Every night I dream the same dream.

di Twitch
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I’m just a grouch sitting on a couch.. ***
Capitolo 2: *** Every time I look in my past I always wish I was there. ***
Capitolo 3: *** I’m not growing up, I’m just burning out. ***
Capitolo 4: *** Well, I know I’m not alright. ***
Capitolo 5: *** Pay attention to the cracked streets and the broken homes. ***
Capitolo 6: *** It’s something unpredictable. ***
Capitolo 7: *** There’s a siren screaming “I’m alive”, it cries. ***
Capitolo 8: *** Sign, my love, a lost memory. ***
Capitolo 9: *** Do you have the time to listen to me whine? ***
Capitolo 10: *** Hey there, lookin’ at me, tell me what do you see. ***
Capitolo 11: *** See the light. ***
Capitolo 12: *** Here comes the rain again. ***
Capitolo 13: *** I beg to dream and differ from the hollow lies. ***
Capitolo 14: *** I think they found another cure for broken hearts and feeling insecure. ***
Capitolo 15: *** May I waste your time too? ***
Capitolo 16: *** I want to bring you up again, now. ***
Capitolo 17: *** A small prize I’ll pay to see that you’re happy. ***



Capitolo 1
*** I’m just a grouch sitting on a couch.. ***


“10.. 9.. 8.. 7.. ” iniziarono a gridare con enfasi “6.. 5.. 4..” l’emozione cresceva nelle loro voci! “3.. 2.. 1..” Sul grandissimo televisore comparve scritto in caratteri cubitali “2039!!”. Sullo sfondo iniziarono ad esplodere magnifici fuochi d’artificio, ripresi direttamente a Los Angeles, dietro allo splendido Golden Globe tutto illuminato. Sul maxi schermo posto sul ponte iniziò a lampeggiare in colori vivaci la scritta “Happy New Year!!” e un clima di entusiasmo generale andava spandendosi.

“Buon anno!” “Buon anno bambini… Buon anno amore!” Tutt’intorno al quel televisore, in quella casa californiana, c’erano urla e risolini di bambini, bicchieri pieni di Champagne che tintinnavano, abbracci e promesse scambiati e sorrisi stampati su tutti i volti, tranne che su uno.

C’era la nonna Adrienne, 71 anni, che sprizzava serenità da tutti i pori; riempiva i bicchieri di Champagne e augurava a tutti buon anno con il suo solito sorriso. Il suo viso  era segnato dalle rughe e la sua folta chioma nera di un tempo era ora di un grigio argenteo. Ma quegli occhi castani non avevano mai smesso di trasmettere così tanto amore quando incrociavano quelli verdi di Billie.
Adrienne, abbracciò Joey e lo baciò sulla guancia, come faceva quando era ancora il suo ‘bambino’.

“Ma maaamma”, disse Joey, “non ho più quattro anni” e le sorrise.
Joey aveva 44 anni, ed era un’affermata rock star. Era il batterista degli Emily’s Army, un gruppo punk rock prima prodotto dallo stesso Billie, ma che poi si era fatto strada tra le major più importanti. Sebbene avesse superato la soglia dei quaranta, sembrava ancora molto giovane, gli occhi, castani, erano come quelli della madre; ma quei capelli biondi tinti e la figura snella e non molto slanciata ricordavano terribilmente il padre.  Joey era divorziato, ma per l’occasione aveva portato con sé suo figlio Andrew, un bambino dolcissimo di cinque anni.
“Papà, papà, cosa stai bevendo? Posso anch’io?” disse Andy con la sua vocina acuta. Il papà rise e disse “Si vede proprio che sei un vero Armstrong!” ammiccando a Billie Joe che accennò appena un sorriso.

Jackob invece, quarantunenne, era diventato un uomo d’affari, e lavorava a Los Angeles per una importante azienda di moda. Era piuttosto basso, ma più in carne rispetto al fratello. Aveva anche lui gli occhi castani, ma i suoi capelli erano neri come quelli della madre. Era sposato con una donna bellissima, Kate. Capelli rossi e occhi verdi, era una musicista e lavorava come stilista nella sua stessa azienda. Avevano avuto una bambina e un bambino bellissimo di 5 e 3 anni; Ollie e Paul.

All’appello manca solo lui, Billie Joe o, come odiava essere chiamato, nonno Billie. I suoi occhi verdi erano segnati dalla stanchezza, i capelli non più tinti, erano bianco latte e negli ultimi anni aveva preso qualche chilo di troppo. Qualche ruga in viso ed un paio d’occhiali lo rendevano completamente diverso da quando era ancora giovane, ma nessuna di queste era la cosa più strana. C’era ancora un aspetto di lui che lo rendeva irriconoscibile: l’espressione del viso. Non aveva più quel sorriso furbo e un po’ da sbruffone, non aveva più gli occhi che brillavano ed esplodevano di vita. Aveva un’espressione stanca e sofferente. Stufa. Un uomo di 67 anni con un passato troppo movimentato per finire così, seduto su quel divano leopardato 24 ore su 24, o al massimo a dare lezioni di chitarra a ragazzini imbranati. Lui non era nonno Billie, lui era Billie Joe Fucking Armstrong, lui era il frontman dei Green Day! Ma quella notte di capodanno, lui era lì, circondato dai parenti. Non era a nessun party, non era a suonare a qualche show con i ragazzi. Era a casa, seduto sul divano senza dire praticamente nulla, simulando ogni tanto qualche sorriso.  Non che non amasse stare con sua moglie e con la sua famiglia, ma a lui piaceva il brivido, a lui piaceva cantare davanti alla folla. A lui piaceva esibirsi, ubriacarsi durante i concerti, fare il ragazzino. Quella era la sua vita! E quanto gli mancava quella vita, gli mancava da morire.





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Capitolo 2
*** Every time I look in my past I always wish I was there. ***


“Britt, tesoro, potresti portarmi un’altra birra?” quella domanda proveniva da un salotto, più precisamente da un divano di pelle rossa.
67 anni pesavano su quella voce profonda, 67 anni intensi ma che erano trascorsi in un battito di ciglia. “Ma tesoro, è già la quarta!” Lui non fece nemmeno caso a quella risposta e si alzò avviandosi automaticamente verso il frigo.
Da molto tempo ormai non faceva più caso a molte cose, si lasciava scivolare tutto addosso.

I suoi occhi blu erano segnati dalle rughe, il suo viso era scavato e il suo corpo era sempre asciutto, ma non era più quello atletico di un tempo.
Michael si passò una mano tra i capelli sempre più radi maledicendo tutte le tinte che si era fatto durante gli anni.
Aprì il frigo, prese una delle cento ‘Corona’ che gli aveva regalato Billie per Capodanno e tornò al suo divano.

Da quando i Green Day erano usciti dalle scene, da quando aveva appeso il basso al muro, nemmeno lui riusciva più a sentirsi vivo. Non provava più quella sensazione meravigliosa dei concerti, quei brividi lungo tutto il corpo mentre suonava il basso come solo lui sapeva fare! Oh, e poi quanto gli mancavano i tour, come gli mancava stare sempre a contatto con i ragazzi.. Come gli mancava stare sempre con Billie. Ormai i tre si riunivano solo ogni tanto, come per quelle riunioni di famiglia dove non si sa mai di cosa parlare se non ‘dei bei vecchi tempi’.
E Mike si sentiva come anestetizzato, sotto effetto di novocaina.

Accese la tv, prese il telecomando e, automaticamente, cambiò canale. “Già visto, già visto, un’altra fottuta replica, già fatto, già v.. Aspetta, già fatto!” Mike tornò indietro di un canale e si ritrovò davanti agli occhi un ragazzo dagli occhi verdi e i capelli corvini con le labbra che sfioravano dolcemente un microfono. Un po’ più indietro c’era un tipo strano, con un espressione sclerata che picchiava su quella batteria come se fosse nato per fare solo quello! E un po’ più in là.. un po’ più in là c’era un biondone tutto muscoloso. Lui non squadrava la folla persona per persona come il primo. Lui aveva il capo chino sul suo basso, che alzava solo per avvicinarsi al microfono e urlarci dentro quei cori che si incastravano perfettamente con la melodia.

 “Oh non ci credo, saranno stati cinque anni che non ci passavano più in tv!” il programma si chiamava ‘Old punk glories’ e andava in onda da sempre, da quando le ‘old glories’ erano i Ramones! Mike si alzò, prese il telefono e compose il numero che sapeva meglio di tutti con un mezzo sorriso abbozzato sul viso  “Allora presto, 0015084966096!” il telefono non squillò nemmeno due volte e dall’altro capo si sentì subito una voce roca rispondere “Si?” Mike disse: “Billie non ind..” dall’altro capo del telefono Billie rispose con una certa risolutezza mista a malinconia “lo so, sul 752 stanno dando St. Jimmy.. del Milton” Billie troncò quel poco entusiasmo nella voce di Mike, che non seppe bene cosa rispondere.. “Quello di quando eravamo ancora qualcosa” disse Billie. “Quando avevamo uno scopo nella vita. Ora siamo solo degli stupidi vecchi seduti su un divano che vengono mandati in onda su uno stupido programma che non guarda più un cazzo di nessuno. Ormai la musica è morta, il punk è stramorto, decomposto. L’unica musica” aggiunse con tono sprezzante “Viene fatta con dei cazzo di computer!”.
“Billie! Lo sai che tutte le cose sono destinate a finire” Gridò Mike come se quell’urlo dovesse percorrere l’effettiva distanza tra casa sua e quella di Billie.  
“Lo so, scusa Dirnt.” Michael butto giù e cominciò a pensare.

Come al solito, nel suo silenzio, continuava a riportare alla luce tutti quei pezzettini della sua vita, quelli più memorabili ed indimenticabili e quelli più stupidi o insignificanti, ma che fanno comparire sul volto un lieve sorriso, come un flebile arcobaleno che squarcia timidamente il cielo grigio.
Ma le parole di Bill continuavano a rimbombargli nella testa, come il ronzio che rimane nelle orecchie dopo un concerto. “Non siamo più niente, non abbiamo più uno scopo”.
Era vero. Non avevano più nulla in cui credere, nessuna battaglia da combattere. Non gli restava che stare seduti su un costoso divano, in una casa costosa a fare sogni da due soldi, che più che sogni erano ricordi.

Billie, invece, salì lentamente le scale, ed aprì la porta della stanza delle chitarre. Prese quella nera acustica, la accordò come non faceva da tempo e iniziò a suonare e a canticchiare.. “Every time I look in my past I always wish I was there..”

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Capitolo 3
*** I’m not growing up, I’m just burning out. ***


“Nome completo?” Disse l’agente con fare scazzato. “Tré.. Ehm, volevo dire, Frank Edwin Wright III”. Agli occhi di Frank tutto era appannato. I contorni della figura che aveva di fronte vibravano, persino i suoni circostanti gli parevano ovattati e distorti.
Lui aveva sempre amato quella sensazione, adorava sentirsi l’alcool nelle vene mischiato al sangue.
Divertirsi, bere con gli amici e suonare erano sempre state le cose più belle di tutta la sua vita. E lui non aveva intenzione di perderle per nulla al mondo.

Infatti, per lui, era come se non fosse cambiato nulla negli ultimi anni. Per lui il mondo si era fermato il giorno del suo quarantesimo compleanno. Lui era sempre Tré Cool e, a differenza di Billie e Mike, non era ancora ‘stabile’.
67 anni da compiere e la vita di un quarantenne.
Capelli di nuovo verdi e occhi blu pieni di nuvole, Tré era come un Peter Pan che non voleva più guardarsi allo specchio per evitare quell’immagine che non gli somigliava più. Quell’immagine che mostrava solo due grandi borse sotto gli occhi e due grandi rughe marcate attorno alla bocca che gli spegnevano il sorriso.

Viveva solo in una villetta di Berkeley, dopo aver lasciato la quarta moglie. Viveva solo tra la sua batteria e il suo scaffale dei liquori.
Viveva solo e ogni tanto andava a trovare i suoi due compagni di vita sedimentati sul divano.

