Queen Victoria's College II : Comeback

di adamantina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** The Hospital ***
Capitolo 3: *** Nothing I can do ***
Capitolo 4: *** Right or Wrong ***
Capitolo 5: *** Telepathy ***
Capitolo 6: *** The Choice ***
Capitolo 7: *** Violence ***
Capitolo 8: *** Best Friends ***
Capitolo 9: *** Getting Worse ***
Capitolo 10: *** Kidnap ***
Capitolo 11: *** Back in action ***
Capitolo 12: *** Lost ***
Capitolo 13: *** Unexpected ***
Capitolo 14: *** Forgiveness ***
Capitolo 15: *** Losing the last hope ***
Capitolo 16: *** The greatest mistake ***
Capitolo 17: *** Apologize ***
Capitolo 18: *** Proposal ***
Capitolo 19: *** Egoistic ***
Capitolo 20: *** Bad feeling ***
Capitolo 21: *** Friends again ***
Capitolo 22: *** A rescue and a birth ***
Capitolo 23: *** Run ***
Capitolo 24: *** Even heroes ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


QUEEN VICTORIA’S COLLEGE II : COMEBACK
 
Bene, rieccomi. Sono passati quattro mesi da quando ho pubblicato l’ultimo capitolo di Queen Victoria’s College. Avevo detto che mi sarei presa una pausa dalla storia … ebbene, non l’ho fatto. Perché tre giorni dopo ero già intenta nella stesura del primo capitolo di questa storia. Non l’ho pubblicata subito –non ero ancora certa di che piega avrebbe preso la storia e se avrei avuto bisogno di modificare l’inizio- ma adesso sono qui, un po’ in ansia per il giudizio che potrà avere questo seguito.
Il mio stile di scrittura è rimasto più o meno lo stesso, ma i contenuti della storia sono cambiati. Credo che ci sia un po’ meno azione e un po’ più introspezione, un focus sui personaggi per conoscerli meglio.
Lungi da me scrivere un’introduzione più lunga del prologo (ok, temo di averlo appena fatto), vi lascio alla storia.
Ogni commento sarà molto favorevolmente accolto e riceverà una pronta risposta. L’aggiornamento sarà frequente perché i primi 16 capitoli della storia sono già pronti.
Buona lettura!
 
adamantina
 
 
~PROLOGUE~
 
[Blake]
 
Wish that I could cry
Fall upon my knees
Find a way to lie
'Bout a home I'll never see¹

Vorrei poter piangere.
Vorrei poter cadere in ginocchio e crollare.
Vorrei averne il tempo.
Ma l’orologio scandisce i secondi inesorabilmente, e di tempo non ne abbiamo più.
E allora sono io, ancora una volta, a prendere il comando e a riscuotere gli altri.
Non c’è più nulla che possiamo fare, qui, ma poco lontano il nostro intervento potrebbe salvare un’altra persona. Salvare il nostro Paese.
So che capiranno.
So che lui capisce, quando si alza e si asciuga le lacrime dal viso, e annuisce appena.
E allora corriamo –veloci come la luce, veloci come la morte, perché il nostro futuro dipende da questo.
Anche se adesso è difficile pensare che possa esistere un futuro, una casa in cui tornare se mai tutto questo potrà finire.
Alla fine, sono stanco anch’io.
 
 

It might sound absurd
But don't be naive
Even heroes have the right to bleed
I may be disturbed
But won't you concede
Even heroes have the right to dream
It's not easy to be me²
 
 

N.D.A.
¹ e ² : citazioni da “Superman” dei Five for Fighting.

“Vorrei poter piangere
cadere sulle ginocchia
trovare un modo per mentire
su una casa che non vedrò mai”
“Potrà suonare assurdo
Ma non essere ingenuo
Che anche gli eroi hanno il diritto di sanguinare
Potrei essere pazzo
Ma ammetterai
Che anche gli eroi hanno il diritto di sognare
Non è facile essere me.”

 

 

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Capitolo 2
*** The Hospital ***


~THE HOSPITAL~
 
[Damien]
 

«Damien?»

Apro gli occhi di scatto, risvegliato da uno scossone improvviso che mi distoglie da sogni luminosi e allucinati.
Tossisco un paio di volte e mi metto a sedere, salvo poi ricadere sui cuscini per un giramento di testa.
«Damien?»
Il mio sguardo si opacizza per una visione improvvisa di cani neri che abbaiano furiosi, forse partecipanti involontari di un combattimento clandestino.
«Damien?»
La voce si alza di tono e vengo scosso di nuovo. Sbatto le palpebre rapidamente e tento di schiarirmi i pensieri, provando a ricordare come escludere queste immagini dalla mia mente.
«Damien? Per favore, rispondi, mi stai facendo preoccupare.»
Visualizzo una porta e mi sforzo di liberare la mente per richiudervi dietro tutte le visioni. Ci riesco abbastanza in fretta, determinato a tornare lucido.
«Damien!»
Mi volto, e finalmente rispondo.
«Sì.»
La mia voce suona debole e incerta, ma sembra creare un certo sollievo nel mio interlocutore.
«Oh, grazie a Dio. Cosa ti succede? Stai male?»
Con più cautela, mi siedo sul letto e poso gli occhi su Arthur, seduto accanto a me con gli occhi colmi di ansia, facendo ancora fatica a metterlo a fuoco.
«Un po’» ammetto.
«Ok. Vestiti, andiamo all’ospedale.»
Scuoto la testa con decisione, anche se questo mi fa quasi cadere di nuovo –ma Arthur mi sorregge.
«Non è il caso» mormoro.
«Non me ne frega niente di cosa ne pensi tu, Damien. Ti do cinque minuti.»
Sospiro. Di norma, la testardaggine di Arthur non lascia spazio ad obiezioni di nessun tipo, ma non è la prima volta che riesco a fargli cambiare idea su questo argomento in particolare.
«Lo sai che non possiamo. Se mi facessero degli esami del sangue … » tossisco di nuovo prima di riuscire a proseguire la frase «Potrebbero capire che c’è qualcosa di strano.»
«Non mi interessa.»
«Ci siamo già andati, Art. Tre volte.»
«Eppure non sei guarito.»
«Senti, non … » Un ennesimo attacco di tosse mi impedisce di continuare. Mi porto d’istinto una mano davanti alla bocca. Quando l’attacco si placa, la ritiro e, come in un incubo, la vedo macchiata di rosso. Art segue il mio sguardo. Lo vedo impallidire prima di infilarmi a forza una maglietta, stringermi un braccio e teletrasportarci entrambi via.
 
Tre ore e infiniti colpi di tosse dopo, sono ancora seduto su una sedia di plastica bianca in uno squallido corridoio dell’ospedale di Cape Coral.
Sentire il mio nome chiamato con aria annoiata da un infermiere mi riempie di sollievo, soprattutto perché, se avessimo dovuto aspettare ancora, credo che Arthur avrebbe ucciso qualcuno. Mi alzo e, traballando appena, entro nello studio del medico, il dottor Carver.
Questi, un uomo sulla cinquantina, alto e possente, mi squadra da sopra le lenti degli occhiali firmati. Ormai allenato, colgo immediatamente la scintilla di disgusto che lampeggia per un solo istante nei suoi occhi quando vede Arthur accanto a me. Lo catalogo come omofobo in meno di due secondi e sono già tentato di andarmene.
«Bene, signor … » consulta la cartella sulla scrivania «Signor Knight. Mi pare che lei sia già stato qui, non è vero?»
«Sì» rispondo «Più di una volta.»
«E, se non vado errato, le era stata diagnosticata una mononucleosi piuttosto acuta.»
«Esatto.»
«Ha seguito tutte le prescrizioni mediche? Ha preso i medicinali con regolarità?»
«Sì, e sono stato meglio per un paio di mesi, ma adesso è di nuovo tutto come prima.»
Carver mi guarda con aria dubbiosa, evidentemente non ritenendo che io sia stato fedele alle sue precise indicazioni.
«In tal caso» borbotta «Le rinnoverò le ricette e potrà cominciare un nuovo periodo di … »
«No» ringhia Arthur, deciso. «Per tre volte ha preso quelle stupide medicine e non è mai servito a nulla. Voglio che lei gli faccia fare degli altri esami.»
Carver guarda Art con sufficienza.
«Lei è un medico?»
«No» risponde a denti stretti Arthur.
«Allora temo che non sia nella posizione di giudicare l’efficacia delle terapie a cui sottopongo i miei pazienti.»
Vedo Arthur stringere i pugni e prevedo quello che succederà senza bisogno di alcuna visione. Gli metto una mano sul braccio per dissuaderlo dal fare scenate inutili, e intercetto di nuovo il disprezzo negli occhi del medico.
«Va bene» dico. «La ringrazio. Arrivederci.» Strattono Art e lo costringo ad andarsene subito.
Non appena siamo fuori, esplode.
«Quel brutto bastardo!» urla.
«Shh. Zitto, Art, per favore.»
«Come si permette? Lo sa benissimo di avere sbagliato, e … »
«Art, basta. Non è il caso di reagire così. Senti, facciamo una cosa. Adesso ce ne torniamo a casa e domani, con calma, avremo tempo ad andare in un altro ospedale, magari in un’altra città, e consultare qualcun altro. D’accordo?»
Mi squadra, indeciso.
«Avanti» insisto. «Non serve a niente pretendere di … » Senza preavviso, ricomincio a tossire, sempre più violentemente, e all’improvviso i miei occhi si scuriscono e mi sento cadere, senza nulla a cui appigliarmi per non precipitare nel vuoto.
 
Mi risveglio in una stanza minuscola con le pareti bianche. Accanto a me c’è Art, ancora, e vedo che ha lo sguardo perso nel vuoto, soprappensiero.
«Ehi» mormoro.
Lui sussulta e mi guarda.
«Oh. Sei sveglio. Devo avvisare il dottore.»
«Aspetta. Cos’è successo?»
«Sei svenuto e ti hanno ricoverato qui, ma non mi hanno detto nulla. Volevano che li avvisassi quando ti fossi svegliato.»
Esce un momento e rientra con il dottor Carver, seguito da un’infermiera bionda che non esita a puntare gli occhi su Art e fargli un sorriso. Lui non ricambia, gli occhi fissi su me e Carver.
«Come si sente, signor Knight?»
«Esausto» dico con onestà.
«Beh, credo che questo sia dovuto alla sua evidente mancanza nel seguire la mia prescrizione. I sintomi sono quelli della mononucleosi, non c’è ombra di dubbio. Credo che lei possa andare a casa anche subito, purché si impegni a prendere i suoi medicinali.»
«Che cosa?» È di nuovo Arthur a intervenire, furioso. «Non fa altro che tossire. È dimagrito, è sempre stanco, e tutto questo non è cambiato nonostante abbia preso tutte le medicine che lei gli ha dato! E adesso lei vuole mandarlo a casa senza aver risolto nulla?»
«Senta, le ho già detto prima cosa ne penso. Se seguiterà a comportarsi in questo modo aggressivo, farò chiamare la sicurezza.» Poi si rivolge all’infermiera: «Compili i moduli di dimissione e glieli faccia avere il prima possibile.»
La ragazza annuisce e se ne va con lui.
Art mi guarda, ancora tremante di rabbia. Quindi si lascia cadere sulla sedia accanto al letto.
Mi stupisco ancora di quanto sia cambiato. Una volta, all’inizio, non avrebbe preso le mie difese davanti ad un individuo come Carver. I primi tempi non tollerava alcun tipo di effusione in pubblico, e non riusciva neanche a tenermi la mano. E, se lo faceva, era per qualche malsano senso di colpa causato dalle occhiatacce che gli lanciavo se rifiutava. Si imbarazzava facilmente, ed ogni sguardo gli sembrava ostile.
Poi, circa sei mesi dopo l’inizio della nostra storia, sono stato male per la prima volta. Mi ha accompagnato in ospedale, e mi è rimasto accanto come attirato da una calamita. E quando, prima di un esame particolarmente fastidioso e invasivo, un’infermiera gli ha detto “se vuole, può restare insieme a suo fratello” –riferendosi a me-, lui ha scosso la testa stupito, dicendo con decisione “non è mio fratello, è il mio ragazzo”.
Da allora, non ha più dimostrato alcun imbarazzo.
«Dammi il tuo cellulare» dice piano, la voce forzatamente calma, riportandomi al presente.
Stupito, obbedisco, tirandolo fuori dalla tasca dei jeans.
Lo accende e vedo che entra nella rubrica.
«Cosa vuoi fare?» chiedo, allarmato dalla sua espressione rabbiosa.
«Sappi che non c’è nessun’altra persona al mondo per cui farei questa telefonata, Dam.»
Questo mi preoccupa ancora di più.
«Chi vuoi chiamare, Art?» insisto.
Mentre esita nel premere il tasto di chiamata, ricomincio inevitabilmente a tossire. Questo sembra fargli prendere una decisione, perché schiaccia il pulsante, sebbene con un’espressione quasi disgustata.
«Charlotte? Sono Arthur.»
Non ci credo. Spalanco gli occhi, incredulo. Ha davvero chiamato Charlotte? Quella nella top ten delle persone che detesta di più? Quella –cito testualmente- secchiona presuntuosa, arrogante e saccente?
«Senti» vedo che si sforza per essere gentile, specialmente vista l’occhiataccia preventiva che gli lancio «Scusa se ti disturbo, ma … avrei davvero bisogno di una mano. Sei al lavoro? C’è un posto in cui posso teletrasportarmi senza essere visto?»
Comincio a intuire cosa vuole fare.
«Bene. Grazie. Ci vediamo tra poco.»
Chiude la telefonata e mi restituisce il cellulare.
«Cambio di programma» annuncia. «Andiamo a Baltimora.»
 
Charlotte Miller, il più giovane medico primario che si ricordi oltre che il migliore, non può che lavorare qui: al Johns Hopkins Hospital di Baltimora, da diciotto anni al primo posto della classifica dei migliori ospedali degli Stati Uniti.
Art segue le sue indicazioni e ci teletrasporta entrambi in una stanza vuota. Quando la terra torna sotto ai miei piedi, un nuovo giramento di testa rende necessario il suo sostegno.
La porta si apre ed entra Charlotte.
Non la vedo da più di tre anni e il suo cambiamento è incredibile. I capelli biondi sono legati in uno chignon sul capo. Indossa il camice bianco su un tailleur impeccabile con un paio di tacchi di altezza considerevole. Sul viso, un leggero strato di trucco.
«Ciao» dice con un sorriso che non nasconde la sua preoccupazione. Sa che, se Arthur l’ha chiamata, il motivo deve essere serio.
«Ciao» replico, ancora cercando di riconoscere in lei la diciottenne timida e geniale che ricordo.
I suoi occhi si fermano su di me e vedo che mi studia con occhio clinico. Non può non notare la mia magrezza e il pallore cadaverico.
«Cosa succede?» chiede.
«Damien sta male da mesi» replica prontamente Art. «Tossisce, è dimagrito, è sempre stanco, spesso ha la febbre alta. All’ospedale gli hanno diagnosticato la mononucleosi, ma le medicine non fanno effetto. E non può fare gli esami del sangue per paura che scoprano … »
Charlotte annuisce, seria. Apre la porta e chiama un’infermiera.
«Ho bisogno di una camera per questo paziente. Voglio che prenoti uno screening completo e procedi con esami del sangue e … »
Delle parole che seguono capisco soltanto le congiunzioni: evidentemente Charlotte non è cambiata tanto come sembrava a prima vista. Concluso l’elenco di esami, congeda l’infermiera.
«Vi accompagno in camera» dice, e ci fa strada lungo innumerevoli corridoi.
Nel frattempo, il suo cercapersone suona qualcosa come dodici volte, e si allontana di fretta.
Mi siedo sul letto e Arthur si mette accanto a me dopo aver chiuso la porta.
«Come stai?» indaga.
«Meglio.»
«Sul serio?»
Mi stringo nelle spalle e mi appoggio a lui, chiudendo gli occhi.
«Sono contento che tu sia qui» sussurro.
«Non potrei essere da nessun’altra parte, Dam.»
«Ti amo.»
«Ti amo anch'io.»

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Capitolo 3
*** Nothing I can do ***


~NOTHING I CAN DO~

 

[Arthur]

 

Passano tre giorni.
La routine è più o meno sempre la stessa: continuo ad andare al lavoro –abitudine acquisita solo dopo aver ri-incontrato Damien, che disapprovava fortemente il fatto che mi teletrasportassi fuori dai negozi senza pagare- ma, a fine giornata, invece di tornare a casa vado a Baltimora, in ospedale.
Damien non sembra migliorare. La febbre va e viene, la tosse non smette, mangia pochissimo e continua a perdere peso.
L’unica cosa che mi fa sentire sollevato è saperlo nelle migliori mani possibili … anche se sono quelle piccole,  smaltate e dotate di artigli di quella stronza di Charlotte.
La terza sera, dopo una doccia veloce, chiudo casa e mi teletrasporto nella camera di Damien. Lui non si scompone troppo –all’inizio mi malediceva ogni volta che lo coglievo di sorpresa, ma poi ci si è abituato.
«Ciao. Com’è andata al lavoro?» mi chiede con naturalezza, come se fossimo a casa e dovessimo semplicemente raccontarci di un giorno qualunque.
«Tutto bene» rispondo automaticamente, chinandomi a baciarlo, anche se non è vero. Il mio capo, infatti, ha notato quanto ero assente e mi ha convocato nel suo ufficio, minacciandomi con il licenziamento. Ma questo non posso dirlo a Damien, visto che lui è attualmente in malattia e, se dovessi perdere il lavoro, resteremmo senza entrate. «E tu?»
«Niente di nuovo.»
Mi siedo sulla solita sedia di plastica e lo osservo con attenzione. Le occhiaie sul suo viso sono ancora più profonde, e se gli sollevassi la maglietta potrei contare le costole. Mi fa male il cuore a vederlo così, ma continuo a ripetermi che è solo questione di giorni prima che Charlotte trovi una cura.
«Hai finito?» mi domanda, irritato.
«Di fare cosa?»
«Di fissarmi.»
«Perché dovrei? Sei bellissimo.»
«Almeno non prendermi in giro.»
Il suo tono ferito mi fa sussultare.
«Sto dicendo sul serio, Damien.»
Lui borbotta qualcosa di indistinto che suona un po’ come “cazzate”.
«Per me sei bello sempre e comunque, Dam. Smettila di fare il finto modesto, lo sai anche tu.»
Gli strappo un mezzo sorriso insieme ad un bacio, e in quel momento si apre la porta.
«Scusate» dice Charlotte «Vi ho interrotti?»
Ho già la risposta sulle labbra: un freddo “sì, vattene, per favore”, ma due cose mi fermano. Primo: la gomitata di Damien nelle costole. Secondo: l’espressione sul viso di quella vipera … cioè, di Charlotte.
«No» rispondo. «Che succede?»
«Ho esaminato i risultati dei test.»
Mi drizzo subito sulla sedia, istintivamente. Osservo Charlotte con più attenzione, e noto le sue mani tremanti che stringono con forza una cartellina, gli occhi sfuggenti, le labbra strette.
«Credo … anzi, sono praticamente certa di aver capito di cosa si tratta.»
«Cos’è?» chiede Damien, e il suo tono è talmente deciso che Charlotte non può fare a meno di rispondere senza giri di parole.
Si morde il labbro, abbassa gli occhi.
«AIDS» risponde.
Ecco. Quattro lettere che hanno più potere di una bomba atomica.
I miei occhi saettano automaticamente verso Damien, prima ancora che il mio cervello faccia qualunque deduzione o elabori un pensiero razionale.
Damien fa un respiro profondo e improvviso, come se l’avessero colpito con un proiettile. Non incrocia il mio sguardo, ma abbassa gli occhi sulle lenzuola.
E io … io rimango lì immobile, guardando tutto come se fossi all’interno di una bolla. Vedo Charlotte muovere le labbra, ma non sento cosa dice. Ho bisogno d’aria. Ho bisogno di risposte. Ho bisogno di Damien.
Non riesco neanche a pensare. Tutto quello che ricordo su quella malattia è qualche immagine vista alla TV.
«Cosa vuol dire?» domando, interrompendo qualunque cosa stia dicendo Charlotte.
Lei mi guarda per un momento prima di rispondere, infilando nel discorso talmente tanti termini medici che non riesco a seguirla per più di venti secondi.
«C’è una cura?» chiedo, interrompendola ancora.
Quando comincia a blaterare di medicinali e cure sperimentali, capisco in fretta il nocciolo della questione.
La verità è che non c’è.
Guardo Damien come in trance. È ancora nella stessa posizione di prima, lo sguardo fisso sulle lenzuola, perso nel nulla.
E, del tutto inaspettatamente, sento un bisogno urgente di restare da solo con lui.
«Charlotte, vattene» le chiedo, ma suona più come un ordine.
Lei non obietta: annuisce e se ne va in silenzio.
Non appena la porta si chiude, mi volto verso Damien. Vorrei dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, ma ho un nodo in gola e la sensazione che, se parlassi, mi metterei a piangere.
Mi siedo sul bordo del letto e lo guardo. Quando finalmente riesco ad incrociare il suo sguardo, non vedo altro che una cupa rassegnazione. Ed è questo che mi fa crollare. Serro gli occhi, ma non sono abbastanza rapido da impedire alle lacrime di uscire.
Damien spalanca gli occhi, incredulo.
«No» mormora «Ti prego, Art, non piangere.»
Ma, anche se accontentarlo è tutto ciò che vorrei, non riesco ad impedirmelo.
Mi mordo il labbro e mi volto, lottando con furia per recuperare il controllo. So che non è di questo che ha bisogno, adesso. Ha solo bisogno che io sia forte e sorrida e gli dica che andrà tutto bene.
Anche se non è così.
E allora stringo i pugni, respingendo le lacrime, ma è semplicemente troppo e non ce la faccio.
Sento che Damien mi appoggia le mani sulle spalle, ma ancora non riesco a girarmi per guardarlo negli occhi. Restiamo così a lungo, in silenzio, finché non riesco finalmente a ricacciare tutte le emozioni dentro di me e soffocarle.
Allora, dopo essermi asciugato gli occhi quasi con rabbia, mi volto verso Damien.
«Mi dispiace» dico.
Lui scuote la testa. Non riesco a capire cosa prova, la sua espressione è impenetrabile.
«Andrà tutto bene» sussurra.
«Dovrei essere io a consolare te» gli faccio notare.
«Non è scritto da nessuna parte.»
«Probabilmente in qualche rivista psicologica che legge solo Charlotte.»
Sorride e torna ad appoggiare la testa sul cuscino, stanco.
«Sai cosa significa questo, Art?» domanda dopo qualche secondo di silenzio.
«Cosa?»
«Che potrei davvero morire.»
Stringo gli occhi.
«Non dirlo» sibilo.
Lui sospira.
«È la verità» mormora, la voce bassa, gli occhi chiusi.
«Puoi combatterla» dico a denti stretti. «Non lascerò che tu … non succederà. Farò qualunque cosa … qualunque, hai capito? Non dire più una cosa del genere.»
Damien non aggiunge altro e in breve tempo si addormenta.
Lo osservo a lungo, in silenzio, finché non sento dischiudersi la porta. È Charlotte. Le faccio segno di fare silenzio ed esco con lei chiudendomi la porta alle spalle.
«Allora?» chiedo, diretto. «Quanto gli resta?»
La domanda mi brucia la gola, lasciandomi un desiderio di spaccare qualcosa. Guardo Charlotte, perfetta nella sua tenuta da medico-migliore-del-mondo, e sento tutto l’odio che provo accrescersi e invadermi.
«Il fatto è» mi spiega lei «Che il nostro corpo funziona in modo diverso da quello degli altri. Ne è prova che, a quanto pare, la malattia ha raggiunto lo stato conclamato in circa tre anni, mentre di solito non ne impiega meno di sei, e una media di dieci.»
«E … normalmente, quanto ci impiega a … per … »
«Dipende.» La voce di Charlotte e così dolce e comprensiva che mi viene voglia di tirarle un pugno. «L’AIDS abbassa le barriere del sistema immunitario e rende più soggetti ad altri tipi di malattie, come i tumori. Varia da caso a caso.»
«E non possiamo fare niente?»
«Possiamo provare con alcune medicine che possono rallentare i sintomi, ma … onestamente, non so quanto possano essere efficaci. Sembra che il nostro corpo assorba e smaltisca più in fretta i medicinali, abituandosi subito ad essi e creando dipendenza. Quando Damien prendeva quelle pastiglie contro le visioni, ad esempio … »
«Insomma» la interrompo, furioso «Siamo nell’ospedale migliore degli Stati Uniti, con la cosiddetta dottoressa più intelligente del mondo, e tutto quello che riesci a dirmi è probabilmente non possiamo fare nulla?!»
«Arthur, ascolta … »
«Non ho intenzione di farlo! Non se vuoi continuare a parlare di medicine inutili e terapie che forse potrebbero rallentare la malattia. Ho bisogno di sicurezze. Damien ne ha bisogno!»
Ho alzato la voce, tanto che un’infermiera si avvicina a Charlotte per chiederle se ha bisogno d’aiuto –ma lei scuote la testa.
«Non è vero che non c’è niente che puoi fare» dice con voce più ferma e più fredda di prima. «Puoi stare vicino a Damien e rassicurarlo, tenergli compagnia e lasciare che io faccia il mio lavoro. Credi che lo lascerei morire senza aver fatto tutto il possibile
Mi rimette subito al mio posto, e taccio per qualche momento, riflettendo sulle sue parole e sentendo la rabbia che sbollisce lentamente.
«Gliel’ho trasmessa io?» chiedo improvvisamente, trafitto da quest’ultimo pensiero doloroso.
«Beh» comincia Charlotte, e non è mai un buon inizio «Ho controllato anche i tuoi, di esami, e … credo di sì, Arthur. Forse l’hai ereditata dai tuoi genitori, o … non lo so, potrebbero essere diverse le cause.»
«Quindi è tutta colpa mia» riassumo cupamente.
«Non dire così. Non è vero, non hai nessuna colpa.»
«Non siamo negli anni Sessanta, Miller. Avrei dovuto informarmi! Internet è stato inventato per questo.»
«Va bene, ma questo non significa che tu sia la causa della malattia di Damien. Dopotutto tu, per qualche ragione, non ti sei ammalato.»
«Certo che no» sbuffo «Sono invulnerabile, ricordi?»
E per un  momento, per la prima volta nella mia vita, vorrei non avere questo potere. Certo, è piuttosto utile –non ricordo di aver mai preso la febbre, o di essermi tagliato, o qualunque altra cosa- ma vorrei poter cedere l’invulnerabilità a Damien. Ne ha più bisogno di me.
Peccato che non possa farlo.
L’intuizione arriva senza preavviso, lasciandomi senza fiato.
«Oh, Dio» mormoro, guardando Charlotte con occhi sbarrati.
«Cosa c’è?»
Scuoto la testa, troppo sconcertato.
«Devo andare, ma tornerò presto» prometto. «Dì a Damien che non tarderò.»
E, prima di lasciarle il tempo di dire qualunque cosa, mi teletrasporto a casa, dove sono certo che nessuno possa sentirmi. Prendo il cellulare e compongo un numero che mai e poi mai avrei pensato di dover chiamare –meno ancora di quello di Charlotte.
«Sono Arthur» dico sbrigativamente. «Dove sei? Ti devo parlare.»
E, ricevuta l’informazione, mi teletrasporto subito al Queen Victoria’s College.
 
Piove. Normalmente andrei a prendere un ombrello, ma questo momento è davvero troppo importante.
Guardo la sagoma familiare del vecchio edificio in mattoni con il prato verde che lo circonda e le recinzioni, apparentemente innocue. Mi sento immediatamente soffocare.
Ho odiato questo posto più ancora di casa mia. O forse … beh, diciamo che potrebbe essere un pari merito. L’unica cosa che rendeva sopportabile il tempo passato qui erano i ragazzi –Damien, naturalmente, ma anche Blake, Lily e Vanessa. Con Jonathan non ho mai avuto un grande feeling, e Charlotte … beh, non è neanche necessario nominarla. Ma il Queen Victoria’s mi è sempre sembrata più una prigione che una scuola, fin da quando i miei genitori mi ci hanno mandato dicendomi che era “un posto per persone speciali come te”, il che mi aveva subito fatto pensare ad un manicomio o ad un riformatorio.
Quando hanno cominciato a fioccare i divieti –vietato uscire, vietato correre, vietato fumare, vietato spegnere la luce dopo le undici e così via- è diventato sempre più difficile resistere. Ho capito in fretta che l’ultimo desiderio di Hermann era farci sviluppare i nostri poteri, come ufficialmente sosteneva: voleva solo reprimerli, nasconderci per tenerci lontani dalla società.
Me ne sono andato quando avevo quindici anni, tanti ideali e altrettanti stupidi sogni. Las Vegas è stata una scelta premeditata –con i trucchi nel gioco d’azzardo ho imparato a far sorvolare gli altri sulla mia minore età, e ho guadagnato abbastanza da mantenermi autonomamente.
E il Queen Victoria’s … l’ho relegato in un angolo della mia mente, sepolto accanto ai ricordi, buoni e cattivi, di quel periodo.
Trovarmi di nuovo qui, adesso, non è affatto una bella sensazione.
Vedo arrivare la persona che stavo aspettando da lontano. Non appena i suoi tratti si fanno visibili attraverso l’acqua scrosciante, la avverto:
«Non fare niente di stupido o me ne andrò immediatamente.»
Lei mi raggiunge, le mani sepolte nelle tasche dello spolverino scuro, i capelli rossi un po’ gonfi per l’umidità.
«Non ho intenzione di correre il rischio, dopo tre anni passati a cercarti» replica Lily, un mezzo sorriso sul volto. «A cosa devo il piacere, Arthur?»
«Ho bisogno di te e di Vahel» dico a malincuore.
«Oh, meraviglioso. E per cosa, di grazia?»
Il suo tono leggermente sarcastico non mi tocca nemmeno.
«Voglio che replichiate i miei poteri.»
«E perché mai?»
«Ne ho bisogno. Per … una persona. Non importa.»
«E noi cosa ne ricaviamo?»
«Non è quello che volevate? I miei poteri? Li potrete prendere anche voi, se la cosa è possibile.»
«Molto bene. Se ne sei convinto, vieni. Ti accompagno da Vahel.»
«Aspetta. Quanto … quanto tempo ci vorrà?»
«Difficile dirlo, non sono io l’esperta. Comunque, considerato che bisognerà fare tutto due volte … non so, una settimana? Due?»
«Così tanto?» sbuffo, innervosito.
«Scusami, ma hai avuto tre anni di tempo e ti lamenti perché ci vuole una settimana?»
«Ho solo avuto l’occasione di rivedere le mie priorità, di recente.»
«Quello che vuoi. Vieni?»
Esito, quindi annuisco.
«D’accordo.»
E, anche se solo ieri mi sarei messo a ridere se mi avessero detto che l’avrei fatto, seguo Lily all’interno del Queen Victoria’s College.
 

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Capitolo 4
*** Right or Wrong ***


~RIGHT or WRONG~

 

[Lily]

 

Non posso ancora credere che le circostanze siano così favorevoli. Insomma, ho passato tre anni a cercare Arthur da un capo all’altro del mondo, con il fiato di Vahel sul collo … e all’improvviso eccolo che si presenta qui spontaneamente e chiede che gli facciamo esattamente quello che vogliamo fargli.
Sono appollaiata su uno sgabello nel laboratorio di Vahel, nei sotterranei del Queen Victoria’s College. Non amo particolarmente questo posto –la prima volta che ci sono stata, mi sono stati tolti i poteri. Temporaneamente, certo, ma io non lo sapevo.
In ogni caso, non sono io in esame adesso. Osservo distaccata Vahel che prepara tutto il necessario.
Art è seduto su una poltrona simile a quella di un dentista e osserva con attenzione i movimenti di Vahel.
«Cosa deve fare?» chiede.
«Prima di tutto, dovrò prelevarti del sangue» risponde tranquillamente Vahel. «Poi ti somministrerò una dose piuttosto massiccia di Pentothal, e dovrai restare sotto il suo effetto per qualche giorno prima che io possa ripetere l’esame del sangue. Poi li potrò confrontare, e, una volta svanita completamente l’azione del Pentothal, preleverò il materiale genetico necessario. Dovremo aspettare qualche altro giorno prima di ripetere il prelievo per la seconda volta.»
«Per un totale di … ?»
«Un paio di settimane, credo.»
Arthur fa per dire qualcosa, ma poi scuote la testa.
«D’accordo.»
Vahel sorride –quel suo sorriso gelido e inquietante.
«Non vuoi sapere se sarà doloroso?»
Art stringe gli occhi.
«L’unica cosa che mi interessa è avere quella roba.» Fa una pausa, riflettendo, mentre Vahel fruga tra i suoi cassetti e ne estrae una siringa. «Lo sarà?» chiede comunque.
Vahel ride –una risata meccanica e fredda che ho imparato a temere.
«Oh, io non mi preoccuperei troppo. Pensavo che a voi femminucce il dolore piacesse.»
Prima che Arthur possa replicare, Vahel gli annoda intorno all’avambraccio un tubicino di gomma e gli ordina di stringere il pugno, per poi pungergli senza troppi scrupoli l’incavo del gomito.
Preleva due fiale di sangue e le ritira scrupolosamente.
«Bene» dice, soddisfatto «Adesso il Pentothal. Ma andiamo su, non voglio che vomiti sul pavimento del laboratorio.»
Art fa una smorfia e in quel momento il cellulare di Vahel squilla.
«Sì?» risponde bruscamente. «Cosa? Davvero? Non è possibile … sì, sì, maledizione, arrivo subito.»
Chiude di scatto il telefono e si volta verso di me.
«Fallo tu, Lily. Quattro fiale subito, più una ogni sei ore. Io tornerò più tardi.»
«Quattro? Ma pensavo che … »
«Fai quello che ti dico e basta.»
Leggermente irritata, annuisco. Insomma, la dose standard di Pentothal è di mezza fiala, perciò mi sembra eccessivo … ma non voglio contrariarlo ancora. Sa quello che fa, immagino.
Faccio cenno ad Arthur di seguirmi su per le scale e ci dirigiamo verso la vecchia camera dei ragazzi, con i tre letti vicini e qualche poster ingiallito alle pareti.
Lui si siede su uno dei letti e mi lancia un’occhiata di sfuggita.
«Mi hanno detto che sei stata tu a rivelare a quelli dell’Area 51 che ero a Las Vegas» dice con calma.
«È così» confermo altrettanto tranquillamente.
«Perché?»
«Perché ti odiavo. Perché mi avevi tradita con Vanessa. Perché non avevo nessuna ragione logica per cui tacere» rispondo senza scompormi.
Sono ancora fermamente convinta di aver fatto la cosa giusta … o, perlomeno, di non aver fatto una cosa poi così sbagliata. Come ho detto, avevo le mie ragioni.
Mi tiro su le maniche e preparo la siringa con la prima fiala di Pentothal.
«Dammi il braccio.»
Lui obbedisce.
Cerco la vena e gli inietto il liquido trasparente. Pochi secondi dopo, è già piegato in due per i conati.
Prendo la seconda fiala e ripeto la medesima operazione.
Art ansima e si porta le mani allo stomaco, tentando di riprendere fiato.
Ancora la terza fiala raggiunge le prime due, e Art comincia a gemere dal dolore, tossendo e ansimando, scosso da fitte lancinanti allo stomaco.
Gli tengo il braccio, ma le mie mani tremano e rischio di perdere la presa.
«Stai fermo» mormoro «Solo più una, Art. Coraggio, è quasi finita.»
Lui stringe i denti e rilassa ancora il braccio in modo che io possa concludere il lavoro iniettandogli l’ultima fiala di Pentothal in vena.
A quel punto lo lascio andare, e lui scivola sul pavimento, contorcendosi per il dolore, le mani strette sullo stomaco, le urla soffocate dai denti stretti.
Mi inginocchio accanto a lui, preoccupata. Forse non avrei dovuto ascoltare Vahel. Insomma, conosco fin troppo bene gli effetti collaterali di una dose normale di Pentothal, e questa era otto volte più grande.
«Arthur? Stai bene?»
Ma lui non replica, mordendosi le labbra per non gridare.
Nervosa, afferro un libro dal piccolo scaffale lì accanto, mi allungo sul letto e comincio a sfogliarlo. Non che mi interessi davvero –è uno dei libri di Jonathan sugli animali- ma almeno mi dà qualcosa da fare che non sia guardare Art contorcersi sul pavimento.
Passano diversi minuti nel silenzio, quindi Art smette di muoversi e rimane sdraiato sul pavimento, immobile, tremante, le mani chiuse a pugno. Impiega qualche altro minuto per alzarsi in piedi e dirigersi a fatica verso il bagno. Sento lo scroscio dell’acqua protrarsi a lungo.
Quando Art ricompare, i capelli bagnati e l’espressione un po’ meno sconvolta, chiudo il libro.
«La tua soglia del dolore è piuttosto bassa» gli faccio notare.
«Lo sarebbe anche la tua, se fossi stata invulnerabile per tutta la vita» mi fa notare, piccato.
Mi limito a sogghignare.
«Cosa devo fare, adesso?» mi chiede. «Voglio dire, ho qualche giorno di attesa e … »
«Devi solo startene qua buono» taglio corto. «Devo iniettarti una fiala di Pentothal ogni sei ore per i prossimi quattro giorni, perciò niente viaggi di piacere.»
«D’accordo. Posso usare il telefono o devo considerarmi in prigione?»
«Puoi farlo, immagino.»
Tira fuori il cellulare e compone un numero rapidamente.
«Charlotte? Sono Arthur.»
Spalanco gli occhi, incredula. C’è un motivo per cui sta chiamando una delle persone che detesta di più al mondo? Ci penso per un momento, ricordandomi che probabilmente ci sono anch’io in quella cerchia di persone, eppure è qui con me.
«Come sta?»
Segue un lungo silenzio durante il quale Arthur ascolta corrucciato le parole di Charlotte.
«Posso parlargli?» Una nuova pausa. «Damien? Sono io. Come stai? … Sì, immagino. Sul serio? Perché? … Ah.»
Distolgo l’attenzione per un po’, tornando su di lui solo nel momento critico.
«Beh, sono … ecco, Dam, non posso spiegartelo. Sul serio, te la prenderesti e … no, non è niente di tremendo, ma … Senti, ti fidi di me? Allora credimi: tornerò a breve, e con una cura. … No, credo due settimane.»
Anche io riesco a sentire la replica indignata di Damien all’altro capo:
«Due settimane?!»
«Sì, lo so, è tanto, ma … no, non posso teletrasportarmi adesso, Dam. Magari tra qualche giorno. … No, intendo dire che davvero non posso. Anche se volessi non … »
Un’altra pausa prima della conclusione:
«Come vuoi. Prenditi cura di te, ok? Ti chiamerò il più spesso possibile.» Sento il suono del telefono libero: Damien deve aver attaccato. «Ti amo» finisce Arthur sottovoce, ma ormai la linea è caduta.
«Perché non gliel’hai detto?» gli domando.
Lui sembra ricordarsi solo ora della mia presenza.
«Perché lo conosco, e mi avrebbe sicuramente impedito di restarci. Credo che avrebbe potuto mandare Jonathan e Charlotte a prendermi.»
«E lui non sarebbe venuto?»
Si rabbuia istantaneamente.
«Non può.»
«Come mai?»
«È in ospedale.»
«Perché?»
«Non sono affari tuoi, Lily.»
«È mio amico.»
Art si siede sul bordo del letto, ben distante da me, e non risponde, rimettendo in tasca il cellulare.
«Avanti, dico sul serio» insisto. «Damien è mio amico. Tu mi odi, ma non ho fatto niente a lui.»
«È malato» risponde bruscamente. «Di AIDS. È in cura da Charlotte.»
Questo riesce a farmi tacere. Lo fisso, sbigottita.
«Oh, mio Dio. Mi dispiace.»
Art si stringe nelle spalle e si alza, infastidito.
«Beh, io vado» dico, in imbarazzo. «Fai come se fossi a casa tua.»
Esco, ancora scioccata, e mi dirigo in automatico verso le scale per tornare in laboratorio.
Damien malato? La sola idea mi sembra profondamente sbagliata. Il pensiero che possa morire mi lascia senza fiato … ma poi mi ricordo dove sto andando, e i sensi di colpa si fanno sentire di nuovo. Perché Damien non è l’unico in pericolo di vita, ma almeno nel suo caso io non ho nessuna colpa.
Ma scaccio in fretta quel rimasuglio di coscienza che mi rimane, seppellendola in fondo a emozioni violente di odio, nate dall’abbandono e dalla solitudine di questi anni.
Sto facendo la cosa giusta.
Deve avermi sentita arrivare, perché sento il tintinnio grave delle catene che si spostano. Nervosa, afferro le chiavi dal gancio sul muro e le infilo nella serratura, aprendo la porta a sbarre.
«Allora?» dico bruscamente, fissando la figura incatenata. «Hai pensato a quello che ti ho detto?»
Mi guarda con gli occhi socchiusi.
«Siamo nervose quest’oggi?»
Faccio un passo avanti, minacciosa.
«Non ti conviene fare lo spiritoso» ringhio, e sollevo la mano.
Un forte lampo di energia lo colpisce, facendolo saltare indietro fino a sbattere contro il muro retrostante, con più violenza di quanto volessi.
Scivola a terra e si porta lentamente una mano alla testa, da cui cola un sottile rivolo di sangue.
«Ironico» commenta solo, pacatamente, osservando le dita macchiate di rosso. «Ora so cosa si prova, almeno.»
«Hai fame?» replico, acida, tirando fuori dalla tasca una pagnotta di pane.
«Affatto» dice, ma la sua espressione lo tradisce.
Sorrido.
«Da quant’è che non mangi? Tre giorni? Quattro? Quanto pensi di poter resistere ancora?»
«Abbastanza» risponde, distogliendo a fatica gli occhi dal pane.
«Puoi averla, sai? Basta che rispondi alle mie domande. Come hai ottenuto i codici di accesso?»
Resta zitto, gli occhi a terra.
«Dov’è la tua base?»
Ancora silenzio. Mi innervosisco e stringo in mano la pagnotta fino a farla quasi sbriciolare completamente.
«Chi sono i tuoi alleati? Avanti, dimmelo. Charlotte? Vanessa? Jonathan?»
Ancora non risponde.
«E Arthur? C’entra qualcosa in tutto questo?»
«Ero solo» dice con calma forzata. «Te l’ho già detto mille volte.»
Senza riuscire a controllarmi, gli scaglio contro un’altra scarica di energia, facendogli ancora sbattere la testa contro il muro. Stavolta non si rialza.
Non sono neanche certa se sia svenuto o meno, ma non mi interessa. Richiudo a chiave la cella, riappendo le chiavi e lo guardo per un attimo, cercando in tutti i modi di non pensare.
Come se fosse possibile.
«Tornerò domani, così avrai tempo per cambiare idea, Blake.»
 

