Haunting apartment

di fiammah_grace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Appartamento infestato ***
Capitolo 2: *** St. Jerome hospital ***
Capitolo 3: *** La foresta di Silent Hill/ Wish House ***
Capitolo 4: *** Prigione acquatica ***
Capitolo 5: *** La metropolitana di South Ashfield ***
Capitolo 6: *** Il palazzo di South Ashfield ***
Capitolo 7: *** Gli appartamenti di South Ashfield Heights ***
Capitolo 8: *** The Receiver of Wisdom ***



Capitolo 1
*** Appartamento infestato ***


NDA: Non è per nulla facile scrivere una fanfiction per una fan come me di Silent Hill. Considero questa saga come una preziosa reliquia.
Ogni aspetto scenografico, le musiche, i personaggi, la trama, i dialoghi…tutto pesa fortemente creando un’atmosfera incredibile che solo questa saga sa dare.
Mi piace molto il quarto capitolo della saga e con questa fanfiction farò del mio meglio per approfondire i suoi personaggi e alcuni aspetti della trama. Purtroppo, Silent Hill IV non è molto apprezzato tra i fan. Dunque mi impegnerò a maggior ragione, alla luce di questa consapevolezza.
In particolar modo, la mia fanfiction si soffermerà su Henry Townshend. Cercherò di mostrarvi quel che vedo in questo personaggio, che secondo me è tutt’ altro che estraneo e privo di ogni emozione.
E' un protagonista che adoro.
Esistono veramente persone come lui, nella realtà, le cui emozioni sono appena percettibili.
Inoltre ci sono diversi riferimenti nel gioco, che ci fanno comprendere egli chi sia e come viva l’incubo nel quale è intrappolato.
Ovviamente, nella vicenda, sarà anche presente il famoso Walter Sullivan.
Walter è un antagonista eccezionale. Un raro caso di antagonista capace di suscitare mille emozioni nell’animo del giocatore. È spietato, eppure in qualche modo rimane un personaggio grandioso generando una profonda empatia e malinconia verso chi conosce la sua triste storia.
Aspetto con ansia le vostre recensioni, mi saranno utili per correggermi e per impegnarmi con il prosieguo della fanfic.
Vi lascio alla lettura, adesso.
Fiammah_Grace


_Introduzione alla lettura_
La fanfiction è ambientata post le vicende di Silent Hill IV.
Seguirò filone del finale “fuga” e del finale “madre”. Henry Townshend ed Eileen Galvin si apprestano per lasciare per sempre gli appartamenti di South Ashfield Heights. Tuttavia, qualcosa alberga ancora nell’aria.
Sebbene sia tutto finito, quell'insopportabile aria pesante circola negli appartamenti e nell’intero edificio, inglobato ancora nel mondo creato dall’assassino Walter Sullivan.
Henry è pronto per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige sono pronte già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio della porta da giorni. Non che avesse granché da portare con sé.
Eppure qualcosa ancora lo lega a quell’appartamento oramai assorbito completamente in quel macabro incubo a cui non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi in giro, ha la pessima sensazione che non sia in grado si lasciare l’appartamento 302, o peggio, che oramai non sia più capace di farlo. Come se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato nell’incubo che continua ad apparire ai suoi occhi, divenendo lui stesso parte di esso...






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"don't go out!!"
Walter



(messaggio sulla porta della stanza 302)





CAPITOLO 01
 
 
“...E' importante viaggiare leggeri in quel mondo. Chi trasporta un fardello troppo pesante se ne pentirà...”
                                                                            (messaggio dietro la libreria dell’appartamento 302)
 
 
Quando era calato quel buio, con esattezza? Era difficile stabilirlo. Il tempo, lì, era come se seguisse una logica tutta sua.
Le lancette erano immobili, fisse, indicando un orario privo di alcun significato.
L’ambiente ricordava un salotto. Un tempo doveva essere proprio quello. L’arredo era essenziale, ma considerando le dimensioni ridotte, era abbastanza spazioso e confortevole.
Peccato che la cera delle candele consumate impedisse di apprezzare la semplicità e la freschezza di quell’appartamento.
Le candele erano spente e completamente consumate. Erano davvero tante, troppe, per non pensare a un tipico atteggiamento compulsivo. Chiunque le avesse messe lì, le aveva accese una per una, completamente fuori controllo. Per quale motivo? Nella speranza di ottenere cosa?
Per l’occhio comune erano solo candele. Candele poste ovunque. Candele sciolte sul pavimento, candele invecchiate e consumate dal tempo.
Quelle candele, invece, avevano donato una luce più luminosa e rassicurante della luce stessa. Perché erano state fonte di speranza, anche se temporanea e illusoria. Ma erano state lasciate li spente già da tempo e il buio regnava oramai sovrano.
Solo dalle due finestre filtrava appena una fioca luce che disegnava i contorni del divano, del televisore, dell’ambiente in generale.
A un primo impatto, nel buio, nessuno si sarebbe nemmeno accorto che un giovane sui trent’anni era sdraiato già da diverse ore sul divano.
Il suo sguardo era lontano. Gli occhi verde pallido erano l’unico tratto distinguibile del suo volto, coperto da una frangia disordinata.
Osservava languido verso una direzione apparentemente vaga, ma focalizzando meglio, era ben chiaro che non fosse affatto così e che, in quel posto, non fosse nemmeno da solo.
O forse lo era…? Era una domanda ardua da rispondere.
Era difficile dire se era ancora un qualcuno, colui il quale si scorgeva appena dal soffitto. Un volto dalle sembianze umane, ma oramai privo di alcuna essenza vitale. Oramai solo capace di mormorare, era diventato sempre più indistinguibile in quell’ambiente.
Il ragazzo strinse gli occhi, mentre udiva quel brusio capace di trasmette la disperazione di Joseph Schreiber.
Il volto di Henry era scavato e stanco. Ciò lasciava intuire che fosse li già da un pezzo.
A fare cosa? Ad osservare.
A osservare il destino che aveva segnato l’ex-giornalista, che ora non aveva altro se non delle lacrime nere che scorrevano dal soffitto al pavimento.
Era una visione gelante, frustrante, per chi aveva il terribile presentimento di comprendere tale disperazione.
Il giovane divenne sempre più stanco e gli occhi cominciarono a farsi più spenti. Eppure rimase li ancora e ancora, in quel mondo dove tutto era indefinibile, persino il tempo stesso.
Dei passi poi rimbombarono nel silenzio e si fermarono proprio nelle vicinanze del divano, dove era sdraiato il trent’enne, ma egli non alzò lo sguardo per capire chi fosse e continuò a osservare Schreiber finché il buio non rese tutto nuovamente indistinguibile.
 
***
 
[SOUTH ASHFIELD, mattina.]
[nel centro della cittadina…]
 
Sebbene il negozio fosse aperto fin dal primo mattino, nessuno aveva ancora solcato quella porta.
L’ambiente era sul bianco, così essenziale nell’arredo da essere definibile persino “vuoto”. Una decina di foto erano appese lungo i muri e all’estremo del negozio vi erano una serie di apparecchiature utili per la fotografia. Vi era una vetrina piena di lenti, pile, pannelli, supporti ottici, macchine fotografiche con vari appoggi regolabili…
Dall’altro estremo del locale, invece, c’era una scrivania completamente vuota e appena impolverata, dove vi si poteva scorgere un giovane completamente adagiato su esso.
Esteticamente era un ragazzo sobrio eppure in qualche modo attraente. In compenso, però, il suo look era trascurato e lo sguardo incredibilmente stanco. La barba era leggermente incolta e i capelli spettinati gli davano un’aria decisamente disordinata.
Forse era anche per quello che nessuno era entrato ancora li.
Henry Townshend aveva trent’anni quasi. Aveva da tempo lasciato alle spalle gli studi e da due anni circa viveva in quella cittadina in periferia di Silent Hill.
Aveva gli occhi chiusi e sembrava riposasse già da un po’, sebbene gli occhi scavati facessero intendere chissà da quanto tempo, invece, non si ritagliasse un momento di relax.
In quel negozio, il giovane fotografo era così che passava le sue giornate intere.
Si fece mezzogiorno quando qualcuno solcò quella porta, con passi decisi che volutamente volevano richiamare l’attenzione del ragazzo.
 
“Henry..?”
 
Una voce dolce, ma risoluta, fece il suo nome e velocemente si avvicinò a lui. Henry fece per alzare appena gli occhi e scorgere la figura che aveva dinanzi a sé.
Era una ragazza alta, longilinea, con i capelli tagliati all’altezza delle spalle, castani, che contornavano il viso con una sottile frangia. Aveva due splendidi occhi acquamarina, contornati da un accenno di lentiggini.
Dietro il sorriso cortese che ella aveva stampato sulle labbra, si intravedeva un ghigno con un che di sarcastico. Il tutto era esaltato dalla sua personalità effervescente.
 
“Oh, Eileen…” disse lui con un filo di voce, mentre alzava il capo verso la giovane.
 
Eileen Galvin guardò con enorme disapprovo il ragazzo e non si fece remore nel farglielo notare. Prese a battere nervosamente il piede a terra e portò le mani sui fianchi, infastidita.
 
“Non ci posso credere che è così che ti presenti ai clienti…! Un fotografo non dovrebbe avere uno spiccato gusto per l’estetica o qualcosa del genere?”
 
Scrutò con gli occhi Henry mostrandogli chiaramente che la sua apparenza era fin troppo distratta e trasandata. Eppure Henry non era nemmeno un ragazzo brutto.
Alto, dalle spalle larghe e con gli occhi verde pallido. I capelli, tuttavia, erano disordinati e la lunga frangia pendeva coprendo parte del viso. Sul mento s’intravedeva appena un accenno di barba e i suoi occhi avevano un’espressione così stanca e assente da essere capaci di far scappare chiunque.
Stesso lui se ne rese conto e quando incrociò gli occhi di Eileen, sistemò appena qualche ciuffo di capelli con le mani.
 
“Ah, si dovrebbe…” disse, un po’ incerto.
 
Eileen a quel punto sgranò gli occhi. Al contrario di lui, la giovane aveva un’energia inesauribile in corpo e qualsiasi aspetto di sé esprimeva le sue emozioni in modo chiaro e limpido.
Era un qualcosa che Henry ammirava con incanto, eppure con un po’ di titubanza. La guardava camminare in lungo e in largo, in quel piccolo locale praticamente vuoto. La vedeva scrutare la vetrina datata, le crepe sui muri, e i capelli disordinati di lui.
Si leggeva chiaramente scritto in volto il suo dissenso per come gestiva la sua attività e la sua immagine di fotografo.
 
“Non si capisce nemmeno cosa vendi. Dovresti rimodernare questo posto e mostrare alla gente buone ragioni per entrare, non per fuggire, non credi?”
 
“Eh, già…”
 
All’ennesima risposta data con noncuranza, Eileen lo fulminò con lo sguardo e lui istintivamente calò gli occhi verso il pavimento. Portò una mano dietro al collo e poi fece per alzarsi dalla sedia.
Emise un leggerissimo sbadiglio e socchiuse gli occhi, mentre si avvicinava alla piccola finestrella posta in un angolo. Era l’unica fonte di luce del negozio e contribuiva alla grande nel dare un’immagine ancora più trascurata al posto. 
Sebbene Eileen facesse del suo meglio nel dare critiche costruttive, presto si rese conto che Henry era completamente distratto in quel momento, e sembrava avere tutto per la testa, fuorché il suo negozio.
Quando vide quegli occhi così stanchi, non poté non intuire che Henry fosse nel negozio più per trovare tranquillità che per farlo fruttare.
 
“Non hai chiuso occhio di nuovo?”
 
A quella parole, Henry stropicciò nuovamente gli occhi. Portò le dita all’imboccatura del naso e annuì.
Per quanto ne sapeva Eileen, era da un bel po’ che non dormiva bene e la cosa cominciava a preoccuparla.
Fece per parlare, quando Henry prese la borsa a tracolla e la posizionò sulle spalle.
La guardò e, nonostante la natura introversa, si sforzò di abbozzare un sorriso, cercando di rassicurarla.
 
“Sono cose che capitano. Tu sei appena tornata dall’università, giusto?”
 
Indicò con gli occhi il borsone che aveva lei su una spalla e il libro voluminoso che stringeva al petto. Eileen lo guardò perplessa, poi annuì confermando la cosa.
 
“Sì. Oramai i corsi sono finiti e devo apprestarmi a sostenere gli esami. Per questo sono venuta qui a quest’ora.”
 
Fecero entrambi per uscire. Henry recuperò velocemente i suoi effetti, infilò una giacca leggera color grigio scuro e abbassò la saracinesca del negozio. Cigolante, arrugginita, e piena di graffiti dei ragazzini della zona.
 
“Ti devo un pranzo. Che ne dici, cucino qualcosa con quel po’ che ho in casa?” disse Eileen mentre si incamminavano per le via di Ashfield. Si lasciò scappare un sorriso divertito che incuriosì Henry. “Anche se ti avviso, prepari tutto tu! Altrimenti, potresti essere intossicato dalla mia cucina disastrosa!”
 
Henry sorrise appena nel vedere quanto Eileen fosse ironica e sarcastica con sé stessa.
Henry, bene o male, era capace di metter su un primo e un secondo e questo era sufficiente per essere, agli occhi della ragazza, un cuoco abbastanza capace.
A differenza di lei, Henry abitava da solo già da parecchi anni, era abituato da tempo a badare a sé stesso. Eileen, invece, affermava senza problemi di essere una pessima donna di casa.
 
“Ma no. Devi solo fare pratica.” La rassicurò, ma subito lei rise a tale affermazione.
 
“Ah, ah! Invece no. In proporzione tu sei capace di cucinare, sistemare casa, lavare i panni…sei più tu una donna efficiente che io!”
 
Sebbene Eileen ridesse divertita, Henry si ritrovò ad annuire sarcasticamente, sforzandosi di trovare il lato buffo di ciò che stava dicendo.
In realtà la questione era semplice. Si doveva fare ciò che si doveva fare. E in questo senso, lui aveva dovuto imparare a organizzarsi e a gestire grossomodo tutto per necessità.
 
“…l’unica cosa che mi riesce bene e ciò che metto qui dentro.” Aggiunse lei picchiettandosi con l’indice la fronte. “…lo studio dell’archeologia, la storia, i codici… Ah, se la vita fosse solo questo, sarei la persona più felice e colta del mondo.”
 
Eileen amava studiare e non se ne vergognava affatto. Si era trasferita nell’appartamento 303 apposta. Amava parlare per ore di ciò che imparava, nonché approfondire le materie umanistiche che i suoi corsi proponevano.
Il giovane non era, invece, un grande appassionato di materie filosofiche, né di storia, ma gli piaceva comunque ascoltarla.
Eileen prese a parlare a raffica dei suoi corsi e degli esami che stava preparando e, infatti, lui non accennava ad allontanare i suoi occhi da lei.
Non per cosa diceva effettivamente, ma per l’entusiasmo che ci metteva. Eileen era una ragazza di cuore e sprizzava un’energia positiva molto contagiosa.
I suoi occhi sembravano parlare più delle parole stesse, e Henry stesso si sorprendeva di quanto fosse capace di far pulsare le sue emozioni in maniera così viva.
Lei girava gli occhi di continuo, toccava i capelli, muoveva le mani… manifestando così un completo entusiasmo e coinvolgimento che lo rapiva completamente.
 
Solo dopo qualche minuto, i due giunsero a un bar e la bruna prese velocemente posto in uno dei tavolini ancora liberi.
Henry la seguì e si sedette accanto a lei.
 
“Non ti dispiace se mangiamo qui, ehm, vero?” disse la ragazza, leggermente imbarazzata.
 
Henry sorrise divertito e scosse la testa.
 
Il tempo passò piuttosto velocemente. Eileen non aveva fatto altro che parlare, mentre mangiava un boccone con il suo vicino di appartamento.
E dire che nemmeno un mese fa, i due non avevano mai avuto modo di parlarsi, sebbene fossero vicini già da due anni.
Non avevano mai fatto altro se non scambiarsi dei cortesi saluti quando si incrociavano nel pianerottolo del palazzo.
Invece, in così poco tempo, erano diventati soliti incontrarsi e passare spesso del tempo assieme.
 
Tutto questo, da ‘quel’ giorno…
Sebbene fosse passato del tempo sufficiente, era ancora difficilissimo per entrambi parlare con razionalità di ciò che era accaduto poco meno di un mese fa.
Era accaduto qualcosa di assurdo ed inconcepibile. Per sei giorni interi, Henry era stato assalito da strani e inquietanti incubi e non solo…
Era rimasto intrappolato nel suo stesso appartamento.
 
La televisione era rotta, il telefono staccato, le finestre bloccate e la porta chiusa ermeticamente dall’interno.
Presto, quello si era rivelato essere solo l’inizio di un macabro incubo macchiato di sangue.
Come e perché, ancora oggi era strano dirlo per entrambi.
 
Era stato un accadimento così scioccante e malsano che il solo istinto di sopravvivenza lo aveva aiutato a non cadere in un baratro di disperazione e di follia.
Il passaggio apparso nel bagno era stato l’unico, maledetto ingresso verso un regno umanamente inconcepibile, pur tuttavia, l’unico mezzo che aveva avuto per fuggire da quella trappola claustrofobica, nella speranza di uscire da quell’incubo.

 
***
 
Eileen smise di sorseggiare la sua bevanda e prese a guardare il ragazzo dai capelli castani.
 
“Henry, che ti prende?” disse corrucciando le sopracciglia.
 
Henry non la guardò e le fece velocemente cenno con un leggero movimento della mano.
 
“Ferma, qui è perfetta.” Disse, con uno sguardo più vivace del solito.
 
“C-cosa?” rispose lei, sbandando.
 
Non badando ad Eileen, Henry prese dalla borsa in cuoio scuro una macchina fotografica semi-professionale e la posizionò immediatamente sugli occhi, intento ad immortalare Eileen Galvin che si ritrovò completamente presa alla sfuggita.
La ragazza rimase attonita per qualche attimo e non appena il flash abbagliò i suoi occhi, subito aprì la bocca sorpresa e sconcertata allo stesso tempo.
 
“Ma come ti viene di fare una foto così all’improvviso!?” disse, terribilmente imbarazzata di essere stata fotografata senza preavviso.
 
Henry guardò soddisfatto la sua opera e alzò gli occhi verso di lei. La vide arricciare nervosa le labbra e accavallare le gambe. Assunse dunque un’espressione perplessa e non comprese cosa avesse infastidito la ragazza.
 
“…c’era un’ottima luce.” Disse, abbassando la voce, eppure pienamente convinto delle sue parole.
 
Lei chinò il capo dubbiosa e per qualche attimo strinse gli occhi. Alla fine non resisté e il viso di Henry divenne completamente paonazzo quando lei si lasciò scappare un sorriso. Prese a ridere sinceramente divertita e Henry cominciò ad agitarsi non comprendendo.
 
“Ho fatto qualcosa di male..?” chiese.
 
“Sei così spontaneo, Henry…ah, ah!” disse, poi si calmò nel vedere che lui continuava a non capire. “Lascia perdere, comunque… andiamo?”
 
Il ragazzo annuì ancora sconcertato. Non si era reso conto che, agli occhi di Eileen, Henry appariva così apatico che quando aveva iniziative del genere, era capace di sconvolgerla completamente.
Lui che sembrava così indifferente, invece aveva un piccolo universo dentro di sé, più intenso di come chiunque potesse immaginare.
Non era la prima volta che i due passavo del tempo assieme. In questo modo, più volte Eileen aveva avuto modo di capire che uno dei modi che lui usava per sfogare le sue emozioni era proprio la fotografia.
Henry ne aveva parecchie in giro per casa e spesso capitava che, nel bel mezzo di una passeggiata, cominciasse a scattare anche una cinquantina di foto.
La cosa le faceva molta tenerezza, perché lo vedeva aprirsi a lei sempre un po’ di più. Lo apprezzava molto, specie alla luce della natura timida e introversa del ragazzo.
 
Mentre camminavano, presero a godere di quella brezza tipica dell’inizio dell’estate e Henry non fece nemmeno caso che Eileen si fosse fatta più silenziosa del solito.
Egli ammirò il panorama per buona parte del tragitto e solo quando giunsero nel quartiere vicino al palazzo, le si rivolse cercando di capire se ci fosse qualcosa che non andasse.
Eileen, quando se ne accorse, subito scosse la testa e assieme solcarono il portone del palazzo e si diressero verso il terzo e ultimo piano, dove erano situati gli appartamenti 302 e 303.
 
Eileen percorse le scale tutte d’un fiato e per il giovane Henry fu praticamente impossibile starle dietro. Se solo non avesse avuto quella terribile fiacchezza in corpo. Maledetta quella stanchezza, non ne voleva proprio sapere di abbandonarlo.
Henry seguì Eileen che lo attendeva ogni volta che superava una rampa di scala, provando a motivarlo un po’.
Lui sapeva benissimo di dare un’idea molto fiacca in quel momento, ma era abituato già da tempo a condividere con quella parte di sé. All’improvviso si lasciò scappare uno sbadiglio e, distrutto, chiuse appena gli occhi, coprendo la bocca con una mano.
 
“…scusa.” Disse.
 
Eileen percorse l’ultima rampa di scale e vide Henry poggiarsi appena sul muro del pianerottolo con gli occhi semichiusi.
 
“Mi preoccupi, lo sai? Sembra che non tu non chiuda occhio da giorni. Che cos’hai?” Gli chiese, chinando il capo verso di lui.
 
Henry scosse la testa. Non voleva preoccuparla tanto. Del resto…non era nemmeno un uomo abituato a ricevere tante attenzioni. Massaggiò le tempie e accennò un sorriso.
 
Fece per rivolgersi ad Eileen schiudendo appena gli occhi, ma un brivido, improvviso, lo congelò letteralmente.
Il tutto in maniera così veloce che non ebbe il tempo di capacitarsene.
 
Aprendo gli occhi, ancora calati verso la scalinata, avvertì un terribile odore di chiuso e ruggine. Vide le scale assurdamente incrostate di qualcosa di organico e di metallico allo stesso tempo, e per un attimo gli sembrò persino che il muro…palpitasse?
 
“Ma cos…?” disse, spaesato.
 
Quell’odore insopportabile lo scombussolò molto, nauseandolo, e rimase con gli occhi spalancati, fissi su quella visione.
Le pareti, le scale…
Il rosso era il colore che la faceva da sovrano, lì. La testa girava enormemente e il cuore prese a battere incessante.
Tutto aveva un’aria malsana e tetra.
Un rumore di passi, poi, rimbombò alle sue spalle. Lentamente qualcuno lo stava raggiungendo. O…qualcosa?
I passi erano lenti e pesanti e si facevano sempre più vicini al ragazzo.
Completamente paralizzato, girò appena gli occhi, rendendosi conto che, qualunque cosa stesse accadendo, non aveva alcuna via di scampo…
 
“Henry!”
 
La voce di Eileen lo fece nuovamente sbandare e subito girò gli occhi in sua direzione.
 
“Eileen…?”
 
Tutto d’un tratto, costatò che la visione che aveva avuto fino a qualche attimo prima era sparita. Henry poggiò una mano sulla fronte, completamente disorientato.
Lo…aveva immaginato?
Eppure quegli odori, la ruggine, i passi…
Non sembravano affatto frutto di fantasia. Proprio come quel tempo…lui….
 
“Henry…”
 
“Sto bene. Andiamo.” Tagliò corto.
 
Si avvicinò all’appartamento 303 e guardò Eileen mentre prendeva la chiave e apriva la porta di casa. La casa era buia perché Eileen l’aveva lasciata fin dal primo mattino, ma Henry era comunque in grado di scorgere i molteplici scatoloni di imballaggio presenti un po’ ovunque.
Li guardò perplesso, non sapendo esattamente cosa dire.
 
“Hai già sistemato tutto..?” le chiese.
 
La bruna gli sorrise e fece per addentrarsi per fare un po’ di luce nell’ingresso.
 
“Ovvio. C’è bisogno di cambiare aria, e ci stiamo già prendendo fin troppo tempo…” disse, con tranquillità.
 
Henry annuì, ma i suoi occhi che non facevano che fuggire da quelli di Eileen, lasciando intuire il suo disagio.
Lei, intanto, spalancò la finestra illuminando definitivamente l’ingresso. Era un piccolo salotto con dei divani dal motivo floreale, e affacciava da esso una semplice cucina colorata.
 
“Tu piuttosto. L’ho visto, sai? Non hai ancora sistemato nulla!” lo rimproverò.
 
“Non ho avuto tempo…” bofonchiò Henry, ma Eileen si sentì ferita da quella risposta.
 
Henry non tardò ad accorgersene e infatti aprì la bocca sperando di essere capace di giustificarsi, ma le parole gli si strozzarono in gola e non fu capace di aggiungere altro.
Eileen aveva un’aria sconvolta e non riusciva a comprendere proprio i suoi indugi. Sentiva gli occhi gonfi e si dovette trattenere non poco per non urlare.
 
“Ce lo eravamo promessi, Henry. Una nuova vita lontani da South Ashfield. Io non posso…” deglutì e cercò di controllare la sua voce che prese a tremare. “Non…voglio più vivere qui. Non si può…”
 
Eileen si guardò attorno e strinse le braccia fra loro.
Henry poteva avvertire nitidamente il suo forte disagio e i suoi occhi che avevano ancora davanti a loro i mille orrori legati a South Ashfield…
Vivere in quel posto…dopo gli incubi…
 
Era dura…
 
Inoltre Eileen era tornata da poche settimane a casa dopo essere stata ricoverata, e aveva fin da subito mostrato il suo completo disagio di essere ancora lì, a un mese di distanza da quel macabro massacro.
 
“…dovevamo trasferirci già all’inizio della scorsa settimana e ho dovuto avvisare la ditta di traslochi per due volte di fila. Henry…ti prego, non indugiare ancora. Cos’hai da perdere?”
 
Henry chinò il capo e inarcò le sopracciglia in silenzio, mentre Eileen di li a poco si liquidò lasciandolo sul ciglio del pianerottolo del terzo piano.
 
***
 
Henry Townshend era steso sul divano di casa e aveva gli occhi chiusi. Aveva delle occhiaie terribili e la testa pulsava ferocemente. Sulla fronte aveva poggiato un asciugamano bagnato che copriva gran parte del viso, ma nonostante ciò, non riusciva a sentirsi più rilassato.
Stava riflettendo già da qualche minuto sulla sua vicina di casa Eileen Galvin.
Fino a poche settimane prima, lei era ancora ricoverata all’ospedale di St. Jerome, ed era stata sua abitudine andarla a trovare tutti i giorni.
 
Ricordava ancora perfettamente quel giorno…
Quando l’incubo era finito…
Quando era corso la prima volta da lei, avendo la terribile sensazione di non essere riuscito a fare nulla per salvarla.
 
Dovevano…
…ricominciare una nuova vita lontana da Ashfield…
 
Si erano ripromessi questo. Dopo quel che era accaduto…era impossibile vivere ancora con serenità in quel posto.Qualcosa albergava ancora nell’aria.
Sebbene tutto fosse finito, quell’insopportabile aria pesante circolava ancora negli appartamenti e nell’intero edificio, inglobato tuttora nel mondo creato dall’assassino Walter Sullivan.
 
Henry aveva mentito ad Eileen.
Lui era preparato per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige erano pronte già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio della porta da giorni. Non che avesse granché da portare con sé, in realtà.
 
Eppure qualcosa ancora lo legava a quell’appartamento oramai ingoblato completamente in quel macabro incubo al quale non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi in giro, aveva la pessima sensazione che non fosse in grado si lasciare l’appartamento 302, o peggio, che oramai non potesse essere più capace di farlo.
 
Come se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato nell’incubo che continuava ad apparire ai suoi occhi, divenendo così egli stesso parte di esso...
 
Levò via l’asciugamano dal viso e una goccia di sudore scese dalla fronte e raggiunse la guancia. Si guardò in giro e gli occhi pallidi presero a tremare, non comprendendo perché stesse accadendo a lui…
 
I muri increspati, il pavimento rugginoso, l’aria pesante e soffocante…
 
Si guardò attorno.
 
Era tutto ancora esattamente come a quel tempo…
Quando Walter Sullivan era ancora vivo.
 
La casa…era ancora infestata. Henry, aveva il terribile presentimento che l’incubo non fosse affatto finito. Questo perchè lui…era ancora persino capace di percorrere il passaggio che lo conduceva nel mondo alternativo, che inspiegabilmente era ancora aperto.
 
Allungò il braccio verso il tavolino basso di fronte a lui e trascinò verso di sé una cartellina nera piena di ritagli di giornale e appunti di vario genere.
Era da tempo oramai che la situazione era così e non aveva ancora detto nulla alla giovane vicina di casa.
Sfoglio velocemente gli appunti e si soffermò su uno in particolare, sperando di spiegarsi perché tale abominio.
 
Tramite il rito della Sacra Assunzione, lui ha creato un mondo. Questo esiste in uno spazio separato dal mondo di nostro Signore. Più precisamente, è dentro, ma anche senza il mondo di nostro Signore.
A differenza di quello di nostro Signore, questo mondo è altamente instabile. Porte e muri a sorpresa, pavimenti che si muovono, strane creature, un mondo che solo lui controlla...
Chiunque è ingoiato da questo mondo vi rimane per l'eternità, come non morto, come uno spirito in una dimensione da incubo. Come può nostro signore permettere un tale abominio...?

...E' importante viaggiare leggeri in quel mondo. Chi trasporta un fardello troppo pesante se ne pentirà...

 
Quel che non riusciva a spiegarsi non era solo il perché la casa fosse ancora intrappolata nell’ incubo…
…ma perché avesse la terribile sensazione che non fosse solo il suo appartamento ad essere ancora prigioniero.
 
[…]
 
 

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Capitolo 2
*** St. Jerome hospital ***







CAPITOLO 02
 
 
 
 
“…E' una storia tremenda. Ancora non ce la faccio a disfarmene.”
(Pagina di diario in camera da letto, nell'appartamento 105)
 
 
Un tempo umido e piovigginoso caratterizzava il cielo di South Ashfield, quella mattina.
Non appena cominciarono a minacciare i primi accenni di pioggia, Henry ne approfittò per chiudere la sua attività e correre in appartamento. Infilò il cappotto grigio, sgualcito, e montò lo zaino non sistemando quasi per nulla le pieghe dei suoi vestiti. Uscì frettolosamente, chiudendo la porta alle sue spalle e inoltrandosi per strade urbane, trafficate in quell’ora di punta.
Si mosse velocemente per le strette vie del suo distretto, percorrendo quelle strade che frequentava così quotidianamente da conoscerle a memoria. Henry osservò le nuvole e i primi schizzi d’acqua cominciarono a bagnare il suo viso, picchiettando fastidiosamente, facendo soltanto presagire il temporale che presto avrebbe preso in pieno.
Calcolò mentalmente che dal centro commerciale ci avrebbe impiegato poco ad arrivare al sottopassaggio metropolitano; da lì di corsa sarebbe arrivato alla linea ferroviaria.
I vicoli stretti e bui, percorribili durante il giorno, gli permisero di prendere delle efficaci scorciatoie, ma la pioggia aveva allagato le crepe trasformandole in pozze grondanti d’acqua. Durante la sua corsa, un paio le prese in pieno, ritrovandosi così i jeans zuppi fino alle ginocchia. La pioggia, oramai copiosa, aveva pensato invece a bagnare il resto del corpo.  Era veramente una pessima giornata.
 
In una manciata di minuti, anche se completamente fradicio, giunse alla metropolitana. Magra consolazione, ma almeno ora era al riparo. Una volta dentro, comunque, comprò dei gettoni e oltrepassò il passaggio per giungere al binario. Diede un veloce sguardo al tabellone per controllare eventuali ritardi o avvisi, ma nulla di nuovo: solito orario, solito binario.
Mentre si avviava, camminando di fianco a coloro che come lui si diramavano verso le varie linee metropolitane, qualcosa sembrò spezzare quella noiosa e prevedibile routine. Qualcosa che fermò il suo tempo e tutto ciò che aveva cercato di dimenticare.
 
Tutto avvenne quando solcando le sbarre metropolitane incrociò gli occhi con quel che rimaneva della scena del crimine di Cynthia Velasquez. Essa era posta proprio li, oltre gli sbarramenti per raggiungere i binari.
Sbandò quasi, aspettandosi di trovare anche gli schizzi di sangue rappreso, accorgendosi solo successivamente che erano frutto dei suoi ricordi legati alla realtà parallela. Tuttavia i numeri che segnavano le posizioni dei vari elementi dell’omicidio erano ancora presenti e un lungo tracciato segnalava ai civili di non oltrepassare per non manomettere eventuali prove.
 
Qualcuno ha scoperto chi c’era dietro il caso del Sullivan copycat?”
 
“Stanno indagando ancora…”
 
Henry sbirciò con la coda dell’occhio un gruppo di studentesse che presero a parlare fra loro dell’omicidio. Era accaduto da meno di un mese e, in una piccola città come quella, la morte prematura e violenta di una giovane donna uccisa nella metropolitana, aveva fatto parecchio rumore.
Peccato che non si trattasse affatto di un caso copycat, ma che le cause della morte di Cynthia fossero di tutt’altra natura.
Era ancora strano per Henry credere quanto egli, a insaputa di tutti, fosse legato a quell’orrenda circostanza e quante verità, nel corso del tempo, sarebbero dovute morire con lui.
In televisione erano intervenuti parenti, amici, semplici conoscenti, questori e anche la polizia locale… appellandosi a chiunque avesse visto qualcosa. Ma quell’omicidio sarebbe stato destinato all’archiviazione come “caso non risolto” con ogni probabilità. Era una consapevolezza dolorosa da portare con sé e che lo aveva cambiato profondamente.
 
Da uomo con una vita ordinaria, quasi priva di finalità, si ritrovava adesso ad essere l’unico sopravvissuto, assieme ad Eileen, di una condizione surreale che stentava ancora a credere che fosse accaduta.
In aggiunta, ciò era avvenuto nelle strade che lui percorreva tutti i giorni.
Quella stessa rampa di scale della metro, nella realtà parallela, era stato un teatro regnato da mostri amorfi e figure incorporee, rappresentanti vittime che avevano solo preceduto la popolare Cynthia di cui ora parlavano tutti.  
 
Incrociò per sbaglio lo sguardo con una di quelle studentesse, curioso di sapere la gente comune come avesse reagito alla luce di quel caso assurdamente macabro, ma pulito e privo di alcuna prova sulla scena del reato.
Abbassò immediatamente gli occhi, rendendosi conto di essere fin troppo equivoco. Forse perché effettivamente era così, visto che egli in verità non solo sapeva, ma aveva proprio assistito in prima linea a quell’efferato omicidio e sostenuto fisicamente quella donna in punto di morte.
 
Beh, c’era da dire che “fisicamente” forse non era il termine più appropriato per definire quel posto e quella situazione. Si trattava pur sempre “dall’altra parte”.
 
Le sue mani tuttavia ancora tremavano nel ricordare quel corpo gelido abbandonato al suo destino; quel sangue denso che impregnava la sala di comando della metropolitana di un tremendo odore vivo e organico.  
Quell’orribile sogno infranto davanti ai suoi occhi, in cui aveva visto una persona morire, la quale aveva inesorabilmente portato via con sé anche una parte di lui.
Cynthia…non l’avrebbe mai dimenticata.
Erano ricordi che non potevano essere cancellati.
 
Avanzò per la rampa di scale, procedendo dritto a passo felpato, poco curandosi della gente che lo circondava. Sopravvivere non era un peso facile da digerire per Henry. Voltandosi, avvertiva nitidi quei segnali di disturbo che la sua mente proiettava davanti ai suoi occhi.
Essa rievocava di continuo il passato, tornando facilmente al tempo in cui aveva viaggiato in quella stessa metropolitana, ma macchiata di sangue e dimenticata, abitata soltanto da ricordi evanescenti e dolorosi. Ricordi capaci di uccidere chi solcava le sue porte, sebbene fosse irrazionale definire reale qualcosa che accadeva in…un sogno?
Eppure era proprio la ratio che gli ricordava, paradossalmente, che ciò aveva vissuto era stato vero…
In verità, la ragione avrebbe dovuto dire il contrario: ovvero che tutto fosse fittizio, e che lui fosse solo un pazzo, ma non era così.
Egli, aveva per davvero percorso quelle linee ferroviarie inseguito da fantasmi raccapriccianti e cani amorfi. Cynthia era per davvero morta lì dentro.
 
Un fischio avvisò l’arrivo del treno.
Entrò e prese posto alla fine di una delle carrozze. Vide un vagabondo puzzolente intento a schiacciare un pisolino dopo una sbronza e pensò bene di sedersi accanto a lui. Lì nessuno avrebbe cercato di arrecargli noie o occhiate di curiosità. Egli odiava attirare l’attenzione e in quel periodo ne aveva attirate fin troppe di occhiate indiscrete.
Molta gente del quartiere ora lo conosceva, persone che lui non aveva mai visto prima di quel momento. Come dar loro torto, infondo. Dei quattro omicidi avvenuti con lo stesso copycat, uno era avvenuto proprio nella sua palazzina.
Se contava anche Eileen, la sua attuale ragazza, erano ben due i delitti che erano stati “quasi” commessi a South Ashfield Heights.
Persino la polizia gli aveva dato non poche noie, riempiendolo di tediose domande alle quali non avrebbe mai potuto rispondere senza finire in un ospedale psichiatrico sotto terapia intensiva.
Eppure, pur di far quadrare i conti, i suoi stessi vicini di casa avevano cercato di far luce sul caso scoprendo qualsiasi carta dal tavolo, persino che Henry avesse, secondo loro, chiuso l’appartamento 302 per una settimana intera senza dar segni di vita.
Per un uomo come Henry, solitario, cinico e apatico…ciò bastava per essere classificato come pazzo o maniaco depressivo.
Fortuna che esistesse il Miranda Warning: “il diritto di rimanere in silenzio”.
Nessuno poteva fare molto altro contro di lui, al momento. Qualsiasi prova era segregata nel mondo parallelo, dove da tempo aveva trasferito ogni cosa che riguardasse i suoi viaggi e i suoi legami con gli omicidi del Sullivan copycat. Armi, documenti…
E nel caso, sarebbe stato ironico per lui essere accusato di quegli omicidi visto che era stato proprio Henry ad aver impedito a Sullivan di agire tramite l’incubo.
 
Rivolse i suoi pallidi occhi chiari verso l’uomo puzzolente e costatò che egli stesse oramai fra le braccia di morfeo. Una vera fortuna, visto che ne approfittò per sbottonare una manica della camicia e controllare se avesse un taglio all’altezza del polso.
 
“…”
 
 
[Terzo piano, ala ovest, nel corridoio vicino l’appartamento 302, a South Ashfield Heights.]


Henry era appena tornato dal lavoro. Aveva ancora sulla spalla il borsone, con dentro tutta l’attrezzatura da fotografo. Zuppo com’era, desiderava soltanto cambiarsi d’abito e rimanere nel suo appartamento come un animale solitario.
Era fatto così. Usava il suo appartamento come una vera e propria tana dove rimanere in disparte e in cattività dal resto del mondo.
Fu mentre fece per girare la chiave che sentì alle sue spalle la voce del signor Sunderland, il custode della palazzina di South Ashfield.
 
“Già a casa, Henry?”
 
“Signor Sunderland…ho approfittato della pioggia per tornare prima.” disse sbrigativo.

Frank Sunderland era un uomo sulla settantina, eppure, nonostante la voce bassa e i capelli brizzolati, aveva un aspetto autorevole e un volto fiero.
Henry lo guardò timidamente e accennò un saluto con il capo. Tra tutti gli inquilini che abitavano nella palazzina, il custode Sunderland era l’unico con il quale aveva stretto un rapporto più confidenziale.
Del resto, era sotto la luce del sole che Henry fosse un giovane introverso e solitario. Paradossalmente alla sua età, gli era più facile approcciarsi a persone più mature che ai propri coetanei.
 
“Direi che anche la pioggia ne ha approfittato, prendendoti in pieno.” scherzò su Sunderland, poi aggiunse. “Ad ogni modo…ti ho portato il quadro di cui ti parlavo.”
 
Henry così noto che Frank gli stava allungando un quadretto. Il suo sguardo si fece curioso, persino affascinato, com’è solito di chi è appassionato di arte e fotografia come lui. Osservò quella rappresentazione ammirandone le cromature, l’intenso gioco di chiari e scuri, e lo stile antico che faceva intuire quanto fosse vecchia e preziosa. Guardò con discrezione il custode del palazzo e fece per prenderlo.
 
“Ne è sicuro..? E’ un pezzo unico, signor Sunderland…”
 
“Te lo regalo volentieri Henry. So che nessuno più di te apprezzerebbe un oggetto simile.”
 
“…Grazie.” disse.
 
“E’ un originale, sai? Una rappresentazione storica della vecchia palude di Silent Hill.” aggiunse il custode inorgoglito.
 
Elogiò il suo reperto al giovane, ma era ben consapevole che lo stesse affidando a mani sicure. Ed era vero. Nessuno più di Henry poteva sapere che oggetti simili, nella casa sbagliata, avevano un unico destino infausto: finire dentro la pattumiera.
Invece Henry amava dar valore alla famosa robaccia vecchia ed era entusiasta di poter avere tutta per sé quella foto.
 
“E’ raro oggi giorno reperire una fotografia della vecchia palude prima delle bonifica avvenuta a ridosso degli anni settanta. Nessuno osava avvicinarsi a Silent Hill a quel tempo e ci sono poche rappresentazioni e testimonianze di quel periodo...”
 
Nel giro di una manciata di minuti, Henry cominciò a fare accenno alle sue conoscenze culturali e storiche del periodo, dando così completamente soddisfazione al vecchio, che si congedò dopo poco compiaciuto. Dal suo canto, Henry non aveva molto modo di approcciarsi alle persone. Quando si era fermato a parlare con l’anziano signore, era stato per lui un piacevole gesto di cortesia dove si era ritrovato a sostituire un po’ quelle che dovevano essere le veci di un figlio. Era in una di quelle chiacchierate che Frank gli aveva promesso quella vecchia fotografia.
L’uomo aveva avuto una vita difficile e, a quanto ne sapeva, aveva anche vissuto l’irrazionale scomparsa di un figlio. Un figlio che, in qualche modo, Henry sentiva assurdamente di sostituire.
Non gli ci era voluto molto a leggere in quegli occhi languidi, eppure forti, un che di nostalgico, e dopotutto al ragazzo dai capelli castani stava bene. Anche lui non aveva una famiglia, del resto.
Nonostante l’atteggiamento paterno di Frank per tutti gli inquilini, Henry sentiva che colui che più si avvicinava al ricordo di suo figlio James era proprio lui. Non che l’avesse conosciuto, ma facendo un paio di conti, dedusse che dovevano avere all’incirca pochi anni di differenza.
Ad ogni modo, Henry non aveva parenti stretti. Non aveva qualcuno che si preoccupasse per lui, o che gli regalasse quadri e lo intrattenesse con discorsi quotidiani e ricordi evanescenti.
Quindi accettava di buon grado quelle attenzioni per gli altri noiose e che in qualche modo gli facevano ancora ricordare, seppur in maniera limitata, il concetto della famiglia.

 Completamente esausto, entrò nel suo appartamento e gettò immediatamente il borsone a terra, accasciandosi poi sul divano senza troppo contegno.
Era sempre più stanco, ma da quanto tempo non dormiva?
Non poteva continuare così, presto o tardi avrebbe dovuto trovare una soluzione. Non solo alla sua evidente insonnia, ma anche a quell’incubo che lo stava ancora, ineluttabilmente, perseguitando. Perché la stanza, l’intero appartamento 302 color ruggine era ancora lì, davanti ai suoi occhi.
Perché?
Si chiedeva ossessivamente quella domanda da troppo tempo.
 
I muri imbrattati, le finestre arrugginite, l’aria malsana e pesante…

Perché l’appartamento era ancora in quello stato terribile? Perché entrando in casa vedeva ancora quel mondo?
Questo sebbene non vi fosse più nulla. Non esisteva più il carnefice. Non esisteva più la possibilità di attuare il rituale. Non esisteva nulla di nulla.
 
Henry guardò di nuovo la ferita che aveva sul polso, la stessa che aveva scrutato sulla metropolitana qualche istante prima, quasi fosse il memento della sua sanità mentale.
 
Strinse gli occhi. Quel taglio era un elemento fondamentale per le sue indagini attuali e una, tra le tante fonti, che gli impediva di prender sonno ultimamente. Questo perché se l’era procurato attraversando, qualche giorno prima, il varco presente nel suo appartamento, ancora funzionante nel magazzino del suo appartamento.
Se fosse stata solo suggestione, non si sarebbe ritrovato quella ferita, provocatosela teoricamente in un sogno. Ed invece era lì, sul suo polso,  a simboleggiare che effettivamente aveva viaggiato ancora una volta nella realtà parallela.
 
“Da quando Walter Sullivan è morto…il varco è rimasto in qualche modo connesso con il mio appartamento.”
 
Si ritrovò a riflettere ad alta voce, mentre stringeva la mano sul polso ferito, che bruciava quasi come volendo rimarcare dolorosamente quella tangibile realtà surreale.  Tuttavia…
Tuttavia Henry aveva ucciso Sullivan. Sconfitto l’architetto, il suo intero mondo avrebbe dovuto collassare con lui.
 
Eppure era chiaro quel semplice e unico dato tangibile: quel mondo, Sullivan o no, esisteva ancora.
 
La sua mente, da allora, navigava nell’oblio e nella confusione totale. Ogni volta che tornava nel suo appartamento si chiedeva sempre più concitatamente: era lui pazzo o il tomo rosso aveva sbagliato qualcosa?
 
Nonostante la fiacchezza, velocemente si rialzò e cercò la sua cartella di appunti. Ricordava di averla lasciata proprio lì e difatti la ritrovò ai piedi del divano. L’aveva consultata proprio la sera precedente, prima di perdere conoscenza e addormentarsi.

“Il tomo rosso…eccolo.” disse, sfogliando accuratamente le pagine.
 
- Colei che è chiamata "Santa Madre" non è per nulla santa.
"La discesa della Santa Madre" altro non è che la discesa del Diavolo.
Quelli che sono chiamati i "21 sacramenti" sono tutt'altro che sacramenti. I "21 sacramenti" altro non sono che 21 eresie.
Dare luce ad un regno del male entro i confini del benedetto regno di nostro Signore è un atto blasfemo e opera del Diavolo.
Se tu vuoi fermare la discesa del Diavolo, seppellisci parte della carne della madre dell'Evocatore dentro il vero corpo dell'Evocatore. Devi anche trafiggere la carne dell'Evocatore con le 8 lance "Vuoto", "Tenebre", "Oscurità", "Disperazione", "Tentazione", "Fonte", "Vigilanza" e "Caos".
Fallo e la carne maledetta dell'Evocatore tornerà ad essere ciò che una volta era, per grazia di nostro Signore. -
 
Alzò gli occhi da quell’appunto.
 
“Parte della carne…il cordone.” corrucciò le sopracciglia e si fece pensieroso.
 
Per uccidere Walter Sullivan non era sufficiente puntargli una pistola alla tempia e premere il grilletto. Egli era un fantasma fugace che agiva senza un corpo fatto di carne. Dunque per morire doveva tornare uomo, tornare quindi alla vita.
Il tomo rosso illustrò ad Henry come fare: doveva trafiggere la “carne dell’evocatore”, ovvero il corpo di Walter Sullivan che egli stesso aveva usato per far sorgere Dio, con le sette lance simbolo del secondo e terzo segno dei ventuno sacramenti. Inoltre doveva utilizzare il cordone, quella famosa “parte della carne” che rappresentava la connessione tra lui e la madre che lo aveva partorito.
Una volta fatto questo…era lì che doveva ucciderlo. Come teoricamente era accaduto nella sala circolare con quel macabro marchingegno metallico immerso nel sangue.

Qualcosa era quindi andato storto con il rituale? Il tomo rosso aveva dimenticato qualche dettaglio fondamentale?
Con Walter Sullivan, non sarebbero dovute sparire anche le manifestazioni della realtà parallela? Perché l’appartamento dunque ne rimaneva denso come se egli fosse ancora in…vita?
Non sapeva spiegarselo, ma una cosa era certa: Sullivan lo aveva colpito a morte lui stesso, e dunque concepire che fosse in qualche modo sopravvissuto era assurdo per Henry.
 
“O forse…sto semplicemente impazzendo?!” disse farfugliando tra sé e sé, portando una mano sulla fronte.

Sogghignò appena, come se si rendesse perfettamente conto che qualcosa non andasse bene nella sua testa già da un po’. Del resto, di cose strane e assurde gliene erano accadute così tante che il suo stesso concetto di ragionevolezza stava vacillando.
 Si sentì accaldato e la testa prese a pulsare violentemente. Gettò il capo indietro mentre i suoi occhi reclamavano riposo assoluto.
 
Era per questa ragione che non riusciva a soggiornare in casa a lungo. Per questo non dormiva mai o andava a lavorare pur di chiudersi da qualche altra parte.
Aveva paura che, chiudendo gli occhi, tutto ricominciasse daccapo. Aveva paura che, nel sonno, potesse imbattersi nuovamente negli incubi.
 
Nonostante la sua razionalità gli riportasse alla mente un dettaglio fondamentale: Walter Sullivan era morto. Lo aveva ucciso lui stesso.
 
“Devo…devo riposare…” bofonchiò, poi si voltò di colpo spalancando gli occhi. “…??”

Un brusio, lo fece trasalire di colpo.
Era stato un rumore lieve, ma per qualcuno abituato a vivere da solo, era sufficiente per attirare l’attenzione, nonché allarmarlo.
Gli venne subito spontaneo credere che fosse qualcuno fuori la porta; era tipico dei suoi vicini, ad eccezione di Eileen, parlare ad alta voce sul pianerottolo. Primo fra tutti quello che abitava affianco nel 301, Mike. Nel 304 abitavano una coppia di anziani, ed erano proprio girando la curva del pianerottolo, dunque li aveva esclusi a priori.
Quindi rimaneva solo Mike, un uomo che aveva scoperto essere anche un pervertito durante i suoi viaggi nella realtà parallela. Da allora aveva avuto tutt’altro trattamento nei suoi confronti.

Si avvicinò perciò allo spioncino della porta e diede una veloce sbirciata. Non che fosse diventato diffidente, ma si aspettava che uno come lui potesse importunare la povera Eileen, una ragazza e che abitava da sola per giunta.
Mike gli sembrava tipo che poco si curava che Henry abitasse proprio fra i due e che lui ed Eileen si frequentassero. Sì, dunque era diventato decisamente diffidente, non poteva mentire.
 
Il suo sospetto tuttavia venne velocemente smentito, questo perché non c’era nessuno sul pianerottolo. Subito portò una mano sul capo, confuso. Eppure continuava a sentire quell’eco incomprensibile, soffuso ma percepibile.
Presto la stanchezza non fu più una scusa sufficiente per tranquillizzarlo. Prese quindi a setacciare la casa, convinto di non sbagliarsi affatto.
Suo malgrado, si accorse che più si allontanava dall’ingresso, più quel rumore sembrava farsi alto e nitido. Deglutì quando capì che, qualunque cosa fosse, veniva proprio dal suo appartamento.
In verità non si sorprese più di tanto.
Ogni volta che c’era qualche anomalia, oramai pensava sempre al suo appartamento maledetto.
 
Tendendo l’orecchio costatò che quel brusio proveniva da una stanza in particolare: il ripostiglio. 
Le sue paure trovarono fondamento…era il varco che lo stava richiamando, ma per quale motivo?
Aveva già oltrepassato la sua soglia diverse volte negli ultimi giorni, sperando di mettere fine a quell’incubo una volta per tutte, tuttavia non vi aveva mai trovato nulla, al di là di quello che fu il teatro dell’orrore di Walter Sullivan.
Nessuna creatura famelica e raccapricciante, nessun fantasma, nessun assassino…o semplicemente nessun mostro sotto il letto.
 
Tuttavia quel brusio, suggestione o meno,  proveniva proprio da lì e lo richiamava ad indagare ancora una volta. Che fosse solo la disperata ricerca di dare un senso alle manifestazioni, si convinse che questa volta poteva essere diverso in quanto non aveva ancora ricevuto segnali “dall’altro mondo”.
 
Allungò dunque il braccio verso la panca posta vicino al corridoio e velocemente estrasse la prima cosa che trovò utile come oggetto di difesa.
Anche se difficile da usare come un’arma vera e propria, quando si ritrovò tra le mani il taglierino, decise di tenerlo con sé.
Portò anche la mazza da baseball in alluminio, era l’unica che aveva tenuto con sé dentro la panca e non nascosta nella realtà parallela, visto che per la polizia non era identificabile come una vera e propria arma.
A quel punto tirò su un profondo respiro e si decise quindi a entrare.
Pronto a ritrovarsi davanti chissà quale manifestazione demoniaca, spalancò violentemente la porta e puntò la mazza dinanzi a sé, serrandola con entrambe le mani con estrema fermezza.
 
L’unica cosa sconvolgente che trovò lì dentro, però, fu la lampadina della luce da cambiare perché fulminata.

Guardò dunque l’ambiente e scrutò gli scatoloni, i panni e le cianfrusaglie varie, tutti oggetti tipici da vedere in uno stanzino. Puntò lo sguardo in direzione dell’impalcatura di ferro, dove aveva sistemato gli attrezzi e la scala per uso domestico. Con determinazione afferrò un estremo e trascinò l’ intera struttura in un angolo.  
Il cuore prese a battere forte.
Aveva cambiato la disposizione dei mobili proprio per nascondere il varco per Silent Hill.
Non appena se lo ritrovò di fronte, gli si gelò la schiena: l’incubo che mai più avrebbe voluto rivivere. Il buco che aveva dannato la sua vita per sempre.

Si affacciò cautamente e cercò di esaminare con cura la situazione.
Era aperto e dei rumori provenivano da lì.  Nonostante quei rumori sinistri, si affacciò comunque senza troppe remore.
Il vantaggio di aver toccato il fondo della pazzia ed essere sopravvissuto: da allora si era dimostrato decisamente più coraggioso di quanto potesse credere. O imprudente, questione di punti di vista.

 
-E’ …ente! Le … …di ar …….re su…..do…!-

Come se avesse chiamato a sé un segno, l’eco offuscato e confuso di una voce risuonò dal fondo.
Una voce indistinta, eppure stranamente familiare.
 
Era disorientato, la sua mente era in un completo caos. Tuttavia non poteva indugiare oltre, così decise di scavalcare il muro e si addentrò verso la realtà parallela.
Il cuore batteva fino a far male, in balia della razionalità che normalmente avrebbe impedito a chiunque di addentrarsi dall’ “Altra Parte” di spontanea volontà; ma Henry lo fece, così presto perse conoscenza, pronto a risvegliarsi in uno degli ambienti simbolo del passato di Walter Sullivan.



***
 
 
“Ah…la testa…”
 
Quel senso di vuoto e di smarrimento che portavano i suoi viaggi erano così fastidiosi, non avrebbe mai potuto abituarsene, ma forse questo era un bene: abituarsene avrebbe significato che Henry fosse diventato semplicemente pazzo.
Si girò attorno e si rimise immediatamente in piedi.
Non era affatto turbato da ciò che aveva dinanzi a sé. Del resto, quella non certo la prima volta solcava quel buco dopo aver ucciso Sullivan e salvato Eileen.
 
In quel momento si trovava fra dei servizi igienici dall’apparenza abbandonata, in quello che sembrava un bagno fuori uso. Vi erano una serie di separé l’uno di fianco l’altro in pessime condizioni, grondanti di penzolanti muffe maleodoranti. Di una cosa era certo: di servizi “igienici” ora avevano ben poco.
Il pavimento era in ceramica, bianco, ma oramai aveva perso il suo originale candore dati gli evidenti segni del tempo.
Diverse pozze di liquido organico erano presenti a pochi passi da dove lui stesso si era risvegliato. Come se non bastasse, anche la luce era decisamente scarsa e fastidiosa visto che andava ad intermittenza, spegnendosi ed accendendosi una continuazione.
 
Ad ogni modo, gli bastò che la mente si facesse meno offuscata per associare quei fatiscenti bagni a quelli presenti nell’ospedale St. Jerome.
Strano che fosse l’ospedale vicino casa sua e che l’originale fosse candido ed immacolato. Nella realtà parallela faceva semplicemente schifo. Avrebbe preferito morire dissanguato piuttosto che farsi operare lì dentro rischiando un contagio mortale solo nel sedersi su qualche lettino fatiscente.
Non che potesse fare lo schizzinoso. Visto che quando viaggiava nel varco perdeva conoscenza, doveva anche aver dormito su quel disgustoso pavimento puzzolente.
 
Sospirò rassegnato e dunque si alzò con determinazione uscendo dalla porta dinanzi a sé. Si ripromise di agire con estrema cautela una volta inoltratosi. Questo nonostante il fatto che, durante i suoi ultimi viaggi, aveva avuto modo di costatare che in quel teatro di ricordi, oramai non ci fosse null’altro che un palcoscenico vuoto.
Tuttavia quella voce poteva aver simboleggiato qualcosa di diverso. Questa volta poteva sul serio trovare qualcosa o…qualcuno?
Serrando in un pugno saldo la mazza da baseball, aprì l’uscio cercando di non fare nessun rumore.
Si ritrovò così nella sala d’attesa, completamente sgombra, senza alcuna postazione per i pazienti, senza alcuna reception. Nelle medesime condizioni del bagno: intriso di puzzolenti muffe, disgustose pozze,  medicinali scaduti e una fastidiosa luce ad intermittenza.
 
Girandosi attorno, istintivamente sperò di trovare qualcuno. 
 
“Ma cosa vado a pensare..? Ovvio che…” ripeté a se stesso, ribadendo l’improbabilità della cosa, ma immediatamente una voce altisonante attirò la sua attenzione.
 
-Ma lei è un dottore…deve pur fare qualcosa!-
 
“Di nuovo??” Esclamò Henry.
 
Questa volta era stato ben chiaro sia da dove provenisse quell’eco, che il significato delle parole. Inoltre anche il timbro della voce gli sembrava familiare. Più che familiare.
Henry portò una mano all’altezza del mento sempre più sicuro di averla sentita persino di recente.
 
Ad ogni modo, non indugiò ulteriormente ed iniziò l’esplorazione, esaminando le varie porte della reception.
Costatò che tutte le porte e le maniglie facevano cilecca. Tutte tranne una in verità, e difatti ci entrò non appena sentì il meccanismo della serratura muoversi.
 
Rimase perplesso di costatare che la stanza era vuota e che si trovasse in quello che probabilmente era lo studio di un medico. Si aspettava di trovare ben altro.
A furia di rimanere in quel mondo, era stato chiaro arrivare alla conclusione che tutti gli ambienti presenti oltre il varco fossero legati a Walter Sullivan. Pur non capendone esattamente la meccanica, aveva compreso quanto persino i piccoli dettagli reagivano secondo i sentimenti , ricordi e impulsi del loro padrone.  Interagivano con lo spettatore ignaro di quella controversa esistenza, smuovendo e materializzando i ricordi tormentati dell’uomo. Persino le stanze o gli oggetti nei quali Henry si era imbattuto in passato ne facevano parte. Tutti racchiudevano e custodivano frammenti di memoria, simbolo della vita passata che li aveva fatti nascere. Era alla luce di questo che ora Henry si domandava incerto perché quello studio medico fosse l’unica stanza aperta.
 
Già gli era difficile concretizzare che quel mondo, in parole povere, non fosse alto che una rielaborazione mentale dell’uomo che aveva cercato di ucciderlo; ma addirittura trovare al tutto un filo conduttore e in qualche modo una logica, era decisamente troppo.
 
Era una persona pragmatica e non era in vena di psicanalizzare nessuno. Non lo aveva mai fatto e non avrebbe cominciato con Walter Sullivan.
Eileen aveva provato a coinvolgerlo nella sua analisi meticolosa circa i suoi traumi esistenziali o qualcosa del genere, ma per Henry un assassino rimaneva tale e basta. Era sufficiente per lui ricordare cosa aveva fatto e come aveva tentato di uccidere Eileen per non avere pietà. Inoltre di suo non era vocato per quel genere di cose.
 
Fece dunque scivolare via dalla mente quei pensieri e premette l’interruttore della luce, ma questa prese a lampeggiare fastidiosamente fino ad emettere una vistosa scintilla che portò nell’oscurità lo studio.
 
Bene…constatò. Henry faceva uno strano effetto alla corrente della luce quel giorno.
Cominciò senza grossa finezza a sfogliare le varie scartoffie in giro e scrutare la scrivania. L’ufficio non era molto grande, conteneva giusto un tavolino basso, un paio di divanetti a due posti e una scrivania principale. Eppure più frugava in giro, più costatava che contenesse diversa roba.  Nulla di utile comunque, inoltre il buio rendeva tutto illeggibile.
Un fascicolo solo, però, attirò definitivamente la sua attenzione.
Sebbene fosse un documento di appena qualche pagina, era posto al centro del tavolino in modo tale da non passare inosservato.
Lo prese dunque fra le mani e lesse. Suo malgrado, non vi era nulla che riguardasse la voce sentita prima, ma vi era comunque qualcosa di ugualmente interessante.
 
“Uhm…sembra un qualcosa di piuttosto datato…” dedusse mentre sfogliava le pagine. “St. Jerome…ricoverato urgentemente.”
Prese a sfogliarlo e si avvicinò ad una finestra, dove stranamente proveniva un tenue raggio di luna. “Questa è la cartella clinica di un neonato.”
 
Peccato che non vi fosse molto a riguardo, per cui non poté esaminare il caso con accuratezza. Eppure, nel leggere le condizioni di un bambino ricoverato d’urgenza, crebbe in lui una strana sensazione in corpo. Non vi erano però dati più specifici, nemmeno un nome, un cognome, o una data di nascita…ma era lampante che riguardasse Sullivan.
Infondo era proprio l’ospedale di Ashfield il posto dove Frank Sunderland lo aveva portato quando lo aveva trovato in fasce nell’appartamento 302.
Non vi aveva dato grosso peso a quel tempo, preso com’era dalla ricerca disperata di una via d’uscita per lui e la sua compagna, ma sia sul diario di Frank Sunderland che sugli appunti scritti sulla carta rossa da Schreiber, doveva esserci appuntato quel dettaglio risalente a ventiquattro anni prima.
 
Posò la cartella clinica e la sua mente tornò al bambino dalla maglia a righe, nel giorno in cui, nella nebbiosa foresta di Silent Hill, aveva potuto finalmente porgli delle domande. Le cose, per qualche motivo, trovarono per lui una connessione naturale
Gli chiese senza troppe remore se egli fosse Walter Sullivan. Il bambino, seppur intimidito, gli rispose in modo gelante e consapevole che egli non possedesse affatto un nome.
Riguardando la cartella clinica, dedusse che dunque quella doveva essere proprio quella di Sullivan, visto che i suoi dati anagrafici, nome compreso, glieli avevano dati i membri del culto.
Dunque il bambino aveva detto la verità, era un volto senza nome dimenticato dal mondo.
 
Uscì dalla porta con gli occhi calati e lo sguardo cupo. Rifletteva ancora sul perché di tutto quello, non riuscendo a trovare una finalità dietro quei ricordi su ricordi di Sullivan che lui sembrava destinato a dover conoscere suo malgrado. Assorto in quel vortice di dati e pensieri controversi, non si accorse che qualcosa invece si stava avvicinando a lui. Se solo avesse prestato più attenzione, avrebbe immediatamente sentito dei passi profondi solcare la hall.
Era un rumore strozzato, un qualcosa che ricordava un lamento, anche se molto vagamente.
 
Henry costatò di avere, a nemmeno di un metro di distanza, un enorme figura deforme di fronte a sé; questo tuttavia troppo tardi.
 
“Ah!” urlò, preso completamente alla sprovvista mentre questa lo colpì violentemente sulla fronte.
 
Cadde a terra dolorante, strisciando sul pavimento sporco per via della veemenza del colpo. La testa prese a pulsare confondendo i suoi sensi, mentre del liquido caldo e denso prese scorrere dalla sua fronte. Toccandola, trovò la mano insanguinata. Si era procurato una brutta ferita il cui dolore era inibito solo dall’adrenalina.
 
“Gh…” una goccia di sangue coprì un occhio, sicché fu difficile per lui focalizzare nel dettaglio la creatura mostruosa che l’aveva colpito. Fece comunque del suo meglio per non lasciarsi prendere dal panico e alzare lo sguardo per rendersi conto il più in fretta possibile della situazione.
 
Più guardava quell’immagine demoniaca e deformata, più gli sembrava avere delle braccia, una testa, dei capelli…un seno…
Le sue, anche se camuffate da una pelle spessa e scavata, rimandavano proprio alle fattezze di una donna!
Ma era sproporzionatamente alta, mostruosa e spaventosa. La sua pelle era coriacea e il volto raccapricciante. Brandiva un grosso bastone fra le mani e, a ogni suo passo, emetteva un rumore disgustoso scaturito da un buco che le perforava il basso ventre.
 
Henry indietreggiò appena, ma trovò dietro di sé il muro, così si rese conto di non avere scampo.
Doveva fuggire, e alla svelta! Peccato che le gambe fossero oramai paralizzate, non riusciva ad alzarsi e il mostro si faceva sempre più vicino. Così tanto da sentirne perfettamente l’odore fetido.

Non ritrovandosi la mazza da baseball fra le mani, dedusse troppo tardi che durante la colluttazione doveva aver perso la presa. Infatti, vide che questa era caduta lontano dalla sua gittata, ancora nei pressi della porta dello studio medico.
Istintivamente, mise dunque la mano nella tasca del jeans e solo allora ricordò di avere con sé il tagliacarte. Lo estrasse immediatamente e lo puntò contro il mostro. Non era un’arma efficace contro giganti simili, ma era pur sempre meglio di niente.
Non ci capiva un accidenti di medicina e le sue conoscenze anatomiche risalivano ai tempi del liceo, ma se giocava bene le sue carte, avrebbe potuto tagliargli i tendini e i legamenti muscolari, limitando i movimenti del mostro-femminile abbastanza da poter scappare via.

Il mostro, alla vista di quell’oggetto, per un attimo si bloccò. Stesso Henry si sorprese di quella reazione.
Girando gli occhi, poi, si accorse che non era affatto spaventato dalla sua arma, ma dal fatto che dal corridoio stavano avanzando altri suoi simili.
 
“…merda!” esclamò a denti stretti.
Arrivarono altri cinque mostri di almeno due metri e in poco si affiancarono a quello che Henry aveva di fronte a sé.
 
Cosa doveva fare? Come doveva difendersi? L’ultima volta si era tagliato nella realtà parallela e il graffio non era sparito. Questo significava che, se fosse stato sopraffatto lì, sarebbe morto per davvero?!
Anche se Walter Sullivan era oramai morto e quel mondo non aveva ragione di esistere?
Strinse l’arma ancora più fermamente e cominciò a sudare, vedendo davanti a sé sempre meno scappatoie.
Voleva vivere, diavolo! Era sopravvissuto ad un inferno claustrofobico come quello e non poteva accettare di non poter far nulla per salvarsi ora.
L’istinto gli diceva di far qualcosa e alla svelta, ma più i mostri si facevano vicini, più per lui sembrava impossibile fuggire alla morte.
Si chiedeva cosa ne sarebbe stato di lui, del suo corpo, della Silent Hill alternativa. Sarebbe morto nel suo appartamento o sarebbe rimasto inglobato nella realtà parallela?
La paura lo stava rendendo cieco e la pelle prese a bruciare, impietrita dai mostri che presto l’avrebbero torturato fino a decretare la sua fine.

E poi…
 
Accadde qualcosa di improvviso.
I mostri si accasciarono a terra tutti all’unisono, lasciando Henry con il cuore a mille.
Li vedeva tutti lì, stesi di fronte a lui, oramai immobili.

“Ma che diavolo..?” disse, con voce affannata.
 
Guardò quelle carcasse e cercò di spiegarsi cosa diavolo fosse successo. Sicuro fossero…morti?
Si alzò e con la punta del grosso tagliacarte punzecchiò la testa di uno dei mostri, il quale non reagì affatto. Era quindi effettivamente morto. Le carcasse tuttavia di lì a poco presero a vibrare, facendo prendere un ennesimo colpo al povero ragazzo dai capelli castani che quasi non si ritrovò a strillare visto com’era in fibrillazione.
 
I corpi fremevano forte, come fossero sotto l’effetto di una potente scarica elettrica. Tuttavia non erano vivi e anzi…
Henry, da infelice spettatore, dovette assistere alla macabra visione di quei corpi che lentamente presero a corrodersi fino a liquefarsi, mostrando prima i tessuti muscolari, poi le ossa, fino a lasciare di loro solo fetidi odori organici. Di loro non rimase presto nulla se non cinque grosse sagome rosse.
Le sagome riproducevano alla perfezione la loro posizione durante la morte, con tanto di zona ventrale vuota, rimasta intatta sul pavimento come fosse un’immagine iconografica dei mostri senza ventre.

“Perché si sono liquefatti..?” si chiese impotente. Non era mai accaduto che quei mostri si liquefacessero in passato. Si poneva dunque il perché di quella reazione.
 
La risposta la trovò esaminando più accuratamente quel sangue ora rappreso.
 
DoNa…
 
Non riusciva a credere a ciò che stava leggendo. Cioè, stava leggendo qualcosa nel sangue!
Si affacciò per costatare più accuratamente quelle sottili venature attorno ai corpi e si rese conto che non vi era solo scritto –dona-, ma che connesse a questa vi erano un susseguirsi di parole.

MAdre…
…DoNa.
MAdre,
Ti sAlverO iO!

 
Guardò quella scritta cercando di comprenderne il senso e i suoi occhi caddero immediatamente sui corpi di quei mostri. La risposta la poteva ottenere soltanto da loro. Era fin troppo ovvio che rappresentassero delle “donne”, dunque la parola –dona- era chiaramente riferita a loro…
 
“…ma perché ‘madre’?” si domandò.
 
Cosa rendeva simili una madre e una donna? Quale era la connessione?
 
“Quel rumore che emettono…non è per lo stomaco squarciato.” disse all’improvviso, come se per una volta vedesse in modo chiaro i messaggi di quel macabro universo.
 
Si avvicinò a una di loro e osservò meglio.
 
“Donna e Madre. A loro manca infatti…”
 
…Mancava una parte fondamentale e che connetteva quelle due parole.
Partì un vero e proprio flashback nella sua mente che andò a rievocare il periodo dei suoi viaggi dall’appartamento 302 al mondo parallelo. Solo allora rammentò il giorno in cui era entrato nell’ospedale la prima volta. Quando aveva udito dei sospiri e aveva visto l’ombra di Walter Sullivan proiettata su un lettino d’ospedale, mentre squarciava il corpo di uno di quei mostri.
All’epoca avere dinanzi a sé l’assassino lo fece scappare via ma adesso, a sangue freddo, poteva riflettere su cosa fosse accaduto quel giorno e cosa stesse facendo Sullivan lì: stava asportando a quei mostri l’utero!
La sola idea gli portò il voltastomaco. Lo aveva visto farlo a mani nude, con un’ossessione perversa e diabolica negli occhi, crudele ed inconcepibile.
  
Lo sguardo che Henry rivolse a quel mostro, dunque, fu diverso. Più…compassionevole?
Era come se si fosse reso conto che anche quelle creature erano vittime di un terribile incubo malsano scaturito dalla mente di Sullivan, nate al solo scopo di soffrire per le sue pene e i suoi peccati.
I pezzi di quel ricco mosaico cominciarono a combaciare l’uno dopo l’altro, ricostruendo quel quadro che Henry già ben conosceva, ma che si era rifiutato di analizzare in modo più approfondito proprio per non rimanerne soggiogato ineluttabilmente….
 
Walter Sullivan era stato abbandonato in fasce. La madre lo aveva ripudiato e condannato a morte certa. Lo aveva scoperto grazie a Joseph Schreiber ed era per quel motivo che era dannatamente legato all’appartamento 302.
Conosciuto il dolore del rifiuto e dell’abbandono, la sua psiche era rimasta corrotta e macchiata persino in quella tenerissima età; un trauma così grande e devastante da invadere anche quel mondo creato dal rituale dei 21 sacramenti, fino a generare una controversa e truculenta immagine di esso.
Già nell’ospedale doveva aver elaborato quell’odio e quel disprezzo.
Un odio e un senso di usurpazione verso la donna, verso l’utero, ma al tempo stesso un forte e irrazionale desiderio di ricongiunzione con esso…
 
Una parte di lui, dunque, aveva sempre voluto tornare da lei, dentro di lei, per riprendersi i giorni rubati.
La proiezione di un bambino che era stato strappato via da sua madre…
 
Continuò ad osservare quei mostri ora liquefatti.
Quei mostri che raffiguravano delle donne. Delle donne senza un organo ben preciso: l’utero.
Si chiese se era proprio da lì che Walter Sullivan aveva aveva cominciato il suo cammino verso l’oblio e la follia.
 
Anche se un neonato, fin dal grembo materno, aveva subito le angosce e le frustrazioni dei genitori.
E così era stato strappato via dal suo amato grembo materno, tradito dalla prima donna di qualsiasi uomo: La madre.
 
Per questo…quei “mostri” non avevano il ventre?
Henry solo allora cominciò a comprendere alcune cose.
 
Istintivamente, riportò alla mente il secondo piano dell’edifico del ST. Jerome demoniaco.
Era lì dove un tempo aveva salvato Eileen Galvin, attraversando una serie di porte losche e lugubri, nonché assurdamente senza senso. Ora invece, gli sembrava quasi di capire perché quel posto fosse così strano, perché fosse così putrido, perché le stanze erano dislocate e seguivano un’architettura del tutto errata. Perché vi fossero strani cadaveri, brandelli di carne, vetri rotti o quant’altro…
Erano tutti i chiari segnali del disturbo di Walter Sullivan, del suo sentirsi rifiutato e cacciato via da colei che amava.

Un click poi rimbombò nell’aria ed Henry si voltò di getto.
Era stato un improvviso rumore rugginoso che sembrava provenire dai piani superiori. Il ragazzo dedusse che quei mostri, per qualche motivo, dovevano aver fatto smuovere qualcosa in quell’universo parallelo.
Aprì immediatamente la porta a doppie ante e costatò che sì, effettivamente ora il meccanismo della serratura funzionava e poteva proseguire.
Imboccate le scale, giunse al lungo corridoio contornato da una ventina di stanze. Era un ambiente anch’esso vuoto, polveroso e desolato.
Non ci pensava nemmeno di riesaminare tutte quelle nauseanti porte, dunque decise di cercarne una ben precisa.
Ricordava quale fosse la camera di Eileen, quella dove era stata ricoverata, e gli sembrò opportuno andare a darci un’occhiata.
Eileen non gli aveva mai dato grosse spiegazioni in merito, ma in qualche modo lei aveva rappresentato per Sullivan la “madre”, dunque gli sembrò fin troppo ovvio che avrebbe trovato qualcosa d’interessante lì dentro. Sembrava aver senso, alla luce dei mostri femminili e il fascicolo del neonato. Non che avesse mai avuto un brillante acume, ma gli sembrava la logica conseguenza della sua indagine.
Cosa avrebbe trovato..? Quello era un altro paio di maniche, ma ci avrebbe pensato dopo, così dopo aver attraversato un paio di porte, si fermò di fronte la stanza voluta.
Le porte non avevano una numerazione o una nomenclatura, ma da questo punto di vista, Henry poteva vantare un’eccellente memoria visiva. Essendo un fotografo per hobby e per lavoro, era abituato a catturare e fermare nella sua mente dettagli e scorci.
Avvicinò la mano al pomello e fece per aprire la porta.
Punto positivo, la porta si aprì. Tuttavia di fronte a sé non trovò la stanza che cercava.

“Ma…!” disse turbato.
 
Che si fosse sbagliato era un conto…
Ma era più che certo che quella stanza in particolare non era ubicata all’inizio del corridoio.
 
Anf…Anf…
 
Avvertì un gelo dietro la nuca, nell’udire quegli spasmi. Gli stessi gemiti che faticò a sostenere psicologicamente la prima volta, torturando la sua mente e la sua ragionevolezza.
La voce soave di Eileen Galvin ansimava con terrore e i suoi respiri soffocati rimbombavano creando un’atmosfera terribile.
Più si soffermava ad ascoltarli, più vi leggeva dentro dolore, tormento, angoscia…ma anche esultanza; essi erano soffocati, eppure penetranti…
 
 “Eileen…” disse quando la vide.
 