Si convinceva di essere felice, si diceva che la sua vita era sempre quella di qualche anno prima,
ma purtroppo non era così. Anno dopo anno la sua vita perdeva un pezzo, come un puzzle che perde le sue tessere. E lui aveva perso le tessere più importanti: niente più Green Day, niente più concerti. Niente più Mike e Billie che lo reggevano quando non riusciva più a mettere un piede davanti all’altro.
Gli rimanevano solo alcune collaborazione con ‘gruppi emergenti’ e qualche coglione che gli scroccava da bere.

E poi tutto quell’alcol si condensava in sbornie tristi, di quelle che passi la notte seduto sull’asfalto a blaterare e a piangere sul tuo passato. Frank odiava piangere, odiava non trovare nemmeno un motivo per essere felice. Eppure lo faceva, e ogni mattina si ricuciva un sorriso addosso e usciva con la sua decappottabile.

Chi l’avrebbe mai detto che Tré sarebbe diventato così.
Chi l’avrebbe detto che Frank non avrebbe mai accettato di crescere.
‘Sono maturato, ma non sono mai cresciuto’ lo diceva sempre, ci sperava.
Lui non aspirava ad essere quello più bello, come Billie, né tantomeno quello più in forma, come Mike.
Lui voleva rimanere sempre quel ragazzino che scherzava, quello che non si separava mai dalle sue bacchette e tamburellava ovunque. Quello che si faceva amare dai suoi fan perché li faceva sorridere in ogni occasione.
Da sempre. Da quando era nascosto da T-shirt enormi, fino a quando il nero di un eyeliner aveva iniziato a cerchiargli gli occhi.
Ma quelle rughe lo avevano spaventato, gli sembravano una condanna.
La sua eterna ‘giovinezza da Peter Pan’ si stava sgretolando. L’universo che si era costruito stava implodendo. E lui cercava disperatamente di tenere tutti i pezzi incollati; metteva pezzi di scotch tra le crepe della sua vita che sembrava non reggere più.
Ormai i bei tempi erano passati, i bei tempi erano finiti. Non c’erano più Lisea, Claudia, Jena o Sandy.
Ogni tanto vedeva Ramona, la sua piccola punk rocker, l’unico amore della sua vita.
Amava sua figlia più della sua stessa vita, era sempre la sua bambina malgrado avesse 44 anni.
Avrebbe fatto ogni cosa per quegli occhioni blu, per quella ragazza così simile a lui..

...

“Guida in stato di ebbrezza, scenda dalla macchina.” Gli disse il poliziotto. E lui si limitò a mettere in moto e urlare sguaiatamente “Io sono Tré Cool, amico. Non scassare il cazzo!”
La decappottabile fiammante sfrecciò davanti agli occhi del poliziotto incredulo.

‘Io sono Tré Cool’. A quella frase sembrava  non credere più nemmeno lui.
Continuava a premere l’acceleratore, non per scappare dalla polizia, ma per cercare di scacciare via quei dubbi che, insieme all’alcol, gli offuscavano ancora di più i pensieri.

 
 

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Capitolo 4
*** Well, I know I’m not alright. ***


“Billie, amore, devi portare Rocky II dal veterinario a fare la toeletta!” urlò Adrienne dalla cucina.
“Tocca sempre a me portare questo cazzo di cane a fargli tagliare il fottuto pelo..” borbottò Billie a bassa voce.
“Billie Joe, guarda che ti ho sentito! Non fare tante storie e vai a prendere un po’ d’aria amore, saranno tre giorni che non esci di casa!”
Gli rispose Adrienne con risolutezza mista alla sua solita dolcezza.
“Ok, ok.” Rispose lui poco convinto.

Si tolse le ciabatte dai piedi, prese il cane per il guinzaglio e uscì di casa. Percorse il vialetto lentamente, con il cane che lo trascinava scodinzolando verso la grande macchina nera.
Aprì la portiera, lo fece salire e si mise al posto di guida.
Diede uno sguardo allo specchietto, e per qualche secondo rimase a fissare quei due occhi verdi e stanchi. Si passò una mano tra i capelli bianchi, come faceva sempre, mise in moto e, una volta percorso il vialetto, girò a destra, verso il centro di Berkeley.
La strada scorreva veloce sotto alle ruote, come i pensieri di Billie che vagavano avanti e indietro nel tempo e nello spazio. Il sole ancora alto delle 3 di pomeriggio gli illuminava il viso, come sempre corrucciato.

“Ok Rocky II siamo arrivati” disse parcheggiando la macchina ad una cinquantina di metri dal veterinario. Prendendo il cane in braccio e gli sorrise mentre si faceva leccare la faccia.
Malgrado tutto, amava quel cucciolo, come amava ogni singola creatura che facesse parte della sua famiglia.

Fece qualche passo; i suoi pensieri continuavano a correre, a sfogliare quel grande ‘album di ricordi preziosi’ custodito nel suo cervello.
Ultimamente lo faceva sempre più spesso; infatti dopo aver visto quel video alla tv non aveva fatto altro che continuare a ripercorrere all’infinito ogni centimetro della sua vita, come un adolescente che preme play all’infinito ogni volta che la sua canzone preferita finisce.
Ricordi poco chiari ma comunque perfetti. Come quel 2 luglio di tanto tempo fa così dolce e alcolico. Ricordi nitidi e pungenti, ricordi di concerti e di notti insonni a scrivere canzoni.
Sì, perché ogni canzoni, per lui, era come una cicatrice o come un tatuaggio sul suo corpo: ognuna gli ricordava un esatto momento della sua vita, da quello più gioioso al più doloroso. Ogni canzone era parte di lui, ogni canzone era incastonata nella sua vita e nella sua mente. Erano indelebili, ormai. Dalla prima all’ultima.

‘Starting across the room, are you leaving soon? I just need a..’ iniziò a canticchiare malinconicamente, quando sentì un clacson mischiato ad una voce familiare che proveniva dalla strada. “Nonno Billie, che ci fai da queste parti? Adrienne si è finalmente decisa a buttarti fuori di casa?” Era Frank, che sceso dalla macchina rideva sguaiatamente.
“Non chiamarmi mai più nonno!” rispose Billie con una finta severità ed un lieve sorriso sulle labbra.  “Io sono Billie Joe fucking Armstrong!” gli fece il verso Tré, che sorrideva a 32 denti.

Il sorriso di Tré era splendente, come al solito. Anche i suoi vestiti lo erano; ogni cosa di lui rifletteva la luce circostante e lo faceva apparire ‘come al solito’. Ma Tré aveva smesso di brillare di luce propria da molto tempo. E Billie non era da meno, quella luce che una volta si spandeva dal suo corpo si era nascosta, rintanata in un angolo remoto del suo cuore e sembrava non voler uscire mai più. Solo che Billie non riusciva far altro che riflettere il suo umore cupo al di fuori. Era spento, indossava una tuta grigia e delle scarpe nere. E a parte qualche sorriso a sprazzi, indossava sempre un’espressione piatta, anch’essa grigia.

“A parte gli scherzi, come va Bill?” disse Frank con un tono quasi paterno. “Mh, solito, tu? Ti vedo bene, cazzo!” “Haha grazie, beh diciamo che mi tengo in forma.. Tra l’altro settimana scorsa è passata Ramona e mi ha chiesto se potevo gentilmente sostituire il batterista del suo gruppo per una serata, è stato da paura! Abbiamo suonato insieme per due ore, è stato fortissimo! Poi, la mia piccola col basso ci sa davvero fare!”. Quando Tré parlava di sua figlia gli luccicavano sempre gli occhi, e Billie non aveva voluto interromperlo. “Ah, a proposito di basso! Come sta il nostro Mike?! Un giorno di questi dovremmo organizzare una serata per passare un  po’ di tempo insieme! Anzi, al diavolo l’organizzazione! Venite sta sera” “Ehm, non lo so..” “Su Billie, non accetto un no! Fai quello che devi fare con Rocky Wright II, chiama Mikey e vieni da me! Ora scappo, a sta sera!” Risalì sulla sua decappottabile e ripartì al massimo. Billie sospirò e si disse ‘ecco, un’altra fottuta serata dei ricordi’. Ma poi entrando finalmente dal veterinario, pensò a quanta voglia aveva di passare una serata con quei due, quindi sorrise e inviò un sms a Mike.

“Ti passo a prendere sta sera alle 8, si va da Frank! XOXO”

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Capitolo 5
*** Pay attention to the cracked streets and the broken homes. ***


‘Bip bip, bip bip’  “Ma che cazz?!” il suono dell’arrivo di un messaggio interruppe il sonnellino pomeridiano di Mike.  ‘mh.. quando mai qualcuno mi invia un sms?’ borbottò tra sé e sé mentre cercava il cellulare tra i cuscini e la coperta. ‘Ah, eccolo… Uhm è Billie.. Chissà cosa vuole’. Mentre lesse sul display quelle parole sorrise quasi ammiccando al cellulare, si tirò su di scatto e, come sempre, impreco “Ahia cazzo, la mia schiena!”.

 

Erano quasi le 4 di pomeriggio e Mike era davvero impaziente di quell’appuntamento! Era davvero troppo tempo che non vedeva i ragazzi! Iniziò a prepararsi subito, si infilò nella doccia e ne uscì una ventina di minuti dopo, quasi rinvigorito. Entrò in camera da letto, si infilò un paio di boxer e aprì l’armadio in cerca di qualcosa da mettere; tirò fuori dei vecchi jeans e una maglia dei Ramones; non si vestiva così da una ventina d’anni! Guardò con dolcezza quasi paterna quella maglia che aveva indossato in alcuni dei giorni più belli della sua vita, poi scosse la testa per ritornare alla realtà e la infilò lentamente. Quindi chiuse le ante dell’armadio e rimase per qualche secondo a guardarsi allo specchio, a delineare con lo sguardo i contorni di quel viso vecchio e increspato.

 

Britt, che era entrata in silenzio nella stanza, gli posò una mano sulla spalla e gli sussurrò all’orecchio: “Sei meraviglioso amore, dovresti vestirti così più spesso”. Mike la baciò dolcemente come solo lui sapeva fare e le disse che avrebbe passato la serata da Tré con i ragazzi. “D’accordo amore, divertiti ma non bere troppo! Ricordi il discorso che ti ha fatto il dottore sul fegato? Comunque credo che sta sera chiamerò Adrienne per la nostra serata film senza voi uomini” gli sorrise dolcemente e uscì silenziosamente, come era entrata. Mike la seguì fuori dalla stanza ma si diresse spinto da chissà quale impulso nella sua stanza della musica.

Era la stanza che ‘frequentava’ meno di tutta la casa, alle pareti erano appese decine di bassi e c’erano anche due o 3 chitarre poste su un piedistallo negli angoli. Si accostò alla parete e sfiorò uno ad uno quei bassi, c’era anche il primo, quello marroncino e nero che era più grande di lui e che a mala pena riusciva a tenere in mano quando aveva 15 anni. C’era anche quello bianco con la stella nera, quello che aveva usato nei live più importanti. Carezzò quelle corde come avrebbe fatto con la guancia di un bimbo, in fondo quegli strumenti gli avevano cambiato la vita! Così ne prese uno e lo attaccò all’amplificatore più vicino e iniziò  a sgranchirsi le dita con una delle sue bass-line preferite, longview. ‘Tu tun tun tun Tu tun tun tun tun Tu tun tun tun tun tun tu tu tù!’ le dita danzavano sulle corde, Mike era, come al solito, uno spettacolo meraviglioso. Sembrava che fosse nato per suonare il basso!  Allora staccò il jack e scese le scale di corsa col basso in mano. Cercò il cellulare sul divano e scrisse l’sms di risposta a Billie. “Perfetto, ma porta Blue”.