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Capitolo 5
*** Telepathy ***


~TELEPAThY~

 

[Jonathan]

 

Stanco, irritato e nervoso.
Sono piuttosto sicuro che non è così che dovrei sentirmi dopo il nostro consueto pranzo domenicale, ma tant’è.
Ormai è da un pezzo che non abito più qui, per fortuna. Ho trovato un appartamento carino in città e un lavoro temporaneo nell’officina di un meccanico, mentre di sera studio: da due anni sono iscritto a veterinaria –sì, scelta ironica, lo so.
In ogni caso, da qui non si scappa: il pranzo a casa di domenica è un obbligo e non posso rifiutarmi. Purtroppo martedì sarà festa nazionale, perciò mia madre mi ha costretto a passare da loro tutto il ponte. Impresa non da poco.
Ovviamente abbiamo passato l’intero pranzo a discutere. Secondo i miei genitori il mio lavoro è “vergognoso” e la scelta di studiare veterinaria è “ridicola”. So che la cosa non dovrebbe toccarmi più di tanto, ma sentire le loro critiche serrate è insopportabile.
Perciò esco di casa e mi dirigo nel bosco. Ho bisogno di una calma che non posso recuperare all’interno. Mi trasformo in lupo –semplicemente per non essere disturbato da nessuno e poter correre in libertà.
Raggiungo la radura dove andavo sempre da ragazzino, prima di trasferirmi al Queen Victoria’s, e mi siedo con il muso a terra.
Chiudo gli occhi.
Questi ultimi anni non sono stati un eccitante mix di libertà e tranquillità come pensavo. Anzi. Ho scoperto che la vita reale mi sembrava più strana e falsa di quella di prima. E l’idilliaca vita di famiglia che mi ricordavo da quando avevo dieci anni … beh, diciamo solo che idilliaca non era l’aggettivo più calzante.
Un suono improvviso mi fa sussultare –lo scricchiolio di un ramo spezzato. Mi volto di scatto, i denti scoperti, istintivamente in posizione d’attacco. Ma mi rilasso subito, anche se il mio momento di pace è già finito.
Un ragazzo bruno si è fermato a guardarmi, tra il timoroso e il divertito.
«Jon?» si premura di chiedere, casomai potessi essere un lupo vero –in tal caso mi chiedo quanto in fretta riuscirebbe ad andarsene. Sono tentato di fargli uno scherzetto, ma poi decido che non ne ho voglia. Annuisco e lui mi raggiunge.
Jack, mio fratello minore, ha da poco compiuto diciotto anni. Questo è l’ultimo anno di liceo per lui.
Dai ricordi che ho di lui prima di partire per il Queen Victoria’s, era un bambino allegro e iperattivo. Poi, quando sono tornato, l’ho visto nei panni di un quindicenne alle prese con problemi esistenziali come brufoli, ragazze e interrogazioni di matematica. Alla fine ha scoperto il football. È entrato nella squadra come kicker al suo secondo anno di liceo e si è adattato alla vita quotidiana da liceale piuttosto popolare. Ha anche parecchie ragazze che gli ronzano intorno, compresa la sua attuale fidanzata, una cheerleader bionda chiamata Susie.
Tra poco finirà l’ultimo anno –sta cominciando a ricevere le lettere di ammissione ai vari college.
Tutto ciò che io non ho mai potuto fare. Una vita normale.
Mi si avvicina e si siede accanto a me, grattandomi la testa dietro alle orecchie. Me la godo per qualche secondo prima di trasformarmi.
«Allora» esordisco «Stai cercando anche tu di scappare?»
«È stato il pranzo della domenica più imbarazzante della mia vita.»
«Non sei l’unico a pensarla così.»
Jack sorride, ma vedo che c’è qualcosa che non va. È teso e continua a tormentarsi le mani.
«Cosa succede, Jack? Hai qualche problema a scuola? Con Susie?»
Scuote la testa. Rimane in silenzio per un po’, prima di chiedere:
«Non mi hai mai raccontato come mai te ne sei andato da quella scuola.»
Lo guardo, sorpreso.
«Beh, per fartela breve, il preside era un pazzo psicopatico che voleva addestrarci per uccidere il presidente degli Stati Uniti.»
Jack sgrana gli occhi.
«Ti ho mai detto» aggiungo, pensieroso «Che quando siamo scappati, io e i miei compagni, il preside, Vahel, mi ha sparato?»
«Che cosa?»
«Dico sul serio. Due colpi. Ho rischiato grosso, ma Charlotte mi ha salvato la vita.»
«Charlotte … il genio, giusto?»
«Proprio lei.»
E, come sempre quando ci penso, mi coglie un’ondata di malinconia che devo scacciare con forza.
«E … Jon? Quando sei partito per quella scuola … lo hai deciso tu o ti ci hanno mandato mamma e papà?»
«In realtà, è venuto Hermann –il vecchio preside- a casa nostra. Non so esattamente come lo sapesse, ma mi ha spiegato che esisteva questo posto speciale … avevo dieci anni, mi sembrava una cosa estremamente eccitante, e mamma e papà non vedevano l’ora di sbarazzarsi del figlio strano, immagino, anche se non l’ho capito fino a pochi mesi fa.» Sorrido cupamente. «Perché lo vuoi sapere, comunque?»
Jack abbassa gli occhi. Respira profondamente, esita, quindi mormora:
«Credo di avere anch’io una specie di … potere, Jon.»
Sussulto, preso alla sprovvista.
«Che cosa?»
«È cominciato solo da qualche mese. Io … credo di sentire i pensieri delle persone.»
Sono troppo sbalordito per replicare. Mi aspettavo una chiacchierata tra fratelli sulle ragazze, o sul football, e sento Jack che dice di essere telepatico.
«Credevo di star impazzendo. Sentivo queste … voci nella mia testa, all’inizio solo ogni tanto, poi sempre più spesso, e … non capisco se … » si blocca per un momento e poi aggiunge «Non faccio che venire qui, perché almeno non c’è nessuno … di solito, e c’è silenzio. Ma è una cosa orribile, Jon! Non so se sono veramente pazzo oppure … »
La sua voce si spezza e io intervengo.
«Ehi, ehi, calma» dico, mettendogli una mano su una spalla. «Perché non me l’hai detto prima? Avrei potuto aiutarti.»
«Temevo che non mi credessi, e … avevo paura che mamma e papà mandassero via anche me» rivela sottovoce.
Chiudo gli occhi per un secondo.
«Ok» dico, cercando di sembrare calmo e rilassato «Non devi preoccuparti. Non è una cosa terribile come può sembrare. Puoi conviverci tranquillamente.»
«Ma non riesco più a pensare! Mi sembra di avere una radio accesa in testa ventiquattr’ore al giorno!»
Mi ricorda incredibilmente Damien, e per un secondo penso a quelle pastiglie che prendeva e provo un brivido di terrore, ricordando le urla che arrivavano attutite dalla stanza della disintossicazione.
«Che pastiglie?» chiede Jack, aggrottando le sopracciglia.
Io lo guardo per un istante, chiedendomi se ho parlato ad alta voce –ma poi mi rendo conto che no, non l’ho fatto, ma lui mi ha letto nel pensiero.
E la cosa è piuttosto inquietante.
«Cos’hai sentito, di preciso?» gli chiedo, distraendomi per un attimo dal suo problema.
«Da te? Beh, qualcosa riguardo a Charlotte … qualche pensiero non proprio casto, ecco.»
Ride e io arrossisco, tirandogli un pugno sul braccio.
«Sei un piccolo spione impertinente» sbotto.
«Il problema è questo» replica, tornando serio e cupo.
«Cosa?»
«Io non ti ho spiato, Jon. Non riesco a fare a meno di sentire tutto» mi spiega. «E comunque, a quali pastiglie stavi pensando?»
«Non è una soluzione applicabile» taglio corto. «È una droga vera e propria. Damien –quello che vede nel futuro- le ha prese per un po’, prima di rendersi conto di esserne diventato completamente dipendente. Aveva un problema simile al tuo. Le visioni lo tormentavano giorno e notte.»
«E poi?»
«Poi, dopo una disintossicazione per nulla piacevole, Charlotte lo ha aiutato ad imparare un metodo del tutto naturale per controllare le visioni.»
«Pensi che potrei impararlo anch’io?» chiede, gli occhi che si illuminano improvvisamente per la speranza.
«Immagino di sì» rifletto. «Forse potremmo andare a trovare Damien. È da un po’ che pensavo di farlo, comunque.»
«Dove abita?»
«A Cape Coral, in Florida.»
«Mi risulta che la Florida sia piuttosto lontana dal Colorado.»
«Credo che sia una buona occasione per prendersi una vacanza da mamma e papà e lasciare Meredith a goderseli da sola, che ne pensi?»
Jack sorride.
«Penso che sia un’ottima idea.»
 
A casa di Damien non risponde nessuno, quindi provo sul cellulare.
«Pronto?»
«Damien? Ciao, sono Jon.»
«Jon! Che bello sentirti. Cosa succede?»
«Niente di particolare.» Lancio un’occhiata a Jack, seduto in cucina a pochi passi da me, che mi guarda di sottecchi. «Pensavo di fare un salto a trovarti, la prossima settimana. Che ne dici?»
Un silenzio abbastanza lungo mi induce a pensare che sia caduta la linea.
«Dam?»
«Sì, ci sono. Ehm … ci sarebbe solo un problema. Non sono a Cape Coral, ora. Sono a Baltimora.»
«A Baltimora?» Penso subito a Charlotte, che lavora lì. «Come mai?»
«È una storia … piuttosto lunga.»
«Oh … d’accordo. Ma ascolta, avrei veramente bisogno di parlarti faccia a faccia. Per quanto resterai lì?»
«Per il momento è a tempo indeterminato, diciamo così.»
Sono piuttosto confuso, ma non insisto.
«Ok. Sarebbe un problema se venissi lì, allora?»
Un nuovo silenzio.
«Immagino di no. Vieni pure, se vuoi.»
«Perfetto. Credo che potrei arrivare mercoledì, se trovo un volo.»
«D’accordo. Ci vediamo, Jon.»
«Ciao.»
Riattacco e mi volto verso Jack.
«Accendi il computer. Dobbiamo trovare un volo per Baltimora.»
 
Tre giorni dopo, sono all’aeroporto di Baltimora con Jack. Compongo rapidamente il numero di Damien.
«Ehi, ciao. Sono appena arrivato.»
«Ciao.»
«Dove posso raggiungerti?»
Una lunga esitazione, quindi risponde brevemente, conciso:
«All’ospedale.»
«Cosa?»
«Senti … ti spiegherò tutto quando sarai qui, ok?»
«Io … va bene, immagino.»
Chiudo la telefonata.
«Che succede?» mi chiede Jack.
«Vorrei proprio saperlo» borbotto.
Prendiamo un taxi e in dieci minuti siamo in ospedale. La prima persona che vedo quando entro è l’ultima che volevo incontrare.
«Ciao, Jonathan.»
Charlotte è diventata splendida. Non so se sono io, ma mi sembra più alta, più bella, più adulta, più tutto. E vorrei solo salutarla nello stesso modo in cui le ho detto addio tre anni fa.
Sento Jack soffocare una risatina dietro di me e lo congelo con un’occhiataccia. Torna subito serio.
Non dev’essere facile per lui. Ha detto che i posti affollati sono sempre i peggiori, perché sente migliaia di voci contemporaneamente.
«Ciao, Charlotte. È bello rivederti.»
Mi dà un bacio sulla guancia.
«Sei qui per vedere Damien, giusto?»
«Già. Ma non sono riuscito a capire … »
«Ti spiegherà lui stesso, immagino. Vieni.»
Guarda Jack incuriosita.
«Oh, già. Charlotte, ti presento mio fratello Jack. Jack, Charlotte.»
«Ho sentito parlare molto di te» dice Jack stringendole la mano. «Ecco, in effetti ho sentito parlare solo di te per svariate settimane … »
«Oh, sta’ zitto» sbotto, e Charlie ride.
Ci accompagna fino al quarto piano, per poi indicarci la stanza di Damien.
«Suppongo che vorrai parlargli per conto tuo.»
«Credo che sia meglio.»
«Non preoccuparti, me la caverò» replica tranquillamente Jack, e annuisco mentre busso alla porta.
«Avanti.»
Entro nella stanza e il mio cuore perde un battito nel vederlo.
Damien è seduto sul letto. È pallido e più magro che mai. Diversi tubicini corrono dalle sue braccia a varie macchine intorno al letto.
Mi blocco davanti alla porta, incapace di reagire.
«Cosa … ?» mormoro.
«Ciao, Jon.»
«Ciao.»
Mi faccio forza e mi avvicino a lui, fino a sedermi cautamente su una sedia di plastica accanto al letto.
«Cosa ti è successo?» non posso fare a meno di domandare, sconvolto.
Damien si passa una mano tra i capelli, teso.
«È … beh, Charlotte dice che … » si interrompe, guardandomi quasi con timore «È AIDS.»
Mi manca improvvisamente l’aria. Lo guardo con sguardo perso, cercando di dare un senso alle sue parole.
«Ma … »
«Senti, Jon» mi ferma subito «Lascia perdere. Non ne voglio parlare, ok? Sei venuto qua per un motivo, giusto? Avanti, dimmi.»
Cerco di restare calmo e lucido e annuisco.
Mi alzo e chiamo Jack e Charlotte.
«Damien, questo è mio fratello Jack.»
«Ciao.»
Jack ricambia il saluto, e rivedo nel suo comportamento teso il mio stesso disagio. Immagino come debba sembrare orribile la situazione a Damien e mi rimprovero per essere stato così stupido.
«Beh, per quanto la cosa possa sembrarti assurda, abbiamo un problema» dico, ricordandomi all’improvviso che quello che ho davanti è ancora il mio migliore amico.
Damien ridacchia.
«Oh, avrei scommesso che avresti pronunciato queste parole.»
«Da qualche mese Jack ha scoperto di essere telepatico» spiego.
Charlotte drizza le orecchie.
«Sul serio?» domanda, fissando mio fratello. «Quindi non è venuta con la nascita? Questa sì che è una novità. Mi piacerebbe poter fare un confronto genetico … »
«Sì, d’accordo» la blocco, nascondendo un sorriso «Ma il motivo per cui siamo qua è che le voci … i pensieri, insomma … gli danno il tormento.»
Guardo Jack per incoraggiarlo a continuare da solo.
«È così» conferma lui «Li sento sempre più forti, non riesco a concentrarmi su nessuno in particolare. È come un ronzio continuo e incontrollabile che non smette mai, neanche di notte.»
«Ho pensato che avresti potuto spiegargli come funziona quel metodo che ti aveva insegnato Charlie.»
«Certo» dice Damien. «Ti capisco benissimo, Jack. Dici che funzionerebbe, Charlie?»
«Non vedo perché no. Il principio è lo stesso» replica lei.
«Bene, allora lo farò io» decide Damien. «L’ho perfezionato parecchio nel corso degli anni, potrebbe essergli utile.»
«Grazie» replica Jack, sollevato.
«Figurati. Non ho molto altro da fare per impiegare il tempo, dopotutto.»
Guardo Damien e sento il bisogno di dire qualcosa –qualunque cosa- ma non ci riesco. Nonostante sia il mio migliore amico, o forse proprio per questo.

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Capitolo 6
*** The Choice ***


~THE CHOICE~

 

[Arthur]

 

Aspetto che Lily se ne vada per cercare di schiarirmi la mente, ma serve a poco, nonostante la ventata di aria fredda che faccio entrare spalancando la finestra.
Il Pentothal, preso in una dose così eccessiva, rende i miei pensieri lenti e faticosi. I contorni degli oggetti sono sfocati, mi sembra di muovermi al rallentatore, e ovviamente non riesco ad usare i miei poteri.
È in momenti come questo che capisco quanto ne sono dipendente. Non c’è altro che vorrei, adesso, che teletrasportarmi in un istante da Damien e tenergli compagnia. Invece devo aspettare per due settimane i comodi di Vahel in questo edificio soffocante.
Non appena la mia mente si riprende quel tanto che basta per farmi ricordare con esattezza dove sono e come mai sono qui, decido di fare un giro esplorativo.
Scendo nelle aule, rivedo la mensa e la sala comune, e poi vado giù nei sotterranei. Oltrepasso il laboratorio di Vahel e percorro il lungo corridoio, ricordando con divertimento quella volta in cui io e Damien –dovevamo avere tredici o quattordici anni- siamo scesi qui sotto per fumare e siamo stati beccati dal preside in persona. È stato in quell’occasione che ho scoperto di poter teletrasportare qualcuno insieme a me: ho istintivamente afferrato Damien e ci siamo ritrovati in camera con ancora la sigaretta accesa. Ovviamente Hermann ci ha visti e puniti comunque, ma questa è un’altra storia.
Proseguo fino al fondo e poi mi volto, decidendo di tornare su e magari vedere se la televisione al primo piano trasmette qualcosa di interessante, ma una porta chiusa attrae la mia attenzione. Esito, quindi la spingo. È aperta.
Non sono mai stato in questo corridoio. È buio e umido, in discesa, e immagino che porti giù alle cantine. Dopo pochi passi, sento un suono che mi fa raggelare.
Un tintinnio metallico.
Mi immobilizzo e il suono si ripete.
Allora mi faccio coraggio e proseguo. Poco più in là, fiocamente illuminata dall’unico, incerto neon del corridoio, una porta a sbarre interrompe il muro di mattoni.
Mi blocco lì davanti, sbirciando all’interno con timore. C’è una figura per terra, lontano dalla porta, al fondo della cella. È stesa su un fianco, polsi e caviglie bloccati da pesanti anelli di ferro collegati a lunghe catene che si incastrano nel muro.
Oh, Dio.
«Chi sei?» mormoro, senza riuscire a impedirmelo.
Per un momento la figura non si muove, tanto che penso che sia svenuta o addirittura morta. Poi, lentamente, si mette a sedere e mi guarda con occhi vacui.
«Chi sei tu?» mi fa eco, la voce impastata.
Assottiglio gli occhi per vederlo meglio nella luce scarsa. Riconosco una massa disordinata di capelli biondi.
«Blake?» ansimo, sconcertato.
Lui spalanca gli occhi, forse più scioccato di me.
«Arthur?»
Indietreggio di un passo, senza parole.
«Oh, Dio, sei ferito» mi rendo conto. Provo a scuotere le sbarre, ma è inutile.
«Le chiavi» mormora Blake «Sono lì accanto. Sul gancio.»
Mi guardo intorno e le vedo, effettivamente appese ad un gancio di ferro arrugginito a lato della cella. Le afferro e apro la porta senza esitare.
Mi avvicino a lui, inginocchiandomi al suo fianco.
«Ti prego» sussurra «portami via da qui.»
Mi mordo il labbro.
«Non posso, Blake. Sono sotto Pentothal.»
E realizzo che deve esserlo anche lui, perché altrimenti avrebbe potuto spezzare le catene.
Lo osservo con attenzione e vedo che il sangue che gli è colato sul viso proviene da una ferita recente alla testa –anzi, da più di una. Provo a scostare i capelli impiastrati di sangue, ma lui sussulta per il dolore e lascio perdere. Il viso è sporco, la barba lunga, la camicia, un tempo bianca, è lacera. Tutto il corpo, per quanto posso vedere, è coperto da escoriazioni.
«Cosa ti è successo?» gli chiedo, spaventato.
Blake non risponde, sembra essere tornato in uno stato di semi-incoscienza.
In questo momento, per quanto la detesti, vorrei avere Charlotte a portata di mano, con la sua laurea in medicina e la sua capacità di tirare fuori dal nulla una cura per ogni cosa. Beh, quasi per ogni cosa –altrimenti non sarei qua, ma accanto a un Damien già guarito.
Invece, non posso fare altro che scuoterlo delicatamente per provare a svegliarlo.
«Blake … avanti … coraggio, Blake.»
Lui si riscuote e apre gli occhi vacui.
«Ho fame» mormora.
«Oh … ok. Va bene. Vado a prendere qualcosa.»
Esito prima di uscire, ma poi corro per tutta la strada fino alla cucina. Recupero tutto ciò che riesco a trovare –due pagnotte di pane, del formaggio un po’ ammuffito, una merendina al cioccolato, una mela e due bottiglie d’acqua- e lo porto giù nei sotterranei.
Trovo Blake più lucido di prima, seduto con la schiena appoggiata al muro di pietra. Senza dire nulla, gli porgo il cibo e lui lo divora in silenzio, famelico.
Poi, dopo aver mangiato tutto, sospira e mi guarda riconoscente.
«Grazie.»
«Di nulla. Come stai?»
Lui si stringe nelle spalle.
«Lily usa il mio potere meglio di me» risponde.
«Immagino. Perché sei qui?»
Blake mi guarda stranito.
«Vogliono sapere tutto. Sui dati che ho raccolto, sui miei rapporti col presidente, sui miei alleati … »
Tocca a me, stavolta, essere confuso.
«Di cosa stai parlando?»
«Di cosa … ? Beh, di tutto ciò che ho fatto in questi anni, no? Insomma, ho impedito a Lily e a Vahel di … » ma si interrompe, guardando con sconcerto la mia espressione smarrita. «Non ne sai nulla? Scusa, ma cosa ci fai qui tu?»
«È una lunga storia, e riguarda i miei poteri e Damien, e … ma non importa.»
«Quindi» sussurra Blake, fissandomi con gli occhi sgranati «Non sei venuto qui a cercarmi?»
«No, io … »
«Non sapevate che ero qui?»
«No, ma … »
«Non vi siete neanche accorti che ero scomparso?»
Faccio per rispondere ma rimango senza parole e mi limito a mordermi un labbro.
Lo sguardo sconcertato di Blake è una pugnalata nello stomaco. Pensava che noi ci fossimo accorti della sua sparizione e avessimo fatto due più due, e che quindi avessimo deciso di mandare me a recuperarlo al Queen Victoria’s … mentre noi non sapevamo nemmeno che lui avesse continuato la sua battaglia contro Lily e Vahel.
«Blake, io … »
«Cosa diavolo sta succedendo qui?» urla una voce familiare che mi fa gelare il sangue nelle vene.
Il mio istinto è di teletrasportarmi altrove, ma quando non ci riesco mi ricordo del Pentothal.
Ivan Vahel entra furioso nella cella di Blake. Il suo sguardo passa da lui, a me, ai resti del cibo sul pavimento.
«Lily!» ringhia.
Lei lo raggiunge di corsa. Mi vede, impallidisce e si passa una mano tra i capelli rossi.
«Io … non c’entro niente, lo giuro.»
«Pensavo di averti chiesto di tenerli d’occhio!»
«L’ho fatto!»
«Non con successo, a quanto pare.»
Vahel mi prende per un braccio e cerca di trascinarmi fuori dalla cella, ma mi oppongo con forza.
«No!»
«Ascoltami bene, Mackenzie» sibila Vahel «Vuoi o no quel campione per poter salvare l’amore della tua vita? Se è così, allora devi stare alle mie regole, hai capito?»
Faccio per rispondere con rabbia, ma mi interrompo in tempo. Ha maledettamente ragione, purtroppo. La vita di Damien è nelle sue mani e io non posso fare altro che assecondarlo.
Esco dalla cella senza aggiungere altro né fermarmi per guardare in faccia Blake.
 
I giorni passano lentamente, uno stillicidio infinito scandito da noiose letture, programmi stupidi in televisione e numerose fiale di Pentothal che mi lasciano sempre più spesso intontito e incapace di ragionare con lucidità. Vahel mi toglie il cellulare, impedendomi di contattare Damien.
Poi la parte peggiore finisce, e per alcuni altri giorni Vahel aspetta che l’effetto del Pentothal svanisca. Ci vuole più tempo del previsto, ma alla fine effettua tutti e due i prelievi. Non è affatto piacevole –rimango sotto anestesia per qualche ora e impiego un paio di giorni per potermi rimettere in piedi.
Vahel adesso ha due campioni dei miei poteri. Non sono ancora al massimo delle forze, ma sono fermamente deciso ad andarmene con entrambi.
Aspetto che scenda la notte per agire. Mi teletrasporto nel laboratorio e cerco il campione. È buio, ma non mi fido ad accendere la luce: perciò prendo una piccola torcia a led che trovo su una scrivania e inizio ad esplorare l’ambiente.
Non è difficile individuarli. Si trovano su un tavolino d’acciaio, in mezzo a una quantità industriale di provette, siringhe e botticini vuoti. Mi sembra troppo strano, troppo facile, trovarle così, ma non ci penso più di tanto.
Faccio per andarmene, quando mi ricordo di qualcosa.
Blake.
Non posso lasciarlo qui. Non oso immaginare cosa gli abbiano fatto Lily e Vahel per costringerlo a parlare, in questi ultimi giorni: non posso permettere che resti qui neanche un giorno in più.
Mi teletrasporto direttamente nella sua cella, ed è la cosa più stupida che potessi fare.
Lily e Vahel sono lì. Blake è piegato in due, probabilmente –deduco dalla siringa che Lily ha in mano- a causa del Pentothal. Vahel giocherella con quella che sembra decisamente una pistola.
Mi osserva con un mezzo sorriso.
«Ma che sorpresa» dice. «Vedo che hai deciso di servirti da solo.»
E poi spara. Non mi prendo neanche la briga di teletrasportarmi: sono di nuovo invulnerabile, dopotutto. Eppure lo sento.
Non è un proiettile, ma un ago, e l’effetto è subito chiaro. Pentothal.
Oh, merda.
Una delle due fiale cade a terra e si rompe.
Vahel ride e apre la pistola, estraendo il meccanismo che spara gli aghi e sostituendolo con dei proiettili normali prima ancora che io riesca ad alzarmi.
«Vediamo quanto sei invulnerabile adesso» dice con un sorriso.
Stavolta mi do una mossa. Raggiungo Blake, rapido, e faccio del mio meglio per scacciare la nausea da Pentothal.
Ho ricevuto quattro fiale di Pentothal al giorno per una settimana, senza contare le prime. La dose nell’ago non poteva essere superiore a mezza fiala. Se il mio corpo si è abituato a quella droga –e ricordo vagamente Charlotte dire che per noi accade più in fretta che per gli altri- forse i miei poteri reggeranno quel tanto che basta per teletrasportarmi altrove.
Afferro il braccio di Blake e mi concentro.
Baltimora.
Nel momento in cui sento che stiamo per scomparire, sento gli spari. Mi rimbombano nelle orecchie e precedono di poco il dolore accecante alla spalla.
 
Riapro gli occhi pochi secondi dopo –almeno credo.
La mia spalla destra brucia dannatamente, tanto che impiego parecchio tempo a rendermi conto di cosa c’è che non va.
Non sono affatto a Baltimora.
La distrazione causata dallo sparo deve aver modificato la destinazione che ho pensato. Sono –accidenti- in quello che sembra un deserto. Vedo solo sabbia ovunque, e dune, e una lucertola. Neanche l’ombra di edifici, città o anche solo di una di quelle oasi da film.
Mi volto a fatica verso Blake, faticando a ragionare a causa del dolore sferzante. Resto senza fiato.
È immobile, privo di sensi. È coperto di sangue, e vedo alla perfezione da dove proviene. Un proiettile lo ha colpito al collo. Non so molto di medicina, ma sono piuttosto certo che debba aver reciso un’arteria. Perde tanto, troppo sangue. Mi muovo goffamente con la mano sinistra, essendo l’altro braccio inutilizzabile, e gli premo due dita sul polso. Non sento null’altro che un flebile, debolissimo battito irregolare.
«Blake» lo chiamo, ansioso. «Blake!»
Non reagisce.
Allora mi concentro e provo a teletrasportarmi altrove, ma non c’è verso di riuscirci. Il Pentothal ha effetto come dovrebbe, e prima di qualche ora non potrò spostarmi di nuovo. Ma Blake non ha qualche ora.
Apro lentamente la mano destra, ricordandomi di cosa stringe.
La fiala dei miei poteri.
Oh, no.
La osservo, e poi guardo Blake, maledicendomi per non essere stato più intelligente.
Mi prendo la testa fra le mani, e la spalla mi lancia una fitta tremenda che rischia di farmi scivolare di nuovo nel buio. Senza più ragionare lucidamente, mi allungo, sforzando il braccio ferito, e stappo la fiala. Non ho siringhe a disposizione, perciò mi limito ad aprire la bocca a Blake e versargli il liquido dentro. Lo costringo a deglutire e poi osservo la fiala vuota.
Il dolore fisico e morale hanno la meglio, e scivolo in un sonno senza sogni.

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Capitolo 7
*** Violence ***


~VIOLENCE~

 

[Charlotte]
 

Guardo attraverso il vetro senza trovare il coraggio di entrare.

Damien è sveglio, vedo che tamburella con le dita sul suo cellulare, distrattamente. Poi alza lo sguardo e incrocia il mio.
Allora mi trovo costretta ad aprire la porta.
«Ehi.»
«Ehi. Come va?»
«Un po’ meglio, grazie.» Intercetta il mio sguardo sfuggente e nota la cartella che tengo in mano. Si incupisce. «Brutte notizie?»
Mi mordo un labbro, indecisa, poi mi ricordo di essere un medico.
«Il farmaco sperimentale che hai preso in questi giorni non ha avuto effetto» dico tutto d’un fiato. «I globuli bianchi sono scesi ancora e … le difese immunitarie sono praticamente ai livelli minimi.»
«E la risonanza magnetica?»
Ha trovato subito il punto dolente. Abbasso gli occhi.
«C’è una macchia su un polmone» rispondo. «Non sappiamo ancora di preciso cosa sia, ma … »
Damien chiude gli occhi e respira profondamente. Non so cosa dire, mi sembra che tutte le parole del mondo sarebbero inutili in questo momento.
«Vorrei che Arthur fosse qui» mormora inaspettatamente. Mi faccio forza e mi avvicino, sedendomi cautamente sul bordo del letto. «Ha detto che sta cercando una cura» prosegue. «Ma ho paura di sperarci troppo. Credi che sia possibile?»
«Non lo so» replico, cercando di zittire la voce nella mia testa che mi impone di essere sincera.
No, non credo che sia possibile. Non penso ci sia una cura miracolosa che potrebbe salvare la vita a Damien –non che non lo vorrei, Dio, ma sono al corrente di tutte le scoperte mediche in tempo reale, e nessuna di esse riguarda un farmaco che cura l’AIDS.
«È un no, ho capito.»
«Dam … »
«No, va bene. Mi fido di Arthur. Qualunque cosa sia, deve crederci davvero per stare via due settimane.»
Annuisco.
«Senti, Charlotte, ci sono delle cose che vorrei sapere.»
«Sono qui per questo.»
Esita.
«Quanto tempo mi resta?» chiede poi rapidamente, senza guardarmi.
«Non lo so, Dam. Dipende da … da tantissimi fattori. Il nostro corpo reagisce in modo diverso da quello degli altri.»
«Ma … in linea di massima?»
Deglutisco a vuoto.
«Due mesi, forse tre. Ma potrebbe essere anche di più , o… o di meno. O magari Art potrebbe veramente trovare una cura.»
Vedo subito che si è fermato alle prime due parole.
Sempre con gli occhi rivolti verso il basso, continua:
«Sarà doloroso?»
In occasioni normali, dovrei rispondere con calma e professionalità. Ci provo seriamente, spiegandogli in breve tutto ciò che vuole sapere, e la mia voce regge per un tempo sorprendentemente lungo. Gli illustro la terapia del dolore e la possibilità di indurlo in coma farmacologico come se stessi leggendo la lista della spesa.
«E … c’è un’altra cosa che mi preoccupa, Charlie. Controllare le visioni sta diventando sempre più difficile. Se non dovessi più riuscirci … e ho paura che succederà … »
«Se lo vorrai, ti darò qualcuna di quelle pastiglie che ti dava Vahel.» Mi guarda con gli occhi spalancati, quasi inorridito. «O … o del Pentothal, se preferisci.»
Annuisce, più sereno.
«Volevo ringraziarti per tutto quello che fai, Charlie. Non so cosa avrei fatto senza di te.»
Riesco a fare un piccolo sorriso teso.
«Mi ricordo di un tempo in cui non la pensavi così.»
«Ti riferisci a quella volta in cui sono riuscito a farti imprecare? Ne faccio un vanto, sai.»
«E fai bene. Non è capitato molte altre volte.»
Sorride e tace per un po’.
«Charlotte?» dice poi dopo un paio di minuti.
«Dimmi.»
«È stato Art a trasmettermela, vero?»
Lo guardo.
«Sì.»
«Lui lo sa?»
«Sì, me l’ha chiesto e gli ho detto la verità.»
Abbassa gli occhi e rimane a lungo in silenzio.
«È normale, sai, se sei arrabbiato con lui» dico dopo qualche minuto, incerta. «Insomma, è del tutto naturale.»
«Perché dovrei esserlo? Non è colpa sua» ribatte con stupore genuino.
«Io … pensavo solo … »
«Non potrei mai avercela con lui per una cosa del genere» mi interrompe, categorico. «Stavo solo pensando che si sentirà in colpa, lo conosco. Perciò … Charlie?»
«Sì.»
«Ascoltami, sul serio. Promettimi che gli impedirai di fare cose stupide … dopo. Tu sei l’unica a cui darebbe retta.»
Faccio una smorfia per nascondere i miei occhi lucidi.
«Ma se mi odia.»
«Non ti odia. Non gli piaci … perché sei l’unica persona che conosce che è più intelligente di lui. Ma ti stima, Charlotte, e non lo fa con nessun altro, a parte che con me.»
«Io … non so se posso … »
«Promettimelo.»
Mi guarda con occhi di fuoco che non lasciano spazio ad obiezioni. Cedo subito.
«Te lo prometto.»
 
Mi ero ripromessa di restare fredda e professionale, e ci riesco. Almeno fino a quando non saluto Damien ed esco dalla sua stanza. Torno nel corridoio semideserto, raggiungo il mio ufficio, tolgo il camice e metto il cappotto, per poi uscire dall’ospedale.
È tardi, devono essere passate le undici.
Non appena sono libera da occhi indiscreti, perdo il controllo. Una lacrima scivola dalle mie ciglia e inizio a piangere in silenzio, camminando rapida. La pioggia leggera mi nasconde, ma non serve a placare i miei singhiozzi senza suono.
Perché proprio a Damien? Perché ora?
E perché, mi chiedo con un egoismo che non dovrei avere, proprio a me? Non ho chiesto io tutte queste responsabilità. Certo, scelto di fare il medico, ma nel pacchetto non era compresa l’assistenza agli amici più cari e in pericolo di vita.
Proseguo con gli occhi bassi in un vicolo buio, diretta a casa, il volto sferzato da pioggia e lacrime, finché non sento qualcosa di freddo e deciso afferrarmi il polso destro.
Sollevo la testa di scatto e una mano viene premuta contro la mia bocca per impedirmi di urlare. Sbarro gli occhi e vedo una figura sconosciuta. Un uomo sulla trentina, calvo e vestito di nero, forse ubriaco.
«Ciao, dolcezza» dice con voce rauca e lussuriosa.
Rabbrividisco e mi dibatto con violenza, tentando di liberarmi, ma l’uomo prende l’altro polso e li stringe entrambi in una mano sola. Riesco a vedere ogni goccia di sudore, ogni ruga causata dal ghigno stampato sulla sua faccia, ma soprattutto posso vedere, come in una radiografia, il punto esatto del collo che dovrei premere per metterlo fuori gioco. O anche quello sulla schiena, e persino l’angolazione da esercitare sull’arteria che passa nel polso per fargli perdere i sensi.
Ma tutte queste conoscenze sono assolutamente inutili, per il semplice fatto che è più forte di me. Non riesco a muovere le mani, neanche con sforzandomi al massimo.
«Ehi, Al. Vieni a vedere che bellezza» ride, in direzione della fine del vicolo.
Oddio, no, ce n’è un altro.
Un uomo più basso e vecchio, con una barba grigia, raggiunge il primo. Sogghigna a sua volta.
«Cosa ci fa una ragazza bella come te tutta sola a quest’ora della notte?» domanda con voce melliflua.
Mugolo e scalcio, tentando di colpire l’uomo che mi tiene ferma con un calcio ben piazzato –ma l’altro interviene e me lo impedisce.
«Muoviamoci» ringhia, perdendo la sua vena ironica.
Allunga la mano e apre il cappotto, per poi strappare la camicetta. Sento il tintinnio di ogni bottone in madreperla che cade sull’asfalto.
Mi divincolo, in lacrime, ma ogni sforzo è inutile.
La mano che mi preme sulla bocca è viscida e sudata ma ferma. Non riesco neanche a respirare, figuriamoci ad urlare. Ripenso inutilmente allo spray al peperoncino che è rimasto a casa, in un’altra borsa.
La presa sulla mia bocca si allenta per un solo istante, quanto basta al primo uomo per abbassare la mano e slacciare brutalmente il mio reggiseno.
Ne approfitto per urlare, più forte che posso, a pieni polmoni. Dura solo un secondo: mi tappa di nuovo la bocca.
Cerco di scappare, di coprirmi, di scalciare, ma non posso muovere un muscolo. I due allungano le mani su di me e ridono, ridono, ridono.
Li sento sganciare il bottone dei pantaloni e cercare di abbassarli.
Sono oltre ogni possibile stato di shock. I miei muscoli sembrano diventati di pietra, i miei polmoni non riescono ad incamerare abbastanza aria, i miei occhi sono offuscati dal velo di lacrime che mi scivolano sul viso.
La mia mente è assalita da milioni di immagini orribili di quello che sta per succedere.
L’aria fredda mi colpisce le gambe mentre i pantaloni vengono gettati via insieme alle scarpe, ma quasi non me ne rendo conto, perché i miei sensi vengono convogliati tutti in un solo compito: sentire.
Perché un suono basso, cupo e tremendamente spaventoso squarcia improvvisamente il silenzio del vicolo.
Le mani che mi stanno toccando si arrestano, e i due uomini si voltano. All’imbocco del vicolo, silenziosa e letale, una pantera nera li fissa con le zanne scoperte, inequivocabilmente in posizione di attacco.
Il secondo uomo mi lascia andare e fa un passo indietro. Il primo è indeciso: continua a tenermi la bocca chiusa e i polsi bloccati.
È un attimo.
La pantera scatta, i muscoli tesi nel movimento felino e improvviso. Sento la presa salda su di me cessare e incespico, scivolando a terra, nelle pozzanghere.
La pantera getta a terra il secondo uomo con tanto impeto che batte violentemente la testa contro l’asfalto e giace immobile.
Poi si volta verso il primo, che ha un’illuminazione. Sfodera un coltello e si inginocchia al mio fianco, afferrandomi i capelli e puntandomi la lama contro la gola scoperta.
«La ammazzo!» ansima. «Giuro che la ammazzo.»
Come ha capito che l’animale stava difendendo me? È questo dettaglio che mi fa intuire che deve esserci qualcosa –o forse qualcuno- dietro a questi uomini. In ogni caso, la pantera ringhia ma non si avvicina oltre.
L’uomo, però, ha commesso un errore. Mi ha lasciato le mani libere, ed è tutto ciò che mi serve. La lama gelida sul collo mi ricorda il prezzo da pagare in caso di fallimento: non posso sbagliare. Rapida, silenziosa, alzo una mano e colpisco il mio assalitore di piatto sul collo. I miei occhi sono umidi, la mano tremante, e non ottengo l’effetto sperato -non del tutto. Emette un gemito di dolore, ma non perde i sensi come dovrebbe, e scaglia con ferocia il coltello verso la fiera.
A questo punto, però, la pantera scatta verso di lui. Vedo un lampo di artigli e di zanne perlacee. L’uomo cade a terra, il torace graffiato dagli artigli affilati come rasoi. La pantera, furente, lo azzanna al collo.
Il sangue è ovunque e vengo percossa da un’ondata di nausea.
«Basta» mugolo con voce debole.
L’animale mi ascolta e lascia l’uomo svenuto in una pozza di sangue.
Quindi si guarda intorno, ancora teso e vigile, in caso arrivassero altri pericoli, ma non c’è più nessuno.
Allora si trasforma.
«Charlotte» mormora Jonathan, guardandomi spaventato.
Io sono ancora inginocchiata a terra, con addosso solo le mutandine e le calze, bagnata dalla testa ai piedi, le braccia strette attorno al corpo per coprirmi. Tremo visibilmente.
Lui prende il cellulare dalla tasca e lo vedo comporre un numero di telefono. Chiama la polizia e racconta brevemente l’accaduto, quindi chiude la chiamata e mi si avvicina.
«Charlotte» ripete «Riesci ad alzarti?»
Mi porge la mano, ma il solo pensiero di essere toccata mi fa venire voglia di vomitare. Lo faccio, mi piego in due e vengo scossa dai conati.
Ma non piango. Ho speso tutte le mie lacrime.
Poi, incerta, mi alzo. Guardo i miei vestiti a terra con disgusto e paura. Jonathan sembra capirlo e si toglie il lungo cappotto, porgendolo a me. Lo indosso e lo sento caldo a contatto con la pelle.
«Vieni» sussurra. «Ti accompagno a casa.»
 
Dopo ore di interrogatori e ininterrotte ripetizioni della storia, i poliziotti mi permettono finalmente di tornare a casa.
Jonathan non mi lascia neanche per un secondo, ma senza mai sfiorarmi.
Quando finalmente mi richiudo la porta alle spalle, mi dirigo senza esitare in bagno. Apro il rubinetto della doccia, facendo scendere l’acqua bollente, e mi tolgo il cappotto di Jonathan. Con rabbia e ossessione quasi maniacale, afferro la spugna e me la strofino sul corpo così violentemente che, anche grazie alla temperatura eccessiva dell’acqua, quando finalmente esco la mia pelle è arrossata ovunque.
Indosso il mio pigiama e una vestaglia, coprendomi d’istinto il più possibile, prima di scendere le scale.
Jon è seduto sul divano e guarda la televisione, ma non appena si accorge di me la spegne.
«Charlie … come stai?»
Lo raggiungo e mi siedo a debita distanza da lui.
«Bene. Grazie per avermi aiutata» rispondo in tono formale.
«Dovere. Ti ho sentita urlare.»
Annuisco meccanicamente e afferro una coperta dal divano, coprendomi ancora nonostante il caldo. Ho un bisogno fisico e insopprimibile di sentirmi al caldo, asciutta e coperta, nascosta alla vista di tutti.
«Mi dispiace» aggiunge, abbassando gli occhi «Sono stato uno stupido. Avrei dovuto offrirmi di accompagnarti.»
Scuoto la testa stancamente.
«Volevo stare un po’ da sola, ti avrei detto di no. Ma se non ci fossi stato tu … se fosse stato un qualunque altro giorno … » la mia voce si spezza e Jon, cauto, mi si avvicina.
«Ascolta» mormora «Non devi pensarci. È stato il destino. C’ero io a proteggerti, ed è andata bene così.»
«Non è vero» replico, stringendo i pugni «Perché, se fosse successo a Lily, avrebbe dato fuoco a quei … quei … »
«Bastardi» completa lui al posto mio, gli occhi fiammeggianti.
«E Vanessa sarebbe semplicemente scomparsa, e non l’avrebbero più trovata. Blake li avrebbe messi fuori gioco in un secondo, e Arthur si sarebbe teletrasportato da qualche parte. Ma io … non ho potuto fare niente. Nonostante il mio cervello, ero del tutto impotente
Jonathan non sa cosa replicare e tace.
«Credo che ci fosse qualcosa dietro» aggiungo a voce bassa, tentando di ritrovare i nervi saldi e la logica fredda che ho sempre posseduto. «Non avrebbero potuto sapere che mi stavi difendendo … sembrava quasi che sapessero che non eri davvero una pantera.»
«Dovremo indagare.»
Annuisco. Osservo Jonathan e noto un dettaglio che prima mi era sfuggito: una chiazza rossa sulla maglietta bianca, all’altezza dello sterno.
«Sei ferito» realizzo.
«Non è niente» minimizza Jon.
«Non ci provare. Fammi vedere.»
Sospira e si sfila la maglietta. Per un momento vengo distratta dalla cicatrice sull’addome, ricordo della cauterizzazione che gli avevo praticato quando Vahel gli aveva sparato. Poi però torno professionale e recupero disinfettante e bende. La ferita, causata dal coltello del mio aggressore, per fortuna è solo superficiale. Vi applico una garza e mi ritraggo.
«Grazie, sei un angelo» dice Jonathan.
Sorrido debolmente
«Forse … è il caso che io vada a dormire» dico dopo un po’, incerta.
«Non voglio che tu rimanga da sola, Charlie.»
«Puoi dormire nella stanza degli ospiti, se ti va.»
Annuisce e mi segue.
Raggiunta la mia camera, mi stendo sul letto.
Tremo ancora.
La mia mente è affollata, piena di immagini orribili di quegli uomini, delle loro mani, dei loro occhi famelici. Mi aggrappo alle lenzuola e mi sfugge un gemito.
Sento la porta socchiudersi improvvisamente e sussulto.
Un piccolo gatto nero, come una versione minuscola della pantera, si fa strada nella mia camera e balza sul letto. Mi guarda, come a chiedermi il permesso di poter restare, e io annuisco.
Mi addormento con una mano sulla sua pelliccia morbida, e, almeno per stanotte, evito gli incubi.