Era la raccapricciante immagine formato gigante del volto della sua vicina di casa, in quel mondo la madre rinata, il ventesimo segno.
Eppure quella era un’idea decisamente malsana del concetto di madre.
Non che si aspettasse un’interpretazione più convenzionale da parte di uno pazzo come Walter Sullivan. Tuttavia…più di qualcosa per lui non quadrava affatto.
Punto primo, perché la stanza si era spostata? E secondo: perché la manifestazione di Eileen come “madre” era grande quanto una stanza?
 
Levato quell’aspetto inquietante, era come se un bambino avesse disegnato una mamma grande quanto tutta la casa.
Per gli psicologi, aveva letto da qualche parte, o forse era sempre stata Eileen a dirglielo, non ricordava…questo rappresentava quanto per un figlio significasse il familiare ai suoi occhi.
E Walter… già in fasce aveva cominciato ad avere un’idea distorta della madre, che amava ma che l’aveva dannato al tempo stesso.
Una parte infantile di lui l’aveva sempre considerata per tutta la vita la sua ancora di salvezza, nonostante abbandono e rifiuto. 
Una madre che, nonostante tutto, agli occhi di un bambino era e rimaneva onnipotente come un Dio.
 
C’era dell’altro però.
C’era un sottile filo conduttore tra Eileen, quella testa gigante che la rappresentava, gli spasmi, il rituale e il fatto che fosse chiusa in una stanza.
Il solito, maledetto e costante anello di congiunzione che non faceva che riflettere quella dura realtà.
 
…Lo comprese nel momento nel quale si accorse di che natura fossero quei sospiri tormentati…
 
Ovvero…sua Madre.
La Madre, che era Eileen.
La Madre, che era l’appartamento 302.
La Madre, che l’aveva partorito: sia come donna, che come stanza, come lui confuse da bambino.
 
….quei tormenti che sembravano quelli di un parto…
 
Nella concezione irrazionale e assurda di un ragazzino solo e cresciuto in modo malsano, il giovane Walter aveva creduto che l’appartamento dove sua madre lo abbandonò fosse quello che l’aveva partorito.
Quella stanza dove casualmente Henry Townshend soggiornava, la 302, agli occhi del bambino era sua Madre.
Quella stessa madre che in età adulta divenne Eileen Galvin, scelta come ventesimo sacrificio.
Fu inquietante vedere come la sua mente avesse simbolicamente elaborato tutto ciò rappresentando una donna formato stanza 302, facendo coincidere “Madre Rinata” con “stanza 302”.
Era...strano.
Era…orribile…
Fu la visione di qualcosa di inumano e folle, che lo catapultò nei meandri oscuri e agghiaccianti di quella realtà parallela, simbolo di una mente oramai devastata.
Toccare con mano quei disturbi era un qualcosa che lo angustiò fino a contorcere atrocemente le sue viscere.
 
Non potendo sopportare psicologicamente quella visione, chiuse la porta.
Eileen, con quel volto pieno di venature, gli occhi tremanti che lo fissavano morbosamente…gli spasmi nella stanza…
Era lei. Il suo viso, i suoi capelli, le sue labbra…
Ma al tempo stesso era un’espressione che non riconosceva e che non poteva sostenere.

Presto costatò che non era solo quella stanza ad essere posta in una locazione differente rispetto la prima volta, ma anche tutte le altre non si trovavano affatto dove egli ricordasse.
A quel punto fu ovvio per Henry che non era la sua mente a fare cilecca, ma in qualche modo tutte le stanze avevano cambiato ubicazione.
Azzardò un’ipotesi, oramai entrato in quello spirito.
La mente di Walter Sullivan era confusa nel ricordare esattamente l’aspetto del St.Jerome essendo un neonato; era dunque ovvio che ne ricordasse solo il caos e i disturbi mentali che gli avevano scaturito. Ecco spiegato perché le stanze non erano sempre allo stesso posto.
Piuttosto fu ambiguo pensare che tutto fosse frutto di un Sullivan neonato.
 
Entrò in tutte le stanze alla fine e più le osservava, più sentiva lo stomaco farsi sottosopra.
Non poteva…perché lui doveva vedere tutto questo…?
Perché?
Se lo stava chiedendo oramai da giorni…era una vittima, un’infelice vittima capitata per caso lì dentro. Ma perché a differenza degli altri, doveva vivere quella terribile esperienza?
Perché lui era in grado di vedere quelle cose, frutto della mente di Sullivan?
 
Volente o nolente, sembrava che quel mondo lo risucchiasse a sé morbosamente, che volesse che egli apprendesse quelle consapevolezze; ma Henry voleva solo trovare un dannato modo per fuggire dall’incubo! Non ne poteva più!
Voleva un perché!
Un perché circa il suo appartamento che verteva ancora in quello stato nonostante la morte di Sullivan...
Un perché sul fatto che lui stesso, nonostante tutto, finisse sempre per riattraversare quel varco.
 
Semplicemente desiderava che tutto tornasse come prima; non sarebbe impazzito là dentro.
 
La nausea di colpo lo assalì e subito cominciò a tossire, accasciandosi a terra, sfinito e disorientato.
 
“Sullivan…cosa diavolo vuoi ancora da me?!” disse a denti stretti.
 
-Come sarebbe a dire che non è mia competenza! Mi lasci andare!-
 
La voce risuonò ancora in quel lungo corridoio e Henry si rimise in piedi, assumendo un’espressione sgomentata. 
Perché ne era sicuro! L’aveva sentita vicinissima ora.
Aveva echeggiato così all’improvviso che non era riuscito a dedicarci le attenzioni dovute, tuttavia…stavolta era certo di chi si trattasse; non aveva torto quando aveva detto che gli era sembrata familiare.
 
Quella…era la voce di Frank Sunderland?
 
“F-Frank!” urlò fissando in una direzione vaga. “E’ lei signor Frank? Dove si trova?”
 
A quel richiamo, tuttavia, non rispose il custode della palazzina, ma susseguirono una serie di rumori metallici.
 
“Un cigolio..? Cos--”
 
Non fece nemmeno in tempo a voltarsi che subito avvertì una terribile fitta al cervello che lo costrinse a chiudere gli occhi e portare entrambe le mani sul capo.
 
“Ah!”
 
Il dolore era incessante e l’ansia cominciò a sopraffarlo.
Il rumore metallico, come se non bastasse, cominciò a farsi sempre più nitido e presto si rese conto che era il tipico rumore di una ruota di…
 
“…di una sedia a rotelle..?”
 
Sgranò gli occhi quando si rese conto che, di fronte a lui, vi erano una serie di sedie a rotelle che presto lo travolsero come se lo avessero puntato con tale scopo.
Non fece in tempo a scansarle e a stento si rimise in piedi quando fu colpito con enorme violenza da gran parte di esse.
Fu così letteralmente scaraventato via e si ritrovò a terra, con le spalle rivolte verso le porte dell’ascensore del secondo piano.
Toccò il braccio dolorante e guardò le sedie con la poca forza che gli rimaneva in corpo.
 
“Cosa mi sta…?”
 
Ma le sorprese per il giovane Henry non terminarono lì. Un suono avvisò che l’ascensore era in movimento. Così, di lì a pochi secondi, si mosse violentemente verso il basso illuminando lo spiraglio tra le due ante e aprendosi, lasciarono Henry senza un appoggio per la schiena.
A poco valsero i suoi tentativi di recuperare l’equilibrio e così cadde inesorabilmente nell’abisso.
 
Il colpo fu violento; un forte senso di vertigini lo pervase mentre si accorse di essere sul tetto dell’ascensore che continuava a scendere in quel tetro buio, accompagnato da un terribile rumore stridulo che lo stava facendo impazzire.
Si strinse a esso cercando di non perdere la ragione e in cuor suo sperò che si fermasse il prima possibile.
 Qualcosa, tuttavia, cominciò ad attirare la sua attenzione.
Era di nuovo la voce di Frank Sunderland che, anche se soffocata, riconosceva ora perfettamente.
Alzò il busto rimanendo in ginocchio e cercò di ascoltare cosa stesse dicendo, ma il rumore rugginoso dell’ascensore gli impediva di concentrarsi come avrebbe voluto.
A un certo punto, comunque, gli fu chiaro che non fosse da solo. Una voce si alternava a quella del custode. Una voce di un uomo, ma che non attribuiva a nessuno dei suoi conoscenti.
 
Improvvisamente, la discesa s’interruppe.
L’ascensore si fermò, lasciando Henry proprio di fronte delle porte automatiche di ferro che si aprirono dinanzi a lui.
La luce del pianerottolo nel quale era giunto a destinazione lo accecò per qualche istante. Del resto, era sempre stato nel buio, fino a poco prima.
Si alzò e si addentrò. Lentamente sentì i suoi occhi abituarsi a quella luce, anche se con grande difficoltà.
 
Scostò la mano dalla fronte, con le pupille ancora strette e le palpebre semichiuse, e non riuscì a credere ai suoi occhi quando vide proprio lui: il custode e responsabile degli appartamenti di South Ashfield Heights.
 
Subito si avvicinò e lo richiamò sorpreso. Tuttavia Frank non si voltò.
Solo in quel momento Henry si rese conto che, nonostante fosse evidente che quello fosse il custode, aveva un’aria decisamente diversa dal solito.
Dimostrava molti anni di meno e i capelli erano di un grigio tendente al biondo. I lineamenti non erano scavati come il Frank che conosceva, così come l’abbigliamento che, sebbene molto classico, era meno vetusto.
 
Frank stava parlando nervosamente con un uomo che portava sulle spalle un camice bianco.
 
“Signor Sunderland, lei cosa ci fa qui?” gli chiese.
 
Non ricevette risposta ancora una volta, così Henry concluse che, qualunque cosa stesse accadendo, Frank non era in grado né di udirlo né di vederlo.
 
Rimase, dunque in silenzio e osservò la scena che aveva di fronte a sé.
 
“Come sarebbe a dire che solo i parenti hanno diritto di sapere? Il bambino è stato abbandonato!”
 
“Mi rincresce, Signore. Ma lei non ha alcun legame di sangue con il paziente e dunque non le è concesso conoscere la prognosi.”
 
“Si rende conto di cosa dice?! Lei è folle!”
 
“Si accontenti di sapere che è sopravvissuto, ma la prego, non torni qui sperando di ricevere ulteriori informazioni. Il bambino ora è tutelato dalla legge e presto sarà accolto presso strutture adeguate.”
 
“Ma..!”
 
Henry guardò il volto del custode spegnersi sempre di più.
Quella scena manifestava i ricordi riguardanti Frank quando aveva salvato quel bambino abbandonato nell’appartamento 302. Nonostante il suo nobile gesto, non aveva mai avuto alcun diritto di sapere cosa gli sarebbe accaduto in futuro.
Era una situazione strana.
Sunderland, in quel momento, era preoccupato per quella creatura. Quello stesso che, un futuro, sarebbe diventato uno spietato assassino.
 
Abbassò gli occhi e la testa divenne sempre più confusa.
Cosa gli stava accadendo? Si sentì nervoso all’idea che in cuor suo stesse provando tanta pietà per quella terribile condizione. Aveva forse compassione per Sullivan?
Eppure rifiutava categoricamente comprendere quell’uomo terribile che aveva fatto del male a tanta gente, a lui, ad Eileen…
L’odio cominciò a scorrere nelle vene e Henry si ritrovò a stringere i pugni con grande rabbia.
Era insopportabile scoprire che esistevano molte verità circa la vita di quel crudele assassino.
Andando a scavare in fondo, parallelamente vigevano molte altre realtà che quel mondo pazzo manifestava proiettandole attraverso simboli duri e violenti, mostrando quanto la sua inumanità non fosse che il frutto di una molteplice serie di concause.
Ma un assassino rimaneva tale, no?
Era…il male.
Quel che aveva commesso non era giustificato da nessun passato, ingiusto o no che fosse.
 
Non appena alzò gli occhi, però, vide che la figura di Frank e quella del medico erano sparite.
Sgranò gli occhi sorpreso.
Quel che stavano vedendo i suoi occhi, negli ultimi tempi, era umanamente inconcepibile.
Vedeva cose che gli altri non potevano vedere. Le persone dinanzi a sé sparivano, cambiavano forma e talvolta morivano…
Affrontava mostri appartenenti a curiosi incubi, e riusciva a entrare nel subconscio di un assassino.
Era un completo caos dove lui come Henry Townshend, paradossalmente, entrava in secondo piano.
 
Tonk….tonk…
 
Dei passi, rimbombarono dietro di lui, all’improvviso, violentemente.
Era quasi come se volessero spezzare quel lungo silenzio. Lo sgomento di Henry passò in secondo piano, lasciando prevalere un totale stato di allerta.
 
Quei passi…li aveva già uditi. Era come se li riconoscesse. Somigliavano a quelli che aveva udito il giorno prima e quello prima ancora...
 
Il cuore del ragazzo palpitò violentemente, riconoscendo quel modo di camminare lento ma pesante.
Aveva già avuto modo di sentirli nell’appartamento di Joseph e, per una manciata di secondi, li aveva uditi anche mentre tornava dal lavoro con Eileen Galvin, nei pressi del terzo piano del palazzo di South Ashfield.
 
E ora…erano di nuovo dietro di lui.
 
Con lo sguardo tremante, lasciò scivolare gli occhi pallidi dietro le spalle e lentamente girò il busto per intravedere chi ci fosse. Non aveva mai avuto il coraggio di farlo, ma era anche vero che mai prima di quel momento era riuscito ad interagire nuovamente con la realtà parallela. Era come se tutto stesse di colpo riprendendo vita. Esattamente come allora…

Ebbe la terribile sensazione di non starsi affatto sbagliando. Perché non aveva dubbi che si trattasse proprio di lui.
Walter Sullivan era lì.
 
Henry sgranò lo sguardo scioccato, rimanendo con il capo chino e gli occhi dritti su di lui tremanti e confusi.
Era davvero li? Era una proiezione o lo stava sognando? Del resto, con tutte le botte prese, poteva anche essere.
 
Scrutandolo…quell’uomo aveva lo stesso aspetto di quel tempo.
Un’apparenza giovane, ma dal volto scavato e trascurato. I capelli biondi cascavano sulle spalle coprendo parte del viso, lasciando comunque intravedere l’inquietante ghigno disegnato sulle labbra e i luminosi occhi verde chiaro.
Il lungo cappotto blu notte lo copriva dal mento fino alle ginocchia, conferendogli un aspetto tetro e minaccioso.
Era molto alto, proprio come lo ricordava, e dal fisico atletico ma denutrito.
Henry rimase in silenzio e i loro sguardi erano fissi l’uno sull’altro.
 
“Sullivan…” sussurrò appena, infine.
 
“Quanto tempo, vero?” disse l’assassino, quasi divertito di vederlo lì. La sua voce era calda e rauca e incuteva turbamento nell’animo del giovane Townshend.
 
Gli occhi del moro presero a tremare. Corrucciò le sopracciglia quando cercò ancora di razionalizzare la situazione, chiedendosi se avesse per davvero di fronte a sé Walter Sullivan.
 
Perché era lì? O chi diavolo era quell’uomo?
Perché lo aveva seguito? Cosa gli sarebbe accaduto? Ma Walter…non era morto!?
Forse, se aveva appena visto un Frank ‘del passato’  , questo significava che anche quel Sullivan poteva essere una manifestazione della realtà parallela?
 
La sua camicia era oramai imbrattata di polvere e di sangue, e i capelli erano scompigliati, sporchi di sangue anch’essi.
Il suo respiro intanto diventava sempre più profondo e ansimante, mentre osservava quell’uomo che invece, al contrario di lui, aveva le sopracciglia inarcate e uno sguardo tranquillo che sembrava volerlo trafiggere.
 
Nella sua mente albergava un solo martellante campanello d’allarme.
Scappa o ti ammazzerà. Scappa, non è una proiezione. Scappa, è lì per vendicarsi. Fuggi via, fuggi via, fuggi via…
Eppure rimase immobile, come pietrificato. Non poteva essere Sullivan. Lui era morto!
La razionalità gli urlava al tempo stesso di scappare e di rimanere fermo, scaturendo in lui un decisivo e fatale blocco mentale che irrigidì i suoi sensi, muscoli, mente…tutto.
 
Walter poi, improvvisamente, tese le braccia verso Henry, brandendo due pistole nere.
 
“Felice di rivedermi?”
 
L’assassino sogghignò e cominciò a ridere come un forsennato, mentre una serie di colpi partirono a raffica colpendo qualunque cosa fosse nella sua gittata. Gli occhi di Henry si sbarrarono incapaci di capacitarsi che era troppo tardi per tornare indietro.
 
***

[Primo piano, ala ovest, di fronte l’appartamento 105, a South Ashfield Heights.]
 
Henry bussò veementemente alla porta con la targa che aveva la scritta “#105”. Era raro vedere quel ragazzo in atteggiamenti simili, lui che solitamente era così discreto e pacato.
 
“Signor Frank! Apra, è urgente!” disse, continuando a bussare incessantemente.
 
“Calma, calma! Si può sapere cos’è tutto questo chiasso?”
 
Il custode aprì la porta e si sorprese di vedere il giovane Townshend. Lo fece accomodare e lo invitò a prendere posto sul divano.
Henry aveva un aspetto stanco, ma non cessava di avere quell’atteggiamento sgomentato che spaventò un po’ l’uomo anziano.
 
“Calmati, vado a prendere del tè…” disse dirigendosi in cucina.
 
“Lasci stare, signor Frank. C’è qualcosa che devo sapere…” lo interruppe, ansimante.
 
Frank lo guardò perplesso e si allontanò dalla cucina. Fece un cenno con la testa e guardò Henry negli occhi.
 
“Prego, dimmi pure…”
 
Il ragazzo abbassò il capo, con fare leggermente incerto. Lentamente, cercò di recuperare il suo solito atteggiamento controllato. Anche la sua voce divenne sempre più bassa fino a tornare al suo timbro normale.
 
Perché era lì?
La risposta era semplice.
Henry doveva avere la certezza di ciò che aveva visto. La certezza che quel che era accaduto fosse corrispondente al vero.
Mai come allora aveva il bisogno di confutare le verità apprese nell’Otherworld con la realtà al di fuori di esso, in quello che era il suo mondo. Anche se sapeva già tutto, anche se conosceva quella drammatica storia…
Doveva però indagare e sapere di non essere pazzo…
Deglutì e decise che non aveva più tempo per indugiare.
 
“Signor Frank, lei…ha trovato un bambino, circa trent’anni fa, nel mio appartamento?”
 
Il custode rimase turbato nel sentire quelle parole e Henry si sentì leggermente in colpa. I suoi occhi sembrarono tremare incerti, perplessi da quella domanda che rievocava un periodo così lontano e ormai dimenticato.
 
“Tu…come lo sai?! Chi te l’ha detto?”
 
“Dica solo sì o no. Non le chiederò i dettagli. Devo solo sapere se è vero.”
 
Frank sospirò e prese posto sul divano. Fece segno al giovane di fare lo stesso. L’anziano aveva ancora la tazza di tè fra le mani e prese a sorseggiarla appena. Henry si accorse che i suoi occhi azzurri si stavano inumidendo, come se folgorati da un qualche ricordo che ancora lo tormentava fortemente.
 
“Sì…ma è stato molto tempo fa. Circa trent’anni fa, come dicevi tu.” sorseggiò ancora. “Ma non so molto a riguardo. Ah…forse ti avrò deluso, vero?” alzò nuovamente lo sguardo verso Henry. “Povero bambino. È una storia terribile che ancora non riesco a dimenticare. Chissà cosa gli sarà accaduto?”
 
“Dunque il diario era vero…per questo che il cordone era quì…” disse impulsivamente ricordando che un tempo era proprio nell’appartamento del custode dove aveva trovato “la parte della carne” indicatogli dal Tomo rosso e da Joseph Schreiber. “Le informazioni che ritrovo lì, sono tutte corrispondenti alla realtà…”
 
“…prego?” domandò Frank, udendo appena quel sussurro di pensieri.
 
“Oh, niente. Signor Frank, io…”
 
Henry preferì non dire oltre. Del resto, sentì il signor Frank ancora troppo sottosopra e non voleva turbarlo ulteriormente. Aveva intanto ottenuto la conferma sperata. Molto perverso, macabro o irrazionale…quel che accadeva “dall’altra parte” corrispondeva e combaciava alla perfezione con il mondo “reale”.
 
Vederlo così affranto comunque gli fece così tanta pena. Lo vide sconvolto a tal punto che rimase sorpreso di costatare che un uomo così autorevole fosse ancora molto provato e dotato di una simile sensibilità.
 
“E’ tutto a posto, signor Frank. Piuttosto…lei…?” gli chiese con voce bassa, ma Frank scosse la testa. Henry voleva approfondire le sue conoscenze circa Walter Sullivan, ma l’uomo anziano impostò il discorso in tutt’altra direzione.
 
“Nella mia lunga vita non è di certo uno il rimpianto e il dolore che mi porto, ragazzo mio.”
 
Con gli occhi ancora lucidi, l’uomo guardò una fotografia leggermente impolverata, posta sul comodino, indicandola con lo sguardo. Henry la prese con il suo consenso e la osservò con profonda malinconia.
 
Intravide che nella foto erano ritratte due persone. Un uomo tutto sommato giovane, dai capelli biondi e con un volto molto simile a quello di Frank. Egli cingeva timidamente la vita di una donna con un leggero abito floreale. Sorridevano e i loro sorrisi sembravano trafiggere terribilmente il cuore del povero anziano.
 
“Già…proprio tanti…”
 
La sua voce si fece leggermente strozzata. Henry non seppe che dire e fu terribile per lui sentire quel senso d’inettitudine. Non sapeva cosa gli fosse accaduto, ma poteva benissimo immaginare quanto dolore provasse.
Un giorno, Frank gli raccontò della sua famiglia e di suo figlio, un tale James.
Un figlio del quale non aveva notizie da tempo, oramai.
Henry comunque preferì non chiedere nulla e scelse di lasciare Frank nel suo silenzio solenne.
 
“Io le ho già rubato troppo tempo, signore. Mi spiace.”
 
Si alzò e fece per raggiungere l’ingresso e solcare la porta. Proprio mentre la aprì, vide Sunderland raggiungerlo.
 
“Henry sei…un bravo ragazzo.” gli disse. “Non lasciarti turbare da un povero vecchio mentre si abbandona ai propri ricordi…”
 
Il suo tono era leggermente in imbarazzo e Henry cercò di rassicurarlo. Del resto…anche per Henry oramai lui rappresentava qualcosa di simile a un parente.
Sentiva che poteva portare con sé quel piccolo peso per un uomo che aveva tanto sofferto nella vita, evitando di chiedergli se avesse mai scoperto qualcosa su Sullivan.
  
“Non dica così.” cercò di alleggerire la situazione, cosa non facile per uno di poche parole come lui. Subito però gli venne in mente la fotografia della palude. “Signor Frank, a proposito, ho trovato una cornice adatta alla fotografia che mi ha dato. L’ho risistemata e quando vuole, può venire a vedere com’è venuta. ”
 
Frank rise appena e portò una mano dietro al collo che prese a strofinare nervosamente.
 
“Ma davvero? Bene, sapevo che ti sarebbe piaciuta. Allora riguardati, Henry.”
 
Disse, poi fece per chiudere la porta. Guardò un ultima volta Henry e solo allora notò che aveva una ferita abbastanza profonda all’altezza della tempia. Era coperta da una fasciatura, ma era evidente che il taglio fosse recente.
 
“Come te la sei procurata quella?” gli chiese preoccupato, indicandola con l’indice.
 
Henry sgranò gli occhi e vide Frank osservare quel taglio. Portò una mano sulla ferita, toccandola leggermente a disagio, poi abbozzò automaticamente l’accenno di un sorriso.
 
“Oh…non è nulla. Ho solo avuto un incubo.” gli rispose frettolosamente e andò via.
 
[…]
 
 
 


 
 
 
NDA: In questo capitolo Henry ha fatto visita all’ospedale del St.Jerome.  Il viaggio di Henry ricomincia? Perché?
Sono volutamente partita con questo “mondo” perché è qui che tutto cominciò. Quando Frank salvò quel bambino da morte certa.
Sono molti i riferimenti simbolici nell’ospedale St.Jerome e tutti riguardano Walter Sullivan. Ho fatto del mio meglio per valorizzarli tramite questo capitolo.
Un ringraziamento speciale va a Louis Art cui devo la spiegazione delle famose infermiere giganti che emettono quei rumoracci.
Altra cosa. Sono felice di essere stata in grado di citare il protagonista di Silent Hill 2, James Sunderland. Silent Hill 2 è l’altro capitolo della saga che ancora oggi, dopo tanti anni, considero il più grande gioco di tutti i tempi.
Inoltre la figura di Frank mi piace molto. Mi piace come, in qualche modo, si colleghi al passato di Sullivan. E credo che anche per Henry lui sia rilevante. Visti i quadri che gli ha regalato, ho sempre creduto lo ritenesse un po’ come un figlio…
Ora però vi lascio. Spero che il secondo capitolo vi sia piaciuto. Mi riprometto di terminare e pubblicare presto il prossimo!
Fiammah_Grace


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Capitolo 3
*** La foresta di Silent Hill/ Wish House ***


CAPITOLO 03 
  
  
    
“Sebbene il mio corpo sia stato distrutto, non vi lascerò passare di qui. In preparazione di Colui che riceve Saggezza... 

Ho tagliato il mio corpo in 5 pezzi e il ho nascosti nelle tenebre.
 

Quando il mio corpo sarà nuovamente intero, si aprirà la strada verso il basso. Se sei Colui che riceve Saggezza, capirai le mie parole.”




(Messaggio tra le rovine della Wish House) 
  
  
  
    
[APPARTAMENTO 302. Camera da letto di Henry Townshend.] 
  
Fu davvero un incubo bizzarro, quello che fece Henry quella notte. Eppure era stato, nella sua stranezza, così realistico che più volte si chiese se fosse accaduto per davvero. 
Era sempre nell’appartamento 302. Era buio e si trovava sul pianerottolo della palazzina. Tuttavia l’atmosfera aveva un che di tetro e curiosi rumori metallici rimbombavano nel silenzio. 
Sebbene fosse stato solo un sogno, Henry aveva avvertito perfettamente l’angoscia di essere lì. Le tenebre impedivano una visuale ottimale. Si rese conto solo dopo che aveva un campo visivo troppo completo della palazzina per essere una situazione realistica. 
Riusciva infatti a distinguere perfettamente tutti e tre i piani, come se stesse galleggiando proprio sopra di essi. 
Oscillava in quell’area profonda provando un curioso senso di vertigini. 
Poi…all’improvviso, si accorse che non stava affatto galleggiando, ma era…letteralmente appeso sul soffitto. 
  
Subito cominciò a dimenansi e ad urlare, sudando e impallidendo sempre di più. In più notò non solo di essere legato, ma che un tessuto, a metà tra un normale lenzuolo e un qualcosa di organico, lo avvolgeva lungo tutto il corpo. 
Quel senso di sopraffazione cominciò a opprimerlo, tanto da sentirsi soffocare finché, dal terrore, non si svegliò. 
  
Spalancò gli occhi di colpo e le tenebre si dissiparono così repentinamente da lasciarlo sgomentato lì, nella stanza da letto del suo monolocale a South Ashfield. 
Avvertiva il sudore solcare la fronte e il calore sulla pelle che andava a opprimerlo incessantemente. 
  
“Ah…cosa mi…sta succedendo…?” disse, ansimando, con voce strozzata. 
  
Lanciò via le lenzuola e con un gesto fulmineo scese dal letto e si diresse nel bagno. Era disorientato e stanco… 
Aveva assolutamente bisogno di riposo, ma restare lì, a South Ashfield, non gli avrebbe mai permesso di lasciare spazio alla tranquillità. 
Perché se chiudeva gli occhi, nei suoi sogni sorgevano quegli incessanti incubi. 
Spalancò la porta del bagno, già cigolante e pericolante di suo, e poggiò le mani sull’orlo del lavandino. 
  
Aveva caldo. 
La pelle, il respiro… 
Bruciava tutto. 
  
Inarcò il busto e lasciò scivolare via la maglia lungo la schiena. Avvertì dei profondi brividi attraversare il suo corpo, mentre tremava, ansimava, incapace di capire. 
  
Sapeva benissimo che avrebbe risolto tutto con un semplice gesto. Semplicemente fuggendo da South Ashfield. 
Le valige erano pronte. Erano poste all’ingresso da tempo. Il suo lavoro era così precario che avrebbe potuto chiudere la baracca in qualsiasi momento. Inoltre in quel momento era abbastanza autosufficiente, economicamente parlando, da potersi permettere una piccola casetta in periferia. E poi…aveva…Eileen. 
  
Quale oscuro motivo, dunque, gli impediva di abbandonare l’appartamento 302? 
La cosa più bizzarra di tutte, era proprio questa. Henry non era in grado di abbandonare quel mondo. Semplicemente non riusciva a farlo. 
  
Odiava quell’appartamento. Lo odiava e lo soffocava, ma non era in grado di fare quel passo. Come fosse incatenato all’interno di esso. 
  
Aprì il rubinetto e gettò l’acqua sul viso ripetutamente, sperando di cancellare quell’oppressione. 
  
Presto si rese conto che sarebbe valso a poco quell’atteggiamento compulsivo. Non poteva impazzire proprio adesso, dopo aver fatto l’impossibile per sopravvivere. 
  
Alzò gli occhi verso lo specchio appeso proprio di fronte il lavandino. Doveva essere forte e doveva essere assolutamente in grado di risolvere tutto…! 
  
“!!” 
  
Il viso gocciolava ancora mentre scostava le mani e faceva per afferrare un asciugamano, ma gli bastò una fugace occhiata al suo riflesso per trasformare la sua mente in un oblio profondo. 
  
Il suo volto… 
Un attimo…era proprio lui?? 
  
L’immagine dell’uomo riflessa allo specchio gli rassomigliava parecchio. 
Henry lo guardò per meno di un secondo, ma quegli sfregi su gran parte del corpo e della faccia non riuscì a dimenticarli. 
I capelli scuri ben tagliati coprivano gran parte del volto, tuttavia non nascondevano il rosso organico di cui era macchiato. 
Quel sangue, in alcune parti così vivo da farlo rabbrividire, in altre più secco, grondava dalla fronte e dal naso. La sua pelle, spaccata, sembrava quella di qualcuno che era stato atrocemente deturpato. 
Sul collo aveva delle incisioni, erano… 
  
21…21… 
  
Strofinò il viso velocemente e sgranò gli occhi, completamente nel panico. 
  
“Non…è possibile!” urlò, spaventato. Riaprì velocemente gli occhi, ma a sua grande sorpresa, di fronte a sé, ritrovò il solito e semplice riflesso della sua immagine. 
  
“Ma cosa diavolo..?” 
  
La sua voce era smarrita e si sentiva quasi di venir meno. Cosa…cosa era stato? Cosa era successo? Lo aveva…davvero immaginato? 
  
Portò una mano sulla fronte coprendo gran parte del viso. Era affranto, sconvolto. Non sapeva cosa stesse accadendo e perché. 
S’incurvò nuovamente verso il rubinetto e rimase lì immobile, assorto. 
  
 “Eileen…semmai te ne parlassi, come potrei perdonarmelo, poi?” sussurrò. 
  
Eileen, dal suo canto, rappresentava un altro bel problema. Lui non faceva che rimandare la loro partenza, ma non le aveva mai detto il perché. 
  
Aveva pensato di parlargliene? Ovvio, ma doveva assolutamente risolvere tutto senza coinvolgere nessuno. 
Come avrebbe potuto chiedere aiuto alla sua vicina e poi sopportare il peso di vederla solcare nuovamente quella porta infernale? 
Lei che rappresentava per Sullivan la ‘madre’, come poteva farle questo? 
Eileen sarebbe rimasta coinvolta. Oramai la conosceva. Aveva avuto già modo di comprendere la sua profonda sensibilità, quando ascoltava il cuore di quello spietato assassino provando una grande pietà per lui e per il suo destino. 
  
No…non poteva. 
  
Toc – toc 
  
“Uh?” 
  
Il rumore della porta lo attirò all’improvviso. Erano dei rintocchi piuttosto ossessivi, che si ripetevano con una frequenza anomala e mentecatta. 
  
Toc – toc 
  
“C-chi può mai essere a quest’ora?” 
  
Toc – toc 
  
Qualcuno continuava a bussare incessantemente fuori la porta e il ragazzo si affrettò ad aprire. Peccato che non guardò al di fuori dello spioncino, perché se si fosse accorto di chi fosse, non avrebbe mai pensato di aprire. 
Un uomo dai capelli castani, con una lunga frangia e il viso sfregiato, batteva i pugni incessantemente. 
Era vestito con abiti sgualciti. Una camicia bianca malmessa e dei jeans scoloriti. 
Batteva, ancora e ancora. 
Ancora e ancora. 
La sua bocca si muoveva velocemente. Sussurrava parole incomprensibili. Una dietro l’altra, con ossessione. 
  
Henry Townshend girò il pomello e solo allora sentì quei mormorii che gli fecero pentire di essere stato tanto impulsivo.
Ma oramai aveva già aperto. Così prima che potesse intendere il pericolo che vi si celava dietro, la porta era già spalancata e si ritrovò sul pianerottolo.
 
  
Alzò gli occhi, ma di fronte a sé c’era il vuoto totale. 
Vi era solo una finestra, lasciata semiaperta, dalla quale usciva il lieve sibilo del vento. 
  
Non…c’era nessuno? 
Chi aveva bussato? 
  
Aveva gli occhi sgranati e il braccio ancora poggiato vicino la porta. 
  
“Henry..?” 
  
Il bruno si girò non appena udì quella voce femminile. 
Eileen Galvin era sulla soglia della porta accanto e lo guardava con un volto sorpreso e preoccupato. 
  
“C-co..? Eileen!” disse lui, solo dopo una manciata di secondi. 
  
Rimase letteralmente a bocca aperta, non aspettandosi minimamente di vederla, in quel momento. Eileen, al contrario, non faceva che girare e rigirare gli occhi, con imbarazzo. Era visibilmente a disagio per il fatto che Henry indossasse solo un paio di jeans nel bel mezzo del pianerottolo, e il ragazzo ci impiegò poco a capirlo. 
  
“Oh, ehm…scusa.” disse frettolosamente, e fece per rientrare a casa. 
  
La ragazza, al contrario, sembrò preoccuparsi di quell’atteggiamento e immediatamente gli corse dietro bloccandolo sulla soglia della porta. 
Si parò di fronte a lui, incastrandosi fulminea dentro l’appartamento. 
Henry rimane sorpreso di quell’atteggiamento e la guardò senza sapere che dire. 
A quel punto Eileen si spostò dal ciglio della porta e avanzò nel corridoio voltandosi poi verso Henry, che era ancora sulla soglia della porta. 

  
“Eileen, tutto bene..?” fece per parlare, ma lo sguardo determinato di Eileen gli fece scendere le parole giù in gola velocemente. 
  
“Mi prendi per stupida, forse? Ovvio che non va tutto bene, ma tocca a te parlare! Diavolo, che ti prende?” 
  
Osservò il volto di Henry. Era tutto sommato quello di sempre, ma quel brutto colorito sotto gli occhi denotava stanchezza e apprensione per qualcosa che le teneva nascosto. 
Dal suo canto, lui era felice di vedere quanto quella ragazza fosse in ansia per lui. Egoisticamente, provò un insolito senso di benessere. Lui che aveva sempre vissuto solo per sopravvivenza. Avvertire quel calore scaturito dall’affetto che nutriva nei riguardi della ragazza, fu un qualcosa di nuovo e di…bello. 
  
Era proprio per questo la voleva lontana da quello che gli sarebbe potuto accadere. Lui…voleva proteggerla. 
Qualunque significato avessero quegli incubi, qualunque cosa gli fosse accaduta, non le avrebbe mai  permesso di affrontare quel destino assieme a lui, di nuovo. 
  
Eileen, intanto, aveva continuato a parlare. Qualcosa riguardo l’amicizia, o sull’affrontare i problemi assieme… 
Comunque non riuscì proprio a prestare attenzione, incapace di pensare ad altro se non alla gratitudine di quelle parole. 
  
Anzi, l’unica cosa che continuava ad allontanarlo da quella conversazione era il suo stesso appartamento. Era ancora soffocante e dal colore rugginoso...e… 
Eileen non se ne era accorta? 
Possibile che ai suoi occhi il 302 apparisse come un normale appartamento? 
Cercò comunque di non tradirsi da solo e guardò l’appartamento con fare meno furtivo.

 
Inaspettatamente, da dietro la spalla di Eileen, che ancora lo guardava nervosa e parlava in continuazione, Henry intravide un ragazzino con i capelli biondo cenere e un maglioncino blu a righe. Strinse gli occhi, non capacitandosi subito di quella visione improvvisa.
  
“Che cos’è?” disse il biondino mentre sbirciava tutte le cianfrusaglie e riviste presenti sul tavolino in vetro del salottino di fronte l’ingresso. 
  
Henry sgranò gli occhi, in preda dallo shock. 
Da dove era saltato fuori?! Quando era apparso!?
  
“A…ah..!” balbettò. 
  
Il ragazzino continuava a frugare, a sfogliare le riviste d’auto spiegazzandole in malo modo, a toccare il televisore sperando di farlo partire, e a frugare nella cassapanca. 
Il tutto in maniera per nulla discreta e con un visetto curioso, ma delusissimo di non trovare nulla di suo interesse. 
  
“A…ah..!” balbettò nuovamente. 
  
Perché più lo guardava, più si rendeva conto che non si stava affatto sbagliando. 
Quel bambino non era frutto della sua immaginazione… 
Oh, no… 
  
…Quello era proprio Walter Sullivan! 
  
Perché? Era lì, in casa e…gironzolava per il salotto con una nonchalance assurda! Si avvicinava alle poltroncine, sbirciava fuori dalla finestra, cercava di raggiungere la radio… 
Tutti atteggiamenti tipici di una vera peste e verso i quali Henry non sapeva proprio come reagire. 
  
Una goccia di sudore solcò la sua fronte. Si trovava in una situazione completamente inopportuna. 
  
Eileen era lì. 
Non doveva assolutamente permetterle di accorgersi della presenza del piccolo Walter. Avrebbe capito tutto sennò. 
  
Osservò Eileen con occhi tremanti e abbozzò un sorriso. Per nulla convincente, comunque. 
  
“Eileen…ehm, hai…” 
  
Tentennò, cercando una qualsiasi scusa. Poi…s’illuminò. 
Eileen rimase lì a guardarlo sconcertata, arricciando le labbra e aggrottando le sopracciglia, mentre il ragazzo fece per metterle le mani sulle spalle. 
  
“Certo, l’università! Tu…starai sicuramente facendo tardi. Non preoccuparti per me, io sto benissimo. Sarà forse l’affitto a preoccuparmi. E’ da tempo che…che non guadagno soldi!” improvvisò. 
  
Eileen posò gli occhi sulla borsa che aveva a tracolla e la strinse a sé. 
  
“Forse è l’affitto…? È o…non è? Che razza di risposta mi dai!?” disse infastidita. 
  
Henry, tuttavia, la interruppe. Al momento, già era abbastanza geniale l’idiozia che si era inventato. 
In effetti non era nemmeno un’idiozia, visto che era vero che non entravano da un po’ i soldi nelle sue tasche, ma avrebbe affrontato un problema alla volta. 
  
Il bruno buttò nuovamente un occhio verso Walter e deglutì quando si accorse che aveva preso ad osservarli posizionandosi proprio dietro ad Eileen. 
  
“Ma che dia…!!” si lasciò scappare ed Eileen notò quello sguardo. 
  
“Ma perché? Cosa c’è?” 
  
Lei fece per voltarsi e Henry, fulmineo come era raramente, corse dietro di lei e la spinse via stringendola per le spalle. 
  
“Quell’esame di storia, ti ricordi? Ehm…sarà meglio che vai a recuperare le dispense o non le troverai, forza!” disse frettolosamente. 
  
“Oh? Sì, okay…però tu non mi hai ancora…!” disse, cominciando ad avvertire una forza inaspettata nelle braccia di Henry. 
  
La cosa la turbò appena. Aveva avuto modo di costatare che Henry era uno che non valorizzasse affatto il suo fisico, e invece era più forte di quanto apparisse.
In realtà…non era nemmeno niente male, aveva appena scoperto. 
Ma al momento, quel che la turbava ancora di più era la forza che ci stava mettendo nel cacciarla via il prima possibile. 
  
“Ma che fai, Henry!?” 
  
Henry, anche se con ‘eleganza’, l’aveva letteralmente scaraventata via da casa e lasciata sul ciglio della porta. 
  
“Ciao Eileen! Poi fammi sapere, a stasera!” 
  
Le fece un sorriso di convenienza e assunse uno sguardo rassicurante, mentre si affacciava dalla porta, lasciando la ragazza con occhi sempre più sgomentati. 
Eileen non riuscì a contare nemmeno quante volte Henry fu capace di tagliare corto e salutarla, e presto si ritrovò la porta sbattuta in faccia violentemente. 
  
“Ma quest’energia da dove esce..?” constatò, sbigottita. 
  
Rimase una manciata di secondi lì di fronte, completamente allibita. 
Henry le aveva sorriso in quel modo? 
Lui che era tanto apatico, era capace di avere uno sguardo simile che lo sconvolgesse completamente? Aveva anche il busto lungo e le spalle larghe con tanto di cenno di muscolatura..? 
  
E poi…che ne sapeva dei suoi studi e delle dispense? 
  
Poi…rifletté. 
  
“Ma…io non devo prendere nessuna dispensa!!” urlò, battendo i piedi per terra, in preda dall’ira. 
  
Subito girò i tacchi e andò via, nervosissima di essere stata buttata via di casa con una scusa simile e in quel modo. 
Poi dicevano che erano le donne quelle strane e lunatiche! 
  
Intanto Henry sospirò, poggiato dietro la porta, felice di essere riuscito ad allontanare Eileen in qualche modo. 
Certo, non in maniera magistrale, ma tanto Henry sembrava già strano agli occhi della gente, quindi non se ne curò più di tanto. 
Durante la giornata, una scusa migliore che giustificasse il suo atteggiamento l’avrebbe trovata certamente. 
Alzò gli occhi in direzione del salotto e guardò con rimprovero il piccolo Walter. 
  
“Tu guarda per colpa tua che figure devo fare…” disse con un filo di voce. 
  
Henry osservò il biondino rimanendo in guardia, senza proferir parola. Sembrava quasi che il piccolo Walter si rendesse perfettamente conto di essere scrutato ma, nonostante ciò, continuasse a mettere sottosopra l’appartamento. 
Cosa ci faceva lì? Perché questa sua apparsa improvvisa? 
Non era un bambino reale, lo sapeva fin troppo bene. Era…una presenza, un fantasma, un… 
Comunque, qualunque cosa fosse, era frutto di quel dannato appartamento ancora pieno delle presenze create da Sullivan. 
Per questo rimase allerta. Non voleva assolutamente dimenticare che di fronte a sé non aveva un ragazzino, ma il residuo di quell’assassino. Quel Walter Sullivan, che aveva ucciso diciannove persone con una violenza inaudita, e per poco non aveva ucciso anche lui e Eileen. 
  
Di colpo vide il bambino sfrecciare in camera da letto ed Henry solo allora sbottò. 
  
“Ehi, dove credi di andare!” 
  
Si lanciò all’inseguimento e percorse in pochi attimi il corridoio, affacciandosi verso la sua stanza. Lo vide guardare sotto il letto con fare nervoso. 
Walter, con il viso corrucciato, prese poi posto sul letto, sbuffando infantilmente. 
  
“Non c’è…!” disse, dondolando i pieni con fare irrequieto. 
  
Henry si avvicinò al letto, prese una camicia bianca e la fece scivolare lungo la schiena. 
Mentre faceva per allacciare qualche bottone, si avvicinò e si mise di fronte a lui. 
  
“Cosa…cerchi?” gli chiese, serio. 
  
Si sforzò di assumere un tono più dolce. Walter continuava a girare lo sguardo da una parte all’altra, incapace di accettare che non fosse riuscito a trovare quel che cercava. 
  
“Uhg…dov’è?! Io la voglio! Mi serve!” urlò. “Non la trovo! Non la trovo!” 
  
Il bambino si alzò sul letto e prese a saltare, agitato. Henry lo guardò sbigottito. Non era abituato a gestire i ragazzini, ancor meno un piccolo futuro assassino.
  
“Ehi, ragazzo, calmati!” gli intimò, con voce appena tremolante. Lo afferrò per un braccio e lo fece scendere dal letto. “Cosa cerchi, poi, nel mio appartamento?” aggiunse. 
  
“La chiave! Non posso trovare Bob se non ho la chiave!” disse. 
  
“Quale chiave?” 
  
Henry lasciò la presa e il bambino, finalmente, la smise di correre in lungo e in largo. Sembrava essersi quasi tranquillizzato. Henry aveva avuto un simile potere su di lui? 
Lo vide rivolgergli quei grandi occhi languidi, di un verde chiaro meraviglioso. 
Il bambino strinse le labbra fra loro, mentre lo guardava così incessantemente che Henry avvertì un forte imbarazzo. 
Si rese conto, tuttavia, di aver parlato troppo presto, perché subito il biondino corrucciò le sopracciglia e si mise a protestare con le lacrime agli occhi. 
  
“Me l’hai persa! Sigh…LA MIA CHIAVE! DOV’E’?!” 
  
Henry trasalì, non aspettandosi minimamente capricci simili. 
  
“Walter!” urlò e il bambino si azzittì. 
  
Henry emise alcuni colpi di tosse, cercando di avere un atteggiamento autorevole col piccolo. Si inginocchiò e lo guardò in viso. 
  
“Bob è un tuo amico?” 
  
Il ragazzino annuì e finalmente Henry riuscì ad ottenere un po’ di quiete da lui. 
Accidenti…com’era dura per uno come Henry avere a che fare con un bambino! 
  
Ripensandoci… 
Non sapeva nemmeno cosa fosse per davvero. 
  
Era una rappresentazione del lato infantile di Sullivan? 
Un inganno creato da lui stesso per attirarlo? 
Chi diavolo era quel piccolo biondino, realmente? 
  
Vedeva il piccolo Walter immobile, come se non sapesse come comportarsi anche lui. Lo vide persino tremare appena come se si aspettasse tutt’altro atteggiamento da parte di un adulto. 
Henry non voleva farsi strane idee…ma nel momento nel quale si era chinato verso di lui, aveva avuto l’impressione che si fosse ritratto per la paura di essere picchiato. Ma era stata solo una vaga impressione alla quale non voleva dare peso. 
  
Quel bambino…era pur sempre Walter Sullivan. Punto. Non avrebbe mai smesso di ripeterselo. 
  
Il piccolo, dopo un po’, riacquistò fiducia in se stesso e si decise a spiegare a Henry la situazione. 
Henry continuava a essere sospettoso, ma cercò di mostrarsi interessato agli occhi del bambino, in modo che si sentisse libero di parlare. 
Si sedettero entrambi sul divano in salotto e il moro ascoltò pazientemente le sue parole, cercando nel frattempo di indagare sul suo conto. 
  
“Se scoprono che ho perso la chiave, si arrabbieranno. Devo tornare in orfanotrofio in tempo e vedere se Bob è lì.” 
  
Henry continuava a osservarlo. Poggiò il mento sulle nocche delle dita e prese parola. 
  
“La ‘Wish House’ dici? Questo Bob è lì?” 
  
Walter annuì. 
  
“Forse però la chiave non è qui. Forse l’ho persa nella foresta…” aggiunse. Poi assunse un’espressione affranta. “Dovrò controllare dappertutto, ma non ce la farò mai…” 
  
Effettivamente Henry rifletté sul fatto che la chiave della Wish House non l’aveva con sé da tempo. Forse era per questo che Walter era lì in quel momento. Sperava di trovarla custodita nell’appartamento. 
Il suo volto si fece pensieroso e approfittò del silenzio di quel ragazzino per ragionare con calma. 
Forse aveva finalmente l’occasione di capire qualcosa attraverso l’inconscio profondo di Walter. 
Valeva dunque la pena giocarsi quella carta? 
Valeva la pena addentrarsi nuovamente nel buco? 
Il giorno prima aveva udito la voce di Sunderland dal varco, come se fosse stato un segnale mandato da quel mondo. 
La presenza del piccolo Walter simboleggiava più o meno la stessa cosa? 
Era un invito da parte di quel mondo a fare una seconda visita nei ricordi di Sullivan? 
Poteva anche essere. Infondo…aveva senso. Sentì che doveva almeno provarci. 
  
“Uhm…Walter? Se ti aiutassi a cercare questa chiave?” disse. 
  
Gli occhi di Walter sembrarono illuminarsi. Il suo volto non sorrise, ma s’intravide comunque una nota di sorpresa nell’aver trovato un alleato. 
Tuttavia, al contrario di come Henry si aspettasse, il piccolo si ritrasse. 
  
“Perché? Cosa vuoi farmi? Che vuoi in cambio?” disse e si alzò dal divano guardandolo con diffidenza. 
  
Henry scosse la testa. 
  
“Nessuna fregatura, se è questo che intendi.” 
  
“Nessuna?” 
  
“Nessuna.” confermò Henry rassicurante e gli tese la mano. 
  
Si guardarono per diversi attimi e il ragazzino sembrava turbato da quel gesto. Come un cagnolino randagio, non sapeva se fidarsi o meno. Se avvicinarsi o scappare via. 
Ricercò lo sguardo di Henry cercando di capire.

Non era qualcosa di familiare per lui, il concetto di fidarsi di qualcuno. Se qualcuno gli aveva mai dato qualcosa, aveva sempre dovuto “pagare adeguatamente”.
Il fatto che quindi Henry si fosse offerto in modo così spontaneo lo aveva sorpreso non poco.
Alla fine quindi, sebbene con titubanza, allungò la piccola mano e l’avvicinò a quella robusta di Henry. 
Il ragazzo dai capelli castani la strinse appena sotto gli occhi curiosi del bambino. Quel gesto gli fece uno strano effetto. Sotto un certo punto di vista gli fece tenerezza quel piccolo così impaurito da lui, ma anche curioso. Una parte di lui provò l’istinto di sorridergli, ma subito si bloccò. 


Henry avvertì delle emozioni di disagio, ma fece di tutto per serrare nel suo cuore quella compassione che provava in corpo.
Non riusciva a dimenticare chi era quel ragazzo davvero…
 
“Andiamo, facciamo in fretta.”
 
Si alzò dal divano fulmineo e allontanò la mano da quella del ragazzino. 

Dal suo canto, il piccolo Walter sembrò quasi a disagio, come se avesse avvertito quel malessere.

Non appena vide Henry alzarsi, comunque, lo seguì fino al ripostiglio.
Henry fece cenno a Walter di seguirlo, al che si addentrò con lui. Lo prese in braccio timidamente e lo avvicinò al varco. 
Alleandosi con lui, sperava di capire finalmente qualcosa ma…d’altro canto, poteva anche accadere il contrario. Tuttavia forse era tardi per pentirsi di quel che stava facendo. 


    
*** 
 
   
[LA FORESTA DI SILENT HILL. Nei pressi del cimitero.] 
  
La testa girava e, ancora una volta, si ritrovò completamente confuso e disorientato. Era come risvegliarsi dopo una brutta sbornia e la cosa non era per niente piacevole. 
Henry Townshend era sdraiato a terra. La polvere del terriccio consumato soffiava appena sul suo volto per via del vento. 
Alzò il busto e cercò sostegno sui gomiti, dopodiché cominciò a esaminare il posto. Quella larga distesa, il sentiero consumato e dal colore indistinguibile, a metà tra il grigio e il color terra, la nebbia bassa che circondava la zona, e quella lunga serie di monumenti in giro… 
Un momento…quelle erano tombe? 
  
“Sono nel cimitero…della Wish House?” 
  
Si alzò e si guardò attorno disorientato. Poi si ricordò del ragazzino. Girò la testa a destra e a sinistra, ma del giovane Walter Sullivan non c’era nemmeno l’ombra! 
Eppure avevano solcato il buco assieme. Si aspettava di trovarlo ancora con sé. 
  
“Walter!?” urlò più volte. 
  
“Il ficcanaso, dici?” 
  
Una voce inaspettata lo rispose. 
  
“P-prego?” 
  
Dalla porta a doppie ante, posta infondo al cimitero, uscì un giovane. Era apparso così improvvisamente che Henry ebbe un tonfo al cuore nell’udire la voce di qualcuno. In un posto come il cimitero di Silent Hill, poi, come dargli torto? 
Il giovane, molto magro e appena più basso di Henry, gli si avvicinò e…gli fece una foto. 
Henry rimase attonito mentre fissava quel bizzarro individuo, con gli occhi sbarrati e le pupille strette ancora abbagliate dalla luce. 
  
Il ragazzo posò la macchina fotografica e guardò attorno a sé soddisfatto. 
  
“Ti chiedo scusa, sconosciuto, ma è mio dovere documentare tutto!” asserì con una certa fierezza. 
  
Henry più lo scrutava, più si rendeva conto che il tipo non fosse una minaccia. Anzi, doveva essere solo un ragazzo curioso. Aveva un’apparenza decisamente giovane. A occhio e croce, non dimostrava più di diciassette o diciotto anni. 
Solo non riusciva a spiegarsi, semplicemente, la presenta di qualcuno lì. E anche la scomparsa di Walter. Si guardò attorno, ma a parte lui e quell’adolescente, non vi era nessuno. 
  
“Chi sei?” gli chiese Henry, con diffidenza. 
  
Il ragazzo sembrò sorprendersi di quella domanda, tuttavia prontamente gli sorrise e gli porse la mano leggermente tremolante. 
Henry lo guardò perplesso. Dall’espressione del suo viso, così entusiasta, intuì che il tremolio fosse dovuto non alla timidezza, ma all’eccitazione. Ma l’eccitazione di cosa? 
Il tipo si presentò immediatamente, come se lui stesso fosse sorpreso di non averlo ancora fatto. 
  
“I-io sono Sein. Sein Martin, piacere! Sono di Silent Hill e frequento il liceo vicino al campus di Pleasent River..” 
  
Henry annuì e rispose al saluto con un lievissimo cenno. Comunque, a stento percepibile, vista la natura solitaria del ragazzo. 
  
“Uno studente..?” domandò con un filo di voce. 
  
“Esatto! Sono qui con alcuni colleghi per degli studi e questa potrebbe essere la volta buona! Sei anche tu qui per questo, no? Per il segno della ‘Santa Madre’?” sembrò rifletterci su, poi aggiunse. “Ehi, non sarai stato anche tu contattato dal nostro stesso informatore? Doveva essere una cosa concessa solo a coloro degni della rivelazione!” 
  
Sein fu capace di parlare così velocemente che Henry riuscì a stento a seguirlo. Ma d’altro canto, non aveva alcun interesse verso ciò che gli stava dicendo. Al contrario, ebbe subito il buon senso di stargli alla larga. 
Difatti si allontanò da lui e fece per andare via. Sein allungò un braccio verso di lui e fece per bloccarlo. 
  
“F-fermo! Non ti permetterò di vedere il segno prima di me!” gli urlò, sperando di intimarlo. 
  
Henry era oramai già vicino all’uscita del cimitero e faceva per aprire le doppie porte. Si voltò seccato verso Sein, ma distolse velocemente lo sguardo non sapendo proprio cosa rispondergli. Era completamente pazzo. Cosa intendeva? Di che segno parlava? Aveva coscienza di parole simili? Comunque, stando ai fatti, non era nulla di suo interesse, dunque non ci badò. 
  
Con la coda dell’occhio, mentre si voltava nuovamente verso l’uscita, scorse una piccola figura dietro una lapide più grande rispetto alle altre. 
Pur non essendone certo, si avvicinò ugualmente alla lapide, sotto gli occhi di Sein che continuava a blaterale su qualcosa di incomprensibile e di completamente delirante. 
Si affacciò sul monumento e scorse un’ombra. Più si avvicinava, più si delineava, ed effettivamente qualcuno era nascosto lì dietro. 
Cominciò a percepire dei rumori, simili a dei singhiozzi. Henry si sorprese di udirli solo in quel momento. Eppure la figura lì rannicchiata era immobile, ferma, e non sembrava essersi accorta della sua vicinanza. Il ragazzo inarcò la schiena e si girò verso quella figura e vide che era un bambino biondo. 
Il suo volto era scavato e affranto. Sembrava essere sul punto di strillare, ma i suoi occhi erano terribilmente spenti. Le sue iridi, di un verde chiaro molto inteso, brillavano nel buio dandogli un aspetto spettrale e un’aria inflessibile che mai un bambino dovrebbe avere. 
  
“Walter?” 
  
Non poteva negare l’evidenza. Era proprio lui. Ma quando era apparso? Un attimo. Era…sempre stato lì dietro? 
Henry sgranò gli occhi quando notò che aveva diversi sfregi sul viso. 
  
“C-co..?” disse, sorprendendosi di vederlo in quello stato. Prima…stava bene, gli sembrava di ricordare. 
In quel momento provò una profonda pietà e senso d’inquietudine. Fece per allungare una mano verso di lui, ma la voce di Sein lo fece trasalire. 
  
“Che osservi, sconosciuto?!” e si avvicinò a lui. 
  
Henry cercò di farlo desistere, ma Sein corse velocemente e in pochi attimi scrutò assieme a lui quel tumulo. 
  
“Cos’è? Sei amico del ficcanaso? Dov’è?” disse, e cominciò a girarsi attorno e guardare dietro la lapide. 
  
Il cuore di Henry cominciò a battere e indicò con gli occhi la posizione di Walter. A sua grande sorpresa, però, il bambino era sparito. 
Sein si affacciò nella stessa direzione dove era rivolto Henry e lo guardò perplesso. 
  
“Uhm…il cervello ti sta giocando brutti scherzi, sconosciuto? Qui non c’è nessuno.” 
  
Dove era finito? Perché Walter era lì? 
  



15 Ottobre.
Bob è sparito.
Nessuno vuole dirmi niente.
Scommetto che… 
  
  
Lesse quelle parole di getto. Erano scritte lì, sulla lapide, proprio sul lato dove prima era il bambino. Henry lesse quasi a stento le prime righe. Le scritte erano così sbiadite che era stato difficilissimo per lui decifrare di più. 
  
“Bob?” sussurrò. 
  
La sua mente ricollegò immediatamente quel nome a quello della persona che il piccolo Walter stava cercando. 
  
“Bob? Chi è, un altro ficcanaso? Che leggi? Quei segni rossi?” aggiunse Sein. Si allungò verso Henry con fare superficiale e quell’atteggiamento irrispettoso lo irritò terribilmente. 
  
“Ma sei capace di stare zitto?!” sbottò il moro e il fanatico si ammutolì di colpo. Resosi conto poi che Henry non gli interessasse minimamente, si alzò e andò via, scattando altre fotografie qua e la. 
  
“Dammi retta! Se incontri il Diavolo lascialo a me e alla mia squadra. Siamo attrezzati e preparati per poterlo affrontare!” detto questo, si dileguò. 
  
Henry rimase senza parole… 
Quel tipo era davvero inquietante. 
  
Si alzò e si poggiò con la schiena sul monumento. Di Sein non gli importava granché, purché non gli impedisse di scovare Walter. 
Non sapendo che fare, cercò di elaborare nella sua mente qualcosa che lo aiutasse a ragionare su come agire. 
Portò le dita sotto il mento e rifletté. 
  
“Walter cercava la chiave per la Wish House…” 
  
…Ma la chiave non l’aveva con sé da tempo. Come avrebbe mai potuto recuperarla? 
Inoltre… 
L’ultima volta, la Wish House era stata ridotta in un cumulo di macerie. 
Era divenuto l’ingresso per la ‘parte più profonda di Lui’. L’ingresso destinato a Colui che riceve la saggezza. L’ingresso per la ventunesima vittima, Henry Townshend. 
  
Valeva la pena, dunque, andare a controllare che fine avesse fatto quell’orfanotrofio? 
D’altro canto, non è che avesse molta scelta. 
  
*** 
  
[LA FORESTA DI SILENT HILL. La Wish House.] 
  
Henry aprì il cancello rugginoso, il quale emise un terribile rumore cigolante. Del resto, da quanti anni era lì senza alcuna manutenzione? 
Non appena si inoltrò, aprì la sua cartella di appunti. 
  

L'insegnamento della disperazione: "Wish House".
"Wish House" è un orfanotrofio nelle periferie di Silent Hill. Dietro una rispettabile facciata, un posto dove a bambini rapiti viene fatto il lavaggio del cervello.
Wish House è gestita dalla "Silent Hill Smile Support Society", un istituto di beneficenza talvolta chiamata 4S. La 4S è nota come un'organizzazione seria che "accoglie poveri bambini senza dimora e le alleva nella speranza". In realtà è un'organizzazione pagana che al posto dei tradizionali valori religiosi insegna il proprio dogma perverso.
Il Sig. Smith che vive vicino a Wish House ha affermato: "talvolta di notte sento le loro strane preghiere ed i lamenti. Una volta andai a reclamare, ma fui cacciato in malo modo. Da allora le cose sono rimaste le stesse".
Di fatti, al sottoscritto fu negato l'accesso quando tentai di scattare delle fotografie. Ma che avranno da nascondere a Wish House"?
Nel corso delle mie indagini, tuttavia, sono riuscito a scoprire una torre circolare di cemento molto sospetta che fa parte dei loro impianti. Sfortunatamente nessuno era disposto a dirci a che cosa servisse questa torre ma dubito che abbia a che vedere con la cura degli orfani. Forse è una prigione o un luogo di culto segreto. Il culto religioso che dirige Wish House è conosciuto dai residenti locali come "L'ordine". E' una religione che ha profondi legami con il passato di Silent Hill. Ma la convinzione dei suoi fanatici fedeli di far parte di un elite scelta ha anche un suo lato misterioso e pericoloso.
Intendo proseguire la mia indagine su Wish House e sul culto che essa nasconde. "Dire tutta la verità" e mostrare ai bambini la vera strada è il nostro compito più importante.
Joseph Schreiber
 

(Articolo trovato  nella stanza 301 di South Ashfield Heights) 
  
  
Chiuse quel ritaglio nella cartella e guardò l’edificio in legno. Quel luogo non era affatto cambiato. La nebbia era ancora bassa, ma erano perfettamente distinguibili sia la struttura, che ogni elemento presente in giardino. Dei disegni di bambini, giochi vari… 
Il tutto, comunque, impolverato e dall’aria trascurata. 
Non si sorprese, ad ogni modo, di vedere la Wish House lì, intatta. L’ultima volta era stata ridotta in un cumulo di macerie, tuttavia quello era il mondo di Walter. 
Lì vigevano le sue regole e dunque, dopo aver scongiurato i 21 sacramenti, era possibile che tutto fosse tornato come nei suoi ricordi. 
O forse non era così? 
Preferì non indagare oltre e si avvicinò alla porta. 
  
“Chiusa…” 
  
Spinse più volte cercando di girare il pomello, ma niente da fare. Com’era prevedibile, la porta era chiusa a chiave. Provò a cercare altre vie, ma le finestre erano sprangate e non trovò nulla con cui potesse forzare quelle travi. Ne afferrò dunque una tra le mani e con forza cercò di portarla via. 
Delle voci improvvise però interruppero il suo tentativo e istintivamente si accucciò in un angolo della ringhiera, osservando i due giovani che intanto si stavano avvicinando. 
  
Un ragazzo molto alto e robusto, di bella presenza e dalla pelle scura, stava leggendo un libro deteriorato e dall’aria piuttosto vecchiotta. 
Lo leggeva con grande enfasi, anche se in realtà sembrava più che recitasse una poesia, dando l’impressione di aver letto e riletto quelle pagine fino a memorizzarla alla perfezione. 
Più che lodevole, tuttavia, era un qualcosa che portava inquietudine. Già dal timbro eccitato, Henry poteva vedere la sua ossessione. 
  
Il Secondo Segno. E Dio disse, offri il sangue dei dieci peccatori e l'olio bianco. Liberati così dai vincoli della carne, per ottenere il potere dei cieli. Dalle tenebre e dal vuoto, genera l'oscurità, e circondati di disperazione per colui che riceve Saggezza.” 
  
Stava recitando i…ventuno sacramenti?! 
Ma chi diavolo era? 
  
Si sporse con cautela nella direzione dei due per poterli scorgere ancora meglio e si accorse che erano solo due ragazzini. Dovevano avere all’incirca la stessa età del tipo che aveva incontrato prima. Se erano folli la metà di come lo era quel Sein, allora erano solo dei stupidi fanatici dell’occulto da evitare. 
Ce n’erano molte di persone del genere ed erano facili da incontrare nei pressi di Silent Hill. 
Lo stesso Henry Townshend era stato un tempo follemente innamorato di quella tranquilla cittadina sulle rive del lago Toluca. 
Tuttavia, ora era storia passata. Il richiamo che aveva avuto per tanti anni per quella città, che lo affascinava da sempre, ora gli arrecava ansia, angoscia. Sentimenti capaci di gelargli il sangue anche solo osservando le fotografie che aveva scattato negli anni passati durante le sue numerose visite. 
  
“Il Diavolo, di cui ha sentito parlare Sein, non è qui. All’orfanotrofio non troveremo nessun indizio, stanne certo!” aggiunse improvvisamente l’altro giovane. 
  
A Henry prese quasi un colpo quando lo focalizzò meglio. Capelli rossicci rasati, smilzo, molto alto e con una maglietta raffigurante un Dio pagano. 
  
“…Jasper?” sussurrò, incredulo. Era visibilmente più giovane, ma uno con una faccia simile non poteva non riconoscersi. 
  
Non si sarebbe mai e poi mai avvicinato a quell’individuo. Meno che ai suoi colleghi. Ora comprendeva perché li aveva trovati tutti molto strani fin da subito. 
Jasper stesso gli aveva dato quell’impressione a quel tempo. 
  
Aveva collaborato con lui per necessità, poiché bloccato in quel mondo, ma un sesto senso lo aveva messo in guardia quando lui aveva preso a parlare in quel modo strano...spaventato eppure estasiato a livello ossessivo sul Diavolo e quella orrenda roccia che lui chiamava “Mother Stone”… o qualcosa di cosa simile. 
Era un tipo ambiguo, e non era certo di non doverlo considerare una minaccia.

Tuttavia, ripensandoci…non era morto? Cosa ci faceva lì? Più giovane per di più… 
Ci ragionò su, ma i fatti erano evidenti. Era successo anche con Frank nel suo precedente viaggio. 
Quella era un’ulteriore prova che Sullivan dominava ancora quel mondo. Seppur inconcepibile, era una realtà che si era già mostrata ai suoi occhi in modo tangibile. Nonostante dovesse spesso rievocarlo, era così che funzionava quell’assurdo incubo. Era tutto reale e irreale allo stesso tempo. 
Irreale in quanto quel che vedeva era umanamente impossibile. La Wish House era stata distrutta, Jasper era morto, e Sullivan non era né un bambino, né ancora in vita. 
Ma era anche reale… dato che chi moriva lì dentro… moriva anche nel mondo reale. 
Tornò ai due ragazzi. 
  
Ascoltò ancora le loro parole. Jasper sembrava parecchio dubbioso, inoltre non parlava con il solito balbettio che lo contraddistinse quando lo conobbe. 
  
“Andiamo, non essere codardo! Anzi, leggi questo passo…! Ma ti immagini se riuscissimo ad entrare qui? Chissà quanti libri sul culto potremmo arraffare..!”
  
L’ardore dell’amico di Jasper era inquietante. Era come se non si rendesse esattamente conto di ciò che stesse dicendo. Forse perché Henry aveva vissuto sulla sua pelle gli orrori di un rito tanto terribile… comunque, non poteva tollerare parole simili. 
Jasper, sorprendentemente, sembrava turbato quasi quanto Henry. Difatti cercava di far desistere l’amico. 
  
“Bobby, il ficcanaso ha detto che il Diavolo è a Pleasent River. Non perdiamo tempo, qui. Ho sentito dire che se ti beccano ti ammazzano!” 
  
Il ragazzone scuro di pelle fece spallucce e chiuse finalmente quel libro voluminoso. Guardò seccato Jasper e fece per aprire la porta del giardino e uscire. 
  
“Jasper, tu sei un vero coglione. Se non ci credi davvero, il Diavolo si impossesserà di te.” 
  
“I-io ci credo! E lo vedrò, stanne certo.” 
  
Chiusero la porta di legno dietro di loro e, ringraziando al cielo, Henry era riuscito ad ascoltarli senza che essi si accorgessero di lui. Si alzò e guardò in una direzione vaga. Cosa diamine stavano facendo quei tre ragazzi lì? 
Fece per andare via da lì. Proprio in quel momento, però, calpesto un affare metallico che per poco non gli fece perdere l’equilibrio e cadere. 
  
“Ma che diavolo..?” 
  
Riuscì ad afferrare la ringhiera e per un pelo non sbatté la faccia a terra. Guardò ai suoi piedi e vide una piccola pala di metallo. Era terribilmente arrugginita e sporca, ma si intravedeva appena un’incisione su un lato. Henry l’afferrò e la rigirò tra le mani. 
  
Sotto la mano che fuoriesce dal terreno…” lesse. Vi erano scritte altre parole inquietanti, ma Henry non diede loro alcun peso. 
  
Al contrario, si chiese se quella non fosse proprio la stessa paletta che utilizzò, tempo addietro, per trovare la chiave della Wish House. Prese con sé la paletta e decise di andare almeno a controllare. Se davvero avesse trovato lì la chiave, forse avrebbe trovato anche Sullivan. 
Si diresse a sud-est della foresta e corse velocemente fino a raggiungere l’albero con quella grande radice nodosa, così sinistra da sembrare la mano di qualcuno. 
Era passato del tempo, ma non poteva assolutamente dimenticare. Doveva essere da quelle parti, proprio vicino una lunga rete di ferro che delineava la foresta. 
Scrutò attentamente gli alberi e finalmente, su uno di questi, distinse una lunga scritta rossa incisa sul tronco. Non fu in grado di decifrarla, era notevolmente consumata, ma proprio nelle vicinanze del tronco, scrutando il terreno, sgranò gli occhi quando trovò qualcosa di pallido che sbucava tra l’erba incolta. 
  
“Ah!” urlò. 
  
Solo qualche secondo dopo, si rese conto che non c’era niente di cui temere. Quella era solo una radice. Sospirò. 
Possibile che gli facesse ancora lo stesso effetto..? 
Decise di non indugiare oltre e cominciò subito a scavare utilizzando la paletta rugginosa. Graffiò completamente le mani mentre scavava, quella paletta era maledettamente vecchia, ma dopo qualche minuto ecco che finalmente colpì qualcosa di metallo. Lasciò la paletta e prese a scostare il terriccio fino a che non distinse proprio una chiave. La prese tra le mani e si alzò con fare incerto. Come poteva essere finita di nuovo lì? 
Si chiese il perché, ma al momento non aveva molto su cui riflettere. Mise la chiave in tasca e tornò indietro. 
  
Mentre proseguiva, tuttavia, la nebbia sembrava in qualche modo ostacolarlo e nonostante ricordasse perfettamente il tragitto, non riusciva per nulla ad orientarsi. Com’era possibile? Il sentiero era abbastanza guidato...perdersi era impossibile. 
Continuò a camminare, ma il suo passo prese pian piano a rallentare sempre di più. Trovò davvero strana tutta quella nebbia che andava infittendosi e gli inibiva completamente i sensi. 
Si fermò definitivamente quando ebbe l’impressione che stesse camminando troppo a lungo, ma che a fatti, sembrava non essersi allontanato per nulla dalla zona della foresta dove aveva trovato la chiave. 
  
“Che diavolo succede?” disse, disorientato. 
  
“Chi trova la chiave, sarà macchiato dalla dannazione eterna. Dovrà vagare in eterno.” 
  
Una voce glaciale, eppure infantile, attirò la sua attenzione. Si voltò e dietro di lui vide il bambino. 
  
“Tu..?” disse. 
  
Walter indicò la mano di Henry dove stringeva la chiave. 
  
“E’ quella la chiave del Diavolo. Sarai destinato a conoscere la pazzia se la tieni con te.” 
  
“Perché?” 
  
“Perché se la usi…entrerai lì.” 
  
Henry corrucciò le sopracciglia. Il timbro della voce di Walter era inquietante e si addiceva poco a un bambino. 
  
“…nell’orfanotrofio di Silent Hill?” gli chiese. 
  
Il biondino solo allora si azzittì. Henry lo vide chinare il capo e fare dei leggeri passi indietro. Cominciò a indietreggiare sempre di più, allontanandosi da Henry, il quale lo vide, lentamente, sparire dalla sua visuale. Il bruno rimase attonito per una manciata di secondi, ma quando realizzò che Walter fosse fin troppo lontano, preso dal panico avanzò verso di lui con dei lunghi passi. Tese il braccio nella sua direzione, ma il ragazzino si diede alla fuga e corse via per il bosco a una velocità che sorprese Henry. 
  
“Ehi! Non scappare!” 
  
Si diede all’inseguimento di Walter correndo agitatamente, cercando di non perderlo di vista nonostante la nebbia e i molteplici alberi che gli impedivano una visuale completa. Urlò più volte il suo nome, ma sembrava che Walter non accennasse a smettere. Al contrario, correva sempre più veloce e mise una notevole distanza fra i due. 
Henry cominciò ad avvertire un forte fiatone e non fu più in grado di reggere quella velocità. Walter era distante e oramai lo riusciva a vedere a stento.
  
Mentre continuava a correre, ignorando la stanchezza, guardò attorno a sé ed ebbe l’amara impressione che, dalle rupi del bosco, delle bestie fameliche lo stessero osservando. Sebbene non ne vedesse da tempo, riconobbe perfettamente quei canidi terrificanti dalle lunghe lingue e dai denti affilati. Erano apparsi solo dopo che Walter si era dato alla fuga? 
Continuò a correre incessante e più osservava l’ambiente, più lo trovava inquietante. 
Non era in grado di capirne il senso, specie in quel momento, ma quando scorse, nascosti fra gli alberi, nel terreno e fra le siepi, dei fantocci simili a dei bambini, gli venne un tonfo al cuore. 
Perché erano lì? E perché non li aveva notati prima? 
Niente aveva senso in quel momento, in quel posto. Figure di bambini erano nascoste ovunque, sotterrati, appesi, ingabbiati… 

Proprio mentre quel bosco sembrava isolato da ogni cosa, ecco che si intravedeva stentatamente uno di quei piccoli corpi impagliati. Sebbene realizzati in modo essenziale, essi avevano qualcosa di vivo e sembravano osservare quell’ambiente che li aveva inglobati e imprigionati.  
  
Creavano nella mente del giovane Henry tanta oppressione che solo allora si chiese se quello fosse anche ciò che provasse il ragazzino. Quelle sensazioni rabbia, senso di ingiustizia verso l’uomo, di annientamento totale dell’io e di annichilimento che il culto vantava di scaturire nei bambini, al fine di renderli delle marionette vuote; da imbottire con le idee perverse del culto. Così facendo, i bambini venivano distrutti come individui e ciò avveniva proprio nella Wish House, che era il primo stadio da attraversare per poi essere plasmati come seguaci devoti e pronti ad essere giostrati dagli abili burattinai del culto. Schreiber stesso scrisse un articolo a tema e il simbolismo di quei fantocci combaciava alla perfezione.

 
Un ululato lo fece sussultare e voltandosi, gli parve di intravedere degli occhi rossi fissarlo, ma non fu in grado di stabilire fino a che punto fosse una sua suggestione. Girandosi attorno non vedeva nessuno, eppure si sentiva osservato, ed era una sensazione gelante. Questo, nonostante l’esser da solo. Nonostante non ci fosse nessuno lì ed era accompagnato solo dai fantocci dei bambini.
  
Di colpo si fermò, oramai allo stremo delle sue energie. Alzò appena gli occhi verso la coltre di nebbia, ma oramai il piccolo era fuori dalla sua gittata e non riusciva più a vederlo. 
  
“Dannazione…” disse. 
  
