Nihil conscire sibi

di Echo90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** 10. Tua, per sempre ***
Capitolo 11: *** 11. Tua, per sempre II ***
Capitolo 12: *** 12. Catene ***



Capitolo 1
*** I ***


Non esiste paradiso, per chi è morto scontando la sua pena sulla terra. Ma. Ma adesso avrebbero avuto l’eternità per loro e avrebbero dimorato in ogni pianta, in ogni foglia, in ogni goccia fresca di rugiada, in ogni rivolo d’acqua che veniva giù dai monti scoscesi. Ora sino alla fine del tempo e dello spazio. Cenere alla cenere. E quella foto mezza ricoperta di terra sarebbe diventata polvere ma il luccichio dei loro occhi innamorati sarebbe rimasto per sempre. Nell’aria satura dell’odore di pioggia, nell’alba che più d’una volta guardarono assieme dopo aver fatto l’amore, nella fiamma di ogni candela che avevano acceso in quel luogo le notti in cui avevano paura.
 
Non lo sapeva ancora, eppure quel giorno la sua sorte sarebbe cambiata. In meglio, in peggio, chissà. E avrebbe sofferto, avrebbe trascorso notti insonni a pregare per la sua vita e, soprattutto, ad amare disperatamente sul proprio letto sfatto implorando qualcuno affinchè il domani non venisse mai. Perché era difficile sopravvivere.
Pensò che avrebbe dovuto appendere un cappio ad una trave e porre fine alla propria lenta ma inesorabile agonia molto tempo prima. Prima di cadere da quelle dannate scale, prima di battere il ginocchio, prima che esso si rompesse in mille pezzi come una bomboniera di cristallo… Prima che Dave arrivasse a casa sua e la trovasse a terra prima di sensi. E quando si sarebbe svegliata egli avrebbe saputo che quella bellissima giovane donna non stringeva alcun brandello di speranza fra le mani e l’avrebbe fatta sua, approfittandosi di lei, della sua bellezza innocente.
Lei disse solo “Non posso fare altrimenti” e piangeva, nel suo letto d’ospedale, di fronte a lui che annuiva. Poi lasciò andare la testa sul cuscino piegando il capo in modo che lui non potesse incontrare i suoi occhi. Poco dopo aver sentito la porta della camera venir sbattuta violentemente dal ragazzo che usciva, si addormentò. E nel lungo sonno nero e senza sogni trovò qualcuno a tenerle compagnia.
 
I
 
Era bella, dicevano alcuni, eppure lei non lo vedeva. Guardandosi allo specchio vide solo una ragazzina impaurita dalle troppe notti trascorse a fare a gara col fato, a dimenarsi, a fingere di non essere chi non era, di provare ciò che non poteva mai provare con loro. Che non aveva mai provato. Che avrebbe sentito con Lei. Solo con Lei. Lei. Che sarebbe diventata la sua vita. Lei, che sarebbe entrata di notte da quella porta e avrebbe incatenato gli occhi ai suoi. Lei che non conosceva ma che era inciampata nella sua vita, ferendosi terribilmente. E il senso di colpa non l’avrebbe mai abbandonata perché, sebbene fosse consapevole che per lei non vi fosse più alcuna speranza, quella giovane donna avrebbe potuto vivere se non l’avesse mai incontrata. E forse sarebbe anche stata felice.
I suoi occhi chiari apparivano spenti, io mi sono spenta, ormai, si disse. Si guardò e non si vide, non si riconobbe. I capelli biondi ricadevano morbidi sulla spalle e incrociò le braccia appena sotto il seno nudo mentre i suoi occhi scorgevano i segni delle unghie che quell’uomo aveva lasciato sul suo ventre.
Cosa ho fatto di male? Qual è la mia colpa? Dio, io non ho fatto nulla. Eppure mi ritrovo a respirare quest’aria in ogni notte e piango invece di dormire. E questo il prezzo da pagare per vivere?
Qualcuno bussò alla porta. Ma essa rimase chiusa come sempre.
“Brittany, la so che hai finito adesso con Joe ma preparati, stà per arrivare un altro cliente. Il tempo di una doccia va bene?”. Non le rimase che sospirare. Va bene, mormorò senza distogliere lo sguardo dallo specchio.
“Brittany? Mi hai sentito?” ripetè la voce autoritaria al di là della porta. E in quell’attimo penso che ben presto anche quel momento sarebbe passato e finalmente, finalmente le lacrime avrebbero rotto gli argini donandole refrigerio.
“Sì, Dave, ti ho sentito. Dammi dieci minuti, sono quasi pronta.” Disse tirando indietro i capelli. Chiuse gli occhi: ogni notte era la sua croce.
 

Dave puliva un bicchiere con uno strofinaccio. Era alto, massiccio. Era un barista. E soprattutto era il barista nel proprio bar. Perché Karofsky non viveva che per sé stesso.

Il soffitto era logoro, da qualche parte pendeva una ragnatela e la sua trama lucente proiettava un ombra in un angolo, muovendosi di tanto in tanto ad un soffio di vento quando la porta del locale si apriva e un cliente entrava. La porta che avrebbe segnato la morte del Prima e l’avvento del Dopo. E della speranza. Perché da quella porta sarebbe entrata Lei e sarebbe entrata mentre implorava un dio qualunque, affinchè quello che temeva non avvenisse. Pur non credendoci, pur non credendoci più.

“Smythe, buonasera, dove ti eri cacciato, eh?” chiese Dave sorridendo al ragazzo che era appena entrato realizzando dopo un momento che non fosse da solo.

“Guardate che bella gattina ho incontrato venendo qui!.” Aveva un ghigno sul volto e con un braccio circondava la gola della ragazza. E lei. Lei era bella. Dio, quanto lo era. Nonostante un rivolo di sangue le solcasse il volto passando per le lunghe ciglia, nonostante il labbro spaccato e il livido che cominciava ad intravedersi sullo zigomo destro. Non aveva pianto e il dolore che avrebbe provato in quella notte senza luna non sarebbe stato vano anzi, sarebbe stato come morire e rinascere, morire e avere un'altra possibilità per essere felice. Perché la sua felicità, avrebbe scoperto, non si trovava né in un uomo, né in un microfono, nè nella carta di credito che suo padre le aveva messo a disposizione.

Dave aggrotto la fronte. “E sentiamo, cosa vorresti farne?” chiese pur conoscendo la risposta.

“Me la voglio scopare, no?” rispose lui con una scrollata di spalle. “Come se non mi conoscessi…” Il barista sorrise scuotendo il capo. “Hai per caso un buco libero dove possiamo sistemarci?” Dave alzò lo sguardo.

“In camera Brittany sta intrattenendo un cliente”

“Beh nessun cliente avrebbe da ridire se condividessi con lui questa piccoletta.” Rimasero a scrutarsi per un attimo. Il giovane posò lo strofinaccio, posò il bicchiere e si sporse più avanti sul bancone.

“Sebastian, non voglio casini però.” Per chi mi hai preso, disse l’altro sogghignando, stringendo più forte la ragazza e avviandosi verso la porta in fondo al corridoio. Avrebbe varcato un'altra porta quella notte, e altre ancora, e avrebbe avuto paura, avrebbe pianto e avrebbe gridato, implorando qualcuno di porre fine all’umiliazione, alla sofferenza, all’incombente presagio di morte.

Il vento soffiava forte quella notte. Così forte che avrebbe raccolto la loro pena trasportandola sin sulla luna e ancora più su, oltre i pianeti del sistema solare e ancora, verso l’etere e il paradiso. Dove posto per loro non c’era. Non c’era. Non c’era mai stato. 

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Capitolo 2
*** II ***


Avrebbe posseduto il suo corpo illudendosi di possedere la sua anima, ma lei non era di nessuno. Io uscirò da queste membra e tu mi farai quello che vuoi ed io non ti sentirò nemmeno. Quando varcherò quella porta io non sarò più io. E non dirò più una parola. E allora potrai farmi quello che vuoi. Combatterò ma le mie membra non hanno più forza, i miei polmoni riescono a stento a respirare, il mio cuore a battere.

La scena non era insolita, in quel locale. Eppure tutti si sorpresero, perché lei non gridava, non scalciava, non urlava. E fu subito chiaro che sarebbe andata in contro al suo destino senza fiatare, come un’eroina tragica in una tragedia greca. Dave li seguì con lo guardo e per un attimo qualcuno parve sussurrargli all’orecchio che l’incedere fiero di quella ragazza si fosse temprato nei secoli e che ella dovesse avere un’anima antica. E che non meritasse nulla di ciò che stava per accaderle.

Scosse il capo: la vita è così. La vita è così ed io non posso farci niente, tutti dobbiamo scontare la nostra pena. Tutti. Nessuno escluso. Nemmeno lei.

Sebastian bussò, ma non attese una risposta. La spinse dentro con forza e lei dovette sforzarsi di mantenere l’equilibrio. Quella stanza sapeva di sigaretta e sudore ma anche di qualcos’altro che non seppe isolare. Una lampadina illuminava fiocamente la stanza e i fili di colori diversi erano scoperti in più punti quasi stessero aspettando che qualcuno li toccasse. E lei in quel momento avrebbe tanto voluto toccarli e porre fine ad ogni sofferenza. Toccarli e ricominciare da capo quella serata, quella settimana, quell’anno, quella vita. Andrò in contro al mio destino in questa notte estiva, mentre nel bosco i lupi ululano e io li sento scandire i secondi, come le lancette di un orologio.

E infine li vide.

Un uomo con una ragazza, lì su quel letto che sembrava consunto, fra quelle lenzuola sbiadite. E Dio mio, non voglio guardare, ma poi vidi lei, bellissima che si voltava a guardare me e non riuscii a distogliere lo sguardo. Non sembrava sorpresa di vedermi, sebbene fossi stata spinta a forza in quella stanza e in quel preciso istante Sebastian mi stesse sbattendo contro la parete.

“Micetta, ti lascerò scegliere: ti lascerai fare o intendi resistere? A tua discrezione.” Per tutta risposta lei, per la prima volta si divincolò dalla sua stretta, diede una testata all’indietro, colpendolo sul naso.

Troia. Troia. Troia, disse sanguinando. Cazzo.

Strinse i pugni e poi la colpì così forte da gettarla a terra e la giovane gemette portandosi le mani sul viso.

NO! Fermo!

Ma che cazzo sta succedendo? Quell’uomo si era sollevato dalla ragazza bionda, allontanandosi appena. Poi vide Sebastian, rimase a guardarlo confuso, e Brittany non potè far altro che divincolarsi dalla sua stretta, alzandosi in piedi, correndo da quella ragazzina che premeva le mani sul viso, per arrestare il sangue.

“Hei, Hei, come stai? Tutto bene?” le chiese venendole accanto, ponendo un braccio sotto il suo capo. Sebastian la guardò: non indossava nulla se non un reggiseno di pizzo nero che era stato strappato con violenza, lasciando scoperto il seno bianco.

“Brittany.” disse Sebastian.

“Brittany.” chiamò quell’uomo.

“Non immischiarti.” Proseguì il ragazzo. “Non ci provare nemmeno, ce n’è anche per te, sai?”. Fu afferrata per le spalle e le mani di quell’uomo si strinsero attorno al suo collo. Lasciami, lasciami, lasciami, le farà del male! disse, ma a lui non importò. La trascinò sul letto. Non provare a interrompermi, pagamento ad ore, ricordi? Brittany non sentì nemmeno quello che disse, il suo sguardo rimase immobile su quello della giovane, non mosse un muscolo, non disse nulla, solo allargò le gambe. E l’uomo dal ventre flaccido si avventò di nuovo su di lei e quando la prese senza alcun riguardo, si morse il labbro inferiore e qualche lacrima rimase impigliata nelle sue ciglia per poi caderle dolcemente lungo le gote.

E in quel momento la ragazza che giaceva per terra si mosse di scatto, mettendosi in piedi, facendo qualche passo indietro. I suoi occhi neri tradivano la paura, ma erano vicine ormai e Brittany si avvide di qualcos’altro. Rassegnazione?

Rassegnazione. Sebastian le sferrò un calcio all’improvviso, ma lei si spostò giusto un attimo prima che lo scarpone di lui spezzasse la sua gamba.

Stai. Ferma. CAZZO! Gridò e stavolta non fallì. La colpì sul fianco e qualcosa si ruppe: fu uno schiocco di frusta nell’aria. Ma lei non gridò. Affondando le dita nella maglia sporca di sangue per contenere il dolore, provò a colpirlo, ma cadde in avanti. Poi fu solo buio. E per qualche minuto non soffrì, non pianse, non sanguinò. Per qualche minuto non rimpianse più di essere nata. Di nuovo.

Desiderò non riaprire gli occhi e per sapere quello che stava succedendo non ne ebbe bisogno. Respirava piano, respirava male e ad il fianco sinistro le doleva terribilmente. Sentiva l’odore forte di Sebastian sopra di lei, ma non ebbe paura e presto il peggio sarebbe passato. Improvvisamente si ritrovò a sperare che quella sera fosse stata l’ultima, che quella notte fosse nient’altro che uno dei sogni orribili che accompagnano le anime dopo la morte.

Lo sentiva sospirare. Sentiva il suo fiato caldo sul collo. Sentiva le sue mani che stringevano il suo seno fino a farle male, le sue spinte spietate dentro di lei e un dolore atroce come se stesse scavando nel suo corpo. Di tanto in tanto le tirava i capelli per poi colpirla pesantemente, irritato dal suo silenzio.

Lo sapevo che eri una troia, Santana. Lo sapevo. Lo sapevo.

Lo ripeteva come un mantra e lei aprì gli occhi quando improvvisamente qualcuno le strinse la mano destra. Forte, forte come se volesse fondere le loro bellissime mani insieme. La ragazza bionda era esattamente dove l’aveva lasciata pochi minuti prima, sotto quel mostro che la toccava con le mani luride. E non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto perché lei era bellissima, talmente bella da farle dimenticare il dolore al fianco, il bruciore al viso. Non si conoscevano, ma quella notte avrebbe intrecciato le loro dita e sarebbero state insieme ad ogni bivio, ad ogni incrocio, ad ogni dirupo.

Sorrise, Brittany sorrise e a lei parve che dicesse che sarebbe andato tutto bene, che anche quella notte orribile sarebbe trascorsa, che la luna sarebbe sorta di nuovo sulle loro vite perché il sole, il sole sarebbe stato troppo luminoso. Il sole avrebbe ferito i loro occhi.

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Capitolo 3
*** III ***


Per questo esistono le donne? Pensò. Non sono che un buco nero in cui si riversano le speranze e che alimentano le frustrazioni degli uomini. Agganciato alla cintura, sotto la camicia bianca, teneva un paio di manette. Le prese ghignando, le prese con la consapevolezza che lei non avrebbe mosso un muscolo. Il polso sinistro della giovane era sottile, poteva vedere le sue piccole vene e sentire la vita scorrerle appena sotto la pelle. E la pressione sanguigna di lei abbassarsi, lentamente e inesorabilmente. La incatenò al letto irritandosi ancora nel vedere che non reagiva, e non avrebbe reagito. E non avrei reagito se non per guardare lei… Brittany. Perché non vorrei far altro che stringerla fra le braccia e piangere, piangere per noi che non ci conosciamo ma che ci troviamo nello stesso vicolo fatiscente e andiamo chissà dove. Chissà per chi.

E pensò che se fossero state insieme fino al loro ultimo giorno non sarebbero state più sole.

Sospirò. Santana era molto debole. E lo schiaffo che sopraggiunse all’improvviso le fece perdere conoscenza. Ancora. Eppure qualcosa impedì alla sua mente di spiccare il volo e andare via, come se la mano di quella giovane la tenesse ancorata a quel letto. Brittany la vide spegnersi e la stretta sulle sue dita farsi labile mentre il suo capo scivolava di lato e i suoi occhi neri non la guardavano più. I rivoli di sangue che le scorrevano sul viso sembravano lacrime.

Sebastian. Lui e la sua rabbia le entravano dentro. Sciabordava, sciabordava in lei come il mare e come una tempesta si accaniva su quel terreno ambrato, e dolce. E lei pianse e per un attimo desiderò che qualcuno avesse pianto per lei, la prima volta. La prima volta. La prima volta che tutto quello era successo. Si maledisse per non avere la forza di proteggerla, per il fatto che quella giovane era entrata nella sua vita solo da pochi minuti eppure aveva già infranto la coltre di apatia che aveva eretto fra sè e il mondo. Fra sé e Dio.

E quando infine quell’uomo dal ventre pronunciato e i capelli brizzolati si sollevò da lei, lasciò sul suo ventre e sul suo seno una scia umida, in quel momento, realizzò che quell’odore acre non le si sarebbe mai levato di dosso. Mai. E che il profumo dolce di quella donna, mischiandosi a quello del sesso e del sangue, le parlava, implorandole di agire. In un modo qualsiasi.

Lui si vestì con un ghigno soddisfatto e Brittany notò come per quella volta avesse dimenticato di togliersi la fede ormai opaca, ormai intrisa degli umori di lei più che di quelli della moglie; Brittany indossò la sua vestaglia nera, e non fu pronta quando una mano grande si serrò attorno al suo polso.

“Sebastian, vai via, per favore, sono così stanca…”

“Di’ alla piccoletta di non provare a raccontare quello che è successo in questa stanza, perché se ne pentirebbe. E anche tu. Hai capito?”

La ragazza bionda schiuse le labbra, ma non riuscì a parlare. Abbassò lo sguardo prima che egli afferrasse il suo viso e, Dio, gli occhi di quella donna erano gli occhi più espressivi che avesse mai visto. C’era tutto il mare dentro. Il mare che d’inverno non trova pace. Il mare di un mondo in cui non esiste estate né primavera. E quando fu costretto ad abbassare lo sguardo, infilò una mano nella tasca dei calzoni, prendendone una piccola chiave argentata, mostrandogliela.

