Atto di dolore

di Impossible Prince
(/viewuser.php?uid=114889)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Redenzione ***
Capitolo 2: *** Ordine Sacrilego ***
Capitolo 3: *** Non desiderare la terra d'altri ***
Capitolo 4: *** Non commettere atti impuri ***
Capitolo 5: *** Non Uccidere ***
Capitolo 6: *** Uscire dalla casa degli schiavi ***
Capitolo 7: *** Onora il Padre e la Madre ***
Capitolo 8: *** Oh Babilonia devastatrice, beato chi ti ricambierà il male che hai fatto a noi… ***
Capitolo 9: *** Non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te ***
Capitolo 10: *** Chi è come la bestia e chi può combattere contro di lei? ***
Capitolo 11: *** Bang Bang ***
Capitolo 12: *** I primi saranno gli ultimi ***



Capitolo 1
*** Redenzione ***


Correvo sotto la pioggia battente. I miei tacchi affondavano nelle pozzanghere creando quell’effetto sonoro che tutti i bambini adorano, “cic ciac”.
I colpi di pistola, le inchiodate, l’incendio e il rumore della lamiera avevano sicuramente allarmato e incuriosito gli abitanti della zona che presto si sarebbero precipitati per vedere quanto successo. Non avevo tempo quindi di prendere l’ombrello dalla “mia” macchina perciò mi rimaneva solo di correre, correre il più lontano possibile.
Correvo, correvo sotto quel diluvio con la pioggia che si infrangeva con violenza sul mio viso, spazzando e nascondendo le lacrime ma impedendomi, contemporaneamente, di ridere e godermi quanto era successo.
Non so perché piangevo, mi è venuto naturale. Forse era perché sapevo che l’epilogo della vicenda sarebbe giunto tra poco.
Arrivai davanti alla porta della chiesa. Un grande portone in legno con incise scritte latine che notavo solo in questo momento, quando furono illuminate da un lampo.
Eppure ero venuta decine e decine di volte qui, se non centinaia, quando ero bambina; prima di decidere di lasciarmi dietro il mondo in cui ero nata.
Mi tolsi il fermaglio e lo infilai delicatamente nella serratura, lo avevo fatto milioni di volte e neanche il mio ciuffo biondo davanti agli occhi poteva fermarmi, neanche il vento impetuoso. Sentii il “click” e in quel momento, grazie ad un altro lampo riuscii a leggere la prima riga di ciò che era inciso sul grande portone di legno:
“Rèquiem aetèrnam”
Il resto è storia. Sottovoce, mentre aprivo la porta sussurrai tra me e me:

“Rèquiem aetèrnam
dona eis, Domine,
et lux perpètua lùceat eis.
Requiéscant in pace.
Amen.”

Non so se fu pura coincidenza che alla fine dell’”Amen” il portone fece un gran tonfo dietro di me, ma sono anni che non credo più alle coincidenze, c’è sempre un disegno più o meno malato alla nostra vita.
La chiesa era umida e fredda, un posto tutt’altro che accogliente come vorrebbe invece apparire. Mi guardai attorno, i volti degli affreschi ai muri sembravano minacciosi quando venivano illuminati dalle saette all’esterno che si facevano sempre più frequenti, e fu così che Gesù crocefisso assumeva i connotati di Satana e la Madonna addolorata sembrava ridere della sorte del proprio figlio.
Camminai lentamente nel corridoio centrale della chiesa, toccando e tastando il legno delle panche con la mano sinistra, impregnandomi di ricordi e ascoltando il ruscello che d’acqua che ricopriva i tetti di Roma.
Il silenzio era interrotto dai tuoni che, echeggiando nelle sale della sagrestia, producevano suoni simili a urli di demoni infernali.
Mi inchinai davanti all’altare e proprio quando il mio ginocchio destro toccò il pavimento un lampo con il relativo tuono illuminarono la vetrata che raffigurava la Croce di Cristo.
Chiusi gli occhi, respirai pronfodamente e poi iniziai a proferire, con il cuore che batteva forte e la voce che tremava:

“Mio Dio,
mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati,
perché peccando ho meritato i tuoi castighi,
e molto più perché ho offeso te,
infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa.
Propongo con il tuo santo aiuto di non offenderti mai più
e di fuggire le occasioni prossime di peccato.
Signore, misericordia, perdonami."

