Learn To Fly

di Vit25
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1- non guardarmi negli occhi ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2- suono per la vita ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3- lasciami scappare ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4- Piacere di conoscerti ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1- non guardarmi negli occhi ***


Vago senza meta, osservando i palazzi grigi e spenti della mia città. E’ appena l’alba e le strade sono praticamente deserte, in giro ci sono solo i mattinieri e le persone come me. Solo mattinieri dunque. Anche perché non auguro a nessuno la mia situazione.
Cammino. Sono reduce da un fresco litigio con mio padre ed è un miracolo se riesco ancora a camminare o non ho qualcosa di rotto. Si, ho sedici anni e mio padre mi picchia. Questa mattina è arrivato ubriaco e mi ha svegliata. Andarmene è stata solo la cosa più saggia che potessi fare. Non reggo più questa situazione, ci fosse mia madre sarebbe tutto diverso, più semplice. Ma purtroppo lei non c’è più, qualcuno se l’è portata via quando io avevo appena sei anni, anche se non ho mai creduto in Dio ce l’ho fottutamente con lui.
Passo dopo passo è da un’ora che cammino e ad un tratto noto l’abbagliante luce verde dell’insegna del negozio di musica. Il vetro è leggermente appannato quindi allungo una manica della mia felpa sbiadita dei Ramones in modo da avere la mano coperta e disegno un cerchio sulla vetrata. Sbircio dentro, c’è già Ethan, mio amico e proprietario del negozio, nonostante sia veramente presto.
Spingo piano la porta e quella si apre cigolando leggermente. I miei piedi sono appoggiati su un tappeto per pulire le scarpe che recita ‘’Come to the dark side, we have cookies.’’. Dal soffitto, invece, penzola una bandiera con su scritto ‘’ Hook me up a new revolution’’ , frase tratta da una canzone dei Foo Fighters. Mi ricordo che è grazie a quella bandiera e a quella frase se anni fa sono diventata loro fan.
Ethan alza la testa distratto, quasi stupito di ricevere un cliente a quell’ora.
-Ciao Eth!
-Wei Abbie! Com’è? Svegliata presto questa mattina eh?
Di certo non potevo dirgli la verità. Non la dicevo neanche a me stessa.
-Già! Anche tu!
-Ehh! Il lavoro al primo posto!- dice con un sospiro a metà fra il divertito e l’annoiato della vita.
-Senti, do un’occhiata in giro.
-Fai pure… Ah, sono arrivate nuove maglie di band tipo mmm…Nirvana, Foo Fighters, Green Day e The Kooks… e mi pare anche Oasis!
-Interessante! Vado a vederle, anche se non ho molti soldi con me!
Con questa ultima frase me ne vado a curiosare per il negozio. Inizio dall’ingresso spulciando fra i vari cd disposti sull’unico scaffale. Roba vecchia. Molti di quegli album li possiedo già.
Osservo ancora un po’ la merce dell’ingresso, distratta e mi dirigo verso l’altra stanza con gli occhi fissi sulle piastrelle bianche sporche del pavimento.
Arrivo alla porta e inaspettatamente mi scontro contro qualcosa di alto. Non lo vedo interamente, ma ne sono certa. Una camicia a quadri. Alzo la testa lentamente, pronta a porgere le mie scuse alla persona che ho davanti. Qualcosa me lo impedisce. Incontro due occhi smeraldo, di quelli che non vogliono essere guardati. Che non vogliono essere ricordati. Di quelli che possiedono un mondo tutto loro, che non vuole essere inquinato.
Lo conosco. Lo conosco quello sguardo, non perché è simile al mio, ma perché sento che quegli occhi mi hanno già guardata in precedenza, che si sono già specchiati nei miei. Il ragazzo apre la bocca come per dire qualcosa, ma subito la richiude.
Io abbozzo delle scuse e cammino svelta verso i nuovi arrivi dei cd. Mi sento ancora i suoi occhi puntati addosso, che mi bucano la schiena.
Non avendo soldi dietro per la fretta con cui ero scappata di casa saluto Eth, gli prometto che sarei passata nel pomeriggio per acquistare qualcosa.