“Guarda” disse lui semplicemente e lei spalancò gli occhi e non fu abbastanza rapida e non riuscì a strappargliela dalle mani. Dannazione. Dannazione. Guardò quella ragazza priva di sensi si avventò di nuovo su di lui raccogliendo ogni barlume di forza che ancora riluceva nei suoi occhi. Ma sono esausta. Sono talmente stanca che vorrei smettere di respirare, adesso. Dio mio. E quella chiave, quella chiave, cazzo, è in mano sua ed io ne ho bisogno per lei. Per noi.

“Non ho alcuna intenzione di dartela, mia cara.” Rise facendo alcuni passi verso la porta.

“Smythe, dammi subito quella chiave” e lui si avvicinò di nuovo, mentre chiudeva a pugno la mano e stringeva quel piccolo oggetto. “Non. Provare. A. Dirmi. Cosa. Devo. Fare. MAI.”

Voltò le spalle e se ne andò, lasciandola lì, senza sapere cosa fare.

Quando la porta battè forte, Brittany trasalì e non potè fare a meno di mettersi le mani fra i capelli. Si voltò di scatto, quando si ricordò della ragazza che giaceva ferita dietro di lei, spalancando gli occhi. Si avvicinò e per un attimo non riuscì a distogliere lo sguardo quelle sue labbra imbrattate di sangue, ma comunque bellissime. Ebbe pietà, come non ne aveva avuta mai e quando si accorse che i suoi vestiti erano strappati e il suo corpo esposto come carne da macello, la coprì con un lenzuolo. Poi le strinse la mano, la stessa mano che prima aveva allacciato alla sua e la trovò calda, calda e delicata e la portò sul suo volto, incominciando a piangere. Perché nulla aveva fatto, nulla aveva potuto. E quella donna adesso giaceva lì e, pensandoci, fu sicura che ella stesse sognando di essere morta e di non riaprire più gli occhi, mai più, nemmeno fra mille anni. Ma le speranze di una giovane sono vane quanto le gocce pulite di pioggia nel ripulire una palude. E quello. Quello non sarebbe stato che l’inizio.

Ricordò come si chiamava, perché quel nome l’aveva marchiato a fuoco da quando per la prima volta Sebastian lo aveva pronunciato. Santana.

Correrò da te, e ti strapperò dal tuo sonno.

“Santana, Santana, svegliati. Per favore, ti prego... svegliati.” Supplicò, usando la mano libera per scostarle i capelli sudati dagli occhi e ancora una volta le parve bellissima. Troppo bella per essere toccata da lei, troppo bella per camminare in mezzo a tutta la melma che qualcuno ha disposto per noi, affinchè soffrissimo tanto da non poterlo raccontare.

E finalmente Santana parve svegliarsi da quel torpore, cercando di muovere il braccio ancora incatenato alla spalliera del letto per poi emettere un sibilo, a denti stretti. Brittany pensò a come dovesse dolerle terribilmente, a come ogni nervo del suo corpo avesse bisogno di conforto. Un po’ almeno, quel poco che avrebbe potuto darle.

Schiuse le labbra ma l’aria era stagnante e pesava sul suo petto come un macigno, impedendole di respirare mentre il tetto sembrava distante e bianco come il paradiso. Dove sono, si disse. Perché non sono nel mio letto, perché ho questo odore addosso. E la parete è spoglia, non vedo la mia foto, quella con la mia famiglia. La mia famiglia vera, quella che amavo e che mi amava di un amore così dolce da rendermi completa. Ma non è più tempo, per noi. Non esistiamo più e non esisteremo se non in un'altra vita. Eppure qualcuno mi tiene la mano ed è un contatto talmente dolce che.

Mi sta guardando, piange sulla mia mano e sorride quando i miei occhi si fermano sui suoi. Come se mi avesse rapita e m’avesse portata in un luogo in cui non esistono pene, adesso non sento più dolore. Sento solo lei.

 

Sebastian aveva detto il suo nome, sì lo aveva fatto, e il suo cuore l’aveva custodito gelosamente. Sai, Santana, un giorno dirò che ti amo come non ho amato mai. E come mai amerò.

“Hei” disse soltanto mentre la giovane cercava di muoversi, per poi ricadere sulle lenzuola con un gemito di dolore. “Hei, ferma, per favore.” E l’altra avrebbe schiuso le labbra, senza parlare, scoprendo quanto quella voce le piacesse e quanto fosse capace di lenire il suo dolore.

“Brittany? Q-quel tizio ti ha chiamata c-così.” Non era una domanda, non lo era affatto. La bionda annuì forte forte.

“Sì, sono Brittany”

“Brit-tany, ti prego, liberami da questo a-affare. Ti prego. Ti prego.” Ti prego diceva, e il suo braccio prese a tremare. Il rumore metallico della manetta sul suo polso era sgradevole come il suono di una lama sul ghiaccio e in quel momento Brittany seppe che quella ragazza avrebbe pianto e lei avrebbe dovuto fare il possibile. E anche di più. Tutto pur di aiutarla.

Le lasciò la mano, si asciugò le lacrime mentre Santana per un attimo ebbe paura e smise di respirare. I suoi occhi azzurri erano gelidi, le labbra serrate, le mani strette in due pugni. Perché l’avrebbe colpito –Lui, quel bastardo- fino a spegnere quella luce cattiva dai suoi occhi. Strinse più forte il nodo della vestaglia che indossava e guardò Santana quasi a fissare ogni particolare di lei, ogni ferita, ogni ansito che prorompeva da quelle bellissime labbra. E pregò Dio affinché trovasse presto ciò che cercava. Pregò Dio, affinché al suo ritorno lei fosse ancora lì.

 

Dave e i suoi clienti la videro uscire correndo dalla stanza, a piedi nudi, quasi nuda e istantaneamente cessarono le loro occupazioni e la guardarono. Lei non se ne curò e non se ne sarebbe curata mai e sarebbe uscita fuori da quel dannato locale e alla fine avrebbe trovato qualcuno che la aiutasse.

Ma.

“Dove vai?”

“Dave, lasciami, quella ragazza sta male, devo aiutarla, devo chiamare qualcuno… chessò… un dottore…”

“Non puoi, lo sai benissimo”

“Vai a farti fottere, Dave”

Ti costerà caro questo tuo colpo di testa, sappilo, Brittany.

Ma lei era già fuori e non l’avrebbe udito.

 

Il cielo era nero come gli occhi di Santana. Ma se qualcuno lo avesse chiesto, avrebbe risposto che gli occhi di lei erano profondi più che l’universo, e infiniti come l’etere o il paradiso. E non si domandò perché stesse correndo così veloce nella notte, non le importò nemmeno per un istante saper come quegli occhi l’avessero stregata, e soprattutto in quale porto avrebbe attraccato, dopo tutto quel vagare. Improvvisamente la casa del medico le parve troppo distante e le sue membra troppo stanche anche solo per muovere un passo in più. Si accasciò a terra, in ginocchio, ai margini del fitto bosco del suo Maine. Del Maine dove era cresciuta e che non avrebbe mai abbandonato, neanche volendo. E se ci fosse stata anche Lei, fu sicura che avrebbe potuto superare qualunque cosa.

Cazzo. Cazzo. Cazzo. Si ferì le nocche a furia di tirar pugni all’asfalto, ma sembrò non rendersene conto. Il calore del sangue parve risvegliarla da quel torpore e avrebbe fatto tutto da sola. Improvvisamente –improvvisamente seppe cosa fare.

 

***


 

Mmmh, okay, sono consapevole del fatto che questa sia una fan fiction “inusuale”, sia a livello di tematiche sia per quanto riguarda lo stile, ma vorrei precisare due cose: la prima è che sarà una long fic (ma questo suppongo l’abbiate già intuito ^^), la seconda è che non ho la minima idea di come andrà a finire. Suppongo che ad un certo punto saranno i personaggi stessi a dirmi cosa fare.

Fatemi sapere cosa ne pensate tramite recensioni, se vi va ^^”  per il resto, a prestissimo con il nuovo capitolo (che è già in fase di stesura). 

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Capitolo 4
*** IV ***


Dave riprese il suo posto dietro al bancone, visibilmente preoccupato. Ma non gli venne in mente nemmeno per un secondo di rincorrere quella ragazza, di fermarla. La città era dalla sua parte. E lei. Lei era in trappola come un come un piccolo coniglio impaurito. Se avesse voluto a tutti i costi salvare quel coniglietto bruno, se avesse davvero voluto condurla via di lì –e avrebbe voluto, l’aveva letto nei suoi occhi-, l’avrebbe trascinata con sé nel baratro. Perché chi si immerge nell’oscurità non può che uscirne intriso sin nelle ossa. E forse anche nel cuore.

Sollevò lo sguardo verso i suoi clienti: pensò che essi stessero pensando che questa volta qualcosa fosse successo, e fosse successo davvero, perché mai la ragazza era uscita fuori da quella camera. Alcuni di loro non l’avevano mai nemmeno vista. Mai. Se non nei loro sogni; e il trovarsela davanti, col trucco sfatto ma bellissima, aveva rinfocolato in loro il bisogno di averla. Tutti, nessuno escluso, si appuntarono mentalmente di prenotarsi per farsi un giro o due nei prossimi giorni. Si sarebbero tolti la fede, l’avrebbero messa in tasca e avrebbero dimenticato di essere sposati, o di essere cittadini illustri, senza pentirsene nemmeno una volta.

Il pensiero di Dave corse a Brittany, chiedendosi cosa sperasse di fare, lì, in quella città dimenticata da Dio, dove tutto era in mano di chi. Di chi? E non esisteva compassione, perché l’occhio di Dio non vede, dove non vuole vedere. E quelle due ragazze avevano peccato terribilmente e sulla terra avrebbero scontato la loro pena, per tutta la durata della loro vita e oltre sino all’infinito, se fosse stato necessario.

A volte il fato sembra tendere la mano e stringerla, per poi lasciarla quando il bisogno di essa diventa impellente.

Cazzo.

Come una corda che si spezza, la sua veste si impigliò in un ramo, strappandosi e trascinandola nella terra umida. Eppure alzarsi dopo una caduta non le era mai parso tanto semplice perché correre da lei era il suo unico pensiero. Non vi era nient’altro nella sua mente, nient’altro nei suoi occhi resi cupi dalle tenebre. Santana, aspettami, ti prego. Ti prego, sto per arrivare.

Qualche minuto dopo il bosco si era diradato appena e la luna illuminò una capanna. La legna era accatastata ordinatamente e lei si guardò attorno come se stesse cercando qualcosa. Pochi minuti ancora e sarebbe tornata da Lei.

 

Il suo braccio tremava e a furia di tenderlo la pelle si era lacerata in qualche punto sanguinando copiosamente. Quel liquido era caldo e scorreva lungo l’arto, sino al gomito, sporcando le lenzuola. Mordendosi il labbro inferiore, pensò che sarebbe rimasta lì anche nell’ora della sua morte, ma Brittany aveva detto che sarebbe tornata, che.. che… Niente. Perché in fondo poteva esserle successo di tutto, poteva anche aver incontrato il ragazzo delle manette e lui avrebbe potuto farle del male. E. Dio fai che stia bene.

Cerco di sistemarsi meglio sul letto, cercò di appoggiarsi alla spalliera e rilassare il polso ferito, ma il suo busto non resse e in quel momento ricordò distintamente il rumore secco di qualcosa che si rompeva, in lei, da qualche parte sotto il suo seno. E il suo ventre bruciava, terribilmente. Ma forse. Forse se l’era meritato, perché era scappata, e il fato l’aveva trovata ugualmente e non lo sapeva ancora, ma l’avrebbe scovata in ogni antro del suolo, perseguitandola e ferendola ogni volta un po’ di più a fondo.

Sebbene non ci credesse, si disse che se quella ragazza bionda l’avesse aiutata, avrebbe fatto qualcosa, qualunque cosa, per trascinarla via da quel letto. Perché pochi minuti erano passati, eppure fu come se il fato l’avesse chiamata e si disse che dopotutto aveva fatto bene a scappare sbattendo la porta di casa sua, anche se ciò avrebbe significato incontrare Sebastian e andare in contro allo stesso ineluttabile destino. Se fosse rimasta dov’era, se fosse rimasta fra le lenzuola rosse del suo letto, qualcuno le avrebbe fatto ancora più male. E avrebbe pianto, tutta la notte. Ma soprattutto, non avrebbe conosciuto Brittany e non avrebbe riso mai più.

E all’improvviso: una porta vetrata che sbatteva, voci concitate. Qualcuno, forse il barista che aveva visto, gridò “che cazzo vuoi fare con quella cosa?”. Silenzio.

Poi una voce femminile rispose. E quasi sorrise nel dolore al pensiero che quella voce appartenesse a Lei.

 

“Aaaah!”

Inciampò in sasso e cadde a terra rumorosamente, un rumore sordo nella notte, mentre l’oggetto che teneva in mano finiva a qualche metro da lei. Si alzò e zoppicando lo raccolse. Ancora pochi metri. Pochi metri, si disse, e riscriverò la mia storia.

Spalancò la porta a vetro e tutti si voltarono a guardarla e si disse che qualora l’avessero fermata non avrebbe risposto delle sue azioni. Dopo un attimo, quando tutti tornarono alle loro occupazioni, fece per muoversi. Qualcuno la trattenne e quando si voltò scorse lo sguardo sconvolto di Dave. Cercò di divincolarsi, mentre lui stringeva più forte il suo braccio. Fino a farle male.

“Che cazzo vuoi fare con quella cosa?”

L’aria era satura di parole non dette, di paure inespresse. Ma non sarebbe tornata indietro nemmeno di un passo.

“Devo aiutare una persona.” Rispose per poi dirigersi verso la sua camera.

“Parli di quella ragazza?”

“Sì”

“Vengo con te.”

Brittany si voltò di scatto e per un attimo Dave ebbe paura. Si fermarono entrambi mentre il ragazzo indietreggiava di un passo e lei si avvicinava al suo viso. Quando con le sue labbra frantumò il silenzio, il respiro caldo di quella giovane donna lo sfiorò, delicato come una carezza, furente come la brace di ogni fuoco che lei avrebbe acceso in futuro -sebbene non lo sapesse ancora. Per riscaldare le mani fredde di chi amava, per spogliarla e farla sua anche quelle volte in cui le nubi spegnevano la luna ricoprendo i loro corpi con un manto di nebbia.

“Non azzardarti ad avvicinarti a lei, non ci provare. Non era nei patti. È di me che puoi disporre come vuoi e io continuerò a fare la puttana per te. Ma tu. Sta’ lontano da lei. Il gioco sta diventando pericoloso, Dave. Non te ne accorgi? E ora lasciami, devo andare.”

E lui la lasciò, proprio come lei aveva ordinato.

Ogni passo che l’avvicinava a lei era un tonfo al cuore e quando si trovò davanti alla porta non attese oltre e la spalancò sperando con tutta l’anima di trovarla lì. Lì per lei. E che si sarebbe lasciata aiutare perché quello che aveva subito era tutto sbagliato e nessuno, nessuno era stato in grado di difenderla. Maledisse se stessa ed entrò: e si sorprese a pregare. A pregare come non aveva fatto mai, con le mani serrate e i muscoli tesi; con il sangue che bussava nelle tempie e offuscava la vista.

I occhi le si riempirono di lacrime quando vide che Santana era ancora dove l’aveva lasciata, che aveva creduto in lei, che fissava la porta e l’aspettava come si aspetta la venuta di un dio che scende sulla terra.

“Brittany s-sei tornata. Sei tornata davvero.” Spalancò gli occhi sorpresa come se avesse perso le speranze.

“Non ti avrei mai lasciata qui, mai.” Le accarezzò il viso sporcandosi le mani e si accorse che il sangue di lei era caldo come l’inferno e che il suo sudore era gelido. Talmente freddo da costringerla a tremare. E la catena che la inchiodava al letto era tesa e la manetta le aveva tagliato la carne quando lei aveva provato a liberarsi.

“M-mi fa male Britt”

La bionda si asciugò gli occhi col dorso della mano.

“Cosa? Cosa ti fa male?”

“Tutto. E il b-braccio, troppo”

Brittany salì sul letto e Santana notò la sua veste strappata, le mani sporche di terra, le braccia graffiate. E quando vide l’ascia che teneva dietro la schiena non ebbe il tempo di dire nulla, perché la ragazza la abbracciò, piano piano, piangendo. E non capiva, non capiva perché in un mondo in cui ognuno prosegue ininterrottamente per la sua strada senza voltarsi indietro, quella ragazza la stesse stringendo e singhiozzasse che avrebbe voluto fare qualcosa, ma che aveva avuto paura, perchè Sebastian era forte, troppo, per lei. Quando finalmente alzò lo sguardo e la vide sorridere, per un momento, le parve che il mondo si fosse fermato e che il tempo avesse smesso di scorrere.

“Sono felice di averti incontrata.”

“Aiutami Brittany, non mi lasciare.”

“Ssssh.. Non ti lascio.” Le diede un bacio sulla fronte. “Ti prometto che mi prenderò cura di te.”

 

Prese l’ascia e Santana spalancò gli occhi. “Cosa vuoi fare?” chiese ed ebbe paura, paura che il destino si fosse accanito contro di lei, che non avrebbe più rivisto la luce della luna, o il luccichio dorato di una candela. Ma poi guardò gli occhi della ragazza bionda e vi scorse speranza e devozione.

“Dimmi se ti faccio male, ok?”