Non appena riprese fiato, cercò di scrutare meglio il luogo e nonostante la pessima visibilità, distinse la rete di metallo che aveva visto prima. Scrutò meglio gli alberi e riconobbe anche la scritta rossa e la radice. 
Era tornato indietro? 
Anche i cani erano spariti e, ancora una volta, sembrava che non si fosse mosso affatto dal punto di partenza. Stava per pronunciare un ennesimo ‘ma cosa diavolo?’, ma si fermò. 
Piuttosto decise di inoltrarsi oltre la rete e di raggiungere la zona successiva. Come ben ricordava, era proprio lì dove era posizionato un altro varco per l’appartamento 302. 
L’ultima volta era così che aveva evitato di ‘vagare per l’eternità’  e allora decise di rifare lo stesso. 
  
*** 
  
[LA FORESTA DI SILENT HILL. La Wish House] 
  
Si ritrovò nuovamente lì, una volta tornato nell’appartamento e posato la chiave a casa. Senza la chiave aveva perso la maledizione ed era potuto tornare indietro, dove si trovava l’orfanotrofio. 
Aveva osservato bene la zona e anche nei pressi della Wish House c’era il varco per l’appartamento. Dunque, aveva recuperato nuovamente la chiave, pronto a utilizzarla per accedere nel posto. 

Solo che… 
Non si aspettava affatto che al suo ritorno, della Wish House non fosse rimasto assolutamente niente. 
  
Cenere e fumo fuoriuscivano dalle macerie che erano al posto dell’orfanotrofio, e faceva un caldo infernale. 
  
“Ma cosa..?” disse. D’altro canto, non c’era più nulla da fare. 
  
Tutto era andato distrutto. La fonte dove il piccolo Sullivan aveva ricevuto la prima educazione e le sue conoscenze sui ventuno sacramenti, era stata ridotta in polvere. 
Si avvicinò cautamente ai pochi resti che rimanevano. Mentre esaminava, distinse anche l’insegna con su scritto il nome dell’orfanotrofio, e quella piccola rampa di scale che prima era l’ingresso. 
Alzò gli occhi e, tra la cenere, distinse persino quel vecchio fantoccio sulla sedia a rotelle. Era ancora più consumato dell’ultima volta, ma i pezzi, anche se rotti, c’erano ancora tutti. Si avvicinò a quella bambola e raccolse alcuni di quei pezzi oramai distrutti. 
Ricordava ancora perfettamente dove li aveva trovati, nella parte ‘profonda’ di lui. Sul fondo di dei pozzi bui e oscuri. Aveva dovuto utilizzare una particolare Fiamma Sacra per trovarli e solo allora ne comprese il senso. 
  
Quell’orfanotrofio… 
Era una delle parti della vita che più aveva segnato Sullivan. Era lì, dove si era convinto che la Santa Madre fosse proprio quella che avrebbe trovato nel suo appartamento. 
Ma la Santa Madre non era sua Madre. Le ventuno eresie in realtà erano solo un rituale malsano per resuscitare il demonio. 
Mentre riposizionava quei frammenti vicino alla bambola consumata, riprese i suoi appunti in mano e li sfogliò velocemente. 
  
C'era una volta un bambino collegato alla sua mamma attraverso un magico cordone. Ma un giorno il cordone fu reciso, e la madre cadde in un sonno profondo. Il bambino rimase tutto solo.
Ma il bambino fece molti amici nella Wish House e tutti erano molto gentili con lui. Il bambino era felice. I suoi amici gli dissero come svegliare la sua mamma. Così il bambino andò subito a cercare di svegliarla. Ma la mamma non si svegliava. Per quanto lui provasse, lei proprio non si svegliava. Questo perchè in realtà quello che lui stava cercando di svegliare era il Diavolo.
Il bambino pianse e pianse e pianse. Quando pensava alla sua mamma, ricordava la sensazione di essere collegato a lei attraverso il cordone magico.
Ma poi, da cielo scese un raggio di luce. La luce era calda e il bambino si sentì rincuorato. Quando il bambino si guardò la mano, vide che stringeva il cordone magico.
Con il cordone stretto nella sua mano, il bambino si addormentò felice.
 
  
(Documento nell’appartamento 302 infestato di Joseph Schreiber) 
  

Solo comprendere quella parte della vita dell’assassino Walter Sullivan, gli aveva permesso di sopravvivere e di raggiungere la salvezza, a quel tempo. Ma ancora in quel momento provava turbamento nel leggere quelle parole. 
Quasi come se Henry se lo aspettasse, alzò gli occhi in direzione del lato nord-est del giardino e vicino la porta rivide il piccolo Walter. 
Si guardarono per un istante, poi il bambino aprì la porta e andò via. Henry si alzò e mise via l’album di ritagli. Era confuso e anche…spaventato. 
  
“Perché mi stai facendo questo?” 
  
Anche se pieno di frustrazione, non poté non opporsi al volere di quell’assassino. Qualcosa lo voleva lì, a ripercorrere il suo passato, ed Henry sapeva di non avere scampo. 
Non era ancora riuscito a riprendersi, tuttavia realizzò che poteva solo seguirlo, sperando di capire…o meglio, di accettare cosa gli stesse accadendo. 
  
Henry odiava quell’uomo. Era un assassino, il che bastava per odiarlo. Nulla poteva giustificare i suoi crimini e le terribili azioni commesse a chi aveva avuto la sfortuna di incrociare il suo cammino. 
Nella sua mentre ricordava la disperazione di Joseph, le ferite della povera Eileen, di Cynthia che era morta in quel lago di sangue… 
  
Era…imperdonabile. Una macchina assassina inaudita. 
Eppure, era anche quel bambino dagli occhi tristi. 
Scosse la testa. 
Ancora una volta si stava lasciando ingannare. Quello non era un bambino. Era solo il frutto della mente deviata di Walter Sullivan, che ancora aveva lasciato una traccia in quel mondo irreale. 
Mentre camminava, assorto nei suoi pensieri, non si accorse che qualcuno stava correndo dalla direzione opposta e che presto entrò in collisione con lui. 
  
Oramai Henry si trovava nelle vicinanze del cantiere, vicino la zona panoramica del bosco, e non si aspettava per nulla quello scontro. 
  
“Ma che diavolo?!” urlò quando fu urlato violentemente da qualcuno. 
  
Alzando lo sguardo, vide un ragazzo smilzo dai capelli rasati, dolorante a terra. 
Un volto simile non poteva non riconoscerlo. Infatti sgranò gli occhi, sorpreso,mentre questi faceva per rialzarsi. 
  
“Jasper..?” disse, ma egli sembrò non curarlo affatto. 
  
“T-t-ti s-s-ono c-c-ad-uto addos-s-o, s-scusa!” 
  
Henry rimase sorpreso di vederlo parlare in quel modo. Era di nuovo così balbuziente..? 
  
“Cosa c’è lì infondo?” chiese. 
  
“I-io li av-e-e-evo avvisati. Quel ficcana-aso aveva r-r-r-agione. C’era dav-v-ero il D-diavolo a Pleasent R-rive-er. Ma i-io n-non l’ho vist-t-o p-p-erchè s-s-ono fuggito.” 
  
Andò via grattandosi il capo freneticamente, parlando senza curare minimamente Henry. Mentre andava via, non fece nemmeno caso che un ritaglio di giornale gli era caduto dalla tasca dei jeans. 
Henry lo raccolse e lesse. Erano due articoli di giornale ritagliati dalla sezione dei necrologi. Riguardavano la scoperta di due studenti trovati senza vita nel college di Pleasent River. 
  
“Nessun indiziato…morte per entrambi da strangolamento/soffocamento. Qualcuno aveva trafugato il cuore di entrambi…gli studenti Bobby Randolph e Sein Martin…” 
  
Guardò la data dell’articolo e risaliva a più di dieci anni prima. Si girò fulmineo verso Jasper e cercò di parlargli, ma egli era oramai già lontano. 
  
Bobby e Sein… 
  
I due ragazzi di prima? 
Mancava ad entrambi il cuore e la cosa lo incuriosì. Estrasse un nuovo ritaglio dal suo album. 
  
"La discesa della Santa Madre---i 21 sacramenti"
Il primo segno,
E Dio disse,
Quando sarà il momento, purifica il mondo con la mia ira.
Raccogli l'olio bianco, la coppa nera e il sangue dei dieci peccatori.
Preparati per il rito della Sacra Assunzione.
 
  
(Documento trovato nella Wish House) 
  
  
“Dieci cuori…Walter?” disse e cercò subito fra i suoi appunti un altro documento. 
  
  
“No.1...Dieci cuor...
No.2...Dieci...
No.3...Dieci cuori...
No.4...Dieci cuori Steve Garl...
No.5...Dieci...
No.6...Dieci cuor...
No.7...Dieci cuori Billy Locane
No.8...Dieci cuori Miriam Locane
No.9...Dieci cuori...
No.10...Dieci...
No.11...Assunzione Walter Sullivan
No.12...Vuoto
No.13...Tenebre
No.14...Oscurità
No.15...Disperazione Joseph Schreiber
No.16...Tentazione Cynthia Velasquez
No.17...Fonte Jasper Gein
No.18...Vigilanza Andrew DeSalvo
No.19...Caos Richard Braintree
No.20...Madre Eileen Galvin
No.21...Saggezza Henry Townshend
 



(Ritaglio rosso trovato nell’appartamento 302, di Joseph Schreiber) 
  
 
 
Quei due…facevano dunque parte del rituale?
 
Anche se Jasper era sparito, si voltò verso dove l’aveva visto andar via.
 
Lui…era in quel momento esatto che doveva aver perso il senno, e mai più sarebbe tornato come prima. La sua vita non sarebbe più stata semplicemente la sua.
 
 
 
Jasper, affascinato dall’occulto, dal Diavolo, come lo chiamavano lui e i suoi colleghi, sull’ultimo si era tirato indietro impaurito. In realtà i suoi timori lo avevano salvato dall’inganno di Walter Sullivan, che aveva attirato a sé i suoi colleghi per estirparne il cuore ai fini del Rituale. Avevano effettivamente incontrato il Diavolo.
 
Jasper…più per fatalità che per altro, si era salvato.
 
Tuttavia ricordava le parole che egli urlò prima di perdere i sensi e morire arso dalle fiamme, sotto il numero 17/21 inciso sul suo braccio.
 
 
 
“Finalmente l’ho incontrato…il Diavolo!!”
 
 
 
Henry chiuse gli occhi, percependo questa volta quel ricordo in modo completamente diverso. Provò una profonda empatia con Jasper per la prima volta.
 
L’infausto destino che aveva evitato dieci anni prima, lo aveva perseguitato fino al momento della sua morte. Egli, da quel giorno, doveva aver sempre desiderato morire per mano di quello stesso Diavolo.
 
 
 
Proseguì e percorse quello strano cantiere fino a raggiungere, finalmente, la zona panoramica della foresta, con la vista sullo splendido e agghiacciante lago di Toluca.
 
 
 
***
 
  
[LA FORESTA DI SILENT HILL. La zona panoramica.] 
  
Il piccolo Walter Sullivan era lì e osservava il lago di Toluca. 
Era splendido. Peccato fosse vittima di tante leggende macabre che sapevano destare tanta inquietudine nonostante quelle acque cristalline. La luna rifletteva la sua luce e donava all’ambiente un che di sacro.  Stranamente in quel preciso punto la nebbia si dissipava decisamente rispetto al resto del bosco, in cui invece era padrona, fitta ed intensa. 
Henry si avvicinò al ragazzino con uno sguardo serio. 
  
“Sullivan, fatti vivo.” disse. 
  
Non ne poteva più di vedere quel bambino. Diamine! Lui era Walter Sullivan, non quel moccioso triste che guardava solitario la luna. Era forse un codardo? 
Non riusciva a capacitarsi che non apparisse. Perché doveva vedersela con la sua versione bambino? 
  
Quell’assassino…era il bambino. 
  
Sgranò gli occhi, all’improvviso. 
Solo allora capì, finalmente. 
Capì che quel bambino non c’entrava affatto con niente. 
  
Perché… 
  
Quell’assassino…era stato quel bambino… 
Ma il bambino…non era, invece, quell’assassino. 
  
Il discorso…non era reversibile. 
  
In quel momento aveva semplicemente a che fare con un bambino senza nome, rinnegato e condannato a morte dalla nascita. 
Aveva conosciuto il suo aspetto più profondo, che lo aveva morbosamente attaccato alla persona più preziosa per lui, la madre. 
Quella stessa, tuttavia, che lo aveva rinnegato. 
Walter, da lì in poi…non aveva avuto altro a cui aggrapparsi. 
  
Henry deglutì e con fare incerto gli si rivolse. 
  
“Ehi, ragazzino. Hai trovato Bob?” gli chiese. 
  
Walter non si girò, ma continuò a guardare il panorama. 
  
“No. Bob non tornerà. Il maiale me l’ha fatto capire.” 
  
“Il…maiale?” 
  
“Stronzo. Vorrei che…morisse…” disse il ragazzino a denti stretti. “Lui…e quelli che hanno imprigionato la mamma.” 
  
Henry si avvicinò a lui e guardò anch’egli il panorama. Si poggiò con i gomiti sulla ringhiera e osservò il ragazzino. Il viso di Walter…non era quello che avrebbe dovuto avere un bambino. Era arrabbiato, colmo di odio. 
  
“Chi ti ha detto una cosa simile?” gli chiese. 
  
“La signora importante che è venuta a trovarci in orfanotrofio. Ha detto che se studio la potrò salvare…” 
  
Henry non disse nulla. Del resto…non aveva idea di come reagire davanti a ciò che stava vedendo. Non voleva provare pietà per Walter Sullivan. 
Eppure…provava pietà per quel bambino che sarebbe diventato lui. 
Perché quello stesso Walter Sullivan era stato il frutto dei tanti orrori che aveva vissuto in quella terribile e tormentata infanzia. 
Sebbene fossero la stessa persona. 
Era una strana consapevolezza. 
  
Dalla spalla, sbirciò appena verso il viso del piccolo e notò che aveva un grosso sfregio sulla guancia. 
Lo guardò sorpreso e solo allora Walter si girò con uno sguardo apatico, rendendosi conto di essere osservato. 
Henry provò imbarazzo ad incrociare gli occhi verdi di quel bambino e rimase immobile senza sapere che fare. 
  
“Cosa vuoi? Se mi hai aiutato a trovare la chiave, allora vuoi qualcosa in cambio.” 
  
Henry sospirò. 
  
“No…niente fregature. Te l’avevo detto, no?” 
  
Il bambino abbassò il capo e Henry, per la prima volta, abbandonò quell’espressione distaccata e gli rivolse degli occhi più compassionevoli. 
  
Quella tragedia…e lui era sopravvissuto. Eppure questo non aveva impedito a qualcuno di approfittare del suo trauma e di monopolizzarlo in onore del culto. 
Che persone disgustose… 
  
Se non fosse stato per il culto, probabilmente, quel piccolo Walter Sullivan non sarebbe diventato quell’assassino spietato pronto ad eseguire i ventuno sacramenti. 
I ventuno sacramenti che, in realtà, lo avevano ingannato. 
Perché probabilmente Walter non aveva mai creduto a quelle stupidaggini. Aveva sempre e solo avuto l’intrinseco desiderio di ricongiungersi alla donna che aveva sempre amato e che il culto gli aveva fatto credere essere prima l’appartamento 302, poi la Santa Madre. 
Il bambino era stato ingannato. Il bambino desiderava solo riaddormentarsi felice, cullato in attesa di una morte dolce. Una morte dolce con sua madre. 
  
Istintivamente, allungò dolcemente la mano verso il bambino. Il suo gesto era privo di ogni razionalità e non si accorse nemmeno di quel desiderio intrinseco di dargli un tocco di dolcezza che mai aveva ricevuto nella vita. 
Anche Henry non aveva un ricordo molto sentimentale della sua infanzia… 
Quindi…credeva di poter capire cosa significasse desiderare dell’affetto. E allo stesso tempo averne paura. 
  
Walter intanto era assorto nei suoi pensieri e quando si accorse della vicinanza di Henry, subito sobbalzò, proprio prima che la mano del ragazzo arrivasse a lui. 
Subito anche Henry si ritrasse e sentì il cuore battergli forte, come resosi conto del disagio di entrambi. 
  
Quel bambino era abituato a vedere le mani di un uomo non come una carezza, ma come un qualcosa pronto a sfregiarlo e punirlo. Per questo si era ritirato, non conoscendo nemmeno il significato della dolcezza di un simil gesto. 
  
Per Henry, infondo, era lo stesso. La vita gli aveva impedito di avere disinvoltura con gli affetti e la sua vita era sempre stata circondata di solitudine. 
Se ci pensava, nemmeno lui sapeva gestire quel tipo di sensazioni, e per tutta la vita aveva persino cercato di evitarle. 
Sospirò e si abbandonò lentamente fino a scivolare a terra. Rimase seduto lì, immobile. Affianco al piccolo Walter. 
  
“Alla fine non sono tanto diverso da te, lo sai?” gli disse. 
  
Abbozzò un sorriso nostalgico e il biondino sembrò farci caso. Infatti si incuriosì, ma rimase a osservarlo in silenzio, con le mani ancora serrate sulle sbarre della ringhiera. 
Non disse nulla e si chiuse in silenzio con Henry Townshend. Eppure…il clima che si generò non arrecò alcun imbarazzo a nessuno dei due. 
  
Henry chiuse gli occhi e per la prima volta dopo giorni e giorni, avverti quel senso di soffocamento e di stanchezza abbandonarlo. 
Gli occhi non bruciavano più e si sentì così rilassato come mai avrebbe pensato di sentirsi. Meno che nell’incubo. 
Ma andava bene così. Non cercò di spezzare quel momento in nessun modo. La sua mente si stava lentamente spegnendo e il sonno prese il sopravvento. 
  
…ma perché? 
Perché di colpo tutta quella tranquillità in corpo? 
  
Solo allora aprì appena gli occhi e rivolse il volto verso Walter che era ancora lì ad osservare il lago. 
Anche lui aveva un volto diverso. Era meno spento, meno apatico. 
Meno…triste. 
  
Per un attimo, avvertì come se anche l’assassino Walter Sullivan si fosse concesso un momento di pausa, lontano dai suoi incubi e i suoi tormenti. 
Quello stesso attimo, era come se fosse stato concesso anche ad Henry. 
Era irrazionale, strano… 
Eppure era questo ciò che stava avvertendo. 
  
Non seppe trovare risposta. 
Forse, né Walter né Henry volevano giustificare troppo quell’attimo. 
Henry chiuse nuovamente gli occhi. Sullivan fece lo stesso, mentre la sua figura andava lentamente sostituendosi a quella di un uomo alto, con un lungo cappotto scuro. 
  
Il moro sentì una quiete irrazionale, non accorgendosi nemmeno che Walter Sullivan adulto fosse lì. 
Al contrario, sentì una grande serenità che, ingenuamente, gli fece credere che tutto fosse tornato normale. Come se dalla sua mente, fossero finalmente spariti tutti quei tormenti. 
Entrambi assorti in quella pace solenne e piacevole, si abbandonarono alienandosi dal mondo che li circondava, cullati semplicemente dallo scroscio tenue delle acque del lago di Toluca, sotto quella luce fioca che filtrava appena nel buio tetro di quella notte. 
  
[…] 
  
  




NDA: Il mio intento era di mostrare Walter Sullivan sia come un assassino, come più volte sottolineato da Henry, che come frutto di un tremendo passato. 
Walter e il bambino biondo rimangono comunque la stessa persona, creando così pareri contrastanti sulla figura dell’antagonista di Silent Hill 4. A mio parere, Walter è e rimane un antagonista incredibile e spero di essere riuscita a farlo trasparire dalle mie parole. 
Inoltre, ritengo che Henry e Walter abbiano un legame particolare. Questa mia convinzione un po’ dovuta all’interpretazione personale che ho sul fatto che egli sia “Colui che riceve la Saggezza”, un po’ perché lui entra in stretto contatto con l’ inconscio dell’assassino… 
Durante tutta la storia, farò del mio meglio per approfondire quest’aspetto che li lega. 
Walter, in questo capitolo, ha voluto mostrare un aspetto di “fragile” di sé. Un aspetto che poi Henry riuscirà a comprendere tant’è che nel finale decideranno di darsi persino una tregua. 
Ci tenevo che la parte finale della fanfiction fosse suggestiva e desse una sensazione di pace ma anche di inquietudine. Perché, dal mio punto di vista, sarebbe strano e bello vedere Walter ed Henry non darsi la caccia, ma rimanere in silenzio sulle rive di un lago. 
Parlando degli altri personaggi che appaiono in questo capitolo, Sein e Bobby sono le vittime 02 e 03 di Sullivan e ho voluto rappresentarle più fedelmente possibile. Non esistono documentazioni approfondite di loro, ma spero comunque di averli resi dei personaggi interessanti. 
I file sulle vittime dei 21 sacramenti li ho reperiti su Silent Hill Apocalypse. 
Ci tenevo, inoltre, anche alla trattazione dell’eccentrico Jasper Gein. È un tipo strano ma, come ogni personaggio della saga che si rispetti, anche lui è stato segnato da profondi traumi che in lui si manifestano con il suo modo di parlare e il suo atteggiamento. Spero di essere riuscita a proporre degli spunti di riflessione anche su di lui. 
Dimenticavo di spendere due parole sulla scena iniziale con Eileen Galvin, Henry e il piccolo Walter. Mi sono divertita molto mentre scrivevo, spero che la piccola cutscene abbia fatto sorridere anche a voi. 
Comunque, tornando al discorso sull’infanzia di Walter Sullivan, questo è un argomento che verrà ripreso anche nel prossimo capitolo, dunque vi lascio, in attesa di leggere le vostre opinioni^^ 
Grazie dell’attenzione, 
Fiammah_Grace 
  
 

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Capitolo 4
*** Prigione acquatica ***




CAPITOLO 04



Il suo nome è Walter... Walter Sullivan. Lavoravo all'orfanotrofio, badavo ai bambini... Io sono Andrew DeSalvo. Cercavano di farlo sembrare un orfanotrofio... Ma secondo le sacre scritture di quella città, era in realtà il centro della loro religione. Quel bambino, Walter... ci credeva davvero. Soprattutto dell'affare riguardante "L’ascensione della Santa Madre". Spaventoso... Mio Dio... Oh... oh, mio Dio...” 
  
(Prigione acquatica, Andrew De Salvo) 
  
  
[APPARTAMENTO 303, South Ashfield Heights] 
  
Erano le nove di sera ed Eileen Galvin non la smetteva di ridere. Semplicemente non poteva. Squadrava Henry Townshend dalla testa ai piedi non riuscendo a capacitarsi di come si fosse conciato per quella cenetta fra loro. 
  
“E’ da un po’ che non vai ad un party, ammettilo!” disse, sghignazzando. 
  
Henry era sul piano della cucina, intento a finire le preparazioni. Non si voltò nemmeno, preferendo annuire sarcasticamente. 
  
“Cosa avrei che non va?” disse distrattamente, mentre sistemava i piatti sporchi nel lavandino. 
  
Lei fece spallucce. 
  
“Oh, non lo so…ti presenti in abito da sera, e ho dovuto faticare per convincerti a levare almeno giacca e cravatta!” ammiccò. 
  
Henry non le rispose, preferì piuttosto finire di rassettare tutto in silenzio. 
In effetti si era presentato a casa di Eileen vestito con un elegante abito da cerimonia nero, una camicia celeste, con tanto di cravatta ben annodata sul collo, portandole inoltre, come di buon costume, dei fiori e dello spumante. 
Eileen, elegante in stile casual, con un top rosa scuro stretto sul petto, dei pantaloncini blu e i tacchi, era rimasta incredula nel vederlo vestito quasi per un matrimonio! 
Non si era reso conto di essere inadeguato vestito così…aveva solo deciso di seguire la tipica etichetta dell’uomo galante, ma a quanto pareva, ciò che aveva detto la sua vicina, era vero. 
Da quanto tempo non passava del tempo in compagnia, in effetti? 
Ora che conosceva Eileen, serate simili accadevano spesso, ma in lui si creava comunque quel senso di inadeguatezza dovuta alla desuetudine. 
  
Si avvicinò con un dolce alla crema. Eileen era seduta dietro il bancone della cucina e lo guardava con un sorriso tenue. Il ragazzo era felice di vederla così spensierata. Stava facendo di tutto per non mostrarle alcun segno di cedimento. Questo perché non voleva farla preoccupare troppo. Aveva la mente altrove, però, questo era certo. 
  
Ancora turbato da ciò che aveva visto nella foresta, assieme alle vicissitudini che in generale lo stavano costringendo a riaprire quel terribile capitolo della sua vita, Henry Townshend si era chiuso ancora più in se stesso. 
  
Ma quella era la loro serata. Di lui ed Eileen. Non doveva lasciarsi sopraffare. 
Era la serata in onore a quel ‘party’ che tempo addietro non fu mai cominciato. Doveva fare del suo meglio per soppiantare quel forte istinto che in realtà lo voleva lontano da lì e dentro il mondo di Walter Sullivan. 
  
Una forte angoscia lo stava tormentando da giorni, portandolo sempre nel suo appartamento e nell’incubo. Era un richiamo incessante che lo torturava e lo chiamava a gran voce. 
Anche in quel momento aveva quella forte pulsione, come se oramai tra lui e quel mondo si fosse istaurato un legame che non li voleva assolutamente lontani. 
  
Cosa…gli stava accadendo? 
Henry aveva terribilmente paura dei suoi sentimenti, e aveva l’orribile presentimento che, anche se avesse chiuso col viaggiare in quella realtà malsana, non sarebbe comunque finita. 
Anzi, più lui reprimeva quel richiamo, più era come se aumentasse l’esigenza di tornare lì. 
Era colpa di Walter Sullivan? Cosa era accaduto nella sua mente per colpa di quell’uomo? 
  
Il cuore gli batteva forte. Solo la sua natura indolente e tranquilla lo aiutò a nascondere ogni turbamento. 
Si sforzò con tutte le sue forze di non cedere e di rimanere lì, nella sua realtà, dove doveva restare e vivere. 
  
Prese posto di fronte Eileen. Stappò velocemente lo spumante che aveva portato, lasciando volare via il tappo in sughero, e riempì i calici di lui ed Eileen. 
  
“…un brindisi?” disse lei, alzando il bicchiere e portando l’altra mano sotto il mento. 
  
“…uh? …C-Certo.” le rispose, balbettando appena. Era così soprappensiero che era quasi sbandato quando vide Eileen invitarlo a un brindisi di buon augurio. Così alzò meccanicamente il bicchiere e lo avvicinò a quello della ragazza. 
  
Lei sorrise, come intenerita dal modo di fare di Henry, così insicuro e impacciato ai suoi occhi. 
  
“Cin-cin a cosa, Henry?” gli chiese suadente. 
  
Egli sgranò gli occhi e fece spallucce. Lo stress lo stava consumando e non riusciva proprio a coinvolgersi sia a livello fisico che mentale. Gli fu difficile nascondersi ancora. 
  
“Henry…” disse Eileen, visibilmente preoccupata. 
  
Il moro ne era sicuro: Eileen sapeva che c’era qualcosa che non andava. Era un’attenta e arguta osservatrice, per di più anche molto sensibile. Non aveva idea su cosa la facesse desistere nel non avanzare un interrogatorio. Forse…semplicemente lo stava facendo per lui.   
Se solo Henry avesse potuto parlarle… 
  
“…tutto tornerà come prima, va bene questo brindisi per te?” disse Eileen, all’improvviso. 
  
“Cos…” rimase sorpreso di quelle parole, così inaspettatamente appropriate. 
  
“Riformulo l’auspicio: qualunque problema ci impedisca di tornare alla normalità…” si fermò un attimo, abbassando gli occhi verso quelli verde pallido di Henry. La sua voce calò e si fece più rauca. 
“Io…spero tu ce la faccia presto.” 
  
Eileen sembrava quasi con la voce strozzata ed Henry avvertì un grande vuoto dentro di sé nel vederla con quei occhi tristi. 
  
“Eileen…” le disse. 
  
Voleva rassicurarla, ma come poteva mai farlo? Lui stesso non aveva idea di cosa sarebbe successo…a cosa sarebbe andato mai incontro. 
Non sapeva quale epilogo aveva dinanzi a sé, e il presagio che le cose fossero peggiori di come credesse lo tormentava enormemente, impedendogli di trovare la serenità di quell’attimo. 
Dunque, ancora una volta, soffocò le parole in gola, trovandosi nell’infelice condizione di vedere qualcuno a lui tanto caro perdersi nei suoi stessi occhi a furia di cercare una risposta che mai avrebbe trovato. 
  
Henry non ce la faceva più. 
  
Era intossicato da quel mondo. Non ne poteva più. Nella sua mente rimbombava sempre di più il suo terribile richiamo. 

Si alzò e fece per posare via tutto, sotto gli occhi ancora confusi della giovane. Dopo aver sistemato le posate e tutto nel lavandino, afferrò la giacca e si avvicinò all’ingresso.
 
  
“Mi dispiace…”bisbigliò dandole definitivamente le spalle prima di andar via. Non era in grado di mandare ancora avanti quella serata. 
  
Eileen si alzò di scatto vedendolo pronto ad andar via. Strinse gli occhi addolorata da quel comportamento, tuttavia, al contrario, crebbe dentro di lei un istinto che superò qualsiasi barriera creata dallo sconforto e si lanciò alle sue spalle, cingendogli con forza la schiena. 
  
Corse così veloce che al suo passaggio la candela accesa sul tavolo si spense lasciando la stanza completamente al buio, illuminata dalle luci serali provenienti dalla strada. 
  
Henry, che aveva già estratto le chiavi del suo appartamento, era così spossato che sbandò sentendo la sua dolce Eileen dietro di lui. Osservò le sue mani, strette sui polsi all’altezza del suo addome, e provò una strana morsa al cuore. 
La ragazza aveva il capo chino sulla sua schiena. I morbidi capelli castani scivolavano sul suo viso coprendolo quasi interamente. Si strinse ancora più forte ed Henry ebbe la sensazione che stesse tremando. 
  
“Eileen..?” le chiese, incapace di capire come mai lei fosse lì, a stringerlo a sé. 
  
“…non fa nulla.” rispose lei in un sussurro, come se già conoscesse i suoi dubbi. “Qualsiasi cosa tu abbia, me ne parlerai più avanti, okay?” 
Alzò leggermente il viso e divincolò appena Henry dalla sua presa, così che lui potesse girarsi verso di lei. Henry roteò il busto e si specchiò nei meravigliosi occhi languidi e determinati di lei. 
Fu un lungo istante in cui rimasero a guardarsi negli occhi, agevolati dalla discrezione del buio. Eileen poi si riabbandonò su di lui e riprese a parlare “…soldi, lavoro, insonnia, quello che vuoi…ma non fare mai più idiozie simili. Non cercare più di scappare.” 
  
Tremava appena. Henry avvertì che stava parlando sinceramente col cuore e una fortissima scarica di emozioni le scorreva in corpo. 
  
“La verità è un’altra Eileen.” le disse a stento, assumendo questa volta uno sguardo serio e determinato. 
  
A quel punto Eileen lo strinse ancora. 
  
“…dopo quello che abbiamo passato assieme…non…non farlo mai più! Non scappare più da me, Henry.” 
  
Gli occhi di Henry si addolcirono nel vederla così. Lei…si era accorta di tutto. E aveva anche accettato di attenderlo. 
Se davvero fosse andata via anche lei dalla sua vita, il suo mondo intero sarebbe sprofondato definitivamente nella follia di ciò che stava vivendo. 
Le cinse le spalle e la strinse a sé ricambiando quell’abbraccio. Henry, in quel momento, aveva bisogno più che mai di quella vicinanza. 
La sua presa fu così salda e ardente che Eileen stesso se ne sorprese. I suoi occhi si spalancarono, soprafatti dall’emozione. 
  
“Scusami. Non lasciarmi solo, Eileen...” le disse, sussurrandole debolmente all’orecchio. 
  
Eileen non comprese, ma avvertì un disperato bisogno di aiuto in quel sibilo, in quell’abbraccio che Henry aveva contraccambiato inaspettatamente. 
  
Il ragazzo avvicinò il volto a quello di lei sempre di più, sentendo sulla pelle il tenue respiro della giovane vicina di casa, che andava a fondersi con il suo ogni centimetro che avanzava. 
Gli occhi di Eileen, appena confusi, risplendevano con il loro color acquamarina. 
Eileen…lei…la trovava davvero bella. 
Le poggiò delicatamente la mano sul viso che lasciò scivolare dalla sua guancia sino alle labbra. Henry avvertì il respiro di lei farsi sempre più intenso, tenendo ancora a freno le sue emozioni. Continuò così a sfiorarle le labbra fino a schiuderle appena. 
Qualcosa dentro di lui si smosse e volle avvicinarsi ancora di più, cullato da quei piaceri e dal fortissimo desiderio di abbandonare se stesso. 
Oppresso e in balia di una pazzia che ben presto lo avrebbe sopraffatto, desiderava quel salto nel vuoto assoluto, la perdita del suo stesso io… 
Così prese a baciarla delicatamente, timoroso, ma i suoi desideri precedettero l’autocontrollo, per cui entrò nella sua bocca sempre più intensamente.  
Eileen portò le braccia sulle sue spalle, facendo sprofondare le dita sui suoi capelli, spettinandoli. Henry premette intensamente la sua bocca sulle morbide labbra di lei, dal leggero sapore dello champagne appena bevuto. Avvertì una feroce scarica di emozioni vibrare in corpo, incapace, in quel momento, di pensare ad altro. Le strinse le spalle con più forza. 
Avvertì tutto d’un tratto le tensioni e le angosce, che rendevano un incubo la sua realtà, ora voler venire fuori con forza. Quasi come volesse cacciarle via dal suo corpo per far spazio ai suoi bisogni più intimi. 
Eileen stesso poté percepire quel momento di sfogo assoluto del ragazzo, desideroso di abbandonare ogni paura. Lasciò quindi che ciò accadesse. 
La ragazza così fece scivolare le mani sul suo petto. Presero ad avanzare, l’uno di fronte l’altra nel buio della stanza. 
Eileen spinse appena Henry per invitarlo ad accomodarsi sul divano, dopodiché si mise su di lui e ripresero da dove erano rimasti. La ragazza levò via la maglia e si strinse a lui. Henry le accarezzò le spalle e la sua schiena nuda, portandola sempre più vicina a sé, finché entrambi non furono sdraiati sul divano. Sbottonò la camicia mentre teneva ancora stretta Eileen a sé, incapace di lasciarla. 
  
Era come se fosse consapevole che, se lei fosse andata via da lui, lui sarebbe tornato in balia di tormenti che lo avrebbero imprigionato per sempre. 
  
L’appartamento intanto richiamava a gran voce. 

Mentre si baciavano e facevano l’amore, poteva sentire le catene della sua prigione tintinnare, risuonando fastidiosamente nella sua mente. Cominciò a sudare, in preda alla paura di tornare, di comprendere… ma mai si sarebbe fermato. 
Non voleva sentire quell’aria pesante e quei suoni disturbanti perennemente nella sua mente. Persino ora quel crudele e spietato mondo continuava a chiamarlo. 
Prese a baciare ancora più intensamente Eileen, avvolto da quei turbolenti sentimenti che raggiunsero persino lei, ma la ragazza non poté fare altro che assecondarlo. Guardò Henry turbata dalla sua passionalità, quasi morbosa ed ossessiva, eppure eccitante anche per lei. 
Henry, noncurante quasi, continuava a stringerla, a baciarla, a farla entrare dentro di sé, spinto dal suo bisogno primario di essere trasportato lontano da tutto. Persino da se stesso. 
Un disperato bisogno di aiuto che l’aveva in quel momento fatto crollare in un baratro senza via d’uscita. 
  
…mentre appena poco distante da lui, il buco dell’appartamento 302 lo richiamava…ancora…ancora… 
  
Il buio, padrone assoluto della stanza, era il solo conoscitore della pazzia turbolenta che avvolgeva in quel momento Colui che riceve saggezza, il quale poteva sperare sulla sua discrezione per cancellare da sé almeno per una notte il puzzo di quell’incubo, in attesa del momento in cui il prigioniero sarebbe tornato nella sua cella. 
  
…incessanti…tuttavia le catene continuavano a risuonare… 
  
  
*** 
  

Notte. 
Henry, nell’oscurità, sollevò il busto. Era molto scombussolato e frastornato, una fortissima ansia batteva nel suo petto. Portò una mano fra i capelli, ma l’aria era irrespirabile. Completamente sudato, si mise seduto, facendo sprofondare il viso sulle nocche delle dita. Strinse i pugni premendo forte sulla sua faccia, fino a tremare. 
Tuttavia decise di alzarsi. Sfiorò appena Eileen mentre prese a raccogliere i suoi vestiti e lasciare l’appartamento 303. 
  
Eileen seguì in silenzio i suoi movimenti. Con addosso ancora il calore della sua pelle, strinse a se il telo a fiori che usava per coprire il divano. 
Ebbe la terribile sensazione che, solcando quella porta, Henry non stesse semplicemente chiudendo la loro notte. Era come se… 
…stesse chiudendo qualcosa di molto più profondo dentro di lui. 
  

*** 
  
L’acqua che gli accarezzava la pelle alleviava in qualche modo il bruciore dei suoi occhi. 
Ma i rumori e le forti vibrazioni provenienti dal buco chiamavano ancora. 
  
Henry aumentò il getto della doccia e alzò il capo, sentendosi quasi affogare dall’acqua che picchiettava sul viso violentemente. Quel getto gli impediva di aprire gli occhi e la bocca. Gli permetteva a stento di respirare. Anche l’udito venne meno per via del forte flusso soffocante. 
Ma i rumori e le forti vibrazioni provenienti dal buco chiamavano ancora. 
  
Egli corrucciò il viso e strinse le labbra in una morsa. Il cuore batteva incessantemente forte e la testa cominciava a non pensare ad altro se non alla realtà parallela. 
Un rimbombo risuonava dentro di lui e continuava a chiamare…chiamare… 
  
Un curioso rumore così simile ad uno stridulo prese, all’improvviso, a balenagli in testa. Un rumore inesistente all’esterno, ma sembrava ossessionarlo dentro di sé fino alla pazzia. 
E vibrava, vibrava da morire nel suo corpo. 
  
Lo stridulo aumentava a dismisura e più Henry lo ignorava, più aumentava. Eppure non aveva un che di artificiale…sembravano… 
Sembravano quasi delle urla infantili, acute, che unite fra loro lo chiamavano a gran voce, disperate. 
  
Il viso del ragazzo si corrucciò sempre di più, la testa sembrava stesse per esplodere e, oramai, l’acqua stessa non sembrava più così soffocante quanto quel rumore terribile. 
  
Aprì debolmente gli occhi arrossati e guardò di fronte a sé apatico. 
  
“Perché mi sta accadendo questo?” sussurrò. 
  
Non abitava nessuno lì con lui. Ma l’appartamento stesso pulsava di vita propria e lui, in quel macabro contesto, non sembrava altro che un infelice marionetta, pronta a essere manovrata dal burattinaio di quella realtà parallela… 
  
La sua domanda era rivolta all’appartamento stesso, assurdamente vivo e, paradossalmente, più conscio di lui di ciò che stesse accadendo. 
  
Sebbene il getto della doccia fosse freddo, quasi ghiacciato, dalla fronte, il giovane Henry avvertì un’unica goccia calda solcare il suo viso fino a fermarsi vicino l’imboccatura del naso. 
  
“Nh?” 
  
Portò due dita vicino il naso e le strofinò appena sul viso, leggermente infastidito. Osservò la mano con distratta curiosità e sgranò gli occhi alla visione del color rame di cui si erano tinteggiate. 
  
Era terribilmente frastornato. Avvertì che altre gocce calde lo stavano attraversando, in quel momento. 
Percepì così un terribile e repentino senso di nausea che quasi lo fece di venir meno. 
  
Alzò le braccia portando le mani all’altezza degli occhi e vide il suo corpo oramai imbrattato completamente da scie rosse di gocce calde, vive, che attraversavano ogni parte di sé. 
  
Le sue mani presero a tremare, incredule di quella visione. I suoi stessi occhi cominciarono a essere solcati da quell’orrido liquido impedendogli una perfetta visuale. 
  
Tutto, tutto all’improvviso divenne rosso. 
  
Henry tremava, tremava sempre più forte e quel calore incessante gelò il corpo del ragazzo, oramai sull’orlo della pazzia. 
  
“Ma che cosa?!” urlò, oramai incapace di reagire in quel completo stato di panico. 
  
La paura annebbiò la sua mente e per lui fu completamente impossibile contare sul suo corpo, ora paralizzato. 
  
Chiuse gli occhi, come se volesse allontanare da sé quella visione. 
Non ne poteva più, non ne poteva più di essere trattato così. Il petto gli faceva male, gli occhi erano incapaci di reggere ancora quell’incubo. La testa sembrava scoppiare. 
Avvertì le gambe farsi leggere e con un violento tonfo, si ritrovò inginocchiato nella vasca-doccia. 
  
Aveva ancora gli occhi chiusi, affranti. Completamente sconfortati. 
Il corpo umido prese a tremare incessantemente e a quel punto sentì una forte energia negativa attraversarlo dentro. 
Non faceva che chiederselo, oramai… 
Semplicemente…perché proprio lui? 
Perché lui che aveva sempre vissuto una vita quasi insignificante, priva di qualsiasi calore umano, completamente circondato dalla solitudine, ora doveva subire questo? 
Cosa aveva…fatto di male? 
Solo perché aveva abitato in quel dannato…appartamento 302? Era per questo che meritava un simile maltrattamento? 
  
“Sullivan, cosa vuoi da me? Basta! Finiscila!” urlò, disperato, incapace di accettare la sua condizione. 
  
Incapace di accettare la follia alla quale stava andando incontro. 
  
Una voce poi echeggiò lontana. Era convinto provenisse dalla sua mente oramai sconvolta, ma presto si capacitò che quell’eco provenisse, invece, dalla sua stessa casa. 
  
Solo allora spalancò gli occhi e si guardò intorno spaesato. Istintivamente osservò il suo corpo e lo vide umido, freddo… 
E… 
Senza tutto quel sangue addosso. 

 “C-che diavolo…?!” disse.
 
  
Tutto quel che aveva avuto dinanzi a sé, di colpo, era svanito: l’odore organico non c’era più, l’acqua era limpida, e le vibrazioni erano sparite. 
Solo un eco, lontano, si percepiva appena. 
Henry deglutì, ebbe come la sensazione che Walter Sullivan avesse ascoltato e accolto le sue urla, la sua incapacità di comprendere e avesse...fatto cessare quella macabra visione? 
  
A patto, ovviamente, che…ritornasse lì. 

Henry deglutì nuovamente ed uscì dalla vasca. Sapeva che era così. Poteva scommetterci tutto quel che voleva. 
  
Più Henry avrebbe allontanato da sé l’incubo, più questi lo avrebbe chiamato a gran voce, fino alla pazzia. 
Più lui reprimeva quel richiamo, più era come se aumentasse anche per lui l’esigenza di tornare lì. 
  
Ancora con la pelle umida, prese a vestirsi, tamponando appena i capelli con un asciugamano. Dopodiché scavalcò il buco e si lasciò scivolare al suo interno. 
  

*** 
  

  
5 otobbre
Mi a pichiato di nuovvo.
No avvevo fato gnete di malle.
Vorei che fose morrto. 
  
(scritta rossa del “diario” di Walter Sullivan. Nella foresta di Silent Hill) 
  
  
  
[Prigione cilindrica acquatica, nella torre centrale della vigilanza. Nei pressi della foresta di Silent Hill] 
  
  
Bruciava… 
La pelle…bruciava da morire… 
Il ragazzo aprì debolmente gli occhi e, come immaginava, si ritrovò in un nuovo ambiente legato al passato dell’assassino vendicativo Walter Sullivan. Riuscì a stento ad alzarsi in piedi perché polpacci e braccia pulsavano e bruciavano terribilmente. 
Subito tirò su le maniche della camicia bianca e vide dei segni lividi sulle braccia. Qualunque parte del suo corpo bruciasse, era marchiata di quei segni brutali. 
Li guardò sorpreso, incapace di ricordare come e quando se li fosse procurati. 
  
Girandosi attorno, non gli fu difficile riconoscere quell’ambiente umido e abbandonato. 
Egli era in una stanza cilindrica, chiusa, con circa una decina di finestre a oblò. Una scalinata rugginosa posta al centro collegava la stanza ai piani inferiori e superiori di quella torre. 
Henry si trovava nella torre della vigilanza dell’edificio cilindrico collegato alla Wish House. 
Ripensando a quell’orfanotrofio, si chiese quindi se avrebbe incontrato di nuovo il bambino biondo. 
  
Comprese che non era un caso la sua presenza lì, nella zona di vigilanza, dunque istintivamente sbirciò attraverso una di quelle finestrelle sporche e opache. 
La prima stanza che intravide era buia e a stento riusciva a vedere qualcosa. 
Era in condizioni pietose: il letto era logoro, e il piccolo servizio igienico posto lì vicino non riusciva nemmeno a guardarlo senza che lo stomaco gli girasse. 
Sporgendosi meglio con la visuale, intravide, tuttavia, una figura scura rannicchiata in un angolo. 
Sbandò nel vedere quella persona, perché non si era per nulla accorto di questa, visto quel buio. 
Era coperto fino al capo da uno sporco telo nero e s’intravedeva appena un braccio pallido graffiare il muro con qualcosa di appuntito. Sembrava tremare e scriveva frettolosamente. 
  
Henry continuò ad osservare. Quella figura sembrava non averlo notato e continuava ad avere il capo chino, e a dondolarsi con fare malsano. 
Focalizzando meglio l’attenzione sui graffiti, si rese conto che era una calligrafia imprecisa come quella di un bambino. 
Era fatta con una sorta di gesso rosso. Riusciva anche da lì a leggere ciò che stava scrivendo: 
  
“Mi stanno guardando dalla camera centrale.” 
  
Sbandò nel leggere quella scritta e per poco non perse l’equilibrio e cadere a terra. 
  
“Ma che diavolo..?!” disse, con voce tremante. 
  
Si sforzò di ritrovare la sanità mentale, ma l’idea di chi fosse quel tizio nascosto sotto il telo, lo terrorizzò. 
Era ancora scioccato per quell’essere rannicchiato in cella, quando un urlo improvviso echeggiò da una delle stanze visibili dagli oblò. 
Doveva aver strillato una persona davvero disperata per essere riuscita a gridare così forte, visto che Henry aveva potuto sentirlo nitidamente dalla torre centrale. 
Si avvicinò immediatamente all’oblò e, sebbene con titubanza, cominciò a sbirciare. 
  
Si ritrovò così lo spettatore di una scena decisamente inaspettata. 
L’uomo col cappotto era lì e stava trascinando violentemente un uomo sulla cinquantina dentro una cella. Era un uomo calvo, robusto, vestito in maniera trascurata. 
  
Il biondo assassino lo scaraventò con forza nella cella e la goffaggine dell’uomo si ritorse contro di lui, poiché fu incapace di fermare il ragazzo prima che questi lo chiudesse a chiave nella stanza umida e sporca. 
  
Walter si affacciò dalla finestrella a sbarre della porta con un sorriso diabolico. Rise poi di gusto alla visione di quell’uomo terrorizzato. 
  
“Lasciami andare! Insomma…ma cosa ho fatto?” urlò lui, spaventato. 
  
Walter rise ancora, sgranando sempre di più gli occhi verde chiaro, che spiccavano in quel contesto trascurato e dalla scarsa luce. 
  
“Andrew! E’ da un pezzo che non ci si vede! Dimmi, sei contento quanto me di questa bella riunione di famiglia..?” gli rispose, con voce eccitata. 
  
Henry solo allora guardò meglio l’uomo grassoccio e gli sembrò di averlo già visto. 
  
“Andrew..?” ripeté incerto facendo mente locale. 
  
Lo aveva visto a stento quel giorno, quando solcò per la prima volta il varco per la prigione cilindrica, per cui gli fu davvero difficile ricordare quell’uomo. 
Solo quando osservò attentamente i suoi movimenti goffi e l’atteggiamento disorientato, ebbe chiaro in mente chi fosse. 
Ricordava perfettamente la placca che trovò sulla porta del seminterrato, dove aveva visto sul corpo di quell’uomo le incisioni 18/21 all’altezza dello stomaco… 
  
“Il…sorvegliante?” 
  
Continuò a guardare la scena, facendo il meno rumore possibile e soffocando quanto più poté il suo respiro. 
  
Andrew De Salvo cominciò a terrorizzarsi alla vista di quegli occhi e si comportò esattamente come Walter voleva. Anzi, più l’uomo dava di testa, balbettando smarrito, più il ragazzo biondo sembrava soddisfatto. 
  
“Se quel che vuoi sono i soldi, posso indicarti dov’è la chiave della cassetta. Oh, mio Dio…ti prego…non farmi del male…io, posso…Oh mio Dio!” farneticò. 
  
Lo sguardo dell’assassino, a quel punto, si spense. Assunse un’espressione più penetrante e malvagia. 
Prese a fissarlo intensamente e un ghigno si disegnò sul suo viso. Henry aveva l’impressione che fosse persino impietosito dalle parole di De Salvo. Come se, una parte di lui, commiserasse il fatto che non avesse ancora capito chi egli fosse. 
  
Walter scosse la testa lentamente e con l’indice della mano gesticolò, facendogli segno che non aveva afferrato le sue intenzioni. 
  
“Andrew, Andrew…temo che tu mi abbia frainteso. Io non sono qui per il denaro.” gli rispose con voce calma e rassicurante.   
  
Il sorvegliante portò una mano sulla fronte e asciugò il sudore. Sembrava così in preda al panico da non essere capace di ascoltare una sola parola di Sullivan. Quest’ultimo sembrò accorgersene e il suo sguardo divenne sempre più glaciale e colmo d’odio. 
  
“Il perché della mia presenza…sei tu.” 
  
Il tono di Walter diveniva sempre più rauco e serioso. Sembrava essere capace di trafiggere la propria vittima solo e semplicemente guardandola. 
De Salvo non gli prestò attenzione ancora una volta e, al contrario, cominciò inaspettatamente ad adirarsi e a battere sulla porta violentemente. 
  
“Lurido straccione! Vile a prendertela con un pover uomo che non ha fatto nulla di male nella vita! Vai via, prima che m’arrabbi sul serio e chiami qualcuno!” urlò.
  
Sembrava sul punto di aizzarsi contro il giovane, ma Walter, con una velocità inaudita, afferrò il colletto sudaticcio della camicia di De Salvo e con veemenza lo trascinò vicino a sé. 
  
“Nulla di…male? Davvero?” gli sussurrò con voce sempre più bassa, calda e spettrale. “Tu, Grasso Maiale, non hai mai fatto nulla di male nella tua patetica esistenza?” 
  
Inarcò le sopracciglia e gli sorrise inquietantemente, divertito di gusto da quegli occhi tondi che cominciarono a tremare al contatto con suoi. 
  
Quando si sentì chiamato di nuovo in quel modo, ‘Grasso Maiale’, De Salvo cominciò a sudare terribilmente. Prese a tremare e la bocca si deformò in una smorfia di terrore. 
Sembrava come fosse stato appena illuminato dalla ragione. Come se…avesse finalmente compreso chi aveva di fronte a sé. 
Quel nome non era solo il modo in cui lo chiamavano quei…quei…marmocchi. 
Era il modo in cui lo chiamava specialmente ‘quel’ bambino. Quello che credeva al culto della “Santa Madre” più di ogni altro. 
  
“T-tu…tu sei..?” 
  
Walter lo trafisse cogli occhi, come se volesse dare conferma a quel che si stava materializzando nella mente di De Salvo. 
Solo allora lasciò la presa e si allontanò dalle sbarre riprendendo a sghignazzare. 
De Salvo si affacciò alle sbarre della porta e protese un braccio verso l’uomo alto che si allontanava dalla sua mano sempre di più. 
  
“Fermo! Oh, mio Dio, fermati! Fammi parlare! Fermo!” 
  
L’uomo robusto prese a chiamare a gran voce, disperato, evocando aiuto e clemenza. Come se sperasse in cuor suo che non stesse accadendo realmente. Walter lo guardò con la coda dell’occhio con indifferenza, neanche minimamente scalfito da quegli occhi pieni di terrore. 
In tutta risposta rideva, rideva finalmente felice di vedere quel lurido maiale prostrarsi così vergognosamente a lui. 
  
“Ah, ah, ah!” rise. “Non hai idea di quale meraviglioso progetto tu faccia parte! E visto quanto tu sia sudicio, sporco, indegno e spregevole, dovresti considerarlo un gran privilegio. Dico bene, Andrew?” 
  
Henry osservò quella terribile situazione completamente incapace di pensare o dire nulla. Seguì con gli occhi Walter mentre faceva per andarsene, ma di colpo lo vide sorpreso, come se, proprio prima di proseguire, l’assassino fosse rimasto attratto dall’oblò alle spalle di De Salvo. 
Scrutò con fare dubbioso e poi…sorrise. 
  
Henry ebbe la terribile sensazione che Walter sorridesse proprio a lui. Il cuore sussultò, frastornato e accecato dal panico di essere osservato proprio da quell’uomo. 
Si ritrasse e decise di andare via da quel posto. 
Non poteva rimanere lì, doveva assolutamente trovare il modo di uscire e alla svelta! 
Si avvicinò alla scalinata rugginosa e scese fino al piano terra. Percorse poi quella lunga scalinata a chiocciola umida e buia, dove un tempo vi erano tutte quei Wall-Man. 
  
Ripensò a quell’uomo…Andrew De Salvo. 
Quando lo aveva conosciuto, era riuscito a stento a scambiare con lui due parole, mentre udì per la prima volta il nome di Walter Sullivan. 
Portò alla mente quel ricordo cercando di soffermarsi su ogni dettaglio. L’uomo di mezza età era in uno stato così confusionario che non seppe far altro che delirare e invocare il nome di Dio. 
Da quel po’ che sapeva, l’uomo lavorava per la Wish House, l’orfanotrofio nella foresta di Silent Hill. 
  
La Wish House e l’edificio cilindrico erano come le due facciate opposte di una stessa medaglia. 
La sede principale era la casa di legno in mezzo al bosco. La torre acquatica, o come era meglio definirla, la prigione, veniva utilizzata per punire quei bambini che, in un modo o nell’altro, infrangevano le regole. Finivano lì e venivano trattati in modi subdoli, violenti, col solo fine di lavargli letteralmente il cervello secondo le malsane credenze del Culto.   
  
Nella prigione, i bambini venivano schedati e controllati. Manipolati e violentati mentalmente. 
Henry si chiese in quel momento se anche De Salvo, dopotutto, non si limitasse solo a sorvegliarli, ma anche… 
Scosse la testa, avendo paura di sapere cosa accadesse per davvero in quelle celle. Giunse finalmente nel primo piano, dove erano situate le prime stanze della prigione, e cominciò a camminare cautamente per i corridoi. 
C’era un silenzio agghiacciante e il gocciolio dell’acqua era l’unica presenza viva lì, oltre a Henry. 
Tuttavia doveva essere cauto. 
Walter poteva essere ancora nei paraggi. 
  
Di colpo udì un lieve brusio, che aumentava man mano che avanzava. Henry si chiese chi potesse mai essere. 
Le voci erano sempre più nitide e presto si rese conto che provenivano da una cella ben precisa. 
Si fermò e decise di non avanzare oltre. 
Chiunque fosse, poteva essere legato a Walter o ai cultori della setta. Non doveva in nessun modo farsi trovare. Tese dunque l’orecchio e sperò di riuscire a comprendere il senso delle parole che stava udendo. 
Da come parlavano, sembravano due ingegneri o alcuni che conoscessero bene il posto, visto che discutevano sull’architettura dell’edificio. 
  
“Questo posto comincia a deteriorarsi, signor De Salvo. Occorre trovare al più presto una soluzione.” 
  
“Avvisare quei pazzi? Ma nemmeno per sogno! Meno sanno, meglio è. Specie i bambini. Li vedo ogni giorno divenire sempre più emancipati, senza la possibilità di nutrirsi o lavarsi. Sembrano…dei fagottini grigi e puzzolenti. Ma parlare ora significherebbe scatenare il panico, o peggio…” la voce del sorvegliante si bloccò. “A-a proposito. Per i corpi, dunque? Cosa si fa?” aggiunse, cambiando discorso. 
  
Sebbene Henry fosse sorpreso di udire la voce di De Salvo, che aveva appena visto essere imprigionato, decise di non interferire e continuò ad ascoltare silenzioso. 
  
“E’ ancora possibile ruotare le stanze, no?” rispose l’ingegnere. “Nessuno se ne accorgerà se utilizza le fosse. Le allinei e andranno direttamente nel seminterrato, dove poi se ne sbarazzerà in piena tranquillità gettandoli nel lago.” sospirò. “Tanto il lago di Toluca ne ha già tante di storie drammatiche conservate gelosamente tra le sue limpide acque…” 
  
De Salvo sembrò annuire alle sue parole, dopodiché Henry udì una porta metallica aprirsi e sbattere violentemente. 
Henry si trovava praticamente di fronte la porta, dove diavolo erano andati, dunque? 
  
Si avvicinò subito alla porta e si affacciò dalla piccola fessura posta in alto. Sgranò gli occhi quando vide che nella cella non c’era nessuno. Non solo. Non vi era nemmeno una porta di servizio o qualcosa del genere. 
Allora quel rumore cosa diavolo era stato? 
  
La sua mente ipotizzò che quel mondo era così fittizio e malsano che, quel che aveva udito, avrebbe potuto senza problemi essere un frammento dei ricordi di Walter Sullivan, alla luce delle raccapriccianti rivelazioni riguardo quella torre, ma non osò chiedersi di più. 
Provò ad aprire la porta, cercando di forzarla, ma la ruggine e l’umidità sembravano averla bloccata. 
  
“Accidenti…chiusa.” disse a denti stretti, poi si affacciò nuovamente alla finestrella. 
  
Vide ai piedi del letto dei fagottini grigi. Sembravano quasi dei teli neri, consumati, sotto i quali era nascosto qualcosa. 
Henry deglutì quando ebbe la terribile sensazione che nascondessero proprio dei corpi. Era davvero strano… 
Erano quelli i corpi di cui De Salvo e l’ingegnere stavano parlando? Perché erano lì? 
Somigliavano decisamente a quell’altro tizio che aveva intravisto da uno degli oblò, quello che scriveva frettolosamente. 
  
“Ma come può essere accaduto..?” 
  
Era una visione terribile da vedere, Henry non ne poteva più di sopportare quel mondo tutto matto. Quei fagottini…altro non erano che i bambini del culto? 
Da sotto i teli neri fuoriuscivano gambe e braccia pallide. Erano così ammassati fra loro da non rendere facile nemmeno la distinzione dei singoli corpi. 
Henry continuava ad osservarli inorridito eppure…una nota di malinconia si disegnò sul suo volto. 
Come era potuto accadere? Cosa avevano fatto quei bambini per meritare una morte tanto orrenda? 
Solo dopo, si accorse a suo malgrado, che un fagottino sussultò. 
Egli sgranò gli occhi, come se non credesse ai propri occhi. 

Possibile che fossero…ancora vivi?!
 
Uno dei teli neri si alzò e si voltò verso Henry. Un terribile mostro, con mani al posto dei piedi e due volti di bambino, lo indicò con un viso malsano e rimase immobile sotto gli occhi impietriti di Henry. 
  
“Ah!” urlò di colpo e cadde a terra perdendo l’equilibro. 
  
Dalla finestrella riusciva a vedere ancora il mostro che lo indicava con l’indice, come un vigilante severo, i cui occhi non smettevano di fissarlo. 
  
Solo dopo una manciata di secondi, questi si mosse ed attaccò ferocemente il ragazzo colpendo la porta violentemente. 
Sotto gli occhi sgomentati di Henry, il mostro picchiò con le mani pallide e robuste fino a deformare la porta. Anche l’altro doublehead si mosse, e assieme colpirono la porta a suon di pugni fino a sfondarla completamente. 
Solo allora Henry si rese conto che doveva trovare subito un modo per sbarazzarsi di loro! 
Non aveva oggetti di difesa con sé dunque cercò sul posto, correndo per i corridoi, un’arma di fortuna che lo aiutasse nello scontro. 
Vide un tubo di scarico, probabilmente utile per far fluire l’acqua, e lo forzò violentemente sperando di prenderlo prima che i mosti lo raggiungessero. 
La sorte sembrò, una volta tanto, girare in suo favore. Il tubo si staccò e l’acqua uscì copiosamente, colpendo uno dei due mostri a fagotto. 
Il tubo era resistente e sufficientemente appuntito per far male. Henry aveva avuto già esperienza con quel tipo di mostri e di lì a poco li colpì veementemente fino a quando non lì immobilizzò a terra e per essi, fu praticamente la fine. 
Continuò a colpirli ripetutamente col tubo e dopo poco cessarono definitivamente di muoversi. 
  
Henry, affaticato dal quel combattimento inaspettato, dovette trovare sostegno sulla parete. Poggiò per qualche istante la schiena sul muro bagnato e corroso, ansimante e col cuore palpitante. 
Aveva la camicia completamente bagnata e sporca di sangue e ruggine. Quei due mostri erano stati capaci di spiazzarlo, in quel momento. 
Ansimava ancora, mentre prese ad osservare la porta metallica ora distrutta a terra. Decise che quello non fosse il momento per indugiare ulteriormente, al che entrò nella stanza. 
  
La stanza ora era vuota e, dopo averla scrutata attentamente, confermò il fatto che non ci fosse null’altro lì. 
Il suo volto andò istintivamente versi i corpi dei mostri neri. 
Erano loro i ‘fagottini grigi e puzzolenti’? Quei bambini morti in quella prigione corrosa? 
  
Si avvicinò a uno di loro ed ebbe la terribile sensazione che quei ‘bambini’ avessero avuto la stessa, terribile sorte, dei mostri giganti dalle sembianze da donna del St. Jerome. 
A loro era stato portato via l’utero per via di un disturbo mentale di Walter sulle donne… 
Loro invece… 
Rappresentavano, dunque, quel terribile momento della vita che l’assassino aveva vissuto, mentre era prigioniero lì? 
  
Riguardando i due doublehead provò una grande pietà. Era una visione…raccapricciante, qual’ora avesse avuto l’intuizione giusta circa la loro simbolicità. 
Dei corpi ammucchiati, oramai indistinguibili e che rappresentavano qualcosa che Walter aveva visto lì dentro, fino a creare quella macabra rappresentazione. Proprio come dei piccoli fagottini grigi e puzzolenti.
Morti scaricati disumanamente nelle fondamenta della torre, sotto quei teli neri che li nascondevano, agli occhi di un bambino dovevano proprio dare l’idea di essere dei mostri amorfi dalla struttura anatomica confusa.
Non solo…in essi era racchiuso anche il concetto del “vigilante”; i mostri infatti prima di attaccare indicavano severamente e colpivano brutalmente chi osava muoversi entro la gittata dei loro occhi inquisitori.
Da sotto uno dei due corpi intravide, poi, una scritta rossa. Il moro se ne sorprese. Era una scritta che non c’era prima, ne era più che sicuro. 
Inoltre… 
Stava accadendo esattamente come nell’ospedale St. Jerome… 
Col tubo appuntito allontanò il corpo del “mostro” e lesse. 
Era uno scritto lungo e stretto, per Henry fu chiaro solo il significato delle ultime righe. 
  
PS: Capo, scommetto che muori dalla voglia di vedere la camera degli interrogatori dietro la cucina. Capisco come ti senti, ma hai notato? Ci sono tre camere con letti insanguinati. Una è al primo piano, una al secondo, e una al terzo piano. Se allinei quelle tre camere “bingo”, è fatta. 
  
Riconobbe quelle parole e subito estrasse dal suo album di ritagli un vecchio scritto risalente al suo primo ingresso alla prigione cilindrica. 
  
“Questo posto continua a deteriorasi. Le porte di molte celle non si aprono più. Di conseguenza, i bambini che vi stanno dentro non possono più uscire. Ma meno loro ne sanno, e meglio è.
Ma riesco ad aprire le porte, ma da questa stanza posso vederli diventare ogni giorno più emancipati. Senza la possibilità di nutrirsi o di lavarsi, stanno diventando dei piccoli fagottini grigi e puzzolenti lì dentro.
Abbiamo seguito il suggerimento di un ingegnere e ci siamo sbarazzati dei cadaveri scavando una fossa sotto le celle. Poiché ogni piano di questo edificio può essere ruotato indipendentemente, possiamo sbarazzarci dei cadaveri. senza che gli altri se ne accorgano, allineando verticalmente ogni cella contenente un corpo.

P.S.
Capo,
scommetto che muori dalla voglia di vedere la camera degli interrogatori dietro la cucina. Capisco come ti senti, ma hai notato? Ci sono tre camere con letti insanguinati. Una è al primo piano, una al secondo, e una al terzo piano. Se allinei quelle tre camere "bingo", è fatta.”
 
 
 
(Nota sul muro della torre centrale della vigilanza, nella prigione circolare acquatica) 
  
Henry si chiese se, ruotando nuovamente quelle celle, non sarebbe accaduto qualcosa. Comunque non poteva fare altrimenti. Anzi, stare lì immobile lo avrebbe reso una preda facile per Sullivan. Doveva affrettarsi.
 
  
Mentre correva cercando di raggiungere il prima possibile la torre della vigilanza, riportò alla mente quell’assassino folle.
 
Egli…era stato picchiato brutalmente dai membri del culto. Inoltre questi avevano fatto nascere in lui delle convinzioni assurde premendo sul suo intrinseco desiderio di riavere sua madre.
 
  
Quel Walter, lui…
 
Era anch’egli vittima di quell’incubo?
 
  
Quella domanda gli sorse nella mente spontanea.
 
Fino a quel momento non ci aveva pensato granché, ma alla luce del suo terzo viaggio nella realtà parallela, gli sembrava sempre più evidente che lui era stato la terribile vittima di un crudele destino.
 
Ironicamente, poi, aveva costruito un mondo malsano in onore ad una fantomatica “Santa Madre” e organizzato una vendetta che, alla fine, gli si era rivoltata violentemente contro.
 
Henry si chiedeva se anche Walter ne fosse consapevole.
 
La sua mente era un subbuglio. Probabilmente ciò era dovuto al modo in cui stava viaggiando.
 
La prima volta che aveva esplorato la mente di Sullivan, era stato tutto molto confuso, e aveva veduto la sua vita in maniera troppo sconnessa e frammentata.
 
Ora invece aveva avuto modo di vedere le cose con ordine.
 
  
Il luogo dove egli era stato salvato, il St. Jerome; poi aveva attraversato la sua infanzia nella Wish House, e adesso stava osservando da più vicino la crudeltà fisica e psicologica che aveva subito dal Culto.
 
Il disegno che aveva della prima infanzia dell’assassino, adesso era molto più chiaro e…disturbante.
 
  
Per Henry, tuttavia, era davvero dura pensare a quelle parole. Per lui, quell’uomo, era e rimaneva tutt’ora una spietata macchina mortale. Tuttavia era ben chiaro persino a lui che stesse mentendo a se stesso. Qualcosa stava cambiando enormemente dentro di lui. Se ne rendeva conto ogni istante di più.
 
  
Sentiva come se…avesse lui stesso provato sulla sua pelle quell’incubo. E non solo in quel momento, ma anche durante i suoi primi viaggi.
 
I colpi che aveva incassato dai mostri del suo passato, le persone che aveva incontrato, i sentimenti provati…
 
  
Erano tutte le emozioni che anche Walter, un tempo, aveva covato in corpo. Fino a…divenire quello spietato e folle cultore, pronto per i ventuno sacramenti.
 
Continuò a camminare pensieroso e fece per solcare le doppie porte rugginose, senza accorgersi di un uomo alle sue spalle che, quando lo vide, gli si rivolse incredulo.
 
Egli tese una mano verso Henry, ma le sbarre della porta dietro cui si trovava, gli impedirono di raggiungerlo.
 
  
“Aiutami, ragazzo! Aiutami, prima che arrivi! Lui…arriverà e…e mi ucciderà!” urlò in preda dalla paura. “…Walter mi ucciderà, aiutami..!”
 
  
Henry si voltò di scatto nell’udire quella voce. Si imbatté così nel sorvegliante della prigione.
 
  
“Signor De Salvo..?” chiese dubbioso.
 
  
“Cosa? C-conosci il mio…nome?”
 
  
De Salvo sembrò cambiare drasticamente atteggiamento quando Henry pronunciò il suo nome. Henry si sentì scrutare dalla testa ai piedi da quell’uomo, quasi come se questi si stesse accertando di conoscerlo o meno.
 
Dal punto di vista di De Salvo, vedere quel giovane, all’incirca della stessa età di Sullivan, lo spaventò e presto inveì contro di lui.
 
  
“Ho capito! Sei con quel lurido pezzo di merda, tu! Liberami immediatamente o ti pentirai per quello che stai facendo! Oh, sì, che te ne pentirai, stanne certo!”  ringhiò con gli occhi da fuori.
 
  
Henry rimase sbigottito da quella reazione, ma cercò ugualmente di mantenere il sangue freddo.
 
  
“Di che sta parlando?” chiese fermamente, ignorando gli insulti di De Salvo.
 
  
“Sei cresciuto qui anche tu, vero?! Bene…allora avrai anche tu assaggiato uno dei miei ‘sistemi di educazione’. L’ho fatto con gran parte dei bambini della congrega e, se conosci il mio nome, lo avrai provato…eh, eh. Prova dunque solo a bluffare e te ne pentirai!”
 
  
Sebbene tremasse ancora per via dell’incontro imminente con Sullivan, Henry percepì qualcosa di disturbante dalle parole di De Salvo. Come poteva…sogghignare nel pensare a tutti quei bambini sfortunati?
 
Lui poi che non aveva fatto altro che maltrattarli.
 
Oppure…
 
Henry sgranò gli occhi e violentemente batté un pugno contro la porta, facendo allontanare quel povero codardo dalla fessura con le sbarre.
 
  
“Stai parlando di dei bambini! Non scordarlo! Di cosa diavolo parli, te lo ripeto!” inveì, urlando come raramente faceva. Sentiva la rabbia ribollire dentro di lui, come se potesse essere in grado di incenerirlo con il solo sguardo.
 
  
Aveva delle emozioni così vive che…
 
…Era come se fosse perfettamente cosciente di tutto ciò che quel Grasso Maiale avesse commesso, in verità.
 
  
“Oh, mio Dio…Oh, mio Dio…non perdere la calma…io…io…oh, povero me!”
 
  
Il tono di De Salvo tornò basso e tremolante. Proprio come un debole e vile vigliacco, si rintanò dentro la cella, incapace di affrontare Henry.
 
  
“Quel che hai detto…è davvero patetico.” disse e si allontanò.
 
  
Quando lo vide allontanarsi, Andrew si allarmò e protese nuovamente il braccio verso di lui.
 
  
“Aiutami…! Ti prego…sta venendo ad uccidermi! Walter mi ucciderà…!”
 
  
Henry si voltò a stento. Solcò la soglia del portone e lo guardò un’ultima volta.
 
  
“Tranquillo. Presto finirà tutto. Questo, in fondo…è già accaduto.”
 
  
…e andò via.
 
  
***
 
  
Quando giunse nel terrazzino esterno con la scalinata a chiocciola, non vide altro che la nebbia, ma dopotutto…era normale. 
Si trovava ancora nei pressi di Silent Hill e lì, la nebbia, era sempre stata la compagna fedele dei viaggiatori che solcavano le sue vie e i suoi meandri. 
  
Dal taschino estrasse la mappa del terzo e ultimo piano dell’edificio cilindrico. Aveva già acceso le luci allineando le stanze con i letti sporchi di sangue dalla torre centrale. 
Ripensando al messaggio trovato sotto il corpo del mostro dalle doppie facce, dedusse che era lì dove doveva giungere. Nel piano sotterraneo. 
  
Mentre camminava percorrendo quella passerella esterna circolare, non si sorprese di udire degli spari, anche se questi rimbombarono improvvisamente. Avanzando ancora intravide Walter Sullivan alle prese con dei hummer, che volavano fastidiosi da quelle parti. 
Henry doveva proseguire, che ci fosse lui o meno. Forse, se fosse arrivato nei sotterranei, avrebbe potuto finalmente uscire. 
L’assassino ci impiegò poco a notarlo e, nell’incrociare gli occhi di Henry, subito sorrise soddisfatto. 
  
“Ciao, Henry.” disse con fare malsano, ma stranamente colloquiale. “Ho visto che hai incontrato il Grasso Maiale.” 
  
Henry non rispose, rimase lì in silenzio, non sapendo proprio come fuggire al suo sguardo. Sentiva un’orribile turbolenza dentro di sé, non riuscendo ad escogitare un modo per divincolarsi da quell’infelice incontro. 
Tuttavia, lui era lì per il volere di Walter, dunque più volte ebbe la tentazione di porgli alcune domande. Qualcosa però lo fece desistere. 
Cosa gli doveva mai chiedere? Cosa…avrebbe conosciuto? Le reali intenzioni di Walter? 
Henry le voleva per davvero conoscere…? 
L’uomo dal lungo cappotto blu intanto continuava ad osservarlo compiaciuto. All’improvviso tese il braccio sinistro e gli puntò contro una mazza di legno appuntita. 
  
“Tra poco rivivrà anch’egli la sua condanna. Non ti va di vedere?” 
  
Improvvisamente Walter si scagliò contro di lui, roteando su se stesso e cercando di colpire con la mazza scheggiata il giovane Henry. 
Henry riuscì a schivare il colpo, ma per poco non cadde nel precipizio. Rimase a guardare da quell’altezza vertiginosa l’ambiente, completamente offuscato dalla nebbia. 
Scrutò l’assassino e comprese in pochissimi attimi che non poteva assolutamente fare nulla, al momento, se non fuggire. 
Non sapeva a cosa sarebbe valso fuggire, in realtà. Quello era il mondo di Walter Sullivan. 
Era lui l’assoluto sovrano e burattinaio. 
  
Henry, suo malgrado, era solo una marionetta nelle sue mani. 
Dunque, una volta evitato il colpo, corse via verso le scalette a piolo poste in concomitanza dei vari piani dell’edificio. 
Walter, dal suo canto, sembrava quasi divertito della fuga di Henry e subito sparò all’aria dei colpi come se volesse intimorirlo, prendendo a ridere davvero di gusto. 
  
Mentre Henry saliva frettolosamente le scale e faceva per raggiungere il terzo piano, l’uomo lo osservava, non cessando comunque di ridere. 
  
“Dov’è che avresti intenzione di andare, Henry?” urlò, spalancando le braccia e alzando il mento mentre vedeva lo sventurato ragazzo proseguire su per la torre. “Ma credi davvero che esista, qui dentro, un posto sicuro per te? Ah ah ah..!” 
  
Il cuore di Henry batteva forte e l’adrenalina saliva a dismisura. Spalancò la porta arrugginita a doppie ante sotto lo sguardo divertito di Sullivan, ed entrò di getto. 
Voleva sfuggirgli? 
Sapeva che era impossibile. Poteva però almeno sperare di seminarlo. Avrebbe così avuto almeno il tempo per riflettere sull’agire. 
Osservò frettolosamente la mappa e solcò la cella dove aveva appuntato la posizione del lettino con l’orma rossa. 
  
Al momento aveva un solo indizio, ed era quello che intendeva seguire. Doveva raggiungere assolutamente il seminterrato. E per farlo doveva raggiungere quella stanza. 

“Eccola.” disse con il fiatone che gli soffocava la voce.
 
  
Entrò e guardò il letto insanguinato, con l’orma impressa di una figura umana, disegnata a malapena sulle lenzuola. Guardò il buco ai suoi piedi. 
Non si vedeva un accidenti da li. Si chiese cosa mai avrebbe trovato, una volta gettatosi nel vuoto e raggiunto quel luogo terribile… 
  
Uno sparo improvviso, poi, lo sfiorò appena, gelandogli il sangue e offuscandogli la mente. Si voltò e alle sue spalle vide di nuovo Walter Sullivan. 
  
La bocca della sua pistola fumava ancora e l’uomo dai capelli biondi assunse un’espressione derisoria nei confronti del ragazzo. Continuò a sogghignare maligno, sotto gli occhi sgomentati di Henry. 
Il moro fece del suo meglio per rimanere calmo, mantenendo il sangue freddo e i nervi saldi. 
  
“Che cosa…vuoi da me?” disse a denti stretti. 
  
Walter fece spallucce e rise ancora. Il suo tono era caldo e profondo, tuttavia enormemente inquietante. Teneva la pistola in mano con una nonchalance inaudita ed Henry si sentì inquieto nel vederlo così disinvolto con quell’aggeggio mortale. Ancora una volta, aveva avuto conferma della sua mente malsana. 
  