Ma non sembrava volermi perdonare, perché mentre mi facevo il Segno della croce l’albero di mele piantato nel giardino ruppe la grande vetrata e un frammento di vetro rosso si infilò nel dorso della mia mano destra.
Tolsi il vetro dalla mano soffocando l’urlo di dolore morendomi la spalla sinistra, presi una delle mele che caddero su una delle sedie dove eran soliti sedersi i chierichetti e la morsicai avviandomi verso l’uscita.

Stavo per girare la maniglie e uscire quando una voce di un uomo anziano interruppe il mio viaggio mentale:
“Allora hai finalmente trovato la pace nella tua anima, Maria.”
Erano anni che nessuno mi chiamava così. Chiusi gli occhi e sorrisi d’istinto: “Don Davide, non pensavo di trovarla…”
“…In vita?”
“…qui.”. Mi girai di scatto, e con la stessa rapidità mandai indietro il ciuffo e rimisi il fermaglio al suo posto.
L’uomo cominciò ad avvicinarsi lentamente, incurante di camminare sui frammenti di vetro: “Non eri al funerale.”
  • Esatto, Padre
  • Hai chiesto perdono per questo al Signore?
  • No, Padre
  • E per cosa?
  • Ho chiesto perdono per aver agito non comandando l’istinto animalesco. Per quello che ho fatto e per quello che farò.
  • Dev’essere qualcosa di molto grave per averti indotto a intrufolarti qui dentro.
  • E lei dev’essere molto furbo per essersi fatto trovare qui, oggi.
  • A dire il vero sono giorni che ti aspetto, un pastore conosce le sue pecore, quando ho visto in lontanza del fumo mi sono precipitato qui, ad aspettarti.
Mi girai. Il mio revolver era scarico, non avrei potuto crivellare il suo corpo così pretenzioso di proiettili, provvidenza divina?
Mi girai e aprii la porta: “Mi dica Padre, è ancora ossessionato dalle bambine?”

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Ordine Sacrilego ***


Era parecchio tempo che non tornavo a Roma, più di dieci anni, forse quasi venti. Io e il mio uomo c’eravamo allontanati quando ho compiuto diciott'anni verso una meta ambiziosa: Los Angeles.
La notizia del mio ritorno aveva fatto quasi scalpore a Trastevere, il mio quartiere d’origine. Molti videro una sorta di provocazione il fatto che decisi di alloggiare proprio qui, mio quartiere e non in qualche altra zona.
I miei rapporti con la curia romana sono sempre stati splendidi, o per lo meno, lo sono stati fino a quando pugni, calci e sangue non sono volati in aria a causa mia.

Ansimavo e sudavo. Avevo polsi e caviglie legati strettamente da una corda.
La macchina si era fermata da poco e sentivo delle urla fuori, principalmente di due uomini, poi di alcune donne terrorizzate.
Non riuscivo ad urlare, era come se il terrore mi avesse rubato la voce, ma riuscivo a sussurrare qualcosa.
Incrociai le mani fra loro e incominciai a pregare la Madonna, sperando e auspicandomi che mi ascoltasse e che mi salvasse dalla situazione in cui mi ero cacciata.

Tutte le sere, dopo mangiato e aver studiato (perché ero un eccellente studentessa), “uscivo con gli amici” ovvero lavoravo in un bordello-bar.
Si trovava sullo stesso vialone che, se veniva percorso fino alla fine permetteva di entrare in San Pietro, era frequentato da molti preti e suore e quindi i controlli delle forze dell’ordine erano nulli.
Servivo ai tavoli seminuda bevande da nomi imbarazzanti e ambigui come “Nettare bianco” o “Lingua di burro”.
Al bordello vero e proprio si accedeva salendo le scale che si trovavano dietro al bancone su cui era appeso il solito cartello per allontanare gli sconosciuti. Ufficialmente era una cantina, ma l’ufficialità non corrisponde mai al vero.
Con il calare delle tenebre e lo sguardo di Dio puntato altrove, i preti romani si divertivano qui, dopo giornate passate a condannare sessualità mal condotte, trovavano rinfresco in questo piccolo locale seguiti da una schiera di bambini e bambine, e guardate un po’, anche Don Davide veniva a farci compagnia.
A loro promettevano il Paradiso, la grazia di Dio e di Gesù Bambino con la benedizione della Madonna, a me diedero l’Inferno sottoforma di Sacro Cuore.