Santana annuì realizzando che a quella giovane dagli occhi azzurri avrebbe affidato la sua stessa anima. E quando Brittany pose il braccio destro sotto il suo collo e il sinistro sotto i suoi fianchi, pensò che quel contatto da solo sarebbe bastato a salvarle la vita. La portò più vicino al letto, affinché il suo braccio non fosse più in tensione e la catena aderisse alla spalliera.

“Ti ho fatto male?” chiese preoccupata. L’altra scosse la testa e non appena Brittany si voltò per prendere l’ascia abbandonata fra le lenzuola, nel suo lato del letto, capì cosa sarebbe successo e non ebbe bisogno di pregare.

Ma la bionda aveva chiuso chi occhi, una mano fra i capelli, i denti serrati e si ripeté che se non vi fosse riuscita sarebbe stata tutta colpa sua, che se quella meraviglia che giaceva sul letto si fosse anche solo fatta un altro graffio ancora, non avrebbe avuto modo di espiare la sua colpa se non con la morte. Riuscirò a liberarla da questo mondo osceno? E come farò a salvarla? La guarirò o sarò per sempre colpevole di averla sporcata?

Santana era allo scuro del suo dibattito interno, ma si fidò, si era fidata nello stesso istante in cui quella ragazzina le aveva sfiorato la mano per la prima volta. La guardò, le sorrise, per poi respirare piano sotto le ossa rotte. Sono pronta, disse in sussurro.

Brittany prese l’ascia con entrambe le mani e la strinse forte forte. Le nocche diventarono bianche mentre il sangue smetteva di fluire fra i muscoli contratti.

Non dovevi inciampare qui Santana, non dovevi. Chi entra non esce più e tu ti trovi dove mi trovo io e soffri le mie stesse pene. Pur se non lo meriti. Ci ameremo come nessuno si è amato mai ed io non ti rinnegherò, nemmeno in un'altra vita. E tu? Tu riuscirai a salvarti da tutto questo male? Riuscirò a salvarti? Non so da dove vieni, ma adesso sei qui. Colpevole quanto me. Un angelo con una pena da scontare.

Santana tese la catena quanto più ne era in grado, sebbene la pelle bruciasse e il sangue scorresse.  “Brittany, ti prego.” Disse, non riuscendo più ad aspettare. “Ti prego.” Ripetè.

Fu un attimo.

Un attimo in cui la catena si spezzò e il suo braccio insanguinato cadde sulle lenzuola, immobile, mentre l’articolazione della spalla parve strapparsi come carta bagnata. E non ebbe nemmeno la forza di gridare. Solo guardò il soffitto, poi chiuse gli occhi e poi si addormentò.

Brittany lasciò cadere l’ascia a terra. Il tonfo sordo la riscosse dai suoi pensieri. Poi si arrampicò sul letto e strinse quelle lenzuola con le unghie cerchiate di terra come se lasciandole temesse di precipitare al suolo dal dirupo alto del monte più alto.

La abbracciò piano per non farle male e pianse, pianse più che potè. E di nuovo nella sua vita si trovò a pregare. A pregare davvero. A pregare davvero un dio sperando con tutto il cuore che esistesse.

Se potessi custodirei in me tutto il tuo dolore, Santana. E ti assolverei da ogni colpa. Non ci sarebbero più lacrime e sacrifici per te dopo questa notte in cui hai conosciuto tutti i mali del mondo.

 

 

Capitolo difficile, ma alla fine ci sono riuscita: eccolo! Fatemi sapere cosa ne pensate, mi raccomando. E cercherò anche di essere un tantino più veloce, perché la storia, salvo cambiamenti, potrebbe risultare piuttosto lunga. Un bacio a tutti e pregate per il nostro amato Brittana! ;)

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Capitolo 5
*** V ***


“Che cazzo stai facendo, Brittany? Se vuoi scopartela anche tu fallo a casa tua per favore. Io devo chiudere.” Quanto tempo era passato? La ragazza alzò lo sguardo piangendo e le parve che Santana stesse soffrendo terribilmente ma non osasse lamentarsi. Era pallida, il suo colore bellissimo ormai sepolto sotto le lenzuola sporche di sangue, da qualche parte fra l’umiliazione e la sofferenza, fra il suo essere donna e il non esserlo più. E chissà se lo sarebbe stata ancora, un giorno. In quel momento si promise che avrebbe fatto di tutto per restituire ciò che aveva perduto e fu certa che quella ragazza le avrebbe dato altrettanto e forse anche di più.

Si alzò di scatto, dirigendosi verso un vecchio cassetto, aprendolo con foga. Tirò fuori una vecchia maglia grigia e con un ruggito ne strappò le cuciture. E si avvicinò a Santana, le sollevò appena il polso chiedendole di avvertirla qualora le stesse facendo male. E incominciò a fasciarlo, piano piano, dolce dolce.

Faceva male ma Santana non avrebbe emesso un sibilo dalle sue labbra e quasi si commosse quando una lacrima di Brittany scivolò sul suo braccio mescolandosi al sangue. Si chiese, poi, semmai qualcuno l’avrebbe liberata anche da quel braccialetto di metallo, o se esso sarebbe rimasto per sempre su di lei, come una cicatrice. Ricordandole quella notte ogni volta che avrebbe  compiuto un passo per incendiarne il ricordo. Non sapeva ancora che un giorno avrebbe amato quel cerchio di metallo come il più lucente fra gli anelli, perché senza di esso non avrebbe intrapreso la scalata verso la vetta –oltre la quale non c’è nulla, oltre la quale non si torna indietro. E, cosa più importante, non avrebbe mai avuto Lei. Loro. Le donne che le sarebbero state accanto sino all’attimo prima della fine.

“Mi hai sentito? cazzo, ti voglio fuori in due minuti o sfondo la porta! E trascina quella puttanella con te, non m’importa se la lasci nella prima pattumiera che trovi. Portala, fuori, di qui! Hai dato già abbastanza spettacolo questa sera!”

Santana si riscosse dal suo torpore e guardò Brittany che era rimasta immobile e non parlava.

“Britt, Britt.” La bionda si riscosse dai suoi pensieri e si voltò a guardarla. “Io non ho dove andare.”

“Sei troppo bella per finire in una pattumiera.” Santana ridacchiò sommessamente, premendosi la mano appena sotto il seno.

“Non mi sento particolarmente desiderabile, sai?” fece per alzarsi. Un secondo appena e poi ricadde con un gemito sul letto. “Beh, suppongo di non poter andare da nessuna parte”.

“Non ti lascerò qui, Santana. Giuro che ti porterò fuori da questo schifo. E se non dovessi riuscirci rimarrei qui ad aspettare. Con te. È il minimo che possa fare per non aver nemmeno provato a difenderti.”

Si avvicinò a lei e nel bacio che le diede sulla tempia indugiò un po’ quasi volesse dirle che per una volta non avrebbe dovuto aver timore di lasciarsi aiutare. Perché le fu subito chiaro che quella giovane era stata sola per tutta la vita e sarebbe rimasta sola ancora e ancora se qualcuno non l’avesse stretta a sé, rassicurandola. E lei sarebbe stata il suo mantello nelle notti più fredde –Dio, fa’ che mi voglia con sé. In cambio ti darò tutto quello che vorrai. Tutto. Il mio sangue scorre per riscaldare la sua pelle e placare i suoi brividi. Non so nemmeno chi sia, non so nulla di lei, eppure la sento, e brucia come brace incandescente sotto le mie dita –come una consapevolezza.

Se tu mi vorrai io rimarrò con te, in questa notte, nella prossima e in quella dopo ancora, stringendoti per farti addormentare. Finchè non mi sarò perdonata, finchè non morirò proteggendoti e restituendoti quello di cui in questa notte ti hanno privata. Una famiglia, una casa. Ma nessuno potrà mai privarti di ciò di cui ti farò dono. Non è molto ma è tutto quello che ho. Prendilo, stringilo fra le mani. E io, in cambio, porterò sulle spalle tutto il tuo dolore.

“Non è colpa tua.” Mormorò Santana. “Non sei stata tu a costringermi a scappare di casa, non sei stata tu a farmi… questo. Anzi. E anche se mi lascerai da qualche parte, te ne sarò per sempre grata. Hai fatto più del tuo dovere. E non voglio recarti altri problemi.” Le sue parole erano roche di pianto e di dolore e a Brittany venne voglia di stringere quelle piccole mani fredde fra le sue e baciarle per infondere loro calore –e anche un po’ di speranza.

Le prese il braccio sinistro, appena sotto il polso e serrò gli occhi quando udì il grido della ragazza, senza che nulla potesse fare, senza che nulla potesse dire: la spalla doveva essere strappata, o lussata o chissà che altro e ancora una volta si rammaricò di non poter far nulla.

“Resisti, tesoro, per favore. Per favore. Ti prego.”

“Brittany, Brittany, cazzo, fa piano.”

L’una sentiva il dolore dell’altra e le loro lacrime si mescolavano insieme. E quella ragazza bionda, con la veste strappata non aveva mai sofferto tanto nella sua vita. Desiderò che il suo petto si squarciasse a patto che la sua mente si ripulisse di ogni pena. Il grido di lei le perforò le ossa e quando finalmente il braccio ritornò in asse col suo corpo, sospirarono entrambe –Santana che non piangeva, Brittany sì e bisbigliava. Bisbigliava che avrebbe mai voluto farle del male, che era necessario, che non era giusto, che, che, che. Che da quel giorno l’avrebbe protetta e avrebbe sofferto al posto suo ogni male e se Dio non avesse voluto le avrebbe comunque tenuto la mano, per non lasciarla mai.

E di nuovo lui parlò dietro quella dannata porta e sembrò loro che ridesse.

“Cazzo, Brittany, allora te la stai scopando davvero? Devi essere brava per essere riuscita a farla gridare in quel modo.” La ragazza strinse le labbra, si alzò, indossando poi un paio di vecchie scarpe, poi si girò e guardò Santana. Le diede un bacio e asciugò gli occhi azzurri sulla sua maglietta –per un attimo si illuminò e parlò piano. “Questa notte è finita, San, è finita.” Disse e la prese fra le braccia. “Andiamo a casa, devi dormire.”

“Io non…”

“Cosa?”

“Io non posso tornare a casa. E non voglio.” Disse accigliandosi mentre Brittany sorrise di nuovo e Santana fu certa che quella non fosse altro che una dea scesa in terra per lei e solo per lei. E quella notte anche la luna sarebbe stata più luminosa e l’alba rosata come la sua pelle. E il letto si impregnerà del mio odore che si mescolerà al suo e le mie mani stringeranno forte il cuscino dove  tante notti lei avrà pianto e avrà sperato –sperato di morire, sperato di non svegliarsi se non in un’altra vita.

Dormirò in un letto dove nessuno ha mai fatto l’amore, nemmeno lei.

“Non ti lascerei mai tornare a casa Santana, mai. Non ti lascerei con qualcuno che ti fa paura. Spero tu abbia fiducia in me. Perché io lo so già. So che devo prendermi cura di te, ora e finchè tu vorrai: ti stavo aspettando.”

La avvicinò a sè un po’ di più, attenta a non farle male. E aprì la porta con la chiave che stringeva fra le dita. E forse sarebbe stato l’inizio di una stagione nuova in cui il dolore sarebbe stato dolce da reggere come dolce era il peso di lei. Per la prima volta non ebbe paura: mentre guardava quel piccolo corpo aggrappato a lei avvertì terso il presagio della fine –come mille gocce d’acqua che scendono gelide dal cielo. Ma non se ne curò, e non se ne sarebbe curata mai finchè un barlume di vita avesse dimorato nelle sue membra –finchè, in questo inferno, ci fosse stata Lei.

 

Dave chiudeva le imposte aperte. Si voltò quando sentì dei passi pesanti alle sue spalle e, voltandosi, trovò che quella fosse la scena più dolce che avesse mai visto. Brittany stringeva fra le braccia quella donna quasi fosse fatta di cristallo mente lei aveva chiuso gli occhi sul suo petto, e respirava piano piano. Ed era così dolce che. Che per un attimo provò pietà per entrambe e si accorse che quella non era la vita che aveva scelto. Troppo tardi. Troppo tardi. Non c’è più niente da fare.

Si chiede cosa sarebbe successo d’ora innanzi e forse ora quella giovane bionda sarebbe corsa via, fuori dalla sua vita, e non avrebbe più avuto più amici da tradire come aveva fatto con lei. Per la prima volta ebbe pena di se stesso e tutto il denaro che lei aveva fruttato non sarebbe valso nulla. Meno di niente, meno d’un mucchio di pietre.

Brittany non lo guardò -e forse nemmeno lo vide- e quando giunse davanti alla porta la aprì con una spinta, attenta a non fare del male a lei, che di tanto in tanto apriva gli occhi e la guardava con le sue iridi nere. Santana, leggo riconoscenza nei tuoi occhi, ma non la merito. Meriterei di essere legata ad una croce e tu mi guarderesti da lontano mentre ti imploro, ti imploro mille volte di stare lontana da me. Quale tremenda colpa hai commesso per essere condannata a rimanermi accanto? In tutte le tue vite, Santana, fui io la tua colpa? O fummo l’una la colpa dell’altra?

 

Il corpo di lei fra le sue braccia sembrava privo di peso; non le dolevano le braccia, né le gambe. Eppure nelle sue narici l’odore di lei era forte e la pervadeva quasi si trovasse al cospetto del suo santuario. E quella donna che pareva una bambina, di tanto in tanto apriva gli occhi per poi chiuderli di nuovo prima che la nausea la invadesse. Quando Brittany la adagiò sul sedile posteriore di una vecchia auto sentì il petto andare a fuoco e le parve di morire un po’ ad ogni respiro. Se solo avesse potuto impedirsi di respirare! Se solo avesse potuto, non avrebbe più patito alcun dolore e finalmente avrebbe potuto riposare. Impallidì ancora, come qualcosa avesse ceduto e in un attimo le mancò il respiro.  E non ebbe nemmeno la forza di gridare.

Poi tossì sulla veste scura di lei che le era vicina e la ragazza spalancò gli occhi, disperata. No, non poteva, non poteva! “Santana!” Le labbra della ragazza erano macchiate di rosso e Brittany. Brittany non seppe cosa fare.

Ti prego, non morire, non morire.

“Hei.” Ridacchiò la mora. Pensò che avrebbe rivoluto vedere il cielo per l’ultima volta, cantare piano all’orecchio di chi amava. Di chi, forse, in un futuro, avrebbe amato. Ma ora il futuro si era perso nel Mai e presto il “sono” sarebbe diventato “ero”.

“San, cosa c’è? Non parlare, si sistemerà tutto, è una promessa.”

“Sto m-morendo, vero?” la bionda fece per parlare, ma si limitò ad accarezzarle le dita di lei che premevano sul torace mentre aspettava e sperava che qualcuno le dicesse cosa fare.

E poi. Ancora una volta un soffio di vento la ispirò e non le importò nemmeno sapere da dove venisse. Si allontanò da Santana, lasciandole un bacio sulle dita che aveva stretto e rovistò nel portaoggetti della sua auto.

Cazzo. Cazzo. Devo trovarlo, si disse.

E lo trovò: un cellulare. Lo raccolse quando esso cadde perché le mani tremavano, cercò un numero finchè il suo cuore e le sue dita non si fermarono su di esso.

Uno squillo. Due squilli. Tre. Rispondì, forza, forza.

Fece qualche passo verso Santana e perse il respirò quando vide il suo capo reclinato di lato e il sangue nero come la notte macchiare il sedile.

No. No. No, Santana! Avrebbe pianto. Ma poi una voce flebile la raggiunse e anche se non avrebbe dovuto, anche se sapeva di non meritarlo, guardò per un attimo il cielo e ringraziò coloro che tutto le avevano negato, ma non la speranza.

“Brittany? Sei tu?”

“Grazie a Dio...”

“Brittany è successo qualcosa, stai bene?” Udendo quelle parole strinse più forte il cellulare nella sua mano e pianse come ancora non aveva fatto. Dall’altro lato l’interlocutore preoccupato tratteneva il respiro ed ebbe pena di lei sebbene non sapesse perché.

“Una ragazza… s-sta male ed io non so cosa fare.”

“Quali sono i sintomi?”

“Ha dolori al torace, sputa s-sangue… Ho paura che sia grave…”

Vi fu un solo, lunghissimo, attimo di silenzio.

“Portala subito qui. Fai attenzione.”

“Sì. Sì grazie, Quinn.”

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Capitolo 6
*** VI ***


I rami degli alberi e le luci dei lampioni le scorrevano innanzi attraverso il finestrino, riflettendosi nei suoi occhi opachi mentre il cielo si confondeva alla nebbia e la nebbia si confondeva al cielo. La fine del sentiero, del percorso, della strada sterrata su cui aveva mosso i primi passi, appariva ormai incombente come la propria ombra.

Per quanto tempo riuscirò ancora a respirare? Si chiese. Sarà questa la mia ultima luna?

E Brittany guidava, voltandosi di tanto in tanto a guardarla, ed evitava ogni sasso, ogni buca nell’asfalto perché lo sapeva, lo sapeva che ne valeva della vita di lei. Se fosse stato necessario avrebbe percorso quella strada a piedi con la sua veste strappata e Santana fra le braccia. Affinchè non un sussulto avesse potuto scuoterla, nemmeno uno.

“Brittany.”  Se avesse potuto, la ragazza avrebbe raccolto le sue forze, il suo busto si sarebbe piegato e l’avrebbe raggiunta, passando le proprie mani attorno al poggiatesta e poi alla base del suo collo, stringendola. Ma non potè. E il dolore la divorò come una belva che si accanisce sulla preda ormai sfinita. Un fiotto di sangue venne fuori dalle sue labbra mentre quel sapore la infestava e per la prima volta non fu più tanto sicura di non meritare quello che le sarebbe accaduto.

