Le stelle quante sono?

di hiphipcosty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Secondo Capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto Capitolo ***
Capitolo 5: *** Quinto Capitolo ***
Capitolo 6: *** Sesto Capitolo ***
Capitolo 7: *** Settimo Capitolo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Fotissima
Prima di iniziare, affermo subito che questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà della nostra carissima Stephenie Meyer; questa storia è stata scritta senza alcuno
scopo di lucro.





                                                                       






Non so perchè, ma quando ho iniziato a scrivere il prologo, ho pensato a  questa canzone ...


Senza riserva-Annalisa
io ti regalerò ogni singolo
risveglio la mattina
e poi lascerò i capelli
scivolarmi fra le dita
ti regalerò ogni singola carezza
quando è sera
ho imparato già
ad amarti senza più riserva alcuna.

<< Secondo te quante stelle ci sono nel cielo? >> chiese il piccolo bambino, indicando con la sua mano paffutella il cielo notturno. Isabella strinse le labbra in una 
buffa smorfia, inclinando la testa come per pensarci.                                                                                                                                                                                                                        
<< Non lo so >> rispose sincera. Edward, sempre tenendo il volto all’insù, corrugò la fronte.                                                           
<< Secondo me ce n’è una per ognuno di noi, che ci guarda e ci accompagna per tutta la vita >> mormorò, voltandosi in direzione dell'amica. Questa gli sorrise, avvicinandosi un po’ di più a lui, ancora disteso sul legnoso pavimento della nave.                                                                                                           
<< Allora, qual è la tua? >> gli chiese, guardandolo curiosa. Il bambino indicò pronto una parte del cielo.          
<< E’ proprio lì, la più luminosa >> esclamò, fiero. Lei lo guardò stupita,  scansando un ciuffo di boccoli castani che le copriva un occhio.                            

<< Allora la mia è accanto alla tua >> disse la bambina, sicura di ciò che aveva affermato. << Staranno sempre assieme, loro due, vero? >>. Il rossiccio fissò gli occhi della bambina intensamente, come solo un migliore amico può fare.

<< Certo, per sempre. Come noi >>. Isabella fece un sorriso al suo compagno di avventura, prendendogli la mano e appoggiando la testa sulla sua spalla. Si accucciarono bene, bene, riparati da una cassa di legno che stava accanto al lato dell’imbarcazione. Chiusero gli occhi, uno accanto all’altro, in silenzio, sapendo che se qualcuno li avesse scoperti fuori dalle brandine a notte inoltrata, li avrebbe riempiti di sculaccioni.

<< Ehi, aspetta >> sussurrò il bambino, ricordatosi improvvisamente di qualcosa. Isabella si scansò, corrugando la fronte. Edward le sorrise, tirando fuori un pezzo di carta e mostrandoglielo. Questa la prese tra le mani, osservandola. Era una foto che ritraeva lei ed Edward, mano nella mano, accanto al pontile. Sorridevano e sembravano così felici. 

<< Ce l’ha scattata mio padre, ieri. Te la volevo regalare >>. Anche se era buio, Isabella intuì che le gote abbronzate del suo amico avevano preso colore. Lei sorrise, ma scosse la testa.                
<< No, non me la dare tutta >> esclamò. Poi strappò la foto in due parti, dando a Edward quella che ritraeva lei e tenendo, invece, quella che raffigurava lui. << Almeno ci ricorderemo per sempre l’uno dell’altro >>. 
Isabella sorrise, si avvicinò alla guancia del bambino e gli posò un indeciso, ma estremamente tenero, bacio. Entrambi arrossirono, per poi abbracciarsi, restando tutta la notte immobili, con i cuoricini che battevano forte.

 
Il vento era leggero e rendeva calda, l’aria dell’oceano. Piano, piano, i respiri dei due bambini divennero più pesanti. Presto entrambi si abbandonarono tra le braccia di Morfeo, cullati dal dolce movimento del mare azzurro, il loro compagno fidato, ma che presto sarebbe divenuto il loro peggior nemico.





***
Goodmorning!!! How are you? (oggi mi è venuta voglia di parlare inglese, okay? :D) Eccomi quiii. Davvero pensavate, che non avrei più scritto?! Pf, mi spiace per voi ... XD
Una nuova storia!! Come vi sembra? Ce l'avevo già in mente quando stavo finendo la mia scorsa ff  e finalmente oggi l'ho pubblicata. Allora, questo è un piccolissimio prologo, ma vi posso garantire che il primo capitolo -che ho già scritto- è mooooolto lungo. Vi ripotete fare alla prossimo, quindi! 
Allora, spero che abbiate capito inanzitutto la trama, purchè travagliata. Volevo informarvi che la mia storia pur essendo 'particolare' e intrecciata non sarà molto difficile per quanto riguarda le relazione principale - ossia niente terzi personaggi che metteranno i piedi tra le ruote a Ed e Bells, anche se ci sarà Jacob, il quale non occuperà un parte rivelante nel racconto-. 
Il prologo riporta ovviamente a quando loro due erano bambini, ma penso -anche se non ne sono sicurissima- non ci sarà più un capitolo che riporterà al passato, oltre a questo. Già dal prossimo, infatti, vedremo la situazione, qualche anno dopo, dei due bambini, ormai cresciuti. Ora però non vi posso dire tutto!!! Spero tanto che vi piaccia come inizio e diciamo che una recensionuccia non mi offenderebbe troppo....!! 

Bacionissimi
hiphipcosty
PS: Vorrei informarvi, infine, che per ogni capitolo -o almeno spero sempre di farlo- ci sarà una canzone all'inizio insieme ad un piccolo pezzo di essa. Queste non sono le mie preferite -affatto-, sono solamente  quelle che  mi sento di più da mettere nei capitoli che scrivo... Insomma, vedrete più in là!



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Capitolo 2
*** Secondo Capitolo ***


Primo capitolo
Happy Hour-Ligabue
Dicono che tutto
sia comunque scritto
quindi tanto vale che non sudi
[...]
dicono che nasci solo per soffrire
ma se soffri bene vinci il premio
di consolazione
[...]
si può però morire vivendo sempre e solo
per sentito dire,  si può però morire
per la fame che non hai

dicono che il cielo
ti fa stare in riga
che all'inferno si può far casino
mentre il purgatorio te lo devi proprio infliggere

<< Vai, stupida macchina! >> imprecò Edward, dando un colpo secco al volante del suo vecchio rottame. Fece pressione con il piede sul pedale dell’acceleratore, osservando la lancetta della velocità sul display che raggiungeva cifre sempre più alte, sfiorando i centottanta all’ora. Edward diede un’occhiata furtiva allo specchietto retrovisore, cercando di calcolare la distanza che c’era tra il suo mezzo e quello della polizia, che lo inseguiva da minuti. Osservò che si era aggiunta anche un’altra auto e che entrambe si stavano avvicinando in modo pericoloso, superando i limiti di velocità imposti dalla sicurezza.                                                                        


Tutto ad un tratto una voce proveniente dall’esterno, lo richiamò.                                                                                                                                                            

<< Accosta immediatamente, Toyota targata FM961CK. E’ un richiamo della polizia, obbedisci >>. Era una voce scura, sicuramente maschile, che bloccò, per un momento, il respiro al ragazzo. Era come se un singhiozzo interrotto gli avesse raggiunto la gola, facendolo sobbalzare. La sua lingua era divenuta appiccicosa e presto una sensazione sgradevole, simile a quella che gli avvertiva il vomito, gli invase lo stomaco. Quel gemito gli tolse il fiato, disorientandolo. Per un momento si sentì così nudo e vulnerabile, che avrebbe voluto morire, pur di scappare da quella situazione e ben presto una sensazione di sconfitta gli invase la testa. 
Diede ancora un’occhiata ai poliziotti dietro di lui, ma quel suono ripetitivo della sirena che sembrava avvicinarsi sempre di più,  era come un allarme che gli faceva capire che non aveva via di scampo.                                                                                        

<< Merda! >> riuscì, a borbottare. Gli mancavano pochi secondi per decidere se accostare o azzardare nuovamente una fuga. Fu anche tentato di andare fuori strada, ma sapendo che il suo gesto non avrebbe allontanato la polizia, bensì,  solo la sua morte, scosse la testa, rimuovendo quei pensieri. Afferrò la bottiglia di birra che stava sul sedile accanto al suo, versandosene un po’. Il gusto amaro del liquido alcolico, rimosse quella sensazione di secco, all’interno della bocca. Gli spuntò un ghigno divertito, lanciando un’occhiata di sfida agli sbirri.

<< Ti  conviene accostare, subito. L’intervento della polizia potrebbe essere molto grave per te >>. Ora il richiamo del poliziotto che parlava attraverso un megafono si fece più duro e determinato. La sensazione di panico che percepiva Edward al petto, fu seguita poi da quella di rassegnazione. 
Non ce l’avrebbe mai fatta a scappare, gli sbirri lo avrebbero raggiunto in poco tempo. Perlopiù cominciava a essere privo di energie e le immagini davanti a lui parevano, di tanto in tanto, sfocate, probabilmente a causa dell’effetto del troppo alcool. Soffiò, innervosito, dispiaciuto di non poter accendere una sigaretta, ciò di cui aveva realmente bisogno in quel momento.

Maledisse tra se e se Simon che era riuscito a convincerlo a vendere quelli stupidi alcolici ai quei ragazzi sedicenni. “ Ci farai soldi a palate”, pensò alle sue parole, stringendo la presa sul volante, come per controllarsi. Peccato che il suo caro amico non avesse tenuto conto della polizia, il loro unico ostacolo.E così Edward si era ritrovato nella posto fissato, in discoteca, per vendere le bibite. Fino all'arrivo della polizia.                                                    

Edward sospirò, rinuciato e prese un altro sorso di Duff. Si bagnò le labbra, ingoiando appena.
Con la coda dell’occhio vide uno spazio libero e così, rallentando, accostò la macchina al lato destro della strada, seguito dalla polizia. Sbuffò, osservando i volti adirati degli uomini che stavano scendendo di macchina rapidamente. Spense il motore e aprendo lo sportello, fece per uscire. Immediatamente due poliziotti robusti gli afferrarono la testa con violenza, prendendolo per i capelli. 
Con un gesto furtivo i due gli ghermirono le mani, unendole dietro la schiena e gli sbatterono la faccia sulla macchina, placcandolo. La botta secca del metallo sulle labbra del ragazzo, lasciò su di esse un graffio superficiale. Improvvisamente Edward sentì un gusto di sangue fresco diffondersi tra la lingua e i denti, rendendogli la bocca appiccicaticcia. Sputò, vicino agli sbirri, schifato. Sentì una pesante mano, riabbassargli la testa bruscamente, facendo sfiorare una sua guancia con la superficie fredda del finestrino.

<< Ehi, calmi ragazzi >> mormorò, con il poco di fiato che gli era rimasto, ma sempre mantenendo il suo sguardo strafottente. Sempre rivolgendo le spalle ai poliziotti, sentì qualcuno nominare:                                                              
<< Fai poco il simpatico, ragazzo. Sei nei guai >>. Ad Edward non ci volle molto per cogliere quella punta di cattiveria che trapelava dal suo tono e, pronto, imprecò a bassa voce.                                                                                             
Il suo compagno spostò Edward per guardarlo in faccia, questa volta in modo meno violento ,imponendogli di alzare le braccia. Il ragazzo obbedì, ma una fitta improvvisa alla testa, lo fece barcollare. L’agente lo ignorò, iniziando a cercare di vedere se avesse con se qualche cosa di pericoloso, sotto i vestiti o tra le tasche. Gli presero i documenti e parlarono con  la caserma della polizia, avvisandola del loro prossimo arrivo. Altri tre agenti, invece, scesero di macchina, aprendo il bagagliaio dell’auto appartenente al diciottenne. Sul volto di uno di questi, comparve un ghigno.                                                                                                                                   
<< Ehi, Josh, guarda qui >>. Il poliziotto burbero si allontanò da Edward, avvicinandosi alla macchina. Quest’ ultimo gli lanciò un’occhiata carica d’odio, come per annientarlo con uno sguardo, mentre quello sussurrava, contento:

<< Bingo! Complimenti, figliolo: una bella scorta di birre, tutte fresche. Quanto ci avresti guadagnato se le avessi vendute tutte? >> esclamò, con un sorriso malizioso, guardando Edward. Questo non si fece intimidire e mostrò uno dei suoi peggiori sorrisi, mormorando:                                                               
<< Sicuramente più del tuo stipendio con questo lavoro del cazzo >> rispose, con la testa alta. L’uomo robusto  si avvicinò paurosamente al viso di Edward, ancora sotto controllo dall’altro agente. Josh puntò un dito sulla faccia del ragazzo, mormorando a denti stretti.                                                                                                      
<< Sì, ma legale >>. Edward fissò gli occhi minacciosi e neri del poliziotto, scoppiando poi in una risata fragorosa. Faceva sempre così: scopriva i denti bianchi, alzava le sopraciglia e gli occhi si spalancavano. Era questo il suo sorriso strafottente. 
Gli agenti presenti si diedero degli sguardi interrogatori, per comprendere la situazione, ma lo sbirro afferrò bruscamente le mani del ragazzo, ora legate da delle manette strette. Lo trascinò in macchina, prendendolo per i capelli e poi lo gettò sul sedile, con violenza.                                                                 
<< Non credo che tu abbia tanto da ridere: possessione di alcolici non autorizzata, vendita di alcolici a minori e supero dei limiti di velocità. Pensa un po’ a quanti soldi dovrai sborsare, durante il tragitto alla caserma >> ghignò, per poi chiudere la portiera, soddisfatto.

<< Fanculo >> mormorò Edward a denti stretti.

 

                                                                             

<< Cullen, questi sono i tuoi vestiti >> la guardia, porse al ragazzo un pacco di indumenti arancioni. Questi li afferrò, facendo un cenno all’uomo a mo’ di ringraziamento. L’agente condusse Edward nella cella accanto all’ufficio, aprendo la porta pesante e invitandolo ad entrare. Il ragazzo si addentrò nella stanza accanto all'ufficio ed immediatamente uno sgradevole odore di chiuso e di urina, invase le sue narici. Soffiò, disgustato, mettendosi sotto braccio la tuta.                                                                                                                                            
<< Hai mica un accendino? >> chiese Edward, facendo un sorriso convincente alla guardia. Questo alzò le sopraciglia, annoiato. Scosse la testa, borbottando qualcosa di incomprensibile simile ad un “ Non si può fumare, qua dentro”. Il ragazzo lo osservò nella sua tuta azzurra, aderente al corpo. Aveva le guancie rosse, ricoperte da una leggera barba e il suo volto appariva così stanco e trasandato. Sorrise, pensando acome sarebbe stato il suo, dato il fatto che non si guardava allo specchio da un sacco di tempo. Forse per paura, probabilmente; paura di scoprire chi fosse. Per cercare di chiudere gli occhi l’ennesima volta, facendo finta di non vedere cosa fosse divenuto. Scosse la testa, scansando quei pensieri; aveva altri problemi, al momento.

Si portò i vestiti al viso, annusandoli col naso. Si ritrasse disgustato, sbuffando per cacciare quel terribile odore miasma, che aveva invaso le sue narici. Socchiuse gli occhi nauseato, arricciando il naso in una smorfia schifata.

<< Me li devo proprio mettere? >> esclamò, alzando un sopraciglio. Ebbe come tutta risposta un sordo strepito della porta, che si chiuse di scatto, lasciando solo il detenuto –ora si poteva definire in tal modo- nella cella. Non capiva l'esigenza di indossare degli sporchi e puzzolenti vestiti se, molto probabilmente, avrebbe passato solo una notte in quella cella. 
Edward sospirò, portandosi una mano sulla nuca e passandosela tra i capelli. Era un gesto che ripeteva sempre, quando si trovava in difficoltà. Si immaginava sempre di afferrare i suoi pensieri e problemi e farli volare via, lontani. Purtroppo la maggior parte delle volte, ciò non accadeva.

Si mise a sedere sulla sedia dura che stava a lato della stanza, cercando di rilassarsi. Non sembrava molto agitato, era convinto che in poco tempo sarebbe riuscito ad andarsene da quel posto.  Non era la prima volta che si trovava in queste situazioni e l’esperienza gli diceva che si sarebbe risolto tutto in breve tempo. Per lui questo suo lato era ottimismo, per altri la sua dannatissima strafottenza.

 

Gettò per terra la tuta, rifiutando di indossarla e infilò la mano nella tasca dei suoi pantaloni. Ne estrasse fuori un pacchetto di sigarette, dal quale ne prese una, portandosela in bocca. Notò con dispiacere che erano un po' umide, ma non si fece troppe domande sul perchè. Era riuscito a procurarselo persuadendo la segretaria dell’ufficio, ammiccando e mostrando splendidi sorrisi nella la sua direzione. Peccato che non avesse trovato un accendino, pensò, per poi giocare con la sigaretta tra le labbra.

Diede uno sguardo attorno alle pareti, non trovando nulla che lo potesse incuriosire. Erano tutte molto scure e la luce filtrava da una finestrella esterna. Quanta gente era passata in quella stanza, pensò. Quante persone, ladri, donne, uomini e … delinquenti, avevano respirato e inspirato l’aria di quell’angusta cella. Edward però non si riteneva un delinquente. Lui non lo era. Ciò che era divenuto durante la sua vita, diceva, era solo una combinazione di disgraziati episodi. Egli era convinto che non si potesse scappare al destino, era sempre quest’ultimo che vinceva, utilizzando i suoi stupidi e maledetti scherzi. E il fato gli aveva fatto numerosi scherzi, questo ne era lui stesso testimone. A cominciare dalla morte del padre- una delle poche persone che sapevano apprezzarlo per quello che era -, alla malattia di sua madre, alle sue difficoltà, alla sua timidezza e tutte le perdite delle poche persone che lo comprendevano davvero. Erano stati tutti dei colpi duri, che Edward aveva dovuto sopportare, bevendoli e facendoli scorrere sulla sua pelle come una medicina amara che ti lascia quel sapore di disgusto e disprezzo per tutto il resto dei tuoi giorni.

 

Edward restò immobile, immerso nei suoi pensieri, per qualche minuto, forse ora. Non aveva molto nitido lo svolgimento del tempo quando rifletteva e questo era stato uno dei suoi problemi più gravi. Si sdraiò sulla panca legnosa, chiudendo gli occhi, facendo grandi respiri. Poi, tutto ad un tratto, qualcuno lo risvegliò.

<< Ehi, ragazzo. E’ arrivata la chiamata del tuo angelo custode, spero che riuscirai a trarne profitto >>. La guardia paffuta gli aprì la cella, facendolo uscire. Questo gli riconsegnò la tuta e seguì il poliziotto, che gli aveva, nel frattempo, legato i polsi con delle manette. Corrugò la fronte, non capendo la frase che aveva pronunciato.

<< Chi sarebbe? >> chiesi, con un po’ di riluttanza.

<< Capo Swan >>.

 

                                                                                               ***

Isabella stava fischiettando da due ore lo stesso motivetto: la Primavera, di Vivaldi. Saltellava da una parte e l’altra della cucina, controllando il cibo che cuoceva e divertendosi a imitare quella frase musicale che amava. Le appariva così semplice, ma perfetta, apprezzabile anche dalle sue orecchie, una delle più ignoranti nell’ambito musicale. Si osservava di tanto, in tanto allo specchio, controllando di essere presentabile a suo padre. 
Impastava, cuoceva, friggeva, mettendo tutta se stessa per preparare una buona cena a Charlie. Quella sera gli aveva promesso che sarebbe riuscito a tornare a casa dalla Push presto, avendo, in tal modo, tempo per parlare, come non facevano da molto. Negli ultimi tempi, da quando suo padre era stato passato di grado, gli impegni di lavoro erano raddoppiati e capitava che molto spesso, dovesse fuggire di casa velocemente, per un’urgenza in caserma. Isabella odiava quei momenti, quando gli stupidi colleghi di Charlie, lo costringevano a separarli nuovamente. E anche se lei non lo avrebbe mai ammesso, in fondo pensava, in quegli istanti, che per suo padre fosse più importante il lavoro che la sua unica figlia, nonché  la sola famiglia.

Aprì il forno, guardando a che punto era il pollo con patate, per poi annuire, soddisfatta. S’infilò i grossi guanti di pezza sulle mani per tirare fuori il cibo fumante.  Afferrò la teglia e fu costretta a socchiudere gli occhi per proteggersi dall’ondata di calore che fuoriusciva da quel forno ardente. Sfilò con cautela il vassoio dalla griglia e proprio nel momento in cui pensò che il gioco fosse fatto, un lembo della sua pelle sul polso sfiorò una parete ustionante. Ad Isabella sfuggì un grido smorzato; sobbalzò, ma riuscì a salvare il cibo.

<< Aaah! >> urlò, portandosi alla bocca il polso ed inumidendolo con la saliva bagnata. Scosse la mano in un gesto infantile che gli aveva insegnato suo padre, da piccola, come se riuscisse –scuotendo ripetutamente la mano- a far scivolare il dolore di una bruciatura.

Isabella guardò con aria furiosa il pollo che le stava davanti, per poi sbuffare, arrabbiata. Dopo, prese un coltello e iniziò a tagliare la carne, distribuendola in modo molto elegante le varie fette sui piatti. Così, posò i guanti sul tavolo e si mise ad aspettare il ritorno di suo padre. Grazie al cielo l’attesa non fu lunga –lei odiava attendere- e quando sentì la serratura della porta muoversi, la ragazza andò ad accogliere Charlie, buttandogli le braccia al collo.

<< Amore! >> sussurrò il padre, con il volto immerso nei capelli bruni della figlia. Gli diede un bacio sulla guancia per poi posare il suo giacchetto bagnato sull’appendiabiti. Isabella fece una smorfia contrariata al gesto del padre, esclamando:

<< Si bagnerà tutto il pavimento, se la lasci qui >>. Sbuffò, prendendo tra le mani la giacca e posandola in bagno, sulla vasca.  << E’ possibile che ti debba fare la baby-setter ancora a cinquant’anni? >> chiese poi, con un sorriso divertito. Lui ricambiò, arricciando i suoi baffi.

<< Oh, non dare la colpa a me, Bella! E’ questa terribile città piovosa, che non ci fa vedere un briciolo di sole da mesi >> borbottò, arrabbiato. Isabella alzò gli occhi al cielo e stava per ribattere qualcosa, quando il padre la bloccò alzando una mano, per richiamare il silenzio. Spostò lentamente  gli occhi in direzione della cucina e piano, piano un sorriso gli si aprì in volto.                                                                                                                
<< Sento un … profumino >>. Charlie inspirò, facendo una smorfia che provocò la risata di sua figlia. << Hai cucinato per me, tesoro! Non dovevi! >>. Il capo Swan lanciò un’occhiata tenera a Isabella, per poi entrare velocemente in cucina ed osservare la meravigliosa tavola che aveva preparato. << Ma … perché? >> chiese lui, corrugando la fronte.

<< Perché cosa? >>.

<< Tutto questo favoloso … Per quale occasione? >> tagliò corto radioso, osservando il pollo sul tavolo. La ragazza lo guardò sorridente; sapeva che il cibo era il modo migliore per catturare suo padre.                                                  
<< Non c’è alcuna occasione. E’ solo che è da tanto che non mangiamo insieme, dato il fatto che la sera sei quasi sempre in caserma >> affermò Isabella, abbassando lo sguardo.                                                                                       
<< Cosa ho fatto per meritarmi una figlia così? >>. I baffi di Charlie si arricciarono.                                                                              
<< Mettiti a tavola, il pollo si raffredda sennò >>.  