Don Cristoforo era noto per la sua tendenza ad alzare costantemente il gomito. La sua bevanda preferita era “Sangue pomposo africano”, ovvero una miscela di vodka con altri alcolici, una vera e propria porcata, non era un caso quindi che spesso interrompeva le messe perché stava male, come lui diceva “influenza intestinale”.
Oltre a servire i tavoli con abiti succinti, quali vestita da studentessa giapponese, dovevo anche intrattenere gli ospiti, magari sedendomi sulle loro gambe o facendoli annusare i miei seni.
Fu così che quando il 15 ottobre Don Cristoforo mi fece sedere sulle sue gambe e sentii un pizzicotto sulla mia coscia non potei che pensare a qualche pizzicotto tiratomi per soddisfare la perversione di questi uomini di Chiesa.
Passarono cinque minuti quando la vista cominciò ad annebbiarsi e io a barcollare. Afferrandomi per la vita mi portò fuori, aprì la macchina e mi ci buttò dentro.
Non capivo quello che mi succedeva, non ero cosciente.
Mi legò prima le mani e poi le caviglie. Si era preparato tutto bene il bastardo.
Ci furono delle urla, io ebbi la forza di mugugnare ma un tonfo e divenne tutto buio.
La macchina partì a tutta velocità facendomi smuovere a destra e a sinistra, come un corpo morto.

I minuti passavano e alle curve si aggiungevano altre curve e altre curve, qualche rettilineo e curve su curve, dopo un po’ un rumore di un motorino cominciò a farsi costante: qualcuno ci stava seguendo e ne fu certa quando cominciò a tamponarci.
La macchina si fermò così come il motorino, Don Cristoforo scese.
Oltre alla voce del prete si sentiva la voce di un altro uomo, poi i due cominciarono a menarsi e la gente dalle finestre che gridava insulti di vario tipo al ragazzo reo di picchiare e malmenare un uomo di Chiesa.
Un pesante tonfo e dopo poco rividi la luce del lampione, il ragazzo mi tirò fuori dal bagagliaio della macchina dove ero rimasta tutto quel tempo.
Gli effetti della droga stavano passando, la lucidità riprendeva forma nel mio corpo e la sensibilità mi tornava negli arti.
Mi fece salire sul suo motorino e poi partimmo di corsa lontani da lì, mentre nella mia testa “L’Ave Maria” tornava ad echeggiare, pregando questa volta però di non cadere nella tela di un altro ragno.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Non desiderare la terra d'altri ***


