Haunting apartment di fiammah_grace (/viewuser.php?uid=76061)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Appartamento infestato ***
Capitolo 2: *** St. Jerome hospital ***
Capitolo 3: *** La foresta di Silent Hill/ Wish House ***
Capitolo 4: *** Prigione acquatica ***
Capitolo 5: *** La metropolitana di South Ashfield ***
Capitolo 6: *** Il palazzo di South Ashfield ***
Capitolo 7: *** Gli appartamenti di South Ashfield Heights ***
Capitolo 8: *** The Receiver of Wisdom ***
Capitolo 1 *** Appartamento infestato ***
NDA:
Non è per nulla facile scrivere una fanfiction per una fan come me di Silent Hill. Considero questa saga come una preziosa reliquia.
Ogni aspetto scenografico, le musiche, i personaggi, la trama, i dialoghi…tutto pesa fortemente creando un’atmosfera incredibile che solo questa saga sa dare.
Mi piace molto il quarto capitolo della saga e con questa fanfiction farò del mio meglio per approfondire i suoi personaggi e alcuni aspetti della trama. Purtroppo, Silent Hill IV non è molto apprezzato tra i fan. Dunque mi impegnerò a maggior ragione, alla luce di questa consapevolezza.
In particolar modo, la mia fanfiction si soffermerà su Henry Townshend. Cercherò di mostrarvi quel che vedo in questo personaggio, che secondo me è tutt’ altro che estraneo e privo di ogni emozione.
E' un protagonista che adoro.
Esistono veramente persone come lui, nella realtà, le cui emozioni sono appena percettibili.
Inoltre ci sono diversi riferimenti nel gioco, che ci fanno comprendere egli chi sia e come viva l’incubo nel quale è intrappolato.
Ovviamente, nella vicenda, sarà anche presente il famoso Walter Sullivan.
Walter è un antagonista eccezionale. Un raro caso di antagonista capace di suscitare mille emozioni nell’animo del giocatore. È spietato, eppure in qualche modo rimane un personaggio grandioso generando una profonda empatia e malinconia verso chi conosce la sua triste storia.
Aspetto con ansia le vostre recensioni, mi saranno utili per correggermi e per impegnarmi con il prosieguo della fanfic.
Vi lascio alla lettura, adesso.
Fiammah_Grace
_Introduzione alla lettura_
La fanfiction è ambientata post le vicende di Silent Hill IV. Seguirò filone del finale “fuga” e del finale “madre”. Henry Townshend ed Eileen Galvin si apprestano per lasciare per sempre gli appartamenti di South Ashfield Heights. Tuttavia, qualcosa alberga ancora nell’aria.
Sebbene sia tutto finito, quell'insopportabile aria pesante circola negli appartamenti e nell’intero edificio, inglobato ancora nel mondo creato dall’assassino Walter Sullivan. Henry è pronto per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige sono pronte già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio della porta da giorni. Non che avesse granché da portare con sé.
Eppure qualcosa ancora lo lega a quell’appartamento oramai assorbito completamente in quel macabro incubo a cui non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi in giro, ha la pessima sensazione che non sia in grado si lasciare l’appartamento 302, o peggio, che oramai non sia più capace di farlo. Come se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato nell’incubo che continua ad apparire ai suoi occhi, divenendo lui stesso parte di esso...
________________________________________________________
"don't go
out!!" Walter
(messaggio
sulla porta della stanza 302)
CAPITOLO
01
“...E' importante
viaggiare leggeri in quel mondo. Chi trasporta un fardello troppo
pesante se ne
pentirà...”
(messaggio
dietro
la libreria dell’appartamento 302)
Quando
era calato quel buio, con esattezza? Era difficile stabilirlo. Il
tempo, lì,
era come se seguisse una logica tutta sua.
Le
lancette erano immobili, fisse, indicando un orario privo di alcun
significato.
L’ambiente
ricordava un salotto. Un tempo doveva essere proprio quello.
L’arredo era
essenziale, ma considerando le dimensioni ridotte, era abbastanza
spazioso e
confortevole.
Peccato
che la cera delle candele consumate impedisse di apprezzare la
semplicità e la
freschezza di quell’appartamento.
Le
candele erano spente e completamente consumate. Erano davvero tante,
troppe,
per non pensare a un tipico atteggiamento compulsivo. Chiunque le
avesse messe
lì, le aveva accese una per una, completamente fuori
controllo. Per quale
motivo? Nella speranza di ottenere cosa?
Per
l’occhio comune erano solo candele. Candele poste ovunque.
Candele sciolte sul
pavimento, candele invecchiate e consumate dal tempo.
Quelle
candele, invece, avevano donato una luce più luminosa e
rassicurante della luce
stessa. Perché erano state fonte di speranza, anche se
temporanea e illusoria.
Ma erano state lasciate li spente già da tempo e il buio
regnava oramai
sovrano.
Solo
dalle due finestre filtrava appena una fioca luce che disegnava i
contorni del
divano, del televisore, dell’ambiente in generale.
A
un primo impatto, nel buio, nessuno si sarebbe nemmeno accorto che un
giovane sui
trent’anni era sdraiato già da diverse ore sul
divano.
Il
suo sguardo era lontano. Gli occhi verde pallido erano
l’unico tratto distinguibile
del suo volto, coperto da una frangia disordinata.
Osservava
languido verso una direzione apparentemente vaga, ma focalizzando
meglio, era
ben chiaro che non fosse affatto così e che, in quel posto,
non fosse nemmeno da
solo.
O
forse lo era…? Era una domanda ardua da rispondere.
Era
difficile dire se era ancora un qualcuno, colui il quale si scorgeva
appena dal
soffitto. Un volto dalle sembianze umane, ma oramai privo di alcuna
essenza
vitale. Oramai solo capace di mormorare, era diventato sempre
più
indistinguibile in quell’ambiente.
Il
ragazzo strinse gli occhi, mentre udiva quel brusio capace di trasmette
la disperazione di Joseph
Schreiber.
Il
volto di Henry era scavato e stanco. Ciò lasciava intuire
che fosse li già da
un pezzo.
A
fare cosa? Ad osservare.
A
osservare il destino che aveva segnato l’ex-giornalista, che
ora non aveva
altro se non delle lacrime nere che scorrevano dal soffitto al
pavimento.
Era
una visione gelante, frustrante, per chi aveva il terribile
presentimento di
comprendere tale disperazione.
Il
giovane divenne sempre più stanco e gli occhi cominciarono a
farsi più spenti.
Eppure rimase li ancora e ancora, in quel mondo dove tutto era
indefinibile,
persino il tempo stesso.
Dei
passi poi rimbombarono nel silenzio e si fermarono proprio nelle
vicinanze del
divano, dove era sdraiato il trent’enne, ma egli non
alzò lo sguardo per capire
chi fosse e continuò a osservare Schreiber finché
il buio non rese tutto
nuovamente indistinguibile.
***
[SOUTH ASHFIELD, mattina.]
[nel
centro della cittadina…]
Sebbene
il negozio fosse aperto fin dal primo mattino, nessuno aveva ancora
solcato
quella porta.
L’ambiente
era sul bianco, così essenziale nell’arredo da
essere definibile persino
“vuoto”. Una decina di foto erano appese lungo i
muri e all’estremo del negozio
vi erano una serie di apparecchiature utili per la fotografia. Vi era
una
vetrina piena di lenti, pile, pannelli, supporti ottici, macchine
fotografiche
con vari appoggi regolabili…
Dall’altro
estremo del locale, invece, c’era una scrivania completamente
vuota e appena
impolverata, dove vi si poteva scorgere un giovane completamente
adagiato su
esso.
Esteticamente
era un ragazzo sobrio eppure in qualche modo attraente. In compenso,
però, il
suo look era trascurato e lo sguardo incredibilmente stanco. La barba
era
leggermente incolta e i capelli spettinati gli davano un’aria
decisamente
disordinata.
Forse
era anche per quello che nessuno era entrato ancora li.
Henry
Townshend aveva trent’anni quasi. Aveva da tempo lasciato
alle spalle gli studi
e da due anni circa viveva in quella cittadina in periferia di Silent
Hill.
Aveva
gli occhi chiusi e sembrava riposasse già da un
po’, sebbene gli occhi scavati
facessero intendere chissà da quanto tempo, invece, non si
ritagliasse un
momento di relax.
In
quel negozio, il giovane fotografo era così che passava le
sue giornate intere.
Si
fece mezzogiorno quando qualcuno solcò quella porta, con
passi decisi che
volutamente volevano richiamare l’attenzione del ragazzo.
“Henry..?”
Una
voce dolce, ma risoluta, fece il suo nome e velocemente si
avvicinò a lui.
Henry fece per alzare appena gli occhi e scorgere la figura che aveva
dinanzi a
sé.
Era
una ragazza alta, longilinea, con i capelli tagliati
all’altezza delle spalle, castani,
che contornavano il viso con una sottile frangia. Aveva due splendidi
occhi
acquamarina, contornati da un accenno di lentiggini.
Dietro il
sorriso cortese che ella aveva stampato sulle labbra, si intravedeva un
ghigno
con un che di sarcastico. Il tutto era esaltato dalla sua
personalità
effervescente.
“Oh,
Eileen…” disse lui con un filo di voce, mentre
alzava il capo verso la giovane.
Eileen
Galvin guardò con enorme disapprovo il ragazzo e non si fece
remore nel
farglielo notare. Prese a battere nervosamente il piede a terra e
portò le mani
sui fianchi, infastidita.
“Non
ci posso credere che è così che ti presenti ai
clienti…! Un fotografo non
dovrebbe avere uno spiccato gusto per l’estetica o qualcosa
del genere?”
Scrutò
con gli occhi Henry mostrandogli chiaramente che la sua apparenza era
fin
troppo distratta e trasandata. Eppure Henry non era nemmeno un ragazzo
brutto.
Alto,
dalle spalle larghe e con gli occhi verde pallido. I capelli, tuttavia,
erano
disordinati e la lunga frangia pendeva coprendo parte del viso. Sul
mento
s’intravedeva appena un accenno di barba e i suoi occhi
avevano un’espressione
così stanca e assente da essere capaci di far scappare
chiunque.
Stesso
lui se ne rese conto e quando incrociò gli occhi di Eileen,
sistemò appena
qualche ciuffo di capelli con le mani.
“Ah,
si dovrebbe…” disse, un po’ incerto.
Eileen
a quel punto sgranò gli occhi. Al contrario di lui, la
giovane aveva un’energia
inesauribile in corpo e qualsiasi aspetto di sé esprimeva le
sue emozioni in
modo chiaro e limpido.
Era
un qualcosa che Henry ammirava con incanto, eppure con un po’
di titubanza. La
guardava camminare in lungo e in largo, in quel piccolo locale
praticamente
vuoto. La vedeva scrutare la vetrina datata, le crepe sui muri, e i
capelli disordinati
di lui.
Si
leggeva chiaramente scritto in volto il suo dissenso per come gestiva
la sua
attività e la sua immagine di fotografo.
“Non
si capisce nemmeno cosa vendi. Dovresti rimodernare questo posto e
mostrare
alla gente buone ragioni per entrare, non per fuggire, non
credi?”
“Eh,
già…”
All’ennesima
risposta data con noncuranza, Eileen lo fulminò con lo
sguardo e lui
istintivamente calò gli occhi verso il pavimento.
Portò una mano dietro al
collo e poi fece per alzarsi dalla sedia.
Emise
un leggerissimo sbadiglio e socchiuse gli occhi, mentre si avvicinava
alla
piccola finestrella posta in un angolo. Era l’unica fonte di
luce del negozio e
contribuiva alla grande nel dare un’immagine ancora
più trascurata al posto.
Sebbene
Eileen facesse del suo meglio nel dare critiche costruttive, presto si
rese
conto che Henry era completamente distratto in quel momento, e sembrava
avere
tutto per la testa, fuorché il suo negozio.
Quando
vide quegli occhi così stanchi, non poté non
intuire che Henry fosse nel
negozio più per trovare tranquillità che per
farlo fruttare.
“Non
hai chiuso occhio di nuovo?”
A
quella parole, Henry stropicciò nuovamente gli occhi.
Portò le dita
all’imboccatura del naso e annuì.
Per
quanto ne sapeva Eileen, era da un bel po’ che non dormiva
bene e la cosa
cominciava a preoccuparla.
Fece
per parlare, quando Henry prese la borsa a tracolla e la
posizionò sulle
spalle.
La
guardò e, nonostante la natura introversa, si sforzò di
abbozzare un sorriso,
cercando di rassicurarla.
“Sono
cose che capitano. Tu sei appena tornata
dall’università, giusto?”
Indicò
con gli occhi il borsone che aveva lei su una spalla e il libro
voluminoso che
stringeva al petto. Eileen lo guardò perplessa, poi
annuì confermando la cosa.
“Sì.
Oramai i corsi sono finiti e devo apprestarmi a sostenere gli esami.
Per questo
sono venuta qui a quest’ora.”
Fecero
entrambi per uscire. Henry recuperò velocemente i suoi
effetti, infilò una
giacca leggera color grigio scuro e abbassò la saracinesca
del negozio. Cigolante,
arrugginita, e piena di graffiti dei ragazzini della zona.
“Ti
devo un pranzo. Che ne dici, cucino qualcosa con quel po’ che
ho in casa?”
disse Eileen mentre si incamminavano per le via di Ashfield. Si
lasciò scappare
un sorriso divertito che incuriosì Henry. “Anche
se ti avviso, prepari tutto tu!
Altrimenti, potresti essere intossicato dalla mia cucina
disastrosa!”
Henry
sorrise appena nel vedere quanto Eileen fosse ironica e sarcastica con
sé
stessa.
Henry,
bene o male, era capace di metter su un primo e un secondo e questo era
sufficiente per essere, agli occhi della ragazza, un cuoco abbastanza
capace.
A
differenza di lei, Henry abitava da solo già da parecchi
anni, era abituato da
tempo a badare a sé stesso. Eileen, invece, affermava senza
problemi di essere
una pessima donna di casa.
“Ma
no. Devi solo fare pratica.” La rassicurò, ma
subito lei rise a tale
affermazione.
“Ah,
ah! Invece no. In proporzione tu sei capace di cucinare, sistemare
casa, lavare
i panni…sei più tu una donna efficiente che
io!”
Sebbene
Eileen ridesse divertita, Henry si ritrovò ad annuire
sarcasticamente,
sforzandosi di trovare il lato buffo di ciò che stava
dicendo.
In
realtà la questione era semplice. Si doveva fare
ciò che si doveva fare. E in
questo senso, lui aveva dovuto imparare a organizzarsi e a gestire
grossomodo
tutto per necessità.
“…l’unica
cosa che mi riesce bene e ciò che metto qui
dentro.” Aggiunse lei
picchiettandosi con l’indice la fronte.
“…lo studio dell’archeologia, la
storia, i codici… Ah, se la vita fosse solo questo, sarei la
persona più felice
e colta del mondo.”
Eileen
amava studiare e non se ne vergognava affatto. Si era trasferita
nell’appartamento 303 apposta. Amava parlare per ore di
ciò che imparava,
nonché approfondire le materie umanistiche che i suoi corsi
proponevano.
Il
giovane non era, invece, un grande appassionato di materie filosofiche,
né di
storia, ma gli piaceva comunque ascoltarla.
Eileen
prese a parlare a raffica dei suoi corsi e degli esami che stava
preparando e,
infatti, lui non accennava ad allontanare i suoi occhi da lei.
Non
per cosa diceva effettivamente, ma per l’entusiasmo che ci
metteva. Eileen era
una ragazza di cuore e sprizzava un’energia positiva molto
contagiosa.
I
suoi occhi sembravano parlare più delle parole stesse, e
Henry stesso si
sorprendeva di quanto fosse capace di far pulsare le sue emozioni in
maniera
così viva.
Lei
girava gli occhi di continuo, toccava i capelli, muoveva le
mani… manifestando così
un completo entusiasmo e coinvolgimento che lo rapiva completamente.
Solo
dopo qualche minuto, i due giunsero a un bar e la bruna prese
velocemente posto
in uno dei tavolini ancora liberi.
Henry
la seguì e si sedette accanto a lei.
“Non
ti dispiace se mangiamo qui, ehm, vero?” disse la ragazza,
leggermente
imbarazzata.
Henry
sorrise divertito e scosse la testa.
Il
tempo passò piuttosto velocemente. Eileen non aveva fatto
altro che parlare,
mentre mangiava un boccone con il suo vicino di appartamento.
E
dire che nemmeno un mese fa, i due non avevano mai avuto modo di
parlarsi,
sebbene fossero vicini già da due anni.
Non
avevano mai fatto altro se non scambiarsi dei cortesi saluti quando si
incrociavano nel pianerottolo del palazzo.
Invece,
in così poco tempo, erano diventati soliti incontrarsi e
passare spesso del
tempo assieme.
Tutto
questo, da ‘quel’
giorno…
Sebbene
fosse passato del tempo sufficiente, era ancora difficilissimo per
entrambi
parlare con razionalità di ciò che era accaduto
poco meno di un mese fa.
Era
accaduto qualcosa di assurdo ed inconcepibile. Per sei giorni interi,
Henry era
stato assalito da strani e inquietanti incubi e non solo…
Era
rimasto intrappolato nel suo stesso appartamento.
La
televisione era rotta, il telefono staccato, le finestre bloccate e la
porta
chiusa ermeticamente dall’interno.
Presto,
quello si era rivelato essere solo l’inizio di un macabro
incubo macchiato di
sangue.
Come
e perché, ancora oggi era strano dirlo per entrambi.
Era
stato un accadimento così scioccante e malsano che il solo
istinto di
sopravvivenza lo aveva aiutato a non cadere in un baratro di
disperazione e di
follia.
Il
passaggio apparso nel bagno era stato l’unico, maledetto
ingresso verso un regno
umanamente inconcepibile, pur tuttavia, l’unico mezzo che
aveva avuto per
fuggire da quella trappola claustrofobica, nella speranza di uscire da
quell’incubo.
***
Eileen
smise di sorseggiare la sua bevanda e prese a guardare il ragazzo dai
capelli
castani.
“Henry,
che ti prende?” disse corrucciando le sopracciglia.
Henry
non la guardò e le fece velocemente cenno con un leggero
movimento della mano.
“Ferma,
qui è perfetta.” Disse, con uno sguardo
più vivace del solito.
“C-cosa?”
rispose lei, sbandando.
Non
badando ad Eileen, Henry prese dalla borsa in cuoio scuro una macchina
fotografica semi-professionale e la posizionò immediatamente
sugli occhi,
intento ad immortalare Eileen Galvin che si ritrovò
completamente presa alla
sfuggita.
La
ragazza rimase attonita per qualche attimo e non appena il flash
abbagliò i
suoi occhi, subito aprì la bocca sorpresa e sconcertata allo
stesso tempo.
“Ma
come ti viene di fare una foto così
all’improvviso!?” disse, terribilmente
imbarazzata di essere stata fotografata senza preavviso.
Henry
guardò soddisfatto la sua opera e alzò gli occhi
verso di lei. La vide
arricciare nervosa le labbra e accavallare le gambe. Assunse dunque
un’espressione
perplessa e non comprese cosa avesse infastidito la ragazza.
“…c’era
un’ottima luce.” Disse, abbassando la voce, eppure
pienamente convinto delle
sue parole.
Lei
chinò il capo dubbiosa e per qualche attimo strinse gli
occhi. Alla fine non
resisté e il viso di Henry divenne completamente paonazzo
quando lei si lasciò
scappare un sorriso. Prese a ridere sinceramente divertita e Henry
cominciò ad
agitarsi non comprendendo.
“Ho
fatto qualcosa di male..?” chiese.
“Sei
così spontaneo, Henry…ah, ah!” disse,
poi si calmò nel vedere che lui
continuava a non capire. “Lascia perdere,
comunque… andiamo?”
Il
ragazzo annuì ancora sconcertato. Non si era reso conto che,
agli occhi di
Eileen, Henry appariva così apatico che quando aveva
iniziative del genere, era
capace di sconvolgerla completamente.
Lui
che sembrava così indifferente, invece aveva un piccolo
universo dentro di sé,
più intenso di come chiunque potesse immaginare.
Non
era la prima volta che i due passavo del tempo assieme. In questo modo, più volte Eileen aveva avuto modo
di capire che uno
dei modi che lui usava per sfogare le sue emozioni era proprio la
fotografia.
Henry
ne aveva parecchie in giro per casa e spesso capitava che, nel bel
mezzo di una
passeggiata, cominciasse a scattare anche una cinquantina di foto.
La
cosa le faceva molta tenerezza, perché lo vedeva aprirsi a
lei sempre un po’ di
più. Lo apprezzava molto, specie alla luce della natura
timida e introversa del
ragazzo.
Mentre
camminavano, presero a godere di quella brezza tipica
dell’inizio dell’estate e
Henry non fece nemmeno caso che Eileen si fosse fatta più
silenziosa del
solito.
Egli
ammirò il panorama per buona parte del tragitto e solo
quando giunsero nel
quartiere vicino al palazzo, le si rivolse cercando di capire se ci
fosse
qualcosa che non andasse.
Eileen,
quando se ne accorse, subito scosse la testa e assieme solcarono il
portone del
palazzo e si diressero verso il terzo e ultimo piano, dove erano
situati gli
appartamenti 302 e 303.
Eileen
percorse le scale tutte d’un fiato e per il giovane Henry fu
praticamente
impossibile starle dietro. Se solo non avesse avuto quella terribile
fiacchezza
in corpo. Maledetta quella stanchezza, non ne voleva proprio sapere di
abbandonarlo.
Henry
seguì Eileen che lo attendeva ogni volta che superava una
rampa di scala,
provando a motivarlo un po’.
Lui
sapeva benissimo di dare un’idea molto fiacca in quel
momento, ma era abituato
già da tempo a condividere con quella parte di
sé. All’improvviso si lasciò
scappare uno sbadiglio e, distrutto, chiuse appena gli occhi, coprendo
la bocca
con una mano.
“…scusa.”
Disse.
Eileen
percorse l’ultima rampa di scale e vide Henry poggiarsi
appena sul muro del
pianerottolo con gli occhi semichiusi.
“Mi
preoccupi, lo sai? Sembra che non tu non chiuda occhio da giorni. Che
cos’hai?”
Gli chiese, chinando il capo verso di lui.
Henry
scosse la testa. Non voleva preoccuparla tanto. Del
resto…non era nemmeno un
uomo abituato a ricevere tante attenzioni. Massaggiò le
tempie e accennò un
sorriso.
Fece
per rivolgersi ad Eileen schiudendo appena gli occhi, ma un brivido,
improvviso,
lo congelò letteralmente.
Il
tutto in maniera così veloce che non ebbe il tempo di
capacitarsene.
Aprendo
gli occhi, ancora calati verso la scalinata, avvertì un
terribile odore di
chiuso e ruggine. Vide le scale assurdamente incrostate di qualcosa di
organico
e di metallico allo stesso tempo, e per un attimo gli sembrò
persino che il
muro…palpitasse?
“Ma
cos…?” disse, spaesato.
Quell’odore
insopportabile lo scombussolò molto, nauseandolo, e rimase
con gli occhi
spalancati, fissi su quella visione.
Le
pareti, le scale…
Il
rosso era il colore che la faceva da sovrano, lì. La testa
girava enormemente e
il cuore prese a battere incessante.
Tutto
aveva un’aria malsana e tetra.
Un
rumore di passi, poi, rimbombò alle sue spalle. Lentamente
qualcuno lo stava
raggiungendo. O…qualcosa?
I
passi erano lenti e pesanti e si facevano sempre più vicini
al ragazzo.
Completamente
paralizzato, girò appena gli occhi, rendendosi conto che,
qualunque cosa stesse
accadendo, non aveva alcuna via di scampo…
“Henry!”
La
voce di Eileen lo fece nuovamente sbandare e subito girò gli
occhi in sua
direzione.
“Eileen…?”
Tutto
d’un tratto, costatò che la visione che aveva
avuto fino a qualche attimo prima
era sparita. Henry poggiò una mano sulla fronte,
completamente disorientato.
Lo…aveva
immaginato?
Eppure
quegli odori, la ruggine, i passi…
Non
sembravano affatto frutto di fantasia. Proprio come quel
tempo…lui….
“Henry…”
“Sto
bene. Andiamo.” Tagliò corto.
Si
avvicinò all’appartamento 303 e guardò
Eileen mentre prendeva la chiave e
apriva la porta di casa. La casa era buia perché Eileen
l’aveva lasciata fin
dal primo mattino, ma Henry era comunque in grado di scorgere i
molteplici
scatoloni di imballaggio presenti un po’ ovunque.
Li
guardò perplesso, non sapendo esattamente cosa dire.
“Hai
già sistemato tutto..?” le chiese.
La
bruna gli sorrise e fece per addentrarsi per fare un po’ di
luce nell’ingresso.
“Ovvio.
C’è bisogno di cambiare aria, e ci stiamo
già prendendo fin troppo tempo…”
disse, con tranquillità.
Henry
annuì, ma i suoi occhi che non facevano che fuggire da
quelli di Eileen,
lasciando intuire il suo disagio.
Lei,
intanto, spalancò la finestra illuminando definitivamente
l’ingresso. Era un
piccolo salotto con dei divani dal motivo floreale, e affacciava da
esso una
semplice cucina colorata.
“Tu
piuttosto. L’ho visto, sai? Non hai ancora sistemato
nulla!” lo rimproverò.
“Non
ho avuto tempo…” bofonchiò Henry, ma
Eileen si sentì ferita da quella risposta.
Henry
non tardò ad accorgersene e infatti aprì la bocca
sperando di essere capace di
giustificarsi, ma le parole gli si strozzarono in gola e non fu capace
di
aggiungere altro.
Eileen
aveva un’aria sconvolta e non riusciva a comprendere proprio
i suoi indugi.
Sentiva gli occhi gonfi e si dovette trattenere non poco per non urlare.
“Ce
lo eravamo promessi, Henry. Una nuova vita lontani da South Ashfield.
Io non
posso…” deglutì e cercò di
controllare la sua voce che prese a tremare.
“Non…voglio più vivere qui. Non si
può…”
Eileen
si guardò attorno e strinse le braccia fra loro.
Henry
poteva avvertire nitidamente il suo forte disagio e i suoi occhi che
avevano
ancora davanti a loro i mille orrori legati a South Ashfield…
Vivere
in quel posto…dopo gli incubi…
Era
dura…
Inoltre
Eileen era tornata da poche settimane a casa dopo essere stata
ricoverata, e
aveva fin da subito mostrato il suo completo disagio di essere ancora
lì, a un
mese di distanza da quel macabro massacro.
“…dovevamo
trasferirci già all’inizio della scorsa settimana
e ho dovuto avvisare la ditta
di traslochi per due volte di fila. Henry…ti prego, non
indugiare ancora. Cos’hai
da perdere?”
Henry
chinò il capo e inarcò le sopracciglia in
silenzio, mentre Eileen di li a poco
si liquidò lasciandolo sul ciglio del pianerottolo del terzo
piano.
***
Henry
Townshend era steso sul divano di casa e aveva gli occhi chiusi. Aveva
delle
occhiaie terribili e la testa pulsava ferocemente. Sulla fronte aveva
poggiato
un asciugamano bagnato che copriva gran parte del viso, ma nonostante
ciò, non
riusciva a sentirsi più rilassato.
Stava
riflettendo già da qualche minuto sulla sua vicina di casa
Eileen Galvin.
Fino
a poche settimane prima, lei era ancora ricoverata
all’ospedale di St. Jerome,
ed era stata sua abitudine andarla a trovare tutti i giorni.
Ricordava
ancora perfettamente quel giorno…
Quando
l’incubo era finito…
Quando
era corso la prima volta da lei, avendo la terribile sensazione di non
essere
riuscito a fare nulla per salvarla.
Dovevano…
…ricominciare
una nuova vita lontana da Ashfield…
Si
erano ripromessi questo. Dopo quel che era accaduto…era
impossibile vivere
ancora con serenità in quel posto.Qualcosa albergava ancora
nell’aria.
Sebbene
tutto fosse finito, quell’insopportabile aria pesante
circolava ancora negli
appartamenti e nell’intero edificio, inglobato tuttora nel
mondo creato
dall’assassino Walter Sullivan.
Henry
aveva mentito ad Eileen.
Lui
era preparato per una nuova vita lontana South Ashfield. Le valige
erano pronte
già da un pezzo, in verità, poggiate sul ciglio
della porta da giorni. Non che
avesse granché da portare con sé, in
realtà.
Eppure
qualcosa ancora lo legava a quell’appartamento oramai
ingoblato completamente
in quel macabro incubo al quale non sapeva dare nemmeno un nome.
Guardandosi
in giro, aveva la pessima sensazione che non fosse in grado si
lasciare
l’appartamento 302, o peggio, che oramai non potesse essere
più capace di
farlo.
Come
se, a quel punto, anche lui fosse rimasto incatenato
nell’incubo che continuava
ad apparire ai suoi occhi, divenendo così egli stesso parte di
esso...
Levò
via l’asciugamano dal viso e una goccia di sudore scese dalla
fronte e
raggiunse la guancia. Si guardò in giro e gli occhi pallidi
presero a tremare, non
comprendendo perché stesse accadendo a lui…
I
muri increspati, il pavimento rugginoso, l’aria pesante e
soffocante…
Si
guardò attorno.
Era
tutto ancora esattamente come a quel
tempo…
Quando
Walter Sullivan era ancora vivo.
La
casa…era ancora infestata. Henry, aveva il terribile
presentimento che l’incubo
non fosse affatto finito. Questo perchè lui…era
ancora persino capace di
percorrere il passaggio che lo conduceva nel mondo alternativo, che
inspiegabilmente era ancora aperto.
Allungò
il braccio verso il tavolino basso di fronte a lui e
trascinò verso di sé una
cartellina nera piena di ritagli di giornale e appunti di vario genere.
Era
da tempo oramai che la situazione era così e non aveva
ancora detto nulla alla
giovane vicina di casa.
Sfoglio
velocemente gli appunti e si soffermò su uno in particolare,
sperando di
spiegarsi perché tale abominio.
Tramite il rito
della Sacra Assunzione, lui ha creato un mondo. Questo esiste in uno
spazio
separato dal mondo di nostro Signore. Più precisamente,
è dentro, ma anche
senza il mondo di nostro Signore.
A differenza di quello di nostro Signore, questo mondo è
altamente instabile. Porte
e muri a sorpresa, pavimenti che si muovono, strane creature, un mondo
che solo
lui controlla...
Chiunque è ingoiato da questo mondo vi rimane per
l'eternità, come non morto,
come uno spirito in una dimensione da incubo. Come può
nostro signore permettere
un tale abominio...?
...E' importante viaggiare leggeri in quel mondo. Chi trasporta un
fardello
troppo pesante se ne pentirà...
Quel
che non riusciva a spiegarsi non era solo il perché la casa
fosse ancora
intrappolata nell’ incubo…
…ma perché avesse la terribile sensazione che non fosse solo
il suo appartamento
ad essere ancora prigioniero.
[…]
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Capitolo 2 *** St. Jerome hospital ***
CAPITOLO 02
“…E' una storia
tremenda. Ancora non ce la faccio a disfarmene.”
(Pagina di diario in
camera da letto, nell'appartamento 105)
Un tempo umido e piovigginoso caratterizzava il cielo di
South Ashfield, quella mattina.
Non appena cominciarono a minacciare i primi accenni di pioggia,
Henry ne approfittò per chiudere la sua attività
e correre in appartamento.
Infilò il cappotto grigio, sgualcito, e montò lo
zaino non sistemando quasi per
nulla le pieghe dei suoi vestiti. Uscì frettolosamente,
chiudendo la porta alle
sue spalle e inoltrandosi per strade urbane, trafficate in
quell’ora di punta.
Si mosse velocemente per le strette vie del suo distretto,
percorrendo quelle strade che frequentava così
quotidianamente da conoscerle a
memoria. Henry osservò le nuvole e i primi schizzi
d’acqua cominciarono a
bagnare il suo viso, picchiettando fastidiosamente, facendo soltanto
presagire
il temporale che presto avrebbe preso in pieno.
Calcolò mentalmente che dal centro commerciale ci avrebbe
impiegato poco ad arrivare al sottopassaggio metropolitano; da
lì di corsa sarebbe
arrivato alla linea ferroviaria.
I vicoli stretti e bui, percorribili durante il giorno, gli
permisero di prendere delle efficaci scorciatoie, ma la pioggia aveva
allagato
le crepe trasformandole in pozze grondanti d’acqua. Durante
la sua corsa, un
paio le prese in pieno, ritrovandosi così i jeans zuppi fino
alle ginocchia. La
pioggia, oramai copiosa, aveva pensato invece a bagnare il resto del
corpo. Era
veramente una pessima giornata.
In una manciata di minuti, anche se completamente fradicio,
giunse alla metropolitana. Magra consolazione, ma almeno ora era al
riparo. Una
volta dentro, comunque, comprò dei gettoni e
oltrepassò il passaggio per
giungere al binario. Diede un veloce sguardo al tabellone per
controllare
eventuali ritardi o avvisi, ma nulla di nuovo: solito orario, solito
binario.
Mentre si avviava, camminando di fianco a coloro che come
lui si diramavano verso le varie linee metropolitane, qualcosa
sembrò spezzare
quella noiosa e prevedibile routine. Qualcosa che fermò il
suo tempo e tutto
ciò che aveva cercato di dimenticare.
Tutto avvenne quando solcando le sbarre metropolitane
incrociò
gli occhi con quel che rimaneva della scena del crimine di Cynthia
Velasquez.
Essa era posta proprio li, oltre gli sbarramenti per raggiungere i
binari.
Sbandò quasi, aspettandosi di trovare anche gli schizzi di
sangue rappreso, accorgendosi solo successivamente che erano frutto dei
suoi
ricordi legati alla realtà parallela. Tuttavia i numeri che
segnavano le
posizioni dei vari elementi dell’omicidio erano ancora
presenti e un lungo
tracciato segnalava ai civili di non oltrepassare per non manomettere
eventuali
prove.
“Qualcuno
ha scoperto chi c’era dietro il caso del Sullivan
copycat?”
“Stanno indagando
ancora…”
Henry sbirciò con la coda dell’occhio un gruppo di
studentesse che presero a parlare fra loro dell’omicidio. Era
accaduto da meno
di un mese e, in una piccola città come quella, la morte
prematura e violenta
di una giovane donna uccisa nella metropolitana, aveva fatto parecchio
rumore.
Peccato che non si trattasse affatto di un caso copycat, ma
che le cause della morte di Cynthia fossero di tutt’altra
natura.
Era ancora strano per Henry credere quanto egli, a insaputa
di tutti, fosse legato a quell’orrenda circostanza e quante
verità, nel corso
del tempo, sarebbero dovute morire con lui.
In televisione erano intervenuti parenti, amici, semplici
conoscenti, questori e anche la polizia locale… appellandosi
a chiunque avesse
visto qualcosa. Ma quell’omicidio sarebbe stato destinato
all’archiviazione
come “caso non risolto” con ogni
probabilità. Era una consapevolezza dolorosa
da portare con sé e che lo aveva cambiato profondamente.
Da uomo con una vita ordinaria, quasi priva di finalità, si
ritrovava adesso ad essere l’unico sopravvissuto, assieme ad
Eileen, di una
condizione surreale che stentava ancora a credere che fosse accaduta.
In aggiunta, ciò era avvenuto nelle strade che lui
percorreva
tutti i giorni.
Quella stessa rampa di scale della metro, nella realtà
parallela, era stato un teatro regnato da mostri amorfi e figure
incorporee,
rappresentanti vittime che avevano solo preceduto la popolare Cynthia
di cui
ora parlavano tutti.
Incrociò per sbaglio lo sguardo con una di quelle
studentesse, curioso di sapere la gente comune come avesse reagito alla
luce di
quel caso assurdamente macabro, ma pulito e privo di alcuna prova sulla
scena
del reato.
Abbassò immediatamente gli occhi, rendendosi conto di essere
fin troppo equivoco. Forse perché effettivamente era
così, visto che egli in
verità non solo sapeva, ma aveva proprio assistito in prima
linea a quell’efferato
omicidio e sostenuto fisicamente quella donna in punto di morte.
Beh, c’era da dire che “fisicamente”
forse non era il termine più appropriato per definire quel
posto e quella
situazione. Si trattava pur sempre “dall’altra
parte”.
Le sue mani tuttavia ancora tremavano nel ricordare quel
corpo gelido abbandonato al suo destino; quel sangue denso che
impregnava la
sala di comando della metropolitana di un tremendo odore vivo e
organico.
Quell’orribile sogno infranto davanti ai suoi occhi, in cui
aveva visto una persona morire, la quale aveva inesorabilmente portato
via con
sé anche una parte di lui.
Cynthia…non l’avrebbe mai dimenticata.
Erano ricordi che non potevano essere cancellati.
Avanzò per la rampa di scale, procedendo dritto a passo
felpato, poco curandosi della gente che lo circondava. Sopravvivere non
era un
peso facile da digerire per Henry. Voltandosi, avvertiva nitidi quei
segnali di
disturbo che la sua mente proiettava davanti ai suoi occhi.
Essa rievocava di continuo il passato, tornando facilmente
al tempo in cui aveva viaggiato in quella stessa metropolitana, ma
macchiata di
sangue e dimenticata, abitata soltanto da ricordi evanescenti e
dolorosi.
Ricordi capaci di uccidere chi solcava le sue porte, sebbene fosse
irrazionale
definire reale qualcosa che accadeva in…un sogno?
Eppure era proprio la ratio che gli ricordava,
paradossalmente, che ciò aveva vissuto era stato
vero…
In verità, la ragione avrebbe dovuto dire il contrario:
ovvero che tutto fosse fittizio, e che lui fosse solo un pazzo, ma non
era
così.
Egli, aveva per davvero percorso quelle linee ferroviarie
inseguito da fantasmi raccapriccianti e cani amorfi. Cynthia era per
davvero
morta lì dentro.
Un fischio avvisò l’arrivo del treno.
Entrò e prese posto alla fine di una delle carrozze. Vide un
vagabondo puzzolente intento a schiacciare un pisolino dopo una sbronza
e pensò
bene di sedersi accanto a lui. Lì nessuno avrebbe cercato di
arrecargli noie o
occhiate di curiosità. Egli odiava attirare
l’attenzione e in quel periodo ne
aveva attirate fin troppe di occhiate indiscrete.
Molta gente del quartiere ora lo conosceva, persone che lui
non aveva mai visto prima di quel momento. Come dar loro torto,
infondo. Dei
quattro omicidi avvenuti con lo stesso copycat, uno era avvenuto
proprio nella
sua palazzina.
Se contava anche Eileen, la sua attuale ragazza, erano ben
due i delitti che erano stati “quasi” commessi a
South Ashfield Heights.
Persino la polizia gli aveva dato non poche noie,
riempiendolo di tediose domande alle quali non avrebbe mai potuto
rispondere
senza finire in un ospedale psichiatrico sotto terapia intensiva.
Eppure, pur di far quadrare i conti, i suoi stessi vicini di
casa avevano cercato di far luce sul caso scoprendo qualsiasi carta dal
tavolo,
persino che Henry avesse, secondo loro, chiuso l’appartamento
302 per una
settimana intera senza dar segni di vita.
Per un uomo come Henry, solitario, cinico e
apatico…ciò bastava
per essere classificato come pazzo o maniaco depressivo.
Fortuna che esistesse il Miranda Warning: “il
diritto di rimanere in silenzio”.
Nessuno poteva fare molto altro contro di lui, al momento. Qualsiasi
prova era segregata nel mondo parallelo, dove da tempo aveva trasferito
ogni
cosa che riguardasse i suoi viaggi e i suoi legami con gli omicidi del
Sullivan
copycat. Armi, documenti…
E nel caso, sarebbe stato ironico per lui essere accusato di
quegli omicidi visto che era stato proprio Henry ad aver impedito a
Sullivan di
agire tramite l’incubo.
Rivolse i suoi pallidi occhi chiari verso l’uomo puzzolente
e costatò che egli stesse oramai fra le braccia di morfeo.
Una vera fortuna,
visto che ne approfittò per sbottonare una manica della
camicia e controllare
se avesse un taglio all’altezza del polso.
“…”
[Terzo piano, ala ovest, nel corridoio vicino l’appartamento
302, a South Ashfield Heights.]
Henry era appena tornato dal lavoro. Aveva ancora sulla
spalla il borsone, con dentro tutta l’attrezzatura da
fotografo. Zuppo com’era,
desiderava soltanto cambiarsi d’abito e rimanere nel suo
appartamento come un
animale solitario.
Era fatto così. Usava il suo appartamento come una vera e
propria tana dove rimanere in disparte e in cattività dal
resto del mondo.
Fu mentre fece per girare la chiave che sentì alle sue
spalle la voce del signor Sunderland, il custode della palazzina di
South
Ashfield.
“Già a casa, Henry?”
“Signor Sunderland…ho approfittato della pioggia
per tornare
prima.” disse sbrigativo.
Frank Sunderland era un uomo sulla settantina, eppure,
nonostante la voce bassa e i capelli brizzolati, aveva un aspetto
autorevole e
un volto fiero.
Henry lo guardò timidamente e accennò un saluto
con il capo.
Tra tutti gli inquilini che abitavano nella palazzina, il custode
Sunderland
era l’unico con il quale aveva stretto un rapporto
più confidenziale.
Del resto, era sotto la luce del sole che Henry fosse un
giovane introverso e solitario. Paradossalmente alla sua
età, gli era più
facile approcciarsi a persone più mature che ai propri
coetanei.
“Direi che anche la pioggia ne ha approfittato, prendendoti
in pieno.” scherzò su Sunderland, poi aggiunse.
“Ad ogni modo…ti ho portato il
quadro di cui ti parlavo.”
Henry così noto che Frank gli stava allungando un quadretto.
Il suo sguardo si fece curioso, persino affascinato,
com’è solito di chi è
appassionato di arte e fotografia come lui. Osservò quella
rappresentazione
ammirandone le cromature, l’intenso gioco di chiari e scuri,
e lo stile antico
che faceva intuire quanto fosse vecchia e preziosa. Guardò
con discrezione il
custode del palazzo e fece per prenderlo.
“Ne è sicuro..? E’ un pezzo unico,
signor Sunderland…”
“Te lo regalo volentieri Henry. So che nessuno più
di te
apprezzerebbe un oggetto simile.”
“…Grazie.” disse.
“E’ un originale, sai? Una rappresentazione storica
della
vecchia palude di Silent Hill.” aggiunse il custode
inorgoglito.
Elogiò il suo reperto al giovane, ma era ben consapevole che
lo stesse affidando a mani sicure. Ed era vero. Nessuno più
di Henry poteva
sapere che oggetti simili, nella casa sbagliata, avevano un unico
destino
infausto: finire dentro la pattumiera.
Invece Henry amava dar valore alla famosa robaccia
vecchia ed era entusiasta di
poter avere tutta per sé quella foto.
“E’ raro oggi giorno reperire una fotografia della
vecchia
palude prima delle bonifica avvenuta a ridosso degli anni settanta.
Nessuno
osava avvicinarsi a Silent Hill a quel tempo e ci sono poche
rappresentazioni e
testimonianze di quel periodo...”
Nel giro di una manciata di minuti, Henry cominciò a fare
accenno alle sue conoscenze culturali e storiche del periodo, dando
così completamente
soddisfazione al vecchio, che si congedò dopo poco
compiaciuto. Dal suo canto,
Henry non aveva molto modo di approcciarsi alle persone. Quando si era
fermato
a parlare con l’anziano signore, era stato per lui un
piacevole gesto di
cortesia dove si era ritrovato a sostituire un po’ quelle che
dovevano essere
le veci di un figlio. Era in una di quelle chiacchierate che Frank gli
aveva
promesso quella vecchia fotografia.
L’uomo aveva avuto una vita difficile e, a quanto ne sapeva,
aveva anche vissuto l’irrazionale scomparsa di un figlio. Un
figlio che, in
qualche modo, Henry sentiva assurdamente di sostituire.
Non gli ci era voluto molto a leggere in quegli occhi
languidi, eppure forti, un che di nostalgico, e dopotutto al ragazzo
dai
capelli castani stava bene. Anche lui non aveva una famiglia, del
resto.
Nonostante l’atteggiamento paterno di Frank per tutti gli
inquilini, Henry sentiva che colui che più si avvicinava al
ricordo di suo
figlio James era proprio lui. Non che l’avesse conosciuto, ma
facendo un paio
di conti, dedusse che dovevano avere all’incirca pochi anni
di differenza.
Ad ogni modo, Henry non aveva parenti stretti. Non aveva
qualcuno che si preoccupasse per lui, o che gli regalasse quadri e lo
intrattenesse con discorsi quotidiani e ricordi evanescenti.
Quindi accettava di buon grado quelle attenzioni per gli
altri noiose e che in qualche modo gli facevano ancora ricordare,
seppur in
maniera limitata, il concetto della famiglia.
Completamente
esausto,
entrò nel suo appartamento e gettò immediatamente
il borsone a terra,
accasciandosi poi sul divano senza troppo contegno.
Era sempre più stanco, ma da quanto tempo non dormiva?
Non poteva continuare così, presto o tardi avrebbe dovuto
trovare una soluzione. Non solo alla sua evidente insonnia, ma anche a
quell’incubo che lo stava ancora, ineluttabilmente,
perseguitando. Perché la
stanza, l’intero appartamento 302 color ruggine era ancora
lì, davanti ai suoi
occhi.
Perché?
Si chiedeva ossessivamente quella domanda da troppo tempo.
I muri imbrattati, le finestre arrugginite, l’aria malsana e
pesante…
Perché l’appartamento era ancora in quello stato
terribile? Perché
entrando in casa vedeva ancora quel mondo?
Questo sebbene non vi fosse più nulla. Non esisteva
più il
carnefice. Non esisteva più la possibilità di
attuare il rituale. Non esisteva
nulla di nulla.
Henry guardò di nuovo la ferita che aveva sul polso, la
stessa che aveva scrutato sulla metropolitana qualche istante prima,
quasi
fosse il memento della sua sanità mentale.
Strinse gli occhi. Quel taglio era un elemento fondamentale
per le sue indagini attuali e una, tra le tante fonti, che gli impediva
di
prender sonno ultimamente. Questo perché se l’era
procurato attraversando,
qualche giorno prima, il varco presente nel suo appartamento, ancora
funzionante nel magazzino del suo appartamento.
Se fosse stata solo suggestione, non si sarebbe ritrovato
quella ferita, provocatosela teoricamente in un sogno. Ed invece era
lì, sul
suo polso, a
simboleggiare che effettivamente
aveva viaggiato ancora una volta nella realtà parallela.
“Da quando Walter Sullivan è morto…il
varco è rimasto in
qualche modo connesso con il mio appartamento.”
Si ritrovò a riflettere ad alta voce, mentre stringeva la
mano sul polso ferito, che bruciava quasi come volendo rimarcare
dolorosamente
quella tangibile realtà surreale. Tuttavia…
Tuttavia Henry aveva ucciso Sullivan. Sconfitto
l’architetto, il suo intero mondo avrebbe dovuto collassare
con lui.
Eppure era chiaro quel semplice e unico dato tangibile: quel
mondo, Sullivan o no, esisteva ancora.
La sua mente, da allora, navigava nell’oblio e nella
confusione totale. Ogni volta che tornava nel suo appartamento si
chiedeva
sempre più concitatamente: era lui pazzo o il
tomo rosso aveva sbagliato qualcosa?
Nonostante la fiacchezza, velocemente si rialzò e
cercò la
sua cartella di appunti. Ricordava di averla lasciata proprio
lì e difatti la
ritrovò ai piedi del divano. L’aveva consultata
proprio la sera precedente,
prima di perdere conoscenza e addormentarsi.
“Il tomo rosso…eccolo.” disse,
sfogliando accuratamente le
pagine.
-
Colei che è chiamata "Santa Madre" non è per
nulla santa.
"La discesa della Santa Madre" altro non
è che la discesa del
Diavolo.
Quelli che sono chiamati i "21 sacramenti"
sono tutt'altro
che sacramenti. I "21 sacramenti" altro non sono che 21 eresie.
Dare luce ad un regno del male entro i confini
del benedetto regno di
nostro Signore è un atto blasfemo e opera del Diavolo.
Se tu vuoi fermare la discesa del Diavolo,
seppellisci parte della
carne della madre dell'Evocatore dentro il vero corpo dell'Evocatore.
Devi
anche trafiggere la carne dell'Evocatore con le 8 lance "Vuoto",
"Tenebre", "Oscurità", "Disperazione", "Tentazione",
"Fonte", "Vigilanza" e "Caos".
Fallo e la carne maledetta dell'Evocatore
tornerà ad essere ciò che una
volta era, per grazia di nostro Signore. -
Alzò gli occhi da quell’appunto.
“Parte della carne…il cordone.”
corrucciò le sopracciglia e
si fece pensieroso.
Per uccidere Walter Sullivan non era sufficiente puntargli
una pistola alla tempia e premere il grilletto. Egli era un fantasma
fugace che
agiva senza un corpo fatto di carne. Dunque per morire doveva tornare
uomo, tornare
quindi alla vita.
Il tomo rosso illustrò ad Henry come fare: doveva trafiggere
la “carne dell’evocatore”, ovvero il
corpo di Walter Sullivan che egli stesso
aveva usato per far sorgere Dio, con le sette lance simbolo del secondo
e terzo
segno dei ventuno sacramenti. Inoltre doveva utilizzare il cordone,
quella
famosa “parte della carne” che rappresentava la
connessione tra lui e la madre
che lo aveva partorito.
Una volta fatto questo…era lì che doveva
ucciderlo. Come
teoricamente era accaduto nella sala circolare con quel macabro
marchingegno
metallico immerso nel sangue.
Qualcosa era quindi andato storto con il rituale? Il tomo
rosso aveva dimenticato qualche dettaglio fondamentale?
Con Walter Sullivan, non sarebbero dovute sparire anche le
manifestazioni della realtà parallela? Perché
l’appartamento dunque ne rimaneva
denso come se egli fosse ancora in…vita?
Non sapeva spiegarselo, ma una cosa era certa: Sullivan lo
aveva colpito a morte lui stesso, e dunque concepire che fosse in
qualche modo
sopravvissuto era assurdo per Henry.
“O forse…sto semplicemente impazzendo?!”
disse farfugliando
tra sé e sé, portando una mano sulla fronte.
Sogghignò appena, come se si rendesse perfettamente conto
che qualcosa non andasse bene nella sua testa già da un
po’. Del resto, di cose
strane e assurde gliene erano accadute così tante che il suo
stesso concetto di
ragionevolezza stava vacillando.
Si sentì
accaldato e
la testa prese a pulsare violentemente. Gettò il capo
indietro mentre i suoi
occhi reclamavano riposo assoluto.
Era per questa ragione che non riusciva a soggiornare in
casa a lungo. Per questo non dormiva mai o andava a lavorare pur di
chiudersi
da qualche altra parte.
Aveva paura che, chiudendo gli occhi, tutto ricominciasse
daccapo. Aveva paura che, nel sonno, potesse imbattersi nuovamente
negli
incubi.
Nonostante la sua razionalità gli riportasse alla mente un
dettaglio fondamentale: Walter Sullivan
era morto. Lo aveva ucciso lui stesso.
“Devo…devo riposare…”
bofonchiò, poi si voltò di colpo
spalancando gli occhi. “…??”
Un brusio, lo fece trasalire di colpo.
Era stato un rumore lieve, ma per qualcuno abituato a vivere
da solo, era sufficiente per attirare l’attenzione,
nonché allarmarlo.
Gli venne subito spontaneo credere che fosse qualcuno fuori
la porta; era tipico dei suoi vicini, ad eccezione di Eileen, parlare
ad alta
voce sul pianerottolo. Primo fra tutti quello che abitava affianco nel
301, Mike.
Nel 304 abitavano una coppia di anziani, ed erano proprio girando la
curva del
pianerottolo, dunque li aveva esclusi a priori.
Quindi rimaneva solo Mike, un uomo che aveva scoperto essere
anche un pervertito durante i suoi viaggi nella realtà
parallela. Da allora
aveva avuto tutt’altro trattamento nei suoi confronti.
Si avvicinò perciò allo spioncino della porta e
diede una
veloce sbirciata. Non che fosse diventato diffidente, ma si aspettava
che uno
come lui potesse importunare la povera Eileen, una ragazza e che
abitava da
sola per giunta.
Mike gli sembrava tipo che poco si curava che Henry abitasse
proprio fra i due e che lui ed Eileen si frequentassero. Sì,
dunque era
diventato decisamente diffidente, non poteva mentire.
Il suo sospetto tuttavia venne velocemente smentito, questo
perché
non c’era nessuno sul pianerottolo. Subito portò
una mano sul capo, confuso. Eppure
continuava a sentire quell’eco incomprensibile, soffuso ma
percepibile.
Presto la stanchezza non fu più una scusa sufficiente per
tranquillizzarlo. Prese quindi a setacciare la casa, convinto di non
sbagliarsi
affatto.
Suo malgrado, si accorse che più si allontanava
dall’ingresso,
più quel rumore sembrava farsi alto e nitido.
Deglutì quando capì che,
qualunque cosa fosse, veniva proprio dal suo appartamento.
In verità non si sorprese più di tanto.
Ogni volta che c’era qualche anomalia, oramai pensava sempre
al suo appartamento maledetto.
Tendendo l’orecchio costatò che quel brusio
proveniva da una
stanza in particolare: il ripostiglio.
Le sue paure trovarono fondamento…era il varco che lo stava
richiamando, ma per quale motivo?
Aveva già oltrepassato la sua soglia diverse volte negli
ultimi giorni, sperando di mettere fine a quell’incubo una
volta per tutte,
tuttavia non vi aveva mai trovato nulla, al di là di quello
che fu il teatro
dell’orrore di Walter Sullivan.
Nessuna creatura famelica e raccapricciante, nessun fantasma,
nessun assassino…o semplicemente nessun mostro sotto il
letto.
Tuttavia quel brusio, suggestione o meno, proveniva
proprio da lì e lo richiamava ad
indagare ancora una volta. Che fosse solo la disperata ricerca di dare
un senso
alle manifestazioni, si convinse che questa volta poteva essere diverso
in
quanto non aveva ancora ricevuto segnali
“dall’altro mondo”.
Allungò dunque il braccio verso la panca posta vicino al
corridoio e velocemente estrasse la prima cosa che trovò
utile come oggetto di difesa.
Anche se difficile da usare come un’arma vera e propria,
quando si ritrovò tra le mani il taglierino, decise di
tenerlo con sé.
Portò anche la mazza da baseball in alluminio, era
l’unica
che aveva tenuto con sé dentro la panca e non nascosta nella
realtà parallela,
visto che per la polizia non era identificabile come una vera e propria
arma.
A quel punto tirò su un profondo respiro e si decise quindi
a
entrare.
Pronto a ritrovarsi davanti chissà quale manifestazione
demoniaca, spalancò violentemente la porta e
puntò la mazza dinanzi a sé,
serrandola con entrambe le mani con estrema fermezza.
L’unica cosa sconvolgente che trovò lì
dentro, però, fu la lampadina
della luce da cambiare perché fulminata.
Guardò dunque l’ambiente e scrutò gli
scatoloni, i panni e
le cianfrusaglie varie, tutti oggetti tipici da vedere in uno stanzino.
Puntò
lo sguardo in direzione dell’impalcatura di ferro, dove aveva
sistemato gli
attrezzi e la scala per uso domestico. Con determinazione
afferrò un estremo e
trascinò l’ intera struttura in un angolo.
Il cuore prese a battere forte.
Aveva cambiato la disposizione dei mobili proprio per
nascondere il varco per Silent Hill.
Non appena se lo ritrovò di fronte, gli si gelò
la schiena:
l’incubo che mai più avrebbe voluto rivivere. Il
buco che aveva dannato la sua
vita per sempre.
Si affacciò cautamente e cercò di esaminare con
cura la
situazione.
Era aperto e dei rumori provenivano da lì. Nonostante
quei rumori sinistri, si affacciò comunque
senza troppe remore.
Il vantaggio di aver toccato il fondo della pazzia ed essere
sopravvissuto: da allora si era dimostrato decisamente più
coraggioso di quanto
potesse credere. O imprudente, questione di punti di vista.
-E’
…ente! Le … …di ar
…….re su…..do…!-
Come se avesse chiamato a sé un segno, l’eco
offuscato e
confuso di una voce risuonò dal fondo.
Una voce indistinta, eppure stranamente familiare.
Era disorientato, la sua mente era in un completo caos.
Tuttavia non poteva indugiare oltre, così decise di
scavalcare il muro e si
addentrò verso la realtà parallela.
Il cuore batteva fino a far male, in balia della razionalità
che normalmente avrebbe impedito a chiunque di addentrarsi
dall’ “Altra Parte”
di spontanea volontà; ma Henry lo fece, così
presto perse conoscenza, pronto a
risvegliarsi in uno degli ambienti simbolo del passato di Walter
Sullivan.
***
“Ah…la testa…”
Quel senso di vuoto e di smarrimento che portavano i suoi
viaggi erano così fastidiosi, non avrebbe mai potuto
abituarsene, ma forse
questo era un bene: abituarsene avrebbe significato che Henry fosse
diventato semplicemente
pazzo.
Si girò attorno e si rimise immediatamente in piedi.
Non era affatto turbato da ciò che aveva dinanzi a
sé. Del
resto, quella non certo la prima volta solcava quel buco dopo aver
ucciso
Sullivan e salvato Eileen.
In quel momento si trovava fra dei servizi igienici
dall’apparenza abbandonata, in quello che sembrava un bagno
fuori uso. Vi erano
una serie di separé l’uno di fianco
l’altro in pessime condizioni, grondanti di
penzolanti muffe maleodoranti. Di una cosa era certo: di servizi
“igienici” ora
avevano ben poco.
Il pavimento era in ceramica, bianco, ma oramai aveva perso
il suo originale candore dati gli evidenti segni del tempo.
Diverse pozze di liquido organico erano presenti a pochi
passi da dove lui stesso si era risvegliato. Come se non bastasse,
anche la
luce era decisamente scarsa e fastidiosa visto che andava ad
intermittenza,
spegnendosi ed accendendosi una continuazione.
Ad ogni modo, gli bastò che la mente si facesse meno
offuscata per associare quei fatiscenti bagni a quelli presenti
nell’ospedale
St. Jerome.
Strano che fosse l’ospedale vicino casa sua e che
l’originale fosse candido ed immacolato. Nella
realtà parallela faceva
semplicemente schifo. Avrebbe preferito morire dissanguato piuttosto
che farsi
operare lì dentro rischiando un contagio mortale solo nel
sedersi su qualche
lettino fatiscente.
Non che potesse fare lo schizzinoso. Visto che quando
viaggiava nel varco perdeva conoscenza, doveva anche aver dormito su
quel
disgustoso pavimento puzzolente.
Sospirò rassegnato e dunque si alzò con
determinazione uscendo
dalla porta dinanzi a sé. Si ripromise di agire con estrema
cautela una volta
inoltratosi. Questo nonostante il fatto che, durante i suoi ultimi
viaggi,
aveva avuto modo di costatare che in quel teatro di ricordi, oramai non
ci
fosse null’altro che un palcoscenico vuoto.
Tuttavia quella voce poteva aver simboleggiato qualcosa di
diverso. Questa volta poteva sul serio trovare qualcosa
o…qualcuno?
Serrando in un pugno saldo la mazza da baseball, aprì
l’uscio cercando di non fare nessun rumore.
Si ritrovò così nella sala d’attesa,
completamente sgombra,
senza alcuna postazione per i pazienti, senza alcuna reception. Nelle
medesime
condizioni del bagno: intriso di puzzolenti muffe, disgustose pozze, medicinali scaduti e una
fastidiosa luce ad
intermittenza.
Girandosi attorno, istintivamente sperò di trovare qualcuno.
“Ma cosa vado a pensare..? Ovvio che…”
ripeté a se stesso, ribadendo
l’improbabilità della cosa, ma immediatamente una
voce altisonante attirò la
sua attenzione.
-Ma
lei è un dottore…deve pur fare qualcosa!-
“Di nuovo??” Esclamò Henry.
Questa volta era stato ben chiaro sia da dove provenisse
quell’eco, che il significato delle parole. Inoltre anche il
timbro della voce
gli sembrava familiare. Più che familiare.
Henry portò una mano all’altezza del mento sempre
più sicuro
di averla sentita persino di recente.
Ad ogni modo, non indugiò ulteriormente ed iniziò
l’esplorazione,
esaminando le varie porte della reception.
Costatò che tutte le porte e le maniglie facevano cilecca.
Tutte tranne una in verità, e difatti ci entrò
non appena sentì il meccanismo
della serratura muoversi.
Rimase perplesso di costatare che la stanza era vuota e che
si trovasse in quello che probabilmente era lo studio di un medico. Si
aspettava di trovare ben altro.
A furia di rimanere in quel mondo, era stato chiaro arrivare
alla conclusione che tutti gli ambienti presenti oltre il varco fossero
legati
a Walter Sullivan. Pur non capendone esattamente la meccanica, aveva
compreso quanto
persino i piccoli dettagli reagivano secondo i sentimenti , ricordi e
impulsi del
loro padrone. Interagivano
con lo
spettatore ignaro di quella controversa esistenza, smuovendo e
materializzando i
ricordi tormentati dell’uomo. Persino le stanze o gli oggetti
nei quali Henry
si era imbattuto in passato ne facevano parte. Tutti racchiudevano e
custodivano frammenti di memoria, simbolo della vita passata che li
aveva fatti
nascere. Era alla luce di questo che ora Henry si domandava incerto
perché quello
studio medico fosse l’unica stanza aperta.
Già gli era difficile concretizzare che quel mondo, in
parole povere, non fosse alto che una rielaborazione mentale
dell’uomo che
aveva cercato di ucciderlo; ma addirittura trovare al tutto un filo
conduttore
e in qualche modo una logica, era decisamente troppo.
Era una persona pragmatica e non era in vena di
psicanalizzare nessuno. Non lo aveva mai fatto e non avrebbe cominciato
con
Walter Sullivan.
Eileen aveva provato a coinvolgerlo nella sua analisi
meticolosa circa i suoi traumi esistenziali o qualcosa del genere, ma
per Henry
un assassino rimaneva tale e basta. Era sufficiente per lui ricordare
cosa
aveva fatto e come aveva tentato di uccidere Eileen per non avere
pietà. Inoltre
di suo non era vocato per quel genere di cose.
Fece dunque scivolare via dalla mente quei pensieri e
premette l’interruttore della luce, ma questa prese a
lampeggiare
fastidiosamente fino ad emettere una vistosa scintilla che
portò nell’oscurità
lo studio.
Bene…constatò. Henry faceva uno strano effetto
alla corrente
della luce quel giorno.
Cominciò senza grossa finezza a sfogliare le varie
scartoffie in giro e scrutare la scrivania. L’ufficio non era
molto grande, conteneva
giusto un tavolino basso, un paio di divanetti a due posti e una
scrivania
principale. Eppure più frugava in giro, più
costatava che contenesse diversa
roba. Nulla di
utile comunque, inoltre il
buio rendeva tutto illeggibile.
Un fascicolo solo, però, attirò definitivamente
la sua
attenzione.
Sebbene fosse un documento di appena qualche pagina, era
posto al centro del tavolino in modo tale da non passare inosservato.
Lo prese dunque fra le mani e lesse. Suo malgrado, non vi
era nulla che riguardasse la voce sentita prima, ma vi era comunque
qualcosa di
ugualmente interessante.
“Uhm…sembra un qualcosa di piuttosto
datato…” dedusse mentre
sfogliava le pagine. “St. Jerome…ricoverato
urgentemente.”
Prese a sfogliarlo e si avvicinò ad una finestra, dove
stranamente
proveniva un tenue raggio di luna. “Questa è la
cartella clinica di un
neonato.”
Peccato che non vi fosse molto a riguardo, per cui non poté
esaminare il caso con accuratezza. Eppure, nel leggere le condizioni di
un
bambino ricoverato d’urgenza, crebbe in lui una strana
sensazione in corpo. Non
vi erano però dati più specifici, nemmeno un
nome, un cognome, o una data di
nascita…ma era lampante che riguardasse Sullivan.
Infondo era proprio l’ospedale di Ashfield il posto dove
Frank Sunderland lo aveva portato quando lo aveva trovato in fasce
nell’appartamento 302.
Non vi aveva dato grosso peso a quel tempo, preso com’era
dalla ricerca disperata di una via d’uscita per lui e la sua
compagna, ma sia
sul diario di Frank Sunderland che sugli appunti scritti sulla carta
rossa da
Schreiber, doveva esserci appuntato quel dettaglio risalente a
ventiquattro
anni prima.
Posò la cartella clinica e la sua mente tornò al
bambino
dalla maglia a righe, nel giorno in cui, nella nebbiosa foresta di
Silent Hill,
aveva potuto finalmente porgli delle domande. Le cose, per qualche
motivo,
trovarono per lui una connessione naturale
Gli chiese senza troppe remore se egli fosse Walter
Sullivan. Il bambino, seppur intimidito, gli rispose in modo gelante e
consapevole che egli non possedesse affatto un nome.
Riguardando la cartella clinica, dedusse che dunque quella
doveva essere proprio quella di Sullivan, visto che i suoi dati
anagrafici,
nome compreso, glieli avevano dati i membri del culto.
Dunque il bambino aveva detto la verità, era un volto senza
nome dimenticato dal mondo.
Uscì dalla porta con gli occhi calati e lo sguardo cupo.
Rifletteva
ancora sul perché di tutto quello, non riuscendo a trovare
una finalità dietro
quei ricordi su ricordi di Sullivan che lui sembrava destinato a dover
conoscere suo malgrado. Assorto in quel vortice di dati e pensieri
controversi,
non si accorse che qualcosa invece si stava avvicinando a lui. Se solo
avesse
prestato più attenzione, avrebbe immediatamente sentito dei
passi profondi
solcare la hall.
Era un rumore strozzato, un qualcosa che ricordava un lamento,
anche se molto vagamente.
Henry costatò di avere, a nemmeno di un metro di distanza,
un enorme figura deforme di fronte a sé; questo tuttavia
troppo tardi.
“Ah!” urlò, preso completamente alla
sprovvista mentre
questa lo colpì violentemente sulla fronte.
Cadde a terra dolorante, strisciando sul pavimento sporco
per via della veemenza del colpo. La testa prese a pulsare confondendo
i suoi
sensi, mentre del liquido caldo e denso prese scorrere dalla sua
fronte.
Toccandola, trovò la mano insanguinata. Si era procurato una
brutta ferita il
cui dolore era inibito solo dall’adrenalina.
“Gh…” una goccia di sangue
coprì un occhio, sicché fu
difficile per lui focalizzare nel dettaglio la creatura mostruosa che
l’aveva colpito.
Fece comunque del suo meglio per non lasciarsi prendere dal panico e
alzare lo
sguardo per rendersi conto il più in fretta possibile della
situazione.
Più guardava quell’immagine demoniaca e deformata,
più gli sembrava
avere delle braccia, una testa, dei capelli…un
seno…
Le sue, anche se camuffate da una pelle spessa e scavata,
rimandavano proprio alle fattezze di una donna!
Ma era sproporzionatamente alta, mostruosa e spaventosa. La
sua pelle era coriacea e il volto raccapricciante. Brandiva un grosso
bastone
fra le mani e, a ogni suo passo, emetteva un rumore disgustoso
scaturito da un
buco che le perforava il basso ventre.
Henry indietreggiò appena, ma trovò dietro di
sé il muro,
così si rese conto di non avere scampo.
Doveva fuggire, e alla svelta! Peccato che le gambe fossero
oramai paralizzate, non riusciva ad alzarsi e il mostro si faceva
sempre più
vicino. Così tanto da sentirne perfettamente
l’odore fetido.
Non ritrovandosi la mazza da baseball fra le mani, dedusse troppo
tardi che durante la colluttazione doveva aver perso la presa. Infatti,
vide che
questa era caduta lontano dalla sua gittata, ancora nei pressi della
porta
dello studio medico.
Istintivamente, mise dunque la mano nella tasca del jeans e
solo allora ricordò di avere con sé il
tagliacarte. Lo estrasse immediatamente
e lo puntò contro il mostro. Non era un’arma
efficace contro giganti simili, ma
era pur sempre meglio di niente.
Non ci capiva un accidenti di medicina e le sue conoscenze
anatomiche risalivano ai tempi del liceo, ma se giocava bene le sue
carte,
avrebbe potuto tagliargli i tendini e i legamenti muscolari, limitando
i
movimenti del mostro-femminile abbastanza da poter scappare via.
Il mostro, alla vista di quell’oggetto, per un attimo si
bloccò. Stesso Henry si sorprese di quella reazione.
Girando gli occhi, poi, si accorse che non era affatto
spaventato dalla sua arma, ma dal fatto che dal corridoio stavano
avanzando
altri suoi simili.
“…merda!” esclamò a denti
stretti.
Arrivarono altri cinque mostri di almeno due metri e in poco
si affiancarono a quello che Henry aveva di fronte a sé.
Cosa doveva fare? Come doveva difendersi? L’ultima volta si
era tagliato nella realtà parallela e il graffio non era
sparito. Questo
significava che, se fosse stato sopraffatto lì, sarebbe
morto per davvero?!
Anche se Walter Sullivan era oramai morto e quel mondo non
aveva ragione di esistere?
Strinse l’arma ancora più fermamente e
cominciò a sudare,
vedendo davanti a sé sempre meno scappatoie.
Voleva vivere, diavolo! Era sopravvissuto ad un inferno
claustrofobico come quello e non poteva accettare di non poter far
nulla per
salvarsi ora.
L’istinto gli diceva di far qualcosa e alla svelta, ma
più i
mostri si facevano vicini, più per lui sembrava impossibile
fuggire alla morte.
Si chiedeva cosa ne sarebbe stato di lui, del suo corpo,
della Silent Hill alternativa. Sarebbe morto nel suo appartamento o
sarebbe
rimasto inglobato nella realtà parallela?
La paura lo stava rendendo cieco e la pelle prese a bruciare,
impietrita dai mostri che presto l’avrebbero torturato fino a
decretare la sua
fine.
E poi…
Accadde qualcosa di improvviso.
I mostri si accasciarono a terra tutti all’unisono,
lasciando Henry con il cuore a mille.
Li vedeva tutti lì, stesi di fronte a lui, oramai immobili.
“Ma che diavolo..?” disse, con voce affannata.
Guardò quelle carcasse e cercò di spiegarsi cosa
diavolo
fosse successo. Sicuro fossero…morti?
Si alzò e con la punta del grosso tagliacarte
punzecchiò la
testa di uno dei mostri, il quale non reagì affatto. Era
quindi effettivamente
morto. Le carcasse tuttavia di lì a poco presero a vibrare,
facendo prendere un
ennesimo colpo al povero ragazzo dai capelli castani che quasi non si
ritrovò a
strillare visto com’era in fibrillazione.
I corpi fremevano forte, come fossero sotto l’effetto di una
potente scarica elettrica. Tuttavia non erano vivi e anzi…
Henry, da infelice spettatore, dovette assistere alla
macabra visione di quei corpi che lentamente presero a corrodersi fino
a
liquefarsi, mostrando prima i tessuti muscolari, poi le ossa, fino a
lasciare
di loro solo fetidi odori organici. Di loro non rimase presto nulla se
non
cinque grosse sagome rosse.
Le sagome riproducevano alla perfezione la loro posizione
durante la morte, con tanto di zona ventrale vuota, rimasta intatta sul
pavimento come fosse un’immagine iconografica dei mostri
senza ventre.
“Perché si sono liquefatti..?” si chiese
impotente. Non era
mai accaduto che quei mostri si liquefacessero in passato. Si poneva
dunque il
perché di quella reazione.
La risposta la trovò esaminando più accuratamente
quel
sangue ora rappreso.
DoNa…
Non riusciva a credere a ciò che stava leggendo.
Cioè, stava
leggendo qualcosa nel sangue!
Si affacciò per costatare più accuratamente
quelle sottili
venature attorno ai corpi e si rese conto che non vi era solo scritto
–dona-, ma che connesse a
questa vi erano
un susseguirsi di parole.
MAdre…
…DoNa.
MAdre,
Ti sAlverO iO!
Guardò quella scritta cercando di comprenderne il senso e i
suoi occhi caddero immediatamente sui corpi di quei mostri. La risposta
la
poteva ottenere soltanto da loro. Era fin troppo ovvio che
rappresentassero
delle “donne”, dunque la parola –dona-
era chiaramente riferita a loro…
“…ma perché
‘madre’?” si domandò.
Cosa rendeva simili una madre
e una donna? Quale era la
connessione?
“Quel rumore che emettono…non è per lo
stomaco squarciato.” disse
all’improvviso, come se per una volta vedesse in modo chiaro
i messaggi di quel
macabro universo.
Si avvicinò a una di loro e osservò meglio.
“Donna e Madre. A loro manca infatti…”
…Mancava una parte fondamentale e che connetteva quelle due
parole.
Partì un vero e proprio flashback nella sua mente che
andò a
rievocare il periodo dei suoi viaggi dall’appartamento 302 al
mondo parallelo. Solo
allora rammentò il giorno in cui era entrato
nell’ospedale la prima volta.
Quando aveva udito dei sospiri e aveva visto l’ombra di
Walter Sullivan
proiettata su un lettino d’ospedale, mentre squarciava il
corpo di uno di quei
mostri.
All’epoca avere dinanzi a sé l’assassino
lo fece scappare
via ma adesso, a sangue freddo, poteva riflettere su cosa fosse
accaduto quel
giorno e cosa stesse facendo Sullivan lì: stava asportando a
quei mostri
l’utero!
La sola idea gli portò il voltastomaco. Lo aveva visto farlo
a mani nude, con un’ossessione perversa e diabolica negli
occhi, crudele ed
inconcepibile.
Lo sguardo che Henry rivolse a quel mostro, dunque, fu
diverso. Più…compassionevole?
Era come se si fosse reso conto che anche quelle creature
erano vittime di un terribile incubo malsano scaturito dalla mente di
Sullivan,
nate al solo scopo di soffrire per le sue pene e i suoi peccati.
I pezzi di quel ricco mosaico cominciarono a combaciare
l’uno dopo l’altro, ricostruendo quel quadro che
Henry già ben conosceva, ma
che si era rifiutato di analizzare in modo più approfondito
proprio per non
rimanerne soggiogato ineluttabilmente….
Walter Sullivan era stato abbandonato in fasce. La madre lo
aveva ripudiato e condannato a morte certa. Lo aveva scoperto grazie a
Joseph
Schreiber ed era per quel motivo che era dannatamente legato
all’appartamento
302.
Conosciuto il dolore del rifiuto e dell’abbandono, la sua
psiche era rimasta corrotta e macchiata persino in quella tenerissima
età; un
trauma così grande e devastante da invadere anche quel mondo
creato dal rituale
dei 21 sacramenti, fino a generare una controversa e truculenta
immagine di
esso.
Già nell’ospedale doveva aver elaborato
quell’odio e quel
disprezzo.
Un odio e un senso di usurpazione verso la donna, verso
l’utero,
ma al tempo stesso un forte e irrazionale desiderio di ricongiunzione
con esso…
Una parte di lui, dunque, aveva sempre voluto tornare da
lei, dentro di lei, per riprendersi i giorni rubati.
La proiezione di un bambino che era stato strappato via da
sua madre…
Continuò ad osservare quei mostri ora liquefatti.
Quei mostri che raffiguravano delle donne. Delle donne senza
un organo ben preciso: l’utero.
Si chiese se era proprio da lì che Walter Sullivan aveva
aveva
cominciato il suo cammino verso l’oblio e la follia.
Anche se un neonato, fin dal grembo materno, aveva subito le
angosce e le frustrazioni dei genitori.
E così era stato strappato via dal suo amato grembo materno,
tradito dalla prima donna di qualsiasi uomo: La madre.
Per questo…quei “mostri” non avevano il
ventre?
Henry solo allora cominciò a comprendere alcune cose.
Istintivamente, riportò alla mente il secondo piano
dell’edifico del ST. Jerome demoniaco.
Era lì dove un tempo aveva salvato Eileen Galvin,
attraversando una serie di porte losche e lugubri, nonché
assurdamente senza
senso. Ora invece, gli sembrava quasi di capire perché quel
posto fosse così
strano, perché fosse così putrido,
perché le stanze erano dislocate e seguivano
un’architettura del tutto errata. Perché vi
fossero strani cadaveri, brandelli
di carne, vetri rotti o quant’altro…
Erano tutti i chiari segnali del disturbo di Walter
Sullivan, del suo sentirsi rifiutato e cacciato via da colei che amava.
Un click poi
rimbombò nell’aria ed Henry si voltò di
getto.
Era stato un improvviso rumore rugginoso che sembrava
provenire dai piani superiori. Il ragazzo dedusse che quei mostri, per
qualche
motivo, dovevano aver fatto smuovere qualcosa in
quell’universo parallelo.
Aprì immediatamente la porta a doppie ante e
costatò che sì,
effettivamente ora il meccanismo della serratura funzionava e poteva
proseguire.
Imboccate le scale, giunse al lungo corridoio contornato da
una ventina di stanze. Era un ambiente anch’esso vuoto,
polveroso e desolato.
Non ci pensava nemmeno di riesaminare tutte quelle nauseanti
porte, dunque decise di cercarne una ben precisa.
Ricordava quale fosse la camera di Eileen, quella dove era
stata ricoverata, e gli sembrò opportuno andare a darci
un’occhiata.
Eileen non gli aveva mai dato grosse spiegazioni in merito,
ma in qualche modo lei aveva rappresentato per Sullivan la
“madre”, dunque gli
sembrò fin troppo ovvio che avrebbe trovato qualcosa
d’interessante lì dentro.
Sembrava aver senso, alla luce dei mostri femminili e il fascicolo del
neonato.
Non che avesse mai avuto un brillante acume, ma gli sembrava la logica
conseguenza della sua indagine.
Cosa avrebbe trovato..? Quello era un altro paio di maniche,
ma ci avrebbe pensato dopo, così dopo aver attraversato un
paio di porte, si
fermò di fronte la stanza voluta.
Le porte non avevano una numerazione o una nomenclatura, ma
da questo punto di vista, Henry poteva vantare un’eccellente
memoria visiva.