Charlie obbedì immediatamente, sedendosi sulla sedia, a capotavola. Versò dell’acqua a sua figlia e iniziarono a cenare. Chiacchierarono del più del meno, assaggiando il pollo delizioso.                                                                                                                                                                                               
<< Com’è andata alla Push? >> chiese Isabella ad un certo punto, cercando di controllare la voce. Charlie la guardò un po’ interdetto, sapendo che sua figlia non amava toccare quell’argomento.                                                                                                                
<< Bene, siamo andati a pesca. Billy sta meglio, sembra essersi ripreso dalla caduta >> affermò con voce scura. Bella annuì, fingendo di essere interessata. Abbassò lo sguardo, portandosi la forchetta alla bocca, per poi aggiungere:

<< E … Jacob? >>. Il padre la guardò stupita e non riuscì a non leggere la chiara sofferenza che le si era dipinta sul volto. Un’ombra scura gli aveva velato gli occhi, portandola a ricordi lontani gioiosi, ma anche tremendamente sofferenti. Charlie avvicinò lentamente una mano sul braccio di sua figlia, accarezzandoglielo delicatamente.                                                                                                                                         
<< Amore, lascia stare >> sussurrò, cupo. Quella risposta  dette noia a Bella. Aveva notato quel tono di voce di suo padre, che non le piaceva. Aveva mormorato quelle parole con un po’ di riluttanza, come per nasconderle qualcosa che le avrebbe fatto del male, ma riferendoglielo a bassa voce, per  alleggerire, attutendo il colpo, il dolore che le avrebbe provocato la risposta completa. Forse suo padre voleva dire “ Se la sta spassando con Victoria”, oppure “ Stanno così bene insieme quei due!”.                              

Bella scosse la testa, muovendola di qualche millimetro, poi annuì. Sospirò, cercando di ritrovare quel sorriso che stava perdendo, toccando l'argomento "lui".

Perché il sorriso lo aveva perso da un po’ di tempo, Bella. Lo aveva perso molte volte per Jacob, il suo grande amico o la sua fiamma più amata. Ancora non sapeva come considerarlo quel ragazzo;  non lo capiva. Forse era stato proprio questo la causa del loro allontanamento dopo la loro relazione. Forse Bella trattava Jacob come solo un amico, non come un fidanzato. Era questo che, probabilmente, aveva condotto Black a iniziare una nuova relazione con un’altra donna durante il loro rapporto, pensava lei.  Però questo non lo aveva detto a Bella, no. Aveva ben pesato di nascondergli tutto, divertendosi con Victoria alle sue spalle, fingendo di amarla ancora. Come hai fatto ha non accorgertene?, pensava Bella, senza riuscire a darsi una risposta. O forse sì, una risposta c'era. Lui era semplicemente ...Stronzo.

Così un giorno Isabella, volendo fare una sorpresa per il compleanno di Jake, si era recata alla Push. Peccato che, questa volta, accanto a Jacob non c’era lei a baciarlo, bensì la rossa. Stronzo, anzi no, stronza. Li aveva sorpresi così, uno tra le braccia dell’altro, con un’espressione negli occhi di pura felicità.

Ancora le ferite del tradimento non si erano rimarginate, sulla pelle di Bella. Si vedevano ancora, chiare, aperte, ma soprattutto dolorose. La lesione più profonda, però, non era stata quella del tradimento, per Bella. La cosa che l’aveva fatta più soffrire era stato scoprire che Jacob e Victoria si amavano. Si amavano davvero, forse ancor più di quanto lui aveva amato in precedenza Bella. E così lei ogni volta che si trovava da sola pensava a cosa avesse sbagliato con Jake, quale errore aveva commesso. Per lui nessuno, ribadiva sempre, era solo che tutto ad un tratto il suo sentimento si era affievolito.  Balle. 
Si era scusato tanto con Isabella, ma ciò non aveva fatto che crescere in lei, ancor più odio e sofferenza. Piangeva, con il volto rigato di lacrime, pensando alle labbra di Jacob su quelle di Victoria; il suo fiato sul suo; immaginando ogni contatto, ogni parola, ogni sussurro che si scambiavano,prendendosi gioco di Bella.

 

Il suono del telefono risvegliò Isabella dai pensieri. Fece per alzarsi, ma Charlie la precedette. Alzò la cornetta, schiarendosi la voce.

<< Pronto? >>. Seguì qualche secondo di silenzio, in cui il volto del capo Swan si indurì. Bella sospirò, innervosita: conosceva quell’espressione. Charlie corrugava la fronte, stringeva le labbra ed abbassava lo sguardo, ogni volta che chiamavano dalla polizia. Era un richiamo, un emergenza. Come al solito. Sarà stato il solito incidente, una banda di ladri o il solito delinquente, che si aggirava la notte tra le strade di Forks. Maledisse le varie tre possibilità, alzandosi ed iniziando a riporre il cibo.

<< Ah … Mh, quanti anni ha? Ah, così giovane … Mh, sì, sì. No, no, non è un problema. Voi trattenetelo, vediamo cosa possiamo fare … Sì, certo … Okay, a dopo. Ciao … >>. Abbassò la cornetta, lanciando un’occhiata supplichevole a sua figlia.

<< Bella, io … >>. Questa lo interruppe, facendo un debole sorriso.

<< No, non ti devi scusare, papà. Ci deve esser pur qualcuno che faccia giustizia, in questo paese, no? >>. Fece un debole sorriso. Charlie si avvicinò alla figlia, posandole un bacio.                                                                                              

<< Hai ragione >> mormorò. Recuperò il suo giubbotto dal bagno, lo indossò e poi uscì di casa, promettendo di tornare presto. Isabella sospirò, rassegnata, continuando a sparecchiare la tavola. Improvvisamente un senso di profondo sconforto le era caduto sulle spalle. Ripose velocemente il cibo avanzato nel frigorfero e pulì distrattamente la tavola, ora sgombera da piatti e bicchieri.
Salì in camera, cercando sotto il letto quella foto, la sua foto. Infilò la mano sotto il materasso e l’afferrò, per osservarla. Lo faceva sempre, quando era triste. Se la passava tra le mani, accarezzandola, baciandola. Era un’immagine strappata, non si vedevano entrambi gli obbiettivi. Aveva solamente una parte, che ritraeva un bambino rossiccio, che teneva la mano ad un altro. Aveva una leggera cicatrice sull’indice. Non sapeva chi fosse, ma quando lo guardava si sentiva in pace. Aveva un volto familiare, anche se non si ricordava neanche il suo nome. Quando la osservava si sentiva appartenente a qualcosa; era come –anche se non ne capiva il motivo- se si sentisse parte di quella foto, ma soprattutto di quel bambino.

Probabilmente lo aveva conosciuto in passato. Ricordava perfettamente ogni suo dettaglio: i capelli mossi, le labbra rosse, la carnagione chiara, gli occhi verdi smeraldo e anche la sua voce, bellissima, come se lo avesse conosciuto, davvero. Era uno dei suoi pochi ricordi dell'infanzia, dopo l'incidente in mare, che le aveva strappato via entrambi i suoi genitori, quelli biologici

Bella non riusciva però a collocarlo in un contesto; la sua immagine nei suoi pensieri era immobile, su uno sfondo bianco e lucente. Lo psicologo dell’orfanatrofio, dove era stata per circa un anno dalla sua perdita di memoria, diceva che probabilmente era suo fratello od un amico. Non lo sapeva e non lo avrebbe saputo mai, pensava, ma comunque ogni sera -quando era piccola- si ritrovava a pensare a lui per addormentarsi, con tutte le grida degli altri bambini. Lui la riportava nel passato, in un mondo a lei quasi del tutto sconosciuto e riusciva così a rilassarsi. Aveva su di lei un potere fortissimo, poiché era l’unica cosa che le era rimasta da prima della sua adozione e dopo l’incidente in mare. 

Ancora non sapeva quanto poco tempo le mancasse per scoprire chi fosse quel misterioso bambino e quanto egli fosse vicino a lei.

***

Eccomi qua! Bene, arrivati al secondo capitolo. Qui si presentano due ragazzi molto diversi -i bambini, nel prologo-, cresciuti. Ancora, devo dire, non ci sono molte informazioni, ma dovrete un po' aspettare per avere il quadro completo! Intanto vediamo che Bella ancora conserva la foto, di cui però il soggetto non riconosce. Ah, mi scordavo! C'è anche Jacob, in questo capitolo! Ho cercato, brevemente, di raccontare la storia di lui e Bella, e sinceramente non so se questo personaggio comparirà ancora. Come ho già detto, la storia sarà concentrata solamente su la coppia Edward/Bella.
Spero che vi sia piaciuto il capitolo! 
Ringrazio moltissimo chi ha recensito e li invito a continuare! Grazie ancora!

La vostra

hiphipcosty

 

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Capitolo 3
*** Terzo Capitolo ***


Terzo capitolo                                                                    



Salvami- Modà
E va sempre così...
che tanto indietro non si torna
E va sempre così...
che parli ma nessuno ascolta
E va sempre così...
che vuoi cambiare ma non servirà
soltanto una promessa..


Salvami e allunga le tue mani verso me
Prendimi e non lasciarmi sprofondare
Salvami ed insegnami ad amare come te
e ad essere migliore
.


E va sempre così...
che tanto lei POI non ritorna
E va sempre così...
CHE aspetti il sole e cade pioggia
E va sempre così...
che credi di aver tempo e invece è già
invece è primavera
[..]



Edward giocava con la penna che aveva tra le dita, tenendo la testa bassa. Si passava l’oggetto tra le mani, aspettando l’arrivo del capo Swan.

Non sapeva che ore fossero, ma presumeva molto tardi vista la stanchezza che gli si era rovesciata improvvisamente addosso. Sinceramente non desiderava fortemente uscire presto da quella caserma, non gli importava molto. Era convinto che fuori sarebbe stato ancora peggio. Gli aspettava un mondo triste, come il suo, pieno di persone sbagliate, estremamente sbagliate.

Edward non amava stare con la gente e odiava soprattutto coloro che cercavano in tutti i costi di attaccare bottone con lui. Ma il ragazzo non gradiva parlare, gli costava fatica. A parere suo non serviva farlo, era solo una perdita di tempo. Così si rifugiava quasi ogni giorno in casa, ad un bar o tra le strade, in  solitudine, riflettendo o anche solo fumando. Ecco, quello sì che era efficace per lui.                                                                                                                                                                      
I suoi giorni parevano così monotoni e uguali, costruiti su un perfetto schema. Peccato che lui odiasse le cose regolari, le detestava. Lui amava i colpi di scena, l’azione e aveva sempre apprezzato quell’affascinante diversità che distingue ogni essere o cosa dagli altri. Ed ora, per la famiglia o per solamente sopravvivere era costretto a essere monotono, a vivere una vita ripetitiva. E questo non lo poteva sopportare. No.

 

Improvvisamente la porta si aprì. Il gesto fece muovere l’aria, facendo oscillare la  lampadina che stava sul tavolo della stanza. Era molto triste quella piccola aula, probabilmente per scoraggiare e impaurire ogni persona che aveva seduto lì, al posto di Edward, compreso lui.

Un uomo baffuto sulla cinquantina si presentò sulla soglia, con un’aria abbastanza severa. Aveva i capelli scompigliati e bagnati dalla pioggia che cadeva in città. Era vestito con una semplice camicia ed indossava dei pantaloni verdi, simili a quelli che il padre di Edward usava per andare a pesca. Le labbra del ragazzo si incresparono: quello non sembrava un agente di polizia.                   

Il poliziotto in silenzio richiuse la porta e si sedette di fronte al ragazzo, che lo aspettava a braccia incrociate. Notò subito la punta infastidita che si leggeva sul suo volto, ma fece finta di niente: sapeva come trattare i tipi di quel genere.                                                                                                                                                 
Aprì il fascicolo che la signorina Westmaster gli aveva dato e lo posò sul tavolo. Sulla scheda, in copertina, vi era scritto con una grafia molto semplice: Edward Antony Cullen. Il capo Swan alzò un sopraciglio, rivolgendosi al ragazzo di fronte a se, rompendo finalmente il silenzio.                                                                          

<< Edward Cullen? >> chiese, guardandolo dritto negli occhi verdi. Questo fece un leggero cenno col capo, disinteressato. << Buonasera, sono l’agente Charlie Swan >>. L’uomo gli porse la mano, ma Edward lo guardò storto, rifiutandola. Il poliziotto lo ignorò mettendosi più comodo e cominciando a leggere:                                                                                             
<< Bene, bene, vediamo un po’ cosa abbiamo qua … Allora … L’utente viene trovato alla discoteca ‘The Vampires’ alle ore 23.19, sulla 134a strada, insieme a di ragazzini anonimi, attorno a lui … Okay ….  Fare sospetto, Bla, bla, bla … Viene inseguito con le auto della polizia FG456 e JI95.. Mh, mh …. Ah, supero della velocità stabilita … Va be’ … Ecco! Vendita di alcolici ai minori! >>.                                                                                            
Swan tolse il dito dalla carta, con il quale seguiva le parole, per incontrare lo sguardo di Edward. Lo guardò trionfante, ma poi storse la bocca. 
<< Birra. Da dove l’avevi presa? >> chiese. Edward guardò l’agente.                                                                                                                                                                                           
<< Da un amico >> esclamò con la sua voce roca. L’agente strinse le labbra:                                                                                  
<< Figliolo, potresti essere un po’ più preciso? >> chiese, con una punta sarcastica. Il ragazzo non esitò:                             
<< Simon Sattles >>. Non gli importava se questo sarebbe finito nei casini; era anche colpa sua se Edward si trovava ad un interrogatorio alla centrale di polizia.                                                                                                     
<< Conoscevi i ragazzi a cui hai venduto quegli alcolici? >>.                                                                                                                           
<< Mai visti prima >> esclamò, sbuffando.                                                                                                                            
<< Hai solo venduto birra? Sì, insomma, vendevi anche qualche altra sostanza …? >> chiese, rmanendo un po’ sul vago l’agente. Edward corrugò la fronte, per poi ribattere:                                                                                
<< Io non faccio uso di certe cose … >>. Il tono del ragazzo non piaceva al poliziotto: non sembrava molto sicuro. Nella sua voce trapelava una punta di ironia, come se il ragazzo si stesse un po' prendendo gioco del più vecchio

Passò qualche secondo, mentre l'agente rifletteva. Guardò Edward, inclinando la testa, come per cogliere qualcosa che gli sfuggiva in quel momento:                           

<< Quanti anni hai, Edward? >> mormorò. Quel tono confidenziale non piaceva al giovane, ma si vide costretto a rispondere.
<< Ventuno >>.                                                                                                                                                                                                
<< Perché, allora? >> gli chiese,un po’ affranto. Edward corrugò la fronte,non riuscendo a comprendere.                                                        
<< Perché cosa? >>. Charlie si mise una mano tra i capelli, sospirando.   

<< Io mi chiedo il perché ti ritrovi in queste situazioni. Così giovane. Insomma, hai già qualche piccolo precedente, come si vede da queste pagine: qualche furtarello, in più delle risse a scuola, sospensioni. Ma perché? Hai una vita davanti, figliolo >> mormorò, dispiaciuto.  Sul volto di Edward comparve un sorriso beffardo.            
<< Ho una vita davanti … >> ripeté, sorridendo triste. << Lei non sa che vita ho, io >> concluse, duro.                                
<< Di vite, ne ho viste tante >> ribatté pronto l’agente. << E ne ho visto tante disfarsi. Con le proprie mani. E anche tu, mi sa, stai iniziando a farlo >>. I due uomini restarono in silenzio per qualche istante, mentre entrambi riflettevano. Il più giovane tirò fuori una sigaretta, mettendosela tra le labbra.                     

<< Ha da accendere? >> borbottò, alzando gli occhi. Il poliziotto esitò un attimo, ma poi estrasse l’accendino dal taschino e accese la cicca. Edward si appoggiò sullo schienale della sedia, rilassando le gambe. Il sapore di tabacco gli invase la lingua, passando poi per tutta la gola, infiammandogliela. Espirò, soddisfatto.               
<< Non è colpa mia se la mia vita è così. Alcune volte parte fin dall’inizio con il piede sbagliato, sa? >> sussurrò un po’ innervosito, tenendo lo sguardo basso.        
<< Be’ certo, ma se uno contribuisce dandosi dei calci da solo … >>.                                                                                                                      
<< E’ facile dirlo per lei, che suppongo abbia un lavoro, una famiglia, amici. Le sarà stato molto più facile >> strinse i denti.                                

<< Oh, questo lo dici tu >> esclamò il capo Swan, drizzandosi. << La mia vita, non è stata affatto facile, sai? Ho avuto la forza di farmi coraggio, però >>. Charlie fissò dritto negli occhi il ragazzo.                                                     
<< Quando cazzo posso uscire di qui? >> chiese Edward, annoiato.                                                                                                        
<< Quando lo decidiamo noi >> rispose duro l’uomo davanti a se. Edward fece un sorrisetto e scosse la testa.

<< Ecco, questo odio degli sbirri >> sbuffò, togliendosi la sigaretta dalle labbra. << Il vostro fare così superiore, così … >>. Si interruppe, sapendo che le sue parole avrebbero solo peggiorato la sua situazione. Scosse la testa, abbassando lo sguardo.                                                                                                                                           
<< Così, cosa? >> richiamò l’agente Edward. Questo stette in silenzio, con lo sguardo rivolto al pavimento, avvolto in una nube di fumo.  Quel suo fare così strafottente, cominciava a dargli noia. << Allora tu? Come sei? Sai che per colpa tua ho dovuto rinunciare a stare a casa mia, a cena con mia figlia, rilassandomi per qualche minuto? >> esclamò, mettendo una mano sul tavolo. Cercò di controllarsi, cominciando a lisciarsi i baffi.                                                                             
<< Io non le ho chiesto di venire >> disse il ragazzo con una punta di superiorità. Il poliziotto stette qualche secondo in silenzio, ma poi gli scappò un sorrisetto.                                                                                                               

<< Perché ti sto antipatico? >>  chiese, guardando dritto negli occhi Edward. Questo si avvicinò di nuovo la sigaretta alle labbra, rispondendo:                                 
<< Mi stanno antipatici tutti gli sbirri >>.                                                                                                                                                                          
<< Perché? >> mormorò Charlie avvicinandosi più al ventunenne, come per penetrare in lui, al fine di comprenderlo meglio.

<< Perché sono tutti stronzi >>.

Charlie guardò meglio chi aveva di fronte, studiandolo in ogni dettaglio. Ne aveva visti tanti di tipi, ma mai uno come lui. Era un ragazzo affascinante, con dei piccoli precedenti, ma non aveva la classica faccia da delinquente. Si chiedeva il perché di quella brutta strada che stava iniziando ad intraprendere, senza però riuscire a darsi una risposta. Non sembrava uno stupido quello, no; anzi, pareva molto furbo.                                                                                                                                                                                                  
Tutto ad un tratto Edward, inconsciamente,  si mise una mano tra i capelli tirandoseli leggermente.                        
Charlie smise di respirare per un momento, colto all’improvviso. Quel gesto lo sorprese, lo scosse, stordendolo un po’. Poteva sembrare una cosa stupida, ma quel cenno gli aveva ricordato il suo Matt. La sua immagine si era fatta spazio nella testa e Charlie si era ricordato di quando anche suo figlio lo faceva. Lo ripeteva sempre, quando era nervoso, sottopressione.  E tutto ad un tratto, anche se sapeva che non avrebbe dovuto farlo, collegò Edward a suo figlio Matt. In effetti c’era in quel fanciullo, qualcosa che lo ricordasse. I suoi occhi, verdi come quelli di Matt, la sua stazza, il suo carattere così testardo. 
Sì, gli aveva ricordato lui. Il suo amato bambino, che nonostante avesse vent’anni al momento della morte, ostinava a chiamarlo così. Bambino. Perché per un genitore, si sa, i propri figli rimangono sempre dei ragazzini. Come se riuscissero sempre a proteggerli da ogni pericolo, come si può fare con un cucciolo oppure, appunto, quando i figli sono ancora piccoli. Ma Charlie non era riuscito a proteggerlo, non aveva potuto farlo. E così la vita glielo aveva portato via, in un incidente in moto, una notte d’estate. “Ha avuto un trauma alla testa, non aveva il casco. Forse se lo avesse indossato, si sarebbe salvato” dissero i dottori. Grazie, grazie mille.                                                                                                                

Charlie si era sentito in colpa, per non averlo protetto, aiutato, per non essere stato lì al momento della sua morte, per non avergli detto quella sera “Mettiti il casco”.                                                                                                                         
Era stato male per mesi, anni, a fianco di sua moglie, piangendo insieme a lei, spalla contro spalla. Finché un giorno, insieme, decisero di iniziare una nuova vita,  scegliendo, come prima tappa, proprio Isabella. La loro nuova luce, la sua luce. Alcune volte si riteneva egoista, pensando che avesse adottato Isabella, solo per rimpiazzare Matt. Ma non era vero; con la sua bambina, non aveva rimpiazzato Matt. Lui viveva ancora in suo padre, lì, nel mezzo del  suo cuore. Per sempre.

 
Ed ora si ritrovava a guardare Edward come un alieno. Gli aveva suscitato tanti ricordi ed emozioni, tutti assieme. Improvvisamente provò una profonda pena nei suoi confronti, gli sembrò, tutto ad un tratto, così vulnerabile. Il senso paterno si fece avanti, lottando contro tutte le sue forze. Forse Cullen era davvero un ragazzo ‘sfortunato’. Forse la sua vita era iniziata con il piede sbagliato, come diceva lui. Non aveva avuto un aiuto, un’educazione, una possibilità.                                                                                                                                

<< E se io non fossi stronzo? >> chiese lui, con volto serio. Edward guardò gli occhi dell’agente.                                                      
<< Gli sbirri sono tutti della stessa razza … >> rispose lui, stanco.                                                                                                        
<< Giudica te >>. Il poliziotto mise le mani sul banco, per poi iniziare con un mezzo sorriso sulle labbra. << Ti propongo un affare e forse ti dimostrerò che non tutti i poliziotti sono degli stronzi, eh? Allora, mettiamo conto che io voglia aiutarti Voglio solo provare a darti una possibilità, per tentare di salvarti >>. Edward sbuffò, sentendo pronunciare quel verbo. Charlie stette qualche secondo in silenzio. << In caserma  ci servirebbe qualche uomo forte, uno imponente, che ci aiuti o come guardia. Niente di che, solo una mano in casi un po’ … rischiosi >> storse la testa, indicando quel po’, avvicinando l’indice col pollice. << Stiamo cercando, solo appunto per favorire il nostro lavoro, ma non ce ne sono molti >>.                                                                                                                                                                                       
<< Ed io che cazzo centro? >> chiese un po’ spazientito Edward.                                                                                                                                            
<< Be’, tu potresti essere uno di questi. Sei abbastanza imponente, ci potresti servire, qui saresti utile. Invece di scontare la tua pena dietro le sbarre … >> indicò la porta, in direzione della cella da dove il ragazzo era venuto. <<  … verresti ad aiutarci, impegnandoti nel sociale >>. Edward ci pensò un momento, togliendosi la sigaretta dalle labbra e corrugando la fronte.                                                                                      
<< E’ legale? >>. Charlie stette un momento in silenzio, per poi rispondere:                                                                       
<< Be’, sì … più o meno. Invece di nuocere la società, la aiuti, facilitando la sicurezza pubblica. Sconti lo stesso la tua pena, in modo più educativo >>. Edward alzò un sopraciglio, poco convinto.                                                                                                                                 
<< Ci dovrebbe andar di mezzo un  giudice, lo sa meglio di me … >> esclamò lui.                                                                                                                              
<< Vuoi che questo accada? >> rispose pronto il poliziotto. Edward ebbe un tuffo al cuore, immaginando la reazione di sua madre se fosse venuta a saperlo. Un senso di profondo sconforto e vergogna gli invase il petto.

