Racchiusi in un... click.

di Para_muse
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo d'Introduzione ***
Capitolo 2: *** ~ Click, Zoom e... ***
Capitolo 3: *** Nelle braccia di un Morfero...diverso. ***
Capitolo 4: *** Paura dell'Acqua ***
Capitolo 5: *** Miami, we're come! {Part 1 ***
Capitolo 6: *** Miami, we're come! {Part 2 ***
Capitolo 7: *** I'm coming back kid ***
Capitolo 8: *** This is not the last day...this is it! ***
Capitolo 9: *** Start again with... camera! ***
Capitolo 10: *** Equivoci...? ***
Capitolo 11: *** Aftershave, Blackmails, Pain... ***
Capitolo 12: *** A day in Couple's life ***
Capitolo 13: *** Choice Wrong ***
Capitolo 14: *** G.I.T = Get Into Trouble, Brava Elisabeth! ***
Capitolo 15: *** “Am I dreaming or Am I Awake?” ***
Capitolo 16: *** Come Back Home ***
Capitolo 17: *** Connection in progress, wait please! ***
Capitolo 18: *** Hold your breath and count to ten ***
Capitolo 19: *** “So, Is this the death?” ***
Capitolo 20: *** “Save him, not me” ***
Capitolo 21: *** Happy National Holiday, with surprise! ***
Capitolo 22: *** “I don't care, just marry me okay?” ***
Capitolo 23: *** She says: I do ***
Capitolo 24: *** Finally, Can I say: I do too? ***
Capitolo 25: *** Take care of her ***
Capitolo 26: *** Cayo Largo, white beach, no depression, only…us. ***
Capitolo 27: *** Lady, you are... ***
Capitolo 28: *** “I’m nevours” ***
Capitolo 29: *** Call ask “why” about love ***
Capitolo 30: *** Family Photo's Album ***



Capitolo 1
*** Capitolo d'Introduzione ***


*CAPITOLO BETATO FINALMENTE*

Primo capitolo di questa storia con protagonistra Jensen Ackles attore che interpreta Dean Winchester e un Nuovo Personaggio dal nome Elisabeth De Santis.
Spero sia di vostro gradimento :D Mi farebbe molto piacere sapere una vostra opinione su di esso. Lo so magari non è il massimo questo primo capitolo, ma più avanti la storia si fa intrigante promesso ;D

 

Enjoy...


 
                                    

 Capitolo 1

Peter Pan e l’Isola che non c’è...

 
 
Ero con la mia famiglia e aspettavo. Aspettavo tremendamente la voce della hostess che avvisava l’apertura del gate: l'aereo e le persone intorno a me mi stavano mettendo ansia, tanta ansia.
«Tesoro, va tutto bene! Non preoccuparti, sceglieranno te decisamente!» mia madre si stava dimostrando diversa dal solito. Era sempre stata lei quella pessimista, quella del “non sarà fortunata come le altre, è inutile provarci". Sempre lei: l'uccello del malaugurio. Chissà perché era così contenta all’idea che io sarei andata via di casa, con un nuovo e importante lavoro tutto mio? Me lo chiedevo da un paio di giorno ormai; era come un grillo nella mia stanza, saltava di qua e di là per cercare di mettere in valigia di tutto e di più. Erano così pesanti, adesso che ci penso; se avesse potuto metterci dentro la casa, l'avrebbe fatto sicuramente!
«Sì,  lo so, mamma! Prima cerca di capire, devo ambientarmi e poi magari anche cercare casa,: Vancouver è grande, piena di set e fotografi professionisti... mamma, va bene che non sarò così incompetente in materia, ma ti ricordo che ho solo esperienza con ambienti e non con persone! Siamo in Sicilia, cosa c'è di più bello da fotografare se non il mare? Lì fotograferò solo montagne, neve, visi, persone e personaggi... Sarà tutto più difficile» "adesso che ci penso", dissi tra me e me. Mamma forse non se lo sarebbe aspettato, ma io un po' sì. Era ormai da giorni che ci riflettevo: non l'avevo mai detto a voce alta, forse perché non mi ero resa conto della gravità della cosa.
La domanda che adesso mi ponevo era una, più importante delle altre mille che mi vorticavano per la mente: ce l'avrei fatta? 
 
Era passata poco più che una settimana e Vancouver era magnifica. Mi piaceva, dal mare alla montagna c'era un grosso contrasto, ma abituarsi a qualcosa di quasi superficiale come il mondo intorno a me, era facile. Almeno non mi mancava niente e nessuno...
Mi guardai intorno seduta su un divanetto di pelle nera, aspettando insieme ad altre persone di essere chiamata al mini colloquio con il direttore generale della fotografia di una serie televisiva che ormai andava in onda da un paio di mesi.
In Italia era da poco sbarcata; ricordavo di aver visto i protagonisti della serie sul canale due. Sinceramente i nomi non mi dicevano niente, ma il particolare che più di tutti mi ricordavo e che mi era rimasto impresso nella mente durante tutta la serata passata davanti alla tv – sdraiata sul divano annoiata con un trancio di pizza – furono un paio di occhi verdi con qualche pagliuzza gialla, che mi fecero restare stupita, scioccata, ed anche invaghita, strano ma vero.
«La Signorina De Santis?» chiamò una voce dal tono alto e maschile. Mi detestai dai miei pensieri e mi alzai prendendo la borsa a tracolla nera - regalo di mia sorella - e la piccola cartella con dentro la raccolta di foto che avevo scattato ultimamente qui a Vancouver e in Italia. Le avevo inserite perché magari sarebbero piaciute un po' di più.
Entrai sistemandomi i capelli lunghi dietro le spalle. L'ufficio era semplice, e ai muri vi erano che attaccate migliaia di fotografie che attirarono la mia attenzione, ma solo per poco.
Prima che riuscissi a riconoscere un viso familiare in una delle tante immagini, la voce dell'uomo alla scrivania mi richiamò gentile: «Prego, si accomodi!».
Mi avvicinai e mi sedetti; subito lo sguardo gentile dell’uomo magro mi catturò. Portava la barba corta, i capelli fin sulle spalle, in disordine, e aveva mani con dita lunghe e curate che davano un’impressione di uomo che sa il fatto suo e che vorrebbe, allo stesso tempo, essere più clemente con tutti. Mi sorrise accogliendomi cordialmente.
«Salve, signor Singer» dissi, e sporsi la mano aspettando che me la stringesse. «Sono Elisabetta De Santis, ma può chiamarmi Beth o Lizzie, se preferisce» sorrisi appena, ritirando la mano ormai mezza tremante e sudata.
«Salve, Lizzie. Mi chiedevo se velocemente volesse mostrarmi il suo lavoro e se magari volesse raccontarmi per quale motivo vorrebbe lavorare per la nostra compagnia. E per quale motivo, nella sua vita, s’interessa di fotografia? » sorrise di nuovo, adagiandosi lentamente sulla poltrona girevole. Poco dopo sporse il braccio ed io gli porsi velocemente la cartella.
«Intanto perché nel mio Paese non ci sono lavori che facciano a caso mio. Ho trovato quest’annuncio di lavoro su Internet e speravo di essere assunta in modo che il mio lavoro sia apprezzato da persone competenti e notato da ottimi sguardi intenditori. Io amo fotografare ambienti, oggetti, persone, animali, stelle, cieli... Le fotografie sono per me le parole non dette in quei momenti: Se per esempio si è molto felici, anche se non ci sono parole per descrivere quel momento c’è sempre una macchina fotografica! È carica, ha spazio a sufficienza nella memoria… beh, che si aspetta? Ricordiamo quel momento così bello, facciamolo nostro e riguardiamolo per il resto della vita, rievocando magari quella felicità, rivivendola mentre fissiamo la foto insieme a vecchi amici di sventura... Ecco, è tutto lì: racchiuso in un semplice... click.» non mi ero resa conto di quanto stessi parlando, ciarlavo, ma sapevo che lo sguardo di quell'uomo diceva tutto e niente. Mi stavo leggermente preoccupando, e un po' montando la testa.
« Lei mi piace; i suoi lavori mi attirano. Persone competenti come lei ne esistono poche nel mondo! Sarebbe disposta a…»
Mi alzai e gli porsi la mano.
«In questi casi si dice “anche subito o accetto immediatamente l'offerta”?» sorrisi raggiante, felice e sprizzante.
L'uomo rise e disse: «Non mi era mai capitata una persona del genere davanti. Magari voi italiani siete così frettolosi ad accettare un lavoro perché avete paura che ve lo rubino... beh, ci conto. Domani l'aspetto, mi raccomando!» mi strinse la mano e mi accompagnò davanti alla porta, chiudendosela alle spalle.
Solo pochi secondi dopo, mi resi conto di quello che finalmente avevo tra le mani: Il sogno di sempre.
America. Lavoro. Indipendenza.
A.L.I. Sognavo e volavo.
Peter Pan aspettami sull'Isola che non c'è...
 
 *spazo autrice*

Cmq se avete capito super giù la trama, bhè che è diciamo semplice: Una ragazza cerca un lavoro e casualmente su Internet lo trova ma a Vancouver. Beth o Lizzie (come preferite :3) è Italiana, Siciliana (come me u.u) e la sua famiglia, facendo dei sacrifici la manda proprio a quel colloquio di fotografia, visto che si interessa di arte fotografica. E dove lo capita? Nella troupe di quale telefilm? Semplice: _ U _ _ R _ _ T _ R _ _ ! Eh, eh, si capisce un po’ dal testo, ho messo un indizio. Ma anche tipo da quale cast avete deciso nella sezione “Attori” su EFP! xD è facile la parola all’impiccato eh? xD ahahaha magari fatemi sapere quale parole dell’impiccato è, e qual’era l’indizio nel capitolo ;D Al prossimo aggiornamento, fatemi sapere mi raccomando. *si guarda indietro e fissa quello che ha scritto: sono molto ciarlona eh?xD mhuahahaha*
xoxo

Para_muse


Questa storia è stata betata da Chiara Babyjenks , scrittrice di EFP”, a capo, “Servizio offerto da EFP editing Gruppo FB

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Capitolo 2
*** ~ Click, Zoom e... ***


Lo dico subito: scusate gli orrori -.- xD e poi non ho resistito a postarvi un altro capitolo *-*



2° Capitolo
 
~ Click, Zoom e...
 
 
 
Driiiiiiiiii.......nnnnn!
Alzai la mano e con forza la spiaccicai sul bottone della sveglia che stava facendo quel rumore assordante e fastidioso. Erano le sette del mattino di un tranquillo giorno in primavera. C'era il sole quel giorno, chissà come? ... di solito a Vancouver c'era sempre freddo. Mi alzai stiracchiandomi un po', dirigendomi poi nella cucina che condividevo con una ragazza del luogo, mia coinquilina, che studiava al college della città. Stava cercando di imparare a recitare.
E chi non lo faceva il college di Vancouver?
«Buon giorno Lizzie! », Luna allegra come mai, stamattina, era già pettinata e vestita, pronta per andare alla prima lezione del giorno.
«Buon giorno Luna... pimpante come mai stamattina? Hai fatto il caffè? Wow! », di solito era così sonnolenta che non riusciva nemmeno ad aprire le palpebre. Lasciava fare il caffè italiano e bello ristretto a me. Quale italiana non sa fare un buonissimo caffè ristretto?
Almeno ero brava a fare qualcosa, oltre a fotografare e basta! Dovevo sopravvivere, e se solo volevo riuscirci, dovevo saper almeno fare il caffè, cucinare la pasta al dente, e abbrustolire sia da una parte sia dall'altra una buona fetta di petto di pollo impanato - come faceva sempre la mia adorata mamma! -.
«Ho un meet con qualche attore di un film che gireranno a breve in città. Ci insegneranno un po' l'arte del mestiere... niente di ché, ma sicuramente ci sarà utile quindi, devo assolutamente trovarmi un posto in prima fila», fissò l'orologio appeso al muro di fronte a se: «e penso proprio di dover andare, ora! », lasciò la tazza dentro il lavello d'acciaio, mi baciò una guancia, mi aggiusto un po' i capelli arruffati e mi fissò meglio occhi, con quello sguardo ghiacciato: «Mi raccomando oggi! Stracciali tutti e fa vedere quanto tu sia brava! », mi lasciò andare e si diresse verso la porta d'ingresso quando mi urlò: «Ci vediamo a pranzo nel solito bar vicino al college? ». Urlai un "si" e bevvi l'ultimo sorso di caffè prima di andarmi a sistemare un po' il viso con un po' di trucco, e i capelli legandoli in un'alta coda di cavallo.
Quando arrivai davanti all’armadio, bhè li giunsero i primi seri problemi. Che cosa avrei messo? Che cosa dovevo scegliere? Sportivo o elegante? Un fotografo professionale va a lavoro in vestito o in jeans e maglia? E il problema più grande sarà mettere tacchi o converse? Dilemma. Chi me l'ha fatto fare?
Optai alla fine per un paio di jeans comodi, una camicia con le maniche arrotolate, e per le scarpe una via di mezza erano le ballerine: un paio di scarpe comode ma eleganti. Ero casual. E come mai non ci avevo pensato prima? Mi fissai allo specchio e non mostravo l'età che realmente avevo.
Capelli lunghi e biondi, un po' mossi e un po' lisci in coda. Occhi di un azzurro chiaro e intenso, un po' a mandorla. Naso un po' a patata e piccolino. Labbra fin troppo carnose e collo sulla media con le spalle un po' larghe; carnagione olivastra e liscia. Mani e dita da fotografa, un po' affusolate e unghie curate. Infine poca pancetta qua e là a delineare una seconda di seno, maniglie dell'amore e cosce e gambe lunghe. Età apparente: ventisette. Età reale: ventitre. Dovevo andarne fiera? Magari, forse mi avrebbero preso sul serio!
 
Mi avvicinai alla macchina che avevo comprato con un’offerta dal rivenditore di auto più vicino. Una Volkswagen New Beetle del 1999 rossa, con pochi chilometri, era ormai intestata al mio nome.
E aveva il mio nome. L'avevo chiamata Betta. Come mi chiamavano i miei amici in Sicilia. A me piace la guida di auto veloci, e Betta era dinamica. Pratica, e facile. Si faceva domare.
Mettendola in moto, feci marcia indietro dal vialetto e prendendo il cellulare con scritto la via dove dovevo recarmi per gli studios, mi diressi li, sperando di trovare il luogo senza perdermi.
Dopo svariarti incroci, e lunghissime vie, mi ritrovai davanti al set/studios del telefilm cui dovevo fare i servizi fotografici ufficiali sia sul set, che servizi fotografici pubblicitari.
Posteggiai l'auto nei parcheggi privati e prendendo i borsoni con gli attrezzi e le macchine fotografiche, mi diressi verso le porte d'ingresso. Mi diressi direttamente alla reception, per chiedere informazioni alla segretaria dietro il bancone lucido.
«Ehm salve... », alzai il dito mignolo perché impegnata a tenere le borse pesanti e anguste.
«Si? Mi dica... », mi rivolse un sorriso appena accennato. Molto gentile e cordiale mmh? Corrucciai la fronte e aprii la bocca cercando le parole adatte per spiegare la mia situazione.
«Ehm, si sono Elisabetta De Santis, la nuova fotografa ufficiale del set del telefilm...ehm... Sal...No ehm, non ricordo come si chiama Sus... », che razza di figura stavo facendo davanti alla segretaria non ricordando il nome del telefilm? "Betta svegliati cavolo!".
«Supernatural? », la ragazza alza un sopracciglio fissandomi sdegnata.
Ecco brava! «Sì, proprio quel telefilm! », annui sistemandomi la roba in spalla. La segretaria tutta tette e senza cervello scrisse qualcosa al PC e poi si rivolse con lo sguardo sul mio, o meglio sul di me in generale dicendomi qualcosa che non mi aspettavo: «Sicura di non essere la fotografa della serie tv su Disney Channel? Gli studi si trovano un po' più avanti nella nostra stessa via... », sorridendomi falsamente.
Il mio viso si corrucciò e il fumo iniziò a fuoriuscirmi dalle orecchie. «Perché non svolgi il tuo lavoro?! Chiama il Signor Singer e vedi se lavoro o no agli studios della Disney! », la mia voce salì di qualche ottava e alcune persone passanti mi fissarono con occhi curiosi e spaventati.
L'oca giuliva non si mosse minimamente e invece di prendere il telefono, schifata, sporse la mano per chiedermi: «Passami un documento che controllo immediatamente se fai parte del set o meno. E se continui a urlare chiamo la sicurezza, lo giuro! », con le unghie in gel si sistemò una ciocca di capelli e poi mi fissò aspettando.
Io frustrata sospirai rabbiosa, e lasciai atterrà uno dei quattro borsoni pesanti, cercai di aprire la cerniera della borsa a tracollo, ma naturalmente si era inceppata e cercando di tirare giù dalla spalla un altro borsone con le macchine fotografiche, i capelli impigliati per sbaglio, si tirarono indietro la mia testa facendomi sbilanciare con le altre borse, mettendomi in imbarazzo e cadendo giù di faccia.
Sentii qualche risolino e qualche tosse a nascondere la risata. Ormai era fatta. Mi ero fatta riconoscere come la svampita e scoordinata che ero.
Mi sciolsi dalle tracolle e dai borsoni, poi afferrando la borsa, mettendoci tutta la forza che avevo, aprii lo zip, notando solo dopo che l'avevo rotta. Ed ecco la borsa nuova in regalo da mia sorella, che faceva la stessa fine delle altre. La fissai con rammarico e con occhi lucidi, inginocchiandomi inizia a cercare il borsello con dentro i documenti. Tirai fuori la carta d'identità e la poggiai sul bancone, mentre mi alzavo.
Iniziai a sistemarmi i capelli nella coda perfetta che ero riuscita a fare stamattina ma che ormai era solo un bel sogno. Poi infilai la camicia alla bella meglio, dentro i jeans che spazzolai per via della polvere per terra.
Iniziai a rammendare tutti i miei borsoni e prima che afferrassi l'ultimo, qualcuno lo fece al posto mio sorridendomi.
«Ciao! Ti do una mano... », il giovanotto dai capelli lunghi e castani mi sorrise e cercai di farlo anch'io prima che l'oca giuliva mi richiamasse: «Scusami Elizabeth, mostri molto meno della tua età! Mi dispiace per l'inconveniente. Ecco tieni il pass così non ci saranno più problemi di questo genere con le altre segretarie. Spero non ti succeda più, e meno male che è arrivato Jared! Vero? », le sorrise in modo schifosamente sexy.
«Certo, Amanda! Ehm comunque mi presento, sono Jared Padalecki. Il tuo modello! », sorride e prima di stringermi una mano, mi rubò un altro borsone.
«Piacere, sono Elisabetta De Santis, la tua fotografa! Sei molto gentile Jared! », gli sorrisi cordiale e mi voltai solo un attimo per lanciare uno sguardo d'odio ad Amanda - o così l'aveva chiamata Jared - che lei però non notò perché impegnata a lanciare moine a Jared - che non la considerava.
Afferrai il mio Pass, e Jared m’invitò a seguirlo. «Qui è un po' complicato. La gente fa controlli perché un paio di mesi fa abbiamo avuto un problema con delle fan scatenate che con delle macchine fotografiche, alla nostra entrata ed uscita ci facevano sempre foto. Una addirittura si era fatta mettere sotto da Jensen», ci scherzò su Jared, mentre io restai semplicemente sconvolta, sgranando gli occhi.
«Sai ora che ci penso», mi fisso per qualche secondo, «somigli un po' a quella ragazzina. Chissà Jen come la prenderà. Sicuramente appena ti vedrà vorrà strangolarti. Sembri molto giovane. Quanti anni hai? », domandò curioso, aprendo una delle tante porte a vetri che divideva incroci e corridoi.
Lo fissai timidamente, e abbassando lo sguardo davanti a me risposi: «ventitré anni», e iniziai a guardarmi intorno mentre Jared continuava a parlare.
Quando finì con dire: «Spero ti troverai bene qui! Questo è il tuo studio», aprì la porta e vi entrò, aspettando che lo facessi anch'io.
Io entrai e prima che potesse porgermi un'altra domanda, parlai per prima chiedendogli: «Chi è Jensen? ».
Jared si voltò posando un borsone sulla scrivania che avrebbe portato il mio nome: «Come devi fare da fotografa alla nostra serie tv e non sai chi sono gli attori e i tuoi modelli principali e protagonisti? Così mi deludi Elisabetta! », disse fingendosi arrabbiato e mostrandomi un mezzo sorriso nascosto da un po' di barba.
«Ehm si scusami, la segretaria mi ha fatto un po' arrabbiare. Ehi comunque puoi chiamarmi Lizzie! Lo vedo che ti sforzi un poco eh!?», sorrisi timida e posai gli altri borsoni vicino al primo, tirando la piccola macchina professionale che usavo per scatti di tutti i giorni. Non molto professionale.
Mi voltai verso Jared e gli scattai una foto all'improvviso mentre fissava fuori dalla finestra.
«Ehi, non siamo sul set!», mi sorride mentre gliene scattai un'altra. «Voglio solo ricordare il momento in cui ci siamo incontrati, diciamo, tutto qui... sai quel detto Carpe Diem? Bene, ti basta sapere solo quello! », e gli scattai di nuovo un'altra foto.
«E va bene, ma penso che il soggetto fuori dalla finestra sarà più interessante vieni qua! », mi fece un gesto con la mano che non potei rifiutare. Mi avvicinai alla finestra, vicino a lui e guardai dietro al vetro.
Un ragazzo biondo stava scendendo da un bel sub, chiudendosi la portiera alle spalle, e inforcandosi gli occhiali, va incontro a un’Amanda euforica. Un Jared che sogghignava, aprì la finestra facendoci sentire la discussione.
«Ciao Jen, come stai? Dormito bene stanotte? Mi sei mancato terribilmente!Ehi sai ho un nuovo scoop per te! E' arrivata la nuova della troupe. Una ragazzina tutta cervello e poco coordinata... », Jared smise di ridere, mentre Jensen cominciava. Il ragazzo castano di fianco a me, chiuse immediatamente la finestra, mentre io restai sul posto a fissare il nulla davanti a me.
«Bhè ho già fatto la mia conoscenza anche con l'altro attore... », mi strinsi nelle spalle e andai a sedermi sulla poltrona, prima di sistemare la macchina dentro il borsone.
Sentii Jared grugnire qualcosa, poi si sovrappose di fronte a me e sbatte una mano sulla scrivania. «Ehi Elisabetta non scoraggiarti...». «Lizzie, va bene Jared!». «Ok Lizzie, allora senti me: non scoraggiarti, tu sei tu, e lei e lei. Non t'importare di cosa pensa la gente, sii te stessa, fai vedere quanto tu sia brava, e mostra il tuo talento! Ad Amanda ci penserò io più tardi», e mi fissò serio aspettando che gli dicessi qualcosa. Io alzai semplicemente le spalle e gli sorrisi, ringraziandolo.
Jared fece il giro della scrivania e mi fece alzare per abbracciarmi. «Non ti preoccupare sono solo i primi giorni, poi sarà tutto tranquillo-.
Mi strinsi a lui, sentendomi sicura e protetta. «Ehi Jar, ma dai il benvenuto ai nuovi in questo modo? Perché domani e i giorni che verranno, vorrei che fossero così... - risi prima di ritirarmi dall'abbraccio. Lui fece lo stesso e mi fissò con aria di sfida: «Stai forse dicendo: "Ehi diventiamo amici di set e di vita?" bhè io rispondo di sì, meglio a farseli gli amici e non a perderli... - restai un attimo scioccata da quelle parole. Mia madre le ripeteva sempre ogni singolo giorno. Fu allora che mi accorsi di come già mi mancavano, ci sentivamo spesso e nulla di più. Però, mi mancavano, e anche i miei amici, e forse anche quel serpe del mio ex fidanzato.
Sospirai, frustante e sconsolata. Sarebbe stata una lunga giornata quella. Forse l'appoggio dei miei genitori sarebbe stato dì aiuto. Eppure, chissà magari Jared avrebbe occupato il loro posto.
 
Ci eravamo spostati nelle strade della città di Vancouver. Dove il verde campeggiava e il marrone degli alberi contrastava un po'. Ero attorniata da una cinquantina di persone. E Jared mi aveva accompagnato al posto di marcia. Mi lasciò perché mi disse che doveva andarsi a preparare. Avrebbe prima fatto degli scatti con una fotografa molto brava, talchè mi fece imbarazzare ma m’indusse anche a sorridere, e poi doveva anche chiedere delle spiegazioni a Jensen su alcune scene che avrebbero dovuto girare, e altro, che non aveva voluto dirmi. Intanto il regista, aveva chiesto di me, e ora ero davanti ad un fanatico del paranormale:
«Allora Elisabeth... - cominciò il regista. «Lizzie, per favore, chiamami pure Lizzie! - dissi nuovamente. Era così difficile ricordare un nome? Tutti quelli che dovevano chiamarmi prima guardavano il pass che avevo attaccato al collo, e poi mi chiamavano. Capivo il nuovo arrivo, ma non pensavo di essere così poco insignificante, giacché ero la fotografa ufficiale del set. Insomma... mi stava dando certamente fastidio, meno male che c'era Jared a tirarmi su di morale.
«Lizzie vorrei tanto che facessi delle foto mentre loro stanno in macchina, a me da un senso di giovinezza perduta... - con gli occhi sognanti il regista mi dava le indicazioni, ma avevo in mente già qualcosa. «Oh sì e vorrei tanto che nella scena in cui Jared ovvero Sam, è tutto insanguinato, tu faccia delle foto molto nitide, e di primo piano se possibile - continuò il regista.
Io annuii semplicemente, prima, però, di richiedere al mix luci, di darmi quello che desideravo. Molta luce, ma poco bagliore. Di conseguenza niente schermi bianchi.
Il regista fece sistemare la troupe, mentre io mi dirigevo sotto il gazebo dove di solito il fotografo teneva tutti i suoi attrezzi. Presi le macchine che m’interessavano, mentre notavo che gli attori acconciati nel trucco e nel parrucco, si disposero sulla macchina e si facevano spiegare le ultime cose dal capo.
Sistemando i comandi sullo schermo della Canon, mi avvicinai alla scena, cercando di capire se erano pronti o meno. Ero un po' imbarazzata, era pur vero che la mia prima esperienza, me lo aspettavo più tranquilla e non in un set televisivo. Ormai ero qui però, l'avrei fatta andare liscia come l'olio.
«Pronti? - domandai tossicchiando. Jared si affaccio dal finestrino, dietro l’altro attore, Jensen l'aveva chiamato. Lo fissai concentrata a notare ogni piccolo particolare.
Mmh... click, Zoom, Nitidezza, Luce, Click...Occhi azzuro-verdi, tirai indietro i capelli, e click...ciuffo all'insù, lentiggini un po' sparsi, e smorfia d'attore, click...
«Lizzie? - chiamò una voce.
Mi alzai sulla schiena e scossi la testa: «Eh? - fissai Jared osservami, sgranando gli occhi un attimo, e lanciandomi un messaggio, mentre Jensen si voltò di scatto fissando davanti a se, arricciando le labbra, stringendo lo sterzo dell'auto.
Mi risvegliai un attimo da quello che stava succedendo. Aspetta, ma cosa stava succedendo?
«Ehi, tutto okay? - il regista mi fece voltare indietro, un gruppo di persone era intento a studiarmi. Forse ero entrata un po' nel mondo parallelo, quello che chiamavo photoland.
«Sì, possiamo iniziare, mi accenderesti questo faro alla mia destra? Grazie... - mormorai, indicando a quello delle luci il faro che m’interessava.
Obbedì ai miei ordini, ed io abbassandomi e cercando l'inquadratura adatta, dissi a voce alta: «Ehi, potete essere il più naturale possibile? Rilassate il volto, ehm... Jared, tu fissa fuori dal tuo finestrino, mentre...ehm, sì... potresti avere il viso che guarda la strada mentre gli occhi sono rivolti verso Jared? -
Sembrava che Jared avesse capito, mentre Jensen, fissava dritto davanti a se. Non mi guardò nemmeno, e non so perché. Forse un motivo c'era, quella cosa che Jared mi aveva raccontato magari poteva essere vera, ma era un lavoro, io volevo farlo al meglio, e avevo bisogno della loro collaborazione. Ancora non capivo perché non si sarebbe presentato... e... sapevo solo che stavo andando in panico, perché niente e nessuno stava andando per il verso giusto.
Jared aspettandosi il flash e il rumore della mia macchina, si voltò preoccupato. Io guardavo ancora dall'obiettivo, mentre aspettavo che "l'altro attore" si decidesse.
Mentre Jared si volta a guardami, e a chiedere spiegazioni, Jensen si volto a fissarlo e a arricciare le labbra. «Che c'è? - domandò il castano.
«Ehm... niente, niente... diciamo che, forse... il tuo amico... - iniziai a mordermi il labbro. Che cavolo mi stava succedendo?
 Ansia da prestazione, ecco cosa. Si forte, e decisa.
«C'è che non sa nemmeno il nome dei propri modelli - mormorò la voce profonda di Jensen.
«Bhè? - disse Jared alzando le mani «bhè io l'avevo capito che si riferisse a te! Magari il "mio amico" ancora non si è presentato... - Jared si voltò arrabbiato e ritornò alla posizione di prima. Jensen invece dopo un monologo e un ghigno, sposto lo sguardo mormorando un: «mi chiamò Jensen, solo per informazione - e cercò di rilassare il viso come aveva fatto già suo fratello nella fantasia.
Bhè dopo essermi calmata, presi un bel respiro, memorizzai quella voce, quel nome, e quel "no, tu non mi stai simpatica, proprio no" sul bel viso d'angelo, mi fecero pensare all’unico amico-attore che mi sarebbe stato d'aiuto in quel mondo di... cosa?
Bhè me lo ricordava sempre mia sorella... "snob!"
Le ciglia sbatterono contro l'appoggio per l'occhio, e la macchina fece... click.
 
Poche ore dopo, quando finii di fare le foto, Jared era contento per me, Jensen era schifato per me, il regista si era astenuto (aveva detto che le avrebbe viste solo quando il grafico le avrebbe modificate al computer), la troupe sembrava essersi stancata dopo due ore estenuanti di foto e foto, ed io ero semplicemente d-e-m-o-r-a-l-i-z-z-a-t-a da tutto! Da tutto!
Sistemai la Nikon e la Canon dentro i propri borsoni. Chiusi la cerniera, ed ero quasi pronta "a pensare" di preparare le valigie. Sapevo già che il mio lavoro era stato insoddisfacente. Non era adatto per me! Non erano adatti i soggetti, il posto, e le persone che mi circondavano. Specialmente una, che mi aveva rivolto solo una volta la parola, e ancora mi dovevo e anche lui doveva darmi delle spiegazioni sul perché di quel comportamento. Stavo iniziando a stancarmi e a retrarre anche sul terreno di guerra. Perché lo era, e come se lo era.
Jared mi venne incontro. Mi guardava con occhi da scrutatore, perché aveva capito... e avevo notato nei suoi occhi come dovevo apparire.
Spossata, stanca psicologicamente più che fisicamente. E dovevo mostrarmi provata, risentita, e il muso arrivava forse in Cina. Mi strofinai le mani sul viso cercando di rilassare un po' i nervi.
«Mi spieghi che succede? Sembri sull'orlo di una crisi di nervi da lavoro... sei stata grande la fuori Lizzie. Hai mostrato a tutti che sei un'ottima fotografa! - mormorò dolce.
Aprii le dita, fissandolo da dietro il palmo. Scossi la testa, sorridendo amara: «A me sembra tanto che tu solo l'abbia capito, mentre gli altri troppo interessati a fare altro, non si sono accorti di nulla. Jared insomma... - tirai un lungo sospiro «a chi vogliamo prendere in giro? Sei bravo tu come modello, lo è anche mister "sono-figo- scusami-tanto-se-non-mi-piaci", che non mi considerava nemmeno. - la rabbia stava nascendo dentro di me, liberai il viso dalle mani iniziando a gesticolare e a indicare qua e la: «stiamo parlando di una persona che non si è degnata né di presentarsi, né di obbedire a una ragazza, anzi a una donna al suo comando che dettava ordini e che solo tu prendevi alla lettera, mio amico per fortuna. Non si è degnato nemmeno di spiegarmi per quale, c***o, dico c***o di motivo ce l'ha con me!Perché ce l'ha con me?! Cosa gli ho fatto di male? Oh scusa, somiglio alla fan che hai messo sotto? Bhè chi te l'ha dato la patente amico? Impara a guidare! Oh sei stupido di cervello come la segretaria? Bhè, mi faccio una chirurgia plastica così somiglia a tua nonna, e non ti do più fastidio! Magari ti piaccio un po' di più, e il tuo cervello capirà che alla fine sono una persona tutt'altro che diversa da una fan sfegatata e pazza da seguire un'idiota che sei! ... Cioè... - le ultime parole italo-americane volarono per tutto il set, non mi ero accorta che la crisi "rabbiosa" che avevo mantenuto per ben due ore di fila era uscita all'improvviso e che tutti attorno a me, mi fissavano allibiti. Sgranai gli occhi, abbassando le braccia di colpo, mi nascosi dietro ad un Jared stupido e divertito. Spalancai la bocca fissandolo.
Avevo dato di matto? Bhè forse solo un po'.
«Oh Porca Vacca, Lizzie sei... -
«A dir poco insensibile, volgare e artificiosa - la voce profonda che avevo sentito, mi fece rizzare i peli dietro la nuca. Mi voltai appena per vedere il corpo di Jensen travolgermi con una sola spinta per la spalla. Il corpo di Jared a sorreggermi, prima che cadessi giù, e vedere Jensen andare via dal set.
In quel momento l'autostima cadde giù di colpa, rompendosi in mille pezzi. Avevo offeso Jensen. Era ovvio. Mai nessuno mi aveva dette quelle parole, e sentirle pronunciare da una persona che nemmeno mi conosceva per quella che ero veramente, chissà quale oscenità il mio lato "malvagio" aveva pronunciato con le mie labbra e con le mie parole.
Ero un disastro.
Jared si rattristò e senza pensarci due volte, mi diede una pacca lasciandomi sola sul posto, rincorrendo Jensen che ormai era scomparso dal set. Mortificata per quel gesto, mi strinsi nelle spalle, e avvicinandomi al regista: «Abbiamo finito per oggi? - domandai a bassa voce.
«Sì, E... Elisabeth. Per oggi sì, ti faremo sapere per le foto e ti richiamerò se avremo bisogno di te - mi diede una pacca anche lui, e prendendo i borsoni, salii sul primo taxi che fermai e tornai agli studios in centro.
 
Quando arrivai, non trovai nessuno, solo... era finita Amanda? Un'altra ragazza aveva occupato il suo posto, e sembrava molto più cordiale e amichevole alla vista. Mi avvicinai e chiesi la chiave che avevo lasciato ad Amanda del mio ufficio.
«Prego, ecco a te Elisabetta. Sei italiana? - mi sorrise e dalla pronuncia del nome riconobbi il nostro accento.
«Anche tu - sorrisi felice e speranzosa. «Da dove vieni? - domandai curiosa.
«Calabria tu? - disse, porgendomi la mano. «Sicilia, piacere...? - . «Jessica. Ma chiamami pure Jessy! - . «E tu Liz... - le parole mi si fermarono quando le urla di uomo attirarono la nostra attenzione.
«Non doveva permettersi di urlare e mostrarti a tutti in quel modo. E poi venendomi contro, e urlando qualsiasi cosa volgare che potesse accidentalmente ferirmi, o almeno ci ha provato solo un po'. Mi ha offeso più che altro, e questo gliela farò pagare molto cara... -.
«Jensen ma, si giusto, devi capire che è nuova. E' una ragazza timida, ed è alle prime armi. Da sola, non sa cosa fare, vorrebbe che tutti qui le dessero un po' di attenzioni, e come si deve, non prendendola in giro con Amanda! Sul serio Jen? Te la fai ancora con Amanda solo perché Danneel è felicemente fidanzata? Non capisci? Ci perdi tu: l'amicizia che potresti avere con una ragazza acqua e sapone, che è Elis... - Jared cercò di far calmare Jensen mentre entravano dalla porta a vetri degli studios. Io li fissai preoccupata e mortificata, poi abbassai lo sguardo e mi girai appena, cercando di non farmi notare, fissando Jessica che si chiedeva cosa stesse succedendo.
«Senti Jar non m’interessa se è acqua e sapone, se è meglio di Daneel o Amanda. Lei è solo una stupida ragazza italiana, che cerca lavoro, e successo con te soprattutto. Stai attento, queste persone sono usurpatori! Sono poveri e cercano comunque in ogni modo di fotterti! Sempre, ricordalo... - quando sentii quelle parole, mi pietrificai e restai sensibilmente sotto shock.
Jessica notò il mio stato d'animo: «Ehi Elisabetta tutto okay? - mi domandò ingenuamente.
Sentì la sorpresa dei due uomini dietro di me, e tesa e ferita, annuii semplicemente e voltandomi lentamente, dissi: «U... u... usurpatrice... I... i... io? Ehm credo che... - mi voltai indietro e respirando affannosamente restituì le chiavi a Jessica: «E' stato un piacere... ci... ci vediamo - mi diressi verso la porta e quando l'aprii Jared, mi si parò davanti: «Dove vai? Ehi, aspetta Jensen non voleva dire quelle parole, vero Jen? Jensen? - cercai di scostarlo, facendo zig-zag. M’importava proprio poco il ripensamento di quell'essere spregevole. Avevo solo voglia di andare a casa, e di auto commiserare quel giorno. Perché era stato il più brutto della mia vita.
 
Mentre Luna andava e veniva dalla mia stanza, cercando di farmi dire almeno una parola, provando a farmi mangiare o bere, ripensai a tutto quello che era successo nell'intera giornata.
Non mi aspettavo che sarebbe successo tutto quello che a flash appariva e scompariva nei miei ricordi. Una giornata così terribile non l'avevo mai vissuto, e sicuramente non avrebbe mai più dovuta ripetersi. Mi avrebbero potuta licenziare, se non l'avevano fatto già. Il pensiero di tornarmene in Italia in quel momento era molto allettante, ma allo stesso tempo no. Non volevo ritornare a casa dai miei genitori, non facendo nulla. In Italia c'era crisi, anche in America c'era il crollo, ma non avevo nessunissima voglia di prendere un aereo. Sarei rimasta qui, a testa alta, anche senza amici e senza parenti, però avrei continuato a lavorare, costi quel che costi.
Costi quel che costi? Costi anche l'amicizia tra me e Jared per via di quel Jensen?
Ripensare a quel nome, a quella faccia così, così bella... A quegli occhi così...magnifici e stupendi. Aprii e chiusi le palpebre ancora una volta, mentre la musica nelle orecchie rimbombava nelle cuffie.
Luna si preoccupava? Bhè io lo ero molto di più. La mia mente era affogata in lago di domande, senza la marea di risposte che se fossi più decisa e più autoritaria con me stessa, avrei avuto fin dal giorno in cui nacqui, quando presi lo stesso carattere di papà, e non di mamma. La mia mamma forte, quella mamma che ti dava tutte le risposte che cercavi.
Avevo bisogno di conforto, solo quello. Conforto da chiunque, come faceva la mia mamma...
«Lizzie, Lizzie, ti prego, parlami. Vuoi... per favore... - mi fissò e io la fissai semplicemente vedendo le sue labbra muoversi e le sue parole disperdersi insieme alla musica. Scossi per l'ennesima volta la testa. Lizzie sospirò amaramente, e prima di provare a tirarmi su dal letto, qualcosa le fece voltare la testa e andò via, lasciandomi di nuovo sola.
Io ero così. E mi dispiaceva tanto vedere quel viso, di solito felice, rattristarti per una, come me. Una ragazza che quando aveva problemi se li teneva tutti per se. Non voleva crearne altri per le persone a lei care. Io ero un riccio, che quando ha paura si richiude in se stesso, e quando non ne ha più, inizia il suo percorso, di nuovo, da capo.
Fra un po' paio di giorno forse mi sarebbe passata, ma la ferita di quella mattina, quelle parole pronunciate da quelle labbra, mi sarebbero rimaste impresse: nella mente e forse anche nel cuore.
Chissà perché? Quel perché? Quanti perché? Perché ce l'aveva con me? Perché?
Sospirai amaramente, e strinsi forti gli occhi per non farmi scappare nessuna lacrima. Non volevo piangere, non dovevo versare delle lacrime.
«Lizzie, Lizzie! - la voce di Luna sovrastò quella della cantante. Tolsi un auricolare: «Mmh? - aspettai che spuntasse e quando non lo fece, voltai di poco la testa alle mie spalle, verso la porta, e ciò che vidi mi fece morire in cuore.
«Hai visite! - disse allegra, indicando i ragazzi che si trovavano davanti alla porta occupandola completamente. I miei occhi si velarono, e spostando lo sguardo verso Luna, scossi la testa tornando in posizione fetale come prima.
Luna tossì e cercò di richiamarmi, ma mormorai un semplice: «Lasciatemi in pace, non voglio vedere nessuno -. Infine infilai di nuovo l'auricolare all'orecchio e sperai che se ne andassero.
Passarono secondi, o forse minuti, addirittura ore, ma non successe nulla. Non sentii la porta chiudersi, non vidi Luna ritornare. Mi voltai dall'altro fianco, ritrovandomi i due ragazzi - fratelli nel paranormale fantasioso - vicino al letto. Jared davanti, triste e dispiaciuto. Jensen qualche passo dietro di lui, serio e poco rilassato.
Tornai a fissare gli occhi color nocciola del mio nuovo amico, mentre toglievo le cuffie dalle orecchie.
«Che c'è? - gracchiai con la gola secca. Avevo bisogno di un po' d'acqua.
Jared alzò le spalle, si girò un attimo a guardare Jensen, che decise momentaneamente di studiarsi intorno, quando Jared decise di sedersi ai piedi del letto e rivolgersi a me: «Tutto okay? - domandò preoccupato.
Alzai un angolo delle labbra in un sorriso che d’ironico non aveva nulla: «Secondo te ho una faccia da "tutto okay?, come stai?, ti senti bene?"... - dissi amaramente.
«Bhè...direi proprio di no... - mormorò Jensen.
Alzai lo sguardo verso di lui, mentre si soffermò su una foto che avevo fatto in spiaggia, mentre due ragazzi si tenevano per mano, in contro luce. Tirai un sospiro, cercando di trattenere le lacrime da crisi e da nervosismo che stavano per arrivare.
«E tu cosa ne sai usurpatore? - domandai aspramente.  «Non capisci niente di sentimenti tu! - sputai fuori quelle parole come un serpente sputa fuori il veleno dai denti dopo un morso.
Lo fissai con sguardo rabbioso, mentre Jared cercava di fermarmi e calmarmi stringendomi un braccio. Jensen si voltò a fissarmi, abbandonando le foto, lasciandomi sguardi di fuoco.
Se solo gli sguardi potessero uccidere...
«Meschino! Sei un...meschino! - mormorai socchiudendo gli occhi, cercando di alzarmi. Jared cercò ancora una volta di tenermi ferma.
«Azz, chi ha parlato, l'ipocrita della situazione! - disse ironicamente, allargando le braccia. Per me, quelle parole, furono segno di sfida.
«Stronzo che non sei altr... - mi lanciai contro di lui, saltandogli addosso. Mi afferrò per i fianchi cercando di tirarmi giù, mentre io gli trascinavo a forza i capelli, facendogli ruotare la testa avanti e indietro: «Perché non vuoi darmi delle risposte? Mi spieghi cosa ho fatto! Mi spieghi cosa? - gli urlai contro.
«C***o, c***o, lasciami andare, lasciami! Ti dirò tutto, tutto sul serio, lasciami...andare! - mi urlò contro lui, mentre Jared cercava di tirarci via l'uno dall'altra:
«Basta, mi sembrate due bambini. Volete farmi uscire pazzo nei mesi che verranno!? - urlò isterico.

 
*spazio autrice*
 
Come promesso eccomi qui con un capitolo da otto pagine, e bel lunghetto! Avete ormai ben capito che gli attori per una FF ci sono. Troviamo Jared e Jensen, i due attori che danno volto e voce ai due fratelli Winchester: Sam e Dean. Ora vorrei ben capire, domanda rivolta a chi segue la storia, che TEAM c’è? Più Team Dean, più Team Sam o entrambi? La trama della storia ormai io l’ho quasi stabilita, ho intenzione di mettere qualche scompiglio in più, ma vorrei capire da quale parte deve avvenire. Non fate caso a quello che ho scritto prima. Ditemi semplicemente che Team siete! E secondo voi per quello che avete appreso da questo primo vero capitolo, quale coppia vi piacerebbe vedere! Elisam o Delisabeth!? xD ahaha u.u I migliori sono i Robsten però! u.u W loro :3
Vi lascio, intanto mi schiarisco le idee su cosa scrivere sul prossimo capitolo. Non vi sto dicendo che posterò ogni settimana, ho degli impegni e devo rispettarli. Quindi posterò il più presto possibile, promesso. (Non solo molto lenta nello scrivere, se ho tre pomeriggi liberi, ci lavoro su, e ve lo posto promesso!)
Fatemi sapere se vi è piaciuto. Sicuramente vi chiederete perché tutta quest’angoscia, quest’odio profondo, e questo Jensen un po’ strano dal solito...lo scopriremoooo ....  Un bacione!
 
xoxo
Para_muse
 

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Capitolo 3
*** Nelle braccia di un Morfero...diverso. ***


Eh buona lettura, ci vediamo alla fine. Grazie alle preferite :)
 

 
3° Capitolo
 
 
Nelle braccia di un Morfeo...diverso
 
 
Mi scollai da Jensen appena sentii quelle sue parole.
- Lasciami andare, ti dirò tutto, tutto sul serio... - e allorché Jared urlò quella frase che mi penetrò fin al midollo, mi staccai immediatamente dalle spalle di Jensen, per ritornare seduta sul mio letto, accanto a Jared mezzo frustrato.
- Finalmente - e tirò un sospiro di sollievo - siete come due bambini, non vi potete vedere che in un attimo scoppia la scintilla, miccia, chiamatela come vi pare! Gente dovete stare calmi! E dove siamo? Alla Corrida, dove siamo? Calmi, C – a – l – m - i! - sillabò senza fiato, tirandosi indietro qualche ciocca di capello castano cadutagli in fronte.
Gli sorrisi dolce e timidamente. Non volevo mica fargli prendere un infarto. Quello che accendeva la miccia era sicuramente Jensen, io esplodevo solo. Jared subiva l'esplosione, ma non volevo che succedesse proprio a lui. Bhè nemmeno volevo che succedesse a me, o a Jensen. Volevo lavorare, punto. Volevo semplicemente fare quello che mi piaceva realizzare, che mi appassionava, con classe e con quella professionalità nascente. Con due attori, poi, che erano molto bravi! Li avevo visti in azione solo per mezz'ora, mentre facevano finta di girare una scena in macchina. Intorno non avevano veramente alberi ma schermi verdi. Anche in quell’occasione, il regista mi aveva pregato di fare qualche foto; sarebbe stato compito loro, poi, mettere l'erba e gli alberi che sembravano muoversi intorno a loro. La cinematografia moderna ormai non era più, molto reale. Quasi tutto si basava su set di luoghi costruiti in perfetta precisione o addirittura tutto a schermo verde. A occhi sognanti, ricordavo il film e la storia d'amore tra i Naavi o così ricordavo si chiamassero. Mentre il mondo di Pandora si presentava nei miei ricordi, la mano di Jared iniziò a sventolare davanti al mio viso.
- Ehi sei stata attenta a quello che ti ha detto Jensen? - disse Jared a voce alta. Involontariamente scossi la testa intontita dai pensieri che si sovrastavano. Ormai era tardi, e capivo perché la mia mente viaggiava per conto suo. Pesante e leggera, la fantasia prendeva comando delle mie azioni.
- Ehm, no, non ho capito... - mi appoggia al cuscino, fissando Jensen e le sue labbra un po' carnose e belle. Era piacevole da fissare, e da farsi piacere. Anche quando si metteva cipiglio era molto... sexy.
O mio Dio, avevo appena, definito sexy Jensen. Nei miei pensieri. Forse avevo troppo sonno, forse ero anche ubriaca.
"Ricorda lui ti odia!", la vocina dentro di me si fece sentire, come sempre, nei momenti più disperati. "Lo so, ma è così carino. Non sexy, sia chiaro, carino... " mi corressi mentalmente. Anche se la parola “sexy” lampeggiava nei miei occhi.
- Elisabetta, ma mi stai ascoltando? - la voce intima di Jensen mi fece riaprire di scatto gli occhi. Solo allora capii che il lampeggiare della parola “sexy” mi appariva dietro lo scuro velo delle palpebre.
- Mmh, mmh... - mormorai stringendo con forza il cuscino che amavo abbracciare tutte le notti. Sentii una risata bassa e poi qualcuno adagiarmi addosso a una coperta. Aprii un po' gli occhi e notai Jensen ancora fermo, dove l'avevo lasciato che alzò appena un angolo della bocca come un sorriso. Mentre Jared si dilettava nel mettermi al letto come faceva un padre con la figlia.
Mi dispiaceva tanto separarmi da lui, quel gesto era stato così da fratello adulto che il mio braccio fece tutto da se. Gli afferrai velocemente il suo, prima che si allontanasse, e iniziai a tirarlo piano.
- Cosa c'è Lizzie? - mormorò piano sogghignando Jared.
- Resta - mormorai appena, stringendo con forza il braccio.
Jared non rise più, lo sentii diventare teso e serio. Cercai di aprire gli occhi, sforzandomi di vedere, con il velo di stanchezza che mi opprimeva.
- Sei sicura? Non vorrei che disturbassi? -
-Ehi nessuno si preoccupa di Jensen qui vero? Ti ricordo che siamo venuti con la tua macchina! Ed io adesso con chi vado via? Sono senza patente! - iniziò a protestare Jensen, battendo il piede per dare enfasi al discorso.
Alzai un occhio verso di lui e sospirai afflitta: - Mmh, va bene... resta... - mormorai prima che Morfeo mi chiamasse nel suo mondo.
 
La prima cosa che percepii fu il mio letto occupato dal peso di qualcosa o di qualcuno. La seconda invece il calore di un sole mattutino che a Vancouver di solito non arrivava mai. La terza cosa la percepii quando i "dovuti" sensi iniziarono a funzionare.
Olfatto. Sentii l'odore di caffè mischiato al profumo di muschio e a quello di menta.
Udito. Bloccai il mio respiro per qualche secondo, riuscendo a sentire altre due persone intorno a me, che inspiravano ed espiravano.
Tatto. Le mie mani non stringevano più le piume nel morbido ripieno del cuscino che abbracciavo tutte le notti, no. Le dita erano aggrappate a un braccio muscoloso ma comodo. L'odore di menta prevaleva sul muschio. Il braccio possente emanava quell'odore così buono...
Infine Vista. Aprii gli occhi e la prima cosa che mi si presentò davanti fu il viso, più che rilassato, di un improbabile Jensen che stava ancora dormendo. Il suo fiato batteva contro il mio viso e l'odore di menta, m’invadeva le narici. Era così bello! A un palmo dal mio viso... alzai istintivamente una mano - che era stata legata al suo braccio per quasi tutta la notte - e carezzai con leggerezza il profilo di quella mandibola un po' barbuta e un po' no. Era così tenero e tranquillo quando dormiva.
Al mio contatto, sospirò e spaventata ritirai subito la mano. Me la strinsi al petto, facendo finta di dormire. Non volevo farmi beccare mentre contemplavo la bellezza di una persona che mi odiava. Sarebbe stato troppo brutto da vedere, quel solito sguardo di disgusto, mentre la persona che tu odi, ti sta toccando. E poi non volevo che quei lineamenti così rilassati si corrugassero come sempre in certe brutte smorfie.
Chiudendo di nuovo gli occhi, sentii il materasso muoversi e qualcuno sbadigliare e mormorare qualcosa. Forse era Jared. Sentii il materasso dietro di me alzarsi dal peso che poco prima, Jared aveva occupato con il suo mastodontico corpo alto e snello.
Feci finta di risvegliarmi, smuovendomi appena e cambiando posizione. Mentre recitavo la falsa, tutto a un tratto, sentii il materasso muoversi violentemente come se ci fosse il terremoto. Aprii gli occhi immediatamente e mi misi seduta sul letto.
- Wake up! Oh yeah, wake up! Oh yeah! - la voce di Jared suonò tuonante nella mia stanza da letto a Vancouver. Le coperte volarono per terra mentre Jensen sonnolento, cadeva via insieme con loro. Un boato sordo si proruppe per tutta la stanza, seguito poi dalle imprecazioni del biondo verso il castano.
- Cretino - biascicò mettendo una mano sul cuscino sopra il letto, tirandoselo per terra per... dormire ancora.
Sgranai gli occhi meravigliata. Stava ancora cercando di dormire? Mi sporsi dal letto e gli mossi la spalla. - Jensen sono le sette, dobbiamo alzarci, dobbiamo andare a lavoro! - mormorai piano.
- Si mamma, tra un po'... -
- Ehi fratellino! - urlò ridendo Jared, strofinandogli un piede nudo sulla faccia. Jensen cambiò guancia, e gli diede le spalle, ma per Jared non era ancora finita. Gli cavalcò sopra e iniziò a muoversi... mimando l'atto di accoppiamento. Spalancai la bocca urlando:
- Jared! - indignata e imbarazzata, lo spinsi via da dosso a Jensen, cadendo giù dal letto, finendo addosso a quest'ultimo. Il ragazzo non ne poté più, e si sedette afferrando il cuscino e coperte, lasciandole poi via.
- E' impossibile dormire con te Jar... - appena riuscii a focalizzarmi, spalancò la bocca. - E tu che ci fai nel mio appartamento? - domandò curioso e stupito.
- In realtà sei sul pavimento di camera mia... - dissi ridendo, alzandomi, e lasciando poi, un pugno sul braccio di Jared, facendomi male io e non lui.
- Oh, vero... - biascicò prima di domandarmi dov'era il bagno, dirigendosivi all'istante. Non mi fece nemmeno finire la frase, mentre lo fissavo allontanarsi nel corridoio fin all'ultima porta a destra: - ... stai attento prima di aprire la porta, può esserci Lun... -.
- Aaaaaaaah! - sentii un urlo femminile e iniziai a ridere divertita dalla scena. Vidi uno Jensen che tornava correndo verso la mia stanza, con occhi sgranati e impressionati.
Jared rideva senza sosta, tenendosi addirittura un braccio sulla pancia, scosso, dai sghignazzi. - Ahahah suvvia Jen, avrai... - sghignazzo ancora - avrai pur visto una donna nuda - e ricominciò a ridere in modo sguaiato. Quando sentii quelle parole, la gelosia mi pervase intera, ma cercai di calmarmi avvicinandomi al povero ragazzo biondo sotto shock.
Appoggiai una mano alla spalla di Jensen facendolo sedere sul letto. - Che cosa hai visto?  - domandai, cercando di apparire la più seria possibile, mentre gli angoli della bocca mi si curvavano meccanicamente all'insù.
- Metteva... metteva - scosse il capo e ritorno tra noi, ancora un po' scosso.  - Non credevo che voi donne usaste questi tipi di assorbente... eh! - corrucciò la fronte schifato da quel ricordo. - Si stava infilando una cosa... - finì di parlare, interrotto dalla furia di Luna.
- Si bussa prima di entrare signor Ackles! - urlò rabbiosa. Jared non smise per un attimo di ridere. Mi era, direi, molto di aiuto in quel momento.
- Non sapevo che stessi mettendo quel coso... o mio Dio, più ci penso e più mi schifo - mormorò disgustato.
- Luna fammi capire cosa stavi mettendo? - domandai curiosa, facendomi scappare un sorriso. Lei mi lanciò uno sguardo a dir poco omicida prima di parlare:
- Mi stavo mettendo un Tampax, mentre canticchiavo Leona Lewis... ho il ciclo e oggi avevo promesso di andare a nuoto con gli amici dell'università... - mormorò imbarazzata.
Oddio, adesso capivo lo stato mentale di Jensen. Povero.
- Facciamo finta che non sia mai successo, prova a dimenticarlo Jensen... fa finta che stava... infilando tu – hai – capito - cosa... mmh? - mi voltai verso Jensen che si alzò e allargò le braccia, indicando poi Luna. - Come posso dimenticarlo o far finta che stesse avendo un amplesso con un Tampax? O Dio mio, è impossibile. E poi era in una posizione che non rientra per nulla nel libro del Kamasutra! - isterico, mi fissò come faceva un bambino spaventato dall'uomo cattivo nell'armadio, che non voleva andare via, anche se tu gli dicevi che non esisteva. Povero. Gli sorrisi teneramente, cercando di rasserenarlo.
- Jensen devi capire, che noi donne... - iniziò Luna di nuovo arrabbiata. - A me non interessa...bla, bla, bla bla...non ti sento! - dimostrandosi il bambino che avevo raffigurato poco prima, si tappò le orecchie e iniziò a urlare, mente le risa di Jared continuavano ancora, e Luna, con la sua voce, sovrastava quelle dei ragazzi sbraitando imprecazioni contro gli uomini.
Non potevo più sentirli, presi un bel respiro e...
- Adesso, basta! - dissi, non facendomi sentire da nessuno. - Ho detto... BASTA! - gridai, stringendo i pugni, arrabbiandomi sul serio.
Tutti intorno, si zittirono.
- Oh, che silenzio - mormorai, fissandoli uno a uno. - Per favore, chiarito il dilemma, Jensen chiedi scusa a Luna per essere entrato in bagno, senza prima bussare... - e prima che Jensen si lamentasse, - Luna chiedi scusa a Jensen per non esserti chiusa a chiave in bagno - dissi perentoria voltandomi verso di lei.
Entrambi si fissarono, e si mormorano un scusa ciascuno. Jared sghignazzava ancora, piano, perciò mi voltai verso di lui e gli lanciai uno sguardo che intese pienamente.
E fu allora che smise per quella mattina.
 
- Ahahah ragazzi, non potete capire la faccia di Jensen quando ha aperto la porta e si ritrova quella povera ragazza e il suo Tampax con la Lewis che le faceva compagnia...Ahahah - fissai Jared che si divertita a sfottere il povero Jensen seduto al suo fianco e la povera Luna, chissà a quale bracciata arrivata, con lo sguardo basso mentre mangiucchiava qualcosa dal suo vassoio. Eravamo alla mensa del set, avevamo deciso di fare la lunga pausa, visto le ore di remake della prima stagione.
La Warner aveva deciso di mettere in un intero cofanetto tutte le puntate dalla prima e della seconda stagione, sperando di accumulare qualche spicciolo per le prossime stagioni che avevano intenzione di scrivere.
Per me in quel momento era incominciare davvero - dopo che avevano finito di girare le ultime puntate della terza stagione - a lavorare con una nuova/vecchia troupe che stava dando via a un nuovo progetto come il remake e quindi girare e poi mettere tutto in dei dvd da vendere e da acquistare.
Dopo che ieri avevo fatto solo alcune foto che riguardavano la prima puntata, quella pilota, oggi avevamo iniziato a girare la seconda puntata; quindi dopo pranzo avremmo dovuto girare delle scene al chiuso, molto probabilmente in qualche capannone negli studios visto che eravamo restati per tutta la mattina li.
Il regista, questa volta si era veramente fidato di me. Fu allora che chiesi consiglio al fotografo e produttore esecutivo Mister Singer.
Ci eravamo seduti tutti a un unico tavolo, perciò mentre Jared faceva ridere, raccontando le disavventure di Jensen, decisi di scambiare qualche parola sul settore lavoro con il Signor Singer.
- Mi scusi se la disturbo Signor Singer, avrei qualche domanda da farle riguardo questa puntata... - dissi a bassa voce, senza rovinare la discussione in corso di Jared.
Il Signor Singer si volse verso di me, attirato dall'attenzione. Mi sorrise e annuì - Dimmi tutto Elisabeth, qualche indecisione su quale macchina usare? - chiese curioso.
Scossi la testa, mentre cercavo di afferrare con la forchetta l'insalata nel mio piatto. - No in realtà no, mi chiedevo se le foto sarebbero meglio farle un po' alla classica, o un po' sul paranormale? Ho letto il copione e ho notato che il "Wendigo" non si fa vedere fin alla fine... pensavo, magari delle foto in contro luce, con le ombre... mi sembra quasi di vedere un lato dark in questa puntata, lei che dice? - domandai sperando in una risposta più che positiva. Il produttore pensò un po' tra se e se, e dette qualche morso al suo tramezzino prima di annuire e puntarmi un dito contro. - Brava, mi piace. Ho immaginato già qualche scatto. Mi piaci, vedi stai entrando lentamente nell'ottica di questo lavoro. Brava Miss De Santis. - disse masticando l'angolo del pane con il tonno e la maionese.
Io sorrisi per i complimenti e ringraziai sincera, ma un poco imbarazzata. La discussione si era concentrata un po' in parte nella nostra, e un po' in parte a un nuovo racconto di Jared, che faceva ridere come sempre. Per fortuna che c'era il nostro Jared, il nostro giullare di corte. Sorrisi ascoltando cosa aveva da dire.
 - Elisabetta è quella nuova, la conoscete ormai tutti di vista almeno. Vi consiglio di non giudicarla male perché vi dico subito che può sembrare antipatica ma non lo è, anzi se la conosceste, vi dico che dorme stringendo a letto un cuscino... - e divenni rossa abbassando lo sguardo. Mi stava svergognando a tutti.
- ... e vi dico che stava per tirare i capelli di radica a Jensen solo perché non gli diceva una cosa... - e tutti risero divertiti. Io alzai lo sguardo lanciandone uno di rabbia a Jared che lo ricambio con uno di scherzosità e uno a Jensen di neutralità, che ricambiò quasi tranquillamente, alzandomi le sopracciglia e sorridendomi appena, come per consolarmi e dirmi: "Non possiamo farci niente, ormai è fatta!". Bhè, era vero, ormai era fatta e per Jared quella mattina era l'ultima che vedeva, perché sarebbe morto!
 
Quando il regista disse che per quel giorno avevamo finito, gli passai nella pen - drive tutte le foto che avevo scattato. Sperando che gli fossero piaciute, per il nervosismo avevo iniziato a mangiarmi le unghie, cosa che non facevo quasi mai.
- Ehi, che c'è? Nervosa per lo scontro che avrai con Jared più tardi? - sentii la voce di Jensen dietro le mie spalle, mi voltai quasi spaventata.
- Oh, Jensen - mi stupii quando mi rivolse la parola. Cosa che non mi sarei aspettata certamente il giorno prima. Sorrisi appena e scossi la testa. - No, non sono preoccupata per quello zoticone, sicuramente avrò la mia vendetta, ma no, sono solo preoccupata per le foto che ho scattato oggi, non sono sicura che al regista piacciano - mormorai contrita.
Jensen annuì accigliato, poi, però rilassò il viso e mi regalò un mezzo sorriso. Cosa che mi stupii particolarmente. Lo shock mi tolse le parole dalla bocca, fu allora che appoggiò una mano sulla mia spalla, mi scrollò appena facendomi sentire le parole che gli uscirono dalle labbra: - Verrai a mangiare un boccone con noi adesso, per cena? - domandò cortese. Spalancai la bocca, sorpresa nuovamente. Poco convince - per lui, ma non per me - annuii, e salutandolo, mi voltai a raccattare tutto quello che fossero i miei arnesi di lavoro, e mi diressi in macchina, aspettandoli fuori, nei parcheggi riservati alla troupe e ai dipendenti che lavorano per la Warner e per il telefilm Supernatural.
Mentre aspettavo, decisi di chiamare Luna per avvisarla che per quella sera, non sarei tornata a cena. Cercai il numero in rubrica nel mio vecchio adorato Nokia 5230 e premetti il tasto chiamata. Stranamente rispose la segreteria telefonica: - Ehi, ciao, salve, giorno o sera che sia, sono Luna, se è importante, lasciate un messaggio dopo il bip, se mi cercate ma non sapete dove sono, chiamate la mia amica Elisabetta, lei saprà sempre dove sono - Bip. - Ciao Luna, sono io la tua amica Elisabetta, senti sicuramente tu sarai ancora a nuoto con gli amici, magari resti a cena con loro, bhè io avevo chiamato per dirti che... - alzai lo sguardo da terra, mentre fissavo Jared e Jensen che si avvicinavo alla mia auto, con i propri vestiti e i loro effetti personali. Quella sera saremmo andati a cena solo noi tre, ma non avevo voglia di raccontare tutto a Luna per ora. Magari aveva già capito un paio di cose sbagliate, da tutto quello che era successo, la mattina già passata ma con Jared e Jensen mi ritrovavo come una amica per loro, e viceversa loro per me. A parte Jensen, visto il nostro rapporto che non era ancora chiaro a me, ma a lui forse sì, Jared era tutta un'altra storia. Amici ormai fedeli - dire forse, vistasi la loquacità di stamattina, anche se in modo scherzoso - mi aveva sempre sostenuto in tutto e mi piaceva averlo e farlo restare così, il nostro rapporto. Eppure dopo tutte quelle pippe mentali, decisi che a Luna avrei detto solo una piccola bugia: -... sono a cena con un paio di amici della troupe. Ehm, ci vediamo più tardi a casa, divertiti... - e staccai la chiamata prima che arrivassero i due miei nuovi, ormai amici.
- Allora dove si va? - domandai curiosa ed entusiasta.
- A un chiosco qui vicino. Fanno delle ottime alette di pollo! - mormorò Jared, già sognate. - Bene allora come si va? Con la mia, o con una della vostra? - chiesi giocando con le chiavi di Betta.
Jensen alzò le spalle e scosse il capo in segno d’indifferenza: - Possiamo andare con la mia, non c'è problema! - disse Jensen tirando qualche passo indietro.
- Andiamo, forza! - urlò Jared felice.
 
Dopo il viaggio di andata verso il chiosco con il canticchiare estenuante dei Metallica da parte di Jensen, mi fecero perdere la voglia di uscire un’altra volta con loro e sicuramente, anche di ritornare con lui di nuovo agli studios.
Avevamo preso un tavolo appartato per evitare fan, paparazzi e giornalisti. Ormai erano abbastanza famosi da essere riconosciuti, ed io poi non avevo tutta quella voglia di essere fotografata. Ero io la fotografa, le facevo io le foto, e non amavo essere il soggetto della fotografia. Ero fatta così. E mia madre odiava quella parte di me. Da bambina non avevo tantissime foto come mia sorella. Lei aveva un album tutto suo dal parto fin al suo ultimo compleanno. Io avevo solo un paio di foto di varie età, che negli anni o si erano perse, o le avevo bruciate, nei mucchietti che facevo, quando ne trovavo qualcuna.
Non ero bellissima, e nemmeno carina, quindi non ero molto fotogenica, e per questo che decisi all'età di quattordici anni di intraprendere la carriera della fotografia. Prima con una vecchia macchina a pellicola Kodak, allorché mia madre a 18 anni, dopo che vide i primi "capolavori" che facevo - così li definiva lei - mi comprò la prima macchina fotografica professione, che ricordo ancora. Poi con i piccoli lavori che facevo in città, al paese, mi comprai le prime due vere macchine professionali, con i tre piedi e qualche obiettivo intercambiabile. Addirittura mio nonno mi regalò a Natale, il primo teleobbiettivo. Pesava un quintale, ed era difficile da portare in spalla almeno per una donna, però. si dimostrò molto utile per alcuni scatti che facevo sulla spiaggia a mare...
- Ehi Betta sei con noi? Che cosa ordini? - mi chiese Jensen sorridendomi appena. Lo fissai un attimo smarrita prima di prendere il menù, e scegliere un’insalata con pollo e salsa allo yogurt.
- Secondo me mangi poco... sei troppo magra! - disse Jared, tastando i muscoli delle mie braccia. Quando si tirò indietro e si appoggiò allo schienale, per mostrarmi i suoi, restai sconvolta dalla durezza del suo braccio. E l'avevo semplicemente toccato con un dito.
- Io faccio di meglio - mormorò Jensen, appoggiando il gomito sul tavolo, poggiando l'avambraccio, verso la mia direzione. La maglia, a manica corta, già tesa sotto il muscolo, si sforzò di mantenere salde le giunture, quando Jensen forzò la presa in un pugno, e tese l'intero braccio.
Le vene s'ingrossarono e spuntarono sotto la cute... attonita alzai un dito, toccando quella pelle liscia e dura. Forse un po' attratta o no, i muscoli di Jensen mi sembrarono molto più "atletici" rispetto a quelli di Jared. Alzai lo sguardo verso di Jensen, che lentamente stava lasciando andare la stretta del pugno. Mi fissò, torvo e colpito. E non capii il perché... ma lasciai che la mia mano tornasse al proprio posto.
- Ehi, vi va di sentire una barzelletta su un calciatore italiano e americano? - Jared, cercò di stemperare la scena, attirando solo poco la mia attenzione. In quel momento era solo per Jensen e per quello sguardo magnetico, oserei affermare...
 
La cena andò un po' per conto suo, come anche la prospettiva che stava per assumere il viaggio. - Questa volta siediti tu davanti Lizzie, non reggo la cintura con la pancia piena! - disse Jared, sazio di alette di pollo con salsa barbecue. Risi divertita prima di salire davanti e allacciare la cintura. Jensen fece il giro dell'auto da dietro insieme a Jared, che iniziarono a spingersi e a darsi pugni. Divertita dalla scena, come se fossero due fratellini, aspettai l'entrata dei ragazzi, accendendo la radio.
Casualmente trovai una mia canzone preferita alla radio: ... I wanna break the spell/You've created/You're something beautiful /A contradiction /I wanna play the game /I want the friction... Iniziai a canticchiare, a occhi chiusi non dando più retta ormai ai ragazzi, che erano saliti in auto. Continuai a cantare tranquillamente, quando ormai la canzone era finita - annunciando che quel settembre, in tutte le edicole, e i negozi autorizzati sarebbe uscito il loro prossimo CD - notai che eravamo arrivati al parcheggio. Mi voltai sorridendo a Jensen, e a Jared, già uscito fuori dall'auto. Non sapendo cosa fare, mi rivolsi solo a lui, risposi con un - Grazie per la serata - e un - ciao a domani - abbassando poi lo sguardo, timido per la situazione. Slacciai la cintura, afferrai la borsa, e scesi dall'auto, chiudendomi la portiera dietro.
Mi avvicinai all'auto lentamente, sistemando continuamente la tracolla della borsa, che mi cadeva giù dalla spalla. Mi sentivo osservata e strana. Due occhi mi stavano perforando la schiena, mentre la testa si faceva leggera, iniziai anche a sentire freddo. Cercai le chiavi dentro la borsa, che si dimostrò una vera impresa. Quando le trovai, il clacson di Jared ruppe il silenzio intorno, e mi fece così spaventare, che le chiavi mi caddero dalle mani, facendole così finire sotto la macchina. M’inginocchiai per cercarle e raccoglierle, quando sentii la portiera di un’auto chiudersi. - Tutto apposto? - domandò la voce di Jensen a momenti preoccupato. Mi alzai, quando trovai le chiavi, e annuii solamente. Intanto le mani iniziarono a tremarmi per lo spavento o per il freddo - ancora non capivo per quale delle due. Cercai di infilare le chiavi nella toppa in più tentativi, tanto da far avvicinare Jensen, che fissandomi per qualche minuto, decise poi di aiutarmi.
Appoggiò la mano sulla mia, e accompagno l'entrata della chiave insieme alla mia mano. - Che cosa c'è? Stai tremando... - costatò. Io corrugai la fronte, sentendo una scarica sulla mia mano. La stranezza di quella sensazione mi portò a liberarmi dalla sua presa, scuotendo la testa con risolutezza. - Dal freddo... - mormorai semplicemente, aprendo la portiera. Mi sedetti, appoggiando la borsa nel sedile del passeggero. Poi infilai la chiave, ancora con quale difficoltà, nel quadro d'accensione. Girai e accesi l'auto aspettando che si riscaldasse un attimo, poi mi avvicinai alla maniglia interna della portiera per chiuderla, quando la mano di Jensen la accompagnò per chiuderla lui stesso. Mi fissò da dietro il vetro, mentre inserii la retromarcia e mi voltai indietro per fare lo spostamento. Un forte mal di testa irruppe la concentrazione e lasciando andare la frizione, la macchina si spense improvvisamente. Mi avvicinai con lo sguardo al quadro dell’auto, per riaccendere Betta, portandomi una mano in fronte.
Jensen tanto più preoccupato di prima, aprii la portiera, e si appoggio al tetto di Betta. - Ehi, tutto apposto? - si sporse verso di me, cercando di trovare qualcosa sul mio viso teso.
- Tutto apposto solo un forte mal di testa... - mormorai, girando la chiave nel quadro senza risultati. Jensen, senza tanti complimenti, mi afferrò il polso delicatamente, tirandomi indietro il braccio, e togliendo la chiave dal quadro. - Ti do un passaggio, vieni... - disse, afferrandomi la mano, facendomi uscire dall'auto, afferrando la borsa.
- E Betta? - domandai, guardando la macchina che venne chiusa. - La prenderai domani.
- Oh... - sospirai amara, sostenendomi al braccio di Jensen. Ci dirigemmo verso il suo sub. Mi fece salire dalla parte del passeggero, mettendomi la cintura e chiudendomi la porta. Poi fece il giro davanti alla macchina e salì dal suo lato. Mise la cintura, accese la macchina e partì sgommando dal parcheggio.
- Molto probabilmente hai la febbre... - mormorò piano, lasciando una mano sul volante, mentre l'altra si poggiava sulla mia fronte sudata. In realtà non mi sentiva spossata e presa da un attacco febbrile, però sentivo il mio stomaco a soqquadro e la mia testa che continuava a pulsare.
- No, mmh, non hai sicuramente la febbre... ma cosa allora? - si domandò lui stesso, mentre svoltava l'angolo per casa mia. Cosa che mi stupii particolarmente. Come faceva a ricordare la strada per casa mia?
- Ci sono venuto con Jared, l'hai già dimenticato? - mi voltai fissandolo corrucciata. Mi aveva sentito? Forse avevo posto la domanda a voce alta...
Jensen accelerò un attimo, sorpassando un’auto, e sembrò che la mia pancia non fosse d'accorso. - Jensen per favore rallenta un attimo, credo di stare per dare di stomaco... - ,mormorai, iniziando a respirare ed espirare velocemente, mantenendo la bile dentro.
- Non vomitarmi in auto, ti prego... - accelerò, correndo per la lunga strada dove abitavo, mentre io afferrò la cintura tra le mani tirandola, come se mi stesse soffocando.
Non riuscii più a trattenermi: - Fermati, adesso! - dissi a voce alta, sciogliendomi dalla presa della cintura, mentre lui frenava bruscamente.
Stavo per schiantarmi contro il vetro, quando la mente prevedibile di Jensen, spostò subito la mano davanti al mio petto, trattenendomi sul sedile. Ribalzammo entrambi nello schienale, poi come se fosse stato un imput per il cibo, aprii immediatamente la portiera, e vomitai in mezzo alla strada. Jensen si sporse senza indugio verso di me, spostando la mia sedia indietro, ponendosi ai miei piedi, un po' stretto e angusto, i suoi gesti furono comunque utili. Mentre io mi tenevo alla portiera con le braccia, lui mi tirò indietro i capelli, carezzandomi la schiena.
- Questa è sicuramente intossicazione Beth. Sicuramente il pollo era avariato... - appena sentii la parola “pollo”, diedi un'altra volta di stomaco, rigettando anche l'anima. La mano di Jensen era confortevole, mentre faceva su e giù in un lieve massaggio. Quando sembrò finire tutto, mi alzai, e appoggiai il capo, nel poggiatesta.
- Tutto okay? - domandò Jensen, tirandomi con la sedia avanti, sistemandosi al proprio posto, prima però chiudendo la portiera.
- Sì, tutto okay adesso - mormorai, cercando di inghiottire la saliva amara. - Vuoi un goccio d'acqua? - mi chiese cortese. Annuii piano, e lui si spostò immediatamente con il busto indietro, cercando qualcosa sotto la mia sedia. Ne uscii sorridente, con una bottiglietta d'acqua mezza piena.
- Ci ho bevuto solo io, non preoccuparti... - disse ridendo imbarazzato. Sorrisi lieta di quello che mi disse. Sembrava stesse ammorbidendosi un po' con me.
Bevvi più sorsi, cercando di smaltire quel sapore amaro dalla bocca. Quando gliela porsi, non feci caso alla bottiglia vuota. Imbarazzata, mormorai: - te ne compro una domani, promesso. -
Facendomi un occhiolino, per nulla preoccupato, tolse il freno a mano, e inserii la prima, spostandoci ancora per un'altra ventina di metri. Poi si parcheggiò di fronte casa mia e di Luna.
Notai che ancora Luna non era tornata; le luci della cucina erano spente, di solito lei lascia le luci di casa, dove vi passava. Mi voltai verso Jensen per ringraziarlo, quando notai lo sguardo puntato sulla mia collana. - Cos'è? - domandò alzando lo sguardo verso i miei occhi.
- Una miniatura in argento della mia isola, di un'animale, e di una macchina fotografica - mormorai, afferrandomi i miei ciondoli.
- Te li ha regalati qualcuno in particolare? - domandò curioso, con voce seria. Lo fissai per qualche attimo, non smettendo di distogliere lo sguardo quando parlai: - Sì, più di uno, in realtà -.
Annuii e alzò una mano afferrando il ciondolo che aveva la forma della mia isola. Lo fissò per qualche istante, e poi lo lasciò andare. - Ti manca la tua famiglia? - Sì, un po', si - risposi subito. Lui afferrò l’altro ciondolo, quello a forma di macchina fotografica: - Chi te li ha regalati, se sono troppo scortese, puoi... -.
- No, no. Puoi chiedermi ciò che vuoi; Ma se desideri sapere chi, bhè, mia madre, i miei amici, e il mio ex ragazzo -, risposi velocemente, mangiucchiandomi le lettere alla parola “ex fidanzato”.
- Chi e quale? - mormorò. - L'isola mia madre, la macchina i miei amici, e il delfino, il mio ex - mormorai pentita di averglielo detto.
- Perché il delfino? -
- Perché... mi piace essere libera di pensare come la voglio, di godermi la vita appieno come fanno questi animali, perché sono belli... da piccola, mi piacciono fin da quando sono piccola... - mormorai alzando le spalle. Abbassai lo sguardo, notando le sue dita giocare con i miei ciondoli. Poi lentamente li lasciò andare, e tornò al suo posto, fissando dritto davanti a se.
- Lo amavi? - domandò, di slanciò. Restai per un momento con la mente svuotata, e a fissare il vuoto, poi alzai le spalle, annuendo piano. - E lui? -
- Non lo so - mormorai inspiegabilmente.
Mi voltai a fissarlo cercando di capire la sua reazione, e cosa voleva capirne da queste domande.  Annuì solo, e si voltò a guardarmi. Restammo così, occhi negli occhi, solo questo, niente di più.
Un sorriso mi nacque spontaneo, e le mie braccia si alzarono cercandolo. Lo strinsi a me piano, e lui avvicinò me.
Poi scesi dall'auto, e mi voltai una sola volta, trovando il suo sguardo ancora li, a fissare il mio... come se non ci fossimo mai divisi, come se non ci fossimo mai apprezzati, come se ci fossimo sempre conosciuti...

 
 
*spazio autrice*
 
Salve, salvino, flandini xD – mania Flanders – volevo solo dirvi che un altro capitolo è proprio qui e l’avete letto. Una canzone che amo da morire a fatto da colonna sonora a questo capitolo. Tra le righe potete vedere che c’è il link nella parte dove se ne parla. Per quando riguarda la storia, va avanti, e come si buon ben notare, è nata la pace tra Jensen e Beth. Due ragazzi che prima si odiavano e adesso??? Chi lo sa...lo scopriremo solo vivendo.  u.u
Spero vi sia piaciuto. Comunque devo dire che ho avuto una crisi per questo finale. Non sapevo se mettere un forte colpo di scena o no? Addirittura la scena mi è spuntata in sogno, ma come la volevo io, quel pezzo non c’entrava niente. Troppo drammatica come storia, troppe lacrime, troppe crisi e bambino di mezzo. Vediamo a chi sarebbe piaciuto qualcosa del genere, fatemi sapere qui, o sul gruppo FB in costruzione: Love, Hate, Words.  E' ancora in fase di manutenzione ma potete venire a trovarmi comunque ;D
Spero ci facciate un salto, vi aspetto con aggiornamenti, spoiler, e altro (forse).
Ho iniziato già a scrivere il 4° ma non so se riuscirò a finirlo. Troppo impegnata per ora, Zia arrivata da Londra, e poi partenza per U.K. quindi preparazione valigia, e sono così confusa D:  Finalmente il mio sogno si realizza comunque. Magari vi aggiornerò sul gruppo quando sarò li, cmq di solito mi trovate sul gruppo di Cris. Dalla zia vado in cerca di ispirazione per una storia originale che vorrei pubblicare! ;D Ma per ora vi consiglio Loverdose di Cris (che amo alla follia) e You Saved Me di Rob (fantastica).
 Ci vediamo presto.
 
xoxo
 
Para_muse

 

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Capitolo 4
*** Paura dell'Acqua ***


Vi conglio a metà capitolo, dove c'è Link Musicale, di ascoltare la canzone. A me ha aiutato molto. 

Enjoy, ci vediamo di sotto per darvi delle news. Eh grazie a tutti per le preferite/seguite/ricordate e per le 100 visite :)





4 Capitolo

Paura dell'Acqua


 
Mi svegliai sgomenta fissando il muro davanti a me. Portai una mano in fronte, togliendo il velo di sudore che mi ricopriva completamente. Dopo la serata trascorsa insieme a Jared e a Jensen, passai la notte tra sogni e incubi. Mi voltai a guardare che ora fossero. Erano le sei in punto. Decisi allora di svegliarmi e iniziare a prepararmi. Infilai le infradito, e mi diressi davanti allo specchio cercando le occhiaie che probabilmente solcavano il mio viso quella mattina . I miei lineamenti spaventati, mi fecero già capire, che l'alba di quel mattino stava nascondendo il nero sotto gli occhi.
Dopo l'incubo del delfino morto, non sarei sicuramente riuscire a dormire nemmeno la notte successiva.
Presi l'intimo e i primi vestiti vintage che trovai nell'armadio e mi diressi in bagno per farmi una doccia calda, sperando che fosse anche rilassante.
Di solito quando avevo molto più tempo facevo il bagno, ma quel giorno avevo un brutto presentimento con l'acqua. Dopo quel terribile sogno piscine, bagni, e qualsiasi recipiente d'acqua non mi sarebbe dovuto comparire davanti. Non sarei riuscita a reggere la paura che avevo per l'acqua. Non ero una fanatica dell'acqua. Facevo il bagno, andavo in piscina a mare, ma come i bambini piccoli ero traumatizza all'idea di infilare la testa sott'acqua. La paura di affogare, di restare senza respiro, era troppo per me. Il cuore iniziava a battermi così forte, e l'adrenalina salire fin alle stelle, che non riuscivo nemmeno a bagnare il mento da bambina.
Perciò afferrai il miscelatore e lo fissai al suo appoggio, mentre la pioggia d'acqua mi bagnava le spalle, e non i capelli che avevo acconciato in uno chignon. Sicuramente le ciocche dei capelli che erano fuoriuscite dalla crocchia si sarebbero bagnate, ma per me non era un problema. Amavo avere un po' di frescura in fronte e sul collo dopo la doccia.
Usai il mio solito bagnoschiuma alla fragola, sperando che l'odore mi rilassasse un po’, poi sciacquato la schiuma, uscii dal box, e mi infilai nel morbido accappatoio iniziando ad asciugarmi e a prepararmi, mentre i miei pensieri correvano ancora all'incubo di prima.
Quando uscii dal bagno, sentii il rumore delle tapparelle alzarsi nella stanza di Luna, certamente si era appena svegliata.
- Buongiorno - dissi aprendo la porta della sua camera. Lei si voltò salutandomi con la mano, mentre si stiracchiava, contorcendosi la schiena. - Preparo la solita colazione? - domandai, mentre mi dirigevo in cucina preparando un caffè per lei e un thè rilassante per me. Quando tutto fu pronto, sistemai sulla tavola la tovaglia, e infine la sua tazza con la brocca piena di caffè. Io bevvi in piedi il mio thè con due biscotti, e poi corsi di nuovo in camera a truccarmi. - Come mai stamattina così presto? - disse Luna quando ci incontrammo in corridoio. Alzai semplicemente le spalle, senza dare una vera e propria spiegazione. Quando arrivai davanti allo specchio, cercai al meglio di sistemare le occhiaie abbondando col correttore e poi un po' di mascara per dare più importanza alle ciglia e non alla pelle. Sperando di non dare nell'occhio, mi sistemai ancora una volta i capelli, i vestiti, afferrai poi la borsa, e cercai i borsoni... che non trovai, ovviamente.
"Maledetto Jensen, e il suo passaggio! E adesso chi chiamo io?", un'imprecazione volò dalla mia bocca. Luna, e le sue orecchie fin troppo fini, mi sentirono, ed un suo - Wow - mi fece scoraggiare, ricordandomi che le parolacce non erano adatte per una donna. - Scusate! - esclamai, come se avessi un pubblico davanti. Mi afferrai il ciuffo che avevo davanti agli occhi e iniziai a tirarlo per la frustrazione.
Avrei dovuto andare a piedi, ciò significava niente ballerine! Scarpe più comode come le Hogan sarebbero state perfette. Perciò le inforcai e uscii dal portone. - Ci vediamo stasera, non torno a pranzo Luna, okay? -
- Mmh, mmh! - mugolò avvicinandosi alla porta, con la bocca piena. La salutai ancora una volta e mi diressi a piedi agli studios. Passeggiando per la seconda o forse terza volta per quella strada, mi accorsi ancora una volta, come la prima, di come era bello il mio quartiere. Le case dello stesso colore, le porte delle stesso colore, le auto parcheggiate davanti al proprio garage o davanti al proprio marciapiede. Insomma, non c'era niente che somigliasse al mio vecchio quartiere. Un po' diverso e molto confusionario.
Arrivai davanti ad un incrocio e per precauzione premetti il bottone per i pedoni, aspettando che il mio semaforo diventasse verde. Quando fu così scesi dal marciapiede assicurandomi che non ci fossero auto, solo una che si stava fermando alle mie spalle. Notai una grossa somiglianza ad un solo unico sub che conoscevo, e quando iniziai a camminare mi voltai un'altra volta per sicurezza, notando che qualcuno, un certo "qualcuno" dietro al vetro, mi stava sorridendo, e salutando. Mi fermai in mezzo alla strada in un primo momento sorridente, e poi la rabbia salii fin al cervello facendomi ricordare che era colpa sua se quella mattina stavo facendo la strada a piedi.
Prima che mi facessi uccidere dalle auto che sarebbero passate dopo il rosso, corsi verso la sua auto, e mi appiccicai allo sportello, dietro al vetro del finestrino che Jensen stava abbassando.
- E' colpa tua se stavo andando a piedi stamattina! - grugnai. - Ehi, di solito oso dire buon giorno quando incontro qualcuno di prima mattina. Poi userei un tono cortese per chiedere un passaggio, e non alluderei la richiesta in una frase usando il passato! - disse ragionevole, alzando le sopraciglia.
Lo fissai irritata prima di aprire la portiera, sedendomi sul sedile, mettendomi la cintura: - Mi autoinvito, e ti ringrazio ancora per ieri sera Jen - mormorai, sorridendogli dolcemente, affinché la discussione si allentasse momentaneamente.
Lui mi sorrise divertito, e ci dirigemmo agli studios con tranquillità e con un discorso a filo logico.
Arrivati ai parcheggi posteggiò di fianco alla mia Betta. Afferrando le chiavi dell'auto dalla borsa e avvicinandomi a essa ne accarezzai la carrozzeria lucida ma un po' sporca.
- Ciao Betta, sentita sola stanotte? - chiesi all'auto, come se lei potesse rispondere. - Sei strana forte Beth - mormorò Jensen, dandomi qualche pacca sulla spalla. Mi voltai lanciandogli uno sguardo omicida e prima che potessi voltargli un pugno, il clacson di Jared, mi fece saltare un'altra volta. Alzammo la mano entrambi salutandolo, mentre cercava un parcheggio più vicino all'entrata.
- Hai bisogno di una mano con i borsoni? - si propose gentilmente Jensen. Io annui, solamente, e aprendo l'auto dal telecomando, afferrai prima uno dei borsoni pesanti, porgendolo a Jensen, che non si lamentò per nulla, poi afferrai i miei, mettendone uno su una spalla, e l'altro sull'altra spalla. Cercai di bilanciare il peso, mettendo la borsa a tracolla di mia sorella dalla parte ove meno peso rispetto all'altra parte. Perciò, dopo essermi sistemata ci avviammo all'entrata, dalla porta a vetri, e notammo subito la contentezza di Jared davanti al viso radioso di Jessica, mentre chiacchieravano e ridevano su qualcosa da loro discusso. Erano belli da vedere, e io e Jensen non ci facemmo scappare nulla delle pose, o gesti che Jared mostrava mentre era con lei. Notammo subito qualcosa che veniva definita "intesa" tra Jessica e Jared. Sorrisi contenta per loro due, mentre io e Jensen ci dirigevamo verso il mio studio per vedere poi in quale capannone o set avremmo girato oggi.
- Ci aspetta la terza puntata della prima stagione oggi, lo sai no? - domandò convito Jensen. Io scossi la testa frustata. - No, non so nulla di cosa tratta? - domandai curiosa.
- Delle solite cose paranormali, non ricordo di preciso quale fosse, ma dovrebbero arrivare comunque persone che vorrei farti conoscere. Sono simpatiche! - disse sorridendomi allegramente. Ricambiai lo sguardo radioso e il sorriso, mentre ci dirigevamo verso la bacheca appesa allo studio dedicato al regista per ogni puntata.
Notammo subito che il capannone era il numero 9 e che oggi avremmo girato le scene esterne, ma con schermi verdi, per praticità. Perciò afferrai i miei borsoni, nuovamente, e con l'aiuto di Jensen ci dirigemmo al capannone richiesto, richiamando anche il piccolo rubacuori Jared alla riscossa. - Dai Jar, dobbiamo andare! - lo chiamò Jensen, cambiando spalla con il borsone. Jared si voltò di scatto verso di noi interrompendo la chiacchierata. Poi scosse la testa sconsolato: - Ci vediamo domani!Ciao Jessica! - mormorò, affiancandosi a noi. - Ciao Jared - disse salutandolo con la mano Jessica. Io le sorrisi solamente, alzando una mano appena, per lo sforzo di tenere i due borsoni in equilibrio, dopo che però mi aiutò Jared riuscii a dedicarmi solo ad un borsone, più che leggero, finalmente.
Facemmo a piedi un tratto di strada, fin quando non arrivammo al grande garage del capannone mezzo aperto. Vi entrammo e la prima cosa che vedi mi suscitò le stesse emozioni della notte prima.
Acqua, tanta acqua.
Mi bloccai improvvisamente, preoccupata dall'idea di dover, per forza, e senza ombra di dubbio fare delle foto in mollo all'acqua. Poco o meno alta un paio di metri, sicuramente li dentro non sarei riuscita ad entrare.
Quando ormai Jensen e Jared avevano posato i borsoni con il mio materiale nella mia solita postazione avanzai lentamente al gazebo, dove appoggiai l'ultimo borsone e la borsa. Continuai a fissare l'acqua così intensamente che non senti per niente la mano di un bambino toccarmi il braccio fin quando una voce femminile non mi distrasse.
- Ehi, mio fratello ti sta chiamando! - mi voltai guardando un viso rotondo e da donna che mi parlava. Scossi la testa cercando di capire cosa avesse da dirmi, desiderando dimenticare quell'incubo che mi pervadeva dalla testa ai piedi.
- Ci sei o ci fai? - mi domandò ridendo scherzosamente, spingendo davanti a se un ragazzino, che definiva suo fratello. Le somiglianze erano poche. Mentre lei portava  un nasino alla francese, il piccolo dai capelli rossi , diversi da quelli neri della sorella, aveva un nasino piuttosto a patata.
- Ciao, tu sei la fotografa? - mi domandò cortese. Io annuii sorridendo mostrandogli i borsoni della Nikon. Lui sorrise, sprizzando felicità da tutti i pori. - Vorrei che sul set tu mi facessi un sacco di fotografie! E' la mia prima esperienza, vorrei tanto conservare qualche ricordo! - mormorò timidamente, attorcigliando le mani per il nervoso.
Presa dalla tenerezza, dimenticandomi di cosa mi aspettava, mi abbassai alla sua altezza piegandomi sulle ginocchia dandogli un buffetto sulla guancia, prima di scompigliargli i capelli rossicci. - Sei un soggetto così bello che non c'era motivo di venirmi a chiedere di farti le foto. Sarei stata attratta da te! - dissi convinta, annuendo.
Il bambino sgranò gli occhi dalla sorpresa, e poi si gettò tra le mie braccia ringraziandomi. Quando si fu allontanato, correndo per il set in cerca di un certo Daniel, sua sorella mi rivolse la parola: - Devi scusare la irruenza di Lucas, è un bambino così energico, che non so come mia madre riesca a stargli dietro tutto il giorno! - mormorò sfinita portandosi una mano in fronte.
- Bhè non è un problema. Sono abituata con dei bambini così gioiosi e pieni di energia. Direi che sono adorabili! - dissi, enfatizzando. Lei si voltò ridendo appena. - Eh già... - sospirò prima di voltarsi e chiedermi: - Quindi tu sei la fotografa del set? Piacere io sono un'attrice di questa puntata, Andrea. - disse sorridendomi, porgendomi dopo la mano destra. Ricambiai la stretta dicendo: - Elisabetta, ma puoi chiamarmi Beth o Lizzie, come preferisci... - mormorai come sempre, dopo una presentazione.
- Ah, sei italiana? - disse stupita. Io annuii, mostrando un timido sorriso, poi venni richiamata dal regista. Voleva che mi iniziassi a preparare. Non capii bene cosa intendesse con "preparare", ma vedevo guai in vista.
- Io dovrei essere al trucco, i miei fratelli sicuramente saranno già li. Poverino, Daniel dovrà stare a mollo per un sacco di tempo oggi, e poi con quel trucco fastidioso... - sussurrò tra se, dirigendosi dal lato opposto a quella in cui sarei dovuta andare io. - Ci becchiamo tra un po'! - mormorò Andrea contenta.
 
 
Quando parlai con il regista, capii che la parola "preparare" non significava mettere ad appunto le macchina fotografiche, pronte così per scattare le foto, ma il bello della situazione era che dovetti “prepararmi” anch'io. Perciò mi toccò andare in cabina, dove di solito si cambiavano gli attori, per mettermi un costume sotto ed una tuta da subacqueo sopra per restare più asciutta, non facendo notare particolarmente il mio corpo. Mi vergognavo troppo per mostrarlo a tutti.
Quando arrivai con la mia Canon, foderata da un alloggiamento a tenuta d’acqua con una finestrella di vetro posta davanti all’obiettivo mi sentivo un po' aliena.
Ero un po' strano notare che ero l'unica a parte gli stuntman, che dovevano aiutare gli attori, ad avere una tuta addosso per lavorare. Mi diressi lentamente al bordo piscina dove c'era la piccola folla di persone che dovevano entrare in acqua. Chi si buttava con un tuffo, chi vi entrava lentamente, la piscina comunque mi faceva paura.
Osservai da lontano i ragazzi gettarsi in un dorso, mentre la presenza di tre persone mi fecero distrarre dai muscoli dietro la maglietta di Jensen. - Ehi! - mi richiamò Lucas. Mi voltai alla mia destra abbassando lo sguardo. - Ehi Lucas! - mormorai scompigliandogli i capelli. Poi un bambino più silenzioso e truccato da demone, sbucò da dietro le spalle di Andrea - E tu saresti Daniel...Ciao Daniel, io sono Beth, o Lizzie, come preferisci! - mormorai, avvicinandomi a lui, che si rifugiò dietro la schiena di sua sorella. - Ma come, sei un demone e hai paura di un umano?! - domandai stupidamente cercando di attirarlo a me. Lui sorrise, scappando dietro le spalle di sua sorella.
- E' un ragazzo timido... - mormorò scusandosi con me. Io scossi la testa, non creandomi problemi. - Tranquilla... - dissi semplicemente. Spostai nuovamente lo sguardo verso l'acqua e il mio viso si turbò nuovamente, il che venne notato da Andrea e dai due ragazzi.
- Hai paura dell'acqua, vero? - domandò Lucas prendendomi una mano, accarezzandola. - Tranquilla, il mio povero fratellino deve tenere una mascherina per fare il demone che abita nell'acqua. - disse rassicurandomi. Voleva farmi capire che suo fratello era più coraggioso di me, ed era solo un bambino. Annuii poco convinta.
- Elisabeth, tranquilla, non ti succederà nulla. Dovrai fare solo poche fotografie...ne sono sicura! - disse Andrea, appoggiandomi una mano sulla spalla. Mi voltai con lo sguardo verso di lei, ringraziandola con un sorriso. Cercò ancora di rassicurarmi con belle parole, ma ad un certo punto mi urlò ad un orecchio un'imprecazione:
- Cavolo, Jensen sei tutto bagnato! - urlò ridendo mentre Jensen la faceva volare. Insieme, scherzavano e ridevano come facevano due amici di sempre... o due fidanzati di sempre?
Qualcosa dentro di me iniziò a ribollire, e la rabbia mischiata ad un'emozione che non riuscii del tutto a decifrare, mi annebbiarono la mente, e mi rivoltarono la pancia.
Cosa mi stava succedendo? Non era da me essere gelosa... "Aspetta hai detto gelosa?", la mia voce dentro di me parlò al posto del mio subconscio, che annuiva.
- Jensen, amico, mettimi giù... -, Andrea si stava divertendo un sacco, e Elisabeth si stava rilassando . Aveva detto amico, e quella rabbia insieme a un po' di quell'emozione chiamata gelosia, scomparvero.
Li fissai sorridendo appena. La ragazzina che era in me si dedicò un po' a Lucas e Daniel. Scherzai con loro cercando di distrarmi dalla discussione di Jensen e Andrea, e di dimenticare cosa avrei fatto dopo.
Riuscii a recepire il nome nella discussione, e qualche risatina da parte di Andrea mi fecero sospettare che fossi il loro pettegolezzo. Chissà cosa avevano da dire due vecchi amici di lunga data.
Lasciai perdere, perché più cercavo di dimenticare entrambe le cose, più l'ansia saliva... Quando sentii la voce del regista tuonare: - Siamo pronti, attori e fotografa in acqua! - la pancia mi si rivoltò contro. Non ero pronta! Per niente!
- Vado a farmi una nuotata, ci vediamo più tardi! - mormorò Jensen lasciando un bacio sulla guancia ad Andrea, regalandomi poi un'occhiata veloce. Lo fissai per tutto il suo percorso prima di fare un tuffo da campione olimpionico. Jared pensò invece di attirare la propria attenzione facendo un insolito tuffo "bomba", schizzando un po' d' acqua da tutte le parti.
Alcune persone addirittura si lamentarono per gli schizzi. Io risi semplicemente, come facevo sempre quando Jared ne combinava una delle sue. Tutto però scomparve in un secondo quando sentii una mano grande poggiarsi dietro la mia schiena, mentre un'altra mano mi porgeva la mia macchina fotografica protetta. Deglutii con fatica, fissando Mr. Singer. Anche lui cercò di rassicurarmi: - Sarai brava comunque, o fuori o dentro l'acqua, le foto verranno bene. -
Cercai di annuire alla disperata ricerca di un suo aiuto, ma quando mi spinse verso il bordo dell'acqua capii che ormai il gioco era fatto. Dovevo sfidare quell'insicurezza. L'acqua non mi avrebbe fatta paura. Mi abbassai verso il bordo, sedendomici, e poi infilai le gambe in acqua per bagnarmi la tuta, inumidendo la pelle. Non era molto fredda, ma nemmeno calda. Era a temperatura ambiente, o quasi. Appoggiai al mio fianco la macchina digitale, e mi immersi fino al collo.
Iniziai a inspirare ed espirare molto velocemente. Decisi che dovevo farlo. Tutti mi stavano aspettando. Perciò, eterna indecisa, afferrai la macchina fotografica protetta e mi bagnai anche le mani, immergendola sotto il pelo dell'acqua. Poi toccò a me stessa. Mi bagnai i capelli e riemersi subito. Presi aria di nuovo a pieni polmoni, e iniziai a nuotare un po' più in la del bordo, vicino a dove si trovavano i ragazzi pronti a recitare. Jared mi guardo sorridendomi. Jensen mi fissò un po' accigliato. Forse si era già calato nella parte. Presa da quella loro posizione non persi tempo a scattare una foto. Quando Jared notò che mi stavo posizionando dietro l'obbiettivo divenne con sguardo serio, e aspettò che facessi la foto.
Naturalmente ne scattai più d' una, aspettando che Daniel fosse pronto sott'acqua insieme agli stuntman. Quando ci fu dato l'okay, e il regista diede l'azione, mi infilai immediatamente sotto il pelo dell'acqua, lasciandomi andare, toccando quasi il fondo.
Vidi nero e non capii perché... mi accorsi solo dopo che per la paura avevo chiuso forte gli occhi. Li aprii solo quando qualcuno mi passò di fianco. Era uno degli stuntman che si allontanava momentaneamente con una bomboletta di ossigeno.
Decisi di fare una cosa veloce: iniziai a guardare dall'obbiettivo e da quella prospettiva scattai alcune foto. Poi con una mano cercai di spostarmi, nuotando dal lato opposto. Con difficoltà, mentre i polmoni spingevano per cercare aria, cercai di scattare alcune fotografie, ma il bottone dello scatto si blocco non concludendo nulla.
Cercai di farlo funzionare iniziando a premerlo più di una volta, mentre le bollicine che mi scappavano involontariamente dalla bocca mi occupavano la visuale. Iniziai a perdere ossigeno senza rendermene conto.
Arrabbiata, fissai in alto notando il movimento degli attori. Daniel, Jensen, Jared, Lucas e un altro attore. Cercai gli stuntman dall'altro lato ma non ne notai nessuno. Sembravano tutti occupati. Frustrata lanciai la macchina fotografica lontana da me, ma si spostò appena di pochi centimetri toccando poi il fondo. Mi abbassai, cocciuta e stupida com'ero, con la testa per recuperarla, ma le orecchie iniziarono a fischiarmi e tappandomele aprii la bocca come se dovessi urlare dal dolore, espirando... acqua. Sgranai gli occhi, e mi afferrai la gola. Iniziai ad avere degli attacchi... come se fossero delle convulsioni. Il petto si alzava e si abbassava, e l'unica cosa che iniziai a fare fu smuovermi come una forsennata. Scossi braccia e gambe e cerca di arrivare fin in superficie. Quando vidi la luce di un riflettore mi sembrò di stare in paradiso. Aspirai per davvero aria, i miei occhi videro sfocati e macchiati, i miei capelli erano incollati al collo e al viso. Cerca di scostarli, e poi urlai...ma inghiottii un'altra volta acqua.
Iniziai a vedere nero, e sentii le mie braccia afflosciarsi piano sui miei fianchi... Mi lasciai andare.
 
 
Sentii gli angeli cantarmi intorno e qualcosa di soffice mi avvolse. Le piume delle ali degli angeli mi solleticavano tutta. - Toglietevi - tuonò la voce di un angelo arrabbiato. Mi spaventai e iniziai a cercarlo intorno a me, ma non vidi nessuno, solo il bianco candore del paradiso. Sentii qualcosa colpirmi la guancia e il dolore mi pervase tutta. - No - mormorai, carezzandomi la pelle. - Beth - la voce dell'angelo mi chiamo. - Dove sei? - mormorai alzandomi dalla sofficità della nuvola. - Ritorna da me - disse autoritario. Sentii un peso sul petto, e dell'aria entrarmi in bocca. Iniziai a soffocare...e vidi di nuovo nero. - No - urlai dimenandomi da una presa forte al petto e alle braccia.
Tutto divenne sfocato, e poi inizio a schiarirsi. La sagoma di un ragazzo dai capelli biondi e occhi verde che mi fissava con sguardo preoccupato si schiarì davanti al mio sguardo.
- Elisabeth mi senti, mi vedi... - chiusi e riaprii le palpebre più volte, cercando di capire cos'era successo. Poi, all'improvviso qualcosa mi salii in gola, del liquido che mi trapassò dalla trachea mi passò in bocca, e iniziai a sputacchiare, sporgendomi con il viso alla mia destra. - Fategli spazio, maledizione! - disse la voce di quell'angelo, che riconobbi come Jensen.
Sputacchiai e tossì l'acqua fuori dai miei polmoni. Qualcuno dietro di me mi facevo un piccolo massaggio con la mano sulla schiena, per rilassarmi un po'. Solo allora notai che ero umida, bagnata, e quella mano era a contatto con la mia pelle.
Qualcuno tornò a distendermi per terra. - Come stai? - la voce di Jared sopra la mia testa mi fece alzare lo sguardo. Lo guardai sottosopra. Sorrisi e lui ricambiò.
- Sono viva - gracchiai. Non riconobbi nemmeno la mia voce. Avvicinai la mia mano sinistra alla gola, perché quella destra era occupata... da Jensen. Abbassai lo sguardo verso di lui, e alle nostre mani unite. Con il pollice mi accarezzava il dorso, mentre le altre dita stringevano convulsivamente le mie.
- E sto bene - regalai un sorriso anche a lui, e tutti i presenti tirarono un sospiro di sollievo. Mi guardai intorno e vidi negli sguardi di tutti meno preoccupazione. Mi soffermai su Lucas e Andrea, che avevano gli occhi arrossati come se avessero pianto. Corrugai la fronte, e cercai di mettermi seduta. Sia Jensen che Jared mi aiutarono ad alzarmi. Uno mi teneva per un braccio e uno per l'altro. Li fissai entrambi, alzando le mani. - Ce la faccio, sto bene ragazzi! - mormorai divertita dalla loro prudenza.
Jared mi sorride divertito lasciandomi andare, Jensen ci mise un po' prima che lo facesse. Poi mi sorrise, regalandomi  un buffetto sulla guancia e mormorandomi: - Mi hai fatto prendere un colpo, delfino. - e si allontano dirigendosi verso il regista. Io restai scioccata e a bocca aperta. Mi aveva chiamato delfino. Questa me la... delfino? Perché? Non era nel mio sogno lui...eppure... forse l’aveva usato come un vezzeggiativo. Mica sapeva cosa aveva sognato quella notte... Piegai la testa ponendomi delle domande.
Che non ebbero nessuna risposta. Sbuffai infastidita. Come potevo riuscire a capirlo o comprenderlo?
- Elisabetta tutto okay? - domandò Andrea, avvicinandosi con Lucas e Daniel. Io annuii sorridendogli, e scompigliando i capelli ai due piccolini avvolti da un asciugamano.
- Scusatemi se vi ho fatto prendere uno spavento... - dissi con un tono di voce basso. La voce non mi si era per niente regolata. Gracchiavo ancora, e l'aria raschiava lungo la trachea. Tossii piano cercando di eliminare quel fastidio. - Stai bene? - la voce di Daniel, tenera e da bambino, si fece sentire, e mi afferrò una mano, facendomi poi una carezza. Alzai l'altra mano, rassicurandolo mentre la tosse persisteva. Poi Andrea si avvicinò per colpirmi la mano dietro la schiena e farmi calmare. Daniel mi porse una caramella alla menta: - Tieni magari ti passa... - mormorò timido. Io cercai di sorridere, mentre tossicchiavo piano, e poi afferrai la caramella, ringraziandolo. - Sei così gentile Daniel... -. Lui mi sorrise e poi scappò chissà dove insieme a suo fratello. Mentre seguivo i loro passi, alzai lo sguardo verso un corpo che conoscevo bene. Quei muscoli, quella vita stretta e quelle spalle larghe: Jensen. Sospirai affranta... non sarebbe mai potuto essere quell'angelo. Lui non era in grado di svolazzare, come stavo facendo io...con i pensieri che andavo e venivano dalla deriva di quei miei sogni immaginari. Immaginazione, fantasia... amore e dolcezza alleggiavano nell'aria. Lo fissai e mi sembrò di vederlo con uno sguardo diverso, dipinto su quel volto tanto definito quando perfetto e corrugato da quelle smorfie così dolci e allo stesso tempo amare.
“Jensen cosa mi fai...”
- Non l'ho mai visto così... - mormorò la voce di Andrea all'orecchio. Non staccai lo sguardo di Jensen, nemmeno un istante. Voltai solo la testa ascoltando la voce di Andrea: - E' così preso - disse decisa e quasi sconvolta. Io mormorai appena: - Preso? - domandai curiosa. - Da cosa? -.
Andrea si spostò dietro di me, poggiando le mani sulla mie spalle nude: - La domanda non è cosa...la domanda giusta sarebbe da chi... - disse catturando la mia attenzione. Voltai appena il viso fissando il suo viso. I suoi occhi, e le sue labbra che mi sorridevano.
- Io? -, mormorai stupita, voltandomi a fissarlo nuovamente. Si era concesso un attimo di fissare uno della troupe, scambiando continuamente gli sguardi da me a quel ragazzo. E viceversa.
Sentii qualcosa scorrermi nelle vene. Emozioni, tutte quelle che potessero pervadermi, in una sola volta... felicità, odio, amore, sorpresa, ansia... sospirai...e l'aria che entro nei polmoni mi fece così male, che nemmeno ci feci caso. Ero felice. Ero stanca. Ero esterrefatta.
- Sei tu... sboccerà qualcosa tra di voi... lo sento - mormorò ridendo felice, lasciandomi andare.
Mi voltai appena, vedendola andare via. Poi tornai a fissarlo. E sembrò carico anche lui di qualcosa... E lo vidi venire verso di me. Tutto dentro di me era ancora in pieno fermento, in crescenza. Espirai e chiudendo un attimo gli occhi si ritrovò in un’instante davanti a me. Ci fissammo negli occhi, come il giorno prima, come se ci conoscessimo da una vita. Come se l'avessimo fatto un sacco di volte, comunicando. Azzurro nel verde con pagliuzze dorate. Piegai la testa, fissandolo attentamente. Alzai una mano toccandogli un ciuffo di capelli. Abbassai le dita rincorrendo una ruga che gli solcava la fronte. Scesi fino alla guancia, ricoperta da un po' di barba. E infine con le dita solcai le rughe delle labbra. Un bellissimo viso, adatto a quell’angelo.
Lui mi fissava e io fissavo lui, ancora...ancora e ancora.
Eravamo come in una bolla. E non ci importa di niente e di nessuno. Forse lo stavo solo sognando, ma il tatto era vero, lo sentivo.
Sentivo il suo respiro, il suo profumo, e lo vedevo reale, davanti ai miei occhi. Lo vidi quando alzò la mano destra accarezzandomi la guancia con il pollice, solcandomi, toccandomi dentro...era tutto reale. Non era la mia fantasia...
Le labbra che mi sfiorarono la fronte... furono reali anche quelle.
E quando si tirò indietro, e ci fissammo di nuovo, mi resi conto che... forse una possibilità c'era, e lo sperai con tutta me stessa.
Perciò tirai un sospiro di sollievo, abbandonandomi a tutte quelle emozioni, lasciandomi pervadere...
 