Il ragazzo biondo prese ad avanzare verso di lui ed Henry vide la sua figura longilinea, eppure imponente, arrivare a giusto una ventina di centimetri di distanza da lui. 
Subito sentì l’esigenza di indietreggiare, ma presto trovò alle sue spalle il foro circolare del pavimento e per poco non perse l’equilibrio. 
Non vedeva scappatoie e sentì una goccia di sudore solcare il suo viso. 
Poteva anche saltare e raggiungere il piano inferiore, pensò, ma era completamente sotto shock nel vedere quel carnefice sempre più vicino a lui, tanto che si sentì come paralizzato dalla sua presenza. 
Sentiva che le sue gambe non fossero più in grado di muoversi. Come se i suoi occhi non potessero più reggere lo sguardo di lui. 
  
Walter avanzò ancora e si fermò poco distante da lui. Henry calò gli occhi. L’assassino continuava, invece, a guardarlo con gli occhi spalancati, fissi su di lui, e…sogghignava dello sgomento del giovane. 
  
L’uomo alto col cappotto si chinò verso il viso di Henry e si avvicinò a lui con fare provocatorio, mettendo a dura prova la sanità mentale del ragazzo. 
Poteva avvertire il suo respiro. Era come se Walter fosse in grado di soffocarlo semplicemente con quel gesto. Come se potesse entrare nella sua anima e ucciderlo dall’interno. 
  
Walter continuò a rimanere chino verso il suo viso. Con la canna della pistola, poi, alzò il mento di Henry, costringendolo così a guardarlo negli occhi. 
  
Gli occhi del ragazzo si riempirono di terrore e d’inquietudine mentre si specchiavano in quelli di Sullivan. 
  
Ovviamente lui non era un uomo qualunque, lui era l’uomo 11/21, l’uomo dei ventuno sacramenti. Lui poteva qualunque cosa, in quel momento. Poteva mandare in panne la sua mente, poteva…persino ucciderlo. 
  
Henry era costretto a fissarlo, incapace di reagire. 
Deglutì, perché il corpo, in quell’istante, non rispondeva alla sua mente. 
  
Non faceva che ripetersi che doveva scappare. Che dove trovare una via di fuga o ci sarebbero stati grossi guai per lui. 
  
Distolse gli occhi verde pallido da quelli di Walter e l’assassino, in tutta risposta, premette più violentemente la canna sul collo di lui. 
Lo sguardo di Henry prese a tremare e gli occhi finirono nuovamente verso quelli dell’uomo di fronte a sé, il quale prese di nuovo a sogghignare. 
  
“Tu…” 
  
Sussurrò a malapena Henry, e solo allora vide le labbra di Sullivan finalmente schiudersi. 
  
 “buh.”disse Sullivan, e inarcò le sopracciglia. 
  
Henry sgranò gli occhi. 
  
“Che diav..?!” 
  
Walter non aspettò un secondo di più e con una velocità scioccante colpì lo stomaco di Henry Townshend con un ginocchio, facendogli perdere l’equilibrio e cadere così giù in quel varco profondo. 
  
Henry strillò in preda al panico, incapace di capire cosa stesse accadendo. Un forte senso di vertigini prevalse in lui, e la mente si annebbiò sotto lo sguardo di Walter Sullivan che, mentre rideva di gusto, velocemente spariva dalla sua vista. 
  
*** 
  
Henry Townshend riprese conoscenza solo dopo qualche minuto. 
Rise appena, mentre sentiva le ossa terribilmente doloranti. 
  
Rideva perché se quella fosse stata la realtà, non sarebbe mai sopravvissuto a un salto simile, dal terzo piano di un edificio. 
  
Tanto valeva trovare gli aspetti positivi di quell’incubo. Per qualche strana ragione, era ancora vivo. Henry alzò lo sguardo e si rese conto di essere giunto alle cucine del seminterrato. 
Il posto era leggermente diverso da come lo ricordava. Sempre orribilmente umido e mal tenuto, eppure non era come al solito. 
  
A cominciare dalla molteplice quantità di bambini presenti. 
  
Erano poco più di una decina e tutti sembravano attendere qualcuno. Forse per essere accompagnati nelle loro stanze. 
O meglio…nelle loro celle d’isolamento. 

Nessuno stava osservando Henry, né qualcuno sembrava essersi accorto di lui. Non gli fu difficile, dunque, rendersi conto di non essere visibile ai loro occhi.
 
  
Vide all’improvviso tutti i ragazzini voltarsi verso di lui, al che rimase immobile senza sapere che fare. I loro sguardi erano, tuttavia, rivoli oltre le spalle del giovane, così anch’egli tese il collo in direzione dell’uomo che, dietro di lui, aveva appena raggiunto quei bambini. 
  
Era Andrew De Salvo. Era più giovane, tuttavia non era cambiato granché. Era sempre calvo, grasso e con una camicia sudaticcia addosso. 
Si rivolse spregevole verso di loro, guardandoli come una vera carogna. 
  
“Se non volete che accada anche a voi, bastardelli figli di puttana, vedete di non comportarvi come quell’insignificante spazzatura.” 
  
L’uomo traballava ed era visibilmente ubriaco. Solo Dio poteva sapere cosa intendesse dire ai ragazzini mentre li guardava, ridendo soddisfatto in quel modo. 
Continuò a inveire contro di loro, dettando le sue regole e affermando la sua completa autorità su di loro, senza alcun ritegno o pietà per creature così giovani. 
  
“Hai il permesso di parlare? No. Hai il permesso di pensare? No. Se ti picchio con chi ti andrai a lamentare? Con nessuno. Questo perché io detto le regole qui! Vedete di ricordarvelo da soli e non costringetemi a fare un ripasso!” parlava e sputava senza ritegno, guardando compiaciuto gli occhi terrorizzati dei bambini. 
  
Henry rimase scioccato nell’assistere a quella scena. Tuttavia impotente. Non poteva far nulla per quei ragazzini. 
  
Quello…era solo un ricordo di Sullivan. 
  
Tra i bambini, poi, ne avanzò uno. Era biondino e aveva dei limpidi occhi verde chiaro. Il suo sguardo apatico poco si addiceva ad un bambino. Egli guardava De Salvo sprezzante. 
  
“…Walter?” disse Henry, riconoscendolo. 
  
Walter prese parola. 
  
“Ehi, noi abbiamo il permesso di Dio, non lo sai questo?" disse determinato. 

"Non rispondere!!! Piccolo moccioso!!" ruggì Andrew.
 
  
Lo prese improvvisamente per un braccio e lo picchiò violentemente in viso. 
  
“Sei solo immondizia, tu! Parla ancora e ti ritroverai presto assieme a tutti gli altri ‘fagottini’!” sbraitò come un animale. “Io…IO sono la legge QUI! Non osare mai più rispondermi, sono stato chiaro?!” 
  
Lo scaraventò via e Henry provò un tonfo al cuore nel vedere il braccio e il volto di quel piccolo così lividi. 
De Salvo andò via, emettendo uno sgraziato rumore proveniente dallo stomaco generato dall’enorme quantità di alcool ingerito. Lasciò la stanza e i bambini soli. 
Il tormento per loro, al momento, era finito. 
Henry osservò il piccolo Walter.
Nonostante le lacrime agli occhi e il viso dolorante, continuava a osservare la porta solcata da De Salvo con grande odio. 
  
“Tu non capisci le parole di Dio…il Grasso Maiale sarà punito da Dio.” mormorò a denti stretti, massaggiando la guancia ferita. 
  
*** 
  
Era paradossale pensare che, per non cadere nella follia e nella disperazione, Walter avesse dovuto ancorarsi per forza alla fede di quel Dio pagano. 
Non sapendo che, comunque, sarebbe caduto in un baratro senza alcuna via d’uscita. 
  
Per sfuggire alla morte e alla follia, si era aggrappato alla follia stessa, finendo così in un vortice irrefrenabile. 
  
Henry si trovava sul tetto della torre cilindrica, con gli occhi ancora rivolti verso ciò cui aveva appena assistito. 
Il ‘Grasso Maiale’ avrebbe pagato per ciò che aveva commesso. Questo tuttavia non avrebbe risanato quel che De Salvo aveva causato, assieme al resto del culto, alla mente di quegli sfortunati orfani. 
E Walter poi… 
Specie lui, non sarebbe comunque mai più potuto tornare “normale”. 
  
Gli abusi, la violenza psicologica e fisica che aveva subito… 
Nulla gli avrebbe potuto riportare indietro la sua vita. Nemmeno la vendetta più spietata. 
  
Henry socchiuse debolmente gli occhi e sospirò. Nella sua mente affioravano i tanti ricordi riguardanti Walter. 
Quando era stato prigioniero nelle celle e aveva trovato il sistema per uscire dalla torre, quando aveva messo gli abiti sul letto facendo finta che dormisse, quando aveva avuto paura di essere sorvegliato… 
Quando, tornando alla Wish house, aveva continuato a essere picchiato da De Salvo e circuito dai membri del culto… 
Tutti quei ricordi…erano nella mente di Sullivan e ora…anche in quella di Henry. 
  
…Era questa la sua condanna? 
La condanna di essere “Colui che riceve la Saggezza”? 
  
Dei passi lentamente si avvicinarono a lui ed Henry riaprì gli occhi. Girò il capo e diresse lo sguardo oltre la spalla. Non si sorprese affatto che Walter Sullivan fosse arrivato proprio in quel momento. 
Si voltò verso di lui con tutto il corpo e lo guardò serio. 
Walter non sogghignava, né rideva, questa volta. 
Henry aveva come la netta sensazione che anche lui fosse sovrappensiero. Come se avesse anch’egli riportato alla mente i terribili abusi che aveva subito. 
  
“Ora mi ucciderai?” gli chiese Henry, improvvisamente, senza mezzi termini. 
  
Semplicemente non ne poteva più. Era ora di farla finita. 
  
Walter, che fino a quel momento aveva avuto il capo chino, alzò il viso verso Henry e lo guardò intensamente coi suoi occhi verde chiaro. 
Poi, come se divertito dalla sua domanda, rise appena. 
  
“Henry Townshend. A questo punto avresti dovuto già capirlo…” gli rispose con voce rauca, mentre puntava l’arma contro di lui e abbassava la sicura della pistola. “…che io…” 
  
…e sparò, colpendo in pieno il petto di Henry. 
  
*** 
  
[APPARTAMENTO 302, nel salotto. South Ashfield Heights] 
  
Henry era poggiato sul divano di casa. Guardava apatico il soffitto, incapace di dire o fare qualcosa. 
Le pale del lampadario si muovevano velocemente e Henry le seguiva distrattamente con lo sguardo, rimanendo in un silenzio solenne. 
  
“…sono ancora vivo…” disse, poi. 
  
Era sorpreso di essere sopravvissuto ancora una volta. Se ne stava appena ricordando. Non era la prima volta che veniva crivellato di colpi da Walter Sullivan. 
Allora perché era vivo e non aveva nemmeno un segno o una qualche ferita? 
Una delle poche cose che aveva appreso era proprio che se morivi lì…morivi anche nella realtà. 
  
Non aveva trovato un perché che giustificasse ciò, fino a quando stesso il ragazzo biondo aveva deciso di rispondere quel quesito per lui. 
Henry chiuse gli occhi e nella sua mente visse nuovamente quella scena, sul terrazzo della prigione cilindrica. 
  
Henry gli aveva appena chiesto se sarebbe morto. Walter lo aveva guardato quasi divertito, eppure con un che di malinconico negli occhi. 
  
“Henry Townshend.” gli aveva risposto. “A questo punto avresti dovuto già capirlo che io…” 
  
  
  
“…non posso più ucciderti. 
Il rituale è finito e i morti non possono uccidere i vivi.” 
  
  
Sconfitto il vero Walter Sullivan, Henry aveva impedito che i 21 sacramenti si compissero. E così…persino quel Walter era solo un “fantasma”, adesso. Vittima dei suoi stessi ricordi, della stessa realtà che aveva costruito. 
  
Così Henry era sopravvissuto. 
La sensazione di morire era stata ugualmente verosimile e trafiggente. 
Ma non era morto. 
Tornando al suo appartamento, tutto era cessato, e lui non aveva alcun segno addosso che confermasse ciò che aveva appena vissuto. 
Portò una mano sulla fronte. 
  
“Povera la mia testa…” 
  
Aveva un terribile mal di testa. Molte cose gli stavano balenando in testa, in quel momento. Ma quel che trovava più terribile e che lo faceva impazzire, era che oramai questa fosse completamente concentrata solo sull’incubo e su Walter Sullivan. Non riusciva ad accettarlo, ma a quanto pareva, la sua mente era stata già inghiottita da lui fino a raggiungere la pazzia. 
Perché sì. Henry si sentiva oramai completamente pazzo. 
  
Continuò a tenere gli occhi chiusi, e a porsi mille domande. 
La prima fra tutte: Cosa gli sarebbe accaduto? 
Ancora una volta, tuttavia, non voleva assolutamente saperlo. Saperlo avrebbe significato solo farlo impazzire del tutto prima del tempo. 
Una parte di sé voleva ancora proteggerlo da quella follia. 
  
Solo dopo qualche minuto guardò apaticamente la stanza attorno a sé, ancora accecato da quel terribile mal di testa. 
Si alzò mettendosi seduto sul divano e solo allora notò qualcosa di strano nel suo salotto. 
Solo un ragazzo solitario e pignolo come lui avrebbe potuto accorgersene. 
  
Il comodino, che un tempo copriva il buco che affacciava sulla camera di Eileen Galvin, era stato spostato leggermente. 
  
“Ma chi diavolo ha..?” 
  
Chi poteva averlo spostato? 
Lui no di certo, se lo sarebbe ricordato. 
Oppure… 
  
Non volle chiedersi oltre e spostò nuovamente il comodino. Rimase per un attimo perplesso nel rivedere quel buco. Una parte di sé si chiese se affacciasse ancora nella stanza di Eileen. 
Era possibile? 
Era come se qualcosa lo richiamasse, o forse era semplice curiosità. Comunque decise di dare un’occhiata veloce. 
  
Ma quel buco aveva in servo per lui più di quanto si aspettasse. 
Perché non affacciava affatto nell’appartamento di Eileen Galvin, nella sua stanza o in qualche altra ala del palazzo. 
  
Il buco affacciava all’esterno della piccola cittadina. 
  
Nella…metropolitana di South Ashfield Heights. 
  
“Ma cosa..?!” disse incredulo. Incapace di spiegarsi come potesse mai essere possibile. Eppure era proprio lì, nitida, davanti ai suoi occhi. 
  
Una sola cosa, poi, balenò nella sua testa, in quella piccola parte di sé che ancora rimaneva razionale. 
Il suo viaggio non era di certo finito. Walter presto avrebbe ripreso ad agire tramite il varco. Rimaneva quindi da chiedersi solo una cosa… 
  
…Quanto avrebbe resistito? 
  
E poi… 
  
Ne sarebbe valsa la pena opporsi? Poteva ancora sperare di fuggire via dal suo appartamento prima di venirne inglobato per sempre? 
  
[…] 
  



NDA:
 
Il capitolo è uscito davvero molto lungo. Spero troviate il tempo per leggerlo con calma. La tematica che volevo affrontare in questo capitolo era complessa e molto delicata. 
Spero di essere riuscita a comunicarvi le emozioni sia di Walter Sullivan che di Henry Townshend, anch’egli in una situazione per nulla facile.
 
Come avrete già notato, questa fan fiction per me è anche la scusa per proporvi alcune interpretazioni su Silent Hill 4. Volevo spendere giusto qualche chiarimento sul mostro doublehead. 
Abbiamo più fonti dove viene ipotizzato che questi sia un rimando ai fratelli Billy e Miriam Locane, rispettivamente le vittime 7 e 8 di Sullivan. 
Tuttavia io ho sempre avuto quest’altro tipo di interpretazione e cioè che fossero la rappresentazione dei corpi morti nella prigione circolare. 
Questi mostri, difatti, hanno degli atteggiamenti che rimandano a questo perché: 
- appaiono la prima volta proprio nella torre cilindrica. 
- sono sempre in una posizione di allerta e indicano con l’indice chiunque si avvicini o si muova (quale miglior simbolo della “vigilanza”?) 
- Il loro aspetto rimanda al testo trovato nella torre centrale, citato anche in questo capitolo, che definisce i bambini rimasti bloccati nelle celle come “fagottini grigi e puzzolenti”. Inoltre l’anatomia di questi mostri fa proprio pensare a dei corpi nascosti sotto un telo, sotto i quali non è più possibile distinguere più dove ci sia un corpo e dove un altro, tanto da sembrare che abbiamo mani al posto dei piedi e viceversa,più teste ecc… 
  
Ho voluto, dunque, proporvi questa mia interpretazione personale^^
 
Questo è tutto, ringrazio
 waltersullivan24 e Liquid King per i commenti lasciati!  
A presto, ci sentiamo con il quinto capitolo!
 
Fiammah_Grace
 
  
 

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Capitolo 5
*** La metropolitana di South Ashfield ***


  
  
CAPITOLO 05 
  
  
  
“Sul marciapiede della città le mie urla sono solo un sussurro? 
Le persone occupate vanno e vengono ovunque. 
Guardami qui, immersa sotto la pioggia. 
Non avere nessuna compassione, non importa. 
La mia resistenza sta vacillando. 
Come un fiore nel seminterrato, in attesa di una morte solitaria…” 
  
(Your Rain) 
  
  
  
[SOUTH ASHFIELD, nella periferia della città] 
  
Il sole, che filtrava dalle umide nuvole delle due del pomeriggio, accecava i vicoli trascurati della periferia di South Ashfield. La cittadina, sebbene sommariamente tranquilla, celava in quegli stretti passaggi quella parte di sé che era meglio non mostrare alla gente, abituata a vedere Ashfield pacifica e tranquilla. 
Quella parte invece era viva e palpitava nascosta in quel mondo dove la faceva da sovrano la povertà, la trasgressione e la criminalità. 
Il mondo dei bassifondi era così. La gente vi abitava e la solcava quotidianamente. Correva furtiva come topi di cantina, sotto quel sole cocente che non perdonava nessuno. 
La malasanità era tutta concentrata lì. Nei locali, sui marciapiedi, tra la gente senza futuro. 
In una di quelle traverse, si aggirava una donna dalla pelle ambrata e dalle lunghissime gambe atletiche. 
Lasciava ondeggiare il corpo in maniera elegante e seducente e sembrava non avesse paura di solcare quei vicoli trascurati. 
Ella camminava tranquilla, mostrando senza alcun indugio un corpo avvenente e una procace scollatura sul seno. Una ricca collana brillava sul suo collo e illuminava la sua figura, mentre continuava a passeggiare fieramente. La donna si fermò all’altezza di un locale sprangato da alcune travi di legno robusto. 
Provò a sbirciare un po’ oltre le piccole fessure tra una trave e l’altra, ma non vide altro se non il buio più tetro. Sembrava come se s’aspettasse di vedere il locale in quello stato e infatti di lì a poco si allontanò, tornando sui suoi passi. 
Uscita dalla traversa, si ritrovò nel bel mezzo di un marciapiede ricco di persone. Uomini, donne, bambini, automobili, moto… 
Tutti erano lì a correre frettolosamente come delle frenetiche formichine. Che avevano da correre tanto? Qualcuno sembrava anche notare quella giovane donna, ma ella ne riceveva fin troppi di sguardi indiscreti e non degnò nessuno di alcuna attenzione. Infondo…era proprio come un oggetto abbandonato, in quel momento. Lì, davanti a migliaia di persone. Tutte troppo indaffarate per raccoglierlo e portarlo con sé. Quello era un oggetto destinato a consumarsi tra quelle sporche strade meschine. 
La donna si avvicinò a una serie di scatoloni posti nelle vicinanze di un palazzo e vi prese posto. Si sedette e chinò il capo congiungendo le mani fra loro all’altezza delle ginocchia. 
Un temporale improvviso fu annunciato da un lampo che violentemente rimbombò nel cielo. Di lì a poco delle leggere gocce di pioggia cristallina cominciarono a cadere. Prima più lente, poi divennero sempre più forti. Sempre di più. 
La gente distratta continuava a correre, questa volta per davvero sembravano non avere occhi per null’altro se non per l’egoismo della sopravvivenza. Schizzavano frettolosamente da una via all’altra e da quel momento in poi, nessun uomo notò più quella donna abbandonata in mezzo la strada. 
Lei sembrò quasi sorridere per quella visione. 
Al contrario di tutti, lei non doveva correre da nessuna parte. Al contrario di tutti, a lei non importava di quella pioggia. Al contrario, il suo sorriso divenne sempre più largo e malinconico, così socchiuse gli occhi e cominciò a sussurrare una dolce melodia. 
  
 
 
Dancing alone again  
(Ballo da sola di nuovo) 
 
  
Again… 
(Di nuovo…) 
  
The rain falling 
(…La pioggia cade) 
  
Only the scent of you remains 
(solo il tuo profumo rimane) 
  
to dance with me 
(a ballare con me) 
  
Nobody showed me how to return the love you give to me 
(Nessuno mi ha mai mostrato come restituire l’amore che tu mi dai) 
  
Mom never holds me dad loves a stranger more than me 
(Mamma non mi stringe mai, papa ama più uno sconosciuto di me) 
  
 
  
I never wanted to ever bring you down 
(Io non ho mai voluto farti cadere) 
  
all that I need are some simple loving words 
(tutto ciò di cui avevo bisogno, erano delle semplici parole d’amore) 
  
 
  
 
 
La pioggia continuava a cadere e le palpebre oramai erano umide e fredde, così come il resto del suo corpo. Solo la sua gola vibrava ancora, mossa da quei dolci sentimenti che cullavano la malinconia. 
  
“Sono delle splendide parole.” 
  
La voce di un uomo sussurrò suadente, mentre la sua figura si portava di fronte la ragazza rannicchiata su quello scatolone sul marciapiede. 
  
“Puedo saber quién está hablando?” disse lei alzando gli occhi, sorridendo disinteressata. 
  
Egli era un uomo molto alto, con un lungo cappotto blu, ed era davanti a lei a guardarla immobile, con un lieve sorriso disegnato sul volto. Dopo un breve silenzio schiuse le labbra appena e chinò il capo verso di lei mostrandole, da sotto i capelli biondi che cadevano sulla fronte, dei luminosi occhi verde chiaro. 
  
“Nonostante il tempo, ascolto sempre la tua voce con incanto, Cynthia.” le disse. 
  
Cynthia Velasquez inarcò le sopracciglia, come stregata da quell’uomo dall’apparenza trascurata, eppure da un volto così bello e penetrante. 
Lo guardò con più attenzione, cercando di capire dove lo avesse già incontrato. 
  
“Conosci il mio nome? Non sarai uno dei miei ammiratori che, segretamente, mi spia al Night Club?” lo provocò lei. 
  
L’uomo a quelle parole sorrise appena. Scostò una ciocca di capelli dal viso che andò a battere sul collo assieme alle altre ciocche. 
  
“Ho già ascoltato le tue canzoni nei bassifondi.” 
  
La donna dai capelli castano scuro rise nell’udire quella risposta e si alzò. Guardò il ragazzo biondo scrutandolo dalla testa ai piedi con fare decisamente indiscreto. Lo esaminava ammiccante e sembrava davvero interessata di vederlo così tranquillo, a guardarla per nulla turbato dai suoi atteggiamenti. 
Poggiò una mano sul suo petto e gli rivolse i suoi occhi color nocciola, contornati da un vistoso ombretto color magenta e dalle lunghe ciglia infoltite dal mascara. 
  
“…mmmm…sei davvero carino.” gli si rivolse e allungò le mani sempre di più verso il suo viso. “Peccato che tu non vesta un bell’abito e abbia un’aria così trascurata, altrimenti sarei anche potuta uscire con te, lo sai?” 
  
Lui sorrise appena e continuò ad osservarla, non allontanando lo sguardo da lei, tant’è che la ragazza fu molto incuriosita da quell’atteggiamento. 
Lei che era una provocatrice, lei che riusciva a tentare gli uomini solo con uno sguardo. Lui invece era lì e sembrava come se conoscesse perfettamente le sue strategie. 
  
Quel che stava avvertendo Cynthia, nell’incrociare quegli occhi irriverenti, era inconcepibile, irrazionale… 
Come se…assurdamente…lui… 
  
…lui la conoscesse. 
  
  
Non una semplice conoscenza. 
  
  
Era come se conoscesse la sua anima. 
Come se potesse leggerci direttamente dentro. 
  
Si allontanò da lui leggermente turbata. Continuò comunque a scrutarlo, cercando di mascherare il suo reale disagio. Prese a camminare, inoltrandosi in quella strada trafficata e caotica. L’uomo la seguì e Cynthia gli si rivolse. 
  
“Sei quindi già venuto al Night Club dove mi esibisco? Allora che ne dici se ti faccio un regalo?” 
A quel punto Cynthia gli fece una proposta. “Stasera mi esibisco, ma con quegli stracci non potresti mai entrare, però se dico al capo che sei con me, la cosa si può fare.” 
  
L’uomo dai capelli biondi strinse gli occhi in modo dolce, con un’espressione beata. 
  
“Volentieri. E’ da te, qualcosa di simile.” aggiunse. 
  
Cynthia ebbe un terribile brivido addosso, nell’udire quelle parole. Era come se, sorridendole, lui volesse quasi dimostrare che si aspettasse perfettamente da lei una reazione simile. 
Tuttavia com’era possibile? Lei, quell’uomo dal cappotto blu, non lo aveva mai visto prima di allora. Come si spiegava una cosa del genere, dunque? 
Ancora una volta cercò di non dar peso a quella sensazione di inquietudine, e si avviò invece nel locale della periferia, dove presto avrebbe dovuto andare a lavorare. 
La pioggia continuava a scendere incessante. 
  
  
  
“Un leggero fiore delicato, in quel momento, era stato abbandonato lungo il marciapiede dal destino e attendeva solamente quella dolorosa morte solitaria. 
La pioggia, che incessante batteva, lo avrebbe annegato e trascinato verso il vuoto, verso il nulla più profondo. 
Eppure quel fiore credé per un attimo che la pioggia desiderasse soltanto salvarlo e volesse donargli un po’ di quell’ amore mancato… 
…e si lasciò dunque trascinare.” 
  
  
  
  
*** 
  
[APPARTAMENTO 302, in cucina. South Ashfield Heights] 
  
Henry Townshend non mangiava da giorni. Questo perché semplicemente era da tempo che non riusciva più ad assecondare gli stimoli della fame. 
Da quando erano iniziati gli incubi, non era stato capace di sedersi una sola volta a tavola e godersi un sano pasto completo. 
L’ultima volta che aveva tentato di metter giù un boccone, si era allungato verso i mobili bianchi della cucina e aveva cercato qualcosa di commestibile in scatola. Non era sua abitudine fare della spesa ultimamente e dunque andava benissimo qualsiasi cosa. Tuttavia, una volta aperto quel barattolo con l’apriscatole, uscì un tanfo così terribile che fece nauseare completamente il giovane abitante dell’appartamento 302. 
Disgustato, guardò il retro del barattolo mentre lo avvicinava alla spazzatura. Vi era scritto che era scaduto già da due anni. 
L’aveva comprata quando si era appena trasferito!? 
Quell’ultimo tentativo, comunque, gli bastò per evitare di cucinare qualcosa nei giorni a venire. 
  
A questo punto sembra abbastanza ovvio comprendere quanto rimase disgustato anche in quel momento, quando finalmente aveva ripreso la vana voglia di gustare qualcosa dopo giorni, di ritrovare ad attenderlo nel mobile una serie di alimenti belli ammuffiti pronti per lui. 
  
“Tsk…mi è passato di nuovo l’appetito.” 
  
Chiuse il mobile violentemente e si diresse, nauseato, in camera sua. Le cose andavano terribilmente male in quel periodo e non ne poteva più. Aveva bisogno di rilassarsi assolutamente, non poteva continuare in quel modo. 
Oltrepassò la serie di banconi bianchi e si poggiò vicino al muro del salotto. Guardò apatico le pale del lampadario girare mentre la sua mente cominciò a vagare. 
Perché era così difficile per lui tornare alla normalità? 
Oramai continuava a chiederlo quasi con ossessione. Più passavano i giorni, più entrava negli incubi, e più quella domanda diveniva per lui solo una scusa per non impazzire. 
Il suo sguardo, in quel momento, cadde sulle fotografie poste sul comodino affianco a lui. Le guardò appena e avvertì una forte nostalgia in corpo. 
Non aveva molte fotografie personali, più che altro, Henry fotografava paesaggi, ambienti che per lui avevano significato qualcosa… 
Ma per quanto riguardava foto inerenti alla sua vita, Henry non aveva mai conservato nulla. Non vi era una foto dei suoi amici, di sua madre, di suo padre, di nessuno… 
Ne aveva solo due. 
Una che lo ritraeva da bambino e una durante la cerimonia della maturità. Fissò il suo sorriso innocente, quello di quando era ancora così giovane e salì la rabbia in corpo. 
Quel sorriso…era una menzogna. 
Lui non aveva avuto un’infanzia felice, come quel bambino lì ritratto lasciava credere. L’uomo lascia tracce di sé nel mondo, ma non sempre le tracce riflettono la realtà nella sua crudezza più sincera. 
Henry afferrò istintivamente la foto di laurea e anche quella non era capace di trasmettere nulla per lui, se non una profonda rabbia. 
Guardò il se stesso di qualche anno prima mentre festeggiava la maturità con i colleghi e rimase a fissare quel vetro lasciando partire nella sua mente molteplici ricordi. 
  
Egli aveva studiato all’università di Pleasent River, ed era lì dove, solitario, qualcosa cambiò nella sua mente. 
Aveva alla lunga trattenuto quegli istinti, ma oramai erano già da tempo vivi, palpitanti dentro di lui. 
Pulsavano, pulsavano forte. 
E oramai…non c’era più nulla da fare. 
Non poteva essere più fermato. 
  
Henry cominciò a provare una grandissima rabbia e senso di incomprensione. Se solo… 
  
Se solo non fosse stato così solo e abbandonato... 
…tutto quello non sarebbe mai successo. 
Ricordava i verdi prati del campus, dove passava gran parte del suo tempo. 
  
E…lui… 
  
Il bruno all’improvviso sgranò gli occhi e prese a tremare. 
  
Nella sua mente cominciarono a pulsare sempre più forti delle emozioni mai provate prima. Erano emozioni di grande rabbia e devastazione. La devastazione di chi covava una profonda vendetta verso il mondo intero. 
E un ragazzo biondo, alto, con gli occhi verde chiaro, di colpo apparve nella sua mente, seduto su quel prato. 
Il suo sguardo oramai era già disincantato. A quel tempo, l’assassino Walter Sullivan era già nato e nessuno avrebbe mai potuto fermarlo. 
  
“Ah! La testa..!” 
  
Henry urlò, avvertendo una terribile fitta al cervello che lo costrinse in ginocchio. Portò una mano sul capo e si coprì il viso dolorante. 
Il dolore passò solo dopo una manciata di secondi e Henry si sentì terribilmente confuso. 
  
Lui…cosa aveva ricordato? 
Quelli..non erano i suoi ricordi! Né i suoi sentimenti…Cosa diavolo era accaduto? 
Prese a riflettere fra sé. 
  
“Io non ho frequentato il campus di Pleasent River…” disse con voce sottile, scostando la mano dal viso. 
  
Si accasciò definitivamente a terra e cominciò a respirare profondamente. 
Anche se visibilmente più giovane, non aveva alcun dubbio. Aveva visto Walter Sullivan nella sua mente. 
Ma quello era un ricordo che non poteva assolutamente appartenergli. Com’era possibile? 
  
“Cosa mi sta accadendo?” 
  
Vedeva e sentiva emozioni che mai avrebbe potuto conoscere, ne che facessero parte in qualche modo della sua vita. 
Tutto si ricollegava, invece, alla folle figura di Walter Sullivan. 
Persino i suoi ricordi, adesso… 
  
Ispirò nuovamente, facendo di tutto per non crollare. In quel momento non poteva farlo. Eppure sentiva che le forze lo stavano abbandonando sempre di più. 
Non aveva il coraggio di chiedersi realmente perché. Aveva paura di scoprire la terribile verità dietro i suoi viaggi. 
  
Dietro il suo essere ricevitore di saggezza. 
  
Quando lo avrebbe saputo, sapeva che non avrebbe avuto più scampo. Tuttavia si ritrovava ancora in quel tunnel e non poteva far altro che proseguire. 
Se non fosse stato lui, sarebbe stato Walter a raggiungerlo. Henry non poteva sottrarsi. 
  
Girò lo sguardo e solo allora la sua attenzione ritornò al buco in salotto. 
Era turbato. Si chiedeva cosa dovesse fare, ma allo stesso tempo, aveva paura di andare a controllare. Non che avesse tanta scelta, in verità. Si avvicinò appena e decise di affacciarsi. 
  
I suoi occhi scorsero nuovamente la metropolitana sotto casa sua. 
  
Vedeva l’interno del treno, come sempre. 
Da quella mattina non faceva che osservare quello scorcio e nulla era cambiato. 
Dei grossi reticolati si scorgevano appena e incatenavano saldamente dei fantocci bianchi mutilati. Erano senza il capo e nessuno rappresentava un soggetto in particolare. 
Si trattavano di busti, gambe, braccia… 
Tutti erano buttati lì, come inchiodati a quel treno immobile. 
  
Solo un dettaglio accomunava tutti quei fantocci e parti dell’anatomia umana…erano tutti appartenenti a una donna. 
  
Era inequivocabile quel dettaglio e traspariva in ogni fantoccio che poteva scorgere. Era terribile, quasi sentiva l’ansia assalirlo. 
Perché, anche se solo dei fantocci, sembravano quasi soffrire anch’essi della loro stessa ingrata condizione. 
  
  
Drii-driii… 
  
  
“C-cosa?” 
  
Il telefono squillò all’improvviso ed Henry fu costretto ad alzarsi e ad allontanarsi da quel foro. Si chiese chi poteva mai essere a quell’ora del pomeriggio. 
Il cuore prese a battere forte, ma corse ugualmente verso la camera da letto. Si avvicinò al telefono posto sul comodino accanto al letto e alzò la cornetta mentre prese posto sedendosi sul materasso. 
  
“Pronto?” chiese con voce bassa. 
  
Henry corrucciò le sopracciglia quando si accorse che dall’atra parte non stava rispondendo nessuno. Dall’altro lato del telefono, sentiva solo la linea terribilmente disturbata. Eppure, aveva come la sensazione di sentire il respiro di qualcuno. Era uno stupido scherzo di qualche ragazzino? 
  
“…pronto?” richiese. 
  
La voce che gli rispose, tuttavia, non era quella ridacchiante di qualche teppistello. Era l’affannata voce di una donna. 
Henry sgranò gli occhi quando udì quella voce, quasi terrorizzata ed esausta. 
Poteva avvertire l’ansia di quella donna solo udendone la voce. Ella disse solo una parola, chiara, prima di riattaccare il telefono. 
  
“…aiutami.” 
  
“…pronto? Chi è che parla? Signorina!” urlò lui. 
  
Guardò la cornetta del telefono, udendo il segnale che indicava che la chiamata era terminata. 
  
“Dannazione…” disse. 
  
Riattaccò il telefono anch’egli. Chi poteva mai aver chiamato? Che cosa voleva? Come aveva ottenuto il suo numero? 
Subito le sue labbra si mossero da sole, spontanee, mentre la mente ancora non riusciva a spiegarsi il perché. 
  
“Cynthia..?” disse. 
  
Non ne era certo ma… 
La voce sembrava proprio la sua. 
Cynthia Velasquez era una donna estroversa che Henry aveva conosciuto per brevissimo tempo, eppure questo gli era bastato per renderla incancellabile dalla sua mente. Il perché non lo sapeva nemmeno. Fatto sta che quella voce più ci pensava, più gli sembrava proprio la sua. 
  
“Ma non può essere lei…perché Cynthia…” 
  
Cynthia era morta. 
  
Chiudendo gli occhi aveva ancora davanti a sé quella terribile scena, per giunta avvenuta in un momento nel quale era incapace di comprendere il perché di quel brutale destino. 
Una volta levata via la placca con su scritto ‘tentazione’ , egli entrò nella porta e le parlò per l’ultima volta. 
Il sangue che trovò dinanzi a sé aveva sporcato l’intero ufficio della metropolitana, macchiando di rosso finestre, sedie, documentazioni, pavimento… 
E il tutto convergeva nella figura di Cynthia stesa a terra. Lei aveva paura, e aveva freddo. 
  
Henry comprese subito che stava morendo. 
Eppure Cynthia cercava di non dar peso a quelle emozioni. Sentiva che non stesse davvero accadendo. Perché, semplicemente, non poteva crederci. 
  
Riportò alla mente la loro prima conversazione, avvenuta vicino le scale mobili della metropolitana. 
  
  
“Quindi…tu credi che questo sia un sogno?” le chiese Henry. 
  
“Se questo non è un sogno, allora cos’è?” gli rispose lei suadente, incapace anche in quel momento di capacitarsi della situazione. 
  
  
Anche nel momento della sua morte, quel freddo…lei… 
Era stata incapace di accettarlo. 
  
  
“Questo…è solo un sogno, vero? Devo…devo aver bevuto troppo l’altra notte…Io, ah…mi sento di morire.” 
  
“Tranquilla, è solo un sogno.” 
  
  
Cynthia allora si spense. 
Henry non aveva potuto far altro che credere con lei che quello fosse solo un terribile e macabro incubo. 
Magari fosse stato davvero un sogno…invece era accaduto davvero. 
Inspiegabilmente, Cynthia era morta in quella metropolitana e nessuno avrebbe mai potuto salvarla. 
Henry non aveva più voglia di ricordare. Semplicemente non ne poteva più. E Cynthia…era uno di quei ricordi che più lo tormentava. 
  
Alzò il capo e guardò in direzione della porta. 
Si chiese se quella chiamata non avesse voluto proprio fargli rievocare quella giovane donna con gli occhi ancora rivolti al futuro, così pieno di promesse e speranze. 
Una parte di sé capì che era esattamente così, ma avvertì un forte turbamento che gli impediva di accettare che fosse giunto il momento di ricapitolare la sua storia con Cynthia. 
Inspiegabilmente, non era affatto pronto nell’affrontare quella parte dell’incubo. 
Così Henry si sdraiò sul letto e decise di ignorare quella telefonata. Guardò apatico il soffitto e si sentì affranto, terribilmente sfiduciato. 
Non aveva il coraggio di entrare nella realtà parallela. E non era solo per via dello stress. Era perché era terribilmente inutile. 
  
Era inutile perché… 
Tanto lui… 
  
  
Non avrebbe comunque potuto far niente per salvarla. 
  
  
*** 
  
[SOUTH ASHFIELD, in un Night Club della periferia] 
  
“Te ha gustado?” 
  
Cynthia si avvicinò al tavolino di legno, dove era seduto nella penombra il giovane dai capelli lunghi e biondi. 
Fino a quel momento era sembrato assorto nei suoi pensieri, mentre beveva distrattamente un bicchiere di liquore economico. 
Lei poggiò i gomiti sul tavolino e lasciò scivolare il viso sul dorso delle mani. 
Guardava quel tipo con curiosità. Una curiosità che sembrava essere ricambiata. 
Lui allontanò la sigaretta dalla bocca e lanciò via il fumo, per poi spegnere la cicca nel portacenere. 
Cynthia sorrise, quel tipo di uomini le piacevano. Alti, con uno sguardo arrogante e sicuro, con la sigaretta. Anche se visibilmente era uno straniero dall’aria trascurata, lei non era mai stata tipo da tirarsi indietro. 
Il biondo la stava ancora osservando con discrezione, mentre lei noncurante sfilò dalla mano di lui il bicchiere di liquore e bevve un sorso. 
Poggiò le labbra carnose, inscurite dal rossetto rosso, sull’orlo del bicchiere in vetro, pressandole finché non sentì il forte sapore dell’alcolico. 
L’uomo sorrise appena mentre lei ammiccò in quella penombra. 
  
“Sei l’ultimo cliente rimasto, lo sai?” 
  
Cynthia girò il capo a destra e a sinistra facendo notare che il locale fosse già completamente vuoto, ad eccezione di loro due. 
Anche le luci del palco erano oramai spente e Cynthia aveva persino avuto modo di cambiarsi e di indossare i suoi abiti normali. L’uomo biondo comunque non le rispose, si limitò ad osservarla in silenzio. Poggiò il braccio sullo schienale della sedia in legno e si adagiò mentre, con l’altra mano, prese a sfiorare l’orlo del bicchiere di vetro con l’indice. 
Lei, vista la sua reazione, rise e sdraiò definitivamente il busto sul tavolo. 
  
“Ah…ah! Sei un tipo interessante, tu. Dov’è che ci siamo già conosciuti?” gli chiese. 
  
Il biondo le rispose con voce bassa e interessata. 
  
“Non pensavi fossi un tuo ammiratore?” 
  
“Mi ricorderei di uno come te. Andiamo, non fare il misterioso.” lo provocò lei. 
  
A quel punto, lui rise appena. Sembrava sinceramente intenerito da quella ragazza spontanea e superficiale. La guardava mentre lei prendeva a scrutarlo in maniera irriverente, quasi a vedere se egli si tradisse in qualche modo. 
Walter così poggiò il mento sul dorso della mano e inarcò le sopracciglia mostrandole il suo completo disinteresse nel risponderle. Come si aspettava, Cynthia rise di nuovo, sempre più divertita. Continuò imperterrita a porgli domande su domande. 
Domande alle quali lui rispose a sillabe. Cynthia riuscì ad ottenere da lui a stento il suo nome. 
  
Parlarono per diverso tempo, o meglio, fu Cynthia a raccontare di tutto e il biondo la ascoltò senza fiatare, come se fosse incantato dal modo di fare di lei, così estroverso e diverso da lui. 
La bruna s’interruppe solo dopo un po’.  Bevve un altro sorso e finì l’alcolico. 
  
“Quindi ti chiami Walter, giusto? Da dove vieni?” 
  
“Da nessuna parte.” 
  
Cynthia, nonostante fosse leggermente brilla, rimase perplessa di quella risposta. 
  
“Una casa l’avrai, no? Sarai arrivato qui da qualche parte..!” 
  
Walter scosse la testa. 
  
“Temo di doverti deludere ancora, Cynthia. Non ho mai avuto una casa.” 
  
“Un vagabondo, quindi? Cavolo…perché ti sto parlando allora? Ah, ah…scherzo!” disse, sentendosi completamente sfinita e leggermente turbata. 
  
Quell’uomo… 
Chi era per davvero? 
Aveva la terribile sensazione che la stesse prendendo in giro, ma non aveva elementi per dire il contrario. Rise ancora, cacciando quei cattivi pensieri, e fece per alzarsi. Traballò appena ma per fortuna riuscì a mantenere l’equilibrio. Guardò Walter e gli indicò la porta con gli occhi. 
  
“…Ora devo chiudere. È davvero tardi. Guarda che se la prenderanno con me. Non vorrai farmi sgridare dal capo, vero?” 
  
A quel punto Walter fece per alzarsi. Infilò nuovamente il cappotto blu scuro e si diresse verso l’uscita con lei. 
Cynthia attese che lui uscisse e poi chiuse la porta del Night Club della periferia. Si girò per andare via, ma vide che Walter era ancora li affianco a lei. 
  
“Te l’ho detto. Sei carino, ma non siamo fatti per stare assieme. Sarà meglio che tu vada.” 
  
Lei sospirò. Di uomini che le ronzassero intorno ne aveva fin troppi e un altro, per di più senzatetto, certamente non le serviva. Anche se era di bell’aspetto. 
  
“Presto tornerò a casa mia, Cynthia. Non è lontana da qui, lo sai?” le disse lui, all’improvviso. 
  
La bruna corrucciò lo sguardo. 
  
“Non avevi detto di non averla, una casa?” chiese. 
  
Lui annuì, confermandole ciò che aveva detto in precedenza. 
  
“E’ vero. Però casa mia esiste, e per tornarci…io ho bisogno di te.” aggiunse. 
  
“Non sono una ladra, se è questo ciò che intendi.” 
  
Walter pazientò e le sorrise. La guardò intensamente facendola quasi sussultare. Socchiuse le labbra e sussurrò delle parole. 
  
“Non sei una ladra, Cynthia. Tu sei molto meglio di una ladra.” la indicò con l’indice della mano. “Tu mi farai entrare nell’appartamento di South Ashfield Heights. Non è lontano da qui, dico bene?” 
  
Cynthia scosse la testa, completamente confusa e disorientata. Quell’uomo che diavolo stava dicendo? Probabilmente stava solo bleffando, o aveva bevuto troppo. Tuttavia guardando i suoi occhi, luminosi e intensi, aveva l’impressione che egli sapesse perfettamente cosa stesse dicendo. Continuava a guardarla fisso, ininterrottamente, con quegli occhi che brillavano quasi, in quel vicolo celato dalla notte scura. 
Lei cominciò ad avere delle forti palpitazioni, adesso avendo paura di quell’uomo che aveva di fronte a sé. 
  
“Tu sei completamente pazzo. Oggi ti ho fatto un piccolo regalo, ma non sperare in un appuntamento con me, adesso.” 
  
Frettolosamente, fece per andare via, ma immediatamente Walter le afferrò un polso con le sue robuste mani, mostrandole una forza inaspettata. Cynthia cercò di divincolarsi, ma il biondo sembrava non voler affatto lasciarla scappare. 
Scosse il braccio più volte e si sentì nel panico. 
  
“Mi fai male, lasciami!” 
  
Con la mano libera, fece per mollargli uno schiaffo, ma lui le bloccò prontamente anche l’altro polso, ridendole in faccia alla vista del suo sguardo sgomentato. 
Cynthia prese a strillare, ma nessuno, in quello stretto vicolo sarebbe mai corso in suo aiuto. 
Walter rise ancora. Più Cynthia sembrava andare in panico, più lui stringeva la presa e l’avvicinava a sé. Allungò il volto verso quello di lei e la guardò incessante negli occhi. 
  
“Mi porterai dalla Santa Madre, Cynthia. E la incontrerò proprio qui, a South Ashfield.” l’avvicinò ancora di più, fino a sentire il suo respiro affannato. 
Era estasiato da lei, dal suo sguardo che, anche se terrorizzato e arrabbiato, era incredibilmente suadente. “Oh, Cynthia…sei bellissima. Ogni volta che guardo i tuoi occhi…capisco perché io…io ti ho scelta…” 
  
La ragazza era oramai paralizzata da quello sguardo folle, vitreo e intenso. Walter le lasciò un polso per portale la mano sul suo viso. La accarezzò delicatamente e sorrise, avvicinando poi le labbra a quelle della donna che rimase immobile, con lo sguardo perso e sgomentato. 
Walter lasciò scivolare la mano dal viso alla schiena di lei e la cinse violentemente per baciarla. La sua bocca esplorò intensamente la sua Cynthia, mentre ella si rendeva sempre meno conto di ciò che stesse accadendo. 
La sua tentazione era caduta a sua volta nella ragnatela del carnefice, in quel bacio violento e agognato. 
Sospirò intensamente lasciando che anche il fiato affannato di Cynthia soffiasse sulla sua pelle, mentre avvertiva quasi il respiro venir meno. 
Cynthia chiuse gli occhi e fece di tutto per sottrarsi a quel bacio e la paura prese il sopravvento. 
L’ansia continuava a crescere incessante e così scaraventò via Walter che, con la bocca ancora schiusa, le sorrise soddisfatto. 
  
“La tentazione. Non sai quanto ti amo.” le disse. 
  
Cynthia aveva ancora il respiro affannato. Lo guardò con gli occhi sgomentati e la rabbia di una ragazza di strada in corpo. 
  
“Ti sembro il tipo di donna che accetterebbe di frequentare uno come te?! Fai schifo!” gli urlò, avvertendo la pelle scaldarsi terribilmente. 
  
A sua grande sorpresa, però, Walter non si risentì. Anzi, cominciò a ridere di gusto. Una risata angosciante per Cynthia, in quel buio per nulla rassicurante. 
  
“Eh, eh…Proprio come l’ultima volta. Non sei cambiata granché negli ultimi sedici anni.” le disse, trattenendo a stento il ghigno diabolico. 
  
“Sedici…anni..?” disse lei, sotto shock. 
  
Qualcosa nella sua mente prese a vibrare forte e delle vertigini percorsero il suo corpo, facendola quasi venir meno. 
  
Quel volto… 
Quella risposta… 
  
Lei l’aveva già incontrato. Se ne era ricordata solo adesso. 
Era come se la sua mente avesse all’improvviso ripescato un ricordo lontano e rimasto offuscato fino a quel momento. 
  
No… 
  
Non era possibile. 
Non poteva essere vero. 
  
  
*** 
  
  
  
“…Toccasti il mio corpo, un giorno, e ancora brucia dolcemente. 
Io non dimenticherò quel che non può più esserci. 
Nella mia mente piango senza trovare nulla. 
Più e più volte sento qualcosa dentro di me distruggersi…” 
  
(Your Rain) 
  
  
  


16 anni prima… 
  
  
[SOUTH ASHFIELD , Nella metropolitana.] 
  
Cynthia era appena una tredicenne, a quel tempo. 
La pelle ambrata e le lunghe gambe snelle la facevano apparire più grande delle sue coetanee e questo attraeva molti ragazzi di Ashfield. 
Inoltre… 
Cynthia era bellissima. Ella, con un carattere mondano e frizzante, già allora ostentava senza problemi il suo fascino, pienamente consapevole e disinvolta del suo apparire. 
Era finito da poco il doposcuola e la bruna si trovava nei pressi del sottopassaggio della metropolitana, non lontana dagli appartamenti di South Ashfield Heights. Allungò un braccio e richiamò i ragazzi che erano con lei, che la seguirono all’unisono. 
  
“Hai fatto i biglietti?” chiese uno di loro. 
  
“Che importa? Per King Street sono due fermate e basta.” rispose lei noncurante, estraendo dalla borsa un lucidalabbra colorato che stese velocemente sulle labbra carnose. 
  
Osservò la sua figura nello specchietto e strinse le labbra fra loro, lasciando che il lucidalabbra si sistemasse in maniera uniforme. Posò tutto in borsa, prendendo delle decollete rosse che infilò sotto gli occhi perplessi dei suoi compagni di classe. Corse poi velocemente per la scalinata mostrando una grandissima disinvoltura con quel look, nonostante la giovanissima età. 
Una volta giunti ai binari, Cynthia estrasse la tessera e assieme agli altri fece per oltrepassare le sbarre e raggiungere la metro. 
  
“Abbiamo ancora qualche minuto, Cynthia.” 
  
La ragazza dunque si avvicinò allo spiazzale e portò le mani sui fianchi curvilinei guardando attorno a sé. 
  
A quell’ora non c’era molta gente per cui non fu difficile, per i ragazzini, scorgere nuovamente quell’uomo. 
  
Non sembravano particolarmente sorpresi di vedere quella figura, perché l’uomo in questione era ben conosciuto da chi viveva in zona. 
Veniva infatti spesso visto aggirarsi da quelle parti, talvolta persino dormendo nella metropolitana, avvolto in un sacco a pelo. 
Aveva un’apparenza giovane. Dall’aspetto sciatto e dagli abiti trascurati, trasmetteva un’idea inquietante che allontanava la gente. 
Inoltre, ogni qual volta Cynthia si ritrovasse a guardarlo, egli sembrava sempre contraccambiarla, come se non facesse altro che fissarla timidamente da lontano. 
  
Quel giorno, invece, la bruna vide quell’uomo avvicinarsi per la prima volta, all’improvviso. Nemmeno ci fece caso e subito sbandò quando se lo ritrovò così vicino. 
  
"S...Scusa...mi" le disse lui con un filo di voce. 
  
Cynthia era ancora molto sorpresa e continuava a osservarlo incredula. Lui intanto continuò. 
  
"Ecco....quell'appartamento..lì....la stanza 302..." 
  
Alzò la mano e fece per indicare in direzione degli appartamenti di South Ashfield, quando uno degli amici di Cynthia allontanò la ragazza da vicino l’uomo. 
  
"Chi diavolo è questo pezzo di merda?" intimò. 
  
“Andiamo, fatela finita.” rispose lei, cercando di non far perdere a nessuno la calma. 
  
“Non farti scocciare da lui.” 
  
Gli amici la presero per le spalle e l’allontanarono. 
Mentre facevano per trascinarla lontana da lui, l’uomo prese nuovamente parola. 
  
“Vengo da Silent Hill…” 
  
Cynthia si ritrovò in quel momento ad incrociare gli occhi verde chiaro del giovane e, per la prima volta, si rese conto che, esclusi i capelli biondi scomposti  e gli abiti ingombranti, doveva essere abbastanza giovane. All’incirca diciotto anni, poco meno o poco più. 
Tuttavia lo ignorò e seguì i suoi compagni di classe che si tenevano a distanza da lui. Girò i tacchi e ancheggiò noncurante nei pressi del sottopassaggio che portava ai binari. 
  
“Non parlategli. Stategli lontano, okay?” aggiunse per rassicurarli. 
  
“Aspetta, Cynthia!” disse il vagabondo, cercando di trattenerla. 
  
A quel punto lei si voltò. 
Furono inutili le preoccupazioni degli amici che la invogliavano a non avvicinarsi. 
Con pochi passi spediti, infatti, lei fu di nuovo di fronte a quell’uomo. 
Lei alzò lo sguardo e allungò la mano destra verso il suo viso senza alcun remore. La sua mano era affusolata e delicata, con le lunghe unghie laccate di rosso. 
Esse creavano un forte contrasto con la pelle trascurata di lui, con un accenno di baffi e barba incolta. 
  
"Ehi, mi hai fraintesa.” gli disse. “Sei carino....ma questo non vuol dire che io ti ritenga attraente." 
  
Lo continuò ad osservare imperterrita, sorridendo leggermente ammiccante. Era ben conscia di lasciare gli uomini incantati con il suo aspetto ed era una consapevolezza che viveva con grande scioltezza nonostante i suoi tredici anni. Un tipo di scioltezza che, ancora una volta, non la faceva apparire una ragazzina, qual’era invece nella realtà. 
Riprese parola, sotto gli occhi del ragazzo che fuggivano e venivano a lei. Cynthia avvertì chiaramente che egli fosse poco abituato alla vicinanza delle persone.
  
"I tuoi vestiti, poi, sono sporchi, e puzzano...Pensi che siano cose che interessano ad una ragazza come me? Non esiste.” sospirò, poi aggiunse corrucciando appena la fronte. “Inoltre...come diavolo fai a conoscere il mio nome?" 
  
Egli rispose subito. 
  
 "Ah...b..beh...sono passati circa dieci anni da quando udii il tuo nome." 
  
Dopo aver sentito questo, Cynthia tolse repentinamente la sua mano dalla guancia del ragazzo. 
Che diavolo stava dicendo? Era per caso pazzo? 
Lo squadrò dalla testa ai piedi, mostrando chiaramente il suo disgusto. 
  
"Dieci anni? Mi hai spiato qui per dieci anni?? Ma fai schifo!" 
  
A quel punto Cynthia schizzò via da lui e scese le scale fino a raggiungere la piattaforma sottostante. 
La bruna sbuffò, leggermente turbata dalle parole di quel tipo. Preferì comunque non rendere partecipi gli amici del suo turbamento. Che cosa ne sarebbe stata della sua reputazione, poi? 
  
"Uff…non è il mio giorno. Che sfortuna incontrare un tipo del genere. Oh, beh...Devo decisamente andare a divertirmi. Credo che andrò in un night club." dichiarò ai suoi amici. 
  
"Non di nuovo, Cynthia...Passerai dei guai se scopriranno la tua età!" 
  
"Non preoccupatevi...non lo noteranno." disse lei infine e si avvicinò alla linea gialla cacciando nuovamente lo specchietto dalla borsa. 
  
Intanto, il giovane biondo era rimasto lì, esattamente dove aveva incontrato Cynthia. Osservava ancora, incantato, nella direzione in cui l’aveva vista sparire. 
Lei non lo sapeva… 
…ma lui la conosceva già da tempo. 
  
“Cynthia…” sussurrò. Guardò verso l’uscita della metropolitana e indicò nuovamente nella direzione che aveva indicato anche a lei. "Ecco....quell'appartamento..lì....la stanza 302...South Ashfield Heights." 
  
Socchiuse gli occhi e rimase immobile, per qualche attimo, sotto gli occhi minacciosi e intimidatori della gente. 
Egli stava riportando alla mente dei ricordi lontani. Dei ricordi che uno come lui non avrebbe mai dimenticato. Lui che aveva vissuto nella Wish House. Lui che aveva vissuto a Silent Hill. Lui…perché era Walter Sullivan e conservava preziosamente ogni  ricordo. 
  
  
10 febraio
Sono nuovo andatto a Ashfeeld.
Dinuovo no ho trovatto mamma.
Alcune ragasse cative sul treno mi anno deto cose cative e mi anno spaventato.
Lui mi ha picchiati dinuovo. 
  
(scritta rossa nella foresta di Silent hill) 
  
  
  
Eppure lui, Cynthia… 
L’aveva sempre trovata perfida e… 
Bellissima. 
  
  
*** 
  
  
[SOUTH ASHFIELD, nella periferia della città] 
  
L’uomo biondo con il cappotto rideva. Rideva velatamente, ma questo bastava per incutere terrore negli occhi della sventurata donna di fronte a lui. 
Cynthia portò una mano sulla bocca, terrorizzata all’idea di avere di nuovo, dinanzi ai suoi occhi, lui. L’uomo della metropolitana di South Ashfield. 
Walter rideva ancora, passando la lingua fra i denti come se stesse gustando le intense emozioni di Cynthia. 
  
“Io mi sono innamorato di te.” 
  
Con passi pesanti, si avvicinò a lei, rivolgendole quello sguardo sinistro ed intenso, eppure in qualche modo estasiato da quella donna che invece era paralizzata, poggiata al muro fatiscente del locale. 
  
“Innamorato? Non scherzare e vattene!” gli intimò, con voce tremante. 
  
“Ora sono venuto a prenderti. Non avere paura.” le disse. 
  
L’uomo, incurante, continuò ad avanzare e Cynthia cominciò a sentire il cuore palpitare così forte tanto da credere che potesse scoppiare. Istintivamente caricò sulle braccia tutta l’energia che aveva in corpo e scaraventò via Walter per scappare più velocemente possibile. 
Corse per le vie trascurate della periferia, in quel buio opprimente, facendo cadere all’aria gli scatoloni che trovava dinanzi a sé. Ruppe il tacco della scarpa non appena finì in una mattonella rotta, ma questo non le impedì di scappare e cercare un riparo lontano da quel folle. 
  
L’uomo smise di ridere e guardò intensamente nella direzione in cui era sparita Cynthia. Alzò poi il capo verso il cielo e osservò le numerose stelle. 
  
“16/21… Il Terzo Segno. E Dio disse, torna alla fonte attraverso la tentazione del peccato.” 
  
Chiuse gli occhi nuovamente, mentre altri occhi verdi si spalancarono, terrorizzati, nello stesso istante. 
  
  
*** 
  
  
[APPARTAMENTO 302, in camera da letto. Appartamenti di South Ashfield Heights] 
  
Due occhi verdi si spalancarono, terrorizzati, rimanendo a fissare il soffitto. 
  
“Ah!” 
  
Henry si alzo e portò la mano sul viso, ancora incredulo dell’incubo appena fatto. Allontanò lentamente la mano, mentre si capacitava sempre di più della sua visione. 
  
“Non era un sogno, quello…” mugugnò. “Oh, mio Dio…Cynthia…” 
  
In quel momento si alzò dal letto e fece per dirigersi verso il varco nel suo ripostiglio. Qualcosa, tuttavia, lo fermò proprio mentre stava girando il pomello della porta. Rimase immobile a fissare quella porta semichiusa, non sapendo perché avesse corso spedito per andare lì. 
  
“Era solo un sogno…che diavolo sto facendo?” disse a se stesso. 
  
Tuttavia era davvero poco convinto delle sue stesse parole. Era stato, infatti, un sogno fin troppo dettagliato.
Aveva visto Walter Sullivan, era come se fosse stato…lì…in quel locale di periferia e aveva persino… 
Scosse la testa. Non voleva nemmeno pensarci. 
Perché nel suo sogno lei, Cynthia…era così vera e…viva. 
Ma come poteva essere possibile? 
  
Il telefono, allora, squillò nuovamente. Henry andò a rispondere il più velocemente possibile, alzando la cornetta frettolosamente. 
  
“Cynthia!” urlò, quasi come se si aspettasse di udire proprio la sua voce. 
  
  
“La signora importante mi ha detto che la mia mamma è addormentata a South Ashfield…” 
  
  
Henry sgranò gli occhi quando si accorse che la voce non fosse quella di Cynthia. Era una voce molto più puerile, come…come quella di un bambino. Subito si rivolse a quella voce, assumendo un tono agitato. 
  
“W-Walter..? Come hai fatto a chiamarmi qui?!” 
  
  
“Anche io ho una mamma.” 
  
  
La voce gli rispose imperterrita, come se non lo avesse per nulla ascoltato. 
  
“Walter! Rispondi! Che diavolo sta succedendo?!” 
  
  
“Sono così felice.” 
  
  
Henry presto si rese conto che, se anche quello fosse stato davvero il piccolo Walter Sullivan, quella era una voce che non lo avrebbe mai riposto. 
Tirò dunque su un profondo respiro e avvicinò meglio la cornetta del telefono, cercando di ascoltare attentamente. 
La voce bisbigliava quasi ed Henry poteva avvertire l’emozione e la paura di quel ragazzino che stava scoprendo dell’esistenza della cittadina di Ashfield. La voce tuttavia era molto disturbata, per cui Henry non fu in grado di comprendere ogni parola. Si chiese se qualcosa non andasse con la linea e mentre fece per controllare i fili, udì un’eco provenire dal corridoio. 
  
“La siniora mprotante… a deto… la mia…a Asfeeld.” 
  
Sbandò colto alla sprovvista. Non ebbe il tempo di capire il senso delle parole, ma la voce era inequivocabile. Era quella del giovane Walter Sullivan. Ed era in casa sua… 
Cautamente si sporse fuori dalla porta della camera da letto. Scrutò discretamente, ma non vide nessuno in corridoio, così avanzò. 
  
Sebbene udisse ancora un bisbiglio a stento percettibile, sentiva come se si stesse avvicinando sempre di più alla fonte da dove provenisse. 
Quando si ritrovò nel salotto, gli venne spontaneo guardare verso il buco vicino il mobiletto di legno e subito deglutì quando si rese conto che quei bisbigli provenissero proprio da lì. 

“Voglio vedere la mia mamma. Ma dov’è Ashfield?” 
  
Si inginocchiò lentamente e poggiò il viso vicino il buco. 
  
Quel che vide fu la stessa scena che vedeva da tutto il giorno. L’interno di un vagone della metropolitana in movimento, dall’aria trascurata. 
Questa volta, tuttavia, non vi erano più quegli strani fantocci femminili, ma delle ragazze giovanissime che uscivano dal vagone, e si intravedeva un bambino biondo dal maglioncino a righe. 
Henry riconobbe subito, in quel bambino, il piccolo Walter. 
Si sorprese di vederlo con un volto così affranto. Sembrava quasi che singhiozzasse, ma che facesse di tutto per trattenersi. 
Per un bambino di quell’età era uno sforzo davvero grande quello di non piangere, ma egli riuscì a controllarsi. 
Nel vederlo in quello stato, Henry provò una strana morsa al cuore. Solo allora ricordò dei fogli di carta rossa scritti dal giornalista Joseph Schreiber relativi la sua indagine sul passato dell’assassino Walter Sullivan. 
  
Voglio riassumere tutto quello che ho appreso su Walter Sullivan finora.
E' nato proprio qui nell'appartamento di "South Ashfield Heights".
I suoi genitori lo hanno abbandonato poco dopo, e sono scomparsi lasciando il neonato tutto solo. Una volta scoperto fu mandato all'ospedale San Jerome.
Fu poi adottato dalla "Wish House", un orfanotrofio situato nel bosco di Silent Hill e gestito da un culto religioso segreto di Silent Hill. Aveva 6 anni quando un appartenente al culto gli mostrò dove era nato. Da allora iniziò a convincersi che l'appartamento 302 stesso, questo appartamento, l'avesse partorito. Ogni settimana andava dall'orfanotrofio a South Ashfield Heights, un bel tragitto per un bambino della sua età. A volte prendeva l'autobus, a volte la metropolitana.
Sono stanco...
Il mio mal di testa mi sta uccidendo. Riprenderò a scrivere domani.
28 Luglio
 
  
(diario rosso di Joseph Schreiber) 
  
Si chiese se stesse rivivendo quel momento della vita del giovane Walter. 
Continuò a osservarlo incessantemente, sperando di udire la voce di quelle ragazze che ancora si percepivano, sebbene a stento. Sembravano avercela proprio con il bambino. 
Henry non riusciva a comprenderne il motivo, ma del resto non sempre c’era una ragione a simili ingiustizie. 
Anche lui ne aveva subiti di torti, quando aveva all’incirca la stessa età. 
Sapeva dunque bene come anche i bambini…potessero essere crudeli. 
Vide negli occhi di quel bambino la forte amarezza dell’incomprensione e della solitudine, e l’odio che ribolliva dentro…ma allo stesso tempo la forza che gli dava la speranza di raggiungere South Ashfiel…ovvero sua Madre. L’unica cosa che forse gli rimaneva. 
  
Ricordò le sue parole al telefono: “Anche io ho una mamma! Sono così felice.” 
Chiuse gli occhi sentendosi angosciato. 
Quegli orrori che quel bambino avrebbe creato in età adulta... era in quel momento che avrebbero trovato la loro motivazione più grande. 
  
Di lì a poco, o forse era già accaduto, egli avrebbe confuso sua madre con l’appartamento 302. Questa consapevolezza lo trafisse, facendogli provare il duplice sentimento di pena e frustrazione. Questo perché di base quel bambino ricercava solo l’amore, la sua felicità, la sua…vita. Non gli avrebbe importato null’altro. 
Né le prese in giro, né le percosse, né il viaggio. 
Questo perché avrebbe rivisto sua madre. 
Lui…l’avrebbe salvata. 
Seppur con una logica del tutto folle ed inumana, nella sua mente era così. Forse... persino nella mente di Walter Sullivan adulto…era così.

D’altra parte, Henry avvertiva dentro di sé anche la frustrazione verso se stesso; verso quel momento che non fu che l’inizio del suo di incubo, il quale lo aveva ingabbiato in quell’universo controverso.
  

Toc toc 
  
  
“Henry, sei in casa?” 
  
Una voce improvvisa lo fece sussultare. Si voltò di scatto verso la porta. 
Eileen Galvin lo richiamava a gran voce e il ragazzo, lì per lì, rimase immobile, incapace di reagire. 
  
“Eileen…” sussurrò. 
  
Egli chinò il capo e socchiuse gli occhi. Stava sbagliando tutto con lei. Ma cosa poteva mai fare, altrimenti? 
Si alzò e lentamente si avvicinò alla porta d’ingresso. 
  
Avrebbe tanto voluto parlarle sinceramente. Nessuno meglio di lei avrebbe potuto comprendere cosa egli stesse vivendo. 
Questo non solo per l’incubo affrontato assieme, ma perché lui le voleva bene e avrebbe tanto desiderato averla vicina per non impazzire. 
Tuttavia non poteva dirle nulla fino a quando non avrebbe risolto il caso e…diavolo…non ne aveva idea di come sarebbe andata a finire. 
  
Si poggiò sulla porta con la schiena e abbandonò il capo, assorto nei suoi stessi pensieri. 
Socchiuse gli occhi e regnò il silenzio. Un silenzio tormentato che divideva i due giovani vicini di casa con quella porta che per sei giorni lo aveva imprigionato dentro. E tutt’ora lo teneva sigillato, impedendogli di raggiungere la ragazza. 
  
Henry sentì Eileen smettere di battere e sospirare affranta. 
  
“Lo so che ci sei…Henry…e so anche perché non mi stai aprendo…io…” 
  
Gli occhi verde pallido di Henry si rivolsero alla porta. Quasi gli sembrava di vedere Eileen dietro di sé, poggiata anch’ella dietro la porta dell’appartamento 302. La voce di lei, poi, si fece più profonda. 
  
“Io…prego ogni giorno, sperando che questo strazio finisca, Henry. Ricordalo. Ovunque tu sia. Ovunque tu sia…Io…” si fermò. “Tieni, ti passo un biglietto sotto la porta.” 
  
Il bruno abbassò lo sguardo e vide un foglietto ripiegato strisciare da sotto la porta. Lo afferrò e lo tenne stretto fra le mani, finché non sentì di nuovo Eileen da dietro la porta. 
  
“Ci vediamo presto, vero?” gli disse lei infine. Poi batté appena sulla porta e andò via. 
  
Henry aprì il foglietto di carta solo dopo che sentì l’appartamento 303 chiudersi. Lesse attentamente quelle parole e sorrise malinconicamente. Poi allontanò il foglietto da sé. 
  
“Mi dispiace…” sussurrò. 
  
Lui avrebbe fatto del suo meglio per non rimpiangere mai più nulla. Ne aveva lasciate correre fin troppe di occasioni per essere felice. 
Ancora una volta il destino gli era contro, ma non doveva tirarsi indietro. Se rimaneva fermo, non sarebbe cambiato nulla. 
  
Da dietro il bigliettino scrisse velocemente qualcosa, si affacciò dalla porta d’ingresso e si avvicinò all’appartamento 303. 
Tentennò un attimo, ma poi infilò il bigliettino sotto la porta di Eileen. Rimase un attimo a guardare immobile, prima di andar via. 
  
“Te lo prometto. Eileen.” 
  
Così si allontanò, rientrò in casa e attraversò il varco. 
  

*** 
  
  
[SOUTH ASHFIELD , nella metropolitana.] 
  
La testa di Henry Townshend doleva incredibilmente. Aprì gli occhi appesantiti dal viaggio nell’altra dimensione e guardò attorno a sé faticosamente. Gli ci volle del tempo per abituare gli occhi alla luce e scrutare così la vecchia metropolitana della città. 
Si trovava all’interno di uno dei vagoni del treno che, al momento, era fermo e sembrava completamente deserto. 
Prima di alzarsi e cominciare l’esplorazione si ritrovò a pensare a lei, a Cynthia. 
La prima persona che aveva visto morire lì dentro e nella realtà… colei che aveva segnato per la prima volta quel viaggio come un vero incubo macchiato dal sangue. 
Strinse i pugni, risentendo dentro di sé quelle emozioni che non gli avevano permesso di solcare il buco, prima. 
Ricordare tutto quel che era legato a quel suo primo viaggio nell’otherworld di Sullivan, quando era ignaro di tutto…fu…tremendo. 
  
Cynthia… 
Avrebbe dunque incontrato lei, questa volta? 
  
Sentiva un leggero turbamento in corpo pensando ad una simile eventualità, questo perché Cynthia era entrata profondamente dentro di lui. 
Oltre che per le tragiche circostanze che li avevano separati, c’era dell’altro. Lo sentiva nitidamente. 
Qualcos’altro premeva sul suo cuore oltre al significato personale che attribuiva a quella donna. 
  
Quel turbamento…era per via dei sentimenti di Walter Sullivan nei suoi confronti? 
Talvolta se lo chiedeva, ma come avrebbe potuto essere possibile? 
  
Gli venne in mente lo strano sogno che aveva fatto. Aveva visto proprio lei, quella donna di origini ispanico-americane, e l’aveva vista parlare con l’assassino. 
Non solo. L’aveva vista anche in una versione adolescenziale mentre incontrava lo stesso uomo che poi, sedici anni dopo, l’avrebbe uccisa. 
Poggiò una mano sul capo, completamente disorientato. 
Era stato solo un sogno dovuto alla suggestione del momento? Era accaduto veramente? 
  
La cosa che lo turbava maggiormente, tuttavia, non era tanto questo… 
Henry, in quel sogno, non era stato un semplice spettatore. Aveva visto il terrore di Cynthia riflesso nei suoi occhi e...aveva provato le emozioni di Walter Sullivan. 
Il suo essere estasiato da lei, la sua consapevolezza che ella fosse la prima vittima della terza rivelazione del rituale sui ventuno sacramenti… 
Stringendo le labbra, sentiva ancora il calore penetrante di Cynthia sulla sua pelle…
 
Portò una mano sul visto e provò orrore di ciò che aveva avvertito. 
Non riusciva semplicemente a capacitarsi che qualcosa anche nella sua testa stesse cambiando.
 
Senza contare che nella sua mente stessa ultimamente stavano cominciavano a riaffiorare ricordi sull’uomo biondo che mai avrebbe potuto avere. 
Quasi come una connessione indissolubile e involuta li avesse legati.
 
  
Si alzò poggiandosi appena sulla panchina, facendo così cadere una scatola rossa che era già in bilico sull’orlo. 
  
“Nh?” sussurrò e riconobbe quella scatola. 
  
Era la scatola nel “prezioso trenino di Walter”. Quella che aveva aperto con una chiave giocattolo che gli aveva passato il bambino stesso da sotto la porta. 
  

Mamma, ti do cuesto cuindi svegliati presto.
E' dentro al mio trenino. 
  
(messaggio del bambino trovato sotto la porta dell’appartamento 302) 
  

Osservò la scatola. Era aperta e le catene erano sparse lungo lo scompartimento. Il bruno deglutì ricordando l’ultima volta cosa ci fosse al suo interno. 
La moneta da utilizzare per ottenere la chiave del delitto. 
La chiave che avrebbe aperto la porta dove avrebbe trovato Cynthia esamine. 
Si chiese se l’avesse trovata di nuovo lì. Tuttavia questa volta la scatola era vuota. Solo una serie di messaggi stracciati vi erano al suo interno, impossibili da decifrare per Henry. 
  
Li raccolse e li esaminò. Sebbene non fosse possibile ricomporre i pezzi, quella calligrafia gli era ben nota ed era quella dell’io-bambino di Sullivan. 
In alcune era chiaro ci fossero dei riferimenti relativi la linea metropolitana. In altri appariva spesso il nome di South Ashfield. In ogni caso, era abbastanza evidente che fossero tutti frammenti di ricordi di quell’uomo, durante i suoi viaggi per raggiungere la madre. 
  
Un uomo all’improvviso aprì le porte del treno. Henry si voltò preso alla sprovvista. 
Non appena alzò lo sguardo, vide l’uomo col cappotto abbassare il cappuccio della giacca e guardarlo gelido. Henry ebbe lo strano presentimento che anch’egli non si aspettasse la sua presenza lì. 
  
“Henry Townshend…” bisbigliò. Poi continuò. “Che guardi?” 
  
A quel punto l’uomo dai capelli biondi spalancò gli occhi e gli rivolse uno sguardo indemoniato. Henry rimase lì senza sapere che fare, e quel silenzio sembrò adirare ancora di più Sullivan. 
  
“Allora…muori qui!” 
  
Sparò il ragazzo ferendolo alla spalla. 
Henry spalancò gli occhi, sentendo il suo corpo ghiacciarsi. 
Sentì la paura gelargli il sangue a tal punto da non avvertire alcun dolore, sebbene il sangue prese a macchiare le sua candida camicia. L’adrenalina aiutò il giovane a non curare la ferita, dunque, seppur sotto shock, velocemente si strascinò via da lì, oltrepassando i vagoni. 
Walter cominciò a inseguirlo con passo deciso, inveendo contro di lui. 
Henry aveva la peggio essendo ferito e non poteva far altro che passare da un vagone all’altro sperando di seminarlo. 
Nel vedere però che Walter non mollasse l’inseguimento, comprese di dover fare qualcosa. Le parole quasi uscirono da sole dalla sua bocca, proprio prima di chiudere l’ennesimo vagone. 
  
“Era solo una bambina! Perché?!” urlò e un altro proiettile lo sfiorò, al che chiuse immediatamente il vagone. 
  
L’assassino era ben conscio di non poter uccidere Henry, ma continuava imperterrita a colpirlo e inseguirlo. Solo allora Henry, mentre correva, si chiese se non stesse cercando di farlo fuori proprio per ciò che aveva visto: i suoi ricordi. 
Possibile che Sullivan si fosse accorto che era entrato nella sua mente ed aveva conosciuto una parte di lui? 
Purtroppo non aveva la tranquillità e nemmeno la sanità mentale sufficiente per pensarci troppo. 
  