Quella fu l’ultima sera in cui lavorai nel bordello.
La vicenda fu soffocata nel denaro contante, elargito senza troppi complimenti dal Vaticano, l’uomo, ormai diventato il mio nuovo ragazzo, fece in modo che i soldi arrivassero tutti a me, perché la mia famiglia, rea di non aver vigilato abbastanza, non se li meritava.
Nel frattempo terminai gli studi, e quando io avevo 18 anni, Matteo ne aveva 32.
Eravamo stufi di vivere lì, sotto gli occhi di tutti, guardati male l’uno perché aveva picchiato un prete, io perché avevo accusato un prete che poi è stato picchiato.
Migliaia e migliaia di lettere di solidarietà arrivarono a Don Cristoforo che ottenne anche il ricevimento dal Papa in persona.
Il locale venne chiuso per qualche mese e ora che ci penso non era neanche la prima volta che succedeva.
Forse, altri preti rapivano bambini che venivano scoperti.
Finita la maturità e passato qualche mese, grazie ai soldi decidemmo di scappare negli Stati Uniti, lontandi dal Bigotto Paese e dalla Città Eterna.
Partimmo senza avere una dimora precisa, all’avventura.
Potevamo perdere tutto, essere derubati, uccisi e i nostri corpi diventare parti di indumenti o mobilia della casa di qualche schizzato, oppure potevamo rischiare e continuare ad essere una coppia normale.
Con i soldi cominciammo a pagare l’affitto e nel frattempo cercammo un lavoro, ma la crisi imperversava e trovare occupazioni, anche part time, non era semplice, anzi…
Avevamo trovato una piccola villetta a Burbank, nella periferia Nord di Los Angeles, una zona per residenti ad alto reddito.
Noi potevamo permettercelo perché… beh, qualche anno prima ci fu una strage che portò alla decapitazione dei cinque figli, l’impiccagione della moglie e lo squartamento del marito; come se non bastasse i criminali riempirono la piscina di benzina e gli diedero fuoco, sorte simile capitata anche al prato bruciato in certe zone facendo disegnare delle piccole croci.
I veri colpevoli non si scoprirono mai anche se le autorità hanno sempre sospettato sia Mafia sia dei Ku Klux Klan.
Fu così che con 300 dollari riuscivamo a portarci a casa l’affitto per due mesi, mica male no?
Nel frattempo avevamo anche cambiato identità, il mio nuovo nome era Elizabeth Cornish mentre Matteo divenne Gabriel Owen, per assicurarmi che di non esser riconosciuta cambiai anche colore dei capelli da biondo a rosso ramato chiaro e ne approfittai per cambiare togliermi i codini che mi costringevano a tenere per avere finalmente i miei capelli sciolti.
Nessuno sapeva che eravamo italiani, ai nostri vicini, con cui avevamo instaurato sin da subito un ottimo rapporto avevamo detto di essere Canadesi, con parenti in Quebec,
Volevamo dimenticare il Bel Paese e tutto ciò che ne faceva parte: evitavamo Little Italy, i ristoranti italiani e gli abbigliamenti di stilisti del Bel Paese.
Passò qualche mese prima che Gabrel trovò un lavoro in un supermercato, a metà fra una guardia e un cassiere, orario notturno ovviamente.
Io…
Anche io lavoravo di notte, di giorno mi allenavo in casa. Ci eravamo costruiti una piccola palestra con tanto di pesi e sacco da boxe.
Ufficialmente lavoravo in un ufficio come donna delle pulizie. Doveva essere un ufficio molto grande dato che ci lavoravo dal tramonto all’alba. In realtà mi bastava mettermi una parrucca nera, dei falsi occhiali da vista e abiti succinti in pelle diventando Black Butterfly.
Pensavo di aver lasciato alcune cose indietro, lontane fisicamente da qui ma dal destino non puoi fuggire e fu così, con il parere favorevole del mio ragazzo, tornai ad essere la ragazzaccia che pensavo fosse morta a Roma.
Perché se ci sono precetti che mi sono chiari è che a Dio non puoi mentire; e se ai suoi occhi sono una cattiva ragazza lo sono sempre stata e sempre lo sarò. Perché continuare a mentire allora?

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Non commettere atti impuri ***