Cammino lentamente verso casa, turbata ingiustamente per l’accaduto, sperando di non trovare mio padre, o almeno trovarlo addormentato.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2- suono per la vita ***


Mi alzo di scatto. La fronte lievemente sudata, gli occhi spalancati.
Ogni notte ho un incubo, sempre lo stesso. Torna imperterrito ogni volta che fa buio, per ricordarmi che sono sola.
Mi alzo frustrata e controllo l’orologio, le cinque. Tanto non mi riaddormento, è inutile. Il senso di oppressione e la malinconia mi causano un forte mal di testa.
Con una lentezza infinita raccolgo i vestiti e prendo un asciugamano dall’armadio. Mi dirigo in bagno per la doccia rinfrescante del mattino, come ogni giorno. Oggi faccio tutto con più calma anche perché si ritorna a scuola dopo le vacanze di natale. Si ritorna in quel buco nero pieno di ochette sempre con la borsetta e il lucidalabbra in mano, pseudo-calciatori con un ego eccessivo e secchioni-so-tutto-io che ti guardano con aria di superiorità. Certo, le vacanze non sono tanto meglio, io odio il natale. Lo odio perché mette in risalto l’amore e l’unione famigliare. Non ricevo un regalo da quando ho 6 anni, ma di quello non mi importa più di tanto. E’ il fatto simbolico che mi manca.
Prendo il mio zaino grigio e polveroso ed esco di casa senza fare rumore. Già la giornata era cominciata male, non è il caso di peggiorarla svegliando mio padre, sempre se è in casa e non a bere da qualche parte. L’autobus è in ritardo, come sempre, ma non ci do troppo peso. Arrivata in classe mi siedo stancamente su una sedia a caso, non avendo i posti assegnati.
-Hey bellissima, quella è la mia sedia!- starnazza Adèlle, l’oca maestra, il capobranco, quella con le zampe più palmate, il becco più appuntito e si, anche le piume più splendenti, viste tutte le visite nei centri di bellezza.
-Dove ci sarebbe scritto scusa?
-Umh… è scritto nel fatto che sei una sfigata!
-Ma fottiti, mi siedo dove voglio!
-Oh povera, ho offeso Miss Salverò-il-mondo! Vai a piangere dalla mammina dai! Oh, aspetta un attimo… non puoi!- forse quello che ha detto, forse il tono con cui l’ha detto, forse lei stessa, o forse tutto insieme mi fanno montare velocemente la rabbia.
Okay, non devo metterle le mani addosso. Abbie, non farlo, poi te ne penti. Sinceramente penso che non me ne pentirei mai.
Meglio non mettersi nei casini, ma non posso neanche mettermi a piangere per la frustrazione lì, davanti a tutti.
Devo fregarmene. Non ce la faccio, è una cosa impossibile.
Fanculo, dove è finito il mio menefreghismo? Proprio ora che mi serve disperatamente.
Dove sono finita? In un posto di merda! E la verità è che non ce la faccio più.
Adèlle mi sta ancora guardando, aspetta una risposta per continuare con gli insulti. Non gliel’avrei mai data vinta.
Mi alzo di scatto, proprio come avevo fatto questa stessa mattina per cancellare i ricordi dell’incubo, perché per certi versi anche questo lo è.
Afferro lo zaino e cammino verso l’uscita a passo svelto, non corro, non voglio darle un’altra soddisfazione, a quella.
Appena varco la soglia mi metto a correre senza neanche aspettare l’autobus. La scuola chiamerà a casa ma non me ne può importare di meno, la mia vita non può peggiorare.
Sbam. Sbatto la porta di casa e subito dopo quella della mia camera.
Afferro la mia chitarra rosso fuoco e suono.
Suono.
Suono a tutto volume.
Suono per sfogarmi.
Suono per comunicare la mia rabbia.
Suono per dimenticare il mondo.
E suono per ricordare le poche cose piacevoli.
La musica, che bella cosa, non ci fosse lei sarei già morta da un pezzo.
Sono incazzata e anche la mia musica lo è.