 

“Ciao Adie, non mi aspettare in piedi! Sta sera si fa casino!” “Non ti preoccupare amore, ‘sta sera sono a casa Pritchard per la serata film!” “Ahah perfetto, divertiti” “Anche tu” Billie le stampò un bacio frettoloso sulle labbra mentre abbottonava l’ultimo bottone della camicia, e corse nella stanza musica per prendere Blue. Era in ritardo e, come tutte le volte che era di corsa, fece cadere almeno un paio di chitarre dai piedistalli. “Cazzo!” Afferrò la sua piccola per il manico e scese dalle scale. Si infilò le scarpe sulla porta e uscì.

Posò accuratamente Blue nel sedile posteriore, e quando sbatté la portiera della macchina nera, erano già le 8.

 

‘Ok, dovrò fare un tempo record! Tra 2 minuti sono lì!’.La nuova casa di Mike era a 10 isolati dalla sua, e Billie non voleva assolutamente far aspettare l’amico. 'Come al solito sono in ritardo! Sono un ritardato, cazzo!' 

 

50 Km/h……75 km/h……100 km/h….
-“Rallenta, rallenta, cazzo! Stavi per prendermi sotto!” “Vaffanculo!” urlò Billie “Sono in ritardo!”
-“Dove cazzo credi di essere, nonno! Non sei in autostrada!” Billie in risposta alzo il dito medio e continuò la sua corsa.

 

‘Ok sono quasi arrivato, ora ultime due curve a sinistra e..’ Nella prima curva l’auto perse il controllo. Sforò nell’altra corsia. Billie non fece altro che mettersi le mani in faccia per proteggersi dai frammenti di vetro provenienti dallo scontro con un’altra macchina. Il rumore dell’impatto si mischiò a quello degli airbag che scoppiavano, la macchina di Billie fece quasi per riversarsi sull’altra. Era il caos. In quel groviglio di lamiere ogni cosa, per Billie, iniziava ad essere confusa, ad offuscarsi. Iniziò a sentire qualcosa di caldo macchiargli il viso; lacrime rosse iniziarono a scendere copiose da una ferita sulla fronte ed altre dal ventre. Sentì qualche urlo di paura come in lontananza, poi una piccola folla si avvicinò e qualcuno chiamò l’ambulanza. Billie riuscì a sentire i primi squilli della sirena, poi più niente.

 

“Amore, dov’è Billie?” chiese Brit. “Non lo so, doveva essere qui almeno dieci minuti fa” rispose Mike, seduto sui gradini del portico con aria delusa.

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Capitolo 6
*** It’s something unpredictable. ***


Ore 8. 15 p.m.
Bianco, tutto completamente bianco. Quel colore aveva sempre spaventato Billie. E’ così intangibile e immenso; un colore in cui perdersi e affogare. Un colore asettico e privo di ogni suono. E’ per questo che Billie aveva sempre preferito il nero, quel nero della matita che delineava i suoi occhi, quel nero d’inchiostro che disegnava note sul pentagramma. Quel nero, quel punk, quel colore sporco ma immensamente espressivo. Ma dov’era adesso, non c’era nessun elemento marcato, nulla che spiccasse alla vista. Solo un pallido candore che dilagava su ogni oggetto.

 

Mike, Adrienne e Tré, invece erano nel buio di quella serata di fine gennaio. In quel buio che marcava le loro paure, la loro angoscia, il terrore.

 

Ore 8.17 p.m.– Casa Armstrong

Adrienne si stava preparando con tutta calma per la serata film, era davanti all’armadio nel quale stava cercando qualcosa di comodo da indossare. Improvvisamente il telefono di casa squillò, e lei, pensando che fosse Britt rispose con tutta calma:

-“Pronto?” ma la risposta  che ricevette la lasciò interdetta.

-“Salve, lei è la signora Armstrong?”

-“Sì, perché?”

-“Qui è l’ospedale di Oakland, suo marito è stato appena portato qua con un’ambulanza e presenta gravi lesioni dovute ad un incidente in macchina”

Qualcosa, dentro Adrienne, si ruppe. Sentì come se con quella frase, anche una parte di lei ‘presentasse gravi lesioni’. Billie era una parte di lei, forse la più bella ed importante. Quella più vitale.

-“C-c-cosa?! Mio marito è grave? E’ grave?! Arrivo subito!”

 

Adrienne sbatté il telefono per terra. Non uscirono lacrime dai suoi occhi, era troppo preoccupata per piangere. Doveva fare qualcosa, doveva solamente raggiungere Billie. Però la macchina era distrutta ed arrivarci a piedi, alla sua età, era davvero una cosa impossibile.  Poi c’erano Mike e Tré da informare! ‘Oh, Billie’ ripeteva ad intervalli regolari mentre cercava il cellulare. ‘Ok, Adie, mantieni la calma, mantieni la calma!’ continuava a ripetersi. ‘Chiamerò Mike, ecco cosa farò!’

 

Ore 8.20 p.m. – Casa Pritchard

Mike aspettava Billie, fissava la fine della strada sperando ad ogni secondo che passava di veder spuntare il muso della macchina nera dalla curva, ma ogni volta rimaneva deluso. ‘Beh, magari ha ritardato a farsi la doccia o cose simili..’ pensava cercando di giustificare il ritardo dell’amico. ‘oppure si è solamente trattenuto troppo a provare Blue, beh cose che capitano..’ Ma Mike, in cuor suo sapeva che c’era qualcosa che non andava. Ad un certo punto il cellulare nella tasca dei jeans iniziò a vibrare, era Adrienne. Aveva la voce rotta, ferita. “Billie è all’ospedale, ha fatto un incidente in macchina.” Mike tacque per qualche secondo. Nella sua testa venne proiettato il film di tutta la vita di Billie. Rivide quel bambino di dieci anni coi riccioli biondi al quale aveva regalato la sua prima chitarra. Rivide il quindicenne col cappellino da baseball in testa, poi il diciassettenne con quella chioma di ricci castani. Lo rivide al Rod's Hickory Pit, al Gilman e in ogni singolo attimo della sua vita. Forse perchè sentiva come fosse lui quello in pericolo, come fosse lui ad essere in ospedale. Perchè Billie, per molti anni, aveva rappresentato l'unica cosa bella della sua vita. Era tutto.  “Mike, vieni a prendermi, andiamo all’ospedale” Adrienne buttò giù e non diede nemmeno il tempo a Michael di assentire. Iniziò ad agitarsi, ad imprecare. Si alzò in piedi di scatto e corse in casa a prendere le chiavi della macchina. “Brittney, Billie è all’ospedale, credo che sia grave! Vado a prendere Adrienne e corriamo lì” a pronunciare quella parola, quel maledetto ‘corriamo’ gli venne una fitta al cuore. “Oddio amore, fammi sapere come sta” rispose lei preoccupata. “Chiama Frank, digli che è successo” disse Mike sbattendo la portiera della macchina.

 

Prese quella stessa strada, quella dopo la curva, quella che era appena stata sgomberata da un carro attrezzi. L’auto di Billie, accartocciata, era stata spostata da un lato della strada. Erano le 8.22, Mike accostò e scese dalla macchina. Era uno spettacolo tremendo. Mike non riusciva, non voleva pensare che Lui fosse stato lì dentro. I sedili anteriori erano quelli conciati peggio, il paraurti era piegato, il vetro in mille pezzi. Lì intorno c’era una piccola folla, che venne fatta sgomberare dagli agenti. Uno di loro gli si rivolse e provò a mandarlo via.

-“Sono Mike Dirnt, questa è la macchina del mio migliore amico, cazzo!” Il poliziotto lo lasciò avvicinare con un cenno del capo e Mike allora notò lei. Nel sedile di dietro era rimasta intatta. Era ancora lì, e non aveva subito quasi danni. Così vecchia e saggia, con quella voce ruggente era rimasta lì, era Blue. Mike ebbe un tuffo al cuore, la prese, la pose con dolcezza in macchina e in 5 minuti arrivò da Adrienne.

 

Ore 8.22 p.m.– Casa Wright.

Tré stava tirando fuori le ultime birre dal frigo e con un sorrisone le portò in salotto. ‘Dovrebbero essere quasi qua quei..’ il suo pensiero venne interrotto dal cellulare, che vibrò sul tavolino, era Britt, la moglie di Mike. Con aria un po’ interrogativa e le tre birre che gli stavano congelando la mano rispose “Pppppronto! Ciao Britt, dove sono i due?” “Frank, Billie è all’ospedale! Mike e Adrienne stanno andando lì da lui. E’ grave.” Tré rimase di ghiaccio. Le birre gli scivolarono dalle mani infrangendosi sul pavimento. Non gli succedeva quasi mai di rimanere senza parole, ma quella volta gli uscì solo un “Cosa?!” non aspettò nemmeno la risposta e uscì di casa. Durante il tragitto per l’ospedale non fece altro che crogiolarsi in quelle poche informazioni. ‘E’ grave’. “Cosa diavolo vuol dire che è grave?!” urlava nell’abitacolo. Pensò poi a tutte le sue corse in macchina, pensò che questo sarebbe dovuto succedere a lui. “Sto arrivando Billie, sono quasi arrivato.”

 

Arrivò all’ospedale di Oakland in 15 minuti, parcheggiò ed entrò in sala d’aspetto, dove trovò Adrienne stretta tra le braccia di Mike. Le prime lacrime iniziarono a scendere.

Erano le 8.37 p.m.

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Capitolo 7
*** There’s a siren screaming “I’m alive”, it cries. ***


8.37 p.m.

Frank chiese: “Sta bene?” E loro risposero: “E’ ancora vivo”.

 

Ore 8.07 p.m. – Oakland Hospital

-“Ok, cosa abbiamo qui” chiese una dottoressa del pronto soccorso indicando un uomo sulla barella appena uscito dall’ambulanza. -“Uomo, 67 anni, incidente stradale. Frattura scomposta di 7 costole, svariate lesioni su tutto il corpo dovute alle lamiere dell’auto ed un’emorragia al cavo pleurico causata probabilmente dalla brusca decelerazione che ha subito la vettura al momento dell’impatto.”

- “Medicate velocemente le ferite e portatelo subito in sala operatoria per un intervento di osteosintesi. Per il resto somministrate 30cc di morfina ogni 2 ore. E per l’emorragia un endovena di acido tranexamico.” - “Certo dottoressa” rispose l’infermiera.

- “Ora vado a parlare con la famiglia”. L’infermiera spinse la barella nella stanza 16 e iniziò le medicazioni. Billie aprì gli occhi per un secondo, poi, spaesato, svenne nuovamente. Quel bianco dell’ospedale, quel bianco della stanza, quel bianco dell’infermiera l’avevano risucchiato, reso sterile e di nuovo immobile.

 

Ore 9.02 p.m.

Dopo l’operazione la dottoressa L. Johnson arrivò con passo deciso in sala d’aspetto. Aveva capelli castani sciolti sulle spalle, un paio di occhi rapidi ed espressivi, 55 anni ed una cartella clinica in mano. Attraversò a grandi passi sicuri la sala d’aspetto, dirigendosi verso una donna col capo chino seduta accanto a due uomini.

-“Signora Armstrong?” disse rivolgendosi ad Adrienne. “Sì sono io! Come sta mio marito?” Gli occhi di Adrienne si accesero di speranza e di paura allo stesso tempo. Una parte di lei voleva subito la risposta, l’altra ne era immensamente spaventata. Aveva paura di sentirsi dire che Billie non sarebbe stato mai più vicino a lei. Aveva paura che le venisse detto che non avrebbe mai più sentito la sua voce. Aveva paura di perdere quei due occhi verdi; aveva paura che il suo mondo le crollasse addosso.

-“Abbiamo appena operato suo marito alle costole, ed è andato tutto bene..”

-“Oh, sia ringraziato il cielo” disse Adie mentre Mike e Tré fecero due sospiri di sollievo. La dottoressa, però, li interruppe con un ‘ma’. -“Ma la cosa che ci preoccupa di più è il versamento pleurico. Stiamo somministrando dosi di antiemorragico, ma abbiamo paura che il sangue possa coagularsi causando una disfunzione degli organi interni o addirittura un danno cerebrale. Suo marito rimarrà ricoverato qua fino a quando la situazione non si stabilizzerà, speriamo. Dovrà inoltre affrontare una riabilitazione; il suo corpo ha subito una sorta di shock.” Mike strinse Adrienne a sé, e Frank fece lo stesso. Lei si limitò ad annuire e a ringraziare flebilmente la dottoressa.