Ci sono tanti nomignoli per ogni professione: un politico è un ladro, un presidente, grazie a Kennedy, è un donnaiolo, quelle come me possono essere chiamate in tanti modi: puttane, lucciole, zoccole, prostitute… Curioso vero per una che si chiama Maria?
La Bibbia temeva tanto la figura di questa professione nella società che creò un anti-Cristo apposta apposta: La meretrice di Babilonia.
Guadagnavamo molto con il mio lavoro e questo ci permise di comprare abiti e macchine di lusso, e si sa no? Più sei ricco più i ricchi hanno una buona impressione di te e improvvisamente diventi loro amico.
In breve tempo entrammo nei grandi club riservati come quello dei campi di golf o nei salottini dove le donne parlavano o per meglio dire, sparlavano dei mariti e delle donne che non avevano partecipato. Divertente vero?
In realtà l’unica che conosceva affondo e realmente il quartiere ero io. Non perché fossi particolarmente perspicace ma perché i loro mariti a volte erano i miei clienti o clienti delle mie “colleghe”.
Nessuna poteva dirsi immune da corna o tradimenti, nessuna.
Ma era divertente sentire sparlare queste inutili donne, che si fingevano acculturate solo perché avevano visitato paesi orientali come l’India o avevano vistato l’Europa.
Pensavano di conoscere il mondo ma in realtà non conoscevano neanche il loro vicinato, alcune di loro si credevano brave psicologhe altre brave attrici. Ma la migliore ero io ad eludere le loro lauree e superare le loro abilità, una puttana alle loro feste e non si accorgevano di nulla.
Le cose fra me e Owen andavano stupendamente, grazie anche a queste feste.
Lui mi raccontava e imitava in maniera sarcastica e goffa quello che si dicevano, gesticolando, agitando il sigaro. Tutte discussioni politiche fra un Bacardi e altro rum pregiato.
Quando lui mi chiedeva cosa dicevano le mie amiche ero solita anche io a fare imitazioni piuttosto cattive su quelle magre, ma quel giorno d’estate lo presi per mano e lo portai nel giardino, facendolo sedere comodamente sulla sedia sdraio in legno.
Salì sulla sdraio rimanendo in piedi e poi con le mani feci una pistola:
“Bang bang, I shot you down
Bang bang, you hit the ground
Bang bang, that awful sound
Bang bang, I used to shoot you down”
Rise di gusto , allungò le mani e me le divise: “Dai, di che parlavano quelle?”
Ma io feci finta di nulla, incominciai a muovere sinuosamente il bacino rimanendo comunque attenta a non scivolare: “Luce della mia vita, fuoco dei miei lombi, fai il bravo tesoro e dammi monete d’oro!”
Mi mangiava con gli occhi divertito e sorpreso.
Mi amava con ogni battito del suo cuore da cocainomane quale era diventato.
Perché fra Bacardi e rum, le strisce di coca non mancavano mai.
Mi amava con ogni battito del suo cuore da bugiardo quale probabilmente è sempre stato.
Perché lavorare in un supermercato era solo una copertura, l’ho scoperto pedinandolo sotto una pioggia torrenziale. Il mio uomo era cattivo, un ladro d’auto a servizio della Mafia, forse formata dalle stesse persone che ci invitavano a quelle cene eleganti.
Mi amava con ogni battito del suo cuore da lenone, perché i miei affari ora li gestiva lui.
Non so se era conoscenza che sapevo ormai tutto di lui oppure no, ma il modo in cui mi trattava, le cose che mi sussurrava facevano pensare che lui avesse plasmato la mia anima da vedova nera.
Le calde mattine d’estate si divertiva stare sdraiato in costume e guardarmi con gli occhiali da sole mentre il bikini mi scivolava via mentre cantavo sul bordo della piscina, immaginando almeno per un momento un futuro da diva per me, un futuro lontano da questa criminalità che ci stava abbracciando ancora.
“Luce della mia vita, fuoco dei miei lombi, sii una brava bambina, ti darò le monete d’oro” e mi lanciava gruppi di banconote e ridevamo, ridevamo come pazzi, anche quando mi inseguiva per farmi gavettoni.
Al mondo non c’era nessun altra persona di cui ci poteva importare: eravamo io, lui, e il suo sigaro perennemente acceso.

Ma la felicità dura poco.
Fu così che cinque anni dopo mi ritrovai chiusa in un bagno. Seduta contro il muro con una pistola in mano, ansimando e pregando Maria, la mia Santa Protettrice.
Mi sentii sola, per la prima volta dopo anni. Il fuoco e la luce si erano inesorabilmente spenti.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Non Uccidere ***


Erano passati sette anni da quando ci trasferimmo in America e di queste sette anni, cinque di questi furono passati a vivere il sogno americano.
Ottima casa, ottimi vicini, ottimo stipendio con ottimo guadagno e ottime assicurazioni sanitarie.
Gabriel una sera decise di confidarsi e di raccontarmi tutto, io mi finsi sorpresa, ma era una cosa positiva in fondo.
Si era finalmente aperto con me, e anche io lo feci. Gli dissi di avere delle paure, grandi paure, rispetto ai miei clienti e che volevo che lui mi insegnasse qualcosa sull’auto-difesa e anche sull’uso di armi da fuoco.
Detto fatto.
Passammo i pomeriggi ad allenarci a casa e al poligono di tiro, era un ottimo istruttore, evidentemente nella Mafia era uno degli uomini con la mano ferma.
Mi disse che la firma per i suoi omicidi era inserire un chicco di caffè sulle labbra.
Disse che, assieme all’incrociare le braccia come se fosse un vampiro, dava classe, dignità e rispetto alla vittima e inoltre, così facendo, faceva sospettare alla polizia di avere a che fare con un serial killer e non con la criminalità organizzata, deviando le indagini.
La tranquilla vita, per quanto assurda potesse sembrare le cose sarebbero uscite fuori, fu spezzata e distrutta definitivamente il 25 Ottobre.