 

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Capitolo 8
*** Best Friends ***


Per Sciprilla, perché no,
non ho fatto diventare Vanessa
una pazza psicotica come ti aspettavi.
Ho fatto di peggio.
Ti voglio bene <3


~BEST FRIENDS~

 
[Vanessa]
 
Percorro il vialetto d’ingresso a piedi, tanto lentamente che potrei venire superata da una lumaca sfaccendata, e dopo qualche minuto mi trovo di fronte alla porta.
Allungo la mano e resta lì, sospesa, a pochi millimetri dal campanello. Non riesco a trovare il coraggio di fare tutto questo.
Ma poi mi ripeto che, dopotutto -dopo essere passata alle urne delle elezioni per svolgere il mio dovere di buona cittadina americana e avere crocettato quel benedetto nome, sperando nell’eliminazione del presidente attuale, con il quale ho qualche conto in sospeso- ho appena percorso quattromila e cinquecento chilometri in auto. Quasi tre giorni di viaggio, dormendo sul sedile posteriore della mia macchina e mangiando solo hamburger e ciambelle: non mi tirerò indietro adesso.
Perciò premo il dito sul campanello.
Aspetto qualche secondo, combattendo contro l’impulso di scappare e quello di diventare invisibile.
La porta si socchiude e appare una faccia assonnata.
«Sì?» chiede, guardandomi con la testa inclinata.
I capelli biondi sono arruffati, indossa una vestaglia rosa e pantofole dello stesso colore e, ai suoi piedi, c’è un piccolo gatto nero.
«Ciao, Charlotte» esordisco con un leggero sorriso che tradisce il mio nervosismo.
Lei spalanca gli occhi.
«Vanessa?»
«In persona. Ah, ciao, Jonathan» aggiungo, rivolta al gatto, che diventa immediatamente un essere umano.
Il silenzio attonito che segue mi fa desiderare di essermene rimasta in California. Ma poi ricordo perché sono qui.
«Beh? Non mi invitate ad entrare, piccioncini?»
«Certo» annuisce Charlotte rapidamente. «Vieni dentro.»
I suoi occhi non riescono a staccarsi da me –o meglio, dall’ormai evidente rigonfiamento sulla mia pancia.
 
Mi siedo sul divano accanto a Charlotte.
«Allora» esordisce, e mi guarda, esortandomi a continuare.
«Beh» comincio, osservandomi le unghie «Casomai non lo avessi notato, ho un problema.»
«Me ne sono accorta» replica debolmente Charlotte.
«Sono qui perché ho avuto qualche … difficoltà in relazione ai miei poteri, di recente.» Mi mordo il labbro inferiore. «Sono aumentati in maniera spropositata. Non solo riesco a diventare invisibile, ma ogni persona che tocco scompare. E in più, ne sono comparsi di nuovi, ma vanno a ondate. Ogni tanto riesco a leggere nei pensieri, o a correre velocissima, o a creare oggetti dal nulla –ma succede tutto senza che io possa controllarlo. Anche al lavoro … » vedo lo sguardo attonito di Charlie e mi fermo.
«È assurdo» mormora. «Insomma, non conosco nessuna come noi che sia rimasta incinta, ovviamente, ma secondo le più banali leggi della genetica, se anche il feto ereditasse la nostra mutazione –sempre che la cosa sia possibile, e non ne sono convinta- il potere dovrebbe risultare diluito, contaminato da geni umani.»
Cerco di dare un senso logico al discorso.
«Quindi, se un genitore è umano, il potere dovrebbe scomparire» traduce Charlotte per me. «O almeno diminuire, nel bambino. E in te … non vedo perché dovrebbe cambiare.»
«Ah, ecco, per il fatto del genitore umano» tossicchio, imbarazzata. «Insomma, circa sei mesi fa ho ricevuto una visita un po’ … inaspettata, diciamo. Blake è venuto a trovarmi e … »
«Oh, mio Dio» geme Charlotte. «Vanessa!»
«Io non me l’aspettavo» tento debolmente di difendermi. «Mi ha colto alla sprovvista e … ho abbassato la guardia.»
«Questo cambia tutto. Non ho idea di come potrebbe evolversi la situazione … se il bambino ereditasse entrambe le mutazioni ed essere si mescolassero … » si interrompe e sospira. «Ho bisogno di fare dei test
Lo dice in tono lievemente drammatico e definitivo, come se fosse un bisogno fisiologico che deve assolutamente soddisfare. Beh, probabilmente, conoscendola, questo non è troppo distante dalla realtà.
«Sono le otto» prosegue guardando brevemente l’orologio da polso «Tra mezz’ora devo essere in ospedale. Vieni con me, non appena riesco a trovare dieci minuti liberi ti faccio fare qualche esame.»
«D’accordo.»
Charlotte va a cambiarsi e mi lascia un bagno libero e dei vestiti di ricambio. Riconoscente, mi faccio una lunga doccia. Una volta asciutta, però, trovo qualche problema con gli abiti.
«Ehm, Charlie?»
«Dimmi» risponde comparendo in cima alle scale.
«Temo che mi serva qualcosa di più grande.»
Lei osserva la camicetta tesa sulla pancia, con i bottoni che sembrano sul punto di saltare via, e ridacchia.
«Non ci avevo pensato. Arrivo subito.»
Con indosso una tremenda felpa lilla e un paio di pantaloni della tuta, esco insieme a Charlotte, ovviamente impeccabile nel suo completo pantaloni neri-camicia bianca e tacchi.
Comunque sia, io, lei e Jon raggiungiamo in pochi minuti il Johns Hopkins.
«Bene, Ness, io ho tre visite prima delle dieci, ma poi dovrei riuscire a ritagliarmi un’ora libera. Resta con Jon, ti va?»
«Andiamo a trovare Damien» annuisce lui.
«Damien? Cosa ci fa qui?» mi metto subito in allarme.
Non sento Damien da qualche mese ormai, ma resta sempre il mio amico più caro in assoluto.
Charlotte si è già allontanata, mentre Jonathan si passa una mano tra i capelli, a disagio.
«Giusto … beh … ecco, è malato, Ness.»
«Che cosa? Perché non ne sapevo nulla?»
«Perché non voleva che lo sapessi, suppongo.»
«È il mio migliore amico.»
«Anche il mio, ma non ha detto nulla neanche a me.»
Vorrei saperne di più, ma non oso chiedere altro.
Aspetto che Jonathan mi conduca fino alla camera di Damien, quindi busso.
«Avanti.»
Damien sta leggendo un fumetto, seduto sul letto. Alza lo sguardo e ci scambiamo un’occhiata attonita.
Lui fissa con aria allucinata prima me, quindi il mio pancione. Io guardo sconcertata i mille tubicini che corrono lungo il suo corpo, le occhiaie profonde, la magrezza.
«Cosa … ?» mormoriamo in coro, quasi comicamente.
«Non fare quella faccia» borbotta Damien. «Ho l’AIDS. Qual è la tua scusa?»
Ascolto quelle parole come da lontano, distaccata, e ci vuole qualche secondo prima che riesca ad accettarle.
«Cos’hai detto?»
«Hai sentito. Hai intenzione di reagire con lacrime e compatimenti vari, come tutti gli altri?»
Il suo tono freddo e brusco mi da una scrollata.
«Sei un coglione, Damien» ringhio.
Lui sussulta.
«Scusa?»
«Pensavo che avessi un minimo di buonsenso. Mai sentito parlare di prevenzione
Damien mi guarda scioccato.
«Mi stai rimproverando?»
«È esattamente quello che sto facendo. Anche se le parole farti il culo rendono meglio l’idea, secondo me.»
Ci scambiamo un’altra serie di sguardi truci, quindi lui sorride.
«Mi sei mancata, Ness.»
«Questa non è una giustificazione.»
«Certo che no. E la tua qual è? Immacolata concezione?»
Lo fulmino con lo sguardo.
«Per Natale ti regalerò dei preservativi, Dam.»
«E io ricambierò il favore, ma arriveremo entrambi troppo tardi.»
Dopo qualche istante scoppiamo a ridere.
«Oh, ti prego, basta» mugola lui dopo diversi minuti di risate convulse. «Già solo respirare  è difficile … mi stai complicando la vita.»
«Hai intenzione di dirmi cos’è successo?»
«Non c’è molto da dire. Mi sono affidato alle cure della migliore dottoressa degli Stati Uniti, anche se non è molto ottimista.»
«E Arthur dov’è?»
«Ecco, questa è un’ottima domanda. Sta cercando una cura, ma non so esattamente dove sia. Ma basta parlare di me. Cos’hai fatto tu
«Essenzialmente … sesso.»
«L’avevo intuito.»
«Con Blake.»
«Che cosa?!»
«Beh, lui ancora non lo sa, ma … »
«Oh, mio Dio. Almeno io e Arthur non dobbiamo preoccuparci di questo.»
E riprendiamo a ridere come due idioti finché la porta non si apre e Jonathan e suo fratello ci raggiungono.
«Va tutto bene?» chiede Jon, vagamente stranito.
«Sì» sospiro, asciugandomi teatralmente le lacrime.
«Charlotte mi ha detto di chiederti di raggiungerla al primo piano, vuole farti gli esami del sangue.»
«Agli ordini. A dopo, Dam.»
«A dopo.»
 
Torno solo dopo un paio d’ore e un pranzo abbondante a base di torta alla crema e meringhe –queste storie sulle voglie delle donne incinte sono incredibilmente vere.
Non mi viene in mente di bussare, e trovo Damien e Jack impegnati nella loro prima seduta.
«Sei pronto? Bene. Chiudi gli occhi e inizia a respirare profondamente.»
Jack obbedisce e io lo osservo. È seduto su una sedia di plastica accanto al letto di Damien. Mi appoggio al muro e rimango in silenzio a guardare.
«Sì, così, continua. Inspira … espira … inspira … espira … Ora, senza smettere di respirare, lascia scorrere i pensieri. Sentili tutti, ma non ascoltarli. Non concentrarti su nessuno in particolare, lasciali scorrere.»
Fa una lunga pausa.
«Adesso visualizza una porta. Immaginala bene, come se potessi davvero vederla … »
Continua a parlare in tono monocorde, descrivendo dettagliatamente il metodo.
«Adesso apri gli occhi. Come va?»
«Io … non so. È difficile, se solo ci penso devo rifare tutto daccapo.»
«È normale, vedrai che con il tempo diventerà facile.»
«Ok. Grazie, Damien.»
«Figurati. Dì a tuo fratello di farsi vedere, ogni tanto, invece di stare sempre imboscato con Charlotte.»
«Lo farò, stanne certo. A più tardi. Ciao, Vanessa.»
«Ciao.»
Mi siedo accanto a Damien.
«Allora? Come sta andando?»
«Insomma. Ti ricordi quando Charlotte l’ha insegnata a me?»
«Certo» replico, e ci scambiamo un’occhiata, ricordando i terribili momenti della disintossicazione.
«Ho imparato a padroneggiarla davvero dopo qualche settimana, e nel giro di un paio di mesi era diventata automatica come respirare –le visioni arrivavano solo se richieste, anche mentre dormivo. Ma adesso mi sembra di essere di nuovo punto e a capo. Fatico a concentrarmi, tanto che mantenermi lucido è sempre più difficile, e le visioni hanno ricominciato a tormentarmi, specialmente quando sto male o quando dormo. Spero solo che per Jack vada meglio.»
«Vedrai che andrà tutto per il verso giusto. Charlotte sa quello che fa, e anche Arthur.»
Annuisce, non sembrando troppo convinto.
«Non ti pare strano che io sia stata fidanzata con il tuo ragazzo, anni fa?» chiedo in tono leggero.
Lui mi lancia un’occhiata sorpresa.
Nel giro di un secondo stiamo ridendo di nuovo.

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Capitolo 9
*** Getting Worse ***


~GETTING WORSE~

 

[Damien]

 

Mi risveglio con un dolore atroce al petto. Boccheggio e cerco di alzarmi, ma è tutto così confuso. Cerco di respirare profondamente, ma l’aria si rifiuta di entrarmi nei polmoni.
Sbarro gli occhi, e vedo facce pallide che urlano nomi senza senso.
Riconosco Charlotte un momento prima di precipitare di nuovo nell’incoscienza.
 
Mi risveglio nello stesso posto, la stessa stanza bianca d’ospedale.
Mi sento malissimo. Ogni muscolo del mio corpo fa male, respirare è difficile, e la nausea mi scuote.
Credevo che Charlotte avesse parlato di terapia del dolore, anestesia e coma farmacologico, ma per ora c’è solo un male tremendo e un desiderio intenso di tornare nel buio.
«Damien?»
Apro gli occhi a fatica e inquadro il volto preoccupato del mio dottore.
«Come stai?»
Se potessi farlo, riderei sarcasticamente. Purtroppo non ci riesco, ma posso solo rispondere:
«Di merda.»
La voce mi esce bassa e faticosa.
«Immagino.»
«Cos’è successo?»
«Hai avuto un collasso. I tuoi polmoni hanno smesso di incamerare ossigeno.»
«Meraviglioso. Questo vuol dire che … » tossisco più volte prima di proseguire «Che manca poco?»
Il pensiero è talmente irreale che non mi fa poi così paura. Sembra solo strano, come se la sola idea fosse assurda. Eppure non lo è affatto.
«No» dice lei, decisa. «Non deve essere necessariamente così. È uscito da poco un nuovo medicinale che potremmo provare. È davvero innovativo, e … »
La lascio blaterare ancora per un po’ prima di interromperla.
«No.»
«Cosa?»
«No, Charlie. Non voglio.»
«Ma … »
«L’ultimo che mi hai dato mi ha fatto venire un collasso, quello prima ha quasi causato un arresto cardiaco e quello prima ancora è stato inutile.»
«Ma questo potrebbe … »
«Non voglio, Charlotte. Basta così.»
Lei chiude gli occhi per un secondo.
«Se pensassi a …»
Ma non riesco a scoprire a cosa dovrei pensare, perché qualcosa distrae la mia attenzione. In particolare, l’improvvisa apparizione nella mia camera di due ragazzi insanguinati.
«Oh, mio Dio» mormoro.
Vorrei mettermi seduto, ma il dolore è troppo intenso e i tubicini che mi collegano a grandi macchinari mi impediscono di farlo.
Charlotte si volta ed entra subito in modalità medico.
«Arthur! Blake! Siete feriti?»
Si china accanto a loro, che sono scivolati, esausti, sul pavimento.
«No» risponde Blake. «Siamo tutti e due sani e salvi.»
«Ma tutto questo sangue … »
«È una lunga storia» replica.
Art ignora Charlotte (piuttosto prevedibilmente), si alza e si avvicina a me.
«Oh, Dio, Damien. Come stai?»
«Insomma.»
Lo guardo con quella che spero risulti un’espressione furiosa, ma temo che sia solo sollevata.
Lui si china su di me e mi passa una mano tra i capelli.
«Mi dispiace» mormora. «Mi dispiace tanto.»
«Cosa … perché?»
«Perché avevo la cura e … » si volta per un istante verso Blake «L’ho persa.»
«Di cosa si trattava?» chiede Charlie, impaziente.
Lui esita.
«Sono andato al Queen Victoria’s da Vahel e Lily» replica.
Spalanco gli occhi, incredulo.
«Tu che cosa?!»
«Volevo che Vahel prendesse un campione dei miei poteri per poter dare l’invulnerabilità a Damien.»
Charlotte lo guarda scioccata, ma io lo sono di più.
«Sei impazzito? Da Vahel? Avrebbe potuto ucciderti
«Ci ha provato» replica Art, accennando alla spalla insanguinata ma, grazie all’invulnerabilità, già completamente guarita. «Ma dovevo farlo, Dam. Avrei potuto salvarti la vita. Poi, però … eravamo nel deserto, io ero sotto Pentothal e Blake stava morendo. Ho … »
Si interrompe con un sospiro, guardandomi corrucciato.
«Forse è meglio che vi lasciamo soli» dice Charlotte, e lei e Blake escono velocemente.
«Hai fatto la cosa giusta» dico sottovoce.
«L’altra fiala mi è caduta. Se solo avessi … »
«Hai fatto tutto il possibile, e anche di più. Hai rischiato così tanto … »
Lui sospira e si siede sul bordo del letto, prendendomi una mano.
«Sul serio, Damien, come stai?»
«Non molto bene. Un medicinale che ho preso mi ha causato un collasso polmonare.»
Lui chiude gli occhi per un momento.
«Questo cosa significa?»
«Che non resta più molto tempo.»
Mi guarda disperato, ma non stupito.
«Vorrei poter fare qualcosa.»
«Non andartene più. È la cosa che mi farebbe più piacere.»
«Se mi vorrai, resterò qui finché … » si interrompe con un gesto stizzito «Fin quando ce ne sarà bisogno.»
«Non ti chiedo altro.»
Restiamo fermi e in silenzio a lungo. Il dolore al petto ricomincia a farsi sentire, e lentamente scivolo di nuovo nel sonno.
 
Vedo una città in fiamme.
Vedo un uomo anziano che piange sulla tomba della moglie.
Vedo un libro con una croce sulla copertina che brucia tra le grida.
Vedo pavimenti sporchi di case popolari.
Vedo bambini soldato, uomini morenti, donne a cui vengono strappati i figli dalle braccia.
Vedo morte, odio e distruzione.
«Basta» urla qualcuno. Forse sono io.
E poi tutto si placa, e torna il buio confortante.
 
«Ho dovuto dargli il Pentothal. Me l’aveva chiesto lui.»
«Hai fatto bene.»
Un momento di silenzio.
«Stai bene, Arthur?»
«Non proprio. Credi che la mia idea fosse tanto stupida?»
«Niente affatto. Ha salvato Blake, dopotutto.»
«Ma non Damien.»
«Avrebbe potuto.»
«Charlotte … tu riusciresti a fare un altro prelievo?»
«Come quelli di Vahel, intendi? Può darsi. Non ci ho mai pensato, ma se mi raccontassi cosa ha fatto, probabilmente … ma il problema è un altro.»
«Sarebbe a dire?»
«Non credo che il tuo corpo reggerebbe un terzo prelievo di materiale genetico.»
«Ma sono invulnerabile.»
«Non c’entra nulla. Conosco abbastanza bene il nostro patrimonio genetico da sapere che un ulteriore prelievo potrebbe essere pericoloso.»
«Cosa intendi dire?»
«Non si tratta solo di prelevare sangue, Arthur. Mi hai detto che Vahel ha anche fatto un intervento … credo che si trattasse di midollo osseo. Se ti è già stato prelevato due volte, farlo una terza potrebbe significare la scomparsa dei poteri, per non parlare di eventuali problemi di salute, anche gravi, connessi alla scomparsa dell’invulnerabilità.»
Arthur tace per un po’.
«Sono disposto a farlo, Charlotte. Per Damien.»
È allora che, sforzandomi in modo inimmaginabile, apro gli occhi e mormoro:
«No.»
Si voltano immediatamente entrambi.
«Cosa?»
«Non voglio, Art.»
«Non me ne frega niente di cosa vuoi tu» reagisce bruscamente lui. «Se questo può servire a salvarti la vita, non mi interessa perdere i poteri.»
«Non voglio che tu lo faccia. I tuoi poteri sono tutto, per te.»
«Tu sei tutto per me, Damien.»
«Anche tu lo sei, e proprio per questo non voglio che tu metta a rischio la tua vita. Non si tratta solo dei poteri» dico con fermezza.
«Non puoi impedirmi di farlo» ringhia lui.
«Posso rifiutarmi di accettare. Ho ancora la facoltà di intendere e volere, mi pare.»
«Io lo farò comunque. Se poi non vorrai accettare .. beh, sarà comunque troppo tardi per impedirmi qualunque cosa.»
Non capisco esattamente cosa voglia dire, ma lo guardo andarsene con gli occhi lucidi.
«È uno stupido» dico a denti stretti, rivolto a Charlotte.
Lei mi guarda di sottecchi.
«In realtà, credo che abbia ragione.»
Stringo gli occhi, sentendomi oltraggiato. Ero certo che Charlotte non gli avrebbe dato ragione.
«L’hai detto tu stessa che è pericoloso!»
«Ma ci sono discrete possibilità che stiate bene entrambi. Invece, se lasciamo le cose come stanno, e se rifiuti di prendere i medicinali … diciamo la verità, Dam: tu morirai nel giro di qualche giorno.»
La guardo sconcertato.
«Vattene» borbotto.
Charlotte non obietta e si allontana, lasciandomi solo a riflettere.
 
Quando la porta si riapre, qualche ora dopo, sospiro di sollievo nel vedere Arthur. Sollievo che, però, sparisce in fretta quando noto la sua espressione tesa.
«Che succede?» chiedo, nervoso.
«Due brutte notizie» replica, e sembra che abbiano surclassato i motivi del nostro diverbio. «La fiala che ho somministrato a Blake era avvelenata. Vahel deve averla messa lì come esca.»
«Oh, mio Dio. Sta bene?»
«Per ora non molto, ma presto andrà meglio. Charlotte dice che la crisi passerà in poche ore, e che in ogni caso Blake non è in pericolo di vita.» Fa una pausa. «Ma se l’avessi data a te … con il sistema immunitario così danneggiato, probabilmente saresti morto.»
Assimilo l’informazione del rischio che abbiamo corso in silenzio.
«E … la seconda brutta notizia?» chiedo dopo un po’.
«C’è qualcuno che vuole vederti. Non sono riuscito a … »
Ma non riesce a concludere la frase. La porta si spalanca.
«Damien!»
Prima che io possa anche solo pensare di tentare una fuga in extremis, la proprietaria della voce si fa strada nella stanza, tallonata da una seconda persona.
Coralie Llewellyn e George Knight.
I miei genitori.
Mia madre, i capelli biondi tinti di recente, è ovviamente impeccabile nel suo abito rosa, sicuramente firmato, con tanto di tacchi bassi coordinati e borsetta in tinta. Mio padre, ancora più imponente di quanto me lo ricordassi nel suo completo giacca e cravatta, con un taglio corto dei capelli che cominciano ad ingrigire e occhi scuri che mi fissano al di là di un paio di occhiali che non portava l’ultima volta che l’ho visto. Che, se non mi sbaglio, risale si è no a tre anni fa.
Non che non abbiano tentato qualche contatto –ho ricevuto gli auguri di compleanno e di Natale, e qualche casuale messaggio ogni tanto per informarsi su come andavano le cose, o, in altre parole, probabilmente più consone, se avevo messo la testa a posto.
I miei genitori sono stati tra i primi a sapere di me e Arthur. In realtà era stato casuale –l’argomento era capitato e io non avevo trovato una ragione per mentire. La loro reazione era stata prevedibile –shock, diagnosi di pazzia, ipotesi su una fase tardo-adolescenziale che sarebbe passata col tempo. Da allora i nostri rapporti si sono raffreddati e sono quasi cessati.
Il che significa, ovviamente, che non ho detto loro di essere a Baltimora.
«Damien» ripete mia madre, le guance pallide sotto il trucco. «Cosa è successo?»
«Di recente? Niente di particolare. Ho avuto un collasso polmonare» dico con voce leggera per nascondere la tensione dovuta alla loro presenza.
Prima che mia madre svenga, dalla porta rimasta aperta entra Charlotte.
«Oh. Il signore e la signora Knight, suppongo?» si informa con un sopracciglio lievemente inarcato.
È stupita? O sta fingendo? Potrebbe essere stata lei a chiamarli … oppure Arthur, anche se mi sembra improbabile.
«Esatto.»
«Io sono la dottoressa Charlotte Miller, il medico di vostro figlio» si presenta, stringendo le loro mani.
«Ancora non siamo riusciti a capire quale sia il problema» dice mia madre ansiosamente.
Charlotte mi lancia un’occhiata, come a chiedermi il permesso di parlare. Glielo accordo, lasciandole senza troppe remore l’incombenza di pronunciare quelle quattro lettere che ho imparato ad odiare.
«Temo che a Damien sia stata diagnosticata una forma di AIDS.»
«AIDS?» Mio padre finalmente reagisce, sconcertato. «Ma è una malattia da … »
Non completa la frase, per fortuna.
«Io lo sapevo!» geme poi mia madre. «Lo sapevo che quella cosa non avrebbe portato altro che guai!»
«Mamma, quella cosa non è altro che la mia vita
Ma lei mi ignora completamente e si volta verso Arthur, che è rimasto in silenzio, in disparte.
«È tutta colpa tua!» ringhia. «Sei tu che gli hai fatto questo! Per colpa tua il mio bambino potrebbe morire!»
«Non osare» sibilo. «Non permetterti di dire queste cose … perché lui è stato l’unico che non se n’è andato. Come avete fatto voi, ricordate?»
«Noi non ce ne siamo andati» ribatte mia madre. «Sei tu che ti sei trasferito. E ti abbiamo sempre … »
«Mandato una cartolina per Natale?» la interrompo, furioso. «Beh, meno male, sono state quelle il mio supporto in questi tre anni!»
«Tu ti sei rifiutato di essere ragionevole! Continuavi ad insistere per vivere con lui, mentre … »
«Basta così, Coralie» taglia corto mio padre, e per un attimo credo che stia per intervenire a mio favore. «È evidente che dev’esserci stato uno sbaglio. Dottoressa, prepari tutti i moduli. Voglio trasferire mio figlio in una clinica privata a New York. Conosco molti medici che potrebbero confutare questa diagnosi.»
«Signor Knight, temo che questo non sia possibile. Damien ha appena subito un … » comincia ragionevolmente Charlotte.
«Non mi interessa. Mi sembra ovvio che questa diagnosi è errata. Mio figlio non ha l’AIDS. E questo ragazzo» guarda Arthur con malcelato disprezzo «Non avrà più nulla a che fare con lui. Ed è l’ultima parola che ho da dire in proposito.»
«Basta così» mormoro. «Non avete il diritto di … »
«Abbiamo tutti i diritti, Damien» ribatte prontamente mio padre. «Siamo ancora tuoi tutori legali nel caso tu non avessi la facoltà di intendere e volere.»
«Che cosa? Io sono in piena facoltà di … »
«Certo che no! La malattia ti rende vulnerabile, e in quanto tuo padre voglio che … »
«Sono io il suo tutore legale» interviene per la prima volta Arthur, con fermezza e calma, senza alzare la voce né spostarsi dal muro al quale è appoggiato con la schiena.
«Che cosa?»
«Volete controllare i documenti? Ci siamo nominati tutori l’uno dell’altro in previsione di situazioni del genere. Anche ammettendo che Damien non fosse in capacità di decidere da solo –mentre, senza dubbio, lo è- sarei io a decidere per lui. E Damien resta qui, a meno che non sia lui a volere altrimenti.»
In un lampo ricordo quei noiosi documenti che avevo firmato anni fa, sapendo solo vagamente di cosa si trattava –e capisco anche cosa intendeva Arthur con quell’ultima, gelida frase in risposta al mio tentativo di ribadire la mia capacità di scegliere per me stesso, poche ore fa.
«Chiamerò i miei avvocati» ruggisce mio padre, e se ne va a grandi passi.
Mia madre mi lancia un’ultima occhiata dispiaciuta prima di seguirlo.
Charlotte esce chiudendo la porta e lascia soli me e Art.
«Mi dispiace» dice lui immediatamente. «Non avrei dovuto permettere loro di entrare.»
«No, hai fatto bene. Mi aspettavo che reagissero così. Li hai chiamati tu?»
«No. Non so chi sia stato.»
«Dicevi sul serio, prima? Sei il mio tutore legale?»
«Pensavo lo sapessi. Sì, e tu sei il mio.»
«Quindi, legalmente, potresti farmi quell’impianto.»
«Potrei» ammette. «E fino a poco fa ero certo che l’avrei fatto, in caso se ne fosse presentata l’occasione. Ma ora … » sospira. «Credo di aver capito che tu puoi fare quello che vuoi. Non ti imporrò nulla.»
«Grazie. È importante per me.»
«Mi dispiace anche per … prima. Ti avevo promesso che non sarei più andato via e l’ho fatto dopo meno di due ore.»
«Non preoccuparti. È stata solo … una divergenza di opinioni.»
Mi metto seduto a fatica, sforzando i muscoli doloranti e combattendo la profonda stanchezza che mi invade da giorni.
Ci stringiamo in un abbraccio.
«Ti prego» mormora Art al mio orecchio, quasi tremando «Ti prego, Dam, lascia che io ti aiuti.»
Esito a lungo.
«Non voglio che rischi la vita per me.»
«Non lo farò. Charlotte è un ottimo medico, lo sai.»
«Pensavo che la odiassi.»
«Prima che mi aiutasse a salvarti la vita. Non cambiare argomento.»
Sono sopraffatto dalla sensazione meravigliosa che è restare qui al sicuro tra le braccia di Art.
«Va bene» cedo.
«Cosa?»
«Va bene. Fai quello che vuoi.»
«Dici davvero?»
Annuisco.
«Voglio restare insieme a te ancora a lungo» mormoro. «Quanto ci vorrà?»
«Charlotte dice che impiegherà almeno una decina di giorni.»
«… Ah.»
«Vedrai che starai bene. O perlomeno» rettifica guardando la mia espressione dubbiosa «Sopravvivrai. Sono solo dieci giorni, Dam, e io non ti lascerò un attimo. Te lo giuro.»
Non replico, limitandomi a chiudere gli occhi.
Sento le mani di Art tra i miei capelli, sul viso pallido, lungo il collo.
«Ti amo.»
E non sono neanche certo se l’ho detto io, lui o entrambi.
 

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Capitolo 10
*** Kidnap ***


~KIDNAP~

 

[Charlotte]

 

La giornata di oggi è estremamente pesante e non credo che migliorerà. Ho visitato quelli che sembravano duecento pazienti senza una pausa, e adesso in teoria sarebbe ora di pranzo.
Mangio un panino in cinque minuti, butto giù mezzo litro d’acqua naturale e poi torno ad alzarmi, dopo aver temporaneamente sostituito i tacchi con dei sandali bassi per il bene dei miei piedi doloranti. Non riuscendo a incastrarla nella mia agenda, sono costretta a fare l’ecografia di Vanessa in pausa pranzo.
Lei mi sta già aspettando. La precedo dentro l’ufficio e preparo il necessario.
«Sdraiati, Ness. Allora, come stai?»
«Abbastanza bene, a parte i chili che sto prendendo.»
«Temo di non poter fare nulla per quello. Piuttosto … hai sentito di cos’è successo ad Arthur, vero?»
«No, non credo.»
La guardo per un momento, sorpresa, quindi le sollevo la maglietta e spalmo un po’ di gel sulla pancia.
«Quindi non sai che è andato al Queen Victoria’s?»
«Oh, cielo, no. Perché mai?»
«Perché voleva che Vahel prelevasse un campione dei suoi poteri per poter dare a Damien l’invulnerabilità e guarirlo.»
Lei tace per un secondo.
«Beh, devi ammettere che è un’idea geniale.»
«A parte che, se l’avesse chiesto a me, avrei potuto farlo io, evitando lo spargimento di sangue successivo.»
Con forse un po’ troppa foga, appoggio il sensore sulla sua pancia e poso lo sguardo sul monitor, dove compare un’immagine bluastra un po’ sfocata.
«Che spargimento di sangue?»
«Vahel ha tentato di uccidere lui e … beh, e Blake.»
«Blake?!»
Vanessa sussulta e si alza, facendomi scivolare il sensore.
«Ness! Stai ferma!»
«Scusa» borbotta, tornando distesa. «Ma cosa c’entra adesso Blake?»
«Era prigioniero di Vahel. L’ha interrogato per saperne di più sulla sua lotta per salvare il presidente. Tu ne sapevi qualcosa?»
«Poco.»
«In ogni caso, Blake è rimasto ferito e Arthur, per guarirlo, ha usato il campione di poteri che aveva preso da Vahel.»
«Quindi lui sta bene?»
«Insomma, il campione era avvelenato … » Osservo lo sguardo scioccato di Ness e mi affretto ad aggiungere «Però ora sta benissimo.»
«Ed è … qui
«Già. Oh, Ness, guarda.» Lei alza gli occhi e osserva lo schermo. «Questo è il tuo bambino» mormoro. «È già quasi del tutto formato. Qui c’è la testa, vedi? E le manine … »
Sposto gli occhi su Vanessa, che ammira incantata la figurina accoccolata.
«Vuoi sapere il sesso o preferisci lasciarti la sorpresa?»
«Certo che no» sussurra, senza distogliere gli occhi dall’immagine «Dimmelo immediatamente!»
Sorrido e continuo l’esame.
«È una femminuccia, non c’è dubbio» affermo.
«Oh, Charlie … è meravigliosa, non è vero?»
«Certo che lo è. Ascolta, Vanessa … »
«Sì.»
«Non credi che dovresti parlare con Blake?»
Lei evita il mio sguardo.
«Dovrei» concorda «Ma non so come fare. Ho paura che … oh, al diavolo, non so neanche io di cosa ho paura.»
«Blake è un bravo ragazzo, Ness, lo sai. Accetterà quello che gli dirai e ne sarà felice.»
«Credi?»
«Ne sono sicura.»
Vanessa sospira e si ripulisce dal gel, per poi scendere dal lettino.
«Ci penserò» promette prima di uscire.
 
La mia giornata continua com’era iniziata –frenetica e dura.
Nel tardo pomeriggio passo da Damien. Sono quasi le sette, è la mia penultima visita prima di poter finalmente staccare.
Apro la porta e trovo Damien intento a guardare un vecchio film alla TV insieme ad Arthur.
«Ciao. Come stai?» domando.
Damien abbassa il volume e si volta verso di me.
«Bene. Meglio di ieri di sicuro. Senti, Charlie, posso chiederti una cosa?»
«Dimmi.»
«Pensi che potrei … insomma … tornare a casa? Almeno per un po’?»
Lo osservo inclinando appena la testa.
«Credo che non ci sia niente di male, se ti senti meglio. E poi potete arrivare qua in meno di dieci secondi, qualunque cosa succeda, perciò … sì, d’accordo. Ti firmerò i documenti necessari.»
«Certo. Grazie.»
Esco e mi dirigo verso l’ultima camera, quella di Blake.
Sta bene, ormai: la crisi di ieri è passata senza lasciare strascichi, anche se sono certa che non dimenticherà che Vahel ha tentato di avvelenarlo. O forse il veleno era destinato a Damien? Dubito che lo sapremo mai.
«Allora? Sei pronto a tornare a casa?» gli chiedo allegramente.
«Sì.»
Sta chiudendo la sua borsa. Poi si siede sul letto ed evita il mio sguardo.
«Che cosa succede, Blake?»
«Non ve ne siete accorti» mormora.
Capisco subito di cosa sta parlando.
«Blake, sii ragionevole. Come avremmo potuto? Non abbiamo tue notizie da mesi. Eravamo tutti convinti che ti fossi trovato un lavoro, una vita normale … »
«Non mi piace fingere, Charlie» scatta lui. «Non ne sono capace. Voi siete dei maestri –fingete di essere normali, trovate dei lavori normali. Fingete che nessuno stia cercando di compiere un omicidio, mentre sapete benissimo che ci sono molte probabilità che questo avvenga.»
«Ma non è successo.»
«Certo che no. Perché ho fatto tutto quello che potevo per impedirglielo. Da solo
«Se Vahel avesse veramente avuto i mezzi per uccidere il presidente, pensi che saresti riuscito a fermarlo?» commento acida.
«Almeno ci ho provato. E, per ora, ho avuto successo.»
«Non puoi biasimarci per averne voluto restare fuori, Blake. Quello che tu stai facendo è fingere di essere ancora al Queen Victoria’s, e ti rifiuti di andare avanti con la tua vita. Te la sei andato a cercare, da Vahel. Hai cercato di entrare al Queen Victoria’s senza motivo … »
«Stavo cercando di impedire un omicidio!»
«Sei un idealista» taglio corto, incrociando le braccia. «Lo sei sempre stato. E credo che il tuo vero scopo sia riportare Lily sulla retta via. Ammettilo, ancora ci speri, e ti senti in colpa per averla abbandonata.»
Capisco di aver fatto centro dalla sua espressione. Annuisco.
«Non importa» concludo. «Puoi continuare così, se vuoi –non sono affari miei- ma se fossi in te io metterei una pietra sopra Lily e comincerei a pensare a qualcun altro.»
Non nomino Vanessa specificatamente, perché so che lei non gli ha ancora parlato, ma credo che Blake abbia capito.
 
Dopo i soliti controlli di routine, esco finalmente dall’ospedale. Sono appena le sette e venti, è ancora chiaro, ma decido comunque di allungare la strada per evitare la zona dove sono stata aggredita pochi giorni fa. Solo a pensarci mi vengono i brividi, perciò cancello i pensieri negativi e mi concentro sul bagno caldo che mi concederò non appena arrivata.
In quel momento mi squilla il cellulare.
«Pronto» rispondo distrattamente, senza neanche controllare chi mi sta chiamando.
«Charlotte? Sono Jack. Devi venire subito, è successa una cosa e … non so cosa fare.»
Torno subito attiva e presente nel sentire il suo tono spaventato e urgente.
«Cos’è successo? Dove sei?»
«Sono in albergo. Io e Jon stavamo tornando a casa quando due uomini ci hanno sparato qualcosa … eravamo vicini al parco. Non so cos’era, ma all’improvviso non riuscivo più a sentire i pensieri, e poi … hanno preso Jonathan, l’hanno caricato su un furgone e l’hanno portato via.»
E io che pensavo che la giornata di oggi non potesse peggiorare.
 
La riunione è fissata per le nove nel mio soggiorno. Vanessa, Jack ed io siamo già seduti quando Arthur e Damien compaiono all’improvviso, il secondo provato ma tutto sommato in uno stato accettabile.
L’ultimo ad arrivare è Blake. Gli apro la porta e gli faccio strada, ricordandomi della presenza di Vanessa solo quando ormai è troppo tardi per fare qualunque cosa.
Lei sbarra gli occhi e lui fissa il pancione con aria scioccata.
«Ehm … bene» taglio corto prima che possano anche solo cominciare una discussione che potrebbe finire male. «Sapete tutti cos’è successo. Jon è stato rapito. Dalla descrizione che mi ha fornito Jack, sembra che i rapitori siano i due uomini che … con cui io e Jon abbiamo avuto uno scontro l’altra sera.»
«Di cosa stai parlando?» chiede Arthur, le sopracciglia aggrottate.
«Sono stata aggredita, pochi giorni fa, mentre stavo tornando a casa. Jon è venuto in mio soccorso. Ora, è evidente a questo punto che il loro obiettivo non era una violenza in senso stretto» istintivamente rabbrividisco al ricordo di quei momenti orribili «Ma un attacco mirato a uno di noi. Sapevano che la pantera era Jon, e con ogni probabilità sapevano anche di me.»
«Dev’esserci Vahel dietro» dice Arthur. «Aveva catturato Blake, e cercava me da anni. Per qualche motivo ci vuole tutti.»
«Per qualche motivo?» commenta Vanessa, critica. «Per ucciderci, direi.»
«Ma perché? Cosa ne ricaverebbe? I nostri poteri –a parte i miei- li ha già tutti.»
«Vendetta.»
«Non mi convince.»
«Potrebbe anche essere qualcun altro, ma le motivazioni … » comincio, pensierosa.
«In ogni caso, non dobbiamo chiederci perché. Dobbiamo trovare Jon e liberarlo» taglia corto Damien, interrompendomi.
«Jack mi ha riferito la targa del furgone. Ho fatto qualche ricerca e ho ottenuto un nome, e dal nome un indirizzo.»
«Dove?»
«A New York.»
«Quando partiamo?» domanda Damien.
«Tu non vieni» dice Arthur.
«Come sarebbe a dire?»
«Damien, sei malato. Dovresti restare in ospedale.»
«Neanche per idea. Jonathan è il mio migliore amico.»
«E tu sei il mio ragazzo.»
«Starò bene.»
«Ma se a stento riesci a stare in piedi.»
«Io … riprenderò a usare i farmaci.»
«Hai detto tu stesso che non servono a nulla su di noi.»
Intervengo per sedare il dibattito, decisa, colpita da un’idea causata dalle parole su di noi. Idea che, forse, sarebbe stata ancora più utile qualche settimana fa.
«Questo è vero, ma se Damien non fosse come noi, forse potremmo cambiare le cose.»
«Cosa vuoi dire?»
«Credo che i farmaci funzionerebbero se prendessi regolarmente del Pentothal.»
Arthur scuote la testa.
«No. Potrebbe avere una qualche strana reazione allergica, o … non so, ma comunque non voglio.»
«Non spetta a te decidere» gli ricorda Damien. «E io sono d’accordo con Charlotte.»
Arthur stringe i pugni.
«Non voglio che tu metta a rischio la tua vita! Non abbiamo bisogno di te con noi! E vaffanculo cosa ne pensa Charlotte
Si alza e si allontana, furioso.
Restiamo in silenzio per un po’, imbarazzati, quindi Damien sospira.
«Vado a parlargli.»
«No. Lascia andare me.»
Lui mi guarda stupito, ma acconsente.
Esco dal soggiorno, osservando con la coda dell’occhio Blake e Vanessa che si appartano per parlare.
Arthur è sul portico, le dita strette sul legno, e mi da le spalle.
«Arthur» comincio, ma mi interrompe subito.
«Tu non hai idea» sussurra, la voce carica di rabbia e dolore, senza voltarsi. «Non hai idea di come ci si sente. Io lo vedo soffrire, stare sempre peggio, e non posso fare nulla per aiutarlo. Sono totalmente impotente, devo affidarmi a una persona che detesto perché lo tenga in vita.» Si gira e mi guarda, tremando per le emozioni violente. «Io l’ho visto peggiorare in questi anni. Io ho visto che a poco a poco smetteva di mangiare, dimagriva, si stancava più facilmente, si sentiva male sempre più spesso. Io l’ho portato in ospedale più e più volte, sentendomi dire che era colpa sua se non migliorava, perché non prendeva le medicine. Io gli ho tenuto la mano mentre continuava a vomitare. Io sono andato da Vahel perché mi desse una cura, sperando fino all’ultimo di poter fare qualcosa. Io ho dovuto scegliere se salvare la vita a Blake rinunciando alla possibilità di guarirlo.» Fa una pausa, respirando pesantemente, quindi riprende, a voce più bassa. «Io l’ho ascoltato mentre mi spiegava che non voleva più prendere i farmaci. Io l’ho capito quando mi diceva che voleva solo smettere di soffrire, e l’ho accettato –ed è la persona che amo di più al mondo. E adesso che forse intravedo una possibilità all’orizzonte, ancora debole, di salvargli la vita, arrivi tu -dall’alto delle tue dieci lauree- e lo incoraggi a provare qualche mix di farmaci che potrebbe ucciderlo.» Mi guarda fisso e conclude: «Dimmi, Charlotte, chi sei tu per fare una cosa del genere?»
Resto in silenzio per qualche secondo, assimilando tutte queste parole rabbiose e sentite. Per un istante prendo in considerazione la possibilità di mormorare “nessuno” e tornare in casa, ma poi cambio idea e replico, cercando di sembrare più calma di come mi sento in realtà.
«Un’amica. Un medico. Qualcuno che capisce quello che lui vuole e che vede oltre la sua malattia.» Sollevo una mano per impedirgli di interrompermi. «Jonathan è il suo migliore amico. Pensa a come potrebbe sentirsi Damien, nel suo letto di ospedale, sapendo che non sta facendo nulla per aiutarlo. Come ti sentiresti tu, in quella situazione? In colpa, probabilmente, e inutile, e impotente.» Lo guardo con fermezza. «Damien può decidere per se stesso, Arthur: di fronte ai suoi genitori l’hai ammesso anche tu. Devi lasciarglielo fare. So quanto lo ami, e proprio per questo è importante che tu gli stia accanto e lo supporti, qualunque cosa lui decida di fare. Pensa a quanto ti odierebbe se gli impedissi di salvare Jonathan.»
Arthur tace per un momento.
«Comunque, probabilmente troverebbe il modo di seguirci lo stesso» borbotta.
«Ne sono certa» sorrido, e torno in casa, quasi aspettandomi un grazie che però non arriva.