<< No, no … >>. Scosse la testa con energia. Ci fu qualche minuti di silenzio, poi Edward riprese.                                                               
<< Qual è la fregatura? >>. Charlie corrugò la fronte, colto all’improvviso.                                                             
                                         
<< Non c’è alcuna fregatura, Edward. Non so se tu le hai mai sentite o mai fatte, ma queste vengono comunemente chiamate gentilezze  >>.

Edward non riuscì a non fare un sorrisetto divertito. L’uomo davanti a se tese una mano, alzando un sopraciglio. Lui stette qualche secondo in silenzio, a decidere se sarebbe stata cosa giusta accettare o no. Si tolse la sigaretta, ormai del tutto consumata, e la spense nel posacenere. Guardò gli occhi neri del capo e poi gli strinse la mano. 

<< Affare fatto >>.

                                                                                               **

Edward uscì dalla stanza sbuffando, seguito dall’agente Swan.                                                                                  

<< Ti contatteremo prossimamente, Cullen. Poi ti spiegherò con un po’ più calma, okay? >> L’uomo baffuto sorrise, posando  la sua mano sulla spalla del ragazzo. 
<< Ovviamente il tuo caso lo tratterò io personalmente, quindi sarai sempre sotto la mia sorveglianza, più o meno. Molto probabilmente, ci faremo risentire domani mattina. Tu, nel frattempo, cerca di non metterti in altri guai.>>. Lanciò un’occhiata seria ad Edward, con la quale quest’ultimo capì che non stava affatto scherzando. Charlie fece un cenno la testa a mo’ di saluto e poi si allontanò, infilandosi la sua giacca.                                                                                                                                            
<< Ehi, aspetti! >> Edward lo bloccò, richiamandolo. << Io ora cosa faccio? >> chiese, un po’ spaesato. Charlie lo guardò, serio in volto.                                                                                                                             
<< Abbiamo chiamato tua madre, ti sta aspettando fuori >>. Edward sentì improvvisamente il sangue arrivargli al cervello e cominciarono a prudergli le mani. Ci fu come un’onda di energia elettrica che si gli partì dai piedi per poi colpirlo alla testa, con un fitta improvvisa.                                                                                                              
<< Cosa? >> esclamò, guardando in cagnesco il poliziotto. << Vi avevo detto di non metterla di mezzo … >>. Charlie scosse la testa, interrompendolo:                             
<< Qualche familiare deve essere avvisato … >>.                                                                                                         
<< Vi rendete conto che spavento le avrete fatto prendere? >> Urlò arrabbiato, serrando la mascella. Aveva tanta voglia di prendere per il bavero della camicia il poliziotto, sbattendolo alla parete e fu convinto che se non si fosse trovato in quell’ambiente, in quel preciso istante, l’avrebbe davvero fatto.                                                        
<< Ascolta, Edward. Non ti preoccupare gli abbiamo chiarito noi la situazi … >>.                                               
<< Non. mi chiami. Edward. >> disse tra i denti. << Lei lo sa che mia madre è malata?! >>  sibilò , cercando di controllarsi.  Charlie fu preso alla sprovvista, ma non disse nulla, restando in piedi di fronte al ragazzo. Edward scosse la testa, alzando la mano, per poi fuggire dirigendosi velocemente in sala d’attesa. Se fosse rimasto ancora lì per altri minuti non sapeva se sarebbe riuscito a tenere le mani a freno.

Che andasse a farsi fottere quel maledetto poliziotto sonoquiperaiutarti! Ad Edward Cullen non serviva una mano, ne una spalla  su cui fare affidamento. Dalla poca esperienza che aveva avuto nella vita, aveva capito che delle persone non c’era da fidarsi e lui sempre così aveva fatto. Non gli piaceva quell’uomo, non gli andava a genio. A lui non serviva nessuno, sapeva cavarsela perfettamente da solo e sempre se l’era cavata. Quasi, diciamo.

Raggiunse la sala d’ingresso e cercò con lo sguardo sua madre. Non ci volle molto per riconoscerla. Era lì, seduta su una sedia al lato della stanza con gli occhi fissi nel vuoto, rivolti al pavimento. Edward la guardò silenziosamente  e perse un battito, per un secondo. Aveva una forma curva e smilza, sembrava solo pelle e ossa e dalla carnagione della sua pelle si poteva intuire il suo stato di salute poco positivo.                                                 
Il ragazzo scrutò gli occhi della madre, una volta  azzurri, che splendevano sotto la luce del sole, ed ora ricoperti da un velo biancastro che rendeva il loro colore più cupo, quasi grigio. Vide i suoi capelli, principale caratteristica della sua bellezza, una volta raccolti accuratamente in una crocchia perfetta, ed ora, invece, pochi e distrattamente rilasciati sulle spalle. Il figlio ricordò il volto della madre in passato dolce, il pozzo di pace che da piccolo Edward trovava in esso, ora scavato da rughe profonde e da un velo di tristezza che invecchiava ed induriva ancora di più l’espressione della povera Esme.                                                                                     
Edward sospirò, provando un tuffo al cuore, per poi avvicinarsi alla figura, cautamente. Lei non sembrò accorgersi del figlio finché questo non le posò una mano sulla spalla, riscuotendola dai pensieri. Esme alla vista del ragazzo si buttò tra le  sue braccia, rifugiandosi nel suo petto.                                                                                            

<< Amore … >> sussurrò, sul collo del figlio. Edward si spaventò pure dell’abbraccio, così debole, che non gli ricordava sua madre. Perché probabilmente lei non lo era, quella se ne era andata tanto tempo fa. Restarono fermi in piedi per qualche secondo, l’uno tra le braccia dell’altro. Edward la cullava, le dava dei baci sui capelli, mormorando “E’ tutto apposto, tutto finito …”, mentre l’altra piangeva, si consolava tra le braccia del figlio, dicendogli quanto fosse preoccupata. 
Il ragazzo si sentì per l’ennesima volta lui, il genitore, mentre sua madre la figlia.                                                                                                                                                                    
<< Perché, tesoro? P-perché mi fai questo? Ero spaventata … la polizia … a c-casa … >> singhiozzò la madre, ancora avvolta tra le braccia del figlio. Edward sbuffò innervosito, cercando di non farsi sentire da Esme. Forse con quel soffio volle cacciare le lacrime che sentiva frizzargli gli occhi oppure volle allontanare quel senso di vergogna che stava facendosi spazio nel suo petto. 

Edward allontanò Esme dal suo petto, cercando di fare un mezzo sorriso.                                                                                                        
<< Non dovevi venire … >>  esclamò, guardandola più seria. Esme sembrò non sentire la frase di suo figlio, poiché la sua attenzione era stata catturata dal suo volto.                                                                                                         
<< Cosa hai fatto qua? >> mormorò, con un soffio, spaventata. Esme avvicinò un indice sulla guancia destra di Edward, toccandogli la ferita. Questo si ritrasse, provando un fastidioso pizzicorino frizzante.                                          
<< Ahi >> protestò, ma la madre continuò a sfiorare tutte le zone lese, finché il figlio non le allontanò la mano. << Come te le sei fatte? >> chiese, preoccupata. Edward non rispose, sospirando. Prese la mano di sua madre e uscirono dall’edificio, addentrandosi nella buia città.                                                                          
<< Andiamo a casa, mamma >>.

                                                                                 

Charlie continuava a battere le dita sul volante, nervoso. Osservava l’acqua cadere sul vetro della sua macchina, scendendo come un’ossessa. Era da settimane che la pioggia non dava tregua a Forks; aveva sentito, però, al meteo che probabilmente il giorno seguente il tempo sarebbe migliorato.

Charlie, soffiò, schiarendosi poi la gola. Era un po’ teso, forse più preoccupato, per l’incontro di quella sera. Quel ragazzo lo aveva letteralmente scosso, ricordandogli suo figlio Matt. Non sapeva neanche se avesse fatto bene a dargli una possibilità e quanto, alla fine, al ragazzo interessasse davvero. In effetti il volto di Cullen non era minimamente cambiato dopo che l’agente gli aveva rivelato le sue intenzioni: sempre quella punta di strafottenza e il suo ghigno solito sulle labbra. Lo aveva visto provarci anche con la segretaria, al momento del saluto. Però … Però c’era qualcosa che spingeva in Charlie ad aiutarlo. Sarà stato il ricordo di Matt, ma forse qualcosa di più. Probabilmente aveva avuto un senso di compassione davanti al figliolo, ma … era come se sapesse che dietro quella figura così dura e arrogante, celasse un povero ragazzo solo.                                                                                                                          
Decise però che per quella sera le riflessioni erano state abbastanza e che avrebbe smesso di rimuginare sul caso. Così, raggiunto il parcheggio di casa sua, riparandosi dalla pioggia, entrò in casa. Sperò che Bella fosse ancora sveglia, ma osservando l’orologio che batteva le una di notte, scosse la testa. Così, in punta dei piedi, entrò nella sua cameretta.                                                                                                                                                                                     
La vide lì, nel suo letto, sotto le coperte, con un’espressione in volto di pura serenità. La guardò attentamente, godendo della sua bellezza. Che cara, pensò, aveva organizzato tutta la cena per lui. Di certo non se lo meritava, ma quella era proprio sua figlia. Ed ancora non ci credeva.                                                                                 
Posò un dolce bacio sulla guancia della sua bambina e andò via, augurandole una buona notte.

 

                                                                                   ***

Bella aprì gli occhi lentamente, assumendo una buffa espressione sul volto. Si pentì subito di averlo fatto, accecata dai raggi solari che filtravano dalla finestra di camera sua. Per l’ennesima volta si era scordata di chiudere la serranda la sera precedente. Socchiuse gli occhi, sentendoli improvvisamente frizzare e si stiracchiò, muovendo le gambe. Lo faceva sempre, ogni mattina, fin da quando era piccola. Ricordava ancora le dolci parole di sua madre, Renee, quando ella dichiarava che assomigliasse ad una piccola scimmietta, al risveglio. Le scappò un leggero soffio dalle labbra rosse, al ricordo di sua mamma, quella adottiva.

Scansò un ciuffo di capelli che le era caduto sul volto e, barcollando, si alzò. Cercò di non perdere l’equilibrio, appoggiandosi alla parete gialla della sua stanza e maledisse ancora la sua goffaggine, che la rendeva ridicola in ogni sua movenza. Si avvicinò alla scrivania e si fermò davanti ad essa, osservando la lettera che vi stava sopra. Sarà stata la venticinquesima volta che lo faceva? Eppure ogni volta che guardava quel foglio bianco, le emozioni erano le stesse.                                                                            
Una sensazione strana gli invadeva lo stomaco e sentiva l’esigenza di deglutire in quel momento. La prendeva tra le mani e stava alcuni secondi a guardarla e a studiarla. Era come una fissazione per lei, scrutare attentamente ogni oggetto che aveva tra le mani. Le dava sicurezza, la rendeva più tranquilla; assomigliava quasi ad un gesto scaramantico. Così passava un dito ai bordi del foglio, annusava il tipo di carta e osservava il colore che aveva.  In questo modo, fece anche quella volta. Si passò la pagina sulla guancia tastandola e catturando ogni minimo particolare. Mise il foglio tra il suo pollice e l'indice e fece pressione, guardando lo spessore.         Quel documento le piaceva, aveva un buon odore e l’inchiostro era dato linearmente, senza un minimo sbaffo od errore di stampa. Lesse la scritta in cima, Gentile Signorina Swan . Come le piaceva quella grafia, quelle lettere, quel Gentile ... la faceva impazzire!                                                        
Posò con cura lo scritto sul tavolo e prese un grande respiro. Un sorriso gli si increspò sulle labbra, forse emozionata ma, probabilmente, più soddisfatta. Era sicura che avrebbe riletto e riletto, ancora una volta, quelle parole; non si sarebbe fermata più. La rendevano, frase per frase, ancora più felice, contenta  e beata. Si sentiva come una piccola bambina a cui avevano dato il trofeo della corsa campestre dell’anno. In effetti assomigliava ad un trofeo, quello.

Le era arrivata il mattino precedente con la sua più totale sorpresa. Aveva preso tutte le inutili lettere che ogni giorno Harry, il postino, portava a lei e suo padre e le aveva messe sul tavolo di cucina. Finché non si era accorta di quella busta.  Ogni volta che ci pensava sentiva un pizzicorino alle mani e la forte esigenza di urlarlo al tutto il mondo.

Scosse la testa, convinta di esagerare con tutta quell’euforia. Così, mise ad un lato –poco in vista- della scrivania la busta e fece per uscire. Si avvicinò alla porta, ma prima di varcare la soglia,diede un’ultima occhiata a quel documento.

“Ammissione onoraria alla Yale University”.

 


 

 

<< Oh, Bella! E’ …. È meraviglioso! >> urlò Angela, agitando le mani in modo frenetico. Bella fece un ampio sorriso, per poi abbassare le braccia dell’amica, arrossendo lievemente.                                                                             
<< Sh,  non urlare, Angi >> disse a bassa voce, scrutata dallo sguardo entusiasta dell’amica, mentre i passanti delle strade cittadine di Forks lanciavano occhiate spaventate a quella coppia.                                           
<< Non dovrei urlare?! Bella, ma stai scherzando! Sei stata ammessa ad una delle università più facoltose di tutta America! Dobbiamo dirlo a tutto il vicinato! Oddio, ti giuro, non ci posso credere! >>. Gli occhi di Angela erano lucenti, brillavano come non mai, come se chi fosse stata ammessa fosse proprio lei. << Sei bravissima, Bells, sei un mito! Una semplice cittadina di Forks che viene ammessa alla Yale University! Ti vedo già lì, con tutti i secchioni di America … Ma lo sai chi ci è andato all’università di Yale? George Bush, Bill Clinton, Gerald Ford … Tutti presidenti degli Stati Uniti! Ecco, secondo me, questo è un segno! Forse anche tu potrai diventare Presidente! T’immagini? Swan, la presiden … >>.  Ad Isabella scappò una risatina, notando la grande fantasia della sua migliore amica , ma la bloccò prima che potesse ancora sparare stupidaggini.

<< Ehi, ora non esagerare … Non ho intenzione di buttarmi in politica, eh? Una cosa però, proprio riguardante questo … >> . Isabella assunse tutto ad un tratto uno sguardo più serio, duro. << Ti prego, non dire a nessuno … dell’ammissione >>. Gli occhi neri dell’amica la guardarono sorpresa:                                                                                                                                                                                         
<< Perché, scusa? >>.                                                                               
<< Non lo so è che … Insomma, è meglio che non si sappia. Per ora, dico >>. Le parole di Isabella vennero pronunciate con poca sicurezza, ma Angela lasciò stare –forse non notò neanche quel velo impercettibile di incertezza-, troppo emozionata  della notizia, per preoccuparsi degli strani atteggiamenti della compagna.             

<< Okay, come vuoi tu. Allora, tuo padre cosa ti ha detto? >> chiese, con un sorriso entusiasta sulle labbra. Isabella abbassò il capo, un po’ in imbarazzo. 
<< Charlie non sa nulla >> disse tutto d’un fiato.                                                                                                          
<< Cosa? >> chiese, come se non avesse capito bene ciò che aveva esclamato l’amica.  Bella sospirò.                                                             
<< Non gliel'ho detto.Ascolta, non deve saperlo lui. Ancora è troppo presto … >>. Angela la interruppe, sgranando gli occhi.                                                          

<< Stai scherzando, vero? >> esclamò indignata. << Tuo padre sarebbe l’uomo più felice del mondo, se glielo dicessi! Perché non lo hai fatto? >>.                                

<< Angela, ancora non ho deciso nulla! >> rispose, con tono più deciso. << Quando feci il test per entrare, lo feci solo come un tentativo. Ero sicura che non sarei riuscita a passare; lo avevo preso solo come uno scherzo! Non avevo pianificato nulla e ancora non ho pianificato nulla. Quando è arrivata la lettera ieri pomeriggio, sono stata, certamente felice, ma … Non so, ecco, se ci andrò mai! Non l’avevo mai presa come possibilità … >>.

<< Be’, allora prendila ora, come possibilità! >>. Angela stette qualche secondo in silenzio, per osservare il volto di Isabella. << Insomma Bells, sai quanti ragazzi desidererebbero essere al tuo posto? Hai un’occasione meravigliosa! Cavolo, Yale è sempre Yale! Secondo me ti stai facendo solo problemi inutili! >> concluse Angela, continuando a camminare lungo il marciapiede che avrebbe portato lei e la sua compagna a scuola.                                                                                                                                                                
<< Sì, forse hai ragione però …. C’è anche un altro problema … mio padre. Dirglielo ora della lettera non servirebbe a nulla. Lo farei preoccupare e basta. Lui non ama molto che io stia lontano da casa, sono la sua unica figlia! Se io andassi via da Forks per studiare, sono sicura che soffrirebbe moltissimo. Ecco perché ancora non ho deciso. E’ solo per lui, io sono la sua unica famiglia >>. Angela sbuffò, contrariata:                                                                                                                                                          

<< Hai mai pensato di mandarlo a fanculo tuo padre? >> schioccò la lingua, assumendo uno sguardo infastidito. Isabella corrugò la fronte, sorpresa dal tono glaciale dell’amica.                                                                                                                      
<< Angela, tu non capisci … Se mi allontanassi da Charlie … Sarebbe un grosso problema per lui! >>. Angela soffiò dalle labbra, spazientita.                                         
<< Ascolta, basta pensare a tuo padre! Charlie ha una vita sua, tu hai una vita tua! Non puoi essere sempre preoccupata per lui! Ora hai un’occasione fantastica, parlagli! >>. Isabella scosse la testa, abbassando il capo. << Hai diciassette anni, quasi diciotto, Bella! Devi pensare più a te stessa. Qui non si sta parlando di stupidaggini: qui, si mette in ballo la tua carriera, capito? >>. Angela sperò esser convincente con le sue parole, ma notando lo sguardo dell’amica capì che non avevano fatto tanto effetto. E lei sapeva che quando Bella si impuntava su certe cose, di sicuro non si sarebbe mossa. Ormai conosceva l’amica –migliore, di sicuro- da troppo tempo e riconosceva ogni singola espressione ed atteggiamento, anche se non sempre glielo faceva capire.

Stettero qualche minuto in silenzio, come se si fossero prese del tempo per riflettere. Camminavano entrambi lungo la strada ognuna avvolta in una semplice giacchetta. 
Quella mattina Isabella aveva notato con piacere come si fosse alzata la temperatura. Quando era uscita di casa, probabilmente per l’improvviso spuntare del sole, cosa molto rara nella piovosa cittadina di Forks, aveva percepito un altro profumo, un'altra sensazione nell’aria e così aveva stabilito che quel giorno, probabilmente, sarebbe iniziata la primavera. Succedeva ogni anno, così: per lei l’inizio della bella stagione non principiava il ventuno di marzo, bensì quando voleva lei, quando se lo sentiva. E quell’anno, decise che la primavera era iniziata più tardi, esattamente il quattro di aprile. 
Così quella mattinata era uscita con una spinta in più, poiché quel giorno era il più desiderato dell’anno.

 

<<  Comunque … Basta parlare di scuola. Tanto prima o poi si sistemeranno le cose, no? In qualche modo risolveremo! So never mind the darkness, we still can find a way... >> infranse il silenzio Angela per poi assumere un’espressione beata sul volto. Alzò gli occhi al cielo, come in venerazione. Bella sbuffò, facendosi sentire anche dall’amica.                                                                                    
<< Oh, la smetti con queste frasi! Non ne posso più di questi .. Guns rose! >> rispose tra le risate l’altra. Angela lanciò un’occhiata piena di disgusto e indignazione ad Isabella.                                                                                                                                                           
<< Guns N’Roses! >> la corresse lei, con tono freddo. << Oddio, come fai a non pronunciare in modo corretto il loro nome?! >>. Angela si voltò per guardare in faccia Isabella, che tentava –con pochi risultati- di non scoppiarle a ridere in faccia. << Loro hanno occupato un posto nella storia della musica … fondamentale! Te ne rendi conto? >>.

<< Io mi rendo conto che ti sei solo bevuta il cervello! >> protestò Isabella. << E’ da mesi che continui con questo maledetto gruppo! Non ce la faccio più a sopportare le tue citazioni! E poi scusa, hai visto come sono brutti? >>. Angela strinse i pugni per non urlare alla sua migliore amica, ma trattenendosi, divenne rossa per lo sforzo.

<< Bella, è inutile parlare con te di musica. Tu non sai neanche cosa voglia dire questo sostantivo. E non so se hai notato quanto sia affascinante Slash … >> Angela prese un respiro e chiuse gli occhi, come se volesse far finta di non aver sentito ciò che aveva detto l’altra, prima. << Tuttavia ti perdonerò, lasciandomi alle spalle tutte le tue parole riguardo al gruppo più potente della storia della musica >>.                                                      
<< Ah, ah >> annuì distrattamente Bella.  Fece qualche passo e vide, con grande suo dispiacere, l’edificio della Forks High School a pochi passi da loro due.  

<< E i tuoi genitori come l’hanno presa riguardo … hai tuoi gusti musicali? >> chiese Bella, con un leggero sorriso sulle labbra. Angela abbassò il capo, scuotendo la testa.   
<< Loro non riescono a capire … Per loro sono solo cinque che urlano … Stupidi! >> borbottò con un tono di voce un po’ grave.

I genitori di Angela erano due delle persone più in vista nel piccolo paese. Suo padre, banchiere, accoglieva nella sua banca gran parte dei conti di tutta Forks. 
Entrambi i signor Weber frequentavano i club più prestigiosi e le persone
in –o ricconi snob, come preferiva chiamarli Angela-, che occupavano la classe sociale più alta del piccolo paesino. Di certo non potevano permettere, gli Weber, di far ascoltare alla loro unica figlia musica negativa  o poco istruttiva. Ma Angela –con idee completamente diverse da quelle dei suoi - nonostante gli urli e le continue lamentele dei genitori, adorava farli adirare mettendo Welcome to the Jungle in camera sua, a tutto volume. 
Sua madre, però, con le amiche con le quali si trovava ogni martedì per la partita a
Bridge,  diceva che Angela adorava la musica classica. In effetti la madre la signora Betty non era mai stata un genio: sposatasi dopo esser rimasta in cinta di Angela, accidentalmente, aveva abbandonato gli stuidi immediatamente. Dopo, aveva provato a lavorare come segretaria nella ditta del padre, ma con scarsi risultati: dopo due anni ci aveva rinunciato. Successivamente era stata assunta nel negozio della sorella, ma proprio quando stava per fare il passo più importante -divenendo parte della società Leyla&Co- aveva abbandonato, usando come scusa la bambina. Betty non andava mai a fondo delle cose, lasciandole in genere a metà. Perché, come diceva Oscar Wilde,
Il vizio supremo è la superficialità.

***

Eccomi qua, bene. Finito anche questo capitolo! Ci ho un po' sudato -e non perchè fa caldo- bensì perchè non avevo un'idea precisa su cosa scrivere. Spero, comunque, che vi sia piaciuto. 

Questo capitolo è la fusione del terzo e del quarto. Il terzo mi era venuto troppo corto e così ho voluto aggiungere!
In questo capitolo, ci sono un po' di cose da dirvi ...
Allora
:
George Bush, Bill Clinton, Gerald Ford sono personaggi realmente esistiti  e sono stati tutti e tre Presidenti degli Stati Uniti. Tutti hanno realmente studiato all'università di Yale! 
So never mind the darkness, we still can find a way è una frase tratta da una canzone dei Guns N Roses, che si intitola "November Rain". I Guns N Roses sono un gruppo di cantanti hard rock e heavy metal nato nel 1985. Slash, che nomina Angela,fu il bassista della band, per un certo periodo!  
La partita a Bridge, a conclusione del capitolo, era un classico ritrovo delle donne 'appartenenti alla borghesia' in passato e sinceramente, non so se ancora è svolto! Ho deciso di inserirlo, comunque!