Non era stata amata mai e mai avrebbe amato a sua volta: era stata condannata dal tempo a espiare la sua colpa nelle ere e, attraverso i secoli, nulla era cambiato: qualora avesse conosciuto l’amore, qualora avesse stretto le sue mani calde e avesse potuto stringerle davanti ad un camino accesso, esso le sarebbe strappato via. Il fato è un rapace, pensò, e a me ha strappato la vita. La vita. E soprattutto il cuore.

“Santana, Santana, cazzo, oddio, no, no, no.” Brittany accostò e la strada era deserta come la sua mente. Vi marciava solo il nome di lei e l’eco di quei passi risuonavano come rombi di tuono in una stanza vuota. Santana. Santana. Dio mio, fai che non muoia. Dio, Quinn mi sta aspettando, devo andare da lei. Devo...

Ancora sangue su quel viso, lo vide, con i suoi occhi, mentre sgorgava da quelle labbra splendide e colava di lato, sul suo viso, come lava ardente. Scese dalla macchina –che lasciò accesa-, aprì con un colpo secco quella dannata portiera e si chinò su di lei. Ed ebbe una paura folle che se ne fosse andata.

Pianse su di lei, che non si muoveva, che non parlava e non capiva, non capiva, Dio cazzo, se fosse ancora viva. Le sue labbra socchiuse erano immobili, ogni cosa era immobile e anche la brezza si era ormai adagiata al suolo –poi non vi era alcun rumore. Adesso più che mai avrebbe dovuto ascoltare. Tesoro, scusami. Non dovrei toccarti, né avvicinarmi a te, né guardarti. Mai. Eppure tu sei giunta da lontano come una cometa e mi hai illuminata con il tuo sguardo. Tu mi guardi e io so di esistere, quindi...

“...Santana, non ti lascerò morire. N-no. Ho già sofferto abbastanza. Ho perso t-tutto. Ho visto i miei cari andarsene prima di me. Santana, non ci riuscirei. Tu...” Appoggiò l’orecchio sul suo petto in corrispondenza del cuore, e attese e l’attesa le parve interminabile. Sussurrò fra le lacrime che era giusto così, che Dio lo sapeva e aveva lasciato che il suo cuore battesse ancora. Piano piano.

Qualunque cosa succeda. Qualunque cosa succeda non lascerò che tu te ne vada prima di me. Mai. E se succedesse tu mi porterai con te.

“Penso di essermi innamorata di te, Santana.” Rise, rise, perché era viva e ora Quinn l’avrebbe aiutata e sarebbe andato tutto per il meglio.

“Uh?” Nonostante le ferite, il dolore e il sangue, Santana avrebbe cercato di vivere. Non per sè stessa, ma per chi, forse, un giorno, l’avrebbe amata.

“Britt?” La bionda la udì e spalancò gli occhi.

“San, ho avuto paura.”

“Di... cosa?”

“Di perderti. N-non sarei mai riuscita a perdonarmi.”

“Io... non vado... da nessuna parte.”

“Ovunque tu vada, io verrò con te. E non dovrai più aver paura.”

 

Quando l’auto si fermò, Santana vedeva solo il cielo, nero e senza stelle, e non sentì più dolore. Avrebbe voluto parlare e dire a Brittany –Sto bene. Non preoccuparti, non preoccuparti più- ma le sue fauci non si mossero e la sua lingua parve incatenarsi al palato.

Qualcuno aprì la portiera.

Fra poche ore sarò morta e nessuno avrà capito perché. Non l’ho detto a nessuno e non lo dirò a nessuno nemmeno stavolta. Ma non per mio volere.

“Quinn, oddio, ti ringrazio. Vieni qui. È... non so che fare... sta... sta morendo vero?”

E la ragazza si avvicinò a quella giovane che giaceva su quei sedili sporchi di sangue, e il suo sguardo che aveva vagato su di lei come un pellegrino, si fermò le sue labbra. Poi si avvicinò al suo petto e ascoltò, spostando una ciocca dei propri capelli dietro l’orecchio. La sua bellezza abbagliava più della luna mentre il suo volto concentrato tradiva la preoccupazione innocente di chi non sa, non capisce, ma è disposto ad aiutare senza ricevere nulla in cambio.

Spalancò gli occhi e si levò in piedi. Guardò Brittany che guardò lei di rimando e la ragazza dagli occhi cerulei non esitò a fare due passi avanti, a prenderla fra le braccia, a dirle piangendo “Allora?” mentre Quinn esitava, il capo chino.

“B. chi è questa ragazza, cosa le è successo?”

“Lei... è. È stata violentata davanti a me.” Disse e per un attimo rivisse ogni ansito e ogni percossa e desiderò tornare indietro per frapporsi a lei, e impedire che potesse anche solo provare a sfiorarne la pelle ambrata. Con quelle mani. Con quelle mani che sapevano di sangue e morte. “Ti prego Quinn, dimmi come sta.”

Brittany si trovava di fronte una ragazza coi capelli biondi arruffati, gli occhi stanchi, bellissimi e verdi com’è un prato una volta sopraggiunto il temporale. “Quinn. Ti prego.”

E finalmente Quinn parlò. La sua voce era dolce e tremava come una candela accesa. Tremava per la sua amica, tremava per quella ragazza che giaceva immobile, tremava per sé e seppe con assoluta certezza che adesso avrebbe dovuto scegliere. E la sua vita sarebbe cambiata, irrimediabilmente per un motivo ignoto ma smisuratamente grande. Grande quanto Dio.

“Brittany. Io non posso far nulla. Non ne ho i mezzi, mi dispiace.”

“No, Quinn, non puoi farmi questo. Aiutami... me lo devi. Mi hai fatto una promessa, Quinn.” Sebbene fosse disperata, la sua voce rimase ferma, perché lo sapeva, dannata ragazza, che quella volta non sarebbe sopravvissuta. Se solo non si fosse innamorata di lei in ogni vita. Se solo i loro occhi non si fossero mai incrociati. Perché, quella notte, da quella porta era entrata Lei: e in un attimo la sua vita era cambiata.

 

Questa giornata non passa mai, pensò. I suoi lunghi capelli castani erano legati, ma alcune ciocche ricadevano sulle sue gote, disordinatamente. Era stanca, stanca di aver passato un'altra notte in quel luogo. E ogni volta che avesse salvato qualcuno, costui le sarebbe rimasto al confine fra cuore e anima. Fra il cuore e ogni singolo pensiero.

Era una notte tranquilla. Era il preludio di un temporale. Poi la vita avrebbe preso a correre inarrestabile e non avrebbe più potuto fermarsi, né pensare. E l’imperscrutabile sarebbe diventato limpido come l’acqua fresca dei ruscelli in cui avrebbero bevuto. Lungo la via per un luogo in cui non si può soffrire.

D’un tratto il cellulare prese a squillare e prima ancora di guardare il display seppe chi fosse. E quando la sua voce la raggiunse per un attimo le si fermò il cuore, sciogliendosi come cera calda fra le dita -bruciando terribilmente.

“Quinn? Non chiamarmi più, ti prego.” La sua voce risuonò nella corsia.

Aveva risposto. Realizzò che fosse notte e che avrebbe dovuto, avrebbe dovuto aver paura. Perché se le fosse successo qualcosa non avrebbe potuto porre le sue mani su di lei, nemmeno volendo. Esse avrebbero tremato e non sarebbero riuscite a toccarla –non dopo quella volta.

“Rachel, devi aiutarmi.”

Silenzio. Avrebbe voluto smettere di evitarla. Eppure avrebbe voluto ancor di più trovarsi sotto tre metri di terra –e riposare. E sognare di averla ancora, e ancora, e ancora. Di prenderla e amarla come aveva fatto quella notte nel suo letto e promettendole che non avrebbe più dormito su quelle lenzuola se non con lei. Ma Rachel il giorno dopo non c’era e non rispondeva alle chiamate, mentre Quinn la guardava da lontano celando le lacrime dietro una coltre di sorrisi.

“Quinn... cos’è successo?”

“Per favore Rach. È. Per una ragazza, è g-grave. Qui in macchina con m-me. Non so che fare, aiutami.”

Sebbene si maledisse, sebbene si odiasse per questo, fu felice che quella giovane bionda stesse bene e che il destino si fosse accanito su qualcun altro. Realizzò, così, che non avrebbe dovuto toccarla e che quella era stata davvero l’ultima volta.

“Portala qui. Subito.”

“Rachel.”

Un sospiro. Un ricordo. Le loro mani intrecciate. Le loro bocche unite. Da una parte all’altra del telefono scossero la testa e pregarono Dio affinchè potessero dimenticare e fingere che quella notte non ci fosse mai stata e si perdesse, nei ricordi, e nel tempo. Ma un bacio innamorato è un marchio a fuoco. Un marchio a fuoco sul cuore. E il loro bacio fu lungo sino all’alba –e anche di più.

“Il bastardo che l’ha ridotta così è... conosciuto in città. Non possono denunciarlo, non possiamo nemmeno dire il suo nome, ce ne pentiremmo. È sempre così.”

“Cazzo, Quinn, di che parli?” Rachel non capiva ma il tempo passava e non era una sua colpa.

“Rachel ascoltami. Se da qualche parte dentro di te a me ci tieni ancora, devi aiutarmi. Adesso, Rach. Io non posso, ma tu sì. Fai il possibile ed io te ne sarò grata per tutta la vita.”

“...”

“Rachel, ti prego.”

“Va bene. Portala qui.” Ripetè decisa. “Farò quello che posso.”

 

Quando i loro sguardi si incrociarono, Quinn temette di svenire. La vide lì, a mezzo metro da lei, col viso sfatto e desiderò stringerla per far sì che rifiorisse fra le sue dita. Come quella notte in cui, stanca e con ancora la morte negli occhi, aveva sfilato la fede, poggiandola sul piccolo comodino e disse –lo ricordava bene- “Quinn, per favore, non voglio restare sola questa notte”. E lei non potè rifiutare.

Quella notte, mentre l’amava con dolcezza, mentre si preoccupava unicamente del suo piacere, la bionda si ritrovò a pregare un dio qualunque, affinchè quella volta non fosse l’ultima. Quando finalmente Rachel entrò in lei temette che quell’amore l’avrebbe uccisa. Di gioia. O di dolore –non poteva saperlo ancora.

Ma ora che il tempo era passato e Rachel era di fronte a lei con la sua fede al dito, si chiese quante volte, quante dannate volte suo marito l’avesse avuta dopo di lei e se fosse rimasta ancora una scia dei propri baci sulla sua pelle. Si chiese disperatamente semmai lei stringesse ancora il suo nome fra le labbra, mentre chiudeva gli occhi e si concedeva a lui.

Non tirò un pugno al muro, non gridò, non fece niente di quello che avrebbe voluto fare. Inghiottì ogni lacrima e fece per parlare. Pensò fosse tutto finito, senza sapere che tutto sarebbe incominciato proprio in quell’attimo.

“Brittany, questa è la dottoressa Rachel Berry. È straordinaria, sarà lei ad aiutare Santana.”

 

 La bionda annuì. Quinn guardava Rachel prendersi cura di quella povera ragazza come se ne valesse della sua vita. E, per la seconda volta, si innamorò di lei.

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Capitolo 7
*** VII ***


IL PRELUDIO DELL’ATTESA

 

Lavò le mani, tolse i guanti, uscì fuori dalla sala operatoria. La ragazza bionda seguiva ogni suo movimento in assoluto silenzio, rendendosi conto, ancora una volta, che non avrebbe saputo cosa dire per far sì che stesse bene, che quelle lacrime appese alle sue ciglia si asciugassero. E non piangesse più se non di gioia, con lei, sulla sua pelle.

“È successo di nuovo, Quinn...” Sussurrò quasi stesse parlando alle sue mani. “Non ho potuto fare niente.” E il suo camice era sporco di sangue ed esso sembrava così vivo sotto le luci della sala… Eppure quel corpo non avrebbe potuto più parlare come aveva fatto solo tre ore prima, quando Rachel gli aveva chiesto se si fidasse di lei. E quel corpo aveva risposto sì, senza dubbi, senza paure, come solo un ragazzino saprebbe fare.

“Non ce l’ho fatta. Come ho potuto non farcela, Quinn?” Si girò verso di lei, inclinando il capo, chiudendo gli occhi. “Avevo fatto una promessa.”

“Non puoi salvare tutti, Rach.”

La dottoressa si voltò di scatto, le mani ancora bagnate. Poi l’avrebbe presa per le spalle, stringendo quanto poteva. E forse anche di più.

“Che cosa vuoi saperne tu, sei solo un’infermiera.” Disprezzo. Rabbia. Odio.

Per se stessa, per ciò che aveva perduto, per ciò che non aveva mai avuto e non avrebbe avuto mai. Perché era tardi, così tardi che sembrava ormai notte fonda. Il sole non voleva sorgere e nessuna luce s’intravedeva oltre le montagne.

Quinn non trovò più le parole, poi alzò lo sguardo al cielo, e sorrise, gli occhi che brillavano. Si promise che non avrebbe pianto, che non avrebbe pianto più per lei. Poi le parve impossibile e scoppiando a ridere realizzò che quella notte avrebbe versato ogni lacrima che aveva in corpo sperando che Dio la sentisse e ponesse fine alla sua sofferenza. In un modo qualunque. E non le importava, non le importava di vivere, ma solo di amare. L’amava da tutta la vita e spesso, quando guardava le stelle che tanto le ricordavano Lei, pensava a quanto quel sentimento fosse grande. A quanto bruciasse forte. A quanto fosse irrimediabilmente lontana.

Rachel spalancò gli occhi, portandosi le mani alla bocca. Ma era tardi, era tardi e Quinn tirò su col naso, asciugandosi il viso con i palmi bianchi.

“Hai ragione. Ora è meglio che vada.” Poteva sentire ancora le sue mani sulle spalle premere sulla propria carne, riscaldandola. E avrebbe potuto sciogliersi fra le sue dita, gocciolare al suolo ed essere calpestata dalle sue scarpe. Forse sarebbe stato quello il contatto più intimo che avrebbero mai avuto.

“Quinn, oddio, Quinn, aspetta.” Disse e con urgenza le strinse una mano. Forte forte, trattenendola. Per un attimo Rachel fu sicura che non si sarebbe fermata, che si sarebbe divincolata dalla sua stretta, che sarebbe corsa alla sua auto lasciando che tornasse a casa a piedi. Da sola. Da sola col suo orgoglio, insieme alla scelta maledetta che aveva compiuto parecchi anni prima.

“Sono stata una stronza, perdonami.” Quinn si fermò pregando affinchè il cielo le desse la forza di non voltarsi. Con la mano libera stinse la croce che portava al collo.

“Rachel, sono stanca, lasciami andare.”

“No.”

“Perché, dimmi perché Rach. Non ho motivi per restare.”

Rachel sospirò tirandola verso di sé con dolcezza perché la guardasse e quando incontrò il suo sguardo il verde dei suoi occhi la colpì in pieno volto come una sferzata di vento gelido, ma non cedette e non avrebbe ceduto mai –si promise- per alcun motivo.

“Non voglio rimanere sola.”

“Non sei sola. Adesso andrai a casa dove il tuo bel maritino ti starà aspettando, cenerete, e poi farete dio solo sa cosa, no? IO, Rach, io sono sola. Io tornerò a casa, adesso, e non ci sarà nessuno ad aspettarmi. Ma sai che ti dico? È. Meglio. Così.” Ancora una volta pregò affinchè la rabbia non prendesse il sopravvento, non di fronte a lei.

“Ricordi quando al liceo passavamo tutta la notte a parlare?” chiese la dottoressa arrossendo leggermente. Quinn la scrutò sorpresa e il suo sguardo si addolcì senza chiederle il permesso.

“R-ricordo.” Riuscì solo a dire. Poi la voce le scivolò giù per la gola e annaspò per ritrovare un soffio d’aria buona. Improvvisamente si sentì come se un macigno le fosse piombato sull’addome e quando le venne voglia di accasciarsi a terra e non alzarsi mai, sentì la voce più bella che avesse mai udito nella sua vita tremare innanzi a lei. E si impose di non morire, di rimanere ancora un po’, solo per lei.

“Ricordi quando.” Rachel prese un profondo respiro. “Ricordi quando d-dormivamo insieme, nello stesso letto?” Riuscì a dire infine e i suoi occhi parvero pretendere una risposta.

“Sì, Rachel, me lo ricordo.” Avrebbe voluto rispondere che lo ricordava, lo ricordava molto bene e ricordava le notti insonni che aveva trascorso vegliando sul suo respiro, sfiorando le sue ciglia lunghe con le labbra quando la ragazza si avvicinava a lei stringendola nel sonno. E piangendo quando la quella bocca mormorava un nome che non fosse il suo. Perché non mi ama, si chiedeva, perché devo amarla così tanto. È forse questo l’inferno sulla terra?

“Non mi sono mai sentita sola quando eravamo insieme.”

“Perché mi dici questo?”

“Vorrei che tu dormissi con me.” Disse, arrossendo. “Come quando eravamo... giovani.” Si affrettò ad aggiungere distogliendo lo sguardo. “Ma, beh, se tu non vuoi lo capisco, in fondo sono stata imperdonabile, capirei se tu volessi startene per conto tuo. Però.” Respirò profondamente ancora una volta e continuò: “però, sappi che farei di tutto per farmi perdonare, anche... mettermi in ginocchio. O... cantarti una canzone. Qualun...” La bionda si gettò su di lei, abbracciandola, e non ebbe paura di sporcarsi. Se solo lei avesse voluto, avrebbero condiviso sudore e sangue e Quinn sarebbe stata la sua fortezza, la sua trincea.

Quando la bionda fece per sciogliere l’abbraccio, Rachel la trattenne piangendo su di lei ogni lacrima, e i loro fianchi aderirono come se qualcuno l’avesse inchiodati insieme. Quinn non riuscì a ricordare il numero delle primavere che erano passate da quando, per l’ultima volta, i divieti erano stati infranti, le distanze annullate.