 

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Capitolo 11
*** Back in action ***


~BACK IN ACTION~

 

[Blake]

 

«Allora?»
È questa l’unica parola che riesco a pronunciare, gli occhi fissi su Vanessa, in piedi di fronte a me con le braccia incrociate.
«Allora cosa?» replica lei, e se non fosse una ragazza le darei uno schiaffo.
«Allora cosa? Stai scherzando? Sei incinta
«Sì, lo so.»
«E … insomma, com’è potuto succedere? Pensavo che avessi la testa sulla spalle!»
Le mie parole suonano stupide anche alle mie orecchie.
Lei ghigna.
«Com’è successo, mi chiedi? Perché, eri ubriaco? Non ricordi?»
La guardo senza capire.
«Oh, Dio, sul serio non hai capito? Blake! Ricordi cos’è successo sei mesi fa, a casa mia, nel mio letto … e sul pavimento … e in ascensore … e … ?»
La mia mente procede più lenta del solito, ma alla fine capisco.
«Ma … io pensavo … oh, Dio, quindi sono io che … perché non me l’hai detto prima?!»
Sono semplicemente sotto shock. Non avevo affatto realizzato, né fatto i dovuti calcoli.
Sono io il padre.
«Avevo paura di come avresti reagito.»
«Quando avevi intenzione di farmelo sapere, di grazia?»
«Io … non lo so, Blake. Ero così … »
«Non pensi che sia il genere di cosa che avrei dovuto sapere prima di chiunque altro? O pensavi di tenermelo nascosto per sempre? E se … e se io non avessi voluto che tu tenessi il bambino?»
Vanessa sembra inizialmente rimpiccolire a queste parole, tanto che quasi mi pento di questo attacco d’ira –ma quando concludo con quest’ultima domanda, stringe gli occhi e mi guarda fisso.
«In tal caso» replica con fermezza «Ti avrei detto di andare a farti fottere. E l’invito è ancora valido.»
«Non credi che io abbia voce in capitolo?»
«Credo che tu sia un idiota, Blake! Sul serio pensi che io avessi intenzione di tenertelo nascosto? Pensi che io non abbia paura? Sono dannatamente spaventata per questa cosa che è più grande di me e vorrei solo cancellare tutto, ma non si può, e ormai siamo adulti, e credo che dobbiamo prenderci la responsabilità delle nostre azioni. E se tu ti rifiuti di farlo, beh, vorrà dire che me la caverò da sola.»
Cala il silenzio. La osservo, ferma e decisa, le mani incrociate sul petto e l’espressione mortalmente seria.
Respiro profondamente.
«Ok» mormoro. «Vieni qua.»
La stringo in un abbraccio e chiudo gli occhi, inspirando il profumo dei suoi capelli scuri.
«Andrà tutto bene» le sussurro piano. «Ti resterò vicino, te lo giuro, Ness.»
Quando rientriamo, la decisione è ormai stata presa. Partiremo per cercare Jonathan.
 
In macchina non parliamo molto. Guido per un po’, e ogni tanto guardo nello specchietto retrovisore. Charlotte è seduta accanto a me con una cartina stradale in mano, mentre Jack, Vanessa, Arthur e Damien sono pressati dietro.
Dopo un considerevole numero di ore e diverse soste e cambi di guidatore, finalmente arriviamo a New York.
Non è difficile trovare l’indirizzo che Charlotte ha recuperato.
«Proprio quello che ci vuole» borbotta Vanessa. «Un edificio abbandonato nel Bronx, alle due di notte, un rapimento ... davvero delizioso.»
Scendiamo dall’auto, parcheggiandola il più vicino possibile.
«Bene. Andiamo.» Mi guardo intorno. «Ehi, no, aspetta, Jack. Tu resti qui.»
«Cosa?»
«Tieniti pronto a partire, appena torniamo dobbiamo correre.»
«Io non rimango in macchina. È mio fratello che state andando a prendere.»
«Tu ci servi qui.»
«Voi potete sapere se c’è qualcuno in giro? Io sì, mi basta sentire i loro pensieri.»
Esito, e lancio un’occhiata agli altri.
«D’accordo» cedo. «Vieni, ma fai solo e soltanto quello che ti diciamo noi, è chiaro?»
Jack annuisce.
In silenzio ci avviciniamo all’inferriata arrugginita. Charlotte prova a spingere il cancello e questo si apre con un cigolio non molto promettente.
So cosa passa nella mente di tutti. Deve essere una trappola.
«Magari non si aspettavano che riuscissimo a trovarli» propone Damien, non molto convinto.
«Se ci cercano, sanno dei nostri poteri. Penso che abbiano dato per scontato che avremmo trovato l’indirizzo» replica Charlotte.
Proseguiamo fino alla porta d’ingresso, attraversando un cortile sporco e pieno di erbacce. È aperta anche quella. Facciamo un paio di passi all’interno, trovandoci in una stanza con le pareti scrostate, silenziosa e buia.
«Non mi piace» mormora Damien.
«Ness, Art» dico con decisione, mantenendo la voce bassa. «Andate in ricognizione, uno qui e l’altra al piano di sopra. Dam, Jack, vedete se riuscite a scoprire qualcosa. Charlie, prova a infiltrarti nel circuito delle telecamere.»
In silenzio, senza pensarci due volte, tutti obbediscono. Proprio come ai vecchi tempi. Scaccio l’istintivo brivido di piacevole eccitazione –non è il momento di godersi questi deja-vu. Mi mordo il labbro inferiore, cercando di scorgere qualcosa nel buio che mi circonda, l’elettricità che crepita già nei miei palmi, illuminando tenue le mie mani come due piccole torce.
Arthur mi ricompare a fianco all’improvviso, facendomi sussultare.
«Qui non c’è nessuno. Raggiungo Vanessa di sopra.»
E sparisce di nuovo.
«Sento Jonathan» mormora Jack. «Dev’essere da qualche parte qui, forse al piano di sopra.»
«C’è qualcun altro?»
«Sì. Sento degli altri pensieri … sono altre persone, non riesco a capire quante … di sicuro più di due.»
«L’abbiamo trovato.» È Vanessa che parla. «È di sopra, in una stanza sulla sinistra al fondo del corridoio. Chiuso in gabbia.»
«Quanti?»
«Almeno quattro, solo in quella stanza.»
Arthur ricompare a sua volta.
«E altri dieci in tutto nelle stanze attigue.»
«Ok» dico, fingendo di non aver notato la loro schiacciante superiorità numerica –qualcosa come due a uno. «Credo che la cosa più semplice sia che Arthur si teletrasporti là e porti Jonathan con sé.»
«Io posso farlo diventare invisibile, se vado con lui» interviene Vanessa.
Non ricordavo questo particolare, dev’essere una novità. Comunque annuisco.
Osservo Vanessa prendere la mano di Arthur. Scompaiono entrambi.
Rimango in silenziosa attesa, mentre Charlotte esulta sottovoce.
«Fatto» dice, e mi fa cenno di chinarmi. Sullo schermo del piccolo notebook sono comparse diverse immagini. Lei le scorre fino a trovare quello che ci interessa –la stanza dove è rinchiuso Jonathan.
Gli occhi socchiusi, osservo la figura distesa sul pavimento, apparentemente sveglia e vigile. Non vedo altro –Art e Vanessa sono invisibili- e aspetto in silenzio.
Finché Damien sussulta e mi strattona un braccio.
«Blake» mormora «Arriva qualcuno.»
Mi alzo di scatto.
«Quando?»
«Non lo so. Presto.»
«Adesso» rettifica Jack. «Sono sulle scale per un giro di ricognizione.»
«Maledizione» ringhio.
Charlotte ha già chiuso il computer e ci sta spingendo verso una porta laterale. Ci precipitiamo tutti lì dentro, chiudendoci la porta alle spalle.
«Lo sai, vero» dico, ansimando «Che se entrano qui siamo in trappola?»
«Se hai idee migliori, sono tutta orecchie» ribatte acida Charlotte.
Non replico. Lei riapre il portatile. La situazione sembra ancora la stessa –Jonathan è steso a terra, le guardie parlano tra loro. Dove diavolo sono finiti Vanessa e Arthur? Vorrei che fossimo dotati di quelle ricetrasmittenti che fanno vedere nei telefilm polizieschi. Oppure …
«Jack. Dove sono quei due?»
Lui stringe gli occhi, concentrandosi.
«Non li sento» mormora dopo un po’.
«Cosa significa che non li senti?» sibilo.
«Potrebbero essere fuori dall’edificio.»
«Non senza Jonathan.»
«O privi di sensi.»
Oh, no.
«Charlotte.»
«Eccoli.»
Con le labbra strette, gira il computer verso di me. Vanessa e Arthur sono coricati a fianco di Jonathan nella gabbia, immobili, apparentemente privi di sensi.
«Maledizione!» ringhio. «Cos’è successo?»
«Non lo so. Per accedere ai filmati registrati occorrerebbe troppo tempo. Se vuoi posso farlo, ma … »
«No, è inutile. Concentriamoci su come liberarli.»
In quel momento, la porta si spalanca.
«Forse dovreste prima concentrarvi su come liberare voi stessi» commenta una guardia.
Sono almeno otto, e noi solo quattro, tre dei quali –Damien, Charlotte e Jack- non hanno poteri utili in combattimento.
Senza perdere altro tempo, sollevo una mano e lancio una scarica di energia a una delle guardie, che viene scaraventata contro la parete del corridoio.
«A destra» dice Damien, prevedendo la mossa un secondo prima e dandomi il tempo di neutralizzare anche una seconda guardia.
Ma poi la cosa si fa troppo confusa per poter utilizzare efficacemente questo metodo.
«Ehi, bocconcino» biascica una delle guardie, rivolto a Charlotte. Lei lo individua e sbarra gli occhi, spaventata. «Che ne dici se riprendiamo da dove ci eravamo interrotti la volta scorsa?»
Deve essere uno dei suoi aggressori. Furioso, faccio per colpirlo, ma Charlotte mi precede. Con eleganza, lo raggiunge e ignora il suo sguardo divertito. Solleva una mano e, senza preavviso, lo colpisce duramente sul collo, di piatto. Lui stramazza immediatamente al suolo.
«Stronzo» mormora Charlie prima di rivolgersi ad un’altra delle guardie.
Ma la nostra escalation non dura a lungo. Damien e Jack, praticamente impotenti, vengono messi fuori gioco in pochi secondi. Charlotte li segue a breve. Io resisto qualche minuto di più, difendendomi con tutte le mie forze, ma la leggera e quasi impercettibile puntura che sento sul braccio fa crollare le mie difese –Pentothal, ovviamente.
Vedo una guardia avvicinarsi spaventosamente e tutto si fa buio.
 
Quando riapro gli occhi è a causa della luce che filtra da una finestra. Il sole è alto e bollente. Mi guardo intorno, i pensieri ancora confusi e ingarbugliati. La situazione è più o meno quella che ho visto dalle telecamere –una gabbia, delizioso riferimento al fatto che siamo considerati alla stregua di animali, tanto grande da occupare quasi l’intera stanza, e noi sette al suo interno. Ci sono due elementi differenti, però: il primo sono gli anelli d’acciaio legati ai nostri polsi destri e, all’altra estremità, a catene metalliche che partono da diversi punti della gabbia. Il secondo elemento è il luogo dove ci troviamo. Non sembra affatto di trovarsi nell’edificio malandato della scorsa notte: dalla finestra intravedo grattacieli e alti palazzi, tutti in vetro e acciaio, moderni –troppo per il Bronx. Valuto l’altezza della gabbia e provo ad alzarmi –ci riesco, sebbene la posizione sia scomoda.
Un’esclamazione soffocata mi esce dalla bocca senza che io lo voglia. Ho riconosciuto il luogo, e come potrebbe essere il contrario? Siamo a Manhattan, il cuore pulsante di New York.
«Bella vista, eh?» commenta Charlotte pacatamente.
Mi volto e torno a sedermi.
«Cosa ci facciamo qua?» le chiedo.
«Mi piacerebbe saperlo.»
Osservo gli altri. Sono ancora privi di sensi.
Provo, senza convinzione, a usare i miei poteri.
«Niente da fare» commenta Charlie. «C’è un ago all’interno delle manette che rilascia lentamente del Pentothal.»
«Nessuna idea su chi ci abbia portato qui, o … ?»
Charlotte scuote appena la testa. Il Pentothal sta facendo effetto anche su di lei.
«Cosa … ?» borbotta qualcuno.
Mi volto in tempo per vedere Jonathan svegliarsi.
«Jon» sospira Charlotte, sollevata. «Come stai?»
Lui tenta di mettersi seduto e fa una smorfia.
«La mia gamba … fa male.»
Mentre Charlotte si avvicina per controllare, lentamente gli altri si svegliano a loro volta.
«Ness, tutto bene?» domando, preoccupato, mentre Vanessa porta le mani alla pancia.
«Credo di sì» risponde debolmente.
Mentre anche Jack, Damien e Arthur riaprono gli occhi, la porta si apre.
Decisamente non entra chi mi sarei aspettato. Al primo posto della lista c’era Vahel, ovviamente; al secondo Lily; al terzo qualche sconosciuto dall’aria spaventosa.
Invece entrano un uomo e una donna. Lui deve essere sulla quarantina, piuttosto massiccio, impeccabile in un completo gessato dall’aria molto costosa, con un principio di calvizie e un’abbronzatura eccessiva.
La donna sembra giovane –all’inizio le do venticinque anni, ma quando si avvicina di più noto qualche dettaglio che non mi convince. Probabilmente ha fatto diverse visite ad un chirurgo plastico. È esile, non molto alta, con capelli biondi tinti e un tailleur rosa scuro.
Lei è una faccia nota. Non posso fare a meno di riconoscerla: è Candy Constantine, famosa presentatrice televisiva. Anche l’uomo ha un’aria familiare, ma non riesco a identificarlo finché non si presenta.
«Sono Noah Brown» dice, rapido ed efficiente, squadrandoci da capo a piedi. Sentendo il suo nome, mi ricordo che è un famoso e disgustosamente ricco produttore televisivo e cinematografico. «E voi siete i protagonisti del mio nuovo show. »

 

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Capitolo 12
*** Lost ***


~LOST~

 

[Jonathan]

 

Osservo con gli occhi stretti Noah Brown mentre parla in tono entusiastico. A dire la verità, fatico a concentrarmi sulle sue parole a causa del dolore bruciante alla gamba destra, sotto il ginocchio –dove mi hanno colpito quando sono stato portato qui.
«Tutta l’America –no, che dico? Tutto il mondo aspetta di potervi guardare. Certo, il preavviso che ci hanno dato è breve, ma da oggi per una settimana bombarderemo di pubblicità ogni singolo canale televisivo, ogni rivista, tappezzeremo di volantini Manhattan, Trafalgar Square, il Big Ben, la Tour Eiffel e persino il Colosseo … »
Brown vaneggia ancora un po’, dimostrando una preoccupante tendenza alla megalomania, e nessuno di noi apre bocca. Ci guardiamo con un misto di disgusto e confusione.
«”Mutant Wars”, si chiamerà. Prevedo un sacco di sangue, una vena leggermente melodrammatica, magari un filo di romanticismo per rendere il tutto più interessante … »
«Ma di cosa diavolo sta parlando?» sbotta alla fine Arthur.
Brown lo guarda con stupore.
«Di cosa sto parlando? Ragazzo mio, del reality show che surclasserà ogni altro programma! Veri mutanti che combattono tra di loro per la sopravvivenza!»
«Sta scherzando?» ringhia Charlotte. «Non avete il diritto di fare questo. Noi siamo cittadini degli Stati Uniti. Siamo esseri umani, non potete trattenerci senza una ragione valida né tantomeno sfruttarci come marionette in un reality show!»
«Tesoro mio» sorride Brown «Non sai di cosa stai parlando. Voi siete considerati una specie sconosciuta, e in quanto tale … com’era, Candy?»
«Ritenuti potenzialmente pericolosi, classificabili come animali selvatici» cita lei a memoria, sorridendo, orgogliosa di se stessa.
«Che cosa?» ancora una volta, è Charlotte a parlare, furibonda. «Siamo persone … o perlomeno lo siamo fino a prova contraria.»
«La prova contraria c’è già stata» replica Brown con un sorriso. «E anche piuttosto evidente, se posso dirlo. Quando due uomini sono stati inviati per tentare di catturare vivo uno di voi –e, mia cara, mi pare che sia proprio di te che stiamo parlando- in modo del tutto inoffensivo, un altro» e guarda me «ha reagito in modo eccessivo, ferendo gravemente entrambi.»
«In modo del tutto inoffensivo?!» sbotto, sentendo la rabbia salire. «L’hanno aggredita! Stavano per … per … »
«Temo che questo non sia rilevante, adesso» taglia corto Brown. «In ogni caso, gli unici che avranno diritto di protestare saranno gli animalisti –e nessuno li ascolta mai, dico bene? Torniamo a noi. Credo che per la prima puntata ci serva qualcosa di davvero efficace e d’impatto, per creare interesse nel pubblico. Quindi pensavo a quello che lancia fulmini contro quello che diventa un animale, che ne dici?»
«Trovo che sia un’idea deliziosa» sorride Candy. «Ma la cosa davvero importante è che ci sia un palco al di fuori del recinto dove io possa restare al sicuro e commentare lo spettacolo senza correre rischi.»
«Ci sarà senza dubbio. Con riflettori e tutto.»
«E se ci rifiutiamo di combattere?» prorompe Arthur.
«In tal caso» risponde Brown, con tutta l’aria di volersi godere la scena «Ne andrà della vita dei vostri compagni.»
La minaccia aleggia nell’aria a lungo, poi Brown si volta verso Candy.
«In ogni caso, stavamo dicendo … come secondo incontro che te ne pare dell’invisibile contro il veggente?»
«Oh, cielo, no. Pensavo di mettere il veggente con il genio, ne verrà fuori uno spettacolo molto … intellettuale, se capisci cosa voglio dire.»
«Certo, ma stai dimenticando qualcosa, Candy. La parte emozionale, romantica della situazione. Voglio dire, i due innamorati che combattono l’uno contro l’altro, capisci?»
«Sì, naturalmente, ma non rischiamo di scatenare un dibattito ancora più forte così, facendoli vedere quasi come umani
«Ma è esattamente quello che voglio che accada! Voglio che se ne parli, e comunque non esiste cattiva pubblicità, giusto?»
Mentre continuano a parlare tra loro, mi volto verso gli altri. Charlotte ascolta attentamente, gli occhi socchiusi e le mani sulle tempie –credo stia cercando di immagazzinare informazioni nonostante in Pentothal. Blake e Jack parlano tra loro sottovoce, nervosi. Arthur è accanto a Damien, che sembra stare poco bene. Vanessa è sola, in silenzio, e si accarezza pensosamente la pancia.
Candy e Brown, alla fine, aprono la gabbia e ci tolgono le catene, lasciandoci solo le manette con l’iniettore di Pentothal. Poi escono, ancora chiacchierando amabilmente.
«Allora?»
Il silenzio dura a lungo. È Vanessa la prima a parlare.
«Non c’è niente che possiamo fare.»
«Io non voglio combattere con nessuno» sibilo.
«Certo che no, ma abbiamo altra scelta?»
«Forse una c’è» mormora Charlotte senza neanche guardarci, le mani premute sulle tempie e gli occhi chiusi.
«Sarebbe a dire?»
«Avete un cellulare?»
«Io ce l’ho» dice Arthur «Ma ci tengono qui legalmente, almeno secondo il governo. Cosa possiamo fare?»
«Chiamare Lily.»
Spalanco gli occhi, sconcertato, insieme a tutti gli altri.
«Che cosa? Sei impazzita?» sbotto. «Ci sono il … non so, il novantanove percento di possibilità che siano lei e Vahel gli artefici di tutto questo!»
«Dove avrebbe preso tutte le informazioni sui nostri poteri, altrimenti?» mi fa eco Vanessa. «Non ce l’hanno in molti.»
«Il presidente sì. Le ha ottenute dall’Area 51» replica Charlotte, riaprendo gli occhi e puntandoli su ognuno di noi. «Secondo me le probabilità sono un cinquanta e cinquanta.»
«Il presidente?» commento, affatto convinto. «Perché mai dovrebbe volere uno spettacolo del genere?»
«Perché pensa che abbiamo tentato di ucciderlo. E, in più, siamo in pieno periodo di elezioni. Se riesce nel tentativo di farci sembrare un pericolo per la società –e ci riuscirà, magari anche citando quell’attentato- e mostrare in questo show l’unico modo per tenerci sotto controllo, guadagnerà punti per aver debellato una minaccia. Ma questo significa comunque legarsi pubblicamente allo show, dichiarandosi a favore di esso contro … gli animalisti, o chi per loro.»
Osservo Charlie con un certo stupore.
«Pensavo fossi sotto Pentothal anche tu» le faccio notare.
«Evidentemente il mio cervello si adegua più rapidamente degli altri» replica lei alzando le spalle, ma con un’aria vagamente compiaciuta.
«Comunque sia, questo non ci dà certezze» controbatte Blake. «Non ci dice che Lily e Vahel siano completamente al di fuori della faccenda.»
«No» ammette Charlotte. «Ma se corriamo il rischio, e chiamiamo Lily, cosa abbiamo da perdere? Se è lei la responsabile, ci riderà in faccia. Se non lo è, c’è una possibilità che decida di aiutarci. Magari in cambio di quello che cerca da anni, il potere di Arthur.»
Mi volto con gli altri verso quest’ultimo, che però non sembra star seguendo la discussione. È accanto a Damien e ha un’aria preoccupata.
«Charlotte, i farmaci sono rimasti in macchina, vero?»
Lei sussulta.
«Oh, cielo. Temo di sì.»
«Sto bene» ribatte Damien, ma è bianco come un cencio e la sua voce debole.
«Ok» dice Charlotte con voce decisa. «Opzione uno: restiamo qui senza fare nulla. Opzione due: chiamiamo Lily e speriamo che ci aiuti.»
«Opzione tre» interviene Arthur «Proviamo a rompere queste manette in modo da poterci teletrasportare.»
Per qualche intenso minuto ci dedichiamo a provare l’opzione tre, ma senza alcun successo. Quindi torniamo a parlare della due.
Alla fine giungiamo alla conclusione che tentar non nuoce.
«Chi chiama?» chiede Charlotte.
«Sono l’ultima persona che vuole sentire» dice subito Blake.
«E io ti faccio concorrenza» aggiunge Arthur.
«Non la conosco» dice Jack.
«Non penso di poterlo fare» ammette Damien.
«Mi odia» commenta Vanessa.
Quindi la patata bollente resta nelle mani mie o di Charlotte.
«D’accordo» cedo con un sospiro, prendendo il telefono di Arthur. Cerco il suo numero e premo il tasto di chiamata.
«Pronto?»
Deglutisco prima di parlare, nervoso.
«Ehm, Lily? Sono Jonathan.»
Segue un attimo di silenzio.
«Cosa vuoi?» chiede poi, bruscamente.
«Beh, io e … gli altri … abbiamo un problema. Non so se … ne sei a conoscenza, ma siamo … prigionieri in un appartamento a Manhattan. Sì, insomma, c’è questo tizio, Noah Brown … lui ha intenzione di farci partecipare ad un reality show e farci combattere tra di noi.»
«E allora?»
Il suo tono freddo mi fa perdere quasi tutte le speranze.
«Allora ci chiedevamo se tu potessi aiutarci.»
«Perché dovrei?»
«Beh» replico, piuttosto innervosito «Forse perché non vuoi che moriamo tutti?»
«Nah. Trovami un altro motivo.»
«Perché sei nostra amica.»
«Ero, al massimo. No, Jon. Arrangiatevi, come ho fatto io quando mi avete mollata nel bel mezzo di Las Vegas da sola.»
E chiude la telefonata.
 
I giorni passano lenti, e non succede quasi nulla, a parte qualche occasionale visita di Brown, oppure di fotografi per i manifesti pubblicitari di Mutant Wars.
E alla fine arriva il grande giorno. Per quarantotto ore io e Blake siamo rimasti in stanze isolate, ognuna perfettamente equipaggiata per contrastare il nostro potere, proprio come all’Area 51, e senza Pentothal.
Al mattino, un’equipe di truccatori e consulenti d’immagine visita ogni stanza.
E poi, eccoci. Senza sapere nemmeno come, mi ritrovo in uno studio televisivo. Ovviamente io e Blake siamo stati trasportati qua in due diversi blindati, ognuno pensato appositamente per noi, e resteremo qui fino al momento di entrare sul palco. Mi hanno dato un piccolo auricolare per poter sentire le loro istruzioni.
Attraverso le porte sento confusamente la voce di Candy subito dopo la sigla.
«Benvenuti» trilla con entusiasmo «Alla prima puntata di questo straordinario, innovativo reality show. Mutant Wars vi farà rabbrividire, vi farà emozionare … »
Continua a blaterare per un po’ e poi passa a presentarci. Annuncia me e Blake come “migliori amici, costretti a combattere l’uno contro l’altro”, quindi, dopo altre parole entusiaste e presentazioni di ospiti importanti qui presenti, mi ritrovo spinto fuori dal blindato direttamente nel recinto.
È un’arena di grandi dimensioni, al coperto, con un pavimento di cemento ricoperto da uno strato di sabbia e una rete metallica che la circonda. Mi ricorda vagamente l’arena del Queen Victoria’s College, dove Vahel mi aveva lanciato quella rete.
Non esattamente una cosa positiva.
Lancio un’occhiata a Blake, che entra nel recinto dalla parte opposta. Il microfono nel mio orecchio crepita fastidiosamente prima che la voce di Noah Brown ne esca, distorta.
«Bene. Ci siamo. Ascoltatemi attentamente. Se vi voltate dalla parte opposta al pubblico –sì, esatto- potrete vedere, in uno schermo, uno dei vostri amici insieme ad uno dei miei.»
Con estremo orrore seguo le istruzioni di Brown e vedo una televisione che trasmette un’immagine in bianco e nero di mio fratello in compagnia di una grossa guardia armata, con tutti gli altri ragazzi dietro.
Oh, no.
«Se fate qualunque cosa che mi possa contrariare, sarà lui a pagarne le conseguenze. È chiaro?»
Per un attimo la voce viene oscurata dalle urla festanti ed eccitate del pubblico. Sembra che le cose non siano cambiate molto dai tempi di leoni e gladiatori.
«Perfetto. Allora cominciate a combattere. In tutto voglio che duri circa mezz’ora –non troppo, non troppo poco.»
Guardo Blake con aria rassegnata e lui si stringe nelle spalle. Quindi cominciamo ad avvicinarci al centro dell’arena.
Ci studiamo in silenzio per un minuto, quindi Blake attacca per primo. Lancia una scarica di energia non troppo intensa che mi passa a un centimetro dal viso. Mi sfugge un sorriso di scherno.
Lui stringe gli occhi e avanza, per poi lanciare una nuova scarica, stavolta diretta davvero a me. Per evitarla mi trasformo in lupo. Mi avvicino di corsa, mentre Blake comincia a scagliare una raffica di colpi in serie, uno dopo l’altro. Quando riesco ad avvicinarmi a sufficienza, spicco un salto e riesco quasi a gettarlo a terra –ma resiste e mi allontana con altra energia.
«Vuoi fare sul serio, quindi» dico sottovoce, un lampo divertito negli occhi.
Continuiamo a lungo con questo tira e molla, e il pubblico esulta con fischi o incitamenti. Alla fine, non è male come pensavo. Somiglia a quei combattimenti che abbiamo affrontato tante volte al Queen Victoria’s prima dell’arrivo di Vahel –divertente, impegnativo e innocente.
Decido di optare per una vecchia tattica. Mi trasformo in una formica e Blake, già pronto a colpirmi, esita, non vedendomi più. Lo raggiungo rapidamente e aspetto che si volti dall’altra parte per tornare lupo e saltargli addosso alle spalle. Lo getto a terra amichevolmente, senza usare zanne o artigli.
«Bene. Adesso mordilo» mi ordina Brown.
Se fossi umano, direi “che cosa?”, ma non lo sono, quindi mi limito a ringhiare piano.
«Avanti, fallo» mi incita bruscamente, ma scuoto la testa.
È Blake a reagire –mi lancia un lampo di energia che mi fa saltare indietro. Torno umano e rotolo sulla sabbia per qualche metro, per poi tossire, tentare di rialzarmi e venire bloccato da una fitta al ginocchio.
«Colpiscilo!» intima Brown a Blake.
Lui esita, lanciando un’occhiata allo schermo, dove Jack è tenuto ben stretto dalla guardia.
Io faccio appena un cenno affermativo prima di ricevere un’altra scarica di energia che mi fa sollevare in aria. L’istinto mi dice di trasformarmi prima di atterrare, ma non lo faccio. Voglio solo che Brown sia soddisfatto. Cado male e il ginocchio mi lancia un’altra fitta lancinante. Provo a mettermi in piedi, appoggiandomi alla parete.
«Colpiscilo ancora!» urla Brown nel mio orecchio, e Blake, dopo un’ulteriore esitazione, obbedisce.
Finisco a terra altre tre, quattro, dieci volte. Perdo il conto delle cadute e delle contusioni, e anche delle volte in cui Brown ha incitato Blake a continuare.
Poi, a un certo punto, la voce cambia.
«Perfetto. Adesso falla finita. Lancialo contro la parete. Forte. Non voglio che si rialzi. Se riuscissi a rompergli qualche osso sarebbe perfetto.»
Muovo lentamente la testa per guardare Blake, che scuote energicamente la testa.
«No?» commenta Brown, una nota aspra nella voce.
Vorrei muovermi, fare qualcosa, perché ho una bruttissima sensazione, ma non faccio in tempo. I miei occhi guizzano sullo schermo, dove vedo la guardia estrarre una pistola.
«No!» riesco a urlare, tentando di alzarmi, di muovermi, qualunque cosa –ma è inutile. Non sento nulla, ma vedo il braccio dell’uomo spostarsi per il rinculo e Jack cadere a terra, fuori dallo spazio visivo della telecamera.
«Fallo, o ammazzo anche gli altri!»
È questa l’ultima cosa che sento prima di essere scaraventato contro la parete e scivolare nel buio dell’incoscienza.
 
Mi risveglio nel blindato insieme a Blake, il bracciale con il Pentothal di nuovo legato al polso. Non ho neanche il tempo di pensare che il blindato si ferma e vengo spinto giù –di nuovo all’interno della stanza con gli altri.
Tutto il mio corpo duole a causa delle cadute, e il mio ginocchio non è più in grado di reggere il mio peso. Ma niente di tutto questo importa.
Quando, incespicando e zoppicando, entro nella stanza, mi precipito verso il corpo disteso a terra.
È vivo.
È questa l’unica cosa a cui riesco a pensare quando vedo il petto di Jack sollevarsi lentamente in un respiro ansante. Il proiettile lo ha colpito al petto. Il sangue cremisi macchia tutto il suo corpo e gocciola lentamente sul pavimento nonostante il bendaggio improvvisato eseguito con strisce di tessuto strappato da una maglietta.
Charlotte è inginocchiata accanto alla sua testa. Quando incrocio il suo sguardo, vedo le lacrime nei suoi occhi.
«Mi dispiace» mormora, senza fiato. «Ho fatto tutto quello che potevo.»
Sostiene il mio sguardo per qualche secondo in più, abbastanza da farmi capire. Non c’è nulla in questa stanza –niente che possa essere usato come strumento di cura.
Poi abbasso gli occhi e afferro la mano di Jack, stringendola forte.
Lui apre gli occhi e li punta su di me.
«Jon» ansima, dopo qualche colpo di tosse. Vedo un rivolo di sangue scivolare sul suo mento e devo lottare per mantenere il controllo di me stesso.
«Ssh» mormoro. «Non parlare. Riposati. Andrà tutto bene, te lo prometto. Sono qui con te, fratellino.»
Lui mi guarda ancora per un po’, gli occhi spaventati ma fiduciosi, poi chiude gli occhi e rafforza la presa sulla mia mano.
Resiste per qualche minuto. Il suo respiro si fa sempre più lento e irregolare. Quando respira per l’ultima volta, io sono ancora accanto a lui e gli tengo la mano.
Non succede altro.
Delicatamente, stacco la sua mano dalla mia.
Un’occhiata rapida in giro per la stanza mi mostra l’immobilità degli altri, sospesi –tranne Charlotte, che allunga incerta una mano verso di me.
La guardo, senza capire –niente ha più senso.
Vorrei tornare nel buio, perdere i sensi e poter non pensare –ma questo lusso non mi viene più concesso.
E allora rimango sveglio, immobile, accanto al corpo senza vita di mio fratello.
 
 
 
 
*scappa per sottrarsi al linciaggio* a presto!

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Capitolo 13
*** Unexpected ***


~UNEXPECTED~

 

[Arthur]

 

Secondo il mio orologio, sono passate cinque ore e mezza quando finalmente Jonathan si addormenta. Tutti noi abbiamo dormito un po’ nel frattempo, ma lui non aveva ancora chiuso occhio.
«Ne aveva bisogno» mormora Charlotte sottovoce. «Attenti a non svegliarlo.»
Non ho certo bisogno che me lo dica lei, ma mi trattengo dal dirlo ad alta voce. Vedo chiaramente che l’espressione di Charlotte nasconde un profondo senso di colpa per non essere riuscita ad aiutare Jack.
«Cosa facciamo ora?» chiedo.
Il silenzio è l’unica risposta.
Sospiro. Vanessa e Damien sono i prossimi sulla lista dei combattimenti, fra tre giorni, ma lui non riuscirebbe ad affrontare qualcosa di simile a quello che hanno fatto Blake e Jonathan.
Gli lancio un’occhiata. È seduto accanto a me, la schiena appoggiata al muro, gli occhi socchiusi.
«Sei sicuro di non voler mangiare nulla?» insisto, spingendo verso di lui il piatto ormai freddo di minestra che ci hanno portato circa un’ora fa.
Lui scuote la testa senza dire niente.
«Magari dopo» dice, sapendo che io so che mente.
Annuisco debolmente e guardo Charlotte, che ha seguito la conversazione in silenzio. Ma lei alza le spalle, impotente. Qui dentro non abbiamo nulla che possa anche solo essere usato come eventuale bisturi per un’operazione di emergenza –sono ancora in attesa del prelievo genetico- né tantomeno i farmaci da prendere insieme al Pentothal.
Torno a guardare Jonathan, disteso sul pavimento con i pugni serrati. Sono venuti a prendere il corpo di Jack qualche ora fa, e lui è rimasto assolutamente immobile, senza reagire. Non oso immaginare quanto dev’essere dura per lui. Dopotutto Jack non sarebbe stato qui se non fosse stato per Jon –e sono sicuro che lui ne è perfettamente consapevole.
E Blake, ovviamente, si sente ancora più in colpa per essersi rifiutato di colpire Jon.
Insomma, nessuno di noi sta passando un bel momento.
«Dobbiamo fare qualcosa» riprendo. «Charlotte?»
Lei mi guarda storto. Temo di aver preso l’abitudine di Blake di chiamarla sempre in causa quando si tratta di pensare a qualcosa.
«Non lo so» dice chiaramente. «Ci ho pensato a lungo … volevo organizzare un piano di fuga, ma non ho gli strumenti per farlo. Mi basterebbe un computer, ma non c’è modo di riuscire a ottenerlo. Siamo chiusi qui tutto il giorno, sotto Pentothal, e se usciamo è per andare agli studi televisivi –e mai tutti insieme. Davvero, non so che pesci pigliare. Mi dispiace.»
«Va bene» dice Blake, sorridendo forzatamente. «Non è colpa tua. Riusciremo ad inventarci qualcosa.»
Ma sappiamo tutti che siamo in una situazione senza via d’uscita. Con Damien che sta male, Jon che ha appena perso suo fratello, Vanessa incinta, Blake e Charlie divorati dai sensi di colpa e io dalla preoccupazione, non riusciremo a fare un bel niente.
Maledizione.
Il silenzio torna, oppressivo, e alla fine scivolo di nuovo nel sonno.
 
I tre giorni passano, e Vanessa viene rinchiusa nel blindato quando le tolgono il Pentothal. Ovviamente hanno un rilevatore di calore per poter stabilire esattamente la sua posizione all’interno del veicolo.
Invece Damien resta con noi: Brown non ritiene che togliergli il Pentothal possa rappresentare una minaccia. E ha ragione.
Almeno il Pentothal aveva l’effetto di bloccare le sue visioni. Così, invece, lo vedo peggiorare ancora, tormentato da esse.
«Coraggio, Dam» lo incoraggia Charlotte. «Ricordi? Devi respirare a fondo … e poi visualizzare la porta. Avanti. L’hai già fatto tante volte, puoi farlo anche ora.»
Damien, le mani premute sulle tempie, ci prova per la milionesima volta.
«È inutile» sibila. «Non funziona più.»
Lo osservo in silenzio, del tutto impotente, e mi chiedo come farà a sopravvivere al combattimento di stasera. D’accordo, si tratta di Vanessa, la sua migliore amica –ma la vita di uno di noi dipenderà dalla loro capacità di farsi del male l’un l’altro, e non credo che Damien si troverà in posizione di vantaggio.
Charlotte si allontana per raggiungere Jonathan e io mi avvicino a lui.
«Ehi» mormoro. «Va tanto male?»
«No» dice lui, deciso. «Migliorerò. Devo solo riuscire a concentrarmi.»
Annuisco e lascio che appoggi la testa sulla mia spalla. Restiamo zitti a lungo.
«Arthur?» mormora dopo un po’.
«Sì?»
«Quello che è successo a Jack … sarà così anche per me?»
Resto senza parole per un momento, ma mi riprendo in fretta. Lo scosto bruscamente.
«Guardami. Damien, guardami.» Lui obbedisce. «Non devi dirlo, ok? Non ti succederà niente. Stasera andrà tutto bene, e poi … Charlotte troverà un modo di farci uscire da qui.»
Lui scuote la testa.
«Non è quello che intendevo. So che andrà così, alla fine.» Apro la bocca per contraddirlo, irritato, ma non me lo permette. «No, Art. Non trattarmi come un bambino, d’accordo? Sappiamo entrambi com’è la situazione, non c’è bisogno di mentirci a vicenda. È molto probabile che io non sia più qui, tra qualche giorno. Forse già stasera.»
Lo guardo negli occhi in silenzio, scorgendo la fermezza e la consapevolezza che mancavano qualche settimana fa, e non so cosa rispondere.
«No, quello che volevo chiederti» riprende dopo qualche secondo, a voce più bassa «È se tu resterai accanto a me e mi terrai la mano fino alla fine, come ha fatto Jonathan per Jack.»
Chiudo gli occhi per un istante, raccogliendo la forza.
«Certo» mormoro. «Non devi neanche chiederlo. Non ti lascerò un attimo. Sei tutta la mia vita, Dam, e ti amo così tanto che non riesco neanche ad esprimerlo. Resterò al tuo fianco fino … fino alla fine.»
Le parole mi bruciano la gola mentre escono, ma vengo ricompensato dallo sguardo sereno e rassicurato di Damien, che si stringe a me. Appoggio il mento sulla sua testa, le nostre mani intrecciate, e chiudo gli occhi.
«Grazie» sussurra, reclinando il capo sul mio petto. «Le visioni non sono così terribili quando ci sei tu, sai?»
«Allora resta qui.»
«Non me ne andrei per niente al mondo.»
Creo il vuoto nella mia mente, cercando di non pensare al futuro e fingendo di riuscirci.
 
I miei occhi sono incollati al televisore. Damien e Vanessa sono appena entrati nell’arena e si fronteggiano. Mi chiedo come possa la gente accettare di vedere una ragazza incinta e un malato terminale costretti a combattere per salvare i loro amici. Non ci è permesso guardare la TV in altri momenti che non siano questi, quindi non so nulla di eventuali dibattiti televisivi o altro.
Però non ho mancato di notare il simbolo presidenziale accanto al logo di Mutant Wars e la dicitura “approvato dal presidente degli Stati Uniti” al fondo dei titoli di testa.
Stavolta è Charlotte che ha la pistola puntata contro di sé. Pallida, guarda nello schermo con angoscia.
Il combattimento comincia con un corpo a corpo –Ness scompare ma Damien sembra sempre sapere dove individuarla, grazie alle visioni.
Continua pacato per un po’, e il pubblico inizia a dare segni di noia. Immagino Brown dettare istruzioni all’orecchio di Damien e Vanessa. Lui le afferra un braccio e glielo porta dietro la schiena, causandole un gemito di dolore. Ness si libera con forza e sparisce di nuovo. Stavolta Damien non sembra riuscire a trovarla. Dopotutto le visioni non sono più controllabili.
Lo vedo piegarsi improvvisamente in due, come se avesse ricevuto un colpo nello stomaco, e probabilmente è così.
Continuano a lottare a lungo, ma vedo i segni della stanchezza sul volto di Damien. Poi, ad un certo punto, Vanessa finisce a terra. Vedo Damien sbarrare gli occhi in reazione a qualcosa che gli dice Brown. Esita e lancia uno sguardo rapido in direzione dello schermo dietro le quinte. Charlotte ha un fremito.
Poi si decide e obbedisce agli ordini, colpendo con forza il gomito di Vanessa, che urla, stringendoselo al petto. Brown ordina a Damien di colpirla alla pancia, che lei protegge istintivamente con le braccia. Però, per fortuna, lei riesce a scivolare di lato e rialzarsi.
Sono entrambi stanchi e ben presto è Damien a trovarsi a terra. Vanessa è costretta a colpirlo più volte –allo stomaco e sul viso, ancora e ancora.
La situazione è assurda e paradossale –lei piange mentre esegue gli ordini.
Ho la gola chiusa, vorrei poter fare qualunque cosa che non sia restare qui immobile a vedere il sangue che cola lentamente sul viso di Damien. Se solo fossi con lui. Se potessi …
E poi succede qualcosa. Un vento forte scuote lo studio, violento, e poi sul palco esplode il fuoco. Damien si rialza faticosamente mentre il pubblico, terrorizzato, inizia a correre verso le uscite di sicurezza. Qualcuno –una figura alta e sottile- si fa strada tra le fiamme senza problemi e apre le porta dell’arena con un raggio di energia.
Lily.
Damien e Vanessa non si fermano a sindacare ed escono di corsa. Guardie armate li raggiungono in men che non si dica, ma la nuova arrivata le respinge con altra energia. E poi scompaiono tutti dal campo visivo delle telecamere, che inquadrano solo più gente che scappa urlando dalle fiamme.
Nello stesso momento, le porte qui si spalancano e un uomo armato entra, rivolgendo la pistola contro la guardia che minaccia Charlotte. Questi lascia partire un colpo e sento Charlotte gridare –poi la guardia finisce a terra e altri uomini entrano, controllando che il posto sia libero.
Quindi si schierano su due lati e lasciano passare qualcuno in mezzo a loro. Non mi sorprende riconoscere due occhi gelidi che spiccano in un volto serio e inquietante.
Ivan Vahel, naturalmente.
«Charlotte, Jonathan. È un piacere rivedervi. Arthur, Blake, lo stesso vale per voi, nonostante il modo … rocambolesco in cui ci siamo lasciati la volta scorsa.»
Charlotte è stata colpita da un proiettile alla mano destra, e se la stringe al petto, macchiandosi di sangue. Fissa Vahel con gli occhi stretti e lucidi.
«Lei ha tentato di avvelenarmi» ringhia Blake al nostro cosiddetto salvatore.
«Tu hai tentato di rubare qualcosa di mio» ribatte Vahel pacificamente.
«Cosa ci fa qua?» intervengo, per cercare di evitare un omicidio.
«Voglio liberarvi» dice semplicemente. «Potete anche decidere di rifiutare, ovviamente, e rimanere qua … »
Ci scambiamo qualche occhiata. Tra seguire Vahel e restare qua, senza armi o soldi o poteri o qualunque cosa che potrebbe esserci utile, e con Noah Brown che potrebbe tornare da un momento all’altro, sappiamo tutti qual è il male minore. Forse.
«D’accordo.»
 