Essendo un fotografo per hobby e per lavoro, era abituato a catturare e
fermare
nella sua mente dettagli e scorci.
Avvicinò la mano al pomello e fece per aprire la porta.
Punto positivo, la porta si aprì. Tuttavia di fronte a
sé
non trovò la stanza che cercava.
“Ma…!” disse turbato.
Che si fosse sbagliato era un conto…
Ma era più che certo che quella
stanza in particolare non era ubicata all’inizio
del corridoio.
Anf…Anf…
Avvertì un gelo dietro la nuca, nell’udire quegli
spasmi.
Gli stessi gemiti che faticò a sostenere psicologicamente la
prima volta,
torturando la sua mente e la sua ragionevolezza.
La voce soave di Eileen Galvin ansimava con terrore e i suoi
respiri soffocati rimbombavano creando un’atmosfera
terribile.
Più si soffermava ad ascoltarli, più vi leggeva
dentro dolore,
tormento, angoscia…ma anche esultanza; essi erano soffocati,
eppure penetranti…
“Eileen…”
disse
quando la vide.
Era la raccapricciante immagine formato gigante del volto
della sua vicina di casa, in quel mondo la
madre rinata, il ventesimo segno.
Eppure quella era un’idea decisamente malsana del concetto
di madre.
Non che si aspettasse un’interpretazione più
convenzionale
da parte di uno pazzo come Walter Sullivan.
Tuttavia…più di qualcosa per lui
non quadrava affatto.
Punto primo, perché la stanza si era spostata? E secondo:
perché la manifestazione di Eileen come
“madre” era grande quanto una stanza?
Levato quell’aspetto inquietante, era come se un bambino
avesse disegnato una mamma grande quanto tutta la casa.
Per gli psicologi, aveva letto da qualche parte, o forse era
sempre stata Eileen a dirglielo, non ricordava…questo
rappresentava quanto per
un figlio significasse il familiare ai suoi occhi.
E Walter… già in fasce aveva cominciato ad avere
un’idea
distorta della madre, che amava ma che l’aveva dannato al
tempo stesso.
Una parte infantile di lui l’aveva sempre considerata per
tutta
la vita la sua ancora di salvezza, nonostante abbandono e rifiuto.
Una madre che, nonostante tutto, agli occhi di un bambino
era e rimaneva onnipotente come un Dio.
C’era dell’altro però.
C’era un sottile filo conduttore tra Eileen, quella testa
gigante che la rappresentava, gli spasmi, il rituale e il fatto che
fosse
chiusa in una stanza.
Il solito, maledetto e costante anello di congiunzione che
non faceva che riflettere quella dura realtà.
…Lo
comprese nel momento nel quale si accorse di che natura fossero
quei sospiri tormentati…
Ovvero…sua Madre.
La Madre, che era Eileen.
La Madre, che era l’appartamento 302.
La Madre, che l’aveva partorito: sia come donna, che come
stanza, come lui confuse da bambino.
….quei
tormenti che sembravano quelli di un parto…
Nella concezione irrazionale e assurda di un ragazzino solo
e cresciuto in modo malsano, il giovane Walter aveva creduto che
l’appartamento
dove sua madre lo abbandonò fosse quello che
l’aveva partorito.
Quella stanza dove casualmente Henry Townshend soggiornava,
la 302, agli occhi del bambino era sua Madre.
Quella stessa madre che in età adulta divenne Eileen Galvin,
scelta come ventesimo sacrificio.
Fu inquietante vedere come la sua mente avesse
simbolicamente elaborato tutto ciò rappresentando una donna
formato stanza 302,
facendo coincidere “Madre Rinata” con
“stanza 302”.
Era...strano.
Era…orribile…
Fu la visione di qualcosa di inumano e folle, che lo
catapultò nei meandri oscuri e agghiaccianti di quella
realtà parallela,
simbolo di una mente oramai devastata.
Toccare con mano quei disturbi era un qualcosa che lo
angustiò
fino a contorcere atrocemente le sue viscere.
Non potendo sopportare psicologicamente quella visione,
chiuse la porta.
Eileen, con quel volto pieno di venature, gli occhi tremanti
che lo fissavano morbosamente…gli spasmi nella
stanza…
Era lei. Il suo viso, i suoi capelli, le sue labbra…
Ma al tempo stesso era un’espressione che non riconosceva e
che non poteva sostenere.
Presto costatò che non era solo quella stanza ad essere
posta in una locazione differente rispetto la prima volta, ma anche
tutte le
altre non si trovavano affatto dove egli ricordasse.
A quel punto fu ovvio per Henry che non era la sua mente a
fare cilecca, ma in qualche modo tutte le stanze avevano cambiato
ubicazione.
Azzardò un’ipotesi, oramai entrato in quello
spirito.
La mente di Walter Sullivan era confusa nel ricordare
esattamente l’aspetto del St.Jerome essendo un neonato; era
dunque ovvio che ne
ricordasse solo il caos e i disturbi mentali che gli avevano scaturito.
Ecco
spiegato perché le stanze non erano sempre allo stesso
posto.
Piuttosto fu ambiguo pensare che tutto fosse frutto di un
Sullivan neonato.
Entrò in tutte le stanze alla fine e più le
osservava, più
sentiva lo stomaco farsi sottosopra.
Non poteva…perché lui doveva vedere tutto
questo…?
Perché?
Se lo stava chiedendo oramai da giorni…era una vittima,
un’infelice vittima capitata per caso lì dentro.
Ma perché a differenza degli
altri, doveva vivere quella terribile esperienza?
Perché lui era in grado di vedere quelle cose, frutto della
mente di Sullivan?
Volente o nolente, sembrava che quel mondo lo risucchiasse a
sé morbosamente, che volesse che egli apprendesse quelle
consapevolezze; ma
Henry voleva solo trovare un dannato modo per fuggire
dall’incubo! Non ne
poteva più!
Voleva un perché!
Un perché circa il suo appartamento che verteva ancora in
quello stato nonostante la morte di Sullivan...
Un perché sul fatto che lui stesso, nonostante tutto,
finisse
sempre per riattraversare quel varco.
Semplicemente desiderava che tutto tornasse come prima; non
sarebbe impazzito là dentro.
La nausea di colpo lo assalì e subito cominciò a
tossire,
accasciandosi a terra, sfinito e disorientato.
“Sullivan…cosa diavolo vuoi ancora da
me?!” disse a denti
stretti.
-Come
sarebbe a dire che non è mia competenza! Mi lasci andare!-
La voce risuonò ancora in quel lungo corridoio e Henry si
rimise in piedi, assumendo un’espressione sgomentata.
Perché ne era sicuro! L’aveva sentita vicinissima
ora.
Aveva echeggiato così all’improvviso che non era
riuscito a
dedicarci le attenzioni dovute, tuttavia…stavolta era certo
di chi si
trattasse; non aveva torto quando aveva detto che gli era sembrata
familiare.
Quella…era la voce di Frank Sunderland?
“F-Frank!” urlò fissando in una
direzione vaga. “E’ lei
signor Frank? Dove si trova?”
A quel richiamo, tuttavia, non rispose il custode della
palazzina, ma susseguirono una serie di rumori metallici.
“Un cigolio..? Cos--”
Non fece nemmeno in tempo a voltarsi che subito avvertì una
terribile fitta al cervello che lo costrinse a chiudere gli occhi e
portare
entrambe le mani sul capo.
“Ah!”
Il dolore era incessante e l’ansia cominciò a
sopraffarlo.
Il rumore metallico, come se non bastasse, cominciò a farsi
sempre più nitido e presto si rese conto che era il tipico
rumore di una ruota
di…
“…di una sedia a rotelle..?”
Sgranò gli occhi quando si rese conto che, di fronte a lui,
vi erano una serie di sedie a rotelle che presto lo travolsero come se
lo
avessero puntato con tale scopo.
Non fece in tempo a scansarle e a stento si rimise in piedi
quando fu colpito con enorme violenza da gran parte di esse.
Fu così letteralmente scaraventato via e si
ritrovò a terra,
con le spalle rivolte verso le porte dell’ascensore del
secondo piano.
Toccò il braccio dolorante e guardò le sedie con
la poca
forza che gli rimaneva in corpo.
“Cosa mi sta…?”
Ma le sorprese per il giovane Henry non terminarono lì. Un
suono
avvisò che l’ascensore era in movimento.
Così, di lì a pochi secondi, si mosse
violentemente verso il basso illuminando lo spiraglio tra le due ante e
aprendosi, lasciarono Henry senza un appoggio per la schiena.
A poco valsero i suoi tentativi di recuperare l’equilibrio e
così cadde inesorabilmente nell’abisso.
Il colpo fu violento; un forte senso di vertigini lo pervase
mentre si accorse di essere sul tetto dell’ascensore che
continuava a scendere
in quel tetro buio, accompagnato da un terribile rumore stridulo che lo
stava
facendo impazzire.
Si strinse a esso cercando di non perdere la ragione e in
cuor suo sperò che si fermasse il prima possibile.
Qualcosa, tuttavia,
cominciò ad attirare la sua attenzione.
Era di nuovo la voce di Frank Sunderland che, anche se soffocata,
riconosceva ora perfettamente.
Alzò il busto rimanendo in ginocchio e cercò di
ascoltare
cosa stesse dicendo, ma il rumore rugginoso dell’ascensore
gli impediva di
concentrarsi come avrebbe voluto.
A un certo punto, comunque, gli fu chiaro che non fosse da
solo. Una voce si alternava a quella del custode. Una voce di un uomo,
ma che
non attribuiva a nessuno dei suoi conoscenti.
Improvvisamente, la discesa s’interruppe.
L’ascensore si fermò, lasciando Henry proprio di
fronte
delle porte automatiche di ferro che si aprirono dinanzi a lui.
La luce del pianerottolo nel quale era giunto a destinazione
lo accecò per qualche istante. Del resto, era sempre stato
nel buio, fino a poco
prima.
Si alzò e si addentrò. Lentamente
sentì i suoi occhi
abituarsi a quella luce, anche se con grande difficoltà.
Scostò la mano dalla fronte, con le pupille ancora strette e
le palpebre semichiuse, e non riuscì a credere ai suoi occhi
quando vide
proprio lui: il custode e responsabile degli
appartamenti di South Ashfield Heights.
Subito si avvicinò e lo richiamò sorpreso.
Tuttavia Frank
non si voltò.
Solo in quel momento Henry si rese conto che, nonostante
fosse evidente che quello fosse il custode, aveva un’aria
decisamente diversa
dal solito.
Dimostrava molti anni di meno e i capelli erano di un grigio
tendente al biondo. I lineamenti non erano scavati come il Frank che
conosceva,
così come l’abbigliamento che, sebbene molto
classico, era meno vetusto.
Frank stava parlando nervosamente con un uomo che portava
sulle spalle un camice bianco.
“Signor Sunderland, lei cosa ci fa qui?” gli
chiese.
Non ricevette risposta ancora una volta, così Henry concluse
che, qualunque cosa stesse accadendo, Frank non era in grado
né di udirlo né di
vederlo.
Rimase, dunque in silenzio e osservò la scena che aveva di
fronte a sé.
“Come sarebbe a dire che solo i parenti hanno diritto di
sapere? Il bambino è stato abbandonato!”
“Mi rincresce, Signore. Ma lei non ha alcun legame di sangue
con il paziente e dunque non le è concesso conoscere la
prognosi.”
“Si rende conto di cosa dice?! Lei è
folle!”
“Si accontenti di sapere che è sopravvissuto, ma
la prego,
non torni qui sperando di ricevere ulteriori informazioni. Il bambino
ora è
tutelato dalla legge e presto sarà accolto presso strutture
adeguate.”
“Ma..!”
Henry guardò il volto del custode spegnersi sempre di
più.
Quella scena manifestava i ricordi riguardanti Frank quando aveva
salvato quel bambino abbandonato nell’appartamento 302.
Nonostante il suo
nobile gesto, non aveva mai avuto alcun diritto di sapere cosa gli
sarebbe
accaduto in futuro.
Era una situazione strana.
Sunderland, in quel momento, era preoccupato per quella
creatura. Quello stesso che, un futuro, sarebbe diventato uno spietato
assassino.
Abbassò gli occhi e la testa divenne sempre più
confusa.
Cosa gli stava accadendo? Si sentì nervoso
all’idea che in
cuor suo stesse provando tanta pietà per quella terribile
condizione. Aveva
forse compassione per Sullivan?
Eppure rifiutava categoricamente comprendere quell’uomo
terribile che aveva fatto del male a tanta gente, a lui, ad
Eileen…
L’odio cominciò a scorrere nelle vene e Henry si
ritrovò a
stringere i pugni con grande rabbia.
Era insopportabile scoprire che esistevano molte verità
circa la vita di quel crudele assassino.
Andando a scavare in fondo, parallelamente vigevano molte
altre realtà che quel mondo pazzo manifestava proiettandole
attraverso simboli
duri e violenti, mostrando quanto la sua inumanità non fosse
che il frutto di
una molteplice serie di concause.
Ma un assassino rimaneva tale, no?
Era…il male.
Quel che aveva commesso non era giustificato da nessun
passato, ingiusto o no che fosse.
Non appena alzò gli occhi, però, vide che la
figura di Frank
e quella del medico erano sparite.
Sgranò gli occhi sorpreso.
Quel che stavano vedendo i suoi occhi, negli ultimi tempi,
era umanamente inconcepibile.
Vedeva cose che gli altri non potevano vedere. Le persone
dinanzi a sé sparivano, cambiavano forma e talvolta
morivano…
Affrontava mostri appartenenti a curiosi incubi, e riusciva
a entrare nel subconscio di un assassino.
Era un completo caos dove lui come Henry Townshend,
paradossalmente, entrava in secondo piano.
Tonk….tonk…
Dei passi, rimbombarono dietro di lui, all’improvviso,
violentemente.
Era quasi come se volessero spezzare quel lungo silenzio. Lo
sgomento di Henry passò in secondo piano, lasciando
prevalere un totale stato
di allerta.
Quei passi…li aveva già uditi. Era come se li
riconoscesse. Somigliavano
a quelli che aveva udito il giorno prima e quello prima ancora...
Il cuore del ragazzo palpitò violentemente, riconoscendo
quel modo di camminare lento ma pesante.
Aveva già avuto modo di sentirli nell’appartamento
di Joseph
e, per una manciata di secondi, li aveva uditi anche mentre tornava dal
lavoro
con Eileen Galvin, nei pressi del terzo piano del palazzo di South
Ashfield.
E ora…erano di nuovo dietro di lui.
Con lo sguardo tremante, lasciò scivolare gli occhi pallidi
dietro le spalle e lentamente girò il busto per intravedere
chi ci fosse. Non
aveva mai avuto il coraggio di farlo, ma era anche vero che mai prima
di quel
momento era riuscito ad interagire nuovamente con la realtà
parallela. Era come
se tutto stesse di colpo riprendendo vita. Esattamente come
allora…
Ebbe la terribile sensazione di non starsi affatto
sbagliando. Perché non aveva dubbi che si trattasse proprio
di lui.
Walter Sullivan era
lì.
Henry sgranò lo sguardo scioccato, rimanendo con il capo
chino e gli occhi dritti su di lui tremanti e confusi.
Era davvero li? Era una proiezione o lo stava sognando? Del
resto, con tutte le botte prese, poteva anche essere.
Scrutandolo…quell’uomo aveva lo stesso aspetto di
quel
tempo.
Un’apparenza giovane, ma dal volto scavato e trascurato. I
capelli biondi cascavano sulle spalle coprendo parte del viso,
lasciando
comunque intravedere l’inquietante ghigno disegnato sulle
labbra e i luminosi
occhi verde chiaro.
Il lungo cappotto blu notte lo copriva dal mento fino alle
ginocchia, conferendogli un aspetto tetro e minaccioso.
Era molto alto, proprio come lo ricordava, e dal fisico atletico
ma denutrito.
Henry rimase in silenzio e i loro sguardi erano fissi l’uno
sull’altro.
“Sullivan…” sussurrò appena,
infine.
“Quanto tempo, vero?” disse l’assassino,
quasi divertito di
vederlo lì. La sua voce era calda e rauca e incuteva
turbamento nell’animo del
giovane Townshend.
Gli occhi del moro presero a tremare. Corrucciò le
sopracciglia quando cercò ancora di razionalizzare la
situazione, chiedendosi
se avesse per davvero di fronte a sé Walter Sullivan.
Perché era lì? O chi diavolo era
quell’uomo?
Perché lo aveva seguito? Cosa gli sarebbe accaduto? Ma
Walter…non
era morto!?
Forse, se aveva appena visto un Frank ‘del passato’
, questo significava
che anche quel Sullivan
poteva essere una manifestazione della realtà parallela?
La sua camicia era oramai imbrattata di polvere e di sangue,
e i capelli erano scompigliati, sporchi di sangue anch’essi.
Il suo respiro intanto diventava sempre più profondo e
ansimante, mentre osservava quell’uomo che invece, al
contrario di lui, aveva
le sopracciglia inarcate e uno sguardo tranquillo che sembrava volerlo
trafiggere.
Nella sua mente albergava un solo martellante campanello
d’allarme.
Scappa o ti ammazzerà.
Scappa, non è una proiezione. Scappa, è
lì per vendicarsi. Fuggi via, fuggi
via, fuggi via…
Eppure rimase immobile, come pietrificato. Non poteva essere
Sullivan. Lui era morto!
La razionalità gli urlava al tempo stesso di scappare e di
rimanere fermo, scaturendo in lui un decisivo e fatale blocco mentale
che
irrigidì i suoi sensi, muscoli, mente…tutto.
Walter poi, improvvisamente, tese le braccia verso Henry,
brandendo due pistole nere.
“Felice di rivedermi?”
L’assassino sogghignò e cominciò a
ridere come un
forsennato, mentre una serie di colpi partirono a raffica colpendo
qualunque
cosa fosse nella sua gittata. Gli occhi di Henry si sbarrarono incapaci
di
capacitarsi che era troppo tardi per tornare indietro.
***
[Primo piano, ala ovest, di fronte l’appartamento 105, a
South Ashfield Heights.]
Henry bussò veementemente alla porta con la targa che aveva
la scritta “#105”. Era raro vedere quel ragazzo in
atteggiamenti simili, lui
che solitamente era così discreto e pacato.
“Signor Frank! Apra, è urgente!” disse,
continuando a
bussare incessantemente.
“Calma, calma! Si può sapere
cos’è tutto questo chiasso?”
Il custode aprì la porta e si sorprese di vedere il giovane
Townshend. Lo fece accomodare e lo invitò a prendere posto
sul divano.
Henry aveva un aspetto stanco, ma non cessava di avere
quell’atteggiamento sgomentato che spaventò un
po’ l’uomo anziano.
“Calmati, vado a prendere del
tè…” disse dirigendosi in
cucina.
“Lasci stare, signor Frank. C’è qualcosa
che devo sapere…”
lo interruppe, ansimante.
Frank lo guardò perplesso e si allontanò dalla
cucina. Fece
un cenno con la testa e guardò Henry negli occhi.
“Prego, dimmi pure…”
Il ragazzo abbassò il capo, con fare leggermente incerto.
Lentamente, cercò di recuperare il suo solito atteggiamento
controllato. Anche
la sua voce divenne sempre più bassa fino a tornare al suo
timbro normale.
Perché era lì?
La risposta era semplice.
Henry doveva avere la certezza di ciò che aveva visto. La
certezza
che quel che era accaduto fosse corrispondente al vero.
Mai come allora aveva il bisogno di confutare le verità
apprese nell’Otherworld con la realtà al di fuori
di esso, in quello che era il
suo mondo. Anche se sapeva già tutto, anche se conosceva
quella drammatica
storia…
Doveva però indagare e sapere di non essere pazzo…
Deglutì e decise che non aveva più tempo per
indugiare.
“Signor Frank, lei…ha trovato un bambino, circa
trent’anni
fa, nel mio appartamento?”
Il custode rimase turbato nel sentire quelle parole e Henry
si sentì leggermente in colpa. I suoi occhi sembrarono
tremare incerti,
perplessi da quella domanda che rievocava un periodo così
lontano e ormai
dimenticato.
“Tu…come lo sai?! Chi te l’ha
detto?”
“Dica solo sì o no. Non le chiederò i
dettagli. Devo solo
sapere se è vero.”
Frank sospirò e prese posto sul divano. Fece segno al
giovane di fare lo stesso. L’anziano aveva ancora la tazza di
tè fra le mani e
prese a sorseggiarla appena. Henry si accorse che i suoi occhi azzurri
si stavano
inumidendo, come se folgorati da un qualche ricordo che ancora lo
tormentava
fortemente.
“Sì…ma è stato molto tempo
fa. Circa trent’anni fa, come
dicevi tu.” sorseggiò ancora. “Ma non so
molto a riguardo. Ah…forse ti avrò
deluso, vero?” alzò nuovamente lo sguardo verso
Henry. “Povero bambino. È una
storia terribile che ancora non riesco a dimenticare. Chissà
cosa gli sarà
accaduto?”
“Dunque il diario era vero…per questo che il
cordone era
quì…” disse impulsivamente ricordando
che un tempo era proprio
nell’appartamento del custode dove aveva trovato
“la parte della carne”
indicatogli dal Tomo rosso e da Joseph Schreiber. “Le
informazioni che ritrovo
lì, sono tutte corrispondenti alla
realtà…”
“…prego?” domandò Frank,
udendo appena quel sussurro di
pensieri.
“Oh, niente. Signor Frank, io…”
Henry preferì non dire oltre. Del resto, sentì il
signor
Frank ancora troppo sottosopra e non voleva turbarlo ulteriormente.
Aveva
intanto ottenuto la conferma sperata. Molto perverso, macabro o
irrazionale…quel che accadeva
“dall’altra parte” corrispondeva e
combaciava
alla perfezione con il mondo “reale”.
Vederlo così affranto comunque gli fece così
tanta pena. Lo
vide sconvolto a tal punto che rimase sorpreso di costatare che un uomo
così autorevole
fosse ancora molto provato e dotato di una simile
sensibilità.
“E’ tutto a posto, signor Frank.
Piuttosto…lei…?” gli chiese
con voce bassa, ma Frank scosse la testa. Henry voleva approfondire le
sue
conoscenze circa Walter Sullivan, ma l’uomo anziano
impostò il discorso in
tutt’altra direzione.
“Nella mia lunga vita non è di certo uno il
rimpianto e il
dolore che mi porto, ragazzo mio.”
Con gli occhi ancora lucidi, l’uomo guardò una
fotografia
leggermente impolverata, posta sul comodino, indicandola con lo
sguardo. Henry
la prese con il suo consenso e la osservò con profonda
malinconia.
Intravide che nella foto erano ritratte due persone. Un uomo
tutto sommato giovane, dai capelli biondi e con un volto molto simile a
quello
di Frank. Egli cingeva timidamente la vita di una donna con un leggero
abito
floreale. Sorridevano e i loro sorrisi sembravano trafiggere
terribilmente il
cuore del povero anziano.
“Già…proprio
tanti…”
La sua voce si fece leggermente strozzata. Henry non seppe
che dire e fu terribile per lui sentire quel senso
d’inettitudine. Non sapeva
cosa gli fosse accaduto, ma poteva benissimo immaginare quanto dolore
provasse.
Un giorno, Frank gli raccontò della sua famiglia e di suo
figlio, un tale James.
Un figlio del quale non aveva notizie da tempo, oramai.
Henry comunque preferì non chiedere nulla e scelse di
lasciare Frank nel suo silenzio solenne.
“Io le ho già rubato troppo tempo, signore. Mi
spiace.”
Si alzò e fece per raggiungere l’ingresso e
solcare la
porta. Proprio mentre la aprì, vide Sunderland raggiungerlo.
“Henry sei…un bravo ragazzo.” gli disse.
“Non lasciarti
turbare da un povero vecchio mentre si abbandona ai propri
ricordi…”
Il suo tono era leggermente in imbarazzo e Henry cercò di
rassicurarlo. Del resto…anche per Henry oramai lui
rappresentava qualcosa di
simile a un parente.
Sentiva che poteva portare con sé quel piccolo peso per un
uomo che aveva tanto sofferto nella vita, evitando di chiedergli se
avesse mai
scoperto qualcosa su Sullivan.
“Non dica così.” cercò di
alleggerire la situazione, cosa
non facile per uno di poche parole come lui. Subito però gli
venne in mente la
fotografia della palude. “Signor Frank, a proposito, ho
trovato una cornice
adatta alla fotografia che mi ha dato. L’ho risistemata e
quando vuole, può
venire a vedere com’è venuta. ”
Frank rise appena e portò una mano dietro al collo che prese
a strofinare nervosamente.
“Ma davvero? Bene, sapevo che ti sarebbe piaciuta. Allora
riguardati, Henry.”
Disse, poi fece per chiudere la porta. Guardò un ultima
volta Henry e solo allora notò che aveva una ferita
abbastanza profonda
all’altezza della tempia. Era coperta da una fasciatura, ma
era evidente che il
taglio fosse recente.
“Come te la sei procurata quella?” gli chiese
preoccupato,
indicandola con l’indice.
Henry sgranò gli occhi e vide Frank osservare quel taglio.
Portò una mano sulla ferita, toccandola leggermente a
disagio, poi abbozzò automaticamente
l’accenno di un sorriso.
“Oh…non è nulla. Ho solo avuto un
incubo.” gli rispose frettolosamente
e andò via.
[…]
NDA: In questo capitolo Henry ha fatto visita all’ospedale
del St.Jerome. Il
viaggio di Henry
ricomincia? Perché?
Sono volutamente partita con questo “mondo”
perché è qui che
tutto cominciò. Quando Frank salvò quel bambino
da morte certa.
Sono molti i riferimenti simbolici nell’ospedale St.Jerome e
tutti riguardano Walter Sullivan. Ho fatto del mio meglio per
valorizzarli
tramite questo capitolo.
Un ringraziamento speciale va a Louis Art cui devo la
spiegazione delle famose infermiere giganti che emettono quei
rumoracci.
Altra cosa. Sono felice di essere stata in grado di citare
il protagonista di Silent Hill 2, James Sunderland. Silent Hill 2
è l’altro
capitolo della saga che ancora oggi, dopo tanti anni, considero il
più grande
gioco di tutti i tempi.
Inoltre la figura di Frank mi piace molto. Mi piace come, in
qualche modo, si colleghi al passato di Sullivan. E credo che anche per
Henry
lui sia rilevante. Visti i quadri che gli ha regalato, ho sempre
creduto lo
ritenesse un po’ come un figlio…
Ora però vi lascio. Spero che il secondo capitolo vi sia
piaciuto. Mi riprometto di terminare e pubblicare presto il prossimo!
Fiammah_Grace
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Capitolo 3 *** La foresta di Silent Hill/ Wish House ***
CAPITOLO
03
“Sebbene
il mio corpo sia stato distrutto,
non vi lascerò passare di qui. In preparazione di Colui che
riceve Saggezza...
Ho tagliato il mio corpo in 5 pezzi e il ho nascosti nelle tenebre.
Quando il mio corpo sarà nuovamente intero, si
aprirà la strada verso il basso.
Se sei Colui che riceve Saggezza, capirai le mie parole.”
(Messaggio
tra le rovine della Wish House)
[APPARTAMENTO
302. Camera da letto di Henry
Townshend.]
Fu
davvero un incubo bizzarro, quello che fece
Henry quella notte. Eppure era stato, nella sua stranezza,
così realistico che
più volte si chiese se fosse accaduto per davvero.
Era
sempre nell’appartamento 302. Era buio e si
trovava sul pianerottolo della palazzina. Tuttavia
l’atmosfera aveva un che di
tetro e curiosi rumori metallici rimbombavano nel silenzio.
Sebbene
fosse stato solo un sogno, Henry aveva
avvertito perfettamente l’angoscia di essere lì.
Le tenebre impedivano una
visuale ottimale. Si rese conto solo dopo che aveva un campo visivo
troppo
completo della palazzina per essere una situazione realistica.
Riusciva
infatti a distinguere perfettamente
tutti e tre i piani, come se stesse galleggiando proprio sopra di essi.
Oscillava
in quell’area profonda provando un
curioso senso di vertigini.
Poi…all’improvviso,
si accorse che non stava
affatto galleggiando, ma era…letteralmente appeso sul
soffitto.
Subito
cominciò a dimenansi e ad urlare, sudando
e impallidendo sempre di più. In più
notò non solo di essere legato, ma che un
tessuto, a metà tra un normale lenzuolo e un qualcosa di
organico, lo avvolgeva
lungo tutto il corpo.
Quel
senso di sopraffazione cominciò a
opprimerlo, tanto da sentirsi soffocare finché, dal terrore,
non si svegliò.
Spalancò
gli occhi di colpo e le tenebre si
dissiparono così repentinamente da lasciarlo sgomentato
lì, nella stanza da
letto del suo monolocale a South Ashfield.
Avvertiva
il sudore solcare la fronte e il
calore sulla pelle che andava a opprimerlo incessantemente.
“Ah…cosa
mi…sta succedendo…?” disse, ansimando,
con voce strozzata.
Lanciò
via le lenzuola e con un gesto fulmineo
scese dal letto e si diresse nel bagno. Era disorientato e
stanco…
Aveva
assolutamente bisogno di riposo, ma
restare lì, a South Ashfield, non gli avrebbe mai permesso
di lasciare spazio
alla tranquillità.
Perché
se chiudeva gli occhi, nei suoi sogni
sorgevano quegli incessanti incubi.
Spalancò
la porta del bagno, già cigolante e
pericolante di suo, e poggiò le mani sull’orlo del
lavandino.
Aveva
caldo.
La
pelle, il respiro…
Bruciava
tutto.
Inarcò
il busto e lasciò scivolare via la maglia
lungo la schiena. Avvertì dei profondi brividi attraversare
il suo corpo,
mentre tremava, ansimava, incapace di capire.
Sapeva
benissimo che avrebbe risolto tutto con
un semplice gesto. Semplicemente fuggendo da South Ashfield.
Le
valige erano pronte. Erano poste all’ingresso
da tempo. Il suo lavoro era così precario che avrebbe potuto
chiudere la
baracca in qualsiasi momento. Inoltre in quel momento era abbastanza
autosufficiente, economicamente parlando, da potersi permettere una
piccola
casetta in periferia. E poi…aveva…Eileen.
Quale
oscuro motivo, dunque, gli impediva di
abbandonare l’appartamento 302?
La
cosa più bizzarra di tutte, era proprio
questa. Henry non era in grado di abbandonare quel mondo. Semplicemente
non
riusciva a farlo.
Odiava
quell’appartamento. Lo odiava e lo
soffocava, ma non era in grado di fare quel passo. Come fosse
incatenato
all’interno di esso.
Aprì
il rubinetto e gettò l’acqua sul viso
ripetutamente, sperando di cancellare quell’oppressione.
Presto
si rese conto che sarebbe valso a poco
quell’atteggiamento compulsivo. Non poteva impazzire proprio
adesso, dopo aver
fatto l’impossibile per sopravvivere.
Alzò
gli occhi verso lo specchio appeso proprio
di fronte il lavandino. Doveva essere forte e doveva essere
assolutamente in
grado di risolvere tutto…!
“!!”
Il
viso gocciolava ancora mentre scostava le
mani e faceva per afferrare un asciugamano, ma gli bastò una
fugace occhiata al
suo riflesso per trasformare la sua mente in un oblio profondo.
Il
suo volto…
Un
attimo…era proprio lui??
L’immagine
dell’uomo riflessa allo specchio gli
rassomigliava parecchio.
Henry
lo guardò per meno di un secondo, ma
quegli sfregi su gran parte del corpo e della faccia non
riuscì a dimenticarli.
I
capelli scuri ben tagliati coprivano gran
parte del volto, tuttavia non nascondevano il rosso organico di cui era
macchiato.
Quel
sangue, in alcune parti così vivo da farlo
rabbrividire, in altre più secco, grondava dalla fronte e
dal naso. La sua
pelle, spaccata, sembrava quella di qualcuno che era stato atrocemente
deturpato.
Sul
collo aveva delle incisioni, erano…
21…21…
Strofinò
il viso velocemente e sgranò gli occhi,
completamente nel panico.
“Non…è
possibile!” urlò, spaventato. Riaprì
velocemente gli occhi, ma a sua grande sorpresa, di fronte a
sé, ritrovò il
solito e semplice riflesso della sua immagine.
“Ma
cosa diavolo..?”
La
sua voce era smarrita e si sentiva quasi di
venir meno. Cosa…cosa era stato? Cosa era successo? Lo
aveva…davvero
immaginato?
Portò
una mano sulla fronte coprendo gran parte
del viso. Era affranto, sconvolto. Non sapeva cosa stesse accadendo e
perché.
S’incurvò
nuovamente verso il rubinetto e rimase
lì immobile, assorto.
“Eileen…semmai
te ne parlassi, come potrei
perdonarmelo, poi?” sussurrò.
Eileen,
dal suo canto, rappresentava un altro
bel problema. Lui non faceva che rimandare la loro partenza, ma non le
aveva
mai detto il perché.
Aveva
pensato di parlargliene? Ovvio, ma doveva
assolutamente risolvere tutto senza coinvolgere nessuno.
Come
avrebbe potuto chiedere aiuto alla sua
vicina e poi sopportare il peso di vederla solcare nuovamente quella
porta
infernale?
Lei
che rappresentava per Sullivan la ‘madre’,
come poteva farle questo?
Eileen
sarebbe rimasta coinvolta. Oramai la
conosceva. Aveva avuto già modo di comprendere la sua
profonda sensibilità,
quando ascoltava il cuore di quello spietato assassino provando una
grande
pietà per lui e per il suo destino.
No…non
poteva.
Toc
– toc
“Uh?”
Il
rumore della porta lo attirò all’improvviso.
Erano dei rintocchi piuttosto ossessivi, che si ripetevano con una
frequenza
anomala e mentecatta.
Toc
– toc
“C-chi
può mai essere a quest’ora?”
Toc
– toc
Qualcuno
continuava a bussare incessantemente
fuori la porta e il ragazzo si affrettò ad aprire. Peccato
che non guardò al di
fuori dello spioncino, perché se si fosse accorto di chi
fosse, non avrebbe mai
pensato di aprire.
Un
uomo dai capelli castani, con una lunga
frangia e il viso sfregiato, batteva i pugni incessantemente.
Era
vestito con abiti sgualciti. Una camicia
bianca malmessa e dei jeans scoloriti.
Batteva,
ancora e ancora.
Ancora
e ancora.
La
sua bocca si muoveva velocemente. Sussurrava
parole incomprensibili. Una dietro l’altra, con ossessione.
Henry
Townshend girò il pomello e solo allora
sentì quei mormorii che gli fecero pentire di essere stato
tanto impulsivo.
Ma oramai aveva già aperto. Così prima che
potesse intendere il pericolo che vi
si celava dietro, la porta era già spalancata e si
ritrovò sul pianerottolo.
Alzò
gli occhi, ma di fronte a sé c’era il vuoto
totale.
Vi
era solo una finestra, lasciata semiaperta,
dalla quale usciva il lieve sibilo del vento.
Non…c’era
nessuno?
Chi
aveva bussato?
Aveva
gli occhi sgranati e il braccio ancora
poggiato vicino la porta.
“Henry..?”
Il
bruno si girò non appena udì quella voce
femminile.
Eileen
Galvin era sulla soglia della porta
accanto e lo guardava con un volto sorpreso e preoccupato.
“C-co..?
Eileen!” disse lui, solo dopo una
manciata di secondi.
Rimase
letteralmente a bocca aperta, non
aspettandosi minimamente di vederla, in quel momento. Eileen, al
contrario, non
faceva che girare e rigirare gli occhi, con imbarazzo. Era visibilmente
a
disagio per il fatto che Henry indossasse solo un paio di jeans nel bel
mezzo
del pianerottolo, e il ragazzo ci impiegò poco a capirlo.
“Oh,
ehm…scusa.” disse frettolosamente, e fece
per rientrare a casa.
La
ragazza, al contrario, sembrò preoccuparsi di
quell’atteggiamento e immediatamente gli corse dietro
bloccandolo sulla soglia
della porta.
Si
parò di fronte a lui, incastrandosi fulminea
dentro l’appartamento.
Henry
rimane sorpreso di quell’atteggiamento e
la guardò senza sapere che dire.
A
quel punto Eileen si spostò dal ciglio della
porta e avanzò nel corridoio voltandosi poi verso Henry, che
era ancora sulla
soglia della porta.
“Eileen,
tutto bene..?” fece per parlare, ma lo
sguardo determinato di Eileen gli fece scendere le parole
giù in gola
velocemente.
“Mi
prendi per stupida, forse? Ovvio che non va
tutto bene, ma tocca a te parlare! Diavolo, che ti prende?”
Osservò
il volto di Henry. Era tutto sommato
quello di sempre, ma quel brutto colorito sotto gli occhi denotava
stanchezza e
apprensione per qualcosa che le teneva nascosto.
Dal
suo canto, lui era felice di vedere quanto
quella ragazza fosse in ansia per lui. Egoisticamente, provò
un insolito senso
di benessere. Lui che aveva sempre vissuto solo per sopravvivenza.
Avvertire
quel calore scaturito dall’affetto che nutriva nei riguardi
della ragazza, fu
un qualcosa di nuovo e di…bello.
Era
proprio per questo la voleva lontana da
quello che gli sarebbe potuto accadere. Lui…voleva
proteggerla.
Qualunque
significato avessero quegli incubi,
qualunque cosa gli fosse accaduta, non le avrebbe mai permesso
di affrontare quel destino assieme a lui, di
nuovo.
Eileen,
intanto, aveva continuato a parlare.
Qualcosa riguardo l’amicizia, o sull’affrontare i
problemi assieme…
Comunque
non riuscì proprio a prestare
attenzione, incapace di pensare ad altro se non alla gratitudine di
quelle
parole.
Anzi,
l’unica cosa che continuava ad
allontanarlo da quella conversazione era il suo stesso appartamento.
Era ancora
soffocante e dal colore rugginoso...e…
Eileen
non se ne era accorta?
Possibile
che ai suoi occhi il 302 apparisse
come un normale appartamento?
Cercò
comunque di non tradirsi da solo e guardò
l’appartamento con fare meno furtivo.
Inaspettatamente,
da
dietro la spalla di Eileen, che ancora lo guardava nervosa e parlava in
continuazione, Henry intravide un ragazzino con i capelli biondo cenere
e un maglioncino
blu a righe. Strinse
gli occhi, non capacitandosi
subito di quella visione improvvisa.
“Che
cos’è?” disse il biondino mentre
sbirciava
tutte le cianfrusaglie e riviste presenti sul tavolino in vetro del
salottino
di fronte l’ingresso.
Henry
sgranò gli occhi, in preda dallo shock.
Da
dove
era saltato fuori?! Quando
era apparso!?
“A…ah..!”
balbettò.
Il
ragazzino continuava a frugare, a sfogliare
le riviste d’auto spiegazzandole in malo modo, a toccare il
televisore sperando
di farlo partire, e a frugare nella cassapanca.
Il
tutto in maniera per nulla discreta e con un
visetto curioso, ma delusissimo di non trovare nulla di suo interesse.
“A…ah..!”
balbettò nuovamente.
Perché
più lo guardava, più si rendeva conto che
non si stava affatto sbagliando.
Quel
bambino non era frutto della sua
immaginazione…
Oh,
no…
…Quello
era proprio Walter Sullivan!
Perché?
Era lì, in casa e…gironzolava per il
salotto con una nonchalance assurda! Si avvicinava alle poltroncine,
sbirciava
fuori dalla finestra, cercava di raggiungere la radio…
Tutti
atteggiamenti tipici di una vera peste e
verso i quali Henry non sapeva proprio come reagire.
Una
goccia di sudore solcò la sua fronte. Si
trovava in una situazione completamente inopportuna.
Eileen
era lì.
Non
doveva assolutamente permetterle di
accorgersi della presenza del piccolo Walter. Avrebbe capito tutto
sennò.
Osservò
Eileen con occhi tremanti e abbozzò un
sorriso. Per nulla convincente, comunque.
“Eileen…ehm,
hai…”
Tentennò,
cercando una qualsiasi scusa.
Poi…s’illuminò.
Eileen
rimase lì a guardarlo sconcertata,
arricciando le labbra e aggrottando le sopracciglia, mentre il ragazzo
fece per
metterle le mani sulle spalle.
“Certo,
l’università! Tu…starai sicuramente
facendo tardi. Non preoccuparti per me, io sto benissimo.
Sarà forse l’affitto
a preoccuparmi. E’ da tempo che…che non guadagno
soldi!” improvvisò.
Eileen
posò gli occhi sulla borsa che aveva a
tracolla e la strinse a sé.
“Forse
è l’affitto…? È
o…non è? Che razza di
risposta mi dai!?” disse infastidita.
Henry,
tuttavia, la interruppe. Al momento, già
era abbastanza geniale l’idiozia che si era inventato.
In
effetti non era nemmeno un’idiozia, visto che
era vero che non entravano da un po’ i soldi nelle sue
tasche, ma avrebbe
affrontato un problema alla volta.
Il
bruno buttò nuovamente un occhio verso Walter
e deglutì quando si accorse che aveva preso ad osservarli
posizionandosi
proprio dietro ad Eileen.
“Ma
che dia…!!” si lasciò scappare ed
Eileen
notò quello sguardo.
“Ma
perché? Cosa c’è?”
Lei
fece per voltarsi e Henry, fulmineo come era
raramente, corse dietro di lei e la spinse via stringendola per le
spalle.
“Quell’esame
di storia, ti ricordi? Ehm…sarà
meglio che vai a recuperare le dispense o non le troverai,
forza!” disse
frettolosamente.
“Oh?
Sì, okay…però tu non mi hai
ancora…!”
disse, cominciando ad avvertire una forza inaspettata nelle braccia di
Henry.
La
cosa la turbò appena. Aveva avuto modo di
costatare che Henry era uno che non valorizzasse affatto il suo fisico,
e
invece era più forte di quanto apparisse.
In
realtà…non era nemmeno niente male, aveva
appena scoperto.
Ma
al momento, quel che la turbava ancora di più
era la forza che ci stava mettendo nel cacciarla via il prima possibile.
“Ma
che fai, Henry!?”
Henry,
anche se con ‘eleganza’,
l’aveva
letteralmente scaraventata via da casa e lasciata sul ciglio della
porta.
“Ciao
Eileen! Poi fammi sapere, a stasera!”
Le
fece un sorriso di convenienza e assunse uno
sguardo rassicurante, mentre si affacciava dalla porta, lasciando la
ragazza
con occhi sempre più sgomentati.
Eileen
non riuscì a contare nemmeno quante volte
Henry fu capace di tagliare corto e salutarla, e presto si
ritrovò la porta
sbattuta in faccia violentemente.
“Ma
quest’energia da dove esce..?” constatò,
sbigottita.
Rimase
una manciata di secondi lì di fronte,
completamente allibita.
Henry
le aveva sorriso in quel modo?
Lui
che era tanto apatico, era capace di avere
uno sguardo simile che lo sconvolgesse completamente? Aveva anche il
busto
lungo e le spalle larghe con tanto di cenno di muscolatura..?
E
poi…che ne sapeva dei suoi studi e delle
dispense?
Poi…rifletté.
“Ma…io
non devo prendere nessuna dispensa!!”
urlò, battendo i piedi per terra, in preda
dall’ira.
Subito
girò i tacchi e andò via, nervosissima di
essere stata buttata via di casa con una scusa simile e in quel modo.
Poi
dicevano che erano le donne quelle strane e
lunatiche!
Intanto
Henry sospirò, poggiato dietro la porta,
felice di essere riuscito ad allontanare Eileen in qualche modo.
Certo,
non in maniera magistrale, ma tanto Henry
sembrava già strano agli occhi della gente, quindi non se ne
curò più di tanto.
Durante
la giornata, una scusa migliore che
giustificasse il suo atteggiamento l’avrebbe trovata
certamente.
Alzò
gli occhi in direzione del salotto e guardò
con rimprovero il piccolo Walter.
“Tu
guarda per colpa tua che figure devo fare…”
disse con un filo di voce.
Henry
osservò il biondino rimanendo in guardia,
senza proferir parola. Sembrava quasi che il piccolo Walter si rendesse
perfettamente conto di essere scrutato ma, nonostante ciò,
continuasse a
mettere sottosopra l’appartamento.
Cosa
ci faceva lì? Perché questa sua apparsa
improvvisa?
Non
era un bambino reale, lo sapeva fin troppo
bene. Era…una presenza, un fantasma, un…
Comunque,
qualunque cosa fosse, era frutto di
quel dannato appartamento ancora pieno delle presenze create da
Sullivan.
Per
questo rimase allerta. Non voleva
assolutamente dimenticare che di fronte a sé non aveva un
ragazzino, ma il
residuo di quell’assassino. Quel Walter Sullivan, che aveva
ucciso diciannove
persone con una violenza inaudita, e per poco non aveva ucciso anche
lui e
Eileen.
Di
colpo vide il bambino sfrecciare in camera da
letto ed Henry solo allora sbottò.
“Ehi,
dove credi di andare!”
Si
lanciò all’inseguimento e percorse in pochi
attimi il corridoio, affacciandosi verso la sua stanza. Lo vide
guardare sotto
il letto con fare nervoso.
Walter,
con il viso corrucciato, prese poi posto
sul letto, sbuffando infantilmente.
“Non
c’è…!” disse, dondolando i
pieni con fare
irrequieto.
Henry
si avvicinò al letto, prese una camicia
bianca e la fece scivolare lungo la schiena.
Mentre
faceva per allacciare qualche bottone, si
avvicinò e si mise di fronte a lui.
“Cosa…cerchi?”
gli chiese, serio.
Si
sforzò di assumere un tono più dolce. Walter
continuava a girare lo sguardo da una parte all’altra,
incapace di accettare
che non fosse riuscito a trovare quel che cercava.
“Uhg…dov’è?!
Io la voglio! Mi serve!” urlò. “Non
la trovo! Non la trovo!”
Il
bambino si alzò sul letto e prese a saltare,
agitato. Henry lo guardò sbigottito. Non era abituato a
gestire i ragazzini,
ancor meno un piccolo futuro assassino.
“Ehi,
ragazzo, calmati!” gli intimò, con voce
appena tremolante. Lo afferrò per un braccio e lo fece
scendere dal letto.
“Cosa cerchi, poi, nel mio appartamento?” aggiunse.
“La
chiave! Non posso trovare Bob se non ho la
chiave!” disse.
“Quale
chiave?”
Henry
lasciò la presa e il bambino, finalmente,
la smise di correre in lungo e in largo. Sembrava essersi quasi
tranquillizzato. Henry aveva avuto un simile potere su di lui?
Lo
vide rivolgergli quei grandi occhi languidi,
di un verde chiaro meraviglioso.
Il
bambino strinse le labbra fra loro, mentre lo
guardava così incessantemente che Henry avvertì
un forte imbarazzo.
Si
rese conto, tuttavia, di aver parlato troppo
presto, perché subito il biondino corrucciò le
sopracciglia e si mise a
protestare con le lacrime agli occhi.
“Me
l’hai persa! Sigh…LA MIA CHIAVE!
DOV’E’?!”
Henry
trasalì, non aspettandosi minimamente
capricci simili.
“Walter!”
urlò e il bambino si azzittì.
Henry
emise alcuni colpi di tosse, cercando di
avere un atteggiamento autorevole col piccolo. Si
inginocchiò e lo guardò in
viso.
“Bob
è un tuo amico?”
Il
ragazzino annuì e finalmente Henry riuscì ad
ottenere un po’ di quiete da lui.
Accidenti…com’era
dura per uno come Henry avere
a che fare con un bambino!
Ripensandoci…
Non
sapeva nemmeno cosa fosse per davvero.
Era
una rappresentazione del lato infantile di
Sullivan?
Un
inganno creato da lui stesso per attirarlo?
Chi
diavolo era quel piccolo biondino,
realmente?
Vedeva
il piccolo Walter immobile, come se non
sapesse come comportarsi anche lui. Lo vide persino tremare appena come
se si
aspettasse tutt’altro atteggiamento da parte di un adulto.
Henry
non voleva farsi strane idee…ma nel
momento nel quale si era chinato verso di lui, aveva avuto
l’impressione che si
fosse ritratto per la paura di essere picchiato. Ma era stata solo una
vaga
impressione alla quale non voleva dare peso.
Quel
bambino…era pur sempre Walter Sullivan.
Punto. Non avrebbe mai smesso di ripeterselo.
Il
piccolo, dopo un po’, riacquistò fiducia in se
stesso e si decise a spiegare a Henry la situazione.
Henry
continuava a essere sospettoso, ma cercò
di mostrarsi interessato agli occhi del bambino, in modo che si
sentisse libero
di parlare.
Si
sedettero entrambi sul divano in salotto e il
moro ascoltò pazientemente le sue parole, cercando nel
frattempo di indagare
sul suo conto.
“Se
scoprono che ho perso la chiave, si
arrabbieranno. Devo tornare in orfanotrofio in tempo e vedere se Bob
è lì.”
Henry
continuava a osservarlo. Poggiò il mento
sulle nocche delle dita e prese parola.
“La
‘Wish House’ dici?
Questo Bob è lì?”
Walter
annuì.
“Forse
però la chiave non è qui. Forse l’ho
persa nella foresta…” aggiunse. Poi assunse
un’espressione affranta. “Dovrò
controllare dappertutto, ma non ce la farò
mai…”
Effettivamente
Henry rifletté sul fatto che la
chiave della Wish House non l’aveva con sé da
tempo. Forse era per questo che
Walter era lì in quel momento. Sperava di trovarla custodita
nell’appartamento.
Il
suo volto si fece pensieroso e approfittò del
silenzio di quel ragazzino per ragionare con calma.
Forse
aveva finalmente l’occasione di capire
qualcosa attraverso l’inconscio profondo di Walter.
Valeva
dunque la pena giocarsi quella carta?
Valeva
la pena addentrarsi nuovamente nel buco?
Il
giorno prima aveva udito la voce di
Sunderland dal varco, come se fosse stato un segnale mandato da quel
mondo.
La
presenza del piccolo Walter simboleggiava più
o meno la stessa cosa?
Era
un invito da parte di quel mondo a fare una
seconda visita nei ricordi di Sullivan?
Poteva
anche essere. Infondo…aveva senso. Sentì
che doveva almeno provarci.
“Uhm…Walter?
Se ti aiutassi a cercare questa
chiave?” disse.
Gli
occhi di Walter sembrarono illuminarsi. Il
suo volto non sorrise, ma s’intravide comunque una nota di
sorpresa nell’aver
trovato un alleato.
Tuttavia,
al contrario di come Henry si aspettasse,
il piccolo si ritrasse.
“Perché?
Cosa vuoi farmi? Che vuoi in cambio?”
disse e si alzò dal divano guardandolo con diffidenza.
Henry
scosse la testa.
“Nessuna
fregatura, se è questo che intendi.”
“Nessuna?”
“Nessuna.”
confermò Henry rassicurante e gli
tese la mano.
Si
guardarono per diversi attimi e il ragazzino
sembrava turbato da quel gesto. Come un cagnolino randagio, non sapeva
se
fidarsi o meno. Se avvicinarsi o scappare via.
Ricercò
lo sguardo di Henry cercando di capire.
Non
era qualcosa di
familiare per lui, il concetto di fidarsi
di qualcuno. Se qualcuno gli aveva mai dato qualcosa, aveva
sempre dovuto
“pagare adeguatamente”.
Il
fatto che quindi Henry
si fosse offerto in modo così spontaneo lo aveva sorpreso
non poco.
Alla
fine quindi, sebbene
con titubanza, allungò la piccola mano e
l’avvicinò a quella robusta di Henry.
Il
ragazzo dai capelli castani la strinse appena
sotto gli occhi curiosi del bambino. Quel gesto gli fece uno strano
effetto.
Sotto un certo punto di vista gli fece tenerezza quel piccolo
così impaurito da
lui, ma anche curioso. Una parte di lui provò
l’istinto di sorridergli, ma
subito si bloccò.
Henry
avvertì delle
emozioni di disagio, ma fece di tutto per serrare nel suo cuore quella
compassione che provava in corpo.
Non
riusciva a dimenticare chi era quel
ragazzo davvero…
“Andiamo,
facciamo in fretta.”
Si
alzò dal divano
fulmineo e allontanò la mano da quella del ragazzino.
Dal
suo canto, il piccolo Walter sembrò quasi a
disagio, come se avesse avvertito quel malessere.
Non
appena vide Henry
alzarsi, comunque, lo seguì fino al ripostiglio.
Henry
fece cenno a Walter
di seguirlo, al che si addentrò con lui. Lo prese in braccio
timidamente e lo
avvicinò al varco.
Alleandosi
con lui, sperava
di capire finalmente qualcosa ma…d’altro canto,
poteva anche accadere il
contrario. Tuttavia forse era tardi per pentirsi di quel che stava
facendo.
***
[LA
FORESTA DI SILENT HILL. Nei pressi del
cimitero.]
La
testa girava e, ancora una volta, si ritrovò
completamente confuso e disorientato. Era come risvegliarsi dopo una
brutta
sbornia e la cosa non era per niente piacevole.
Henry
Townshend era sdraiato a terra. La polvere
del terriccio consumato soffiava appena sul suo volto per via del vento.
Alzò
il busto e cercò sostegno sui gomiti,
dopodiché cominciò a esaminare il posto. Quella
larga distesa, il sentiero
consumato e dal colore indistinguibile, a metà tra il grigio
e il color terra,
la nebbia bassa che circondava la zona, e quella lunga serie di
monumenti in
giro…
Un
momento…quelle erano tombe?
“Sono
nel cimitero…della Wish House?”
Si
alzò e si guardò attorno disorientato. Poi si
ricordò del ragazzino. Girò la testa a destra e a
sinistra, ma del giovane
Walter Sullivan non c’era nemmeno l’ombra!
Eppure
avevano solcato il buco assieme. Si
aspettava di trovarlo ancora con sé.
“Walter!?”
urlò più volte.
“Il
ficcanaso, dici?”
Una
voce inaspettata lo rispose.
“P-prego?”
Dalla
porta a doppie ante, posta infondo al
cimitero, uscì un giovane. Era apparso così
improvvisamente che Henry ebbe un
tonfo al cuore nell’udire la voce di qualcuno. In un posto
come il cimitero di
Silent Hill, poi, come dargli torto?
Il
giovane, molto magro e appena più basso di
Henry, gli si avvicinò e…gli fece una foto.
Henry
rimase attonito mentre fissava quel
bizzarro individuo, con gli occhi sbarrati e le pupille strette ancora
abbagliate dalla luce.
Il
ragazzo posò la macchina fotografica e guardò
attorno a sé soddisfatto.
“Ti
chiedo scusa, sconosciuto, ma è mio dovere
documentare tutto!” asserì con una certa fierezza.
Henry
più lo scrutava, più si rendeva conto che
il tipo non fosse una minaccia. Anzi, doveva essere solo un ragazzo
curioso.
Aveva un’apparenza decisamente giovane. A occhio e croce, non
dimostrava più di
diciassette o diciotto anni.
Solo
non riusciva a spiegarsi, semplicemente, la
presenta di qualcuno lì. E anche la scomparsa di Walter. Si
guardò attorno, ma
a parte lui e quell’adolescente, non vi era nessuno.
“Chi
sei?” gli chiese Henry, con diffidenza.
Il
ragazzo sembrò sorprendersi di quella domanda,
tuttavia prontamente gli sorrise e gli porse la mano leggermente
tremolante.
Henry
lo guardò perplesso. Dall’espressione del
suo viso, così entusiasta, intuì che il tremolio
fosse dovuto non alla
timidezza, ma all’eccitazione. Ma l’eccitazione di
cosa?
Il
tipo si presentò immediatamente, come se lui
stesso fosse sorpreso di non averlo ancora fatto.
“I-io
sono Sein. Sein Martin, piacere! Sono di
Silent Hill e frequento il liceo vicino al campus di Pleasent
River..”
Henry
annuì e rispose al saluto con un
lievissimo cenno. Comunque, a stento percepibile, vista la natura
solitaria del
ragazzo.
“Uno
studente..?” domandò con un filo di voce.
“Esatto!
Sono qui con alcuni colleghi per degli
studi e questa potrebbe essere la volta buona! Sei anche tu qui per
questo, no?
Per il segno della ‘Santa Madre’?”
sembrò rifletterci su, poi aggiunse.
“Ehi, non sarai stato anche tu contattato dal nostro stesso
informatore? Doveva
essere una cosa concessa solo a coloro degni della
rivelazione!”
Sein
fu capace di parlare così velocemente che
Henry riuscì a stento a seguirlo. Ma d’altro
canto, non aveva alcun interesse
verso ciò che gli stava dicendo. Al contrario, ebbe subito
il buon senso di
stargli alla larga.
Difatti
si allontanò da lui e fece per andare
via. Sein allungò un braccio verso di lui e fece per
bloccarlo.
“F-fermo!
Non ti permetterò di vedere il segno
prima di me!” gli urlò, sperando di intimarlo.
Henry
era oramai già vicino all’uscita del
cimitero e faceva per aprire le doppie porte. Si voltò
seccato verso Sein, ma
distolse velocemente lo sguardo non sapendo proprio cosa rispondergli.
Era
completamente pazzo. Cosa intendeva? Di che segno parlava? Aveva
coscienza di
parole simili? Comunque, stando ai fatti, non era nulla di suo
interesse,
dunque non ci badò.
Con
la coda dell’occhio, mentre si voltava
nuovamente verso l’uscita, scorse una piccola figura dietro
una lapide più
grande rispetto alle altre.
Pur
non essendone certo, si avvicinò ugualmente
alla lapide, sotto gli occhi di Sein che continuava a blaterale su
qualcosa di
incomprensibile e di completamente delirante.
Si
affacciò sul monumento e scorse un’ombra.
Più
si avvicinava, più si delineava, ed effettivamente qualcuno
era nascosto lì
dietro.
Cominciò
a percepire dei rumori, simili a dei
singhiozzi. Henry si sorprese di udirli solo in quel momento. Eppure la
figura
lì rannicchiata era immobile, ferma, e non sembrava essersi
accorta della sua
vicinanza. Il ragazzo inarcò la schiena e si girò
verso quella figura e vide
che era un bambino biondo.
Il
suo volto era scavato e affranto. Sembrava
essere sul punto di strillare, ma i suoi occhi erano terribilmente
spenti. Le
sue iridi, di un verde chiaro molto inteso, brillavano nel buio
dandogli un
aspetto spettrale e un’aria inflessibile che mai un bambino
dovrebbe avere.
“Walter?”
Non
poteva negare l’evidenza. Era proprio lui.
Ma quando era apparso? Un attimo. Era…sempre stato
lì dietro?
Henry
sgranò gli occhi quando notò che aveva
diversi sfregi sul viso.
“C-co..?”
disse, sorprendendosi di vederlo in
quello stato. Prima…stava bene, gli sembrava di ricordare.
In
quel momento provò una profonda pietà e senso
d’inquietudine. Fece per allungare una mano verso di lui, ma
la voce di Sein lo
fece trasalire.
“Che
osservi, sconosciuto?!” e si avvicinò a
lui.
Henry
cercò di farlo desistere, ma Sein corse
velocemente e in pochi attimi scrutò assieme a lui quel
tumulo.
“Cos’è?
Sei amico del ficcanaso? Dov’è?” disse,
e cominciò a girarsi attorno e guardare dietro la lapide.
Il
cuore di Henry cominciò a battere e indicò
con gli occhi la posizione di Walter. A sua grande sorpresa,
però, il bambino
era sparito.
Sein
si affacciò nella stessa direzione dove era
rivolto Henry e lo guardò perplesso.
“Uhm…il
cervello ti sta giocando brutti scherzi,
sconosciuto? Qui non c’è nessuno.”
Dove
era finito? Perché Walter era lì?
15
Ottobre.
Bob
è sparito.
Nessuno
vuole dirmi niente.
Scommetto
che…
Lesse
quelle parole di getto. Erano scritte lì,
sulla lapide, proprio sul lato dove prima era il bambino. Henry lesse
quasi a
stento le prime righe. Le scritte erano così sbiadite che
era stato
difficilissimo per lui decifrare di più.
“Bob?”
sussurrò.
La
sua mente ricollegò immediatamente quel nome
a quello della persona che il piccolo Walter stava cercando.
“Bob?
Chi è, un altro ficcanaso? Che leggi? Quei
segni rossi?” aggiunse Sein. Si allungò verso
Henry con fare superficiale e
quell’atteggiamento irrispettoso lo irritò
terribilmente.
“Ma
sei capace di stare zitto?!” sbottò il moro
e il fanatico si ammutolì di colpo. Resosi conto poi che
Henry non gli
interessasse minimamente, si alzò e andò via,
scattando altre fotografie qua e
la.
“Dammi
retta! Se incontri il Diavolo lascialo a
me e alla mia squadra. Siamo attrezzati e preparati per poterlo
affrontare!”
detto questo, si dileguò.
Henry
rimase senza parole…
Quel
tipo era davvero inquietante.
Si
alzò e si poggiò con la schiena sul
monumento. Di Sein non gli importava granché,
purché non gli impedisse di
scovare Walter.
Non
sapendo che fare, cercò di elaborare nella
sua mente qualcosa che lo aiutasse a ragionare su come agire.
Portò
le dita sotto il mento e rifletté.
“Walter
cercava la chiave per la Wish House…”
…Ma
la chiave non l’aveva con sé da tempo. Come
avrebbe mai potuto recuperarla?
Inoltre…
L’ultima
volta, la Wish House era stata ridotta
in un cumulo di macerie.
Era
divenuto l’ingresso per la ‘parte
più
profonda di Lui’. L’ingresso destinato a
Colui che riceve la saggezza.
L’ingresso per la ventunesima vittima, Henry Townshend.
Valeva
la pena, dunque, andare a controllare che
fine avesse fatto quell’orfanotrofio?
D’altro
canto, non è che avesse molta scelta.
***
[LA
FORESTA DI SILENT HILL. La Wish House.]
Henry
aprì il cancello rugginoso, il quale emise
un terribile rumore cigolante. Del resto, da quanti anni era
lì senza alcuna
manutenzione?
Non
appena si inoltrò, aprì la sua cartella di
appunti.
L'insegnamento
della disperazione: "Wish
House".
"Wish House" è un orfanotrofio nelle periferie di Silent
Hill. Dietro
una rispettabile facciata, un posto dove a bambini rapiti viene fatto
il
lavaggio del cervello.
Wish House è gestita dalla "Silent Hill Smile Support
Society", un
istituto di beneficenza talvolta chiamata 4S. La 4S è nota
come
un'organizzazione seria che "accoglie poveri bambini senza dimora e le
alleva nella speranza". In realtà è
un'organizzazione pagana che al posto
dei tradizionali valori religiosi insegna il proprio dogma perverso.
Il Sig. Smith che vive vicino a Wish House ha affermato: "talvolta di
notte sento le loro strane preghiere ed i lamenti. Una volta andai a
reclamare,
ma fui cacciato in malo modo. Da allora le cose sono rimaste le stesse".
Di fatti, al sottoscritto fu negato l'accesso quando tentai di scattare
delle
fotografie. Ma che avranno da nascondere a Wish House"?
Nel corso delle mie indagini, tuttavia, sono riuscito a scoprire una
torre
circolare di cemento molto sospetta che fa parte dei loro impianti.
Sfortunatamente nessuno era disposto a dirci a che cosa servisse questa
torre
ma dubito che abbia a che vedere con la cura degli orfani. Forse
è una prigione
o un luogo di culto segreto. Il culto religioso che dirige Wish House
è
conosciuto dai residenti locali come "L'ordine". E' una religione che
ha profondi legami con il passato di Silent Hill. Ma la convinzione dei
suoi
fanatici fedeli di far parte di un elite scelta ha anche un suo lato
misterioso
e pericoloso.
Intendo proseguire la mia indagine su Wish House e sul culto che essa
nasconde.
"Dire tutta la verità" e mostrare ai bambini la vera strada
è il
nostro compito più importante.
Joseph Schreiber
(Articolo
trovato nella stanza 301 di South Ashfield
Heights)
Chiuse quel ritaglio nella cartella e guardò
l’edificio in legno. Quel luogo
non era affatto cambiato. La nebbia era ancora bassa, ma erano
perfettamente
distinguibili sia la struttura, che ogni elemento presente in giardino.
Dei
disegni di bambini, giochi vari…
Il tutto, comunque, impolverato e dall’aria
trascurata.
Non si sorprese, ad ogni modo, di vedere la Wish House lì,
intatta. L’ultima
volta era stata ridotta in un cumulo di macerie, tuttavia quello era il
mondo
di Walter.
Lì vigevano le sue regole e dunque, dopo aver scongiurato i
21 sacramenti, era
possibile che tutto fosse tornato come nei suoi ricordi.
O forse non era così?
Preferì non indagare oltre e si avvicinò alla
porta.
“Chiusa…”
Spinse più volte cercando di girare il pomello, ma niente da
fare. Com’era
prevedibile, la porta era chiusa a chiave. Provò a cercare
altre vie, ma le
finestre erano sprangate e non trovò nulla con cui potesse
forzare quelle
travi. Ne afferrò dunque una tra le mani e con forza
cercò di portarla
via.
Delle voci improvvise però interruppero il suo tentativo e
istintivamente si
accucciò in un angolo della ringhiera, osservando i due
giovani che intanto si
stavano avvicinando.
Un ragazzo molto alto e robusto, di bella presenza e dalla pelle scura,
stava
leggendo un libro deteriorato e dall’aria piuttosto
vecchiotta.
Lo leggeva con grande enfasi, anche se in realtà sembrava
più che recitasse una
poesia, dando l’impressione di aver letto e riletto quelle
pagine fino a
memorizzarla alla perfezione.
Più che lodevole, tuttavia, era un qualcosa che portava
inquietudine. Già dal
timbro eccitato, Henry poteva vedere la sua ossessione.
“Il
Secondo Segno. E Dio disse, offri il sangue
dei dieci peccatori e l'olio bianco. Liberati così dai
vincoli della carne, per
ottenere il potere dei cieli. Dalle tenebre e dal vuoto, genera
l'oscurità, e
circondati di disperazione per colui che riceve Saggezza.”
Stava
recitando i…ventuno sacramenti?!
Ma
chi diavolo era?
Si
sporse con cautela nella direzione dei due
per poterli scorgere ancora meglio e si accorse che erano solo due
ragazzini.
Dovevano avere all’incirca la stessa età del tipo
che aveva incontrato prima.
Se erano folli la metà di come lo era quel Sein, allora
erano solo dei stupidi
fanatici dell’occulto da evitare.
Ce
n’erano molte di persone del genere ed erano
facili da incontrare nei pressi di Silent Hill.
Lo
stesso Henry Townshend era stato un tempo
follemente innamorato di quella tranquilla cittadina sulle rive del
lago
Toluca.
Tuttavia,
ora era storia passata. Il richiamo
che aveva avuto per tanti anni per quella città, che lo
affascinava da sempre,
ora gli arrecava ansia, angoscia. Sentimenti capaci di gelargli il
sangue anche
solo osservando le fotografie che aveva scattato negli anni passati
durante le
sue numerose visite.
“Il
Diavolo, di cui ha sentito parlare Sein, non
è qui. All’orfanotrofio non troveremo nessun
indizio, stanne certo!” aggiunse
improvvisamente l’altro giovane.
A
Henry prese quasi un colpo quando lo focalizzò
meglio. Capelli rossicci rasati, smilzo, molto alto e con una maglietta
raffigurante un Dio pagano.
“…Jasper?”
sussurrò, incredulo. Era visibilmente
più giovane, ma uno con una faccia simile non poteva non
riconoscersi.
Non
si sarebbe mai e poi mai avvicinato a
quell’individuo. Meno che ai suoi colleghi. Ora comprendeva
perché li aveva
trovati tutti molto strani fin da subito.
Jasper
stesso gli aveva dato quell’impressione a
quel tempo.
Aveva
collaborato con lui per necessità, poiché
bloccato in quel mondo, ma un sesto senso lo aveva messo in guardia
quando lui
aveva preso a parlare in quel modo strano...spaventato eppure estasiato
a
livello ossessivo sul Diavolo e quella orrenda roccia che lui chiamava
“Mother
Stone”… o qualcosa di cosa simile.
Era
un tipo ambiguo, e non era certo di non doverlo
considerare una minaccia.
Tuttavia,
ripensandoci…non era morto? Cosa ci faceva lì?
Più giovane per di più…
Ci
ragionò su, ma i fatti erano evidenti. Era
successo anche con Frank nel suo precedente viaggio.
Quella
era un’ulteriore prova che Sullivan
dominava ancora quel mondo. Seppur inconcepibile, era una
realtà che si era già
mostrata ai suoi occhi in modo tangibile. Nonostante dovesse spesso
rievocarlo,
era così che funzionava quell’assurdo incubo. Era
tutto reale e irreale allo
stesso tempo.
Irreale
in quanto quel che vedeva era umanamente
impossibile. La Wish House era stata distrutta, Jasper era morto, e
Sullivan
non era né un bambino, né ancora in vita.
Ma
era anche reale… dato che chi moriva lì
dentro… moriva anche nel mondo reale.
Tornò
ai due ragazzi.
Ascoltò
ancora le loro parole. Jasper sembrava
parecchio dubbioso, inoltre non parlava con il solito balbettio che lo
contraddistinse quando lo conobbe.
“Andiamo,
non essere codardo! Anzi, leggi questo
passo…! Ma ti immagini se riuscissimo ad entrare qui?
Chissà quanti libri sul
culto potremmo arraffare..!”
L’ardore
dell’amico di Jasper era inquietante.
Era come se non si rendesse esattamente conto di ciò che
stesse dicendo. Forse
perché Henry aveva vissuto sulla sua pelle gli orrori di un
rito tanto
terribile… comunque, non poteva tollerare parole simili.
Jasper,
sorprendentemente, sembrava turbato
quasi quanto Henry. Difatti cercava di far desistere l’amico.
“Bobby,
il ficcanaso ha detto che il Diavolo è a
Pleasent River. Non perdiamo tempo, qui. Ho sentito dire che se ti
beccano ti
ammazzano!”
Il
ragazzone scuro di pelle fece spallucce e
chiuse finalmente quel libro voluminoso. Guardò seccato
Jasper e fece per
aprire la porta del giardino e uscire.
“Jasper,
tu sei un vero coglione. Se non ci
credi davvero, il Diavolo si impossesserà di te.”
“I-io
ci credo! E lo vedrò, stanne certo.”
Chiusero
la porta di legno dietro di loro e,
ringraziando al cielo, Henry era riuscito ad ascoltarli senza che essi
si
accorgessero di lui. Si alzò e guardò in una
direzione vaga. Cosa diamine
stavano facendo quei tre ragazzi lì?
Fece
per andare via da lì. Proprio in quel
momento, però, calpesto un affare metallico che per poco non
gli fece perdere
l’equilibrio e cadere.
“Ma
che diavolo..?”
Riuscì
ad afferrare la ringhiera e per un pelo
non sbatté la faccia a terra. Guardò ai suoi
piedi e vide una piccola pala di
metallo. Era terribilmente arrugginita e sporca, ma si intravedeva
appena
un’incisione su un lato. Henry l’afferrò
e la rigirò tra le mani.
“Sotto la
mano che fuoriesce dal terreno…” lesse.
Vi erano scritte altre parole
inquietanti, ma Henry non diede loro alcun peso.
Al
contrario, si chiese se quella non fosse
proprio la stessa paletta che utilizzò, tempo addietro, per
trovare la chiave
della Wish House. Prese con sé la paletta e decise di andare
almeno a
controllare. Se davvero avesse trovato lì la chiave, forse
avrebbe trovato
anche Sullivan.
Si
diresse a sud-est della foresta e corse
velocemente fino a raggiungere l’albero con quella grande
radice nodosa, così
sinistra da sembrare la mano di qualcuno.
Era
passato del tempo, ma non poteva
assolutamente dimenticare. Doveva essere da quelle parti, proprio
vicino una
lunga rete di ferro che delineava la foresta.
Scrutò
attentamente gli alberi e finalmente, su
uno di questi, distinse una lunga scritta rossa incisa sul tronco. Non
fu in
grado di decifrarla, era notevolmente consumata, ma proprio nelle
vicinanze del
tronco, scrutando il terreno, sgranò gli occhi quando
trovò qualcosa di pallido
che sbucava tra l’erba incolta.
“Ah!”
urlò.
Solo
qualche secondo dopo, si rese conto che non
c’era niente di cui temere. Quella era solo una radice.
Sospirò.
Possibile
che gli facesse ancora lo stesso
effetto..?
Decise
di non indugiare oltre e cominciò subito
a scavare utilizzando la paletta rugginosa. Graffiò
completamente le mani
mentre scavava, quella paletta era maledettamente vecchia, ma dopo
qualche
minuto ecco che finalmente colpì qualcosa di metallo.
Lasciò la paletta e prese
a scostare il terriccio fino a che non distinse proprio una chiave. La
prese
tra le mani e si alzò con fare incerto. Come poteva essere
finita di nuovo lì?
Si
chiese il perché, ma al momento non aveva
molto su cui riflettere. Mise la chiave in tasca e tornò
indietro.
Mentre
proseguiva, tuttavia, la nebbia sembrava
in qualche modo ostacolarlo e nonostante ricordasse perfettamente il
tragitto,
non riusciva per nulla ad orientarsi. Com’era possibile? Il
sentiero era
abbastanza guidato...perdersi era impossibile.
Continuò
a camminare, ma il suo passo prese pian
piano a rallentare sempre di più. Trovò davvero
strana tutta quella nebbia che
andava infittendosi e gli inibiva completamente i sensi.
Si
fermò definitivamente quando ebbe
l’impressione che stesse camminando troppo a lungo, ma che a
fatti, sembrava
non essersi allontanato per nulla dalla zona della foresta dove aveva
trovato
la chiave.
“Che
diavolo succede?” disse, disorientato.
“Chi
trova la chiave, sarà macchiato dalla
dannazione eterna. Dovrà vagare in eterno.”
Una
voce glaciale, eppure infantile, attirò la
sua attenzione. Si voltò e dietro di lui vide il bambino.
“Tu..?”
disse.
Walter
indicò la mano di Henry dove stringeva la
chiave.
“E’
quella la chiave del Diavolo. Sarai
destinato a conoscere la pazzia se la tieni con te.”
“Perché?”
“Perché
se la usi…entrerai lì.”
Henry
corrucciò le sopracciglia. Il timbro della
voce di Walter era inquietante e si addiceva poco a un bambino.
“…nell’orfanotrofio
di Silent Hill?” gli chiese.
Il
biondino solo allora si azzittì. Henry lo
vide chinare il capo e fare dei leggeri passi indietro.
Cominciò a
indietreggiare sempre di più, allontanandosi da Henry, il
quale lo vide,
lentamente, sparire dalla sua visuale. Il bruno rimase attonito per una
manciata di secondi, ma quando realizzò che Walter fosse fin
troppo lontano,
preso dal panico avanzò verso di lui con dei lunghi passi.
Tese il braccio
nella sua direzione, ma il ragazzino si diede alla fuga e corse via per
il
bosco a una velocità che sorprese Henry.
“Ehi!
Non scappare!”
Si
diede all’inseguimento di Walter correndo
agitatamente, cercando di non perderlo di vista nonostante la nebbia e
i
molteplici alberi che gli impedivano una visuale completa.
Urlò più volte il
suo nome, ma sembrava che Walter non accennasse a smettere. Al
contrario,
correva sempre più veloce e mise una notevole distanza fra i
due.
Henry
cominciò ad avvertire un forte fiatone e
non fu più in grado di reggere quella velocità.
Walter era distante e oramai lo
riusciva a vedere a stento.
Mentre
continuava a correre, ignorando la
stanchezza, guardò attorno a sé ed ebbe
l’amara impressione che, dalle rupi del
bosco, delle bestie fameliche lo stessero osservando. Sebbene non ne
vedesse da
tempo, riconobbe perfettamente quei canidi terrificanti dalle lunghe
lingue e
dai denti affilati. Erano apparsi solo dopo che Walter si era dato alla
fuga?
Continuò
a correre incessante e più osservava
l’ambiente, più lo trovava inquietante.
Non
era in grado di capirne il senso, specie in
quel momento, ma quando scorse, nascosti fra gli alberi, nel terreno e
fra le
siepi, dei fantocci simili a dei bambini, gli venne un tonfo al cuore.
Perché
erano lì? E perché non li aveva notati
prima?
Niente
aveva senso in quel momento, in quel posto.
Figure di bambini erano nascoste ovunque, sotterrati, appesi,
ingabbiati…
Proprio
mentre quel bosco sembrava isolato
da ogni cosa, ecco che si intravedeva stentatamente uno di quei piccoli
corpi
impagliati. Sebbene realizzati in
modo essenziale,
essi avevano qualcosa di vivo e sembravano osservare
quell’ambiente che li
aveva inglobati e imprigionati.
Creavano
nella mente del giovane Henry tanta
oppressione che solo allora si chiese se quello fosse anche
ciò che provasse il
ragazzino. Quelle sensazioni rabbia, senso di
ingiustizia verso l’uomo,
di annientamento totale dell’io
e di
annichilimento che il culto vantava di scaturire nei bambini, al fine
di
renderli delle marionette vuote; da
imbottire con le idee perverse del
culto.
Così facendo, i bambini venivano distrutti come individui e
ciò avveniva
proprio nella Wish House, che era il primo stadio da attraversare per
poi essere
plasmati come seguaci devoti e pronti ad essere giostrati dagli abili
burattinai
del culto. Schreiber stesso scrisse un articolo a tema e il simbolismo
di quei
fantocci combaciava alla perfezione.
Un
ululato lo fece sussultare e voltandosi,
gli parve di intravedere degli occhi rossi fissarlo, ma non fu in grado
di
stabilire fino a che punto fosse una sua suggestione. Girandosi attorno
non
vedeva nessuno, eppure si sentiva osservato, ed era una sensazione
gelante. Questo,
nonostante l’esser da solo. Nonostante non ci fosse nessuno
lì ed era accompagnato
solo dai fantocci dei bambini.
Di
colpo si fermò, oramai allo stremo delle sue
energie. Alzò appena gli occhi verso la coltre di nebbia, ma
oramai il piccolo
era fuori dalla sua gittata e non riusciva più a vederlo.
“Dannazione…”
disse.