Passando al capitolo, vediamo come Charlie aiuta Edward a salvarsi; perchè lo fa? Perchè Edward gli ricorda suo figlio Matt, quello morto, prima dell'adozione di Bella. Inoltre, veniamo a conoscenza, anche se per poco, della povera Esme. E' diversa da come ce la presentano in Twilight, eh? Fra pochissimo scopriremo della sua malattia e di cosa si tratta in particolare! Bella, infine, riceve la lettera dalla Yale University, ma non dice niente al padre. Penso che questa volta il capitolo sia ricco di avvenimenti e confessioni! Spero ancora che sia stato di vostro gradimento!

la vostra

hiphipcosty

PS: Ah, mi dimenticavo! La canzone Welcome to the Jungle, è anch'essa dei Guns N Roses!

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Capitolo 4
*** Quarto Capitolo ***


Quarto Capitolo

                                                 
Questo è un altro Salvami, di Giorgia e Gianna Nannini. Se quello del capitolo precedente, era un Salvami inteso come appello disperato -l'appello di Edward-, questo è una poesia, un canto dolce. Spero sia almeno abbastanza appropiato al capitolo.



Salvami- Giorgia e Gianna Nannini
Salvami

mi fa male quando è sincero
Salvami
dimmi almeno che non è vero
Guardami
Passi sbagliati
Angeli
Soli e accerchiati
Parlami
Tu sai la verità
Alzati
ama per sempre
Sbagliati
Non serve a niente
Vivere
Se non si dà
Alzati
Nasci ogni volta
Perditi
Sotto il diluvio
Spogliati
Bella così sarai

<< Un giorno finirai in casini molto seri, amico >>. Ben lanciò un’occhiata severa al ragazzo accanto a se. Quest’ultimo scosse la testa e un sorrisetto gli spuntò sulle labbra. Si grattò la barba ispida e diede un altro sorso di Coca. Ben osservò attentamente Edward seduto al tavolino, notando con preoccupazione il volto dell’amico ricoperto da lividi e ferite.                                     

<< Era solo un gioco … >> mugugnò Edward, con le labbra appoggiate alla bottiglia.                
<< Non è solo un gioco vendere alcolici illegalmente >> cercò di rispondere l’altro con tono duro.                                             
<< Ben, ti prego, ho già ricevuto varie ramanzine da quei poliziotti, non mi serve anche la tua >>. Il tono del ragazzo era glaciale; guardò dritto negli occhi l’altro e poi si alzò, avvicinandosi al bancone del bar. Ben lo seguì immediatamente, continuandogli a stare accanto.                                                                                                          
<< Ora cosa farai? >> chiese, mentre l’altro estraeva dalla tasca il portafogli e pagava la bevanda. Edward strinse le labbra in una smorfia, come se fosse poco interessato all’argomento.                                                                           
<< Non lo so di preciso. Diciamo che un agente mi ha proposto di lavorare con lui, per riscattare in qualche modo il danno >> disse, salutando il barista e uscendo dal bar. Ben guardò l’amico, confuso, come se la situazione non gli quadrasse.                           
<< Te l’ha offerto lui? >>. L’altro annuì, continuando a camminare a testa alta. << Quindi … niente soldi da pagare, pena da scontare … tutto qui? >> chiese incredulo.                                                                                                       
<< Tutto qui >> confermò Edward. Il volto di Ben era un miscuglio di sorpresa, felicità e preoccupazione. Non c’è più senso della giustizia, pensò, ma poi ringraziò quell’agente che aveva salvato la pelle al suo migliore amico.

<< E tu ci andrai? >> chiese, alzando un sopraciglio. Aveva sempre fatto queste domande ad Edward, poiché da uno come lui ci si poteva aspettare di tutto, anche rifiutare –in questo caso- la fortunata proposta dell’agente, scontando la pena in carcere.

Edward, infatti, assunse un’espressione dura e sbuffò. << Non posso fare altrimenti >> grugnì, come se l’agente, invece che aiutarlo, gli avesse aumentato i giorni di pena in carcere.  << Odio l’idea di stare con quel tipo, ma non ho altre soluzioni. E’ il classico stronzo, Sotuttoio! >> sputò le parole con disgusto poi prese dalla tasca dei suoi pantaloni un pacchetto di sigarette e ne estrasse una.          
<< Hai da accendere? >> chiese, rivolgendosi all’amico. Ben gli porse un accendino, sbuffando. Edward si dimenticava sempre dell’accendino, chiedendolo sempre all’amico o a chiunque fosse accanto a lui. Sembrava lo facesse apposta e questo Ben non lo poteva sopportare. In effetti c’era tante cose che non poteva sopportare di Edward; alcune volte si stupiva del fatto che erano amici. Sembravano molto diversi l’uno dall’altro, ma probabilmente infondo, infondo, qualcosa li accomunava ... qualcosa che ancora non riusciva a trovare.

Ben si chiedeva molte volte, infatti, come, inizialmente, avessero potuto fare amicizia. Così diversi. I due ragazzi si erano incontrati una giorno a scuola e da lì era iniziato il loro rapporto, che li avrebbe portati a divenire fratelli. Probabilmente, ciò che aveva spinto Ben ad avvicinarsi a quel robusto ragazzo quella mattina, diceva lui stesso, era stata proprio la diversità che c’era tra lui e Edward. Quest’ultimo rappresentava per Ben, l’essere differente: l’adolescente disadattato, piacente alle donne, che amava stare in strada tutto il giorno, quello a interessava poco –molto, poco- la scuola. Ben, invece, era il classico ragazzo per bene, figlio di semplici operai, ma che non creava troppi problemi. Era stata, se vogliamo metterla così, la trasgressione che trapelava da quel sedicenne, che aveva fatto scoppiare l’affetto di Ben, nei suoi confronti.

<< E … tua madre, come l’ha presa? >> chiese Ben con voce insicura, sapendo che toccava un tasto difficile. Quando iniziava a parlare di Esme, Edward si induriva, diventando più serio. Anche quella volta, infatti, la sua voce si fece più tagliente.                
<< Come vuoi che l’abbia presa? >> disse, secco. Lanciò un’occhiataccia a Ben, ma questo lo ignorò.       
<< Dovresti smetterla di combinare le tue solite, sai quanto la fai stare male >> lo rimproverò. Se non fosse stato Ben, chi gli aveva detto quelle parole, di sicuro Edward si sarebbe arrabbiato. E quando si arrabbiava lui,  poteva essere pericoloso.

D’altronde il tasto dolente di Edward era proprio la madre. Ormai stentava a credere che vivesse ancora, poiché, da quando era morto il marito, questa sembrava vivere in un mondo tutto suo, malinconico ed inaccessibile dalle altre persone. Carlisle aveva lasciato la famiglia troppo presto: ammalatosi di cancro quando i figli erano bambini, in due anni aveva abbandonato questa terra. Era proprio da quel momento, dalla morte del padre, seguita dalla malattia della madre, che Edward aveva avuto problemi. Cominciò a isolarsi, a frequentare brutta gente, ad entrare in giri strani.                               
Senza più riferimenti, sembrava essersi avvolto in un mantello scuro, che ancora alla soglia dei suoi ventuno anni, non aveva intenzione di buttare. Quel mantello era il suo muro, la sua protezione, la sua maschera per nascondere il vero Edward che cresceva all’interno. Troppo sensibile e buono per affrontare la vita al di fuori.

Edward mise una mano attorno alla sigaretta, per riparare la fiammella da eventuali spifferi di vento. Prese tra le dita la sigaretta e se la mise sulle labbra, facendo uscire un fumo grigio. Era la cosa più sensuale che faceva, ne era conscio, e per questo motivo si divertiva a farlo specialmente davanti alle donne. Era, come diceva lui il suo piccolo segreto, la sua arma segreta, la cosa che le faceva più impazzire. E lui si divertiva vederle lanciare occhiatine, ammiccamenti, mentre lui le rispondeva con la totale indifferenza se, ovviamente, ne aveva voglia. Perché Edward ci “sapeva fare” con le donne; forse star con loro era l’unica cosa che gli riusciva veramente bene. La sua fama di Don Giovanni, si era già diffusa a liceo, ma lui aveva sempre fatto finta di non sentire le voci di tutta la scuola che lo ritraevano come un perfetto playboy. Non prendeva mai sul serio le persone e tutto ciò che queste dicevano. Lo stesso era per ogni ragazza;  rappresentava per lui solo un gioco: era questo il suo modo di fare, prendere la vita intera come un gioco, lui la pedina, tutto ciò attorno a lui, il campo. E questa sfumatura del suo carattere era nata a causa della poca fiducia e amore che aveva ricevuto  durante la vita. E anche con le ragazze, non era stato mai amato davvero e neanche lui aveva mai amato. Ma, d’altronde, come si può regalare questo sentimento, se in nessun momento si è ricevuto?

<< Quando inizi? >> chiese Ben, tutto ad un tratto. Ci volle qualche secondo prima che Edward capisse a cosa si stesse riferendo.  
<< Oggi, ma devo andare a casa sua, non so per quale preciso motivo >> rispose quello, facendo uscire il fumo dalle narici. L’amico capì che quel ‘sua’, si riferiva all’agente.                             
<< Penso che gli dovrai fare una statua a quel poliziotto, eh? >>.                                                                                                             << Cosa? Ti prego, mica siamo tutti leccapiedi come te, sai Benny? >> disse Edward facendosi scappare un sorrisetto. Sapeva che Ben odiava quel soprannome, datogli dalla madre. Tuttavia, lo ignorò.                                                                                                
<< Ti ha salvato la pelle! Dovresti essere in carcere, questo momento o con un sacco di soldi da pagare >>.                     
<< Mah … Io comunque non lo posso vedere … Merda! >> imprecò alla fine. Si era bruciato con la sigaretta le dita e questo aveva fatto scoppiare la risata dell’amico, che si era preso, in tutta risposta, un pugno sulla spalla.

I due continuarono a camminare lungo la ventisettesima strada, senza una meta ben precisa.                
<< Sai cosa … Non capisco perché … Insomma, perché ti avrebbe dovuto aiutare? >>. Ben corrugò la fronte aspettando la risposta del ragazzo davanti a se, ma questo sembrava non averci mai pensato. Alzò le spalle:               
<< Probabilmente è stato il mio fascino >>. Ben fece  una finta risata, guardando in malo modo il ragazzo. << Ehi, che ne sai, posso colpire anche gli uomini! >> aggiunse quello, sghignazzando. Poi Ben lo interruppe, improvvisamente serio:
<< Ha dei figli … questo poliziotto? >>. Non sapeva come gli era balenata in mente la domanda, ma non ci fece caso.        
<< Non lo so … Accennava qualcosa la segretaria, mi sembra … >> rispose, pensieroso, Edward. << Forse sì, mi sa di sì >>.     
<< Maschio o femmina? >> chiese, mentre in testa gli balenava un’idea alquanto … pericolosa.        

<< Una ragazza. Se ho capito bene, penso che si chiami … Isabella >>.

 

 

<< Isabella! >>.

La voce autoritaria di Charlie si udì in tutta la casa, anche nella camera di Bella, e quest’ultima sussultò. Alzò gli occhi al cielo, immaginando per cosa la stesse chiamando suo padre e si alzò dal letto, svogliatamente. Scese velocemente le scale –per quanto la sua goffaggine glielo permettesse- e andò in cucina, dove il suono proveniva. Vide davanti a se un Charlie con le mani nei capelli, accovacciato davanti al forno, mentre tentava migliorare la situazione, sventolando la carne bruciacchiata all’interno. Ad Isabella scoppiò una risatina, guardando suo padre in una situazione abbastanza ridicola. Ci volle qualche secondo prima che Charlie si accorgesse della presenza di sua figlia.

<< Isabella! >> gridò, arrabbiato. << Ti avevo detto di controllare il forno! >> la rimproverò. Questa fece un sussulto, ricordandosi solo in quel momento dell’avvertimento del padre.                                                                               
<< Oh, scusa … >> sussurrò lei, mentre si avvicinava al forno, aiutando Charlie a tirare fuori il cibo ormai immangiabile.

<< Bella è possibile che ti scordi anche di questo?! Ora dimmi, cosa si mangia? Già è tardi e tra mezz’ora deve venire un ragazzo  per … Stai attenta! >> concluse salvando la teglia che stava cadendo dalle mani della figlia. << Sei un disastro, Bells! >>.

Con varie manovre difficoltose, padre e figlia riuscirono a buttare la carne nel cestino. Pulirono velocemente il forno dalla polvere nera del fumo e si misero a sedere al tavolo, stanchi.                                                                          
<< Uff … >> sbuffò Charlie. << Ora cosa si mangia? >>. Bella alzò le spalle, scuotendo la testa. << Hai tanta fame? >> chiese il padre, sul procinto, probabilmente, di saltare il pranzo. Non importò una risposta: lo stomaco di Isabella fece un tale rumore, muovendosi involontariamente, che lo udì anche Charlie. Gli scappò un sorriso, ma poi annuì.

<< Okay, vado a prendere qualcosa. Ma la prossima ci vai tu, se fai ancora una volta bruciare tutto, okay? >> lanciò un’occhiata d’intesa alla figlia.

<< Sì, papà! >> esclamò contenta Bella,dandogli un falsissimo bacio sulla guancia, mentre Charlie , imbarazzato, borbottava un “ruffiana …”.

L’uomo prese il  giubbotto di pelle e si avviò alla porta, con le chiavi della macchina in mano. Si voltò in direzione della figlia prima di uscire.

<< Tornerò tra un po’, il negozio di alimentari è lontano da casa >> spiegò, per poi uscire dalla porta.                                           
<< Aspetta! >> lo richiamò Bella. << Chi hai detto che dovrebbe venire? >> chiese, corrugando la fronte. Per un momento Charlie fu colto alla sprovvista. Giusto, Cullen . Doveva venire, ma lui ce l’avrebbe fatta a tornare in tempo, pensò. Aspetta … ma, se fosse arrivato prima del suo arrivo? Bella sarebbe stata insieme a lui per qualche minuto? Era sicuro? Scosse la testa, convinto che sarebbe ritornato prima dell’entrata di Edward. E poi, anche se fosse stato, non pensava di mettere in pericolo sua figlia.                       
<< Ah, giusto. Edward Cullen, dovrebbe venire >>. Fu incerto sul dirle che era stato accusato di vendita di alcolici illegali, ma poi si rifiutò di farlo. << Ma non ti preoccupare, dovrei arrivare prima di lui. Comunque … stai attenta >> lanciò un’occhiata alla figlia e poi salì in macchina, uscendo dal vialetto.                                                               
Bella chiuse dietro di se la porta di casa, con un mezzo sorriso sulle labbra. Le era piaciuto quel ‘stai attenta’, di Charlie. Cosa le voleva dire? Non doveva aprire al lupo cattivo, mentre era via? Scosse la testa, notando ancora una volta l’eccessiva preoccupazione e protezione di suo padre. Forse … forse si riferiva a quel Cullen? Era da lui che doveva stare attenta? Mormorò il nome tra se e se, scuotendo la testa. Edward. Era abbastanza vecchio, di sicuro questo tale doveva trattarsi di un amico di Charlie, forse uno con il quale andava a pesca. Avrebbe dovuto intrattenerlo, pensò svogliatamente, per poi fissare l’orologio sulla parete, in attesa.

Sistemò la tavola, posizionò le sedie in modo più ordinato e cercò di pulire la cucina. Suo padre la lasciava sempre sporca e questo le faceva urtare i nervi. Buttò il pollo bruciato –ormai divenuto un ammasso di cenere-  e mise nella lavastoviglie la teglia sporca. Successivamente salì in camera, prese un asciugamano ed entrò nella doccia. Il contatto dell’acqua fresca con la pelle la fece sussultare. Bella fissò il percorso dell’acqua, che le cadeva sul volto, poi scendeva sulle braccia, sui fianchi per poi cadere sul pavimento. Apprezzò il calore che le gocce le davano, ammorbidendo la pelle, ma poi capì che il bagno le stava portando via troppo tempo e così uscì, asciugandosi velocemente. Cominciò a fischiettare, questa volta qualcosa di diverso, no una delle sue solite canzoni. Non sapeva il nome di questa, ma era un motivetto abbastanza semplice ed orecchiabile che aveva sentito alla radio, di cui si era innamorata. Avrebbe chiesto ad Angela –l’esperta in questo campo- di cosa si trattasse. 

Cercò nell’armadio qualcosa di comodo e l’unica cosa che trovò fu una lunga maglietta bianca: la indossò. Stava per prendere gli shorts distesi sul letto, quando il suono del campanello la richiamò. Afferrò velocemente i pantaloni e se li mise, correndo per le scale. Diede l’ultima occhiata a l’orologio di cucina e, con sollievo, capì che data l’ora, probabilmente, dall’altro capo della porta l’aspettava Charlie.                                            
Mise una mano sulla maniglia e aprì la porta.

<< Pap …>>.

La voce gli morì in gola. D’un tratto la gola le si fece terribilmente secca e le ci vollero vari imbarazzanti secondi prima che ricordasse come si facesse a deglutire. Chiuse gli occhi e li aprì numerose volte, per assicurarsi che chi le era davanti fosse qualcosa di reale e non solo un frutto della sua fantasia. Si trattava di un ragazzo probabilmente più grande di qualche anno di lei, alto e magro, ma con una struttura abbastanza imponente. Bella fissò il volto dell’uomo che sembrava scolpito nel marmo, da quanto era perfettamente proporzionato e affascinante. Era ricoperto da una barba ispida, le sue labbra erano carnose e rosee, ma al centro di esse c’era una piccola spaccatura. Il suo capelli erano rossicci e distrattamente pettinati. La cosa che catturò più di tutte Bella,  però, furono gli occhi: due sfere bellissime, ricoperte da un verde smeraldo, un verde brillante, paurosamente splendido. Quel ragazzo era bellissimo, semplicemente apollineo nelle sue forme.                                                                                                                                                                                 
Bella sentì, per un momento, le gambe cedere e non fu solo per quella bellezza che sorprendeva, bensì per qualcos’altro. Nel momento in cui aveva visto quel ragazzo una strana sensazione le aveva preso il petto. Ella non capiva se si trattasse di qualcosa di buono o cattivo, ma era come se il suo cuore avesse lanciato una piccola scarica che le aveva raggiunto la testa, come un piccolo serpentello che si faceva strada. Era come se una freccia avesse colpito la sua coscienza, i suoi ricordi e per un momento tutto attorno a lei si era fermato. Guardò ancora una volta il volto di quella figura e sentì di nuovo qualcosa nascerle, all’altezza del petto. I suoi tratti sembravano … così familiari. Cercò di pensare, di riflettere, eppure … non riusciva a collegare alcun suo ricordo a quel ragazzo.

<< Ciao, è casa Swan, questa? >>. La voce era peggio di tutto la sua bellezza, dei suoi occhi, dei suoi capelli, delle sue labbra: roca, con una punta di arroganza, forse, ma allo stesso tempo dolce e calma, melodiosa, alle orecchie di Bella.

Ci volle qualche secondo prima che Isabella riuscisse a riprendere controllo di se stessa, riuscendo a mettere delle parole in un ordine che avesse senso logico.                                                                                                                         
<< Oh, ehm … Sì >> balbettò, indecisa, mentre le sue gote prendevano colore.  Il ragazzo davanti a se fece un lieve sorriso, che mise un po’ in difficoltà Bella.                                                                                                         
<< Bene, l’ho trovata. Cercavo il signor Swan. Sono Edward, Edward Cullen. >>. Il ragazzo porse la mano ad Isabella. Questa, come ipnotizzata, si affrettò a stringergliela, impacciata.                                                                                                                             
<< Bella … Cioè, volevo dire, Isabella >> balbettò, imbarazzata. Edward fece un altro sorriso, alzando solamente il lato destro della bocca. Era la prima volta che  faceva quel gesto, ma Bella se ne innamorò immediatamente. Stettero alcuni secondi lì in piedi, uno davanti all’altro, in silenzio.                                                                                           
<< Ehm … Posso entrare o devo aspettare qui? >> chiese, alzando le sopraciglia, abbozzando un sorriso. Bella scosse la testa energicamente, ricordatasi tutto ad un tratto di ciò che gli aveva detto Charlie. Edward Cullen, giusto, l’amico. Quanto era stupida!                                                                                                                                                                                              
<< Sì, hai ragione, ehm … scusami tanto >> sussurrò, facendo entrare il ragazzo nella sala. Chiuse dietro di se la porta, mentre il suo cuore e la sua agitazione accelerava, sempre di più. Lo condusse in cucina, silenziosamente. Rimasero ancora un’altra volta in silenzio, uno davanti all’altro. Bella si pentì immediatamente essersi messa quella terribile maglietta che le copriva quasi del tutto gli shorts. Tutt’altro, invece, pensò Edward, quando il suo sguardo cadde sulle gambe nude e perfettamente curate della ragazza. Un sorriso impercettibile, che non riuscì a catturare neanche Bella, si increspò sulle labbra del ragazzo.

<< Allora, tu … vivi qui? >> chiese Edward, alla ragazza. Isabella abbassò lo sguardo, facendo un sorriso imbarazzato.                                                                                                                                                                                                
<< Be’ sì, io sono la figlia di Charlie >> rispose con un filo di voce. << Ah, ecco, mio padre arriva tra qualche minuto è andato  a prendere da mangiare, e … >> continuò, agitata.                                                                                                                   
<< Non ti preoccupare, aspetterò >> rispose gentile lui. Bella non poteva sostenere lo sguardo di Edward, così calmo e sensuale. Probabilmente anche il ragazzo se ne era accorto, ma sembrava piuttosto divertito da quel comportamento nei suoi confronti.       

<< Ti posso offrire qualcosa …? >> chiese Isabella, appoggiandosi al forno della cucina, stringendo le spalle. Il ragazzo rifiutò, ringraziando, dicendo che aveva preso una Coca, proprio prima di venire. Isabella annuì, lentamente, continuando a notare la straordinaria calma e tranquillità del ragazzo, che sembrava completamente a proprio agio.                                  
<< Tu conosci mio padre, quindi? >> disse Bella, rompendo il silenzio.        
<< Sì >>. Il suo tono ,tutto ad un tratto, si fece più duro. Da roca e piacevole, divenne tagliente e dura. Forse si sbagliava, ma ad Isabella sembrava che non avesse tanta simpatia per suo padre.                                                           
<< Ah, ehm … Vai a pesca con lui? >> chiese, cercando di ricavare informazioni. Ad Edward spuntò un sorrisetto sulle labbra, notando l’ingenuità della ragazza.                                                                                                     
<< No, non direi proprio … >> rispose, abbassando lo sguardo. Edward guardò il volto di Bella e fu sorpreso dalla bellezza ed armonia che avevano le sue forme. Questa, sorrise:                                                                                                            
<< Allora sei … un collega? >> chiese, mettendosi un ciuffo castano dietro l’orecchio. Edward fece una risatina, lasciando confusa la figlia del Capo.                                                                                                                             
<< Veramente … no. Sono sotto la sua sorveglianza … >> annuì, serio. << Ho commesso un piccolo reato e da ora in poi sarò … ai suoi comandi >> sorrise, vedendo la sua faccia impallidire. Ad Isabella gelò il sangue,sentendo pronunciare quelle parole. << Sai … be’, io … ho ucciso diverse persone, compresa mia madre, e quindi devo scontare la mia pena … >> concluse Edward con nonchalance, prendendosi gioco di Bella. Questa però non sembrò capire la battuta e sentì le gambe cederle. Si allontanò di qualche passo da quella figura, spaventata. Poi Edward scoppiò in una risata fragorosa e anche se era terrorizzata, Bella non poté notare quanto fosse splendida e cristallina.

<< Ehi, scherzo! >> sghignazzò Edward. Bella sgranò gli occhi, per poi ricominciare a respirare. << Sto scherzando, non sono un serial killer, okay? >> le mostrò un sorrisone, che le fece aumentare il battito cardiaco.