“Non mi devi nulla, Rachel. Ti ho già perdonata una vita fa.”

Sorrise. Sorrisero l’una fra le braccia dell’altra.

Poi Quinn si allontanò e la magia si infranse, quando ricordò che lei. Lei non sarebbe mai stata sua. Che di fronte a Dio sarebbe sempre appartenuta ad un altro. E che lui aveva avuto il privilegio di scavare in lei, devastandola, corrompendola.

Improvvisamente le pareti parvero più bianche, le fughe dei pavimenti più marcate e realizzò che a quel pensiero sarebbe potuta impazzire. Eppure sarebbe rimasta a guardare, lottando contro la voglia estrema di porre fine ad una lenta ma inevitabile agonia. Perché Rachel Berry sarebbe diventata l’angelo più bello e dolce del paradiso, mentre lei, Quinn Fabray, avrebbe passato l’eternità a bruciare, protesa verso l’alto, sperando di scorgere le sue ali.

“So cosa stai pensando.” Disse la mora seria.

“Cosa?”

Rachel abbassò lo sguardo, colpevole.

“Ma io non posso tornare a casa.”

 

Una scintilla nella notte oscura in cambio di una moneta e un tintinnio nel silenzio. Una candela. Un desiderio. Una preghiera. Per lei e per se stessa, perché aveva ricordato ogni cosa e voleva che stavolta i sentieri fossero meno ripidi, i ponti più stabili. Si inginocchiò e il colpo secco delle sue ginocchia che battevano sul pavimento risuonò nel buio, forte come un colpo di pistola. Riconobbe al centro del petto quella sensazione, la riconobbe e si rese conto che essa avesse dimorato in sé ogni istante dal momento della sua nascita. E anche prima.

La madonna la osservava dall’alto, e quando sentì le lacrime scavare un solco sulle proprie gote per poi giungere alle mani intrecciate le sembrò quasi di udirne la voce delicata rivolgersi a lei, raccontarle una storia. Scoprì di essersi persa nel tempo e non capì quale terribile colpa avesse commesso, non capì; ma seppe con assoluta certezza che ne stesse scontando la pena, proprio lì, su quella terra nera. Forse da mille anni, forse di più. E quando pensò a Santana, si rese conto che lei fosse rimasta nel suo sangue in ogni attimo, in ogni tempo, come una malattia.

Sarebbe rimasta lì, in quella chiesa, mentre quella giovane donna –Rachel Berry?- si sporcava del sangue di Lei, rimanendone infettata, irrimediabilmente. E Quinn, Dio, Quinn. Non avrei dovuto chiamarti. Non avrei mai dovuto. Se non l’avessi fatto, avrei ancora potuto salvarti, illudendomi che nei miei incubi non ti avessi ancora incontrata.

 

“Non lo amo più, Quinn.”

La bionda avrebbe giurato che non stesse dormendo. Eppure sentire la voce di lei fu come uno squarcio nel cielo. E quando i loro occhi si incontrarono il mondo avrebbe potuto accartocciarsi su se stesso e non le sarebbe importato.

“Per questo abbiamo litigato, non riesco più a fingere.” Quinn non riuscì a schiudere le labbra e nel momento esatto in cui avrebbe voluto dirle che le dispiaceva, che avrebbe voluto aiutarla, che non sarebbe rimasta da sola un istante, perché, lei, lei, l’avrebbe tenuta stretta a sé tutte le notti, non riuscì a far altro che affondare il capo nelle proprie mani. E piangere. Rachel, quando l’inverno verrà ti riscalderò coi miei baci e quando la neve sarà troppo alta per aprire la porta della nostra casa, ti trascinerò sul letto e ti amerò fino a quando non mi implorerai di smettere. Strapperò ogni sospiro dalle tue labbra e tu ti addormenterai sul mio seno. Ti vedrò felice come non ti ho vista mai.

“Quinn. Quinn, di’ qualcosa.”

Nella stanza il silenzio pesava come una cascata d’acqua gelida sulle loro spalle e sebbene sembrasse un cucciolo impaurito, Rachel ebbe la forza di avvicinarsi all’altra ragazza, di stringerle le mani, allontanandole da quegli occhi lucidi, aggrappandosi ad esse più che potè.

“Credo sia meglio che vada a dormire sul divano.”

“No, no, ti prego!”

Quinn si alzò e Rachel non potè fare nulla per evitarlo.

“Perché? Perché devi fare finta di niente? Come se non avessi capito che io sono innamorata di te e che sto male, sto sempre più male. Scusami, ma non ce la faccio più.”

Rachel boccheggiò realizzando di averlo sempre saputo ma che non sarebbe stata mai pronta per udirlo da quelle labbra. Mai più di adesso.

“Non andartene, Quinn, dormi con me stanotte.”

“Perché non capisci che non posso.” Alzò gli occhi al cielo: Dio perché mi metti alla prova, chiese, perché? Ma Egli non rispose, se non con una tentazione più forte. Rachel si era messa in ginocchio sul letto, afferrandola per i fianchi, stringendola a sé. Respirò fra i suoi capelli e quando Quinn si voltò e fece per parlare, si gettò si di lei. E i loro corpi furono intrappolati l’uno nella morsa dell’altro mentre la bionda non capiva e non parlava. Solo quando quella ragazza esile scivolò sulle lenzuola una voce dentro di lei prese la parola, senza alcun permesso.

“Rachie. Cosa fai?”

“Pensavo... fosse... chiaro... Quinnie.” Un bacio, un bacio e una parola. Un bacio e un pensiero. Un bacio e un desiderio. Un bacio e il sapore dolce di quella pelle bianca. E fu come se illuminasse l’oscurità intorno.

Eppure, quando la bionda prese a divincolarsi, quando si mise a sedere, quando la vide distogliere lo sguardo, per la prima volta ebbe paura, paura di averla persa molti anni prima, quando aveva scelto di sposarsi, di accontentare tutti ma non se stessa, di rischiare e perdere tutto non sapendo ancora che il suo tutto fosse Lei. E mille volte, mille volte avrebbe maledetto se stessa.

“Non posso.”

“Perché, Quinn?”

“Tu sei sposata.” Lo sguardo di Rachel si spense quando la verità la investì come un treno in corsa. Ma poi pensò che qualcuno una volta le avesse detto... Detto che, se due si amano Dio è in mezzo a loro. Quando lo disse a Quinn, quando sospirando le ordinò di amarla, di prenderla, di guarirla da tutto quel male, lei non rispose. Semplicemente la strinse forte. E poi quando sentì le labbra di lei baciare dolcemente il suo collo seppe che quello fosse il motivo per cui si trova lì, a vagare come uno spettro sulla terra.

“Rachie?” La adagiò sul suo cuscino, quello su cui aveva versato tante lacrime e pensò che ognuna di esse fosse per Lei, che non avesse mai pianto per nient’altro che non fosse Lei. La mora aprì gli occhi e Quinn si accorse di quanto fosse bella, di quanto fosse immensamente più bella che in ogni suo desiderio. “Sono felice.” Disse e Rachel sorrise.

“È merito mio?”

“No, è “colpa” tua.”

 

Sento che mi pensi e il tuo pensiero giunge sino a me, navigando sul mare calmo della mia incoscienza. Preghi per me, perchè io viva, ed io pregherò per te, affinchè la maledizione si infranga sui relitti di me, di te, di noi e di ciò che rimane. Mi sono innamorata di te in così tante vite, Brittany, che adesso non so scegliere se vivere il nostro amore e morire con te o se morire e lasciare che tu viva.

Queste due ragazze non si guardano mai negli occhi ma hanno le mani sporche dello stesso sangue, mentre provano a far si che il freddo non si impadronisca per sempre del mio corpo. Siamo dannati, lo siamo dal momento in cui respiriamo -per la prima volta- l’aria inferma di questa terra.

 

 

Ragazzi, capitolo difficile. Ma era importante che lo scrivessi, per chiarire alcune cose. Ricapitolando: ecco cosa era successo fra Quinn e Rachel. Fra l’altro le ragazze faranno adesso parte integrante della storia mentre Brittany e Santana hanno capito... hanno capito si essersi già vissute, innamorate, chissà in quale vita e di essere condannate a vagare in eterno sulla terra. Ma perché? Vedremo!

Ah, un grazie sincero a tutti, ragazzi, davvero. Spero in un vostro commento, a prestissimo!

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Capitolo 8
*** VIII ***


Le ombre si allungavano e Brittany le calpestò senza pietà. Si lanciò fuori dalla piccola chiesa che si trovava al di là del prato, oltre i tronchi degli abeti ricoperti d’edera, oltre il terriccio chiaro che indicava la strada ai viandanti e guidava i loro passi fuori da quelle mura asettiche e bianche come l’oblio. In quel momento realizzò che la morte dovesse essere bianca, densa, come un mare di latte e che fino ad allora tutti le avessero mentito: se solo si fosse svegliata, gli occhi neri di Santana sarebbero diventati l’emblema della vita e di essa avrebbe fatto dono a chiunque avesse incontrato il suo sguardo. Brittany visse per la prima volta nel momento in cui quella giovane incontrò i suoi occhi ed ora non aspettava altro che li riaprisse. E avrebbe vegliato sulle sue notti, affinchè fosse certa che si sarebbe svegliata.

Le porte scorrevoli si aprirono, superò la hall e si gettò contro gli ascensori. Premette ogni pulsante, attese, ma lei aveva fretta e le porte non si aprivano. Guardò le scale e il secondo piano non le parve poi così lontano. Prese a correre, aggrappandosi al corrimano e quando i suoi passi risuonarono in quel corridoio seppe di essere vicina. “stanza 212, 213...”

 

“215”

 

Era arrivata. E, sebbene avesse stretto forte la maniglia nella sua mano, non ebbe il coraggio di entrare. Cosa avrebbe trovato, cosa avrebbe dovuto aspettarsi, avrebbe pianto? E Santana? Santana sarebbe stata lì oltre quella porta a gridare per le ferite che lei stessa le aveva inferto? Quelle cicatrici le avrebbero ricordato ogni istante quanto poco valesse, quanto dannatamente incapace fosse. Eppure ogni cosa sarebbe cambiata e ben presto avrebbe dimenticato come fosse essere una donna, come ci si sentisse a rimanere nascosta senza paura di apparire un coniglietto dietro ad un cespuglio. Ma avrebbe amato lottare, tanto quanto avrebbe amato la nuova donna che stava per piombare nella sua vita –non l’avrebbe scacciata, mai.

Entrò.

La dottoressa Rachel era china su Santana e le tastava l’addome mentre Brittany sentiva una paura maledetta gelarle il sangue nelle vene. Improvvisamente non ebbe la forza di parlare, ne di avvicinarsi. Guardava quella donna, e pensò che fosse stupenda, ancor più di quanto ricordava.

Per un attimo rivide la luce abbagliante delle candele. E sentì la carne bruciare mentre nell’aria si spargeva l’odore acre delle vesti che sfrigolavano alla luce della luna.

Ma quando un brivido di freddo la destò, tese la mano, e quattro passi bastarono per raggiungere Santana.

“San.” Disse. “San.” Ripetè.

Le parve di non riuscir a dire altro che non fosse il suo nome. Esso suonava dolce fra le sue labbra come una poesia, mentre la ragazza respirava piano, impercettibilmente.

“Santana svegliati ti prego!” E Santana sorrise. Non aprì gli occhi, ma le sue labbra sorrisero e Brittany sbarrò gli occhi.

“Brittany, s-sei ancora qui?”

“Sì, sì, San, io mantengo le promesse.”

“Perché. Perché? Dovevi andartene, d-dovevi...”

“Non l’avrei mai fatto. Lo sai, mi conosci.”

Rachel che era rimasta a guardarle inclinò il capo, sorpresa. “Pensavo vi foste incontrate solo ieri sera.” Disse e Brittany alzò lo sguardo. Di nuovo le sfuggirono le parole. Poi Santana rise, e la sua risata dolce la catapultò indietro, alle mille volte in cui ricordava di averla fatta ridere in quel modo nel tempo lontano. Lontano quanto la distanza che le separava dal paradiso.

“Berry ti consiglio vivamente di tenere il naso fuori da questa faccenda. Sia a te che a quell’altra con cui non hai smesso un attimo di amoreggiare.” Provò a mettersi seduta ma fu come se una spada l’avesse trapassata da parte a parte. Non fece in tempo a lasciarsi cadere sul letto, che Brittany la prese per le spalle, l’adagiò dolcemente lasciandole un bacio sulla fronte.

“Forse è meglio che vi lasci da sole. Brittany, cerca di farla stare ferma.” Ruotò le spalle, la mora parlò di nuovo e stavolta la dottoressa non riuscì a trattenere un sorriso.

“Ehi, io qui potrei avere bisogno di aiuto sono f-e-r-i-t-a.” Disse scandendo ogni lettera. “Quindi, se proprio dovete darci dentro, fate in fretta.”

“Sai Santana? Un grazie sarebbe stato sufficiente. In fondo ti ho semplicemente salvato la vita...”

Sorrise ancora e chiuse la porta alle sue spalle. Forse avrebbe –davvero- dovuto cercare Quinn. O forse no.

 

Era seduta e cercava di rilassarsi quando il telefono aveva vibrato nella sua tasca. Non sapeva se rispondere. E se avesse risposto non sapeva cosa avrebbe detto. Cercava le parole e realizzò che avrebbe potuto pensarci per sempre, ma che comunque non le avrebbe trovate. Non per lui. Entrò in una stanza vuota, si mise sul letto, scostò una ciocca sudata di capelli dagli occhi. Lesse per l’ultima volta le lettere che componevano il suo nome. Fatti forza, Rach, si disse. Sii forte, non permettere alla tua voce di tremare. Non questa volta.

“P-pronto?” Risposte e si rese conto di aver perduto in partenza.

“Dove sei?” Rachel pensò per l’ennesima volta che il suo timbro non si adattasse a lui, come se la sua voce buona fosse incastrata in un essere cattivo. Suo marito era la prova che anche Dio compiva degli errori.

“A c-casa. Mi sono appena svegliata.”

“Strano, dalla voce mi sembri abbastanza sveglia.”

Silenzio.

“È che stavo già preparando la colazione.”

Pausa.

“Capisco.”

“Tu quando tornerai... tesoro?” Si affrettò a chiedere lei.

“Non lo so ancora.” Rispose e Rachel si rese conto che forse avrebbe dovuto aver paura.

“Finn perché sei così freddo con me? Pensavo avessimo chiarito! Cosa ti ho fatto?” E quando pose quella domanda la sua voce aveva tremato, tremato tanto da maledire la propria nascita e realizzò che quella notte, quella dannata notte che era passata, l’avesse costretta a scegliere. A scegliere fra il paradiso e l’inferno, fra vivere di giorno o dimorare nella notte. Pregò di sbagliarsi sino a che le parole dure del marito giunsero come un colpo di pistola alle sue orecchie:

“Quello che mi hai fatto non è niente in confronto a quello che ti farò io.” Attaccò e lei impallidì. Sì, avrebbe dovuto senz’altro cercare Quinn.

 

“Non siamo nel 1692, vero?” Santana deglutì e chiuse gli occhi. “Ho paura. Ho paura di guardarmi attorno e scoprire di essere ancora lì che ti guardo e non posso fare nulla.” E quando dagli occhi della mora una lacrima scivolò sulle lenzuola, Brittany realizzò che stavolta avrebbe dovuto combattere sino allo stremo, che non avrebbe dovuto risparmiarsi.

La sensazione che qualcosa stesse per succedere si fece insostenibile e chinandosi su Santana la guardò, la guardò come mai aveva guardato nessuno. E lei non potè fare a meno di aprire gli occhi restituendole uno sguardo ardente, come brace accesa nella notte.

Le passavano innanzi, ma non si fermavano e lei, in piedi su tronchi caduti, stava a guardare e aspettava. Aspettava che qualcuno slegasse le sue mani, le tendesse il braccio e quando i suoi piedi avrebbero toccato terra, sarebbe corsa da quella donna bionda, l’avrebbe trascinata giù dalla pira e l’avrebbe salvata. E allora anche i giudici dell’inferno avrebbero pagato e ogni colpa sarebbe stata riscattata. Ma poterono solo guardarsi un’ultima volta, mimare qualcosa con le labbra e  sorridere.
“Mi sento così maledettamente in colpa.” Brittany disse e si alzò di scatto, voltò le spalle, strinse i pugni. Il silenzio invase la stanza. Santana lo sapeva, ma non parlava e in quel momento anche lei si sentì colpevole come il bambino che ha rotto il più bello fra i vasi della mamma.
“Non devi.” Disse e allungò una mano. “Ti prego, vieni qui. Non lasciarmi sola.”
La bionda si avvicinò lentamente a lei per poi sedersi sul letto.
“Sai, sono preoccupata.”
“N-non preoccuparti. Guardami!” Sorrise e Brittany giurò che qualche battito si fosse incastrato da qualche parte nel suo corpo e che il suo cuore avesse smesso di funzionare. “Sto bene!”
La ragazza bionda la guardò seria per un attimo.
“In realtà stavo parlando di Lord Tubbington è da ieri pomeriggio che è a casa da solo. Ma sono contenta di sapere che tu stia bene!” Rise di cuore e finalmente realizzò che Santana fosse lì con lei. Avrebbe voluto sollevare la mano e toccarla, tracciare il profilo del suo naso e poi scendere dolce lungo le sue labbra. Uno sguardo. E poi un bacio.
Ci troviamo all’inferno, eppure mi rendi felice. “Questa me la pagherai. Sappilo, biondina.”
“O amore, sto solo scher-” Quando la sua mente riuscì a catturare quelle parole, portò le mani alla bocca, ma non ebbe il tempo di dire nulla, né di arrossire o di abbassare lo sguardo, perché Santana si era messa a sedere, aggrappandosi a lei, baciandola come non aveva fatto in questa vita. L’inferno si fece paradiso ma quando Brittany la strinse a sé trovò che la sua pelle fosse fredda e quando un rivolo di sudore giunse alle loro labbra, aprì gli occhi.
Subito la bionda pose un braccio dietro la sua schiena, premendo con l’altro affinchè lei si sdraiasse.
“Sono passati più di trecento anni da quando ti ho baciata l’ultima volta.”
“San, non dovresti fare questi sforzi.”
“Ne è valsa la pena.” Bisbigliò. Poi alzò la mano, le accarezzò il viso e quando con un sorriso il braccio ricadde pesantemente sul letto, Brittany le sussurrò: “Dormi piccola, quando ti sveglierai io sarò ancora qui.”
“Sicura? non è che ora corri da Tubb e mi l-lasci qui?”
“No, non vado da nessuna parte. Ma gli lascerò un messaggio nella segreteria per tranquillizzarlo.” Santana sorrise. Sorrise al pensiero di essere finalmente giunta laddove cielo e mare si confondono. E non sapeva ancora che ben presto il sole sarebbe sorto a rischiarare ogni cosa.

