Le stelle quante sono? di hiphipcosty (/viewuser.php?uid=146686)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Secondo Capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto Capitolo ***
Capitolo 5: *** Quinto Capitolo ***
Capitolo 6: *** Sesto Capitolo ***
Capitolo 7: *** Settimo Capitolo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Fotissima
Prima
di iniziare, affermo subito che questi personaggi non mi appartengono,
ma sono proprietà della nostra carissima Stephenie Meyer;
questa storia è stata scritta senza alcuno scopo
di lucro.
Non so perchè, ma quando ho iniziato a scrivere il prologo,
ho pensato a questa canzone ...
Senza
riserva-Annalisa
io ti regalerò ogni singolo
risveglio la mattina
e poi lascerò i capelli
scivolarmi fra le dita
ti regalerò ogni singola carezza
quando è sera
ho imparato già
ad amarti senza più riserva alcuna.
<<
Secondo
te quante stelle ci sono nel cielo? >> chiese il piccolo
bambino,
indicando con la sua mano paffutella il cielo notturno. Isabella
strinse le
labbra in una
buffa smorfia, inclinando la testa come per pensarci.
<<
Non lo so >> rispose sincera. Edward, sempre tenendo il
volto all’insù, corrugò
la fronte.
<<
Secondo me ce n’è una per ognuno di noi, che ci
guarda e ci accompagna per
tutta la vita >> mormorò, voltandosi in
direzione dell'amica. Questa
gli sorrise, avvicinandosi un po’ di più a lui,
ancora disteso sul legnoso pavimento
della nave.
<<
Allora, qual è la tua? >> gli chiese,
guardandolo curiosa. Il bambino
indicò pronto una parte del cielo.
<< E’ proprio lì, la più
luminosa >> esclamò, fiero. Lei lo
guardò stupita, scansando
un ciuffo di boccoli castani che
le copriva un occhio.
<<
Allora la mia è accanto alla tua >> disse la
bambina, sicura di ciò che
aveva affermato. << Staranno sempre assieme, loro due,
vero? >>. Il
rossiccio fissò gli occhi della bambina intensamente, come
solo un migliore amico può fare.
<<
Certo,
per sempre. Come noi >>. Isabella fece un sorriso al suo
compagno di
avventura, prendendogli la mano e appoggiando la testa sulla sua
spalla. Si accucciarono
bene, bene, riparati da una cassa di legno che stava accanto al lato
dell’imbarcazione. Chiusero gli occhi, uno accanto
all’altro, in silenzio,
sapendo che se qualcuno li avesse scoperti fuori dalle brandine a notte
inoltrata, li avrebbe riempiti di sculaccioni.
<<
Ehi,
aspetta >> sussurrò il bambino, ricordatosi
improvvisamente di qualcosa.
Isabella si scansò, corrugando la fronte. Edward le sorrise,
tirando fuori un
pezzo di carta e mostrandoglielo. Questa la prese
tra le mani,
osservandola. Era una foto che ritraeva lei ed Edward, mano nella mano,
accanto
al pontile. Sorridevano e sembravano così felici.
<< Ce l’ha scattata mio padre, ieri. Te la
volevo regalare
>>. Anche se era buio, Isabella intuì che le
gote abbronzate del suo amico
avevano preso colore. Lei sorrise, ma scosse la testa.
<< No, non me la dare
tutta >> esclamò. Poi strappò la
foto in due parti, dando a Edward quella
che ritraeva lei e tenendo, invece, quella che raffigurava lui.
<< Almeno
ci ricorderemo per sempre l’uno dell’altro
>>.
Isabella sorrise, si
avvicinò alla guancia del bambino e gli posò un
indeciso, ma estremamente
tenero, bacio. Entrambi arrossirono, per poi abbracciarsi,
restando tutta la notte immobili, con i cuoricini che battevano forte.
Il
vento era
leggero e rendeva calda, l’aria dell’oceano. Piano,
piano, i respiri dei due
bambini divennero più pesanti. Presto entrambi si
abbandonarono tra le braccia
di Morfeo, cullati dal dolce movimento del mare azzurro, il loro
compagno
fidato, ma che presto sarebbe divenuto il loro peggior nemico.
***
Goodmorning!!!
How are you?
(oggi mi è
venuta voglia di parlare inglese, okay? :D) Eccomi quiii. Davvero
pensavate, che non avrei più scritto?! Pf, mi spiace per voi
...
XD
Una
nuova storia!! Come vi sembra? Ce l'avevo
già in mente quando stavo finendo la mia scorsa ff
e finalmente oggi l'ho pubblicata. Allora, questo è
un piccolissimio prologo, ma
vi posso garantire che il primo capitolo -che ho già
scritto-
è mooooolto lungo. Vi ripotete fare alla prossimo,
quindi!
Allora,
spero che abbiate capito inanzitutto la trama, purchè
travagliata. Volevo informarvi che la mia storia pur essendo
'particolare' e intrecciata non sarà molto difficile per
quanto
riguarda le relazione principale - ossia niente terzi personaggi che
metteranno i piedi tra le ruote a Ed e Bells, anche se ci
sarà
Jacob, il quale non occuperà un parte rivelante nel
racconto-.
Il prologo riporta ovviamente a quando loro due erano bambini, ma penso
-anche se non ne sono sicurissima- non ci sarà
più un
capitolo che riporterà al passato, oltre a questo.
Già dal
prossimo, infatti, vedremo la situazione, qualche anno dopo, dei due
bambini, ormai cresciuti. Ora però non vi posso dire
tutto!!!
Spero tanto che vi piaccia come inizio e diciamo che una recensionuccia
non mi offenderebbe troppo....!!
Bacionissimi
hiphipcosty
PS:
Vorrei informarvi, infine, che per ogni capitolo -o almeno spero sempre
di farlo- ci sarà una canzone all'inizio insieme ad un
piccolo
pezzo di essa. Queste non sono le mie preferite -affatto-, sono
solamente quelle che mi sento di più da
mettere nei
capitoli che scrivo... Insomma, vedrete più in là!
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Capitolo 2 *** Secondo Capitolo ***
Primo capitolo
Happy Hour-Ligabue
Dicono che tutto
sia comunque scritto
quindi tanto vale che non sudi
[...]
dicono che nasci solo per soffrire
ma se soffri bene vinci il premio
di consolazione
[...]
si può però morire vivendo sempre e solo
per sentito dire, si può però morire
per la fame che non hai
dicono che il cielo
ti fa stare in riga
che all'inferno si può far casino
mentre il purgatorio te lo devi proprio infliggere
<<
Vai,
stupida macchina! >> imprecò Edward, dando un
colpo secco al volante del
suo vecchio rottame. Fece pressione con il piede sul pedale
dell’acceleratore,
osservando la lancetta della velocità sul display che
raggiungeva cifre sempre
più alte, sfiorando i centottanta all’ora. Edward
diede un’occhiata furtiva
allo specchietto retrovisore, cercando di calcolare la distanza che
c’era tra
il suo mezzo e quello della polizia, che lo inseguiva da minuti.
Osservò che si
era aggiunta anche un’altra auto e che entrambe si stavano
avvicinando in modo
pericoloso, superando i limiti di velocità imposti dalla
sicurezza.
Tutto
ad un tratto una voce proveniente dall’esterno, lo
richiamò.
<<
Accosta
immediatamente, Toyota targata FM961CK. E’ un richiamo della
polizia, obbedisci
>>. Era una voce scura, sicuramente maschile,
che bloccò, per un
momento, il respiro al ragazzo. Era come se un singhiozzo
interrotto gli avesse
raggiunto la gola, facendolo sobbalzare. La sua lingua era divenuta
appiccicosa
e presto una sensazione sgradevole, simile a quella che gli avvertiva
il vomito,
gli invase lo stomaco. Quel gemito gli tolse il fiato, disorientandolo.
Per un
momento si sentì così nudo e vulnerabile, che
avrebbe voluto morire, pur di scappare
da quella situazione e ben presto una sensazione di sconfitta gli
invase la
testa.
Diede ancora un’occhiata ai poliziotti dietro di lui, ma quel
suono
ripetitivo della sirena che sembrava avvicinarsi sempre di
più, era
come un allarme che gli faceva capire che
non aveva via di scampo.
<<
Merda!
>> riuscì, a borbottare. Gli mancavano pochi
secondi per decidere se
accostare o azzardare nuovamente una fuga. Fu anche tentato di andare
fuori
strada, ma sapendo che il suo gesto non avrebbe allontanato la polizia,
bensì, solo
la sua morte, scosse la testa, rimuovendo
quei pensieri. Afferrò la bottiglia di birra che stava sul
sedile accanto al suo,
versandosene un po’. Il gusto amaro del liquido alcolico,
rimosse quella
sensazione di secco, all’interno della bocca. Gli
spuntò un ghigno divertito,
lanciando un’occhiata di sfida agli sbirri.
<<
Ti conviene
accostare, subito. L’intervento della
polizia potrebbe essere molto grave per te >>. Ora
il richiamo del poliziotto che
parlava attraverso un megafono si fece più duro e
determinato.
La sensazione di panico che percepiva Edward al petto, fu seguita poi
da quella di rassegnazione.
Non ce l’avrebbe mai fatta a scappare, gli sbirri
lo avrebbero raggiunto in poco tempo. Perlopiù cominciava a
essere privo di
energie e le immagini davanti a lui parevano, di tanto in tanto,
sfocate,
probabilmente a causa dell’effetto del troppo alcool.
Soffiò, innervosito, dispiaciuto
di non poter accendere una sigaretta, ciò di cui aveva
realmente bisogno in
quel momento.
Maledisse
tra se
e se Simon che era riuscito a convincerlo a vendere quelli stupidi
alcolici
ai quei ragazzi sedicenni. “ Ci farai soldi a
palate”, pensò alle sue parole,
stringendo la presa sul volante, come per controllarsi. Peccato che il
suo caro
amico non avesse tenuto conto della polizia, il loro unico ostacolo.E
così Edward si era ritrovato nella posto fissato, in
discoteca, per vendere le bibite. Fino all'arrivo della polizia.
Edward
sospirò, rinuciato e prese un altro sorso di Duff.
Si bagnò le labbra, ingoiando appena.
Con la coda dell’occhio vide
uno spazio libero e così, rallentando, accostò la
macchina al lato destro della
strada, seguito dalla polizia. Sbuffò, osservando i volti
adirati degli uomini
che stavano scendendo di macchina rapidamente. Spense il motore e
aprendo lo
sportello, fece per uscire. Immediatamente due poliziotti robusti gli
afferrarono la testa con violenza, prendendolo per i capelli.
Con un gesto
furtivo i due gli ghermirono le mani, unendole dietro la schiena e gli
sbatterono la faccia sulla macchina, placcandolo. La botta secca del
metallo
sulle labbra del ragazzo, lasciò su di esse un graffio
superficiale.
Improvvisamente Edward sentì un gusto di sangue fresco
diffondersi tra la lingua
e i denti, rendendogli la bocca appiccicaticcia. Sputò,
vicino agli sbirri,
schifato. Sentì una pesante mano, riabbassargli la testa
bruscamente, facendo
sfiorare una sua guancia con la superficie fredda del finestrino.
<<
Ehi,
calmi ragazzi >> mormorò, con il poco di fiato
che gli era rimasto, ma
sempre mantenendo il suo sguardo strafottente. Sempre rivolgendo le
spalle ai
poliziotti, sentì qualcuno nominare:
<< Fai
poco il simpatico, ragazzo. Sei nei guai >>. Ad Edward
non ci volle molto
per cogliere quella punta di cattiveria che trapelava dal suo tono e,
pronto,
imprecò a bassa voce.
Il suo compagno spostò Edward per
guardarlo in faccia, questa volta in modo meno violento ,imponendogli
di alzare
le braccia. Il ragazzo obbedì, ma una fitta improvvisa alla
testa, lo fece
barcollare. L’agente lo ignorò, iniziando a
cercare di vedere se avesse con se
qualche cosa di pericoloso, sotto i vestiti o tra le tasche. Gli
presero i
documenti e parlarono con la
caserma
della polizia, avvisandola del loro prossimo arrivo. Altri tre agenti,
invece,
scesero di macchina, aprendo il bagagliaio dell’auto
appartenente al
diciottenne. Sul volto di uno di questi, comparve un ghigno.
<< Ehi, Josh, guarda qui >>.
Il poliziotto burbero si allontanò da Edward, avvicinandosi
alla macchina. Quest’
ultimo gli lanciò un’occhiata carica
d’odio, come per annientarlo con uno
sguardo, mentre quello sussurrava, contento:
<<
Bingo!
Complimenti, figliolo: una bella scorta di birre, tutte fresche. Quanto
ci
avresti guadagnato se le avessi vendute tutte? >>
esclamò, con un sorriso
malizioso, guardando Edward. Questo non si fece intimidire e
mostrò uno dei suoi peggiori sorrisi, mormorando:
<< Sicuramente più del tuo stipendio con
questo lavoro
del cazzo >> rispose, con la testa alta. L’uomo
robusto si
avvicinò paurosamente al viso di Edward,
ancora sotto controllo dall’altro agente. Josh
puntò un dito sulla faccia del
ragazzo, mormorando a denti stretti.
<< Sì, ma legale
>>. Edward fissò
gli occhi minacciosi
e neri del poliziotto, scoppiando poi in una risata fragorosa. Faceva
sempre così: scopriva i denti bianchi, alzava le sopraciglia
e
gli occhi si spalancavano. Era questo il suo sorriso strafottente.
Gli agenti
presenti si diedero degli sguardi interrogatori, per comprendere la
situazione,
ma lo sbirro afferrò bruscamente le mani del ragazzo, ora
legate da delle
manette strette. Lo trascinò in macchina, prendendolo per i
capelli e poi lo
gettò sul sedile, con violenza.
<< Non credo che tu abbia tanto da ridere: possessione di
alcolici
non autorizzata, vendita di alcolici a minori e supero dei limiti di
velocità.
Pensa un po’ a quanti soldi dovrai sborsare, durante il
tragitto alla caserma
>> ghignò, per poi chiudere la portiera,
soddisfatto.
<<
Fanculo
>> mormorò Edward a denti stretti.
<<
Cullen,
questi sono i tuoi vestiti >> la guardia, porse al
ragazzo un pacco di
indumenti arancioni. Questi li afferrò, facendo un cenno
all’uomo a mo’ di
ringraziamento. L’agente condusse Edward nella cella accanto
all’ufficio,
aprendo la porta pesante e invitandolo ad entrare. Il ragazzo si
addentrò nella stanza accanto all'ufficio ed
immediatamente uno sgradevole odore di chiuso e di urina, invase le sue
narici.
Soffiò, disgustato, mettendosi sotto braccio la tuta.
<<
Hai mica un accendino? >> chiese Edward, facendo un
sorriso convincente
alla guardia. Questo alzò le sopraciglia, annoiato. Scosse
la testa,
borbottando qualcosa di incomprensibile simile ad un “ Non si
può fumare, qua
dentro”. Il ragazzo lo osservò nella sua tuta
azzurra, aderente al corpo. Aveva
le guancie rosse, ricoperte da una leggera barba e il suo volto
appariva così
stanco e trasandato. Sorrise, pensando acome sarebbe stato il suo, dato
il
fatto che non si guardava allo specchio da un sacco di tempo. Forse per
paura,
probabilmente; paura di scoprire chi fosse. Per cercare di chiudere gli
occhi
l’ennesima volta, facendo finta di non vedere cosa fosse
divenuto. Scosse la
testa, scansando quei pensieri; aveva altri problemi, al momento.
Si
portò i
vestiti al viso, annusandoli col naso. Si ritrasse disgustato,
sbuffando per
cacciare quel terribile odore miasma, che aveva invaso le sue narici.
Socchiuse
gli occhi nauseato, arricciando il naso in una smorfia schifata.
<<
Me li
devo proprio mettere? >> esclamò, alzando un
sopraciglio.
Ebbe come tutta
risposta un sordo strepito della porta, che si chiuse di scatto,
lasciando solo
il detenuto –ora si poteva definire in tal modo- nella cella.
Non
capiva l'esigenza di indossare degli sporchi e puzzolenti vestiti se,
molto probabilmente, avrebbe passato solo una notte in quella
cella.
Edward sospirò,
portandosi una mano sulla nuca e passandosela tra i capelli. Era un
gesto che
ripeteva sempre, quando si trovava in difficoltà. Si
immaginava sempre di
afferrare i suoi pensieri e problemi e farli volare via, lontani.
Purtroppo la
maggior parte delle volte, ciò non accadeva.
Si
mise a sedere
sulla sedia dura che stava a lato della stanza, cercando di rilassarsi.
Non
sembrava molto agitato, era convinto che in poco tempo sarebbe riuscito
ad
andarsene da quel posto. Non
era la
prima volta che si trovava in queste situazioni e
l’esperienza gli diceva che
si sarebbe risolto tutto in breve tempo. Per lui questo suo lato era
ottimismo,
per altri la sua dannatissima strafottenza.
Gettò
per terra
la tuta, rifiutando di indossarla e infilò la mano
nella tasca
dei suoi
pantaloni. Ne estrasse fuori un pacchetto di sigarette, dal quale ne
prese una,
portandosela in bocca. Notò con dispiacere che erano un po'
umide, ma non si fece troppe domande sul perchè. Era
riuscito a
procurarselo persuadendo la segretaria
dell’ufficio, ammiccando e mostrando splendidi sorrisi nella
la
sua direzione.
Peccato che non avesse trovato un accendino, pensò, per poi
giocare con la
sigaretta tra le labbra.
Diede
uno
sguardo attorno alle pareti, non trovando nulla che lo potesse
incuriosire.
Erano tutte molto scure e la luce filtrava da una finestrella esterna.
Quanta
gente era passata in quella stanza, pensò. Quante persone,
ladri, donne, uomini
e … delinquenti, avevano respirato e inspirato
l’aria di quell’angusta cella.
Edward però non si riteneva un delinquente. Lui non lo era.
Ciò che era
divenuto durante la sua vita, diceva, era solo una combinazione di
disgraziati episodi.
Egli era convinto che non si potesse scappare al destino, era sempre
quest’ultimo
che vinceva, utilizzando i suoi stupidi e maledetti scherzi. E il fato
gli
aveva fatto numerosi scherzi, questo ne era lui stesso testimone. A
cominciare
dalla morte del padre- una delle poche persone che sapevano apprezzarlo
per
quello che era -, alla malattia di sua madre, alle sue
difficoltà, alla sua
timidezza e tutte le perdite delle poche persone che lo comprendevano
davvero. Erano stati
tutti dei colpi duri, che Edward aveva dovuto sopportare, bevendoli e
facendoli scorrere sulla sua pelle come una medicina amara che ti
lascia quel
sapore di disgusto e disprezzo per tutto il resto dei tuoi giorni.
Edward
restò
immobile, immerso nei suoi pensieri, per qualche minuto, forse ora. Non
aveva
molto nitido lo svolgimento del tempo quando rifletteva e questo era
stato uno
dei suoi problemi più gravi. Si sdraiò sulla
panca legnosa, chiudendo gli occhi,
facendo grandi respiri. Poi, tutto ad un tratto, qualcuno lo
risvegliò.
<<
Ehi,
ragazzo. E’ arrivata la chiamata del tuo angelo custode,
spero
che riuscirai a trarne profitto >>. La guardia paffuta
gli
aprì la cella, facendolo
uscire. Questo gli riconsegnò la tuta e seguì il
poliziotto, che gli aveva, nel
frattempo, legato i polsi con delle manette. Corrugò la
fronte,
non capendo la
frase che aveva pronunciato.
<<
Chi
sarebbe? >> chiesi, con un po’ di riluttanza.
<<
Capo
Swan >>.
***
Isabella
stava
fischiettando da due ore lo stesso motivetto: la Primavera,
di Vivaldi.
Saltellava da una parte e l’altra della cucina, controllando
il cibo che
cuoceva e divertendosi a imitare quella frase musicale che amava. Le
appariva
così semplice, ma perfetta, apprezzabile anche dalle sue
orecchie, una delle
più ignoranti nell’ambito musicale. Si osservava
di tanto, in tanto allo
specchio, controllando di essere presentabile a suo padre.
Impastava, cuoceva,
friggeva, mettendo tutta se stessa per preparare una buona cena a
Charlie.
Quella sera gli aveva promesso che sarebbe riuscito a tornare a casa
dalla Push
presto, avendo, in tal modo, tempo per parlare, come non facevano da
molto.
Negli ultimi tempi, da quando suo padre era stato passato di grado, gli
impegni
di lavoro erano raddoppiati e capitava che molto spesso, dovesse
fuggire di
casa velocemente, per un’urgenza in caserma. Isabella odiava
quei momenti,
quando gli stupidi colleghi di Charlie, lo costringevano a separarli
nuovamente. E anche se lei non lo avrebbe mai ammesso, in fondo
pensava, in
quegli istanti, che per suo padre fosse più importante il
lavoro che la sua
unica figlia, nonché la
sola famiglia.
Aprì
il forno,
guardando a che punto era il pollo con patate, per poi annuire,
soddisfatta.
S’infilò i grossi guanti di pezza sulle mani per
tirare fuori il cibo
fumante. Afferrò
la teglia e fu
costretta a socchiudere gli occhi per proteggersi dall’ondata
di calore che
fuoriusciva da quel forno ardente. Sfilò con cautela il
vassoio dalla griglia e
proprio nel momento in cui pensò che il gioco fosse fatto,
un lembo della sua
pelle sul polso sfiorò una parete ustionante. Ad Isabella
sfuggì un grido
smorzato; sobbalzò, ma riuscì a salvare il cibo.
<<
Aaah!
>> urlò, portandosi alla bocca il polso ed
inumidendolo con la saliva
bagnata. Scosse la mano in un gesto infantile che gli aveva insegnato
suo
padre, da piccola, come se riuscisse –scuotendo ripetutamente
la mano- a far
scivolare il dolore di una bruciatura.
Isabella
guardò
con aria furiosa il pollo che le stava davanti, per poi sbuffare,
arrabbiata. Dopo,
prese un coltello e iniziò a tagliare la carne,
distribuendola in modo molto
elegante le varie fette sui piatti. Così, posò i
guanti sul tavolo e si mise ad aspettare
il ritorno di suo padre. Grazie al cielo l’attesa non fu
lunga –lei odiava
attendere- e quando sentì la serratura della porta muoversi,
la ragazza
andò ad accogliere Charlie, buttandogli le braccia al collo.
<<
Amore!
>> sussurrò il padre, con il volto immerso nei
capelli bruni della
figlia. Gli diede un bacio sulla guancia per poi posare il suo
giacchetto bagnato
sull’appendiabiti. Isabella fece una smorfia contrariata al
gesto del padre,
esclamando:
<<
Si
bagnerà tutto il pavimento, se la lasci qui
>>. Sbuffò, prendendo tra le
mani la giacca e posandola in bagno, sulla vasca.
<< E’ possibile che ti debba fare
la
baby-setter ancora a cinquant’anni? >> chiese
poi, con un sorriso divertito. Lui
ricambiò, arricciando i suoi baffi.
<<
Oh, non
dare la colpa a me, Bella! E’ questa terribile
città piovosa, che non ci fa
vedere un briciolo di sole da mesi >>
borbottò, arrabbiato. Isabella alzò
gli occhi al cielo e stava per ribattere qualcosa, quando il padre la
bloccò
alzando una mano, per richiamare il silenzio. Spostò
lentamente gli
occhi in direzione della cucina e piano,
piano un sorriso gli si aprì in volto.
<< Sento un … profumino
>>. Charlie inspirò, facendo una smorfia che
provocò la risata di sua
figlia. << Hai cucinato per me, tesoro! Non dovevi!
>>. Il capo
Swan lanciò un’occhiata tenera a Isabella, per poi
entrare velocemente in
cucina ed osservare la meravigliosa tavola che aveva preparato.
<< Ma …
perché? >> chiese lui, corrugando la fronte.
<<
Perché
cosa? >>.
<<
Tutto
questo favoloso … Per quale occasione? >>
tagliò corto radioso, osservando
il pollo sul tavolo. La ragazza lo guardò sorridente; sapeva
che il cibo era il
modo migliore per catturare suo padre.
<< Non c’è alcuna occasione.