<< Va bene, okay, ma ti prego, non farlo mai più! >> mormorò Bella, con un fiato. << Sono la figlia di un poliziotto e mi racconta mio padre di tipi del genere … >>.                                                                                                       
<< Sì, lupi cattivi, l’uomo nero … Cose del genere, eh? >>  disse, guardandola negli occhi.                                                         
<< Sì, diciamo di sì >>.                                                                                                                                                                   
<< Be’, sai … Una cosa l’ho capita nella vita: non tutti i lupi o gli uomini del buio sono cattivi … Sono le altre persone che li danno questi pregiudizi >>. Bella rimase un po’ interdetta da questa frase, ma lasciò perdere.         
<< Allora tu chi sei? >> gli chiese.                                                                                                                                                            
<< Io faccio parte di questa categoria: i cattivi, pieni di pregiudizi della gente >>. Fece una pausa e si pentì subito delle parole che aveva detto, sapendo che la ragazza davanti a lui non sarebbe riuscita a comprenderle. << La verità è che tuo padre mi ha beccato a vendere delle birre a dei ragazzi e ha deciso che devo scontare la mia pena aiutando i caserma … Tutto qui >> tagliò corto. Ebbe paura che Bella si spaventasse a quelle parole, ma lei non lo fece. Anzi, fu come se quella rivelazione, la avvicinasse ancor più a Edward.Rimase sorpresa, ma sentì una strana sensazione che provò nei confronti del ragazzo, diversa dalla compassione. Non indietreggiò, anzi, sentì l’esigenza di avvicinarsi a quella figura.                                                                                               
<< E passerai ogni volta qui a casa nostra? >> chiese lei, cercando di nascondere quella punta di felicità e speranza nel suo tono. Edward sorrise, rispondendo:                                                                                                                       
<< Be’ se ci sei sempre tu … Vengo ogni giorno >>. Quelle parole causarono un sussulto nella pancia di Bella, che arrossì immediatamente. Guardò ancora gli occhi del ragazzo di fronte a lei, perdendosi in quel prato acceso. << No, seriamente … Penso che sia solo per oggi … Tuo padre mi doveva spiegare certe cose >>. La ragazza si incupì, ascoltando quelle parole. Sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto quella figura amena?

<< Quindi questa … è la prima ed ultima volta che ci vediamo …? >> chiese lei, con tono cupo. Edward si guardò intorno, come per pensarci, poi annuì distrattamente.                                                                                                     
<< Penso … penso di sì >> confermò. Seguirono qualche minuti di silenzio, poi Edward riprese:                                              
<< Allora, Bella, studi? >>.                                                                                                                                                
<< Oh, ehm … Sì, sto facendo l’ultimo anno del liceo >>. Edward imprecò mentalmente, scoprendo che era troppo piccola per lui. << Tu, invece? >>.                                                                                                                         
<< Io ho smesso di studiare, ora lavoro. Ad un piccolo bar, qui vicino … >>. Bella, sospirò silenziosamente: non avrebbe neanche avuto la possibilità di vederlo a scuola …                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

<< Perché hai smesso di studiare? >> chiese, sperando di non essere troppo invadente.                                                    
<< Be’ … Non avevo più voglia di farlo >> rispose, abbassando lo sguardo. Non seppe se fosse solo un impressione sua, ma Edward non sembrava molto convinto.  Era come se nascondesse qualcosa …                                                   
<< Ah … >> commentò lei. << Per me è diverso, io dovrò continuare. L’idea non mi dispiace, in effetti … >>.        
<< Cosa vorresti fare? >>. Bella fu felice, sentendo il tono del ragazzo curioso.                                                                                   
<< Pensavo … medicina. E’ la cosa migliore … per me >>. Ci furono altri secondi imbarazzanti, poi, improvvisamente, il suono del campanello ruppe il silenzio. Bella fece un cenno con  il capo, a mo’ di scusa, e si avvicinò alla porta, aprendola. Comparve, sulla soglia di casa, Charlie, con delle buste in mano.                                                  
<< E’ arrivato? >> sussurrò, prima ancora di salutare la figlia. Questa corrugò la fronte, poi si ricordò dell’ospite e annuì. << Stai bene? >> chiese, ancora sotto voce.                                                                                                  
<< Sì, papà! Ma che ti prende? >> rispose lei, arrabbiata. Tornò in cucina, seguita da suo padre, che salutò Cullen.

<< Noi ci spostiamo … in salotto >> disse Charlie, facendo un cenno con il capo a Isabella. questa annuì, guardò Edward e si avvicinò a lui.

<< Allora … E’ stato un piacere conoscerti, Edward. Addio >> gli porse la mano tremolante. Lui l’afferrò saldamente, con un sorriso perfetto sulle labbra carnose. Quel contatto la fece rabbrividire.

<< Addio >>. Quella scenetta fece ridere entrambi, anche se né Edward, né Bella lo fecero vedere. Perchè d'altronde, in qualche modo, sapevano tutti e due che questo non si trattava di un addio. Era solamente il loro inzio.

***

Buona sera/Buongiorno/Buon pomeriggio care, ho postato il quarto capitolo! Cosa ve ne pare? Finalmente i nostri protagonisti si incontrano!! Le sensazioni di Bella sono descritte qui, mentre quelle di Edward- un po' accennate- saranno approfondite nel prossimo capitolo, okay? Entrambi però, si capisce, sono colpiti l'uno dall'altro ... niente di che, ma intanto è un inizio.
Mi sembra che in questo aggiornamento  non ci siano molte cose da spiegarvi, è abbastanza comprensibile. Il prossimo capitolo spero di portarlo in orario, come questi. Intanto ascoltate la canzone che vi ho proposto, che è molto bella.

Penso di aver detto tutto, anche se sono sicura che quando cliccherò la casella 'aggiungi capitolo' mi ricorderò che dovevo scrivere anche un'altra cosa ... Va be'!

Mi volete fare un favorino? se potete, rubatevi qualche secondo, per scrivere una recensionuccia ...? Grazie ancora a tutte quelle che lo hanno fatto nei capitoli precedenti!! Un bacione a tutte!! 

Alla prossima 
hiphipcosty

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Capitolo 5
*** Quinto Capitolo ***


Quinto capitolo                                                        



Per tutta la vita-Noemi
Per tutta la vita
Cercare un appiglio
L'autunno che passa
Ma forse sto meglio
Trovarsi per caso
In un bar del centro e sentirsi speciale
[..]
Le solite scuse,
Le solite storie,
Bugie, speranze,
A volte l'amore
Mi guardo allo specchio
Mi trovo diversa
Mi trovo migliore

Il portone di casa si chiuse dietro il ragazzo, provocando un tonfo. Edward varcò la soglia di casa, togliendosi il giubbotto leggero e buttandolo distrattamente sul divano lì accanto. Guardò fuori dalla finestra il nero della notte che stava calando.                        

<< Ciao, mamma >> sussurrò, avvicinandosi alla poltrona in mezzo alla stanza e lasciando un bacio sulla guancia di Esme. Questa sussultò, svegliandosi in quell’esatto istante. Guardò il figlio, con aria assonnata, ma abbastanza sveglia per essere preoccupata:          
<< Che ore sono? >> chiese, con un filo di voce. Edward la ignorò per qualche istante, abbassando il volume della televisione accesa, troppo alto. Si mise di fronte alla madre, a sedere su una sedia.                                                                               
<< E’ l’ora di andare a dormire … >> tagliò corto lui. Forse non si accorgeva del tono autoritario che aveva quando parlava con lei, ma neanche questa sembrava farci caso. Esme restò qualche secondo in silenzio, osservando il figlio che teneva lo sguardo basso, immobile. Allungò una mano, sfiorandogli una guancia.                                

<< Sei bellissimo >> sussurrò.  Di certo non si poteva dire lo stesso della madre. Anche se conservava qualche cenno della bellezza andata, Esme, era invecchiata e imbruttita da una pelle cadente e da due occhiaie che, quella sera, sembravano ancor più marcate.                                                                                                 
Edward sorrise, scuotendo la testa, ma senza incontrare il suo sguardo.                                                                          
<< Detto da te non vale >>. Esme fece uno strano movimento con la bocca, provocando uno strano rumorino giunto dalla gola: quello che lei chiamava riso.                                                                                                                                 
<< Sì, forse, hai ragione, ma … Il tuo sguardo è uguale a tuo padre, sei affascinante quanto lui. Alcune volte mi stupisco di averti fatto così … bene! >> mormorò, soddisfatta. Madre e figlio restarono minuti in silenzio, uno davanti all’altro, senza dirsi niente. A quanto pare Esme non aveva intenzione di andare a letto quella sera, così restarono insieme dell’altro tempo a fissarsi, immobili. Poi l’attenzione del ragazzo fu attratta da alcune scatoline sul tavolo. Si alzò di scatto, facendo spaventare Esme, si avvicinò a quei medicinali e ne alzò uno, voltandosi verso sua madre.

<< Cosa sono questi? >> chiese, mentre il suo volto involontariamente si induriva. Esme si schiacciò contro lo schienale della poltrona, come se potesse nascondersi all’interno di questa. Guardò con volto spaventato il figlio, dicendo:               
 << Edward … >>.                                                                                       
<< Dimmi che non li hai toccati … >> sussurrò tra i denti.                                                                                              
<< Ascoltami, per favore … >>.                                                                                                                                              
<< Mamma, ti prego, dimmi che non li hai usati … >> piagnucolò lui, assumendo una faccia scura.                                                  
<< Io … Non volevo … >>. Edward sbuffò, tirando un calcio al pavimento, cercando di non arrabbiarsi.                                          
<< Il dottore non vuole! Quante volte te lo devo dire?! E’ da mesi che cerchiamo di toglierti queste … queste… queste cose, ma tu non riesci a staccartene! >> gridò Edward, adirato.Le labbre gli tremavano, i pugni erano chiusi. Esme, afferrò il braccio del figlio, cercando di fargli abbassare la voce.

<< Io … Edward, io sto male … >> si giustificò, con voce rotta.                                                                                                          
<< Lo so che stai male, lo so! Ma queste non ti faranno stare bene, okay? O almeno, non assunte così tante! Queste pasticche te le devi scordare! Riesci a vivere senza?! Stanno diventando una droga per te, senza non respiri, eh?! >>. Edward afferrò le tre scatolette e i contenitori degli psicofarmaci qualche tempo prima, pieni di pillole, ora vuote, senza neanche una pasticca dentro.         
 << Ma tu lo sai che ho problemi, io ho bisogno di quelle medicine! >> cercò di difendersi, trattenendo i farmaci nelle mani di Edward.                                                                                                                                                               
<< Non ora! Il dottore ha detto che avevi bisogno di cose più leggere! Queste ti faranno morire! >> gridò, con le mani tremolanti. Aveva perso le staffe così velocemente, che questa reazione spaventava lui stesso.                                                                 

<< Ma … ma hai visto come stavo meglio, quando le prendevo? Hai visto i miglioramenti? >> cercò di essere convincente lei, con la voce spezzata.                                                                                                                                                            
<< Non  riesci a capire?! Non puoi finire due scatole di pillole antidepressive in una sera, va bene?! Sono delle medicine, lo capisci! Prese in eccesso, ti faranno morire! Queste sono troppo forti, li dovevi prendere solo in casi estremi >>.                        
 << Era solo per tirarmi su, amore! Ero così sola, mi sentivo così triste e … n-non ce l’ho fatta >>  mormorò, mentre una lacrima salta le scendeva lungo la guancia pallida.                                                                                         
<< Vuoi capire che questi non sono giochi?! >> esclamò Edward, indicando le bottigliette. Sentiva la testa pulsare, tanto era la rabbia che gli stava salendo. << La depressione, è una malattia! >>.                                                                            
<< Io n-non sono malata … >> singhiozzò lei, abbassando lo sguardo.

 Una cosa della madre che Edward non poteva sopportare era la sua caratteristica di ignorare le cose. Lei era convinta, infatti, di non essere malata, e ostinava a ripeterselo ogni giorno. La verità è che la sua malattia, la depressione, era iniziata alla morte del marito. Loro due si erano sposati molto giovani, si amavano molto e furono assieme fino all’ultimo, fino a quando Carlisle non diede l’ultimo respiro. Per Esme fu un duro colpo, che riuscì a stento a deglutire. Poi ci fu la partenza di suo figlio, Emmet, e la cattiva strada che stava intraprendendo Edward … Dovette affrontare tutte queste cose, da sola, senza avere al fianco suo marito. e cadde in depressione: l’ansia aumentava, la mancanza del suo amato era insostenibile, la nostalgia di Emmet –che se ne era andato un giorno, dicendo che aveva bisogno di tempo, e che poi non si era fatto più sentire dal suo diciottesimo compleanno- furono troppo per lei... Non ce la fece e così si aggrappò a l’unica cosa che la potevano sostenere: i farmaci.                                                       

<< Ti  prego, smettila! Io ti giuro, che se ritrovo ancora queste pasticche … Te le dovrò nascondere, ti rendi conto?! Sembri una bambina patetica! >> sibilò lui, mentre quella continuava a piangere. Singhiozzava, facendo rumore. Chiudeva gli occhi, tossiva, si disperava, cercando di scusarsi.                                                               
<< P-perché n-on … >>.                                                                                         
<< Queste non ti faranno guarire! Hai bisogno di altre medicine, più leggere, non ti tireranno su immediatamente, ma piano, piano riusciremo! Ho bisogno del tuo aiuto, però! Non puoi, hai capito non puoi! >> gridò, furioso, sull’orlo di un pianto disperato. Chiudeva i pugni per controllarsi, ma il suo viso era rosso. << Perché mi fai questo? Perché, Esme? >>.                
<< Non m-mi chiamare così, t-ti prego … >> chiese, disperata. Odiava non sentirsi chiamare ‘mamma’. << Io sono tua m-madre, mi devi chiamare c-con il mio nome! >> concluse, con gli occhi pieni di lacrime. Edward restò due secondi in silenzio, come in esitazione.                                                                                                          
<< Allora dimostrami di esserlo! Crei solo problemi! >>. Ora anche Edward aveva le lacrime, ora anche quelle scendevano sulle sue guancie. Cadevano, scivolando, graffiando la sua pelle, ferendolo, come se ciò che stava subendo non fosse abbastanza. << Perché? Perché tu sei così? >>.                                                                               
<< Edward, non mi dir … >> ora la sua voce sembrava un canto disperato.                                                                         
<< Sì, cavolo! Te lo dico, eccome! >>. La sua voce era rotta, spezzata, ferita. << Io non ne posso più dei tuoi problemi, va bene? E’ da quando è morto papà che tu te ne sei andata, mamma!  Tu pensi di essere la sola ad aver sofferto per papà, eh? Solo tu, sei sempre stata egoista! Ma tu non sai quanto si soffre quando gli altri bambini aspettano le mamme fuori da scuola, invece tu sei lì da solo, senza nessuno genitore che ti accolga tra le braccia dopo lezione. Tu non sai quanto si soffre quando devi scrivere un tema su tua madre e  non sai più che scrivere perché lei non vive più da tanto tempo e così consegni in bianco, mentre tutti gli altri mormorano e ridono. Tu non sai cosa voglia dire portare solo quattro terribili biscotti fatti da solo alla festa di fine anno, mentre gli altri bambini arrivano con delle torte nuziali delle loro madri. Tu non sai cosa vuol dire un bambino orfano di padre, e quasi di madre, lasciato solo, senza nessuno a baciarlo, cullarlo, rassicurarlo. Dov’eri quando avevo bisogno di te,eh?! Dov’eri?! >> gridò,come un pazzo, afferrando il braccio della madre. 

Quest’ultima sembrava paralizzata, non respirava, terrorizzata dalle parole di Edward.       

<< Io n-non ce l-la faccio … >>. Continuò a piangere, senza smettere più.                                                                              
<< E non piangere! >> gridò, puntandole un dito contro. << Non sei la vittima di questa storia, non lo sei, tu! >>.                          
<< Edward … >>.                                                                                                                                                                                                        
<< Non mi chiamare così! Io non ti voglio più, non ce la faccio più, mamma! Perché continui a fare di testa tua?! Perché hai preso tutte quelle pillole?! Me lo vuoi dire?!>>.

Tutti e due rimasero in silenzio, ognuno bagnato dalle proprie lacrime. Nella stanza si udiva solo i singhiozzi di Esme e il respiro affannato di Edward. Edward si voltò, rassegnato. Sarebbe stato inutile arrabbiarsi ulteriormente. Sapeva che con quelle parole aveva ferito profondamente Esme, ma le portava sulla schiena da un po’ di tempo. Fece un respiro, aspettando che il suo battito cardiaco ritornasse regolare e poi uscì dalla stanza. Le ultime parole che sentì udire, furono il lamento di sua madre:                                  

<< Oggi era l’anniversario delle nostre nozze >>.


Edward entrò in camera sua e, toltosi i vestiti velocemente, si rifugiò in bagno. Restò qualche secondo davanti allo specchio: ancora lividi e ferite di varie risse e scontri precedenti, erano ben visibili sul suo volto. Osservò il taglio alla bocca e ancora ripensò a quel Josh, schifato. Notò la peluria che gli ricopriva le guancie ed il mento, così decise che era troppo folta per i suoi gusti. Prese il rasoio e datosi la schiuma sulla pelle, iniziò a radersi.
Secondo Tanya, la sua ex-fidanzata –che ritornava fidanzata quando gli era più comodo- era la cosa più sensuale che faceva. In realtà, Edward, la considerava una cosa molto noiosa. Così, anche quella volta, tagliò velocemente e uscì dal bagno. Si infilò nel letto, ricoprendosi con le coperte. Prese una sigaretta dal suo cassetto –nascosta bene, perché Esme non voleva che fumasse- e se ne accese una. Il tabacco lo rilassò all’istante.

Alcune volte Edward sentiva l’esigenza di mandare a quel paese tutti. E quella sera, era una di quelle. 
Decise che sarebbe stato inutile pensare ancora a sua madre, ai suoi problemi; non sarebbe riuscito a risolverli. Così, dopo aver preso un’altra boccata, posò la sigaretta sul portacenere e prese la fotografia che stava sotto il suo letto. Un sorriso gli si increspò sulle labbra, forse il primo, vero, della giornata. Passò un dito sulla carta ingiallita e si perse ancora una volta in quegli occhi castani della bambina. Ricordava ogni suo singola caratteristica, movenza, espressione. Rammentava anche la sua voce: dolce e cristallina. La cosa più bella era che non si ricordava il nome: il tempo aveva sbiadito le cose meno importanti – ad esempio, come si chiamava- ma non aveva eliminato tutti i momenti vissuti con lei.                                                                                        

Forse quella bambina nella foto era stata l’unica donna che avesse amato. E a dirlo pareva strano. L’aveva conosciuta una volta, in mare. Avevano fatto subito amicizia, si ricordavano, finché il destino li divise, nell’incidente. Ad un tratto Edward sussultò. Si ricordava dell’incidente in mare. Era con suo padre ed Esme, in crociera. Era l’unica vacanza lussuosa, che avessero mai fatto. Anche la sua amica era lì con i genitori. L’ultima sera erano insieme quando naufragarono; fu la stessa sera in cui Edward diede alla bambina la foto. Ricordava che improvvisamente il mare si fece mosso, iniziò a piovere ed un tuono, tutto ad un tratto, colpì la nave. 
Seguirono urla, pianti, richiami di aiuto. Carlisle raggiunse subito il piccolo Edward, portandolo via, ma lasciò la sua amica lì, da sola. Edward provò a scongiurare suo padre di portarla via, ma lui era troppo spaventato per pensare anche alla bambina. E così, l’ultimo suo ricordo di quella piccola donna, fu la mano sua e quella di lei tese, ad intrecciarsi. 
Ma quelle mani non riuscirono ad unirsi più.

Edward non sapeva che fine aveva fatto lei. Pregava ogni giorno affinché i soccorritori la ritrovassero –come era successo per la sua famiglia- e li facessero rincontrare, ma il fato sembrava averli separati per sempre. Ogni sera, pure quella, però, gli piaceva riguardare quella foto. Si era sempre vergognato di conservarla e mai lo aveva detto a nessuno.

Stava per rimetterla sotto il cuscino, quando qualcosa attrasse Edward. gli occhi, gli occhi della bambina. Sussultò, sorpreso e l’immagine di Isabella, -la bella figlia dell’agente, conosciuta quel mattino- gli si fece spazio nella mente. Erano gli stessi. Quella Bella aveva gli stessi identici occhi della bambina. E se guardava meglio, gli pareva, avevano i tratti simili.

Sbuffò, dandosi dello stupido da solo e rimosse quei pensieri dalla testa. Assomigliava forse, ma … No, era solo un caso.

Chiuse gli occhi, addormentandosi con l’immagine della graziosa ragazza che aveva conosciuto quel mattino. Di sicuro l’aveva colpito, ma di certo non l’avrebbe mai ammesso, specialmente con Ben.                                                                          

Però … Isabella … era come se il nome l’avesse già sentito.

 

<< Ha dei figli … questo poliziotto? >>. Non sapeva come gli era balenata in mente la domanda, ma non ci fece caso.                                         
<< Non lo so … Accennava qualcosa la segretaria, mi sembra … >> rispose, pensieroso, Edward. << Forse sì, mi sa di sì >>.    
<< Maschio o femmina? >> chiese, mentre in testa gli balenava un’idea alquanto … pericolosa.              
<< Una ragazza. Se ho capito bene, penso che si chiami … Isabella >>.                
<< Isabella … Mh … Sai quanti anni ha? >>.                                
<< No, Ben, sinceramente non gli ho chiesto vita, morte e miracoli della sua vita, all’agente, okay? >>.              
<< No, Edward, perché … Insomma, tu hai detto che ti sta antipatico questo tizio, giusto? >>.                                                  
<< Sì, certo >>.                                                                                                                                                                                            << Hai aggiunto anche che ha una figlia, no? >>.                                                      
<< Sì, ma ancora non capisco dove tu voglia andar a parare. Non so neanche quanti anni abbia questa >>.                             
<< Be’, ma supponiamo che abbia più o meno la nostra età … Pensi che a suo padre piacerebbe sapere che esce con un venditore di alcolici illegali, sotto sua sorveglianza? >>. A Ben spuntò un sorrisetto malizioso.                             
<< Ben, ma che … >> Edward stava per insultare il suo amico, ma si bloccò. Aspettò che le parole gli si mescolassero in testa, correttamente. Cosa gli stava dicendo, Ben?                                                                                                
<< Cosa hai in mente? >>.                                                                                                                                                                      
<< Ho in mente che tu ci provi con la figlia di questo tizio, compriendes? >> pronunciò in un brutto spagnolo.                            

Cosa? Provarci con la figlia? Cosa gli sarebbe comportato? Però ... In effetti non era una brutta idea. Aveva ragione lui: di sicuro a quel Charlie non sarebbe piaciuto la presenza sua in casa. Quale padre vorrebbe che la propria figlia frequentasse un ‘delinquente’?            
<< Continua … >> fece cenno di andare avanti con il discorso. Ben continuò felice, intuendo che ad Edward stava piacendo il piano.                                                                                                                                                                  
<< Pensa, Edward, potresti fargliela pagare! Provarci con la figlia: lo faresti andare su tutte le furie! Penso che sia una vendetta formidabile! ‘Ciao papà, sai che mi sono messa con la figlia di quel ricercato?’ >>.                                                                               
<< Forse non è un brutta idea … >>.                                                                                                                                       
<< Certo che non lo è! Sarebbe la vendetta perfetta! La più crudele, senza dubbio … >>.                                           
<< Ma non pensi che mi metterebbe solo in ulteriori casini? >> chiese un po’ incerto, ma sul procinto di accettare.                         
<< Ti prego, non ti inventare scuse! Sai come riusciresti a terrorizzare il tuo poliziotto preferito … >>.                                      
<< Non lo so, Ben … Forse è più piccola di noi! >>.                                                                
<< Le ragazze meno mature sono fantastiche! >> rispose, pronto.                                                                                          
<< E se non le piacessi? >>.                                                                                                                                                          
<< Non mi dire che le ragazze sono il tuo problema! >> alzò un sopraciglio, sbuffando. Edward si portò la sigaretta alle labbra, poco sicuro. No, le ragazze non erano il suo problema. Il problema era Charlie; temeva la sua reazione se mai avesse scoperto che si stava prendendo gioco della figlia. E poi … c’era anche di mezzo la ragazza. Non era di certo bello giocare con i sentimenti degli altri, ma … la sete di vedetta era troppo forte, per placare Edward.                                 