 

I letti bianchi sono tutti uguali ed io penso a te che non ci sei e che sei diversa da tutto questo male. Mi manchi Rachel, mi manca la tua voce supplicare di non fermarmi, di non fermarmi mai. Mi manca quando mi dicesti che saresti scesa dalla macchina per metterti in ginocchio e implorare la prima stella cadente dell’anno che avessero scorto i suoi occhi, di legarci per le mani affinchè non potessimo più separarci qualunque cosa fosse successa. E dopo –e dopo ancora.

Ma le dita non erano rimaste salde nella loro stretta. E Quinn avrebbe fatto di tutto per impedire alle proprie mani di tremare, in sala operatoria, mentre lei e Rachel si trovavano a pochi centimetri di distanza aiutandosi l’un l’altra nel suturare le ferite. Non si parlarono mai, si guardavano soltanto, scrutandosi sottecchi come se cercassero di prevedere l’attacco più forte, quello che non le avrebbe lasciate in vita. Solo una volta Quinn aveva parlato, nella stanza in cui era distesa Santana che respirava piano e fingeva di dormire.

“Grazie Rachel, davvero. So che dopo tutto quello che è successo fra noi avresti anche potuto rifiutare. Te ne sarò sempre grata, comunque vadano le cose.” La dottoressa aveva alzato lo sguardo verso di lei. Poi parve soppesare le parole e poi ancora togliere ogni freno. In nome di se stessa e della propria sofferenza.

“Quinn, ascoltami bene. Qualunque cosa io abbia fatto non centra nulla con te. Ma solo con quella ragazza che stava per morire.” Disse, indicando Santana.

Poi la bionda aveva mandato un messaggio a Brittany per avvisarla e, correndo via, realizzò che quella sarebbe stata l’ultima –l’ultima- volta. Che non avrebbe più compiuto alcun passo verso di lei, semplicemente perché non sarebbe sopravvissuta.

Chiuse gli occhi, la stanza era buia e lei avrebbe tanto voluto dormire. In fondo –si disse- non importerà a nessuno. E quando parlava di nessuno intendeva Lei.

Poi sentì dei passi, i suoi, giungere dalla porta in fondo e avvicinarsi piano. Pensò che il sonno la stesse trascinando con sé e non aprì gli occhi –perché non avrebbe voluto vederla, perché la realtà era già abbastanza difficile da sopportare. E Dio santissimo, non avrebbe voluto più vivere! Come avrebbe colmato l’amore che non c’era? Non col proprio.

Ma poi il sogno si avvicinò a lei e si avvicinò tanto che le loro guance si sfiorarono e Quinn si accorse che lui stesse piangendo. Ma i sogni non piangono, si disse, non i miei.

Quando aprì gli occhi Rachel era lì, col le mani fra i suoi capelli biondi e lacrime che sembravano rugiada.

“Quinn, ho paura.”

“Rachel...”

“Finn... ha telefonato, ed era strano e mi ha detto...” Disse, asciugandosi le lacrime. “...cazzo, che diritto ho di venire da te? Sono imperdonabile...” Fece per alzarsi, ma la bionda la trattenne per un braccio.

“Cosa?” Chiese e la dottoressa si portò le mani al viso, per non essere costretta a guardarla eppure si rese conto che lo sguardo di lei fosse ancora la sua stella polare e che avrebbe dovuto –avrebbe dovuto, perdio- almeno provare a seguirlo. Perché gli occhi di Quinn parlavano d’amore e sussurravano poesie.

“...che quello che gli ho fatto non è nulla in confronto a ciò che lui farà a me.”

La paura piombò su di loro come un silenzio ma non ebbero il coraggio di guardarsi. Poi Rachel volse le spalle, disse “vado a vedere come sta Santana” e uscì dalla stanza.

“Rach!” Il medico tornò sui suoi passi, gli occhi che brillavano. “Non è colpa tua... se non mi ami.” Rachel pianse e in quel momento non seppe nemmeno perché. Provò ad asciugarsi gli occhi col dorso della mano ma fu inutile. Avrebbe tanto desiderato un abbraccio non sapendo che –se solo l’avesse chiesto- Quinn l’avrebbe stretta a sé promettendole che nulla di male sarebbe accaduto, nulla di cattivo. Ma nessuna delle due si mosse di un solo passo.

Avrei dovuto infierire su di lui più e più volte. Il profumo bianco delle betulle, il canto dei grilli, e tu, Rachel, che brilli come la luna, bruci più che le stelle e incidi la carne, gelida come un diamante, mi avresti dato il coraggio.

“Visita Santana. Poi andremo a prendere la tua roba. Tuo marito è in casa?”

“No. No non dovrebbe tornare prima di domani.” Quinn sorrise.

“Beh, per una volta nella nostra vita abbiamo avuto fortuna.”

Non sapeva ancora quanto maledettamente si stessero sbagliando. Il sole sarebbe tramontato dipingendo di rosso i loro visi, sporcando di sangue le loro mani. E, nonostante le loro preghiere si facessero dense come il buio e evanescenti più della luce, nulla sarebbe stato più come prima.

 

Sapevano quanto pericoloso fosse incontrarsi in quelle notti. Eppure il bagliore opaco della luna piena la spinse ad aprire la porta, a mettere un piede davanti all’altro. Per raggiungerla, per andare da lei e stringerla, rubarle un bacio, slacciarle la veste e spogliarla, baciandola per far sì che la bambina non si svegliasse, rubando ogni gemito che prorompeva fuori dalla sua bocca.

Ogni giorno era come una battaglia e quando era tardi e la mezzanotte rintoccava inesorabilmente sul campanile, gli uomini uscivano con i forconi e le torce, scrutando ogni angolo del villaggio. Se avessero anche solo sospettato che Satana avesse preso una fanciulla, l’avesse fatta sua, e avesse instillato il lei il seme del male, non avrebbero esitato –nemmeno un istante- a scagliarsi contro di lei.

Ma Brittany S. Pierce non ebbe paura e quando finalmente giunse da lei, aprendo le porte del granaio, scoprì gli occhi di Santana scrutare la luna da una piccola finestra –stringeva fra le braccia un fagottino.

“Ehi, sei venuta.” La sua voce sorrise.

“Mi siete mancate. Tanto.”

“Anche tu ci sei mancata. Ti ha cercata tutto il giorno, voleva la sua mamma.” Brittany si chinò sulla piccola, ispirando il suo odore, accarezzandole i capelli neri e ringraziò Dio per averle concesso l’opportunità di amare così tanto. Santana la distolse dai suoi pensieri, invitandola ad alzare il viso. Gli occhi della bionda rilucevano come acqua marina nel buio mentre la luce della luna tracciava il suo profilo dolce –le parve bella come un sogno.

“Sei stanca? Vuoi dormire?” Chiese la bionda senza guardarla negli occhi. “Sannie lo sai che non devi rimanere sveglia ad aspettarmi. Mi basta vedervi ed accertarmi che stiate bene.”

 

“Ma io non voglio dormire, amore... e neanche tu.”

 

 

Salve ragazzi! La storia comincia ad ingranare e spero che tutto stia diventando un po’ più chiaro. Vi ringrazio, e vi invito a recensire perché, davvero, le recensioni fanno aumentare esponenzialmente la voglia di scrivere e potrei decisamente diventare più rapida negli aggiornamenti. Beh, vedremo cosa succederà con questo capitolo.

Saluti e alla prossima!

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Capitolo 9
*** IX ***


“Ma io non voglio dormire, amore... e neanche tu.”

 

Il cielo nero rifletteva le loro speranze come una lastra di vetro, mentre Cassiopea e le altre costellazioni le osservavano dall’alto, pensando che fossero stupende mentre si amavano. Avrebbero potuto bruciarla viva, impiccarla, o gettarla nel fiume con un macigno al collo ma non le sarebbe importato. Non in quei momenti in cui non esisteva null’altro che Lei e Lei sospirava fra le sue braccia come se non vi fosse un domani.

Brittany le baciò il seno e quasi pianse quando pensò a quel fagottino che dormiva accanto a loro, alle sue manine che facevano capolino dalla coperta bianca. Sorrise e quando Santana se ne accorse, distolse gli occhi dal tetto del fienile, posandoli su di lei.

“Cosa c’è, amore? Mi metti in imbarazzo così...” La bionda le diede un bacio.

“Sei diventata così bella.” Sospirò fra le sue braccia.

“Ringrazia Lucy. Ha trasformato sua madre in una vacca.” Ghignò e Brittany soffocò una risata nel collo di lei, che rispose al suo tocco con un brivido. Sorrise e Santana se ne accorse, aprì gli occhi, li posò su di lei.

“Amore?” Brittany la guardò come se non avesse mai visto niente di più bello, più dolce, e pensò che quella donna che stringeva fra le braccia non potesse essere un errore –nemmeno se le leggi del mondo si fossero mescolate insieme e il fuoco fosse riuscito a a danzare senza spegnersi sulle acque.

“Lucy ha reso mamma San bellissima e mamma Britt molto felice.” Una lacrima scese dai suoi oggi e la mora prontamente la baciò –riflettendo si disse che nessuna di quelle lacrime sarebbe andata perduta, non una sola, mai. Avrebbe gustato ogni stilla di lei, finchè Dio l’avesse permesso. Perché non avrebbe avuto altro modo per ripagarla se non con tutta se stessa.

“Cosa pensi?” le chiese Brittany stringendola più forte.

“Penso a te, a quanto ti devo... Al fatto che non riuscirò mai a ringraziarti abbastanza. Mi sento talmente in debito con te, Britt e non so com-”

“Non smettere mai di amarmi. Voglio solo questo da te, Santana. Non smettere mai di aspettarmi, di voler fare l’amore con me ogni notte. E ti ringrazio infinitamente per avermi permesso di prendermi cura della tua bambina...”

“Della nostra bambina.”

Brittany sorrise. “Siete la mia unica ragione di vita. Vorrei che tu lo sappia, amore, che lo ricordi sempre, qualunque cosa dovesse succedere.” Le disse, ma avrebbe tanto –tanto- preferito non pensarci.

“Non voglio parlarne, voglio solo pensare a te.” Un bacio dolce sulle labbra. “A te, Britt.” Un altro. “Solo a te.” E un altro bacio ancora.

Scese su di lei, scese e fu come la marea. Il suo collo, il suo seno, il sapore dolce della sua pelle e il fieno fra i suoi capelli. Sembrarono destarla da un lungo sogno, sterminato come il cielo. E si disse che la realtà fosse infinitamente più bella in quei momenti –quando i loro respiri si confondevano- e che il giorno, non fosse altro, ormai, che una pallida caricatura della notte.

Potevano sentire il loro cuore fremere di anticipazione e non ebbero più paura. E se il giorno dopo qualcuno le avesse scoperte, loro non avrebbero lasciato alcun rimpianto su quel fienile. Ripensandoci esso, talvolta, sarebbe sembrato un paradiso.

Brittany spinse il bacino contro di lei, perché sapeva –Dio se lo sapeva-, che Santana le avrebbe lasciato un gemito sulle labbra ed esso le sarebbe entrato dentro, sin nelle viscere, sotto la sua veste, accendendo un fuoco che non avrebbe mai voluto estinguere anche a costo di morirne.

Ma Santana. Santana per quella notte le avrebbe dato refrigerio. Ne ebbe la certezza quando la giovane si svincolò dal suo abbraccio e salì a cavalcioni su di lei, baciandola, irrompendo con forza nella sua bocca.

E la sua lingua sapeva di fuoco, di inferno e –secondo il parere di alcuni- di perdizione.

Si chiese quanti angeli Dio avesse spedito agli inferi.

Smise di pensare quando Santana le sfiorò il seno, per poi scendere con le mani lungo i suoi fianchi, dolce, quasi avesse paura che si rompesse fra le sue dita. Perché lei era Santana Lopez e rompeva tutto ciò che toccava. E Santana Lopez era stata svezzata a insulti, fino a quando non era cresciuta e non era diventata troppo bella. E la sua bellezza, dannata e diversa, l’aveva inchiodata alla sua croce.

“Sei tanto calda...” sussurrò sulla sua bocca e con uno scatto Brittany annullò le distanze. E il mondo fuori non c’era più: non c’erano le chiese, né i forconi e le torce accese. Salem giaceva sottoterra.

Eppure. Eppure c’era ancora una donna bellissima che guardava, due occhi meravigliosi come la terra coperta di rugiada in primavera, che sorrideva, e poi distoglieva lo sguardo azzurro, lo posava sulle spalle di lei e abbassava le bretelle di quell’abito –quell’abito che lei stessa le aveva donato tempo prima affinchè nessuno posasse la vista sulla sua pelle, sporcandola. Affinchè non sentisse più freddo. Affinchè... Affinchè sì.

Santana gemette e udendo quel suono sgorgare da quelle labbra, fu scossa da un brivido e si chiese se Dio avrebbe mai ascoltato la sua preghiera, se avrebbe permesso loro di stare insieme oltre il tempo e lo spazio, di essere felici –e, in quel momento, si accorse di essere pronta a pagare qualsiasi prezzo.

Non potè più aspettare e, trattenendo il respiro, sfiorò ogni bottone della veste scura che la sua donna usava per proteggersi dalle luci e confondersi fra le ombre. Ma le ombre non possono amare –loro non esistono quando la notte è scura. Eppure Santana e Lucy illuminavano ogni cosa.

“Amore, ti prego.” Brittany disse e la mora realizzò di aver aspettato anche troppo –affondò sul suo petto lasciando baci dolci dove il cuore di lei batteva forte. Ne assaporò la pelle chiara sino a giungere sul suo seno e mentre quella giovane le succhiava golosamente un capezzolo, la bionda inarcò la schiena lasciando che l’abito scivolasse lungo il suo ventre, lasciando scoperti i fianchi, e l’ombelico.

Quei seni sapevano di fantasie e speranze. E odoravano di un profumo dolce che nessuno avrebbe potuto eguagliare. Solo Lucy.

“Ti prego.” L’avrebbe implorata. L’avrebbe implorata ancora e ancora. Ancora. Senza vergogna, con un sogno fra le labbra e un grande desiderio. “Ti prego, San.” Che lei entrasse e erigesse fra le proprie pareti, la sua dimora. “Amore...”

“Amore.” Disse la mora e chiuse il cerchio, chiuse gli occhi, chiuse le mani sui suoi fianchi e le strinse lasciando l’impronta delle dita sulla sua pelle.

Pochi istanti. Pochi istanti ancora e l’avrebbe accontentata placando allo stesso tempo la propria sete di lei.

“Sei così bella...” sospirò sul suo ventre, accarezzandola. “Da piccola avrei tanto voluto essere come te, sai, amore? Bionda, candida, stupenda. Quando ti ho conosciuta, all’inizio, pensavo che la mia fosse solo ammirazione, che avrei voluto essere te. Poi... poi ti ho guardata e ho visto me stessa nei tuoi occhi. Ora non mi odio più amore... non mi odio più. Poggiò il viso sui riccioli del suo ventre respirando lei, mentre la bionda mandava giù il groppo che le si era formato in gola, sforzandosi di sorridere.

Santana la guardò, sorridendole di rimando. E fu il suo turno di chiedere per favore. Non ebbe bisogno di dire altro che Brittany aprì le gambe, nuda, fragile, profumata come un fiore.

Le lasciò un bacio e la accarezzò dolcemente con la lingua –fu breve e straziante.

“Oh, San!”

“...mmm... ti adoro, Britt. Ti adoro, ti adoro, ti adoro.” Le diceva, appassionandosi di più ad ogni bacio finchè la ragazza non si aggrappò ai suoi capelli, pregandola di avvicinarsi.

Si immerse in lei e non ebbe paura di sporcarsi. Il naso, il mento, le guance. Essi luccicavano alla luce argentea della luna.

“Dio...Amore...” Dio, Dio, Dio.

L’amava, irrimediabilmente e perdutamente. Amava accasciarsi fra le sue gambe, tenerla aperta con le dita, e divorarla sino a che lei non avesse gridato il suo nome, in silenzio.

“Amore...” Sussurò ancora cercando più contatto, più contatto che poteva e Santana la guardava e... e... e... mezza falange. Poi un dito. E un altro ancora. E quella bocca, quella bocca innamorata sulla sua gemma. Finchè i movimenti divennero più frenetici e Brittany invocò Dio, l’Amore e la sua stessa donna di porre fine alle sue sofferenze. Pensò che tutto quello fosse troppo per lei, che troppo fossero Lucy e Santana –e si accorse che la malinconia avanzava mesta, mesta come l’alba- mentre il momento più alto fra i momenti alti si avvicinava, increspando in mille brividi la sua pelle.