- “Grazie dottoressa Johnson”.

- “Faccio il mio dovere. In ogni caso ora suo marito è stabile, che ne dite di venire a vederlo?”.

La dottoressa accennò un sorriso; un sorriso di comprensione, di compassione.. di dolcezza.

- “Ora vado a rifargli le medicazioni, e tra qualche minuto vi verrò a chiamare”.

 

Girò i tacchi verso la camera numero 16. Entrò silenziosamente, quasi avesse paura di svegliare un bimbo che dorme. Prese le bende, il disinfettante e tutto il resto per cambiare le medicazioni alle ferite; rimase ad osservare quel viso per qualche secondo. Poi scrollò il capo e in 10 minuti era di ritorno da Mike, Adrienne e Frank. Ore 9.15 p.m.

 

Ore 9.05 p.m. - Sala d’aspetto.

Adrienne si liberò dalle braccia dei due amici e iniziò a camminare avanti ed indietro. Dopo pochi passi lasciò uscire dalla sua bocca poche parole. “Ho paura, ragazzi”. Tré era come chiuso in un bozzolo, aveva perso la parola. Mike subito tacque, poi disse con un tono paterno “Dovresti avvertire Joey e Jake.” “Cazzo, hai ragione!” Adrienne tornò in sé, recuperò un po’ della sua forza solo a sentire i nomi dei suoi ‘bambini’. “Ma dove diavolo l’avevo messo il cervello?! Allora non è che qualcuno potrebbe prestarmi un cellulare, per favore?”

 

“Certo Adie” Tré le passò il suo telefono e lei compose freneticamente il numero del figlio maggiore. “Squilla” disse piano.

 

Ore 9.05 p.m. – Joey’s home.

Joey, Jackob e la moglie Kate, e i componenti degli Emily’s Army avevano appena finito di cenare. Erano seduti sul divano nero di pelle a chiacchierare, quando il telefono squillò. Joey prese il cellulare e sullo schermo lesse la scritta ‘mommy’. Allora disse al fratello “E’ la mamma, vorrà sapere se hai mangiato ahah” Ridendo rispose con un “Ciao mà!”. Ma dall’altro capo sentì la voce della madre strana; più seria e grave di quando non l’avesse mai sentita in 44 anni.

- “Joey, papà è all’ospedale”.

- “Cosa? Stai scherzando?” Joseph rimase impietrito.

Intanto gli occhi interrogativi di tutti erano puntati su di lui.

La madre spiegò tutto e Joey iniziò ad agitarsi, a deglutire nervosamente.

- “Io e Jakob stiamo arrivando, arriviamo subito!” disse guardando il fratello.

- “Non correte, per carità. Papà per ora è stabile.”

- “Certo mamma”.

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Capitolo 8
*** Sign, my love, a lost memory. ***


La dottoressa L. Johnson fu di ritorno, come aveva preannunciato, una decina di minuti dopo. I suoi grandi occhi castani si fissarono per un istante in quelli più scuri di Adrienne; poi rivolse il suo sguardo a tutti e tre ed esordì con un tono di voce deciso, quasi sbrigativo:
- “Eccomi, le medicazioni sono state rifatte.” Quindi accennò un leggero sorriso e continuò. “Ma vi chiederei di entrare uno per volta, il signor Armstrong è ancora sotto sedativi, ma l’effetto sta svanendo. Entrando insieme potreste causargli un piccolo shock”

Mike ebbe l’impulso di alzarsi in piedi, che non riuscì a frenare. Sentiva come il bisogno fisico di vederlo, di vedere che ‘stava bene’. E’ proprio vero che ci si accorge di quanto si ama una persona quando questa ci viene portata via, anche solo per un po’.
Michael, dal quale tutti si aspettavano almeno un ‘vado io’, aprì la bocca e si tirò indietro; emise un flebile “Adrienne, devi andare prima tu”.
Quindi si sedette. Si sedette con la sua solita timidezza sulle spalle, si sedette un po’ agitato. Si sedette pensando che di lì a poco sarebbe stato di nuovo solo con lui, dopo tanto tempo. Si sedette impaziente, come un bimbo che non vede l’ora di vedere il suo migliore amico dopo tanto tempo e di abbracciarlo forte forte e non lasciarlo andare via mai più.
Si sedette vicino a Frank, e guardò Adrienne sfilare davanti a lui verso Billie.
Beh, in fondo a quello ormai era abituato, fin da quel concerto nel ’92, fin da quel luglio caldo del millennio scorso in cui  Billie e Adrienne si erano scambiati un sì, un anello ed un bacio.
Ma lui sapeva che Billie gli aveva sempre voluto bene, che l’aveva sempre amato. E quello gli bastava.

A Mike tornarono alla mente tutte quelle serate nella stanza di Billie a ridere e a guardarsi negli occhi, nel millennio scorso.
Gli tornarono in mente tutte le volte in cui Billie, di notte, aveva fatto irruzione nella sua stanza e si era messo a strimpellare la chitarra cantando una canzone appena scritta, scritta per lui. Quelle parole così perfette riuscivano a raccontare tutto di loro, tutto quello che nessun’altro sarebbe stato in grado di descrivere, guardandoli da fuori.
Quella strana emozione che noi comuni mortali non conosciamo; quella strana fusione tra amore ed amicizia.
Quel sentimento così assurdo perché comprende due cose che si annullano a vicenda. Quelle canzoni così belle che non meritavano quasi di essere pubblicate.
Billie era sempre stato bravo con le parole. E i due si erano sempre completati. Silenzi sinceri che ascoltano, sporcati da parole perfette che raccontano. Questo erano e sono Billie e Mike.
Con Adrienne era sempre stato diverso, molto diverso. Ma inconfutabilmente, ugualmente bello. E Mike lo sapeva.
 
Adrienne seguiva la dottoressa che si districava tra i corridoi dell’ospedale; riusciva a mala pena a tenere il suo passo, presa com’era da molti e diversi pensieri della stessa natura.
- “Allora signora Armstrong, come si sente?” la dottoressa Johnson provò a rompere il silenzio, che stava diventando decisamente troppo pesante, con quella domanda. Era incuriosita da Adrienne e non se ne spiegava il motivo.
- “Io sto bene, ma mi chiami Adrienne.” Aveva il viso teso, ma non riuscì a non sorridere.
La dottoressa fece ancora pochi passi e quindi le indicò la stanza numero 16.
- “Entri pure, Adrienne”. La dottoressa la fece passare avanti a sé, quindi rimase sulla soglia per qualche secondo e uscì chiudendo delicatamente la porta.
 
Era lì, steso su di un letto bianco. Il viso era per metà celato da una benda; la cassa toracica era fasciata strettamente, e quelle garze rendevano ogni respiro lento e stentato.
Il viso, ad ogni respiro, si increspava un po’ e le dita si contraevano leggermente. Persino le mani erano fasciate, e da quel pigiama di un verdino sbiadito facevano capolino altre ferite. Dal polso, poi, si diramavano due tubicini che conducevano ad una sacca trasparente e ad una biancastra.
Era lì, inerme. Sembrava che ogni genere di forza o spirito l’avessero abbandonato.

Adrienne si avvicinò lentamente, come spaventata. Gli carezzò i capelli, poi il viso ed infine gli prese la mano.
Prese una sedia e stette lì seduta per quindici minuti, in silenzio. Ad un certo punto le palpebre cominciarono a muoversi, Billie le sbatté qualche secondo e poi finalmente aprì gli occhi. Lì spalanco, proprio come un bambino che guarda per la prima volta il mondo. E lui vide Adrienne.

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Capitolo 9
*** Do you have the time to listen to me whine? ***


A quella visione, rimase quasi smarrito. I suoi occhi sembravano liquidi, smarriti anch’essi tra il bianco della stanza e il nero degli occhi di Adrienne.
Provò ad aprire la bocca, mosse le labbra e la lingua per produrre qualche suono, ma la sua voce si era nascosta. Era come chiusa in qualche angolo profondo del suo corpo, tra le cicatrici delle operazioni e le ossa inchiodate.
Adrienne gli strinse un po’ più forte la mano, quindi si chinò e lo baciò teneramente. Lo baciò come ogni mattina in cui si svegliavano fianco a fianco.
- “Ciao Billie”
-“Ciao Adie”
Adrienne chiuse gli occhi e sfiorò di nuovo le labbra di Billie con le sue, poi, sempre ad occhi chiusi, gli disse: “Ho avuto dannatamente paura, Billie, più di quanta non ne abbia mai avuta in vita mia”
- “Scusa”. Billie sorrise dolorosamente.
- “Credo che i ragazzi vogliano vederti” Adrienne gli sorrise lasciandogli la mano lentamente.
- “Ti amo Adie”
 
La paura di Adrienne tornò ad aumentare ad ogni passo che faceva lontano da quella stanza. ‘Va tutto bene, minnesota girl’ le ripeteva la voce di Billie nella sua testa. Amava quella frase, amava chi l’aveva pronunciata così tante volte stringendola al petto. ‘eccoci qua’.
- “Si è svegliato!” disse Adrienne. Accennò un flebile sorriso, come un arcobaleno che fa capolino tra le nuvole ancora cupe di un cielo temporalesco.
Quindi il suo sguardo cadde sulle espressioni dei figli, appena arrivati.
- “Gli avete spiegato la situazione?”
- “Si, certo” rispose Frank rompendo il suo silenzio con due paroline leggere ma gravide.
Jackob e Joey erano spiazzati, annichiliti. Si sentivano vuoti, si sentivano come trascinati in uno di quei racconti del nonno, dell’ ospedale.  Adrienne stampò loro un bacio sulla fronte. E si sedette al posto di Mike.
- “Beh, vado” sorrise frettolosamente “Stanza 16, no?”

Ad ogni passo che faceva verso quella stanza, la paura continuava ad aumentare. Percorse a lunghi passi i corridoi, vedendo sfilare a destra e a sinistra i numeri scritti sulle porte delle stanze.
‘16, eccola qui’
Abbassò lentamente la maniglia, come faceva quando rientrava tardi a casa di Billie per non svegliare nessuno.
La maniglia cigolò, e puntualmente:
- “Mike, sei tu!”
Mike entrò sorridendo, si avvicinò al letto di Billie, poi si bloccò per qualche secondo. Timido, impacciato come un ragazzino che ha troppe cose da dire all’amico che non vede da tanto tempo, per riuscire a dirne anche una sola. Nemmeno Billie riuscì a sputare una parola, ma protese le braccia verso di lui. Quelle braccia attivarono un impulso antico e profondo in Mike: alla vista di quelle braccia, era come se il suo cuore gli avesse dato una spinta verso quello che desiderava di più. I due rimasero abbracciati per un lungo ma breve tempo. Le dita di Mike si fondevano con i capelli di Billie, le due guance si sfioravano; e sembrava che tutti i pensieri di Mike si fossero sciolti nel calore di quegl’ istanti.
Billie teneva gli occhi chiusi, si era sentito fragile, vulnerabile. Come un bambino messo da solo di fronte alla stanza più buia della casa. E il battito del cuore di Michael era sempre stato l’unico a rassicurarlo, come solo quello di un padre o di una madre può fare.

- “Dio, Mike, ho messo tutti in questo casino. Adesso, se non avessi fatto il cazzone, saremmo tutti a casa di Tré a divertirci. Scusa.” Disse Billie, ancora avvolto tra le braccia di Mike.
- “Non dirlo neanche per scherzo”
- “Grazie per essere qui”
- “Lo sai che io ci sarò sempre qui, per te”.