<< Sì, forse hai ragione … >>.                                                                                                                                                                
<<  Vuol dire che accetti? >>.                                                                                                                                                                    
<< Accetto, cosa? >>.                                                                                                                                                                         
<< Accetti la scommessa! >>.                                                                                                                                         
<< Non c’è alcuna scommessa, Ben! >> esclamò, ridendo.                                             
 
<< Oh, sì che c’è! Andiamo, Edward! >> ribatté entusiasta.                                                                                                         
<< Vai al diavolo tu e le tue maledette scommesse! Va bene, accetto … >> disse, facendosi scappare un sorrisetto.                 
<< Sì! >> urlò, trionfante. <<  E poi, che ne sai? Forse potresti incontrare una bella pollastrella, no? >>.                                    
Edward diede una gomitata all’amico e scoppiarono tutti e due in una risata fragorosa.            

 

<< Allora, questi sono semplici questionari, okay? Come quelli di prima. Compilali, fatti aiutare dalla signorina Westimister, se non capisci qualcosa. Io ho da fare, non ho tempo, forse non ce la faccio neanche a prendere mia figlia da scuola >> borbottò, un po’ innervosito il capo Swan. Edward si era accorto quanto non riuscisse  a tenere a freno i nervi, quando gli impegni in caserma iniziavano ad aumentare.                               
Edward annuì, gettando un’occhiata contrarita all’uomo. Questo l’ignorò, voltandosi e raggiungendo il suo ufficio a grandi falcate, mentre ordinava a George qualcosa di incomprensibile alle orecchie di Edward, ormai troppo lontane.                                                                                                                                                                  
Edward sbuffò, gettandosi di peso sulla  poltrona della sala d’attesa.                                                                                                      

Odiava tutto. Tutto ciò che c’era in quel dannatissimo edificio. Odiava la struttura, odiava gli interni, odiava ogni singolo colore delle pareti, odiava ogni mobile all’interno. Ma ciò che più di tutto odiava, erano le persone. Odiava il personale; era terribile. Antipatici, arroganti, rumorosi. Odiava ancor di più  Charlie, che si era dimostrato ciò che il ragazzo aveva supposto. Era terribilmente antipatico, autoritario e … paterno. Quello non poteva sopportarlo, il ragazzo. Quella pena che colava dagli occhi di Charlie quando lo guardava; cos’era, un cane adottato? Di sicuro sarebbe stato molto meglio in carcere; almeno avrebbe evitato quegli sguardi penosi e di compassione che riceveva da Charlie e dai suoi compagni. Neanche le occhiate maliziose delle donne lì dentro, riuscivano a sollevarlo.                                                                                                                                            
Il ragazzo si avvicinò al banco della segreteria, attirando l’attenzione della signorina Westimister  -dalla quale aveva avuto l’onore di chiamarla, Patty- ,  che gli mostrò un ampio sorriso.                                                                            
<< Patty >> esclamò Edward. Questa lo guardò con gli occhi che le brillavano, diventando rossa.                                        
<< Edward, dimmi >> mormorò quelle parole come se si rivolgesse ad un angelo, ad il re in persona.                                
<< Scusami, ehm … Avrei questi questionari da compilare, Capo Swan me li ha affidati, non è che … potresti aiutarmi? >>. Sfoderò uno dei suoi sorrisi, anche se sapeva che quell’ingenua ragazza, anche se le si fosse rivolto a male parole, avrebbe accettato lo stesso.                                                                                                                     
<< Certo, con piacere >>. Edward si mise accanto a lei, mentre quella gli lanciava un’occhiatina divertita. << Non ti preoccupare >> e gli strizzò l’occhio. Quel gesto fece un po’ rabbrividire Edward ed ancora una volta si sorprese quanto il suo fascino riuscisse a colpire le donne.                                                                                                       
Passarono una quindicina di minuti a fare il lavoro. O meglio, lo fece solo Patty. Edward, di tanto in tanto, scompariva e andava a rifugiarsi in bagno, aspettando che la segretaria avesse compilato almeno cinque questionari e poi ritornava. Non è esagerato dire che la maggior parte del lavoro fu svolto dalla signorina, ma questa sembrò provare solo piacere ad aiutare. Edward capiva quanta influenza aveva su Patty e si divertiva  –come con molte faceva- a prendersene gioco.  Comportamento scorretto, certo, ma ad Edward non importava. Non aveva mai sofferto di sensi di colpa e non voleva iniziare proprio quel giorno.          

Così, riposto la pila di fogli nell’apposito cassetto, fu rapito dalle chiacchiere di Patty.                                                                 
<< Allora, come ti trovi in caserma? >>. Sbatté le ciglia, ancheggiando con i fianchi.                           
<< Avrei bisogno di una sigaretta >> tagliò corto Edward, ignorando la domanda della segretaria. << Esco   un secondo, se qualcuno mi cerca … >>.                                                                                                                                   
<< Certo! >> squittì, un po’ delusa. Edward le voltò le spalle,  avvicinandosi all’uscita. In realtà quel posto era troppo affollato e piccolo per lui. Le persone andavano di fretta e sembravano così tremendamente occupate. << Edward! >>. La voce acuta della segretaria, fece voltare il ragazzo. << L’accendino … >> gli sorrise lei. Lui ricambiò lo sguardo, per poi afferrarlo e dirigersi fuori.                                                                                
Subito l’aria aperta, lo fece tranquillizzare. Tirò fuori una sigaretta e l’accese, facendo uscire dalla bocca nuvole di fumo nero.

Da quanto era che fumava? Troppo, diceva sua madre. Ma Esme era sempre così, doveva ignorarla. Aveva iniziato per scherzo, perché tutti i suoi amici lo facevano e aveva continuato fino a far divenire la sigaretta una droga. Tutti i documentari anti-fumo visti in classe di Mrs Sleeper erano stati inutili, a quanto pare. Ad Edward non sarebbe dispiaciuta incontrarla, proprio quando aveva in mano una sigaretta. Quella professoressa non gli era mai andata a genio e fu anche lei una causa del suo allontanamento dalla scuola.                               
Si immerse nei pensieri per altri minuti, quando dei passi dietro di se lo richiamarono alla realtà. Si voltò.                
Charlie.

Subito un prudore alle mani, lo assalì. Il Capo Swan si avvicinò al ragazzo, lanciandogli un’occhiata severa.           
<< Hai finito con quel lavoretto? >>.  Edward annuì, dando un’altra boccata di fumo. Charlie si sedette sulla panchina accanto al ragazzo. Si mise le mani nei capelli, sospirando; non aveva una bella cera.                                       
<< Il lavoro mi ammazza >> brontolò, sbuffando. Edward si fece scappare un sorrisetto.                                                     
<< Le piace? >>.                                                                                                                                                                            
<< Cosa? >>.                                                                                                                                                                                         
<< Il suo lavoro >> ripeté, mettendosi la cicca tra le labbra.                                    
<< Certo che mi piace, non l’avrei scelto, se no. Ma è abbastanza frustante, sai? >>. Per Edward frustante erano dieci ore passate dietro un banco a servire drink continuamente. Questo, però, evitò di dirlo. << Ci sono persone talmente incompetenti in questo ufficio, che mi fanno davvero urtare i nervi. E torno a casa distrutto, le gambe che non mi reggono in piedi >>. Odiava quando le persone lo usavano per lamentarsi.  << Tu, invece, come ti trovi qui? >>. Solita domanda.                

<< Preferirei essere altrove >> esclamò, secco. Proprio quando Charlie pensava di aver iniziato a infrangere quel muro che separava Edward da lui, questo continuava a proteggersi dietro le sue fondamenta.                            
<< Certo, tutti vorrebbero essere fuori di qui. Io, ad esempio potrei tornare a casa >>.  Seguirono secondi di silenzio, mentre tutti e due gli uomini guardavano di fronte a loro.                                                                                                                            
<< Cosa ha intenzione di fare di me? Vuole usarmi come segretario, per tutto il resto del tempo che passerò qui? >> chiese, ad un tratto.

<< Non lo so, Edward. Ma tu resterai, fino a quando te lo dirò io >>.                                                                                    
<< Non è giusto, non lo può fare >>. Charlie lanciò un’occhiata d’intesa al ragazzo. Sì, lo poteva fare.                             
<< Domani dovrai venire con me. Faremo un salto nel carcere di Sattle, devo fare una cosa. Intanto ... Mi dai una sigaretta? >> chiese l’agente. Edward strabuzzò gli occhi, corrugando la fronte. Non aveva mai visto il poliziotto fumare, ne aveva trovato pacchetti di sigaretta nel suo ufficio. Edward restò in piedi, immobile. << Allora? >>. Obbedì, tirando fuori  una sigaretta e porgendogliela, insieme all’accendino. Charlie, abilmente, accese la cicca e se la mise tra le labbra. Sorrise, soddisfatto.        

<< Non hai idea di cosa voglia dire una sigaretta, durante la pausa lavoro >> sospirò, rilassato.                                            
<< Posso immaginare >> rispose.  << Lei fuma? >>.                                                                                                                            
<< No, non fumo. Ma mi sa che ho iniziato da ora >>. Fece un lieve sorriso. << Fumavo un po’ prima che mi sposassi, ma poi la mia Renee mi fece smettere.  Comunque Bella non me lo permetterebbe mai … >>. Improvvisamente Charlie saltò in piedi, mettendosi una mano sulla fronte.                                                                            

<< Isabella! Me ne sono dimenticato! >>. Charlie si girò, sul viso un’ombra disperata. << Dovevo andarla a prendere a scuola … Non può tornare a casa … >> farfugliò qualcosa di incomprensibile, girando a vuoto sul pavimento. << Ora c’è Paul che deve venire, io sono già in ritardo … >>.                                                                             

<< Aspetti, cosa sta dicendo? >> esclamò secco, Edward. Charlie guardò preoccupato il ragazzo.                        
<< Devo trovare qualcuno che vada a prendere Bella >>. Improvvisamente l’immagine della bellissima ragazza lo fece sobbalzare. Ricordò ancora i capelli bruni, gli occhi verdi come quelli della foto, il corpo mozzafiato … << Edward, mi hai sentito? Chiedi alla signorina Westmister se è disponibile! >> ordinò, deciso. Edward scosse la testa, ripresosi dai pensieri.

<< Ci posso andare io >> propose lui.                                                                                                                            
<< Dove? >> chiese, spazientito.                                                                                                                                                   
<< A prendere sua figlia. Alla Forks School, no? >>.  Charlie squadrò da capo a piedi il ragazzo, corrugando la fronte.                   
<< Tu? >> ripeté indeciso. Edward a prendere sua figlia? Non poteva permetterlo.                                                                    
<< La signorina Westimister non ha la macchina. Nessuno può lasciare l’ufficio, sono tutti impegnati. Solo io, posso >>. Non capiva perché il ragazzo sembrava così volenteroso; forse voleva solo farsi un giro. E poi c’era Paul che doveva venire lì tra un quarto d’ora, Charlie non sarebbe riuscito a …                                                                             
<< Okay, va bene >> confermò titubante. Edward nascose un sorrisetto, contento. Charlie continuava, però, a fissare Edward con circospezione. << Le chiavi? >>. Allungò la mano, alzando un sopraciglio.                                          

<< Non penserai di usare la mia … >> esclamò, indignato per poi sbuffare, sconfitto.                                                                   

<< Andiamo, Charlie, non si fida di me? >> . Anche se poteva sembrarlo, la frase non era affatto amichevole, assomigliava più ad una minaccia, anzi.                                                                                                                                               

<< No >> rispose secco e mise le chiavi dell’auto nella mano di Cullen.            

 

<< Troppo colorati, Miss Weber, tonalità troppo differenti >>. Angela imitò la voce del professore Throught, facendo una buffa smorfia con la bocca.                                                                                                                                                 
<< Oh, ti prego, basta con questa storia di arte … >> protestò Bella, mentre le due ragazze scendevano dalle scale del cortile.                                                                                                                                                                                                       
<< E invece sì, Bella. Come si può dire? Troppo colorati? Ma tu sei pazzo!  E poi, scusami, ancora nel ventunesimo secolo, da del lei ad un’alunna! Miss Weber, fammi il piacere! >> ripeté arrabbiata Angela, continuando a lamentarsi del professore di arte. Era un ragazzo giovane, da poco entrato nell’istituto, ma a quanto pare non aveva acquistato la simpatia della ragazza.
<< Ascolta, lascia stare … Piuttosto, quando fissiamo per il vestito? Mi avevi promesso di andarlo a prendere insieme  >> tentò di distrarre l’amica, questa volta, con buoni risultati.                                                              
<< Giusto, il vestito … Non lo so, domani? Perché gli altri giorni mi creerebbero problemi … >>.                                                           << No, penso domani vada benissimo >>. Bella e Angela oltrepassarono il cancello dell’edificio scolastico, salutando i compagni che si affrettavano a raggiungere le proprie macchine. Ancora Isabella non riusciva a capire il perché Charlie non gliel’avesse comprata una. Sarebbe stato molto più comodo per lui e specialmente per lei, che  avrebbe potuto spostarsi a suo piacimento.    
<< Ah, l’ho detto anche a Jessica, non ci saranno problemi, vero? >> chiese.                                                      
<< No, assolutamente >>. Angela si fermò, rimanendo di fronte all’amica. La fermata dell’autobus era a qualche metro da loro: si sarebbero dovute separare. << A proposito di Jess … Guarda chi sta venendo verso di te? >> . Angela fissò un punto dietro le spalle di Bella, facendo un sorrisetto.

<< Non dirmi che è … >> supplicò l’altra, assumendo uno sguardo spaventato.
<< Mike! >> salutò.

Subito delle braccia forti le cinsero i fianchi, sollevandola appena. Bella sentì perdere  l’equilibrio, ma si resse saldamente sulle mani del ragazzo. Una voce squillante la chiamò:                                                                                    
<< Bella! >>. La ragazza, girandosi, allontanò prontamente le braccia del suo amico dal suo corpo, per poi indietreggiare. << Ehi, come stai? >>.                                                                                                                                                                                    
<< Come ieri, Mike. Ci siamo visti ieri >> rispose, con una punta acida.                                                                                   
<< Giusto, ma mi sei mancata tantissimo! >>. Il biondiccio, fece per gettare le braccia al suo collo, ma Isabella le bloccò, prima che queste potessero toccarla.                                                                                                                     
<< Mike, sai io dovrei andare, è già tardi … >> Bella fissò l’orologio sull’edificio, notando che suo padre stava ritardando da vari minuti.                                                                                                                                                                    
<< No, dai, perché non andiamo a farci quattro passi? >>.                                                                                                          
<< Perché tra poco deve venire mio padre, quindi non posso >> tagliò corto, con tono glaciale. Bella, fece per andarsene, ma il corpo di Mike gli si parò davanti.                                                                                                                           
<< Aspetta! Ti volevo dire una cosa! Qualche tempo fa mi dicesti che ti serviva un lavoro, giusto? >>.    
<< Sì, ma … >>. Bella non avrebbe accettato nessuna cosa da Mike, neanche un posto di lavoro.                                                    
<< A mia madre servirebbe un aiuto per … >>. Bella vide con la coda dell’occhio una macchina di polizia sfrecciare davanti a lei, per poi parcheggiare bruscamente sul marciapiede. Fu sorpresa dalla guida di suo padre, ma lo ringraziò di averla salvata da quella situazione imbarazzante.                                                                                      
<< Ehm, Mike, Mike >> lo fermò lei. << Devo scappare, okay? Ne parliamo domani! >>.  Mike fissò la ragazza con occhi dispiaciuti, ma poi annuì, vedendola scappare dietro di se e raggiungere la macchina della polizia.               

Isabella corse, senza voltarsi indietro e salì in macchina, con il fiato corto.                                                                                       
<< Hai fatto tardi >> esclamò, ricordando a Charlie il ritardo.                                                                                                       
<< Mi dispiace, ma la colpa è solo di tuo padre >>. Bella si paralizzò; il fiato le mozzò in gola. Si voltò, agitata e vide sul sedile accanto a lei il ragazzo di qualche giorno precedente. Quel ragazzo al quale rivolgeva ogni suo pensiero da quella sera, la notte, nonostante le sue continue lotte a distogliere il pensiero.  Arrossì, balbettando qualcosa.                    
<< Edward? >>.

***

Buone vacanze a tutte, come state? Sono riuscita a portare il capitolo in orario, ma non so se riuscirò a fare altrettanto con i capitoli successivi! 

Quinto capitolo. Davvero? Siete arrivati fino a qui! Cavolo, complimenti! Okay, devo ammettere che non sono molto soddisfatta di  questo scritto, ma  era essenziale per il giusto proseguimento della storia. Spero comunque che a voi sia piaciuto!

Cosa succede? Prima di tutto, si è scoperto -finalmente- la malattia della mamma di Edward! Vi immaginavate chi sa che, vero? E' depressa da quado è morto suo marito e  nei prossimi capitoli avremo ancor più chiara la situazione.

Qui, c'è l'inizio della scommessa tra Ben ed Edward. Conquistare Isabella. Posso dire, che è da questo capitolo che inizia la 'vera storia', quella di B&E. Nel prossimo capitolo vedremo come si comporteranno i nostri due  insieme e cosa succederà!

Spero che leggerete il prossimo capitolo, come avete fatto con questo e i precedenti.
Ringrazio ancora chi ha recensito e chi mi ha sopportato fino al quinto 'apppuntamento' di questa storia!!

Infine, prima di salutarvi, vorrei informarvi che  purtroppo non potrò più postare e che quindi, penso che la storia  ricomincerà i primi di settembre. Dispiace molto anche a me, davvero e spero che non mi ucciderete, ma volevo dirvelo, invece che far finta di niente. Appena posso, posterò. Spero che continuerete a seguirmi anche a settembre, quando la storia ricomincerà.

Vi devo salutare qui... Allora, buone vacanze e ... non state troppo al computer, okay? :D

Baci

hiphipcosty

PS: ditemi qual'è la vostra canzone preferita e ciò che ne pensate di quelle che metto nei capitoli!

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Capitolo 6
*** Sesto Capitolo ***


Sesto capitolo

                                                             

Una canzone d'amore-883
Se solo avessi le parole
te lo direi

anche se mi farebbe male
se io sapessi cosa dire/ io lo farei
io farei
io lo farei sai
Se lo potessi immaginare
dipingerei
il sogno di poterti amare
se io sapessi come fare
ti scriverei
Una canzone d'amore
per farmi ricordare
una canzone d'amore
per farti addormentare
che faccia uscire calore
che non ti so spiegare
una canzone d'amore
solo per te
solo per te
solo per te

<< Cosa ci fai qui? >> chiese Bella, dimenticandosi di far attenzione a non essere brusca. Edward la guardò negli occhi, con uno  sguardo talmente sicuro e sfacciato che la ragazza ebbe come la voglia di ricacciarsi ciò che aveva detto.                                                                                                                                                                      

<< Sostituzione di tuo padre. Ti va bene? >> chiese con voce gentile, lui.                                                                                           
<< Oh, certo, ma … Non me lo aspettavo >> rispose quella rossa in viso, mentre sgattaiolava abilmente sul sedile. Edward non riuscì a notare quanto fosse graziosa Isabella, anche se si vedeva chiaramente che questa non era l’opinione della ragazza, così insicura. Il suo sguardo cadde sul volto pulito e pallido, caratterizzato da profondi occhi castani.

<< Posso partire? >> esclamò il ragazzo, tenendo lo sguardo davanti a se. Bella acconsentì, legandosi la cintura. Edward notò quel gesto e  sbuffò dentro di se: “Figlia di un poliziotto,  cauta” e sul suo volto gli si dipinse una smorfia contrariata, che cercò di nascondere. Bella catturò quell’impercettibile mutamento e sorrise.                         << E’ inutile che tu faccia quella faccia. E’ importante la cintura >> disse lei, con un sorriso indeciso sul volto. Edward sobbalzò, sorpreso da quella risposta, che non si sarebbe mai immaginato pronunciata da lei.                                                                                                                                                                                       
<< Io non me la metto >> esclamò, l’altro.                                                                                                                                   
<< Sbagli. Riduce il quarantacinque per cento di rischio di morte, negli incidenti >> disse lei, precisa. Edward alzò gli occhi, annoiato.                                                    
<< Non dare retta ai numeri, sono solo stupidi calcoli. Non siamo fatti di cifre o almeno, non in parte. Te lo ha detto tuo padre, eh?>> pronunciò lui, infine.             
<< Come? Questo non centra niente … Dico solo che, mi sembra stupido rischiare la vita se puoi non farlo, no? >> rispose, un po’ provocatoria. Ad Edward spuntò un sorriso divertito, notando lo stupido battibecco che avevano iniziato.                                                                                                                                                                     
<< Okay, hai vinto tu. Mi metterò la cintura >>. Edward fece un finto sospiro dispiaciuto e si legò.                     
<< Non volevo obbligarti a farlo >> mormorò Bella, come scusandosi.                                                                                            
<< No, hai ragione. Ora ho solo il cinquantacinque per cento di morire >> e sorrise, increspando le labbra in un modo talmente bello e perfetto che Bella non poté che non apprezzare quel piccolo regalo che le stava facendo.

La macchina proseguiva lentamente verso nord di Forks. Bella non sapeva se il ragazzo che quel giorno si era proposto come suo autista, conosceva dove andare, ma sembrava talmente sicuro di sé mentre osservava la strada, che la figlia del Capo Swan, non volle domandare.  Le disse che suo padre aveva molto lavoro da sbrigare e che quindi per quella volta Edward le avrebbe dato un passaggio.                                                                               
Il ragazzo stringeva il volante saldamente e di tanto in tanto lanciava delle occhiatine a Bella, la quale a fatica incontrava il suo sguardo. Pareva un po’ tesa ed imbarazzata, con le guance rosse ogni volta che i suoi occhi incrociavano quelli del ragazzo.                                                                                                                 
<< Sai accendere l’aria calda in questo coso? Ho provato, ma sembra davvero impossibile! >> esclamò, leggermente imbronciato. Bella si avvicinò a tutti quei pulsanti che conosceva, ormai, da tanto tempo e rapidamente premette quello di accensione. Edward ringraziò, sorridendole.               
<< Perché tutti pensano che i figli dei poliziotti siano così? >> chiese lei, ad un certo punto, infrangendo il silenzio. Le parole erano venute così celermente, che presero di sorpresa il ragazzo.                                         
<< Come? >> chiese lui, un po’ disorientato.                                                                                                                                                        
<< Intendo … >> Bella si voltò, guardandolo meglio negli occhi, con un’espressione seria e un po’ innervosita. << … perché la gente è convinta che i figli –specialmente le figlie, sottolineiamo- siano bambini fissati sulla sicurezza, viziati e perlopiù con padri iperprotettivi? >>. Edward guardò la faccia tesa della ragazzo e non riuscì a trattenere una risata.                                                                                                                                             
<< Non mi dire che stai ancora pensando alla storia della cintura! >> esclamò, con un sorriso divertito in faccia. Poi proseguì, vedendo il volto di Isabella che aspettava una risposta. << Be’, insomma … perché forse è vero? >>.                                                                                                                                                                                                       
<< No, questo si vede solo nei film! Mio padre non è iperprotettivo. >> controbatté lei, un po’ offesa.                                           
<< Oh, sì che lo è! >> rispose, con una smorfia spiritosa in volto.                                                                                                                        
<< Tu non conosci mio padre. >> Pronunciò quella frase con una decisione tale, che Edward per qualche istante ebbe un po’ di timore. Quella ragazza non era, quello che appariva. Incominciava a capire che dietro a quella Bella che mostrava, ce n’era un’altra, forse fragile, ma anche con un carattere solido. Forse sarebbe stato più difficile di quanto pensava, conquistarla.