E’ solo che è da tanto che non mangiamo
insieme, dato il fatto che la sera sei quasi sempre in caserma
>> affermò
Isabella, abbassando lo sguardo.
<< Cosa ho fatto per meritarmi una figlia
così? >>. I baffi
di Charlie si arricciarono.
<< Mettiti
a tavola, il pollo si raffredda sennò >>.
Charlie
obbedì
immediatamente, sedendosi sulla sedia, a capotavola. Versò
dell’acqua a sua
figlia e iniziarono a cenare. Chiacchierarono del più del
meno, assaggiando il
pollo delizioso.
<< Com’è andata alla Push?
>> chiese Isabella ad un certo
punto, cercando di controllare la voce. Charlie la guardò un
po’ interdetto,
sapendo che sua figlia non amava toccare quell’argomento.
<< Bene, siamo andati a
pesca. Billy sta meglio, sembra essersi ripreso dalla caduta
>> affermò
con voce scura. Bella annuì, fingendo di essere interessata.
Abbassò lo
sguardo, portandosi la forchetta alla bocca, per poi aggiungere:
<<
E …
Jacob? >>. Il padre la guardò stupita e non
riuscì a non leggere la
chiara sofferenza che le si era dipinta sul volto. Un’ombra
scura gli aveva
velato gli occhi, portandola a ricordi lontani gioiosi, ma anche
tremendamente
sofferenti. Charlie avvicinò lentamente una mano sul braccio
di sua figlia,
accarezzandoglielo delicatamente.
<< Amore, lascia stare >>
sussurrò, cupo. Quella risposta
dette noia a Bella. Aveva notato quel tono di
voce di suo padre, che non le piaceva. Aveva mormorato quelle parole
con un po’
di riluttanza, come per nasconderle qualcosa che le avrebbe fatto del
male, ma
riferendoglielo a bassa voce, per
alleggerire, attutendo il colpo, il dolore che le avrebbe
provocato la
risposta completa. Forse suo padre voleva dire “ Se la sta
spassando con
Victoria”, oppure “ Stanno così bene
insieme quei due!”.
Bella
scosse la
testa, muovendola di qualche millimetro, poi annuì.
Sospirò, cercando di
ritrovare quel sorriso che stava perdendo, toccando l'argomento "lui".
Perché
il
sorriso lo aveva perso da un po’ di tempo, Bella. Lo aveva
perso molte volte
per Jacob, il suo grande amico o la sua fiamma più amata.
Ancora non sapeva
come considerarlo quel ragazzo; non
lo
capiva. Forse era stato proprio questo la causa del loro allontanamento
dopo la
loro relazione. Forse Bella trattava Jacob come solo un amico, non come
un fidanzato.
Era questo che, probabilmente, aveva condotto Black a iniziare una
nuova
relazione con un’altra donna durante il loro rapporto,
pensava lei.
Però questo non lo aveva detto a Bella, no.
Aveva ben pesato di nascondergli
tutto, divertendosi con Victoria alle sue spalle, fingendo di amarla
ancora.
Come hai fatto ha non accorgertene?, pensava Bella, senza riuscire a
darsi una
risposta. O forse sì, una risposta c'era. Lui era
semplicemente ...Stronzo.
Così
un giorno
Isabella, volendo fare una sorpresa per il compleanno di Jake, si era
recata
alla Push. Peccato che, questa volta, accanto a Jacob non
c’era lei a baciarlo,
bensì la rossa. Stronzo,
anzi no, stronza.
Li aveva sorpresi così, uno tra le braccia
dell’altro,
con un’espressione negli occhi di pura felicità.
Ancora
le ferite
del tradimento non si erano rimarginate, sulla pelle di Bella. Si
vedevano
ancora, chiare, aperte, ma soprattutto dolorose. La lesione
più
profonda, però,
non era stata quella del tradimento, per Bella. La cosa che
l’aveva fatta più
soffrire era stato scoprire che Jacob e Victoria si amavano. Si amavano
davvero, forse ancor più di quanto lui aveva amato in
precedenza
Bella. E così
lei ogni volta che si trovava da sola pensava a cosa avesse sbagliato
con Jake,
quale errore aveva commesso. Per lui nessuno, ribadiva sempre, era solo
che tutto ad un tratto il suo sentimento si era affievolito.
Balle.
Si era scusato tanto con Isabella, ma ciò non aveva fatto
che crescere
in lei, ancor più odio e sofferenza. Piangeva, con il volto
rigato di lacrime,
pensando alle labbra di Jacob su quelle di Victoria; il suo fiato sul
suo;
immaginando ogni contatto, ogni parola, ogni sussurro che si
scambiavano,prendendosi gioco di Bella.
Il
suono del
telefono risvegliò Isabella dai pensieri. Fece per alzarsi,
ma Charlie la
precedette. Alzò la cornetta, schiarendosi la voce.
<<
Pronto?
>>. Seguì qualche secondo di silenzio, in cui
il volto del capo Swan si
indurì. Bella sospirò, innervosita: conosceva
quell’espressione. Charlie
corrugava la fronte, stringeva le labbra ed abbassava lo sguardo, ogni
volta
che chiamavano dalla polizia. Era un richiamo, un emergenza. Come
al
solito. Sarà stato il solito incidente, una banda di ladri o
il solito
delinquente, che si aggirava la notte tra le strade di Forks. Maledisse
le
varie tre possibilità, alzandosi ed iniziando a riporre il
cibo.
<<
Ah …
Mh, quanti anni ha? Ah, così giovane … Mh,
sì, sì. No, no, non è un problema.
Voi trattenetelo, vediamo cosa possiamo fare …
Sì, certo … Okay, a dopo. Ciao …
>>. Abbassò la cornetta, lanciando
un’occhiata supplichevole a sua
figlia.
<<
Bella,
io … >>. Questa lo interruppe, facendo un
debole sorriso.
<<
No, non
ti devi scusare, papà. Ci deve esser pur qualcuno che faccia
giustizia, in
questo paese, no? >>. Fece un debole sorriso. Charlie si
avvicinò alla figlia, posandole un
bacio.
<<
Hai
ragione >> mormorò. Recuperò il suo
giubbotto dal
bagno, lo indossò e poi
uscì di casa, promettendo di tornare presto. Isabella
sospirò, rassegnata,
continuando a sparecchiare la tavola. Improvvisamente un senso di
profondo
sconforto le era caduto sulle spalle. Ripose velocemente il cibo
avanzato nel frigorfero e pulì distrattamente la tavola, ora
sgombera da piatti e bicchieri.
Salì in camera, cercando sotto il letto quella
foto, la sua foto. Infilò la
mano sotto il materasso e l’afferrò,
per osservarla. Lo faceva sempre, quando era triste. Se la passava tra
le mani,
accarezzandola, baciandola. Era un’immagine strappata, non si
vedevano entrambi
gli obbiettivi. Aveva solamente una parte, che ritraeva un bambino
rossiccio,
che teneva la mano ad un altro. Aveva una leggera cicatrice
sull’indice. Non
sapeva chi fosse, ma quando lo guardava si sentiva in pace. Aveva un
volto
familiare, anche se non si ricordava neanche il suo nome. Quando la
osservava
si sentiva appartenente a qualcosa; era come –anche se non ne
capiva il motivo-
se si sentisse parte di quella foto, ma soprattutto di quel bambino.
Probabilmente
lo
aveva conosciuto in passato. Ricordava perfettamente ogni suo
dettaglio: i
capelli mossi, le labbra rosse, la carnagione chiara, gli occhi verdi
smeraldo
e anche la sua voce, bellissima, come se lo avesse conosciuto,
davvero. Era uno dei suoi pochi ricordi dell'infanzia, dopo l'incidente
in
mare, che le aveva strappato via entrambi i suoi genitori, quelli biologici.
Bella
non riusciva però a collocarlo in un contesto;
la sua immagine nei suoi pensieri era immobile, su uno sfondo
bianco e
lucente. Lo psicologo dell’orfanatrofio, dove era stata per
circa un anno dalla
sua perdita di memoria, diceva che probabilmente era suo fratello od un
amico. Non lo sapeva e non lo avrebbe saputo mai, pensava, ma comunque
ogni
sera -quando era piccola- si ritrovava a pensare a lui per
addormentarsi, con tutte le grida degli
altri bambini. Lui la riportava nel passato, in un mondo a lei quasi
del tutto sconosciuto e
riusciva così a rilassarsi. Aveva su di lei un potere
fortissimo, poiché era
l’unica cosa che le era rimasta da prima della sua adozione e
dopo l’incidente in
mare.
Ancora
non sapeva quanto poco tempo le mancasse per scoprire chi fosse quel
misterioso bambino e quanto egli fosse vicino a lei.
***
Eccomi
qua! Bene, arrivati al secondo capitolo. Qui si presentano due ragazzi
molto diversi -i bambini,
nel prologo-, cresciuti. Ancora, devo dire, non ci sono molte
informazioni, ma dovrete un po' aspettare per avere il quadro completo!
Intanto vediamo che Bella ancora conserva la foto, di cui
però
il soggetto non riconosce. Ah, mi scordavo! C'è anche Jacob,
in
questo capitolo! Ho cercato, brevemente, di raccontare la storia di lui
e Bella, e sinceramente non so se questo personaggio
comparirà
ancora. Come ho già detto, la storia sarà
concentrata solamente
su la coppia Edward/Bella.
Spero che vi sia piaciuto il capitolo!
Ringrazio moltissimo chi ha recensito e li invito a continuare! Grazie
ancora!
La
vostra
hiphipcosty
|
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Capitolo 3 *** Terzo Capitolo ***
Terzo capitolo
Salvami- Modà
E va sempre così...
che tanto indietro non si torna
E va sempre così...
che parli ma nessuno ascolta
E va sempre così...
che vuoi cambiare ma non servirà
soltanto una promessa..
Salvami e allunga le tue mani verso me
Prendimi e non lasciarmi sprofondare
Salvami ed insegnami ad amare come te
e ad essere migliore.
E va sempre così...
che tanto lei POI non ritorna
E va sempre così...
CHE aspetti il sole e cade pioggia
E va sempre così...
che credi di aver tempo e invece è già
invece è primavera
[..]
Edward
giocava
con la penna che aveva tra le dita, tenendo la testa bassa. Si passava
l’oggetto tra le mani, aspettando l’arrivo del capo
Swan.
Non
sapeva che
ore fossero, ma presumeva molto tardi vista la stanchezza che gli si
era
rovesciata improvvisamente addosso. Sinceramente non desiderava
fortemente
uscire presto da quella caserma, non gli importava molto. Era convinto
che
fuori sarebbe stato ancora peggio. Gli aspettava un mondo triste, come
il suo,
pieno di persone sbagliate, estremamente sbagliate.
Edward
non amava
stare con la gente e odiava soprattutto coloro che cercavano in tutti i
costi
di attaccare bottone con lui. Ma il ragazzo non gradiva parlare, gli
costava
fatica. A parere suo non serviva farlo, era solo una perdita di tempo.
Così si
rifugiava quasi ogni giorno in casa, ad un bar o tra le strade, in solitudine, riflettendo o
anche solo fumando.
Ecco, quello sì che era efficace per lui.
I
suoi giorni parevano così monotoni e uguali, costruiti su un
perfetto schema.
Peccato che lui odiasse le cose regolari, le detestava. Lui amava i
colpi di
scena, l’azione e aveva sempre apprezzato
quell’affascinante diversità che
distingue ogni essere o cosa dagli altri. Ed ora, per la famiglia o per
solamente sopravvivere era costretto a essere monotono,
a vivere una
vita ripetitiva. E questo non lo poteva sopportare. No.
Improvvisamente
la porta si aprì. Il gesto fece muovere l’aria,
facendo oscillare la lampadina
che stava sul tavolo della stanza.
Era molto triste quella piccola aula, probabilmente per scoraggiare e
impaurire
ogni persona che aveva seduto lì, al posto di Edward,
compreso lui.
Un
uomo baffuto
sulla cinquantina si presentò sulla soglia, con
un’aria abbastanza severa.
Aveva i capelli scompigliati e bagnati dalla pioggia che cadeva in
città. Era
vestito con una semplice camicia ed indossava dei pantaloni verdi,
simili a
quelli che il padre di Edward usava per andare a pesca. Le labbra del
ragazzo
si incresparono: quello non sembrava un agente di polizia.
Il poliziotto in
silenzio richiuse la porta e si sedette di fronte al ragazzo, che lo
aspettava
a braccia incrociate. Notò subito la punta infastidita che
si leggeva sul suo
volto, ma fece finta di niente: sapeva come trattare i tipi di quel
genere.
Aprì il fascicolo che la
signorina Westmaster gli aveva dato e lo posò sul tavolo.
Sulla scheda, in
copertina, vi era scritto con una grafia molto semplice: Edward
Antony
Cullen. Il capo Swan alzò un sopraciglio,
rivolgendosi al ragazzo di fronte
a se, rompendo finalmente il silenzio.
<<
Edward Cullen? >> chiese, guardandolo dritto negli occhi
verdi. Questo
fece un leggero cenno col capo, disinteressato. <<
Buonasera, sono
l’agente Charlie Swan >>. L’uomo gli
porse la mano, ma Edward lo guardò
storto, rifiutandola. Il poliziotto lo ignorò mettendosi
più comodo e
cominciando a leggere:
<< Bene,
bene, vediamo un po’ cosa abbiamo qua … Allora
… L’utente viene trovato alla
discoteca ‘The Vampires’ alle ore 23.19, sulla 134a
strada, insieme a di ragazzini
anonimi, attorno a lui … Okay …. Fare
sospetto, Bla, bla, bla … Viene inseguito con le auto della
polizia FG456 e
JI95.. Mh, mh …. Ah, supero della velocità
stabilita … Va be’ … Ecco! Vendita
di alcolici ai minori! >>.
Swan
tolse il dito dalla carta, con il quale seguiva le parole, per
incontrare lo
sguardo di Edward. Lo guardò trionfante, ma poi storse la
bocca.
<<
Birra. Da dove l’avevi presa? >> chiese. Edward
guardò l’agente.
<<
Da un amico >> esclamò con la sua voce roca.
L’agente strinse le
labbra:
<< Figliolo, potresti essere un po’
più preciso? >> chiese,
con una punta sarcastica. Il ragazzo non esitò:
<< Simon
Sattles >>. Non gli importava se questo sarebbe finito
nei casini; era
anche colpa sua se Edward si trovava ad un interrogatorio alla centrale
di
polizia.
<< Conoscevi i ragazzi a cui hai venduto quegli alcolici?
>>.
<<
Mai visti prima >> esclamò, sbuffando.
<<
Hai solo venduto birra? Sì, insomma, vendevi anche qualche
altra sostanza …?
>> chiese, rmanendo un po’ sul vago
l’agente. Edward corrugò la fronte,
per poi ribattere:
<< Io non faccio
uso di certe cose … >>. Il tono del ragazzo
non piaceva al
poliziotto:
non sembrava molto sicuro. Nella sua voce trapelava una punta di
ironia, come se il ragazzo si stesse un po' prendendo gioco del
più vecchio
Passò
qualche
secondo, mentre l'agente rifletteva. Guardò Edward,
inclinando la testa, come per
cogliere qualcosa che gli sfuggiva in quel momento:
<<
Quanti anni hai, Edward? >> mormorò. Quel tono
confidenziale non piaceva
al giovane, ma si vide costretto a rispondere.
<< Ventuno
>>.
<<
Perché, allora? >> gli chiese,un po’
affranto. Edward corrugò la fronte,non
riuscendo a comprendere.
<<
Perché cosa? >>. Charlie si mise una mano tra
i capelli, sospirando.
<<
Io mi chiedo il
perché ti ritrovi in queste situazioni. Così
giovane. Insomma, hai già qualche
piccolo precedente, come si vede da queste pagine: qualche furtarello,
in più
delle risse a scuola, sospensioni. Ma perché? Hai una vita
davanti, figliolo
>> mormorò, dispiaciuto.
Sul volto
di Edward comparve un sorriso beffardo.
<< Ho una vita davanti …
>> ripeté, sorridendo triste.
<< Lei non sa che vita ho, io
>> concluse, duro.
<< Di
vite, ne ho viste tante >> ribatté pronto
l’agente. << E ne ho
visto tante disfarsi. Con le proprie mani. E anche tu, mi sa, stai
iniziando a
farlo >>. I due uomini restarono in silenzio per qualche
istante, mentre
entrambi riflettevano. Il più giovane tirò fuori
una sigaretta, mettendosela
tra le labbra.
<<
Ha da accendere? >> borbottò, alzando gli
occhi. Il poliziotto esitò un
attimo, ma poi estrasse l’accendino dal taschino e accese la
cicca. Edward si
appoggiò sullo schienale della sedia, rilassando le gambe.
Il sapore di tabacco
gli invase la lingua, passando poi per tutta la gola,
infiammandogliela. Espirò,
soddisfatto.
<< Non è colpa mia se la mia vita
è così. Alcune volte parte fin
dall’inizio con il piede sbagliato, sa? >>
sussurrò un po’ innervosito,
tenendo lo sguardo basso.
<< Be’ certo, ma se uno
contribuisce dandosi dei calci da solo …
>>.
<< E’ facile dirlo per lei, che suppongo abbia
un lavoro, una
famiglia, amici. Le sarà stato molto più facile
>> strinse i denti.
<<
Oh,
questo lo dici tu >> esclamò il capo Swan,
drizzandosi. << La mia
vita, non è stata affatto facile, sai? Ho avuto la forza di
farmi coraggio,
però >>. Charlie fissò dritto negli
occhi il ragazzo.
<<
Quando cazzo posso uscire di qui? >> chiese Edward,
annoiato.
<< Quando lo decidiamo noi >> rispose duro
l’uomo davanti a
se. Edward fece un sorrisetto e scosse la testa.
<<
Ecco,
questo odio degli sbirri >> sbuffò,
togliendosi la sigaretta dalle
labbra. << Il vostro fare così superiore,
così … >>. Si interruppe,
sapendo che le sue parole avrebbero solo peggiorato la sua situazione.
Scosse
la testa, abbassando lo sguardo.
<<
Così, cosa? >> richiamò
l’agente Edward. Questo stette in silenzio, con
lo sguardo rivolto al pavimento, avvolto in una nube di fumo. Quel suo fare
così strafottente, cominciava a
dargli noia. << Allora tu? Come sei? Sai che per colpa
tua ho dovuto
rinunciare a stare a casa mia, a cena con mia figlia, rilassandomi per
qualche
minuto? >> esclamò, mettendo una mano sul
tavolo. Cercò di controllarsi,
cominciando a lisciarsi i baffi.
<< Io non le ho chiesto di venire
>> disse il ragazzo con
una punta di superiorità. Il poliziotto stette qualche
secondo in silenzio, ma
poi gli scappò un sorrisetto.
<<
Perché ti
sto antipatico? >> chiese,
guardando dritto negli occhi Edward. Questo si avvicinò di
nuovo la sigaretta
alle labbra, rispondendo:
<<
Mi stanno antipatici tutti gli sbirri >>.
<<
Perché? >> mormorò Charlie
avvicinandosi più al ventunenne, come per
penetrare in lui, al fine di comprenderlo meglio.
<<
Perché sono
tutti stronzi >>.
Charlie
guardò
meglio chi aveva di fronte, studiandolo in ogni dettaglio. Ne aveva
visti tanti
di tipi, ma mai uno come lui. Era un ragazzo affascinante, con dei
piccoli
precedenti, ma non aveva la classica faccia da delinquente. Si chiedeva
il perché
di quella brutta strada che stava iniziando ad intraprendere, senza
però
riuscire a darsi una risposta. Non sembrava uno stupido quello, no;
anzi, pareva
molto furbo.
Tutto
ad un tratto Edward, inconsciamente, si
mise una mano tra i capelli tirandoseli leggermente.
Charlie smise di
respirare per un momento, colto all’improvviso. Quel gesto lo
sorprese, lo
scosse, stordendolo un po’. Poteva sembrare una cosa stupida,
ma quel cenno gli
aveva ricordato il suo Matt. La sua immagine si era
fatta spazio nella testa
e Charlie si era ricordato di quando anche suo figlio lo faceva. Lo
ripeteva sempre,
quando era nervoso, sottopressione. E
tutto ad un tratto, anche se sapeva che non avrebbe dovuto farlo,
collegò
Edward a suo figlio Matt. In effetti c’era in quel fanciullo,
qualcosa che lo
ricordasse. I suoi occhi, verdi come quelli di Matt, la sua stazza, il
suo
carattere così testardo.
Sì, gli aveva ricordato lui. Il suo amato bambino, che
nonostante avesse vent’anni al momento della morte, ostinava
a chiamarlo così. Bambino.
Perché per un genitore, si sa, i propri figli rimangono
sempre dei ragazzini. Come
se riuscissero sempre a proteggerli da ogni pericolo, come si
può fare con un
cucciolo oppure, appunto, quando i figli sono ancora piccoli. Ma
Charlie non
era riuscito a proteggerlo, non aveva potuto farlo. E così
la vita glielo aveva
portato via, in un incidente in moto, una notte d’estate.
“Ha avuto un trauma
alla testa, non aveva il casco. Forse se lo avesse indossato, si
sarebbe
salvato” dissero i dottori. Grazie, grazie mille.
Charlie
si era sentito in colpa,
per non averlo protetto, aiutato, per non essere stato lì al
momento della sua
morte, per non avergli detto quella sera “Mettiti il
casco”.
Era stato male
per mesi, anni, a fianco di sua moglie, piangendo insieme a lei, spalla
contro
spalla. Finché un giorno, insieme, decisero di iniziare una
nuova vita, scegliendo,
come prima tappa, proprio
Isabella. La loro nuova luce, la sua luce. Alcune
volte si riteneva egoista,
pensando che avesse adottato Isabella, solo per rimpiazzare Matt. Ma
non era
vero; con la sua bambina, non aveva rimpiazzato Matt. Lui viveva ancora
in suo
padre, lì, nel mezzo del suo
cuore. Per sempre.
Ed ora si
ritrovava a guardare Edward come un alieno. Gli aveva suscitato tanti
ricordi
ed emozioni, tutti assieme. Improvvisamente provò una
profonda pena nei suoi
confronti, gli sembrò, tutto ad un tratto, così
vulnerabile. Il senso paterno
si fece avanti, lottando contro tutte le sue forze. Forse Cullen era
davvero un
ragazzo ‘sfortunato’. Forse la sua vita era
iniziata con il piede sbagliato,
come diceva lui. Non aveva avuto un aiuto, un’educazione, una
possibilità.
<<
E se io
non fossi stronzo? >> chiese lui, con volto serio. Edward
guardò gli
occhi dell’agente.
<<
Gli sbirri sono tutti della stessa razza … >>
rispose lui, stanco.
<< Giudica te >>. Il
poliziotto mise le mani sul banco, per
poi iniziare con un mezzo sorriso sulle labbra. << Ti
propongo un affare
e forse ti dimostrerò che non tutti i poliziotti sono degli
stronzi, eh? Allora,
mettiamo conto che io voglia aiutarti …
Voglio solo provare a
darti una possibilità, per tentare di salvarti
>>. Edward sbuffò, sentendo
pronunciare quel verbo. Charlie stette qualche secondo in silenzio.
<< In
caserma ci
servirebbe qualche uomo
forte, uno imponente, che ci aiuti o come guardia. Niente di che, solo
una mano
in casi un po’ … rischiosi >> storse
la testa, indicando quel po’, avvicinando
l’indice col pollice. << Stiamo cercando, solo
appunto per favorire il
nostro lavoro, ma non ce ne sono molti >>.
<<
Ed io che cazzo centro? >> chiese un po’
spazientito Edward.
<<
Be’, tu potresti essere uno di questi. Sei abbastanza
imponente, ci potresti
servire, qui saresti utile. Invece di scontare la tua pena dietro le
sbarre … >>
indicò la porta, in direzione della cella da dove il ragazzo
era venuto.
<< …
verresti ad aiutarci,
impegnandoti nel sociale >>. Edward
ci pensò un momento, togliendosi
la sigaretta dalle labbra e corrugando la fronte.