E Santana lo sapeva. “Amore, Amore, Amore...” mormorò al suo orecchio, dopo un ultimo bacio, sollevandosi di nuovo sul suo viso. Pensò che fosse bellissima. “Amore, vieni per me.”

E Brittany venne in silenzio, per non svegliare la sua bambina e si sentì in colpa per essere così dannatamente felice. Ma quando incontrò gli occhi belli e stanchi di Santana si ritrovò a pensare che la vita dovesse loro un risarcimento per tutto quel dolore. Si abbracciarono fino a farsi male, e quando il respiro della giovane si fece più pesante, Santana si avvicinò al suo orecchio e le sussurrò una poesia.

 

Rimarrai nei miei pensieri

come una fiammella accesa, 

tutta la notte.

Innamorata io,

mi lascerei guardare e

non avrò paura dei solchi 

che lascerai sulla mia pelle.

Ma una volta sveglia

le mie mani cercheranno te.

Per amarti.

Amarti.

Disperatamente, amarti.
 
 
L’aveva scritta pensando a lei, mentre Lucy dormiva e solo il rumore del vento le teneva compagnia. Brittany nascose una lacrima e sorrise. Albeggiava. Era giunto il momento di andare via: le streghe si amano di notte.
 
 
 
Ragazzi mi scuso immensamente per il ritardo. Ma ho dovuto ritagliarmi degli spazi per utilizzare un computer che non è il mio… ed è stato un vero e proprio dramma. Allora, spero che con questo capitoletto abbiate capito qualcosa in più. Però è ancora presto e vi anticipo che la storia –salvo imprevisti- sarà molto lunga. Vi ringrazio tutti, nessuno escluso. In particolar modo le anime pie che mi lasceranno due parole per dirmi che ne pensano. A presto!  (…stavolta davvero!)

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Capitolo 10
*** 10. Tua, per sempre ***


Entrarono.

Ogni porta sembrava una barriera. Come la porta della stanza dei medici, dove Rachel raccolse le sue cose –di fretta- gettandole nella sua sacca alla rinfusa. Quinn la guardava, appoggiata allo stipite della porta e quando la sentiva sospirare la dottoressa chiudeva gli occhi e non si voltava. Avrebbe tanto, avrebbe tanto voluto piangere lasciandosi stringere, ma non poteva, perché Quinn la guardava e doveva apparire forte, doveva esserlo per lei che l’amava tanto e tanto aveva sofferto.

In silenzio.

Mentre lei si ostinava ancora a rimanere con suo marito, stretta nel limbo, e fra le lenzuola di quel letto in cui i sospiri di lui penetravano nella propria coscienza come rovi appuntiti.

Nella stanza degli infermieri Quinn aprì il suo armadietto  e le parve di essere tornata indietro nel tempo, al liceo, quando l’armadietto di Rachel era ancora vicino al suo e sentiva i baci che Finn le lasciava sulla pelle fra una lezione e l’altra come promemoria. Quasi volesse ricordare a tutti che lei fosse sua e di nessun altro.

“Ancora buon compleanno, amore”. Aveva detto un giorno.

Poi lo chiamarono e lui, entusiasta, dimenticò di salutarla. Ora Rachel le dava le spalle mentre lo guardava sparire in un manipolo di giocatori di football. Lo esaminò per l’ultima volta, poi con sguardo duro si voltò verso il suo armadietto armeggiando con la combinazione.

Quinn aveva preso a sudare, smettendo improvvisamente di rovistare fra i propri libri e, Dio, le mani le tramavano talmente tanto che non sarebbe riuscita a stringere un bicchiere d’acqua fra le dita, nonostante avvertisse urgente il bisogno di bere.

Strinse la catenina che portava al collo “fai che vada bene” si disse “fai che...” e il cuore sembrava un ariete pronto ad aprirsi un varco nel suo petto “...vada...”

Con la coda dell’occhio guardò Rachel. La vide sorridere mentre tendeva la mano per afferrare qualcosa dentro il suo armadietto.

Dovette aver pensato che fosse un regalo di Finn, perché quando lesse il biglietto si portò la mano sinistra alla bocca, spalancando gli occhi.

La bionda deglutì e fece per voltarsi, quando quella giovane che te teneva il suo cuore in mano la chiamò, sfiorandola –per la prima volta senza parlare. E fu strano pensare che Rachel Berry avesse perso la voce, tanto da non riuscire a pronunciare il suo nome come se esso le si fosse incastrato da qualche parte nelle viscere, ferendola.

“Quinn”. Sussurrò finalmente.

“Quinn”. Ancora. “QUINN!” Continuò finchè lei non si fu fermata. E di nuovo “Quinn” finchè non si fu voltata.

Vide Rachel guardare il gattino di peluche che le aveva regalato e il bracciale d’oro bianco che portava a mo’ di collare. Era bello, delicato, luminoso come lei. Ed era troppo poco, e allo stesso tempo molto più di quanto avrebbe potuto permettersi: aveva lavorato come babysitter ogni sera sino a notte inoltrata, aveva camminato a piedi cercando di risparmiare il denaro necessario per la benzina. Ma non era ancora abbastanza, e non sarebbe stato abbastanza nemmeno se le avesse dato tutta se stessa.

Ma se stessa era tutto quello che aveva.

E all’improvviso si sentì maledettamente in colpa perché, chi valeva quanto lei, cioè quanto un soldo bucato, avrebbe fatto bene a non nascere.

“Vorrei... uccidermi...” Esordì Quinn senza guardarla.

“No... no.”

“...e farmi sotterrare sotto tre metri di terra, come minimo.”

“Hei, smettila...”

“Di far cosa, dimmelo, Rachel?”

Silenzio.

“Io non... io non lo sapevo.” Sussurrò e si chiese perché, Dio del cielo, si sentisse così... così.

“Beh, ora lo sai.” Disse la bionda, dolcemente. Ma non riuscì a sostenere il suo sguardo, e le voltò le spalle.

“Quinn!” Non si sarebbe girata, non avrebbe permesso a nessuno di vederla piangere, specialmente a lei.

“Grazie.”

Quando rispose la voce di Quinn era inclinata, come se stesse per cadere, per rompersi in mille lacrime. Prese un profondo respiro, il più profondo che aveva.

“Il g-gattino era seduto su una l-lettera. Hai visto? Leggila se ti va. O strappala. Anche se. Beh, non credo di potermi rendere più ridicola di così. Sono patetica.” Tirò su col naso, asciugandosi gli occhi con il dorso di una mano. “E’ una femminuccia secondo me. Forse dovresti darle un nome...”

Era il suo compleanno e oltre ai suoi papà solo due persone l’avevano ricordato.

Strinse il gattino al seno; e sebbene fosse freddo, sebbene non sentisse il suo cuore battere, pensò a quanto quello di Quinn dovesse essere caldo e che fosse caldo per lei –si sentì un po’ meno sola.

 

Aprirono la porta e Brittany trasalì. La colsero nell’attimo dolce in cui si guarda dormire la persona che si ama. Non dissero nulla, non ne avrebbero avuto il tempo. Sarebbero corse a casa di Rachel, avrebbero preso lo stretto indispensabile e sarebbero corse via, in una nuova casa. Forse in una nuova città. Quinn sarebbe giunta sin sopra il cielo a patto che quella piccola donna fosse rimasta con  lei, a tenerle compagnia.

“Brittany, Britt, dovete andare...”

La bionda si alzò di scatto.

“Non possiamo più coprirvi.” La sua voce tremava e in quel momento odiò se stessa per non essere in grado di fare qualcosa. Non era stata in grado di proteggere Rachel da quel matrimonio che le aveva –e le avrebbe- quasi uccise. Ne avrebbero portato per sempre le cicatrici, sul cuore. E ora Brittany e Santana.

“Britt, adesso Rachel controllerà che Santana stia bene. Poi la porterai a casa tua e noi faremo il possibile per aiutarvi. Ma ora dovete andare.”

Brittany annuì passandosi una mano fra i capelli. Non capiva.

Non capiva.

Non capiva.

Perché Dio permettesse che ora lei e Santana rimanessero da sole, ferite entrambe nello stesso modo e allo stesso tempo in modo diverso. Una nell’anima, l’altra nel corpo. Eppure l’avrebbe tenuta fra le sue braccia ogni notte per farla addormentare, per far sì che non sentisse più dolore. E le avrebbe dato da mangiare affinchè si rimettesse presto, anche a costo di togliere il cibo dalla propria bocca; l’avrebbe scaldata con il proprio corpo, se l’inverno si fosse fatto troppo freddo. La sua casa sarebbe diventata la loro casa e nei giorni in cui la neve avesse bloccato le porte e impedito di aprire le finestre, sarebbero rimaste sotto le coperte calde ad amarsi in qualunque modo Santana avrebbe desiderato essere amata.

Pensò queste ed altre cose: fu felice. Provò vergogna di se stessa.

 

Le lezioni erano appena finite e sebbene avesse tenuto quella lettera fra le mani per tutto il tempo, e avesse cercato, con ogni anelito di forza, il coraggio di aprirla, essa era ancora chiusa –e un po’ spiegazzata. Quinn la scrutava da lontano e pensò che apparisse tremendamente indecisa, e tremendamente bella. La vide non parlare, la vide non sciogliersi in uno dei suoi insopportabili –quanto adorabili- monologhi. Con nessuno.

Fece di tutto, di tutto, per smettere di osservarla, e sarebbe andata via se quell’idiota di Finn non si fosse avvicinato a lei schioccandole un bacio a tradimento sulle labbra.

Se ne sarebbe andata, se ne sarebbe andata davvero, ma il dialogo che seguì fra i due fu talmente surreale da inchiodarla al suolo. In quel momento fu dannatamente certa che un giorno Rachel avrebbe avuto ciò che meritava -ogni cosa bella.

Lui le consegnò una busta rossa, il suo regalo.

“Ho visto in tv la pubblicità di questi facoceri. Li puoi adottare per due dollari al mese. Li fai mangiare per un anno per poi sfamare una famiglia africana per un mese.”

Passarono attimi interminabili, durante i quali lei non disse nulla; poi lo ringrazio con un sorriso e gli lasciò un bacio sulla guancia, facendogli segno di non seguirla. Si allontanò piano, un passo dopo l’altro, sino a svoltare l’angolo. Poi corse, e non seppe neanche perché, nè ebbe il coraggio di chiederselo.

E mentre Quinn spalancava la porta dei bagni e si lasciava scivolare sul pavimento di uno di quei luridi cubicoli -perché non voleva vedere, per Dio!, non avrebbe mai più voluto vedere quell’idiota accanto alla sua donna- Rachel si sedeva nella stanza vuota del coro.

Lisciò la lettera con le mani, poi la aprì.

Lo sapeva, che i regali non contavano nulla, ma per la prima volta si chiese se e quanto Finn tenesse a lei. Coraggio, sussurrò a se stessa.

E lesse.

 

“Schifosamente banale” si disse. Sono solo una ragazzina scialba, stupida. E avvicinandosi allo specchio potè scorgere nei propri occhi verdi anche quanto irrimediabilmente fosse innamorata.

Poi la porta si aprì.

“Quinn...” non era preparata.

“Quinn...” no, non era preparata e forse non lo sarebbe stata mai. Né alla sua voce, né ai suoi occhi che la scrutavano attraverso lo specchio.

“Ti ho cercata ovunque...”

Teneva in mano la sua lettera aperta e la bionda avrebbe giurato che Rachel avesse pianto e che ancora si stesse sforzando di trattenere le lacrime. Il suo respiro era pesante, le nocche delle sue mani bianche, e lei avrebbe voluto baciarle, per sciogliere ogni dispiacere, per aprirle in una carezza.

Fu allora che lo vide, che lei indossava il suo bracciale al polso destro.

“Rachel, cosa...?”

“C’è scritto tua, per sempre.”

Quinn guardò in alto come se sperasse di vedere il cielo. Poi sospirò e annuì.

Poi sospirò.

E annuì.

 

***

Ci sente entro venerdì, ragazzi! Lasciatemi un commentino ;)

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Capitolo 11
*** 11. Tua, per sempre II ***


Rachel,

mentirei se ti dicessi che io non abbia aspettato questo momento da mesi. Forse anche di più. E adesso vorrei poterti dire di no, che questo regalo non vuol dire nulla, che io non ho nessun secondo fine. Ma non posso e ti prego di perdonarmi.

Quinn doveva aver pianto perché l’inchiostro era sbavato in qualche punto. E pensò che nessuno avrebbe mai dovuto piangere per lei, tanto meno quella donna bionda, che la scrutava da lontano e non si avvicinava mai, sebbene avesse voluto.

Perdonami perché non ho il diritto di sottrarre il tuo tempo dalle cose importanti in questo modo, ma penso sia giunto il momento di vuotare il sacco, semplicemente perché sono un’egoista. Un’egoista stanca di tenere le labbra cucite.

Un’egoista innamorata di te, Rachel, e non nel modo in cui si ama un’amica. Sono innamorata di te e ti vorrei con tutta me stessa. E ti farei felice, a costo di rinunciare alla mia famiglia, agli studi, ad ogni cosa, per te, perché ti meriti ogni bene. E se tu pensi che Lui, Lui sia il tuo bene, io mi farò da parte. Anzi rimarrò nel cantuccio in cui sono sempre stata, osservandoti sorridere da lontano, sperando di sopravvivere. Lo so, sono solo una stupida ragazzina, e tu hai avuto la sfortuna di trovarti nel mezzo dei miei deliri. Ma sappi che ti ho scelta fra mille altri e anche se soffro, ti ringrazio di tutto, soprattutto di essere nata.

 

Rachel guardò il gattino che stringeva al petto. Era grigio, ma i suoi occhi erano verdi come quelli di lei. E brillavano.

 

Alla fine di una lunga corsa la trovò e forse la guardò con occhi nuovi perché quello che vide le parve brillante come un fulmine nel cielo nero della notte.

Non potè impedirsi di parlare.

“E perché ti scusi, Quinn, di cosa ti stai scusando?”

Quinn abbassò lo sguardo e i suoi occhi erano lucidi e scintillavano alla luce dei neon. Poi, come se avesse dovuto scegliere di che morte morire, fece un passo avanti sino a sfiorarle il viso con le dita.

“Perché...”

Deglutì pesantemente e pensò di aver pianto troppo, perché la bocca sembrava impastata di terra e sale. Sulla sua lingua non cresceva nemmeno una parola.

Rachel la guardava, e sebbene le sue labbra tremassero, si rivolse a lei ancora una volta, implorante.

“Quinn, parlami per favore. Ho bisogno che tu mi parli!”

Ne aveva bisogno come aveva bisogno di respirare.

“Cosa vuoi sapere?”

“Mi prendi in giro? È tutto uno scherzo?” Poi si accorse di quanto quella domanda fosse stupida e improvvisamente pensò che avrebbe dovuto mordersi la lingua a sangue piuttosto che parlare. Perché era chiaro, cazzo, che la ragazza che aveva davanti, fosse seria, dannatamente seria. Si chiese quante lacrime avesse versato. Per lei. Quinn, non ne vale la pena, pensò, non ne vale la pena!

“Sarebbe meglio per entrambe, ma...” Distolse lo sguardo. “...non lo è.”

Silenzio.

“Non capisco Quinn, perché non me lo hai detto?”

“Pensi che sia facile, Rachel, pensi che sia stato facile per me? Far finta di niente mentre dentro sto impazzendo?! Dio!” Avrebbe tanto voluto contenere la rabbia, ma non stavolta non sarebbe riuscita a trattenersi.

E non avrebbe mai voluto bestemmiare a voce alta ma sembrava che quel mondo corrotto l’avesse costretta a farlo sporcandola con ogni sofferenza. Sentiva l’amore puzzare sulla pelle e incancrenirle le membra.

“..pensi che sia facile vederti con Finn e ripetermi che l’importante è che tu sia felice e che io non potrei mai darti quello che ti da lui... perché sono una donna... perché sono pazza, perché non valgo nemmeno la metà di quanto vali tu?”

Quinn sembrava un fiore piegato dalla pesantezza della pioggia. Rachel pensò che una goccia dovesse accarezzare e non ferire e che quella stupenda ragazza che aveva conosciuto anni prima, le stesse inesorabilmente sfiorendo innanzi.

Stavolta il senso di colpa parve strapparle il cuore.

Si maledisse, quando si accorse di esser ricaduta nei soliti luoghi comuni, ma non potè fare altrimenti e disse:

“Sei fantastica, Quinn.”

“Non sono abbastanza fantastica per te. O forse il problema è che non ho un pene, non lo so.” Non avrebbe voluto enfatizzare tanto quella parola, ma fu così, e si sentì sporca e cattiva.

“Perché mi parli così? Che ti ho fatto?”

Respiro profondo. Si sarebbe calmata, l’avrebbe fatto per lei. Quando riprese era –sembrava, più che altro- serena e la sua voce non tremava.

“Mi hai fatto innamorare... È abbastanza, non credi?” Stavolta sorrise come se l’idea la uccidesse e allo stesso tempo la tenesse in vita –poi rise.

“Piaciuto il regalo?” Chiese, e Rachel pensò che fosse maledettamente bella quando rideva.

“Quinn è stupendo. Ma è... troppo.”

“Hai letto quello che ti ho scritto?” Arrossì e i suoi occhi verdi brillarono di attesa.

“Sì.”

“Leggi la parte finale.”

“Quale?”

“Quella in cui parlo... del gattino. E del bracciale.”