Improvvisamente, terminato quel breve scambio di battute, Bella sentì vibrare qualcosa nella sua borsa. Infilò la mano nella sacca di tela e afferrò il cellulare, distratta. Prima però lesse il mittente sullo schermo. Trattenne il respiro, fissando il vetro per qualche istante, indecisa se accettare la chiamata o no. Poi premette il pulsante rosso e gettò il telefonino nella borsa. Prese fiato, ricominciando a guardare la strada, con aria troppo naturale.                                                                         
<< Puoi rispondere … se sono io il motivo per cui non l’hai fatto. >> Esclamò, guardando Bella, accanto a se. Questa non rispose, ma scosse la testa in segno contrario. Lui fissò ancora qualche istante la ragazza, per capire cosa avesse, ma poi riprese a guardare la macchina, concentrato.                                                                             
<< Non sei tu, il motivo per cui non ho risposto. >> chiarì dopo pochi secondi Bella, con voce paca, come se si volesse far perdonare. Edward sorrise, sollevato del fatto che gli avesse risposto.                                                                      
<< Chi era, se posso saperlo? >>. Bella indugiò per qualche istante.                                                                                                      
<< Il mio ex.>>                                                                                                                                                                                 
<< Oh, okay.  Allora sarà meglio parlarne un’altra volta … >>                                                                                                                          

<< No, no, non c’è alcun problema … Ormai è una cosa passata. >>                                                                                                                               
<< Non mi sembra una cosa tanto passata, dato il fatto che ti ha chiamato in questo momento … >>  fece, sperando di non essere troppo invadente.                                                                                                                             
<< Non so perché mi ha chiamata e non lo voglio neanche sapere. >> Dal tono che usò, Edward capì che ancora le ferite della separazione non erano ancora chiuse. << Forse vorrà consolarsi per la sua rottura con Victoria. >>                                                  

<< Chi è Victoria? >>.                                                                                                                                                                 
<< La sua ragazza. Quella con cui, anzi, per cui mi ha lasciato. >>                                                         
<< Oh, mi dispiace, io non volevo … >>.                                                                                                                                                                                    
<< No, davvero, ormai non ci penso neanche più. Solo che è da giorni che mi sta chiamando, ma io non gli rispondo. Si è lasciato e ora ha intenzione di riprovarci con me. Stupido idiota … >> disse, la voce un po’ tremolante.                                                                                                                                                                                         
<< E te non vuoi? >> chiese lui, senza incontrare il suo sguardo, cercando di capire.                                                                                                                                                 
<< Cosa non voglio? >>.                                                                                                                                                             
<< Non desideri ritornare con lui? >>.                                                                                                                                                                           
<< No, insomma mi ha tradita ed io ci sono stata male e … >>.                                                                                                   
<< … però ti piace ancora! >> esclamò, lui, sorridendo, sperando nel contrario.                                                                                     
<< A me non piace! >> esclamò sicura lei. << Okay … Forse un po’, ma di certo non ritornerei con uno così. Che sia per orgoglio, o come vuoi tu, io con quello non ci tornerò mai. E vorrei anche che smettesse di continuare con questi messaggi e stupide chiamate. >> Edward restò qualche secondo, riflettendo, poi:                                                                                                                                                                                 
<< Allora rispondigli. >> Pronunciò, tranquillo.                                                                                                                    
<< No, non mi ascolterebbe mai … mi convincerebbe ad uscire, scommetti? >>. Bella sbuffò, mettendosi una mano tra i capelli e appoggiandosi al finestrino. Lo sguardo del ragazzo ritornò sul volto di Isabella, così grazioso e bianco. << Sono io, il problema … Sono debole. >>                                                                                                                 

<< Lo  chiamo io, allora. >> Disse Edward,  serio, intenerito da quel broncio che aveva messo la ragazza. Bella lo guardò, quasi ridendo.             
<< Tu? Stai scherzando? Penserebbe che sei il mio ragazzo! >> dichiarò, sorridendo.                                                                                    
<< Appunto! >> il ragazzo le sorrise. << Almeno smette di  darti noia! >>.                                                                              
<< Oh, Edward è davvero carino da parte tua, ma … Non so se è la cosa migliore, ossia … >>.                                                                               
<< Vedi? Che ti ho detto? Ti piace ancora! >> esclamò, prendendola un po’ in giro.                                                                     
<< No, è solo che … >>. Fece una pausa. << Ok, facciamo così. Ti prometto che un giorno lo chiamerai, okay? Te lo prometto. Ora no, ma fra un po’ sì, davvero. >> pronunciò Bella, con tono serio. Edward sospirò, roteando gli occhi, ma poi acconsentì.                                                                                                                                                       << Bene. Dammi la mano destra. >> disse, pronto per il gesto rituale. Bella scosse la testa.                                                                   
<< E’ meglio che tu lasci le mani sul volante, per evitare incidenti vari >> lo rimproverò.                                                                                            
<< Figlia di un poliziotto … >> la prese in giro, ridendo. Bella sbuffò, per poi unirsi alla sua risata.                                                                                                          

<< Non ricordavo che la strada per la centrale fosse così lunga … >> esclamò ad un certo punto Isabella, con aria un po’ preoccupata. Edward corrugò la fronte, come per pensarci:                                                                                               
<< Forse l’ho un po’ allungata … >> esclamò. Non voleva nascondere il fatto che avesse fatto ciò apposta, e quindi tagliò corto al discorso. << Cosa stai facendo? >> chiese, osservando Bella concentrata sul libro che stava sfogliando con attenzione. Questa alzò lo sguardo da quello scritto, ritornando improvvisamente sulla vita reale.                                                                                                                                                             
<< Oh, be’ niente … Sto solo leggendo “La Metamorfosi”, Kafka. >> annuì seria, anche se negli occhi si notava quella piccola luce.                                   
<< Oh, ti prego non mi dire che l’hanno afflitto anche a te quel … coso? >> esclamò, schifato il ragazzo. Alzando le mani dal volante e corrugando la fronte, scandalizzato. Bella non riuscì a non trattenere una risatina, anche se si sporse in avanti, interdetta.                     
<< Afflitto? Coso? Come fai a chiamare un libro, coso? >> fece lei, ora più offesa. Edward si girò in direzione della ragazza e annuì, sul volto una buffa smorfia.                                                                                                                               
<< Giusto, me lo dovevo immaginare. Ti piacciono i libri? >> chiese lui, con voce calma. Bella corrugò la fronte, non riuscendo a capire il collegamento tra Kafka e la domanda.                                                                                                              
<< Sì, certo … >> Edward strinse le labbra, grattandosi il mento.   Poi il suo sguardo cadde di nuovo su quello di Isabella, facendola arrossire.                                       
<< Mh, hai ragione; hai la faccia di una a cui piace leggere. >> scandì le lettere chiaramente, con uno strano senso di disgusto.                        
 << Ho una faccia da lettrice? Davvero? >> chiese lei, un po’ preoccupata, guardandosi allo specchietto. Poi scosse la testa, un po’ arrabbiata. << Cosa mi stai facendo dire? E comunque cosa hai contro i libri e specialmente Kafka? >>                                                                                                                                                                        
<< Quel libro è un supplizio, perlopiù senza senso! Insomma, come si fa a pubblicare una cosa del genere? Ricordo che me lo avevano assegnato per scuola, ma … E’ stato davvero terribile.>>                                             
<< Ma lo hai mai letto? >> chiese, intuendo già la risposta. Edward indugiò per un secondo.                                                            
<< No. Ma ho letto il riassunto! >> dichiarò, sulla difensiva. << E da quello ho capito che si trattava di qualcosa di davvero orrendo. >> il guidatore passò avanti al semaforo, aumentando la velocità del veicolo. << E lo trovo tremendamente da bambini. Non capisco perché molti professori ci costringono a leggerli … >> . Bella restò qualche secondo in silenzio, osservando il volto del ragazzo, infastidita.                                                                                               
<< Ma cosa ne vuoi sapere tu! Che non hai neanche finito il liceo? >>                                                                                                          
<< Questo cosa vuol dire? >> esclamò, un po’ irrigidito.                                                                                                             

 

Dopo circa  altri venti minuti di dibattito letterario, così voleva chiamarlo Bella, l’auto della polizia si fermò davanti alla centrale. Edward spense il motore e tolse le chiavi dalla macchina. Rivolse un sorriso a Isabella, ma che questa non riuscì a catturare, ed uscirono dalla vettura. Charlie era davanti a loro, con le braccia conserte, che aspettava impaziente. Appena vide il volto della figlia, si illuminò, spalancando gli occhi.                                                                                                                                                                        

 
<< Bella! >> mormorò, avvicinandosi e posandole una mano sulle guance, teso. Il viso della ragazza era abbastanza rosso, dopo la breve discussione sui suoi gusti letterari con Edward, ma questo non lo sapevo Charlie che, subito, pensò il peggio. << Come stai? Cos’è successo? >>.  Bella increspò le labbra in un sorriso, osservando, dietro le spalle di suo padre, la figura esile di Edward appoggiato alla macchina, con una smorfia divertita.                                                                                                                                            

<< Non è successo niente, papà! >> mormorò, spazientita, cercando di sussurrare per non farlo sentire ad Edward. << Cosa vuoi che fosse successo? >> Sbuffò, e a grandi falcate raggiunse l’entrata dell’edificio. Edward la seguì a ruota, salutando l’agente con un cenno del capo. Charlie lo fermò, afferrandolo per il braccio. Edward si irrigidì, teso.
                     

<< Tu resti qui. >> sibilò l'agente, ancora poco convinto delle rassicurazioni della figlia.                





***
" Una delle tante storie non concluse ... "
-" Non sopporto proprio le ff che rimangono a metà, guarda! "
-" Mh, si vedeva già dall'inizio che questa longfic non si sarebbe conclusa ... Mah..."

Se avete pensate tutto ciò, vi do ragione: scusatemi, tanto. Spero di farvi ricredere!!
Abbassate i fucili, quindi! Mi dispiace davvero aver postato solo oggi, so che non è bello neanche nei vostri confronti.... Ma la voglia era... meno che zero, come si vede dal capitolo che ho messo. Tre paginine non è proprio da me, è vero, ma il prossimo capitolo sarà moooooolto meglio, davvero.
Spero che continuerete a commentare e a darmi i vostri conisgli.                  
Alla prossima e scusate ancora
hiphipcosty                                                  




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Capitolo 7
*** Settimo Capitolo ***


sETTIMO capitolo

                    -Settimo Capitolo-                   

La verità è che da piccolo non ho amato-Francesco Tricarico

La verità è che l'amore mi ha bruciato
quand'ero piccolo l'amore mi ha scottato
e me ne stavo seduto sul mio prato a guardare le stelle nel cielo
la verità è che l'amore mi ha bruciato
quand'ero piccolo l'amore mi ha scottato
E ora sono seduto sul mio prato a guardare una rosa che cresce

La verità è che io non ho amato
quand'ero piccolo io non ho amato
E ora starò da solo a guardare l'aria del mare senza più tornare
e fermerò il tempo e lo spazio e con lo sguardo attento guarderò lontano niente




La porta automatica del pub si aprì, mentre Edward aspettava in piedi di fronte ad essa. Immediatamente un odore di fumo ed alcool, gli invase il naso e non riuscì neanche a tossire lui, amante tanto di entrambi i vizi. Lanciò uno sguardo al locale, visionando un po’ la situazione: la stanza principale era ingombrata da una massa di persone che continuava fino al salone accanto, la sala giochi. Avrebbe avuto da fare, quella sera.

Si tolse il giubbotto di pelle, facendolo scivolare sulle spalle e avviandosi dietro il bancone. Mise la giacca all’appendiabiti, togliendo le sigarette dalla tasca del giubbotto e mettendola in quella dei pantaloni: ne avrebbe avuto bisogno, data la quantità di gente.                                                                                                      
Fissò per un momento l’orologio sulla parete che segnava le undici e mezzo. Era in ritardo e pregava che non ci fosse il suo capo, il quale non gli avrebbe lasciato di certo passare questo piccolo dettaglio. Subito Connor gli porse un saluto fuggente, mentre indicava la gente che aspettava davanti al tavolo, con aria piuttosto impaziente. Abilmente il ragazzo afferrò il suo grembiule nero e lo indossò legandoselo in vita e raggiunse velocemente una donna, con un gruppo di amici dietro. Edward sapeva come fare nel suo lavoro e quali clienti scegliere in situazioni come queste; doveva riuscire a capire quale era la ragazza più spazientita, ma anche quella che aveva un numeroso gruppo di compagni con se e che se avesse avuto un buon servizio, ne avrebbe sicuramente parlato con i propri conoscenti. E quella  ragazza, era una di quel genere.

<< Buonasera bellezza. >> esclamò sorridendo Edward, guardandola negli occhi. Questo bastò per farla calmare, ma ancora sul suo volto vi era un’ombra scocciata.                                                                                         

<< Finalmente qualcuno è arrivato! >> disse seccata ad alta voce, muovendo le sue carnose labbra in una smorfia terribile. << E’ da mezz’ora che stiamo aspettando, si può sapere perché è così incapace l’altro barista? >> Edward fece un mezzo sorriso, preparando dei bicchieri.                                                                                                            
<< Cosa vuoi? >> chiese, manovrando le bottiglie destramente.                                                                                                              
<< Due Cubalibre per i miei amici e un Vodkalemon per me. >> Il  ragazzo non poté notare quanto fosse volgare la donna, nei suoi pantaloni lucidi stretti e quella maglietta scollata viola. Tuttavia annuì, voltandosi a prendere altre due bottiglie negli scaffali dietro a se. Versò il liquido trasparente nei bicchieri, sotto lo sguardo ammirato della ragazza.                                              
<< Sei davvero bravo, sai? >> esclamò, richiamando lo sguardo della ragazza. Vide che sorrideva, sbattendo le ciglia e spostando il peso da un piede all’altro. Ora sembrava essersi rilassata.                                                                                              
<< Solo questione di esercizio. >> tagliò corto lui. In effetti egli muoveva le mani in modo rapidissimo, rendendo quel semplice preparare dei cocktail, una vera e propria danza.                                                                 
Ci furono altri secondi di silenzio tra i due, mentre la musica da discoteca pulsava dalle grandi casse ai lati della stanza. Le luci ad intermittenza stordivano un  po’, rendendo difficile il lavoro che stava svolgendo l’uomo.                                                                                                                                                                                      
<< Grazie … >> disse infine la donna, porgendo un sorriso accattivante al barista davanti a se. Edward gli porse i tre bicchieri, mettendoci dentro due pezzi di ghiaccio. Sorrise, divertito dal cambiamento rapido di atteggiamento della ragazza. << Ah, senti, a che ora stacchi … tu? >> concluse, sistemando meglio la sua maglietta. Edward corrugò la fronte un po’ interdetto e divertito.                                                  
<< Non so neanche il tuo nome. >> gridò a causa della forte musica, per farsi sentire dalla ragazza. Lei fece spallucce, sorridendo.               
<< Erika. Mi chiamo Erika. >> La ragazza, che doveva avere circa una ventina di anni, restava in piedi, in mano quei bicchieri. La guardò attentamente, come immerso in profondi pensieri: fissò quei grandi occhi neri, del tutto coperti da un trucco pesante. Poi annuì, stringendo la bocca in un mezzo sorriso.     
<< Va bene … Quando stacco ti cerco. >> prese i soldi per le bevande e passò all’altro cliente. Non avrebbe potuto mai rinunciare ad una donna, giusto?         
 

Connor gli passò accanto, prendendo una bottiglia e sussurrandogli all’orecchio:                                                         
<< Come fai? >>. Il suo sguardo era ammirato, anche se una leggera punta di invidia brillava negli occhi. Edward sorrise, un po’ fiero e prose un drink ad un ragazzo.

La sera scivolò velocemente sulle spalle di tutta la gente in quel pub. Fu un lavoro quasi inarrestabile per Edward e Connor, che prepararono aperitivi e drink, ininterrottamente. Passarono di cliente in cliente, velocemente e con successo. La stanchezza si fece sentire in quelle ore, inoltre, specialmente per il primo, che aveva avuto una giornata abbastanza impegnativa alla centrale. 
Solo verso le due del mattino i due potettero riprendere fiato, accasciandosi stancamente sulle sedie esterne del pub, ancora pieno di gente che saltava al ricco ipnotico delle canzoni. Fortunatamente gli altri due ragazzi erano venuti a sostituire i due baristi, permettendo loro una pausa di ripresa. Edward si appoggiò allo schienale, seguito da Connor. Tirò fuori una sigaretta e ne porse un’altra all’amico, accendendo entrambe.                                                                                                                                                                                   

<< Non ce la faccio più … >> si lamentò Conn, chiudendo gli occhi e mettendosi una mano sulla faccia.       
<< Un po’ di nicotina ti farà bene, allora. >> commentò Edward, con la cicca in bocca. Lasciò distendere le gambe lunghe e si strinse nel cappotto,  notando solo allora quanto la temperatura stesse abbassando di giorno in giorno. Fece entrare il sapore del tabacco sulla lingua, rilassandolo.                                          
In effetti aveva notato anche lui, quanto quella sera il collega fosse molto distratto e pensieroso, quasi … preoccupato.                                                
<<
Questo lavoro mi ammazza! Ti giuro, con l’occupazione in fabbrica, più la sera questo, penso che prima o poi morirò … >> sbuffò,  con una smorfia in volto.                  
<< E allora cosa ci fai ancora qui? >> chiese, un po’ infastidito dai discorsi lamentosi del collega. << Lascia questo maledetto lavoro, se ti sembra troppo stancante. >> Lui ne aveva provati molti di lavori e questo era il più rispettoso e coerente con il rapporto fatica-guadagno.                                                                                                    
<< No, è solo che … >> si tolse la sigaretta dalla bocca, scuotendo la testa. << Quei soldi mi servono … Per me, per Miriam … >> Edward alzò gli occhi al cielo, drizzandosi sulla schiena.                                                               

<< Vedi? E’ per colpa la tua convivenza del cazzo, Conn. Ti prende un  sacco di soldi e ti toglie la tua libertà. Io te l’ho sempre detto di non fare la grande scelta, con la tua Miriam. >> esclamò, arrabbiato e pronunciando la parola Miriam un po’ schifato. Il suo progetto di vita era molto semplice: solo, senza moglie, senza figli, per lui questo voleva dire libertà. Opposto a ciò che stava vivendo l’altro.                                                                                                                                                                                     

Connor, abituato a i commenti contrari dell’amico, non si offese, rimanendo per un istante in silenzio.                               

<< Non è solo per quello … >> cercò di spiegare lui, ma Edward lo interruppe.                                                                                  
<< E poi quella donna è solo un’idiota patentata, Conn. Salvati finché sei in tempo. >> esclamò, con aria arrogante. << Mi hai detto che state passando un periodo di crisi, no? Perfetto! È la volta giusta che te la togli di casa, quella sanguisuga. >> Era ben chiaro a Connor che al suo amico non piacesse molto la sua compagna. Edward si voltò ad osservarlo, notando che ancora non rispondeva, e per la prima volta vide gli occhi rossi di lacrime dell’amico. Corrugò la fronte, sorpreso: aveva un’aria terribilmente triste, e quelle leggeri rughe sulla fronte, quella sera, sembravano ancor più evidenti, dimostrando benissimo i suoi trentatre anni.                               

<< Ehi, amico, che ti prende? >> chiese, sporgendosi dalla sedia per incontrare il suo sguardo. Lui rimase impassibile, continuando a fissare quel punto davanti a se. 
<< Miriam è incinta. >> esclamò, bloccando il respiro del ragazzo.                                                                                  

<< Merda. >> esclamò, stizzito. << La situazione si complica, così. >> commentò, rimettendosi comodo sulla sedia. Restò qualche istante in silenzio, per poi aggiungere. << Da quanto lo sa? >>                                    
<< Da pochi giorni; è alla terza settimana, ora. >> Edward annuì con fare serio, senza incontrare lo sguardo dell’amico. << E volete tenere il bambino? >>               

<< Certo, non potremmo mai … >> rispose impacciato, ma Edward lo bloccò, annuendo, comprensivo.  Ci furono secondi di silenzio, durante i quali il ragazzo rifletté.                 
 << Non  lo avevate progettato … quindi? >> chiese, con una smorfia sulle labbra.                                                
<< No … >> scosse la testa, perso nel vuoto. << No. >>                                                                                                    
<< Sei proprio in un grande merdaio. Sì, amico. >> esclamò, con un sorrisetto. Quell’altro non fece altrettanto. Si schiarì la gola, togliendosi dalla bocca la cicca. << E allora, quel momento di crisi, la tua storia con  quella … quella … come si chiamava? >>

<< Samantha. >> dichiarò lui, facendo un respiro di rimpianto.                                                                                                     
<< Giusto, Samantha. Insomma, tutto cancellato? >>                                                                                                                  
<< Penso di sì, dovrò farlo … per mio figlio almeno. >> concluse con aria triste, pronunciando la parola figlio con freddezza e preoccupazione. Samantha era la donna che Conn stava frequentando, nascondendolo alla sua compagna.                                                                                                                                
<< Ehi, non essere così giù, anche se hai un figlio puoi frequentare altre donne! >> lanciò un’occhiata divertita all’amico, facendolo per la prima volta sorridere.                                                                                                                              
<< No, Edward … >> fece, dopo un po’ di silenzio. << Penso che non si possa fare. Finisce … qui. >>             

Il ragazzo cercava delle parole opportune per rispondere all’amico, ma non ne trovò, restando zitto per altri minuti. Continuava a fissare quel volto così scuro e triste dell’uomo. In effetti, però, Conn se l’era andata a cercare: Edward gliel’aveva sempre detto di lasciare quella stupida donna. Oltre ad essere davvero insopportabile, pretendeva di spendere metà dello stipendio di Conn nei suoi bisogni minimi –come amava chiamarli lei-, mantenuta dal compagno.                     

Conn fece un grosso respiro, mettendosi la sigaretta in bocca  e alzandosi dalla sedia. Gettò il mozzicone per terra e rivolse un mezzo sospiro al collega.                                                                                                                         
<< Vado a casa, si è fatto tardi. Ci pensi te a …  >>                                                                                                               
<< Sì, non ti preoccupare, finisco io. >> Alzò la testa a mo’ di saluto e osservò la figura di Conn farsi sempre più piccola, finché scomparire dalla via.              
Decise di alzarsi anche lui, dando l’ultima boccata di fumo, ma una voce lo richiamò dalle spalle.                                  
<< Ehi, ehm … barista! >>

Edward si voltò di scatto, scoprendo quella ragazza di poco fa – se non sbagliava si chiamava Erika – a qualche metro di distanza. Osservò la donna, di corporatura esile, nei suoi pantaloni aderenti. Era carina, nel complesso. Gli fece cenno di venire ed il ragazzo si ricordò dell’appuntamento che si erano dati. Si alzò e la raggiunse velocemente,  sorridendogli. La ragazza gli prese la mano e notò solo allora che non si trattava di una donna, bensì solo di una ragazzina. Sbuffò dentro di se; ciò a lui non interessava.
Erika gli fece un sorriso e lo portò dentro il pub. Alzò gli occhi verso la ragazza e ringraziò per non essere il suo amico quasi-padre, in quel momento.