Billie lo lasciò andare, e tornò a guardare il soffitto, in attesa di Tré. Iniziò a pensare, a produrre finali alternativi per quella ‘storia’. Che poi nemmeno sapeva che gli era successo di preciso, l’avevano operato, sì. Ma poi il vuoto, di nuovo.
Il vuoto dell’ esterno iniziava a farsi spazio nella sua testa, l’assenza di risposte iniziò a richiamare indietro la paura. Billie Joe odiava rimanere solo, non avere nessuno con cui parlare, nessuno che potesse distoglierlo dai suoi pensieri. Amava lasciar correre i suoi pensieri solo quando scriveva. Billie era sempre stato un po’ spaventato da se stesso, la maggior parte delle volte preferiva ‘distogliere lo sguardo’ dai suoi pensieri più profondi, quei demoni lo terrorizzavano. E quella era una dimensione troppo ignota, troppo poco tastabile e commensurabile.

Mike uscì dalla porta, e subito dopo entrò un’infermiera per controllare le flebo e tutto il resto.
-“Frank, credo che Billie sia impaziente di vederti” disse Mike.
-“Vado subito!”  a quelle parole, Tré iniziò a sentirsi meglio. Solo l’idea di rivedere l’amico gli aveva scrollato di dosso tutta quell’immensa paura esistenziale, tutto quel silenzio, tutto quel vuoto terribile.

Ok, al nostro caro Billie serve una buona dose di Tré Cool!’ pensava mentre si avvicinava alla stanza.

Abbassò la maniglia ed entrò gridando con un enorme sorriso:

-“Brutto stronzone mio, mi hai fatto cagare sotto!” L’infermiera guardò Frank come una maestra guarda un bambino che ha appena urlato una stupidaggine per far divertire i compagni di scuola. 

Billie iniziò a ridere fragorosamente e disse:

- “Trè, non saprei come fare senza di te!” anche Frank iniziò a ridere, abbracciando l'amico calorosamente.

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Capitolo 10
*** Hey there, lookin’ at me, tell me what do you see. ***


Trè girò la sedia e si mise a cavalcioni appoggiandosi con le braccia allo schienale. I suoi occhi azzurri sembrarono voler prendere la parola, sembravano voler dire una marea di cose a Billie.

-“Lo sai che questo sarebbe dovuto succedere a me?” Lo guardava tra il divertito e il malinconico, quindi continuò. -“Guida ad alta velocità in stato di ebbrezza” citò. “Se avessi un dollaro per ogni volta che me l’hanno detto nell’ultimo mese, ora avrei 15 dollari” sorrise. Billie non seppe che dire, non azzardò neppure un ‘ma non dire cazzate, amico’. Stette zitto e sorrise, era spaesato.

-“Grazie per essere venuto qui”

-“Oh beh Billie, ma non dirlo neanche per scherzo” Frank abbassò lo sguardo, era come imbarazzato. Gli prese la mano tra le sue, prese un dito per volta, la girò e poi guardò Billie negli occhi.

- “Ti voglio bene brutto cazzone figlio di puttana. Io.. Beh io credo di non avertelo mai detto prima.. Insomma..”

- “Ti voglio bene anch’io Tré, e ogni tanto c’è bisogno di dirselo..”

- “Ogni tanto, eh!” Tré ridacchiò, quindi mollò la mano di Billie. Poi fu il turno di Joey e Jackob.

 

In sala d’attesa la ritrovata tranquillità di Mike e Adrienne e l’agitazione altalenante di Joey e Jackob andavano mischiandosi, macchiandosi l’un l’altra. E’ difficile descrivere i colori degli animi in pena, osservarne la volubilità e tutto il resto. Ed è impossibile non rimanere stupiti dalla fissione delle emozioni, dalla loro capacità di unirsi e sconvolgerti.  In quella stanza, su quelle sedie blu unite a mo’ di panca, era un continuo sospirare, sorridere, gesticolare, pronunciare mezze parole e provare a consolarsi l’un l’altro con argomenti che non convincevano del tutto.

Tutto questo, fino a quando Mike non trovò qualcosa di davvero sensato da dire.

- “Cazzo, mi ero quasi dimenticato! Io.. io devo prendere.. Devo prendere una cosa in macchina”

Mike si alzò, guardò per qualche secondo i due fratelli, poi sorrise e uscì dalla sala d’aspetto. 

Si strinse nella giacca di pelle, nel freddo di una notte di gennaio non ancora troppo giovane. Raggiunse la sua auto, aprì il bagagliaio e la prese per il manico con la stessa dolcezza con cui avrebbe preso la mano fragile di una ragazza. Quindi se la mise a tracolla con la cinghia e tornò indietro velocemente.

 

- “Oh, ma è…”

- “Mike, ma dove l’hai presa?”

Adrienne e i ragazzi erano stupiti, sembrava che quella chitarra fosse il simbolo della vita di Billie, sembrava che tutti lo sapessero tacitamente.

- “Venendo a prenderti ho visto.. Beh era dentro alla macchina. Era intatta..”

- “Grazie per averla presa, Mike” disse Jackob “Ma perché non gliel’hai portata?”

- “Beh, tuo padre ha ricevuto questa chitarra da uno dei membri più importanti della sua famiglia.. Credo che dovreste portargliela tu e Joey.”

- “Mike, Mike, Mike, io non potrò mai smetterla di ringraziarti.” Adrienne lo abbracciò fortissimo e iniziò ad uscire qualche lacrima.

- “Grazie zio Mike” disse Joey affettuosamente.

 

La dottoressa L. Johnson camminava tra i corridoi di quell’ospedale ormai troppo familiare. Si affacciava alle stanze per controllare i pazienti e le loro cartelle cliniche come una madre che entra nella cameretta dei propri bimbi per leggere loro una fiaba della buonanotte. Aveva sempre amato il suo lavoro, ma forse non aveva mai amato davvero null’altro. Aveva sbocconcellato amori, quasi per noia. Aveva gettato al vento la sua vita un milione di volte per poi riuscire a riprenderla per un soffio. Forse non aveva mai amato nessuno per paura di essere delusa, o forse, chissà.. Forse perché nulla le era mai sembrato abbastanza.

Entrò nella stanza numero 16, e senza degnarlo di uno sguardo lesse ad alta voce la cartella clinica:

- “Signor Billie Joe Armstrong, giusto?” non seppe neppure lei il perché di quella domanda, sapeva benissimo chi fosse.

- “Si, sono io.. Billie con ‘ie’ e senza ‘l’ finale” disse piano, sorridendo sotto i baffi come un ragazzino.

- “Come?”

- “Nulla, nulla” sorrise.

La dottoressa gli sorrise di rimando, come per una sorta di riflesso incondizionato. Si sistemò il ciuffo rossiccio con la mano, quindi disse:

- “Sente dolore?”

- “Beh, in realtà sì, credo che l’antidolorifico si sia già assorbito.. Il mio fisico assorbe velocemente.. Ehm.. Beh insomma..Le sostanze”

- “Posso immaginare Signor Armstrong”

La dottoressa aprì l’armadietto posto nell’angolo della stanza e prese una siringa di morfina che iniettò direttamente nella flebo.

- “Ora dovrebbe andare meglio”

- “Grazie dottoressa..mhh” Billie si sforzò di leggere la targhetta posta sul camice della dottoressa, ma la vista era ancora  leggermente annebbiata.

- “Lucy.. Ehm.. dottoressa Lucy Johnson”.

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Capitolo 11
*** See the light. ***


- “Grazie dottoressa Lucy”.

- “E’ il mio lavoro, Billie Joe. Comunque credo che le sue visite non siano ancora finite” disse con un tono quasi materno. Quindi girò i tacchi e uscì dalla stanza, mentre la morfina iniziava a circolare nelle vene di Billie. 

 

Il suo dolore cominciava a placarsi, tutta quella pressione iniziava finalmente ad allentarsi e il respiro cominciava a quietarsi. I suoi occhi erano chiusi, ma le sue orecchie erano tese per captare ogni suono proveniente dall’esterno. 

Billie amava rifugiarsi altrove, chiudere le palpebre, abbassare le tende ed immaginare. E lo faceva per estraniarsi, per concentrarsi, per fuggire dalla realtà che ogni tanto finiva per prenderlo per il collo e soffocarlo. A Billie non era mai piaciuta, la realtà. E non gli era mai nemmeno piaciuto il mondo, il suo girare assurdo, le sue contraddizioni, le sue immense e atroci ingiustizie. Ed era per questo che suonava, a volte per dimenticare, per “far finta che non”, altre volte per ribellarsi, per urlare al mondo. Per far capire alle persone quanto fosse fottutamente sbagliato.

Quindi, anche questa volta, le palpebre scesero, forse anche spinte dalla morfina.

 

- *knock knock* “Pa.. Ehm.. Papà?”

Billie Joe ebbe l’impulso di tirarsi su dal letto per vedere i suoi figli, poi si ricordò di tutti quei tubicini a cui era attaccato, quindi urlò:

- “Joey, Jackob!”

Joey spinse la maniglia ed entrò, mentre Jackob rimase sulla soglia.

- “Papà, stai bene?”.. “Oh che domanda idiota.”

- “Sto bene Joe, sto bene. E.. Jake, perché stai lì sulla soglia? E che diavolo hai dietro alla schiena?” disse Billie Joe con un sorriso paterno.

- “Beh pà, chiudi gli occhi”

- “Ok, ok” disse lui incuriosito.

 

Jackob venne avanti e sistemò la chitarra tra le braccia del padre, gli prese la mano destra e gliel’adagiò sulle corde; poi quella sinistra, alla quale fece stringere il manico. In Billie Joe si accese qualcosa, nel suo cervello scattò un interruttore: le dita della mano sinistra si posizionarono sui tasti quasi automaticamente, iniziarono a scorrere su quelle corde tanto consumate e conosciute. Quindi aprì gli occhi. Carezzò la chitarra, la sua piccola Blue. E in ogni pezzo di scotch, e in ogni adesivo e in ogni graffio rivide un frammento indelebile della sua vita. Alzò lo sguardo verso i figli, la sua bocca rimase chiusa, ma i suoi occhi sparsero cascate di parole che non sarebbe mai riuscito a dire, fiumi di ‘grazie’, e una lieve pioggia di lacrime. Gli sarebbe stato impossibile dire solo una parola, forse perché nessuna parola sarebbe stata abbastanza. Non si curò di asciugarsi il viso bagnato: la sua chitarra era lì, un pezzo di suo padre era lì, i suoi figli erano lì. Quelle lacrime sciacquarono via tutto quel nulla, tutto quel bianco. I colori erano sopravvissuti, la musica aveva battuto persino la morte, e Billie, in cuor suo, sapeva che sarebbe riuscito a fare lo stesso.   

 

- “Mike l’ha presa dalla tua macchina mentre stava venendo qui, pà” disse Joey.

- “E ha voluto che te la portassimo noi” aggiunse Jackob “Sai com’è Mike.. a volte non puoi proprio contraddirlo” Jackob sorrise di un sorriso a 32 denti.

- “Oh, Mike.. lui sa quanto io sia legato a questa chitarra..” Billie Joe iniziò un discorso che non sapeva se sarebbe riuscito a finire. “Insomma, me l’ha data mio padre, e adesso me l’hanno riportata i miei figli” si fermò un attimo e strizzò gli occhi per evitare che uscissero altre lacrime. “E’.. è la cosa più bella della mia vita. Voi, vostra madre, Mike e Tré siete le cose migliori della mia vita” non riusciva a proseguire la frase, non riusciva a trovare le parole giuste. Non riusciva a descrivere un’emozione così grande.

Allora Joey e Jackob lo abbracciarono silenziosamente, e quello fu un momento perfetto.

Ma come ogni momento perfetto, si incrinò subito.

 

- “Ragazzi, nessuno mi ha ancora detto che è successo di preciso. Beh sono andato a sbattere, ho perso tanto sangue, mi hanno operato. Per il resto non so nulla.”

Joey e Jackob vennero rigettati nella realtà, ripiombarono in quella paura terribile. Si guardarono, e si chiesero  tacitamente chi avrebbe dovuto aprir bocca per primo.

- “Hei, mi farebbe piacere sapere di che morte devo morire!” disse Billie Joe, in un tono che ondeggiava dallo scherzoso al tragico.