Ritroviamo Damien e Vanessa al piano terra, insieme a Lily.
«Oh, Dio» mormoro, raggiungendo velocemente Damien. «Come stai?»
Ha il volto ancora insanguinato ed è ancora più pallido di prima. Protetto dalla sicurezza di essere invulnerabile –o almeno, di tornarlo quando mi verrà tolto il bracciale al Pentothal-, non corro rischi di contagio: tiro fuori un fazzoletto stropicciato dalla tasca e gli do una mano a ripulirsi il viso dal sangue.
«Bene» risponde con poca convinzione.
«Non … non importa. Siamo fuori, ok? Adesso possiamo fare qualcosa.»
«Basterebbe sapere cosa» replica lui amaramente, gettando a terra il fazzoletto e dando voce a quello che penso.
«Credo che il minimo che possiate concedermi, adesso» dice Vahel, sedando tutte le nostre conversazioni «Sia seguirmi senza fare storie per parlare. Per ogni evenienza, le mie guardie sono armate con aghi al Pentothal oltre che con proiettili.»
Non che ce ne sia bisogno, perché attorno ai nostri polsi –con l’eccezione di quelli di Damien e Vanessa- ci sono ancora i bracciali con l’ago.
«Arthur … per favore … potresti darmi una mano?» mormora Charlotte mentre ci dirigiamo verso una macchina nera parcheggiata qui di fronte, presto circondata da altre di scorta.
La osservo e vedo che la mano ferita, trapassata da un proiettile, continua a sanguinare.
Annuisco e la aiuto a sfilare la felpa, per poi arrotolarla strettamente intorno alla mano. Ovviamente avrei potuto usare la mia camicia per questo –ma mi sembrava un gesto lievemente troppo generoso.
«Grazie» replica, ma vedo che deve provare molto dolore.
«Figurati» borbotto, allungando il passo per raggiungere Damien.
 

 

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Capitolo 14
*** Forgiveness ***


~FORGIVENESS~

 

[Lily]

 

Seduta accanto a Vahel, che sta guidando da circa tre ore, mi volto per lanciare uno sguardo ai sedili posteriori. Sul primo, subito dietro di me, sono stretti Jonathan -con un’aria vagamente sperduta-, Vanessa –che, diamine, è incinta- e Blake. Su quello al fondo un Arthur e una Charlotte piuttosto preoccupati tengono d’occhio Damien, che sembra stare sempre peggio.
Ci stiamo dirigendo verso il Queen Victoria’s College, naturalmente, e la cosa non sembra tranquillizzare nessuno di loro. Mi chiedo come mai.
Ho notato che Vahel non ha fatto nulla per togliere loro il bracciale al Pentothal –specialmente ad Arthur, che potrebbe sparire in un istante e vanificare tutti i suoi sforzi.
Ora, dicendo così sembra che ci sia lui dietro questa idea dello show televisivo. Ma non è affatto così. L’effetto di quella bravata, al cento percento ideata e promossa dal presidente degli Stati Uniti, è stato l’opposto di quello che Vahel cercava. Adesso il nostro anonimato è compromesso per sempre, dopo essere andati in onda in tutto il mondo: non ci sarà più così facile organizzare nel buio un attentato contro la sua persona. Probabilmente era anche a questo che mirava il presidente sponsorizzando Noah Brown.
E allora cosa ci fanno gli altri qui, e perché Vahel mi ha ordinato di salvarli? E, ancora di più, a cosa gli servono loro se tutti i loro poteri sono ormai scritti nei miei geni?
La prima risposta è semplice: non ne ho idea. I suoi piani sono ignoti persino a me, la sua più fidata collaboratrice.
La seconda è poco piacevole. La verità è che non va tutto a meraviglia come abbiamo lasciato intendere a tutti, compreso Arthur quando è venuto da noi. I cinque poteri che Vahel mi ha impiantato hanno perso efficacia con il passare di questi tre anni. Più li usavo, più si consumavano, per così dire. Le visioni di Damien, del tutto involontarie, sono state le prime ad andarsene, dopo appena un paio di mesi, per fortuna –perché averle nella mente ventiquattro ore al giorno era una vera e propria tortura. A seguire se n’è andato il QI di Charlotte, quindi l’invisibilità di Vanessa. La capacità di trasformarmi si è affievolita sempre di più, fino a sparire qualche mese fa. Stasera ho dato il massimo con i poteri di Blake, e li ho esauriti del tutto.
È stato questo che ha impedito a Vahel di pianificare un attacco al presidente. Abbiamo dovuto testare i limiti dei poteri, e non siamo mai stati abbastanza certi della loro efficacia –che mutava da un momento all’altro- da andare al sodo. Per non parlare dei tentativi di Blake di fermarci –piuttosto patetici, a dire il vero.
Insomma, il mio potere è intatto, ma tutto il resto si è dimostrato inefficace. E questo vuole anche dire che ormai Vahel ha rinunciato alla tecnica di impianto dei poteri. A quella tradizionale, almeno.
Perché il prelievo che Vahel ha effettuato su Arthur poche settimane fa era diverso. Ha consultato dei colleghi, ha studiato manuali su manuali, mi ha annoiata a morte con decine di lezioni sul tema, e alla fine ha deciso di sperimentare in pratica quello che aveva teorizzato. Invece del sangue, il nuovo prelievo si effettua sul midollo osseo, ricco di materiale genetico, e l’impianto nella nuova cavia –per chiamarla così- avviene allo stesso modo. Per questo motivo è stato necessario tanto tempo per prelevare i poteri di Arthur.
Questo però richiede una quasi totale compatibilità del gruppo sanguigno dei due soggetti –insomma, vanifica il sogno di impiantare sulla stessa persona tutti i diversi tipi di superpoteri.
Infatti è per questo che la fiala dei poteri di Arthur –quella vera, non quella avvelenata, ovviamente- è ancora al sicuro nelle mani di Vahel e non già impiantata dentro di me: io e Art abbiamo due gruppi sanguigni differenti.
Onestamente, non so cosa stia pianificando adesso Vahel. Da una parte, sembra tornato all’idea originaria di impiegare direttamente tutti noi –anche se non so come convincerà gli altri a partecipare. Dall’altra, è ancora preso dall’idea dell’impianto, e forse sta cercando una scappatoia per i problemi che ha incontrato.
Chissà.
Io, per il momento, me ne tiro fuori e osservo dall’esterno lo scorrere degli eventi.
Guardare gli altri mi fa provare una certa dose di rimpianto e nostalgia –se avessi reagito con più diplomazia, tre anni fa, adesso forse sarei insieme a loro. Ma continuo a ritenerli inesorabilmente e ingiustificabilmente colpevoli di avermi esclusa solo per aver tradito Arthur –cosa che, forse, oggi rifarei.
O forse no, medito, osservando attraverso lo specchietto retrovisore la delicatezza con cui parla sottovoce a Damien, gli occhi colmi di preoccupazione.
In ogni caso, è troppo tardi per un ripensamento. Tre anni troppo tardi, per la precisione.
 
Quando arriviamo è ormai sera. Ci siamo fermati sulla strada per mangiare e adesso tutto ciò che voglio è andare a dormire. Quello a cui non avevo pensato è che la mia camera è di nuovo occupata da altre due ragazze.
Guardo in silenzio Vanessa e Charlotte che si mettono d’accordo per fare la doccia e riaprono l’armadio per ritrovare gli abiti lasciati qui quando siamo scappate. Percepisco la loro vaga tensione: fingono di ignorarmi ma sono consapevoli della mia presenza.
Lascio che occupino il bagno per prime e quando finalmente riesco a entrare nella doccia è passata un’ora. Mi asciugo i capelli, mi cambio ed esco, aspettandomi di trovare le ragazze addormentate. Invece non sono in camera.
Scendo verso la sala comune, e li trovo tutti lì. Per un istante prendo in considerazione l’ipotesi di restare qua e spiare la conversazione –ma questo non contribuirebbe a riabilitarmi ai loro occhi.
Quindi adesso è questo che voglio fare? Riabilitarmi?
Il mio orgoglio fatica ad accettarlo, ma lo soffoco e scendo le scale.
«Non possiamo più aspettare» sta dicendo Arthur, serio. «Non sei d’accordo, Charlotte? Dobbiamo farlo adesso.»
Qualcuno si volta al mio ingresso, ma per nessuno sembra essere un problema. Evidentemente non stanno discutendo di evasione o qualunque altra cosa che temono potrei riferire a Vahel. Continuano a parlare mentre mi siedo in silenzio su una delle poltroncine.
«Lo so» replica lei, l’aria desolata. «Ma hai visto la mia mano. Non riesco neanche a piegare le dita, e si tratta della destra. Non posso operare nessuno così.»
«E allora cosa proponi di fare?» ringhia Arthur, acido. «Aspettare e guardare Damien che-»
Non termina la frase, ma è più che evidente cosa intendeva dire.
Conosco Damien, e mi aspetterei una battuta ironica a questo punto, o qualche commento sul fatto che parlano di lui come se non ci fosse. Ma lui, acciambellato sul divano con gli occhi socchiusi, non apre bocca.
«Non lo so!» geme Charlotte. «A meno che … non sia qualcun altro a farlo.»
«E chi? Vahel?»
Vedo che Charlotte sta perdendo la pazienza per il tono sarcastico di Arthur, ma resiste stoicamente.
«Jonathan» dice.
Quest’ultimo, finora intento a contemplare il muro, sussulta e alza gli occhi.
«Che cosa? Perché io?»
«Perché stai studiando per diventare veterinario, ed è la cosa più simile ad un medico che abbiamo.»
«No. Non se ne parla, Charlie. Primo, sono solo al terzo anno. Secondo, c’è una differenza tra operare un furetto e una persona vera.»
«Ti guiderò lungo tutta l’operazione. Ti dirò esattamente cosa fare e quando potrò ti darò una mano.»
«Non posso farlo. Assolutamente no.»
«L’alternativa è lasciare che Damien muoia.»
Cade il silenzio. Charlotte ha pronunciato davvero quella parola.
Damien alza la testa e incontra lo sguardo spaventato di Jonathan.
«Vorrei che ci fosse un altro modo» mormora Charlotte. «Ma non c’è, e … a meno che per te sia davvero impossibile, ti prego, Jon, fallo. Damien ha messo a rischio tutto per andare a New York a salvarti. Lui non te lo rinfaccerebbe mai, ma … »
«Ho paura di sbagliare» replica Jonathan, senza distogliere lo sguardo da quello di Damien, tormentandosi le dita delle mani.
«Cos’abbiamo da perdere?» chiede piano Damien, parlando per la prima volta, a fatica. «Morirò comunque, se non ci provi.»
Guardando Jonathan vedo che ha ancora impressa a fuoco nel cuore la morte del fratello. Immagino quanto debba essere difficile per lui accettare una cosa del genere –e ancora di più, quanto rifiutarla.
«Va bene» sussurra. «Lo farò.»
«Bene.» Charlotte abbandona in fretta l’espressione drammatica per adottare quella consueta, pratica e razionale. «Quello che bisogna fare è un trapianto di midollo osseo da Arthur a Damien.»
«Sono compatibili?» chiedo, stupita.
Tutti si voltano verso di me, sorpresi, come se si fossero dimenticati della mia presenza.
«Sì» risponde Charlotte. «Sorprendentemente. Ho fatto gli esami a Baltimora e la compatibilità è quasi del novantacinque per cento.»
Annuisco. La coincidenza –sempre che lo sia, perché Vahel sta facendo delle scoperte interessanti su come funzionano i nostri organismi- è straordinaria.
«Abbiamo bisogno di una sala operatoria sterile» enuncia. «E di strumenti adeguati. Anestetici, prima di tutto.»
«Non so quello che ha Vahel di preciso. Dovreste chiedere a lui. Per operare Arthur la prima volta l’ha portato nella clinica di un medico che conosce.»
«Forse è un’opzione» commenta speranzoso Jonathan.
«No.» A parlare è stato Vahel, entrato in questo momento –ma, conoscendolo, stava probabilmente ascoltando la conversazione da un po’. «Temo che il medico in questione abbia avuto un … mm … tragico incidente poco dopo l’operazione. Si era dimostrato molto curioso nei confronti dell’esperimento.»
La cosa non mi fa né caldo né freddo –non è certo la prima volta che capita- ma sembra fare piuttosto impressione sugli altri.
«Abbiamo bisogno di fare questa operazione. Se ci lasciasse teletrasportare a Baltimora per un paio di giorni … » propone Charlotte, accennando al bracciale al Pentothal ancora stretto ai loro polsi.
«Temo che non sia praticabile» replica Vahel con un sorriso freddo e ironico. «Tra pochi giorni dobbiamo partire e non vorrei mai che qualcuno di noi perdesse la strada
«Per andare dove?»
«A trovare un mio caro amico. Nessun rischio per voi, certo –ma qualunque cosa vogliate fare, dovete farla prima.»
«Perché siamo qui, allora?»
«Affari personali da sbrigare.»
«Questo significa che non possiamo aspettare che il Pentothal termini il suo effetto» mormora Charlotte.
«Potete utilizzare il laboratorio, se vi serve» dice Vahel. «Temo di non avere medicinali al momento, ma ho qualche strumento di base che potrebbe esservi utile. È nel mio interesse che tutti voi siate vivi e in salute.»
Come no, penso con una vena ironica.
«D’accordo» taglia corto Charlie. «Dobbiamo provare.»
 
Poco meno di mezz’ora dopo siamo giù in laboratorio, io, Jonathan, Arthur, Damien e Charlotte.
Mi sono offerta come aiutante per il semplice fatto che non volevo restare con le mani in mano al piano di sopra insieme ai due piccioncini, Blake e Vanessa.
«Per prima cosa» comincia Charlotte, palesemente fingendo che non le faccia effetto ritrovarsi nel luogo che, quando vivevamo qua, era il nostro spauracchio  «Devo poter sterilizzare il laboratorio. Ma non so se … forse, se cerco tra quello che ha qui, troverò anche qualcosa da usare come anestetico. Nel frattempo … forse è meglio che tu vada a stenderti un po’, Damien.»
«Lo accompagno io» mi offro, e usciamo insieme.
Saliamo di nuovo le scale ed entriamo nella camera dei ragazzi, dopo aver oltrepassato Blake e Vanessa che, impegnati, non ci notano nemmeno. Non che mi importi. Insomma, Blake non era il mio ragazzo. Non proprio. E non è che solo perché mi chiamava Lily-belle dovrei essere gelosa di Vanessa. Tanto più che, adesso, lei aspetta un bambino da lui. Non posso certo competere con questo, e neanche lo voglio.
Giusto?
«Chi se lo aspettava, eh?» commenta Damien, l’aria esausta, raggiungendo il proprio letto.
«Cosa?»
«Questo. Essere di nuovo qui, tutti insieme.»
«Come nel peggiore degli incubi» confermo.
Lui sorride appena.
«Non è proprio quello che intendevo.»
Chiude gli occhi e resta in silenzio. Sento il suo respiro difficoltoso e ogni volta fa più male.
«Non ti capita mai di pensare che hai sbagliato tutto?» sussurro dopo un po’, senza neanche sapere se è sveglio, incoraggiata dalla penombra che rende tutto quasi innaturale.
«Cosa intendi?» domanda Damien, la voce debole.
«Se non avessi perdonato Arthur per averti lasciato al Queen Victoria’s, anni fa, adesso non saresti in queste condizioni.»
«Mi sono pentito di tante cose» replica lui, senza esitare «Ma mai di questo.»
Sospiro.
«Sarei dovuta tornare?» chiedo.
«Io penso che siamo stati noi a sbagliare. Abbiamo giudicato troppo in fretta. Art ti aveva fatto del male.»
Nessuno dei due ha bisogno di aggiungere altro, e basta uno sguardo per capire che le cose tra noi hanno cominciato a tornare come prima.
È un inizio.

 

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Capitolo 15
*** Losing the last hope ***


~LOSING THE LAST HOPE~

 

[Jonathan]

 

Le parole di Charlotte mi rimbombano nella mente mentre cammino nervosamente avanti e indietro di fronte alla porta del laboratorio.
La responsabilità che mi chiedono di accollarmi è pesante, un fardello che non voglio portare. Eppure, ogni volta che mi sono quasi deciso a ribellarmi e ho le parole “non voglio farlo” sulla punta della lingua, mi basta guardare Arthur per decidere di tacere. È seduto a terra, la schiena appoggiata al muro, immobile.
So cosa pensa di questa lunga attesa: ogni minuto che passa può fare la differenza per Damien.
Poi la porta si apre, Charlotte esce e io non ho più occasione di ritirarmi.
 
«La buona notizia è che sono riuscita a rendere sterile la stanza più piccola del laboratorio. Beh, quasi –ma abbastanza perché sia sicuro operare. Quella cattiva è che non sono riuscita a trovare dell’anestetico. C’è della morfina, ma è davvero poca.»
«Non importa» taglia corto Arthur. «Facciamolo lo stesso.»
«D’accordo. Useremo quel poco che c’è e … »
«No. Voglio che la tieni per Damien» dice lui con fermezza.
«Ci sono più probabilità che Damien perda conoscenza durante l’operazione» obietta Charlotte, ragionevole. «In poco tempo non ne avrà bisogno.»
«Ha già sofferto abbastanza. Tienila per lui.»
«Come preferisci» cede lei. «Ma questo vuol dire che tu resterai cosciente. E serve che tu sia perfettamente immobile. Il prelievo di midollo è un’operazione estremamente delicata. Un errore potrebbe compromettere la spina dorsale.»
Deglutisco. Avrei preferito non saperlo.
«Resterò fermo.»
«Sii realistico» sbotta Charlotte. «Farà male. Non riuscirai a rimanere immobile.»
«E allora cosa proponi, piccolo genio
«Dobbiamo immobilizzarti.»
«Ammettilo, Charlotte» brontola Arthur «Non aspettavi altro, vero?»
 
Ed ecco come sono arrivato qui, in questa stanzetta soffocante, le luci al neon accecanti, con Arthur disteso prono sul tavolo, polsi e caviglie legati.
«Non posso, Charlotte» mormoro, il cuore in gola.
«Devi» taglia corto lei. «Vado in laboratorio a prendere quello che serve.»
Resto da solo con Arthur. Il silenzio è assordante. Lui muove la testa per lanciarmi un’occhiata.
«Mi fido di te, Jon» dice.
«Non ne sembri tanto convinto.»
«Non lo sono. Lo dicevo sperando di rassicurarti.»
«Non preoccuparti. Potrei farlo ad occhi chiusi.»
«Ti prego, evitalo.»
Sorrido appena, teso.
«Potresti fingere che al posto mio ci sia Damien con un frustino in mano» scherzo.
«Oh, Dio. Ho cambiato idea. Dì a Charlotte di usare la mano sinistra.»
Lei rientra con degli strumenti che appoggia su un ripiano.
«Ok, si comincia.»
 
Non posso descriverlo con frasi compiute. Ci sono solo lunghi momenti di buio, di cieca obbedienza e di fortissima concentrazione, inframmezzati da pochi istanti di atroce consapevolezza di quello che sta succedendo.
La sensazione strana del bisturi in mano.
Il brivido gelido mentre la lama taglia la pelle.
Le grida soffocate di Arthur.
Il suo corpo che si tende e si irrigidisce per il dolore.
La voce calma e irremovibile di Charlotte.
E quando, finalmente, ho applicato anche l’ultimo punto per chiudere la ferita, le parole “bene, hai finito”.
Appoggio con cautela gli strumenti sul ripiano.
La mia mente è ancora vuota.
«Arthur?» chiede Charlotte, tesa.
Lui non risponde.
«Credo che abbia perso i sensi» commenta Charlie.
«Io ci sono vicino» replico debolmente, uscendo dalla stanza e assaporando una boccata d’aria fresca.
«Sei stato bravissimo» mi elogia lei. «Che ne dici di andare a vedere come sta Damien? Io resto qua con Arthur.»
«Va bene» accetto subito, allontanandomi.
Ancora non mi permetto di pensare e mi limito a salire le scale in una sorta di trance.
Apro la porta della nostra stanza e trovo Lily addormentata su uno dei letti.
«Come sta Arthur?» è la prima cosa che chiede Damien, in ansia.
«Bene, credo» replico, sedendomi accanto a lui.
«E tu? Sembri un fantasma.»
«Insomma.»
«Sei stato coraggioso.»
«Avrei potuto sbagliare e … »
«Ma non l’hai fatto.»
«Immagino di no.»
Il silenzio dura un solo secondo: poi un urlo lo spezza.
È un urlo feroce, di dolore, e sveglia immediatamente Lily.
«Cosa … ?»
Ci precipitiamo su per le scale perché, stranamente, è da lì che sembra provenire il suono.
Una porta è aperta. Faccio un passo avanti e la scena che mi si presenta davanti mi lascia senza fiato per lo stupore.
In una stanza non dissimile da quella da cui sono da poco uscito, con un tavolo operatorio improvvisato e qualche strumento medico, un uomo in un camice sterile guarda un secondo uomo, disteso sul tavolo –e questo secondo uomo è Ivan Vahel.
 
Poco più tardi siamo tutti riuniti nella nostra camera, con Arthur disteso a letto e appena risvegliatosi.
Charlotte, dopo aver parlato sottovoce con il dottore, è venuta a spiegarci cos’è successo.
«Per farla breve, il motivo per cui Vahel ha insistito per tornare qui al Queen Victoria’s è che ha tentato di farsi impiantare i poteri di Arthur.»
«Che cosa?!»
«Aveva detto che non ci sarebbe più riuscito, per le modifiche che avevano fatto all’Area 51 ai suoi geni» obietta Blake.
«Non con il vecchio metodo, quello del sangue. Ma con quello del midollo osseo … »
«Erano compatibili?»
«Secondo il medico, quasi al novantotto percento» ammette Charlotte.
«Ma non ha funzionato.»
«Anzi. C’è stato un violento rigetto.»
Cala un silenzio pesante.
«La loro compatibilità era maggiore della nostra» mormora Damien. «Questo significa che non abbiamo speranze?»
«Sono molto pessimista al riguardo» dice Charlotte a bassa voce.
Vedo Damien chiudere gli occhi allo svanire di quest’ultima speranza che era parsa così realistica e vicina.
«Non possiamo provare comunque?» propone sottovoce.
«Un rigetto come quello di Vahel potrebbe facilmente esserti fatale, viste le tue bassissime difese immunitarie.»
Mi stupisco di Arthur –pensavo che sarebbe scattato e si sarebbe messo ad urlare contro Charlotte. Invece non apre bocca. Allunga la mano verso quella di Damien e la stringe –nient’altro.
«Non può essere che il rigetto di Vahel sia dovuto alle manipolazioni genetiche?» ipotizzo disperatamente.
«È possibile» ammette Charlotte «Ma poco probabile. Le due cose non sono legate.»
Silenzio, ancora. Persino più atroce di prima. Noto il cenno deciso di Charlotte, che indica a tutti noi di andarcene.
Obbediamo, lasciando Arthur e Damien da soli.
Seguo Charlotte fuori, in giardino.
«Mi sento in colpa» sussurra, non appena raggiungiamo una panchina isolata.
«Non devi» replico stancamente. «Hai fatto tutto ciò che potevi.»
«Sono io il medico, qui. Se ci fosse una soluzione e io non ci avessi pensato? Se … »
«Credi che la morte di Jack sia colpa mia?» la interrompo duramente.
«Cosa? No, assolutamente no! È stato Brown che … »
«Io credo che lo sia» proseguo. «Sono stato io a proporgli di venire a Baltimora. È per salvare me che vi ha seguiti fino a New York.»
«Jonathan, tu non c’entri nulla.»
«Se reputi me innocente per quello che è successo a Jack» ribatto «Come puoi incolpare te stessa per quello che sta succedendo a Damien?»
Lei tace e abbassa gli occhi.
«Charlotte» riprendo più gentilmente dopo qualche secondo «Hai già fatto tanto. Mi hai salvato la vita, qualche anno fa, ricordi?»
Lei annuisce.
«Mi sei mancato» mormora. «Anche se questi tre anni mi sono serviti per realizzare i miei sogni … il più grande l’ho dovuto abbandonare.»
Le sue parole mi stupiscono. Non è mai stata tipo da sentimentalismi: razionale, scientifica, talvolta fredda. Eppure l’emozione nella sua voce è evidente.
«Mi sei mancata anche tu. Mi sono chiesto tante volte se fosse il caso di venirti a trovare, ma non ho mai trovato il coraggio. Pensavo che con l’università, e il lavoro … non avessi più bisogno di me.»
«Lo pensavo anch’io, ma mi sbagliavo.»
Ci guardiamo in silenzio.
La prossima mossa è quasi scontata –ma anche difficile. Una parte di me vorrebbe ritrarsi, tornare indietro alla noiosa ma sicura vita normale che stavo sperimentando prima di partire. Una vita senza poteri, senza morte, senza fughe, senza rapimenti. Senza Charlotte.
Ma come potrei tornare a casa?
Come potrei guardare i miei genitori negli occhi dopo quello che è successo a Jack?
Chiudo gli occhi per scacciare l’idea tentatrice. Sono qui con Charlotte, adesso. Sono sue le labbra che premono sulle mie, suo il leggero profumo di cannella, suoi i capelli che mi solleticano il collo.
Pensavo di averla persa.
Ora devo accettare di andare avanti, lasciarmi il passato alle spalle e ricominciare. Non da solo, questa volta.
«Devo tornare dentro» sussurra Charlotte sulle mie labbra.
«Resta ancora un po’.»
«Voglio parlare con Damien. Ci vediamo tra un’ora giù al vecchio salice?»
«D’accordo.»
Mi sorride, mi da un ultimo bacio e si allontana.
Rimasto solo, sorrido a mia volta. Vorrei che fosse ancora qui con me.
Sto facendo la cosa giusta.

 

 

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Capitolo 16
*** The greatest mistake ***


~THE GREATEST MISTAKE~

 

[Charlotte]

 

Il sorriso che mi aleggia ancora sulle labbra dopo il bacio con Jonathan sparisce non appena rientro nella sala comune.
Faccio per parlare, ma Arthur si mette l’indice sulla bocca per farmi segno di tacere. Damien si è addormentato sulla poltrona.
Arthur si alza ed esce con me dalla sala, faticando a camminare, ancora provato dall’operazione. Saliamo le scale fino alla camera dei ragazzi.
«Allora, cosa vuoi?» chiede bruscamente dopo aver chiuso la porta dietro di sé.
«Mi dispiace» dico d’un fiato.
«E perché mai?»
«Io … pensavo che avrebbe funzionato.»
«Sembra che anche miss Perfezione possa sbagliare, quindi.»
«Non è colpa mia, Arthur» dico, le parole rassicuranti di Jonathan ancora nelle orecchie. «Ho fatto tutto il possibile.»
«Una decina di lauree, chissà quanti master, un quoziente intellettivo di oltre duecento punti» sibila, riuscendo in qualche modo a far suonare il tutto come un insulto, «Ed è questo il tuo “tutto il possibile”?»
«Io … »
«Siamo venuti da te perché pensavamo che fossi l’unica in grado di fare qualcosa. Forse se fossimo andati da qualcun altro … »
«Non è colpa mia!» insisto.
«E di chi, allora?»
«Sei stato tu a trasmettergliela» ringhio, vendicativa, desiderando solo che smetta di incolparmi. «L’hai detto tu stesso, non siamo negli anni Sessanta. Avevi il dovere di sapere come … »
«Non osare dare la colpa a me!» urla Arthur. «Io sono stato l’unico che non lo ha abbandonato!»
«Ti sbagli» lo contraddico, con rabbia sempre più bruciante. «Tu non hai mosso un dito. Non hai fatto altro che pretendere che io trovassi una cura, quando è ovvio che non esiste!»
«Io lo amo!»
«E io sono sua amica! Se ci fosse una minima possibilità … »
«L’idea dell’invulnerabilità è stata mia.»
«Sì, e non ha funzionato!»
«Ma tu pensavi il contrario! Fino a pochi minuti fa … anzi, l’avresti fatto, e lui sarebbe morto
«Tanto morirà comunque!»
Non so da dove mi siano uscite queste parole fredde e disinteressate –non sono io, è che Arthur è l’unico che ha il potere di darmi sui nervi in questo modo.
Tutto quello che so è che, un istante dopo, la mia schiena preme contro il muro e Arthur mi sta baciando.
Non ha nulla a che fare con i baci delicati di Jonathan.
È l’equivalente uno schiaffo in pieno viso, ma so già che dopo farà più male.
È odio, è rabbia, è disperazione –e li sento bruciarmi nelle vene mentre ricambio il bacio e mi aggrappo ad Arthur.
Vorrei poter dire che ci fermiamo subito e ci rendiamo conto dell’errore –ma mentirei.
Non ci fermiamo. Le nostre mani lottano per toccare quanto più possibile dell’altro, e non c’è l’ombra di un pensiero razionale in questo.
Odio. Rabbia. Disperazione.
I suoi capelli sotto le mie dita che li tirano forte.
Odio. Rabbia. Disperazione.
Lo strappo di una cucitura della mia maglietta per la foga con cui me la toglie.
Odio. Rabbia. Disperazione.
Il cigolio delle molle del materasso quando, senza sapere come, la mia schiena affonda su di esso.
Odio. Rabbia. Disperazione.
Le lacrime sul suo viso, o forse sul mio, chissà chi le ha piante. Tanto è lo stesso.
Odio. Rabbia. Disperazione.
Il suono quasi ridicolo di una zip abbassata.
Odio. Rabbia. Disperazione.
Un morso sul collo, più violento di quanto mi aspettassi, che mi provoca un gemito involontario.
Odio. Rabbia. Disperazione.
Le mie dita che si aggrappano alla sua schiena –la cicatrice fresca dell’operazione che avrebbe dovuto salvare Damien.
Damien.
Odio. Rabbia. Disperazione.
 
Qualche minuto dopo.
Riprendiamo fiato, senza osare guardarci negli occhi.
Cosa ci è successo?
La scena, vista razionalmente, è imbarazzante. Il letto sfatto, i volti sudati, i vestiti per terra.
Deglutisco.
Come sono arrivata qui? Io, la razionale, fredda, calcolatrice Charlotte, che non conosce la parola impulsività, come sono finita in questa situazione con una persona che detesto?
La risposta è davanti ai miei occhi, inaccettabile.
Odio. Rabbia. Disperazione.
Lentamente, con la sensazione di nuotare in un mare di gelatina, mi alzo e raccolgo i miei abiti.
Non oso alzare gli occhi su Arthur, che sta facendo lo stesso.
Senza dire una parola, mi rivesto ed esco, rifugiandomi nella vecchia camera delle ragazze, dove ho dormito da quando avevo dieci anni a quando ne avevo diciotto insieme a Vanessa e Lily –una vita intera di scherzi da ragazze, risate e lacrime da adolescenti.
Mi guardo allo specchio.
Sono sempre io, solo un po’ cresciuta, con i capelli arruffati e il viso arrossato.
Eppure è tutto diverso.
Qualcosa è cambiato, e vorrei tornare indietro di un’ora per rimettere le cose a posto.
Solo che stavolta non si può.
 
Mi ricordo dell’appuntamento con Jonathan solo quando ormai è troppo tardi. Mi sembra di muovermi in un sogno. Nulla è reale, niente ha più senso.
Faccio una lunga doccia, mi cambio e scendo le scale.
Vedo Vanessa intenta a chiacchierare a bassa voce con Blake su un divano, ma non mi avvicino.
È la mia migliore amica, e vorrei disperatamente confidarmi con lei –ma è ancora più vicina a Damien, e non posso permettere che lui venga a saperlo.
Esco dalla sala comune e decido di andare verso la biblioteca –quando vivevo qua lo facevo ogni volta che mi sentivo male per qualche motivo.
Trovo Lily seduta su un divanetto con un libro.
Prima ancora di realizzarlo razionalmente –sembra che ormai il mio cervello mi abbia definitivamente abbandonata- sono seduta accanto a lei e sto piangendo.
«Shh … cos’è successo, Charlotte?» mormora lei, accarezzandomi i capelli ancora bagnati. «È per Damien?»
Solo sentirlo nominare mi fa sentire maledettamente in colpa.
«Ho fatto una cazzata» singhiozzo non appena riesco a parlare. «La cosa peggiore che potessi fare.»
«Vedrai che si sistemerà tutto» mi consola lei.
«No» mugolo «Non posso tornare indietro … »
«Cos’hai fatto, Charlie? Qualunque cosa sia, sono sicura che c’è un rimedio.»
«Sono andata a letto con Arthur» sussurro, e dirlo ad alta voce lo rende in qualche modo reale, tanto che esco -con un rumore interiore di vetri infranti, o forse è il mio cuore- dallo stato di trance in cui mi trovavo.
Lily sbarra gli occhi e la sua mano si ferma sui miei capelli.
«Che cosa?!»
«Sono stata così stupida» dico tra le lacrime. «Ero arrabbiata perché continuava a darmi la colpa per Damien … ero fuori di me, e non pensavo lucidamente … nessuno di noi due lo faceva … e un attimo dopo eravamo-» mi interrompo e riprendo a piangere.
«No, non piangere, Charlie. Ok, è stato un errore –ma non è così grave, giusto? L’hai detto tu stessa: eravate sconvolti. Sono cose che capitano.»
«Tu non capisci» mormoro. «Era … era la mia prima volta.»
Lily batte le palpebre.
«Oh» riesce solo a commentare.
«Mi sento così idiota! Sono tra le persone –no, sono la persona più intelligente del pianeta» mi correggo con notevole ma realistica mancanza di modestia «e sono riuscita a fare una cosa così ingenua!»
«Oh, Charlie. Mi dispiace tanto.»
Appoggio la testa sulla sua spalla e continuo a piangere in silenzio.
 
Non mangio cena e, quando Lily e Vanessa rientrano in camera, fingo di star già dormendo. Loro si danno la buonanotte e in breve crollo anch’io, distrutta.
Mi risveglio presto. Il mio orologio non segna ancora le sette.
Faccio una doccia, mi vesto e scendo.
Appena entrata in cucina per cercare qualcosa che appaghi il mio stomaco brontolante vedo l’ultima persona che avrei voluto incontrare.
Arthur.
Il mio primo istinto è di voltarmi e andare via senza dire una parola, ma il sonno sembra avermi riportato un minimo di raziocinio e decido di comportarmi da persona matura.
Mi avvicino alla dispensa e trovo un pacco ancora sigillato di pane in cassetta. Ne infilo un paio di fette nel tostapane e aspetto in silenzio.
Arthur, che sta bevendo del caffè, non mi guarda quando comincia a parlare.
«Volevo solo che sapessi» esordisce, intento ad osservare il manico della sua tazza, «Che ne parlerò io con Damien. Perciò, se prima di allora potessi … »
«Non lo dirò a nessuno» scatto, irritata dal fatto che il suo solo pensiero sia tenere tutto nascosto –tra l’altro, realizzo, Lily lo sa già.
«Bene.»
Il silenzio adesso è ancora più imbarazzante.
«Charlotte» riprende dopo un po’, ancora evitando di guardarmi, mentre io spalmo della marmellata sul mio pane tostato «Mi dispiace che … insomma, che la tua prima … ecco … sia stata … così
«Te ne sei accorto» dico solo, pacata, come una considerazione indifferente.
«Certo. Ma … troppo tardi, credo.»
La gola chiusa, mi limito ad annuire in silenzio.
«Avrei dovuto pensare un po’ di più» commenta.
Mi arrischio ad alzare lo sguardo.
«Anche io» ammetto con voce debole.
Lui si passa le dita sulle palpebre chiuse.
«Non sto dicendo che non mi sia piaciuto» aggiunge precipitosamente. «È solo che … »
«Damien» concludo per lui con un sorriso amaro. «Ti capisco. Volevo che fosse … doveva essere Jonathan.»
«Possiamo dimenticarcene» suggerisce speranzoso.
«Vorrei che fosse così semplice.»
«Io non so neanche se … » si interrompe e sospira. «Damien è un ragazzo. Dio sa che mi ci è voluto del tempo per accettarlo. E adesso che ero convinto di essere … insomma, come faccio a dirglielo? Se fosse stato un ragazzo, forse –ma con te? Ho paura che pensi che … che io non l’ho mai veramente … »
Smette di parlare e scuote la testa, appoggiando la tazza sul bancone con forza.
«Capirà» sussurro.
Mi guarda inespressivo.
«Credi che io debba dirglielo?» domanda. «A che scopo, Charlotte? Per farlo soffrire negli ultimi giorni ... » la voce gli si spezza.
«È una tua scelta» replico dolcemente, ritrovando il mio consueto ruolo di consigliera. «Ma, se ti interessa la mia opinione, io penso che la sincerità sia la cosa migliore.»
«Ah, sì? Tu lo dirai a Jonathan?» ribatte lui.
Mi coglie impreparata e batto le palpebre, sorpresa. Chissà perché, non riesco mai a fare a lungo la maestrina con lui.
«Io … immagino … »
«Non è così facile.»
«No» concordo con un sospiro.
Ci guardiamo.
«Credo che questa sia la prima volta che non litighiamo quando parliamo» commenta Arthur con l’ombra di un sorriso.
«Sì, lo penso anch’io. Se avessimo saputo prima che bastava andare a letto insieme … »
Gli sfugge un sorriso, ma torna subito serio.
«Allora? Lo dirai a Jonathan?»
«Sì. È giusto che lo sappia.»
Annuisce.
«Ci penserò» promette prima di uscire. «Oh, ciao, Jon.»
Fantastico. E io che pensavo di poter rimandare.
«Charlie» mi saluta freddamente.
«Jon. Mi dispiace non essere venuta ieri. È successa una cosa e … mi è completamente passato di mente.»
La sua espressione si addolcisce.
«Non è un problema. Cos’è successo?»
Mi schiarisco la voce.
«Io … ho litigato con Arthur. Continuava ad incolpare me e poi …» deglutisco a vuoto «Insomma, mi ha … baciata. E … »
«Lui che cosa?!» esplode Jonathan.
«Non … non è che fosse solo lui, Jon. È stato … eravamo sconvolti, tutti e due, e … »
Lui sbarra gli occhi.
«Non avrete …?»
Lascia la frase in sospeso, ma capisco benissimo. Non rispondo, ma credo che la mia espressione sia sufficientemente eloquente.
«Non ci credo» ansima lui. «Non ci credo! Avete fatto sesso!»
Arriccio il naso per il modo rude in cui ha posto l’accusa –non per questo meno vera, certo.
«Ma lui è gay, maledizione!»
La sua reazione non è esattamente quella comprensiva che mi aspettavo.
«Jon, te l’ho detto, non volevamo farlo. È stato tutto un malinteso … »
«Un malinteso? Sei andata a letto con lui dopo che ci eravamo baciati per la prima volta da tre anni!»
«Credimi, quel bacio è stato molto più importante che … »
«Vaffanculo, Charlotte. Tornatene da Arthur, adesso. Anche se a lui non frega niente di te –non più di Damien, sicuramente.»
«Lo so» mormoro, le lacrime agli occhi. «E non importa neanche a me! Eravamo … »
Ma Jonathan esce sbattendo la porta prima che io possa ripetere l’ennesima, inutile giustificazione.