Estrasse la mappa della metropolitana e cercò il sistema più breve per uscire da quel dannato treno. 
Walter intanto gli era alle calcagna. Non appena Henry vide la linea gialla da fuori uno degli sportelli, subito uscì e corse via. 
Nonostante l’affanno e il bruciore alla spalla, corse più velocemente che poté e solo dopo una manciata di secondi si accorse che gli spari erano cessati. 
Si girò attorno non capendo. 
Fatto stava che Walter era sparito. Di lui nemmeno l’ombra. 
  
Non era di certo la prima volta che l’uomo sparasse contro di lui, ma la rabbia che aveva in corpo era stata completamente diversa, quel giorno. 
Era per via di Cynthia? 
In verità ne aveva la certezza. Questo perché lui stesso si era reso conto, tramite le sue emozioni, quanto ella rappresentasse per Walter Sullivan. 
  
All’improvviso sentì dei sospiri intensi. 
Affacciandosi vicino i binari, vide una donna dai lunghi capelli d’ebano seduta sul bordo del marciapiede. Indossava una maglietta rosa e una gonna dai motivi colorati. 
Dondolava i pieni incessantemente, bisbigliando e ansimando. 
  
“…Cynthia?” disse, riconoscendola. 
  
Subito corse verso di lei e fece per guardarla in viso. Si sporse, ma quasi cadde a terra quando si rese conto che aveva un viso pallidissimo e una pelle oramai coriacea. 
  
“Ah!” urlò, non sapendo che fare. 
  
Quello era il fantasma di Cynthia. La sua testa prese a dolere terribilmente e fu costretto ad allontanarsi di qualche passo. Continuava tuttavia a scrutarla, avvertendo il cuore battere sempre più forte. 
Faceva davvero impressione, pensò. Eppure lei…sebbene dalle sembianze così impressionanti, ella continuava a fargli molta pena. 
Ora era solo una vittima di quel macabro rituale, e l’ombra della sua anima era rimasta anch’ella sigillata lì. 
Henry, più la osservava, più si rendeva conto che Cynthia non si fosse accorta di lui e fosse, oramai, solo il riflesso di ciò che un tempo rappresentava. 
  
“Ho freeeddo…” disse lei, ridendo appena. Il suo tono era sofferto. “Forse, ho bevuto troppo la scorsa notte…Mi…mi sento di morire…ah!” 
  
Prese ad ansimare forte, agitando i lunghi capelli scuri. Henry strinse gli occhi, con il cuore a pezzi. Ella…stava rivivendo la sua morte. Era ben chiaro per lui. Non aveva mai dimenticato quel giorno… 
Istintivamente, nell’udirla così addolorata, le si rivolse. 
  
“Non preoccuparti. È solo un sogno.” le disse. Proprio come l’ultima volta. 
  
Il fantasma di Cynthia sembrò sgranare gli occhi. Prese parola, non guardando però il ragazzo, ma dirigendo il suo sguardo verso un qualcosa di vago. 
  
“Qualcuno un giorno mi disse così…è vero…che orribile sogno che feci. Così…vero.” sussurrò ancora. “Così…vero.” 
  
Cynthia non si ricordava di lui? 
Beh, era anche probabile questo. Il loro incontro era stato così breve, in fondo... 
Così breve, davvero... 
  
Quel pensiero cominciò ad echeggiare nella sua mente. 
  
Breve…Breve… 
Eppure…intenso. 
  
Era strano come un lasso di tempo così “breve” potesse cambiare inesorabilmente la vita di una persona. 
Guardò Cynthia preso dal rimorso di non aver potuto far niente per lei, oramai ingabbiata per sempre in quella realtà parallela, capace solo di rievocare quella che era stata la sua vita. 
  
“Sta arrivando…scappa…sta arrivando…” sussurrò ancora, dicendo le stesse parole che gli diceva all’epoca, proprio prima di morire. 
  
Henry allora sorrise malinconicamente. 
  
Walter Sullivan era un uomo cinico e insofferente. Aveva disprezzato la vita e ogni qual volta si fosse aggrappato a qualcosa, questi gli si era ritorto contro. 
Si era aggrappato, dopo una vita terribile presso la Wish House, a un appartamento, credendo inconsciamente potesse restituirgli l’amore perduto. 
E in quell’ottica, Cynthia…in gioventù… aveva rappresentato un’ennesima porta chiusa? 
  
“Sei la tentazione perché lui era innamorato di te, Cynthia.” 
  
Lei non si era mai accorta di quanto lui, nella sua malasanità, avesse avuto bisogno di tenere quella porta aperta almeno per un po’. 
Gli occhi di Henry divennero tristi, spenti, e continuavano a guardare Cynthia con incanto…quasi estasiati da lei. 
  
“Cynthia…” sussurrò ancora. Guardò verso l’uscita della metropolitana e allungò il braccio verso una direzione ben precisa.  "Ecco....quell'appartamento..lì....la stanza 302...South Ashfield Heights." 
  
Lui l’aveva sempre trovata perfida e… 
Bellissima. 
  
  
  
*** 
  
  
“Sul marciapiede della città le mie urla sono solo un sussurro? 
Le persone occupate vanno e vengono ovunque. 
Guardami qui, immersa sotto la pioggia. 
Non avere nessuna compassione, non importa. 
La mia resistenza sta vacillando. 
Come un fiore nel seminterrato, in attesa di una morte solitaria…” 
  
(Your Rain) 
  
  
  
*** 
  
  
[Pianerottolo del terzo piano. Appartamenti di South Ashfield Heights] 
  
Eileen stava rientrando dopo una serie di commissioni svolte. Non vedeva l’ora di sbarazzarsi di tutti quei pacchi che aveva in mano e che la stavano facendo letteralmente trascinare su per quel pianerottolo. 
Sospirò intensamente e dalla tasca estrasse le chiavi di casa. Erano ben riconoscibili per via della bambolina di pezza che usava come portachiavi. 
Aprì la porta e sbuffò intensamente, lanciando i pacchi sul bancone della cucina. 
Doveva solo sistemare un altro paio di cosette, telefonare l’università, e… 
Qualcosa, all’improvviso, la fece scivolare quasi sul pavimento. Riuscì a tenere l’equilibrio a stento. 
Si poggiò con le mani sul muro e guardò a terra disorientata. 
  
Fu sorpresa di notare un bigliettino proprio ai suoi piedi. 
  
“Che cos’è?” disse. 
  
Lo raccolse e vide che era ripiegato frettolosamente su se stesso. 
  
Subito il cuore le prese a battere forte. E se fosse stato di Henry? 
In realtà si era pentita quasi subito del messaggio che gli aveva lasciato sotto la porta, nel quale gli aveva espresso teneri sentimenti di conforto. Tuttavia si era imbarazzata nel fare una cosa simile, e a maggior ragione si sentì terribilmente paonazza nel leggere un’eventuale sua risposta. 
Lo aprì e sgranò gli occhi quando vide che il bigliettino dentro era…bagnato? 
  
Sentì la mano bagnarsi e istintivamente la allontanò per scrutarla. Ora era… inspiegabilmente tinteggiata di rosso. 
Annusò perplessa e quel terribile odore organico la fece trasalire. 
Lasciò cadere il bigliettino e strillò. 
  
“AH…ma è sangue?!” 
  
Sbiancò letteralmente, ancora incredula e con la mano sporca di quel liquido rosso. 
Si poggiò alla porta dell’appartamento e prese a tremare. Tremare incessantemente. 
  
“Henry..?” disse, con gli occhi ancora spalancati. 
  
Il bigliettino… 
Adesso era interamente macchiato di rosso. 
Non vi era nulla scritto sopra. 
  
Nello stesso tempo, qualcosa nella palazzina si aggirava incessante nei pressi dell’appartamento 302. 
  
Una mano graffiava e batteva incessante a quella porta. Nessuno poteva udirlo o vederlo. Altrimenti chiunque sarebbe scappato a quella visione. 
La mano colpiva forte, lasciando muovere la manica della camicia smessa. 
Era davvero difficile riconoscerlo. Aveva gli abiti strappati e sporchi. Un jeans consumato e una serie di innumerevoli tagli su tutto il corpo. Il viso era ben nascosto dalla lunga frangia disordinata, al di sotto dalla quale si intravedevano appena quegli orrendi sfregi che lo deturpavano. 
Bisbigliava, bisbigliava incessantemente, continuando a battere su quella porta. 
  
Dall’altro lato, lo spioncino dell’appartamento 302 prese a sanguinare. Una goccia rossa scivolò rapida da quella piccola fessura fino a gocciolare sul pavimento.
  
E quell’uomo continuava a battere. 
Sotto il suo collo si distinse poi uno sfregio ben preciso. Sebbene scritti a stento, sembravano una serie di numeri cicatrizzati su quel corpo orribilmente sfigurato. 
  
21/21 
  
Più volte si sentì, poi, il telefono di quella casa squillare. 
Una ragazza dai capelli corti e castani, con il viso preoccupato, continuava a comporre ripetutamente il numero, senza mai ottenere risposta. 
  
  
[…] 
  
  
  
  
  
  
NDA: è stata una vera faticaccia scrivere questo capitolo! Cynthia è un personaggio che mi ha davvero colpita nella storia e scrivere su di lei è stato difficoltoso perché volevo davvero scrivere qualcosa che le desse un giusto tributo. 
Inoltre ritengo che Walter la consideri come la sua “prima cotta” quindi provi amore e rabbia nei suoi confronti. Questo lo rende più violento automaticamente anche con Henry. Spero tanto di essere riuscita a rendere l’idea^^ 
L’intero capitolo inoltre ha dei riferimenti legati alla canzone di silent hill 4 : Your Rain. 
È una canzone presente nella soundtrack, è cantata da Cynthia stessa nel video e per me parla proprio del suo personaggio. Mi porta sempre molta tristezza quando l’ascolto… 
Oramai siamo a più di metà storia…mi appresterò a mettere le basi per terminare la fan fiction, spero di essere sempre all’altezza. 
Ringrazio tutti coloro che mi seguono e mi recensiscono. E’ difficile il lavoro che sto facendo, ma amo questa storia e farò del mio meglio nel parlarvi di SH4 e cosa lo rende per me terribilmente affascinante a differenza di come credono in molti! 
Un bacio, ci sentiamo nelle recensioni e nel prossimo capitolo^^

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Capitolo 6
*** Il palazzo di South Ashfield ***


NdA: Consiglio la lettura di questo capitolo in due tempi, essendo uscito abbastanza lungo. Io stessa ho segnato il punto in cui consiglio fermarsi. Buona lettura! 
Un caloroso ringraziamento a coloro che mi stanno seguendo!! 
  
  
  
  
  
  
  
CAPITOLO 06 
  


“Non appena la vidi, fui subito attratto da South Ashfield Heights, avvertendo come una sorta di richiamo…” 
  

(Henry Townshend, nell’appartamento 302) 

  
  
  
[APPARTAMENTO 302, South Ashfield Heights] 
  
Henry Townshend lasciò scorrere il dito sulle varie copertine dei libri mormorandone i titoli. Stava setacciando con lo sguardo la piccola libreria dalle mensole consumate. 
Solo quando incappò nelle riviste dedicate alla città sulle rive del lago Toluca, le prese lasciando fuoriuscire notevoli quantità di polvere. 
Effettivamente non aveva avuto molte occasioni di toccare quei libri negli ultimi tempi, ma forse avrebbe dovuto almeno pulire. 
Era un aspetto della sua vita domestica con la quale avrebbe sicuramente saldato i conti, un giorno. Quel giorno, non era di certo quello, comunque. 
Ripensò a tutte le telefonate che aveva effettuato in passato alla biblioteca di Ashfield. 
Non c’era stato verso di reperire alcuna documentazione riguardo Silent Hill. Tuttavia era fin troppo ovvio che in quella città di collina ci fosse più di qualcosa che non quadrasse. Possibile che non vi fosse nessuna documentazione a riguardo? 
Nessun libro inerente al culto, nessun libro riguardante le tradizioni. Nessun documento riguardante i tanti sacrilegi che venivano compiuti dalla Wish House e probabilmente non solo lì… 
L’intera città, nascosta nella sua densa coltre di nebbia, celava qualcosa di oscuro, offuscato da un velo che lasciava intravedere appena quella dimensione della quale non si rinveniva nessuna traccia che ne confermasse l’esistenza. 
Eppure tutto era vero. Quel mondo esisteva. 
  
Walter Sullivan, per quanto potesse essere umanamente inconcepibile, era morto dieci anni prima. Tuttavia una traccia di lui era rimasta palpitante nella realtà parallela. 
  
Cosa era accaduto per davvero? Che fine aveva fatto Walter Sullivan? In che consisteva effettivamente il rituale dei ventuno sacramenti? Che cosa sarebbe accaduto allo stesso Henry? 
  
Quelle erano tutte le domande cui Henry sperava tanto di dare risposta. 
  
Non aveva con sé altro, se non la sua esperienza personale e quella di Joseph Schreiber. 
Anch’egli, un tempo, studiò il caso Silent Hill/Walter Sullivan e offrì le sue conoscenze al ragazzo, non potendosi sottrarre al suo destino. 
  
Il moro si diresse nella sua stanza posizionandosi sulla scrivania e aprì l’album pieno di appunti cominciandoli a leggere. 
Cercò di confrontare le documentazioni e le informazioni presenti sui libri che aveva in casa, ma non vi era nulla che confermasse tra quelle pagine le parole di Schreiber. 
Quella manciata di libri risalivano grossomodo ai viaggi che fece Henry a Silent Hill prima di trasferirsi a South Ashfield. 
A quei tempi era tutto completamente diverso. Amava quella lieta cittadina e la trovava così rilassante e pacifica. Senza contare della profonda attrazione che lo aveva portato inspiegabilmente a visitarla spesso, con le spoglie di un avido turista. 
Aveva avuto modo di visitare e fotografare molteplici scorci, la chiesa, il faro… 
Tutto questo con il più completo incanto, incapace di accorgersi che, invece, ci fosse qualcosa di inquietante nell’aria. Un’inquietudine che adesso avvertiva vibrare in corpo anche solo osservando quelle fotografie. 
Alzò fugacemente gli occhi dai libri e osservò le fotografie appese sul muro. Le aveva scattate lui stesso, durante le sue visite. Le fissò quasi in maniera ossessiva, chiedendosi come potesse una città simile essere inquietante ed affascinante allo stesso tempo. 
  
Lui…aveva provato entrambi quei sentimenti. 
  
Si chiese impulsivamente se anche per quell’assassino fosse così. 
Quali erano i suoi sentimenti in merito a quella cittadina in cui era cresciuto, e che l’aveva al contempo dannato? 
Scosse la testa e decise di proseguire con le ricerche. 
Diavolo, aveva la testa fin troppo piena di domande e tutte legate all’assassino biondo, di certo non aveva bisogno di preoccuparsi di altro. 
Senza contare lo stato di allerta che Henry covava in corpo già da tempo. Sapeva bene che un’altra manifestazione avrebbe potuto presentarsi lì da un momento all’altro costringendolo a un ulteriore viaggio. 
Doveva dunque fare in fretta se voleva reperire delle informazioni che lo aiutassero a capire perché la sua casa fosse ancora inglobata nella realtà parallela e perché Walter Sullivan continuasse a perseguitarlo con gli incubi. 
  
“Per qualche motivo, Joseph non riuscì ad abbattere il muro. Ma tu hai potuto farlo…” 
  
Una voce indefinita, dopo un buon quarto d’ora, echeggiò improvvisamente. 
Sembrava quasi riuscire a parlare a stento. 
Il bruno si alzò di scatto dalla sedia girevole e guardò oltre la porta della camera da letto, affacciandosi nel corridoio dell’appartamento. 
  
“Ma che diav..!?” 
  
“Che diavolo, che diavolo, che diavolo…cominci a diventare noioso con tutti quei tuoi ‘che diavolo’. Eppure sai bene che diavolo ti sta succedendo, Henry.” 
  
Henry si risentì di quella risposta, ma decise di non curarsene troppo. Al contrario, si inoltrò cautamente nel corridoio. Pochi passi lenti, ma non c’era nessuno, nemmeno una manifestazione, dinanzi a lui. 
  
“Dove sei?” 
  
Henry intimò a quella voce di mostrarsi, ma ottenne solo un debole sibilo. Il ragazzo ebbe la terribile sensazione che lo stesse deridendo. 
  
“A questo punto, avresti dovuto già intuirlo. Sono esattamente dietro di te, nella parte profonda che Joseph Schreiber non ha potuto raggiungere per volere di Lui.” 
  
Per quanto si sforzasse di riconoscere quella voce, quell’eco disturbante gli impediva di capire chi parlasse. 
Si voltò comunque verso il muro alle sue spalle, come indicatogli dalla voce, e con gli occhi spalancati notò che, oltre quella porzione di parete sfondata in precedenza con il piccone rosso, effettivamente era possibile scorgere un’ombra. 
Fece per avvicinarsi, ma una forza misteriosa gli impedì di proseguire. Sentì i muscoli irrigidirsi e la pelle farsi fredda, come se stesse nuotando contro corrente in un fiume in piena. 
La voce sogghignò nuovamente. 
Henry non si sforzò di avanzare oltre. Osservò invece l’ombra, con un atteggiamento altamente diffidente. 
  
“Chi sei?” 
  
Dall’altro lato del muro, le labbra di quell’ uomo sorrisero. Si intravedevano, sul suo volto oscurato dal buio, dei violenti sfregi, ancora così lividi e profondi. 
  
“Comincerà presto. Prestissimo. E l’unico modo per salvarsi è raggiungere la parte profonda di lui. Dove risiede sua madre. L’unico che per qualche bizzarra ragione può farlo sei solo tu, ricevitore di saggezza.” 
  
A quel punto Henry sbottò. Non ne poteva più di discorsi simili. Non ne poteva più di essere chiamato in quel modo. Lui non era una vittima di Walter Sullivan. Non era riuscito, quel carnefice, a ucciderlo. 
  
“T’ho chiesto chi diavolo sei! Rispondi. E cos’è che deve cominciare! I ventuno sacramenti sono stati scongiurati. Io l’ho ucciso. Io ho ucciso Sullivan!” 
  
Con una rara carica, il ragazzo urlò e si poggiò sul muro adiacente con gli occhi vitrei colmi di rabbia e disperazione. 
  
“La senti no? Quella profonda solitudine. Quella…rabbia che cresce ogni giorno di più. Un qualcosa che è stato sigillato nel profondo e che ha scaturito poi tutto questo. Che cos’è, dunque, che porta questa collera? È il caos. Null’altro che il caos informe nel quale ogni giorno vaghiamo. Com’è possibile salvarsi da tutto ciò? Chi permette che tutto questo abominio di rabbia e solitudine esista? Secondo quali regole? Quelle degli umani? Ma siamo poco più delle bestie, mi sembra un atteggiamento presuntuoso, questo, giusto..? Stravolgi appena le regole ed eccoti piombare nel caos. Infondo, il caos, quel che lo separa dall’equilibrio, non è altro che un sottile velo delicato.” 
  
Lo sgomento del ragazzo salì fino a divenire irritazione e tutto d’un tratto si ritrovò incapace di ascoltare oltre. Quella voce tuttavia sembrò nuovamente avere un atteggiamento sarcastico nei suoi confronti, non lasciandosi minimamente turbare dalla sanità mentale di Henry che ogni giorno veniva sempre meno.  
  
Quel che era peggio, era che lo stesso Henry si rendeva conto che la sua pazzia non sarebbe di certo finita lì ed era come se quella voce deridesse proprio il fatto che egli stesse già dando i numeri. 
Joseph come diavolo era riuscito a lottare fino all’ultimo, alla ricerca della verità? 
Pur sapendo di essere già dannato. La disperazione, l’infausto destino serbatogli dall’assassino Sullivan. 
In quel momento Henry sentì dentro di sé quella stessa “disperazione”, ed era atroce, insopportabile, violenta… 
  
Il sibilo per qualche istante si fermò, poi riprese a parlare. 
Gli occhi di quel tipo erano indistinguibili, eppure, nel buio di quello stanzino murato nell’appartamento 302, si intravedevano appena due iridi verde pallido. 
  
“Tu stesso vivi nel caos, Henry. Tu stesso odi il caos informe.” 
  
Sospirò, poi tornò a rivolgerglisi. 
  
“ Dimmi, Henry…tu credi in Dio?” 
  
Henry ci impiegò un po’ di tempo a rispondere. 
  
“I-io…non lo so.” asserì. 
  
Dio. Dio esisteva in quelle mura? Esisteva nell’appartamento 302? Era da tempo oramai che non riponeva più speranze in qualcuno o in qualcosa. 
Certo che avrebbe voluto tanto aggrapparsi ad una speranza, ma come poteva vigere qualcosa di simile nella sua mente ora vacillante verso l’oblio? 
Dio al momento era lontano da lui, ovunque egli fosse. Qualunque cosa fosse. 
  
Come se la voce si aspettasse una risposta simile, continuò a parlare. 
  
“Che tu ci creda o no, Walter è Dio di quella porzione di universo. E tu ci sei dentro come ricevitore di saggezza, il che ti mette in prima linea in questo inferno.” 
  
“Lasciami stare…” 
  
La voce a quel punto assunse un tono differente. 
  
“Capisco.” si fermò. “Henry, ho un lavoro per te. Un piccolo affare. Che ne dici?” 
  
Il ragazzo chinò lo sguardo e sembrò sorpreso da quelle parole. Come poteva fidarsi di qualcuno, lì? 
Intanto la voce dall’altra parte sbuffò. 
  
“Andiamo…! Dimmi cos’hai da perdere, infondo. Lo sai che se non lo fai tu, sarà lui ad arrivare da te. O no?” 
  
Purtroppo quelle parole erano vere. Walter Sullivan lo avrebbe chiamato a sé ed Henry lo sapeva benissimo. 
Corrucciò le sopracciglia e a malincuore prese l’amara decisione di fidarsi di quella voce e di stare al suo gioco. 
  
“…tutto questo mi riporterà nelle profondità sempre più remote di Sullivan, dico bene?” chiese. 
  
“A suo tempo, non avere fretta. Ascolta bene, ora.” 
  
La voce prese a cantilenare un curioso motivetto. Henry, sebbene inquietato, si mostrò attento a seguire ogni parola, sperando di coglierne gli elementi chiave.
  

«Quattro sono gli strazi che segnarono i mondi indistinti. 
I mondi del caos informe. 
L’assassino ci scappa, ma di lui mai nemmeno una traccia. 
Ogni scena pulita come se questa non fosse mai esistita. 
  
Il primo è sanguinolento. 
L’altro è violento. 
Il terzo è irrazionale. 
L’ultimo è inaspettato. 
  
Il primo, pover’uomo, fu ridotto in un colabrodo. 
E di quei manti tanto pregiati. 
Ora dimmi, che ne rimane? 
  
Il secondo invece, un brav’uomo. 
Del suo lavoro ne faceva tesoro. 
Ogni cosa era sempre al suo posto. 
Le mazze sul banco. Le palle nel cesto. 
Quando un qualcosa lì mancò veramente. Entrò un giovane che parlò concitatamente. 
E da quel giorno la luce degli occhi per sempre si spense.  
  
Il terzo, ahimé, peggio dei due precedenti. 
Sparì un giorno dopo sogni violenti. 
Ossessivo, frenetico, e del tempo amante. 
Di egli non si conosce altro se non il cuore rovente. 
  
Al quarto, alquanto ironica e imprevedibile, 
spettò una sorte davvero ignobile. 
Il giorno in cui le candeline si spensero 
si rintanò nella casa con l’assassino nel pensiero. 
E l’assassino, dopo aver colpito le sponde con lanci da sbanco, 
il biliardo lasciò solo con il pallino bianco. 
  
E di nuovo di lui nemmeno una traccia. 
Ogni scena sempre pulita. 
Ogni vittima crudelmente punita. 
  
Nel caos informe vagano ignari 
gli abitanti dei mondi immorali. 
Quando l’orologio i bei tempi restituì 
Il fantasma solo quel giorno alla quiete ambì.» 

  
Il giovane ascoltò quelle parole, ma gli fu davvero difficile ascoltarle senza alcun pregiudizio. 
Nel non sentire alcuna domanda, la voce gli si rivolse. 
  
“Devo ripetere?” 
  
“Io cosa dovrei fare? Incastrare l’assassino?” 
  
Dalla increspatura del muro cadde un piccolo oggetto metallico che Henry prese fra le dita. 
Era visibilmente un proiettile usato, ma si chiese a cosa diavolo gli potesse servire. 
  
“E’ un piccolo indizio. Ti aspetto, Colui che riceve la Saggezza. E ricorda. Ho bisogno che tu raggiunga il luogo del delitto e che mi porti una prova della sua esistenza.” 
  
Henry a quel punto si lasciò incuriosire. 
  
“Una prova della sua esistenza?” 
  
“Un po’ di fantasia, no? Sei un fotografo. Usa la tua macchina fotografica per la scena del crimine. Ti chiedo solo questo, in fondo. Non dovrebbe essere difficile per te.” 
  
“Come faccio a sapere se ho trovato quello che cerchi?” 
  
“Troverai un telefono lì. Mi telefonerai qui nell’appartamento e io ti fornirò ulteriori indizi.” 
  
Sospirò. Poi aggiunse. 
  
“Buona fortuna. Il varco dovrebbe essere oramai pronto.” 
  
Il volto di Henry si rivolse in direzione del corridoio e il cuore prese a battere forte. Qualcosa lo stava legando sempre più forte al mondo di quell’assassino e lui non poteva fare altro che proseguire e in qualche modo sopravvivere. 
  
Oppure… 
  
Scosse la testa. Già sapendo di non avere nessuna via di scampo, si mise il proiettile in tasca. Afferrò la macchina fotografica per poi dirigersi nel ripostiglio, mentre l’essere dietro al muro cominciò a sibilare velocemente delle parole a denti stretti, ma questa volta non ne comprese il significato. 
  
*** 
  
[IL MONDO DEL PALAZZO. Sul terrazzo] 
  
Quello sì che era un ambiente bizzarro. Del resto Henry ci aveva riflettuto già a quel tempo. 
Il St. Jerome, la foresta, la prigione cilindrica e la metropolitana di Ashfield… 
Avevano un filo rosso che le collegava, un filo rosso di nome Walter Sullivan. 
Invece il mondo del palazzo? Che significato aveva? 
Senza contare la sua essenza caotica. Il suo essere completamente fuori il controllo delle leggi sociali, naturali, logiche e quant’altro. 
Corridoi assurdi, porte sfondate, reticolati, rumori metallici e inquietanti, pareti crivellate, stanze prive di senso… 
Che accidenti di mondo era? 
In tutto questo, dal terrazzo, Henry poteva intravedere tranquillamente gli appartamenti di South Ashfield Heights. 
  
Un mostro dalla pelle rovinata e dalle vaghe fattezze umane saltò all’improvviso sul tetto e piombò di fronte ad Henry. Era un nemico violento e iroso, ma per il ragazzo non fu difficile metterlo al tappeto. 
Non comprendeva il senso nemmeno di quei mostri. Anzi, gli facevano persino schifo. 
Allontanò da sé il tubo di metallo reperito in zona e si avvicinò al parapetto, rimanendo ad osservare quel panorama alla fine per nulla strano. 
Peccato si trovasse nella realtà parallela, altrimenti avrebbe potuto perfino credere di essere semplicemente fuori casa. 
Dalla tasca poi estrasse il proiettile e si domandò a che diavolo potesse essergli utile. Non ricordava molto bene quella sorta di filastrocca malsana, ma cercò ugualmente di far tesoro dei piccoli indizi offertogli. 
  
“Il primo tratta di un omicidio violento.” sussurrò. 
  
Riflettendoci, un tempo, durante il suo viaggio nei grandi magazzini di South Ashfield, Henry trovò un vecchio giornale insanguinato ai piedi della porta del negozio di animali. 
A quel punto, prese in mano il suo album di ritagli e cominciò a sfogliarlo. 
Effettivamente ricordava bene. 
Secondo il giornale, diversi anni prima, all’incirca dieci, un uomo fu ucciso violentemente da un assassino ignoto senza alcuna ragione. L’uomo pareva non avere precedenti con qualcuno e la cosa accadde senza alcuna finalità. 
Almeno in apparenza, se la deduzione di Henry non era errata. 
Perché ci poteva scommettere quel che voleva, quell’uomo era stato assassinato da Sullivan. 
Decise, comunque, che valeva la pena andare a controllare nel pet shop. 
  
Un uomo ucciso senza motivo crivellato di colpi assieme a tutti i suoi animali… 
Gli sembrava una morte parecchio violenta e…partorita degnamente dalla mente di Sullivan. 
Si chiedeva solo se per lui sarebbe stato possibile coglierlo sul fatto nella realtà parallela. Perché, nel mondo reale, di quell’omicidio non vi era mai stata trovata alcuna traccia. 
  
Quella voce, tuttavia, gli aveva chiesto espressamente una prova. Chiuse l’album di ritagli e si diresse velocemente nel negozio. 
  
Aveva ancora la vecchia mappa con sé, per cui riuscì a muoversi senza incombere in vicoli ciechi o corridoi che gli confondessero il tragitto da intraprendere. 
Perché sì, quel luogo era caotico in tutto. 
A differenza degli altri ambienti visitati in precedenza, fu costretto a portare con sé molteplici armi di fortuna, perché i mostri dalle vaghe fattezze umane erano presenti pressoché ovunque e lo costrinsero spesso ad agire offensivamente nei loro confronti. 
Fino a quel momento, aveva avuto raramente bisogno di un’arma. Si chiese se quella violenza e brutalità avessero un senso, ma preferì inoltrarsi nell’ambiente rugginoso e consumato, illuminato appena dalla notte profonda, limitandosi a spianare la strada. 
  
Una volta giunto di fronte il negozio di animali, osservò la mappa un’ultima volta prima di entrare. Strinse la macchina fotografica fra le mani chiedendosi se avrebbe funzionato. 
Girò il pomello molto lentamente e sbirciò appena in direzione del negozio. Con lo sguardo cercò di stare ben attento a cogliere qualsiasi presenza ostica presente lì dentro, ma nulla gli sembrava fuori posto, in verità. 
Il negozio aveva i suoi soliti scaffali con articoli per animali, oggetti impolverati, ed era completamente deserto. Una volta inoltratosi, corrucciò il viso infastidito. 
  
Si trovava lì per colpa di una voce che non aveva nemmeno voluto mostrarsi a lui. 
Egli era il ricevitore di saggezza, ma ne aveva le tasche piene di quell’assurdo rituale e di quello snervante appellativo. 
Il suo status lo costringeva a vivere le esperienze determinanti di Sullivan, ma non era facile sostenere psicologicamente la mente di un assassino. 
Perché Henry stesso stava cominciando ad avere paura di non riuscire a pensare ad altro. Ma lui una vita sua l’aveva e…diavolo! La rivoleva! 
Ma era costretto a conoscere quel mondo nel quale era rimasto bloccato assieme a lui, all’uomo col cappotto. 
Perché era come se non fosse solo il suo appartamento a subite tutte quelle manifestazioni, ma fosse la sua mente stessa a risentirne la forte influenza. 
  
Tornò a scrutare l’ambiente, convinto che ci fosse un tranello o un inghippo, ma non trovò nulla di strano, al che cercò un telefono qualsiasi, che in teoria avrebbe dovuto essere lì. 
La voce stessa glielo aveva garantito, ma non trovò nulla che sembrò rassomigliare ad un apparecchio telefonico. 
Così uscì dalla porta secondaria posta oltre il bancone con la vecchia cassa arrugginita. 
Una volta fuori, trovò, ai piedi del ciglio della porta, di nuovo quel giornale sporco e datato. Lo prese fra le mani e lesse nuovamente quell’articolo riguardante una morte violenta. 
Un uomo, un tale Steve Garland, fu brutalmente assassinato con furiosi colpi di mitragliatrice. L’uomo venne crivellato in tutto il corpo tranne che nel torace, nel quale, dopo l’autopsia, si venne a conoscenza mancasse il cuore. 
  
  
“La polizia di Ashfield sostiene che alle 8e30 di ieri sera, testimoni nei pressi del negozio di animali, Garland’s, hanno detto di aver udito diversi colpi di arma da fuoco, possibilmente sparati da un’arma automatica. Quando la polizia è accorsa sul posto, il colpevole era già fuggito e il titolare del negozio, Steve Garland, è stato trovato morto con una ferita al capo, probabilmente causata da una mitragliatrice. 
Tutti gli animali del negozio erano stati brutalmente massacrati ed il locale letteralmente devastato. 
Inoltre, secondo fonti attendibili, il cuore di Garland era stato asportato, e cinque numeri sono stati trovati incisi sulla sua schiena…” 
  

(Articolo di giornale trovato nel mondo del palazzo 
ai piedi della porta secondaria del negozio di animali di Garland) 

  
  
“!!!” 
  
A quel punto partirono dei furiosi rumori metallici all’interno del negozio di animali. Henry sgranò gli occhi allontanandosi immediatamente e accovacciandosi sulle scale, pronto a nascondersi da un eventuale Walter Sullivan. 
Erano dei colpi di mitragliatrice ed Henry si sorprese di quanto fossero forti e numerosi. La porta, si rese conto solo allora, era crivellata completamente e al suo interno si sentivano scrosci, oggetti che si andavano a frantumare, i versi doloranti di svariati animali domestici… 
Il ragazzo dai capelli castani strinse gli occhi, incapace di rimanere indifferente a quei suoni che lasciavano intuire quali orrori stessero accadendo lì dentro. 
Non appena i colpi si fermarono, attese qualche attimo, poi, vedendo che non stava accadendo assolutamente nulla, decise di inoltrarsi nel locale nuovamente. 
Se prima aveva avuto l’impressione che tutto fosse come al solito, adesso quel che vedevano i suoi occhi era terribile e nauseante anche solo sbirciando appena dalla fessura. 
Un odore organico riempiva il locale, destando una terribile nausea al ragazzo, ma quello non era certo il peggio. 
Il ragazzo estrasse dalla tasca il proiettile e lo confrontò con i centinaia presenti nel pet shop. Erano gli stessi utilizzati dalla mitraglietta. 
Alzando gli occhi, le pareti, gli scaffali, gli articoli, i banconi…tutto si era tinto di rosso. 
Henry portò una mano alla bocca disgustato, cominciando a tossire forte e a rigettare non sopportando quell’odore fetido di morte. 
Quello che aveva dinanzi a sé era terribile e sebbene i corpi degli animali e del signor Garland mancassero, il loro sangue fresco rimaneva, ricordandogli così la terribile e violenta strage che venne fatta in negozio. 
Cercò di controllarsi e una volta recuperata la sanità mentale, con la manica della camicia all’altezza della bocca, cominciò a perlustrare il posto, sentendo il terribile appiccicume sotto le scarpe creato dal sangue. 
Solo quando giunse all’altezza di uno degli scaffali si accorse della vecchia gabbia nella quale, un tempo, sistemò un vecchio gatto imbalsamato. Fu uno degli inghippi che gli servirono per scendere nella parte profonda di lui. 
A quel punto, Henry cominciò a ragionare. 
  
Gli oggetti erano quattro e si trattavano di un gatto imbalsamato, di un pallone da pallavolo, di delle candeline per una torta e di un pallino per il biliardo. 
  
Erano quattro, come gli omicidi presenti nella filastrocca di quella voce. 
  
Subito estrasse la macchina fotografica e cominciò a scattare delle fotografie all’ambiente. Quello era il posto descritto, non aveva dubbi. Aveva solo bisogno di un telefono, adesso, ma accidenti! Non lo vedeva da nessuna parte! 
Cominciò a camminare e accidentalmente inciampò su qualcosa di solido che lo fece cadere a terra sul pavimento sporco di sangue, tingendo così una parte della camicia bianca. 
  
“Ah...” disse e il suo sguardo andò nella direzione dell’oggetto che lo aveva fatto cadere. 
  
Sgranò gli occhi quando vide quel gatto nero imbalsamato, a terra. Lo prese e nell’osservarlo gli vennero dei terribili brividi nel vedere quanto sembrasse vivo. 
  
“Sei quello dell’altra volta…” 
  
Sebbene fosse u po’ sporco, vedeva chiaramente il fiocco rosa attorno al collo e lo riconobbe. Si chiedeva solo che ci facesse a terra. 
Nel vederlo, tuttavia, comprese di colpo il senso di quella filastrocca. Sebbene non la ricordasse affatto bene, ora comprendeva chiaramente che fosse riferita ai quattro oggetti del ricordo che trovò durante il suo scorso viaggio. Tutti quegli oggetti, allora, riguardavano un brutale omicidio. Un brutale omicidio legato a Sullivan. 
Riposizionò dunque il gatto nella gabbia, proprio come fece a quel tempo. Si chiese se dovesse fare così anche per gli altri tre oggetti… 
  
DRII..DRII... 
  
Un rumore telefonico echeggiò all’improvviso ed Henry si girò attorno scorgendo un telefono proprio sullo scaffale alle sue spalle. 
Sgranò gli occhi, convinto che prima non ci fosse, ma ugualmente alzò la cornetta e rispose. 
  
“…esatto, Henry.” 
  
Henry deglutì. Era proprio la voce con cui aveva parlato in casa. 
  
“L’uomo che è morto qui è Steve Garland..?” 
  
“Hai cominciato davvero bene. Vedo che hai già compreso il significato del mio lavoretto per te.” 
  
Quelle parole lo turbarono non poco. Possibile che lo avesse sentito? Ma lui, quelle parole, le aveva solo pensate… 
  
“Hai fatto le foto? Le hai viste?” 
  
“No, non le ho viste…” 
  
Accese la macchina fotografica e dallo schermo digitale cominciò a guardare le fotografie scattate. Qualcosa tuttavia attirò la sua attenzione. 
La sua foto non ritraeva il locale sporco di sangue e con i mobili sottosopra. 
Il negozio di animali invece era integro e sullo sfondo poteva intravedere un ragazzino dai capelli biondo scuro venire rimproverato da un uomo dall’aria nervosa. 
Il ragazzino sembrava scosso, ma in qualche modo il viso corrucciato trasmetteva anche rabbia. L’uomo invece sembrava parecchio adirato. Era alto e muscoloso e aveva fra le mani un animale. 
Nel guardarla meglio, Henry sobbalzò all’idea di aver fotografato un ricordo del Walter Sullivan giovane. 
  
“Ah! Ma…” urlò, ma la voce lo precedette. 
  
“Ah, povero bambino, eh? Un mondo caotico per lui che voleva solo rivedere la madre. 
Un mondo caotico che non aveva fatto altro che perseguitarlo, torturarlo, malmenarlo mentalmente e fisicamente. 
  
Leggi tanta rabbia nei suoi occhi, vero? 
  
Si accorse subito di quel piccolo animale costoso e pregiato fra le braccia dell’uomo. E, invece, la considerazione che aveva di lui era nulla. Manco fosse un cane randagio.
  
Per lui non pesava nulla. 
Non costava nulla. 
Era solo feccia per lui. 
  
Ah, ma Walter dopo anni e anni si vendicò e dei suoi animali preziosi ora nulla esiste più. 
Strana la morale di questa storia, no?” 
  
Henry aveva ancora gli occhi rivolti verso la macchina fotografica. Ripensò ai rumori della mitragliatrice sentiti in precedenza. Quel sangue, quei lamenti… 
Quel brutale omicidio era il possibile frutto di una vendetta covata nel profondo di un bambino sentitosi tutta la vita un “cane abbandonato”? 
  
“Vuoi…l’altro indizio? È nella gabbia. Sentiti libero di agire quando vuoi. 
Io ti aspetto. 
Ti ricordi come faceva, vero? 
  
E il telefono a quel punto si riattaccò. Henry posò la cornetta del telefono. Osservò nella gabbia dove aveva posizionato il gatto e vi trovò un mazzo di chiavi. Esaminandole vi lesse una targhetta con su scritto Albert’s sport. A quel punto, Henry non poté far altro che dirigersi lì e negli altri tre ambienti restanti. 
  
[IL MONDO DEL PALAZZO. Albert’s sport] 
  
Una volta trovato il pallone, Henry indugiò qualche attimo prima di posizionarlo nella cesta. Non appena lo fece subito scattò una fotografia del posto, chiedendosi chi fosse l’uomo legato a quel centro sportivo. 
A sua grande sorpresa la manifestazione non avvenne tramite la macchina fotografica, ma un uomo in carne e ossa entrò, all’improvviso, dalla porta d’ingresso.
Era un uomo di circa un metro e settanta e anche lui, come il precedente, aveva una corporatura prestante. 
Sembrava pensieroso e non faceva altro che frugare in giro mormorando il suo disperato tentativo di cercare una palla. Osservò il cesto e vide che tutto era in ordine. 
Senza accorgersene, Henry osservò l’uomo con profonda attenzione, come se nella sua mente cominciassero ad echeggiare da soli dei ricordi riguardo quel tipo. 
Era il proprietario del negozio ed era da sempre stato un avido sportivo. Entusiasta della forma fisica e del suo lavoro. Molto sensibile e amante dell’ordine, già da quella mattina cercava quella dannata palla che non si trovava da nessuna parte. 
All’improvviso un ragazzo giovane entrò dalla porta, con uno sguardo elettrico e dall’aria entusiasta. 
Henry l’osservò attentamente accorgendosi che nemmeno lui riuscisse a vederlo. 
  
“Rick.” lo richiamò. 
  
“Sei già qui, Walter? Cosa vuoi?” chiese l’uomo. 
  
Un momento… 
Quel ragazzo…era Walter Sullivan?? 
A guardarlo meglio sembrava proprio lui, anche se più giovane a dall’aria meno trascurata. I capelli erano tagliati e ordinati, non aveva quell’accenno di barba e nemmeno degli abiti malridotti. 
Ma la corporatura era grossomodo quella, così come i capelli biondi e gli occhi verde chiaro. 
  
Henry non era a conoscenza del fatto che Walter, a quei tempi, fosse un dipendente dell’Albert’s sport. La cosa lo lasciò letteralmente senza parole. Eppure, all’improvviso qualcosa quadrò nella sua mente e comprese che anche la palla fosse un oggetto simbolo di un’altra sua vittima. 
  
Il ragazzo aveva un’aria quasi eccitata e sembrava voler richiamare l’attenzione del proprio datore di lavoro. Parlò concitatamente, non appena questi gli si rivolse. 
  
“E’ morto ieri sera quello giù al negozio degli animali. Garland.” 
  
Rick si girò, con aria sgomentata. 
  
“Steve è m-morto? Dio mio, cosa dici??” urlò scioccato. 
  
Henry sentì una fortissima tachicardia. Perché sapeva benissimo che fosse stato proprio Walter ad assassinarlo. Invece era lì, tranquillo e persino con un ghigno soddisfatto sul viso. 
Aveva, fino a poche ore prima, massacrato un uomo, degli animali e distrutto un negozio, e riusciva a mantenere un sangue così fretto e addirittura compiaciuto? 
Walter era decisamente un uomo inquietante. Se non ne fosse stato costretto, non avrebbe mai e poi mai cercato di avere a che fare con lui. 
  
Il biondo annuì infischiandosene completamente del fatto che Rick sembrasse sinceramente sconvolto. 
  
“Alle 20:30. L’omicidio è avvenuto mentre Steve era sul posto di lavoro presso il Garland’s. Stava appena accertandosi che gli animali stessero bene, quando un uomo sconosciuto è venuto alle sue spalle con una mitraglietta semiautomatica crivellando l’ambiente e colpendo molteplici razze di animali pregiati tra cani, gatti, roditori, pesci o rettili. Steve è stato ferito gravemente su tutto il corpo, ma il proiettile che gli ha dato la morte è quello che lo ha colpito in testa. Il cuore di Steve è stato asportato via e sulla schiena vi è stato inciso un marchio.” 
  
Walter aveva parlato in maniera così competente che sia Rick che Henry lo stavano guardando allibiti. Rick si chiedeva come potesse conoscere tanti dettagli di un omicidio avvenuto appena la sera prima. 
Walter rise appena, poi fece per andar via e gli si rivolse. 
  
“Ti vedo sconvolto, Rick. Dovresti riposarti. Credimi, ne hai bisogno…” 
  
A quel punto il flashback terminò e i due scomparvero. 
  
DRII…DRII… 
  
Un telefono all’improvviso squillò ed Henry, da dietro il cesto pieno di palle da pallavolo, distinse un telefono. Quando alzò la cornetta udì nuovamente quella voce. 
  
Il secondo invece, un brav’uomo. 
Del suo lavoro ne faceva tesoro. 
  
Ogni cosa era sempre al suo posto. 
Le mazze sul banco. Le palle nel cesto. 
  
Quando un qualcosa lì mancò veramente. Entrò un giovane che parlò concitatamente. 
E da quel giorno la luce degli occhi per sempre si spense. 
  
Lo hai trovato?” 
  
“R-Rick…” guardò il mazzo di chiavi e lesse il nome di Albert’s sport. “…Rick Albert. Il proprietario del negozio sportivo è la vittima.” 
  
“Ricordato gli altri due? Ti aspetto. Non mi deludere. Conto su di te.” 
  
E il telefono si chiuse. 
  
[IL MONDO DEL PALAZZO, nei pressi del bar] 
  
Henry aveva appena vissuto due esperienze analoghe alle precedenti. 
La prima… 
Un uomo, un povero anziano, aveva ricevuto una visita inquietante nel suo negozio di orologi. Era un tipo vestito di scuro e aveva un orologio che gli aveva affidato. Non era un oggetto qualsiasi e l’uomo se ne accorse subito. 
Da quel giorno, tuttavia, cominciò a fare un curioso sogno. Un sogno che riguardava tutti quei terribili omicidi ambientati nei grandi magazzini di South Ashfield. L’anziano William Gregory era costretto a vivere all’infinito quei sogni senza poterne comprenderne il senso. 
Un cesto pieno di palloni da pallavolo...un gattino che continuava a miagolare... festoni ed una torta su un tavolo... una stanza alla rovescia... palle da biliardo che si muovevano senza che nessuno stesse giocando. Era come se il sogno cercasse di dirgli qualcosa. 
  
Henry non aveva potuto far nulla per lui. Così Walter Sullivan lo aveva ucciso con un cacciavite a testa piatta. 
  
Poi l’ultima… 
Aveva ancora gli occhi fissi sulla pallina da biliardo, che gli aveva mostrato la vita di un giovane barista longilineo che amava guidare e giocare al biliardo. 
Era stato l’ultimo della lista e il giovane, seriamente preoccupato per tutti quegli omicidi, decise di chiudere prima il bar per dirigersi a casa. 
Henry aveva vissuto il flashback in due tempi. Al bar, mentre il barista mostrava la sua preoccupazione per l’inafferrabile killer, e a casa, dove si era ritirato per festeggiare il suo compleanno. I festoni erano già appesi così come le candeline della torta. Tra parentesi, l’altro oggetto del ricordo reperito da Henry sul posto. 
Tuttavia la casa era vuota e il giovane barista, di nome Eric Walsh, non trovò nessuno dei suoi amici o familiari. Lo vide aggirarsi per casa non sapendo di certo che avrebbe trovato tutt’altro che una festa. 
Eric morì di lì a poco con un mortale colpo di arma da fuoco in testa. 
  
Henry non aveva avuto più la forza di proseguire oltre, straziato dalle vite negate a quelle persone, e allo stesso tempo dalla rabbia che Walter Sullivan stesso aveva provato. 
Non comprendeva. Semplicemente non ce la faceva più. Voleva solo che tutto finisse. 
Vide il buco posto nella stanza stessa e decise di entrarvi, mentre un orologio cominciò a ticchettare da lontano, proprio come era accaduto a quei tempi. 
E se quelle vittime, Walter compreso, avessero solo desiderato rivivere un po’ i vecchi tempi? I tempi dove ancora la vita sorrideva al futuro, ignara. 
Prima di solcare il passaggio per l’appartamento 302, riportò alla mente un vecchio quaderno che trovò nei magazzini stessi. 
  
Voglio tornare a quei tempi...
Ero felice allora...
Il giorno del mio compleanno...
Il gattino nel negozio di animali...
Tutti quei palloni nella cesta...
E giocare a biliardo era bello...
Le porte del tempo erano spalancate...
Quando vedo queste quattro cose, non posso non ricordare quei tempi...
 
  

(diario trovato all’ingresso dei grandi magazzini) 

  
  


«Nel caos informe vagano ignari 
gli abitanti dei mondi immorali. 
Quando l’orologio i bei tempi restituì 
Il fantasma solo quel giorno alla quiete ambì.» 

  
  
[APPARTAMENTO 302, South Ashfield Heights] 
  
Henry si risvegliò sul letto. La testa gli doleva terribilmente e ci impiegò del tempo prima di rialzarsi, rigirandosi con la schiena e lasciando intravedere la camicia ancora sporca di sangue. 
Sbirciò la macchina fotografica e vide che le fotografie erano sparite, segnando così la memoria completamente vuota. La cosa avrebbe dovuto sorprenderlo, ma alla fine si ritrovò una tale stanchezza e stress in corpo, che preferì buttare sul comodino l’apparecchio e non curarsene affatto. 
Si affacciò poi e rivolse lo sguardo alla grande insegna che poteva intravedere perfettamente dalla sua finestra. 
  
DRII... DRII...
  
Henry sentì il suo telefono squillare e rispose, questa volta con voce profonda e rassegnata. 
  
“Sei tu?” 
  
“Già. Perché non mi hai più risposto dopo il negozio sportivo?” 
  
Henry respirò appena, poi parlò a voce bassa. Per le ultime due vittime, non aveva risposto al telefono che lo chiamava ripetutamente. Non ce l’aveva fatta e non ne poteva più di quel viaggio che mostrava a lui solo e soltanto morte. 
  
“Le ho fatte le foto. I nomi sono William Gregory e Eric Walsh. Non ho trovato Walter e le foto sono sparite dalla macchina fotografica.” 
  
“Lo credo bene. Lui qui non esiste. Qui quegli omicidi non sono mai stati risolti.” 
  
Henry lo trovò logico lì per lì, e poco si curò della sua mente che invece voleva andare in subbuglio. Chissà, magari si stava abituando a quel mondo fuori dalla realtà e dalla razionalità. 
  
“Non so chi sei, ma…” la voce di Henry si fece più bassa e strozzata. “Perché? Perché io e Walter non possiamo riposare in pace?” 
  
Henry non ce la faceva più. La sua mente voleva fuggire da lì, e anche lo stesso Sullivan. 
Sentiva infatti che l’ansia che gli saliva in corpo non riguardasse soltanto lui, ma anche Walter, torturato anch’egli nel rivivere gli incubi degli omicidi commessi, della sua infanzia e della sua vita. 
Entrambi erano dannati in quell’inferno. 
La voce ci impiegò un po’ per rispondere, la sentiva mormorare e sospirare. 
  
“Secondo la concezione dantesca, l’inferno altro non è che il varco attraversato dalle anime le quali non hanno raggiunto la pace eterna e hanno condotto una vita lontana dalla luce di Dio. L’anima viene rinchiusa in bolge e gironi ed è destinata a rivivere le pene del peccato. Dio non perdona queste anime che, sebbene morte, hanno ancora gli occhi rivolti alla vita, bramando ed invidiando i vivi. Il dolore, la sofferenza, la rabbia…tutto è vivo lì e sono i costanti compagni dell’anima peccatrice. Henry…anche tu fai parte del peccato di Walter Sullivan. Tu vivi come lui le pene del suo inferno. L’inferno creato da lui stesso. Sullivan…ha deciso il suo destino da solo.” 
  
Henry a quelle parole sbottò. Rise con una rara espressione beffarda che quasi lo rendeva irriconoscibile. Gli occhi verde pallido trasmettevano un forte disprezzo e arroganza. 
  
“ ‘Ha deciso’? Direi che è stato il ‘caos’ da te nominato a decidere! Non si può creare un mostro e poi cacciarlo via incolpandone l’esistenza. Quel mostro…” riflette e parlò con voce rauca. “Quel mostro è l’equivalente delle stesse pene subite anch’egli!” 
  
Anziché sentirsi ancora una volta prigioniero di quel mondo, questa volta era scattato in difesa del suo nemico: Walter Sullivan. Non ne aveva motivo, ma era stata l’ultima frase a scaldarlo. 
Una gran rabbia era venuta su fin dalle viscere. Questo perchè… 
Ripensò a Andrew De Salvo, che l’aveva picchiato e abusato di lui. Ripensò alla Wish House. Alla sua vita completamente esente da ogni contatto umano o affetti. 
E sotto quel punto di vista, anche lui oramai non conosceva più cos’era l’affetto. Così tanto da temerlo oramai. 
  
“…sta arrivando.” disse la voce improvvisamente. 
  
Anche la voce sembrò cambiare tono. 
Forse era colpa della stanchezza, ma gli parve quasi di riconoscere quel tono di voce. 
Assomigliava quasi a… 
Ma era impossibile. Irrazionale. 
  
Quell’uomo, intanto, chiuse gli occhi, sparendo definitivamente nelle tenebre del ripostiglio murato, conoscendo perfettamente le pene dell’inferno descritte prima. 
Riprese a mormorare silenzioso, muovendo le labbra a una velocità assurda e pronunciando parole incomprensibili. 
Sul suo corpo era possibile intravedere terribili cicatrici e sfregi. 
Di cui, uno fra questi…rappresentava un marchio ben preciso. 
Ma il buio lo pervase e la sua figura sparì completamente. 
  
Si era del tutto eclissato, come se non fosse mai esistito. 
  
Henry riavvicinò la cornetta del telefono all’orecchio ma la linea era caduta già. Lentamente riabbassò la cornetta e attese. Attese perché Walter Sullivan era arrivato. 
  
Regnò, per alcuni istanti, infiniti istanti, il silenzio più totale. Henry era in allerta e aspettava che avvenisse. 
  
La porta poi bussò. 
  
Henry alzò lo sguardo e lo diresse verso il corridoio. 
Erano dei colpi persistenti che andavano a rimbombare per l’appartamento echeggiando in maniera quasi estenuante. Un colpo, un attimo di attesa e poi un altro e un altro ancora… 
Henry si avvicinò sempre di più deglutendo appena, finché non fu vicino alla porta d’ingresso e lentamente tese l’occhio verso lo spioncino. 
  
  
*** 
  
FINE PRIMA PARTE 
  
  
*** 
  
  
“Contento adesso, piccolo scherzo della natura? Te lo sei meritato! Questi vestiti fanno schifo. Non li voglio vedere! Lo so… è perfetto per avvolgerci il suo corpo. Aspetta, aspetta…quello voglio tenerlo per me. Tu!! Ancora qui a ficcanasare?! Vattene via prima che m’incazzo davvero!” 
  

(Cassetta di Mike scuoiato. Trovata nell’appartamento 205) 

  
[APPARTAMENTO 302, vicino l’ingresso della porta incatenata] 
  
Qualcuno stava battendo alla porta lasciando così rimbombare quel suono a tratti malsano per il corridoio. Henry Townshend si avvicinò lentamente, sapendo bene che quello era solo l’inizio della nuova manifestazione dei ricordi di Walter Sullivan. 
Fino a qualche attimo prima aveva persino preso le difese di quell’assassino e effettivamente non riusciva nemmeno a spiegarsene il motivo. Per lui un killer rimaneva tale nonostante tutto. Perché aveva provato quella rabbia nell’udire simili parole? 
  
Fece per affacciarsi allo spioncino della porta, ma delle urla attirarono la sua attenzione. 
  
“Ma chi c’è qui fuori?” sussurrò perplesso. 
  
Si sorprese di udire la voce di un bambino e dei passi correre frettolosamente. 
Quando si affacciò alla porta, ebbe davanti a sé una scena alquanto inaspettata. 
  
Un bambino biondo stava correndo a perdifiato e passò proprio davanti alla porta dell’appartamento 302 strillando e scappando. 
  
“Mamma! Mamma!” 
  
A seguirlo come un persecutore, vi era un uomo dai capelli scuri e gli occhi azzurri. Aveva una corporatura massiccia e pur non essendo particolarmente alto, i suoi occhi e l’atteggiamento trasmettevano imponenza e arroganza. Aveva uno sguardo capace di penetrare nell’animo delle persone e di metterle in grande soggezione. 
Indossava una camicia celeste e una cravatta raffigurante una donna in stile arte classica. 
Ad ogni modo, sebbene apparisse diverso da come lo ricordava, Henry lo riconobbe immediatamente nell’uomo che abitava di fronte al suo appartamento, nell’ala opposta al palazzo. Richard Braintree. 
  
Non aveva avuto molto modo di avere a che fare con lui e, in ogni caso, nessuno gli aveva mai consigliato di farlo, lì nel palazzo. 
Stesso lui ebbe modo di confrontarsi con il suo carattere autorevole e altamente sicuro di sé. 
In quel momento lo vide davvero in uno stato di collera totale, mentre inseguiva quel bambino che…un momento, era Walter! 
Che cosa ci faceva lì? 
  
“Mi hai rotto, piccolo bastardo! Piantala e gira a largo da qui!” urlò Braintree brandendo un revolver. Quello stesso revolver che egli possedeva a quel tempo, quando lo incontrò nei magazzini di South Ashfield nel mondo alternativo. 
  
Alla fine Braintree riuscì a raggiungere il piccolo Sullivan, strattonandolo per un braccio e tirandogli il maglioncino sgarbatamente. 
Henry fece fatica a seguire la scena, non avendo un lungo raggio visivo che gli permettesse di scorgere i dettagli, ciononostante fu sufficiente per cogliere al volo la situazione. 
  
Sebbene fosse così piccino rispetto all’uomo, vide Walter non proferire parola, ma guardarlo minacciosamente con i suoi occhi che, a insaputa di Braintree, avevano già visto gente violenta quanto e più di lui. 
  
“Levati di mezzo!” disse tirandosi lontano da lui. 
  
“Insolente! Tu sei nella MIA proprietà e le regole le stabilisco IO? Chiaro?! Oggi è la buona volta in cui ti ricordo perché non devi venire più a ficcanasare qui!” 
  
Intanto un brusio si cominciò ad avvertire lungo tutto il pianerottolo. Nell’udire quelle urla, degli inquilini si erano avvicinati cautamente. 
Erano già abituati al loro vicino di casa Richard Braintree e alla sua insofferenza per i ragazzini. Specie per quello li. 
Ma quel giorno sembrava più nervoso del solito, al che furono tutti lì, a guardarlo. Senza avere, comunque, il coraggio di dire o fare qualcosa. 
Henry sentì solamente i loro mormorii. 
  
“Quel bambino è così fastidioso. Sempre ad aggirarsi da queste parti…ma Richard non ha alcuna pietà!” 
  
“Questa è la volta buona che lo picchia, ce l’avete una telecamera?” 
  
“Ma quella che ha in mano è una pistola??” 
  
“Non si può stare fermi a guardare! Io chiamo il custode!” 
  
Alla fine uno degli inquilini, una donna giovane con addosso un corto camice da infermiera, si affrettò a chiamare il custode Sunderland. Di lì a poco, infatti, la donna dai capelli castano chiaro tornò con la figura di Frank Sunderland alle spalle. Anch’egli più giovane e con un’estetica molto simile a quella che Henry gli vide nell’ospedale St. Jerome. 
Si avvicinò a Braintree e, sebbene mostrò un certo sangue freddo, s’intravedeva persino nei suoi occhi un leggero timore nei confronti del turbolento inquilino. 
  
“Richard, andiamo, è solo un ragazzino. Posi quell’arma.” disse. 
  
L’uomo si voltò con gli occhi ancora colmi di rabbia e Walter approfittò bene di quel momento per mordergli la mano e scappare via, passando fra gli altri inquilini che non fecero nulla per fermarlo. 
  
“Ouch! Brutto figlio di…!” 
  
“Ho un figlio quasi della stessa età. Abbia pazienza con quel bambino.” sospirò, poi Frank aggiunse. “E’ fastidioso che venga sempre qui, tuttavia…” 
  
Il custode gli parlò in modo pacato, proprio come era suo solito fare. Frank Sunderland aveva sempre avuto un atteggiamento molto paterno e cordiale con la gente ed Henry lo apprezzava molto. 
  
“Tuttavia un cazzo!” lo interruppe Richard. “E’ tuo dovere evitare che i rompicoglioni entrino nella palazzina! Non fare il vecchio pappamolla e fa il tuo lavoro, custode!” 
  
Così Richard andò via e il custode si allietò almeno del fatto che, per quel giorno, nessuno si fosse fatto male. Si avvicinò cortesemente agli altri inquilini che ancora stavano a mormorare fra loro e li invitò a riprendere le proprie faccende personali. 
  
A quel punto Henry si allontanò dallo spioncino, leggermente turbato. 
Da quel che ricordava, Walter Sullivan prendeva spesso la metropolitana o l’autobus per raggiungere sua madre, ovvero l’appartamento 302. Spesso creava malcontento dentro la palazzina date le sue numerose visite. 
Questo poteva rendeva più chiaro, dunque, perché anche il suo vicino di casa, Richard Braintree, fosse legato in qualche modo all’assassino. 
  
Si avvicinò istintivamente al ripostiglio e aprì la porta. Si ritrovò così ad osservare il largo buco contornato dalle quattro placche della tentazione, della fonte, della vigilanza e del caos. 
Si sedette lì rimanendo a fissare le tenebre al suo interno non riuscendo a scorgere nulla. Ascoltando bene i brusii che venivano dal suo interno, ad Henry parve di udire il tipico caos presente negli ambienti affollati. 
Sapeva che lì avrebbe trovato qualcosa e sapeva che solo lì avrebbe potuto trovare Sullivan, al che entrò nuovamente nella dimensione parallela. 
  
[IL MONDO DEL PALAZZO, South Ashfield] 
  
Delle grosse tubature pendevano dai palazzi che circondavano una stretta via isolata. 
Henry aprì debolmente gli occhi e dinanzi a sé vide il cielo notturno. Girandosi attorno, poteva scorgere una tipica locazione urbana, tuttavia dall’aria molto sinistra. 
Delle voci indefinite echeggiavano nel vicoletto circondato dai palazzi. Sembravano voci umane, tuttavia non ne era del tutto sicuro. Assomigliavano anche a dei versi bestiali o a qualcosa del genere. 
Attraversò il lungo corridoio e si ritrovò presto sul terrazzo del palazzo di fronte gli appartamenti di South Ashfield. 
Si sorprese di essere di nuovo in quell’ambiente, non comprendendo per niente cos’altro avesse da fare in quel luogo assurdo. Pensava di aver chiuso con “il mondo del palazzo”. 
Prima infatti aveva seguito gli omicidi compiuti da Sullivan, che per certi versi avevano chiarito il significato di quel luogo…oppure no? 
La mente di Henry era ancora molto confusa. Decise di seguire il suo istinto e di fare l’unica cosa che potesse fare ancora lì dentro: proseguire. 
  
Scese le scale e si avvicinò alla porta rugginosa posta proprio sul terrazzino. Fece per aprirla quando un rumore di passi attirò la sua attenzione. 
Qualcuno aveva urtato un sassolino o qualcosa di simile, e per il ragazzo fu sufficiente per accorgersi di una piccola figura rannicchiata dietro l’automobile fuori uso, parcheggiata assurdamente proprio sul terrazzo. 
  
“C-chi c’è..?” disse. 
  
Dall’altro lato dell’automobile, un ragazzino si affacciò cercando di scorgere Henry, ma quando i loro occhi andarono ad incrociarsi, subito si ritrasse, muovendosi cautamente lungo gli sportelli dell’automobile. 
Henry si avvicinò ulteriormente, poggiando una mano sul cofano e sporgendosi verso di lui.  Si affacciò lentamente cercando di non spaventarlo, ma il bambino, non appena vide il ragazzo avvicinarsi a lui, gli corse violentemente incontro. 
  
“Uhmpf!” 
  
Il biondino gli calciò improvvisamente lo stinco della gamba e scappò via attraverso la porta rugginosa, lasciando Henry colto alla sprovvista da quel dolore lancinante. 
  
“Ah!” urlò, udendo la porta dietro di sé chiudersi. 
  
Quel piccolo delinquente! 
Non ne aveva la certezza assoluta per via del buio, ma non poteva che essere il piccolo Walter, quel ragazzino! 
Con quasi le lacrime agli occhi, s’inginocchiò toccando la parte della gamba lesa. Dopotutto, anche a lui veniva un forte istinto di inseguirlo e fargliela pagare. Già a quell’età, Walter Sullivan aveva un caratterino incredibile. 
Se Henry in persona aveva notato qualcosa del genere, non si sorprese dunque della poca, se non nulla, pazienza che aveva Braintree nei suoi confronti. 
  
Dopo qualche attimo si rialzò e cercò di recuperare la razionalità che lo contraddistingueva e decise di proseguire avanti. Percorse velocemente la scalinata con le pareti tinteggiate di quel rosso sangue, e si ritrovò nel corridoio d’ingresso di quella che doveva essere, con tutte le probabilità, la casa di Eric Walsh. 
Eric Walsh era il barista ucciso da Walter Sullivan in occasione del suo compleanno. 
Le candele che aveva acceso sulla torta erano ancora lì, intatte, come se il tempo non regnasse in quella stanza. Come se il tempo si fosse fermato in quell’istante ben preciso. 
Osservando le candeline, queste erano accese e il fuoco si muoveva, lasciando un tenue bagliore nella stanza. Eppure la cera non si consumava, non ne vedeva colare alcuna goccia. 
Questo creò turbamento nel ragazzo che decise di proseguire oltre, testimone degli orrori che fossero accaduti in quella casa. 
  
Fece per aprire la porta vicino il tavolo della cucina fino a raggiungere la nuova rampa di scalinate. Arrivò all’uscita e fece per attraversare il nuovo vicolo di fronte a sé quando, mettendo forza sul pomello della porta, vide che questi non girava. 
  
“Ma cosa diavolo..?” 
  
Henry pressò con più forza, sbattendo la mano cercando di far leva sulla porta, ma una forza sconosciuta gli impediva di proseguire oltre. 
Fu in quel momento che sentì la voce di Richard Braintree, dall’altro lato della porta. Sembrava piuttosto nervoso e adirato, e si sentivano dei sinistri rumori di abiti che venivano stracciati. 
Un’altra voce intervenne. A Henry parve di riconoscerla in uno degli inquilini di South Ashfield Heights, ma il suo non aver mai legato troppo con nessuno di loro, gli rese impossibile stabilire altro. 
  
"Ehi, Richard è impazzito di nuovo!" disse e, nonostante le sue parole, sembrava avere un tono eccitato. 
  
"Ha perso la testa stavolta!" aggiunse un altro, anch’egli sembrava molto interessato all’argomento in questione. 

"Scommetto che la prossima volta sarà ancora più divertente!"
 

I residenti dei South Ashfields Heights adoravano parlare di lui. Era famoso per il suo essere irascibile. Questo Henry lo sapeva ed effettivamente, grazie a quella reminiscenza vista dallo spioncino della porta di casa, si rese conto che era così anche da molto prima che Henry venisse ad abitare lì.

“Ma Mike se la caverà dici?”
 
  
“Che importa? Quello del 205 lo ha anche registrato su cassetta! Che cosa pazzesca…” 
  
Tramite una vecchia audiocassetta rinvenuta durante i suoi viaggi negli incubi, Henry aveva scoperto che Richard Braintree, un giorno, aveva per davvero dato di testa. 
Nessuno aveva mai parlato di quell’incidente in maniera palese, eppure da allora sembrava sempre che, quando ci fosse quell’uomo, tutti si aspettassero sempre una reazione incredibilmente spettacolare. 
  
L'incidente peggiore avvenne quando Mike, residente dell'appartamento 301, andò a sbattere contro la spalla di Braintree, casualmente, mentre camminava nel corridoio. Henry lo aveva saputo sempre tramite quell’audiocassetta. 
  
A quel tempo, Richard era persino più calmo del solito. Nel vedere Mike, già poco sopportato dall’intera componente della palazzina, colse al volo quell’occasione infelice per urlargli contro. 

"Chi credi io sia??"
 
  
Mike abitava affianco ad Henry, ma mai aveva avuto modo di conoscerlo. Tramite gli incubi, aveva solo conosciuto il suo ‘particolare’ hobby di collezionare riviste pornografiche. 
Questo gli aveva dato un appellativo infelice, specie quando si ritrovò a corteggiare l’inquilina Rachel. Un’infermiera che abitava al piano terra di South Ashfield Heights. 
Lo chiamavano per questo ‘stalker’ . Per via dei numerosi fastidi che arrecava alla donna. 
  
Richard quel giorno afferrò Mike per il colletto della maglia, e lo trascinò fin dentro il suo appartamento, il 207.
Di suo era un uomo che se ne infischiava della gente, meno ancora quando era nervoso. Difatti fece tutto davanti agli altri inquilini, che lo guardarono con gli occhi sgranati.
 
  
"Non di nuovo." commentarono alcuni dai loro appartamenti, per poi andare nella 207 per assistere a ciò che stava succedendo. 
  
Henry da dietro la porta del mondo del palazzo sentì chiaramente quei brusii. Non poteva ovviamente vedere nulla, ma le voci erano chiare e commentavano Richard uscire dall’appartamento dopo una manciata di minuti, con in mano la maglietta e il jeans di Mike tinteggiati di sangue. 
Lo stesso Mike era uscito dalla porta e corse via, completamente nudo, scappando dolorante. 
  
Henry sentì di nuovo Braintree prender parola e sbraitare contro di lui. 

"Com'è che ti piace, piccolo porco schifoso? Te la sei andata a cercare!" disse mentre Mike scappava via da lui. Richard lanciò via gli abiti di Mike dicendo "Questi abiti sono disgustosi. Portateli via dalla mia vista!"

A quel punto si udì la voce di una donna di mezza età.
 
  
 "Lo so...Sarebbero perfetti per avvolgere il suo corpo." 
  
Henry si chiese che diavolo stessero facendo, ma gli sembrò parlassero degli abiti che Richard aveva gettato a terra. 

"Prendilo! Prendilo... Penso che questa la terrò per me stesso." disse un uomo dalla voce spossata. Un possibile ubriaco. Fatto sta che anche lui sembrava interessato agli abiti di Mike.
 
  
Ma che erano quei vestiti per quella gente? Una specie di trofeo? E dire che Henry si era sempre creduto quello strano…

Ad un tratto, la voce tuonante di Richard sorpassò tutte le altre.
 
  
"TU! Ancora in giro, eh?! Fuori di qui, prima che m’incazzi sul serio!” e si sentirono dei passi correre via. 
  
Henry fissò la porta, perplesso. 
  
“Tu..?” sussurrò. 
  
Un momento! E se quel ‘tu’  fosse riferito al bambino? 
Immediatamente diede una spallata alla porta cercando di sfondarla con la violenza. A quel punto, inspiegabilmente, la forza che impediva ad Henry di proseguire svanì, così il ragazzo si ritrovò a terra dolorante, avendo usato un’energia per niente necessaria per aprire realmente quella porta. 
  
“Ah!” 
  
La pelle bruciava terribilmente. Era finito su un pavimento completamente increspato e sporco. Guardò le mani e vide che erano graffiate e, sentendo anche il viso pulsare e bruciare, comprese di essersi lesionato anche lì. 
Alzando gli occhi verso la stanza nella quale era appena entrato notò che, come immaginava, non vi era nessuno. 
Era una stanza scura, piccola e grigia. Solo la luce d’emergenza sopra la porta garantiva un minimo d’illuminazione all’ambiente. 
Vi era una discreta quantità di scaffali in giro. Tutti dall’aria corrosa e decadente, comunque. 
Su questi vi erano appesi degli strani stracci sporchi. Un terribile odore organico fuoriusciva da questi. 
A guardarli bene, tuttavia, sembravano tutt’altro che stracci. 
Sembravano quasi una traccia lasciata dal ricordo precedente. 
  
“Mike…” 
  
Henry bisbigliò il nome di quel tipo cercando di riflettere. 
Le uniche cose che conosceva di Mike erano una vecchia audiocassetta che aveva rinvenuto nel mondo alternativo, nella sua palazzina stessa. E poi la scena vista in precedenza, che tra l’altro sembrava essere proprio lo stesso episodio registrato sulla cassetta. 
  
Riflettendoci, essa…aveva un’etichetta con su scritto ‘lo scuoiamento di Mike’. 
  
“Oh, mio Dio…” disse, inorridito, rendendosi conto che quegli strani stracci sembravano decisamente della pelle. 
  
Ora che ci faceva caso, in tutto il mondo del palazzo vi erano di quei ‘cosi’ maleodoranti e…possibile rappresentassero proprio lo scuoiamento di quel ragazzo? 
Richard era stato davvero violento con quel tizio, e Walter doveva aver impresso nella sua mente quell’episodio. 
Una visione del genere, effettivamente, vista dagli occhi di un bambino, doveva essere un qualcosa di traumatico, terribile… 
E non solo dagli occhi di un bambino. 
  
Henry avvertì un forte senso di nausea. Quell’odore divenne tutto d’un tratto insopportabile, così fu costretto ad uscire fuori. 
Aprì la porta e sentì un forte rumore alle sue spalle che lo fece trasalire. 
  
“Ah!” urlò. 
  
Girandosi, di colpo vide lo scaffale dietro di lui che si era ribaltato, e un paio di mostri dalle vaghe sembianze umane apparvero. 
  
“Di nuovo?!” disse, guardandosi intorno e sperando di trovare un’arma. 
  
Non solo non trovò nulla, ma vide che uno dei due mostri, oltre che a strillare emettendo quei versi scimmieschi, brandiva un’arma da fuoco! 
  
Sembrava un revolver. 
  
Henry si sorprese perché non aveva mai visto uno di quei mostri brandire un’arma tanto potente. 
Solitamente si impossessavano di mazze da golf, di tubi… 
Doveva essere calmo e ragionare, o si sarebbe potuta mettere male per lui. 
  
Violentemente calciò l’altro mostro, quello senza il revolver, lasciando che questo cascasse a terra. 
Osservando velocemente gli scaffali, si rese conto che erano facilmente ribaltabili. Così, poggiandosi sul muro, riuscì con le gambe a ottenere la forza necessaria per ribaltarlo sul nemico. 
Non appena colpì violentemente il mostro con il revolver, schiacciandolo sotto la scaffalatura, gli rubò prontamente l’arma, provando anche un po’ di soddisfazione visto che quei mostri, a quel tempo, non facevano altro che attaccarlo e disarmarlo quando ne avevano la possibilità.  
Invece era riuscito lui stavolta a bloccarlo e disarmarlo. Dopotutto stava imparando qualcosa, a furia di rimanere bloccato in quell’incubo infernale, pensò. 
Premette il grilletto e sparò. Un colpo fu sufficiente. Li calciò entrambi e attese che i corpi cessassero di muoversi. Strillarono un’ultima volta, emettendo nuovamente quegli striduli versi, prima di fermarsi definitivamente. 
  
Solo allora sentì le braccia leggermente tremare e avvertì il bisogno di poggiarsi a terra qualche attimo. Con un tonfo cadde sul pavimento polveroso e il suo respiro si fece affannato, stanco. Guardò quelle due figure sentendosi davvero strano. Non solo perché ora erano morti, ma c’era dell’altro. 
  
Erano i mostri della realtà parallela che più rassomigliavano a degli esseri umani e la cosa lo lasciava davvero con una bizzarra sensazione in corpo. 
Lui…uccideva per sopravvivenza, vero? 
E allora perché provava quel turbamento? In teoria, quei mostri non esistevano nemmeno. 
  
I suoi occhi in quel momento andarono a posarsi sul revolver che aveva fra le mani. Lo rigirò fra queste più volte prima di avere sempre più la certezza di averlo già visto. 
Solo dopo sgranò gli occhi, accorgendosi di non sbagliarsi affatto. 
Richard Braintree possedeva un modello simile a quello, ne era più che certo! Inoltre, attraverso lo spioncino dell’appartamento 302, proprio quella stessa giornata aveva avuto modo di vederlo brandire quell’arma contro Sullivan bambino. 
Era dunque certissimo che non si trattasse solo di un modello simile, ma fosse proprio lo stesso revolver. 
  
Si chiese solo…perché lo tenesse in mano quel mostro umanoide? 
  
La cosa lo lasciò davvero perplesso. 
Non riusciva proprio a capacitarsene. Ma molte cose appartenenti a quel mondo gli sembravano fuori da ogni logica. 
Henry corrucciò il viso incapace di comprendere e si apprestò ad alzarsi ed uscire dalla stanza buia. 
  