La ragazza prese un drink insieme ad Edward, alzandolo in alto.                                                                                      
<< A chi brindiamo? >> chiese.                                                                                                                                                              
<< Ad un mio amico, che è nella merda fino al collo. >>                                                                                                                 
<< Okay. >> I bicchieri si sfiorarono facendo un rumore acuto e entrambi fecero scivolare il liquido lungo le gole, sorridenti e ancora contenti di non essere nella situazione dell’amico.

 

Uscì dal pub che erano ormai le quattro del mattino, l’alba che si stava alzando in  quel momento. Era iniziato a piovere e Edward correva per raggiungere la macchina velocemente, coprendosi nel suo giubbetto di pelle. Correva fuggendo da quella ragazza che aveva lasciato lì da sola, senza spiegazione, senza neanche svegliarla. Correva, ancora sulla pelle il suo profumo e in bocca il suo alito che odorava di alcool. Non era la prima volta che lasciava le ragazze così, né sarebbe stata l’ultima.                                                                         

Entrò in macchina, chiudendo la porta dell’auto velocemente, cerando di non far entrare nessuna goccia d’acqua. Fece un respiro, lasciando cadere la testa sul sedile ma, ad un tratto, qualcosa attirò la sua attenzione. C’era una sciarpa sul sedile. La riconobbe immediatamente: era quella di Isabella, probabilmente l’aveva lasciata lì per sbaglio. Restò ad osservarla, concentrato, guardando quelle sfumature di colore rosso e bianco, sul tessuto. Avvicinò la mano al foulard, lentamente. Senza accorgersene la prese in mano e l’avvicinò al suo naso. Non seppe perché lo stava facendo, ma lo fece e basta. 
Si portò la stoffa a contatto col naso e con la bocca, inspirando bene: il profumo di biancospino e di fresco lo deliziò. Il profumo migliore che avesse mai sentito, anche se …  aspetta, –in effetti-  gli ricordava qualcosa … un profumo che vagamente aveva odorato, una volta. Affondo il suo volto nel foulard, chiudendo gli occhi, estasiato. Poi li riaprì, irrigidì il corpo e allontanò bruscamente quella stoffa da se. Cosa diavolo stava facendo? Era meglio tornare a casa, la stanchezza iniziava davvero a farsi sentire.

 

                                                                                                                                                              ***

La sveglia segnava le quattro in punto del mattino e Isabella era ancora seduta sul letto, le braccia che stringevano le gambe. Si dondolava annoiata, chiudendo di tanto in tanto gli occhi, sperando in un colpo di sonno improvviso. Questo però sembrava non venire.                                                                                                    
Quella sera la ragazza non riusciva a dormire ed era molto strano per una come lei, che riusciva ad addormentarsi ovunque. Ricordava ancora la prima volta che andò in discoteca, addormentandosi annoiata sotto le casse rumorose della stanza.                                                                                                             
Era dalle undici che tentava di prendere sonno, ma esso sembrava essere lontano mille miglia da lei. Quando Bella non dormiva era per qualcosa di serio,  quasi sempre. Solo che quando avveniva, ad ella era ben chiaro la causa di ciò, cosa che quella sera non era in grado di capire.                                          
Osservava la pioggia sbattere sulla finestra trasparente e poi scivolare raggiungendo la fine del vetro. A lei piaceva la pioggia, le ricordava anche il mare, una cosa che adorava perdutamente. Amo la pioggia, lava via le memorie dal marciapiede della Vita * , insomma, come poteva non dargli ragione?                       
Sbuffò, distendendosi sul materasso prendendo la foto che teneva gelosamente custodita sotto il letto. La fissò e subito sul volto comparve un dolce sorriso. Perché ancora non ci aveva pensato prima? La foto era l’unica cosa che avrebbe potuta calmarla. Era impensabile la quantità di ricordi che quella piccola rappresentazione riusciva a ricordarle. Se la posò sulle labbra, dando un bacio a quella piccola figura nell’immagine.

<< Dove sei? >> chiese, rivolgendosi al bimbo con occhi tristi. Sospirò, mettendosela vicino al petto e chiudendo gli occhi.

 

Guardavi felice l’immagine riflessa nello specchio, muovendoti da una parte a l’altra, agitando il tuo vestito color panna. Era il tuo preferito e la mamma lo aveva messo in valigia a posta proprio per la prima cena, in crociera. Andavi pazza per il tuo abito, anche se non lo ammettevi, e tutte le persone si fermavano a guardarti e tu ascoltavi i commenti. Facevi finta di non sentirli, ma in realtà eri lì, tesa con l’orecchio ad origliare quelle parole piacevoli, che ti riempivano d’orgoglio.                                                                                   

La sarta te lo aveva cucito apposta, solo per te. Per la crociera. Come ti piaceva quella parola, eh? Sì, l’amavi, infondo avevi sempre desiderato andare su una barca, ti ricordi?                                                                                 
Ti specchi ancora, fino ad annoiarti. Così esci dalla cabina, non avverti neanche i tuoi genitori, lo fai e basta senza pensarci troppo e inizi a correre lungo il corridoio. È rivestito da una parete in legno e il pavimento è ricoperto da una moket rossa. L’adori: passi le tue dita paffute avanti in dietro, mentre il tessuto sotto la tua pelle ti fa il solletico.                                                                                                                                                                    
Corri ed esci dall’edificio interno, spingendo la pesante porta d’entrata. Vai sul pontile e stringi le tue dita attorno alla ringhiera. Ti sporgi e cerchi di guardare il mare azzurro: ha detto la mamma che nel mare ci sono delle sirene e che se guardi meglio le puoi vedere. Affiorano dall’acqua e salutano le persone che le osservano; chi le vede –sono molto rare- sarà fortunato per tutta la vita. Così tu sei lì, ingenua bambina, con gli occhi puntati sul blu profondo.  Alzi i piedini, grandezza ventinove, mentre i tuoi capelli bruni ti cadono sulle guance. Ti piace proprio il mare, pensi, è così bello per te. Quando fissi le acque i tuoi occhi brillano e le tue gote arrossiscono, emozionata. E ancora di più ti pare bello stare sulla cima della nave a guardare quel blu, mentre il vento ti accarezza il volto.                                                                        

<< Dice mio papà che non ci si deve sporgere così tanto. >> Senti una voce acuta che viene dalle tue spalle, un po’ arrogante, e ti volti. C’è un bambino rossiccio, con una bella camicetta bianca e dei pantaloni che gli stanno troppo lunghi.                                                                                                                                                                    
<< Lo hai mai fatto? >> chiedi tu, muovendo la testa, osservandolo meglio. Il bambino resta immobile con una smorfia sulle labbra. Arrossisce, poi stringe i pugni.                                                                                                                             
<< No. >> risponde sincero. Tu gli fai cenno di avvicinarsi, e gli prendi la mano per portarlo ancora più vicino a te. Non sei timida, non lo sei mai stata.    
<< Devi alzare i piedi e stringere forte alla ringhiera, per non cadere. >> Gli fai vedere, decisa a fare provare a quel bambino sconosciuto la bellezza di questa sensazione. << E’ semplice. >>                                                                
<< Non lo posso fare. >>                                                                                                                                                                                              
<< Perché? >>                                                                                                                                                                                           
<< Perché mio papà non vuole. E nemmeno mia mamma, penso, anche se non gliel’ho mai chiesto. Ma loro sono sempre molto d’accordo tra loro, specialmente per darmi le punizioni. >>                                                                
<< Non ti daranno una punizione, se guardi il mare. >> replichi tu, corrugando la fronte. Il rossiccio ci pensa un pochino, abbassando lo sguardo. Poi lo rialza e ti chiede:                                                                      
<< Sicura? >>                                                                                                                                                                                                       
<< Sì. Te lo prometto! >> esclami sorridente, facendoti un gesto simbolico sul petto. Il bambino ti guarda un po’, poi mette le mani sulla ringhiera e alzandosi in punta dei piedi, sorride. L’aria fresca gli scompiglia i capelli e i suoi occhi si chiudono e si aprono, infastiditi dalla corrente del vento.                                                           
<< Hai paura? >> chiedi, guardando la faccia un po’ preoccupata del bimbo. Lui scuote la testa in modo energico, orgoglioso. << Hai visto come è bello il mare? Mia mamma dice che lì ci vivono delle sirene. >> esclami, indicando l’acqua. Il rosso ti guarda curioso.                                                                                                     
<< Cosa sono le sirene? >>                                                                                                                                                            
<< Sono delle donne bellissime, metà donna e metà pesce. Vivono nei mari e chi le vede sarà felice per tutta la vita. >> Il bambino spalanca gli occhi, entusiasta.            
<< Davvero? E tu l’hai mai vista una? >>                                                                                                                                                   
<< No, sono molto rare le sirene.  E poi sono belle, bellissime. >> Parli con sicurezza, contenta di avere una cosa tutta tua, che quello sconosciuto non sa. Ti senti importante, raccontandolo.                                                                                      
Lui ci riflette un po’ su, continuando a guardare l’oceano ammirato, attento ad ogni minimo movimento spumeggiante dell’acqua.                        
<< Io un giorno vedrò una sirena. La prenderò, ci innamoreremo e poi la sposerò. >> dice convinto. Te lo guardi con una smorfia.                        
<< No, è impossibile.  Loro non possono vivere senza l’acqua! >> esclami, ovvia.                                                                     
<< Vorrà dire che le comprerò una … una … piscina, così lei potrebbe vivere là! >> risponde, speranzoso. Ma tu vuoi  
distruggergli  i sogni, ti sembra una cosa stupida pensare  queste cose.                                                           
<< No, è inutile, non potrai sposarla mai. >> rispondi, stizzita.                                                                                             
<< Non è vero! >> corruga la fronte, spazientito. << Un giorno te la porterò a far vedere, così ti ricrederai! >>                                                                                                       
<< C’è caso che tu non la veda neanche. Sono rarissime. >> dici, convinta e un po’ innervosita. Passano un po’ di secondi, durante i quali tutte e due siete concentrati a vedere il mare.                                                             

<< L’ho vista! >> urla tutt’ad un tratto, saltellando. Ti guarda contento, con gli occhi verdi spalancati. << Ti giuro, l’ho vista! Lì, guarda, lì, l’hai vista? C’era una sirena!  L’hai vista anche tu, vero? Si vedeva benissimo! >> Fissi i suoi occhi luccicanti. Lui l’hai vista. Tu no, come hai fatto a non notarla? Ma non lo puoi dirglielo, no; non puoi fargli passare questa. Poi davvero se la sposa!                                                                                                  
<< Ehm … sì, anch’io! Ehm … C’era anche la sua amica, hai visto? >> chiedi, convinta che questo lo spiazzerà. Il bambino rimane un po’ interdetto, ma poi annuisce convinto.                                                                            
<< Ehm … Sì, certo … >> appoggia il mento sulla ringhiera. << Aspetta, ma quella … un’altra, guarda, ce n’è un’altra, vedi? Laggiù! No, peccato, ormai è già sparita … >>                                                                                            
<< No, no, l’ho vista! >> rispondi beffarda. << Guarda!! Anche là, lì proprio in quel punto, una sirena! Vedi? >> indichi l’orizzonte, a caso.                                                                                                                                                                             
<< Sì, sì che la vedo >> dice, mentendo. << Anche lì, un’altra! Ha la coda arancione, vedi? >>                                                                  
<< Sì, è vero! >> rispondi, bugiarda. << Anche quella! E lì c’è la sua mamma, te ne sei accorto? >> Il bambino non ti poteva rispondere di no, come aveva fatto prima, doveva ottenere quella piccola vittoria.                    
<< Sì … e guarda là! >>

Tu e quel bambino avete continuato a parlare per minuti, che piano a piano sono diventate ore. Il tempo è scivolato su di voi come una lenta carezza, così lieve che neanche vi siete accorti del suo passaggio.                                                                         
Avete visto molte sirene –o almeno così entrambi sostenete-  e vi siete divertiti a inventare le storie legate a quelle figure. Vi siete lasciati dopo un po’, accorgendovi solo allora di non sapere l’uno il nome dell’altro.

<< Pronto? Sì, cercavo il dottore psicologo dell’orfanatrofio? Sì, buongiorno dottore, sono Bella Swan. Scusi l’ora così mattutina, ma stanotte ho sognato … ed ho fatto un sogno particolare e forse … qualcosa si è ricomposto nella mia memoria perduta, penso. >>

 

 

<< Ma è normale che tuo padre ci metta così tanto? >> chiese Edward, guardando Bella. Lei sorrise per la smorfia che era comparsa sulla bocca del ragazzo e annuì, alzando gli occhi.                                                          
<< E diciamo che questa volta si sta impegnando: in genere è ancora più lento! >> esclamò, togliendo il caffè dai fuochi. << E’ peggio delle donne, te lo posso garantire. >>                                                                                       
Edward guardava seduto sulla sedia la figura della ragazza muoversi velocemente, prendendo le tazzine e i cucchiaini dai vari cassetti e sportelli. Aveva la chioma bruna legata in una crocchia che aveva lasciato qualche ciuffo fuori, distrattamente.                                                                                                         
<< E dovessi vedere prima delle cene importanti … >> aggiunse, sospirando. Edward sorrise a quel volto così grazioso, invitandola a sedere. Lei versò il liquido bollente sulle tazzine e porse un cucchiaino al ragazzo accanto a se. Non lo negava, la sua presenza le faceva soggezione. Qualche volte affondava nei suoi occhi verdi smeraldo, senza ascoltare le parole che uscivano da quelle labbra perfette. Adorava il suo sguardo ed il suo sorriso: quella punta del labbro che saliva, i denti bianchi che sfoderava. Bellissimo.                                                                                                                                                                                       

E anche Edward, anche se non lo avrebbe ammesso, molto spesso restava quasi stordito da Bella. Era così affascinante e apprezzava molti suoi lati del carattere, così tanto familiare. Si conoscevano appena, ma era come se entrambi provassero una rispettiva simpatia l’uno nei confronti dell’altro.                                         
<< Uh,scusa, non te l’ho chiesto, vuoi lo zucchero? >> chiese ad un tratto, lei. Edward annuì, ma mentre faceva per alzarsi, Bella lo superò avvicinandosi alla cucina. Allungò la mano, aprendo uno sportello, e distese le dita nel tentativo di afferrare il pacco di zucchero. Il ragazzo notò la difficoltà, così si alzò dalla sedia, le si avvicinò  rapidamente e prese quel sacco bianco.                                                                                                                                                      
In quel gesto, le dita affusolate della ragazza sfiorarono quelle magre del ragazzo, attirando i loro sguardi. Qualcosa tamburellò sotto la pelle di entrambi e tutti e due si guardarono, sbattendo le ciglia. Sentirono un singhiozzo, un gemito che si fece sentire all’interno dei loro petti.                                               
Quel contatto dette i brividi ad entrambi, ma quelli non erano semplici brividi, sembravano come degli … avvertimenti.                                                                                                                                                                 
Erano a poca distanza l’uno dal naso dell’altro, le mani che si toccavano quasi. Edward fissava Isabella intensamente, come ipnotizzato da qualcosa e non capì come aveva fatto fino ad allora a non notare i suoi occhi  bellissimi, bruni. Non seppe perché restò qualche secondo a fissarla, -si pentì, successivamente- ma era curioso, forse voleva risentire quel profumo buonissimo, quell’odore di biancospino, così fresco e delizioso.                                                                                                                                                          

Fu Bella la prima ad allontanarsi, il volto leggermente rosso, biascicando: << Grazie … >> Edward restò qualche secondo interdetto, un po’ frastornato: cosa stava facendo? Era come se improvvisamente qualcosa gli avesse fatto girare la testa. Scosse il capo, come per riprendersi e si rimise al tavolo, accompagnato da Isabella.                                                                                                                                                               
<< Quanti cucchiaini vuoi? >> chiese lei, cercando di togliere quell’imbarazzo venutosi a creare.                    
<< Due andranno benissimo, grazie. >> Gli porse la tazzina e bevvero insieme il caffè.                                                            
<< Grazie ancora per la sciarpa! Non so come ho fatto a lasciarla lì! >> esclamò, dopo un sorso di quel liquido. Edward sorrise, annuendo. Si guardò un po’ in giro notando i libri sparpagliati sul tavolo.                       
<< Stai studiando? >> chiese, interessato. Lei annuì, interdetta da quella luce negli occhi di Edward, che gli era appena spuntata.            
<< Purtroppo. Non ci capisco niente. >> esclamò, mogia.                                                                                                                                    
<< Cos’è, scusa? >>                                                                                                                                                                                   
<< Matematica. >> Edward drizzò la schiena, inclinando la testa. << Tieni, se vuoi. >> disse lei, spingendogli il libro di trecento pagine sotto gli occhi. Lui la guardò, un po’ imbarazzato, come se si vergognasse a fare ciò quello che avrebbe fatto.                                                                                                                                      
<< Non ti torna un problema? >> chiese, osservando attentamente il foglio.                                                                          
<< Questo, non riesco proprio a capirlo! >> fece, con una punta di fastidio, indicando il numero dell’esercizio.

Edward strinse gli occhi, prendendo un lapis e accucciandosi, per vedere meglio. Corrugò la fronte.                               
<< Ma è sul grafico dei logaritmi? Sono … Semplici.  >> guardò Bella come se fosse un imbecille. <<  Scusami, ma se è   y= f(x) = |log2 (4x -1/2) + 3 | Basta semplicemente traslare sull’asse delle x di due unità, sposti di tre unità i punti sull’asse delle ascisse, poi tutti i punti negativi della funzione li porti nel quadrante positivo. Infine aumenta il periodo di quattro π. Quasi stupido, no? >>

Aveva parlato con sicurezza e tranquillità, tanto al  punto che Bella si sentì quasi un’idiota.                       
Rispose un po’ tentennante, così Edward prese fiato ed iniziò a discutere.                                                       
Bella ascoltò con pazienza le spiegazioni successive di Edward, che si risultò un ottimo insegnate, il più bravo che avesse mai conosciuto, in matematica.  Riusciva a concludere ogni esercizio, problema, calcolo con semplicità, come poteva bere un bicchier d’acqua. La ragazza restò attenta ai suoi chiarimenti, guardando ammirata l’espressione seria, mai vista sul volto del ventenne.  Corrugava la fronte, le guance si colorivano un pochino, i suoi occhi iniziavano a brillare, ma fermi.                                                                       
Gli porse tutti gli esercizi che non le tornavano, mentre lui  seguiva le sue difficoltà.  Lei ascoltava attentamente, affascinata dalla bravura di quel ragazzo, che leggeva e risolveva sui fogli tutti i disegni aritmetici e geometrici, accompagnati da spiegazione curate e semplici.                                                                                                                                            

<< Hai capito? >> chiese dopo un discorso durato circa dieci minuti, con un sorriso sulle labbra.                                 
<< Più o meno. >> rispose, imbarazzata. Edward sospirò, cercando di non farsi sentire, non voleva umiliarla. << No, ma molto meglio di prima, davvero, grazie. Miracoli non puoi fare con me e la matematica. >> Edward rise, porgendo il libro alla ragazza. Bella guardò il volto dell’uomo, curiosa.               
<< Sei bravissimo. Come fai? >> chiese, ammirata.                                                                                                                 
<< Cosa? >> chiese, interdetto. Non gli piaceva ricevere i complimenti, capì.                                                                                               
<< Insomma, hai risolto tutto velocemente, come se non fosse niente e … Poi vedevo come ti brillavano gli occhi quando … >>             
 << Non mi brillavano gli occhi. >> protestò.                                                                                                                                            
<< Oh, sì che ti brillavano! >> dichiarò, sorridente. << Edward, davvero, sei molto bravo. Ti piace la matematica, vero? >> chiese, sporgendosi dalla sedia. Il ragazzo si irrigidì, un po’ infastidito. Non voleva quelle domande, riaprivano ferite troppo dolorose; quelle della sua unica passione, svanita in frantumi alla morte del padre.
<<  Sì, cioè no … E’ solo che … >>  abbassò lo sguardo.                                                                                                                                                 
<< Dovresti fare qualcosa. Hai mai pensato ad una università di matematica? >> chiese, naturale. Edward trattenne il fiato, immobile. Era da anni che non ci pensava all’università. Non ci aveva mai riflettuto? Pf, era stato anni a sognare l’università di matematica di New York, un posto finalmente dove si sarebbe trovato a suo agio, dove sarebbe stato circondato dai calcoli, la sua vita.                                                                  
<< No, no! Università … Non ce la farei … >> rispose, cupo. Era stupido pensare ad uno studio, non avrebbe mai potuto farlo, lui.                                                            
<< Ma ti piace, si vede! Risolvi calcoli lunghissimi come se nulla fosse! Hai un talento, davvero, perché non hai continuato gli studi? >> chiese lei, scrutando il viso dell’uomo.  Si mise un ciuffo dietro l’orecchio.                                                                                                                                                                                     

 << Non avevo voglia. >> rispose secco, nervoso. Si alzò dalla sedia, dando alla ragazza le spalle. Gli era salita, tutt’improvvisamente, una fastidiosa sensazione. Bella non riusciva a percepirla, però, e continuava a fargli  troppo invadenti, per i gusti del ragazzo.                                                                                                  
<< Dimmi per cosa, davvero. Era per l’insegnante che avevi al liceo? Forse non si rendeva bene conto, di chi aveva davanti. Sai anch’io … >> continuava a parlare, cercando di capire. Edward irrigidì il corpo, cercando di non essere sgarbato.                                                                    
<< No, Bella. Non è per quello. Problemi familiari. >> esclamò gelido. Odiava quelle domande, odiava quella voce in quel momento, odiava Bella, in quell’istante.                                                                                                        
<<  Ah, ehm … Scusa, problemi economici, forse … Scusa, non ho capito, però potresti  appellarti ad una assistenza … >>

<< Cazzo, Bella, non sono affari tuoi, va bene?! >>

Si girò di scatto, guardando in cagnesco la donna davanti a se, stringendo i pugni, con la mascella tesa. Bella sobbalzò, restando immobile, osservando quel volto che in meno di pochi secondi  era mutato diventando tirato, con gli occhi freddi. Perchè quella reazione così aggressiva? Restò qualche secondo in silenzio, senza togliere lo sguardo da quegli occhi verdi, quasi impaurita. Cosa aveva fatto di sbagliato?                                                                              
Poi Edward chinò il capo, scuotendo la testa, passandosi una mano nei capelli. Sbuffò, sentendosi improvvisamente in  colpa.                                                                                                                                                                                                        
<< Scusa, Bella, io non … >> alzò lo sguardo, con occhi pentiti, ma Isabella lo interruppe, fredda.                                                       
<< No, niente. Hai ragione. >>             

Si alzò e raggiunse le scale velocemente, nascondendo il viso al ragazzo.





*Woody Allen


***

Hola
, carissime! Come state? Rinizio scuola?
Eccomi qui con il settimo capitolo. Sto rabbrividendo: settimo capitolo, come ho fatto  mandarla avanti questa ff? :))
Prima di tutto mi scuso per il leggero ritardo con cui ho postato - un giorno- , ma spero di avervi abbastanza -almeno un pochino, pochino ...?- soddisfatte con questo capitolo. Personalmente mi piace di più rispetto a quello scorso, ma siete voi a giudicare!
Il prossimo aggiornamento spero sia in orario e vedremo i progressi della nostra coppietta...
Non vi sto ad annoiare, facendovi il riassunto del testo, tanto lo sapete già! Ditemi cosa ne pensate -compreso "fa schifo", "Non lo leggerò mai più...", "datti all'ippica ..."-
Un grosso bacio a tutti e  alla prossima!!
hiphicosty

PS. mi dispiace per non aver trovato il video della canzone. Leggete il testo, però, perchè mi sembra molto simile alla figura di Edward... A presto!

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