Non
appena riprese fiato, cercò di scrutare
meglio il luogo e nonostante la pessima visibilità, distinse
la rete di metallo
che aveva visto prima. Scrutò meglio gli alberi e riconobbe
anche la scritta
rossa e la radice.
Era
tornato indietro?
Anche
i cani erano spariti e, ancora una volta,
sembrava che non si fosse mosso affatto dal punto di partenza. Stava
per
pronunciare un ennesimo ‘ma cosa diavolo?’,
ma si fermò.
Piuttosto
decise di inoltrarsi oltre la rete e
di raggiungere la zona successiva. Come ben ricordava, era proprio
lì dove era
posizionato un altro varco per l’appartamento 302.
L’ultima
volta era così che aveva evitato di ‘vagare
per l’eternità’
e allora decise di rifare lo stesso.
***
[LA
FORESTA DI SILENT HILL. La Wish House]
Si
ritrovò nuovamente lì, una volta tornato
nell’appartamento e posato la chiave a casa. Senza la chiave
aveva perso la
maledizione ed era potuto tornare indietro, dove si trovava
l’orfanotrofio.
Aveva
osservato bene la zona e anche nei pressi
della Wish House c’era il varco per l’appartamento.
Dunque, aveva recuperato
nuovamente la chiave, pronto a utilizzarla per accedere nel posto.
Solo
che…
Non
si aspettava affatto che al suo ritorno,
della Wish House non fosse rimasto assolutamente niente.
Cenere
e fumo fuoriuscivano dalle macerie che
erano al posto dell’orfanotrofio, e faceva un caldo infernale.
“Ma
cosa..?” disse. D’altro canto, non c’era
più
nulla da fare.
Tutto
era andato distrutto. La fonte dove
il piccolo Sullivan aveva ricevuto la prima educazione e le sue
conoscenze sui
ventuno sacramenti, era stata ridotta in polvere.
Si
avvicinò cautamente ai pochi resti che
rimanevano. Mentre esaminava, distinse anche l’insegna con su
scritto il nome
dell’orfanotrofio, e quella piccola rampa di scale che prima
era l’ingresso.
Alzò
gli occhi e, tra la cenere, distinse
persino quel vecchio fantoccio sulla sedia a rotelle. Era ancora
più consumato
dell’ultima volta, ma i pezzi, anche se rotti,
c’erano ancora tutti. Si
avvicinò a quella bambola e raccolse alcuni di quei pezzi
oramai distrutti.
Ricordava
ancora perfettamente dove li aveva
trovati, nella parte ‘profonda’ di
lui. Sul fondo di dei pozzi bui e oscuri. Aveva dovuto utilizzare una
particolare Fiamma
Sacra per
trovarli e solo allora ne comprese il senso.
Quell’orfanotrofio…
Era
una delle parti della vita che più aveva
segnato Sullivan. Era lì, dove si era convinto che la Santa
Madre fosse proprio
quella che avrebbe trovato nel suo appartamento.
Ma
la Santa Madre non era sua Madre. Le ventuno
eresie in realtà erano solo un rituale malsano per
resuscitare il demonio.
Mentre
riposizionava quei frammenti vicino alla
bambola consumata, riprese i suoi appunti in mano e li
sfogliò velocemente.
C'era
una volta un bambino collegato alla sua
mamma attraverso un magico cordone. Ma un giorno il cordone fu reciso,
e la
madre cadde in un sonno profondo. Il bambino rimase tutto solo.
Ma il bambino fece molti amici nella Wish House e tutti erano molto
gentili con
lui. Il bambino era felice. I suoi amici gli dissero come svegliare la
sua
mamma. Così il bambino andò subito a cercare di
svegliarla. Ma la mamma non si
svegliava. Per quanto lui provasse, lei proprio non si svegliava.
Questo perchè
in realtà quello che lui stava cercando di svegliare era il
Diavolo.
Il bambino pianse e pianse e pianse. Quando pensava alla sua mamma,
ricordava
la sensazione di essere collegato a lei attraverso il cordone magico.
Ma poi, da cielo scese un raggio di luce. La luce era calda e il
bambino si
sentì rincuorato. Quando il bambino si guardò la
mano, vide che stringeva il
cordone magico.
Con il cordone stretto nella sua mano, il bambino si
addormentò felice.
(Documento
nell’appartamento 302 infestato di Joseph Schreiber)
Solo
comprendere quella parte della vita
dell’assassino Walter Sullivan, gli aveva permesso di
sopravvivere e di
raggiungere la salvezza, a quel tempo. Ma ancora in quel momento
provava
turbamento nel leggere quelle parole.
Quasi
come se Henry se lo aspettasse, alzò gli
occhi in direzione del lato nord-est del giardino e vicino la porta
rivide il
piccolo Walter.
Si
guardarono per un istante, poi il bambino
aprì la porta e andò via. Henry si
alzò e mise via l’album di ritagli. Era
confuso e anche…spaventato.
“Perché
mi stai facendo questo?”
Anche
se pieno di frustrazione, non poté non
opporsi al volere di quell’assassino. Qualcosa lo voleva
lì, a ripercorrere il
suo passato, ed Henry sapeva di non avere scampo.
Non
era ancora riuscito a riprendersi, tuttavia
realizzò che poteva solo seguirlo, sperando di
capire…o meglio, di accettare
cosa gli stesse accadendo.
Henry
odiava quell’uomo. Era un assassino, il
che bastava per odiarlo. Nulla poteva giustificare i suoi crimini e le
terribili azioni commesse a chi aveva avuto la sfortuna di incrociare
il suo
cammino.
Nella
sua mentre ricordava la disperazione di
Joseph, le ferite della povera Eileen, di Cynthia che era morta in quel
lago di
sangue…
Era…imperdonabile.
Una macchina assassina
inaudita.
Eppure,
era anche quel bambino dagli occhi
tristi.
Scosse
la testa.
Ancora
una volta si stava lasciando ingannare.
Quello non era un bambino. Era solo il frutto della mente deviata di
Walter
Sullivan, che ancora aveva lasciato una traccia in quel mondo irreale.
Mentre
camminava, assorto nei suoi pensieri, non
si accorse che qualcuno stava correndo dalla direzione opposta e che
presto
entrò in collisione con lui.
Oramai
Henry si trovava nelle vicinanze del
cantiere, vicino la zona panoramica del bosco, e non si aspettava per
nulla
quello scontro.
“Ma
che diavolo?!” urlò quando fu urlato
violentemente da qualcuno.
Alzando
lo sguardo, vide un ragazzo smilzo dai
capelli rasati, dolorante a terra.
Un
volto simile non poteva non riconoscerlo.
Infatti sgranò gli occhi, sorpreso,mentre questi faceva per
rialzarsi.
“Jasper..?”
disse, ma egli sembrò non curarlo
affatto.
“T-t-ti
s-s-ono c-c-ad-uto addos-s-o, s-scusa!”
Henry
rimase sorpreso di vederlo parlare in quel
modo. Era di nuovo così balbuziente..?
“Cosa
c’è lì infondo?” chiese.
“I-io
li av-e-e-evo avvisati. Quel ficcana-aso
aveva r-r-r-agione. C’era dav-v-ero il D-diavolo a Pleasent
R-rive-er. Ma i-io
n-non l’ho vist-t-o p-p-erchè s-s-ono
fuggito.”
Andò
via grattandosi il capo freneticamente,
parlando senza curare minimamente Henry. Mentre andava via, non fece
nemmeno
caso che un ritaglio di giornale gli era caduto dalla tasca dei jeans.
Henry
lo raccolse e lesse. Erano due articoli di
giornale ritagliati dalla sezione dei necrologi. Riguardavano la
scoperta di
due studenti trovati senza vita nel college di Pleasent River.
“Nessun
indiziato…morte per entrambi da
strangolamento/soffocamento. Qualcuno aveva trafugato il cuore di
entrambi…gli
studenti Bobby Randolph e Sein Martin…”
Guardò
la data dell’articolo e risaliva a più di
dieci anni prima. Si girò fulmineo verso Jasper e
cercò di parlargli, ma egli
era oramai già lontano.
Bobby
e Sein…
I
due ragazzi di prima?
Mancava
ad entrambi il cuore e la cosa lo incuriosì.
Estrasse un nuovo ritaglio dal suo album.
"La
discesa della Santa Madre---i 21
sacramenti"
Il primo segno,
E Dio disse,
Quando sarà il momento, purifica il mondo con la mia ira.
Raccogli l'olio bianco, la coppa nera e il sangue dei dieci peccatori.
Preparati per il rito della Sacra Assunzione.
(Documento
trovato nella Wish House)
“Dieci
cuori…Walter?” disse e cercò subito fra
i
suoi appunti un altro documento.
“No.1...Dieci
cuor...
No.2...Dieci...
No.3...Dieci cuori...
No.4...Dieci cuori Steve Garl...
No.5...Dieci...
No.6...Dieci cuor...
No.7...Dieci cuori Billy Locane
No.8...Dieci cuori Miriam Locane
No.9...Dieci cuori...
No.10...Dieci...
No.11...Assunzione Walter Sullivan
No.12...Vuoto
No.13...Tenebre
No.14...Oscurità
No.15...Disperazione Joseph Schreiber
No.16...Tentazione Cynthia Velasquez
No.17...Fonte Jasper Gein
No.18...Vigilanza Andrew DeSalvo
No.19...Caos Richard Braintree
No.20...Madre Eileen Galvin
No.21...Saggezza Henry Townshend
(Ritaglio
rosso
trovato nell’appartamento 302, di Joseph Schreiber)
Quei due…facevano dunque parte del rituale?
Anche se Jasper era sparito, si voltò verso dove
l’aveva visto andar via.
Lui…era in quel momento esatto che doveva aver perso il
senno, e mai più
sarebbe tornato come prima. La sua vita non sarebbe più
stata semplicemente la
sua.
Jasper, affascinato dall’occulto, dal Diavolo, come lo
chiamavano lui e i suoi
colleghi, sull’ultimo si era tirato indietro impaurito. In
realtà i suoi timori
lo avevano salvato dall’inganno di Walter Sullivan, che aveva
attirato a sé i
suoi colleghi per estirparne il cuore ai fini del Rituale. Avevano
effettivamente incontrato il Diavolo.
Jasper…più per fatalità che per altro,
si era salvato.
Tuttavia ricordava le parole che egli urlò prima di perdere
i sensi e morire
arso dalle fiamme, sotto il numero 17/21 inciso sul suo braccio.
“Finalmente l’ho incontrato…il
Diavolo!!”
Henry chiuse gli occhi, percependo questa volta quel ricordo in modo
completamente diverso. Provò una profonda empatia con Jasper
per la prima
volta.
L’infausto destino che aveva evitato dieci anni prima, lo
aveva perseguitato
fino al momento della sua morte. Egli, da quel giorno, doveva aver
sempre
desiderato morire per mano di quello stesso Diavolo.
Proseguì e percorse quello strano cantiere fino a
raggiungere, finalmente, la
zona panoramica della foresta, con la vista sullo splendido e
agghiacciante
lago di Toluca.
***
[LA
FORESTA DI SILENT HILL. La zona panoramica.]
Il
piccolo Walter Sullivan era lì e osservava il
lago di Toluca.
Era
splendido. Peccato fosse vittima di tante
leggende macabre che sapevano destare tanta inquietudine nonostante
quelle
acque cristalline. La luna rifletteva la sua luce e donava
all’ambiente un che
di sacro. Stranamente
in quel
preciso punto la nebbia si dissipava decisamente rispetto al resto del
bosco,
in cui invece era padrona, fitta ed intensa.
Henry
si avvicinò al ragazzino con uno sguardo
serio.
“Sullivan,
fatti vivo.” disse.
Non
ne poteva più di vedere quel bambino.
Diamine! Lui era Walter Sullivan, non quel moccioso triste che guardava
solitario la luna. Era forse un codardo?
Non
riusciva a capacitarsi che non apparisse.
Perché doveva vedersela con la sua versione bambino?
Quell’assassino…era
il bambino.
Sgranò
gli occhi, all’improvviso.
Solo
allora capì, finalmente.
Capì
che quel bambino non c’entrava affatto con
niente.
Perché…
Quell’assassino…era
stato quel bambino…
Ma
il bambino…non era, invece, quell’assassino.
Il
discorso…non era reversibile.
In
quel momento aveva semplicemente a che fare
con un bambino senza nome, rinnegato e condannato a morte dalla nascita.
Aveva
conosciuto il suo aspetto più profondo,
che lo aveva morbosamente attaccato alla persona più
preziosa per lui, la
madre.
Quella
stessa, tuttavia, che lo aveva rinnegato.
Walter,
da lì in poi…non aveva avuto altro a cui
aggrapparsi.
Henry
deglutì e con fare incerto gli si rivolse.
“Ehi,
ragazzino. Hai trovato Bob?” gli chiese.
Walter
non si girò, ma continuò a guardare il
panorama.
“No.
Bob non tornerà. Il maiale me l’ha fatto
capire.”
“Il…maiale?”
“Stronzo.
Vorrei che…morisse…” disse il
ragazzino a denti stretti. “Lui…e quelli che hanno
imprigionato la mamma.”
Henry
si avvicinò a lui e guardò anch’egli il
panorama. Si poggiò con i gomiti sulla ringhiera e
osservò il ragazzino. Il
viso di Walter…non era quello che avrebbe dovuto avere un
bambino. Era
arrabbiato, colmo di odio.
“Chi
ti ha detto una cosa simile?” gli chiese.
“La
signora importante che è venuta a trovarci
in orfanotrofio. Ha detto che se studio la potrò
salvare…”
Henry
non disse nulla. Del resto…non aveva idea
di come reagire davanti a ciò che stava vedendo. Non voleva
provare pietà per Walter
Sullivan.
Eppure…provava
pietà per quel bambino che
sarebbe diventato lui.
Perché
quello stesso Walter Sullivan era stato
il frutto dei tanti orrori che aveva vissuto in quella terribile e
tormentata
infanzia.
Sebbene
fossero la stessa persona.
Era
una strana consapevolezza.
Dalla
spalla, sbirciò appena verso il viso del
piccolo e notò che aveva un grosso sfregio sulla guancia.
Lo
guardò sorpreso e solo allora Walter si girò
con uno sguardo apatico, rendendosi conto di essere osservato.
Henry
provò imbarazzo ad incrociare gli occhi
verdi di quel bambino e rimase immobile senza sapere che fare.
“Cosa
vuoi? Se mi hai aiutato a trovare la
chiave, allora vuoi qualcosa in cambio.”
Henry
sospirò.
“No…niente
fregature. Te l’avevo detto, no?”
Il
bambino abbassò il capo e Henry, per la prima
volta, abbandonò quell’espressione distaccata e
gli rivolse degli occhi più
compassionevoli.
Quella
tragedia…e lui era sopravvissuto. Eppure
questo non aveva impedito a qualcuno di approfittare del suo trauma e
di
monopolizzarlo in onore del culto.
Che
persone disgustose…
Se
non fosse stato per il culto, probabilmente,
quel piccolo Walter Sullivan non sarebbe diventato
quell’assassino spietato
pronto ad eseguire i ventuno sacramenti.
I
ventuno sacramenti che, in realtà, lo avevano
ingannato.
Perché
probabilmente Walter non aveva mai
creduto a quelle stupidaggini. Aveva sempre e solo avuto
l’intrinseco desiderio
di ricongiungersi alla donna che aveva sempre amato e che il culto gli
aveva
fatto credere essere prima l’appartamento 302, poi la Santa
Madre.
Il
bambino era stato ingannato. Il bambino
desiderava solo riaddormentarsi felice, cullato in attesa di una morte
dolce.
Una morte dolce con sua madre.
Istintivamente,
allungò dolcemente la mano verso
il bambino. Il suo gesto era privo di ogni razionalità e non
si accorse nemmeno
di quel desiderio intrinseco di dargli un tocco di dolcezza che mai
aveva
ricevuto nella vita.
Anche
Henry non aveva un ricordo molto
sentimentale della sua infanzia…
Quindi…credeva
di poter capire cosa significasse
desiderare dell’affetto. E allo stesso tempo averne paura.
Walter
intanto era assorto nei suoi pensieri e
quando si accorse della vicinanza di Henry, subito sobbalzò,
proprio prima che
la mano del ragazzo arrivasse a lui.
Subito
anche Henry si ritrasse e sentì il cuore
battergli forte, come resosi conto del disagio di entrambi.
Quel
bambino era abituato a vedere le mani di un
uomo non come una carezza, ma come un qualcosa pronto a sfregiarlo e
punirlo.
Per questo si era ritirato, non conoscendo nemmeno il significato della
dolcezza di un simil gesto.
Per
Henry, infondo, era lo stesso. La vita gli
aveva impedito di avere disinvoltura con gli affetti e la sua vita era
sempre
stata circondata di solitudine.
Se
ci pensava, nemmeno lui sapeva gestire quel
tipo di sensazioni, e per tutta la vita aveva persino cercato di
evitarle.
Sospirò
e si abbandonò lentamente fino a
scivolare a terra. Rimase seduto lì, immobile. Affianco al
piccolo Walter.
“Alla
fine non sono tanto diverso da te, lo
sai?” gli disse.
Abbozzò
un sorriso nostalgico e il biondino
sembrò farci caso. Infatti si incuriosì, ma
rimase a osservarlo in silenzio,
con le mani ancora serrate sulle sbarre della ringhiera.
Non
disse nulla e si chiuse in silenzio con
Henry Townshend. Eppure…il clima che si generò
non arrecò alcun imbarazzo a
nessuno dei due.
Henry
chiuse gli occhi e per la prima volta dopo
giorni e giorni, avverti quel senso di soffocamento e di stanchezza
abbandonarlo.
Gli
occhi non bruciavano più e si sentì
così
rilassato come mai avrebbe pensato di sentirsi. Meno che
nell’incubo.
Ma
andava bene così. Non cercò di spezzare quel
momento in nessun modo. La sua mente si stava lentamente spegnendo e il
sonno
prese il sopravvento.
…ma
perché?
Perché
di colpo tutta quella tranquillità in
corpo?
Solo
allora aprì appena gli occhi e rivolse il
volto verso Walter che era ancora lì ad osservare il lago.
Anche
lui aveva un volto diverso. Era meno
spento, meno apatico.
Meno…triste.
Per
un attimo, avvertì come se anche l’assassino
Walter Sullivan si fosse concesso un momento di pausa, lontano dai suoi
incubi
e i suoi tormenti.
Quello
stesso attimo, era come se fosse stato
concesso anche ad Henry.
Era
irrazionale, strano…
Eppure
era questo ciò che stava avvertendo.
Non
seppe trovare risposta.
Forse,
né Walter né Henry volevano giustificare
troppo quell’attimo.
Henry
chiuse nuovamente gli occhi. Sullivan fece
lo stesso, mentre la sua figura andava lentamente sostituendosi a
quella di un
uomo alto, con un lungo cappotto scuro.
Il
moro sentì una quiete irrazionale, non
accorgendosi nemmeno che Walter Sullivan adulto fosse lì.
Al
contrario, sentì una grande serenità che,
ingenuamente, gli fece credere che tutto fosse tornato normale. Come se
dalla
sua mente, fossero finalmente spariti tutti quei tormenti.
Entrambi
assorti in quella pace solenne e
piacevole, si abbandonarono alienandosi dal mondo che li circondava,
cullati
semplicemente dallo scroscio tenue delle acque del lago di Toluca,
sotto quella
luce fioca che filtrava appena nel buio tetro di quella notte.
[…]
NDA:
Il mio intento era di mostrare Walter Sullivan sia come un assassino,
come più
volte sottolineato da Henry, che come frutto di un tremendo passato.
Walter
e il bambino biondo rimangono comunque la
stessa persona, creando così pareri contrastanti sulla
figura dell’antagonista
di Silent Hill 4. A mio parere, Walter è e rimane un
antagonista incredibile e
spero di essere riuscita a farlo trasparire dalle mie parole.
Inoltre,
ritengo che Henry e Walter abbiano un
legame particolare. Questa mia convinzione un po’ dovuta
all’interpretazione
personale che ho sul fatto che egli sia “Colui
che riceve la Saggezza”, un
po’ perché lui entra in stretto contatto con
l’ inconscio
dell’assassino…
Durante
tutta la storia, farò del mio meglio per
approfondire quest’aspetto che li lega.
Walter,
in questo capitolo, ha voluto mostrare
un aspetto di “fragile” di sé. Un
aspetto che poi Henry riuscirà a comprendere
tant’è che nel finale decideranno di darsi persino
una tregua.
Ci
tenevo che la parte finale della fanfiction
fosse suggestiva e desse una sensazione di pace ma anche di
inquietudine.
Perché, dal mio punto di vista, sarebbe strano e bello
vedere Walter ed Henry
non darsi la caccia, ma rimanere in silenzio sulle rive di un lago.
Parlando
degli altri personaggi che appaiono in
questo capitolo, Sein e Bobby sono le vittime 02 e 03 di Sullivan e ho
voluto
rappresentarle più fedelmente possibile. Non esistono
documentazioni
approfondite di loro, ma spero comunque di averli resi dei personaggi
interessanti.
I
file sulle vittime dei 21 sacramenti li ho
reperiti su Silent Hill Apocalypse.
Ci
tenevo, inoltre, anche alla trattazione
dell’eccentrico Jasper Gein. È un tipo strano ma,
come ogni personaggio della
saga che si rispetti, anche lui è stato segnato da profondi
traumi che in lui
si manifestano con il suo modo di parlare e il suo atteggiamento. Spero
di
essere riuscita a proporre degli spunti di riflessione anche su di lui.
Dimenticavo
di spendere due parole sulla scena
iniziale con Eileen Galvin, Henry e il piccolo Walter. Mi sono
divertita molto
mentre scrivevo, spero che la piccola cutscene abbia fatto sorridere
anche a
voi.
Comunque,
tornando al discorso sull’infanzia di
Walter Sullivan, questo è un argomento che verrà
ripreso anche nel prossimo
capitolo, dunque vi lascio, in attesa di leggere le vostre opinioni^^
Grazie
dell’attenzione,
Fiammah_Grace
|
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Capitolo 4 *** Prigione acquatica ***
CAPITOLO 04
“Il
suo nome è Walter... Walter
Sullivan. Lavoravo all'orfanotrofio, badavo ai bambini... Io sono
Andrew
DeSalvo. Cercavano di farlo sembrare un orfanotrofio... Ma
secondo le
sacre scritture di quella città, era in realtà il
centro della loro religione.
Quel bambino, Walter... ci credeva davvero. Soprattutto dell'affare
riguardante
"L’ascensione della Santa Madre". Spaventoso... Mio Dio...
Oh... oh,
mio Dio...”
(Prigione
acquatica, Andrew De Salvo)
[APPARTAMENTO
303, South
Ashfield Heights]
Erano
le nove di sera ed
Eileen Galvin non la smetteva di ridere. Semplicemente non poteva.
Squadrava
Henry Townshend dalla testa ai piedi non riuscendo a capacitarsi di
come si
fosse conciato per quella cenetta fra loro.
“E’
da un po’ che non vai
ad un party, ammettilo!” disse, sghignazzando.
Henry
era sul piano della
cucina, intento a finire le preparazioni. Non si voltò
nemmeno, preferendo
annuire sarcasticamente.
“Cosa
avrei che non va?”
disse distrattamente, mentre sistemava i piatti sporchi nel lavandino.
Lei
fece spallucce.
“Oh,
non lo so…ti
presenti in abito da sera, e ho dovuto faticare per convincerti a
levare almeno
giacca e cravatta!” ammiccò.
Henry
non le rispose,
preferì piuttosto finire di rassettare tutto in silenzio.
In
effetti si era
presentato a casa di Eileen vestito con un elegante abito da cerimonia
nero,
una camicia celeste, con tanto di cravatta ben annodata sul collo,
portandole
inoltre, come di buon costume, dei fiori e dello spumante.
Eileen,
elegante in stile
casual, con un top rosa scuro stretto sul petto, dei pantaloncini blu e
i
tacchi, era rimasta incredula nel vederlo vestito quasi per un
matrimonio!
Non
si era reso conto di
essere inadeguato vestito così…aveva solo deciso
di seguire la tipica etichetta
dell’uomo galante, ma a quanto pareva, ciò che
aveva detto la sua vicina, era
vero.
Da
quanto tempo non
passava del tempo in compagnia, in effetti?
Ora
che conosceva Eileen,
serate simili accadevano spesso, ma in lui si creava comunque quel
senso di
inadeguatezza dovuta alla desuetudine.
Si
avvicinò con un dolce
alla crema. Eileen era seduta dietro il bancone della cucina e lo
guardava con
un sorriso tenue. Il ragazzo era felice di vederla così
spensierata. Stava
facendo di tutto per non mostrarle alcun segno di cedimento. Questo
perché non
voleva farla preoccupare troppo. Aveva la mente altrove,
però, questo era
certo.
Ancora
turbato da ciò che
aveva visto nella foresta, assieme alle vicissitudini che in generale
lo
stavano costringendo a riaprire quel terribile capitolo della sua vita,
Henry
Townshend si era chiuso ancora più in se stesso.
Ma
quella era la loro
serata. Di lui ed Eileen. Non doveva lasciarsi sopraffare.
Era
la serata in onore a
quel ‘party’ che tempo addietro non fu mai
cominciato. Doveva fare del suo
meglio per soppiantare quel forte istinto che in realtà lo
voleva lontano da lì
e dentro il mondo di Walter Sullivan.
Una
forte angoscia lo
stava tormentando da giorni, portandolo sempre nel suo appartamento e
nell’incubo. Era un richiamo incessante che lo torturava e lo
chiamava a gran
voce.
Anche
in quel momento
aveva quella forte pulsione, come se oramai tra lui e quel mondo si
fosse
istaurato un legame che non li voleva assolutamente lontani.
Cosa…gli
stava accadendo?
Henry
aveva terribilmente
paura dei suoi sentimenti, e aveva l’orribile presentimento
che, anche se
avesse chiuso col viaggiare in quella realtà malsana, non
sarebbe comunque
finita.
Anzi,
più lui reprimeva
quel richiamo, più era come se aumentasse
l’esigenza di tornare lì.
Era
colpa di Walter
Sullivan? Cosa era accaduto nella sua mente per colpa di
quell’uomo?
Il
cuore gli batteva
forte. Solo la sua natura indolente e tranquilla lo aiutò a
nascondere ogni
turbamento.
Si
sforzò con tutte le
sue forze di non cedere e di rimanere lì, nella sua
realtà, dove doveva restare
e vivere.
Prese
posto di fronte
Eileen. Stappò velocemente lo spumante che aveva portato,
lasciando volare via
il tappo in sughero, e riempì i calici di lui ed Eileen.
“…un
brindisi?” disse
lei, alzando il bicchiere e portando l’altra mano sotto il
mento.
“…uh?
…C-Certo.” le
rispose, balbettando appena. Era così soprappensiero che era
quasi sbandato
quando vide Eileen invitarlo a un brindisi di buon augurio.
Così alzò meccanicamente
il bicchiere e lo avvicinò a quello della ragazza.
Lei
sorrise, come
intenerita dal modo di fare di Henry, così insicuro e
impacciato ai suoi occhi.
“Cin-cin
a cosa, Henry?”
gli chiese suadente.
Egli
sgranò gli occhi e
fece spallucce. Lo stress lo stava consumando e non riusciva proprio a
coinvolgersi sia a livello fisico che mentale. Gli fu difficile
nascondersi
ancora.
“Henry…”
disse Eileen,
visibilmente preoccupata.
Il
moro ne era sicuro:
Eileen sapeva che c’era qualcosa che non andava. Era
un’attenta e arguta
osservatrice, per di più anche molto sensibile. Non aveva
idea su cosa la
facesse desistere nel non avanzare un interrogatorio.
Forse…semplicemente lo
stava facendo per lui.
Se
solo Henry avesse
potuto parlarle…
“…tutto
tornerà come
prima, va bene questo brindisi per te?” disse Eileen,
all’improvviso.
“Cos…”
rimase sorpreso di
quelle parole, così inaspettatamente appropriate.
“Riformulo
l’auspicio: qualunque
problema ci impedisca di tornare alla
normalità…” si fermò un
attimo,
abbassando gli occhi verso quelli verde pallido di Henry. La sua voce
calò e si
fece più rauca.
“Io…spero
tu ce la faccia
presto.”
Eileen
sembrava quasi con
la voce strozzata ed Henry avvertì un grande vuoto dentro di
sé nel vederla con
quei occhi tristi.
“Eileen…”
le disse.
Voleva
rassicurarla, ma
come poteva mai farlo? Lui stesso non aveva idea di cosa sarebbe
successo…a
cosa sarebbe andato mai incontro.
Non
sapeva quale epilogo
aveva dinanzi a sé, e il presagio che le cose fossero
peggiori di come credesse
lo tormentava enormemente, impedendogli di trovare la
serenità di quell’attimo.
Dunque,
ancora una volta,
soffocò le parole in gola, trovandosi
nell’infelice condizione di vedere
qualcuno a lui tanto caro perdersi nei suoi stessi occhi a furia di
cercare una
risposta che mai avrebbe trovato.
Henry
non ce la faceva
più.
Era
intossicato da quel
mondo. Non ne poteva più. Nella sua mente rimbombava sempre
di più il suo
terribile richiamo.
Si alzò e fece per posare via tutto, sotto gli occhi ancora
confusi della
giovane. Dopo aver sistemato le posate e tutto nel lavandino,
afferrò la giacca
e si avvicinò all’ingresso.
“Mi
dispiace…”bisbigliò
dandole definitivamente le spalle prima di andar via. Non era in grado
di
mandare ancora avanti quella serata.
Eileen
si alzò di scatto
vedendolo pronto ad andar via. Strinse gli occhi addolorata da quel
comportamento, tuttavia, al contrario, crebbe dentro di lei un istinto
che
superò qualsiasi barriera creata dallo sconforto e si
lanciò alle sue spalle,
cingendogli con forza la schiena.
Corse
così veloce che al
suo passaggio la candela accesa sul tavolo si spense lasciando la
stanza
completamente al buio, illuminata dalle luci serali provenienti dalla
strada.
Henry,
che aveva già
estratto le chiavi del suo appartamento, era così spossato
che sbandò sentendo
la sua dolce Eileen dietro di lui. Osservò le sue mani,
strette sui polsi
all’altezza del suo addome, e provò una strana
morsa al cuore.
La
ragazza aveva il capo
chino sulla sua schiena. I morbidi capelli castani scivolavano sul suo
viso
coprendolo quasi interamente. Si strinse ancora più forte ed
Henry ebbe la
sensazione che stesse tremando.
“Eileen..?”
le chiese,
incapace di capire come mai lei fosse lì, a stringerlo a
sé.
“…non
fa nulla.” rispose
lei in un sussurro, come se già conoscesse i suoi dubbi.
“Qualsiasi cosa tu
abbia, me ne parlerai più avanti, okay?”
Alzò
leggermente il viso
e divincolò appena Henry dalla sua presa, così
che lui potesse girarsi verso di
lei. Henry roteò il busto e si specchiò nei
meravigliosi occhi languidi e
determinati di lei.
Fu
un lungo istante in
cui rimasero a guardarsi negli occhi, agevolati dalla discrezione del
buio.
Eileen poi si riabbandonò su di lui e riprese a parlare
“…soldi, lavoro,
insonnia, quello che vuoi…ma non fare mai più
idiozie simili. Non cercare più
di scappare.”
Tremava
appena. Henry
avvertì che stava parlando sinceramente col cuore e una
fortissima scarica di
emozioni le scorreva in corpo.
“La
verità è un’altra
Eileen.” le disse a stento, assumendo questa volta uno
sguardo serio e
determinato.
A
quel punto Eileen lo
strinse ancora.
“…dopo
quello che abbiamo
passato assieme…non…non farlo mai più!
Non scappare più da me, Henry.”
Gli
occhi di Henry si
addolcirono nel vederla così. Lei…si era accorta
di tutto. E aveva anche
accettato di attenderlo.
Se
davvero fosse andata
via anche lei dalla sua vita, il suo mondo intero sarebbe sprofondato
definitivamente nella follia di ciò che stava vivendo.
Le
cinse le spalle e la
strinse a sé ricambiando quell’abbraccio. Henry,
in quel momento, aveva bisogno
più che mai di quella vicinanza.
La
sua presa fu così
salda e ardente che Eileen stesso se ne sorprese. I suoi occhi si
spalancarono,
soprafatti dall’emozione.
“Scusami.
Non lasciarmi
solo, Eileen...” le disse, sussurrandole debolmente
all’orecchio.
Eileen
non comprese, ma
avvertì un disperato bisogno di aiuto in quel sibilo, in
quell’abbraccio che
Henry aveva contraccambiato inaspettatamente.
Il
ragazzo avvicinò il
volto a quello di lei sempre di più, sentendo sulla pelle il
tenue respiro
della giovane vicina di casa, che andava a fondersi con il suo ogni
centimetro
che avanzava.
Gli
occhi di Eileen,
appena confusi, risplendevano con il loro color acquamarina.
Eileen…lei…la
trovava
davvero bella.
Le
poggiò delicatamente
la mano sul viso che lasciò scivolare dalla sua guancia sino
alle labbra. Henry
avvertì il respiro di lei farsi sempre più
intenso, tenendo ancora a freno le
sue emozioni. Continuò così a sfiorarle le labbra
fino a schiuderle appena.
Qualcosa
dentro di lui si
smosse e volle avvicinarsi ancora di più, cullato da quei
piaceri e dal
fortissimo desiderio di abbandonare se stesso.
Oppresso
e in balia di
una pazzia che ben presto lo avrebbe sopraffatto, desiderava quel salto
nel
vuoto assoluto, la perdita del suo stesso io…
Così
prese a baciarla
delicatamente, timoroso, ma i suoi desideri precedettero
l’autocontrollo, per
cui entrò nella sua bocca sempre più
intensamente.
Eileen
portò le braccia
sulle sue spalle, facendo sprofondare le dita sui suoi capelli,
spettinandoli.
Henry premette intensamente la sua bocca sulle morbide labbra di lei,
dal leggero
sapore dello champagne appena bevuto. Avvertì una feroce
scarica di emozioni
vibrare in corpo, incapace, in quel momento, di pensare ad altro. Le
strinse le
spalle con più forza.
Avvertì
tutto d’un tratto
le tensioni e le angosce, che rendevano un incubo la sua
realtà, ora voler
venire fuori con forza. Quasi come volesse cacciarle via dal suo corpo
per far
spazio ai suoi bisogni più intimi.
Eileen
stesso poté
percepire quel momento di sfogo assoluto del ragazzo, desideroso di
abbandonare
ogni paura. Lasciò quindi che ciò accadesse.
La
ragazza così fece
scivolare le mani sul suo petto. Presero ad avanzare, l’uno
di fronte l’altra
nel buio della stanza.
Eileen
spinse appena
Henry per invitarlo ad accomodarsi sul divano, dopodiché si
mise su di lui e
ripresero da dove erano rimasti. La ragazza levò via la
maglia e si strinse a
lui. Henry le accarezzò le spalle e la sua schiena nuda,
portandola sempre più
vicina a sé, finché entrambi non furono sdraiati
sul divano. Sbottonò la
camicia mentre teneva ancora stretta Eileen a sé, incapace
di lasciarla.
Era
come se fosse
consapevole che, se lei fosse andata via da lui, lui sarebbe tornato in
balia
di tormenti che lo avrebbero imprigionato per sempre.
L’appartamento
intanto richiamava a gran voce.
Mentre
si baciavano e
facevano l’amore, poteva sentire le catene della sua prigione
tintinnare,
risuonando fastidiosamente nella sua mente. Cominciò a
sudare, in preda alla
paura di tornare, di comprendere… ma mai si sarebbe fermato.
Non
voleva sentire quell’aria
pesante e quei suoni disturbanti perennemente nella sua mente. Persino
ora quel
crudele e spietato mondo continuava a chiamarlo.
Prese
a baciare ancora
più intensamente Eileen, avvolto da quei turbolenti
sentimenti che raggiunsero
persino lei, ma la ragazza non poté fare altro che
assecondarlo. Guardò Henry
turbata dalla sua passionalità, quasi morbosa ed ossessiva,
eppure eccitante
anche per lei.
Henry,
noncurante quasi,
continuava a stringerla, a baciarla, a farla entrare dentro di
sé, spinto dal
suo bisogno primario di essere trasportato lontano da tutto. Persino da
se
stesso.
Un
disperato bisogno di
aiuto che l’aveva in quel momento fatto crollare in un
baratro senza via
d’uscita.
…mentre
appena poco distante da lui, il buco dell’appartamento 302 lo
richiamava…ancora…ancora…
Il
buio, padrone assoluto
della stanza, era il solo conoscitore della pazzia turbolenta che
avvolgeva in
quel momento Colui che riceve saggezza,
il quale poteva sperare sulla sua discrezione per cancellare da
sé almeno per
una notte il puzzo di quell’incubo, in attesa del momento in
cui il prigioniero
sarebbe tornato nella sua cella.
…incessanti…tuttavia
le catene continuavano a risuonare…
***
Notte.
Henry,
nell’oscurità,
sollevò il busto. Era molto scombussolato e frastornato, una
fortissima ansia
batteva nel suo petto. Portò una mano fra i capelli, ma
l’aria era
irrespirabile. Completamente sudato, si mise seduto, facendo
sprofondare il
viso sulle nocche delle dita. Strinse i pugni premendo forte sulla sua
faccia,
fino a tremare.
Tuttavia
decise di
alzarsi. Sfiorò appena Eileen mentre prese a raccogliere i
suoi vestiti e
lasciare l’appartamento 303.
Eileen
seguì in silenzio
i suoi movimenti. Con addosso ancora il calore della sua pelle, strinse
a se il
telo a fiori che usava per coprire il divano.
Ebbe
la terribile
sensazione che, solcando quella porta, Henry non stesse semplicemente
chiudendo
la loro notte. Era come se…
…stesse
chiudendo
qualcosa di molto più profondo dentro di lui.
***
L’acqua
che gli accarezzava
la pelle alleviava in qualche modo il bruciore dei suoi occhi.
Ma
i rumori e le forti
vibrazioni provenienti dal buco chiamavano ancora.
Henry
aumentò il getto
della doccia e alzò il capo, sentendosi quasi affogare
dall’acqua che
picchiettava sul viso violentemente. Quel getto gli impediva di aprire
gli
occhi e la bocca. Gli permetteva a stento di respirare. Anche
l’udito venne
meno per via del forte flusso soffocante.
Ma
i rumori e le forti
vibrazioni provenienti dal buco chiamavano ancora.
Egli
corrucciò il viso e
strinse le labbra in una morsa. Il cuore batteva incessantemente forte
e la
testa cominciava a non pensare ad altro se non alla realtà
parallela.
Un
rimbombo risuonava
dentro di lui e continuava a chiamare…chiamare…
Un
curioso rumore così
simile ad uno stridulo prese, all’improvviso, a balenagli in
testa. Un rumore
inesistente all’esterno, ma sembrava ossessionarlo dentro di
sé fino alla
pazzia.
E
vibrava, vibrava da
morire nel suo corpo.
Lo
stridulo aumentava a
dismisura e più Henry lo ignorava, più aumentava.
Eppure non aveva un che di
artificiale…sembravano…
Sembravano
quasi delle urla infantili, acute,
che unite fra loro
lo chiamavano a gran voce, disperate.
Il
viso del ragazzo si
corrucciò sempre di più, la testa sembrava stesse
per esplodere e, oramai,
l’acqua stessa non sembrava più così
soffocante quanto quel rumore terribile.
Aprì
debolmente gli occhi
arrossati e guardò di fronte a sé apatico.
“Perché
mi sta accadendo
questo?” sussurrò.
Non
abitava nessuno lì
con lui. Ma l’appartamento stesso pulsava di vita propria e
lui, in quel
macabro contesto, non sembrava altro che un infelice marionetta, pronta
a
essere manovrata dal burattinaio di quella realtà
parallela…
La
sua domanda era
rivolta all’appartamento stesso, assurdamente vivo e,
paradossalmente, più
conscio di lui di ciò che stesse accadendo.
Sebbene
il getto della
doccia fosse freddo, quasi ghiacciato, dalla fronte, il giovane Henry
avvertì
un’unica goccia calda solcare il suo viso fino a fermarsi
vicino l’imboccatura
del naso.
“Nh?”
Portò
due dita vicino il
naso e le strofinò appena sul viso, leggermente infastidito.
Osservò la mano
con distratta curiosità e sgranò gli occhi alla
visione del color rame di cui
si erano tinteggiate.
Era
terribilmente
frastornato. Avvertì che altre gocce calde lo stavano
attraversando, in quel
momento.
Percepì
così un terribile
e repentino senso di nausea che quasi lo fece di venir meno.
Alzò
le braccia portando
le mani all’altezza degli occhi e vide il suo corpo oramai
imbrattato
completamente da scie rosse di gocce calde, vive, che attraversavano
ogni parte
di sé.
Le
sue mani presero a
tremare, incredule di quella visione. I suoi stessi occhi cominciarono
a essere
solcati da quell’orrido liquido impedendogli una perfetta
visuale.
Tutto,
tutto
all’improvviso divenne rosso.
Henry
tremava, tremava
sempre più forte e quel calore incessante gelò il
corpo del ragazzo, oramai
sull’orlo della pazzia.
“Ma
che cosa?!” urlò,
oramai incapace di reagire in quel completo stato di panico.
La
paura annebbiò la sua
mente e per lui fu completamente impossibile contare sul suo corpo, ora
paralizzato.
Chiuse
gli occhi, come se
volesse allontanare da sé quella visione.
Non
ne poteva più, non ne
poteva più di essere trattato così. Il petto gli
faceva male, gli occhi erano
incapaci di reggere ancora quell’incubo. La testa sembrava
scoppiare.
Avvertì
le gambe farsi
leggere e con un violento tonfo, si ritrovò inginocchiato
nella vasca-doccia.
Aveva
ancora gli occhi
chiusi, affranti. Completamente sconfortati.
Il
corpo umido prese a
tremare incessantemente e a quel punto sentì una forte
energia negativa
attraversarlo dentro.
Non
faceva che
chiederselo, oramai…
Semplicemente…perché
proprio lui?
Perché
lui che aveva
sempre vissuto una vita quasi insignificante, priva di qualsiasi calore
umano, completamente
circondato dalla solitudine, ora doveva subire questo?
Cosa
aveva…fatto di male?
Solo
perché aveva abitato
in quel dannato…appartamento 302? Era per questo che
meritava un simile
maltrattamento?
“Sullivan,
cosa vuoi da
me? Basta! Finiscila!” urlò, disperato, incapace
di accettare la sua
condizione.
Incapace
di accettare la
follia alla quale stava andando incontro.
Una
voce poi echeggiò
lontana. Era convinto provenisse dalla sua mente oramai sconvolta, ma
presto si
capacitò che quell’eco provenisse, invece, dalla
sua stessa casa.
Solo
allora spalancò gli
occhi e si guardò intorno spaesato. Istintivamente
osservò il suo corpo e lo
vide umido, freddo…
E…
Senza
tutto quel sangue
addosso.
“C-che diavolo…?!” disse.
Tutto
quel che aveva
avuto dinanzi a sé, di colpo, era svanito: l’odore
organico non c’era più,
l’acqua era limpida, e le vibrazioni erano sparite.
Solo
un eco, lontano, si
percepiva appena.
Henry
deglutì, ebbe come
la sensazione che Walter Sullivan avesse ascoltato e accolto le sue
urla, la
sua incapacità di comprendere e avesse...fatto cessare
quella macabra visione?
A
patto, ovviamente,
che…ritornasse lì.
Henry
deglutì nuovamente
ed uscì dalla vasca. Sapeva che era così. Poteva
scommetterci tutto quel che
voleva.
Più
Henry avrebbe
allontanato da sé l’incubo, più questi
lo avrebbe chiamato a gran voce, fino
alla pazzia.
Più
lui reprimeva quel
richiamo, più era come se aumentasse anche per lui
l’esigenza di tornare lì.
Ancora
con la pelle umida,
prese a vestirsi, tamponando appena i capelli con un asciugamano.
Dopodiché
scavalcò il buco e si lasciò scivolare al suo
interno.
***
5
otobbre
Mi
a pichiato di nuovvo.
No
avvevo fato gnete di malle.
Vorei
che fose morrto.
(scritta
rossa del “diario” di Walter Sullivan. Nella
foresta di Silent Hill)
[Prigione
cilindrica
acquatica, nella torre centrale della vigilanza. Nei pressi della
foresta di
Silent Hill]
Bruciava…
La
pelle…bruciava da
morire…
Il
ragazzo aprì
debolmente gli occhi e, come immaginava, si ritrovò in un
nuovo ambiente legato
al passato dell’assassino vendicativo Walter Sullivan.
Riuscì a stento ad
alzarsi in piedi perché polpacci e braccia pulsavano e
bruciavano
terribilmente.
Subito
tirò su le maniche
della camicia bianca e vide dei segni lividi sulle braccia. Qualunque
parte del
suo corpo bruciasse, era marchiata di quei segni brutali.
Li
guardò sorpreso,
incapace di ricordare come e quando se li fosse procurati.
Girandosi
attorno, non
gli fu difficile riconoscere quell’ambiente umido e
abbandonato.
Egli
era in una stanza
cilindrica, chiusa, con circa una decina di finestre a oblò.
Una scalinata
rugginosa posta al centro collegava la stanza ai piani inferiori e
superiori di
quella torre.
Henry
si trovava nella
torre della vigilanza dell’edificio cilindrico collegato alla
Wish House.
Ripensando
a
quell’orfanotrofio, si chiese quindi se avrebbe incontrato di
nuovo il bambino
biondo.
Comprese
che non era un
caso la sua presenza lì, nella zona di vigilanza, dunque
istintivamente sbirciò
attraverso una di quelle finestrelle sporche e opache.
La
prima stanza che
intravide era buia e a stento riusciva a vedere qualcosa.
Era
in condizioni
pietose: il letto era logoro, e il piccolo servizio igienico posto
lì vicino
non riusciva nemmeno a guardarlo senza che lo stomaco gli girasse.
Sporgendosi
meglio con la
visuale, intravide, tuttavia, una figura scura rannicchiata in un
angolo.
Sbandò
nel vedere quella
persona, perché non si era per nulla accorto di questa,
visto quel buio.
Era
coperto fino al capo
da uno sporco telo nero e s’intravedeva appena un braccio
pallido graffiare il
muro con qualcosa di appuntito. Sembrava tremare e scriveva
frettolosamente.
Henry
continuò ad
osservare. Quella figura sembrava non averlo notato e continuava ad
avere il
capo chino, e a dondolarsi con fare malsano.
Focalizzando
meglio
l’attenzione sui graffiti, si rese conto che era una
calligrafia imprecisa come
quella di un bambino.
Era
fatta con una sorta
di gesso rosso. Riusciva anche da lì a leggere
ciò che stava scrivendo:
“Mi
stanno guardando dalla camera centrale.”
Sbandò
nel leggere quella
scritta e per poco non perse l’equilibrio e cadere a terra.
“Ma
che diavolo..?!”
disse, con voce tremante.
Si
sforzò di ritrovare la
sanità mentale, ma l’idea di chi fosse quel tizio
nascosto sotto il telo, lo
terrorizzò.
Era
ancora scioccato per
quell’essere rannicchiato in cella, quando un urlo improvviso
echeggiò da una
delle stanze visibili dagli oblò.
Doveva
aver strillato una
persona davvero disperata per essere riuscita a gridare così
forte, visto che
Henry aveva potuto sentirlo nitidamente dalla torre centrale.
Si
avvicinò
immediatamente all’oblò e, sebbene con titubanza,
cominciò a sbirciare.
Si
ritrovò così lo
spettatore di una scena decisamente inaspettata.
L’uomo
col cappotto era
lì e stava trascinando violentemente un uomo sulla
cinquantina dentro una
cella. Era un uomo calvo, robusto, vestito in maniera trascurata.
Il
biondo assassino lo
scaraventò con forza nella cella e la goffaggine
dell’uomo si ritorse contro di
lui, poiché fu incapace di fermare il ragazzo prima che
questi lo chiudesse a
chiave nella stanza umida e sporca.
Walter
si affacciò dalla
finestrella a sbarre della porta con un sorriso diabolico. Rise poi di
gusto
alla visione di quell’uomo terrorizzato.
“Lasciami
andare!
Insomma…ma cosa ho fatto?” urlò lui,
spaventato.
Walter
rise ancora,
sgranando sempre di più gli occhi verde chiaro, che
spiccavano in quel contesto
trascurato e dalla scarsa luce.
“Andrew!
E’ da un pezzo
che non ci si vede! Dimmi, sei contento quanto me di questa bella
riunione di
famiglia..?” gli rispose, con voce eccitata.
Henry
solo allora guardò
meglio l’uomo grassoccio e gli sembrò di averlo
già visto.
“Andrew..?”
ripeté
incerto facendo mente locale.
Lo
aveva visto a stento
quel giorno, quando solcò per la prima volta il varco per la
prigione
cilindrica, per cui gli fu davvero difficile ricordare
quell’uomo.
Solo
quando osservò
attentamente i suoi movimenti goffi e l’atteggiamento
disorientato, ebbe chiaro
in mente chi fosse.
Ricordava
perfettamente
la placca che trovò sulla porta del seminterrato, dove aveva
visto sul corpo di
quell’uomo le incisioni 18/21 all’altezza dello
stomaco…
“Il…sorvegliante?”
Continuò
a guardare la
scena, facendo il meno rumore possibile e soffocando quanto
più poté il suo
respiro.
Andrew
De Salvo cominciò
a terrorizzarsi alla vista di quegli occhi e si comportò
esattamente come
Walter voleva. Anzi, più l’uomo dava di testa,
balbettando smarrito, più il
ragazzo biondo sembrava soddisfatto.
“Se
quel che vuoi sono i
soldi, posso indicarti dov’è la chiave della
cassetta. Oh, mio Dio…ti prego…non
farmi del male…io, posso…Oh mio Dio!”
farneticò.
Lo
sguardo
dell’assassino, a quel punto, si spense. Assunse
un’espressione più penetrante
e malvagia.
Prese
a fissarlo
intensamente e un ghigno si disegnò sul suo viso. Henry
aveva l’impressione che
fosse persino impietosito dalle parole di De Salvo. Come se, una parte
di lui,
commiserasse il fatto che non avesse ancora capito chi egli fosse.
Walter
scosse la testa
lentamente e con l’indice della mano gesticolò,
facendogli segno che non aveva
afferrato le sue intenzioni.
“Andrew,
Andrew…temo che
tu mi abbia frainteso. Io non sono qui per il denaro.” gli
rispose con voce
calma e rassicurante.
Il
sorvegliante portò una
mano sulla fronte e asciugò il sudore. Sembrava
così in preda al panico da non
essere capace di ascoltare una sola parola di Sullivan.
Quest’ultimo sembrò
accorgersene e il suo sguardo divenne sempre più glaciale e
colmo d’odio.
“Il
perché della mia
presenza…sei tu.”
Il
tono di Walter
diveniva sempre più rauco e serioso. Sembrava essere capace
di trafiggere la
propria vittima solo e semplicemente guardandola.
De
Salvo non gli prestò
attenzione ancora una volta e, al contrario, cominciò
inaspettatamente ad
adirarsi e a battere sulla porta violentemente.
“Lurido
straccione! Vile
a prendertela con un pover uomo che non ha fatto nulla di male nella
vita! Vai
via, prima che m’arrabbi sul serio e chiami
qualcuno!” urlò.
Sembrava
sul punto di
aizzarsi contro il giovane, ma Walter, con una velocità
inaudita, afferrò il
colletto sudaticcio della camicia di De Salvo e con veemenza lo
trascinò vicino
a sé.
“Nulla
di…male? Davvero?”
gli sussurrò con voce sempre più bassa, calda e
spettrale. “Tu, Grasso Maiale,
non hai mai fatto nulla di male nella tua patetica esistenza?”
Inarcò
le sopracciglia e
gli sorrise inquietantemente, divertito di gusto da quegli occhi tondi
che
cominciarono a tremare al contatto con suoi.
Quando
si sentì chiamato
di nuovo in quel modo, ‘Grasso Maiale’, De Salvo
cominciò a sudare
terribilmente. Prese a tremare e la bocca si deformò in una
smorfia di terrore.
Sembrava
come fosse stato
appena illuminato dalla ragione. Come se…avesse finalmente
compreso chi aveva
di fronte a sé.
Quel
nome non era solo il
modo in cui lo chiamavano quei…quei…marmocchi.
Era
il modo in cui lo
chiamava specialmente ‘quel’ bambino.
Quello che credeva al culto della “Santa
Madre” più
di ogni altro.
“T-tu…tu
sei..?”
Walter
lo trafisse cogli
occhi, come se volesse dare conferma a quel che si stava
materializzando nella
mente di De Salvo.
Solo
allora lasciò la
presa e si allontanò dalle sbarre riprendendo a sghignazzare.
De
Salvo si affacciò alle
sbarre della porta e protese un braccio verso l’uomo alto che
si allontanava
dalla sua mano sempre di più.
“Fermo!
Oh, mio Dio,
fermati! Fammi parlare! Fermo!”
L’uomo
robusto prese a
chiamare a gran voce, disperato, evocando aiuto e clemenza. Come se
sperasse in
cuor suo che non stesse accadendo realmente. Walter lo
guardò con la coda
dell’occhio con indifferenza, neanche minimamente scalfito da
quegli occhi
pieni di terrore.
In
tutta risposta rideva,
rideva finalmente felice di vedere quel lurido maiale prostrarsi
così
vergognosamente a lui.
“Ah,
ah, ah!” rise. “Non
hai idea di quale meraviglioso progetto tu faccia parte! E visto quanto
tu sia
sudicio, sporco, indegno e spregevole, dovresti considerarlo un gran
privilegio. Dico bene, Andrew?”
Henry
osservò quella
terribile situazione completamente incapace di pensare o dire nulla.
Seguì con
gli occhi Walter mentre faceva per andarsene, ma di colpo lo vide
sorpreso,
come se, proprio prima di proseguire, l’assassino fosse
rimasto attratto
dall’oblò alle spalle di De Salvo.
Scrutò
con fare dubbioso
e poi…sorrise.
Henry
ebbe la terribile
sensazione che Walter sorridesse proprio a lui. Il cuore
sussultò, frastornato
e accecato dal panico di essere osservato proprio da
quell’uomo.
Si
ritrasse e decise di
andare via da quel posto.
Non
poteva rimanere lì,
doveva assolutamente trovare il modo di uscire e alla svelta!
Si
avvicinò alla
scalinata rugginosa e scese fino al piano terra. Percorse poi quella
lunga
scalinata a chiocciola umida e buia, dove un tempo vi erano tutte quei
Wall-Man.
Ripensò
a
quell’uomo…Andrew De Salvo.
Quando
lo aveva
conosciuto, era riuscito a stento a scambiare con lui due parole,
mentre udì
per la prima volta il nome di Walter Sullivan.
Portò
alla mente quel
ricordo cercando di soffermarsi su ogni dettaglio. L’uomo di
mezza età era in
uno stato così confusionario che non seppe far altro che
delirare e invocare il
nome di Dio.
Da
quel po’ che sapeva,
l’uomo lavorava per la Wish House, l’orfanotrofio
nella foresta di Silent Hill.
La
Wish House e
l’edificio cilindrico erano come le due facciate opposte di
una stessa
medaglia.
La
sede principale era la
casa di legno in mezzo al bosco. La torre acquatica, o come era meglio
definirla, la prigione, veniva utilizzata per punire quei bambini che,
in un
modo o nell’altro, infrangevano le regole. Finivano
lì e venivano trattati in
modi subdoli, violenti, col solo fine di lavargli letteralmente il
cervello
secondo le malsane credenze del Culto.
Nella
prigione, i bambini
venivano schedati e controllati. Manipolati e violentati mentalmente.
Henry
si chiese in quel
momento se anche De Salvo, dopotutto, non si limitasse solo a
sorvegliarli, ma
anche…
Scosse
la testa, avendo
paura di sapere cosa accadesse per davvero in quelle celle. Giunse
finalmente
nel primo piano, dove erano situate le prime stanze della prigione, e
cominciò
a camminare cautamente per i corridoi.
C’era
un silenzio
agghiacciante e il gocciolio dell’acqua era l’unica
presenza viva lì, oltre a
Henry.
Tuttavia
doveva essere
cauto.
Walter
poteva essere
ancora nei paraggi.
Di
colpo udì un lieve brusio,
che aumentava man mano che avanzava. Henry si chiese chi potesse mai
essere.
Le
voci erano sempre più
nitide e presto si rese conto che provenivano da una cella ben precisa.
Si
fermò e decise di non
avanzare oltre.
Chiunque
fosse, poteva
essere legato a Walter o ai cultori della setta. Non doveva in nessun
modo
farsi trovare. Tese dunque l’orecchio e sperò di
riuscire a comprendere il
senso delle parole che stava udendo.
Da
come parlavano,
sembravano due ingegneri o alcuni che conoscessero bene il posto, visto
che
discutevano sull’architettura dell’edificio.
“Questo
posto comincia a
deteriorarsi, signor De Salvo. Occorre trovare al più presto
una soluzione.”
“Avvisare
quei pazzi? Ma
nemmeno per sogno! Meno sanno, meglio è. Specie i bambini.
Li vedo ogni giorno
divenire sempre più emancipati, senza la
possibilità di nutrirsi o lavarsi.
Sembrano…dei fagottini grigi e puzzolenti. Ma parlare ora
significherebbe
scatenare il panico, o peggio…” la voce del
sorvegliante si bloccò. “A-a
proposito. Per i corpi, dunque? Cosa si fa?” aggiunse,
cambiando discorso.
Sebbene
Henry fosse
sorpreso di udire la voce di De Salvo, che aveva appena visto essere
imprigionato, decise di non interferire e continuò ad
ascoltare silenzioso.
“E’
ancora possibile
ruotare le stanze, no?” rispose l’ingegnere.
“Nessuno se ne accorgerà se
utilizza le fosse. Le allinei e andranno direttamente nel seminterrato,
dove
poi se ne sbarazzerà in piena tranquillità
gettandoli nel lago.” sospirò.
“Tanto il lago di Toluca ne ha già tante di storie
drammatiche conservate
gelosamente tra le sue limpide acque…”
De
Salvo sembrò annuire
alle sue parole, dopodiché Henry udì una porta
metallica aprirsi e sbattere
violentemente.
Henry
si trovava
praticamente di fronte la porta, dove diavolo erano andati, dunque?
Si
avvicinò subito alla
porta e si affacciò dalla piccola fessura posta in alto.
Sgranò gli occhi
quando vide che nella cella non c’era nessuno. Non solo. Non
vi era nemmeno una
porta di servizio o qualcosa del genere.
Allora
quel rumore cosa
diavolo era stato?
La
sua mente ipotizzò che
quel mondo era così fittizio e malsano che, quel che aveva
udito, avrebbe
potuto senza problemi essere un frammento dei ricordi di Walter
Sullivan, alla
luce delle raccapriccianti rivelazioni riguardo quella torre, ma non
osò
chiedersi di più.
Provò
ad aprire la porta,
cercando di forzarla, ma la ruggine e l’umidità
sembravano averla bloccata.
“Accidenti…chiusa.”
disse
a denti stretti, poi si affacciò nuovamente alla finestrella.
Vide
ai piedi del letto
dei fagottini grigi. Sembravano quasi dei teli neri, consumati, sotto i
quali
era nascosto qualcosa.
Henry
deglutì quando ebbe
la terribile sensazione che nascondessero proprio dei corpi. Era
davvero
strano…
Erano
quelli i corpi di
cui De Salvo e l’ingegnere stavano parlando?
Perché erano lì?
Somigliavano
decisamente
a quell’altro tizio che aveva intravisto da uno degli
oblò, quello che scriveva
frettolosamente.
“Ma
come può essere
accaduto..?”
Era
una visione terribile
da vedere, Henry non ne poteva più di sopportare quel mondo
tutto matto. Quei
fagottini…altro non erano che i bambini del culto?
Da
sotto i teli neri
fuoriuscivano gambe e braccia pallide. Erano così ammassati
fra loro da non
rendere facile nemmeno la distinzione dei singoli corpi.
Henry
continuava ad
osservarli inorridito eppure…una nota di malinconia si
disegnò sul suo volto.
Come
era potuto accadere?
Cosa avevano fatto quei bambini per meritare una morte tanto orrenda?
Solo
dopo, si accorse a
suo malgrado, che un fagottino sussultò.
Egli
sgranò gli occhi,
come se non credesse ai propri occhi.
Possibile che fossero…ancora vivi?!
Uno
dei teli neri si alzò
e si voltò verso Henry. Un terribile mostro, con mani al
posto dei piedi e due
volti di bambino, lo indicò con un viso malsano e rimase
immobile sotto gli
occhi impietriti di Henry.
“Ah!”
urlò di colpo e
cadde a terra perdendo l’equilibro.
Dalla
finestrella
riusciva a vedere ancora il mostro che lo indicava con
l’indice, come un vigilante severo,
i cui occhi non smettevano di
fissarlo.
Solo
dopo una manciata di
secondi, questi si mosse ed attaccò ferocemente il ragazzo
colpendo la porta
violentemente.
Sotto
gli occhi
sgomentati di Henry, il mostro picchiò con le mani pallide e
robuste fino a
deformare la porta. Anche l’altro doublehead si mosse, e
assieme colpirono la
porta a suon di pugni fino a sfondarla completamente.
Solo
allora Henry si rese
conto che doveva trovare subito un modo per sbarazzarsi di loro!
Non
aveva oggetti di
difesa con sé dunque cercò sul posto, correndo
per i corridoi, un’arma di
fortuna che lo aiutasse nello scontro.
Vide
un tubo di scarico,
probabilmente utile per far fluire l’acqua, e lo
forzò violentemente sperando
di prenderlo prima che i mosti lo raggiungessero.
La
sorte sembrò, una
volta tanto, girare in suo favore. Il tubo si staccò e
l’acqua uscì
copiosamente, colpendo uno dei due mostri a fagotto.
Il
tubo era resistente e
sufficientemente appuntito per far male. Henry aveva avuto
già esperienza con
quel tipo di mostri e di lì a poco li colpì
veementemente fino a quando non lì
immobilizzò a terra e per essi, fu praticamente la fine.
Continuò
a colpirli
ripetutamente col tubo e dopo poco cessarono definitivamente di
muoversi.
Henry,
affaticato dal
quel combattimento inaspettato, dovette trovare sostegno sulla parete.
Poggiò
per qualche istante la schiena sul muro bagnato e corroso, ansimante e
col
cuore palpitante.
Aveva
la camicia
completamente bagnata e sporca di sangue e ruggine. Quei due mostri
erano stati
capaci di spiazzarlo, in quel momento.
Ansimava
ancora, mentre
prese ad osservare la porta metallica ora distrutta a terra. Decise che
quello
non fosse il momento per indugiare ulteriormente, al che
entrò nella stanza.
La
stanza ora era vuota
e, dopo averla scrutata attentamente, confermò il fatto che
non ci fosse
null’altro lì.
Il
suo volto andò
istintivamente versi i corpi dei mostri neri.
Erano
loro i ‘fagottini
grigi e puzzolenti’? Quei bambini morti in quella prigione
corrosa?
Si
avvicinò a uno di loro
ed ebbe la terribile sensazione che quei ‘bambini’
avessero avuto la stessa,
terribile sorte, dei mostri giganti dalle sembianze da donna del St.
Jerome.
A
loro era stato portato
via l’utero per via di un disturbo mentale di Walter sulle
donne…
Loro
invece…
Rappresentavano,
dunque,
quel terribile momento della vita che l’assassino aveva
vissuto, mentre era
prigioniero lì?
Riguardando
i due
doublehead provò una grande pietà. Era una
visione…raccapricciante, qual’ora
avesse avuto l’intuizione giusta circa la loro
simbolicità.
Dei
corpi ammucchiati,
oramai indistinguibili e che rappresentavano qualcosa che Walter aveva
visto lì
dentro, fino a creare quella macabra rappresentazione.
Proprio
come dei piccoli fagottini grigi e puzzolenti.
Morti
scaricati disumanamente
nelle fondamenta della torre, sotto quei teli neri che li nascondevano,
agli
occhi di un bambino dovevano proprio dare l’idea di essere
dei mostri amorfi
dalla struttura anatomica confusa.
Non
solo…in essi era
racchiuso anche il concetto del “vigilante”; i
mostri infatti prima di
attaccare indicavano severamente e colpivano brutalmente chi osava
muoversi
entro la gittata dei loro occhi inquisitori.
Da
sotto uno dei due
corpi intravide, poi, una scritta rossa. Il moro se ne sorprese. Era
una
scritta che non c’era prima, ne era più che sicuro.
Inoltre…
Stava
accadendo
esattamente come nell’ospedale St. Jerome…
Col
tubo appuntito
allontanò il corpo del “mostro” e lesse.
Era
uno scritto lungo e
stretto, per Henry fu chiaro solo il significato delle ultime righe.
PS:
Capo, scommetto che
muori dalla voglia di vedere la camera degli interrogatori dietro la
cucina.
Capisco come ti senti, ma hai notato? Ci sono tre camere con letti
insanguinati. Una è al primo piano, una al secondo, e una al
terzo piano. Se
allinei quelle tre camere “bingo”, è
fatta.
Riconobbe
quelle parole e
subito estrasse dal suo album di ritagli un vecchio scritto risalente
al suo
primo ingresso alla prigione cilindrica.
“Questo
posto continua a deteriorasi. Le
porte di molte celle non si aprono più. Di conseguenza, i
bambini che vi stanno
dentro non possono più uscire. Ma meno loro ne sanno, e
meglio è.
Ma riesco ad aprire le porte, ma da questa stanza posso vederli
diventare ogni
giorno più emancipati. Senza la possibilità di
nutrirsi o di lavarsi, stanno
diventando dei piccoli fagottini grigi e puzzolenti lì
dentro.
Abbiamo seguito il suggerimento di un ingegnere e ci siamo sbarazzati
dei
cadaveri scavando una fossa sotto le celle. Poiché ogni
piano di questo
edificio può essere ruotato indipendentemente, possiamo
sbarazzarci dei
cadaveri. senza che gli altri se ne accorgano, allineando verticalmente
ogni
cella contenente un corpo.
P.S.
Capo,
scommetto che muori dalla voglia di vedere la camera degli
interrogatori dietro
la cucina. Capisco come ti senti, ma hai notato? Ci sono tre camere con
letti
insanguinati. Una è al primo piano, una al secondo, e una al
terzo piano. Se
allinei quelle tre camere "bingo", è fatta.”
(Nota
sul muro della torre centrale della vigilanza, nella prigione circolare
acquatica)
Henry
si chiese se, ruotando nuovamente quelle
celle, non sarebbe accaduto qualcosa. Comunque non poteva fare
altrimenti.
Anzi, stare lì immobile lo avrebbe reso una preda facile per
Sullivan. Doveva
affrettarsi.
Mentre
correva cercando di raggiungere il prima
possibile la torre della vigilanza, riportò alla mente
quell’assassino folle.
Egli…era
stato picchiato brutalmente dai membri
del culto. Inoltre questi avevano fatto nascere in lui delle
convinzioni
assurde premendo sul suo intrinseco desiderio di riavere sua madre.
Quel
Walter, lui…
Era
anch’egli vittima di quell’incubo?
Quella
domanda gli sorse nella mente spontanea.
Fino
a quel momento non ci aveva pensato
granché, ma alla luce del suo terzo viaggio nella
realtà parallela, gli
sembrava sempre più evidente che lui era stato la terribile
vittima di un
crudele destino.
Ironicamente,
poi, aveva costruito un mondo
malsano in onore ad una fantomatica “Santa Madre” e
organizzato una vendetta
che, alla fine, gli si era rivoltata violentemente contro.
Henry
si chiedeva se anche Walter ne fosse
consapevole.
La
sua mente era un subbuglio. Probabilmente ciò
era dovuto al modo in cui stava viaggiando.
La
prima volta che aveva esplorato la mente di
Sullivan, era stato tutto molto confuso, e aveva veduto la sua vita in
maniera
troppo sconnessa e frammentata.
Ora
invece aveva avuto modo di vedere le cose
con ordine.
Il
luogo dove egli era stato salvato, il St.
Jerome; poi aveva attraversato la sua infanzia nella Wish House, e
adesso stava
osservando da più vicino la crudeltà fisica e
psicologica che aveva subito dal
Culto.
Il
disegno che aveva della prima infanzia
dell’assassino, adesso era molto più chiaro
e…disturbante.
Per
Henry, tuttavia, era davvero dura pensare a
quelle parole. Per lui, quell’uomo, era e rimaneva
tutt’ora una spietata
macchina mortale. Tuttavia era ben chiaro persino a lui che stesse
mentendo a
se stesso. Qualcosa stava cambiando enormemente dentro di lui. Se ne
rendeva
conto ogni istante di più.
Sentiva
come se…avesse lui stesso provato sulla
sua pelle quell’incubo. E non solo in quel momento, ma anche
durante i suoi
primi viaggi.
I
colpi che aveva incassato dai mostri del suo
passato, le persone che aveva incontrato, i sentimenti
provati…
Erano
tutte le emozioni che anche Walter, un
tempo, aveva covato in corpo. Fino a…divenire quello
spietato e folle cultore,
pronto per i ventuno sacramenti.
Continuò
a camminare pensieroso e fece per
solcare le doppie porte rugginose, senza accorgersi di un uomo alle sue
spalle
che, quando lo vide, gli si rivolse incredulo.
Egli
tese una mano verso Henry, ma le sbarre
della porta dietro cui si trovava, gli impedirono di raggiungerlo.
“Aiutami,
ragazzo! Aiutami, prima che arrivi!
Lui…arriverà e…e mi
ucciderà!” urlò in preda dalla paura.
“…Walter mi ucciderà,
aiutami..!”
Henry
si voltò di scatto nell’udire quella voce.
Si imbatté così nel sorvegliante della prigione.
“Signor
De Salvo..?” chiese dubbioso.
“Cosa?
C-conosci il mio…nome?”
De
Salvo sembrò cambiare drasticamente
atteggiamento quando Henry pronunciò il suo nome. Henry si
sentì scrutare dalla
testa ai piedi da quell’uomo, quasi come se questi si stesse
accertando di
conoscerlo o meno.
Dal
punto di vista di De Salvo, vedere quel
giovane, all’incirca della stessa età di Sullivan,
lo spaventò e presto inveì
contro di lui.
“Ho
capito! Sei con quel lurido pezzo di merda,
tu! Liberami immediatamente o ti pentirai per quello che stai facendo!
Oh, sì,
che te ne pentirai, stanne certo!”
ringhiò con gli occhi da fuori.
Henry
rimase sbigottito da quella reazione, ma
cercò ugualmente di mantenere il sangue freddo.
“Di
che sta parlando?” chiese fermamente,
ignorando gli insulti di De Salvo.
“Sei
cresciuto qui anche tu, vero?! Bene…allora
avrai anche tu assaggiato uno dei miei ‘sistemi di
educazione’. L’ho fatto con
gran parte dei bambini della congrega e, se conosci il mio nome, lo
avrai
provato…eh, eh. Prova dunque solo a bluffare e te ne
pentirai!”
Sebbene
tremasse ancora per via dell’incontro
imminente con Sullivan, Henry percepì qualcosa di
disturbante dalle parole di
De Salvo. Come poteva…sogghignare nel pensare a tutti quei
bambini sfortunati?
Lui
poi che non aveva fatto altro che
maltrattarli.
Oppure…
Henry
sgranò gli occhi e violentemente batté un
pugno contro la porta, facendo allontanare quel povero codardo dalla
fessura
con le sbarre.
“Stai
parlando di dei bambini! Non scordarlo! Di
cosa diavolo parli, te lo ripeto!” inveì, urlando
come raramente faceva.
Sentiva la rabbia ribollire dentro di lui, come se potesse essere in
grado di
incenerirlo con il solo sguardo.
Aveva
delle emozioni così vive che…
…Era
come se fosse perfettamente cosciente di
tutto ciò che quel Grasso Maiale avesse commesso, in
verità.
“Oh,
mio Dio…Oh, mio Dio…non perdere la
calma…io…io…oh, povero me!”
Il
tono di De Salvo tornò basso e tremolante.
Proprio come un debole e vile vigliacco, si rintanò dentro
la cella, incapace
di affrontare Henry.
“Quel
che hai detto…è davvero patetico.”
disse e
si allontanò.
Quando
lo vide allontanarsi, Andrew si allarmò e
protese nuovamente il braccio verso di lui.
“Aiutami…!
Ti prego…sta venendo ad uccidermi!
Walter mi ucciderà…!”
Henry
si voltò a stento. Solcò la soglia del
portone e lo guardò un’ultima volta.
“Tranquillo.
Presto finirà tutto. Questo, in
fondo…è
già accaduto.”
…e
andò via.
***
Quando
giunse nel
terrazzino esterno con la scalinata a chiocciola, non vide altro che la
nebbia,
ma dopotutto…era normale.
Si
trovava ancora nei
pressi di Silent Hill e lì, la nebbia, era sempre stata la
compagna fedele dei
viaggiatori che solcavano le sue vie e i suoi meandri.
Dal
taschino estrasse la
mappa del terzo e ultimo piano dell’edificio cilindrico.
Aveva già acceso le
luci allineando le stanze con i letti sporchi di sangue dalla torre
centrale.
Ripensando
al messaggio
trovato sotto il corpo del mostro dalle doppie facce, dedusse che era
lì dove
doveva giungere. Nel piano sotterraneo.
Mentre
camminava
percorrendo quella passerella esterna circolare, non si sorprese di
udire degli
spari, anche se questi rimbombarono improvvisamente. Avanzando ancora
intravide
Walter Sullivan alle prese con dei hummer, che volavano fastidiosi da
quelle
parti.
Henry
doveva proseguire,
che ci fosse lui o meno. Forse, se fosse arrivato nei sotterranei,
avrebbe
potuto finalmente uscire.
L’assassino
ci impiegò
poco a notarlo e, nell’incrociare gli occhi di Henry, subito
sorrise
soddisfatto.
“Ciao,
Henry.” disse con
fare malsano, ma stranamente colloquiale. “Ho visto che hai
incontrato il
Grasso Maiale.”
Henry
non rispose, rimase
lì in silenzio, non sapendo proprio come fuggire al suo
sguardo. Sentiva
un’orribile turbolenza dentro di sé, non riuscendo
ad escogitare un modo per
divincolarsi da quell’infelice incontro.
Tuttavia,
lui era lì per
il volere di Walter, dunque più volte ebbe la tentazione di
porgli alcune
domande. Qualcosa però lo fece desistere.
Cosa
gli doveva mai
chiedere? Cosa…avrebbe conosciuto? Le reali intenzioni di
Walter?
Henry
le voleva per davvero
conoscere…?
L’uomo
dal lungo cappotto
blu intanto continuava ad osservarlo compiaciuto.
All’improvviso tese il
braccio sinistro e gli puntò contro una mazza di legno
appuntita.
“Tra
poco rivivrà
anch’egli la sua condanna. Non ti va di vedere?”
Improvvisamente
Walter si
scagliò contro di lui, roteando su se stesso e cercando di
colpire con la mazza
scheggiata il giovane Henry.
Henry
riuscì a schivare
il colpo, ma per poco non cadde nel precipizio. Rimase a guardare da
quell’altezza vertiginosa l’ambiente, completamente
offuscato dalla nebbia.
Scrutò
l’assassino e
comprese in pochissimi attimi che non poteva assolutamente fare nulla,
al
momento, se non fuggire.
Non
sapeva a cosa sarebbe
valso fuggire, in realtà. Quello era il mondo di Walter
Sullivan.
Era
lui l’assoluto
sovrano e burattinaio.
Henry,
suo malgrado, era
solo una marionetta nelle sue mani.
Dunque,
una volta evitato
il colpo, corse via verso le scalette a piolo poste in concomitanza dei
vari
piani dell’edificio.
Walter,
dal suo canto,
sembrava quasi divertito della fuga di Henry e subito sparò
all’aria dei colpi
come se volesse intimorirlo, prendendo a ridere davvero di gusto.
Mentre
Henry saliva
frettolosamente le scale e faceva per raggiungere il terzo piano,
l’uomo lo osservava,
non cessando comunque di ridere.
“Dov’è
che avresti
intenzione di andare, Henry?” urlò, spalancando le
braccia e alzando il mento
mentre vedeva lo sventurato ragazzo proseguire su per la torre.
“Ma credi
davvero che esista, qui dentro, un posto sicuro per te? Ah ah
ah..!”
Il
cuore di Henry batteva
forte e l’adrenalina saliva a dismisura. Spalancò
la porta arrugginita a doppie
ante sotto lo sguardo divertito di Sullivan, ed entrò di
getto.
Voleva
sfuggirgli?
Sapeva
che era
impossibile. Poteva però almeno sperare di seminarlo.
Avrebbe così avuto almeno
il tempo per riflettere sull’agire.
Osservò
frettolosamente
la mappa e solcò la cella dove aveva appuntato la posizione
del lettino con
l’orma rossa.
Al
momento aveva un solo
indizio, ed era quello che intendeva seguire. Doveva raggiungere
assolutamente
il seminterrato. E per farlo doveva raggiungere quella stanza.
“Eccola.” disse con il fiatone che gli soffocava la
voce.
Entrò
e guardò il letto
insanguinato, con l’orma impressa di una figura umana,
disegnata a malapena
sulle lenzuola. Guardò il buco ai suoi piedi.
Non
si vedeva un
accidenti da li. Si chiese cosa mai avrebbe trovato, una volta
gettatosi nel
vuoto e raggiunto quel luogo terribile…
Uno
sparo improvviso,
poi, lo sfiorò appena, gelandogli il sangue e offuscandogli
la mente. Si voltò
e alle sue spalle vide di nuovo Walter Sullivan.
La
bocca della sua
pistola fumava ancora e l’uomo dai capelli biondi assunse
un’espressione
derisoria nei confronti del ragazzo. Continuò a sogghignare
maligno, sotto gli
occhi sgomentati di Henry.
Il
moro fece del suo
meglio per rimanere calmo, mantenendo il sangue freddo e i nervi saldi.
“Che
cosa…vuoi da me?”
disse a denti stretti.