 
*Spazio Autrice*
 
Mi sento di dire che questo capitolo è stato facile da scrivere fino a metà, insomma fina dove è linkata la canzone. Il pezzo finale devo dire è stato difficile. Mi ero già prescritta come doveva finire, ma non ero convinta. Fino a quando però la sera prima che lo scrivessi ho ascoltato la canzone di Einaudi e mi sono sentita come dire, subito pervarsa da una miriada di emozioni, e il finale l'ho scritto così insomma...spero vi piaccia. 
Ma per il resto avete notato no? Il capitolo è andato come è andato. Addirittura penso che l'unico pezzo reale che mi sia piaciuto è stato l'ultimo. Ma diciamo che per ora i capitoli sono tutti di passaggio. :) 
Intanto devo comunque ringraziare anche Samantha per avermi aiutato a betare il capitolo. Senza di lei cosa farei? 
Vi lascio qui il link del gruppo: Love, Hate and Words. (ancora in fase di sviluppo, aspetto voi per attivarlo :)
Poi devo informarmi che per le prossime due settimane non ci saranno aggiornamente purtroppo. Io sono in vacanza: "England is Coming" u.u 
Ma non preoccupati o in servo per loro già qualcosa ;D 
 
A presto, un bacio da prossima British Girl, alla ricerca di un British Boy :3 e di Pattinson u.u hahaha xD

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Capitolo 5
*** Miami, we're come! {Part 1 ***


ATTENZIONE:CAPITOLO CORRETTO :)
 
 
Salve a tutti, come promesso entro domenica o lunedì. Bene oggi è lunedì e il cavolo è arrivato. Purtroppo e ripeto purtroppo, la betazione di questo capitolo non c’è stata quindi, mi dispiaccio se c’è qualche errore di connessione. Qualche errore sono riuscita a sistemarlo, per il resto, poi lo farò betare dalla mia Sammy :3
Intanto, spero vi piaccia. E’ uno dei capitoli più lunghi che abbia scritto per questo ho dovuto dividerlo a metà. Intanto spero vi piaccia. E’ uno di quei capitoli importanti della storia u.u
 
Enjoy...
 
 
5 Capitolo
 
 
Miami, we're come!{Part 1
 
                      


Dopo quella brutta esperienza al lavoro mi ero presa una pausa di due giorni per riprendermi. E come me anche il resto della troupe e del cast. Jensen e Jared si erano dedicati un po' alla famiglia, mentre io mi ero dedicata un po' a me stessa. E ne ero felice. Avevo avuto l'occasione di farmi una ceretta "fai da te", così potevo liberamente urlare dal dolore tra le mura della casa che condividevo con Luna. Luna... povera ragazza. Per me era ormai diventata come una seconda madre. Appariva così vivace e sprint-osa allo sguardo di tutti da non sembrare la premurosa e dolce Luna che era diventata in quei due giorni di riposo, dopo tutto quello che le avevo raccontato.
Naturalmente avevo saltato la parte finale di quella giornata, quando Jensen e io avevamo trascorso tutto il giorno insieme, parlando e scherzando come due vecchi amici.
Seduti nel camerino di Jensen, lui sulla poltrona e io sul divano a riposare, ci facevamo compagnia a vicenda. E quando pensavo di poter chiudere un attimo gli occhi, per buttarmi  tra le braccia di Morfeo, tra un accordo e l'altra della chitarra che Jensen suonava piano, Jared busso così forte da farmi saltare in aria dallo spavento. Quando era entrato con i vassoi da mangiare per entrambi, e si era seduto sull'unica sedia disponibile, Jensen gli lanciò addosso un pezzo di pane che Jared prontamente afferrò con la bocca, masticandolo e facendogli poi un gestaccio.
- Ragazzi per favore, fate meno i bambini - dissi, cercando di nascondere un sorriso.
- A proposito di bambini... - mormorò Jared serio - ho prenotato dei biglietti, che devo dire erano ad un prezzo bassissimo, li ho presi grazie ad una botta delle mie chiappe... - mormorò fiero, trinciando un pezzo di pizza.
- Di che cosa stai parlando J-Rod? - mormorò Jensen mentre masticava un groppo pezzo di panino. Cercavo di trattenere il sorriso sentendoli parlare, e cercavo di non sputacchiare quella scodella di minestra un po' schifosa - devo dire - che J-Rod mi aveva portato per farmi stare un po' meglio. Li sentii ciarlare un altro po'. Poi sentii la parola "Miami" e le mie orecchie si rizzarono - Andiamo a Miami? Per due settimane? - domandai curiosa. Jared bevve un gran sorso di Coca-Cola, poi fece  un rutto, ricevendo in pieno viso il tovagliolo sporco di Jensen. Poi annuii sorridendomi allegro. - Che te ne pare? Due settimane. Io, tu, Jensen e avevo intenzione di dirlo a Jessica... - concluse con voce timida. Io sgranai gli occhi e mi alzai facendo cadere a terra tutta la roba, compresa la ciotola con ancora un po' di minestra. - Elisabeth! Il pavimento, maledizione! – l’ urlo di Jensen fermò i miei esulti. Notai che la chiazza di brodo si stava espandendo lungo tutta la moquette. Cosa difficile da pulire poi... - Oh, scusami, scusami tanto! - mormorai triste, sedendomi sul divano di nuovo, in un angolo, cercando di non creare danni.
- Lascia stare, verranno a ripulire dopo, perciò... J, di cosa mi stavi parlando? Abbiamo un biglietto in più? -
- Bhè, si - affermò Jared, - praticamente questa offerta comprendeva cinque biglietti ad un prezzo proprio conveniente, adesso mi chiedevo chi potevamo invitare con noi. Magari la tua amica Luna,  che ne dici Lizzie? - mi domandò Jared. Ci riflettei un attimo: Luna sarebbe stata perfetta. Sarebbe venuta con noi a divertirsi come sapeva fare lei, ma sarebbe andata dai suoi in Inghilterra quel prossimo giovedì, quando noi lunedì saremmo partiti, e se i biglietti erano ormai stati prenotati per quel giorno... bhè non si poteva fare, perciò scossi la testa desolata. - Possiamo chiedere a qualche vostro amico - mormorai convinta. Loro alzarono le spalle e si fissarono. - Oppure possiamo andare noi soli, qual è il problema? - domandò Jared convinto. Io fissai Jensen, che a sua volta mi fissò poi, però, abbassò subito lo sguardo, e io con lui. - Ne-ne-ssuno, è tutto okay... - balbettai sorridendo timidamente.
Perciò saremmo partiti felicemente, per una vacanza da cui mi aspettavo grandi cose.
 
 
- Si, certo che verrò, cavolo! - mormorò Jessica saltandomi addosso, e abbracciandomi forte. L'abbracciai di rimando anch'io, prima che il nostro stesso peso ci sbilanciasse per poi cadere a terra. Sorrisi, quando lasciai che si avvicinasse a Jared, abbracciandolo per un secondo anche lui, e dando un batti cinque scrosciante ad un Jensen sorridente. - Ci divertiremo Jackles! - disse entusiasta.
Corrugai la fronte chiedendomi da dove uscisse quel soprannome. Avevo sentito più volte Jensen chiamare Jared, J-Rod, ma mai Jared chiamare Jensen, Jackles. Ma non me ne preoccupai. Sapevo quanto Jessica volesse più bene a Jared e non Jensen. E lei sapeva quando io tenessi a Jensen e non a Jared. Insomma eravamo più che degli amici. Tutti ci potevamo considerare fratello e sorella.
- Oh partite senza di me? - la voce dell'ochetta qual era Amanda rimbombò per tutta la reception degli studios WB.
Ecco con chi potevamo condividere la nostra reale amicizia. Con l'oca di tutte le oche.
- Bhè, in realtà... - la voce di Jensen si fece sentire e Jared "per sbaglio" gli fece arrivare una gomitata tra le costole. Jensen si zittì.
- Cosa? Ho sentito dire a Elisabeth a Jessica che avete un biglietto in più... per dove se posso sapere? - la sua voce da serpe mi fece rabbrividire quando pronunciò il mio nome.
- Miami, e sì  c'è un biglietto in più...ma... - disse Jess al posto mio. La fissai annuendo, cercando di continuare io ma lei mi scavalcò: - Miami? Wow, posso venire anch'io? In fondo avete già invitato una receptionist, invitate anche me...su! - disse alzando per metà una gamba, lasciandosi poi cadere in grembo ad un Jensen a cui non gli importava nulla. Amanda continuò a fare la civetta, fin quando Jared, spazientito , lanciò uno sguardo di avvertimento a Jensen che subito dopo disse: - Okay, puoi venirci, basta che non ci rompi le scatole con lo shopping. Noi ci facciamo i fatti nostri divertendoci, e tu ti farai i tuoi, basta che non rompi, tutto qui- la voce schietta di Jensen non si fece tradire. Perciò Amanda contenta saltellò e gli si strinse in un abbraccio, a cui lui rispose accennando appena al gesto. - Perfetto, e sia! Vado a prepararmi la valigia! - urlò soddisfatta uscendo dagli studios.
Mi voltai dando le spalle a Jensen e a Jared facendo una smorfia di rabbia verso Jessica, che alzò semplicemente le spalle rassegnandosi. - Praticamente si porterà una casa se sta andando a fare le valigie adesso... - mi borbottò fissando in modo spiacevole Jared, che aveva messo il musone. Loro però non doveva rattristarsi per nulla al mondo. Almeno sapevano già che avrebbero fatto coppia in camera, aggiungendo un “forse”, vista la situazione che adesso si era creata. Noi ragazze ora eravamo costrette almeno a condividere due persone, uguale, una camera. Perciò sempre una delle ragazze andava a finire con un maschio, perché una ragazza in camera da sola non ci sarebbe stata... aggiungendo “forse” "un'altra" volta.
- Ti odio - mormorai voltandomi di scatto verso di Jensen. Lui alzò lo sguardo da terra, arrabbiato. Segno che se avrei scambiato altre parole con lui di questo tipo, mi avrebbe messo K.O oppure mi avrebbe mandato direttamente al diavolo, rovinando ancora di più la situazione che si era creata per queste vacanze, già rovinate alla partenza.
 
Tornata a casa quella domenica sera, dopo un'uscita a tre, ovvero io, Jared e Jessica, poco prima esserci appuntanti la sveglia presto e datoci l'appuntamento direttamente all'aeroporto, controllai che ci fosse tutto nella piccola valigia e nella borsa a mano. Controllai anche che ci fossero i salva-slip, e i Tampax. Non solo volevo essere sicura che non mi macchiassi giornalmente, ma anche perché se andavamo a mare, comunque potevo andarci con la libertà del costume.
Perciò andai a letto con la speranza che sarebbe stata in ogni caso una bella vacanza. A parte forse: Amanda, il ciclo, e per l'ultimo ma meno importante... Jensen.
 
- Pronta? - biascicò assonnata Jessica. Annuii semplicemente, nascondendo dietro gli occhiali da sole le occhiaie che dicevano "la notte scorsa non ha dormito bene". "Chissà quali pensieri avranno turbato la ragazza?". Cercai di non fare caso alla voce interiore della ragazzina cattiva in me, e di non pensare i cattivi pensieri che mi erano venuti dietro per tutta la notte.
Di fianco a me si sedettero due signore straniere che parlavano. Capii che erano italiane e mi fecero un po' impressione sentirle parlare la mia lingua. Una rossa, e l'altra nera, discutevano dove sarebbero andate in visita a Las Vegas. Mmh, si davano alla pazza gioia. Bhè, mi sarei data anch’io alla pazza gioia... forse. Forse, forse, forse... quella vacanza era tutta un forse. Scossi la testa e cercai di rilassarmi e liberare i pensieri mentre mi abbassai a cercare dentro la borsa a mano un codino per i capelli, acconciandoli poi in uno chignon un po' per conto suo. Jared arrivò un attimo dopo che ebbi alzato lo sguardo, fermando per bene il codino intorno ai capelli.
- Ehi, buon giorno - lo salutai, facendomelo scappare in italiano. Cosa alquanto strana. Ma Jared mi sorrise, e si, rispose un - Bueno Day - che non c'entro molto con la mia lingua, ma sorrisi compiaciuta. Appoggiò le valigie affianco alle mie, vicino la sedia, mentre Jensen dietro lui - più uno zombie che un essere umano - si limitò ad alzare una mano salutando in silenzio e restando a fissare il vuoto, nascondendo lo sguardo dietro i suoi occhiali avvolgenti. - Ci siamo tutti? - esclamò Jared pimpante che prese il suo I-Phone puntandomelo addosso. Perciò alzai una mano facendo il gesto della vittoria e sorridendo appena. - Questa va dritta su twitter. Ti taggo Liz! - mormorò facendo attenzione a quella che scriveva, più che guardarmi. Mi lasciai andare di nuovo alla sedia, invitando Jessica a sedersi prima che un uragano di nome Amanda ci raggiungesse con due valigie enormi e una minuta borsa a mano e... cos'erano quelle? Stampelle? E quel piede ingessato? Dove credeva di andare conciata in quel modo?
- Giorno, si parte allora? - disse eccita Amanda, fissandoci tutti.
Nessuno - a parte Jared che alzò semplicemente una mano - la degnò di uno sguardo. Però tutti eravamo curiosi di sapere cosa le era successo.
- Sono semplicemente caduta ed ho avuto una storta, tutto qui - disse abbassando lo sguardo verso il piede ingessato. Per il resto stava bene, e non sembrava risentisse così tanto del gesso al piede, sapendo poi che saremmo andati a mare... insomma che intenzioni aveva? Amanda, non mi convinceva particolarmente.
Perciò quando notammo che eravamo "veramente" tutti, ci dirigemmo a fare il check-in. Fummo i primi per Miami, perciò ci sbrigammo, per modo dire, dopo una discussione sui posti in prima classe che avvenne tra noi e l'hostess.
- Mr. Padalecki ci sono solo quattro posti in prima classe, e uno disponibile in seconda, perciò dovete decidere in fretta, prima che io possa lasciarli ordinare online per i last-minute. - disse un'altra volta l'hostess che non voleva darci la possibilità di stare insieme. Quando Jared si era voltato per decidere cosa fare, calò un silenzio glaciale tra di noi.
- Per me non è un problema andare in seconda classe - mormorò Jessica. - Nemmeno per me - mormorai a mia volta. - Io voglio stare in prima classe, e Jensen sicuramente mi farà compagnia vero?! Deve aiutarmi con la borsa a mano! - squittì l'ochetta attaccandosi al braccio di Jensen. Quest'ultimo alzò le spalle e si tirò su con un dito gli occhiali che gli erano appena caduti di un centimetro più giù sul naso. Jared alzò le spalle. - Per me non ci sono problemi...ma dobbiamo comunque occupare i posti. E sempre uno resta fuori. Posso andare io... - mormorò Jared toccandosi la nuca. Capii che si sentiva a disagio per cui: - Vado io, sono abituata a prendere la seconda classe. E poi non è un viaggio lunghissimo. - dissi, voltandomi verso l'hostess e annuendo. - Prendiamo i posti! - esclamai porgendogli il mio passaporto.
Sarebbe stato meglio così, chissà quante volte gli era capitato di farsi riconoscere da qualcuno sull'aereo. Si sarebbe sentiti in imbarazzo e soprattutto disturbati. Le fan della serie erano tantissime. Mi preoccupavo molto per Miami. Chissà cosa ci avrebbe riservato di notte, quando saremmo andati in giro per i pub. Fan scatenate ci avrebbero perseguitate? Al solo pensiero, avevo voglia di restarmene in hotel.
Mi diressi verso il gate 12, diversa entrata invece per i ragazzi che avevano prenotato per la prima classe. Loro avrebbero aspettato in una sala privata, insieme ad altri pezzi forti. Io non mi creavo per niente problemi. Avrei volato come sempre. Insomma, come se stessi andando a fare una gita in bus. L'aereo era l'ultimo chiodo del carro. Perciò aspettai tranquillamente tra i comuni mortali.
 
Durante il viaggio, cercai di trovare qualcosa da fare. Erano quasi più di cinque ore. L'aereo era partito quasi con venti minuti di anticipo, cosa alquanto strana. Fu che nelle prime ore lessi attentamente un giornale da sposa. Guardai quei meravigliosi abiti di stilisti italiani, che facevano figura qui in America. Insomma, la moda italiana era sempre ben accetta da tutte le parti. Mi interessai di leggere ogni singolo commento sotto ogni abito, perciò il tempo passò veloce. Le ore successive, di preciso le ultime tre ore restanti, le passai un po' a guardare fuori e il resto ad assillarmi all'idea che Amanda fosse stata una sanguisuga per tutto il viaggio verso Jensen.
Erano ormai passate quattro ore quando decisi di alzarmi per sgranchirmi le gambe. Mi diressi verso la prima classe per fare visita un attimo ai ragazzi, quando le hostess mi fecero passare tranquillamente da una classe all'altra mi meravigliai, ma restai più scioccata quando alzando gli occhi dal pavimento tirato a lucido fissai Jensen che si faceva coccolare da Amanda, che le stava attaccato un braccio, facendosi accarezzare. Quella scena mi attivò un moto di rabbia e quell'altra sentimento che tutti chiamavano gelosia, che feci dietro font in fretta, sfogandomi in calde ed inutile lacrime di rabbia, senza capire bene il perché. Lo feci e basta. Dopo pochi minuti mi addormentai per la stanchezza di quella mattinata. Solo quando l'aereo era atterrato, e sentii qualcuno smuovermi il braccio, capii che eravamo arrivati. Era quasi pomeriggio lì a Miami, e la brezza calda e umida della città che entrava dallo sportello aperto mi fece imperlare la pelle di sudore. - Ehi - mi mormorò Jessica, scuotendomi ancora. - Svegliati siamo a Miami - si avvicinò e mi aprii la cintura di sicurezza, cosa che io non ricordavo di aver messo. Sarà stata forse quella vecchia signora che era stata seduta per il viaggio accanto a me, riflettei. Mi alzai e mi sgranchii le ossa del collo. Era stato per tutto il tempo appoggiato da un lato, e adesso avevo un fastidio alla spalla destra, che riuscii appena a sopportare. Jared mi aiutò a prendere la borsa a mano, perché le braccia e le gambe erano state tenute nella morsa stretta delle mie stesse braccia. Era mio solito chiudermi a riccio per dormire su una sedia, perciò mi sentivo la testa leggera, tutta dolorante, con gambe molli che mi facevano appena stare in piedi. Non vidi in giro per l'aereo né Jensen e nè Amanda. Sicuramente erano già usciti. Ci scommettevo dieci dollari che quella vipera l'aveva pregato di farla scendere per prima senza che mi aspettassero, ma non me ne preoccupai. Ci avviammo al portone dell'aereo salutando l'hostess gentile che ci stava aspettavano. Quando uscimmo l'aria calda ci investii in pieno. Tolsi il giubbotto di pelle, restando in canotta. Ci dirigemmo verso l'entrata dell'aeroporto dedicata agli arrivati. Ci controllarono il passaporto e successivamente afferrammo le valigie, le ultime sul tappeto. Poi ci dirigemmo verso l'uscita per i taxi. Nemmeno lì vidi i ragazzi. - Dove sono Jensen e Amanda? -  domandai curiosa e gelosa. Jared capii cosa intendevo e alzando le spalle disse sconsolato: - Amanda aveva bisogno di andarsi a rinfrescare subito in hotel! - e fece il gesto di una ragazza che si sventolava con una mano per il caldo. Io sorrisi divertita. - Bhè, la vorrei proprio vedere in Sicilia con più di 40 gradi. Cavolo! - dissi ridendo ancora. Jessica rise e mi invitò a battere un cinque. Lei sapeva di cosa stavo parlando.
Dopo quella risata, Jared alzò un braccio aspettando che un taxi si fermasse, appena ne trovammo uno completamente libero, mettemmo su le valigie, e preparammo i soldi da dividere per il taxi, dirigendoci nel mentre all'hotel.
 
Arrivati nell'hall ci avvicinammo alla reception per chiedere un'altra carta. In totale due carte. Una già era stata data a Jensen, che sicuramente aveva firmato i soliti documenti per pernottare. L'altra era a nome di Jared. Perciò, senza problemi, ci dirigemmo con un facchino su per un ascensore. Il nostro era al 32esimo piano. Uno degli ultimi. Con vista sul mare, la nostra camera era una delle più grandi. Insomma, tutti insieme ce la potevamo permettere, ma la disponibilità di Jared era qualcosa che a quel ragazzo d'oro faceva acquistare ancora più punti. Era stato appunto lui, non solo a pagare i biglietti, facendo poi però a metà con Jensen, ma anche a pagare l'hotel per le due settimane, facendo pagare i pranzi e le cene a Jensen, che si era offerto "volontario".
Noi ragazze praticamente avremmo usato i soldi solo per fare shopping. Forse...
Il facchino ci lasciò i bagagli in camera, e per correttezza Jared gli diede una gradita mancia, quale prossima volta, avrei pagato io. Sorrisi ringraziandolo e mi chiusi la porta alle spalle. Sorrisi anche a Jared ringraziandolo e abbracciandolo forte: - Oh, grazie Jared per questa favolosa vacanza! - mormorai felice. Lui mi strinse a se e poi mi lasciò andare scompigliandomi lo chignon! - Prego Lizzie! - disse contento.
Mi avvicinai al salottino e mi buttai a capofitto su un divano abbastanza comodo. Mi fissai intorno e trovai la stanza più che graziosa, spaziosa. Adatta ad una combriccola come lo eravamo noi. Mi alzai e mi girai intorno. Il salottino era la stanza principale. Nel muro di destra appena dopo il corridoio principale c'erano due porte. Mi ci diressi intenta a controllare che stanza fossero e chi li avrebbe già prese. Aprii una porta e notai che era un bagno. Perciò mi diressi verso l'altra e notai che c'erano un letto matrimoniale e un letto singolo, ancora liberi. Perciò dedussi che dall'altra parte della stanza madre c'era la stessa situazione, ma sicuramente con un solo letto matrimoniale, già occupato da Jensen e Amanda. Scossi impercettibilmente la testa e sospirai frustrata. Chissà cosa si era messa in testa quell'oca di Amanda. Quell'atteggiamento da parte di Jensen poi non mi piaceva per niente. Aveva intenzione serie allora? Aveva intenzione di rovinarmi la vacanza? Bhè, chissà forse ci sarebbe riuscito. Ma io non mi sarei arresa. Sarei stata la prima a rovinargli la vacanza.
Sentii una fitta allo stomaco e mi portai le mani lì. Dopo sentii pulsare il sangue, forte. Mi voltai cercando di non far notare niente né a Jared nè a Jess. Sapevo che si sarebbero preoccupati, ma non era niente. Sapevo già cos'era. Il segnale compulsivo delle brigate rosse: presto avrei avuto compagnia, e di certo non sarebbe stata gradita, vista la situazione. Dovevo riuscire a mantenere la calma. E sapevo benissimo che quando ero nel mio periodo, la calma non la mantenevo di certo. Meno male che erano i primi giorni... perché gli ultimi erano sempre i peggiori.
- Vuoi metterti in stanza con noi Lizzie? - domandò Jessica. Mi raddrizzai, lasciando le mani al suo posto. Annuii semplicemente afferrando le valigie e le portai nel mio angolo di spazio, vicino al letto. Non era una stanza grandissima, ma potevamo starci in tre almeno. Mi sedetti sul letto afferrando la borsa a mano. Cercai i salva slip, e mi diressi immediatamente in bagno applicandone uno sugli slip, poi mi alzai e decisi che per quel giorno sarei stata a riposo, in hotel, mettendo in ordine i vestiti che vi erano nella valigia. Gli altri, dopo aver fatto un po' del mio stesso lavoro, decisero di andare a fare un giro per le vie della città, ma gli altri erano solamente Jessica, Jared e Jensen. L'oca restò solo perché: - Sono stanca, molto stanca, per oggi riposo... ma tu vai Jensen, vai... c'è Elisabeth che mi aiuterà non è così? -. Solo allora capii che era una trappola che mi ero scavata con le mie stesse mani.
- Elisabeth, per favore mi porti in bagno? - urlò dalla sua stanza Amanda.
- Elisabeth!! Per favore mi vai a comprare due riviste? Di moda eh! - Elisabeth, mi ordineresti un caffè? - Elisabeth dove sei? - Elisabeth!?! - .
Erano passati così due giorni interi, mentre la povera e innocente Amanda aveva una serva tutta fare, mentre gli altri, e beati loro, si divertivano ogni giorno e ogni sera per le vie della città,
 e per le magnifiche e assolate spiagge della costa. Io ero diventata una costante macchina per gli ordini. Andavo da qualsiasi parte lei chiedesse di andare. Ero tipo come la sua schiava, e di certo non volevo che si puntellasse a ripetere sempre il mio nome, perciò me la toglievo dai piedi acconsentendo a tutto quello che mi chiedeva o ordinava ad un certo punto.
Perciò la notte spesso non riuscivo a dormire; in parte perché lasciavo la stanza di Jess e Jared libera da occhi scrutatori, in parte perché sentivo la voce di Amanda rimbombarmi in testa, in parte perchè stavo male, e le medicine – che potessero aiutarmi a calmare il dolore – non mi aiutavano a fatto con le mestruazioni. La mattina del terzo giorno avvenne quello che temevo di più al mondo. A Vancouver non me ne preoccupavo, ma in Sicilia mia madre stava sempre sull'attenti. E anche qui avrei dovuto stare sull'attenti e mangiare qualcosa che contenesse più ferro e proteine. Ero soggetta al solito fa-caldo-e-quando-sto-nel-mio-periodo-cedo. Arrivai in bagno, e feci i miei normali bisogni, quando mi alzai sistemandomi i pantaloncini del pigiama un forte mal di testa mi colpì, e la stanza iniziò a vorticarmi. - Jessica...Jessica! – chiamai, spaventata. Sentii le gambe cedermi, e la stanza mettersi sotto sopra, vidi gli oggetti venirmi addosso, perciò afferrai la superficie di marmo con le mani, trattenendomi in piedi, dritta. Afferrai il gel, la schiuma, e tutto mi cadeva dalle mani. La confusione mi stava spaventando. - Qualcuno mi aiuti! - squittii sgomenta, sentii le ginocchia scalfire terra e un dolore lancinante mi pervase tutta. Poi alzai lo sguardo, e riconobbi il mio soccorritore. Era lui. Era l'angelo. Allungai la mano cercando di afferrarlo. Ma più allungavo la mano più mi allontanavo. - Ehi, ehi, ehi! Elisabeth! Elisabeth! - era lui, era la voce dell'angelo triste e arrabbiato. Era Jensen.
Fu allora che mi sentii abbracciare dall’oscurità.
 
 
*spazio autrice*
 
Eccomi di nuovo qui sotto.
Allora dopo essere ritornata dall’Inghilterra. Dopo essermi goduta un po’ di Olimpiadi, sono ritornata alla mia vecchia vita. E ci credo, li ero una nuova me. Comunque sono ritornata  a postare. E a rivedermi di nuovo Supernatural e a seguire i miei adorati idoli che fanno parte di questa FF.
Questo capitolo non ha molto da dire. A parte il fatto che è un capitolo sia di passaggio che importante, perché da via ad una sequenza di scene molto importanti per la storia e le relazione che ci sono state... perciò spero vi sia piaciuto. E che possa la fortuna essere sempre a vostro favore... :D
 
Al prossimo capitolo, aspettandomi qualche recensione dove farete delle scommesse ;D
 
Para_muse
 

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Capitolo 6
*** Miami, we're come! {Part 2 ***


QUESTO CAPITOLO è ADESSO BETATO!, 

Spero che questo capitolo vi piaccia. :3 Grazie per il vostro sostegno e per le visite. Ma ogni tanto una recensione non fa male, rende l'autore un po' più felice aumentadogli quel poco di autostima. Prrrrr che stupidata... xD. 
Grazie, comunque, alle poche preferite e seguite. Capisco che la storia la leggerete sempre voi ;D Grazie davvero. Ringrazio ancora una volta la Sammy che mi beta. Cosa farei senza di te? :3 
P.S: Come avete notato questo capitolo ha due titoli. L'ho chiamato così in quando volevo continuare la prima parte "Miami, we're come! {Part 1" e perchè visto era un capitolo sia di chiusura della prima parte, ma sia di apertura della seconda (in quanto Elisabeth, si stia godendo le vacanze solo adesso -per chi ha letto prima capirà -), ho deciso di mettere diciamo un sottotitolo tutto suo. Spero abbiate capito, ma adesso vi lascio in pace! Giuro! xD Ci vediamo di sotto! (Avevo giurato no?!)
 
 
Enjoy, read this!
 
 
6 Capitolo
 
 
Miami, we're come! {Part 2
- Prima di iniziare a correre, dovremmo provare a camminare - 

 
 
Aprii gli occhi e il sole mi accecò. Picchiava forte tra i rami di ulivo facendo breccia e incontrando i miei occhi di nuovo chiusi. Poi senti la voce. qualcuno chiamandomi urlando - Elisabeth! -  gracchiando con la voce. All'improvviso il cielo si oscurò e mentre i rami diventarono presto, sfogli, foglie ingiallite cadevano giù e si impigliavano tra i miei capelli... corvi neri come petrolio e voci gracchianti fuoriuscivano dai loro becchi. - Elisabeth, Elisabeth! - strepitavano. Iniziarono in picchiare verso di me. Fermata da una qualsiasi energia di campo potei solamente alzarmi e cercare di non farmi mangiare viva dai corvi.- Lasciatemi! Lasciatemi andare! – urlai, alzandomi di colpo nell'aria... soffocante e umida di Miami.
-Era soltanto un sogno... - promisi a me stessa. Stavo per calmarmi quando la porta fu sbarrata di colpo, da qualcuno. - Elisabeth?!- urlò una voce lontana da quella dei corvi... che sembravano somigliare invece alla voce di Amanda. - Jensen - sussultai spaventata. – Mi hai fatto prendere un colpo! – mormorai con voce roca, tossendo per la gola secca. Passai la lingua sulle labbra secche. Poi sospirai, cercando di calmarmi un’altra volta, lasciandomi scivolare sul letto... di Jensen?
- E' tutto okay? - mormorò entrando, socchiudendosi la porta alle spalle. Si avvicinò appena di qualche passo, stando a debita distanza dal letto. Mi guardai intorno, c'erano aste da paziente e bottiglie di flebo attaccare all'asta.
- Che cosa è successo? - chiesi, cercando cerotti sul mio braccio. Non poco stupita, trovai un cerotto sulla piega del gomito destro.
- Abbiamo chiamato il dottore quando sei svenuta. Ha pensato di farti riposare un po', somministrandoti proteine e ferro in piccole quantità. Eri molto debole. - mormorò lui, avvicinandosi al comodino. Notai i suoi effetti personali posati lì sopra. Perciò la domanda mi venne spontanea. - Se questa è la tua stanza e quella di Amanda... dov'è lei? - chiesi con poca curiosità, rabbrividendo poi per il suono della sua voce che ricominciò a intonarsi nella mia testa. Chiusi gli occhi, cercando di pensare a una musica da pianoforte.
- L'abbiamo rispedita a Vancouver. La sua era una messa in scena - disse con tono distaccato. Annuii semplicemente, facendo capire che volevo sapere di più. Perciò Jensen, dopo avermi riempito un bicchiere con acqua più o meno fresca, e porgendomelo rispose: - La sua caviglia non era veramente rotta. L'ho scoperta una notte mentre andava in bagno senza gesso... -. Corrugai la fronte, non capendo a pieno cosa voleva dire: - Quindi? - Quindi, camminava perfettamente, e quando mi sono accertato che era realmente vero, e non solo un sogno, l’ho mandata a casa. Sai potevo ancora sognare quella notte - si mise a ridere, e lo feci anch'io, sorridendo come una scema. - Le hai tolto il gesso, facendo scoprire agli altri che faceva... dimmi che è scappata piangendo per favore - mormorai divertita, fissandolo con le lacrime agli occhi, cercando di immaginare quella scena.
- Bhè, sono desolato di dirti no, però stamattina quando è andata via, si è degnata di dirci grazie, lasciandoci un paio di bigliettoni. Così ti abbiamo pagato il medico, o meglio, Amanda ti ha pagato il medico... non è che noi non ti volevamo pagare il medico di tasca nostra, ma abbiamo deciso che quei soldi, andavo usati per questa spesa... dopo, insomma, quello che ti è successo - concluse, continuando ad alzare e abbassare lo sguardo, come aveva fatto per tutto il racconto. Sorrisi, afferrandogli una mano che giocava con un lembo di lenzuola.
- Siete stati molto gentili. Grazie mille, e grazie a te Jensen, per avermi aiutato...
- No, non ringraziarmi... - mormorò timido.
- No, devo! E tu sai il perché... se non ci fossi stato tu, forse sarei restata ore dentro quel bagno, o almeno fin quando Jared o Jessica non si sarebbero alzarti per fare i loro bisogni. Perciò grazie... - dissi sorridendogli, abbassando lo sguardo.
Mi resi conto solo in quel momento che stavo avendo un vero e proprio contatto con Jensen. L'ultima volta era stato nella nostra bolla. Quella che si era creata quando le mie emozioni si erano sprigionate, facendomi capire quando lui mi piacesse, e come stava iniziando a fare parte di me. Fare parte del mio cuore... lentamente, inspiegabilmente parte di me. Le sue labbra carnose avevano lasciato un bacio sulla mia fronte, mentre le sue braccia mi avevano cullato in quei rari abbracci, mentre il suo profumo mi aveva annebbiato la mente e fatto si che le mie emozioni accrescessero sempre più. Avevo di nuovo... un bisogno disperato di lui, di un suo tocco, del suo profumo, del suo sguardo che non metteva paura, quello che ti fissava incatenandoti a te, senza che poi riuscissi a capire cosa stava facendo, cosa farai, e che succederà un attimo dopo... con Jensen non riuscirei mai a prevenire il futuro di un attimo dopo.
Ecco, era quello che stava succedendo...  in quell'istante, in quell'attimo fuggente. Rari momenti, che non riuscirei mai a dimenticare.
- Mmh, è solo per te... - ecco, mi stupì un'altra volta di quel suo "prego". Il viso mi si accaldò, e tirai un sospiro, liberandomi con due pedate del lenzuolo che mi copriva.
- Fa caldo - mormorai iniziando a sventolarmi con la mano. Jensen afferrò un Kleneex porgendomelo. Lo afferrai sorridendogli per ringraziarlo un'altra volta, mentre lo passavo sulla fronte, asciugando il velo di goccioline che si era formato.
- Ho bisogno di una doccia - mormorai contrariata, fissando il fazzoletto già bagnato e zuppo.
- Potresti aspetta fin quando torna Jessica, magari? - chiese con tono molto gentile, cosa che mi deviò un attimo dai miei pensieri, Jensen.
- Come? Dov'è? - domandai molto curiosa questa volta.
- E' uscita con Jared a comprarti qualcosa. Non so cosa... - disse nascondendo un sorriso. Chissà cosa avevano in mente.
- Va bene, aspetterò. Intanto però... - sporsi i piedi per terra, alzandomi. Sentii la testa leggera, e stavo quasi per ricadere seduta sul letto, quando mi aggrappai con una mano alla spalla di Jensen.
- Forse è meglio che ritorni a letto - disse pretensioso guardandomi dritto agli occhi.
Lo fissai a mia volta senza distogliere del tutto lo sguardo dai suoi occhi, muovendoli però intorno al suo viso.
 - Vorrei solo affacciarmi dalla finestra, e guadare in mare. Per favore Jackles...!? - dissi quasi con stizza. Mi fissò per altri secondi, con sguardo contrariato, prima di sospirare afflitto e perciò, accettando la mia offerta di accompagnarmi alla terrazza prendendo un po’ d’aria. Quando mi avvicinai alla ringhiera di cemento, mi sporsi un attimo guardando giù, poi mi appoggia con i gomiti sorreggendomi la testa e fissando il mare in contrasto con l'arancio-blu del cielo che faceva sera. Il crepuscolo. Come quello che vedevo spesso nel mar Mediterraneo. Sospirai amaramente.
- Ti manca casa, non è vero? - domandò Jensen appoggiandosi con i gomiti e la schiena rivolta al mare. Io annuii semplicemente, fissando le persone che camminavano ancora nel bagno schiuma. E altre che fissavano il cielo e il mare, mentre andavano via. C'era qualcuno che ancora faceva surf, mentre io me ne stavo ancora rintanata qui, in Hotel. Avevo voglia di uscire, quella sera saremmo usciti tutti insieme.
- Vado a farmi la doccia! - dissi perentoria, voltandomi per rientrare in casa. Mi sentii afferrare per un braccio.
- No, per favore, aspetta che arrivi Jessica... - disse Jensen preoccupato. Mi voltai fissando il suo sguardo crucciato. Il mio viso divenne triste. - Non vorrei che ti sentissi di nuovo male perciò, per favore, aspetta che arrivi Jessica... lei ti aiuterà...
- Ma io sto bene! - dissi con voce ferma, scadendo bene le parole. - Ho voglia di uscire, e stasera lo faremo tutti insieme! - dissi decisa cercando di liberarmi dalla sua presa.
- Beth! Per favore, aspetta Jessica! - disse con voce decisa avvicinandosi a me.
- Chi mi deve aspettare? - squittì una voce dietro le mie spalle. Mi voltai e fissai Jessica che mi sorrideva alludendo a qualcosa. Dondolai la testa da un lato facendo una smorfia.
- Cosa c'è? - chiese divertita entrando in terrazza. Io alzai le spalle, scuotendo la testa, mentre Jensen mi lasciò andare, portandosi alla mia destra.
- Stavo dicendo a Elisabeth di dover aspettare a te per fare la doccia, così siamo più sicuri che non perda più i sensi li dentro, no? - domandò scettico, come lo era la mia smorfia verso Jess.
- La doccia può farsela benissimo da sola. Jackles, sta bene, guardala! Non ha neppure più il ciclo... - disse.
Io arrossii e abbassai il viso, sorridendo come una stupida. Non sapevo che il mio ciclo fosse alla portata di tutti... insomma, sono cose private.
- Jessica - mormorai appena, richiamandola. Lei mi diede una semplice pacca sulle spalle.
- Su, vai a fare la doccia, stasera usciamo un po'. Sei in libertà adesso! - disse divertita, ridendo come una pazza e saltellando, abbracciando e sbaciucchiando me e Jensen.
Ricambiando gli schiamazzi di Jessica mi diressi nella loro stanza prendendo tutto il necessario dalle valigie, ma, prima che ci arrivassi, Jared mi fermò.
- Ehi - dissi quando mi abbracciò calorosamente, soffocandomi sul suo petto. La voce scherzosa e alta di Jared mi fece capire che stesse nascondendo qualcosa.
- Elisabetta-a-a! - la "a" prolungata dall'accento texano, mi fece ridere, poi divenni ancora più curiosa e cercai di arrampicarmi alla sua spalla destra. - Come va? Stai bene? Oh, guarda che doppie punte che hanno i tuoi capelli! - disse con voce isterica, cercando di afferrarmi per la maglia, tirandomi giù. Perciò provai a rampicarmi nell'altra spalla.
- Jared! Lasciami andare! Che cosa mi nascondi?! - urlai divertita, mentre mi tirava giù un'altra volta. Sfinita, m’inginocchiai, cercando di passargli tra le gambe, quando con un saltello indietro, chiuse le gambe, chiudendo il passaggio.
- Che fai?!? - Urlò isterico lui. Risi divertita, alzandomi di nuovo e spostandomi alla sua destra, facendomi acchiappare un'altra volta, bloccandomi così nella sua morsa di ferro. - Jessica! Ackles! Aiuto! - urlò, ridendo anche lui. I ragazzi si precipitarono preoccupati verso di noi, mentre io scalciavo con le gambe contro quelle di Jar.
- Che c'è? Che succede? - un Jensen sbiancato, si avvicinò a me, afferrandomi il viso. - Ha un attacco isterico? - mormorò preoccupato. Io risi, liberandomi dalla morsa delle sue mani. - No, certo che no! - dissi spazientita.
- Voleva andare in camera nostra, Jessy! - disse semplicemente Jared alla sua innamorata. Lei stava ridendo, guardando la scena, ma quando sentii quelle paroline forse magiche, si bloccò di colpo, afferrandomi per le braccia.
- No, tu non vai da nessuna parte. Di a me cosa ti serve, e te la prendo! - mi puntò un dito verso il mio viso, urlandosi quasi come se stesse parlando a una bambina disubbidiente. La fissai sgranando gli occhi. - O-okay - mormorai semplicemente.
- Mi porteresti tutta la roba in salotto? - domandai allora frustrata, andandomi a sedere su uno dei divani, accedendo la tv. Li fissai mentre si guardavano entrambi, Jared e Jessica. Mentre loro discutevano in modo animato Jensen mi venne a fare compagnia, sedendosi di fianco a me. - Vorrei che usassi la mia camera... - mormorò Jensen. Mi voltai sorpresa, notando che fissava la tv, mentre aveva parlato. Solo pochi secondi il suo sguardo si era spostato per guardare la mia reazione, e poi ritornato di nuovo alla tv. 
 
- No, sarei di fastidio. Dormo in salotto
- No, è solo una forma di galateo, dormirò io in salotto... - mormorò semplicemente. Io scossi la testa decisa.
- Non si discute, dormo io qui in salotto e tu dormirai in camera tua! - .
- Elisabeth De Santis! - mi richiamò.
- Jensen Ross Ackles! - lo richiamai catturando la sua attenzione. Scossi la testa. - Non se ne parla. Io non ti priverò di dormire nel tuo letto... - dissi con tono di voce rabbioso e incisivo.
Lui scosse la testa sorridendo divertito. - Elisabetta De Santis! Che testa dura - mormorò ridendo, notando il mio sguardo offeso. Incrociai le braccia al petto facendo il musone. - Facciamo così... - iniziò - io dormirò nel mio letto, anche se è dell'hotel, ma tu dormirai nel letto insieme a me! Questo è quello che si dice un compromesso - disse sorridendomi appena.
Le mie labbra segnarono un "o" e la mia gola divenne secca. Dovetti accettare... quello che si dice una "costrizione" piacente.
 
 
Quella sera riuscii finalmente a farmi una bella doccia, tranquillamente e serenamente, senza che nessuno mi chiamasse a destra e a sinistra. Un'ora intera di totale benessere tra i miei shampoo e bagnoschiuma alla pesca e riuscii a rilassarmi completamente.
Quando uscii, abbracciata dal morbido asciugamano dell'hotel, e ritornai nella stanza da letto "di Jensen" affittata, sottolineando, "affittata", seduta sul letto, mi cosparsi di un po' di olio, mentre il mio periodo da donna era solo un vecchio pensiero.
Mentre sceglievo la solita biancheria da mettere sotto uno dei miei vestiti, più bello e da sera, l'uragano Jessica entrò in stanza. Cercò qualcosa nella valigia di Jensen. Afferrò qualcosa di scuro e bianco, e glielo getto in braccia, quando un Jensen frustrato stava entrando in stanza, cercando forse di protestare un'altra volta.
- Jessica, ma io... - iniziò Jensen.
- Vai a prepararti nell'altra stanza, insieme all'altro uomo! Bye, Adios, Arrivederci! - disse sbattendogli la porta in faccia.
Era entrata con addosso un masso carico di vestiti e di buste da shopping, prima di lasciare tutto sul letto. Mi avvicinai cauta all'ammasso di roba, quando si scagliò davanti a me bloccandomi. - Adesso manicure e pedicure cara! - sorridendomi, mi fece uno sguardo che non avevo mai visto. Mi sapeva tanto di "adesso ti concio per le feste, cara!" e la risata di Mister Burns dei Simpson al seguito.
Mi faceva paura.
 
Mi fissai allo specchio sbalordita. Era qualcosa... ero mozzafiato! Non potevo crederci neppure un po'. Jessica aveva fatto un lavoro straordinario, e nemmeno in due ore, perché un'ora se l'era dedicata tutta per lei.
Mi apprestai a sistemarmi una ciocca del ciuffo dietro l'orecchio, quando Jessica inforcò i tacchi alti. Si avvicinò poi con il profumo in mano, spruzzandomelo addosso e poi a sua volta intorno a me. Era Dior. Era buonissimo. Aspirai a pieni polmoni e per poco non soffocai, tossendo un po'. Poi sventolando la mano mi fissai di nuovo allo specchio ed ero decisamente perfetta.
Capelli raccolti in uno chignon "a nido" come lo chiamavo io che mi stirava i capelli all'indietro. Il ciuffo che portavo davanti era stato un po' cotonato e lasciato sulla fronte. Gli occhi erano contornati dall'eye-liner, dal mascara, e dalla matita passata nella rima interna dell'occhio. Le guance ravvivate da un pesca tenue, e le labbra erano messe in risalto da un rosso ciliegia. Perfettamente disegnata, sognavano di ricevere un bacio.
Addosso mi ritrovavo un mini abito semplice e casual. Un tubino blu notte con fascia nera a coprirmi fino a metà coscia mi fasciava perfettamente il mio corpo. Non pensai a cosa portavo sotto, perché più ci pensavo e più me ne vergognavo. Perciò pensai ai piedi che mi avrebbero fatto male il giorno dopo...calzavo un paio di scarpe col tacco dodici, intrecciate sul davanti; a parte il dolore, mi davano però, un po' l'aria rock, e con il trucco e tutto il resto, compresi gli orecchini pendenti con ciondoli di vario tipo, e la mia collana dalla Sicilia, che era diventata un bracciale, avendo così il collo libero, e più snello, ero decisamente perfetta.
Mancava solo la pochette nera, abbinata alle scarpe, che fu riempita dalle solite cianfrusaglie. Mentre delle mani curate e ritoccate con french colorata risaltavano sul nero.
Ero pronta, perfetta, e molto profumata.
Ci dirigemmo a braccetto nella stanza accanto. Notammo solo allora che i ragazzi stavano guardando la tv, un po' annoiati e stufi. Forse ci avevamo messo troppo nella preparazione ma quando lo sguardo di Jared si spostò solo di un secondo verso di noi, ritornando poi alla tv, si voltò di colpo, dando una pacca sul petto a Jensen, che prima si voltò ricambiando il gesto, poi quando seguii il dito di Jared, puntato su di noi, non esitò a voltarsi e a restare a bocca aperte. Io sorrisi intimidita, abbassando lo sguardo. Jessica mi lasciò andare volteggiando e facendosi vedere. Io nascosi la faccia dietro la pochette, mentre Jared si avvicinava a Jessica, stampandogli un bacio sulla guancia, molto, ma molto vicino alle labbra. Arrossi di brutto, notando la situazione che si era creata tra di loro. Jared la guardava come se fosse una dea, e lo era in quell'abito di chiffon rosso tenue.
Era bellissima, dovevo ammetterlo.
Sentii qualcuno avvicinarsi e vidi che ero un Jensen incredulo che mi... scartava. Si avvicinò a Jessica e togliendola dalle braccia di Jared le fece i suoi complimenti afferrandola per una mano, facendola volteggiare un'altra volta. Jared non si curò di quel gesto, si avvicinò un attimo a me, facendomi i complimenti, accarezzandomi e lasciandomi di nuovo rossa, e frustrata, avvicinandosi un'altra volta a Jessica.
Sembrava che tutte le attenzione fossero su di lei... in realtà erano su di lei e basta. Jensen si dedicò solo a lanciarmi uno sguardo d'intesa, sorridendomi solamente. Il mio sguardo non fu dei migliori, quando gli lascia una saetta...  se solo gli sguardi potessero uccidere.
- Andiamo? - disse Jared entusiasta. Perciò seguii "sola" il trio.
 
Eravamo seduti al bancone bar, e quello era il mio terzo short solitario, dopo due birre italiane e un cosmopolitan. Pagai quello che avevo preso e poi spesi altri dieci dollari per un sex on the beach, un capiroska e un martini alla James Bond. Quando infine il barman mi sorrise offrendomi gentilmente un rum e pera riuscii a sdoppiarlo e a rivederne uno soltanto.
- Elisabetta! - l'urlo sdoppiato di Jessica, mi fece saltare all'attenti.
- Co-cosa? - mormorai, biascicando le parole. Lei mi fissò ridendo e poi disse qualcosa a Jared indicando la pista. Mi voltai, notando l'ammasso di gente duplicarsi e aumentare. - Cosa tutta questa gente? - mormorai più a me stessa che a Jared. Lui si voltò semplicemente verso il barman ordinando qualcosa per... me? O per gli altri? Mentre tra la folla spuntavano tanti Jensen e Jessica al seguito. Iniziai a dondolare. - O-Oooh - dissi attaccandomi al bancone. Jared mi afferrò un braccio attaccandomi qualcosa nella mano, bagnato e fresco.
- Bevi tutto Lizzie!
- E' a-alcol? - singhiozzai indicando il bicchiere che ondeggiava. Lo fissai e notai liquido trasparente. Decisa a vedere se era rum, ne bevvi un sorso, ma poi lo sputacchiai addosso a qualcuno di fianco a me. - Porca putt... Elisabeth! Bevi questa cazzo di acqua adesso! - mi urlò la voce dell'angelo cattivo, afferrandomi la mano, portandomi ad avvicinare il bicchiere.
La ragazza... cioè Jessica, o meglio la mia adesso nemica, mi tappo il naso costringendomi ad aprire la bocca. Iniziai a bere sorsate d'acqua. L'ultimo sorso lo sputacchia, iniziando a tossire.
- Così vomiterà... -
- No, starà bene! -
- Io la riporto all'hotel - la voce dell'angelo cattivo mi fece risvegliare, e un forte mal di testa mi pervase tutta, ma non demorsi.
- No! Voglio restare, toglietevi di mezzo voi tre! - mi alzai dallo sgabello, dondolando un po' sui tacchi, poi mi lanciai sulla pista, iniziando a ballare sulle note di una musica assordante ma sensuale. Perciò iniziai a muovere sedere e braccia, dondolandomi sui tacchi alti. Non so perché ballavo così, ma la parte sveglia e poco ubriacata di me, pensava che fosse proprio l'alcol a rendermi audace. Sentii delle mani avvolgermi i fianchi, e qualcosa di duro premermi sulla schiena. "Mmh, eccitato il ragazzo...", mi voltai e fissai un ragazzo della mia stessa età, biondo, occhi azzurri, con ciuffo all'insù. "Mmh carino" pensai divertita, mentre mi aggrappavo alle sue spalle, strofinandomi addosso al suo equipaggio. Mi sentii fiera di fargli questo effetto. Quando si avvicinò stringendomi a se, tentando di baciarmi non emisi obiezioni. Cos'era un bacio in più o meno... sentii le sue mani scorrermi lunga la schiena arrivando sul mio sedere ed oltre...stavo per tirarmi indietro quando qualcuno mi prese per la vita, tirandomi via dal ragazzo carino. Mi rovesciai indietro, e caddi a terra. Vidi la scena dal basso, fissando Jensen spintonare il ragazzo. La musica ad alto volume, e la gente che mi circondava, mi fecero dolere ancora di più la testa, mentre lo stomaco si metteva sottosopra.
-...fuori se la tocchi un'altra volta! - recepii solo una parte di quello che Jensen urlava al ragazzo carino, mentre cercavo di mantenere dentro il rigurgito che stava per uscire fuori.
Cercai di rialzarmi ma ruzzolai di nuovo per terra. In mio aiuto vennero sia Jared che Jessica, cercando di far ritornare tutto alla normalità, attirando poco meno gli sguardi degli altri e le attenzioni da parte dei proprietari.
Io iniziai a sudare ancora più freddo cercando di inghiottire ogni volta che sentivo un liquido amaro che saliva su e riscendeva.
- Come stai Jensen? - mormorò Jessica preoccupata. Jared mi lasciò andare un attimo sistemando la camicia di Jensen, mentre io cercavo ancora di stare in piedi sulle mie gambe malferme.
Fissai con sguardo arrabbiato Jared, che mi aveva abbandonato alle mani molli di Jessica, preoccupandosi di Jensen invece che di una Elisabeth che era ruzzolata a terra. E stavo pure per crollare , quando il moto di rabbia mi ricordò che Jensen aveva rovinato tutto.
- Non... non immischiarti più nei miei affari capito!? - l'adrenalina e l'alcol mi scorrevano nel braccio, quando l'alzai dandogli un ceffone molle. Sospirai frustrata e amareggiata. Vergognata da me stessa per quel gesto mi voltai e mi diressi fuori all'aria fresca. Mi allontanai dall'entrata avvicinandomi ad un bordo della strada alla mia sinistra, intenda a chiamare un taxi e cercando di non pensare al gesto di prima, alzai un braccio. Sentii dei passi che correvano e che rallentarono dietro di me e ciò mi fecero voltare e abbassare il braccio. - Che vuoi? Sto tornando a casa... - mormorai semplicemente.
Lo sguardo di Jensen si crucciò. - Te ne vai? - chiese con voce quasi tremante.
- No che non vado via! Sto tornando all'hotel, scemo! - in un primo tempo cercai di trattenermi, poi per lo sguardo stupito iniziai a ridere divertita e, senza rendermene conto, mi piegai in due svuotando lo stomaco da tutto quell'alcol che avevo bevuto quella sera.
Sentii la mano calda di Jensen accarezzarmi la schiena e sorreggermi allo stesso tempo con l'altra.
- E' tutto okay, tranquilla non c'è nessuno che ti guarda... - mi mormorò all'orecchio nascondendomi alla vista delle poche persone che forse erano restate fuori, un po' più in là davanti la porta d'entrata.
Quando gli spasmi da post-vomito finirono, Jensen alzò un braccio per me e un taxi si fermò per noi.
- Il prossimo Hotel grazie! - disse neutrale all'autista, mentre mi stringeva a se come un fratello farebbe con una sorella. Consolandola.
 
- Jensen - chiamai con voce bassissima.
- Mmh? - mormorò dal suo lato del letto.
- Sei sveglio? - domandai girandomi verso di lui, gemetti per il gesto, con ancora un po' di mal di testa.
Jensen comunque non rispose, si mise solo un braccio sugli occhi già chiusi.
Aspettai un po' prima di voltarmi di nuovo a guardare il tetto.
- Jensen? - richiamai.
- Mmh? - mormorò un'altra volta.
- Jared e Jessica quando tornano? - domandai curiosa.
- Non lo so - disse semplicemente, dandomi le spalle.
Non so se si sentiva a disagio o meno, ma sapevo che forse gli stavo dando fastidio. Ma forse no...
- Jensen? - richiamai.
- Mmh? - mormorò sbadigliando.
- Domani andiamo a mare? - domandai entusiasta all'idea della prima volta in spiaggia qui nel nuovo continente.
- Non lo so - disse, voltandosi dal mio lato.
Ciò significava che non si sentiva a disagio e non gli davo fastidio. Sicuramente!
Aspettai un po', quando mi voltai a fissarlo, le sue labbra si erano appena schiuse.
- Jensen? - lo richiamai per la quarta volta.
Sbarrò gli occhi e mi fissò un po' sconcertato. Forse si, ehm, gli stavo dando fastidio.
- Che c'è? -.
- Stavi dormendo? - mormorai appena, facendo una faccia dispiaciuta.
- Stavo cercando di dormire, se solo una gentile fanciulla non mi chiamasse ogni due secondi! - disse istericamente, mettendosi supino con le braccia piegate dietro la testa.
- Okay scusa! - dissi, mettendomi nella sua stessa posizione, con le mani giunte sulla pancia. Ma non resistetti...
- Jensen? - lo richiamai per la quinta volta.
- Si, sono sveglio Elisabeth! - disse seccato.
- Usciamo un po' in terrazza? Non ho sonno... - mormorai come una bambina, mettendomi seduta.
- Ma non dovresti essere stanca? Insomma eri ubriaca ore fa... Gesù, va bene, andiamo! - si alzò dal letto con un slanciò, poi si incamminò senza aspettarmi verso la terrazza. Lo seguii e lo vidi sedersi su una sedia a dondolo grande. Mi ci sedetti anch'io. Appoggiando dopo un po' la testa sul uno dei cuscini. Mi smossi un po' per sistemarmi, ma ero scomodo perciò mi rialzarmi incurvando le spalle su me stessa.
- Appoggiati alla mia spalla se vuoi... - disse voltandosi con gli occhi mezzi chiusi. Mi avvicinai a lui e appoggiai la testa sulla sua spalla. Il venticello che soffiava appena, li fuori, era perfetto. Mi rinfrescai un po', beandomi, e chiudendo gli occhi.
Ripensai quando facevamo la stessa cosa io e mio padre. Com'era bella l'aria siciliana. Una lacrima cadde lungo la mia guancia, posandosi per sbaglio sulla mano di Jensen.
- Piove? - domandò fissando il cielo limpido. Alzai lo sguardo, nascondendo la guancia bagnata con una mano, poi fissai le stelle anch'io.
- Che bello il cielo di notte... -
- Lo so - mormorò lui. Il silenzio ci fece un attimo compagnia. - Perché piangi? - domandò. Quella domanda in quel silenzio, sembrò duplicarsi nel vuoto e nell'eco della sua voce.
- Non sto piangendo - obbiettai.
- Lo stavi facendo - confermò lui. Perciò, costretta, alzai le spalle, e sorrisi.
– Stavo pensando - mormorai abbassando lo sguardo al bracciale/collana che portavo quel giorno. Fissai i ciondoli e sfiorai, per sbaglio o no, il delfino, quel ciondolo che mi regalò il mio ex ragazzo. Chissà perché, ma la mano di Jensen si strinse alla mia.
- E' il passato, Elisabeth - concluse con un tono di voce delicato, e dolce.
Alzai di nuovo lo sguardo e lo fissai in viso, a pochi centimetri dal mio. Vidi ogni minuscola particella del suo viso. I suoi lineamenti della fronte netti e sempre corrucciati, ma che in quel momento apparivano lisci e poco visibili. Le sue sopracciglia poco folte, una corrugata, mentre l'altra delineata e tranquilla. I suoi occhi, scuri come quella notte, in quel pozzo verde smeraldo con quegli spruzzi dorati. Mentre il suo naso, spigoloso e netto, dava una forma decisa al viso, insieme alla sua mascella poco squadrata e la barba del giorno prima, che contornava la sua guancia, e il suo baffo sopra le sue labbra perfette, quasi a forma di cuore, carnose, e lisce. Senza nessuna imperfezione. Perché lui era perfetto, dalla testa ai piedi.
Sentii le sue dita sotto il mento sollevarmi il viso, mentre avvicinava ancora di più il suo viso al mio. Sentii il mio respiro infrangersi sulle sue labbra, mentre il suo non lo sentivo affatto. Afferrai con le mani la sua canotta cercando di avvicinarlo a me, quando capii che stava per davvero trattenendo il respiro. Come se fosse qualcosa che aspettava da tempo... e anch'io aspettavo quel momento da una carriera.
Le mie labbra si erano accostate appena, sfiorate solo per un millimetro quadrato, quando sentii la voce di Jared tuonare.
- Siamo tornati! –
E la bolla si ruppe, allontanandoci di colpo a vicenda. Le mie mani erano ancora aggrappate alla sua canottiera, quando le sue mani, mi strinsero in un abbraccio.
La mia fronte si appoggio al suo petto, tra le mie mani.
- Forse non è destino - mormorai più a me stessa che a lui, intrattenendo un singhiozzo di rabbia, gelosia, e frustrazione.
- No, non è il destino, piccola... - a quelle parole, il mio cuore si fermò per alcuni battiti, poi iniziò a battere veloce come un colibrì. Jensen rise di cuore, perché percepii il suo cuore battere più forte sotto il mio pugno... vero o no, la sua risata mi contagiò, e risi di cuore anch'io.
- E' solo che... prima di iniziare a correre, dovremmo provare a camminare, dolce Elisabeth... - mormorò accarezzandomi i capelli, gentilmente. Mi tirai indietro sorridendogli dolcemente, e gli accarezzai i capelli anch'io.
- Jensen? -
- Dimmi -
- Cammineremo veloci, vero? -
- Forse - disse lasciandomi un bacio sulla fronte. - Notte piccola - mormorò scompigliandomi i capelli. Sorrisi e gli lasciai un bacio sulla mano.
- Notte futuro Bolt! - dissi ridendo divertita.
E lui rise un'altra volta... di "cuore".
 
 
 
 
 
*spazio autrice*
 
"E' il 16 agosto ore 23.22 e questo capitolo è stato iniziato intorno alle 19.15 dello stesso giorno perciò pensate come è stato facile scriverlo, ma difficile pubblicarlo. La chiavetta internet oggi mi è morta perciò non posso postare il capitolo in settimana. Comunque, dovete solo pensare che ho già le idee ben chiare sul prossimo capitolo, e se non lo inizio questa stessa sera, lo inizierò domani."
 
Avete capito bene, ho ripotato la nota della sera quando scrissi il capitolo. E' passata quasi più di una settimana e mi dispiace non aver potuto pubblicare il capitolo quando dovevo, ma come avete ben capito ho avuto un problema con la chiavetta internet. Bhè adesso si è risolto "credo e spero" quindi, spero vi sia piaciuto.
Non ho molto da dire su questo capitolo, a parte il fatto che l'ho scritto in un giorno, ed è stato facilissimo per davvero. 
Notasi le reazioni comunque di Jensen verso Elisabeth e del loro quasi bacio. Il finale mi è piaciuto parecchio, forse perchè mi ha aiutato un po' il sonno magari, ma Bolt ci sta e come. Lui corre, e Jensen correrà per Elisabeth prima o poi... forse...
Mi è piaciuta parecchio anche la parte di quando stanno a letto. Mi sono fatta addosso dalle risate, pensando a quante volte l'avrò fatto con mia sorella quando eravamo in Inghilterra. Perchè? Perchè non avevo sonno l'ultimo giorno prima che partiss,i perciò abbiamo iniziato a chiaccherare dopo che le ho rotte le ovaie u.u xD e pensare che dovevamo alzarci alle 4 per l'aereo .-. 
Vabbè son fatta così, e anche la mia dolce Elisabeth lo è. Spero vi sia piaciuto questo capitolo, un po' di passaggio, e un po' di scena, per via del bacio interrotto purtroppo dallo scansafatiche Jared alias J-Rod :D (se non lo sapevate tra di loro si chiamano così per via della somiglianza dei loro nomi: Jared e Jensen. Sul set i produttori e tutto il rest del cast si confondo sempre, perciò li chiamano così! :D)
Vi posto qui sotto il vestito a cui mi sono ispirata per la serata di Elisabeth con i ragazzi. L'ho modificato parecchio lo so, ma le scarpe e il trucco sono uguali. I capelli decisamente no ahahaha xD

 
Adesso ho finito, e noto con dispiacere che le note sono quasi più lunghe del capitolo quasi - sorry ho tanto da dire ogni volta xD -, quindi vi lascio finalmente e al prossimo capitolo (già pronto ma da betare) :D
 
xoxo Para_muse

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Capitolo 7
*** I'm coming back kid ***


Dunque...QUESTO CAPITOLO E' BETATO. 

Parto subito col dirvi che questo capitolo avrebbe avuto un finale diverso, ma la fantasia e le mani mi hanno giocato questo brutto o bello scherzo. Vedete voi cosa decidere. Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, e vi dico subito che nel prossimo capitolo, sarà la chiusura di Miami. Cioè al 9° ritorneranno a casa, e poi vedrete sotto cos'altro avrò da scrivere. 
P.S: IL CAPITOLO 6: Miami we're come {Part 2 E' STATO POSTATO BETATO

 
Enjoy, read this!
 
 

 
 
7 Capitolo
 
I'm coming back kid
 
 
- Devi smetterla, non rivolgermi mai più la parola... -  mi urlò contro Jensen, mentre si avvicinava alla porta di casa mia. Sentii il mondo cadermi addosso. Cosa avevo fatto? Non dovevo dirglielo, no!
- Aspetta, fammi spiegare, lo devo fare per me stessa. E per te! Lo sai questo Jensen... - dissi. Cercai di corrergli dietro, con risultati più che scarsi e strascicando i piedi come se non riuscissi più a sollevarli. Non riuscivo neppure più a respirare.
- Non chiamarmi più Jensen. Io per te non sono più niente... N-i-e-n-t-e! - voltandosi a fissarmi, scandì quelle lettere ad una ad una. Mi perforarono una ad una il cuore.
- Jensen ma io... - inizia a strozzare le parole, in un tentativo disperato di trattenere le lacrime e i singhiozzi.
- Non mi fai tenerezza, le tue lacrime sono di coccodrillo. Non mi venire più a cercare, non chiamarmi più, dimenticati di me, ritorna da dove sei venuta! Avrei tanto voluto... - si fermò, fissando il mio viso contorto dal dolore. Il suo sguardo schifato e ostinato mi fece perdere l'ultima speranza di convincerlo a restare con me. Di fare parte della mia vita. Per sempre. Mi abbandonai a me stessa, scivolando contro il muro più vicino. Non riuscivo nemmeno a guardalo in faccia. Più lo facevo e più il cuore mi andava in frantumi.
- Non lo capisci... - mormorai - Ti prego, non lasciar...mi...ti prego - i singhiozzi mi spezzarono le parole. I sospiri che presi non erano sufficienti. Iniziai a sentirmi mancare l'aria. E Jensen non se ne preoccupò.
- Addio...e non farti più vedere ...per favore - mormorò piano, aprendo la porta e chiudendosela alle spalle. Per me fu come il tonfo che l'ultimo pezzo del cuore provocò cadendo, giù. Per sempre.
Era andato, non c'era più.
- Jensen - sussurrai. - No, non andare, Jensen - gattonai fino alla porta, sbattendoci la mano, poi mi attaccai alla maniglia e la girai socchiudendo la porta. Mi alzai con qualche difficoltà, e quando mi aggrappai al telaio della stessa, aprii e mi diressi la fuori... nel buio di un buco. - No, Jensen! - urlai stringendo convulsamente le lenzuola sul letto di Miami.
- Ehi, ehi, ehi. Elisabet! Beth, sono qui! - mi sentii afferrare le braccia e le mani. - Sono qui... sono qui... - sospirò facendosi vedere sulla traiettoria del mio sguardo. Lo fissai negli occhi, verdi e scuri. Stanchi e spaventati.
- Jensen... - sussurrai afferrando le sue spalle, tirandolo tra le mie braccia. - Non lasciarmi, non mi lascerai vero? - domandai al suo orecchio, stringendolo convulsamente in un abbraccio.
Lui mi accarezzo i capelli, e mi strinse al suo petto. 
- No tranquilla, non ti lasceremo... - mormorò, deludendomi un attimo per quella risposta. Parlare al plurale...e capivo perché.
- Adesso dormi, su. E' passato, ci sono, sono qui... non vado da nessuna parte - sussurrò trascinandomi di nuovo a poggiare il viso sul cuscino bagnato dal sudore. Mi lascia andare chiudendo gli occhi e tirando un sospiro di... sollievo? Non lo sapevo proprio. Perciò mi voltai, lasciandomi stringere alla vita dal suo braccio, e sentii di nuovo il suo respiro farsi regolare, cercai di chiudere gli occhi facendo la stessa cosa. Il dolore e il buio si ripresentarono... verità o sogno, passai comunque la notte insonne a fissare la sua collana che pendolava dalla lampada, spinta dal venticello di Miami. Come se riuscissi a riaddormentarmi... iniziai a contare i suoi respiri. Uno, due, tre...
 
Sentii il respiro di Jensen farsi più frequente, e capii che si stava svegliando. I suoi muscoli si irrigidirono, e si mosse un po'. Si stiracchiò, e contai l'ultimo respiro che fece. Dopo averne contati più di mille avevo ormai perso il conto. Feci finta di dormire, e chiusi gli occhi respirando, come infastidita dal suo movimento.
Mi voltai, allontanandomi dalla sua morsa. Aveva iniziato a darmi fastidio, dopo che avevo rimuginato per quasi tutta la notte su quel "noi" che aveva pronunciato. Credevo che stesse provando ad avere una... relazione? O cosa? Forse lui non era un tipo da relazione. Una scappatella e via... a lui gli sarebbe bastato. Bhè, a me no, e avevo intenzione di prenderlo, costi quel che costi, anche cambiare Jensen che c'era dentro di lui, adesso.
- Ehi... - mormorò, chiamandomi, muovendomi una spalla. Feci sempre finta, di essere infastidita, e poi mi stiracchiai senza riuscirci bene. Infine aprii gli occhi e li strofinai.
- Buon giorno... dormito bene? - mormorai, con un tono di voce roca. Avevo la gola secca, perciò mi alzai  di schiena, voltandomi poi verso il comodino per bere un po' d'acqua dal bicchiere che preparo sempre la sera, prima di andare a letto.
Mi voltai e stampandomi un sorriso felice dissi: - Oggi si va in spiaggia? Chiamo la reception per ordinare la colazione e qualcosa da portare via. Cosa preferisci? - domandai cortese.
Lui si stiracchiò un altro po' e poi si mise seduto, appoggiandosi alla testiera del letto. Mi fissò come se fossi qualche essere strano, poi alzo un dito e inizio a dondolarlo indicandomi. 
- Cosa sono quelle occhiaie? - disse con voce neutra. La mia risposta fu una smorfia di disgusto per me stessa, o meglio, per il mio corpo. Troppo leggibile per i miei gusti. Per mascherare un po' la situazione, sgranai gli occhi e scossi appena la testa: - Cosa vuoi dire? -
- Lo sai bene cosa voglio dire. Non ha dormito per tutta la notte. Perché? - mi chiese di punto in bianco. Io alzai le sopracciglia, non sapendo bene cosa rispondere. Poi alzai le spalle e sospirai aggiungendo un semplice ma efficace: - Non lo so... - prima di alzarmi e dirigermi in bagno, sbattendomi la porta alle spalle.
Iniziai a spogliarmi, infilandomi nella vasca per farmi una bella doccia, rilassante ma veloce. Dopo una decina di minuti ero ben avvolta nell'asciugamano, e canticchiavo i Beatles. Più tranquilla e meno preoccupata delle occhiaie mi diressi in stanza cercando il costume in valigia. Dopo la storia di Amanda e del mio periodo infernale, non avevo avuto ancora la possibilità di indossarlo. Perciò, finalmente, presi il mio costume rigato bianco e nero, a due pezzi. Afferrai un elastico dal beauty case, un pettine e poi dall'armadio che dividevo con Jensen, una casacca color jeans, leggera e perfetta per andare in spiaggia. Indecisa se mettere infradito o zeppe optai per le prime, più comode e meno pericolose. In fondo stavo solo andando in spiaggia. Perciò mi diressi di nuovo in bagno ritoccandomi prima di andare ad ordinare la colazione per me. Jensen non si vedeva in camera, sicuramente stava già facendo colazione. Senza prendersi la cortesia di aspettarmi.
"Che gentil uomo!", pensai infastidita.
Dopo essermi fatta una treccia, indossato tutto e preparato la borsa mare inforcai i miei occhiali da sole e mi diressi in salotto, raggiungendo il telefono.
Prima però, riconobbi le facce assonnate di Jessica e Jared - rinominati da me stessa J&J - che stavano facendo una colazione a base di latte e cereali. Jensen invece stava mangiucchiando un toast, mentre intonava qualcosa con la sua chitarra.
- Love, love, love...mmh... - sussurrò, scribacchiando qualcosa sulla carta da toast che aveva davanti.
Stava scrivendo qualcosa? Una canzone? Mmh...
- Abbiamo ordinato pure per te Lizzie! - disse Jared mentre stava ancora masticando. Abbassai la cornetta e mi avvicinai alla tavola. Notai le mie adorabili barrette di cereali. Mi volevo mantenere in forma e poi, non volevo mangiare troppo. Volevo farmi un bagno appena arrivata in spiaggia e, soprattutto, prendere il sole. Quello che praticamente avevano fatto tutti tranne me.
La sfortuna aveva giocato male nel mio giro, ma potevo rifarmi quel giorno, perciò avevo messo in borsa l'olio, così mi sarei scottata per bene. Se solo ci fosse stata mamma qui, mi avrebbe uccisa per quel gesto; ma mia madre non c'era, ed era un male in quel periodo... se solo avesse saputo... forse saputo tutto no, ma mia sorella mi sarebbe stata di grande aiuto con lui.
Afferrai una barretta, mettendomela in bocca mentre mi riempivo un bicchiere di thè alla pesca fresco. Quando finii di fare colazione mi avvicinai al divano dov'era seduto Jensen, e afferrai il telecomando accendendo la televisione. Mentre facevo zapping cercando un canale interessante, sentii tossire qualcuno di fianco a me.
- Stavo suonando Elisabeth... un po' di... - si fermò cercando di trattenere la parola educazione o rispetto, ma stufa un po' del carattere di tutti quella mattina, un po' tutti per i fatti suoi, decisi che sarei andata in spiaggia da sola. Perciò spensi la tv e gettai il telecomando sul divano. Andai in camera, sbattendomi la porta dietro, e quando afferrai borsa e cellulare passai davanti lo specchio e mi aggiustai la casacca, uscendo di nuovo in salotto e diretta verso la porta.
- Ehi Betty, dove vai? - domandò Jessica curiosa. Feci la giravolta su me stessa e mi indicai
- Sto andando a mare, non vedi? - borbottai, continuando lo slalom tra i divani e i tavoli.
- Non ci aspetti? - mormorò triste e offeso allo stesso tempo Jared. Mi voltai e alzando gli occhiali, gli lanciai uno sguardo di fuoco
- Perché voi siete restati a casa quando io aiutavo quell'oca di Amanda? Oppure quando stavo male? Mmh, vediamo... no! E poi non si può far niente qui, aspettando che qualcuno si decidi a prepararsi invece che scrivere canzoni assurde! - dissi sputandogli contro tutto quello che la mia mente, contorta dalla rabbia, aveva finalmente deciso di esternare.
- Adesso, vado. Ci vediamo in spiaggia - borbottai ancora una volta, prima di chiudermi la porta con un tonfo alle spalle.
 
Quando arrivai davanti alla passerella di accesso mi pentii di non aver aspettato gli altri. Forse loro conoscevo un posto meno affollato. Passai per tutta la passerella, e notai che già alle nove di mattina, la spiaggia di Miami era completamente affollata.
Mi avviai fino alla riva, dove dei ragazzi giocavano a pallone, e altri a racchettoni. Mi incamminai sulla sabbia, togliendo le scarpe. Camminavo sul bagno asciuga e mi dirigevo sempre più a destra e lontano dalla passerella. La gente andava smorzando a poco a poco, e notai che finalmente c'era un po' di spazio per me e la mia roba. Perciò mi avvicinai in quell'area, dove c'erano anche un gruppo di ragazzi. Non me ne preoccupai tanto, come facevo quando andavo in spiaggia in Sicilia, ma stetti comunque li dov'ero, fin quando non alzai lo sguardo e notai che si erano interessati a fissarmi tutti quanti insieme, con sguardi a dir poco discreti. Perciò decisi di afferrare di nuovo le mie cose, e allontanarmi ancora, ritornando però dal lato opposto, da dov'ero venuta. Camminavo guardandomi intorno, quando inciampai su un ammasso di sabbia. Qualcuno iniziò a piangere. Abbassai lo sguardo e notai una bambina di quasi cinque anni con i lacrimoni agli occhi.
- Scusami - mormorai, abbassandomi alla sua altezza. - Avevo paura, e mi guardavo intorno. Per questo non ti ho vista, piccola... - dissi, accarezzandogli i capelli. Lei mi fissò e scosse la testa come per dirmi qualcosa. Perciò mi soffermai a guardala. Capelli scuri, occhi castani, pelle un po' scura. - Parli italiano? - domandai nella mia lingua madre. Lei mi sorrise tra le lacrima e annuì.
- Sei italiana come me? - chiese con un accento romano. Io annuii e le sorrisi. - Perché avevi paura? - chiese con occhi curiosa. Io scossi la testa alzando le spalle.
- Per niente, niente... ma dimmi sei sola qui? No, vero? - domandai preoccupata. Lei mi prese per mano e mi fece alzare, strascinandomi fin ad un ombrellone. Mi fece conoscere sua madre e suo padre. Quando scambiai qualche parola capii che erano qui solo per una vacanza, nulla di più. Quando gli raccontai che lo ero anch'io, ma che abitavo comunque qui, si dispiacquero.
- Impossibilitati allora a rivederci in Italia... - mormorò la madre gentile. Io scossi la testa sorridendo timida.
- Purtroppo no, sono residente qui ormai. E poi in Italia abitavo in Sicilia, non al nord - dissi.
- Sempre terroni restiamo, no? - disse il padre, facendoci scoppiare in una risata collettiva. - Ma che fai? Ancora posto cerchi? Vieni, mettiti qui accanto a noi Elisabetta! - disse il padre, aiutandomi a stendere la tovaglia. Gradita per quella premura, li ringraziai e poi quando feci sedere accanto a me la piccola Aurora gli promisi che
- Prima vado a farmi un bagno, mi spalmo un po' di olio, e poi ti aiuto a fare un nuovo castello, per farmi perdonare, okay? - gli mormorai, accarezzandogli i morbidi capelli boccolosi. Lei entusiasta mi lasciò andare. E quando dopo un bel bagno rilassante e aver spalmato un po' di olio dappertutto, l'aiutai a portare l'acqua un po' più in la dal bagno asciuga, per farle fare un bel castello. Uno dei più belli tra gli altri, che i bambini di Miami, stavano costruendo.
La dolce Aurora, entusiasta, seguiva le mie istruzioni mentre le preparavo la sabbia umida da modellare, e le spiegavo come avremmo fatto il castello.
Dopo tre ore sotto il sole cocente del mattino, insieme alla piccola Aurora, feci un altro bagno con lei per rinfrescarci un po'. Con i suoi braccioli si muoveva un po' per i fatti suoi, ma l'aiutai comunque a farsi una bella nuotata insieme a me, finché...
- Aurora, Aurora per favore nascondimi, vieni qui, abbracciami! - mormorai, prendendola tra le braccia dell'acqua media-bassa.
La piccolina mi abbracciò, e poi iniziò a fare domande.
- Elisabetta perché dovevo abbracciarti?
- Non dire il mio nome, ssh! - dissi, carezzandogli i capelli bagnati.
Fissai Jensen, Jared e Jessica cercami tra la spiaggia e passeggiare nel bagno asciuga davanti al nostro ombrello. Mi voltai dando le spalle e dissi ad Aurora di avvisarmi se avessero guardato da questa parte, o se avessero parlato con i suoi genitori.
- No, stanno andando via... alla mia sinistra... no, destra volevo dire... o sinistra? Non lo so, Betta, qual'è la manina destra? - chiese con il musino da cerbiatta.
Le sorrisi lasciandola andare. - Questa è la destra, e l'altra è la sinistra - dissi sorridendole amorevolmente. Mi voltai cercando i ragazzi, ma non ne vidi traccia. - L'ho scampata... - mormorai in inglese.
- Cosa? - domandò curiosa Aurora. - No, niente piccola...niente...
- Ma perché? Non vuoi stare con i tuoi amici? - domandò curiosa. Io le sorrisi triste, e poi iniziai a spiegarle, anche se una bambina di cinque anni cosa avrebbe capito della vita di una adulta.
- Quindi a te piace Gennsenn, mmh si dice così? - mormorò, smuovendo le braccine per restare a galla. Io scossi appena la testa e lei rise.
- E' difficile Betta, il tuo è un nome italiano, il suo è difficile, uffa! Bhè questo ragazzo, a te piace? Tanto, tanto? - domandò curiosa, avvicinandosi a me, e giocano con la mia treccia.
Io annuii sorridendole timidamente. - Sai la mia mamma mi ha sempre raccontato una favola simile a quella che mi hai raccontando tu. Però quella della mia mamma non è vera, la tua sì! - disse con sguardo corrucciato.
- E cosa dice la favola della tua mamma? - domandai curiosa, stando al gioco. Lei sorrise e le si illuminarono gli occhi.
- Che ogni principessa trova il suo principe. Se ti senti una principessa, allora certo che ci sarà un principe da qualche parte ad aspettarti. Come la favola della principessa Angelica e del suo principe Marco. Si incontrarono nel bosco, Angelica raccoglieva la verdura per la propria reggia. Era una principessa molto generosa e gentile... - disse sghignazzando. - Il principe Marco invece era l'inverso, un principe cattivo, che mangiava tutto quello che la servitù raccoglieva. Però alla fine, quando il Re padre di Angelica decise insieme al Re padre di Marco di farli sposare, all'inizio la principessa Angelica non voleva, perché il principe Marco era scorbutico, ma alla fine lei gli aveva fatto capire la vera importanza, sia dell'amore che del rispetto e delle emozioni che si rivolgono alle persone intorno. Alla fine entrambi i regni, divennero un solo reame, e vissero tutti felici... - disse sorridendo e sospirando prima di dire. -... e contenti! - lo disse entusiaste mentre io mormorai semplicemente.
La mia riflessione su quella insignificante favola ebbe la meglio su tutto quello che avevo rimuginato la notte scorsa.
Ero così naturale combaciare il padre e la madre di Aurora in quella storia, così geniale. La piccola Aurora non poteva capire il significato di quella favola, ma io sì. Riuscii a capire ogni singolo passaggio, ogni singolo indizio e segno.
Un Jensen scorbutico e poco socievole, che stava un po' per i fatti suoi e un po' no, facendosi circondare solo da persone fidate. Ed io, che cercavo in tutti i modi di allacciare con le persone intorno a me. Scorbutiche o meno, sapevo che potevano riuscirmi a ferire, ma io ero io, e se m'imputavo a dover riuscire a fare qualcosa, era finita.
La principessa Angelica c'era riuscita. Ed io ci sarei riuscita a far cambiare atteggiamento a Gennsenn? Risi divertita pensando alle parola di Aurora.
- Perché ridi? - domandò aggrappandosi alle mia spalle. L'afferrai appoggiando i miei sul fondo, dirigendomi a riva. Mi voltai a fissarla. - Lo sai che sei la bimba più eccezionale che io abbia conosciuto, Principessina Aurora? Mmh? - la feci spostare, portandola in braccio, e usciti fuori d'acqua, ci dirigemmo verso i suoi genitori.
- Tesoro, hai fame? - le domandò la madre, mentre la piccola si stringeva nel suo asciugamano da principesse. - Sì mamma! Ho tanta fame! - squittì.
- Vuoi il panino con la Nutella? - le domandò il padre, mostrandoglielo.
- Oh sì, buona la nutella! Elisabetta a te piace la Nutella? - domandò mordicchiando un po' di panino. Qualsiasi parola dicesse mi faceva sorridere e rallegrare.
Per l'ennesima volta, le mie labbra si incurvarono e io annuii, ma il padre mi venne contro
- A guardare il suo fisico, direi proprio di no. Sei pelle ed ossa! - disse scherzando.
- Marco! - lo richiamò la moglie. Io risi divertita, come non avevo mai fatto in quel lungo e quasi mese di lavoro estenuante.
- Non si preoccupi Angelica, è tutto apposto. Ed è un po' vero! Sono magra, ma sto bene così... - mi giustificai. Lei cercò qualcosa nella borsa-frigo e poi si voltò porgendomi qualcosa.
- Panino con la Nutella? - domandò. Accettai annuendo, e facendo posto sulla mia tovaglia ad Aurora, ci sedemmo come due brave bambine, e mangiammo il nostro panino.
 
Dopo un pomeriggio a rincorrerci in acqua, e costruendo altri castelli di sabbia, Aurora era stanca morta, e io finalmente avevo preso un po' di colore. Ma era ora di ritornare in Hotel.
- E' stato bello conoscervi, ma adesso devo proprio andare - dissi infilandomi la casacca per la testa. Poi afferrai la tovaglia e la borsa, e la sistemai tra i manici di quest'ultima. - Angelica, Marco, è stato un piacere conoscervi! - dissi stringendo la madre in un abbraccio, e stringendo la mano al padre della piccola Aurora.
- E' stato un piacere anche per noi. Ma tieni, vogliamo lasciarti i nostri numeri di telefono e la nostra via di casa. Chissà, magari un giorno ci sentiremo o ti ospiteremo a casa nostra. Aurora ne sarà felice. Vero piccola? - disse il padre, porgendomi il biglietto. La stessa cosa feci anch'io, lasciandogli i recapiti telefonici e le vie di casa sia di Vancouver che giù in città siciliana.
- Non andare! Non andare! Non andare! - Aurora iniziò a saltellarmi in tondo, trattenendomi per la casacca. Mi abbassai alla sua altezza e l'abbraccia forte.
- E' stato bello conoscerti piccola. Ma adesso devo andare dai miei amici... - mormora triste. I piccoli occhietti castano scuri le si riempirono di lacrime.
- Non voglio che vai via...ma devi andare via! Devi trovare il principe azzurro! - disse giocando ancora una volta con la mia treccia.
- Se lo troverò- dissi speranzosa.
- Ricordati della favola, magari ti sarà utile principessa Elisabetta! - disse abbracciandomi un'altra volta e lasciandomi sulle guance baci bavosi. Li adoravo da matti quei baci di bambini.
- Ti voglio bene piccola principessa Aurora. Ci sentiremo presto, non preoccuparti - gli diedi un bacio in fronte, e salutai ancora una volta i suoi genitori.
- A presto - dissi allontanandomi di spalle tra la folla.
- Aurora quale favola hai raccontato ad Elisabetta? - domandò il padre alla bimba. Di spalle io sorrisi e quasi una lacrima cadde giù, ma l'asciugai in fretta.
- Quella del principe Marco e della principessa Angelica, papà. La mamma me la racconta sempre prima di andare a dormire! - disse sbadigliando a suo padre.
- Oh! - mormorò la madre, ridendo dolcemente.
E quelle furono le ultime parole che sentii, prima di infiltrarmi tra la gente di Miami.
 
Arrivata in Hotel, chiesi alla reception se i clienti della mia camera erano rientrati, e annuii sorridendomi cortese. Perciò mi diressi in ascensore, aspettando che arrivassi al piano più alto, quando i miei pensieri si riempirono di flash, e di tutto quello che la mattina ormai trascorsa, aveva portato con se.
Avevo rotto i ponti con loro per quasi un intero giorno, e non mi ero preoccupata di farmi cercare o di farmi perdonare. Mi ero stra - fregata di loro, e avevo passato una giornata splendida con degli ottimi connazionali e con la piccola Aurora.
Forse appena sarei entrata avrei subito chiesto scusa. Sarebbe stato meglio così, e non ci sarebbero stati intoppi il giorno dopo, ma quando mi avvicinai alla porta la paura mi frenò. E se non mi avessero più voluta con loro? Che cosa avrei fatto? "Semplice, te ne ritorni a casa!", disse la mia vocina dentro di me.
Perciò decisi di tastare il terreno, e di vedere come stavano. Qual era l'emozioni che prevaleva di più. Afferrai il telefono convinta di quello che stavo facendo, e allontanandomi dalla porta, notai che il cellulare era pieno zeppo di messaggi e di chiamate. Non ci pensai nemmeno un attimo e cancellai tutto, componendo, poco dopo, il numero di Jessica.
Dopo qualche squillo, rispose: - Pronto? - gracchiò la voce di Jess, con una nota di preoccupante.
Adesso si risponde pronto, sapendo chi hai dall'altra parte del telefono? - Jess, sono io Beth! - mormorai.
- Betta! - sospirò più tranquilla. - Ma che fine hai fatto oggi? Ti ha abbiamo chiamata, e ti abbiamo cercata dappertutto! Abbiamo addirittura chiesto se ci fossero stati corpi in mare! - mi urlò dalla cornetta e la sua voce, che veniva direttamente dal corridoio. Mi allontanai ancora un po'.
- Sto tornando all'hotel - risposi - siete già in camera? - domandai.
- Certo, siamo qui che aspettavamo tue notizie! - esclamò con tono di voce più calmo.
Sospirai più tranquilla e sorrisi tra me e me. - Dove sei adesso? - domandò curiosa. Sgranai gli occhi e corsi indietro per il corridoio prima di farmi beccare.
- Sto entrando nella hall dell'hotel, sto salendo in ascensore! - dissi isterica, iniziando a premere il bottone.
- Ti aspettiamo... - disse, chiudendo la chiamata.
Mi affrettai a salire sull'ascensore ed a premere il pulsante del piano di sotto. Mentre scendevo di un piano, sperai che tutti fossero più tranquilli dopo quella chiamata.
Quando uscii dall'ascensore aspettai che scendesse fin giù, e poi lo richiamai, salendoci di nuovo.
E cose di quel genere in tutta la mia vita non l'avevo mai fatte. Però mi sarebbero stati d'aiuto per la messa in scena.
Quando arrivai al piano, trovai Jessica fuori dalla porta ad aspettarmi. Quando mi vide, sorrise, e ricambia un po' nervosa. - Finalmente! - disse quando arrivai davanti a lei. Mi abbracciò forte e poi mi lasciò andare permettendomi di entrare in stanza. Quando entrai la situazione non era come quella che speravo.
Da un lato della stanza la contentezza e la tranquillità che usciva da tutti i pori di Jared. Quando mi vide, venne a salutarmi, come se non ci fossimo mai visti. Mentre dall'altra lato un Jensen freddo e distaccato se ne stava seduto sul divano, suonando qualche nota sulla chitarra.
Ma non me ne importai. Avrei fatto a meno della sua presenza, un'altra volta.
- Insomma, ci hai fatto preoccupare! - disse Jared, stringendomi convulsamente tra la braccia. Sorrisi, mostrandomi felice e raccontandogli di Aurora e della sua famiglia.
- Di dov'erano? - domandò Jessica incuriosita.
- Venivano da Roma. Erano molto cortesi e contenti di avermi aiutato lì in spiaggia oggi. Era strapiena! E non mi sapevo orientare per bene - dissi poco preoccupata.
- E lo sappiamo... - mormorò Jared comprensivo. - Ci siamo preoccupati anche per questo motivo. Insomma tutta sola... ma bhè, meno male che hai trovato amici. Sai pensavo che la storia di stamattina era acqua passata. Un paio di ore non ti erano bastate... ci dispiace di esserci comportati in quel modo gli altri giorni. Promettiamo di essere più concreti, giusto? - disse Jared, sorridendomi.
- Giusto! - confermai.
- Sbagliato! - ribatte Jensen. - Che faccia quello che le pare, a me non m'interessa se si caccia nei guai. Il suo comportamento mi ha dato fastidio stamattina, ed esigo delle scuse. Non si sbatte in faccia una porta ad una persona che ti ha aiutato, Elisabeth? - mormorò alzandosi dal divano, abbandonando la chitarra e avvicinandosi al gruppo.
- E' vero, mi dispiace per il comportamento di stamattina. Sembra però che il tuo non sia stato da meno. Poco cortese ad aspettarmi per fare colazione, pigro per sistemarti e andare a mare e insolente nel modo di porti e parlare. Stai attento caro Jensen. Qui piaci sempre meno alla gente che ti sta intorno - dissi avvicinandomi a lui a testa alta.
- Insolente io? Oh, ha parlato chi rinfaccia le cose solo quando gli conviene Miss "sono-sola-e-non-mi-comprende-nessuno" - disse in tono arrogante, mimando le virgolette con le dita.
A quelle parole, non ce la feci più. Sputai fuori tutta la vera e santa verità.
- Oh, ha parlato chi invece non si assume la responsabilità delle proprie azioni Mister "prima-di-iniziare-a-correre,-dovremmo-provare-a-camminare". Adesso che mi dici "dolce Jensen"? - dissi stizzita fissandolo dritto negli occhi, ad un passo dal suo viso.
- Dico che... dico che forse era solo un sogno... scordati tutto. Io non sono il principe azzurro! - disse amaramente, voltandosi e dandomi le spalle.
Il mondo mi cadde addosso come nel sogno. Morii dalla vergogna, dalla delusione e dalla gelosia. E anche dalla rabbia. Lo scatto di adrenalina mi pervase tutta, e quando lo afferrai per una spalla voltandolo, gli regalai un ceffone vero, come si deve.
- Elisabeth! - esclamò Jessica stupita.
Il viso di Jensen ruotò verso destra per l'urto. E quando il suo sguardo ritornò sul mio, con la guancia arrossata e i capelli un po' per i fatti suoi, le dighe cedettero e le lacrime mi salirono a gli occhi. Ricordai le parola della piccola principessina Aurora.
- Il principe azzurro esiste per tutti. Sei tu che non sei adatto per esserlo. Stupido egoista che non sei altro! - squittì e singhiozzai allo stesso tempo, mentre una lacrima cadeva giù, solcandomi la guancia.
Il suo sguardo si spostò dal mio sguardo alla mia lacrima che cadeva giù. Non le diede nemmeno il tempo di cadere a terra. Le sue dita la raccolsero e la imprigionarono tra i polpastrelli, facendola sparire.
- Al diavolo il masochismo... - sussurrò prima che mi afferrasse per un braccio, avvicinandomi a se, facendo appoggiare, con uno scontro, le sue labbra sulle mie.
Jensen mi stava baciando. E non era un sogno da scordare.
- Oh... - sospirò qualcuno alle mie spalle.
- Ma cosa...? - mormorò Jared scioccato.
Sì, ma che cosa stava succedendo?

 
 
 
 
 
 
*spazio autrice*
 
Ecco qui, vi è piaciuto? Questo finale mi è uscito così. Si fa per dire, ma avevo in mente un finale diverso, meno scenico diciamo. Intenzionata a farlo di passaggio invece si è dimostrato uno dei capitoli portanti della FF.
Insomma finalmente questo bacio tanto attesso. Che non so se definirlo proprio bacio dato come bacio... insomma voi che pensate? 
Poi non c'è molto da dire a parte la piccola e dolce Aurora, anche quella li parte già prevista ma non nel modo come l'ho scritta. E poi adoro Aurora *-* voi no?
La piccola principessa che sa tutto della vita. La sua prestavolto è stata Mackenzie Foy, l'attrice che interpreterà Reneesme in Breaking Dawn Part 2 :)
Dopo ciò, vediamo se qualcuno noto qualcosa tipo "canzone" scritta da "qualcuno!". Se siete fan di Jensen, sapete di cosa sto parlando... love, love, love :3
Vabbè, vi aspetto al prossimo capitolo, sperando di riuscirlo a postare presto se i problemi con il pc e la chiavetta non persistono, perchè per ora va alla grande e funziona.
Ringrazio ancora una volta Sammy, le seguite, le preferite, e le visite! :D Siete mitiche! W SUPERNATURAL! *-* e Jensen che esiste! <3 
Vado a rivedermi qualche puntata va... e a iniziare il 10 capitolo... ihihihi sono molto avanti lo so ;D ALLA PROSSIMA SETTIMANA (FORSE)
 
xoxo 
Para_muse

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Capitolo 8
*** This is not the last day...this is it! ***


ATTENZIONE CAPITOLO BETATO :)

Salve, ecco finalmente l'ottavo capitolo, con qualche difficoltà ma ce l'ho fatta :D Spero vi piaccia e devo dire che è il più lungo di tutti xD E chi lo doveva dire ihihih spero non vi annoia. Ci vediamo di sotto!
Se qualcuno volesse farmi da betatrice (?) potete mandarmi un messaggio di posta qui su EFP, oppure cercatatemi su questo gruppo della storia, che insomma non è molto popolato...o qui su FB
 
 
Enjoy, read this!
 
 

8 Capitolo
  
This is not the last day...this is it!

 

 
Lo fissai a occhi aperti mentre le sue labbra erano ancora poggiate sulle mie. Occhi chiusi, sguardo corrugato e rabbia repressa sbocciavano dai suoi movimenti decisivi ma con tratti un po' dolci. M’impuntai con le braccia sul suo petto tirandolo indietro.
- Jensen ma che fai? - mormorai alzando un braccio, colpendogli il viso con un sonoro schiaffo e con l'altro alzato pronto a tempestarlo di pugni. Jensen, pronto a pararli, mi afferrò i polsi bloccandomeli dietro le spalle. Cercai di divincolarmi ma sentii tutto il peso di Jensen, che non mi lasciava libera di muovermi.
- Quando ti calmerai, forse ti lascerò andare... - mi mormorò all'orecchio. Solo per un breve momento i brividi mi pervasero e mi attraversò la voglia di baciarlo di nuovo, ma di mia spontanea volontà.
- Okay... - soffocai in un sospiro, - lasciami andare... - mormorai rilassando i muscoli tesi.
Jensen lasciò la presa sui miei polsi ed io mi voltai con uno sguardo nei suoi confronti pieno di domande e voglioso di molte spiegazioni. - Perché l'hai fatto? - domandai curiosa. Molto curiosa. La sua mano, che poco prima stringeva in una morsa ferrea i miei polsi, adesso stava accarezzandomi alcune ciocche impregnate di acqua e sabbia.
- Volevi che ci fosse una relazione tra di noi... che funzionasse... ci sto provando! - esclamò lasciando cadere giù la treccia.
Lo fissai mentre socchiudeva gli occhi, mormorando qualcosa più a se stesso che a me. - Ci sto provando, ci sto provando, ci sto provando... - era più una litania che una frase concreta.
Mi venne spontaneo pronunciare quelle parole. Anche con la gola che raschiava, o con le lacrime a gli occhi che bruciavano dopo una giornata sotto al sole cocente di Miami.
- Hai rovinato tutto, lo sai vero? - singhiozzai. Abbassai lo sguardo dal suo viso al suo collo e alle sue spalle, mentre annuiva lentamente e alza le spalle come per dire "non fa nulla". Ma a me non stava bene.
- Non sono adatto per una relazione duratura...pensavo... - mormorò dispiaciuto e arrabbiato allo stesso tempo. Grugnì qualcosa, e strinse i pugni in una morsa. La mia rabbia era palpabile quando era la sua. Sbuffai e sbattei un piede sul pavimento.
- Certo che non lo sei, cavolo! Tu sei un tipo da sveltine! - gli urlai contro, spintonandolo con le dita.
- Smettila - disse scostando via le mia mani.
Socchiusi gli occhi incrociando le braccia al petto. Cercai di trattenermi, di mantenere la calma un'altra volta, ma non ci riuscivo. Tremavo come una foglia, e, a parte la rabbia, non capivo cosa  stava alimentando il fuoco di quella litigata.
- Certo... quando tu finirai di pensare che io sia come Amanda! Che io sono la troia che pensi che io sia, perché tu pensi questo, adesso me la faccio, un colpo e via... questa è una relazione per te! No caro ti sbagli, io sono diversa, non sono quell'oca che ti veniva dietro, leccandoti il culo, cazzo! - sbraitai presa dalla follia.
- Cazzo, vuoi smetterla?! Vuoi che ti pulisca quella bocca da camionista con un po' di candeggina? - disse scioccato, mentre mi afferrò per le spalle, scuotendomi.
Ma cosa stava succedendo? Non mi resi nemmeno conto quando mi lasciai andare all'indietro, sedendomi sul primo bracciolo di poltrona che trovai.
- Jensen, che cosa? Che cosa mi sta succedendo? - mormorai tappandomi la bocca con le mani. Non era da me parlare in quel mondo. Che brutta pezza di stronza che ero.
Scossi la testa come per liberarmi di quel peso maligno che mi stava attraversando tutta, mentre Jensen si stagliava di fronte a me.
- Succede che... non lo so - sorrise amaro, mentre spostava lo sguardo nel vuoto.
Jensen e io che litigavamo come matti, cosa che non succedeva mai, se non per piccoli litigi come sciocchezze. Okay forse non troppo sciocchezze. Il disprezzo che lui provava verso di me all'inizio, non era ben poco, anzi, mi odiava e sicuramente non saremmo mai riusciti ad andare d'accordo se lui continuava a disprezzare quel lato di me che voleva a tutti i costi avere una relazione con lui. Ed io che continuano invece imperterrita a pressarlo con la storia della relazione che lui non riusciva a reggere.
Forse era un semplicemente caso, che di semplice non aveva nulla, anzi... forse era il momento di lasciar perdere tutto. Di dimenticare Bolt, gli sguardi, le carezze e il bacio dato così... alla sprovvista.
- Dimentichiamoci di tutto okay? Facciamo finta che non sia successo niente. Possiamo essere  amici, ma non di più... ti sta bene? - mormorò guardandomi dritta negli occhi.
Sospirai cercando di non pensare a quello che stavo facendo e annuii amaramente.
- Bene allora...vado a chiamare Jared e Jessica, li avviso che stasera usciamo tutti insieme? - Non era un'affermazione. Si vedeva lontano un chilometro che era una scusa per andare via e uscire da questa situazione così imbarazzante.
Tirai un altro sospiro di sollievo e meccanicamente mi rassegnai pensando ad un futuro in coppia, con matrimonio alle spalle e figli biondi con occhi azzurri che ci gironzolavano per casa.
- Ma cosa pensi mai? Cosa? Cosa? - mormorai sbattendomi i pugni chiusi in testa, mentre mi dirigevo nella stanza che condividevamo. Lasciai andare tutto per terra e mi avvicinai all’armadio afferrando i primi vestiti che trovai. Poi mi avvicinai alla valigia cercando degli slip e il reggiseno coordinato, dirigendomi infine in bagno.
Aprii la porta e me la richiusi dietro con un piede, chiudendo a chiave. Mi fissai allo specchio e rividi in me una bambina un po' indifesa... come la piccola Aurora.
Che cosa mi stava succedendo? Ero uscita fuori di senno. O mio Dio... che cosa era diventata? Una ragazzaccia, e peggio sicuramente di oca! Gesù!
Mi avvicinai alla vasca con idromassaggio e lasciai aperti i rubinetti per far scorrere l'acqua e far riempire la vasca. Nel mentre mi spogliai lentamente, liberando infine i capelli dalla treccia. Presi un pettine e liberai i capelli dalla sabbia e dai nodi che si erano formati, quando finii e la vasca fu piena, attivai i sensori di massaggio e entrai in vasca, aggiungendo qualche goccia del mio bagnoschiuma.
L'odore di frutta mi pervase e mi lasciai andare a quelle bollicine sulla pelle. La mia mente si stava rilassando, ero alla deriva, e canticchiavo allegramente un motivetto facendo si che dimenticassi i problemi di qualche attimo prima finché un bussare insistente mi fece aprire gli occhi e raddrizzare sul fondo della vasca.
- Sì? - domandai preoccupata.
- Elisabeth, ehm... noi stasera usciamo verso le undici... - era Jensen con una voce incerta che mi avvisava, ma non aveva importanza quello che diceva. Perciò mi rilassai di nuovo contro l'appoggio di gomma nella vasca dicendogli un secco "no!".
- Non voglio uscire stasera, sono stanca... - continuai, strofinandomi la schiuma sulle braccia, continuando a canticchiare.
- Dai, su non faremo tardi Lizzie! Massimo l'una o le due e ritorniamo in hotel! - la voce di Jessica, mi urlò dietro in italiano. E Jensen gli mormorò qualcosa che non sentii.
- Non ne ho voglia Jessica. Non mi sento bene! - risposi, anch'io in italiano. Adesso cosa avrei inventato? Che ero di nuovo nel mio periodo?
- Cosa c'è? - disse questa volta in inglese, con tono di voce preoccupato. Oh mio Dio.
- Cosa succede? - domandò a sua volta preoccupato anche Jensen. Ecco fatto, me l'aveva combinata. Perciò decisi di staccare i comandi dell'idromassaggio, afferrai l'asciugamano dell'hotel e mi diressi verso la porta, mentre strizzavo i capelli bagnati in un asciugamano.
- Volete lasciarmi in pace? Sto bene, okay? Solo che non ne ho voglia! - dissi scocciata, afferrando le mie cose, uscendo fuori. - Il bagno è tutto tuo, Jensen! - mormorai, sedendomi sul letto ed infilandomi gli slip sotto l'accappatoio. Jensen rosso in viso, si voltò chiudendosi in bagno.
- Mi spieghi cosa c'è? Okay parleremo in italiano, ma per favore, spiegami cosa c'è! - mormorò avvicinandosi sedendosi vicino a me sul letto. Afferrai di nuovo l'asciugamano dei capelli e continuai a strizzarli, mentre Jessica persisteva con quella domanda.
- Jessica sono innamorata, ecco cosa c'è. Jensen... mi piace, sono pazza di lui okay? Ma non va bene. Perché a lui stanno bene le sveltine, a me no! - sbottai isterica, lasciando poi l'asciugamano sulla porta del bagno, che cadde con un tonfo secco pochi metri prima.
Mi voltai a fissare Jessica, notando la sua reazione: bocca aperta, occhi sbarrati e bava che gli colava dalla bocca.
- La bocca puoi anche chiuderla... la situazione non è delle migliori e non abbiamo Robert Pattinson davanti! - dissi ridacchiando. Lei fece una smorfia disgustata e poi si mise a ridere.
- Come fa a piacerti? Guarda un po' Paul Wesley e ti fai una vera idea! - disse annuendo, fiduciosa in se stessa. Questa volta la smorfia fu la mia, e scossi la testa seccamente.
- Abbiamo gusti diversi, non c'è dubbio! - dissi seriamente.
- Già, ma non stiamo parlando di gusti. Insomma Betta, me lo dici così? Ti piace Jensen? - disse sorridendo come una deficiente.
- Protesti evitare di dire il suo nome ad alta voce? - sussurrai piano, avvicinandomi a lei. Lei annuii.
- Ti piace Ross? - domandò ridendo divertita.
- Eh? Rossi? Chi Valentino o Vasco? - domandai confusa. Lei mi guardo con sguardo assente.
- Betta ma di cosa stai parlando? Io sto parlando di Jen... - gli tappai la bocca prima che potesse dire di nuovo il suo nome.
- Ma dai Jessica, tappati quella bocca! - mormorai isterica. Quando si liberò della mia mano accigliata mi diede uno schiaffo sulla mano.
- Ehi, sei tu che non capisci nulla, Ross e non Rossi! Intendevo per il secondo nome di Jen... di tu-sai-chi! - mormorò arrabbiata. - Fra un po' faccio uno squillo a Harry Potter magari ci suggerisce altri nomignoli per Voldem... cioè volevo dire, Signore Oscuro! - disse alzando gli occhi al cielo. L'imitai, mormorando un: - tu guardi troppi film! - e insieme ridemmo come due sciocche.
- Okay tu-sai-chi è il migliore. Spero la Rowling non ci faccia causa per questo uso improprio, ma ne abbiamo bisogno! - mormorai con finta disperazione. La spintonai sul letto e risi divertita un'altra volta.
- Quindi cosa mi dici? - domandai curiosa della sua risposta. Lei alzò le spalle e annuii.
- Siete fatti l'una per l'altro. Noto però che ci sono un po' di problemi... a lui non piacciono le relazioni durature eh? - costatò lei. Si portò un dito al mento e pensò a qualcosa che potesse funzionare.
- Potrei convincere Jared a parlargli… e a come il sesso di coppia sia fantastico!? - disse sognando ad occhi aperti... mentre io restai a bocca aperta.
- Jessica! - esclamai.
Lei mi fissò, ritornando al presente.
- Cosa? - domandò, sorridendo timidamente.
- Hai fatto sesso con Jared? State insieme? Proprio insieme insieme? - domandai esterrefatta.
Lei rossa in viso annuii, e l'abbracciai di colpo. - Auguri! - le urlai ad un orecchio, contenta per quella cosa. - Credevo vi steste frequentando, insomma non vi fate vedere mai da me o Jensen... - lei mi bloccò subito, spiegandomi tutto.
E capii perché lo facevano di nascosto. Per i paparazzi e tutto il resto: staff, direttori, manager di Jared e chiacchieroni.
- Oh, mi dispiace. E così brutto avere una relazione segreta? - domandai preoccupata. Lei annuii semplicemente e mi prese le mani, stringendole nelle sue calde e confortevoli.
- Betta mettiti in testa solo una cosa. Vuoi Jensen? - domandò piano, e io annuii veloce - Allora prima di tutto devi metterti in chiaro che sarà difficile, ma non solo per il fatto del suo carattere timido e poco amichevole, ma anche per altro... Non so se ti ha raccontato di quello che è successo con una certa ragazza, ma se hai ben studiato come funziona a Supernatural, bhe sarai capace di scoprire anche la verità da sola. Ti consiglio però di farti dire tutto da tu-sai-chi, perché farti raccontare di quella sua ragazza che ha quasi ucciso per sbaglio con l'auto, da lui non è un bell'affare - mormorò dispiaciuta.
E fu allora che ricordai le parole di Jared, il primo giorno di lavoro. Ero appena arrivata e Amanda non voleva consegnarmi il pass, ma arrivò Jared a sistemare tutto:
 “Afferrai il mio Pass, e Jared mi invitò a seguirlo. - Qui è un po' complicato. La gente fa controlli perché un paio di mesi fa abbiamo avuto un problema con delle fan scatenate che con delle macchina fotografiche, alla nostra entrata ed uscita ci facevano sempre foto. Una addirittura si era fatta mettere sotto da Jensen. - ci scherzò su Jared, mentre io restai semplicemente scioccata, sgranando gli occhi.
- Sai ora che ci penso - mi fisso per qualche secondo - somigli un po' a quella ragazzina. Chissà Jen come la prenderà...”
"Bhè la presa male, molto male" pensai dispiaciuta.
- Capisco, forse hai ragione. L'idea di Jared però non è male. Digli di chiedere a tu-sai-chi se sta bene in mia presenza e roba così... voglio scoprire se la storia della ragazza è vera Se è così... - "andrò via" pensai dispiaciuta per me stessa e per Jensen.
Povero Jensen.
- Cosa? - domandò preoccupata Jessica.
- Nothing... - dissi in inglese, sentendo la porta del bagno aprirsi. Vidi Jensen uscire da una nube di vapore, mentre i suoi addominali guizzavano da sopra la tovaglia attorcigliata in vita.
- Ehm, io vado in camera, ci vediamo più tardi in salotto per uscire, vero Lizzie? - disse Jessica a voce alta, strizzandomi un occhio. Io li sgranai, scuotendo la testa impercettibilmente.
- A più tardi! - disse autoritaria annuendo in mia direzione e chiudendosi poi la porta alle spalle.
Il silenzio calò nella stanza, perciò mi avvicinai alla radio sveglia e l'accesi per ascoltare i brani scelti in radio. Mentre una rock band strillava dalle casse diedi le spalle a Jensen, infilandomi il reggiseno - con qualche mossa da circo – e infine mi richiusi l'accappatoio e mi avvicinai allo specchio sistemando i capelli che, ormai umidi, intrecciai di nuovo in una treccia. Sperando che prima dell'uscita sarebbero diventanti un po' mossi e morbidi come piacevano a me.
- Allora stasera verrai con noi? - domandò Jensen con tono di voce neutra.
- Sì - dissi, avvicinandomi all'armadio dove si trovava adesso anche lui. Mi interessai alla mia parte, cercando un vestitino da mettere per quella uscita a quattro.
Trovai il bellissimo vestitino color pesca che mia sorella mi aveva regalato prima della partenza. Lo afferrai, aggiungendo i sandali dorati abbinati al bracciale e agli orecchini dello stesso colore.
- Hai bisogno del bagno? - domandai voltandomi verso Jensen.
- Perché a lei hai detto sì e a me no? - domandò a sua volta. Restai un attimo sotto shock, perché ovviamente capii il senso della domanda, ma non riuscii a formulare e a dare un senso alla risposta.
- Ti ho fatto una domanda... - mormorai poco convinta.
- Anch'io... ma io ti sto rispondendo no. Adesso tu cosa mi dici? -
Un semplice ma efficacissimo "non lo so", mi permise di sfuggire a quelle sue domande strane, infilandomi in bagno, e chiudendomi alle spalle la porta.
Non pensai a nulla e mi dedicai a me stessa.
Quando uscii mi diressi subito all'armadio, intenta a chiudermi la cerniera dietro le spalle. A testa bassa, cercai di fare alzare la zip che non andava su. Quando arrivai davanti lo specchio, mi spaventai vedendo il riflesso di Jensen seduto con sguardo assente, sul letto.
- Jensen mi hai fatto prendere un colpo -  dissi,  continuando ad alzare la zip, con scarsi risultati.
- Scusami... - mormorò avvicinandosi a me. Mi raddrizzai e per fare qualcosa, lasciai andare la zip per metà aperta, occupandomi dei capelli che volevo sciogliere.
- Vuoi che ti aiuti con la zip? - domandò, spuntando da dietro una spalla. Solo allora mi accorsi di quando fosse alto, e di quando lo fossi un po' anch'io. Gli arrivavo un po' più su della sua spalla, perciò me lo vidi sbucare da dietro essa.
- Sì, certo -mormorai, afferrando le ciocche di capelli che mi ero sfuggite. Con un colpo lento e docile mi chiuse la cerniera e si fermò tenendo le mani sulle spalle.
- Senti, mi spieghi questa situazione? Insomma Beth, io vorrei veramente essere tuo amico... ma tu ti dimostri fredda ed io... - lo bloccai voltandomi di colpo.
- Dovevi immaginartelo Jensen, ma è tutto okay, va bene? Io ti voglio come amico, ma sai cosa significa per me vero? Soffro dentro. Perché vorrei di più... - sussurrai accarezzandogli una guancia.
- Mi dispiace... - mormorò.
- Anche a me - ribadii dispiaciuta, ma con l'anima in pace. O almeno credevo.
- Ti stai divertendo? - Jared si era avvicinato a me, urlandomi all'orecchio per via della musica alta.
- Si! - lo imitai a voce alta. Lui mi lanciò uno sguardo di sbieco e io sorrisi di rimando.
- Lo so che sta succedendo, vedrò di rimediare con lui - mi disse, e mentre gli annuii, si alzò dirigendosi verso al bancone dove Jensen si era rintanato lasciandoci da soli al divanetto. Jared e Jensen non avevano problemi a condividere il loro spazio con me. Sapevo perché lo facevano, e non era solo per fare un favore a me, facendomi compagnia. Non volevano farsi beccare, perciò, discutevano apertamente, con me al centro della discussione e del divanetto.
- Grazie, lo so che tu capisci la situazione - mi disse all'orecchio Jessica, mentre afferravo il bicchiere di Mojito. Facendo abbastanza caldo in quel disco-pub, perciò era meglio ogni tanto rinfrescarsi un po'.
- Fa niente, è meglio così! - dissi, cercando di sovrastare la musica.
- Ti va di ballare? - cambiò direzione Jessica. Io annuii lasciando il cocktail sul tavolinetto.
- Andiamo a dirlo a Jared però... - mi disse afferrandomi per una mano e dirigendoci lentamente in mezzo alla calca, fino al bancone bar.
- Ehi, Jared! - urlò Jessica. Il ragazzo ci vide e alzo le spalle poco preoccupato.
- Ehi ragazze, Jensen qui non c'è. Ho chiesto al barman e ha detto che era in compagnia di una ragazza bionda... - e mi gettò uno sguardo preoccupato. A quelle parole, la mia testa partì in quarta.
- Adesso non so, può essere qui da qualche parte. Il locale è grande, magari se ci dividiamo... - disse, guardando Jessica.
Io non capii più nulla e Jessica, voltandosi verso di me, scosse al testa.
- E' tutto okay, staremo insieme...! - disse voltandosi di nuovo verso Jared. -... e vedremo se è qui da parte qualche. Magari poi quando usciamo fuori proviamo a chiamarlo e vediamo dov'è. Intanto andiamo a prendere le nostre cose, Betta! - mi urlò, spintonandomi verso il divanetto. Quando afferrammo le pochette ci prendemmo per mano e ci accalcammo ancora una volta tra la folla, cercando Jensen. Io avevo la testa in fiamme, arrabbiata, gelosa, e molto, molto preoccupata di cosa stesse facendo. E se era in Hotel... nel mio letto... o mio Dio. L'avrei ucciso con le mie stesse mani. Mi voltai a destra e a sinistra, cercando due teste bionde. Jared era un po' più alto di noi, e vedeva meglio dove potesse essere, ma anche lui sembrava in alto mare.
- Jensen! - urlai arrabbiata, ma non rispose nessuno, o meglio non mi sentii nessuno con quella musica sparata ad alto volume. Mi voltai ancora una volta da tutte le parti, a destra e a sinistra... vedendo finalmente qualcuno di familiare.
- Jensen?! - mi feci largo tra la folla, lasciando andare la mano a Jessica, che mi urlò contro qualcosa che non sentii. Quando arrivai dietro le sue spalle, lo afferrai, attirando la sua attenzione, facendomi spintonare ogni tanto qua e la, dai ragazzi che ballavano. Il ragazzo che mi aveva baciato ore fa non si decise a voltarsi, perciò mi portai al suo fianco, godendomi la scena. Occhi socchiusi, ballo volgare, non sembrava nemmeno lui. - Jensen! - urlai, afferrandolo per una spalla.
Un Jensen tutto trasandato si voltò a guardarmi, sconvolto in viso. Spostai lo sguardo da lui alla ragazza con il rossetto tutto sbordato. Se l'era baciata, a morsi a quando pare.
- Mi fai schifo... - gli urlai con tono di voce neutro, mentre mi tiravo indietro, correndo verso un ipotetica uscita. Con i piedi a sangue per via delle scarpe aperte e piedi e le braccia degli altri che mi pestavano dappertutto uscii nella brezza leggere della notte di Miami Beach. Corsi fin dall'altra parte della strada e mi avvicinai al recinto della spiaggia. Avevo bisogno di attraversarla, di andare lì dentro.
Corsi a perdifiato per tutta la lunghezza del recinto, fin quando arrivai all'ingresso e non mi importò delle telecamera di sicurezza, perché non avrei fatto niente di pericoloso.
Corsi fino alla riva e mi bagnai i piedi nell'acqua poco tiepida; quelli iniziarono a bruciare per il sale e il sangue, perciò poi mi lasciai andare all'indietro, sedendomi e infine coricandomi a guardare il cielo blu-notte: il colore che tutti i cieli del mondo dovevano avere.
Come quello della Sicilia tante settimane addietro.
 