E’ incazzata col mondo, vorrebbe prenderlo e capovolgerlo. Quello che sta sotto andrebbe sopra. Quello che sta a destra, a sinistra. E quello che sta dentro, andrebbe fuori.
E’ incazzata con le persone, la gente, la massa, i potenti.
Che mondo del cavolo.
Bum. Dolore.
La chitarra smette di suonare con un rumore stridulo.
Bum. Mio padre urla cose incomprensibili e mi tira un altro ceffone.
Ha bevuto di nuovo, bene.
La mia mente non ragiona più, la rabbia ha scollegato il mio cervello. Sto per scoppiare.
Afferro la mia felpa preferita, quella dei Foo Fighters, prendo la chitarra e corro. Ormai la mia vita è fatta di corsa. La mia vita è scappare, scappare dalla vita stessa. Corro e cammino per le vie, le piazze, i parchi. Sono sfinita, ho attraversato la città.
Un edificio alto si impone davanti a me in tutta la sua altezza e la sua maestosità. Senza ragionare e pensarci due volte entro dal cancelletto e percorro la breve stradina del cortile anteriore. Suono il campanello e faccio in tempo a leggere, su un quadrato di ferro ossidato, la scritta ‘’Orfanotrofio’’ prima di non vedere più nulla.
Buio. Nero. Sono morta? Forse mi piacerebbe.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3- lasciami scappare ***


Buio. Nero. Oscurità. Una luce. Chiarore in lontananza. Cosa sarà? Cos’è? Voglio scoprirlo. E’ qualcosa di dannatamente bello, che mi fa scendere le lacrime. Voglio raggiungerlo e svelare il mistero. Ma non ci riesco. Cammino, cammino, cammino. La luce è sempre più lontana. Mi metto a correre e la luce indietreggia ancora, scappando da me.
Cosa ho fatto? Cosa? Non mi merito anch’io un po’ di felicità?
Mi sveglio di scatto, come sempre.
Apro gli occhi e una luce accecante me li invade. Non era la luce che volevo io.
Non era la luce dell’incubo che riempie le mie notti, quello che, immancabilmente, c’è stato anche questa notte.
Gli incubi sono gli unici capaci di sopportarmi a questo mondo, forse devo iniziare a preoccuparmi.
Qualcuno mi tocca la fronte e io mi ritraggo velocemente dalla mano sconosciuta. Dove sono finita?
‘’Orfanotrofio’’.
Inizio a ricordare questa parola ma la mia mente è ancora confusa e intontita, non ricordo altro.
Metto a fuoco la stanza e osservo. Non è molto grossa e i suoi unici oggetti sembrano essere una scrivania piena di documenti, un armadio bianco e il lettino da infermeria su cui sono sdraiata. Forse perché lo è, un’infermeria.
La puzza da ospedale di certo non manca. Mi sale su per le narici annebbiandomi la vista.
Rischio di svenire di nuovo ma mi riprendo subito, perché l’anziana signora che prima mi aveva sfiorato la fronte è uscita da una porta, bianca anche quella. Lentamente faccio scivolare una gamba fuori dal lettino, poi anche l’altra. I miei piedi toccano il pavimento gelido e mi ricordo di essere scalza. Mi guardo nuovamente intorno e scorgo la mia felpa sulla scrivania, accuratamente piegata. Nessuno mi piega un indumento da quando ho 6 anni. Per terra le scarpe, rotte e sporche, hanno un aspetto migliore del solito.
Com’è che in questo posto sono tutti gentili con me?
Non ci voglio restare un attimo di più, tutto ciò mi spaventa.
Mi spaventa che qualcuno si possa avvicinare troppo a me.
Mi metto a correre, come faccio sempre. Un’altra porta che sbatte, come ogni giorno.
Questo posto non sarà poi così diverso dal resto del mondo. Anche qui sarà pieno di stronzi.
Penso questo e continuo a correre.
Musica. Una chitarra. E’ la mia chitarra.
Ero arrivata lì con lo strumento, dovevo riprendermelo prima di scappare dall’ennesimo posto, dall’ennesima situazione.