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Capitolo 17
*** Apologize ***


~APOLOGIZE~

 

[Damien]

 

Sono già sveglio da un po’ quando Arthur entra, una tazza in mano.
«Buongiorno» mi dice con un sorriso teso. «Ti ho portato del caffè.»
«Grazie.»
Lo osservo attentamente mentre chiude la porta, mi porge la tazza e si siede sul bordo del mio letto. Mi metto a sedere e soffio sul liquido bollente.
«Ho anche qualche biscotto, se ti va» propone speranzoso, allungandomene uno.
Solo a guardarlo mi viene la nausea.
«Magari dopo» mento, e lo vedo rabbuiarsi.
«Come vuoi.»
«È successo qualcosa?» indago delicatamente, notando la sua tensione e il disagio che dimostra, evitando di guardarmi negli occhi.
Annuisce.
«Io … ho fatto una cosa molto stupida» annuncia.
Mi preoccupo immediatamente.
«Cosa?»
«Ieri ho litigato con Charlotte.»
«Non mi sembra una novità.»
«Ero furioso, e … l’ho baciata.»
Spalanco gli occhi, incredulo.
«Hai baciato Charlotte?» ripeto, sconcertato.
«Sì.»
Faccio una smorfia, ma non riesco a trattenermi. Scoppio a ridere.
Arthur mi guarda come se fossi impazzito.
«Scusa» mugolo «È solo che … l’idea è veramente esilarante. Ok, no, scusa. Ho finito. Non preoccuparti. Sono cose che capitano. Posso accettarlo.»
«Non è tutto.»
«No?»
«No. Eravamo tutti e due molto arrabbiati e molto sconvolti.» Non posso fare a meno di notare l’uso eccessivo ed enfatizzato dell’aggettivo molto. «E le cose sono … sfuggite al nostro controllo, ecco.»
Lo guardo seriamente, stavolta, e stringo gli occhi.
«Avete fatto l’amore?» chiedo, cercando inutilmente il suo sguardo.
«Abbiamo fatto sesso» mi corregge debolmente. «Sono stato un idiota, Dam, lo so. Ero fuori di me, non stavo pensando razionalmente, e neanche Charlotte. Me ne sono pentito così tanto … io non provo nulla, nulla per lei, te lo giuro. Non so cosa sia successo. Mi dispiace da morire.»
Rimango in silenzio per un po’, ascoltando le sue scuse.
«Beh» dico alla fine «Ci sarei rimasto molto peggio se fosse stato Blake, o Jonathan.»
«Cosa?»
«Nonostante tu non riesca a dirlo a voce alta» spiego «Tu sei gay, Art. Ti conosco meglio di quanto conosca me stesso, e ne sono assolutamente certo –anche se tu non lo sei, almeno non consciamente. E questo vuol dire che con Charlotte … è stato veramente solo sesso.»
«È così» mormora. «Ma per lei era la prima volta, e adesso mi sento così in colpa … avrei dovuto pensare. Stavo così male, Dam, e lei ha detto che tu saresti morto comunque –avrei voluto ucciderla.»
Lo osservo. Sto facendo il possibile per essere ragionevole e comprensivo, ma è difficile. È vero che sarebbe stato peggio se fosse stato un ragazzo –ma questo non significa che io sia del tutto indifferente. È un assaggio di come sarà la vita di Art dopo che io me ne sarò andato.
«Art» dico, tentando di restare calmo e non farlo sentire in colpa «Ti capisco. Io sto male da mesi e  non … non abbiamo più … »
«No» mi interrompe lui con fermezza. «Non c’entra nulla. Io ti amo, Dam, lo sai, e ti avevo giurato che non ti avrei abbandonato-»
«Ma non l’hai fatto» dico ragionevolmente. «Sei qua, giusto? Mi hai detto la verità quando avresti potuto tacere.»
«Sì, ma questo non rende meno grave … »
«Art. Basta. Ti amo anche io. Non mi importa di Charlotte, ok? L’hai detto tu, eravate sconvolti. E poi dobbiamo accettare che tra non molto tu potrai fare ciò che vorrai perché …»
«Non dire così» sussurra lui. «Ti prego, Damien. Non troverò nessun altro. Charlotte è stata un errore. Sai a cosa pensavo in quei momenti? A quanto avrei voluto che al suo posto ci fossi tu, e a quanto fosse ingiusto tutto quanto.»
Faccio per ribattere ma un attacco di tosse me lo impedisce. Fatico a riprendere a respirare e sento il poco caffè che ho bevuto rivoltarsi nel mio stomaco. Ci vogliono un paio di minuti, ma poi riprendo il controllo.
«Sto bene» taglio corto, in risposta all’evidente ansia di Arthur. «E … non parliamone più, ok? È successo, ma è tutto perdonato.»
Lui fa per obiettare, ma poi si limita a fare un cenno con la testa.
«Va bene.»
«Sai che cosa … » comincio, ma la porta della camera si apre.
Jonathan entra a grandi passi.
«Tu» ringhia, rivolto ad Arthur «Brutto bastardo … »
Art si alza e indietreggia appena.
«Jonathan» dice con calma «Non … »
Ma Jon, furioso, lo raggiunge e gli sferra un pugno in pieno viso.
Sussulto.
«Jon, calmati» provo a farlo ragionare, ma so che da qui non posso fare nulla. Con cautela, mi alzo e mi avvicino.
«Come hai potuto fare questo a Charlotte?» ruggisce, cercando di colpirlo ancora, ma Arthur lo schiva e tiene le mani sollevate, dimostrando di non volerlo colpire a sua volta.
«Non ho fatto» dice chiaramente «nulla che lei non volesse.»
Capisco che ha detto una cosa stupida prima ancora di Jon. Si trasforma in lupo e si scaglia verso Art.
«Jon!» sbotto, e mi avvicino.
Arthur e Jonathan rotolano a terra, avvinghiati. Mi chiedo perché Arthur non si teletrasporti lontano, poi mi ricordo del bracciale al Pentothal ancora al suo braccio. Questo significa che non è neanche invulnerabile, e che gli artigli e le zanne di Jon potrebbero fargli male sul serio.
Il lupo indietreggia ringhiando e mi dà l’occasione di vedere il morso sul braccio di Arthur.
«Basta, Jonathan» sbotta lui.
Ma lui, furioso, fa per attaccare ancora. D’istinto, senza pensare, lo afferro per la collottola per impedirgli di attaccare ancora. Lui, altrettanto istintivamente, si volta di scatto e mi allunga una zampata.
Sento gli artigli affilati tagliare la mia maglietta e la pelle sottostante con un dolore sordo che mi fa ansimare. Scivolo a terra, il battito accelerato. Prendo fiato ma i polmoni non mi obbediscono. Annaspo in cerca d’aria.
Vedo confusamente Art che mi raggiunge e Jon che torna umano.
«No!» urla Arthur. «Non toccarlo. Il sangue è infetto.»
Jonathan indietreggia, pallido.
«Vai a chiamare Charlotte!» gli ordina Art.
Questa è l’ultima cosa che sento. Il bruciore ai polmoni si fa insostenibile e scivolo in un buio che, lungi dall’essere confortante, è spaventoso come il pensiero che potrei non svegliarmi più.
 
Sento le voci ma non riesco ad abbinarle ai loro proprietari.
I miei polmoni sono forzati a respirare da ossigeno artificiale.
«C’è qualcosa che possiamo fare?»
«Non lo so …»
«Ti prego, Charlotte!»
«L’unica cosa … l’ultima cosa che potremmo tentare è il trapianto di midollo.»
«Quello che ha fatto Vahel?»
«Sì.»
«Ma potrebbe ucciderlo.»
«Sì.»
«Se non lo facciamo … quanto potrà andare avanti così?»
«Non più di ventiquattr’ore. Probabilmente di meno.»
Un lungo silenzio, poi un sussurro.
«Non so cosa fare.»
«Sei tu il suo tutore legale, Arthur. Devi decidere per lui.»
«Sarai tu ad operarlo?»
«Dovrà farlo Jonathan.»
«È colpa sua se adesso è qui!»
«Primo: è la vostra unica possibilità. Secondo: su di te è riuscito. E terzo: sarebbe successo comunque entro breve.»
«Hai della morfina?»
«Poca. Ma non credo che sentirà molto, è incosciente.»
Un altro silenzio, più lungo del primo.
«Va bene. Fallo.»
 
La poca morfina non fa altro che placare il dolore per qualche minuto. Poi, più in là, nei brevi momenti di lucidità, niente può fermarlo.
Grido e cerco di muovermi, ma sono immobilizzato.
E allora posso solo concentrarmi sulla sensazione della mano di Arthur stretta nella mia –il mantenimento di una promessa.
 
«Allora?»
«I segnali sono buoni. Credo che si risveglierà presto.»
«Ma … è guarito?»
«Non possiamo ancora saperlo. Per prelevare il sangue aspetterei che l’invulnerabilità abbia tempo di guarire tutto il sistema immunitario.»
«Pensi che possa sentirci?»
«Non ne sono sicura, ma credo di sì. Vieni qui, ti medico quel morso. Jonathan non è stato delicato, eh?»
«Non esattamente.»
«Hai sentito quello che ha detto Lily?»
«No.»
«Vahel si è ripreso. Pare che voglia portarci veramente da qualche parte.»
«Dovrà aspettare che Damien si riprenda.»
«Non sei riuscito a togliere il bracciale con il Pentothal?»
«Non ci ho pensato, onestamente.»
«Ho sfruttato un corso in nanotecnologie a cui avevo partecipato e sono riuscita a toglierlo a Blake, Jon e a me stessa. Dammi il polso.»
«Oh. Grazie.»
«Figurati. I tuoi poteri torneranno presto.»
«Immagino che tu abbia parlato a Jonathan.»
«L’ho fatto. Non l’ha presa bene.»
«L’ho notato.»
«E Damien?»
«Ha capito e mi ha perdonato. Spero solo che continui ad essere così ora che forse abbiamo più tempo davanti a noi.»
«Andrà bene, vedrai. Ora vado a riposare. Dovresti farlo anche tu. Sono sicura che Vanessa ti darebbe il cambio volentieri.»
«Non mi muoverò da qui.»
«Come preferisci. Fammi chiamare se si sveglia, o se succede qualunque altra cosa, d’accordo?»
«Va bene. Buonanotte.»
«Altrettanto.»
 
«Damien? Non so se riesci a sentirmi. Secondo Charlotte sì, e lei non sbaglia mai un colpo, giusto? Pensavo che questa cosa del trapianto fosse stato un suo errore, ma sembra che abbia funzionato. Che fortuna sfacciata.
«Spero che ti sveglierai presto. Io sono qui accanto a te, comunque. Te l’avevo promesso, ricordi? Bene, dovresti sapere che Vanessa è venuta a trovarti. È molto preoccupata per te. Lei sta bene, ha detto che la bambina fa le capriole oggi.
Sono passati anche Blake e Lily … e Charlotte, ovviamente. Jonathan non si è ancora fatto vedere, penso che si senta in colpa. Fa bene. Capisco che abbia aggredito me –anche se non avevo fatto niente di male a Charlotte, in realtà-, ma non avrebbe dovuto toccare te. Comunque credo che le cose torneranno a posto, col tempo.
«Bene, ho finito gli argomenti … adesso riposati bene e, appena te la senti, se puoi, svegliati, ok? Perché qui siamo tutti abbastanza in ansia. Io sono qui e non mi allontano neanche per un minuto. Ti tengo la mano, senti? Ti amo. Torna presto.»
 
Un filo di luce attraversa le tende tirate e raggiunge il letto. Batto le palpebre e mi guardo intorno.
Art, ovviamente, è accanto a me, su una sedia, e tiene la mia mano. Ha gli occhi piccoli, come se non dormisse da tempo, e i capelli arruffati, lo sguardo perso nel vuoto.
«Ehi» mormoro con un filo di voce, la gola secca.
Art sussulta e si rianima subito.
«Damien! Oh, Dio. Stai bene?» chiede, preoccupato.
Con cautela mi metto a sedere.
«Bene» confermo, godendomi la sensazione dell’aria che entra ed esce liberamente dai polmoni senza impedimenti, e dei miei muscoli intorpiditi che si tendono. «Mai stato meglio» confermo.
Lui sorride, un sorriso vero e sincero che non posso non ricambiare.
«Vuoi dell’acqua?» chiede.
«Sì, grazie. In realtà ho fame … c’è qualcosa da mangiare?»
Art si illumina a queste parole.
«Tutto quello che vuoi. No, aspetta. Non alzarti. Prima fammi chiamare Charlotte.»
«Al diavolo Charlotte» replico, ma obbedisco e resto seduto, lasciando che sia lui, recuperata l’acqua, a raggiungermi.
Bevo tutto il bicchiere e poi, senza riuscire ad aspettare, lo attiro a me e lo bacio.
Avidi, non ci fermiamo fino a quando la porta non si apre.
«Damien! Beh … sembra che tu stia bene» commenta Charlotte.
Vagamente imbarazzato, confermo. Cercando di non pensare che non molto tempo fa lei è andata a letto con Arthur.
Mi misura la febbre e preleva del sangue per avere la certezza che il virus sia sparito, quindi si dilegua, lasciandomi solo con Art.
«Quanti giorni sono passati?» gli chiedo mentre divoro uno a uno un pacco di biscotti.
«Tre.»
«E Vahel?»
«È ancora fermamente convinto a portarci via con lui. Aspettava solo che tu ti risvegliassi.»
«Ma … pensavo che senza quel bracciale ti fossero tornati i poteri.»
«Ecco … sì, sono tornati, ma per il momento non riesco a teletrasportare nessuno insieme a me. Ho provato.»
«Oh.»
«Già. Ma tutto il resto funziona bene, invulnerabilità compresa.»
Arthur evita il mio sguardo. Credo ci sia qualcosa che mi sta nascondendo, ma non ho cuore di indagare adesso.
«Charlotte cosa dice?» chiedo.
«Che è colpa dei troppi prelievi. Ma secondo lei si rigenererà nel giro di qualche mese.»
«Di sicuro?»
«No, ma sai che lei non sbaglia mai.»
Queste parole mi ricordano qualcosa.
«Mi hai parlato» dico lentamente «Mentre dormivo.»
«Quindi sentivi. Un altro punto per Charlotte.»
«Non mi hai lasciato un attimo.»
«Te l’avevo promesso.»
Gli sorrido. Qualcuno bussa alla porta, che si socchiude.
Vedo Arthur irrigidirsi immediatamente.
«Jon. Vieni.»
«Ciao. Sono felice che tu ti sia svegliato.»
Fa qualche passo dentro, senza guardarmi negli occhi.
«Volevo solo … chiederti scusa. È colpa mia. Non avrei dovuto aggredirti così. E ... anche te, Arthur. Scusatemi.»
«Va tutto bene» replico con un sorriso.
Jon lancia un’occhiata ad Art, che si stringe nelle spalle.
«Quello che va bene a Dam va bene anche a me. Ma non riprovarci.»
«Non lo farò.»
Art annuisce.
«Vado a prenderti qualcos’altro da mangiare» annuncia, e si allontana.
Io e Jon restiamo un attimo in silenzio.
«Come fai ad accettarlo?» chiede poi lui, sottovoce, sedendosi accanto a me.
«Cosa?»
«Arthur e Charlotte.»
«Mi ha assicurato che è stato un errore.»
«E tu ti fidi?»
«Certo.»
Jon socchiude gli occhi.
«Vorrei potermi fidare anch’io.»
«Verrà con il tempo.»
«Lo spero proprio.»

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Capitolo 18
*** Proposal ***


Mi scuso per il ritardo tremendo nel pubblicare questo capitolo, ma soffro di un blocco dello scrittore che mi tormenta -.-''
Eccolo, comunque, finalmente! Ah, tra l'altro mi è stato pure formattato il computer, perciò la nuova versione di NVU che ho scaricato ha deciso di cambiarmi il formato della storia... spero sia leggibile!

~PROPOSAL~

[Blake]

Vahel ci riceve in una delle vecchie aule. Sono passati diversi giorni dall’operazione che ha subito, ma sembra ancora molto provato. Non che la cosa mi dispiaccia, sia chiaro.
Vorrei solo che potessimo andarcene da qui. Ma Arthur non riesce a teletrasportare altri con lui, e Charlotte ha già detto che i sistemi di sicurezza del Queen Victoria’s sono migliorati. Sospiro e mi guardo intorno. Damien sta molto meglio, sembra del tutto ristabilito, e Arthur è rinato di conseguenza –ogni tanto è gentile persino con Charlotte. Lei e Jonathan non si rivolgono la parola, naturalmente. Vanessa è diventata enorme, il suo pancione è una mongolfiera e mi fa ridere il modo in cui se ne lamenta; ormai è all’ottavo mese. E Lily … Lily.
Lily se ne sta perlopiù per i fatti suoi, ignorata da tutti –tranne da Damien, che ogni tanto la coinvolge nelle nostre conversazioni. Il suo smalto e la sua vivacità sembrano essere rimasti sepolti da qualche parte dove è difficile vederli –forse sotto strati di rancore, o forse solo di indifferenza. Perché non sembra più avercela con noi, ma non si sforza neanche di riallacciare dei rapporti che forse crede persi per sempre.
E io? Io dovrei fare il primo passo verso di lei, lo so. Ma la verità è che ne ho una paura folle.
Perché mi ha già deluso una volta.
Perché so di avere sbagliato a giudicarla.
Perché ho degli obblighi nei confronti di Vanessa.
Perché ho il terrore di provare qualcosa.
«Non so se avete seguito i notiziari, in queste ultime settimane» esordisce Vahel.
«Come no» rispondo in automatico, con sarcasmo non necessario. «È stato facile, da prigionieri.»
Vahel mi ignora.
«Potreste quindi non sapere il risultato delle elezioni» commenta.
È così, infatti. Mi era completamente sfuggito di mente, ma effettivamente la fase di voto a quest’ora deve essersi conclusa e probabilmente i risultati sono già stati divulgati. Dio, lo saranno da settimane, ormai.
«Chi ha vinto?» chiede Vanessa.
«Leonard Renshaw» annuncia Vahel, appoggiando la schiena alla cattedra. «Esponente del partito Repubblicano, ex marine, ex generale dell’Esercito ed ex Senatore. Nonché un mio vecchio amico.»
Quindi il vecchio Presidente, Democratico, è stato sconfitto. È strano saperlo così, dopo tre anni in cui ho fatto del mio meglio per salvargli la vita senza che lui lo venisse mai a sapere.
«Dovete sapere» prosegue «Che l’atteggiamento del signor Renshaw nei confronti dei poteri è decisamente differente da quello del suo predecessore. Il Presidente –ormai possiamo chiamarlo così- è d’accordo con me nel vederne le potenzialità piuttosto che la pericolosità
«Cosa significa?» domanda Charlotte, stringendo gli occhi. «Che ha intenzione di sfruttare la nostra immagine per sostenere la sua popolarità? Vuole metterci in mostra dicendo di aver trovato il modo di salvare il Paese dalla criminalità?»
Vahel rimane immobile per un momento, quindi un angolo della sua bocca si solleva in un freddo sorriso storto.
«Avevo dimenticato la tua arguzia» concede con un cenno del capo. «Ma devo precisare che non stiamo parlando di schiavitù, bensì di un lavoro ben pagato.»
«Non si parla di lavoro quando non è possibile scegliere se farlo» obietta logicamente Charlotte.
«Ma voi potrete scegliere! Voglio solo che mi seguiate fino a Washington e ascoltiate quello che Renshaw ha da dire. Dopodiché, sarete liberi di andare per la vostra strada.»
Mi sembra talmente irrealistico che scuoto istintivamente la testa.
«Potete non credermi, ma è la verità» dice semplicemente Vahel. «Fra tre giorni sarete liberi, se lo vorrete.»

Le parole mi raggiungono a metà del corridoio.
«Mi dispiace.»
Mi volto e inquadro Lily, che accelera il passo per raggiungermi.
«Per cosa?»
«Lo sai.» Deglutisce e si scosta una ciocca di capelli rossi dagli occhi, nervosa. «Per aver cercato di estorcerti a forza quelle informazioni.»
«Potevi dire torturarti
«Mi sembrava troppo brutale.»
Alzo le spalle e riprendo a camminare, seguito da lei.
«In ogni caso, adesso sai che dicevo la verità sull’essere solo.»
«Non pensavo che fossi stato stupido a tal punto da buttarti in un’impresa suicida come quella.»
«E io credevo che fossimo ancora alla fase delle scuse.»
Raggiunto il giardino, rallento il passo fino a fermarmi su una delle panchine. Lancio un’occhiata a Lily, che adesso tace e mi osserva da in piedi, le mani che affondano nelle tasche della felpa grigia.
«Allora» riprende, piegando leggermente la testa in un modo che mi fa desiderare di stringerla a me –ma respingo ogni pensiero. «Diventerai padre. Come ci si sente?»
La osservo con attenzione per un momento. La sua espressione mostra assoluta indifferenza, ma attraverso la stoffa sottile riesco a vedere le sue mani strette a pugno nelle tasche. E preferirei che non fosse così.
«Non lo so» ammetto. «Credo di non averlo ancora interiorizzato.»
«Dovrai farlo» replica lei, quasi malignamente «Quando ti troverai a fare i conti con pappe e pannolini.»
Socchiudo gli occhi.
«Accetterò le mie responsabilità» ribadisco con fermezza.
«Dimmi la verità» insiste Lily, un sorriso malizioso sulle labbra rosse «Eri ubriaco, quando sei andato a letto con lei?»
«No!» sbotto, scacciando la sua insinuazione con un gesto infastidito della mano.
«E allora com’è successo che lei è rimasta incinta?» domanda lei, senza girarci intorno. «Quando stavi con me, hai sempre fatto in modo di evitarlo.»
«Io … » prendo fiato, chiedendomi come diavolo abbia fatto a smascherarmi così in fretta. «Avevo la testa da un’altra parte. Ero preoccupato.»
«Scommetto che non stavi pensando all’affitto da pagare» insinua.
So che sta solo cercando di provocarmi, ma non credo che abbia capito la verità. Incrocio le braccia.
«Non sono affari tuoi» taglio corto.
Lily si siede accanto a me e mi posa una mano sul ginocchio, guardandomi negli occhi.
«Tu sei affar mio, Blake.»
«Non più.»
Lei si ritrae subito e socchiude gli occhi.
«Pensi che non abbia capito?» ride con un pizzico di cattiveria. «Scommetto che stavi pensando a me. Ti struggevi per come mi avevate abbandonata e, pieno di rimorsi, sei andato in cerca di consolazione da Vanessa … »
Scatto in piedi.
«Non è così!» protesto vigorosamente, ma lei mi ignora e prosegue.
«E poi, preso dalla rabbia e dal dolore, sei andato a letto con lei pensando a me, e non ti sei fermato un attimo a riflettere.»
«Non sai di cosa stai parlando!»
«Quindi» continua Lily senza dare alcun segno di aver sentito, alzandosi a sua volta, ancora con quel sorriso strano «In sostanza, è tutta colpa mia. Dici che dovrei scusarmi con Vanessa o pensi che lo troverebbe indelicato?»
Non riesco a controllarmi. Sono talmente furioso che la mia mano scatta da sola e le colpisce il volto con forza. Lily indietreggia di un passo e mi guarda sconcertata, portandosi una mano alla guancia.
Restiamo un momento in silenzio, mentre io cerco di calmare il mio respiro affannoso.
«Mi dispiace» dico alla fine, la voce incerta. Non posso credere di avere appena picchiato una ragazza. «Non avrei dovuto perdere il controllo.»
Lily abbassa la mano e riesco a vedere la guancia arrossata, sentendomi subito in colpa.
«Ho esagerato» dice cautamente. «Ma la prossima volta che ci provi ti do fuoco.»
Annuisco meccanicamente e mi allontano rapidamente, la mente in subbuglio, con l’orribile sensazione di essere stato messo a nudo.

Vanessa è seduta su uno dei divani della sala comune e sta leggendo un libro sui bambini che deve aver scovato in biblioteca. Mi vede subito e mi sorride.
«Blake! Mi stavo chiedendo dove fossi finito.»
«Io … uhm, ero fuori in giardino.»
Ometto di specificare “con Lily” senza riflettere. So di non avere nulla da nascondere –per Dio, il mio autocontrollo è di molto superiore a quello di Charlotte e Arthur- ma temo che … non lo so neanche io.
«Guarda» mi invita, e mi siedo accanto a lei.
Mi mostra delle immagini di come appare il bambino in questo momento, entusiasta, e io sorrido e annuisco.
Poi Vanessa si avvicina e mi bacia. Mentre ricambio, penso a Lily.

Più tardi, mi ritrovo nel furgoncino di Vahel, schiacciato nel sedile posteriore tra il finestrino e Jonathan. La strada si srotola davanti a noi a lungo, lasciandomi tempo per pensare. Lascio la mente libera di vagare, appoggiando la testa contro il vetro e osservando il paesaggio cambiare lentamente.
Siamo diretti a Washington.
Vanessa avrà un bambino.
Lily sarà furiosa con me, adesso.
Vanessa avrà un bambino, e io sono il padre.
Lily cosa penserà? Che posto avrà in tutto questo?
Vanessa e io saremo genitori di una creatura che dipenderà da noi.
Io dipendo da Lily?
Vanessa dipende da me?
Con queste domande confuse e insensate che mi ronzano in testa, mi addormento.

A svegliarmi, qualche ora dopo, è una sosta al distributore di benzina. Ne approfittiamo per sgranchirci le gambe. Mentre sto parlando pigramente con Jonathan, il suo cellulare squilla. Lui risponde senza neanche guardare il mittente, distratto.
«Pronto?»
Lo vedo impallidire e irrigidirsi davanti ai miei occhi.
«Io … sì, lo so» dice. «No, mamma. Non … »
Si blocca, e posso quasi sentire la madre chiedergli come stia Jack. Mi allontano, lasciando che affronti da solo l’argomento –un po’ per rispetto, un po’ per paura.
Raggiungo Vanessa, che sta uscendo dal bar con una lattina in mano.
«Ehi» mi sorride. «Va tutto bene?»
«Sì, tutto ok. Tu?»
«Anche. La bambina continua a darmi calci da ore, credo che non le piaccia viaggiare in macchina.»
Allungo d’istinto una mano a toccarle la pancia. Dopo qualche secondo, sento un movimento. Mi ritraggo, stupito.
«È lì davvero» dico stupidamente, guardandola con gli occhi spalancati.
Vanessa ride.
«Beh, meno male che te ne sei accorto.»
Sorrido anch’io e la abbraccio. Da sopra la sua spalla, con gli occhi socchiusi, distinguo Lily che ci osserva mentre accende una sigaretta con le dita.

Washington è lontana, ma alla fine la raggiungiamo. Guardo la Casa Bianca con ammirazione e ansia, temendo che le guardie armate ci sparino al solo vederci, dopo la perdita del nostro anonimato.
Ma Vahel mostra qualcosa a una di loro, che annuisce e ci lascia passare.
Percorriamo innumerevoli corridoi, superiamo metal detector e controlli vari e, alla fine, eccoci arrivati.
Lo Studio Ovale.
Rimango senza fiato. Non posso credere di essere davvero qui, nel luogo politico più famoso d’America, di fronte all’uomo il cui volto ha campeggiato per mesi su cartelloni e volantini di tutto il Paese, sovrastato dalla scritta CHANGE.
Leonard Renshaw, massiccio, sulla cinquantina, con capelli corti da militare ormai grigi, un completo elegante e occhiali da vista, ci saluta con un sorriso affabile.
«Benvenuti» dice, e respingo l’impulso di inchinarmi –non è la Regina, dopotutto- limitandomi a ringraziare insieme agli altri. «Vi riconosco» prosegue «Per via di quel terribile show televisivo. Ma voglio che sappiate fin da subito che quello che intendo proporvi non ha nulla a che fare con questo. È stata opera del mio predecessore, e non ho intenzione di seguire i suoi passi.»
Annuiamo tutti, piuttosto sollevati.
«Il motivo per cui siete qui è che vorrei instaurare con voi una collaborazione su base assolutamente volontaria. L’Area 51 non è minimamente coinvolta in questo. Si tratta di un lavoro molto ben retribuito che contribuirà al bene del Paese.» Fa una pausa meditata, quindi riprende: «Non posso negarlo: siamo sotto attacco. Dalle indagini della CIA si è scoperto un piccolo nucleo terroristico e anarchico che è ben nascosto e radicato. Si fa chiamare il Falco
«Chiaro riferimento ad un contrasto con l’Aquila americana» mormora Charlotte con un cenno di assenso.
«Chiarissimo» conferma sottovoce Lily, al mio fianco, e sorrido in silenzio.
«Questa organizzazione sta organizzando un attentato, ne siamo certi, ma non siamo stati in grado di procurarci prove a sufficienza per incastrarli. Il vostro lavoro consiste nel trovare queste prove, che siano evidenti e inoppugnabili, e successivamente nell’arrestare i propugnatori del Falco.»
Segue qualche istante di silenzio.
«Quanto ci guadagneremmo?» chiede in termini molto pratici Jonathan.
Renshaw lo dice, e di sicuro è una cifra i cui zeri superano di molto qualunque altra io abbia mai visto.
Rimaniamo tutti a bocca aperta.
«Sul serio?» indaga Jon, incredulo.
«A testa» specifica Renshaw sorridendo.
«Oh.»
«Vi lascio soli a discutere.»
Rimasti tra di noi, ci guardiamo in silenzio. Fin dal primo momento è chiaro che non siamo tutti d’accordo: perciò mi preparo con un lieve sospiro ad una lunga discussione.

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Capitolo 19
*** Egoistic ***


Lo so, lo so... sono passati più di due mesi, non ho scuse! Ma la mia ispirazione è veramente ai minimi storici! Ecco il capitolo, comunque, spero di farmi perdonare!

 

~EGOISTIC~

 

[Vanessa]

 

Gli schieramenti che si sono formati sono evidenti immediatamente.

«Dobbiamo accettare» dice per primo Blake, deciso. «Soldi a parte, è semplicemente … patriottico. Si tratta di terroristi.»

«Il perfetto ragazzo americano» commenta acida Charlotte, incrociando le braccia. «Orgoglioso della sua nazione al punto di morire per la Patria. Sai, sarebbe più commovente se il Presidente non ti avesse umiliato sulla pubblica televisione.»

«Quello era il vecchio Presidente» taglia corto Blake.

«Mai sentito parlare di teoria della circolazione delle élite?» domanda retorica Charlotte, ben sapendo che nessuno di noi ha idea di cosa stia parlando. «È una teoria sociologica. Dice che chiunque sia al potere persegue solo i propri interessi, perché non fa più parte del popolo da cui proviene e non ha quindi alcun vantaggio nel difenderlo.» I nostri sguardi devono sembrarle ancora piuttosto vuoti, perché specifica «Insomma, i politici sono tutti uguali. Nessuno vuole altro che il potere e il vantaggio personale.»

«Come ti sentiresti se i terroristi colpissero l’America e tu non avessi fatto nulla per impedirlo?»

«Continuerei a sentirmi una vittima del nostro governo razzista che non ci considera parte della specie umana» replica lei, facendo sfoggio della sua notevole abilità retorica e argomentativa.

«Lasciamo da parte patriottismo, razzismo e sociologia» sbuffo io, intervenendo per la prima volta. «Stiamo parlando di una cifra da capogiro, Charlie. Si tratta di milioni. Forse tu, con il tuo stipendio da medico migliore del mondo, puoi permetterti di rifiutarlo, ma io no.»

«Si tratta di vendere se stessi al miglior offerente, allora, Ness? Se i terroristi ti offrissero un milione in più, è loro che andresti a supportare?» chiede Charlotte, guardandomi negli occhi con schiettezza.

«Tu non capisci» dico lentamente. «Casomai lo avessi dimenticato, io aspetto una bambina. E manca poco più di un mese. Cosa farò quando nascerà? La manterrò con il mio lauto stipendio da cameriera di un bar sulla spiaggia in California, nel mio appartamento di due stanze a venti minuti da ogni forma di vita civile? O forse dovrei tornare dai miei genitori promettendo di darla in adozione, perché “una brava ragazza non resta incinta prima del matrimonio, e se lo fa non deve darlo a vedere”

Charlotte stringe gli occhi.

«La prima soluzione sarebbe sempre più dignitosa che non vendersi come una» deglutisce nel cogliere la mia occhiata omicida e cambia la conclusione, «merce

Blake mi mette una mano sulla spalla.

«Noi restiamo, Charlotte. Nessuno ti obbliga a fare lo stesso.»

«Anche io resto» dice Lily a sorpresa, e intercetto fulmineamente lo sguardo che si scambia con Blake. Non reagisco, ingoiando il mio disappunto.

«Io sono d’accordo con Charlotte» dice l’ultima persona da cui ci si aspetterebbe che queste parole vengano pronunciate, ovverosia Arthur, guadagnandosi una notevole serie di occhiate incredule. «Non me ne frega niente di questa storia. Voglio restarne fuori, e non voglio aiutare un governo che mi ha trattato come un animale, o peggio.»

«Io sono con Arthur» dice tranquillamente Damien, mettendo le mani in tasca. Le sue parole sono come uno schiaffo in pieno viso.

«Damien» mormoro soltanto.

Lui mi guarda.

«Mi dispiace, Ness, ma ho già avuto abbastanza problemi in questi mesi. Non voglio rischiare la vita un’altra volta.»

Non posso fare altro che prendere atto della sua scelta con un cenno del capo, anche se il mio cuore scricchiola per il pensiero di doverlo lasciare ancora dopo aver quasi rischiato di perderlo.

Mi volto verso Jonathan, l’ultimo che è rimasto.

«Resto anch’io» dice, evitando lo sguardo ferito di Charlotte. «Ho bisogno di quei soldi per l’università, e non voglio più dipendere dai miei genitori, specialmente dopo … dopo quello che è successo a Jack.»

Nessuno osa replicare. Guardandoci negli occhi, capiamo che è giunto di nuovo il momento di separarsi. Non lo vogliamo veramente, ma è inevitabile. Gli interessi e gli ideali sono diversi e sembra impossibile conciliarli.

I saluti sono quasi impersonali. Vedo lo sguardo malinconico che Charlotte lancia a Jonathan prima di uscire, e io stringo la mano di Damien sentendolo già chilometri lontano.

All’improvviso mi sembra che faccia un po’ più freddo.

 

Renshaw sembra piuttosto deluso di aver ottenuto solo la partecipazione di noi quattro, ma dura solo per un istante. Quello successivo sta già sorridendo.

«Venite» ci invita. «Vi condurrò nei vostri appartamenti e vi farò conoscere la vostra compagna.»

Questo ci incuriosisce, e il Presidente ci spiega che ha già reclutato una mutante prima di noi, che è qua da qualche giorno ed è ansiosa di conoscerci.

La prima emozione che provo guardandola è gelosia. Perché, diamine, è davvero bella. Non è una bellezza comune, ma particolare, e vedo immediatamente gli occhi di Blake e di Jon illuminarsi loro malgrado.

I suoi capelli sono scuri e lisci, lunghi fino alle spalle, e gli occhi ambrati e intensi. Il fisico, naturalmente, è perfetto –snello al punto giusto, con le curve ben sistemate.

Non penso di avere nulla da invidiarle –la mia autostima ha sempre brillato- ma in questo preciso momento, con un pancione di otto mesi sulla considerevole altezza di un metro e sessanta, mi sento un ippopotamo. La bambina mi dà un calcio e lo considero come una punizione per questo pensiero, perciò metto da parte la ritrosia e mi sforzo di sorridere.

«Piacere di conoscerti, sono Vanessa» dico tendendo la mano.

Lei mi squadra con un’espressione vagamente di sufficienza, quindi china appena il capo e mi stringe la mano.

«Sono Julie» si presenta.

«Lily.»

«Jonathan.»

«Blake.»

Julie guarda Blake con un grado di interesse decisamente superiore a quello che la decenza consentirebbe, perciò gli stringo il braccio con fare vergognosamente possessivo –e lei dirotta abilmente lo sguardo su Jonathan.

«Perché siete qui?» domanda.

«Per i soldi» replica tranquillamente Jonathan, nello stesso momento in cui Blake risponde:

«Per aiutare il Presidente.»

Lo sguardo di Julie lancia un lampo divertito.

«Apprezzo l’onestà» dice a Jon. «Ma non dirlo davanti a mio padre.»

«Tuo padre?» chiedo distrattamente.

«Non lo sapevate? Mio padre è Leonard Renshaw. Il Presidente

«Oh.»

Lei sorride, in un lampo di orgoglio arrogante.

 

Non cominciamo veramente il nostro lavoro per due lunghi giorni. Poi, una mattina, Julia viene a chiamarci e ci fa cenno di seguirla.

«Il laboratorio è al piano di sotto» spiega. «Ultimamente siamo riusciti ad infiltrare un agente della CIA nelle schiere dei terroristi, le immagini più recenti sono appena arrivate, credo. Io non le ho ancora viste. Carson –è questo il suo nome- si collega ogni due o tre giorni, quando gli è possibile, al server e ci trasmette informazioni.»

Raggiungiamo una porta metallica che Julie apre con l’impronta del dito indice e che conduce in un laboratorio che ricorda vagamente quello di Vahel al Queen Victoria’s, solo che è almeno venti volte più grande. Ogni cosa è fatta d’acciaio o di vetro, e l’effetto del riflesso dei neon è strabiliante. Sembra di entrare direttamente in un film di fantascienza.

«Wow» mormora Jonathan.

Ci sono almeno tre piani sotto al nostro, tutti visibili grazie al pavimento di vetro perfettamente lucido. Tutto intorno e sotto di noi, decine di uomini e donne in camice bianco sono affaccendati in varie occupazioni intorno a macchinari dall’aria costosissima e complicata.

«Benvenuti!»

Una voce acuta richiama la nostra attenzione: proviene da una donna sulla quarantina, alta e slanciata, con un camice bianco su un tailleur, tacchi alti e capelli biondi legati in una crocchia.

«Sono la dottoressa Marjorie Brennan» si presenta.

Ripetiamo i nostri nomi in fretta, prima che la donna ci dica di seguirla verso un grande monitor che occupa un’intera parete del laboratorio, sul quale si susseguono brevi spezzoni di video e fotografie sfocate di un posto buio.

«Ci sono appena arrivati i file del nostro infiltrato nel Falco. Per ora niente di sorprendente. Voglio dire, abbiamo latitudine e longitudine, finalmente –il microchip non aveva trovato segnale prima- e alcuni tecnici stanno verificandone l’attendibilità.»

«Un momento, chi sono quelli?» dice Blake in tono allarmato.

Seguo il suo sguardo e resto paralizzata.

Sullo schermo sono apparse figure inconfondibili: Charlotte, Arthur e Damien.

 

«Cosa diavolo ci fanno nel covo dei terroristi?» sbotto.

«Non ne ho idea» mormora la dottoressa Brennan. «Ma sembra che siano prigionieri.»

«Hanno le mani legate» ringhia Blake. «Complimenti per l’arguzia.»

Non ci sono video, solo alcune immagini in bianco e nero di uomini armati che li spintonano, e anche del luogo dove li tengono, una stanza piccola e senza finestre.

«Se ne sono andati di qui meno di tre giorni fa» dico, tentando di imitare il freddo raziocinio di Charlotte. «Non possono essere troppo lontani.»

«Quelle immagini risalgono a stanotte» aggiunge inutilmente un tecnico, battendo furiosamente sui tasti del computer.

«Avete detto di avere latitudine e longitudine» scatta Jonathan.

«Indicano una zona poco oltre il confine, in Canada» replica lo stesso tecnico. «Ma devono ancora essere verificate.»

«Non c’è tempo» sbotto, senza riuscire a trattenermi. «Vorranno ottenere informazioni, o forse sfruttare i loro poteri … dobbiamo intervenire subito!»

«Signorina Evans» mi trattiene la dottoressa, con calma gelida, «Questa è una decisione che va ponderata con molta cautela. Osserveremo lo svolgersi degli eventi tramite il nostro infiltrato … »

«Almeno questo infiltrato potrà aiutarli?» la interrompo seccamente.

Lei mi guarda con stupore.

«Certo che no, c’è il rischio di far saltare la sua copertura.»

«Quindi avete semplicemente intenzione … di lasciarli lì e vedere cosa succede?» chiedo, giusto per accertarmi di non aver frainteso.

«Se avessero accettato la nostra offerta, a quest’ora sarebbero qui al sicuro.»

Non riesco a credere alle mie orecchie.

«Non mi importa ciò che dite» replica chiaramente Blake «Io ho intenzione di andare a cercarli.»

«Temo che questo non sia possibile.»

Bastano queste parole.

Ormai mi pare evidente che è il nostro destino.

La nostra libertà è condannata ad essere distrutta: siamo stati prima prigionieri delle nostre famiglie, che si vergognavano di noi, poi di Hermann, poi di Vahel, poi di Brown, e adesso del Presidente.

A questo punto, mi chiedo se siamo mai stati liberi e soprattutto se lo saremo mai. Se le cose continueranno così, temo che la risposta sia negativa.

Stringo istintivamente le mani sulla pancia.

Non è questo che voglio per me, né tantomeno per la mia bambina.

Per la nostra bambina, penso, guardando Blake che difende con la sua solita, irruenta passione la nostra causa.

Non è che improvvisamente io abbia smesso di avere paura per quanto riguarda diventare madre. Anzi. Più le settimane passano, più tutto diventa reale, tanto quanto lo sono i frequenti calci che sento nella mia pancia. Vorrei che questo fosse un periodo lieto e perfetto, ma sono costretta a viverlo in ansia, in fuga da tutto e da tutti.

Non posso mettere a rischio la vita della bambina, non se c’è un’alternativa.

Per questo motivo, quando Blake, questa stessa sera, al riparo da occhi e orecchi indiscreti, ci propone di scappare per andare a recuperare Charlotte, Arthur e Damien, sono costretta a rispondere di no.

Anche se Damien è il mio migliore amico, e desidero solo che sia al sicuro, specialmente dopo tutto quello che ha passato; anche se ho imparato a tollerare Arthur, consapevole del fatto che Dam lo ama da morire; anche se Charlotte è la mia amica più cara e le voglio un bene dell’anima.

Mia figlia si staglia al di sopra di tutto questo. È su un altro livello, semplicemente, e non posso fare nient’altro per mettere in pericolo la sua vita.

Dopotutto, manca solo un mese al termine della gravidanza.

«Ness, sei sicura?» insiste Jon per l’ennesima volta, nervoso.

«Non posso venire, Jon. Semplicemente non posso

«Ma se andiamo noi» obietta Blake, un tono vagamente disperato nella voce, «Se la prenderanno con te per averci fatti scappare.»

«Vuoi che non vada nessuno di noi, Vanessa?» dice bruscamente Lily. Al mio silenzio, ride con malignità. «Ma certo, mi sembra giusto. Salvaguardiamo i tuoi interessi lasciando che Charlie, Art e Dam muoiano per mano di terroristi spietati.»

«Tu volevi lasciarci morire per mano di Noah Brown!» mi difendo.

«Mi pare che siate ancora tutti qui, grazie al fatto che ho cambiato idea.»

«Dì pure che Vahel ha cambiato idea.»

«Non stiamo parlando di me, adesso» taglia corto Lily.

«Non metterò in pericolo la vita di mia figlia.»

«Sei un’ipocrita» dice a bassa voce. «Per non rischiare preferisci lasciarli perdere. Riesci ad immaginarteli, Ness? Prigionieri, probabilmente torturati per scoprire i piani del Presidente e di Vahel, senza nulla da mangiare o da bere. Li vedremo morire lentamente attraverso i video dell’infiltrato, e tu saprai sempre che è tutta colpa tua

Ascolto le sue accuse rabbiose in silenzio, sentendo le lacrime affiorarmi agli occhi.

«Basta così, Lily» dice con fermezza Blake, ma lei lo ignora completamente.

«Ti odieranno tutti, lo sai?» prosegue lei sottilmente, un sorriso crudele sul volto. «Charlotte e Arthur, perché sanno che potrebbero essere salvati. Damien, che non capirà come hai potuto abbandonare il tuo cosiddetto migliore amico

«Lily … » insiste Blake, minaccioso.

«Jonathan ti odierà, perché è innamorato di Charlotte, naturalmente. Io ti odio già, questa non è una novità. Ma persino Blake, persino il tuo grande amore per una notte ti odierà, perché lui non vorrebbe altro che correre da loro e tu e il tuo bambino lo trattenete-»

Non resisto più: la mia mano scatta a schiaffeggiare Lily in pieno volto.

«Non osare» sibilo. «Non osare dirmi queste cose.»

La vedo sussultare, stupita, quindi stringere gli occhi.

«Non ho intenzione di accettarlo ancora» ringhia. «Sai cosa sei, piccola innocente? Sei solo una grandissima puttana

E poi mi scaglia contro una vampata di fuoco. La schivo per un pelo e divento invisibile d’istinto.

«Lily! Vanessa! Smettetela subito!» urla Blake.

«Sei tu ad esserlo, Lily» ribatto, furiosa, spostandomi perché non individui da dove proviene la mia voce. «Sei fottutamente gelosa perché hai sempre voluto che Blake finisse con te, ma sai cosa? Non sei stata altro che qualche bella scopata!»

Non è da me questo linguaggio. Sono un tipo calmo e ragionevole, di solito, ma Lily tira fuori il peggio di me.

La risata acuta di Lily riecheggia per tutta la stanza.

«Oh, tesoro, non te ne rendi conto? Sei stata tu ad essere solo una bella scopata –e sul bella avrei ancora da criticare! Quando è venuto a letto con te-»

«Lily, no!» sbotta Blake.

«Stava pensando a me, Vanessa. A me. Si sentiva dannatamente in colpa per avermi lasciata andare e aveva bisogno di facile conforto, e chi meglio di te, che gli sbavavi dietro da anni? Era talmente sconvolto che non si è neanche reso conto del rischio … magari pensava che avessi fatto qualcosa tu, ma eri troppo innamorata per essere lucida, giusto?»

Le sue parole colpiscono un punto dentro di me che è troppo vulnerabile. Ricompaio e la guardo.

«Sei solo un’illusa» mormoro, ma non ci credo neanche io.

Mi volto verso Blake, che sembra cristallizzato, accanto ad un Jonathan che, imbarazzato, finge di non ascoltare.

«Blake?» dico piano.

«Naturalmente no» dice lui, ma la sua voce suona così incerta e falsa che la mia gola si chiude.

«Non ci credo» sussurro. «Non ci credo, tu … »

Vorrei trovare una frase d’effetto per segnalare la mia uscita di scena spettacolare, ma riesco solo a fargli notare le lacrime che mi scivolano sulle guance prima di girarmi e andarmene lentamente.

 

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Capitolo 20
*** Bad feeling ***


~BAD FEELING~

 

[Arthur]

 

A svegliarmi è la sensazione spiacevole dell’acqua gelida in faccia. Sussulto e spalanco gli occhi, faticando a ricordare dove mi trovi e cosa sia successo.

Sono in una stanza piccola e sporca, con le pareti in muratura coperte di muffa, in una temperatura gelida e umida. I miei polsi sono legati ad una catena attaccata sulla parete dietro di me.