~flashback~
 
- Non è bello qui? - mi mormorò Davide, abbracciandomi teneramente. Mi strinsi a lui e annusai il suo odore di dopobarba sulla camicia. A quella domanda annuii semplicemente. - L'ho fatto solo per te, per noi. Sai che ti amo non è vero? - mormorò alzandomi il viso con due dita.
- Si - sussurrai avvicinando il mio viso al suo, per un bacio tenero e casto. Le sue dita lentamente scivolarono giù fin sul petto, dove oscillavano i ciondoli ricordo che avrei portato con me, per un fatidica partenza americana e lavorativa.
- Devo dirti una cosa... - mormorò un po' preoccupato. Si sciolse dall'abbraccio per farmi appoggiare sulla tovaglia che aveva steso poco prima sulla sabbia. Le mia braccia corsero sul suo collo, accarezzandogli i capelli dietro la nuca, cercando di avvicinarlo a me.
- Cosa c'è D.? - mormorai, alzando il viso verso lui, baciandogli le guance, il mento, l'angolo delle labbra.
- Betta io...- mormorò con roca.
- Cosa? - mormorai tornando a poggiare la testa sul telo, continuando a tenere però, le braccia strette a lui.
- Betta, mi dispiace, perdonami ti prego! - disse con voce quasi isterica, stringendosi a me, nascondendo il viso tra il mio collo e la spalla, baciandomi e graffiandomi con i denti.
- Per cosa, tesoro? - mormorai divertita. Sapeva quando soffrissi il solletico il quel punto. Si tirò indietro, e il ciuffo dei suoi capelli cadde in avanti. Glielo scostai dalla fronte, e gli accarezzai la poca barba che gli era cresciuta dalla bassetta in giù.
Il suo sguardo perso sul mio viso, preoccupato e pieno di lacrime, si fece ancora più triste. Le sue sopracciglia si strinsero in quella smorfia che tanto somiglia a qualche attore statunitense che non ricordavo. La sua vena frontale si gonfiò per lo sforzo di mantenersi in quella posizione, e attratta glie l'accarezzai con un dito.
- Davide mi stai facendo preoccupare, cose c'è? - domandai teneramente.
Lui tirò un sospiro e poi lasciò andare le parole in una cascata di chiodi dolorosi.
- Ti ho tradito con Luana -
~fine flashback~
 
- Signorina non può stare qui - le parole neutre di un officiale di polizia mi richiamò dal sogno ad occhi aperti. Le lacrime che mi rigarono il viso, caddero tutte ai lati del mio viso, bagnando la sabbia intorno a me.
- Sì, mi scusi -  mi rialzai da terra, tirando su col naso.
-  Sta bene? - domandò con tono gentile. Io annuii semplicemente, togliendo con le mani, la sabbia attaccatasi al vestito.
- Prego, tenga - mi porse un Kleneex e lo accettai di buon grado. Iniziai ad incamminarmi, prima però tolsi i sandali sporchi di sabbia e sangue. - Vuole seguirmi per favore, la porto all'uscita e le faccio prendere un taxi - mi disse, in tono di nuovo gentile. Io sorrisi appena ringraziandolo, e poi lo seguii con i piedi doloranti che bruciava sulla sabbia. Strinsi i denti, e seguii le orme del poliziotto sulla sabbia.
Quando arrivammo all'uscita, alzò una mano per me, e chiamò un taxi.
- La prego di non trasgredire più la regola, signorina. Non vorrei la prossima volta farle una multa salata - disse con voce un poco severa. Annuii ringraziandolo ancora una volta, e poi entrai nel taxi dando l'indirizzo dell'hotel.
Tornata in hotel iniziai a preparare la valigia intenta a prendere un bus per Vancouver. Prima però di mettere in valigia  il beauty case con gli shampoo e tutto il resto feci un doccia veloce e mi vestii con un paio di pantaloncini e una canotta. Infine conservai tutto e mi diressi in terrazza aspettando
che il sole sorgesse sulle onde di Miami. Afferrai il cellulare e piantando gli auricolari, ascoltai un po' di musica, mentre i miei pensieri volarono ancora una volta a quella sera...
 
~inizio flashback~
 
- Ti ho tradito con Luana -
Le mia braccia caddero morte sul mio petto, e il mio sguardo restò inespresso per un arco di tempo indefinito, mentre Davide cercava di scusarmi, con le lacrime che gli rigavano le guance, cadendomi addosso.
- Cosa? - mormorai poco dopo, sbalordita. Cosa? Cosa? Cosa? Tradito! Tradito! Tradito!. Le parole mi rimbombavano dentro la testa, e non riuscii a toglierle.
- Voglio andare a casa - mormorai appena, sconvolta.
Le sue mani, mi accarezzarono il viso, e mi afferrano per le braccia tirandomi su. Quando raccolse la tovaglia e mi afferrò per un braccio trascinandomi lentamente fino alla macchina, non ricordai nulla di quello che Davide poté sussurrarmi. Il tragitto non fu nemmeno come quello di una coppia sposata in crisi, con urla e piagnistei. Solo silenzio, e le parole inutili di Davide che mi perforavano l'orecchio sinistro, mentre da quello destro uscivano.
Quando arrivammo davanti la porta di casa mi ripresi. Mi voltai a fissarlo sempre con quel sguardo neutro di cui mi ero appropriata.
- Ti am... - prima che potessi finire la parola, le sue labbra furono sulle mie. Non diedi importanza al bacio, non mossi la mia carne sulla sua, non feci nulla per ritirarmi, e nulla per rispondergli.
Quando si tirò indietro, la mia mano volò sulla sua guancia, in una tenera carezza.
- Ti... amavo Davide, come hai potuto farmi questo? - mormorai infine, voltandogli un sonoro schiaffo. - Non voglio più vederti - scandii piano quelle parole, e con voce così neutra che non sembrai neppure me stessa. "Sei tu o un'altra?", domandò la vocina dentro la mia testa.
Uscita dall'auto tornai in casa, con tranquillità, mentre una calda lacrima cadeva giù dalla mia guancia. Solo dopo quando sarei ritornata in camera da letto dal bagno, davanti al pc, un'altra lacrima cadde, ma di gioia mentre leggevo l'email positiva dal concorso americano per The WB:
 
Da:The WB Company, Produttore Esecutivo, Mister Robert Singer
A:Miss Elisabetta Chiara De Santis
Oggetto:Concorso mondiale:"Racchiudi in un click, e vinci con The WB Company"
 
Egregia Miss De Santis
 
siamo lieti di informarla che tra le mille persone che hanno partecipato al nostro concorso oltre oceano, lei è stata la prescelta. Siamo felice di accoglierla nel nostro set lavorativo della serie tv "Supernatural". Il premio del concorso non solo prevede questo, ma avrà l'opportunità di rinnovare il contratto con la nostra compania, se questa ritenesse opportuna averla con noi e se lei avrà la possibilità di restare nel nostro paese statunitense.
Le faremo avere in settimana in biglietti della partenza, e luogo e la data dell'incontro con Mister Singer, me medesimo, per informazioni, richieste e problemi da lei fatti nota.
Aspettando sue risposte a questa email, le porgo le mie più sentite congratulazione e saluti.
 
The WB Company, Produttore Esecutivo,
Mister Robert Singer
 
~fine flashback~
 
Aprii gli occhi e vidi ancora quella parole incise nel nulla. Mister Singer, cosa avrei fatto senza di lei a quest'ora? "Ti saresti pianta addosso per lo strazio dell'abbandono di Davide, te lo dico io!", mi disse al vocina interiore.
Stavo per chiudere gli occhi, lasciandomi andare sulla sdraio morbida e comoda, quando sentii un rumore attutito dalle cuffiette. Le tolsi, lasciando il telefono accanto a me e voltandomi a guardare all'indietro.
Vidi qualcosa volare da una parte all'altra della stanza che dividevo con quello schifoso.
Mi alzai e mi avvicinai lentamente alla finestra. Poi qualcosa mi colpii i piedi e alzando lo sguardo notai tutti miei vestiti sparsi per la stanza. Le lacrime di rabbia mi salirono agli occhi.
- Che cosa stai facendo? - urlai chiudendo le mani in un pugno fermo, mentre a passi decisi mi diressi verso di lui.
- Non vedi? Ti sto svuotandola valigia - disse, prendendo la mia roba e trasformandola in una palla, lanciandola sul letto e per terra.
- Che cosa stai facendo? - gridai un'altra volta, afferrandolo per le spalle, spingendolo via dalla valigia che avevo messo in ordine. Cadde all'indietro sul sedere e, prima che potessi chiudere di nuovo la valigia, mi spinse per riaprila e togliere la biancheria intima.
Non vidi e non percepii più le mie azioni. Lo afferrai per i capelli tirandolo via dalla mia roba un'altra volta. La rabbia repressa si scatenò in me come un acquazzone in estate, e mentre lui cadde un'altra volta di schiena per terra gli saltai addosso in malo modo, riempiendolo di qualsiasi cosa mi uscisse dalla bocca o si porgevano a fare le mie braccia e le mie mani e le mie gambe.
Uno schiaffo gli risuonò una guancia, mentre un pugno serrato gli colpiva una spalla, un braccio. L'altra iniziò a graffiargli la testa e a tirargli i capelli, mentre i miei piedi e le mie gambe scalciavano imperterrite contro le sue. Le croste sui piedi si riaprirono e il sangue gli sporcò i pantaloni chiari di rosso scuro.
I miei denti si serrarono contro il suo avambraccio tra le pieghe del gomito.
Non ero più me stessa, ero un mostro che stava facendo male a se stessa e a lui.
Le mie parole non si fermarono, fiumi e fiumi di volgari parole sfociarono dalla mia bocca, mentre gliele sputavo contro con disprezzo e odio, mentre la compassione e l'amore per lui, si rintanarono nel più stretto e oscuro pensiero nella mia mente. Quando il sangue cominciò a sgorgargli dal naso e dalla bocca tumefatta dai colpi, mi fermai. E lo shock mi pervase tutta, rendendomi conto di che cosa avevo fatto. E di come avessi fatto tutto da sola, senza avergli permesso di difendersi. "Che razza di persona sono diventata?" mi domandai a me stessa... e lo sguardo di mio padre, preso di rabbia che mi colpiva in viso da bambina, mi ritornarono davanti, mentre le lacrime mi offuscavano gli occhi.
- Mi dispiace...- riuscì Jensen a mormorare con i denti sporchi di sangue, prima che chiudesse gli occhi svenendo.
E gli piansi addosso, stringendolo convulsamente in un abbraccio dove cercavo amore e perdono.
 
 
*spazio autrice*
 
Lo so, lo so, è un po' strano come capitolo, vi avevo detto però che era c'entrato su qualcosa. Bhè quel qualcosa era proprio questi strani episodi che si sono seguiti...
Il dopo bacio...
Bhè il dopo bacio non sapevo perfettamente cosa dovevo scrivere, la prima parte in realtà è stata un po' difficile da scrivere, ma alla fine diciamo si è sbloccato facendo in modo che il capitolo arrivasse alla fine.
Infatti all'iniziò litigano, poi lei che con non riesci più a controllarsi e lui che fa in modo di non ricordare più niente. Come? Baciando un'altra al pub e divertendosi. Ma prima però Elisabeth cerca aiuto nella sua italo-americana amica Jessica, che cerca aiuto in Jared, il suo nuovo boyfriend segreto però. Sapete tutti perché mantengono segreto la loro relazione, ma perchè però lo tengono segreto anche a Elisabeth? Lo scopriremo forse presto...
Elisabeth ha fede in Jared, ma quando vede Jared e la ragazza bionda sbottà di rabbia e tristezza ma la incamera dentro se stessa, come le insegnava sua madre.
Va in spiaggia e cosa pensa? Alla somiglianza dei casi... ed è così che metà cuore sofferto l'ha lasciato in Sicilia, e l'altra metà sana cosa farà ora in America? Se la farà distruggere da Jensen? Chi lo sa...
Però alla fine torna a casa, e tutto cambia grazia a Mister Singer. Elisabeth gliene è grata... ma quando ritorna alla realtà trova Jensen intendo a disfarle la valigia. Ed ecco una Elisabeth che non riesce più a controllarsi, e la rabbia repressa dei giorni indietro e delle settime addietro, si scontra addosso a Jensen. Al suo amato Jensen.
Aggressiva, lotta con Jensen fin a ridurlo a sangue. Ora la domanda sorge spontanea perché Jensen non si difende? C'è qualcosa che non va in lui ma cosa? Forse qualcosa o qualcuno l'avrà convinto finalmente a darle una possibilità? 
Ed Elisabeth dopo lo scontro avrà più il coraggio a parlare con Jensen? O vorrà ancora stargli lontano?
Questo parte del capitolo mi è venuta così spontanea, perchè capisco certi stati d'animo di Elisabeth. Insomma io non sono così aggressiva, ma quando mi lascio andare, le parolacce ne dico di tutti colori - se poi davanti ho una sorella che rompe le palle - anche se io le rompo anche xD
Il resto comunque lo scopriremo al prossimo capitolo.
Vi lascio con il vestito un po' modificato di Lizzie per la sera!
E vi ricordo il gruppo:
Love, Hate, Words. (che non è attivo perchè non ci siete voi u.u)


 
 
xoxo
 
Para_muse

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Capitolo 9
*** Start again with... camera! ***


CAPITOLO BETATO

Come avevo promesso ieri, ecco il nono capitolo a vostra disposizione! Spero vi piaccia JHo cercato di correggerlo anche se non è betato correttamente come vorrei… vi prego, non fate caso a qualche errore di battitura. Spero vi piaccia…e vi ricordo che CERCO BETATRICE (non necessariamente) ;D
Ci vediamo di sotto..
 
Enjoy, read this!
 



9 Capitolo
 
Start again with... camera!

 
 
- Jensen mi dispiace, scusami, io... non sono così! - mormorai, singhiozzando tra le lacrime. Afferrai un panno un po' bagnato e glielo tamponai sul labbro spaccato.
- Tranquilla, per favore...auch! - sussultò afferrandomi delicatamente le mani, e allontanandole dal viso. Lo fissai dispiaciuta e con lo sguardo appannato dalle lacrime. Fiumi e fiumi di lacrime erano usciti dopo che Jensen era svenuto sotto il mio sguardo. Il mostro che era in me era scomparso, e la dolce Elisabeth che si prendeva cura degli altri era insorta all'improvviso dal mio essere e si era lasciato andare, cadendo addosso al petto di Jensen in lacrime e dispiaciuto.
- E' tutto okay... - mormorò, stringendomi la mano, mentre un Jared accigliato applicava un cerotto sul naso, e puliva con un cotton fioc imbevuto di disinfettante il labbro spaccato.
- Ma si può sapere che vi è preso a tutti e due? Nessuno vuole dirci niente... - disse, fissandoci entrambi. Jensen chiuse gli occhi facendo finta di nulla, e le mie lacrime continuarono a scendere giù, mentre gli carezzavo i capelli all'indietro.
- E' vero, nessuno vuole dirci niente... per favore Elisabeth, parla, dicci tutto! - disse Jessica, venendomi incontro.
- Abbiamo litigato, e mi sono sfogata... addosso a lui! - singhiozzai, piangendo ancora e ancora.
Jensen mi strinse forte la mano, come se volesse spezzarmela, non voleva lasciarmela andare, e io la tenni lì comunque, con dolore o senza.
- Smettila di piangere per favore - sussurrò con voce strozzata Jensen, mentre si distendeva su un fianco. - E' tutto okay - mormorò.
Perciò mi aggrappai a lui in un abbraccio, mentre i singhiozzi mi facevo vibrare il corpo. E ancora, e ancora...
 
Aprii gli occhi e sentii qualcosa vibrare nella tasca dei jeans lunghi e caldi che avevo indossato in quella gelida mattina di Vancouver. Le braccia di Jensen mi teneva stretta, nel suo letto matrimoniale a casa sua. Mi liberai piano, e afferrai il cellulare dalla tasca, portandomelo all'orecchio.
- Hello? - mormorai assonata.
- Pronto, tesoro? - disse la voce di mia madre preoccupata.
Mi svegliai di colpo, invertendo la lingua dall'inglese all'italiano.
- Mamma?! - dissi sorpresa.
- Ciao tesoro! E' da tanto che non ci sentiamo! Ma che fine hai fatto? - domandò preoccupata, quasi come se stesse piangendo.
- Tutto apposto mamma! - dissi sorridendo. - Qui è tutto okay, e da voi? Come stai? Il papà e Laura? - domandai curiosa. Mi alzai dal letto, e mi avvicinai alla finestra chiusa della stanza di Jensen, voltandomi a fissarlo, mentre dormiva profondamente.
- Stiamo bene, fa un caldo tremendo ma stiamo bene. Lì da te come è il tempo? - domandò.
- Abbastanza. Insomma fa già freddo. Lo sai mamma, no? Qui fa già freddo in settembre... - mormorai dispiaciuta, mentre i miei ricordi andavano alle vecchie estati che passavo al mare, con la mia famiglia.
- Come hai passato l'estate allora? - domandò la madre curiosa, ridendo anche.
- In realtà quest'estate sono partita con amici e siamo andati nell'assolata Miami Beach! - dissi ridendo questa volta anch'io.
- Te lo puoi permettere tesoro? Ti pagano bene? -
- Certo che sì mamma, sennò che ci sarei venuta a fare? Quasi più di mille e cinquecento euro al mese, mamma! E volevo dirti se avete bisogno di denaro, io posso sempre mandarmi metà del mio stipendio! - dissi dolcemente. - Papà lavora? - domandai preoccupata.
- Si, per adesso è impegnato con la coltivazione di mandorle. Poi passerà all'uva, e infine all'olio!Stai tranquilla piccola mia, ce la facciamo! - disse con voce roca.
- Okay mamma, mi fa piacere! - risposi sorridendo, - c'è qualcuno lì con te? Ho voglia di parlare con Laura! - le dissi ridendo.
- Sì, è qui te la passo! Stai attenta tesoro, e per qualsiasi problema, chiamaci! - disse, salutandomi e passando il telefono a mia sorella.
- Ehi sorellina, come va? Te la spassi lì, eh? - la sentii muoversi e affaticare il respiro. Sicuramente si era allontanata dai miei per parlare in privato. Mi allontanai dalla finestra, stanca di stare in piedi e mi avvicinai di nuovo al letto, sedendomi piano. Appena appoggiai il braccio libero per sostenermi, senti la mano di Jensen afferrarmi il polso piano. Mi voltai preoccupata che si fosse svegliato, e i suoi occhi aperti mi fecero addolcire. Chinandomi su di lui, mimai un sorry e continuai la mia discussione con Laura.
- Si, Laura certo che compro dei vestiti nuovi, e anche firmati! - dissi ridendo. Lei rise divertita e prima che potessi cambiare argomento sul lavoro mi domandò:
- E con gli attori? Sono bellissimi! Sai qui in Italia la tua serie tv è andata in onda a febbraio, mi sono documentata con qualche mia amica, patita per questa roba di fantasmi e altro. Me la sono vista quest'estate in streaming e devo dire che Dean non è proprio male! -
- Laura! Ma che dici!? - dissi isterica ridendo.
- Eh? Gelosa? Se non sbaglio si chiama Ackles e qualcosa... Jessin, o non so cosa... ma a me piace da morire Jared Padalecki! - mormorò con voce sognante.
" Ma guarda un po' che mi tocca sentire!" , pensai indignata.
- Si chiama Jensen Ackles, e Jared è occ... - mi tappai la bocca, prima che potessi dire altro.
- Che cosa? - domandò curiosa sua sorella.
- Niente è di origine polacche! - mormorai veloce, sperando di non farle capire niente.
- Ah, non lo sapevo. Devo informarmi su wikipedia... mmh. Vabbè che mi dici di loro? Sono belli dal vivo!? -
- Sì - borbottai.
- Ti piace uno dei due eh? -
- Smettila
- Su a me puoi dirlo! - disse ridendo.
- Laura, finiscila su! Dai passami papà!
- Okay, ci sentiamo presto!- disse e mi passò mio padre.
- Elisabetta! - gracchiò dall'altoparlante la voce di papà. Sorrisi dolcemente e mi appoggiai al cuscino, mentre Jensen si stringeva a me, con gli occhi chiusi.
- Papà. Come stai? -
La discussione fu molto simile a quella avuta con mia madre, solo che:
- Allora hai un ragazzo?- domandò con voce neutra. Io arrossii e ridacchia divertita. Attirai l'attenzione di Jensen che si issò con un braccio e mi fissò sorridendo. - Boyfriend? - mimò con le labbra.
Io scossi la testa, sorridendogli, e gli tappai la bocca con la mano.
- No papà, nessuno ragazzo! -, fissai Jensen sgranando gli occhi, mentre mi mordeva piano la pelle del palmo. Mormorai un "ahi!" e Jensen rise soffocando la risata sul cuscino.
- Nessun ragazzo eh? - disse sarcasticamente ridendo. - Dai, non prendermi in giro tesoro, chi è? - domandò curioso.
- Si chiama Jensen papà, ma è un po' agli inizi! - dissi ridendo e fissando Jensen che si metteva sull'attenti.
- Il suo nome sarebbe un Giuseppe all'italiana? - domandò, tossendo alla cornetta.
- No, papà! E' Jensen, J come Jessica, e poi iensenn! - soffocai una risata allo sguardo inorridito e allo stesso tempo divertito del ragazzo di fronte a me.
- Jieansenn! - borbottò mio padre facendo delle prove. - Vabbè, Giuseppe o J-e-qualcosa è la stessa cosa!
- No, invece! Giuseppe è un nome, Jensen ne è un altro! - dissi ridendo divertita.
- Jensen Ackles! Jensen! - urlò il ragazzo dal nome strano.
- Ehi! Sei con lui veramente! Allora? - disse isterico mio padre.
- Sono a lavoro! - dissi isterica, tappandogli la bocca con entrambi le mani, mentre la cornetta mi scivolava giù dalla spalla.
- Shut up! - mormorai ridendo, mentre gli saltava addosso.
- *The phone, your father are summoning you! - disse divertito, afferrando il telefono con una mano, mentre con l'altra mi tratteneva le braccia. Me lo avvicinò all'orecchio mentre mio padre sbraitava il mio nome alla cornetta.
- Papà! Devo andare, ci sentiamo un'alta volta okay? - dissi, ritornando all'italiano e lanciando uno sguardo assassino a Jensen!
- Va bene tesoro, stai attenta a questo Jiensenn! Stammi bene! -
- A presto -
- Finally! -
- Direi proprio! – dissi ritornando di nuovo all’inglese. Abbandonai il telefono da una parte mentre mi lanciai di nuovo alla riscossa verso di lui. - Non devi più interferire con le mie chiamate, caro Mr. Ackles Jiensenn! - imitai la voce di mio padre, ridendo divertita della sua faccia.
Prima che potessimo di nuovo prenderci a schiaffi e a divertirci, il telefono mi vibrò un'altra volta e un messaggio di Luna mi ricordò che era tempo di tornare a casa.
- Devo andare J! - dissi, fermandomi, mentre scendevo giù dal letto. Mi voltai a infilare le ballerine, e poi mi avvicinai all'armadio con specchio per sistemarmi.
- Non dimenticare che domani passo a prenderti io, baby! - disse dal letto. Io annuii e mi voltai a fissarlo.
- Per favore non chiamarmi così, mi sento... volgare! Non so... - borbottai avvicinandomi di nuovo al letto, per prendere la collana e gli occhiali da riposo che di solito indossavo a fine giornata.
- Okay, piccola-a! - disse in uno stentato italiano. Sorrisi e mi avvicinai a lui per lasciargli un veloce bacio sulle labbra.
- Non dovremmo metterci a letto quando torniamo dagli studios. Finiamo per guardare la tv e poi addormentarci, poi Luna di preoccupa e diventa isterica con me arrivata a casa... - dissi triste.
- Okay, niente più sonnellini insieme - disse sghignazzando, chiamando Jared con un urlò, per farlo arrivare dall'altra stanza.
Mi allontanai da lui, dirigendomi verso la porta chiusa della sua stanza, e aprendola arrivò l'urlò assordante della voce cupa di Jared:
- Cosa? -
- Non sono sorda Jared! - dissi tappandogli un orecchio.
- Scusa! - disse sorridendomi.
- E' tutto okay! Comunque, notte, ci vediamo domani J-Rod! - dissi, alzandomi un punta di piedi e lasciandogli un bacio sulla guancia, andai da sola alla porta d'ingresso, un po' come se fosse casa mia.
Bhè, era come se lo fosse un po'.
 
(*ndt: la frase inglese dice: "Il telefono, tuo padre ti sta chiamando!". Ho usato il verbo summon perchè si riferisce a chiamare ma non telefonicamente, quello sarebbe "calling you")
 
Ritornata a casa , era come se fossi ritornata alla "vecchia" casa in paese. Luna era un po' arrabbiata con me all'idea che io ritorni a casa così tardi, ogni giorno, e che non facessi nulla per aiutarla in casa. Un po' mi diede fastidio, e un po' mi pentii all'idea di averla abbandonata del tutto.
Non ci eravamo ancora raccontate nulla delle nostre rispettive vacanze, e ci eravamo viste così di rado visto il mio lavoro e la sua università che la impegnava in un nuovo stage artistico.
- Non che mi dia fastidio, ma vorrei che in casa fossi più presente. Tutto qui! - mormorò, prima di bere un sorso del suo caffè forte.
Io annuii e filai dritta in camera per sistemare gli ultimi vestiti che avevo messo in valigia.
Mentre infilavo le grucce nel loro posto, i pensieri viaggiarono di nuovo ad un Jensen dormiglione, e a me stessa tra le sue braccia... un'innamorata Elisabetta e non un Elisabeth qualunque. Sorrisi tra me e me, e quando finii di sistemarmi la roba in camera mi diressi da una Luna affamata in cerca di qualcosa in dispensa.
Perciò per farmi perdonare cercai di replicare le lasagne della mamma, e davanti a quelle ci raccontammo a vicenda le vacanze estive, evitando però le parole: amore, Jensen, impegnata, e litigi.
Luna aveva passato una fresca estate londinese dai suoi, ora che era ritornata però voleva impegnarsi in questo stage artistico televisivo, dove la vedeva impegnata a sfidarsi con altri suoi coetanei per aggiudicarsi un posto in una serie tv di successo "senza nome".
- Non vi hanno detto quale sia? - domandai mentre mi alzavo per togliere i piatti di mezzo. Lei scosse la testa e dopo aver bevuto le due dita d'acqua rimaste sul suo bicchiere, si alzò aiutandomi a sparecchiare.
- In realtà ci hanno detto che non ha importanza perché comunque il nostro scopo è quello di essere preparati a qualsiasi parte, brutta o bella che sia. Difficile o facile che sia da interpretare. A me piaceva recitare, è questo il punto. Quindi non ho problemi se la serie tv è quella dove lavori tu o quella dove lavora Ian Somerhalder. Basta che mi faccia un po' di carriera e di esperienza per quando sarò un'attrice di teatro o di cinema o di tv, ma ad un certo livello - disse convinta delle sue capacità.
Io annuii sorridendole con fierezza. Non l'avevo mai sentita parlare così. Ed era fantastico vederla così sicura di se. La piccola e pazza Luna nel mondo dello spettacolo. Super sexy e brava nelle sue parti.
- Vai alla grande Luna! - dissi dandole una pacca sul sedere. Lei saltellò sul sposto e ricambiò la pacca.
- T'immagini lavorare insieme tu e io? Io sarò la tua attrice/modella e tu sarai la mia fotografa. Mi raccomando, photoshoppami quando vuoi... - sussurrò a voce bassissima, come se non volesse farsi sentire da nessuno.
Risi divertita, facendomi seguire a ruota da lei, che poco dopo aveva le lacrime agli occhi, ci buttammo sul divano guardando un po' di tv.
- E' da tanto che non stavamo un po' insieme - disse, stringendosi al mio braccio sotto la leggera coperta che ci riscaldava. Io appoggiai semplicemente la testa sulla sua e continuammo a guardare la tv, come facevo sempre con quella svampita di mia sorella Laura.
 
 
Sentii i bassi suoni di Christopher e "Time is Running Out" svegliarmi. Matthew strillava che era ora, e Dominic faceva tanto casino con la sua batteria.
- Ho capito, ho capito! - alzai di colpo il collo, e sentii un dolore lancinante alla spalla. Mi accorsi solo allora che io e Luna e la tv,ci eravamo addormentati sul divano.
- Luna, alzati devi andare all'università! - dissi, scuotendola appena e alzandomi per dirigermi verso il mobiletto ai piedi della tv per afferrare il telefono che strimpellava insieme ai Muse e mi avvisava che sarei arrivata in ritardo a lavoro.
- Tappati la bocca! - gli sussurrai spazientita, premendo i bottoni a casaccio e staccandosi ad un tratto la musica.
Abbandonai il telefono sul tavolo della cucina, mentre era intenta a farmi un thè bello forte, e infilai un cornetto freddo nel forno per riscaldarlo.
- Ne fai uno a me? - domandò Luna mentre si dirigeva nel corridoietto che portava al bagno. Dissi un - Sì - poco percettibile e ne infilai un altro tirando fuori il mio che era già caldo. Lo morsi, bevvi il mio thè bollente, e quando finii la mia colazione in piedi mi diressi in bagno al posto di Luna, per rimettermi in sesto.
Quando fui pulita, profumata, e con i capelli poco più domabili, passai al restauro con il make-up. Un po' di matita sopra e sotto, e un po di cipria qua e là, e il rossore finto del blush mi permisero di apparire poco meno sconcertante mentre mi dirigevo in camera per scegliere il look di quella giornata. Infilai un paio di jeans, un paio di comode scarpette, una maglia fuxia con una stampa a scolla, un giacca nera di sopra e per decoro un paio di bracciali in metallo, la mia solita collana e gli orecchini cerchiati.
Preparai la mia borsa a tracollo abbinata alle scarpe, e i miei borsoni con gli obbiettivi e le due macchine fotografiche professionali. Li appoggiai sulle mie esili spalle, e mi diressi verso il soggiorno aspettando che Jensen passasse a prendermi. Afferrai il cellulare e lo tenni in mano aspettando un suo sms o un suo squillo di avviso. Erano le otto meno due minuti e di lui nemmeno l'ombra. Gli mandai un sms, e prima che potessi aspettare la sua risposte senti un clacson persistente suonare dietro la porta d'ingresso.
- Luna io vado! Ci vediamo stasera, okay? - urlai, prima che uscissi fuori di casa, percorrendo il vialetto con le borse a tracolla e in spalla, aprii la porta del sub, ed entrai appoggiando ai miei piedi le borse. - 'giorno - mormorai, abbassando lo sguardo e arrossendo. Ancora non era abituato a quello che ci stava succedendo, ma era tutto reale, e Jensen era impegnato. Con me. Almeno ci stava provando, e stavamo facendo tutto con calma, senza fretta.
- Buon giorno - mormorò in un italiano stentato, sporgendosi verso di me, baciandomi la fronte. Le sue labbra belle e gentili, si posarono sulla mia carne, e gli brividi da prima cotta mi pervasero tutta, dalla testa ai piedi.
- Dormito bene? - disse, ritornando al suo posto, dando gas all'auto.
Un chiacchiericcio tenue si sviluppò nell'abitacolo mentre ci dirigevamo agli studios. Mentre parlavamo l'osservai, e il suo comportamento era ben diverso dal Jensen che avevo conosciuto. Timido, gentile, divertente e premuroso si mostrava adesso ai miei occhi, mentre quello scontroso e irriverente era rimasto a Miami Beach, facendosi si che non ci intralciasse qui a Vancouver.
Quando arrivammo ai parcheggi le auto sembravano essere di più del solito, forse perché eravamo in ritardo, o forse perché c'era più personale, ma quando scendemmo e ci dirigemmo verso la porta entrata a vetri, trovammo la nostra adorata Jessica, intenta a sorridere e a chiacchierare con il nostro migliore amico Jared.
- Ehi, ragazzi! - disse entusiasta sistemandosi sulla sedia, allontanandosi un momento da un Jared piegata in avanti sulla lunga e alta scrivania della reception.
- Ciao Jess, come va? - domandai appoggiando le braccia come Jared. Jensen appoggiò solo il suo gomito, dando una pacca sulla spalla del suo amico, fratello, coinquilino e co-protagonista Jared.
- Bene e voi? Si vede, state una meraviglia, eh? - disse euforica, quasi con le lacrime agli occhi. Poi si calmò d'un tratto, e iniziò a cercare qualcosa tra le sua scartoffie.
- Visto che siete i miei migliori amici, nonché lavoratori della Waner Bros, ho del materiale e news da darvi. Stamattina è passata una circolare dall'alto - disse fissando Jensen e Jared con sguardo serio. Loro si misero sull'attenti, e Jared si sistemò la giacca, ritornando con la schiena dritta.
Jessica presa dalla ricerca di qualcosa, si abbassò sotto la scrivania, cercando una scatola piccola, che poco dopo uscii porgendomi.
- Ecco a te, il tuo nuovo cerca persone! - disse, aprendomi la scatola davanti e azionandolo per farmi vedere come funzionasse. Io preoccupata perché non sapevo come si usasse, me lo feci spiegare per filo e per segno, e me lo feci attaccare da Jensen sulla stringa della cintura.
- Anche noi l'abbiamo sai? - disse Jared, alzando il giubbotto - poco o meno lungo fino al punto vita - mi fece vedere il suo cerca-persone attaccato alla cintura. La stessa cosa fece Jensen.
- Serve perché adesso ci sono i turni di notte, e di solito quando siamo in giro qui per gli studios, ci richiamano per spostarci da un posto all'altro della città. Giriamo anche di notte piccola - disse Jensen, fissandomi con sguardo serio.
Quando sentii quelle parole restai più o meno stupita. Di notte? E chi l'avrebbe sentita Luna adesso? E sarei stata capace di restare sveglia fino ad un certo orario.
- Di notte?! E come faremo a uscire il sabato sera... e mangeremo di notte...e faremo tutto di notte, scambierò il dì per la notte! - mormorai con voce isterica, aggrappandomi alla scrivania. Jessica, triste, mi porse il foglio della circolare che dovevo firmare, e poi un altro con tutti i turni fino alla decima puntata della terza stagione.
- Odio la terza stagione - borbottai tra me e me. Jared e Jensen risero, ma poi Jared mi fece capire che non era stato solo per la terza stagione, ma anche per tutte le precedenti stagioni. Prima e seconda erano state già girate spesse volte di notte.
- O Gesù, sarei uno zombii... - piagnucolai, mentre sentii suonare il cerca-persone dei ragazzi e anche il mio, segnalandoci:
 
RIUNIONE ORE 8.30 - SALA RIUNIONI.
 
- Cos'è? Adesso ci mandi gli sms da un metro di distanza? - rise Jared, afferrandole una mano e baciandola - non prima di essersi guardato a torno -.
Poverini, odiavo vederli così sofferenti e lontani in pubblico.
 
- Allora vi ho convocati qui per discutere di alcuni punti che avverranno nella produzione della terza stagione di "Supernatural" - a parlare era il produttore esecutivo nonché mio mentore e datore di lavoro, Mr. Robert Singer. A capo della lunga tavola della sala riunioni, alza spesso la penna che teneva tra le mani per intensificare quello che diceva.
- ... ricevuto tutti i turni fino alla decina puntata che gireremo della stagione. A seguire vi farò avere il resto, ma adesso... - i miei pensieri andavano e venivano pensando a quello che sarebbe successo in questi mesi lavorativi. Il discorso di Mr. Singer arriva e andava, lo percepivo e non. La mia mente era troppo affollata.
- ... ho indetto questo stage perché voglio volti nuovi in questa serie tv, a parte i nostro mitici Jared e Jensen, avrei voglia di far apparire un volto fresco nella nostra serie tv, e lo stage è ormai dimezzato, solo poche persone sono rimaste. Tutte donne, mi interessa un ruolo femminile che incontreremo al più presto nelle prime puntate! - disse entusiasta, fissandoci ad uno ad uno. E non potetti ancora una volta non pensare a Luna. Luna...
- Cosa? - mormorai tra me e me felice. Luna! Luna stava partecipando allo stage che la nostra serie tv aveva indotto. Chissà se sarebbe stata fortunata.
- Chi ha parlato? - chiese con voce cortese Mr. Singer. Ci fu un silenzio di tomba, e tutti si fissavano con tutti, ma nessuno mi indicò. Jensen mi diede una piccola gomitata al braccio e io tossì infastidita e divertita.
- Va bene, avremo tempo di parlare avanti insieme, ma intanto ecco una copia del copione di ogni puntata, mi sono permesso di farlo con carta riciclata per tutti voi - e ne afferrammo uno ciascuno, passandoceli mano a mano.
Lessi solo il primo rigo:
 
3° Stagione
Supernatural
Puntata: 3x01
 
Copyright © The WB Company

 
- Sono molto felice di iniziare questa nuova avventura. Spero siate pronti! Tenetevi sempre pronti in qualsiasi momento del giorno e della notte e... In bocca a lupo a tutti e crepi ovviamente - e partì un applauso e un - Crepi - da tutta la troupe della terza stagione di Supernatural, della quale ovviamente facevo parte. Lavorando o no, avrei sempre avuto i demoni alle calcagna e Jensen Ackles avrebbe saputo difendermi. Ne sapeva una più del diavolo, e il sale era a nostro favore.
Mi voltai sorridendogli felice e divertita per i miei pensieri sciocchi e idioti: Lui mi fissò stranito, ma ricambiò senza indugi e senza riserve, pronto per una nuova avventura.
 
 
*spazio autrice*
 
Salve, contente di questo piccolo capitolo un po' di passaggio? Lo so non è granchè ma all'inizio del capitolo, si intende, abbiamo una coppia appena nata, e in fase di "primi passi".
Si, avete letto bene, Jensen e Elisabeth, stanno insieme... voi direte, insieme insieme? E io vi dico si, insieme insieme! *ridendo*
Bhè, dopo il ritorno da Miami, Jensen è cambiato, e si vedeva nella fine dell'ottavo capitolo, ma vorrei lasciare un po' tutto in sospeso, perchè di quello che è successo "al ritorno", ne riparleremo in futuro capitolo appositamente u.u
Mi sono permessa di prendermi la licenza dell'attrice Lauren Cohan come prestavolto di Luna. Lasciatemi questa "cosa da scrittrice" perchè volevo che fosse così, punto u.u
Saprete altro su Luna e la sua prestavolto Lauren Cohan, dal prossimo capitolo in poi, promesso! :)
Intanto vi lascio con l’immagine dei vestiti che Betta ha indossato per l’occasione di questa giornata all’insegna del lavoro u.u e continuate sotto a leggere...

 
VI RICORDO CHE CERCO UNA BETATRICE, e che potete contattarmi su FACEBOOK, TWITTER O SUL GRUPPO DELLA STORIA! Vi aspetto e se ci sarete parleremo della STORIA, di altre storie, degli SPOILER sulla STORIA e sulla SERIE TV di cui tratta: SUPERNATURAL e sicuramente anche di quel FIGO di JENSEN e quel SIMPATICONE DI JARED ;D
 
Al più presto con il prossimo capitolo, premettendo che la scuola mi dia il tempo di scrivere D: perché adesso la cose si fa più difficile. Vi farò sapere quando posterò o qui o sul gruppo se mi venite a trovare!
 
xoxo Para_muse

 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** Equivoci...? ***


CAPITOLO BETATO
I PRECEDENTI CAPITOLI FINO AL 4 SONO STATI TUTTI BETATI.
 
Enjoy, read this!
 




10 Capitolo

Equivoci...?

 
Nello stesso giorno. Nel tardo pomeriggio di Vancouver, ormai buia e di ritorno a casa dalla riunione, fissai tutta eccitata Luna, che era intenda a farsi la manicure e la pedicure sul divano del salotto in casa nostra.
Lei alzò appena lo sguardo per fissarmi, mentre saltellavo da una pezzo di parquet all'altro e domandò ridendo un semplice:
- Cosa c'è?
Le mostrai solamente il copione della terza stagione di Supernatural.
Restò a bocca aperta.
- Ti hanno dato una parte? - disse facendo cadere il pennellino dello smalto rosso sul tavolo.
Io mi fermai di colpo e scossi la testa velocemente.
- No, Luna, ma che dici... io un'attrice? Semmai tu! - dissi ridendo, mentre mi avvicinavo a raccogliere il pennellino che le era caduto dalle mani, e mi ci sedevo accanto.
Lei mi fissò con sguardo accigliato e pieno di domande.
- Ma cosa dici? Ci sei o ci fai? Io sto studiando, io non sono ancora un'attrice! - disse scandendo bene le parole, e dandomi un colpetto sulla gamba per ogni parola pronunciata.
- No, ti sbagli Luna, guarda qui cos'ho! - dissi entusiasta, aprendo la borsa e mostrandole il copione. Lei restò scioccata, e lo prese in mano piano, temendo che potesse cadere, come se fosse qualcosa di estremamente fragile.
- Cosa significa? - domandò stupita.
- Che... se ti impegnerai nello stage a cui stai facendo parte, avrai una parte nella terza serie televisiva di Supernatural! - dissi, facendole capire ogni parola. Lei sgranò gli occhi, e restò a bocca aperta continuando a fissarmi.
- Dove io lavoro, e dove potrei mettere una buona parole su di te, ma solo se tu ti... - non mi fece finire di parlare, mi si scaraventò addosso, abbracciandomi forte.
- Sìììì, sìì! O mio Dio, sììì! - urlò contenta al mio orecchio.
- Ehi, ehi, mi stai perforando un timpano Luna! - gli urlai di rimando.
Mi lasciò andare, e riprese il copione.
- Posso aprirlo? Leggerlo? - la fissai un po' sotto shock. Aprirlo? Bhè... perché no, non me l'avevano vietato di farlo giusto?
- Si, perché no? Solo un'occhiata... - dissi, guardandola mentre mi alzavo, ricordando perché ero ritornata a casa.
- Grazie tesoro, sei un angelo! O mio Dio, sarebbe fantastico lavorare insieme, no? Io la modella e tu la fotografa... - disse iniziando a concentrarsi su quello che leggeva.
- Sei un'attrice Luna, non una modella! - risi divertita, e lei invece no.
- Sarò un'attrice e modella formidabile vedrai - disse seriamente, lasciandomi uno sguardo. - Devi uscirei di nuovo ora? - domandò curiosa, mentre raccattavo un paio di oggetti dal mobiletto di fronte la tv: I-Pod, cuffie, porta cellulare.
- Ehi, cos'è quella cosa attaccata alla cintura? - domandò, raddrizzandosi sul divano e indicando il cerca-persone che avevo sotto la giacchettina che si era alzata. Lo fissai, e lo vidi lampeggiare sotto i miei occhi. Lessi l'sms.
 
Jensen: tra 15 minuti, passo.
 
- Porca vacca! - sbottai correndo. Afferrai di colpo la borsa che avevo lasciato sul divano, mentre i borsoni con le macchine fotografiche le avevo già lasciate davanti la porta d'ingresso.
- Ehi, che sono queste parolacce! Ehi, dove vai così di fretta? - mi urlò dietro Luna, mentre correvo in camera, e afferrò i primi abiti comodi e da lavoro, con vari ricambi.
- Con l'inizio della terza stagione... - urlai, mentre cercavo disperatamente le mia pantofole adatte per un pigiama party, nonché per un'uscita di un paio di giorni fuori dagli studios. - ... gireremo fuori dagli studios, per la città insomma! - continuai, dirigendomi in bagno e riempiendo di nuovo il beauty case da viaggio con shampoo, bagno schiuma e altro. - Quindi devo seguirli, e starò in un camper... maledizione! - sbraitai, facendomi cadere addosso tutte le salviette sul mobiletto.
- Che succede? - urlò preoccupata Luna.
- Niente, tranquilla... - sbruffai, rimettendo tutto a posto e afferrandone solo qualcuna.
- Mi abbandoni? - disse, spuntando da dietro la porta della  mia camera, mentre mettevo tutto nella sacca grande da viaggio che mi ero portata dalla Sicilia.
- Si, devo andarci per forza, non posso fare avanti e indietro! - esclamai, voltandomi verso di lei, arruffandomi i capelli con le mani, frustrata.
Sapevo che l'avrebbe presa male. - Mi dispiace, okay? Ma è il mio lavoro, e un giorno forse sarà il tuo, adesso... - corsi al mobiletto accanto al letto afferrando gli occhiali, e medicine (non si sa mai, meglio provvedere!). Sentii suonare il cellulare e allo stesso tempo il cerca-persone. Non feci caso al telefono, ma solo al mio nuovo cellulare/cerca persone, tecnologia molto importante:
 
Jensen: davanti la porta. Adesso!
 

- ... devo proprio andare Luna! - mormorai, avvicinandomi al borsone e chiudendo tutto. Lo afferrai per una spalla, mettendomi la borsa a tracollo dall'altra, mentre mi dirigevo all'ingresso aprii la porta, e mi fece vedere al buio, indicando i miei borsoni e che stavo arrivando.
- Allora Luna, se hai una vera emergenza chiama, non dubitare! Se hai qualche problema con qualcosa in cucina non chiamare subito me, cerca di ragionare, e non prendertela con il fornello davanti, ormai è vecchio, quindi cucina negli altri tre. E il forno, stai attenta per favore, arriva solo ai centottanta gradi, non di più! Stammi bene, e spegni tutto e chiudi a chiave quando esci la sera o anche la mattina! - dissi, abbracciandola, e facendomi poi aiutare per prendere il resto delle borse con le macchina fotografiche.
- Okay, ci vediamo tra qualche giorno! - dissi, aprendo la portiera posteriore e ascoltando dalle casse Nina Simone. Caricai la roba, e mi voltai di nuovo verso di lei
- Okay, farò la brava... e falla anche tu! - mormorò al mio orecchio, mentre mi spingeva facendomi salire in auto.
Saltai su, abbassai il finestrino, e mentre Jensen partiva, salutai Luna dal finestrino.
- Suvvia "piccola" torniamo tra un paio di giorni... - disse, poggiandomi una mano sulla coscia. Saltai sull'attenti, e mentre il finestrino si chiudeva automaticamente, mi raddrizzai sulla sedia, mettendomi la cintura.
- Lo so - sussurrai appena, voltandomi verso di lui e stringendogli la mano.
 
- Okay un attimo di silenzio per favore... CIAK... - urlò il regista.
- Quarta Scena, Prima Parte. Inizia la 3° Stagione di Supernatural -
- Eh, azione! - urlò il regista.
Era ormai notte inoltrata, quando iniziammo a girare. Ci trovammo a girare in una casa abbandonata, dove c'era le finestre barricate, con Jensen, Jared, Jimmy e una nuova attrice di pelle scura.
Iniziai a scattare qualche foto in generale, catturando il volto di Jensen un po' più spesso degli altri. Dopo quello che era successo a Dean per salvare Sam, forse per me ma anche per altre persone, era diventando "l'attore protagonista".
- Stop! - la scena era finita, e adesso toccava farla da un'altra angolazione. Perciò mi scostai lasciando lo spazio al resto della crew per altri interventi come messa appunto del make-up, messa appunto delle luci, e dei vestiti. Mi avvicinai alla sedia d'attore di Jensen e mi ci sedetti sopra, mentre fissavo alcuni altri attori solo di comparsa che entravano sul set. Occhi neri, e pronti a far festa all'ammazza-mostri, se la ridevano tra di loro, poco prima che il regista chiedesse silenzio e poi urlava di nuovo "azione!".
Quando un paio di scene furono girate e Jensen venne a reclamare il suo posto, mi alzai di controvoglia, anche se mi ero alzata più volte durante le riprese per fare qualche altra foto, e anche per farne qualcuna sul set, come ricordo. Me l'aveva chiesto personalmente il regista, e adesso anche i ragazzi.
Perciò camminavo con due macchine fotografiche al collo, uno con l'obbiettivo da shoot, per le foto da fare durante le riprese, invece l'altra era per fare le foto sul set, di certo non particolarmente in HQ.
Quando Jared raggiunse Jensen, mi allontanai lasciandogli un po' di libertà, e mi avvicinai a Mr. Singer.
- Mi scusi Mr. Singer se la disturbo, ha un minuto? - domandai cortese, e a bassa voce.
- Sì, Elisabeth dimmi tutto cara. E per favore, non chiamarmi così, Robert va più che bene... - disse, lanciandomi uno sguardo dolce come un padre.
- Volevo ringraziarla per tutto quello che fa per me, e... - non mi fece finire, mi appoggiò una mano sulla spalla e mi avvicinò a se, in un abbraccio.
- Oh, prego e di cosa? E' stato tutto merito tuo cara, ma continua... -
- Sì, ecco io, ho sentito parlare dello stage che state facendo all'Università, giù in città, volevo dirle che una partecipante, è di mia conoscenza, e che è molto brava nel lavoro che fa, mi creda Mr. Singer... - dissi fissandolo negli occhi, e mettendo qualche centimetro di distanza tra me e lui
- Robert - ribatté.
- Sì, Mr. Robert...mi scusi - sussurrai intimidita, abbassando lo sguardo.
- Insomma, come si chiama questa tua amica, Elisabeth? -
- Luna, signore, Miss Luna Ford! - esclamai fissandolo di nuovo negli occhi. - Non voglio raccomandarla, ma solo dirle che è molto brava nelle sue capacità, e non ho fatto altro che pensare a lei e a questo opportunità di quando ne ha parlato nella nostra riunione agli studios! - conclusi, stringendo le mani in una morsa tra di loro. Sperando che non mandasse a quel paese, per essermi interessata così tanto, Mr. Singer o Mr. Robert mi diede una pacca gentile sulla spalla e mi regalò un sorriso smagliante, di quei adorabili uomini ormai straricchi e sposati con figli.
- Ne terremo conto, non preoccuparti - disse semplicemente, allontanandosi e lasciandomi da sola, in mezzo al resto della troupe.
 
- Di che cosa parlavi oggi con Robert? - mi domandò alle tre del mattino Jensen, quando dopo una litigata con l'addetto ai camper, mi aveva detto che: - Mi dispiace cara, ma non abbiamo camper per te, di solito il fotografo non ne ha bisogno, perché va e viene dalla città. Non ha un lavoro costante! - quella voce da damerino mi ricordava tanto quella dell'oca Amanda, che non vedevo l'ora di vedere per fargli una faccia enorme... forse stavo diventando un po' aggressiva, ma non me ne preoccupai tanto, se pensavo solo a rompere la faccia ad Amanda, e non al mio ragazzo.
- Di niente, solo dello stage di cui aveva parlato alla riunione... - mormorai, stringendomi tra il muro in legno del camper grande di Jensen e il letto ad una piazza intera, dove ci entravamo appena.
- Forse sarebbe meglio... - cercai di mettermi in posizione supina, ma Jensen supino si prendeva tre quarti del letto, e io ero costretta a stare su un fianco, se volevamo entrarci entrambi. Perciòlasciai perdere e mi fissai su una mano, per mettermi seduta. Non mi accorsi della mensola sopra il letto, e un rumore sordo in seguito ad un dolore allucinante alla testa, mi avvertì che l'aveva sbattuta.
- Cazzo! - sbottai, portandomi le mani alla parte sbattuta, mentre mi abbassavo lentamente sul cuscino freddo, per farmi passare il pulsare.
- Ahahah! - Jensen si divertiva, e rideva smuovendo tutto il letto, in un vibrare delle lenzuola e del materasso.
- Jensen, per favore! - gli piantai un pugno sulla pancia, che lo fece smuovere ancora, e poi ridere più forte. Le lacrime che avevo cercato di trattenere, uscirono comunque per il dolore e per l'orgoglio mancato.
Solo allora Jensen si fermò, un po' intendo a sghignazzare e a trattenere un sorriso dolce, mi afferrò per le spalle e mi avvicinò al suo petto, poggiai una guancia sul suo cuore e l'altra fu sovrastata dalla sua mano, carezzandomi. La sua mano libera si era poggiata sulla mia testa, facendomi qualche carezza sulla parte che mi faceva male.
- Ti si è formato un piccolo bernoccolo Liz! - rise un po', e mi contagiò, perché risi anch'io a quella frase. Scossa dal suo petto che faceva su e giù per il respiro e per le sue risate, mi rialzai piano, e mi appoggiai sulle mani.
- Non ci entriamo su questo letto J! Prima... - e risi pensando a quello che mi ero accaduto; - stavo dicendo... forse sarebbe meglio che io dorma sul divano. Sono piccolina e ci entro... - prima che potessi finire di parlare, volevo uscire da quella trappola, perciò scavalcai una gamba dall'altra parte del suo corpo, e cercai di far passare l'altra, se Jensen non mi avesse fermata, abbracciandomi forte e stringendomi a lui in quella morsa così provocante.
- Mi stai soffocando - dissi, liberandomi un po' dalle sue braccia che si allargavano giorno dopo giorno, diventando più che muscolose.
- Scusa piccola, ma non ti lascio andare da nessuna parte... - mormorò all'orecchio, facendomi alzare il viso.
Appoggiai il mento sul suo petto, fissandolo. La posizione era un po' scomoda, perciò allungai le gambe tra le sue, e mi distesi come una seconda pelle sulle membra di Jensen, chiudendo un attimo gli occhi.
- Ecco hai visto? Ci entriamo...piccolina! - disse, imitando un falsetto della mia voce. Lo schiaffeggiai piano e risi insieme a lui, prima che riprendesse il discorso che avevamo cominciato prima.
- Hai parlato di Luna a Robert vero? - domandò con voce seria, fissandomi dritto negli occhi. Allo stesso tempo lo feci anch'io e annuii.
- Stai attenta Elisabeth. Potresti cacciarti nei guai... e scommetto che l'hai già fatto... - sussurrò, alzandosi sul collo, e lasciandomi un bacio sul naso. Lo arricciai, ritirandomi con un sorriso, e ritornai di nuovo a poggiare il mento sul suo petto che si alzava e abbassa dolcemente.
- Che cosa intendi per guai? - domandai curiosa, alzando le sopracciglia. Lui storse la bocca e mi domandò:
- Le hai lasciato il copione? -
Le mie labbra si staccarono e le mie sopracciglia si abbassarono in uno sguardo serio e preoccupato. - Ho ragione, non è così? - chiese.
Non pensavo che lasciarle il copione significasse guai per me. Perciò volevo dirgli una bugia, ma non potevo farlo, e lui aveva già capito tutto.
- Perché? - domandai subito.
- Elisabeth, queste cose non devi fartele scappare dalle mani. Sono documenti importanti! Se finiscono nelle mani sbagliate, possono causarti guai che ti scosterebbero il posto di lavoro e tutti i soldi che ti sei messa nelle tasche! - sussurrò, carezzandomi i capelli, lentamente, su e giù, su e giù...
"Ho combinato un pasticcio!" pensai. Ma Luna non avrebbe fatto una cosa del genere, non mi avrebbe messa nei guai, insomma avrebbe letto solo qualche rigo, e non avrebbe fatto parola con nessuno... giusto? Forse l'avrebbe detto a qualche compagno di corso; avrebbe detto che c'era qualcuno che l'avrebbe aiutata, la sua migliore amica Elisabeth. Avrebbe detto che lavora per quella serie, avrebbe detto a tutti che era "Supernatural"... e tutto lo stage sarebbe andato a monte? O mio Dio...
- Sono nei guai - dissi a Jensen fissandolo negli occhi con sguardo incerto.
Jensen mi lanciò uno sguardo triste.
 
Dopo aver finito di girare la seconda puntata, avevamo quasi un mese di tempo per prenderci qualche giorno di vacanza, ma avevamo comunque deciso di portarci avanti, così continuammo a registrare, e spostandoci con i camper da un posto all'altro per la città di Vancouver arrivò l'ora di girare la terza puntata della stagione, dove c'era la nuova attrice che era stata scelta dallo stage.
E chi se non la "fortuna" a volerlo. Luna Ford era stata scelta per una parte che sarebbe stata più che duratura nella terza stagione. E l'avrebbero pure pagata bene. Per Luna quella era più una semplice opportunità lavorativa. Era l'avvio al mondo dello spettacolo, e le avevano pure affidato un'assistente e un manager che lei era ben felice di avere al suo fianco.
- Guardami, guardami! Sono su un set televisivo, cavolo! - disse a voce più o meno bassa, al mio orecchio eccitata, mentre fissavo Mr. Singer che si apprestava a mettersi le cuffie per vedere e ascoltare le scene. Per quella puntata sarebbe stato il regista, ed ere un po' intoccabile, diciamo. Poco interessato a te dal lato umano. Più interessato a me dal lato artistico. Voleva certe foto, in quel modo, tutto preciso. Pretendeva e non chiedeva.
Perciò non feci caso a Luna che mi ronzava a torno vestita da cameriera, e mi concentrai sulla scena dei fratelli Winchester.
- Jensen è carino, molto carino! - sussurrò Luna al mio orecchio, mentre scattavo qualche foto della scena. Quando sentii quelle parole, mi rizzai sull'attenti, voltandomi a lanciarle uno sguardo accusatorio.
- Cosa vorresti dire? - domandai a bassa voce, stringendo i denti in una morsa. Vidi qualcuno avvicinarsi alle sue spalle, e prendendola per un braccio la invitò a entrare in scena.
- Sta a guardare! - disse facendomi l'occhiolino, entrando in scena. Stavo per fermala, ma mi rise conto che non potevo di certo fare una scenata davanti a tutti di pure gelosia, perciò lasciai perdere di scattare le still e mi concentrai sulla prima scena di una Luna cambiata.
La scena si svolge tranquillamente, mentre la "poca attenzione della cameriera" versa accidentalmente del caffè addosso a Sam, e si struscia maledettamente addosso a lui, porgendo il sederino all'aria verso Jensen, che, entrando nella parte di Dean, fa dei sorrisini divertiti.
- Stop! - urla Mr. Robert fissando un attimo la scena sconcertato. - Scusatemi... - interrompe tutto, voltandosi versi gli attori in scena, fermando le comparse che continuavo a chiacchierare tranquilla nel piccolo locale dove stavamo girando.
 - ... non so voi, ma sembrava una scena da film porno e non da serie televisiva sul paranormale... Miss Ford può avvicinarsi un attimo! - indicò la ragazza con due dita e le indicò di avvicinarsi, mentre scambiò qualche parola con il suo assistente. Fissai la scena un po' divertita e un po' ancora sconcerta, all'idea di Luna così volgare in quella parte.
- Allora Miss Ford capisco che... - iniziò Mr. Robert.
- Mi chiami Luna, per favore Robert! - incitò Luna, sistemandosi i capelli in una mossa al quanto da diva.
"Eh?" pensai restando a bocca aperta. Ma che fine aveva fatto la vecchia e umile ragazza che studiava ancora all'università e con cui condividevo la casa?
- Sì, Luna, senti, capisco che è la tua prima parte nella tua vita. Non so se tu abbia letto per filo e per segno la tua parte nel copione... - Mr. Robert fu fermato un'altra volta da Luna.
- E' da più di due settimane che ho il copione alla mia portata, crede che non abbia recepito il messaggio di questo personaggio? So come studiarlo Robert, mi creda, ho avuto tempo a sufficienza! E sono più che brava a impersonare Bela, sul serio! Diciamoci la verità, sono stata brava in questa scena, e lei che non rende... -, questa volta fu interrotta lei da Mr. Robert, che la fissava con sguardo interrogatorio.
- Aspetta cosa hai detto? Se ti abbiamo dato il copione solo cinque giorni fa... come avresti potuto leggere il nostro copione, tenuto sottochiave nel mio ufficio? - domandò accigliandosi.
- Oh... -, Luna mi cercò tra la troupe, e mi invitò a venire con un movimento della mano.
- Cazzo! - bofonchiai, avvicinandomi lentamente alla coppia che stava discutendo non poco lontano da me.
- E' stata Elisabeth a... -.
- Mr. Robert mi lasci spiegare... - iniziai col dire quella frase, con voce un po' tremante.
- Spero tu abbia una spiegazione logica per questa storia, perché sento che ti stai mettendo nei guai - disse con tono severo, guardandomi dritto negli occhi.
"Jensen aveva ragione! Perché non gli hai dato ascolto?", disse la mia vocina interiore, rimproverandomi.
"Oh, manchi solo tu!", pensai mentre sospiravo frustrata, pensando a qualcosa da dire.
- Ho lasciato il copione a casa involontariamente... insomma me lo sono dimenticato non pensavo che Luna... -
- Aspetta! Cosa?! No! Me l'hai lasciato leggere tu, mi avevi detto... - intervenne Luna, fissandomi scioccata e sbalordita. - Avevi detto... -
Mi voltai a guardarla sgranando gli occhi, facendole capire che doveva stare zitta.
- Avevi detto... - iniziò di nuovo.
- Niente, Luna! Stai zitta! - dissi, voltandomi di nuovo verso Mr. Robert che abbassò lo sguardo scontento. Stavo per spiegare il resto, quando la sua mano mi fermò, facendomi tacere, mentre ormai avevo capito che lui aveva ormai preso una decisione. Piuttosto deprimente.
- Ho capito tutto Elisabeth, non c'è bisogno di spiegazioni. Luna ti dispiace tornare sul set, devo scambiare qualche parole con Miss De Santis... da soli. - disse senza emettere repliche.
Luna mi fissò, e la fissai controvoglia, lasciandogli sguardi di fuoco, mentre si allontanava verso i ragazzi, che ci fissavano preoccupati. Soprattutto Jensen non lasciò che il mio sguardo si spostasse dal suo, facendomi capire che se avessi seguito il suo consiglio non sarei nei pasticci ora come ora.
- Elisabeth De Santis, mi hai molto deluso. Sai cosa può succedere a un copione incustodito? Il dileguarsi di nuovi spoilers, far così saltare al monte un'intera stagione. Sai cosa succede a chi lascia incustodito un copione? - domandò comprensivo e allo stesso tempo accusatorio. Abbassai lo sguardo da quello di Jensen, per fissare a terra e ammettere così le mie azioni.
- Posso immaginare... - gracchiai a voce bassa, mentre le lacrime mi salivano agli occhi.
- Il licenziamento... - sussurrò Mr. Robert, gesticolando, indicandomi la porta del bar. Abbassai ancora di più la testa e sentii qualcuno avvicinarsi a me. Non mi permisi di alzare lo sguardo e di farmi vedere con gli occhi rossi e deboli come di una bambina che aveva fatto le marachelle.
- No, per favore, stiamo parlando, abbi un po' di rispetto - disse a voce bassa Mr. Singer, facendo allontanare di nuovo la persona che si era avvicinata.
Poi sentii le braccia di Mister Robert Singer abbracciarmi e allontanarmi dal set, vicino alla porta di servizio del bar. Prese una sedia, mi fece sedere e lo fece anche lui.
Le lacrime iniziarono a rigarmi il viso. Come potevo aver fatto una cosa del genere? Dovevo sapere che ero nei guai, e invece... eccomi qui, a sentire ramanzine che non sono di mio padre, mentre da lì a poco mi avrebbero tolto il lavoro che desideravo da una vita, rispendendomi così dai miei fiduciosi del mio aiuto, se ne fosse stato necessario.
- Mr. Singer... io... mi scusi... - dissi, tossendo per schiarirmi la voce. Mi prese le mani e si abbassò vicino al mio viso, accarezzandomi con una mano, mentre l'altra stringevano ancora le mie. Mi sorrise.
- Sei diventata speciale per la nostra troupe, ti sei inserita bene, e tu sei la figlia che ho sempre desiderato avere. Ti abbiamo adottato, anche se solo per un anno... ma devo fare rapporto alla Warner. E mi dispiace contaminare il tuo fascicolo, per tre miseri giorni di non lavoro pagato... - disse cercando di rassicurarmi.
Solo quando alzai il viso per guardalo negli occhi, scambiandomi un sorriso, capii quello che mi aveva appena detto.
- Non mi sta licenziando? Perché!? - domandai stupidamente, mentre le lacrime di gioia o forse di isteria, cadevano giù dal mio viso.
- Mi domandi pure perché? Ci serve una fotografa come te... e penso che Jensen ne risentirebbe! - disse alzando un angolo delle labbra, sorridendomi.
- Lei...mmh...sa... -
- Io so tutto di tutti qui dentro... i nostri JJ dovrebbero stare più attenti... - sussurò, dicendomelo all'orecchio.
Risi divertita e lo fece anche lui. - Ti lascio questi giorni di vacanza obbligata, sperando che tu capisca che non devi farlo più, okay? - mi raccomandò, alzandosi dalla sedia, e lo imitai, asciugandomi velocemente le lacrime dal viso.
- Grazie Mr. Singer! Grazie mille! Non succederà più, lo prometto! - mormorai, fissandolo contenta.
- Lo spero... - disse, avvicinandosi di nuovo alla camera da presa. Lo segui, fino a metà strada, e mi fermai a fissare la scena che mi si presentò davanti. Tutti mi lanciavano sguardi di comprensione e di curiosità. Ma poco dopo, Mr. Singer mi salvò e ci chiamò a raccolta battendo le mani un paio di volte.
- Prendiamoci una pausa. okay? Dieci minuti, poi tutti ai posti! - urlò, facendosi sentire da tutti. E con un sospiro corale, tutti si sparpagliarono qua e la, riposandosi.
Io mi avvicinai alla seggiola da regista di Jensen, dove lo trovai intendo a bere e ad allontanare una certa sanguisuga di nome "Luna".
- Adesso deve spiegarmi cosa sta facendo... - mormorai tra me e me, dirigendomi a passo di carica, dal "mio" ragazzo Jensen.
Arrivata lì davanti Luna non mi fece caso, e continuò a fare moine a Jensen che mi fissava sconcertato e riluttante, cercando di allontanarla.
- Sto facendo una pausa... - le disse, staccando la mano di Luna dal suo braccio.
- La sto facendo anch'io... - disse sorridendogli, mentre gli lasciava un bacio sulla guancia.
- Mi rovini il trucco - ribadì Jensen, allontanando il viso dalla sua portata.
- Mi spieghi che cosa stai facendo? - domandai con voce stridula a Luna, avvicinandomi ancora di qualche passo. Finalmente attirai la sua attenzione e si voltò a fissarmi allegramente.
- Ma non è carino? Guardalo! Sei gelosa forse? - domandò, continuando, a toccarlo un po' qua e un po' là, mentre i miei limiti salivano.
- Lascialo in pace - grugnii infastidita da quella mani che continuavano a fare su e giù, mentre le sue labbra si appiccicavano sempre di più alla sua guancia.
- State insieme? Ha una ragazza? - domandò d'un tratto Luna, tirandosi un attimo indietro.
- S... - stavo per urlare. - No! - disse svelto Jensen, lasciandomi uno sguardo preoccupato, mentre faceva segno con le mani di taglio. Doveva smetterla di apparire gelosa? "Perché?" pensai insospettita.
- No? Bene, allora nessuno si offenderà se faccio questo... - disse Luna sorridendo in modo provocante verso Jensen.
Gli prese il mento tra una mano, e l'avvicinò al suo stampandogli un lussuoso bacio sulle labbra.
Sgranai gli occhi di colpo.
Jensen sgranò i suoi.
Luna li chiuse.
E Jared si fece scappare una rumorosa imprecazione.
- Porca pu... -
Oh sì, Luna l'aveva combinata grossa questa volta.

 
 
 
 
 
*spazio autrice*
Vi dico subito che in cantiere c’è un
MISSING MOMENT IN ARRIVO DEL CAPITOLO 8 (già tutto programmato ;D Vi farò sapere al più presto quando sarà pronto e quindi pubblicato insieme alla storia/raccolta: "The Second Chance" - Racchiusi in un...bookstory )
 
Bhè Salve :D Come va? Spero siate ancora vive dopo questo capitolo. Allora come avete ben capito, la nostra Luna per prestavolto a Lauren Cohan, che non sarà nella FF come "Lauren Cohan" ma essendo solo prestavolto, darà il volto a Luna che farà la sua parte di guest protagonista nella 3 stagione di Supernatural. Avete capito cosa intendo dire? 8D Spero di si, perché non so come spiegarvelo più… la minestrina lo già fatta! xD
Per il resto, il rapporto tra Elisabeth e Jensen prima che accadesse quello che è successo a fine capitolo diciamo…va alla grande, ma dobbiamo aspettare cosa succederà tra i due. E chi lo sa cosa farà Elisabeth… o Jensen… Le reazioni saranno ottime?! *io taccio*
Avete notato la complicità che c’è tra Mr. Singer e Elisabeth? Riuscirà Elisabeth a risolvere il suo problema di lontano rapporto con i suoi, tramite Mr. Singer? Chi lo sa… *ho già parlato troppo! u.u*
Perciò vi lascio e mi dedico un po’ a White Collar, altra mia fissazione con Matt Bomer! (per questo bel pezzo di carne ho abbandonato un po’ Supernatural. Sono ferma alla terza stagione e ancora devo vedere la quarta, la quinta, la settima, e inizio ottobre arriva l’ottava… Voi vi chiederete come faccio a scrivere la storia, se non ti basi su nulla? Bhè io rispondo che ho i miei Caffrey! Per chi vede White Collar, so cosa intendo! Intanto vi dico che forse e ripeto forse ho intenzione di scrivere qualcosa su Bomer, anche se è gay. “ Se ne vanno sempre i migliore!” :,D/D,: )
Chiuso qui sennò lo spazio autrice è più lungo del capitolo.
Un bacionessss
 
Para_muse

 

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Capitolo 11
*** Aftershave, Blackmails, Pain... ***


Eccoci qui, non ho molto da dire…ma FINALMENTE ecco il capitolo CORRETO MA NON BETATO D:
Una cosa sola ho da dirvi, anzi due:
-  Una non meno importante, volevo ringraziare GILRAEN'S GRAPHIC su FACEBOOK che mi fa i banner per la storia :3 Sotto troverete una sorpresa, quindi leggete proprio fino in fondo ;D
- Secondo ma non meno importante nemmeno questo: grazie a tutte voi che mi supportate con le visite, con i preferiti/seguite/autore preferiti e recensioni. Grazie veramente, mi fate ancora di più sapere che postare qui è bello, perché i lavori in fondo vengo apprezzati! Grazie infinite!
 
Enjoy, read this!
 
 

11 Capitolo 

Aftershave, Blackmails, Pain...


Ero ritornata da poco o forse molto più che poco. Avevo lasciato con furia gli studios, dopo che Jensen aveva brutalmente tirato indietro Luna e scoccatogli uno sguardo d'odio, si voltò verso di me, venendomi a stringere tra le sue braccia. Mi tratteneva da un'ira che forse avevo provato poche volte nella mia vita. Forse quella sera a Miami, quando ce l'avevo con tutta me stessa con un Jensen provocatorio. Ecco la stessa ira, stava sbocciando in me, come una scintilla che prendeva a poco a poco fuoco...e poi, boom!
- Vai sul camper, torno presto. Ti prego Elisabeth. Fallo! - mi aveva portato fuori dal bar, accompagnandomi per metà via, sulla strada dei camper parcheggiati uno vicino agli altri. Cercai il nostro, sempre parcheggiato in un posto diverso dall'altro, ma vicino sempre al gruppo degli attori.
Lessi le targhette uno a uno di ogni porta del camper: Jim Beaver, Luna Ford, Guest Stars, e poi lessi quella di Jared Padalecki, fu allora che abbassai lo sguardo a terra, per salire gli scalini del prossimo camper. Jensen Ackles.
Non c'era su il mio nome, perché il camper fin dalla prima stagione era sempre stato suo, e adesso, solo perché l'occupavo anch’io non significava che nella targhetta ci andasse anche inciso il mio nome.
Perciò infilai le chiavi e la porta non si aprii. Dubbiosa, provai al contrario ma neanche. Mi rassegnai, sedendomi ad aspettare fin quando non sarebbe arrivato Jensen.
Avrei pensato, riflettuto un po'... magari sulla mia vita, poi avrei cercato una lametta, e chissà anche una pistola e per la depressione di tutte le mie insicurezze, avrei poi dato via la mia vita così...e lasciato soli tutti: mia madre, mio padre, mia sorella, i miei amici, e il mio nuovo ragazzo. Ragazzo? In segreto... e non mi piaceva tanto quest'ultima opzione.
- Ehi, aspetti Mr. Singer? - domandò qualcuno facendomi alzare lo sguardo da terra. Fissai un ragazzo della mia età che si avvicinava a me. Mi alzai dai gradini e feci qualche passo verso di lui.
- No, perché? - domandai curiosa.
Indico il camper dietro le mie spalle e vidi nella targhetta della porta il nome di Mr. Robert inciso sopra. - Oh, miseriaccia! Ho sbagliato camper allora. Mi sembrava fosse di... un'altra persona... - sussurrai, guardandomi intorno. - Ah! No, quello è di Mr. Singer... hai sbagliato! - disse sorridendomi, e porgendomi una mano.
- Sono Matthew, Matt Croff! Secondo assistente di Mr. Singer. Tu sei? - domandò, stringendomi la mano in una presa ferrea. La smossi appena, fissandolo dritto negli occhi. - Sono Elisabeth De Santis, chiamai pure Beth. Fotografa della serie - dissi ricambiando il sorriso di Matt.
- Piacere di conoscerti! - disse, poi, lasciandomi andare la mano, portandosi gli oggetti che teneva in una mano all'altra, come per temporeggiare.
- Piacere mio - e mi portai una ciocca di capelli dietro l'orecchio, piena d'imbarazzo.
- Allora... fatte tante foto oggi? - domandò.
- No - risposi, non dicendo altro.
- Ah! Sei una di poche parole... - costatò, cambiando peso sull'altra gamba. Io a quella frase poco cortese, alzai le spalle e scossi la testa come per ignorare quella battuta.
- Devo andare... - sussurrai, voltandomi a destra e rincorrendo quasi il camper che sembrava allontanarsi, invece che avvicinarsi. Mi voltai per assicurarmi che il ragazzo non fosse restato lì, ed invece quello sguardo e di fuoco che mi aveva messo addosso strani brividi di... paura? "Forse!" pensò la vocina dentro di me; il ragazzo continuava a guardarmi andare via, e per l'imbarazzo di quel nuovo sguardo, mi voltai definitivamente, entrando nel camper di Jensen, chiudendomi con un forte rumore la porta dietro. Tirai un sospiro di sollievo e l'odore del dopobarba di Jensen mi pervase le narici, rilassandomi un po'.
Mi avvicinai al letto, togliendomi i bracciali dorati che avevo indossato al braccio sinistro. Tolsi poi il pesante cardigan di lana, e gli orecchini a cerchio grande, che si impigliarono con i capelli sciolti. Sciolsi i nodi dal grande cerchio di ferro e li riposi sulla mensola sopra il letto. Infine tolsi le scarpe, e mi sbottonai il bottone di metallo nei jeans, che mi dava fastidio. Perciò mi stiracchiai sul letto, e chiusi gli occhi, aspirando ancora il mio odore sul cuscino, mischiato all'odore di Jensen.
Andai alla deriva di uno strano sogno... di bugie e lacrime...
 
- Ehi -, sentii la voce di Jensen, risvegliarmi da un sogno durato giorni, invece era solo sera. -  Che ora sono? - domandai per sicurezza, fissando fuori dalla finestra le luci dei fari posti ogni due camper, per illuminare il posteggio. - Le dieci di sera, abbiamo finito da mezz'ora. Ero con Jared per una birra... - mi mormorò all'orecchio, avvicinandosi alla mia guancia, riempiendola di languidi baci odorosi di birra. - Ti puzza l'alito... sa di birra e hai le labbra appiccicose... - sussurrai, scostando il viso dal suo. Mi voltai appoggiandomi supina sul letto, e lo fissai dalla sua altezza, piegato poi in avanti per arrivare al mio viso.
Lo fissai negli occhi un po' lucidi - per la birra e non per le lacrime che avevo pianto io nel sonno - e poi scesi alle sua labbra, che toccai con le punta delle dita. Appiccicose e lucide. Era del lucidalabbra?
- Jensen, con chi sei stato? - domandai a bassa voce, con un groppo in gola.
- Jared... e prima la succhia-sangue mi è stata incollata tutto il pomeriggio. Non ho potuto tirarle un pugno, ma Jared mi ha aiutato qualche volta... - mormorò, sedendosi e piegandosi di nuovo su di me. Si portò una mano sulle labbra come per pulirsi da quella schifezza, e poi sfregò la mano più volte sui jeans, prima di alzarla per appoggiarsi sul letto, e abbassarsi a baciarmi.
Le mie labbra si mossero con le sue, e i miei occhi tristi si chiusero, sperando che quello che avesse detto fosse la verità. I suoi denti morsero il labbro inferiore, e le mie mani corsero incontro alla sua nuca, ai capelli corti e morbidi di cui mi ero innamorata nella bellezza. Li strinsi tra le dita, e mi lasciai andare alla sua lingua, che mi chiedeva imperterrita di entrare e ballare un lento, gioco tra la passione e il fuoco che si sprigionavano piano, dal mio cuore e dal suo.
Le sue braccia, mi strinsero forte le spalle, mentre cercavo di stringerlo più vicino possibile a me, e fondermi con lui, in un bacio che avrei voluto non fisse mai...
- Elisabeth... - mormorò senza fiato. Mi fissò dritto negli occhi, mentre i miei occhi correvano sulle sue perfette labbra consumate dal quel bacio.
- Mi dispiace per oggi... - mormorò, - dovevo intervenire, ma Robert... - lo interruppi posando due dita sulle labbra semi aperte.
- Ssh... sta zitto e baciami... - "...a quell'oca ci penso io tra due minuti, dopo che avrò finito di... ", pensai, mentre Jensen non mi lasciò concludere, perché le sue mani corsero lungo la mia coscia sinistra, mentre l'altra, mi sollevava la spalla destra, avvicinandomi al suo petto. Le nostre labbra si scontrarono in un altro bacio fatto di tuoni e pioggia primaverili. Le mie lacrime di gioia o di tristezza, non so a cosa fossero dovute, si mescolarono al languido rumore dei sospiri tranquilli e dolci di Jensen.
Un bacio rubato, una carezza rubata, e la rabbia che cresceva piano. - Devo andare a parlargli... - sussurrai, alzandomi dal letto, dalle sue braccia.
- Vengo anch'io... - mormorò alzandosi dal letto, passandosi una mano tra i capelli. Stavo per mettermi il cardigan quando mi scappò un risolino divertito. Pensai alla mia dolce sorellina e dissi: - No, tu no! - .
- Cosa? Ti prego non parlare in italiano! - disse poco irritato, avvicinandosi a me, e afferrandomi per la vita. Appoggiai le mani sull'ampio petto, e alzai lo sguardo languido e divertito mentre battevo le dita a ritmo. - Come with you... no, you not! - dissi in inglese, alzandomi sulle punta, e lanciandogli un ultimo bacio, mi diressi alla porta per chiarire gli "equivoci!".
Quando me la chiusi alle spalle, Jensen come promesso non mi seguii. Mi cimentai ad avvicinarmi il più possibile ai camper per leggerci il nome sopra. Quando trovai il nome di Luna, salii velocemente i tre scalini, e bussai a pugno chiuso, più volte.
- Luna, apri questa porta, adesso! - urlai, sentendo qualche rumore provenire da dietro la porta. Poi scesi uno scalino e vidi uno spiraglio di luce dalla porta che si stava semi aprendo. - Cosa vuoi? Vattene, sono occupata! - borbottò irritata, fissandomi con sguardo cupo. La guardai in accappatoio, e sentii odore di fumo e alcol.
"Ma cosa...?".
Sgranai gli occhi quando vidi due gambe sedute al letto e non del tutto femminili. - Sei con qualcuno? - domandai isterica. - E il vissero felice e contenti? Ma che fine hai fatto della vecchia Luna tu?! - urlai isterica, aprendo la porta di colpo, tirandola ed entrando nel camper, sottosopra e poco odoroso.
- Tu fumi! - mi voltai urlandoglielo, e non domandandoglielo.
- Qualche problema? Sei mia madre? - domandò irritata, socchiudendo la porta del camper dietro di se, stringendosi poi il accappatoio addosso. - Tu sei pazza! Ti scopi il primo, rubi il ragazzo alla... - stavo per dire "tua migliore amica" quando mi tappai la bocca, e mi costrinsi a dire altro... -... alla prima che passa! E fumi anche? Spero tu stia fumando tabacco e non erba o chissà cosa...?! - dissi isterica, fissando il ragazzo - che ricordai solo ora di essere Matt -  con gli occhi lucidi e i capelli post-coito che mettevano in ben mostra il viso contratto e morto. - Vi siete fatti d'erba? - domandai con voce più tranquilla, e pacata, cercando di farli ragionare, sia lei che lui.
- Ripeto: Sei mia madre? - domandò appoggiandosi con un braccio al mobiletto più vicino, sorreggendosi.
- No cazzo! Ma non puoi fare così! Ti rovini! E rovini la tua carriera... lo sai cosa succede se Mr. Singer sa di questo? - domandai a voce un po' più bassa, fissandola dritto negli occhi, mentre i miei cercavano di non lacrimare per il forte fumo.
- Chissà come la prenderebbero i giornali se sarebbero che il bellissimo Jensen Ackles sta con una ragazza con un sacco di problemi con la droga o di alcool... cosa possiamo inventarci più Matt? Mmh? Suggerimenti Elisabeth? - domandò fissandomi con sguardo divertito, accigliandosi e facendo finta di fingere.
Ma di cosa stavano parlando? Quale ragazza con problemi?
- Cosa? - domandai fissando entrambi. - Di cosa stai parlando? - domandai accigliandomi, e avvicinandomi a lei.
Lei mi fissò dritta negli occhi, parlando piano, lentamente, e facendomi assaggiare ogni parola: - So chi è la ragazza di Jensen... so perché sei qui. So che Mr. Singer vi aiuta con la stampa. E so anche di Jared e Jessica. Vuoi che tutto finisca ai giornali... ma come dire in modo del tutto diverso? Sarebbe così bello vedere gli attori più acclamati degli ultimi tempi, infangati dalle proprie ragazze... ahahah - lei e Matt si fecero una risata divertita, mentre la mia bocca si spalancava di più, e la mia rabbia saliva alle stelle.
- Non lo faresti... -
- Oh si che lo farei... tu dì solo una parola e io ho già foto e articoli pronti per People e Gossip Cop! - ghignò con tono malvagio, avvicinandosi a me, per poi scostarmi e buttarsi tra le braccia di Matt.
- Sai cosa c'è? C'è che non m'importa, puoi dire quello che ti pare, ti farò licenziare in un modo o nell'altro, o si che lo faccio! - dissi, lanciandomi alla porta aprendola, prima che mi sentissi afferrare per i capelli, tirandomi indietro con la testa. Gridai per il dolore. Uno strano e strillante urlò mi scappò dalle labbra, e sentii quasi ogni capello essere tirato dalla radice.
- Luna, smettila! - squittì, afferrandola per le braccia, cercando di farle mollare la presa. Ma invece la presa non era sua, era di Matt. Luna mi si piazzò davanti il viso piegato all’ indietro, e mi afferrò per la mascella stringendola in una morsa forte e ferrea.
- Ti ripeto Elisabeth... - sussurrò vicino al mio viso, con una mano mi afferrò il naso, stringendolo forte, costringendomi ad aprire le labbra cosicché la presa sulla mascella fosse più forte. Cercai di articolare un urlo, senza riuscirci del tutto.
- ...di soltanto una parola, e ti troverai in mezzo ai più pazzi americani rinchiusi in un istituto psichiatrico, perché non ti crederà nessuno bellezza. Nessuno! - concluse, sputandomi sul viso. Chiusi gli occhi, sperando che la smettessero di farmi male. Le lacrime di dolore iniziarono a scendere, e loro se la risero lasciandomi andare e spingendomi a terra. - Suvvia, vai adesso dal tuo amato Jensuccio! Vai a raccontagli tutto! Ti aspetta insieme a Mr. Singer e al medico! Ahahah - rise ancora, lasciandomi un oggetto addosso.
Non dissi nulla, e cercando di farmi forza per di alzarmi da terra, notai solo allora due paia di scarpe della misura quarantacinque. Solo una persona in mezzo a tutti noi portava quelle scarpe.
- Ehi ragazzi, non si fa così! Ma suvvia un saluto per il video alla stampa! - disse Jared per metà serio e per metà divertito delle facce scioccate di Luna e Matt.
- Oh adesso siete troppo seri. Dai prendetevela con qualcuno della vostra stazza! Dai! - urlò J-Rod a Matt, avvicinandosi e mettendogli paura.
- Jared, lascia perdere... - sussurrai piano, tirandolo per un braccio, quando fui al in piedi, sulle mie gambe malferme. Jared premette "stop" sul suo video amatoriale, e si avvicinò a me, stringendomi delicatamente con un braccio al suo petto. - Preparate le valigie. Ne parlerò con Mr. Singer stasera stesso! - borbottò, scendendo gli scalini e chiudendo con un sonoro scatto la porta dietro le sue grandi spalle.
Le lacrime che sembravano non finire più, iniziarono a scorrermi di nuovo sulle guance rosse e doloranti. I singhiozzi seguirono a ruota. Jared si abbassò alla mia altezza, e afferrandomi piano il mento, mi osservò i segni delle dita di Luna e poi i segni che mi avevano lasciato sulle braccia. - Oh Gesù... - mormorò, fissandomi di nuovo il viso. - Dimmi che quella non è saliva...che brutta pezza di bastarda! - urlò voltandosi contro il camper come per fargli sentire tutto! Mentre le lacrime mi offuscarono la vista e la faccia di Jared mi guardava con triste rammarico, sentii alcuni diversi passi avvicinarsi a noi.
- Betta? - domandò qualcuno. Sentii la voce di Jessica e tirai un sospiro di sollievo. Mi voltai a fissarla e il suo sguardo normale si tramutò presto in spavento.
- Cosa è successo Lizzie?! Jar, cosa le è successo? - domandò preoccupata, stringendomi a se, e io, aggrappandomi a lei disperatamente. I singhiozzi non mi permisero di parlare, e le parole di Jared, al ricordo della violenza di prima, mi fecero cedere ancora di più tra le braccia di Jessica, piangendo a dirotto.
- Cosa ti hanno fatto? Sono pazzi! Devi fargli causa! - mi suggerì con voce piena di rabbia, mentre mi strascinava da una parte all'altra del parcheggio dei camper. Vidi solo il nome J. Padalecki e poi i miei occhi si chiusero per riaprirsi ad uno strano odore misto a medicinale e dopobarba.
- Mmh... - mormorai dolorante, mentre mi voltavo con la testa sul cuscino. Sentii i capelli tirare e le mie lacrime uscirono per il dolore. - Ah...ah! - singhiozzai, tra le lacrime, chiudendo gli occhi, continuando a girarmi da una parte all'altra per alleviare il fuoco che divampava per ogni movimento che la mia testa faceva.
Sentii l'odore di dopobarba farsi più vicino e aprii gli occhi sperando di vedere qualcosa. Con sguardo appannato riuscii a riconoscere i lineamenti di Jensen.
- Eh!...eh!... - singhiozzai, alzando le braccia verso di lui come una bambina.
Mi sentivo vuota, dolorante e vuota, avevo bisogno di aiuto. Avevo bisogno di Jensen.
- Aiutami, aiutami... - gemetti, stringendomi al suo petto, tra le braccia forti del mio vero ed unico salvatore, il mio vero ed unico angelo custode.
- Sssh, è finita. Sono qui, è tutto okay amore. - mi mormorò all'orecchio, sospirando più tranquillo.
- Non lasciarmi...- sussurrai.
- Non lo farò -disse.
 
 
- Non mi aspettavo un comportamento del genere Miss Ford! Lei è una bambina, non capirebbe cosa sarebbe successo se Mr. Padalecki avrebbe mandato il video a persone sbagliate! Avrebbe infangato il nome della serie tv e della Waner Bros come uno staff e degli attori pazzi e psicopatici che si fanno erba e picchiano persone per piacere! Lo capisce questo?! Lo capisce?! - urlò Mr. Singer a Luna che, seduta davanti la scrivania, dove vi stava seduto dietro il produttore esecutivo di Supernatural, era super incavolato nero!
- Capisco Mr. Singer e mi scuso per... - iniziò Luna, cercando di far sentire la voce piuttosto ferma invece che tremolante.
- Lei non capisce un cazzo Miss Ford, non capisce una cazzo! - urlò arrabbiato indicandola, - come lei, anche il mio secondo assistente! Cosa ti è preso per quella testa di cetriolo che tieni Matt? Dimmelo, sorprendermi con le tue direttive! Lo sai che hai usato violenza su una donna? Lo sai che potresti finire dietro le sbarre!? Come tu, anche Miss Ford? Tu sconterai di più e lei un po' di meno, perché donna! Ed è appena stata licenziata! - disse con tono di voce un po' più basso e deciso, senza ripensamenti.
-  Ma Mr. Singer? No! - si alzò Luna protestando. Cercando di riporre rimedio, con scarso successo. Si voltò verso la fila dove vi erano seduti Jensen, Jessica, Jared e in mezzo a loro io. Quando mi adocchiò, buttò uno sguardo di odio e di vendetta, uccidendomi dentro.
- Voltati troia! - sibilò Jessica, allungandosi verso di me, e appoggiando una mano sulla coscia come per consolarmi. Luna le lanciò uno sguardo schifato e si voltò ad ascoltare le urla di Mr. Singer rivolte al suo secondo assistente, Matt.
- Licenziato anche tu! Non voglio gente di basso livello nella mia troupe. E fuori dai piedi prima che apra un vero e proprio caso su questa storia con avvocato e risarcimenti compresi! - gridò contrò Luna, indicandogli la porta.
Entrambi i ragazzi seduti, si afferrarono per mano e si diressero lentamente alla porta. Fissai Luna tra le ciglia, con sguardo basso. Il suo sguardo omicida includeva parecchie cose:
 - Ricordati di non tornare a casa, ti lascio tutto fuori dalla porta, cagna! - sibilò, avvicinandosi solo di qualche passo verso la mia direzione, mentre Jensen si era già alzato per contrastarla, con i pugni serrati alla vita.
- Come scusa? Serpe! - domandò Jensen con tono di voce basso e tagliente. Luna fece un passo indietro e si zittì uscendo fuori dall'ufficio.
Quando restammo solo noi quattro con Mr. Singer a fissarci uno alla volta, qualcuno nella stanza, tirò più di un sospiro di sollievo. - Mi dispiace - mormorò la voce profonda di Mr. Singer.
- E' colpa mia... - sussurrai con voce roca. Jensen mi strinse forte la mano, per il disappunto. - Non è vero, lo sai - disse, avvicinandosi al mio capo, lasciandomi un bacio sulla tempia. Mi strinsi teneramente a lui in cerca di un abbraccio, mentre Jessica, continuava a stringermi piano la coscia per consolarmi, dopo essersi alzata e seduta sulle gambe di Jared che la teneva stretta con un braccio, mentre l'altro era poggiato alla spalliera della mia sedia. Seduta tra i miei due nuovi migliori amici /sbarra/ protettivi che si potessero avere, e vicino alla migliore connazionale che si potesse aver trovato in un altro stato, mi sentivo al sicuro, amata, e ben accettata per quello che ero.
Fidarsi è bello, ma non fidarsi è meglio, così diceva mia madre dopo che Davide mi aveva abbandonato per Luana. Dovevo immaginarlo adesso con Luna, dopo che l'insicurezza mi aveva colto alla sprovvista quel giorno quando la lasciai con il copione in una mano, e la sua vanità appena sbocciata nell'altra, dovevo immaginarmi che fidarsi di lei, non era meglio, era la peggior cosa che si potesse fare.
- Robert adesso cosa faremo? E se racconterà delle false voci su di noi, o addirittura su di te? Insomma non vorrei che... - Jensen si bloccò non sapendo come aggiungere "perdere il lavoro", perché sapeva che se Mr. Singer fosse stato licenziato, la serie tv "Supernatural" non sarebbe durata tanto a lungo nella lista:La serie tv epica degli anni duemila. No, certo che no, sarebbe stata oscurata da tutti quei gossip neri e poi sarebbe stata accantonata nel cestino, e mai più ricordata.
- Tranquillo, sanno che devono fare, sanno che devono sparire, sanno che metterebbero al repentino la loro fedina penale. Lo sanno, state tranquilli... e Jensen? - Mr. Singer parlò, richiamandolo: - Ti do due giorni di ferie...anzi li dò a voi quattro. State vicini alla piccola El e mi raccomando, trovatele una sistemazione... - mi sorrise gentile e mi porse una busta. - Tieni, questo mese te lo paghiamo anticipato, se ti servisse del denaro... - sussurrò, girando attorno alla scrivania col braccio teso, aspettando che afferrassi la busta.
- No - dissi, stringendo le mani in una morsa tra loro, - non ne ho bisogno, posso fare da me... troverò un motel... - conclusi, abbassando lo sguardo a terra, per la vergogna o forse per la tristezza di dover cercare un posto che non avrei più sentito come mio.
- No verrai a stare da me, nessuno problema piccola – disse Jensen, stringendomi
- Ho una stanza libera da me, puoi farmi compagnia, io sto sola nell'appartamento! - disse esultante Jessica, attirando la mia attenzione. Mi voltai a fissare Jensen che mi sorrideva dolcemente. - Scegli tu... non ci sono problemi, tesoro. - mormorò, baciandomi sulle labbra. Arrossii di colpo e sentii gli - oooh - e gli  - aaaah - entusiasmanti di tutti li dentro, mentre il sangue fluiva veloce sulle gote.
- Ne parliamo da soli, poi - dissi fissandolo seria.
- Okay, no problema - mormorò in italiano.
Sorrisi, e per la prima volta in quarantotto ore.
 
- Non ti dispiace vero? - domandai mentre finivo di prendere tutto da dietro la porta, dove avevo raccolto tutto, mentre Luna era assente. Raccolsi proprio tutto, non lasciando nessuna traccia del mio passaggio: guardaroba, qualsiasi oggetto dal bagno, trousse, grucce, lenzuola, tazze, piatti e si per la rabbia che avevo represso portai tutto quello che avevo comprato con il mio denaro: cibo, piatti e teglie, mentre dal divano afferrai solo il mio cuscino e tutti il resto, preparando scatole, scatoloni, borse e valigie. Quando avevo finito, la casa sembrava sempre la stessa, solo più vuota.
Perciò decisi di lasciare solo una cosa di mio. La mia ex presenza in quella casa. Afferrai una matita, mi avvicinai al muro colorato in rosso vicino alla porta e scrissi:
 


 
Jensen rise divertito e rispose un soffocato "no". Quando afferrò l'ultima borsa, e lesse il messaggio, mi diede una pacca sul sedere, facendomi saltare su da terra. - Stupido... - borbottai chiudendomi la porta dietro le spalle, dimenticandomi "stranamente" la luce accesa. Ops.
Salimmo in macchina e Jensen accese, dando subito gas.
- Tesoro? Sicuro che a te non dia fastidio che vada ad abitare da Jess... sai e che non so... per ora… vorrei tagliarmi i miei spazzi... e vorrei godermi quel poco tempo da... - Jensen mi tappò la bocca con la mano, soffocandomi le parole. Cercai di tirarla via, facendo peso sul braccio allungato, senza risultati.
- El è tutto okay! Puoi andare dove vuoi! Da Jessica? Sarà più vicino e poi sicuramente anch'io voglio intagliarmi un po' di tempo con il mio migliore amico a fare... - gli tappai  questa volta io la bocca, ridendo diverti entrambi.
- Non importa... - disse, - tranquilla tesoro! -concluse, spostando continuamente lo sguardo dalla strada a me, che ero voltata per metà verso di lui a fissarlo o meglio contemplarlo e contemplare la fortuna che avevo avuto in quei mesi passati. Aprile, Maggio, Giugno, Luglio, Agosto e Settembre. I migliori mesi della mia vita, i migliore nel lavoro, nella vita, nell'amore che potessi mai avere.
Dovevo ringraziare Dio o forse solo me stessa.
Sentii la macchina rallentare e mi voltai a vedere il semaforo che diventava rosso... come il sangue, il cuore, l'amore... che filosofia di vita avevo?
- Jensen? - mormorai fissandolo. A sua volta si voltò a guardami.
- Cosa? - domandò sorridendomi dolcemente.
- Lo sai che ti amo vero? - dissi d'impulso, stringendomi in una morsa la sua mano, poggiata sul cambio.
Il sorriso di Jensen a quelle parole, si allargò toccando un orecchio per arrivare a toccare l'altro. Rise divertito e scosse la testa. Poi si contraddisse.
- Vero, adesso lo so, e per la prima volta, amore! - mormorò, facendomi una smorfia con la faccia.
Risi di gusto divertita mentre la parolina “amore” continuava a fare eco nella mia testa e nel mio cuore.
- “Coglione!” - dissi divertita
- “Puttana!” - disse lui di rimando, senza rendersene conto.
- Ehi! Non sono tuo fratello Sammy! - urlai, dandogli un ceffone e ridendo divertita. - Ahahahah! - rise divertito, piegandosi sul volante.
- Scusami amore, abitudine... - mormorò dandomi un bacio, mentre finalmente il verde era sbucato fuori.
- Lo diresti di nuovo? - domandai di colpo, fissandolo seria.
- Cosa? Puttana? - domandò ridendo.
- Ma noooo...! - urlai esausta, ridendo ancora una volta, alla fortuna che avevo avuto finora dalla vita.
 
 
*spazio autrice*
 
Saaaaalve! u.u
Eccoci con un nuovo capitolo, come promesso! Spero vi piaccia, e insomma diciamo che è un po' di passaggio e che ho lasciato diciamo.... *echm /tossisce* un po’ di indizi, che... si insomma l'avete letto, dovreste ricordarvelo per bene! Non si sa cosa potrebbero mai fare le mie mani con la fantasia, un pc davanti e Luna/Matt all'attacco. *echm/tossisce*
Aspettate ho detto Luna/Matt? Non c'entrano un accidenti più... promesso! (?) u.u
Vabbè, questo era un po' un capitolo di passaggio anche. Si vede per come sia finito penso...no?
Vabbè, (l'ho detto n'altra volta? xD) come avete ben visto, meno male che c'era il nostro salvatore... O JARED, JARED, COME FAREMO SENZA DI TE? *-*
Jensen vabbè poi... *Q*
Vabbè (n'altra volta?!SI lo so xD) vi lasciò in pace però... ahahaha
Al prossimo capitolo u.u
PS: Vi ricordo il mio profilo fake su FB per EFP , e la PAGINA FB "GILRAEN'S GRAPHIC" un'alta volta :D
(che fa i meravigliosi banner della storia ;D ) (sotto troverete un’immagine che le ho chiesto di fare, con tutti i banner usati fino ad adesso nella storia :D Tutti diversi ed inerenti al capitolo non credete anche voi? :D)
P.P.S: Vi lascio il completo di lavoro che la nostra Elisabeth "oggi" in "capitolo" ha indossato:
 


 
 
 

xoxo Para_muse ;D

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Capitolo 12
*** A day in Couple's life ***


Salve, prima di lasciarvi al capitolo, vorrei dirvi che un MISSING MOMENT di questa storia è stato scritto. E che è stato pubblicato. QUI POTETE LEGGERLO! E QUI potete tenere sott'occhio la raccolta della mia FF: "The Second Chance" - Racchiusi in un... bookstory
Vi invito a non farvelo scappare, perchè non solo racconta un momento mancato dal capitolo otto che tutti voi almeno ricorderete, ma c'è qualcosa sotto, tipo degli indizi, che spero voi non capirete mai... ;) Comunque vi consiglio di leggere fino alla fine perché ho alcuni link da consigliarvi u.u
Per il resto, vi lascio al capitolo adesso ;D 
 
Enjoy, read this...
 


12 Capitolo

A day in Couple's life
 
Dopo quel ti amo dichiarato, Jensen non mi fece complimenti per averlo finalmente detto, anzi dimostrò il suo affetto, acconsentendo che io vivessi da Jessica e non al suo appartamento. Dividevo l'appartamento con Jessica al secondo piano di un piccolo palazzo abitato da persone abbastanza silenziose e discrete. Avevo fatto conoscenza con la vicina di casa, Kelly.
Era molto simile a mia sorella, solo che sposata, divorziata e con una bambina di appena un anno che era silenziosa la notte, ma pestifera il giorno. Piangeva, strillava, e faceva silenzio solo quando dormiva, ovvero nel piccolo sonnellino pomeridiano dalle 3 alle 4. 
Kelly di 25 anni, cercava babysitter in qualsiasi momento della giornata, mentre si dedicava allo stesso tempo, part- time nella casa delle persone per pulizia, e per arrivare a campare fino alla fine del mese. 
Jessica ormai da settimane era ben felice di accudire la piccola Elena, che quando aveva compagnia, stava tutta pimpante tra le braccia della persona sconosciuta, giocandoci e ridendo con la boccuccia semi aperta senza dentini.
Poche volte ero potuta restare a casa a fare da babysitter a Elena. Troppo occupata nella vita casalinga, di coppia e lavorativa.
Più turni notturni con l'andare della terza stagione. Avevamo ormai finito di girare la quinta puntata, in cantiere c'era di girare la sesta, e in nome di Dio, per quella puntata avremmo avuto solo la serata occupata dalle sette alle dieci di sera. Tutto il resto l'avremmo girato di giorno. 
Finalmente avremmo avuto un'uscita da soli e da coppia. Io e Jensen, dire essere felici, era veramente poco. Ci eravamo prefissati il 19 ottobre. Dopo tutto quello scandalo su Luna, il mio trasferimento, e la registrazione delle puntate dalla seconda puntata, ci eravamo presi una pausa lavorativa per iniziare subito dopo una settimana e mezzo. Così il giorno prima del nostro primo appuntamento, sarebbe andato in onda la terza puntata, e sarebbe andato al montaggio la quarta - in fase di finitura - e in quinta - in fase di inizio - mentre noi eravamo due passi avanti rispetto al mondo intero.
Tutto procedeva secondo i piani:
- Allora sai che giorno è oggi piccola? -
Sentii il telefono vibrare nella tasca dei jeans, mentre tenevo tra le braccia Elena che mi molestava e strappava dalla radice i miei capelli uno ad uno. Lo afferrai leggendo il messaggio velocemente, senza che gli occhi, della bambina curiosa, cadessero sul mio nuovo telefono, Blackberry, regalatomi dal risarcimento che Mr. Singer aveva obbligato Luna, a farmeli dare.
Risposi un veloce e semplice - Si, è mercoledì, stasera si registra! - 
Infilai il cellulare sulla tasca posteriore dei jeans, quando vidi la piccolina sporsi sopra la mia spalla, cercando la luce che l'aveva attirata. 
- Po! Po! - la piccolina iniziò a mormorarsi e a spingersi con i piedi e le braccia sulla mia spalla, cercando ancora la lucina dietro la mia spalla, in fondo al mio sedere.
- Dove vai? Vieni qui! - l'afferrai dal busto, stringendola e riportandola al mio fianco. Mi afferrò arrabbiata i capelli, fissandomi. - Po! Pooo! - strillò piangendo.
- Si ho capito, vuoi il telephone! - dissi sospirando, ed uscendo il telefono dalla tasca mostrandoglielo. 
Il suo pianto fu quiete, e il telefono si bagno di bava da piccolini. Niente male.
- Dida, boooton! Po! Po! Moom! - Elena emetteva suoni strani con il telefono tra le dita bavose, premendo bottoni a casaccio. Cercai di vedere cosa facesse, quando glielo vidi vibrare tra le mani, e illuminarsi lo schermo prima nero, perché bloccato.
- Liiig, Libeth! Po! Po! - disse lanciandomelo addosso, mentre sbatteva i piedi per scendere dalle braccia, perché voleva camminare. La appoggiai a terra, e le presi una manina, mentre dondolava avanti e indietro, sull'unico appoggio del mio braccio. Inizio a muoversi e ad attorcigliarsi su se stessa, mentre cercavo di rispondere velocemente a Jensen.
- Si, stasera solamente! Domani giriamo di mattina, e di pomeriggio. Comunque, dicevo: sai che giorno è oggi? - 
- No, tesoro, vuoi dirmelo tu? - scrissi, afferrando con entrambe le mani, le braccia in alto di Elena, che voleva essere spronata a camminare. Facemmo quattro passi a destra e a sinistra, avanti, e qualche passettino indietro, mentre voleva correre disperatamente verso i suoi giocattoli. La lasciai andare a terra, sedendomi accanto a lei giocando con i peluche.
Il telefono vibrò per l'ennesima volta:
- Mancano due santi giorni, e avremo il nostro primo appuntamento! :) - 
- Jared ti ha addolcito troppo il caffè stamattina? - 
- No è stata una ragazza che mi ha texato "ti amo" l'altro giorno... per l'ennesima volta! ;) - 
- Ti amo ;) - scrissi e nascosi di nuovo il cellulare in tasca, mentre con occhi sognanti e un sorriso stampato in viso, guardavo Elena giocare felicemente tra i pensieri perduti di una bambina qual era.
 