Ero seduta sulla mia panchina, abituale, sotto un lampione che mi permetteva di leggere un libro tra un cliente e l’altro, quando mi si avvicinò un ragazzo, vent’anni, non di più.
Il suo respiro era pesante e guardava per terra.
Feci finta di nulla.
“Quanto prendi?” disse con voce tremante e tesa.
“355, servizio completo.” Risposi io, con sufficienza, distrattamente, continuando la lettura del mio libro
  • Cara…
  • Sono la migliore.
  • Devo pagare in più se ti faccio venire a casa?
  • No, ma niente riprese, niente orge, niente botte, succhiotti o baci.
Accettò e mi fece salire in macchina.
Mi portò in un quartiere malfamato, o per lo meno, abitato da famiglie davvero poco abbienti.
Le case non avevano l’intonaco, o se l’avevano era in gran parte rovinato, i giardini erano utilizzati più come discarica che altro, alcune case erano sigillate dalla polizia.
Si fermò a quella che penso sia stata casa sua. Un solo piano, con alcune crepe sul muro e ruote di scorta buttate nel giardino.
Entrati vidi lo schifo in cui abitava.
Divano rotto, televisione in bianco e nero, muri sporchi e neri, tavolo in legno con due o tre sedie pieghevoli.
“Sei sicuro di poterti permettere una come me? Sai… non si direbbe..”
“Certo, ne sono sicurissimo!” poi mi fece cenno di sedermi sul divano: “Ti spiace aspettare solo cinque minuti?”
Non feci storie per quanto fossi seccata dalla richiesta e mi sedetti.
Ripresi la lettura del mio libro fino a quando dalla strada rumori di moto e macchine a tutta velocità non si sono fermate davanti all’edificio. Chiusi il libro e inspirai ed espirai profondamente.
Dalle moto e dalla macchina si sentirono numerosi ragazzi scendere e avvicinarsi sempre di più alla porta.
Lo guardai scocciata, irritata e piena di rabbia: “Avevo detto niente amici.”
Mi alzai e mi diressi verso la porta ma proprio quando la mia mano era lontana dalla maniglia solo qualche millimetro ecco che questa si girò e la porta si aprì.
Cinque, forse sei ragazzi con sguardi da arrapati sessuali mi osservavano; mi feci coraggio e provai a sfidarli andando in avanti. Ma uno di loro, il più vicino a me mi spinse con la mano indietro: “Dove credi di andare”
  • Levati dai coglioni, ora.
Si misero a ridere, pensando di umiliarmi. Si mise davanti a me, a pochi centrimetri dal mio viso soffiandomi in faccia il fumo della sua sigaretta e dando il tempo agli altri di entrare e di chiudere a chiave la porta d’ingresso.
Pochi secondi ed erano tutti intorno a me, a slacciarsi camicia e pantaloni, pronti e con la speranza di stuprarmi, anche lo sfigato che mi aveva trascinato qui.
Mi girai e guardai attorno lentamente, osservando e le porte che si potevano intravedere per nascondermi da qualche parte. L’unica speranza era in un corridoio ad L dietro il ragazzo che in quel momento avevo dietro di me.
La camera da letto che era sulla mia destra, purtroppo non aveva la porta, non mi sarei potuta proteggere lì dentro.
Guardai quel ragazzo, l’età sembrava sempre sui 20anni. Li feci una smorfia da puttana che ai clienti piace tanto, ricambiò con qualcosa che pensava fosse sexy.
Mi avvicinai lentamente, con la mano sinistra mi slacciavo il giubbotto di pelle, con la destra invece estraevo lentamente il coltello che tenevo in casi di emergenza come questo.
Con uno scatto gli infilai il coltello nell’organo genitale e poi tenendolo con la mano sinistra corsi in avanti facendolo sbattere contro il muro e iniziai a correre per il corridoio a L che dopo poco si chiudeva nel bagno.