Aprì la porta e si ritrovò immediatamente a solcare uno degli ingressi per l’Albert’s sport. 
Osservò il cesto con le palle per la pallavolo e per qualche attimo si fermò a riflettere su quell’uomo che, chissà per qualche motivo, fu una delle vittime di Walter. 
Era il suo datore di lavoro. Lui lavorava qui come un dipendente part-time. 
Non aveva alcun elemento per poter indagare oltre, se Walter non gli avesse mai dato nessun indizio, ovviamente. 
Si chiese tuttavia, se posizionare quella palla nel cesto avesse in qualche modo lenito l’anima di quel negoziante almeno un po’. 
Chissà…poteva anche darsi. 
Tuttavia ciò non lo aiutò affatto a stare meglio. Avrebbe voluto tanto anche lui trovare qualcosa che gli riaprisse le porte del tempo. 
  
Invece era lì, in quel mondo caotico nel quale ci si muoveva a stento, solo ricorrendo alla violenza e all’indifferenza. 
  
Attraversò la porta per uscire dal negozio sportivo e si ritrovò all’esterno. Sulla cima di una lunga scalinata di ferro. 
Alzò gli occhi verso il cielo e vide che la nebbia stava cominciando a scendere lentamente. Nulla che gli impedisse più di tanto la vista fortunatamente. 
Il vento, comunque, continuava a soffiare ed Henry avvertì quella leggera brezza sul viso che gli faceva tanto ricordare il mondo reale. 
Socchiuse gli occhi e solo allora notò che era davvero passato tanto tempo dall’ultima volta che era uscito dall’appartamento. 
Aveva cominciato a studiare così attentamente il caso Sullivan, che solo allora avvertì la tanta nostalgia che gli ricordò quanto si fosse estraniato dal resto del mondo. 
  
Un suono poi, lo costrinse ad allontanare da sé quei pensieri e lentamente prese a scendere quella serie di rampe di scale per vedere da dove provenisse. 
Sembrava un lieve suono di uno strumento musicale. Un’armonica, forse. 
Pur girandosi attorno, non riuscì a scorgere nessuno, al che decise di avanzare, ma con grande cautela. 
  
Gli rimaneva da attraversare l’ultima serie di scalini rugginosi quando, nella nebbia, distinse diverse figure ai piedi della scalinata. 
  
Erano una manciata di mostri di cui tre erano già a terra esamini. Un uomo con un cappotto scuro caricò l’arma che aveva in mano, una micidiale e agghiacciante motosega, e terminò l’ultimo nemico rimasto. 
  
Il rumore stridulo dell’arma era penetrante e angustiante. Henry strinse gli occhi mentre vide tutto quel sangue grondare dal corpo morente del mostro. 
  
A quel punto Walter Sullivan, compiaciuto, passò la lingua fra i denti e dall’interno della giacca estrasse una pistola scura, pronta a dare il colpo di grazia al nemico. 
Abbassò la sicura della pistola e fece per premere il grilletto, quando alle sue spalle partì un colpo di arma da fuoco prima di lui, atterrendo così il mostro. 
  
Walter inarcò le sopracciglia e si girò alle sue spalle, accorgendosi in quel momento della presenza del suo ospite. 
Vide la canna del revolver di Henry ancora fumante e il suo sguardo serio. La cosa rese soddisfatto Walter, al che riposizionò la pistola dentro la giacca e riportò le mani sulla motosega ancora in funzione. 
  
“Ti stai divertendo anche tu, Henry?” 
  
La voce di Walter Sullivan era calda e bassa, ma sufficiente per destare alterazione nel ragazzo sulla rampa di scale. 
Egli scese lentamente, continuando a tenere la pistola puntata contro l’assassino, brandendola con la mano destra. 
Assunse un’espressione seriosa, a dispetto di quell’altro uomo che invece sembrava tranquillo ed eccitato, con quell’aria malsana e quella motosega in mano che contribuiva a donargli un aspetto folle. 
  
“Rispondi.” Henry pronunciò fermamente, terminando di percorrere la scalinata e fermandosi, guardando di fronte a sé in direzione di Sullivan. “Che cazzo significa questo posto?!” 
  
Ci fu un attimo di silenzio fra i due. Il vento soffiò leggiadro e l’unico rumore presente era il ronzio emesso dall’arma di Walter. 
L’uomo biondo poi…rise. Rise in maniera soffusa, tuttavia irritante. Così irritante che Henry fece partire un colpo con il revolver, sfiorando così il biondo che non venne colpito per un soffio. 
Walter guardò nella direzione dove era stato sfiorato dal proiettile con fare indifferente, per poi rivolgere il suo sguardo spettrale a Henry che cominciò a perdere la razionalità. 
  
“Ah, ah, ah!” 
  
L’Assassino Sullivan prese nuovamente a ridere. Questa volta in maniera più forte, più irritante, più folle. 
  
“RISPONDI!” urlò Henry, mentre Walter continuava a distruggerlo psicologicamente con quella risata. “In questo mondo è tutto sottosopra. Non vi è un senso logico! Della gente è morta per mano tua mentre svolgeva le sue normali attività! Io…io ho visto la gente del mio palazzo qui! Qui hai ucciso Braintree, il mio vicino di casa! Che diavolo significa?!” 
  
Henry parlò a raffica, ansimando e tremando con il corpo. Mai prima di quel momento aveva avuto il coraggio di parlargli, di minacciare l’assassino con un’arma. 
Sapeva che era inutile, ma sapeva che poteva avere delle risposte da nessun altro se non lui. 
Cominciò a provare un fortissimo mal di testa nell’incrociare quegli occhi che sembravano leggere nel profondo della sua anima. Che sembravano leggere, gustare, assaporare il suo sgomento fino a ridurlo alla pazzia più completa. 
  
La risata malsana di Walter Sullivan echeggiò in quel mondo isolato fino a quando egli stesso si bloccò di colpo guardando fulmineo Henry dritto negli occhi. 
Al sorriso si sostituì immediatamente uno sguardo rigido e penetrante che gelò il sangue al giovane Henry, il quale si ritrasse appena, indietreggiando di un paio di passi. 
Walter lo osservava senza battere ciglio, con un’espressione che sembrava quasi disprezzarlo. 
  
Poi l’uomo biondo schiuse le labbra e, al di la di ogni aspettativa, gli parlò. 
  
“Il Terzo Segno dell’ascesa della santa Madre. I ventuno sacramenti.” alzò l’indice verso l’alto e pronunciò le parole che seguirono con voce profonda, conoscendole a memoria. “E Dio disse, torna alla fonte attraverso la tentazione del peccato. Sotto l'occhio vigile del demonio, vaga solitario nel caos senza forma. Solo allora le quattro conciliazioni saranno in allineamento.” ritornò a Henry. “Cosa non ti è chiaro?” 
  
Henry alzò un sopracciglio, adirato. 
  
“Mi è chiara solo la tua schizofrenia!”  inveì e a quel punto persino uno come Walter sembrò offendersi. 
  
Sebbene fosse un rituale malsano, Walter credeva fortemente nelle parole da egli pronunciate. 
Henry non doveva dimenticare che l’uomo di fronte a lui aveva passato la vita intera nella preparazione dei ventuno sacramenti. 
Aveva visto la sua vita fin da quando era stato portato al St. Jerome, e sapeva adesso il significato profondo che il rituale aveva per lui. 
Nonostante ciò, si chiedeva come potesse un uomo convincersi di simili idiozie, di convincersi che potesse esistere una Santa Madre o qualcosa del genere. 
Non ne sapeva molto a riguardo, in giro non si reperivano informazioni esaustive riguardo all’Ordine. Riguardo quell’Ordine che aveva lo scopo di portare il mondo nella pace. Ma Henry non faceva che vedere prodotti atroci, terribili, scaturiti dai rituali malsani del culto. 
A quale tipo di pace ambivano? 
Non si trattava, piuttosto, di un patto con il Diavolo? 
Era imprevedibile e lo stesso Walter alla fine era caduto vittima di quegli stessi ventuno sacramenti. 
A perdere non erano state solo le persone uccise dallo spietato carnefice. Il carnefice stesso aveva ricevuto la dannazione eterna dal suo Dio. 
  
Walter intanto riprese parola. 
  
“Vaghi anche tu qui, no? Nel caos informe.” disse il biondo, e indicò l’ambiente dei grandi magazzini con la sua motosega. “Non si tratta altro che di una menzogna. Gli scimmioni moderni non fanno che urlare, credere in stereotipi inesistenti, e rimangono imprigionati in una trappola mortale senza alcuna via d’uscita. Senza la quale si sentono sprovveduti, inadempienti, sbagliati.”

Fissò Henry penetrante. “La violenza e l’indifferenza è l’unica arma che hanno per sopravvivere alla trappola. Trasformandosi così…” 
  
A quel punto, aumentò la potenza della motosega e la trafisse violentemente nel torace di uno dei mostri umanoidi. 
  
“…in fatiscenti e violente facce di gomma! Pronti a sgomitare chiunque per sopravvivere.” 
  
Walter sprofondò ancora di più la motosega fino a dividere quasi a metà quel corpo già esamine. 
Henry rimase lì a fissarlo mentre il sangue schizzava sul cappotto e sul viso del biondo. Aveva ancora il revolver puntato contro di lui, ma gli occhi erano rivolti sgomentati verso il mostro dalla faccia di gomma. 
  
Per la prima volta Henry vide quei mostri con occhi diversi. 
La pelle di quel mostro era cadente e il viso stesso scendeva all’altezza del collo. Essi erano umani e bestie allo stesso tempo. 
Loro, per Walter Sullivan, rappresentavano l’uomo. 
L’uomo dalla faccia di gomma. L’uomo violento e indifferente che sopravvive a tutti i costi nel mondo. Nel caos. 
  
A quel punto prese a tremare e deglutì sentendo di perdere il controllo sui nervi. Alzò anche la mano sinistra per sorreggere più fermamente il revolver.   
  
Walter levò via la motosega con un movimento veloce, lasciando schizzare via altro sangue che andò a colpire appena persino Henry. 
Dalla lama grondava molto sangue e Walter attese qualche attimo prima di diminuire la velocità di quella lama letale. 
Improvvisamente sorrise. Sembrò quasi divertito e la cosa preoccupò non poco lo sventurato Henry. 
  
“Il tuo vicino di casa, Henry. Lui stesso è l’emblema dell’uomo che crede di non aver bisogno della Madre. Che ignora dove Lei sia. Che ignora chi Lei sia. Ma egli ha perso la strada nel caos dove ora vagherà in eterno. L’uomo condanna e grazia da solo, senza aver bisogno di Dio. Ma l’uomo ha bisogno di Dio. L’uomo quando condanna, condanna solo se stesso. Il tuo vicino, è stato giustiziato della pena che la sua specie ha creato. La condanna che la sua stessa concezione di giustizia ha creato.”  
  
Braintree era morto con l’elettrocuzione. 
Secondo la concezione della “giustizia” umana. 
E Walter lo aveva giustiziato così di proposito, meditando e analizzando accuratamente la sua vittima. 
  
Era stato lui stesso a chiedergli delle risposte, ma Henry solo allora si rese conto del peso che avevano avuto le sue stesse parole. 
  
Sullivan, poi, riprese parola, avvicinandosi lentamente al ragazzo dai capelli castani, con gli occhi che sembravano brillare nella nebbia come quelli di un violento predatore. 
  
“L’Ordine insegna che, in origine, gli uomini non avevano nulla. I loro corpi dolevano e i loro cuori contenevano solamente odio. Combattevano senza sosta, ma la morte non giungeva mai. Si disperavano, bloccati in questa eterna sofferenza. Dio poi ascoltò le loro preghiere per la salvezza. Dio creò il tempo e lo divise in giorno e notte. ” 
  
Walter si avvicinava sempre di più, e Henry non riuscì a fare altro se non indietreggiare a ogni passo che avanzava il biondo. 
  
“Dio tracciò la via per la salvezza e diede agli uomini la gioia. E Dio tolse agli uomini il dono dell'eternità. Dio creò gli esseri viventi per tenere gli uomini in obbedienza a lei. Il Dio rosso, Xuchilbara; il Dio giallo, Lobsel Vith; molti dei e angeli. Infine, Dio iniziò a creare il Paradiso, dove bastava entrare per dare agli uomini la felicità.” 
  
Il volto dell’assassino si fece sempre più maligno. Henry indietreggiò ancora, mentre egli continuava a parlare del culto, citando versi e nomi che lui mai aveva sentito prima di quel momento. 
Walter invece ci era nato e cresciuto. 
  
“Ma Dio esaurì le forze allora, e crollò a terra. Tutti gli uomini del mondo piansero per questo sfortunato evento, finché Dio esalò il suo ultimo respiro. Ritornò polvere, promettendo il suo ritorno. Da quel giorno l’uomo speranzoso lo attende.” 
  
A quel punto Henry non poté più indietreggiare. Sulla schiena avvertì il parapetto di ferro che gli impedì di allontanarsi ulteriormente dall’uomo col cappotto. Buttando lo sguardo alle sue spalle, vide solo la fitta nebbia sotto di lui, avvertendo un leggero stato di vertigini. 
Ritornò poi velocemente a Walter che aveva all’improvviso messo in moto la motosega, puntandola contro di Henry. 
  
Henry minacciò nuovamente Sullivan con il revolver. 
  
“F-fermo!” urlò, ma oramai egli era già fuori controllo. 
  
Walter, con uno scatto repentino, fu subito di fronte al ragazzo e lo ferì alla spalla destra con quell’agghiacciante lama rotante. 
  
“A-AHRG..!!” 
  
Henry strillò dal dolore accecante scaturito da quell’arma sporca e rugginosa. Sentiva la carne lacerarsi, strapparsi, avvertendo il bruciore indicibile che lo portò quasi alla pazzia. 
Urlò ancora di dolore mentre Walter scavava nella sua carne. Henry ebbe la terribile sensazione di sentire il corpo spaccarsi. Sentiva Walter ridere e quel forte ronzio lo tormentava sempre più forte. 
Con la mano libera cercò di bloccare il braccio di Sullivan pressandolo violentemente via da lui. Digrignò i denti cercando di opporsi quanto più possibile, ma Walter era dotato di un’indubbia forza con la quale riusciva duramente a competere. 
Walter biasimò quasi quello sforzo inutile da parte del ragazzo. 
  
“Secondo le sacre scritture, secondo il culto di Valtiel, la Madre tornerà dopo aver restituito a lei i tre segni. I tre segni tracciati dai ventuno sacramenti.” 
  
A quel punto Henry sgranò gli occhi, sentendo l’uomo col cappotto sottolineare i famosi ventuno sacramenti. 
Vide gli occhi del biondo assassino provare quasi odio nei suoi confronti. Perché lui era quello che gli aveva impedito di terminare il rituale. 
Era lui che gli aveva mostrato l’inganno subito dal culto. Era lui che gli aveva mostrato chi era davvero la Santa Madre per Walter Sullivan. Era lui che, vagando nel suo mondo, aveva mosso dei suoi ricordi celati nel suo inconscio. 
Perché il peso di Colui Che Riceve Saggezza non era sentito solo dal ventunesimo sacramento…ma persino da lui stesso, costretto a rivivere quelle esperienze.
  
Henry sentì la rabbia di Sullivan, che rese il suo colpo ancora più violento, mentre il sangue caldo gli grondava su gran parte della spalla e del braccio. 
  
Poi Walter, all’improvviso, disattivò la motosega e guardò Henry che era oramai all’estremo delle sue forze. Aveva ancora la motosega incastrata sulla spalla e Henry dovette sforzare enormemente la vista per vedere il volto di Sullivan farsi sempre più vicino al suo. 
Provò un profondo turbamento del vedere i suoi occhi da assassino così nitidi, ma non aveva più alcuna forza per opporsi. 
  
“Henry, dovresti avere fede o diverrai schizofrenico.” gli sussurrò Walter, sorridendogli beffardamente. 
  
Con un gesto violento estrasse la motosega dalla sua spalla. 
Henry a quel punto, tremante e disorientato, si poggiò sulla ringhiera dietro di lui. Vide Walter Sullivan chiudere gli occhi e fare un lieve cenno col capo, ma egli non aveva più la capacità di comprendere. 
Lo fissò inerme mentre questi si allontanava da lui. All’improvviso, la ringhiera sulla quale era poggiato cedette, facendo cadere Henry giù, sparendo così nella nebbia. 
  
*** 
  
“Come la mano, trema tutta la vostra realtà. Vi si scopre fittizia e inconsistente. Artificiale come quella luce di candela. E tutti i vostri sensi vigilano tesi con spasimo, nella paura che sotto a questa realtà, di cui scoprite la vana inconsistenza, un'altra realtà non vi si riveli, oscura, orribile: la vera. 
  
Noi tutti siamo esseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s'arresta mai, e fissati per la morte. Dura ancora per un breve spazio di tempo il movimento di quel flusso in noi, nella nostra forma separata, staccata e fissata; ma ecco, a poco a poco si rallenta; il fuoco si raffredda; la forma si dissecca; finché il movimento non cessa del tutto nella forma irrigidita...” 
  

(Luigi Pirandello- La trappola) 

  
*** 
  
  
[IL MONDO DEL PALAZZO, il bar] 
  
TIC – TAC 
  
TIC – TAC 
  
TIC – TAC 
  
 
  
Il ticchettio dell’orologio continuava a battere incessantemente. La pelle di Henry bruciava e la camicia all’altezza della spalla destra era strappata e tinteggiata di rosso. 
Il ragazzo si alzò toccando la spalla dolorante, sperando che, dopotutto non fosse nulla di grave. 
  
“Ah!” urlò, cercando di muovere il braccio. 
  
Riusciva a muovere la mano destra e parte del braccio. Sebbene non avesse alcuna competenza medica, dedusse che, dopotutto, Walter gli avesse risparmiato le ossa. 
Si era semplicemente divertito con lui. 
Decise di ignorare il bruciore terribile e il mal di testa. Non appena la sua vista si fece meno offuscata, si guardò attorno. 
Era nel bar dei grandi magazzini. Nel bar di Eric Walsh. 
Alzando gli occhi, vide un raggio di luna colpire debolmente il locale vuoto. 
In cuor suo maledisse Walter Sullivan. Ogni volta che lo incontrava finiva per cadere da qualche parte. 
Si avvicinò alla porta chiusa a chiave da un codice da inserire e cominciò a premere la tastiera. 
  
“…rotta?” disse, non vedendo alcuna reazione dall’apparecchiatura. 
  
Girò il pomello della porta e vide che questa si aprì senza alcuna difficoltà. 
  
Il luogo che ritrovò dinanzi a sé fu quella lunga, infinita o quasi, scalinata che percorse a quei tempi, prima di assistere alla terribile esecuzione di Richard Braintree. 
  
Alzò gli occhi scrutando quella lunghissima scalinata, quel lungo percorso che segnava la fine del mondo del caos. 
Solo allora scorse, nelle vicinanze della cima, un uomo con la camicia celeste aprire una porta cautamente. Era il suo vicino di casa Braintree. 
Henry abbassò il capo, rassegnato e in parte persino impietosito. 
La vittima era giunta al carnefice. L’uomo stava per ricevere la condanna creata dall’uomo stesso. 
A quel tempo non poté far nulla per salvarlo. 
Non poté far altro che vedere il suo corpo bruciarsi e ascoltare le sue parole e la sua mente che fino all’ultimo rifiutò di spegnersi. 
Richard, rifletté, era un uomo che aveva vissuto proprio come aveva detto Sullivan. Era il Dio di se stesso. 
Lui giudicava. Lui puniva. Lui graziava. Giudice e boia allo stesso tempo. 
Eppure anche in punto di morte, aveva avuto la razionalità di riconoscere Walter Sullivan e di comprendere ciò che gli stesse accadendo. Egli dimostrò ancora una volta l’incredibile capacità di vivere in un mondo dove lui era solo e aveva stretto i denti alla violenza e all’autodistruzione del caos
In quel senso, i mostri che Walter aveva chiamato ‘facce di gomma’ in qualche modo lo rappresentavano. Perché per Walter, Richard aveva rappresentato l’uomo medio della società moderna. 
L’uomo senza dio che vaga nel caos informe. Nella trappola della vita. In un mondo dove solo la lotta costante, la violenza e l’indifferenza regnavano per affermare la sopravvivenza. 
  
Henry percorse tutte le scale in silenzio, da solo, fino a raggiungere la porta con su scritto #207. L’appartamento del suo vicino di casa. 
Quando entrò, non si ritrovò nella casa di Braintree. Si ritrovò all’esterno. Sul tetto più alto del palazzo. 
  
[IL MONDO DEL PALAZZO, sul tetto] 
  
Il buio regnava sovrano. Quella parte del tetto della palazzina, di fronte gli appartamenti di South Ashfield Heights, sembrava superare persino la nebbia, che era appena sotto di lui impedendogli di vedere il panorama sottostante. 
Henry si avvicinò lentamente, con volto serioso, all’uomo che era seduto sul ciglio del tetto. Aveva una gamba piegata all’altezza del petto e l’altra penzolava nel vuoto. Sembrava sogghignare appena, come se sapesse che Henry fosse dietro di lui. Suonò appena con un’armonica, poi si fermò. 
  
“Richard è morto. Sei arrabbiato?” disse Walter con voce bassa e rauca. “Io ti avevo detto di stare attento al tuo vicino di casa, Henry…” 
  
Detto questo, il biondo si alzò e si rivolse verso il ragazzo, cambiando completamente atteggiamento. Le sopracciglia si distesero e il suo sguardo divenne più apatico. Quasi spento. 
Henry prese parola. 
  
“Quella voce nel mio appartamento…eri tu?” gli chiese, ma, vedendo che Walter non lo rispose, aggiunse, con una voce leggermente alterata. “Non cambierò mai idea sul tuo conto. Tu rimani un killer senza alcuna pietà. Lo sei e lo rimarrai per sempre, Walter.” 
  
Walter chinò il capo di lato. La frangia cresciuta gli cadde sul viso coprendone una buona parte. 
Henry trasalì appena quando intravide un ghigno disegnarsi sul volto del biondo. 
Il suo sorriso si fece sempre più largo e il ragazzo andò in uno stato di allerta sentendo l’adrenalina crescere in lui. 
Il volto di Walter era divertito, eccitato, e questo mandò in tilt Henry incapace di reggere quegli occhi che lo guardavano incessante. 
L’uomo mosse le labbra parlando lentamente. A Henry sembrava che solo il suo tono di voce fosse in grado di torturarlo violentemente. 
  
“Anche tu, oramai, appartieni a questo mondo, Henry.” 
  
Henry sbandò a quelle parole e la sua sicurezza vacillò. 
  
“Cosa stai..?” disse, incapace di comprendere quelle parole. 
  
Che diavolo diceva?? 
Walter raccolse la motosega che aveva affianco a lui e l’azionò muovendosi velocemente verso il ragazzo. Sogghignò aspramente, sotto lo sguardo sgomentato di Henry. 
  
“…appartieni a questo mondo. Appartieni a me!” 
  
Il rumore martellante della motosega andò ad incontrarsi con la voce di Walter mentre egli alzò violentemente l’arma per colpire il ragazzo. 
Henry ebbe la prontezza di spostarsi repentinamente, aiutato dall’adrenalina in corpo. 
  
Così Walter andò a colpire il muro, dove la motosega andò a sprofondare in un attimo. L’uomo dai capelli lunghi fece per estrarre l’arma, ma presto si rese conto che questa si era incastrata a fondo, così da essere completamente inutilizzabile. Cercò di far forza con un piede, ma il tentativo fu del tutto inutile. 
  
Fu allora che Henry caricò i colpi del revolver e sparò. Colpì Walter in pieno ferendolo su un fianco. 
Walter cadde a terra, essendo stato colpito alla sprovvista, riuscendo a stento a poggiare le mani a terra, digrignando i denti. 
Si voltò lentamente, reggendosi sui gomiti e rimanendo sdraiato a terra. 
Osservò la ferita toccandola con la mano. Vedendo che essa prese a tinteggiarsi di rosso, concentrò subito la sua attenzione su Henry, rivolgendogli occhi adirati. 
  
Walter si fece serio solo quando si accorse che, intanto, il moro aveva preso ad avanzare gelidamente verso di lui. Aveva uno sguardo tetro che attirò l’attenzione persino di uno come l’assassino. 
  
Henry si portò di fronte l’uomo con cappotto, scavalcando le sue gambe e tendendo la pistola direttamente sulla fronte di lui. 
  
Walter a quel punto rise. 
  
“Non posso morire. Sono già morto. Lo sai.” 
  
“Sì. Lo so…” 
  
Henry abbassò la sicura della pistola e Walter smise allora di ridere. 
Oramai non ne poteva più. Non ne poteva più di soccombere. Non ne poteva più di sentire quella pazzia in corpo. 
  
Dunque sparò. 
  
Sul muro, accanto alla motosega utilizzata da Walter, schizzò del sangue di un rosso vivo pulsante. 
  
[APPARTAMENTO 302, nel salotto] 
  
L’ambiente era buio e non vi era possibile distinguere altro se non i lievi contorni delineati dalla luce che filtrava tenue dalle finestre. 
Si intravedevano il divano, la poltrona, il televisore, i banconi della cucina… 
L’ambiente aveva un design semplice, ma moderno e fresco. Peccato che fosse completamente sepolto sotto l’ingente, assurda, quantità di cera sciolta su tutta la superficie della casa. Vi erano candele ovunque. Tutte consumate. Spente. 
Candele e cera a terra, sui mobili, sugli scaffali, lungo il corridoio… 
  
Henry Townshend era sdraiato sul divano, assorto nei suoi pensieri. 
Guardava fisso già da un po’ sul soffitto, dove delle gocce scure cadevano sul pavimento creando una pozza di lacrime nere. Nel buio era a stento distinguibile la figura di Joseph Schreiber che mormorava in silenzio le parole che aveva conosciuto prima della morte. 
  
“Walter Sullivan non può morire lo so…” mormorò Henry. “…perché lui è già morto.” 
  
Lo aveva comunque sparato. Lo aveva colpito in fronte e aveva visto il suo sguardo spegnersi. 
Ma sapeva che non avrebbe mai potuto colpire un’ombra. Ciononostante aveva avuto bisogno di farlo, di reagire alla violenza e alla disperazione che aveva in corpo. 
  
Guardò la sua mano e toccò il volto, ancora sporco del sangue di Walter Sullivan. Stranamente le sue ferite erano guarite, la sua spalla stava bene ora, ma il sangue era rimasto. 
Ripensò in quel momento alle parole dell’assassino. 
  

“…appartieni a questo mondo. Appartieni a me!” 

  
Corrucciò il viso, innervosendosi. Subito si alzò e le sue mani presero a tremare. Le serrò in due pugni e il suo volto divenne sempre più arrabbiato, nervoso. 
  
“Io non appartengo a questo mondo! Io sono vivo!” urlò. 
  
Aveva ancora in mano il revolver di Richard e prese a sparare violentemente per tutta la casa. Alla radio, allo spioncino della porta, sui muri. 
Crivellò la stanza di colpi finché non terminò tutti i proiettili, continuando a premere il grilletto anche con l’arma scarica. 
Cominciò ad ansimare forte, inginocchiandosi a terra, sprofondando sulla pozza nera. 
  
“Che cosa mi succederà..?” disse infine affranto, rivolgendo i suoi occhi al voltò di Joseph, sepolto nel soffitto della casa. 
  
A quel punto tirò un urlo liberatorio e poggiò i gomiti a terra non potendone più di quella situazione. 
Mentre perdeva le staffe come mai aveva fatto in tutta la sua insignificante esistenza. 
Mentre si disperava, aveva gli occhi sbarrati e persi. Continuando a pensare a quella frase. 
  

“…appartieni a questo mondo. Appartieni a me!” 

  
Digrignò i denti ancora. 
Lui…apparteneva davvero a quel mondo parallelo? Anche se aveva scongiurato i ventuno Sacramenti? Nonostante Walter Sullivan non lo avesse ucciso? 
Essere il ricevitore di saggezza che cosa comportava per davvero? 
Se apparteneva a quel mondo… 
…Voleva dire che una parte di lui era anch’ella morta? Anche se non era divenuto la ventunesima vittima? 
Oppure, lui… 
  
Un bruciore forte all’altezza del petto lo costrinse a rannicchiarsi di colpo. 
  
“Ah!” 
  
Era una fitta atroce. Portò la mano sul petto cercando di placare il dolore, che sembrava colpirlo incessantemente, sempre più forte. 
  
La testa prese a girare. Si sentiva di venir meno sempre di più, quando una voce poi prese a parlare. 
  

“Henry Townshend. Colui che riceve saggezza. Secondo il tomo Cremisi sei tu il segno finale.” 

  
Henry la riconobbe, era la stessa voce che prima era nel suo appartamento. 
Quella che aveva udito dietro il muro dove Walter aveva ultimato la prima fase del rituale dei ventuno sacramenti. 
Fece per alzarsi, ma lo stress accumulato e la pressione bassa, lo fecero invece piombare a terra. 
Cercò di parlare, ma alla fine le forze lo abbandonarono definitivamente e non riuscì più nemmeno a tenere gli occhi aperti. 
  
Avvertì un terribile freddo, mentre perse completamente conoscenza. 
  
In quel momento, dalla crepa sul muro in fondo al corridoio, fuoriuscì una figura interamente sfigurata. 
Era un uomo alto, con i capelli castani e sporchi di sangue. Una lunga frangia disordinata impediva di vederne il volto anch’esso brutalmente devastato. 
Portava una camicia bianca consumata e dei jeans scoloriti. Sembrava guardare Henry, mentre rimaneva immobile. 
Prese poi parola. 
La voce era la stessa con cui Henry aveva parlato. 
  

“Henry Townshend. Colui che riceve saggezza. Secondo il tomo Cremisi sei tu il segno finale.” 

  
  
Disse. 
  
  

“Io sono Henry Townshend. Colui che riceve saggezza. Secondo il tomo Cremisi sono io il segno finale.” 

  
  
Alzò lo sguardo, lasciando vedere le enormi cicatrici sul viso. I suoi occhi verde pallido guardarono il ragazzo svenuto. 
  

“Benvenuto nella parte profonda di lui.” 

  
  
  
[…] 
  
  
  
 

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Capitolo 7
*** Gli appartamenti di South Ashfield Heights ***



NdA:
 
Ho diviso il capitolo in tre paragrafi: 
-PRIMA PARTE: Bambino abbandonato 
-SECONDA PARTE: Ricordi dal passato 
-TERZA PARTE: La ricomposizione della bambola 
Questo per agevolare un po’ la lettura. Spero il capitolo vi piaccia! Il prossimo aggiornamento sarà l’ultimo!! Un sincero ringraziamento a coloro che mi stanno seguendo!! 
Fiammah_Grace
 

  
  
  
  
CAPITOLO 07 
  
  
L’oscurità va via. Va via e si sostituisce alla luce. 
Poi scompare. Scompare per far spazio alla notte. 
Tutti quegli incubi che una volta facevo da bambino. 
  
La mattina sopraggiunge sempre...e arriva troppo tardi. 
Che cosa sta cercando di dimenticare la mia mente? Che cosa ho dimenticato di nascondere? 
  
Gli incubi potrebbero essere realtà, io non lo so...
Dentro e fuori, sopra e sotto. Non so se tutto questo è un’illusione.
Intorno e intorno, ancora e ancora, ogni giorno mi assale la confusione. 
(TENDER SUGAR) 
  
  
-PRIMA PARTE: Bambino abbandonato 
  
Dopo aver celebrato il rito della Sacra Assunzione, altri mondi sono comparsi nel suo universo, che ha iniziato a gonfiarsi in maniera grottesca.
Ma il suo universo è diverso dal nostro. Ha i suoi limiti. Ed entro i limiti del suo universo, comanda lui.
E nella parte più remota del suo regno c'è sua madre.
 
  
(Messaggio scritto sul muro del ripostiglio dell’appartamento 302) 
  
  
Quando Walter Sullivan seppe che era tenuta prigioniera lì dentro, nell’appartamento 302 di South Ashfield Heights, decise di liberarla dalla corruzione del mondo. Il rituale dei ventuno sacramenti lo avrebbe condotto a lei presto, prestissimo… 
Allora sarebbero potuti stare assieme per sempre. 
Fino a quel momento, ella avrebbe dormito, aspettando il momento della riunione. 
  
“Mamma, mamma!” 
  
Una donna dal volto sfregiato batteva alla porta #302 sconsideratamente. Nonostante il braccio rotto, ingessato, non accennava a smettere, colpendo quella porta con violenza. 
Per quanto continuasse a bussare, tuttavia, non aveva ricevuto alcuna risposta. 
  
Il respiro, il respiro… 
Sentiva il suo respiro, soffriva. 
Come poteva risvegliarla? Perché non tornava? Perché non apriva? Eppure era lì per lei. 
Continuava a bussare, mentre le lacrime scorrevano sulle guance e la voce si strozzava in gola. 
  
“Fammi entrare!” 
  
Gli occhi fissavano intensi la porta, incapaci di accettare che nessuno le avrebbe mai permesso di ricongiungersi alla madre. 
  
A sua madre…madre… 
  
Alla… 
  
Alla Santa Madre? La mamma? 
  
“Mamma…mamma svegliati, fammi entrare!” 
  
Solo allora cessò, per qualche attimo, di bussare alla porta. Sentì la testa scoppiare e gli occhi bruciare per il pianto. 
  
“Lei mi aspetta…” 
  
La sua voce si fece profonda. Ella si allontanò e prese a camminare per quel corridoio tetro e di un rosso vivo quasi accecante. 
Una serie di rumori grotteschi, simili a un lamento, rimbombavano nell’ambiente, ma lei sembrava non farci affatto caso. Come fosse la sua casa, quella. La sua eterna persecuzione alla quale era abituata. Tuttavia, ancora non riusciva a credere che, da qualche parte dentro di sé, conoscesse per davvero quel posto orrido. 
Cominciò a sentire l’affanno dentro crescere a dismisura. Un dolore dietro la schiena la pervase ed ebbe la terribile sensazione di essere sola. 
Di essere completamente sola. Abbandonata dal resto del mondo cinico e indifferente, che non avrebbe fatto nulla per rassicurarla e farla sentire amata. Come fosse destinata a morire in quello stato d’angoscia e di desolazione. 
  
Subito prese a singhiozzare, spaventata, mentre corse via cercando di allontanare da sé quella paura accecante. 
Si chiedeva perché mai sua madre non ci fosse. Si chiedeva come mai non riuscisse a dormine allietata. Si chiedeva perché non si svegliasse. 
  
“Mamma…ho tanta paura…” 
  
S’inginocchiò a terra presa dallo sconforto. Quegli strani segni rossi che investivano tutto il suo corpo si scurirono ulteriormente, fino a farla tremare sempre di più. 
Prese a strillare non sapendo come contenere tutta quell’energia, pronunciando delle parole così velocemente che stesso una parte di lei si sorprese di averle proferite. Stesso lei non sapeva da quale parte del suo cervello fossero nate. Non sapeva nemmeno che significato avessero o in quale lingua fossero pronunciate. 
  
Poi, di colpo, il dolore finì. Spalancò gli occhi, sorpresa e sgomentata. Vide un uomo con un cappotto blu scuro seduto di fronte a lei. 
  
Egli la guardava in silenzio, gelido. Nel buio del corridoio, il bagliore dei suoi occhi verdi destava una grande inquietudine. 
Lei rimase ad osservarlo impietrita. 
Quell’uomo…quel giovane dai capelli biondi…lei lo aveva già visto. 
Sapeva chi era e sapeva che doveva stare alla larga da lui. Provava dolore solo a guardarlo. 
Egli intanto continuava a fissare la ragazza imperterrita, con un’espressione così scura che ella non poté non chiedersi il perché di un simile sguardo. 
  
Cosa aveva reso lo sguardo di quell’uomo così inumano? 
  
A quel punto, all’uomo andò a sostituirsi una seconda immagine, quella di un bambino dall’aria triste. Presto lei si accorse che anche lui piangeva. Piangeva silenziosamente, mentre le lacrime raggiungevano le labbra che andavano a deformarsi per trattenere i singhiozzi. 
La ragazza sentì quelle stesse emozioni terribili dentro il suo animo, tant’è che prese nuovamente a tremare. 
Il rossore sul suo corpo si andò ad intensificare ancora e ancora. Oramai quasi tutto il volto e il corpo era tinteggiato di rosso scuro. 
Sentiva dentro di sé il senso dell’abbandono. 
Sentiva dentro di sé la paura della solitudine. 
Sentiva dentro di sé la speranza di rivedere la Santa Madre. 
Sentiva dentro di sé che voleva riabbracciare la mamma. 
  
Eileen Galvin riprese a pronunciare parole incomprensibili, avvertendo in corpo un dolore terribile. 
E di nuovo quell’unico desiderio che covava in corpo…la Madre. 
  
Se solo lui avesse saputo, invece, di essere stato ingannato… 
  
L’uomo dal cappotto continuava a fissarla mentre Eileen si dimenava e strillava. Il suo sguardo si faceva sempre più severo e spento, ma non accennava a calare gli occhi da lei. 
  
*** 
  
[APPARTAMENTO 303, South Ashfield Heights] 
  
“L'ultimo segno,
E Dio disse,
separa dalla carne anche colei che è
 la Madre Rinata e colui che riceve Saggezza. Se questo sarà fatto, attraverso il mistero dei 21 sacramenti, la madre rinascerà e la nazione del peccato sarà ridente.” 
  
(Passo della Bibbia del culto sui ventuno sacramenti. 
Nel sottopassaggio della Wish house)


 
  
20121… 
Ovvero 20/21. 
  
Eileen rimase ad osservare quei numeri per diverso tempo allo specchio, mentre il vetro del bagno diveniva sempre più opaco. 
Quel giorno, aveva fatto davvero uno strano sogno… 
  
Forse per questo stava osservando quel marchio. 
  
20/21 
  
Strinse gli occhi con aria sofferta. La sua schiena era pallida e umida e si sentiva tremare per via del freddo. Eppure non aveva il coraggio di staccare gli occhi da quella visione. 
  
20/21 
  
Eh sì…era stato davvero un orribile sogno bizzarro. 
  
Quello che vedeva, era stato il marchio di tanta gente che era morta. Lei era, invece, l’unica a possederlo da donna…viva. 
Era una consapevolezza strana da portare con sé. Quello era un marchio della morte. 
  
Per questo odiava fare sogni come quello. 
  
Quanto avrebbe voluto coprire quello specchio con un telo. Quanto avrebbe voluto dimenticare quella parte del suo passato. 
  
Ancora pensava a quel sogno. 
  
Entrò nella vasca da bagno e socchiuse gli occhi, mentre cercava di rasserenarsi. 
Nella sua mente rimbombavano ancora molte emozioni. Emozioni angustianti, laceranti, devastanti. 
Alzò gli occhi verso le tende dalle quali filtrava la luce mattutina. Era giorno, il buio si era dissipato. Tuttavia… 
  
Ancora pensava a quell’incubo. 
  
Ancora pensava a quelle lacrime di dolore. 
  
 
  
A quel povero bambino ingannato. 
  
*** 
  
[IL CIMITERO DI SILENT HILL, da qualche parte nella foresta] 
  
Il vento soffiava tenue, alzando il terriccio di quella landa desolata. Era un luogo terribile, quello, il cimitero di Silent Hill. 
Eileen strinse il giubbino di jeans sul collo e si guardò attorno. Non c’era nessuno. Le tombe erano disposte in maniera disordinata e non vi era una grande manutenzione dell’ambiente. Subito si avvicinò ad una lapide in particolare e la osservò. 
  
“…riposerai mai in pace?” sussurrò. 
  
Si inginocchiò e con la mano scostò appena la terra lì attorno. Strinse gli occhi, provando una grande compassione per la persona sepolta lì sotto. 
In verità, un corpo in carne e ossa non c’era, visto che era stato utilizzato per il malsano rituale di un culto pagano: il rituale della sacra assunzione. 
Provò un’orribile sensazione in corpo nel riportare alla mente quel che era successo quel giorno. Per Eileen Galvin era stato davvero difficile ritornare alla vita di tutti i giorni, e ancora oggi era dura sopravvivere alla luce di quella consapevolezza. La consapevolezza di quegli incubi. 
Eppure definirli in tal modo non era corretto, visto che erano stati reali. 
  
Sebbene fosse passato del tempo, ricordava perfettamente le emozioni di Walter Sullivan. Ricordava perfettamente la sua anima contorcersi nel dolore e nel nichilismo. 
  
Dalla borsa estrasse una piccola bambola di pezza. La girò fra le mani, lasciando che nella mente galleggiassero dei ricordi lontani. Quella bambola gliel’aveva data Henry durante una delle sue visite nell’ ospedale St. Jerome, dove ella era stata ricoverata. Le raccontò che era stato Walter Sullivan a dargliela, dicendole che lei stessa, anni prima, l’aveva donata a lui. 
Eileen non ricordava quel giorno, eppure le parve così strano che, invece, qualcuno l’avesse conservata così gelosamente per così tanto tempo. Lei che quel ricordo, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a farlo riaffiorare dalla mente. 
Strinse quella bambola e socchiuse gli occhi. 
Provò così tanto dolore nel non ricordare. Eppure lui, quel giorno, decise di fare di lei la Madre Rinata. Il ventesimo segno. 
Sollevò la mano e accarezzò il marmo. 
  
“Ti prego, lascia riposare il tuo cuore. Il cuore di quel povero bambino in pena.” 
  
Alzò gli occhi verso quella lapide a lesse quel nome. 
  
Walter Sullivan 
  
“Walter…riposa in pace.” congiunse le mani al petto e sospirò. “Lascia andare anche…Henry.” 
  
Henry era distante. Lo era da tempo. E sapeva che c’entrava Walter Sullivan. Erano giorni che non lo sentiva. Aveva fatto di tutto per mettergli fretta nel lasciare l’appartamento #302. Questo perché lo sapeva benissimo che c’era qualcosa che non andava nell’appartamento e nella palazzina intera. Qualcosa era rimasto impregnato nell’aria. 
O forse aveva semplicemente un brutto presentimento. 
I suoi tentativi, tuttavia, erano stati completamente vani, e non era riuscita a impedire a Walter di portarglielo via. Di portare Henry chissà dove, in un mondo dove lei non poteva raggiungerlo. 
  
“Lascialo andare…” sussurrò di nuovo, avendo paura che qualcosa di terribile potesse accadere. 
  
Il vento prese a soffiare più forte e trascinò con sé le leggere foglie degli alberi vicini. Eileen, prima di andare via, adagiò la preziosa bambolina ai piedi della tomba. 
  
“Puoi dormire con lei, se vuoi.” 
  
Dopodiché si alzò. 
Girò lo sguardo un’ultima volta prima di accendere l’automobile e sparire via. 
  
La tomba di Walter Sullivan rimase in balia del vento. Sola. Quel bambino abbandonato ora era morto. L’assassino che sarebbe nato da lui era stato ucciso. 
Ora doveva solo chiudere gli occhi e comprendere che non valesse più la pena continuare a soffrire. Che potesse finalmente addormentarsi felice. 
Il vento fece accasciare la piccola bambolina di pezza sul terreno, mentre questa prese a cospargersi di un leggero terriccio scuro. 
  
*** 
  
[APPARTAMENTO 302. South Ashfield Heights] 
  
Henry aprì debolmente gli occhi, ma non riusciva a vedere altro se non il buio tetro dell’ambiente circostante. La mente pulsava e la vista era completamente annebbiata. 
Calò il capo e chiuse nuovamente gli occhi. Il suo petto non bruciava più, in compenso, l’aria soffocante lo logorava. Eppure era come se non riuscisse a far nulla per opporsi. Era immobile e non reagiva a nulla, come fosse in uno stato catatonico. 
  
“Piangi? Pensi che, in questo mondo, a qualcuno importi che tu pianga?” 
  
Una voce severa ed indefinita echeggiò nella sua mente. Nacque spontanea e affollò la mente di Henry ancora in quello stato dormiente. Nessuno le aveva pronunciate. Era come se le stesse ricordando. 
  
“Ma io sono qui. Io…esisto.” rispose in un sussurro. 
  
Le parole nella sua mente sembrarono innervosirsi a quella risposta. 
  
“Se muori nessuno se ne importerà mai. Non hai nemmeno un nome.” 
  
“Si…” 
  
“Sei stato uno schifosissimo errore!” 
  
“Dove sei? Voglio vederti in viso…” 
  
“Stupido, piccolo piagnucolone…” 
  
“Papà…” 
  
Henry aprì di colpo gli occhi, sgranandoli sconcertato. Cosa aveva appena detto?! ‘Papà’? 
A quel punto si rese conto che una grossa catena arrugginita lo teneva appeso proprio sopra il soffitto della sua camera da letto. 
  
“C-cosa…?” disse. 
  
Cercò di dimenarsi, ma un tessuto puzzolente lo avvolgeva lungo tutto il corpo, come una camicia di forza, stringendolo e limitandolo nei movimenti. 
Sentì una terribile sensazione di oppressione al che, preso dal panico, cominciò a urlare e a muoversi energicamente oscillando sul soffitto. 
  
“Che sta succedendo??” urlò. 
  
Più ci metteva forza, più oscillava con violenza, così i ganci, alla lunga, cedettero ed Henry cadde a terra. Dolorante, cercò di divincolarsi da quell’orrido sudiciume e dalle catene. 
Perché si era ritrovato appeso al soffitto? Chi era stato a farlo? 
Cosa era successo mentre era svenuto? 
Una volta liberatosi definitivamente, si rimise in piedi e calciò via quella robaccia che prima lo avvolgeva.
 
Solo allora sentì un rumore provenire fuori dalla sua camera da letto. 
Si affacciò nel corridoio e all’improvviso sentì una serie di strilla acute. Un pianto infantile. Ma chi stava piangendo? 
Più l’ascoltava, più si rendeva conto che fosse quello di un… 
  
“Ma che…?!” 
  
Scorse, alla fine del corridoio, un lenzuolo sporco, dove vi era avvolto un…bambino?! 
Lo riusciva ad intravedere a stento, infagottato com’era, in quel panno sporco. Subito si avvicinò a quella piccola creatura, che non faceva che piangere, strillare… 
  
“T-tu cosa…” disse con un filo di voce, titubante. 
  
S’inginocchiò affianco al bambino in fasce e rabbrividì notando che quel panno fosse macchiato di sangue e di una sostanza viscida. 
Non s’intendeva certo di medicina…ma quella roba sembrava proprio la membrana che avvolgeva i bambini appena nati. 
Henry era davvero agitato, non sapeva che fare. Non aveva mai visto un bambino così piccolo e aveva quasi paura di avvicinarsi e fargli del male. Era malato? Aveva bisogno di cure? Non sapeva semplicemente nulla in materia. Tremante, cercò di toccarlo e di sollevarlo da terra, ma quando i suoi occhi andarono a posarsi su quel piccolo cordone rosso che il bambino aveva ancora attaccato a sé, una fitta al cervello lo trapassò costringendolo a portare le mani sul capo in preda al dolore. 
  
“Ah! La testa..!” 
  
Quasi al punto delle lacrime, Henry poggiò i gomiti a terra e inarcò la schiena, avvertendo un’orribile sensazione allucinante, struggente. 
Alzò gli occhi verso la porta d’ingresso e si accorse solo in quel momento che, sul ciglio, c’erano due persone. 
Un uomo e una donna stavano aprendo la porta dell’appartamento #302 per uscire via frettolosamente. La scena durò appena una manciata di secondi, ma Henry fu in grado di distinguere la donna. Aveva lunghi capelli biondi e tremava. Aveva il viso stanco e sudato ed era sorretta da un uomo che la tirava via con veemenza. 
L’uomo non era stato in grado di vederlo nitidamente, avvolto com’era da un lungo cappotto nero. 
Chiusero la porta immediatamente, prima che Henry potesse far qualcosa per fermarli. 
Nel momento nel quale i due sparirono dalla sua vista, il dolore alla testa cessò. La confusione che stava provando Henry in quel momento era indicibile. Rivolgendo il capo indietro, notò che anche il neonato era sparito. 
Rimase lì per lì attonito, ma aveva compreso fin da subito che sia la coppia che il bambino fossero un’altra proiezione dei traumi di Sullivan. 
Certo però che… stavolta le immagini che gli si erano presentate d’avanti lo avevano turbato molto di più. Sentì l’angoscia invaderlo in corpo. 
Delle turbolenti emozioni lo pervasero facendolo sentire inquieto… 
  
“Il suo desiderio infantile di ritornare nel ventre materno... l'ha diviso...e presto... I 21 Sacramenti...” 
  
Una voce echeggiò in quel momento, ed Henry alzò gli occhi verso il soffitto. Era la voce di Joseph Schreiber, su quello non c’erano dubbi. 
Tuttavia non riusciva a vederlo, inoltre…come poteva essere lì? Perché sentiva la sua voce in quel posto? Egli era imprigionato nell’appartamento #302 del passato… 
Continuò a girarsi intorno, mentre la voce continuava a parlare. 
  
“Walter Sullivan... Quando era un ragazzino, iniziò a credere che il mio appartamento fosse sua madre. Decise di liberarla dalla corruzione di questo mondo.”  
  
Henry strinse gli occhi ricordando quelle parole. Le parole della quindicesima vittima. Quella targata col segno della disperazione. Quelle erano le stesse parole che pronunciò quel giorno. 
  
“Segui il Tomo Cremisi... Fermalo... Altrimenti ovunque riusciate a fuggire, vi troverà... Trovalo... Il Tomo Cremisi... Obbedisci al Tomo Cremisi...” 
  
 Joseph non era da nessuna parte, a quel punto Henry non poté che trarre l’unica deduzione possibile: quella che stava udendo era solo una sua ombra rimasta intrappolata nell’incubo. 
  
Joseph, aveva ragione. Il Tomo cremisi  li aveva salvati. Grazie ad esso aveva potuto scongiurare il rituale, tuttavia… 
Henry si guardò attorno, con un’aria sofferta. 
Vide l’orologio di casa sua impazzire sotto i suoi occhi. Scosse la testa, come se avesse sempre sperato di essersi sbagliato. Guardandosi attorno vide che non solo l’orologio, ma tutto cominciò a mutare sotto i suoi stessi occhi. 
  
“All'orfanotrofio, imparò i "21 Sacramenti", l'unico modo per purificarla.”  
  
La fontana della cucina prese a sgorgare sangue fetido. Lo spioncino della porta cominciò a gocciolare di un macabro liquido rosso. Dal frigorifero si sentiva un curioso miagolio… 
  
“In seguito attuò la cerimonia della Sacra Assunzione e creò questo mondo assurdo.” 
  
Le crepe sui muri cominciarono a deformarsi ulteriormente e le finestre a sbattere forte. 
  
“Ora... non è divenuto altro che un'umana macchina di morte...” 
  
Sentì dei lamenti di bambini. Provenivano dal suo guardaroba, lo sapeva bene. Dalla camera da letto poteva perfettamente sentire una voce chiamarlo… una voce che scandiva, sempre più forte, un sinistro “Ti osservo sempre…” 
La fotografia della chiesa di Silent Hill, in camera sua, si sostituì col volto di Sullivan. E dal muro si affacciò un demone. 
  
“... Uccidilo... devi ucciderlo... Ucciderlo…ucciderlo... ucciderlo...” 
  
Joseph continuava a parlare, ed Henry osservò impotente la sua casa trasformarsi. Piena di tutte le presenze scaturite dall’incubo. 
Socchiuse gli occhi, poi sospirò. 
  
“…il Tomo cremisi…però non è stato sufficiente per salvare l’intero edificio…” riaprì gli occhi. “…nonché la stanza #302. Compreso anch’io. Giusto?” 
  
Le ombre del passato di Sullivan erano ancora lì. E anche lui faceva parte di quelle ombre. Lui che era stato prescelto per essere Colui che riceveva Saggezza. La ventunesima vittima. 
Per questo le presenze nel suo appartamento non gli facevano più male.   
  
Toccò la camicia all’altezza del collo e vide che questa si tinteggiò di rosso. 
  
Si affacciò appena nel bagno per poter intravedere, dalla porta semiaperta, lo specchio. 
Gli bastò per intravedere il marchio delle vittime di Walter Sullivan. 
  
21/21 
  
Erano scritte a malapena, proprio sotto il collo. 
Henry si avvicinò. Il suo sguardo era tremante e toccò il freddo vetro dello specchio con incertezza, mentre osservava quella cicatrice. 
La maglietta bianca sotto la camicia era anch’essa tinteggiata di rosso. Tuttavia quella terribile incisione sembrava già cicatrizzata. 
Henry la osservò a tratti spaventato, a tratti persino consapevole del perché quella fosse apparsa assieme alla casa infestata. 
Perché… 
Perché lui… 
  
“Mamma! Mamma! Fammi entrare!” 
  
La voce del Walter bambino risuonò dietro la porta. Henry si avvicinò, questa volta pronto. 
  
Raccolse dalla cassa la pistola e si avvicinò allo spioncino insanguinato. 
Non vide il Walter bambino battere alla sua porta. 
Vide invece proprio colui che aveva appena richiamato nella sua mente, Sullivan. L’uomo col cappotto era sul pianerottolo, proprio di fronte a lui e lo osservava dall’altro lato dello spioncino, quasi come se anch’egli potesse vederlo da quella piccola fessura. 
A quel punto Henry spalancò la porta urlando il suo nome. 
  
“Walter!” e sparò. 
  
Il proiettile però andò a colpire soltanto la parete grondante di sangue. Subito si girò intorno, sconcertato. 
  
Gli appartamenti di South Ashfield Heights…cosa…cosa era accaduto? 
  
Ogni cosa era incrostata di sangue e ruggine. Le pareti pulsavano quasi come fossero vive e nell’aria c’era un disgustoso odore organico. Rabbrividì sentendosi male. 
Vedere ancora una volta la palazzina in quello stato, proprio come quel tempo, fu qualcosa di terribile. Portò una mano sulla fronte, incapace di accettare che era tutto tornato esattamente come allora. 
Si poggiò sul muro e all’improvviso gli fu chiaro. 
  
Gli appartamenti di Ashfield…la stanza #302…. 
Erano tutti elementi che avevano a che fare con l’infanzia più remota e dolorosa di Sullivan. 
Era dunque questo ciò che Joseph intendeva. La parte più remota degli incubi di Walter Sullivan, ove tutto era cominciato. Una parte così intima, dove persino lui stesso era rimasto assorbito ed intrappolato. 
Dunque niente più varchi, niente più viaggi in quelle assurde dimensioni. Questo perché era giunto alla fine. 
Era il momento di esplorare l’ultima parte di lui, il luogo dove Sullivan era nato… e allo stesso tempo il luogo in cui era morto. 
  
‘La parte profonda di lui’. Solo allora lo comprese. 
  
Sotto i piedi sentì qualcosa di scivoloso e notò che c’erano dei bigliettini sotto la sua porta. Li raccolse e li lesse uno ad uno. Erano tutti in uno stato decadente e vi erano delle scritte piccolissime e brevi. 
  
Sta iniziando... 

Presto... 

In qualsiasi momento... 

Tra pochissimo... 

Presto avrà inizio... 

Presto, molto presto! 

Il rito...il rito... 
  
  
“Non comincerà un bel niente, convincitene. È tutto già accaduto e tu…sei morto!” 
  
Fu allora che decise di andare lui a cercarlo. La vittima dunque, a sua volta, andò alla ricerca del suo stesso carnefice. Della stessa persona che lo aveva chiuso in quell’inferno claustrofobico. 
Nello stesso inferno dove, tuttavia, anche il carnefice era imprigionato, condannato in quel circolo infinito. 
  
“Aaah!” 
  
Un urlo di una donna echeggiò. Henry subito si ritrasse turbato. 
  
“E-Eileen?!” disse, sconcertato. 
  
Era assurdo…inconcepibile. Portò una mano sul capo, cercando di non perdere la calma, ma era inutile. 
Henry fece per andare verso l’appartamento della ragazza, il #303, ma delle sbarre poste al centro del pianerottolo gli impedirono di raggiungerla. Poteva solo vedere la stanza dall’altro lato. 
Udì ancora le urla di lei, e le sue mani battere violentemente contro la porta. 
  
“Eileen!!!” urlò, disperato. “Lasciala stare! Lasciateci stare!” si dimenò con quelle sbarre, sperando di riuscire a far leva, ma ovviamente si rivelò un inutile tentativo. “…dannazione!” 
  
A quel punto corse via verso la stanza #301, unico punto di evasione di quel piano, e scese velocemente le scale. 
Fortunatamente Henry aveva una buona memoria fotografica e ricordava ancora bene la disposizione dei passaggi al tempo della sua seconda visita negli appartamenti ‘alternativi’. Quindi seppe fin da subito come muoversi per ritrovarsi dall’altro lato delle sbarre e raggiungere la stanza di Eileen. 
Mentre correva, tuttavia, nella sua mente qualcosa lo stava già turbando. 
  
Eileen… 
Pensare a lei in quel mondo aveva destato in lui immediatamente un ricordo. Quello di quando l’aveva trovata in quel letto di sangue. 
Sperava in cuor suo non fosse così. Che non fosse stata coinvolta di nuovo anche lei in questa storia. Era incapace di accettare di rivedere Eileen in quell’inferno. Nella sua mente quelle urla si erano stampate così nitidamente che non poteva non averle riconosciute. Le urla di Eileen quando fu straziata quasi a morte da quell’uomo che l’aveva scelta come sua ventesima vittima. 
  
Fu quando terminò di scendere la scalinata che vide lui. 
Walter Sullivan era proprio lì, ad attenderlo sulle scale. 
Henry si bloccò di colpo, vedendolo con il volto tinto di sangue. 
  
“Che cosa hai fatto ad Eileen?!” 
  
Walter non si curò affatto di lui e, al contrario, cominciò ad avanzare verso il ragazzo salendo la scalinata rugginosa. Aveva il capo chino e i capelli biondi, anch’essi tinteggiati di rosso su un lato, coprivano una buona parte del suo volto. 
  
“Parla! Eileen dov’è?!” 
  
Walter continuò ad avanzare, ignorando le parole del ragazzo. Henry in un primo momento indietreggiò, poi, in preda dalla rabbia e dal panico, gli puntò la pistola contro. 
  
“Dimmi cosa diavolo vuoi?!” 
  
In quel momento stava pensando solo ad Eileen. 
Lei no! Eileen, no! Nessuno le avrebbe mai più fatto del male. Lui non l’aveva voluta coinvolgere in quell’incubo proprio per evitare quel dolore. 
Sentì gli occhi bruciare, un po’ per rabbia, un po’ per paura. Non ne poteva più e mai come allora desiderava solo una cosa…fuggire via. 
Per la prima volta desiderava ardentemente scappare dall’appartamento #302 e raggiungere la sua vicina di casa. Prendere le valigie e ricominciare una nuova vita lontana da Walter Sullivan. 
Ah, com’era stato cieco! Eileen lo stava attendendo già da molto. Henry doveva solo raggiungerla e chiederle perdono per essere stato sempre così dannatamente in ritardo. 
In due anni che si era trasferito non aveva mai avuto il coraggio di parlarle. Poi in circostanze del tutto folli si erano uniti ed erano sopravvissuti assieme a quell’inferno. Tuttavia…non aveva avuto il coraggio di andare via da Ashfield. Di andare via con lei. Non aveva avuto il coraggio di fare un bel niente, sentendosi ancora prigioniero di quel pazzo mondo. 
I suoi occhi si andarono a spalancare e guardarono Walter con profondo odio. 
  
“Che cosa vuoi da me?!” 
  
Walter a quel punto, con uno scatto veloce, avanzò verso di lui, mostrandogli un volto tetro e senza alcun tipo di espressione. Era…spaventoso. Era inumano, demoniaco. 
Henry non fu in grado di reggere quello sguardo e immediatamente indietreggiò, perdendo tuttavia l’equilibrio e cadendo sulla scalinata. 
Cercò di rimettersi in piedi, ma l’uomo biondo era già dinanzi a lui e ricambiava il suo sguardo. 
Scavalcò le gambe di Henry inginocchiandosi sopra di lui e prese in mano la pistola di Henry.
Solo allora, nel vederla fra le mani di Walter, Henry si rese conto che gli fosse scivolata di mano durante la caduta. 
A quel punto il moro deglutì, con gli occhi sgomentati, non sapendo che fare e non vedendo alcuna via di fuga. 
Sullivan guardò l’arma chinando il capo ed Henry assistette a quella scena senza avere la possibilità di far nulla. 
Walter lo bloccò ancora, sporgendosi verso di lui. Inarcò la schiena e guardò Henry con il volto gelido. Con l’altra mano, lasciò scorrere la canna della pistola sul suo collo, proprio dove il ragazzo aveva il marchio dei ventuno sacramenti. 
  
“Miss Galvin…Ei…Galvin…leen Gavin…Eileen…” sussurrò. 
  
Henry cominciò a sudare, non comprendendo cosa diavolo volesse, non comprendendo cosa lui stesso dovesse fare. Sentire il nome di Eileen pronunciato da quell’uomo fu sufficiente però per sentire il cuore battere a mille. 
Inaspettatamente, Walter allontanò il busto da lui ristabilendo le distanze e gli lanciò la pistola vicino. 
  
“Miss Galvin mi è venuta a trovare.” asserì. 
  
Henry lo guardò sbigottito. 
  
“Cosa?” sibilò a stento. 
  
L’uomo col cappotto lo guardò vitreo qualche attimo, poi si alzò definitivamente da sopra di lui ed andò via. Henry ci impiegò un po’ di tempo per far ritornare in moto il cervello, in quel momento andato in panne. 
  
“F-fermati! Che cosa vuoi dire? Eileen..? Lei…è qui? …Spiegati!” 
  
Walter non lo degnò di ulteriori attenzioni. Lentamente scese le scale e andò via chiudendo la porta. Henry si alzò velocemente, prese in mano la pistola e corse dietro di lui. 
Nell’aprire la porta, si ritrovò immediatamente nel corridoio dei piani inferiori e Walter era sparito. 
Istintivamente tirò un calcio. Se l’era lasciato scappare. 
  
“Eileen…è andata a fargli visita? Cosa avrà voluto dire?” 
  
Una parte di lui si preoccupò del fatto che anche lei potesse essere lì da qualche parte, così si affrettò a superare l’ala del corridoio ovest e raggiungere la stanza della sua vicina di casa. 
  
[Appartamenti di South Ashfield Heights, terzo piano, dall’altro lato delle sbarre] 
  
Non appena raggiunse il terzo piano, quasi s’impressionò di vedere, dall’altro lato delle sbarre, il suo stesso appartamento. 
Il Walter Sullivan bambino piagnucolava e urlava, mentre batteva la porta chiamando sua madre. 
Pur avendo oramai compreso che fosse solo la manifestazione del suo desiderio di ricongiungersi con sua madre, era una visione angosciante quella. Vedere quel bambino battere ossessivamente alla sua porta… 
La causa intrinseca che aveva maledetto il suo appartamento e la sua vita era quella piccola figura.
Pensare che fosse sempre stato metaforicamente lì, a battere, battere, senza mai fermarsi.
Questo per anni…da quando era nato.
Scosse la testa e fece per entrare nell’appartamento #303 ma, sebbene cercasse di far forza, questa non si apriva. 
  
“Chiusa..?” 
  
Puntò la pistola contro il pomello e premette il grilletto, ma un’energia sconosciuta vece rimbalzare il proiettile, impedendo così ad Henry di entrare con la forza. 
Non che non se l’aspettasse, per certi versi. Non doveva dimenticarsi che quello non era il mondo reale. Decise di non indugiare ulteriormente e prese a riflettere. 
  
“Se sono fortunato, nel #105 potrei recuperare il mazzo di chiavi del custode. Aggiunsi la chiave di Eileen l’ultima volta, in teoria, quindi dovrebbe ancora esserci…” 
  
Il custode abitava nell’appartamento 105, nell’ala ovest del pian terreno. Decise di andare a vedere lì. Doveva assolutamente trovare Eileen prima che Walter le facesse qualcosa. 
  
Così scese al secondo piano e si diresse verso l’ala ovest, dove vi era il passaggio per i piani inferiori, nella stanza #206. 
Non appena arrivò sul pianerottolo, tuttavia, dei lamenti attirarono la sua attenzione. Si avvicinò cautamente e, affacciandosi appena da dietro il muro, vide un orribile mostro raggrinzito, di dimensioni e stazza notevoli, indicarlo nel buio. 
Subito deglutì, riconoscendo quella tipologia di mostro. In sostanza, rassomigliava molto al mostro con due teste incontrato nella prigione acquatica. 
Tuttavia era sensibilmente più grande, il corpo era rivestito di una spessa pelle raggrinzita e…aveva un’orrida testa appesa al posto delle gambe. 
  
Quella creatura, ben conscio delle altre incontrate nei suoi viaggi, aveva anch’ella un senso? 
Era nel mondo che rappresentava la prima infanzia di Sullivan, il luogo in cui era stato abbandonato e il luogo dove lui ambiva tornare. Qui era nata la sua ossessione per la madre, ma anche il suo disprezzo per la vita. 
Si chiese, dunque, se il mostro in questione avesse mai potuto rappresentare la psiche del piccolo Walter in fasce. E se così fosse stato… poteva aver già concepito quel “mostro/trauma” a quella tenerissima età? 
  
Un brivido lo trapassò lungo la schiena e gli sembrò terribile pensare ad un’eventualità del genere. 
  
In ogni caso doveva proseguire e l’unico modo per farlo era sbarazzarsi di quella creatura. 
Questi era immobile e continuava ad indicare Henry, finché lui stesso non si avvicinò e raggiunse una vicinanza tale da farlo scagliare contro di lui. 
Il mostro si mosse con quelle mani robuste ad una velocità inaspettata, cercando di colpire il ragazzo. Egli era, per sua fortuna, già preparato ai suoi attacchi, così, quando questi fu sufficientemente vicino, tirò giù il grilletto e sparò. Fece partire una raffica di colpi che andarono a incassarsi in quel corpo dalla pelle doppia e coriacea. 
Il mostro si accasciò dopo aver scaricato un’intera carica di proiettili e lo atterrì definitivamente con un calcio ben assestato all’altezza dell’addome. 
  
Alzando gli occhi, osservò le sbarre che ancora una volta lo separavano dalle altre stanze del secondo piano. 
Li, proprio oltre quelle sbarre, erano improvvisamente apparsi dei mostri appesi. 
  
Henry si avvicinò e poggiò le mani sulle sbarre, e solo allora si accorse che non erano dei mostri. 
Erano appesi al soffitto, un po’ come quando lui si era svegliato poco prima, e sembravano più dei fagottini che fremevano.
Tremavano e si muovevano in maniera disturbante. 
Erano lì, appesi, ed Henry provò una strano turbamento, non comprendendo se fossero vivi o no. Non comprendendo cosa diavolo fossero. 
Li fissò e cercò anche di allungare una mano e toccarne uno, ma le sbarre erano state messe sufficientemente lontane per non permettergli in nessun modo di raggiungere quei fagottini. 
Così non perse altro tempo. Aprì la porta del #206 e proseguì. 
  
Solo dopo aver superato la stanza, si ritrovò dall’altro lato delle sbarre, ma i corpi dei mostri appesi erano spariti e, anzi, un lamento stridulo lo fece di colpo voltare. 
Si sorprese di vedere che quei fagotti ora erano dall’altro lato del corridoio, proprio dove Henry era stato in precedenza. 
Tuttavia adesso erano a terra e non si muovevano più. Henry si fece perplesso per quella visione e rimase a guardarli. 
  
“Che importa?! Va via, presto sarà morto…” 
“Te lo avevo detto che non dovevamo avere un bambino, o no?” 
  
Henry udì nuovamente quella voce adirata. Era la stessa che aveva sentito nel suo appartamento. 
Non fu facile per lui pensarci con razionalità, ma più osservava quei fagottini, più gli sembrava di rivedere in loro quel bambino in fasce. 
Walter Sullivan che, dai suoi genitori, fu condannato a morte. 
Strinse gli occhi, non riuscendo a pensare a quell’uomo in quel momento, avendo ancora la mente rivolta ad Eileen. Tuttavia era impossibile negare l’evidenza. Walter aveva cominciato a covare già a quell’epoca quel senso di abbandono e di disprezzo da parte della società. I suoi stessi familiari non lo avevano voluto. 
Per quanto odiasse quell’assassino, trovava davvero assurdo che, una parte di sé, invece provasse compassione. 
  
Ma Walter era un assassino! Un uomo diabolico, malvagio… 
Tuttavia Walter era anche una vittima. 
  
Henry portò una mano sul capo…accidenti! Com’era complicato per lui ammettere una cosa del genere! Lui aveva fatto del male a della gente innocente! 
Aveva cercato di ucciderlo. Aveva sfregiato brutalmente Eileen. Questo era più che sufficiente per essere tutt’altro che una vittima! 
Tuttavia Walter era anche quel bambino abbandonato, sfruttato dalla Wish House e maltrattato da gente senza scrupoli. 

Quindi cos’era Walter? Vittima o carnefice? 
  
Fece per osservare i fagottini a terra e notò che non c’erano più. Al contrario, un bambino di circa cinque anni, biondo, era apparso all’improvviso e lo stava osservando con un viso triste. 
  
“Walter?” disse. 
  
“Mamma…papà…” 
  
Henry non comprese, poggiò le mani sulle sbarre e osservò il ragazzino con una faccia perplessa. 
  
“I tuoi genitori..?” 
  
A quel punto vide il ragazzino alzare l’indice della mano destra e indicare proprio dietro Henry. Egli si voltò e vide che un altro di quei mostri dalla pelle coriacea era apparso e avanzava velocemente verso di lui. 
Subito sussultò alla visione di quell’orrida creatura, e fu scaraventato a terra dal colpo del nemico. Fece per rimettersi in piedi, ma si accorse di non avere più la pistola fra le mani. 
  
“No!” disse, mentre velocemente la cercava a terra. 
  
Subito la scorse oltre le barre di ferro. Strisciò immediatamente vicino ad esse e tese il braccio cercando di raggiungerla, ma inaspettatamente fu proprio il piccolo Walter Sullivan a prenderla per primo. Henry alzò gli occhi e lo vide stringerla fra le sue mani, con un’espressione molto severa. 
  
“Che fai? Walter!” urlò Henry. 
  
Il biondino puntò la pistola di fronte a sé ed Henry ebbe la terribile sensazione che il colpo fosse diretto proprio a lui. Chiuse gli occhi e abbassò il capo istintivamente, mentre una serie di colpi andarono a sfiorarlo, tant’è che ebbe persino la sensazione di essere stato colpito. 
I colpi poi cessarono ed Henry, aprendo gli occhi, si rese conto di non avere alcuna ferita. 
  
“C-che diavolo..?” 
  
Girando il capo alle sue spalle vide che, piuttosto, era il mostro dietro di lui ad essere stato crivellato di colpi. Tutti eseguiti con una certa precisione in verità. 
Alzò sconcertato gli occhi verso il bambino, ancora dietro le sbarre. Lo vide chinare l’arma verso il basso e poggiarla a terra. 
Nell’incrociare i suoi occhi, Henry ebbe un brivido lungo la schiena. Quello sguardo…egli non era il bambino…era… 

Il ragazzino poi si girò e fece per andarsene, sparendo così nel buio. Henry era ancora sdraiato a terra, incapace di reagire. 
Si alzò solo una manciata di secondi più tardi, leggermente ansimante. Il suo sguardo si posò sul corpo del mostro morto. 
  
“Lo ha chiamato: ‘mamma e papà’…” 

Era un mostro enorme, il più impressionante di tutti quelli visti fino a quel momento.
Era deforme, con la pelle nuda, nodosa e raccapricciante, ricurva sulla sua ossatura assurda. Era segnato da graffi profondi e lividi e sebbene fossero visibilmente cicatrizzati, essi erano inspiegabilmente vivi.
Era una visione angustiante da vedere, poiché ricoprivano in sostanza tutto il suo corpo, come fossero espressione di profondo e tetro dolore. Un dolore vecchio, ma che non era mai guarito.
Essi erano così tanti da aver reso quella pelle coriacea e spessa, indurendola e rinforzandola per proteggersi.
Dei rigonfiamenti si promulgavano da quello che doveva essere il suo collo, ergendosi sotto il tessuto spesso e ripugnate. Erano come due crani nascosti sotto pelle, imbastiti da una crudele cucitura sulla loro sommità che aveva accartocciato il loro volto, stringendolo con la sua stessa carne rossa e sanguinolenta.
Non avevano tratti somatici ed era come se qualcuno avesse tirato loro la pelle per nasconderli, per renderli irriconoscibili.
O forse non era così, forse nessuno li aveva nascosti. Forse semplicemente Walter Sullivan non sapeva affatto quali fossero i loro volti.
Quelle dunque non rimanevano nient’altro che due teste nascoste dalla carne e che lui non conosceva.
Ma non erano le uniche, in verità.
Ve ne era un’altra, posta inquietantemente sul fondo di quella creatura.
 
L’unica testa visibile di quel corpo devastato era ribaltata al contrario sotto il mostro, fra le due braccia con le quali camminava.
 
Stringendo gli occhi, fu difficile per Henry accettare dentro se stesso che quelle due teste fossero mamma e papà, come aveva detto Walter prima di sparare.
La mamma e il papà senza volto che avrebbero generato un demonio nato dall’odio, il mostro capovolto sotto di loro.
Le braccia appartenevano infatti al mostro capovolto che rappresentava l’assassino, il quale, tramite il mondo alternativo, agiva e perseguitava, puntava, rincorreva ossessivamente  le sue vittime condannandole ad un’indicibile violenza.
Questo non scrollandosi mai di dosso la cruda verità capovolta dall’altra parte: egli non aveva che portato con sé due teste senza volto. Corpi che non erano altro che la carne che l’aveva fatto nascere sia come bambino che come mostro.
Non a caso, quello era il mostro generato dall’incubo, più violento e resistente di tutti.
  
Non sapeva dirlo con certezza, non ne aveva idea. Non sapeva nemmeno perché cercasse di spiegarsi tante cose. Non perché rifiutasse quelle consapevolezze, ma perché non poteva semplicemente credere che stesse affrontando un delirio paradossale senza poter far nulla per se stesso né per nessuno.
Un trauma che non poteva essere in nessun modo calmato.
Un male che lo aveva accompagnato in tutta la sua vita, muovendo quello che era stato Walter Sullivan, nei suoi desideri, nelle sue gesta, nei suoi tormenti….
Quel “mostro” faceva ancora male ed era stato capace di far prendere in mano un’arma persino alla versione infantile di Walter. 
L’inizio della sua atroce e spietata crudeltà.
 
Henry rifletté che la violenza era un segno caratteristico tipico della manifestazione del Sullivan adulto. Si chiese quindi come mai una simile inversione di ruoli.
Ripensandoci, al suo contrario, l’uomo biondo, anche se sporco di sangue e dallo sguardo gelido, invece non lo aveva colpito quando lo aveva incontrato in precedenza sulle scale…
Oppure…quello incontrato prima non era il piccolo Walter? 
Henry, in effetti, trovava ancora dannatamente difficile ricordare in continuazione che quei due fossero la stessa persona. 
Ad ogni modo, decise di proseguire e raggiungere il pian terreno. Doveva recuperare le chiavi dell’appartamento di Eileen. 
  
*** 
  
-SECONDA PARTE: Ricordi dal passato 
  
[Appartamenti di South Ashfield Heights, piano terra] 
  
Henry era riuscito a raggiungere il pian terreno dei suoi appartamenti. Anch’esso sostanzialmente aveva le sembianze del palazzo di South Ashfield Heights, tuttavia quell’odore organico e tutta quella ruggine, rendevano il posto quasi irriconoscibile. 
Il moro alzò gli occhi al soffitto e distinse tutti i vari piani dell’edificio. 
Una serie di gabbie circondavano la zona e un mostro, dall’apparenza umana, era appeso al soffitto dondolante. 
  
Il mostro indossava una maschera a forma di becco all’altezza del volto e delle grandi forbici erano conficcate sul cranio. Si dimenava, come se soffrisse, come se non potesse sottrarsi a quel dolore. 
  
Henry distolse lo sguardo, incapace di assistere a quella tortura. 
  