- ' Giorno! Stamattina mattiniere eh? - domandò Jessica pimpante, mentre beveva forse l’ennesimo caffè. La fissai sotto shock, mentre ne riempivo una piccola quantità anch'io; perché alle quattro del mattino, devi essere bella pimpante anche tu!
- Avete da girare con il buio? - domandò Jessica, togliendo tutto di mezzo, pulendo la cucina e sistemando i piatti del giorno prima. - Si, penso una scena con una ragazza... - dissi, dando un'occhiata al copione che avevo lasciato la sera prima sul tavolo della piccola cucina. Lo afferrai portandomelo dietro insieme all'ultimo morso sul pancake imbevuto nel caffè. Lo inghiotti tossicando dopo, appena oltre passai la porta della mia stanza, e mi resi conto del casino che c'era. E solo dopo in una delle tante valigie semi aperte con lembi di vestiti che ne uscivano fuori, mi accorsi del vestito che avrei dovuto mettere la sera dopo, tutto stropicciato con tanfo di valigia chiusa.
- Cazzo! - sbottai sbigottita. Quando avrei avuto tempo di portalo in lavanderia? 
Avrei dovuto chiedere aiuto a Jessica, ma il suo orario di lavoro oggi era continuo, quindi l'unica mia opportunità era Kelly. Lo afferrai fissandolo. Nero, con decolté squadrato e strani filamenti che si allungavano per tutto il petto scoperto... ma spiegazzati. Dovevo farmelo portare il lavanderia.
Lo infilai dentro un sacchetto e lo lasciai davanti la porta della stanza, così l'avrei ricordato.
Mi preparai per andare a lavoro. Dopo essere passata ogni mattina a restaurarmi in bagno con trucco e parrucco - che di parrucco quella mattina non era, perché i miei capelli erano vento - tornata in camera, infilai velocemente i vestiti che aveva preparato sul letto: un paio di pantacollant, uno dei miei tanti vestiti grigi di maglia, la solita giacchetta nera, un foulard sul marroncino e i miei dorati scarponi grigi invernali. Afferrai la morsa a tracollo, mentre corsi disperatamente all'entrata dove afferrai i borsoni con gli attrezzi.
Sentii il cercapersone suonare.

JENSEN: Sono di sotto, aspetto te.
JENSEN: 5 MINUTI
JENSEN: 10 MINUTI

Trillò un'altra volta, ma ero troppo di corsa per leggere, così scissi veloce un fogliettino di carta che lanciai dentro la borsa "Grazia" e la lasciai davanti la porta di Kelly ed Elena - che oggi avrebbe fatto i soliti capricci alla madre.
Salutai Jessica che ancora pacificamente era a casa, e scesi le due rampe di scale, correndo da Jensen.
Salii in macchina dopo un'acrobazia da circo con i borsoni.
- Ben arrivata, ritardataria! - mormorò la voce roca di Jensen "assonnato".
- Ciao tesoro, ho avuto un inceppo! - dissi, voltandomi verso di lui, lasciandogli un bacio dolce sulle labbra.
- Buongiorno! - disse in italiano ormai quasi perfetto, sbadigliando e immettendo la marcia per avviare l'auto.
- Sai che giorno è oggi? - domandò con voce meno assonnata. Mi voltai verso di lui, alzando lo sguardo dal cercapersone, dove stavo cancellando i messaggi.
- Si, è giovedì mattino, sono le quattro e sono stanca! Voglio dormire! - squittì disperata, massaggiandomi le occhiai che bruciavano. Jensen rise per la mia performance da bambina viziata, ma non era un sorriso veramente divertito.
- Mi dici cosa c'è? - domandai curiosa, fissandolo guidare con sguardo serio.
Scosse la testa alzando le spalle, troppo pensieroso per dire "niente". - Voglio saperlo Jen! - dissi quasi con tono di voce arrabbiata.
- Non alzare la voce, non c'è bisogno! - disse, stavolta anche lui con il tono di voce arrabbiato.
- Stai calmo! - dissi esasperata, voltandomi verso il finestrino.
- Non mi urlare in questo modo! Non esasperarti, non c'è bisogno di fare le scenate! - borbottò, infastidito mentre entrava nei parcheggi degli studios, quasi semi vuoti.
- Dovrei smetterla io? - domandai scettica, fissandomi a voltarlo per l'ennesima volta. Non mi diede retta mentre parcheggiò accanto ad una macchina, che fosse di Jared. Il ragazzo alto quasi due metri, era appoggiato al sedile, che dormiva profondamente. Risi divertita di quella scena, ma tornai seria quando Jensen scosse la testa ridendo.
- Te ne strafotti! - disse, spegnendo la macchina, tirando via la chiave dal quadro automatico.
Sgrani gli occhi quando sentii quelle parole. 
- Io mi strafotto della discussione?! Sei tu quello che diventa serio e fa sempre le stesse domande... a mio parere al quanto stupide! - esclamai imitando la sua voce: - Che giorno è oggi? Che giorno è oggi, tesoro? Mio Dio Jensen che vuoi che ne sappia... mercoledì? Giovedì? E allora? - dissi aumentando il tono di voce.
- Non mi urlare contro, sai quando non lo sopporto! - disse arrabbiato, sporgendosi verso di me. Preoccupata mi tirai indietro, e lo fissai con sguardo spaventato e incerto. - Smettila! - borbottai, fissandolo. 
- Lo farò quando la smetterai tu, io volevo solo... essere un po' dolce, tutto qui, stupida! - grugnì, voltandosi a guardare fuori dal parabrezza.
- Dolce? In che modo? Ricordandomi il giorno della settimana! Jensen, non sono stupida, ho capito dove vuoi arrivare... - mormorai, avvicinandomi a lui, mentre si ritirava allontanandosi da me. "Che timido il mio uomo!", pensai divertita, in un dolce sorriso continuai: - domani è venerdì! Usciamo insieme per la prima volta... - sussurrai, lasciandogli un bacio sulla spalla. Lui si voltò a lanciarmi uno sguardo orgoglioso, mentre continuavo a salire con i baci. - Ma tesoro, quanto tu possa essere dolce, lo sapremo solo io e tu. Forse Jared e Jessica, ma il mondo non lo saprà... non finiremo come "il primo uomo che mise piede sulla luna"... - dissi sogghignando divertita, mentre a Jensen spuntava un sorriso sghembo. Si voltò lasciandomi un bacio sul naso. - Non sei la luna... lo so, ma... - si fermò, accarezzandomi il viso dolcemente, pensando alle parole giuste da dire.
- Ma cosa? -
- Vorrei che fosse speciale, che lo ricordassimo almeno noi due...e quell'impiccione di Jared, e Jessica... e forse anche Robert, per non dire la troupe... - rise divertito, mentre le nostre labbra si avvicinavano per un tenero e forse indisturbato bacio. Forse.
- Ciao! Che state facendo? - 
Ci allontanammo voltandoci verso il parabrezza, dove Jared sorridendo in modo alquanto deficiente, ci salutava come un bambino.
- Jared! - esclamammo in coro, scocciati ma divertiti. 
 
- Ti prego accetta questi soldi, ti devo ripagare in qualche modo! - 
Stavo cercando di convincere Kelly di prendersi i suoi quindici dollari che le toccavano. Lei scuoteva ancora la testa, mentre stringeva tra le braccia Elena che rideva divertita, guardando me che stanca da lavoro e dalla situazione la pregavo per accettare quei soldi. - Ti prego accettali. Almeno per pagarti l'uso di energia che il ferro da stiro ha sprecato! - dissi, cercando di metterle tra le mani la banconote. 
- No, l'ho fatto con piacere! Voi aiutate me con Elena, io aiuto voi a sistemarmi qualcosa in casa. Gratis però! Il vestito non era niente! - disse testarda, ciondolando il peso da un piede all'altro, per fare da amaca ad Elena.
- Guarda che li dò ad Elena i soldi, poi te la vedi tu eh! - dissi ridendo esausta. 
Kelly rise divertita ma allontanò la figlia dalla mia portata.
- No, non voglio che le banconote facciano la stessa fine del vestito: lavate e messe ad asciugare. Sul serio Lizzie, è stato un piacere! - disse, sorridendomi gentile.
Dovetti accettare per forza quella sconfitta.
Tornai in casa, appendendo l'abito nell'armadio, evitando di farlo stropicciare. Poi dritta, dritta, zitta, zitta, dopo una veloce chiamata di buona notte da parte di Jensen, alle 7 e mezzo di sera, andai filata dritta a letto.
Il mattino seguente, non fu mattino, ma fu il pomeriggio seguente.
- Jessica! - urlai fissando l'orario e i dieci mila sms che Jensen mi aveva mandato, non notando nessun segno della mia vita "in vita".
Nessun risposta in casa. Fissai ancora una volta l'orario. Erano le 5 del pomeriggio. Jessica sarebbe dovuta essere al lavoro. Meglio era al lavoro, e io ero nel casino più totale.
Dovevo prepararmi.
E dovetti farmi aiutare un'altra volta dalla mia nuova vicina di casa. 
- Kelly? - bussai veloce alla porta in accappatoio dopo essermi fatta una doccia veloce. 
Kelly un po' arrabbiata, mi fece entrare, e mi fece segno di fare silenzio. - Elena dorme? - domandai a bassa voce. Kelly annuii semplicemente e mi portò nella stanza più lontana: in cucina, mentre le spiegavo a bassa voce la situazione.
- ... devi aiutarmi! - dissi esasperata quando si chiuse la porta della cucina dietro. - Devo uscire con Jensen tra un paio di ore, e devi aiutarmi a farmi i capelli...almeno quelli! - dissi sedendomi su una della quattro sedia libere.
Kelly batté le mani entusiasta e senza che le dicessi "ti prego" un'altra volta, si mise all'opera di un nuovo suo capolavoro.
Alle 20.50 fui fuori da casa sua e quasi fuori da casa mia. Passai un'altra volta un po' di lucidalabbra, mentre Kelly che mi era venuta dietro, con la piccola Elena che ci rincorreva un po' gattonando e un po' muovendomi i piedini tra le mani della mamma.
 Entusiasta, mi dava qualche consiglio.
- Se vedi che vuole baciarti fermalo ti prego, prima che vi sporchiate di lucido appiccicoso! Durante la cena si carina, non parlare di lavoro! O di altro… solo di voi due, dei vostri "very hobby" - disse aggiustandomi il vestito sulle spalle, e lo scialle che mi copriva dall'autunno freddo ed inoltrato di Vancouver.
- Se ti porta in un ristorante elegante, fa ordinare lui! Se invece e un po' meno "corposo" scegli qualsiasi cosa, non vorresti fare brutta figura pronunciando qualcosa di sbagliato... tipo il nome di un vino! Il cameriere dal guanto bianco ti lancerebbe uno sguardo odioso, mentre quello dal grembiule un po' sporco attaccato alla vita, ti sorriderà per la battuta... che non era battuta! - insieme facemmo una risata, e aggiustai ancora una volta il ciuffo dei capelli sulla fronte. Kelly li aveva legati in uno strano chignon, mentre il vestito mi stava a pennello, e le scarpe grigie mi calzavano al piede, facendomi la siluette.
Il telefono nella pochette, iniziò a squillare.
- Okay, come sto? - domandai facendo una veloce giravolta sui tacchi alti. Mi fermai a metà giro scappando per la porta e afferrando le chiavi. - Stai benissimo, ma lo sai già... ci vediamo domani, devi raccontarmi tutto! - disse, afferrando la piccola Elena da terra, facendogli fare ciao. Sorrisi dolcemente. - Grazie, non dubitarne! - dissi, correndo giù per le scale.
- Avvertirò Jessica! - urlò dalla rampa alta.
- Grazie, ma non c'è bisogno! - urlai, aprendo il portone, trovando il sub posteggiato di fianco al marciapiede. Mi fermai di colpo e mi ricomposi, chiudendomi piano il portone dietro le spalle, stringendomi lo scialle, intorno alle spalle e al petto scoperto. Quella sera faceva abbastanza freddo. Che idea geniale aver messo il vestito più corto che avessi. Insomma, abbastanza corto.
Salii in auto con qualche difficoltà. - Ciao tesoro! - sorridi timidamente, cercando di tirare giù il vestitino che si alzava un po' sulle cosce mezze scoperte. - Ciao amore! Sei puntuale! - mi disse sorridendo dolcemente, avvicinandosi al viso per un fugace bacio. Mi avvicinai tappandogli la bocca con tre dita. - Niente baci fin quando non si consuma il lucidalabbra... ci sporcheremmo tutti e due! - dissi autoritaria, fissandolo dritto negli occhi, seriamente scherzosa.
Lui mi fissò, lanciandomi uno sguardo da cucciolo bastonato, ma dopo aver riso come due sciocchi, ingranò la prima, partendo per la destinazione.
- Dove andiamo? - domandai curiosa, fissandomi intorno nelle strade umide di Vancouver.
- Ritorniamo alle origini! Ristorante Italiano! Carlo's Restaurant! Amo il cibo italiano - disse, voltandosi a guardarmi. Restai un po' scioccata da questa rivelazione. Non avevo mai saputo che Jensen amasse il cibo italiano.
Sembrava che sapessi tutto di lui, ed invece le piccole sciocchezze mi erano sfuggite, troppo impegnata al nostro rapporto di coppia, e al lavoro che ci sfiancava entrambi. 
Troppo preoccupati dalle uscite a quattro, interessandoci meno all'uscite tra di noi. Soli, dove potremmo tranquillamente parlare di cose private, conoscerci meglio... era questo quello che dovevamo fare. Conoscerci meglio, e il consiglio di Kelly l'avrei seguito alla lettera.
Jensen svoltò in una strada lunga e larga, e parcheggiò di fianco ad un marciapiede tipico quasi italiano. Fatto di mattoni grigi con contorni bianchi, vi scesi, scendendo i tacchi sui ciottoli rumorosi di quella strada.
- Eccoci arrivati nella mini Little Italy di Vancouver! - disse Jensen, afferrandomi per una mano, stringendomi a se, con un braccio. Chiuse la portiera al posto mio, e premette il telecomando per chiudere la macchina. Poco dopo fece un passo avanti per squadrarmi dalla testa ai piedi. Il suo sguardo si perse nel vuoto, quando torno al mio viso.
- Sei bellissima tesoro! - disse avvicinandosi di nuovo al mio viso per un secondo fugace bacio. Lo fermai di nuovo. - Lucidalabbra! - ricordai. Fece una smorfia strana con le labbra, e sbruffò, stringendomi di nuovo al suo corpo, incamminandoci sul marciapiede.
Il rumore nella strada erano delle auto, del rumore delle persone che parlavano nei negozi e nei locali, e i miei tacchi che rimbombavano.
- E' lontano? - domandai, incespicando ogni tanto tra i ciottoli. Alzai lo sguardo un attimo da terra, per fissarlo, mentre controllava ogni vetrina del negozio che passavamo. Quando picchiettai la mano sul suo petto, si voltò a guardarmi, e mi indicò il ristorante. - Eccoci - disse, avvicinandosi alla porta. Prima che potesse aprirla,  qualcuno più gentile lo fece per noi. - Salve, benvenuti al Carlo's Restaurant! - esclamò il ragazzo sorridendoci. Jensen da gentiluomo mi fece avanzare per prima, fissando la maestosa sala da pranzo dove qualche commensale stava già cenando. Una musica lirica soave tuonava dalle casse al muro, ma sembrava così reale che un'orchestra stesse suonando Verdi.
- Posso avere i vostri cappotti? - chiese gentile il ragazzo dopo che accompagnò la porta piano alla chiusura, e si porgeva verso di noi con un braccio esposto.
Gli lasciai il mio scialle, e aspettai che Jensen togliesse la giaccia. Lo fissai mentre faceva scivolare quest'ultima nel braccio del ragazzo, e una banconota di dieci dollari nel taschino della giacca nera.
- Grazie Micheal, a fine serata spero di vederti di nuovo! - dissi Jensen, facendogli l'occhiolino. Il ragazzo sorrise felice al mio uomo, mentre mi spingeva davanti al maître che ci attendeva dietro ad un bancone. 
- Un tavolo per due, signori? - domandò alzandosi.
- No, ho prenotato a nome di Ackles! - disse sorridendo al calvo occhialuto signore, sorridente. 
Troppo sorridente. Jensen conosceva già quel signore. Jensen in realtà conosceva tutti loro. C'era già stato e chissà con quante altre ragazze. La mia pancia protesto per la gelosia, ma anche per la fame imperiosa. Chi contrastava cosa?
Fissai la sala e notai solo allora, che in alto, su un grande palco costruito a muro, una piccola orchestra accompagnava una donna ed un uomo elegantemente vestiti, mentre cantavano in lirico un'altra opera che questa volta non riconobbi.
Quando Jensen mi si avvicinò, facendoci accompagnare dal maître al nostro tavolo, non potetti non chiedergli alcune cose del tipo: "Conosci già questo posto?"; "Ci sei già stato?"; "Con chi?"; "E' un'orchestra vera quella?"; "Jensen perché tutto questo?". Si limitò semplicemente a spostarmi la sedia, facendomi accomodare, mentre dava consenso al maître di farci portare un vino del 1980. Cosa? Vino del 1980? Era pazzo? Sapeva quando costava un vino di quell’annata?
- Ti facevo uomo da birre! - dissi a bassa voce, sporgendomi verso di lui, dall'altra parte del tavolo.
- Constati troppo... - mormorò, appoggiando una mano sulla mia.
- Scommetto che sarà una lunga serata... - mormorai, guardandomi intorno, notando diverse coppie di uomini e donne che parlavano elegantemente in vestiti da sera lunghi e costose bottiglie di vino, metà piene.
- Già, lo penso anch'io... - disse, facendomi l'occhiolino.
 
- Ahahahah, non mi dire... cioè... - non potetti riuscire a trattenere la risata così fragorosa. Ormai era l'una inoltrata. Di persone nel locale ne erano restate ben poche: io, Jensen, i camerieri, il maître e l'orchestra che stava ormai smontando, mentre il resto puliva.
- Cioè, tu con i tuoi fratelli addosso a fare le capriole. Cioè eri così muscoloso già da bambino, cavolo! - dissi, stringendo i muscoli della sua braccia tra le mie dita, mentre mi stringeva a se, in uno stretto braccio, seduta sulle sue gambe. 
- Io amo i miei fratelli! Sono la cosa più cara che ho! Ci sentiamo quasi ogni giorno... se non ci parliamo, ci scriviamo un messaggio. Io amo la mia famiglia... - mormorò, baciandomi il capo, afferrando poi la bottiglia di birra, si, birra, l'aveva presa dopo il primo bicchiere di vino. Non era fatto per lui. La birra era la sua bevanda preferita. La sua donna! Dopo l'Impala. E dopo la birra me. Io ero al terzo posto, purtroppo.
- Stavo pensando... - sussurrai, appoggiando il capo sulla sua spalla, stanca, con un po' di mal di testa. "Il troppo vino", penso la mia ragione.
- Oh, tu pensi?! - esclamò il mio Jensen, ridendo. Sghignazzai dalle risa sottovoce. Gli diedi una pacca sulla spalla, e il suo gesto poco dopo mi travolse letteralmente.
Fischio e chiamò l'attenzione di tutti, in particolare di uno dei violinisti. - Suonaci un valzer per favore Francis! - esclamò, stringendomi a se nella posa da ballo, mentre lo fissavo terrorizzata.
- Non riesco a connettere Jensen, il valzer...no! - sbottai, cercando di tenermi in piedi, con i piedi che pulsavano. - Jensen! - esclamai quando inizio a piroettare a passo di musica.
Non gli stetti dietro per niente, inciampai e me lo strattonai dietro, cadendo in ginocchio per terra. Urlai in preda al dolore. 
- Cosa c'è? - domandò preoccupato. Il piede pulsava fiamme. Un dolore si propagò dalle dita al polso. Le lacrime mi rigarono la faccia. - Il piede - singhiozzai dal dolore.
Ed ecco che un momento di serenità e di pace, era stato trasformato in un perfetto e schifoso finale di primo appuntamento dalla sfortuna che mi era incollata dietro le spalle.
"Qui Sfortuna"
- Ti porto all'ospedale! - sussurrò, prendendomi in braccio.
 
Aprii la porta di casa sua infuriato e depresso, mentre mi lasciava andare delicatamente sul divano, coprendomi con una coperta le gambe nude.
- Cazzo, cazzo, cazzo! - mormorò afferrando i capelli che gli cadevano in fronte, e scavando avanti e indietro nel salotto di casa, una fossa profonda un metro.
- Jensen? - lo richiamai piano. - Spunterai al piano di sotto fra un po'... senti... - sussurrai, quando si sedette di colpo ai piedi del divano, fissando un punto non lontano dal mio viso. - Se vuoi chiamo un taxi, anzi lo faccio subito e... - cercai di afferrare la borsetta dal mobiletto di fronte al divano, ma prima che potessi ruzzolare giù, Jensen l'aveva già presa, sequestrandomela.
- No, tu resti qui, per stanotte resterai qui. Non preoccuparti... e per favore, non dire nient'altro! - mormorò, alzandosi e raggiungendo la sua stanza da letto. Scossi la testa,  preoccupata e chiudendo gli occhi per la stanchezza e lo shock del dolore e della sorpresa, i flashback della serata si crearono veloci.
 
~inizio flashback~
 
- Non puoi capire come li adoro! Sono i miei dolcetti gommosi preferiti. Gli orsi mi odierebbero se lo sapessero! - sussurrò, con sguardo divertito.
- A me piacciono le fragole, il cioccolato, e la crema pasticcera con la panna! Il mio dolce preferito... mmh - ci riflettei mentre giustappunto arrivava il dessert.
Bignè ripieni alla crema. 
- Cosa? - domandai sorpresa, fissandolo accusatorio. - Ho avuto una soffiata... - sussurrò, prendendone uno, porgendomelo. 
Non lo afferrai con le mani, avvicinai le labbra alle sue dita, e al dolce, dando un piccolo morso alla soffice pasta bignè, e al ripieno che mi sporcò le labbra. Le dita del ragazzo corsero a raccogliere la crema che si era sparsa sulle mie umide labbra, e restai scioccata quando eccitata all’idea di quella lingua che puliva la crema dalle sue dita stesse.
- Io amo il cibo italiano. Il caso è chiuso! - disse, sensuale.
- Sei un porco Jensen! - 
- Mmh! Chi ha parlato... - la pedata alla gamba che gli girai, fu indispensabile.
- Ahi! - squittì dolorante.
 
~fine flashback • inizio flashback~
 
- Io abito in un piccolo paesino di provincia. Fulgente è un paese stupendo. Dovresti vederlo. E' una collina, se sali sul punto più alto della città, la vedrei distesa su un lato, mentre dall'altra lato della piccola montagna vedrai verde, e giallo, e marrone. I colori della campagna, dei piccoli boschi, dei laghi dove ci sono... secondo me quel posto ti piacerebbe tanto. Il Texas è un paese simile no? C'è tanto verde o sbaglio, Jen? - sussurrai, incrociando le mani sotto il mento, fissando il suo sguardo perso nel vuoto.
- Cosa c'è? - domandai preoccupata.
- Ti manca la tua famiglia non è così? - domandò, spostando il suo sguardo nel mio. Quella domanda mi colpì in pieno petto. Solo allora mi resi conto di come avevo parlato della mia città. E di come mi mancasse.
- Non... - non sapevo cosa dire. Mi aveva un attimo spiazzato. Nel vero senza della parola. - Io... - . - Raccontami di loro... - mormorò, portando una mano sul viso, accarezzandomi dolcemente.
- Mio padre... - 
 
~fine flashback • inizio flashback~
 
- Così ho iniziato ad avere la passione della fotografia nella natura. Ragnatele, gocce d'acqua, la piccolissima particella del bosco era catturata da quell'obbiettivo. Non so quando volte ringraziai nonno quel natale. Non dimenticherò facilmente quell'annata. Fu il più bel natale di sempre! - sussurrai, pensando al mio dolce nonno. Chissà come stava?
- Anch'io quando mia sorella qualche anno fa mi regalò la mia Canon provai le tue stesse emozioni. Io amo il natale, amo quella festività! Insomma, se mia sorella mi avrebbe fatto trovare un po' di cacca di cane, l'avrei accettata comunque... a Natale si è tutti più buoni! - disse ridendo. 
Riuscii a contagiarmi. Come sempre...
- Jensen, sia chiaro. Non voglio la pupù di cane nel mio regalo di Natale eh?! - 
- Mmh... ci farò un pensierino! - 
- Jensen! - esclamai innoridita.
 
~fine flashback • inizio flashback~
 
- Tu credi in Dio? - domandò d'un tratto.
- Io credo – sussurrai semplicemente.
- Anch'io... – mormorò sorridendomi.
 
~fine flashback • inizio flashback~
 
- Non avrei dovuto... cazzo, sali in macchina! - sussurrò, nascondendomi il viso dietro la sua giacca, mentre alcuni paparazzi scattavano fotografie con le loro macchine fotografiche. Mi nascosi il viso bagnato di lacrime, mentre Jensen inseriva la prima, sgommando via da quel parcheggio.
- Mi dispiace, non credevo... scusami! Cazzo! - urlò pieno di rabbia, accelerando di colpo dritto all'ospedale.
 
~fine flashback~
 
- Ehi, svegliati El. Ti metto a letto - sussurrò qualcuno nel mio sogno. Aprii gli occhi lentamente, e li socchiusi piano per richiuderli. Ombre sfocate mi comparvero davanti.
- Ssh, è tutto apposto. Ci sono io qui... su alzati! - mormorò la voce dell'angelo.
- Mmh. No, è...tutto...o-okay! - mormorai. Mi voltai tra le braccia di qualcosa… morbido.
- Si, lo so amore. Ho capito - un risata, mi fece aprire gli occhi, e trovai il viso di Jensen a pochi centimetri dal mio. - Mi... mi, mi... - 
- Cosa? Dormi, piccola! - mi sorrise, lasciandomi un bacio sulla fronte, mentre mi appoggiava su qualcos'altro di morbido. Fresco, pulito e odorante di menta e dopobarba. - Jensen, oddiaaah... - sbadigliai, stringendolo tra le braccia.
- Questa è bellissima! - sghignazzò qualcuno, poi sentii un rumore strano. Click.
Mi voltai di scatto, sveglia, vigilante.
Vidi Jensen fermo in mezzo alla stanza, serio. Cercai cosa stessi abbracciando e vidi il cuscino il mezzo al letto. Ritornai a fissare Jensen sonnolenta. “Chi era?”.
- Cosa c'è? - domandò con voce seria. Mi cercai attorno, notando se ci fossero ancora paparazzi. Ma non c'era nessuno. Alzai una mano, facendo il gesto a Jensen di avvicinarsi. La sventolai su e giù.
- Sono qui - appoggiò le braccia attorno a me, sul materasso, sporgendosi appena sopra di me. In canotta e pantaloni di tuta, era fresco di doccia. Perché mi sentivo fresca di doccia anch'io? 
- Cosa c'è? Beth è tutto apposto... - sussurrò, avvicinandosi al mio viso, lasciandomi un bacio fugace sulle labbra. Ricambiai il bacio, guardando le sue labbra... forse un po' imbambolata, perché me lo fece notare.
- Hai sonno, dormi... - sussurrò, facendomi pressione ad una spalla, facendomi stendere. Uno sbadiglio improvviso mi colse, facendomi poi stiracchiare languidamente sulle lenzuola fresche. 
- Resta - mormorai, stringendo di nuovo Jensen tra le braccia. Stavolta più caldo e duro del solito. Prima di chiudere gli occhi del tutto, vidi il suo braccio allontanarsi per posare qualcosa sul mobiletto.
- Cos'era? - domandai con voce impastata.
- Il telefono, controllavo l'ora... - 
Chiusi gli occhi e non capii più nulla. Fu la mia ragione ancora sveglia a far parlare le mie labbra e la mia bocca.
- Lo so cosa hai fatto - e la mia mano stanca comunque, gli lasciò uno schiaffo sul petto.
E qualcuno rise di nuovo piano, forse ancora gli angeli... o semplicemente l'angelo accanto a me.
 
 
 
*spazio autrice*
 
Salve :)
Intanto mi scuso se ho postato solo adesso, ma sono stata impegnata tra le vacanze e la scuola e tutto il resto (tra cui la scrittura di quasi tutti i capitoli, ripeto la scrittura quindi la stesura di quasi tutte le trame che avevo scritto per ogni capitolo ;D)…scusatemi ancora comunque! D:  Ma passiamo ai commenti del capitolo.
In questo capitolo non c'è molto da dire. Lo avrete notato anche voi. Un capitolo di passaggio, di racconto, insomma ci fa vedere la nostra coppia: Elisabeth e Jensen che hanno il loro primo appuntamento. 
A inizio capitolo abbiamo avuto una new entry: Kelly e la piccola Elena. Sapete io adoro i bambini, e diciamo che dopo Aurora, Elena ci sta d'incanto. 
Per il resto Kelly resterà Kelly, insomma la ragazza madre che sa tutto della vita, aiuterà spesso Lizzie, e comparirà quasi sempre in ogni capitolo. Si spera...
Per il resto la cena è andata come è andata... :D Non l'ho descritta per filo e per segno perchè penso che quando si scrive un FF sia la scrittrice a impersonarsi nel "Nuovo Personaggio" e che sia lei a chiedere “determinate cose” e soprattutto a conoscere l'attore. Non so se mi sono spiegata bene, ma volevo che ognuna di noi facesse le proprie domande all’attore di cui tratta la FF, aspettando una sua risposta a modo di chi le pone... 
I flashbacks mi sono serviti a quello. Ho descritto semplicemente alcune parti della cena, salienti e importanti per la storia. Spero che vi siano piaciute. In un modo o nell’altro hanno raccontato quello che Jensen ed Elisabeth amano di più…soprattutto Jensen, visto che ho riportato quello che veramente a lui piace o ama fare. Tipo i dolcetti a forma di orsetto gommosi. Il cibo italiano (pennette alla matriciana), poi che è molto religioso e credente, che ama la sua terra e il Natale soprattutto! 
E si, avete notato altro alla fine della serata. Come ad esempio il problema al piede... e il ritorno a casa... e i paparazzi. Questione che si è appena aperta... è normale. Jensen è un attore, e anche se non tanto famoso, (per me lo è, da chiarire) ha i suoi seguaci e vogliono sapere la propria vita... ed ecco i paparazzi u.u
Lasciatemi questo diritto da scrittore di avere un po' di fantasia... che ne ha ben poca xD
Vabbè, vi aspetto al prossimo capitolo.
E vi ricordo il MISSING MOMENT! Andate a dargli un'occhiata, è importante leggerlo per seguire la storia ;D E se avete notato in mezzo alla storia c’è anche il link dell’abito indossato da Elisabeth per andare a lavoro u.u 
P.S: Ecco qui l'abito che Elisabeth haindossato durante la cena. Una memoria visiva è molto diversa :3 (P.S: Potete trovare quello di Jensen in copertina se ci fate caso ;D)
 
 
xoxo, Para_muse
 
(OMG, i commenti capitolo sono più lunghi del capitolo in se O.o, sorry xD)

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Capitolo 13
*** Choice Wrong ***


Vi dico subito che questo capitolo l’ho scritto in un paio di ore, anche se è corto, comunque non preoccupatevi perchè quelli a seguire saranno moltooooo più lunghi, credetemi e poi perché ormai è facile. E vi ricordo come vi ho detto nel capitolo precedente che ho scritto quasi tutti i capitoli a cui avevo dato vita con delle stesure che avevo fatto in precedenza… i capitoli sono stati ormai decisi e di sotto sarà più chiaro nel dirvi quando saranno ;)
CAPITOLO CORRETTO (non betato)
 
Enjoy, however read this! u.u

 

13 Capitolo
 
Choice wrong

 Mi svegliai come quel secondo giorno dopo che sono arrivata in America, dopo essere tornata a casa dal lavoro in compagnia. Qualcuno che tenevo tra le braccia, morbido, liscio, e fresco al tatto.
Odore di pulito, di barba e menta prevaleva sull'odore di qualcos'altro che forte si stava insinuando nella mia mente, dentro il mio naso, prevalendo il gusto, perché l'acquolina mi salii in gola, e la pancia iniziò a brontolare. Allora arrivarono gli occhi, i muscoli della palpebra ad alzarsi... trovando non un corpo bellissimo e sconosciuto, come quello che avevo trovato mesi indietro.
Era un cuscino azzurro che tenevo tra le braccia strette.
Dov'era Jensen?
Alzai la testa dall'altro cuscino notando solo allora qualcuno ai miei piede che mi contemplava, mentre concentrato scattava qualche fotografia con la sua macchina fotografica professionale.
- Che fai? - mormorai assonnata, cercando la fonte dell'odore di caffè che aveva prevalso sull'odore di Jensen, impregnato sul cuscino. Lo aggiustai, mettendolo al suo posto vicino alla testata, e mi mossi appena, rendendomi conto solo adesso di essere in biancheria intima. Diventai paonazza, stringendo convulsamente il lenzuolo tra i pugni, tirandolo verso di me, cercando di coprirmi nella nudità più assoluta. Jensen dopo aver scattato un'altra foto, un po' imbarazzato e un po' divertito mi sorrise dolcemente.
- Dalle mia parte, appena si è svegli di dice Good Morning Darling, dalle tue invece Bon giorno tisoro - e si mise a ridere, fissandomi, perché la mia smorfia non scappò a nessuno dei due.
Inutile dirlo, Jensen non era molto bravo con l'italiano. Aveva bisogno di ripetizioni, quelle che gli avrei dato la prossima estate o nel periodo di natale... se tutto sarebbe andato da programma.
Così quando Jensen appoggiò la fotocamera sul comodino avvicinandosi a me, mi bacio il capo, e mi porse il vassoio dietro la mia testa, che ancora cercavo.
Un vassoio... stracolmo di roba da mangiare. Tutta preconfezionata, ci avrei giurato. Ma non importava, era il gesto che contava.
- Oh Jensen non dovevi... -gracchiai, strofinandomi il viso, tirandomi su a sedere cercando di coprirmi per bene. Jensen continuò a fissarmi ammutolito, aspettando che dicessi forse altro... ma non aveva altro da aggiungere. Tutto era stato perfetto. Dalla serata precedente, fino ad adesso, era tutto perfetto.
- Grazie Jensen... io ti... - prima che potessi dire altro, prese un pezzettino di cornetto riscaldato e me lo infilò in bocca. Mi stava imboccando come aveva fatto la sera prima. Che galantuomo.
- ...amo. - finii la frase quando finii di masticare. Timida, abbassai lo sguardo quando lui timido mi imitò. Eravamo fatti della stessa materia e non solo... gelosi, matti, lunatici e timidi. Ma stavamo bene così...senza che ci fossero bisogno di parole.

- Farei qualsiasi cosa per te... - mormorò, giocando con i miei capelli, coricandosi dal suo lato del letto. Continuai a mangiare disturbata - ma anche no - dalle sue mani che giocavano con i miei capelli.
Sarebbe stato bello sapere che ogni mattina sarebbe stata quella mattina, che quel letto sarebbe stato un diverso letto, e che la mia mano sarebbe stata occupata da un anello, mentre un bambino nell'altra stanza avrebbe dormito per qualche altro minuto, prima di urlare chiamandomi "Mamma!".
Sospirai un po' rassegnata, un po' sognante.
- Cosa c'è? - domandò tranquillamente Jensen, issandosi su un braccio, guardandomi dritta negli occhi. Lo fissai di rimando, e decisa, gli esternai i miei pensieri.
- Stavo pensando ad una casa tutta nostra... - sussurrai, appoggiando la tazzina di caffè sul vassoio, togliendomelo dalle gambe, appoggiandolo di nuovo sul comodino accanto alla mia parte di letto.
- Una casa tutta nostra... - disse più che domandare. Affermò più che chiedere di nuovo. Lui sapevo di cosa stavo parlando. Avevamo la nostra età, Rispettivamente 23 e 29 anni, sei anni di differenza, che non pesavano per niente nel nostro rapporto. Ma per la nostra famiglia, soprattutto nella mia sarebbe pesato eccome. Avrei già immaginato mia madre dire: "E ancora non ti ha chiesto di sposarlo?".
Quell'età si era già in "zona matrimonio" per non dire "potresti già aspettare un bambino"; beh qualche anno o due sarebbe passati prima di averne uno.
Ne ero più che certa!
- Sarebbe bello non trovi? Una cucina tutta nostra... - sospirai.
- Magari in un futuro... - sussurrò lui, abbassando lo sguardo, giocando con un lembo di lenzuolo.
Il mio sguardo si perse nel vuoto, cercando di immaginare quel futuro... di cui non mi prospettavo ancora nulla di preciso...
- Con dei bambini... - mi scappò di slancio, non rendendomene conto. Jensen alzò la testa sull'attenti. - Per quelli magari un paio di anni... - balbettò preoccupato. Sorrisi dolcemente, e gli accarezzai la testa, scompigliandogli i capelli: - Magari con un matrimonio alle spalle prima di quelli... - dissi, alzando un sopracciglio scettica.
- Magari potremmo iniziare con quello tra un paio di anni... - concluse, avvicinandosi a me, baciando il labbro inferiore in una piccola morsa tra le sue.
- Magari ancora prima con un fidanzamento ufficiale... - iniziai di nuovo, stringendo il suo viso tra le mani.
- Con un po' di pratica da un fidanzamento “meno ufficiale”. - concluse lui.
- Scoprendo la convivenza... - dissi, baciandolo lentamente, in un altalena progressiva di baci lenti e veloci.
- Quella che già faccio ogni santo giorno della mia vita, sopportandoti anche al lavoro. - concluse, mordendomi il labbro forte. Cercai di trattenere un sorriso mentre gli voltai un leggero schiaffo sul viso.
- Stupido - mormorai, appoggiando la fronte sulla sua.
- Scema - .
- Cavallo - .
- Scimmia - .
- Prugna - .
- Secca - .
- Coglione - .
- Puttana - .
- Ti amo -, sussurrai chiudendo gli occhi, sorridendo felice.
- Anch'io - , gracchiò, occupato ad importunarmi...
 
Ci dirigemmo verso la sala riunioni dove Mr. Singer o Mr. Robert ci aveva chiamati, mandandoci un sms sul nostro cercapersone. Jensen ed io avevamo appena finito di prenderci a cuscinate, dopo che le coccole si erano esaurite in un: "Il tuo alito puzza di caffè" - "Mentre il tuo, mio caro sa di menta troppo finta" - "Almeno il mio è fresco e pulito!" - "Mi stai dando della sudiciona" - "Non l'ho mai ammesso, mia cara!" e la sua faccia non era delle più serie.
Che stupido.
Ci eravamo vestiti, o meglio, lui si era vestito nel suo cambio giornata, io mi ero vestita con l'abito della sera precedente, perciò ci era toccato passare da casa mia, o meglio da casa di Jessica, così mi sarei cambiata.
Era salita veloce in casa, aprendo e facendo entrare e accomodare Jensen, pregandogli di accendersi un po' la tv, così non si sarebbe annoiato.
Io avrei dovuto fare una doccia per togliermi un po' la sensazione "mi sento ancora a letto", perciò mi feci una doccia veloce, e inforcai i primi vestiti che trovai nell'armadio: maglia nera, giacca di pelle, leggins e miei adorati stivali, mentre un foulard che dava colore, lo attorniai velocemente al collo, strozzandomi solo per poco.
Poi corsi al bagno, aggiustandomi il trucco e mi ritrovai a correre in soggiorno quando sentii la voce di Kelly poco prima, quando ero in camera. Mi fermai giusto appunto dietro di lei, che interdetta fissava Jensen a terra, dove lo scoprii giocare allegramente con la monella Elena. Anzi mi correggo la stregata Elena, che giocava con le manine ad un gioco strano insieme ad uno ragazzo allegro, premuroso e attento che la bambina di fronte a se non si facesse male.
- Oh - sospirai, riempiendomi il cuore e la mente di quelle stupende e bellissime immagini.
- Non ci posso credere neanche io... - sussurrò Kelly, voltandosi a fissarmi. Fece un passo indietro, affiancandomi e iniziò a parlare, distraendomi giusto un po'.
- E' strano che lei si comporti così... - sussurrò con voce emozionata, - non lo fa con me, ne con mia madre, ne con mio padre, ne con mia sorella... praticamente non lo fa con nessuno. Giocare e ridere tranquillamente senza agitarsi tanto, o fare la bambina cattiva. Non che lo sia, ma quando si ci mette... - singhiozzò appena e mi voltai a fissarla stupita. Kelly stava piangendo, e non capivo bene il motivo. Il mio cuore alla vista di quella scena si stava colmando di così tanta dolcezza, mentre Kelly continuava a trattenere le lacrime.
- Cosa c'è? - domandai preoccupata.
- E' solo che secondo me... secondo me Elena risente della mancanza di un padre, e non sto a dirti "ti prego prestamelo per sempre", sia chiaro... - rise un po' divertita e un po' dispiaciuta. Lo riconoscevo quel sentimento: gelosia.
- Ma ti dico solo una cosa: non farti scappare un ragazzo di questo tipo! Non ne troverai altri come lui...è speciale, sarà un ottimo padre, ci scommetto! - disse, appoggiandomi una mano sulla spalla, mettendo più enfasi a quelle parole.
E non potetti a non pensare a quanto avesse ragione.
- Jensen, dobbiamo andare! - lo richiamai tristemente.
 
- Elisabeth ci sei? -mi richiamò Mr. Singer, facendomi tornare al presente, in quell'attimo, in quell'istante.
- Si mi scusi... - sussurrai distratta, voltandomi a fissare Jensen sedutosi alla mia destra. Lui si voltò e mi sorrise piuttosto nervoso. Gli afferrai una mano stringendogliela, cercando di tranquillizzarlo.
- Allora dicci Robert... - borbottò Jensen, muovendosi inquieto sulla sedia. Mr. Singer si occupò a prendere la valigetta da terra e a poggiarla sul tavolo di vetro, mentre usciva una cartella con scritto qualcosa sopra, solo allora entrò Mr. Kripke, il creatore di Supernatural. Ci alzammo. Con Jensen si scambiarono una semplice pacca sulle spalle, mentre con me una generosa stretta di mano. Tornammo a sederci e a rivolgerci di nuovo con Mr. Singer che preoccupato aprii la cartella e ci porse qualcosa di stampato.
Prima di poter abbassare lo sguardo sul foglio notai Mr. Kripke porgersi verso Mr. Singer e parlare a bassa voce, spiegandogli qualcosa di alquanto importante, perché notai Robert - come voleva che lo chiamassi - annuire continuamente. Quando la discussione fu finita, prima di farmi beccare ad origliare e spiare labiali, abbassai lo sguardo vedendomi in foto.
Restai più che sotto shock. La mano di Jensen tra le mie divenne fredda e stretta in quella morsa.
- Io. Posso. Spiegare. - Jensen parlò per primo, appoggiando il foglio sul tavolo, e porgendosi a parlare con i due uomini seduti di fronte. Lessi velocemente l'articolo che riportava la serata che avevamo appena trascorso più di qualche ora fa.
 
Jensen Ackles in dolce ed ubriaca (forse) compagnia…
 
100 % Verità - Ebbene si care fans di Supernatural, avete capito bene. Il nostro tanto figo e bellissimo attore Jensen Ackles alis Dean, fratello maggiore del dolce Sam, in Supernatural (serie tv)ieri sera in Vancouver, a tarda serata è stato fotografato dai paparazzi in dolce compagnia. La ragazza in questione mora, dal bello aspetto, tutta in tiro, è stata invitata a cena da Jensen, che in pausa per qualche giorno dalle continue riprese in città.
Non ci è dato sapere come si siano conosciuti ma la serata prometteva grosse risate dalle foto divertenti che ci hanno mandato. Un Jensen ballerino e medico, poi si è subito preoccupato di portare la sua dama in ospedale per una caduta accidentale durante il ballo - una che non si da allo sport o che si da alla birra?
Purtroppo Jensen all'uscita dal locale italiano (possiamo prenderlo come un suggerimento dell'origine di lei?) si è scagliato con i paparazzi come potete notare dalle foto, ma non è finita qui, perché della ragazza abbiamo qualche notizia in più.
Non di origine americana, si è capito, Elisabeth - il nome della ragazza - non è semplicemente la donzella dell'attore ma anche la fotografa sul set della serie tv di cui lui ne fa parte. Intrighi di amore sul set di Supernatural dove non mancano le amicizie con Jared Padalecki - attore e amico di Jensen - che ha aiutato la ragazza ad entrare nelle grazie dell'amico, perché "troppo impegnato in tutt'altra relazione", così ci ha detto una fonte vicina a loro.
Sarà una ragazza di facile apporto? Chi lo sa, siamo riusciti a trovare suoi contatti, e non ce li faremo scappare, intanto possiamo tenerla d'occhio su twitter, il social network dei vip... lo sarà presto anche lei? Chi lo sa... intanto possiamo confermarvi che sono andati a casa di lui a fine serata, e che il piede di lei non era nulla di che a parte "un graffietto con un po' di sangue", dice la fonte in ospedale che ha riconosciuto l'attore.
Speriamo in bene ed auguriamo a Jensen: "Buona Fortuna all'inferno Dean!".

 
Restai a bocca aperta.
- No Jensen non ha senso, insomma ho ben chiara l'idea. So che sono stati Matt e Luna, sicuramente!; ma non possiamo incolparli perché anche voi ve la siete cercata... - disse Robert, gesticolando con le mani, imputandosi su quello che avesse detto Jensen, e che io ovviamente non sentii perché troppo occupata a leggere quelle porcherie.
- Mr. Singer, Robert! La prego è stata colpa mia! Non prendertela con Jensen... rimedierò a tutto io! - dissi autoritaria, alzando la voce, facendomi sentire tre le loro voci alte. Mr. Kripke si fece catturare dalla mia attenzione.
- Ascoltate come prima cosa mi cancellerò da twitter e... - prima che potessi parlare Jensen annuii, mentre Robert mi fermò.
- No, non puoi più farlo! Affermereste solo il vero! - disse facendomi ragionare, e non avendo tutti i torti naturalmente. Non seppi più cosa dire, perciò alzai le spalle in un sospiro amaro, abbandonandomi sulla sedia su cui ero seduta.
- Forse ho un'idea - pronunciò Mr. Kripke, attirando questa volta la mia attenzione.
 
- No! Non se ne parla, tu non andrai a New York! -, urlò Jensen, quando la porta di casa sua fu chiusa. Mi guardai a torno e non trovai nessuna conferma che Jared fosse a casa perciò lo feci urlare quando volesse.
- Non ci andrai, io non te lo permetterò! Non ha senso, te ne vai e ti fai vedere con qualcun'altro? Chi l'attore di questa nuova serie tv?! E' assurdo sul serio! - urlò scagliandosi contro il tavolo della cucina, sbattendoci forte le mani.
- Manderò una denuncia a quei cazzo di paparazzi! Si che lo faccio, cazzo! Non possono permettersi... no, no, no! Querelerò chiunque abbia scritto quell'articolo del cazzo! Si che lo faccio, lo farò a pezzettini! - sbraitò, stringendo il bordo del tavolo in una morsa stretta. Mi preoccupai, stringendomi le braccia intorno al corpo, un po' spaventata e colpevole.
Era tutta colpa mia... perciò mi presi un po' di coraggio, avvicinandomi a lui, piano.
- Jensen? - lo richiamai a voce bassa, avvicinandomi ancora di più alle sue spalle. Quando arrivai proprio ad un passo di distanza, allungai una mano sui muscoli della spalla, che fremevano per il forte respiro che prese quando appoggiai definitivamente il palmo, facendolo scorrere giù sul braccio fino alla mano stretta intorno al tavolo.
- Ti farai male, e starai male se non ti calmi... lascia andare il tavolo, e prenditela con me ti prego. Lui non ti ha fatto niente... - sussurrai, cercandolo di farlo voltare, per farlo ragionare, per farlo calmare...
Si voltò lentamente, gettandomi uno sguardo un po' più rilassato ma accigliato.
- Spiegami come possa essere colpa tua El!? Dimmelo tu perché è da questa mattina che non lo capisco, sul serio! - borbottò, afferrandomi il viso in una morsa, avvicinandomi a se.
- Jensen - lo richiamai, cercando di liberarmi dalla sua ferrea presa. Dentro di me, montò la paura vera.
- Devi smetterla di accusarti di tutto okay?! - esclamò con voce severa, non mollando la presa. Il suo sguardo era pieno di ira e di... gelosia? Si, era quella.
- Fai un passo falso a New York e... - non finii la frase, accorgendosi forse solo ora che stavo piangendo.
Perché stavo piangendo? Mi accorsi solo ora anch'io che stavo piangendo e non capivo il motivo... forse solo uno. Mi stava facendo male, e quel male mi ricordava tanto lei, la mia ex migliore amica.
- Mi... f…ai mal...e - boccheggiai presa dal panico. Jensen mi lasciò immediatamente andare, allontanandosi da me. Le mie ginocchia cedettero mentre gli spasmi si intensificarono in tutto il corpo, facendomi cadere a terra, singhiozzando.
Non mi spaventai quando ritornò e mi strinse a sé, perché sapevo, che non stava facendo apposta.
Sapevo che a Jensen l'idea di New York non piacesse. Non piaceva nemmeno a me, ma era per il nostro bene.
Ed era solo qualche misero giorno, lontano da casa...lontano da lui.
Non saremmo impazziti per gelosia, vero?
 
 
 
*spazio autrice*
 
Lo so, di solito non posto così velocemente ma sapete com’è ho quasi tutti i capitoli pronti :D
Come vi dicevo sopra, di seguito trovare tutte le info sui capitolo ormai stesi:
Tutti i capitoli, più una Missing Moment che sarà postata dopo l’epilogo e più forse qualche altro MissMom (non sono sicura, prendete per le pinze un terzo Missing Moment)… in tutti i capitoli saranno: 22 CAPITOLI + EPILOGO [+ 2 MISSING MOMENT (una già postata, e una sarà finale)].
IN TOTALE: 25 Capitoli!
Siete felici? Siamo giunti quasi a metà storia, e ancora non avete visto cosa ci aspetta u.u non dico altro perché spesso i capitoli comunque possono subire qualche cambio di programma, quindi, prendete con le pinze anche i 25 capitoli xD perché io sono una donna incerta ecco u.u
Spero non succeda nulla, incrociate le dita per me.
Poi… passiamo a questo capitolo. Avete ben capito che i nostri beniamini si sono messi nei guai, e purtroppo non sanno come uscirne fuori… bhè ci ha pensato Mr. Kripke (creatore della nostra adorata serie tv) che ha aiutato i ragazzi invitando Elisabeth a fare un salto a New York City dove l’aspetta un’altra serie tv che darà gran successo…chissà chi di voi ci arriverà… io un indizio alla fine del capitolo glielo messo… vediamo un po’. Scommetto che la mia Sammy lo capirà subito! u.u ahahaha immaginerò le vostre facce al prossimo capitolo 8D
Ci vediamo al prossimo spero… dico spero perché la scuola… è la scuola -.-
 P.S: Sapete quando ami la moda, quindi eccovi i capi che Elisabeth in questo capitolo ha indossato:




Xoxo Para_muse


 

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Capitolo 14
*** G.I.T = Get Into Trouble, Brava Elisabeth! ***


Questo capitolo purtroppo è correto ma non betato D: Ormai fateci l’abitudine. Per il resto comunque, vi avviso che a tre quarti di storia c’è un link musicale che vi consiglio di ascoltare ;D 
 
Enjoy, read this!

 
14 Capitolo
 
G.I.T = Get Into Trouble, Brava Elisabeth!
 
Dopo quella sera di cedimenti e lacrime di rabbia, Jensen mi aveva lasciata a letto, addormentata, sfinita per quella giornata ormai passata e da dimenticare. Lui era andato via, con l'intenzione e la promessa di riuscire a risolvere tutto a modo suo, cioè non mandandomi a New York e facendo querela ai paparazzi.
Cosa che Mr. Kripe non permise per nulla al mondo.
Il giorno dopo, quando tornammo al lavoro, come ultimo mio giorno di lavoro - per ora - agli studios, venni sostituita per quella settimana dal mio assistente, come sempre, poteva capitare che io fossi ammalata e che lui prendesse il mio posto. 
A Mr. Robert non andava giù, ma era per il nostro bene. Così aveva detto.
Perciò adesso ci ritrovavamo davanti ad un birra ciascuno, seduti chi sul divano, chi per terra sul tappetto, nel salotto di casa Padalecki-Ackles. La radiò strimpellava i Kansas, Carry On My Way Ward Son.
Mi metteva un po' tristezza in quella silenziosa stanza. Sembrava avere un significato quella canzone verso i miei confronti. E mi metteva un po' in soggezzione. Ringraziavo solo Dio che nessuno dei miei tre migliori amici mi stesse facendo la paternale o predica come faceva un genitore ad una figlia, come aveva fatto mia madre qualche mese addietro.
Posai la bottiglia di birra quasi in tatta sul tavolino di fronte al divano, e lentamente mi avvicinai a Jensen che seduto dall'altra punta di divano, se ne stava silenzioso, battendo il piede a ritmo di musica, arrabbiato, senza nessun dubbio.
Mi strinsi al suo braccio destro, cercando un po' di conforto nel suo calore. Ma non fu così, il suo fu un semplice borbottare tra sè, restando fermo. Prima che potessi appoggiare la testa sulla sua spalla, vi appoggiai il mento, fissandolo al viso, agli occhi, cercandolo. Dov'era il mio dolce Jensen?
- Ehi? Per favore, guardarmi... - sussurrai, alzando una mano dal groviglio di dita intrecciate che avevano avvolto il suo braccio. Avvicinai lentamente le dita alla mandibola sfiorando lentamente i piccoli peli della barba che gli stavano crescendo.
- Ehi tesoro, sul serio, guardami! - gli ordinai a bassa voce, facendo forza con le dita, attirando la sua attenzione. Abbassò appena lo sguardo sul mio e restò a fissarmi per un lungo tempo, in silenzio. Poi si decise a parlare, non prima però di aver avvicinato la bottiglia di birra alle labbra, bevendone un sorso.
- Cosa c'è? - domandò a voce bassa, mentre un'altra band dall'aria tutta rock, suonava alla radio, passando per la stazione Canadese.
- Non rivolgerti così con me, ti prego, è solo che... puoi regalarmi un sorriso? Non voglio andarmene... - non mi fece finire di parlare, le sue labbra si allargarono un attimo, disegnando un sorriso poco sincero, ritornando poco dopo nella smorfia iniziale.
- Jensen, non prenderla in giro, suvvia... ha ragione - Jessica sbruffò di noia, alzandosi da terra, dove vi era stiracchiata insieme a Jared, coccolandosi un po'. 
Fu quando parlò che attirò la mia attenzione, mi scostai appena da Jensen, voltandomi a guardarla con sincero auspicio.
Lei mi sorrise e invitò un sonnolento Jared ad alzarsi e a fare un po' di casino.
- Okay, diamoci dentro gente! - alzò la musica al massimo, afferrò Jensen per un braccio e lo strappò dalla comodità del divano. - Amico muovi quel culo piatto che tieni! -. 
Jensen non si fece scappare un'imprecazione, ma posò la bottiglia e afferrandomi per un braccio mi strinse a se, con le sue forte braccia.
- Balliamo, per bene questa volta... - mormorò, avvicinandosi al mio viso, lasciandomi un dolce bacio, che sapeva di birra, sulle labbra di una me stessa al quanto scioccata.
"Che lunatico", pensai, non certo tanto contraria, visto che mi somigliava sempre di più. Lo ero anch'io, lo sapevo, ma era un vizio preso dalla famiglia.
Eravamo tutti un po' lunatici.
- A cosa devo questo cambiamento Jen? - domandai sorrindendogli teneramente, stringendo le braccia intorno al suo collo. Mi sorrise lentamente, e i suoi occhi sbattichiarono più di una volta, piano. Come se avesse sonno.
- Sei stanco... - sussurrai, avvicinandomi al suo viso, appoggiando la fronte contro la sua, che si era abbassata, al resto della testa, ciondolante.
- No, sono solo... un po' triste ecco tutto... - borbottò piano, con voce tremante.
I brividi mi pervasero tutta. Era triste. Lo ero anch'io, senza ombra di dubbio, ma... non doveva essere così. Perciò presi un bel respiro, e dondolando tra un piede e l'altra, cercai di sistemare tutto.
- Jensen, - iniziai - non devi essere triste. E' per il nostro bene, insomma Mr. Kripe e Mr. Robert lo fanno per noi. Lo sai è... -.
- Elisabeth... - mi cantilenò, evitando che continuassi.
Scossi la testa sorridendo divertita.
- Okay, non è colpa mia, hai ragione tu, ma è solo per il nostro bene. Ed è solo una settimana! Faremo il conto alla rovescia... come facevo una volta io... prima che venissi qui, e incontrassi te, amore mio... - sussurrai timidamente. Abbassai la testa, nascodendo gli occhi lucidi. La nascosi sul suo petto, protteta tra le sue braccia.
- Ehi, honey! - mormorò all'orecchio, stringendomi forte, nascondendo il suo viso, nell'incavo del mio collo. Le mie braccia, scivolarono, fin quando le mie dita non strinsero forte i suoi capelli di seta morbidi. Adoravo i suoi capelli. 
- Jensen ricordarti che ti amo! - sussurrai piano, trattenendo i singhiozzi. Strinsi forti gli occhi, reprimendo le lacrime. 
Che stupida che ero stata.
- Ehi, tranquilla, ti amo anch'io... ma... - quel ma, borbottato appena, mi fece risvegliare, e prendendo un bel respiro, mi ritrassi un po' da quell'abbraccio così sicuro.
- Cosa? - sussurrai appena. Il suo sguardo trasparente e vitreo come il mio, mi riflettè i suoi sentimenti come lo erano i miei per lui. Il suo umore non era dei migliori, ma  quando mi mormorò quelle parole poco confortanti non cedetti, perchè sapevo che la gelosia poteva anche esserci in un rapporto, specialmente nel nostro:
- Promettimi che non farai niente di sciocco li in quella cazzo di città. Per favore... promettimelo. Non. Metterti. Nei. Guai. - distanziò parola per parola, mentre il suo discorso poco fluido, usciva dalle sue labbra così perfette.
Così perfette che le preferii alle parole. 
Suggellai la mia promessa con un bacio. E Jensen non si tirò indietro, tergiversò così... con quel bacio, per non scontrarsi con quei suoi umori strani, e quella pazza gelosia che teneva in corpo.
E non era male. A me piaceva avere quelle sue attenzioni. A me piaceva Jensen.
 
- Buon viaggio allora... - sussurrò sulle mie labbra Jensen, nell'abitacolo della sua auto, vicino all'aeroporto.
- Grazie... - risposi, fissandolo, accarezzandolo, impremendomi tutto in memoria. Qualsiasi difetto e perfezione. Perchè l'avrei avuto tra i pensieri sempre, e volevo che fossero i più vividi di tutti dove vi spuntava Jensen. 
Vividi come reale. Come se a New York ci fosse anche lui.
- Sta attenta ti prego... - mormorò, avvicinandosi un'altra volta alle mie labbra, baciandomi prima con dolcezza infinita, lento, piano, senza fretta. 
- Ho... - un bacio, un altro... - ho-un-aereo... che mi aspetta Jensen! - sussurrai, cercando di distaccarmi, anche se con immenso dolore. Jensen mi afferrò il labbro inferiore con i denti tirandolo forte, e poi succhiandolo piano, cercando di alleviare il dolore.
- Mmh - gemetti, stringendolo a me con veemenza. Ero partita in quarta... e chissene!
Jensen, mi strinse a se, tra le sue braccia in una morsa stretta. Mi circondava così bene con quelle sue braccia possenti, che cedetti, e scivolai piano nel suo grembo, a testa in giù, appoggiando quasi la schiena alle sue gambe, mentre le mie braccia si attaccavano al suo collo, che scendeva cercando con le labbra le mie, sorridenti e divertite.
- Jensen chissà cosa... - non potetti, no! Non mi fece parlare nemmeno un altro secondo. Le sue labbra con ardore si unirono alle mie, morbide, dolci come il miele, sfrenate come una droga per un tossico dipendente. Non potevo fare a meno di lui, delle sue labbra, dei suoi gesti, di tutto...
La sua lingua giocava con la mia, si cercavano come i bambini fanno giocando a mosca cieca, eravamo senza barriere. 
Estrema e semplice frenesia.
- Devo andare... - sospirai, tra un respiro e un altro, mischiandosi ai suoi, più affaticati dei miei. - Lo so - mormorò, baciandomi un'altra volta. L'ennessima.
- Adesso... - sussurrai triste, carezzandogli un'ultima voltai i folti capelli biondo scuro, e alzandomi definitivamente, aprii la portiera, e lasciandogli l'ultima occhiata, gli sorrisi scendendo e chiudendo quel primo limite, tristemente consapevole che lo avrei rivisto tra una settimana. 
E dovevo essere forte. Sicuro!
 
- Benvenuta a New York City Miss De Santis! Ben lieta di accoglierla con il mio cast! - disse sorridente l'uomo che teneva ancora con una mano il cartellino:
 
Arrivo da Vancouver: Miss De Santis Qui!
 
Era Mrs. Margo Massey quello a cui avevo stretto la mano. Sorridendogli un po' con il viso sconvolto per le lacrime che mi ero fatta scappare in aereo, le quasi tre ore di viaggio non era passata un granchè. Erano andate, punto!
Atterrata avevo subito fatto conoscenza con il produttore esecutivo di questa serie tv di cui mi ero informata del nome: White Collar. Mister  Margo Massey, produttore esecutivo della serie, mi stava dando il più caloroso dei benvenuti, con il seguito anche il cast.
I miei occhi non si divisero facilmente da due diamanti celesti che sprizzosi di felicità mi sorriso allegro.
- Piacere cara, Matthew Bomer, ma tutti mi chiamo Matt! - mi disse il ragazzo dall'aria fin troppo giovane. Appena trentenne mi avevano ricordato che oggi era una giornata da ricordare. Ero per la prima volta a New York City, la grande mela!
- Dovremmo festeggiare! - disse entusiasta Matt, cirocandomi una spalla con un braccio, mentre trasportava al posto mio la valigia. Mi voltai a fissarlo in viso, ridendo come una demente. Troppo confusa da pensieri e parole che uscivano da loro e da altre forse mille e più persone in quel locale così grande. 
L'eaereoporto Newark International Airport. Ero atterata e già mi sembrava di udire il fruscio del vociare di ogni persona in quella città così enorme, così... sognante.
- E' vero dovresti festeggiare Elisabeth! Lo sai, noi facciamo sempre così con i nuovi attori... tu ci stai simpatica, e penso che potresti entrare nella nostra congrega benissimo! - la faccia divertente e seria di Mr. DeKay, mi fece divertire. Sembrava un po' troppo entrato nella parte del capo di Neal Caffrey, un ragazzo che non sto ad elencare come un brutto ladro, ma un bel ragazzo come Matt, insomma altro che ladro. Lo rubavo io tra un po'...
"Non fare pensieri sconci! Hai un ragazzo!", mi disse la vocina interiore arrabbiata, didantomi come una pervertita!
- Bhè se proprio dobbiamo festeggiare... lasciate che mi sistemi un po' e andiamo in un pub! - dissi, tirandomi indietro dal braccio di Matt, cercando di pescare la valigia.
- Lascia faccio io - disse seriamemente, poggiandomi una mano sulla spalla come un amico. Sorrisi ringraziandolo ancora una volta, e continuammo a camminare tra la folla, fino fuori al parcheggio.
- Eccoci, ci dividiamo. Matt con Elisabeth e me. Tim tu con il resto del cast: Tiffani, Natalie, Marsha andate! - ordinò il produttore esecutivo, invitandomi a salire sul sub, insieme a Matt.
Sentii le ragazze ridacchiare. Chissà per quale ragione. Matt sembrò leggermi nel pensiero perchè gli sentii dire: - Avrà fatto la solita battutaccia... io amo le donne, quando non è così. Ama sua moglie, con tutto se stesso! - disse, sorridendo divertito. Risi, pensando all'unico uomo in mezzo a quelle ragazze che si erano presentante subito cordiali e amichevole.
- Tiffani è sposata? Ho notato la fede... - affermai, indicando l'anulare, e con incoscenza, fissando la mano di Matt, poggiata sul ginocchio sinistro, accanto al mio destro.
- Si, ha avuto da poco una bambina bellissima... - sussurrò, mentre Mrs. Margo saliva in macchina, chiudendosi lo sportello dietro. Si sedette di fronte, e sorridendomi iniziò un lungo discorso più o meno lavorativo, che avremmo dovuto fare in ufficio.
- Ti spiego tutto adesso, così arrivati all'ufficcio faremo subito le prime foto prova! - spiego.
E così mi subì più di tre quarti d'ora di viaggio, l'attenzione per la mia disattenzione da parte del produttore esecutivo di quella serie tv crime-commedy.
 
- Matt, puoi appoggiare il braccio alla spalliera, e accavalla la gamba destra per favore... - sussurrai, stringendo le mani, incorniciandolo. Stavo facendo una prova senza camera, notando le varie posizione che potevo far assumere a Matt durante il servizio fotografico. Quella posizione mi piaceva, e avrei voluto avere più luce, per scattarla così subito.
- Toccati con l'indice il labbro. Insomma appoggia la mano pensieroso al mento... rilassati - dissi infine, controllando che potesse venire perfetta.
E lo affermai: - Perfetta... la prossima? - domandai al creatore della serie tv, Mr. Jeff. Lui mi sorrise e scosse la mano. 
- Per oggi abbiamo finito. Vai a sistemarti in camera al hotel. Ci sentiamo domani, così faremo le foto! - disse, salutandomi, lasciandomi e lasciandoci finalmente liberi di andare per i pub.
Perciò ci dirigemmo tutti in hotel insieme, perchè facevamo parte tutti dello stesso Hotel Hilton, vicino a Central Park. Perciò arrivati con due taxi gialli (i primi che vedevo dopo una vecchia gita scolastica in Londra, che ricordavo neri) eravamo finalmente arrivati, e potevo benissimo riposarmi giusto un po' prima di uscire insieme al resto del cast di White Collar, nella mia stanza lussuola, già pagata dalla produzione della serie tv.
Matthew mi accompagnò fino alla porta della stanza, e quando lo vidi semplicemente fare qualche passo indietro, mi preoccupai che aspettasse un mio invito in camera.
- Matt forse vorresti entrare? Prego... - sussurrai appena, imbarazzata di invitare qualcuno in stanza. Matt alzò le spalle, e alzo le mani di fronte a se, scuotendo la testa. - Non preoccuparti! La mia stanza è proprio qui... - la porta dietro di se si aprii, e vi uscii la cameriera con le lenzuola aggroviate tra le braccia. 
"Oh abbiamo le stanze frontali", pensai entusiasta e un po' imbarazzata.
- Allora, io entro... mi riposo giusto un po'... - dissi, entrando e salutandolo, mi chiusi la porta dietro le spalle. Momento perfetto per essere da sola e fare finalmente una telefonata veloce a Jensen. Cercai il suo numero nelle ultime chiamate effettuate, e premetti la cornetta verde, aspettando che suonasse.
- Pronto amore?! Credevo non chiamassi più... - disse appena rispose. Sorrisi con tristezza. Jensen, la sua voce… era qualcosa di… - Sono qui, ciao! Allora… - risposi, aprendo la zip della valigia con una mano, perché l’altra occupata dal telefono.
- Come stai? Andato bene il viaggio? – domandò più tranquillo.
- Si, - risposi, uscendo qualche vestito dalla valigia, lasciandolo sul letto a cui mi ero avvicinata. - … è andata come è andata. Ho ascoltato un po’ di musica, pensando a quando tu mi mancassi Jensen – mormorai triste, trattenendo le lacrime, continuando a uscire le cose a casaccio dalla valigia, frustrata.
- Non iniziare, non è stata colpa tua tesoro… suvvia, mi fai rattristare, e sono un uomo adulto ormai! – la sua battutaccia, mi fece scoppiare dalle risate e dalle lacrime. Ma quando iniziare a parlare di nuovo, cercai di non farmi scoprire, e riacquistai fermezza.
- Raccontami che avete fatto questa mattina sul set… - chiesi, sperando di farmi tirare un po’ su di morale.
 
- Allora che facciamo? – domandai alle ragazze che si erano presentate nella mia camera, divertite, truccate e vestite per bene.
- Dove? E’ ovvio in giro per i locali, e poi domani mattina saremo tutti insieme, appassionatamente sul set, più o meno storditi dall’alcool! – disse Marsha battendo le mani divertita. Natalie l’appoggiò, mentre Tiffani alzava le braccia scuotendo la testa.
- Io non vengo, sapete no? Bambina appena nata eh! – disse giustificandosi, sorridendole dolcemente.
Restai di stucco. Una donna così giovane, più o meno qualche anno più vecchia di me, e nemmeno sembrava avesse appena avuto una bambina.
- Wow sapevo che avevi una bambina, ma non da pochissimo, bhè complimenti e auguri! – dissi felice per lei, di essere diventata una madre così bella. L’abbraccia di slancio e quando mi tirai indietro, credetti veramente che l’unica di cui mi potevo fidare era solo lei. Perché sembrava più la mamma del gruppo e non una ragazza del cast come le altre due.
Ormai mi fidavo ben poco delle persone. A parte alcune, come Jensen, Jared e Jessica.
Il trio J, insomma.
- Allora… dove andiamo di preciso? Io non ho tanta voglia di andare in giro per pub, ma se proprio devo… - dissi con voce tentennante, fissando le altre due ragazze che sbarravano lo sguardo al sentire quel mio disappunto.
- Non ti va di uscire? Cosa molto grave! – disse Natalie preoccupata. – Dovremmo chiamare Matt per farti convincere? Vado subito… - disse Marsha, correndo verso la porta di fronte alla mia, bussando forte. – Matt, abbiamo codice rosso! – urlò fuori dalla porta la ragazza di colore, ridendo.
Cinque secondi dopo, sentii la voce di Matt fuori dalla sua porta, arrivare dentro la mia stanza.
- La ragazza non vuole uscire! Cosa organizziamo? – domandò.
- Restiamo nella mia camera, ordiamo un paio di alcolici, e festeggiamo qui che dici? – chiese con naturalezza la voce profonda di Matthew.
- Sarebbe una splendida idea! – esultò la ragazza, venendo a chiamarci, per farci spostare. Tiffani all’idea di restare in hotel, partecipò comunque ad unirsi al gruppo, senza però aver voglia di toccare alcool.
E aveva ragione, ovviamente. Come l’averi voluta anch’io, ma mi stavano quasi costringendo a farlo, e non volevo comunque che dovessi essere castigata ad imbuto e braccia che mi tenessero ferma, perciò…
… quando il cast fu al completo, con Tim, i primi giri furono tutti da tre bottiglie di vodka secca, a seguire, un paio di bicchierin: rum e pera. 
E senza aver toccato cibo per quasi tutta la giornata, devo dire che alla testa mi erano già arrivati.
- Allora… raccontaci un po’ di te! - domandò Natalie ridendo come una forsennata per l’alcool che anche a lei circolava in corpo. Almeno credevo…
- Io sto a Vancouver, ma… ma sono di origine siciliana. Amo la mia terra, e la fotografia… lo sapete no? – dissi, fissando tutti loro. Dieci o venti persone mi guardavano chi ridendo chi con occhi chiusi.
- Non sono così divertente… ma ho voglia di giocare al gioco della bottiglia. Mi manca tanto il mio ragazzo – mormorai appena, singhiozzando come una stupida. 
- Oh, le manca il ragazzo… - disse Tim, ridendo e venendosi a sedere barcollando vicino a me.
- Si, tanto – sussurrai, strofinando la manica della maglia bianca, negli occhi, trovandomela nera e non più bianca come prima.
- Elisabeth sei un panda! Ooh, ahahahah! – iniziò a ridere come un’oca, Marsha.
- Non c’è niente da ridere ragazze, giochiamo! – disse Matt, strascicando le parole, afferrando una bottiglia di vodka vuota, mettendola al centro del cerchio largo che tutti avevamo formato.
- Premessa! – urlò Natalie, avvicinandosi a Matt, e incollandosi addosso a lui. – Giocheremo solo se la pena sarà baciarci a vicenda. Maschio o femmina che sia! – disse, alzandosi al in piedi, e ricadendo a terra, scatenando le risate di tutti noi. 
Quando ci calmammo, si faceva per dire, o almeno era così, quando ci fu silenzio, si sentii solo il rumore della bottiglia raschiare il pavimento in legno della camera di Matt, che era profumata di dopobarba – simile a quello del mio dolce ragazzo – e di alcool. Tanto alcool.
Non riuscivo più a pensare tanto lucidamente. E lo sapevo, mi rendevo conto di quello che stava succedendo. Accaldata, stordita, avevo voglia solo di dormire. Ma non potevo farlo, sapevo che l’indomani sarebbe stato peggio se prima non avessi mangiato qualcosa e vomitato. 
La bottiglia si era fermata su Matt e ridendo l’aveva fatta girare un’altra volta, per vedere a chi avrebbe toccato baciare quelle stupende labbra. 
Stranamente quella bottiglia indicò… me. Sgranai gli occhi preoccupata. Iniziai a indietreggiare sul letto e mii fermai solo quando toccai la testata. Adesso capivo perché sentivo quell’odore così forte di dopobarba. I cuscini ne ero imbevuti. 
- Dove vai? Devi, sennò pegno. Dovrai…dovrai bere tutta la bottiglia di birra con un solo fiato! – disse Natalia, additandomi.  Non potetti fare altro che accettare, non volevo rendermi un oggetto invece che di un corpo semplicemente stordito dall’alcool. Perciò dovetti farlo.
Mi allontanai dal centro del letto, portandomi di nuovo al bordo. Matt si era alzato, e con lentezze si era avvicinato al letto, sedendosi al mio fianco.
I ragazzi compresi Tiffani, anche se tentennando – si notava – battevano le mani incitando quel bacio, che io non avrei voluto che ci fosse.
Ma successe. 
Le sue labbra si poggiarono sulle mie, un bacio solo. 
E poi qualcosa di più. Le sue labbra si impossessarono delle mie, e le mie delle sue. Alla mia mente annebbiata, perché decisa a volerne ancora, afferrai il suo viso tra le mani, stringendolo contro di me, mentre le sue mani corsero al mio collo, stringendolo piano, in una morsa così dolce.
- Oh cazzo! Wow! – urlò Tim, battendo le mani, mentre qualcuno cercava di dividerci, tipo Tiffani.
- Ragazzi, siete felicemente fidanzati! Ragazzi! – disse un po’ ridendo, e un po’ seria.
Quelle parole mi arrivarono dritte al cuore, e prima che potessimo continuare a fare altro, mi tirai indietro, fissandolo scioccata Matt, un po’ sconvolto.
- Sono nei guai… - sussurrai appena, a me stessa, più ludica del solito.
 
Il giorno dopo, quando scesi alla reception, per chiedere delle informazioni su quale farmacia fosse più vicina per una pillola aiutami-che-la-testa-mi-gira, visto che stranamente non le trovavo in valigia, passando per la porta d’ingresso, mi bloccai dietro al vetro che dava accesso al giornalaio di fianco all’hotel. 
Il mio cuore andò a pezzi, e mi fermai a fissarmi baciare qualcun altro. Matt!
Che cosa abbiamo fatto?
Entrai di filata dentro il giornalaio, e senza una piega acquistai una copia di quel giornale. 
Lasciai il resto al ragazzo dietro al bancone, e tornando nella hall, mi sedetti su un divano, fissandomi su tutta la copertina.
Medesima citava così:
 
SCANDALO!
La fotografa di Supernatural emerge con la nuova star della serie tv "White Collar"
 
Sgranai gli occhi, più che scioccata, ero mortificata per chi stava leggendo. E sapevo già chi lo stava già facendo.
Abbandonai il giornale nel cestino più vicino, e senza pensarci un attimo andai dritta agli studios, intenta a fare quelle stupide fotografia il prima possibile, e scappare dall’America, ancora prima di iniziare a fare quelle foto.
Perché non sapevo come avrei dovuto affrontare, quella persona che a me era più che cara… era l’unica persona che amavo e di cui mi fidavo. E l’avevo tradito senza rendermene conto…
Che cosa avevo fatto? Cosa?!
Accidenti a me!
 
Arrivata agli studios mi liberai di tutto. Scattai le foto, mi scusai con i ragazzi, chiarii tutto con Matt, e in lacrime mi rinchiusi in hotel, aspettando che quella settimana finisse, e che tutto passasse come una tempesta in estate. Veloce, rapida e indolore. Ma sapevo che quell’unica opzione era più con-dolore che in-dolore.
Appena poggiai la testa sul cuscino fresco, per cercare di alleviare quel forte mal di testa, sentii il telefono suonare.
Lo afferrai zittendolo, e lo spensi per la paura di dovermi subire qualche predica, o diversamente, litigare e rompere quel legame che avevo cercato per mesi, e mesi.
Dopo solo tre ore, quando pensavo che fosse passato più di un anno, e che tutto si fosse risolto, sentii qualcuno bussare alla porta. Mi alzai di controvoglia e aprii lentamente, sporgendomi appena nello spiraglio della luce nel corridoio.
- Sono io – disse piano Matt, fissandomi dritta negli occhi, con quello sguardo di ghiaccio.
- Matt, per favore…no… - sussurrai appena, quando un groppo in gola salì per la tristezza di quello che avevamo combinato.
-Lo so ma devo spiegarti una cosa! – disse con tono di voce ferma, appoggiando una mano sul bordo della porta. Dovetti cedere, perciò l’aprii facendolo entrare.
Così successe quello che mi riempii il cuore di un po’ di felicità.
- Io… come dire Elisabeth… cioè non giudicarmi. Ma… - Matt seduto sul letto, stropicciava continuamente la fodera del cuscino che stringeva in grembo. Non l’avevo mai visto così… in quei due giorni che ci eravamo conosciuti.
Sembrava così ansioso, e teso, meno preoccupato di quando aveva saputo del giornale “People” e del nostro bacio chissà come, finito in prima copertina.
Sapevamo comunque che c’entravano le ragazze, non Tim o Tifanni. Ma le ragazze: Marsha e Natalie. Dovevamo scoprire che delle due. E Matt mi aveva avvisato che ci stava lavorando su con Tim, che era più che infuriato, visto che come era successo a noi, poteva succedere anche a lui e quindi rompere con la moglie, come era successo a me, purtroppo… perché lo sapevo: Jensen si stava rivoltando nel letto o meglio, le sue budella si stavano rivoltando per lo schifo di ragazza che aveva al suo fianco. O meglio… aveva avuto.
Ma ritornando al Matt ansioso, lo guardai preoccupata.
- Cosa c’è? Parla Matt, per favore! Parla! – lo incitai a dire quelle sacro sante parole, che finalmente lo liberarono e mi liberarono di un piccolo peso.
Matt era gay.
Una grossa perdita, ma una piccola rivincita per entrambi.
Non si rattristò quando lo ringraziai più di una volta che fosse omosessuale. In fondo sembrava quasi che lo sfruttassi un po’, ma non potevo farci nulla se ero un tantino triste all’idea che sua bellezza maschile fosse più propensa a un mercato maschile che femminile. Le ragazze sarebbero impazzite. 
Io non lo ero comunque… perché dovevo spiegare tutto a Jensen.
Ma sapevo di non avere il coraggio di farlo. Perciò quando Matt mi chiese cosa avrei fatto adesso, gli risposi: - Non lo so. Penso che per ora terrò questo segreto tutto per me… - e le lacrime non resistettero così a lungo dietro la diga. 
Piansi consolata dall’uomo onesto che era Matt Bomer. 
 
 
Bussai alla porta che mi aveva ospitata quella prima volta negli studios. Una, due e tre volte. Poi sentii la porta aprirsi e Mr. Singer accogliermi. Sorrisi stringendo le labbra, e alzai le spalle, stringendo i fogli che avevo compilato come quella prima volta. Una cartella dietro, e la borsa a tracolle di mia sorella che avevo riparato un’altra volta, prima di quella strana “seconda” visita nello studio del gentile e paterno Robert Singer, produttore esecutivo di quella eccezionale serie tv.
Gliene ero più che grata. Mi aveva accolta in quella sua creazione insieme a Mr. Kripke che… non so cosa avrei fatto se non l’avessero creata.
Forse sarei restata a casa… senza concorsi, con il cuore a pezzi, e una così insignificante vita.
- Prima che tu lasci quei fogli li, e che io ti dia il pieno consenso, per favore dimmi se sei pienamente sicura di volerlo… fare. -, disse guardandomi dritta negli occhi, quando si sedette dietro la scrivania. A mia volta, restai alzata, alzando le spalle, e trattenendo le lacrime, facendomi forza e coraggio soprattutto a fare quello che stavo per fare.
Feci un passo avanti, e afferrando quei fogli con una mano, delicatamente li appoggiai davanti a lui, sul legno scuro, coperto da un vetro graffiato.
- Mr. Singer spiacente di dirle che non ho trovato motivazioni contrarie, se non quelle positive che ho riporto e che potrà leggere dopo… perché questo posto è molto di più di quello che mi sarei aspettata. E’ stata la mia seconda casa, e mi dispiace portale queste mie scadenti dimissioni. Volevo solo dirle che mi dis… - prima che potessi finire, Mr. Singer come sempre mi anticipò.
- Lo so, non c’è bisogno che tu lo dica. Lo so già Elisabeth e mi dispiace dirlo ma se dovessi tornare, devi sapere che… -.
- Lo so, non mi accetterà nuovamente – sussurrai, chiudendo gli occhi e pentendomi di averlo appena detto, mi voltai per andare via.
- In realtà… che questa seconda tua casa, è sempre aperta… - concluse, tossendo appena. Mi fermai di colpo prima che potessi aprire la porta, con la mano sulla maniglia. Scioccata.
Abbassai lo sguardo a terra, e una lacrima solcò la mia guancia.
- Arrivederci Robert – dissi con voce tremolante sorridendo malinconica.
- A presto Miss De Santis – sghignazzò divertito che finalmente forse, per la prima volta l’avessi chiamato - senza essere obbligata - con il suo nome di battesimo.
 
Arrivata a casa, mi misi l’anima in pace, e afferrando scatoloni e borsoni, iniziai a impacchettare tutto.
In uno scatolo misi alcuni oggetti che mi ricordassero che in quel posto che tutti chiamavano “la terra dei sogni”, io ci fossi stata,  che non fosse stato realmente un sogno, ma che fosse stata reale. Che ci fossi stata veramente. 
- Che stai facendo? – sussurrò singhiozzando Jessica, appoggiandosi allo stipite della mia ormai vecchia stanza.
- Lo sai… - dissi con voce strozzata. La mia migliore amica, ormai più una sorella adottiva che amica, trattenne un singhiozzo e si fece comunque forza, come faceva una sorella, aiutandomi contraria a fare le valigie.
- Non devi per forza farlo… - mi ricordò per l’ennesima volta. – … e lo sai. Lui ti ama ma… -.
- Per favore, evitiamo di parlare di… di – non riuscii a pronunciare il suo nome. Troppo difficile e doloroso farlo, dopo aver scoperto da altri che mi aveva lasciato, e potevo ben capirlo, ma non prima però di avergli pienamente spiegato la vera situazione.
Scossi la testa cercando di reprimere quel pensiero, quei momenti così brutti da rivivere un’altra volta.
Jensen sul set, più meschino, più silenzioso, più chiuso in se stesso. Più “meno Jensen”.
- Scusami, io… senti sta arrivando okay? Me l’ha detto Jared perché mi ha chiesto di lasciarti da sola, perché vuole parlarti… - sussurrò Jessica, smettendo di mettere gli oggetti negli scatoloni. Come smisi anch’io, troppo impegnata a ricordare, di pensare e di riuscire a capire cosa volesse dirmi. E cosa io volessi dirgli…
Non risposi a Jessica che attendeva con ansia una mia reazione. Perché non ero più capace di riuscire a dire qualcosa. Seppi solo che se avrei dovuto parlare, sarebbe stato solo con Jensen in quel momento. Perciò continuai a impacchettare e a sistemare la mia roba nella valigia, facendo finta di nulla. 
Fino a quando non sentii Jessica, stringermi nel suo abbraccio e piangermi sulla spalla. 
- Mi dispiace che sia successo proprio a te… so quando tieni a tutto questo! – singhiozzò triste.
La strinsi a me, e cercai di reprime per l’ennesima volta, ancora una volta, le lacrime di un dolore che continuava a perforarmi l’anima e ancora più in fondo, il cuore.
- Mi dispiace anche a… - “me”, pensai, trattenendo un gemito, quando sentii bussare alla porta principale.
Jessica trattenne il respiro e alzandosi di scatto, corse alla porta, mentre prendevo altra roba dall’armadio e l’appoggiavo sul letto, piegandola lentamente.
Fino a quando sentii quella voce, con tono basso, triste, pieno di aspettative e di dolore, soprattutto di dolore. E soprattutto con quel leggero tremore che caratterizzava la voce di pochi, ma in particolare la sua, che chiese la domanda da più di cento mila dollari:
- Perché l’hai fatto? – 
 
 
*spazio autrice*
 
Devo dire che questo capitolo per partorirlo è stato un po’ difficilino eh D: Non so voi poi, parlo con chi scrive ovviamente.
Infatti si noterà il mio disappunto in certi pezzi tipo: quando lei era New York. Doveva essere il pezzo forte, ma sinceramente non mi è piaciuto come è uscito fuori… non sono pienamente soddisfatta di questo capitolo e in quella parte specialmente.
Per il resto, mi è piaciuto alla fine u.u si mi è piaciuto il legame che si è creato tra Mr. Singer ed Elisabeth, che finalmente si è deciso a chiamarlo Robert, sapendo che forse non lo rivedrà più.
Ed ecco che qui mi urlerete: ha lasciato il lavoro???? Coooosa??? Come??? E si è lasciata con Jenseeeen? Nooo! 
Ma ragazze mie ci credo che si sono lasciati se quella gli ha fatto *weee* le corna con Matt Bomer u.u (gran pezzo di gnocchetto) xD
Ma parlando seriamente, avete ben capito cosa è successo no? Elisabeth presa dall’alcool s’è lasciata andare con Matt, ma non consapevole comunque che qualcuno c’è dietro a tutto questo a parte Natalie o Marsha :o #spoiler
Chi sarà? O saranno? U.u
Non dico altro. Vi lascio che con questo capitolo D: chissà cosa accadrà nel prossimo. 
“Chi vivrà, vedrà” o “Lo scopriremo solo vivendo” per citare cantanti italiani u.u
Al prossimo capitolo, non prima però di avervi ricordato che qui c’è il collegamento con la  Missing Moment del capitolo otto! Se non l’avete ancora letta, andate, sarà importante per la storia ;D

 


Xoxo Para_muse 
 
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** “Am I dreaming or Am I Awake?” ***


La storia fa parte della raccolta: "The Second Chance" - Racchiusi in un...bookstory
di cui fa parte anche la Missing Moment tratto dal Capitolo Otto (importante per la FF) : The Real Vancacy of Year
 


 
AVVISO: IL CAPITOLO SEGUENTE HA CONTENUTO LIEVEMENTE SPINTO
LE DESCRIZIONI E I TERMINI USATI 
NON SONO TUTTAVIA TROPPO ESPLICITI

 
Capitolo 15
 
“Am I dreaming or Am I Awake?”
 
 
- Perchè l’hai fatto? -.
La sua voce entrò in profondità. 
Lasciai andare la maglia che tenevo tra le mani, e l’affrontai. Dovevo farlo, dovevo vedere cosa aveva da dirmi, o meglio quello che io avrei voluto spiegargli. 
Mi voltai lentamente, e lo fissai sotto il telaio della porta della mia camera, dove pochi minuti prima si trovava l’unica persona che se fosse restata in casa, mi avrebbe aiutata con le parole, perché potevo fidarmi. 
Come lui prima si fidava di me.
- Dipende, - mi fermai prendendo un bel respiro ad occhi chiusi, fissandolo poco dopo, sciogliendo così i nodi che venivano al pettine.
- Dipende a cosa ti riferisci… - sussurrai, stringendo le mie mani in pugni stretti, ai miei fianchi.
Il suo sguardo fu più che stupito. Non sentiva ragione a quella risposta? Bhè doveva, non sapevo a cosa si riferisse.
Al lavoro? Al mio essere insolente ed egoista?
- Tu sai a cosa mi riferisco! – esclamò di colpo, voltandosi, dandomi le spalle, scappando in salotto.
Lo seguii con passo lento, restando a qualche metro di distanza.
Sospirai frustrata per quella situazione.
- Cosa vuoi che ti spieghi? Jensen mi sono ubriacata… ci siamo baciati, si è vero… – borbottai a bassa voce.
Jensen inspirò con violenza, e si voltò con il viso guardandomi con uno sguardo spaventato. “Si, l’ho fatto”, pensai guardandolo con tristezza, quando la sua emozione si trasformò in rabbia e non in dolore come prima.
- E non hai provato niente…? - domandò, ritornando a guardare davanti a se. Come se fossi nuda davanti a lui, mi portai le braccia intorno al busto, stringendomi forte fra me.
Cosa potevo rispondere a quella domanda? A cosa si riferiva? Ai sentimenti provati prima o dopo il bacio? 
“Prima del bacio, è ovvio idiota!”, pensò la vocina dentro di me. 
- Ovvio… - risposi più a me stessa che a lui. – Jensen io non ho. Provato. Nessuna emozione se non l’adrenalina dell’alcool a rispondere, e… la. Consapevolezza delle conseguenza di ogni scelta che avevo fatto! Jensen tu credi che io ami quel ragazzo? – domandai esclamando le ultime parole con un poco di quella rabbia parassita che era rimasta in corpo, insieme al dolore, che continuava a perseguitarmi.
Jensen iniziò a calcare il tappetto grigio, davanti al divano, scavando una fossa, un passo dopo l’altro.
Nervoso, era nervoso, e arrabbiato, ancora.
- Jensen lo pensi davvero? Dopo tutto quello che ti ho promesso prima che partissi?! Lo pensi davvero! E’ stata una cazzata! – urlai quasi, allargando di colpo le braccia, involontariamente.
Jensen si fermò di colpo, voltandosi verso di me, stringendo i denti, e ringhiandomi quasi contro:
- Ovvio che lo penso! Quelle fotografia facevano vedere come apprezzavi quel bacio Elisabeth! Io ti avevo avvisata! Se ti avevo detto di spassartela con quell’attore scherzando, non te l’ho detto per farlo davvero, cazzo! Mi hai delusa, insomma… dai! – mi urlò allargando le braccia anche lui, iniziando di nuovo a scavare la fossa a terra.
Scossi la testa, facendo qualche passo avanti. Non trovavamo un punto in cui incontrarci, dovevamo chiarire diversamente.
- Jensen, non capisci? Ti ho detto che mi dispiace per averlo fatto, ma non ero comunque consapevole delle mie azioni! Ero ubriaca! – esclamai sottolineando la parola “ubriaca”.
- Ma non c’entra un cazzo! E poi perché eri ubriaca? E perché l’hai baciato comunque? Non mi dire “giocavamo”, per non ci credo! – urlò indicandomi con un dito, fermandosi proprio a pochi passi da me. Poco dopo schioccò con la lingua, e sorridendo amaramente, si portò le mani al viso, strofinandoselo più volte, per nascondere quelle smorfie di dolore che iniziarono a sbocciare.
- Scommetto che ci sei andata a letto, e nemmeno te lo ricordi…– esclamò con voce tremante, stringendo con le dita alcune ciocche dei suoi capelli.
Quelle parole mi colpirono nel profondo del mio cuore, ancora più giù, facendo crepare lentamente la mia anima.
La sua fiducia? Che fine aveva fatto la fiducia in me?
Inspirai il nulla. L’aria iniziò a mancarmi, e cercando di respirare, mi tirai indietro appoggiandomi al muro. Mi tappai le orecchie come se mi stesserò scoppiando. Quelle parole continuavano a rimbombarmi nella testa, nelle orecchie, ogni voltai che il mio cuore batteva.
- Cosa? – sussurrai appena, con un filo di voce. – Come puoi dire una cosa del genere? – singhiozzai con voce tremante, aggrappandomi in qualche modo al muro, per restare in piedi, mentre le ginocchia iniziarono a tremarmi per l’emozione chiamata delusione.
Come poteva pensare una cosa del genere? Lui… come poteva? Dov’era finito il Jensen che credeva… Il Jensen pieno di fiducia? Dov’era finito? 
- Elisabeth io… dopo quello che è successo… - iniziò, cercando di giustificarsi, avvicinandosi.
Mi tirai su lentamente, alzando una mano, fermandolo. – Non avvicinarti! Vattene via! – sbottai di colpo, con le lacrime agli occhi.
Testardo, comunque, si avvicinò e quando fu un passo da me, la mia non aspettò un momento a farlo. 
Lo schiaffeggiai in piena guancia, e guardandolo con rabbia e delusione dissi: - Non ti permettere mai più a farti vedere… se tu che hai chiuso con me, io ho chiuso con te. Non… - non mi fece finire. 
Come sempre.
Le sue labbra, morbide ma allo stesso tempo dure, piene di rabbia, rancore, dolore, si impossessarono delle mie, senza darmi un attimo solo di tregua, di respiro, di ragione.
- Jensen! – gemetti, tirandomi indietro, prendendo un bel respiro.
- Ssh, ti prego… - mormorò, afferrando il mio viso con le mani, portandolo all’altezza del suo. Mi baciò di nuovo con prepotenza, ma non potetti che cedere.
Mi misi in punta ti piedi, cercando di arrivare il più vicina possibile a lui. Mi strinsi al suo corpo, portando le braccia intorno al suo collo, alle sue spalle, intorno al suo corpo.
Le sue mani lente, scesero, percorrendo centimetro dopo centimetro il mio corpo. Mi strinse forte i fianchi, prima di spingermi al muro, sollevandomi e facendomi fare leva con una gamba al muro, aggrappandomi alla sua vita, cerchiandola forte, per non perdere la presa e il contatto con quel corpo caldo e che mi stava infiammando lentamente.
Mentre le sue labbra si spostarono al mio collo, lasciando una lenta scia di bollenti e languidi baci, non sentii più il muro duro e freddo dietro di me, ma qualcosa di morbido e fresco. 
Il letto.
“Che cosa sto facendo?”.
- Jensen, non… - cercai di fermalo un attimo, afferrandogli il viso, cercando di guardalo dritto negli occhi.
Ma ero troppo impegnata a guardarlo tormentare il mio collo, e a tirarmi via la maglia dai jeans, che le parole poco prima formulate mentalmente, sperando di pronunciarle con la voce, mi morirono in gola con un gemito di eccitazioni, quando le mani di Jensen percorsero la mia pelle nuda sotto la maglia. 
Le sue mani, fredde, corsero lasciando una scia “calda” dietro di se, facendomi rabbrividire. – Oh, Jensen – mormorai, chiudendo gli occhi, stringendo in una morsa i suoi capelli, nei pugni piccoli e serrati.
- Non ti farò male, promesso – mormorò, fissandomi con uno sguardo nuovo, allungandosi sul letto, su di me, per tutta la sua lunghezza, baciandomi dolcemente, come lui solo sapeva fare.
Lento, con l’eccitazione che saliva sempre a picchi più alti. “No”, pensò la parte ragionevole di me. “Si, invece! Mi sta facendo impazzire”, pensò la vocina dettatrice, disperata, rinchiusa nella gabbia in conforme della mia mente.
- Jensen, io, no! – sgranai gli occhi, tra un bacio e l’altro, quando sentii le sue mani muoversi sul bottone degli jeans. Presa dal panico, abbassai le mani immediatamente alla cerniera e alle sue mani bloccandolo. 
Cercai di scostarmi, perché la via di quella “discussione” che poco prima stavamo affrontando, adesso,  stava prendendo una piega diversa.
- Dove vai? Vieni qui – sghignazzo divertito, afferrandomi per le cosce, tirandomi sotto di se. Spaventate ed eccitata allo stesso tempo, cercai di lottare contro di lui e me stessa – con le mie pretese.
Volontariamente o no, Jensen, riuscii a togliermi gli jeans, e prima che potessi solo ribellarmi, la sua maglia e la mia fecero la stessa fine, e la stessa cosa i suoi jeans. Tutti sparsi per il letto.
Quando restammo solo in intimo, Jensen stava cercando in tutti in modi di distrarmi, e ci stava riuscendo. Le sue mani gentili mi stavano accarezzando, eccitandomi, facendomi sentire amata, protetta, e facendomi sentire la vera me stessa.
Solo che quella parole che mi ripeteva spesso all’orecchio, ad un certo punto non mi rassicurarono più: - Ssh, tranquilla… – mormorò, baciandomi il punto dietro l’orecchio, dove la pelle era così sensibile, che i miei sensi si misero subito all’erta, facendomi gemere e sussultare più di una volta. - … andrà tutto bene, non ti farò male! – fissandomi dritta negli occhi, baciandomi con trasporto, sciogliendomi come creta nelle sue mani.
Quando le sue mani, scesero sui miei fianchi, facendomi scivolare velocemente gli slip dalle gambe, la paura mi assalì, e chiudendo gli occhi, mi chiusi in me stessa, impaurita. 
- Farò veloce, nemmeno te ne accorgerai – sussultò al mio orecchio, obbligandomi ad allargare le gambe, e prima che potessi concludere la frase: - Ti prego, aspetta! Non… - soffocai un urlò, stringendo le labbra nella morsa dei denti.
Le lacrime involontarie, mi scivolarono ai lati del viso, bagnandomi le orecchie. Sentii qualcosa dentro di me, sentii più che l’essere di Jensen farmi sua. 
Sentii dolore, fretta, troppa fretta, lacerazione e dolore… un’altra volta.
Elisabeth? – chiamò Jensen, sfiorandomi il viso con un dito.
Inspirai di scatto, e cercai di soffocare il gemito di dolore, che mi riempì il petto, sconquassandolo con i singhiozzi che arrivarono poco dopo.
- Vuoi che… - prima che Jensen potesse dire altro, e prima che potessi fare la figura dell’idiota,
strinsi forte gli occhi e pensai alle parole di mia madre, quella volta quando disse:
“Sii forte! Noi donne lo siamo sempre, anche in quel momento tanto brutto, che poi scorderai con il tempo…”
- Sono forte – sussurrai piano, più a me stessa che a Jensen. Dovevo farlo, in fondo stavo donando la mia virtù a qualcuno che amavo, e qualcuno che mi amava. In fondo sapevo che avrebbe sempre fatto male…
Anche se l’avrei donato a una persona qualsiasi quindi…
- Cosa? – domandò Jensen accarezzandomi dolcemente.
- No, ti prego continua,  per favore… - sussurrai, stringendolo verso di me, baciando le sue labbra umide e gonfie per i baci già dati.
Mentre i miei occhi continuava a stare chiusi, trattenendo le lacrime che piene di dolore volevano uscire.
Mentre Jensen tirava un sospiro di sollievo, uscendo dal mio essere, si spinse nuovamente più affondo con un gemito, e le sue labbra coprirono le mie, soffocando così nell’ennesimo grido di dolore.
Cercai di mantenere i sensi calmi, prima di perderli in un innocente gesto che tutte le persone adulte facevano quasi ogni giorno. Jensen si abbassò sul mio collo, quando tirò indietro un’altra volta i fianchi, affondando di nuovo in me, muovendosi sempre più velocemente.
E non capii più niente, solo dolore, e qualcosa dentro di me crescere, prima che potessi riuscire a capire di cosa si trattasse, Jensen mi crollò addosso, sprofondando per l’ultima volta dentro di me. 
E restò solo che… dolore.
- Tutto okay? – sussurrò appena, con un respiro affannato, cercando di prendere aria, che a me stava iniziando a mancare.
- Si – sussurrai, lasciandomi un bacio sulla fronte, rotolando di fianco a me, appagato… e da solo credo. Era normale?
Fissai il tetto, e cercai di pensare alle parole che sarebbero state adatte a quel “dopo” momento. 
Ma a parte “Io non so cosa dire…” non mi uscì dalla bocca altro, e prima che potessi voltarmi a fissarlo, e a vedere la sua reazione, qualcosa squillò, e lo riconobbi come il suo telefono cellulare.
Si alzò dal letto, afferrando i jeans, e cercando il cellulare nelle tasche anteriori. Afferrò il Blackberry e rispose.
- Qui Jensen –.
Ascoltò l’interlocutore, annuendo più di una volta, e lasciandomi un sguardo un po’ preoccupato, pochi attimi dopo, chiuse la chiamata con: - Arrivo subito -, e iniziando a vestirsi disse un appena sussurrato: - Devo andare – .
Il mio cuore andò letteralmente in frantumi. Mi alzai lentamente, afferrando i miei vestiti e li infilai uno alla volta. 
- Non dici niente? – domandai con voce piatta, fissandolo con sguardo vuoto. Il suo sguardo ovviamente non fu di meno, e alzando le spalle, forse per una questione di abitudine, infilò il giubbotto e inforcò gli scarponi, fermandosi.
- Jensen? – lo richiami piano, abbassandomi all’altezza del suo viso, piegato a guardare a terra. Accarezzai la guancia con una mano, e prima che potessi toccargli le labbra, me l’afferrò fermandola.
- Perché? Mi sono appena donata a te, con tutto il mio cuore. Io ti amo! Mi stai lasciando così? Come un ripiego? Jensen, mi dispiace per tut… - mi fermò, lasciando andare di colpo la mano, e voltandosi di getto, afferrò la camicia che non aveva indossato sopra la canotta nera.
- Jensen? – lo richiami frustrata, andandogli dietro.
- Devi smetterla! Non rivolgermi più la parola… - mi urlò contro, mentre si avvicinava alla porta di casa. Sentii il mondo cadermi addosso. Cosa avevo fatto? Non avrei dovuto essere così smielata o così caritatevole.
- Aspetta, fammi spiegare, lo devo fare per me stessa. E per te! Lo sai questo Jensen... - dissi. Cercai di corrergli dietro, con risultati più che scarsi. Strascicando i piedi come se non riuscissi più a sollevarli, non riuscendo neppure più a respirare. Stava succedendo come uno strano déjà-vu.
- Certo che lo so. Io mi sono spiegato, tu ti sei spiegata, ecco tutto. Non siamo compatibili, perché non siamo riusciti ad arrivare ad un compromesso. Dimmi perché ti sei licenziata dal lavoro? Per non vedermi più! Allora quello che è successo a New York è più che vero, e ti importa… - sbraitò, voltandosi, dando le spalle alla porta.
- Jensen ma io... - inizia a strozzare le parole, in un tentativo disperato di trattenere le lacrime e i singhiozzi dalla rabbia e dal rancore.
- Non mi fanno tenerezza le tue lacrime di coccodrillo. Non mi venire più a cercare, non chiamarmi più, dimenticati di me, ritorna da dove sei venuta! Avrei tanto voluto... avrei voluto che tutto questo funzionasse, ma tu… - si fermò, fissando il mio viso contorto dal dolore. Il suo sguardo schifato e ostinato mi fece perdere l'ultima speranza di convincerlo a restare con me. Di fare parte della mia vita. Per sempre. Mi abbandonai a me stessa, scivolando contro il muro più vicino. Non riuscivo nemmeno a guardalo in faccia. Più lo facevo e più il cuore mi andava in frantumi.
- Non lo capisci... - mormorai - Ti prego, non lasciar...mi...ti prego - i singhiozzi mi spezzarono le parole. I sospiri che presi non erano sufficienti. Iniziai a sentirmi mancare l'aria. E Jensen non se ne preoccupò. – A New York non è successo niente! E’ la pura verità, e te l’ho appena dimostrato dentro quella stanza! – dissi indicandola. – Mi sono appena donata a te, con dolore o no, con amore o no… io ci sono stata in quella stanza con te… e ora te ne esci lasciandomi così? – urlai squartata dal dolore.
Jensen impassibile, pronunciò quelle parole, come una frase recitata da una vita ormai:
- Addio...e non farti più vedere ...per favore - mormorò piano, aprendo la porta e chiudendosela alle spalle. Per me fu come il tonfo che l'ultimo pezzo di cuore provocò… cadendo, giù. Per sempre. 
Era andato, non c'era più.
- Jensen - sussurrai. - No, non andare, Jensen – sbottai, correndo alla porta, sbattendoci contro. L’aprii con qualche difficolta e quando mi aggrappai al telaio della stessa, aprii totalmente e mi diressi la fuori, inciampando sul tappetto. Ruzzolai a terra e quando mi aggrappai alla ferrata del passamano, lo guardai per l’ultima volta di spalle, andare via, chiudendosi il portone del palazzo dietro, chiudendo con un sonoro tonfo – ancora in eco – la nostra storia.
- Jensen! – singhiozzai disperata. Mi passai le mani tra i capelli, stringendoli forte. Iniziai a dondolare per il forte dolore che stavo provando al petto. Avanti e indietro, respirando piano. Persuadendomi che sarebbe tornato.
- Tornerà, tornerà, tornerà… - ripetevo in un lamento poco udibile a me stessa ma da una bambina di appena un anno, si.
- Libeth, Lilibeth! – urlò qualcuno, appiccicandosi alla mia schiena. Sussultai spaventata, e fermai i singhiozzi, strofinandomi il viso con le mani, togliendo i residui delle lacrime.
Mi stampai un falso sorriso, e mi voltai piano, notando la bambina sorridermi felice, e poi rattristarsi. 
- No, no! Tisle no! – disse, sbattendomi le manine paffutelle sulle guance umide. Mi fece sorridere, e non potetti afferrarla per il busto, stringendomela addosso, piangendo silenziosamente dietro le sue spalle.
Elena era poco interessata a consolarmi, perché da bambina innocente quel era, iniziò a giocare con i miei capelli, e non si preoccupò di annodarli. Mi fece così distrarre da quello che era pura agonia, che ricordandomi dov’eravamo, mi alzai dalle scale, e stringendomela sempre al petto, entrai in casa di Kelly, trovando la porta di camera mezza socchiusa. 
Kelly stava dormendo profondamente sopra la scrivania, e la sbarra della culla di Elena era giù. Sicuramente aveva imparato come sbloccarla, sorrisi per la mossa furba della bambina, ma non preoccupai di svegliare Kelly, se non per farla spostare sul letto. Prima però feci mettere a letto Elena, che imperterrita continuava ad alzarsi. Ma fissandola con occhi storti, da brava bambina qual era si  restò sdraiata, e chiudendo gli occhi un quart’ora d’ora dopo si addormentò sul serio.
Mi voltai verso Kelly, che svegliai smuovendole il braccio. 
- Kelly, alzati, vai a letto! – sussurrai al suo orecchio, smuovendola ancora una volta.
Si svegliò scossa e chiese che ora erano.
Mi voltai a cercare un orologio, e quando guardai quello appeso al muro mi meravigliai, era così tardi?
- Sono le nove e mezza, vai a letto! – dissi, abbracciandola e facendola alzare. Stanca e mezza addormentata, si tuffò sul letto, coprendosi con la pesante trapunta. 
- Scusami El se non ho voglia di parlare, o di chiedere perché sei così distrutta… ma lo sono io! Stanca morta! – sussurrò tra uno sbadiglio e l’altro, addormentandosi nuovamente, poco dopo.
- Notte, a presto Kelly – sussurrai a nessuno, chiudendomi la porta dietro, e assicurandomi che quella di entrata fosse chiusa bene.
Quando tornai in camera da letto la prima cosa che feci fu strappare il lenzuolo dove avevo sprecato notti insonne e sognato il futuro con lui.
Soprattutto dove avevo gettato tra le fiamme la mia purezza e il suo piacere spasmodico.
Chiusi gli occhi, e mi lasciai andare sul materasso spoglio in un sonno ristoratore.
Sperando che il domani fosse meno peggiore di adesso
 
- Elisabeth svegliati, che è successo? – mi risvegliai di sobbalzo, con la testa che doleva. Jessica, mi sfiorava le braccia, e le luci accese e la finestra ancora chiusa stava indicare che era notte.
- Che c’è? – domandai con voce rauca, a causa della gola secca.
Jessica mi guardò allarmata. E fissò il mio basso ventre. – Sei macchiata di sangue, stai bene? – domandò preoccupata, con voce tremante.
Mi issai sulle braccia, fissandomi gli jeans sporchi. Chiusi gli occhi per il ribrezzo. – Non mi sono accorta, sono arrivate presto… - mormorai, sapendo che quello non era ciclo. Mi alzai immediatamente dal letto, e provai un po’ di bruciore tra le gambe. Corsi meccanicamente in bagno, e chiudendomi la porta dietro, ancora stordita dal sonno, mi infilai dentro la box doccia, togliendomi i vestiti e buttandoli nel lavandino. Chiudendomi la porta di vetro dietro, iniziai a lavarmi via il suo odore, il dolore e il sangue rappreso.
Mi strofinai con la spugna, fin quando la pelle non diventò rossa per la forza di strofinio. Fino a quando non mi feci male.
Quando sentii di essere pulita dentro e fuori, tirai un bel respiro di sollievo e mi asciugai, pettinando i capelli e asciugando anche loro.
Quando riemersi dal bagno vaporoso con vestiti puliti, trovai Jessica intenda a pulire il materasso, con le spalle che le tremavano continuamente.
Mi avvicinai lentamente a lei, e prima che potessi toglierle il panno sporco dalle mani, l’abbraccia forte, spostandola dal materasso. 
- Lascia stare – sussurrai con voce roca, - lo faccio io – conclusi, togliendole dalle  mani lo straccio.
Con qualche perplessità mi lasciò fare il lavoro, e quando finii per togliere via la macchia, mi staccò questa volta lei dal materasso, che stavo ancora martoriando strofinando continuamente con lo stralcio ridotto a pezzi.
- Fermati Elisabetta, è finita… vieni qui – singhiozzò abbracciandomi forte, consolandomi come una sorella maggiore poteva fare con un sorella minore.
- Mi dispiace così tanto, mi dispiace… - sussurrò all’orecchio, non abbandonandomi nemmeno per un secondo, nemmeno per un giorno, nemmeno per gli addii.
- Fammi chiamare mia madre… - sussurrai, sciogliendomi dall’abbraccio. Jessica con malavoglia, mi lasciò fare, e venendomi dietro, si sedette al mio fianco, sul divano, dove avevo preso posto, con il telefono all’orecchio, aspettando che mia madre rispondesse. Mi ero fatta due conti, e quell’ora non era altro che quella di pranzo. Sicuramente non li avrei disturbati…
(*ndt) - …scummetu ca su chiddi dill’Enel! I mannu a nddù paisi… Pronto? – borbottò la voce di mio padre a telefono, arrabbiata.
Risi divertita, un po’ di felicità ci voleva in quel momento. – Papà non sono dell’Enel! – dissi, trattenendo le risate.
- Tesoro! Da quanto tempo? Ma che fine hai fatto? – domandò in italiano, perché sapeva quando odiassi parlare in dialetto.
- Si, papà da tanto. Mi dispiace non avervi chiamato. Come stai? – borbottai, voltandomi a fissare Jessica, che si mangiucchiava le unghie delle mani, piangendo come una fontana. Scossi la testa, e mi voltai a guardare altro, prima che la seguissi.
- Non c’è male piccola, stiamo bene! Ma raccontami come mai questa chiamata a quest’ora? Sbaglio o sono le due o tre di notte li da te? – disse sorpreso, mentre lo sentivo fare rumore con qualcosa. – Prendimi il vino ‘ni! – borbottò a mia madre, sicuramente. 
Sorrisi malinconica, chiudendo gli occhi, e pensandomi a tavola insieme ai miei, insieme a mia sorella, a parlare di film e gossip. Tirai un sospiro di sollievo. Presto li avrei rivisti, e sarei rimasta con loro per sempre.
- Si è vero, mi dispiace disturbarvi mentre mangiate, ma papà ho una notizia da darvi, anche se con poco preavviso… - finii per sussurrare, sentendo singhiozzare la ragazza al mio fianco.
- Dimmi tutto, Elisabetta, cosa c’è? – domandò preoccupato mio padre.
 