- “Pà, non dire cazzate! Non.. non..” fece Jackob.

- “Hai una piccola emorragia interna” sputò Joey come per liberarsi di un peso. “Ma ti stanno dando degli antiemorragici.. Hai visto la dottoressa? Insomma, lei sa quello che fa.”

- “Andrà tutto bene! Ah, ti toccherà un po’ di fisioterapia” aggiunse Jackob.

Billie si sentì leggermente spaesato.

- “Grazie ragazzi, non volevo che fosse lei.. Cioè è stato meglio che me l’abbiate detto voi e non.. la dottoressa”.

 

- “Credo che ora dovremmo andare” disse Jake.

- “Si, ora ti lasciamo riposare. E domani ti portiamo un bell’amplificatore per lei.” Fece Joey.

- “Grazie ragazzi, vi voglio bene” 

I due uscirono e chiusero la porta, Billie chiuse gli occhi e fuggì dalla realtà.

Nel corridoio i due videro la dottoressa appena uscita da una camera, la fermarono un attimo e Joey le disse:

- “Non le dispiace se domani portiamo un amplificatore per la chitarra a nostro padre? Credo che suonare un po’ potrebbe fargli bene”

- “Perché ora ha la sua chitarra, quella che era in macchina..”  esitò a continuare “..Quella che era in macchina quando è successo l’incidente.. Magari potrebbe suonare molto piano, o in cuffia” aggiunse Jackob con un sorriso.

La dottoressa, leggermente confusa e contrariata, ci pensò su qualche secondo e poi disse:

- “Se credete che suonare lo possa far stare meglio, portategli pure un amplificatore.”

- “Grazie mille, grazie dottoressa J.”

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Capitolo 12
*** Here comes the rain again. ***


I due si incamminarono a passo veloce verso la sala d’aspetto, dove raggiunsero gli altri. Sospiri accorati e mezze preghiere appena accennate riempivano la stanza, barelle piene e vuote sfilavano davanti a molte paia di occhi contornati di occhiaie. Adrienne, Mike e Frank erano più tranquilli al momento, ma dentro di loro sapevano di non poter giustificare per nulla quella serenità.  

Joey e Jackob raggiunsero il resto della famiglia. Anche loro erano più sereni in viso, ma le preoccupazioni continuavano a svolazzare nello stomaco, ad insinuarsi in ogni cellula, in ogni alveolo.

-“Dovevate vedere gli occhi di papà quando aveva Blue tra le mani” esordì Jackob.

-“E’ stato qualcosa di fantastico, assurdo. Beh, se quella merda che gli iniettano nelle vene fa star meglio il suo corpo, quella chitarra gli ha ridato tutto il resto.” Pronunciando quelle parole Joey si commosse e venne accolto tra le braccia di Adrienne. Mike sorrise, con le labbra, con gli occhi, col cuore. E come al solito si impose di non piangere, sbarrò la strada alle lacrime. Trè si asciugava gli occhi con la manica della giacca poi disse:

-“L’abbiamo sempre detto noi tre, la musica salva la vita. La musica è vita più di ogni altra dannata cosa”

 

«Lucy dove sei? Perché non rispondi alle mie chiamate?»

«Dove cazzo sei?»

La tasca dei pantaloni della dottoressa aveva vibrato per tutto il viaggio in macchina dall’ospedale al suo appartamento. La tasca dei pantaloni della dottoressa era rimasta illuminata, supplichevole di una risposta, anche quando Lucy aprì con rabbia la porta di quell’appartamento troppo grande per lei e scaraventò il cellulare sul divano.

«Rispondimi, ti prego»

«Sei ancora in ospedale? Amore..»

‘Figlio di puttana’ sussurrava tra sé e sé ‘come ha potuto’ si tolse una scarpa ‘come ho potuto fidarmi ancora!’e tolse l’altra lanciandole contro il muro. Voleva piangere, ma come al solito non c’era riuscita. Voleva liberarsi da quelle lacrime acide che le corrodevano le guancie, voleva lasciarsi andare.

Eppure, anche se era completamente sola, si vergognava. Si vergognava ad ammettere a se stessa di non essere mai riuscita a combinare niente di buono nella sua vita che non fosse una schifosa operazione al cuore. Chiuse gli occhi e strinse i denti. ‘non sono capace di farmi amare, evidentemente.. non sono capace di amare’.

 

Andò in bagno, si spogliò ed entrò nella doccia. La doccia è quel luogo sacro in cui le riflessioni vengono enfatizzate, in cui vengono amplificate e viene loro aggiunto l’effetto eco. La doccia ha un’acustica favolosa anche da quel punto di vista.

Le gocce d’acqua le accarezzavano le guance, come la mano di un padre, e il corpo, come quelle di un uomo che non aveva mai amato.

‘Andrew.. mi sembrava che quel nome suonasse bene accanto al mio..’

Il suo cervello proiettò un sacco di immagini dolorose, che sembravano cucirsi sull’interno delle sue palpebre. Ogni volta che chiudeva gli occhi erano lì, la fissavano. E sembrava che persino le sue belle parole, le promesse di Andrew le rimbombassero nelle orecchie, come il rumore del mare in una conchiglia. ‘Ti amo, sei tutto per me e blablabla’.

A Lucy non erano mai piaciute troppe parole. Lei non ne sprecava mai nemmeno una; non sporcava il silenzio per niente.

Il silenzio è sacro, è bello, è chiaro. Le parole non fanno altro che offendere, mentire, ferire. Almeno, questo era quello che pensava. Uscì dalla doccia, si avvolse in un asciugamano e si sedette sul bordo della vasca. Osservava il suo viso riflesso nello specchio, si guardava con distacco, come se quel corpo non le appartenesse. Si giudicava con sguardo severo, non era mai stata orgogliosa di se stessa.

‘sono un disastro’ pensò mentre si infilava qualcosa addosso.

 

Tornò in salotto e, continuando ad ignorare il cellulare accese la televisione. Stavano trasmettendo il telegiornale di mezzanotte, le notizie scorrevano incolori di fronte agli occhi di Lucy, fino a quando il giornalista non pronunciò questa frase:

“L’ex frontman della rock band californiana Green Day, Billie Joe Armstrong, è stato coinvolto in un grave incidente stradale nelle strade di Oakland, in California. La sua prognosi è per ora riservata. Le prime fonti ci dicono che il signor Armstrong guidasse in stato di ebbrezza..”

-“Perché i giornalisti continuano a sparare tutte queste puttanate solo per fare audience?! Non era affatto in stato di ebbrezza, cazzo!” urlò Lucy contro la televisione, come se il giornalista potesse sentirla.

Partì quindi un breve servizio di un inviato, che aveva fatto qualche domanda ad alcuni testimoni sul luogo dell’incidente.

Rimase a bocca aperta, impietrita totalmente. Non per quelle poche parole dei testimoni, ma per il sottofondo del servizio.

«Ring out the bells, again. Like we did when spring began, wake me up when September ends»

La voce di quel 'signor Armstrong' le tornò alla mente. Riemerse, riaffiorò; le risbocciò dentro.

La prima volta che aveva sentito quella canzone aveva 21 anni, era all’università. E una sua compagna di corso le aveva prestato ‘American Idiot’.

Aveva amato quell’album, aveva amato ogni singola canzone. Poi l’aveva perso di vista, l'aveva ridato indietro con un 'grazie'.

Aveva smesso di amare i Green Day come smetteva di amare ogni cosa, prima o poi.

–“Here comes the rain again, falling from the stars. Drenched in my pain again, becoming who we are.” cantò lei, e pianse.

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Capitolo 13
*** I beg to dream and differ from the hollow lies. ***


Lucy piangeva, Billie dormiva beatamente. Adrienne, Mike, Trè, Joey e Jacob aspettavano.

-“Signori Armstrong?” chiese l’infermiera rivolgendosi loro.

-“Si, siamo noi” rispose Mike.

-“Ora il signor Armstrong è stabile, potete tornare a casa”

-“Ma come? Io rimango qui con lui, non posso lasciarlo solo, in un ospedale, di notte!” disse Adrienne.

-“Mi dispiace signora, ma non permettiamo la permanenza notturna dei familiari. Comunque non si preoccupi, suo marito è in buone mani” disse sorridendo “E per qualsiasi cosa la dottoressa che segue il suo caso sarà qui in un batter d’occhio”.

Adrienne, rassicurata dal viso e dalle parole materne dell’infermiera, assentì col capo e la ringraziò.

Trè e Mike presero le rispettive macchine e tornarono alle rispettive case e Adrienne, dopo vari tentativi dei figli di convincerla a dormire da uno di loro, si fece accompagnare a casa.

La notte, o quello che ne restava, passò tranquilla. Dopo le lacrime, i sospiri, le paure, tutta la famiglia si addormentò e cadde in un sonno profondo. Morfeo decise che non c’era più tempo per pensare e ripensare, decise di troncare sul nascere il girarsi e rigirarsi nel letto e accolse tutta la famiglia tra le sue braccia.

 

Il servizio era finito, Lucy piangeva. Quella canzone aveva fatto da catalizzatore, era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Troppi rimpianti, troppe paure compresse. Troppi ricordi dolorosi, troppi errori ammucchiati che erano esplosi tutti insieme in un rivolo di acqua salata. Se ci fosse stato suo padre l’avrebbe abbracciata, le avrebbe detto ‘piangi Lucy, fai scivolare via tutte le cose cattive’. Le mancava da morire suo padre. Le mancava ogni singola cosa di lui, la sua voce profonda e rassicurante, i suoi consigli e tutto il suo amore.

Da quand’era morto non era più riuscita a tirar fuori nulla, si teneva tutto dentro e spingeva nel profondo della sua anima le cose che non voleva più vedere, tutti i fallimenti, tutti gli addii, tutte le promesse mancate, come si fa con le cose che si mettono in cantina; che vengono stipate in un posto buio e remoto, ma di cui non ci si vuole liberare del tutto. Le lacrime le sciacquarono il visto, le diedero forza. Prese il cellulare e rimase quasi meravigliata dal numero dei messaggi e delle chiamate ricevuti.

‘Quel pezzo di merda sa’ , pensava, ‘sa che io so!’.

«Sei ancora in ospedale? Amore..»

‘Amore.. che coraggio, questo. Ha avuto il maledetto coraggio di starmi vicino, gliene do atto. Ha avuto il coraggio di resistere persino per qualche anno. Ha avuto il coraggio di chiamarmi amore, di dirmi che mi amava. Poi ha ceduto. Ha avuto il coraggio di mentirmi’ Prese il cellulare e compose il numero di Andrew. Le sue dita fremevano dalla rabbia e dalla sicurezza, si sentiva piena, forte.

“Lucy!” sentì la sua voce rispondere, e un trenta per cento dei suoi propositi svanì.  Poi ripensò a suo padre, alla canzone, alle lacrime e si schiarì la voce.

“Andrew, non c’è null’altro da capire.” Disse lapidariamente. “Grazie di tutto”. E buttò giù. Rimase seduta sul divano, il telefono che vibrava non le dava più quel senso di oppressione, ormai tutto quel dolore era diventato solamente un impiccio. Non le importava più di lui, non le importava più del sesso, delle puttanate da due soldi che le erano state rifilate. Aveva sputato tutto il veleno, e ora stava bene.

‘devo dormire, anzi voglio dormire’.

Dopo poco il cellulare si arrese e smise di vibrare, e Lucy si addormentò sul divano stringendolo in pugno. ‘potrebbe essere l’ospedale’  fu il suo ultimo pensiero prima di cadere nell’oblio.