Walter
fece spallucce e
rise ancora. Il suo tono era caldo e profondo, tuttavia enormemente
inquietante. Teneva la pistola in mano con una nonchalance inaudita ed
Henry si
sentì inquieto nel vederlo così disinvolto con
quell’aggeggio mortale. Ancora
una volta, aveva avuto conferma della sua mente malsana.
Il
ragazzo biondo prese
ad avanzare verso di lui ed Henry vide la sua figura longilinea, eppure
imponente, arrivare a giusto una ventina di centimetri di distanza da
lui.
Subito
sentì l’esigenza
di indietreggiare, ma presto trovò alle sue spalle il foro
circolare del
pavimento e per poco non perse l’equilibrio.
Non
vedeva scappatoie e
sentì una goccia di sudore solcare il suo viso.
Poteva
anche saltare e
raggiungere il piano inferiore, pensò, ma era completamente
sotto shock nel
vedere quel carnefice sempre più vicino a lui, tanto che si
sentì come
paralizzato dalla sua presenza.
Sentiva
che le sue gambe
non fossero più in grado di muoversi. Come se i suoi occhi
non potessero più
reggere lo sguardo di lui.
Walter
avanzò ancora e si
fermò poco distante da lui. Henry calò gli occhi.
L’assassino continuava,
invece, a guardarlo con gli occhi spalancati, fissi su di lui,
e…sogghignava
dello sgomento del giovane.
L’uomo
alto col cappotto
si chinò verso il viso di Henry e si avvicinò a
lui con fare provocatorio,
mettendo a dura prova la sanità mentale del ragazzo.
Poteva
avvertire il suo
respiro. Era come se Walter fosse in grado di soffocarlo semplicemente
con quel
gesto. Come se potesse entrare nella sua anima e ucciderlo
dall’interno.
Walter
continuò a
rimanere chino verso il suo viso. Con la canna della pistola, poi,
alzò il
mento di Henry, costringendolo così a guardarlo negli occhi.
Gli
occhi del ragazzo si
riempirono di terrore e d’inquietudine mentre si specchiavano
in quelli di
Sullivan.
Ovviamente
lui non era un
uomo qualunque, lui era l’uomo 11/21, l’uomo dei
ventuno sacramenti. Lui poteva
qualunque cosa, in quel momento. Poteva mandare in panne la sua mente,
poteva…persino ucciderlo.
Henry
era costretto a
fissarlo, incapace di reagire.
Deglutì,
perché il corpo,
in quell’istante, non rispondeva alla sua mente.
Non
faceva che ripetersi
che doveva scappare. Che dove trovare una via di fuga o ci sarebbero
stati
grossi guai per lui.
Distolse
gli occhi verde
pallido da quelli di Walter e l’assassino, in tutta risposta,
premette più
violentemente la canna sul collo di lui.
Lo
sguardo di Henry prese
a tremare e gli occhi finirono nuovamente verso quelli
dell’uomo di fronte a
sé, il quale prese di nuovo a sogghignare.
“Tu…”
Sussurrò
a malapena
Henry, e solo allora vide le labbra di Sullivan finalmente schiudersi.
“buh.”disse
Sullivan, e inarcò le sopracciglia.
Henry
sgranò gli occhi.
“Che
diav..?!”
Walter
non aspettò un
secondo di più e con una velocità scioccante
colpì lo stomaco di Henry
Townshend con un ginocchio, facendogli perdere l’equilibrio e
cadere così giù
in quel varco profondo.
Henry
strillò in preda al
panico, incapace di capire cosa stesse accadendo. Un forte senso di
vertigini
prevalse in lui, e la mente si annebbiò sotto lo sguardo di
Walter Sullivan
che, mentre rideva di gusto, velocemente spariva dalla sua vista.
***
Henry
Townshend riprese conoscenza
solo dopo qualche minuto.
Rise
appena, mentre
sentiva le ossa terribilmente doloranti.
Rideva
perché se quella
fosse stata la realtà, non sarebbe mai sopravvissuto a un
salto simile, dal
terzo piano di un edificio.
Tanto
valeva trovare gli
aspetti positivi di quell’incubo. Per qualche strana ragione,
era ancora vivo.
Henry alzò lo sguardo e si rese conto di essere giunto alle
cucine del
seminterrato.
Il
posto era leggermente
diverso da come lo ricordava. Sempre orribilmente umido e mal tenuto,
eppure
non era come al solito.
A
cominciare dalla
molteplice quantità di bambini presenti.
Erano
poco più di una
decina e tutti sembravano attendere qualcuno. Forse per essere
accompagnati
nelle loro stanze.
O
meglio…nelle loro celle
d’isolamento.
Nessuno stava osservando Henry, né qualcuno sembrava essersi
accorto di lui.
Non gli fu difficile, dunque, rendersi conto di non essere visibile ai
loro
occhi.
Vide
all’improvviso tutti
i ragazzini voltarsi verso di lui, al che rimase immobile senza sapere
che
fare. I loro sguardi erano, tuttavia, rivoli oltre le spalle del
giovane, così
anch’egli tese il collo in direzione dell’uomo che,
dietro di lui, aveva appena
raggiunto quei bambini.
Era
Andrew De Salvo. Era
più giovane, tuttavia non era cambiato granché.
Era sempre calvo, grasso e con
una camicia sudaticcia addosso.
Si
rivolse spregevole
verso di loro, guardandoli come una vera carogna.
“Se
non volete che accada
anche a voi, bastardelli figli di puttana, vedete di non comportarvi
come
quell’insignificante spazzatura.”
L’uomo
traballava ed era
visibilmente ubriaco. Solo Dio poteva sapere cosa intendesse dire ai
ragazzini
mentre li guardava, ridendo soddisfatto in quel modo.
Continuò
a inveire contro
di loro, dettando le sue regole e affermando la sua completa
autorità su di
loro, senza alcun ritegno o pietà per creature
così giovani.
“Hai
il permesso di
parlare? No. Hai il permesso di pensare? No. Se ti picchio con chi ti
andrai a
lamentare? Con nessuno. Questo perché io detto le regole
qui! Vedete di
ricordarvelo da soli e non costringetemi a fare un ripasso!”
parlava e sputava
senza ritegno, guardando compiaciuto gli occhi terrorizzati dei bambini.
Henry
rimase scioccato
nell’assistere a quella scena. Tuttavia impotente. Non poteva
far nulla per
quei ragazzini.
Quello…era
solo un
ricordo di Sullivan.
Tra
i bambini, poi, ne
avanzò uno. Era biondino e aveva dei limpidi occhi verde
chiaro. Il suo sguardo
apatico poco si addiceva ad un bambino. Egli guardava De Salvo
sprezzante.
“…Walter?”
disse Henry,
riconoscendolo.
Walter
prese parola.
“Ehi,
noi abbiamo il
permesso di Dio, non lo sai questo?" disse determinato.
"Non rispondere!!! Piccolo moccioso!!" ruggì Andrew.
Lo
prese improvvisamente
per un braccio e lo picchiò violentemente in viso.
“Sei
solo immondizia, tu!
Parla ancora e ti ritroverai presto assieme a tutti gli altri
‘fagottini’!”
sbraitò come un animale. “Io…IO sono la
legge QUI! Non osare mai più
rispondermi, sono stato chiaro?!”
Lo
scaraventò via e Henry
provò un tonfo al cuore nel vedere il braccio e il volto di
quel piccolo così
lividi.
De
Salvo andò via,
emettendo uno sgraziato rumore proveniente dallo stomaco generato
dall’enorme
quantità di alcool ingerito. Lasciò la stanza e i
bambini soli.
Il
tormento per loro, al
momento, era finito.
Henry
osservò il piccolo
Walter.
Nonostante
le lacrime
agli occhi e il viso dolorante, continuava a osservare la porta solcata
da De
Salvo con grande odio.
“Tu
non capisci le parole
di Dio…il Grasso Maiale sarà punito da
Dio.” mormorò a denti stretti,
massaggiando la guancia ferita.
***
Era
paradossale pensare
che, per non cadere nella follia e nella disperazione, Walter avesse
dovuto
ancorarsi per forza alla fede di quel Dio pagano.
Non
sapendo che,
comunque, sarebbe caduto in un baratro senza alcuna via
d’uscita.
Per
sfuggire alla morte e
alla follia, si era aggrappato alla follia stessa, finendo
così in un vortice
irrefrenabile.
Henry
si trovava sul
tetto della torre cilindrica, con gli occhi ancora rivolti verso
ciò cui aveva
appena assistito.
Il
‘Grasso Maiale’
avrebbe pagato per ciò che aveva commesso. Questo tuttavia
non avrebbe risanato
quel che De Salvo aveva causato, assieme al resto del culto, alla mente
di
quegli sfortunati orfani.
E
Walter poi…
Specie
lui, non sarebbe
comunque mai più potuto tornare
“normale”.
Gli
abusi, la violenza
psicologica e fisica che aveva subito…
Nulla
gli avrebbe potuto
riportare indietro la sua vita. Nemmeno la vendetta più
spietata.
Henry
socchiuse
debolmente gli occhi e sospirò. Nella sua mente affioravano
i tanti ricordi riguardanti
Walter.
Quando
era stato
prigioniero nelle celle e aveva trovato il sistema per uscire dalla
torre,
quando aveva messo gli abiti sul letto facendo finta che dormisse,
quando aveva
avuto paura di essere sorvegliato…
Quando,
tornando alla
Wish house, aveva continuato a essere picchiato da De Salvo e circuito
dai
membri del culto…
Tutti
quei ricordi…erano
nella mente di Sullivan e ora…anche in quella di Henry.
…Era
questa la sua
condanna?
La
condanna di essere “Colui
che riceve la Saggezza”?
Dei
passi lentamente si
avvicinarono a lui ed Henry riaprì gli occhi.
Girò il capo e diresse lo sguardo
oltre la spalla. Non si sorprese affatto che Walter Sullivan fosse
arrivato
proprio in quel momento.
Si
voltò verso di lui con
tutto il corpo e lo guardò serio.
Walter
non sogghignava,
né rideva, questa volta.
Henry
aveva come la netta
sensazione che anche lui fosse sovrappensiero. Come se avesse
anch’egli
riportato alla mente i terribili abusi che aveva subito.
“Ora
mi ucciderai?” gli
chiese Henry, improvvisamente, senza mezzi termini.
Semplicemente
non ne
poteva più. Era ora di farla finita.
Walter,
che fino a quel
momento aveva avuto il capo chino, alzò il viso verso Henry
e lo guardò
intensamente coi suoi occhi verde chiaro.
Poi,
come se divertito
dalla sua domanda, rise appena.
“Henry
Townshend. A
questo punto avresti dovuto già
capirlo…” gli rispose con voce rauca, mentre
puntava l’arma contro di lui e abbassava la sicura della
pistola. “…che io…”
…e
sparò, colpendo in
pieno il petto di Henry.
***
[APPARTAMENTO
302, nel
salotto. South Ashfield Heights]
Henry
era poggiato sul
divano di casa. Guardava apatico il soffitto, incapace di dire o fare
qualcosa.
Le
pale del lampadario si
muovevano velocemente e Henry le seguiva distrattamente con lo sguardo,
rimanendo in un silenzio solenne.
“…sono
ancora vivo…”
disse, poi.
Era
sorpreso di essere
sopravvissuto ancora una volta. Se ne stava appena ricordando. Non era
la prima
volta che veniva crivellato di colpi da Walter Sullivan.
Allora
perché era vivo e
non aveva nemmeno un segno o una qualche ferita?
Una
delle poche cose che
aveva appreso era proprio che se morivi lì…morivi
anche nella realtà.
Non
aveva trovato un
perché che giustificasse ciò, fino a quando
stesso il ragazzo biondo aveva
deciso di rispondere quel quesito per lui.
Henry
chiuse gli occhi e
nella sua mente visse nuovamente quella scena, sul terrazzo della
prigione
cilindrica.
Henry
gli aveva appena
chiesto se sarebbe morto. Walter lo aveva guardato quasi divertito,
eppure con
un che di malinconico negli occhi.
“Henry
Townshend.” gli
aveva risposto. “A questo punto avresti dovuto già
capirlo che io…”
“…non
posso più ucciderti.
Il
rituale è finito e i morti non possono
uccidere i vivi.”
Sconfitto
il vero Walter
Sullivan, Henry aveva impedito che i 21 sacramenti si compissero. E
così…persino quel Walter era solo un
“fantasma”, adesso. Vittima dei suoi
stessi ricordi, della stessa realtà che aveva costruito.
Così
Henry era
sopravvissuto.
La
sensazione di morire
era stata ugualmente verosimile e trafiggente.
Ma
non era morto.
Tornando
al suo
appartamento, tutto era cessato, e lui non aveva alcun segno addosso
che
confermasse ciò che aveva appena vissuto.
Portò
una mano sulla
fronte.
“Povera
la mia testa…”
Aveva
un terribile mal di
testa. Molte cose gli stavano balenando in testa, in quel momento. Ma
quel che
trovava più terribile e che lo faceva impazzire, era che
oramai questa fosse
completamente concentrata solo sull’incubo e su Walter
Sullivan. Non riusciva
ad accettarlo, ma a quanto pareva, la sua mente era stata
già inghiottita da
lui fino a raggiungere la pazzia.
Perché
sì. Henry si
sentiva oramai completamente pazzo.
Continuò
a tenere gli
occhi chiusi, e a porsi mille domande.
La
prima fra tutte: Cosa
gli sarebbe accaduto?
Ancora
una volta,
tuttavia, non voleva assolutamente saperlo. Saperlo avrebbe significato
solo
farlo impazzire del tutto prima del tempo.
Una
parte di sé voleva
ancora proteggerlo da quella follia.
Solo
dopo qualche minuto
guardò apaticamente la stanza attorno a sé,
ancora accecato da quel terribile
mal di testa.
Si
alzò mettendosi seduto
sul divano e solo allora notò qualcosa di strano nel suo
salotto.
Solo
un ragazzo solitario
e pignolo come lui avrebbe potuto accorgersene.
Il
comodino, che un tempo
copriva il buco che affacciava sulla camera di Eileen Galvin, era stato
spostato leggermente.
“Ma
chi diavolo ha..?”
Chi
poteva averlo
spostato?
Lui
no di certo, se lo
sarebbe ricordato.
Oppure…
Non
volle chiedersi oltre
e spostò nuovamente il comodino. Rimase per un attimo
perplesso nel rivedere
quel buco. Una parte di sé si chiese se affacciasse ancora
nella stanza di
Eileen.
Era
possibile?
Era
come se qualcosa lo
richiamasse, o forse era semplice curiosità. Comunque decise
di dare
un’occhiata veloce.
Ma
quel buco aveva in
servo per lui più di quanto si aspettasse.
Perché
non affacciava
affatto nell’appartamento di Eileen Galvin, nella sua stanza
o in qualche altra
ala del palazzo.
Il
buco affacciava
all’esterno della piccola cittadina.
Nella…metropolitana
di
South Ashfield Heights.
“Ma
cosa..?!” disse
incredulo. Incapace di spiegarsi come potesse mai essere possibile.
Eppure era
proprio lì, nitida, davanti ai suoi occhi.
Una
sola cosa, poi,
balenò nella sua testa, in quella piccola parte di
sé che ancora rimaneva
razionale.
Il
suo viaggio non era di
certo finito. Walter presto avrebbe ripreso ad agire tramite il varco.
Rimaneva
quindi da chiedersi solo una cosa…
…Quanto
avrebbe
resistito?
E
poi…
Ne
sarebbe valsa la pena
opporsi? Poteva ancora sperare di fuggire via dal suo appartamento
prima di
venirne inglobato per sempre?
[…]
NDA:
Il
capitolo è uscito
davvero molto lungo. Spero troviate il tempo per leggerlo con calma. La
tematica che volevo affrontare in questo capitolo era complessa e molto
delicata.
Spero di essere riuscita a comunicarvi le emozioni sia di Walter
Sullivan che di
Henry Townshend, anch’egli in una situazione per nulla facile.
Come
avrete già notato,
questa fan fiction per me è anche la scusa per proporvi
alcune interpretazioni
su Silent Hill 4. Volevo spendere giusto qualche chiarimento sul mostro doublehead.
Abbiamo
più fonti dove
viene ipotizzato che questi sia un rimando ai fratelli Billy e Miriam
Locane,
rispettivamente le vittime 7 e 8 di Sullivan.
Tuttavia
io ho sempre
avuto quest’altro tipo di interpretazione e cioè
che fossero la
rappresentazione dei corpi morti nella prigione circolare.
Questi
mostri, difatti,
hanno degli atteggiamenti che rimandano a questo perché:
-
appaiono la prima volta
proprio nella torre cilindrica.
-
sono sempre in una
posizione di allerta e indicano con l’indice chiunque si
avvicini o si muova
(quale miglior simbolo della “vigilanza”?)
-
Il loro aspetto rimanda
al testo trovato nella torre centrale, citato anche in questo capitolo,
che
definisce i bambini rimasti bloccati nelle celle come “fagottini
grigi e
puzzolenti”. Inoltre
l’anatomia di questi mostri
fa proprio pensare a dei corpi nascosti sotto un telo, sotto i quali
non è più
possibile distinguere più dove ci sia un corpo e dove un
altro, tanto da
sembrare che abbiamo mani al posto dei piedi e viceversa,più
teste ecc…
Ho
voluto, dunque, proporvi questa mia
interpretazione personale^^
Questo
è tutto, ringrazio waltersullivan24 e Liquid
King per
i commenti
lasciati!
A
presto, ci sentiamo con il quinto capitolo!
Fiammah_Grace
|
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Capitolo 5 *** La metropolitana di South Ashfield ***
CAPITOLO
05
“Sul
marciapiede della città le mie urla sono solo un
sussurro?
Le
persone occupate vanno e vengono ovunque.
Guardami
qui, immersa sotto la pioggia.
Non
avere nessuna compassione, non importa.
La
mia resistenza sta vacillando.
Come
un fiore nel seminterrato, in attesa di una morte
solitaria…”
(Your
Rain)
[SOUTH
ASHFIELD, nella periferia della città]
Il
sole, che filtrava dalle umide nuvole delle due del
pomeriggio, accecava i vicoli trascurati della periferia di South
Ashfield. La
cittadina, sebbene sommariamente tranquilla, celava in quegli stretti
passaggi
quella parte di sé che era meglio non mostrare alla gente,
abituata a vedere
Ashfield pacifica e tranquilla.
Quella
parte invece era viva e palpitava nascosta in
quel mondo dove la faceva da sovrano la povertà, la
trasgressione e la
criminalità.
Il
mondo dei bassifondi era così. La gente vi abitava
e la solcava quotidianamente. Correva furtiva come topi di cantina,
sotto quel
sole cocente che non perdonava nessuno.
La
malasanità era tutta concentrata lì. Nei locali,
sui marciapiedi, tra la gente senza futuro.
In
una di quelle traverse, si aggirava una donna dalla
pelle ambrata e dalle lunghissime gambe atletiche.
Lasciava
ondeggiare il corpo in maniera elegante e
seducente e sembrava non avesse paura di solcare quei vicoli trascurati.
Ella
camminava tranquilla, mostrando senza alcun
indugio un corpo avvenente e una procace scollatura sul seno. Una ricca
collana
brillava sul suo collo e illuminava la sua figura, mentre continuava a
passeggiare fieramente. La donna si fermò
all’altezza di un locale sprangato da
alcune travi di legno robusto.
Provò
a sbirciare un po’ oltre le piccole fessure tra
una trave e l’altra, ma non vide altro se non il buio
più tetro. Sembrava come
se s’aspettasse di vedere il locale in quello stato e infatti
di lì a poco si
allontanò, tornando sui suoi passi.
Uscita
dalla traversa, si ritrovò nel bel mezzo di un
marciapiede ricco di persone. Uomini, donne, bambini, automobili,
moto…
Tutti
erano lì a correre frettolosamente come delle
frenetiche formichine. Che avevano da correre tanto? Qualcuno sembrava
anche
notare quella giovane donna, ma ella ne riceveva fin troppi di sguardi
indiscreti e non degnò nessuno di alcuna attenzione.
Infondo…era proprio come
un oggetto abbandonato, in quel momento. Lì, davanti a
migliaia di persone.
Tutte troppo indaffarate per raccoglierlo e portarlo con sé.
Quello era un
oggetto destinato a consumarsi tra quelle sporche strade meschine.
La
donna si avvicinò a una serie di scatoloni posti
nelle vicinanze di un palazzo e vi prese posto. Si sedette e
chinò il capo
congiungendo le mani fra loro all’altezza delle ginocchia.
Un
temporale improvviso fu annunciato da un lampo che
violentemente rimbombò nel cielo. Di lì a poco
delle leggere gocce di pioggia
cristallina cominciarono a cadere. Prima più lente, poi
divennero sempre più
forti. Sempre di più.
La
gente distratta continuava a correre, questa volta
per davvero sembravano non avere occhi per null’altro se non
per l’egoismo
della sopravvivenza. Schizzavano frettolosamente da una via
all’altra e da quel
momento in poi, nessun uomo notò più quella donna
abbandonata in mezzo la
strada.
Lei
sembrò quasi sorridere per quella visione.
Al
contrario di tutti, lei non doveva correre da
nessuna parte. Al contrario di tutti, a lei non importava di quella
pioggia. Al
contrario, il suo sorriso divenne sempre più largo e
malinconico, così
socchiuse gli occhi e cominciò a sussurrare una dolce
melodia.
Dancing
alone
again
(Ballo
da sola di nuovo)
…
Again…
(Di
nuovo…)
The
rain falling
(…La
pioggia cade)
Only
the scent of you remains
(solo
il tuo profumo rimane)
to
dance with me
(a
ballare con me)
Nobody
showed me how to return the love you give to me
(Nessuno
mi ha mai mostrato come restituire l’amore che tu mi dai)
Mom
never holds me dad loves a stranger more than me
(Mamma
non mi stringe mai, papa ama più uno sconosciuto di me)
…
I
never wanted to ever bring you down
(Io
non ho mai voluto farti cadere)
all
that I need are some simple loving words
(tutto
ciò di cui avevo bisogno, erano delle semplici parole
d’amore)
…
La
pioggia continuava a cadere e le palpebre oramai
erano umide e fredde, così come il resto del suo corpo. Solo
la sua gola
vibrava ancora, mossa da quei dolci sentimenti che cullavano la
malinconia.
“Sono
delle splendide parole.”
La
voce di un uomo sussurrò suadente, mentre la sua
figura si portava di fronte la ragazza rannicchiata su quello scatolone
sul
marciapiede.
“Puedo
saber quién está hablando?” disse lei
alzando
gli occhi, sorridendo disinteressata.
Egli
era un uomo molto alto, con un lungo cappotto
blu, ed era davanti a lei a guardarla immobile, con un lieve sorriso
disegnato
sul volto. Dopo un breve silenzio schiuse le labbra appena e
chinò il capo
verso di lei mostrandole, da sotto i capelli biondi che cadevano sulla
fronte,
dei luminosi occhi verde chiaro.
“Nonostante
il tempo, ascolto sempre la tua voce con incanto,
Cynthia.” le disse.
Cynthia
Velasquez inarcò le sopracciglia, come
stregata da quell’uomo dall’apparenza trascurata,
eppure da un volto così bello
e penetrante.
Lo
guardò con più attenzione, cercando di capire
dove
lo avesse già incontrato.
“Conosci
il mio nome? Non sarai uno dei miei
ammiratori che, segretamente, mi spia al Night Club?” lo
provocò lei.
L’uomo
a quelle parole sorrise appena. Scostò una
ciocca di capelli dal viso che andò a battere sul collo
assieme alle altre
ciocche.
“Ho
già ascoltato le tue canzoni nei bassifondi.”
La
donna dai capelli castano scuro rise nell’udire
quella risposta e si alzò. Guardò il ragazzo
biondo scrutandolo dalla testa ai
piedi con fare decisamente indiscreto. Lo esaminava ammiccante e
sembrava
davvero interessata di vederlo così tranquillo, a guardarla
per nulla turbato
dai suoi atteggiamenti.
Poggiò
una mano sul suo petto e gli rivolse i suoi
occhi color nocciola, contornati da un vistoso ombretto color magenta e
dalle
lunghe ciglia infoltite dal mascara.
“…mmmm…sei
davvero carino.” gli si rivolse e allungò
le mani sempre di più verso il suo viso. “Peccato
che tu non vesta un
bell’abito e abbia un’aria così
trascurata, altrimenti sarei anche potuta
uscire con te, lo sai?”
Lui
sorrise appena e continuò ad osservarla, non
allontanando lo sguardo da lei, tant’è che la
ragazza fu molto incuriosita da
quell’atteggiamento.
Lei
che era una provocatrice, lei che riusciva a tentare gli
uomini solo con uno sguardo. Lui invece era lì e sembrava
come se conoscesse
perfettamente le sue strategie.
Quel
che stava avvertendo Cynthia, nell’incrociare
quegli occhi irriverenti, era inconcepibile, irrazionale…
Come
se…assurdamente…lui…
…lui
la conoscesse.
Non
una semplice conoscenza.
Era
come se conoscesse
la sua anima.
Come
se potesse leggerci direttamente dentro.
Si
allontanò da lui leggermente turbata. Continuò
comunque a scrutarlo, cercando di mascherare il suo reale disagio.
Prese a
camminare, inoltrandosi in quella strada trafficata e caotica.
L’uomo la seguì
e Cynthia gli si rivolse.
“Sei
quindi già venuto al Night Club dove mi esibisco?
Allora che ne dici se ti faccio un regalo?”
A
quel punto Cynthia gli fece una proposta. “Stasera
mi esibisco, ma con quegli stracci non potresti mai entrare,
però se dico al
capo che sei con me, la cosa si può fare.”
L’uomo
dai capelli biondi strinse gli occhi in modo
dolce, con un’espressione beata.
“Volentieri.
E’ da te, qualcosa di simile.” aggiunse.
Cynthia
ebbe un terribile brivido addosso, nell’udire
quelle parole. Era come se, sorridendole, lui volesse quasi dimostrare
che si
aspettasse perfettamente da lei una reazione simile.
Tuttavia
com’era possibile? Lei, quell’uomo dal
cappotto blu, non lo aveva mai visto prima di allora. Come si spiegava
una cosa
del genere, dunque?
Ancora
una volta cercò di non dar peso a quella
sensazione di inquietudine, e si avviò invece nel locale
della periferia, dove
presto avrebbe dovuto andare a lavorare.
La
pioggia continuava a scendere incessante.
“Un
leggero fiore
delicato, in quel momento, era stato abbandonato lungo il marciapiede
dal
destino e attendeva solamente quella dolorosa morte solitaria.
La
pioggia, che incessante batteva, lo avrebbe annegato e trascinato verso
il vuoto, verso il nulla più profondo.
Eppure
quel fiore credé per un attimo che la pioggia desiderasse
soltanto
salvarlo e volesse donargli un po’ di quell’ amore
mancato…
…e
si lasciò dunque trascinare.”
***
[APPARTAMENTO
302, in cucina. South Ashfield Heights]
Henry
Townshend non mangiava da giorni. Questo perché
semplicemente era da tempo che non riusciva più ad
assecondare gli stimoli
della fame.
Da
quando erano iniziati gli incubi, non era stato
capace di sedersi una sola volta a tavola e godersi un sano pasto
completo.
L’ultima
volta che aveva tentato di metter giù un
boccone, si era allungato verso i mobili bianchi della cucina e aveva
cercato
qualcosa di commestibile in scatola. Non era sua abitudine fare della
spesa ultimamente
e dunque andava benissimo qualsiasi cosa. Tuttavia, una volta aperto
quel
barattolo con l’apriscatole, uscì un tanfo
così terribile che fece nauseare
completamente il giovane abitante dell’appartamento 302.
Disgustato,
guardò il retro del barattolo mentre lo
avvicinava alla spazzatura. Vi era scritto che era scaduto
già da due anni.
L’aveva
comprata quando si era appena trasferito!?
Quell’ultimo
tentativo, comunque, gli bastò per
evitare di cucinare qualcosa nei giorni a venire.
A
questo punto sembra abbastanza ovvio comprendere
quanto rimase disgustato anche in quel momento, quando finalmente aveva
ripreso
la vana voglia di gustare qualcosa dopo giorni, di ritrovare ad
attenderlo nel
mobile una serie di alimenti belli ammuffiti pronti per lui.
“Tsk…mi
è passato di nuovo l’appetito.”
Chiuse
il mobile violentemente e si diresse, nauseato,
in camera sua. Le cose andavano terribilmente male in quel periodo e
non ne
poteva più. Aveva bisogno di rilassarsi assolutamente, non
poteva continuare in
quel modo.
Oltrepassò
la serie di banconi bianchi e si poggiò
vicino al muro del salotto. Guardò apatico le pale del
lampadario girare mentre
la sua mente cominciò a vagare.
Perché
era così difficile per lui tornare alla
normalità?
Oramai
continuava a chiederlo quasi con ossessione.
Più passavano i giorni, più entrava negli incubi,
e più quella domanda diveniva
per lui solo una scusa per non impazzire.
Il
suo sguardo, in quel momento, cadde sulle
fotografie poste sul comodino affianco a lui. Le guardò
appena e avvertì una
forte nostalgia in corpo.
Non
aveva molte fotografie personali, più che altro,
Henry fotografava paesaggi, ambienti che per lui avevano significato
qualcosa…
Ma
per quanto riguardava foto inerenti alla sua vita,
Henry non aveva mai conservato nulla. Non vi era una foto dei suoi
amici, di
sua madre, di suo padre, di nessuno…
Ne
aveva solo due.
Una
che lo ritraeva da bambino e una durante la
cerimonia della maturità. Fissò il suo sorriso
innocente, quello di quando era
ancora così giovane e salì la rabbia in corpo.
Quel
sorriso…era una menzogna.
Lui
non aveva avuto un’infanzia felice, come quel
bambino lì ritratto lasciava credere. L’uomo
lascia tracce di sé nel mondo, ma
non sempre le tracce riflettono la realtà nella sua crudezza
più sincera.
Henry
afferrò istintivamente la foto di laurea e anche
quella non era capace di trasmettere nulla per lui, se non una profonda
rabbia.
Guardò
il se stesso di qualche anno prima mentre
festeggiava la maturità con i colleghi e rimase a fissare
quel vetro lasciando
partire nella sua mente molteplici ricordi.
Egli
aveva studiato all’università di Pleasent River,
ed era lì dove, solitario, qualcosa cambiò nella
sua mente.
Aveva
alla lunga trattenuto quegli istinti, ma oramai
erano già da tempo vivi, palpitanti dentro di lui.
Pulsavano,
pulsavano forte.
E
oramai…non c’era più nulla da fare.
Non
poteva essere più fermato.
Henry
cominciò a provare una grandissima rabbia e
senso di incomprensione. Se solo…
Se
solo non fosse stato così solo e abbandonato...
…tutto
quello non sarebbe mai successo.
Ricordava
i verdi prati del campus, dove passava gran
parte del suo tempo.
E…lui…
Il
bruno all’improvviso sgranò gli occhi e prese a
tremare.
Nella
sua mente cominciarono a pulsare sempre più
forti delle emozioni mai provate prima. Erano emozioni di grande rabbia
e
devastazione. La devastazione di chi covava una profonda vendetta verso
il
mondo intero.
E
un ragazzo biondo, alto, con gli occhi verde chiaro,
di colpo apparve nella sua mente, seduto su quel prato.
Il
suo sguardo oramai era già disincantato. A quel
tempo, l’assassino Walter Sullivan era già nato e
nessuno avrebbe mai potuto
fermarlo.
“Ah!
La testa..!”
Henry
urlò, avvertendo una terribile fitta al cervello
che lo costrinse in ginocchio. Portò una mano sul capo e si
coprì il viso
dolorante.
Il
dolore passò solo dopo una manciata di secondi e
Henry si sentì terribilmente confuso.
Lui…cosa
aveva ricordato?
Quelli..non
erano i suoi ricordi! Né i suoi sentimenti…Cosa
diavolo era accaduto?
Prese
a riflettere fra sé.
“Io
non ho frequentato il campus di Pleasent River…”
disse con voce sottile, scostando la mano dal viso.
Si
accasciò definitivamente a terra e cominciò a
respirare profondamente.
Anche
se visibilmente più giovane, non aveva alcun
dubbio. Aveva visto Walter Sullivan nella sua mente.
Ma
quello era un ricordo che non poteva assolutamente
appartenergli. Com’era possibile?
“Cosa
mi sta accadendo?”
Vedeva
e sentiva emozioni che mai avrebbe potuto
conoscere, ne che facessero parte in qualche modo della sua vita.
Tutto
si ricollegava, invece, alla folle figura di
Walter Sullivan.
Persino
i suoi ricordi, adesso…
Ispirò
nuovamente, facendo di tutto per non crollare.
In quel momento non poteva farlo. Eppure sentiva che le forze lo
stavano
abbandonando sempre di più.
Non
aveva il coraggio di chiedersi realmente perché.
Aveva paura di scoprire la terribile verità dietro i suoi
viaggi.
Dietro
il suo essere ricevitore
di saggezza.
Quando
lo avrebbe saputo, sapeva che non avrebbe avuto
più scampo. Tuttavia si ritrovava ancora in quel tunnel e
non poteva far altro
che proseguire.
Se
non fosse stato lui, sarebbe stato Walter a
raggiungerlo. Henry non poteva sottrarsi.
Girò
lo sguardo e solo allora la sua attenzione
ritornò al buco in salotto.
Era
turbato. Si chiedeva cosa dovesse fare, ma allo
stesso tempo, aveva paura di andare a controllare. Non che avesse tanta
scelta,
in verità. Si avvicinò appena e decise di
affacciarsi.
I
suoi occhi scorsero nuovamente la metropolitana
sotto casa sua.
Vedeva
l’interno del treno, come sempre.
Da
quella mattina non faceva che osservare quello
scorcio e nulla era cambiato.
Dei
grossi reticolati si scorgevano appena e
incatenavano saldamente dei fantocci bianchi mutilati. Erano senza il
capo e
nessuno rappresentava un soggetto in particolare.
Si
trattavano di busti, gambe, braccia…
Tutti
erano buttati lì, come inchiodati a quel treno
immobile.
Solo
un dettaglio accomunava tutti quei fantocci e
parti dell’anatomia umana…erano tutti appartenenti
a una donna.
Era
inequivocabile quel dettaglio e traspariva in ogni
fantoccio che poteva scorgere. Era terribile, quasi sentiva
l’ansia assalirlo.
Perché,
anche se solo dei fantocci, sembravano quasi
soffrire anch’essi della loro stessa ingrata condizione.
Drii-driii…
“C-cosa?”
Il
telefono squillò all’improvviso ed Henry fu
costretto ad alzarsi e ad allontanarsi da quel foro. Si chiese chi
poteva mai
essere a quell’ora del pomeriggio.
Il
cuore prese a battere forte, ma corse ugualmente
verso la camera da letto. Si avvicinò al telefono posto sul
comodino accanto al
letto e alzò la cornetta mentre prese posto sedendosi sul
materasso.
“Pronto?”
chiese con voce bassa.
Henry
corrucciò le sopracciglia quando si accorse che
dall’atra parte non stava rispondendo nessuno.
Dall’altro lato del telefono,
sentiva solo la linea terribilmente disturbata. Eppure, aveva come la
sensazione di sentire il respiro di qualcuno. Era uno stupido scherzo
di
qualche ragazzino?
“…pronto?”
richiese.
La
voce che gli rispose, tuttavia, non era quella
ridacchiante di qualche teppistello. Era l’affannata voce di
una donna.
Henry
sgranò gli occhi quando udì quella voce, quasi
terrorizzata ed esausta.
Poteva
avvertire l’ansia di quella donna solo udendone
la voce. Ella disse solo una parola, chiara, prima di riattaccare il
telefono.
“…aiutami.”
“…pronto?
Chi è che parla? Signorina!” urlò lui.
Guardò
la cornetta del telefono, udendo il segnale che
indicava che la chiamata era terminata.
“Dannazione…”
disse.
Riattaccò
il telefono anch’egli. Chi poteva mai aver
chiamato? Che cosa voleva? Come aveva ottenuto il suo numero?
Subito
le sue labbra si mossero da sole, spontanee,
mentre la mente ancora non riusciva a spiegarsi il perché.
“Cynthia..?”
disse.
Non
ne era certo ma…
La
voce sembrava proprio la sua.
Cynthia
Velasquez era una donna estroversa che Henry
aveva conosciuto per brevissimo tempo, eppure questo gli era bastato
per
renderla incancellabile dalla sua mente. Il perché non lo
sapeva nemmeno. Fatto
sta che quella voce più ci pensava, più gli
sembrava proprio la sua.
“Ma
non può essere lei…perché
Cynthia…”
Cynthia
era morta.
Chiudendo
gli occhi aveva ancora davanti a sé quella
terribile scena, per giunta avvenuta in un momento nel quale era
incapace di
comprendere il perché di quel brutale destino.
Una
volta levata via la placca con su scritto ‘tentazione’
, egli
entrò nella porta e le parlò per
l’ultima volta.
Il
sangue che trovò dinanzi a sé aveva sporcato
l’intero ufficio della metropolitana, macchiando di rosso
finestre, sedie,
documentazioni, pavimento…
E
il tutto convergeva nella figura di Cynthia stesa a
terra. Lei aveva paura, e aveva freddo.
Henry
comprese subito che stava morendo.
Eppure
Cynthia cercava di non dar peso a quelle
emozioni. Sentiva che non stesse davvero accadendo. Perché,
semplicemente, non
poteva crederci.
Riportò
alla mente la loro prima conversazione,
avvenuta vicino le scale mobili della metropolitana.
“Quindi…tu
credi che
questo sia un sogno?” le chiese Henry.
“Se
questo non è un sogno, allora
cos’è?” gli rispose lei suadente,
incapace anche in quel momento di capacitarsi della situazione.
Anche
nel momento della sua morte, quel freddo…lei…
Era
stata incapace di accettarlo.
“Questo…è
solo un sogno,
vero? Devo…devo aver bevuto troppo l’altra
notte…Io, ah…mi sento di morire.”
“Tranquilla,
è solo un sogno.”
Cynthia
allora si spense.
Henry
non aveva potuto far altro che credere con lei
che quello fosse solo un terribile e macabro incubo.
Magari
fosse stato davvero un sogno…invece era
accaduto davvero.
Inspiegabilmente,
Cynthia era morta in quella
metropolitana e nessuno avrebbe mai potuto salvarla.
Henry
non aveva più voglia di ricordare. Semplicemente
non ne poteva più. E Cynthia…era uno di quei
ricordi che più lo tormentava.
Alzò
il capo e guardò in direzione della porta.
Si
chiese se quella chiamata non avesse voluto proprio
fargli rievocare quella giovane donna con gli occhi ancora rivolti al
futuro,
così pieno di promesse e speranze.
Una
parte di sé capì che era esattamente
così, ma
avvertì un forte turbamento che gli impediva di accettare
che fosse giunto il
momento di ricapitolare la sua storia con Cynthia.
Inspiegabilmente,
non era affatto pronto
nell’affrontare quella parte dell’incubo.
Così
Henry si sdraiò sul letto e decise di ignorare
quella telefonata. Guardò apatico il soffitto e si
sentì affranto,
terribilmente sfiduciato.
Non
aveva il coraggio di entrare nella realtà
parallela. E non era solo per via dello stress. Era perché
era terribilmente
inutile.
Era
inutile perché…
Tanto
lui…
Non
avrebbe comunque potuto far niente per salvarla.
***
[SOUTH
ASHFIELD, in un Night Club della periferia]
“Te
ha gustado?”
Cynthia
si avvicinò al tavolino di legno, dove era
seduto nella penombra il giovane dai capelli lunghi e biondi.
Fino
a quel momento era sembrato assorto nei suoi
pensieri, mentre beveva distrattamente un bicchiere di liquore
economico.
Lei
poggiò i gomiti sul tavolino e lasciò scivolare
il
viso sul dorso delle mani.
Guardava
quel tipo con curiosità. Una curiosità che
sembrava essere ricambiata.
Lui
allontanò la sigaretta dalla bocca e lanciò via
il
fumo, per poi spegnere la cicca nel portacenere.
Cynthia
sorrise, quel tipo di uomini le piacevano.
Alti, con uno sguardo arrogante e sicuro, con la sigaretta. Anche se
visibilmente era uno straniero dall’aria trascurata, lei non
era mai stata tipo
da tirarsi indietro.
Il
biondo la stava ancora osservando con discrezione,
mentre lei noncurante sfilò dalla mano di lui il bicchiere
di liquore e bevve
un sorso.
Poggiò
le labbra carnose, inscurite dal rossetto
rosso, sull’orlo del bicchiere in vetro, pressandole
finché non sentì il forte
sapore dell’alcolico.
L’uomo
sorrise appena mentre lei ammiccò in quella
penombra.
“Sei
l’ultimo cliente rimasto, lo sai?”
Cynthia
girò il capo a destra e a sinistra facendo
notare che il locale fosse già completamente vuoto, ad
eccezione di loro due.
Anche
le luci del palco erano oramai spente e Cynthia
aveva persino avuto modo di cambiarsi e di indossare i suoi abiti
normali.
L’uomo biondo comunque non le rispose, si limitò
ad osservarla in silenzio.
Poggiò il braccio sullo schienale della sedia in legno e si
adagiò mentre, con
l’altra mano, prese a sfiorare l’orlo del bicchiere
di vetro con l’indice.
Lei,
vista la sua reazione, rise e sdraiò
definitivamente il busto sul tavolo.
“Ah…ah!
Sei un tipo interessante, tu. Dov’è che ci
siamo già conosciuti?” gli chiese.
Il
biondo le rispose con voce bassa e interessata.
“Non
pensavi fossi un tuo ammiratore?”
“Mi
ricorderei di uno come te. Andiamo, non fare il
misterioso.” lo provocò lei.
A
quel punto, lui rise appena. Sembrava sinceramente
intenerito da quella ragazza spontanea e superficiale. La guardava
mentre lei
prendeva a scrutarlo in maniera irriverente, quasi a vedere se egli si
tradisse
in qualche modo.
Walter
così poggiò il mento sul dorso della mano e
inarcò le sopracciglia mostrandole il suo completo
disinteresse nel
risponderle. Come si aspettava, Cynthia rise di nuovo, sempre
più divertita.
Continuò imperterrita a porgli domande su domande.
Domande
alle quali lui rispose a sillabe. Cynthia
riuscì ad ottenere da lui a stento il suo nome.
Parlarono
per diverso tempo, o meglio, fu Cynthia a
raccontare di tutto e il biondo la ascoltò senza fiatare,
come se fosse
incantato dal modo di fare di lei, così estroverso e diverso
da lui.
La
bruna s’interruppe solo dopo un po’. Bevve
un altro sorso e finì l’alcolico.
“Quindi
ti chiami Walter, giusto? Da dove vieni?”
“Da
nessuna parte.”
Cynthia,
nonostante fosse leggermente brilla, rimase
perplessa di quella risposta.
“Una
casa l’avrai, no? Sarai arrivato qui da qualche
parte..!”
Walter
scosse la testa.
“Temo
di doverti deludere ancora, Cynthia. Non ho mai
avuto una casa.”
“Un
vagabondo, quindi? Cavolo…perché ti sto parlando
allora? Ah, ah…scherzo!” disse, sentendosi
completamente sfinita e leggermente
turbata.
Quell’uomo…
Chi
era per davvero?
Aveva
la terribile sensazione che la stesse prendendo
in giro, ma non aveva elementi per dire il contrario. Rise ancora,
cacciando
quei cattivi pensieri, e fece per alzarsi. Traballò appena
ma per fortuna
riuscì a mantenere l’equilibrio. Guardò
Walter e gli indicò la porta con gli
occhi.
“…Ora
devo chiudere. È davvero tardi. Guarda che se la
prenderanno con me. Non vorrai farmi sgridare dal capo, vero?”
A
quel punto Walter fece per alzarsi. Infilò
nuovamente il cappotto blu scuro e si diresse verso l’uscita
con lei.
Cynthia
attese che lui uscisse e poi chiuse la porta
del Night Club della periferia. Si girò per andare via, ma
vide che Walter era
ancora li affianco a lei.
“Te
l’ho detto. Sei carino, ma non siamo fatti per
stare assieme. Sarà meglio che tu vada.”
Lei
sospirò. Di uomini che le ronzassero intorno ne
aveva fin troppi e un altro, per di più senzatetto,
certamente non le serviva.
Anche se era di bell’aspetto.
“Presto
tornerò a casa mia, Cynthia. Non è lontana da
qui, lo sai?” le disse lui, all’improvviso.
La
bruna corrucciò lo sguardo.
“Non
avevi detto di non averla, una casa?” chiese.
Lui
annuì, confermandole ciò che aveva detto in
precedenza.
“E’
vero. Però casa mia esiste, e per tornarci…io ho
bisogno di te.” aggiunse.
“Non
sono una ladra, se è questo ciò che
intendi.”
Walter
pazientò e le sorrise. La guardò intensamente
facendola quasi sussultare. Socchiuse le labbra e sussurrò
delle parole.
“Non
sei una ladra, Cynthia. Tu sei molto meglio di
una ladra.” la indicò con l’indice della
mano. “Tu mi farai entrare
nell’appartamento di South Ashfield Heights. Non è
lontano da qui, dico bene?”
Cynthia
scosse la testa, completamente confusa e
disorientata. Quell’uomo che diavolo stava dicendo?
Probabilmente stava solo
bleffando, o aveva bevuto troppo. Tuttavia guardando i suoi occhi,
luminosi e
intensi, aveva l’impressione che egli sapesse perfettamente
cosa stesse
dicendo. Continuava a guardarla fisso, ininterrottamente, con quegli
occhi che
brillavano quasi, in quel vicolo celato dalla notte scura.
Lei
cominciò ad avere delle forti palpitazioni, adesso
avendo paura di quell’uomo che aveva di fronte a
sé.
“Tu
sei completamente pazzo. Oggi ti ho fatto un
piccolo regalo, ma non sperare in un appuntamento con me,
adesso.”
Frettolosamente,
fece per andare via, ma
immediatamente Walter le afferrò un polso con le sue robuste
mani, mostrandole
una forza inaspettata. Cynthia cercò di divincolarsi, ma il
biondo sembrava non
voler affatto lasciarla scappare.
Scosse
il braccio più volte e si sentì nel panico.
“Mi
fai male, lasciami!”
Con
la mano libera, fece per mollargli uno schiaffo,
ma lui le bloccò prontamente anche l’altro polso,
ridendole in faccia alla
vista del suo sguardo sgomentato.
Cynthia
prese a strillare, ma nessuno, in quello
stretto vicolo sarebbe mai corso in suo aiuto.
Walter
rise ancora. Più Cynthia sembrava andare in
panico, più lui stringeva la presa e l’avvicinava
a sé. Allungò il volto verso
quello di lei e la guardò incessante negli occhi.
“Mi
porterai dalla Santa Madre, Cynthia. E la
incontrerò proprio qui, a South Ashfield.”
l’avvicinò ancora di più, fino a
sentire il suo respiro affannato.
Era
estasiato da lei, dal suo sguardo che, anche se
terrorizzato e arrabbiato, era incredibilmente suadente. “Oh,
Cynthia…sei
bellissima. Ogni volta che guardo i tuoi occhi…capisco
perché io…io ti ho
scelta…”
La
ragazza era oramai paralizzata da quello sguardo
folle, vitreo e intenso. Walter le lasciò un polso per
portale la mano sul suo
viso. La accarezzò delicatamente e sorrise, avvicinando poi
le labbra a quelle
della donna che rimase immobile, con lo sguardo perso e sgomentato.
Walter
lasciò scivolare la mano dal viso alla schiena
di lei e la cinse violentemente per baciarla. La sua bocca
esplorò intensamente
la sua Cynthia, mentre ella si rendeva sempre meno conto di
ciò che stesse
accadendo.
La
sua tentazione era
caduta a sua volta nella ragnatela del carnefice,
in quel bacio violento e agognato.
Sospirò
intensamente lasciando che anche il fiato
affannato di Cynthia soffiasse sulla sua pelle, mentre avvertiva quasi
il
respiro venir meno.
Cynthia
chiuse gli occhi e fece di tutto per sottrarsi
a quel bacio e la paura prese il sopravvento.
L’ansia
continuava a crescere incessante e così
scaraventò via Walter che, con la bocca ancora schiusa, le
sorrise soddisfatto.
“La tentazione.
Non
sai quanto ti
amo.”
le
disse.
Cynthia
aveva ancora il respiro affannato. Lo guardò
con gli occhi sgomentati e la rabbia di una ragazza di strada in corpo.
“Ti
sembro il tipo di donna che accetterebbe di
frequentare uno come te?! Fai schifo!” gli urlò,
avvertendo la pelle scaldarsi
terribilmente.
A
sua grande sorpresa, però, Walter non si risentì.
Anzi, cominciò a ridere di gusto. Una risata angosciante per
Cynthia, in quel
buio per nulla rassicurante.
“Eh,
eh…Proprio come l’ultima volta. Non sei cambiata
granché negli ultimi sedici anni.” le disse,
trattenendo a stento il ghigno
diabolico.
“Sedici…anni..?”
disse lei, sotto shock.
Qualcosa
nella sua mente prese a vibrare forte e delle
vertigini percorsero il suo corpo, facendola quasi venir meno.
Quel
volto…
Quella
risposta…
Lei
l’aveva già incontrato. Se ne era ricordata solo
adesso.
Era
come se la sua mente avesse all’improvviso
ripescato un ricordo lontano e rimasto offuscato fino a quel momento.
No…
Non
era possibile.
Non
poteva essere vero.
***
“…Toccasti
il mio corpo, un giorno, e ancora brucia
dolcemente.
Io
non dimenticherò quel che non può più
esserci.
Nella
mia mente piango senza trovare nulla.
Più
e più volte sento qualcosa dentro di me
distruggersi…”
(Your
Rain)
16
anni prima…
[SOUTH
ASHFIELD , Nella metropolitana.]
Cynthia
era appena una tredicenne, a quel tempo.
La
pelle ambrata e le lunghe gambe snelle la facevano
apparire più grande delle sue coetanee e questo attraeva
molti ragazzi di
Ashfield.
Inoltre…
Cynthia
era bellissima. Ella, con un carattere mondano
e frizzante, già allora ostentava senza problemi il suo
fascino, pienamente
consapevole e disinvolta del suo apparire.
Era
finito da poco il doposcuola e la bruna si trovava
nei pressi del sottopassaggio della metropolitana, non lontana dagli
appartamenti
di South Ashfield Heights. Allungò un braccio e
richiamò i ragazzi che erano
con lei, che la seguirono all’unisono.
“Hai
fatto i biglietti?” chiese uno di loro.
“Che
importa? Per King Street sono due fermate e
basta.” rispose lei noncurante, estraendo dalla borsa un
lucidalabbra colorato
che stese velocemente sulle labbra carnose.
Osservò
la sua figura nello specchietto e strinse le
labbra fra loro, lasciando che il lucidalabbra si sistemasse in maniera
uniforme. Posò tutto in borsa, prendendo delle decollete
rosse che infilò sotto
gli occhi perplessi dei suoi compagni di classe. Corse poi velocemente
per la
scalinata mostrando una grandissima disinvoltura con quel look,
nonostante la
giovanissima età.
Una
volta giunti ai binari, Cynthia estrasse la
tessera e assieme agli altri fece per oltrepassare le sbarre e
raggiungere la
metro.
“Abbiamo
ancora qualche minuto, Cynthia.”
La
ragazza dunque si avvicinò allo spiazzale e portò
le mani sui fianchi curvilinei guardando attorno a sé.
A
quell’ora non c’era molta gente per cui non fu
difficile, per i ragazzini, scorgere nuovamente quell’uomo.
Non
sembravano particolarmente sorpresi di vedere
quella figura, perché l’uomo in questione era ben
conosciuto da chi viveva in
zona.
Veniva
infatti spesso visto aggirarsi da quelle parti,
talvolta persino dormendo nella metropolitana, avvolto in un sacco a
pelo.
Aveva
un’apparenza giovane. Dall’aspetto sciatto e
dagli abiti trascurati, trasmetteva un’idea inquietante che
allontanava la
gente.
Inoltre,
ogni qual volta Cynthia si ritrovasse a
guardarlo, egli sembrava sempre contraccambiarla, come se non facesse
altro che
fissarla timidamente da lontano.
Quel
giorno, invece, la bruna vide quell’uomo
avvicinarsi per la prima volta, all’improvviso. Nemmeno ci
fece caso e subito
sbandò quando se lo ritrovò così
vicino.
"S...Scusa...mi"
le disse lui con un filo di
voce.
Cynthia
era ancora molto sorpresa e continuava a
osservarlo incredula. Lui intanto continuò.
"Ecco....quell'appartamento..lì....la
stanza
302..."
Alzò
la mano e fece per indicare in direzione degli
appartamenti di South Ashfield, quando uno degli amici di Cynthia
allontanò la
ragazza da vicino l’uomo.
"Chi
diavolo è questo pezzo di merda?"
intimò.
“Andiamo,
fatela finita.” rispose lei, cercando di non
far perdere a nessuno la calma.
“Non
farti scocciare da lui.”
Gli
amici la presero per le spalle e l’allontanarono.
Mentre
facevano per trascinarla lontana da lui, l’uomo
prese nuovamente parola.
“Vengo
da Silent Hill…”
Cynthia
si ritrovò in quel momento ad incrociare gli
occhi verde chiaro del giovane e, per la prima volta, si rese conto
che,
esclusi i capelli biondi scomposti e
gli
abiti ingombranti, doveva essere abbastanza giovane.
All’incirca diciotto anni,
poco meno o poco più.
Tuttavia
lo ignorò e seguì i suoi compagni di classe
che si tenevano a distanza da lui. Girò i tacchi e
ancheggiò noncurante nei
pressi del sottopassaggio che portava ai binari.
“Non
parlategli. Stategli lontano, okay?” aggiunse per
rassicurarli.
“Aspetta,
Cynthia!” disse il vagabondo, cercando di
trattenerla.
A
quel punto lei si voltò.
Furono
inutili le preoccupazioni degli amici che la
invogliavano a non avvicinarsi.
Con
pochi passi spediti, infatti, lei fu di nuovo di
fronte a quell’uomo.
Lei
alzò lo sguardo e allungò la mano destra verso il
suo viso senza alcun remore. La sua mano era affusolata e delicata, con
le
lunghe unghie laccate di rosso.
Esse
creavano un forte contrasto con la pelle
trascurata di lui, con un accenno di baffi e barba incolta.
"Ehi,
mi hai fraintesa.” gli disse. “Sei
carino....ma questo non vuol dire che io ti ritenga attraente."
Lo
continuò ad osservare imperterrita, sorridendo
leggermente ammiccante. Era ben conscia di lasciare gli uomini
incantati con il
suo aspetto ed era una consapevolezza che viveva con grande scioltezza
nonostante i suoi tredici anni. Un tipo di scioltezza che, ancora una
volta,
non la faceva apparire una ragazzina, qual’era invece nella
realtà.
Riprese
parola, sotto gli occhi del ragazzo che
fuggivano e venivano a lei. Cynthia avvertì chiaramente che
egli fosse poco
abituato alla vicinanza delle persone.
"I
tuoi vestiti, poi, sono sporchi, e puzzano...Pensi
che siano cose che interessano ad una ragazza come me? Non
esiste.” sospirò,
poi aggiunse corrucciando appena la fronte. “Inoltre...come
diavolo fai a
conoscere il mio nome?"
Egli
rispose subito.
"Ah...b..beh...sono
passati circa dieci
anni da quando udii il tuo nome."
Dopo
aver sentito questo, Cynthia tolse repentinamente
la sua mano dalla guancia del ragazzo.
Che
diavolo stava dicendo? Era per caso pazzo?
Lo
squadrò dalla testa ai piedi, mostrando chiaramente
il suo disgusto.
"Dieci
anni? Mi hai spiato qui per dieci anni??
Ma fai schifo!"
A
quel punto Cynthia schizzò via da lui e scese le
scale fino a raggiungere la piattaforma sottostante.
La
bruna sbuffò, leggermente turbata dalle parole di
quel tipo. Preferì comunque non rendere partecipi gli amici
del suo turbamento.
Che cosa ne sarebbe stata della sua reputazione, poi?
"Uff…non
è il mio giorno. Che sfortuna incontrare
un tipo del genere. Oh, beh...Devo decisamente andare a divertirmi.
Credo che
andrò in un night club." dichiarò ai suoi amici.
"Non
di nuovo, Cynthia...Passerai dei guai se
scopriranno la tua età!"
"Non
preoccupatevi...non lo noteranno."
disse lei infine e si avvicinò alla linea gialla cacciando
nuovamente lo
specchietto dalla borsa.
Intanto,
il giovane biondo era rimasto lì, esattamente
dove aveva incontrato Cynthia. Osservava ancora, incantato, nella
direzione in
cui l’aveva vista sparire.
Lei
non lo sapeva…
…ma
lui la conosceva già da tempo.
“Cynthia…”
sussurrò. Guardò verso l’uscita della
metropolitana e indicò nuovamente nella direzione che aveva
indicato anche a
lei. "Ecco....quell'appartamento..lì....la stanza
302...South
Ashfield Heights."
Socchiuse
gli occhi e rimase immobile, per qualche
attimo, sotto gli occhi minacciosi e intimidatori della gente.
Egli
stava riportando alla mente dei ricordi lontani.
Dei ricordi che uno come lui non avrebbe mai dimenticato. Lui che aveva
vissuto
nella Wish House. Lui che aveva vissuto a Silent Hill.
Lui…perché era Walter
Sullivan e conservava preziosamente ogni ricordo.
10
febraio
Sono
nuovo andatto a Ashfeeld.
Dinuovo
no ho trovatto mamma.
Alcune
ragasse cative sul treno mi anno deto cose cative e mi anno spaventato.
Lui
mi ha picchiati dinuovo.
(scritta
rossa nella foresta di Silent
hill)
Eppure
lui, Cynthia…
L’aveva
sempre trovata perfida e…
Bellissima.
***
[SOUTH
ASHFIELD, nella periferia della città]
L’uomo
biondo con il cappotto rideva. Rideva
velatamente, ma questo bastava per incutere terrore negli occhi della
sventurata donna di fronte a lui.
Cynthia
portò una mano sulla bocca, terrorizzata
all’idea di avere di nuovo, dinanzi ai suoi occhi, lui.
L’uomo della
metropolitana di South Ashfield.
Walter
rideva ancora, passando la lingua fra i denti
come se stesse gustando le intense emozioni di Cynthia.
“Io
mi sono innamorato di te.”
Con
passi pesanti, si avvicinò a lei, rivolgendole
quello sguardo sinistro ed intenso, eppure in qualche modo estasiato da
quella
donna che invece era paralizzata, poggiata al muro fatiscente del
locale.
“Innamorato?
Non scherzare e vattene!” gli intimò, con
voce tremante.
“Ora
sono venuto a prenderti. Non avere paura.” le
disse.
L’uomo,
incurante, continuò ad avanzare e Cynthia
cominciò a sentire il cuore palpitare così forte
tanto da credere che potesse
scoppiare. Istintivamente caricò sulle braccia tutta
l’energia che aveva in
corpo e scaraventò via Walter per scappare più
velocemente possibile.
Corse
per le vie trascurate della periferia, in quel
buio opprimente, facendo cadere all’aria gli scatoloni che
trovava dinanzi a
sé. Ruppe il tacco della scarpa non appena finì
in una mattonella rotta, ma
questo non le impedì di scappare e cercare un riparo lontano
da quel folle.
L’uomo
smise di ridere e guardò intensamente nella
direzione in cui era sparita Cynthia. Alzò poi il capo verso
il cielo e osservò
le numerose stelle.
“16/21…
Il Terzo Segno. E Dio disse, torna alla fonte
attraverso la tentazione del peccato.”
Chiuse
gli occhi nuovamente, mentre altri occhi verdi
si spalancarono, terrorizzati, nello stesso istante.
***
[APPARTAMENTO
302, in camera da letto. Appartamenti di
South Ashfield Heights]
Due
occhi verdi si spalancarono, terrorizzati,
rimanendo a fissare il soffitto.
“Ah!”
Henry
si alzo e portò la mano sul viso, ancora
incredulo dell’incubo appena fatto. Allontanò
lentamente la mano, mentre si
capacitava sempre di più della sua visione.
“Non
era un sogno, quello…” mugugnò.
“Oh, mio
Dio…Cynthia…”
In
quel momento si alzò dal letto e fece per dirigersi
verso il varco nel suo ripostiglio. Qualcosa, tuttavia, lo
fermò proprio mentre
stava girando il pomello della porta. Rimase immobile a fissare quella
porta
semichiusa, non sapendo perché avesse corso spedito per
andare lì.
“Era
solo un sogno…che diavolo sto facendo?” disse a se
stesso.
Tuttavia
era davvero poco convinto delle sue stesse
parole. Era
stato, infatti, un
sogno fin troppo dettagliato.
Aveva
visto Walter Sullivan, era come se fosse
stato…lì…in quel locale di periferia e
aveva persino…
Scosse
la testa. Non
voleva nemmeno pensarci.
Perché
nel
suo sogno lei, Cynthia…era così
vera e…viva.
Ma
come poteva essere possibile?
Il
telefono, allora, squillò nuovamente. Henry andò
a
rispondere il più velocemente possibile, alzando la cornetta
frettolosamente.
“Cynthia!”
urlò, quasi come se si aspettasse di udire
proprio la sua voce.
“La
signora importante
mi ha detto che la mia mamma è addormentata a South
Ashfield…”
Henry
sgranò gli occhi quando si accorse che la voce
non fosse quella di Cynthia. Era una voce molto più puerile,
come…come quella
di un bambino. Subito si rivolse a quella voce, assumendo un tono
agitato.
“W-Walter..?
Come hai fatto a chiamarmi qui?!”
“Anche
io ho una mamma.”
La
voce gli rispose imperterrita, come se non lo
avesse per nulla ascoltato.
“Walter!
Rispondi! Che diavolo sta succedendo?!”
“Sono
così felice.”
Henry
presto si rese conto che, se anche quello fosse
stato davvero il piccolo Walter Sullivan, quella era una voce che non
lo
avrebbe mai riposto.
Tirò
dunque su un profondo respiro e avvicinò meglio
la cornetta del telefono, cercando di ascoltare attentamente.
La
voce bisbigliava quasi ed Henry poteva avvertire
l’emozione e la paura di quel ragazzino che stava scoprendo
dell’esistenza
della cittadina di Ashfield. La voce tuttavia era molto disturbata, per
cui
Henry non fu in grado di comprendere ogni parola. Si chiese se qualcosa
non
andasse con la linea e mentre fece per controllare i fili,
udì un’eco provenire
dal corridoio.
“La
siniora mprotante… a deto… la mia…a
Asfeeld.”
Sbandò
colto alla sprovvista. Non ebbe il tempo di
capire il senso delle parole, ma la voce era inequivocabile. Era quella
del
giovane Walter Sullivan. Ed era in casa sua…
Cautamente
si sporse fuori dalla porta della camera da
letto. Scrutò discretamente, ma non vide nessuno in
corridoio, così avanzò.
Sebbene
udisse ancora un bisbiglio a stento percettibile,
sentiva come se si stesse avvicinando sempre di più alla
fonte da dove
provenisse.
Quando
si ritrovò nel salotto, gli venne spontaneo
guardare verso il buco vicino il mobiletto di legno e subito
deglutì quando si
rese conto che quei bisbigli provenissero proprio da lì.
“Voglio
vedere la mia mamma. Ma dov’è Ashfield?”
Si
inginocchiò lentamente e poggiò il viso vicino il
buco.
Quel
che vide fu la stessa scena che vedeva da tutto
il giorno. L’interno di un vagone della metropolitana in
movimento, dall’aria
trascurata.
Questa
volta, tuttavia, non vi erano più quegli strani
fantocci femminili, ma delle ragazze giovanissime che uscivano dal
vagone, e si
intravedeva un bambino biondo dal maglioncino a righe.
Henry
riconobbe subito, in quel bambino, il piccolo
Walter.
Si
sorprese di vederlo con un volto così affranto.
Sembrava quasi che singhiozzasse, ma che facesse di tutto per
trattenersi.
Per
un bambino di quell’età era uno sforzo davvero
grande quello di non piangere, ma egli riuscì a controllarsi.
Nel
vederlo in quello stato, Henry provò una strana
morsa al cuore. Solo allora ricordò dei fogli di carta rossa
scritti dal
giornalista Joseph Schreiber relativi la sua indagine sul passato
dell’assassino Walter Sullivan.
Voglio
riassumere tutto quello che ho appreso su
Walter Sullivan finora.
E' nato proprio qui nell'appartamento di "South Ashfield Heights".
I suoi genitori lo hanno abbandonato poco dopo, e sono scomparsi
lasciando il
neonato tutto solo. Una volta scoperto fu mandato all'ospedale San
Jerome.
Fu poi adottato dalla "Wish House", un orfanotrofio situato nel bosco
di Silent Hill e gestito da un culto religioso segreto di Silent Hill.
Aveva 6
anni quando un appartenente al culto gli mostrò dove era
nato. Da allora iniziò
a convincersi che l'appartamento 302 stesso, questo appartamento,
l'avesse
partorito. Ogni settimana andava dall'orfanotrofio a South Ashfield
Heights, un
bel tragitto per un bambino della sua età. A volte prendeva
l'autobus, a volte
la metropolitana.
Sono stanco...
Il mio mal di testa mi sta uccidendo. Riprenderò a scrivere
domani.
28 Luglio
(diario
rosso di Joseph Schreiber)
Si
chiese se stesse rivivendo quel momento della vita
del giovane Walter.
Continuò
a osservarlo incessantemente, sperando di
udire la voce di quelle ragazze che ancora si percepivano, sebbene a
stento.
Sembravano avercela proprio con il bambino.
Henry
non riusciva a comprenderne il motivo, ma del
resto non sempre c’era una ragione a simili ingiustizie.
Anche
lui ne aveva subiti di torti, quando aveva
all’incirca la stessa età.
Sapeva
dunque bene come anche i bambini…potessero
essere crudeli.
Vide
negli occhi di quel bambino la forte amarezza
dell’incomprensione e della solitudine, e l’odio
che ribolliva dentro…ma allo
stesso tempo la forza che gli dava la speranza di raggiungere South
Ashfiel…ovvero sua Madre. L’unica cosa che forse
gli rimaneva.
Ricordò
le sue parole al telefono: “Anche
io ho una mamma! Sono così felice.”
Chiuse
gli occhi sentendosi angosciato.
Quegli
orrori che quel bambino avrebbe creato in età
adulta... era in quel momento che avrebbero trovato la loro motivazione
più
grande.
Di
lì a poco, o forse era già accaduto, egli avrebbe
confuso sua madre con l’appartamento 302. Questa
consapevolezza lo trafisse,
facendogli provare il duplice sentimento di pena e frustrazione. Questo
perché
di base quel bambino ricercava solo l’amore, la sua
felicità, la sua…vita. Non
gli avrebbe importato null’altro.
Né
le prese in giro, né le percosse, né il viaggio.
Questo
perché avrebbe rivisto sua madre.
Lui…l’avrebbe salvata.
Seppur
con una logica del tutto folle ed inumana,
nella sua mente era così. Forse... persino nella mente di
Walter Sullivan
adulto…era così.
D’altra
parte, Henry avvertiva dentro di sé anche la
frustrazione verso se stesso; verso quel momento che non fu che
l’inizio del
suo di incubo, il quale lo aveva ingabbiato in quell’universo
controverso.
Toc
toc
“Henry,
sei in casa?”
Una
voce improvvisa lo fece sussultare. Si voltò di
scatto verso la porta.
Eileen
Galvin lo richiamava a gran voce e il ragazzo,
lì per lì, rimase immobile, incapace di reagire.
“Eileen…”
sussurrò.
Egli
chinò il capo e socchiuse gli occhi. Stava
sbagliando tutto con lei. Ma cosa poteva mai fare, altrimenti?
Si
alzò e lentamente si avvicinò alla porta
d’ingresso.
Avrebbe
tanto voluto parlarle sinceramente. Nessuno
meglio di lei avrebbe potuto comprendere cosa egli stesse vivendo.
Questo
non solo per l’incubo affrontato assieme, ma
perché lui le voleva bene e avrebbe tanto desiderato averla
vicina per non
impazzire.
Tuttavia
non poteva dirle nulla fino a quando non
avrebbe risolto il caso e…diavolo…non ne aveva
idea di come sarebbe andata a
finire.
Si
poggiò sulla porta con la schiena e abbandonò il
capo, assorto nei suoi stessi pensieri.
Socchiuse
gli occhi e regnò il silenzio. Un silenzio
tormentato che divideva i due giovani vicini di casa con quella porta
che per
sei giorni lo aveva imprigionato dentro. E tutt’ora lo teneva
sigillato,
impedendogli di raggiungere la ragazza.
Henry
sentì Eileen smettere di battere e sospirare
affranta.
“Lo
so che ci sei…Henry…e so anche perché
non mi stai
aprendo…io…”
Gli
occhi verde pallido di Henry si rivolsero alla
porta. Quasi gli sembrava di vedere Eileen dietro di sé,
poggiata anch’ella
dietro la porta dell’appartamento 302. La voce di lei, poi,
si fece più
profonda.
“Io…prego
ogni giorno, sperando che questo strazio
finisca, Henry. Ricordalo. Ovunque tu sia. Ovunque tu
sia…Io…” si fermò.
“Tieni, ti passo un biglietto sotto la porta.”
Il
bruno abbassò lo sguardo e vide un foglietto
ripiegato strisciare da sotto la porta. Lo afferrò e lo
tenne stretto fra le
mani, finché non sentì di nuovo Eileen da dietro
la porta.
“Ci
vediamo presto, vero?” gli disse lei infine. Poi
batté appena sulla porta e andò via.
Henry
aprì il foglietto di carta solo dopo che sentì
l’appartamento 303 chiudersi. Lesse attentamente quelle
parole e sorrise
malinconicamente. Poi allontanò il foglietto da
sé.
“Mi
dispiace…” sussurrò.
Lui
avrebbe fatto del suo meglio per non rimpiangere
mai più nulla. Ne aveva lasciate correre fin troppe di
occasioni per essere
felice.
Ancora
una volta il destino gli era contro, ma non
doveva tirarsi indietro. Se rimaneva fermo, non sarebbe cambiato nulla.
Da
dietro il bigliettino scrisse velocemente qualcosa,
si affacciò dalla porta d’ingresso e si
avvicinò all’appartamento 303.
Tentennò
un attimo, ma poi infilò il bigliettino sotto
la porta di Eileen. Rimase un attimo a guardare immobile, prima di
andar via.
“Te
lo prometto. Eileen.”
Così
si allontanò, rientrò in casa e
attraversò il
varco.
***
[SOUTH
ASHFIELD , nella metropolitana.]
La
testa di Henry Townshend doleva incredibilmente.
Aprì gli occhi appesantiti dal viaggio nell’altra
dimensione e guardò attorno a
sé faticosamente. Gli ci volle del tempo per abituare gli
occhi alla luce e
scrutare così la vecchia metropolitana della
città.
Si
trovava all’interno di uno dei vagoni del treno
che, al momento, era fermo e sembrava completamente deserto.
Prima
di alzarsi e cominciare l’esplorazione si
ritrovò a pensare a lei, a Cynthia.
La
prima persona che aveva visto morire lì dentro e
nella realtà… colei che aveva segnato per la
prima volta quel viaggio come un
vero incubo macchiato dal sangue.
Strinse
i pugni, risentendo dentro di sé quelle
emozioni che non gli avevano permesso di solcare il buco, prima.
Ricordare
tutto quel che era legato a quel suo primo
viaggio nell’otherworld di Sullivan, quando era ignaro di
tutto…fu…tremendo.
Cynthia…
Avrebbe
dunque incontrato lei, questa volta?
Sentiva
un leggero turbamento in corpo pensando ad una
simile eventualità, questo perché Cynthia era
entrata profondamente dentro di
lui.
Oltre
che per le tragiche circostanze che li avevano
separati, c’era dell’altro. Lo sentiva nitidamente.
Qualcos’altro
premeva sul suo cuore oltre al
significato personale che attribuiva a quella donna.
Quel
turbamento…era per via dei sentimenti di Walter
Sullivan nei suoi confronti?
Talvolta
se lo chiedeva, ma come avrebbe potuto essere
possibile?
Gli
venne in mente lo strano sogno che aveva fatto.
Aveva visto proprio lei, quella donna di origini ispanico-americane, e
l’aveva
vista parlare con l’assassino.
Non
solo. L’aveva vista anche in una versione
adolescenziale mentre incontrava lo stesso uomo che poi, sedici anni
dopo,
l’avrebbe uccisa.
Poggiò
una mano sul capo, completamente disorientato.
Era
stato solo un sogno dovuto alla suggestione del
momento? Era accaduto veramente?
La
cosa che lo turbava maggiormente, tuttavia, non era
tanto questo…
Henry,
in quel sogno, non era stato un semplice
spettatore. Aveva visto il terrore di Cynthia riflesso nei suoi occhi
e...aveva
provato le emozioni di Walter Sullivan.
Il
suo essere estasiato da lei, la sua consapevolezza
che ella fosse la prima vittima della terza rivelazione del rituale sui
ventuno
sacramenti…
Stringendo
le labbra, sentiva ancora il calore
penetrante di Cynthia sulla sua pelle…
Portò
una mano sul visto e provò orrore di ciò che
aveva avvertito.
Non riusciva semplicemente a capacitarsi che qualcosa anche nella sua
testa
stesse cambiando.
Senza
contare che nella sua mente stessa ultimamente
stavano cominciavano a riaffiorare ricordi sull’uomo biondo
che mai avrebbe
potuto avere.
Quasi come una connessione indissolubile e involuta li avesse legati.
Si
alzò poggiandosi appena sulla panchina, facendo
così cadere una scatola rossa che era già in
bilico sull’orlo.
“Nh?”
sussurrò e riconobbe quella scatola.
Era
la scatola nel “prezioso trenino di Walter”.
Quella che aveva aperto con una chiave giocattolo che gli aveva passato
il
bambino stesso da sotto la porta.
Mamma,
ti do cuesto cuindi svegliati presto.
E'
dentro al mio trenino.
(messaggio
del bambino trovato sotto la
porta dell’appartamento 302)
Osservò
la scatola. Era aperta e le catene erano
sparse lungo lo scompartimento. Il bruno deglutì ricordando
l’ultima volta cosa
ci fosse al suo interno.
La
moneta da utilizzare per ottenere la chiave del
delitto.
La
chiave che avrebbe aperto la porta dove avrebbe
trovato Cynthia esamine.
Si
chiese se l’avesse trovata di nuovo lì. Tuttavia
questa volta la scatola era vuota. Solo una serie di messaggi
stracciati vi
erano al suo interno, impossibili da decifrare per Henry.
Li
raccolse e li esaminò. Sebbene non fosse possibile
ricomporre i pezzi, quella calligrafia gli era ben nota ed era quella
dell’io-bambino di Sullivan.
In
alcune era chiaro ci fossero dei riferimenti
relativi la linea metropolitana. In altri appariva spesso il nome di
South
Ashfield. In ogni caso, era abbastanza evidente che fossero tutti
frammenti di
ricordi di quell’uomo, durante i suoi viaggi per raggiungere
la madre.
Un
uomo all’improvviso aprì le porte del treno. Henry
si voltò preso alla sprovvista.
Non
appena alzò lo sguardo, vide l’uomo col cappotto
abbassare il cappuccio della giacca e guardarlo gelido. Henry ebbe lo
strano
presentimento che anch’egli non si aspettasse la sua presenza
lì.
“Henry
Townshend…” bisbigliò. Poi
continuò. “Che
guardi?”
A
quel punto l’uomo dai capelli biondi spalancò gli
occhi e gli rivolse uno sguardo indemoniato. Henry rimase lì
senza sapere che
fare, e quel silenzio sembrò adirare ancora di
più Sullivan.
“Allora…muori
qui!”
Sparò
il ragazzo ferendolo alla spalla.
Henry
spalancò gli occhi, sentendo il suo corpo
ghiacciarsi.
Sentì
la paura gelargli il sangue a tal punto da non
avvertire alcun dolore, sebbene il sangue prese a macchiare le sua
candida
camicia. L’adrenalina aiutò il giovane a non
curare la ferita, dunque, seppur
sotto shock, velocemente si strascinò via da lì,
oltrepassando i vagoni.
Walter
cominciò a inseguirlo con passo deciso,
inveendo contro di lui.
Henry
aveva la peggio essendo ferito e non poteva far
altro che passare da un vagone all’altro sperando di
seminarlo.
Nel
vedere però che Walter non mollasse
l’inseguimento, comprese di dover fare qualcosa. Le parole
quasi uscirono da
sole dalla sua bocca, proprio prima di chiudere l’ennesimo
vagone.
“Era
solo una bambina! Perché?!” urlò e un
altro
proiettile lo sfiorò, al che chiuse immediatamente il vagone.
L’assassino
era ben conscio di non poter uccidere
Henry, ma continuava imperterrita a colpirlo e inseguirlo. Solo allora
Henry,
mentre correva, si chiese se non stesse cercando di farlo fuori proprio
per ciò
che aveva visto: i suoi ricordi.
Possibile
che Sullivan si fosse accorto che era
entrato nella sua mente ed aveva conosciuto una parte di lui?
Purtroppo
non aveva la tranquillità e nemmeno la
sanità mentale sufficiente per pensarci troppo.
Estrasse
la mappa della metropolitana e cercò il
sistema più breve per uscire da quel dannato treno.
Walter
intanto gli era alle calcagna. Non appena Henry
vide la linea gialla da fuori uno degli sportelli, subito
uscì e corse via.
Nonostante
l’affanno e il bruciore alla spalla, corse
più velocemente che poté e solo dopo una manciata
di secondi si accorse che gli
spari erano cessati.
Si
girò attorno non capendo.
Fatto
stava che Walter era sparito. Di lui nemmeno
l’ombra.
Non
era di certo la prima volta che l’uomo sparasse
contro di lui, ma la rabbia che aveva in corpo era stata completamente
diversa,
quel giorno.
Era
per via di Cynthia?
In
verità ne aveva la certezza. Questo perché lui
stesso si era reso conto, tramite le sue emozioni, quanto ella
rappresentasse
per Walter Sullivan.
All’improvviso
sentì dei sospiri intensi.