 
- Hai preso tutto? Sicura? – domandò con voce monotona, Jessica, che mi aspettava davanti la porta di casa.
 - Si, solo puoi venire un secondo? – afferrai la scatola dove avevo messo tutto quello che avrei lasciato a Jessica, sperando che ascoltasse cosa avrebbe dovuto farci.
- Che c’è? – domandò irritata la ragazza. Mi voltai a lanciarle uno sguardo di avvertimento. – Non farmi la voce da dopo predica, arrabbiata, perché con me non funziona! Protesti per favore essere un attimo magnanime con me? Per favore, sai che posso solo contare su di te da ora in poi! – esclamai un po’ arrabbiata nei suoi confronti.
Jessica mi guardò con uno sguardo triste, e si avvicinò abbracciandomi forte.
- Scusami e che lo sai mi mancherai tanto… e in questi giorni, in questi giorni ho provato in tutti i modi a farti ragione, ma non ci sono riuscita e ora guardarti, invece di andare a lavoro perché lunedì mattina, te ne vai… e per sempre! – sbottò, piangendo come una bambina. 
La strinsi forte a me, e cercai di consolarla, facendomi un attimo forte. 
Lo dovevo per me stessa e per lei. Non dovevo cadere a pezzi come avevo fatto per quasi tutto il fine settimana.
- Mi dispiace, ma adesso ascoltami per favore, è importante! – dissi, tirandomi indietro dall’abbraccio, e fissandola dritta negli occhi.
Non sciogliendo l’abbraccio del tutto, mi voltai a mostrargli con un braccio lo scatolone.
- Qui ci sono tutte le macchine fotografiche e gli obbiettivi che non mi serviranno più. I tre-piedi, e tutto il resto. Vendi tutto, vendi e quello che ne ricaverai una parte tienila tu… - dissi, fissandola negli occhi, convinta, mentre lei a bocca aperta continuava a scuotere la testa.
- … una parte dalla a Kelly, ne avrà bisogno. Sicuramente non accetterà nulla ma dille che… non so, dille che hai trovato un gratta e vinci davanti al suo tappeto e che grattandolo: “eureka, ho vinto!”. Capito? – dissi, scuotendole le spalle, facendola risvegliare dallo shock.
Lei scosse forte la testa.
- No, non se ne parla! Le tue macchine fotografiche! La tua vita! No Betta ma che dici? – esclamò stupita.
- Devi farlo, sennò… me la prendo! Fallo, o mi offendo! E a proposito di Betta, puoi tenerla tu, le chiavi sono nel mobiletto dell’ingresso, e la trovi al parcheggio degli… degli studios – borbottai, con voce incerta.
- Elisabeth io… - iniziò Jessica scuotendo ancora una volta la testa.
- Fallo e basta okay? Fallo e un’ultima cosa… - dissi, portandomi le mani al collo, aprendo la chiusura della collana. Sciogliendola, la tirai da sotto la maglia e afferrandogli una mano, gliela poggiai sul palmo, chiudendo poi le dita in un pugno.
- Tienila, ti ricorderai di me e da dove veniamo. Ricordarti chi sei veramente, non cambiare per nessuno… - sussurrai, fissandola dritta negli occhi, stringendola poco dopo, in un forte e scosso abbraccio.
- Ti voglio bene, sei stata come una sorella per me… -, singhiozzò Jessica.
Ssh, lo so, lo so. Anche tu per me… -.
 
- Buon viaggio allora… - mi ripeté un’altra volta Jessica, stringendomi a se, davanti al percorso per i metal detector.
- Grazie – sussurrai, tirandomi indietro, avvicinandomi alla piccola Elena e a Kelly, che tristi mi abbracciarono e mi augurarono anche loro un buon viaggio.
- Che la fortuna ti sia amica – sussurrò Kelly, sorridendomi come una madre potesse sorridere ad una figlia.
Le sorrisi anch’io e mi voltai ad afferrare la valigia a mano, che avevo poggiato a terra.
- Ci si vede via Skype eh? – chiarì subito Jess, indicandomi con un dito minaccioso. Sorrisi sghemba, e alzai le spalle: - Ovviamente, mi aspetto di vedervi tutti e tre insieme – dissi, facendo qualche passo indietro.
- Promesso, vero Elena? Dì ciao ad Elisabeth! – mormorò all’orecchio Kelly ad Elena. La piccolina sorridendo felice ed emettendo suoni buffi, mi salutò con la manina paffuta.
- Tao Libeth! Tao, tao! -.
E con quel sorriso da bambina felice, che avrei sempre ricordato l’ America, Vancouver e quell’unico momento felice della mia vita…ormai andata.
 


(*ndt: - …scummetu ca su chiddi dill’Enel! I mannu a nddù paisi… Pronto? –
        -…scommetto che sono quelli dell’Enel! Li mando a quel paese… Pronto? -)
 
  
*spazio autrice*
 
Salve, chiudiamo questa capitolo con questa nota di traduzione xD dal siculo dialetto all’italiano. Bhè non so quanti di voi l’abbia capita senza che leggesse la nota, ma mi fa piacere mettere qualcosa del dialetto siculo, visto che la famiglia di Elisabeth è di quelle origini.
Ma passiamo al vero e proprio finale capitolo…
Elisabeth è partita, e come ben sapete bhè… sono stati i mesi più belli della sua vita. Per chi non lo sarebbe stato? Comunque… ritornando alla parte iniziale, vorrei sapere se è necessario portare la storia dal raiting giallo a quello arancio? Infondo penso di non aver passato proprio i limiti del rosso, giusto? Fatemi sapere voi, io intanto sono stata come dire… “chiara” (?) nel specificare che all’interno di questo capitolo c’è stato questo momento un po’…spinto (?) e spero insomma di aver trattato l’argomento con delicatezza e con giuste parole, perché infondo non è stato un vero rapporto d’amore come avete ben potuto leggere…se c’è qualcosa che non va, vi chiedo di scrivermi in privato o in recensione e io in un secondo cambierò il capitolo. Promesso.
Per il resto, questo gesto è stato spontaneo sia per Jensen farlo, perché insomma abbiamo capito il motivo qual è stato! Jensen voleva rivendicarsi! Voleva che Elisabeth provasse il suo stesso dolore, quello che ha provato quando ha visto quelle foto… è lunatico! È strano! Sono strani, lo sono anch’io… non so come abbia fatto a scrivere questa parte, ma mi è uscita di getto…spero non si noti e che a starfragola piaccia! :/ 
Non avendo altro da dire, aspetto vostre notizie… e aspettiamo insieme notizie da entrambi visto la situazione di lontananza…la domanda adesso è: quando torneranno insieme???
 
Xoxo
Para_muse
 

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Capitolo 16
*** Come Back Home ***


La storia fa parte della raccolta: "The Second Chance" - Racchiusi in un...bookstory
di cui fa parte anche la Missing Moment tratto dal Capitolo Otto (importante per la FF) : The Real Vancacy of Year





Capitolo 16
 
Come Back Home

 
Ero appena scesa dall’aereo e l’aria calda e umida di quasi metà novembre, mi prese in piena faccia, facendomi rabbrividire.
Stanca e scoraggiata, ma un po’ eccitata, scesi gli scalini che mi portarono al bus per arrivare all’aeroporto.
Arrivata dentro, aspettai con il carrello, che le valigie arrivassero nel nastro trasportatore. Appena vidi le tre valigie viola ed inconfondibili, le afferrai e mi diressi alla porta a vetri dell’uscita: Arrivi.
La prima a vedere fu il collo di mia sorella che si allungava in mezzo alle altre persone.
Appena mi vide, sprizzò in mezzo alla folla saltandomi addosso e facendo ruzzolare a terra una delle valigie che tentennava a restare in piedi sopra le altre, sul carrello.
- Betta, Betta! – urlò felice mia sorella stringendomi forte a se. Mi mancò il respiro e le parole per dirle un semplice ciao.
Troppo presa per l’agitazione e la felicità di rivederla.
Si tirò indietro lisciandomi i capelli, e sorridendomi tra le lacrime di felicità, mi strinse di nuovo forte a sé.
Quando la voce di mio padre tuonò forte dietro le sue spalle, aprii gli occhi fissandolo tra i capelli scuri di Laura.
- Papà! – squittii felice, allungando un braccio verso di lui, invitandolo ad unirsi  a noi.
E così fece, mi strinse forte anche lui, soffocandomi il mio singhiozzo già pronto, nel suo petto morbido e profumato di terra bagnata e uva matura, quei odori che mi ricordavano casa.
Perché lo ero… ero a casa.
 
 
- Mamma non è venuta, come mai? – domandai, quando fummo in auto, diretti verso Fulgente, il mio piccolo paesino tra le campagne.
- Sta preparando il pranzo! Non voleva che le si bruciassero le lasagne… - mia sorella spuntò da dietro i sedili posteriori. Sorrisi, voltandomi a guardala.
- Mi sono mancate le lasagne di mamma! – sghignazzai, felice. Mi fissai intorno, e non vidi che verde, e marrone, giallo e azzurro. I colori della mia terra.
- Allora cosa mi raccontante? Niente di nuovo? – domandai, guardando papà che era concentrato a guidare la gip sull’autostrada.
- Mmh in realtà tua sorella ti sta nascondendo qualcosa… - disse sospettoso mio padre, voltandosi appena a lanciarmi uno sguardo divertito.
Alzai le sopracciglia, fissandolo curiosa. Poi mi voltai a lanciare uno sguardo accusatorio a Laura.
- Cosa? – domandai con voce arrabbiata ma curiosa allo stesso tempo.
Laura sbruffò e prima di mostrarmi la sua mano, lanciò uno schiaffo affettuoso a Michele, il mio dolce papà.
- Papà, uffa però, sei cattivo… ecco qui! – disse porgendomi la mano sinistra, mostrando un solitario luccicante sotto i raggi deboli del sole autunnale.
La mia bocca si spalancò dallo stupore. – E’ un anello?! – domandai isterica. – E’ un anello! – affermai poco dopo da sola, fissando una volta gli occhi entusiasti di Laura e una volta l’anello che portava al dito anulare sinistro.
- Ti sei fidanzata con Marco? – domandai esterrefatta.
Lei annuii timidamente, e ritirò la mano, fissandomi con la felicità dipinta sul viso. Le sorrisi con tutto l’amore di una sorella, possibile ed immaginabile.
- Finalmente, direi… - mormorò papà, sorridendo e fissando la strada. Risi a quell’affermazione, e insieme a me anche la futura moglie, compagna, amica e mamma.
Aprii il finestrino e sotto i raggi del sole, mi appoggiai con collo sulla portiera guardando il cielo e urlando:
- Sono a casa! Sono qui e mia sorella si sposaaa! –,presa dall’adrenalina in corpo.
Per l’autostrada a quell’ora non c’era nessuno, e ci volevano altri dieci minuti prima di farmi prendere per pazza dai miei concittadini, in paese.
- Entra quella testa da cagnolina Elisabetta, subito! – ordinò papà autoritario, ridendo comunque sotto i baffi, mentre mia sorella, se la rideva dietro, divertita.
- L’America non ti ha fatto per nulla bene Betty! – sghignazzò Laura.
Annuii sospirando tristemente. – Già – borbottai tra un sorriso scemato.
 
- Amore mio! – mormorò mia madre all’orecchio stringendomi forte al petto tremolante, scosso dai singhiozzi.
- Mamma suvvia, calmati, sono qui e non me ne vado mica! – mormorai con le lacrime agli occhi, sorridendo come una scema a mia sorella che dietro mi faceva il teatrino, imitando alla mamma.
- Smettila – sillabai, cercando di nascondere il sorriso sulla spalla di mia madre, che continuava a stringermi convulsamente.
- Quando mi sei mancata! – disse, tirandomi indietro, stringendomi le spalle e squadrandomi dalla testa ai piedi per fare un quadro generale.
- Sei cambiata radicalmente! Ti vedo diversa! – esclamò con tono di voce preoccupante, stringendomi di nuovo a se. Sgranai gli occhi, e soffocai, dando un colpo di tosse, avvertendo mia sorella con un codice segreto.
- Mamma dai, non lo vedi è stanca! Avrà bisogno di un po’ di riposo e di forze, dai… - iniziò Laura, infilando le mani tra il mio corpo e quello di mia madre.
- Si, scusami Betta, ha ragione tua sorella! – disse accarezzandomi il viso con entrambe le mani.
Sorrisi mesta, e lanciando uno sguardo di ringraziamenti a mia sorella, seguii comunque mia madre in cucina per vedere cosa aveva preparato a parte le lasagne.
- Pollo a forno e patate della nonna, come piacciono a te! – disse, prendendo i guantoni e uscendo le teglie dal forno, li poggio sul piano cucina, cercando un coltello nel cassetto delle posate.
La mia pancia alla vista di cibo familiare iniziò a brontolare.
- Gnammy! – esclamò papà arrivato in cucina anche lui, fissando il suo piatto stracolmo di doppia porzione di lasagne.
- Vedo che non sei cambiato una virgola – sghignazzai, fissando infilzare la forchetta per mangiare, senza aspettarci, come sempre.
Lui scosse la testa con fare critico e fissandomi disse a bocca semi vuota: - Devo vedere se è buono, perché se non è degno del vostro palato, avverto la cuoca… - prima che potesse finire la parola cuoca, mamma diede uno scappellotto a papà senza tanto ritegno.
- Si, certo! Come se io facessi cibo spazzatura o per gatti, addirittura! – esclamò frustrata Maria, a mio padre, lasciandogli anche uno sguardo storto.
- Tesoro tu sei la più brava della famiglia, credimi, io scherzo… - borbottò mio padre, mangiando con cautela la prossima forchettata di pasta, giocando con mia madre.
Lei sorrise e disperata, scosse la testa, rifiutando di continuare quella scenetta.
Laura non faceva che ridere, tenendosi la pancia, e non potetti che sorridere anch’io. Ma non per quella messa in scena di mio padre per rompere le scatole a mamma.
Il motivo era che mi ero mancate quelle cose di famiglia. Mi erano mancati loro. “Mi era mancato tutto questo”, fu l’ultimo pensiero, prima di dedicarmi di nuovo a loro, per quella piccola e insignificante vita che mi restava.
 
Abbassai la maniglia dorata con il fiocchetto viola attaccato sopra, e sorrisi quando sentii quell’odore di lamponi. L’odore restava sempre quello.
“Mmh…” , tirai un sospiro di sollievo, “…di nuovo a casa mia”, pensai un po’ contenta. Sorrisi malinconica, e avvicinandomi al letto, poggiai le due valigie su di esso, aprendo subito le cerniere. I vestiti per poco non saltarono in aria. Erano strapiene e risi come una pazza. Quando roba mi ero portata? Bhé tanta.
Iniziai a tirarla piegata e ordinata com’era, e iniziai a riempire l’armadio vuoto, con nemmeno un po’ di polvere.
Sembrava che mamma passasse come sempre ogni giorno a rassettare l’armadio, cosa che non aveva proprio bisogno.
Feci un po’ di spazio tra i cassetti mezzi pieni con vecchi vestiti che mettevo prima qui in Italia, e a fianco, sistemai qualche maglia dall’America, notando quando fosse grande la differenza. Avevo scoperto nuovi gusti per vestiario quando stavo li.
Sorrisi un’altra volta, malinconicamente tra me e me. E tirai un altro sospiro, quando appesi tutti quegli abitini che li sicuramente, non avrei mai messo.
Ne avevo ancora per un po’, e Laura era scappata quando le avevo chiesto se mi avrebbe aiutato. Ora mi chiedevo come avrebbe fatto a sposarsi, se le stufava aiutare la sorella a disfare le valigie.
Non ne avevo proprio idea. “Povero Marco” ridendo tra me e me come una matta.
Quando la prima valigia fu vuota, la lascia fuori dalla porta per metterla poi nello sgabuzzino dove c’erano anche le altre.
Passai ad aprire la seconda che teneva per la maggior parte, cianfrusaglie e le scarpe che nell’altra valigia non c’erano entrate. Il resto di quello che mi ero portata, erano negli scatoloni che presto sarebbero arrivati in Italia, spediti da Jessica, che non avevo l’ora di vedere via webcam.
“Chissà cosa starà facendo ora?” pensai, afferrando il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans, fissando lo schermo e tentennando per mandare un sms. Mi feci due conti. Qui erano appena le tre del pomeriggio e le otto ore di differenza mi fecero ricordare che li erano le sette del mattino – se non ricordavo male, visto che il viaggio mi aveva un po’ sballottolato -. “Perciò, proviamoci!”, pensai convita.
D’un tratto, però, pensai al foglio che mi aveva infilato in borsa, ricordandomi i suoi orari di lavoro, lo andai subito ad aprire e lessi:
 

 
- Martedì… - sussurrai, indicandolo e mi rattristai subito quando vidi che indicava dalle cinque del mattino alle cinque di sera. Dieci ore di fila, e non avrei parlato con nessuno.
Mi feci un rapido calcolo mentale, e potetti costatare che solo stanotte tra le dieci e mezzo undici saremmo potute sentirci. Mandai comunque un sms, per tranquillizzarla.
 
Sono okay! Arrivata sana e salva dopo 18 ore di volo. Sfinita ma okay! Come te la butti li?
I miss u! :( ci vediamo stanotte via webc?

 
Premetti invio e aspetti una sua risposta, sedendomi sul bordo del letto, lasciandomi scivolare di schiena con le braccia in su, fissando il tetto bianco.
Prima che i miei pensieri potessero correre come sempre a qualche cosa in particolare su cui riflettere, il grugnito di mio padre alla porta, mi fece saltare sull’attenti.
- Ehi, papà! – esclamai, sorridendogli, invitandolo ad entrare.
Lui lo fece con tranquillità, chiudendosi anche la porta alle spalle. Si guardò un po’ in torno e prima che lui potesse dire qualcosa, parlai io per primo.
- Si, la mamma ha fatto un ottimo lavoro! – dissi estasiata, sorridendo mesta. Papà si voltò a guardami e si spostò sulla finestra che dava sulla campagna e sul nostro grande giardino, bhè molto grande. Vigneto, oliveto per non parlare delle coltivazione che papà faceva in piccole quantità della verdura.
Mi mancava quello stile di vita: mangiare sano era qualcosa di nostro. Mi era mancato un sacco, stare in mezzo alla natura. Tirai un sospiro di sollievo e mi avvicinai al mio babbo, che portando un braccio in torno alle mie spalle, mi invitò ad affacciarmi fuori e respirare un po’ di aria fresca e allo stesso tempo pungente.
Ci appoggiamo alla ringhiera  e voltandosi a guardare, aprii la bocca parlando.
- Allora, non hai niente da dirmi… - costatò, senza tanti problemi, parlandomi chiaro e schietto.
Lo fissai un attimo, e mi resi conto solo ora che lui ne aveva passate più di me. Rughe di vecchiaia segnarono di più quell’espressione di padre premuroso, che aveva assunto in quel momento, facendomi sentire un po’ più sicura, di come lo ero già quando fissavo quelle di Mr. Singer.
Sorrisi triste al ricordo e mio padre sospirò, come ero solita fare anch’io. Ecco da dove avevo preso il vizio.
Perciò alzai le spalle e appoggiandomi alla ringhiera nella sua stessa maniera, lo guardai negli occhi e sputai “quelle parole” anch’io:
- C’è stato… c’è stato qualcosa… -. - Forse qualcuno… - borbottò mio padre bloccandomi, e facendomi sussultare. L’unica mia risposta fu annuire e continuai:
- C’è stato qualcuno che mi ha costretto a tornare qui, ma non mi ha… obbligata, ovvio! – dissi con un risolino isterico.
- Quel Gie… non ricordo come si chiama tesoro, ma quel ragazzo ti ha fatto perdere la testa non è così? – domandò senza nessun’ombra di dubbio mio padre, corrugando la fronte, unendo le sopracciglia, in una smorfia di preoccupazione.
- Non. Mi. Ha fatto. Perdere proprio la testa… - sussurrai, fissandolo altrove, l’orizzonte, il sole alto nel cielo.
Non potevo dichiarare quando amassi quel ragazzo, mentre fissavo gli occhi di mio padre, sapendo poi, che cosa avrei dovuto raccontare dopo.
- E’ solo che… papà il fatto è che io l’amavo follemente! – esclamai finalmente, a qualcuno che non fossero i miei amici, ma confessandolo a qualcuno che mi ero vicino e poteva capirmi meglio. Chi se non mio padre…
- Sai, ero tutto così perfetto… - sussurrai, guardandolo sentendo che la diga di lacrime stava a poco a poco cedendo.
- Ti ha spezzato il cuore? – domandò serio con un tono, poco arrabbiato.
A quella frase gli risi in faccia. Mio padre non capii quella reazione, e facendosi più serio di prima, mi fece fermare, fissandolo con le prime lacrime che mi solcarono le guance.
- Papà, sono stata io a spezzarglielo! E’ stata tutta colpa mia, l’ho tradito! Bhè forse non proprio… ma gliel’ho fatta! Gli ho chiesto scusa e sono fuggita, perché… perché… - iniziai a singhiozzare e ridere istericamente, sconvolgendo me stessa e mio padre per quella reazione. Non era da me, ma non era da mio padre, abbracciare una delle sue figlie così forte, cullandola come faceva quando eravamo che delle neonate e iniziò a sussurrarmi che andava bene.
- E’ tutto okay, è capitato già, non puoi farci nulla! – mi sussurrò all’orecchio, baciandomi la tempia, cullandomi un po’ a destra e un po’ a sinistra.
- Papà… - singhiozzai sul suo petto, prima di tirarmi indietro e fissandolo dritto negli occhi.
- Papà… tu… tu mi perdonerai se sarò tornata così alla sprovvista? Lo farai? Anche se ho lasciato il sogno di una vita? Un sogno che cercami per me da sempre? – domandai con voce disperata, piangendomi ancora addosso come una fragile ed insignificante umana che ero.
Mio padre mi fissò dritto negli occhi con quella somiglianza così vicina alla mia, che sembrò di vedere un po’ me stessa allo specchio.
Occhi negli occhi, mi asciugò con il pollice calloso le lacrime umide dalla guance, e sorridendomi triste mi disse quelle parole che si marchiarono sulle costole vicine al cuore:
- Dovresti perdonare te stessa per averlo fatto. Ma se questo ha significato averti di nuovo qui, bambina mia, sono contento che tutti sia andato così… amore di papà… - sussurrò, abbracciandomi di nuovo stretta a se, tremando appena tra le mia braccia.
Forse per il freddo… o forse perché il mio dolce papà era un umano come tutti.
Fatto di carne, di sangue, di lacrime e in possesso di un cuore.
 
- Papà prima che me dimentichi… tieni qui! – dissi fermandolo davanti la soglia della mia stanza. Mi avvicinai con la busta rosa in cui tenevo quei soldi che mettevo da parte, perché un giorno prima o poi avrei dovuto pagare i miei genitori per i sacrifici che avevano fatto per me.
Perciò c’erano quasi più di dieci mila euro dentro quella busta, un paio in contanti e un paio in assegni.
Ancora da scambiare da dollari americani in euro italiani, ma per quello ci avrebbe pensato la banca.
- Cosa sono? – domandò mio padre meravigliato, fissando tutto quel capitale. Io sorrisi sincera, e portandoglieli al petto, facendogli stringere tra le mani, annuii decisa e lo fissai dritto negli occhi, cercando di fargli capire quando per me fosse stato importante se lui avesse detto si.
- Accettali, è un piccolo pensiero per tutto quello che tu e mamma avete fatto per me. Ho voluto ripagarmi così, proprio nel vero senso della parola! – esclamai convinta.
Mio padre resto stupito, fissando ancora l’interno della busta, cercò di farsi il conto di quanto potesse esserci dentro e alla fine abbattuto me lo chiese:
- Quanto denaro è? – domandò serio.
Alzai le spalle e scossi la testa: - Bhè un bel po’… - dissi.
- Quanto Elisabetta? – domandò autoritario mio padre.
Sospirai e sorrisi: - Più di diecimila, tutti vostri! -.
- Sono troppi! – esclamò sgranando gli occhi, cercando di lasciarmi la busta.
- Papà, no! – dissi autoritaria e frustrata allo stesso tempo. – Questi li ho messi da parte per voi! Ora li prendi subito, sennò guarda… guarda che me ne vado di casa! – barbottai.
Mio padre mi lanciò uno sguardo di sfida, e prima che potessi ribadirlo, mio padre esclamò: - Li accetto ma li mettiamo nel tuo conto in banca… e se ne avremo bisogno, li useremo promesso! -.
- Se ne avrete bisogno! – precisa “avrete” facendogli capire che quei soldi erano suoi e della mamma.
- E va bene, si, si… - continuò a dirlo un altro paio di volta, ma poi gli tappai la bocca, abbracciandolo forte e facendogli soffocare un: - Elisabetta se non stai attenta, la prossima mi fai venire un acciacco alla schiena! – e ridemmo entrambi come un padre e una figlia.
Lo eravamo oltretutto.
 
- Sperare è bene, non sperare è meglio – concluse papà, quando uscimmo dalla banca, in quel tardo pomeriggio del mio arrivo in città.
Chi mi vedeva sopra l’auto di Michele, mi saluta allegramente, felice, come se di me gli fosse importato. Avevo chiesto più volte a papà perché la gente era così felice di vedermi, e quando mi accorsi che rideva sotto i baffi, con un po’ di solletico sotto le ascelle lo feci parlare.
- E va bene, te lo dico, i nonni paterni si sono lasciati andare e lo sai come funziona qui, uno lo racconta ad un altro ma glielo dice diverso etc, etc. E’ uscito fuori che sei stata la regista e non la fotografa di questa serie tv di successo… sono arrivati a dire che sei andata in America per recitare in Beatiful! – concluse ridendo, prima di entrare in banca.
Io ero restata a bocca aperte e poi mi ero fatta una risata isterica in quella silenziosa banca… da sola.
- Allora dove andiamo? – dissi, camminando in mezzo alla piazza del paese per arrivare alla nostra auto, finendo di salutare per l’ennesima volta un vecchietto baffuto, seduto al bar vicino al comune.
- Non so, vuoi farti un giro per il paese? Oppure vogliamoci prendere un caffè? – domandò indicando il bar di fronte. Annuii poco convinta e ci entrai con papà, e affermando i miei sospetti, dentro erano tutti uomini, mi vergognai e bussando alla spalla di papà, gli indicai che l’avrei aspettato fuori, lui annuii tranquillo e si diresse al bancone per due caffè.
Quando uscii fuori sentii delle urla provenire da dentro la grandi mura della sede comunale. Incuriosita fissai la grande porta ad arco, dove poco dopo uscirono un gruppo di ragazzi della mia età, vestiti più o meno eleganti.
Come se fosse un matrimonio.
Mi rallegrai un po’, vedendo come tra di loro, quei ragazzi si facevano i dispetti e se la ridevano con lo sposo e la sposa.
Un bel gruppo uniti di fidanzatini e single insieme ad una coppia ufficializzata. Chissà chi erano i due novelli sposi…
Si formò un arco di persone in mezzo alla piazza, e chi era vestito in un semplice abito bianco-panna e chi in nero, velocemente attraversarono l’arco di bracci alzate, e papà venne fuori dal bar portandomi il caffè caldo proprio in quel momento.
- Oh, finalmente si sono sposati al comune! – borbottò mio padre, bevendo un altro piccolo sorso di caffè stretto.
- Chi sono? – domandai, cercando di capire di chi stesse parlando, o cercando di vedere chi potessero essere, tra braccia e corpi.
Quando la coppia in bianco e nero, spuntò dall’ultimo arco di braccia, mi meravigliai di vedere il mio ex ragazzo e la mia ex migliore amica, darsi un bacio, e stringersi in un dolce abbraccio.
Il caffè resto in gola, e prima che potessi mandarlo giù male, ne tossii un po’ a terra.
- Ehi tutto apposto? – domandò mio padre, dandomi qualche dolce pacca sulla schiena.
Tossii un’altra volta ma alzai le braccia in alto, parlando con voce roca: - Il caffè era forte -.
- Si certo, io sono quasi cinquantenne e il caffè era forte! – esclamò ridendo sotto i baffi.
- Andiamo?! – domandai arrabbiata verso di lui per quelle battutacce idiote che gli uscivano. Mio padre mi lanciò uno sguardo di sfida e portando le due tazzine indietro, portò un braccio intorno alle mie spalle, esortandomi ad andare.
Ci incamminammo dal lato opposto per il parcheggio, quando qualcuno iniziò a dire: - Ma quella è Elisabetta! -. – E’ tornata Elisabetta! –.
– Elisabetta! -, iniziò a chiamarmi ad alta voce qualcuno.
Insieme a mio padre, che sul viso aveva dipinto un sorriso più che compiaciuto, mi fermai voltandomi con un più o meno un sorriso sincero.
- Si? – domandai, cercando lo sguardo di chi mi aveva chiamato.
Il primo a fare un passo avanti fu proprio lui. Davide. Il cuore mi si fermò un attimo, ma iniziò a battere regolarmente, e quello era un buon segno. Misi l’anima in pace a me stessa e tranquilla, feci un passo avanti anch’io, e sorrisi un po’ lieta di rivederlo.
- Davide! Ciao – borbottai, poco convinta, visto il modo in cui ci eravamo lasciati. Con un ché di amaro per me, e un schiaffo sul viso per lui.
- Come stai? Ci sei mancata! – esclamò, dandomi una pacca sul braccio. Annuii convintissima: “Cos’era quella pacca?” pensai sconcertata. “E’ sposato, non può abbracciarti davanti a sua moglie, nonché tua ex migliore amica!” esclamò più sconcertata di me, la mia vocina interiore.
“Perché non ti stai un po’ zitta”, e cercai di chiudere quella voce in una gabbia silenziosa.
- Benissimo e voi? -, feci un passo di lato notando Luana che sorrideva timida. Alzai una mano salutandola e ridendo come una cretina mi rivolsi di nuovo a Davide.
- Ti sei sposato sotto il lato civico! Auguri! – dissi.
- Grazie! Tu ti sei divertita in America? Com’è il lavoro? – domandò Davide curioso. Scossi la testa desolata e alzai le spalle. Prima che potessi dire la verità, la vocina parlò al posto mio involontariamente: - Mitico! – esclamai stupita.
“ Mitico? Mitico! Certo, come no…” esclamai a me stessa.
“ Vuoi svergognarti davanti a tutti dicendo che ti sei licenziata? Fai finta che devi tornarci…”
Bhe, forse…: “Come se poi non noteranno che resterò qui per il resto della mia vita!”, sbottai amaramente, ritornando alla persona di fronte a me.
- A quando il matrimonio in chiesa? – domandai per cambiare argomento.
- Tra un mese! Il sei di dicembre! – disse voltandomi a guardare Luana, invitandola ad avvicinarsi. Così fece nel suo abito bianco, fino a metà gamba, stretto a mono-spalla.
- Saremo contenti anche se per quello che è successo… - iniziò Davide con voce sincera, -… comunque tu venissi al matrimonio. I tuoi sono stati invitati, tutto il paese sarà quasi presente, vorrei e vorremmo che ci fossi anche tu – concluse sorridendomi mesto.
Fissandolo negli occhi, e vedendo quando fosse provato ma convito di quello che stava dicendo, fissai le loro dita intrecciate e non potessi altro che dire: - Si, perché no? –.
E fissai l’approvazione di mio padre, mentre sorridendo alla coppia annuiva gioioso.
- Bene, ci si vede al matrimonio ragazzi miei! Auguri e divertitevi stasera! – esclamò mio padre, stringendo la mano ai neo sposini.
- Auguri! – dissi un’altra volta, superandoli poi per arrivare all’auto parcheggiata, questa volta senza altre soste.
- Dove si va allora? – domandò mio padre un’altra volta.
Riflettei un po’ e prima che potessi farmi convincere a fare un giro, sorrisi e contenta esclamai:
- I have idea!
- Cosa? – domandò mio padre, sconcertato delle mie parole senza senso, almeno per lui.
- Ho un idea! -  borbottai in italiano, ridendo divertita.
- Sentiamo! – disse mio padre mettendo in moto.
Feci gli occhietti da cucciola, perché sapevo quando odiasse andare dove stavamo andando.
- Mi porti dai nonni materni? – domandai con voce da bambina.
- Oh ma daaaai! – esclamò frustrato, ingranando la prima.
- Ti prego! Ti prego! Ti prego! – lo scongiurai, unendo le mani in senso di preghiera.
Sbruffò frustrato e annuii: - E va bene –
- Siii – esclamai, fissando la strada davanti a me, saltando sul posto, tra sedile e cintura.
 
Non ci impiegai molto a ricordare come fosse bello alberato la casa dei nonni in campagna. Pieno di pini e betulle sorrisi e li chiusi tra le dita in un rettangolo perfetto, facendo finta di fare delle foto… Come mi sarebbe mancato farle per davvero.
- Nonno è in casa? – domandai entusiasta di vederlo.
Sentii papà sbruffare per l’ennesima volta e borbottò un: - Dovrebbe! –.
Scesi immediatamente sul terreno poco accidentato, e corsi alla porta bussando.
- Nonno! – urlai, chiamandolo. D’un tratto sentii l’abbaiare dei cani. C’erano ancora.
- Briciola! Miele! – esclamai, voltandomi a guardare il beagle e il pastore tedesco che correvano verso di me, iniziando a leccarmi le mani, e a sporcarmi gli jeans con le loro zampe sporche di terra.
- Ahaha, no piccoli! Ahahah! – Miele riuscii a buttarmi a terra essendo possente. Nemmeno mio padre quando cercando di aiutarmi, scherzoso, riuscii a richiamarli. Sono il fischio netto di mio nonno, che si era affacciato  dalla porta, li mise sull’attenti, facendoli correre dritti da lui.
- Suvvia belli, andate a giocare nell’erba, su! – alzai lo sguardo appena in tempo, per vedergli lanciare qualcosa tra i cespugli di fronte la casa, e per vedere quei dolci cani scattare con un salto, abbagliando verso quella cosa che nonno gli aveva lanciato, felice e giocosi.
- Oh nonno, grazie mille! – esclamai felice, alzandomi con un salto avvicinandomi a lui, abbracciandolo forte poco dopo.
- Mia adorata nipote! È da un paio di giorni che non ci si vede, eh? – domandò nonno, facendomi entrare, mentre fissavo quella casa che fin da bambina mi aveva cresciuto in un luogo tutto più che magico. Mi sedetti sulla sedia a dondolo vicino al caminetto con dentro una fiamma quasi morta, e i legni che ardevano piano, e fissando nonno che si sedeva di mala voglia su una sedia li vicino al divano del piccolo salottino, mi guardò sorridendomi e domandandomi:
- Allora? Arrivi qui e non dici niente? Com’è il sogno di ogni ex militare come lo ero anch’io? Suvvia racconta nipote! –.
Lo fissai e annuendo tristamente lo ammisi sia a nonno, sia a papà, sia a me stessa:
- Era il più bel sogno di tutti quelli fatti mentre dormiamo! Credimi nonno! Il più bello di tutti! -.
 
 
*spazio autrice*
 
Bene, eccomi qui, intanto vi posto il mio calendario da ora fino a Natale per quando riguarda la pubblicazione dei capitoli.
Voglio spiegarvi che appunto fino al 24 di Natale avrete un capitolo: mi è venuto la brillante idea di postare qualcosa di speciale, infatti avrete un capitolo tutto a tema di quel giorno, in quando la storia si sta strutturando cronologicamente come il tempo trascorso adesso :)
Ecco le mie intenzione per il mese di Novembre-Dicembre che potete scaricare e spero sia chiaro, se non è così mandatemi un messaggio:
 
Per il resto spero che il capitolo vi sia piaciuto. Infondo non c’è molto da dire su ciò, Elisabeth è tornata a casa, alla fine del precedente capitolo si era visto, quindi non ci resta che vedere come andrà nel prossimo, visto che questo è andato un po’ di passaggio, a parte l’invito di matrimonio ricevuto da voi sapete chi :), secondo voi avrà fatto bene ad accettare El oppure no?
 
Al prossimo capitolo, si spera.
 
Xoxo Para_muse

 
 
 
 
 

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Capitolo 17
*** Connection in progress, wait please! ***


La storia fa parte della raccolta: "The Second Chance" - Racchiusi in un...bookstory.
Della storia fa parte anche una Missing Moment tratta dal capitolo 8 (importante per la FF):  "The Real Vacancy of Year"



Capitolo 17

 
Connection in progress, wait please!
 
 
- Papà , sicuro che lo faccio bene? – domandai, voltandomi verso mio padre che stava aggiustando un lembo della tenda in plastica che ricopriva il vigneto di famiglia.
Mio padre abbassò un attimo lo sguardo, notando la cassetta in plastica mezza piena di uva bianca da tavola. Mi sorrise e annuendo continuò nel suo lavoro, mentre io continuavo il mio.
Mi ero decisa, dopo che avevo fatto visita al nonno, mi aveva fatto ricordare quando da bambina davo una mano in famiglia, bhè adesso avevo voglia di rifarlo, di riprovare quella sensazione sana e buona che nasceva quando facevo qualcosa di utile.
Rendermi utile, ecco cosa mi serviva. Fare qualcosa, distrarmi e aiutare le persone a me care. Lo stavo facendo, e aiutavo mio padre a raccogliere l’uva, muovendoci ormai verso la fine, visto che il periodo della vino-coltura si stava chiudendo per aprirsi quello della oli-coltura. Avremmo raccolta olive, e l’avremmo portato all’oleificio per farlo lavorare, trasformandolo in ottimo olio per cucinarci prelibatezze.
Sorrisi, contenta. Era bello distrarsi in quel modo. Mi liberava la mente, me la rendeva un po’ più leggera da strani pensieri che facevo, quando stavo a casa a leggere un libro. Non che il libro sia brutto, un ottimo libro come Romeo e Giulietta non guastava mai, o magari quei nuovi best-seller che stavano iniziando a spopolare sui vampiri, non erano male. Ma parlavano di amore, e per me quel sentimento era come dire… morto. Avevo sviluppato altro tipo di legami in famiglia. Ero di nuovo in sintonia con la nonna e il lavoro a maglia. Con mamma e il lavoro in cucina, facendo dei dolci e il pane – mentre fuori pioveva e non si poteva quindi lavorare sul terreno perché molle – e poi non per ultima perché meno importante, la dolce sorellina neo-fidanzata che cercava disperatamente il suo abito da sposa. E a chi non chiedere aiuto se non a me? Perciò la domenica dopo il mio arrivo e il sabato appena passato ieri, li avevamo trascorsi in atelier diversi da abiti da sposa.
Per poco non avevo pensato di ordinare un biglietto aereo per due, e andare da Kenflied in cerca di un abito perfetto per lei, sotto i cinque mila euro o dollari in quel caso.
Alla fine però domenica scelse l’abito dopo un mio consiglio. Semi apertura, di un classico bianco – come mamma preferiva – impreziosito da una miriade di pietre preziose dalla vita in giù, e da ricami a foglie che salivano su sin sul corpetto a cuore fin a finire sul velo che le rivestiva il petto e le braccia come una seconda pelle. Il fiocco finale che le evidenziava appena sotto il seno, e l’opera era fatta.
Quell’abito le stava di in canto e perfetto. Poche e semplici ritocchi dalla sarta ed entro la data del matrimonio era pronto.
Eravamo tutti così felici, che il resto degli abiti da scegliere erano ormai l’unica cosa che ci preoccupava di meno visto anche che io e papà non ci convincevamo ad andare per negozi in cerca dell’abito da “padre della sposa” e da “damigella d’onore – testimone”. Troppo presi dalla vendemmia e dalla raccolta delle olive per pensare a quelle sciocchezze. Sapevamo entrambi che l’avremmo scelto in un solo ed unico colpo. Saremmo entranti nel negozio, ne avremmo adocchiato uno, e poi provato. E quest’ultimo ci sarebbe stato a pennello senza problemi, quindi per noi era l’ultima spesa comprare l’abito, rispetto a come la pensavano Laura e mamma.
Ma tralasciando i dettagli del matrimonio, papà mi stava richiamando all’attenzione perché aveva bisogno una mano, perciò corsi a dare una mano nel lavoro che stava facendo e sorridendogli gli chiesi scusa per il ritardo.
- Per ora pensi troppo Betta! Dovresti liberare un po’ la mente quando lavori in campagna… - borbottò mio padre, fissandomi un po’ contrariato, e quando finalmente sembrò che la tenda di plastica restasse su da sola, la lasciai andare pensando a quando mi aveva beccata piangere quel primo inizio settimana in Sicilia, da sola, dopo quella video chiamata fatta con Jessica, Kelly e la piccola Elena a cui le era spuntato l’ombra del primo dentino da latte.
- Libeth! Libeth!!Dendino, mio! – mi aveva borbottato nel suo inglese stentato la piccolina del palazzo  a Abbey Street, in Vancouver.
Le sorrisi dolcemente attraverso la camera, battendole le manina per la felicità di quel primo passo verso il “crescere”
- Ci manchi lo sai, no? – disse Kelly tristemente, tenendo Elena in braccio per non farla scappare. Ma la bambina era attratta da qualcos’altro perciò ben presto la lasciò andare, e la fissai correre dietro le loro spalle, tranquillamente da sola.
- Cammina? – domandai stupefatta, fissandola giocare con un peluche sul tappetto della mia ex casa.
- Si, vuoi vedere un filmato dove l’abbiamo ripresa? – domandò Jessica, afferrando il cellulare, iniziando a cercare.
- Certo che si! O mio Dio, Elena… brava la mia Elena! – borbottai tra me e me stupita, alzando lo sguardo sullo schermo sfocato del cellulare di Jessica per vedere una piccola testa castana, alzarsi da terra tentennando e muovendo poi i primi passi, sempre paventa.
- Ma è un amore! – dissi a Kelly, che emozionata, cercava di trattenere le lacrime. – Lo so – rispose, fissandomi sullo schermo.
- Anche tu sei cambiata… sembri più scura, abbronzata direi quasi! – esclamò infine, fissandomi attentamente.
Cercai di trattenere un sorriso, ma infine mi scapparono le famose parole di timidezza: - Lavoro con mio padre in campagna! -.
- Come un uomo? – domandò ridendo Jessica. Risi anch’io vergognandomene un po’, ma Jessica sapeva com’era combinata l’Italia. Quel lavoro che facevo in America, era difficile da trovare qui, perciò quando si destò dalle risa, annuii tristemente e parlò con voce più seria rispetto a prima:
- Sai oggi a lavoro ho visto Mr. Singer… - iniziò, fissando dritto in camera. Fissai lo schermo rattristandomi.
- Come stai? – chiesi.
- Abbastanza bene, è sempre lo stesso. Era con Mr. Kripke. Hanno chiesto di te. – disse, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Abbassò appena lo sguardo per ritornare a fissarmi dallo schermo.
- Elena che combini? – domandò d’un tratto Kelly alla bambina dietro di sé; scomparì all’istante, dietro le spalle di Jess.
- Cosa volevano sapere? – domandai con poca voce.
- Come? – domandò Jessica aumentando il volume del pc.
- Cosa hanno chiesto? – dissi ad alta voce, cercando di farmi sentire dal microfono del pc.
Jessica alzò appena le spalle e poi parlò con voce tremante: - Se stavi bene… se ti avessi visto o contatto in qualche modo. Gli ho detto che ho un contatto frequente con te. Allora Mr. Singer, mi ha pregato di mandarti i suoi saluti più cari e che manchi al set… - , - E poi? – domandai, sicura che avesse altro da dire.
- In realtà è stato Mr. Kripke a dire altro… - iniziò Jess, sorprendendomi. Mr. Kripke aveva qualcosa da dire su di me? Cosa?
- Che cosa? – domandai curiosa.
- Mi ha detto di dirti, se ti avessi sentita, che il posto alla Warner Bros, ora in mano alla CW americana… - la bloccai sentendo quelle parole. – Che cosa? Hanno venduto la serie tv alla CW? Ma li ci passano altri telefilm ogni sera, la serie così non lo vedrà nessuno… - urlai quasi contrariata a quella scelta.
- Bhè non lo dire a me Lizz, so solo che andiamo alla grande comunque, cambio o no, la serie la seguono in molti quest’anno! – esclamò soddisfatta Jessica.
Ne restai colpita, ma l’invitai a continuare: - Mi ha chiesto di dirti che il posto di lavoro qui resta sempre libero, solo per te… cioè c’è qualcuno che ti sostituisce per ora, ma ti rivogliono, e costi parecchio. Mi hanno detto che il tuo stipendio da quant’era? Quasi mille in euro? Te l’aumentano ai quasi due mila, lo capisci, ti stanno invitando a venire qui insomma… perché non vieni? Perché non ritorni? Dai… - quella fu l’ultima volta che le sentii dire quelle parole, l’invitai a non ripeterle più, perché più me le sentivo dire, più ci stavo male. E alla fine di una delle tante video chiamate con il trio americano, piansi come una stupida, abbracciando il cuscino stretto, come se fosse quel braccio caldo che stringevo al mio primo risveglio con lui.
- Elisabetta, che succede? – le parole di mio padre di quella sera, si ripeterono di nuovo quella mattina sotto i vigneti.
- Papà scusami, faccio una pausa, non sto bene oggi – mormorai, lasciando andare la pinza da taglio sul tronco, in equilibrio, correndo poi a casa, a bere un bel bicchiere d’acqua, cercando di risvegliarmi da quel sogno ad occhi aperti.
 
- Ehi, finalmente ti vedo, e da quasi ventiquattro ore che mi manchi! – esclamò Jessica tutta in ghingheri davanti al pc portatile di casa.
- Dove stai andando truccata così? – domandai curiosa, fissando quel trucco particolare. Mi sorrise timidamente ma divertita e teatralmente smosse i capelli come una modella: - Esco con il mio ragazzo bella e tu? – domandò con tono di voce abbastanza quasi sexy.
Risi divertita, ma cercai di soffocare quella risata un po’ sul nascere, visto che erano le due di notte di mercoledì, diciotto novembre, mentre da lei era ancora martedì, diciassette sempre dello stesso mese.
- Io sono a casa, se noti sono a letto con il pc portatile sulla gambe, aspettando che tu chiamassi e che mi facessi un po’da ninna nanna! – risi piano, e abbassai il volume degli altoparlanti visto la voce squillante di Jess.
- Cosa hai fatto di bello oggi? – domandai curiosa, fissandola mettersi gli orecchini via webcam.
- Niente di particolare, scartoffie, circolari, messaggi e chiamate, e tu? Scommetto olive. Me l’hai accennato l’altro giorno, se non sbaglio… - disse, fissandosi le unghie per vedere se ci fosse qualche imperfezione con lo smalto.
- Si, siamo passati agli olivi. Mi piacciono così tanto, e poi quelle schiacciate che fa mia nonna! Gnammy, sono da paura! – dissi, pensando al gusto aspro ma salato delle olive con la carotina dentro.
- Non mi fare venire fame prima del previsto! Ancora ci manca un bel po’ prima ch… - si bloccò fissando aldilà del computer. – Hanno suonato, aspetta un attimo… - borbottò fissando la camera, e alzandosi, mostrandomi involontariamente il vestito bellissimo e nuovo – si vedeva –. Si inoltrò fuori la schermata, andando alla porta.
Sentii il rumore dei tacchi, la porta aprirsi e pensando in un primo momento che potesse essere Kelly con la peste di nome Elena, sbadigliai con un mezzo sorriso in faccia, cercando poi di farmi passare il sonno.
- Ehi amore! Non credevo passassi ora… - esclamò la voce forte di Jessica. Sgranai gli occhi. Era Jared.
Da quanto tempo…?
- Tesoro prendo la giacca di la e torno subito… - sentii il rumore dei tacchi e della voce della mia migliore amica farsi sempre più vicino. Spuntò appena sullo schermo e veloce pronunciò le parole, prima di abbassare lo schermo a metà – come faceva quasi sempre! -:
- Devo andare, se Jared ci scopre in video-chiamata ammazza prima me e poi il pc, ovvero te! Ci sentiamo presto! -.
Vidi i bottoni consumati del mouse, e mi rattristai. Poco dopo sentii la voce di Jared andare incontro a quella di Jessica: - Con chi parlavi? – domandò curioso. Le mie orecchie si rizzarono. Forse Jared l’aveva scoperta, ma mi domandavo comunque perché Jessica avesse fatto quel commento idiota da “uccide prima me e poi te!”.
- Con nessuno, vado in bagno, aspetta qui! – sentii dire, e poi silenzio.
Magari la chiamata si era interrotta. Ringraziai il cielo e abbassai la schermata di Skype, cercando la mia cartella per un lavoro che stavo facendo con Photoshop e vecchie foto scattate.
D’un tratto, nelle cuffie sentii un’imprecazioni in inglese. Saltai in aria, chiudendo il lavoro e aprendo la finestra di Skype.
Vidi lo sguardo di Jared stupito. – Sei tu! Sei tu! – esclamò isterico, con una smorfia di stupore e di quasi felicità, credo.
- Jared che combini? – urlò Jessica dall’altra stanza, correndo con i tacchi verso di lui.
- Io… - non sapevo cosa dire. Afferrai il mouse mobile e portandolo sulla x della finestra, chiusi la video-chiamata sotto shock.
D’un tratto, mentre chiudevo le altre finestra, cercando poi di spegnere il pc, mi arrivo sia una chiamata su Skype che sul telefono. Vedendo che la stessa persona mi stava chiamando in due diversi modi, risposi prima a quella sul telefono forse più sicura.
- Pronto? –
- Betta, calma, sono io! – disse preoccupata Jessica, iniziando a farmi respirare di nuovo. Non aspettai però un secondo di più, per porle quella domanda:
- Perché Jared ce l’ha con me? – domandai preoccupata. Sentii il respiro di Jessica triste: - Il fatto è che… il fatto è che lui se l’è presa. Ce l’ha con te per il fatto che te ne sei andata senza delle spiegazioni!-, - E non è solo per quello! – la voce di Jared via telefono si fece sentire. Trasalii.
- Sta zitto amore! – esclamò Jessica, cambiando poi lingua, iniziando a parlare in italiano con me.
- Pensa che Jensen comunque da un lato abbia avuto ragione. Te ne sei andata senza dare delle ovvie ragioni almeno per crederti naturalmente… e poi per il fatto che te ne sei andata dal lavoro, lasciando tutti nell’alta marea – concluse Jessica. Le lacrime iniziarono ad appannarmi la vista e la voce di Jared risuonò un’altra volta nell’auricolare del telefono: - L’italiano lo capisco comunque, e dille che accetta quella maledetta videochiamata! Voglio vederla! -.
Jessica sospirò un’altra volta, e dicendomi: - Sentito? Per favore, fa quello che ti dice… - borbottò staccando la chiamata telefonicamente.
Costretta e comunque un po’ entusiasta di vedere di nuovo quella faccia amica ma incazzata di Jared, mi portò ad accettare quell’altra chiamata.
- Ciao – borbottai, fissando lo sguardo di rabbia del ragazzo davanti alla web-camera, posta dall’altra parte del mondo.
- Ciao? Mi dici ciao? Dovresti dire: “Sto correndo subito da voi! Mi mancate!”, cretina! Perché te ne sei andata? – domandò con tono di voce arrabbiata.
Fissai il suo sguardo infuriato e mi salii un groppo in gola, mentre la diga delle lacrime iniziava a cedere.
- Jared io e che… io… - chiusi gli occhi presa dalla stanchezza, e con voce rotta cercai di mascherare il singhiozzo con un colpo di tosse.
- Cosa Elisabeth? Cosa? Sono così frustrato di non poterti avere davanti, perché a quest’ora ti afferrerei per le spalle e ti scuoterei finché non sputeresti quelle benedette parole di commiato! – esclamò sempre con quel tono di voce burbero.
Abbassai appena la faccia, non mostrano le mie lacrime al computer e allo camera, mentre sentii Jessica dire qualcosa a Jared, con voce piena di rabbia.
- … lascia che ne parliate un’altra volta. E’ stanca, spossata e frustrata anche lei, quindi parlate un’altra volta! -.
- E va bene, ma parleremo Elisabeth, capito? – domandò con voce seria e bassa questa volta.
Io annuii semplicemente, e salutando con un udibile ciao, abbassai lo schermo del computer, spegnendolo. Lo poggiai sul comodino più vicino al mio lato del letto a una piazza e mezza, e mi strinsi al cuscino, piangendo per tutta la notte e notando come sia stata una bellissima idea abbandonare tutti in quel mondo.
Perché sicuramente se li avrei salutati tutti, uno per uno, adesso forse non mi avrebbero perseguitato come dei fantasmi o scheletri nell’armadio… qualsiasi cosa siano, li terrò lontani. Magari con un po’ di sale. Ironia della sorte.
 
- Elisabetta! Torna a casa, dobbiamo andare! – urlò mia sorella dal balcone della cucina. Mi voltai a fissarla fare un gesto per attirare la mia attenzione tra i rami alti e bassi degli ulivi. Lascia andare la canna con cui battevo tra i rami per fare cadere le olive e fissando papà, mi accertai che potesse darmi il permesso.
- E’ inutile tua sorella mi perseguita con questo matrimonio, mio Dio è tra più di un mese! Vai tesoro, non voglio sentirle url… - si fermò quando sentimmo un altro urlo da parte di Laura.
Abbassai la testa tra le spalle e risi divertita. Papà mi sorrise dolcemente e mi lasciò andare, perciò corsi fino a casa, non prima però di essermi fermata per controllare la grotta che papà aveva scoperto e mi aveva fatto vedere.
Mi avvicinai all’entrata e entrandovi la testa, fissai l’acqua che calda dalle grandi vasche, evaporava riempiendo l’aria.
Mio padre aveva fatto quella piccola scoperta quando per caso il masso più grande che ostruiva l’entrata, si era sfracellato per via di un fulmine nel mese di aprile, poco dopo che me ne ero andata.
Sorrisi fissando quel piccolo paradiso. Ancora non avevo avuto la possibilità di farci un bagno. Papà aveva detto che l’acqua era pulita, si era accertato lui stesso con un amico che si intendeva di quella roba.
Aveva anche già stabilito che avrebbe messo da parte un po’ di denaro per assicurare la zona e che avrebbe fatto un bel passaggio da li alla casa, senza bisogno degli scarponi per il terreno grezzo.
Aveva pianificato quella che sarebbe stata la nostra piscina ma che non lo era però. Perché erano terme.
- Elisabetta! – esclamò per l’ennesima volta mia sorella, con voce arrabbiata questa volta.
Saltai in aria per lo spavento, ma corsi subito fuori da li, correndo verso casa. Prima di entrare tolsi gli scarponi verdi e infilai le ciabatte che abbandonai subito sotto il letto, appena salii il piano di sopra, per correre dritto in bagno a fare una doccia e mettermi qualcosa di carino per fare compagnia a mia sorella, per quel benedetto appuntamento alla sala ricevimenti che aveva scelto. Le mancava scegliere il menù, e chi se non me e lei a fare da cavie per il cibo? Perciò quel giovedì settimana, lo passammo sedute ad immaginare quale cibo avrebbero gradito di più gli invitati.
- Allora deciso? I primi due primi… che gioco di parole del cavolo! – borbotto tra se mia sorella, fissandoci seri per un secondo prima di iniziare a ridere come due sceme. Quando vedemmo arrivare il cameriere con il primo assaggio di vari dessert ci ricomponemmo, fissandoci con sguardo scherzoso.
- Abbiamo scelto i due secondi… - borbottò, trattenendo il sorriso, questa volta. – E adesso il dolce… tu che dici? La torta la faccio fare qui o la faccio fare dal padre di Calogero? Lui le torte le fa buone veramente! – dice, assaggiando una creme caramel. “Abbastanza gustoso” pensai, assaggiando un altro tipo di dolce che riconobbi poi essere cassata siciliana.
- Mi ero dimenticata che gusto avesse la cassata… - sussurrai tristemente, posando il cucchiaino da dolci accanto al piattino, pulendomi la bocca con il tovagliolo, dopo aver bevuto un sorso di acqua.
Alzai lo sguardo per guardare mia sorella assaggiare un altro po’ di creme caramel, poi appoggiò anche lei il cucchiaino e mi fissò con sguardo preoccupato.
- Adesso ti metti l’anima in pace e mi spieghi cosa è successo! Lo so che c’è qualcosa sotto, lo so da quando papà è uscito dalla tua camera lo stesso giorno che sei arrivata. Era un attimino… scosso! Cosa è successo Betty? In America? – domandò con tono di voce triste e preoccupato, come da sorella maggiore qual era.
La fissai con sguardo rammaricato e tirai un sospiro di sollievo prima di aprire bocca e spiegarle tutto quello che avevo raccontato a mio padre.
Parola per parola, sperano che alla fine mi avrebbe dato un buon consiglio anche lei.
-… ed ecco tutto! Solo questo, solo che… ho fatto un cazzo di casino! – borbottai, accertandomi che nessuno sentisse quella parola volgare che mi era uscita dalla bocca, diciamo… volontariamente.
- Spero solo che il ragazzo che hai spudoratamente baciato fosse bello… - borbottò con un mezzo sorriso, tirandomi appena su di morale.
Alzai gli occhi al cielo, e tirando le labbra indietro in una smorfia, abbassai la testa da una parte e mia sorella capii il segnale.
- Era gay?! – esclamò a bassa voce, sgranando gli occhi.
Io risi un po’ divertita e annuii: - Ma sia chiaro era ed è uno schianto! Dovresti cercalo sul web, tutte ne vanno pazze di lui! – dissi ricordando quella bellezza etera che Matt possedeva.
- Se ne vanno sempre i migliori… - concluse mia sorella, allontanando il piatto con i dolci e scuotendo la testa disse: - Farò fare tutto dal padre di Calogero! Farà un ottimo lavoro con le cupcakes e tutto il resto. Mi hai detto che le cupcakes sono buone li in America no? Dovresti assaggiare quelle del signor Milazzo e dirmi se sono uguali! – esclamò, chiamando il cameriere e confermando solo i buffet, e la cena al completo, ma senza scegliere alcun dolce.
- Andiamo? – domandò alzandosi e guardando l’orologio. – Oh! Solo le due e mezzo di già? – disse esclamando.
- Ci facciamo un giro e andiamo un po’ dai nonni? – domandai io, mentre ci dirigevamo all’uscita senza pagare visto che il pranzo era stato offerto per far scegliere alla sposa la cena del matrimonio.
- No, ho cose da sbrigare a casa per il matrimonio. Se vuoi ti presto l’auto, ma prima devi venirmi a lasciare a casa! – disse, aprendo in automatico la Ford Fiesta regalatole da mio padre per il suo diciottesimo compleanno. Per il mio ovviamente mi regalarono l’ennesima macchina fotografica.
Saliti in macchina mi accorsi che non aveva avuto nulla da ridire sulla questione me-America-ex ragazzo.
- Non dici niente per… - lasciai la frase in sospeso, sperando che capisse.
- No, in realtà no! – disse semplicemente, ingranando la marcia, partendo per l’autostrada.
- Oh! Va bene – dissi semplicemente, fissando fuori dal parabrezza, un po’ dubbiosa.
Quella risposta non mi diede molto soddisfazione. In verità quelle risposte non erano da lei. Chissà a cosa stava pensando invece di me.
“Che sei una sgualdrina forse? Che ha una sorella sgualdrina!”, pensò la vocina dentro di me.
Sospirai frustrata, e mi voltai totalmente a fissare fuori dal finestrino, cercando di trattenere le lacrime; perché forse la vocina dentro di me aveva ragione.
Ero la pecora nera della famiglia.
- Ehi Betty dovresti iniziare a pensare per l’abito delle nozze! Quando andiamo? Tra un po’ è il venticinque di novembre e sarà un mese esatto alla data del matrimonio! Dovete darvi da fare tu e papà, accidenti! – esclamò amareggiata, fissando la strada.
Mi voltai solo per annuire, e ritornai a fissare fuori dal finestrino più amareggiata di prima. Un mese al matrimonio, un mese al Natale. Un mese a quella festa che gli piaceva tanto.
- Io amo il Natale… si è tutti più buoni! -. Jensen… come mi manca quel suo tono da bambino sognante. Come mi mancano quegli occhi verdi pagliuzzati da quel giallo caldo, quasi oro fuso. Quelle labbra e quelle braccia che mi avvolgevano tutta, e mi stringevano…
Come mi mancava…
 


*spazio autrice*
 
Salve, lo so è quasi da 48 ore che ho aggiornata, ma non ero sicura di poter rispettare la data del calendario postato nel capitolo precedente, andate a dare un’occhiata qui.
Poi per quando riguarda il capitolo, non ho molto da dire se non:
Uno, Elisabeth sta cercando di cambiare corrente di pensiero/i, e si dedica al lavoro anche se spesso sta male, e vorrebbe solo stare a letto, piangendosi addosso, cosa che alla fine del capitolo fa, perché ripenso a Lui.
Due, si ha una vista delle prime videochiamate via Skype, abbiamo visto la piccola Elena e Kelly, e naturalmente Jessica, in compagnia dopo di Jared che infuriata le ricorda una videochiamata da fare insieme e discutere soprattutto di quello che è successo…
Tre, il suo posto di lavoro è ancora valido, la Warner la rivuole ma lei rifiuta. Comprensibile non credete?
Quattro e ultimo punto, Elisabeth si dedica anche alla sorella e al suo matrimonio facendole scegliere finalmente l’abito e il cibo al ristorante scelto. Ancora imprevisto quale sarà l’abito di lei come damigella d’onore o testimone (le due parole infatti ho scoperto essere sinonimi vi spiego subito come: In Italia la così detta damigella è chi porta gli anelli o fiori, mentre in America la damigella è chi porta i fiori semplicemente. Sempre in America tra le damigelle “semplici” – chiamiamole così – c’è quella d’Onore ovvero la così detta Testimone in Italia. Non so se mi sono spiegata? :3 spero essere stata chiara. Perché Elisabeth si definisce uno o l’altra? Perché essendo diciamo tornata da una nazione con “culture” un po’ diverse…insomma è l’influenza Americana ad autodefinirsi così ;D)
Dopo questa lunga spiegazione vi lascio all’abito scelto da Laura, e a tra due settimane, quando la chiavetta verrà nuovamente ricaricata ;D ç___ç


 
Xoxo Para_muse
 

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** Hold your breath and count to ten ***


Pubblicazione anticipata :) E vi annuncio che il Capitolo 10 è stato betato!

La FanFiction fa parte della raccolta: "The Second Chance" - Racchiusi in un...bookstory.
Di cui fa parte la Missing Moment tratta dal Capitolo 8 (importante per la FF): The Real Vacancy of Year



Capitolo 18

 
Hold your breath and count to ten
Adele, Skyfall
(link musicale)
 
- Stamattina presto sono uscita e ho fatto shopping natalizio! Guarda che ho comprato! – disse Jessica, mostrandomi un bel maglione rosso natale con dei fiocchetti dorati sopra e una fantasia di pizzo attaccata qua e la.
- Bello! – dissi contenta, fissando quando fosse un po’ cambiata, giorno dopo giorno che la vedevo via web-camera.
- Che mi racconti te? – mi domandò Jess, fissandomi con la testa appoggiata alle mani, curiosa di sapere le mie cose.
Mi sistemai un attimo il computer sulle gambe, e appoggiandomi alla testiera del letto, alzai le spalle.
- Ho lavorato un po’ con  mio padre e poi niente, sono andata in giro per le ultime cose del matrimonio di mia sorella! E no, prima che tu me lo chieda, non ho cercato ancora per l’abito! – esclamai divertita, fissando il suo disappunto sullo sguardo che mi lasciò dallo schermo.
- Bhè dovresti, sai che se ci sono bisogne di modifiche, non si possono fare entro due o tre giorni. Ci vuole tempo, e soprattutto su questo genere di abiti! – esclamò adirata.
- Vabbè, parliamo di altro! Fra un po’ arriva Jared, e prima che possa dirti qualcosa lui voglio dirti una cosa… - concluse preoccupata, fissandomi seriamente, appoggiando le mani sulla tastiera del pc.
Un po’ preoccupata per la via che quel nuovo discorso avrebbe potuto prendere, mi preparai un po’ psicologicamente e fisicamente, strofinando gli occhi per tenerli belli svegli.
- Si tratta di... – prese un respiro si coraggio, - si tratta di Jensen. E’ messo, è messo male! – esclama d’un fiato, fissando dritto in camera, invece che allo schermo.
Sussultai più che preoccupata. Sbalordita e presa dal panico, domandai con voce isterica perché.
- Di preciso non so il perché; ma penso che il motivo tu lo abbia abbastanza chiaro. Jared non me ne ha parlato chiaramente, mi ha raccontato un po’ di cose così, per il resto, ho tirato le somme io stessa. – borbottò un po’ arrabbiata e frustrata anche lei come me.
- Dimmi tutto quello che sai! – esclamai, cercando le cuffie per non dover alzare il volume del pc e non far sentire nulla ai miei che stavano cenando di sotto, erano appena le otto di sera. Infilai le cuffie e la voce di Jessica arrivò chiarissima dentro le mie orecchie.
- Gli ho sentito dire, parlando con altri sul set, visto che alcuni attori si erano lamentati, che per ora “sta affrontando un periodo abbasta brutto!” e io mi son detta “come no, solo lui!” – disse agitando le mani in aria per mimare le virgolette. Poi riprese con un bel sospiro: - A quando pare Ackles non recita bene e ieri pomeriggio se non fossi stata ordinata a farlo non l’avrei nemmeno saputo, ma è stato chiamato dai piani alti quali direttori e Mr. Kripke e Singer. Ho mandato io stessa il messaggio sul suo cercapersone. Mi sono un po’ preoccupata, perché quando è passato per la reception, aveva una faccia abbastanza incazzata per non dire pure cadaverica… credo che non dorma! Poverino… - borbottò alzando gli occhi al cielo.
Le lacrime mi offuscarono gli occhi e triste strinsi le dita in una morsa sul cuscino dietro la mia schiena.
Jessica notò il mio spavento e il mio stare tesa, come sulle spine.
- Lizzie, magari mi posso sbagliare, ma tu non c’entri nulla! E’ lui che ha scelto di fare così, di essere masochista… insomma tu lo stai affrontando in questo modo: lavorando, distraendoti! Ringrazio tua sorella che ti sta facendo svagare un po’ con le cose del matrimonio da fare, ma fottitene di lui e di quello che fa! Io te lo sto dicendo solo perché Jared adesso che viene te lo racconterà sicuramente, e magari sarà più dettagliato di m… - prima che potesse finire, sentii il campanello suonare.
- E’ lui! – esclamò, correndo ad aprire la porta e a ritornare di corsa in camera, gettandosi sulla sieda con le rotelle, scomparendo un attimo dalla visuale della camera.
- Ahahah ma che fai? – esclamò divertita, ridendo insieme a lei. Dopo un po’ spunta il corpo di Jared che ridendo sommesso, si abbasso salutandomi cortese. Sorrisi alzando una mano allo schermo. – Ciao Jar -.
- Ciao Lizzie – disse, sedendosi sulla sedia che aveva preso da dietro le spalle di Jessica.
- Allora come va? – domandai cortese anch’io. Lui alzo le spalle e rispose con un: - Tutto bene, grazie – borbottato.
- Allora - iniziai tirando un respiro, rilassandomi un attimo da tutte quelle notizie rilevate prima.
- Allora, volevo dirti che… che mi dispiace per l’altra sera, non volevo essere così duro con te, ma è che mi hai un po’ deluso, per non dire del tutto. E hai deluso pure Jensen ovviamente… ma devi sapere che… che ci manchi! A tutti noi, nessuno escluso. – disse, fissando lo schermo, fissandomi me, sullo schermo.
Restai un attimo scioccata da quella rivelazione.
Mancavo a delle persone. Ero impressa nella mente di alcune persone dall’altra parte del mondo.
- Elisabeth, io ti sto guardando e vedo stupore, e malinconia… voglio credere che sia vero! – disse con voce tenera, sorridendomi.
Alzai gli occhi al cielo, cercando di trattenere le lacrime e poi sorrisi come una stupida. – Jared certo che è tutto vero! Secondo te me ne starei a sentirti parlare di queste cose con un sorriso da ebete sulla faccia annuendo semplicemente? – domandai irritata, fissandolo seriamente.
-  A me di lui mi importa! Eccome se mi importa! – esclamai frustrata, lasciando che le lacrime mi bagnassero le guance.
- Hai visto? Te l’avevo detto! – esclamò Jessica con un sorriso sulla faccia, fissando Jared dritto negli occhi.
Jared sorrise sghembo, fissando prima me e poi Jessica. Io abbassai lo sguardo, piangendo silenziosa e ascoltando quello che aveva da dire Jared, ma lui restò comunque in silenzio.
Quando mi ripresi, e fissai di nuovo lo schermo più calma e presa meno dal panico e dalle emozioni che a fiamma quasi smorza, resistevano, sentii cosa altro aveva da dirmi Jared:
- Allora se quello che dici è vero… lo ami ancora? – domandò con voce chiara.
Io sgranai gli occhi e prima che potessi solo tirare un sospiro, prima che il mio cuore battesse un’altra volta, prima che Jared fissasse altro, il mio sub-inconscio  parlò annunciando un flebile ma sentito: - Si -.
- Lo ami? – domandò di nuovo Jared, alzando un sopracciglio. Me lo chiese, notando come tentennassi a rispondere…
Annuii sorridendo timidamente e vergognandomene. Perché la domanda retorica di Jared fu ovvia: - Allora perché l’hai abbandonato? – domandò tristemente.
Alzai le spalla e scossi la testa: - Per non deluderlo… per non fargli fare la figura del cretino. L’ho tradito Jared, è ovvio… - sussurrai, pensando a New York e a quella maledetta fotografia.
Jared corrugò la fronte, e voltandosi a fissare Jessica, annuii insieme alla ragazza che tesa, parlò:
- Lizzie, Jared sa quello che tu mi hai raccontato, e poi… Matthew, lui insomma si è apertamente dichiarato gay ai giornali, e ti ha pure menzionato. Non facendo nome e cognome ma… - la vidi afferrare qualcosa, mentre il cuore andava in tilt. Quando trovò quello che stava cercando, sfogliò una rivista che conobbi come quella che pubblicò la foto del bacio tra me e Matt.
- Allora? Cosa? – domandai curiosa e allo stesso tempo presa dal panico di sapere in qualche altro casino ero stata convolta.
Jessica alzò il giornale dove le interessava farmi vedere, e notai la pagina del giornale con sopra scritto:
 
Matt Bomer do coming out: he’s gay!
 
- Si è dichiarato? – sillabai stupita. “Ma aveva promesso, o meglio si vergognava a farlo…” pensai sgranando gli occhi e riflettendo tra me e me, sentii leggere Jessica qualche frase tratto dall’articolo:
- Matt Bomer afferma che è gay, e lo fa con noi, People e il nostro portavoce Gary Burns: Ciao Matt, devo dire che questa notizia è sconvolgente per noi giornalisti e per le donne soprattutto! Come mai questa svolta dall’eterosessualità all’omosessualità? Con un sorriso il caro bellissimo Matthew ci risponde così: E fin da ragazzino che non mi sentivo al mio posto, fin dalla superiori ho tenuto tutto dentro, cercando di apparire il più normale, bhè forse normale non è proprio la parola adatta, perché anche adesso sono una persona normale ma con gusti diversi. Che c’è? Sono gay, mi piacciono gli uomini e adoro stare con i miei tre figli addottivi. Insomma adesso è stato il momento giusto di espormi per quello che sono, e lo voluto fare in questo modo, e con voi soprattutto visto il precedente che c’è stato con quell’articolo sul bacio, al quanto inappropriato se posso permettermi. Il nostro cavaliere difende la fanciulla scomparsa da New York e da Vancouver, così le voci, dal nome ignoto ma conosciuta come la ragazza di Jensen Ackles, Dean nella serie tv: Supernatural. Ritornando a Matt: Allora, quello che è successo con quella ragazza non è stato solo che un bacio passionale buttato così? La risposta efficace di Mr. Sexy Bomer: E’ stato solo un gioco, quello della bottiglia sapete com’è no? E’ stato il nostro turno e qualcuno ha deciso di farci qualche foto, cosa tra amici, che poi alla fine non è stato, visto che è stato venduto su tutti i giornali…ma non è stato nulla, solo per gioco, quindi la mia risposta alla domanda è si è stata buttata li e basta!
L’attore di White Collar sembra dire la verità e poi continua, ma Lizzie non sto a leggerti tutto l’articolo perché quello che ti sto dicendo è quello che ha riporta Matthew Bomer a People, e ti avverto che Jensen ha letto l’articolo – concluse, posando il giornale sulla scrivania.
Io non potetti che restare a bocca aperta.
“Oh mio Dio”, pensai entusiasta. Forse tutto si risolverà e la fortuna sarà dalla mia parte.
- Lizzie c’è un’altra cosa che dobbiamo dirti… - borbottò Jared a bassa voce.
Corrugai la fronte e li fissai amareggiata: “Scommetto che l’Oh mio Dio è stato inutile…”.
- Jensen… bhè è peggiorato e c’è il rischio che lo licenzino…quindi io e Jessica ci stavamo chiedendo se ti andava di tornare qui, in America, a Vancouver al tuo vecchio lavoro e far ristare bene tutti quanti, perché lo sai, lo sai che la tua partenza ci ha lasciato un po’ l’amaro in bocca – concluse Jared preoccupato, fissandomi dallo schermo.
Iniziai a scuotere la testa senza rendermene conto… non potevo tornare. No, sarebbe stato inutile farlo. Farmi del male, fargli più male e non concludere niente.
Tirai un sospiro spezzato e prima che potessi scappare via, chiudendomi sotto la doccia, rilassandomi e piangendo le lacrime che stavo cercando di trattenere per l’ennesima volta, li fissai tramite la web-camera e parlai con tono di voce chiaro e sicuro: - Ditegli per favore da  parte mia, che si rifaccia un’altra vita, si ritrovi un’altra donna, che vada avanti, che non pensi a me e che non lo amo, soprattutto che non lo amo e che l’ho dimenticato! Inventagli altre cose, ma per favore non sarà più Supernatural se non ci sarà quel Dean strampalato e super sexy di sempre! – esclamai ridendo isterica.
- Elisabetta la cena si sta raffreddando! Scendi! – chiamò mia sorella dalle scale, feci un attimo di silenzio per sentire cos’altra aveva da dire, ma sentii dei passi salire veloci le scale.
- Devo andare, mi raccomando fate come vi dico… ci sentiamo presto! – esclamai a bassa voce al microfono, chiudendo lo sportello del pc, tirandomi via le cuffie, facendomi male con i capelli impigliati ad essi.
- Ehi!- esclamò mia sorella sbucando dalla porta semi aperta.
- Ehi… - sussurrai, strisciando sopra il letto per mettermi le pantofole e correre di sotto cercando di trattenere le lacrime che stavano cercando di uscire fuori, per un strano dolore al petto... – Non vieni? – domandai sulle scale, voltandomi, cercando comunque di non guardala negli occhi.
- Ehm no, devo fare una cosa per il matrimonio. Mi presti il tuo pc? – domandò con voce tesa. Io annuii semplicemente, perché tanto il pc si era spento, e finendo le scale, sbucai in cucina sedendomi con un salto sulla sedia che dondolò sotto il mio peso verso sinistra e poi si fermo. Mio padre mi lanciò uno sguardo di rabbia, ma poi pensò a infilzarsi di mela.
- Cosa c’è per cena? – domandai per l’ennesima volta a mamma che stava sparecchiando in parte la tavola.
- Spinaci, ne vuoi un po’? – domandò mia madre, afferrando la pentola dove ci aveva cotto la verdura, mostrandomela. Annusai e l’odore mi diede la nausea. – Oddio mamma, toglimelo da sotto lo sguardo per favore, mi sta venendo di vomitare… - borbottai, tappandomi il naso, allontanandomi dalla tavola, cercando di trattenere la bile che saliva e scendeva lungo l’esofago.
- Ehi ma che ti succede? – domandò mio padre rabbioso. – Se ti fa schifo la verdura perché hai chiesto a tua madre cosa c’è per cena? Prendi un po’ di pane e mangia senza commenti! – borbottò, continuando a mangiare la mela a morsi.
Fissai contrariata mio padre, cercando di trattenere il senso di vomito che ancora insisteva. Dopo un paio di minuti che sembrarono infiniti, mi ripresi bevendo un lungo sorso d’acqua, e infine accolsi il suggerimento di mio padre, afferrando così il pane e tagliandone una bella fetta, mi alzai da tavola, precipitandomi di sopra, andando a vedere cosa stesse facendo mia sorella.
La vidi uscire quasi di soppiatto dalla mia camera con un foglio, che quando mi vide, nascose dietro la schiena.
- Cosa c’è? – domandò con voce isterica, come colta in fallo. – Che combini? – domandai curiosa, cercando di afferrarle il foglio dietro la schiena.
- Ehm non posso farti vedere cos’è… è, è il mio discorso al matrimonio… togliti di mezzo! – esclamò ridendo, tirandosi indietro, per rifugiarsi svelta nella sua camera, chiudendosi a chiave.
- Stupida! – borbottai, entrando nella mia stanza, prendendo la biancheria e dirigendomi in bagno per farmi una veloce doccia rinfrescante, magari per schiarire un po’ i pensieri.
 
- Allora questo ti piace? – domandò mamma felice, fissandomi dentro quell’abito da damigella. Lilla freddo, lungo in chiffon, con decorazione sulla parte alta, a maniche corte e aderente. Mi piaceva. Aveva un po’ di strascico e l’amavo ancora di più.
- Si, mi piace tanto mamma, lo prendiamo? – domandai a mia sorella che mi fissava con le lacrime agli occhi. – Oh come sei bella! Ma si che lo prendiamo, certo che si! Ti sta perfetto! – disse, alzandosi dalla poltroncina dove era seduta, per venirmi incontro e abbracciarmi.
- Ti voglio bene, grazie per aver accettato tesoro! – singhiozzò sulla mia spalla.
Sorrisi teneramente e fissai mamma, emozionata anche lei. – Grazie a te per avermi scelta come testimone di nozze, anche se Marco non è che mi piaccia tanto… - ridemmo tutti insieme divertite e dopo che mi liberai dall’abito, acquistandolo e portandolo a casa senza problemi – come avevamo promesso io e mio padre –, ci dirigemmo per un caffè, insieme anche a papà che ci aveva aspettato fuori dal negozio, perché annoiato guardare sua figlia scegliere l’abito per il matrimonio dell’altra figlia.
- Sentite io e vostro padre andiamo un attimo all’Atelier per abiti da uomo, andiamo a vedere per il suo abito, voi andate, arriviamo subito, sicuramente… - fissò con sguardo incerto papà, che alzando gli occhi al cielo, afferrò mamma sottobraccio e la portò dentro il negozio, mentre noi andavamo alla caffetteria li vicino.
Vidi mia sorella concentrata mandare messaggi a qualcuno. Mi incuriosii e cercai di sbirciare ma senza risultato. Mi lanciò uno sguardo cattivo e mi invitò ad entrare per prima dentro il locale.
- Oddio che odore buono, ho una fame… - borbottai, correndo verso il bancone dove mi aspettava un ragazzo carino, dall’aria del tutto simpatica. – Salva ragazze, allora cosa posso offrirvi? – domandò cortese.
Lo fissai sorridendo in modo cortese anch’io e prenotai sia per me che per mia sorella.
- Un macchiato e un thè. Poi un cornetto al cioccolato e due alla crema. Grazie! – esclamai, guardandolo mettersi all’opera.
- Potete scegliere un tavolo, li porto direttamente io – suggerii il ragazzo, indicandomi con la testa il locale alle mie spalle.
E così seguii il suo consiglio, andandomi a sedere con Laura in uno dei tavoli appartati, e con quattro sedie.
Dopo esserci sedute, notai mia sorella scrivere ancora al telefono, mi incuriosii ancora di più e glielo chiesi: - Ma si può sapere con chi ti stai scrivendo che sei così… così immersa in questa conversazione che nemmeno mi consideri, cavolo! – borbottai irritata, fissandola con sguardo accigliato.
Laura alzò appena lo sguardo, guardandomi e alzando le spalle, poi lo riabbassò, occupandosi di nuovo a scrivere su cellulare.
- Bha! – esclamai adirata, fissando il ragazzo che stava arrivando con la nostra ordinazione. Gli sorrisi quando fu vicino al nostro tavolo, e lo ringraziai prima che andasse via.
Mia sorella si accorse di quell’attenzione che ebbi con il ragazzo, e mi fissò con occhi storti: - Gli fai il piedino? – borbottò scioccata. Restò a bocca aperta quando non commentai e non le diedi nessuna risposta.
- Tzz! – esclamò tra i denti, rifugiandosi di nuovo sul suo cellulare. Sbruffai infastidita e mi buttai per la noia, subito sui cornetti. Diedi un morso al cornetto alla crema e prima che potessi solo inghiottire, mi fermai con il pezzo in bocca, sbiancando per l’avvertita sensazione di nausea. Mia sorella ebbe solo il tempo di vedermi alzare dalla sedia, perché poi mi fiondai immediatamente al bagno della caffetteria, sputando prima quel pezzo di cornetto lasciato in bocca e poi la colazione che avevo mangiato quella mattina.
“Mio Dio” che mi stava succedendo? “Magari acidità?”, pensai, alzandomi da terra, e voltandomi verso il lavandino dove un lucente specchio –stranamente pulito – mi specchiava, mi fissai il viso che scarno, più magro del solito, con le occhiaie che evidenziavano più del solito gli occhi chiari, e le labbra carnose che comparivano più bianche che rosee, mi misero un po’ di preoccupazione.
Cosa mi stava succedendo? Dovevo fare un controllo al più presto, magari prima del matrimonio. O forse dovevo semplicemente mangiare un po’ di più, visto che adesso invece di stare un po’ a dondolarmi sulle gambe aspettando la scena perfetta a cui fare la fotografia, dovevo camminare, spostare carichi e svegliarmi presto la mattina, per aiutare papà.
Tornai da mia sorella che preoccupata, si muoveva sulla sedia come se avesse un malore alla pancia anche lei, e appena mi vide, saltò su come una grillo, venendomi incontro. Solo quando fu ad un passo da me, notai che il suo viso mostrava più eccitazione che preoccupazione:
- Pensavo fossi caduta dentro al water, senti io devo andare, sta passando a prendermi Marco, devo andare da una parte… dillo a mamma e papà, ci vediamo direttamente a casa! – disse inceppando in qualche parola, correndo verso la porta del bar, e rispondendo al telefono.
La fissai al quanto stranita. “Il matrimonio le stava facendo male”, pensai sconcertata all’idea che mia sorella non si fosse così preoccupata del perché fossi corsa a perdifiato in bagno a vomitare tutto.
Mi diressi al nostro tavolo, dove fissai quei cornetti così invitanti ma anche così nauseanti che li fissai per un attimo solo, prima di chiamare il ragazzo per farglieli portare via.
Mi sedetti solo un attimo, e saltai in aria quando sentii il cellulare vibrarmi sotto il sedere. Lo afferrai, e lo vidi illuminare.
Era un nu sconosciuto:
 
Ciao Elisabeth, sono Luana, scusa il disturbo ma volevo sapere se avrai un accompagnatore al nostro matrimonio. Fammi sapere al più presto così gli faremo avere un posto al tavolo della tua famiglia :)
 
Era Luana. E quale meglio domanda per farmi ricordare di cercare per l’abito del loro matrimonio. Mi ero completamente dimenticata del loro matrimonio, impegnata a cercare l’abito da damigella per quello di mia sorella. Che continuava a sbattermi a destra e sinistra e cercare una bella pochette da abbinare all’abito, e scarpe tacco dodici – almeno - abbinate sempre all’abito e pochette.
Bhè era pazza se pensava che sarei stata una giornata intera su quei trampoli!
Risposi subito con un messaggio riduttivo:
 
Ciao Luana, non penso che avrò accompagnatori. Se uno dei nostri amici in comune è libero di farlo, con molto piacere…
 
E il ricordo di lui, iniziò a farmi male. Come sarebbe stato bello, avere al mio fianco quel ragazzo biondo, con un sorriso così contagioso…
 
… ma non penso di avere nessun accompagnatore. Grazie per l’interessamento, ci vediamo.
 
E afferrando la borsa mi avvicinai alla casa, componendo il numero di mamma per avvisarle che sarei andata ancora in giro per negozi.
Mi avvicinai alla ragazzina che stava dietro la cassa e pagai velocemente, poi uscii fuori dalla porta di entrata, e fissandomi intorno mi portai il telefono all’orecchio. Suonava ma non rispondeva nessuno.
Poi sentii una suoneria che conoscevo. Mi voltai e trovai mamma, intenda a cercare il cellulare in borsa. Risi divertita vedere che papà si era accorto e sorrise insieme a me.
- Oh, Gesù! Ma dov’è andato a finire? – borbottò mia madre arrabbiata con le cerniere della borsa grande e piena.
- Mamma, ehi! Lascia perdere ero io – esclamai avvicinandomi a loro, riponendo il cellulare in tasca.
- Ah, bene! Dov’è tua sorella? – domandò, guardando dietro il vetro della caffetteria. Io alzai le spalle e le spiegai cosa Laura mi aveva detto: - … sentite, io vado in un negozio qui vicino, per cercare un semplice abitino per il matrimonio di Luana, quando torno poi andiamo a casa no? Fra un po’ è ora di pranzo mamma! – dissi, guardandomi intorno per cercare un orologio.
Mia madre annuii e portando a braccetto papà dentro il locale, io mi diressi alle loro spalle, cercando un Outlet o un negozio carino per me.
Non ci volle molto trovare il negozio e poi l’abito perfetto. La commessa, molto gentile mi aiutò a cercare un abito frivolo, un po’ scollato, con qualcosa da abbinare sopra come trench o giacchettina.
Alla fine trovai un abito bianco con a fascia con veli a balzi con cinturino nero che mi evidenziava la vita.
Abbinai un paio di tronchetti neri che mi calzavano alla perfezione e non facevano nemmeno male! Epici!
Mi fissai alla specchio e approvai insieme alla ragazza, che contenta mi appoggio un copri-spalle pieno di piccoli pezzi di pietre luccicanti, che si abbina alle scarpe con degli strass ai lati.
Ero perfetta e pronta per quel matrimonio che ormai, non mi faceva “ne caldo e ne freddo!”.
Tornata in camerino, mi sedetti sulla sedia e fissandomi allo specchio pensai di fare felice Jessica che ancora mi tormentava per l’abito da cerimonia di mia sorella. Bhè non gliel’avrei mai e poi fatto vedere così com’ero conciata adesso; avrei fatto una foto a tempo debito, quando mia sorella si sarebbe sposata, e io sarei passata sotto le mani della parrucchiera e dell’estetista, facendomi apparire molto più bella e più carina, dentro quell’abito.
Alzai il cellulare davanti allo specchio e facendomi una foto, gliela spedii via email.
 
Da: elisabetta.ds@efp.it
A: jessyferry85@efp.com

Oggetto: Abito da damigella
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Volevi vedere l’abito che avrei scelto per il giorno di mia sorella? Eccoti accontentata! Ihihih :)

(abito da cerimonia.jpg)
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Inserii la foto e la inviai, sperando che fosse di sua gradimento. Risi da sola e prima che potessi farmi prendere per pazza dalla commessa che mi stava aspettando fuori, mi tolsi tutto e piegandoli, li poggiai sulla sedia, rivestendomi e uscendo fuori per pagare tutto.
Più di 200 euro, e non battei ciglio. Forse perché per ora i soldi c’erano, e magari perché mio padre comunque riusciva a pagarmi anche la vecchia paghetta da ragazzina, ma con un po’ di denaro in più.
Sorrisi alla commessa quando afferrai felice l’enorme sacchetto e uscii quasi saltellando dal negozio. Con il cellulare tra le mani, aspettavo un messaggio o un email di risposta da parte di Jessica, ma sembrava fosse morto tutta ad un tratto.
Mi feci un calcolo mentale e ricordai che li potessero essere super giù le tre o le due di notte addirittura.
Magari era in giro per locali insieme a Jared, e anche Je…lui. Oppure stavano o meglio stava semplicemente dormendo.
Non ci pensai più e ritornai a fissare davanti a me, cercando alla mia sinistra la caffetteria dove stavo facendo una seconda colazione prima. Trovai i miei genitori già frementi per andare via!
- Andiamo? – domandai.
- Subito! – squittì mia madre, tenendo sempre papà per il guinzaglio.
 
Arrivati nella stradicciola non asfaltata di casa, mamma seccata ricordò di aver dimenticato a fare la spesa.
- E adesso come faccio la pasta alla matriciana se non ho gli ingredienti?! – esclamò frustrata, fissando papà che distrutto scuoteva la testa.
- Non ci vado, sono stanco, devo riposare un po’! – disse papà stufo, fermandosi davanti lo spaziale della porta di casa. Mia madre scese con alcune buste, mentre io scendendo con altre e papà prendeva l’abito dal retro della macchina.
Quando arrivati dentro, mamma scocciata sbuffo un’altra volta, pregai papà che mi desse le chiavi:
- Ci vado io mamma! Dammi la lista con gli acquisti! – esclamai sorridendole appena, aspettando che ricevessi da lei la lista.
- Grazie tesoro! – mi sorrise dolcemente, e appoggiandomi una mano sulla schiena, mi spinse fuori da casa.
Dovetti tradurlo con un: fai in fretta. E così allora feci.
Tornata dal supermercato di fiducia, dopo svariati “come stai?”, “com’era l’America?”, “perché sei tornata?”, parcheggiai l’auto accanto ad un 4x4 che riconobbi come quella di Marco. O almeno credevo fosse sua, visto che era sporca di terra ai lati dell’auto. La guida di Laura sicuro, l’aveva ridotta in quel modo. Solo lei guidava spericolatamente tra buche e straducce di campagne piene di fango, soprattutto la nostra, dove di inverno, ne è pienissima.
Scesi dall’auto, afferrando le chiavi e il sacchetto della spesa. Mi chiusi la portiera dietro le spalle, senza preoccuparmi di chiudere a chiave. Mi avvicinai alla porta principale e mi accorsi di non avere chiavi, perciò feci il giro intorno alla casa ed entrai dalla porta che dava alla cucina, che trovai aperta. Entrai pulendomi le scarpe sul tappetino.
- Mamma, sono tornata! – urlai, non vedendo nessuno in cucina. Posai tutto sul tavolo e mentre ripiegai il sacchetto conservandolo nel ripostiglio in mezzo agli altri, un forte giramento di testa, mi sorprese all’improvviso.
- Che caspita! – sbottai, aggrappandomi alla porta semi chiusa per un capogiro, che aprii, uscendo e dirigendomi in soggiorno, dove trovai papà che sonnecchiava con il solito cappello sulla testa. Sorrisi e sospirai stanca anch’io.... risvegliandomi però di colpo quando sentii un profumo così familiare.
Menta… mi voltai a cercare un distributore automatico di quella marca per casalinghi, ma non ne trovai. Forse mamma ne aveva trovato uno che sapeva nascondersi bene, perché era strano che fosse qui.
Scossi la testa, cercando di rimettermi in carreggiata, e ritornando in cucina, decisi che mi sarei messa all’opera io per cucinare un pasto che avrebbe evitato analisi e quant’altro visto i continui mal di testa dovuti alla fame.
Quando tirai fuori la padella, prima che potessi sentire lo sfrigolio dell’olio, afferrai la caraffa del succo d’arancia fatto in casa, avevo voglia di berne un bel bicchiere e di sentire quell’odore di arance fresche che avevano iniziato a riempirmi il naso se non fosse stato per quell’odore di dopobarba inconfondibile.
Mi voltai appoggiandomi al piano cottura, e chiudendo gli occhi cercai di fare memorai di quello che avrei dovuto cucinare, invece che di pensare a quando fosse stato bello baciare quelle labbra anche piene di lucidalabbra con brillantini, oppure che quelle mani avessero accarezzato tutto il mio corpo, anche se con poco garbo, rubandomi la virtù… oh, Jensen. Sospirai triste, sentendo ancora quell’odore pervadermi la testa.
Alzai lo sguardo fissando un punto indefinito, accorgendomi solo dopo che papà si era alzato.
- Ehi papà, ma per caso è un nuovo dopobar… - mi fermai con il bicchiere a mezz’aria, fissando quella sagoma tanto perfetta, con braccia più muscolose e gambe più tornite, fasciate da jeans un po’ stretti.
Alzai lo sguardo verso il suo che poco meno stupito del mio, cercava di illudermi che Lui fosse veramente li.
Era solo una sensazione, un ricordo, un fantasma… era solo, così veramente lui.
“Prendi un bel respiro e conta fino a dieci”, pensai, prima di aprire bocca…
- Jensen? – sussurrai appena, prima che il bicchiere mi potesse scappare di mano (rovesciandomi addosso una parte del succo), e che iniziassi a vedere puntini neri ovunque.
- Hi Elisabeth –.
Le mia ginocchia cedettero, e la stanchezza mescolata alla sorpresa mi abbracciarono in un caldo abbraccio, cullandomi nell’oscurità.
 
 
*spazio autrice*
 
Salve, allora sconvolte? :D Io un po’ di me stessa, direi proprio di si, e vi dico subito il perché.
Questo capitolo non era in programma. Tutto è nato dalla trama finale del capitolo precedente. Non volendo allungare troppo il 17esimo capitolo, ho scritto questo. Come potete vedere ne è uscito un altro capitolo da leggere, contente? :)
Aggiunta dell’ultimo momento, leggete attentamente:  
mi sono accorta che se scrivessi gli ultimi capitoli fondamentali come le stesure delle trame di adesso, bhè i capitoli sarebbero no lunghi, ma lunghissimi, e sarebbero veramente stancanti da leggere (sto parlando di quasi più di 10 pagine word) quindi i capitoli non saranno più 25 o inferiore a tale numero, sicuramente saranno di più, max e dico MASSIMO 30-31 (incluso missing moments e epilogo ma scritto come missing moment quindi vi consiglio di essere sempre sintonizzate dopo la fine della storia)  Purtroppo dico la verità: NON volevo arrivare a tale cifra, ma se devo descrivere tutto, anche se con balzi temporali, devo farlo. Quindi per la felicità di Ofelia :D ci saranno più di 25 capitoli e non solo, una sorpresa (per lei! *-*) Ma…
…basta più con i capitoli. Avete capito spero xD Ma passiamo ora a parlare del… capitolo.
(scusate il gioco di parole -.- xD)
Finalmente dopo una lunga ed estenuante giornata tra video chiamate tristi, abiti da damigella comprati (vi farò vedere l’abito a suo tempo, è una sorpresa anche per voi) ed email senza risposta da Elisabeth per Jessica che sembra essere “occupata”, finalmente ripeto, FINALMENTE…C’è JENSEN! :D Chi se l’aspettava? U.u voglio proprio vedere, perché anche se avevo lasciato un po’ di “diversi” indizi per capitolo, voglio vedere chi sospettava del gran ritorno! *-*
Finalmente direi eheheh! :3
Bene dopo questo lungo commento autrice, quasi più lungo del capitolo (oddio forse no), vi lascio speransose che Elisabeth si risvegli da Bella Addormentata svenuta qual è! xD
Al prossimo capitolo…e  qui il link del calendario per le prossime pubblicazioni!
 
Xoxo Para_muse
 
 

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Capitolo 19
*** “So, Is this the death?” ***


La FanFiction fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un... bookstory.
Della serie fa parte anche una Missing Moment tratta dal capitolo 8 (importante per la ff): The Real Vacancy of Year



Ehi tu, dico proprio a te…Leggi fino alla fine.


 

Capitolo 19
 
So, Is this the death?
 
Dopo che la voce dell’angelo finì di parlare, mi ritrovai in un mondo tutto parallelo al mio. Luce, calda, consolatrice, mi riscaldava la pelle; dita gentili mi sfioravano come piume, in lenti movimenti circolari; e labbra piene di amore, mi baciavano il corpo, cullandomi nell’abbraccio in cui ero caduta…
… e in cui mi risvegliai poco dopo in uno stato di pura sorpresa e spavento, aspirando aria, e tirando un lungo sospiro.
Aprii gli occhi e la realtà mi si presentò davanti non come un semplice giorno qualunque, fatto da gesti che ormai erano diventati quotidiani. Ero a casa, certo! Nel mio letto, ovvio! Però, qualcosa stava sconvolgendo quella giornata, ed era li, seduto sul bordo del mio letto, a fissarmi con sguardo preoccupato, ma un po’ più sereno di quando avevo chiuso gli occhi, cadendo in uno strano stato di sonno.
- Elisabeth – sospirò sollevato, stringendo la mia mano nella sua calda.
Lo fissai aprendo gli occhi lentamente. Alzando e abbassando le palpebre più volte, prima di rendermi conto veramente che era li. E che mi stava parlando, e che mi stava toccando… lui era li. Jensen era tornato.
- Sei tu – sussurrai, cercando di esprimere il meglio di quel momento, con parole più concrete.
- Sono qui – mormorò, avvicinando la mano libera al mio viso, accarezzandomi dolcemente la guancia, che mi sentii umida a contatto con i polpastrelli morbidi di Lui.
Solo dopo, mi accorsi che stavo singhiozzando piano, e che Jensen sconvolto, frustrato, e triste anche lui, attingeva le mie lacrime alle sue. Restai a bocca aperta, e sorpresa a mia volta, fissando quelle due lacrime che gli solcarono le lacrime, redendole così vulnerabile agli occhi degli altri.
- Oh mio Dio – sussultai, alzandomi dal letto. Appoggiando un braccio dietro di me e sostenendomi al materasso, portai l’altro braccio intorno a lui, che strinsi spasmodico al suo collo, abbracciandolo forte, portando anche l’altro al suo petto stringendo in un pugno la maglia a maniche lunghe scura,  che portava in quel momento.
Iniziai a tremolare, mentre le lacrime non smettevano di cadere giù. Jensen, il mio Jensen era veramente qui… e lo amavo, lo amavo ancora di più, lo amavo da sempre… lo amavo alla follia, era questa la vera e semplice verità.
- Ssh, è tutto okay, sono qui, non andremo da nessuno parte, solo tu ed io. -, sussurrò lentamente al mio orecchio, con voce spezzata.
Stringendolo ancora di più a me, annuendo sul suo petto, si abbassò insieme a me, facendomi di nuovo poggiare supina, e alzando lo sguardo il suo fu a pochi centimetri del mio.
- Sono qui, non andrò più via Elisabeth… non mi vedrai uscire da nessuna porta, o non mi vedrai salire su nessun aereo. Io sono qui, per te! -, sussurrò, accarezzandomi con le dita la fronte corrugata dalla smorfia di dolore, gli angoli degli occhi bagnati, e le labbra semi aperte, dove fuoriusciva ossigeno  a quantità elevate.
Sbattei più di una volta le palpebre prima di annuire velocemente, portando le mani intorno a quel viso scarno ma ancora perfetto e uguale a come lo ricordassi dall’ultima volta.
Non potetti non esclamare un’altra volta “o mio Dio”, era strano ritrovarmelo li di fronte a me. E poi come, quando aveva deciso di venire da me? Di venire di nuovo a incollare quei pezzi di cuore che lentamente si erano dispersi in fondo alla mia anima triste.
- Jensen, io… io, voglio chiederti… - iniziai col dire, prima che lui potesse zittirmi.
- Ssh, lo so – disse, con tono di voce seria, fissandomi dritta negli occhi, risvegliando quell’effetto strano allo stomaco, che adesso sapevo chiamare “farfalle”.
- Ma, io voglio… - ribattei, corrucciando le sopracciglia. Lui riuscii a zittirmi un’altra volta, ma in un’altra maniera.
Come si poteva dimenticare il nome di se stessi, o peggio ancora le parole che ogni notte ti eri formulata nella memoria, ricordando di ripeterle quando un giorno, forse, l’avresti rivisto, magari per ritornare per un’ultima e sincera volta, insieme?
Le sue labbra furono liquido lavico: calde o meglio bollenti, che scorrevano lentamente. Umide e salvatrici bagnarono le mie, che secche, aride, non erano alla ricerche di oasi così come quella.
Jensen mi stava salvando da un momento della mia vita in cui pensavo di essere caduta per sempre. Ma non fu così. Lui era tornato, era li perché era venuto a salvarmi da quel vortici di emozioni così masochiste e dolorose che mi avevano offuscato la mente.
E Dio mi era testimone se non aveva pensato di essere caduta in una depressione totale, quando la notte urlavo e piangevo tra le lenzuola già zuppe della notte passata.
- Jen-sen – mormorai con voce rotta, tra un gemito e un altro, tra lacrime e baci pieni anch’essi di dolore, ma di una passione quasi incontrollabile.
- Amore mio, quanto mi sei mancata, mio Dio quanto ti amo! – esclamò a bassa voce al mio orecchio, stringendomi forte al suo petto, circondandomi con le braccia calde.
- Ti amo anch’io, da morire – e l’avrei fatto, se me l’avessero chiesto.
 
- Allora… - borbottai, fissando il suo petto, cercando di provare meno imbarazzato in quel momento di silenzio, ma pieno di sguardi carichi di quelle parole non dette.
- Allora… tu, come stai? – domandò accarezzandomi i capelli, in un gesto così ingenuo, ma profondo.
- Io…io adesso sto bene – sussurrai, alzando per un secondo lo sguardo, assicurandomi che avesse compreso in pieno quello che avevo voluto dire.
Tirò un sospiro amaro, e tirando su un angolo della bocca in una smorfia, annuii con difficoltà e aggiunse un “anch’io”.
Sorrisi, ritornando a fissare il suo petto, giocando con i ricami di quel maglione morbido e profumato, soprattutto da quell’odore inconfondibile di dopobarba.
- Mi sei mancato – confessai timidamente. Lui strinse una ciocca dei capelli tra due dita e tirò piano, mormorando in un assenso anche lui.
- Mi dispi… - cercai di chiarire un’altra volta. – Ssh, lo so… – bisbigliò. Sorrisi felice, e stringendomi a lui, pregai che nessun’altra potesse portamelo via. Soprattutto, nessun’altra lite.
- Dovrei. Preoccuparmi. Io di. Chiederti… scusa… - sibilò con difficoltà, continuando ad accarezzarmi i capelli. Il sorriso sulle mie labbra scomparve e mi tirai indietro per fissarlo dritta negli occhi, preoccupata. – Perché? – domandai accigliata.
Jensen, chiuse un attimo gli occhi e sembrò tremare tra le mie braccia.
- Cosa Jensen? – domandai con tono di voce basso.
- Io…io volevo scusami per…per quello che ho fatto quella sera Elisabeth! Ti ho turbata e soprattutto rubata di qualcosa che forse… - mi accarezzò con un pollice l’incavo sotto gli occhi. – Mi reputo un cane bastardo per quello che ti ho fatto, non dovevo… perdonami amore mio, perdonami. -, disse, stringendomi un’altra volta tra le braccia, cercando conforto.
Ed era quello che io stavo facendo, cercando di ricordare quei momenti così dissolti nella mia mente ormai, che non dovetti perdonarlo di nulla.
Perché la colpa era stata solo mia, solo esclusivamente mia. Io l’avevo tradito con quel semplicemente bacio, e lui da uomo orgoglioso che era, aveva rivendicato ciò che era suo, ma in un modo forse… possessivo.
Perciò le mie braccia corsero intorno alla sua gola, e le mie dita percorse le sue guance, e i miei occhi corsero ai suoi, mostrandogli la verità. Mostrandogli quello che lui era per me:
- Tu non sei un cane bastardo. Tu sei la persona più orgogliosa e possessiva che io conosca, e non ha importanza se hai rubato la mia virtù in quel modo, non ha importanza se sei geloso di ciò che è tuo. Non ha importanza tutto quello che ci circonda. Ha importanza, invece, il tuo diritto di rivendicare ciò che è tuo, e ha importanza che io rivendichi ciò che è mio. Dobbiamo interessarci di noi stessi, NOI  siamo importanti! Io e tu, il nostro amore… - sussurrai, dolcemente, accarezzando quei morbidi capelli, quelle dolci palpebre semi chiuse, quelle labbra carnose, che avvicinai alle mie per un lungo e passionale bacio, a cui mi lasciai andare con tutta me stessa.
Le mie gambe si strinsero al suo bacino, mentre mi spinse, con le braccia intorno a me, a poggiarmi di schiena sul piumone morbido del mio letto.
Non ci fu bisogno di nessuna parola in quel momento, ma solo di sguardi, sinceri, profondi, amorevoli.
Erano quelli che io e Jensen ci stavamo lasciando continuamente, tra un bacio e un altro, tra una maglia e l’altra, che cadeva giù, lasciando pelle contro pelle, carne contro carne, passione e amore.
Mi strinsi più forte a lui, e senza accorgermene… il piacere invase entrambi.
 
Sentii la luce del giorno infiltrarsi sotto le palpebre, e involontariamente aprii gli occhi al mondo reale… dove ne faceva anche parte l’uomo che accanto a me, silenzioso mi fissava poco prima dormire.
- Buon giorno – borbottai, con voce impastata dal sonno. Strofinai gli occhi con i pugni chiusi, cercando di risvegliarli, e di fissare quindi anch’io, il meraviglioso uomo che mi stava a sua volta ammirando.
- Buon giorno – mormorò in uno stentato italiano, sorridendomi felice. Non potetti, che issarmi sulle braccia, e avvicinarmi a lui, al suo viso, alle sue labbra per un bacio mattutino.
- Il mio uomo – sussurrai, accarezzandogli il viso, stringendomi a lui, sotto il piumone caldo. La sua pelle venne al contatto con la mia, e non potetti che tremare dall’eccitazione della giornata di ieri ormai passata.
- Ehi, piccola – mormorò con voce roca Jensen, passandomi le mani sulle braccia.
- Mmh – mugolai, strofinando il viso sul suo petto come un micio fa le fusa.
- Possono sentirci i tuoi… - mi sussurrò all’orecchio, baciandomi poi la tempia libera dai capelli.
Quando recepii il messaggio, mi allontanai dal suo petto, issandomi su un gomito, solo. Mi strinsi il piumone addosso, e lo fissai stringendo gli occhi a fessura: - Come hai fatto a far smammare i miei genitori senza che loro obbiettassero? – domandai curiosa, minacciandolo quasi.
Sul suo viso spuntò un sorriso divertito e parlando, continuò a giocare con il mio braccio fuori dalle coperte, mettendomi i brividi.
- Gli ho detto che avevo bisogno di parlati. Era urgente, dovevamo innanzitutto chiarire, e da soli… poi magari li avremmo raggiunti, se non eravamo stanchi…ovvio – obbiettò, alzando le sopracciglia autoconvincendo se stesso.
Io risi come non mai, e stringendomi di nuovo a lui in un abbraccio forte, quasi non mi commossi per averlo di nuovo così: tra le mie braccia.
Finalmente.
Quando sembrò esserci un silenzio assordante, in quel momento un rumore di pancia vuota si fece sentire. E non era di certo il mio.
- Mangione, da quant’è che non mangi? – domandai, facendogli il solletico. Si ritirò dalle mie dita, stando attento a non cadere giù dal letto. Poi annuendo, fece la faccia da bambino indifeso, che mi fece intenerire, regalandogli così un bacio: - Da quasi più di ventiquattro ore, hon! – borbottò tra un bacio e un altro.
Perciò decidemmo di fare colazione insieme, alzandoci e scendendo di sotto a prepararcela a vicenda. Non prima però di un forte mal di testa, quando poggiai piedi a terra.
Mi sedetti all’istante sul letto, cadendo come un sacco di patate, tenendomi la testa con una mano, mentre con l’altra mi aggrappai al piumone.
- Ehi piccola tutto okay? – domandò Jensen venendomi incontro, girando intorno al letto.
Annuii e mi alzai un’altra volta, reggendomi alla spalla nuda del mio uomo, sorridendogli e tranquillizzandolo.
- Adesso tutto okay, avevo solo bisogno di un momento. Sai è da ieri che anch’io non mangio! Eh! – esclamai, ridendo e pensando a quello che avevamo combinato.
- Andiamo a farci una doccia e poi di fila a mangiare! – disse, spingendomi nuda direttamente verso la porta del bagno semi aperta.
Mi voltai verso di lui, fermandolo sulla soglia della porta: - Dove credi di andare? Resta qui, se mia sorella entra da quella porta dietro alle mie spalle, bhè sono cavoli amari per te e per me! – puntualizzai, spingendolo indietro. Mi oppose resistenza e mi tappo la bocca quando, cercai di spingerlo un’altra, senza nessun risultato, visto che mi afferrò di peso, infilandomi dentro al box insieme a lui.
Bhè, fu la guerra.
 