<< E’
legale? >>. Charlie stette un momento in silenzio, per
poi
rispondere:
<< Be’, sì …
più o meno. Invece di nuocere la società, la
aiuti,
facilitando la sicurezza pubblica. Sconti lo stesso la tua pena, in
modo più
educativo >>. Edward alzò un sopraciglio, poco
convinto.
<< Ci dovrebbe andar di mezzo un
giudice, lo sa meglio di me … >>
esclamò lui.
<< Vuoi che questo accada? >> rispose
pronto il poliziotto.
Edward ebbe un tuffo al cuore, immaginando la reazione di sua madre se
fosse
venuta a saperlo. Un senso di profondo sconforto e vergogna gli invase
il
petto.
<<
No, no …
>>. Scosse la testa con energia. Ci fu qualche minuti di
silenzio, poi
Edward riprese.
<< Qual
è la fregatura? >>. Charlie corrugò
la fronte, colto all’improvviso.
<< Non c’è alcuna
fregatura, Edward. Non so se tu le hai mai
sentite o mai fatte, ma queste vengono comunemente chiamate gentilezze
>>.
Edward
non
riuscì a non fare un sorrisetto divertito. L’uomo
davanti a se tese una mano,
alzando un sopraciglio. Lui stette qualche secondo in silenzio, a
decidere se sarebbe stata cosa
giusta accettare o no. Si tolse la sigaretta, ormai del tutto
consumata, e la
spense nel posacenere. Guardò gli occhi neri del capo e poi
gli strinse la mano.
<<
Affare fatto >>.
**
Edward
uscì dalla stanza sbuffando, seguito
dall’agente Swan.
<<
Ti contatteremo prossimamente, Cullen. Poi ti spiegherò con
un
po’ più calma, okay? >>
L’uomo baffuto sorrise, posando
la sua mano sulla spalla del ragazzo.
<< Ovviamente il tuo caso lo tratterò io
personalmente, quindi sarai sempre
sotto la mia sorveglianza, più o meno. Molto
probabilmente, ci faremo
risentire domani mattina. Tu, nel frattempo, cerca di non metterti in
altri
guai.>>. Lanciò un’occhiata seria ad
Edward, con la quale quest’ultimo
capì che non stava affatto scherzando. Charlie fece un cenno
la testa a mo’ di
saluto e poi si allontanò, infilandosi la sua giacca.
<<
Ehi, aspetti! >> Edward lo bloccò,
richiamandolo. << Io ora cosa
faccio? >> chiese, un po’ spaesato. Charlie lo
guardò, serio in volto.
<< Abbiamo chiamato
tua madre, ti sta aspettando fuori >>. Edward
sentì improvvisamente il
sangue arrivargli al cervello e cominciarono a prudergli le mani. Ci fu
come
un’onda di energia elettrica che si gli partì dai
piedi per poi colpirlo alla
testa, con un fitta improvvisa.
<< Cosa?
>> esclamò, guardando in cagnesco il
poliziotto. << Vi avevo detto
di non metterla di mezzo … >>. Charlie scosse
la testa, interrompendolo:
<< Qualche
familiare deve essere avvisato … >>.
<<
Vi rendete conto che spavento le avrete fatto prendere?
>> Urlò
arrabbiato, serrando la mascella. Aveva tanta voglia di prendere per il
bavero
della camicia il poliziotto, sbattendolo alla parete e fu convinto che
se non
si fosse trovato in quell’ambiente, in quel preciso istante,
l’avrebbe davvero
fatto.
<<
Ascolta, Edward. Non ti preoccupare gli abbiamo chiarito noi la situazi
… >>.
<< Non. mi chiami. Edward. >> disse tra i
denti. << Lei lo sa che mia madre è malata?!
>> sibilò ,
cercando di
controllarsi. Charlie
fu preso alla
sprovvista, ma non disse nulla, restando in piedi di fronte al ragazzo. Edward scosse la testa, alzando la
mano, per poi fuggire dirigendosi
velocemente in sala d’attesa. Se fosse rimasto ancora
lì per altri minuti non
sapeva se sarebbe riuscito a tenere le mani a freno.
Che
andasse a farsi fottere quel maledetto poliziotto sonoquiperaiutarti!
Ad
Edward Cullen non serviva una mano, ne una spalla su
cui fare affidamento. Dalla poca esperienza
che aveva avuto nella vita, aveva capito che delle persone non
c’era da fidarsi
e lui sempre così aveva fatto. Non gli piaceva
quell’uomo, non gli andava a
genio. A lui non serviva nessuno, sapeva cavarsela perfettamente da
solo e
sempre se l’era cavata. Quasi, diciamo.
Raggiunse
la sala d’ingresso e cercò con lo sguardo sua
madre. Non ci volle molto per
riconoscerla. Era lì, seduta su una sedia al lato della
stanza con gli occhi
fissi nel vuoto, rivolti al pavimento. Edward la guardò
silenziosamente e
perse un battito, per un secondo. Aveva una
forma curva e smilza, sembrava solo pelle e ossa e dalla carnagione
della sua
pelle si poteva intuire il suo stato di salute poco positivo.
Il ragazzo scrutò gli occhi della madre, una volta azzurri, che splendevano
sotto la luce del
sole, ed ora ricoperti da un velo biancastro che rendeva il loro colore
più
cupo, quasi grigio. Vide i suoi capelli, principale caratteristica
della sua
bellezza, una volta raccolti accuratamente in una crocchia perfetta, ed
ora,
invece, pochi e distrattamente rilasciati sulle spalle. Il figlio
ricordò il
volto della madre in passato dolce, il pozzo di pace che da piccolo
Edward
trovava in esso, ora scavato da rughe profonde e da un velo di
tristezza che
invecchiava ed induriva ancora di più
l’espressione della povera Esme.
Edward sospirò,
provando un tuffo al cuore, per poi avvicinarsi alla figura,
cautamente. Lei
non sembrò accorgersi del figlio finché questo
non le posò una mano sulla
spalla, riscuotendola dai pensieri. Esme alla vista del ragazzo si
buttò tra
le sue braccia,
rifugiandosi nel suo
petto.
<< Amore …
>> sussurrò, sul collo del figlio. Edward si
spaventò pure dell’abbraccio, così
debole, che non gli ricordava sua madre.
Perché probabilmente lei non lo era, quella se ne era andata
tanto tempo fa.
Restarono fermi in piedi per qualche secondo, l’uno tra le
braccia dell’altro.
Edward la cullava, le dava dei baci sui capelli, mormorando
“E’ tutto apposto,
tutto finito …”, mentre l’altra
piangeva, si consolava tra le braccia del
figlio, dicendogli quanto fosse preoccupata.
Il ragazzo si sentì per l’ennesima
volta lui, il genitore, mentre sua madre la figlia.
<<
Perché, tesoro? P-perché mi fai questo? Ero
spaventata … la polizia … a c-casa
… >> singhiozzò la madre, ancora
avvolta tra le braccia del figlio.
Edward sbuffò innervosito, cercando di non farsi sentire da
Esme. Forse con
quel soffio volle cacciare le lacrime che sentiva frizzargli gli occhi
oppure volle
allontanare quel senso di vergogna che stava facendosi spazio nel suo
petto.
Edward
allontanò Esme dal suo petto, cercando di fare un mezzo
sorriso.
<< Non dovevi venire … >>
esclamò, guardandola più seria. Esme
sembrò non sentire la frase di suo
figlio, poiché la sua attenzione era stata catturata dal suo
volto.
<< Cosa hai fatto qua? >>
mormorò, con un soffio, spaventata.
Esme avvicinò un indice sulla guancia destra di Edward,
toccandogli la ferita.
Questo si ritrasse, provando un fastidioso pizzicorino frizzante.
<< Ahi >> protestò, ma la madre
continuò a sfiorare tutte le
zone lese, finché il figlio non le allontanò la
mano. << Come te le sei
fatte? >> chiese, preoccupata. Edward non rispose,
sospirando. Prese la
mano di sua madre e uscirono dall’edificio, addentrandosi
nella buia
città.
<<
Andiamo a casa, mamma >>.
Charlie
continuava a battere le dita sul volante, nervoso. Osservava
l’acqua cadere sul
vetro della sua macchina, scendendo come un’ossessa. Era da
settimane che la
pioggia non dava tregua a Forks; aveva sentito, però, al
meteo che
probabilmente il giorno seguente il tempo sarebbe migliorato.
Charlie,
soffiò, schiarendosi poi la gola. Era un po’ teso,
forse più preoccupato, per
l’incontro di quella sera. Quel ragazzo lo aveva
letteralmente scosso,
ricordandogli suo figlio Matt. Non sapeva neanche se avesse fatto bene
a dargli
una possibilità e quanto, alla fine, al ragazzo interessasse
davvero. In
effetti il volto di Cullen non era minimamente cambiato dopo che
l’agente gli
aveva rivelato le sue intenzioni: sempre quella punta di strafottenza e
il suo
ghigno solito sulle labbra. Lo aveva visto provarci anche con la
segretaria, al
momento del saluto. Però … Però
c’era qualcosa che spingeva in Charlie ad
aiutarlo. Sarà stato il ricordo di Matt, ma forse qualcosa
di più. Probabilmente
aveva avuto un senso di compassione davanti al figliolo, ma
… era come se sapesse
che dietro quella figura così dura e arrogante, celasse un
povero ragazzo
solo.
Decise però
che per quella sera le riflessioni erano state abbastanza e che avrebbe
smesso
di rimuginare sul caso. Così, raggiunto il parcheggio di
casa sua, riparandosi
dalla pioggia, entrò in casa. Sperò che Bella
fosse ancora sveglia, ma
osservando l’orologio che batteva le una di notte, scosse la
testa. Così, in
punta dei piedi, entrò nella sua cameretta.
La
vide lì, nel suo letto, sotto le coperte, con
un’espressione in volto di pura
serenità. La guardò attentamente, godendo della
sua bellezza. Che cara, pensò,
aveva organizzato tutta la cena per lui. Di certo non se lo meritava,
ma quella
era proprio sua figlia. Ed ancora non ci credeva.
Posò un dolce bacio sulla guancia della sua bambina e
andò via,
augurandole una buona notte.
***
Bella
aprì gli occhi lentamente, assumendo una buffa espressione
sul volto. Si pentì
subito di averlo fatto, accecata dai raggi solari che filtravano dalla
finestra
di camera sua. Per l’ennesima volta si era scordata di
chiudere la serranda la
sera precedente. Socchiuse gli occhi, sentendoli improvvisamente
frizzare e si
stiracchiò, muovendo le gambe. Lo faceva sempre, ogni
mattina, fin da quando
era piccola. Ricordava ancora le dolci parole di sua madre, Renee,
quando ella
dichiarava che assomigliasse ad una piccola scimmietta, al risveglio.
Le scappò
un leggero soffio dalle labbra rosse, al ricordo di sua mamma, quella adottiva.
Scansò
un ciuffo di capelli che le era caduto sul volto e, barcollando, si
alzò. Cercò
di non perdere l’equilibrio, appoggiandosi alla parete gialla
della sua stanza
e maledisse ancora la sua goffaggine, che la rendeva ridicola in ogni
sua
movenza. Si avvicinò alla scrivania e si fermò
davanti ad essa, osservando la
lettera che vi stava sopra. Sarà stata la venticinquesima
volta che lo faceva?
Eppure ogni volta che guardava quel foglio bianco, le emozioni erano le
stesse.
Una sensazione strana gli invadeva lo stomaco e sentiva
l’esigenza di
deglutire in quel momento. La prendeva tra le mani e stava alcuni
secondi a
guardarla e a studiarla. Era come una fissazione per lei, scrutare
attentamente
ogni oggetto che aveva tra le mani. Le dava sicurezza, la rendeva
più
tranquilla; assomigliava quasi ad un gesto scaramantico.
Così passava un dito
ai bordi del foglio, annusava il tipo di carta e osservava il colore
che aveva.
In questo modo, fece
anche quella volta.
Si passò la pagina sulla guancia tastandola e catturando
ogni minimo
particolare. Mise il foglio tra il suo pollice e l'indice e fece
pressione, guardando lo spessore.
Quel
documento le piaceva, aveva un buon odore e
l’inchiostro era
dato linearmente, senza un minimo sbaffo od errore di stampa. Lesse la
scritta
in cima, Gentile Signorina Swan . Come le piaceva
quella grafia, quelle lettere, quel Gentile ... la
faceva
impazzire!
Posò con cura lo scritto sul tavolo e prese un grande
respiro. Un
sorriso gli si increspò sulle labbra, forse emozionata ma,
probabilmente, più
soddisfatta. Era sicura che avrebbe riletto e riletto, ancora una
volta, quelle
parole; non si sarebbe fermata più. La rendevano, frase per
frase, ancora più
felice, contenta e
beata. Si sentiva
come una piccola bambina a cui avevano dato il trofeo della corsa
campestre
dell’anno. In effetti assomigliava ad un trofeo, quello.
Le
era arrivata il mattino precedente con la sua più totale
sorpresa. Aveva preso
tutte le inutili lettere che ogni giorno Harry, il postino, portava a
lei e suo
padre e le aveva messe sul tavolo di cucina. Finché non si
era accorta di
quella busta. Ogni
volta che ci
pensava sentiva un pizzicorino alle mani e la forte esigenza di urlarlo
al
tutto il mondo.
Scosse
la testa, convinta di esagerare con tutta quell’euforia.
Così, mise ad un lato
–poco in vista- della scrivania la busta e fece per uscire.
Si avvicinò alla
porta, ma prima di varcare la soglia,diede un’ultima occhiata
a quel documento.
“Ammissione
onoraria alla Yale University”.
<<
Oh, Bella! E’ …. È meraviglioso!
>> urlò Angela, agitando le mani in modo
frenetico. Bella fece un ampio sorriso, per poi abbassare le braccia
dell’amica, arrossendo lievemente.
<< Sh, non
urlare, Angi
>> disse a bassa voce, scrutata dallo sguardo entusiasta
dell’amica,
mentre i passanti delle strade cittadine di Forks lanciavano occhiate
spaventate a quella coppia.
<< Non dovrei urlare?! Bella, ma stai scherzando! Sei
stata
ammessa ad una delle università più facoltose di
tutta America! Dobbiamo dirlo
a tutto il vicinato! Oddio, ti giuro, non ci posso credere!
>>. Gli occhi
di Angela erano lucenti, brillavano come non mai, come se chi fosse
stata
ammessa fosse proprio lei. << Sei bravissima, Bells, sei
un mito! Una
semplice cittadina di Forks che viene ammessa alla Yale
University! Ti
vedo già lì, con tutti i secchioni di America
… Ma lo sai chi ci è andato
all’università di Yale? George Bush,
Bill Clinton, Gerald Ford … Tutti
presidenti degli Stati Uniti! Ecco, secondo me, questo è
un segno! Forse
anche tu potrai diventare Presidente! T’immagini? Swan, la
presiden … >>.
Ad Isabella
scappò una risatina, notando
la grande fantasia della sua migliore amica , ma la bloccò
prima che potesse
ancora sparare stupidaggini.
<<
Ehi, ora non esagerare …
Non ho intenzione di buttarmi in politica, eh? Una cosa
però, proprio
riguardante questo … >> . Isabella assunse
tutto ad un tratto uno sguardo
più serio, duro. << Ti prego, non dire a
nessuno … dell’ammissione >>.
Gli occhi neri dell’amica la guardarono sorpresa:
<< Perché, scusa? >>.
<< Non lo so è che … Insomma,
è meglio che non si sappia. Per ora,
dico >>. Le parole di Isabella vennero pronunciate con
poca sicurezza, ma
Angela lasciò stare –forse non notò
neanche quel velo impercettibile di
incertezza-, troppo emozionata della
notizia,
per preoccuparsi degli strani atteggiamenti della compagna.
<<
Okay, come vuoi tu. Allora, tuo padre cosa ti ha detto?
>>
chiese, con un sorriso entusiasta sulle labbra. Isabella
abbassò il capo, un
po’ in imbarazzo.
<< Charlie non sa nulla >>
disse tutto d’un fiato.
<< Cosa? >> chiese, come se non avesse
capito bene ciò che
aveva esclamato l’amica.
Bella
sospirò.
<< Non gliel'ho detto.Ascolta,
non deve saperlo lui. Ancora è troppo
presto … >>. Angela la
interruppe, sgranando gli occhi.
<<
Stai scherzando, vero? >> esclamò indignata.
<< Tuo padre sarebbe
l’uomo più felice del mondo, se glielo dicessi!
Perché non lo hai fatto? >>.
<<
Angela, ancora non ho
deciso nulla! >> rispose, con tono più deciso.
<< Quando feci il
test per entrare, lo feci solo come un tentativo. Ero sicura che non
sarei
riuscita a passare; lo avevo preso solo come uno scherzo! Non avevo
pianificato
nulla e ancora non ho pianificato nulla. Quando
è arrivata la lettera
ieri pomeriggio, sono stata, certamente felice, ma … Non so,
ecco, se ci andrò
mai! Non l’avevo mai presa come possibilità
… >>.
<<
Be’, allora prendila ora, come possibilità!
>>. Angela stette
qualche secondo in silenzio, per osservare il volto di Isabella.
<<
Insomma Bells, sai quanti ragazzi desidererebbero essere al tuo posto?
Hai
un’occasione meravigliosa! Cavolo, Yale è sempre
Yale! Secondo me ti stai
facendo solo problemi inutili! >> concluse Angela,
continuando a
camminare lungo il marciapiede che avrebbe portato lei e la sua
compagna a
scuola.
<<
Sì, forse hai ragione però ….
C’è anche un altro problema …
mio padre.
Dirglielo ora della lettera non servirebbe a nulla. Lo farei
preoccupare e
basta. Lui non ama molto che io stia lontano da casa, sono la sua unica
figlia!
Se io andassi via da Forks per studiare, sono sicura che soffrirebbe
moltissimo.
Ecco perché ancora non ho deciso. E’ solo per lui,
io sono la sua unica
famiglia >>. Angela sbuffò, contrariata:
<<
Hai mai pensato di mandarlo a fanculo tuo padre? >>
schioccò la lingua,
assumendo uno sguardo infastidito. Isabella corrugò la
fronte, sorpresa dal
tono glaciale dell’amica.
<< Angela, tu non capisci … Se mi allontanassi
da Charlie …
Sarebbe un grosso problema per lui! >>. Angela
soffiò dalle labbra,
spazientita.
<< Ascolta, basta pensare a tuo padre!
Charlie ha una vita sua, tu
hai una vita tua! Non puoi essere sempre
preoccupata per lui! Ora hai
un’occasione fantastica, parlagli! >>. Isabella
scosse la testa,
abbassando il capo. << Hai diciassette anni, quasi
diciotto, Bella! Devi
pensare più a te stessa. Qui non si sta parlando di
stupidaggini: qui, si mette
in ballo la tua carriera, capito? >>. Angela
sperò esser convincente con
le sue parole, ma notando lo sguardo dell’amica
capì che non avevano fatto
tanto effetto. E lei sapeva che quando Bella si impuntava su certe
cose, di
sicuro non si sarebbe mossa. Ormai conosceva l’amica
–migliore, di sicuro- da
troppo tempo e riconosceva ogni singola espressione ed atteggiamento,
anche se
non sempre glielo faceva capire.
Stettero
qualche minuto in silenzio, come se si fossero prese del tempo per
riflettere.
Camminavano entrambi lungo la strada ognuna avvolta in una semplice
giacchetta.
Quella mattina Isabella aveva notato con piacere come si fosse alzata
la
temperatura. Quando era uscita di casa, probabilmente per
l’improvviso spuntare
del sole, cosa molto rara nella piovosa cittadina di Forks, aveva
percepito un
altro profumo, un'altra sensazione nell’aria e
così aveva stabilito che quel
giorno, probabilmente, sarebbe iniziata la primavera. Succedeva ogni
anno,
così: per lei l’inizio della bella
stagione non principiava il ventuno
di marzo, bensì quando voleva lei, quando se lo sentiva.
E quell’anno,
decise che la primavera era iniziata più tardi, esattamente
il quattro di
aprile.
Così quella mattinata era uscita con una spinta in
più, poiché quel giorno
era il più desiderato dell’anno.
<< Comunque …
Basta parlare di scuola. Tanto prima
o poi si sistemeranno le cose, no? In qualche modo risolveremo! So
never mind the darkness, we still can find a way... >>
infranse il silenzio Angela per poi assumere un’espressione
beata sul volto. Alzò gli occhi al cielo, come in
venerazione. Bella sbuffò,
facendosi sentire anche dall’amica.
<<
Oh, la smetti con queste frasi! Non ne posso più di questi
.. Guns rose!
>> rispose tra le risate l’altra. Angela
lanciò un’occhiata piena di
disgusto e indignazione ad Isabella.
<<
Guns N’Roses! >> la corresse
lei, con tono freddo. << Oddio,
come fai a non pronunciare in modo corretto il loro
nome?! >>.
Angela si voltò per guardare in faccia Isabella, che tentava
–con pochi
risultati- di non scoppiarle a ridere in faccia. << Loro
hanno occupato
un posto nella storia della musica … fondamentale!
Te ne rendi conto?
>>.
<<
Io mi rendo conto che ti sei solo bevuta il cervello! >>
protestò Isabella.
<< E’ da mesi che continui con questo maledetto
gruppo! Non ce la faccio
più a sopportare le tue citazioni! E poi scusa, hai visto
come sono brutti?
>>. Angela strinse i pugni per non urlare alla sua
migliore amica, ma
trattenendosi, divenne rossa per lo sforzo.
<<
Bella, è inutile parlare con te di musica.
Tu non sai neanche cosa
voglia dire questo sostantivo. E non so se hai notato quanto sia
affascinante Slash
… >> Angela prese un respiro e chiuse gli
occhi, come se volesse far
finta di non aver sentito ciò che aveva detto
l’altra, prima. << Tuttavia
ti perdonerò, lasciandomi alle spalle tutte le tue parole
riguardo al gruppo
più potente della storia della musica >>.
<< Ah, ah >> annuì
distrattamente Bella. Fece
qualche passo e vide, con grande suo
dispiacere, l’edificio della Forks High School a pochi passi
da loro due.
<<
E i tuoi genitori come l’hanno presa riguardo …
hai tuoi gusti musicali?
>> chiese Bella, con un leggero sorriso sulle labbra.
Angela abbassò il
capo, scuotendo la testa.
<<
Loro non riescono a capire … Per loro sono solo cinque che
urlano … Stupidi!
>> borbottò con un tono di voce un
po’ grave.
I
genitori di Angela erano due delle persone più in vista nel
piccolo paese. Suo
padre, banchiere, accoglieva nella sua banca gran parte dei conti di
tutta
Forks.
Entrambi i signor Weber frequentavano i club più prestigiosi
e le
persone in –o ricconi snob, come preferiva
chiamarli Angela-, che
occupavano la classe sociale più alta del piccolo paesino.
Di certo non
potevano permettere, gli Weber, di far ascoltare alla loro unica figlia
musica negativa
o
poco
istruttiva. Ma
Angela –con
idee completamente
diverse da
quelle dei suoi - nonostante gli urli e le
continue lamentele dei genitori, adorava farli adirare mettendo Welcome to
the Jungle
in camera sua, a tutto volume.
Sua madre, però, con le amiche
con le quali si trovava ogni martedì per la partita a Bridge, diceva che
Angela adorava la musica classica. In effetti la madre la signora Betty
non era mai stata un genio: sposatasi dopo esser rimasta in cinta di
Angela, accidentalmente,
aveva abbandonato gli stuidi immediatamente. Dopo, aveva
provato a lavorare come segretaria nella ditta del padre, ma con scarsi
risultati: dopo due anni ci aveva rinunciato. Successivamente era stata
assunta nel negozio della sorella, ma proprio quando stava per fare il
passo più importante -divenendo parte della
società Leyla&Co- aveva abbandonato, usando come
scusa la bambina. Betty non andava mai a fondo delle cose, lasciandole
in genere a metà. Perché,
come diceva Oscar Wilde, Il vizio supremo
è la superficialità.
***
Eccomi qua,
bene. Finito anche questo capitolo! Ci ho un po' sudato -e non
perchè fa caldo- bensì perchè non
avevo un'idea precisa su cosa
scrivere. Spero, comunque, che vi sia piaciuto.
