhi è morta, Tamaki. E per quanto tu ti possa sforzare di farle assomigliare, Ochiya non sarà mai lei. >> ma il Suou, ancora troppo bambino, non era pronto, non lo sarebbe stato mai, e  si sa che i bambini impauriti scappano, cercando di fuggire dal terrore. In quel momento, intriso dell’aria secca che si respirava nello studio del mani di forbice, mentre si davano la schiena a vicenda, Tamaki emise il verdetto finale: << Io e Haruhi partiremo, domani stesso, eravamo venuti a salutare te e gli altri. >> si pronunciò, con un tono freddo, distaccato, formale. Ma ormai Kyoya e Tamaki erano agli antipodi, e nonostante provassero per l’altro un affetto sincero, avevano dei principi da difendere, ed evidentemente questi valevano più della loro amicizia.

La porta di legno venne aperta e chiusa subito dopo, senza che alcun suono trapelasse dalla bocca del mani di forbici, e fu in quel momento che Tamaki si concesse di cedere.


Capitolo corto, commenti non sgraditi.
Kyoya Ootori.
p.s. A breve riprenderò a scrivere, rileggere questi due capitoli mi ha fatto venire voglia di ricominciare. 

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Capitolo 3
*** Capitolo III - Letter to Robert ***


Lo chiamavano "Il mani di forbice"
Questo capitolo per Roberto, che non lo saprà mai. 

Non lo sentii più per molto tempo, fino a quando non tornai in Giappone dieci anni dopo, curiosa di scoprire una cultura che non mi apparteneva più. In qualche modo, adesso me ne rendo conto, siamo cresciuti insieme.

"Caro Robert,

scrivere in inglese non è molto facile per me sai? Ho sempre parlato scorrevolmente il francese e il giapponese, mentre con l’inglese ho un po’ di difficoltà, anche se sono contenta di potermi esercitare.

Ti ho inviato una mia foto, alla fine sono riuscita a convincere mio padre, ma non mi è arrivato nulla di tuo. Mi piacerebbe sapere che aspetto hai, come sei fatto, ma se non vuoi non fa niente. Papà però dice che se non hai intenzione di inviare nulla di tuo devi restituirci la foto. Per me puoi tenerla, è di quando avevo cinque anni e in casa ce ne sono a milioni.

Ieri ho visto i miei nonni, sono venuti in Francia dal Giappone appositamente per me, e li vedrò anche oggi, non appena finisco di scrivere. Mi chiedo sempre se tu, quando ti arrivano le mie lettere, sei anche solo vagamente emozionato come lo sono io quando mi arrivano le tue.  Riempi sempre un sacco di fogli sai? E mi offri sempre tanti spunti di riflessione, e mi fai tantissime domande! Non tengo più il conto, credo che tu sia diventato qualcosa come il mio miglior amico, anche se credo che Clarisse ci resterebbe un po’ male se lo venisse a sapere.  Le mie lettere, al contrario delle tue, sono più corte, anche se conto di allungarle nel tempo.

Ultimamente a scuola ci fanno studiare cose noiose, così, anche se di nascosto, mi sono ricavata il tempo di studiare i kanjii giapponesi da un libro che mi ha portato il nonno, e che papà non deve assolutamente vedere. Non so perché, ma mio padre detesta il Giappone e tutto ciò che è collegato ad esso. Figurati che ha rinunciato a scrivere persino il suo cognome in kanji, e parla solo francese, anche se ogni tanto se ne esce con espressioni come “kawai desu?”, che significherebbe “carino vero?”, se ci si riferisce ad un’altra persona; però poi si rabbuia subito. La nonna mi ha raccontato che lui è molto frustrato, perché non riesce ad accettare che la mamma l’abbia abbandonato; dice che il loro è un “odio et amo”, almeno per lui, perché le vuole molto bene ma allo stesso tempo la detesta perché l’ha lasciato solo. La nonna mi racconta spesso di quando sono nata, e dice che papà le confessò che quello era il giorno più felice delle sua vita. Dice anche che c’erano molti suoi amici, tra i quali un certo Mitsukuni, un ometto bassino ma vivacissimo, e un tale Takashi, silenzioso e timido, due gemelli completamente identici e un uomo con gli occhiali, che stava leggermente in disparte. I nomi dei gemelli, che ogni tanto ci inviano cartoline dalla Spagna e dall’Italia, sono Hikaru e Kaoru, ma non ricordo proprio il nome del signore con gli occhiali, anche se ho un’immagine ben definita di lui nella mia testa. Si tratta della prima volta che lo vidi, in un centro per parrucchieri: ero molto piccola. Era un uomo alto, dalla pelle bianca e dai tratti affilati. Gli occhi grigio scuro,  i capelli ordinati e di un nero in cui, ne sono sicura ancora oggi, sarei potuta annegare. Mi rivolse uno sguardo frammentato dalla frangia forse un po’ troppo lunga, prima di dedicarsi ad una cliente. Forse l’ho sognato un paio di volte e quindi lo sto idealizzando, mi sembra di essere solo una sciocca ragazzina che immagina il suo Cavaliere.