- Oh qui, è dove da bambina venivo a scuola – dissi, indicando la scuola materna, tra le via della città, dove avevo portato quel pomeriggio Jensen, per fargli vedere dove fosse stata vissuta la mia infanzia.
- Più avanti ci sono invece le prime scuole, e poi la seconda scuola, che da noi in realtà è stata divisa in due: scuole medie e superiori. Poi c’è l’Università, ma quella è fuori città, noi qui non ne abbiamo. A Dallas si invece? – domandai, fissando un po’ la strada e un po’ Jensen che guardava intorno, ammirando la cittadella viva, nel tardo pomeriggio di fine novembre.
Quando ci allontanammo dalla città, perché volevo che vedesse la campagna dei nonni (dove ci stavamo dirigendo) sembrò risvegliarsi, e quindi iniziò a parlare: - E’ un bel posto la tua città! Poche persone, la maggior parte  quasi vecchia, non mi riconoscerà nessuno! – confermò più a se stesso che a me.
Annuii convinta anch’io comunque, fin quando non pensai ai miei amici, o magari a quel giorno in cui l’avrei portato in giro per i negozi, ma fuori città.
- Dove andiamo adesso? Uh, guarda quante pecore! – esclamò divertito, indicando il gregge, pascolare in un prato.
- Stiamo andando a casa dei miei nonni. Ti faccio conoscere un paio di amichetti – dissi, sorridendogli.
- Vediamo chi sono! – disse con tono incuriosito. Non impiegai molto a trovare la via per arrivare a casa di nonno. Appena parcheggiai sulla strada sterrata, e scesi dall'auto, mi ritrovai Jensen ricoperto da zampe e lingue. - Briciola!Miele! - esclamai divertita, richiamando i due cani. Briciola non se lo fece ripetere due volte, e mi venne incontro gioiosa.
- Oh, guarda ci sto già simpatico! – urlò contento, facendosi leccare da Miele, che si alzò su due zampe contento e giocoso, mentre la piccola Briciola si faceva beffa della mia bassa statura, venendo a giocare con me.
- Non sono adorabili? – domandai, lasciando andare Briciola, e Jensen lasciando andare Miele, così facendo, li lasciammo giocare tra di loro, abbaiando giocosi.
Jensen, prima che si facesse vedere da mio nonno, cercò di pulirsi con il giubbotto la saliva sulla faccia e sulle mani.
- Che porco che sei! – borbottai, ricevendo come risposta una bella manata sul sedere.
- Oh grazie – dissi con voce isterica, bussando alla porta.
Nonno fu immediato, e prima che Jensen potesse replicare, aprii la porta invitandoci ad entrare, facendosi così presentare l’uomo accanto a me.
- Nonno lui è Jensen, Jensen lui è mio nonno Salvatore – dissi, prima in italiano e poi in inglese. Mio nonno serio strinse la mano a Jensen in una morsa stretta e sorridendogli Jensen ricambiò. Poi si rivolse a me, facendomi tradurre in italiano a nonno:
- Nonno, Jensen dice che è un piacere conoscere l’uomo che mi ha appassionato alla fotografia, è grazie a te che… - nonno non mi fece finire, disse solo in uno stentato italo-inglese – “Grazie per avermi riportato la mia vecchia nipote, grazie” –.
Restai più che stupita. Ero entusiasta.
- Nonno tu parli l’inglese! – dissi, afferrando la sua mano rugosa tra le mie. Mio nonno alzò le spalle e dirigendosi verso la sua poltrona a dondolo, vicino al caminetto, si ci sedette sopra e iniziò a dondolarsi. Mi trascinò con se, facendomi sedere sulla sedia li vicino. Invitai Jensen ad avvicinarsi.
- Sai ti ricordo che io c’ero quando i soldati americani sbarcarono sulla nostra terra e ci dissero “ciao” – disse, sorridendomi.
Cavolo, mio nonno era un uomo di grandi risorse.
 
Quella stessa sera, decidemmo di fare una grigliata a casa, tutti insieme, tra i nonni paterni e non. Jensen, naturalmente fu al centro dell’attenzione di tutti. E non potevo lasciarlo solo un attimo che le mie due care nonne, se lo mangiavano vivo con domande in dialetto stretto, che il povero Jensen, a parte la lingua italiana che parlava poco e capiva altrettanto poco, per lui era incomprensibile arrivare a capire il dialetto.
- Nonne, per favore, lasciatelo andare… - borbottai un poco arrabbiata, pescando il mio ragazzo dalle mani rugose di entrambe, che lo tenevano per un braccio ciascuno.
- Grazie per avermi salvato, tesoro! Pensavo di morire li in mezzo alle tue dolci nonne! – sussurrò, a bassa voce, per non farsi sentire da nessuno, credendo che nonno Salvatore, fosse abbastanza bravo di capire anche quello, visto che il suo inglese non era per niente scarso.
- Allora, cosa preferisci? Aletta di pollo o coscia? – domandai da brava donna qual ero. Lui mi fisso sorridendomi dolcemente, e prima che mia sorella potesse dividerci, perché voleva scambiarci qualche parola, mi sussurrò un eccitante: - te! -.
Lo fissai andare via, tra le braccia di Laura, e mi voltai verso mia madre e mio padre, che preparavano tutto fuori in veranda.
- Allora! – esclamò mio padre, attirando l’attenzione. Mi avvicinai verso di lui, sorridente. Lui mi lanciò uno sguardo felice. – Tutto apposto eh? Lui è tornato, avete fatto pace…i piani sarebbero di ritornare in America di nuovo, non è così? – domandò, continuando a fare cuocere la carne sul fuoco.
Portai le braccia al petto, per il leggero venticello che faceva fuori casa, e alzando le spalle, misi il broncio: - Lo so papà, ma tu che pensi? Lui viene, mi perdona e io non ritorno a fare quello che mi è sempre piaciuto fare? – domandai a bassa voce, senza far sentire nulla a mamma, che si era allontanata un attimo, entrando in cucina.
- Sarà un colpo per tutti – borbottò, girando la griglia sul fuoco dall’altra lato, fissandomi poco dopo con sguardo serio.
Annuii e mi rattristai. Era così bello stare così, tutti insieme, felici. E con Jensen soprattutto. Cosa avrei dovuto fare? Fissai mio padre accigliata e preoccupata.
- Per ora godiamoci questi giorni insieme. Jensen mi ha detto che non ritornerà in America almeno fino al Natale…ha promesso che sarebbe restato qui con me! Lo sai papà che lavoro fai lui…quindi deve rispettare le vacanze e soprattutto anche la sua famiglia, a cui ha promesso che per il Capodanno sarebbe stato insieme a loro… -.
- Lo so, ma tu… ci mancherai come sempre… - borbottò alla fine, quando vide tornare mamma dalla cucina.
Mia madre fissandoci, si accigliò, e posando le ciotole con il condimento sul tavolo li fuori, si portò le mani ai fianchi ed esclamò: - Che sono quelle facce da mortalità? Suvvia, è una festicciola per il tuo bel ragazzo! A proposito… - disse, correndo a prenderlo per il braccio, scippandolo da quelle di Laura, offesa!
- Sia chiaro mio bel Casanova! Tu dormirai in salotto! – l’indico, come se lui potesse capire tutto anche dagli gesti. Ma non fu così, purtroppo. Jensen mi lanciò uno sguardo confuso e spaventato dal tono di voce isterico e autoritario di mia madre. Perciò tradussi con enfasi, e Jensen diventando serio iniziò a parlarmi e poi a rivolgersi a mia madre: - Se proprio devo farlo, lo faccio, ma ho voglia di stare con te! “No problema” – borbottò, ma io scossi la testa ridendo.
- Mamma cosa pensi che sia avere un ragazzo nella stanza di tua figlia? Niente! Siamo adulti e sappiamo quello che facciamo. Lui dorme con me! Non si discute… - esclamai seria, iniziando a gesticolare anch’io.
Mia madre fece uno sguardo spaventato. Sgranò gli occhi alle mie parole, e iniziò a dare i numeri. Se non ci fosse stato mio padre, bhè a quest’ora sarebbe morta per pressione alta.
L’ebbi comunque vinta io, e Jensen l’ho capii solo dallo sguardo languido che gli lanciai.
 
Il mese natalizio era ormai alle porte, il primo di dicembre di quell’anno duemila sette fu al quanto fortunato.
Quel martedì, che sapeva fortunato, decidemmo di uscire da soli in città, e Jensen aveva deciso di portarmi a cena.
Ma non fu proprio una vera cena. Dopo gli antipasti, Jensen decise di ordinare per entrambi una bella pizza margherita. Italiana era più gustosa, o così l’aveva definita lui.
- Dovrei venire più spesso in Italia. Adoro il cibo! – disse, masticando un altro pezzo di pizza, morso dal suo primo trancio.
- Mmh, e le donne italiane! – dissi, facendomi beffa da sola, iniziando a ridere come due ragazzini.
Bevvi un sorso di acqua per calmare l’animo, quando vidi raggiungerci Davide e Luana, che incuriositi, mano nella mano, fissavano Jensen, che cercava di riprendersi dalle risa.
- Ehi, ciao Elisabetta! – esclamò sorridente Luna, invitandomi ad alzarmi per salutarci con un bacio sulla guancia. La stessa cosa feci con Davide.
- Ciao ragazzi, come state? Tutto pronto per il matrimonio? – domandai un po’ curiosa anch’io.
Luana annuii e passando lo sguardo da me a Jensen, mi portò naturalmente a presentarglielo. Mi volta verso il mio ragazzo, che gentile, si era alzato per galateo, e porse la mano ad entrambi i miei amici.
- *Jensen, they are Davide and Luana, that will marry this month. I have been invited. You know I mean… - dissi in inglese, spiegandogli tutto.
Lui sorrise e disse in un italiano stentato: - Congratulationi! -.
Davide e Luana risero con garbo e ringraziarono di gusto chiedendosi ancora chi Jensen fosse:
- Davide, Luana lui è Jensen, un mio caro amico dall’America! – dissi sorridendo timidamente, lasciando qualche sguardo d’intesa con Jensen.
- Ah, capito! Bhè per quanto tempo resta qui in Sicilia? – domandò Davide curioso, voltandosi a guardalo più di una volta. Dalla sua statura, Jensen lo supera di netto, soprattutto Davide, che era solo poco più alto di me, ma più basso del mio attuale boyfriend.
- Resta fino a Natale, poi parte -, dissi annuendo.
Luana batte le mani contenta: - Puoi portare lui al matrimonio allora! Se i tuoi non sono contrari… sarebbe magnifico! Portalo, un posto per lui è assicurato! – esclamò sorridente.
Alzai le spalle e annuii poco convinta. Jensen non avrebbe approvato la cosa…e sapevo già il perché.
- Allora ci sentiamo Jensen, Elisabetta! – disse Davide, spingendo la sua futura moglie, fuori dal ristorante.
- Ci vediamo – dissi, sedendomi e fissando con un sopracciglio alzato Jensen, che dubbioso si chiedeva cosa avessi detto.
- Allora? – domandò curioso.
- Bhè sei stato invitato ad un matrimonio! – esclamai a bassa voce, continuando a mangiare la pizza.
La faccia di Jensen non fu una delle più contenti.
 
(ndt: *Jensen, they are Davide and Luana, that will marry this month. I have been invited. You know I mean…
Jensen, loro sono Davide e Luana, che si sposeranno questo mese. Sono stata invitata, sai di cosa parlo…)
 
- Ma tu guarda, siamo ad un centro commerciale, a cercare un svolazzino abito da cerimonia per uomo, invece di passeggiare come le altre coppie per le vie della città! – borbottò Jensen, stufo, mentre giravamo per i negozi nel centro commerciale in cui eravamo andati dopo cena.
E meno male che c’era quello aperto, sennò saremmo ritornati a casa senza far nulla alle dieci di sera.
- Jensen devi capire che qui non è come in America, che le coppietta vanno a cena, passeggiano per i parchi… qui non ne abbiamo! Abbiamo solo centro commerciali e campagne. Quel verde pubblico che pensi tu, bhè non esiste! – dissi triste, ammettendolo.
Jensen sbruffò per l’ennesima volta, ed entrando in un negozio per abiti da cerimonia, gli feci acquistare un abito casual ma dall’aria elegante e da cerimonia. Sembrava quasi l’avessimo acquistato in America.
- Ma spiegami almeno chi sono i due ragazzi che si sposano! – esclamò, afferrando il sacchetto con l’abito, uscendo fuori dal negozio, con me mano nella mano.
Inizia a blaterare, cosa che a lui non piacque. Sapeva che quando faceva così, c’era qualcosa sotto, perciò dovetti dirgli la verità, onde evitando di litigare un’ennesima volta.
- Ti ricordi quella volta a Miami quando piangevo e mi sono scagliata addosso a te? – chiesi, mentre ci dirigevamo agli ascensori per i parcheggi.
Lui annuii e collegando la discussione ai ricordi e a quello che mi ero successo prima che arrivassi in America, eravamo già arrivati in macchina, con l’aria condizionata calda accesa e Jensen al mio posto per guidare l’auto.
- Mi stai dicendo che noi stiamo andando al matrimonio del tuo ex fidanzato? Quello che ti ha fatto le corna con quell’altra ragazza? – domandò isterico, mettendo in moto, dirigendoci verso la strada statale, per tornare a casa.
- Mi prendi in giro spero? Cioè El, suvvia, è il ragazzo che ti ha spezzato il cuore! E che ti ha fatto addirittura scappare dal tuo paese! Cazzo, ragiona un attimo… - esclamò frustrato, guardandomi negli occhi. Mi voltai a fissarlo anch’io e mi slacciai la cintura per avere un libero movimento con le gambe. Mi inginocchiai su me stessa.
- Senti Jensen, dovevo farlo per la mia famiglia. Infondo è stata invitata dalla loro e non potevano dire di no! A quei tempi era una cosa da ragazzini! – dissi cercando di convincerlo.
Jensen squittì sdegnato: -  Ti ricordo che è stato solo otto o sette mesi fa! Tu sei scappata per lui! Te ne rendi conto? – borbottò, continuando a guardare la strada e a guardare me, fissando anche il navigatore, per seguire correttamente la strada.
- Oh Dio, smettila! E allora? Anch’io sono scappata dall’America perché abbiamo rotto! Ne fai una storia di questo? No! Sei qui, cazzo! E poi è solo un matrimonio… un maledetto matrimonio! – esclamai arrabbiata, voltandomi di scatto, e fissare fuori dal finestrino.
- Si certo, il maledetto matrimonio del ragazzo che voleva toglierti la verginità per scappare poi con un’altra…quale tua amica! - sbottò irritato, accelerando di colpo, per raggiungere il primo incrocio della strada per arrivare in città.
Sentendo quelle parole scattai di colpo, e voltandomi arrabbiata verso di lui per urlargli la prima imprecazione del cavolo che mi fosse scappata dalla bocca, vidi la luce di due fari, vernici addosso dopo essere usciti di razzo dall’incrocio in cui noi saremmo dovuti entrare.
Sgranai gli occhi di scatto e afferrando le braccia di Jensen, urlai.
- Attento, Jensen! Attento! –.
Afferrandomi di colpo, mi sbatté sulla sedia, urlandomi di tenermi forte a qualcosa; perciò afferrai di colpo con una mano la cintura dietro la mia spalla destra, ma senza che riuscissi a tirarla del tutto. Iniziai a pregare e a sperare che quello che stava succedendo, fosse solo una scena di un film d’azione, a cui avrei riso per gli effetti speciali.
Mi aggrappai alla sedia con entrambe le mani, e fissai Jensen, sperando non fosse l’ultima volta.
 
Sentii i freni stridere.
Qualcosa venirmi contro.
Bruciore ovunque.
Dolore ovunque.
Aprii gli occhi e vidi sfocata. Sentii il sapore di sangue in bocca e cercai di sputarlo. Mi ritrovai in una totale confusione, che non ricordai cosa stessi facendo prima.
Presi un respiro, e sentii male ovunque. Qualcosa di opprimente mi stringeva il petto. L’airbag. Alzai le braccia che sembravano ancora attaccate al sedile, tese e doloranti. Le alzai a peso morto lentamente, e cercando di sgonfiare quell’affare, mi ritrovai a respirare più o meno liberamente. Sentii la testa pesante quando la prima boccata di ossigeno mi pervase, ma non era solo quello ad entrare nei miei polmoni. Puzza di fumo e benzina. Il mio sesto senso mi diceva di chiamare immediatamente aiuto.
Non trovai la borsa sul cruscotto. Mi apprestai a cercarla ai miei piedi, dove trovai un lago di sangue e non capii se fosse mio o di … mi voltai a fissare se stesse bene. E il collo mi fece male. La schiena mi fece male. Non capii il perché.
- Jensen –.
La mia voce era così poco udibile a me stessa, che pensai fossi sorda.
Jensen sembrava respirare, ma era svenuto, e bloccato tra la sedia e la cintura di sicurezza.
Dovevo chiamare qualcosa, o meglio qualcuno. Perciò aprii la portiera senza più finestrino e uscii fuori.
Se fossi riuscita a farlo.
Cercai di scendere prima una gamba e poi l’altra, ma non percepii il movimento di esse, se non nemmeno al tatto delle mie mani.
Erano così pesanti e morte. Le lacrime mi offuscarono la vista. Cercai di muoverle un’altra volta, e con forza maggiore, mi alzai su due gambe, uscendo dalla macchina che distrutta, era trasversale in mezzo alla strada.
Che cos’era successo?
Mentre mi apprestavo a camminare lentamente intorno all’auto, le forze mi vennero meno, e caddi a terra per intero.
Sentii le fiamme bruciarmi la pelle, e l’asfalto disturbare la schiena dolorante. Non riuscivo più a respirare, iniziai a sputare sangue.
- Jensen – sussultai, cercando di svegliarlo.
Non mi sentii, solo silenzio, e nessuna risposta alla mia richiesta d’aiuto. Cosa avevo fatto di così sbagliato per meritarmi tutto questo?
Era questa la morte?
 
 
*spazio autrice*
 
Salve,
lo so, lo so. Cosa è successo? Ve l’avevo detto io che c’era qualcosa in servo per loro due, dopo che si sarebbero congiunti…ma come direte voi, con un incidente? E bhè, non ho molto da dire. Ma non preoccupatevi, vedrete tutto al prossimo capitolo. Io non voglio dire nulla! u.u solo una cosa:
come vi avevo detto nel capitolo 13, i dettagli sui capitoli conclusi era da prendere con le pinze. Infatti questo capitolo doveva nascere come 18esimo capitolo, ma è nato come 19esimo. Il problema è che questo capitolo, non è finito come volevo che finisse, perché sarebbe stato molto più lungo, quindi ecco che vi ritrovare un capitolo in più da leggere!
Insomma si vede che scrivendo ancora, questa storia secondo me non finirà mai xD
Ma ritornando seri (almeno per il finale capitolo, glielo dobbiamo un po’ di serietà) volevo postarvi la copertina finale e iniziale del prossimo capitolo. Non voglio mettervi ansia, ma solo postarvi un immagine con quello che è successo. Al prossimo capitolo, per qualcosa di più chiaro.
Para_muse

 
 

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Capitolo 20
*** “Save him, not me” ***


La FanFiction fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un... bookstory.
Della serie è tratta una Missing Moment dal capitolo 8 (importate per la FF): The Real Vacancy of Year



Capitolo 20
 
“Save him, not me”
 
Oh qui, io fisserò il mio sempiterno riposo,
E scoterò da questa carne stanca del mondo, il giovo delle avverse stelle.
Occhi guardatela per l’ultima volta.
Braccia prendere il vostro ultimo abbraccio.
E voi labbra, voi che siete la porta del respiro, suggellate con un leale bacio,
la morte che tutto rapisce.
 
Romeo & Giulietta
William Shakespeare
 
 
 
Cristina, nurs on duty
 
Ad alta voce canticchiai la canzone di Bon Jovi, che era tratta dalla soundtrack della nuova serie tv su Rai 2. 
- I'm a cowboy, on a steel horse I ride/I'm wanted (wanted) dead or alive/Wanted (wanted) dead or alive… -, presi la strada statale, intenta a dirigermi verso l’ospedale a Catania, visto che ero di turno quella notte. Mentre continuavo a guidare e, aspettavo che la parte saliente arrivasse per lasciarmi andare in un canto squarciagola, i miei sensi mi portarono a frenare di botto, fissando l’atrocità che mi si presentò davanti.
Afferrai il cellulare e composi il numero dell’ospedale, non prima di aver afferrato la valigetta e aver corso verso l’auto catorcio e fumante.
Notai solo allora la ragazza a terra, in un lago di sangue. E un’altra auto capovolta più avanti, sulla strada.
- Qui Pronto Soccorso Emergenze! - , disse la voce di Deborah al telefono. Iniziai a dettare ordini: - Mandami subito tre ambulanze e un set di medici pronti per incidenti stradali! Chiama i Carabinieri o Polizia. Ho bisogno di plasma e trasfusioni di sangue immediato! Credo siano quattro sul campo, se non due! – sbraitai, fissando l’auto ribalta più in la. 
- Dove? – chiese Deborah preoccupata.
- Strada Statale Fulgente-Catania! All’incrocio! Sbrigatevi! – dissi, chiudendo la chiamata, inginocchiandomi di colpo, fissando la ragazza mezza cadavere. 
Viso cenerognolo, e labbra quasi viola, portai due dita al collo, e due al polso sinistro. I battiti c’erano ancora ma lenti, iniziai a tamponare le ferite che provenivano dalle braccia scoperte.
Afferrai il giubbotto nero e lo strappai dalle cuciture, iniziai a fare dei piccoli lunghi fili di stoffa, che attaccai alla coscia dove c’era un lungo taglio causato da vetro. Poi passai sotto, dove la gamba riportava una torsione abbastanza grave. Come ci era arrivata qui fuori in questo stato?
Notai la tempia sanguinare, iniziai a tamponare anche quella.
Infine mi preoccupai per quel lago di sangue, e iniziai a ispezionarla sotto i pantaloni. La ragazza d’un tratto iniziò a tossire.
- Ehi, sono qui per aiutarti. Sai come ti chiami? – domandai con tono di voce professionale, ma  allo stesso tempo rassicurante.
La ragazza sembrò spaesata, iniziò a scuotere la testa e a parlare in inglese.
- Jensen, help me! Jensen! – gracchiava, fissando l’auto. La fissai anch’io, non prima però di essermi accertata di cose fosse successo di preciso.
- Ti ricordi cos’è successo? Parli italiano? – domandai ad alta voce, avvicinandomi al suo viso.
La ragazza non rispose, ma mormorò qualcosa di incomprensibile. Mi occupai di nuovo dei pantaloni, e non notai nessun segno di taglio a parte quello sulla coscia e sulla gamba. Sperai non fosse quello che stavo iniziando ad immaginare. Ma non poteva essere, magari era il sangue dalla coscia…mio Dio, che casino!
- Come ti chiami ragazza? – domandai, scuotendole piano una spalla. La ragazza emise un bassissimo gemito e sussultò: - Elisabetta. Mi. Chi-amo Elisabetta… -.
- Ti ricordi dell’incidente? – domandai, cercando la torcia da medico per controlla se avesse subito qualche trauma cranico, che dubitavo non fosse così, visto com’era ridotta.
- Elisabetta, per caso eri… - prima che potessi finire di parlare, la ragazza disse di nuovo il nome del ragazzo.
- Jensen, Jensen… - sembrava una litania, ma pensai si trattasse di chi era restato in auto. Con una smorfia, fissai l’auto silenziosa. Che fosse morto? Dovevo controllare, ma prima dovevo accettarmi che quell’emorragia smettesse. Soprattutto quella interna, se le mie supposizione fossero state giuste.
- Elisabetta, per favore, dimmi se avevi addosso la cintura oppure no… - le afferrai una mano, che cercai di riscaldare, perché sempre più fredda.
- Non. Ha. Impor-tanza… - tossì un po’ di sangue, e sbattendo piano le palpebre, disse chiaramente:
- Salva lui, non me -.
A quelle parole, la mia anima innamorata, diventò briciole, mentre gli occhi della ragazza sembravano diventare vitrei. Quando stavo per abbandonarla, per correre a salvare almeno una vita, e non perderne due, sentii il rumore delle sirene delle ambulanze, e forse anche dei carabinieri.
Con più speranza, sentendo quel rumore tanto soave, iniziai a stringere i lacci di stoffa, e a pompare il sangue con un massaggio cardiaco.
- 1. 2. 3. 4. 5. – e soffiai aria tra le labbra fredde della ragazza. Le sirene si fecero sempre più vicine.
- 1. 2. 3. 4. 5 -, e soffiai aria tra le labbra fredde della ragazza, un’altra volta…
- 1. 2. 3. 4. 5 – soffiai per la terza volta l’aria nei polmoni, sentendo anche il battito cardiaco al collo. Sembrava essersi ormai rassegnata quella ragazza, ma io non demordevo.
-1. 2. 3. 4. 5 – sentii gli altri infermieri, iniziare ad attorniarmi, ma non lasciai andare il petto di quella ragazza.
- Cosa abbiamo? – domandò uno di turno. Iniziai ad elencare tutto quello che avessi costatato da sola, tra un soffiata e un’altra, continuando a massaggiare il petto ad Elisabetta. Indicai l’auto, dove notai che il ragazzo di cui parlava la giovane stesa a terra, fosse vivo e lesionato anche lui, ma non come la ragazza sotto i miei massaggi cardiaci.
Continuai a massaggiarle il petto anche quando la spostammo tra collare e stecche, sulla barella. Salimmo sull’ambulanza, e tra trasfusioni di sangue e plasma, tamponamenti e ricuciture, dopo 45 minuti di solo massaggio cardiaco, il suo cuore iniziò a battere.
Non so di preciso perché provai solo una sensazione di sollievo, invece che di orgogliosità per aver salvato una vita. Forse perché quella vita mi aveva colpito più delle altre. O forse perché era stato l’altruismo della ragazza a portarmi a fare quei massaggi per un periodo così lungo di tempo, dove gli altri infermieri ci avevano perso le speranze.
Forse era stato proprio per quello. 
Speravo solo Dio che entrambi stessero bene, perché se l’avessi salvata, e questo famoso Jensen non lo fosse stato, forse avrebbe preferito svegliarsi, uccidermi e poi uccidere se stessa per amore.
Come fece Romeo per la sua Giulietta. Fedeltà e altruismo, insieme, per un eterno sentimento: l’amore.
 
- Come va? – domandò il primario entrando nella stanza, dove avevamo posto la ragazza di nome Elisabetta, dopo averle operato la gamba, ricucito tutto, e controllato che fosse apposto con il lieve trauma cranico che aveva subito.
Per quel motivo ero passata soprattutto, visto che l’aveva messa sotto coma farmacologico. Era necessario che si riprendesse del tutto, e tenerla sotto osservazione significava adottare quel modo.
- Sta reagendo bene, i battiti ci sono, sono regolari. Il costato si sta lentamente rimarginando, meno male che li aveva solamente rotte, senza nessun frantumazione e quindi pericolo di schegge. Le lastre hanno parlato chiaro. Se avesse messo la cintura! – esclami frustrata, pensando a quando giovani morivano per gli incidenti stradali senza attenersi alle norme di sicurezza.
- Il ragazzo che era con lei come sta? – domandai, fissando il Dottor Mancuso.
Annuii e mi sorrise: - Meglio della ragazza. Abbiamo chiamato i genitori. Abbiamo potuto parlare solo con quelli di lei, dovevano arrivare a momenti… - disse, lasciandomi con una leggere pacca a fissare la ragazza dormire in un sonno profondo.
 
Mi diressi verso la stanza dove presumessi ci fosse il ragazzo dell’incidente grave. Ma non ricordando bene il numero, mi diressi al pronto soccorso per vedere in quale stanza l’avessero affidato. Arrivata da Francesca, prima che glielo potessi chiedere, me lo diede, dicendo che mi aspettava una sorpresa fantastica. Bhè oltre a trovare qualcuno tra le fasce e pieno di sangue, la sorpresa mi chiedevo dove fosse. 
Ricordai di informarmi anche dell’altra macchina, e fu un dispiacere sentirmi dire che l’uomo alla guida era morto su colpo.
Una vita meno da poter salvare era sempre un dispiacere da sapere.
Con tristezza mi diressi verso la stanza, dove trovai la tendina tirata. La aprii lentamente e mi accorsi che non c’era nessuno, ma solo il paziente che fissava di fronte a se. Quando mi vide, spostò lo sguardo e cercò di muoversi tra le stecche e il collare ortopedico. E mi accorsi che la sorpresa c’era, lo riconobbi, ma non era il momento adatto per dire: “Ehi tu sei Dean Winchester da Supernatural!”. No, non lo era.
- Ti pregare, pregare io. Tu parlare inglese? – domandò in un italiano stentato, il ragazzo preoccupato e agitato soprattutto. Mi avvicinai a lui, e gli sfiorai la spalla annuendo. Un po’ me la cavavo, speravo di capire quello che mi avrebbe detto.
- Tranquillo, lei sta bene! – dissi, cercando di pensare ad altre parole inglese, che si potessero adattare alla situazione.
- Meno male, mio Dio, stavo impazzendo. Credevo fosse…fosse mo.rta – disse tornando a parlare nella sua lingua madre con le lacrime agli occhi, e il viso già bagnato, da quelle precedentemente cadute.
Cosa faceva l’amore?
Feci qualche fatica a capire cose volesse dire, perciò pensai che se io l’avessi capito pochissimo, i carabinieri avrebbero fatto più fatica. Era necessario forse cercare qualcuno che sapesse parlare bene la lingua.
- Tu non parli bene l’italiano vero? Noi abbiamo bisogno di sapere quello che essere successo! – domandai dubbiosa, sapendo che avevo detto qualcosa di sbagliato.
Lui scosse la testa depresso e iniziò a parlare, ma scuotendo la testa gli feci capire che non capivo molto.
- Io voglio sapere se lei sta bene. Lei stare bene? – disse l’ultima frase in italiano e io annuii tranquillamente. – Lei sta bene, riposa adesso, ma volere sapere una cosa io… - dissi, sedendomi sul letto e guardandolo dritto negli occhi iniziai a parlare. E molto seriamente, cercando di sforzarmi e di fargli capire che se c’era stato qualcosa tra di loro, dovevano sapere che era successo qualcosa di molto più grave, di quanto grave già fosse stato l’incidente.
 
 



Elisabeth, in a bad mood
 
Sentii un rumore al mio fianco, che iniziò a darmi molto fastidio. Ti. Ti. Ti. Ti. E poi qualcosa che pompava, come qualcosa che stesse producendo aria. Mi accorsi solo allora che era il tubo che avevo imfilato in gola.
Mi risvegliai del tutto, iniziando a tossicare, il rumore al mio fianco, andò in tilt.
Poi non capii più nulla, urla, e mani che mi tenevano ferma, chiusi gli occhi e li riaprii, sperando fosse solo un sogno, ma quando li riaprii mi ritrovai due paia di braccia che stavano lavorando e che mi tenevano ferma, inchiodandomi al letto di un ospedale.
Ero all’ospedale? Cosa facevo… oh già. Jensen?
Sgranai gli occhi e cercai di parlare quando la gola fu libera da quello strano marchingegno. – Jensen! Jensen dov’è? – chiesi con voce graffiata e bassa, preoccupata.
L’infermiera che entrò poco dopo, prima che potesse darmi una risposta, portò una siringa al sacchetto appeso al mio fianco.
- Facciamo un sonnellino – sussurrò andando poco dopo via, lasciandomi alla balia delle onde.
 
Mi risvegliai frastornata e spaesata, un’altra volta. Tenni gli occhi chiusi e sentii solo i rumori che mi circondavano. A parte il solito rumore degli apparecchi medici, il mio respiro era regolare, e nessun rumore che mi stessero pompando ossigeno artificiale. Respiravo da sola adesso, e avevo la gola meno secca. Forse mi avevano dato dell’acqua.
Acqua. Mio Dio dovevo andare in bagno, ma sentii una strana sensazione nel mio basso ventre, come se fossi vuota. Come se non avessi più bisogno di andare in bagno. Solo quando scesi più in basso iniziai a preoccuparmi. Un bruciore alla gamba mi portò ad aprire gli occhi lentamente e a fissare il mio corpo disteso davanti a me, sotto il lenzuolo bianco. Vidi qualcosa di lineare sovrastare la gamba destra. Cos’era? Le mie braccia cercarono di spostarsi verso il lembo di lenzuolo, ma le sentii così pesanti, che lasciai perdere, fissando quelle, che mi stavano di fianco al corpo, ferme e bucate da aghi. 
Io odiavo gli aghi.
Mi sentii pervadere da un senso di vomito, e inizia a respirare come facevo sempre: inspirare forte ed esp… mi fermai di colpo. Un dolore tagliente mi perforò il petto, gemetti forte. 
Cosa stava succedendo? Cosa mi ero successo? 
Lacrime solcarono le mie guance e la testa iniziò a dolermi. Il rumore degli apparecchi iniziò a fare ancora più rumore, e iniziai ad agitarmi. 
Perché ero sola? Dov’erano tutti?
D’un tratto sembrò che le mie preghiere fossero state ascoltate, e un viso come se fosse conoscente, entrò di corsa dentro la stanza, avvicinandosi al letto, e appoggiandomi una mano sulla spalla, rassicurandomi: - E’ tutto okay Elisabetta. Ci sono adesso io. Calma, calma che passa tutto! – esclamò, iniziando a premere strani pulsanti di fianco a me, nelle apparecchiature che dopo un po’ tacquero.
- Dov’è Jensen? – domandai con la voce impastata dal sonno involontario.
- Sta bene, anzi benissimo! – disse sorridendomi, tranquillizzandomi. Era facile fidarsi di quella persona con quei tratti così gentili su quel viso da ragazzina.
- Allora è tutto okay adesso? Ti agitavi per tanto? – domandò scherzosamente. Sorrisi e sentii il viso dolorante. Anche quello. Provai ad alzare una mano e questa volta sembrò obbedire ai miei ordini. Mi toccai il viso e lo sentii pieno di croste. Avevo sbattuto anche la faccia?
- Lo so, proverai un senso di prurito ma cerca di non toccarti. Potrebbero restare delle cicatrici se le stacchi! – puntualizzò con voce professionale.
La fissai e abbassai la mano al lenzuolo che alzai, spostando dopo lo sguardo dagli occhi vispi della ragazza (forse della mia stessa età) al mio corpo che, coperto dal solito grembiule medico visto nei telefilm, faceva in bella mostra la gamba tra due tutori e gessata. Bene, mi ero rotta la gamba.
- Cosa è successo? – domandai.
Lei mi afferrò la mano in movimento e me la strinse tra le sue, protettiva.
- Hai avuto un incidente con la macchina cinque giorni fa. Per fortuna stai bene, ma come hai ben potuto notare… ce l’hai fatta per un pelo! – disse, sorridendomi appena.
Le parole che avevo voluto dirgli mi morino in gola.
Cinque giorni? Avevo dormito per tutto questo tempo? 
-  Sei stata in coma farmacologico per un po’. Ti abbiamo operata di urgenza in ortopedia. Avevi qualche vertebra leggermente spostata e la gamba in condizioni al quanto pietose. Ma adesso sei apposto. Credimi, qui abbiamo il miglior chirurgo in ortopedia che possa esistere! – e mi fece l’occhiolino.
Sorrisi un po’ felice e sospirai rilassandomi. Quando feci però una smorfia di dolore, lei piegò la testa di lato, apprensiva: - Le costole fanno ancora male, lo so, ma non possiamo farci niente. Presto passeranno anche quelle; prima della gamba, sicuro! -.
- Jensen ha riportato qualcosa di grave? – domandai d’un tratto.
L’infermiera gentile scosse la testa, e mi fece tranquillizzare per la terza volta. – E’ stato in coma anche lui? -.
- No, lui no. Lui è stato sveglio dal primo mattino del giorno seguente. Il motivo per cui tu, invece, sei stata in coma è stato per la… per la malattia secondaria e la complicazione che è insorta dopo – chiarì con tono professionale, guardandomi dritta negli occhi.
Io la fissai un attimo spaesata, e scossi la testa frustrata: - Scusi infermiera, può parlare in termini più pratici per me? – domandai confusa.
Lei mi sorrise dolcemente e invitandomi a chiamarmi Cristina, parlò: - Elisabetta il problema è sorto da una cosa un po’…come dire dolorosa da spiegare. Toccherebbe alla dottoressa parlartene ma, visto che il caso l’hanno come dire… “affidato” a me, il compito aspetta a me. Quindi in poche parole, prima che tu possa iniziare a farti strane idee sul come è successo: tu e Jensen avete avuto rapporti non protetti un mese fa? – domandò con voce delicata.
Quando sentii le parole che le uscirono dalla bocca, lentamente sgranai gli occhi e la testa iniziò a viaggiare.
I momenti peggiori riaffiorarono e annuendo involontariamente, le immagini iniziarono a scorrere nella mia mente.
- Ecco, praticamente dalle analisi del sangue che abbia fatto dopo che tu sei arrivata in ospedale, risultavi incinta. Da quasi quattro settimane. Abbiamo dovuto fare un piccolo intervento, nulla di preoccupante, ma dovevamo farlo. Il feto era molto più grande di quando ci aspettavamo. Abbiamo dovuto… – sussurrò Cristina, cercando di farmi stare calma, quando mi vide agitarmi sul letto.
Io ero incinta di Jensen e non avevo capito nulla? Io avevo una piccola anima che stava crescendo dentro di me e adesso non c’era più… per colpa mia? Si… era solo colpa mia.
- Elisabetta, ascoltami ti prego, sta calma, voglio solo spiegarti perché è successo! – 
Le parole di Cristina furono solo un lontano eco nella mia testa. Le uniche parole che mi tormentavano l’anima, e ruppero in mille pezzi nuovamente il cuore furono quelle che pronunciò con più difficoltà: “Risultavi incinta”. “Abbiamo dovuto”.
- E’ stato come un aborto naturale Betta. Hai iniziato a perdere così tanto sangue dopo l’incidente che pensavo ci fosse qualcosa di grave negli organi interni. Infine era solo questo piccolo e drammatico problema. Purtroppo questi hanno dato vita a sintomi che io ho chiamato malattia secondaria e complicazione: in pratica hai avuto una forte anemia per la perdita di sangue a causa dell’aborto e con la complicazione è comparsa la febbre alta causata dall’infezione al taglio della gamba, per non parlare della complicazione alle tube di Faloppio. Purtroppo non ne siamo certi, ma…- si fermò come voler avvisare che c’era qualcosa di più grosso in arrivo: -… la febbre alta ha innescato la sterilità nell’organo, questo significa che… - Cristina non riuscì a finire. 
Perché iniziare a smuovermi convulsamente sul letto, mi somministrò qualcosa alla sacca appesa in alto sull’asta, calmando così l’attacco di panico che mi provocarono quelle parole.
 
Mi risvegliai un ennesima volta, e questa volta davanti al mio sguardo perso nel vuoto, vidi mia madre tra le lacrime. 
Non mi fece tenerezza. Non mi portò dolore. Solo uno stato più profondo di angoscia. Cosa avevo fatto per meritare quelle lacrime da parte sua? Oh si l’avevo delusa come figlia.
Già.
- Betta, amore mio! – mi strinse la mano in una morsa stretta, ma i miei occhi vagarono da una parte, silenziosi, vogliosi di guardare il nulla. 
Mi lasciai cullare da un punto fermo, e dal rumore ormai confortante delle apparecchiature, rotto da qualche singhiozzo proveniente dal petto di Maria.
Ma non feci più caso. Ero stanca. Volevo dormire.
 
- Ehi Betta, devi mangiare, apri la bocca – sussurrò la voce di mia sorella, porgendomi in aria la frutta frullata.
Non aprii bocca, perché non avevo fame. Ero stanca. Volevo dormire.
 
- Paziente Betta, allora oggi vogliamo alzarci? – domandò un uomo sorridente, fissandomi dritto negli occhi, come se potesse cambiare il mio triste umore.
Con occhi spenti, fissai da un’altra parte, e prima che riuscisse a toccarmi, le mie braccia scivolarono come saponetta dalle sue, cadendo di peso sul letto.
- Uh, siamo così pesante? Suvvia, si alzi! – mi esortò, afferrandomi di nuovo le braccia, facendomi sedere al centro del letto.
Mi lasciò andare, e le mie spalle caddero su me stessa. Ero stanca. Volevo dormire.
- Dottore ma… - iniziò mia madre, fissandomi. A mia volta la fissai anch’io, ma non trovai quale giusta espressione usare per dirle che ero stanca. Volevo solo dormire.
 
Ero alla deriva, e una dolce bambina dalle somiglianze così familiari mi venne incontro, tendendomi le mani. Le afferrai e quella pelle così fredda, mi fece rabbrividire. 
- Vieni con me, mamma. Vieni con me – la bambina mi abbracciò forte, e la confortai, sperando che mi portasse da qualche parte, invece di dire delle bugie da bambini.
- Mamma, vieni, mamma! –.
- Dove? Dove? -.
- Apri gli occhi! Maledizione, apri gli occhi Elisabetta, apri gli occhi! – la voce di uomo che riconobbi essere quella di mio padre, mi spaventò facendomi sbarrare gli occhi, ma vidi tutto così sfocato, e non riuscivo a respirare.
Il silenzio fu squarciato da urla, ma non sentii più nulla. Ero stanca, mi ero addormentata.
 
Sbattei le palpebre e la luce del sole che filtrava dalla finestra dal muro accanto al letto, mi riscaldò e accecò allo stesso tempo.
Cercai di portarmi una mano agli occhi ma la trovai stretta tra le braccia di qualcun altro. Era nonno.
- Ciao Elisabetta… - sussurrò Salvatore, sorridendomi. Il mio cuore sussultò un attimo, poi il dolore fu immediato e le lacrime che avevo cercato di trattenere tutto quel tempo iniziarono a scendere lungo le mie guance.
- Finalmente piccola mia, finalmente – disse stringendomi forte le mani, in una morsa, mentre si porgeva verso di me, baciandomi la fronte, accarezzandomi poi la testa con una mano, mentre l’altra stringeva ancora la mia.
Il mio abbraccio spontaneo fu strano, perché non avevo mai stretto qualcuno così forte in tutta la mia vita.
Avevo bisogno di conforto, e nonno era li per me. Mi stava aiutando, e finalmente stavo riuscendo a respirare.
I singhiozzi mi pervasero il corpo, e nonno non si scompose, continuò a stringermi forte, cullandomi nei suoi dolci baci.
 
- Allora ci alziamo e facciamo due passi? – domandò il medico ortopedico, guardandomi dritto negli occhi.
Annuii con la testa, e facendomi forza sulle braccia mi sedetti al centro del letto. Mamma guardò la scena dalla porta, più rilassata tra le braccia di suo padre.
Feci un certo sforzo quando scesi dal letto, restando in equilibrio tra le braccia del medico e le mie gambe malferme.
Abbassai lo sguardo ai miei piedi, e muovendo con un certo sforzo le dita, iniziati poi a muovere la caviglia, quella libera dal gesso, e a fare esercizio.
- Brava così, fagli prendere conoscenza con la terra. È quasi dodici giorni che sei ferma, devi abituarti – borbottò il dottore, prendendomi per le mani e mettendosi davanti a me mi invitò a spostarmi, facendo dei piccoli passettini. 
Bhè con il gesso non era un problema così semplicemente. Sembravo peggio di un zoppo, il mio fianco sinistro, leggermente più in basso del destro, iniziò a pulsare per il peso che gravava.
- Ahi – gemetti, muovendomi un’altra volta senza mollare. Poi scossi la testa determinata, e mi fermai a fissare il dottore dritta negli occhi.
- Non ce la faccio! Fa male – singhiozzai, mentre il ginocchio sinistro cedeva, stanco. Il dottore facendo una smorfia dispiaciuta, mi afferrò per le ascelle, come una bambina, e alzandomi da terra come se fossi una piuma, mi portò indietro nel letto, facendomi sedere.
La gamba steccata restò dritta, mentre l’altro si piegò poggiandosi al materasso.
- Adesso stammi a sentire Elisabetta: se tu non cammini, finirai dritta in una sedia a rotelle! Per non parlare delle piaghe che ti compariranno se non ti muovi da quel letto! – esclamò arrabbiato con se stesso e con me. – Dobbiamo farlo, devi farlo! Sei una ragazzina, i vecchietti fanno meglio di te! – sbottò, lasciandomi andare, incrociando le braccia a petto: - Adesso tocca a te! O fai uno sforzo o resti in un letto al ricovero, di sotto! – scandì le parole per farmi capire cosa volesse dire, e per farmele incidere nella mente, a fuoco!
- Okay lo faccio, ma per favore se… - mi fermò, annuendo con la testa e facendomi capire che aveva capito quello che avrei voluto dirgli, e prendendomi con una mano sola, scesi dal letto da sola, e aggrappandomi ai mobili e al muro, iniziai a fare dei piccoli passi appoggiandomi sempre più volte anche sul fianco destro, dove il dolore e il peso del mio corpo era assente.
- Brava, visto? Hai capito come camminare senza stampelle e con il gesso alla gamba! Continua e lascia l’asta a me, la faccio scivolare io –. 
Mi portò fuori in corridoio, dove le infermiere e infermieri, medici e persone comuni parlavano e passeggiavano con i propri cari pazienti e non. Sotto un certo sforzo, mi fermai due volte per prendere aria. Una prima volta per guardare il calendario appeso al muro, e mi resi dopo un veloce calcolo che ero restata a letto quasi per quattordici giorni e che oggi era appunto il quattordici dicembre duemila sette.
Come passava il tempo… 
La seconda volta che mi fermai e perché dentro una delle tante stanze, da solo, qualcuno stava guardando la tv in una lingua sconosciuta. 
Impegnandomi e facendo un gesto con la mano al dottore, che apprensivo mi sorrise e mi aiutò a portarmi dentro la stanza.
- So, mister Ackles, how are you today? – domandò il dottore con nonchalance. Bene almeno sapeva parlare in inglese e non dovevo fare da traduttore.
Jensen poco interessato si voltò una prima volta guardando chi fosse e ritornando a guardare “La prova del Cuoco”, sgranò gli occhi e si voltò lentamente a guardare la coppia che era appena entrata.
Le sue labbra si schiusero e senza che potesse riuscire a fare altro, iniziò a piangere. Perché?
- Jensen! – esclamai sorridente, avvicinandomi da sola. Lentamente, aggrappandomi al bordo del letto, Jensen si issò a sedere sul letto e allungando le braccia verso di me, quando fui alla sua portata, facendo attenzione ai tubi delle varie flebo attaccate all’asta, che il dottore lasciò alle mie spalle, mi abbracciò così forte che mi mancò il respiro.
Mio Dio come mi ero mancato! 
Come mi era mancato…
- Elisabeth…non ti lascerò più, te lo prometto! Mio Dio quanto mi sei mancata amore mio… - mormorò, cullandomi tra sue braccia, come aveva fatto qualcuno più grande di lui, con un amore così diverso ma così uguale che mi stava lentamente svegliando da quel letargo così doloroso e pieno di angosce…
- Jensen io… -, cercai di spiegare, mentre un magone saliva in gola, soffocandomi le parole.
- Lo so, lo so e mi dispiace così tanto che se potessi ritornare indietro… - singhiozzò stringendomi ancora più forte. 
Capii solo allora quando m’importasse così tanto di Jensen, che se fossi tornata indietro avrei rifatto tutto, anche allo stesso modo. 
Bastava che l’avessi tra le braccia, sano e salvo. Poi del destino e di quella creatura così perfetta, che mi aveva chiamato mamma in quel strano sogno, bhè l’avrei incontrata li, e avrei pianto insieme a lei nella notte, quando l’uomo di cui ero follemente innamorata non mi avesse guardato, soffrendo così insieme a me per quella perdita così strana. 
O forse era meglio dire… dolorosa.
Come la madre che perde un bambino.
Era la stessa cosa, no?
 
*spazio autrice*
 
Lo so, questo capitolo è un po’ strano, ma già me l’ero progettato così ed è venuto così di getto che mi sono davvero preoccupata che fosse stato una schifezza. 
Bhè può esserlo o no, aspetta a voi deciderlo… spero sia un po’ di vostro gradimento, anche se è il più triste di tutti.
Non sto qui a discutere come sia il dolore di una madre alla perdita del proprio figlio, io ho solo visto quando sia doloroso, e non solo nella realtà, ma anche in altre letture come opere drammatiche quali quelle più famose della Passione di Cristo.
E sappiamo tutti di cosa tratta… ma non sto qui a discutere nemmeno di queste cose ovviamente, perché magari non importerà a nessuno, ma vabbè, sto divagando O.o credo :3
Il capitolo è stato piuttosto chiaro spero, infondo ho cercato in tutti i modi di spiegare tutte le cose sulla patologia, malattia, complicazioni. Mi sono aggiornata e fatto ricerche u.u che vi pare??? Se avete delle domande da farmi, le aspetto. 
Infine vi informo che all’inizio del capitolo che è dal punto di vista di Cristina, l’infermiera di turno che ha salvato Elisabeth e Jensen (l’avete capito no che il capitolo è da due diversi punti di vista, spero sia gradito), si trova una canzone tratta proprio dalla serie tv, Bon Jovi – Wanted Dead or Alive (ascoltatela è fantastica, ed il link lo potete trovare nella prima strofa della canzone ;D).
Non mi resta che lasciarvi al prossimo capitolo sabato o domenica, o direttamente per la vigilia di Natale come vi avevo promesso! :)
 
Xoxo Para_muse
 
 
 
 
 

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Capitolo 21
*** Happy National Holiday, with surprise! ***


*spazio autrice*
Questa volta  inizio al contrario :)
Per potervi dire così, o meglio AUGURARVI UN BUON NATALE! Spero che questo regalino da parte mia sia gradito, e che possa addolcirvi il Natale se lo passate da sole (come me) o in compagnia con il vostro migliore amico, ragazzo, fidanzato o marito.
Ci vediamo comunque di sotto per delle piccole info sulle prossime pubblicazione e sapete ormai… altro che di solito scrivo.
Intanto un di nuovo BUON, SERENO E FELICE NATALE A TUTTE VOI da parte mia, di Jensen, ed Elisabeth e da tutti i personaggi di Racchiusi in un…click, che si tinge di…festa! J
P.S: Leggete fino alle fine ;D

La FanFiction fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un... bookstory.
Della serie è tratta una Missing Moment dal capitolo 8 (importate per la FF): The Real Vacancy of Year
Della serie è tratta anche una Missing Moment Rossa dal capitolo 21 (medesimo): Fire in the Water

 

 

 21 Capitolo

Happy National Holiday, with surprise!
(Link Musicale)
 
Mi risvegliai nel mio letto a casa, dopo quasi tre settimane in ospedale, finalmente il ventidue dicembre eravamo a casa, e potevamo festeggiare il natale e rattristarci all’idea del matrimonio annullato.
E meno male che mia sorella era una da “matrimonio intimo”. Perché sarebbe successo il finimondo.
Le quasi cento persone invitate al matrimonio avevano saputo dell’accaduto, ed erano comprensibili all’idea che il matrimonio fosse stato annullato. Anche se ormai a due giorni dal “si”.
Laura non aveva messo il muso, ma non potette nemmeno evitarlo del tutto. Io riuscivo a leggerla dentro, e sapevo quando ci fosse restata male che la data disponibile sia per la chiesa che per la sala fosse così lontana, e che l’abito non era perfettamente adatto per un mese come maggio, soprattutto qui in Sicilia. Perciò l’aveva dovuto portare in sartoria per “qualche” modifica.
Purtroppo io dovevo stare a letto, salire e scendere più di cinque volta la scala per stare in movimento, e fare fisioterapia per aiutare il ginocchio e la schiena a mettersi in sesto.
La stessa cosa valeva per le spalle di Jensen, che veniva insieme a me dal fisioterapista non proprio per le terapie, ma per i massaggi lenti e deliziosi che si faceva fare per i dolorini, come li chiamava lui.
Bhè aveva ragione comunque. Lui doveva rimettersi del tutto: aveva una serie televisiva in cui recitare, dopo le vacanze di Natale.
Anche se eravamo appena tornati, non ci eravamo resi conto che eravamo in piene vacanze se mamma non avrebbe fatto tutta da sé, montando l’albero enorme che occupava un angolo del soggiorno tutto in verde con decorazioni color oro e bronzo.
Era così carino che mia madre ci aveva obbligato a fare una fotografica tutti insieme, e poi solo una io e Jensen, per restare tra l’album dei ricordi. Anche il fatto di quando fosse stato bello ma altrettanto deprimente vivere quel natale con il tutore alla gamba; che mi evitava di fare la qualsiasi. Anche dormire insieme a Lui. La prima notte, smuovendomi un po’ da un lato e un po’ da un altro, riuscii a svegliarlo, per una bella botta alla caviglia da parte della dura stecca.
Adesso dormiva sulla brandina pochi centimetri più in la del mio letto. Sicuramente mamma avrebbe preferito che Jensen dormisse di sotto, ma ero riuscita nuovamente a convincerla, perché tanto non saremmo riusciti a fare granché.
E io non ero… dell’umore adatto? Forse si o forse no, ma in ospedale ero caduta in quella che i dottori chiamavano “stato o depressione post-aborto”.
Bhè io lo chiamavo semplicemente stato di depressione. E me ne rendevo conto ogni giorno.
Non mangiavamo molto. E mio padre me lo faceva notare a tavolo come sempre. Non cercava di trattenersi, mi sgridava come se avessi appena sei anni. E Jensen silenzioso stava alla mia destra, voltandosi a guardami, e apprensivo mi faceva alzare accompagnandomi di sopra, perché sapeva che non sarei riuscita a trattenere le lacrime di delusione.
Perché lo ero, come figlia lo ero.
Come sorella lo ero.
Come fidanzata ancora cercavo di capirlo…
Mi voltai a fissare Jensen che sonnecchiava tra le coperte, con un braccio ancora fuori dalla sponda del letto, con la mano verso il mio materasso, dove stringeva ancora le dita alle mie.
Sorrisi felice per quel contatto, e quando stavo per scioglierlo, perché avevo bisogno di andare in bagno, mi accorsi subito del cambiamento del respiro, e percepii il suo sguardo addosso a me quando aprì gli occhi, fissandomi colpevole.
- Sono qui, non vado via – borbottai con voce impastata dal sonno. Feci qualche fatica ad alzarmi, ma appena fui issata per bene sulle gambe, afferrai una delle stampelle che mi avevano dato in ospedale e, appoggiandomi a quelle percorsi lentamente il tragitto per il water.
Appena chiusi la porta, sentii la presenza di Jensen dietro a essa. Mi scappò un risolino, tipico mattutino: - Sto facendo la pipì Jensen! Vuoi descritto com’è fatta? Non so… - sghignazzai dietro la porta, seduta intenta a concentrarmi.
- No, ma preferire entrare e fissarti. Mi piac… - non lo feci finire, sbottai in una risata così forte, che credetti di svegliare mia sorella, perché sentii un rumore provenire dall’altra parte del bagno.
- Ssh! – squittii scherzosamente, alzandomi, chiudendo il coperchio, e avvicinandomi con piccoli saltelli al lavabo per lavare le mani. Per poco non presi uno scivolone, ma mi attaccai subito a quest’ultimo, restando appesa senza colpi.
- Ehi, apri, devo andare in bagno! – borbottò, bussando continuamente come un orologio, ogni secondo.
Allungai la mano stanca, e girai la chiave, facendolo entrare. Mentre iniziai a strofinare la saponetta tra le mani per lavarmi il viso, Jensen non si degnò neanche di chiudere la porta, alzò la tavolozza e fece i suoi bisogni davanti alla sua ragazza. Non alzai lo sguardo, ebbi il coraggio di bruciarmi gli occhi, ma non vedere il mio ragazzo tenersi l’uccello tra le mani per fare…pipì! Oddio.
Quando iniziai a tamponarmi il viso con la salvietta sbottai: - La prossima anche un “scusami puoi voltarti!” sarà più che sufficiente, tesoro! -.
Lui mi fissò con un sorrisino da ebete e divertito, poi si avvicinò al lavabo per fare le mie stesse azioni, mentre io mi dirigevo di nuovo in stanza per togliere il pigiama e mettere qualcosa di comoda. Magari tipo la tuta di Jensen (visto il problema critico della gamba molto “muscolosa”) e una maglia bella lunga a nascondere tutte le imperfezioni, quali garze e piccole cicatrici che mi erano restate ma a cui non facevo più caso, dopo l’incidente.
Infilai il reggiseno, poi mi apprestai ad afferrare la maglia larga e lunga e la infilai lentamente al collo, con qualche difficoltà a stare in equilibrio. Mentre cercavo il buco esatto per infilare il primo braccio mezzo fasciato, sussultai sentendo labbra calde lambire ogni cicatrice sulla spalla scoperta.
- Jensen – mormorai con tono di voce quasi spaventato. Lui borbottò tra se e altri baci languidi e guaritori si sparsero qua e la contro la schiena, mentre le sue dita fredde percorsero i miei fianchi, stringendosi intorno alla mia pancia piatta.
- Tutto okay? – sussurrai senza voce, con il magone che saliva in gola per i brutti ricordi che mi ritornarono nella mente, offuscati dalla nebbia della paura e della depressione di cui ne facevano parte.
- Tu? – domandò, abbracciandomi forte da dietro, cullandomi nel suo abbraccio.
Non potetti che sospirare e annuire, perché adesso, tra le sue braccia era tutto okay.
 
- Ti prego cantaci qualcosa! – squittì allegra Laura, sedendosi tra le braccia di Marco, che seduto sul divano, porgeva con una mano la chitarra a Jensen, sedutosi un attimo sul tavolino del salotto per liberarmi la gamba dal tutore, troppo stanca per portare quel peso. Alzai lo sguardo sorridendogli appena e incoraggiandolo. Lui scosse la testa frustato e massaggiando piano la mia caviglia nuda l’appoggio a terra facendo attenzione che la piega al ginocchio non facesse male.
Mi accorsi degli strani sguardi della nonna, che seduta di fronte a noi, aveva visto come Jensen aveva praticità nello sfiorarmi la gamba nuda.
Finalmente dopo un paio di mesi avevo acconsentito (solo per la perché vigilia di Natale) a indossare un vestito lungo di lana che facilitava, purtroppo, a salire sulle gamba nude quando stavo seduta, perciò sotto avevo messo comunque un paio di pantaloncini bianchi in tinta, che mi aveva suggerito Laura, visto la presenza dei nonni.
Non volevamo tubare i loro animi. E soprattutto non volevo far montare su di giri Jensen. Perché sapevo com’era fatto…
Quando mi portò l’altra scarpa che avevo lasciato chissà da quale parte, su per le scale, ritornò e sedendosi sul tavolo basso, afferrò la chitarra e iniziò a fare qualche prova degli accordi.
- E’ da tanto che non la utilizzo… – borbottò Laura, fissando la vecchia chitarra che papà le aveva comprato per il quindicesimo compleanno.
- No, è in ottimo stato, sembra che sia stata suonata ultimamente, credimi. – disse Jensen, aggiustando un paio di corde, intonando poi un paio di note a salire e scendere. Quando pensai essere pronto, tossì, schiarendo la gola.
- Tesoro vuoi un po’ d’acqua? – domandai preoccupata.
Lui alzò lo sguardo sotto le lunghe ciglia e scuotendo la testa, mi lanciò uno sguardo arrabbiato, perché sapeva che era tutta colpa mia se mia sorella sapeva che lui sapesse cantare e suonare la chitarra.
Abbassò lo sguardo e concentrandosi iniziò a intonare un paio di note, che riconobbi come quelle suonate a Miami. Mi stupii che questa volta avessero un senso…
Poi iniziò a cantare e feci caso alle parole:
- I can feel her heart beat from a thousand miles /And the heavens open every time she smiles
And I'm running to her, that's where I belong /I'm running to her like a river's song… -.
Si fermò un attimo, come se stesse ricordando qualche parole o qualche nota, ma aggiustò solo un accordo che gli era sfuggito. Quando sembrò andare tutto apposto, con tono di voce un po’ più alto di prima, iniziò a intonare quello che sembrava fosse un ritornello, che mi spiazzò a dir poco il cuore:
- She give me love, love, love, love, crazy love /She give me love, love, love, love, crazy love… -.
Alzando lo sguardo felice, mostrandomi un sorriso nascosto tra le labbra carnose, continuò la canzone, muovendo con ritmicità le dita sulle corde, suonando e fermandosi, suonando e fermandosi a battere il piede sul tappeto:
- She's got a fine sense of humor when I'm feeling down /And I'm running to her when the sun goes down /She takes away my trouble, she takes away my grief /She takes away my heartache and I go right to sleep… -.
Ridendo, quasi emozionata, battei le mani, e seguita da mia sorella, continuai finché Jensen non mi fermò con il proseguimento del secondo ritornello:
- Yes I need her, in the daytime /Yes I need her, in the night /Yes I want to throw my arms around her /Kiss her, hug her, and I kiss and hold her tight… -.
Sorrisi dolcemente a quelle parole e alzandomi con qualche difficoltà mi sedetti sul tavolino di fianco a lui, stringendolo tra le mie braccia, mentre continuava imperterritamente quella dolce canzone d’amore, tutta per me:
- When I'm returning from a long day /Give she me some sweet lovin', it brightens up my day /It makes me righteous, yes it makes me whole /It makes me mellow right down to my soul…
She give me love, lo…-.
Sorrisi felice e quando sembrò terminare il terzo ritornello, mi lanciai verso il suo viso per un dolce bacio. Ricambiò con tenero amore e un pizzico di passione, stringendomi la nuca con una mano, mentre l’altra reggeva ancora la chitarra che teneva in grembo.
Sembrava tutto così perfetto, fin quando non sentii la risata nervosa di mia madre e quella divertita di mio padre. Mi staccai dalle sue labbra e mi voltai rossa di vergogna verso i miei che dalla cucina si godevano la scena.
- Sarebbe meglio andare tutti a tavoli. Il pranzo della vigilia è servito! – esclamò la mamma, alzando le mani felice.
Abbassai lo sguardo quando i nonni e Marco passarono accanto al tavolinetto, lasciando degli sguardi curiosi ma allo stesso tempo di rimprovero.
- Cosa ha detto tua madre? Lasciamoli un po’ da soli forse… – costatò Jensen, poggiando la chitarra sul divano, avvicinandosi di nuovo al mio viso. Sorrisi divertita e lo afferrai il mento allontanandolo.
- No, certo che no! E’ pronto il cenone… - borbottai alzandomi su una gamba, facendo si che il peso fosse solo in una e non nell’altra.
- Mmh, era una bella iniziativa quella di averci lasciato da soli… - borbottò Jensen, prendendomi a braccetto, portandomi lentamente in cucina, tra l’aria di roastbeef e patate a forno, tipici piatti natalizi di casa De Santis.
 
- Buon Natale – mormorò tra un bacio e un altro Jensen, che si era intrufolato nel mio letto caldo, caldo.
- Mmh, va via – borbottai strofinando gli occhi assonata per la luce che filtrava da sopra le coperte, tirate fino al naso.
- Alztai dormigliona, è Natale! – esclamò nel mio orecchio, facendomi venire un mal di testa assurdo di primo mattino.
- Jensen! – esclamai con voce impastata e furiosa; frustrata di dovermi subire prima lui e tra cinque secondi mia sorella Laur…
- BUON NATALE RAGAZZI! – urlò entrando correndo dalla porta del bagno, saltando sul letto di Jensen a pochi centimetri dal mio.
- O Gesù… - borbottai prendendo fiato prima di urlare: - MAMMA! – come una bambina di cinque anni.
- LAURA! Lascia stare tua sorella, vieni ad aiutarmi, fra un po’ vengono gli zii e i tuoi suoceri, DAI! –, iniziò a dettare ordini mia madre dal piano di sotto, sentendo d’un tratto il rumore dell’aspirapolvere. Strinsi forte gli occhi sperando che tutto questo non stesse succedendo solo a me.
- E’ sempre colpa tua, Elisabeth, sempre! – esclamò mia sorella frustrata, dirigendosi moscia in bagno per iniziare a prepararsi. La porta fu chiusa con un forte tonfo, e un rumore di vetro infranto mi fece saltare in aria. Fissai la cornice che prima era attaccata al muro, a terra in mille pezzi.
- LAURA! – gridai arrabbiata.
- ELISABETH?! – mi richiamò mio padre dalla porta di entrata della mia stanza, stupito dalle urla.
- JENSEN! – gridò lo stupido al mio fianco. Mi voltai a fissarlo alzando un sopracciglio. – Ehm, non mi chiamava nessuno… - fece una smorfia con le labbra arricciate, e stanca di quelle urla nascosi la testa sotto il cuscino, accompagnate dalla risate dei presenti.
Che vita tra pazzi!
 
- Apriamo i regali! Forza! – urlò mia sorella, saltando tra le braccia di Marco, che la strinse forte, porgendole un piccolo rettangolo tra i fogli di carta per regali. Prima che potesse pensarci due volte, Jensen mi abbandonò sul divano correndo al piano di sopra…dove stava andando?
Mi sporsi a fissare le scale dal divano, e poco dopo lo vidi scendere con un pacco medio, rosso e infiocchettato.
Si avvicinò a me con un sorriso che la sapeva lunga, e sorridendo come un bambino di due anni, si sedette di nuovo alla mia destra e porgendomi il regalo disse: - Merry Christmas! -. Le lacrime mi salirono agli occhi e non pensandoci nemmeno un po’, mi porsi verso di lui per un dolce bacio, perché da regalare avevo solo quello. Non avevo avuto modo di uscire da casa se non per le fisioterapie, e se avrei chiesto a mia sorella di comprare qualcosa, non avrebbe trovato per niente qualcosa di perfetto per Lui.
- E’ tutto okay – sussurrò felice, accarezzandomi il viso con tenerezza. Io annuii, tirando su col naso e strappando l’involucro di carta, aprii una scatola e ne tirai fuori un piccolo paesaggio in legno chiaro su una piattaforma ovale e con risalti di colore in marrone.
Me ne innamorai subito. Sembrava un piccolo villaggio tipico natalizio e antico. Sorrisi stringendolo al petto, voltandomi a fissare colui che me l’avevo regalato. Lo ringraziai con un altro lungo bacio.
- Aspetta… - si tirò d’un tratto indietro e, abbassando sguardo sul piccolo paesaggio in legno, lo tirò via dal mio abbraccio per alzarlo appena e vedere sotto la piattaforma. Vidi qualcosa che luccicò alla luce. Jensen lo afferrò facendolo girare tre volte. Poi una soave melodia ne venne fuori, e abbassandolo di nuovo tra le mie braccia, notai che la piccola chiesa al centro di quel paesaggio iniziò a girare piano, con tutti gli oggetti intorno.
Era un carillon.
E le prime note che suonarono mi ricordarono una canzone tipica natalizia, e soprattutto tipica americana: All I want for Christmas is you.
Sorrisi, e poggiai il carillon sul tavolino prima di buttarmi in un abbraccio stretto, soffocando il gemito di felicità che mi uscii, tra il collo e la spalla di Jensen.
- Che bello! – esclamò mia sorella, afferrando il carillon, facendolo suonare un’altra volta. Tutti in sala ci zittimmo e il carillon suonò di nuovo quelle fantastiche prime note della canzone.
- Grazie, grazie mille, ti amo! – sussurrai al suo orecchio, soffocando una risata cristallina.
Jensen rise insieme a me, e cullandomi tra le sue braccia mi fece ancora star più male, visto che lui non aveva ricevuto nessun regalo.
Alzai lo sguardo verso il suo viso, e lui lo abbassò verso il mio: - Mi dispiace, io non… - mi fermò baciandomi dolcemente, e si staccò appena, guardandomi negli occhi, aspettando che non dicessi altro.
- Okay, lo so che… - mi tappò di nuovo la bocca. Sorrisi tra le sue labbra.
- Ssh, lo so, è fa niente. Mi basta che tu ci sia stata in questo splendido giorno. Tutto quello che voglio a Natale sei tu… - sussurrò citando la canzone e le note del carillon.
Non riuscii a trattenere l’ennesimo sorriso. E l’ennesimo bacio.
 
Dopo Natale si stava avvicinando il Capodanno (ovvio), e il fisioterapista che mi stava seguendo aveva diminuito le visite settimanali in quelle mensili. Ma ormai non c’era più tempo. Saremmo rientrati in America, o meglio in Canada (dove avrei ricominciato la terapia); sapendo quando fosse imminente la data di ricomincio-riprese per Jensen, avevo prenotato insieme a mio padre  due biglietti aereo, e lui si era gentilmente prestato a regalarceli come “un regalo di Natale ricevuto in ritardo”. Non volevo lasciarlo un'altra volta sapendo quando ormai si fosse abituato alla mia presenza in casa. Ma dovevo andare, un lavoro e una vita mi aspettava in America.
- A cosa pensi? – domandò Jensen, stringendomi al suo petto, distesi supini sul letto.
- A niente – sussurrai, fissando il nulla.
Non avevo ancora detto a Jensen che avevo prenotato per il ritorno, speravo che la sorpresa per il capodanno riuscisse, volevo festeggiare in grande, se avessi ben definito il “grande” forse…
Dovevo riuscire a sconfiggere quella barriera da post-depressione. Era per quello che non riuscivo a definire quella parola: sapevo che la sorpresa poteva riuscire con successo oppure diventare un disastro. Dovevo solo essere più estroversa, iniziando a trovare la biancheria giusta… o in quel caso il costume giusto. Anche se avevo qualche dubbio che sotto avrei indossato intimo. Ma avevo ancora qualche giorno per pensarci…due anzi, perché la vigilia di san Silvestro era vicina ormai.
- Sei diventata rossa… - mormorò alzandomi il mento con due dita sorridendo stupito. Sorrisi timidamente e divenni ancora più rossa, sicuramente.
- A cosa pensavi? – domandò curioso, abbassandosi un po’ alla mia altezza. Per tutta risposta, nascosi il viso sul suo petto, e stringendo in pugni il suo maglione di lana, sorrisi divertita.
- Pervertita – mormorò, baciandomi il capo, e poi lo sentii ridere, con i tremori nel petto.
Non avrei detto quello che stavo escogitando, speravo solo che mi avrebbe aiutato involontariamente. Accettando quello che avrei voluto offrirgli, in un dolce e tenero gesto d’amore.
- Ho fame – dissi, lasciando la presa, alzandomi seduta sul letto. A sua volta Jensen si alzò, e facendo il giro dalla mia parte di letto, mi aiutò a mettere le pantofole (anche se da sola ce l’avrei fatta) e afferrandomi una delle stampelle che mi avevano più volta aiutata, me la porse al braccio destro, che afferrai in una presa salda, muovendomi ormai con più praticità. Ci stavo facendo abitudine al piccolo difetto nel passo destro che facevo, ma il dottore aveva detto che prima o poi sarebbe scomparso quando avrei ripreso di nuovo confidenza con la rotula nel ginocchio e la ferita che sembrava non rimarginarsi mai, alla coscia.
- E’ ora di cena, i tuoi dovrebbero essere già di sotto, e Laura dai tuoi suoceri – borbottò ridendo, scendendo un passo dietro al mio.
Mentre scesi lentamente il secondo, mi accorsi che il vestito nero che avevo messo quella mattina, si era alzato di un po’ sulla coscia, e sapendo quando a papà desse fastidio vedere quella carne scoperta, mi fermai un attimo sull’ultimo scalino, aggiustando e tirando verso sotto l’abito.
- Cosa c’è? – domandò Jensen, sorpassandomi sugli scalini. Io scossi la testa con naturalezza e quando scesi l’ultimo scalino, con ilarità risi delle preoccupazioni di Jensen.
-  Perché ridi? – domandò con un tono di voce anche suo, divertito.
- Niente, è solo che… - alzai lo sguardo e mi fermai quando stupita mi ritrovai due persone di cui l’esistenza ormai non ricordavo più.
La mia bocca si spalancò in un urlò di felicità e sorridente mi lanciai tra le braccia della mia migliore amica: - Jessica! – strillai, tra le sue braccia, stringendola forte.
- O mio Dio, non vedevo l’ora di sentire l’odore di mirtilli addosso a te! – squittì emozionata, al mio orecchio.
Soffocai una risata sul nascere, quando le lacrime di gioia mi bagnarono le guance, e scostandomi un poco lanciai un braccio nella direzione del mio “gigante amico”. Gigante in tutti i sensi.
- Jared – sospirai felice, stringendolo anche lui nella morsa, felice più che mai.
 
- Si, si certo, Happy New Year anticipato Robert. Ti passo Jensen – borbottò  Jared al telefono, passando poco dopo l’i-phone alla mano allungata di Jensen, che euforico saltava di gioia sul divano, accanto a me e Jessica.
- Pronto, Bobby, ciao! – esclamò alzandosi di colpo, uscendo fuori nella veranda. Lasciò la porta scorrevole socchiusa e l’aria fredda del tardo pomeriggio nell’ultimo giorno dell’anno, mi fece rabbrividire, e pensare alla notte che sarebbe trascorsa tra bevute, amici e forse qualche bagno caldo.
- Tutto pronto la fuori? – domandò Jessica a bassa voci in inglese, non facendo capire nulla a mia sorella, intenda a passarsi lo smalto sulle unghie delle mani.
- Mio Dio, si, non parliamone più per favore – dissi isterica. Jessica nascose un sorriso eccitato tra le mani, e si alzò raggiungendo Jared davanti al caminetto di casa, che accesso riscaldava tutto l’ambiente del primo piano.
Li fissai stretti l’uno all’altra, in quello spazio che non era il loro, ma li vidi come due familiari, come due persone che facevamo parte della mia vita e della mia famiglia da sempre. Avremmo passato l’ultimo dell’anno insieme e, chissà come anche il giorno dopo, forse mezzi brilli o no, ma tra gli abbracci nei nostri letti, perché la mia camera adesso era diventata un motel per quattro persone e non una stanza per una sola.
I letti singoli tutti stretti tra di loro e gli abbracci di notte non sarebbe scappari a nessuno l’indomani, al mattino, con i sorrisi ebeti stampati sulle labbra, divertiti.
- …ci sentiamo, Happy New Year too. Elisabeth, Robert vuole parlarti! – esclamò Jensen dalla porta scorrevole. Gli feci segno di avvicinarsi, perché ero stanca di muovere il ginocchio, perciò con una smorfia Jensen entrò dentro, e sedendosi sul divano mi porse il telefono che portai all’orecchio.
- Hello? – .
- Parlo con la signorina De Santis? – domandò con tono serio ma con un sogghigno nascosto, il produttore esecutivo della serie.
- Si, sono proprio io, con chi parlo? – domandai fingendo.
- Mr. Bob Singer, a vostro servizio. Come va? -.
- Adesso sto bene, molto meglio di prima e tu? – chiesi cortese, sorridendo alla cornetta.
- Bene, ed è bello sentire di nuovo quella voce da bambina che mi mancava. Soprattutto sul set… - concluse ridendo.
Lo seguii e sospirando parlò un po’ del più e del meno, fin quando: - Vorrei risentirti, ma dal vivo, e con una macchina fotografica tra le mani, ti va? – domandò con scaltrezza.
Il mio respiro si fermò e con eguale furbizia, risposi: - Se dandoti del tu, non potrai comunque obbligarmi a chiamarti Robert, ma Mr. Robert o Singer, qual si voglia! -.
- E va bene… anche se non sembra una condizione, ma più un compromesso! – esclamò ridendo divertito.
- Chiamalo come vuoi Mr. Robert, io voglio portarti quel dovuto rispetto da dipendente verso capo! – dissi autoritaria.
La sua ilarità continuò fin quando Jensen mi fece segno che dovevamo iniziare a prepararci.
- Non so tu Mr. Robert ma io devo andare a festeggiare l’anno che sta per arrivare. Ci vediamo o sentiamo, decida lei! – esclamai sorridendo.
- Ci sentiamo tra qualche giorno piccolina di casa Supernatural! E non sono così vecchio per il lei. Sbaglio o avevi detto del tu? – domandò, concludo poi la chiamata, augurandoci a vicenda un buon anno nuovo.
- Sai cosa mettere? – domandò Jessica preoccupata, quando mi avvicinai con lentezza alla coppia, porgendo il telefono a Jared.
Alzai le spalle e arricciando le labbra borbottai: - Ci facciamo una bella nuotata nell’armadio. Vediamo che ne esce! -.
 
- ‘Notte – sussurrò Jessica, salendo le scale verso camera mia. Jared la seguii a ruota, e con una alzata di braccio ci augurò una buona notte anche lui.
- Cosa facciamo? – domandò Jensen, stiracchiandosi un po’, buttandosi poi a capofitto sul divano, facendo un po’ di rumore.
Mi avvicinai lentamente a lui e portai un dito sulle labbra, invitandolo a fare silenzio. In fondo erano le quattro del mattino, e i miei dormivano, mentre di Laura neppure l’ombra.
- Non sono per niente stanco… - sussurrò, portando un braccio intorno alle mie spalle, avvicinandomi al suo petto.
Alzai le spalle e annuii anch’io, con le farfalle allo stomaco.
Perché?. “Stai calma maledizione!” , rimproverai me stessa, sbattendo più volte le palpebre pesanti per il trucco.
- Tu lo sembri…vuoi andare a letto? – domandò, accarezzandomi il viso, lasciandomi un bacio sulla fronte.
- No, voglio restare un po’ con te… - dissi a bassa voce, stringendo tra le dita i primi bottoni della camicia bianca, sotto la giacca nera e la cravatta semi sciolta.
- Hai fame? -.
- No… - risposi velocemente. Poi mi diedi della stupida. – In realtà… - iniziai fermandomi di colpo.
“Che cosa stai facendo? Sembrerai una stupida!”, mi rimproverò la vocina nella mia testa.
- Cosa? – domandò Jensen, accigliandosi appena.
Alzai il viso verso il suo e fissandolo dritto negli occhi, cercai qualcosa che potesse indicarmi stanchezza o svogliatezza di fare qualcosa…
- In realtà vorrei…vorrei farti vedere una cosa… - sussurrai, correndo con dita più giù sul suo petto, afferrandogli la mano sulla coscia per farlo alzare dal divano poco dopo.
- Cosa? – chiese curioso Jensen, venendomi dietro.
Percorremmo la zona cucina, e piano aprii la porta finestra. Prima che la luce automatica si potesse accendere nell’oscurità per i movimenti, tirai la spina al muro e afferrai la lanterna che avevo messo quel pomeriggio sul tavolo.
Jensen si sentii a disagio nel buio sconosciuto, ma io sapevo dove mettere i piedi, perciò gli afferrai entrambe le mani, tra la lanterna e le dita, iniziai a farlo camminare in mezzo al terreno.
- Le scarpe nuove – borbottò arrabbiato, camminando in modo strano.
- Io ho i tacchi, ssh… - mormorai, camminando verso la piccola grotta coperta da un telone.
- Ma i tuoi sono bassissimi! E sai dove mettere i piedi!Dove mi stai portando? – domandò con tono di voce sia curioso che arrabbiato. Non risposi, lasciai solo che vedesse. Facendolo abbassare per entrare senza che sbattesse la testa, lo feci rialzare quando credetti che il tetto fosse abbastanza alto.
- Perché fa così caldo adesso? – domandò sgomento, mentre gli lasciai andare le mani, accedendo la lanterna elettrica.
I suoi tratti vennero appena accennati e il luogo caldamente illuminato da quella luce calda ma allo stesso tempo debole. Perciò mi apprestai ad accendere le altre che avevo sistemato quel pomeriggio.
L’ambiente si illuminò quasi completamente. La luce era abbastanza soffusa, e il calore dato dalle grandi falde o vasche termali davano il giusto tocco.
- Che cosa? – domandò  stupito fissando quell’ambiente.
- Ecco la mia…idea… - sussurrai fissandolo, mentre le mie mani si bisticciavano con pizzicotti e graffi.
- Come? Dove? Quando? – esclamò di colpo Jensen, fissando me e poi le vasche. Me e di nuovo le vasche.
- E’ stato mio padre, non sapeva che “la grott”… esistesse. Fin da bambina mi chiedevo cosa nascondesse. E adesso bhè… si è reso conto solo quando l’ha scoperto… il motivo per cui sopra di noi, il terreno era sempre umido e soprattutto caldo, evitando così che qualsiasi radice potesse impiantarsi per dare frutti o verdure nel caso di papà… - balbettai scombussolata, senza che ce ne fosse necessario. Troppo nervosa per iniziare altri tipi di discussioni con parole concrete.
- Oddio, ci vuole proprio un bel bagno caldo… tuo padre è genial…aspetta… - Jensen si fermò di colpo con le mani tra i bottoni della camicia, mentre la giacca aveva fatto la fine di uno straccio per terra.
- Tuo padre non ha messo il tentone fuori vero? – domandò con sguardo magnetico, iniziando ad avvicinarsi.
Strinsi le labbra in una linea sottile nascondendo un sorriso timido. – No – risposi con voce flebile.
- Non ha portato lui le lanterne qui dentro giusto? -.
- Esatto – commentai sorridendo appena, abbassando lo sguardo, cercando di non guardare il suo che si faceva sempre più vicino.
- Non ha programmato tutto questo per mia suocera… - mormorò, accarezzandomi il fianco con mano calda o quantomeno bollente per me.
- Suocera? – squittì nascondendo il sorrisone che mi era spuntato, appoggiando la fronte sul suo petto. – Bhè no… - conclusi sghignazzando appena.
- E quei borsoni… scommetto che dentro c’è un bel cambio di vestiti. Brava la mia Elisabetta… - esclamò piano in italiano, alzandomi il viso con un dito, mentre la mano che mi teneva stretta a se, risalì la corsa fin alla nuca, avvicinandomi al suo viso, per un passionale e languido bacio che diede la scintilla adatta per accendere la miccia…
carica ad esplodere.
 
 
*spazio autrice*
 
Allora, come avevo detto sopra, eccomi qui per chiudere questo bel capitolo a tema natalizio ma anche di fine anno.
Finalmente Elisabeth e Jensen passano un po’ di relax insieme per le feste dopo quello che è successo negli scorsi capitoli. Ve l’avevo detto che sarebbe tornato tutto alla normalità…[almeno per ora :)]
E poi, cosa non può rallegrare gli animi dei due innamorati se una serenata d’amore, un regalo e una cena super tra le mura di una casa accogliente e familiare?
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento, anche alla fine dove Elisabeth si lascia andare un po’. (porcellina! u.u)
E come avete ben appreso, finalmente nel prossimo capitolo e nel prossimo anno i piccioncini torneranno al nido. L’America li aspetta! :)
Se vi chiedevate, di chi era la canzone che Jensen cantava a Elisabeth, è proprio sua, cioè non proprio ma la canta insieme a Jason Mans "Crazy Love", ascoltatela qui, o sul link iniziale!
Non mi resta che ringraziarvi per essere stati qui con me anche oggi tra primi preparativi, cenoni da organizzare, e decorazioni per le tavole da preparare.

VI AUGURO ancora una volta xD BUON NATALE e per l’occasione di queste vacanze, mi presto ad augurarmi anche un BUON ANNO, e che la fortuna come per Jensen ed Elisabeth SIA SEMPRE DALLA VOSTRA PARTE! Cit. Hunger Games u.u
Al prossimo anno :) tra link, immagini e desideri. 
 
LINK CARILLON REGALO(più grande)

LINK ABITO CAPITOLO ELISABETH(cliccate per ingrandire)


 
Xoxo Para_muse

 

 
 
 
 

 

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Capitolo 22
*** “I don't care, just marry me okay?” ***


Da leggere fino alla fine ;D BUON EPIFANIA A TUTTI

La FanFiction fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un... bookstory.
Della serie è tratta una Missing Moment dal capitolo 8 (importate per la FF): The Real Vacancy of Year
Della serie è tratta anche una Missing Moment Rossa dal capitolo 21: Fire in the Water



Capitolo 22
“I don't care, just marry me okay?”
 
 
Everything Has Changed
Taylor Swift feat Ed Sheeran
 
Vancouver – Canada, Gennaio 2008
 
- Stop! Jensen suvvia non  fare lo schizzo frenico della situazione! – gridò scherzosamente Mr. Robert al mio ragazzo, che faceva delle smorfie disgustose alla camera per la puntata che stava girando.
- Mio Dio Robert, è schifoso, io odio i vermi sul cibo, woah! Soprattutto i ragni! – diede segni di vomito e il mio stomaco sulla sua sedia da regista si scompose.
- Per favore Jen, mi stai facendo salire il vomito anche a me… - borbottai fissando la tavolozza del ciak, dove c’era scritto il nome della puntata:
 
Supernatural 3°Stagione
Puntata: 3x09
Titolo: Malleus Maleficarum
Diretto da: Robert Singer
Scritto da: Ben Edlund
 
Non poteva che essere perfetto quel tipo di nome a quella orrenda puntata malefica…bleah. Mi alzai di corsa e correndo in bagno mi infilai due dita in bocca vomitando il panino che aveva mangiato a metà mattinata. Quando mi sciacquai il viso, invece di dirigermi verso il set, feci cambio di marcia e andai alla reception, magari avrei trovato disponibile Jessica. Ma la fortuna non fu dalla mia parte, perciò decisi che per quel giorno potevo benissimo tornare a casa. Lasciai un messaggio sul cellulare di Jensen e prendendo il sub, ingranai la prima, e percorsi la strada verso la nuova abitazione.
Non più casa affittata o imprestata da una cortese amica. Da quando io e Jensen quel 5 gennaio eravamo tornati a Vancouver, con qualche lacrima di un arrivederci verso i miei familiari, avevamo deciso di stare insieme e lasciando quindi la mia migliore amica in balia della casa e di Jared, che lasciato a sua volta la casa presa in affitto insieme a Jensen, aveva deciso anche lui insieme alla mia migliore amica di condividere qualcosa, come una casa e una vita.
Si, perché il primo gennaio quando io e Jensen fummo di ritorno nella nostra camera, dopo una lunga e consumata vasca fatta di baci e carezze ardenti, ci siamo ritrovati davanti una bella scenetta d’amore con tanto di diamante al dito di Jessica e un sorriso ebete da parte del nostro migliore amico in comune.
Non mi stupii più di tanto di quella proposta…si volevano da sempre, e il loro legame era indissolubile rispetto a quello mio e di Jensen un po’ tentennante.
Scossi la testa e cercai di concentrarmi sulla strada da fare dagli studios alla nostra nuova casa, visto che di nuovo appunto non c’era la casa, ma anche le strade di Vancouver, diverse da quelle della mia città, con tanti incroci e semafori da rispettare.
Fissai il rosso del secondo e ultimo semaforo prima di svoltare a destra, e pensai che se avessi preso alla mia sinistra, forse sarei potuta passare dal centro estetico di Kelly, che finalmente aveva aperto con i soldi che Jessica aveva ricavato dalle macchina fotografiche a cui avevo chiesto di vendere.
Felice di avere ancora un po’ di tempo prima che Jensen fosse tornato, appena scattò il verde, mi accertai che non ci fosse nessuno e svoltai diretta dalla piccola Elena, che invece di aiutare la mamma a fare i capelli, lei era brava a tirarli e a rovinarli tutti.
 
- Ciao piccolina! – dissi, afferrandola per il busto, girando su me stessa.
- Aaah! Aeleplano!Ancola, ancola! – per avere solo due anni ormai, le parole non le mancavano. Chissà se avrebbe imparato ben presto l’alfabeto.
- Oh grazie a Dio una faccia conosciuta che può tenerla un po’ a bada. Ci pensi tu un attimo Beth? Mi devo occupare delle ultime due clienti… - borbottò Kelly correndo dall’altra parte del salone, piccolo ma accessoriato alla perfezione.
- Allora, fai arrabbiare ancora la mamma? Non si fa Elena… - dissi, strofinando il naso contro il suo. 
La bambina emise un gridolino di divertimento, e stringendomi le mani contro il viso, lo fece di nuovo, con la forza di una piccola peste.
Risi divertita però da quella cosa, e rimettendola di nuovo a terra, corse verso i suoi giocattoli e mi fece vedere qualcosa di nuovo.
- Nuova Balbie! Ti piace? – domandò mostrandomela e lisciandole i capelli, me la porse, afferrando un orsacchiotto che strinse al petto, baciandogli il capo. Mio Dio com’era bella e dolce verso i suoi beni più preziosi.
Sorrisi e mi addolcii a quella scena, avvicinandola a me, e facendo quello che lei aveva fatto all’orsacchiotto, le baciai il capo come una mamma verso una figlia.
- Fame, fame – borbottò toccandosi il pancino d’un tratto nervosa. Si voltò a fissarmi e con la faccia corrugata prego di darle da mangiare. La presi tra le braccia insieme all’orsacchiotto e avvicinandomi a Kelly, le chiesi se avesse qualcosa da mangiare: - Di solito a quest’ora siamo già a casa, per lei è ormai passato l’ora di pranzo! – esclamò continuando a sfregare i capelli con dello shampoo, a una signora di mezza età.
- Tesoro ora che la mamma finisce di lavorare, ti trova qualcosa, e ti promette che non succede più piccola! – disse Kelly fissando la bambina dispiaciuta.
Voltai lo sguardo verso la bambina a cui iniziò a tremare il labbro, poi grosse lacrime le caddero dagli occhietti e iniziò a singhiozzare, nascondendo il viso tra i miei capelli e il collo caldo per la sciarpa ormai sciolta.
Non potetti che rattristarmi e prima che potessi solo pensarci due volte, proposi una brillante idea a Kelly che accettò subito, senza che anche lei ci pensasse per una seconda volta. Ed ero felice che si fidasse così tanto di me.
- Io devo tornare a casa, Jensen fra un po’ stacca dal lavoro. Visto che io ormai ho preso una pausa per quest’anno, e sono libera, la mattina puoi venirla a lasciare da me, e posso badarle tutto il giorno quando tu sei qui… se posso permettermi di portarla a pranzo a casa mia oggi? Ti va Elena? Così la mamma quando finisce, mangia tranquillamente anche lei e poi ti viene a prendere quando è libera mmh? – dissi, accarezzando i capelli bruni alla piccolina che si era raddrizzata fissando la mamma ansiosa.
- Sarebbe una grandioso idea Beth! Mi faresti un enorme favore! Amore sentito? Vuoi andare dalla zia Beth per un po’ di tempo? Fino a quanto mamma non finisce qui… - disse, mente continuava a fare il lavaggio ai capelli della signora che curiosa osservava la scena.
- Ti – sussurrò Elena, fissandomi mentre iniziava a rotolarsi i capelli intorno al dito. Come se fosse stanca. Di solito i bambini facevano così, o meglio quand’ero io piccina come lei, avevo quel vizio così confortante.
- Allora andiamo, c’è la pastina al formaggino che ti aspetta! – esclamai sorridendole. La poggiai a terra e mi rizzai con la schiena, sedendo i primi dolore alla gamba tesa. Avrei dovuto prendere la stampella per camminare, come mi aveva suggerito il nuovo fisioterapista.
- Sicura di non avere nessun problema? – domandò preoccupata Kelly, sporgendosi a guardarci afferrare i giocattoli con cui Elena avrebbe ferito giocare quel pomeriggio.
- Sicura! Tranquilla…senti ti dispiace se prendo dalla tua auto il seggiolino? – domandai, ma prima che potessi avere la conferma Elena iniziò a protestare per la fame, e rifiutandosi di aspettare un altro secondo in più, la presi per mano e ci dirigemmo in auto, dove la sistemai  con due cinture incastrate alla bel e meglio nel sedile posteriore.
- Mi raccomando ferma! – le ordinai dal sedile davanti, mentre iniziammo il cammino lentamente per dirigerci a casa.
 
- Allora, fai questa paginetta della lettera A, come ad esempio Ariel, la sirenetta. La conosci Elena? – domandai sorridendole, vedendole impugnare la matita con la manina sinistra e correre a ascrivere un enorme lettera A sulla prima parte alta del foglio bianco.
Risi divertita di quella scompostezza e mi alzai a prendere un altro foglio dalla stampante vicino al computer, accorgendomi che Jensen si era svegliato e ci fissava dal divano di pelle ricoperto da una coperta più calda rispetto alla pelle fredda del divano stesso.
- Hai bisogno di qualcosa? Vuoi che ti faccia una tazza di te? – domandai afferrando da terra la stampella, iniziando a camminare con qualche piccolo dolorino verso di lui.
- No, ho solo bisogno di una cosa… - sussurrò allungando una mano verso il mio braccio stretto alla presa della stampella.
- Cosa? – chiesi curiosa, sedendosi nel poco spazio che la posizione di Jensen aveva lasciato sul divano.
- Un bacio – mormorò a bassa voce, non facendosi sentire di Elena, a cui lanciò un veloce sguardo, notando quando fosse presa dal lavoro di disegnare la lettera in diversi modi sul foglio ormai scarabocchiato a cui lanciai uno sguardo divertito.
Prima che potessi spostare lo sguardo di nuovo sull’unico scarabocchio della mia vita, le sue labbra avevano rubato un lungo bacio alle mie, e i miei occhi si spostarono sul viso dai lineamenti rilassati del mio ragazzo o ormai compagno di avventure e disavventura soprattutto.
Prima che potessi lasciarmi trasportare, mi tirai indietro e sorridendogli gli indicai la piccola che, anche presa dal lavoro di scrivere, avrebbe potuto cercarmi e restare un po’ scioccata da quell’effusione strana tra adulti.
- Le prendo un altro foglio… - borbottai alzandomi, ma Jensen fu più veloce, e spostandomi per alzarsi, si diresse al posto mio verso la stampante e prese un mucchietto di fogli portandoli alla piccola Elena che ormai stanca di scrivere le lettere sul foglio, abbandono la matita e fissando da terra l’altezza di Jensen, si alzò per farsi prendere in braccio da lui. Jensen non rifiutò, e con delicatezza la prese tra le braccia fissando lo sguardo della bambina puntare su di lui.
Quella cosa mi stupii e anche quella seguente. Prima che potessi capire, il viso di Elena si nascose tra la spalla e il collo caldo di Jensen. Dopo di che sospirò stanca, e chiudendo lentamente gli occhietti, iniziò a giocare con una mano ad attorcigliarsi i  suoi capelli, con l’altra a attorcigliare quelli corti sulla nuca di Jensen, che anch’io trovavo stimolanti per rilassarsi. Soprattutto perché soffici e profumati.
Quelle scena mi fece così rattristare ma allo stesso tempo sorridere, che senza rendermene conto, mi portai le braccia al petto e alla pancia, pensando a quello che poteva benissimo essere evitato. Se non avessi litigato quel giorno.
I flash dell’incidente sembravano forzare la mia mente a farmeli rivivere, ma le parole di Jensen mi risvegliarono da quel limbo maledetto.
- Dovrei poggiarla sul divano finché è caldo… - sussurrò piano, avvicinandosi  a me con Elena tra le braccia, che poco dopo depose piano tra le coperte, e la ricoprii fino alle spalle tra il calore e il suo stesso profumo.
 
 
- Stasera la mamma verrà un po’ più tardi del solito, magari possiamo iniziare a vedere un bel cartone animato…ti va Cenerentola? – domandai, fissandola giocare con la nuova Barbie, facendole fare le spaccate e le capriole.
- Va bene – disse, posando per bene la Barbie tra gli altri giocattoli che aveva messo a tipo esposizione, davanti al mobiletto della tv, coprendo i cassetti dove di solito tenevo tutti i dvd delle mie serie tv.
- Eccolo qua – presi il dvd dalla mensola alta dove tenevamo i cartoni, sia quelli che preferivo io che quelli di Jensen, e aprendo la custodia, afferrai il dvd, infilandolo dentro il lettore. Il cartone partii e afferrando Elena, la poggiai sul divano, coprendola con la copertina calda che Kelly nelle settimane passate mi aveva lasciato insieme ad altre cose che Elena avrebbe preferito di più.
Elena appoggiò la testa alla mia spalla, e sospirando iniziò a guardare il cartone insieme a me.
Poco dopo sentii la porta aprirsi, segno che Jensen era tornato. 
- Sono a casa – urlò dalla porta d’ingresso. Mi voltai a fissare che spuntasse dal piccolo corridoietto prima che potesse entrare nel largo soggiorno collegato alla cucina e al lato ufficio.
- Ciao – sussurrai piano, sperando di non distrarre Elena dalle scene.
- Ciao, c’è Elena? – domandò fissando l’animazione alla tv di Cinderella o Cenerentola.
- Si, e … - prima che potessi dire altro, la sentii muovere, e la vidi alzarsi sul divano, voltandosi a fissare Jensen.
- Braccio, braccio – borbottò strofinandosi gli occhi con i pugni piccoli per la stanchezza.
Jensen le sorrise dolcemente, e avvicinandosi la prese in braccio e fece il giro sul divano per sedersi accanto a me.
- Dov’è la mamma tesoro? – domandò Jensen curioso, coprendola con la copertina sulle spalle.
- Lavoro, domani festa d’amole! Mamma ancola lavoro – singhiozzò un po’ e poi si acquietò.
Si era addormentata. Poverina. Elena capiva ormai che sua madre più il tempo passava e più lavoro aumentava. Ormai era più di un mese che  Elena stava a casa nostra. Febbraio stava passando lentamente, e le giornata di Elena anche se erano piene da lavoretti, disegnini e cartoni animati, capiva che anche quelle di sua madre erano piene, ma solo di lavoro e tanto. Soprattutto quel tredici febbraio. Il giorno pre – San Valentino, le ragazze si erano affrettate dalla nuova estetista per farsi fare la ricostruzione delle unghie o magari un nuovo taglio di capelli.
Elena inizia a soffrirne, e a Kelly dovevo farglielo notare.
- La porto nella stanza da letto? – domandò Jensen, voltandosi a fissarmi per lasciarmi un bacio sulla fronte una frazione di secondo dopo. 
Mi strinsi verso di lui, e alla piccolina che sospirando nel sonno, riprese a respirare ritmicamente.
- No, resta qui… - sussurrai, chiudendo gli occhi anch’io.
 
- Ehi, piccola. Elena è andata via… Ehi, tesoro? – sussurrò Jensen smuovendomi un braccio. Aprii gli occhi di scatto e mi guardai attorno, notando l’assenza di Elena sulle braccia vuote di Jensen che iniziò ad armeggiare con i telecomandi per spegnere tv e lettore. La scena della scarpetta di cristallo persa si fermò a metà, oscurandosi di colpo e Jensen si voltò di nuovo verso di me, stanco.
- Andiamo a letto…vieni – disse, abbassandosi a prendermi tra le braccia. Mi scossi un po’ ma stanca anch’io, mi appoggiai ad una sua spalla, cercando di pesare poco.
- Sei così fragile… - mormorò sulla mia tempia, baciandola più volte, prima di appoggiarmi sul lenzuolo morbido e felpato, che iniziò a riscaldarmi grazie al mio stesso calore.
 Jensen fece il giro e prima che potessi nascondermi sotto le coperte, mi tirai via gli jeans e le maglia con il reggiseno, infilando subito la mano sotto il cuscino dove ponevo la mattina la lunga maglia del pigiama.
Solo dopo mi voltai a fissare Jensen togliere anche lui la maglia e i pantaloni, lasciandosi addosso la canotta di lana, e infilandosi subito sotto le coperte per il leggero freddo che poi si stemperò sotto la pesante coltre.
Mi strinsi al suo petto, facendomi abbracciare, e chiusi nuovamente gli occhi, senza però un poco di sonno.
- Com’è andata a lavoro oggi? Mi sei mancato… - sussurrai, alzando un poco lo sguardo, fissandogli il mento nella luce delle lampade sul comodino.
- Bene, a parte le lenti a contatto che davano un po’ fastidio, tutto bene… - sussurrò strofinandosi gli occhi per la stanchezza con una mano, liberandomi dall’abbraccio.
Mi voltai appena per mettermi in posizione supina e fissare il tetto decorato con disegni floreali. Involontariamente mi portai le mani sulla pancia, iniziando a giocare come sempre con la maglia di cotone lunga fino alle ginocchia.
- Ehi – mormorò poggiando la fronte sulla mia tempia, baciandomi l’attaccatura dei capelli.
- Mmh? -.
- Tutto bene con Elena? – domandò con voce tesa, puntellandosi con un braccio per fissarmi meglio.
Abbassai lo sguardo, mettendo a fuoco il suo viso anche esso teso. Allungai una mano da sotto le coperte e gli sfiorai la guancia con appena un accenno di barba, che morbida si strofinò sul mio palmo tenero.
Annuii semplicemente e cercando di appianare quelle valli e solchi tra gli occhi, mi avvicinai per lasciargli un bacio.
- Sai, è che ti vedo con lei… e spesse volte ti vedo sfiorarti la pancia, come se…senti io non sto a dirti che non vedo quello che-che tu provi, solo che… - non sapeva quali parole usare e notandolo in difficoltà, cercai comunque di tranquillizzarlo, scuotendo più volte la testa, attirando così la sua attenzione.
- E’ tutto okay, sul serio Jensen. E’ solo un vizio toccarmi la pancia, sul serio…io non. Ne. Ho. Bisogno…tranquillo. – sussurrai, accarezzandogli più volte il viso con la mano libera, mentre l’altra continuava a tormentare la maglia sotto la coperta.
- Okay, solo che…se vuoi, ci sono gli orfanotrofi per dei bambini che non hanno ne una mamma ne un papà, e io sono pronto a… - gli chiusi le labbra in un dolce bacio, e cercando di farlo rilassare, l’invitai a distendersi così che potessi appoggiare il viso sul suo petto, facendomi cullare dal suo respiro e dal suo cuore.
- E’ tutto okay Jensen, io sto bene così… - sussurrai, chiudendo gli occhi, chiedendogli che spegnesse la luce, così forse avrei pianto le lacrime di forte dolore, senza che lui non riuscisse a vedere nulla.
- ‘Notte piccola.-.
- ‘Notte.-.
 
- Posso entrare? – domandò Jensen, dalla saracinesca mezza abbassata del negozio di Kelly, dove mi stavo preparando per uscire, mentre tra le braccia tenevo un’impegnata Elena che scribacchiava sulla toilette.
- Si, vieni Jen – dissi, voltandomi a guardarlo, mentre Kelly seguiva i miei movimenti con il capo, mentre mi sistemava i capelli un po’ scompigliati e un po’ in ordine.
Prima che potessi alzarmi per abbraccialo e augurargli a tutti gli effetti un “Buon San Valentino”, qualcuna più veloce e furbetta di me, andò incontro a Jensen che non ci penso due volte, afferrandola  per il busto, facendole fare una giravolta in aria.
- Ciao piccola! – esclamò Jensen, fissando prima Elena e poi me, che squadrandomi dalla testa ai piedi, mi lanciò uno sguardo d’approvazione, schiacciandomi l’occhio destro.
Sorrisi timidamente, e voltandomi a guardare Kelly, la ringraziai con un sorriso. Subito dopo, perentoria, richiamò Elena sull’attenti.
- Su piccola, lasciamo andare zia Beth e zio Jensen alla loro serata! – esclamò, aprendo le braccia per accogliere la propria figliola, che felice di stare un po’ con sua madre, non la lasciò andare nel suo stretto abbraccio da bambina mammona.
- Andiamo in incognito in realtà… -borbottai, voltandomi a fissare Jensen, che alzando le spalle non mi disse per l’ennesima volta dove stessimo andando.
- Vuole farti una sorpresa…suvvia! – Kelly ci spinse fuori dal negozio, e afferrando le sue cose, anche lui ve ne uscii, chiudendo la saracinesca.
- A domani bellezze! – dichiarò Jensen, lasciando un bacino alla manina di Elena che subito l’acchiappò sorridendo divertita.
- Tao Plincipe Azzullo! – esultò dall’abbraccio della mamma, facendomi ridere. Che tenera!
Io e Jensen mano nella mano ci dirigemmo all’auto che stranamente non era guidata da lui ma da un uomo pienotto e enorme. Chi era?
Quest’ultimo scese dall’auto e in giacca di pelle e stivali si presentò come Cliff, il bodyguard.
Ne restai stupita, fina ad allora eravamo sempre usciti da soli, perché adesso dovevamo bisogno di un uomo che ci avrebbe accompagnati da un posto all’altro? Preoccupandosi di essere puntuale e magari…adesso ci ero arrivata. I paparazzi; e quando durante il cammino lessi i cartelli “Italy’s Village” capii dove stavamo andando. 
E Jensen non voleva che tutto finisse come l’ultima volta che c’eravamo stati. Ecco il nostro San Valentino dove lo stavamo per festeggiare… dove piaceva mangiare di più a Lui. Dall’italiano Carlo’s Restaurant.
 
- Mio Dio, quella pasta alla matriciana era veramente buona! – dissi toccandomi la pancia piena, quando dopo aver mangiato il secondo – cotoletta di pollo in crosta di pane e pistacchio -, stava iniziando a scoppiarmi. E ancora non era arrivato il dolce. 
Avevamo deciso di prendere un a torta al cioccolato ovviamente. 
Quella sera era sempre più perfetta. Io e Jensen ci eravamo rilassati e quei momenti così brutti a cui  ogni tanto ci capitava di pensare, come l’incidente, erano un brutto ricordo messo nell’apposito cassetto, mentre quei momenti li avrei ricordarti per sempre come tutti quelli trascorsi insieme a lui. 
Quel cassetto si chiamava “Life with Jensen: the best your life”. Ed era vero, erano i momenti più belli della mia vita quelli trascorsi insieme a lui.
- Tu non sei pieno? – domandai curiosa, fissandolo un attimino serio e teso, soprattutto. Eppure durante la serata non mi sembrava fosse stato così rigido sulla sedia, mentre Francis passava come sempre con il suo violino tra i tavoli di ogni diversa coppia – il ristorante era pieno solo di quelle – e dispensando la sua musica a tutti i tavoli, si era fermato più del dovuto sul nostro, fissandoci sorridente, dedicandoci quel sonetto d’amore solo a noi, dentro quella nostra bolla fatta per ascoltare la musica dedicataci.
- Abbastanza – borbottò Jensen, facendosi più rigido sulla sedia quando arrivò un piatto direttamente dalla cucina ma con sopra una scatola di cioccolati. E portato da Micheal il portiere, e non da uno dei camerieri in smoking.
- Cos’è? – domandai stupita e un po’ delusa che la scatola a cuore non fosse una torta a cioccolato ma una scatola con dentro dei cioccolati.
- E il dessert? – domandai con voce triste, e misi il muso, anche se i cioccolatini andava più che bene, visto il mio stato, ormai più che scoppiante per tutto il cibo ingerito. 
Non ci ero abituata, forse per il troppo digiuno che facevo continuamente. E la depressione… ma scossi subito la testa, cercando di pensare a qualcos’altro: tipo quello che stava succedendo in quel momento.
Francis si era avvicinato un poco al nostro tavolo, e credetti che fosse tutto favoritismo, visto come si era attorniato al nostro tavolo per quasi la maggior parte della serata.
Micheal si era avvicinato con le braccia dietro la schiena sorridendomi e sorridendoci contento.
Ma cosa gli prendeva a tutti? Il troppo colesterolo per la cioccolata? Bha!
- Volevo dirti che non lo sto facendo perché costretto, o solo per accelerare le cose visto la situazione di Jared e Jessica… - borbottò Jensen corrugando la fronte un paio di volte, fissando un punto indefinito sul tavolo rotondo, dove allungò poco dopo le braccia, per afferrarmi le mani, che allungai a mia volta verso di lui.
- Quale situazione? Non capisco… - domandai preoccupata, fissandolo frustrata.
- Davvero… - iniziò, tossendo un attimo verso la sua spalla, quindi fermandosi, facendomi preoccupare ancora di più. - ... m’importa quando la notte piangi per quello che ci è, e soprattutto ti è successo in Italia, ma non ha importanza che tu non riesca a portare un bambino in grembo mio, oppure che venga dall’orfanotrofio… -; quelle parole mi stupirono, facendomi spalancare la bocca un poco. 
Ma cosa stava dicendo? Iniziai a sudare freddo e lui se ne accorse, perché la presa sulle mani divenne più ferrea. Alzò lo sguardo dal punto incognito e mi fissò per il resto della sua strana discussione:
- Non c’è bisogno che tu stia a casa ad aspettarmi, o a prenderti cura di altre persone, pensando che non ci siano persona a prendersi cura di te, perché puoi fidarti di me, e adesso avrai la certezza che  mi prenderò cura io di te, e sul serio: o con un bambino o no, io ho solo bisogno di te. Io voglio te. Così. Come. Sei, con i difetti al tuo corpo comunque bello e morbido, caldo e confortevole, fatto per un mio abbraccio e il mio fatto per uno tuo. Perché qui… - si portò una mano al cuore, sciogliendo la presa con la mano destra – qui, troverai sempre conforto e amore. Ti Amo, e se per te comunque non abbia importanza nemmeno questa cosa o questo discorso, ti prego aprii la scatola… - borbottò, fermandosi ad abbassare lo sguardo verso la scatola di cioccolati in mezzo alle nostre braccia.
Stupita e stordita da quelle parole, sciolsi la presa con le sue dita, e aprii tirando via il coperchio che poggiai al fianco del piatto. 
Vidi i cioccolati e non restai stupita, perché era una semplice scatola, con tutti i tipi di cioccolati. Compresi uno, che mi fece salire le lacrime agli occhi e mi fece spalancare un altro po’ di più la bocca.
-  … non hanno nemmeno importanza i cioccolatini, perciò mi basta che mi sposi okay? E poi potremmo o potrai mangiare tutti i cioccolatini che vorrai… - sussurrò, stringendomi nuovamente le mani, che mi erano cadute a pesi morti sul tavolo.
Sbattei più di una volta le palpebre cercando di trattenere le lacrime. Pensai a cosa potessi dire. Pensai a cosa Jensen avesse appena detto.
Aspettate mi aveva fatto una proposta di matrimonio? Mio Dio. Mi voltai scombussolata quando sentii il silenzio di tutte le altre persone, e solo il rumore del violino che suonava piano un sonetto, mi risvegliò, ricordandomi che forse l’uomo di cui mi ero innamorata, di cui mi ero perdutamente innamorata, di cui volevo crearne una famiglia, fidandomi e prendendomene cura, aspettasse una mia risposta.
- Io… - balbettai appena, tornando a fissare il cioccolatino centrale, dove sopra vi era appoggiato un bell’anello, con tre diamanti che luccicavano sotto le luci delle candele. Uno centrale e più grande e due più piccoli che facevano da contorno. Semplice ma perfetto. Come quel momento.
Sorrisi felice e voltandomi verso Micheal che non mi nascose un sorriso da ragazzino, sorrisi più coinvolta a mia volta, e alzandomi dal tavolo, mi lasciai andare tre le braccia di Jensen, a cui annuii con forza, avvicinandolo  al mio volto per un bacio di gratitudine. Come gli ero conoscente per quel gesto da pazzo, perché sposare una come me, non era una roba facile. Con il caratteraccio che portavo.
Sorrisi tra le sue labbra per il dopo lungo bacio tra uno scrosciante battito di mani e un Francis che aveva alzato le note della dolce melodia, stordendomi quasi nella bolla dell’amore perfetta.
Jensen afferrandomi per i fianchi mi fece alzare, e alzandosi a sua volta, si avvicinò al tavolo e afferrando quel piccolo cerchio perfetto, sorridendomi felice, si inginocchiò e afferrandomi teneramente la mano sinistra, fece in modo che stendessi il braccio tra di noi; mentre io non aspettai nemmeno un secondo a stendere le dita, lui mi infilò il dito all’anulare sinistro, e mentre lo fece sentii perdermi un battito al cuore, come se fosse collegato. 
Forse mia madre in fondo aveva ragione. Quel gesto sarebbe stato marchiato al cuore, perché una delle vene del cuore era collegata proprio al quel dito, sennò perché si sarebbe dovuta mettere proprio li?
Prima che l’emozioni potessero solo scemare, Micheal si presentò con l’ultimo piatto da portata: la torta al cioccolato che avevo desiderato tanto.
- Ma anche no, sono piena di dolcezze! – esclamai, afferrando il viso di Jensen tra le mani, regalandogli uno dei baci più dolci che  potessi permettermi, o meglio, che potessi mostrare in pubblico.
- E’ perfetto – sussurrai, fissando prima i suoi occhi e poi l’anello che portavo al dito.
- Tu sei perfetta – mormorò tra le mie labbra per un fugace bacio.
- Lo è questo momento amore, e ti amo da morire anch’io, unico compagno della mia vita, e padre della famiglia che saremo… - sussurrai, facendomi scappare una lacrima di gioia.
- Lo saremo, compagna e madre della famiglia che saremo… I lov…- rise divertito e fermandosi a fissarmi solo un secondo, pronunciò quelle parole così perfette sulle sue labbra anche in una lingua a lui sconosciuta e diversa:
- …ti amo Elisabetta! -.
 