Comincio a camminare guidata dal mio udito. Una porta nera, l’unica un po’ colorata. Sopra di essa c’è un cartello con su scritto ‘’sala della musica’’ con accanto alcune note musicali.
Mi appoggio alla parete fredda accanto alla porta e ascolto. Le mie gambe deboli iniziano a scivolare e ben presto mi ritrovo seduta in terra.
Ascolto quella musica cattiva, sembra incazzata col mondo anche lei.
Ascolto quella melodia veloce che mi entra nel cervello e non ne esce più.
Mi rilassa anche se non è lenta, anche se non è dolce.
E’ la mia musica. Dio, che bella.
Sono nuovamente con gli occhi chiusi e il sonno sta per prendere il sopravvento.
-Che ci fai qua?
La musica non c’è più. Mi hanno trovata. Perfetto, non posso più scappare.
Apro gli occhi lentamente aspettandomi due iridi nere incazzate, pronte a farmi la ramanzina.
Occhi smeraldo. No, non sono quelli dell’infermiera, o peggio della direttrice. Non può essere vero, tutto ciò non è reale.
Sono quelli del ragazzo del negozio di musica di qualche giorno fa e questa non è solo la seconda volta che lo vedo, ne sono sicura.
Non è possibile, sarà un altro scherzo del mio cervello. Un inganno della mia mente.
Quegli occhi. Mi guardano severi e splendenti, fieri. Mi allontano un po’ e noto che il suo sguardo è infastidito, come se io gli avessi violato un momento di intimità. Lo capivo, quando io suono entro nel mio mondo e nessuno può permettersi di invaderlo.
-Allora?!- mi incita a parlare, ma non ce la faccio, non ancora.
Prendo coraggio.
-S…sono venuta a riprendermi la chitarra, me ne vado.
-Non puoi!- sgrana gli occhi di colpo ma subito dopo si ricompone e il suo sguardo torna freddo –cioè ehm…non puoi scappare, dove andresti?
Sembra sapere tutto di me, sembra conoscere ogni angolo della mia anima e del mio cuore.
-Io…non lo so.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4- Piacere di conoscerti ***


-Vai dalla direttrice su! Ti indico la strada…
E’ stato il ragazzo dagli occhi smeraldo a parlare, non so ancora il suo nome. Lo guardo. E’ bello.
-No- mi impunto- io non ci vado da quella!
Il ragazzo mi guarda scocciato e sembra pensare intensamente a qualcosa. E’ indeciso. Indeciso sul cosa farsene di me sicuramente.
Sposto lo sguardo sul pavimento e inizio a fissare le righe delle piastrelle, seguo tutto il loro corso fino a che non vengono sbarrate dalle pareti, poi inizio a fissare le mie scarpe.
-Vieni con me!- dice il ragazzo ad un tratto, spaventandomi.
Appena riprendo il controllo mi sento afferrare un braccio, anche se senza violenza o cattive intenzioni.
-Ehi aspetta! Non so neanche come ti chiami!
Percorriamo ancora un corridoio e poi ci fermiamo.
Il ragazzo si gira.
-Dave!
Probabilmente notando il mio sguardo confuso aggiunge –Dave, è il mio nome!
-Eh? Ah!
Ora è lui a fissarmi, con uno sguardo strano.
-Perché mi fissi in quel modo?
-Sai, magari mi dicessi il tuo, di nome.
-Uh, giusto, scusa! Mi chiamo… Abbie!
Una smorfia compare sul suo bel viso, ma non ne conosco il significato.
-E… ehm… come mai vivi qua? Da dove vieni? Ah e dove mi stai portando? E…
-Ehi ehi ehi poche domande, Abbie!
Fa fatica a pronunciare il mio nome. Come mai?
Percorriamo ancora qualche corridoio e saliamo alcune rampe di scale.
Osservo Dave, quello era il suo nome, mentre infila una mano nelle tasche dei suoi jeans e ne tira fuori una chiave piccola, color argento e con un portachiavi rosso attaccato. Non riesco a staccare lo sguardo da quel piccolo oggetto, ha catturato la mia piena attenzione e curiosità.
-Ti piacciono i Foo Fighters?