Questo
capitolo è la fusione
del terzo e del quarto. Il terzo mi era venuto troppo corto e
così ho voluto aggiungere!
In questo
capitolo, ci sono un po' di cose da dirvi ... Allora:
George Bush, Bill Clinton, Gerald Ford sono
personaggi realmente esistiti e sono stati tutti e tre
Presidenti degli Stati Uniti. Tutti hanno realmente studiato
all'università di Yale!
So never mind the darkness, we
still can find a way è una frase
tratta da una canzone dei Guns N Roses, che si intitola "November
Rain". I Guns N Roses sono un gruppo di cantanti hard rock e heavy
metal nato nel 1985. Slash, che nomina Angela,fu il bassista della
band, per un certo periodo!
La partita a Bridge, a conclusione del capitolo, era un classico
ritrovo delle donne 'appartenenti alla borghesia' in passato e
sinceramente, non so se ancora è svolto! Ho deciso di
inserirlo, comunque!
Passando al
capitolo, vediamo come Charlie aiuta Edward a salvarsi;
perchè lo fa? Perchè Edward gli ricorda suo
figlio Matt,
quello morto, prima dell'adozione di Bella. Inoltre, veniamo
a conoscenza, anche se per poco, della povera Esme.
E' diversa da come ce la presentano in Twilight, eh? Fra pochissimo
scopriremo della sua malattia e di cosa si tratta in particolare!
Bella, infine, riceve la lettera dalla Yale University, ma non dice
niente al padre. Penso che questa volta il capitolo sia ricco di
avvenimenti e confessioni!
Spero
ancora che sia stato di vostro gradimento!
la vostra
hiphipcosty
PS: Ah, mi
dimenticavo! La canzone Welcome
to the Jungle, è anch'essa dei Guns N Roses!
|
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Capitolo 4 *** Quarto Capitolo ***
Quarto Capitolo
Questo
è un altro Salvami, di Giorgia e Gianna Nannini. Se quello
del
capitolo precedente, era un Salvami inteso come appello disperato
-l'appello di Edward-,
questo è una poesia, un canto dolce. Spero sia almeno
abbastanza
appropiato al capitolo.
Salvami- Giorgia e Gianna Nannini
Salvami
mi fa male quando
è sincero
Salvami
dimmi almeno che
non è vero
Guardami
Passi sbagliati
Angeli
Soli e accerchiati
Parlami
Tu sai la
verità
Alzati
ama per sempre
Sbagliati
Non serve a niente
Vivere
Se non si
dà
Alzati
Nasci ogni volta
Perditi
Sotto il diluvio
Spogliati
Bella
così sarai
<<
Un giorno finirai in casini molto seri,
amico >>. Ben lanciò un’occhiata
severa al ragazzo accanto a se.
Quest’ultimo scosse la testa e un sorrisetto gli
spuntò sulle labbra. Si grattò
la barba ispida e diede un altro sorso di Coca. Ben osservò
attentamente Edward
seduto al tavolino, notando con preoccupazione il volto
dell’amico ricoperto da
lividi e ferite.
<< Era solo un gioco
… >> mugugnò Edward, con le labbra
appoggiate alla bottiglia.
<< Non è
solo un gioco vendere alcolici illegalmente
>> cercò di rispondere l’altro con
tono duro.
<< Ben, ti prego, ho già
ricevuto varie ramanzine da quei poliziotti, non mi serve anche la tua
>>. Il tono del ragazzo era glaciale; guardò
dritto negli occhi l’altro e
poi si alzò, avvicinandosi al bancone del bar. Ben lo
seguì immediatamente,
continuandogli a stare accanto.
<< Ora
cosa farai? >> chiese, mentre l’altro estraeva
dalla tasca il portafogli
e pagava la bevanda. Edward strinse le labbra in una smorfia, come se
fosse
poco interessato all’argomento.
<< Non lo so di preciso. Diciamo che un agente mi ha
proposto di
lavorare con lui, per riscattare in qualche modo il danno
>> disse,
salutando il barista e uscendo dal bar. Ben guardò
l’amico, confuso, come se la
situazione non gli quadrasse.
<<
Te l’ha offerto lui? >>. L’altro
annuì, continuando a camminare a testa
alta. << Quindi … niente soldi da pagare, pena
da scontare … tutto qui?
>> chiese incredulo.
<<
Tutto qui >> confermò
Edward. Il volto di Ben era un miscuglio di
sorpresa, felicità e preoccupazione. Non
c’è più senso della giustizia,
pensò,
ma poi ringraziò quell’agente che aveva salvato la
pelle al suo migliore amico.
<<
E tu ci andrai? >> chiese, alzando un
sopraciglio. Aveva sempre fatto queste domande ad Edward,
poiché da uno come
lui ci si poteva aspettare di tutto, anche rifiutare –in
questo caso- la
fortunata proposta dell’agente, scontando la pena in carcere.
Edward,
infatti, assunse un’espressione dura e sbuffò.
<< Non posso fare altrimenti >>
grugnì, come se l’agente, invece
che aiutarlo, gli avesse aumentato i giorni di pena in carcere. << Odio
l’idea di stare con quel tipo,
ma non ho altre soluzioni. E’ il classico stronzo, Sotuttoio!
>>
sputò le parole con disgusto poi prese dalla tasca dei suoi
pantaloni un
pacchetto di sigarette e ne estrasse una.
<<
Hai da accendere? >> chiese, rivolgendosi
all’amico. Ben gli porse un
accendino, sbuffando. Edward si dimenticava sempre
dell’accendino, chiedendolo
sempre all’amico o a chiunque fosse accanto a lui. Sembrava
lo facesse apposta
e questo Ben non lo poteva sopportare. In effetti c’era tante
cose che non
poteva sopportare di Edward; alcune volte si stupiva del fatto che
erano amici.
Sembravano molto diversi l’uno dall’altro, ma
probabilmente infondo, infondo,
qualcosa li accomunava ... qualcosa che ancora non riusciva a trovare.
Ben si chiedeva molte volte, infatti, come,
inizialmente, avessero potuto fare amicizia. Così diversi. I
due ragazzi si
erano incontrati una giorno a scuola e da lì era iniziato il
loro rapporto, che
li avrebbe portati a divenire fratelli.
Probabilmente, ciò che aveva
spinto Ben ad avvicinarsi a quel robusto ragazzo quella mattina, diceva
lui
stesso, era stata proprio la diversità che c’era
tra lui e Edward. Quest’ultimo
rappresentava per Ben, l’essere differente:
l’adolescente disadattato,
piacente alle donne, che amava stare in strada tutto il giorno, quello
a
interessava poco –molto, poco- la scuola.
Ben, invece, era il classico
ragazzo per bene, figlio di semplici operai, ma che non creava troppi
problemi.
Era stata, se vogliamo metterla così, la trasgressione
che trapelava da
quel sedicenne, che aveva fatto scoppiare l’affetto di Ben,
nei suoi confronti.
<<
E … tua madre, come l’ha presa? >>
chiese Ben
con voce insicura, sapendo che toccava un tasto difficile. Quando
iniziava a
parlare di Esme, Edward si induriva, diventando più serio.
Anche quella volta,
infatti, la sua voce si fece più tagliente.
<<
Come vuoi che l’abbia presa?
>> disse, secco. Lanciò
un’occhiataccia a Ben, ma questo lo ignorò.
<< Dovresti smetterla di combinare le tue
solite, sai quanto la
fai stare male >> lo rimproverò. Se non fosse
stato Ben, chi gli aveva
detto quelle parole, di sicuro Edward si sarebbe arrabbiato. E quando
si
arrabbiava lui, poteva
essere
pericoloso.
D’altronde
il tasto
dolente di Edward era proprio la madre. Ormai stentava a credere che
vivesse
ancora, poiché, da quando era morto il marito, questa
sembrava vivere in un
mondo tutto suo, malinconico ed inaccessibile dalle altre persone.
Carlisle
aveva lasciato la famiglia troppo presto: ammalatosi di cancro quando i
figli
erano bambini, in due anni aveva abbandonato questa terra. Era proprio
da quel
momento, dalla morte del padre, seguita dalla malattia della madre, che
Edward
aveva avuto problemi. Cominciò a isolarsi, a frequentare
brutta gente, ad
entrare in giri strani.
Senza più
riferimenti, sembrava essersi avvolto in un mantello scuro, che ancora
alla
soglia dei suoi ventuno anni, non aveva intenzione di buttare. Quel
mantello
era il suo muro, la sua protezione, la sua maschera per nascondere il
vero
Edward che cresceva all’interno. Troppo sensibile e buono per
affrontare la
vita al di fuori.
Edward
mise una mano attorno alla sigaretta, per riparare la
fiammella da eventuali spifferi di vento. Prese tra le dita la
sigaretta e se
la mise sulle labbra, facendo uscire un fumo grigio. Era la cosa
più sensuale
che faceva, ne era conscio, e per questo motivo si divertiva a farlo
specialmente davanti alle donne. Era, come diceva lui il suo piccolo
segreto, la sua arma segreta, la cosa che le faceva più
impazzire. E lui si
divertiva vederle lanciare occhiatine, ammiccamenti, mentre lui le
rispondeva
con la totale indifferenza se, ovviamente, ne aveva voglia.
Perché Edward ci
“sapeva fare” con le donne; forse star con loro era
l’unica cosa che gli
riusciva veramente bene. La sua fama di Don Giovanni, si
era già diffusa
a liceo, ma lui aveva sempre fatto finta di non sentire le voci di
tutta la
scuola che lo ritraevano come un perfetto playboy.
Non prendeva mai sul
serio le persone e tutto ciò che queste dicevano. Lo stesso
era per ogni
ragazza; rappresentava
per lui solo un
gioco: era questo il suo modo di fare, prendere la vita
intera come un
gioco, lui la pedina, tutto ciò attorno
a lui, il campo. E questa
sfumatura del suo carattere era nata a causa della poca fiducia e amore
che
aveva ricevuto durante
la vita. E anche
con le ragazze, non era stato mai amato davvero e neanche lui aveva mai
amato.
Ma, d’altronde, come si può regalare
questo sentimento, se in nessun
momento si è ricevuto?
<<
Quando inizi? >> chiese Ben, tutto ad un
tratto. Ci volle qualche secondo prima che Edward capisse a cosa si
stesse riferendo.
<< Oggi, ma devo andare a casa sua, non so
per quale preciso
motivo >> rispose quello, facendo uscire il fumo dalle
narici. L’amico
capì che quel ‘sua’, si riferiva
all’agente.
<<
Penso che
gli dovrai fare una statua a quel poliziotto, eh? >>.
<< Cosa? Ti prego, mica siamo tutti
leccapiedi come te, sai Benny?
>> disse Edward facendosi scappare un
sorrisetto. Sapeva che Ben
odiava quel soprannome, datogli dalla madre. Tuttavia, lo
ignorò.
<< Ti ha salvato la pelle! Dovresti essere in carcere,
questo
momento o con un sacco di soldi da pagare >>.
<< Mah … Io comunque non lo posso
vedere … Merda! >> imprecò
alla fine. Si era bruciato con la sigaretta le dita e questo aveva
fatto
scoppiare la risata dell’amico, che si era preso, in tutta
risposta, un pugno
sulla spalla.
I
due continuarono a camminare lungo la ventisettesima
strada, senza una meta ben precisa.
<<
Sai cosa … Non capisco perché …
Insomma, perché ti avrebbe dovuto aiutare?
>>. Ben corrugò la fronte aspettando la
risposta del ragazzo davanti a
se, ma questo sembrava non averci mai pensato. Alzò le
spalle:
<< Probabilmente è stato
il mio fascino >>. Ben fece
una
finta risata, guardando in malo modo il ragazzo. << Ehi,
che ne sai,
posso colpire anche gli uomini! >> aggiunse quello,
sghignazzando. Poi
Ben lo interruppe, improvvisamente serio:
<< Ha dei figli … questo poliziotto?
>>. Non
sapeva come gli era balenata in mente la domanda, ma non ci fece caso.
<< Non lo so … Accennava qualcosa la
segretaria, mi
sembra … >> rispose, pensieroso, Edward.
<< Forse sì, mi sa di sì
>>.
<< Maschio o femmina? >>
chiese, mentre in testa gli
balenava un’idea alquanto … pericolosa.
<< Una ragazza. Se ho
capito bene, penso che si chiami … Isabella
>>.
<<
Isabella! >>.
La
voce autoritaria di Charlie si udì in tutta la casa,
anche nella camera di Bella, e quest’ultima
sussultò. Alzò gli occhi al cielo,
immaginando per cosa la stesse chiamando suo padre e si alzò
dal letto,
svogliatamente. Scese velocemente le scale –per quanto la sua
goffaggine glielo
permettesse- e andò in cucina, dove il suono proveniva. Vide
davanti a se un
Charlie con le mani nei capelli, accovacciato davanti al forno, mentre
tentava
migliorare la situazione, sventolando la carne bruciacchiata
all’interno. Ad
Isabella scoppiò una risatina, guardando suo padre in una
situazione abbastanza
ridicola. Ci volle qualche secondo prima che Charlie si accorgesse
della
presenza di sua figlia.
<<
Isabella! >> gridò, arrabbiato.
<< Ti
avevo detto di controllare il forno! >> la
rimproverò. Questa fece un
sussulto, ricordandosi solo in quel momento dell’avvertimento
del padre.
<< Oh,
scusa … >> sussurrò lei, mentre si
avvicinava al forno, aiutando Charlie
a tirare fuori il cibo ormai immangiabile.
<<
Bella è possibile che ti scordi anche di questo?!
Ora dimmi, cosa si mangia? Già è tardi e tra
mezz’ora deve venire un
ragazzo per
… Stai attenta! >>
concluse salvando la teglia che stava cadendo dalle mani della figlia.
<<
Sei un disastro, Bells! >>.
Con
varie manovre difficoltose, padre e figlia riuscirono a
buttare la carne nel cestino. Pulirono velocemente il forno dalla
polvere nera
del fumo e si misero a sedere al tavolo, stanchi.
<< Uff … >> sbuffò
Charlie. << Ora cosa si mangia?
>>. Bella alzò le spalle, scuotendo la testa.
<< Hai tanta fame?
>> chiese il padre, sul procinto, probabilmente, di
saltare il pranzo.
Non importò una risposta: lo stomaco di Isabella fece un
tale rumore,
muovendosi involontariamente, che lo udì anche Charlie. Gli
scappò un sorriso,
ma poi annuì.
<<
Okay, vado a prendere qualcosa. Ma la prossima ci
vai tu, se fai ancora una volta bruciare tutto, okay? >>
lanciò
un’occhiata d’intesa alla figlia.
<<
Sì, papà! >> esclamò
contenta Bella,dandogli
un falsissimo bacio sulla guancia, mentre Charlie , imbarazzato,
borbottava un
“ruffiana …”.
L’uomo
prese il
giubbotto di pelle e si avviò alla porta, con
le chiavi della macchina
in mano. Si voltò in direzione della figlia prima di uscire.
<<
Tornerò tra un po’, il negozio di alimentari
è
lontano da casa >> spiegò, per poi uscire
dalla porta.
<< Aspetta! >> lo
richiamò Bella. << Chi hai detto che
dovrebbe venire? >> chiese, corrugando la fronte. Per un
momento Charlie
fu colto alla sprovvista. Giusto, Cullen . Doveva venire, ma lui ce
l’avrebbe
fatta a tornare in tempo, pensò. Aspetta … ma, se
fosse arrivato prima del suo
arrivo? Bella sarebbe stata insieme a lui per qualche minuto? Era
sicuro?
Scosse la testa, convinto che sarebbe ritornato prima
dell’entrata di Edward. E
poi, anche se fosse stato, non pensava di mettere in pericolo sua
figlia.
<< Ah, giusto. Edward Cullen, dovrebbe
venire >>. Fu incerto
sul dirle che era stato accusato di vendita di alcolici illegali, ma
poi si
rifiutò di farlo. << Ma non ti preoccupare,
dovrei arrivare prima di lui.
Comunque … stai attenta >> lanciò
un’occhiata alla figlia e poi salì in
macchina, uscendo dal vialetto.
Bella chiuse dietro
di se la porta di casa, con un mezzo sorriso sulle labbra. Le era
piaciuto quel
‘stai attenta’, di Charlie. Cosa le voleva dire?
Non doveva aprire al lupo
cattivo, mentre era via? Scosse la testa, notando ancora una volta
l’eccessiva
preoccupazione e protezione di suo padre. Forse … forse si
riferiva a quel
Cullen? Era da lui che doveva stare attenta? Mormorò il nome
tra se e se,
scuotendo la testa. Edward. Era abbastanza vecchio,
di sicuro questo
tale doveva trattarsi di un amico di Charlie, forse uno con il quale
andava a
pesca. Avrebbe dovuto intrattenerlo, pensò svogliatamente,
per poi fissare
l’orologio sulla parete, in attesa.
Sistemò
la tavola, posizionò le sedie in modo più
ordinato e
cercò di pulire la cucina. Suo padre la lasciava sempre
sporca e questo le
faceva urtare i nervi. Buttò il pollo bruciato
–ormai divenuto un ammasso di
cenere- e mise
nella lavastoviglie la
teglia sporca. Successivamente salì in camera, prese un
asciugamano ed entrò
nella doccia. Il contatto dell’acqua fresca con la pelle la
fece sussultare.
Bella fissò il percorso dell’acqua, che le cadeva
sul volto, poi scendeva sulle
braccia, sui fianchi per poi cadere sul pavimento. Apprezzò
il calore che le
gocce le davano, ammorbidendo la pelle, ma poi capì che il
bagno le stava
portando via troppo tempo e così uscì,
asciugandosi velocemente. Cominciò a
fischiettare, questa volta qualcosa di diverso, no una delle sue solite
canzoni. Non sapeva il nome di questa, ma era un motivetto abbastanza
semplice
ed orecchiabile che aveva sentito alla radio, di cui si era innamorata.
Avrebbe
chiesto ad Angela –l’esperta in
questo campo- di cosa si trattasse.
Cercò
nell’armadio qualcosa di
comodo e l’unica cosa che trovò fu una lunga
maglietta bianca: la indossò.
Stava per prendere gli shorts distesi sul letto, quando il suono del
campanello
la richiamò. Afferrò velocemente i pantaloni e se
li mise, correndo per le
scale. Diede l’ultima occhiata a l’orologio di
cucina e, con sollievo, capì che
data l’ora, probabilmente, dall’altro capo della
porta l’aspettava
Charlie.
Mise una mano sulla maniglia e aprì la porta.
<<
Pap …>>.
La
voce gli morì in gola. D’un tratto la gola le si
fece
terribilmente secca e le ci vollero vari imbarazzanti secondi prima che
ricordasse come si facesse a deglutire. Chiuse gli occhi e li
aprì numerose
volte, per assicurarsi che chi le era davanti fosse qualcosa
di reale
e non solo un frutto della sua fantasia. Si trattava di un ragazzo
probabilmente più grande di qualche anno di lei, alto e
magro, ma con una
struttura abbastanza imponente. Bella fissò il volto
dell’uomo che sembrava
scolpito nel marmo, da quanto era perfettamente proporzionato e
affascinante.
Era ricoperto da una barba ispida, le sue labbra erano carnose e rosee,
ma al
centro di esse c’era una piccola spaccatura. Il suo capelli
erano rossicci e
distrattamente pettinati. La cosa che catturò più
di tutte Bella, però,
furono gli occhi: due sfere bellissime,
ricoperte da un verde smeraldo, un verde brillante, paurosamente
splendido. Quel
ragazzo era bellissimo, semplicemente apollineo nelle sue forme.
Bella
sentì, per un momento, le gambe cedere e non fu solo per
quella bellezza che
sorprendeva, bensì per qualcos’altro. Nel momento
in cui aveva visto quel
ragazzo una strana sensazione le aveva preso il petto. Ella non capiva
se si
trattasse di qualcosa di buono o cattivo, ma era come se il suo cuore
avesse
lanciato una piccola scarica che le aveva raggiunto la testa, come un
piccolo
serpentello che si faceva strada. Era come se una freccia avesse
colpito la sua
coscienza, i suoi ricordi e per un momento tutto attorno a lei si era
fermato.
Guardò ancora una volta il volto di quella figura e
sentì di nuovo qualcosa
nascerle, all’altezza del petto. I suoi tratti sembravano
… così familiari.
Cercò di pensare, di riflettere, eppure … non
riusciva a collegare alcun suo
ricordo a quel ragazzo.
<<
Ciao, è casa Swan, questa? >>. La voce era
peggio di tutto la sua bellezza, dei suoi occhi, dei suoi capelli,
delle sue
labbra: roca, con una punta di arroganza, forse, ma allo stesso tempo
dolce e
calma, melodiosa, alle orecchie di Bella.
Ci
volle qualche secondo prima che Isabella riuscisse a
riprendere controllo di se stessa, riuscendo a mettere delle parole in
un
ordine che avesse senso logico.
<< Oh, ehm … Sì >>
balbettò, indecisa, mentre le sue gote prendevano
colore. Il ragazzo
davanti a se fece un
lieve sorriso, che mise un po’ in difficoltà Bella.
<< Bene, l’ho trovata. Cercavo il signor Swan.
Sono Edward, Edward
Cullen. >>. Il ragazzo porse la mano ad Isabella. Questa,
come
ipnotizzata, si affrettò a stringergliela, impacciata.
<< Bella … Cioè,
volevo dire, Isabella >> balbettò,
imbarazzata. Edward fece un altro
sorriso, alzando solamente il lato destro della bocca. Era la prima
volta
che faceva quel
gesto, ma Bella se ne
innamorò immediatamente. Stettero alcuni secondi
lì in piedi, uno davanti
all’altro, in silenzio.
<< Ehm … Posso entrare o devo aspettare qui?
>> chiese,
alzando le sopraciglia, abbozzando un sorriso. Bella scosse la testa
energicamente, ricordatasi tutto ad un tratto di ciò che gli
aveva detto
Charlie. Edward Cullen, giusto, l’amico.
Quanto era stupida!
<<
Sì, hai ragione, ehm … scusami tanto
>> sussurrò, facendo entrare il
ragazzo nella sala. Chiuse dietro di se la porta, mentre il suo cuore e
la sua
agitazione accelerava, sempre di più. Lo condusse in cucina,
silenziosamente.
Rimasero ancora un’altra volta in silenzio, uno davanti
all’altro. Bella si
pentì immediatamente essersi messa quella terribile
maglietta che le copriva
quasi del tutto gli shorts. Tutt’altro, invece,
pensò Edward, quando il suo
sguardo cadde sulle gambe nude e perfettamente curate della ragazza. Un
sorriso
impercettibile, che non riuscì a catturare neanche Bella, si
increspò sulle
labbra del ragazzo.
<<
Allora, tu … vivi qui? >> chiese Edward, alla
ragazza. Isabella abbassò lo sguardo, facendo un sorriso
imbarazzato.
<<
Be’ sì, io sono la figlia di Charlie
>> rispose con un filo di voce.
<< Ah, ecco, mio padre arriva tra qualche minuto
è andato a
prendere da mangiare, e … >>
continuò, agitata.
<< Non ti preoccupare, aspetterò
>> rispose gentile lui.
Bella non poteva sostenere lo sguardo di Edward, così calmo
e sensuale.
Probabilmente anche il ragazzo se ne era accorto, ma sembrava piuttosto
divertito da quel comportamento nei suoi confronti.
<<
Ti posso
offrire qualcosa …? >> chiese Isabella,
appoggiandosi al forno della
cucina, stringendo le spalle. Il ragazzo rifiutò,
ringraziando, dicendo che
aveva preso una Coca, proprio prima di venire. Isabella
annuì, lentamente,
continuando a notare la straordinaria calma e tranquillità
del ragazzo, che
sembrava completamente a proprio agio.
<< Tu conosci mio padre, quindi?
>> disse Bella, rompendo il
silenzio.
<< Sì >>. Il suo
tono ,tutto ad un tratto, si fece più duro.
Da roca e piacevole, divenne tagliente e dura. Forse si sbagliava, ma
ad
Isabella sembrava che non avesse tanta simpatia per suo padre.
<< Ah, ehm … Vai a pesca con lui?
>> chiese, cercando di
ricavare informazioni. Ad Edward spuntò un sorrisetto sulle
labbra, notando
l’ingenuità della ragazza.