Affacciandosi
vicino i binari, vide una donna dai
lunghi capelli d’ebano seduta sul bordo del marciapiede.
Indossava una
maglietta rosa e una gonna dai motivi colorati.
Dondolava
i pieni incessantemente, bisbigliando e
ansimando.
“…Cynthia?”
disse, riconoscendola.
Subito
corse verso di lei e fece per guardarla in
viso. Si sporse, ma quasi cadde a terra quando si rese conto che aveva
un viso
pallidissimo e una pelle oramai coriacea.
“Ah!”
urlò, non sapendo che fare.
Quello
era il fantasma di Cynthia. La sua testa prese
a dolere terribilmente e fu costretto ad allontanarsi di qualche passo.
Continuava tuttavia a scrutarla, avvertendo il cuore battere sempre
più forte.
Faceva
davvero impressione, pensò. Eppure lei…sebbene
dalle sembianze così impressionanti, ella continuava a
fargli molta pena.
Ora
era solo una vittima di quel macabro rituale, e
l’ombra della sua anima era rimasta anch’ella
sigillata lì.
Henry,
più la osservava, più si rendeva conto che
Cynthia non si fosse accorta di lui e fosse, oramai, solo il riflesso
di ciò
che un tempo rappresentava.
“Ho
freeeddo…” disse lei, ridendo appena. Il suo tono
era sofferto. “Forse, ho bevuto troppo la scorsa
notte…Mi…mi sento di
morire…ah!”
Prese
ad ansimare forte, agitando i lunghi capelli
scuri. Henry strinse gli occhi, con il cuore a pezzi.
Ella…stava rivivendo la
sua morte. Era ben chiaro per lui. Non aveva mai dimenticato quel
giorno…
Istintivamente,
nell’udirla così addolorata, le si
rivolse.
“Non
preoccuparti. È solo un sogno.” le disse. Proprio
come l’ultima volta.
Il
fantasma di Cynthia sembrò sgranare gli occhi.
Prese parola, non guardando però il ragazzo, ma dirigendo il
suo sguardo verso
un qualcosa di vago.
“Qualcuno
un giorno mi disse così…è
vero…che orribile
sogno che feci. Così…vero.”
sussurrò ancora.
“Così…vero.”
Cynthia
non si ricordava di lui?
Beh,
era anche probabile questo. Il loro incontro era
stato così breve, in fondo...
Così
breve, davvero...
Quel
pensiero cominciò ad echeggiare nella sua mente.
Breve…Breve…
Eppure…intenso.
Era
strano come un lasso di tempo così
“breve” potesse
cambiare inesorabilmente la vita di una persona.
Guardò
Cynthia preso dal rimorso di non aver potuto
far niente per lei, oramai ingabbiata per sempre in quella
realtà parallela,
capace solo di rievocare quella che era stata la sua vita.
“Sta
arrivando…scappa…sta
arrivando…” sussurrò ancora,
dicendo le stesse parole che gli diceva all’epoca, proprio
prima di morire.
Henry
allora sorrise malinconicamente.
Walter
Sullivan era un uomo cinico e insofferente.
Aveva disprezzato la vita e ogni qual volta si fosse aggrappato a
qualcosa,
questi gli si era ritorto contro.
Si
era aggrappato, dopo una vita terribile presso la
Wish House, a un appartamento, credendo inconsciamente potesse
restituirgli
l’amore perduto.
E
in quell’ottica, Cynthia…in
gioventù… aveva
rappresentato un’ennesima porta chiusa?
“Sei
la tentazione perché
lui era innamorato di te, Cynthia.”
Lei
non si era mai accorta di quanto lui, nella sua
malasanità, avesse avuto bisogno di tenere quella porta
aperta almeno per un
po’.
Gli
occhi di Henry divennero tristi, spenti, e
continuavano a guardare Cynthia con incanto…quasi estasiati
da lei.
“Cynthia…”
sussurrò ancora. Guardò verso l’uscita
della metropolitana e allungò il braccio verso una direzione
ben precisa. "Ecco....quell'appartamento..lì....la
stanza 302...South Ashfield Heights."
Lui
l’aveva sempre trovata perfida e…
Bellissima.
***
“Sul
marciapiede della
città le mie urla sono solo un sussurro?
Le
persone occupate vanno e vengono ovunque.
Guardami
qui, immersa sotto la pioggia.
Non
avere nessuna compassione, non importa.
La
mia resistenza sta vacillando.
Come
un fiore nel seminterrato, in attesa di una morte
solitaria…”
(Your
Rain)
***
[Pianerottolo
del terzo piano. Appartamenti
di South Ashfield Heights]
Eileen
stava rientrando dopo una serie di commissioni
svolte. Non vedeva l’ora di sbarazzarsi di tutti quei pacchi
che aveva in mano
e che la stavano facendo letteralmente trascinare su per quel
pianerottolo.
Sospirò
intensamente e dalla tasca estrasse le chiavi
di casa. Erano ben riconoscibili per via della bambolina di pezza che
usava
come portachiavi.
Aprì
la porta e sbuffò intensamente, lanciando i
pacchi sul bancone della cucina.
Doveva
solo sistemare un altro paio di cosette,
telefonare l’università, e…
Qualcosa,
all’improvviso, la fece scivolare quasi sul
pavimento. Riuscì a tenere l’equilibrio a stento.
Si
poggiò con le mani sul muro e guardò a terra
disorientata.
Fu
sorpresa di notare un bigliettino proprio ai suoi
piedi.
“Che
cos’è?” disse.
Lo
raccolse e vide che era ripiegato frettolosamente
su se stesso.
Subito
il cuore le prese a battere forte. E se fosse
stato di Henry?
In
realtà si era pentita quasi subito del messaggio
che gli aveva lasciato sotto la porta, nel quale gli aveva espresso
teneri
sentimenti di conforto. Tuttavia si era imbarazzata nel fare una cosa
simile, e
a maggior ragione si sentì terribilmente paonazza nel
leggere un’eventuale sua
risposta.
Lo
aprì e sgranò gli occhi quando vide che il
bigliettino dentro era…bagnato?
Sentì
la mano bagnarsi e istintivamente la allontanò
per scrutarla. Ora era… inspiegabilmente tinteggiata di
rosso.
Annusò
perplessa e quel terribile odore organico la
fece trasalire.
Lasciò
cadere il bigliettino e strillò.
“AH…ma
è sangue?!”
Sbiancò
letteralmente, ancora incredula e con la mano
sporca di quel liquido rosso.
Si
poggiò alla porta dell’appartamento e prese a
tremare. Tremare incessantemente.
“Henry..?”
disse, con gli occhi ancora spalancati.
Il
bigliettino…
Adesso
era interamente macchiato di rosso.
Non
vi era nulla scritto
sopra.
Nello
stesso tempo, qualcosa nella palazzina si
aggirava incessante nei pressi dell’appartamento 302.
Una
mano graffiava e batteva incessante a quella
porta. Nessuno poteva udirlo o vederlo. Altrimenti chiunque sarebbe
scappato a
quella visione.
La
mano colpiva forte, lasciando muovere la manica
della camicia smessa.
Era
davvero difficile riconoscerlo. Aveva gli abiti
strappati e sporchi. Un jeans consumato e una serie di innumerevoli
tagli su tutto
il corpo. Il viso era ben nascosto dalla lunga frangia disordinata, al
di sotto
dalla quale si intravedevano appena quegli orrendi sfregi che lo
deturpavano.
Bisbigliava,
bisbigliava incessantemente, continuando
a battere su quella porta.
Dall’altro
lato, lo spioncino dell’appartamento 302
prese a sanguinare. Una goccia rossa scivolò rapida da
quella piccola fessura
fino a gocciolare sul pavimento.
E
quell’uomo continuava a battere.
Sotto
il suo collo si distinse poi uno sfregio ben
preciso. Sebbene scritti a stento, sembravano una serie di numeri
cicatrizzati
su quel corpo orribilmente sfigurato.
21/21
Più
volte si sentì, poi, il telefono di quella casa
squillare.
Una
ragazza dai capelli corti e castani, con il viso
preoccupato, continuava a comporre ripetutamente il numero, senza mai
ottenere
risposta.
[…]
NDA:
è stata una vera
faticaccia scrivere questo capitolo! Cynthia è un
personaggio che mi ha davvero
colpita nella storia e scrivere su di lei è stato
difficoltoso perché volevo
davvero scrivere qualcosa che le desse un giusto tributo.
Inoltre
ritengo che Walter la consideri come la sua
“prima cotta” quindi provi amore e rabbia nei suoi
confronti. Questo lo rende
più violento automaticamente anche con Henry. Spero tanto di
essere riuscita a
rendere l’idea^^
L’intero
capitolo inoltre ha dei riferimenti legati
alla canzone di silent hill 4 : Your Rain.
È
una canzone presente nella soundtrack, è cantata da
Cynthia stessa nel video e per me parla proprio del suo personaggio. Mi
porta
sempre molta tristezza quando l’ascolto…
Oramai
siamo a più di metà storia…mi
appresterò a
mettere le basi per terminare la fan fiction, spero di essere sempre
all’altezza.
Ringrazio
tutti coloro che mi seguono e mi
recensiscono. E’ difficile il lavoro che sto facendo, ma amo
questa storia e
farò del mio meglio nel parlarvi di SH4 e cosa lo rende per
me terribilmente
affascinante a differenza di come credono in molti!
Un
bacio, ci sentiamo nelle recensioni e nel prossimo
capitolo^^
|
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Capitolo 6 *** Il palazzo di South Ashfield ***
NdA:
Consiglio la lettura
di questo capitolo in due tempi, essendo uscito abbastanza lungo. Io
stessa ho
segnato il punto in cui consiglio fermarsi. Buona lettura!
Un
caloroso
ringraziamento a coloro che mi stanno seguendo!!
CAPITOLO
06
“Non
appena la vidi, fui
subito attratto da South Ashfield Heights, avvertendo come una sorta di
richiamo…”
(Henry
Townshend, nell’appartamento 302)
[APPARTAMENTO
302, South
Ashfield Heights]
Henry
Townshend lasciò
scorrere il dito sulle varie copertine dei libri mormorandone i titoli.
Stava
setacciando con lo sguardo la piccola libreria dalle mensole consumate.
Solo
quando incappò nelle
riviste dedicate alla città sulle rive del lago Toluca, le
prese lasciando
fuoriuscire notevoli quantità di polvere.
Effettivamente
non aveva
avuto molte occasioni di toccare quei libri negli ultimi tempi, ma
forse
avrebbe dovuto almeno pulire.
Era
un aspetto della sua
vita domestica con la quale avrebbe sicuramente saldato i conti, un
giorno. Quel
giorno, non era di certo quello, comunque.
Ripensò
a tutte le
telefonate che aveva effettuato in passato alla biblioteca di Ashfield.
Non
c’era stato verso di
reperire alcuna documentazione riguardo Silent Hill. Tuttavia era fin
troppo
ovvio che in quella città di collina ci fosse più
di qualcosa che non
quadrasse. Possibile che non vi fosse nessuna documentazione a riguardo?
Nessun
libro inerente al
culto, nessun libro riguardante le tradizioni. Nessun documento
riguardante i
tanti sacrilegi che venivano compiuti dalla Wish House e probabilmente
non solo
lì…
L’intera
città, nascosta
nella sua densa coltre di nebbia, celava qualcosa di oscuro, offuscato
da un
velo che lasciava intravedere appena quella dimensione della quale non
si
rinveniva nessuna traccia che ne confermasse l’esistenza.
Eppure
tutto era vero.
Quel mondo esisteva.
Walter
Sullivan, per
quanto potesse essere umanamente inconcepibile, era morto dieci anni
prima.
Tuttavia una traccia di lui era rimasta palpitante nella
realtà parallela.
Cosa
era accaduto per
davvero? Che fine aveva fatto Walter Sullivan? In che consisteva
effettivamente
il rituale dei ventuno sacramenti? Che cosa sarebbe accaduto allo
stesso Henry?
Quelle
erano tutte le
domande cui Henry sperava tanto di dare risposta.
Non
aveva con sé altro,
se non la sua esperienza personale e quella di Joseph Schreiber.
Anch’egli,
un tempo,
studiò il caso Silent Hill/Walter Sullivan e
offrì le sue conoscenze al
ragazzo, non potendosi sottrarre al suo destino.
Il
moro si diresse nella
sua stanza posizionandosi sulla scrivania e aprì
l’album pieno di appunti
cominciandoli a leggere.
Cercò
di confrontare le
documentazioni e le informazioni presenti sui libri che aveva in casa,
ma non
vi era nulla che confermasse tra quelle pagine le parole di Schreiber.
Quella
manciata di libri
risalivano grossomodo ai viaggi che fece Henry a Silent Hill prima di
trasferirsi a South Ashfield.
A
quei tempi era tutto
completamente diverso. Amava quella lieta cittadina e la trovava
così
rilassante e pacifica. Senza contare della profonda attrazione che lo
aveva
portato inspiegabilmente a visitarla spesso, con le spoglie di un avido
turista.
Aveva
avuto modo di
visitare e fotografare molteplici scorci, la chiesa, il faro…
Tutto
questo con il più
completo incanto, incapace di accorgersi che, invece, ci fosse qualcosa
di
inquietante nell’aria. Un’inquietudine che adesso
avvertiva vibrare in corpo
anche solo osservando quelle fotografie.
Alzò
fugacemente gli
occhi dai libri e osservò le fotografie appese sul muro. Le
aveva scattate lui
stesso, durante le sue visite. Le fissò quasi in maniera
ossessiva, chiedendosi
come potesse una città simile essere inquietante ed
affascinante allo stesso
tempo.
Lui…aveva
provato
entrambi quei sentimenti.
Si
chiese impulsivamente
se anche per quell’assassino fosse così.
Quali
erano i suoi
sentimenti in merito a quella cittadina in cui era cresciuto, e che
l’aveva al
contempo dannato?
Scosse
la testa e decise
di proseguire con le ricerche.
Diavolo,
aveva la testa
fin troppo piena di domande e tutte legate all’assassino
biondo, di certo non
aveva bisogno di preoccuparsi di altro.
Senza
contare lo stato di
allerta che Henry covava in corpo già da tempo. Sapeva bene
che un’altra
manifestazione avrebbe potuto presentarsi lì da un momento
all’altro
costringendolo a un ulteriore viaggio.
Doveva
dunque fare in
fretta se voleva reperire delle informazioni che lo aiutassero a capire
perché
la sua casa fosse ancora inglobata nella realtà parallela e
perché Walter
Sullivan continuasse a perseguitarlo con gli incubi.
“Per
qualche motivo,
Joseph non riuscì ad abbattere il muro. Ma tu hai potuto
farlo…”
Una
voce indefinita, dopo
un buon quarto d’ora, echeggiò improvvisamente.
Sembrava
quasi riuscire a
parlare a stento.
Il
bruno si alzò di
scatto dalla sedia girevole e guardò oltre la porta della
camera da letto,
affacciandosi nel corridoio dell’appartamento.
“Ma
che diav..!?”
“Che
diavolo, che
diavolo, che diavolo…cominci a diventare noioso con tutti
quei tuoi ‘che
diavolo’. Eppure sai bene che diavolo ti sta succedendo,
Henry.”
Henry
si risentì di
quella risposta, ma decise di non curarsene troppo. Al contrario, si
inoltrò
cautamente nel corridoio. Pochi passi lenti, ma non c’era
nessuno, nemmeno una
manifestazione, dinanzi a lui.
“Dove
sei?”
Henry
intimò a quella
voce di mostrarsi, ma ottenne solo un debole sibilo. Il ragazzo ebbe la
terribile sensazione che lo stesse deridendo.
“A
questo punto, avresti
dovuto già intuirlo. Sono esattamente dietro di te, nella
parte profonda che
Joseph Schreiber non ha potuto raggiungere per volere di Lui.”
Per
quanto si sforzasse
di riconoscere quella voce, quell’eco disturbante gli
impediva di capire chi
parlasse.
Si
voltò comunque verso
il muro alle sue spalle, come indicatogli dalla voce, e con gli occhi
spalancati notò che, oltre quella porzione di parete
sfondata in precedenza con
il piccone rosso, effettivamente era possibile scorgere
un’ombra.
Fece
per avvicinarsi, ma
una forza misteriosa gli impedì di proseguire.
Sentì i muscoli irrigidirsi e la
pelle farsi fredda, come se stesse nuotando contro corrente in un fiume
in
piena.
La
voce sogghignò
nuovamente.
Henry
non si sforzò di
avanzare oltre. Osservò invece l’ombra, con un
atteggiamento altamente
diffidente.
“Chi
sei?”
Dall’altro
lato del muro,
le labbra di quell’ uomo sorrisero. Si intravedevano, sul suo
volto oscurato
dal buio, dei violenti sfregi, ancora così lividi e profondi.
“Comincerà
presto.
Prestissimo. E l’unico modo per salvarsi è
raggiungere la parte profonda di
lui. Dove risiede sua madre. L’unico che per qualche bizzarra
ragione può farlo
sei solo tu, ricevitore di saggezza.”
A
quel punto Henry
sbottò. Non ne poteva più di discorsi simili. Non
ne poteva più di essere
chiamato in quel modo. Lui non era una vittima di Walter Sullivan. Non
era
riuscito, quel carnefice, a ucciderlo.
“T’ho
chiesto chi diavolo
sei! Rispondi. E cos’è che deve cominciare! I
ventuno sacramenti sono stati
scongiurati. Io l’ho ucciso. Io ho ucciso Sullivan!”
Con
una rara carica, il
ragazzo urlò e si poggiò sul muro adiacente con
gli occhi vitrei colmi di
rabbia e disperazione.
“La
senti no? Quella
profonda solitudine. Quella…rabbia che cresce ogni giorno di
più. Un qualcosa
che è stato sigillato nel profondo e che ha scaturito poi
tutto questo. Che
cos’è, dunque, che porta questa collera?
È il caos. Null’altro che il caos
informe nel quale ogni giorno vaghiamo. Com’è
possibile salvarsi da tutto ciò?
Chi permette che tutto questo abominio di rabbia e solitudine esista?
Secondo
quali regole? Quelle degli umani? Ma siamo poco più delle
bestie, mi sembra un
atteggiamento presuntuoso, questo, giusto..? Stravolgi appena le regole
ed
eccoti piombare nel caos. Infondo, il caos, quel che lo separa
dall’equilibrio,
non è altro che un sottile velo delicato.”
Lo
sgomento del ragazzo
salì fino a divenire irritazione e tutto d’un
tratto si ritrovò incapace di
ascoltare oltre. Quella voce tuttavia sembrò nuovamente
avere un atteggiamento
sarcastico nei suoi confronti, non lasciandosi minimamente turbare
dalla sanità
mentale di Henry che ogni giorno veniva sempre meno.
Quel
che era peggio, era
che lo stesso Henry si rendeva conto che la sua pazzia non sarebbe di
certo
finita lì ed era come se quella voce deridesse proprio il
fatto che egli stesse
già dando i numeri.
Joseph
come diavolo era
riuscito a lottare fino all’ultimo, alla ricerca della
verità?
Pur
sapendo di essere già
dannato. La disperazione, l’infausto destino serbatogli
dall’assassino
Sullivan.
In
quel momento Henry
sentì dentro di sé quella stessa
“disperazione”, ed era atroce, insopportabile,
violenta…
Il
sibilo per qualche
istante si fermò, poi riprese a parlare.
Gli
occhi di quel tipo
erano indistinguibili, eppure, nel buio di quello stanzino murato
nell’appartamento 302, si intravedevano appena due iridi
verde pallido.
“Tu
stesso vivi nel caos,
Henry. Tu stesso odi il caos informe.”
Sospirò,
poi tornò a
rivolgerglisi.
“
Dimmi, Henry…tu credi
in Dio?”
Henry
ci impiegò un po’
di tempo a rispondere.
“I-io…non
lo so.” asserì.
Dio.
Dio esisteva in
quelle mura? Esisteva nell’appartamento 302? Era da tempo
oramai che non
riponeva più speranze in qualcuno o in qualcosa.
Certo
che avrebbe voluto
tanto aggrapparsi ad una speranza, ma come poteva vigere qualcosa di
simile
nella sua mente ora vacillante verso l’oblio?
Dio
al momento era
lontano da lui, ovunque egli fosse. Qualunque cosa fosse.
Come
se la voce si
aspettasse una risposta simile, continuò a parlare.
“Che
tu ci creda o no,
Walter è Dio di quella porzione di universo. E tu ci sei
dentro come ricevitore
di saggezza, il che ti mette in prima linea in questo
inferno.”
“Lasciami
stare…”
La
voce a quel punto
assunse un tono differente.
“Capisco.” si
fermò. “Henry,
ho un lavoro per te. Un
piccolo affare. Che ne dici?”
Il
ragazzo chinò lo
sguardo e sembrò sorpreso da quelle parole. Come poteva
fidarsi di qualcuno,
lì?
Intanto
la voce
dall’altra parte sbuffò.
“Andiamo…!
Dimmi cos’hai
da perdere, infondo. Lo sai che se non lo fai tu, sarà lui
ad arrivare da te. O
no?”
Purtroppo
quelle parole
erano vere. Walter Sullivan lo avrebbe chiamato a sé ed
Henry lo sapeva
benissimo.
Corrucciò
le sopracciglia
e a malincuore prese l’amara decisione di fidarsi di quella
voce e di stare al
suo gioco.
“…tutto
questo mi
riporterà nelle profondità sempre più
remote di Sullivan, dico bene?” chiese.
“A
suo tempo, non avere
fretta. Ascolta bene, ora.”
La
voce prese a
cantilenare un curioso motivetto. Henry, sebbene inquietato, si
mostrò attento
a seguire ogni parola, sperando di coglierne gli elementi chiave.
«Quattro
sono gli strazi che segnarono i
mondi indistinti.
I
mondi del caos
informe.
L’assassino
ci scappa,
ma di lui mai nemmeno una traccia.
Ogni
scena pulita come
se questa non fosse mai esistita.
Il
primo è
sanguinolento.
L’altro
è violento.
Il
terzo è
irrazionale.
L’ultimo
è
inaspettato.
Il
primo, pover’uomo,
fu ridotto in un colabrodo.
E
di quei manti tanto
pregiati.
Ora
dimmi, che ne
rimane?
Il
secondo invece, un
brav’uomo.
Del
suo lavoro ne
faceva tesoro.
Ogni
cosa era sempre
al suo posto.
Le
mazze sul banco. Le
palle nel cesto.
Quando
un qualcosa lì
mancò veramente. Entrò un giovane che
parlò concitatamente.
E
da quel giorno la
luce degli occhi per sempre si spense.
Il
terzo, ahimé,
peggio dei due precedenti.
Sparì
un giorno dopo
sogni violenti.
Ossessivo,
frenetico,
e del tempo amante.
Di
egli non si conosce
altro se non il cuore rovente.
Al
quarto, alquanto
ironica e imprevedibile,
spettò
una sorte
davvero ignobile.
Il
giorno in cui le
candeline si spensero
si
rintanò nella casa
con l’assassino nel pensiero.
E
l’assassino, dopo
aver colpito le sponde con lanci da sbanco,
il
biliardo lasciò
solo con il pallino bianco.
E
di nuovo di lui
nemmeno una traccia.
Ogni
scena sempre
pulita.
Ogni
vittima
crudelmente punita.
Nel
caos informe
vagano ignari
gli
abitanti dei mondi
immorali.
Quando
l’orologio i
bei tempi restituì
Il
fantasma solo quel
giorno alla quiete ambì.»
Il
giovane ascoltò quelle parole, ma
gli fu davvero difficile ascoltarle senza alcun pregiudizio.
Nel
non sentire alcuna domanda, la
voce gli si rivolse.
“Devo
ripetere?”
“Io
cosa dovrei fare? Incastrare
l’assassino?”
Dalla
increspatura del muro cadde un
piccolo oggetto metallico che Henry prese fra le dita.
Era
visibilmente un proiettile usato,
ma si chiese a cosa diavolo gli potesse servire.
“E’
un piccolo indizio. Ti aspetto,
Colui che riceve la Saggezza. E ricorda. Ho bisogno che tu raggiunga il
luogo
del delitto e che mi porti una prova della sua esistenza.”
Henry
a quel punto si lasciò
incuriosire.
“Una
prova della sua esistenza?”
“Un
po’ di fantasia, no? Sei un
fotografo. Usa la tua macchina fotografica per la scena del crimine. Ti
chiedo
solo questo, in fondo. Non dovrebbe essere difficile per te.”
“Come
faccio a sapere se ho trovato
quello che cerchi?”
“Troverai
un telefono lì. Mi
telefonerai qui nell’appartamento e io ti fornirò
ulteriori indizi.”
Sospirò.
Poi aggiunse.
“Buona
fortuna. Il varco dovrebbe
essere oramai pronto.”
Il
volto di Henry si rivolse in
direzione del corridoio e il cuore prese a battere forte. Qualcosa lo
stava
legando sempre più forte al mondo di
quell’assassino e lui non poteva fare
altro che proseguire e in qualche modo sopravvivere.
Oppure…
Scosse
la testa. Già sapendo di non
avere nessuna via di scampo, si mise il proiettile in tasca.
Afferrò la
macchina fotografica per poi dirigersi nel ripostiglio, mentre
l’essere dietro
al muro cominciò a sibilare velocemente delle parole a denti
stretti, ma questa
volta non ne comprese il significato.
***
[IL
MONDO DEL PALAZZO. Sul terrazzo]
Quello
sì che era un ambiente
bizzarro. Del resto Henry ci aveva riflettuto già a quel
tempo.
Il
St. Jerome, la foresta, la
prigione cilindrica e la metropolitana di Ashfield…
Avevano
un filo rosso che le
collegava, un filo rosso di nome Walter Sullivan.
Invece
il mondo del palazzo? Che
significato aveva?
Senza
contare la sua essenza caotica.
Il suo essere completamente fuori il controllo delle leggi sociali,
naturali,
logiche e quant’altro.
Corridoi
assurdi, porte sfondate,
reticolati, rumori metallici e inquietanti, pareti crivellate, stanze
prive di
senso…
Che
accidenti di mondo era?
In
tutto questo, dal terrazzo, Henry
poteva intravedere tranquillamente gli appartamenti di South Ashfield
Heights.
Un
mostro dalla pelle rovinata e
dalle vaghe fattezze umane saltò all’improvviso
sul tetto e piombò di fronte ad
Henry. Era un nemico violento e iroso, ma per il ragazzo non fu
difficile
metterlo al tappeto.
Non
comprendeva il senso nemmeno di
quei mostri. Anzi, gli facevano persino schifo.
Allontanò
da sé il tubo di metallo
reperito in zona e si avvicinò al parapetto, rimanendo ad
osservare quel
panorama alla fine per nulla strano.
Peccato
si trovasse nella realtà
parallela, altrimenti avrebbe potuto perfino credere di essere
semplicemente
fuori casa.
Dalla
tasca poi estrasse il
proiettile e si domandò a che diavolo potesse essergli
utile. Non ricordava
molto bene quella sorta di filastrocca malsana, ma cercò
ugualmente di far
tesoro dei piccoli indizi offertogli.
“Il
primo tratta di un omicidio
violento.” sussurrò.
Riflettendoci,
un tempo, durante il
suo viaggio nei grandi magazzini di South Ashfield, Henry
trovò un vecchio
giornale insanguinato ai piedi della porta del negozio di animali.
A
quel punto, prese in mano il suo
album di ritagli e cominciò a sfogliarlo.
Effettivamente
ricordava bene.
Secondo
il giornale, diversi anni
prima, all’incirca dieci, un uomo fu ucciso violentemente da
un assassino
ignoto senza alcuna ragione.
L’uomo pareva non avere precedenti con qualcuno e la cosa
accadde senza alcuna
finalità.
Almeno
in apparenza, se la deduzione
di Henry non era errata.
Perché
ci poteva scommettere quel che
voleva, quell’uomo era stato assassinato da Sullivan.
Decise,
comunque, che valeva la pena
andare a controllare nel pet shop.
Un
uomo ucciso senza motivo
crivellato di colpi assieme a tutti i suoi animali…
Gli
sembrava una morte parecchio
violenta e…partorita degnamente dalla mente di Sullivan.
Si
chiedeva solo se per lui sarebbe
stato possibile coglierlo sul fatto nella realtà parallela.
Perché, nel mondo
reale, di quell’omicidio non vi era mai stata trovata alcuna
traccia.
Quella
voce, tuttavia, gli aveva
chiesto espressamente una prova. Chiuse l’album di ritagli e
si diresse
velocemente nel negozio.
Aveva
ancora la vecchia mappa con sé,
per cui riuscì a muoversi senza incombere in vicoli ciechi o
corridoi che gli
confondessero il tragitto da intraprendere.
Perché
sì, quel luogo era caotico in
tutto.
A
differenza degli altri ambienti
visitati in precedenza, fu costretto a portare con sé
molteplici armi di
fortuna, perché i mostri dalle vaghe fattezze umane erano
presenti pressoché
ovunque e lo costrinsero spesso ad agire offensivamente nei loro
confronti.
Fino
a quel momento, aveva avuto
raramente bisogno di un’arma. Si chiese se quella violenza e brutalità avessero
un senso, ma preferì inoltrarsi nell’ambiente
rugginoso e consumato, illuminato appena dalla notte profonda,
limitandosi a
spianare la strada.
Una
volta giunto di fronte il negozio
di animali, osservò la mappa un’ultima volta prima
di entrare. Strinse la
macchina fotografica fra le mani chiedendosi se avrebbe funzionato.
Girò
il pomello molto lentamente e
sbirciò appena in direzione del negozio. Con lo sguardo
cercò di stare ben
attento a cogliere qualsiasi presenza ostica presente lì
dentro, ma nulla gli
sembrava fuori posto, in verità.
Il
negozio aveva i suoi soliti
scaffali con articoli per animali, oggetti impolverati, ed era
completamente
deserto. Una volta inoltratosi, corrucciò il viso
infastidito.
Si
trovava lì per colpa di una voce
che non aveva nemmeno voluto mostrarsi a lui.
Egli
era il ricevitore di saggezza,
ma ne aveva le tasche piene di quell’assurdo rituale e di
quello snervante
appellativo.
Il
suo status lo costringeva a vivere
le esperienze determinanti di Sullivan, ma non era facile sostenere
psicologicamente la mente di un assassino.
Perché
Henry stesso stava cominciando
ad avere paura di non riuscire a pensare ad altro. Ma lui una vita sua
l’aveva
e…diavolo! La rivoleva!
Ma
era costretto a conoscere quel
mondo nel quale era rimasto bloccato assieme a lui, all’uomo
col cappotto.
Perché
era come se non fosse solo il
suo appartamento a subite tutte quelle manifestazioni, ma fosse la sua
mente
stessa a risentirne la forte influenza.
Tornò
a scrutare l’ambiente, convinto
che ci fosse un tranello o un inghippo, ma non trovò nulla
di strano, al che
cercò un telefono qualsiasi, che in teoria avrebbe dovuto
essere lì.
La
voce stessa glielo aveva
garantito, ma non trovò nulla che sembrò
rassomigliare ad un apparecchio
telefonico.
Così
uscì dalla porta secondaria
posta oltre il bancone con la vecchia cassa arrugginita.
Una
volta fuori, trovò, ai piedi del
ciglio della porta, di nuovo quel giornale sporco e datato. Lo prese
fra le
mani e lesse nuovamente quell’articolo riguardante una morte violenta.
Un
uomo, un tale Steve Garland, fu
brutalmente assassinato con furiosi colpi di mitragliatrice.
L’uomo venne
crivellato in tutto il corpo tranne che nel torace, nel quale, dopo
l’autopsia,
si venne a conoscenza mancasse il cuore.
“La
polizia di Ashfield sostiene che
alle 8e30 di ieri sera, testimoni nei pressi del negozio di animali,
Garland’s,
hanno detto di aver udito diversi colpi di arma da fuoco, possibilmente
sparati
da un’arma automatica. Quando la polizia è accorsa
sul posto, il colpevole era
già fuggito e il titolare del negozio, Steve Garland,
è stato trovato morto con
una ferita al capo, probabilmente causata da una mitragliatrice.
Tutti
gli animali del negozio erano
stati brutalmente massacrati ed il locale letteralmente devastato.
Inoltre,
secondo fonti attendibili,
il cuore di Garland era stato asportato, e cinque numeri sono stati
trovati
incisi sulla sua schiena…”
(Articolo
di
giornale trovato nel mondo del palazzo
ai
piedi della porta secondaria del negozio di animali
di Garland)
“!!!”
A
quel punto partirono dei furiosi
rumori metallici all’interno del negozio di animali. Henry
sgranò gli occhi
allontanandosi immediatamente e accovacciandosi sulle scale, pronto a
nascondersi da un eventuale Walter Sullivan.
Erano
dei colpi di mitragliatrice ed
Henry si sorprese di quanto fossero forti e numerosi. La porta, si rese
conto
solo allora, era crivellata completamente e al suo interno si sentivano
scrosci, oggetti che si andavano a frantumare, i versi doloranti di
svariati
animali domestici…
Il
ragazzo dai capelli castani
strinse gli occhi, incapace di rimanere indifferente a quei suoni che
lasciavano intuire quali orrori stessero accadendo lì dentro.
Non
appena i colpi si fermarono,
attese qualche attimo, poi, vedendo che non stava accadendo
assolutamente
nulla, decise di inoltrarsi nel locale nuovamente.
Se
prima aveva avuto l’impressione
che tutto fosse come al solito, adesso quel che vedevano i suoi occhi
era terribile
e nauseante anche solo sbirciando appena dalla fessura.
Un
odore organico riempiva il locale,
destando una terribile nausea al ragazzo, ma quello non era certo il
peggio.
Il
ragazzo estrasse dalla tasca il
proiettile e lo confrontò con i centinaia presenti nel pet
shop. Erano gli
stessi utilizzati dalla mitraglietta.
Alzando
gli occhi, le pareti, gli
scaffali, gli articoli, i banconi…tutto si era tinto di
rosso.
Henry
portò una mano alla bocca
disgustato, cominciando a tossire forte e a rigettare non sopportando
quell’odore fetido di morte.
Quello
che aveva dinanzi a sé era
terribile e sebbene i corpi degli animali e del signor Garland
mancassero, il
loro sangue fresco rimaneva, ricordandogli così la terribile
e violenta strage
che venne fatta in negozio.
Cercò
di controllarsi e una volta
recuperata la sanità mentale, con la manica della camicia
all’altezza della
bocca, cominciò a perlustrare il posto, sentendo il
terribile appiccicume sotto
le scarpe creato dal sangue.
Solo
quando giunse all’altezza di uno
degli scaffali si accorse della vecchia gabbia nella quale, un tempo,
sistemò
un vecchio gatto imbalsamato. Fu uno degli inghippi che gli servirono
per
scendere nella parte profonda di lui.
A
quel punto, Henry cominciò a
ragionare.
Gli
oggetti erano quattro e si
trattavano di un gatto
imbalsamato,
di un pallone da
pallavolo, di delle candeline per
una torta e di un pallino per
il biliardo.
Erano quattro,
come gli omicidi presenti
nella
filastrocca di quella voce.
Subito
estrasse la macchina
fotografica e cominciò a scattare delle fotografie
all’ambiente. Quello era il
posto descritto, non aveva dubbi. Aveva solo bisogno di un telefono,
adesso, ma
accidenti! Non lo vedeva da nessuna parte!
Cominciò
a camminare e
accidentalmente inciampò su qualcosa di solido che lo fece
cadere a terra sul
pavimento sporco di sangue, tingendo così una parte della
camicia bianca.
“Ah...”
disse e il suo sguardo andò
nella direzione dell’oggetto che lo aveva fatto cadere.
Sgranò
gli occhi quando vide quel
gatto nero imbalsamato, a terra. Lo prese e nell’osservarlo
gli vennero dei
terribili brividi nel vedere quanto sembrasse vivo.
“Sei
quello dell’altra volta…”
Sebbene
fosse u po’ sporco, vedeva
chiaramente il fiocco rosa attorno al collo e lo riconobbe. Si chiedeva
solo
che ci facesse a terra.
Nel
vederlo, tuttavia, comprese di
colpo il senso di quella filastrocca. Sebbene non la ricordasse affatto
bene,
ora comprendeva chiaramente che fosse riferita ai quattro
oggetti del
ricordo che
trovò durante il suo scorso viaggio. Tutti quegli
oggetti, allora, riguardavano un brutale omicidio. Un brutale omicidio
legato a
Sullivan.
Riposizionò
dunque il gatto nella
gabbia, proprio come fece a quel tempo. Si chiese se dovesse fare
così anche
per gli altri tre oggetti…
DRII..DRII...
Un
rumore telefonico echeggiò
all’improvviso ed Henry si girò attorno scorgendo
un telefono proprio sullo
scaffale alle sue spalle.
Sgranò
gli occhi, convinto che prima
non ci fosse, ma ugualmente alzò la cornetta e rispose.
“…esatto,
Henry.”
Henry
deglutì. Era proprio la voce
con cui aveva parlato in casa.
“L’uomo
che è morto qui è Steve
Garland..?”
“Hai
cominciato davvero bene. Vedo
che hai già compreso il significato del mio lavoretto per
te.”
Quelle
parole lo turbarono non poco.
Possibile che lo avesse sentito? Ma lui, quelle parole, le aveva solo
pensate…
“Hai
fatto le foto? Le hai viste?”
“No,
non le ho viste…”
Accese
la macchina fotografica e
dallo schermo digitale cominciò a guardare le fotografie
scattate. Qualcosa
tuttavia attirò la sua attenzione.
La
sua foto non ritraeva il locale
sporco di sangue e con i mobili sottosopra.
Il
negozio di animali invece era
integro e sullo sfondo poteva intravedere un ragazzino dai capelli
biondo scuro
venire rimproverato da un uomo dall’aria nervosa.
Il
ragazzino sembrava scosso, ma in
qualche modo il viso corrucciato trasmetteva anche rabbia.
L’uomo invece
sembrava parecchio adirato. Era alto e muscoloso e aveva fra le mani un
animale.
Nel
guardarla meglio, Henry sobbalzò
all’idea di aver fotografato un ricordo del Walter Sullivan
giovane.
“Ah!
Ma…” urlò, ma la voce lo
precedette.
“Ah,
povero bambino, eh? Un mondo
caotico per lui che voleva solo rivedere la madre.
Un
mondo caotico che non aveva fatto
altro che perseguitarlo, torturarlo, malmenarlo mentalmente e
fisicamente.
Leggi
tanta rabbia nei suoi occhi,
vero?
Si
accorse subito di quel piccolo
animale costoso e pregiato fra le braccia dell’uomo. E,
invece, la considerazione
che aveva di lui era nulla. Manco
fosse un cane randagio.
Per
lui non pesava nulla.
Non
costava nulla.
Era
solo feccia per lui.
Ah,
ma Walter dopo anni e anni si
vendicò e dei suoi animali preziosi ora nulla esiste
più.
Strana
la morale di questa storia,
no?”
Henry
aveva ancora gli occhi rivolti
verso la macchina fotografica. Ripensò ai rumori della
mitragliatrice sentiti
in precedenza. Quel sangue, quei lamenti…
Quel
brutale omicidio era il
possibile frutto di una vendetta covata nel profondo di un bambino
sentitosi
tutta la vita un “cane abbandonato”?
“Vuoi…l’altro
indizio? È nella
gabbia. Sentiti libero di agire quando vuoi.
Io
ti aspetto.
Ti
ricordi come faceva, vero?”
E
il telefono a quel punto si riattaccò. Henry posò
la
cornetta del telefono. Osservò nella gabbia dove aveva
posizionato il gatto e
vi trovò un mazzo di chiavi. Esaminandole vi lesse una
targhetta con su
scritto Albert’s sport. A quel
punto, Henry non poté far altro che
dirigersi lì e negli altri tre ambienti restanti.
[IL
MONDO DEL PALAZZO. Albert’s
sport]
Una
volta trovato il pallone, Henry
indugiò qualche attimo prima di posizionarlo nella cesta.
Non appena lo fece
subito scattò una fotografia del posto, chiedendosi chi
fosse l’uomo legato a
quel centro sportivo.
A
sua grande sorpresa la
manifestazione non avvenne tramite la macchina fotografica, ma un uomo
in carne
e ossa entrò, all’improvviso, dalla porta
d’ingresso.
Era
un uomo di circa un metro e
settanta e anche lui, come il precedente, aveva una corporatura
prestante.
Sembrava
pensieroso e non faceva
altro che frugare in giro mormorando il suo disperato tentativo di
cercare una
palla. Osservò il cesto e vide che tutto era in ordine.
Senza
accorgersene, Henry osservò
l’uomo con profonda attenzione, come se nella sua mente
cominciassero ad
echeggiare da soli dei ricordi riguardo quel tipo.
Era
il proprietario del negozio ed
era da sempre stato un avido sportivo. Entusiasta della forma fisica e
del suo
lavoro. Molto sensibile e amante dell’ordine, già
da quella mattina cercava
quella dannata palla che non si trovava da nessuna parte.
All’improvviso
un ragazzo giovane
entrò dalla porta, con uno sguardo elettrico e
dall’aria entusiasta.
Henry
l’osservò attentamente
accorgendosi che nemmeno lui riuscisse a vederlo.
“Rick.”
lo richiamò.
“Sei
già qui, Walter? Cosa vuoi?”
chiese l’uomo.
Un
momento…
Quel
ragazzo…era Walter Sullivan??
A
guardarlo meglio sembrava proprio
lui, anche se più giovane a dall’aria meno
trascurata. I capelli erano tagliati
e ordinati, non aveva quell’accenno di barba e nemmeno degli
abiti malridotti.
Ma
la corporatura era grossomodo
quella, così come i capelli biondi e gli occhi verde chiaro.
Henry
non era a conoscenza del fatto
che Walter, a quei tempi, fosse un dipendente
dell’Albert’s sport. La cosa lo
lasciò letteralmente senza parole. Eppure,
all’improvviso qualcosa quadrò nella
sua mente e comprese che anche la palla fosse un oggetto simbolo di
un’altra
sua vittima.
Il
ragazzo aveva un’aria quasi
eccitata e sembrava voler richiamare l’attenzione del proprio
datore di lavoro.
Parlò concitatamente, non appena questi gli si rivolse.
“E’
morto ieri sera quello giù al
negozio degli animali. Garland.”
Rick
si girò, con aria sgomentata.
“Steve
è m-morto? Dio mio, cosa
dici??” urlò scioccato.
Henry
sentì una fortissima
tachicardia. Perché sapeva benissimo che fosse stato proprio
Walter ad
assassinarlo. Invece era lì, tranquillo e persino con un
ghigno soddisfatto sul
viso.
Aveva,
fino a poche ore prima,
massacrato un uomo, degli animali e distrutto un negozio, e riusciva a
mantenere un sangue così fretto e addirittura compiaciuto?
Walter
era decisamente un uomo
inquietante. Se non ne fosse stato costretto, non avrebbe mai e poi mai
cercato
di avere a che fare con lui.
Il
biondo annuì infischiandosene
completamente del fatto che Rick sembrasse sinceramente sconvolto.
“Alle
20:30. L’omicidio è avvenuto
mentre Steve era sul posto di lavoro presso il Garland’s.
Stava appena
accertandosi che gli animali stessero bene, quando un uomo sconosciuto
è venuto
alle sue spalle con una mitraglietta semiautomatica crivellando
l’ambiente e
colpendo molteplici razze di animali pregiati tra cani, gatti,
roditori, pesci
o rettili. Steve è stato ferito gravemente su tutto il
corpo, ma il proiettile
che gli ha dato la morte è quello che lo ha colpito in
testa. Il cuore di Steve
è stato asportato via e sulla schiena vi è stato
inciso un marchio.”
Walter
aveva parlato in maniera così
competente che sia Rick che Henry lo stavano guardando allibiti. Rick
si
chiedeva come potesse conoscere tanti dettagli di un omicidio avvenuto
appena
la sera prima.
Walter
rise appena, poi fece per
andar via e gli si rivolse.
“Ti
vedo sconvolto, Rick. Dovresti
riposarti. Credimi, ne hai bisogno…”
A
quel punto il flashback terminò e i
due scomparvero.
DRII…DRII…
Un
telefono all’improvviso squillò ed
Henry, da dietro il cesto pieno di palle da pallavolo, distinse un
telefono.
Quando alzò la cornetta udì nuovamente quella
voce.
“Il
secondo invece, un brav’uomo.
Del
suo lavoro ne faceva tesoro.
Ogni
cosa era sempre al suo posto.
Le
mazze sul banco. Le palle nel
cesto.
Quando
un qualcosa lì mancò
veramente. Entrò un giovane che parlò
concitatamente.
E
da quel giorno la luce degli occhi
per sempre si spense.
Lo
hai trovato?”
“R-Rick…”
guardò il mazzo di chiavi e
lesse il nome di Albert’s sport. “…Rick
Albert. Il proprietario del negozio
sportivo è la vittima.”
“Ricordato
gli altri due? Ti aspetto.
Non mi deludere. Conto su di te.”
E
il telefono si chiuse.
[IL
MONDO DEL PALAZZO, nei pressi del
bar]
Henry
aveva appena vissuto due
esperienze analoghe alle precedenti.
La
prima…
Un
uomo, un povero anziano, aveva
ricevuto una visita inquietante nel suo negozio di orologi. Era un tipo
vestito
di scuro e aveva un orologio che gli aveva affidato. Non era un oggetto
qualsiasi e l’uomo se ne accorse subito.
Da
quel giorno, tuttavia, cominciò a
fare un curioso sogno. Un sogno che riguardava tutti quei terribili
omicidi
ambientati nei grandi magazzini di South Ashfield. L’anziano
William Gregory
era costretto a vivere all’infinito quei sogni senza poterne
comprenderne il
senso.
Un
cesto pieno di palloni da
pallavolo...un gattino che continuava a miagolare... festoni ed una
torta su un
tavolo... una stanza alla rovescia... palle da biliardo che si
muovevano senza
che nessuno stesse giocando. Era come se il sogno cercasse di dirgli
qualcosa.
Henry
non aveva potuto far nulla per
lui. Così Walter Sullivan lo aveva ucciso con un cacciavite
a testa piatta.
Poi
l’ultima…
Aveva
ancora gli occhi fissi sulla
pallina da biliardo, che gli aveva mostrato la vita di un giovane
barista
longilineo che amava guidare e giocare al biliardo.
Era
stato l’ultimo della lista e il
giovane, seriamente preoccupato per tutti quegli omicidi, decise di
chiudere
prima il bar per dirigersi a casa.
Henry
aveva vissuto il flashback in
due tempi. Al bar, mentre il barista mostrava la sua preoccupazione per
l’inafferrabile killer, e a casa, dove si era ritirato per
festeggiare il suo
compleanno. I festoni erano già appesi così come
le candeline della torta. Tra
parentesi, l’altro oggetto del ricordo reperito da Henry sul
posto.
Tuttavia
la casa era vuota e il
giovane barista, di nome Eric Walsh, non trovò nessuno dei
suoi amici o
familiari. Lo vide aggirarsi per casa non sapendo di certo che avrebbe
trovato
tutt’altro che una festa.
Eric
morì di lì a poco con un mortale
colpo di arma da fuoco in testa.
Henry
non aveva avuto più la forza di
proseguire oltre, straziato dalle vite negate a quelle persone, e allo
stesso
tempo dalla rabbia che Walter Sullivan stesso aveva provato.
Non
comprendeva. Semplicemente non ce
la faceva più. Voleva solo che tutto finisse.
Vide
il buco posto nella stanza
stessa e decise di entrarvi, mentre un orologio cominciò a
ticchettare da
lontano, proprio come era accaduto a quei tempi.
E
se quelle vittime, Walter compreso,
avessero solo desiderato rivivere un po’ i vecchi tempi? I
tempi dove ancora la
vita sorrideva al futuro, ignara.
Prima
di solcare il passaggio per
l’appartamento 302, riportò alla mente un vecchio
quaderno che trovò nei
magazzini stessi.
Voglio
tornare a quei tempi...
Ero felice allora...
Il giorno del mio compleanno...
Il gattino nel negozio di animali...
Tutti quei palloni nella cesta...
E giocare a biliardo era bello...
Le porte del tempo erano spalancate...
Quando vedo queste quattro cose, non posso non ricordare quei tempi...
(diario
trovato
all’ingresso dei grandi magazzini)
«Nel
caos informe vagano ignari
gli
abitanti dei mondi
immorali.
Quando
l’orologio i
bei tempi restituì
Il
fantasma solo quel
giorno alla quiete ambì.»
[APPARTAMENTO
302, South Ashfield
Heights]
Henry
si risvegliò sul letto. La
testa gli doleva terribilmente e ci impiegò del tempo prima
di rialzarsi,
rigirandosi con la schiena e lasciando intravedere la camicia ancora
sporca di
sangue.
Sbirciò
la macchina fotografica e
vide che le fotografie erano sparite, segnando così la
memoria completamente
vuota. La cosa avrebbe dovuto sorprenderlo, ma alla fine si
ritrovò una tale
stanchezza e stress in corpo, che preferì buttare sul
comodino l’apparecchio e
non curarsene affatto.
Si
affacciò poi e rivolse lo sguardo
alla grande insegna che poteva intravedere perfettamente dalla sua
finestra.
DRII...
DRII...
Henry
sentì il suo telefono squillare
e rispose, questa volta con voce profonda e rassegnata.
“Sei
tu?”
“Già.
Perché non mi hai più risposto
dopo il negozio sportivo?”
Henry
respirò appena, poi parlò a
voce bassa. Per le ultime due vittime, non aveva risposto al telefono
che lo
chiamava ripetutamente. Non ce l’aveva fatta e non ne poteva
più di quel
viaggio che mostrava a lui solo e soltanto morte.
“Le
ho fatte le foto. I nomi sono
William Gregory e Eric Walsh. Non ho trovato Walter e le foto sono
sparite
dalla macchina fotografica.”
“Lo
credo bene. Lui qui non esiste.
Qui quegli omicidi non sono mai stati risolti.”
Henry
lo trovò logico lì per lì, e
poco si curò della sua mente che invece voleva andare in
subbuglio. Chissà,
magari si stava abituando a quel mondo fuori dalla realtà e
dalla razionalità.
“Non
so chi sei, ma…” la voce di
Henry si fece più bassa e strozzata.
“Perché? Perché io e Walter non
possiamo
riposare in pace?”
Henry
non ce la faceva più. La sua
mente voleva fuggire da lì, e anche lo stesso Sullivan.
Sentiva
infatti che l’ansia che gli
saliva in corpo non riguardasse soltanto lui, ma anche Walter,
torturato
anch’egli nel rivivere gli incubi degli omicidi commessi,
della sua infanzia e
della sua vita.
Entrambi
erano dannati in
quell’inferno.
La
voce ci impiegò un po’ per
rispondere, la sentiva mormorare e sospirare.
“Secondo
la concezione dantesca,
l’inferno altro non è che il varco attraversato
dalle anime le quali non hanno
raggiunto la pace eterna e hanno condotto una vita lontana dalla luce
di Dio.
L’anima viene rinchiusa in bolge e gironi ed è
destinata a rivivere le pene del
peccato. Dio non perdona queste anime che, sebbene morte, hanno ancora
gli
occhi rivolti alla vita, bramando ed invidiando i vivi. Il dolore, la
sofferenza, la rabbia…tutto è vivo lì
e sono i costanti compagni dell’anima
peccatrice. Henry…anche tu fai parte del peccato di Walter
Sullivan. Tu vivi
come lui le pene del suo inferno. L’inferno creato da lui
stesso. Sullivan…ha
deciso il suo destino da solo.”
Henry
a quelle parole sbottò. Rise
con una rara espressione beffarda che quasi lo rendeva irriconoscibile.
Gli
occhi verde pallido trasmettevano un forte disprezzo e arroganza.
“
‘Ha deciso’? Direi che è stato il
‘caos’ da
te nominato a
decidere! Non si può creare un mostro e poi cacciarlo via
incolpandone
l’esistenza. Quel mostro…” riflette e
parlò con voce rauca. “Quel mostro è
l’equivalente delle stesse pene subite
anch’egli!”
Anziché
sentirsi ancora una volta
prigioniero di quel mondo, questa volta era scattato in difesa del suo
nemico:
Walter Sullivan. Non ne aveva motivo, ma era stata l’ultima
frase a scaldarlo.
Una
gran rabbia era venuta su fin
dalle viscere. Questo perchè…
Ripensò
a Andrew De Salvo, che
l’aveva picchiato e abusato di lui. Ripensò alla
Wish House. Alla sua vita
completamente esente da ogni contatto umano o affetti.
E
sotto quel punto di vista, anche
lui oramai non conosceva più cos’era
l’affetto. Così tanto da temerlo oramai.
“…sta
arrivando.” disse
la voce
improvvisamente.
Anche
la voce sembrò cambiare tono.
Forse
era colpa della stanchezza, ma
gli parve quasi di riconoscere quel tono di voce.
Assomigliava
quasi a…
Ma
era impossibile. Irrazionale.
Quell’uomo,
intanto, chiuse gli
occhi, sparendo definitivamente nelle tenebre del ripostiglio murato,
conoscendo perfettamente le pene dell’inferno descritte prima.
Riprese
a mormorare silenzioso, muovendo
le labbra a una velocità assurda e pronunciando parole
incomprensibili.
Sul
suo corpo era possibile intravedere
terribili cicatrici e sfregi.
Di
cui, uno fra questi…rappresentava
un marchio ben preciso.
Ma
il buio lo pervase e la sua figura
sparì completamente.
Si
era del tutto eclissato, come se
non fosse mai esistito.
Henry
riavvicinò la cornetta del
telefono all’orecchio ma la linea era caduta già.
Lentamente riabbassò la
cornetta e attese. Attese perché Walter Sullivan era
arrivato.
Regnò,
per alcuni istanti, infiniti
istanti, il silenzio più totale. Henry era in allerta e
aspettava che
avvenisse.
La
porta poi bussò.
Henry
alzò lo sguardo e lo diresse
verso il corridoio.
Erano
dei colpi persistenti che
andavano a rimbombare per l’appartamento echeggiando in
maniera quasi
estenuante. Un colpo, un attimo di attesa e poi un altro e un altro
ancora…
Henry
si avvicinò sempre di più
deglutendo appena, finché non fu vicino alla porta
d’ingresso e lentamente tese
l’occhio verso lo spioncino.
***
FINE
PRIMA PARTE
***
“Contento
adesso, piccolo
scherzo della natura? Te lo sei meritato! Questi vestiti fanno schifo.
Non li
voglio vedere! Lo so… è perfetto per avvolgerci
il suo corpo. Aspetta, aspetta…quello
voglio tenerlo per me. Tu!! Ancora qui a ficcanasare?! Vattene via
prima che
m’incazzo davvero!”
(Cassetta
di Mike scuoiato. Trovata nell’appartamento 205)
[APPARTAMENTO
302, vicino
l’ingresso della porta incatenata]
Qualcuno
stava battendo
alla porta lasciando così rimbombare quel suono a tratti
malsano per il
corridoio. Henry Townshend si avvicinò lentamente, sapendo
bene che quello era
solo l’inizio della nuova manifestazione dei ricordi di
Walter Sullivan.
Fino
a qualche attimo prima
aveva persino preso le difese di quell’assassino e
effettivamente non riusciva
nemmeno a spiegarsene il motivo. Per lui un killer rimaneva tale
nonostante
tutto. Perché aveva provato quella rabbia
nell’udire simili parole?
Fece
per affacciarsi allo
spioncino della porta, ma delle urla attirarono la sua attenzione.
“Ma
chi c’è qui fuori?”
sussurrò perplesso.
Si
sorprese di udire la
voce di un bambino e dei passi correre frettolosamente.
Quando
si affacciò alla
porta, ebbe davanti a sé una scena alquanto inaspettata.
Un
bambino biondo stava
correndo a perdifiato e passò proprio davanti alla porta
dell’appartamento 302
strillando e scappando.
“Mamma!
Mamma!”
A
seguirlo come un
persecutore, vi era un uomo dai capelli scuri e gli occhi azzurri.
Aveva una
corporatura massiccia e pur non essendo particolarmente alto, i suoi
occhi e
l’atteggiamento trasmettevano imponenza e arroganza. Aveva
uno sguardo capace
di penetrare nell’animo delle persone e di metterle in grande
soggezione.
Indossava
una camicia
celeste e una cravatta raffigurante una donna in stile arte classica.
Ad
ogni modo, sebbene
apparisse diverso da come lo ricordava, Henry lo riconobbe
immediatamente
nell’uomo che abitava di fronte al suo appartamento,
nell’ala opposta al
palazzo. Richard Braintree.
Non
aveva avuto molto
modo di avere a che fare con lui e, in ogni caso, nessuno gli aveva mai
consigliato di farlo, lì nel palazzo.
Stesso
lui ebbe modo di
confrontarsi con il suo carattere autorevole e altamente sicuro di
sé.
In
quel momento lo vide
davvero in uno stato di collera totale, mentre inseguiva quel bambino
che…un
momento, era Walter!
Che
cosa ci faceva lì?
“Mi
hai rotto, piccolo
bastardo! Piantala e gira a largo da qui!” urlò
Braintree brandendo un revolver.
Quello stesso revolver che egli possedeva a quel tempo, quando lo
incontrò nei
magazzini di South Ashfield nel mondo alternativo.
Alla
fine Braintree
riuscì a raggiungere il piccolo Sullivan, strattonandolo per un
braccio e tirandogli il maglioncino sgarbatamente.
Henry
fece fatica a
seguire la scena, non avendo un lungo raggio visivo che gli permettesse
di
scorgere i dettagli, ciononostante fu sufficiente per cogliere al volo
la
situazione.
Sebbene
fosse così
piccino rispetto all’uomo, vide Walter non proferire parola,
ma guardarlo
minacciosamente con i suoi occhi che, a insaputa di Braintree, avevano
già
visto gente violenta quanto e più di lui.
“Levati
di mezzo!” disse
tirandosi lontano da lui.
“Insolente!
Tu sei nella
MIA proprietà e le regole le stabilisco IO? Chiaro?! Oggi
è la buona volta in
cui ti ricordo perché non devi venire più a
ficcanasare qui!”
Intanto
un brusio si
cominciò ad avvertire lungo tutto il pianerottolo.
Nell’udire quelle urla,
degli inquilini si erano avvicinati cautamente.
Erano
già abituati al
loro vicino di casa Richard Braintree e alla sua insofferenza per i
ragazzini.
Specie per quello li.
Ma
quel giorno sembrava
più nervoso del solito, al che furono tutti lì, a
guardarlo. Senza avere,
comunque, il coraggio di dire o fare qualcosa.
Henry
sentì solamente i
loro mormorii.
“Quel
bambino è così
fastidioso. Sempre ad aggirarsi da queste parti…ma Richard
non ha alcuna
pietà!”
“Questa
è la volta buona
che lo picchia, ce l’avete una telecamera?”
“Ma
quella che ha in mano
è una pistola??”
“Non
si può stare fermi a
guardare! Io chiamo il custode!”
Alla
fine uno degli
inquilini, una donna giovane con addosso un corto camice da infermiera,
si
affrettò a chiamare il custode Sunderland. Di lì
a poco, infatti, la donna dai
capelli castano chiaro tornò con la figura di Frank
Sunderland alle spalle.
Anch’egli più giovane e con un’estetica
molto simile a quella che Henry gli
vide nell’ospedale St. Jerome.
Si
avvicinò a Braintree
e, sebbene mostrò un certo sangue freddo,
s’intravedeva persino nei suoi occhi
un leggero timore nei confronti del turbolento inquilino.
“Richard,
andiamo, è solo
un ragazzino. Posi quell’arma.” disse.
L’uomo
si voltò con gli
occhi ancora colmi di rabbia e Walter approfittò bene di
quel momento per
mordergli la mano e scappare via, passando fra gli altri inquilini che
non
fecero nulla per fermarlo.
“Ouch!
Brutto figlio
di…!”
“Ho
un figlio quasi della
stessa età. Abbia pazienza con quel bambino.”
sospirò, poi Frank aggiunse. “E’
fastidioso che venga sempre qui, tuttavia…”
Il
custode gli parlò in
modo pacato, proprio come era suo solito fare. Frank Sunderland aveva
sempre
avuto un atteggiamento molto paterno e cordiale con la gente ed Henry
lo
apprezzava molto.
“Tuttavia
un cazzo!” lo interruppe
Richard. “E’ tuo dovere evitare che i rompicoglioni
entrino nella palazzina!
Non fare il vecchio pappamolla e fa il tuo lavoro, custode!”
Così
Richard andò via e
il custode si allietò almeno del fatto che, per quel giorno,
nessuno si fosse
fatto male. Si avvicinò cortesemente agli altri inquilini
che ancora stavano a
mormorare fra loro e li invitò a riprendere le proprie
faccende personali.
A
quel punto Henry si
allontanò dallo spioncino, leggermente turbato.
Da
quel che ricordava,
Walter Sullivan prendeva spesso la metropolitana o l’autobus
per raggiungere
sua madre, ovvero l’appartamento 302. Spesso creava
malcontento dentro la
palazzina date le sue numerose visite.
Questo
poteva rendeva più
chiaro, dunque, perché anche il suo vicino di casa, Richard
Braintree, fosse
legato in qualche modo all’assassino.
Si
avvicinò
istintivamente al ripostiglio e aprì la porta. Si
ritrovò così ad osservare il
largo buco contornato dalle quattro placche della tentazione,
della fonte,
della vigilanza e
del caos.
Si
sedette lì rimanendo a
fissare le tenebre al suo interno non riuscendo a scorgere nulla.
Ascoltando
bene i brusii che venivano dal suo interno, ad Henry parve di udire il
tipico
caos presente negli ambienti affollati.
Sapeva
che lì avrebbe trovato
qualcosa e sapeva che solo lì avrebbe potuto trovare
Sullivan, al che entrò
nuovamente nella dimensione parallela.
[IL
MONDO DEL PALAZZO,
South Ashfield]
Delle
grosse tubature
pendevano dai palazzi che circondavano una stretta via isolata.
Henry
aprì debolmente gli
occhi e dinanzi a sé vide il cielo notturno. Girandosi
attorno, poteva scorgere
una tipica locazione urbana, tuttavia dall’aria molto
sinistra.
Delle
voci indefinite
echeggiavano nel vicoletto circondato dai palazzi. Sembravano voci
umane,
tuttavia non ne era del tutto sicuro. Assomigliavano anche a dei versi
bestiali
o a qualcosa del genere.
Attraversò
il lungo
corridoio e si ritrovò presto sul terrazzo del palazzo di
fronte gli
appartamenti di South Ashfield.
Si
sorprese di essere di
nuovo in quell’ambiente, non comprendendo per niente
cos’altro avesse da fare
in quel luogo assurdo. Pensava di aver chiuso con “il mondo
del palazzo”.
Prima
infatti aveva
seguito gli omicidi compiuti da Sullivan, che per certi versi avevano
chiarito
il significato di quel luogo…oppure no?
La
mente di Henry era
ancora molto confusa. Decise di seguire il suo istinto e di fare
l’unica cosa
che potesse fare ancora lì dentro: proseguire.
Scese
le scale e si
avvicinò alla porta rugginosa posta proprio sul terrazzino.
Fece per aprirla
quando un rumore di passi attirò la sua attenzione.
Qualcuno
aveva urtato un
sassolino o qualcosa di simile, e per il ragazzo fu sufficiente per
accorgersi
di una piccola figura rannicchiata dietro l’automobile fuori
uso, parcheggiata
assurdamente proprio sul terrazzo.
“C-chi
c’è..?” disse.
Dall’altro
lato
dell’automobile, un ragazzino si affacciò cercando
di scorgere Henry, ma quando
i loro occhi andarono ad incrociarsi, subito si ritrasse, muovendosi
cautamente
lungo gli sportelli dell’automobile.
Henry
si avvicinò
ulteriormente, poggiando una mano sul cofano e sporgendosi verso di
lui. Si
affacciò lentamente cercando di non spaventarlo, ma il
bambino, non
appena vide il ragazzo avvicinarsi a lui, gli corse violentemente
incontro.
“Uhmpf!”
Il
biondino gli calciò
improvvisamente lo stinco della gamba e scappò via
attraverso la porta
rugginosa, lasciando Henry colto alla sprovvista da quel dolore
lancinante.
“Ah!”
urlò, udendo la
porta dietro di sé chiudersi.
Quel
piccolo delinquente!
Non
ne aveva la certezza
assoluta per via del buio, ma non poteva che essere il piccolo Walter,
quel
ragazzino!
Con
quasi le lacrime agli
occhi, s’inginocchiò toccando la parte della gamba
lesa. Dopotutto, anche a lui
veniva un forte istinto di inseguirlo e fargliela pagare.
Già a quell’età,
Walter Sullivan aveva un caratterino incredibile.
Se
Henry in persona aveva
notato qualcosa del genere, non si sorprese dunque della poca, se non
nulla,
pazienza che aveva Braintree nei suoi confronti.
Dopo
qualche attimo si
rialzò e cercò di recuperare la
razionalità che lo contraddistingueva e decise
di proseguire avanti. Percorse velocemente la scalinata con le pareti
tinteggiate di quel rosso sangue, e si ritrovò nel corridoio
d’ingresso di
quella che doveva essere, con tutte le probabilità, la casa
di Eric Walsh.
Eric
Walsh era il barista
ucciso da Walter Sullivan in occasione del suo compleanno.
Le
candele che aveva
acceso sulla torta erano ancora lì, intatte, come se il
tempo non regnasse in
quella stanza. Come se il tempo si fosse fermato in
quell’istante ben preciso.
Osservando
le candeline,
queste erano accese e il fuoco si muoveva, lasciando un tenue bagliore
nella
stanza. Eppure la cera non si consumava, non ne vedeva colare alcuna
goccia.
Questo
creò turbamento
nel ragazzo che decise di proseguire oltre, testimone degli orrori che
fossero
accaduti in quella casa.
Fece
per aprire la porta
vicino il tavolo della cucina fino a raggiungere la nuova rampa di
scalinate.
Arrivò all’uscita e fece per attraversare il nuovo
vicolo di fronte a sé
quando, mettendo forza sul pomello della porta, vide che questi non
girava.
“Ma
cosa diavolo..?”
Henry
pressò con più
forza, sbattendo la mano cercando di far leva sulla porta, ma una forza
sconosciuta gli impediva di proseguire oltre.
Fu
in quel momento che
sentì la voce di Richard Braintree, dall’altro
lato della porta. Sembrava
piuttosto nervoso e adirato, e si sentivano dei sinistri rumori di
abiti che
venivano stracciati.
Un’altra
voce intervenne.
A Henry parve di riconoscerla in uno degli inquilini di South Ashfield
Heights,
ma il suo non aver mai legato troppo con nessuno di loro, gli rese
impossibile
stabilire altro.
"Ehi,
Richard è
impazzito di nuovo!" disse e, nonostante le sue parole, sembrava avere
un
tono eccitato.
"Ha
perso la testa
stavolta!" aggiunse un altro, anch’egli sembrava molto
interessato
all’argomento in questione.
"Scommetto che la prossima volta sarà ancora più
divertente!"
I residenti dei South Ashfields Heights adoravano parlare di lui. Era
famoso
per il suo essere irascibile. Questo Henry lo sapeva ed effettivamente,
grazie
a quella reminiscenza vista dallo spioncino della porta di casa, si
rese conto
che era così anche da molto prima che Henry venisse ad
abitare lì.
“Ma Mike se la caverà dici?”
“Che
importa? Quello del
205 lo ha anche registrato su cassetta! Che cosa
pazzesca…”
Tramite
una vecchia
audiocassetta rinvenuta durante i suoi viaggi negli incubi, Henry aveva
scoperto
che Richard Braintree, un giorno, aveva per davvero dato di testa.
Nessuno
aveva mai parlato
di quell’incidente in maniera palese, eppure da allora
sembrava sempre che,
quando ci fosse quell’uomo, tutti si aspettassero sempre una
reazione incredibilmente
spettacolare.
L'incidente
peggiore
avvenne quando Mike, residente dell'appartamento 301, andò a
sbattere contro la
spalla di Braintree, casualmente, mentre camminava nel corridoio. Henry
lo
aveva saputo sempre tramite quell’audiocassetta.
A
quel tempo, Richard era
persino più calmo del solito. Nel vedere Mike,
già poco sopportato dall’intera
componente della palazzina, colse al volo quell’occasione
infelice per urlargli
contro.
"Chi credi io sia??"
Mike
abitava affianco ad
Henry, ma mai aveva avuto modo di conoscerlo. Tramite gli incubi, aveva
solo
conosciuto il suo ‘particolare’ hobby di
collezionare riviste pornografiche.
Questo
gli aveva dato un
appellativo infelice, specie quando si ritrovò a corteggiare
l’inquilina
Rachel. Un’infermiera che abitava al piano terra di South
Ashfield Heights.
Lo
chiamavano per questo ‘stalker’ .
Per via dei numerosi fastidi che
arrecava alla donna.
Richard
quel giorno
afferrò Mike per il colletto della maglia, e lo
trascinò fin dentro il suo appartamento,
il 207.
Di suo era un uomo che se ne infischiava della gente, meno ancora
quando era
nervoso. Difatti fece tutto davanti agli altri inquilini, che lo
guardarono con
gli occhi sgranati.
"Non
di nuovo."
commentarono alcuni dai loro appartamenti, per poi andare nella 207 per
assistere a ciò che stava succedendo.
Henry
da dietro la porta
del mondo del palazzo sentì chiaramente quei brusii. Non
poteva ovviamente
vedere nulla, ma le voci erano chiare e commentavano Richard uscire
dall’appartamento dopo una manciata di minuti, con in mano la
maglietta e il
jeans di Mike tinteggiati di sangue.
Lo
stesso Mike era uscito
dalla porta e corse via, completamente nudo, scappando dolorante.
Henry
sentì di nuovo
Braintree prender parola e sbraitare contro di lui.
"Com'è che ti piace, piccolo porco schifoso? Te la sei
andata a
cercare!" disse mentre Mike scappava via da lui. Richard
lanciò via gli
abiti di Mike dicendo "Questi abiti sono disgustosi. Portateli via
dalla
mia vista!"
A quel punto si udì la voce di una donna di mezza
età.
"Lo
so...Sarebbero perfetti per avvolgere il suo corpo."
Henry
si chiese che
diavolo stessero facendo, ma gli sembrò parlassero degli
abiti che Richard
aveva gettato a terra.
"Prendilo! Prendilo... Penso che questa la terrò per me
stesso."
disse un uomo dalla voce spossata. Un possibile ubriaco. Fatto sta che
anche
lui sembrava interessato agli abiti di Mike.
Ma
che erano quei vestiti
per quella gente? Una specie di trofeo? E dire che Henry si era sempre
creduto
quello strano…
Ad un tratto, la voce tuonante di Richard sorpassò tutte le
altre.
"TU!
Ancora in giro,
eh?! Fuori di qui, prima che m’incazzi sul serio!”
e si sentirono dei passi
correre via.
Henry
fissò la porta,
perplesso.
“Tu..?”
sussurrò.
Un
momento! E se quel ‘tu’ fosse
riferito al bambino?
Immediatamente
diede una
spallata alla porta cercando di sfondarla con la violenza. A quel
punto,
inspiegabilmente, la forza che impediva ad Henry di proseguire
svanì, così il
ragazzo si ritrovò a terra dolorante, avendo usato
un’energia per niente
necessaria per aprire realmente quella porta.
“Ah!”
La
pelle bruciava
terribilmente. Era finito su un pavimento completamente increspato e
sporco.
Guardò le mani e vide che erano graffiate e, sentendo anche
il viso pulsare e
bruciare, comprese di essersi lesionato anche lì.
Alzando
gli occhi verso
la stanza nella quale era appena entrato notò che, come
immaginava, non vi era
nessuno.
Era
una stanza scura,
piccola e grigia. Solo la luce d’emergenza sopra la porta
garantiva un minimo
d’illuminazione all’ambiente.
Vi
era una discreta
quantità di scaffali in giro. Tutti dall’aria
corrosa e decadente, comunque.
Su
questi vi erano appesi
degli strani stracci sporchi. Un terribile odore organico fuoriusciva
da
questi.
A
guardarli bene,
tuttavia, sembravano tutt’altro che stracci.
Sembravano
quasi una
traccia lasciata dal ricordo precedente.
“Mike…”
Henry
bisbigliò il nome
di quel tipo cercando di riflettere.
Le
uniche cose che conosceva
di Mike erano una vecchia audiocassetta che aveva rinvenuto nel mondo
alternativo, nella sua palazzina stessa. E poi la scena vista in
precedenza,
che tra l’altro sembrava essere proprio lo stesso episodio
registrato sulla
cassetta.
Riflettendoci,
essa…aveva
un’etichetta con su scritto ‘lo
scuoiamento di Mike’.
“Oh,
mio Dio…” disse,
inorridito, rendendosi conto che quegli strani stracci sembravano
decisamente
della pelle.
Ora
che ci faceva caso,
in tutto il mondo del palazzo vi erano di quei
‘cosi’ maleodoranti e…possibile
rappresentassero proprio lo scuoiamento di quel ragazzo?
Richard
era stato davvero
violento con quel tizio, e Walter doveva aver impresso nella sua mente
quell’episodio.
Una
visione del genere,
effettivamente, vista dagli occhi di un bambino, doveva essere un
qualcosa di
traumatico, terribile…
E
non solo dagli occhi di
un bambino.
Henry
avvertì un forte
senso di nausea. Quell’odore divenne tutto d’un
tratto insopportabile, così fu
costretto ad uscire fuori.
Aprì
la porta e sentì un
forte rumore alle sue spalle che lo fece trasalire.
“Ah!”
urlò.
Girandosi,
di colpo vide
lo scaffale dietro di lui che si era ribaltato, e un paio di mostri
dalle vaghe
sembianze umane apparvero.
“Di
nuovo?!” disse,
guardandosi intorno e sperando di trovare un’arma.
Non
solo non trovò nulla,
ma vide che uno dei due mostri, oltre che a strillare emettendo quei
versi
scimmieschi, brandiva un’arma da fuoco!
Sembrava
un revolver.
Henry
si sorprese perché
non aveva mai visto uno di quei mostri brandire un’arma tanto
potente.
Solitamente
si
impossessavano di mazze da golf, di tubi…
Doveva
essere calmo e
ragionare, o si sarebbe potuta mettere male per lui.
Violentemente
calciò
l’altro mostro, quello senza il revolver, lasciando che
questo cascasse a
terra.
Osservando
velocemente
gli scaffali, si rese conto che erano facilmente ribaltabili.
Così, poggiandosi
sul muro, riuscì con le gambe a ottenere la forza necessaria
per ribaltarlo sul
nemico.
Non
appena colpì
violentemente il mostro con il revolver, schiacciandolo sotto la
scaffalatura,
gli rubò prontamente l’arma, provando anche un
po’ di soddisfazione visto che
quei mostri, a quel tempo, non facevano altro che attaccarlo e
disarmarlo
quando ne avevano la possibilità.
Invece
era riuscito lui
stavolta a bloccarlo e disarmarlo. Dopotutto stava imparando qualcosa,
a furia
di rimanere bloccato in quell’incubo infernale,
pensò.
Premette
il grilletto e
sparò. Un colpo fu sufficiente. Li calciò
entrambi e attese che i corpi
cessassero di muoversi. Strillarono un’ultima volta,
emettendo nuovamente
quegli striduli versi, prima di fermarsi definitivamente.
Solo
allora sentì le
braccia leggermente tremare e avvertì il bisogno di
poggiarsi a terra qualche
attimo. Con un tonfo cadde sul pavimento polveroso e il suo respiro si
fece
affannato, stanco. Guardò quelle due figure sentendosi
davvero strano. Non solo
perché ora erano morti, ma c’era
dell’altro.
Erano
i mostri della
realtà parallela che più rassomigliavano a degli
esseri umani e la cosa lo
lasciava davvero con una bizzarra sensazione in corpo.
Lui…uccideva
per
sopravvivenza, vero?
E
allora perché provava
quel turbamento? In teoria, quei mostri non esistevano nemmeno.
I
suoi occhi in quel
momento andarono a posarsi sul revolver che aveva fra le mani. Lo
rigirò fra
queste più volte prima di avere sempre più la
certezza di averlo già visto.
Solo
dopo sgranò gli
occhi, accorgendosi di non sbagliarsi affatto.
Richard
Braintree
possedeva un modello simile a quello, ne era più che certo!
Inoltre, attraverso
lo spioncino dell’appartamento 302, proprio quella stessa
giornata aveva avuto
modo di vederlo brandire quell’arma contro Sullivan bambino.
Era
dunque certissimo che
non si trattasse solo di un modello simile, ma fosse proprio lo stesso
revolver.
Si
chiese solo…perché lo
tenesse in mano quel mostro
umanoide?
La
cosa lo lasciò davvero
perplesso.
Non
riusciva proprio a
capacitarsene. Ma molte cose appartenenti a quel mondo gli sembravano
fuori da
ogni logica.
Henry
corrucciò il viso
incapace di comprendere e si apprestò ad alzarsi ed uscire
dalla stanza buia.
Aprì
la porta e si
ritrovò immediatamente a solcare uno degli ingressi per
l’Albert’s sport.
Osservò
il cesto con le
palle per la pallavolo e per qualche attimo si fermò a
riflettere su quell’uomo
che, chissà per qualche motivo, fu una delle vittime di
Walter.
Era
il suo datore di
lavoro. Lui lavorava qui come un dipendente part-time.
Non
aveva alcun elemento
per poter indagare oltre, se Walter non gli avesse mai dato nessun
indizio,
ovviamente.
Si
chiese tuttavia, se
posizionare quella palla nel cesto avesse in qualche modo lenito
l’anima di
quel negoziante almeno un po’.
Chissà…poteva
anche
darsi.
Tuttavia
ciò non lo aiutò
affatto a stare meglio. Avrebbe voluto tanto anche lui trovare qualcosa
che gli
riaprisse le porte del tempo.
Invece
era lì, in quel mondo caotico nel
quale ci si muoveva a stento, solo ricorrendo alla violenza e
all’indifferenza.
Attraversò
la porta per
uscire dal negozio sportivo e si ritrovò
all’esterno. Sulla cima di una lunga
scalinata di ferro.
Alzò
gli occhi verso il
cielo e vide che la nebbia stava cominciando a scendere lentamente.