Di fronte a me, un uomo alto e corpulento, con una folta barba scura, mi osserva cupamente.

Il mio primo istinto è quello di teletrasportarmi lontano, ma non succede nulla. Quindi mi torna la memoria, e ne capisco il motivo.

Mi guardo intorno.

«Dove sono i miei compagni?» chiedo immediatamente.

«Questo ora non è importante» replica l’uomo con un pesante accento straniero che non riesco a identificare. «Cosa facevate a Washington?»

Batto le palpebre.

«Siamo stati ricevuti dal Presidente» replico.

«Perché?»

La risposta lampeggia nella mia mente –perché è sulle tracce di un’organizzazione terroristica e vuole il nostro aiuto per debellarla- e mi rendo conto di chi sono le persone che ci hanno rapiti a pochi chilometri da Washington dopo aver sparato alle gomme della nostra auto.

Merda.

«Allora?» insiste l’uomo.

Capisco di non poter rispondere. Se questi sono i terroristi in questione, e ormai non ho dubbi che lo siano, non posso rivelare loro che l’FBI è alle loro costole. Soprattutto perché, come la mia mente realizza freneticamente, lavorerei contro i ragazzi che sono rimasti a Washington, e se i terroristi fossero preparati ad un’incursione anche loro potrebbero restare uccisi.

«Rispondimi!»

Non parlo; non posso farlo.

Ne va della vita di Vanessa, di Jonathan, di Blake e di Lily.

E, con tutte le probabilità, anche di quella del Presidente, se decidessero di attaccare la Casa Bianca.

«Va bene, hai deciso di non collaborare. Sai, lo speravo segretamente.»

Deglutisco a vuoto quando vedo l’uomo aprire la porta e tornare, poco dopo, con un oggetto in mano. Sembra una scatola di metallo lunga e stretta, e quando si avvicina capisco che è piena di tizzoni ardenti. Il che rende l’attizzatoio che spunta da essa molto poco invitante.

Il sorriso compiaciuto dell’uomo è l’ultima cosa che vedo prima di serrare gli occhi, un dolore infernale che mi colpisce mentre la sbarra metallica incandescente viene premuta sul mio petto.

 

Prima che mi sleghino i polsi e mi trascinino fuori di peso passa un lasso di tempo estremamente lungo, o almeno così pare.

Vengo gettato con poca cura sul pavimento di una cella dove –ringrazio il cielo per questo- sono seduti Damien e Charlotte.

«Oh, mio Dio» sento quest’ultima sussurrare.

«Art» esclama Damien, raggiungendomi subito. «Cosa ti hanno fatto?»

Vorrei riuscire a rispondere, ma la mia gola riarsa brucia per le urla che non sono riuscito a trattenere.

«Ti hanno dato del Pentothal?» chiede Damien, spaventato, mentre cerca di aiutarmi a girarmi sulla schiena, per evitare che le ferite doloranti tocchino il pavimento sporco. «Charlotte dubitava che loro sapessero della sua esistenza.»

Scuoto la testa.

«Art, dovresti essere invulnerabile» dice con voce strozzata, nel momento in cui vede le ustioni nella loro totalità.

«C’è … » comincio con voce roca, per poi tentare di schiarirmela.

Charlotte mi allunga dell’acqua in una bottiglia semipiena. Bevo, grato, quindi riprovo.

«C’è una cosa che non ti ho detto» sono costretto ad ammettere. «Dopo il prelievo … i poteri non sono tornati.»

«Avevi detto che riguardava solo il teletrasporto di altre persone!» sbotta Damien.

«Non volevo … farti preoccupare» mormoro, appoggiando la testa sul pavimento.

Questo lo raddolcisce un po’.

«Dobbiamo fare qualcosa» dice a Charlotte.

Lei annuisce.

«Dammi l’acqua. La muffa sul pavimento potrebbe far infettare le ferite. Tu prova a sollevarlo un po’.»

Damien mi sostiene e mi aiuta ad appoggiare la schiena al muro retrostante, anche se il dolore provocato dal movimento mi stordisce, rischiando di farmi svenire.

Charlotte strappa con decisione una striscia di tessuto dalla manica della sua camicia, quindi la imbeve nell’acqua.

«Lascia fare a me» dice Damien con decisione, prendendogliela di mano.

Lei non protesta.

Damien comincia a passare la stoffa bagnata sulle ferite e io mi costringo a soffocare il gemito di dolore che ne consegue.

«Mi dispiace» mormora. «Ho quasi finito.»

Charlotte decide di non bendare le ustioni, sostenendo che l’aria fredda perlomeno mi darà un po’ di sollievo.

Chiudo gli occhi e scivolo, finalmente, in un sonno tormentato.

 

«Tu lo sapevi, non è vero?»

«Sì, lo sapevo.»

«Perché non me l’hai detto?»

«Arthur non voleva. Pensavo che non fosse così importante.»

«Beh, lo era.»

«Se avessi saputo che non era invulnerabile sarebbe cambiato qualcosa? Ne dubito.»

«Pensavo che lo odiassi. Come mai improvvisamente lo difendi?»

«Non lo sto difendendo.»

Batto le palpebre e socchiudo gli occhi, ma Damien e Charlotte non se ne accorgono e continuano a discutere.

«Sì che lo stai facendo.»

«Perché è una sua scelta dirti o no ciò che vuole. Io, in quanto medico, ho il dovere di … »

«Oh, ti prego» sbotta Damien. «Dipende dal fatto che siete andati a letto insieme, vero?»

«Mi sembrava che l’avessi presa con troppa filosofia.»

«Non stiamo parlando di me.»

«Damien, è ovvio che quello che è successo ha cambiato le cose. Non puoi … avere quel genere di rapporto con una persona e poi … dire che è rimasto tutto come prima. Specialmente perché era la prima volta.»

«Questo cosa dovrebbe significare?» chiede lui a denti stretti.

«Nulla! Non significa nulla. Non sono innamorata di lui, non lo sono mai stata. Non c’è motivo perché tu sia geloso.»

«Io non sono geloso» replica lui in automatico. Charlotte solleva un sopracciglio, critica. «Senti, lascia perdere, d’accordo? Non volevo insinuare nulla. Ho detto una cosa stupida, lascia perdere.»

Si volta e vede che sono sveglio. L’espressione mortificata sul suo volto è quasi divertente.

«Art … » comincia.

«Non importa. Hai tutto il diritto di arrabbiarti.»

«Non sono arrabbiato. Te lo giuro.»

«Credo che abbiamo cose più importanti di cui parlare» taglia corto Charlotte. «Cosa volevano sapere?»

«Cosa voleva da noi il Presidente.»

«Glielo hai detto?»

«Naturalmente no. Temevo di mettere in pericolo i ragazzi.»

«È probabile che torneranno» dice Charlotte, decisa e tagliente. «È questa la linea comune? Non diciamo nulla?» Io e Damien confermiamo. «Non hanno paura a torturare, l’abbiamo già visto.»

«Non importa.»

«Non siate ingenui» scatta lei, nervosa. «Potete fare i coraggiosi finché volete, come due veri uomini, quando è di voi che si tratta. Questi uomini sono spietati, non solo continueranno ad oltranza, per prenderci per stanchezza: potrebbero anche-»

La porta si spalanca. Lo stesso uomo di prima entra, seguito da un altro uomo e da una donna, entrambi vestiti con abiti pesanti e con i volti semicoperti da sciarpe e cappelli mimetici, più qualche guardia armata.

Evidentemente già sapendo cosa devono fare, alcune di queste ultime raggiungono me e Charlotte e ci tirano in piedi, tenendoci fermi, mentre le altre prendono Damien e lo portano all’altro lato della cella.

Un orribile presentimento serpeggia nella mia mente e mi chiude la gola.

«Sapete già cosa vogliamo che ci diciate: ciò che il Presidente vuole da voi, e tutto ciò che vi ha detto riguardo a noi. Fermateci quando sarete pronti a parlare.»

E poi le guardie cominciano a colpire Damien.

«No» mormoro, capendo ciò che Charlotte intendeva dire poco fa.

Guardo gli uomini che si accaniscono su di lui, e tutto ciò che vorrei è urlare loro di fermarsi, dire loro tutto ciò che vogliono sapere.

Ma non posso farlo.

Strattono le braccia, tentando di liberarle dalla presa ferrea delle guardie, ma è del tutto inutile. Non posso fare altro che guardare impotente il mio ragazzo picchiato a sangue.

Sento Charlotte gemere e chiudere gli occhi, voltando la testa, in lacrime. Io incrocio lo sguardo di Damien e lo sostengo per tutto il tempo, resistendo alla tentazione di nascondermi per non sentire i suoi gemiti.

Dura almeno mezz’ora: poi se ne vanno tutti, promettendo di tornare presto.

Non appena sono libero, corro da Damien, sul pavimento in una pozza di sangue.

«Dam» lo chiamo, teso.

Lui batte le palpebre, confuso, quindi tenta di mettersi a sedere. Lo aiuto e, con il sostegno di Charlotte, lo esamino per tentare di limitare i danni.

Alla fine la diagnosi conta due costole rotte, una spalla lussata e molti lividi, ma nulla di davvero grave.

«È andata piuttosto bene» commenta lui, sollevato, pur stringendo i denti per il dolore.

«Peggiorerà» taglia corto Charlotte, cupa. «Hanno capito il metodo giusto per piegarci.»

«Cosa intendi?»

«Minacciare uno per far parlare gli altri» replico io al suo posto, passando con cautela della stoffa bagnata sulle abrasioni sul viso di Damien.

Nessuno aggiunge altro.

 

Mi sveglio nel mezzo della notte per una fitta dolorosa dovuta alle ustioni che ancora campeggiano su buona parte del mio corpo. Faccio una smorfia e mi metto a sedere, massaggiando con le dita la parte interessata, a livello delle costole. Brucia da morire.

Il mio sguardo scivola automaticamente su Damien, che dorme rannicchiato su se stesso sul pavimento. Quindi passa a Charlotte, che è immobile e mi dà la schiena –troppo ferma per essere addormentata.

«A cosa pensi?» le chiedo sottovoce.

Lei si irrigidisce, colta di sorpresa, quindi si volta lentamente.

Mi aspetto un “niente” come risposta, ma mi prende alla sprovvista.

«Penso che piegare una ragazza sia molto più facile che farlo con un ragazzo» replica in un sussurro, mettendosi a sedere.

La guardo con stupore.

«Di cosa stai parlando?»

Lei si stringe nelle spalle.

«Di quello che hanno tentato di farmi a Baltimora» replica. «Di quello che sarebbe successo se Jonathan non mi avesse soccorsa.»

«Non credo che arriverebbero a tanto» dico, incerto.

«Io credo che farebbero qualunque cosa, pur di avere le informazioni che cercano.»

La osservo con attenzione.

«Andrà tutto bene, Charlotte.»

Lei scuote la testa.

«Non verranno a salvarci stavolta, Art.»

«Che cosa?»

«Non li lasceranno venire. Quelli del governo, intendo. Probabilmente non gli diranno nemmeno che siamo stati catturati.»

«Lo scopriranno ed evaderanno. Non sarebbe la prima volta.»

«Non sono sicura che tutti lo vorranno fare.»

«Certo che lo faranno! Per salvarci la vita.»

Charlotte sospira.

«Ho davvero un bruttissimo presentimento. Non andrà a finire bene.»

«Siamo sopravvissuti a tante cose, Charlie. Passerà anche questa.»

«Siamo finiti in una situazione che non possiamo controllare. Ci sono troppi interessi in gioco. Siamo diventati delle pedine nelle mani dell’una e dell’altra fazione, più ancora di quanto non lo fossimo già prima. Unirsi al Presidente è stato uno sbaglio.»

«È stata una loro libera scelta. Noi non l’abbiamo fatta, eppure siamo qui lo stesso. Se fossimo andati tutti via, ora nessuno potrebbe aiutarci.»

Lei si sdraia di nuovo sul pavimento.

«Non andrà a finire bene» ripete, profetica.

Chiudo gli occhi e fingo di addormentarmi mentre il mio cervello corre.

Vorrei credere veramente che qualcuno ci verrà a salvare.

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Capitolo 21
*** Friends again ***


~FRIENDS AGAIN~

 

[Lily]

 

Corro il più velocemente che posso, gli occhi fissi sulla sagoma davanti a me, seguendo i suoi passi.

Il buio è quasi totale, eccezion fatta per la torcia che Blake, di fronte a me, tiene in mano mentre corre.

Mi sento una via di mezzo tra James Bond e Arsenio Lupin.

Ho appena scavato un tunnel sotto alla Casa Bianca. Io, Lily Bennett, potrei essere accusata di atti terroristici.

Chi l'avrebbe mai detto?

Le mie orecchie sono tese per captare ogni movimento, ma non ne percepisco nessuno. Per forza. Il tunnel scende per quasi seicento metri nelle profondità della terra, prima di dirigersi verso il centro di Washington e immettersi nel sistema fognario. Si tratta di circa due chilometri di scavo, in totale, e ho impiegato tutta la notte a completarlo, sfruttando ogni singola goccia del mio potere, in un modo che non avevo mai sperimentato prima.

L'idea è stata di Blake, che mi ha aiutata a far saltare tutto ciò che intralciava la costruzione del cunicolo. Ora, potrei descrivere la lunga notte passata con lui spalla a spalla, ma sarebbe inutilmente imbarazzante e anche noioso, visto che si è rifiutato di rivolgermi la parola, se non quando era strettamente necessario.

In ogni caso, ora siamo qui, io, Blake e Jonathan, in fuga verso l'ignoto.

Il tunnel giunge bruscamente a termine e Blake si ferma.

«Devi solo far saltare la parete di destra» dico, ansimando leggermente. «Poi saremo nelle fogne.»

«Lo so» taglia corto Blake, freddo.

Vanessa, come previsto, è rimasta indietro, e lui non l'ha presa bene. Io, in realtà, sono contenta di non averla tra i piedi.

Blake crea una spaccatura nella parete del tunnel, quindi la allarga e ci permette di entrarvi. La attraversiamo e dall'odore capisco subito che siamo sulla strada giusta.

A volte fare la cosa giusta fa davvero schifo.

 

Quando usciamo dalle fogne è l'alba. Il sole sbuca timido all'orizzonte mentre risaliamo le scale e spuntiamo fuori da un tombino.

Siamo nella periferia di Washington.

«E ora? Dove lo troviamo un tassista che ci porti in giro quando puzziamo così?» domanda Jonathan storcendo il naso.

«Per mille dollari, vedrai che lo farà» replico io con calma, aspettando di scorgere un taxi.

Come previsto, alla vista dei soldi l'autista tace e ci porta fuori città.

Il pagamento anticipato del presidente ci tornerà decisamente utile. Abbiamo intenzione di prendere un aereo per raggiungere il Canada, per poi trovare il luogo dove Charlotte, Arthur e Damien sono tenuti prigionieri e liberarli. Come questo avverrà, non lo sappiamo ancora.

Un passo alla volta.

 

In aeroporto ho finalmente la possibilità di comprare dei vestiti nuovi e di darmi una lavata nei bagni, per quanto è possibile, pur bramando una doccia vera per scacciare definitivamente l'odore disgustoso che mi è rimasto appiccicato addosso.

Il primo aereo per il Canada partirà tra circa tre ore. Nascosta dietro ad una rivista in una delle sale d'attesa, osservo di sottecchi Blake che cammina in tondo. Non può chiamare Vanessa per timore che la sua telefonata venga rintracciata, ma so che muore dalla voglia di farlo.

Non capisco perché: lei lo detesta, lui non la ama, ma si sente responsabile.

Puah.

Mi rendo vagamente conto dei livelli preoccupanti che ha raggiunto il mio cinismo, ma non me ne do troppa pena. A chi importa?

«Ehi, va tutto bene?»

Alzo lo sguardo e incrocio quello di Jonathan, che mi si è appena seduto accanto.

«Sì, certo» dico casualmente. «George Clooney è di nuovo single. Cosa posso chiedere di meglio?»

«Non mi faccio fregare da te, sai?» ribatte Jon con tranquillità. «Si vede che stai male per tutta quella storia con Blake.»

«L'unica cosa di Blake che mi fa stare male è la sua stupidità» taglio corto. «Tu, piuttosto... sei preoccupato per Charlotte, vero?»

«Certo» ammette Jon. «Nonostante quello che ha fatto, spero non le succeda nulla di male.»

«È molto più di questo» lo correggo. «Sei ancora innamorato di lei. Non importa se ti ha tradito con Art, tu l'hai già perdonata. Solo che sei troppo orgoglioso per ammetterlo. E ora hai una paura folle che le facciano del male, per questo hai accettato di andartene dalla Casa Bianca. Se fosse stato solo per Art e Damien, saresti rimasto... per i soldi.»

Jonathan si irrigidisce leggermente.

«Sai, Lily» dice a voce bassa, «Forse, se ti comportassi meno da stronza e dimostrassi di avere un cuore, ogni tanto, ti avremmo già perdonata per quello che hai fatto.»

«Primo, non ho bisogno del vostro perdono, perchè non ho fatto niente di male. Se tornassi indietro lo rifarei. Secondo, darmi della stronza perchè dico la verità non è molto maturo.»

Jon scuote la testa e se ne va.

Rimango sola e abbasso di nuovo gli occhi sulla rivista.

Complimenti, Lily. Missione “terra bruciata” perfettamente riuscita.

 

Il volo per il Canada dura poco più di un'ora, che passo a dormire, tormentata da bambini rumorosi e dalla scomodità della posizione. Avremmo anche potuto prendere dei posti in prima classe, ma gli altri non ne hanno voluto sapere. Tirchi.

In ogni caso, siamo appena usciti dall'aeroporto di Ottawa e siamo diretti, in taxi, verso la campagna circostante.

Le indicazioni di latitudine e longitudine, purtoppo, non siamo riusciti a procurarcele, ma sappiamo che la zona dove si trovano Charlie, Art e Damien è grossomodo tra Ottawa e Toronto.

In ogni caso, quando ci troviamo soli nel bel mezzo dei campi, sotto un cielo nuvoloso che minaccia pioggia, ci rendiamo conto di non avere, effettivamente, la più pallida idea di cosa fare.

Non sappiamo se il rifugio sia facilmente visibile, se sia protetto, né tantomeno cosa faremo se mai lo troveremo.

«Faccio un giro di ricognizione» annuncia Jonathan, trasformandosi in una cornacchia e sollevandosi in volo, confondendosi ben presto con quelle vere.

Io e Blake restiamo soli e cala immediatamente un silenzio imbarazzante.

«Allora» esordisco, cercando di sembrare indifferente, «Come va?»

Blake mi guarda con un sopracciglio sollevato.

«Stai davvero cercando di fare conversazione?» domanda, scettico.

Io incrocio le braccia sul petto, mettendomi sulla difensiva.

«Sì.»

«D'accordo, allora. Se proprio vuoi saperlo, mi sento da schifo per aver lasciato Vanessa da sola alla Casa Bianca, e non so cosa farei se le succedesse qualcosa. In più, sono convinto che, se anche riuscissimo a trovare il covo dei terroristi, portare in salvo Arthur, Charlotte e Damien non sarà così facile. Non è neanche detto che siano ancora vivi, e, se lo sono, non sappiamo in che condizioni. E se i terroristi li uccidessero per il nostro tentativo di salvarli?»

Blake smette di parlare e io lo guardo per un momento, colta di sorpresa da quel fiume di parole che non mi aspettavo.

«Quando una persona ti chiede come va, Blake, si aspetta che tu risponda “bene”» dico.

Blake scuote la testa.

«Sei una stronza» mi comunica.

«Dimmi qualcosa che non so.»

«Posso farlo davvero, sai.»

«Cosa?»

«Dirti qualcosa che non sai.»

«Prego, allora.»

«Quello che non sai, Lily» dice lentamente, «È che io ti volevo bene sul serio. Sono convinto che abbiamo sbagliato ad abbandonarti, perchè già allora pensavo che, nonostante tutto, avremmo dovuto darti una seconda possibilità. Capita a tutti di sbagliare. Anche quando mi hai fatto saltare in aria nel bel mezzo del deserto... sì, ti ho detestata, non ho capito la tua scelta, ma alla fine ho sempre creduto che tu potessi tornare sulla retta via.»

«Ma poi hai cambiato idea» concludo.

«È qui che ti sbagli» dice con fermezza. «Io ci credo ancora.»

«Beh, non sembra. Non è che tu mi stia rendendo le cose facili.»

«Non capisci, Lily? Sei tu quella che complica le cose! Ti chiudi a riccio ogni volta che uno di noi cerca di avvicinarsi, non pensi neanche alla possibilità di scusarti, ti comporti come se ti sentissi superiore a tutti, litighi con Vanessa e metti in crisi il suo rapporto con me... Stai facendo tutto da sola! Se solo smettessi di comportarti come una ragazzina, ti accorgeresti che l'unica che ti ostacola sei tu!»

I miei occhi sono fissi in quelli di Blake. Questo discorso mi ha colta alla sprovvista.

«Eppure» dico alla fine, «Tu hai scelto Vanessa.»

«Lei aspetta il mio bambino, Lily. Ho delle responsabilità nei suoi confronti. Non so se la amo, ma ho il dovere di restarle accanto. Non potrei mai abbandonarla. Vorresti ancora stare con me se io lo facessi?»

Chiudo gli occhi.

Vorrei che le parole di Blake non avessero senso, vorrei trovarle stupide, ma la verità è che ha ragione.

Ha maledettamente ragione.

«Mi dispiace» soffio alla fine, e lo vedo sgranare gli occhi. «Mi dispiace, Blake. Per Vahel, per Vanessa, per tutto. Mi sono comportata nel modo sbagliato, e...»

«Li ho trovati!» mi interrompe qualcuno.

Mi volto per vedere Jon, di nuovo umano, in piedi dietro di me.

Faccio un respiro profondo.

«Dove sono?» domando.

«Poco oltre quella collina. Credo che il loro rifugio sia sottoterra, perchè ho visto solo degli uomini armati a guardia di una sottospecie di baracca -deve contenere un passaggio per raggiungere il resto del covo. Stai piangendo?»

«Cosa?» Mi porto una mano al volto e mi stupisco di trovarlo umido. «No, certo che no. Sono allergica al polline. Qual è il piano?»

«Il piano è semplice» afferma Blake con voce decisa. «Ci avviciniamo. Jon entra sottoforma di insetto, o qualcosa del genere, dà un'occhiata alla conformazione del rifugio e trova i ragazzi. Non riuscirai ad avvisarli, probabilmente, ma se troverai un'occasione di farlo, tanto meglio.» Jonathan annuisce. «Poi» prosegue Blake, «Esci, torni qui e decidiamo il da farsi. Probabilmente mi limiterò a far saltare in aria le guardie, o qualcosa del genere.»

Io e Jon ci diciamo d'accordo e iniziamo a spostarci in direzione del rifugio dei terroristi. Troviamo una macchia d'alberi distante circa duecento metri da esso e ci sistemiamo lì.

Jonathan diventa una formica e si allontana.

Appoggio la schiena ad un albero, tesa. Se dovessero scoprire Jon -e non è una possibilità così remota, visto che sanno dei nostri poteri- non oso immaginare cosa potrebbe succedere.

Io e Blake non parliamo, stavolta, e il silenzio è quasi assordante.

Poi, sento vibrare qualcosa.

Blake sussulta ed estrae il cellulare dalla tasca.

«È Vanessa» mormora.

«Pensavo le avessi detto di non chiamarci, perchè non potessimo essere rintracciati.»

«Infatti.»

Blake esita.

«Avanti, rispondi. Dev'essere importante.»

Blake annuisce e accetta la chiamata. Mi avvicino per ascoltare.

«Ness?»

«Blake! Oh, grazie a Dio. Ho scoperto una cosa...»

«Cosa? Di che si tratta?»

Il tono di Vanessa è frettoloso, quasi ansimante.

«Ho ascoltato di nascosto, non credo che lo sappiano... stanno progettando una cosa, un antidoto...»

Il telefono crepita e la voce di Vanessa giunge spezzata.

«Ness, non ti sento bene... Cosa hai detto?»

«Hanno trovato un antidoto! L'hanno somministrato oggi a Julie, pare che abbia funzionato.»

«Un antidoto a cosa?»

«Per i nostri poteri! Per farli scomparire del tutto!»

Io e Blake ci scambiamo uno sguardo sconcertato.

Questo cosa dovrebbe significare? Il presidente ha somministrato a sua figlia un antidoto e le ha tolto i suoi poteri? Perchè mai dovrebbe voler fare una cosa del genere? Perchè allora chiedere il nostro aiuto per debellare i terroristi? Perchè non somministrarcelo forzatamente?

La mia mente lavora velocemente per cercare una risposta, ma invano.

«Vanessa, tu dove sei?» chiede Blake con urgenza.

Segue un istante di silenzio.

«Sono nella mia camera» replica lei con un filo di voce. «C'è un'altra cosa. Blake... credo che mi si siano rotte le acque.»

Silenzio. Vedo Blake impallidire.

«Ness...» sussurra, cercando una soluzione.

Vista la sua espressione, decido di prendere in mano le redini della situazione. Strappo il telefono dalla mano di Blake.

«Vanessa, mi senti? Sono Lily. Resta calma, ok? Andrà tutto bene.»

«Lily? Ho paura. Cosa devo fare?»

Il suo tono terrorizzato mi convince definitivamente.

«Ascoltami bene, Ness. Adesso tu esci dalla tua camera, trovi qualcuno e ti fai portare in ospedale. Lì si prenderanno cura di te. Io prendo il prossimo aereo. Tra due, massimo tre ore sarò lì. Tieni il cellulare vicino, mi raccomando.»

«Io... due ore?»

«Sì. Stai tranquilla. Tra due ore sarò vicino a te. Tieni duro e vedrai che andrà tutto benissimo.»

«D'accordo.»

Chiudo la telefonata e mi volto verso Blake.

«Blake, porta in salvo i ragazzi.»

«No. No, Lily, resta tu qui. Io devo andare da Vanessa.»

«No. Ascoltami: c'è bisogno di te qui. Io sarei inutile, ma tu sei l'unico che può liberarsi delle guardie e aiutare Charlie, Dam e Arthur.»

«Ma...» obietta debolmente Blake, ma capisco che sa che ho ragione.

«Stai tranquillo. Mi prenderò cura di Vanessa come faresti tu, anzi, ancora di più. Non la lascerò un attimo e le dirò che tu arriverai presto. D'accordo?»

Blake esita ancora, quindi annuisce.

«Va bene. Mi raccomando» cede alla fine.

Gli faccio un cenno e mi alzo in piedi.

«Non ti preoccupare» dico, per poi avviarmi di corsa in direzione dell'aeroporto.

 

Impiego parecchio tempo ad arrivare all'aeroporto, anche di corsa, perchè non ci sono taxi a disposizione nel bel mezzo della campagna, ma riesco a trovarne uno quando sono ormai in vista della periferia.

Mi precipito alla biglietteria e benedico la mia fortuna nel trovare un posto per il prossimo volo, che partirà tra mezz'ora.

Faccio il check-in e tutti controlli di sicurezza a velocità supersonica, per poi ritrovarmi seduta in aereo, senza fiato, diretta a Washington.

L'ora abbondante di volo passa lentamente, ogni secondo sembra durare un secolo, ma alla fine atterriamo.

Mi precipito fuori e salgo su un taxi mentre chiamo Vanessa.

«Ness, dove sei?»

«In ospedale. Reparto maternità. Sto...» si interrompe e sento un gemito provenire dal cellulare.

«All'ospedale» dico all'autista, per poi rivolgermi di nuovo a Vanessa. «Stai bene? Tra pochi minuti sarò lì.»

«Sì, sì, era solo una contrazione. L'ostetrica dice che è ancora presto. Arriva in fretta, per favore.»

«Certo, stai tranquilla.»

Mentre il taxi procede a passo d'uomo nel traffico, penso con una lieve ansia che non so assolutamente nulla di come avvenga un parto, se non quello che ho visto in televisione. Non ho idea di come farò, ma voglio solo arrivare in tempo per dare a Vanessa una mano amica da stringere.

Quando mi rendo conto di cosa ho appena pensato, mi viene quasi da ridere. Solo poche ore fa la pensavo in modo totalmente opposto.

Adesso, grazie a Blake, credo di aver rimesso le cose nella giusta prospettiva. Io e Vanessa siamo sempre state amiche, ed è di un'amica che lei ha bisogno. Tutto il resto non ha importanza.

Il taxi si ferma di fronte all'ospedale. Pago e corro verso l'ingresso. Lancio un'occhiata al tabellone che indica la collocazione dei vari reparti e scopro che quello di maternità si trova al quinto piano.

Prendo l'ascensore. Tamburello le dita sulla mia gamba, nervosa, chiedendomi, tra l'altro, se il mio aspetto sia ancora umano dopo due voli e una gita nella campagna canadese.

Lo specchio dell'ascensore non mi è di grande conforto in questo senso.

Le porte dell'ascensore si aprono.

«Mi scusi, sto cercando una mia amica» dico ad un'infermiera. «Vanessa Evans.»

Lei mi indica una porta e la apro.

Vanessa è in piedi, sta camminando in tondo, indossa un camice da ospedale teso sul pancione e ha i capelli legati. Quello che stamattina doveva essere un filo di eyeliner le è colato sul viso con qualche lacrima, macchiandole il volto di nero.

«Lily» mormora, e, non appena mi avvicino, con mia grande sorpresa, mi abbraccia forte. Ricambio la stretta.

«Ehi» dico, «Va tutto bene?»

«Insomma» replica lei.

«Vieni, dai. Puoi sederti? Ti tolgo questo trucco orribile. Non vorrai avere la faccia tutta macchiata di nero quando farai la prima foto con la bimba! Me ne riterrei del tutto responsabile.»

A Vanessa sfugge una risata.

Mi dirigo in bagno, inumidisco un asciugamano e la raggiungo, per poi strofinarglielo con delicatezza sul volto, cancellando i segni del trucco.

La sua mano si posa sulla mia e la guardo con un'espressione interrogativa.

«Grazie, Lily» dice.

Io faccio un piccolo sorriso.

«È a questo che servono le amiche.».

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Capitolo 22
*** A rescue and a birth ***


Solo due note: credo (non ne sono sicurissima, perchè devo ancora scriverli) che a questo capitolo ne seguirà solo un altro, più un epilogo, ma potrebbe essercene anche uno di più. Vedremo.

Per farmi perdonare per le lunghe attese e per ringraziare chi ha continuato a seguire la storia, dopo l'epilogo pubblicherò una one-shot che ho scritto l'anno scorso, a rating rosso, su Arthur e Damien. Altrimenti nota come il-mio-primo-tremendo-tentativo-di-scrivere-una-lemon. Poveri voi!

Buona lettura :)

 

~A RESCUE AND A BIRTH~

 

[Blake]

 

Nel silenzio più assoluto, riesco a sentire ogni singolo battito del mio cuore. La mia schiena è appoggiata contro il muro, la mia fronte sudata.

Vicino a me, Jonathan, in forma di lucertola, è in attesa.

Quando l'uomo si avvicina, Jon striscia silenzioso e lo raggiunge. Non riesco a vedere molto, nella penombra, ma so che si sta arrampicando sulla gamba del terrorista. Su, su fino alla cintola e al mazzo di chiavi.

L'ansia è quasi insostenibile. Se lo scoprisse...

Aspetto immobile, quasi immaginando l'urlo dell'uomo che scopre il tentativo di furto... ma non succede.

Un fruscio sul pavimento, quindi la lucertola (anzi, adesso è qualcos'altro, qualcosa con una coda più lunga, un rettile a cui non so dare un nome) torna umana. Jon mi fa un cenno affermativo: in mano stringe il mazzo di chiavi

Attendiamo che la guardia si sia allontanata, quindi ci dirigiamo verso la zona delle celle.

Jon, tornato dalla sua esplorazione preliminare, mi ha descritto con precisione la planimetria del rifugio, perciò ora sappiamo entrambi dove andare.

Percorriamo un lungo corridoio buio dalle pareti in cemento.

Il buio è quasi totale, l'umidità pesante e il freddo arriva fin nelle ossa. Il silenzio è interrotto solo dallo sgocciolio regolare attraverso il soffitto.

Quando raggiungiamo la porta, Jon si affretta ad inserire la chiave nella toppa e a girarla.

La porta si apre con un cigolio ed entriamo, rapidi.

Quello che vedo è quello che mi aspettavo, solo peggio.

Charlotte ha un taglio evidente sulla guancia e un inizio di occhio nero, e provo una repulsione violenta per quei bastardi che hanno avuto il coraggio di picchiare una ragazza.

Damien è messo peggio: tutto il volto è coperto di escoriazioni e, in generale, sembra pieno di lividi. Devono averlo picchiato a lungo.

Arthur, però, è la vera sorpresa: ero convinto che fosse invulnerabile, e dubitavo che i terroristi sapessero del Pentothal. Invece è pallido e sul suo torace risaltano decine e decine di ustioni, alcune delle quali evidentemente infette.

Deglutisco e sento Jonathan trattenere il fiato bruscamente.

Damien balza in piedi.

«Oh, grazie a Dio» invoca sottovoce.

Mi sforzo di sorridere.

«No, siamo solo noi» replico. «Coraggio,venite. Dobbiamo filarcela prima che si accorgano che siamo qui.»

Charlotte, nel frattempo, è saltata al collo di Jonathan e l'ha stretto con forza. Lui, un po' stupito, la sta tenendo vicina.

«Dobbiamo avvertire il Presidente» dice lei rapidamente. «Abbiamo scoperto delle cose, Blake...»

«Non è il momento. Avanti, andiamo» taglio corto.

Damien aiuta Art ad alzarsi e ci seguono fuori dalla cella.

Riusciamo a percorrere indenni tutto il corridoio, ma non possiamo essere tanto fortunati da raggiungere l'uscita inosservati.

Uno dei terroristi ci vede e lancia un grido d'allarme -giusto un secondo prima che io lo colpisca con una scarica di energia e lo mandi a sbattere contro la parete opposta.

Ma è bastato quello perchè altri venissero avvertiti. Ci troviamo con le spalle contro il muro del rifugio, a pochi metri dalla scala che porta verso la superficie e la salvezza.

«Charlie, Dam, Art» dico a denti stretti, allungando le braccia davanti a me, le mani già vibranti di energia trattenuta, riacquistando il mio consueto ruolo di leader, «Andate verso l'uscita, vi copro le spalle. Jon... come ai vecchi tempi?»

Jon mi sorride in un lampo prima di trasformarsi in un grande felino bianco. Rivedo per un istante il giorno, tanti anni fa, quando Vahel gli aveva lanciato una rete metallica che lo aveva imprigionato: allora aveva assunto la stessa forma. Le cicatrici sono ancora evidenti.

I terroristi arrivano a fiotte con i mitra, ma sembrano incerti sull'usarli davvero. Evidentemente hanno ricevuto istruzioni precise di non fare del male ai mutanti.

Poi, quando io comincio a farli saltare in aria, il loro buonsenso prevale.

Le pallottole cominciano a sibilare. Jon parte all'attacco dei terroristi più vicini, usando zanne e artigli per metterne fuori gioco quanti più possibile.

Io, invece, cerco di deviare la traiettoria di tutte le pallottole che potrebbero ferire i miei compagni, che si stanno faticosamente arrampicando sulla scala.

Quando loro tre sono usciti faccio un fischio a Jonathan, che comincia ad indietreggiare. Poi, però, un terrorista ci coglie di sorpresa arrivando lateralmente e gettando a terra con un calcio la scala che porta verso l'esterno, isolandoci sottoterra.

Impreco mentre lo faccio saltare via, cercando intanto di mantenere uno scudo perenne di energia che respinga le pallottole.

Guardo Jonathan, che sta cercando di raggiungere la scala per rialzarla, ma è troppo lontano e non riesco a proteggerlo adeguatamente dalla raffica di proiettili, ora che quasi tutti gli occupanti del rifugio ci stanno scaricando contro i loro mitra.

«Vola via!» urlo a Jon, cercando di superare il frastuono.

Naturalmente lui non prende neanche in considerazione l'opzione. Torna al mio fianco, le zanne insanguinate scoperte.

Siamo entrambi consapevoli che reggeremo solo per poco: ci attaccano su tutti i lati, eccetto che alle spalle, coperte dal muro, e la mia energia non è infinita, anzi, sta già cedendo.

Deglutisco, cercando disperatamente una via d'uscita, quando qualcosa mi cade sulla testa. Alzo lo sguardo per un istante: è terriccio.

Un rombo profondo scuote l'intero rifugio, e i terroristi cessano di sparare.

Qualcuno urla in una lingua che non conosco, ma ne intuisco il senso.

Crolla tutto.

«Jon! Fuori!» grido.

Lui capisce e si trasforma in un enorme rapace, mi afferra con artigli giganteschi e ci solleva entrambi. Non passeremo mai dal buco che ospitava la scala -è troppo stretto-, perciò Jon si dirige senza esitare verso il soffitto che sta crollando.

Recito mentalmente un paio di preghiere mentre i detriti precipitano addosso a noi, ma io sono quasi del tutto riparato dalle grandi ali da rapace di Jon, che si fa strada a fatica tra i massi in caduta libera attraverso il buco creato dal crollo.

Un attimo dopo, mi ritrovo a rotolare sul terreno, finalmente all'aperto. L'impatto mi toglie il fiato; tossisco, ma mi rialzo.

Jon è tornato umano ed è a terra accanto a me. Gli allungo la mano: lui la afferra e si tira in piedi. Adocchiamo Charlie, Art e Dam poco distante e iniziamo a correre per raggiungerli.

«Sorprendente, vero? Basta trovare il punto giusto su cui fare leva, e qualunque costruzione crolla come un castello di carte» commenta Charlie, solare. Mi prendo un istante per ammirare i calcoli che deve aver fatto per riuscire a far crollare il rifugio.

Poi ci precipitiamo verso la libertà, lontano, prima che i terroristi -almeno, quelli che sono sopravvissuti al crollo- possano inseguirci.

Raggiungiamo la strada e individuiamo un taxi.

Ringrazio di nuovo i soldi del Presidente, perchè dubito che alcun autista avrebbe accettato di portarci in aeroporto in queste condizioni senza la promessa di due centinaia di dollari.

Guardo i ragazzi attorno a me e tiro un sospiro di sollievo. Siamo salvi.

 

In aeroporto cerchiamo di darci una sistemata, come se non ci fosse appena piovuto addosso un intero soffitto.

Quando esco dal mio cubicolo nei bagni, vedo Damien che, con un'espressione concentrata, passa sulle ustioni sul petto di Arthur, appoggiato con la schiena ai lavandini, del disinfettante appena acquistato.

«Tutto a posto?» chiedo. «Charlotte cosa dice?»

«L'infezione non dovrebbe creare problemi, se curata non appena torniamo a casa» replica Art a denti stretti.

Usciamo dai bagni, tutti ripuliti, per ritrovare Charlotte.

Mentre la aspettiamo, compongo il numero di Vanessa. Sono passate oltre due ore dalla partenza di Lily: deve ormai essere arrivata.

Mi risponde Lily.

«Blake? Tutto bene?» mi domanda, ansiosa.

«Sì, tutto a posto. Charlie, Art e Dam sono qui con me. Il prossimo aereo parte tra un'ora, saremo lì tra due ore e mezza circa. Come sta Vanessa?»

«Se continua così, potrai essere presente quando nascerà la bambina» replica Lily. «È in travaglio, ma è ancora alla prima fase. L'ostetrica dice che ci vorranno almeno altre tre, quattro ore. Vanessa sta bene, è solo nervosa, ma sono qui con lei. Chiede... ah, vorrebbe parlare con Charlotte.»

Passo il cellulare a Charlotte.

«Ness? Sono Charlie. Tutto a posto?» ascolto le poche parole di Charlotte con nervosismo. Da una parte vorrei essere al fianco di Vanessa, dall'altra correi egoisticamente voltare la testa dall'altra parte e fingere che non stia succedendo nulla. «Certo, è del tutto naturale. È normale, stai tranquilla. Ricordati di restare calma. Tra poco più di due ore sarò lì, ok? Insieme a Blake. D'accordo. Ciao, tesoro.»

Charlotte chiude la telefonata.

«Allora» esordisce «Devo parlarvi. Abbiamo scoperto una cosa.»

«Se si tratta dell'antidoto per eliminare i poteri, lo sappiamo già» la interrompo.

«Che cosa?»

«Vanessa ha detto di aver sentito i ricercatori alla Casa Bianca parlare di un antidoto per togliere definitivamente i poteri ai mutanti. Pare lo abbiano già somministrato a Julie... la figlia del Presidente.»

«Ma... quello che abbiamo sentito noi dai terroristi» replica lentamente Arthur, «È esattamente l'opposto. Pare che alla Casa Bianca abbiano isolato il gene portatore dei poteri. Ora possono impiantarlo a chiunque, facendogli acquisire poteri personali. E per averlo, loro stanno organizzando un attentato... domani.»

«Non capisco» dico, strofinandomi una mano sulla fronte. «Cosa...?»

«Ma certo!» esclama Charlotte, interrompendomi. La lascio parlare, consapevole che, di certo, ha capito più di me. «Uno dei due deve aver dato un'informazione sbagliata. Chi è più probabile che lo abbia fatto?»

«Il Governo» replica Arthur. «Sapevano che Vanessa li stava ascoltando. Praticamente è un'infiltrata, in contatto con voi fuggiaschi...»

«Esatto» conferma Charlie. «E perchè mentire su una cosa del genere? Perchè se noi avessimo creduto che loro avessero la possibilità di toglierci per sempre i poteri, con un briciolo di buonsenso ci saremmo tenuti alla larga da Washington.»

«Ci volevano davvero lontani da Washington» commenta Damien, incredulo. «Vi hanno lasciati scappare...»

«Non si aspettavano che lasciassimo indietro Vanessa» aggiunge Charlotte, «E hanno fatto in modo che sentisse queste false informazioni per convincerla ad andarsene...»

«Ma perchè chiamarci, allora?» chiedo, sempre più confuso.

«Non è logico? Avevano bisogno di noi, per isolare quel gene! Avevano Julie a disposizione, ma non si può creare una formula solo a partire dai geni di un individuo. Volevano conferme prima di iniettare una formula potenzialmente pericolosa su qualche soldato scelto.»

Finalmente le cose si stanno facendo più chiare.

«Quindi» interviene Jon, «I terroristi volevano impadronirsi della formula per ottenere i poteri, immagino.»

«Già. Se devono combattere soldati selezionati con superpoteri dedicati alla lotta contro il terrorismo, tanto vale avere a propria volta superpoteri» conferma Charlie.

«E quindi... ora cosa facciamo?» domando.

Charlotte sembra pensarci su per un momento.

«Dobbiamo andare a Washington e dire al Presidente che i terroristi stanno progettando un attacco alla Casa Bianca per domani» dice alla fine. «Questo è il piano.»

 

Il volo sembra durare un'eternità, ma in realtà arriviamo a Washington dopo meno di due ore.

«Jon, devi andare tu dal Presidente» decide Charlotte. «Vanessa ha bisogno di me e Blake, e Arthur e Damien hanno bisogno di cure.»

«Io?» replica Jon, incredulo. «Ma non sono neanche sicuro di aver capito cosa sta succedendo!»

«D'accordo» ribatto, fermando la risposta di Charlotte sul nascere, «Credo che la cosa migliore sarebbe che ci andassi tu, Charlie. Ora andiamo in ospedale, tu aiuti Vanessa, ti fai dare una sistemata e poi decidiamo chi verrà con te per aiutarti e proteggerti. Ci stai?»

Lei sospira e annuisce.

«Mi sembra ragionevole» ammette.

Non ci vuole molto per arrivare all'ospedale. Mentre Arthur e Damien si dirigono al pronto soccorso, accompagnati da Jon, io e Charlie saliamo al quinto piano.