<< No, non direi proprio … >>
rispose, abbassando lo
sguardo. Edward guardò il volto di Bella e fu sorpreso dalla
bellezza ed
armonia che avevano le sue forme. Questa, sorrise:
<< Allora sei … un collega? >>
chiese, mettendosi un
ciuffo castano dietro l’orecchio. Edward fece una risatina,
lasciando confusa
la figlia del Capo.
<< Veramente … no. Sono sotto la sua
sorveglianza … >>
annuì, serio. << Ho commesso un piccolo reato
e da ora in poi sarò … ai
suoi comandi >> sorrise, vedendo la sua faccia
impallidire. Ad
Isabella gelò il sangue,sentendo pronunciare quelle parole.
<< Sai … be’,
io … ho ucciso diverse persone, compresa mia madre, e quindi
devo scontare la
mia pena … >> concluse Edward con nonchalance,
prendendosi gioco
di Bella. Questa però non sembrò capire la
battuta e sentì le gambe cederle. Si
allontanò di qualche passo da quella figura, spaventata. Poi
Edward scoppiò in
una risata fragorosa e anche se era terrorizzata, Bella non
poté notare quanto
fosse splendida e cristallina.
<<
Ehi, scherzo! >> sghignazzò Edward. Bella
sgranò gli occhi, per poi ricominciare a respirare.
<< Sto scherzando,
non sono un serial killer, okay? >> le mostrò
un sorrisone, che le fece
aumentare il battito cardiaco.
<<
Va bene, okay, ma ti prego, non farlo mai più!
>> mormorò Bella, con un fiato.
<< Sono la figlia di un poliziotto
e mi racconta mio padre di tipi del genere …
>>.
<< Sì, lupi cattivi, l’uomo nero
… Cose del genere, eh?
>> disse,
guardandola negli occhi.
<< Sì, diciamo di sì
>>.
<< Be’, sai … Una cosa
l’ho capita nella vita: non tutti i lupi o
gli uomini del buio sono cattivi … Sono
le altre persone che li danno
questi pregiudizi >>. Bella rimase un po’
interdetta da questa frase, ma
lasciò perdere.
<< Allora
tu chi sei? >> gli chiese.
<<
Io faccio parte di questa categoria: i cattivi, pieni
di pregiudizi della gente
>>. Fece una pausa e si pentì subito delle
parole che aveva detto,
sapendo che la ragazza davanti a lui non sarebbe riuscita a
comprenderle.
<< La verità è che tuo padre mi ha
beccato a vendere delle birre a dei
ragazzi e ha deciso che devo scontare la mia pena aiutando i caserma
… Tutto
qui >> tagliò corto. Ebbe paura che Bella si
spaventasse a quelle parole,
ma lei non lo fece. Anzi, fu come se quella rivelazione, la avvicinasse
ancor
più a Edward.Rimase sorpresa, ma sentì una strana
sensazione che provò nei
confronti del ragazzo, diversa dalla compassione. Non
indietreggiò, anzi, sentì
l’esigenza di avvicinarsi a quella figura.
<<
E passerai ogni volta qui a casa nostra? >> chiese lei,
cercando di
nascondere quella punta di felicità e speranza nel suo tono.
Edward sorrise,
rispondendo:
<< Be’ se ci sei sempre tu … Vengo
ogni giorno >>. Quelle parole
causarono un sussulto nella pancia di Bella, che arrossì
immediatamente. Guardò
ancora gli occhi del ragazzo di fronte a lei, perdendosi in quel prato
acceso.
<< No, seriamente … Penso che sia solo per
oggi … Tuo padre mi doveva
spiegare certe cose >>. La ragazza si
incupì, ascoltando quelle
parole. Sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto quella
figura amena?
<<
Quindi questa … è la prima ed ultima volta che ci
vediamo …? >> chiese lei, con tono cupo.
Edward si guardò intorno, come
per pensarci, poi annuì distrattamente.
<< Penso … penso di sì
>> confermò. Seguirono qualche minuti
di silenzio, poi Edward riprese:
<< Allora, Bella, studi?
>>.
<< Oh, ehm …
Sì, sto facendo l’ultimo anno del liceo
>>. Edward imprecò mentalmente,
scoprendo che era troppo piccola per lui. << Tu, invece?
>>.
<< Io ho
smesso di studiare, ora lavoro. Ad un piccolo bar, qui vicino
… >>.
Bella, sospirò silenziosamente: non avrebbe neanche avuto la
possibilità di
vederlo a scuola …
<<
Perché hai smesso di studiare? >> chiese,
sperando di non essere troppo invadente.
<<
Be’ … Non
avevo più voglia di farlo >> rispose,
abbassando lo sguardo. Non seppe se
fosse solo un impressione sua, ma Edward non sembrava molto convinto. Era come se nascondesse
qualcosa …
<< Ah … >> commentò
lei. << Per me è diverso, io dovrò
continuare. L’idea non mi dispiace, in effetti
… >>.
<< Cosa vorresti fare? >>.
Bella fu felice, sentendo il tono del ragazzo curioso.
<< Pensavo …
medicina. E’ la cosa migliore … per me
>>. Ci furono altri secondi
imbarazzanti, poi, improvvisamente, il suono del campanello ruppe il
silenzio. Bella
fece un cenno con il
capo, a mo’ di
scusa, e si avvicinò alla porta, aprendola. Comparve, sulla
soglia di casa,
Charlie, con delle buste in mano.
<< E’ arrivato?
>> sussurrò, prima ancora di salutare
la figlia. Questa corrugò la fronte, poi si
ricordò dell’ospite e annuì. <<
Stai bene? >> chiese, ancora sotto voce.
<< Sì, papà! Ma che ti prende?
>> rispose lei, arrabbiata. Tornò
in cucina, seguita da suo padre, che salutò Cullen.
<<
Noi ci spostiamo … in salotto >> disse
Charlie, facendo un cenno con il capo a Isabella. questa
annuì, guardò Edward e
si avvicinò a lui.
<<
Allora … E’ stato un piacere conoscerti, Edward.
Addio >> gli porse la mano tremolante. Lui
l’afferrò saldamente, con un
sorriso perfetto sulle labbra carnose. Quel contatto la fece
rabbrividire.
<<
Addio >>. Quella scenetta fece ridere entrambi, anche se
né Edward, né Bella lo fecero vedere.
Perchè
d'altronde, in qualche modo, sapevano tutti e due che questo non si
trattava di un addio.
Era solamente il loro inzio.
***
Buona
sera/Buongiorno/Buon pomeriggio care, ho postato il quarto capitolo!
Cosa ve ne pare? Finalmente i nostri protagonisti si incontrano!! Le
sensazioni di Bella sono descritte qui, mentre quelle di Edward- un po'
accennate- saranno approfondite
nel prossimo capitolo, okay? Entrambi però, si capisce, sono
colpiti l'uno dall'altro ... niente di che, ma intanto è un
inizio.
Mi sembra che in questo aggiornamento non ci siano molte cose
da spiegarvi, è abbastanza comprensibile. Il
prossimo capitolo spero di portarlo in orario, come questi. Intanto
ascoltate la canzone che vi ho proposto, che è molto bella.
Penso
di
aver detto tutto, anche se sono sicura che quando cliccherò
la
casella 'aggiungi capitolo' mi ricorderò che dovevo scrivere
anche un'altra cosa ... Va be'!
Mi
volete
fare un favorino? se potete, rubatevi qualche secondo, per scrivere
una recensionuccia ...? Grazie ancora a tutte quelle che lo hanno fatto
nei capitoli precedenti!! Un bacione a tutte!!
Alla
prossima
hiphipcosty
|
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Capitolo 5 *** Quinto Capitolo ***
Quinto capitolo
Per tutta
la vita-Noemi
Per tutta la vita
Cercare un appiglio
L'autunno che passa
Ma forse sto meglio
Trovarsi per caso
In un bar del centro e sentirsi speciale
[..]
Le solite scuse,
Le solite storie,
Bugie, speranze,
A volte l'amore
Mi guardo allo specchio
Mi trovo diversa
Mi trovo migliore
Il portone di casa
si chiuse dietro il ragazzo, provocando
un tonfo. Edward varcò la soglia di casa, togliendosi il
giubbotto leggero e
buttandolo distrattamente sul divano lì accanto.
Guardò fuori dalla finestra il
nero della notte che stava calando.
<<
Ciao, mamma >> sussurrò, avvicinandosi alla
poltrona in
mezzo alla stanza e lasciando un bacio sulla guancia di Esme. Questa
sussultò,
svegliandosi in quell’esatto istante. Guardò il
figlio, con aria assonnata, ma
abbastanza sveglia per essere preoccupata:
<<
Che ore sono? >> chiese, con un filo di voce. Edward la
ignorò per
qualche istante, abbassando il volume della televisione accesa, troppo
alto. Si
mise di fronte alla madre, a sedere su una sedia.
<< E’ l’ora di andare a dormire
… >> tagliò corto lui. Forse
non si accorgeva del tono autoritario che aveva quando parlava con lei,
ma
neanche questa sembrava farci caso. Esme restò qualche
secondo in silenzio,
osservando il figlio che teneva lo sguardo basso, immobile.
Allungò una mano,
sfiorandogli una guancia.
<< Sei
bellissimo >> sussurrò. Di
certo
non si poteva dire lo stesso della madre. Anche se conservava qualche
cenno
della bellezza andata, Esme, era invecchiata e imbruttita da una pelle
cadente
e da due occhiaie che, quella sera, sembravano ancor più
marcate.
Edward
sorrise, scuotendo la testa, ma senza incontrare il suo sguardo.
<<
Detto da te non vale >>. Esme fece uno strano movimento
con la bocca,
provocando uno strano rumorino giunto dalla gola: quello che lei
chiamava riso.
<<
Sì, forse, hai ragione, ma … Il tuo sguardo
è uguale a tuo padre, sei
affascinante quanto lui. Alcune volte mi stupisco di averti fatto
così … bene!
>> mormorò, soddisfatta. Madre e figlio
restarono minuti in silenzio, uno
davanti all’altro, senza dirsi niente. A quanto pare Esme non
aveva intenzione
di andare a letto quella sera, così restarono insieme
dell’altro tempo a
fissarsi, immobili. Poi l’attenzione del ragazzo fu attratta
da alcune
scatoline sul tavolo. Si alzò di scatto, facendo spaventare
Esme, si avvicinò a
quei medicinali e ne alzò uno, voltandosi verso sua madre.
<<
Cosa sono questi? >> chiese, mentre il suo
volto involontariamente si induriva. Esme si schiacciò
contro lo schienale
della poltrona, come se potesse nascondersi all’interno di
questa. Guardò con
volto spaventato il figlio, dicendo:
<<
Edward … >>.
<<
Dimmi che non li hai toccati … >>
sussurrò tra i denti.
<< Ascoltami, per
favore … >>.
<< Mamma, ti prego, dimmi che non li hai usati
… >>
piagnucolò lui, assumendo una faccia scura.
<< Io … Non volevo …
>>. Edward sbuffò, tirando un calcio al
pavimento, cercando di non arrabbiarsi.
<< Il dottore non vuole! Quante volte te lo
devo dire?! E’ da mesi
che cerchiamo di toglierti queste … queste…
queste cose,
ma tu non
riesci a staccartene! >> gridò Edward,
adirato.Le labbre
gli tremavano, i pugni erano chiusi. Esme, afferrò il
braccio
del figlio, cercando di fargli abbassare la voce.
<< Io
… Edward, io sto male … >> si
giustificò,
con voce rotta.
<< Lo so che stai male, lo so! Ma queste non ti faranno
stare
bene, okay? O almeno, non assunte così tante! Queste
pasticche te le devi
scordare! Riesci a vivere senza?! Stanno diventando una droga per te,
senza non
respiri, eh?! >>. Edward afferrò le tre
scatolette e i contenitori degli
psicofarmaci qualche tempo prima, pieni di pillole, ora vuote, senza
neanche
una pasticca dentro.
<<
Ma tu lo sai che ho
problemi, io ho bisogno di quelle medicine!
>> cercò di
difendersi, trattenendo i farmaci nelle mani di Edward.
<<
Non ora! Il dottore ha detto che avevi bisogno di
cose più leggere!
Queste ti faranno morire! >> gridò, con le
mani tremolanti. Aveva perso
le staffe così velocemente, che questa reazione spaventava
lui stesso.
<<
Ma … ma hai visto come stavo meglio, quando le prendevo? Hai
visto i
miglioramenti? >> cercò di essere convincente
lei, con la voce
spezzata.
<<
Non riesci a
capire?! Non puoi finire
due scatole di pillole antidepressive in una sera, va bene?! Sono delle
medicine, lo capisci! Prese in eccesso, ti faranno morire! Queste sono
troppo
forti, li dovevi prendere solo in casi estremi >>.
<<
Era
solo per tirarmi su, amore! Ero così sola, mi sentivo
così triste e … n-non ce
l’ho fatta >>
mormorò, mentre una
lacrima salta le scendeva lungo la guancia pallida.
<<
Vuoi capire che questi non sono giochi?! >>
esclamò Edward, indicando le
bottigliette. Sentiva la testa pulsare, tanto era la rabbia che gli
stava
salendo. << La depressione, è una
malattia! >>.
<<
Io n-non sono malata … >>
singhiozzò lei, abbassando lo sguardo.
Una
cosa della madre
che Edward non poteva sopportare era la sua caratteristica di ignorare
le cose.
Lei era convinta, infatti, di non essere malata, e ostinava a
ripeterselo ogni
giorno. La verità è che la sua malattia, la
depressione, era iniziata alla
morte del marito. Loro due si erano sposati molto giovani, si amavano
molto e
furono assieme fino all’ultimo, fino a quando Carlisle non
diede l’ultimo
respiro. Per Esme fu un duro colpo, che riuscì a stento a
deglutire. Poi ci fu
la partenza di suo figlio, Emmet, e la cattiva strada che stava
intraprendendo
Edward … Dovette affrontare tutte queste cose, da sola,
senza avere al fianco
suo marito. e cadde in depressione: l’ansia aumentava, la
mancanza del suo
amato era insostenibile, la nostalgia di Emmet –che se ne era
andato un giorno,
dicendo che aveva bisogno di tempo, e che poi non si era fatto
più sentire dal
suo diciottesimo compleanno- furono troppo per lei... Non ce la fece e
così si
aggrappò a l’unica cosa che la potevano sostenere:
i farmaci.
<< Ti prego,
smettila! Io ti giuro, che se ritrovo ancora queste pasticche
… Te le dovrò
nascondere, ti rendi conto?! Sembri una bambina patetica!
>> sibilò lui,
mentre quella continuava a piangere. Singhiozzava, facendo rumore.
Chiudeva gli
occhi, tossiva, si disperava, cercando di scusarsi.
<< P-perché n-on …
>>.
<<
Queste non ti faranno guarire! Hai bisogno di altre medicine,
più leggere, non
ti tireranno su immediatamente, ma piano, piano riusciremo! Ho bisogno
del tuo
aiuto, però! Non puoi, hai capito non puoi! >>
gridò, furioso, sull’orlo
di un pianto disperato. Chiudeva i pugni per controllarsi, ma il suo
viso era
rosso. << Perché mi fai questo?
Perché, Esme? >>.
<< Non m-mi chiamare così, t-ti
prego … >> chiese,
disperata. Odiava non sentirsi chiamare ‘mamma’.
<< Io sono tua m-madre,
mi devi chiamare c-con il mio nome! >> concluse, con gli
occhi pieni di
lacrime. Edward restò due secondi in silenzio, come in
esitazione.
<<
Allora dimostrami di esserlo! Crei solo problemi! >>. Ora
anche Edward
aveva le lacrime, ora anche quelle scendevano sulle sue guancie.
Cadevano,
scivolando, graffiando la sua pelle, ferendolo, come se ciò
che stava subendo
non fosse abbastanza. << Perché?
Perché tu sei così? >>.
<< Edward, non mi dir … >> ora
la sua voce sembrava un canto
disperato.
<<
Sì, cavolo! Te lo dico, eccome! >>. La sua
voce era rotta, spezzata,
ferita. << Io non ne posso più dei tuoi
problemi, va bene? E’ da quando è
morto papà che tu te ne sei andata, mamma!
Tu pensi di essere la sola ad aver sofferto per
papà, eh? Solo tu, sei
sempre stata egoista! Ma tu non sai quanto si soffre quando gli altri
bambini
aspettano le mamme fuori da scuola, invece tu sei lì da
solo, senza nessuno
genitore che ti accolga tra le braccia dopo lezione. Tu non sai quanto
si
soffre quando devi scrivere un tema su tua madre e non
sai più che scrivere perché lei non vive
più da tanto tempo e così consegni in bianco,
mentre tutti gli altri mormorano
e ridono. Tu non sai cosa voglia dire portare solo quattro terribili
biscotti
fatti da solo alla festa di fine anno, mentre gli altri bambini
arrivano con
delle torte nuziali delle loro madri. Tu non sai cosa vuol dire un
bambino
orfano di padre, e quasi di madre, lasciato solo, senza nessuno a
baciarlo,
cullarlo, rassicurarlo. Dov’eri quando avevo bisogno di
te,eh?! Dov’eri?!
>> gridò,come un pazzo, afferrando il braccio
della madre.
Quest’ultima
sembrava paralizzata, non respirava, terrorizzata dalle parole di
Edward.
<< Io
n-non ce l-la faccio …
>>. Continuò a piangere, senza smettere
più.
<< E non piangere! >> gridò,
puntandole un dito contro.
<< Non sei la vittima di questa storia, non lo sei, tu!
>>.
<<
Edward … >>.
<< Non mi
chiamare così! Io non ti voglio più, non ce la
faccio più, mamma! Perché
continui a fare di testa tua?! Perché hai preso tutte quelle
pillole?! Me lo
vuoi dire?!>>.
Tutti e due rimasero
in silenzio, ognuno bagnato dalle
proprie lacrime. Nella stanza si udiva solo i singhiozzi di Esme e il
respiro
affannato di Edward. Edward si voltò, rassegnato. Sarebbe
stato inutile
arrabbiarsi ulteriormente. Sapeva che con quelle parole aveva ferito
profondamente Esme, ma le portava sulla schiena da un po’ di
tempo. Fece un
respiro, aspettando che il suo battito cardiaco ritornasse regolare e
poi uscì
dalla stanza. Le ultime parole che sentì udire, furono il
lamento di sua
madre:
<<
Oggi era l’anniversario delle nostre nozze >>.
Edward entrò in camera sua e, toltosi i vestiti velocemente,
si rifugiò in bagno. Restò qualche secondo
davanti allo specchio: ancora lividi
e ferite di varie risse e scontri precedenti, erano ben visibili sul
suo volto.
Osservò il taglio alla bocca e ancora ripensò a
quel Josh, schifato. Notò la
peluria che gli ricopriva le guancie ed il mento, così
decise che era troppo
folta per i suoi gusti. Prese il rasoio e datosi la schiuma sulla
pelle, iniziò
a radersi.
Secondo Tanya, la sua ex-fidanzata –che ritornava fidanzata
quando gli era più comodo- era la cosa più
sensuale che faceva. In realtà,
Edward, la considerava una cosa molto noiosa. Così, anche
quella volta, tagliò
velocemente e uscì dal bagno. Si infilò nel
letto, ricoprendosi con le coperte.
Prese una sigaretta dal suo cassetto –nascosta bene,
perché Esme non voleva che
fumasse- e se ne accese una. Il tabacco lo rilassò
all’istante.
Alcune volte Edward
sentiva l’esigenza di mandare a quel
paese tutti. E quella sera, era una di quelle.
Decise che sarebbe stato inutile
pensare ancora a sua madre, ai suoi problemi; non sarebbe riuscito a
risolverli. Così, dopo aver preso un’altra
boccata, posò la sigaretta sul
portacenere e prese la fotografia che stava sotto il suo letto. Un
sorriso gli
si increspò sulle labbra, forse il primo, vero,
della giornata. Passò un
dito sulla carta ingiallita e si perse ancora una volta in quegli occhi
castani
della bambina. Ricordava ogni suo singola caratteristica, movenza,
espressione.
Rammentava anche la sua voce: dolce e cristallina. La cosa
più bella era che
non si ricordava il nome: il tempo aveva sbiadito le cose meno
importanti – ad
esempio, come si chiamava- ma non aveva eliminato tutti i momenti
vissuti con
lei.
Forse
quella bambina nella foto era stata l’unica donna che avesse
amato. E a dirlo
pareva strano. L’aveva conosciuta una volta, in mare. Avevano
fatto subito
amicizia, si ricordavano, finché il destino li divise,
nell’incidente.
Ad un tratto Edward sussultò. Si ricordava
dell’incidente in mare. Era con suo
padre ed Esme, in crociera. Era l’unica vacanza lussuosa,
che avessero
mai fatto. Anche la sua amica era lì con i genitori.
L’ultima sera erano
insieme quando naufragarono; fu la stessa sera in cui Edward diede alla
bambina
la foto. Ricordava che improvvisamente il mare si fece mosso,
iniziò a piovere
ed un tuono, tutto ad un tratto, colpì la nave.
Seguirono urla, pianti,
richiami di aiuto. Carlisle raggiunse subito il piccolo Edward,
portandolo via,
ma lasciò la sua amica lì, da sola. Edward
provò a scongiurare suo padre di
portarla via, ma lui era troppo spaventato per pensare anche alla
bambina. E
così, l’ultimo suo ricordo di quella piccola
donna, fu la mano sua e quella di
lei tese, ad intrecciarsi.
Ma quelle mani non riuscirono ad unirsi più.
Edward non sapeva
che fine aveva fatto lei. Pregava ogni
giorno affinché i soccorritori la ritrovassero
–come era successo per la sua
famiglia- e li facessero rincontrare, ma il fato sembrava averli
separati per
sempre. Ogni sera, pure quella, però, gli piaceva riguardare
quella foto. Si
era sempre vergognato di conservarla e mai lo aveva detto a nessuno.
Stava per rimetterla
sotto il cuscino, quando qualcosa attrasse
Edward. gli occhi, gli occhi della bambina. Sussultò,
sorpreso e l’immagine di
Isabella, -la bella figlia dell’agente, conosciuta quel
mattino- gli si fece
spazio nella mente. Erano gli stessi. Quella Bella aveva gli stessi
identici
occhi della bambina. E se guardava meglio, gli pareva, avevano i tratti
simili.
Sbuffò,
dandosi dello stupido da solo e rimosse quei
pensieri dalla testa. Assomigliava forse, ma … No, era solo
un caso.
Chiuse gli occhi,
addormentandosi con l’immagine della
graziosa ragazza che aveva conosciuto quel mattino. Di sicuro
l’aveva colpito,
ma di certo non l’avrebbe mai ammesso, specialmente con Ben.
Però
… Isabella … era come se il
nome l’avesse già sentito.
<<
Ha dei figli … questo poliziotto? >>. Non
sapeva come gli era balenata in mente la domanda, ma non ci fece caso.
<< Non lo so … Accennava qualcosa la
segretaria, mi
sembra … >> rispose, pensieroso, Edward.
<< Forse sì, mi sa di sì
>>.
<< Maschio o femmina? >>
chiese, mentre in testa gli balenava
un’idea alquanto … pericolosa.
<< Una ragazza. Se ho capito bene, penso che
si chiami … Isabella
>>.
<< Isabella … Mh … Sai
quanti anni ha? >>.
<< No, Ben, sinceramente non gli ho chiesto
vita, morte e miracoli
della sua vita, all’agente, okay? >>.
<< No, Edward, perché
… Insomma, tu hai detto che ti sta
antipatico questo tizio, giusto? >>.
<< Sì,
certo >>.
<< Hai aggiunto anche che ha una figlia, no?
>>.
<< Sì, ma ancora non capisco dove
tu voglia andar a parare. Non so
neanche quanti anni abbia questa >>.
<< Be’, ma
supponiamo che abbia più o meno la nostra età
… Pensi che a suo padre
piacerebbe sapere che esce con un venditore di alcolici illegali, sotto
sua
sorveglianza? >>. A Ben spuntò un sorrisetto
malizioso.