 

Spero che quando guarderai quel gattino penserai a me, ma devi sapere che non te ne farei una colpa se tu non lo facessi. Quanto al... resto, spero ti piaccia.  L’ho scelto pensando a te. L’ho scelto dopo averci riflettuto per mesi, sai? E quello che ho fatto incidere... lo penso davvero. E lo penserò. Qualunque cosa accadrà. Qualunque persona amerai, qualunque persona ti terrà con sé, qualunque persona dovesse starmi accanto mentre ti guardo da lontano, ricorda che io sarò sempre tua. Tua e di nessun altro. E correrò da te ogni volta che ne avrai bisogno. E potrai usarmi come vorrai: io non dirò mai una parola né un lamento. Ti amerò in silenzio come ho fatto sino ad oggi ma non lo dirò mai ad alta voce se tu non lo vorrai.

Permettimi di scriverlo una volta sola, ti chiedo solo questo.

Ti amo.

 

Tua, per sempre

Q.

 

Piegò il foglio, fece silenzio trattenendo le lacrime.

“Penso d-davvero quello c-che ho scritto, Rachel.” Sentì sussurrare. Se una tratteneva le lacrime l’altra piangeva. “Spero s-solo che tu c-capisca.” Singhiozzò. “Perché n-non... Non potrei v-vivere sapendo che mi odi, o peggio ancora, di farti schifo...”

“Quinn!”

Per un attimo non capì, ma la sua pelle registrò ogni contatto e parve gelarsi al suo tocco. Pensava che sarebbe stato diverso, ma ora che il suo sangue si era gelato nelle vene, la bionda capì che le sarebbe bastato così poco per morire, abbandonare ogni dolore e ogni malattia e rinascere in Lei. Se solo l’avesse voluta.

Scivolarono a terra mentre Rachel si lasciava andare, si aggrappava alla sua veste bianca, bagnandola di calde lacrime. Erano le lacrime della donna che amava: quegli istanti Quinn non li avrebbe dimenticati mai.

 

***

 

“Ti aspetto qui Rach, lascio l’auto accesa. Fai in fretta, prendi solo lo stretto necessario.”

Rachel fece per aprire la portiera ma sembrò esitare. Guardò la casa, le imposte chiuse, il giardino curato –ed improvvisamente ebbe paura, paura di ogni cosa. Di ogni angolo, di ogni canto del suolo. E pensò che ogni cosa fosse irrimediabilmente impregnata di lui e che non potesse, nemmeno per un attimo, entrare lì dentro da sola.

Ebbe paura, ma quando guardò Quinn negli occhi, si ricordò che lei non l’avrebbe abbandonata, e rese grazie a Dio, inginocchiandosi nella propria mente, senza far rumore.

Ma il battito accelerato del suo cuore sembrava annullare ogni silenzio.

“Quinn, entra con me.”

E lei parve pensarci, ma fu un attimo, perché poi spense l’auto e scese in fretta. Aprì la portiera a Rachel porgendole la mano. Era calda come l’inferno.

Come ogni volta, non potè fare a meno di pensare che quella mano si fosse adagiata sul suo seno, che fosse scesa sul suo ventre, e poi fosse entrata in lei con una delicatezza che nessuno avrebbe mai potuto riservarle. Solo Rachel. Maledettamente, lei.

“Andiamo.”

L’altra annuì, allungarono il passo, aprirono la porta. Quinn disse qualcosa che assomigliava a “dobbiamo approfittare del fatto che lui non sia a casa”, forse, o “se lui torna prima a casa e ci trova siamo morte”, ma non ebbe il tempo di pensarci, perché l’adrenalina mosse le sue gambe e si ritrovò dentro.

La polvere vorticava illuminata dai tiepidi raggi che si facevano largo fra le imposte chiuse e la bionda improvvisamente realizzò che non sarebbe riuscita a varcare la soglia di quella camera da letto, né ad aprire quei cassetti, rischiando di trovarsi fra le mani i vestiti di lui. Le sue camicie. Le sue mutande.

Rabbrividì al solo pensiero.

Rachel colse la sua esitazione, le lanciò un occhiata e le sorrise e per Quinn fu come se un faro si fosse acceso mentre la sua nave era alla deriva. I suoi occhi verdi si posarono su di lei, accarezzandola, riconoscenti.

Poi quella piccola donna, le sussurrò: “posso abbracciarti?” e lei si gettò fra le sue braccia, senza esitare, respirando il suo odore, credendo di essere morta e che Dio le avesse affidato il più dolce fra gli angeli per farle da guida.

“Ancora qualche minuto e sarà tutto finito, tesoro.” Soffiò sul suo collo. “Qualche minuto ancora.”

“Quinn...?”

“Si?”

“35132”

“Non è il momento di dare i numeri, Rach.” Rise

“E’ la combinazione della cassaforte. Prendi tutto, Quinn, prendi tutto ciò che è mio.”

“35...?”

“...132, sì.”

“Sbrighiamoci.” Le lasciò un bacio sulla fronte, spostandole delicatamente i capelli dal viso.

Poi si divisero. E mentre Rachel saliva le scale e Quinn si recava in salotto, il silenzio si fece talmente denso da potersi toccare.

Entrò nella stanza, prese da sotto il letto una sacca abbastanza grande e la scosse, lasciando che la polvere si mescolasse all’aria.

Eppure non si accorse che le scarpe di lui fossero lì, nel suo lato del letto e che sulle lenzuola sembrava avesse dormito qualcuno –o si fosse steso a fissare il soffitto. A pensare.

Non si accorse di nulla, troppo presa a fare i bagagli, a lasciarsi indietro la sua vita.

Eppure quando dal piano di sotto giunse il grido di Quinn, pensò che avrebbe dovuto capire, che avrebbe dovuto sentire l’aria tremare di attesa.

Un altro grido.

E Rachel, sebbene avesse una paura fottuta, si precipitò giù dalle scale, senza sapere cosa avrebbe trovato. Era giunto il momento: alla fine, anche per lei, tutto aveva avuto inizio.

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Capitolo 12
*** 12. Catene ***


Avrebbe tanto voluto giungere da lei prima. Affinchè non soffrisse, affinchè non avesse dovuto patire quello che aveva patito, affinchè nessuno avesse potuto toccarla –che non fosse lei. Ma la promessa era stata infranta, e non per suo volere.

Pensava ciò e anche di più mentre guidava, e intanto Santana dormiva, e non si svegliava.
“Meglio così” si disse e, potendo avrebbe –ancora una volta- preso la sua sofferenza per portarla con sé, quasi fosse una valigia ingombrante piena di vecchi cimeli, di cui è troppo doloroso disfarsi.
Pensava e intanto Santana dormiva. Bellissima, con le labbra schiuse, le ciglia lunghissime. E nonostante gli abiti sporchi di sangue, quando dormiva, sembrava una bambina.
Come una cometa le passò innanzi il ritratto di una Santana piccola piccola, con tanti capelli, lucidi e neri –oh Lucy, dove sei?-. Pensò e realizzò che il tempo aveva strappato loro ogni cosa, lasciando sulle braccia scie di sangue, e sui polsi l’impronta delle catene.
“Mmmm...” si mosse nel dormiveglia, aggrottando le sopracciglia e Brittany potè sentire il suo dolore –così accostò, e si fermò a guardarla: le tolse il fiato. E quando quella ragazzina ferita aprì gli occhi fu certa di voler soffrire al posto suo, per vedere il suo viso distendersi –e sorridere un po’.
“Santana...”
Spalancò gli occhi come se avesse dimenticato chi fosse e dove si trovasse. Eppure la voce di Brittany la trascinò sulla terra, su quel sedile reclinato, in quella macchina, dove la sua bionda la guardava preoccupata. E quando si accorse che il suo primo pensiero era stato “posso ancora considerarla la mia bionda?”, seppe con assoluta certezza di aver trovato ciò che non sapeva nemmeno stesse cercando, vagando alla cieca in ogni dannato giorno. Alla cieca.
“Brittany.”
“Stai bene?” chiese e fu sicura della risposta perché gli occhi di lei si velarono. Ricordò quanto odiasse il sapore delle sue lacrime –e in realtà anche delle proprie.
Rimase sorpresa quando Santana sorrise e rispose “sì”.
Slacciò la cintura di sicurezza e si avventò su di lei, stringendola, dimenticando per un attimo quanto lei fosse fragile. Ricordando quando dolce fosse il suo odore e quanto calda fosse la sua pelle.
“Mi fai male, Britt!” Rideva. Era felice. Ed era così bella.
“Scusa! Scusami, piccola”
Scosse la testa, “non fa niente. È bello averti qui.”
“Davvero?”
“Davvero.”
Si guardarono. I suoi occhi sembrarono più azzurri, le sue lentiggini più adorabili. Da baciare, ad una ad una.
“Andiamo a casa Britt, sono tanto stanca.”
La bionda annuì. “Ancora poche miglia... siamo quasi arrivate.” Disse. “Scommetto che muori di fame!”
“Scommetti bene! Ma prima voglio che mi levi di dosso questi vestiti sporchi di sangue... perché, davvero, non credo che riuscirò più a muovermi e... che c’è?”
“Niente.”
“Sei... arrossita?”
“Pensavo.”
“A cosa...?”
La guardò e non ci furono bisogno di parole. Brittany sorrise e lei capì, chiedendosi come avesse fatto a vivere venti e più anni senza di lei. E stupidamente, lasciandosi prendere dal panico come una ragazzina innamorata, si sporse per osservarsi nello specchietto dell’auto. Fra le macchie di pioggia, i lividi sembravano sporcarla, come impronte di fango sulla sua pelle scura.
La bionda la vide sbuffare e mettere il broncio. Poi quando lei sussurrò a se stessa “sono orribile...” non resistette. Prese il suo viso fra le mani, sfiorò con le labbra ogni ferita, ogni graffio e, nonostante pensasse che il senso di colpa per quello che aveva permesso loro di fare non l’avrebbe abbandonata mai, e anzi, sarebbe venuto a bussare in  tutte le sue notti –si sentì felice.
Rimise in moto l’auto, tirando il sospiro di sollievo di chi è scampato alla morte con perdite laceranti, ma che, sopravvivendo, si è guadagnato un posto al mondo.
Pretendo, pensò, pretendo di essere felice con lei e che lei lo sia con me. Almeno questa volta, almeno in questa vita.
Santana stava per addormentarsi ma quando la sua bionda si fermò, la stanchezza fu spazzata via dalla prospettiva di trovarsi circondata da lei, dal suo odore. Di fermarsi nel suo letto, fra le sue coperte. E respirarla tutta la notte. Di nuovo. Come un tempo. Dimenticandosi di dormire, o anche solo di riposare. Dimenticando tutto quello che non fosse lei.
Erano passati trecento anni dall’ultima volta in cui si erano incontrate, guardate, toccate. Eppure sapeva che l’avrebbe amata ancora e ancora, irrimediabilmente.
 
***
 
Sbarcò e subito si sentì tirare per i polsi stretti nelle catene. L’aria era terribilmente fredda, ma la sua pelle era calda e il suo corpo avrebbe voluto stringersi attorno alle sue stesse braccia per ritrovare il calore del suo paese.
“Santana...” si voltò a guardare la donna che l’aveva chiamata. E, osservandola, realizzò che nonostante la sua voce fosse tutto ciò di cui potesse ancora disporre, anch’essa l’avrebbe presto abbandonata. Avrebbe tolto l’acqua dalle proprie labbra per darla a lei.
“Rachel...” avrebbe tanto voluto togliere quelle catene e, sì, sarebbe venuta a patti con il diavolo affinchè permettesse a quella ragazzina di bere dalle sue mani –per poi lasciarsi legare di nuovo.
Si accorse di volerle bene, e tanto, quando incontrò i suoi occhi e chiese perdono a Dio per non aver avuto il coraggio di abbracciarla quando avrebbe potuto, nella stiva di quella nave.
“Dove ci hanno portate?”
Tremava. E ora Santana avrebbe tanto voluto rassicurarla, stringerla, dirle che sarebbe andato tutto bene, ovunque le avessero portate. Ma non sarebbe andato tutto bene e non ebbe il coraggio di dire nulla.
“Non lo so” disse soltanto ma a Rachel parve bastare vederla fare un passo solo per avvicinarsi a lei.
Poi la mora si sentì strattonare. Cadde a terra e fu certa che la carne dei suoi polsi si fosse squarciata e che il sangue avesse preso a scorrerle lungo le braccia.
“NON parlate.”
Rachel dietro di lei trattenne un gemito e un urlo le si incastrò in gola, quando gli scarponi pesanti di quell’uomo colpirono Santana e si sporcarono del suo sangue.
“La. Merce. Non. Parla.” Ringhiò e ad ogni calcio seguiva una parola.
Poi le voltò le spalle e se ne andò, dimenticandola al suolo, mentre lei cercava di ritrovare il respiro che aveva perduto e con gli occhi ancora serrati provava –a tentoni- a rialzarsi.
“San, stai bene?” Silenzio. “San?”
Aveva molte volte sentito la voce di Rachel cantare. Molte volte. Cantava e Santana aveva pensato che forse cantasse per impedirsi di pensare, perché si trovava lontana da casa, perché in cuor suo sapeva che non avrebbe potuto più farvi ritorno. Rachel aveva lo sguardo di chi ha vissuto poco e sofferto troppo.
Quando aprì gli occhi, si voltò a guardarla e la vide. La vide piangere, la vide adagiarsi su di lei e in quell’attimo le volle bene come mai prima d’ora.

“Sto bene, Rachel, n-non preoccuparti. Ora mi... alzo. Un... istante... a-ancora.”

Sentì la giovane gridare, cadere in ginocchio, strattonare le catene. Poi sentì il silenzio. Un silenzio che non aveva udito mai, nemmeno la notte, sulla spiaggia, mentre le luci della sua casa si spegnevano. E tutti dormivano.

Ora era giunto il momento che anche lei dormisse. E, se solo fosse stata più coraggiosa, avrebbe pregato Dio affinchè nessuno la svegliasse.

 

Era stato così per tutta la vita e, nemmeno stavolta, qualcuno si sarebbe curato di lei o di Santana, che giaceva a terra e non si muoveva. Ne ebbe l’assoluta certezza quando tutti si allontanarono, come se quella donna che giaceva a terra fosse roba di nessuno.

Poteva sentire il rumore del mare distintamente, quasi volesse rassicurarla. Poi d’un tratto lui –il mare?- le disse che avrebbe fatto meglio a stare tranquilla, a non gridare, a non piangere. il mare ha la voce dolce di un ragazzo, pensò.

Ma quando vide qualcuno inginocchiarsi accanto a lei e prendere Santana fra le braccia, le onde parlarono di nuovo, confidandole che era approdata su quella terra sotto una buona stella e che essa avrebbe brillato su lei e Santana per qualche notte ancora.

“Chi s-sei tu?”

“Sono Blaine. E credo la tua amica si sveglierà con qualche livido domattina.”

 

***

 

“San, forse dovresti chiamare la tua famiglia, saranno preoccupati.” Sussurrò e quando sentì la ragazza irrigidirsi fra le sue braccia fu certa che non stesse dormendo.

Sebbene fosse stremata, sebbene il suo sangue scorresse lento nelle vene, ebbe paura di addormentarsi e Brittany capì e non disse nulla.

“Sono scappata.” Disse, ma non aprì gli occhi come se provasse vergogna di se stessa.

Si chiese per quale motivo Brittany avrebbe dovuto scegliere lei. Lei che non sarebbe stata in grado di proteggerla se non fuggendo.

“Da chi, piccola?”

“Da... da Lui.” E fu subito chiaro, per la bionda, che per il momento lei non ne avrebbe parlato –la voce le moriva in gola.

“Devo chiamare Kurt.” Disse invece scattando a sedere, e fu come se una lama l’avesse attraversata da parte a parte ma fu un attimo e poi non sentì più dolore. Forse svenne, forse semplicemente si addormentò. E una volta sveglia –pregò nei suoi sogni- ci sarà la mia Brittany a tenermi compagnia.

 

***

 

Non sapeva nemmeno perché eppure procedeva lentamente e i suoi passi non facevano rumore. Ancora pochi istanti, ancora pochi istanti, e avrebbe varcato la soglia oltre la quale non avrebbe più potuto tornare indietro. Manco di un passo. Eppure, per Rachel, si disse, per Rachel non mi volterei mai nemmeno se ne andasse della mia stessa vita e la difenderei sino a soccombere.

Era così forte l’odore di lei che, per un momento, pensò che avrebbe potuto chiudere a chiave le porte e sprangare tutte le finestre e vivere con lei fra quelle mura, dimenticando di cibarsi e di sopravvivere. Sarebbe vissuta per lei e di lei si sarebbe nutrita e ancora, se solo lei avesse voluto, avrebbero fatto l’amore ogni notte, dimenticando di accendere le luci, lasciando che le candele si consumassero lentamente, scintillando come piccole lucciole.

Ma come i sogni più belli che si frantumano al mattino, i suoi pensieri si scontrarono con la realtà rompendosi in mille pezzi. Poi le luci si accesero con un click. Osservò le proprie mani, abbandonate lungo i fianchi. Poi alzò lo sguardo.

E Finn era lì.

 

 

 

Capitolo difficile e strano, ma mi serviva per introdurre alcuni nuovi protagonisti. Ringrazio tutti, ragazzi, dal profondo del mio cuore, perché sono consapevole di quanto possa essere difficile cavare qualcosa da tutto questo casino. Ma, ve lo prometto, le cose, piano piano, si faranno sempre più chiare. Riguardo la mia lentezza, a mia discolpa, posso dire di aver molto altro materiale per le mani oltre le lezioni e lo sport. Eppure ci sarebbe un modo per provocarmi, lo sapete meglio di me, no? Basta un commentino in cui mi dite se vi siete persi o se avete capito. Quindi... fatevi sentire. Anche su Twitter se vi va... a presto!

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