 
*spazio autrice*
 
Salve :D
Come iniziare un anno nuovo se non con un nuovo capitolo?
Posso dire che questa storia è finita! E altro che ringraziarvi non mi resta :3 Grazie di cuore a starfragola per i suoi preziosi consigli, victoria e soprattutto a Ofelia per tutte le recensione che mi hanno fatto e che faranno al prossimo capitolo! xD Perché….. sto scherzando ahahaha xD
Allora questa capitolo avete notato come è piano di balzi temporali e soprattutto di umori e sorprese :) Spero almeno che vi siano piaciute :3 e voglio sapere se fino alla fine vi aspettavate una cosa del genere u.u 
Per la cronaca, spero che abbiate passato delle ottime feste tra i vostri familiari e vi ringrazio ancora per le visite al capitolo scorso, visto il tema che era, si addiceva alla data di pubblicazione :)
Non mi resta che lasciarvi al gennaio invernale e ad un prossimo capitolo con le foto riguardanti il capitolo.

Vestito da sera per Elisabeth:
(click nella foto per vederlo più grande)


Jensen e il suo abto da sera (cliccate nella foto per vederlo) u.u


La casa che i ragazzi hanno comprato (la foto è piccola già di suo)


 
 
Xoxo Para_muse
 
 
 
 
 

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Capitolo 23
*** She says: I do ***


Corretto! :)

La FanFiction fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un... bookstory.
Della serie è tratta una Missing Moment dal capitolo 8 (importate per la FF): The Real Vacancy of Year
Della serie è tratta anche una Missing Moment Rossa dal capitolo 21: Fire in the Water



Capitolo 23
She says: "I do"

- Ehi… -, Jensen mi richiamò, mentre io ero intenda a fissare lo schermo del telefono distrutta. Sconvolta più che altro, o forse delusa. Ma di me stessa.
Dopo essere tornati a casa, io e Jensen ci eravamo lasciati andare sul nostro letto, ormai sfatto e consumato tra i nostri movimenti lenti, misurati, pieni d’amore e di promesse che già avevamo fatto con una sola scelta.

Quella di sposarci, e ufficialmente l’avremmo fatto l’anno prossimo, il mese che più preferivamo era maggio, come quando ci eravamo conosciuti sul set, e ci odiavamo invece che amarci, cosa alquanto strana. Ma sapevamo il motivo di quei primi scontri; i nostri caratteri non erano come quelle di altre persone: normali. Più caratteracci che altro…
Ci eravamo comunque accorti che maggio di quell’anno era troppo vicino, e se avremmo dovuto fare due feste, una qui in America e una in Sicilia, come mi aveva consigliato Jensen di fare, il tempo di organizzare tutto non c’era, e avrebbe – come lo volevo anch’io – preferito aspettare un po’, magari per stabilizzarci del tutto, soprattutto li a Vancouver.
E ancora Jensen doveva presentarmi i suoi, cosa alquanto importante da fare. E immediatamente dopo la fine delle riprese, ovvio.
Quindi avevamo deciso che il duemila nove sarebbe stato perfetto, e il 15 maggio avremmo coronato il nostro sogno. Forse più il mio da bambina, che il suo da grande.
Il sorriso non mi era minimante scomparso da quando ero uscita dal ristorante da Carlo. Nemmeno quando qualche paparazzo si era appostato dall’altro lato della strada per farci qualche foto, nemmeno quando ero tornata a casa e ci eravamo lasciati andare più volte tra grida di estasi e piacere continuo; quello che solo Jensen riusciva a farmi era sconvolgente.
Di sconvolgente era anche quel messaggio di Jessica, che mi aveva fermata a pensare tante di quelle cose, che l’incidente sulla strada non era niente.
Più che altro il pensiero di non poter essere così felice come lei…quello si che mi tormentava da sempre. Anche se Jensen mi aveva fatto quella promessa: che non bisognava che avessimo proprio una nostra vera famiglia. Bastava anche essere noi, solo noi, e basta.
Bhè a lui poteva bastare, ma a me no. L’istinto materno verso Elena mi aveva riacceso quella scintilla che solo noi donne potevamo provare.
La scintilla era anche arrivata al cassetto dove tenevo quei brutti ricordi, soprattutto uno:
- Mi dispiace dirti che non potrai avere più bambini… - quelle parole iniziarono nuovamente in un eco a tormentarmi.
Chiusi gli occhi e feci un bel respiro. Non mi sentivo più…
- Ehi Elisabeth è tutto okay. Guardarmi. Guardami! – esclamò Jensen, che si era alzato sulle ginocchia, afferrandomi per le spalle, iniziando a muovermi.
O forse ero io che lo facevo. Non riuscii a prendere ossigeno. Iniziai a gridare e i polmoni a bruciare. Poi mi persi.
 
- Ha avuto un attacco di panico dovuto a questi disturbi deliranti di cui abbiamo parlato l’altra volta Mister Ackles. Mi dispiace dirle che potranno sempre persistere, in qualsiasi momento della giornata. La cosa migliore per lei sarebbe isolarla del tutto da questo tipo di paranoie. Se avrà bisogno, non esiti a chiamare… -.
Sentii parlare la voce di un uomo sconosciuto, o forse no… iniziai a rinvenire e a prendere conoscenza di quello che stava accadendo. E di quello che era successo.
- Jensen – sibilai a voce bassa, richiamandolo dalla porta, dove era uscito il dottore, che riconobbi di spalle.
- Ehi, piccola – sussurrò, chiudendo la porta a chiave, prima di tornare di nuovo da me, sul divano, dov’ero stesa.
- E’ successo un’altra volta? – domandai con voce tremante e, desolata iniziai a piangere come una bambina.
- Mi dispiace, mi dispiace tanto – sussurrai, stringendomi a lui, o meglio facendomi stringere forte da Jensen, che mi afferrò tra le braccia, portandomi di nuovo tra le fredde lenzuola del nostro letto.
Jensen ebbe solo il tempo di fare il giro, prima che infreddolita, mi stringessi di nuovo a lui, caldo.
Le mie braccia corsero intorno al suo torace, mentre le mie gambe si scontrarono con le sue nude sotto i boxer.
- E’ tutto okay tesoro, sta calma – mormorò al mio orecchio, baciandomi la tempia più volte.
Quando mi sentii prendere più di un respiro, e i miei singhiozzi furono solo un gemito cercò di aprire il discorso con tranquillità, sempre cercando di non farmi andare un’altra volta nel panico.
- Dovremmo essere solo felici Beth! Avremo una piccola peste tra i piedi, sul set… non sarà figlia o figlio nostro, ma loro sanno che saremo degli ottimi zii, e credimi se ti dico che Jessica starà soffrendo più di te, sapendo anche che prima o poi avranno qualcuno da accudire, mentre noi no. Loro lo sanno, e staranno vivendo le stesse nostre pene, credimi piccola. Credimi – sussultò Jensen, stringendomi forte, mentre tra le sue parole confortanti, e la sua voce bassa e cantilenante, caddi in un sonno profondo tra le sue braccia rassicuranti.
 
- Dichiaro finite le riprese, anche se con dispiacere, devo dire che la rivolta dei sceneggiatori è stato più che perfetto per questo finale stagione! Siete stati tutti grandi! Grazia a tutti! – esclamò Mr. Kripke battendo le mani, coinvolgendoci tutti, in quell’ultimo giorno di riprese, dove io e Jensen scappammo immediatamente per prendere l’aereo verso Dallas.
Il viaggio fu un po’ lungo e stancante, e già mi mancavano Elena, Kelly e i due JJ, che avremmo visto presto a San Antonio, o anche a Dallas visto che non distavano poi così lontano entrambe le città.
Il problema sarebbe stato che sia io che Jensen, non avremmo dovuto disfare le valigie, perché il quindici dello stesso mese di maggio, saremmo partiti per la Sicilia, dove ci attendeva il matrimonio di Laura, che era stato rinviato per me e la gamba zoppicante.
Un po’ tesa per l’arrivo al Dallas Fort Worth International Airport dove ci aspetta la famiglia di Jensen, lui si accorse di quella rigidezza sul mio viso, che durante l’attesa per l’arrivo valigie, oltre a tenermi per mano, mi avvicinò il viso al suo per un lungo e tenero bacio, pieno di dolcezza, ma soprattutto di pace, che mi fece rilassare, sciogliendo i nervi e facendomi o meglio facendoci dimenticare le valigie sul nastro, che avremmo dovuto aspettare per un altro giro.
Quando afferrò le valigie ci dirigemmo direttamente all’uscite, dove ci aspettava la sua famiglia:
suo padre Roger, sua madre Donna, suo fratello maggiore Joshua, con sua moglie Hope e la sua sorella minore Mackenzie eccitata di conoscermi.
- Oh mio Dio, finalmente ti conosco. Com’è bello vedermi insieme! – esclamò stritolandomi in un abbraccio a dir poco forte. A mia volta la strinsi in un abbraccio amichevole, che lei scambiò per freddezza, ma che Jensen chiarii essere solo disagio. Ed era vero.
- Piacere Joshua. Tu sei la famosa Elisabeth – costatò suo fratello che a tratti gli era così somigliante. Sorridendogli timidamente, lui capii a cosa stessi pensando.
- Si, si, sono il più bello. Lo so! – esclamò, facendoci ridere tutti. Quando l’ilarità smise, fu così gentile di presentarmi la moglie così giovane. – Hope, piacere e benvenuta a Dallas! – e il suo sorriso fu così cortese e caloroso che non potetti abbracciare anche lei con amichevolezza.
- Passiamo alla polpa! – esclamò a bassa voce presentandomi i suoi genitori.
- Mamma, papà lei è Elisabetta, o Elisabeth. E’ italiana! – si giustificò imbarazzato il mio dolce Jensen, che portandosi una mano dietro la nuca, iniziò a grattarsela a disagio. Gesto che ormai avevo inquadrato.
- Piacere di conoscerti Elisabeth, siamo molto felice di conoscerti – mi sorrise cordiale la madre nel suo caschetto biondo e nelle sue rughe accanto agli occhi dello stesso colore di suo figlio, cosa che li distingueva dal resto della famiglia, perché più scuri.
- Piacere di conoscerla Mrs. Ackles – dissi sorridendole cortese e un poco rilassata (stranamente), mentre gli stringevo la mano.
- No, no!... – esclamò, stringendomi le nostre mani con l’altra libera, che stringeva poco prima quella del marito. - …chiamami pure Donna! Non voglio essere chiamata signora Ackles, suvvia! – e rise, voltandosi a fissare il marito, che se la rideva.
Sorrisi e annuii convinta, spostandomi di un poco tra le braccia di Jensen che mi presentò suo padre: - Papà… - disse semplicemente Jensen.
Fissai il padre che con la sua anzianità era comunque un bel uomo, con i suoi ancora capelli castano chiaro, come il figlio, e i suoi occhi scuri, colore che prevale negli occhi degli altri figli, in un sorriso divertito e da padre quasi, mi accolse a Dallas e soprattutto nella famiglia:
- Benvenuta tra noi, famigerata innamorata diRoss. Finalmente ti conosco, signorina…? – domandò d’un tratto, mentre gli stringevo la mano con convinzione e un sorriso da un orecchio all’altro.
- Elisabeth De Santis, signore! – esclamai distratta.
- De Santis, io solo Roger Ackles. Conosceremo mai i tuoi genitori? -, e diede una pacca alla spalla di suo figlio che in imbarazzo mi lanciò uno sguardo di scuse e apprensivo ricambiò quella pacca a suo padre, notandogli fare una smorfia.
- Ehi, stavo solo scherzando! – esclamò suo padre, tirando il mio braccio, ancora in aria e stretto nella morsa della sua mano. Mi strinse a se in un abbraccio, mentre nell’altra teneva il figlio qualche centimetro più alto di lui.
- Benvenuti a casa, ragazzi! – esclamò il padre, lasciandomi andare con due pacche, afferrando il carello con le nostre valigie iniziando a fare strada.
Io e Jensen ci voltammo a fissarci a vicenda, restando gli ultimi nella fila e tra la folla degli arrivati a Dallas.
- Me la sono vista bella! – esclamò esasperato Jensen, afferrando la piccola valigia a mano, trainandola alle sue spalle, mentre io trainavo la mia, mano nella mano.
 
- Siete sempre così perseguitati? – domandò preoccupata Mackenzie, mentre ci sistemavamo nella vecchia camera di Jensen, con l’aggiunta del letto di quest’ultima, per restare insieme e nella stessa camera.
Mi voltai a fissarla, sedendomi sul letto ormai stanca di sistemare i vestiti nei cassetti liberati entrambi da Donna.
Alla sua domanda non potetti che annuire semplicemente, pensando a come alcuni paparazzi ci avessero assalito all’aeroporto, facendo mettere il muso a Jensen, mentre a me fece solo ridere, perché la situazione mi si era presenta comica, quando uno di loro aveva cercato di seguirci di spalle, sbattendo poi contro un secchio dell’immondizia cadendo all’indietro.
Al solo pensiero un sorriso mi spuntò sulle labbra.
- Mio Dio, io diventerei pazza – borbottò la piccola della famiglia, tirando un passo indietro, lasciandoci soli dopo un piccolo questionario che aveva fatto al fratello per sapere qualcosa sul finale stagione.
Quando Mackenzie andò via, Jensen si voltò ad allungare un braccio verso la porta, chiudendola con un tonfo. Nota che era un po’ arrabbiato o stanco di essere osservato dalla famiglia.
Chiuse uno dei cassetti con una spinta della gamba, e avvicinandosi di colpo al letto, si sedette con un saltello sul materasso morbido, e facendomi pressa al mio petto con un braccio, mi invitò a distenderci di schiena, lateralmente. Voltai il mio viso in alto, cercando il suo sguardo, perso invece nel vuoto bianco del soffitto.
- Cosa c’è? – domandai preoccupata, allungando un braccio per giocare con il ciuffo all’insù sulla sua fronte.
- Niente, solo stanco… e voglioso di te… - mormorò, abbassando lo sguardo verso il mio, per poi abbassare il viso, cercando le mie labbra.
Mi allungai presa dalla voglia anch’io, e alzandomi sulle ginocchia, mi accavallai sulle sue gambe appena sbarrate, facendogliele stringere tra le mie.
D’un tratto, afferrandomi per i fianchi, Jensen si alzò dritto, e avvicinando il mio viso al suo in un colpo secco, le sue labbra furono in una morsa famelica di un bacio con le mie.
Passionale, travolgente e molto surreale.
Le sue labbra perfette e morbide, mordicchiavano le mie. I miei piccoli denti corsero a stringergli il labbro in una morsa, tirando forte, presa dall’euforia del momento.
Jensen andò pazzo. Mi scaraventò di schiena sul letto, facendomi ridere.
- Vediamo se fai ancora la panterona! – fu l’ultima cosa che disse, prima di farmi sussultare senza che urlassi troppo il piacere che mi provocò, per tutta la casa.
 
- I piccioncini hanno inaugurato casa! – borbottò Joshua, lanciando uno sguardo divertito al fratello, mentre giocava con le dita di sua moglie Hope.
Alle sue parole, mi nascosi sul torace di Jensen, che iniziò a ridere divertito insieme al padre. La mia timidezza toccò picchi alti, mentre la ragazza bionda dagli occhi azzurri mi faceva un sorriso timido e dispiaciuto per il comportamento del marito.
- Siete solo orgogliosi! Anzi siete come dei cani, voi uomini! Volete marchiare il territorio in qualsiasi parte! – esclamò indignata e allo stesso tempo divertita Mackenzie. Risi divertita di quella affermazione, e battei quasi le mani quando Hope annuì, facendosi poi fare il solletico dal suo compagno finto offeso.
- Ehi, smetti di toccare mia cognata! – borbottò Mackenzie, salvando Hope da suo fratello.
- Mio Dio, non riesco a leggere il giornale! Ragazzi andate a giocare in giardino! – esclamò frustrato il padre, allargando con uno scatto il giornale, per sottolineare che voleva un po’ di tranquillità.
- Uffa! – sbruffò Mackenzie, afferrando per mano sua cognata, uscendo fuori in giardino, passando per la cucina.
Prima però che uscissero fuori, mi invitarono ad andare con loro, e fissando Jensen negli occhi, mi diede il consenso con un occhiolino e un bacio sulla fronte. Così lasciai i due figli maschi con il padre a discutere sui Dallas Cowboys, la squadra di Football della città.
Era ora di cena ormai, e fuori ancora il sole smorzava il cielo in un crepuscolo colorato di viola.
- Allora come va Hope? Tutto apposto? – domandò Mackenzie eccitata, fissando la cognata prima negli occhi e poi alla pancia, dove quest’ultima teneva le mani.
- Si, il pericolo del terzo mese l’ho passato alla grande, la dottoressa ha detto comunque che devo restare a riposo per la maggior parte della giornata. Quindi… - le parole di Hope mi morirono lungo al tragitto per i timpani, quando sentii la parola “terzo mese”.
Era incinta.
Sembrava che il destino mi venisse contro. Tutte le persone che incontravo, che mi stavano simpatiche, perché loro erano così felici, mentre io non potevo esserlo? Era un questione di testa, oppure negli Stati Uniti era l’annata del baby boom?
Sospirai, ma mi resi conto che l’aria stava iniziando a mancarmi, perciò emisi più di un sospiro, fissandomi attorno spaesata, in cerca di un appiglio dove appoggiarmi.
- …sono così felice per te, Hope! Mio Dio, che bel…Elisabeth è tutto okay? -. La voce di Mackenzie mi entrò a forza nelle orecchie, e annaspando verso la porta della cucina per cercare Jensen, sentii qualcuno appoggiarmi una mano sulla spalla. Non ci feci caso, corsi direttamente tra le braccia di Jensen, incespicando sul tappetto di fronte al divano dove si era seduto. Preoccupato per quello abbraccio, mi strinsi convulsamente a lui cercando di parlarmi all’orecchio.
- Jen. sen, io. Sto. Male – sibilai, iniziando ad avere una totale confusione nella mente, che si dissolse solo quando sentii qualcuno sussurrarmi che andava tutto bene, e che continuava a dondolarmi tra le sue braccia, in un dolce movimento.
- Mamma per favore lasciaci da soli, adesso sta bene, è solo un attacco di panico dovuto all’aereo. Lasciala respirare… - borbottò la voce di Jensen.
I miei occhi si erano stretti in una morsa, che riaprii riuscendo a distinguere solo la pelle del collo in ombra di Jensen. Mi ci strofinai con il viso, cercando consolazione.
- Liz – borbottò abbassando il viso appena, intrappolandomi in quella morsa stretta. Annusai il suo odore e mi rilassai, sentendo solo il suo respiro, e il suo cuore calmarsi in quei battiti leggeri sotto il maglioncino leggere.
- E’ tutto okay adesso, respira tesoro, respira… - sussurrò, lasciandomi qualche bacio qua e la sulla guancia e sulla spalla, rilassandosi anche lui con un sospiro.
- Mi dispiace – mormorai tra le mie labbra e la sua pelle, distrutta dalla giornata pesante e dall’accaduto di pochi secondi prima.
- Stai tranquilla, i miei genitori sanno e capiscono quanto tu riesca a sopportare. Hope ci è rimasta male che… - lo fermai con uno alzata di sguardo quando sentii quelle parole.
- Cosa c’è? – domandò preoccupato, quando mi vide tesa e accigliata.
- Dovrei scusarmi con lei. Lei non dovrebbe dispiacersi per me, anzi per nulla… - constatai, alzandomi sulla gambe un poco molli, prima di avvicinarmi alla porta per scendere al piano di sotto.
Se ci fossi riuscita. Jensen mi fermò, stringendomi in una morsa prima il polso e poi la vita con un braccio, appoggiando il viso sulla mia spalla.
- Sono andati via, hanno deciso che era meglio lasciarci un po’ di tranquillità. – sussurrò, facendomi sentire ancora più in colpa per quella malinconia che avevo instaurato nell’animo di Hope.
Lei era solo una ragazza qualunque che sarebbe riuscita a dare alla luce un bambino, e avrebbe dovuto solo dispiacersi per i suoi problemi, se ne avessi avuti, invece che dispiacersi per problemi di altri, quali i miei.
Ormai irrecuperabili.
- Vieni, sarai stanca, facciamo una doccia, e poi andiamo a letto. Riposiamo e ci penserai domani, se vorrai… - mormorò, mentre le sue carezze sulle braccia, mi portarono brividi di piacere.
- Okay –.
- Okay – ribatté, intrecciando le mani alle mie per portarmi in bagno, dove avrei affogato i miei pensieri.
 
- Elisabeth mi mancherai un sacco – sussurrò triste Hope, stringendomi in un abbraccio fatto di tenerezza e amicizia.
- Anche tu Hope, ma ci sentiamo presto okay? Torneremo un’altra volta a Dallas no, amore? – disse, voltandomi a fissare Jensen che parlava con i suoi genitori, nonché ormai miei futuri suoceri.
La notizia non li aveva stupiti tanto quando io e Jensen avevamo annunciato non solo ovviamente che stavamo insieme, ma che avevamo ufficializzato la cosa con un anello. Mackenzie alla vista dell’anello, era saltata di gioia; la sua faccia poi, era tutta un programma.
- Abbiamo un matrimonio da organizzare! – esclamò felice, saltandomi addosso come un koala. C’era voluto Roger per schiodarla. Mio Dio che risata quel giorno.
Ma non solo quel giorno. Era stata l’intera vacanza ad essere allegra e fantastica. Jensen mi aveva portato ovunque. OVUNQUE. Visitai la University of Dallas e la University of Texas. Il magnifico Dallas Theater Center opera dell’architetto Frank Lloyd Wright, il migliore del XX secolo, o così mi aveva detto Jensen, con la sua cultura d’origine.
Riuscii a convincerci e mi portò a tutti i costi a vedere una partita di Football. Scoprii che come sport mi piaceva, a parte la pallavolo, il nuoto e il calcio. Gli sport che in Italia seguivo di più.
Visitai anche i tre diversi musei d’arte di cui Dallas era valorizzata. Tutta la storia del paese era concentrata in essi, e la storia culturale di un paese, riusciva sempre ad emozionarmi. Come anche il sorprendente spettacolo che andammo a guardare al Dallas Aquarium, dei delfini e delle foche, così dolci e intraprendenti come animali acquatici.
Stranamente quelle vacanze furono le più divertenti e sane che avessi fatto. Avevo preso quasi cinque chili da quando Jensen, Hope e Joshua mi portavano ogni giorno a fare dei picnic nei diversi parchi verdi che Dallas aveva.
Quello che mi piacque di più fu il White Rock Lake Park, bagnato dal grande lago Whiterock Reseruoir, navigabile con delle piccole barche in affitto. Era così tranquillo, un po’ lontano da casa, ma sempre nella zone est di Dallas, dove comunque si trovava la casa natale di Jensen, a differenza invece degli altri due parchi a ovest della città: Rochester Park e Trinity River Greenbelt Park.
- Ci vediamo presto – mi saluto Donna, stringendomi forte a se, consolandomi in uno di quegli abbracci che solo una madre, poteva regalare ad una figlia. Soprattutto se appena acquisita.
- Grazie di tutto Donna, ci sentiamo presto, sicuramente abbiamo un matrimonio da organizzare! – esclamai, sorridendo entusiasta della sua partecipazione a quella occasione.
Nessuno si era tirato indietro o soprattutto rifiutato di dare un consenso alla nostra relazione. A parte quello che ero successo con i giornali, i genitori di Jensen erano fieri che finalmente avesse messo la testa apposto e che l’anno prossimo si sarebbe spostato.
Ci avevano promesso che avrebbero cercato qualche casa in zona, magari per avere una casa tutta nostra anche negli Stati Uniti, e non solo nella nazione che frequentavamo assiduamente per registrare la serie tv. In fondo io avevo la Green Card sia per l’America che per il Canada. Anche se ormai me l’avevano affidata per cinque anni – visto il mestiere che facevo – sia per una che per l’altra nazione, io e Jensen avevamo deciso che dopo il matrimonio avrei fatto dei test, e avrei preso la cittadinanza America, anche se mi dispiaceva perdere quella Italiana, ma se volevo restare li, e volevo avere il diritto di voto e soprattutto di residenza, senza nessun problema, avrei dovuto perdere la mia cittadinanza, ma non la mia origine, ovvio.
Il problema comunque restava per la residenza quasi annuale in Canada, e come ogni fine anno, sia io che Jensen avremmo dovuto rinnovare il permesso di soggiorno per altri lunghi 5 anni.
- A presto – disse Roger, sorridendomi dolcemente, stringendomi a se con una confortante pacca, prima di lasciarmi andare tra le braccia del figlio, partendo così per l’Italia, dove ci aspettava un matrimonio da festeggiare, e soprattutto un viaggio lungo diciotto ore.
 
- Finalmente, avevo così bisogno di te! – una versione strana di mia sorella, mi strinse in un abbraccio bisognoso appena atterrai dall’aereo, e mi vide tra la folla venendomi incontro.
- Ehi, succede qualcosa? – domandai preoccupata, guardandola dritta negli occhi, tirandomi indietro dall’abbraccio.
- Sono stressata! Mio Dio, ho proprio bisogno di qualcuno che mi gestisca a parte Marco e mamma! – brontolò, stritolandomi di nuovo nell’abbraccio.
- Ma il matrimonio è solo tra otto giorni, ormai è tutto pronto no?  - domandai sgranando gli occhi verso mio padre che dietro alle spalle di mia sorella, spulciava qualche parola in inglese con Jensen, che mi fissava a sua volta stanco e preoccupato della reazione di Laura.
- Lo so, ma ci sono gli ultimi e importanti dettagli da sistemare… - borbottò tirandosi indietro e afferrandomi le mani.
- Tipo? Laura hai tempo, giorno ventitré, leggimi il labiale: ven-ti-trè è ancora lontano! Oggi ne abbiamo se-di-ci, hai ot-to giorni di tempo. Tutto quello del mondo! Credimi… - conclusi, liberandomi dalla sua presa per raggiungere mio padre che mi accolse a braccia aperte. Poi lo sentii sussurrare piano all’orecchio: - Tua sorella sta dando fuori di matto, devi farle un bel lavaggio di cervello! Per favore, se non la smette, ne usciremo fuori pazzi prima che lei dica si! – e mi lasciò andare, sorridendomi. Come se non mi avesse detto nulla.
Se mio padre mi aveva detto quelle parole, significa che c’era sotto qualcosa. Ma non ero così preoccupata, infondo Laura prima di Natale era riuscita a sistemare tutto, perché adesso era così tesa e fuori di testa per questo matrimonio?
- Andiamo a casa? – proposi con tono falsamente ironico. – Sono stanca, voglio riposare… - borbottai, sbadigliando di colpo.
 
La data del matrimonio giorno, dopo giorno si avvicinava, e mia sorella aveva sempre più ragione, quando il tempo fosse così contro alle nostre azioni. Quegli otto giorni erano passati come una pioggia in piena estate, e il mio corpo era stato sbattuto un po’ qua e un po’ la, venendo depilato, trattato con creme e abbronzato di colpo per avere una pelle perfetta e soprattutto una toilette perfetta. Capelli, trucco e pelle lucevano sotto la luce del primo pomeriggio di maggio, quando mi affacciai alla finestra, guardando se fuori era tutto pronto.
Ero appena tornata, insieme con Jensen, dalla casa in città di Marco, dove anche lui era pronto e il fotografo, come da tradizione, era prima passato dallo sposo, e adesso era dalla sposa.
Nel mio abito era un poco accaldata, ma avevo ringraziato tutti i santi, quando quell’inverno avevo scelto un abito a maniche corte che era perfetto sia per la chiesa, che per il ristorante, quindi non avrei avuto tra le braccia uno scialle che sarebbe caduto perennemente dalle mie spalle, e che avrei dovuto sollevare con qualche difficoltà, visto che tutto il giorno avrei avuto le mani occupate. Pochette, mazzo di fiori, telefono, veli, mani intrecciate ad altre… insomma era una vera seccatura sposarsi in inverno o meglio con una giornata ventosa.
Ma quel giorno era perfetto. Come lo era mia sorella, in quell’abito da sposa perfetto. Con qualche modifica  ancora, la sarta l’aveva reso un abito per il tempo primaverile, e quelle maniche di tulle che mi erano piaciute tanto, anche se accorciate, l’abito restava sempre perfetto e adatto al corpo e al viso modellato e sinuoso di mia sorella, che quel giorno era uno splendore.
Finalmente stava coronando il suo sogno, e sarebbe convolata a nozze insieme al suo innamorato, sparendo dalla casa in campagna dove eravamo cresciute come due pesti che facevano sempre arrabbiare mamma e papà.
Cercai di trattenere le lacrime al ricordo di certe scene che scorrevano lentamente nella mia mente, e voltandomi a guardare la stanza da letto dei miei genitori, vidi mia sorella ritoccarsi le ultime cose, mentre il fotografo – abbastanza bravo – racchiudeva in un click quei momenti così belli ma unici, che solo una volta avrebbe fatto.
- Sarebbe stato fantastico vederti addosso a quell’abito la tua macchina fotografica nuova… - mi sussurrò all’orecchio Jensen, stringendomi un braccio intorno alla vita.
Sorrisi dolcemente, e mi voltai a fissarlo nel suo abito nero perfetto. Gli sistemai appena il papillon, e potei solo pensare a come soffrisse – e non solo lui ma tutti gli uomini – in giacca a cravatta.
- Oggi mi volevo godere la giornata perfetta di mia sorella, e poi… - ricordai la nuova Canon che Jensen mi aveva regalato per il compleanno compiuto ad Aprile. - …non farmi sentire sempre in colpa sapendo quando fossi contraria a quel regalo così costoso Jen! – lo rimproverai a voce bassa, pensando alla sua faccia contenta davanti alla mia sorpresa, per quel regalo così costoso per lui ma così importante per me. Alla fine non era stato l’unico regalo a sorprendermi. Perché da parte di Jessica e Jared avevo ricevuto alcune  delle mie vecchie macchine fotografiche. Quelle che Jessica non aveva venduto, e tenuto per se finché almeno io non fossi tornata in America.
- Sei cattiva!– gli avevo urlato contro ridendo e piangendo, emozionandomi davanti a quella scatola impacchettata così, tanto per fare figura.
- Non è costato nulla. Niente è importante se non renderti felice…come adesso. – disse Jensen, afferrandomi la mano per avvicinarci alla porta, lasciando mia sorella alle fotografie.
 
- Mio Dio, sono pienissimo, ma cavolo ne vorrei ancora! – esclamò il porco accanto a me, mangiando una seconda porzione di torta nuziale, preparata come aveva prefissato io e mia sorella, insieme, dal padre di Calogero – un ex compagno di classe -.
- Oh Gesù, sto per avere un orgasmo! – esclamò e non potetti rivolgergli una gomitata allo stinco.
- Ahi! – esclamò Jensen, soffocandosi un poco con il sorso di vino rosso che stava bevendo.
- Vuoi smetterla? – dissi frustata per il suo comportamento. – Stai dando spettacolo! E meno male che parli inglese… - conclusi, lasciandogli uno sguardo serio.
Si voltò posando il bicchiere tra gli altri, ormai immischiati al resto dei commensali al lungo tavolo della mia famiglia.
- Non c’è nessuno! – borbottò, notando la tavola vuota o semi vuota, visto che la mia nonna materna era restata seduta, mentre nonno si era lanciato in un liscio con mamma.
- C’è mia nonna, e lei osserva e ascolta…anche a modo suo, ascolta! – borbottai, lasciandole uno sguardo di scuse, mentre ci squadrava dall’angolino remoto del tavolo.
- Andiamo a ballare? – ripropose esausto di chiederlo un’altra volta. Mi voltai a fissare la sala occupata da molte persone al in piedi, chi stava a guardare e chi ballava adesso una nuova musica tipica siciliana: la tarantella.
- No – borbottai sospirando stanca, e distrutta dalla giornata. Ormai era tarda notte e i miei piedi nei sandali con tacco dodici mi stringevano la carne in una morsa, facendomela pulsare costantemente.
- Perché? – domandò triste, afferrandomi con un dito il mento, facendomi voltare il viso verso il suo.
- Jensen – espirai frustrata. – Sono stanca, i miei piedi sono due tavolozze di carne sfracellata tra i laccetti! Sul serio, non posso nemmeno camminare, figuriamoci ballare! – esclamai falsamente ironica.
Alzò le sopracciglia stupito. – Le togli! E’ semplice! -. – Si, come no, così ballo scalza e mi faccio pestare i piedi dagli altri ballerini “mancati” – sottolineai, imitando le virgolette con le dita e le unghie smaltate di blu.
- Come la fai lunga! – esclamò, tirando la mia sedia indietro, abbassandosi ai miei piedi. Sgranai gli occhi per la sorpresa. – Che stai facendo? – domandai con voce isterica, fissandomi attorno per guardare che nessuno ci fissasse a sua volta sdegnati da quella scena. Chissà cosa starà pensando nonna! Abbassai lo sguardo mortificata, e fissai Jensen semplicemente afferrarmi le gambe lisce, alzare i miei piedi da terra e liberarmi dalle scarpe, che abbandonò sotto il tavolo. Si alzò e a sua volta mi fece alzare, camminando scalza nel pavimento freddo.
- Jensen! – lo richiamai per l’ennesima volta, impuntandomi con i talloni a terra. Con tutta la sua forza mi spinse in pista tirandomi per un braccio e mentre gli altri ballavano allegramente in un cerchio dove in mezzo prima c’era solo Laura insieme a Marco, ormai sposi, d’un tratto la musica cambiò, e lanciando uno sguardo di scuse a mia sorella, il mio futuro marito mi strinse in una morsa a se. Lo guardai arrabbiata, da sotto le lunghe ciglia. – Questa me la paghi! Siamo al centro dell’attenzione, come se fossimo noi gli sposi! E oltretutto ho i piedi scalzi, cazzo! – sbottai a bassa voce, guardando ancora una volta verso mia sorella, che era sparita tra la folla. Dov’era andata a finire?
- Vorrei dedicare questo ballo… - la voce di mia sorella al microfono, fece voltare e scattare tutti verso la direzione del deejay. L’imbarazzo per quella situazione mi imporporò il viso.
- … a mia sorella Elisabetta! Amica mia, piccola di casa, consigliera perfetta. Grazie di tutto! – concluse, lasciando il microfono di nuovo al deejay, per ritornare al centro del cerchio mano nella mano insieme ad un Marco sorridente, che al passaggio mi lasciò una carezza alla schiena.
- Per caso hai architettato questa cosa insieme a Laura? No vero? – domandai curiosa, alzando il viso verso Jensen.
Lui scosse semplicemente la testa e sorridendomi, afferrò la mia vita, alzandomi da pochi centimetri da terra, lasciandomi appoggiare i piedi sulle  sue lunghe scarpe, o meglio sui suoi lunghi piedi.
- Mmh, mi ricorda un libro questa scena. Quello dei vampiri…lo sei anche tu? – domandai con voce divertita, mentre dondolavamo a ritmo di musica.
- Nha! – esclamò ridendo, -… mio fratello Sam mi ucciderebbe se lo fossi. Ricordi? Io sono un cacciatore, non una preda. – concluse, abbassandomi per lasciarmi un bacio alle labbra.
Sorrisi timidamente, e portando le mani intorno al suo collo, prolungai il bacio pieno di dolcezza tra l’ilarità e gli applausi che sfociarono per quel gesto.
- Ti amo – sussurrò, tra le mie labbra. – Ti amo – sussurrai, continuando a dondolare tra le sue braccia.
 
- Al mio tre:.. – esclamò mia madre, guardandoci tutte, mentre le ragazze single e non, fidanzate o meno, si spintonavano divertite per farsi largo e riuscire ad allungare le braccia in aria per prendere il mazzo della sposa.
Mi ero messa da parte, quando mia sorella aveva annunciato il lanciò del bouquet, infondo sapevo che entro quell’anno, o meglio tra un anno mi sarei sposata. Anche se lo sapevamo solo io e Jensen. Ai miei ancora non avevo detto nulla, perciò mia madre mi aveva costretta ingenuamente a partecipare alla congrega di ragazze che tre metri indietro alle spalle di mia sorella si spintonava, e mi spintonavano.
Non era esaltata per quella cosa, infatti mi ero messa dietro le altre, alzando il braccio solo per far notare la mia presenza e la mia partecipazione.
- Uno…Due…e tre! – mia sorella lanciò il mazzo, che notai essere diverso dall’originale, perciò abbassai il braccio capendo che fosse uno scherzo.
- L’ho preso, l’ho preso! – scherzò una ragazza, sapendo anche che quel mazzo di tulipani semplici, non fosse il bouquet della sposa.
- Vogliamo quello vero però! – esclamò una ragazza, ex compagna di scuola di mia sorella.
- Okay, niente scherzi, pronte? – domandò sorridendo divertita, voltandosi poi le spalle per lanciare quello vero di rose rosse e perle bianche.
- Uno… Due, tre! –, il lanciò fu immediato, e lo lanciò così in aria e così forte, che i fiori superarono tutte le ragazze, ma non me. Mi prese in pieno petto, e cadde tra le miei braccia conserte. Feci un passo indietro sorpresa. Cavolo, ahi!
- Ehi, l’ha preso sua sorella! – esclamarono un po’ indignate e un po’ divertite le ragazze di fronte a me.
Lo afferrai e tenendo per il gambo il bouquet, lo alzai in gesto di vittoria, facendolo notare anche a Jensen che divertito parlava con mio padre al tavolo dell’accaduto.
- Aaaah! – urlò mia sorella contenta, facendosi largo tra le ragazze. – Ti sposerai entro l’anno! -.
Alzai le spalle e mi feci abbracciare, anche se le stavo per mostrare qualcosa che sicuramente, mi avrebbe nuovamente fatto stritolato tra le sue braccia.
- In realtà… - esordì tirandomi indietro e afferrando la catenina che avevo attaccato intorno al collo, nascondendo così la sorpresa. - …io… - continuai, tirando via l’anello dalla catenina, non mostrandolo a mia sorella, che fissava curiosa i miei pugni chiusi.
- Cosa? – domandò, alzando lo sguardo verso il mio.
- Stavo dicendo che in realtà io mi sposo il prossimo anno! – esclamai, mostrandole l’anello che avevo messo al suo posto, nell’anulare sinistro.
La faccia di Laura fu difficile da dimenticare in quel giorno così memorabile.
- Mio Dio! MAMMA!– strillò come una bambina di due anni, piangendo per la felicità.
Come piansi anch’io quando disse quel si all’altare, segnando così il destino di due sorelle inseparabili per la vita, ma ormai separabili per amore.
 
*spazio autrice*
 
Salve,
sono contenta di potervi presentare uno dei capitoli più lunghi della storia :)
Quasi più lungo del 14 (quello dove si svolge qualcosa a New York, e voi sapete cosa…o almeno per chi a letto. Ma per arrivare qui, avrete letto sicuramente i capitoli precedenti.
Allora iniziamo sulle mie riflessioni riguardante il capitolo:
L’aspetto scrittura bhè avete notato che ci sono salti temporali. Da gennaio-febbraio (nel precedente capitolo) fino a maggio-fine riprese stagione. Non so di preciso in verità quando le riprese della terza stagione siano finite [visto anche il fatto che gli sceneggiatori quell’annata (2007-08) abbiano fatto sciopero e che quindi le puntate si siano fermate alla 16°].
Per il resto la storia inizia dalla partenza della coppia da Vancouver a Dallas, la città natale di Jensen, dove finalmente Elisabeth conoscerà i suoi futuri suoceri, anche se in ritardo ma li conoscerà finalmente.
Avrà dei piccoli problemi i primi giorni, ma gli ultimi giorni di questa semi vacanze a Dallas, la faranno divertire e distrarre dal problema di fondo: l’ossessione di Elisabeth per i bambini, soprattutto per le persone incinte. Abbiamo visto che ha avuti diversi attacchi di panico dovute al messaggio di Jessica, che è incinta (quante di voi sono contente di sapere che Jared vi ha fatto le corna? xD), e quando sono contente che Elisabeth abbia una cognata acquisita incinta? Sto parlando di Hope ovviamente…una ormai vecchia arrivata in casa Ackles.
Di Hope ve ne voglio parlare in una Missing Moment del capitolo. Perché  ho una così chiara visione di questo personaggio che non so… ho voglia di parlarvene tramite gli occhi di Elisabeth ovviamente.
Per il restante capitolo, finalmente Laura si sposa, e in un matrimonio in grande, tipico siciliano. Festa, balli, tanto cibo e l’orgasmo di Jensen per la torta xD Spero non vi abbia schifate ihihih :3
E poi il lento ballato al centro della sala insieme alla sorella, con la sorpresa finale: finalmente anche la famiglia De Santis sa del fidanzamento ufficiale, o meglio l’avrà capito dalle urla della sorella maggiore. Una pazza scatenata. Povero Marco xD
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento, al prossimo :) e finalmente ecco a voi la foto dell’abito da damigella d’onore di Elisabeth (cliccate sopra la foto ridimensionata, si aprirà in una nuova finestra e la vedrete più grande).
 
Xoxo Para_muse

 
 
 
 


 
Xoxo Para_muse
 

 
 
 

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Capitolo 24
*** Finally, Can I say: I do too? ***


La FanFiction fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un... bookstory.
Della serie è tratta una Missing Moment dal capitolo 8 (importate per la FF): The Real Vacancy of Year
Della serie è tratta anche una Missing Moment Rossa dal capitolo 21: Fire in the Water

Mi raccomando come sempre! Fino alla fine *-* Buona lettura girls!
P.S: IL CAPITOLO PRECEDENTE è STATO CORRETTO! ;D



Capitolo 24
Finally, Can I say: I do too?

 
 
Dopo aver fatto vedere più di una volta a mia madre e a mia sorella come fossero così belli quei diamanti incastonati nell’anello di fidanzamento, era arrivato il momento di ritornare in America, dove ci aspettava una vita semplice, se non monotona tra risvegli dolci e caldi nel letto matrimoniale a Vancouver.
Dopo quelle vacanze anticipate, io e Jensen ci eravamo un po’ dedicati a noi stessi. Lui si dilettava in partire a golf con la sua congrega di amici, e io alla piccola Elena, che cresceva giorno dopo giorno, e spesso riusciva a farmi dei piccoli discorsi che mi lasciavano un attimo basita.
Kelly era così immensamente grata che non sapeva come ringraziarmi se non con cure di bellezza  quasi ogni settimana. Comunque per qualche settimana era riuscita a prendere fiato visto che chiudeva per le vacanze estive. Era andata a trovare i suoi in Florida insieme a Elena, così restai da sola a casa, o andavo a guardare qualche partita noiosa con Jensen, che non si rifiutava di portarmi con se.
Ogni tanto andavo a trovare Jessica, che si era rifugiata in casa e non usciva per niente dal lettone, perché troppo stanca a stare in piedi con il pancione che sembrava troppo enorme per essere al sesto mese di gravidanza. Era piena estate e comunque potevo ben capire come le sue caviglie e i suoi piedi potessero essere così enormi, anche se a Vancouver la temperatura non arriva nemmeno ai quaranta gradi, a differenza della Sicilia che toccava picchi come quarantacinque gradi.
Avevamo avuta una bella estate, a differenza di quella scorsa, dove ci eravamo divertiti come quattro pazzi, spensierati e felici di poter affrontare la vita in quel modo. Tra piscina, discoteche e alcool a tutta birra, guarda caso.
Ma adesso eravamo cresciuti, ed era bastato solo un anno, solo dodici mesi per farci cambiare.
Jensen era diventato più maturo, si stava prendendo tutte le responsabilità e aveva fatto la scelta di prendere in sposa una vecchia pazza, ma matura quanto lui, cioè me, che stavo iniziando a metabolizzare cosa significa diventare compagna e moglie di una persona così fantastica qual era Jensen. Svegliarsi la mattina presto per fargli una bella colazione, o viceversa, visto che più volte mi aveva preparato la colazione portandomela a letto.
O magari seguirlo, andando incontro alle sue passioni: partite di golf appunto, oppure riunioni tra amici, e quali se non gli stessi Jessica e Jared, che un mese prima del nostro matrimonio, anche loro sarebbero convolati a nozze diventando così signore e signora Padalecki.
Ma prima sarebbero diventati mamma e papà, e stavano acquistando più sicurezza ormai, arrivati alla scadenza del parto, che sarebbe stato a giorni.
Eravamo a lavoro quando a Jared era arrivata la chiamata di una Jessica sconvolta e urlante, facendosi sentire per tutto il set, e con l’auricolare spento, senza che il vivavoce fosse attivato. Mi aveva fatto così preoccupare che non potetti abbandonare il set insieme a Jared, correndo insieme a lui verso casa, dove avremmo preso Jessica per portarla all’ospedale, restando tutto il giorno e  tutta la notte.
Solo all’alba del 12 novembre 2008, precisamente alle 5.35, nacque Thomas Colton Padalecki. Un bellissimo bambino dallo sguardo come il padre, e i capelli del colore della madre.
Le lacrime di gioia non furono solo dei genitori, ma miei che piansi, facendomi consolare dallo stesso Jared, e non al contrario.
- Vuoi tenerlo un po’? Sono così stanca… - sussurrò Jessica, allungandomi il piccolino tra le fasce, ormai addormentato alle sette del mattino.
Mi voltai a fissare Jensen che si era unito a noi poco dopo essere nato il piccolino di casa Padalecki.
Lui mi sorrise emozionato, continuando a dare delle pacche amichevoli alla spalla di Jared, felice accanto alla sua compagna.
- Okay, solo che ho paura di fargli male… - dissi a voce bassa, avvicinandomi alla mia migliore amica, cercando di essere un po’ più tranquilla di com’ero, e attenta a tenere bene la testolina ancora un po’ molle del bambino dormiente.
Lo strinsi al mio petto, e iniziai a cullarlo piano, avanti e indietro, fissando prima lui e poi Jessica che mi annuii sorridendo. – Bene, imparerai… - borbottò tra uno sbadiglio e un altro.
- Dovresti un po’ dormire, al marmocchio ci pensiamo noi! – esclamò piano Jensen, avvicinandosi alle mie spalle. Mi voltai verso di lui, e mi allungai per un bacio, che ricevetti senza riserva.
- Sapete una cosa ragazzi? Penso che a Thomas farebbe piacere avervi come madrina e padrino… - disse Jessica, socchiudendo gli occhi per il sonno. Alzai lo sguardo di colpo dai lineamenti del piccolino, stupita.
- Dici sul serio? – domandai entusiasta. Mi voltai a fissare Jared che alle nostre spalle si era assopito sulla poltrona.
- Mio Dio che dormiglione! – esclamò sbruffando Jessica, continuando a fissare il suo uomo stravaccato sulla sedia in modo al quanto inappropriato.
- Jared è d’accordo, credetemi. Saremo felici se voi accettasse, lo sarebbe anche Thomas, quando capirà, ovvio… - concluse, chiudendo gli occhi, sospirando stanca.
Sospirai felice, e voltandomi verso Jensen, lasciai che fissasse il bambino e perché no, lo tenesse un po’ anche lui.
- Vuoi tenerlo un po’? E’ un pochino pensate… mi sono già stancate le braccia – ironizzai, porgendogli sulle sue braccia Thomas, che si mosse appena, per poi accoccolarsi sul grande petto morbido e caldo di Jensen.
Ed era così perfetto vederlo in quel momento, che non riuscii a trattenere quella lacrima che agognava di uscire, da quando mi ero immaginata una nostra foto proprio così. Io, lui e un bambino a separarci. Ma un bambino nostro.
Se solo fosse stato vero…
 
- Si, lo voglio! – disse con voce tonante Jared, risvegliando per un attimo Thomas che tra le mie braccia sonnecchiava felice. I suoi occhi si aprirono e si svegliarono, ricordandomi un attimo quelli del padre, che aveva appena finito di accettare le condizioni del matrimonio.
- Vuoi tu Jessica Ferraro… - e il bambino di cinque mesi, iniziò a protestare tra le mie braccia. Lo afferrai per il busto, portandomelo alla spalla, dove appoggiai il capo, facendolo dondolare a destra e a sinistra. Jessica un po’ emozionata e preoccupata, si voltò alle sue spalle, controllando che tutto fosse apposto, ma annuii, esortandola a voltarsi. Jensen al mio fianco mormorò un: - Tutto okay? -, e io annuii un’altra volta, appoggiando una mano sulla testolina di Thomas che respirava regolarmente e forse stava sbando un po’ sulla spallina dell’abito a mono spalla che avevo scelto insieme alla futura sposa un mese addietro.
- Si, lo voglio! – disse con voce tremante Jessica, felice di potersi finalmente liberare un peso, ovvero quello della cerimonia del matrimonio.
- Con il potere conferitomi dalla chiesa, io vi dichiaro marito e moglie. Adesso signor Padalecki, può baciare la signora Padalecki – borbottò con voce bassa il prete, che sorridente, diede vita ad un applauso per i neo sposi.
E il primo matrimonio era andato. Jensen non impiegò nemmeno un secondo ad avvicinarsi immediatamente a Jared che strinse a se con forza, alzandolo quasi da terra.
- E bravo il mio Sammy! – e risero insieme, abbracciandosi per l’ennesima volta come più di due amici, ma fratelli.
- Auguri! – esclamai a bassa voce, cercando di non svegliare per la seconda volta il piccolo. Sua madre piangente mi strinse a se per una spalla. Poco dopo si sporse a vedere il piccino che  prendendo in giro era restato sveglio per tutta la fine della cerimonia.
- Vieni qua amore della mamma! – esclamò contenta di poterlo tenere tra le braccia. Il bambino emise dei piccoli urletti e infilandosi delle dita in bocca, si rese tutto il viso bavoso.
- Che tenero il mio figlioccio! – sussurrai, toccandogli la testolina e facendolo ridere. Jessica fu per un attimo con me, poi fu rubata dai suoi parenti, e dai suoi genitori che avevo avuto modo di conoscere qualche giorno prima della cerimonia. Contenti di poter vedere la figlia così felice, e soprattutto che si fosse stabilita in una casa più che perfetta, con un marito e un figlio, stavano quasi quasi decidendo di seguire il suo esempio, trasferendosi anche loro in America, a San Antonio, per restare non solo vicini alla figlia per l’estate, ma anche al nipotino e alla famiglia di Jared, con cui andavano più che d’accordo.
Mi risvegliai dal torpore dei miei pensieri, avvicinandomi ai due uomini che avevano cambiato la mia vita, diventando i soggetti più fotografati nella mia carriera.
- Auguri campione! – esclamai, abbracciandolo forte, per quando mi potessi permettere.
- Grazie Lizzie! Grazie ancora per aver tenuto Tommy per tutta la cerimonia, praticamente solo tra le tue braccia riesce a stare tranquillo…chissà cos’è! – esclamò felice, ridendo insieme a Jensen, che notai un attimo lucido agli occhi. Ero così tanto emozionato? Mi stupii e sorridendogli allusivamente, mia avvicinai prendendolo per un braccio. – Sei emozionato? – ci allontanammo appena da Jared che si ero unito al gruppo famiglia con la sua sposa e il suo bambino urlante tra le lacrime.
- Un poco, sai è strano vedere Jared che non so… è come un fratello minore per me. Come Sammy per Dean. Non so cosa succederà quando Supernatural sarà finito, ma una cosa è certa: avrò acquisito un fratello da cui non mi allontanerò mai! – disse, con voce tremante, stringendomi ad un tratto tra le sue braccia. Restai un attimo stupita ed emozionata per quelle parole, ma cercai di trattenere il fiume di lacrime che cercava di rompere la diga. Solo perché non volevo rovinare il trucco che non ero proprio waterproof! Ma meglio evitare in certi casi.
- Allora andiamo? – esclamò Jared, invitando tutti a spostarci alla sala ricevimenti dove ci aspettava il resto degli invitati. Sicuramente sarebbe stata un bel ricevimento. Presumevo qualcosa tipo fiumi di birra e tanti balli strani. Con Jared c’era d’aspettarselo. E con Jensen super testimone di nozze c’era di aspettarsi di peggio.
Chissà cosa avrebbero combinato i neo sposini al nostro matrimonio, che tra un mese esatto si sarebbe celebrato a quattrocentodieci chilometri da San Antonio. Dallas, Texas ci aspettava…
 
Chiusi gli occhi e spinsi il viso al suo per un bacio pieno di dolcezza e tenerezza. Finalmente avevo detto lo voglio, anch’io.
- Salve signora Ackles – sussurrò sulle mie labbra Jensen, afferrandomi il viso per un altro veloce e tenero bacio, prima che i nostri genitori e i nostri testimoni ci potessero dividere, congratulandosi con noi.
Chiusi gli occhi e cercai di memorizzare questo momento insieme agli altri. Facendo sentire così la mia vita sempre più bella dei momenti migliori.
 
~Inizio flashbacks~
 
- No fratellino, mi dispiace. La sposa resta nel mio letto stanotte. Tu sparisci, e vai a dormire di sotto. E non farti vedere per nessuna ragione al mondo! – esclamò frustrata Mackenzie, buttando fuori a calci un Jensen triste, che mi lanciava bacini con una mano, mentre l’altra occupata dalla maglia che gli avevo tolto per un eccitante lungo bacio che ci eravamo scambiati nella sua stanza, occupata adesso dai miei genitori, mentre mia sorella e mio cognato alloggiavano in un hotel vicino al palazzetto dove avremmo celebrato la cerimonia il giorno dopo.
- Ci vediamo domani, quasi signora Ackles. Notte, ti amo amore mio! – esclamò ormai fuori dalla porta, mentre io mi lasciavo andare alle più grasse risate delle mia vita.
- Poverino, l’hai mandato fuori senza un battito di ciglia. Mi Dio, era solo il salutino della buona notte! – esclamai sogghignando.
Mackenzie si voltò di colpo e lanciandomi uno sguardo di sfida, mi ricordò la tradizione. La grande tradizione. La insostituibile tradizione della notte prematrimoniale.
- Niente sesso, i tuoi e i miei non sarebbero contenti…io vi lascerei fare, ma no! No, porta sfiga cavolo! – esclamò afferrandomi per un braccio, portandomi dritta in bagno dove aveva iniziato a sistemare delle creme sul mobiletto.
- Cosa hai intenzione di farmi? – domandai spaventata, sgranando gli occhi.
- Ma niente, preparo la carne fresca per domani… - borbottò fingendosi un macellaio da strapazzo, iniziando a spruzzarmi creme sul viso e sul decolté.
Sarebbe stata una lunga notte, lo immaginavo…
 
- Elisabeth, amore? – sentii chiamarmi nel sonno, e mi alzai di colpo dal letto, fissandomi attorno non vedendo nessuno. Tornai a poggiare il capo sul cuscino, ma sentii di nuovo quella voce chiara e reale.
- Elisabeth, sono io, vieni alla porta… - borbottò Jensen a voce bassa, chiamandomi ancora una volta. Mi alzai un poco sonnolenta, e mi avvicinai ad appoggiare l’orecchio alla porta, dove sentii qualcuno bussare piano, e allungare una mano sul mio polso. Cavolo, era reale.
- Jensen cosa ci fai qui? – esclamai a bassa voce preoccupata di svegliare Mackenzie, scatenando la sua ira.
- Volevo… volevo solo sentirti. Credevo fossi scappata da me… non mi abbandonerai all’altare domani, vero? – domandò con un tono di voce strano. Restando dietro la porta semi aperta, dove Jensen aveva infilato una mano, tirai un respiro e sogghignando appena, mi apprestai a baciargli il palmo, notando che fosse la mano sinistra. Allungai le labbra verso l’anulare e gli lasciai le mie labbra, allontanando poco dopo la mano, per parlare: -  Non lo farei mai. Jensen ti amo, non sarei mai capace di scappare dalla mia fonte di vita, di ossigeno… - risi piano, -…è assurdo che tu abbia potuto pensare una cosa del genere. Tu, Jensen? Semmai io dovrei avere paura che tu possa… - mi fermò dicendo qualcosa che mi fece trattenere il respiro, cercando di capire se l’avesse detto per davvero oppure era stato solo un sogno.
- Posso baciarti? -, ripeté piano.
Il mio cuore si fermò, e fissando Mackenzie che dormiva con respiro pensate, e soprattutto di spalle, presi un bel respiro e mi avvicinai un attimo al bordo della porta, senza lasciarmi vedere.
- Jensen io non so se sia il caso… sai com’è la tradiz… - non mi lasciò finire un’altra volta.
- Prometto di tenere chiusi gli occhi, ti prego! – e per sottolineare il suo desiderio, mi strinse la mano alla sua.
Sospirai frustrata e aprendo un altro po’ la porta, mi allungai a toccargli l’avambraccio per farlo entrare senza che potesse sbattere il viso sul telaio della porta.
Lo fissai, notando che aveva mantenuto la promessa. I suoi occhi erano chiusi, più che chiusi, stretti in una morsa e sorrisi dolcemente, avvicinando le mie labbra alle sue, baciandolo con tutta la dolcezza concessami.
- Ti amo Jensen, non preoccuparti per domani. Io sarò li, e mi riconoscerai come quella in bianco! – sorridendo felice, mi avvicinai per un altro bacio, poi lo feci indietreggiare e augurandogli la buona notte, chiusi la porta piano, dirigendomi con lentezza a letto, dove mi aspettai lo sguardo felice di Mackenzie, che sospirando senza ormai speranze, mi fissò per un paio di secondi, chiudendo poi gli occhi e ritornando a dormire.
 
- Mi sto facendo addosso lo giuro! Dove sono gli orecchini? MAMMA! – urlai, ritrovandomi a girare per la tutta la stanza di Mackenzie, che sottosopra mi ospitava per la preparazione del matrimonio che di li a poco si sarebbe celebrato. Io ero come sciolta, e l’abito che avevo addosso faceva in modo che intralciasse i miei movimenti in quel momento di totale delirio.
- Tesoro, sono qui, li avevo dentro la borsa. Ma che fai sotto il letto? – domandò entrando di colpo. Mi alzai di scatto e sbattei la tempia contro il comodino. Mi feci un male cane.
- Porca… - mi trattenei mordendomi le labbra. Non dovevo dire parolacce, sennò avrei fatto peccato!
- TESORO! –, mia madre ovviamente esclamò adirata. La fissai con gli occhi storti, e alzandomi sulle pantofole, mi avvicinai a lei, porgendogli il primo orecchio. Mi infilò un orecchino mentre io infilavo l’altro. Ovviamente Mackenzie entrò il quel preciso momento urlando. – COS’E’ QUEL ROSSORE!?! – si precipitò con spugnetta e fondotinta nascondendo velocemente la macchia. Sistemò i capelli raccolti in un chignon, e il cerchietto in perle. Semplice, perché lo ero dentro e per quel giorno volevo apparirlo anche fuori, a parte l’abito suntuoso di cui mi ero innamorata.
- Hai messo la giarrettiera? – domandò, cercando la scatola contenente il piccolo elastico in pizzo e nastri. L’afferrò e abbassandosi nel suo abito luccicante dorato, me lo infilò alla gamba fino alla coscia.
- Perfetto – sussurrai, sistemando l’abito e avvicinandomi allo specchio al muro dove ai piedi c’erano le scarpe pronte per essere indossate.
- Tutto pronto? – domandai con voce tremante, facendomi prendere dall’agitazione. Mio Dio eravamo in ritardo sicuramente. Mi fissai più volte allo specchio, sperando che apparissi un po’ bella, e che Jensen non fosse scappato via.
- Blu, vecchio, nuovo, prestato e regalato. Ci sono…per il resto, ballerine per la dopo serata, lacca e forcine per l’acconciatura…mmh, vuoi un ventaglio? – domandò cercando qualcosa dentro l’armadio, tirando fuori un ventaglio bianco, pieno di piume. Lo fissai con sguardo assorto poi fissai fuori dalla finestra e notai il sole e l’afa che quel giorno tempestava Dallas. Annuii convintissima e avvicinandomi a Mack, l’afferrai e lo infilai nella piccola borsetta bianca. Infine infilai i guanti al polso, e pronta, mi spruzzai un pochino di profumo al collo e sulla piega dei gomiti.
- Sono pronta. Pronta per sposarlo, cavolo! – esclamai, uscendo fuori dalla stanza, dove ai piedi della scala mi aspettava una piccola folla. L’ansia salii alle stelle, e il rossore che Mackenzie aveva cercato di nascondere, ricomparve sotto il blush color pesca.
 
- Sei pronta? – domandò mio padre, fissandomi per un instante, dietro la porta chiusa del locale che avevamo affittato per la cerimonia.
Abbassai lo sguardo controllando che tutto fosse apposto. Fissai Mackenzie davanti a me, sicura di potercela fare. Strinse il mazzo di fiori in mano e mi sorrise, voltandosi a fissare a sua volta la porta.
Sbattei più volte le palpebre e cercai di riprendermi da tutti quei pensieri che mi stavano attraversando la mente.
L’arrivo in America, quell’atterraggio nemmeno sentito e l’hostess che mi richiamava più volte nel sonno lungo quasi diciotto ore. L’arrivo al piccolo hotel e poi alla nuova coinquilina. Quella che mi avrebbe preso a sputi e schiaffi perché troppo famosa. Eppure era stata così gentile con me e così carina che il ricordo di quel giorno dentro al camper era ormai un brutto e vecchio ricordo nel dimenticatoio.
Eppure c’era stato, come anche quel bacio rubato dell’uomo più sexy del mondo, ormai gay. Perché se ne andavano sempre i migliori, o così dicevano tutti. Quasi mi feci scappare un risolino, attirando l’attenzione di mio padre, che mi lasciò stare per altri cinque minuti buoni. Preziosi per ricordare quel primo sguardo. E del secondo, e del terzo… e di quell’innamorato. Triste, gioioso e divertito. Arrabbiato, frustrato e stanco. Ma era mio, solo mio. E finalmente dopo una lunga battaglia me l’ero conquistato.
Mi ero conquistata anche l’ultimo dei suoi sguardi più belli. Quello emozionato, quando lo intravidi tra le persone. Infondo alla sala, nel suo vestito nero e con il papillon al collo.
Era perfetto. Lo eravamo insieme.
 
~Fine Flashbacks~
 
- Sei con me? Sei stanca scommetto… - sussurrò, appoggiando la sua fronte alla mia, durante il primo nostro ballo da signori Ackles.
- Si, sono qui, e sono stanca… - borbottai sospirando e aprendo gli occhi, per fissarlo dritto, li, in quei suoi due pozzi di verde intenso. Come l’erba bagnata dopo un temporale.
- E’ stata una giornata intensa. Importante…speciale! – esclamò, sorridendomi dolcemente, travolgendomi a sua volta.
- Mio Dio, sei mia moglie! Mrs. Elisabeth Ackles – borbotto con tono di voce seria, facendomi fare una piccola giravolta, facendo partire un piccolo applauso dal pubblico.
- No – stabilii, fissando con un sopracciglio alzato. Mi strinsi nuovamente alla sua morsa, e dondolando ancora un po’, dichiarai in poche parole: - Sono Elisabeth De Santis-Ackles. Siamo nel ventesimo secolo, come Bella voglio avere il mio nome seguito dal trattino – costatai, picchiettando con un dito sulla sua spalla.
Lui scosse la testa, e rapito si allungo verso il mio orecchio borbottando qualcosa di sconciò contro i nuovi libri che avevo letto su una saga di vampiri.
Risi divertita quando lui finii la sua battuta sporcacciona e si avvicinò a me in un rapido movimento, rubandomi un lungo bacio, che fu acclamato dagli invitati, e gradito da Jared che iniziò a fischiare come un matto.
Sgranai gli occhi e notai che non era stato lui a farlo, ma mio padre mezzo rosso in viso, che salito sulla sedia dava spettacolo. Risi divertita, e indicando alle spalle di mio marito (quella parola mi fece una strana impressione che quasi arrossii a solo pensiero) lo vidi sgranare gli occhi e ridere divertito anche lui, finendo di dondolare, per avvicinarsi in un tango improvvisato al tavolo dei nostri genitori.
- Ci stiamo divertendo caro suocero? – domandò sorridendogli felice. Mi lasciò andare un secondo, per abbracciarlo, o meglio, farsi abbracciare da mio padre che sorridendomi mi strinse nel triplo abbraccio facendomi quasi soffocare e scivolare a terra, facendomi impigliare nello strascico. Mia madre mi salvò da quella situazione facendomi sedere sulla sedia più vicina e libera del tavolo. Iniziò a ventolarmi con il ventaglio che uscii dalla borsetta che le avevo lasciato in affidamento. La ringraziai per quella piccola azione benevola che mi fece per la prima volta, in tutta la giornata. A parte gli orecchini trovati. E per l’appendi borsa umano che era diventata.
Le sorrisi con un “grazie” di fondo, e presa dalla commozione l’abbraccia tra le prime lacrime della giornata.
- Amore mio, piccola di mamma! – sussurrò, stringendomi forte a se, scuotendomi come se fossi una piccola bambina.
- Mamma – singhiozzai con il magone in gola che faceva su e giù. – Grazie…mamma, grazie! -.
Non avrei mai dimenticato chi mi aveva messo al mondo. Tanto meno chi mi rialzava dalle cadute da bambina. O chi mi leccava via con un po’ di saliva la cioccolata rimasta sul baffetto. Seguito da un buffetto sulla guancia, sorridendomi dolcemente.
- Grazie a te per avermi regalato i più felici venticinque anni della mia vita! -.
 
- Stammi bene tesoro! E fammi sapere per la piccola Vera. Dobbiamo tenerci sempre il contatto – mormorai a mia sorella, accarezzandole la rotonda pancia dove da sei mesi navigava la piccola Vera, che sarebbe ben presto arrivata tra la nostra famiglia.
- Stammi bene anche tu Betty. Salutami i tuoi suoceri. Ci sentiamo quando arrivo al porto per la nave! – mi strinse al suo braccio quando il più possibile e pensai, contenta, di quando mia sorella fosse così spensierata e fortunata di potersi fare una crociera, mentre io sarei restata in America per un paio di giorni, prima di partire alla volta del mio paese, per l’ennesima volta.
- Peccato che non abbiate trovato un biglietto per la crociera – disse Marco, abbracciandomi a sua volta. – Ci saremmo divertiti insieme! E saresti potuta restare un po’ con Laura, mentre io avrei cercato di socializzare meglio con tuo marito! -.
Scossi la testa frustrata.
- Non farmi sentire più in colpa. E’ il lavoro che chiama. Jensen ha un paio di convention, e vorrei accompagnarlo. Quindi faremo finta che sarà una luna di miele, anche se con produttore e altri attori, e soprattutto una delle tante che è in Italia. Paese che ho già visitato più volte ormai… - borbottai amareggiata, pensando che tra un mese sarei potuta partire anch’io con mio marito per le spiagge di Cuba, dove avevamo scelto di andare per il nostro viaggio di nozze.
- Ci vediamo presto comunque! – esclamai felice, sorridendo a mia sorella che continuava a carezzarsi la pancia. Dentro di me la invidiai da morire.
- Dopo la convention a Roma, passiamo in Sicilia, lasciando la coppia Padalecki a Napoli, dai suoceri di Jess. Mentre noi, staremo un po’ a casa, senza di te… - sottolineai, lasciandole uno sguardo divertito. Marco rise con ilarità, e mia sorella ebbe la forza di voltargli contro uno scappellotto.
- Se vuoi posso fare spazio a casa nostra? Così evitate mamma e papà per qualsiasi gesto… - mia sorella fece intendere qualcosa del tipo sconcia, e mi vergognai che stesse pensando a quella cosa per me stessa e Jensen. Ma alzai le spalle e con gentilezza rifiutai l’offerta con una risata.
- Andiamo? Ci aspetta il taxi… - borbottò un po’ triste Marco, appoggiando un braccio intorno alle spalle di Laura.
- Okay, ci vediamo presto – e mia sorella mi abbraccio con le lacrime agli occhi. Le sorrisi per l’ennesima volta, e la salutai dalla porta di casa Ackles, mentre Jensen salutandoli a sua volta, mi stringeva in una morsa al suo petto.
- Pronta per Vancouver? -.
- Pronta per questa strana luna di miele… ci sarà un attimo di tranquillità nella nostra vita adesso? – domandai con voce bassa, voltandomi a fissarlo corrucciata.
Mio marito alzò le spalle, e con qualche rotella fuori posto mi diede una leggere testata. Che stronzo!
- Ahi! –
- Non posso farci niente se hai una capoccia vuota… - costatò, scappando dalle mie braccia cariche per rifilargli dei pugni.
- Scappa finchè puoi! – urlai, correndogli contro.
 
- Mio Dio quanta gente! – esclamai, quando entrammo all’auditorium pieno di gente che urlava alla vista degli attori più famosi negli ultimi tempi. Strinsi la mano dell’uomo accanto a me in una morsa, ma la lasciai andare subito, andando a sedere sul posto riservato che mi avevano lasciato i ragazzi dell’organizzazione per la prima convention italiana “Jus in Bello” relativa alla serie tv dove la mia dolce metà, il mio migliore amico, e la new entry affezionatami Misha Collins, ne facevano parte. I flash accecarono quasi il trio, ma poco dopo la folla si acquietò e le domande iniziarono. Mi sorprese quando fossero preparate le persone. Addirittura che persone molto più piccole di me parlavano l’inglese quasi perfettamente. Quasi meglio della sottoscritta. Le domande non erano gettate al vento, tutte erano incentrate a qualcosa che nel telefilm aveva dato sospetto, o magari cosa succedesse dietro le quinte. Alcune ragazze erano molte audaci, e facevano domande di carattere personale, a cui Jensen e Jared, soprattutto davano risposte sincere e scherzose, che facevano ridere tutti con divertimento. Facevano ridere anche me che sapevo tutto di loro. Per filo e per segno.
- Prossima domanda? – chiese il mediatore tra gli attori e il pubblico.
- Io – disse una ragazza un paio di file dietro di me. Jensen cercò tra il pubblico e sotto la luce che gli veniva contro, li strinse per vedere chi fosse dietro le mie spalle. Prima che potesse localizzare la ragazzina, mi sorrise, lasciandomi un bacio, cosa che mise su di giri le ragazze sul quel lato di posti.
- Dicci tutto, come ti chiami? – domandò il mediatore sorridendo cortesemente.
Jensen abbandonò il mio sguardo per fissare la ragazzina che iniziò a parlare in un inglese stentato da bambina elementari.
- My names is Aurora. Hello Giensen. I’m so happy that you are here! – esclamò lentamente ridendo.
Risi come tutti e come Jensen che ancora cercava come un indiano la bambina.
- Where are you? – domandò Jared al suo posto cercandola. Incuriosita mi voltai a cercarla anch’io, e notai una ragazzina alta e magra, dai capelli ramati e dagli occhi scuri.
La riconobbi in un battito di ciglia.
- Sono qui -, esclamò agitando la mano, attirando l’attenzione di tutti. Compresa quella di Jensen, che non restò impassibile, come me d’altronde.
- Ciao Aurora, come stai? – domandò in un italiano orecchiabile mio marito. Mi voltai di scatto a fissarlo e sorridendogli, battei le mani contenta. Un urlo dell’intero auditorium scattò quando sentii quelle parole, in italiano in particolare.
- Mio Dio ha parlato italiano! -. – Io me lo sposerei oggi stesso. Jensen MARRY ME!–. Le ragazze accanto a me facevano commenti a dir poco divertenti, ma non ci feci caso, perché sapevano e sapevo che non sarebbe andato da nessuna parte, se non nel nostro letto!
“ Ma che cose sconci pensi?” , domandò la mia vocina, riprendendomi.
- I am fine, thank you! Can I ask you an hug, please? – domandò gentile, con la vocina da bambina che ricordavo quasi due anni addietro.
- Non penso che sarebbe opportuno… - intervenne il mediatore, accigliandosi preoccupato. Ma Jensen lo zittì con un: - Of course darling, come here! – e si alzò a braccia aperte, invitandola.
Mi voltai a fissare la ragazzina lasciare il microfono all’addetto e correre tra le braccia di Jensen con un sorriso da un orecchio a un altro.
Jensen la strinse forte a se, e alzandola da terra le fece fare una giravolta in aria. Tutti esultarono contenti e chi esclamava un “oh” e un “ah” di apprezzamento, vidi le labbra di Jensen muoversi lentamente. La bambina rispose, e Jensen a sua volta. Poi si rabbuio e fissando tra la folla, divenne ancora più triste. Fece un gesto con la mano come per dire ne riparliamo dopo, e con un buffetto e un bacio sulla guancia, la lasciò andare a terra e mi indicò. La bambina (anche se non lo era più ormai) cercò tra le prima file, e quando Jensen disse il mio nome (lo capii leggendogli il labiale) la ragazzina esultò e urlò il mio nome a tutto l’auditorium.
- Elisabetta sei qui! – e saltò giù dal palco, correndomi incontro. Sorrisi e inginocchiandomi a terra aprii le braccia, accogliendola come una madre a una figlia da un ritorno di un lungo viaggio.
- Ciao piccola! – sussurrai al suo orecchio.
- Ciao Betta, che bello rivederti. Credevo che il destino mi volesse male ed invece eccoti qui! – esclamò contenta, toccando i miei capelli e accarezzandomi il viso con le dita lunghe in carezze.
Io scossi la testa e facendo una smorfia con il viso affermai:
- Non ricordi? All’aeroporto te l’avevo promesso! Ci saremmo rivisti! -.
- Già, che bello vedere qualcuno che mi vuole bene! – e mi strinse a se in un altro abbraccio.
- Già, sei bellissima piccola! Anzi sei bellissima e grande! Quanti anni c’hai ormai? – le domandai a bassa voce, notando che le domande erano ricominciate e la folla non ci guardava più.
- Sette anni, ho sette anni! – esclamò.
- Wow, sei grande, vai a scuola già. E la mamma e il papà? Come stanno? Non sono venuti? – domandai voltandomi a cercarli. Aurora però attirò l’attenzione su di lei, tirandomi qualche ciocca di capelli.
- Sono con la zia, sono venuta con lei, perché le piace tanto Supernatural. Lo sai che lo guardo anch’io? E’ bello, e poi Giensen è bravo! – esclamò ridendo e arrossendo. Mi fece una così tenerezza che l’abbraccia un’altra volta.
- Allora quando torni a casa mi saluti la mamma e il papà? Magari gli dici che ci vediamo in questi giorni che sono qui… - sussurrai a voce bassa, sorridendole dolcemente.
La sua felicità scomparì subito e alzando le spalle, tristemente ammise quello che ad una bambina di sette anni, nessuno vorrebbe augurare. La sua tristezza fu causa della mia, e non me ne liberai facilmente, nemmeno quando la strinse tra le braccia e le diedi il più forte degli abbracci confortanti di cui fossi capace.
- La mamma e il papà non ci sono più. Sono in cielo con la nonna e il nonno. Betta mi mancano così tanto… -.
 
 
*spazio autrice*
 
Ed eccomi finalmente. Vi sarete chiesti, ma che fine ha fatto? Bhè problema scuola. Tante cose da ripetere, compiti in classe da svolgere, e vita privata da spigliare. Ma tranquilla tutto si è risolto u.u
Passiamo al capitolo?
Finalmente questo capitolo è un boom per la storia. Thomas Padalecki arriva :) I signori Padalecki arrivano a nozze, e gli Ackles anche.
Eh si, Jensen ed Elisabeth si sono sposati! Auguri a loro u.u Per non parlare di Vera che sta arrivando!
Insomma ce ne sono di novità in questo capitolo! Spero vi sia piaciuta la parte del matrimonio?? Parlo degli entrambi matrimoni! Fatemi sapere :)
Per il resto, il capitolo non poteva finire nei migliori dei modi…incontrando finalmente Aurora ma purtroppo da sola, senza la sua mamma e papà. Che cosa sarà successo? Aurora lo racconterà nel prossimo capitolo, dove ci saranno tante sorprese :)
Per questo vi dicevo sempre che la MM del capitolo 8 era importante u.u
Che mi resta di dirvi…? Mmh? Ah si, qui sotto come di consueto troverete tutti i link, foto e altro che riguardano il cap!
E al prossimo, che non so quando posterò, ma sappiate che è pronto! Questione di correggerlo!
(come sempre cliccate nell'img per vederle più grande ;D) 

Abito da Sposa di Jessica ( a destra):


Abito da Sposa di Elisabeth e di Jensen:




Abito da damigella di Elisabeth per il matrimonio di Jessica:




Xoxo Para_muse
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 25
*** Take care of her ***


Questa FanFiction fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un... bookstory.
Della FanFiction fanno parte le Missing Moment:
Dal Capitolo 8:
The Real Vacancy of Year (importante fino a questo capitolo)
Dal Capitolo 21:
Fire in the Water
(Missing Moment Rossa)

Dopo un lungo periodo di assenza, eccomi qui, con tutti i capitoli conclusi e questo corretto e adesso pubblicato. Avvicinandoci alla fine, vi auguro una buona lettura con uno tra gli ultimi capitoli. Tranquille, NON è L'ULTIMO! xD



Capitolo 25

 
Take care of her
 
- E’…è impossibile. Lei non può essere rimasta…so-sola! No! – singhiozzai tra le braccia di Jensen, mentre il bruciore agli occhi continuava, e il petto si scuoteva sotto le mie braccia, tra il petto e le braccia di mio marito, consolatore.
- Può accadere, tesoro. Può accadere a chiunque. E’ successo a lei… - sussurrò, baciandomi una tempia, mentre cercava di carezzarmi i capelli, calmandomi solo un po’.
- Ma come può essere sola al mondo? I suoi nonni non ci-ci sono e la sua unica zia è troppo impegnata per-per preoccuparsi di lei… sul serio? Mio Dio, vorrei ucciderla! – esclamai presa dall’ira verso quella ragazzina di appena diciotto anni.
- Ssh, non sono cose belle da pensare. Elisabeth per favore, stai calma…stai esagerando un po’! – borbottò con tono contrariato, l’uomo al mio fianco.
Ebbi il tempo di recepire le parole, che mi scostai da lui con uno scatto di stizza: - Non sto esagerando! Sto solo proteggendo una bambina a cui tengo molto! Quella ragazzina non vuole assumersi le sue responsabilità! Aurora sta in un orfanotrofio, e scommetto mal ridotto! – urlai quasi.
Jensen  mi fissò sdegnato, sgranando gli occhi. – Ti rendi conto che mi stai urlando addosso? Stiamo discutendo per problemi che non sono nostri? Dici sul serio?! – domandò con tono di voce ironico, mentre scendeva dal letto della suite nell’hotel Hilton.
Iniziò a girare per la stanza nervoso. Lo fissai con la rabbia che mi montava dentro, facendo scendere anche me dal letto per seguirlo in quella grande stanza dove facevo avanti e indietro.
- Sto solo dicendo che…che m’importa di lei. Voglio sapere che sta bene. E con qualcuno che conosca! Come sua zia ad esempio… - costatai ovviamente, fermandomi di colpo a fissarlo. Il suo sguardo si spostò da terra al mio viso, dove si fermò per pochi secondi prima di riprendere il cammino. Avanti e indietro.
- E che cosa vorresti fare? Elisabeth lo sai che siamo stranieri qui e poi lei sarà felice all’orfanotrofio… non montarti la testa con strane idee! – quadrò, indicando e gesticolando come per chiudere l’argomento.
Io scossi la testa infastidita. Non volevo chiuderla qui, per niente al mondo. Si, potevamo essere stranieri, potevamo avere qualche problema ma… no. Sicuramente avremmo potuto fare qualcosa. Non volevo che lei restasse li. Sapevo come funzionavano queste cose in Italia. Lei aveva bisogno di qualcosa in più. Non dei semplici vestiti usati o magari una vecchia bambola. Lei aveva bisogno della mamma che l’era mancata. Aveva bisogno di me.
- Jensen, io… - mi fermai e portandomi una mano alla fronte, cercando di reprimere il mal di testa che stava iniziando a pulsarmi alle tempie.
- Cosa? – domandò con tono di voce basso, fermandosi del tutto, per guardarmi.
- Voglio andare a farle visita all’orfanotrofio. Vedere come sta. Come se la cava…e se, e se non ha bisogno di me, di noi… la lascerò andare. Mi dimenticherò di lei e noi torneremo in America come se non fosse successo nulla! – conclusi, cercando di convincere più me che lui.
Jensen fece una smorfia con le labbra e alzò gli occhi al cielo, avvicinandosi a me, per un abbraccio di conforto.
- Okay, andremo appena avrò finito la sessione pomeridiana dell’evento. Poi più tardi andremo a farle visita e… ehi, guardami. Sono qui, guardami negli occhi – mormorò serio, alzandomi il viso con un dito che portò sotto al mento.
Alzai gli occhi al tetto e poi li abbassi nel suo sguardo verde smeraldo, soprattutto magnetico e adorante.
- Noi non ci dimenticheremo di lei piccola. Lei è la nostra Aurora, non lo farei e non lo faremmo mai e poi mai. Fa parte della nostra vita…ricordi? – domandò con voce tenera, accarezzandomi la guancia con le nocche fredde.
Rabbrividii a quel contatto, ma sorrisi ringraziandolo di quelle parole con un bacio semplice, e a fior di labbra.
- E’ per questo che ti amo… - sussurrai piano, chiudendo gli occhi, stringendomi a lui.
Lui a sua volta mi strinse a se, e mi dondolò un po’ a destra e un po’ a sinistra prima di sogghignare appena per lanciare una delle sue battute.
- Che cane bastonato che sono… -.
Non mi risparmiai in uno scappellotto. Ormai li regalavo spesso. Ma solo scherzosamente, ovvio.
 
- Ciao Aurora – salutammo all’unisono io e Jensen, sedendoci uno da ogni parte libera del letto, dove la bambina era appoggiata alla testata in ferro battuto bianco. Semplice e poco costoso.
- Come stai piccola? – domandai, accarezzandole il viso per toglierle qualche ciocca di capelli ormai quasi lisci, che le ricaddero davanti la fronte un secondo dopo.
- Bene e voi? – domandò sorridendo, chiudendo il piccolo ritaglio di quaderno, dove sembrava appuntare le sue memorie. Come un diario… ma non un vero e proprio diario. Solo un quaderno grande tagliato a metà. Lo fissai sulla sedia di fianco a letto che faceva da comodino; vi trovai un bicchiere, uno spazzolino, un dentifricio usato e una torcia elettrica. Una lampada no?
Vi trovai un libro, che riconobbi come quello della saga di cui avevo letto ormai il terzo ed ultimo libro.
- Ti piace leggere? – domandai d’un tratto, allungandomi sul letto per arrivare a prendere il libro mal ridotto, con la copertina strappata a metà.
Alzai lo sguardo dal libro allo sguardo sorridente e timido di Aurora, che arrossendo cerco di spiegarmi che aveva iniziato a leggere ormai da un anno.
- Hai solo questo? –. – Suor Paola l’ha trovato ad un euro e cinquanta al mercatino dell’usato. A quanto pare la ragazza che l’aveva comprato non le piaceva tantissimo… perciò Suor Paola l’ha preso per me – affermò, prendendo il libro dalle mie mani, per appoggiarla esattamente dov’era prima.
- How much time than you are here? – domandò in inglese Jensen senza rendersene conto. Poi scosse il capo quasi rinvenuto da un sogno ad occhi aperti. – I mean… - lasciò la frase in sospeso, cercando di riflettere sulle uniche e poche parole che conosceva in italiano, poi però si voltò verso di me, lasciandomi il via libera. Gli rivolsi un sorriso sincero e di apprezzamento.
- Jensen voleva dirti… -.
– …tu sei qui? E poi, non ho capito la frase di prima. I do not understand you.. – borbottò aggrottando la fronte più di una volta, cercando di ricordare come si dicesse la frase che aveva detto correttamente.
Mi stupii che riuscisse a capire quello che Jensen volesse dirle, ma anche di più che lei sapesse parlare bene o quasi l’inglese. Sbattei le ciglia stupita.
- Parli l’inglese bene. Io alla tua età nemmeno lo parlavo del tutto… - sussurrai, accarezzandole un braccio, piegato sulle gambe strette al petto.
Sorrise per la seconda volta timidamente, nascondendosi dietro le gambe lunghe.
- Mi piace, e Suor Sophie mi fa delle lezioni. Lei viene dall’Inghilterra, ed è a Roma da un po’ di tempo ormai… ho scoperto questo mio hobby e cerco di portarmi avanti con gli studi dei verbi e della sintassi in generale, la maestra non è bravissima come lei! – spiegò, appoggiando il mento sulle ginocchia.
Annuii contenta, e mi voltai a fissare Jensen, spiegandogli in poche parole cosa avesse detto la ragazza. Lui restò scioccato e facendo un buffa faccia, fece ridere di allegria la piccola Aurora.
- Ti trovi bene qui? Non ti manca nulla? – domandai, avvicinandomi un po’ a lei. Lei ad un primo momento alzò le spalle, poi distese le gambe e abbassò lo sguardo alle mani che stringeva l’una nell’altra.
- Do not like stay here? – domandò lentamente Jensen, cercando di farsi capire. Lei alzò lo sguardo e sorrise, poi alzò le spalle, e non rispose con sincerità.
- Ti piace stare qui? Da quanto tempo è che ci stai? I… - mi fermai cercando di acquistare un po’ di sensibilità, promettendomi che non avrei pianto. Fermai la diga con tanti pioli.
- Da quanto tempo è che ormai i tuoi genitori non… sono in cielo Aurora? -.
La bambina sembrò un’altra volta imprecisa, e alzando le spalle si zittì aspettando che dicessi altro. Ma allo stesso tempo, mi zittì anch’io, e le feci capire che pretendevo una risposta.
- Quasi un anno, a settembre. – sussurrò, poi si avvicinò le gambe di nuovo al petto, e li strinse nella morsa delle braccia. Ci fissò da dietro il suo scudo.
- Ti mancano tanto… - costatò Jensen a bassa voce, in un italiano quasi perfetto, che fece sussultare Aurora sul letto, fissandolo smarrita.
Tirai un sospiro amaro, e voltandomi a fissare Jensen, che a sua volta si voltò verso di me, cercai di cogliere qualche messaggio, o qualcosa che potesse aiutarmi e aiutarci a capire qualcosa di più.
- A me… - borbottò Aurora, attirando l’attenzione di entrambi, facendo sciogliere così il nostro legame tra sguardi.
- A me… non piace stare qui. Mi piacciono le persone, ma voglio tornare a casa. Voglio la mamma – sussurrò, chiudendo gli occhi.
Abbassai la testa da un lato, e cercai di trattenere il singhiozzò che parti dal profondo del mio essere. Che partì dalla pancia, dove era iniziata una centrifuga di emozioni.
- Vuoi andare a casa… vuoi la mamma. Ti capisco tesoro – affermai, avvicinandomi a lei e stringendola a me forte, in un abbraccio dove Aurora partecipò senza riserve.
- Anch’io certe volte vorrei la mia mamma e il mio papà. Ma non ci sono, sono lontani, e non posso prendere l’aereo quando voglio per tornare a casa. Devo aspettare. E così dovrai fare tu… per un lungo tempo – constatai amaramente, notando quando fosse ardua la salita della sua lunga vita da ragazza e da adulta, da mamma e poi da nonna, chissà…
- Betta, voglio una mamma. Voglio stare con qualcuno che mi voglia bene. Suor Paola non mi vuole bene, mi da l’affetto che da anche agli ragazzi. Io… - sussultò, stringendosi a me, sul collo, nascondendosi ai miei occhi ma non agli altri quattro sensi. Alla percezione della pelle bagnata per le sue lacrime silenziose.
- Lo so piccola, lo so… - e alzai lo sguardo triste, su quello di mio marito che dall’alta parte del piccolo letto, ci fissava tristemente, e desolato.
- Cosa possiamo fare? – domandò a bassa voce, parlando in un inglese veloce, cercando quasi di non far capire nulla alla ragazza tra le mie braccia.
- Jensen, ci sarà qualcosa che possiamo fare. Io non voglio lasciarla qui! Voglio donargli tutto il bene di cui ha bisogno! E’ una bambina che ha bisogno di noi! – sottolineai, fissandolo con sguardo accigliato.
- Lei ha bisogno di qualcuno che può farlo. Noi non possiamo! Siamo straniera, americani! Avremo bisogno di mesi per le pratiche da gestire. Tempo che noi non abbiamo e lo sai! – esclamò con rabbia più verso la situazione creatasi.
Aurora si risveglio dallo stato quasi vegetativo, e si fermò a fissarci con quei suoi occhioni spenti, lucidi e di un cioccolato caldo.
- Cosa succede? – domandò a bassa voce, quasi non udendo cosa volesse dire. Io scossi la testa e la lasciai un secondo portando Jensen fuori dalla porta. – Torniamo subito, io e Jensen dobbiamo parlare Aurora -.
Appena varcammo entrambi la soglia, fermandoci nel lungo corridoio del dormitorio, Jensen alzò le braccia al cielo, portandosele dietro alla nuca.
- Vuoi smetterla per una buona volta? Possiamo metterci l’avvocato, se ne occuperà lui, noi avremo la nostra bambina! – emisi la sentenza, anche se lui ebbe da dire la sua.
- Elisabeth non possiamo! – esclamò frustrato.
- Tu non vuoi! – squittì adirata.
- No! Io non posso, tu non puoi! Noi non possiamo farlo! – affermò un’altra volta, afferrandomi per le spalle, scuotendomi.
- Yeah! They are, love! Non me ne frega un cazzo… -, mi fermai di colpo, girandomi attorno, sperando di non essermi fatta sentire di nessuno, anche se non mi avrebbero capita, visto che parlavamo un’altra lingua. Almeno all’orecchie degli altri bambini, ma non di Aurora o di Suor Sophie.
- … non me ne frega un cavolo se noi non possiamo o che tu non voglia farlo. Io lo farò, voglio prendermi cura di lei! Lo sai quanto io abbia bisogno in questo momento di lei! – sussultai infine a bassa voce, cercando di prendere il controllo della voce che si era alzata già abbastanza.
Jensen dal canto suo sbuffò e snervato, sbatte le mani sulle cosce.
- Okay, fa come ti pare. Metti l’avvocato, ma ti avverto io non prendo nessun aereo per Roma. Lo sai, non ho tempo da agosto in poi… ho un lavoro, un contratto! E quest’ultimo devo rispettarlo…I mean I will go to the jail in a minute! – borbottò, facendo il gesto delle mani ammanettate.
Scossi la testa frustrata e stanca. Mi portai le mani ai capelli e pensai a quanto la legge italiana fosse meno restrittiva rispetto a quella americana in un certo senso.
E meno male che non facevo ancora parte degli Stati Uniti. Anche se la Green Card aveva i suoi difetti suoi diritti penali...
La Green Card! Certo!
- Cazzo perché non ci ho pensato prima! – urlai quasi, saltando per la gioia in aria come un canguro molto felice.
- Elisabeth, cerca di mantenerti cara! – disse, afferrandomi per le braccia, tappandomi la bocca con una mano. Quasi non soffocai per le risate che mi feci.
- Jensen, non ci avevo pensato…mio Dio meno male che ci sei tu amore! Tu e i tuoi problemi con la legge! – esclamai, saltandogli addosso come una koala su un albero.
Jensen per poco non cadde all’indietro e ridendo come una matta, lo travolsi in un bacio più che passionale.
Mi staccò con molta forza, riuscendoci ovviamente. – Mi spieghi che cazzo di problemi ho con la legge io? – domandò stranito, avvicinando le sopracciglia.
- Io ho la Green Card, io sono ancora di cittadinanza italiana! Non ho ancora fatto i test per la cittadinanza americana, per cui, sono libera di adottare chiunque! Sono libera di adottare Aurora! Mio Dio è fantastico, vero? – strillai quasi, stringendolo a me in un abbraccio di pura felicità.
Jensen non aspettò un secondo di più, mi portò nella stanza dietro alla porta dove ci eravamo appostati, e quello che accadde fu solo un vecchio ricordo felice quando Aurora accettò la nostra proposta di averla in famiglia.
Noi avevamo bisogno di quel si, non volevamo che lei fosse obbligata a seguirci in un nuovo Stato. Potevamo ben capire quando fosse stato difficile per lei ambientarsi da un’altra parte, con facce diverse e lingua diversa, anche se dubitavo di quello; lei non avrebbe avuto difficoltà, aveva solo bisogno un po’ di scuola, e la maestra che stavo diventando per la piccola Elena, l’avrei confermata anche con Aurora. La piccola di casa Ackles. Finalmente qualcuno di cui prendersi cura.
 
Dopo i tre giorni della convention italiana di Supernatural, io e Jensen ci fermammo due giorni in più per sistemare un po’ di documenti all’ambasciata americana, dove avevamo richiesto i documenti del matrimonio tra me e Jensen. Su quello avevamo avuto un po’ di fretta. Se avessimo aspettavo di ufficializzare le nostre nozze anche qui in Italia, come avremmo fatto da li poco, ovvero il martedì della settimana successiva (da festeggiare giù in Sicilia per i nonni), magari non avremmo dovuto aspettare due giorni per il responso ufficiale dall’ambasciata e che quindi la richiesta di adozione si fosse prolungata per così tanto.
Anche se dopo i documenti di nozze certificati e le risposte ad un paio di quesiti, le Suore non erano molto contenti di affidarci la piccola Aurora, sapendo che avrebbe dovuto viaggiare per un po’ qua e in là. Ci avevano detto che almeno per i primi mesi avrebbero chiamato invitandoci a far parlare Aurora alle chiamate e avevano richiesto addirittura che uno dell’ambasciata italiana negli Stati Uniti controllasse la situazione in casa Ackles, mandando qualcuno dal comune dove fossimo stati residenti in quel periodo, visto che avevamo spiegato la situazione dell’uomo di casa Ackles, ovvero un attore che avrebbe viaggiato tanto. Soprattutto in quell’anno, pieno di viaggi. Sicilia, Miami, Cuba e poi Vancouver.
Ed ironia della sorte, non erano viaggi di lavoro quelli, ma solo di puro piacere. Chissà allora cosa sarebbe successo se avessimo dovuto seguire Jensen per lavoro? Le Suore sarebbero impazzite. Ma non poteva interessarmi nemmeno un secondo in più, perché ormai quello che andava fatto, l’avevamo fatto e finalmente tra le braccia avevamo una piccina ormai cresciuta. La piccola Aurora Ackles. Che non diede nessun problema alla mia famiglia, anzi fu così contenta di vedere un volto nuovo nella nostra famiglia, che mia madre non si perse in chiacchere, e portò in giro per la città la ragazza, che sommerse di regali dalla testa ai piedi prima di partire per l’America. Vestiti, scarpe, borse, zaino, fermacapelli e due paia di costumi nuovi di zecca che avrebbe usato ben volentieri nel posto dove stavamo per andare.
Aurora era così eccitata all’idea di partire per un posto così bello, che si vergognava un po’ ad ammetterlo, ma non vedeva l’ora di abbronzarsi e somigliare tanto a quei lupi descritti sui libri, che gli piacevano tanto.
- Nemmeno sembra vero! Hai una bambina tutta tua, tesoro… - sussurrò mia madre emozionata, mentre porgeva a mia sorella un fazzolettino per asciugarsi le lacrime pre-divisione sorelle.
- E te ne vai un’altra volta… mio Dio, odio essere incinta! Eh, eh! – singhiozzò per la tristezza, e afferrata da depressismo, strinse in un abbraccio Aurora, sconvolgendola dall’abbraccio ultra platonico per via del pancione.
Sgranai gli occhi, ridendo e salvando mia figlia da quella situazione.
“Oddio, cosa ho pensato?”, sussurrai a me stessa, pensando alla parola figlia. Mia madre sembrò vedere il mio sguardo perso nel vuoto della mia mente.
- Ehi, tesoro stai bene? Stai soffocando mia nipote… - notai che a mia volta stavo stringendo la piccola Aurora tra le mie braccia. La ragazzina appoggiò il mento sul mio piccolo petto, sorridendomi felice.
- Tutto bene Betta? – domandò piano.
Mia madre non si meravigliò come la prima volta, quando Aurora mi chiamò per nome e non per appellativo mamma. Sapevo quando fosse difficile per lei. Quindi non la spinsi e non l’avrei spinta a farlo mai e poi mai a farlo, se sotto sforzo.
- Si tesoro, sto bene. Andiamo? P…Jensen ci starà aspettando fuori con gli altri… - sottolineai gli altri e non con nonni e bisnonni.
Potevo capire adesso come Aurora si stava sentendo. Solo per un anno aveva pensato di non avere più nessuno. Adesso in un solo attimo era stata circondata da un papà e da una mamma. E da quattro nonni. E da due bisnonni. Insomma era piena da familiari ora più che mai.
- Ciao piccolina, ci vediamo presto! – esclamò mio padre stringendola appena al petto con un braccio e una carezza sul viso. Aurora arrossì e per tutti gli altri abbracci non fece che diventare sempre più rossa; ma sorride cordiale, felice e timida; salutò tutti con un “ciao” generale. Poi salii in auto e aspettò che noi salutassi tutti. Nonno mi soffermò più di tutti.
- Mi raccomando prenditi cura di lei… è giusto che sia così! – borbottò con tono di voce serio e da nonno qual era mi dispensò come sempre il suo miglior consiglio.
- Grazie nonno! Lo farò sicuramente. Ti voglio bene – sussurrai, stringendolo a me con forza. Nonno mi lasciò una pacca sulla spalla e mi lanciò con un occhiolino.
Risi divertita e lo lasciai alla sua  nuova pipa.
Infine salutai papà che mi strinse forte, mi sollevò da terra e mi diede la sua benedizione. – Fa buon viaggio e mi raccomando alla piccola di casa! -. Mi sorrise e ricambiai. Gli diedi un bacio e lasciai la sua mano stretta tra le mie, raggiugendo la macchina. Jensen mise in moto e prima che potessimo partire per l’aeroporto, diede un colpo al clacson e salutò con la mano.
Chissà adesso quando tempo sarebbe passato prima che li avrei rivisti tutti. Mi voltai a fissare il parabrezza posteriore, e li fissai li, tutti insieme, stretti chi in un abbraccio, chi per mano. Alzai la mano come se potessero vedermi, per un ultimo saluto. Triste e un poco depressa, spostai il mio sguardo da quel quadro familiare, alla bambina che seduta sul sedile posteriore, stretta ad una cintura di sicurezza, mi sorrise apprensiva consolandomi un po’.
- Pronta per le spiagge di Cuba? – domandai con falso tono entusiasta. Aurora annuii energicamente, e batte le mani. Jensen emise un risolino divertito e urlando un: “Oh yeah, Cuba we are coming!” , sgommò sull’autostrada, correndo verso la nostra tappa di vacanze in pieno relax, e in tutta compagnia.
 
 
*spazio autrice*
 
Allora, questo capitolo diciamo che ne è uscito dalla trama di quello precedente. Come  è successo per qualche capitolo addietro, di questa storia diciamo che ne sto allungando il brodo, o meglio solo la stesura, perché la trama è sempre quella solo divisa diversamente!

Spero che comunque non sia stato tanto corto, ma sapete come sono no? Se vedo che un capitolo postato è corto, ne metto due di fila :)

E spero che vi sia piaciuto… mi sono un po’ documentata sulle cose relative all’adozione e un po’ di realtà misto alla fantasia di scrivere, bhè spero non sia troppo fantasioso… e spero che abbiate capito dal capitolo precedente fino ad adesso cosa sia successo?

Aurora, vi ricordate di lei? La piccola bambina italiana che Elisabeth aveva conosciuto a Miami? Bene, lei proprio lei resta orfana dei proprio genitori per via di un incidente d’auto (ne sto parlando qui perché sarebbe inutile parlarne nel capitolo. Cosa potrebbe capirne una bambina di appena sette anni?), e quindi non avendo nessun familiare disponibile, a parte la zia appena diciottenne che si s’infischia di lei, entrambi i nostri protagonisti si impegnano nell’adozione dell’unica bambina di cui Elisabeth si è mai importata (a parte la piccola Elena a cui è affezionata). Naturalmente Aurora avete visto quant’è contenta di vedere Jensen e Elisabeth, quindi non si rifiuta, ma tentenna a stare in famiglia…vedendo persone nuove. Sapete i bambini timidi come sono. Per cui diciamo comunque che è stata l’unica occasione per Elisabeth di poter avere una bambina tutta sua. Per il problema che lei ha, risolvibile o meno insomma l’unica scelta era adottare qualcuno e chi se non Aurora? Se non fosse stata lei, sarebbe stata/o qualche altro bambino/a bisognoso/a come lei.

Per questo vi ho sempre ricordato comunque di leggere la MM del Capitolo 8. Io alla fine avevo lasciato qualcosa in sospeso. Per chi ha letto ovviamente sa :D

Insomma tutto è stato collegato a lei. Il destino di Aurora e di Elisabeth per quanto mi riguarda è sempre stato collegato nella storia, fin dal loro primo incontro.

Elisabeth e il litigio con Jensen (voluto), l’incontro con la piccina, con i suoi genitori, la svolta tra la coppia nell’FF e poi l’incidente, il problema e ancora il matrimonio e la depressione. Infine lei e la svolta. Posso dire che più felice di Elisabeth non c’è nessun’altro in questo momento :)

Chiudo qui i commenti quasi più lunghi del capitolo, e vi dico che ci siamo. Stiamo quasi finendo. Un altro paio di capitoli e la FF si concluderà… ma non preoccupatevi, ho altre storie in servo per voi…


“La vita che avrei voluto” dal Cast di Supernatural. Storia ispirata ad un libro, ad un film e ai sentimenti che mi sentivo di esprimere in questa NUOVA FF con protagonista Sybil e Jensen!

In via di stesura trama e primo capitolo, intanto vi posto il primo Logo Poster. Spero sia di vostro gradimento!

Al prossimo capitolo, e a prossimi AGGIORNAMENTI SUL PROGRESSO DELLA NUOVA FF!


 
Xoxo

Para_muse

 
 
 
 
 
 

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Capitolo 26
*** Cayo Largo, white beach, no depression, only…us. ***


Questa FanFiction fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un...bookstory.
Della FanFiction fanne parte le Missing Moment:
-Dal Capitolo 8:
The Real Vacancy of Year
-Dal Capitolo 21(raiting rossa): Fire in the Water




Capitolo 26

 
Cayo Largo, white beach, no depression, only…us.
 
- Dov’è la piccola di casa Ackles? – domandò Jensen, appoggiandosi sopra il lenzuolo profumato e rinfrescante. Emise un gemito di piacere, e si stiracchio sospirando di felicità. – Caldo, tanto caldo… - borbottò, avvicinandosi a me, per strofinarsi addosso.
Lo fissai con sguardo sgranato, e gli diedi una manata per allontanarlo. – Sto bruciando anch’io, e sento caldo anch’io! Fatti più in la! – lo schiacciai via, e mi allargai sulla mia parte di letto.
Jensen si sentii offeso e aprii braccia e gambe per stendersi sulla maggior parte del letto (ovvero quasi tutto).
- Jensen! – esclamai a bassa voce, arrabbiata, evitando comunque di non urlare per non dover svegliare Aurora che dormiva dall’altra parte del corridoio, stanca per tutti i giochi che avevamo fatto in spiaggia, e per tutte le lunghe nuotate.
- Cosa c’è? Io sto solo cercando di dormire! Sei tu che stai facendo casino! – esclamò, corrugando la fronte.
Lo fissai allibita, e facendo finta di nulla, afferrai il cuscino e mi avvicinai al divano vicino alla portafinestra aperta, che faceva entrare l’aria umida della notte e il fruscio dell’acqua contro la riva  e la banchina dove eravamo approdati da Cuba verso Cayo Largo, una piccola Isola che faceva parte della nazione piena di sole e di mare cristallino con tanta di quella sabbia bianca e fine, che è sempre troppo facile abbronzarsi, infatti bruciavamo, ed eravamo così scuri, almeno io ed Aurora, che eravamo troppo rosse per abbronzarci ancora di più.
Jensen invece metteva una maglia bianca per proteggersi un po’, passando quasi ogni ora più di mezzo tubetto di crema, infatti ci eravamo forniti molto, prima di prendere la nave e salpare per l’isola che ci stava ospitando per due lunghe settimane.
- Mi spieghi che stai facendo? Prendi un crampo al collo! – esclamò a voce abbastanza alta. Mi ero distesa, dandogli le spalle e stavo quasi per arrivare con la mente alla deriva dei sogni, ma quell’urlo, gridato alla notte, mi fece voltare di scatto, facendomi alzare immediatamente il dito medio e poi l’indice, portandomelo alle labbra.
- Cos’era quello? – domandò con tono di voce basso e rabbioso. Lo fissai stringendo gli occhi in una piccola fessura, stanca e stressata, sbuffando gli alzai di nuovo il dito medio, e mi voltai a dargli le spalle.
Chiusi gli occhi e pensai di riposare solo un secondo di più, prima che due braccia mi potessero sollevare di peso per portarmi via dalla mia quietezza.
- Mettimi giù! – borbottai afferrandogli i pantaloni per abbassarli un po’, mordendogli un anca.
Emise un urlò che nascose in seguito tra le mie braccia, quando mi scaraventò sul letto, facendomi balzare più di una volta.
- Stupido stronzo! – sussurrai, mentre le sue carezza si allungavano per tutto il mio corpo, spogliandomi dalla lingerie di seta che mi teneva fresca la notte.
Le culottes nascondevano ben poco, e le mie gambe erano la tentazione per un uomo che, come Jensen cercava sempre qualcosa da “toccare”.
- Si, quel dito… sai dove infilartelo… - borbottò, giocando con la lingua lungo il mio collo.
Scioccata, schioccai la lingua contro il palato.
- Porco mascalzone che non sei altro! – esclami ridendo divertita, abbandonandoci ad un’altra notte di pura passione.
 
- Dove sono gli attrezzi per la sabbia tesoro? Voglio iniziare un castello nuovo! – urlai alla riva, dove Aurora nuotava e giocava insieme a Jensen divertendosi, come se l’uomo con cui stesse giocando non fosse solo un bambino o quasi, ma fosse suo padre.
La bambina scappò e mi corse incontro, sotto l’ombrellone in paglia davanti la villa dove alloggiavamo.
- Aiuto, aiuto! – urlò Aurora, continuando a lanciare gridolini di divertimento e di paura allo stesso tempo, iniziando a girarmi intorno nascondendosi dietro alle mie spalle. Risi divertita e afferrandola per un braccio, la tenni stretta dietro di me, mentre Jensen mi correva contro, prendendomi in pieno facendoci quasi cadere a terra.
In ginocchio inizia a pestarlo sulla spalla.
- Cretino, potevi farci male! – esclamai ridendo, perché le mani di Aurora corsero immediatamente ai miei fianchi, che si scossero per il solletico.
- Aurora, smettila! – esclami, voltandomi di scatto, ridendo con ilarità, mentre Jensen mi teneva ferma, e lei continuava il suo lavoro. I miei capelli si riempirono di sabbia , e per poco non ne mangiai un bel mucchietto.
- Jensen! Aurora! Ba-basta! – esclami, urlando.
- Ahaha, mamma come sei divertente! – esclamò, solleticandomi ancora.
Ma non sentii più dita che potessero solleticarmi. Non sentii mani che potessero tenermi. Sentii solo quella parola. Quella parola che tanto aspettavo, come se fosse stato un “sposami”.
Non volevo rovinare quel momento, solo memorizzarlo. Ci riuscii quando anche Jensen iniziò a farmi il solletico, e non potetti resistere ad altre mani. Sgusciai via e corsi in mollo all’acqua, dove i miei pensieri esplorarono quel lato nuovo della mia vita. Essere madre. Era tutto ciò che avevo chiesto, e adesso l’avevo avuto. Aurora mi aveva chiamato madre. E così avrebbe dovuto essere.
Sfiorai il pelo dell’acqua con il viso, quando riemersi, e mi ritrovai le due persone più importanti nella mia vita, sulla riva ad aspettarmi, sorridenti e felici dai loro sguardi magnetici. Cioccolato e smeraldo fuso.
- Vieni qui! Con te non avevamo ancora finito! – esclamò Jensen con tono di voce scherzoso e arrabbiato allo stesso tempo.
Ovviamente scossi la testa, ma non servii a molto. In una corsa sfrenata contro l’elemento più devastante e forte della natura, mi venne incontro, iniziando a schizzarmi forsennatamente.
- Oh! Jensen, no, cavolo! -.
- Forza papà! Dai, forza! – esclamò divertita Aurora dalla riva, saltellando qua e in la, incoraggiando suo padre.
Jensen non si sminuii nemmeno un po’. Continuò accontentato sua figlia. Come appunto un padre, avrebbe accontenta una figlia unica. Viziandola. Ma in questo caso, l’avremmo fatto solo nel bene. Io conoscevo Jensen, e sapevo che sarebbe stato sempre un buon padre, sia per una figlia di sangue che non. Aurora era ormai la nostra famiglia. Non l’avrebbe per nulla al mondo abbandonata.
 
Dispiaceva abbandonarmi alle spalle Miami, che ci aveva ospitato solo per due giorni, ritornati in terra ferma dopo due lunghe settimane di sole, relax e divertimento sia familiare che non. Jensen capiva bene adesso che sarebbe stato sempre più difficile divertirsi in casa con una bambina poco stanca.
Risi al pensiero, e mentre atterravamo per una seconda volta nella città di Dallas, in Texas, ad aspettarci fuori dalle porte scorrevoli, sul marciapiede c’era Cliff, e non mi stupii di vedere al completo la famiglia Ackles, con la nuova arrivata Daneel, la figlia di Hope e Joshua.
Ma prima che potessimo solo augurare le più sentite congratulazione ai neo genitori, presentammo l’altra nuova arrivata in casa Ackles con un po’ di imbarazzo da parte della bambina di sette anni, che si nascose dietro le mie spalle, quasi spaventata. Cosa al quanto strana, visto che con i miei genitori l’aveva fatta quasi facile.
- Ehi, non avere paura, sono i tuoi nonni paterni! – esclamai, abbassandomi sulle ginocchia per arrivare alla sua altezza.
Lei annuii e con un poco di rossore, alzò la mano e salutò. Sorrisi divertita, e Jensen accarezzandola sul capo, le lasciò un bacio sulla fronte. – E’ tutto apposto, so che può sembrarti strano sentirli parlare. Chiederò loro di farlo lentamente, così capirai - disse a bassa voce suo padre, rassicurandola.
- Okay, dad! – sussurrò, facendo qualche passo avanti, dandomi le spalle. Con fare protettivo, appoggiai le mani sulle sue braccia, e l’avvicinai al mio corpo.
- Questa è la bambina di cui vi avevo parlato a telefono. Elisabeth ed io l’abbiamo adottata a Roma. Si chiama Aurora, è fa parte delle nostra famiglia adesso! Aurora loro sono nonno Roger e nonna Donna. Loro sono zio Joshua e zia Hope. Lei la zia svampita Mackenzie!... -.
- Ehi, non sono svampita! Aurora non è vero, non gli credere! Sono solo la zia dolce e pazza allo stesso tempo! – disse Mack, avvicinandosi ad Aurora per allungarle una mano. La bambina ridendo piano, gliela strinse in una morsa poco stretta. Mackenzie la ricambiò con un sorriso dolce, prima di unirsi al mio fianco, salutandomi con un semi abbraccio.
- E la tua cuginetta Aurora, Daneel, figlia di zia e zio… - disse Jensen, avvicinandosi a suo fratello per vedere sua nipote. Non c’era cosa più bella di vedere Jensen tenere una piccina tra le braccia. E così che saliva sempre quella voglia matta di avere un bambino tutto mio, e la voglia si tramutava in depressione, che dovevo cercare di sopprimere, riuscendoci ormai più delle volte. Mi serviva solo un po’ di conforto, e stringere tra le braccia Aurora, lo era. Mi ricordava che lei c’era. E che tutto non era vano.
- Andiamo, saliamo in macchina? Vi mostriamo la nuova casa! – esclamò Donna, invitandoci a salita sul sub, dove ci aspettava Cliff con la porta aperta.
- Ciao Cliff! Passate bene le vacanze? – domandai, salendo in auto.
- Si, Elisabeth, e tu? – domandò divertito, aiutando Aurora a salire sull’enorme auto. Io annuii e strinse a me Aurora in un abbraccio. Poco dopo Cliff chiuse la portiera e con un abbraccio salutò Jensen, che aiutò a salire in auto, aprendogli la portiera.
- Bentornato Jensen! -. – Grazie mille Cliff! -.
- Direzione? – domandò salendo nella postazione guida.
- Casa nuova! Casa nostra! – esclamò Jensen, voltandosi a fissarci. Gli sorrisi e gli lanciai un bacio per aria, che acchiappò per stamparselo sulle sue.
- Pronta piccina? Sistemiamo la tua camera oggi! – disse Jensen, muovendole una coscia con l’enorme palmo della mano. Lei rise e annuii, battendo il palmo della sua piccola mano sul dorso della mano del padre.
- Si parte, allacciare le cinture! – borbottò Cliff, richiamandoci all’attenzione.
 