<< Ben, ma che … >> Edward stava
per insultare il suo amico, ma si bloccò. Aspettò
che le parole gli si
mescolassero in testa, correttamente. Cosa gli stava dicendo, Ben?
<<
Cosa hai in mente? >>.
<< Ho in mente che tu ci
provi con la figlia di questo tizio, compriendes? >>
pronunciò in un brutto
spagnolo.
Cosa?
Provarci con la figlia? Cosa gli sarebbe comportato? Però
... In effetti non era una brutta idea. Aveva ragione lui:
di sicuro a quel Charlie non sarebbe piaciuto la presenza sua in casa.
Quale
padre vorrebbe che la propria figlia frequentasse un
‘delinquente’?
<<
Continua … >> fece cenno di andare avanti con
il discorso. Ben continuò felice,
intuendo che ad Edward stava piacendo il piano.
<< Pensa, Edward, potresti fargliela pagare!
Provarci con la figlia: lo faresti andare su tutte le furie! Penso che
sia una
vendetta formidabile! ‘Ciao papà, sai che mi sono
messa con la figlia di quel
ricercato?’ >>.
<<
Forse non è un brutta idea … >>.
<< Certo che non lo è! Sarebbe la vendetta
perfetta! La più
crudele, senza dubbio … >>.
<< Ma non pensi che mi metterebbe solo in ulteriori
casini?
>> chiese un po’ incerto, ma sul procinto di
accettare.
<<
Ti prego, non ti inventare scuse! Sai come riusciresti a terrorizzare
il tuo
poliziotto preferito … >>.
<< Non lo
so, Ben … Forse è più piccola di noi!
>>.
<< Le ragazze meno
mature sono fantastiche! >> rispose, pronto.
<< E se non le piacessi? >>.
<<
Non mi dire che le ragazze sono il tuo problema! >>
alzò un sopraciglio,
sbuffando. Edward si portò la sigaretta alle labbra, poco
sicuro. No, le
ragazze non erano il suo problema. Il problema era Charlie; temeva la
sua
reazione se mai avesse scoperto che si stava prendendo gioco della
figlia. E
poi … c’era anche di mezzo la ragazza. Non era di
certo bello giocare con i
sentimenti degli altri, ma … la sete di vedetta era troppo
forte, per placare
Edward.
<< Sì, forse
hai ragione … >>.
<< Vuol
dire che accetti? >>.
<<
Accetto, cosa? >>.
<<
Accetti la scommessa! >>.
<< Non c’è alcuna scommessa, Ben!
>> esclamò, ridendo.
<<
Oh, sì che c’è! Andiamo, Edward!
>> ribatté entusiasta.
<< Vai al
diavolo tu e le tue maledette scommesse! Va bene, accetto …
>> disse,
facendosi scappare un sorrisetto.
<<
Sì! >> urlò, trionfante.
<<
E poi, che ne sai? Forse potresti incontrare una bella
pollastrella, no?
>>.
Edward diede una
gomitata all’amico e scoppiarono tutti e due in una risata
fragorosa.
<<
Allora, questi sono semplici questionari, okay?
Come quelli di prima. Compilali, fatti aiutare dalla signorina
Westimister, se
non capisci qualcosa. Io ho da fare, non ho tempo, forse non ce la
faccio
neanche a prendere mia figlia da scuola >>
borbottò, un po’ innervosito
il capo Swan. Edward si era accorto quanto non riuscisse a tenere a freno i nervi,
quando gli impegni
in caserma iniziavano ad aumentare.
Edward annuì,
gettando un’occhiata contrarita all’uomo. Questo
l’ignorò, voltandosi e
raggiungendo il suo ufficio a grandi falcate, mentre ordinava a George
qualcosa
di incomprensibile alle orecchie di Edward, ormai troppo lontane.
Edward sbuffò, gettandosi di peso sulla
poltrona della sala d’attesa.
Odiava
tutto. Tutto ciò che c’era in quel dannatissimo
edificio. Odiava la struttura,
odiava gli interni, odiava ogni singolo colore delle pareti, odiava
ogni mobile
all’interno. Ma ciò che più di tutto
odiava, erano le persone. Odiava il
personale; era terribile. Antipatici, arroganti, rumorosi. Odiava ancor
di
più Charlie,
che si era dimostrato ciò
che il ragazzo aveva supposto. Era terribilmente antipatico,
autoritario e …
paterno. Quello non poteva sopportarlo, il ragazzo. Quella pena che
colava
dagli occhi di Charlie quando lo guardava; cos’era, un cane
adottato? Di sicuro
sarebbe stato molto meglio in carcere; almeno avrebbe evitato quegli
sguardi
penosi e di compassione che riceveva da Charlie e dai suoi compagni.
Neanche le
occhiate maliziose delle donne lì dentro, riuscivano a
sollevarlo.
Il ragazzo si avvicinò al banco della segreteria, attirando
l’attenzione della signorina
Westimister -dalla
quale aveva avuto l’onore
di chiamarla, Patty- ,
che gli
mostrò un ampio sorriso.
<<
Patty >> esclamò Edward. Questa lo
guardò con gli occhi che le
brillavano, diventando rossa.
<< Edward, dimmi >> mormorò
quelle parole come se si
rivolgesse ad un angelo, ad il re in persona.
<<
Scusami, ehm … Avrei questi questionari da compilare, Capo
Swan
me li ha
affidati, non è che … potresti aiutarmi?
>>.
Sfoderò uno dei suoi sorrisi, anche se sapeva che
quell’ingenua ragazza, anche se le si fosse
rivolto a male parole, avrebbe accettato lo stesso.
<< Certo, con piacere >>. Edward si mise
accanto a lei,
mentre quella gli lanciava un’occhiatina divertita.
<< Non ti preoccupare
>> e gli strizzò l’occhio. Quel
gesto fece un po’ rabbrividire Edward ed
ancora una volta si sorprese quanto il suo fascino riuscisse a colpire
le
donne.
Passarono
una quindicina di minuti a fare il lavoro. O meglio, lo fece solo
Patty.
Edward, di tanto in tanto, scompariva e andava a rifugiarsi in bagno,
aspettando che la segretaria avesse compilato almeno cinque questionari
e poi
ritornava. Non è esagerato dire che la maggior parte del
lavoro fu svolto dalla
signorina, ma questa sembrò provare solo piacere ad aiutare.
Edward capiva
quanta influenza aveva su Patty e si divertiva
–come con molte faceva- a prendersene gioco. Comportamento scorretto,
certo, ma ad Edward
non importava. Non aveva mai sofferto di sensi di
colpa e non voleva
iniziare proprio quel giorno.
Così,
riposto la pila di fogli nell’apposito cassetto, fu rapito
dalle
chiacchiere di Patty.
<< Allora, come ti trovi in caserma?
>>. Sbatté le ciglia,
ancheggiando con i fianchi.
<<
Avrei bisogno di una sigaretta >> tagliò corto
Edward, ignorando la
domanda della segretaria. << Esco
un secondo, se qualcuno mi cerca …
>>.
<<
Certo! >> squittì, un po’ delusa.
Edward le voltò le spalle,
avvicinandosi all’uscita. In realtà
quel
posto era troppo affollato e piccolo per lui. Le persone andavano di
fretta e
sembravano così tremendamente occupate. <<
Edward! >>. La voce
acuta della segretaria, fece voltare il ragazzo. <<
L’accendino …
>> gli sorrise lei. Lui ricambiò lo sguardo,
per poi afferrarlo e
dirigersi fuori.
Subito
l’aria aperta, lo fece tranquillizzare. Tirò fuori
una sigaretta e l’accese,
facendo uscire dalla bocca nuvole di fumo nero.
Da quanto era che
fumava? Troppo, diceva sua madre. Ma Esme
era sempre così, doveva ignorarla. Aveva iniziato per
scherzo, perché tutti i
suoi amici lo facevano e aveva continuato fino a far divenire la
sigaretta una
droga. Tutti i documentari anti-fumo visti in
classe di Mrs Sleeper
erano stati inutili, a quanto pare. Ad Edward non sarebbe dispiaciuta
incontrarla, proprio quando aveva in mano una sigaretta. Quella
professoressa
non gli era mai andata a genio e fu anche lei una causa del suo
allontanamento dalla
scuola.
Si
immerse nei pensieri per altri minuti, quando dei passi dietro di se lo
richiamarono alla realtà. Si voltò.
Charlie.
Subito un prudore
alle mani, lo assalì. Il Capo Swan si
avvicinò al ragazzo, lanciandogli un’occhiata
severa.
<< Hai finito con quel
lavoretto? >>. Edward
annuì, dando
un’altra boccata di fumo. Charlie si sedette sulla panchina
accanto al ragazzo.
Si mise le mani nei capelli, sospirando; non aveva una bella cera.
<<
Il lavoro mi ammazza >> brontolò, sbuffando.
Edward si fece scappare un
sorrisetto.
<< Le piace? >>.
<<
Cosa? >>.
<< Il suo lavoro
>> ripeté, mettendosi la cicca tra le labbra.
<< Certo che mi piace, non l’avrei
scelto, se no. Ma è abbastanza
frustante, sai? >>. Per Edward frustante erano dieci ore
passate dietro
un banco a servire drink continuamente. Questo, però,
evitò di dirlo. <<
Ci sono persone talmente incompetenti in questo ufficio, che mi fanno
davvero
urtare i nervi. E torno a casa distrutto, le gambe che non mi reggono
in piedi
>>. Odiava quando le persone lo usavano per lamentarsi. << Tu,
invece, come ti trovi qui?
>>. Solita domanda.
<<
Preferirei essere altrove >> esclamò, secco.
Proprio quando Charlie
pensava di aver iniziato a infrangere quel muro che separava Edward da
lui,
questo continuava a proteggersi dietro le sue fondamenta.
<< Certo, tutti
vorrebbero essere fuori di qui. Io, ad esempio potrei tornare a casa
>>. Seguirono
secondi di silenzio, mentre tutti e
due gli uomini guardavano di fronte a loro.
<<
Cosa ha intenzione di fare di me? Vuole usarmi come segretario, per
tutto il
resto del tempo che passerò qui? >> chiese, ad
un tratto.
<< Non
lo so, Edward. Ma tu resterai, fino a quando te
lo dirò io >>.
<< Non è giusto, non lo può fare
>>. Charlie lanciò
un’occhiata d’intesa al ragazzo. Sì, lo
poteva fare.
<< Domani dovrai venire con me. Faremo un salto nel
carcere di Sattle, devo fare una cosa. Intanto ... Mi dai
una sigaretta? >> chiese l’agente. Edward
strabuzzò gli occhi, corrugando
la fronte. Non aveva mai visto il poliziotto fumare, ne aveva trovato
pacchetti
di sigaretta nel suo ufficio. Edward restò in piedi,
immobile. << Allora?
>>. Obbedì, tirando fuori
una
sigaretta e porgendogliela, insieme all’accendino. Charlie,
abilmente, accese
la cicca e se la mise tra le labbra. Sorrise, soddisfatto.
<<
Non hai idea di cosa voglia dire una sigaretta, durante la
pausa lavoro >> sospirò, rilassato.
<< Posso immaginare >> rispose. << Lei fuma?
>>.
<< No, non fumo. Ma mi
sa che ho iniziato da ora >>. Fece un lieve sorriso.
<< Fumavo un
po’ prima che mi sposassi, ma poi la mia Renee mi fece
smettere. Comunque
Bella non me lo permetterebbe mai …
>>. Improvvisamente Charlie saltò in piedi,
mettendosi una mano sulla
fronte.
<<
Isabella! Me ne sono dimenticato! >>. Charlie si
girò,
sul viso un’ombra disperata. << Dovevo andarla
a prendere a scuola … Non
può tornare a casa … >>
farfugliò qualcosa di incomprensibile, girando a
vuoto sul pavimento. << Ora c’è Paul
che deve venire, io sono già in
ritardo … >>.
<<
Aspetti, cosa sta dicendo? >> esclamò secco,
Edward.
Charlie guardò preoccupato il ragazzo.
<< Devo trovare
qualcuno che vada a prendere Bella >>. Improvvisamente
l’immagine della
bellissima ragazza lo fece sobbalzare. Ricordò ancora i
capelli bruni, gli
occhi verdi come quelli della foto, il corpo mozzafiato …
<< Edward, mi
hai sentito? Chiedi alla signorina Westmister se è
disponibile! >>
ordinò, deciso. Edward scosse la testa, ripresosi dai
pensieri.
<< Ci
posso andare io >> propose lui.
<<
Dove? >> chiese, spazientito.
<<
A prendere sua figlia. Alla Forks School, no? >>. Charlie squadrò
da capo a piedi il ragazzo,
corrugando la fronte.
<< Tu? >> ripeté
indeciso. Edward a prendere sua figlia? Non poteva permetterlo.
<<
La signorina Westimister non ha la macchina. Nessuno può
lasciare l’ufficio,
sono tutti impegnati. Solo io, posso >>. Non capiva
perché il ragazzo
sembrava così volenteroso; forse voleva solo farsi un giro.
E poi c’era Paul
che doveva venire lì tra un quarto d’ora, Charlie
non sarebbe riuscito a …
<< Okay, va bene >>
confermò titubante. Edward nascose un
sorrisetto, contento. Charlie continuava, però, a fissare
Edward con
circospezione. << Le chiavi? >>.
Allungò la mano, alzando un
sopraciglio.
<<
Non penserai di usare la mia … >>
esclamò, indignato per
poi sbuffare, sconfitto.
<<
Andiamo, Charlie, non si fida di me? >> . Anche se poteva
sembrarlo, la frase non era affatto amichevole, assomigliava
più ad una
minaccia, anzi.
<<
No >> rispose secco e mise le chiavi
dell’auto nella mano di Cullen.
<< Troppo
colorati, Miss Weber, tonalità
troppo differenti >>. Angela imitò
la voce del professore Throught,
facendo una buffa smorfia con la bocca.
<< Oh, ti prego, basta con questa storia di arte
… >>
protestò Bella, mentre le due ragazze scendevano dalle scale
del cortile.
<<
E invece sì, Bella. Come si può dire? Troppo
colorati? Ma tu sei pazzo! E
poi, scusami, ancora nel ventunesimo
secolo, da del lei ad un’alunna! Miss
Weber, fammi il piacere! >>
ripeté arrabbiata Angela, continuando a lamentarsi del
professore di arte. Era
un ragazzo giovane, da poco entrato nell’istituto, ma a
quanto pare non aveva
acquistato la simpatia della ragazza.
<< Ascolta,
lascia stare … Piuttosto, quando fissiamo per il vestito? Mi
avevi promesso di
andarlo a prendere insieme >>
tentò di distrarre l’amica, questa volta, con
buoni risultati.
<< Giusto, il vestito … Non lo
so,
domani? Perché gli altri giorni mi creerebbero problemi
… >>.
<< No, penso domani vada benissimo
>>. Bella e Angela
oltrepassarono il cancello dell’edificio scolastico,
salutando i compagni che
si affrettavano a raggiungere le proprie macchine. Ancora Isabella non
riusciva
a capire il perché Charlie non gliel’avesse
comprata una. Sarebbe stato molto
più comodo per lui e specialmente per lei, che
avrebbe potuto spostarsi a suo piacimento.
<< Ah, l’ho detto anche a Jessica,
non ci saranno problemi, vero?
>> chiese.
<<
No, assolutamente >>. Angela si fermò,
rimanendo di fronte all’amica. La
fermata dell’autobus era a qualche metro da loro: si
sarebbero dovute separare.
<< A proposito di Jess … Guarda chi sta
venendo verso di te? >> .
Angela fissò un punto dietro le spalle di Bella, facendo un
sorrisetto.
<< Non dirmi che è
… >> supplicò l’altra,
assumendo uno sguardo spaventato.
<< Mike! >> salutò.
Subito delle braccia
forti le cinsero i fianchi, sollevandola
appena. Bella sentì perdere l’equilibrio,
ma si resse saldamente sulle
mani del ragazzo. Una voce squillante la chiamò:
<< Bella! >>. La ragazza, girandosi,
allontanò prontamente
le braccia del suo amico dal suo corpo, per poi indietreggiare.
<< Ehi,
come stai? >>.
<<
Come ieri, Mike. Ci siamo visti ieri >> rispose, con una
punta
acida.
<< Giusto, ma mi sei mancata tantissimo!
>>. Il biondiccio,
fece per gettare le braccia al suo collo, ma Isabella le
bloccò, prima che
queste potessero toccarla.
<< Mike, sai io dovrei andare, è
già tardi … >> Bella
fissò
l’orologio sull’edificio, notando che suo padre
stava ritardando da vari
minuti.
<< No, dai, perché non andiamo a farci quattro
passi?
>>.
<< Perché tra poco deve venire mio padre,
quindi non posso
>> tagliò corto, con tono glaciale. Bella,
fece per andarsene, ma il
corpo di Mike gli si parò davanti.
<< Aspetta! Ti volevo dire una cosa! Qualche tempo fa mi
dicesti
che ti serviva un lavoro, giusto? >>.
<< Sì, ma …
>>. Bella non avrebbe accettato nessuna cosa da
Mike, neanche un posto di lavoro.
<< A mia madre servirebbe un aiuto per …
>>. Bella vide con
la coda dell’occhio una macchina di polizia sfrecciare
davanti a lei, per poi
parcheggiare bruscamente sul marciapiede. Fu sorpresa dalla guida di
suo padre,
ma lo ringraziò di averla salvata da quella situazione
imbarazzante.
<< Ehm, Mike, Mike >> lo fermò
lei. << Devo scappare,
okay? Ne parliamo domani! >>.
Mike
fissò la ragazza con occhi dispiaciuti, ma poi
annuì, vedendola scappare dietro
di se e raggiungere la macchina della polizia.
Isabella corse,
senza voltarsi indietro e salì in macchina,
con il fiato corto.
<< Hai fatto tardi >> esclamò,
ricordando a Charlie il
ritardo.
<< Mi dispiace, ma la colpa è solo di tuo
padre >>. Bella si
paralizzò; il fiato le mozzò in gola. Si
voltò, agitata e vide sul sedile
accanto a lei il ragazzo di qualche giorno precedente. Quel ragazzo
al quale rivolgeva ogni suo pensiero da quella sera, la notte,
nonostante le sue continue lotte a distogliere il pensiero.
Arrossì, balbettando
qualcosa.
<<
Edward? >>.
***
Buone
vacanze a tutte, come state? Sono riuscita a portare il capitolo in
orario, ma non so se riuscirò a fare altrettanto con i
capitoli
successivi!
Quinto
capitolo. Davvero? Siete arrivati fino a qui! Cavolo, complimenti!
Okay, devo ammettere che non sono molto soddisfatta di questo
scritto, ma era essenziale per il giusto
proseguimento della
storia. Spero comunque che a voi sia piaciuto!
Cosa
succede? Prima di tutto, si è scoperto -finalmente- la
malattia
della mamma di Edward! Vi immaginavate chi sa che, vero? E' depressa da
quado è morto suo marito e nei prossimi capitoli
avremo
ancor più chiara la situazione.
Qui,
c'è l'inizio della scommessa tra Ben ed Edward. Conquistare
Isabella. Posso dire, che è da questo capitolo che inizia la
'vera storia', quella di B&E. Nel prossimo capitolo vedremo
come si
comporteranno i nostri due insieme e cosa
succederà!
Spero che leggerete
il prossimo capitolo, come avete fatto con questo e i precedenti.
Ringrazio ancora chi ha recensito e chi mi ha sopportato fino al quinto
'apppuntamento' di questa storia!!
Infine, prima di
salutarvi, vorrei informarvi che purtroppo non
potrò più postare e che quindi, penso che la
storia ricomincerà i primi di settembre. Dispiace
molto anche a me, davvero e spero che non mi ucciderete, ma volevo
dirvelo, invece che far finta di niente. Appena posso,
posterò. Spero che continuerete a seguirmi anche a
settembre, quando la storia ricomincerà.
Vi devo
salutare qui... Allora, buone vacanze e ... non state troppo al
computer, okay? :D
Baci
hiphipcosty
PS: ditemi
qual'è la vostra canzone preferita e ciò che ne
pensate di quelle che metto nei capitoli!
|
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Capitolo 6 *** Sesto Capitolo ***
Sesto capitolo
Una
canzone d'amore-883
Se solo avessi le parole
te lo direi
anche se mi farebbe
male
se io sapessi cosa
dire/ io lo farei
io farei
io lo farei sai
Se lo potessi
immaginare
dipingerei
il sogno di poterti
amare
se io sapessi come
fare
ti scriverei
Una canzone d'amore
per farmi ricordare
una canzone d'amore
per farti addormentare
che faccia uscire
calore
che non ti so spiegare
una canzone d'amore
solo per te
solo per te
solo per te
<<
Cosa ci fai qui? >> chiese Bella, dimenticandosi di far
attenzione a non essere brusca. Edward la guardò negli
occhi, con uno sguardo
talmente sicuro e sfacciato che la
ragazza ebbe come la voglia di ricacciarsi ciò che aveva
detto.
<<
Sostituzione di tuo
padre. Ti va bene? >> chiese con voce gentile, lui.
<< Oh,
certo, ma … Non me lo aspettavo >> rispose
quella rossa in viso, mentre
sgattaiolava abilmente sul sedile. Edward non riuscì a
notare quanto fosse
graziosa Isabella, anche se si vedeva chiaramente che questa non era
l’opinione
della ragazza, così insicura. Il suo sguardo cadde sul volto
pulito e pallido,
caratterizzato da profondi occhi castani.
<<
Posso partire? >> esclamò il ragazzo, tenendo
lo sguardo
davanti a se. Bella acconsentì, legandosi la cintura. Edward
notò quel gesto e sbuffò
dentro di se: “Figlia di un
poliziotto, cauta”
e sul suo volto gli
si dipinse una smorfia contrariata, che cercò di nascondere.
Bella catturò
quell’impercettibile mutamento e sorrise.
<< E’ inutile che tu faccia quella
faccia. E’ importante la cintura >> disse lei,
con un sorriso indeciso
sul volto. Edward sobbalzò, sorpreso da quella risposta, che
non si sarebbe mai
immaginato pronunciata da lei.
<< Io non me la
metto >> esclamò, l’altro.
<< Sbagli. Riduce il quarantacinque per cento di rischio
di morte,
negli incidenti >> disse lei, precisa. Edward
alzò gli occhi,
annoiato.
<<
Non
dare retta ai numeri, sono solo stupidi calcoli. Non siamo fatti di
cifre o
almeno, non in parte. Te lo ha detto tuo padre, eh?>>
pronunciò lui,
infine.
<< Come?
Questo non centra niente … Dico solo che, mi sembra stupido
rischiare la vita
se puoi non farlo, no? >> rispose, un po’
provocatoria. Ad Edward spuntò
un sorriso divertito, notando lo stupido battibecco che avevano
iniziato.
<< Okay, hai vinto tu. Mi metterò la
cintura >>. Edward fece un finto sospiro dispiaciuto e si
legò.
<< Non volevo
obbligarti a farlo >> mormorò Bella, come
scusandosi.
<< No, hai ragione. Ora ho solo il cinquantacinque per
cento di
morire >> e sorrise, increspando le labbra in un modo
talmente bello e
perfetto che Bella non poté che non apprezzare quel piccolo
regalo che le stava
facendo.
La
macchina proseguiva lentamente verso nord di Forks. Bella non sapeva se
il ragazzo che quel giorno si era proposto come suo autista, conosceva
dove
andare, ma sembrava talmente sicuro di sé mentre osservava
la strada, che la
figlia del Capo Swan, non volle domandare.
Le disse che suo padre aveva molto lavoro da sbrigare e
che quindi per
quella volta Edward le avrebbe dato un passaggio.
Il ragazzo stringeva il volante saldamente e di tanto in tanto lanciava
delle occhiatine a Bella, la quale a fatica incontrava il suo sguardo.
Pareva
un po’ tesa ed imbarazzata, con le guance rosse ogni volta
che i suoi occhi
incrociavano quelli del ragazzo.
<<
Sai
accendere l’aria calda in questo coso?
Ho provato, ma sembra davvero impossibile! >>
esclamò, leggermente
imbronciato. Bella si avvicinò a tutti quei pulsanti che
conosceva, ormai, da
tanto tempo e rapidamente premette quello di accensione. Edward
ringraziò,
sorridendole.