I suoi occhi andarono a posarsi, invece, sull’uomo alto e biondo seduto sulla scalinata. 
Alle sue spalle vi era una grata che impediva di raggiungere i piani superiori, così se ne stava lì con il capo chino, assorto nei suoi pensieri. 
Henry si avvicinò cautamente a lui, scrutandolo con fare diffidente. Doveva parlargli, doveva capire cosa stesse succedendo. Walter doveva pur sapere qualcosa. Doveva pur avere qualcosa da dirgli. 
Mentre avanzava in sua direzione, sgranò gli occhi quando vide che fra le mani stringeva qualcosa. Attizzando l’occhio, notò che si trattava di un piccolo oggetto di stoffa. 
  
“Perché sei qui?” gli chiese Henry. 
  
L’uomo col cappotto non gli rispose, continuava ad essere assorto nei suoi pensieri, come fosse in uno stato catatonico. 
Henry allora sospirò, rendendosi conto che, per la prima volta, doveva provare ad avere un atteggiamento diverso nei suoi confronti. 
  
“Che cosa sta accadendo? Cosa c’entriamo ancora io ed Eileen in quest’incubo…? Perché tu…” 
  
S’interruppe quando i suoi occhi andarono a riconoscere l’oggetto che Walter stava stringendo fra le mani. Con voce tremante, indicò a Walter la bambola di pezza. 
  
“D-dove l’hai presa, quella?” 
  
Era impossibile, assurdo! Come poteva possederla lui? Henry…lui stesso l’aveva restituita ad Eileen, quando l’incubo era finito. Perché dunque Walter ne era in possesso?! 
  
“Eileen è qui, vero? Che ne vuoi fare di lei, ancora!?” 
  
Era un vero mostro, quell’uomo! Subito Henry capì che non aveva alcun senso ragionare con lui. Sapeva già come sarebbe andata a finire. O l’avrebbe ucciso lui o sarebbe morto lui stesso per mano di Walter. 
Il resto avrebbe solo allungato la sua permanenza in quell’incubo. 
Invece Henry voleva andar via, fuggire. Ricominciare da zero con Eileen. 
  
“Parla!” 
  
La sua espressione di rabbia non scalfì minimamente Walter. Al contrario, lui posizionò la bambola in tasca e si alzò. 
Henry rimase all’erta pronto ad uno scontro, ma Walter lo superò non degnandolo nemmeno di uno sguardo. Quando vide quell’indifferenza, Henry rimase sconcertato. Si chiese, a quel punto, se quello fosse per davvero Walter Sullivan o non fosse anch’egli un ricordo che stesse riaffiorando. 
Girò il collo verso il biondo e lo vide avvicinarsi alle doppie porte dell’ingresso della palazzina di South Ashfield. Egli spalancò le porte illuminando di colpo quel mondo parallelo. 
Henry portò le braccia all’altezza degli occhi, accecato da quella luce improvvisa che gli impedì di concentrarsi o comprendere cosa stesse accadendo. 
Strizzò appena un occhio e cercò di osservare Sullivan, che invece guardava dritto dinanzi a sé verso…l’esterno della palazzina?! 
  
“Cosa?” 
  
Il moro era scioccato mentre vedeva sorgere davanti ai suoi occhi i dintorni che circondavano il palazzo di South Ashfield Heights. 
Quella visione era reale? Ma non si trovavano nel mondo parallelo? Come poteva essere? 
Tuttavia ben presto il paesaggio mutò e si ritrovò davanti il passaggio per la stazione, impossibile da vedere così vicino dagli appartamenti. Questo gli fece perdere la speranza che quello fosse il mondo reale. Era soltanto una proiezione. 
  
Henry intravide il cielo mattutino insolitamente limpido e la gente passare e camminare nella cittadina tra un impegno e l’altro. 
Una normale atmosfera di città, caotica, insomma. Tipica dei giorni lavorativi. 
  
Si avvicinò lentamente, finché non sentì Walter bisbigliare. 
  
“Tra poco arriverà lei con sua madre…” 
  
“Chi arriverà?” 
  
Walter non rispose, così anch’egli rimase ad osservare. Henry cercò di capire verso quale direzione andassero a focalizzarsi gli occhi verdi di Walter Sullivan. Fu solo così che si rese conto di un ragazzo disteso a terra nel suo sacco a pelo nei pressi del passaggio della stazione di South Ashfield. 
Prima non aveva avuto modo di scorgerlo. Era come buttato lì e dimenticato dal resto del mondo. 
Walter indicò allungando il braccio. 
  
“Eccola.” 
  
Nelle vicinanze del ragazzo giunse una bambina di circa cinque anni. Camminava stringendo la mano di sua madre. La bambina indossava dei vestiti bellissimi, colorati. Aveva degli occhi stupendi. Un color acquamarina che esaltava il suo visino vispo. 
Mentre passò di striscio vicino all’uomo, ella lo fissò con l’ingenuità e l’innocenza tipica di un bambino. La madre, tuttavia, subito la richiamò.

"…Eileen, non guardarlo in quel modo..."
 

"Perchè no, mamma?"
 
  
Henry allora sbottò, guardando incredulo quella ragazzina. 

“Eileen..??”
 
  
Si lanciò immediatamente verso il portone, ma andò a sbattere contro qualcosa che gli impediva di uscire fuori dall’appartamento.
Il suo volto si fece perplesso. Non c’era nulla che l’ostacolasse, eppure toccando dinanzi a sé sentiva pressione, come se ci fosse un vetro a separare lui da quella scena. 
Si sentì terribilmente turbato di non poter raggiungere Eileen, ma continuò ad osservare il susseguirsi di quella vicenda stando ben attento a ciò che succedesse. 

Vide Eileen lasciare la presa della mano di sua madre, per avvicinarsi di più a quel giovane.
 

"Perché dormi qui? Non hai freddo?" gli chiese inginocchiandosi di fronte a lui.
 

A quel punto, il ragazzo si alzò appena con il busto. Non si era nemmeno accorto, prima, di quella bambina e si sentì confuso nel sentirla parlare con lui in quel modo confidenziale.
 
Non l'aveva mai vista prima. Era davvero molto bella. Con il viso pulito e ordinato. Con un cappottino colorato e uno sguardo spensierato. Tutto il contrario di lui, insomma. 
Walter era un adolescente all’epoca, ma l’aria trascurata rendeva difficile alla gente dargli un’età ben precisa. Più che altro, veniva completamente ignorato, o guardato con disprezzo. Nessuno si era importato poi molto che ci fosse o meno. Che esistesse oppure no.

"Eileen, non parlare con lui!" disse sua madre che intanto corse, spaventata, verso di lei.
 
  
Ma Eileen si risentì delle parole della madre, anzi, le rispose non comprendendo il perché di quella titubanza. Walter intanto era immobile, quasi impietrito e la osservava. 

"Mamma, fa freddo qui...Non vedi che...."
 

Nonostante le sue parole, la madre continuò a richiamarla. Così Eileen si alzò e velocemente prese una bambola dalla sua borsetta, appoggiandola accanto al ragazzo biondo.
 

"Puoi dormire con lei."
 

"Eileen, andiamo a casa. Oggi è il compleanno di papà. Lo sai. Papà ti sta aspettando." parlò la mamma tirandola via.
 

"Okay, mammina....ciao, ciao!" disse Eileen, salutando quel ragazzo. Insieme poi, lei e sua madre, andarono via.

Il ragazzo continuò a guardare la bambina finché ella non sparì lontano dalla sua visuale, stringendo tra le mani la bambola che gli aveva lasciato.
Sembrava così felice…e lei…
 
All’improvviso una lacrima scivolò veloce sul viso del giovane.
Quel piccolo gesto d’amore scatenò in lui un pianto. Un pianto diverso. Un pianto di gioia. Una commozione intima. Un sentimento che mai aveva provato prima. 
 L’amore…l’affetto…lui non conosceva quelle cose. 
Così le lacrime scendevano, e non riusciva a fermarle. 
  
Henry, con la coda dell’occhio, vide Walter stringere gli occhi nel riportare alla mente quella scena. Poi ritornò ad Eileen.

"Mamma, credi che a papà piacerà?" chiese la piccola dai capelli castani.
 

"Ma certo, cara. L'adorerà perché l'hai scelto tu." le rispose sua madre.
 
  
La scena allora venne interrotta bruscamente da Walter che chiuse le doppie porte dell’ingresso della palazzina. Henry lo guardò colto alla sprovvista. 
  
“Cosa fai?” 
  
Henry aveva appena visto Eileen da bambina. Ancora non era capace di formulare dei pensieri razionali e l’atteggiamento di Walter lo mandò in panne ulteriormente. 
  
Quella scena… 
Aveva assistito al primo incontro di Walter con Eileen, la Madre? 
  
Walter comunque non lo curò, anzi, si diresse verso l’ala ovest del pian terreno. 
All’improvviso guardò malinconico Henry. 
  
“Era così felice allora…mentre stringeva e sé sua madre…non trovi?” disse prima di sparire oltre la porta. 
  
Henry si lanciò subito al suo inseguimento, ma non si sorprese affatto di vedere che fosse già svanito di nuovo, si ritrovò così solo nel corridoio ovest del pian terreno. Scorse subito, infatti, l’appartamento del custode, il #105, dove era intenzionato a entrare per prendere le chiavi per il #303.
Attaccati sulla porta, vi erano una serie di foglietti fermati con dei punteruoli. Erano sei in tutto. 
Henry li raccolse e riconobbe quelle scritte. Erano state pronunciate a suo tempo da un fagotto appeso sul soffitto, e riguardavano tutti dei ricordi di Walter Sullivan sul padre. 
  
Oh! Chiudi il becco. Non puoi dare tutta la colpa a me!
 Te l'avevo detto che non dovevamo fare un figlio, o no?!
 Sbrigati---fa le valigie!
 Se il custode lo sente, siamo nei guai. Qualcosa in quel tizio...non mi fido di lui... 
Ad ogni modo andiamocene di qui...non ce la faccio più...
 Stupido piccolo piagnucolone... 
  
Nel girare il pomello, costatò che la porta era bloccata. La scosse violentemente cercando di forzarla, ma…nulla! 
  
“E ora che cosa diavolo faccio..?!” disse, quando poi sentì qualcosa cadere dall’altro lato della porta.
  
Era rumore metallico. Un qualcosa di piccolo era caduto sul pavimento nel momento nel quale aveva cercato di aprire la porta. 
Si inginocchiò a terra e sbirciò da sotto la porta. Qualcosa effettivamente c’era. Scorse infatti un piccolo oggetto. Subito allora estrasse il suo album dei ritagli e prese una pagina a caso sufficientemente grande e resistente che gli permettesse di raggiungere la cosa che era caduta. 
Riuscì a far scivolare il foglio sotto la porta e prendere l’oggetto, così lo trascinò a sé. 
  
Era una chiave. Una piccola targhetta consumata era attaccata lì vicino. 
Henry la prese fra le mani e lesse. 
  
-Per il ventunesimo segno- 
  
Henry strinse gli occhi. 
  
“Walter…” disse ironico. 
  
Era sicuro che l’avesse lasciata lui lì, il problema era che non sapeva proprio di cosa farsene di quella chiave. 
La guardò, cercando di far mente locale. Magari andava usata nel suo appartamento? 
Mentre fece per rimettersi in piedi, si accorse che con il foglio non aveva tirato a sé solo quella chiave, ma intravide da sotto la porta anche un piccolo angolino bianco. 
Si rese conto che si trattava di una fotografia fatta da macchina fotografica istantanea. L’osservò e corrucciò le sopracciglia quando vide che raffigurava una stanza di South Ashfield Heights piena zeppa di quadri. 
Mise la foto nell’album e la chiave in tasca. 
  
“La stanza del pittore? La #202?” 
  
Si chiese cosa avrebbe mai trovato lì dentro. Tuttavia questo di certo non gli impedì di andare a dare un’occhiata. 
  
*** 
  
-TERZA PARTE: La ricomposizione della bambola 
  
[L’appartamento 202, nell’ala ovest del secondo piano] 
  
Il design di ogni singolo appartamento della palazzina di South Ashfield Heights era tutto sommato sempre lo stesso. Un corridoio a “L” che conduceva in cucina, salotto e poi nelle camere da letto, poste infondo. 
Henry utilizzò la chiave trovata nell’appartamento del custode per aprire la serratura della porta del #202. 
Quando entrò, si ritrovò subito in un corridoio pieno di quadri dalle più svariate dimensioni. 
Vi erano quadretti semplici, già appesi sulle pareti, e quadri più grandi poggiati a terra lungo i muri. Henry li osservò e gli unici riconoscibili ai suoi occhi raffiguravano i vari inquilini della palazzina. 
Richard Braintree, l’infermiera Rachel, la donna amante dei gatti… 
A pensarci bene, mancavano solo lui ed Eileen Galvin. 
Il quadro enorme, che un tempo era posto al centro della stanza su un cavalletto da pittore, era stato spostato in un angolo ed Henry si lasciò incuriosire. 
Spostando il quadro, indietreggiò sorpreso di vedere che servisse a nascondere un oggetto ben preciso. 
  
“Ma che roba è?” 

Si avvicinò e scrutò una grossa bambola dalle fattezze umane, seduta su una parte della parete che era stata bucata.
 
Più guardava quel foro tuttavia, più gli faceva impressione. 

Sembrava quasi il varco che lui percorreva per arrivare nella realtà parallela. Era rotondo e aveva una striscia rossa attorno a sé, con incisi dei simboli sfocati e indecifrabili.
 
La bambola era grigia e sembrava rappresentasse un soggetto ben preciso in scala reale. Peccato mancassero alcuni pezzi. 
Osservandola bene, Henry notò che mancavano esattamente il petto, un braccio e la testa. 
Si chiese se avesse mai dovuto completarla, in qualche modo. Il problema era che non sapeva proprio come. 
Si avvicinò per esaminare meglio e fu così che calpestò un oggetto situato proprio ai piedi della bambola e che prima non aveva visto. 
Era una chiave. 
Era colorata e sembrava piuttosto un giocattolo. 
Henry fece spallucce e portò con sé la chiave, facendo per andare via. Fu in quel momento che, nel corridoio dove erano situate le stanze da notte, vide altri quadri. Tre in particolare attirarono la sua attenzione. 
Erano enormi, alti quasi quanto Henry. Egli si chiese come mai proprio tre quadri. 
Si avvicinò a uno di questi che, ironia della sorte, rappresentava la Wish House. 
Vi era una placca sopra. 
  
“Il primo segno,
E Dio disse,
Quando sarà il momento, purifica il mondo con la mia ira.
Raccogli l'olio bianco, la coppa nera e il sangue dei dieci peccatori.
Preparati per il rito della Sacra Assunzione.”
 
  
“I dieci cuori? I ventuno sacramenti?” 
  
Si chiese come mai sul quadro vi fosse incisa proprio la prima parte del rituale. 
Subito si volto verso gli altri due quadri, per controllare se anche questi avessero qualche cosa di strano. 
  
Il secondo quadro era posto di fronte al primo. Raffigurava…un momento…una prigione? 
Era una cella disegnata con linee essenziali. Un acquerello semplice ma ben fatto. Sembrava trafiggere l’anima di chi lo osservava destando in lui desolazione e turbamento. 
Anche qui vi era un’altra incisione: 
  
“Il secondo segno,
E Dio disse,
offri il sangue dei 10 peccatori e l'olio bianco, sii poi liberato dai vincoli della carne, per ottenere il potere dei cieli.”
 
  
“Il potere dei cieli…la sacra Assunzione?” 
  
Sul terzo quadro, invece, vi era inciso il messaggio del terzo e anche dell’ultimo segno dell’ascesa della Santa Madre.

“Il terzo segno,
E Dio disse,
torna alla fonte attraverso la tentazione del peccato. Sotto l'occhio vigile del demonio, vaga solitario nel caos senza forma. Solo allora le conciliazioni saranno in allineamento.

L'ultimo segno,
E Dio disse,
separa dalla carne anche colei che è
 la Madre Rinata e colui che riceve Saggezza. Se questo sarà fatto, attraverso il mistero dei 21 sacramenti, la madre rinascerà e la nazione del peccato sarà ridente.” 
  
Alzando gli occhi, vide che il quadro raffigurava Eileen Galvin. 
L’immagine era quasi del tutto nera. Vi erano forti giochi di chiaro-scuro e solo la schiena nuda di Eileen era ben definita. 
Come quando viaggiò con lui nella realtà parallela, ella aveva il corpo tinteggiato di macchie rosse. Sulla schiena vi era un’incisione, 20/21. 
  
Henry toccò quel quadro provando una profonda malinconia. 
  
“Eileen…” 
  
Nell’avvicinarsi, udii dall’altra parte del quadro dei singhiozzi. Erano frequenti e sembravano proprio quelli della sua vicina di casa. 
  
“Eileen, sei qui dietro?!” urlò, cercando di sfondare il quadro. 
  
Solo allora si accorse che quelli non erano affatto quadri… ma porte! 
  
Scrutando di nuovo tutti e tre i “quadri/porte”, vide che tutti avevano un piccolo incastro dove poter far girare una chiave. 
A quel punto riprese dalla tasca la chiave giocattolo trovata ai piedi della bambola e la osservò. 
Facendo mente locale, Walter era un bambino all’epoca in cui viveva nella Wish House. E se… 
Così provò a girare la chiave nella fessura del primo quadro e un meccanismo effettivamente scattò. 
La porta si aprì. 
Deglutì, ma non pensò nemmeno per un istante di non entrare. Arrivato a quel punto, sarebbe stato stupido indugiare. 
Affacciandosi dentro, Henry si sorprese di vedere che al suo interno vi era un ambiente completamente buio. Avanzando tuttavia, si accorse che quella non era certo la cosa più sconcertante. 
  
*** 
  
[LUOGO SCONOSCIUTO I, aperto con la chiave giocattolo] 

Non appena Henry solcò la porta, si ritrovò immerso nel buio. Non solo. Il suolo era fangoso e quasi vi sprofondava. Una violenta folata di vento e acqua costrinse il ragazzo a ripararsi il viso con le braccia. Dove era finito? Sembrava autunno inoltrato e faceva un freddo cane. 
Completamente zuppo, guardò dietro di sé e vide che la porta dalla quale era entrato era sparita. Vi era al suo posto solo un fradicio recinto di travi di legno. Così, non poté far altro che proseguire in quella terra buia e fangosa. 
L’acqua e il vento gli impedivano di aprire gli occhi e vedere nitidamente, sicché cercò velocemente un riparo. 
  
“C’è una luce lì..?” 
  
Portò una mano all’altezza della fronte e distinse una serie di alberi infittirsi da lì a una cinquantina di metri. Fra le loro fronde, in lontananza, vide una tenue luce opaca brillare nella notte. 
Cos’era? Una casa forse? 
Strinse la camicia attorno a sé cercando di camminare con il passo più veloce possibile per evitare di passare troppo tempo in quella tormenta fredda. 
La pioggia scendeva violentemente, soffocando quasi il giovane dai capelli castani, mentre faceva del suo meglio per non perdere l’orientamento. Un tuono poi illuminò per qualche attimo quel cielo nero, facendo così aumentare la pioggia ulteriormente. 
Si chiese come mai un clima simile. Se anche quel posto rappresentava Sullivan, anche quella pioggia aveva un suo perché? 
  
In verità, era già abbastanza irrazionale oltrepassare da una porta in un appartamento e ritrovarsi in un’atmosfera autunnale notturna. Figuriamoci proseguirci senza sapere nemmeno che fare! 
  
La luce divenne sempre più distinta e Henry si accorse che proveniva proprio dalla finestra di una casa, come aveva supposto. Tuttavia non era la Wish House…
Ansimante, si affrettò a raggiungere l’abitazione. Si strinse all’altezza dell’addome non potendone più di quel freddo e provò ad affacciarsi cercando di intravedere chi vi abitasse. 
Fortuna che Henry fosse un ragazzo di un metro e ottantacinque, altrimenti non avrebbe mai potuto raggiungere quella finestrella. 
Sbirciò all’interno e non riuscì a vedere un accidenti. Gli pareva di intravedere un uomo alto, ma era coperto da un copricapo rosso o qualcosa del genere. Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a distinguerlo meglio. Dei brusii, simili a delle preghiere, provenivano dall’interno e solo dopo essere stato ad ascoltare in silenzio, comprese che stavano leggendo qualcosa. 
Non voleva fare ipotesi azzardate, ma sembrava quasi la celebrazione di una messa. Che quella fosse una chiesa? 
Henry scrutò meglio quella casa, ma non aveva nulla che ricordasse un luogo sacro. E perché poi in mezzo ad un bosco? 
Il brusio terminò ed Henry girò di colpo il capo quando vide la porta rugginosa aprirsi. 
  
“!!” 
  
Rimase immobile nella sua posizione, mentre vedeva due uomini alti uscire. Indossavano entrambi una lunga tonaca scura e uno di loro aveva un pezzo di stoffa rossa poggiato sul braccio. Probabilmente era l’uomo che Henry aveva visto dalla finestra. 
L’altro invece aveva un paio di libri in mano. Dei libri antichi, consumati, e parlava al suo collega. 
Henry camminò lentamente seguendo il perimetro della casa, attento a non farsi vedere, mentre cercava di capire cosa stessero dicendo i due. 
  
“Come vanno le cose con Walter?” 
  
“E’ ancora presto per avanzare con la teoria. Altri due o tre giorni nella torre e sarà pronto, padre Stone.” 
  
Henry li osservò parecchio perplesso, mentre si incamminavano noncuranti per un piccolo viale, nel pieno della notte. Uno dei due aveva nominato un tale Walter. Che si trattasse dello stesso Walter di sua conoscenza? 
La porta era stata lasciata aperta, così sbirciò cautamente prima di inoltrarvisi. 
A dispetto del luogo circostante, nella casa vi era un tepore piacevole, dovuto al camino acceso. Il pavimento era di legno, così come tutto l’arredo in generale. Henry si sorprese di vedere che al suo interno non vi fosse nessuno. Eppure avrebbe giurato di aver sentito un brusio emesso da almeno una manciata di persone. Solo allora si accorse di un ragazzino seduto di spalle vicino un tavolo di legno. 
Henry lo riconobbe subito in Walter-bambino, sicché gli si avvicinò. 
  
“Chi erano quegli uomini? Uno di loro si chiama padre Stone. È un sacerdote?” gli chiese. 
  
Walter a quel punto si girò. Aveva un viso nervoso, incurante di avere dinanzi a sé un ragazzo fradicio e infreddolito. Lo rispose in modo seccato, confermando semplicemente le parole di Henry. 
  
“È padre Stone. Il maestro del culto di Valtiel.” 
  
Henry si accorse che il piccolo Walter non fosse in vena di parlare così, vedendo che questi gli dava ancora le spalle, fu lui a portarsi di fronte al ragazzino. 
  
“Fuori c’è il temporale, come farai a tornare in orfanotrofio?” 
  
Walter scosse la testa, continuando a distogliere lo sguardo da Henry. Lo vide stringere i denti e corrucciare il viso. 
  
“Che importa? Tanto devo ritornare nella torre stasera, e anche domani.” 
  
Il moro a quelle parole si incuriosì. 
  
“Cosa intendi? La prigione cilindrica?” 
  
Il biondino tuttavia non rispose, come fosse infastidito da quella domanda, ma Henry non aveva tempo da perdere. Doveva sapere. 
  
“Dimmi che stavi facendo qui dentro. Chi erano quei tizi e di quali diavolerie ti stavano parlando?!” 
  
Henry forse parlò troppo duramente, perché vide Walter alzarsi dalla sedia e rispondergli a tono. 
  
“Io non ti devo dare conto di niente! Io devo dare conto soltanto a Dio!” 
  
Il ragazzo si bloccò di colpo quando lo vide con quel volto sgomentato ed adirato. Non sapeva cosa gli fosse accaduto e non sapeva con quale frammento del passato di Walter stesse avendo a che fare. Così subito cercò di abbassare i toni e di ristabilire una certa fiducia nei confronti del bambino. 
  
“Senti, mi dispiace. Ma ho bisogno di sapere cosa ne sai di un rituale chiamato ventuno sacramenti. È importante.” 
  
Walter si fece dubbioso e lo guardò diffidente. 
  
“Perché? Chi sei?” 
  
Henry si chinò verso di lui, poggiandosi con le mani sulle ginocchia. 
  
“Perché l’ascesa della Santa Madre è una bugia. Un inganno.” mentre palava, vedeva il biondino sgranare gli occhi sempre di più, ma non se ne curò. Doveva dirglielo, doveva almeno provarci. Non avrebbe evitato ciò che inesorabilmente era già accaduto, tuttavia adesso Walter era solo un bambino, ed era lì che era iniziato tutto. “Tu devi credermi.”  
  
Il bambino a quel punto indietreggiò, con il viso sgomentato, tremante, avvicinadosi all’uscita. Henry subito allungò un braccio verso di lui. 
  
“Walter, non scappare!” 
  
“Z-zitto!” urlò, con gli occhi da fuori. “Non chiamarmi così! Io non ce l’ho un nome! Quello è il nome che hanno scelto per me padre Rosten e padre Stone.” 
  
Continuò ad indietreggiare riprendendo le distanze ed Henry avanzò assieme a lui. 
  
“L’ascesa della Santa Madre è un rituale blasfemo che non ti riporterà mai dalla tua famiglia.” 
  
“Non parlare della mamma…della Santa Madre! Non ti permettere!” 
  
Henry si bloccò, udendo quell’affermazione. 
  
“…hai detto ‘mamma’?” sussurrò. 
  
A quel punto Walter sbandò alle parole di Henry e scappò via verso il bosco. Il ragazzo provò ad andargli dietro, ma la pioggia, il buio e il vento gli impedirono di stargli alle calcagna. Urlò il suo nome più volte, ma stesso lui, per quanto si sforzasse, non riusciva ad udire la sua stessa voce. Tutta colpa di quella pioggia incessante e di quei terribili tuoni che squarciavano il cielo. 
Con il cuore che prese a battere forte, si riavvicinò alla casa, non sapendo che fare. 
Anche se non l’avrebbe mai ammesso, era in ansia per quel ragazzino. Pur sapendo che quella fosse una mera manifestazione di Sullivan, non poteva non essere rimasto turbato dalle sue parole. 
Gli aveva detto di non avere un nome…e in effetti era vero. Egli era stato abbandonato quando era nato, nessuno prima del culto, aveva dato a lui un’identità. 
E poi…aveva chiamato la Santa Madre ‘mamma’, questo fece crescere in lui un terribile sospetto. Che dopotutto, lui, con i ventuno sacramenti, non avesse fatto altro che ricercare sua… 
  
“!!” 
  
Henry sussultò quando, mentre si poggiava con la schiena vicino al muro della casa, questa prese a sgretolarsi. 
  
“Ma che diavolo?!” 
  
Immediatamente si ritrasse e la casa cadde a pezzi proprio sotto i suoi occhi pieni di sgomento. 
Si alzò una quantità indicibile di calce e polvere ed Henry fu costretto a coprirsi il viso e a rannicchiarsi in un angolo. 
Sentì i pezzi di muro cadere violenti, come se la casa si stesse demolendo da sola dall’interno. 
Quando i rumori cessarono, osservò le macerie incapace di spiegarsi con razionalità la visione che aveva appena avuto.
Era tutto distrutto. Tutto era caduto a pezzi in maniera inarrestabile. Henry si avvicinò a quei resti ancora fumanti della polvere che si era innalzata e guardò non capacitandosi che, fino a pochi secondi prima, lui e il bambino Walter fossero lì dentro. 
Notò poi che il centro della casa era rimasto intatto. Quando vi si affacciò, vide che vi era un patibolo. 
  
“Cosa ci fa una cosa simile qui?” disse, mentre scavalcava le macerie e si avvicinava a quel patibolo vecchio. 
  
Era fatto di pietra e sulla lunga trave di legno vi era appeso un cappio di corda. Tre scalini erano posti ai suoi piedi ed Henry li salì, cercando di esaminare tutto con cura. 
Piegandosi da un lato, vide che vi erano tre forme quadrate nelle quali sembrava si ci dovesse incastrare qualcosa. In ognuna di queste tre forme c’era un’incisione che Henry lesse. 
  
In quella a sinistra vi era scritto: “Il giustiziere che gli diede la morte” 
In quella a destra vi era scritto: “Il giustiziere che gli diede l’inganno” 
In quella al centro vi era scritto: “Il criminale che morì per sua Madre” 
  
Henry aggrottò le sopracciglia. Erano un indizio? Dove poteva trovare quelle forme quadrate? 
  
Si mise a cercare tra le macerie. 
Trovò innanzitutto diversi libri sull’occulto di cui uno voluminoso che trattava proprio dei ventuno sacramenti. Le pagine tuttavia erano sbiadite e non riusciva a decifrarle. 
Tra queste, comunque, ve n’era una molto rigida. Sembrava fatta di pietra. Vi era impresso un bassorilievo che ritraeva un uomo e una donna con delle lance in mano. Fece leva su questa e la staccò dal libro. A sua sorpresa, se ne venne velocemente. 
Gli sembrava più o meno della stessa dimensione della forma quadrava sul patibolo, così la tenne con sé.  
  
Continuò a cercare e trovò a terra una placca spaccata a metà raffigurante un uomo impiccato. Infine l’ultima placca riuscì a recuperarla lontano dalle macerie, vicino ai ceppi di legno carbonizzati del camino. Anche questo raffigurava il bassorilievo di quello che sembrava un esecutore.  Aveva in mano un libro con il simbolo del culto. 
  
Si avvicinò al patibolo e ragionò su come disporre i tre pezzi. 
  
Il primo quadrante che aveva trovato raffigurava una coppia. Pensò subito ai genitori di Sullivan. I giustizieri che “gli diedero la morte”. Così la incastrò a sinistra. 
L’uomo col libro del culto in mano lo mise a destra, dove vi era l’incisione del “giustiziere che diede l’inganno.”. Quella piastra doveva rappresentare per forza il culto che lo ingannò con i 21 sacramenti. 
Infine, mise al centro l’ultima piastra, ove era raffigurato un uomo impiccato, il “criminale che morì per sua Madre”… 
…Walter Sullivan. 
  
In quell’istante, un urlo di dolore lo fece sobbalzare, tant’è che Henry cadde a terra sui tre gradini. Quando alzò il capo, inorridì vedendo che, sul patibolo, fosse comparsa un’ombra. 
Effettivamente non era un’ombra. Sembrava più il corpo di un uomo impiccato, ma completamente tinto di nero. Era strano, assurdo e… 
Si alzò e osservò quell’inquietante ombra. La sagoma era indefinita ed era lì, penzoloni, con il collo appeso su quel cappio. 
  
“Oddio…” sussurrò, inorridito. 
  
Sebbene fosse un fantoccio tutto nero, vedeva il suo corpo oscillare al vento, sotto la pioggia, come fosse vero. 
Avvicinandosi, vide che aveva le mani congiunte e serravano qualcosa con una stretta ferrea. 
Con un po’ di forza, riuscì a sfilargli fra le mani l’oggetto e vide che si trattava di una chiave. 
Era una chiave abbastanza grande, di ferro e…toccandola, Henry rimase nauseato di vedere che fosse incrostata di sangue e di ruggine. Purtroppo, non poteva permettersi il lusso di essere schizzinoso, così cercò di leggere, nonostante il buio, l’incisione che vi era sopra: 
  
#11121 
  
“Ma cosa diavolo..?” 
  
11121? Perché quella scritta? Un momento, e se quello invece fosse, più che altro, 11/21? 
Per quanto ricordava, quello era il marchio trovato sull’uomo che fu arrestato dieci anni prima e che fu identificato come Walter Sullivan. 
  
In quel momento Henry udì un rumore metallico e, ai suoi piedi, vide che era comparsa una porta, posta in orizzontale sotto il patibolo. 
Egli rimase sconcertato. Si piegò e, girando il pomello, vide che la porta si apriva, così vi saltò dentro. 
  
*** 
  
[Appartamento #202, South Ashfield Heights] 
  
Era di nuovo nella stanza del pittore. 
Sentì un ticchettio dietro di lui, così si girò verso la porta posta alle sue spalle. Vide che, incastrato su questa, vi era un pezzo di gomma grigio. Poggiandoci l’orecchio quasi sussultò quando vide che il ticchettio proveniva dall’interno di quel coso! 
Più lo sentiva, tuttavia, e più che un ticchettio, gli ricordava il battito di un cuore. 
Il battito di un cuore? I dieci cuori del primo segno? 
Effettivamente sulla porta appena solcata c’era proprio l’incisione riguardante la prima fase del rituale. 
Si chiese quindi se quell’oggetto avesse quel simbolismo. 

“A pensarci bene…quella bambola non aveva una parte del petto.”
 
  
Prese dunque l’oggetto e, a guardarlo meglio, ora era abbastanza lampante che raffigurasse proprio un torace. 
  
Si avvicinò alla bambola seduta sul foro nel salotto e provò ad incastrare il pezzo. Combaciava alla perfezione! 
Dalla tasca estrasse la chiave che aveva trovato fra le mani dell’impiccato. 
  
“11/21…” 
  
A quel punto si avvicinò alla seconda porta, il quadro raffigurante una prigione, e vide se vi era possibile incastrare la chiave nella serratura. 
La chiave rugginosa e sporca di sangue girò e la porta si aprì. Henry ebbe un po’ di turbamento. 
  
Lesse un’ultima volta quell’incisione. 
  
“Il secondo segno,
E Dio disse,
offri il sangue dei 10 peccatori e l'olio bianco, sii poi liberato dai vincoli della carne, per ottenere il potere dei cieli.”
 
  
Si chiese cosa avrebbe mai visto questa volta, dopodiché scavalcò il quadro ed entrò. 
  
[LUOGO SCONOSCIUTO II, aperto con la chiave incrostata di ruggine e sangue] 
  
Henry si ritrovò sdraiato a terra. Quando rinvenne, non riuscì a spiegarsi esattamente da dove fosse venuto. Ricordava solo di aver utilizzato la chiave trovata sul patibolo e poi di essere entrato nella porta/quadro. 
Si rialzò ed osservò il luogo circostante. 
Questa volta si trovava al chiuso, in un lungo corridoio grigio. Era terribilmente umido lì e il soffitto gocciolava di acqua fetida. Sentiva le ossa indolenzite come se l’umido potesse penetrare anche al loro interno. 
Dalla luce tenue, ma candida, Henry dedusse che doveva essere mattina molto presto. Vi erano una serie di finestroni lungo tutto il corridoio e tutte erano sbarrate, lasciando così che la luce proiettasse la loro ombra a terra rigando il pavimento. 
  
“Dove sono..?” 
  
Henry si alzò sulle ginocchia e poi prese a camminare, scrutando l’ambiente. Vi erano una serie di celle sporche e vuote, e il moro comprese di essere esattamente dove si aspettava. 
  
“Una prigione…” 
  
Mentre proseguiva, si accorse che una delle celle era aperta, così vi entrò. Non era molto grande ed era anch’essa vuota. Sul letto scolorito, vide poggiato un ritaglio di giornale. Sembrava appartenente alla sezione dei necrologi. 
  
“[…]Ne danno la triste notizia i genitori, i signori Locane, residenti a Silent Hill. Billy e Miriam sono stati rinvenuti morti durante la stessa giornata. Il primo, morto sul colpo, è stato ferito sul capo da un’arma da taglio, nel giardino di casa. Miriam Locane, invece, è stata trovata lungo la strada.[…]parti del suo corpo non sono mai stai trovati[…]I loro cuori erano stati asportati[…]” 
  
Henry non riuscì a leggere di più. Era un liceale all’epoca, ma ricordava quando venne data quella terribile notizia alla tv. 
Chi l’avrebbe mai detto che, un giorno, quella storia avrebbe riguardato anche lui. 
Uscì dalla cella e continuò l’esplorazione. Un’altra serie di celle erano aperte ed in tutte vi erano alcuni frammenti di giornale. Henry li lesse e ognuno di questi riguardava una delle vittime di Walter Sullivan. 
Riconobbe anche nomi di gente che aveva avuto modo di vedere in viso come Sein Martin, Bobby Randolph, Eric Walsh, William Gregory, Steve Garland, Rick Albert… 
Ritrovò persino il nome dei due sacerdoti del culto: Jimmy Stone e George Rosten. Entrambi uccisi, il primo nella Wish House, il secondo nella foresta di Silent Hill. 
Ripensandoci…erano tutte le vittime del primo arco di omicidi compiuto da Sullivan. I dieci cuori. 
  
Una volta uscito dall’ultima cella, trovò un altro giornale sporco a terra. Lo raccolse. 
  
“La polizia ha comunicato oggi che Walter Sullivan, arrestato il 18 di questo mese per il brutale assassinio di Billy Locane e di sua sorella Miriam, si è suicidato nella sua cella nelle prime ore del 22. 
Secondo il comunicato della polizia, Sullivan si sarebbe conficcato un cucchiaio nel collo recidendosi la carotide. 
Le guardie hanno trovato Sullivan morto per emorragia, con il cucchiaio infilato fino a 5 centimetri dal collo. 
Un vecchio compagno di scuola di Walter Sullivan del suo paese, Pleasant River, ha detto: 
  
 “Non sembrava tipo che ammazza dei bambini, ma ricordo che poco prima del suo arresto farfugliava dicendo cose come ‘Sta cercando di uccidermi. Il mostro…il Diavolo Rosso. Perdonatemi. L’ho fatto, ma non sono stato io!’.” 
  
Il compagno di scuola ha poi aggiunto: 
  
 “Ora che ci penso, era un po’ pazzo.”.” 
  
Henry chiuse il giornale e lo rimise a terra. 
  
“Il diavolo rosso..? Jimmy Stone?” subito portò una mano sul capo, confuso. “J-Jimmy? Ma che diavolo sto dicendo?” 
  
Perché aveva detto il nome di Jimmy Stone? Non sapeva spiegarselo, eppure quando aveva letto quel nome gli era venuto spontaneo. Come se sapesse che fosse così e basta. 
Il Diavolo Rosso…egli… 
Era così che si faceva chiamare. 
Si sentì turbato di avere dentro di sé quella consapevolezza. Un qualcosa che in teoria non doveva di certo sapere. Scosse la testa ed aprì la porta di servizio di fronte a lui. 
Una volta entrato, sgranò gli occhi non aspettandosi minimamente di non trovare una rampa di scale, o un corridoio… 
Henry si trovava in un cimitero. 
La maggior parte delle tombe erano sbiadite, senza alcun nome o epitaffio. Alcune erano persino spaccate. La nebbia gli affaticava non poco la vista e gli ci volle un po’ per esaminare l’ambiente. 
Henry si fermò solo quando una certa tomba attirò la sua attenzione. Sulla lapide vi era inciso un nome. 
  
Walter Sullivan 
  
Sgranò gli occhi quando vide che, ai piedi della lapide, ci fosse un largo fossato che conduceva verso il basso. 
  
“C-conduce da qualche parte?” 
  
Il ragazzo si affacciò dal fossato, ma era completamente buio e non riusciva a distinguere un bel niente. 
Si rialzò e sentì un groppo in gola. 
Doveva…saltare? 
Effettivamente l’unica via d’uscita in ogni luogo visitato era sempre stata in basso. 
Così era accaduto anche nella foresta precedente e ora…nella tomba? 
Così, ansimante e con il cuore palpitante, si decise a lanciarsi. Aveva una terribile ansia addosso, ma non poteva fare altrimenti. 
  
*** 
  
“Ah…” 
  
Henry alzò il capo, dopo essersi lanciato nel fossato del cimitero. Si trovava ora in una stanza buia e fredda. Decisamente piccola. 
Aveva perso per qualche attimo conoscenza, oppure era passato più tempo? La sua cognizione del tempo stava vacillando, in verità da un po’. 
Quando si mise in ginocchio sul pavimento, vide che affianco a lui vi era una sedia. Non ne comprese il senso e così continuò a girare il capo. Solo allora si accorse che la stanza era divisa da un lungo sbarrato di ferro che la tagliava perfettamente a metà. 
Henry corrucciò il viso quando dall’altro lato, seduto su un letto logoro in tenuta da prigioniero, vide un uomo. 
Era alto ed era anche piuttosto magro, anche se muscoloso e dalle spalle larghe. 
Aveva il volto trascurato, con un accenno di barba e dei lunghi capelli biondi e spettinati che scendevano fin sotto il collo. 
  
“Walter?” disse, non appena si accorse che effettivamente era proprio lui. 
  
Egli aveva il capo chino e rigirava fra le mani un cucchiaio, mentre era assorto nei suoi pensieri. 
Henry si alzò e si avvicinò alle sbarre cercando di capire se quell’uomo potesse vederlo. Sbandò quando vide che questi gli si rivolse mostrando i suoi occhi verde chiaro. 
Aveva un volto scavato e un sorriso appena abbozzato in viso. Henry si ritrasse e si allontanò appena. 
  
“C-che cosa fai qui?” gli chiese il moro con la voce leggermente tremolante, poi aggiunse. “Cosa ci faccio io qui?” 
  
Walter non rispose e rimase immobile ad osservarlo, al che Henry prese la sedia e l’avvicinò alle sbarre. 
Si ritrovarono così in silenzio, l’uno di fronte all’altro, separati da quelle sbarre. Il moro proprio non riuscì a comprendere cosa dovesse fare, dunque attese pazientemente che il biondo si pronunciasse. 
  
“Sei qui perché sei Colui che Riceve Saggezza.” gli rispose finalmente Walter, soave. 
  
Henry non disse nulla, si limitò solo a guardarlo severamente. Walter riprese parola, parlando con voce bassa. 
  
“Ti ricordi cosa succede adesso, vero?” gli chiese. 
  
Henry chinò appena il capo, cercando di comprendere cosa egli intendesse. 
  
“…la sacra Assunzione?” 
  
Walter annuì con la testa, compiaciuto della sua risposta. 
  
“Esatto. La sacra Assunzione per la discesa della Santa Madre.” 
  
A quel punto Henry schiuse le labbra per cercare di parlargli, ma Sullivan lo interruppe facendo un cenno con la mano. Portò l’indice all’altezza del mento e cominciò a recitare i ventuno sacramenti chiudendo gli occhi. 
  
“Il secondo segno,
E Dio disse,
offri il sangue dei 10 peccatori e l'olio bianco,
 
sii poi liberato dai vincoli della carne, 
per ottenere il potere dei cieli.” 
  
Riaprì gli occhi e guardò Henry. 
  
“La carne è il vincolo che ci lega a questo mondo malvagio. Se vogliamo che la Santa Madre ritorni, dobbiamo innanzitutto sciogliere i vincoli dalla materia e divenire spirito.” 
  
“Cosa..?” 
  
Walter gli sorrise fulmineo. Il suo sguardo era atroce ed inquietante. Inquietante come un diavolo. 
  
“Osserva Henry…osserva l’uomo che diviene Dio!” 
  
A quel punto, inaspettatamente, Walter strinse il cucchiaio fra le mani e, con una violenza e veemenza inaudita, andò a colpire il suo stesso corpo ripetutamente all’altezza del collo, fino a graffiarlo e a ferirsi. 
Henry, in quel frangente di secondo, non appena vide il sangue di Walter Sullivan cominciare a fuoriuscire, ebbe una terribile fitta al cervello. 
  
“Argh!” urlò, provando un dolore accecante. 
  
Ebbe un forte senso di vertigini e nella sua testa cominciò ad avvertire dei terribili stridii, al che cadde dalla sedia e rimase a terra dolorante. 
Sentiva intanto Walter Sullivan urlare e il suo respiro farsi sempre più soffocato, ma perse di lì a poco i sensi, assieme all’ assassino morente… 
  
[Appartamento #202, South Ashfield Heights] 
  
“Henry, Henry!” 
  
“C-cosa?” 
  
Henry si ritrovò in un ambiente buio. Non vi era nulla, se non una luce opaca proveniente proprio sopra di lui. Sebbene fosse sdraiato a terra, aveva come la sensazione di galleggiare. Stava forse…sognando? 
  
“Henry!” 
  
La voce lo richiamò per l’ennesima volta, ed Henry aprì gli occhi riconoscendo quel tono femminile e determinato. 
  
“Eileen?!” 
  
Il suo volto si andò ad incrociare con quello di Eileen Galvin, la sua vicina di casa. Era chinata affianco a lui e sembrava preoccupata. La osservò sconcertato. Era proprio lei. Proprio come se la ricordava. Indossava una canotta rosa a strisce e una gonna di jeans corta. Aveva un’aria sobria ed Henry si specchiò nei suoi lucenti occhi acquamarina, contornati dalle leggere lentiggini. 
  
“Eileen…” 
  
Provò una dolce sensazione in corpo nell’averla lì, accanto a sé, e quasi si sentì…bene? 
Tuttavia la sua presenza lo turbò, tant’è che si rialzò e la guardò inquieto. 
  
“Cosa ci fai nell’altra dimensione? Tu non dovresti essere qui!” 
  
Le si rivolse preoccupato e fece per afferrarle una mano, ma subito la ragazza dai capelli castani prese a correre, sfuggendogli. Si voltò solo una volta, parlandogli con tono agitato. 
  
“Vieni Henry! Sta piangendo, lo sento!” 
  
E corse via. Henry subito allungò un braccio nel tentativo di fermarla. 
  
“Dove vai? Aspetta!” 
  
Ai suoi occhi poi, improvvisamente, tutto svanì. Eileen, l’ambiente nero… 
Si trovava di nuovo nell’appartamento 202. Proprio davanti alla porta con il quadro della prigione. Portò una mano sul capo, confuso. 
  
“E…Eileen…era davvero lei?” 
  
Aver visto Eileen aveva riacceso in lui il fortissimo desiderio di rivederla. Tuttavia quell’immagine… era stata una proiezione della sua mente, oppure era davvero stata risucchiata nel mondo di Walter Sullivan? 
Guardando a terra, si accorse che vi era un altro pezzo del pupazzo. Era un braccio. 
Henry lo raccolse e lo andò a posizionare sul fantoccio. 
Si chiese se, a quel punto, quel pupazzo non simboleggiasse in qualche modo Walter Sullivan. 
Il corpo era adesso completo, tuttavia mancava la testa. Questo rendeva impossibile riconoscere le sue reali sembianze. 
  
Si avvicinò alla terza porta. L’ultima rimasta. Quella che ritraeva proprio lei, Eileen Galvin. 
Strinse gli occhi, convinto che l’avrebbe incontrata. 
Certo, probabilmente avrebbe avuto a che fare con un ricordo di Walter, ma sapere che una parte di lei, anche se solo un’ombra, vivesse imprigionata lì dentro, lo turbò molto. 
Avvicinò l’orecchio e sentì che, al di là della porta, vi erano ancora quei sospiri sofferti. 
Quando fece per girare il pomello della maniglia, vide che la porta era chiusa a chiave. Tuttavia la chiave era comparsa inaspettatamente stesso nella serratura. Su di essa vi era appeso un portachiavi raffigurante la bambolina che lei stessa, da bambina, regalò a Walter Sullivan. 
Girò dunque la chiave ed entrò. 
  
[LUOGO SCONOSCIUTO III, aperto con la chiave con il portachiavi della bambola di Eileen] 
  
Me l'ha data Miss Galvin tanto, tanto tempo fa...  
Era più giovane allora. 
Sembrava così felice stringendo la mano di sua madre...  
Tieni, te la regalo. 
  
(Walter Sullivan, sulle scale del terzo piano di South Ashfield Heights) 
  
Sigh…Sigh… 
  
Aveva tanta paura e tanto freddo. Si chiese se quello fosse un dolore umanamente sopportabile. Perché semplicemente non ne poteva più. 
Le luci erano spente, in quello che in apparenza sembrava un appartamento come gli altri. Le pareti erano rivestite di una carta da parati floreale e l’ingresso era composto da una cucina sul verde opaco e un salotto con un divano sempre dai motivi floreali. Di fronte vi era un tavolo basso in legno e, affianco al televisore, c’era una poltroncina abbinata al divano. 
  
E un fantoccio con una maschera rossa a forma di becco dondolava sul soffitto. 
Delle lunghe forbici appuntite erano conficcate nel cranio. 
  
“Mamma!” 
  
Una donna di circa vent’anni era seduta sul divano, in lacrime, e un bambino dai capelli biondo cenere era seduto accanto a lei, con lo sguardo perso nel vuoto, mentre lei gli accarezzava il capo. 
Lei era vestita in maniera molto sobria. Con una canotta a righe e una corta gonna di jeans. Ella piangeva ancora, mentre il suo corpo, lentamente, si rivestiva di uno strano bagliore rossastro che pulsava. 
I suoi occhi erano persi nel vuoto e continuava a piangere e a invocare la madre. 
  
“Sono qui per te, dove sei? Non riesco a trovarti!” 
  
Mentre singhiozzava, s’intravide nella penombra un uomo seduto di fronte a lei sulla poltrona. Aveva i capelli biondi, leggermente in disordine, e se ne stava lì in silenzio con le braccia poggiate sulle ginocchia ad osservare quella ragazza. 
  
Ad osservare la Madre. Eileen…Galvin. Si, era così che si chiamava. Aveva udito più volte il suo nome. 
  
E il fantoccio con una maschera rossa a forma di becco dondolava ancora, violentemente, sul soffitto. 
Sembrava provare molto dolore. 
  
  
L’uomo col cappotto strinse gli occhi appena, mentre non batteva ciglio nel vederla in quello stato di dolore. Eileen continuava ad accarezzare il capo del bambino, che aveva ancora quel viso privo di ogni emozione. Al contrario, era Eileen che dava voce ai suoi sentimenti, al dolore che il piccolo covava dentro. 
  
“Ah, ho paura! Fa male!” urlò lei. Chiaramente interpretando il bambino. 
  
Walter non si scosse, come fosse consapevole che ella non potesse interagire con lui. Del resto, quello era il suo mondo, vigevano le sue regole lì. 
Eileen cambiò tono e non fu più infantile e sofferto, ma si fece profondo e…inquietante. Mosse le labbra e prese a parlare. 
  
“Tu menti, silenziosa davanti a me. 
Le tue lacrime…ora non significano più nulla per me. 
Il vento soffia dalla finestra. 
Tuttavia, ora non c’è più niente che puoi fare. 
Quindi ora riposa, nei miei ricordi…” 
  
Sospirò, sempre con voce profonda. 
  
“…mia carissima Madre.*” 
*The Room of Angels 
  
Walter rimase a osservarla ancora, in silenzio. Osservava la sua vittima numero venti, quella che simboleggiava la Madre rinata. 
Eileen…per Walter era sempre stata così. Fin da quando lei era una bambina, per lui aveva sempre simboleggiato questo. 
  
Lei…sembrava così felice quel giorno, con sua madre, mentre la mamma la teneva stretta per mano. 
Lei…sembrava così felice quel giorno, con sua madre, mentre Eileen la teneva stretta per mano. 
  
Eileen era sempre stata così negli anni. Aveva sempre avuto quegli occhi ridenti e rassicuranti che a lui erano mancati nella vita. 
E l’aveva guardata, quel giorno, con gli occhi sgranati, incapace di dire o fare qualcosa. 
  
Non l’aveva dimenticata per diciotto anni. 
  
Walter era sempre stato un pezzo di carne ambulante. Buttato dalla società, rifiutato dalle stesse persone che gli avevano dato la vita. Uno scarto. Mera spazzatura. 
Nessuno si era accorto che vivesse e la vita gli aveva fatto incontrare persone che gli avevano fatto credere che fosse esattamente così. 
Del resto…non aveva ottenuto una lacrima di compassione dai propri genitori. Che speranze aveva di trovare affetto in qualcun altro? 
Era nato ed era stato condannato a morte. A questo punto, non sarebbe stato meglio evitargli la sofferenza della vita? 
Ne aveva vissute tante e questo aveva incentivato la sua ferocia e il suo essere schivo e disgustato dal resto degli esseri umani. 
  
Quella bambina poi…venne un giorno, all’improvviso. 
Da figlia, ai suoi occhi, si trasformò in madre. 
Lei scappò via dalla donna che l’aveva generata per andare da lui. Prese la bambolina che invece era lei a possedere e gliela regalò. 
  
Walter Sullivan dalla tasca, in quel momento, estrasse la bambolina logora che ancora teneva con sé dopo diciotto anni. 
  
“Miss…Galvin…” disse, poi le rivolse nuovamente lo sguardo. “Madre…” 
  
Un atto di clemenza da parte di una bambina lo costrinse in lacrime. Un pianto che mai più avrebbe rifatto nella sua vita. Quello fu l’unico pianto del carnefice, prima di divenire una feroce macchina macchiata di sangue. 
  
Se solo non fosse già stato troppo tardi… 

Eileen riprese a piangere, come se avvertisse le emozioni che Walter stava provando in quel momento. L’uomo col cappotto la continuò a fissare ancora, incessante. Lei intanto riprese a parlare.
 
  
“Sei io fossi morto, tu non avresti mai sofferto per me. 
Tu non mi sentirai mai dire: 
‘Mi dispiace’ 
E se da qualche parte stessi piangendo? 
Dov'è la luce? 
Non c’è più niente che puoi fare, adesso… 
Addio.*” 
  
*The Room of Angels 
  
E il fantoccio con una maschera rossa a forma di becco dondolava ancora, violentemente, sul soffitto. 
Sembrava provare molto dolore. 
Eppure era soffocato. Non era in grado di urlare la sua pena.
Solo tramite quell'immagine silenziosa, l'assassino dava voce a quel dolore mentale.

  
Walter, a quel punto, chinò il capo. Guardò le sue stesse mani tinte ancora di sangue. Screpolate, spaccate, devastate. Potevano essere il perfetto specchio della sua anima. 
Un ragazzo con una camicia bianca e dei jeans scoloriti si avvicinò, avanzando in quella penombra in quel corridoio macchiato ancora del sangue di Eileen. Guardò Walter che sembrava essersi accorto di lui. Henry osservò prima Eileen, poi Walter. 
  
“Quel che mi fai vedere, Sullivan, non mi rende colui che riceve saggezza.” 
  
Walter lo guardò di striscio, poi rivolse nuovamente i suoi occhi ad Eileen. 
  
“Perché, Henry? Tu cosa vedi qui?” disse, inarcando le sopracciglia. 
  
Henry, invece, lo fissò gelido. I suoi occhi pallidi risplendevano in quel buio. Stesso Walter deformò il suo viso nel vederlo in quel modo. 
  
“Non dovevi toccare Eileen.” 
  
Il moro parlò a voce bassa, ma questo bastò per far ritornare serio l’assassino. Come se si fosse appena accorto che anche lui potesse vedere Lei. 
All’improvviso egli chiuse gli occhi e svanì dalla poltrona, come se quella, in realtà, fosse sempre e stata solo un’ombra. 
Nello stesso tempo svanì anche il bambino, e anche Eileen si ‘spense’. 
La mano che prima era sul capo del bambino, cadde sulla gamba; allo stesso tempo chinò il capo abbandonandolo di lato come se stesse riposando. 
Il ragazzo le si avvicinò, inginocchiandosi di fronte a lei e guardandola in viso. 
  
“Eileen…mi dispiace.” le disse. 
  
Le accarezzò il viso. La sua pelle era fredda ed Eileen era in uno stato catatonico. Aveva gli occhi rivolti verso il vuoto e talvolta sussurrava ancora delle parole che destavano il tormento di Walter Sullivan. 
  
“Hen…ry…Town…Shend…” disse lei, con voce malsana. 
  
Henry sorrise malinconicamente, poi si alzò. Le accarezzò di nuovo il capo e uscì dalla porta dell’appartamento #303. 
  
*** 
  
[Appartamento #202, South Ashfield Heights] 
  
Una volta fuori, Henry si ritrovò nuovamente nell’appartamento del pittore. I tre quadri erano svaniti. Anche quello dal quale era appena uscito. 
Si riavvicinò alla bambola grigia posta sul buco simile a quello presente nel suo appartamento e, alzando gli occhi, si sorprese di vedere che questa ora fosse completa. 
Per farlo aveva dovuto viaggiare nuovamente nei ricordi di Walter Sullivan. Aveva dovuto ripercorrere il rituale dei suoi ventuno sacramenti. 
Eppure… 
Era davvero inquietante… 
  
Perché, sebbene avesse viaggiato nei ricordi di Walter Sullivan, la testa della bambola era quella di Henry Townshend. 
Strinse gli occhi nel vedere quella bambola che aveva le sue sembianze. 
  
“Una parte di me…è di Walter Sullivan?” disse. Toccò il suo collo sul quale era ancora inciso il marchio 21/21. “In me c’è la sua conoscenza? Questo è il destino del ‘segno finale’?” 
  
Ripensò a quelle parole, quelle di Walter Sullivan pronunciate nel mondo del palazzo. 
  
“Appartieni a questo mondo…appartieni a me.” 
  
Riportò alla sua mente anche il discorso affrontato con la strana voce nel suo appartamento. 
  
“Il dolore, la sofferenza, la rabbia…tutto è vivo lì e sono i costanti compagni dell’anima peccatrice. 
Ma Henry…anche tu fai parte del peccato di Walter Sullivan. Tu vivi come lui le pene del suo inferno.” 
  
A quel punto Henry alzò gli occhi e sospirò, leggermente affranto. 
  
“Io…io sono…” si fermò. “Mi dispiace…Eileen” 
  
In quel momento il tempo sembrò fermarsi. 
Una campana cominciò a suonare…i suoi rintocchi echeggiarono per tutta la palazzina di South Ashfield. 
  
Henry chiuse gli occhi e nella sua mente si figurarono i corridoi del suo condominio. 
Orride creature salivano le scalinate del palazzo, e uno strano sussulto lo percorse lungo tutto il corpo. 
Nella sua testa vide scorrere i vari ambienti visitati, fino a giungere nel suo appartamento. 
Vide la sua casa, la #302. Passò oltre il corridoio, oltre quella stanza murata dove Walter aveva sciolto i vincoli della carne ed era rinato. 
La sua mente prese a pulsare quando gli si mostrò l’orma nera. L’orma dove Walter avrebbe terminato i ventuno sacramenti. 
Infine…si mostrò anche Lui. 
L’uomo col cappotto trafisse Henry con lo sguardo, come se potesse vederlo attraverso la sua mente stessa. 
E lo stava aspettando. 
  
La campana continuava a suonare. 
Henry riaprì gli occhi, sistemò la pistola dietro la schiena, e s’incamminò verso l’appartamento #302. 
Da Walter Sullivan. 
  
  
[…] 
 
 

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Capitolo 8
*** The Receiver of Wisdom ***


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CAPITOLO 08




Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d'oggi, domani.
Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d'ogni cosa posta fuori di noi;
e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca,
non distinta e non definita;
ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria,
sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli piú.
Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti.
(Pirandello)




[L’APPARTAMENTO 302, nel mondo reale]

La stanza da letto era completamente bianca, illuminata da una luce tenue, opaca e candida che proveniva da fuori. Sembrava che il tempo avesse deciso di fermarsi.
Henry era lì a fissare quella luce già da un po’… quasi intimorito. Era come se dall’inferno qualcuno avesse aperto una finestra.
L’aveva guardata a lungo, incapace di ricordare quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva visto la sua casa così.
Alzò la schiena dal materasso e guardò la scrivania, le sue fotografie, l’armadio, il comodino…era tutto in ordine.
Scostò appena il colletto della camicia e toccò sotto il collo, leggermente tremante. Si accorse di non avere alcun segno inciso.
La testa, anche quella non doleva più. E questo gli faceva paura. Da quanto tempo non sentiva quel forte silenzio?
O, forse, semplicemente, da quanto tempo non viveva la vita di Henry Townshend?
Abbassò lo sguardo e si accorse che la sua mente era più leggera. Non pensava per davvero a nulla. Non aveva alcun turbamento in corpo.
O, forse, semplicemente, non viveva la vita di Walter Sullivan.
Si alzò e la sua figura andò a confondersi con la luce che usciva dalla finestra.
Poi aprì la porta e si diresse nel corridoio. Era così bianco e luminoso. Ed era spaventosamente silenzioso.
Alla sua sinistra vide l’ingresso di casa.
Niente più catene. Niente più spioncino gocciolante di sangue. Sulla porta, non vi era alcuna scritta facente: “non uscire!!”  firmata da un tale Walter.
Era tutto come a quel tempo…prima di entrare negli incubi.

Fece per aprire la porta e uscire dall’appartamento. Essa si aprì girando appena il pomello, mentre altra luce penetrava nell’ambiente, accecandolo. Chiuse poi la porta dietro di sé.

[L’APPARTAMENTO 302, nel mondo parallelo]

E' tutto una grande illusione.
E nessuno può sapere…
…quando credi di essere  da solo.
Avverti gli occhi su di te, lì, che guardano dentro.
Appaiono allora delle ombre davanti ai miei occhi.
Dei suoni…un eco irreale. È difficile da spiegare.
È qualcosa, tuttavia, che ho già sentito…

(Cradle of Forest)


Il #302

Le campane continuavano a suonare.
Le pareti rossastre degli appartamenti di South Ashfield non avevano mai smesso di pulsare e puzzare di organico, mentre le campane suonavano, ancora…ancora…ancora…
Henry entrò nel suo appartamento, consapevole del suo ultimo viaggio mentre Walter Sullivan lo richiamava...
La sua figura andò a incrociarsi con il ragazzo di fronte a lui che stava appena uscendo dall’appartamento 302 immacolato. Egli era sempre Henry, ma nessuno dei due poté vedere l’altro.

Un Henry era entrato e un altro Henry era appena uscito, invece?

Henry aprì la porta, girando appena il pomello, mentre il buio tetro entrava nell’ambiente, oscurandolo.

Eppure prima c’era la luce…oppure no?
Era sempre lo stesso posto?
Quale era la realtà?
Quale era il vero Henry?

Egli chiuse poi la porta dietro di sé.
L’appartamento era tutto completamente rosso, opprimente, devastato.
Un mondo corroso era rinchiuso fra quelle quattro mura, ma Henry non ne era più intimorito.
Già da tempo aveva smesso di ricercare un qualsiasi barlume. Era come essersi abituati all’inferno. Dove non esistevano finestre per far luce, e lui aveva imparato a muoversi nel buio.
Era abbastanza sicuro di poter affermare di essere incapace di ricordare quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva visto, nella sua casa, la luce.

Luce e buio. Entrambi possono nascondere.

S’inoltrò guardando distrattamente l’ambiente.
Le catene erano lì, inchiodate sulla porta. Lo spioncino gocciolava sangue. Sulla porta vi era incisa una scritta facente: “Non uscire!!” firmata da un tale Walter.
L’orologio impazziva, le finestre sbattevano, i muri erano increspati, la poltrona era sporca di sangue e ruggine…
Era tutto come ricordava…era tutto come era sempre stato in quella realtà alternativa.
Scostò appena il colletto della camicia e toccò sotto il collo sfregiato, con decisione. Il segno era inciso proprio lì. Il segno 21/21.
La testa, tuttavia non doleva più. E questo oramai non lo turbava. Da quanto tempo non sentiva quel forte turbamento? Eppure prima quel mal di testa era così opprimente..

Forse, semplicemente, aveva cessato di avere mal di testa da quando non viveva più la vita di Henry Townshend.

Dunque cos’è reale: buio pesto o luce accecante?

Guardò dinanzi a sé, mentre nella sua mente echeggiavano delle forti urla di dolore. Era capace di sentirle nitide dentro di sé. Le urla della vita di Walter Sullivan.
Provava quelle orribili sensazioni come se gli appartenessero personalmente, come potesse provare sulla sua stessa pelle quel dolore. Il suo stesso corpo reagiva di conseguenza scavandosi sempre di più, delineando delle impronte di sangue scavate, cicatrizzate, profonde, eppure inspiegabilmente fresche..

S’inoltrò nel buio del corridoio sparendo nell’oscurità più completa che andò ad avvolgerlo sinistramente, mentre faceva per raggiungere la stanza murata in fondo.
Era così buio, grottesco e di un rosso accecante. Ed era tutto spaventosamente vero e vivo.

Non sono reali le tenebre. Questo perchè il buio nasconde. Non è reale la luce. Questo perchè può render ciechi.
Forse, semplicemente, non esiste un qualcosa di reale. O magari è tutto il contrario. Tutto è reale. Anche quell’inferno.
Reale è un concetto. Reale è l’aggettivo che diamo a ciò che è davanti ai nostri occhi.

Henry strinse gli occhi non appena entrò nel magazzino murato.
Puzzava ancora terribilmente.
Vide gli arnesi adoperati da Walter Sullivan all’epoca: una coppa d’ossidiana, l’olio bianco, il tomo cremisi e il libro delle memorie perdute del culto.
Era tutti ancora lì, sul quel tavolino sporco, assieme ad una sega e ad un’ingente quantità di croste di sangue maleodoranti.
Proprio di fronte al tavolino, vi era una cella frigorifera di mezzo metro nella quale erano conservate dieci buste di sangue. A fianco, invece c’era un’enorme croce capovolta, dove un tempo vi era il corpo dell’uomo 11/21. Ovvero Walter Sullivan.
Quel corpo ora non esisteva più, perché era servito per completare i ventuno sacramenti. Era servito ad Henry stesso per ucciderlo definitivamente.

“Mamma non si sveglia per colpa tua?”

Una voce infantile attirò l’attenzione del ragazzo.
Henry si girò e vide che alle sue spalle era apparso Walter Sullivan bambino. Era un po’ rannicchiato su se stesso e non lo guardava in faccia. Stringeva un libro consumato fra le mani.

“…è così?” chiese nuovamente lui.

Henry scosse la testa.

“Lo sai che non è così.”

Il moro si avvicinò a lui. Si chinò poggiando le mani sulle ginocchia. Vide il piccolo Walter tremare, come inquietato da quel fetido e sinistro ambiente. Era come se non riuscisse a rimanere lì dentro. La sua paura e la sua angoscia erano talmente evidenti che Henry riusciva ad avvertirle anche solo guardandolo.
Così sussurrò appena al ragazzino.

“Hai paura?”

Il bambino annuì.

“Mamma mi verrà a prendere.”

Detto questo, lo vide poggiare a terra il libro consumato ed andare via.
Henry questa volta non lo inseguì. Invece prese il libro fra le mani e cominciò a sfogliarlo.
Presto lo riconobbe nella  favola che trovò sul tavolo di casa del suo appartamento del passato. Quello di Joseph Schreiber.

“C'era una volta un bambino
collegato alla sua mamma attraverso un magico cordone.
Ma un giorno il cordone fu reciso, e la madre cadde in un sonno profondo.

Il bambino rimase tutto solo.

Ma il bambino fece molti amici nella Wish House e tutti erano molto gentili con lui.

Il bambino era felice.

I suoi amici gli dissero come svegliare la sua mamma.
Così il bambino andò subito a cercare di svegliarla.
Ma la mamma non si svegliava. Per quanto lui provasse, lei proprio non si svegliava.
Questo perché in realtà quello che lui stava cercando di destare era il Diavolo.

Il bambino era stato ingannato.
Povero bambino.”

(Parte del documento trovato nell’appartamento 302 del passato)

Chiuse il libro. Quel libro da dove proveniva? Perchè lo teneva Walter Sullivan?
L’inconscio di Walter lo aveva donato a lui e poi era fuggito via, come se non potesse leggerlo.
Il bambino lo aveva stretto a sé gelosamente, ma non lo aveva mai aperto.

“Il bambino era stato ingannato.
Povero bambino.”

Henry chinò il capo, comprendendo bene il perché di quell’atteggiamento.

“Sei tu l’autore di quella favola…e un autore conosce sempre il finale della sua storia.” disse.

Henry lo avvertiva.
Walter sapeva perfettamente, in una parte dentro di sé, che tuttavia non apriva mai, di essere stato ingannato.
Walter conosceva la vera origine della sua insofferenza. Sapeva benissimo perché non faceva altro che piangere. Egli…piangeva il suo terribile destino.
Il terribile destino di chi non può, in realtà, far nulla per cambiare le sue sorti.
Perché lui lo sapeva. Sua madre non sarebbe mai tornata. Lui non avrebbe mai visto quel mondo di pace che il culto descriveva.
Anche attuando il rituale…lui aveva sempre e solo ambito al grembo materno, per ritrovare l’amore a lui negato nella vita.   
Tuttavia Walter, in una parte dentro di sé, era consapevole di non poter essere felice.

Henry poggiò a terra il libro. Si guardò attorno.

“Tu sei l’autore di questa storia, Walter.”

Sentì, in quel momento, l’incubo richiamarlo a gran voce. Le manifestazioni della casa, simbolo dei tormenti di Walter Sullivan, si fecero più forti.

“Tu sei l’autore di questi mostri…”

Osservò la coppa, l’ampolla, i due libri del culto.

“Tu però continui ad ingannarti.”

Il culto non gli avrebbe mai restituito sua Madre.

…mia carissima Madre.

Ma del resto…Egli cosa ne poteva sapere di sua madre?
Cosa ne poteva sapere di suo padre?
Era solo un bambino in fasce a quel tempo.
E un bambino che cosa ne poteva mai sapere di loro?
Chi erano?
Perché avrebbe dovuto essere felice con loro?

Sei io fossi morto, tu non avresti mai sofferto per me.
Tu non mi sentirai mai dire:
‘Mi dispiace’
E se da qualche parte stessi piangendo?
Dov'è la luce?
Non c’è più niente che puoi fare, adesso…

Walter, sua madre non l’aveva potuta conoscere. E mai avrebbe avuto la possibilità di farlo.

…mia carissima Madre.
Addio.
Sei sempre stato ciò che ho disprezzato.
Non mi sono mai sentito abbastanza per te, per piangere.
Oh, beh...
Il dolce canto ora ti fa chiudere gli occhi...
Addio.

(Room of Angels)

Ai piedi della croce, allora, apparve l’orma nera. Quella che conduceva nel ventre della Madre. Nel posto dove Lui sarebbe rinato.
Henry fissò quell’orma che sembrava chiamarlo, volerlo….
Allora s’immerse e sparì nello stesso istante in cui saltò.




[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO DELL’APPARTAMENTO #302]

Era buio. O forse…più che buio, non c’era semplicemente niente in quel luogo. Definirlo un luogo era, quindi, appropriato?
Henry, quando riaprì occhi, vide solamente nero attorno a sé.
Solo una luce, una lampada, oscillava lentamente proprio sopra la sua testa.
Egli era seduto su una sedia, con il capo chino e una terribile fiacchezza in corpo.
Un’ombra si proiettò sul suo corpo. Un’ombra che attirò la sua attenzione e lo costrinse ad alzare il viso.

Di fronte a lui vi era l’assassino biondo, appeso in aria con una catena arrugginita sulla schiena, avvolto in un panno sporco, che lo serrava come una camicia di forza lungo tutto il corpo. Solo la testa era lasciata libera, e guardava Henry incessantemente.
Sembra un fagotto, dimenticato e abbandonato.
Henry lo osservò corrucciando appena il viso, mentre la luce sopra di lui lo accecava non permettendogli di vederlo perfettamente.
Vide dopo un po’ Walter muovere le sue labbra, rivolgendogli un sorriso malinconico.

“Ora lo sai?” gli chiese con voce bassa.

“Cosa devo sapere?” rispose Henry non comprendendo quella domanda.

“Ora sai perché non sei più capace di abbandonare il tuo appartamento?”

Henry abbassò il capo e sorrise.

“Il significato di quei richiami in questo mondo?” gli chiese. Rise poi velatamente. “Si…lo so.”

Si azzittirono tutti e due.
Erano l’uno di fronte l’altro. Walter Sullivan e l’ultimo segno dei ventuno sacramenti.
Henry toccò nuovamente il marchio sotto il suo collo. Il marchio 21/21. Si sentì strano…
Sapeva fin dal principio che il giorno in cui l’avrebbe ammesso a se stesso, sarebbe stato condannato definitivamente dalla follia. Invece era lì e sorrideva. Quasi gli scappava da ridere.
Di cosa aveva avuto paura? Perché aveva indugiato tanto? Henry, dopotutto, sapeva da sempre la risposta.

“Quindi tu lo sai?”

Walter richiamò la sua attenzione. Lo guardava beffardamente. Eppure sembrava sinceramente curioso. Henry allora alzò nuovamente il capo e lo guardò. I loro occhi verdi andarono ad incrociarsi senza timore.

“Accade perché io faccio parte del tuo inferno. Io…”

Le parole gli si strozzarono in bocca.

Io…

Sono io stesso un’ombra di questo regno macchiato di sangue.
Sono io stesso un segno. Un simbolo di questo mondo.
Una parte di me è morta nel momento nel quale ha messo piede in questo appartamento.

Una parte di me…muore qui.
Una parte di me…vive qui.

Vive qui…
…finché vive Lui.


Henry guardò Walter.  

“Io sono morto..?”

“Non lo so.”

Henry si fece confuso, poi sospirò appena.

“Lo immaginavo.”

Walter a quel puntò rivolse nuovamente gli occhi al ragazzo.

“Avrei anche io una domanda per te, Henry.”

Henry s’incuriosì e lasciò che Walter parlasse. Sgranò gli occhi quando vide che l’uomo aveva un’espressione questa volta affranta, turbata.
Sbandò quando, davanti a lui, il corpo di Walter si eclissò e al suo posto apparve il bambino dai capelli biondi.

“Sai, invece, dirmi perché io non sono capace di abbandonare questo appartamento?”

Il bambino prese a piangere e le lacrime caddero sul viso di Henry.
La luce sopra di Henry a quel punto si spense e anche lui non fu più capace di ricordare cosa accadde poi.

[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO DELL’APPARTAMENTO #302]

“Mamma…”

Henry sussurrò debolmente, mentre galleggiava sospeso nell’aria. Aveva la mente vuota, libera da ogni pensiero.

Si sentiva bene.

“Mamma…”

Strinse le gambe tra le braccia. I suoi occhi erano chiusi. Sentiva uno stato di benessere mai provato in vita sua.

Avrebbe dato qualunque cosa per rimanere così per sempre…

Lì, le porte del tempo erano spalancate. Henry sentiva finalmente di…

…di potersi addormentare felice.

Il suo desiderio, infondo. Era sempre stato solo e soltanto quello.

Desiderava ardentemente tornare da lei. Nel suo grembo.
Nell’appartamento #302.

Allora aprì debolmente gli occhi, rendendosi conto di galleggiare.
L’incanto di colpo svanì e Henry, lentamente, poggiò i piedi a terra.

Madre…Addio…


Sentì le gambe pesanti mentre queste si abituavano a riprendere l’equilibrio sul pavimento.
Guardò attorno a sé, accorgendosi di essere in un luogo strano da descrivere in maniera umanamente concepibile.
Era una stanza circolare, avvolta da una densa nebbia rossa. Sembrava allontanasse Henry da qualsiasi altra cosa presente nel resto del mondo. Senza averne la certezza, sentiva come se, finché fosse rimasto lì, nulla avrebbe potuto fargli del male.
Portò le mani di fronte al viso e le guardò, leggermente turbato.

“Mamma..?” disse.

Henry allora avvertì un forte desiderio mai provato prima. Il desiderio intrinseco di Walter Sullivan di tornare al tempo in cui era felice con sua madre. Il tempo in cui lei lo aveva cresciuto dentro di sé.
Subito si guardò attorno, frastornato.

Egli…quindi…dove si trovava esattamente?

In quel momento le dieci luci, poste lungo tutto il muro della stanza circolare, s‘ illuminarono accecandolo. Si accorse che sui muri vi erano delle orme rosse che prima non aveva notato.

“Cosa…diavolo?” disse, mentre si avvicinava e notava qualcosa di sconcertante.

Quelle orme avevano un aspetto umano. Sebbene essenziali e senza alcun connotato specifico, raffiguravano senza alcun dubbio delle persone.
Ai piedi di ogni orma vi era una targa. Henry le prese a leggere.

#01/21 - JIMMY STONE: Il Re che creò l’inganno a Dio.
#02/21 - BOBBY RANDOLF: L’uomo che voleva incontrare il Diavolo.
#03/21 - SEIN MARTIN: L’uomo che volle conoscere dove incontrare la Santa Madre.
#04/21 - STEVE GARLAND: Il cieco che non riconobbe davanti a sé Dio.
#05/21 - RICK ALBERT: Colui che osò comandare al suo padrone.
#06/21 - GEORGE ROSTEN: L’uomo che iniziò Dio alla Santa Madre.
#07/21 - BILLY LOCANE: Colui il quale fu purificato dal peccato.
#08/21 - MIRIAM LOCANE: Colei che non va divisa da colui cui Dio l’ha unita.
#09/21 - WILLIAM GREGORY: L’uomo che poteva vedere Dio ma non poteva sapere chi fosse.
#10/21 - ERIC WALSH: L’uomo che tentò di fuggire dall'occhio di Dio.

In tutti questi…l’orma rossa era scura meno che sul torace.

“I dieci cuori…” sussurrò Henry.