- Finito! Adesso questa si che sembra camera tua, mmh? – domandai allo sguardo perso nel vuoto di Aurora, che guardava un po’ qua e po’ la, stupita e sorridente.
I mura tinti in un bianco lilla, e il letto con una testata in ferro battuto bianco era così perfetto, con i veli che scendevano ad arco ai lati. Peccato che non potette per tutto l’anno usufruirne. Soprattutto della libreria a muro speciale che Jensen aveva comprato all’Ikea e poi montato da se. Un impresa titanica, ma ci era riuscito insieme a nonno Roger.
- Già, è perfetta – e sospirò tristemente. Capii subito il motivo. Naturalmente non potevo dargliene colpa. Sapevo quando gli mancasse la sua vecchia camera. Sapevo quando gli mancassero i suoi genitori. Ma capivo che dal giorno in cui ci aveva chiamati mamma e papà stava iniziando a fare nuovi passi, e a ricordare sempre meno.
- Hai ragione, è perfetta… - sussurrai, avvicinandomi a lei per stringerla a me in un forte abbraccio.
- ma lo sarà quando tra un paio di anni forse, sarà la tua camera per sempre. E magari l’avrai riempita di qualche tuo vecchio ricordo annuale, e una foto dei tuoi genitori li, proprio li…sul comodino. Allora sarà perfetta! – constatai, indicandole l’angolo del comodino a muro, dove c’era il letto. Lei annuii con la testa, e mi diede un bacio sulla guancia, spingendosi sulle punte dei piedi.
- Ti voglio bene mamma – mi disse, parlandomi più con lo sguardo sincero che con la voce.
Le sorrisi, e l’abbraccia di nuovo a me, mormorando un: “anch’io, tesoro, per sempre”.
 
Jensen ci aveva portati nuovamente al White Rock Lake Park. Avevamo fatto un giro in barca, e poi ci eravamo avvicinati al parco giochi dove Aurora fece un giro sull’altalena spinta dal padre. Mentre io prendevo il sole, e mi riscaldavo un po’ nell’aria umida di inizio agosto.
Sembrava avessi sonnecchiato quando Jensen mi svegliò con il canticchiare della sua voce e della sua chitarra, che aveva portato dietro per la voglia di strimpellare un po’.
- Cos’è? – domandò curiosa Aurora, che si era seduta ai miei piedi, sulla grande coperta appoggiata a terra, sopra l’erba quasi secca.
- E’ una canzone… - sussurrò Jensen, continuando a dondolare le dita, e ad afferrare le note.
- Sembra romantica – constatò mia figlia, con orecchie ben dotate. Si voltò a fissarmi, continuando a tendere l’orecchio alla melodia, mentre la sua faccia dubbiosa faceva domande.
- E’ romantica – affermai, sorridendole. Lei ricambiò, e si avvicinò per appoggiarsi sul mio stomaco, tra me e Jensen. Fissò il padre sotto il cappello e gli occhiali scuri, e aspettammo che iniziasse a cantare.
Le prime parole furono più che una dolce melodia per me. Strimpellando e cantando con quella voce roca e bassa, i brividi mi consumarono la pelle che divenne d’oca, e le emozione furono triplicate. Senza che me ne potessi accorgere le lacrime sgorgarono dai condotti lacrimali.
- Ehi mamma, piangi? – domandò stupita Aurora, voltandosi verso di me, per abbracciarmi teneramente.
Jensen smise di cantare, e preoccupato si sporse verso di me, poggiando la chitarra al suo fianco.
- Stai male? Cosa succede? – domandò mio marito preoccupato, poggiando una mano sul mio capo, come per proteggermi dal sole.
Io risi quasi divertita di tutta quell’attenzione e piansi ancora di più, quando Aurora fece una faccia tenera, stringendomi a se con un dolce sorriso.
- Ehi amore, cosa c’è? – domandò, stringendomi a sua volta, in un abbraccio di gruppo, dove Aurora scomparve. Quasi soffocò.
- Aiuto! – esclamò ridendo, sbucando tra le nostre spalle. Un risolino mi scappò di nuovo e quando riacquistai un po’ di autocontrollo, spiegai.
- Non so perché piango, ma so quando sia stato bello sentirtela cantare un’altra volta. E’ perfetta! Mio Dio, perfetta! – sottolineai, sfiorandogli con dita tremanti la linea netta della mascella.
Jensen mi sorrise timidamente, e avvicinandosi a me, mi lasciò un bacio sulla fronte. Poi ne lasciò uno sul capo di Aurora. Poi sorrise ad entrambe e tirandosi indietro, riprese la chitarra, iniziando a suonare altre note della canzone. Senza cantarla.
Fu Aurora che lo fece.
- Un giorno qualcuno mi disse che aveva litigato con un amico / Eravamo su una spiaggia e lei si preoccupò per me./ Le raccontai che stavo bene, ma le chiese perché lei non fosse./ Mi rispose che amava qualcuno, ma quel qualcuno non la amava./ Le dissi che prima o poi avrebbe trovato il principe azzurro, come mia madre aveva incontrato mio padre./ -, canticchiò senza una rima precisa. La fissai un po’ entusiasta e un po’ stupita dalle parole che stava cantando. Sembrava quasi stesse canta-raccontando la storia del nostro incontro. Quello mio e di Jensen. Della sua nuova mamma e del nuovo papà.
- Come re e regina sarebbero saliti al trono/ e l’amore avrebbe preso i loro cuori./ Tutto avrebbe avuto un lieto fine/ e un padre ed una madre sarebbero stati/ per qualcuno che ben presto li avrebbe reclamati./ - sorrisi di quella rima, e la strinsi a me in uno scossone di baci e carezze.
- Ma cosa dici? – domandai ridendo, scompigliandole i capelli in una veloce mossa. Lei sbruffò e si gettò tra le braccia del padre, che ri-posò per l’ennesima volta la chitarra a terra, e si dedicò alle coccole della bambina.
- Cos’era quella poesia piccola? – domandò Jensen curioso, fissando prima Aurora e poi me. Io alzai le spalle, e cercai di non apparire interessata; in cuor mio sapevo che se adesso ero qui, a Dallas, tra un prato verde ed un laghetto, insieme all’uomo della mia vita, e ad una bambina intelligente, dolce e felice, era solo opera sua. Proprio della bambina intelligente, dolce e felice e del suo racconto inventato della principessa Angelica e del principe Marco.
A cui dovevo tutto. A cui dovevo dire grazie, per lei.
- Papà? -, richiamò Aurora, accarezzando la barba poco folta sulla guancia di Jensen.
- Dimmi… -.
- Grazie per aver perdonato la mamma, quel giorno… - sussurrò, arrossendo.
Il silenzio di Jensen fu eloquente. 
 
Dopo i quasi venti e, più giorni trascorsi a Dallas, tra familiari e mura fresche di tintura, eravamo tornati a casa. La nostra vera casa. Quella dove avremmo trascorso quasi un intero lungo anno, tra riprese, fotografie, vita coniugale, familiare e scolastica. Soprattutto.
Dopo esserci sistemati anche a Vancouver, nella nostra casa ormai da quasi un anno, io e Jensen avevamo dato alcuni ritocchi nella stanza degli ospiti, che adesso era diventata la stanza di Aurora. Ripitturata e decorata con un tocco di femminilità, Aurora si sentiva a casa anche li. Con qualche cornice ancora vuota, che presto avrebbe riempito con qualche foto tra il set, i nuovi amici a scuola e alla parrucchieria. Tra Kelly e Elena, che erano stati ben felici di incontrarla. Soprattutto Elena, che si era fatta una nuova amichetta. E Aurora naturalmente, che finalmente comprendeva meglio l’inglese, con qualcuno che ancora tentennava a parlare, o meglio a dire qualche parole più che complicata.
Elena ancora andava all’asilo, e anche se c’era qualche anno di età differente, era strano vedere insegnare qualcosa ad Aurora che di sette anni, faceva già la prima scuola. Sapevo che sarebbe stato difficile ambientarsi, ma purtroppo le sarebbe toccato. Magari socializzare solo con qualche compagnetta di classe, le avevo consigliato per scherzo di dire a qualcuno di loro che era figlia di Dean Winchester, il cacciatore dei cacciatori. Avevamo riso per l’intera serata, prima di andare a letto presto per la sveglia alle sei l’indomani mattina. Era stato il suo primo giorno di scuola. E dai suoi sorrisi dopo l’ultima campanella, avevo capito che poi non era andata così male. Aveva detto che tutti l’avevano riconosciuta più o meno. Soprattutto quelli più grandi di lei, che la guardavano e le sorridevano, facendole un pollice all’insù.
Ah, i giovani di oggi. Vedevano già troppe cose disgustose per quell’età. Non che Supernatural fosse disgustoso, ma alcune scene a cui aveva fatto parte Jensen durante le riprese, non erano un bel vedere, ecco.
- Tesoro com’è andata oggi a scuola? – domandai il terzo giorno, quando l’andai a prendere dal parcheggio della scuola, perché ancora non mi fidavo del bus.
- Bene! Oggi mi hanno presentata per la terza volta. Il professore Finnick mi ha chiesto di papà. Gli ho detto chi era e ovviamente mi ha chiesto un autografo… - borbottò, stringendo lo zaino al petto, fissando fuori dal parabrezza disgustata.
- Tu cosa hai detto? – domandai incuriosita, fissandola dal mio posto guida, con sguardo corrucciato.
Aurora alzò le spalle meccanicamente e annuii con la testa, nascondendo un sorrisino divertito.
- Ho detto si, magari mi aumenta subito la media con una A+! – e risi come un pazza, facendole battere il cinque, mentre ci dirigevamo sul set, dove avremmo pranzato insieme a Jensen.
Purtroppo il lavoro era un po’ pressante. Non solo per Jensen ma anche per me. Se per lui erano dalle dodici ore alle quindici di lavoro continuo, per me erano dalle sei alle nove ore, e dovevo anche badare alla famiglia. Aurora richiedeva il suo tempo. Tra compiti, cene e un po’ di tempo solo per lei. Mi dispiaceva che dovesse essere sbattuta qua e la, e stare quasi la maggior parte del tempo in auto per arrivare da un posto all’altro; ma lei comunque continuava a sorridere, ad annuire, a fare i compiti, a giocare con Elena al centro estetico e stare con Jensen alla fine di una lunga giornata, sul divano abbracciati e felici.
Ad Aurora piaceva stare soprattutto sul set. Amava vedere le persone muoversi, andare e venire per le stanza. Sistemare la scenografia, e vedere suo padre ripassare le parti, mentre lei magari disegnava, finiva i compiti e imparava le lezioni.
Mi ero anche accorta quando i suoi occhi spesso si fermavano sui miei. Quando tiravo indietro lo sguardo dall’obbiettivo e la cercavo, come se non potessi fare a meno di controllare che fosse seduta sulla sedia con il nome del padre cucito sopra. Lei era li, non scappava o spariva via. Mi fissava fare il mio lavoro. La mia passione. Come se quello che stessi facendo lo stesse facendo lei.
E non ero l’unica ad essersene accorta. Jessica mi aveva parlato di quello sguardo che aveva Aurora quando entrava spesso agli studios. E contenta la salutava per correre subito insieme al padre per il camerino a truccarsi o a farsi la barba e sistemarsi i capelli.
Mi avevano tutti detto che era speciale. Anche Mr. Robert che non era stato mai così contento di ri-cominciare una nuova stagione! La quinta. La più attesa! E la più strana, con tante domande, su cosa sarebbe successo a Dean e a Sam dopo che la gabbia fosse stata aperta. Come sarebbe iniziare la prima puntata? Bhè sarebbe stata la puntata più bella di sempre, e più strana di sempre. Chi se non Mr. Kripke a scriverla e Mr. Robert a registrala.
Le due punte di diamante della squadra. A parte Jared e Jensen che non solo facevano un lavoro sfiancante ma anche di perfetta sincronia tra di loro.
Non li avevo mai visto così affiatati. Jensen così entusiasmo di girare, e Jared così sorridente e felice, appagato soprattutto dalla gioia di essere marito e padre. Che cosa magnifica per lui. E anche per il mio Jensen, che se non lo dimostrava, sapevo che dentro pensava ad Aurora ogni secondo.
- Mamma! -. Aurora mi venne a chiamare, tirando la maglietta, facendo piano e non disturbando le riprese. Abbassai lo sguardo e le sorrisi. Poi afferrai la sua mano e la portai più lontano possibile dal microfono.
- Dimmi tesoro, qualche problema? – domandai preoccupata, fissandola dritta negli occhi. Lei triste mi fece il musino, e mostrandomi il suo foglio notai che stava facendo i compiti della scuola. Matematica. La materia che odiavo di più. Ma di certo quello che faceva la piccola era facilissimo in confronto a quello che facevo io al liceo.
- Vieni, chiediamo il permesso a Mr. Robert e poi andiamo sul camper okay? – mormorai, avvicinandoci di nuovo al set, dove a Jensen scappò l’imprecazione dell’imprecazioni! Cazzo, proprio adesso?
“Ops!”.
- Son of the bitch! – esclamò tosto, voltandosi verso la telecamera, alzando lo sguardo verso di noi. I suoi occhi si sgranarono e si scompose solo un attimo, solo per non riuscire a rovinare l’intera scena.
- Mamma… – sussurrò a voce bassissima Aurora, tirando la manica della mia maglia. Abbassai lo sguardo mortificato verso la bambina e feci un faccia di scuse. – Papà non ha detto niente piccola! N-i-e-n-t-e! – sibilai, avvicinandomi a Mr. Robert, dicendo il mio intento.
Lui accettò e mi lasciò andare con la mia bambina, che arrivata sulle scale del camper, afferrò il telecomando del elicottero e iniziò a far girare le pale.
- Ehi, dobbiamo fare i compiti ricordi? – dissi autoritaria, richiamandola.  Lei sbruffò un po’ e posando di nuovo l’elicottero sul tavolo corse a buttarsi sul divano e innocentemente ridisse la parola che il padre poco prima aveva urlato.
- Son of the bitch!..bitch! Mamma cosa sta a significare in italiano? – domandò sorridendomi timida.
- Aurora! Cosa ti ho detto? Dimentica quelle parole! Tuo padre non ha detto niente! – esclamai puntandole un dito contro.
Aurora smise di sorridere, e abbassando lo sguardo annuii.
- Bene! Adesso per favore, avvicinati e facciamo i compiti – dissi, facendogli spazio sul sedile in pelle. Fu così che mi cimentai nei primi compiti di mia figlia, come avrebbe fatto qualsiasi madre.
 
-La prossima volta, ti prego accertati che se nel copione della scena dove siamo presenti, c’è una parolaccia, ci mandi fuori a me e la piccola. O almeno solo ad Aurora! – esclami frustrata a letto, torcendomi su me stessa. Appoggiai la guancia contro il suo torace coperto dalla solita maglia a maniche corte bianca.
Mi fissò negli occhi e annuii consensivo.
Gli sorrisi e avvicinandomi alle sue labbra, li chiusi in un bacio di traverso, ringraziandolo.
- L’uomo della mia vita, un padre magnifico e una cavolo di imprecazione che ti esce di botto mentre la tua bambina ti ascolta. Epica! – sorrisi, divertita, strofinando il naso con il suo, freddo.
- Smettila! Mi fai sentire in colpa, piccola… - borbottò tristemente, strofinando a sua volta il naso al mio.
- Sai cosa fare adesso…- sussurrai, carezzandogli il viso con i polpastrelli.
Lui mi fissò divertito, e annuendo mi strinse a se per un abbraccio, capovolgendo le posizioni, portandomi sotto di lui.
Le sue dita corsero ai miei fianchi e iniziando a muoversi, il sorriso mi spuntò d’istinto e le lacrime uscirono dagli occhi.
- No! Il solletico no! – cercai di soffocare le urla sul cuscino evitando di non svegliare Aurora che nella stanza in fondo poteva svegliarsi.
- Si, il sollet… - si fermò di colpo e mi fece preoccupare. Alzai lo sguardo verso di lui, e cercai di calmare il respiro che rimbombava dentro di me, e nelle orecchie.
- Ssh…è il mio telefono? Chi cazzo è a quest’ora? – domandò preoccupato, scendendo di corsa dal letto per avvicinarsi alla sedia dove aveva poggiato i pantaloni che aveva tolto prima di infilarsi a letto.
Lo vidi controllare il numero e avvicinandosi di nuovo a me, sotto le coltre coperte, mi porse l’iPhone preoccupato.
- E’ estero. Sembra italiano… - borbottò.
Fissai lo schermo e non riconobbi immediatamente il numero.
- Pronto? – dissi con qualche perplessità.
- Ehi, parlo con Elisabeth? Sono io Marco! Aaah, sono padre, tua sorella madre! Anna è nata! -.
Sentii delle urla e allontanai un poco la cassa dall’orecchio e avvicinandolo di nuovo, dissi qualcosa di insensato.
- Cosa è nato? Cosa dici? Marco…mio Dio cos’è questa caciara? – borbottai.
- Ehi, tesoro! E’ la mamma! Sei diventata la zia di Anna! Tua sorella ha partorito pochi attimi fa! -. Le parole di Marco adesso mi furono più meno cripte, e quelle di mamma furono più chiare.
- Sono zia? Anna? E’ una femminuccia? Mio Dio, mandateci una foto! Aaah, che bello! – esclamai, sgranando gli occhi felici, lanciandomi addosso a Jensen, che mi abbracciò felice, anche se non aveva capito chissà cosa.
- Pronto? Pronto? – sentii la cassa gracchiare e avvicinai di nuovo il telefono all’orecchio.
- Ripronto? Chi parla li? Chiaro e forte, grazie! – esclamai sorridente.
- Sono io, cretina! – .
- Ciao stronza di una nuova mamma! Auguri! – .
La vita che avrei voluto, sempre più perfetta.
 
*spazio autrice*
 
Ed un altro capito è andato. Indovinate? Il quart’ultimo! AAAAAAAh *si suicida*
Mi mancherà, già lo sento che mi mancherà D: Ma vabbè, ancora ci sono altri tre capitoli da pubblicare e sistemare, e rileggere! *-*
Piaciuto? Spero proprio di si, in fondo descrive un po’ la loro vacanza, sarebbe dovuta essere luna di miele, ma con Aurora, sembrava un po’ strano vedere quei due fare finta di niente, e fregarsi di una dolce bambina :)
Ma hanno avuto il tempo per fare porcate, non preoccupatevi ;D
Per il resto, è un capitolo di passaggio, si…a parte la scena finale, dove si scopre che Elisabeth finalmente è diventata zia di Anna :D
Contente?
Non mi resta che lasciarvi e niente :3 vi ricordo che alla fine di questa FF, ne arriva un’altra :D e nientepopodimeno che su…Jensen, di nuovo! *-* Non potevo non farlo <3
“La vita che avrei voluto” dal Cast di Supernatural. Storia ispirata ad un libro, ad un film e ai sentimenti che mi sentivo di esprimere in questa NUOVA FF con protagonista Sybil e Jensen!
In via di stesura trama e primo capitolo, intanto vi posto il primo Logo Poster. Spero sia di vostro gradimento!
Al prossimo capitolo, e a prossimi AGGIORNAMENTI SUL PROGRESSO DELLA NUOVA FF!
 

 


Xoxo Para_muse
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 27
*** Lady, you are... ***


Premetto che io festeggio S. Valentino per la festa dei Single, quindi u.u eccovi il capito nel giorno del MIO S. Valentino u.u

La storia fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un...bookstory.
Dove fanno parte:
-Racchiusi in un... click. (FF)
- The Real Vanacy of Year (Missing Moment dal Cap 8)
- Fire in the Water (Missing Moment
Rossa dal Cap 21)

VI RICORDO ANCHE LA MIA ALTRA FF, DEDICATA A Jensen Ackles/Nuovo Personaggio. VISITATELA PURE QUI





Capitolo 27
 
Lady, you are…

 
Ottobre aveva spalancato le porte al mal tempo. E alle continue registrazioni giorno dopo giorno delle puntate di Supernatural. Quinta stagione, che andava alla grande, ma così sfiancante per tutti che non riuscivamo nessuno della crew a seguire la solita routine. Specialmente io che avevo ad una bambina ed un marito a cui badare. Non che prima Jensen mi fosse di peso, ma tornare a casa prima che lui finisse di registrare e preparare subito la cena non era una cosa facile da conciliare con Aurora che adesso richiedeva un po’ di tempo tutto per se.
Un’altra giornata stava svolgendo al termine, e sinceramente stavo letteralmente morendo di fame; ma continuavo a fare le foto per il sito e le solite still settimanali. Stavano finendo di girare l’ultima scena del nono episodio quando il mio telefono iniziò a vibrare.
Preoccupata, mi allontanai un attimo dal set, e lasciai andare al laccio la fotocamera, apprestandomi a rispondere.
- Pronto? – risposi.
- Pronto, mamma sono Aurora, chiamo dal telefono fisso di… - gracchiò la voce di mia figlia dalla cornetta.
Preoccupata iniziai a fare domande a raffica.
- Tesoro cosa succede? Stai male? Cosa hai? -.
- Calma mamma, sono okay! Il problema non sono io, ma il tempo. Mi vieni a prendere da Suzanne prima che inizi a piovere? Voglio tornare a casa… - borbottò con voce triste, facendomi rilassare solo un po’.
Mi porti una mano alla fronte ed emisi un respiro di sollievo, poi parlai: - Puoi aspettare due secondi? Io sto finendo qui a lavoro, cinque minuti e ti passo a prendere… - conclusi, voltandomi verso il set, notando che avevano smesso di girare. Finalmente!
- Tesoro abbiamo appena finito, veniamo io e papà. Arriviamo! – dissi, chiudendo la chiamata con un “Okay” felice.
Sorrisi e mi avvicinai ad un Jensen distrutto, seduto stancamente sulle sedia da regista.
- Cosa c’è? – domandò, afferrandomi un mano, avvicinandomi a lui con un strattone. – Andiamo a casa… - constatai, tirandolo giù dalla sedia. Mi fermò, stringendomi a sé di nuovo. – Io devo restare, ho da registrare ancora un po’… - disse, indicando il resto degli guest-starring!
- Oh, okay… avevo promesso ad Aurora che l’avremmo presa insieme! – esclamai, lasciandolo andare per tornare indietro. Le sue braccia mi strinsero di nuovo, e mi mormorò poche parole prima di lasciarmi andare con un bacio dietro l’orecchio.
- Prometto che appena finisco, arrivo. Promesso! -.
 
- Com’è andata oggi la giornata? Tutto apposto a scuola? – domandai, appena Aurora si fu sistemata sul sedile davanti, poggiando lo zaino nel sedile posteriore.
- Tutto apposto. La madre di Suzanne è stata molto cortese. Abbiamo mangiato un bel hamburger… - iniziò a gesticolare. Risi divertita, e pensai ai gusti di suo padre, a quando fossero “simili”.
- Hamburger eh? Quando volte ti ho detto di mangiare cibo sano? Ah, tesoro mio… - borbottai, scompigliandole i capelli, mentre con una mano tenevo fermo il volante per la strada lunga e dritta davanti a me.
- Oggi ho preso una A! – esclamò felicissima, saltellando sul posto. Lanciai un urletto di felicità anch’io, fiera che mia figlia sia così intelligente.
- Uh, guarda sta iniziando a piovere! – disse, toccando le gocce d’acqua che da fuori lasciavano lunghi segni sul vetro chiuso.
Attivai i tergicristalli e le gocce andarono via per far spazio a quelle nuove, grandi e numerose. Quello era un bel temporale. Meno male che stavamo arrivando.
- Mamma cosa c’è per cena? – domandò d’un tratto Aurora, voltandosi a fissarmi. Presa dalla strada, in un primo momento non pensai a cosa avessi preparato per cena, perciò dovetti fare inversione di marcia, per andare dritta al supermercato di fiducia, dove io e Aurora ci bagnammo in parte perché riuscii a parcheggiare proprio davanti la porta, o quasi.
- Cosa preferisci tesoro? – domandai alla piccolina, mentre camminavamo tra i vari reparti. Sembrava che avessi dovuto comprare solo un paio di cose. Infine uscii da li dentro con più di tre buste della spesa piene, e una piccola l’aveva tra le braccia Aurora, mentre io tenevo tutto, compreso l’ombrello mezzo rotto.
Comunque tutto, riuscimmo ad arrivare in auto, dove accessi fino in fondo l’aria condizionata.
Riuscimmo a riscaldarci le dita fredde e bagnate, e le punte dei capelli mezzi bagnati.
- Meno male che ho pure comprato le pasticche per il mal di testa e il raffreddore. Sicuramente tra un paio di giorno l’avremmo già beccato! – borbottai irritata, fissando la strada quasi deserta.
Finalmente ci dirigemmo a casa senza problemi. Che poi arrivarono quando posteggiai al bordo del marciapiede, non di certo sul giardino, posto più vicino per far scendere almeno Aurora.
Purtroppo non fu così, perciò iniziai a fare da corriere.
- Andiamo Aurora, scendi prima tu! – dissi, scendendo dall’auto, chiudendo subito dopo la portiera. Correndo verso la portiera mezza aperta dall’altra parte, la pioggia mi colpi in pieno, perché tagliente solo da un lato. Afferrando Aurora per un braccio per la portai avanti, riparandola alle spalle, dove avrebbe preso tutto l’acquazzone. Perciò a passo di formica, inciampando qualche volta, sul ciottolo per arrivare fin al portone di casa. Quando l’aprii e disattivai l’allarme, portai Aurora fin al bagno. Le indicai il phone e l’asciugamano. – Asciugati per bene, io sto arrivando! – esclamai, correndo verso l’auto, lasciando l’ombrellone dietro la porta. Avrei fatto in fretta, perciò afferrando tutte le buste della spesa. Mettendo lo zaino dietro la spalla, e afferrando la borsa, chiusi l’auto con un sonoro – ti,ti – e corsi verso casa, mentre un primo tuono in lontananza si faceva sentire. Saltai in aria per lo spavento. Avevo una paura matta dei tuoni. Cazzo!
- Mamma sei tu? – domandò Aurora dal bagno. Bagnata fradicia mi diressi in cucina dove il pannello di controllo per i riscaldamenti della casa erano spenti. Li accessi e li misi al massimo. – Si, sono io. Sono in cucina! – urlai, lasciando le buste scivolarmi dalle braccia, per far cadere tutto sul tavolo. Le mele caddero a terra. Mi abbassai per raccoglierle, e di colpo mi ritrovai a scivolare, con il sedere a terra e le gambe in aria. – Porca puttana! – esclamai, arrabbiata. E meno male che Aurora aveva il phone accesso. Stava imparando troppe di quelle parole che una fanciulla non avrebbe dovuto sapere.
- Mamma? – mi chiamò mia figlia una seconda volta.
- Cosa c’è? – esclamai frustrata, raccogliendo le mele per una buona volta, alzandomi da terra.
- Cosa ci facevi a terra mamma? – domandò Aurora con gli occhi vispi, dalla porta della cucina, dove la trovai in pigiama e bell’asciutta.
- Niente – sbruffai, lasciando tutto nel ripiano del tavolo, dirigendomi in bagno per asciugarmi. Afferrai un asciugamano e sfregai per bene i capelli, che lasciai umidi su una spalla. Poi mi tolsi i vestiti di dosso e infilai il pigiama, lasciando i vestiti zuppi tra i panni sporchi che avrei lavato l’indomani.
Tornata in cucina, iniziai a preparare la cena, tra le mani inesperte della pasticcione di appena sette anni.
 
- Mamma, tutto apposto? Vuoi un’altra aspirina? – domandò, accarezzandomi la fronte bagnata dall’acqua fredda che Aurora continuava a mettermi con il panno per far abbassare la febbre che sembrava non abbassarsi mai.
- No, tesoro. L’ho già presa… - sussurrai, con occhi semi aperti, vedendo la forma di mia figlia sfocata. Poi un colpo di sotto mi scosse da sotto le coperte bagnate, anche quelle, dal sudore.
- Wow. Scotti! Devi prenderla un’altra… mamma! – gridò quasi. La zittii voltandomi di spalle, e fissai la parte vuota del letto. I miei occhi si chiusero e stanca, mi abbandonai al calore stressante della febbre.
 
- Mamma! Mamma, svegliati! -, la voce squillante di Aurora, mi risvegliò dal sonno agitato. Aprii gli occhi e la luce dal soffitto mi ferii gli occhi.
- Ho chiamato papà, ha detto che sta arrivando il dottore! – esclamò, di fronte al mio viso, smuovendomi una spalla.
Sembrò avesse smosso il mondo. Una forte nausea mia attaccò la pancia, scesi di corsa dal letto, e per poco non ruzzolai a terra. La testa iniziò a girarmi forte e la stanza sembrava in balia delle onde.
Riuscii comunque ad arrivare al wc, e inginocchiandomi a terra, cercai di vomitare qualcosa senza risultato.
Era intossicazione, aggiudicare dai continui sputi a vuoto che facevo. A mamma veniva sempre.
- Mamma! Tutto okay? –. A quelle urla, la testa rispose con un colpo di martello secco. Che dolore.
- Non urlare! – esclamai, con voce secca, tossendo forte.
- Scusami…vieni andiamo a letto… - mi prese per una mano, mentre l’altra stringeva il coniglietto di peluche con cui dormiva da quando era arrivata qui in America. Non lo abbandonò nemmeno un secondo anche quando, mi aiutò a salire sul letto, per rimboccarmi le coperte pesanti. Stavo morendo dal caldo.
- Tieni mamma, misurati la febbre. Fra un po’ arriva il medico… - borbottò a bassa voce, cogliendo così il mio consiglio.
- Quanto amore? Che ore sono? – domandai, poggiando il termometro sulla tempia. Pochi secondi e iniziò a suonare. 37.9 “Perfetto”, pensai irritata, stringendomi sotto le coperte.
- Sono le due e mezza del mattino…-. E cosa ci faceva lei ancora alzata?
- Dovresti andare a letto tesoro! Domani hai scuola! – dissi, chiudendo gli occhi per la forte luce che proveniva dal tetto.
- Mamma domani è sabato. Non ho scuola! – esclamò ridendo piano, posandomi la benda umida sulla fronte. La tolsi, via, e mi voltai verso di lei.
- Non ne ho bisogno tesoro, vai a letto. Quando viene il medico vado io, tu stai tranquilla… - dissi, cercando di persuaderla. Ma non ci riuscii. Fino all’arrivo del medico.
Fu allora, che il Dottor Shapperd riuscii a persuaderla, mandandola in camera sua. Voleva visitarmi da solo. Anche se ero da sola con un medico, avrei preferito avere a fianco qualcuno, visto che era anche un uomo. E che non conoscevo.
- Suo marito mi ha chiamato dicendomi che lei stava male, ma non sapendo cosa le fosse successo. Mi spieghi lei per favore… - disse, sedendosi sul bordo del letto, tirando fuori dalla borsa di pelle, lo strumento per misura la pressione. Mi tirò fuori il braccio, e posizionando la fascia sulla parte alta, lo strinse, iniziando a pompare e a controllare la bolla con i numeri.
- Durante l’acquazzone di questa sera, mi sono bagnata tutta. Purtroppo non sono riuscita ad asciugarmi del tutto, dovevo preparare la cena a mio marito… che non è tornato a casa. E non so dove sia… sono andata a letto, non ricordo, forse per il mal di testa. Poi mi sono svegliata con la febbre alta; mia figlia mi ha aiutata con l’impacchi di acqua fredda… e ho preso una compressa dell’influenza credo ormai sette ore fa? Non lo so dottore… - borbottai, fissando il braccio stretto nella fascia.
- La pressione sembra bassa, molto bassa. Forse è virus… Ma non ne ho sentito parlare… cosa ha mangiato per cena? – domandò, prendendo lo stetoscopio. Mi fece segno di mettermi seduta. Mi alzai con qualche difficolta tra le coperte. Si tirò indietro, e mi alzò la maglia, scoprendomi la schiena nuda. Rabbrividii per il freddo.
- Ho mangiato solo una fettina di petto di pollo impanata. Non avevo molta fame, mi era passata per una nausea… - borbottai, prendendo un bel respiro. – Di nuovo per favore. Inspiri con il naso, ed espiri con la bocca -, disse, poggiando lo strumento di fero freddo sulle ossa della colonna. Sobbalzai di colpo.
- Ferma per favore… - mi richiamò, appoggiando una mano sulla spalla.
Feci come mi aveva ordinato, ed effettuando la respirazione, più volte, poco dopo mi ordinò di tossire. Sentii quanto fosse secca, perciò mi disse che mi avrebbe prescritto uno sciroppo.
Da quanto tempo non ne prendevo uno? E adesso invece…
- Ha vomitato? – domandò dopo avermi infilato una stecca di legno in bocca, controllando le tonsille.
- Diciamo di si. Non ho vomitato nulla perché non avevo niente in pancia se non la saliva in gola… - borbottai disgustata delle mie stesse azioni.
- Ho notato le tonsille rosse appunto. Aveva già digerito quindi la cena? Ho ha vomitato prima di cena? – domandò, posando gli strumenti dentro la borsa, prendendone altri.
- In realtà non ricordo, dottore. Avevo la febbre, ho avuto momenti di sonno. Dovrebbe chiedere a mia figlia – sussurrai piano.
- Guardi il dito per favore… - mi puntò il fascio di luce giallo, prima in un occhio poi nell’altro. Infine mi invitò a fare un test all’urina.
- Perché? – domandai, scendendo dal letto lentamente.
- Devo portarlo in clinica. Devo fare dei controlli – sintetizzò, portandomi fino al confine del bagno, dove mi chiusi e feci pipì con qualche difficoltà. Risi di quella scena quasi divertente. Un dottore sconosciuto fuori dalla porta del bagno di casa mia, con me dentro tutta sola, insieme a mia figlia che chissà cosa starà pensando.
“ Mia madre si sta facendo il dottore! Dovrei dirlo a papà!”. Che mente perversa la mia. Sarà la febbre.
- Eccola! – esclamai quasi, porgendogli il contenitore quasi a forma di bicchiere dove c’erano quasi tre dita di “cosa” gialla.
- Può mettersi sotto le coperte, abbiamo finito la visita – disse, accanto al comodino, dove afferrò una stecca che fece girare come un cucchiaio nel liquido dentro il bicchiere.
- Cos’ho? – domandai allora, stringendomi addosso il piumone tiepido. Avevo di nuovo freddo.
- Allora, febbre. Semplice febbre da raffreddamento! Forte, ma passerà con del paracetamolo che le prescriverò. E tosse, che passerà con lo sciroppo. Due volte al giorno, ma le scriverò qualcosa perché non se lo dimentichi. E poi tante vitamine B e C soprattutto, e ferro anche, perché lei è incinta… - disse, corrugando la fronte, mostrandomi il bastoncino bianco con segno positivo.
Fissai con occhi sgranati, e bocca aperta. Ma no, non poteva essere. Era improbabile.
“Meglio impossibile”, pensò la mia vocina soddisfatta.
- Sono incinta? – domandai a bassa voce, fissando adesso il dottore che gettava via il bastoncino nel cestino dietro la porta del bagno.
 
Non passai una notte facile. Al sorgere del sole, la febbre era diminuita, ma le nausee erano arrivate. Jensen invece no.
Mi alzai per l’ennesima volta sulle ginocchia, e gettai la testa fuori dal bordo del water. Ero stanca di vomitare il vuoto. Dovevo mangiare qualcosa, e forse sarei riuscita a vomitare qualcosa tipo una ciambella, o un bicchiere di the caldo. Non prima però di aver fatto il test che il dottore mi aveva lasciato, per vedere se davvero ero…incinta. Bhè lo ero e come.
Aurora dormiva tranquilla nella parte vuota di Jensen, stringeva il suo peluche, e il mio cuscino con una mano, sospirando ogni tanto in sogno. Almeno lei mi metteva il sorriso.
Dopo fiumi di lacrime che erano sgorgate dopo che il dottore era andato via e per l’ennesima volta mi aveva affermato che si, ero incinta, e che era stato possibile anche se quasi un anno indietro ebbi l’incidente.
Mi aveva prescritto una visita dalla ginecologa di fiducia per i primi di novembre. Forse allora si sarebbe già visto il sesso del bambino.
Di quanti mesi ero allora? Mi portai davanti al lungo specchio vicino all’armadio, e mi fissai dalla testa ai piedi, dietro il pigiama di lana pesante, che mi nascondeva le forme. Lo alzai appena, scoprendo la pancia nuda, e notai un rigonfiamento sul davanti e un po’ sui fianchi. E io che avevo pensato fosse solo un po’ di chili presi in grassi, visto che mi muovevo poco, a parte sul set, dove camminavamo invece di girare in auto.
- C’è qualcuno qui dentro e nemmeno me ne sono accorta… - sussurrai allo specchio, più che a me stessa.
Mio Dio, sarei diventata madre per la seconda volta, senza che me ne fossi accorta. Chissà quanto è stato concepito… forse durante la luna di miele. Rossa di vergogna pensai quante volte io e Jensen ci avevamo dato dentro, all’insaputa di una giovane Aurora. Poverina.
La mia piccola Rory.
Chissà come l’avrebbe presa… sicuramente avrebbe fatto un po’ la parte delle sorella maggiore, poco accudita, e dimenticata dai genitori. Ma non sarebbe stato così, perché sapevo quanto lei avesse bisogno di affetto. Non gliel’avrei sottratto per donarlo al bebè in arrivo. Erano pari. Erano entrambi miei figli.
Mi spostai dallo specchio, e mi ritrovai a pochi passi in cucina, dove mi preparai una tazza di thè che bevvi con qualche difficoltà, ritrovandomi d’un tratto lo stomaco chiuso.
I miei pensieri viaggiarono in una meta senza fondo quando, la parola o meglio, il nome Jensen mi si presentò davanti.
Cosa gli avrei detto? “Ehi, sono incinta!”. “Ho una bella notizia, sono incinta!”. “Sai il dottore ha detto che sono incinta! Felice?”. “Sono incinta!”. “Aspettiamo un bambino!”. “Siamo incintiiiii!”. “Prendila come te pare: sono incinta, ed è tuo!”. “Sono incinta! Non svenirmi ahahaha… E’ uno scherzo! No aspetta non tranquillizzarti, dicevo sul serio…sono incinta!”.
Scossi la testa e cerca di risvegliarmi da tutte quelle fantasie poco attraenti. Quelle non sarebbero stata mai un modo per dire a Jensen che aspettavo un figlio, o figlia, insomma un bebè. Sicuramente avrebbe preso un colpo, e poi… lui doveva essere con me. Doveva essere a casa, che fine aveva fatto? Mi aveva lasciato da sola tutta la notte, con la febbre a picchi così alti da poter toccare i 40° e di lui nemmeno l’ombra. Solo una telefonata al dottore. Così lui fa promessa al “in salute e in malattia”?
Afferrai il telefono e fissai l’ora. Le sei e trenta del mattino e di lui nemmeno l’ombra di uno squillo, di un messaggio in posta, o di un messaggio in segreteria telefonica. Son of the…
Cercai di trattenere tutta l’ira che mi assalii fino all’ultimo neurone del cervello.
Cercai il suo numero negli ultimi chiamati, e premetti INVIO.
Suonò all’infinito, poi scattò la segreteria: Sono Ackles, lasciate un messaggio. Staccai la chiamata, e riprovai di nuovo.
Sono Ackles, lasciate un messaggio.
- Son of the bitch! -, esclamai alla cornetta, dopo l’usuale segnale acustico.
Quella fu solo l’inizio di una lunga ascesa.
 
Jensen’s tiredness
 
Aprii la porta di casa con qualche difficoltà. Gli occhi volevano chiudersi da soli, ma cercai comunque di essere “sveglio”. Dovevo fare piano, erano solo le sette, e molto probabilmente entrambe le mie donne stavano dormendo.
Passai con passo felpato dalla cucina dove non trovai nessuno, nemmeno Elisabeth per la colazione mattutina. C’era solo la fetta di pollo impanata, che toccai e sentii fredda, quasi stecchita. Sarebbe stato la mia cena dal ritorno lavoro, ma ormai era immangiabile, perciò sempre con assoluto silenzio, tolsi di mezzo tutto, buttando la cena nel fusto della spazzatura.
Sparecchiai e mi ritrovai di nuovo con passo felpato a girovagare per casa. Mi avvicinai alla porta della camera di Aurora ma non sentii quel lieve respiro da bambina che di solito sentivo ogni mattina, quando mi alzavo e mi accertavo che tutto fosse okay. Perciò girai la maniglia e osservai l’immacolata stanza tinta beige, ordinata, con il letto in ordine, e i peluches al loro posto. A parte uno.
Mi diressi dunque nella stanza da letto, dove trovai, strette una all’altra, mamma e figlia, in un sonno abbastanza profondo. Il fiato di El si sentiva roco e disturbato dalla tosse, o dal muco per la febbre che forse ancora aveva. Quello di Aurora era invece tranquillo, e stanco.
Avevano passato sicuramente una notte abbastanza insidiosa, forse inevitabile, visto quello che era successo a Lei.
Mi avvicinai dal suo lato del letto, e la osservai, notando quando fosse bagnata per il sudore, e arrossata sulle guance. Sembrava molto stanca, e spossata dalla febbre.
Non volevo disturbarla, ma volevo avvertila che ero a casa. Poi che se ne sarebbe accorta o meno che ero a letto, o meglio che stavo per mettermi a letto, era un’altra cosa.
- Ehi, piccola… - le scossi appena la spalla, e le lasciai un bacio sulla tempia umida. – Elisabeth, amore – mormorai, stringendola un poco.
- Mmh, Jensen… vattene via – borbottò, tenendo gli occhi chiusi, stringendosi Aurora tra le braccia. Quel comportamento mi stupì. Perché adesso non mi degnava nemmeno di uno sguardo? Cosa le avevo fatto?
- Sono a casa, Elisabeth. Stai bene? Ehi, tesoro… - poggiai una mano sulla fronte, e notai che era quasi fresca. Sembrava che la febbre fosse scesa.
- Lasciami in pace, vattene via – borbottò di nuovo, lasciandomi un’altra volta di stucco. Cosa le prendeva adesso?
- Mi spieghi cosa c’è? – borbottai appena, irritato com’era da quella scena troppo strana ad occhi degli altri e miei soprattutto; parlavo con mia moglie che mi dava le spalle e continuava a fare finta di dormire, senza degnarmi nemmeno la minima considerazione.
- Non succede niente, vattene da Jared. Non voglio vederti, anzi non ti voglio in casa mia -.
Che cosa?
- Voltati, aprii gli occhi e spiegami cosa succede! – sbraitai quasi. Elisabeth si voltò di scatto e mi voltò un destro decisivo sul petto. Aurora si svegliò quasi di colpo.
- Mamma? Cosa c’è? Stai male? – balbettò con occhi semi chiusi e assonata. Poi alzò la testa, fissandomi, e sorridendomi appena. – Papà, sei tornata a casa! – si tolse di dosso la coperta, e si lanciò tra le mie braccia, calpestando sua madre. Elisabeth le urlò contro.
- Aurora non si fa così! Non si sale addosso alle persone! – urlò, puntandole un dito contro, mentre le mie braccia la stringevano in una morsa a koala.
Fissai il volto della bambina che sembrò più che mortificato, quasi addolorato dalle lacrime che spuntarono negli angoli degli occhi.
Abbassai lo sguardo su mia moglie alquanto arrabbiata, e scorbutica. Le lanciai uno sguardo di avvertimento, e sempre tra le mie braccia, portai la mia baby nella sua camera da letto, infilandola sotto le coperte fredde.
- Ti accendo lo scaldasonno, quando torno dal bagno, vengo a spegnerlo. Dormi ancora un po’ tesoro… - sussurrai, accarezzandole i ciuffi di capelli che le erano caduti sulla fronte, all’indietro.
- Va bene papà, ti aspetto qui – borbottò, stringendo Dean tra le braccia.
Stavo socchiudendo la porta alle mie spalle, quando mi sentii richiamare da Rory.
- Dimmi, tesoro… -.
- Non te la prendere con la mamma. E’ solo frustrata, tutto qui… -, sussurrò piano, nascondendo il viso sotto la coperta, per il freddo o per la timidezza di quelle parole.
Non so come avesse capito il motivo per il quale l’avessi portata nella sua camera, ma capii quanto Aurora, una bambina di appena sette anni, fosse intelligente.
La lascia con gli occhi chiusi e dirigendosi in bagno mi feci la barba, e poi una veloce doccia che mi riscaldò dalla freddura presa sul set per tutto il giorno e per tutta la notte. Kripke ci aveva dato forte stanotte. E quello che era successo a casa…cos’era successo? Ancora non l’avevo capito, ed Elisabeth non me l’avrebbe spiegato. Forse. L’avrei costretta, doveva spiegarmi cosa gli aveva detto il dottore. E perché Aurora avesse detto quelle parole…
Arrotolandomi un asciugamano alla vita, mi apprestai raggiungere di nuovo Aurora, dove addormentata si era già tolta una coperta. La ricoprii e spensi la coperta elettrica ormai calda. Uscito fuori nel corridoio, mi chiusi piano la porta alle spalle raggiungendo poi quella della camera da letto, socchiusa con la luce che tagliava il buio soffocato nel corridoio.
Vi entrai e chiusi anche quella piano, voltandomi a fissare Elisabeth che ad occhi chiusi respirava troppo velocemente.
- So che sei sveglia – borbottai, togliendomi l’asciugamano, restando nudo per indossare la solita canotta e gli boxer neri puliti. Velocemente corsi in punta di piedi sotto le coperte, dove portai le mie braccia e le miei gambe tra le sue.
Nemmeno un secondo di più, ed Elisabeth si allontanò e scese dal letto. Quasi cadde a terra e si aggrappò al suo comodino facendo cadere a terra la sveglia.
- Elisabeth attenta per favore! – borbottai a bassa voce, cercando di non urlare la mia rabbia.
- Me ne vado sul divano, non ci resto con te Ackles! – parlò tra un colpo di tosse e un altro, scappando via, portando con sé la trapunta che copriva il lenzuolo sul letto.
- Ehi! – esclamai, saltando giù dal letto, correndole incontro, afferrandola per la vita!
- No, Jensen, no! – gridò quasi, svincolandosi, togliendomi le mani da dosso.
Sgranai gli occhi quasi spaventato. Cosa succedeva?
- Elisabeth che ti prende? – domandai. Il suo sguardo spaventato quando il mio, si riempii di lacrime e corse a nascondersi in bagno prima ancora che esse potessero uscire.
Mi avvicinai la porta esausto.
- Tesoro, per favore mi spieghi cosa succede? Aprii la porta e parliamo da persone civili? Da marito e moglie? Da amici? Insomma “nella saluta e nella malattia” per te non vale? – domandai quasi certo ormai che non sarebbe uscita per nulla al mondo. Poco dopo sentii la porta aprire, e vidi il suo viso di un rosso scarlatto, bagnato da qualche gocciolina d’acqua, ma più sereno quasi.
- E’ tutto okay Jensen. Voglio solo dirti che mi scuso per questo strano comportamento, ma non ho intenzione comunque di perdonarti per quello che mi hai fatto! Insomma, abbandonarmi tutta sola, di notte, con la febbre, e una bambina di appena sette anni che mi aiutava…se non fosse stato per lei, a quest’ora sarei potuta andare in ospedale per la forte febbre! E per favore non mettere il musino perché non ci riesci a convincermi! E per favore (di nuovo) stanotte, sta’ dalla tua parte del letto, perché voglio dormire a pieni polmoni, grazie. – concluse, avvicinandosi al letto con quella maglia larga e lunga, che di solito usava per la notte. Sembrava non potesse essere sexy, ma la mia immaginazione mi lasciava pensare che fosse nuda sotto…
“Jensen ma che cazzo stai pensando? E’ tua moglie!”. “Ovvio che è mia moglie! Forse dovrei essere più gentile con lei…ha ragione!”. I miei pensieri andavano  e venivano mentre Elisabeth si mise a letto, rannicchiandosi dalla sua parte. Io salii dalla mia, e mi distesi supino fissando il soffitto illuminato dalle luci, che spensi poco dopo, facendo piombare la stanza in un buio sconcertante, e troppo silenzioso.
- Elisabeth? – chiamai a bassa voce, sperando che non si fosse già addormentata.
- Sono stanca Jensen! Sono quasi le sette e mezzo del mattino, vorrei semplicemente riposare la mente, solo quella! Se poi mi addormento è meglio… - borbottò con voce irritata, quasi isterica. Mi preoccupai un po’, e d’istinto mi avvicinai a lei poggiando una mano sul fianco che sembrava leggermente gonfio.
Elisabeth si scostò. Ed io ritornai dalla mia parte. Non voleva farsi toccare, e non capivo ancora il perché. Ma aveva appieno tutte le ragioni al mondo per starmi anche lontano per un semplice tocco. Era stata male, ed io non c’ero stato. Maledetto lavoro; domani Kripke mi avrebbe sentito! Ed Elisabeth mi avrebbe perdonato, forse.
 
*spazio autrice*
 
Allora…non venitemi contro u.u
Ci sarà un motivo se Elisabeth non avrà voluto dire nulla a Jensen. E se questo è il terz’ultimo capitolo, ancora c’è tempo per chiarire tutto no?
Forse direi … ma vabbè sono dettagli u.u
Per il resto, finalmente sta benedetta ragazza resta incinta, ed è possibile u.u per di più è riuscita a prendere la febbre durante la gravidanza, e non preoccupatevi, mi sono documentata prima di poterne parlare, e purtroppo può avvenire. Quindi se restate incinta, e vi viene la febbre, state attenti che questa non superi i 38.1 max. Può portare cose brutte al bambino D: e non p una bella cosa appunto… come siamo fatti strani eh?
Passando al capitolo, niente, la quinta stagione va a gonfie vele, Aurora va a scuola, Elisabeth è incinta, Jensen non lo sa, e per la PRIMA VOLTA C’è STATO UN JENSEN POINT OF VIEW *-* vi sono piaciuti i pensieri di Jensino carino?
Per me è stato strano, ma devo abituarmi, almeno per l’altra storia! U.u
Ve lo siete scordati già? Alla fine di questa magnifica FF a mio parere (buuu sei di parte, direte voi xD) sto pubblicando una NUOVA! DI FF OVVIAMENTE!
PROTAGONISTI: Jensen & Sybil
Vi piacerà, è molto…travolgente :3
Non vi dico altro. Il link lo trovate di sopra :D
Al prossimo capitolo. Il penultimo!
 
Xoxo Para_muse

 
 

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Capitolo 28
*** “I’m nevours” ***


*spazio autrice*
Penultimo capitolo, ci siamo quasi. Vi aspetto alla fine per news e altro ;D

La storia fa parte della serie: "The Second Chance" - Racchiusi in un...bookstory.
Dove fanno parte:
-Racchiusi in un... click. (FF)
- The Real Vanacy of Year (Missing Moment dal Cap 8)
- Fire in the Water (Missing Moment 
Rossa dal Cap 21)



Capitolo 28
 
“I’m nevours”
 
- Singer mi servirebbe mezz’ora di pausa. Ho una visita medica, mi dai il permesso di andare? – domandai a bassa voce senza far sentire niente a nessuno. Un po’ preoccupato annuisce, e porgendomi la mano per lasciargli la macchina fotografica appesa al collo, lo ringraziai con un bacio, e abbandonai gli studios in un silenzio assordante. 
Passai dalla reception a salutare Jessica che come me, aveva ripreso a lavorare dopo la maternità. Lasciai un bacio sulla fronte al piccolo Tommy, poi salutai la mia amica lanciandole un occhiolino. Mi augurò buona fortuna. Quella si sa, serviva sempre.
Abbandonando gli studios, presi il sub liberato da Cliff, che sorridendomi mi consigliò di essere prudente per le strade bagnate, sicura di me stessa annuii, facendogli vedere che stavo indossando la cintura, anche se a dirla tutta mi stava un po’ stretta alla vita. Dopo averla messa, accesii subito e mi allontanai, dirigendomi dall’altra parte della città, dove si trovava la ginecologa Shapperd, moglie del dottor Shapperd.
Pimpante, abbassai un attimo lo sguardo a notare l’evidente pancia che, iniziava a intravedersi dal maglione di lana bello largo. 
Dopo aver fissato un appuntamento con la dottoressa, ero stata alla larga da Jensen e tutti gli altri, tranne Aurora e Jessica, a cui avevo riferito la notizia, pregandole di far silenzio perché volevo fare una sorpresa. Avevo iniziato ad uscire in felponi e maglioni pesanti, visto anche il freddo che faceva a Vancouver la scusa c’era: dovevo proteggermi per via della freddura già presa prima.
Tosse e queste cose così non erano permessa durante la gravidanza, la ginecologa dopo aver saputo della mia febbre mi aveva invitata a stare a letto un paio di giorni e così avevo fatto, stando lontano dal mondo esterno. Dopo di ché ero ritornata a lavoro, ma oggi avevo finalmente l’appuntamento con la dottoressa e più di essere felice, bhè…cosa c’era altro da aspettarsi?
Quando parcheggiai di fianco al marciapiede, e scesi, ebbi un forte giramento di testa, perciò mi aggrappai subito alla portiera sperando scivolasse via. Dopo che passarono 5 minuti, contro la volontà della dottoressa, bevvi comunque un po’ di succo che portavo sempre dentro la borsa, bevendone un po’ e prendendo le energie necessarie per riacquistare un po’ di lucidità.
Sicuramente la dottoressa non se ne sarebbe accorta. A passo di marcia mi diressi nel locale a due stanza, una piccola dove c’era la sala di attesa stranamente vuota, e l’altra dove sicuramente ci sarebbe stato lo studio. Appena sentii il campanello squillare, una donna giovanissima sbucò la dietro la porta sorridendomi. 
- Prego, da questa parte – mi incitò a seguirla e lo feci, stando al suo passo. Mi accorsi che non era proprio una porta, ma quella che attraversammo era una di quelle porte scorrevoli che tenuta aperta lascia spazio ad una piccola reception. La segreteria non restò nella stanza, anzi, mi scortò fin allo studio senza chiedermi se avessi un appuntamento o meno. Mi fece accomodare tra le quattro mura bianche e poco sfoglie, e mi lasciò da sola, aspettando che la dottoressa uscisse dallo spogliatoio.
Chiudendosi la porta alle spalle con un sorriso, mi fissai intorno trovando svariati immagini di bambini appena nati e di ecografie fatte come quadri e non come semplici analisi.
Nemmeno il tempo di leggere uno dei dépliant sul parto che avevo trovato sul tavolo, che sentii una porta scorrere ed una donna sulla trentina d’anni uscirne fuori con il solito camice addosso e la crocchia di capelli rosso scuri raccolti tra elastico e cerchietto.
- Ciao Elisabeth, sono Mary e ti stavo proprio aspettando! – esclamò cordialmente, allungandomi una mano per stringerla.
- Salve Dottoressa Shapperd. Piacere di conoscerla – confermai, sorridendole a mia volta. Sedendosi dietro la scrivani iniziai a parlare del più e del meno come se fossimo semplice amiche e non solo appena due conoscenti, incontratesi per una visita medica.
Solo dopo un quart’ora abbondante, chiedendomi prima di Jensen e poi di mia figlia (chiedendomi come faceva a saperlo) iniziò a farmi le domande sul bebè in arrivo.
- Tu quando pensi di averlo concepito? – chiese con tonto di voce professionale ma allo stesso tempo delicato.
Era da molto che ci pensavo e l’unica risposta che mi veniva in mente era sicuramente Cayo Largo. 
- Al mio viaggio di nozze quasi 3 mesi addietro ormai. Non ricordo la data precisamente… - borbottai arrossando, visto le notti insonne passate tra le braccia di Jensen.
Alla dottoressa scappò un risolino e annuendo annotò a matita qualcosa su un foglio dove notai che al capo c’era scritto il mio nome di battesimo. 
- Adesso faccio “Ackles” dottoressa. Elisabeth Ackles, non più De Santis – confermai con un cipiglio.
La dottoressa scosse la testa: - Suo marito mi ha detto che per queste questioni è meglio usare il nome di battesimo… - disse tranquillamente, continuando a scrivere qualcos’altro. Io dubbiosa cerco delle spiegazioni: - Mio marito? E’ stato qui?  -. – No, è mio marito che mi ha dato le informazioni! Tranquilla nessuno sa che lei è qui in questo momento, a parte chi lei ha informato ovviamente! – concluse, poggiando la matita sul tavolo, e guardandomi per farmi altre domande di routine prima che possa farmi alzare per farmi mettere sul lettino.
- Pronta allora? – domandò formalmente, azionando televisori e macchinari.
Con sguardo accesso d’ansia annuisco, e scoprendo la pancia aspetto che mi passi il gel ma così non avviene. 
- Si tiri giù i pantaloni, questa è un controllo con la sonda transvaginale, devo controllare per bene e capire precisamente quanti mesi ha e altre cose che non sto qui ad elencarle come l’avvenuto annidamento dell’embrione oppure la presenza di una gravidanza gemellare, ma non penso che sia il caso giusto? Sa se nella famiglia di suo marito ci sono stati casi di gemelli? O magari nella sua… - domandò fissando la sonda che stava lubrificando con il gel, prima coperta da un preservativo, come di norma. Un po’ in imbarazzo fissai l’aggeggio che avrebbe infilato dentro di me, perciò non feci caso alla domanda, non prima di aver passato l’imbarazzante momento del “prenda un respiro e si rilassi”.
- Non credo ci siano gemelli, per quello sono tranquilla, credo… - borbottai, chiudendo gli occhi, pensando a quando fosse stato rosso il mio viso in quel momento. Sentii quella “cosa” strana, inumana e fredda dentro di me. Mi stava dando un leggero fastidio, ma riuscivo a sopportarlo.
- Eccoci qui! – esclamò la dottoressa accendendo lo schermo, che divenne seppia e d’un tratto sfocato. Solo poco dopo fu più chiaro e riconobbi qualcosa come un piccolo segno, allungato, strano, dentro la mia pancia. Quasi si muoveva…
- E’ lui? – domandai con un filo di voce.
- O lei… - sottolineò con voce dolce la dottoressa, facendomi salire le lacrime agli occhi. Com’era bello quell’essere piccino, piccino, dentro di me. 
I miei pensieri se ne andarono in panne, e la dottoressa non mi risveglio nemmeno. Dopo quasi quindici minuti a fissare lo schermo, sentivo solo lo strano rumore di qualcosa che veniva stampato, poi la dottoressa ruppe la bolla perfetta che si era creata tra me, lo schermo e l’essere umano che stava crescendo dentro la mia pancia.
- Tenga, si pulisca un po’ – mi sussurrò docile, porgendomi una tovaglietta di carta, per ripulirmi dal gel. Con un paio e veloci mosse, mi pulii e con discretezza, lasciandomi sola, la dottoressa mi permise di rivestirmi con tutta la calma del mondo, mentre ancora i miei pensieri volavano a quella persona dentro di me. Quella creatura che si stava formando, lentamente. Colui o colei che portavano il mio stesso sangue, e quello di Jensen. Insieme.
- Elisabeth, vuole avvicinarsi con me alla scrivania? – chiese la dottoressa uscendo di nuovo dal proprio spogliatoio, dove sembrava essersi lavata le mani. La seguii e mi sedetti nella sedia che aveva occupato poco prima. Mentre lei riapriva la mia cartella, scrivendo un paio di cose, annuii sorridente, rivolgendosi a me di nuovo con quel suo tono di voce rassicurante, o almeno così a me sembrava.
- Posso dirle che è tutto apposto. Il battito cardiaco, lo sviluppo, tutto in generale va alla grande. Penso già di poterle dare la data per il prossimo controllo, anche se ci potessero essere dei problemi, non si scomodi ad avvisarmi: io sono sempre qua, e se ha bisogno questo è il mio biglietto da visita! – sussurrò, porgendomi un piccolo cartoncino. 
- Dietro le ho prefissato la data, e non mi resta che dirle alla prossima volta, per sapere il sesso del bambino! – esclamò sorridendomi.
- Bene, grazie mille! – esultai quasi, alzandomi dalla sedia per porgerle la mano. – Alla prossima, e non si dimentichi di portare suo marito! – sottolineò ridendo la dottoressa.
Io alzai le spalle e uscii fuori, stringendomi nel maglioncino bianco.
Quando salutai la segretaria e misi piede fuori d’ambulatorio, dove i primi raggi di un sole, tra le nuvole, volevano illuminare la città.
Sembrava così perfetto quel momento, che avevo pensato fosse troppo un sogno che realtà. Stranamente alzando lo sguardo che tenevo sempre basso, notai due-tre uomini camminare paralleli al mio passo, fin al marciapiede. Le loro macchina facevano rumore, continui click segnavano le foto. I paparazzi continuavano a fare il loro lavoro. Rieccoci da capo.
Portandomi la giacca, la borsa e il cellulare davanti alla pancia come a voler coprire l’evidenza, afferrai la chiave dell’auto dentro la tasca esterna della borsa, e aprii svelta la macchina, entrandovi. I paparazzi continuarono a fotografare, fin quando sfinita, con un sospiro, diedi gas, e sgommai per ritornare a casa. 
Se avessi voluto fare una sorpresa a tutti, questa era stata ben rovinata da persone che facevano il mio stesso lavoro, ma con ben poca molta differenza: il mio era serioso, il loro soltanto pure e semplice gossip.
 
- Stop! – , urlò Singer, da dietro la tv dove stava guardando la registrazione in diretta.
- Ma siete fatti ragazzi? Non sembrate nemmeno voi! Jensen che ti prende? Suvvia, sono solo poche battute! – esclamò un poco arrabbiato, prendendosela con mio marito. Rattristata, sospesi con un braccio la macchina fotografica, pronta a fare un altro paio di scatti prima di finire quella scena.
- Mi dispiace Robert, sono un po’ fuori ultimamente. Stanco facilmente, la bambina mi porta via ore… - sussurrò Jensen con sguardo smarrito, cercando tra la folla Aurora, che stava facendo i suoi compiti sulla sedia del padre. 
- C’è tua moglie per quel lavoro, tu pensa cinque minuti solo a Supernatural! Poi puoi dedicarti tutta la giornata alla famiglia, ma questa scena è importante, ti prego, concentrati! Pronti al ciak per favore! – esclamò di colpo, facendo mettere tutti sull’attenti, perfino le truccatrici che erano corse per dare un’aggiusta ai fratelli Winchesters con l’angioletto M, come lo chiamavo io.
M per Misha, e non per Castiel. Amavo tantissimo M, ma non lui, la Judi di 007, ovvio.
- Supernatural…Scena… - le parole si persero nella mente quando un piccolo capogiro mi costrinse ad appoggiarmi ad un ragazzo della troupe. Quando mi ripresi, fissai Jensen che stanco cercava di ripetere la parte per bene. 
Forse era meglio non dirglielo…fin quando non se ne sarebbe accorto da solo. In fondo non potevo dirglielo proprio ora. Stava soffrendo come un cane, la vita da padre non faceva per lui. Questo figlio stava arrivando in un momento un po’ sbagliato. Jensen non era pronto per diventare padre.
- E’ tutto okay? Sei pallida – borbottò a bassissima voce il ragazzo a cui mi ero appoggiata. Quasi non lo udii per il forte rumore che la testa produceva dentro le mie orecchie.
- E’ solo un giramento… - sussurrai appena, lasciandomi andare tra le sue braccia per sbaglio.
- Ehi – esclamò piano, quasi infastidito.
- STOP! – urlò di nuovo Robert. - MA CHI PARLA? DICO CHI PARLA MENTRE STIAMO GIRANDO? SILENZIO! SILENZIO PER FAVORE, QUANTE VOLTE DEVO RIPETERVELO? – sbraitò frustrato, scagliandosi contro l’intera crew.
- Signore… - esclamò di colpo il ragazzo accanto a me. Velocemente gli tirai la manica facendolo zittire e rimettendomi in piedi, mi avvicinai alla sedia di Jared dove mi sedetti chiudendo gli occhi.
- Mamma, cosa succede al signor Bobby? – domandò Aurora, fissando prima lui, poi me e infine le sue espressioni algebriche.
- E’ l’età tesoro, lascia stare… - borbottai prendendo un sospiro, trattenendo un respiro, per la nausea che mi stava asfissiando di colpo.
- Devo andare in bagno… - sussurrai passandole vicino per lasciarle una carezza. – Non fare arrabbiare nessuno – conclusi, poco dopo scappai correndo verso il water più vicino.
Appena fui fuori dal bagno e ritornai sul set, trovai un po’ tutti a girovagare per la stanza del set, dove c’era in corso una pausa. Lasciai che la macchina fotografica mi pendesse sulla pancia che si notava un po’ di più. Le mie mani scivolarono quasi meccanicamente ad accarezzare quel rigonfiamento e poi corsero ad afferrare la macchina fotografica, alla vista di Jensen che mi veniva incontro.
- Tutto okay? – sussurrò appena, stringendomi un fianco con una mano. Mi scostai appena quasi scottata.
- Si, tutto okay. Tu? Non sembri abbastanza concentrato oggi – sottolineai la parola concentrato ed indicai le camere di riprese.
- E’ vero, non so…ho dormito poco stanotte – sussurrò, provando a stringermi di nuovo a se, ma mi scostai, e mi vicinai alla sedia dov’era seduta Aurora che faceva ancora matematica.
- Tutto apposto tesoro? – domandai sorridendo ad un viso abbassato, intendo a scrivere con meticolosità.
Mi abbassai la testa per vedere cose stesse scrivendo di così importante, quando notai il foglio bianco e nero, macchiato di lacrime. 
- Tesoro, perché piangi? – domandai in italiano, stupii sia Jensen che mi venne dietro ed Aurora che alzò lo sguardo rigato da acqua salata.
- Mamma, ho sentito dire certe cose, su di me…al-alcuni hanno detto che-che… - singhiozzò e si nascose di colpo tra le mie braccia. La strinsi al petto forte, e la consolai.
- Che cosa? – domandai sempre in italiano, preoccupata.
-What’s happened? Why she burst into tears? – Jensen si unii alla discussione, parlando nella sua lingua.
- I don’t know. I’m in searching of understand her! – sbottai, voltandomi a lanciargli uno sguardo irritato, e abbassandomi dolcemente verso la mia bambina, cercai cosa volesse dirmi.
- Cosa c’è tesoro? – richiesi, accarezzandole il dolce viso a cuoricino.
- Ho-ho sentito dire a-ad alcuni degli uomini che la-la-lavorano qui che io-io… - singhiozzò di nuovo e altre lacrime le caddero dalle guance. 
- Cosa tesoro? Che tu? – domandai, asciugandole con i pollici le lacrime.
- Che io-io sono un peso per-per papà. Che io pote-tevo restare in Italia. Mamma io voglio restare qui co-con te! – mi strinse forte in un abbraccio e pianse nel mio collo. Cercai di farla alzare dalla sedia, ma Jensen non me lo permise. 
- Mi spieghi tesoro, che succede? – chiese in inglese ad Aurora, attirando la sua attenzione. 
Aurora prima che parlasse, le sgranai gli occhi e le feci no con la testa, lentamente e impercettibilmente.
- Io-io non vado benissimo a-a scuola… in-in matematica faccio-faccio schifo! – borbottò, piangendo fintamente. Sorrisi sotto i baffi, notando quando invece fosse una brava attrice “drammatica”.
- Oh piccola, tranquilla. Adesso papà ti aiuta… - sussurrò dandole un bacio sulla tempia. Aurora sorrise appena, e stringendolo in un frettoloso abbraccio, lasciò che il padre le elencasse i primi due punti della sequenza algebrica. Poco dopo suonò la sirena iniziò ripresa, e Jensen seccato lasciò me ed Aurora con una brutta parolaccia.
- Potresti evitare, lo sai… - lo rimbeccai, lasciandogli uno sguardo di rimprovero. Lui corrugò la fronte e scuotendo la testa, distratto e pensieroso si riportò davanti la telecamera.
Voltandomi verso Aurora le afferrai una mano, e  l’invitai ad uscire dalla stanza, dirigendoci lentamente verso la reception dove ci aspettava Thomas e Jessica. Appena Thomas ci vide arrivare, dal suo seggiolino, iniziò a lanciare gridolini che riempirono l’enorme atrio.
- Piccolo della zia – dissi, sganciandolo e prendendo in braccio per fargli fare l’aeroplanino.
- Ciao zia Jessy – salutò Aurora, dandole un bacino, sedendosi poi nella sedia libera dietro il bancone.
- Ciao tesoro. Come stai? – le chiese, giocando con i suoi lunghi capelli. Sorrisi per quel gesto tenero, e strinsi in un grosso abbraccioThomas che iniziò a giocare con i miei capelli.
- Insomma… - sussurrò la bambina, provando a concentrarsi sui compiti.
- Tesoro quello che è successo non è niente, suvvia… - borbottai, cercando di sviare l’argomento. Jessica vi si intrufolò immediatamente, facendole dire le parole magiche ad Aurora.
- Qui agli studios mi odiano – borbottò, cancellando qualcosa con la penna.
- E perché? – domandò sbigottita la mia migliore amica.
- Perché papà non è … -.
- Adesso basta Aurora, non è vero. Tuo padre è bravo, e tu non sei di meno come figlia, quindi smettila di pensare a queste cose! – esclamai irritata, cercando di attenuare quel dolore strano, che si stava allargando lentamente nel petto.
- Ma cosa è successo? – domandò preoccupata Jessica, fissandomi con sguardo curioso e accigliato allo stesso tempo.
- Niente, solo un paio di disguidi sul set – conclusi, lasciando che Jessica prendesse in braccio suo figlio, mentre il telefono iniziò a squillare e Thomas a piangere per chissà quale motivo, mentre Aurora borbottava che non era vero. Che era tutta colpa sua.
Chiusi gli occhi  e mi portai una mano sul petto, come per opprimere quel strano battito cardiaco così accelerato, che…vidi di nuovo come prima. Sfocato, e sentii i rumore ovattati.
Le mie gambe cedettero, e mi lasciai avvolgere dal freddo pavimento.
- Oh mio Dio, Elisabetta! – sentii dire. Poi sospirai piano, e lasciai che il tempo stesse al tempo.
 
Sentii un odore sgradevole. Strinsi forti gli occhi e smossi una mano per togliere via quel puzzore.
- Si sta svegliando, lasciatele un po’ di aria… - borbottò qualcuno irritata. Jessica si. Era lei. Aprii lentamente gli occhi. La schiena scomoda era ancora appoggiata a terra. Già. Ero svenuta di nuovo.
- Quanto tempo? – domandai con la voce impastata, o forse era perché avevo dell’ovatta.
- Pochissimi minuti. Tutto apposto? Ti fa male qualcosa? – domandò qualcuno alla mia destra.
- Si, tutto okay, credo… - alzai la schiena e lasciai che mi ritrovassi seduta intorno a un paio di persone.
- Mamma, mamma, come stai? – domandò preoccupata la mia dolce Aurora, inginocchiandosi e abbracciandomi forte.
- Sto bene…sto bene.. – sussurrai poco convinta. 
- Vado a chiamare papà! – esclamò sgusciando via per poi farsi largo tra le persone. Cercai di riacchiapparla ma non riuscii. Perciò la chiamai perentoria.
- No Aurora, torna qua! Papà sta lavorando!... Aurora! – gridai arrabbiata, alzandomi per raggiungerla.
La ragazza si fermò e voltandosi rossa in viso, alzò le spalle tristemente, avvicinandosi di nuovo a me.
- Papà sta lavorando, lascialo fare… - borbottai, facendomi sentire solo da lei, le appoggiai una mano sulla spalla e avvicinandola a me, andai alla reception, prendendo un post-it.
- Jessica?- richiamai dalla folla che si stava diramando per tutto l’atrio degli studios.
- Si tesoro? – domandò, avvicinandosi di nuovo alla sua postazione con Thomas in una manina, che camminava piano e stentatamente.
- Se Jensen ci cercasse, o chiunque altro, segui questo post-it! – dissi, attaccandoglielo a vista, dove non se lo sarebbe scordato.
- Okay, vai a casa? – domandò preoccupata. Io annuii e tornando indietro, in religioso silenzio, afferrai giubbotto e borsa, e lasciai insieme ad Aurora il palazzo.
 
- Mamma? -.
Aurora silenziosa, aveva fatto i compiti per l’intera serata, in cucina insieme a me. Quando mi lasciò andare solo per preparare la cena, era diventata così silenziosa che mi ero preoccupata se si fosse addormentata sui compiti, ma invece la vedevo scrivere e disegnare.
Quando mi voltai al suo richiamo, dopo quasi un’ora di lavoro, notai cosa aveva fatto.
Un bellissimo disegno della nostra famiglia, molto realistico e ben fatto per una bambina di appena sette anni.
- Siamo noi? – domandai orgogliosa, notando che la mia dolce ragazzina stava in mezzo ai suoi amici-genitori, mentre una nuvola copriva un sole, dove fuoriuscivano due visi così simili al suo.
I suoi veri genitori, era bello vedere che li ricordava.
E che li amava.
Calde lacrima di felicità mi bagnarono la guance, e sedendomi nella sedia accanto alla sua la strinsi a me, e fissai ancora più attentamente quel disegno vivace e pieno di colori.
- Io, tu, papà, e gli angeli custodi. Guarda mamma, ti piaci? Anche con la pancia sei sexy! – borbottò scherzando.
Risi divertita, e le arruffai i capelli. – Sexy eh? Divertente! – dissi, notando che la mia pancia era un po’ gonfia ai lati. 
- Vorresti un fratellino o una sorellina? – domandai ridendo. Lei alzo le spalle e non se ne fece una ragione. – Chiunque sia, vorrò semplicemente scegliere il nome, tutto qui… - disse sorridendomi e stringendo piano le braccia intorno alla pancia.
Appoggiai la testa alla sua, e lasciandole un bacio, la strinsi a mia volta.
- Vedremo, vedremo… - sussurrai, chiudendo gli occhi, lasciandomi cullare dal suo dolce mormorio.
 
- Sono a casa – disse una voce stanca. Erano le undici quando riaprii gli occhi e sentii la porta principale aprirsi e richiudersi con un leggere tonfo.
Il foglio con il disegno che avevo tenuto sulle gambe, fissandolo per almeno un’ora prima di chiudere gli occhi, stanca, lo piegai e lo nascosi sotto il sedere, facendo finta di nulla, quando Jensen sbucò dal corridoio, non prima di aver dato un’occhiata come sempre, alla stanza di Aurora, dove dormiva bellamente ormai giunta al terzo sonno.
- Ehi, tesoro -  si avvicinò al divano, e abbassandosi mi lasciò un lungo bacio sulle labbra, fredde e screpolate per la temperatura esterna.
- Tutto okay? – domandai, sorridendogli appena, lasciandogli anche una carezza.
- Abbastanza. Per oggi abbiamo finito. Tu come stai? Aurora? Passato il pianto? – domandò preoccupato, facendo il giro del divano per sedersi al mio fianco.
Mi voltai di faccia, e lo fissai appoggiare il collo sulla spalliera.
- Abbastanza – “non dire proprio” pensai, comunque. Quella storia “dell’Aurora di troppo” doveva finire.
- Posso andare a parlare con la professoressa, magari potrà capire che la ragazza non è adatta alla sua materia no? – domandò, voltandosi a guardarmi con occhi stanchi.
Scossi la testa, e feci una smorfia con le labbra. – No, è tutto okay! E’ solo una questione momentanea secondo me… - sussurrai. – Passerà. Ma tu… stai bene? Insomma oggi non è andata alla grande sul set. Singer ce l’aveva con te, e non capisco questo accanimento sul fatto di… - mi tappai la bocca, senza rendermi conto che stavo citando mia figlia. Non volevo citarla, facendo capire a Jensen quello per cui oggi Aurora, piangesse.
- Di? – mi esortò. – Di recitare…ma niente, lascia perdere. Sono stanca voglio andare a letto – sussurrai, alzandomi dal divano. Sentii la mia mano stringersi ad una della sue grandi. Mi voltai a fissarlo. Il suo sguardo fu di preoccupazione.
- Ti trovo strana ultimamente. C’è qualcosa che devi dirmi? – domandò, guardando le nostre mani unite.
Corrugai la fronte e mi apprestai a guardare le nostre mani, strette una all’altra. Poi rilassandomi lasciai che lo fissassi dritto negli occhi e alzando le spalle, scossi la testa.
- Se c’è un problema basta farmelo sapere – costatò lasciando andare il nostro legame, con un bacio a fior di pelle.
- Okay – sussurrai, abbassandomi per un veloce bacio sulle labbra.
Stavo iniziando a sentirmi in colpa. Dovevo dirglielo.
 
Lasciai che l’acqua calda, portasse via le lacrime che mi avevano bagnato il viso, al ricordo di tutti i brutti ricordi che mi avevano assalito nella disperazione della consapevolezza di non aver avuto il coraggio di dirglielo. 
Codarda. Codarda. Codarda. Ecco la parole che continuava a perseguitarmi dietro i quattro vetri della box doccia, dove l’acqua calda scorreva a fiumi, bagnandomi la pelle, alleviando i dolori, e sciogliendo le lacrime.
Come potevo riuscire a mantenere ancora dentro di me quel senso di colpa? Sarei uscita fuori di testa; ero già impazzita. Dovevo farlo. 
Ma non potevo dirglielo.
Come l’avrebbe presa? Sarebbe uscito fuori di testa subito dopo di me, se l’avesse saputo. 
Dovevo farlo. Dovevo ritornare dalla dottoressa fin quando ero in tempo.
“No.”. “No.”. “Tu lo vuoi. Fallo.”. “No.”. Mi tappai le mani alle orecchie e le strinsi forte, cercando di non sentire le voci che dentro la mia testa sembravano prendere forma. Scossi la testa, e cercai di lavare via quell’insolita forma di pazzia.
Dovevo farlo. Dovevo dirglielo.
- Lo farò -, sussurrai, convintissima, aprendo gli occhi per cercare lo shampoo tra le altre boccette.
Una mano la prese per prima, e stringendola nel suo palmo, se ne spruzzò un po’ nell’altro, per poi avvicinarsi al mio capo. 
Mi raddrizzai di colpo, dandogli la schiena.
- Lascia che ti aiuti – dissi, cercando di prendere il suo posto, ma le sue mani mi cacciarono via, e le sue dita abili, iniziarono a lavorare in un massaggio circolatorio.
Quando ormai i capelli furono pieni di schiuma, si preoccupò di sistemarmi sotto lo getto d’acqua per toglierla via. Appena furono sciacquati, afferrai la boccetta del bagnoschiuma per una veloce strofinata al corpo, dovevo scappare via. Subito.
- Voglio farlo anch’io, lascia stare… - sussurrò, afferrandomi le braccia da dietro, obbligandomi a ruotare verso di lui.
- No lascia, faccio io! –, cercai di allontanare via le sue mani, ma rese scivolose, non riuscii ad avere una presa ferrea.
- E’ tutto okay, non ti vergognare amore, sono solo… io -.
Le sue mani caddero senza rendermene conto, sui fianchi che leggermente ampi, facevano pensare a tutt’altro,  e non ad un paio di chili presi in più.
Le sue dita si strinsero leggermente, e obbligandomi a voltarmi, abbassai lo sguardo, notando le vene sul suo collo, un poco gonfie.
Solo leggermente…
- Jensen io…posso spiegare…cioè –, avevo iniziato con un piede sbagliatissimo.
- Sei…sei incinta… ? – non capii se fosse proprio una domanda o una costatazione, ma quando alzai lo sguardo sul suo, fisso sotto il petto, e sopra il mio inguine, imbarazzata, mi lascia tra le sue braccia, appoggiando la fronte sul suo petto liscio.
- Sono incinta, aspettiamo un bambino e non volevo dirtelo perché… - le parole mi morirono in gola, mentre un singhiozzò scosse il mio petto.
- Elisabeth…perché? – domandò con tono di voce tremante, tra il rumore dell’acqua che cadeva giù e i miei singhiozzi.
Io…non seppi rispondere.
 
*spazio autrice*
 
Eh, eh, e siamo al penultimo capitolo. Voi mi chiederete ma lo fai finire così il capitolo? Proprio ora che siamo alla fine? Bhè, ihih, direi proprio di si u.u ma tranquille. Davvero, TRANQUILLE! ;D
Per il resto, non ho altro da aggiungere, se non che ci vediamo al prossimo e ultimo capitolo. 
Ormai ci siamo!
E’ quasi finita, e…mi viene di urlare e piangere. Insomma, mi sarebbe piaciuto farla durare per sempre, ma andava finita così u.u
O meglio quasi, perché la prossima è l’ultimo, forse… :)
 
VI RICORDO LA MIA NUOVA STORIA, IN VIA DI SVILUPPO (sto scrivendo il secondo capitolo, datemi tempo eh! u.u) in cui c’è di nuova JENSEN ACKLES e SYBIL (nuovo personaggio). Una storia d’amore tra la follia, i ricordi e la mia fantasia stravagante e pazza. xD
 
La vita che avrei voluto (cliccate sul link per entrarci).

 
Xoxo Para_muse
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 29
*** Call ask “why” about love ***


ECCOCI ALLA FINE. CI VEDIAMO DI SOTTO :D



Capitolo 29
 
Call ask “why” about love
 
Uscii dalla box doccia, avvolgendomi frettolosamente nell’accappatoio bianco, e stringendomi in vita la cintura morbida, scappai nella stanza da letto a vestirmi.
I passi silenziosi e bagnati di Jensen mi seguirono.
- Voglio saperlo – disse, stringendomi un polso, facendomi voltare.
- Perché? – domandò per l’ennesima volta.
Il mio mutismo non lo fece demordere. Era convintissimo nel farmi parlare.
- Non lo so. Non lo so, sul serio Jensen. Non ne ho idea… - sussurrai, cercando di sviare e di sciogliere delle sue dita, con la mano libera.
La prese, invece che allentarsi, si fece più ferrea e, corrugando la fronte lo fissai irritata. – Lasciami andare per favore, mi fai male… - sussurrai. 
A quelle parole, mi ubbidì come scottato, ma non si tirò indietro, non mi lasciò spazio per sfuggire. Mi rinchiuse tra le sue braccia appoggiate al muro.
- Parlami – sottolineò.
- Che cosa devo dirti? Sono incinta non ti basta? – esclamai con voce squillante e irritata. Le mie parole ferirono il suo scudo, e i suoi occhi si allargarono impercettibilmente sotto il mio sguardo, riempiendosi di rabbia e quasi follia.
- Certo che mi basta, ma non fa la differenza. Perché non me l’hai detto? Sono chi tu dici di amarmi, sono tuo marito. Io dovevo saperlo… - mi urlò contro, afferrandomi per le spalle, scuotendomi avanti e indietro.
Le sue parole mi perforarono la mente e il cuore. Capii solo adesso quando ci fosse rimasto male.
- Jensen io, io credevo che Aurora per te fosse abbastanza e… un altro bambino in arrivo…pensavo che per te fosse troppo – sottolineai la parola “abbastanza” e “troppo” e mi lasciò con una spinta facendomi sbattere contro il muro.
Si voltò, appoggiando una mano sul telaio del nostro letto. Abbassando lo sguardo, si portò la mano libera sul volto, come per togliere via tutti quei brutti pensieri.
- Da quanto tempo? – domandò, voltandosi con il viso nella mia direzione. Alzai lo sguardo e lo fissai con le lacrime agli occhi.
- Da circa… - tirai su con il naso, e passai la manica dell’accappatoio per togliere via le lacrime. – Da circa tre mesi, a breve avrò un’altra visita… - chiarii.
Sembrò andare su tutte le furie. Si voltò di colpo e mi fissò colpevole: - Sei già stata dal medico, senza dirmi nulla? – domandò isterico.
Non risposi, feci solo si con la testa.
- E non hai avuto un minimo di ripensamento? Solo il senso di colpa di aver fatto tutto da sola? – domandò avvicinandosi, mentre la sua mano si stringeva in un pugno.
Cercai di tirarmi indietro, come per cercare riparo. Le parole che avrei voluto dire, non sarebbe stato mai sufficienti, perciò decisi che un secco “no” seguito da un’alzata di spalle, sarebbe stato preso comunque come una risposta banale e gravosa alla situazione.
- Non può essere vero… hai nascosto… - si bloccò di colpo, fissandomi con occhi socchiusi.
Chissà cosa gli stava passando per la testa, ricordai solo il gemito di rabbia che gli uscii dalle labbra, prima che potesse sibilare quelle parole che mi ferirono il cuore e l’anima:
- Il bambino… è mio? -.
Come aveva potuto pensare una cosa del genere? L’emozioni mi assalirono così velocemente che non ci vidi più dalla tristezza e dalla rabbia. La mia mano fredda corse sulla sua guancia calda e barbosa. Lo schiaffo risuonò per tutta la casa silenziosa.
- Io. Non. Sono. Una. Sgualdrina – sillabai con poca voce, stringendomi l’accappatoio al petto.
- Io non pensavo che tu lo fossi, solo che… - un altro schiaffo partì a raffica, prendendolo in piena spalla.
- Esci. Fuori. Da. Casa. Mia! Adesso! – sottolineai, indicando la porta con un braccio.
Il suo sguardo si allargò appena, mentre la mano sinistra continuava a massaggiarsi la mascella.
- Io non vado da nessuna parte… - borbottò, voltandosi per darmi le spalle.
Mi strinsi ancora di più nel grande telone, e raggiungendo la cabina armadio, lasciai andare giù l’accappatoio, iniziando a vestirmi.
Infilai i primi vestiti che mi vennero ad occhio, e quando con una semplice asciugata di tovaglia, mi pettinai i capelli in una coda bassa, afferrai la borsa e mi diressi fuori in corridoio.
- Elisabeth dove stai andando? – domandò con rabbia inumana (inusuale da parte di Jensen), venendomi incontro.
Mi voltai appena in tempo per descrivergli la parola “mostro” nella frase: - Non abito con un mostro -  per avvicinarmi alla porta aperta dove Aurora era spuntata sonnolenta, mentre si stava strofinando un occhio.
- What’s up, mom? – domandò la ragazza, semi addormentata.
- Vestiti tesoro, andiamo dalla zia -.
- Che cosa? – disse, fissandomi con occhi semi chiusi.
- Don’t listen your mother, you’ll stay here. Go back to sleep! – ordinò perentorio la voce di mio marito, anzi di uno sconosciuto.
- Lascialo parlare, prepara una piccola borsa tesoro, cinque minuti e andiamo – ribadii, lasciando la porta aperta, dirigendomi verso la porta che dava al garage.
-  Elisabeth! – mi richiamò Jensen, seguendomi, afferrandomi per un braccio.
- Lasciami andare! Non toccarmi! – gli urlai, cercando di mettere pressione al suo braccio.
La sua grande mano mi afferrò l’altro braccio e con uno scossone mi fermò in una presa salda. Uno dei suoi bracci si strinsero così forte al braccio che non lo sentii più. 
L’unica cosa sensata che riuscii a fare fu smuovere le gambe, ma anche quelle furono placcate al muro.
- Mamma! Papà! – urlò isterica Aurora, piangendo poco dopo, così normale per una bambina delicata e sensibile come lei.
- Lasciami andare, lurido bastardo! – dissi tra i denti stretti, mentre il suo sguardo incomprensibile cercava di placarmi. 
Quando le mie parole arrivarono dritto al suo cervello, e le sue mani mi lasciarono libera un’altra volta, non aspettai neanche un secondo: gli sputai in viso con tutto il ribrezzo che potevo avere.
- Mi fai schifo – borbottai, respirando con qualche difficoltà. – Se pensi che sia una sgualdrina, perché non mettevi incinta qualcuno di competenza?! – domandai curiosa di sentire la sua risposta. Ma il suo silenzio mi permise di chiudere in bellezza.
- Magari una puttana preferirà te, invece che una gruccia, come avrei tanto voluto fare io a Cayo Largo! – gli urlai contro, facendogli capire quando tutto ebbe avuto inizio.
E avesse avuto fine con un mal rovescio che mi arrivò dritto in guancia, facendomi cadere a terra.
- Ah! Smettetela! Smettetela! –. Mani gentili mi strinsero in un abbraccio protettivo, mentre mani poco gentili cercarono di farmi alzare da terra.
- Non ti permetterò di umiliarmi in questo modo. Sono sempre tuo marito, stupida donna che non sei altro! Come puoi pensare una cosa del genere? – mi urlò contro, sballottandomi. Aurora si aggrappò al suo braccio cercando di tirarlo via.
- Smettila! Lasciala andare! Non farle male! Jensen! – strillò piangendo.
Jensen non si scostò minimamente; almeno fin quando non ebbi un conato di vomito, e iniziare a sudare freddo per un forte dolore alla pancia.
Era il bambino.
 
- Buon Natale! – qualcuno venne ad urlarci contro, nella stanza da letto in Texas, dove io e Jensen dormivamo abbracciati e nudi.
Mi risvegliai un poco scossa e mi fissai intorno.
- Mackenzie? – borbottai spaventata, fissandola alla porta, mentre evitava di far entrare quattro pesti di nome: Aurora, Thomas, Daneel, Anna.
Nostra figlia, nostro figlioccio e le nostre due nipoti.
Tutti insieme appassionatamente a romperci le scatole insieme alla zia della situazione, per invitarci a scendere e a dare via ai regali.
I bambini chiedevano solo quello.
Perciò li invitai ad uscire, stringendomi al calore corporeo di Jensen, convincendoli con la promessa che saremmo scesi tra cinque minuti.
Che si fecero, dieci e poi venti, tra baci e carezze così intime e liberatorie, che mi regalarono un bel risveglio di Natale con i fiocchi.
- Buon Natale amore – sussurrò Jensen, lasciandomi un bacio a fior di labbra, risvegliandomi completamente dall’assopimento post-coito. 
Aiutò ad alzarmi, e ci dirigemmo entrambi in bagno. Chi si lavava il viso, chi i denti, riuscimmo dopo venti minuti a uscire dalla stanza in perfetto ordine e pronti per inizio alla festa di Natale.
Quando scesi le scale mi ritrovai quasi tutta la famiglia al completo.
Padalecki. Ackles. Ackles. Perconti. De Santis. Ferraro. Insomma eravamo proprio tutti al completo. Più di 15 persone.
Wow.
- Forza, forza, forza! Apriamo i regali! – esclamai, sbattendo le mani contenta, avvicinandomi all’albero che da quasi un mese torreggiava nel soggiorno di casa. 
I bambini erano contenti di poter finalmente aprire i loro regali. O almeno chi ormai era grande. Come Aurora. E Thomas. Per il resto Daneel o Anna, le rispettiva figlia di mia cognata e di mia sorella, non è che capissero molto.
Soli dolci visi stupiti a quei strani orsacchiotti o giocattoli che sarebbero diventati i loro prossimi giocghi della settimana; che poi verranno dimenticati nell’angolino insieme all’altro mucchio.
I più grandi si avvicinarono a prendere i proprio regali per donarli a chi indirizzato. 
Io ne ricevetti un paio (avevo perso il conto) ma ricordai benissimo la tutina verde per il dolce bebè in arrivo, o il braccialetto che mia sorella mi aveva regalato sia a me che al bambino in arrivo, sempre coordinato.
Oppure da non dimenticare il portafoto tutto sbrilluccicoso da parte di mia figlia. 
Con una bellissima foto dentro, scattata a Cayo Largo. Insieme, felice, e spensierati. Una bellissima famiglia riunita in vacanza.
Oh, quante lacrime iniziai a versare? Erano gli ormoni che iniziarono a fare tutto. Ma io dicevo no con la testa. Perché io sapevo quando valesse quella foto per me, anzi per noi tutti. 
- Ti amo mamma! – disse Aurora, prendendo con entrambe le mani il viso per un bacio sulle labbra.
Come se fossi veramente la sua mamma. Bhè lo ero. Perché mi stavo facendo tutti quei complessi? 
Lei era la mia dolce figlia. Lei era un dono sceso dal cielo. Dal primo giorno quando la vidi. Lì da sola, sulla spiaggia.
- Ti amo anch’io piccolina! – dissi, lasciandole una dolce carezza sul viso.
- Più di me? – domandò Jensen, spuntando da dietro le mie spalle, facendomi quasi spaventare. Mi voltai di colpo, e alzandomi dallo sgabello dove mi ero seduta, mi strinsi a lui in un abbraccio quasi di gruppo, con Aurora in mezzo.
- Il mio amore è uguale per entrambi. Siete importanti per me, mi avete cambiato la vita… - sussurrai, fissando prima uno e poi l’altra, sorridendo e piangendo allo stesso momento.
Non riuscii a fermarmi così subito. Mi era servita tutta la riserva di Klenex che c’era casa per tamponare tutto quel bagnato.
 
- Sono felice di vedervi di nuovo insieme signori Ackles. Finalmente ultimo mese eh? Pronti per il bambino o bambina? – eccitata la dottoressa, mi fece sedere direttamente sulla lettiga, facendomi alzare la maglia.
Il mio pancione comparì liscio e molto grande. Quasi mi stupii vederlo dopo quello che era successo qualche mese addietro. Lo spavento di poter perdere quell’essere dentro di me… aveva colpito entrambi. 
E quello che era successo al terzo mese di gravidanza, non sarebbe successo un’altra volta mai più.
Jensen non sapeva ancora come scusarsi. 
Bhè nemmeno io.
Fissai la pelle nuda appena un secondo, non amavo vedermi scoperta. Solo Jensen amava accarezzare la carne calda e liscia. Al solo pensiero della sua guancia appositamente rasata sulla mia pancia, per avere un contatto, era così bello che iniziai a piangere come una stupida.
- Cosa c’è? Stai male? Perché stai piangendo? – domandò di getto Jensen, stringendomi le mani nelle sue in una morsa protettiva.
- Elisabeth? Cosa succede? – domandò la dottoressa, tornando con un tono professionale.
Scossi la testa, e tirai su con il naso, cercando di togliere via le lacrime calde sulle guance arrossate.
- E’ tutto okay, solo ormoni! – borbottai, ridendo poco dopo da sola. Jensen quasi bianco invece, era spaventato e stava sudando freddo.
- Mi fai prendere un colpo ogni volta… - borbottò, stringendomi in un abbraccio, per come poteva.
La dottoressa, ritornando più tranquilla, afferrò il gel e spruzzando una generosa quantità sulla pancia, iniziò con la sonda esterna a passarla sulla pelle e a premerla in certi punti, facendo spuntare qualcosa sullo schermo nero.
- Mio Dio, che bello! – e piansi di nuovo come non avevo fatto mai, quando vidi quel bambino con un dito in bocca, e una mano sulla testolina come per ripararsi dai rumori o dalla luce.
- L’altra volta non si era fatto vedere vero? – domandò la dottoressa, voltandosi a fissarci entrambi. Un po’ sotto shock, rispose Jensen dicendo un “no” appena balbettato.
- Si è vero, il sesso non si sa ancora… - sussurrai, sperando che questa volta si riesca a capire un po’.
- Bhè posso dirvi che è un bel maschietto. Guardate qui – e la dottoressa indicandoci “qualcosa” capimmo che se quello non apparteneva ad un maschio, allora bhè…sarebbe stata una femminuccia con qualcosa da uomo.
Jensen quasi esultò saltando sul posto, mentre io mezza contenta e mezza no (in verità avrei preferito una femminuccia, ma andava bene lo stesso) mi voltai verso di Jensen per regalargli un bel sorriso di congratulazioni. Il suo pistolino aveva funzionato.
- Te l’avevo detto io che sarebbe stato un maschio Ackles! – esclamò, prendendomi il viso per un lungo bacio, che mi mise in imbarazzo, accaldandomi di colpo.
- L’aveva detto anche mia madre… - borbottai, voltandomi di nuovo verso la dottoressa, imbarazzata.
- Tranquilli, qui abbiamo finito, vi lascio un attimo da soli… - sussurrò, porgendomi un po’ di carta per pulirmi via il gel. Poco dopom quando Jensen mi aiutò scendere dalla lettiga con qualche difficolta, mi prese tra le braccia (per quando la pancia permettesse) e con un lungo bacio mi disse più di mille volte quanto mi amasse, e più di milioni di grazie per averlo perdonato.
Si, almeno ci eravamo perdonati.
Non avevo parole alla sua dolcezza e gratitudine di sempre.
- Ti amo anch’io, Jensen Ross Ackles. Ti amo da morire – sussurrai anch’io, stringendolo a me.
 
- Ti odio Jensen! Fatti più in la! – gli urlai quasi contro, voltandomi di schiena per cercare di riposare meglio.
Jensen saltò per aria, e guardandomi con occhi semi chiusi preoccupato, fissò la mia pancia nuda e scoperta.
- Cosa succede? – sussurrò assonnato. Gli lanciai uno sguardo d’odio e gli indicai il letto.
- Guarda! Guarda! Non mi lasci spazio! Io non riesco a dormire…sono incinta Jensen! Ho bisogno di spazio e del tuo… - afferrai il suo cuscino  e me lo infilai sotto il collo. Il suo odore sembrò rilassarmi un po’. - …grazie! – borbottai, chiudendo gli occhi e rilassandomi un poco.
- E’ il mio cuscino! Così dove dormo adesso? – esclamò frustrato, incollandosi alla mia testa per riposare anche lui.
- Togliti Jensen, non riesco a dormire, sul serio! Il bambino sta facendo le capriole e sto cercando di… - non mi fece finire di parlare, perché labbra umide, mi fecero il solletico. 
- Smettila, così lo svegli di più! – risi divertita, cercando di allontanare un Jensen-papà tutto preso dalle coccole.
- Alan, piccolo Alan, la mamma vuole dormire, lasciala stare… - sussurrò, accarezzando il dorso più in alto, con dita leggere, facendomi venire la pelle d’oca.
- Jensen – sussurrai appena, accarezzandogli i capelli in una dolce carezza.
- Alan la mamma ti vuole bene ma tu… -; il mio urletto lo fece fermare.
- Cosa c’è? – domandò preoccupato.
- Dammi la mano, guarda qui l’ennesima benevolenza di tuo figlio! Sta scalciando in questo punto… - sussurrai, afferrandogli una mano per appoggiarla poco più sotto sul seno destro, dove spuntava una forma quasi indistinta di piedino umano.
- Oh, sarebbe perfetto se…se… - quasi ruzzolò a terra, per scendere di corsa dal letto, impigliandosi con il lenzuolo.
- Dove vai? – domandai stupita, alzandomi sui gomiti.
- Prendo la macchina fotografica! – esclamò, andando in soggiorno, cercando di fare piano. Quando tornò, sorridente, impugnò immediatamente la macchina fotografica con flash e… click.
Click. Click. Click.
- Non bastano già? – sussurrai, allungando una mano perché mi passasse la macchina, facendomi vedere le foto.
Tornando a letto, iniziammo a vedere alcune foto anche passate. Anche vecchissime.
Notai anche foto molto vecchie. Tipo Jensen sul set.
- Queste foto sono vecchissime… - sussurrò lui appunto.
- E antiquate oserei dire… - , notando quando fossi un poco spratica a quei tempi.
- Già, ma ora sei fantastica…soprattutto adesso che sei incinta. Hai molta fantasia… - sussurrò, lasciando che la macchina fotografica cadesse sul comodino con un tonfo, mentre le sue labbra percorrevano lungo la mia spalla, sul mio collo e sul mio viso e sul…
- Jensen… - sussurrai in mancanza d’aria.
- Mmh? –.
- Fermati – borbottai, allungando una mano sulla sua spalla, mentre l’altra quasi impaurita si allungava tra le mie cosce.
- No… - sussurrò, lasciando che le sue labbra restassero sulla mia pelle, mentre le mie dita toccavano qualcosa di bagnato e appiccicoso. 
Non era semplice pipì.
Il mio urletto si tramutò in un singhiozzò fermo in gola, cercando di non fare l’isterica, dissi all’orecchio di Jensen cosa era successo.
- Mi si sono rotte le acque Jensen… - .
- CHE COSA? – urlò, tirandosi indietro per saltare in aria.
 
- Ti strozzerei con queste mani, se non le stringessi a pugni per il dolore! Son of the bicth! – gli sputai contro, con gli occhi fuori dalle orbite per il dolore alla schiena e nei bassi fondi.
- Scusami, scusami, scusami! – borbottava Jensen, saltando su un piede e su un altro, come per cercare di fare qualcosa.
- TI ODIOOO! – strillai, cercando quasi a morsi di raggiungerlo, mentre la dottoressa cercava di farmi calmare, e Jessica, continuava a mugolare per il dolore alla mano.
- Non dirmi questo! Lo sai che è il contrario! – borbottò Jensen, avvicinandosi un poco. Sbraitai come un leone e lo allontanai con una mossa.
- Elisabeth! – quasi strillò preoccupato della mia reazione.
- Signor Ackles, per favore non la provochi, la farà stare peggio, e sentirà di più il dolore! – esclamò quasi irritata la dottoressa, a mio marito che restò a dir poco di stucco.
- Ma ce l’avete con me?! – domandò corrugando la fronte, mentre cercava di richiamare rinforzi ovvero Jared che se ne stava fuori con i bambini.
- Non ti azzardare a chiamare nessuno! Devi vedertela con me! – sottolineai, stringendo gli occhi a fessura, mentre le contrazioni si facevano sempre più lunghe e dolorose.
Gemetti di dolore, piegandomi quasi a libro per attenuarlo.
- JENSEN! – strillai piangendo.
- Sono qui amore mio, sono qui! – disse, quasi speranzoso, avvicinandosi, stringendomi le mani al posto di Jessica.
- Jensen devo dirti una cosa… - sussurrai, appoggiandomi di nuovo sul cuscino per cercare di rilassarmi un poco prima della prossima contrazione.
- Cosa? Cosa amore mio? – disse, portandomi indietro i capelli umidi.
- Azzardati a infilarmi quel coso di nuovo tra le cosce e ti picchierò ogni qual volta che ti avvicinerai a me! – sussurrai, afferrandogli il mento per un bacio quasi contradditorio.
- Okay, non lo farò più! Elisabeth? – sussurrò con un sorriso divertito.
- Cosa? – domandai, respirando a pieni polmoni.
- Ti amo -.
- Perché? – domandai di getto, riaprendo gli occhi che avevo stretto a fessura per una contrazione in arrivo.
- Sai che si chiede perché in amore… – sussurrò dolcemente, guardandomi dritto negli occhi per lasciarmi un lungo bacio, mentre i primi impulsi di una spinta mi fecero staccare le labbra dalle sue per un urlo lancinante e pieno di dolore.
Fu solo pochi attimi dopo. Alle 00.00 in punto, sentii il vagito del mio dolce Alan. 
Alan Michael Ackles.
- Dov’è? – domandai, cercando in mezzo a tutte quelle persone. 
- E’ qui, eccolo il mio secondo genito! – esclamò Jensen, tenendo tra le braccia qualcosa di bagnato e strillante.
Click. Click. Click.
- Cosa? Dove? – abbagliata dai flash, stanca e sfinita… chiusi gli occhi e lascia che l’incoscienza mi avvolgesse.
- Elisabeth? Alan, ti sta cercando… - sussurrò una voce dolce, mi risvegliai un poco curiosa, piena di adrenalina.
- Dove? Mmh? – aprii gli occhi e ritrovai la stanza vuota, a parte un bambino con occhi azzurri chiarissimi, e capelli biondo castani che fissava qualcosa in un punto indefinito.
- Come stai? – domandò Jensen, dondolando il piccolino avanti e indietro nella tutina bianca con su scritto: - “Sono figlio di un cacciatore”? – lessi, ridendo come una strafatta.
- Si, non è adorabile il mio piccolo demone? – domandò, abbassando il viso per fissare il figlio che rise, quando gli tocco il nasino con un dito.
- Jensen? Sul serio… un demone? – domandai ridendo, allungando un braccio verso di lui, per farmi dare il mio piccolo “demone”.
Jensen me lo porse piano e cautamente. Quando lo tenni tra le braccia, la prima cosa che feci fu allungare una un dito tra le sue piccole e strette ad un pugno, che si allungarono  per stringersi forte intorno all’indice.
- Guardalo, com’è tranquillo con te… - sussurrò, toccandogli la pancia come a fargli il solletico.
Il bambino si disturbò appena, poi si voltò verso il petto aprendo la bocca per cercare qualcosa.
- Oh, la dottoressa aveva detto che prima o poi l’avrebbe fatto… praticamente vuole il tuo latte, ti ricordi quando… - lasciò il discorso in completo, quando con mosse quasi meccaniche, e un poco imbarazzante, lasciai che il seno si scoprisse quasi da solo, mentre il bambino come attratto con la calamità, si attaccò al mio seno, ciucciando forsennatamente.
- Ammazza! – esclamò Jensen ridendo divertito.
- Avete bisogno di sale? – spuntò Padalecki dal nulla, agitando qualcosa di rosso e lungo: sale in pacco.
- Ma no! Ahahah! – Jensen si piegò dalle risate, mentre io cercavo di concentrarmi e non sputacchiare per le risate su Alan, che stava iniziando ad agitarsi.
Così ebbe iniziò la mia vita di mamma. Tra risate, sale, due cacciatori (quasi fratelli) e un bambino forse demone, ebbe inizio la mia vita.
- Allora preferite dell’acqua santa? – domandò Jared, uscendo dalla giacca una fialetta grigio con una croce sopra.
- Allora come va? – spuntò dietro le spalle di suo marito, Jessica.
- Non so, tuo marito sembra un tantino ubriaco…cosa gli hai dato a bere? – domandai, ridendo a scatti, cercando di trattenermi.
- Jared che combini? – domandò sua moglie, fissandola contrariata.
- Io niente, solo… - mostrò gli oggetti a sua moglie, e si beccò in pieno uno scappellotto sulla nuca.
- Ahi, ma che cosa ho fatto? – 
- Mammaaa! Aliuto! Aliuto! – urlò la voce di Thomas, correndo a nascondersi dietro la gamba della madre, urlando, facendo spaventare Alan, che saltò in aria tra le mie braccia, iniziando a singhiozzare e a piangere, strillando e diventando rosso.
- Cosa succede? – domandò Jensen quasi arrabbiato.
- Thooomas! – qualcuno fece il verso di un mostro, entrando con una maschera di plastica a forma di mostro. Aurora. E chi sennò?
- Aaaah! Aliuto! Mamma! Papà! Demone! -.
- Thomas smettila, è Aurora! –.
- Aurora, togliti quella cosa di dosso! Quante volte te lo devo dire, tesoro? – la sgridò Jensen avvicinandosi a lei.
- Thomas, sii un cacciatore! Tieni il sale, forza! – incitò Jared suo figlio, lasciandogli tra le mani un mucchietto di sale, che Thomas non esitò a lanciare addosso ad Aurora che isterica, iniziò ad urlare a Jared.
- Ma perché? No! – strillò, spingendo l’omone che se la rideva, parandosi dalle mani minacciose di una bambina di otto anni e di sua moglie che molto più bassa di lui, si stava lasciando andare a pugni.
Abbassai lo sguardo verso il bambino che cercava ancora attenzione. Lo afferrai stringendolo a me per lungo e all’orecchio gli sussurrai una ninna nanna, cercando di calmare l’agitazione del bebè.
- Alan mi dispiace che tu sia nato in questa famiglia di pazzi…ma, c’è la mammina che ti protegge! -.
A prova di affermazione, senti quasi un’esclamazione di condivisione. Brontolii di contentezza mi fecero quasi sorridere da sola, attirando l’attenzione di tutti, che poi stupiti si fermarono a fissarsi tra di loro (chi pieno di sale  chi no), scoppiando in una risa generale, dove partecipò anche il piccolo Alan Micheal Ackles scatenando la dolcezza di tutti.
- Altro che demone, è un angelo! – disse Jessica, avvicinandosi al letto, per prenderlo tra le braccia.
- A proposito… - iniziai, guardandomi intorno. – Dov’è Misha? – domandai con un sorriso divertente sul viso.
La smorfia di Jared mi fece capire che stava lanciando uno delle sue battute idiote.
- L’ha convocato Dio per qualcosa di vitale importanza, cinque minuti e arriva… -.
Si come no. – Ahahahah! - . 
Non saremmo mai e poi mai diventati seri. Mai.
 
 
*spazio autrice*
 
Allora spero vi sia piaciuto questo capitolo…Siamo alla fine e non mi resta che ringraziare chi di dovere: 
Inizio con ringraziare tutti colore che hanno messo nelle preferite, nelle seguite e nelle ricordate la storia. Ringrazio chi mi ha dato un po’ di fantasia in più, tipo più di mille autori serii e mia madre che è fantasiosa come me, ma in cucina xD 
Ringrazio chi ha letto in silenzio e chi ha letto recensendo. Come la starfragola, Ofelia20, viktoria, Nerea_V.
GRAZIE RAGAZZE, SENZA DI VOI, QUESTA STORIA AVREBBE PRESO UNA PIEGA DIVERSA, VE L’ASSICURO.
E niente, ringrazio a Kripke per avermi fatto conoscere Supernatural e degli attori come Jensen Ackles e Jared Padalecki.
GRAZIE A QUESTO FANDOM per la possibilità di postare una storia così… :)
GRAZIE A TUTTI INSOMMA!
E alla prossima storia, che prometto prima o poi di postare il secondo capitolo :3
 
Un grosso bacio, un abbraccio e ancora grazie.
 
Para_muse
 
 
 
 

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Capitolo 30
*** Family Photo's Album ***


Volevo condividere con voi questa foto che avevo creato tanto tempo fa, con la voglia di ritornare a scrivere sulla famiglia Ackles-De Santis! ç___ç Mi mancano tantissimo e a voi? 
Spero vi piaccia :)





Al prossimo capito della nuova storia. 

xoxo Para_muse

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