-Eh?- sembra distratto, sta pensando a qualcosa di importante- Si! Sono uno dei miei gruppi preferiti…
Ero stupita, la prima persona che incontro in quel posto squallido ascolta i Foo Fighters. Ora il mio umore è decisamente migliorato. Devo trattenermi dal saltargli addosso e stringerlo in un abbraccio soffocante.
Abbie, riprenderti. Non hai mai pensato queste cose e non devi iniziare proprio ora.
-Che fai? Entri o no?
Dave mi sta tenendo la porta della stanza 99 aperta, è sulla soglia con un braccio comodamente appoggiato allo stipite. La sua camicia ora è aperta, e la canottiera che ha sotto nasconde pettorali scolpiti.
Mi osserva cercando di non farsi vedere, pensieroso e intanto aspetta che la mia mente si svuoti delle grandi preoccupazioni che mi impediscono di entrare in quella che sembra la sua stanza.
Appena torno dai miei sogni ad occhi aperti mi faccio coraggio ed entro. Sono più che stupita, sono meravigliata. E’ decisamente meglio di quel che mi aspettavo. Mi ero sempre immaginata le camere degli orfanotrofi grigie e spente, coi letti di ferro ossidato e un lavandino pieno di calcare che sgocciola a mo’ di metronomo.
Questa stanza mi suggerisce tutto il contrario.
E’ bella e accogliente, le pareti sono verde acceso e il pavimento è in legno. C’è un letto a castello vicino all’ampia finestra e dall’altra parte un altro letto, chissà chi sono i compagni di stanza di Dave, li vorrei conoscere.
-Siediti sul mio letto… è quello là! Io arrivo subito!
Vado lentamente verso il letto singolo osservando il resto della stanza 99. Vicino ai letti ci sono dei piccoli comodini e un armadio occupa tutta la parete più lunga. Ogni angolo della camera è coperto da immagini di band e altri oggetti riguardanti la musica.
Ogni letto ha accanto una bandiera, quello di Dave quella dei Foo Fighters, invece quelle dei compagni di stanza sconosciuti sono una dei Metallica e l’altra dei Sex Pistols, devono essere di certo persone interessanti.
Dopo un po’ Dave rientra con in mano due bibite e degli snack, me ne porge alcuni con una lattina. Iniziamo a sgranocchiare patatine al formaggio, io evito il suo sguardo mentre lui mi fissa, incuriosito.
-Non vorrei essere troppo invadente ma come ci sei arrivata qua?
-Sono scappata…
-Capisco… mi spiace!
-A me no...- mormoro.
-Quando te la sentirai io ci sarò per ascoltare la tua storia…
Non so che rispondere, vorrei dirgli tutto ma al tempo stesso niente.
Mi limito a un –Grazie- accompagnato da un sorriso.
Perché mi fido di lui? Perché mi fa sentire così dannatamente al sicuro?
Non so il motivo, ma anche se l’ho appena conosciuto, ho la certezza che Dave sarà la mia rovina.
Mio malgrado so perché mi fido di lui. E’ perché lui è la prima persona che si prende cura di me da quando mia madre è morta. Non riesco a farne a meno.
-Sai…- ricomincia Dave dopo un lungo silenzio –non chiedermi perché, ma ho la netta sensazione… di averti già vista, da qualche parte, cioè si, oltre al negozio di musica un po’ di giorni fa. Però ecco, non so come spiegarti…
Si è messo nei casini da solo, non riesce più a fare una frase di senso compiuto. E’ così divertente che non riesco a soffocare una risata, ma non lo sto affatto prendendo in giro, è una risata di una persona che già un po’ gli vuole bene.
Non posso. Non devo. Ho bisogno di disintossicarmi.
In questo mondo sono tutti uguali e Dave non è diverso. Uno stronzo come tutti.
Abbie, ficcatelo in testa!
Non ho il tempo di rispondere che la porta si apre di scatto ed entrano due ragazzi. Con la coda dell’occhio vedo Dave sospirare di sollievo ed alzarsi.
-Abbie, loro sono Travis e Stevo, i miei compagni di stanza.

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