Invece, raccontami di te: come sta tua sorella April? E a casa tua, che aria si respira? Scrivi, scrivi tanto Robert, io adesso ti saluto, sé è fatto tardi.

Attendendo risposta

Ochiya Haruhi

P.S. Scusa l’inglese forse un po'  incerto."


Buonasera, che credo che ormai abbiate dimenticato questa fanfic. L'ho riletta, mi è piaciuta e ho deciso che sono troppe quelle che ho lasciato a marcire nel fandom o fra i documenti del mio computer, e che le opere si portano a termine. Ho scoperto di avere questo capitolo pronto, salvato, e ho deciso di postarlo così com'è, apportando solo un paio di modifiche. 
Grazie a tutti, di cuore
Kyoya

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - Letter to Ochiya ***


Lo chiamavano "Il mani di forbice"
Per mammi 


Ero sconvolta quando morì mia madre, ma ero troppo piccola per capire. Per me c'era semplicemente la mamma che se n'era andata, il papà che soffriva e poi, poi c'era lui, silenzioso testimone del nostro lutto. Lo ricordo chiaramente al funerale, che mi teneva in braccio, perché papà non ce la faceva. Non  ha parlato per tutto il tempo, limitandosi ad accarezzarmi il capo, se non quando ha detto a papà: << È forte, ce la farà. >>
Per farcela ce l'ho fatta, anche grazie a lui.



“Dear Ochiya,

sono veramente felice che tu abbia deciso di parlarmi un po’ della tua famiglia, mi dispiace molto per tuo padre, anche se capisco il suo stato d’animo, perché anche quando mia madre se n’è andata qui in famiglia abbiamo respirato un’aria pesante. Adesso stiamo tutti molto meglio, la nuova moglie di mio padre è una donna simpatica, che ha riportato in casa l’allegria e la spensieratezza, e si prende cura di April. In questo momento è incinta, sono contento che avrò un altro fratellino, adesso che Holden se n’è andato il maggiore sono io.  

Qui nell’Ohio la vita è tranquilla, serena, altro che Parigi, che sarà sicuramente caotica e affollata nella sua quotidianità. Sorry se il mio francese è sbagliato, anche a me viene molto difficile parlarlo. Anche se mio padre non è entusiasta, ho ottenuto il permesso di allegare una foto mia, qui, di quando ero bambino. Sono bassino, ma adesso mi sono alzato notevolmente! L’orsetto che vedi nella foto era di mia sorella April, io glielo rubai per quello scatto. Com’è che si dice in Giappone? Kawaii, desu? Mi fanno ridere le vostre espressioni dialettali, sono buffe, soprattutto se dette da un adulto.

Qui a casa mio padre è felice che io scriva ad una ragazza straniera, dice che la padronanza di una lingua straniera è essenziale per potersi fare strada nel mondo del lavoro. Io non so ancora cosa mi piacerebbe fare, magari l’avvocato, oppure il veterinario. Tu, hai dei progetti? Se parli bene il giapponese, o comunque prendi lezioni, potresti fare l’interprete. Sarebbe un bel lavoro, appagante. Ma è ancora presto, per adesso è il caso che finisco le scuole medie.

Mi fa piacere che tu mi consideri un tuo caro amico, scrivendoti anche tu lo sei diventata per me. Mi fa piacere anche  che ti piaccia quanto scrivo, spero che quest’estate potrò passare ore a parlarti delle mie giornate, per adesso la vita è un po’ fiacca e noiosa.

Perdonami, Ochiya, ma devo proprio scappare. La prossima lettera sarà più lunga, te lo prometto. E le promesse si mantengono sempre.

Robert Knight”


Capitolo corto, ma conto di seminare un paio di indizi per la risoluzione dell'enigma in ogni capitolo che scriverò. Per adesso sembrano solo tanti pezzetti di un puzzle che non vogliono saperne di incastrarsi, spero che il mosaico finale sarà come l'ho immaginato io. Questa storia, mi rendo conto, sta continuando ad avere vita perché le ho dato un corpo, un'anima, una struttura, prima ancora di metterla per iscritto. Lei già esisteva dentro di me, il suo sviluppo, ciò che voglio fare di lei, le mie intenzioni ... Non è cambiato niente. 
Kyoya

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