<< Perché tutti pensano che i
figli dei poliziotti siano così?
>> chiese lei, ad un certo punto, infrangendo il
silenzio. Le parole
erano venute così celermente, che presero di sorpresa il
ragazzo.
<< Come? >> chiese lui, un
po’ disorientato.
<<
Intendo … >> Bella si voltò,
guardandolo meglio negli occhi, con
un’espressione seria e un po’ innervosita.
<< … perché la gente è
convinta che i figli –specialmente le figlie, sottolineiamo-
siano bambini fissati
sulla sicurezza, viziati e perlopiù con padri
iperprotettivi? >>. Edward
guardò la faccia tesa della ragazzo e non riuscì
a trattenere una risata.
<< Non mi dire che stai ancora
pensando alla storia della cintura! >>
esclamò, con un sorriso divertito
in faccia. Poi proseguì, vedendo il volto di Isabella che
aspettava una
risposta. << Be’, insomma …
perché forse è vero? >>.
<< No,
questo si vede solo nei film! Mio padre non è
iperprotettivo. >>
controbatté lei, un po’ offesa.
<< Oh, sì che lo è!
>> rispose, con una smorfia spiritosa in
volto.
<<
Tu non conosci mio padre. >> Pronunciò quella
frase con una decisione
tale, che Edward per qualche istante ebbe un po’ di timore.
Quella ragazza non
era, quello che appariva. Incominciava a capire che dietro a quella Bella
che
mostrava, ce n’era un’altra, forse fragile, ma
anche con un carattere solido.
Forse sarebbe stato più difficile di quanto pensava,
conquistarla.
Improvvisamente,
terminato quel breve scambio di battute, Bella sentì
vibrare qualcosa nella sua borsa. Infilò la mano nella sacca
di tela e afferrò
il cellulare, distratta. Prima però lesse il mittente sullo
schermo. Trattenne
il respiro, fissando il vetro per qualche istante, indecisa se
accettare la
chiamata o no. Poi premette il pulsante rosso e gettò il
telefonino nella
borsa. Prese fiato, ricominciando a guardare la strada, con aria troppo
naturale.
<<
Puoi rispondere … se sono io il motivo per cui non
l’hai fatto. >>
Esclamò, guardando Bella, accanto a se. Questa non rispose,
ma scosse la testa
in segno contrario. Lui fissò ancora qualche istante la
ragazza, per capire
cosa avesse, ma poi riprese a guardare la macchina, concentrato.
<< Non sei tu, il motivo per cui non ho risposto.
>> chiarì
dopo pochi secondi Bella, con voce paca, come se si volesse far
perdonare.
Edward sorrise, sollevato del fatto che gli avesse risposto.
<< Chi era, se posso saperlo? >>. Bella
indugiò per qualche
istante.
<< Il mio ex.>>
<<
Oh, okay. Allora
sarà meglio parlarne
un’altra volta … >>
<<
No, no, non c’è alcun problema … Ormai
è una cosa passata.
>>
<< Non mi sembra una cosa tanto passata, dato il fatto
che ti ha
chiamato in questo momento … >>
fece, sperando di non essere troppo invadente.
<< Non so perché mi ha chiamata e non lo
voglio neanche sapere.
>> Dal tono che usò, Edward capì
che ancora le ferite della separazione
non erano ancora chiuse. << Forse vorrà
consolarsi per la sua rottura con
Victoria. >>
<<
Chi è Victoria?
>>.
<<
La sua ragazza. Quella con cui, anzi, per cui mi
ha lasciato.
>>
<<
Oh, mi dispiace, io non volevo … >>.
<<
No, davvero, ormai non ci penso neanche più. Solo che
è da giorni che mi sta
chiamando, ma io non gli rispondo. Si è lasciato e ora ha
intenzione di riprovarci
con me. Stupido idiota … >> disse, la voce un
po’ tremolante.
<< E te non vuoi? >> chiese lui, senza
incontrare il suo
sguardo, cercando di capire.
<< Cosa non voglio? >>.
<<
Non desideri ritornare con lui? >>.
<< No, insomma mi ha tradita ed io ci
sono stata male e … >>.
<< … però ti piace ancora!
>> esclamò, lui, sorridendo, sperando
nel contrario.
<< A me non piace! >> esclamò
sicura lei. << Okay …
Forse un po’, ma di certo non ritornerei con uno
così. Che sia per orgoglio, o
come vuoi tu, io con quello non ci tornerò mai. E vorrei
anche che smettesse di
continuare con questi messaggi e stupide chiamate. >>
Edward restò
qualche secondo, riflettendo, poi:
<<
Allora rispondigli. >> Pronunciò, tranquillo.
<< No, non mi ascolterebbe mai … mi
convincerebbe ad uscire,
scommetti? >>. Bella sbuffò, mettendosi una
mano tra i capelli e
appoggiandosi al finestrino. Lo sguardo del ragazzo ritornò
sul volto di
Isabella, così grazioso e bianco. << Sono io,
il problema … Sono debole.
>>
<< Lo chiamo io, allora.
>> Disse Edward, serio,
intenerito
da quel broncio che aveva messo la ragazza. Bella lo guardò,
quasi
ridendo.
<< Tu?
Stai scherzando? Penserebbe che sei il mio ragazzo! >>
dichiarò,
sorridendo.
<< Appunto! >> il ragazzo le sorrise.
<< Almeno smette
di darti noia!
>>.
<< Oh, Edward è davvero carino da parte tua,
ma … Non so se è la
cosa migliore, ossia … >>.
<< Vedi? Che ti ho
detto? Ti piace ancora! >> esclamò,
prendendola un po’ in giro.
<< No, è solo che …
>>. Fece una pausa. << Ok,
facciamo così. Ti prometto che un giorno lo chiamerai, okay?
Te lo prometto.
Ora no, ma fra un po’ sì, davvero.
>> pronunciò Bella, con tono serio.
Edward sospirò, roteando gli occhi, ma poi
acconsentì.
<<
Bene. Dammi la mano destra. >> disse, pronto per il gesto
rituale. Bella
scosse la testa.
<< E’ meglio che tu lasci le mani sul volante,
per evitare
incidenti vari >> lo rimproverò.
<< Figlia di un poliziotto … >>
la prese in giro, ridendo.
Bella sbuffò, per poi unirsi alla sua risata.
<< Non ricordavo
che la strada per la centrale fosse così lunga …
>> esclamò ad un certo punto Isabella, con
aria un po’ preoccupata.
Edward corrugò la fronte, come per pensarci:
<< Forse l’ho un po’ allungata
… >> esclamò. Non voleva
nascondere il fatto che avesse fatto ciò apposta, e quindi
tagliò corto al
discorso. << Cosa stai facendo? >> chiese,
osservando Bella
concentrata sul libro che stava sfogliando con attenzione. Questa
alzò lo
sguardo da quello scritto, ritornando improvvisamente sulla vita
reale.
<<
Oh, be’ niente … Sto solo leggendo “La
Metamorfosi”, Kafka. >> annuì
seria, anche se negli occhi si notava quella piccola luce.
<<
Oh, ti prego non mi dire che l’hanno afflitto anche
a te quel … coso?
>> esclamò, schifato il ragazzo. Alzando le
mani dal volante e corrugando
la fronte, scandalizzato. Bella non riuscì a non trattenere
una risatina, anche
se si sporse in avanti, interdetta.
<< Afflitto? Coso?
Come fai a chiamare un libro, coso?
>> fece lei, ora più offesa. Edward si
girò in direzione della ragazza e
annuì, sul volto una buffa smorfia.
<<
Giusto, me lo dovevo immaginare. Ti piacciono i libri? >>
chiese lui, con
voce calma. Bella corrugò la fronte, non riuscendo a capire
il collegamento tra
Kafka e la domanda.
<<
Sì, certo … >> Edward strinse le
labbra, grattandosi il mento.
Poi il suo sguardo cadde di nuovo su quello
di Isabella, facendola arrossire.
<< Mh,
hai ragione; hai la faccia di una a cui piace leggere.
>> scandì
le lettere chiaramente, con uno strano senso di disgusto.
<<
Ho una faccia da lettrice? Davvero? >> chiese lei, un
po’ preoccupata,
guardandosi allo specchietto. Poi scosse la testa, un po’
arrabbiata. <<
Cosa mi stai facendo dire? E comunque cosa hai contro i libri e
specialmente
Kafka? >>
<< Quel libro è un supplizio,
perlopiù senza senso! Insomma, come si
fa a pubblicare una cosa del
genere? Ricordo che me lo avevano assegnato per scuola, ma …
E’ stato davvero
terribile.>>
<< Ma lo hai mai letto? >> chiese, intuendo
già la risposta.
Edward indugiò per un secondo.
<< No. Ma ho letto il riassunto! >>
dichiarò, sulla difensiva.
<< E da quello ho capito che si trattava di qualcosa di
davvero orrendo.
>> il guidatore passò avanti al semaforo,
aumentando la velocità del
veicolo. << E lo trovo tremendamente da bambini.
Non capisco
perché molti professori ci costringono a leggerli
… >> . Bella restò
qualche secondo in silenzio, osservando il volto del ragazzo,
infastidita.
<<
Ma cosa ne vuoi sapere tu! Che non hai neanche finito il liceo?
>>
<< Questo cosa vuol dire? >>
esclamò, un po’ irrigidito.
Dopo
circa altri venti
minuti di dibattito letterario,
così voleva chiamarlo Bella, l’auto della polizia
si fermò davanti alla
centrale. Edward spense il motore e tolse le chiavi dalla macchina.
Rivolse un
sorriso a Isabella, ma che questa non riuscì a catturare, ed
uscirono dalla
vettura. Charlie era davanti a loro, con le braccia conserte, che
aspettava
impaziente. Appena vide il volto della figlia, si illuminò,
spalancando gli
occhi.
<<
Bella! >> mormorò, avvicinandosi e posandole
una mano sulle guance, teso.
Il viso della ragazza era abbastanza rosso, dopo la breve discussione
sui suoi
gusti letterari con Edward, ma questo non lo sapevo Charlie che,
subito, pensò
il peggio. << Come stai? Cos’è
successo? >>. Bella
increspò le labbra in un sorriso,
osservando, dietro le spalle di suo padre, la figura esile di Edward
appoggiato
alla macchina, con una smorfia divertita.
<< Non è successo niente, papà!
>> mormorò, spazientita,
cercando di sussurrare per non farlo sentire ad Edward.
<< Cosa vuoi che
fosse successo? >> Sbuffò, e a grandi falcate
raggiunse l’entrata
dell’edificio. Edward la seguì a ruota, salutando
l’agente con un cenno del
capo. Charlie lo fermò, afferrandolo per il braccio. Edward
si irrigidì,
teso.
<< Tu resti qui. >> sibilò
l'agente, ancora poco convinto delle rassicurazioni della figlia.
***
"
Una delle tante storie non concluse ... "
-"
Non sopporto proprio le ff che rimangono a metà, guarda! "
-"
Mh, si vedeva già dall'inizio che questa longfic non si
sarebbe conclusa ... Mah..."
Se
avete pensate tutto ciò, vi do ragione: scusatemi, tanto.
Spero di farvi ricredere!!
Abbassate
i fucili, quindi! Mi dispiace davvero aver postato solo oggi, so che
non è bello neanche nei vostri confronti.... Ma la voglia
era... meno che zero, come si vede dal capitolo che ho messo. Tre
paginine non è proprio da me, è vero, ma il
prossimo capitolo sarà moooooolto meglio, davvero.
Spero
che continuerete a commentare e a darmi i vostri conisgli.
Alla
prossima e scusate ancora
hiphipcosty
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Capitolo 7 *** Settimo Capitolo ***
sETTIMO capitolo
-Settimo Capitolo-
La
verità è che da piccolo non ho amato-Francesco
Tricarico
La verità è che l'amore mi ha
bruciato
quand'ero piccolo
l'amore mi ha scottato
e me ne stavo seduto sul mio prato a guardare
le stelle nel cielo
la verità è che l'amore mi ha bruciato
quand'ero piccolo l'amore mi ha scottato
E
ora sono seduto sul mio prato a guardare una rosa che cresce
La verità è che io non ho amato
quand'ero piccolo io non ho amato
E ora
starò da solo a guardare l'aria del mare senza
più tornare
e
fermerò il tempo e lo spazio e con lo sguardo attento
guarderò lontano niente
La
porta automatica del pub si
aprì, mentre Edward aspettava in piedi di fronte ad essa.
Immediatamente un
odore di fumo ed alcool, gli invase il naso e non riuscì
neanche a tossire lui,
amante tanto di entrambi i vizi. Lanciò uno sguardo al
locale, visionando un
po’ la situazione: la stanza principale era ingombrata da una
massa di persone
che continuava fino al salone accanto, la sala giochi. Avrebbe avuto da
fare,
quella sera.
Si
tolse il giubbotto di pelle,
facendolo scivolare sulle spalle e avviandosi dietro il bancone. Mise
la giacca
all’appendiabiti, togliendo le sigarette dalla tasca del
giubbotto e mettendola
in quella dei pantaloni: ne avrebbe avuto bisogno, data la
quantità di gente.
Fissò per un momento
l’orologio sulla parete che segnava le undici e mezzo. Era in
ritardo e pregava
che non ci fosse il suo capo, il quale non gli avrebbe lasciato di
certo
passare questo piccolo dettaglio. Subito Connor gli porse un saluto
fuggente,
mentre indicava la gente che aspettava davanti al tavolo, con aria
piuttosto
impaziente. Abilmente il ragazzo afferrò il suo grembiule
nero e lo indossò
legandoselo in vita e raggiunse velocemente una donna, con un gruppo di
amici
dietro. Edward sapeva come fare nel suo lavoro e quali clienti
scegliere in
situazioni come queste; doveva riuscire a capire quale era la ragazza
più
spazientita, ma anche quella che aveva un numeroso gruppo di compagni
con se e
che se avesse avuto un buon servizio, ne avrebbe sicuramente parlato
con i
propri conoscenti. E quella ragazza,
era
una di quel genere.
<<
Buonasera bellezza.
>> esclamò sorridendo Edward, guardandola
negli occhi. Questo bastò per
farla calmare, ma ancora sul suo volto vi era un’ombra
scocciata.
<<
Finalmente qualcuno è arrivato! >> disse
seccata ad alta voce, muovendo
le sue carnose labbra in una smorfia terribile. <<
E’ da mezz’ora che
stiamo aspettando, si può sapere perché
è così incapace l’altro barista?
>> Edward fece un mezzo sorriso, preparando dei bicchieri.
<< Cosa vuoi? >> chiese, manovrando le
bottiglie
destramente.
<<
Due Cubalibre per i miei amici e un Vodkalemon per me. >>
Il ragazzo non
poté notare quanto fosse volgare la
donna, nei suoi pantaloni lucidi stretti e quella maglietta scollata
viola. Tuttavia
annuì, voltandosi a prendere altre due bottiglie negli
scaffali dietro a se.
Versò il liquido trasparente nei bicchieri, sotto lo sguardo
ammirato della
ragazza.
<< Sei davvero bravo, sai? >>
esclamò, richiamando lo sguardo della ragazza.
Vide che sorrideva, sbattendo le ciglia e spostando il peso da un piede
all’altro. Ora sembrava essersi rilassata.
<<
Solo questione di esercizio. >> tagliò corto
lui. In effetti egli muoveva
le mani in modo rapidissimo, rendendo quel semplice preparare dei
cocktail, una
vera e propria danza.
Ci furono altri secondi di silenzio tra i due, mentre la musica da
discoteca pulsava dalle grandi casse ai lati della stanza. Le luci ad
intermittenza stordivano un po’,
rendendo difficile il lavoro che stava svolgendo l’uomo.
<<
Grazie … >> disse infine la donna, porgendo un
sorriso accattivante al
barista davanti a se. Edward gli porse i tre bicchieri, mettendoci
dentro due
pezzi di ghiaccio. Sorrise, divertito dal cambiamento rapido di
atteggiamento
della ragazza. << Ah, senti, a che ora stacchi
… tu? >> concluse,
sistemando meglio la sua maglietta. Edward corrugò la fronte
un po’ interdetto
e divertito.
<<
Non so neanche il tuo nome. >> gridò a causa
della forte musica, per
farsi sentire dalla ragazza. Lei fece spallucce, sorridendo.
<< Erika. Mi chiamo Erika. >>
La ragazza, che doveva avere
circa una ventina di anni, restava in piedi, in mano quei bicchieri. La
guardò
attentamente, come immerso in profondi pensieri: fissò quei
grandi occhi neri,
del tutto coperti da un trucco pesante. Poi annuì,
stringendo la bocca in un
mezzo sorriso.
<<
Va bene … Quando stacco ti cerco. >> prese i
soldi per le bevande e passò
all’altro cliente. Non avrebbe potuto mai rinunciare ad una
donna, giusto?
Connor gli passò accanto,
prendendo una bottiglia e sussurrandogli
all’orecchio:
<< Come fai? >>. Il suo
sguardo era ammirato, anche se una leggera punta di invidia brillava
negli
occhi. Edward sorrise, un po’ fiero e prose un drink ad un
ragazzo.
La
sera scivolò velocemente sulle
spalle di tutta la gente in quel pub. Fu un lavoro quasi inarrestabile
per
Edward e Connor, che prepararono aperitivi e drink, ininterrottamente.
Passarono
di cliente in cliente, velocemente e con successo. La stanchezza si
fece
sentire in quelle ore, inoltre, specialmente per il primo, che aveva
avuto una
giornata abbastanza impegnativa alla centrale.
Solo verso le due del mattino i
due potettero riprendere fiato, accasciandosi stancamente sulle sedie
esterne del
pub, ancora pieno di gente che saltava al ricco ipnotico delle canzoni.
Fortunatamente gli altri due ragazzi erano venuti a sostituire i due
baristi,
permettendo loro una pausa di ripresa. Edward si appoggiò
allo schienale,
seguito da Connor. Tirò fuori una sigaretta e ne porse
un’altra all’amico,
accendendo entrambe.
<<
Non ce la faccio più … >> si
lamentò Conn, chiudendo gli occhi e
mettendosi una mano sulla faccia.
<< Un po’ di nicotina ti farà bene,
allora. >> commentò
Edward, con la cicca in bocca. Lasciò distendere le gambe
lunghe e si strinse
nel cappotto, notando
solo allora quanto
la temperatura stesse abbassando di giorno in giorno. Fece entrare il
sapore
del tabacco sulla lingua, rilassandolo.
In
effetti aveva notato anche lui, quanto quella sera il collega fosse
molto
distratto e pensieroso, quasi … preoccupato.
<<
Questo lavoro mi ammazza! Ti giuro, con l’occupazione in
fabbrica, più la sera
questo, penso che prima o poi morirò …
>> sbuffò,
con una smorfia in volto.
<< E allora cosa ci fai ancora qui?
>> chiese, un po’
infastidito dai discorsi lamentosi del collega. << Lascia
questo
maledetto lavoro, se ti sembra troppo stancante. >> Lui
ne aveva provati
molti di lavori e questo era il più rispettoso e coerente
con il rapporto
fatica-guadagno.
<< No, è solo che …
>> si tolse la sigaretta dalla bocca, scuotendo la testa.
<< Quei
soldi mi servono … Per me, per Miriam …
>> Edward alzò gli occhi al
cielo, drizzandosi sulla schiena.
<<
Vedi? E’ per
colpa la tua convivenza del cazzo, Conn. Ti prende un
sacco di soldi e ti toglie la tua libertà. Io
te l’ho sempre detto di non fare la grande scelta,
con la tua Miriam.
>> esclamò, arrabbiato e pronunciando la parola
Miriam un po’
schifato. Il suo progetto di vita era molto semplice: solo, senza
moglie, senza
figli, per lui questo voleva dire libertà.
Opposto a ciò che stava
vivendo l’altro.
Connor,
abituato a i commenti contrari dell’amico, non si offese,
rimanendo per un
istante in silenzio.
<<
Non è
solo per quello … >> cercò di
spiegare lui, ma Edward lo interruppe.
<< E poi quella donna è solo
un’idiota patentata, Conn. Salvati
finché sei in tempo. >> esclamò,
con aria arrogante. << Mi hai
detto che state passando un periodo di crisi, no? Perfetto!
È la volta giusta
che te la togli di casa, quella sanguisuga. >> Era ben
chiaro a Connor
che al suo amico non piacesse molto la sua compagna. Edward si
voltò ad
osservarlo, notando che ancora non rispondeva, e per la prima volta
vide gli
occhi rossi di lacrime dell’amico. Corrugò la
fronte, sorpreso: aveva un’aria
terribilmente triste, e quelle leggeri rughe sulla fronte, quella sera,
sembravano ancor più evidenti, dimostrando benissimo i suoi
trentatre
anni.
<< Ehi, amico, che ti
prende? >> chiese, sporgendosi dalla
sedia per incontrare il suo sguardo. Lui rimase impassibile,
continuando a
fissare quel punto davanti a se.
<< Miriam è incinta.
>> esclamò, bloccando il respiro del
ragazzo.
<<
Merda. >> esclamò, stizzito. <<
La situazione si complica, così.
>> commentò, rimettendosi comodo sulla sedia.
Restò qualche istante in
silenzio, per poi aggiungere. << Da quanto lo sa?
>>
<< Da
pochi giorni; è alla terza settimana, ora. >>
Edward annuì con fare
serio, senza incontrare lo sguardo dell’amico.
<< E volete tenere il
bambino? >>
<<
Certo, non
potremmo mai … >> rispose impacciato, ma
Edward lo bloccò, annuendo,
comprensivo. Ci
furono secondi di
silenzio, durante i quali il ragazzo rifletté.
<<
Non lo avevate
progettato … quindi?
>> chiese, con una smorfia sulle labbra.
<< No … >> scosse la testa,
perso nel vuoto. << No.
>>
<<
Sei proprio in un grande merdaio. Sì, amico.
>> esclamò, con un
sorrisetto. Quell’altro non fece altrettanto. Si
schiarì la gola, togliendosi
dalla bocca la cicca. << E allora, quel momento di crisi,
la tua storia
con quella
… quella … come si
chiamava? >>
<<
Samantha. >>
dichiarò lui, facendo un respiro di rimpianto.
<< Giusto, Samantha. Insomma, tutto
cancellato? >>
<< Penso di sì, dovrò farlo
… per mio figlio almeno.
>> concluse con aria triste, pronunciando la parola figlio
con
freddezza e preoccupazione. Samantha era la donna che Conn stava
frequentando,
nascondendolo alla sua compagna.
<< Ehi, non essere così
giù, anche se hai un figlio puoi
frequentare altre donne! >> lanciò
un’occhiata divertita all’amico,
facendolo per la prima volta sorridere.
<< No,
Edward … >> fece, dopo un po’ di
silenzio. << Penso che non si
possa fare. Finisce … qui. >>
Il ragazzo cercava delle parole
opportune per rispondere all’amico, ma
non ne trovò, restando zitto per altri minuti. Continuava a
fissare quel volto
così scuro e triste dell’uomo. In effetti,
però, Conn se l’era andata a
cercare: Edward gliel’aveva sempre detto di lasciare quella
stupida donna.
Oltre ad essere davvero insopportabile, pretendeva di spendere
metà dello stipendio
di Conn nei suoi bisogni minimi –come
amava chiamarli lei-, mantenuta
dal compagno.
Conn fece un grosso
respiro, mettendosi la sigaretta in bocca
e alzandosi dalla sedia. Gettò il mozzicone per
terra e rivolse un mezzo
sospiro al collega.
<< Vado a
casa, si è fatto tardi. Ci pensi te a …
>>
<<
Sì, non ti preoccupare, finisco io. >>
Alzò la testa a mo’ di saluto e
osservò la figura di Conn farsi sempre più
piccola, finché scomparire dalla
via.
Decise di alzarsi anche lui, dando l’ultima
boccata di fumo, ma una voce
lo richiamò dalle spalle.
<<
Ehi, ehm … barista! >>
Edward
si voltò di scatto,
scoprendo quella ragazza di poco fa – se non sbagliava si
chiamava Erika – a
qualche metro di distanza. Osservò la donna, di corporatura
esile, nei suoi
pantaloni aderenti. Era carina, nel complesso. Gli fece cenno di venire
ed il
ragazzo si ricordò dell’appuntamento che si erano
dati. Si alzò e la raggiunse
velocemente, sorridendogli.