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Capitolo 14
*** I think they found another cure for broken hearts and feeling insecure. ***


-“Durante la notte il signor Armstrong ha avuto un lieve attacco cardiaco, si era formato un coagulo nella coronaria”
-“E perché diavolo non mi avete chiamata, Kristal?!”
-“Ma dottoressa, non c’è stato nessun arresto, abbiamo somministrato della nitroglicerina e qualche pastiglia di aspirina per prevenire un’ulteriore coagulazione del sangue”
-“Bene, anzi.. non molto bene. Comunque chiamami la prossima volta”
La dottoressa Lucy era leggermente turbata, ma la cosa che la turbava di più era il turbamento stesso.
‘Oh ma che cazzo mi sta succedendo? Se mi avessero chiamata di notte per un lieve attacco cardiaco di un qualsiasi altro paziente mi sarei innervosita e non poco! Avrei detto una cosa del tipo “a cosa servono gli infermieri o i medici di turno?!” non sono più una laureanda di 25 anni, non posso affezionarmi ai pazienti, non dovrei metterli su piani diversi neanche se venisse qui Gesù Cristo in persona a farsi operare al cuore da me, cazzo!’
Scacciò via quei pensieri quindi si lavò le mani e si sciacquò il viso, ed entrò in sala operatoria, pronta per sostituire il peacemaker ad un certo signor Jeremy di Los Angeles.

Adrienne dormiva ancora profondamente, quando il telefono squillò per la seconda volta:
-“Signora Armstrong?”
-“Sì, sono io, è l’ospedale, vero? E’ successo qualcosa a mio marito?!”
-“Sì, è l’ospedale, signora. Suo marito ha avuto un lieve attacco di cuore durante la notte, ma..”
-“Cazzo, lo sapevo che non avrei dovuto lasciarlo solo! Io, io arrivo subito!”
-“Signora, non si allarmi, suo marito sta bene. L’orario delle visite va dalle 10.30 alle 11.30”
-“Vorrà dire che aspetterò fuori dalla camera fino alle 10.30!”.
Adrienne si sentì pervadere di nuovo da quel senso di impotenza e disperazione della sera prima, iniziò ad ansimare, a percorrere la stanza a grandi passi rapidi. Lei non poteva fare assolutamente niente, non poteva impedire che tutto ciò succedesse di nuovo, non poteva salvare l’uomo che amava; e questo non riusciva davvero ad accettarlo.
‘Ora devo chiamare Mike, e Frank, e Joey, e Jackob. E cosa dovrei dire “Billie.. Papà ha avuto un attacco di cuore, ma nulla di grave” insomma, una cosa da nulla.’
Chiamò per prima Mike e Frank dicendo loro della telefonata, e del lieve attacco di cuore, ricevendo risposte altrettanto sbalordite e atterrite quanto la sua. Quindi chiamò i figli, ricordando loro dell’amplificatore, dicendogli di non preoccuparsi e di venire a prenderla per portarla all’ospedale.
Quando Adrienne chiuse la porta di casa erano le 9.00.
 
 -“Ragazzi, grazie mille per avermi portato l’amplificatore! Sapete, non è il massimo ‘suonare’ senza produrre suoni!” disse Billie sorridendo, intento a schiacciare il tasto che faceva tirar su il letto per mettersi in una posizione più eretta.
Imbracciò la chitarra, prese in mano il plettro e pennò con decisione quelle sei corde. Quel suono lo inebriò del tutto, gli fece raggiungere il nirvana.
-“Come stai, Billie?” disse Adrienne in tono piuttosto grave.
Il resto della famiglia era in silenzio, gli occhi erano puntati su Billie, che pareva un bimbo che stringeva il suo giocattolo più amato, noncurante di tutto il resto.
-“Adie, ragazzi io sto bene.. Grazie di tutto, ancora.”
Iniziò a strimpellare, quando un’infermiera furiosa chiese chi avesse permesso tutto ciò.
-“Ci ha dato il permesso la dottoressa Johnson” disse Jackob.
-“Ah, capisco” disse lei un po’ meno stizzita “ma faccia piano, la prego!”
Billie rise piano, poi Trè gli lanciò un paio di cuffie addosso dicendo:
-“Ogni tanto magari attaccale alla chitarra e non fare troppo casino, capito nano?”
-“Ahah grazie Trè!” rispose lui.

Finito l’orario delle visite Billie rimase nuovamente solo con la chitarra. Iniziò a colorare il silenzio della stanza, iniziò a gridare a bassa voce e a suonare mettendoci tutto quello che aveva con il volume al minimo, come non faceva da anni.
‘Mi mancava questa sensazione, cazzo! Mi mancavo io.’
-“Infermiera! Infermiera! Gridò ad un tratto.
Questa si precipitò nella stanza chiedendo se avesse dei dolori al petto o se avesse bisogno di qualcosa, ma Billie la interruppe subito:
-“Ho bisogno di un pezzo di carta e di una penna, per favore”
-“Cosa?”
-“Mi serve un foglio e qualcosa con cui scriverci sopra, grazie!” scandì Billie.
Nello stesso momento entrò la dottoressa, che sentendo la richiesta del paziente strappò un foglio dalla sua agenda, prese una penna dal taschino del suo camice e glieli porse.
L’infermiera uscì scocciata dalla camera.
-“Grazie” disse Billie con un ampissimo sorriso.
-“Di niente.. Cosa scrive? Se posso sapere..” disse lei con un tono tra il serio e il divertito.
-“Scrivo una canzone, è da tanto che non lo facevo, sa?”
Lei sorrise, e lui riprese:
-“L’ho sempre fatto quando avevo il cuore spezzato, o comunque quando il mio cuore aveva ripreso a battere per una persona dopo tanto tempo. Ed è successo anche questa volta, il mio cuore ha ricominciato a battere per me stesso e per tutte le persone che amo. Solo che questa volte non è successo solamente in senso figurato!”
“Lei è una di quelle persone che trova sempre le parole giuste, come la invidio!” i muscoli del viso della dottoressa non rispondevano più agli impulsi nervosi; Lucy continuava a sorridere lievemente e non sarebbe riuscita a fare altrimenti.
-“Chiamami Billie, se ti va ti chiamo Lucy, sennò continuerò a chiamarla dottoressa Johnson”.
-“Va bene Billie!” disse lei, poi si fermò un attimo e riprese “L’altra sera al telegiornale parlavano di te. Dicevano che hai fatto un incidente per guida in stato di ebbrezza”
-“Bastardi!”
-“Già”
 
 

 

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Capitolo 15
*** May I waste your time too? ***


Le lancette giravano vorticosamente, in quella stanza. Il loro rumore, che in qualche momento, pareva andasse in crescendo, non modificava neanche d’un soffio la calma imperturbabile del volto e dell’animo di Billie Joe. Sembrava quasi che i suoi occhi lampeggiassero di nuova vita mentre scriveva instancabile; sembrava che dalla sua testa volessero sbocciare nuovamente dei riccioli neri, sembrava tornato giovane con quel suo canticchiare assorto di nuove melodie.
Ma non si poteva dire la stessa cosa del signor Jeremy Burton, il suo nuovo compagno di stanza.
Era vecchio, dieci, forse quindici anni in più di Billie. Vecchio per quelle palpebre stanche di stare alzate, vecchio per quelle dita si muovevano con lenta frenesia, quasi arrugginite, vecchio per quella voce burbera e appesantita dal fumo costante di una sigaretta.
Sfogliava con un’espressione accigliata il primo di una pila di sei o sette giornali a sfondo politico ed economico. Ogni tanto, leggendo di qualche calo in borsa o di qualche azienda in fallimento, gli scappava un ‘dannazione!’ dalla bocca, sottolineava numeri, cercava di calcolare bilanci a mente, e non riuscendoci tirava sospiri fischianti.
Billie alzò gli occhi dal suo foglio, posò un attimo la matita e il blocchetto portatogli da Mike e squadrò l’uomo.

-“Cosa sta facendo? Se posso sapere..” chiese Billie rompendo il silenzio.
-“Calcolo quante fottute migliaia di dollari ho perso questi ultimi tre mesi” rispose con un tono di superiorità. “e tu che scrivi?”
-“Parole, musica.. roba del genere”.
Entrambi, malgrado fossero diametralmente opposti, ebbero lo stesso lampo, le stesse parole presero forma nella loro testa: ‘questo idiota sta fottutamente sprecando il suo tempo’.
Il silenzio ricadde nella stanza e ricostruì una cortina tra i due, che tornarono ai propri affari.
Forse è questa la più grande mancanza del genere umano: l’incapacità di mescolare la scienza con l’arte e di creare qualcosa che vada oltre. L’incapacità di trovare un equilibrio nella follia più delirante. L’incapacità di assegnare un senso alle cose invece di cercarcelo dentro e basta.
I loro due universi continuavano a non sfiorarsi, Billie e il signor Jeremy continuavano ad ignorarsi, ma nel profondo, sentivano di essersi incuriositi l’uno dell’altro.
 
Le 10.30, come sempre, da circa quattro giorni, iniziava l’orario delle visite. In quella stanza, su quella tela bianca, cominciarono ad apparire personaggi ben noti. Adrienne e Billie riempirono subito quell’immagine con un tenero bacio, intorno i figli sorridevano incorniciando il papà e la mamma, e il piccolo Andrew dava quel tocco di colore in più alla camera.
-“Nonno, nonno, nonno come ‘tai?” disse Andy arrampicandosi sul letto di Billie.
-“Una meraviglia piccolino mio!” rispose lui accarezzandogli le guanciotte paffute.
-“Sono contento! Ti voglio bene nonno Billie”.
In quel clima di serenità entrò la dottoressa, per nulla intenzionata ad infrangerlo. Si diresse subito verso il letto di Jeremy.
-“Buongiorno signor..” ebbe una piccola esitazione, quindi lesse sulla cartella clinica “signor Burton.. ha riposato bene?” chiese cortesemente.
-“Sì, bene.” Rispose freddamente lui.
-“L’operazione è andata a buon fine, e credo che potremmo dimetterla tra 48 ore.” Accennò un sorriso e proseguì come di prassi “domani le consegneremo una tessera magnetica con tutti i dati di cui avrà bisogno e dovrà sempre portarla con sé.”
Girò quindi la testa verso il ‘signor Armstrong’. Lo vide sorridere, parlare con i suoi cari con una luce nuova, ma di origine antica negli occhi, e pensò che sarebbe stato meglio se fosse tornata finito l’orario delle visite.
 
Uscì dalla stanza cercando di sistemarsi i capelli arruffati, e pensò a quanto amasse il suo lavoro. Quell’ospedale era un piccolo specchio del mondo. Centinaia di storie si intrecciavano per caso, storie nate da attimi, storie nate da incidenti. Vite che si accendevano, vite che si spegnevano. Occhi che si aprivano per la prima volta al mondo e occhi che si chiudevano per l’ultima, cuori che smettevano di battere e cuori che ricominciavano a battere.
L’emozione di salvare una vita, l’adrenalina che tutte le sere si scioglieva sola in un boccale di birra. Tutte quelle piccole cose che riempivano la sua vita che faceva acqua da tutte le parti.
‘Sono fiero di te, piccola mia’ le ripeteva sempre suo padre. Ma ora non aveva più nessuno che glielo dicesse, non aveva più nessuno da rendere fiero.
Aveva solamente qualche amico con cui passare un’ipocrita serata, e qualche paziente che ogni tanto si ricordava di lei e le regalava una bottiglia di whiskey a Natale.
Aveva il suo divano, i suoi film strappalacrime da due soldi – che poi non sapeva nemmeno perché li guardasse – e quel sacchetto di pop corn da mettere nel microonde.
Ma per questo non si odiava, e non odiava nemmeno un po’ le persone che la circondavano. E questo perché riusciva a cogliere un atomo di bello in ogni cosa; perché sapeva soffrire ed amare incondizionatamente.

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Capitolo 16
*** I want to bring you up again, now. ***


- “Ciao amore, a domani!” disse Adie stampandogli un bacio sulle labbra. “Ah, Mike e Trè hanno detto che domani verranno sicuramente, caro!”

- “Ciao pà! dissero Joey e Jackob sorridendo.

- “Ciao nonno Billie!” fece Andy uscendo dalla stanza con aria allegra. Billie sorrise loro, quindi prese in mano la chitarra e iniziò a suonare, questa volta in cuffia.