Nulla che
gli impedisse più di tanto la vista fortunatamente.
Il
vento, comunque,
continuava a soffiare ed Henry avvertì quella leggera brezza
sul viso che gli
faceva tanto ricordare il mondo reale.
Socchiuse
gli occhi e
solo allora notò che era davvero passato tanto tempo
dall’ultima volta che era
uscito dall’appartamento.
Aveva
cominciato a
studiare così attentamente il caso Sullivan, che solo allora
avvertì la tanta
nostalgia che gli ricordò quanto si fosse estraniato dal
resto del mondo.
Un
suono poi, lo
costrinse ad allontanare da sé quei pensieri e lentamente
prese a scendere
quella serie di rampe di scale per vedere da dove provenisse.
Sembrava
un lieve suono
di uno strumento musicale. Un’armonica, forse.
Pur
girandosi attorno,
non riuscì a scorgere nessuno, al che decise di avanzare, ma
con grande
cautela.
Gli
rimaneva da
attraversare l’ultima serie di scalini rugginosi quando,
nella nebbia, distinse
diverse figure ai piedi della scalinata.
Erano
una manciata di
mostri di cui tre erano già a terra esamini. Un uomo con un
cappotto scuro
caricò l’arma che aveva in mano, una micidiale e
agghiacciante motosega, e
terminò l’ultimo nemico rimasto.
Il
rumore stridulo
dell’arma era penetrante e angustiante. Henry strinse gli
occhi mentre vide
tutto quel sangue grondare dal corpo morente del mostro.
A
quel punto Walter
Sullivan, compiaciuto, passò la lingua fra i denti e
dall’interno della giacca
estrasse una pistola scura, pronta a dare il colpo di grazia al nemico.
Abbassò
la sicura della
pistola e fece per premere il grilletto, quando alle sue spalle
partì un colpo
di arma da fuoco prima di lui, atterrendo così il mostro.
Walter
inarcò le
sopracciglia e si girò alle sue spalle, accorgendosi in quel
momento della
presenza del suo ospite.
Vide
la canna del
revolver di Henry ancora fumante e il suo sguardo serio. La cosa rese
soddisfatto Walter, al che riposizionò la pistola dentro la
giacca e riportò le
mani sulla motosega ancora in funzione.
“Ti
stai divertendo anche
tu, Henry?”
La
voce di Walter
Sullivan era calda e bassa, ma sufficiente per destare alterazione nel
ragazzo
sulla rampa di scale.
Egli
scese lentamente,
continuando a tenere la pistola puntata contro l’assassino,
brandendola con la
mano destra.
Assunse
un’espressione
seriosa, a dispetto di quell’altro uomo che invece sembrava
tranquillo ed
eccitato, con quell’aria malsana e quella motosega in mano
che contribuiva a
donargli un aspetto folle.
“Rispondi.”
Henry pronunciò
fermamente, terminando di percorrere la scalinata e fermandosi,
guardando di
fronte a sé in direzione di Sullivan. “Che cazzo
significa questo posto?!”
Ci
fu un attimo di
silenzio fra i due. Il vento soffiò leggiadro e
l’unico rumore presente era il
ronzio emesso dall’arma di Walter.
L’uomo
biondo poi…rise.
Rise in maniera soffusa, tuttavia irritante. Così irritante
che Henry fece
partire un colpo con il revolver, sfiorando così il biondo
che non venne
colpito per un soffio.
Walter
guardò nella
direzione dove era stato sfiorato dal proiettile con fare indifferente,
per poi
rivolgere il suo sguardo spettrale a Henry che cominciò a
perdere la
razionalità.
“Ah,
ah, ah!”
L’Assassino
Sullivan
prese nuovamente a ridere. Questa volta in maniera più
forte, più irritante,
più folle.
“RISPONDI!”
urlò Henry,
mentre Walter continuava a distruggerlo psicologicamente con quella
risata. “In
questo mondo è tutto sottosopra. Non vi è un
senso logico! Della gente è morta
per mano tua mentre svolgeva le sue normali attività!
Io…io ho visto la gente
del mio palazzo qui! Qui hai ucciso Braintree, il mio vicino di casa!
Che
diavolo significa?!”
Henry
parlò a raffica,
ansimando e tremando con il corpo. Mai prima di quel momento aveva
avuto il
coraggio di parlargli, di minacciare l’assassino con
un’arma.
Sapeva
che era inutile,
ma sapeva che poteva avere delle risposte da nessun altro se non lui.
Cominciò
a provare un
fortissimo mal di testa nell’incrociare quegli occhi che
sembravano leggere nel
profondo della sua anima. Che sembravano leggere, gustare, assaporare
il suo
sgomento fino a ridurlo alla pazzia più completa.
La
risata malsana di
Walter Sullivan echeggiò in quel mondo isolato fino a quando
egli stesso si
bloccò di colpo guardando fulmineo Henry dritto negli occhi.
Al
sorriso si sostituì
immediatamente uno sguardo rigido e penetrante che gelò il
sangue al giovane
Henry, il quale si ritrasse appena, indietreggiando di un paio di passi.
Walter
lo osservava senza
battere ciglio, con un’espressione che sembrava quasi
disprezzarlo.
Poi
l’uomo biondo schiuse
le labbra e, al di la di ogni aspettativa, gli parlò.
“Il
Terzo
Segno dell’ascesa della santa Madre. I ventuno
sacramenti.” alzò l’indice
verso l’alto e pronunciò le parole che seguirono
con voce profonda,
conoscendole a memoria. “E Dio disse, torna alla fonte attraverso
la tentazione del
peccato. Sotto l'occhio
vigile del
demonio, vaga solitario nel caos senza
forma. Solo allora le quattro
conciliazioni saranno in allineamento.” ritornò a
Henry. “Cosa non ti è
chiaro?”
Henry
alzò un
sopracciglio, adirato.
“Mi
è chiara solo la tua
schizofrenia!” inveì
e a quel punto persino uno come
Walter sembrò offendersi.
Sebbene
fosse un rituale
malsano, Walter credeva fortemente nelle parole da egli pronunciate.
Henry
non doveva
dimenticare che l’uomo di fronte a lui aveva passato la vita
intera nella
preparazione dei ventuno sacramenti.
Aveva
visto la sua vita
fin da quando era stato portato al St. Jerome, e sapeva adesso il
significato
profondo che il rituale aveva per lui.
Nonostante
ciò, si
chiedeva come potesse un uomo convincersi di simili idiozie, di
convincersi che
potesse esistere una Santa
Madre o
qualcosa del genere.
Non
ne sapeva molto a
riguardo, in giro non si reperivano informazioni esaustive riguardo
all’Ordine.
Riguardo quell’Ordine che aveva lo scopo di portare il mondo
nella pace. Ma
Henry non faceva che vedere prodotti atroci, terribili, scaturiti dai
rituali
malsani del culto.
A
quale tipo di pace ambivano?
Non
si trattava,
piuttosto, di un patto
con il Diavolo?
Era
imprevedibile e lo
stesso Walter alla fine era caduto vittima di quegli stessi ventuno
sacramenti.
A
perdere non erano state
solo le persone uccise dallo spietato carnefice. Il carnefice stesso
aveva
ricevuto la dannazione
eterna dal
suo Dio.
Walter
intanto riprese
parola.
“Vaghi
anche tu qui, no?
Nel caos informe.” disse il biondo, e indicò
l’ambiente dei grandi magazzini
con la sua motosega. “Non si tratta altro che di una
menzogna. Gli scimmioni moderni
non fanno che urlare, credere
in stereotipi inesistenti, e rimangono imprigionati in una trappola
mortale
senza alcuna via d’uscita. Senza la quale si sentono
sprovveduti, inadempienti,
sbagliati.”
Fissò
Henry penetrante.
“La violenza e l’indifferenza è
l’unica arma che hanno per sopravvivere alla trappola.
Trasformandosi
così…”
A
quel punto, aumentò la
potenza della motosega e la trafisse violentemente nel torace di uno
dei mostri
umanoidi.
“…in
fatiscenti e
violente facce
di gomma!
Pronti a sgomitare chiunque per
sopravvivere.”
Walter
sprofondò ancora
di più la motosega fino a dividere quasi a metà
quel corpo già esamine.
Henry
rimase lì a
fissarlo mentre il sangue schizzava sul cappotto e sul viso del biondo.
Aveva
ancora il revolver puntato contro di lui, ma gli occhi erano rivolti
sgomentati
verso il mostro dalla faccia
di gomma.
Per
la prima volta Henry
vide quei mostri con occhi diversi.
La
pelle di quel mostro
era cadente e il viso stesso scendeva all’altezza del collo.
Essi erano umani e
bestie allo stesso tempo.
Loro,
per Walter
Sullivan, rappresentavano l’uomo.
L’uomo dalla faccia
di gomma.
L’uomo violento e indifferente che
sopravvive a tutti i costi nel
mondo. Nel caos.
A
quel punto prese a
tremare e deglutì sentendo di perdere il controllo sui
nervi. Alzò anche la
mano sinistra per sorreggere più fermamente il revolver.
Walter
levò via la
motosega con un movimento veloce, lasciando schizzare via altro sangue
che andò
a colpire appena persino Henry.
Dalla
lama grondava molto
sangue e Walter attese qualche attimo prima di diminuire la
velocità di quella
lama letale.
Improvvisamente
sorrise.
Sembrò quasi divertito e la cosa preoccupò non
poco lo sventurato Henry.
“Il
tuo vicino di casa,
Henry. Lui stesso è l’emblema dell’uomo
che crede di non aver bisogno della Madre. Che
ignora dove Lei sia.
Che ignora chi Lei sia.
Ma egli ha perso la strada nel
caos dove ora vagherà in eterno. L’uomo condanna e grazia da
solo, senza aver bisogno di Dio.
Ma l’uomo ha bisogno di Dio.
L’uomo quando condanna,
condanna solo se stesso. Il tuo vicino, è stato giustiziato della
pena che la sua specie ha
creato. La condanna che
la sua stessa concezione di
giustizia ha
creato.”
Braintree
era morto con
l’elettrocuzione.
Secondo
la concezione
della “giustizia” umana.
E
Walter lo aveva
giustiziato così di proposito, meditando e analizzando
accuratamente la sua
vittima.
Era
stato lui stesso a
chiedergli delle risposte, ma Henry solo allora si rese conto del peso
che
avevano avuto le sue stesse parole.
Sullivan,
poi, riprese
parola, avvicinandosi lentamente al ragazzo dai capelli castani, con
gli occhi
che sembravano brillare nella nebbia come quelli di un violento
predatore.
“L’Ordine
insegna che, in
origine, gli uomini non avevano nulla. I
loro corpi dolevano e i loro cuori contenevano solamente odio.
Combattevano
senza sosta, ma la morte non giungeva mai. Si disperavano, bloccati in
questa
eterna sofferenza. Dio poi ascoltò le loro preghiere per la
salvezza. Dio creò
il tempo e lo divise in giorno e notte. ”
Walter
si avvicinava sempre di più, e
Henry non riuscì a fare altro se non indietreggiare a ogni
passo che avanzava
il biondo.
“Dio
tracciò la via per la salvezza e
diede agli uomini la gioia. E Dio tolse
agli uomini il dono
dell'eternità. Dio creò gli esseri viventi per
tenere gli uomini in obbedienza
a lei. Il Dio rosso, Xuchilbara; il Dio giallo, Lobsel Vith; molti dei
e
angeli. Infine, Dio iniziò a creare il Paradiso, dove
bastava entrare per dare
agli uomini la felicità.”
Il
volto dell’assassino si fece sempre più
maligno. Henry indietreggiò ancora, mentre egli continuava a
parlare del culto,
citando versi e nomi che lui mai aveva sentito prima di quel momento.
Walter
invece ci era nato e cresciuto.
“Ma
Dio esaurì le forze allora, e crollò a
terra. Tutti gli uomini del mondo piansero per questo sfortunato
evento, finché
Dio esalò il suo ultimo respiro. Ritornò polvere,
promettendo il suo ritorno.
Da quel giorno l’uomo speranzoso lo attende.”
A
quel punto Henry non poté più
indietreggiare. Sulla schiena avvertì il parapetto di ferro
che gli impedì di
allontanarsi ulteriormente dall’uomo col cappotto. Buttando
lo sguardo alle sue
spalle, vide solo la fitta nebbia sotto di lui, avvertendo un leggero
stato di
vertigini.
Ritornò
poi velocemente a Walter che aveva
all’improvviso messo in moto la motosega, puntandola contro
di Henry.
Henry
minacciò nuovamente Sullivan con il
revolver.
“F-fermo!”
urlò, ma oramai egli era già
fuori controllo.
Walter,
con uno scatto repentino, fu
subito di fronte al ragazzo e lo ferì alla spalla destra con
quell’agghiacciante
lama rotante.
“A-AHRG..!!”
Henry
strillò dal dolore accecante
scaturito da quell’arma sporca e rugginosa. Sentiva la carne
lacerarsi,
strapparsi, avvertendo il bruciore indicibile che lo portò
quasi alla pazzia.
Urlò
ancora di dolore mentre Walter
scavava nella sua carne. Henry ebbe la terribile sensazione di sentire
il corpo
spaccarsi. Sentiva Walter ridere e quel forte ronzio lo tormentava
sempre più
forte.
Con
la mano libera cercò di bloccare il
braccio di Sullivan pressandolo violentemente via da lui.
Digrignò i denti
cercando di opporsi quanto più possibile, ma Walter era
dotato di un’indubbia
forza con la quale riusciva duramente a competere.
Walter
biasimò quasi quello sforzo inutile
da parte del ragazzo.
“Secondo
le sacre scritture, secondo il
culto di Valtiel, la Madre tornerà dopo aver restituito a
lei i tre segni. I
tre segni tracciati dai ventuno sacramenti.”
A
quel punto Henry sgranò gli occhi,
sentendo l’uomo col cappotto sottolineare i famosi ventuno
sacramenti.
Vide
gli occhi del biondo assassino
provare quasi odio nei suoi confronti. Perché lui era quello
che gli aveva
impedito di terminare il rituale.
Era
lui che gli aveva mostrato l’inganno
subito dal culto. Era lui che gli aveva mostrato chi era davvero
la Santa
Madre per Walter Sullivan. Era lui che, vagando nel
suo mondo, aveva mosso
dei suoi ricordi celati nel suo inconscio.
Perché
il peso di Colui Che Riceve
Saggezza non era sentito solo dal ventunesimo sacramento…ma
persino da lui
stesso, costretto a rivivere quelle esperienze.
Henry
sentì la rabbia di Sullivan, che
rese il suo colpo ancora più violento, mentre il sangue
caldo gli grondava su
gran parte della spalla e del braccio.
Poi
Walter, all’improvviso, disattivò la
motosega e guardò Henry che era oramai all’estremo
delle sue forze. Aveva
ancora la motosega incastrata sulla spalla e Henry dovette sforzare
enormemente
la vista per vedere il volto di Sullivan farsi sempre più
vicino al suo.
Provò
un profondo turbamento del vedere i
suoi occhi da assassino così nitidi, ma non aveva
più alcuna forza per opporsi.
“Henry,
dovresti avere fede o diverrai
schizofrenico.” gli
sussurrò Walter, sorridendogli beffardamente.
Con
un gesto violento estrasse la motosega
dalla sua spalla.
Henry
a quel punto, tremante e
disorientato, si poggiò sulla ringhiera dietro di lui. Vide
Walter Sullivan
chiudere gli occhi e fare un lieve cenno col capo, ma egli non aveva
più la
capacità di comprendere.
Lo
fissò inerme mentre questi si
allontanava da lui. All’improvviso, la ringhiera sulla quale
era poggiato
cedette, facendo cadere Henry giù, sparendo così
nella nebbia.
***
“Come
la mano, trema
tutta la vostra realtà. Vi si scopre fittizia e
inconsistente. Artificiale come
quella luce di candela. E tutti i vostri sensi vigilano tesi con
spasimo, nella
paura che sotto a questa realtà, di cui scoprite la vana
inconsistenza,
un'altra realtà non vi si riveli, oscura, orribile: la vera.
Noi
tutti siamo esseri
presi in trappola, staccati dal flusso che non s'arresta mai, e fissati
per la
morte. Dura ancora per un breve spazio di tempo il movimento di quel
flusso in
noi, nella nostra forma separata, staccata e fissata; ma ecco, a poco a
poco si
rallenta; il fuoco si raffredda; la forma si dissecca;
finché il movimento non
cessa del tutto nella forma irrigidita...”
(Luigi
Pirandello- La trappola)
***
[IL
MONDO DEL PALAZZO, il
bar]
TIC
– TAC
TIC
– TAC
TIC
– TAC
…
Il
ticchettio dell’orologio continuava a
battere incessantemente. La pelle di Henry bruciava e la camicia
all’altezza
della spalla destra era strappata e tinteggiata di rosso.
Il
ragazzo si alzò toccando la spalla
dolorante, sperando che, dopotutto non fosse nulla di grave.
“Ah!”
urlò, cercando di muovere il braccio.
Riusciva
a muovere la mano destra e parte
del braccio. Sebbene non avesse alcuna competenza medica, dedusse che,
dopotutto, Walter gli avesse risparmiato le ossa.
Si
era semplicemente divertito con lui.
Decise
di ignorare il bruciore terribile e
il mal di testa. Non appena la sua vista si fece meno offuscata, si
guardò
attorno.
Era
nel bar dei grandi magazzini. Nel bar
di Eric Walsh.
Alzando
gli occhi, vide un raggio di luna
colpire debolmente il locale vuoto.
In
cuor suo maledisse Walter Sullivan.
Ogni volta che lo incontrava finiva per cadere da qualche parte.
Si
avvicinò alla porta chiusa a chiave da
un codice da inserire e cominciò a premere la tastiera.
“…rotta?”
disse, non vedendo alcuna
reazione dall’apparecchiatura.
Girò
il pomello della porta e vide che
questa si aprì senza alcuna difficoltà.
Il
luogo che ritrovò dinanzi a sé fu
quella lunga, infinita o quasi, scalinata che percorse a quei tempi,
prima di
assistere alla terribile esecuzione di Richard Braintree.
Alzò
gli occhi scrutando quella
lunghissima scalinata, quel lungo percorso che segnava la fine
del mondo
del caos.
Solo
allora scorse, nelle vicinanze della
cima, un uomo con la camicia celeste aprire una porta cautamente. Era
il suo
vicino di casa Braintree.
Henry
abbassò il capo, rassegnato e in
parte persino impietosito.
La
vittima era giunta al carnefice. L’uomo
stava per ricevere la condanna creata dall’uomo stesso.
A
quel tempo non poté far nulla per
salvarlo.
Non
poté far altro che vedere il suo corpo
bruciarsi e ascoltare le sue parole e la sua mente che fino
all’ultimo rifiutò
di spegnersi.
Richard,
rifletté, era un uomo che aveva
vissuto proprio come aveva detto Sullivan. Era il Dio di se
stesso.
Lui
giudicava. Lui puniva. Lui graziava.
Giudice e boia allo stesso tempo.
Eppure
anche in punto di morte, aveva
avuto la razionalità di riconoscere Walter Sullivan e di
comprendere ciò che
gli stesse accadendo. Egli dimostrò ancora una volta
l’incredibile capacità di
vivere in un mondo dove lui era solo e aveva stretto i denti alla
violenza e
all’autodistruzione del caos.
In
quel senso, i mostri che Walter aveva
chiamato ‘facce di gomma’ in qualche modo lo
rappresentavano. Perché per
Walter, Richard aveva rappresentato l’uomo medio della
società moderna.
L’uomo
senza dio che vaga nel caos
informe. Nella trappola della vita. In un mondo dove solo la lotta
costante, la
violenza e l’indifferenza regnavano per affermare la
sopravvivenza.
Henry
percorse tutte le scale in silenzio,
da solo, fino a raggiungere la porta con su scritto #207.
L’appartamento del suo vicino di casa.
Quando
entrò, non si ritrovò nella casa di
Braintree. Si ritrovò all’esterno. Sul tetto
più alto del palazzo.
[IL
MONDO DEL PALAZZO,
sul tetto]
Il
buio regnava sovrano. Quella parte del
tetto della palazzina, di fronte gli appartamenti di South Ashfield
Heights,
sembrava superare persino la nebbia, che era appena sotto di lui
impedendogli
di vedere il panorama sottostante.
Henry
si avvicinò lentamente, con volto
serioso, all’uomo che era seduto sul ciglio del tetto. Aveva
una gamba piegata
all’altezza del petto e l’altra penzolava nel
vuoto. Sembrava sogghignare
appena, come se sapesse che Henry fosse dietro di lui. Suonò
appena con
un’armonica, poi si fermò.
“Richard
è morto. Sei arrabbiato?” disse
Walter con voce bassa e rauca. “Io ti avevo detto di stare
attento al tuo
vicino di casa, Henry…”
Detto
questo, il biondo si alzò e si
rivolse verso il ragazzo, cambiando completamente atteggiamento. Le
sopracciglia si distesero e il suo sguardo divenne più
apatico. Quasi spento.
Henry
prese parola.
“Quella
voce nel mio appartamento…eri tu?”
gli chiese, ma, vedendo che Walter non lo rispose, aggiunse, con una
voce
leggermente alterata. “Non cambierò mai idea sul
tuo conto. Tu rimani un killer
senza alcuna pietà. Lo sei e lo rimarrai per sempre,
Walter.”
Walter
chinò il capo di lato. La frangia
cresciuta gli cadde sul viso coprendone una buona parte.
Henry
trasalì appena quando intravide un
ghigno disegnarsi sul volto del biondo.
Il
suo sorriso si fece sempre più largo e
il ragazzo andò in uno stato di allerta sentendo
l’adrenalina crescere in lui.
Il
volto di Walter era divertito,
eccitato, e questo mandò in tilt Henry incapace di reggere
quegli occhi che lo
guardavano incessante.
L’uomo
mosse le labbra parlando
lentamente. A Henry sembrava che solo il suo tono di voce fosse in
grado di
torturarlo violentemente.
“Anche
tu, oramai, appartieni a questo
mondo, Henry.”
Henry
sbandò a quelle parole e la sua sicurezza
vacillò.
“Cosa
stai..?” disse, incapace di
comprendere quelle parole.
Che
diavolo diceva??
Walter
raccolse la motosega che aveva
affianco a lui e l’azionò muovendosi velocemente
verso il ragazzo. Sogghignò
aspramente, sotto lo sguardo sgomentato di Henry.
“…appartieni
a questo mondo. Appartieni a
me!”
Il
rumore martellante della motosega andò
ad incontrarsi con la voce di Walter mentre egli alzò
violentemente l’arma per
colpire il ragazzo.
Henry
ebbe la prontezza di spostarsi
repentinamente, aiutato dall’adrenalina in corpo.
Così
Walter andò a colpire il muro, dove
la motosega andò a sprofondare in un attimo.
L’uomo dai capelli lunghi fece per
estrarre l’arma, ma presto si rese conto che questa si era
incastrata a fondo,
così da essere completamente inutilizzabile.
Cercò di far forza con un piede,
ma il tentativo fu del tutto inutile.
Fu
allora che Henry caricò i colpi del
revolver e sparò. Colpì Walter in pieno ferendolo
su un fianco.
Walter
cadde a terra, essendo stato colpito
alla sprovvista, riuscendo a stento a poggiare le mani a terra,
digrignando i
denti.
Si
voltò lentamente, reggendosi sui gomiti
e rimanendo sdraiato a terra.
Osservò
la ferita toccandola con la mano.
Vedendo che essa prese a tinteggiarsi di rosso, concentrò
subito la sua
attenzione su Henry, rivolgendogli occhi adirati.
Walter
si fece serio solo quando si
accorse che, intanto, il moro aveva preso ad avanzare gelidamente verso
di lui.
Aveva uno sguardo tetro che attirò l’attenzione
persino di uno come
l’assassino.
Henry
si portò di fronte l’uomo con
cappotto, scavalcando le sue gambe e tendendo la pistola direttamente
sulla
fronte di lui.
Walter
a quel punto rise.
“Non
posso morire. Sono già morto. Lo
sai.”
“Sì.
Lo so…”
Henry
abbassò la sicura della pistola e
Walter smise allora di ridere.
Oramai
non ne poteva più. Non ne poteva
più di soccombere. Non ne poteva più di sentire
quella pazzia in corpo.
Dunque
sparò.
Sul
muro, accanto alla motosega utilizzata
da Walter, schizzò del sangue di un rosso vivo pulsante.
[APPARTAMENTO
302, nel
salotto]
L’ambiente
era buio e non
vi era possibile distinguere altro se non i lievi contorni delineati
dalla luce
che filtrava tenue dalle finestre.
Si
intravedevano il
divano, la poltrona, il televisore, i banconi della cucina…
L’ambiente
aveva un
design semplice, ma moderno e fresco. Peccato che fosse completamente
sepolto
sotto l’ingente, assurda, quantità di cera sciolta
su tutta la superficie della
casa. Vi erano candele ovunque. Tutte consumate. Spente.
Candele
e cera a terra,
sui mobili, sugli scaffali, lungo il corridoio…
Henry
Townshend era
sdraiato sul divano, assorto nei suoi pensieri.
Guardava
fisso già da un
po’ sul soffitto, dove delle gocce scure cadevano sul
pavimento creando una
pozza di lacrime
nere.
Nel buio era a stento distinguibile
la figura di Joseph Schreiber che mormorava in silenzio le parole che
aveva
conosciuto prima della morte.
“Walter
Sullivan non può
morire lo so…” mormorò Henry.
“…perché lui è
già morto.”
Lo
aveva comunque
sparato. Lo aveva colpito in fronte e aveva visto il suo sguardo
spegnersi.
Ma
sapeva che non avrebbe
mai potuto colpire un’ombra. Ciononostante aveva avuto
bisogno di farlo, di
reagire alla violenza e alla disperazione che aveva in corpo.
Guardò
la sua mano e
toccò il volto, ancora sporco del sangue di Walter Sullivan.
Stranamente le sue
ferite erano guarite, la sua spalla stava bene ora, ma il sangue era
rimasto.
Ripensò
in quel momento
alle parole dell’assassino.
“…appartieni
a questo mondo. Appartieni a
me!”
Corrucciò
il viso, innervosendosi. Subito
si alzò e le sue mani presero a tremare. Le serrò
in due pugni e il suo volto
divenne sempre più arrabbiato, nervoso.
“Io
non appartengo a questo mondo! Io sono
vivo!” urlò.
Aveva
ancora in mano il revolver di
Richard e prese a sparare violentemente per tutta la casa. Alla radio,
allo
spioncino della porta, sui muri.
Crivellò
la stanza di colpi finché non
terminò tutti i proiettili, continuando a premere il
grilletto anche con l’arma
scarica.
Cominciò
ad ansimare forte,
inginocchiandosi a terra, sprofondando sulla pozza nera.
“Che
cosa mi succederà..?” disse infine
affranto, rivolgendo i suoi occhi al voltò di Joseph,
sepolto nel soffitto
della casa.
A
quel punto tirò un urlo liberatorio e
poggiò i gomiti a terra non potendone più di
quella situazione.
Mentre
perdeva le staffe come mai aveva
fatto in tutta la sua insignificante esistenza.
Mentre
si disperava, aveva gli occhi
sbarrati e persi. Continuando a pensare a quella frase.
“…appartieni
a questo mondo. Appartieni a
me!”
Digrignò
i denti ancora.
Lui…apparteneva
davvero a quel mondo
parallelo? Anche se aveva scongiurato i ventuno Sacramenti? Nonostante
Walter
Sullivan non lo avesse ucciso?
Essere
il ricevitore di saggezza che cosa
comportava per davvero?
Se
apparteneva a quel mondo…
…Voleva
dire che una parte di lui era
anch’ella morta? Anche se non era divenuto la ventunesima
vittima?
Oppure,
lui…
Un
bruciore forte all’altezza del petto lo
costrinse a rannicchiarsi di colpo.
“Ah!”
Era
una fitta atroce. Portò la mano sul
petto cercando di placare il dolore, che sembrava colpirlo
incessantemente,
sempre più forte.
La
testa prese a girare. Si sentiva di
venir meno sempre di più, quando una voce poi prese a
parlare.
“Henry
Townshend. Colui che riceve
saggezza. Secondo il tomo Cremisi sei tu il segno finale.”
Henry
la riconobbe, era la stessa voce che
prima era nel suo appartamento.
Quella
che aveva udito dietro il muro dove
Walter aveva ultimato la prima fase del rituale dei ventuno
sacramenti.
Fece
per alzarsi, ma lo stress accumulato
e la pressione bassa, lo fecero invece piombare a terra.
Cercò
di parlare, ma alla fine le forze lo
abbandonarono definitivamente e non riuscì più
nemmeno a tenere gli occhi
aperti.
Avvertì
un terribile freddo, mentre perse
completamente conoscenza.
In
quel momento, dalla crepa sul muro in
fondo al corridoio, fuoriuscì una figura interamente
sfigurata.
Era
un uomo alto, con i capelli castani e
sporchi di sangue. Una lunga frangia disordinata impediva di vederne il
volto
anch’esso brutalmente devastato.
Portava
una camicia bianca consumata e dei
jeans scoloriti. Sembrava guardare Henry, mentre rimaneva immobile.
Prese
poi parola.
La
voce era la stessa con cui Henry aveva
parlato.
“Henry
Townshend. Colui che riceve
saggezza. Secondo il tomo Cremisi sei tu il segno finale.”
Disse.
“Io
sono Henry Townshend. Colui che riceve
saggezza. Secondo il tomo Cremisi sono io il segno finale.”
Alzò
lo sguardo, lasciando vedere le
enormi cicatrici sul viso. I suoi occhi verde pallido guardarono il
ragazzo
svenuto.
“Benvenuto
nella parte profonda di lui.”
[…]
|
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Capitolo 7 *** Gli appartamenti di South Ashfield Heights ***
NdA:
Ho
diviso il capitolo in
tre paragrafi:
-PRIMA
PARTE: Bambino
abbandonato
-SECONDA
PARTE: Ricordi
dal passato
-TERZA
PARTE: La
ricomposizione della bambola
Questo
per agevolare un
po’ la lettura. Spero il capitolo vi piaccia! Il prossimo
aggiornamento sarà
l’ultimo!! Un sincero ringraziamento a coloro che mi stanno
seguendo!!
Fiammah_Grace
CAPITOLO
07
L’oscurità
va via. Va via e si sostituisce alla luce.
Poi
scompare. Scompare per far spazio alla
notte.
Tutti
quegli incubi che una volta facevo
da bambino.
La
mattina sopraggiunge sempre...e arriva
troppo tardi.
Che
cosa sta cercando di dimenticare la
mia mente? Che cosa ho dimenticato di nascondere?
Gli
incubi potrebbero essere realtà, io
non lo so...
Dentro
e fuori, sopra e sotto. Non so se
tutto questo è un’illusione.
Intorno
e intorno, ancora e ancora, ogni
giorno mi assale la confusione.
(TENDER
SUGAR)
-PRIMA
PARTE: Bambino
abbandonato
Dopo
aver celebrato il
rito della Sacra Assunzione, altri mondi sono comparsi nel suo
universo, che ha
iniziato a gonfiarsi in maniera grottesca.
Ma il suo universo è diverso dal nostro. Ha i suoi limiti.
Ed entro i limiti
del suo universo, comanda lui.
E nella parte più remota del suo regno c'è sua
madre.
(Messaggio
scritto sul muro del ripostiglio dell’appartamento 302)
Quando
Walter Sullivan
seppe che era tenuta prigioniera lì dentro,
nell’appartamento 302 di South
Ashfield Heights, decise di liberarla dalla corruzione del mondo. Il
rituale
dei ventuno sacramenti lo avrebbe condotto a lei presto,
prestissimo…
Allora
sarebbero potuti
stare assieme per sempre.
Fino
a quel momento, ella
avrebbe dormito, aspettando il momento della riunione.
“Mamma,
mamma!”
Una
donna dal volto
sfregiato batteva alla porta #302 sconsideratamente. Nonostante il
braccio
rotto, ingessato, non accennava a smettere, colpendo quella porta con
violenza.
Per
quanto continuasse a
bussare, tuttavia, non aveva ricevuto alcuna risposta.
Il
respiro, il respiro…
Sentiva
il suo respiro,
soffriva.
Come
poteva risvegliarla?
Perché non tornava? Perché non apriva? Eppure era
lì per lei.
Continuava
a bussare,
mentre le lacrime scorrevano sulle guance e la voce si strozzava in
gola.
“Fammi
entrare!”
Gli
occhi fissavano
intensi la porta, incapaci di accettare che nessuno le avrebbe mai
permesso di
ricongiungersi alla madre.
A
sua madre…madre…
Alla…
Alla
Santa Madre? La
mamma?
“Mamma…mamma
svegliati,
fammi entrare!”
Solo
allora cessò, per
qualche attimo, di bussare alla porta. Sentì la testa
scoppiare e gli occhi bruciare
per il pianto.
“Lei
mi aspetta…”
La
sua voce si fece
profonda. Ella si allontanò e prese a camminare per quel
corridoio tetro e di
un rosso vivo quasi accecante.
Una
serie di rumori
grotteschi, simili a un lamento, rimbombavano nell’ambiente,
ma lei sembrava
non farci affatto caso. Come fosse la sua casa, quella. La sua eterna
persecuzione alla quale era abituata. Tuttavia, ancora non riusciva a
credere
che, da qualche parte dentro di sé, conoscesse per davvero
quel posto orrido.
Cominciò
a sentire
l’affanno dentro crescere a dismisura. Un dolore dietro la
schiena la pervase
ed ebbe la terribile sensazione di essere sola.
Di
essere completamente
sola. Abbandonata dal resto del mondo cinico e indifferente, che non
avrebbe
fatto nulla per rassicurarla e farla sentire amata. Come fosse
destinata a
morire in quello stato d’angoscia e di desolazione.
Subito
prese a
singhiozzare, spaventata, mentre corse via cercando di allontanare da
sé quella
paura accecante.
Si
chiedeva perché mai
sua madre non ci fosse. Si chiedeva come mai non riuscisse a dormine
allietata.
Si chiedeva perché non si svegliasse.
“Mamma…ho
tanta paura…”
S’inginocchiò
a terra
presa dallo sconforto. Quegli strani segni rossi che investivano tutto
il suo
corpo si scurirono ulteriormente, fino a farla tremare sempre di
più.
Prese
a strillare non
sapendo come contenere tutta quell’energia, pronunciando
delle parole così
velocemente che stesso una parte di lei si sorprese di averle
proferite. Stesso
lei non sapeva da quale parte del suo cervello fossero nate. Non sapeva
nemmeno
che significato avessero o in quale lingua fossero pronunciate.
Poi,
di colpo, il dolore
finì. Spalancò gli occhi, sorpresa e sgomentata.
Vide un uomo con un cappotto
blu scuro seduto di fronte a lei.
Egli
la guardava in
silenzio, gelido. Nel buio del corridoio, il bagliore dei suoi occhi
verdi
destava una grande inquietudine.
Lei
rimase ad osservarlo
impietrita.
Quell’uomo…quel
giovane
dai capelli biondi…lei lo aveva già visto.
Sapeva
chi era e sapeva
che doveva stare alla larga da lui. Provava dolore solo a guardarlo.
Egli
intanto continuava a
fissare la ragazza imperterrita, con un’espressione
così scura che ella non
poté non chiedersi il perché di un simile sguardo.
Cosa
aveva reso lo
sguardo di quell’uomo così inumano?
A
quel punto, all’uomo
andò a sostituirsi una seconda immagine, quella di un
bambino dall’aria triste.
Presto lei si accorse che anche lui piangeva. Piangeva silenziosamente,
mentre
le lacrime raggiungevano le labbra che andavano a deformarsi per
trattenere i
singhiozzi.
La
ragazza sentì quelle
stesse emozioni terribili dentro il suo animo,
tant’è che prese nuovamente a
tremare.
Il
rossore sul suo corpo
si andò ad intensificare ancora e ancora. Oramai quasi tutto
il volto e il
corpo era tinteggiato di rosso scuro.
Sentiva
dentro di sé il
senso dell’abbandono.
Sentiva
dentro di sé la
paura della solitudine.
Sentiva
dentro di sé la
speranza di rivedere la
Santa Madre.
Sentiva
dentro di sé che
voleva riabbracciare la mamma.
Eileen
Galvin riprese a
pronunciare parole incomprensibili, avvertendo in corpo un dolore
terribile.
E
di nuovo quell’unico
desiderio che covava in corpo…la Madre.
Se
solo lui avesse saputo, invece, di essere stato ingannato…
L’uomo
dal cappotto
continuava a fissarla mentre Eileen si dimenava e strillava. Il suo
sguardo si
faceva sempre più severo e spento, ma non accennava a calare
gli occhi da lei.
***
[APPARTAMENTO
303, South
Ashfield Heights]
“L'ultimo
segno,
E Dio disse,
separa dalla carne anche colei che è la
Madre Rinata e
colui che riceve Saggezza. Se
questo sarà fatto, attraverso il mistero dei 21 sacramenti,
la madre rinascerà
e la nazione del peccato sarà ridente.”
(Passo
della Bibbia del culto sui ventuno sacramenti.
Nel
sottopassaggio della Wish house)
20121…
Ovvero 20/21.
Eileen
rimase ad
osservare quei numeri per diverso tempo allo specchio, mentre il vetro
del
bagno diveniva sempre più opaco.
Quel
giorno, aveva fatto
davvero uno strano sogno…
Forse
per questo stava osservando quel marchio.
20/21
Strinse
gli occhi con
aria sofferta. La sua schiena era pallida e umida e si sentiva tremare
per via
del freddo. Eppure non aveva il coraggio di staccare gli occhi da
quella
visione.
20/21
Eh
sì…era stato davvero un orribile sogno bizzarro.
Quello
che vedeva, era
stato il marchio di tanta gente che era morta. Lei era, invece,
l’unica a
possederlo da donna…viva.
Era
una consapevolezza
strana da portare con sé. Quello era un marchio della morte.
Per
questo odiava fare sogni come quello.
Quanto
avrebbe voluto
coprire quello specchio con un telo. Quanto avrebbe voluto dimenticare
quella
parte del suo passato.
Ancora
pensava a quel sogno.
Entrò
nella vasca da
bagno e socchiuse gli occhi, mentre cercava di rasserenarsi.
Nella
sua mente
rimbombavano ancora molte emozioni. Emozioni angustianti, laceranti,
devastanti.
Alzò
gli occhi verso le
tende dalle quali filtrava la luce mattutina. Era giorno, il buio si
era
dissipato. Tuttavia…
Ancora
pensava a quell’incubo.
Ancora
pensava a quelle lacrime di dolore.
…
A
quel povero bambino ingannato.
***
[IL
CIMITERO DI SILENT
HILL, da qualche parte nella foresta]
Il
vento soffiava tenue,
alzando il terriccio di quella landa desolata. Era un luogo terribile,
quello,
il cimitero di Silent Hill.
Eileen
strinse il
giubbino di jeans sul collo e si guardò attorno. Non
c’era nessuno. Le tombe
erano disposte in maniera disordinata e non vi era una grande
manutenzione
dell’ambiente. Subito si avvicinò ad una lapide in
particolare e la osservò.
“…riposerai
mai in pace?”
sussurrò.
Si
inginocchiò e con la
mano scostò appena la terra lì attorno. Strinse
gli occhi, provando una grande
compassione per la persona sepolta lì sotto.
In
verità, un corpo in
carne e ossa non c’era, visto che era stato utilizzato per il
malsano rituale
di un culto pagano: il rituale della sacra
assunzione.
Provò
un’orribile
sensazione in corpo nel riportare alla mente quel che era successo quel
giorno.
Per Eileen Galvin era stato davvero difficile ritornare alla vita di
tutti i
giorni, e ancora oggi era dura sopravvivere alla luce di quella
consapevolezza.
La consapevolezza di quegli incubi.
Eppure
definirli in tal
modo non era corretto, visto che erano stati reali.
Sebbene
fosse passato del
tempo, ricordava perfettamente le emozioni di Walter Sullivan.
Ricordava
perfettamente la sua anima contorcersi nel dolore e nel nichilismo.
Dalla
borsa estrasse una
piccola bambola di pezza. La girò fra le mani, lasciando che
nella mente
galleggiassero dei ricordi lontani. Quella bambola
gliel’aveva data Henry
durante una delle sue visite nell’ ospedale St. Jerome, dove
ella era stata
ricoverata. Le raccontò che era stato Walter Sullivan a
dargliela, dicendole
che lei stessa, anni prima, l’aveva donata a lui.
Eileen
non ricordava quel
giorno, eppure le parve così strano che, invece, qualcuno
l’avesse conservata
così gelosamente per così tanto tempo. Lei che
quel ricordo, per quanto si
sforzasse, non riusciva proprio a farlo riaffiorare dalla mente.
Strinse
quella bambola e
socchiuse gli occhi.
Provò
così tanto dolore
nel non ricordare. Eppure lui, quel giorno, decise di fare di lei la Madre
Rinata. Il
ventesimo segno.
Sollevò
la mano e
accarezzò il marmo.
“Ti
prego, lascia
riposare il tuo cuore. Il cuore di quel povero bambino in
pena.”
Alzò
gli occhi verso
quella lapide a lesse quel nome.
Walter
Sullivan
“Walter…riposa
in pace.” congiunse
le mani al petto e sospirò. “Lascia andare
anche…Henry.”
Henry
era distante. Lo
era da tempo. E sapeva che c’entrava Walter Sullivan. Erano
giorni che non lo
sentiva. Aveva fatto di tutto per mettergli fretta nel lasciare
l’appartamento
#302. Questo perché lo sapeva benissimo che c’era
qualcosa che non andava
nell’appartamento e nella palazzina intera. Qualcosa era
rimasto impregnato
nell’aria.
O
forse aveva
semplicemente un brutto
presentimento.
I
suoi tentativi,
tuttavia, erano stati completamente vani, e non era riuscita a impedire
a
Walter di portarglielo via. Di portare Henry chissà dove, in
un mondo dove lei
non poteva raggiungerlo.
“Lascialo
andare…”
sussurrò di nuovo, avendo paura che qualcosa di terribile
potesse accadere.
Il
vento prese a soffiare
più forte e trascinò con sé le leggere
foglie degli alberi vicini. Eileen,
prima di andare via, adagiò la preziosa bambolina ai piedi
della tomba.
“Puoi
dormire con lei, se
vuoi.”
Dopodiché
si alzò.
Girò
lo sguardo un’ultima
volta prima di accendere l’automobile e sparire via.
La
tomba di Walter
Sullivan rimase in balia del vento. Sola. Quel bambino abbandonato ora
era
morto. L’assassino che sarebbe nato da lui era stato ucciso.
Ora
doveva solo chiudere
gli occhi e comprendere che non valesse più la pena
continuare a soffrire. Che
potesse finalmente addormentarsi felice.
Il
vento fece accasciare
la piccola bambolina di pezza sul terreno, mentre questa prese a
cospargersi di
un leggero terriccio scuro.
***
[APPARTAMENTO
302. South
Ashfield Heights]
Henry
aprì debolmente gli
occhi, ma non riusciva a vedere altro se non il buio tetro
dell’ambiente
circostante. La mente pulsava e la vista era completamente annebbiata.
Calò
il capo e chiuse
nuovamente gli occhi. Il suo petto non bruciava più, in
compenso, l’aria
soffocante lo logorava. Eppure era come se non riuscisse a far nulla
per
opporsi. Era immobile e non reagiva a nulla, come fosse in uno stato
catatonico.
“Piangi?
Pensi che, in questo mondo, a qualcuno
importi che tu pianga?”
Una
voce severa ed
indefinita echeggiò nella sua mente. Nacque spontanea e
affollò la mente di
Henry ancora in quello stato dormiente. Nessuno le aveva pronunciate.
Era come
se le stesse ricordando.
“Ma
io sono qui.
Io…esisto.” rispose in un sussurro.
Le
parole nella sua mente
sembrarono innervosirsi a quella risposta.
“Se
muori nessuno se ne importerà mai. Non hai nemmeno
un nome.”
“Si…”
“Sei
stato uno schifosissimo errore!”
“Dove
sei? Voglio vederti
in viso…”
“Stupido,
piccolo piagnucolone…”
“Papà…”
Henry
aprì di colpo gli
occhi, sgranandoli sconcertato. Cosa aveva appena detto?! ‘Papà’?
A
quel punto si rese
conto che una grossa catena arrugginita lo teneva appeso proprio sopra
il
soffitto della sua camera da letto.
“C-cosa…?”
disse.
Cercò
di dimenarsi, ma un
tessuto puzzolente lo avvolgeva lungo tutto il corpo, come una camicia
di
forza, stringendolo e limitandolo nei movimenti.
Sentì
una terribile
sensazione di oppressione al che, preso dal panico, cominciò
a urlare e a
muoversi energicamente oscillando sul soffitto.
“Che
sta succedendo??”
urlò.
Più
ci metteva forza, più
oscillava con violenza, così i ganci, alla lunga, cedettero
ed Henry cadde a
terra. Dolorante, cercò di divincolarsi da
quell’orrido sudiciume e dalle catene.
Perché
si era ritrovato
appeso al soffitto? Chi era stato a farlo?
Cosa
era successo mentre
era svenuto?
Una
volta liberatosi
definitivamente, si rimise in piedi e calciò via quella
robaccia che prima lo
avvolgeva.
Solo
allora sentì un
rumore provenire fuori dalla sua camera da letto.
Si
affacciò nel corridoio
e all’improvviso sentì una serie di strilla acute.
Un pianto infantile. Ma chi
stava piangendo?
Più
l’ascoltava, più si
rendeva conto che fosse quello di un…
“Ma
che…?!”
Scorse,
alla fine del
corridoio, un lenzuolo
sporco, dove
vi era avvolto un…bambino?!
Lo
riusciva ad
intravedere a stento, infagottato com’era,
in quel panno sporco. Subito si avvicinò a quella piccola
creatura, che non faceva che piangere, strillare…
“T-tu
cosa…” disse con un
filo di voce, titubante.
S’inginocchiò
affianco al
bambino in fasce e rabbrividì notando che quel panno fosse
macchiato di sangue
e di una sostanza viscida.
Non
s’intendeva certo di
medicina…ma quella roba sembrava proprio la membrana che
avvolgeva i bambini
appena nati.
Henry
era davvero
agitato, non sapeva che fare. Non aveva mai visto un bambino
così piccolo e
aveva quasi paura di avvicinarsi e fargli del male. Era malato? Aveva
bisogno
di cure? Non sapeva semplicemente nulla in materia. Tremante,
cercò di toccarlo
e di sollevarlo da terra, ma quando i suoi occhi andarono a posarsi su
quel
piccolo cordone rosso che il bambino aveva ancora attaccato a
sé, una fitta al
cervello lo trapassò costringendolo a portare le mani sul
capo in preda al
dolore.
“Ah!
La testa..!”
Quasi
al punto delle
lacrime, Henry poggiò i gomiti a terra e inarcò
la schiena, avvertendo
un’orribile sensazione allucinante, struggente.
Alzò
gli occhi verso la
porta d’ingresso e si accorse solo in quel momento che, sul
ciglio, c’erano due
persone.
Un
uomo e una donna
stavano aprendo la porta dell’appartamento #302 per uscire
via frettolosamente.
La scena durò appena una manciata di secondi, ma Henry fu in
grado di
distinguere la donna. Aveva lunghi capelli biondi e tremava. Aveva il
viso
stanco e sudato ed era sorretta da un uomo che la tirava via con
veemenza.
L’uomo
non era stato in
grado di vederlo nitidamente, avvolto com’era da un lungo
cappotto nero.
Chiusero
la porta
immediatamente, prima che Henry potesse far qualcosa per fermarli.
Nel
momento nel quale i
due sparirono dalla sua vista, il dolore alla testa cessò.
La confusione che
stava provando Henry in quel momento era indicibile. Rivolgendo il capo
indietro, notò che anche il neonato era sparito.
Rimase
lì per lì
attonito, ma aveva compreso fin da subito che sia la coppia che il
bambino
fossero un’altra proiezione dei traumi di Sullivan.
Certo
però che… stavolta
le immagini che gli si erano presentate d’avanti lo avevano
turbato molto di
più. Sentì l’angoscia invaderlo in
corpo.
Delle
turbolenti emozioni
lo pervasero facendolo sentire inquieto…
“Il
suo desiderio
infantile di ritornare nel ventre materno... l'ha diviso...e presto...
I 21
Sacramenti...”
Una
voce echeggiò in quel
momento, ed Henry alzò gli occhi verso il soffitto. Era la
voce di Joseph
Schreiber, su quello non c’erano dubbi.
Tuttavia
non riusciva a
vederlo, inoltre…come poteva essere lì?
Perché sentiva la sua voce in quel
posto? Egli era imprigionato nell’appartamento #302 del
passato…
Continuò
a girarsi
intorno, mentre la voce continuava a parlare.
“Walter
Sullivan... Quando era un ragazzino, iniziò a
credere che il mio
appartamento fosse sua madre. Decise di liberarla dalla corruzione di
questo
mondo.”
Henry
strinse gli occhi
ricordando quelle parole. Le parole della quindicesima vittima. Quella
targata
col segno della disperazione. Quelle
erano le stesse parole che pronunciò quel
giorno.
“Segui
il Tomo Cremisi...
Fermalo... Altrimenti ovunque riusciate a fuggire, vi
troverà... Trovalo... Il Tomo
Cremisi... Obbedisci al Tomo
Cremisi...”
Joseph
non era da nessuna parte, a
quel punto Henry non poté che trarre l’unica
deduzione possibile: quella che
stava udendo era solo una sua ombra rimasta intrappolata
nell’incubo.
Joseph,
aveva ragione. Il
Tomo cremisi li
aveva salvati. Grazie ad
esso aveva potuto scongiurare il rituale, tuttavia…
Henry
si guardò attorno,
con un’aria sofferta.
Vide
l’orologio di casa
sua impazzire sotto i suoi occhi. Scosse la testa, come se avesse
sempre
sperato di essersi sbagliato. Guardandosi attorno vide che non solo
l’orologio,
ma tutto cominciò a mutare sotto i suoi stessi occhi.
“All'orfanotrofio,
imparò
i "21 Sacramenti", l'unico modo per purificarla.”
La
fontana della cucina
prese a sgorgare sangue fetido. Lo spioncino della porta
cominciò a gocciolare
di un macabro liquido rosso. Dal frigorifero si sentiva un curioso
miagolio…
“In
seguito attuò la
cerimonia della Sacra Assunzione e creò questo mondo
assurdo.”
Le
crepe sui muri
cominciarono a deformarsi ulteriormente e le finestre a sbattere forte.
“Ora...
non è divenuto
altro che un'umana macchina di morte...”
Sentì
dei lamenti di
bambini. Provenivano dal suo guardaroba, lo sapeva bene. Dalla camera
da letto
poteva perfettamente sentire una voce chiamarlo… una voce
che scandiva, sempre
più forte, un sinistro “Ti
osservo sempre…”
La
fotografia della
chiesa di Silent Hill, in camera sua, si sostituì col volto
di Sullivan. E dal
muro si affacciò un demone.
“... Uccidilo...
devi ucciderlo... Ucciderlo…ucciderlo...
ucciderlo...”
Joseph
continuava a
parlare, ed Henry osservò impotente la sua casa
trasformarsi. Piena di tutte le
presenze scaturite dall’incubo.
Socchiuse
gli occhi, poi
sospirò.
“…il
Tomo cremisi…però
non è stato sufficiente per salvare l’intero
edificio…” riaprì gli occhi.
“…nonché la stanza #302. Compreso
anch’io. Giusto?”
Le
ombre del passato di
Sullivan erano ancora lì. E anche lui faceva parte di quelle
ombre. Lui che era
stato prescelto per essere Colui che riceveva Saggezza. La ventunesima
vittima.
Per
questo le presenze
nel suo appartamento non gli facevano più male.
Toccò
la camicia
all’altezza del collo e vide che questa si
tinteggiò di rosso.
Si
affacciò appena nel
bagno per poter intravedere, dalla porta semiaperta, lo specchio.
Gli
bastò per intravedere
il marchio delle vittime di Walter Sullivan.
21/21
Erano
scritte a malapena,
proprio sotto il collo.
Henry
si avvicinò. Il suo
sguardo era tremante e toccò il freddo vetro dello specchio
con incertezza,
mentre osservava quella cicatrice.
La
maglietta bianca sotto
la camicia era anch’essa tinteggiata di rosso. Tuttavia
quella terribile
incisione sembrava già cicatrizzata.
Henry
la osservò a tratti
spaventato, a tratti persino consapevole del perché quella
fosse apparsa
assieme alla casa infestata.
Perché…
Perché
lui…
“Mamma!
Mamma! Fammi
entrare!”
La
voce del Walter
bambino risuonò dietro la porta. Henry si
avvicinò, questa volta pronto.
Raccolse
dalla cassa la
pistola e si avvicinò allo spioncino insanguinato.
Non
vide il Walter
bambino battere alla sua porta.
Vide
invece proprio colui
che aveva appena richiamato nella sua mente, Sullivan. L’uomo
col cappotto era
sul pianerottolo, proprio di fronte a lui e lo osservava
dall’altro lato dello
spioncino, quasi come se anch’egli potesse vederlo da quella
piccola fessura.
A
quel punto Henry
spalancò la porta urlando il suo nome.
“Walter!”
e sparò.
Il
proiettile però andò a
colpire soltanto la parete grondante di sangue. Subito si
girò intorno,
sconcertato.
Gli
appartamenti di South
Ashfield Heights…cosa…cosa era accaduto?
Ogni
cosa era incrostata
di sangue e ruggine. Le pareti pulsavano quasi come fossero vive e
nell’aria
c’era un disgustoso odore organico. Rabbrividì
sentendosi male.
Vedere
ancora una volta
la palazzina in quello stato, proprio come quel tempo, fu qualcosa di
terribile. Portò una mano sulla fronte, incapace di
accettare che era tutto
tornato esattamente come allora.
Si
poggiò sul muro e
all’improvviso gli fu chiaro.
Gli
appartamenti di
Ashfield…la stanza #302….
Erano
tutti elementi che
avevano a che fare con l’infanzia più remota e
dolorosa di Sullivan.
Era
dunque questo ciò che
Joseph intendeva. La parte più remota degli incubi di Walter
Sullivan, ove
tutto era cominciato. Una parte così intima, dove persino
lui stesso era
rimasto assorbito ed intrappolato.
Dunque
niente più varchi,
niente più viaggi in quelle assurde dimensioni. Questo
perché era giunto alla
fine.
Era
il momento di
esplorare l’ultima parte di lui, il luogo dove Sullivan era
nato… e allo stesso
tempo il luogo in cui era morto.
‘La
parte profonda di
lui’. Solo allora lo comprese.
Sotto
i piedi sentì
qualcosa di scivoloso e notò che c’erano dei
bigliettini sotto la sua porta. Li
raccolse e li lesse uno ad uno. Erano tutti in uno stato decadente e vi
erano
delle scritte piccolissime e brevi.
Sta
iniziando...
Presto...
In
qualsiasi momento...
Tra
pochissimo...
Presto
avrà inizio...
Presto,
molto presto!
Il
rito...il rito...
“Non
comincerà un bel
niente, convincitene. È tutto già accaduto e
tu…sei morto!”
Fu
allora che decise di
andare lui a cercarlo. La vittima dunque, a sua volta, andò
alla ricerca del
suo stesso carnefice. Della stessa persona che lo aveva chiuso in
quell’inferno
claustrofobico.
Nello
stesso inferno
dove, tuttavia, anche il carnefice era imprigionato, condannato in quel
circolo
infinito.
“Aaah!”
Un
urlo di una donna
echeggiò. Henry subito si ritrasse turbato.
“E-Eileen?!”
disse,
sconcertato.
Era
assurdo…inconcepibile. Portò una mano sul capo,
cercando di non perdere la
calma, ma era inutile.
Henry
fece per andare
verso l’appartamento della ragazza, il #303, ma delle sbarre
poste al centro
del pianerottolo gli impedirono di raggiungerla. Poteva solo vedere la
stanza
dall’altro lato.
Udì
ancora le urla di
lei, e le sue mani battere violentemente contro la porta.
“Eileen!!!”
urlò,
disperato. “Lasciala stare! Lasciateci stare!” si
dimenò con quelle sbarre,
sperando di riuscire a far leva, ma ovviamente si rivelò un
inutile tentativo.
“…dannazione!”
A
quel punto corse via
verso la stanza #301, unico punto di evasione di quel piano, e scese
velocemente le scale.
Fortunatamente
Henry
aveva una buona memoria fotografica e ricordava ancora bene la
disposizione dei
passaggi al tempo della sua seconda visita negli appartamenti
‘alternativi’.
Quindi seppe fin da subito come muoversi per ritrovarsi
dall’altro lato delle
sbarre e raggiungere la stanza di Eileen.
Mentre
correva, tuttavia,
nella sua mente qualcosa lo stava già turbando.
Eileen…
Pensare
a lei in quel
mondo aveva destato in lui immediatamente un ricordo. Quello di quando
l’aveva
trovata in quel letto di sangue.
Sperava
in cuor suo non
fosse così. Che non fosse stata coinvolta di nuovo anche lei
in questa storia.
Era incapace di accettare di rivedere Eileen in
quell’inferno. Nella sua mente
quelle urla si erano stampate così nitidamente che non
poteva non averle riconosciute.
Le urla di Eileen quando fu straziata quasi a morte da
quell’uomo che l’aveva
scelta come sua ventesima vittima.
Fu
quando terminò di
scendere la scalinata che vide lui.
Walter
Sullivan era proprio
lì, ad attenderlo sulle scale.
Henry
si bloccò di colpo,
vedendolo con il volto tinto di sangue.
“Che
cosa hai fatto ad
Eileen?!”
Walter
non si curò
affatto di lui e, al contrario, cominciò ad avanzare verso
il ragazzo salendo
la scalinata rugginosa. Aveva il capo chino e i capelli biondi,
anch’essi
tinteggiati di rosso su un lato, coprivano una buona parte del suo
volto.
“Parla!
Eileen dov’è?!”
Walter
continuò ad
avanzare, ignorando le parole del ragazzo. Henry in un primo momento
indietreggiò, poi, in preda dalla rabbia e dal panico, gli
puntò la pistola
contro.
“Dimmi
cosa diavolo
vuoi?!”
In
quel momento stava
pensando solo ad Eileen.
Lei
no! Eileen, no!
Nessuno le avrebbe mai più fatto del male. Lui non
l’aveva voluta coinvolgere
in quell’incubo proprio per evitare quel dolore.
Sentì
gli occhi bruciare,
un po’ per rabbia, un po’ per paura. Non ne poteva
più e mai come allora
desiderava solo una cosa…fuggire via.
Per
la prima volta
desiderava ardentemente scappare dall’appartamento #302 e
raggiungere la sua
vicina di casa. Prendere le valigie e ricominciare una nuova vita
lontana da
Walter Sullivan.
Ah,
com’era stato cieco!
Eileen lo stava attendendo già da molto. Henry doveva solo
raggiungerla e
chiederle perdono per essere stato sempre così dannatamente
in ritardo.
In
due anni che si era
trasferito non aveva mai avuto il coraggio di parlarle. Poi in
circostanze del
tutto folli si erano uniti ed erano sopravvissuti assieme a
quell’inferno.
Tuttavia…non aveva avuto il coraggio di andare via da
Ashfield. Di andare via con
lei. Non aveva avuto il coraggio di fare un bel niente, sentendosi
ancora
prigioniero di quel pazzo mondo.
I
suoi occhi si andarono
a spalancare e guardarono Walter con profondo odio.
“Che
cosa vuoi da me?!”
Walter
a quel punto, con
uno scatto veloce, avanzò verso di lui, mostrandogli un
volto tetro e senza
alcun tipo di espressione. Era…spaventoso. Era inumano,
demoniaco.
Henry
non fu in grado di
reggere quello sguardo e immediatamente indietreggiò,
perdendo tuttavia
l’equilibrio e cadendo sulla scalinata.
Cercò
di rimettersi in
piedi, ma l’uomo biondo era già dinanzi a lui e
ricambiava il suo sguardo.
Scavalcò
le gambe di
Henry inginocchiandosi sopra di lui e prese in mano la pistola di
Henry.
Solo
allora, nel vederla
fra le mani di Walter, Henry si rese conto che gli fosse scivolata di
mano
durante la caduta.
A
quel punto il moro
deglutì, con gli occhi sgomentati, non sapendo che fare e
non vedendo alcuna
via di fuga.
Sullivan
guardò l’arma
chinando il capo ed Henry assistette a quella scena senza avere la
possibilità
di far nulla.
Walter
lo bloccò ancora,
sporgendosi verso di lui. Inarcò la schiena e
guardò Henry con il volto gelido.
Con l’altra mano, lasciò scorrere la canna della
pistola sul suo collo, proprio
dove il ragazzo aveva il marchio dei ventuno sacramenti.
“Miss
Galvin…Ei…Galvin…leen
Gavin…Eileen…” sussurrò.
Henry
cominciò a sudare,
non comprendendo cosa diavolo volesse, non comprendendo cosa lui stesso
dovesse
fare. Sentire il nome di Eileen pronunciato da quell’uomo fu
sufficiente però
per sentire il cuore battere a mille.
Inaspettatamente,
Walter
allontanò il busto da lui ristabilendo le distanze e gli
lanciò la pistola
vicino.
“Miss
Galvin mi è venuta
a trovare.” asserì.
Henry
lo guardò
sbigottito.
“Cosa?”
sibilò a stento.
L’uomo
col cappotto lo
guardò vitreo qualche attimo, poi si alzò
definitivamente da sopra di lui ed
andò via. Henry ci impiegò un po’ di
tempo per far ritornare in moto il
cervello, in quel momento andato in panne.
“F-fermati!
Che cosa vuoi
dire? Eileen..? Lei…è qui?
…Spiegati!”
Walter
non lo degnò di
ulteriori attenzioni. Lentamente scese le scale e andò via
chiudendo la porta.
Henry si alzò velocemente, prese in mano la pistola e corse
dietro di lui.
Nell’aprire
la porta, si
ritrovò immediatamente nel corridoio dei piani inferiori e
Walter era sparito.
Istintivamente
tirò un
calcio. Se l’era lasciato scappare.
“Eileen…è
andata a fargli
visita? Cosa avrà voluto dire?”
Una
parte di lui si
preoccupò del fatto che anche lei potesse essere
lì da qualche parte, così si
affrettò a superare l’ala del corridoio ovest e
raggiungere la stanza della sua
vicina di casa.
[Appartamenti
di South
Ashfield Heights, terzo piano, dall’altro lato delle sbarre]
Non
appena raggiunse il
terzo piano, quasi s’impressionò di vedere,
dall’altro lato delle sbarre, il
suo stesso appartamento.
Il
Walter Sullivan
bambino piagnucolava e urlava, mentre batteva la porta chiamando sua
madre.
Pur
avendo oramai compreso
che fosse solo la manifestazione del suo desiderio di ricongiungersi
con sua
madre, era una visione angosciante quella. Vedere quel bambino battere
ossessivamente alla sua porta…
La
causa intrinseca che
aveva maledetto il suo appartamento e la sua vita era quella piccola
figura.
Pensare
che fosse sempre
stato metaforicamente lì, a battere, battere, senza mai
fermarsi.
Questo
per anni…da
quando era nato.
Scosse
la testa e fece
per entrare nell’appartamento #303 ma, sebbene cercasse di
far forza, questa
non si apriva.
“Chiusa..?”
Puntò
la pistola contro
il pomello e premette il grilletto, ma un’energia sconosciuta
vece rimbalzare
il proiettile, impedendo così ad Henry di entrare con la
forza.
Non
che non se
l’aspettasse, per certi versi. Non doveva dimenticarsi che
quello non era il
mondo reale. Decise di non indugiare ulteriormente e prese a riflettere.
“Se
sono fortunato, nel
#105 potrei recuperare il mazzo di chiavi del custode. Aggiunsi la
chiave di
Eileen l’ultima volta, in teoria, quindi dovrebbe ancora
esserci…”
Il
custode abitava
nell’appartamento 105, nell’ala ovest del pian
terreno. Decise di andare a
vedere lì. Doveva assolutamente trovare Eileen prima che
Walter le facesse
qualcosa.
Così
scese al secondo
piano e si diresse verso l’ala ovest, dove vi era il
passaggio per i piani
inferiori, nella stanza #206.
Non
appena arrivò sul
pianerottolo, tuttavia, dei lamenti attirarono la sua attenzione. Si
avvicinò
cautamente e, affacciandosi appena da dietro il muro, vide un orribile
mostro
raggrinzito, di dimensioni e stazza notevoli, indicarlo nel buio.
Subito
deglutì,
riconoscendo quella tipologia di mostro. In sostanza, rassomigliava
molto al
mostro con due teste incontrato nella prigione acquatica.
Tuttavia
era sensibilmente
più grande, il corpo era rivestito di una spessa pelle
raggrinzita e…aveva
un’orrida testa appesa al posto delle gambe.
Quella
creatura, ben
conscio delle altre incontrate nei suoi viaggi, aveva
anch’ella un senso?
Era
nel mondo che rappresentava
la prima infanzia di Sullivan, il luogo in cui era stato abbandonato e
il luogo
dove lui ambiva tornare. Qui era nata la sua ossessione per la madre,
ma anche
il suo disprezzo per la vita.
Si
chiese, dunque, se il
mostro in questione avesse mai potuto rappresentare la psiche del
piccolo
Walter in fasce. E se così fosse stato… poteva
aver già concepito quel
“mostro/trauma” a quella tenerissima età?
Un
brivido lo trapassò
lungo la schiena e gli sembrò terribile pensare ad
un’eventualità del genere.
In
ogni caso doveva
proseguire e l’unico modo per farlo era sbarazzarsi di quella
creatura.
Questi
era immobile e
continuava ad indicare Henry, finché lui stesso non si
avvicinò e raggiunse una
vicinanza tale da farlo scagliare contro di lui.
Il
mostro si mosse con
quelle mani robuste ad una velocità inaspettata, cercando di
colpire il
ragazzo. Egli era, per sua fortuna, già preparato ai suoi
attacchi, così,
quando questi fu sufficientemente vicino, tirò
giù il grilletto e sparò. Fece
partire una raffica di colpi che andarono a incassarsi in quel corpo
dalla
pelle doppia e coriacea.
Il
mostro si accasciò
dopo aver scaricato un’intera carica di proiettili e lo
atterrì definitivamente
con un calcio ben assestato all’altezza dell’addome.
Alzando
gli occhi,
osservò le sbarre che ancora una volta lo separavano dalle
altre stanze del
secondo piano.
Li,
proprio oltre quelle
sbarre, erano improvvisamente apparsi dei mostri appesi.
Henry
si avvicinò e
poggiò le mani sulle sbarre, e solo allora si accorse che
non erano dei mostri.
Erano
appesi al soffitto,
un po’ come quando lui si era svegliato poco prima, e
sembravano più dei
fagottini che fremevano.
Tremavano
e si muovevano
in maniera disturbante.
Erano
lì, appesi, ed
Henry provò una strano turbamento, non comprendendo se
fossero vivi o no. Non
comprendendo cosa diavolo fossero.
Li
fissò e cercò anche di
allungare una mano e toccarne uno, ma le sbarre erano state messe
sufficientemente
lontane per non permettergli in nessun modo di raggiungere quei
fagottini.
Così
non perse altro
tempo. Aprì la porta del #206 e proseguì.
Solo
dopo aver superato
la stanza, si ritrovò dall’altro lato delle
sbarre, ma i corpi dei mostri
appesi erano spariti e, anzi, un lamento stridulo lo fece di colpo
voltare.
Si
sorprese di vedere che
quei fagotti ora erano dall’altro lato del corridoio, proprio
dove Henry era
stato in precedenza.
Tuttavia
adesso erano a
terra e non si muovevano più. Henry si fece perplesso per
quella visione e
rimase a guardarli.
“Che
importa?! Va via, presto sarà morto…”
“Te
lo avevo detto che non dovevamo avere
un bambino, o no?”
Henry
udì nuovamente
quella voce adirata. Era la stessa che aveva sentito nel suo
appartamento.
Non
fu facile per lui
pensarci con razionalità, ma più osservava quei
fagottini, più gli sembrava di
rivedere in loro quel bambino in fasce.
Walter
Sullivan che, dai
suoi genitori, fu condannato a morte.
Strinse
gli occhi, non
riuscendo a pensare a quell’uomo in quel momento, avendo
ancora la mente
rivolta ad Eileen. Tuttavia era impossibile negare
l’evidenza. Walter aveva
cominciato a covare già a quell’epoca quel senso
di abbandono e di disprezzo da
parte della società. I suoi stessi familiari non lo avevano
voluto.
Per
quanto odiasse
quell’assassino, trovava davvero assurdo che, una parte di
sé, invece provasse
compassione.
Ma
Walter era un
assassino! Un uomo diabolico, malvagio…
Tuttavia
Walter era anche
una vittima.
Henry
portò una mano sul
capo…accidenti! Com’era complicato per lui
ammettere una cosa del genere! Lui
aveva fatto del male a della gente innocente!
Aveva
cercato di
ucciderlo. Aveva sfregiato brutalmente Eileen. Questo era
più che sufficiente
per essere tutt’altro che una vittima!
Tuttavia
Walter era anche
quel bambino abbandonato, sfruttato dalla Wish House e maltrattato da
gente
senza scrupoli.
Quindi
cos’era Walter? Vittima o carnefice?
Fece
per osservare i
fagottini a terra e notò che non c’erano
più. Al contrario, un bambino di circa
cinque anni, biondo, era apparso all’improvviso e lo stava
osservando con un
viso triste.
“Walter?”
disse.
“Mamma…papà…”
Henry
non comprese,
poggiò le mani sulle sbarre e osservò il
ragazzino con una faccia perplessa.
“I
tuoi genitori..?”
A
quel punto vide il
ragazzino alzare l’indice della mano destra e indicare
proprio dietro Henry.
Egli si voltò e vide che un altro di quei mostri dalla pelle
coriacea era
apparso e avanzava velocemente verso di lui.
Subito
sussultò alla
visione di quell’orrida creatura, e fu scaraventato a terra
dal colpo del
nemico. Fece per rimettersi in piedi, ma si accorse di non avere
più la pistola
fra le mani.
“No!”
disse, mentre
velocemente la cercava a terra.
Subito
la scorse oltre le
barre di ferro. Strisciò immediatamente vicino ad esse e
tese il braccio
cercando di raggiungerla, ma inaspettatamente fu proprio il piccolo
Walter
Sullivan a prenderla per primo. Henry alzò gli occhi e lo
vide stringerla fra
le sue mani, con un’espressione molto severa.
“Che
fai? Walter!” urlò
Henry.
Il
biondino puntò la
pistola di fronte a sé ed Henry ebbe la terribile sensazione
che il colpo fosse
diretto proprio a lui. Chiuse gli occhi e abbassò il capo
istintivamente,
mentre una serie di colpi andarono a sfiorarlo,
tant’è che ebbe persino la
sensazione di essere stato colpito.
I
colpi poi cessarono ed
Henry, aprendo gli occhi, si rese conto di non avere alcuna ferita.
“C-che
diavolo..?”
Girando
il capo alle sue
spalle vide che, piuttosto, era il mostro dietro di lui ad essere stato
crivellato di colpi. Tutti eseguiti con una certa precisione in
verità.
Alzò
sconcertato gli
occhi verso il bambino, ancora dietro le sbarre. Lo vide chinare
l’arma verso
il basso e poggiarla a terra.
Nell’incrociare
i suoi
occhi, Henry ebbe un brivido lungo la schiena. Quello
sguardo…egli non era il
bambino…era…
Il
ragazzino poi si girò
e fece per andarsene, sparendo così nel buio. Henry era
ancora sdraiato a
terra, incapace di reagire.
Si
alzò solo una manciata
di secondi più tardi, leggermente ansimante. Il suo sguardo
si posò sul corpo
del mostro morto.
“Lo
ha chiamato: ‘mamma
e papà’…”
Era
un mostro enorme, il
più impressionante di tutti quelli visti fino a quel momento.
Era
deforme, con la pelle
nuda, nodosa e raccapricciante, ricurva sulla sua ossatura assurda. Era
segnato
da graffi profondi e lividi e sebbene fossero visibilmente
cicatrizzati, essi
erano inspiegabilmente vivi.
Era
una visione
angustiante da vedere, poiché ricoprivano in sostanza tutto
il suo corpo, come
fossero espressione di profondo e tetro dolore. Un dolore vecchio, ma
che non
era mai guarito.
Essi
erano così tanti da
aver reso quella pelle coriacea e spessa, indurendola e rinforzandola
per
proteggersi.
Dei
rigonfiamenti si
promulgavano da quello che doveva essere il suo collo, ergendosi sotto
il
tessuto spesso e ripugnate. Erano come due crani nascosti sotto pelle,
imbastiti da una crudele cucitura sulla loro sommità che
aveva accartocciato il
loro volto, stringendolo con la sua stessa carne rossa e sanguinolenta.
Non
avevano tratti
somatici ed era come se qualcuno avesse tirato loro la pelle per
nasconderli, per
renderli irriconoscibili.
O
forse non era così,
forse nessuno li aveva nascosti. Forse semplicemente Walter Sullivan
non sapeva
affatto quali fossero i loro volti.
Quelle
dunque non
rimanevano nient’altro che due teste nascoste dalla carne e
che lui non
conosceva.
Ma
non erano le uniche,
in verità.
Ve
ne era un’altra, posta
inquietantemente sul fondo di quella creatura.
L’unica
testa visibile di quel corpo
devastato era ribaltata al contrario
sotto il mostro, fra le due braccia con le quali camminava.
Stringendo
gli occhi, fu
difficile per Henry accettare dentro se stesso che quelle due teste
fossero mamma e papà,
come aveva detto Walter prima di sparare.
La
mamma e il papà senza
volto che avrebbero generato un
demonio nato dall’odio, il
mostro
capovolto sotto di loro.
Le
braccia appartenevano
infatti al mostro capovolto che
rappresentava l’assassino, il quale, tramite il mondo alternativo, agiva e perseguitava,
puntava, rincorreva
ossessivamente le
sue vittime condannandole
ad un’indicibile violenza.
Questo
non scrollandosi
mai di dosso la cruda verità capovolta
dall’altra parte: egli non
aveva che
portato con sé due teste senza volto. Corpi che non erano
altro che la carne
che l’aveva fatto nascere sia come bambino che come mostro.
Non
a caso, quello era il
mostro generato dall’incubo, più violento e
resistente di tutti.
Non
sapeva dirlo con
certezza, non ne aveva idea. Non sapeva nemmeno perché
cercasse di spiegarsi
tante cose. Non perché rifiutasse quelle consapevolezze, ma
perché non poteva
semplicemente credere che stesse affrontando un delirio paradossale
senza poter
far nulla per se stesso né per nessuno.
Un
trauma che non poteva
essere in nessun modo calmato.
Un
male che lo aveva
accompagnato in tutta la sua vita, muovendo quello che era stato Walter
Sullivan, nei suoi desideri, nelle sue gesta, nei suoi
tormenti….
Quel
“mostro” faceva
ancora male ed era stato capace di far prendere in mano
un’arma persino alla
versione infantile di Walter.
L’inizio
della sua
atroce e spietata crudeltà.
Henry
rifletté che la violenza
era un segno caratteristico tipico
della manifestazione del Sullivan adulto. Si chiese quindi come mai una
simile
inversione di ruoli.
Ripensandoci,
al suo
contrario, l’uomo biondo, anche se sporco di sangue e dallo
sguardo gelido,
invece non lo aveva colpito quando lo aveva incontrato in precedenza
sulle
scale…
Oppure…quello
incontrato
prima non era il piccolo Walter?
Henry,
in effetti,
trovava ancora dannatamente difficile ricordare in continuazione che
quei due
fossero la stessa persona.
Ad
ogni modo, decise di
proseguire e raggiungere il pian terreno. Doveva recuperare le chiavi
dell’appartamento
di Eileen.
***
-SECONDA
PARTE: Ricordi
dal passato
[Appartamenti
di South
Ashfield Heights, piano terra]
Henry
era riuscito a
raggiungere il pian terreno dei suoi appartamenti. Anch’esso
sostanzialmente
aveva le sembianze del palazzo di South Ashfield Heights, tuttavia
quell’odore
organico e tutta quella ruggine, rendevano il posto quasi
irriconoscibile.
Il
moro alzò gli occhi al
soffitto e distinse tutti i vari piani dell’edificio.
Una
serie di gabbie
circondavano la zona e un mostro, dall’apparenza umana, era
appeso al soffitto
dondolante.
Il
mostro indossava una
maschera a forma di becco all’altezza del volto e delle
grandi forbici erano
conficcate sul cranio. Si dimenava, come se soffrisse, come se non
potesse
sottrarsi a quel dolore.
Henry
distolse lo
sguardo, incapace di assistere a quella tortura.
I
suoi occhi andarono a
posarsi, invece, sull’uomo alto e biondo seduto sulla
scalinata.
Alle
sue spalle vi era
una grata che impediva di raggiungere i piani superiori,
così se ne stava lì
con il capo chino, assorto nei suoi pensieri.
Henry
si avvicinò
cautamente a lui, scrutandolo con fare diffidente. Doveva parlargli,
doveva
capire cosa stesse succedendo. Walter doveva pur sapere qualcosa.
Doveva pur
avere qualcosa da dirgli.
Mentre
avanzava in sua
direzione, sgranò gli occhi quando vide che fra le mani
stringeva qualcosa.
Attizzando l’occhio, notò che si trattava di un
piccolo oggetto di stoffa.
“Perché
sei qui?” gli
chiese Henry.
L’uomo
col cappotto non
gli rispose, continuava ad essere assorto nei suoi pensieri, come fosse
in uno
stato catatonico.
Henry
allora sospirò,
rendendosi conto che, per la prima volta, doveva provare ad avere un
atteggiamento diverso nei suoi confronti.
“Che
cosa sta accadendo?
Cosa c’entriamo ancora io ed Eileen in
quest’incubo…? Perché
tu…”
S’interruppe
quando i
suoi occhi andarono a riconoscere l’oggetto che Walter stava
stringendo fra le
mani. Con voce tremante, indicò a Walter la bambola di pezza.
“D-dove
l’hai presa,
quella?”
Era
impossibile, assurdo!