Ci indicano la sala parto dove si trova al momento Vanessa. Ci siamo dati una ripulita in aeroporto, perciò io sono presentabile, e Charlie anche, nonostante il suo occhio nero faccia una certa impressione.

Un'infermiera ci blocca prima che riusciamo ad entrare.

«Chi siete?» domanda, sospettosa.

«Io sono il suo... sono il padre del bambino. Della bambina, cioè» dico, impacciato.

«E io sono il medico della signorina Evans, Charlotte Miller. Può controllare la sua cartella clinica, se vuole, o chiederle conferma.»

La donna ci lascia passare.

Vanessa è distesa su un lettino con le gambe sollevate, pallidissima e sudata. Lily le stringe la mano.

«Io me ne vado, Charlie» sussurro.

«Assolutamente no» replica lei, inflessibile, spingendomi in avanti. «È ora che tu ti prenda le tue responsabilità, Blake.»

Vanessa gira la testa e mi vede. Mi aspetto un saluto caloroso, ma ricevo tutt'altro.

«Tu» ringhia. «Brutto stronzo! Sei solo un...» si interrompe e inarca la schiena, gemendo di dolore.

Mi immobilizzo a due passi da lei, sconvolto, mentre Charlotte prende in mano la situazione e si lava le mani, per poi infilare dei guanti sterili.

«A che punto è?» domanda all'ostetrica. «Sono il suo medico.»

«Manca poco» replica lei, una donna sulla cinquantina dall'aria severa. «È già in fase espulsiva.»

«Le avete somministrato dell'ossitocina?»

Smetto di ascoltare Charlotte e mi avvicino a Vanessa con cautela.

«Nessie? Come stai?» chiedo debolmente.

Lily e Vanessa mi lanciano la medesima espressione omicida.

«Domanda sbagliata» replica Vanessa a denti stretti.

«Ness?» interviene Charlotte, prendendo il mio posto accanto a lei. «So che fa male, ma ti prometto che, se fai come ti dico, tra pochissimo sarà tutto finito e potrai vedere la tua bambina. D'accordo?»

«Ok» dice Vanessa, a corto di fiato, «Cosa devo fare?»

«Quando senti arrivare lo stimolo, spingi più forte che puoi. E tu» dice a me, «Restale vicino e tienile la mano. Adesso, Ness, cerca di respirare regolarmente, ok?»

I minuti si susseguono e Vanessa mi stritola la mano, urlando in un modo che mi fa venire voglia da una parte di scappare, dall'altra di starle vicino e aiutarla a far passare tutto in fretta. Per fortuna, do ascolto alla seconda parte.

Vanessa spinge un'ultima volta, incoraggiata da Charlotte, urla forte, mi stringe la mano, inarca la schiena... e poi Charlie, sorridendo, solleva una creatura minuscola e rossastra, che emette uno strillo acuto.

La nostra bambina.

«Vuoi tagliare il cordone ombelicale?» mi propone Charlie, ma, vedendomi impallidire quasi al punto da svenire, decide di lasciare che se ne occupi l'ostetrica.

Poi allunga a Vanessa, che si sta asciugando le lacrime dal viso, la bambina, avvolta in un piccolo asciugamano rosa. Ness allunga le braccia, tremando leggermente, e Charlotte le lascia la creaturina, che smette di piangere.

Gli occhi di Vanessa cercano i miei, e guardiamo insieme quella cosina minuscola e così tremendamente vera, adesso. È qui, è qui davvero, ed è semplicemente...

«Bellissima» sussurro, quasi senza rendermene conto, mentre sfioro, quasi con timore, una delle manine tiepide della bambina.

Vanessa sorride, radiosa nonostante la stanchezza.

«Lo so» dice, «Ha preso tutto da me.»

Poi ride, e ci ritroviamo di nuovo incantati ad ammirare nostra figlia.

Nostra figlia.

«Hai pensato a come chiamarla?» chiedo piano a Vanessa.

«Dawn» risponde, sicura.

«Dawn» ripeto, assaporando il nome. «Alba. Sì, mi piace. È perfetto.»

«Vorresti aggiungere qualcosa? Un secondo nome?» mi domanda Vanessa dopo una breve esitazione.

So che è una grande responsabilità. Ci penso per un momento.

«Emma» rispondo. «Come mia nonna. Ti piace?»

«Dawn Emma Gray» mormora Vanessa. «Sì, è davvero perfetto.»

Spalanco gli occhi. Non pensavo che avrebbe deciso di darle il mio cognome, dopo il litigio. Anche se ora sembra passata un'eternità, e fatico persino a ricordarmi perchè avevamo litigato. Tutto ciò che è successo prima della nascita della bambina -di Dawn- ha perso d'importanza.

Guardo Vanessa e mi chino per baciarla delicatamente sulle labbra.

«Ti amo» sussurro. «Mi dispiace per tutto quello che ho fatto. Sappi che però non potrei mai, mai pentirmi di noi due... tutto ci ha portati a questo momento, a questa bambina.»

«Ti amo anch'io. Non potrei chiedere un padre migliore per lei.»

Charlotte rientra e ci interrompe, scusandosi, per fare alla bambina i primi test e accertarsi che sia tutto a posto. E nessuno si stupisce troppo quando, innervosita dal cambio di posizione, Dawn emette uno strillo di disapprovazione e dà a Charlotte una leggera scossa elettrica.

«Oh, è tutta suo padre» commenta Charlie, divertita.

«Bellissima?»

«In realtà intendevo dire qualcos'altro, ma se preferisci pensarla così...»

Charlotte esce con la bambina e l'ostetrica mi caccia via dalla stanza, borbottando parole spaventose come placenta: sento di non dover ascoltare altro.

Faccio l'occhiolino a Vanessa ed esco. Poco prima di ritrovarmi in corridoio, mi rendo conto di una cosa.

In qualche momento tra la nascita di Dawn e il mio bacio con Vanessa, Lily dev'essersene andata.

E io non me ne sono neanche accorto.

Per un istante mi preoccupo per lei, ma poi mi ritrovo assalito da Jon, Damien e Arthur, che si informano sulla bimba e sulla mamma, e tutto il resto mi passa di mente.

Dopotutto, sono appena diventato padre.

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Capitolo 23
*** Run ***




Note: come potrete notare quando sarete arrivati alla fine, il capitolo e la storia si concludono con quello che era il prologo.

Seguirà ancora un epilogo, tra breve, che spiegherà anche tutto ciò che in questo capitolo non è stato chiarito. E a seguire, la one-shot promessa.

A presto!

 

~RUN~

 

[Jonathan]

 

Io e Charlotte partiamo non appena lei si è fatta dare un'occhiata.

Sapere che è stata picchiata è stato un colpo tremendo, mi sono sentito in colpa per non aver deciso di andare via con lei... poi, però, ho pensato che, se l'avessi fatto, forse gli altri non sarebbero riusciti a compiere un salvataggio come quello che io e Blake abbiamo messo in piedi (con grande stile, oserei dire).

In ogni caso, ora siamo pronti per farci ricevere dal Presidente degli Stati Uniti.

Il viaggio in taxi procede nel silenzio più assoluto; siamo immersi nei nostri pensieri.

I miei occhi, ogni tanto, guizzano verso Charlotte. Non posso fare a meno di ricordare il momento in cui sono entrato nella sua cella e lei mi ha gettato le braccia al collo: ero così sollevato, così incredibilmente felice di rivederla che, per un momento, ho dimenticato tutto il resto.

Eppure...

Eppure, adesso, questo ricordo passa in secondo piano; prepotente, se ne riaffaccia un altro.

«Ho litigato con Arthur. Continuava ad incolpare me e poi … Eravamo sconvolti...»

Stringo istintivamente i pugni al ricordo. Ero così furioso...

Dopo la morte di Jack, tutto sembrava aver perso di significato.

Charlotte e gli altri mi ripetevano che io non avevo colpe, ma ho sempre saputo che era esattamente il contrario.

Dio, se ripenso alla telefonata con mia madre...

Un nodo mi stringe di nuovo la gola, perciò cerco di allontanare il pensiero dalla mente.

Quando almeno qualcosa, per quanto piccolo e di minima importanza rispetto all'enormità della morte di Jack, sembrava essere tornato al suo posto -Charlotte tra le mie braccia, finalmente- anche quello mi è stato bruscamente sottratto.

«Jon?»

La voce di Charlotte mi richiama alla realtà. Alzo gli occhi.

«Sì?»

«Mi dispiace. Per tutto.»

La osservo per un istante, quindi annuisco lentamente. Non ho la forza, né il coraggio, di dire nulla.

 

Il taxi si ferma a pochi metri dalla Casa Bianca. Io e Charlotte, dopo aver pagato, scendiamo e ci avviamo verso l'ingresso.

Dobbiamo informare il Presidente che i terroristi stanno pianificando un attentato che avrà luogo tra poche ore, con lo scopo di impadronirsi della formula che darebbe a tutti l'accesso ai superpoteri.

Insomma, routine quotidiana.

Siamo quasi arrivati, quando qualcuno ci chiama per nome.

Ci voltiamo, ma abbiamo riconosciuto entrambi il tono freddo, che ci è fin troppo famigliare.

Ivan Vahel.

 

[Damien]

 

Arthur si sta facendo medicare le ustioni. I medici mi hanno impedito di restare nella sua stanza, perciò ho deciso di fare un giro a trovare Vanessa, che però stava dormendo.

Allora ho fatto due passi nel reparto maternità, e ora eccomi qui davanti alla nursery. I miei occhi indugiano sulla targhetta identificativa di uno dei lettini: Dawn Emma Gray.

È minuscola e avvolta in una copertina rosa; dorme con le manine strette a pugno.

Sono semplicemente esausto. Il dolore delle percosse che ho subito non è ancora sparito, nonostante gli antidolorifici che mi hanno somministrato al pronto soccorso. Ho bisogno di riposare.

Do la colpa alla stanchezza per i pensieri strani che mi aleggiano nella mente.

Guardando Dawn, infatti, una parte di me si rende conto che io non proverò mai questa esperienza -diventare padre- con la persona che amo. C'è una certa tristezza di fondo, in questo, qualcosa che non riesco bene ad afferrare.

«Damien?»

Mi riscuoto e mi volto. Arthur è comparso alle mie spalle, tanto inaspettatamente che per un istante penso si sia teletrasportato -ma poi mi ricordo che non può più farlo, perchè per salvarmi la vita ha perso i suoi poteri.

«Ehi. Tutto a posto?»

«Sì... a parte il terzo grado che ho subito. I medici volevano sapere come mi ero procurato quelle ustioni, e la spiegazione “sono stato rapito da una banda di terroristi” non li ha convinti.»

Sorrido.

«Sì, posso immaginarlo.»

Art mi raggiunge e, senza pensarci, mi stringe in un abbraccio. Colto di sorpresa, ricambio la stretta. Gesti di affetto in pubblico non sono la norma, per lui, perciò mi preoccupo un po'. Ma lui parla prima che io possa chiedergli quale sia il problema.

«Ho avuto paura per te» sussurra sulla mia spalla. «Quando eravamo in quella cella... prima ero spaventato per me, quando hanno usato quell'attizzatoio. Poi, quando hanno preso te...» Si interrompe, la sua stretta aumenta. «Avrei voluto parlare. Se avessero continuato ancora, penso che lo avrei fatto. Non potevo rischiare di nuovo di perderti.»

Resto in silenzio per un momento, cercando le parole giuste per rispondere.

Vorrei fare un discorso serio, esprimere con esattezza tutto quello che ho provato, il terrore quando ho visto quello che gli avevano fatto, il senso di colpa quando ho capito che aveva perso i poteri per me... eppure non riesco a dire nulla di tutto questo.

Le parole giuste che riesco a dire sono solo due.

«Ti amo» mormoro, ancora stretto a lui.

Arthur sorride debolmente e si allontana un po', solo per riuscire a posare le labbra sulle mie, piano.

«Ti amo anch'io» replica in un soffio.

Poi mi bacia e perdo la cognizione del tempo, almeno finché qualcosa non mi distrae.

Davanti ai miei occhi, superate le barriere che ho eretto nella mia mente, si staglia una visione chiarissima.

Vedo tre volti che conosco. Due sono apparentemente privi di sensi: Jonathan e Charlotte. Un terzo, invece, li osserva con un certo compiacimento prima di allontanarsi rapidamente.

Sussulto e mi allontano da Arthur.

«Oh, no» gemo. «Chiama Blake. Dobbiamo andare.»

 

[Arthur]

 

Io, Damien e Blake saltiamo su un taxi fuori dall'ospedale a velocità supersonica.

«Sei sicuro che siano lì?» chiede Blake, teso.

«Sì. Ho riconosciuto i pavimenti e la tinta alle pareti. Sono alla Casa Bianca» replica Damien.

«Privi di sensi?»

«Sì.»

«E con loro c'era Vahel?»

«Blake, ripeterlo non aiuta.»

«Scusa. Continuo a non capire... mi sfugge qualcosa.»

«In realtà è piuttosto ovvio» ribatto, gli occhi chiusi, i palmi premuti sulle palpebre, combattendo la sensazione di intorpidimento causata dai farmaci antidolorifici.

«Illuminaci, allora» sbuffa Blake, piccato.

«Vahel è d'accordo con i terroristi, giusto? Ma il Presidente crede che sia dalla sua parte.»

«E quindi?»

«Quindi deve aver impedito -o impedirà, a seconda di quando si verifica la visione di Damien- a Charlotte e Jonathan di avvertire il Presidente dell'imminente attacco terroristico. Il fatto che loro siano alla Casa Bianca significa probabilmente che Vahel deve aver incolpato loro, anzi, noi di qualcosa. Sai cosa? Credo che abbia detto al Presidente che noi mutanti stavamo organizzando un attentato contro di lui.»

«Ma... quindi l'attentato avverrà?»

«Sì, a meno che non riusciamo a contattare il Presidente e a convincerlo ad avvertire la CIA... O almeno ad evacuare la Casa Bianca.»

«E se l'attentato riuscisse» conclude Damien, comprendendo le conseguenze, «Ne verremmo incolpati noi, non di certo Vahel.»

«Già. Un buon piano, eh?»

Il taxi si ferma ad un paio di isolati dalla Casa Bianca. Paghiamo e scendiamo.

Scommetto che Vahel ha spie ovunque; ci individuerà con facilità estrema. Se solo ci fosse Vanessa, con la sua invisibiltà... o se io potessi ancora teletrasportarmi...

Mentre discutiamo sul da farsi -spostandoci verso l'isolato successivo per non dare nell'occhio- mi viene un'idea improvvisa.

Spalanco gli occhi.

«Damien!» esclamo.

Lui alza gli occhi.

«Cosa?»

«Stavo pensando... ti abbiamo impiantato i miei poteri, giusto? Per farti guarire.»

«Sì, e allora?»

«Quando i poteri sono stati trapiantati a Lily, lei li ha potuti usare.»

Damien tace per un istante, processando l'informazione, quindi scuote la testa.

«Io non sono invulnerabile» replica. «Hai visto cos'hanno fatto i terroristi. Probabilmente ho consumato tutto il potere che mi hai trasmesso per guarire.»

«Oh.»

Mi sgonfio, realizzando che ha ragione. Una possibilità andata in fumo.

«Forse potremmo entrare con...» comincia Damien, ma viene interrotto da una voce famigliare.

Quando ci voltiamo di scatto, è già troppo tardi.

Il proiettile schizza verso di me e mi colpisce al collo. Capisco subito di cosa si tratta: è un ago, probabilmente carico di Pentothal.

Vahel deve avermi colpito per primo ritenendomi il più pericoloso. Per un istante quasi mi aspetto di sentire gli ormai noti effetti collaterali, ma realizzo in fretta che non succederà proprio nulla. Non ho più poteri da neutralizzare.

Nel frattempo, Vahel ha sparato in direzione di Blake, ma questi ha schivato il proiettile e sta tentando di centrare l'avversario con una scarica di energia.

«Occhio a destra, Blake!» urla Damien, concentrato sul prevedere l'immediato futuro, e impedisce nuovamente a Vahel di centrare il bersaglio.

Damien mi fa un cenno eloquente e capisco subito cosa dovrei fare. Esito per un istante, quindi mi lancio di corsa verso la Casa Bianca.

 

[Blake]

 

Quando finalmente, grazie all'aiuto di Damien, riesco a centrare Vahel con una scarica di energia degna di questo nome, lui salta in aria e atterra qualche metro più in là, sul marciapiede, privo di sensi.

«Andiamo» dico a Damien, seguendo il percorso intrapreso poco prima da Arthur.

Per entrare nella Casa Bianca devo far saltare in aria altre cinque guardie.

Mi rendo conto che questo farà una pessima impressione sul Presidente, e che le possibilità che creda a quello che gli racconteremo sono praticamente nulle... ma almeno avremo fatto tutto il possibile per avvisarlo.

In fondo, sono più di tre anni che lotto per salvare il Presidente, sia egli quello precedente o quello attuale, e non mi darò per vinto ora.

Anche se gli spari mettono a dura prova questa convinzione.

«Codice rosso! Codice rosso! Attacco all'interno!»

«Beh, se il nostro obiettivo era di far evacuare la Casa Bianca, credo che ci siamo riusciti, Blake» commenta Damien, senza fiato, correndo accanto a me.

Mi sfugge un sorriso esausto, ma in effetti ha ragione.

Acceleriamo, mentre faccio saltare le guardie che si mettono in mezzo con tutta l'energia che mi resta. Fatico a sentirmi le gambe, ormai, tanto sono stanco, ma è necessario arrivare allo Studio Ovale.

Gli spari risuonano sempre più forti, sempre più vicini, e il mio cuore martella all'impazzata.

Manca così poco, così poco...

Poi sento l'urlo soffocato.

Subito non ci faccio troppo caso, ma mi accorgo che Damien si ferma immediatamente.

Al primo segue un altro urlo, stavolta femminile e distintamente riconoscibile.

Charlotte.

Io e Damien ripartiamo di corsa. Li vediamo nel corridoio successivo.

Jonathan è in forma di felino bianco -una delle sue preferite, penso stupidamente- e ringhia con ferocia, le zanne insanguinate scoperte in un chiarissimo gesto di minaccia.

Le guardie si stanno avvicinando, ma anche loro temono la furia del predatore infuriato.

Charlotte è inginocchiata a terra, le mani sporche di sangue, il respiro affannoso. Per un istante penso che dev'essere ferita -ma poi mi sposto di un passo verso di loro e vedo.

E capisco.

Sento il grido straziato di Damien, che mi supera di corsa e si butta a terra accanto a Charlotte.

«No» lo sento ansimare.

Charlotte mormora qualcosa, la voce rotta, ma non la sto ascoltando.

Osservo le guardie che si fanno sempre più vicine, le pistole cariche e pronte a far fuoco. Mi affianco a Jonathan e allungo le mani, pronto ad impedire loro di fare altro male, ma so che abbiamo ben poche possibilità. Almeno finché il corridoio non prende fuoco.

Lily.

Lei si fa largo tra le fiamme come se niente fosse, mentre le guardie indietreggiano gridando.

Prende atto della scena con gli occhi stretti e si morde il labbro inferiore con forza. Mi guarda.

«Lo Studio Ovale è alle vostre spalle. Tra poco le guardie spegneranno l'incendio» dice, cercando evidentemente di far sì che la sua voce non si spezzi.

So che l'immagine che abbiamo davanti agli occhi ci resterà impressa a fuoco nella mente per lungo tempo. Sono esausto, e il dolore che provo brucia nelle mie vene come l'incendio che divampa a pochi metri da noi.

Arthur è disteso a terra, gli occhi sbarrati, una pallottola nel petto.

Charlotte piange, Damien è pietrificato e Lily mi offre una possibilità.

Capisco ciò che quel gesto sottintende.

Facciamo in modo che non sia invano.

 


Vorrei poter piangere.
Vorrei poter cadere in ginocchio e crollare.
Vorrei averne il tempo.
Ma l’orologio scandisce i secondi inesorabilmente, e di tempo non ne abbiamo più.
E allora sono io, ancora una volta, a prendere il comando e a riscuotere gli altri.
Non c’è più nulla che possiamo fare, qui, ma poco lontano il nostro intervento potrebbe salvare un’altra persona. Salvare il nostro Paese.
So che capiranno.
So che lui capisce, quando si alza e si asciuga le lacrime dal viso, e annuisce appena.
E allora corriamo –veloci come la luce, veloci come la morte, perché il nostro futuro dipende da questo.
Anche se adesso è difficile pensare che possa esistere un futuro, una casa in cui tornare se mai tutto questo potrà finire.
Alla fine, sono stanco anch’io.

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Capitolo 24
*** Even heroes ***


Eccomi qui a postare l'epilogo di questa storia.

Che dire? Queen Victoria's College è stato un lungo percorso per me, durato oltre un anno e mezzo. La soddisfazione nel postare l'ultimo capitolo è pari solo alla malinconia che mi lascia in bocca. Forse è per questo che non sono riuscita a dare al tutto una conclusione positiva come era inizialmente nelle mie intenzioni.

Comunque sia, spero che questo epilogo vi piaccia tanto quanto è piaciuto a me scriverlo, e se è troppo amaro perdonatemi, ma è venuto fuori così!

Vorrei concludere con un grazie a tutti coloro che hanno continuato fedelmente a leggere e, soprattutto, a recensire.

Un ringraziamento speciale, perciò, a Felix White, il mio recensore più fedele in assoluto; a Yellow Daffodil; a Il Saggio Trent; a Priscilla.

Come promesso, posterò presto una one-shot a rating rosso su Arthur e Damien; a parte ciò, questa è davvero la fine della storia. Credo che i miei personaggi abbiano detto più o meno tutto quello che avevano da dire. Con ciò non escludo una possibile aggiunta di one-shot o di missing moments, però! Vedremo.

Ancora grazie a tutti voi!

 

adamantina

 

P.S.: Titolo e citazione iniziale, come al solito, sono presi dalla canzone “Superman” dei Five for Fighting.



 

 

~EVEN HEROES~

 

 

Even heroes have the right to bleed”

 

 

[Vanessa]

 

Quando la musica comincia, ci voltiamo tutti verso l'ingresso della chiesa.

La marcia nuziale si eleva con solennità. Il mio sguardo corre per un istante a Jonathan, in trepidante attesa all'altare; si ferma per un momento sui suoi testimoni, Blake e Damien; scivola su Lily, qui accanto a me nel ruolo di testimone per la sposa.

Alla fine mi decido ad ammirare Charlotte.

È splendida nel suo abito bianco senza spalline, con un corpetto in raso di seta finemente decorato con cristalli che formano motivi floreali ripresi anche sull'ampia gonna in tulle. I capelli biondi sono raccolti a formare un elegante chignon che regge un lungo velo bianco, il trucco è leggero e appena visibile.

I suoi occhi brillano per la felicità.

La cerimonia comincia e noi ci sediamo. Con una mano, quasi distrattamente, ogni tanto sposto avanti e indietro il passeggino dove dorme Dawn, accoccolata su se stessa sul sedile reclinabile abbassato.

La cerimonia dura a lungo, ma alla fine giungiamo alla parte fondamentale.

Quando sia Jonathan che Charlotte hanno pronunciato le loro promesse e il sacerdote li dichiara ufficialmente sposati, il mio sguardo incrocia per un istante quello di Blake.

Lui mi sorride e mi fa l'occhiolino e io guardo istintivamente la mia mano, dove spicca un anello meraviglioso che ho ricevuto appena la settimana scorsa.

La cerimonia si conclude e ci dirigiamo verso il ristorante.

Gli invitati chiacchierano allegramente tra loro.

La primavera è sbocciata in tutta la sua bellezza e i fiori profumano lo splendido giardino dove si tiene il pranzo.

Sono seduta al tavolo con Blake, Lily e Damien, oltre ad altra gente che non conosco, probabilmente ex compagni di università di Charlotte o magari colleghi di lavoro suoi o di Jonathan.

Parlo soprattutto con Blake, perchè non vedo Lily da oltre sei mesi e francamente non saprei cosa dirle. In quanto a Damien... beh, è un caso a parte.

Quando Dawn si rifiuta di bere dal suo biberon e si mette a strillare, mi trovo costretta ad allontanarmi dal tavolo, cullandola tra le mie braccia per cercare di calmarla.

Percorro il giardino in lungo e in largo, finché lei non smette di singhiozzare.

«Hai proprio un talento naturale» commenta una voce familiare.

Mi volto verso Damien.

«Oh, non ti avevo sentito arrivare.»

Damien mi raggiunge e Dawn, riconoscendolo, inizia ad agitarsi.

«Ciao, Dawnie-bella» la saluta lui con un piccolo sorriso.

«Credo che voglia che lo zio la tenga in braccio» commento, e gliela affido senza troppi rimpianti.

«Accidenti, è cresciuta dall'ultima volta!»

«Si sente, eh?»

Damien annuisce appena mentre torce un braccio per riuscire a metterle in bocca il biberon di latte tiepido. Ci sediamo su una panchina e il silenzio cala impietoso.

«Ci sono novità?» chiedo alla fine, imbarazzata.

«Ieri mi sono trasferito definitivamente da Cape Coral a New York» annuncia. «Inizio il nuovo lavoro lunedì.»

«Bene! Cos'hai trovato, alla fine?»

«È un posto in una piccola stazione TV» replica Damien. Sembra vagamente imbarazzato. «Ehm, hanno visto Mutant Wars, qualche mese fa, e mi hanno contattato per fornirgli...»

Si interrompe, arrossendo, e io intuisco cosa sta cercando di dire.

«Non dirmi che farai le previsioni del tempo?»

Al silenzio rivelatore di Damien, scoppio a ridere senza riuscire a fermarmi. Riesco perfino a strappare una mezza risatina a Damien.

«Si fa quel che si può» annuncia, cercando di suonare serio.

«Beh, almeno vedere il futuro si rivelerà utile» dico, appena prima di riprendere a ridere.

Dopo un po', mi calmo e mi asciugo le lacrime.

«E tu? Novità?» mi chiede Damien.

Esito prima di allungare la mano verso di lui. Damien osserva l'anello e sorride.

«Blake si è deciso, finalmente» osserva. «Sono felice per voi.»

«Sì, è meraviglioso» concordo. «Pare che dovrai fare da testimone un'altra volta.»

Damien annuisce, ma vedo che la luce allegra nei suoi occhi è scomparsa. So che è già tanto che sia riuscita a farlo sorridere in primo luogo.

Damien guarda Dawn che, sazia, si rigira un po' prima di chiudere gli occhi e addormentarsi tra le sue braccia.

«Come stai, Damien? Sul serio, intendo» mormoro quando capisco che il momento delle risate non può continuare oltre.

Lui si stringe nelle spalle, continuando a guardare Dawn.

«Sto bene» replica, rigido. «Non devi preoccuparti per me.»

«Io mi preoccuperò sempre per te, Dam.»

«Non ne vale la pena. Dovresti pensare a tua figlia e al tuo futuro marito. Loro hanno bisogno che tu ti preoccupi per loro.»

«Anche tu ne hai bisogno.»

«No, non è vero.»

Rinuncio ad insistere. Damien depone Dawn di nuovo tra le mie braccia e si alza in piedi.

«Rinnova le mie congratulazioni a Charlotte e Jonathan» dice.

«Damien...»

«Ci sentiamo stasera» dice lui, quindi si allontana.

Rimango da sola e lotto per scacciare la tristezza che mi ha pervasa all'improvviso, quasi inspiegabile.

Osservo il visetto rilassato della mia bambina e mi sforzo di tornare a sorridere, quindi mi alzo e torno verso la festa, pensando con una certa impazienza che il prossimo matrimonio, finalmente, sarà il mio.

 

[Lily]

 

Il pranzo è finito e gli invitati stanno ballando, oppure chiacchierando a piccoli gruppi. Io, com'era prevedibile, sono rimasta sola.

Non che questo mi abbia mai fermata: infatti mi avvicino alla pista da ballo e ben presto catturo l'attenzione di un bel ragazzo con i capelli scuri che mi invita a ballare.

Il vino che ho bevuto mi fa girare un po' la testa, ma mi diverto, rido, chiacchiero con questo sconosciuto carino che, deduco da come mi guarda, è stato attirato più che altro dalla scollatura abbastanza profonda del mio vestito rosso. Beh, poco male.

Dopo qualche minuto, una mano mi si posa sulla spalla. Mi volto per vedere un volto conosciuto.

«Posso avere questo ballo, signorina?» mi propone allegramente Blake.

Per un momento penso di rispondergli di no, poi alzo le spalle e annuisco.

La musica è lenta e tranquilla e Blake mi mette le mani sulla vita. Con un ghigno, gliele sposto dove dovrebbero stare.

«Pare che tu non sia un grande ballerino, Gray» lo schernisco.

«Devo parlarti, Lily» dice lui, serio.

Sospiro.

«Che meraviglia» commento, sarcastica.

Blake mi osserva con attenzione.

«Io e Vanessa ci sposeremo presto» mi annuncia alla fine.

Sollevo un sopracciglio.

«Congratulazioni» replico, atona. Blake tace. «Beh, è tutto qui quello che volevi dirmi?»

«Lily...» Blake si morde il labbro inferiore prima di continuare. «So che l'ultima volta che abbiamo parlato sul serio ti sei scusata. Però io ci ho pensato e... credo che tu non fossi l'unica a doverlo fare.»

Inclino leggermente la testa.

«Ah, è così?» il mio tono è un po' più acido di quanto vorrei, ma Blake sembra non farci caso.

«Sì. Insomma, è vero che anche tu avevi la tua parte di colpa... ma io non mi sono comportato correttamente. Né nei tuoi confronti, né in quelli di Vanessa. Volevo chiederti scusa per questo.» Fa una breve pausa. «Da una parte, vorrei che le cose fossero andate diversamente. Credo che avremmo potuto sistemare il casino successo dopo che sei andata via con Vahel... ma d'altra parte, tutta quella serie di eventi ha portato alla nascita di Dawn, che è la cosa migliore che mi sia mai capitata.»

Annuisco, rigida.

«Sì, lo capisco, e... va bene così, Blake. Quel che è stato è stato.»

Lui sorride, apparentemente sollevato.

«Bene. Sono contento che abbiamo chiarito questa cosa. Ma quello che volevo chiederti era un'altra cosa... Damien sarà il padrino di battesimo di Dawn. Ti piacerebbe essere la sua madrina?»

I miei occhi si spalancano.

«Dici sul serio? E... Vanessa è d'accordo?»

«Certo. Lo ha proposto lei.»

Sorrido sinceramente per la prima volta da tanto tempo.

«Sarà un piacere per me.»

 

[Charlotte]

 

Gli invitati ci salutano e, un po' alla volta, iniziano ad andare via.

Sorrido e ricambio i saluti, accetto con un grazie le congratulazioni.

Alla fine restiamo solo io e Jon. Mio marito.

Dio, è ancora così difficile da credere.

Dopo tutto quello che è successo, il dolore che abbiamo provato, gli sbagli che abbiamo fatto, gli anni in cui siamo stati separati, alla fine ce l'abbiamo fatta. Siamo sposati.

Mi sfugge un sorriso e Jon lo ricambia.

«Sei felice?» mi chiede.

Gli allaccio le braccia al collo e appoggio la fronte contro la sua.

«Come mai prima d'ora.»

 

[Damien]

 

L'aereo è in volo da pochi minuti, appena decollato da Baltimora e diretto verso New York. È notte inoltrata, sono quasi le due, ma di dormire non se ne parla affatto. D'altra parte, ultimamente non riesco a chiudere occhio se non prendo qualche sonnifero.

Le mie dita tamburellano leggermente sul vetro del finestrino. Fuori non si vede nulla -nè nuvole, né stelle.

Il silenzio è quasi totale, eccezion fatta per la musica che giunge attutita dagli auricolari della ragazza che dorme sul sedile accanto al mio.

Mi sfugge un sospiro.

Odio questo silenzio. Lascia troppo spazio alla mia mente e le permette di vagare tra pensieri e ricordi, la cosa peggiore che potrebbe fare.

Eppure... c'è una strana, stupida, malinconica dolcezza nel chiudere gli occhi e abbandonarsi a ricordi dolceamari che, lo so già, mi faranno stare peggio più tardi.

Ma non riesco ad impedirmelo.

Ricordo...

 

La prima volta che ci siamo visti, il primo giorno di scuola al Queen Victoria's College, a soli dieci anni di età. Io ero nervoso, teso, già affetto da una bruciante nostalgia di casa; lui vagamente annoiato e infastidito.

 

La prima volta che abbiamo parlato, quella sera stessa. Le presentazioni formali e un po' imbarazzate, le dimostrazioni, di nascosto dagli insegnanti, dei nostri poteri. La sua risatina di disprezzo quando Charlotte ha recitato un intero brano della Divina Commedia a memoria, in lingua originale; il suo sguardo interessato quando ho affermato di vedere nel futuro.

 

La prima volta che abbiamo riso insieme, per uno scherzo abbastanza stupido ai danni di Vanessa che l'aveva lasciata a strillare contro di noi, i capelli impiastricciati di miele e farina, per almeno due ore.

 

La prima volta che abbiamo parlato seriamente, mi ha descritto il suo futuro nei minimi particolari. Se ne sarebbe andato dal Queen Victoria's College, naturalmente, e, anche se non sapeva ancora dove sarebbe andato di preciso, sicuramente avrebbe usato il suo potere a fin di bene. Sarebbe diventato anche famoso, magari -o forse avrebbe avuto un'identità segreta, chissà?- e, tra l'altro, avrebbe guadagnato un sacco di soldi.

E in tutto questo, io sarei stato lì con lui.

 

La prima volta che mi ha detto che ero il suo migliore amico, quando avevamo forse tredici anni. Gli era appena arrivata una telefonata da parte dei suoi genitori che lo informava che non sarebbero potuti venirlo a prendere quell'estate, perchè avevano organizzato una vacanza in Europa con degli amici, e che perciò avrebbe dovuto passare l'estate al Queen Victoria's. Art è salito in camera, ha afferrato il costoso portatile che i suoi gli avevano regalato per il compleanno e lo ha scagliato contro il muro, furioso. Io l'ho raggiunto e ho aspettato in silenzio che la rabbia sbollisse, senza fare nulla per impedirgli di distruggere la stanza.

Alla fine, quando si è calmato e si è lasciato scivolare per terra, con il respiro ancora affannoso, mi sono seduto accanto a lui e gli ho proposto di passare l'estate da me.

Mi ha guardato con gli occhi spalancati.

Grazie, Dam. Sei il mio migliore amico.

 

La prima volta che sono stato geloso di lui avevamo quattordici anni. Era un pomeriggio come tutti gli altri, in cui avrei dovuto studiare ma non avevo voglia di farlo, il sole primaverile che mi distoglieva da ogni ottimo proposito. Avevo deciso di cercare Art per convincerlo a fare un giro in giardino, o magari a teletrasportarsi in città e portare qui qualche nuovo gioco in scatola. Però, quando sono uscito dalla scuola, l'ho visto su una panchina dietro ad un albero, in giardino, intento a baciare Lily.

Non avevo idea della ragione per cui mi avesse dato tanto fastidio; fatto sta che era stato il primo segnale d'allarme. Poi le cose erano precipitate.

 

La prima volta che ho capito di essere innamorato di lui è stato poche settimane più tardi. Non è successo nessun episodio particolare -niente di straordinario, insomma. Semplicemente, eravamo seduti in riva al laghetto nel giardino della scuola, lanciando pezzi di pane ai pesci e osservando come risalivano in superficie per afferrarli. Era quasi estate, mancava poco alle vacanze. Ho alzato gli occhi su Art, che mi stava raccontando con entusiasmo di come avesse battuto Blake a calcetto la sera prima, e il sole gli illuminava i capelli neri, e sorrideva in un modo che, non so come né perchè, mi ha semplicemente tolto il fiato.

Sono innamorato di lui, ho realizzato in un misto di stupore e shock.

Poi, quando lui mi ha lanciato un pezzo di pane e mi ha accusato di non aver ascoltato una parola di quello che aveva detto, sono tornato in me. Ma quella sensazione non se n'è mai più andata.

 

La prima volta che ci siamo detti addio avevamo quindici anni. Art aveva elaborato il suo piano già da settimane, ma non pensavo che l'avrebbe veramente messo in pratica. Poi, un pomeriggio, mi ha preso da parte; siamo usciti in giardino, abbiamo camminato in silenzio per un po'... e alla fine me l'ha detto. Parto domani.

Ho lasciato che mi spiegasse che non resisteva più, che il Queen Victoria's era diventato una prigione, che a Las Vegas lo aspettavano fama e soldi e successo e ragazze, che avrebbe davvero voluto che io potessi andare con lui, ma che non poteva teletrasportare altre persone con sé e che comunque mi avrebbe aspettato.

Ho risposto con frasi di circostanza.

Fai quello che devi fare.

Lo capisco.

Non voglio esserti d'intralcio.

Alla fine è sceso il silenzio.

Mi mancherai, ha aggiunto alla fine, come per un ripensamento.

Io avevo risposto anche tu e mi ero tenuto in gola parole d'amore e di sofferenza che non avevano voluto lasciare la mia bocca.

Portami con te.

Non andartene.

Ti amo.

 

La prima volta che l'ho rivisto, tre anni dopo, eravamo in un casinò di Las Vegas. Mi ha squadrato attraverso un tavolo da poker e ha giocato sporco. L'ho battuto nascondendo le mie carte e giocando d'astuzia e di fortuna; ho cercato di ingannarlo senza credere davvero che avrebbe potuto funzionare. La mia gola si è chiusa quando ho visto l'espressione dura nei suoi occhi. Mi ha iniettato il Pentothal senza sapere cosa fosse... non gli ho mai chiesto se pensasse che si trattava di un veleno mortale. Ha creduto, almeno per un momento, che io avessi davvero intenzione di ucciderlo?

 

La prima volta che ci siamo baciati, mi aveva appena torturato con un coltello ben affilato. La mia testa girava per la perdita di sangue, e lui era così vicino e così bello e così pungente. Gli ho confessato quello che voleva sapere e l'ho convinto che la cosa giusta da fare era consegnarsi all'Area 51. Bene, allora. Puoi anche prendermi prigioniero, se vuoi.

E poi, l'impulso -stupido, forse; dettato dalla stanchezza, dal dolore e dal sollievo- di allungarmi e posare le labbra sulle sue.

Una breve esitazione... e poi ha risposto. E la sua espressione sconcertata quando alla fine si è allontanato...

Era lui che mi aveva preso prigioniero, solo che nessuno di noi due ancora lo sapeva.

 

La prima volta che abbiamo fatto l'amore, eravamo nel nostro appartamento a Cape Coral. Eravamo tesi, imbarazzati, eppure ci siamo cercati e abbiamo imparato a conoscerci anche sotto quell'aspetto.

Ti amo.

Le parole trattenute tanto a lungo che finalmente siamo stati liberi di dire.

Ti amo...

 

La prima volta che mi sono sentito male, Art ci ha teletrasportati entrambi all'ospedale. Era più spaventato di me, probabilmente.

Sono stato ricoverato e sottoposto ad una serie di esami. Uno di questi era particolarmente invasivo; l'infermiera gli ha detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto restare accanto a suo fratello. E Art le ha risposto Non è mio fratello, è il mio ragazzo, e io, nonostante quell'esame fastidioso, mi sono sentito la persona più fortunata del mondo.

 

La prima volta che ho visto Art piangere è stata anche l'unica, ed è avvenuto quando Charlotte ci ha comunicato che avevo l'AIDS. Mentre io cercavo di elaborare quella parola, mentre cercavo un significato in tutto quello che mi stava succedendo senza che avessi la possibilità di impedirlo, ho visto le lacrime che Arthur lottava per scacciare. Si è voltato per far sì che non lo vedessi. Le mie mani si sono posate sulle sue spalle.

Farò qualunque cosa...qualunque, hai capito?

Ha mantenuto la promessa.

 

La prima volta che abbiamo litigato su qualcosa di veramente serio è stato al ritorno di Art dal Queen Victoria's, dove era stato per farsi prelevare i poteri da Vahel. Io avevo deciso di non prendere più medicine e lui non riusciva ad accettarlo; voleva far ripetere il prelievo a Charlotte, ma io mi sono rifiutato.

Non puoi impedirmi di farlo.

Posso rifiutarmi di accettare.

 

La prima volta che Art mi ha tradito è stata del tutto inaspettata.

Charlotte.

Se ci penso, ancora fatico a crederci.

Stavo così male... Lei ha detto che saresti morto comunque -avrei voluto ucciderla.

Il mio tentativo di sminuire il tutto, di non farlo stare male. Eppure, il dolore che ho provato quando ho capito che la sua vita sarebbe stata così, d'ora in poi -libera.

Se solo avessi saputo...

 

L'ultima volta che siamo rimasti soli, Art mi ha parlato sottovoce di quanto avesse avuto paura per me, di come avrebbe parlato con i terroristi pur di non permettere loro di farmi ancora del male.

Io non ho saputo dirgli nulla se non ti amo.

Ti amo.

Le ultime parole che ci siamo detti faccia a faccia.

 

L'ultima volta che ho sentito la sua voce è stato in un grido che ho riconosciuto immediatamente. Quando ho visto il suo corpo a terra, ormai privo di vita, credo di aver urlato. Non ne sono certo, i ricordi sono confusi.

So che ho cercato di trovare un senso in quello che mi circondava -i suoi occhi spalancati, il sangue ovunque, il battito mancante, le parole di Charlotte- e poi ricordo che Blake mi ha supplicato di alzarmi, di aiutarli a compiere quell'ultima missione, per far sì che Arthur non fosse morto invano.

Da lì in poi, sono solo immagini confuse: la corsa, l'ingresso nello Studio Ovale, le urla del Presidente, l'avvertimento gridato da Blake, l'evacuazione forzata, il nostro arresto (come se fossimo davvero stati noi i criminali) e, infine, l'esplosione avvenuta pochissimi minuti dopo a causa della bomba sganciata dai terroristi.

La Casa Bianca in fiamme e noi fuori, in manette, a guardarla bruciare.

Nessuna vittima, grazie all'evacuazione avvenuta appena in tempo.

Nessuna vittima, se non una: l'hanno definito effetto collaterale.

Un mese dopo hanno assegnato a tutti noi una medaglia al valore per il servizio reso al Paese.

Quella di Art l'ho gettata in faccia al Presidente prima di andarmene.

Solo un effetto collaterale.

 

Le mie dita scivolano via dal finestrino mentre l'aereo atterra con un sussulto all'aeroporto di New York.

Quando mi alzo in piedi, le mie gambe sono incerte.

Mi aspetta il mio nuovo appartamento: una casa vuota, senza ricordi, senza vestiti non miei nell'armadio.

Salgo su un taxi e lascio che tutto ciò che è successo resti alle mie spalle, per quanto è possibile. Baltimora, il matrimonio, il Presidente, Vanessa, Blake, Jonathan, Charlotte, Lily, Arthur.

Un passato che un giorno non sarà che un ricordo fumoso, ma che adesso brucia ancora, come la Casa Bianca in fiamme, quel giorno, contro il cielo scuro.

Il Queen Victoria's College svanisce in silenzio alle mie spalle, senza più alunni, schiavi o supereroi da addestrare.

Quello che il Queen Victoria's ci ha insegnato, alla fine, è il prezzo che paga chi tenta di essere un eroe.

Tutto quello che resta, alla fine, è una medaglia al valore che riposa su una pila di vestiti da buttare.

 

 

 

~THE END~

 

*Ultima noticina*: In caso interessasse a qualcuno, l'abito da sposa di Charlotte è questo: http://i45.tinypic.com/5b2nb7.jpg

 

Bye bye... e ancora grazie <3

 

adamantina

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