Continuò a leggere, girando attorno alla stanza circolare.

#11/21 - ASSUNZIONE: Dio che morì e risorse nel cielo.
#12/21 - PETER WALLS: L’uomo spento da una falsa felicità.
#13/21 - SHARON BLAKE: Colei che entrò nella tana del Diavolo.
#14/21 - TOBY ARCHBOLT: La bestia mascherata.
#15/21 - JOSEPH SCHREIBER: L’uomo soffocato dalla conoscenza.
#16/21 - CYNTHIA VELASQUEZ: Colei che respinse la mano tesa di Dio.
#17/21 - JASPER GEIN: L’uomo che alla fine vide il Diavolo.
#18/21 - IL MAIALE GRASSO: Il maiale punito da Dio.
#19/21 - RICHARD BRAINTREE: L’uomo che rinnega la Santa Madre e vaga nel caos.

Gli ultimi due avevano una placca, ma senza nome. Le loro ombre erano meno rosse delle altre e anzi, si percepivano appena.

#20/21 -                  : La Madre della Madre. Alla sinistra di Dio.
#21/21 -                  : Colui che riceve la saggezza di Dio. Alla destra di Dio.

Vi dovevano essere i nomi di Henry ed Eileen in quegli spazi vuoti..?
Guardò intensamente quelle parole.
Era impressionante pensare che in quelle targhe fossero stati destinati ad esserci il suo nome e quello della sua vicina.
Socchiuse gli occhi e in quel momento il viso prese a bruciare.
Era giunto il momento di finirla.

Mentre era lì avvolto nel silenzio, un lieve sibilo attirò la sua attenzione.
Si voltò e vide che ai suoi piedi era apparso un enorme varco scuro. Era gigantesco.
Nel guardarlo, Henry aveva come l’impressione che, una volta entrato, non sarebbe più tornato indietro.
Ma oramai non gli interessava più, perché lui stesso voleva andare fino in fondo. Era giunto il momento di fare i conti con Walter Sullivan.
Egli era lì sotto. Lo sapeva. Lo sentiva.

[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO DELL’APPARTAMENTO #302]

Il suo appartamento era stato teatro di immensi scenari.
Era strano credere che in verità, Henry non aveva fatto altro che attraversare varchi o saltare voragini.
Egli aveva viaggiato a lungo in passato, quando Joseph Schreiber mostrò a lui l’unica possibilità di salvezza.
Ovvero raggiungere la parte più profonda di Lui.
Ora era nuovamente lì. Con nuove consapevolezze. Di fronte Walter Sullivan. Nell’ultima tappa del suo viaggio.

Si trovava un ambiente circolare, oramai annerito e corroso. Era come morto.
Un’enorme vasca colma di sangue era al centro della stanza, ove era immerso un inquietante meccanismo rotondo.
A quel tempo, quando Henry rischiò di essere ucciso da Walter, quel marchingegno girava vorticosamente, smuovendo quell’ingente quantità di liquido organico.
Ora invece era immobile e sembrava spento.
Anche il demone gigante dalla pelle cadente era sparito.
Tutto sembrava inanimato, a differenza di quel tempo. Eppure era proprio lì dove Walter stava per portare a termine i ventuno sacramenti.

“Benvenuto, Henry.”

L’ambiente rese molto altisonante quella voce, che echeggiò vorticosamente in tutta la camera circolare. Henry si voltò e il suo sguardo si posò sulle scale in pietra poste in alto. Esse costituivano il passaggio che conduceva direttamente nel liquido rosso.
Un tempo Eileen stessa aveva rischiato di finirci dentro, morendo sotto quell’orrido meccanismo adesso spento.
Henry alzò il viso verso quella struttura, fino ad incrociare finalmente gli occhi di Walter Sullivan.
Egli era in cima alla scalinata in pietra, e lo guardava sorridendo malignamente.
Lo vide aprire la zip della giacca e fare per estrarre una pistola automatica, mentre prese a scendere la scalinata.
I due si guardarono incessantemente in silenzio. Henry serioso, Walter quasi beffardo. In entrambi s’intravedeva l’ira nei loro occhi.

“Sono felice di vederti…vivo, Henry.”

Walter si pronunciò, ridendo. Guardò il collo di Henry e lesse quei numeri rossastri lì incisi quasi deliziato.
Henry aggrottò le sopracciglia e continuò ad osservarlo severamente. L’uomo biondo rise ancora, quasi sembrava trattenersi a stento.

“Ti avevo già detto che io non potevo morire. Tuttavia questo avrebbe dovuto farti comprendere anche qualcosa su di te. Hai paura, adesso?”

Henry non si lasciò turbare da quegli occhi violenti e curiosi.
Anzi, lo guardò in silenzio non rispondendolo nemmeno. Sullivan a quel punto sogghignò di nuovo, poi saltò dalla scalinata, un lancio non indifferente in verità, e fu subito di fronte ad Henry.

“Henry Townshend. Il segno finale.”

Walter lo squadrò dalla testa ai piedi, poi allargò le braccia mostrando l’ambiente.

“Questo stage è creato apposta per te. Grazie al tuo sacrificio, la Madre rivivrà e sul mondo scenderà un regno di pace, lontano dal peccato. Il segno finale doveva essere lo spettatore capace di comprendere le grandezze di Dio, prendendo coscienza delle sue azioni e del suo destino.” gli puntò l’indice contro. “In verità, la sorte della ventunesima vittima è la mia preferita. Dovresti esserne onorato. Ti ha permesso di vedere più vicino di tutti gli altri Dio!”

La voce di Walter echeggiò sonoramente, mentre Henry, al contrario, lo guardava con enorme disapprovo. Guardandosi attorno, vedeva tutto immobile, corroso, come potesse crollare da un momento all’altro. I ventuno sacramenti erano stati scongiurati, possibile che Walter non se ne fosse accorto?
Schiuse dunque le labbra e parlò con voce bassa e ferma.

“Tu parli di Dio, ma sei sicuro che Dio sia vicino a te, in questo momento?”

Walter corrucciò le sopracciglia guardandolo beffardamente, mentre Henry intanto continuò il discorso.

“Hai agito secondo il volere del tuo Dio. Tuttavia egli ha punito anche te, generando questo mondo contorto. Guardati attorno.” Henry mostrò a lui l’ambiente malsano che li circondava. “Credi che è questo ciò che genererebbe un Dio magnanime? Piuttosto sembra l’inferno. E Walter, tu lo sai…”

Walter solo allora smise di sorridere. I loro occhi si incrociarono vitrei.

“…tu sei in questo inferno con me.” concluse freddo Henry.

Il biondo lo guardò immobile per diverso tempo. Era di fronte a lui e sembrava riuscire a trafiggerlo con un solo sguardo. Lo vide poi sospirare.

“…inferno, dici? Ti compatisco. Comunque non arriverai mai a conoscere la Santa Madre, perché presto sarai morto.”

Il ragazzo dai capelli scuri scosse la testa, non potendo credere alle sue orecchie.

“Walter, tu sei morto! Io sono…morto. O sono vivo?” Henry abbassò il capo. “Io non so più cosa sono.”

Walter s’incuriosì di quelle parole. Un suo momento di umanità, forse? Sembrava voler comprendere i sentimenti confusi del ragazzo, che ancora accettava a stento la sua sorte contorta. Quella di essere anch’egli una traccia di quel mondo.
Henry intanto riprese parola.

“So solo che io ti ucciderò. Poi sarai tu ad uccidermi, e dopo perirò di nuovo…e così andrà avanti ancora e ancora senza alcuna finalità. Non te ne rendi conto?”

Il biondo sogghignò davanti a quelle parole.

“Lo so.” rispose, al di là di ogni aspettativa. Stesso Henry se ne sorprese, infatti sgranò gli occhi confuso. Walter gli si avvicinò guardandolo divertito. “Ma ho sempre desiderato vedere cosa si provasse nell’uccidere anche te.”

Corse e colpì violentemente Henry con una robusta mazza di legno.
Henry fu ferito al fianco e il dolore che provò in quell’istante fu lancinante. Si resse in piedi quasi a stento. Non si era nemmeno accorto che egli avesse una mazza in mano.
Del resto, quello era il suo mondo, quello di Sullivan. Egli poteva giocare il gioco che preferiva lì.
Il moro portò una mano sul fianco lesionato e guardò Walter, mentre lo vedeva roteare la mazza che brandiva in mano con nonchalance.

“Il ventunesimo sacramento. Il ricevitore di Saggezza.” gli puntò l’asta contro, indicandolo. “Dovevi conoscere, per questo sei rimasto bloccato nell’appartamento fino a tempo debito. Anche un idiota ci sarebbe arrivato. Ma non era importante che tu capissi. Dovevi solo essere pronto quando io sarei venuto a prenderti. E invece…”

Lo guardò con odio. L’odio verso chi gli aveva impedito di realizzare i ventuno sacramenti.
Henry sbandò quando lo vide aizzarsi nuovamente contro di lui, così fece per brandire la sua pistola e mirarlo.
Tuttavia, quando premette il grilletto, una forte fitta lo trafisse nel cervello.
Era come se, facendo del male a lui, facesse del male anche se stesso. Inevitabilmente, ora le loro anime erano connesse.

“Ah!!” urlò, piegandosi a terra.

Provò a premere nuovamente il grilletto, ma questo gli provocò un’altra fitta.
Walter intanto prese a guardarlo con forte disprezzo.

“Dieci anni…” chinò il capo lasciando che parte dei capelli biondi gli coprissero il viso scavato. “Sono dieci anni che preparo i quattro segni dell’ascesa della Santa Madre. E tutto è stato interrotto…da un insignificante insetto come te?”

Parlò con veemenza e sembrò quasi perdere il controllo. Più si lasciava andare, tuttavia, più il dolore di Henry sembrava aumentare.

“Ho preparato il mio corpo a tutto questo! Dio mi ha dato il potere! Lui mi ama, non mi condanna! Questo è il mio regno, non la mia prigione! Io sono stato scelto! Io…” urlò. “Sono morto dieci anni fa per fare tutto questo!”

Gli occhi verdi di Walter ed Henry si andarono ad incrociare.
Quelli di Walter colmi di rancore, quelli di Henry accecati dal dolore causato dallo stesso uomo che lo stava guardando.
Improvvisamente tutto si fece buio.
I sentimenti laceranti di Walter Sullivan lo condussero in un luogo non ben definito, dove fu di nuovo spettatore delle vicende della sua vita.

***

[SOGNO I - CORRIDOIO DEL TERZO PIANO, ALA OVEST. South Ashfield Heights]

Oggi ho fatto quello strano sogno.
Quello con l'uomo con i capelli lunghi ed il cappotto. Stava di nuovo piangendo e cercando sua madre.
Vidi quell'uomo con il cappotto 10 anni fa in questo palazzo. Stava salendo le scale e portava un arnese pesante, una vecchia coppa ed una busta che perdeva sangue.
Poi non l'ho più visto. Ma qualche giorno più tardi i vicini si lamentarono di alcuni strani rumori provenienti dall'appartamento 302, che sarebbe dovuto essere vuoto. Diedi un'occhiata nell'appartamento 302 e trovai tracce che qualcuno c'era stato, ma niente altro. Fu allora che tutto cominciò. Ancora li sento quei strani rumori che provengono dalla finestra 302.
Sunderland

(Il diario di Frank Sunderland. Trovato alla fine della via verso
la parte profonda di Lui. Di fronte la porta #302 del passato)

Henry aprì gli occhi, sorpreso di non provare più dolore. Si ritrovò sdraiato su un pavimento bianco, freddo. Subito si alzò, riconoscendo quel posto.

“Gli appartamenti di South Ashfield Heights?” si girò attorno e costatò che era proprio così. Il suo viso si fece perplesso. “Come è possibile?”

Si alzò e si chiese che fine avesse fatto Walter Sullivan. Ricordava solo quell’incredibile mal di testa che era aumentato quando Walter aveva cominciato a inveire contro di lui.
Più aveva parlato con rabbia e più Henry…aveva provato dolore. Il dolore che Henry aveva avvertito, dunque, era lo stesso che covava in corpo Walter?

Chinò il capo verso il pavimento e fu allora che notò una striscia rossa.

“Nh?”

Guardò quel color rosso vivo, che sembrava indicargli una direzione da seguire.
Girò l’angolo e inorridì quando vide che le macchie di sangue, assurdamente fresche, andavano ad aumentare proprio nelle vicinanze del suo appartamento, il #302.

All’improvviso vide qualcosa di non ben definito muoversi, come fosse una sorta di ombra.
Henry dovette strizzare gli occhi più volte per capire bene che accidenti fosse. Per quanto si sforzasse, s’intravedeva a stento. Si accorse poi che quell’ombra era proprio Walter Sullivan.
Era quasi invisibile, di lui si delineavano appena i contorni.
Henry si accorse che era lui che aveva gocciolato a terra quel putrido liquido rosso. Egli infatti portava con sé un grande busta, ed era quella a perdere sangue.
Lo vide aprire una porta, anch’essa invisibile, meno che i contorni. Questa, comunque, gli permise di accedere alla stanza #302 senza alcuno sforzo.
L’ombra a quel punto svanì ed Henry si avvicinò. Fu per la prima volta che notò di fronte al suo appartamento un qualcosa cui non aveva fatto mai caso.

“Mani..?”

Si vedevano a stento, ma erano proprio delle rosse impronte umane.
Contandole, Henry costatò che fossero diciannove. Anzi, venti, visto che, sebbene molto opaca, vi era un’altra orma vicino la diciannovesima.
Quasi venti impronte di mani sul muro di fronte casa sua.
A Henry ci volle poco per capire che fossero anch’elle un marchio lasciato dal rituale di Sullivan.
Sapeva anche, quindi, che quelle mani in totale avrebbero dovuto essere ventuno.

Fece poi per aprire la porta, ma un’energia gli impedì di toccarla.

“Cosa diavolo?”

Non riusciva ad afferrare il pomello. Fu allora che l’ansia cominciò ad assalirlo.
Henry…cos’era diventato, ora? Era un fantasma anche lui?

Io…

Sono io stesso un’ombra di questo regno macchiato di sangue.
Sono io stesso un segno. Un simbolo di questo mondo.
Una parte di me è morta nel momento nel quale ha messo piede in questo appartamento.

Una parte di me…muore qui.
Una parte di me…vive qui.

Vive qui…
…finché vive Lui.

Calò lo sguardo. Erano delle parole sorte nella sua mente come se già lo sapesse. Come se ne fosse stato sempre cosciente, in verità.
Questo significava che lui era morto? Era vivo? Cos’era adesso? Non poteva semplicemente più…tornare a casa?

Alzò gli occhi verso l’appartamento maledetto.
A quel punto, visto che non poteva far altro che seguire Sullivan, fece per aprire la porta invisibile che egli aveva aperto precedentemente. Tuttavia anche lui in qualche modo la percepiva.
Essa s’intravedeva a stento proprio sovrapposta alla porta #302.
Quella era la porta dell’appartamento alternativo.
Sebbene non la vedesse bene, fece per afferrare il pomello, che in teoria avrebbe dovuto essere poco più avanti del pomello della porta del mondo ‘reale’.

“!”

C’era effettivamente qualcosa. Henry girò con un movimento del polso e un rumore meccanico gli fece capire di aver aperto quella porta. Si addentrò con fare cauto e leggermente incerto.
Dall’ “otherworld”, entrò nella “realtà” esattamente come faceva Walter Sullivan all’epoca, quando commetteva i suoi omicidi. Senza chiavi, senza lasciare alcun indizio, come fosse un fantasma.
Si ritrovò nell’appartamento infestato.
Sentì dei rumori provenire in fondo al corridoio. Si affacciò fino a raggiungere la porta murata, che poté attraversare come se Henry non fosse più fatto di materia.
Si mise di spalle alla scaffalatura proprio lì di fronte e scrutò Walter Sullivan intento a frugare sul tavolo.
Strano pensare che, quel che stava vedendo, fosse accaduto molto tempo prima del suo trasferimento a South Ashfield.
Walter aveva uno sguardo a dir poco malato. Non che non fosse sempre così. Ma Henry si sentì turbato nel vederlo in quello stato.
Nonostante fosse oscurato dalle tenebre, poteva vedere perfettamente il viso scavato e l’espressione sul suo volto eccitata; ossessionata da ciò che stava compiendo.

“Il rito, il rito. Presto comincerà, presto..!”

Ripeteva in modo martellante quelle parole. Tuttavia nei suoi occhi s’intravedeva dell’esitazione.
Il cadavere era già posto alle spalle di Walter, ed Henry lo vide avvicinarsi ad esso per nascondere le chiavi dell’appartamento nel taschino della giacca.

Sul muro vi era un grosso mostro dalle sembianze umane, dalla pelle scarlatta, che girava ininterrottamente una valvola rossa.

A quel punto vide Walter bloccarsi.
Il suo sorriso sparì e, credendo di essere completamente da solo, assunse un’espressione più umana.
Henry si sorprese di vederlo con un’espressione simile.
Il biondo guardava, quasi tremante, il suo stesso corpo morto. Lo toccò sfiorandolo appena, come se volesse egli stesso donare un gesto gentile a quell’uomo che aveva tanto sofferto nella vita terrena.

“Mio caro fu Walter Sullivan.” sospirò. “Ora le tue pene non esistono più. Per quanto dolorose fossero, ora puoi finalmente cessare di vivere. Tocca a me ora dannare la mia eternità e portare ad adempimento anche il terzo ed il quarto segno.”

Walter aveva usato per davvero la parola ‘dannare’? Egli…era conscio del significato dell’otherworld?

Il mostro dalle sembianze umane, intanto, continuava a girare ininterrottamente la valvola rossa.
Il rumore di quella valvola rugginosa era terribile da sopportare.

Henry osservò quel mostro. Si chiese se non fosse lui quel demone-vassallo Valtiel.

Egli intanto rimaneva attaccato al muro e continuava a girare, girare, girare…

Walter riprese le preparazioni del rito. Tuttavia i suoi occhi sembravano ancora spaventati.

“Sono morto per te, Madre! Ho ucciso me stesso e ora…accogli questo tuo figlio. Io creo questo mondo unicamente per te!”

Walter sembrava scosso. Più si ostinava per l’attuazione del rituale, più sembrava, paradossalmente, crollare.

“Sarà tutto perfetto, Santa Madre.”

Egli stesso sentì qualcosa dentro di sé vacillare. Forse perché ancora scosso per la sua morte.
Anch’egli non riusciva a reggere il mondo alternativo?
Henry aveva il presentimento che Walter si stesse già rendendo conto che quel mondo non era ciò che si aspettava.
Si era già accorto che ciò aveva creato era l’inferno, il quale gli si era ritorco contro, mostrandogli i demoni del suo passato in maniera cruda, sferzante.
Eppure era lì, che incessantemente terminava di preparare il rituale della sacra assunzione.
Mentre rimase ad osservare la scena provando persino pietà per lui, tutto divenne sfocato e lentamente, senza neanche  accorgersene, quel ‘sogno’ finì.

***

[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO DELL’APPARTAMENTO #302]

“C-cosa?!”

Henry si ritrovò immediatamente, dopo quella visione, nel luogo dove si stava dando battaglia con Walter.
La stanza #302 si era eclissata davanti ai suoi occhi in un attimo, trascinandolo nuovamente lì.
Walter era di nuovo di fronte a lui e toccava il capo dolorante.

“Argh..!!”

Henry sgranò gli occhi, sorpreso.
Anche lui aveva avuto quella visione?

In quel momento, l’intero edificò mutò. Tutto si tinse di rosso. Le pareti cominciarono a pulsare. Il meccanismo posto al centro della stanza circolare prese a muoversi vorticosamente.
Henry assisté a tutto quello impotente.
Guardò Walter che era ancora dolorante a terra, mentre si inarcava con la schiena riuscendo a stento a reggere quella sofferenza.

“T-tu…” disse con aria frastornata e gli occhi colmi di rabbia. In quel momento, sulla sua mano, apparve una motosega arrugginita. Henry indietreggiò a quella visione.
Walter intanto continuò a parlare, tenendo una mano sulla fronte e una sull’arma, cercando di ignorare il dolore.

“Quegli ignobili! Quei putridi! Bestie! E non fissarmi in quel modo, Henry! Io mi sono vendicato! Sono stato stesso io a punirli!”

Henry corrucciò il viso mentre lo vide inveire contro di lui.

“Loro e quella schifosa macchina della morte! Ah, padre Rosten. Padre Stone. Il porco... sono tutti stati giustiziati. È stato fantastico condannarli con le mie stesse mani. Ovvio che io sapessi che a loro serviva che io attuassi il rito.”

Walter prese a sogghignare. Il suo viso sudato e i suoi movimenti instabili fecero comprendere al ragazzo che provava ancora dolore.
Henry provò a parlargli.

“Sei…consapevole di quel che ti è accaduto nel culto?” gli chiese con fare incerto.

“Alla Wish House avevo già pronta la mia vendetta, cosa credi? Insulsi! Ingannatori! Che misera fine che hanno fatto poi, eh? Lo hai visto tu, infondo. E dire che mi hanno fornito stesso loro le armi che avrei utilizzato per massacrarli!”

Walter, a quel punto, accese la motosega e corse verso Henry. Il ragazzo riuscì fortunatamente ad allontanarsi prima di essere decapitato, tuttavia il suo viso fu colpito violentemente.

“Aaah!”

Urlò, sentendosi bruciare gli occhi. Portò le mani sul volto, mentre il sangue prese a scorrere, incanalandosi tra le sue dita.
I suoi occhi…lui…
Henry sentiva di non vederci più.
Dalle palpebre grondava molto sangue e per quanto si sforzasse, il dolore gli impediva di aprire gli occhi. L’aria si fece più pesante, e la paura di essere lì da solo con Walter crebbe ancora di più.
Il cuore di Henry prese a battere forte e la sua mente cominciò ad abbandonarlo, mentre sentiva Walter ridere, ridere come un folle…

***

[SOGNO II - IL MONDO DEL PALAZZO. A South Ashfield. Dove Walter rapì il se stesso bambino]

Sembra che i mostri siano attratti dalla luce.
Ecco perché quelli che hanno bisogno di luce per vedere sono la loro preda naturale.
Se vuoi continuare a vivere, faresti meglio a startene in silenzio e al buio. Ma anche cosi probabilmente non ti salveresti.
(Silent hill 2)

Henry non riusciva ancora ad aprire gli occhi. Non riusciva a vedere nulla.
Non vedeva la luce.
Non riconosceva l’ambiente circostante.
In quel momento…si ritrovò in un baratro di follia, al culmine della disperazione.
Perché Walter l’aveva accecato?
Era rimasto turbato dal fatto che lui ‘vedesse’ ?
Che vedesse la sua vita, i suoi sentimenti…che vedesse dentro di lui…?
Cadde in ginocchio e sentì le lacrime scorrere sul viso. Tuttavia dovette trattenersi perché il dolore scaturito della ferita gli impediva persino quel pianto silenzioso e solitario.


Come doveva essere, per uno come Walter Sullivan, rievocare i suoi tormenti?
In certi casi, sarebbe stato meglio esser ciechi.
Tuttavia, per quanto si possa stare nascosti in un angolo al buio, prima o poi bisogna sempre riaprire gli occhi e far luce.
Per questo…Water l’aveva reso cieco.
Perché egli non voleva vedere la ‘luce’.
La ‘luce’ che avrebbe animato i suoi ‘mostri’.
In questo senso…ciò che gli occhi di Henry Townshend avevano rappresentato, era la ‘luce’.
La luce che in quel momento l’aveva ferito e che aveva voluto spegnere.


Una volta calmatosi, Henry si accorse di sentire il vento soffiare sulla sua pelle. Non c’era più quell’aria tagliente e soffocante. Toccando a terra sentì il ruvido del cemento consumato, e si rese conto di essere in un altro ambiente, diverso dalla stanza circolare. Non vedendolo, non poteva esserne certo, ovvio, ma sembrava essere stato trasportato altrove, esattamente come era successo precedentemente.

Si alzò e cercò di camminare, tastando vicino ai muri in modo da farsi strada.
Allora sentì dei bisbigli. Costeggiando il muro e stando ben attento a non fare rumore, cercò di riconoscere chi stesse parlando. Era un ragazzino.

“Walter..?” disse, ma udendo un’altra voce, quella di un uomo adulto, subito si bloccò.

Era la voce di Walter Sullivan adulto.
Henry rimase in silenzio ad ascoltare, trattenendo quanto più poté il respiro.
Sentì il Walter adulto prendere parola per primo.

“Sai cosa sono i ventuno sacramenti?”

Walter incrociò le braccia ed inarcò il sopracciglio, guardando il bambino biondo con aria sufficiente. Il bambino gli rispose. Dalla voce, sembrava parecchio arrabbiato.

“Libererò mamma! Per farlo studierò il rito…non intralciarmi!”

Walter adulto scosse la testa. Si poggiò a terra, sedendosi, e guardò spettrale il suo stesso io infantile.

“Se speri di trovare tua madre così, sei uno stupido.”

Henry si sorprese di quelle parole. Intanto il piccolo Walter cominciò strillare.

“Zitto! La mamma mi aspetta. Non posso perdere tempo! I ventuno sacramenti mi porteranno da lei!”

Walter gli rise in faccia.

“Sei uno stupido e un piagnucolone. Aspetta ancora un po’ e capirai che troverai qualcosa di diverso, nel rituale.”

A quel punto Henry udì i passi del piccolo Walter mentre scappava via. Lo sentì rivolgersi all’uomo biondo un’ultima volta.

“Tu fai paura!” gli disse. “Io…incontrerò mamma! Lei si sveglierà.”

A quel punto si eclissò definitivamente. Walter sogghignò appena, compatendo quel bambino.

“Tu cerchi la Santa Madre, piccolo Walter…mi spiace.” sussurrò.

Eppure nei suoi occhi, in quel momento, qualcosa si spense. Come se stesso lui avvertisse un profondo turbamento, che cercava di ignorare oramai invano.
Il bambino…stava cercando la mamma.
Walter Sullivan invece cosa cercava…? Stava cercando la Santa Madre?
Ma dopotutto…perché?

***

[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO DELL’APPARTAMENTO #302]

“Argh…!”

Henry toccò la testa, provando un dolore terribile. Aprì istintivamente gli occhi e si accorse di poter vedere. Toccò il viso sconcertato e appurò che era sparito il sangue e non vi era alcun segno dello sfregio subito.

“Cosa..?” disse scioccato.

Di fronte a lui c’era di nuovo Walter Sullivan. Erano entrambi nuovamente nella stanza circolare.
Anche l’uomo biondo aveva le mani sul capo, sofferente.
Henry lo vide mentre si dimenava non sopportando quel dolore.
Ora che ci pensava, anche lui, quando aveva cercato di sparare a Walter, aveva provato quella insopportabile fitta lancinante. Era forse così anche per Sullivan? Erano davvero connessi?
Ogni loro contatto aveva l’effetto di una scarica elettrica, sconvolgente e straziante per entrambi.

Walter intanto fece per sollevarsi e inveì contro di lui digrignando i denti.

“Smettila!” urlò. Sembrava disperato. “Non ne posso più di questi stupidi viaggi mentali! Smettila!!”

Henry sgranò gli occhi non potendo credere a quelle parole. Quella frase avrebbe dovuta dirla lui, piuttosto!

“Che cosa diavolo dici?! Sei tu che mi mandi nel mondo parallelo!”

“Zitto!”

Henry si azzittì per davvero. Si accorse che lo stesso Walter non era esattamente padrone di quello che stava accadendo. Così lo ascoltò, rimanendo allerta.

“La foresta, l’ospedale, la prigione…” guardò Henry con odio. “Io ti ammazzo sul serio se continui a vedere tutte queste cose!”

Walter fece per puntargli contro l’arma, ma un’altra fitta la cervello lo trafisse, e la motosega sparì dalla sua mano.
In quell’istante, anche le pareti smisero di pulsare, e il meccanismo circolare cessò di girare.
Tutto tornò com’era in origine… di quel color grigio spento, morto come prima.
Walter s’inginocchiò a terra, non potendone più di quel dolore. Henry, a quel punto, si avvicinò a lui.

“Stai perdendo potere? O a vacillare è la sicurezza?” gli chiese.

Walter lo guardò in cagnesco.

“Che dici?!” urlò.

Henry gli mostrò l’ambiente che stava diventando davanti ad entrambi consumato e spento.
Era il simbolo stesso del suo potere che stava calando repentinamente.
E se l’intero mondo parallelo rappresentava Walter, allora anche nella sua mente, in quell’istante, qualcosa si stava frantumando.
Il biondo assassino sembrò adirarsi per quelle parole, comprendendone benissimo il senso.
Tuttavia, sapere che quel ragazzo di fronte a lui stesse prendendo consapevolezza di quel mondo e della sua mente, lo mandò in escandescenza.

“Non osare parlare di ciò che non ti compete!” gli urlò, rimanendo sulla difensiva. Henry tuttavia non si smosse. Questo fece adirare Walter ancora di più. “Tu chi sei per esprimere giudizi?! Sei il ventunesimo segno! Non devi far altro che…morire! Ti torturerò! Ti flagellerò! Ti renderò una disgustosa massa indistinguibile! È questo il tuo destino!”

Henry continuava a fissarlo negli occhi, mentre Walter, al contrario, calò lo sguardo. Egli andò in uno stato di completa confusione mentale e prese ad inveire perdendo il controllo completamente.

“Sei qui perché abiti nella casa di Dio! Non sei nessuno! Non ti ho scelto per nessun’altro motivo, lo sai? Che ci sei tu e non un altro, è solo un curioso scherzo del destino. Tu dovevi solo ‘vedere’. E…poi dovevi morire! Sei qui perché vivi nell’appartamento dove io sono nato come uomo!”

Fece una pausa poi, ansimante, con gli occhi gonfi, continuò.

“Sono nato nell’appartamento #302 di South Ashfield Heights. Sono morto nell’appartamento #302 di South Ashfield Heights. Ed è qui, nell’appartamento #302 di South Ashfield Heights dove dovevo rinascere assieme a Dio!”

Henry, a quelle parole, strinse gli occhi.

“Io lo so…” fece una pausa, parlando con voce bassa. “Lo so che sono qui solo per colpa tua. Sei tu che hai deciso il mio destino. Non ha una ragione effettiva la mia presenza qui. Soltanto perché banalmente abito l’appartamento #302, io sono il ventunesimo segno…”

Guardò se stesso compatendosi.
Egli era lì, imprigionato per sempre in quell’incubo, senza un reale motivo, senza un reale perché che lo riguardasse come Henry Townshend.
Era lì solo come lo sfortunato inquilino di un appartamento, apparentemente qualsiasi. Tutto questo per un banale, futile, scherzo del destino… esattamente come aveva detto Sullivan.
Qualcosa in Henry si spense nell’essergli ricordato quella consapevolezza e Walter sembrò farci caso.

Henry riprese parola.

“Dio sarebbe sorto con i ventuno sacramenti. E dopo?” si fermò. “Ricordi le tue parole? Quelle stesse che hai detto nella tua forma infantile? Perché lo sai, no…? Quello…sei comunque tu.” Poi lo guardò trafiggendolo.
“Tu lo sai perché hai fatto tutto questo.”

Walter a quel punto chinò il capo, seccato da quelle parole. Il moro sospirò, mentre continuava a guardarlo dall’alto.

“Rinneghi l’evidenza. Eppure lo sai bene.” sospirò ancora. “Ti ricordi cosa mi avevi chiesto, prima di riportarmi qui?”

Walter alzò debolmente gli occhi verso di lui.

A quel punto, come se le luci si spegnessero, tutto si tinteggiò di nero.

***

[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO DELL’APPARTAMENTO #302]

Era tutto buio.
Non s’intravedeva nulla, meno che una sedia illuminata da una lampada posta proprio sopra questa.
Sulla sedia era seduto Henry Townshend.
Di fronte non c’era più l’uomo infagottato appeso sul soffitto incontrato precedentemente.
Ora quell’uomo era di spalle, con addosso il suo lungo cappotto blu scuro, dietro delle barre di ferro che lo separavano dal ragazzo dai capelli bruni.
Delle voci presero a echeggiare nel silenzio.


Stupido piccolo piagnucolone!!
Presto---fa le valigie!
Questo è il mio sogno e non sai nemmeno come mi chiamo?
Esatto. E' solo un sogno. Ed un sogno davvero terribile. Spero di svegliarmi presto.
Finalmente l’ho incontrato! Quello di cui parlava il ficcanaso…il DIAVOLO!!

16/21…17/21…


Oh mio Dio…Walter mi vuole uccidere! Walter mi vuole uccidere!
Vai via, prima che m’incazzi davvero!
Un... un....un bambino?! Quello... quello... quello non è un bambino. E'... è... è l'uomo 11121..!!

18/21…19/21…

Me l'ha data Miss Galvin tanto, tanto tempo fa... Era più giovane allora. Sembrava così felice stringendo la mano di sua madre... Tieni, te la regalo.
E' terribile...quel povero piccolo bambino... I suoi genitori lo abbandonarono subito dopo la sua nascita... Poverino... Crede davvero che l'appartamento 302 sia sua madre.
 Devo...devo aiutarlo.

E' Walter... sta piangendo...
Anche completando i 21 Sacramenti, non sarà d'aiuto al ragazzino.
Sto tornando indietro, Henry... nella stanza dov'è lui. Siamo gli unici... gli unici che possono fermarlo.

20/21…


(bisbigli vari, incomprensibili. Pronunciati vorticosamente.)

…21/21…


L’eco di quelle parole continuava ad echeggiare continuamente nell’ambiente oscuro.
Walter mosse le labbra e prese parole.

Sai, invece, dirmi perché io non sono capace di abbandonare questo appartamento?” gli si rivolse penetrante. “Era questa la domanda che ti avevo posto. La risposta qual è?”

Il moro strinse le spalle e scosse la testa.

“Mi dispiace, nessuna. Ho cercato di rispondere, prima di accorgermi che non potevo farlo. Questa era la stessa domanda che avrei voluto fare a te.”

Walter sospirò. Poggiò la schiena sulle barre di ferro alle sue spalle e portò il capo all’indietro. Chiuse gli occhi.

“..hai detto ‘era’? Vuoi dire che questa domanda non ti assilla più?” chiese.

Henry annuì confermando le sue parole. Sorrise appena, assumendo un’espressione malinconica.

“Io volevo scoprire perché non potevo abbandonare l’appartamento 302. Facendo così, tuttavia, ho scoperto che, nella realtà parallela, avevo io stesso lasciato una traccia di me…” alzò lo sguardo verso la figura girata di spalle di Walter. “…una parte di me è destinata a vivere qui. E io rappresento quella traccia rimasta legata a questo mondo. ”

“Io…”

“Per questo non posso abbandonare il #302”

“Una parte di me vive qui…”
“Una parte di me more qui…”

“Finché esiste Lui.”

Walter, nell’udire quell’eco di parole, inarcò le sopracciglia e rise velatamente.

“Io, infondo, sono sempre stato prigioniero di questo appartamento.” disse all’improvviso il biondo.

Egli riportò alla mente dei ricordi lontani. Un’inquietante calma lo circondò, e in quel momento andava più che bene.

“Lo sai, adesso. Da bambino mi dissero che avrei potuto risvegliare mia madre. Da allora quell’appartamento è sempre stato la mia prigione. Un chiodo fisso. Un posto dal quale non sono mai potuto uscire, pur non essendoci mai entrato.”
Girò appena il capo, guardando con la coda dell’occhio Henry. “…che fai Henry, sorridi? Non mi dirai che ti piace stare in prigione, adesso.”

Walter lo provocò un po’ con quella frase. Henry, in verità, stava sorridendo sul serio. I suoi occhi erano calati verso il basso e osservava il suo stesso corpo divenire sempre più opaco. Quasi trasparente.

“Prigione, uh? Non avevo mai pensato che quest’incubo potesse essere una prigione per entrambi …” disse, sarcasticamente.

Egli…
Era da tempo, oramai, prigioniero di quell’appartamento maledetto.
Era una dura consapevolezza che gli apparteneva da sempre.
E il discorso non valeva solo per Henry… ma anche per Walter stesso.

***

[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO DELL’APPARTAMENTO #302]

E’ una bella prigione, il mondo.
(Shakespeare)

Henry e l’assassino Walter Sullivan erano di nuovo l’uno di fronte l’altra.
Walter, con volto severo, puntò la pistola nera contro il ragazzo.
Henry fece lo stesso, allungando le braccia, brandendo la pistola in mano.
Prese la mira e tirò giù la sicura della pistola, attendendo assieme al suo carnefice il momento fatale.

“Sullivan...”

Henry si pronunciò chiamando l’assassino.

“C’è qualcosa che vuoi dire prima?” gli chiese il biondo.

In quel momento, tuttavia, accadde qualcosa che fece sorprendere persino un uomo scaltro e disincantato come Walter Sullivan.
Henry, guardandolo continuamente dritto negli occhi, lasciò cadere dalla sua mano la pistola che andò a battere violentemente sul pavimento.
Walter osservò quell’arma corrucciando il viso, quasi disturbato dall’azione dell’uomo di fronte a lui. Henry l’aveva lasciata cadere senza alcun indugio. Poi, aveva calato le braccia e aveva continuato a fissare l’assassino. Schiuse le labbra e parlò.

“Siamo morti entrambi.”

Allargò le braccia e mostrò a Walter il luogo circostante. La stanza circolare corrosa e spenta. La loro prigione personale. Il fulcro dei ventuno sacramenti.

“Vuoi uccidermi? Sono degno o meno di incontrare Dio? Vuoi invece che sia io a ucciderti? Scegli pure. Ma sappiamo bene che è inutile.”

Walter tese il braccio sinistro verso di lui e tirò giù la sicura dell’arma. Sparò Henry di striscio, ferendolo appena su una gamba.
I suoi occhi erano spenti, vogliosi solamente di distruggere tutto.
Henry tuttavia non si mosse. Era oramai consapevole di non poter fuggire, salvarsi o…morire.

Walter continuò a sparare, colpendolo di striscio più volte. I suoi occhi s’ iniettavano di rabbia sempre di più, davanti a quell’uomo capace di leggere quella famosa e irritante ‘parte profonda dentro di lui’.
Quella parte che lui stesso non avrebbe mai pensato di dover rievocare.
Quanto era costato per lui, effettivamente, evocare la Santa Madre?
Forse era stata per davvero una mera condanna meschina, quella.

“Muori!” urlò, mentre ferì Henry a un piede, e a quel punto il ragazzo si accasciò.

“Uhg…” Henry toccò il piede insanguinato, tuttavia non smise di rivolgersi a Walter con sfida. “Avanti, fallo. Sparami, torturami, uccidimi. Fa quello che ti pare. Anche se questo non cambierà nulla, lo sai.” disse.

Un altro paio di colpi andarono a ferirlo sulla spalla, impedendogli gran parte dei movimenti.

Henry urlò dal dolore e sentì il cuore palpitare nell’avere davanti a sé Walter Sullivan con gli occhi di un diavolo spietato.
Egli era una macchina assassina violenta e crudele. Disumana e devastata. Egli era oramai prigioniero di se stesso ed era caduto in un baratro, in una fossa, che aveva scavato egli stesso con tutte le sue forze, ma che lo aveva solo avvicinato ancora di più alla cecità completa.

“TACI!” urlò Walter nuovamente.

Incrociando gli occhi verde pallido del ragazzo, provò un’infinita rabbia.
Lo odiava. Lo disprezzava. Egli aveva scongiurato i suoi ventuno sacramenti.
Egli…
Gli aveva impedito di ricongiungersi a sua madre.
Ma Walter, tuttavia, non avrebbe mai incontrato la madre. Perché infondo, lui…

Già…
Già lo sapeva.

Guardò Henry spietatamente.
Quel che il ragazzo non sapeva, era che Walter aveva già da tempo aperto quel libro.
Quello stesso che aveva stretto sul petto, senza sfogliarlo.
Invece aveva letto il suo contenuto già da tempo. Semplicemente, tuttavia, l’aveva letto rifiutandone il significato.

C'era una volta un bambino
collegato alla sua mamma attraverso un magico cordone.
Ma un giorno il cordone fu reciso, e la madre cadde in un sonno profondo.

Il bambino rimase tutto solo.

Ma il bambino fece molti amici nella Wish House e tutti erano molto gentili con lui.

Il bambino era felice.

I suoi amici gli dissero come svegliare la sua mamma.
Così il bambino andò subito a cercare di svegliarla.
Ma la mamma non si svegliava. Per quanto lui provasse, lei proprio non si svegliava.
Questo perchè in realtà quello che lui stava cercando di destare era il Diavolo.

Il bambino era stato ingannato.
Povero bambino.
(Parte del documento trovato nell’appartamento 302 del passato)

Walter puntò la pistola proprio sulla fronte di Henry. Strinse le labbra, facendo per premere il grilletto. Henry era lì a fissarlo immobile, vedendolo pronto a dargli il colpo fatale.

Senza sapere, invece, di aver appena dato scacco matto al Re.

Regnò il silenzio quando Walter abbassò la pistola.
Egli fece calare il braccio lentamente, lasciando poi cadere la pistola rumorosamente a terra.
Allora cominciò a tremare. Prese a tremare di rabbia, di dolore, di sconforto, di delusione…

“ARGH!”

Sotto gli occhi di Henry, prese a urlare, non potendone più di quell’inferno. Henry lo vide stringere i pugni fino ad arrossare le mani ruvide.
Calò il capo e la lunga frangia cresciuta coprì il viso corrucciato.
Abbassando gli occhi, Henry si accorse che delle gocce trasparenti stavano cadendo leggere sul pavimento opaco, proprio davanti ai piedi dell’assassino.

Fu allora che si rese conto che Walter Sullivan stava piangendo. Egli era crollato. Crollato di rabbia e di disperazione.

Lo vedeva stringere i denti quasi deluso di sé. Deluso che qualcosa, dentro di lui, stesse vacillando. La rabbia lo faceva tremare e oramai era incapace di nascondere l’esaurimento scaturito dopo trentaquattro anni di mente devastata.

Trentaquattro anni, in cui aveva dedicato la sua vita completamente al compimento dei ventuno sacramenti, dove aveva incontrato mille ostacoli, al fine di incontrare la sua Santa Madre.
Egli l’aveva quasi invocata e non aveva potuto adempire al suo destino per colpa della persona di fronte a lui.
Ma egli…per davvero…chi voleva incontrare?
Era davvero la Santa Madre? Lei lo avrebbe condotto alla felicità?
Sentiva la sua mente bloccarsi, incapace di comprendere. Di tirar fuori quel ricordo.

Ma la mamma non si svegliava. Per quanto lui provasse, lei proprio non si svegliava.
Questo perchè in realtà quello che lui stava cercando di destare era il Diavolo.

Il bambino era stato ingannato.
Povero bambino.

“Argh!”

Urlò nuovamente, poi cadde violentemente in ginocchio, crollando di fronte ad Henry, che lo guardava con sguardo stanco e sgomentato. La stessa espressione che, oramai, aveva assunto anche Walter Sullivan.
Il biondo assassino rimase immobile, mentre la testa tuttavia scoppiava. La rabbia e l’incomprensione lo assalivano ferocemente.
Infine…a devastarlo fu poi solo quel forte senso di devastazione e di solitudine.
Ripensò al culto. Ai precetti che aveva imparato. Alla sua vita sacrificata. Alle persone uccise. Ripensò alla Santa Madre. La sua dolce Santa Madre. Quella che non era riuscito a destare. Quella che non era riuscito a salvare. Quella che non lo aveva mai abbracciato. Quella che lo aveva abbandonato.
Walter calò gli occhi verso il basso e parlò con voce profonda.

“Mamma…” sussurrò, senza nemmeno accorgersene.

***

 [PIANEROTTOLO DEL TERZO PIANO, ALA OVEST. South Ashfield Heights. Di fronte l’appartamento #302]




A quel tempo, Henry cominciò a fare sempre lo stesso sogno.
Era reale? Oppure no? Non lo sapeva, allora.
Nel suo sogno, vedeva un uomo imprigionato nell’appartamento #302. Era spaventato e disorientato.
La casa puzzava e vi era un’aria opprimente in giro. Veniva assalito dalla sua casa stessa, come fosse viva…questo senza poter in nessun modo scappare, salvarsi o…morire.

Subito dopo…Henry scoprì di non poter più abbandonare la sua dimora.
Lo aveva imprigionato dentro.
Così era stato per lungo tempo, senza che il vicinato si accorgesse di nulla.
Questo finché qualcuno non cominciò ad avvertire dei rumori provenienti dall’appartamento #302.

Questo segnò solo l’inizio di un terribile mondo paradossale. Questo segnò solo l’inizio di una verità legata a quegli appartamenti fino in quel momento nascosta e ignorata.

Era con quella consapevolezza nel cuore…che sperava non sarebbe accaduta mai più qualcosa di simile.




“Henry! Sono Eileen, apri!”

Eileen bussava incessantemente alla porta di Henry. Aveva paura. Aveva un terribile presentimento.

“Riesci a sentirmi? Apri!”

Le mani cominciavano a dolerle, ma non si fermò nel bussare e a suonare al campanello.

Aveva paura…paura che potesse riaccadere…paura che Henry, come a quel tempo, non potesse più abbandonare l’appartamento #302.
Eileen continuò a bussare. Sentiva il cuore battere.

Dentro l’appartamento, un ragazzo dai capelli castani, era seduto sulla poltrona nel salotto.
Aveva un viso assorto e spento, come fosse in uno stato catatonico.  

La ragazza continuava a battere alla porta. All’ennesimo silenzio, decise di scendere le scale e cercare il custode degli appartamenti di South Ashfield Heights, il sovrintendente Frank Sunderland.
Eileen lo sollecitò a far velocemente qualcosa, prima che fosse troppo tardi.

“La prego…ho paura che possa accadere qualcosa di terribile!”

“Ho qui con me le chiavi. Non si preoccupi. Eccole.”

L’uomo anziano girò le chiavi forzando così la serratura.
Eileen chiuse gli occhi, terribilmente spaventata. Si chiedeva se la porta fosse di nuovo bloccata. Si chiedeva se avrebbe mai più rivisto Henry. Si chiedeva che stesse accadendo. Si chiedeva il perché di quel brutto presagio che covava in corpo da giorni.
Ah, se solo Henry le avesse dato retta e fossero fuggiti via assieme da South Ashfield…

Clank

Ci fu un rumore meccanico che indicò che la porta si era smossa. Era aperta.

“Cosa?!” disse Eileen, frastornata.

Frank rimise le chiavi a posto.

“E’ aperta, miss Galvin.”

Eileen lo ignorò.

“Henry!” urlò, inoltrandosi nella porta, illuminata da una grande luce bianca. Tuttavia, girandosi attorno, Eileen non vide nessuno.

Il divano, il tavolo, la cucina, il corridoio…
Solo l’accecante luce bianca mattutina era sovrana in quell’appartamento. E di Henry nemmeno una traccia.
Soave la luce illuminava l’ambiente. Soave la luce nascondeva le ombre dell’appartamento.

In parallelo, un uomo dai capelli castani e il viso spento, sedeva sulla poltroncina di casa e guardava fisso dinanzi a sé. Era quasi completamente buio lì dentro, dove egli si trovava, nel suo appartamento.
Le pareti erano increspate, l’aria era soffocante. Ed era tutto buio. Un buio accecante.

Guardava dinanzi a sé ed era da solo. La porta era bloccata da una serie di catene rugginose.
Chinò il capo, con viso stanco e affranto.

“Henry?”

Eileen si avvicinò alla poltroncina, guardò attentamente e poi passò oltre affacciandosi alla finestra.
Dopo di che s’inoltro nella camera da letto del ragazzo, chiamando ancora il suo nome. Era tutto in ordine, ma di Henry non c’era traccia.

Il custode vedeva preoccupato Eileen, mentre si dimenava disperata alla ricerca del ragazzo.

In parallelo, Henry Townshend rimase immobile sulla poltroncina.
E dire che erano così vicini, Henry ed Eileen.

Eileen si avvicinò nuovamente alla poltrona dove il moro era seduto.
Se avesse allungato la mano, avrebbe potuto anche sfiorarlo, se solo non fossero stati in due mondi paralleli. Due mondi vicini e lontani allo stesso tempo.
Quale dei due fosse vero era difficile stabilirlo. Più di quanto una risposta impulsiva potesse dire.

Il custode s’inoltrò anch’egli nella stanza, costatando, suo rammarico, che per davvero non vi fosse nessuno lì dentro.
Si affacciò alla finestra e fu allora che richiamò l’attenzione della fanciulla.

“Miss Galvin. Henry è lì.” disse, chiamando la ragazza con voce sorpresa.

Eileen sentì il cuore a mille, mentre corse verso il custode e si affacciò anch’ella alla finestra.

“Dove?” disse, spaventata.

Il custode Frank Sunderland indicò il ragazzo poggiato sul ciglio del portone della palazzina.

Egli aveva un viso assorto e spento. Era sul ciglio assolato della palazzina di South Ashfield Heights.
Il sole era accecante ma egli se ne stava lì incurante, con il capo chino e la schiena poggiata sul portone del palazzo.

Eileen, a quella visione, sgranò gli occhi. Era Henry! Era proprio lui.
Ma quando era apparso, esattamente?
Tuttavia quello non era il tempo delle domande. Lasciò Frank per correre sulla scalinata.
Frank fu sorpreso di quell’impulsività, ma non poté far a meno di sorridere del suo comportamento dettato dal cuore.
Del resto, egli non poteva di certo sapere cosa nascondessero, in realtà, quelle quattro mura. Cosa avesse destato l’inquietudine di Eileen Galvin.

Eileen si precipitò lungo le scale, perdendo anche una pantofola e rischiando di cadere. Ma nulla le impedì di raggiungere quel ragazzo che non vedeva da giorni. Non sapeva che dirgli. Non sapeva quale domanda porgli per prima. Pensò solo ad aprire l’anta del portone non appena raggiunse il pian terreno.

“Henry!” urlò.

Il ragazzo dai capelli castani si voltò verso di lei.

“Eileen..?”

Parlò a stento, con la sua solita voce profonda e riservata. Eileen rimase immobile di fronte a lui per diversi istanti, con il respiro affannato. Lei…non lo vedeva da giorni. Era sempre stato distante in quel periodo. E ora era lì di fronte a lei e…e…
Corrucciò all’improvviso il viso e gli mollò uno schiaffo. Henry rimase senza parole.

“Stronzo!”

Henry la guardò perplesso, ma non disse nulla. Prese solo a toccarsi la guancia dolorante. Vide poi gli occhi di Eileen inumidirsi.

“Come…puoi…dopo tutto questo tempo…dove diamine sei stato?!”

Henry a quel punto le sorrise. Eileen corrucciò il viso sempre di più, adirata da quell’espressione invece così soave.
Henry…dal suo canto, era semplicemente felice di rivederla.
Di vedere che stesse bene. Di vederla circondata dalla luce del sole e non dalle tenebre, il sangue e la ruggine. Di vederla vicino a sé.
Velocemente l’avvicinò, stringendola in un inaspettato abbraccio che lasciò la ragazza con gli occhi sgranati.

“Scusa.” le disse.

Eileen non rispose. Lui prese a stringerla più forte.

“Sono sempre stato dannatamente in ritardo con te. Mi dispiace…”

“Henry, che stai dicendo?” gli chiese lei con un filo di voce, leggermente confusa.

Henry la prese per le spalle e l’allontanò appena per poter vedere i suoi occhi luminosi.

Le catene del suo appartamento rimbombavano ancora dentro di lui. Incessanti. Angustianti. E lo volevano lì, fra le mura del #302.

“Non…non voglio più indugiare. Voglio stare con te, Eileen. Lontano da qui.”

Le catene della porta richiamavano ancora e ancora, come un martellante richiamo che lo assillava ferocemente.

Eileen era sempre più sorpresa. Mai prima di allora, Henry aveva parlato del loro trasferimento in quel modo.
Mai come allora le aveva chiesto ardentemente di andare via assieme.

Henry si sforzò di allontanare da sé quell’incessante richiamo. Si sforzò di ignorare quel sussurro che lo accompagnava e che probabilmente lo avrebbe accompagnato per sempre.
Il richiamo dell’assassino Walter Sullivan che rivoleva indietro la sua vittima.

“Sarai in grado di aiutarmi? Di non farmi scappare via?” le sorrise debolmente.

Eileen a quel punto non poté fare a meno di ricambiarlo. Subito si strinse nuovamente a lui sorridendogli.
Aveva tante domande, troppe.
Non sapeva da dove Henry fosse sbucato fuori. Non sapeva quel che era accaduto e quel che sarebbe accaduto. Ma andava bene così.
In quel momento, in quell’istante, andava bene così.
Rise appena, guardando Henry e stringendolo a sé.

“Oh, beh. Allora penso che sia arrivato il momento di trovare una nuova casa, Henry.”

Henry annuì.
Era giunto il momento di scegliere in che posto stare. Era giunto il momento di chiudere quella porta.
Era giunto il momento di andare…
Lontano da Walter Sullivan…
Lontano da Henry Townshend/Colui che riceve saggezza…

Anche se una parte di sé sarebbe stata legata all’appartamento 302 per sempre.

***

[APPARTAMENTO 302, South Ashfield Heights]

Quell’appartamento gli era sempre piaciuto. Bianco, pulito, fresco…
Era perfetto per cominciare una nuova vita.

Dopo aver attraversato l’ingresso, sulla destra vi era un ripostiglio. Sulla sinistra invece vi era la cucina bianca contornata da una serie di banconi.
Poi c’era il salotto. Era la stanza più ampia della casa. Era arredato con un largo divano, un tavolino basso e una poltroncina.
In un angolo del muro vi era una piccola libreria con molti libri riguardanti Silent Hill, una città che un tempo amava visitare spesso. Vi era poi un televisore datato e una cassapanca capiente.
Due finestre illuminavano quella stanza, donando una luce che aveva quasi un che di sacro.
Il corridoio conduceva al bagno e poi alla camera da letto. Anche questa illuminata da una luce candida e opaca.

Un ragazzo era seduto sulla poltrona nel salotto.
Era alto circa un metro e ottantacinque ed era di bell’aspetto. Aveva dei capelli disordinati castani, gli occhi verde pallido e una rasatura sul viso leggermente trascurata. Indossava una camicia bianca e dei jeans scoloriti.
I suoi occhi, fino a quel momento rivolti verso il basso, andarono a cadere sul tavolino al centro della stanza, dove era poggiato un pacchetto di sigarette. Lo prese fra le mani.
Henry era un tipo più nevrotico di quanto sembrasse in realtà. Era stata dura per lui ridurre l’uso del fumo. Da quando aveva cercato di darci un taglio, si concedeva una sigaretta solo quando lavorava.
Nemmeno, da quando conosceva Eileen, completamente contraria al fumo.

“Suppongo di poter fare uno strappo alla regola…” disse, sorridendo.

Accese la sigaretta con un fiammifero e ispirò profondamente, lanciando via il fumo lentamente, mentre sentiva la mente spegnersi e riposare. Gli occhi bruciavano appena, così come la testa e il petto. Aveva ancora impresso il marchio 21/21 sul collo.

Dalla poltroncina, sbirciò oltre la finestra alle sue spalle, e nel cortile vide la sua bella Eileen Galvin.
Sembrava davvero…felice. Sembrava felice a fianco a quel Henry Townshend.
Presto avrebbero cominciato una vita assieme. Henry sorrise, invidiandoli un po’, in verità.

Fu allora che, davanti a sé, apparve l’uomo col cappotto. Egli si avvicinò lentamente, rimanendo sul ciglio del corridoio.
Henry accavallò le gambe e lanciò nuovamente il fumo dalla bocca. Con un gesto della mano gli indicò il divano.

“Accomodati.”

Walter si guardò attorno. Dopodiché prese posto sul divano. Fissò Henry in silenzio, scrutandolo. Vedendolo assorto nei suoi pensieri, sbirciò anch’egli in direzione della finestra, dopodiché gli si rivolse.

“Rimpianti?” gli chiese.

Henry non rispose immediatamente.

“Solo un po’. E tu?”

“Solo un po’.”

Rimasero entrambi in silenzio. La luce era bianca e illuminava quell’ambiente che fino a qualche istante prima era stato avvolto dalle tenebre.
Henry spense la sigaretta nel portacenere e guardò il biondo in silenzio, ripensando a ciò che era accaduto in quel lasso temporale.

Egli era stato rinchiuso nel suo appartamento per quasi sei giorni.
Aveva visto gente morire.
Aveva conosciuto un folle assassino e aveva combattuto per la prima volta nella sua vita.
Era stato prigioniero del suo stesso appartamento, teatro di una macabra storia nella quale mai avrebbe potuto immaginare di trovarsi.

Qualcuno gli aveva detto di cercare la sua parte profonda. E così aveva fatto.
Quello, tuttavia, non aveva segnato la fine dei suoi viaggi.
Dopo, Henry aveva dovuto conoscere una realtà che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.

Aveva dovuto ammettere a se stesso il paradosso della vita di quell’uomo.
Walter Sullivan era una mente spietata, diabolica. Aveva ucciso a sangue freddo diciannove persone, massacrandole tutte spietatamente. Elettrocuzione, pestaggi, colpi d’armi di ogni genere…
Walter Sullivan era un uomo da condannare per i suoi crimini.
Walter Sullivan tuttavia era anche l’uomo ingannato.
L’uomo che era stato deturpato dalle menti del culto. L’uomo che fu abbandonato in fasce dai suoi stessi genitori. L’uomo che non aveva mai conosciuto la clemenza, che non poteva sperare nella luce. L’uomo che era morto ancora prima di nascere. L’uomo che avrebbe dovuto riposare in pace e invece era anch’egli prigioniero dell’oblio.
Walter Sullivan era vittima e prigioniero del suo infausto destino.

Ed Henry, in tutto questo, giocava il ruolo più curioso.
Egli era destinato a conoscere profondamente il suo inconscio. Era destinato a comprendere e a scavare nella parte profonda di Lui.

Henry, nel momento nel quale si era trasferito nell’appartamento #302, senza saperlo, aveva firmato il suo destino, consegnandolo nelle mani di Walter Sullivan. Aveva in quel momento, dichiarato che una parte di sé sarebbe rimasta lì per sempre.

“Per questo non posso abbandonare il #302”

“Una parte di me vive qui…”
“Una parte di me more qui…”

“Finché esiste Lui.”
Henry sorrise, ridendo velatamente.

“Sei a casa tua, adesso. Cosa si prova?” chiese a Walter con fare colloquiale.

Il biondo portò i gomiti sulle ginocchia e sorrise ironicamente.

“Ci devo pensare.”

A quel punto, Henry lo guardò. Il marchio 21/21 non sembrava fare poi così male, adesso. Henry si chiese se fosse per via dell’abitudine. O magari per davvero ormai non importava più tanto.
Guardò il ragazzo dai capelli biondi intensamente, prima di rivolgerglisi.

“Walter. C’era qualcosa che volevo chiederti, ma non l’ho mai fatto perché non facevi che ammazzarmi.” gli disse.

Walter alzò gli occhi verdi verso lui. Si lasciò incuriosire da quelle parole. Henry gli parlò con calma, senza alcun remore.

“Tu invece cos’è che vedi qui in questo pandemonio?”

A Henry sembrò, nella sua arroganza, che Walter rimase sorpreso di quella domanda.

Lo vide sogghignare e chinare il capo e…ridere sotto i baffi.

Anche Henry a quel punto sogghignò assieme al suo assassino, in quell’inferno destinato a essere per sempre il purgatorio del curioso e triste destino dell’uomo dai capelli biondi.





In origine, gli uomini non avevano nulla. I loro corpi dolevano e i loro cuori contenevano solamente odio. Combattevano senza sosta, ma la morte non giungeva mai. Si disperavano, bloccati in questa eterna sofferenza.
Un uomo offrì al sole un serpente e pregò per la salvezza. Una donna offrì al sole una saetta e chiese in cambio la gioia. Provando pietà per la tristezza che avvolgeva il mondo, Dio nacque da quelle due persone.
Dio creò il tempo e lo divise in giorno e notte. Dio tracciò la via per la salvezza e diede agli uomini la gioia.
E Dio tolse agli uomini il dono dell'eternità.
Dio creò gli esseri viventi per tenere gli uomini in obbedienza a lei.
Il Dio rosso, Xuchilbara; il Dio giallo, Lobsel Vith; molti dei e angeli.
Infine, Dio iniziò a creare il Paradiso, dove bastava entrare per dare agli uomini la felicità.
Ma Dio esaurì le forze, e crollò a terra. Tutti gli uomini del mondo piansero per questo sfortunato evento, finchè Dio esalò il suo ultimo respiro. Essa ritornò polvere, promettendo il suo ritorno.
E così Dio non è perduto. Dobbiamo pregare e ricordare la nostra fede.
Attendiamo con speranza il giorno in cui la via del Paradiso verrà aperta.

(Il credo del Culto)





Un bambino fu abbandonato a South Ashfield Heights.
La madre lo abbandonò appena nato. Egli aveva ancora il
cordone ombelicale attaccato al corpo. Il sovrintendente di
quel palazzo, un tale Frank Sunderland, lo trovò e lo salvò da
morte certa. Ma non ebbe mai notizie di lui da quel momento
in poi. Gli venne solo detto che il bambino era sopravvissuto e
che ora risiedeva presso strutture più adeguate.
In quel bambino era già nato un forte senso di devastazione. Un
disturbo mentale verso il mondo e il grembo materno. Nella sua
mente l’utero e il cordone ombelicale divennero una curiosa
ossessione, dovuta a una mancanza d’affetto infantile, mista al
disprezzo e al senso di abbandono.

Visse come orfano alla Wish House. Li fu scelto per lui il nome di
Walter Sullivan. Il prete George Rosten lo prese sotto la sua ala e
lo allevò secondo il culto di Valtiel. Egli fu scelto per attuare i 21
sacramenti. In quel periodo, vide molti suoi amici morire nella
Wish House.
Egli venne più volte picchiato dai membri del culto e dal
sorvegliante Andrew De Salvo, quando disobbediva e finiva
nella prigione cilindrica.
Già allora decise che un giorno si sarebbe vendicato dei torti
subiti.
Nacquero già all’epoca i primi demoni della sua vita, nonché  
la violenza che un giorno lo avrebbe caratterizzato.
Ancora giovanissimo, un membro del culto fece vedere
 a quel bambino chiamato Walter Sullivan l’appartamento 302.
Da allora si convinse che lì viveva sua madre. Avendo una mente
già all’epoca devastata, si convinse che sua madre fosse
l’appartamento stesso. Dahlia Gillespie e altri membri del culto
approfittarono del suo status mentale, del suo desiderio di tornare
dalla madre, e gli fecero dunque credere che l’unico modo per
 ricongiungersi a lei, e salvarla dalla corruzione del mondo, fosse
l’attuazione dei 21 sacramenti.
Così fu.
Walter credé a quelle parole e si cimentò nell’impresa studiando sodo.
Nel frattempo, sebbene fosse un bambino, andava a
visitare spesso South Ashfield, usando l’autobus, la metropolitana,
e incontrando tanta gente schiva e meschina che lo derideva.
Lo denigravano. Ma egli non demorse. Anzi.
Il suo odio per il mondo crebbe a dismisura e lo aiutò a cimentarsi
più a fondo nello studio del rituale. Il mondo andava purificato.
Se ne convinse sempre di più.

Visitò spesso gli appartamenti a quel tempo, destando prima
curiosità, poi malcontento nella palazzina. Frank Sunderland, nel vederlo
sempre più spesso, si chiese se quello non fosse proprio il bambino che
un tempo aveva trovato nell’appartamento 302.
Richard Braintree, infastidito da quel piccolo orfano, più volte lo picchiò e
lo fece scappare. Walter fu anche uno dei testimoni del famoso
“scuoiamento di Mike”, giorno in cui Braintree diede clamorosamente
di testa.  
Raggiunti i sedici anni, spesso gli capitava di essere fuori casa.
Continuava a visitare South Ashfield.
Conobbe in quell’anno una bambina, la giovane Eileen Galvin, che
 commosse quel giovane con il suo atto di clemenza.
Egli non aveva mai ricevuto alcuna attenzione dal mondo intero.
Ella invece si preoccupò per lui vedendolo solo e abbandonato.
Gli donò così una preziosa bambola che lui custodirà negli anni a venire.
Di lì a poco ebbe l’occasione anche di parlare con Cynthia Velasquez, all’epoca
una tredicenne, per la quale sentì di provare sentimenti diversi.
Un qualcosa che non ebbe il tempo di maturare comunque, perché
ella rifiutò la sua mano tesa e bisognosa di un contatto umano.
Ricevette una ulteriore delusione da una donna.
Se da un lato ora esisteva sua Madre. La dolce bambina.
Ora esisteva anche la Tentazione. La donna ingannatrice e violenta.

Una volta abbandonata la Wish House, studiò presso l’università
di Pleasant River.
Era finalmente pronto per attuare la prima fase del rituale dei
21 sacramenti.

In dieci giorni, all’età di ventiquattro anni, uccise dieci persone,
portando a termine il primo segno. Le sue vittime:
Jimmy Stone. Fondatore del culto di Valtier. Ucciso con un’arma da
Fuoco.
Bobby Randolf. Attirato nel campus di Pleasant River e ucciso tramite
soffocamento.
Sein Martin. Attirato nel campus di Pleasant River e ucciso tramite
strangolamento.
Steve Garland. Ucciso nel suo negozio di animali con una mitraglietta.
Rick Albert. Proprietario dell’Albert’s sport nel quale Walter lavorava
part-time. Ucciso con una mazza da golf nel negozio.
George Rosten. Colui che lo aveva allevato ed educato. Ucciso nel
bosco di Silent Hill con un tubo di ferro.
Billy Locane. Ucciso a Silent Hill. Fatto a brandelli con un’ascia.
Miriam Locane. Uccisa a Silent Hill. Fatta a brandelli come il fratello.
Eric Walsh. Ucciso a casa sua con un colpo d’arma da fuoco.
William Gregory. Ucciso con un cacciavite.

A tutti i corpi mancava il cuore. Nei corpi vi erano incisi i seguenti marchi:
01121, 02121, 03121, 04121, 05121, 06121, 07121, 08121, 09121, 10121

Water Sullivan completò la prima fase del rituale, ma fu catturato
dalla polizia di Silent Hill e accusato dell’omicidio dei due fratelli Locane.
In prigione si recise la carotide con un cucchiaio, morendo per emorragia.
Quello che sembrava un suicidio, in verità, era solo l’attuazione del secondo
Segno del rituale. Egli doveva sciogliere i vincoli della carne. Egli, in quel
momento, creò la realtà parallela secondo il volere di Valtier. Divenne Dio.

Persa la sua umanità, nella sua mente si creò un’ulteriore voragine dalla
quale, oramai, non sarebbe più potuto uscire.
In quel tempo, Joseph Schreiber, un giornalista, si trasferì a South Ashfield
Heights.

Venne data di lì a poco la notizia di un omicidio copycat, simile a quelli
attuati da Sullivan. In verità, egli stesso li attuava dal mondo parallelo,
dove egli era sovrano.
Morirono altre tre vittime, e Joseph Schreiber indagò su questi strani
casi copycat.

Morì Peter Walls, tossicodipendente. Ucciso massacrato fino alla morte.
Morì Sharon Blake, annegata e trovata nel bosco di Silent Hill.
Morì Toby Archbolt, sacerdote della setta della Santa madre. Spinto da
una scogliera nel Messico.

In tutti e tre i corpi questa volta il cuore era intatto. Ma i seguenti numeri
erano incisi sopra:
12121, 13121, 14121.

Joseph Schreiber, mentre indagava su quella gente uccisa, comprese di
essere anch’egli vittima di Sullivan. Presto si accorse anche di non poter
lasciare l’appartamento 302 nel quale rimase intrappolato. Dedicò
comunque la sua vita alla ricerca della verità su Sullivan.
Scoprì che il caso Walter Sullivan aveva molte ombre. Scoprì il suo passato.
Scoprì la natura malsana della Wish House. Scoprì che il corpo di Walter
Sullivan era sparito dalla tomba.
Scoprì di non avere alcuno scampo. Scoprì che Joseph Schreiber era l’uomo
15121.

I temi del “vuoto”, delle “tenebre”, dell’ “oscurità” e della “disperazione” erano
stati eseguiti con successo.

Sei mesi più tardi, Henry Townshend si trasferì nell’appartamento 302.
Per due anni la sua vita scorse tranquilla. Poi un giorno cominciò
a fare curiosi incubi. La sua casa venne sigillata da Walter Sullivan.
Egli fu costretto a utilizzare un varco, la sua unica via di fuga, per uscire.
Vide, senza mai incontrare Sullivan, i frammenti del suo passato.
Egli incontrò le sue paure, desideri, angosce...che si mostrarono a lui
come demoni. Mostri deformi e disturbanti.

Vide le vittime del terzo round di omicidi.
Vide morire Cynthia Velasquez. Uccisa pestata a morte nella
metropolitana di South Ashfield.
Vide morire Jasper Gein. Ucciso nella Wish House arso vivo.
Vide morire Andrew De Salvo. Ucciso nella stanza degli
interrogatori della prigione cilindrica.
Vide morire Richard Braintree. Morto nel suo stesso appartamento
tramite elettrocuzione.

Sui loro corpi vi erano incisi i numeri: 16121, 17121, 18121, 19121.

A quel punto era chiaro. Tutti quei numeri altro non erano che un elenco.
L’elenco di ventuno vittime che presto sarebbero state uccise.
Quei numeri andavano letti ##/21.

In tutto questo, un macerante senso di inquietudine colpì Henry,
che sapeva che presto sarebbe toccato a lui.
Comprendendo che la vittima 20/21 era la sua vicina di casa, Eileen Galvin,
Henry riuscì a portarla con sé nel mondo profondo di Walter
Sullivan. Questo grazie agli indizi fornitogli da Joseph Schreiber
che gli disse che la risposta e la salvezza l’avrebbe trovata lì.
Nella parte profonda dell’assassino. Fino a trovare la Verità assoluta.

Henry, tuttavia, trovò tutt’altro che un’arma da utilizzare contro
Walter, una volta giunto al capolinea. Trovò invece la terribile verità
 che si celava nel passato oscuro dello spietato killer.
La verità gelante di un uomo abbandonato, strumentalizzato e ingannato.

Henry si chiese allora che ruolo avesse nell’intera vicenda.
Si chiese cosa significasse essere il ventunesimo sacramento.
Si chiese cosa significasse essere “Colui che Riceve Saggezza”.

Uccise Walter Sullivan, salvando così lui ed Eileen. Walter
Sullivan non portò a compimento l’ultima fase del rituale.
Non comprendendo in tempo che, anche attuando i ventuno
sacramenti, non avrebbe mai riavuto l’amore perduto della
madre.

La Santa Madre…per lui era sempre stata la mamma. Questo
porterà Walter Sullivan ad un’ulteriore espiazione. Un purgatorio
nato apposta per lui, creato dall’inferno dal suo stesso rituale.
Un purgatorio dove saranno destinati a vivere lui e i suoi demoni.
Compresa la gente uccisa dalle sue mani. Compresi coloro
che sono fuggiti, ma che hanno lasciato una traccia nel suo
mondo…



-FINE-














Ecco qui l’ultimo capitolo di Haunting apartment…
Giuro che ho il batticuore. Finire una fan fiction è sempre una grande gioia, ma allo stesso tempo procura un po’ di dispiacere…
Mi sarebbe piaciuto scrivere ancora su Silent Hill 4, questo gioco per me è fantastico a livello di trama, personaggi, atmosfere, tematiche e simbolismi.
C’è una grande fetta di fan che lo considera un Silent Hill di poco conto, io invece, lo considero uno dei migliori. Senza dubbio è il mio preferito.
Sono da sempre fan di questa saga (e di questo SH) e da tempo avrei voluto scrivere qualcosa a tema.
Come già scrissi nel mio primo capitolo, per me questa saga è una preziosa reliquia. Non ero sicura, nonostante il mio fanatismo estremo per la saga xD, di riuscire a scrivere qualcosa degno del gioco. Capace di regalare spunti di riflessione ed emozioni forti.
Ho fatto del mio meglio. Ho fatto il possibile per affrontare le tematiche che vi volevo proporre in modo fluido e chiaro.
Ho aggiunto svolti alternativi, enigmi, citazioni, traduzioni di testi e canzoni fatti tutti da me. Ho rigiocato più volte i punti descritti per rendere meglio l’idea degli ambienti e delle atmosfere.
Sapevo che sarebbe stato un lavoro impegnativo per me, ma volevo fare così questa fan fiction, mettendoci tutta me stessa.
Per questo ringrazio a tutti voi per il sostegno. A Waltersullivan24 e Liquid King soprattutto per le loro splendide  recensioni che sono state un forte incentivo per me nell’andare avanti con il lavoro celermente. Un bacio anche a tutti quelli che mi hanno sostenuto da lontano.
Il mio scopo era mostrare quanto questo gioco avesse da offrire. Più di quanto non sembri. Nonostante Silent Hill 4 stesso sia pieno di tematiche forti e fantastiche, io ho mostrato con la mia fan fiction quegli aspetti invece più velati e che non sono stati mostrati nel gioco direttamente (sono presenti per lo più nei file). Dimostrando (spero!) quanto questo videogame sia ricco.
E il gioco era già splendidamente ricco di suo. SH4 scoppia di tematiche, di emozioni e di paradossi.
In tutto questo, desideravo fortemente parlare di Henry e Walter, ma nella maniera più realistica possibile.
Credo di essere una delle poche fan a sostenere che Henry sia un bel personaggio, e ho cercato di mostrarvelo con la mia fanfiction. Di mostrarvi per me il suo senso nel gioco e lo spessore che egli ha ai miei occhi. Spero fortemente di avervi trasmesso tutto questo.
Uno degli incentivi per la realizzazione della fan fiction è sicuramente stato il desiderio di parlare di lui.

Parlando dell’ultimo capitolo, ho lanciato di tanto in tanto un amo che vi mostrasse fin dai primi capitoli il perche Henry non potesse abbandonare la stanza 302. L’Henry con cui noi abbiamo avuto a che fare durante tutta la fan fiction è l’hauntings che troviamo dietro lo spioncino della porta. Henry, a sua volta, quando ha cominciato a viaggiare nella mente di Sullivan, ha creato quella manifestazione.
Una manifestazione nata dal terrore di rimanere intrappolato lì per sempre come ventunesima vittima. 
Proprio come viene scritto nella fan fiction, egli è perfettamente consapevole che una parte di sé è morta quando è entrata in contatto con Sullivan.
Per questo esistono, in un certo senso, due Henry. L’Henry manifestazione di “Colui che riceve Saggezza”, una mera traccia, un’ombra; e l’Henry vivo, che si salva, ma avvertirà sempre il richiamo per la room. Perchè una parte di lui vivrà sempre lì, finché esisterà Walter e il suo peccato.
Parlando del nostro Walter, egli è morto, ma ha avuto un destino simile alla sua ventunesima vittima. La sua ombra è rimasta legata al suo incubo. E come nell’inferno, è destinato a vivere il suo peccato in eterno. Silent Hill è sempre stato facilmente assimilabile a un purgatorio per questo immagino questo destino per Walter.
Henry è colui che vive con lui il suo peccato, come simbolo della vittima finale che doveva morire e che invece ha distrutto il suo castello. Un castello che, comunque, sarebbe andato a sgretolarsi inesorabilmente per via dell'inganno del culto. E così diverranno connessi in questo bizzarro destino. Nonostante siano una vittima e l’altro il suo carnefice. Un carnefice poi, anch’egli a sua volta vittima di qualcos’ altro.
Il finale è anche ispirato in parte al film di Silent Hill. Nel finale del film, la madre della bambina rimane “macchiata” da Silent Hill e dal peccato e, nonostante riesca a fuggire, vivrà per sempre nella Silent Hill alternativa.
Il finale di Henry può anche essere inteso così. Probabilmente sono vere entrambe le interpretazioni.

Vorrei dire tante cose, ma, pensandoci, ho già detto tutto, la mia concezione di Silent Hill 4, tramite la mia fan fiction. Ringrazio davvero tutti! Diate rispetto alla mia opera che non è sicuramente perfetta, ma c’è tanto lavoro dietro. E c’è, soprattutto, l’amore di una fan che ama follemente questa saga e questo capitolo.
Un bacio a tutti! Scriverò senz’altro altre fan fiction su Silent Hill, ora vi lascio, spero di rivedervi tutti presto!

Fiammah_Grace

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