Come poteva possederla lui? Henry…lui stesso
l’aveva restituita ad Eileen,
quando l’incubo era finito. Perché dunque Walter
ne era in possesso?!
“Eileen
è qui, vero? Che
ne vuoi fare di lei, ancora!?”
Era
un vero mostro,
quell’uomo! Subito Henry capì che non aveva alcun
senso ragionare con lui.
Sapeva già come sarebbe andata a finire. O
l’avrebbe ucciso lui o sarebbe morto
lui stesso per mano di Walter.
Il
resto avrebbe solo
allungato la sua permanenza in quell’incubo.
Invece
Henry voleva andar
via, fuggire. Ricominciare da zero con Eileen.
“Parla!”
La
sua espressione di
rabbia non scalfì minimamente Walter. Al contrario, lui
posizionò la bambola in
tasca e si alzò.
Henry
rimase all’erta
pronto ad uno scontro, ma Walter lo superò non degnandolo
nemmeno di uno
sguardo. Quando vide quell’indifferenza, Henry rimase
sconcertato. Si chiese, a
quel punto, se quello fosse per davvero Walter Sullivan o non fosse
anch’egli un
ricordo che stesse riaffiorando.
Girò
il collo verso il
biondo e lo vide avvicinarsi alle doppie porte dell’ingresso
della palazzina di
South Ashfield. Egli spalancò le porte illuminando di colpo
quel mondo
parallelo.
Henry
portò le braccia
all’altezza degli occhi, accecato da quella luce improvvisa
che gli impedì di
concentrarsi o comprendere cosa stesse accadendo.
Strizzò
appena un occhio
e cercò di osservare Sullivan, che invece guardava dritto
dinanzi a sé
verso…l’esterno della palazzina?!
“Cosa?”
Il
moro era scioccato
mentre vedeva sorgere davanti ai suoi occhi i dintorni che circondavano
il
palazzo di South Ashfield Heights.
Quella
visione era reale?
Ma non si trovavano nel mondo parallelo? Come poteva essere?
Tuttavia
ben presto il
paesaggio mutò e si ritrovò davanti il passaggio
per la stazione, impossibile
da vedere così vicino dagli appartamenti. Questo gli fece
perdere la speranza
che quello fosse il mondo reale. Era soltanto una proiezione.
Henry
intravide il cielo
mattutino insolitamente limpido e la gente passare e camminare nella
cittadina
tra un impegno e l’altro.
Una
normale atmosfera di
città, caotica, insomma. Tipica dei giorni lavorativi.
Si
avvicinò lentamente,
finché non sentì Walter bisbigliare.
“Tra
poco arriverà lei
con sua madre…”
“Chi
arriverà?”
Walter
non rispose, così
anch’egli rimase ad osservare. Henry cercò di
capire verso quale direzione
andassero a focalizzarsi gli occhi verdi di Walter Sullivan. Fu solo
così che
si rese conto di un ragazzo disteso a terra nel suo sacco a pelo nei
pressi del
passaggio della stazione di South Ashfield.
Prima
non aveva avuto
modo di scorgerlo. Era come buttato lì e dimenticato dal
resto del mondo.
Walter
indicò allungando
il braccio.
“Eccola.”
Nelle
vicinanze del
ragazzo giunse una bambina di circa cinque anni. Camminava stringendo
la mano
di sua madre. La bambina indossava dei vestiti bellissimi, colorati.
Aveva
degli occhi stupendi. Un color acquamarina che esaltava il suo visino
vispo.
Mentre
passò di striscio
vicino all’uomo, ella lo fissò con
l’ingenuità e l’innocenza tipica di un
bambino. La madre, tuttavia, subito la richiamò.
"…Eileen, non guardarlo in quel modo..."
"Perchè no, mamma?"
Henry
allora sbottò,
guardando incredulo quella ragazzina.
“Eileen..??”
Si
lanciò immediatamente
verso il portone, ma andò a sbattere contro qualcosa che gli
impediva di uscire
fuori dall’appartamento.
Il
suo volto si fece
perplesso. Non c’era nulla che l’ostacolasse,
eppure toccando dinanzi a sé
sentiva pressione, come se ci fosse un vetro a separare lui da quella
scena.
Si
sentì terribilmente
turbato di non poter raggiungere Eileen, ma continuò ad
osservare il
susseguirsi di quella vicenda stando ben attento a ciò che
succedesse.
Vide Eileen lasciare la presa della mano di sua madre, per avvicinarsi
di più a
quel giovane.
"Perché dormi qui? Non hai freddo?" gli chiese
inginocchiandosi di
fronte a lui.
A quel punto, il ragazzo si alzò appena con il busto. Non si
era nemmeno
accorto, prima, di quella bambina e si sentì confuso nel
sentirla parlare con
lui in quel modo confidenziale.
Non
l'aveva mai vista
prima. Era davvero molto bella. Con il viso pulito e ordinato. Con un
cappottino colorato e uno sguardo spensierato. Tutto il contrario di
lui,
insomma.
Walter
era un adolescente
all’epoca, ma l’aria trascurata rendeva difficile
alla gente dargli un’età ben
precisa. Più che altro, veniva completamente ignorato, o
guardato con
disprezzo. Nessuno si era importato poi molto che ci fosse o meno. Che
esistesse oppure no.
"Eileen, non parlare con lui!" disse sua madre che intanto corse,
spaventata,
verso di lei.
Ma
Eileen si risentì
delle parole della madre, anzi, le rispose non comprendendo il
perché di quella
titubanza. Walter intanto era immobile, quasi impietrito e la osservava.
"Mamma, fa freddo qui...Non vedi che...."
Nonostante le sue parole, la madre continuò a richiamarla.
Così Eileen si alzò
e velocemente prese una bambola dalla sua borsetta, appoggiandola
accanto al
ragazzo biondo.
"Puoi dormire con lei."
"Eileen, andiamo a casa. Oggi è il compleanno di
papà. Lo sai. Papà ti sta
aspettando." parlò la mamma tirandola via.
"Okay, mammina....ciao, ciao!" disse Eileen, salutando quel ragazzo.
Insieme poi, lei e sua madre, andarono via.
Il ragazzo continuò a guardare la bambina finché
ella non sparì lontano dalla
sua visuale, stringendo tra le mani la bambola che gli aveva lasciato.
Sembrava così felice…e lei…
All’improvviso
una
lacrima scivolò veloce sul viso del giovane.
Quel
piccolo gesto
d’amore scatenò in lui un pianto. Un pianto
diverso. Un pianto di gioia. Una
commozione intima. Un sentimento che mai aveva provato prima.
L’amore…l’affetto…lui
non conosceva quelle cose.
Così
le lacrime
scendevano, e non riusciva a fermarle.
Henry,
con la coda
dell’occhio, vide Walter stringere gli occhi nel riportare
alla mente quella
scena. Poi ritornò ad Eileen.
"Mamma, credi che a papà piacerà?" chiese la
piccola dai capelli
castani.
"Ma certo, cara. L'adorerà perché l'hai scelto
tu." le rispose sua
madre.
La
scena allora venne
interrotta bruscamente da Walter che chiuse le doppie porte
dell’ingresso della
palazzina. Henry lo guardò colto alla sprovvista.
“Cosa
fai?”
Henry
aveva appena visto
Eileen da bambina. Ancora non era capace di formulare dei pensieri
razionali e
l’atteggiamento di Walter lo mandò in panne
ulteriormente.
Quella
scena…
Aveva
assistito al primo
incontro di Walter con Eileen, la Madre?
Walter
comunque non lo
curò, anzi, si diresse verso l’ala ovest del pian
terreno.
All’improvviso
guardò
malinconico Henry.
“Era
così felice
allora…mentre stringeva e sé sua
madre…non trovi?” disse prima di sparire oltre
la porta.
Henry
si lanciò subito al
suo inseguimento, ma non si sorprese affatto di vedere che fosse
già svanito di
nuovo, si ritrovò così solo nel corridoio ovest
del pian terreno. Scorse subito,
infatti, l’appartamento del custode, il #105, dove era
intenzionato a entrare
per prendere le chiavi per il #303.
Attaccati
sulla porta, vi
erano una serie di foglietti fermati con dei punteruoli. Erano sei in
tutto.
Henry
li raccolse e
riconobbe quelle scritte. Erano state pronunciate a suo tempo da un
fagotto
appeso sul soffitto, e riguardavano tutti dei ricordi di Walter
Sullivan sul
padre.
Oh!
Chiudi il becco. Non puoi dare tutta la colpa a
me!
Te
l'avevo detto che non dovevamo
fare un figlio, o no?!
Sbrigati---fa
le valigie!
Se
il custode lo sente, siamo nei
guai. Qualcosa in quel tizio...non mi fido di lui...
Ad
ogni modo andiamocene di qui...non ce
la faccio più...
Stupido
piccolo piagnucolone...
Nel
girare il pomello,
costatò che la porta era bloccata. La scosse violentemente
cercando di
forzarla, ma…nulla!
“E
ora che cosa diavolo
faccio..?!” disse, quando poi sentì qualcosa
cadere dall’altro lato della
porta.
Era
rumore metallico. Un
qualcosa di piccolo era caduto sul pavimento nel momento nel quale
aveva
cercato di aprire la porta.
Si
inginocchiò a terra e
sbirciò da sotto la porta. Qualcosa effettivamente
c’era. Scorse infatti un
piccolo oggetto. Subito allora estrasse il suo album dei ritagli e
prese una
pagina a caso sufficientemente grande e resistente che gli permettesse
di
raggiungere la cosa che era caduta.
Riuscì
a far scivolare il
foglio sotto la porta e prendere l’oggetto, così
lo trascinò a sé.
Era
una chiave. Una
piccola targhetta consumata era attaccata lì vicino.
Henry
la prese fra le
mani e lesse.
-Per
il ventunesimo
segno-
Henry
strinse gli occhi.
“Walter…”
disse ironico.
Era
sicuro che l’avesse
lasciata lui lì, il problema era che non sapeva proprio di
cosa farsene di
quella chiave.
La
guardò, cercando di
far mente locale. Magari andava usata nel suo appartamento?
Mentre
fece per
rimettersi in piedi, si accorse che con il foglio non aveva tirato a
sé solo
quella chiave, ma intravide da sotto la porta anche un piccolo angolino
bianco.
Si
rese conto che si
trattava di una fotografia fatta da macchina fotografica istantanea.
L’osservò
e corrucciò le sopracciglia quando vide che raffigurava una
stanza di South
Ashfield Heights piena zeppa di quadri.
Mise
la foto nell’album e
la chiave in tasca.
“La
stanza del pittore?
La #202?”
Si
chiese cosa avrebbe
mai trovato lì dentro. Tuttavia questo di certo non gli
impedì di andare a dare
un’occhiata.
***
-TERZA
PARTE: La
ricomposizione della bambola
[L’appartamento
202,
nell’ala ovest del secondo piano]
Il
design di ogni singolo
appartamento della palazzina di South Ashfield Heights era tutto
sommato sempre
lo stesso. Un corridoio a “L” che conduceva in
cucina, salotto e poi nelle
camere da letto, poste infondo.
Henry
utilizzò la chiave
trovata nell’appartamento del custode per aprire la serratura
della porta del
#202.
Quando
entrò, si ritrovò
subito in un corridoio pieno di quadri dalle più svariate
dimensioni.
Vi
erano quadretti
semplici, già appesi sulle pareti, e quadri più
grandi poggiati a terra lungo i
muri. Henry li osservò e gli unici riconoscibili ai suoi
occhi raffiguravano i
vari inquilini della palazzina.
Richard
Braintree,
l’infermiera Rachel, la donna amante dei gatti…
A
pensarci bene,
mancavano solo lui ed Eileen Galvin.
Il
quadro enorme, che un
tempo era posto al centro della stanza su un cavalletto da pittore, era
stato
spostato in un angolo ed Henry si lasciò incuriosire.
Spostando
il quadro,
indietreggiò sorpreso di vedere che servisse a nascondere un
oggetto ben preciso.
“Ma
che roba è?”
Si avvicinò e scrutò una grossa bambola dalle
fattezze umane, seduta su una
parte della parete che era stata bucata.
Più
guardava quel foro
tuttavia, più gli faceva impressione.
Sembrava quasi il varco che lui percorreva per arrivare nella
realtà parallela.
Era rotondo e aveva una striscia rossa attorno a sé, con
incisi dei simboli
sfocati e indecifrabili.
La
bambola era grigia e
sembrava rappresentasse un soggetto ben preciso in scala reale. Peccato
mancassero alcuni pezzi.
Osservandola
bene, Henry
notò che mancavano esattamente il petto,
un braccio e
la testa.
Si
chiese se avesse mai
dovuto completarla, in qualche modo. Il problema era che non sapeva
proprio
come.
Si
avvicinò per esaminare
meglio e fu così che calpestò un oggetto situato
proprio ai piedi della bambola
e che prima non aveva visto.
Era
una chiave.
Era
colorata e sembrava
piuttosto un giocattolo.
Henry
fece spallucce e
portò con sé la chiave, facendo per andare via.
Fu in quel momento che, nel
corridoio dove erano situate le stanze da notte, vide altri quadri. Tre
in
particolare attirarono la sua attenzione.
Erano
enormi, alti quasi
quanto Henry. Egli si chiese come mai proprio tre quadri.
Si
avvicinò a uno di
questi che, ironia della sorte, rappresentava la
Wish
House.
Vi
era una placca sopra.
“Il
primo segno,
E Dio disse,
Quando sarà il momento, purifica il mondo con la mia ira.
Raccogli l'olio bianco, la coppa nera e il sangue dei dieci peccatori.
Preparati per il rito della Sacra Assunzione.”
“I
dieci cuori? I ventuno
sacramenti?”
Si
chiese come mai sul
quadro vi fosse incisa proprio la prima parte del rituale.
Subito
si volto verso gli
altri due quadri, per controllare se anche questi avessero qualche cosa
di
strano.
Il
secondo quadro era
posto di fronte al primo. Raffigurava…un
momento…una prigione?
Era
una cella disegnata
con linee essenziali. Un acquerello semplice ma ben fatto. Sembrava
trafiggere
l’anima di chi lo osservava destando in lui desolazione e
turbamento.
Anche
qui vi era un’altra
incisione:
“Il
secondo segno,
E Dio disse,
offri il sangue dei 10 peccatori e l'olio bianco, sii poi liberato dai
vincoli
della carne, per ottenere il potere dei cieli.”
“Il
potere dei cieli…la
sacra Assunzione?”
Sul
terzo quadro, invece,
vi era inciso il messaggio del terzo e anche dell’ultimo
segno dell’ascesa
della Santa Madre.
“Il
terzo segno,
E Dio disse,
torna alla fonte attraverso la tentazione del peccato. Sotto l'occhio
vigile
del demonio, vaga solitario nel caos senza forma. Solo allora le
conciliazioni
saranno in allineamento.
L'ultimo segno,
E Dio disse,
separa dalla carne anche colei che è la
Madre Rinata e
colui che riceve Saggezza. Se
questo sarà fatto, attraverso il mistero dei 21 sacramenti,
la madre rinascerà
e la nazione del peccato sarà ridente.”
Alzando
gli occhi, vide
che il quadro raffigurava Eileen Galvin.
L’immagine
era quasi del
tutto nera. Vi erano forti giochi di chiaro-scuro e solo la schiena
nuda di
Eileen era ben definita.
Come
quando viaggiò con
lui nella realtà parallela, ella aveva il corpo tinteggiato
di macchie rosse.
Sulla schiena vi era un’incisione, 20/21.
Henry
toccò quel quadro
provando una profonda malinconia.
“Eileen…”
Nell’avvicinarsi,
udii
dall’altra parte del quadro dei singhiozzi. Erano frequenti e
sembravano
proprio quelli della sua vicina di casa.
“Eileen,
sei qui
dietro?!” urlò, cercando di sfondare il quadro.
Solo
allora si accorse
che quelli non erano affatto quadri… ma porte!
Scrutando
di nuovo tutti
e tre i “quadri/porte”, vide che tutti avevano un
piccolo incastro dove poter
far girare una chiave.
A
quel punto riprese
dalla tasca la chiave giocattolo trovata ai piedi della bambola e la
osservò.
Facendo
mente locale,
Walter era un bambino all’epoca in cui viveva nella Wish
House. E se…
Così
provò a girare la
chiave nella fessura del primo quadro e un meccanismo effettivamente
scattò.
La
porta si aprì.
Deglutì,
ma non pensò
nemmeno per un istante di non entrare. Arrivato a quel punto, sarebbe
stato
stupido indugiare.
Affacciandosi
dentro,
Henry si sorprese di vedere che al suo interno vi era un ambiente
completamente
buio. Avanzando tuttavia, si accorse che quella non era certo la cosa
più
sconcertante.
***
[LUOGO
SCONOSCIUTO I,
aperto con la chiave giocattolo]
Non
appena Henry solcò la
porta, si ritrovò immerso nel buio. Non solo. Il suolo era
fangoso e quasi vi
sprofondava. Una violenta folata di vento e acqua costrinse il ragazzo
a
ripararsi il viso con le braccia. Dove era finito? Sembrava autunno
inoltrato e
faceva un freddo cane.
Completamente
zuppo,
guardò dietro di sé e vide che la porta dalla
quale era entrato era sparita. Vi
era al suo posto solo un fradicio recinto di travi di legno.
Così, non poté far
altro che proseguire in quella terra buia e fangosa.
L’acqua
e il vento gli
impedivano di aprire gli occhi e vedere nitidamente, sicché
cercò velocemente
un riparo.
“C’è
una luce lì..?”
Portò
una mano
all’altezza della fronte e distinse una serie di alberi
infittirsi da lì a una
cinquantina di metri. Fra le loro fronde, in lontananza, vide una tenue
luce
opaca brillare nella notte.
Cos’era?
Una casa forse?
Strinse
la camicia
attorno a sé cercando di camminare con il passo
più veloce possibile per
evitare di passare troppo tempo in quella tormenta fredda.
La
pioggia scendeva
violentemente, soffocando quasi il giovane dai capelli castani, mentre
faceva
del suo meglio per non perdere l’orientamento. Un tuono poi
illuminò per
qualche attimo quel cielo nero, facendo così aumentare la
pioggia
ulteriormente.
Si
chiese come mai un
clima simile. Se anche quel posto rappresentava Sullivan, anche quella
pioggia
aveva un suo perché?
In
verità, era già
abbastanza irrazionale oltrepassare da una porta in un appartamento e
ritrovarsi in un’atmosfera autunnale notturna. Figuriamoci
proseguirci senza
sapere nemmeno che fare!
La
luce divenne sempre
più distinta e Henry si accorse che proveniva proprio dalla
finestra di una
casa, come aveva supposto. Tuttavia non era la
Wish
House…
Ansimante,
si affrettò a
raggiungere l’abitazione. Si strinse all’altezza
dell’addome non potendone più
di quel freddo e provò ad affacciarsi cercando di
intravedere chi vi abitasse.
Fortuna
che Henry fosse
un ragazzo di un metro e ottantacinque, altrimenti non avrebbe mai
potuto
raggiungere quella finestrella.
Sbirciò
all’interno e non
riuscì a vedere un accidenti. Gli pareva di intravedere un
uomo alto, ma era
coperto da un copricapo rosso o qualcosa del genere. Per quanto si
sforzasse,
non riusciva proprio a distinguerlo meglio. Dei brusii, simili a delle
preghiere, provenivano dall’interno e solo dopo essere stato
ad ascoltare in
silenzio, comprese che stavano leggendo qualcosa.
Non
voleva fare ipotesi
azzardate, ma sembrava quasi la celebrazione di una messa. Che quella
fosse una
chiesa?
Henry
scrutò meglio
quella casa, ma non aveva nulla che ricordasse un luogo sacro. E
perché poi in
mezzo ad un bosco?
Il
brusio terminò ed
Henry girò di colpo il capo quando vide la porta rugginosa
aprirsi.
“!!”
Rimase
immobile nella sua
posizione, mentre vedeva due uomini alti uscire. Indossavano entrambi
una lunga
tonaca scura e uno di loro aveva un pezzo di stoffa rossa poggiato sul
braccio.
Probabilmente era l’uomo che Henry aveva visto dalla finestra.
L’altro
invece aveva un
paio di libri in mano. Dei libri antichi, consumati, e parlava al suo
collega.
Henry
camminò lentamente
seguendo il perimetro della casa, attento a non farsi vedere, mentre
cercava di
capire cosa stessero dicendo i due.
“Come
vanno le cose con
Walter?”
“E’
ancora presto per
avanzare con la teoria. Altri due o tre giorni nella torre e
sarà pronto, padre
Stone.”
Henry
li osservò
parecchio perplesso, mentre si incamminavano noncuranti per un piccolo
viale,
nel pieno della notte. Uno dei due aveva nominato un tale Walter.
Che si
trattasse dello stesso Walter di
sua conoscenza?
La
porta era stata
lasciata aperta, così sbirciò cautamente prima di
inoltrarvisi.
A
dispetto del luogo
circostante, nella casa vi era un tepore piacevole, dovuto al camino
acceso. Il
pavimento era di legno, così come tutto l’arredo
in generale. Henry si sorprese
di vedere che al suo interno non vi fosse nessuno. Eppure avrebbe
giurato di aver
sentito un brusio emesso da almeno una manciata di persone. Solo allora
si
accorse di un ragazzino seduto di spalle vicino un tavolo di legno.
Henry
lo riconobbe subito
in Walter-bambino, sicché gli si avvicinò.
“Chi
erano quegli uomini?
Uno di loro si chiama padre Stone. È un
sacerdote?” gli chiese.
Walter
a quel punto si
girò. Aveva un viso nervoso, incurante di avere dinanzi a
sé un ragazzo
fradicio e infreddolito. Lo rispose in modo seccato, confermando
semplicemente
le parole di Henry.
“È
padre Stone. Il
maestro del culto di Valtiel.”
Henry
si accorse che il
piccolo Walter non fosse in vena di parlare così, vedendo
che questi gli dava
ancora le spalle, fu lui a portarsi di fronte al ragazzino.
“Fuori
c’è il temporale, come
farai a tornare in orfanotrofio?”
Walter
scosse la testa,
continuando a distogliere lo sguardo da Henry. Lo vide stringere i
denti e
corrucciare il viso.
“Che
importa? Tanto devo
ritornare nella torre stasera, e anche domani.”
Il
moro a quelle parole
si incuriosì.
“Cosa
intendi? La
prigione cilindrica?”
Il
biondino tuttavia non
rispose, come fosse infastidito da quella domanda, ma Henry non aveva
tempo da
perdere. Doveva sapere.
“Dimmi
che stavi facendo
qui dentro. Chi erano quei tizi e di quali diavolerie ti stavano
parlando?!”
Henry
forse parlò troppo
duramente, perché vide Walter alzarsi dalla sedia e
rispondergli a tono.
“Io
non ti devo dare
conto di niente! Io devo dare conto soltanto a Dio!”
Il
ragazzo si bloccò di colpo
quando lo vide con quel volto sgomentato ed adirato. Non sapeva cosa
gli fosse
accaduto e non sapeva con quale frammento del passato di Walter stesse
avendo a
che fare. Così subito cercò di abbassare i toni e
di ristabilire una certa
fiducia nei confronti del bambino.
“Senti,
mi dispiace. Ma
ho bisogno di sapere cosa ne sai di un rituale chiamato ventuno
sacramenti.
È importante.”
Walter
si fece dubbioso e
lo guardò diffidente.
“Perché?
Chi sei?”
Henry
si chinò verso di
lui, poggiandosi con le mani sulle ginocchia.
“Perché
l’ascesa della
Santa Madre è una bugia. Un inganno.” mentre
palava, vedeva il biondino
sgranare gli occhi sempre di più, ma non se ne
curò. Doveva dirglielo, doveva
almeno provarci. Non avrebbe evitato ciò che inesorabilmente
era già accaduto,
tuttavia adesso Walter era solo un bambino, ed era lì che
era iniziato tutto.
“Tu devi credermi.”
Il
bambino a quel punto
indietreggiò, con il viso sgomentato, tremante, avvicinadosi
all’uscita. Henry
subito allungò un braccio verso di lui.
“Walter,
non scappare!”
“Z-zitto!”
urlò, con gli
occhi da fuori. “Non chiamarmi così! Io non ce
l’ho un nome! Quello è il nome
che hanno scelto per me padre Rosten e padre Stone.”
Continuò
ad
indietreggiare riprendendo le distanze ed Henry avanzò
assieme a lui.
“L’ascesa
della Santa
Madre è un rituale blasfemo che non ti riporterà
mai dalla tua famiglia.”
“Non
parlare della
mamma…della Santa Madre! Non ti permettere!”
Henry
si bloccò, udendo
quell’affermazione.
“…hai
detto ‘mamma’?”
sussurrò.
A
quel punto Walter
sbandò alle parole di Henry e scappò via verso il
bosco. Il ragazzo provò ad
andargli dietro, ma la pioggia, il buio e il vento gli impedirono di
stargli
alle calcagna. Urlò il suo nome più volte, ma
stesso lui, per quanto si
sforzasse, non riusciva ad udire la sua stessa voce. Tutta colpa di
quella
pioggia incessante e di quei terribili tuoni che squarciavano il cielo.
Con
il cuore che prese a
battere forte, si riavvicinò alla casa, non sapendo che fare.
Anche
se non l’avrebbe
mai ammesso, era in ansia per quel ragazzino. Pur sapendo che quella
fosse una
mera manifestazione di Sullivan, non poteva non essere rimasto turbato
dalle
sue parole.
Gli
aveva detto di non avere
un nome…e in effetti era vero. Egli era stato abbandonato
quando era nato,
nessuno prima del culto, aveva dato a lui
un’identità.
E
poi…aveva chiamato la
Santa Madre ‘mamma’,
questo fece crescere in lui un
terribile sospetto. Che dopotutto, lui, con i ventuno sacramenti, non
avesse
fatto altro che ricercare sua…
“!!”
Henry
sussultò quando,
mentre si poggiava con la schiena vicino al muro della casa, questa
prese a
sgretolarsi.
“Ma
che diavolo?!”
Immediatamente
si ritrasse
e la casa cadde a pezzi proprio sotto i suoi occhi pieni di sgomento.
Si
alzò una quantità
indicibile di calce e polvere ed Henry fu costretto a coprirsi il viso
e a
rannicchiarsi in un angolo.
Sentì
i pezzi di muro
cadere violenti, come se la casa si stesse demolendo da sola
dall’interno.
Quando
i rumori
cessarono, osservò le macerie incapace di spiegarsi con
razionalità la visione
che aveva appena avuto.
Era
tutto distrutto.
Tutto era caduto a pezzi in maniera inarrestabile. Henry si
avvicinò a quei
resti ancora fumanti della polvere che si era innalzata e
guardò non
capacitandosi che, fino a pochi secondi prima, lui e il bambino Walter
fossero
lì dentro.
Notò
poi che il centro
della casa era rimasto intatto. Quando vi si affacciò, vide
che vi era un
patibolo.
“Cosa
ci fa una cosa
simile qui?” disse, mentre scavalcava le macerie e si
avvicinava a quel
patibolo vecchio.
Era
fatto di pietra e
sulla lunga trave di legno vi era appeso un cappio di corda. Tre
scalini erano
posti ai suoi piedi ed Henry li salì, cercando di esaminare
tutto con cura.
Piegandosi
da un lato,
vide che vi erano tre forme quadrate nelle quali sembrava si ci dovesse
incastrare qualcosa. In ognuna di queste tre forme c’era
un’incisione che Henry
lesse.
In
quella a sinistra vi
era scritto: “Il
giustiziere che gli diede la
morte”
In
quella a destra vi era
scritto: “Il
giustiziere che gli diede
l’inganno”
In
quella al centro vi
era scritto: “Il
criminale che morì per sua Madre”
Henry
aggrottò le
sopracciglia. Erano un indizio? Dove poteva trovare quelle forme
quadrate?
Si
mise a cercare tra le
macerie.
Trovò
innanzitutto
diversi libri sull’occulto di cui uno voluminoso che trattava
proprio dei
ventuno sacramenti. Le pagine tuttavia erano sbiadite e non riusciva a
decifrarle.
Tra
queste, comunque, ve
n’era una molto rigida. Sembrava fatta di pietra. Vi era
impresso un
bassorilievo che ritraeva un uomo e una donna con delle lance in mano.
Fece
leva su questa e la staccò dal libro. A sua sorpresa, se ne
venne velocemente.
Gli
sembrava più o meno
della stessa dimensione della forma quadrava sul patibolo,
così la tenne con
sé.
Continuò
a cercare e
trovò a terra una placca spaccata a metà
raffigurante un uomo impiccato. Infine
l’ultima placca riuscì a recuperarla lontano dalle
macerie, vicino ai ceppi di
legno carbonizzati del camino. Anche questo raffigurava il bassorilievo
di
quello che sembrava un esecutore. Aveva
in mano un libro con il simbolo del culto.
Si
avvicinò al patibolo e
ragionò su come disporre i tre pezzi.
Il
primo quadrante che
aveva trovato raffigurava una coppia. Pensò subito ai
genitori di Sullivan. I
giustizieri che “gli diedero la morte”.
Così la incastrò a sinistra.
L’uomo
col libro del
culto in mano lo mise a destra, dove vi era l’incisione del
“giustiziere che
diede l’inganno.”. Quella piastra doveva
rappresentare per forza il culto che
lo ingannò con i 21 sacramenti.
Infine,
mise al centro
l’ultima piastra, ove era raffigurato un uomo impiccato, il
“criminale che morì
per sua Madre”…
…Walter
Sullivan.
In
quell’istante, un urlo
di dolore lo fece sobbalzare, tant’è che Henry
cadde a terra sui tre gradini.
Quando alzò il capo, inorridì vedendo che, sul
patibolo, fosse comparsa
un’ombra.
Effettivamente
non era
un’ombra. Sembrava più il corpo di un uomo
impiccato, ma completamente tinto di
nero. Era strano, assurdo e…
Si
alzò e osservò
quell’inquietante ombra. La sagoma era indefinita ed era
lì, penzoloni, con il
collo appeso su quel cappio.
“Oddio…”
sussurrò,
inorridito.
Sebbene
fosse un
fantoccio tutto nero, vedeva il suo corpo oscillare al vento, sotto la
pioggia,
come fosse vero.
Avvicinandosi,
vide che
aveva le mani congiunte e serravano qualcosa con una stretta ferrea.
Con
un po’ di forza,
riuscì a sfilargli fra le mani l’oggetto e vide
che si trattava di una chiave.
Era
una chiave abbastanza
grande, di ferro e…toccandola, Henry rimase nauseato di
vedere che fosse
incrostata di sangue e di ruggine. Purtroppo, non poteva permettersi il
lusso
di essere schizzinoso, così cercò di leggere,
nonostante il buio, l’incisione che
vi era sopra:
#11121
“Ma
cosa diavolo..?”
11121?
Perché quella
scritta? Un momento, e se quello invece fosse, più che
altro, 11/21?
Per
quanto ricordava,
quello era il marchio trovato sull’uomo che fu arrestato
dieci anni prima e che
fu identificato come Walter Sullivan.
In
quel momento Henry udì
un rumore metallico e, ai suoi piedi, vide che era comparsa una porta,
posta in
orizzontale sotto il patibolo.
Egli
rimase sconcertato.
Si piegò e, girando il pomello, vide che la porta si apriva,
così vi saltò
dentro.
***
[Appartamento
#202, South
Ashfield Heights]
Era
di nuovo nella stanza
del pittore.
Sentì
un ticchettio
dietro di lui, così si girò verso la porta posta
alle sue spalle. Vide che,
incastrato su questa, vi era un pezzo di gomma grigio. Poggiandoci
l’orecchio
quasi sussultò quando vide che il ticchettio proveniva
dall’interno di quel
coso!
Più
lo sentiva, tuttavia,
e più che un ticchettio, gli ricordava il battito di un cuore.
Il
battito di un cuore? I
dieci cuori del primo segno?
Effettivamente
sulla
porta appena solcata c’era proprio l’incisione
riguardante la prima fase del
rituale.
Si
chiese quindi se
quell’oggetto avesse quel simbolismo.
“A pensarci bene…quella bambola non aveva una
parte del petto.”
Prese
dunque l’oggetto e,
a guardarlo meglio, ora era abbastanza lampante che raffigurasse
proprio un
torace.
Si
avvicinò alla bambola
seduta sul foro nel salotto e provò ad incastrare il pezzo.
Combaciava alla
perfezione!
Dalla
tasca estrasse la
chiave che aveva trovato fra le mani dell’impiccato.
“11/21…”
A
quel punto si avvicinò
alla seconda porta, il quadro raffigurante una prigione, e vide se vi
era
possibile incastrare la chiave nella serratura.
La
chiave rugginosa e
sporca di sangue girò e la porta si aprì. Henry
ebbe un po’ di turbamento.
Lesse
un’ultima volta
quell’incisione.
“Il
secondo segno,
E Dio disse,
offri il sangue dei 10 peccatori e l'olio bianco, sii poi liberato dai
vincoli
della carne, per ottenere il potere dei cieli.”
Si
chiese cosa avrebbe
mai visto questa volta, dopodiché scavalcò il
quadro ed entrò.
[LUOGO
SCONOSCIUTO II,
aperto con la chiave incrostata di ruggine e sangue]
Henry
si ritrovò sdraiato
a terra. Quando rinvenne, non riuscì a spiegarsi esattamente
da dove fosse
venuto. Ricordava solo di aver utilizzato la chiave trovata sul
patibolo e poi
di essere entrato nella porta/quadro.
Si
rialzò ed osservò il
luogo circostante.
Questa
volta si trovava
al chiuso, in un lungo corridoio grigio. Era terribilmente umido
lì e il
soffitto gocciolava di acqua fetida. Sentiva le ossa indolenzite come
se
l’umido potesse penetrare anche al loro interno.
Dalla
luce tenue, ma
candida, Henry dedusse che doveva essere mattina molto presto. Vi erano
una
serie di finestroni lungo tutto il corridoio e tutte erano sbarrate,
lasciando
così che la luce proiettasse la loro ombra a terra rigando
il pavimento.
“Dove
sono..?”
Henry
si alzò sulle
ginocchia e poi prese a camminare, scrutando l’ambiente. Vi
erano una serie di
celle sporche e vuote, e il moro comprese di essere esattamente dove si
aspettava.
“Una
prigione…”
Mentre
proseguiva, si
accorse che una delle celle era aperta, così vi
entrò. Non era molto grande ed
era anch’essa vuota. Sul letto scolorito, vide poggiato un
ritaglio di
giornale. Sembrava appartenente alla sezione dei necrologi.
“[…]Ne
danno la triste
notizia i genitori, i signori Locane, residenti a Silent Hill. Billy e
Miriam
sono stati rinvenuti morti durante la stessa giornata. Il primo, morto
sul
colpo, è stato ferito sul capo da un’arma da
taglio, nel giardino di casa.
Miriam Locane, invece, è stata trovata lungo la
strada.[…]parti del suo corpo
non sono mai stai trovati[…]I loro cuori erano stati
asportati[…]”
Henry
non riuscì a
leggere di più. Era un liceale all’epoca, ma
ricordava quando venne data quella
terribile notizia alla tv.
Chi
l’avrebbe mai detto
che, un giorno, quella storia avrebbe riguardato anche lui.
Uscì
dalla cella e
continuò l’esplorazione. Un’altra serie
di celle erano aperte ed in tutte vi
erano alcuni frammenti di giornale. Henry li lesse e ognuno di questi
riguardava una delle vittime di Walter Sullivan.
Riconobbe
anche nomi di
gente che aveva avuto modo di vedere in viso come Sein Martin, Bobby
Randolph,
Eric Walsh, William Gregory, Steve Garland, Rick Albert…
Ritrovò
persino il nome
dei due sacerdoti del culto: Jimmy Stone e George Rosten. Entrambi
uccisi, il
primo nella Wish House, il secondo nella foresta di Silent Hill.
Ripensandoci…erano
tutte
le vittime del primo arco di omicidi compiuto da Sullivan. I dieci
cuori.
Una
volta uscito
dall’ultima cella, trovò un altro giornale sporco
a terra. Lo raccolse.
“La
polizia ha comunicato
oggi che Walter Sullivan, arrestato il 18 di questo mese per il brutale
assassinio di Billy Locane e di sua sorella Miriam, si è
suicidato nella sua
cella nelle prime ore del 22.
Secondo
il comunicato
della polizia, Sullivan si sarebbe conficcato un cucchiaio nel collo
recidendosi la carotide.
Le
guardie hanno trovato
Sullivan morto per emorragia, con il cucchiaio infilato fino a 5
centimetri dal
collo.
Un
vecchio compagno di
scuola di Walter Sullivan del suo paese, Pleasant River, ha detto:
“Non
sembrava tipo
che ammazza dei bambini, ma ricordo che poco prima del suo arresto
farfugliava
dicendo cose come ‘Sta cercando di uccidermi. Il
mostro…il Diavolo Rosso.
Perdonatemi. L’ho fatto, ma non sono stato
io!’.”
Il
compagno di scuola ha
poi aggiunto:
“Ora
che ci penso,
era un po’ pazzo.”.”
Henry
chiuse il giornale
e lo rimise a terra.
“Il
diavolo rosso..?
Jimmy Stone?” subito portò una mano sul capo,
confuso. “J-Jimmy? Ma che diavolo
sto dicendo?”
Perché
aveva detto il
nome di Jimmy Stone? Non sapeva spiegarselo, eppure quando aveva letto
quel
nome gli era venuto spontaneo. Come se sapesse che fosse
così e basta.
Il
Diavolo Rosso…egli…
Era
così che si faceva
chiamare.
Si
sentì turbato di avere
dentro di sé quella consapevolezza. Un qualcosa che in
teoria non doveva di
certo sapere. Scosse la testa ed aprì la porta di servizio
di fronte a lui.
Una
volta entrato, sgranò
gli occhi non aspettandosi minimamente di non trovare una rampa di
scale, o un
corridoio…
Henry
si trovava in un
cimitero.
La
maggior parte delle
tombe erano sbiadite, senza alcun nome o epitaffio. Alcune erano
persino
spaccate. La nebbia gli affaticava non poco la vista e gli ci volle un
po’ per
esaminare l’ambiente.
Henry
si fermò solo
quando una certa tomba attirò la sua attenzione. Sulla
lapide vi era inciso un
nome.
Walter
Sullivan
Sgranò
gli occhi quando
vide che, ai piedi della lapide, ci fosse un largo fossato che
conduceva verso
il basso.
“C-conduce
da qualche
parte?”
Il
ragazzo si affacciò
dal fossato, ma era completamente buio e non riusciva a distinguere un
bel
niente.
Si
rialzò e sentì un
groppo in gola.
Doveva…saltare?
Effettivamente
l’unica
via d’uscita in ogni luogo visitato era sempre stata in basso.
Così
era accaduto anche
nella foresta precedente e ora…nella tomba?
Così,
ansimante e con il
cuore palpitante, si decise a lanciarsi. Aveva una terribile ansia
addosso, ma
non poteva fare altrimenti.
***
“Ah…”
Henry
alzò il capo, dopo
essersi lanciato nel fossato del cimitero. Si trovava ora in una stanza
buia e
fredda. Decisamente piccola.
Aveva
perso per qualche
attimo conoscenza, oppure era passato più tempo? La sua
cognizione del tempo
stava vacillando, in verità da un po’.
Quando
si mise in
ginocchio sul pavimento, vide che affianco a lui vi era una sedia. Non
ne
comprese il senso e così continuò a girare il
capo. Solo allora si accorse che
la stanza era divisa da un lungo sbarrato di ferro che la tagliava
perfettamente a metà.
Henry
corrucciò il viso
quando dall’altro lato, seduto su un letto logoro in tenuta
da prigioniero,
vide un uomo.
Era
alto ed era anche
piuttosto magro, anche se muscoloso e dalle spalle larghe.
Aveva
il volto
trascurato, con un accenno di barba e dei lunghi capelli biondi e
spettinati
che scendevano fin sotto il collo.
“Walter?”
disse, non
appena si accorse che effettivamente era proprio lui.
Egli
aveva il capo chino
e rigirava fra le mani un cucchiaio, mentre era assorto nei suoi
pensieri.
Henry
si alzò e si
avvicinò alle sbarre cercando di capire se
quell’uomo potesse vederlo. Sbandò
quando vide che questi gli si rivolse mostrando i suoi occhi verde
chiaro.
Aveva
un volto scavato e
un sorriso appena abbozzato in viso. Henry si ritrasse e si
allontanò appena.
“C-che
cosa fai qui?” gli
chiese il moro con la voce leggermente tremolante, poi aggiunse.
“Cosa ci
faccio io qui?”
Walter
non rispose e
rimase immobile ad osservarlo, al che Henry prese la sedia e
l’avvicinò alle
sbarre.
Si
ritrovarono così in
silenzio, l’uno di fronte all’altro, separati da
quelle sbarre. Il moro proprio
non riuscì a comprendere cosa dovesse fare, dunque attese
pazientemente che il
biondo si pronunciasse.
“Sei
qui perché sei Colui
che Riceve Saggezza.” gli rispose finalmente Walter, soave.
Henry
non disse nulla, si
limitò solo a guardarlo severamente. Walter riprese parola,
parlando con voce
bassa.
“Ti
ricordi cosa succede
adesso, vero?” gli chiese.
Henry
chinò appena il capo,
cercando di comprendere cosa egli intendesse.
“…la
sacra Assunzione?”
Walter
annuì con la
testa, compiaciuto della sua risposta.
“Esatto.
La sacra
Assunzione per la discesa della Santa Madre.”
A
quel punto Henry
schiuse le labbra per cercare di parlargli, ma Sullivan lo interruppe
facendo
un cenno con la mano. Portò l’indice
all’altezza del mento e cominciò a
recitare i ventuno sacramenti chiudendo gli occhi.
“Il
secondo segno,
E Dio disse,
offri il sangue dei 10 peccatori e l'olio bianco,
sii
poi liberato dai
vincoli della carne,
per
ottenere il potere
dei cieli.”
Riaprì
gli occhi e guardò
Henry.
“La
carne è il vincolo
che ci lega a questo mondo malvagio. Se vogliamo che la
Santa Madre ritorni,
dobbiamo innanzitutto
sciogliere i vincoli dalla materia e divenire spirito.”
“Cosa..?”
Walter
gli sorrise
fulmineo. Il suo sguardo era atroce ed inquietante. Inquietante come un
diavolo.
“Osserva
Henry…osserva
l’uomo che diviene Dio!”
A
quel punto,
inaspettatamente, Walter strinse il cucchiaio fra le mani e, con una
violenza e
veemenza inaudita, andò a colpire il suo stesso corpo
ripetutamente all’altezza
del collo, fino a graffiarlo e a ferirsi.
Henry,
in quel frangente
di secondo, non appena vide il sangue di Walter Sullivan cominciare a
fuoriuscire, ebbe una terribile fitta al cervello.
“Argh!”
urlò, provando un
dolore accecante.
Ebbe
un forte senso di
vertigini e nella sua testa cominciò ad avvertire dei
terribili stridii, al che
cadde dalla sedia e rimase a terra dolorante.
Sentiva
intanto Walter
Sullivan urlare e il suo respiro farsi sempre più soffocato,
ma perse di lì a
poco i sensi, assieme all’ assassino morente…
[Appartamento
#202, South
Ashfield Heights]
“Henry,
Henry!”
“C-cosa?”
Henry
si ritrovò in un
ambiente buio. Non vi era nulla, se non una luce opaca proveniente
proprio
sopra di lui. Sebbene fosse sdraiato a terra, aveva come la sensazione
di
galleggiare. Stava forse…sognando?
“Henry!”
La
voce lo richiamò per
l’ennesima volta, ed Henry aprì gli occhi
riconoscendo quel tono femminile e
determinato.
“Eileen?!”
Il
suo volto si andò ad
incrociare con quello di Eileen Galvin, la sua vicina di casa. Era
chinata
affianco a lui e sembrava preoccupata. La osservò
sconcertato. Era proprio lei.
Proprio come se la ricordava. Indossava una canotta rosa a strisce e
una gonna
di jeans corta. Aveva un’aria sobria ed Henry si
specchiò nei suoi lucenti
occhi acquamarina, contornati dalle leggere lentiggini.
“Eileen…”
Provò
una dolce
sensazione in corpo nell’averla lì, accanto a
sé, e quasi si sentì…bene?
Tuttavia
la sua presenza
lo turbò, tant’è che si
rialzò e la guardò inquieto.
“Cosa
ci fai nell’altra
dimensione? Tu non dovresti essere qui!”
Le
si rivolse preoccupato
e fece per afferrarle una mano, ma subito la ragazza dai capelli
castani prese
a correre, sfuggendogli. Si voltò solo una volta,
parlandogli con tono agitato.
“Vieni
Henry! Sta
piangendo, lo sento!”
E
corse via. Henry subito
allungò un braccio nel tentativo di fermarla.
“Dove
vai? Aspetta!”
Ai
suoi occhi poi,
improvvisamente, tutto svanì. Eileen, l’ambiente
nero…
Si
trovava di nuovo nell’appartamento
202. Proprio davanti alla porta con il quadro della prigione.
Portò una mano
sul capo, confuso.
“E…Eileen…era
davvero
lei?”
Aver
visto Eileen aveva riacceso
in lui il fortissimo desiderio di rivederla. Tuttavia
quell’immagine… era stata
una proiezione della sua mente, oppure era davvero stata risucchiata
nel mondo
di Walter Sullivan?
Guardando
a terra, si
accorse che vi era un altro pezzo del pupazzo. Era un braccio.
Henry
lo raccolse e lo
andò a posizionare sul fantoccio.
Si
chiese se, a quel
punto, quel pupazzo non simboleggiasse in qualche modo Walter Sullivan.
Il
corpo era adesso
completo, tuttavia mancava la testa. Questo rendeva impossibile
riconoscere le
sue reali sembianze.
Si
avvicinò alla terza
porta. L’ultima rimasta. Quella che ritraeva proprio lei,
Eileen Galvin.
Strinse
gli occhi,
convinto che l’avrebbe incontrata.
Certo,
probabilmente
avrebbe avuto a che fare con un ricordo di Walter, ma sapere che una
parte di
lei, anche se solo un’ombra, vivesse imprigionata
lì dentro, lo turbò molto.
Avvicinò
l’orecchio e
sentì che, al di là della porta, vi erano ancora
quei sospiri sofferti.
Quando
fece per girare il
pomello della maniglia, vide che la porta era chiusa a chiave. Tuttavia
la
chiave era comparsa inaspettatamente stesso nella serratura. Su di essa
vi era
appeso un portachiavi raffigurante la bambolina che lei stessa, da
bambina,
regalò a Walter Sullivan.
Girò
dunque la chiave ed
entrò.
[LUOGO
SCONOSCIUTO III,
aperto con la chiave con il portachiavi della bambola di Eileen]
Me
l'ha data Miss Galvin
tanto, tanto tempo fa...
Era
più giovane allora.
Sembrava
così felice
stringendo la mano di sua madre...
Tieni,
te la regalo.
(Walter
Sullivan, sulle scale del terzo piano di South Ashfield Heights)
Sigh…Sigh…
Aveva
tanta paura e tanto
freddo. Si chiese se quello fosse un dolore umanamente sopportabile.
Perché
semplicemente non ne poteva più.
Le
luci erano spente, in
quello che in apparenza sembrava un appartamento come gli altri. Le
pareti
erano rivestite di una carta da parati floreale e l’ingresso
era composto da
una cucina sul verde opaco e un salotto con un divano sempre dai motivi
floreali.
Di fronte vi era un tavolo basso in legno e, affianco al televisore,
c’era una
poltroncina abbinata al divano.
E
un fantoccio con una maschera rossa a forma di becco
dondolava sul soffitto.
Delle
lunghe forbici appuntite erano
conficcate nel cranio.
“Mamma!”
Una
donna di circa
vent’anni era seduta sul divano, in lacrime, e un bambino dai
capelli biondo
cenere era seduto accanto a lei, con lo sguardo perso nel vuoto, mentre
lei gli
accarezzava il capo.
Lei
era vestita in
maniera molto sobria. Con una canotta a righe e una corta gonna di
jeans. Ella
piangeva ancora, mentre il suo corpo, lentamente, si rivestiva di uno
strano
bagliore rossastro che pulsava.
I
suoi occhi erano persi
nel vuoto e continuava a piangere e a invocare la madre.
“Sono
qui per te, dove
sei? Non riesco a trovarti!”
Mentre
singhiozzava,
s’intravide nella penombra un uomo seduto di fronte a lei
sulla poltrona. Aveva
i capelli biondi, leggermente in disordine, e se ne stava lì
in silenzio con le
braccia poggiate sulle ginocchia ad osservare quella ragazza.
Ad
osservare la Madre.
Eileen…Galvin. Si, era così che si
chiamava. Aveva udito più volte il suo nome.
E
il fantoccio con una maschera rossa a forma di becco
dondolava ancora, violentemente, sul soffitto.
Sembrava
provare molto dolore.
L’uomo
col cappotto
strinse gli occhi appena, mentre non batteva ciglio nel vederla in
quello stato
di dolore. Eileen continuava ad accarezzare il capo del bambino, che
aveva
ancora quel viso privo di ogni emozione. Al contrario, era Eileen che
dava voce
ai suoi sentimenti, al dolore che il piccolo covava dentro.
“Ah,
ho paura! Fa male!”
urlò lei. Chiaramente interpretando il bambino.
Walter
non si scosse,
come fosse consapevole che ella non potesse interagire con lui. Del
resto,
quello era il suo mondo, vigevano le sue regole lì.
Eileen
cambiò tono e non
fu più infantile e sofferto, ma si fece profondo
e…inquietante. Mosse le labbra
e prese a parlare.
“Tu
menti, silenziosa
davanti a me.
Le
tue lacrime…ora non
significano più nulla per me.
Il
vento soffia dalla
finestra.
Tuttavia,
ora non c’è più
niente che puoi fare.
Quindi
ora riposa, nei
miei ricordi…”
Sospirò,
sempre con voce
profonda.
“…mia
carissima Madre.*”
*The
Room of Angels
Walter
rimase a
osservarla ancora, in silenzio. Osservava la sua vittima numero venti,
quella
che simboleggiava la Madre rinata.
Eileen…per
Walter era
sempre stata così. Fin da quando lei era una bambina, per
lui aveva sempre
simboleggiato questo.
Lei…sembrava
così felice
quel giorno, con sua madre, mentre la mamma la teneva stretta per mano.
Lei…sembrava
così felice
quel giorno, con sua madre, mentre Eileen la teneva stretta per mano.
Eileen
era sempre stata
così negli anni. Aveva sempre avuto quegli occhi ridenti e
rassicuranti che a
lui erano mancati nella vita.
E
l’aveva guardata, quel
giorno, con gli occhi sgranati, incapace di dire o fare qualcosa.
Non
l’aveva dimenticata
per diciotto anni.
Walter
era sempre stato
un pezzo di carne ambulante. Buttato dalla società,
rifiutato dalle stesse
persone che gli avevano dato la vita. Uno scarto. Mera spazzatura.
Nessuno
si era accorto
che vivesse e la vita gli aveva fatto incontrare persone che gli
avevano fatto
credere che fosse esattamente così.
Del
resto…non aveva
ottenuto una lacrima di compassione dai propri genitori. Che speranze
aveva di
trovare affetto in qualcun altro?
Era
nato ed era stato
condannato a morte. A questo punto, non sarebbe stato meglio evitargli
la
sofferenza della vita?
Ne
aveva vissute tante e
questo aveva incentivato la sua ferocia e il suo essere schivo e
disgustato dal
resto degli esseri umani.
Quella
bambina poi…venne
un giorno, all’improvviso.
Da figlia,
ai suoi occhi, si
trasformò in madre.
Lei
scappò via dalla donna
che l’aveva generata per andare da lui. Prese la bambolina
che invece era lei a
possedere e gliela regalò.
Walter
Sullivan dalla
tasca, in quel momento, estrasse la bambolina logora che ancora teneva
con sé
dopo diciotto anni.
“Miss…Galvin…”
disse, poi
le rivolse nuovamente lo sguardo.
“Madre…”
Un
atto di clemenza da
parte di una bambina lo costrinse in lacrime. Un pianto che mai
più avrebbe
rifatto nella sua vita. Quello fu l’unico pianto del
carnefice, prima di
divenire una feroce macchina macchiata di sangue.
Se
solo non fosse già
stato troppo tardi…
Eileen riprese a piangere, come se avvertisse le emozioni che Walter
stava
provando in quel momento. L’uomo col cappotto la
continuò a fissare ancora,
incessante. Lei intanto riprese a parlare.
“Sei
io fossi morto, tu
non avresti mai sofferto per me.
Tu
non mi sentirai mai
dire:
‘Mi
dispiace’
E
se da qualche parte
stessi piangendo?
Dov'è
la luce?
Non
c’è più niente che
puoi fare, adesso…
Addio.*”
*The
Room of Angels
E
il fantoccio con una maschera rossa a forma di becco
dondolava ancora, violentemente, sul soffitto.
Sembrava
provare molto dolore.
Eppure
era soffocato. Non era in grado di
urlare la sua pena.
Solo tramite quell'immagine silenziosa, l'assassino dava voce a quel
dolore mentale.
Walter,
a quel punto,
chinò il capo. Guardò le sue stesse mani tinte
ancora di sangue. Screpolate,
spaccate, devastate. Potevano essere il perfetto specchio della sua
anima.
Un
ragazzo con una camicia
bianca e dei jeans scoloriti si avvicinò, avanzando in
quella penombra in quel
corridoio macchiato ancora del sangue di Eileen. Guardò
Walter che sembrava
essersi accorto di lui. Henry osservò prima Eileen, poi
Walter.
“Quel
che mi fai vedere,
Sullivan, non mi rende colui che riceve saggezza.”
Walter
lo guardò di
striscio, poi rivolse nuovamente i suoi occhi ad Eileen.
“Perché,
Henry? Tu cosa
vedi qui?” disse, inarcando le sopracciglia.
Henry,
invece, lo fissò
gelido. I suoi occhi pallidi risplendevano in quel buio. Stesso Walter
deformò
il suo viso nel vederlo in quel modo.
“Non
dovevi toccare
Eileen.”
Il
moro parlò a voce
bassa, ma questo bastò per far ritornare serio
l’assassino. Come se si fosse
appena accorto che anche lui potesse vedere Lei.
All’improvviso
egli
chiuse gli occhi e svanì dalla poltrona, come se quella, in
realtà, fosse
sempre e stata solo un’ombra.
Nello
stesso tempo svanì
anche il bambino, e anche Eileen si ‘spense’.
La
mano che prima era sul
capo del bambino, cadde sulla gamba; allo stesso tempo chinò
il capo
abbandonandolo di lato come se stesse riposando.
Il
ragazzo le si
avvicinò, inginocchiandosi di fronte a lei e guardandola in
viso.
“Eileen…mi
dispiace.” le
disse.
Le
accarezzò il viso. La
sua pelle era fredda ed Eileen era in uno stato catatonico. Aveva gli
occhi
rivolti verso il vuoto e talvolta sussurrava ancora delle parole che
destavano
il tormento di Walter Sullivan.
“Hen…ry…Town…Shend…”
disse lei, con voce malsana.
Henry
sorrise
malinconicamente, poi si alzò. Le accarezzò di
nuovo il capo e uscì dalla porta
dell’appartamento #303.
***
[Appartamento
#202, South
Ashfield Heights]
Una
volta fuori, Henry si
ritrovò nuovamente nell’appartamento del pittore.
I tre quadri erano svaniti.
Anche quello dal quale era appena uscito.
Si
riavvicinò alla
bambola grigia posta sul buco simile a quello presente nel suo
appartamento e,
alzando gli occhi, si sorprese di vedere che questa ora fosse completa.
Per
farlo aveva dovuto
viaggiare nuovamente nei ricordi di Walter Sullivan. Aveva dovuto
ripercorrere
il rituale dei suoi ventuno sacramenti.
Eppure…
Era
davvero inquietante…
Perché,
sebbene avesse
viaggiato nei ricordi di Walter Sullivan, la testa della bambola era
quella di
Henry Townshend.
Strinse
gli occhi nel
vedere quella bambola che aveva le sue sembianze.
“Una
parte di me…è di
Walter Sullivan?” disse. Toccò il suo collo sul
quale era ancora inciso il
marchio 21/21. “In me c’è la sua
conoscenza? Questo è il destino del ‘segno
finale’?”
Ripensò
a quelle parole,
quelle di Walter Sullivan pronunciate nel mondo del palazzo.
“Appartieni
a questo
mondo…appartieni a me.”
Riportò
alla sua mente
anche il discorso affrontato con la strana voce nel suo appartamento.
“Il
dolore, la
sofferenza, la rabbia…tutto è vivo lì
e sono i costanti compagni dell’anima
peccatrice.
Ma
Henry…anche tu fai
parte del peccato di Walter Sullivan. Tu vivi come lui le pene del suo
inferno.”
A
quel punto Henry alzò
gli occhi e sospirò, leggermente affranto.
“Io…io
sono…” si fermò.
“Mi dispiace…Eileen”
In
quel momento il tempo sembrò fermarsi.
Una
campana cominciò a suonare…i suoi
rintocchi echeggiarono per tutta la palazzina di South Ashfield.
Henry
chiuse gli occhi e nella
sua mente si figurarono i corridoi del suo condominio.
Orride
creature salivano
le scalinate del palazzo, e uno strano sussulto lo percorse lungo tutto
il
corpo.
Nella
sua testa vide
scorrere i vari ambienti visitati, fino a giungere nel suo appartamento.
Vide
la sua casa, la
#302. Passò oltre il corridoio, oltre quella stanza murata
dove Walter aveva
sciolto i vincoli della carne ed era rinato.
La
sua mente prese a
pulsare quando gli si mostrò l’orma nera.
L’orma dove Walter avrebbe terminato
i ventuno sacramenti.
Infine…si
mostrò anche
Lui.
L’uomo
col cappotto
trafisse Henry con lo sguardo, come se potesse vederlo attraverso la
sua mente
stessa.
E
lo stava aspettando.
La
campana continuava a suonare.
Henry
riaprì gli occhi, sistemò la pistola
dietro la schiena, e s’incamminò verso
l’appartamento #302.
Da
Walter Sullivan.
[…]
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Capitolo 8 *** The Receiver of Wisdom ***
ds
CAPITOLO 08
Nessun nome. Nessun
ricordo oggi del nome di ieri; del nome d'oggi, domani.
Se il nome è
la cosa; se un nome è in noi il concetto d'ogni cosa posta
fuori di noi;
e senza nome non si ha
il concetto, e la cosa resta in noi come cieca,
non distinta e non
definita;
ebbene, questo che
portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria,
sulla fronte di quella
immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli
piú.
Non è altro
che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti.
(Pirandello)
[L’APPARTAMENTO 302, nel mondo reale]
La stanza da letto era completamente bianca, illuminata da una luce
tenue, opaca e candida che proveniva da fuori. Sembrava che il tempo
avesse deciso di fermarsi.
Henry era lì a fissare quella luce già da un
po’… quasi intimorito. Era
come se dall’inferno qualcuno avesse aperto una finestra.
L’aveva guardata a lungo, incapace di ricordare quanto tempo
fosse passato dall’ultima volta che aveva visto la sua casa
così.
Alzò la schiena dal materasso e guardò la
scrivania, le sue fotografie, l’armadio, il
comodino…era tutto in ordine.
Scostò appena il colletto della camicia e toccò
sotto il collo, leggermente tremante. Si accorse di non avere alcun segno inciso.
La testa, anche quella non doleva più. E questo gli
faceva paura.
Da quanto tempo non sentiva quel forte silenzio?
O, forse,
semplicemente, da quanto tempo non
viveva
la vita di Henry Townshend?
Abbassò lo sguardo e si accorse che la sua mente era
più leggera. Non pensava per davvero a nulla. Non aveva
alcun turbamento in corpo.
O, forse, semplicemente, non viveva la vita di Walter Sullivan.
Si alzò e la sua figura andò a confondersi con la
luce che usciva dalla finestra.
Poi aprì la porta e si diresse nel corridoio. Era
così bianco e luminoso. Ed era spaventosamente silenzioso.
Alla sua sinistra vide l’ingresso di casa.
Niente più catene.
Niente più spioncino gocciolante di sangue. Sulla
porta, non vi era alcuna scritta facente: “non
uscire!!” firmata da un
tale Walter.
Era tutto come a quel tempo…prima
di entrare negli incubi.
Fece per aprire la porta e uscire dall’appartamento. Essa si
aprì girando appena il pomello, mentre altra luce penetrava
nell’ambiente, accecandolo.
Chiuse poi la porta dietro di sé.
[L’APPARTAMENTO 302, nel mondo parallelo]
E' tutto una grande illusione.
E nessuno può
sapere…
…quando credi
di essere da solo.
Avverti gli occhi su di
te, lì, che guardano dentro.
Appaiono allora delle
ombre davanti ai miei occhi.
Dei suoni…un
eco irreale. È difficile da spiegare.
È qualcosa,
tuttavia, che ho già sentito…
(Cradle of Forest)
Il #302
Le campane continuavano a suonare.
Le pareti rossastre degli appartamenti di South Ashfield non avevano
mai smesso di pulsare e puzzare di organico, mentre le campane
suonavano, ancora…ancora…ancora…
Henry entrò nel suo appartamento, consapevole del suo ultimo
viaggio mentre Walter Sullivan lo richiamava...
La sua figura andò a incrociarsi
con il ragazzo di fronte a lui che stava appena uscendo
dall’appartamento 302 immacolato. Egli era sempre Henry, ma
nessuno dei due poté vedere l’altro.
Un
Henry era entrato e un altro Henry era appena uscito, invece?
Henry aprì la porta, girando appena il pomello, mentre il
buio tetro entrava nell’ambiente, oscurandolo.
Eppure prima c’era
la luce…oppure no?
Era sempre lo stesso
posto?
Quale era la
realtà?
Quale era il vero
Henry?
Egli chiuse poi la porta dietro di sé.
L’appartamento era tutto completamente rosso,
opprimente, devastato.
Un mondo corroso
era rinchiuso fra quelle quattro mura, ma Henry non ne era
più intimorito.
Già da tempo aveva smesso di ricercare un qualsiasi barlume. Era come
essersi abituati all’inferno. Dove non esistevano finestre per
far luce, e lui aveva imparato a muoversi nel buio.
Era abbastanza sicuro di poter affermare di essere incapace di
ricordare quanto tempo
fosse passato dall’ultima volta che aveva visto, nella sua
casa, la luce.
Luce e buio. Entrambi possono
nascondere.
S’inoltrò guardando distrattamente
l’ambiente.
Le catene
erano lì, inchiodate sulla porta. Lo spioncino gocciolava sangue. Sulla porta
vi era incisa una scritta facente: “Non
uscire!!” firmata da un tale Walter.
L’orologio impazziva, le finestre sbattevano, i muri erano
increspati, la poltrona era sporca di sangue e ruggine…
Era tutto come ricordava…era tutto come era sempre stato in
quella realtà
alternativa.
Scostò appena il colletto della camicia e toccò
sotto il collo sfregiato, con decisione. Il segno era inciso proprio
lì. Il segno 21/21.
La testa, tuttavia non
doleva più. E questo oramai non lo turbava. Da
quanto tempo non sentiva quel forte turbamento? Eppure prima quel mal
di testa era così opprimente..
Forse, semplicemente, aveva
cessato di avere mal di testa da quando non viveva più la
vita di Henry Townshend.
Dunque
cos’è reale: buio pesto o luce accecante?
Guardò dinanzi a sé, mentre nella sua mente
echeggiavano delle forti urla
di dolore. Era capace di sentirle nitide dentro di sé. Le
urla della vita di Walter Sullivan.
Provava quelle orribili sensazioni come se gli appartenessero
personalmente, come potesse provare sulla sua stessa pelle quel dolore.
Il suo stesso corpo reagiva di conseguenza scavandosi sempre di
più, delineando delle impronte di sangue scavate, cicatrizzate, profonde, eppure
inspiegabilmente fresche..
S’inoltrò nel buio
del corridoio sparendo nell’oscurità
più completa che andò ad avvolgerlo
sinistramente, mentre faceva per raggiungere la stanza murata in fondo.
Era così buio, grottesco e di un rosso accecante. Ed
era tutto spaventosamente vero
e vivo.
Non sono reali le tenebre.
Questo perchè il buio nasconde. Non è reale la
luce. Questo perchè può render ciechi.
Forse, semplicemente,
non esiste un qualcosa di reale. O magari è tutto il
contrario. Tutto è reale. Anche quell’inferno.
Reale è un
concetto. Reale è l’aggettivo che diamo a
ciò che è davanti ai nostri occhi.
Henry strinse gli occhi non appena entrò nel magazzino
murato.
Puzzava
ancora terribilmente.
Vide gli arnesi adoperati da Walter Sullivan all’epoca: una coppa d’ossidiana,
l’olio bianco,
il tomo cremisi
e il libro delle
memorie perdute del culto.
Era tutti ancora lì, sul quel tavolino sporco, assieme ad
una sega e ad un’ingente quantità di croste di
sangue maleodoranti.
Proprio di fronte al tavolino, vi era una cella frigorifera di mezzo
metro nella quale erano conservate dieci
buste di sangue. A fianco, invece c’era un’enorme
croce capovolta, dove un tempo vi era il corpo dell’uomo 11/21. Ovvero
Walter Sullivan.
Quel corpo ora non esisteva più, perché era
servito per completare i ventuno sacramenti. Era servito ad Henry
stesso per ucciderlo definitivamente.
“Mamma non si sveglia per colpa tua?”
Una voce infantile attirò l’attenzione del
ragazzo.
Henry si girò e vide che alle sue spalle era apparso Walter
Sullivan bambino. Era un po’ rannicchiato su se stesso e non
lo guardava in faccia. Stringeva un libro consumato fra le
mani.
“…è così?” chiese
nuovamente lui.
Henry scosse la testa.
“Lo sai che non è così.”
Il moro si avvicinò a lui. Si chinò poggiando le
mani sulle ginocchia. Vide il piccolo Walter tremare, come inquietato
da quel fetido e sinistro ambiente. Era come se non riuscisse a
rimanere lì dentro. La sua paura e la sua angoscia erano
talmente evidenti che Henry riusciva ad avvertirle anche solo
guardandolo.
Così sussurrò appena al ragazzino.
“Hai paura?”
Il bambino annuì.
“Mamma mi verrà a prendere.”
Detto questo, lo vide poggiare a terra il libro consumato ed andare
via.
Henry questa volta non lo inseguì. Invece prese il libro fra
le mani e cominciò a sfogliarlo.
Presto lo riconobbe nella
favola che trovò sul tavolo di casa del suo
appartamento del passato.
Quello di Joseph Schreiber.
“C'era
una volta un bambino
collegato
alla sua mamma attraverso un magico cordone.
Ma
un giorno il cordone fu reciso, e la madre cadde in un sonno profondo.
Il
bambino rimase tutto solo.
Ma
il bambino fece molti amici nella Wish House e tutti erano molto
gentili con lui.
Il
bambino era felice.
I
suoi amici gli dissero come svegliare la sua mamma.
Così
il bambino andò subito a cercare di svegliarla.
Ma
la mamma non si svegliava. Per quanto lui provasse, lei proprio non si
svegliava.
Questo
perché in realtà quello che lui stava cercando di
destare era il Diavolo.
Il
bambino era stato ingannato.
Povero
bambino.”
(Parte del documento
trovato nell’appartamento 302 del passato)
Chiuse il libro. Quel libro da dove proveniva?
Perchè lo teneva Walter Sullivan?
L’inconscio di Walter lo aveva donato a lui e poi
era fuggito via, come se non
potesse leggerlo.
Il bambino lo aveva stretto
a sé gelosamente, ma non lo aveva mai aperto.
“Il
bambino era stato ingannato.
Povero
bambino.”
Henry chinò il capo, comprendendo bene il perché
di quell’atteggiamento.
“Sei tu l’autore di quella favola…e
un autore conosce sempre il finale
della sua storia.” disse.
Henry lo avvertiva.
Walter sapeva perfettamente, in una parte dentro di
sé, che tuttavia non apriva mai, di essere
stato ingannato.
Walter conosceva la vera origine della sua insofferenza. Sapeva
benissimo perché non faceva altro che piangere.
Egli…piangeva il suo terribile destino.
Il terribile destino di chi non può, in realtà,
far nulla per cambiare le sue sorti.
Perché lui lo sapeva. Sua madre non sarebbe mai tornata. Lui
non avrebbe mai visto quel mondo di pace che il culto descriveva.
Anche attuando il rituale…lui aveva sempre e solo ambito al
grembo materno, per ritrovare l’amore a lui negato nella
vita.
Tuttavia Walter, in una parte dentro di sé, era consapevole
di non poter essere felice.
Henry poggiò a terra il libro. Si guardò attorno.
“Tu sei l’autore di questa storia,
Walter.”
Sentì, in quel momento, l’incubo richiamarlo a gran
voce. Le manifestazioni della casa, simbolo dei tormenti di Walter
Sullivan, si fecero più forti.
“Tu sei l’autore di questi
mostri…”
Osservò la coppa, l’ampolla, i due libri del culto.
“Tu però continui ad ingannarti.”
Il culto non gli avrebbe
mai restituito sua Madre.
…mia
carissima Madre.
Ma del
resto…Egli cosa ne poteva sapere di sua madre?
Cosa ne poteva sapere di suo padre?
Era solo un bambino in fasce a quel tempo.
E un bambino che cosa ne poteva mai sapere di loro?
Chi erano?
Perché avrebbe dovuto essere felice con loro?
Sei io
fossi morto, tu non avresti mai sofferto per me.
Tu
non mi sentirai mai dire:
‘Mi
dispiace’
E
se da qualche parte stessi piangendo?
Dov'è
la luce?
Non
c’è più niente che puoi fare,
adesso…
Walter, sua madre non
l’aveva potuta conoscere. E mai avrebbe avuto la
possibilità di farlo.
…mia
carissima Madre.
Addio.
Sei
sempre stato ciò che ho disprezzato.
Non
mi sono mai sentito abbastanza per te, per piangere.
Oh,
beh...
Il
dolce canto ora ti fa chiudere gli occhi...
Addio.
(Room
of Angels)
Ai piedi della croce, allora, apparve l’orma nera. Quella
che conduceva nel ventre della Madre. Nel posto dove Lui sarebbe rinato.
Henry fissò quell’orma che sembrava chiamarlo,
volerlo….
Allora s’immerse e sparì nello stesso istante in
cui saltò.
[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO
DELL’APPARTAMENTO #302]
Era buio. O forse…più che buio, non
c’era semplicemente niente in quel luogo. Definirlo un luogo era, quindi,
appropriato?
Henry, quando riaprì occhi, vide solamente nero attorno a
sé.
Solo una luce, una lampada, oscillava lentamente proprio sopra la sua
testa.
Egli era seduto su una sedia, con il capo chino e una terribile
fiacchezza in corpo.
Un’ombra si proiettò sul suo corpo.
Un’ombra che attirò la sua attenzione e lo
costrinse ad alzare il viso.
Di fronte a lui vi era l’assassino biondo, appeso in aria con
una catena arrugginita
sulla schiena, avvolto in un panno
sporco, che lo serrava come una camicia di forza
lungo tutto il corpo. Solo la testa era lasciata libera, e guardava
Henry incessantemente.
Sembra un fagotto,
dimenticato e abbandonato.
Henry lo osservò corrucciando appena il viso, mentre la luce
sopra di lui lo accecava non permettendogli di vederlo perfettamente.
Vide dopo un po’ Walter muovere le sue labbra, rivolgendogli
un sorriso malinconico.
“Ora lo sai?” gli chiese con voce bassa.
“Cosa devo sapere?” rispose Henry non comprendendo
quella domanda.
“Ora sai perché non sei più capace di
abbandonare il tuo appartamento?”
Henry abbassò il capo e sorrise.
“Il significato di quei richiami in questo mondo?”
gli chiese. Rise poi velatamente. “Si…lo
so.”
Si azzittirono tutti e due.
Erano l’uno di fronte l’altro. Walter Sullivan e
l’ultimo segno dei ventuno sacramenti.
Henry toccò nuovamente il marchio sotto il suo collo. Il
marchio 21/21.
Si sentì strano…
Sapeva fin dal principio che il giorno in cui l’avrebbe
ammesso a se stesso, sarebbe stato condannato definitivamente dalla
follia. Invece era lì e sorrideva. Quasi gli scappava da
ridere.
Di cosa aveva avuto paura? Perché aveva indugiato tanto?
Henry, dopotutto, sapeva da sempre la risposta.
“Quindi tu lo sai?”
Walter richiamò la sua attenzione. Lo guardava
beffardamente. Eppure sembrava sinceramente curioso. Henry allora
alzò nuovamente il capo e lo guardò. I loro occhi
verdi andarono ad incrociarsi senza timore.
“Accade perché io faccio parte del tuo inferno.
Io…”
Le parole gli si strozzarono in bocca.
Io…
Sono io stesso
un’ombra di questo regno macchiato di sangue.
Sono io stesso un segno.
Un simbolo di questo mondo.
Una parte di me
è morta nel momento nel quale ha messo piede in questo
appartamento.
Una parte di
me…muore qui.
Una parte di
me…vive qui.
Vive qui…
…finché
vive Lui.
Henry guardò Walter.
“Io sono morto..?”
“Non lo so.”
Henry si fece confuso, poi sospirò appena.
“Lo immaginavo.”
Walter a quel puntò rivolse nuovamente gli occhi al ragazzo.
“Avrei anche io una domanda per te, Henry.”
Henry s’incuriosì e lasciò che Walter
parlasse. Sgranò gli occhi quando vide che l’uomo
aveva un’espressione questa volta affranta, turbata.
Sbandò quando, davanti a lui, il corpo di Walter si
eclissò e al suo posto apparve il bambino dai capelli biondi.
“Sai, invece,
dirmi perché io non sono capace di abbandonare questo
appartamento?”
Il bambino prese a piangere e le lacrime caddero sul viso di Henry.
La luce sopra di Henry a quel punto si spense e anche lui non fu
più capace di ricordare cosa accadde poi.
[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO
DELL’APPARTAMENTO #302]
“Mamma…”
Henry sussurrò debolmente, mentre galleggiava sospeso
nell’aria. Aveva la mente vuota, libera da ogni pensiero.
Si sentiva bene.
“Mamma…”
Strinse le gambe tra le braccia. I suoi occhi erano chiusi. Sentiva uno
stato di benessere mai provato in vita sua.
Avrebbe dato qualunque cosa per
rimanere così per sempre…
Lì, le porte del tempo erano spalancate. Henry sentiva
finalmente di…
…di potersi
addormentare felice.
Il suo desiderio, infondo. Era sempre stato solo e soltanto quello.
Desiderava ardentemente tornare
da lei. Nel suo grembo.
Nell’appartamento
#302.
Allora aprì debolmente gli occhi, rendendosi conto di
galleggiare.
L’incanto di colpo svanì e Henry, lentamente,
poggiò i piedi a terra.
Madre…Addio…
Sentì le gambe pesanti mentre queste si abituavano a
riprendere l’equilibrio sul pavimento.
Guardò attorno a sé, accorgendosi di essere in un
luogo strano da descrivere in maniera umanamente concepibile.
Era una stanza circolare, avvolta da una densa nebbia rossa. Sembrava
allontanasse Henry da qualsiasi altra cosa presente nel resto del
mondo. Senza averne la certezza, sentiva come se, finché
fosse rimasto lì, nulla avrebbe potuto fargli del male.
Portò le mani di fronte al viso e le guardò,
leggermente turbato.
“Mamma..?” disse.
Henry allora avvertì un forte desiderio mai provato prima.
Il desiderio intrinseco di Walter Sullivan di tornare al tempo in cui
era felice con sua madre. Il tempo in cui lei lo aveva cresciuto dentro
di sé.
Subito si guardò attorno, frastornato.
Egli…quindi…dove si trovava esattamente?
In quel momento le dieci luci, poste lungo tutto il muro della stanza
circolare, s‘ illuminarono accecandolo. Si accorse che sui
muri vi erano delle orme rosse che prima non aveva notato.
“Cosa…diavolo?” disse, mentre si
avvicinava e notava qualcosa di sconcertante.
Quelle orme avevano un aspetto umano. Sebbene essenziali e senza alcun
connotato specifico, raffiguravano senza alcun dubbio delle persone.
Ai piedi di ogni orma vi era una targa. Henry le prese a leggere.
#01/21 - JIMMY STONE: Il
Re che creò l’inganno a Dio.
#02/21 - BOBBY RANDOLF: L’uomo
che voleva incontrare il Diavolo.
#03/21 - SEIN MARTIN: L’uomo
che volle conoscere dove incontrare la Santa Madre.
#04/21 - STEVE GARLAND: Il
cieco che non riconobbe davanti a sé Dio.
#05/21 - RICK ALBERT: Colui
che osò comandare al suo padrone.
#06/21 - GEORGE ROSTEN: L’uomo
che iniziò Dio alla Santa Madre.
#07/21 - BILLY LOCANE: Colui
il quale fu purificato dal peccato.
#08/21 - MIRIAM LOCANE: Colei
che non va divisa da colui cui Dio l’ha unita.
#09/21 - WILLIAM GREGORY: L’uomo
che poteva vedere Dio ma non poteva sapere chi fosse.
#10/21 - ERIC WALSH: L’uomo
che tentò di fuggire dall'occhio di Dio.
In tutti questi…l’orma rossa era scura meno che
sul torace.
“I dieci cuori…” sussurrò
Henry.
Continuò a leggere, girando attorno alla stanza circolare.
#11/21 - ASSUNZIONE: Dio
che morì e risorse nel cielo.
#12/21 - PETER WALLS: L’uomo
spento da una falsa felicità.
#13/21 - SHARON BLAKE: Colei
che entrò nella tana del Diavolo.
#14/21 - TOBY ARCHBOLT: La
bestia mascherata.
#15/21 - JOSEPH SCHREIBER: L’uomo
soffocato dalla conoscenza.
#16/21 - CYNTHIA VELASQUEZ: Colei che respinse la mano tesa
di Dio.
#17/21 - JASPER GEIN: L’uomo
che alla fine vide il Diavolo.
#18/21 - IL MAIALE GRASSO: Il
maiale punito da Dio.