La ragazza
gli prese la mano e notò solo allora che non si trattava di
una donna, bensì
solo di una ragazzina. Sbuffò dentro di se; ciò a
lui non interessava.
Erika gli fece un sorriso e lo
portò dentro il pub. Alzò gli occhi verso la
ragazza e ringraziò per non essere
il suo amico quasi-padre, in quel momento.
La
ragazza prese un drink insieme
ad Edward, alzandolo in alto.
<< A chi brindiamo? >> chiese.
<<
Ad un mio amico, che è nella merda fino al collo.
>>
<<
Okay. >> I bicchieri si sfiorarono facendo un rumore
acuto e entrambi
fecero scivolare il liquido lungo le gole, sorridenti e ancora contenti
di non
essere nella situazione dell’amico.
Uscì
dal pub che erano ormai le
quattro del mattino, l’alba che si stava alzando in quel momento. Era iniziato
a piovere e Edward
correva per raggiungere la macchina velocemente, coprendosi nel suo
giubbetto
di pelle. Correva fuggendo da quella ragazza che aveva lasciato
lì da sola,
senza spiegazione, senza neanche svegliarla. Correva, ancora sulla
pelle il suo
profumo e in bocca il suo alito che odorava di alcool. Non era la prima
volta
che lasciava le ragazze così, né sarebbe stata
l’ultima.
Entrò
in macchina, chiudendo
la porta dell’auto velocemente, cerando di non far entrare
nessuna goccia
d’acqua. Fece un respiro, lasciando cadere la testa sul
sedile ma, ad un
tratto, qualcosa attirò la sua attenzione. C’era
una sciarpa sul sedile. La
riconobbe immediatamente: era quella di Isabella, probabilmente
l’aveva
lasciata lì per sbaglio. Restò ad osservarla,
concentrato, guardando quelle
sfumature di colore rosso e bianco, sul tessuto. Avvicinò la
mano al foulard,
lentamente. Senza accorgersene la prese in mano e
l’avvicinò al suo naso. Non
seppe perché lo stava facendo, ma lo fece e basta.
Si portò la stoffa a
contatto col naso e con la bocca, inspirando bene: il profumo di
biancospino e
di fresco lo deliziò. Il profumo migliore che avesse mai
sentito, anche se
… aspetta,
–in effetti- gli
ricordava qualcosa … un profumo che
vagamente aveva odorato, una volta. Affondo il suo volto nel foulard,
chiudendo
gli occhi, estasiato. Poi li riaprì, irrigidì il
corpo e allontanò bruscamente quella
stoffa da se. Cosa diavolo stava facendo? Era meglio tornare a casa, la
stanchezza iniziava davvero a farsi sentire.
***
La
sveglia segnava le quattro in
punto del mattino e Isabella era ancora seduta sul letto, le braccia
che
stringevano le gambe. Si dondolava annoiata, chiudendo di tanto in
tanto gli
occhi, sperando in un colpo di sonno improvviso. Questo però
sembrava non
venire.
Quella
sera la ragazza non riusciva a dormire ed era molto strano per una come
lei,
che riusciva ad addormentarsi ovunque. Ricordava ancora la prima volta
che andò
in discoteca, addormentandosi annoiata sotto le casse rumorose della
stanza.
Era dalle undici che tentava di prendere sonno, ma esso sembrava essere
lontano mille miglia da lei. Quando Bella non dormiva era per qualcosa
di
serio, quasi
sempre. Solo che quando
avveniva, ad ella era ben chiaro la causa di ciò, cosa che
quella sera non era
in grado di capire.
Osservava
la pioggia sbattere sulla finestra trasparente e poi scivolare
raggiungendo la
fine del vetro. A lei piaceva la pioggia, le ricordava anche il mare,
una cosa
che adorava perdutamente. Amo la pioggia, lava
via le memorie dal
marciapiede della Vita * , insomma, come poteva non dargli
ragione?
Sbuffò, distendendosi sul materasso prendendo
la foto che teneva gelosamente custodita sotto il letto. La
fissò e subito sul
volto comparve un dolce sorriso. Perché ancora non ci aveva
pensato prima? La
foto era l’unica cosa che avrebbe potuta calmarla. Era
impensabile la quantità
di ricordi che quella piccola rappresentazione riusciva a ricordarle.
Se la
posò sulle labbra, dando un bacio a quella piccola figura
nell’immagine.
<<
Dove sei? >> chiese,
rivolgendosi al bimbo con occhi tristi. Sospirò,
mettendosela vicino al petto e
chiudendo gli occhi.
Guardavi
felice l’immagine
riflessa nello specchio, muovendoti da una parte a l’altra,
agitando il tuo
vestito color panna. Era il tuo preferito e la mamma lo aveva messo in
valigia a
posta proprio per la prima cena, in crociera. Andavi pazza per il tuo
abito,
anche se non lo ammettevi, e tutte le persone si fermavano a guardarti
e tu
ascoltavi i commenti. Facevi finta di non sentirli, ma in
realtà eri lì, tesa
con l’orecchio ad origliare quelle parole piacevoli, che ti
riempivano
d’orgoglio.
La
sarta te lo aveva cucito apposta, solo per te. Per la crociera.
Come ti piaceva quella parola,
eh? Sì, l’amavi, infondo avevi sempre desiderato
andare su una barca, ti
ricordi?
Ti specchi ancora, fino ad annoiarti. Così esci dalla
cabina, non
avverti neanche i tuoi genitori, lo fai e basta senza pensarci troppo e
inizi a
correre lungo il corridoio. È rivestito da una parete in
legno e il pavimento è
ricoperto da una moket rossa. L’adori: passi le tue dita
paffute avanti in
dietro, mentre il tessuto sotto la tua pelle ti fa il solletico.
Corri ed esci dall’edificio interno, spingendo la pesante
porta
d’entrata. Vai sul pontile e stringi le tue dita attorno alla
ringhiera. Ti
sporgi e cerchi di guardare il mare azzurro: ha detto la mamma che nel
mare ci
sono delle sirene e che se guardi meglio le puoi vedere. Affiorano
dall’acqua e
salutano le persone che le osservano; chi le vede –sono molto
rare- sarà
fortunato per tutta la vita. Così tu sei lì,
ingenua bambina, con gli occhi
puntati sul blu profondo. Alzi
i
piedini, grandezza ventinove, mentre i tuoi capelli bruni ti cadono
sulle
guance. Ti piace proprio il mare, pensi, è così
bello per te. Quando fissi le
acque i tuoi occhi brillano e le tue gote arrossiscono, emozionata. E
ancora di
più ti pare bello stare sulla cima della nave a guardare
quel blu, mentre il
vento ti accarezza il volto.
<<
Dice mio papà che non ci si deve sporgere così
tanto. >> Senti una voce
acuta che viene dalle tue spalle, un po’ arrogante, e ti
volti. C’è un bambino
rossiccio, con una bella camicetta bianca e dei pantaloni che gli
stanno troppo
lunghi.
<<
Lo hai mai fatto? >> chiedi tu, muovendo la testa,
osservandolo meglio.
Il bambino resta immobile con una smorfia sulle labbra. Arrossisce, poi
stringe
i pugni.
<< No.
>> risponde sincero. Tu gli fai cenno di avvicinarsi, e
gli prendi la
mano per portarlo ancora più vicino a te. Non sei timida,
non lo sei mai
stata.
<< Devi alzare i piedi
e stringere forte alla ringhiera, per non cadere. >> Gli
fai vedere,
decisa a fare provare a quel bambino sconosciuto la bellezza di questa
sensazione. << E’ semplice. >>
<< Non lo posso fare.
>>
<<
Perché? >>
<<
Perché mio papà non vuole. E nemmeno mia mamma,
penso, anche se non gliel’ho
mai chiesto. Ma loro sono sempre molto d’accordo tra loro,
specialmente per
darmi le punizioni. >>
<< Non ti daranno
una punizione, se guardi il mare. >> replichi tu,
corrugando la fronte.
Il rossiccio ci pensa un pochino, abbassando lo sguardo. Poi lo rialza
e ti
chiede:
<< Sicura? >>
<< Sì. Te lo
prometto! >> esclami sorridente, facendoti un gesto
simbolico sul petto.
Il bambino ti guarda un po’, poi mette le mani sulla
ringhiera e alzandosi in
punta dei piedi, sorride. L’aria fresca gli scompiglia i
capelli e i suoi occhi
si chiudono e si aprono, infastiditi dalla corrente del vento.
<< Hai paura? >> chiedi, guardando la
faccia un po’
preoccupata del bimbo. Lui scuote la testa in modo energico,
orgoglioso.
<< Hai visto come è bello il mare? Mia mamma
dice che lì ci vivono delle
sirene. >> esclami, indicando l’acqua. Il rosso
ti guarda curioso.
<< Cosa sono
le sirene? >>
<< Sono delle donne bellissime, metà donna e
metà pesce. Vivono
nei mari e chi le vede sarà felice per tutta la vita.
>> Il bambino
spalanca gli occhi, entusiasta.
<< Davvero? E tu l’hai mai vista
una? >>
<<
No, sono molto rare le sirene. E
poi
sono belle, bellissime. >> Parli con sicurezza, contenta
di avere una cosa
tutta tua, che quello sconosciuto non sa. Ti senti importante,
raccontandolo.
Lui ci riflette un po’ su, continuando a guardare
l’oceano ammirato,
attento ad ogni minimo movimento spumeggiante dell’acqua.
<< Io un giorno vedrò una sirena.
La prenderò, ci innamoreremo e
poi la sposerò. >> dice convinto. Te lo guardi
con una smorfia.
<< No, è impossibile. Loro
non possono vivere senza l’acqua! >> esclami,
ovvia.
<< Vorrà dire che le comprerò una
… una … piscina, così lei
potrebbe vivere là! >> risponde, speranzoso.
Ma tu vuoi distruggergli
i sogni, ti
sembra una cosa stupida
pensare queste cose.
<< No, è inutile, non potrai sposarla mai.
>> rispondi,
stizzita.
<<
Non è vero! >> corruga la fronte, spazientito.
<< Un giorno te la
porterò a far vedere, così ti ricrederai!
>>
<<
C’è caso che tu non la veda neanche. Sono
rarissime. >> dici, convinta e
un po’ innervosita. Passano un po’ di secondi,
durante i quali tutte e due
siete concentrati a vedere il mare.
<<
L’ho vista! >>
urla tutt’ad un tratto, saltellando. Ti guarda contento, con
gli occhi verdi
spalancati. << Ti giuro, l’ho vista!
Lì, guarda, lì, l’hai vista?
C’era
una sirena! L’hai
vista anche tu, vero?
Si vedeva benissimo! >> Fissi i
suoi occhi luccicanti. Lui l’hai vista.
Tu no, come hai fatto a non
notarla? Ma non lo puoi dirglielo, no; non puoi fargli passare questa.
Poi
davvero se la sposa!
<<
Ehm … sì, anch’io! Ehm …
C’era anche la sua amica, hai visto? >> chiedi,
convinta che questo lo spiazzerà. Il bambino rimane un
po’ interdetto, ma poi
annuisce convinto.
<<
Ehm … Sì, certo … >>
appoggia il mento sulla ringhiera. << Aspetta,
ma quella … un’altra, guarda, ce
n’è un’altra, vedi? Laggiù!
No, peccato, ormai
è già sparita … >>
<<
No, no, l’ho vista! >> rispondi beffarda.
<< Guarda!! Anche là, lì
proprio in quel punto, una sirena! Vedi? >> indichi
l’orizzonte, a
caso.
<<
Sì, sì che la vedo >> dice,
mentendo. << Anche lì, un’altra! Ha
la
coda arancione, vedi? >>
<<
Sì, è vero! >> rispondi, bugiarda.
<< Anche quella! E lì c’è
la sua
mamma, te ne sei accorto? >> Il bambino non ti poteva
rispondere di no,
come aveva fatto prima, doveva ottenere quella piccola vittoria.
<< Sì … e guarda là!
>>
Tu
e quel bambino avete
continuato a parlare per minuti, che piano a piano sono diventate ore.
Il tempo
è scivolato su di voi come una lenta carezza,
così lieve che neanche vi siete
accorti del suo passaggio.
Avete
visto molte sirene –o almeno così entrambi
sostenete- e vi
siete divertiti a inventare le storie
legate a quelle figure. Vi siete lasciati dopo un po’,
accorgendovi solo allora
di non sapere l’uno il nome dell’altro.
<<
Pronto? Sì, cercavo il
dottore psicologo dell’orfanatrofio? Sì,
buongiorno dottore, sono Bella Swan.
Scusi l’ora così
mattutina, ma stanotte ho sognato … ed ho fatto un sogno
particolare e forse …
qualcosa si è ricomposto nella mia memoria perduta, penso.
>>
<<
Ma è normale che tuo
padre ci metta così tanto? >> chiese Edward,
guardando Bella. Lei sorrise
per la smorfia che era comparsa sulla bocca del ragazzo e
annuì, alzando gli
occhi.
<< E diciamo che questa volta si sta impegnando: in
genere è
ancora più lento! >> esclamò,
togliendo il caffè dai fuochi. << E’
peggio delle donne, te lo posso garantire. >>
Edward guardava seduto
sulla sedia la figura della ragazza muoversi velocemente, prendendo le
tazzine
e i cucchiaini dai vari cassetti e sportelli. Aveva la chioma bruna
legata in
una crocchia che aveva lasciato qualche ciuffo fuori, distrattamente.
<< E
dovessi vedere prima delle cene importanti …
>> aggiunse,
sospirando. Edward sorrise a quel volto così grazioso,
invitandola a sedere.
Lei versò il liquido bollente sulle tazzine e porse un
cucchiaino al ragazzo
accanto a se. Non lo negava, la sua presenza le faceva soggezione.
Qualche
volte affondava nei suoi occhi verdi smeraldo, senza ascoltare le
parole che
uscivano da quelle labbra perfette. Adorava il suo sguardo ed il suo sorriso:
quella punta del labbro che saliva, i denti bianchi che sfoderava.
Bellissimo.
E
anche Edward, anche se non lo avrebbe ammesso, molto spesso restava
quasi stordito da Bella. Era così affascinante e apprezzava
molti suoi lati del
carattere, così tanto familiare. Si conoscevano appena, ma
era come se entrambi
provassero una rispettiva simpatia l’uno nei confronti
dell’altro.
<< Uh,scusa, non te l’ho chiesto, vuoi lo
zucchero? >>
chiese ad un tratto, lei. Edward annuì, ma mentre faceva per
alzarsi, Bella lo
superò avvicinandosi alla cucina. Allungò la
mano, aprendo uno sportello, e
distese le dita nel tentativo di afferrare il pacco di zucchero. Il
ragazzo
notò la difficoltà, così si
alzò dalla sedia, le si avvicinò rapidamente e prese quel
sacco bianco.
In
quel gesto, le dita affusolate della ragazza sfiorarono quelle magre
del
ragazzo, attirando i loro sguardi. Qualcosa tamburellò sotto
la pelle di
entrambi e tutti e due si guardarono, sbattendo le ciglia. Sentirono un
singhiozzo, un gemito che si fece sentire all’interno dei
loro petti.
Quel contatto dette i brividi ad entrambi, ma quelli non erano semplici
brividi, sembravano come degli … avvertimenti.
Erano
a poca distanza l’uno dal naso dell’altro, le mani
che si toccavano quasi.
Edward fissava Isabella intensamente, come ipnotizzato da qualcosa e
non capì
come aveva fatto fino ad allora a non notare i suoi occhi bellissimi, bruni. Non
seppe perché restò
qualche secondo a fissarla, -si pentì, successivamente- ma
era curioso, forse
voleva risentire quel profumo buonissimo, quell’odore di
biancospino, così
fresco e delizioso.
Fu Bella la prima ad
allontanarsi, il volto leggermente rosso, biascicando: <<
Grazie …
>> Edward restò qualche secondo interdetto, un
po’ frastornato: cosa
stava facendo? Era come se improvvisamente qualcosa gli avesse fatto
girare la
testa. Scosse il capo, come per riprendersi e si rimise al tavolo,
accompagnato
da Isabella.
<< Quanti cucchiaini vuoi? >> chiese lei,
cercando di
togliere quell’imbarazzo venutosi a creare.
<< Due andranno
benissimo, grazie. >> Gli porse la tazzina e bevvero
insieme il caffè.
<< Grazie ancora per la sciarpa! Non so come ho fatto a
lasciarla
lì! >> esclamò, dopo un sorso di
quel liquido. Edward sorrise, annuendo.
Si guardò un po’ in giro notando i libri
sparpagliati sul tavolo.
<< Stai
studiando? >> chiese, interessato. Lei annuì,
interdetta da quella luce
negli occhi di Edward, che gli era appena spuntata.
<< Purtroppo. Non ci capisco niente.
>> esclamò, mogia.
<< Cos’è, scusa? >>
<<
Matematica. >> Edward drizzò la schiena,
inclinando la testa. <<
Tieni, se vuoi. >> disse lei, spingendogli il libro di
trecento pagine
sotto gli occhi. Lui la guardò, un po’
imbarazzato, come se si vergognasse a
fare ciò quello che avrebbe fatto.
<<
Non ti torna un problema? >> chiese, osservando
attentamente il
foglio.
<< Questo, non riesco
proprio a capirlo! >> fece, con una punta di fastidio,
indicando il
numero dell’esercizio.
Edward
strinse gli occhi, prendendo un lapis e accucciandosi, per vedere
meglio.
Corrugò la fronte.
<< Ma è
sul grafico dei logaritmi? Sono … Semplici. >>
guardò Bella come se fosse un imbecille. << Scusami, ma se
è
y=
f(x) = |log2 (4x -1/2) + 3 |
Basta semplicemente traslare
sull’asse delle x di due
unità, sposti di tre unità i punti
sull’asse delle ascisse, poi
tutti i punti negativi della funzione li porti nel quadrante positivo.
Infine
aumenta il periodo di quattro π. Quasi stupido, no?
>>
Aveva
parlato con sicurezza e tranquillità, tanto al punto che Bella si
sentì quasi un’idiota.
Rispose un po’
tentennante, così Edward prese fiato ed iniziò a
discutere.
Bella ascoltò con pazienza le spiegazioni successive di
Edward, che si
risultò un ottimo insegnate, il più bravo che
avesse mai conosciuto, in
matematica. Riusciva
a concludere ogni
esercizio, problema, calcolo con semplicità, come poteva
bere un bicchier d’acqua.
La ragazza restò attenta ai suoi chiarimenti, guardando
ammirata l’espressione
seria, mai vista sul volto del ventenne.
Corrugava la fronte, le guance si colorivano un pochino, i
suoi occhi
iniziavano a brillare, ma fermi.
Gli porse tutti gli esercizi che non le tornavano, mentre lui seguiva le sue
difficoltà. Lei
ascoltava attentamente, affascinata dalla
bravura di quel ragazzo, che leggeva e risolveva sui fogli tutti i
disegni
aritmetici e geometrici, accompagnati da spiegazione curate e semplici.
<<
Hai capito? >> chiese dopo un discorso durato circa dieci
minuti, con un
sorriso sulle labbra.
<< Più
o meno. >> rispose, imbarazzata. Edward
sospirò, cercando di non farsi
sentire, non voleva umiliarla. << No, ma molto meglio di
prima, davvero,
grazie. Miracoli non puoi fare con me e la matematica. >>
Edward rise,
porgendo il libro alla ragazza. Bella guardò il volto
dell’uomo, curiosa.
<< Sei bravissimo. Come
fai? >> chiese, ammirata.
<<
Cosa? >> chiese, interdetto. Non gli piaceva ricevere i
complimenti,
capì.
<< Insomma, hai risolto tutto velocemente, come se non
fosse
niente e … Poi vedevo come ti brillavano gli occhi quando
… >>
<<
Non mi brillavano gli occhi.
>> protestò.
<<
Oh, sì che ti brillavano! >>
dichiarò, sorridente. << Edward,
davvero, sei molto bravo. Ti piace la matematica, vero?
>> chiese, sporgendosi
dalla sedia. Il ragazzo si irrigidì, un po’
infastidito. Non voleva quelle
domande, riaprivano ferite troppo dolorose; quelle della sua unica
passione,
svanita in frantumi alla morte del padre.
<< Sì,
cioè no … E’ solo che …
>> abbassò
lo sguardo.
<<
Dovresti fare qualcosa. Hai mai pensato ad una università di
matematica?
>> chiese, naturale. Edward trattenne il fiato, immobile.
Era da anni che
non ci pensava all’università.
Non ci aveva mai
riflettuto? Pf, era stato anni a sognare
l’università di matematica di New York,
un posto finalmente dove si sarebbe trovato a suo agio, dove sarebbe
stato
circondato dai calcoli, la sua vita.
<<
No, no! Università … Non ce la farei …
>> rispose, cupo. Era stupido
pensare ad uno studio, non avrebbe mai potuto farlo, lui.
<<
Ma ti piace, si vede! Risolvi calcoli lunghissimi come se nulla fosse!
Hai un
talento, davvero, perché non hai continuato gli studi?
>> chiese lei,
scrutando il viso dell’uomo.
Si mise un
ciuffo dietro l’orecchio.
<<
Non avevo voglia. >> rispose secco, nervoso. Si
alzò dalla sedia, dando
alla ragazza le spalle. Gli era salita, tutt’improvvisamente,
una fastidiosa
sensazione. Bella non riusciva a percepirla, però, e
continuava a fargli troppo
invadenti, per i gusti del ragazzo.
<< Dimmi per cosa, davvero. Era per
l’insegnante che avevi al
liceo? Forse non si rendeva bene conto, di chi aveva davanti. Sai
anch’io …
>> continuava a parlare, cercando di capire. Edward
irrigidì il corpo,
cercando di non essere sgarbato.
<<
No, Bella. Non è per quello. Problemi familiari.
>> esclamò gelido.
Odiava quelle domande, odiava quella voce in quel momento, odiava
Bella, in
quell’istante.
<< Ah,
ehm … Scusa, problemi economici, forse …
Scusa, non ho capito, però potresti
appellarti
ad una assistenza … >>
<<
Cazzo, Bella, non sono affari tuoi, va bene?! >>
Si
girò di scatto, guardando in cagnesco la donna davanti a se,
stringendo i
pugni, con la mascella tesa. Bella sobbalzò, restando
immobile, osservando quel
volto che in meno di pochi secondi
era
mutato diventando tirato, con gli occhi freddi. Perchè
quella reazione così aggressiva? Restò qualche
secondo in
silenzio, senza togliere lo sguardo da quegli occhi verdi, quasi
impaurita.
Cosa aveva fatto di sbagliato?
Poi Edward chinò il capo,
scuotendo la testa, passandosi una mano nei capelli. Sbuffò,
sentendosi
improvvisamente in colpa.
<<
Scusa, Bella, io non … >> alzò lo
sguardo, con occhi pentiti, ma Isabella
lo interruppe, fredda.
<< No, niente. Hai ragione. >>
Si
alzò e raggiunse le scale velocemente, nascondendo il viso
al ragazzo.
*Woody Allen
***
Hola, carissime! Come state?
Rinizio scuola?
Eccomi qui con il
settimo capitolo. Sto rabbrividendo: settimo capitolo, come ho fatto
mandarla avanti questa ff? :))
Prima di tutto mi
scuso per il leggero ritardo con cui ho postato
- un giorno- , ma spero di avervi abbastanza
-almeno
un pochino, pochino ...?- soddisfatte con questo capitolo.
Personalmente mi piace di più rispetto a quello scorso, ma
siete voi a giudicare!
Il prossimo
aggiornamento spero sia in orario e vedremo i progressi della nostra
coppietta...
Non vi sto ad
annoiare, facendovi il riassunto del testo, tanto lo sapete
già! Ditemi cosa ne pensate -compreso "fa schifo", "Non lo
leggerò mai più...", "datti all'ippica ..."-
Un grosso bacio a
tutti e alla prossima!!
hiphicosty
PS. mi dispiace per non
aver trovato il video della canzone. Leggete il testo, però,
perchè mi sembra molto simile alla figura di Edward... A
presto!
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