 

La dottoressa Lucy, finito il giro dei pazienti e il turno in ambulatorio, decise di tornare alla stanza numero 16.

Percorse come al solito i corridoi verde acqua con passo affrettato; il colore di quelle pareti la tranquillizzava, la faceva sentire a casa. Quindi spinse la porta ed entrò nel bianco della stanza. Il signor Burns sonnecchiava, e Billie, appena sentì il lieve cigolio della porta, alzò la testa e si tolse le cuffie.

- “Buongiorno Lucy!”

- “Ciao Billie! Come ti senti?”

- “Come un ragazzino! Non faccio più fatica a respirare e mi sembra che le ferite si stiano rimarginando molto velocemente!” disse lui raggiante.

- “Ottimo, oggi pomeriggi faremo qualche analisi, e poi ti toccherà una settimana di riabilitazione”  lei sorrideva, e lo faceva così naturalmente che si era stupita di sé.

- “Ci sto!”

La dottoressa fece per allontanarsi, poi invece si fermò e disse

- “Sai Billie, hai davvero una famiglia meravigliosa”.

- “Lo so, sono fantastici. Sono la cosa migliore della mia vita. E poi probabilmente senza Mike non avrei conosciuto Trè, e non ci sarebbero mai stati i Green Day. E senza i Green Day non ci sarebbe stato nessun concerto e non avrei mai conosciuto Adrienne. Quindi niente Joey, niente Jackob.. ”

- “Che poi certi bastardi dicono che alle rock star non frega nulla dell’amore. Dicono che si fermino tutti alla prima di una lunga serie di puttane. Davvero, non capiscono un cazzo. Tu hai una famiglia stupenda…” disse lei. Poi riprese “E il piccolino, lui come si chiama?” sorrise ancora di più.

- “Andrew” Billie Joe lo pronunciò chiaramente, sorridendo anch’egli. E la reazione di Lucy gli fu totalmente inaspettata.

La dottoressa ripeté quel nome, la prima volta pacatamente. Poi le sue guance cominciarono ad arrossire, iniziò a strizzare gli occhi. Lo ripeté ancora e questa volta scoppiò in lacrime. Si asciugò le lacrime con un gesto rabbioso, e si ricompose.

- “Scusa Billie, ora è meglio che vada.”

- “No aspetta cazzo! Ora mi spieghi tutto.” Disse Billie tirandosi su a sedere.

- “Non c’è nulla da spiegare. Sono io che sono semplicemente sbagliata..” fece lei, sentendosi una completa idiota.
- “Andrew era un bastardo con cui stavi?” chiese Billie con tono paterno.

- “E’ l’amore, è il fottuto amore. Non c’è stata una volta nella mia vita in cui mi sono innamorata e non sono finita a pezzi.” Billie non disse una parola e la fece continuare.

- “E poi alla fine è difficile raccogliere tutti i fottuti pezzi e rimetterli sempre al loro posto! Perché ogni volta si fanno più piccoli e difficili da riattaccare!” parlava animatamente, quasi senza prendere fiato “E così spesso ne ho lasciati alcuni indietro, ogni volta ho sempre perso qualche parte di me..” si asciugò il viso e Billie prese la parola.

- “E piano piano finisci per distruggerti”.

- “Esatto”.

Questa storia, Billie l’aveva già sentita. Forse un po’ ribaltata, forse non così esplicita, ma la conosceva bene.

- “Ci sono due cose che riparano le ferite e rimettono insieme i pezzi: il tempo – ma probabilmente ti sembrerà la solita puttanata, e un buon amico.” Le ammiccò “e tu hai trovato me!”

Lei accennò una risata, poi lo ringraziò e tornò al lavoro, forse con qualche consapevolezza in più.

- “Non ti preoccupare, Lucy!”. Qualcosa nel cervello di Billie era scattato, quindi riprese in mano il blocchetto e la penna e iniziò a buttar giù qualche verso.

 

Lucy non sapeva che diavolo pensare. Entrò in bagno e si lavò la faccia con l’acqua ghiacciata e tornò in ambulatorio. Ma in ogni momento in cui il suo cervello non era occupato con una diagnosi o roba del genere non poteva fare altro che pensare a quei quindici minuti nella stanza 16. ‘wow, un vero amico…uhm.. interessante'

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Capitolo 17
*** A small prize I’ll pay to see that you’re happy. ***


-“Hei, tu!” fece il vecchio Jeremy poco dopo che la dottoressa chiuse la porta, con voce roca.

-  “Scusi signor Burton, l’abbiamo disturbata prima?” disse Billie alzando lo sguardo dal blocchetto su cui stava scrivendo.

- “Nah niente affatto, ma ho sentito tutto.. Sei una brava persona. Una di quelle che sa ascoltare.. Non ne esistono quasi più, sai?” il vecchio accennò una risata malinconica e roca, poi abbassò lo sguardo.

- “E lei è un uomo buono che si nasconde dietro un’espressione dura e una rivista economica.” Fece Billie, che incuriosito da quel vecchio, voleva capirne di più. “Perché?”

- “Perché?! Perché tutto cambia. Tutto si rompe, tutto ha una fine. Hai presente la storia dei pezzi rotti che si perdono e non si riattaccano più? Ecco, io ne ho persi a palate.” Si rabbuiò. La sua espressione era meccanica, e i suoi ingranaggi erano arrugginiti, forse dalle troppe lacrime.

- “Mi scusi.. ecco..”

- “Non ti scusare” rispose lui, cercando di non perdere del tutto la sua maschera. “Anzi, scusami tu. Odio fare l’anziano patetico signore che va a raccontare in giro la sua patetica vita.”

- “Tacere è patetico, e non esprimere le proprie emozioni lo è ancora di più” sputò fuori Billie “ecco.. questo, questo è quello che penso”.

- “Hai una bella famiglia, Armstrong. Ma penso te l’abbiano già detto in tanti…” disse Jeremy. - “Beh, sì. Grazie..” sorrise lievemente “e lei?”.

-“Mio figlio sta a New York.. o almeno credo. L’ultima volta che l’hanno trasferito mi ha fatto mandare un messaggio vocale dalla sua segretaria.. appena si è ricordato di me. E quindi, beh, credo proprio che non abbia avuto tempo di venire a trovare il suo vecchio all’ospedale, dopo un’operazione a cuore aperto.”

Billie Joe tacque, di fronte a qualcosa che non poteva neppure capire.

- “E poi, da quando se n’è andata Lily..” inspirò lentamente e sorrise di un sorriso rassegnato “nessun peacemaker aggiusterà le cose.”

- “Mi dispiace, con tutto il cuore” disse Billie.

Il signor Jeremy Burton venne dimesso il giorno stesso, poco dopo, e Billie non ne seppe più nulla.

 

Poco dopo arrivò puntuale l’orario delle visite, e altrettanto puntuali Mike e Trè. Entrarono nella stanza come di solito entravano a casa dell’amico, presero due sedie e ci si misero a cavalcioni.

- “Heilà amico!”

- “Ciao Billie! Come va?” fecero i due raggianti.

- “Benone! Come procede il mondo.. fuori dall’ospedale?” disse lui sorridente.

- “Alla grande, insomma, in questa settimana in città e al bar non si è parlato che di te, prima della tua presunta morte, poi del fatto che sei rimasto il solito vecchio alcolizzato” i tre scoppiarono a ridere contemporaneamente “poi quando è stato appurato che non eri morto e che l’incidente non era stato provocato stranamente dall’alcool, sono iniziati quei discorsi di circostanza, pieni di ‘oh, dev’essere stato un brutto incidente’ o ‘quanto ci dispiace’ davvero, una cosa assurda.” Trè continuò il discorso, divertito.

- “E poi il fatto della chitarra che si è salvata è diventato un qualcosa di magico, un simbolo di.. uhm boh, valli a capire, i giornalisti… Poi, diavolo, è da tantissimo che non sei su un fottuto telegiornale locale, è un evento!” disse ridacchiando.

- “Woah figo!” fece Billie ironico “E sono sicuro che nel servizio avranno messo una di quelle cazzo di foto di repertorio.. tipo una di quelle con la fottuta camicia nera e la stramaledetta cravatta rossa!”

- “Esatto!” dissero i due in coro.

Nel frattempo entrò Lucy, che sorrise a Billie e si diresse verso il letto del signor Burton.

- “Buongiorno signor Burton, oggi potrà finalmente essere dimesso”

- “Perfetto, grazie della gentilezza”.

- “E’ il mio lavoro, viene qualcuno a prenderla?”

- “Sì, il tassista.” Disse lui freddamente.

- “Oh, d’accordo. Si ricordi di portare il tesserino magnetico sempre con lei!”

- “Sicuro.”

Jay raccolse la sua roba, indossò il suo cappello e uscì dalla porta accennando un saluto con la mano a Billie, che ricambiò.

 

La dottoressa Johnson arrivò quindi da Billie, controllò i suoi valori dall’ultima analisi e gli disse che il giorno seguente avrebbe iniziato la riabilitazione. Quindi si sedette vicino a Mike e Trè.

- “Hey Lucy, come stai?” le chiese lui.

Trè guardò Billie di sbieco e “ ‘Hey Lucy?’ uhm vedo che il nostro caro Billie non ha perso la sua capacità di fare amicizia in fretta!” disse ammiccando a Mike. “Comunque piacere, sono Frank, ma tutti mi chiamano Trè!” disse tendendo la mano a Lucy.

- “Oh, è un piacere conoscere di persona mr. Cool!” fece lei stringendogli la mano “e tu dovresti essere Mike se la mia memoria non mi tradisce!”

- “Sì, sono io!” disse Michael.

- “Vedo che non avete avuto bisogno di me per presentarvi” disse Billie. “Comunque.. ecco.. io avrei bisogno di parlare un minuto in privato con Mike.”

- “Uhm.. certamente! Io e Lucy usciamo un attimo” disse Frank “va bene, no se ti chiamo Lucy?” disse girandosi verso la dottoressa.

-“Certo” disse lei sorridendo.

 

Una volta usciti Mike disse a Billie con tono abbastanza preoccupato: “Hei Billie, che devi dirmi di così importante per far sloggiare Trè e Lucy?”

- “In realtà nulla, fa parte del mio piano!”

- “Piano? Quale piano?” rispose Mike stupito.

- “Vedrai! In ogni caso Lucy è davvero una donna fantastica, insomma…”

Mike non riusciva a capire del tutto le parole dell’amico. Billie prese il blocchetto su cui stava scrivendo poco fa e gli disse: “Guarda.. ho scritto qualche verso!”

 

«What tells me that everything is wrong?

What tells me that everything is ok?

What's new in all this?

I do not know if fate or the stars in the sky

I only know that she is fantastic,

and everything is so strange!»

 

- “Diavolo Billie, da quanto tempo era che non scrivevi una canzone?!.. Poi questi versi sono.. wow!”

- “Tanto, troppo. Mi sa che sono tornato!”

- “D’accordo, ma poi mi spiegherai il dannato piano!”

- “Va bene, va bene.. ora va’ a chiamarli e reggimi il gioco”.

 

Intanto fuori da quella stanza i due avevano chiacchierato di gusto, di tutto e di più, era nata una di quelle conversazioni che si spera di continuare in un bar, o qualcosa di simile. Quando i due rientrarono nella stanza sorridevano ancora, quindi Lucy lì salutò e tornò al lavoro.

 

- “Avete risolto?” disse Trè.

- “Uhm si.. tutto fatto” disse Mike, con scarse capacità recitative.

- “Comunque la tua amica è davvero simpatica.. la dottoressa.. intendo..” fece Trè. Billie sorrise, conscio del successo del suo piano.

- “Penso che ci vedremo sta sera per un caffè!” concluse Frank.

 

 

 

 

 

Nota dell'autrice: i versi inseriti nel mio racconto fanno parte di una canzone del gruppo di un mio amico, e visto che mi era piaciuta particolarmente e che si inseriva bene nel contesto ho deciso di metterla anche qui, quindi uhm, ecco.. ci tenevo a precisarlo :)

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