#19/21 - RICHARD BRAINTREE: L’uomo
che rinnega la Santa Madre e vaga nel caos.
Gli ultimi due avevano una placca, ma senza nome. Le loro ombre erano
meno rosse delle altre e anzi, si percepivano appena.
#20/21
-
: La Madre
della Madre. Alla sinistra di Dio.
#21/21
-
: Colui che
riceve la saggezza di Dio. Alla destra di Dio.
Vi dovevano essere i nomi di Henry ed Eileen in quegli spazi vuoti..?
Guardò intensamente quelle parole.
Era impressionante pensare che in quelle targhe fossero stati destinati
ad esserci il suo nome e quello della sua vicina.
Socchiuse gli occhi e in quel momento il viso prese a bruciare.
Era giunto il momento di finirla.
Mentre era lì avvolto nel silenzio, un lieve sibilo
attirò la sua attenzione.
Si voltò e vide che ai suoi piedi era apparso un enorme
varco scuro. Era gigantesco.
Nel guardarlo, Henry aveva come l’impressione che, una volta
entrato, non sarebbe più tornato indietro.
Ma oramai non gli interessava più, perché lui
stesso voleva andare fino in fondo. Era giunto il momento
di fare i conti con Walter Sullivan.
Egli era lì sotto. Lo sapeva. Lo sentiva.
[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO
DELL’APPARTAMENTO #302]
Il suo appartamento era stato teatro di immensi scenari.
Era strano credere che in verità, Henry non aveva fatto
altro che attraversare varchi o saltare voragini.
Egli aveva viaggiato a lungo in passato, quando Joseph Schreiber
mostrò a lui l’unica possibilità di
salvezza.
Ovvero raggiungere la parte più profonda di Lui.
Ora era nuovamente lì. Con nuove consapevolezze. Di fronte
Walter Sullivan. Nell’ultima tappa del suo viaggio.
Si trovava un ambiente circolare, oramai annerito e corroso. Era come
morto.
Un’enorme vasca colma di sangue era al centro della stanza,
ove era immerso un inquietante meccanismo rotondo.
A quel tempo, quando Henry rischiò di essere ucciso da
Walter, quel marchingegno girava vorticosamente, smuovendo
quell’ingente quantità di liquido organico.
Ora invece era immobile e sembrava spento.
Anche il demone gigante dalla pelle cadente era sparito.
Tutto sembrava inanimato, a differenza di quel tempo. Eppure era
proprio lì dove Walter stava per portare a termine i ventuno
sacramenti.
“Benvenuto, Henry.”
L’ambiente rese molto altisonante quella voce, che
echeggiò vorticosamente in tutta la camera circolare. Henry
si voltò e il suo sguardo si posò sulle scale in
pietra poste in alto. Esse costituivano il passaggio che conduceva
direttamente nel liquido rosso.
Un tempo Eileen stessa aveva rischiato di finirci dentro, morendo sotto
quell’orrido meccanismo adesso spento.
Henry alzò il viso verso quella struttura, fino ad
incrociare finalmente gli occhi di Walter Sullivan.
Egli era in cima alla scalinata in pietra, e lo guardava sorridendo
malignamente.
Lo vide aprire la zip della giacca e fare per estrarre una pistola
automatica, mentre prese a scendere la scalinata.
I due si guardarono incessantemente in silenzio. Henry serioso, Walter
quasi beffardo. In entrambi s’intravedeva l’ira nei
loro occhi.
“Sono felice di vederti…vivo, Henry.”
Walter si pronunciò, ridendo. Guardò il collo di
Henry e lesse quei numeri rossastri lì incisi quasi
deliziato.
Henry aggrottò le sopracciglia e continuò ad
osservarlo severamente. L’uomo biondo rise ancora, quasi
sembrava trattenersi a stento.
“Ti avevo già detto che io non potevo morire.
Tuttavia questo avrebbe dovuto farti comprendere anche qualcosa su di
te. Hai paura, adesso?”
Henry non si lasciò turbare da quegli occhi violenti e
curiosi.
Anzi, lo guardò in silenzio non rispondendolo nemmeno.
Sullivan a quel punto sogghignò di nuovo, poi
saltò dalla scalinata, un lancio non indifferente in
verità, e fu subito di fronte ad Henry.
“Henry Townshend. Il segno finale.”
Walter lo squadrò dalla testa ai piedi, poi
allargò le braccia mostrando l’ambiente.
“Questo stage è creato apposta per te. Grazie al
tuo sacrificio, la Madre rivivrà e sul mondo
scenderà un regno di pace, lontano dal peccato. Il segno
finale doveva essere lo spettatore capace di comprendere le grandezze
di Dio, prendendo coscienza delle sue azioni e del suo
destino.” gli puntò l’indice contro.
“In verità, la sorte della ventunesima vittima
è la mia preferita. Dovresti esserne onorato. Ti ha permesso
di vedere più vicino di tutti gli altri Dio!”
La voce di Walter echeggiò sonoramente, mentre Henry, al
contrario, lo guardava con enorme disapprovo. Guardandosi attorno,
vedeva tutto immobile, corroso, come potesse crollare da un momento
all’altro. I ventuno sacramenti erano stati scongiurati,
possibile che Walter non se ne fosse accorto?
Schiuse dunque le labbra e parlò con voce bassa e ferma.
“Tu parli di Dio, ma sei sicuro che Dio sia vicino a te, in
questo momento?”
Walter corrucciò le sopracciglia guardandolo beffardamente,
mentre Henry intanto continuò il discorso.
“Hai agito secondo il volere del tuo Dio. Tuttavia egli ha
punito anche te, generando questo mondo contorto. Guardati
attorno.” Henry mostrò a lui l’ambiente
malsano che li circondava. “Credi che è questo
ciò che genererebbe un Dio magnanime? Piuttosto sembra
l’inferno. E Walter, tu lo sai…”
Walter solo allora smise di sorridere. I loro occhi si incrociarono
vitrei.
“…tu sei in questo inferno con me.”
concluse freddo Henry.
Il biondo lo guardò immobile per diverso tempo. Era di
fronte a lui e sembrava riuscire a trafiggerlo con un solo sguardo. Lo
vide poi sospirare.
“…inferno, dici? Ti compatisco. Comunque non
arriverai mai a conoscere la Santa Madre, perché presto
sarai morto.”
Il ragazzo dai capelli scuri scosse la testa, non potendo credere alle
sue orecchie.
“Walter, tu sei morto! Io sono…morto. O sono
vivo?” Henry abbassò il capo. “Io non so
più cosa sono.”
Walter s’incuriosì di quelle parole. Un suo
momento di umanità, forse? Sembrava voler comprendere i
sentimenti confusi del ragazzo, che ancora accettava a stento la sua
sorte contorta. Quella di essere anch’egli una traccia di
quel mondo.
Henry intanto riprese parola.
“So solo che io ti ucciderò. Poi sarai tu ad
uccidermi, e dopo perirò di nuovo…e
così andrà avanti ancora e ancora senza alcuna
finalità. Non te ne rendi conto?”
Il biondo sogghignò davanti a quelle parole.
“Lo so.” rispose, al di là di ogni
aspettativa. Stesso Henry se ne sorprese, infatti sgranò gli
occhi confuso. Walter gli si avvicinò guardandolo divertito.
“Ma ho sempre desiderato vedere cosa si provasse
nell’uccidere anche te.”
Corse e colpì violentemente Henry con una robusta mazza di
legno.
Henry fu ferito al fianco e il dolore che provò in
quell’istante fu lancinante. Si resse in piedi quasi a
stento. Non si era nemmeno accorto che egli avesse una mazza in mano.
Del resto, quello era il suo mondo, quello di Sullivan. Egli poteva
giocare il gioco che preferiva lì.
Il moro portò una mano sul fianco lesionato e
guardò Walter, mentre lo vedeva roteare la mazza che
brandiva in mano con nonchalance.
“Il ventunesimo sacramento. Il ricevitore di
Saggezza.” gli puntò l’asta contro,
indicandolo. “Dovevi conoscere, per questo sei
rimasto bloccato nell’appartamento fino a tempo debito. Anche
un idiota ci sarebbe arrivato. Ma non era importante che tu capissi.
Dovevi solo essere pronto quando io sarei venuto a prenderti. E
invece…”
Lo guardò con odio. L’odio verso chi gli aveva
impedito di realizzare i ventuno sacramenti.
Henry sbandò quando lo vide aizzarsi nuovamente contro di
lui, così fece per brandire la sua pistola e mirarlo.
Tuttavia, quando premette il grilletto, una forte fitta lo trafisse nel
cervello.
Era come se, facendo del male a lui, facesse del male anche se stesso.
Inevitabilmente, ora le loro anime erano connesse.
“Ah!!” urlò, piegandosi a terra.
Provò a premere nuovamente il grilletto, ma questo gli
provocò un’altra fitta.
Walter intanto prese a guardarlo con forte disprezzo.
“Dieci anni…” chinò il capo
lasciando che parte dei capelli biondi gli coprissero il viso scavato.
“Sono dieci anni che preparo i quattro segni
dell’ascesa della Santa Madre. E tutto è stato
interrotto…da un insignificante insetto come te?”
Parlò con veemenza e sembrò quasi perdere il
controllo. Più si lasciava andare, tuttavia, più
il dolore di Henry sembrava aumentare.
“Ho preparato il mio corpo a tutto questo! Dio mi ha dato il
potere! Lui mi ama, non mi condanna! Questo è il mio regno,
non la mia prigione! Io sono stato scelto! Io…”
urlò. “Sono morto dieci anni fa per fare tutto
questo!”
Gli occhi verdi di Walter ed Henry si andarono ad incrociare.
Quelli di Walter colmi di rancore, quelli di Henry accecati dal dolore
causato dallo stesso uomo che lo stava guardando.
Improvvisamente tutto si fece buio.
I sentimenti laceranti di Walter Sullivan lo condussero in un luogo non
ben definito, dove fu di nuovo spettatore delle vicende della sua vita.
***
[SOGNO I -
CORRIDOIO DEL TERZO PIANO, ALA OVEST. South Ashfield Heights]
Oggi ho fatto quello strano
sogno.
Quello con l'uomo con i
capelli lunghi ed il cappotto. Stava di nuovo piangendo e cercando sua
madre.
Vidi quell'uomo con il
cappotto 10 anni fa in questo palazzo. Stava salendo le scale e portava
un arnese pesante, una vecchia coppa ed una busta che perdeva sangue.
Poi non l'ho
più visto. Ma qualche giorno più tardi i vicini
si lamentarono di alcuni strani rumori provenienti dall'appartamento
302, che sarebbe dovuto essere vuoto. Diedi un'occhiata
nell'appartamento 302 e trovai tracce che qualcuno c'era stato, ma
niente altro. Fu allora che tutto cominciò. Ancora li sento
quei strani rumori che provengono dalla finestra 302.
Sunderland
(Il
diario di Frank Sunderland. Trovato alla fine della via verso
la parte profonda di Lui. Di fronte la porta #302 del passato)
Henry
aprì gli occhi, sorpreso di non provare più
dolore. Si ritrovò sdraiato su un pavimento bianco, freddo.
Subito si alzò, riconoscendo quel posto.
“Gli
appartamenti di South Ashfield Heights?” si girò
attorno e costatò che era proprio così. Il suo
viso si fece perplesso. “Come è
possibile?”
Si
alzò e si chiese che fine avesse fatto Walter Sullivan.
Ricordava solo quell’incredibile mal di testa che era
aumentato quando Walter aveva cominciato a inveire contro di lui.
Più
aveva parlato con rabbia e più Henry…aveva
provato dolore. Il dolore che Henry aveva avvertito, dunque, era lo
stesso che covava in corpo Walter?
Chinò
il capo verso il pavimento e fu allora che notò una striscia
rossa.
“Nh?”
Guardò
quel color rosso vivo, che sembrava indicargli una direzione da
seguire.
Girò
l’angolo e inorridì quando vide che le macchie di
sangue, assurdamente fresche, andavano ad aumentare proprio nelle
vicinanze del suo appartamento, il #302.
All’improvviso
vide qualcosa di non ben definito muoversi, come fosse una sorta di
ombra.
Henry dovette
strizzare gli occhi più volte per capire bene che accidenti
fosse. Per quanto si sforzasse, s’intravedeva a stento. Si
accorse poi che quell’ombra era proprio Walter Sullivan.
Era quasi
invisibile, di lui si delineavano appena i contorni.
Henry si accorse
che era lui che aveva gocciolato a terra quel putrido liquido rosso.
Egli infatti portava con sé un grande busta, ed era quella a
perdere sangue.
Lo vide aprire
una porta, anch’essa invisibile, meno che i contorni. Questa,
comunque, gli permise di accedere alla stanza #302 senza alcuno sforzo.
L’ombra
a quel punto svanì ed Henry si avvicinò. Fu per
la prima volta che notò di fronte al suo appartamento un
qualcosa cui non aveva fatto mai caso.
“Mani..?”
Si vedevano a
stento, ma erano proprio delle rosse impronte umane.
Contandole, Henry
costatò che fossero diciannove. Anzi, venti, visto che,
sebbene molto opaca, vi era un’altra orma vicino la
diciannovesima.
Quasi venti
impronte di mani sul muro di fronte casa sua.
A Henry ci volle
poco per capire che fossero anch’elle un marchio lasciato dal
rituale di Sullivan.
Sapeva anche,
quindi, che quelle mani in totale avrebbero dovuto essere ventuno.
Fece poi per
aprire la porta, ma un’energia gli impedì di
toccarla.
“Cosa
diavolo?”
Non riusciva ad
afferrare il pomello. Fu allora che l’ansia
cominciò ad assalirlo.
Henry…cos’era
diventato, ora? Era un fantasma anche lui?
Io…
Sono io stesso
un’ombra di questo regno macchiato di sangue.
Sono io stesso un segno.
Un simbolo di questo mondo.
Una parte di me
è morta nel momento nel quale ha messo piede in questo
appartamento.
Una parte di
me…muore qui.
Una parte di
me…vive qui.
Vive qui…
…finché
vive Lui.
Calò
lo sguardo. Erano delle parole sorte nella sua mente come se
già lo sapesse. Come se ne fosse stato sempre cosciente, in
verità.
Questo
significava che lui era morto? Era vivo? Cos’era adesso? Non
poteva semplicemente più…tornare a casa?
Alzò
gli occhi verso l’appartamento maledetto.
A quel punto,
visto che non poteva far altro che seguire Sullivan, fece per aprire la
porta invisibile che egli aveva aperto precedentemente. Tuttavia anche
lui in qualche modo la percepiva.
Essa
s’intravedeva a stento proprio sovrapposta alla porta #302.
Quella era la
porta dell’appartamento alternativo.
Sebbene non la
vedesse bene, fece per afferrare il pomello, che in teoria avrebbe
dovuto essere poco più avanti del pomello della porta del
mondo ‘reale’.
“!”
C’era
effettivamente qualcosa. Henry girò con un movimento del
polso e un rumore meccanico gli fece capire di aver aperto quella
porta. Si addentrò con fare cauto e leggermente incerto.
Dall’
“otherworld”, entrò nella
“realtà” esattamente come faceva Walter
Sullivan all’epoca, quando commetteva i suoi omicidi. Senza
chiavi, senza lasciare alcun indizio, come fosse un fantasma.
Si
ritrovò nell’appartamento infestato.
Sentì
dei rumori provenire in fondo al corridoio. Si affacciò fino
a raggiungere la porta murata, che poté attraversare come se
Henry non fosse più fatto di materia.
Si mise di spalle
alla scaffalatura proprio lì di fronte e scrutò
Walter Sullivan intento a frugare sul tavolo.
Strano pensare
che, quel che stava vedendo, fosse accaduto molto tempo prima del suo
trasferimento a South Ashfield.
Walter aveva uno
sguardo a dir poco malato. Non che non fosse sempre così. Ma
Henry si sentì turbato nel vederlo in quello stato.
Nonostante fosse
oscurato dalle tenebre, poteva vedere perfettamente il viso scavato e
l’espressione sul suo volto eccitata; ossessionata da
ciò che stava compiendo.
“Il
rito, il rito. Presto comincerà, presto..!”
Ripeteva in modo
martellante quelle parole. Tuttavia nei suoi occhi
s’intravedeva dell’esitazione.
Il cadavere era
già posto alle spalle di Walter, ed Henry lo vide
avvicinarsi ad esso per nascondere le chiavi
dell’appartamento nel taschino della giacca.
Sul muro vi era un grosso mostro
dalle sembianze umane, dalla pelle scarlatta, che girava
ininterrottamente una valvola rossa.
A quel punto vide
Walter bloccarsi.
Il suo sorriso
sparì e, credendo di essere completamente da solo, assunse
un’espressione più umana.
Henry si sorprese
di vederlo con un’espressione simile.
Il biondo
guardava, quasi tremante, il suo stesso corpo morto. Lo
toccò sfiorandolo appena, come se volesse egli stesso donare
un gesto gentile a quell’uomo che aveva tanto sofferto nella
vita terrena.
“Mio
caro fu Walter Sullivan.” sospirò. “Ora
le tue pene non esistono più. Per quanto dolorose fossero,
ora puoi finalmente cessare di vivere. Tocca a me ora dannare la mia
eternità e portare ad adempimento anche il terzo ed il
quarto segno.”
Walter aveva
usato per davvero la parola ‘dannare’?
Egli…era conscio del significato dell’otherworld?
Il mostro dalle sembianze umane,
intanto, continuava a girare ininterrottamente la valvola rossa.
Il rumore di quella
valvola rugginosa era terribile da sopportare.
Henry
osservò quel mostro. Si chiese se non fosse lui quel
demone-vassallo Valtiel.
Egli intanto rimaneva attaccato
al muro e continuava a girare, girare, girare…
Walter riprese le
preparazioni del rito. Tuttavia i suoi occhi sembravano ancora
spaventati.
“Sono
morto per te, Madre! Ho ucciso me stesso e ora…accogli
questo tuo figlio. Io creo questo mondo unicamente per te!”
Walter sembrava
scosso. Più si ostinava per l’attuazione del
rituale, più sembrava, paradossalmente, crollare.
“Sarà
tutto perfetto, Santa Madre.”
Egli stesso
sentì qualcosa dentro di sé vacillare. Forse
perché ancora scosso per la sua morte.
Anch’egli
non riusciva a reggere il mondo alternativo?
Henry aveva il
presentimento che Walter si stesse già rendendo conto che
quel mondo non era ciò che si aspettava.
Si era
già accorto che ciò aveva creato era
l’inferno, il quale gli si era ritorco contro, mostrandogli i
demoni del suo passato in maniera cruda, sferzante.
Eppure era
lì, che incessantemente terminava di preparare il rituale
della sacra assunzione.
Mentre rimase ad
osservare la scena provando persino pietà per lui, tutto
divenne sfocato e lentamente, senza neanche accorgersene,
quel ‘sogno’ finì.
***
[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO
DELL’APPARTAMENTO #302]
“C-cosa?!”
Henry si ritrovò immediatamente, dopo quella visione, nel
luogo dove si stava dando battaglia con Walter.
La stanza #302 si era eclissata davanti ai suoi occhi in un attimo,
trascinandolo nuovamente lì.
Walter era di nuovo di fronte a lui e toccava il capo dolorante.
“Argh..!!”
Henry sgranò gli occhi, sorpreso.
Anche lui aveva avuto quella visione?
In quel momento, l’intero edificò mutò.
Tutto si tinse di rosso. Le pareti cominciarono a pulsare. Il
meccanismo posto al centro della stanza circolare prese a muoversi
vorticosamente.
Henry assisté a tutto quello impotente.
Guardò Walter che era ancora dolorante a terra, mentre si
inarcava con la schiena riuscendo a stento a reggere quella sofferenza.
“T-tu…” disse con aria frastornata e gli
occhi colmi di rabbia. In quel momento, sulla sua mano, apparve una
motosega arrugginita. Henry indietreggiò a quella visione.
Walter intanto continuò a parlare, tenendo una mano sulla
fronte e una sull’arma, cercando di ignorare il dolore.
“Quegli ignobili! Quei putridi! Bestie! E non fissarmi in
quel modo, Henry! Io mi sono vendicato! Sono stato stesso io a
punirli!”
Henry corrucciò il viso mentre lo vide inveire contro di
lui.
“Loro e quella schifosa macchina della morte! Ah, padre
Rosten. Padre Stone. Il porco... sono tutti stati giustiziati.
È stato fantastico condannarli con le mie stesse mani. Ovvio
che io sapessi che a loro serviva che io attuassi il rito.”
Walter prese a sogghignare. Il suo viso sudato e i suoi movimenti
instabili fecero comprendere al ragazzo che provava ancora dolore.
Henry provò a parlargli.
“Sei…consapevole di quel che ti è
accaduto nel culto?” gli chiese con fare incerto.
“Alla Wish House avevo già pronta la mia vendetta,
cosa credi? Insulsi! Ingannatori! Che misera fine che hanno fatto poi,
eh? Lo hai visto tu, infondo. E dire che mi hanno fornito stesso loro
le armi che avrei utilizzato per massacrarli!”
Walter, a quel punto, accese la motosega e corse verso Henry. Il
ragazzo riuscì fortunatamente ad allontanarsi prima di
essere decapitato, tuttavia il suo viso fu colpito violentemente.
“Aaah!”
Urlò, sentendosi bruciare gli occhi. Portò le
mani sul volto, mentre il sangue prese a scorrere, incanalandosi tra le
sue dita.
I suoi occhi…lui…
Henry sentiva di non vederci più.
Dalle palpebre grondava molto sangue e per quanto si sforzasse, il
dolore gli impediva di aprire gli occhi. L’aria si fece
più pesante, e la paura di essere lì da solo con
Walter crebbe ancora di più.
Il cuore di Henry prese a battere forte e la sua mente
cominciò ad abbandonarlo, mentre sentiva Walter ridere,
ridere come un folle…
***
[SOGNO II - IL
MONDO DEL PALAZZO. A South Ashfield. Dove Walter rapì il se
stesso bambino]
Sembra
che i mostri siano attratti dalla luce.
Ecco
perché quelli che hanno bisogno di luce per vedere sono la
loro preda naturale.
Se
vuoi continuare a vivere, faresti meglio a startene in silenzio e al
buio. Ma anche cosi probabilmente non ti salveresti.
(Silent hill 2)
Henry non
riusciva ancora ad aprire gli occhi. Non riusciva a vedere nulla.
Non vedeva la
luce.
Non riconosceva
l’ambiente circostante.
In quel
momento…si ritrovò in un baratro di follia, al
culmine della disperazione.
Perché
Walter l’aveva accecato?
Era rimasto
turbato dal fatto che lui ‘vedesse’ ?
Che vedesse la
sua vita, i suoi sentimenti…che vedesse dentro di
lui…?
Cadde in
ginocchio e sentì le lacrime scorrere sul viso.
Tuttavia dovette trattenersi perché il dolore scaturito
della ferita gli impediva persino quel pianto silenzioso e solitario.
Come doveva essere, per
uno come Walter Sullivan, rievocare
i suoi tormenti?
In certi casi,
sarebbe stato meglio esser ciechi.
Tuttavia, per
quanto si possa stare nascosti in un angolo al buio, prima o poi
bisogna sempre riaprire gli occhi e far luce.
Per
questo…Water l’aveva reso cieco.
Perché
egli non voleva vedere la ‘luce’.
La ‘luce’
che avrebbe animato i suoi ‘mostri’.
In questo
senso…ciò che gli occhi di Henry Townshend
avevano rappresentato, era la ‘luce’.
La luce che in
quel momento l’aveva ferito e che aveva voluto spegnere.
Una volta
calmatosi, Henry si accorse di sentire il vento soffiare sulla sua
pelle. Non c’era più quell’aria
tagliente e soffocante. Toccando a terra sentì il ruvido del
cemento consumato, e si rese conto di essere in un altro ambiente,
diverso dalla stanza circolare. Non vedendolo, non poteva esserne
certo, ovvio, ma sembrava essere stato trasportato altrove, esattamente
come era successo precedentemente.
Si
alzò e cercò di camminare, tastando vicino ai
muri in modo da farsi strada.
Allora
sentì dei bisbigli. Costeggiando il muro e stando ben
attento a non fare rumore, cercò di riconoscere chi stesse
parlando. Era un ragazzino.
“Walter..?”
disse, ma udendo un’altra voce, quella di un uomo adulto,
subito si bloccò.
Era la voce di
Walter Sullivan adulto.
Henry rimase in
silenzio ad ascoltare, trattenendo quanto più
poté il respiro.
Sentì
il Walter adulto prendere parola per primo.
“Sai
cosa sono i ventuno sacramenti?”
Walter
incrociò le braccia ed inarcò il sopracciglio,
guardando il bambino biondo con aria sufficiente. Il bambino gli
rispose. Dalla voce, sembrava parecchio arrabbiato.
“Libererò
mamma! Per farlo studierò il rito…non
intralciarmi!”
Walter adulto
scosse la testa. Si poggiò a terra, sedendosi, e
guardò spettrale il suo stesso io infantile.
“Se
speri di trovare tua madre così, sei uno stupido.”
Henry si sorprese
di quelle parole. Intanto il piccolo Walter cominciò
strillare.
“Zitto!
La mamma mi aspetta. Non posso perdere tempo! I ventuno sacramenti mi
porteranno da lei!”
Walter gli rise
in faccia.
“Sei
uno stupido e un piagnucolone. Aspetta ancora un po’ e
capirai che troverai qualcosa di diverso, nel rituale.”
A quel punto
Henry udì i passi del piccolo Walter mentre scappava via. Lo
sentì rivolgersi all’uomo biondo
un’ultima volta.
“Tu fai
paura!” gli disse.
“Io…incontrerò mamma! Lei si
sveglierà.”
A quel punto si
eclissò definitivamente. Walter sogghignò appena,
compatendo quel bambino.
“Tu
cerchi la Santa Madre, piccolo Walter…mi spiace.”
sussurrò.
Eppure nei suoi
occhi, in quel momento, qualcosa si spense. Come se stesso lui
avvertisse un profondo turbamento, che cercava di ignorare oramai
invano.
Il
bambino…stava cercando la mamma.
Walter Sullivan
invece cosa cercava…? Stava cercando la Santa Madre?
Ma
dopotutto…perché?
***
[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO
DELL’APPARTAMENTO #302]
“Argh…!”
Henry toccò la testa, provando un dolore terribile.
Aprì istintivamente gli occhi e si accorse di poter vedere.
Toccò il viso sconcertato e appurò che era
sparito il sangue e non vi era alcun segno dello sfregio subito.
“Cosa..?” disse scioccato.
Di fronte a lui c’era di nuovo Walter Sullivan. Erano
entrambi nuovamente nella stanza circolare.
Anche l’uomo biondo aveva le mani sul capo, sofferente.
Henry lo vide mentre si dimenava non sopportando quel dolore.
Ora che ci pensava, anche lui, quando aveva cercato di sparare a
Walter, aveva provato quella insopportabile fitta lancinante. Era forse
così anche per Sullivan? Erano davvero connessi?
Ogni loro contatto aveva l’effetto di una scarica elettrica,
sconvolgente e straziante per entrambi.
Walter intanto fece per sollevarsi e inveì contro di lui
digrignando i denti.
“Smettila!” urlò. Sembrava disperato.
“Non ne posso più di questi stupidi viaggi
mentali! Smettila!!”
Henry sgranò gli occhi non potendo credere a quelle parole.
Quella frase avrebbe dovuta dirla lui, piuttosto!
“Che cosa diavolo dici?! Sei tu che mi mandi nel mondo
parallelo!”
“Zitto!”
Henry si azzittì per davvero. Si accorse che lo stesso
Walter non era esattamente padrone di quello che stava accadendo.
Così lo ascoltò, rimanendo allerta.
“La foresta, l’ospedale, la
prigione…” guardò Henry con odio.
“Io ti ammazzo sul serio se continui a vedere tutte queste
cose!”
Walter fece per puntargli contro l’arma, ma
un’altra fitta la cervello lo trafisse, e la motosega
sparì dalla sua mano.
In quell’istante, anche le pareti smisero di pulsare, e il
meccanismo circolare cessò di girare.
Tutto tornò com’era in origine… di quel
color grigio spento, morto come prima.
Walter s’inginocchiò a terra, non potendone
più di quel dolore. Henry, a quel punto, si
avvicinò a lui.
“Stai perdendo potere? O a vacillare è la
sicurezza?” gli chiese.
Walter lo guardò in cagnesco.
“Che dici?!” urlò.
Henry gli mostrò l’ambiente che stava diventando
davanti ad entrambi consumato e spento.
Era il simbolo stesso del suo potere che stava calando repentinamente.
E se l’intero mondo parallelo rappresentava Walter, allora
anche nella sua mente, in quell’istante, qualcosa si stava
frantumando.
Il biondo assassino sembrò adirarsi per quelle parole,
comprendendone benissimo il senso.
Tuttavia, sapere che quel ragazzo di fronte a lui stesse prendendo
consapevolezza di quel mondo e della sua mente, lo mandò in
escandescenza.
“Non osare parlare di ciò che non ti
compete!” gli urlò, rimanendo sulla difensiva.
Henry tuttavia non si smosse. Questo fece adirare Walter ancora di
più. “Tu chi sei per esprimere giudizi?! Sei il
ventunesimo segno! Non devi far altro che…morire! Ti
torturerò! Ti flagellerò! Ti renderò
una disgustosa massa indistinguibile! È questo il tuo
destino!”
Henry continuava a fissarlo negli occhi, mentre Walter, al contrario,
calò lo sguardo. Egli andò in uno stato di
completa confusione mentale e prese ad inveire perdendo il controllo
completamente.
“Sei qui perché abiti nella casa di Dio! Non sei
nessuno! Non ti ho scelto per nessun’altro motivo, lo sai?
Che ci sei tu e non un altro, è solo un curioso scherzo del
destino. Tu dovevi solo ‘vedere’. E…poi
dovevi morire! Sei qui perché vivi
nell’appartamento dove io sono nato come uomo!”
Fece una pausa poi, ansimante, con gli occhi gonfi, continuò.
“Sono nato nell’appartamento #302 di South Ashfield
Heights. Sono morto nell’appartamento #302 di South Ashfield
Heights. Ed è qui, nell’appartamento #302 di South
Ashfield Heights dove dovevo rinascere assieme a Dio!”
Henry, a quelle parole, strinse gli occhi.
“Io lo so…” fece una pausa, parlando con
voce bassa. “Lo so che sono qui solo per colpa tua. Sei tu
che hai deciso il mio destino. Non ha una ragione effettiva la mia
presenza qui. Soltanto perché banalmente abito
l’appartamento #302, io sono il ventunesimo
segno…”
Guardò se stesso compatendosi.
Egli era lì, imprigionato per sempre in
quell’incubo, senza un reale motivo, senza un reale
perché che lo riguardasse come Henry Townshend.
Era lì solo come lo sfortunato inquilino di un appartamento,
apparentemente qualsiasi. Tutto questo per un banale, futile, scherzo
del destino… esattamente come aveva detto Sullivan.
Qualcosa in Henry si spense nell’essergli ricordato quella
consapevolezza e Walter sembrò farci caso.
Henry riprese parola.
“Dio sarebbe sorto con i ventuno sacramenti. E
dopo?” si fermò. “Ricordi le tue parole?
Quelle stesse che hai detto nella tua forma infantile?
Perché lo sai, no…? Quello…sei
comunque tu.” Poi lo guardò trafiggendolo.
“Tu lo sai perché hai fatto tutto
questo.”
Walter a quel punto chinò il capo, seccato da quelle parole.
Il moro sospirò, mentre continuava a guardarlo
dall’alto.
“Rinneghi l’evidenza. Eppure lo sai
bene.” sospirò ancora. “Ti ricordi cosa
mi avevi chiesto, prima di riportarmi qui?”
Walter alzò debolmente gli occhi verso di lui.
A quel punto, come se le luci si spegnessero, tutto si
tinteggiò di nero.
***
[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO
DELL’APPARTAMENTO #302]
Era tutto buio.
Non s’intravedeva nulla, meno che una sedia illuminata da una
lampada posta proprio sopra questa.
Sulla sedia era seduto Henry Townshend.
Di fronte non c’era più l’uomo
infagottato appeso sul soffitto incontrato precedentemente.
Ora quell’uomo era di spalle, con addosso il suo lungo
cappotto blu scuro, dietro delle barre di ferro che lo separavano dal
ragazzo dai capelli bruni.
Delle voci presero a echeggiare nel silenzio.
Stupido
piccolo piagnucolone!!
Presto---fa
le valigie!
Questo
è il mio sogno e non sai nemmeno come mi chiamo?
Esatto. E' solo un sogno. Ed un
sogno davvero terribile. Spero di svegliarmi presto.
Finalmente l’ho
incontrato! Quello di cui parlava il ficcanaso…il DIAVOLO!!
16/21…17/21…
Oh mio
Dio…Walter mi vuole uccidere! Walter mi vuole uccidere!
Vai via, prima che
m’incazzi davvero!
Un... un....un bambino?!
Quello... quello... quello non è un bambino. E'...
è... è l'uomo 11121..!!
18/21…19/21…
Me l'ha data Miss Galvin tanto,
tanto tempo fa... Era più giovane allora. Sembrava
così felice stringendo la mano di sua
madre... Tieni, te la regalo.
E' terribile...quel povero
piccolo bambino... I suoi genitori lo abbandonarono subito
dopo la sua nascita... Poverino... Crede davvero che
l'appartamento 302 sia sua madre.
Devo...devo
aiutarlo.
E'
Walter... sta piangendo...
Anche
completando i 21 Sacramenti, non sarà d'aiuto al ragazzino.
Sto tornando indietro, Henry...
nella stanza dov'è lui. Siamo gli unici... gli unici che
possono fermarlo.
20/21…
(bisbigli
vari, incomprensibili. Pronunciati vorticosamente.)
…21/21…
L’eco di quelle parole continuava ad echeggiare continuamente
nell’ambiente oscuro.
Walter mosse le labbra e prese parole.
“Sai, invece,
dirmi perché io non sono capace di abbandonare questo
appartamento?” gli si rivolse penetrante.
“Era questa la domanda che ti avevo posto. La risposta qual
è?”
Il moro strinse le spalle e scosse la testa.
“Mi dispiace, nessuna. Ho cercato di rispondere, prima di
accorgermi che non potevo farlo. Questa era la stessa domanda che avrei
voluto fare a te.”
Walter sospirò. Poggiò la schiena sulle barre di
ferro alle sue spalle e portò il capo
all’indietro. Chiuse gli occhi.
“..hai detto ‘era’? Vuoi dire che questa
domanda non ti assilla più?” chiese.
Henry annuì confermando le sue parole. Sorrise appena,
assumendo un’espressione malinconica.
“Io volevo scoprire perché non potevo abbandonare
l’appartamento 302. Facendo così, tuttavia, ho
scoperto che, nella realtà parallela, avevo io stesso
lasciato una traccia di me…” alzò lo
sguardo verso la figura girata di spalle di Walter.
“…una parte di me è destinata a vivere
qui. E io rappresento quella traccia rimasta legata a questo mondo.
”
“Io…”
“Per questo
non posso abbandonare il #302”
“Una parte di
me vive qui…”
“Una parte di
me more qui…”
“Finché
esiste Lui.”
Walter, nell’udire quell’eco di parole,
inarcò le sopracciglia e rise velatamente.
“Io, infondo, sono sempre stato prigioniero di questo
appartamento.” disse all’improvviso il biondo.
Egli riportò alla mente dei ricordi lontani.
Un’inquietante calma lo circondò, e in quel
momento andava più che bene.
“Lo sai, adesso. Da bambino mi dissero che avrei potuto
risvegliare mia madre. Da allora quell’appartamento
è sempre stato la mia prigione. Un chiodo fisso. Un posto
dal quale non sono mai potuto uscire, pur non essendoci mai
entrato.”
Girò appena il capo, guardando con la coda
dell’occhio Henry. “…che fai Henry,
sorridi? Non mi dirai che ti piace stare in prigione, adesso.”
Walter lo provocò un po’ con quella frase. Henry,
in verità, stava sorridendo sul serio. I suoi occhi erano
calati verso il basso e osservava il suo stesso corpo divenire sempre
più opaco. Quasi trasparente.
“Prigione, uh? Non avevo mai pensato che
quest’incubo potesse essere una prigione per entrambi
…” disse, sarcasticamente.
Egli…
Era da tempo, oramai, prigioniero di quell’appartamento
maledetto.
Era una dura consapevolezza che gli apparteneva da sempre.
E il discorso non valeva solo per Henry… ma anche per Walter
stesso.
***
[???: DA QUALCHE PARTE OLTRE L’ORMA NEL MAGAZZINO MURATO
DELL’APPARTAMENTO #302]
E’ una bella prigione,
il mondo.
(Shakespeare)
Henry e l’assassino Walter Sullivan erano di nuovo
l’uno di fronte l’altra.
Walter, con volto severo, puntò la pistola nera contro il
ragazzo.
Henry fece lo stesso, allungando le braccia, brandendo la pistola in
mano.
Prese la mira e tirò giù la sicura della pistola,
attendendo assieme al suo carnefice il momento fatale.
“Sullivan...”
Henry si pronunciò chiamando l’assassino.
“C’è qualcosa che vuoi dire
prima?” gli chiese il biondo.
In quel momento, tuttavia, accadde qualcosa che fece sorprendere
persino un uomo scaltro e disincantato come Walter Sullivan.
Henry, guardandolo continuamente dritto negli occhi, lasciò
cadere dalla sua mano la pistola che andò a battere
violentemente sul pavimento.
Walter osservò quell’arma corrucciando il viso,
quasi disturbato dall’azione dell’uomo di fronte a
lui. Henry l’aveva lasciata cadere senza alcun indugio. Poi,
aveva calato le braccia e aveva continuato a fissare
l’assassino. Schiuse le labbra e parlò.
“Siamo morti entrambi.”
Allargò le braccia e mostrò a Walter il luogo
circostante. La stanza circolare corrosa e spenta. La loro prigione
personale. Il fulcro dei ventuno sacramenti.
“Vuoi uccidermi? Sono degno o meno di incontrare Dio? Vuoi
invece che sia io a ucciderti? Scegli pure. Ma sappiamo bene che
è inutile.”
Walter tese il braccio sinistro verso di lui e tirò
giù la sicura dell’arma. Sparò Henry di
striscio, ferendolo appena su una gamba.
I suoi occhi erano spenti, vogliosi solamente di distruggere tutto.
Henry tuttavia non si mosse. Era oramai consapevole di non poter
fuggire, salvarsi o…morire.
Walter continuò a sparare, colpendolo di striscio
più volte. I suoi occhi s’ iniettavano di rabbia
sempre di più, davanti a quell’uomo capace di
leggere quella famosa e irritante ‘parte profonda dentro di
lui’.
Quella parte che lui stesso non avrebbe mai pensato di dover rievocare.
Quanto era costato per lui, effettivamente, evocare la Santa Madre?
Forse era stata per davvero una mera condanna meschina, quella.
“Muori!” urlò, mentre ferì
Henry a un piede, e a quel punto il ragazzo si accasciò.
“Uhg…” Henry toccò il piede
insanguinato, tuttavia non smise di rivolgersi a Walter con sfida.
“Avanti, fallo. Sparami, torturami, uccidimi. Fa quello che
ti pare. Anche se questo non cambierà nulla, lo
sai.” disse.
Un altro paio di colpi andarono a ferirlo sulla spalla, impedendogli
gran parte dei movimenti.
Henry urlò dal dolore e sentì il cuore palpitare
nell’avere davanti a sé Walter Sullivan con gli
occhi di un diavolo spietato.
Egli era una macchina assassina violenta e crudele. Disumana e
devastata. Egli era oramai prigioniero di se stesso ed era caduto in un
baratro, in una fossa, che aveva scavato egli stesso con tutte le sue
forze, ma che lo aveva solo avvicinato ancora di più alla
cecità completa.
“TACI!” urlò Walter nuovamente.
Incrociando gli occhi verde pallido del ragazzo, provò
un’infinita rabbia.
Lo odiava. Lo disprezzava. Egli aveva scongiurato i suoi ventuno
sacramenti.
Egli…
Gli aveva impedito di ricongiungersi a sua madre.
Ma Walter, tuttavia, non avrebbe mai incontrato la madre.
Perché infondo, lui…
Già…
Già lo sapeva.
Guardò Henry spietatamente.
Quel che il ragazzo non sapeva, era che Walter aveva già da
tempo aperto quel libro.
Quello stesso che aveva stretto sul petto, senza sfogliarlo.
Invece aveva letto il suo contenuto già da tempo.
Semplicemente, tuttavia, l’aveva letto rifiutandone il
significato.
C'era una volta un bambino
collegato alla sua mamma
attraverso un magico cordone.
Ma un giorno il cordone
fu reciso, e la madre cadde in un sonno profondo.
Il bambino rimase tutto
solo.
Ma il bambino fece molti
amici nella Wish House e tutti erano molto gentili con lui.
Il bambino era felice.
I suoi amici gli dissero
come svegliare la sua mamma.
Così il
bambino andò subito a cercare di svegliarla.
Ma la mamma non si
svegliava. Per quanto lui provasse, lei proprio non si svegliava.
Questo perchè
in realtà quello che lui stava cercando di destare era il
Diavolo.
Il bambino era stato
ingannato.
Povero bambino.
(Parte
del documento trovato nell’appartamento 302 del passato)
Walter puntò la pistola proprio sulla fronte di Henry.
Strinse le labbra, facendo per premere il grilletto. Henry era
lì a fissarlo immobile, vedendolo pronto a dargli il colpo
fatale.
Senza sapere, invece, di aver appena dato scacco matto al
Re.
Regnò il silenzio quando Walter abbassò la
pistola.
Egli fece calare il braccio lentamente, lasciando poi cadere la pistola
rumorosamente a terra.
Allora cominciò a tremare. Prese a tremare di rabbia, di
dolore, di sconforto, di delusione…
“ARGH!”
Sotto gli occhi di Henry, prese a urlare, non potendone più
di quell’inferno. Henry lo vide stringere i pugni fino ad
arrossare le mani ruvide.
Calò il capo e la lunga frangia cresciuta coprì
il viso corrucciato.
Abbassando gli occhi, Henry si accorse che delle gocce trasparenti
stavano cadendo leggere sul pavimento opaco, proprio davanti ai piedi
dell’assassino.
Fu allora che si rese conto che Walter Sullivan stava piangendo. Egli era
crollato. Crollato di rabbia e di disperazione.
Lo vedeva stringere i denti quasi deluso di sé. Deluso che
qualcosa, dentro di lui, stesse vacillando. La rabbia lo faceva tremare
e oramai era incapace di nascondere l’esaurimento scaturito
dopo trentaquattro anni di mente devastata.
Trentaquattro anni, in cui aveva dedicato la sua vita completamente al
compimento dei ventuno sacramenti, dove aveva incontrato mille
ostacoli, al fine di incontrare la sua Santa Madre.
Egli l’aveva quasi invocata e non aveva potuto adempire al
suo destino per colpa della persona di fronte a lui.
Ma egli…per davvero…chi voleva incontrare?
Era davvero la Santa Madre? Lei lo avrebbe condotto alla
felicità?
Sentiva la sua mente bloccarsi, incapace di comprendere. Di tirar fuori
quel ricordo.
Ma la
mamma non si svegliava. Per quanto lui provasse, lei proprio non si
svegliava.
Questo
perchè in realtà quello che lui stava cercando di
destare era il Diavolo.
Il
bambino era stato ingannato.
Povero
bambino.
“Argh!”
Urlò nuovamente, poi cadde violentemente in ginocchio,
crollando di fronte ad Henry, che lo guardava con sguardo stanco e
sgomentato. La stessa espressione che, oramai, aveva assunto anche
Walter Sullivan.
Il biondo assassino rimase immobile, mentre la testa tuttavia
scoppiava. La rabbia e l’incomprensione lo assalivano
ferocemente.
Infine…a devastarlo fu poi solo quel forte senso di
devastazione e di solitudine.
Ripensò al culto. Ai precetti che aveva imparato. Alla sua
vita sacrificata. Alle persone uccise. Ripensò alla Santa
Madre. La sua dolce Santa Madre. Quella che non era riuscito a destare.
Quella che non era riuscito a salvare. Quella che non lo aveva mai
abbracciato. Quella che lo aveva abbandonato.
Walter calò gli occhi verso il basso e parlò con
voce profonda.
“Mamma…” sussurrò, senza
nemmeno accorgersene.
***
[PIANEROTTOLO DEL TERZO PIANO, ALA OVEST. South Ashfield
Heights. Di fronte l’appartamento #302]
A quel tempo, Henry
cominciò a fare sempre lo stesso sogno.
Era reale? Oppure no?
Non lo sapeva, allora.
Nel suo sogno, vedeva un
uomo imprigionato nell’appartamento #302. Era spaventato e
disorientato.
La casa puzzava e vi era
un’aria opprimente in giro. Veniva assalito dalla sua casa
stessa, come fosse viva…questo senza poter in nessun modo
scappare, salvarsi o…morire.
Subito
dopo…Henry scoprì di non poter più
abbandonare la sua dimora.
Lo aveva imprigionato
dentro.
Così era
stato per lungo tempo, senza che il vicinato si accorgesse di nulla.
Questo finché
qualcuno non cominciò ad avvertire dei rumori provenienti
dall’appartamento #302.
Questo segnò
solo l’inizio di un terribile mondo paradossale. Questo
segnò solo l’inizio di una verità
legata a quegli appartamenti fino in quel momento nascosta e ignorata.
Era con quella
consapevolezza nel cuore…che sperava non sarebbe accaduta
mai più qualcosa di simile.
“Henry! Sono Eileen, apri!”
Eileen bussava incessantemente alla porta di Henry. Aveva paura. Aveva
un terribile presentimento.
“Riesci a sentirmi? Apri!”
Le mani cominciavano a dolerle, ma non si fermò nel bussare
e a suonare al campanello.
Aveva paura…paura che potesse riaccadere…paura
che Henry, come a quel tempo, non potesse più abbandonare
l’appartamento #302.
Eileen continuò a bussare. Sentiva il cuore battere.
Dentro
l’appartamento, un ragazzo dai capelli castani, era seduto
sulla poltrona nel salotto.
Aveva un viso assorto
e spento, come fosse in uno stato catatonico.
La ragazza continuava a battere alla porta. All’ennesimo
silenzio, decise di scendere le scale e cercare il custode degli
appartamenti di South Ashfield Heights, il sovrintendente Frank
Sunderland.
Eileen lo sollecitò a far velocemente qualcosa, prima che
fosse troppo tardi.
“La prego…ho paura che possa accadere qualcosa di
terribile!”
“Ho qui con me le chiavi. Non si preoccupi. Eccole.”
L’uomo anziano girò le chiavi forzando
così la serratura.
Eileen chiuse gli occhi, terribilmente spaventata. Si chiedeva se la
porta fosse di nuovo bloccata. Si chiedeva se avrebbe mai
più rivisto Henry. Si chiedeva che stesse accadendo. Si
chiedeva il perché di quel brutto presagio che covava in
corpo da giorni.
Ah, se solo Henry le avesse dato retta e fossero fuggiti via assieme da
South Ashfield…
Clank
Ci fu un rumore meccanico che indicò che la porta si era
smossa. Era aperta.
“Cosa?!” disse Eileen, frastornata.
Frank rimise le chiavi a posto.
“E’ aperta, miss Galvin.”
Eileen lo ignorò.
“Henry!” urlò, inoltrandosi nella porta,
illuminata da una grande luce bianca. Tuttavia, girandosi attorno,
Eileen non vide nessuno.
Il divano, il tavolo, la cucina, il corridoio…
Solo l’accecante luce bianca mattutina era sovrana in
quell’appartamento. E di Henry nemmeno una traccia.
Soave la luce illuminava l’ambiente. Soave la luce nascondeva
le ombre dell’appartamento.
In parallelo, un uomo
dai capelli castani e il viso spento, sedeva sulla poltroncina di casa
e guardava fisso dinanzi a sé. Era quasi completamente buio
lì dentro, dove egli si trovava, nel suo appartamento.
Le pareti erano
increspate, l’aria era soffocante. Ed era tutto buio. Un buio
accecante.
Guardava dinanzi a
sé ed era da solo. La porta era bloccata da una serie di
catene rugginose.
Chinò il
capo, con viso stanco e affranto.
“Henry?”
Eileen si avvicinò alla poltroncina, guardò
attentamente e poi passò oltre affacciandosi alla finestra.
Dopo di che s’inoltro nella camera da letto del ragazzo,
chiamando ancora il suo nome. Era tutto in ordine, ma di Henry non
c’era traccia.
Il custode vedeva preoccupato Eileen, mentre si dimenava disperata alla
ricerca del ragazzo.
In parallelo, Henry
Townshend rimase immobile sulla poltroncina.
E dire che erano
così vicini, Henry ed Eileen.
Eileen si
avvicinò nuovamente alla poltrona dove il moro era seduto.
Se avesse allungato
la mano, avrebbe potuto anche sfiorarlo, se solo non fossero stati in
due mondi paralleli. Due mondi vicini e lontani allo stesso tempo.
Quale dei due fosse
vero era difficile stabilirlo. Più di quanto una risposta
impulsiva potesse dire.
Il custode s’inoltrò anch’egli nella
stanza, costatando, suo rammarico, che per davvero non vi fosse nessuno
lì dentro.
Si affacciò alla finestra e fu allora che
richiamò l’attenzione della fanciulla.
“Miss Galvin. Henry è lì.”
disse, chiamando la ragazza con voce sorpresa.
Eileen sentì il cuore a mille, mentre corse verso il custode
e si affacciò anch’ella alla finestra.
“Dove?” disse, spaventata.
Il custode Frank Sunderland indicò il ragazzo poggiato sul
ciglio del portone della palazzina.
Egli aveva un viso assorto e spento. Era sul ciglio assolato della
palazzina di South Ashfield Heights.
Il sole era accecante ma egli se ne stava lì incurante, con
il capo chino e la schiena poggiata sul portone del palazzo.
Eileen, a quella visione, sgranò gli occhi. Era Henry! Era
proprio lui.
Ma quando era apparso, esattamente?
Tuttavia quello non era il tempo delle domande. Lasciò Frank
per correre sulla scalinata.
Frank fu sorpreso di quell’impulsività, ma non
poté far a meno di sorridere del suo comportamento dettato
dal cuore.
Del resto, egli non poteva di certo sapere cosa nascondessero, in
realtà, quelle quattro mura. Cosa avesse destato
l’inquietudine di Eileen Galvin.
Eileen si precipitò lungo le scale, perdendo anche una
pantofola e rischiando di cadere. Ma nulla le impedì di
raggiungere quel ragazzo che non vedeva da giorni. Non sapeva che
dirgli. Non sapeva quale domanda porgli per prima. Pensò
solo ad aprire l’anta del portone non appena raggiunse il
pian terreno.
“Henry!” urlò.
Il ragazzo dai capelli castani si voltò verso di lei.
“Eileen..?”
Parlò a stento, con la sua solita voce profonda e riservata.
Eileen rimase immobile di fronte a lui per diversi istanti, con il
respiro affannato. Lei…non lo vedeva da giorni. Era sempre
stato distante in quel periodo. E ora era lì di fronte a lei
e…e…
Corrucciò all’improvviso il viso e gli
mollò uno schiaffo. Henry rimase senza parole.
“Stronzo!”
Henry la guardò perplesso, ma non disse nulla. Prese solo a
toccarsi la guancia dolorante. Vide poi gli occhi di Eileen inumidirsi.
“Come…puoi…dopo tutto questo
tempo…dove diamine sei stato?!”
Henry a quel punto le sorrise. Eileen corrucciò il viso
sempre di più, adirata da quell’espressione invece
così soave.
Henry…dal suo canto, era semplicemente felice di rivederla.
Di vedere che stesse bene. Di vederla circondata dalla luce del sole e
non dalle tenebre, il sangue e la ruggine. Di vederla vicino a
sé.
Velocemente l’avvicinò, stringendola in un
inaspettato abbraccio che lasciò la ragazza con gli occhi
sgranati.
“Scusa.” le disse.
Eileen non rispose. Lui prese a stringerla più forte.
“Sono sempre stato dannatamente in ritardo con te. Mi
dispiace…”
“Henry, che stai dicendo?” gli chiese lei con un
filo di voce, leggermente confusa.
Henry la prese per le spalle e l’allontanò appena
per poter vedere i suoi occhi luminosi.
Le catene del suo
appartamento rimbombavano ancora dentro di lui. Incessanti.
Angustianti. E lo volevano lì, fra le mura del #302.
“Non…non voglio più indugiare. Voglio
stare con te, Eileen. Lontano da qui.”
Le catene della porta
richiamavano ancora e ancora, come un martellante richiamo che lo
assillava ferocemente.
Eileen era sempre più sorpresa. Mai prima di allora, Henry
aveva parlato del loro trasferimento in quel modo.
Mai come allora le aveva chiesto ardentemente di andare via assieme.
Henry si
sforzò di allontanare da sé
quell’incessante richiamo. Si sforzò di ignorare
quel sussurro che lo accompagnava e che probabilmente lo avrebbe
accompagnato per sempre.
Il richiamo
dell’assassino Walter Sullivan che rivoleva indietro la sua
vittima.
“Sarai in grado di aiutarmi? Di non farmi scappare
via?” le sorrise debolmente.
Eileen a quel punto non poté fare a meno di ricambiarlo.
Subito si strinse nuovamente a lui sorridendogli.
Aveva tante domande, troppe.
Non sapeva da dove Henry fosse sbucato fuori. Non sapeva quel che era
accaduto e quel che sarebbe accaduto. Ma andava bene così.
In quel momento, in quell’istante, andava bene
così.
Rise appena, guardando Henry e stringendolo a sé.
“Oh, beh. Allora penso che sia arrivato il momento di trovare
una nuova casa, Henry.”
Henry annuì.
Era giunto il momento di scegliere in che posto stare. Era giunto il
momento di chiudere quella porta.
Era giunto il momento di andare…
Lontano
da Walter Sullivan…
Lontano
da Henry Townshend/Colui che riceve saggezza…
Anche se una parte di sé sarebbe stata legata
all’appartamento 302 per sempre.
***
[APPARTAMENTO 302, South Ashfield Heights]
Quell’appartamento gli era sempre piaciuto. Bianco, pulito,
fresco…
Era perfetto per cominciare una nuova vita.
Dopo aver attraversato l’ingresso, sulla destra vi era un
ripostiglio. Sulla sinistra invece vi era la cucina bianca contornata
da una serie di banconi.
Poi c’era il salotto. Era la stanza più ampia
della casa. Era arredato con un largo divano, un tavolino basso e una
poltroncina.
In un angolo del muro vi era una piccola libreria con molti libri
riguardanti Silent Hill, una città che un tempo amava
visitare spesso. Vi era poi un televisore datato e una cassapanca
capiente.
Due finestre illuminavano quella stanza, donando una luce che aveva
quasi un che di sacro.
Il corridoio conduceva al bagno e poi alla camera da letto. Anche
questa illuminata da una luce candida e opaca.
Un ragazzo era seduto sulla poltrona nel salotto.
Era alto circa un metro e ottantacinque ed era di
bell’aspetto. Aveva dei capelli disordinati castani, gli
occhi verde pallido e una rasatura sul viso leggermente trascurata.
Indossava una camicia bianca e dei jeans scoloriti.
I suoi occhi, fino a quel momento rivolti verso il basso, andarono a
cadere sul tavolino al centro della stanza, dove era poggiato un
pacchetto di sigarette. Lo prese fra le mani.
Henry era un tipo più nevrotico di quanto sembrasse in
realtà. Era stata dura per lui ridurre l’uso del
fumo. Da quando aveva cercato di darci un taglio, si concedeva una
sigaretta solo quando lavorava.
Nemmeno, da quando conosceva Eileen, completamente contraria al fumo.
“Suppongo di poter fare uno strappo alla
regola…” disse, sorridendo.
Accese la sigaretta con un fiammifero e ispirò
profondamente, lanciando via il fumo lentamente, mentre sentiva la
mente spegnersi e riposare. Gli occhi bruciavano appena,
così come la testa e il petto. Aveva ancora impresso il
marchio 21/21 sul collo.
Dalla poltroncina, sbirciò oltre la finestra alle sue
spalle, e nel cortile vide la sua bella Eileen Galvin.
Sembrava davvero…felice. Sembrava felice a fianco a quel
Henry Townshend.
Presto avrebbero cominciato una vita assieme. Henry sorrise,
invidiandoli un po’, in verità.
Fu allora che, davanti a sé, apparve l’uomo col
cappotto. Egli si avvicinò lentamente, rimanendo sul ciglio
del corridoio.
Henry accavallò le gambe e lanciò nuovamente il
fumo dalla bocca. Con un gesto della mano gli indicò il
divano.
“Accomodati.”
Walter si guardò attorno. Dopodiché prese posto
sul divano. Fissò Henry in silenzio, scrutandolo. Vedendolo
assorto nei suoi pensieri, sbirciò anch’egli in
direzione della finestra, dopodiché gli si rivolse.
“Rimpianti?” gli chiese.
Henry non rispose immediatamente.
“Solo un po’. E tu?”
“Solo un po’.”
Rimasero entrambi in silenzio. La luce era bianca e illuminava
quell’ambiente che fino a qualche istante prima era stato
avvolto dalle tenebre.
Henry spense la sigaretta nel portacenere e guardò il biondo
in silenzio, ripensando a ciò che era accaduto in quel lasso
temporale.
Egli era stato rinchiuso nel suo appartamento per quasi sei giorni.
Aveva visto gente morire.
Aveva conosciuto un folle assassino e aveva combattuto per la prima
volta nella sua vita.
Era stato prigioniero del suo stesso appartamento, teatro di una
macabra storia nella quale mai avrebbe potuto immaginare di trovarsi.
Qualcuno gli aveva detto di cercare la sua parte profonda. E
così aveva fatto.
Quello, tuttavia, non aveva segnato la fine dei suoi viaggi.
Dopo, Henry aveva dovuto conoscere una realtà che lo avrebbe
accompagnato per tutta la vita.
Aveva dovuto ammettere a se stesso il paradosso della vita di
quell’uomo.
Walter Sullivan era una mente spietata, diabolica. Aveva ucciso a
sangue freddo diciannove persone, massacrandole tutte spietatamente.
Elettrocuzione, pestaggi, colpi d’armi di ogni
genere…
Walter Sullivan era un uomo da condannare per i suoi crimini.
Walter Sullivan tuttavia era anche l’uomo ingannato.
L’uomo che era stato deturpato dalle menti del culto.
L’uomo che fu abbandonato in fasce dai suoi stessi genitori.
L’uomo che non aveva mai conosciuto la clemenza, che non
poteva sperare nella luce. L’uomo che era morto ancora prima
di nascere. L’uomo che avrebbe dovuto riposare in pace e
invece era anch’egli prigioniero dell’oblio.
Walter Sullivan era vittima e prigioniero del suo infausto destino.
Ed Henry, in tutto questo, giocava il ruolo più curioso.
Egli era destinato a conoscere profondamente il suo inconscio. Era
destinato a comprendere e a scavare nella parte profonda di Lui.
Henry, nel momento nel quale si era trasferito
nell’appartamento #302, senza saperlo, aveva firmato il suo
destino, consegnandolo nelle mani di Walter Sullivan. Aveva in quel
momento, dichiarato che una parte di sé sarebbe rimasta
lì per sempre.
“Per
questo non posso abbandonare il #302”
“Una parte di me vive qui…”
“Una parte di me more qui…”
“Finché esiste Lui.”
Henry sorrise, ridendo velatamente.
“Sei a casa tua, adesso. Cosa si prova?” chiese a
Walter con fare colloquiale.
Il biondo portò i gomiti sulle ginocchia e sorrise
ironicamente.
“Ci devo pensare.”
A quel punto, Henry lo guardò. Il marchio 21/21 non sembrava
fare poi così male, adesso. Henry si chiese se fosse per via
dell’abitudine. O magari per davvero ormai non importava
più tanto.
Guardò il ragazzo dai capelli biondi intensamente, prima di
rivolgerglisi.
“Walter. C’era qualcosa che volevo chiederti, ma
non l’ho mai fatto perché non facevi che
ammazzarmi.” gli disse.
Walter alzò gli occhi verdi verso lui. Si lasciò
incuriosire da quelle parole. Henry gli parlò con calma,
senza alcun remore.
“Tu invece cos’è che vedi qui in questo
pandemonio?”
A Henry sembrò, nella sua arroganza, che Walter rimase
sorpreso di quella domanda.
Lo vide sogghignare e chinare il capo e…ridere sotto i baffi.
Anche Henry a quel punto sogghignò assieme al suo assassino,
in quell’inferno destinato a essere per sempre il purgatorio
del curioso e triste destino dell’uomo dai capelli biondi.
In origine, gli uomini non
avevano nulla. I loro corpi dolevano e i loro cuori contenevano
solamente odio. Combattevano senza sosta, ma la morte non giungeva mai.
Si disperavano, bloccati in questa eterna sofferenza.
Un uomo offrì
al sole un serpente e pregò per la salvezza. Una donna
offrì al sole una saetta e chiese in cambio la gioia.
Provando pietà per la tristezza che avvolgeva il mondo, Dio
nacque da quelle due persone.
Dio creò il
tempo e lo divise in giorno e notte. Dio tracciò la via per
la salvezza e diede agli uomini la gioia.
E Dio tolse agli uomini
il dono dell'eternità.
Dio creò gli
esseri viventi per tenere gli uomini in obbedienza a lei.
Il Dio rosso,
Xuchilbara; il Dio giallo, Lobsel Vith; molti dei e angeli.
Infine, Dio
iniziò a creare il Paradiso, dove bastava entrare per dare
agli uomini la felicità.
Ma Dio esaurì
le forze, e crollò a terra. Tutti gli uomini del mondo
piansero per questo sfortunato evento, finchè Dio
esalò il suo ultimo respiro. Essa ritornò
polvere, promettendo il suo ritorno.
E così Dio
non è perduto. Dobbiamo pregare e ricordare la nostra fede.
Attendiamo con speranza
il giorno in cui la via del Paradiso verrà aperta.
(Il credo del Culto)
Un bambino fu
abbandonato a South Ashfield Heights.
La madre lo
abbandonò appena nato. Egli aveva ancora il
cordone ombelicale
attaccato al corpo. Il sovrintendente di
quel palazzo, un
tale Frank Sunderland, lo trovò e lo salvò da
morte certa. Ma
non ebbe mai notizie di lui da quel momento
in poi. Gli venne
solo detto che il bambino era sopravvissuto e
che ora risiedeva
presso strutture più adeguate.
In quel bambino
era già nato un forte senso di devastazione. Un
disturbo mentale
verso il mondo e il grembo materno. Nella sua
mente
l’utero e il cordone ombelicale divennero una curiosa
ossessione, dovuta
a una mancanza d’affetto infantile, mista al
disprezzo e al
senso di abbandono.
Visse come orfano
alla Wish House. Li fu scelto per lui il nome di
Walter Sullivan.
Il prete George Rosten lo prese sotto la sua ala e
lo
allevò secondo il culto di Valtiel. Egli fu scelto per
attuare i 21
sacramenti. In
quel periodo, vide molti suoi amici morire nella
Wish House.
Egli venne
più volte picchiato dai membri del culto e dal
sorvegliante
Andrew De Salvo, quando disobbediva e finiva
nella prigione
cilindrica.
Già
allora decise che un giorno si sarebbe vendicato dei torti
subiti.
Nacquero
già all’epoca i primi demoni della sua vita,
nonché
la violenza che un
giorno lo avrebbe caratterizzato.
Ancora
giovanissimo, un membro del culto fece vedere
a quel
bambino chiamato Walter Sullivan l’appartamento 302.
Da allora si
convinse che lì viveva sua madre. Avendo una mente
già
all’epoca devastata, si convinse che sua madre fosse
l’appartamento
stesso. Dahlia Gillespie e altri membri del culto
approfittarono del
suo status mentale, del suo desiderio di tornare
dalla madre, e gli
fecero dunque credere che l’unico modo per
ricongiungersi
a lei, e salvarla dalla corruzione del mondo, fosse
l’attuazione
dei 21 sacramenti.
Così
fu.
Walter
credé a quelle parole e si cimentò
nell’impresa studiando sodo.
Nel frattempo,
sebbene fosse un bambino, andava a
visitare spesso
South Ashfield, usando l’autobus, la metropolitana,
e incontrando
tanta gente schiva e meschina che lo derideva.
Lo denigravano. Ma
egli non demorse. Anzi.
Il suo odio per il
mondo crebbe a dismisura e lo aiutò a cimentarsi
più a
fondo nello studio del rituale. Il mondo andava purificato.
Se ne convinse
sempre di più.
Visitò
spesso gli appartamenti a quel tempo, destando prima
curiosità,
poi malcontento nella palazzina. Frank Sunderland, nel vederlo
sempre
più spesso, si chiese se quello non fosse proprio il bambino
che
un tempo aveva
trovato nell’appartamento 302.
Richard Braintree,
infastidito da quel piccolo orfano, più volte lo
picchiò e
lo fece scappare.
Walter fu anche uno dei testimoni del famoso
“scuoiamento
di Mike”, giorno in cui Braintree diede clamorosamente
di testa.
Raggiunti i sedici
anni, spesso gli capitava di essere fuori casa.
Continuava a
visitare South Ashfield.
Conobbe in
quell’anno una bambina, la giovane Eileen Galvin, che
commosse
quel giovane con il suo atto di clemenza.
Egli non aveva mai
ricevuto alcuna attenzione dal mondo intero.
Ella invece si
preoccupò per lui vedendolo solo e abbandonato.
Gli
donò così una preziosa bambola che lui
custodirà negli anni a venire.
Di lì a
poco ebbe l’occasione anche di parlare con Cynthia Velasquez,
all’epoca
una tredicenne,
per la quale sentì di provare sentimenti diversi.
Un qualcosa che
non ebbe il tempo di maturare comunque, perché
ella
rifiutò la sua mano tesa e bisognosa di un contatto umano.
Ricevette una
ulteriore delusione da una donna.
Se da un lato ora
esisteva sua Madre. La dolce bambina.
Ora esisteva anche
la Tentazione. La donna ingannatrice e violenta.
Una volta
abbandonata la Wish House, studiò presso
l’università
di Pleasant River.
Era finalmente
pronto per attuare la prima fase del rituale dei
21 sacramenti.
In dieci giorni,
all’età di ventiquattro anni, uccise dieci persone,
portando a termine
il primo segno. Le sue vittime:
Jimmy Stone.
Fondatore del culto di Valtier. Ucciso con un’arma da
Fuoco.
Bobby Randolf.
Attirato nel campus di Pleasant River e ucciso tramite
soffocamento.
Sein
Martin. Attirato nel campus di Pleasant River e ucciso tramite
strangolamento.
Steve Garland.
Ucciso nel suo negozio di animali con una mitraglietta.
Rick Albert.
Proprietario dell’Albert’s sport nel quale Walter
lavorava
part-time. Ucciso
con una mazza da golf nel negozio.
George Rosten.
Colui che lo aveva allevato ed educato. Ucciso nel
bosco di Silent
Hill con un tubo di ferro.
Billy Locane.
Ucciso a Silent Hill. Fatto a brandelli con un’ascia.
Miriam Locane.
Uccisa a Silent Hill. Fatta a brandelli come il fratello.
Eric Walsh. Ucciso
a casa sua con un colpo d’arma da fuoco.
William Gregory.
Ucciso con un cacciavite.
A tutti i corpi
mancava il cuore. Nei corpi vi erano incisi i seguenti marchi:
01121, 02121,
03121, 04121, 05121, 06121, 07121, 08121, 09121, 10121
Water Sullivan
completò la prima fase del rituale, ma fu catturato
dalla polizia di
Silent Hill e accusato dell’omicidio dei due fratelli Locane.
In prigione si
recise la carotide con un cucchiaio, morendo per emorragia.
Quello che
sembrava un suicidio, in verità, era solo
l’attuazione del secondo
Segno del rituale.
Egli doveva sciogliere i vincoli della carne. Egli, in quel
momento,
creò la realtà parallela secondo il volere di
Valtier. Divenne Dio.
Persa la sua
umanità, nella sua mente si creò
un’ulteriore voragine dalla
quale, oramai, non
sarebbe più potuto uscire.
In quel tempo,
Joseph Schreiber, un giornalista, si trasferì a South
Ashfield
Heights.
Venne data di
lì a poco la notizia di un omicidio copycat, simile a quelli
attuati da
Sullivan. In verità, egli stesso li attuava dal mondo
parallelo,
dove egli era
sovrano.
Morirono altre tre
vittime, e Joseph Schreiber indagò su questi strani
casi copycat.
Morì
Peter Walls, tossicodipendente. Ucciso massacrato fino alla morte.
Morì
Sharon Blake, annegata e trovata nel bosco di Silent Hill.
Morì
Toby Archbolt, sacerdote della setta della Santa madre. Spinto da
una scogliera nel
Messico.
In tutti e tre i
corpi questa volta il cuore era intatto. Ma i seguenti numeri
erano incisi sopra:
12121, 13121,
14121.
Joseph Schreiber,
mentre indagava su quella gente uccisa, comprese di
essere
anch’egli vittima di Sullivan. Presto si accorse anche di non
poter
lasciare
l’appartamento 302 nel quale rimase intrappolato.
Dedicò
comunque la sua
vita alla ricerca della verità su Sullivan.
Scoprì
che il caso Walter Sullivan aveva molte ombre. Scoprì il suo
passato.
Scoprì
la natura malsana della Wish House. Scoprì che il corpo di
Walter
Sullivan era
sparito dalla tomba.
Scoprì
di non avere alcuno scampo. Scoprì che Joseph
Schreiber era l’uomo
15121.
I temi del
“vuoto”, delle
“tenebre”, dell’
“oscurità” e della
“disperazione” erano
stati eseguiti con
successo.
Sei mesi
più tardi, Henry Townshend si trasferì
nell’appartamento 302.
Per due anni la
sua vita scorse tranquilla. Poi un giorno cominciò
a fare curiosi
incubi. La sua casa venne sigillata da Walter Sullivan.
Egli fu costretto
a utilizzare un varco, la sua unica via di fuga, per uscire.
Vide, senza mai
incontrare Sullivan, i frammenti del suo passato.
Egli
incontrò le sue paure, desideri, angosce...che si mostrarono
a lui
come demoni.
Mostri deformi e disturbanti.
Vide le vittime
del terzo round di omicidi.
Vide morire
Cynthia Velasquez. Uccisa pestata a morte nella
metropolitana di
South Ashfield.
Vide morire Jasper
Gein. Ucciso nella Wish House arso vivo.
Vide morire Andrew
De Salvo. Ucciso nella stanza degli
interrogatori
della prigione cilindrica.
Vide morire
Richard Braintree. Morto nel suo stesso appartamento
tramite
elettrocuzione.
Sui loro corpi vi
erano incisi i numeri: 16121, 17121, 18121, 19121.
A quel punto era
chiaro. Tutti quei numeri altro non erano che un elenco.
L’elenco
di ventuno vittime che presto sarebbero state uccise.
Quei numeri
andavano letti ##/21.
In tutto questo,
un macerante senso di inquietudine colpì Henry,
che sapeva che
presto sarebbe toccato a lui.
Comprendendo che
la vittima 20/21 era la sua vicina di casa, Eileen Galvin,
Henry
riuscì a portarla con sé nel mondo profondo di
Walter
Sullivan. Questo
grazie agli indizi fornitogli da Joseph Schreiber
che gli disse che
la risposta e la salvezza l’avrebbe trovata lì.
Nella parte
profonda dell’assassino. Fino a trovare la Verità
assoluta.
Henry, tuttavia,
trovò tutt’altro che un’arma da
utilizzare contro
Walter, una volta
giunto al capolinea. Trovò invece la terribile
verità
che si
celava nel passato oscuro dello spietato killer.
La
verità gelante di un uomo abbandonato, strumentalizzato e
ingannato.
Henry si chiese
allora che ruolo avesse nell’intera vicenda.
Si chiese cosa
significasse essere il ventunesimo sacramento.
Si chiese cosa
significasse essere “Colui che Riceve Saggezza”.
Uccise Walter
Sullivan, salvando così lui ed Eileen. Walter
Sullivan non
portò a compimento l’ultima fase del rituale.
Non comprendendo
in tempo che, anche attuando i ventuno
sacramenti, non
avrebbe mai riavuto l’amore perduto della
madre.
La Santa
Madre…per lui era sempre stata la mamma. Questo
porterà
Walter Sullivan ad un’ulteriore espiazione. Un purgatorio
nato apposta per
lui, creato dall’inferno dal suo stesso rituale.
Un purgatorio dove
saranno destinati a vivere lui e i suoi demoni.
Compresa la gente
uccisa dalle sue mani. Compresi coloro
che sono fuggiti,
ma che hanno lasciato una traccia nel suo
mondo…
-FINE-
Ecco qui l’ultimo capitolo di Haunting apartment…
Giuro che ho il batticuore. Finire una fan fiction è sempre
una grande gioia, ma allo stesso tempo procura un po’ di
dispiacere…
Mi sarebbe piaciuto scrivere ancora su Silent Hill 4, questo gioco per
me è fantastico a livello di trama, personaggi, atmosfere,
tematiche e simbolismi.
C’è una grande fetta di fan che lo considera un
Silent Hill di poco conto, io invece, lo considero uno dei migliori.
Senza dubbio è il mio preferito.
Sono da sempre fan di questa saga (e di questo SH) e da tempo avrei
voluto scrivere qualcosa a tema.
Come già scrissi nel mio primo capitolo, per me questa saga
è una preziosa reliquia. Non ero sicura, nonostante il mio
fanatismo estremo per la saga xD, di riuscire a scrivere qualcosa degno
del gioco. Capace di regalare spunti di riflessione ed emozioni forti.
Ho fatto del mio meglio. Ho fatto il possibile per affrontare le
tematiche che vi volevo proporre in modo fluido e chiaro.
Ho
aggiunto svolti alternativi, enigmi, citazioni, traduzioni di
testi e canzoni fatti tutti da me. Ho rigiocato più
volte i punti descritti per rendere meglio l’idea degli
ambienti e delle atmosfere.
Sapevo che sarebbe stato un lavoro impegnativo per me, ma volevo fare
così questa fan fiction, mettendoci tutta me stessa.
Per questo ringrazio a tutti voi per il sostegno. A Waltersullivan24 e Liquid King soprattutto
per le loro splendide recensioni che sono state un forte
incentivo per me nell’andare avanti con il lavoro celermente.
Un bacio anche a tutti quelli che mi hanno sostenuto da lontano.
Il mio scopo era mostrare quanto questo gioco avesse da offrire.
Più di quanto non sembri. Nonostante Silent Hill 4 stesso
sia pieno di tematiche forti
e fantastiche,
io ho mostrato con la mia fan fiction quegli aspetti invece
più velati e che non sono stati mostrati nel gioco
direttamente (sono presenti per lo più nei file).
Dimostrando (spero!) quanto questo videogame sia ricco.
E il gioco era già splendidamente ricco di suo. SH4 scoppia di tematiche,
di emozioni e di paradossi.
In tutto questo, desideravo fortemente parlare di Henry e Walter, ma
nella maniera più realistica possibile.
Credo di essere una delle poche fan a sostenere che Henry sia un bel
personaggio, e ho cercato di mostrarvelo con la mia fanfiction. Di
mostrarvi per me il suo senso nel gioco e lo spessore che egli ha ai
miei occhi. Spero fortemente di avervi trasmesso tutto questo.
Uno degli incentivi per la realizzazione della fan fiction è
sicuramente stato il desiderio di parlare di lui.
Parlando dell’ultimo
capitolo, ho lanciato di tanto in tanto un amo che vi
mostrasse fin dai primi capitoli il perche Henry non potesse
abbandonare la stanza 302. L’Henry con cui noi abbiamo avuto
a che fare durante tutta la fan fiction è
l’hauntings che troviamo dietro lo spioncino della porta.
Henry, a sua volta, quando ha cominciato a viaggiare nella mente di
Sullivan, ha creato quella manifestazione.
Una manifestazione nata
dal terrore di rimanere intrappolato lì per sempre come
ventunesima vittima.
Proprio come viene scritto nella fan fiction, egli è
perfettamente consapevole che una parte di sé è
morta quando è entrata in contatto con Sullivan.
Per questo esistono, in un certo senso, due Henry. L’Henry
manifestazione di “Colui
che riceve Saggezza”, una mera traccia,
un’ombra; e l’Henry vivo, che si salva, ma
avvertirà sempre il richiamo per la room. Perchè una parte di
lui vivrà sempre lì, finché
esisterà Walter e il suo peccato.
Parlando del nostro Walter, egli è morto, ma ha avuto un
destino simile alla sua ventunesima vittima. La sua ombra è
rimasta legata al suo incubo. E come nell’inferno,
è destinato a vivere il suo peccato in eterno.
Silent Hill è sempre stato facilmente assimilabile a un purgatorio per
questo immagino questo destino per Walter.
Henry è colui che vive con lui il suo peccato, come simbolo della vittima finale
che doveva morire e che invece ha distrutto
il suo castello. Un castello che, comunque, sarebbe andato a sgretolarsi
inesorabilmente per via dell'inganno del culto. E così
diverranno connessi in questo bizzarro destino. Nonostante siano
una vittima e l’altro il suo carnefice.
Un carnefice
poi, anch’egli a sua volta vittima di
qualcos’ altro.
Il finale è anche ispirato in parte al film di
Silent Hill. Nel finale del film, la madre della bambina
rimane “macchiata” da
Silent Hill e dal peccato e, nonostante riesca a fuggire,
vivrà per sempre nella Silent Hill alternativa.
Il finale di Henry può anche essere inteso così.
Probabilmente sono vere entrambe le interpretazioni.
Vorrei dire tante cose, ma, pensandoci, ho già detto tutto,
la mia concezione di Silent Hill 4, tramite la mia fan
fiction. Ringrazio davvero tutti! Diate rispetto alla
mia opera che non è sicuramente perfetta, ma
c’è tanto lavoro dietro. E
c’è, soprattutto, l’amore di una fan che
ama follemente questa saga e questo capitolo.
Un bacio a tutti! Scriverò senz’altro altre fan
fiction su Silent
Hill, ora vi lascio, spero di rivedervi tutti presto!
Fiammah_Grace
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