Mi chiusi dentro mentre sentivo urlare nell’altra stanza e i pugni si infrangevano contro la porta che sembrava essere l’unica cosa resistente in questa casa.
Mi sedetti sul muro opposto ansimando e iniziai a pregare Maria, mentre fra me e me ripercorrevo quello che mi era appena capitato.
“Ti conviene non uscire di lì o ti fottiamo fino a farti sanguinare” gridavano.
Dopo la preghiera mi sentii più leggera e smisi di essere preoccupata ma dentro di me provai una rabbia forte, il sangue mi ribolliva nelle vene.
Presi dallo stivale sinistro la pistola e da quello destro il caricatore, montai l’arma e mi misi dietro l’entrata del bagno.
“Vi conviene andarvene. Ho una pistola. Lasciate la casa, me ne andrò, e nessuno si farà male. E magari il vostro amico si salva anche.”
“Non si è fatto niente. Gli hai colpito la gamba. Ma è vivo. E vegeto, e non perde neanche molto sangue.” Disse uno dei sei.
Respirai profondamente.
“Ho una pistola. Allontanatevi ho detto.”
“Sììì, anche noi, abbiamo sei pistole cariche e dure tutte per te.” Disse un altro che non riuscì a trattenere le risate, come tutti gli altri.
Non mi lasciarono altra scelta.
Aprì la porta e mirai alla testa dei due che erano dietro. Caddero senza dare segni di vita.
Velocemente percorsi il corridoio e colpii gli altri tre che fecero la stessa fine.
L’ultimo era in piedi, davanti alla porta, con le gambe tremanti che tentava di aprirla.
Rimisi dentro l’arma, ma gli avvinghiai il collo sussurandoli di aprire. Notai che era molto più piccolo degli altri, avrà avuto sedici anni, ma non per questo non si meritava una punizione.
Lo feci cadere per terra posizionando la sua testa fra lo stipite e la porta che poi gli feci sbattere contro una, due, cinque, sette, dieci volte. Fino a quando smise di piangere.
Rientrai un attimo in casa, cercai le chiavi di una delle macchine e poi scappai, vista e osservata da ormai tutto il vicinato.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Uscire dalla casa degli schiavi ***


Non ci sono molte città in cui qualunque cosa tu faccia è “peccato” e non a caso questa viene chiamata Città del Peccato.
Con le sue mille luci, con le centinaia di sosia di Elvis e gli afro americani con le loro capigliature cotonate e i pantaloni bianchi a zampa d’elefante.
Un mondo a parte, questo, ma neanche tanto distante da Los Angeles, dove apparire conta più dell’essere. Per lo meno qui, solo i talentuosi si sono fatti strada.
E se anche il solo visitare Las Vegas in sé costituisce un qualcosa da cui farsi perdonare, capisci che il Boss è davvero arrabbiato con te solo quando la polizia di due stati federali ti sta inseguendo e se presto un feroce addio si farà strada nel tuo cuore.

Ero diretta al supermercato, ovvero il covo dove Gabriel lavorava. Avevo preso la decappottabile di uno di quei “cosi” e ora stavo pensando a cosa dire e a cosa fare.
Mentre attraversavo L.A. vedevo alcune volanti della polizia andare nel senso opposto, probabilmente sulla scena del crimine, ma non ci feci caso più di tanto, ero totalmente persa, persa in quello tsunami riflessivo che mi aveva travolto come in pochi casi.
Niente Gesù, Maria e nessun Signore. Non credo di esser mai stata atea come in quel momento.
Bussai pesantemente alla porta del retro, leggera, grigia a tratti arrugginita.
Matteo aprì e mi guardò perplesso e impressionato dalle lacrime che scendevano dagli occhi: “Che è successo?”
Lo guardai terrorizzata: “Posso entrare?”
Mi fece cenno di entrare, guardò attentamente che non fossi seguita e chiuse la porta.
Prese una sedia dove mi fece sedere e mi chiese: “Cosa è successo?”
  • Un cliente, mi ha chiesto quanto volevo e se potevo andare a casa sua, ho detto di sì. Mi ha chiesto di aspettare cinque minuti e poi sono arrivati.
Mi fermai. Nel mio cervello non riuscivo ad andare avanti.
“Chi sono arrivati? Chi?!” disse incazzato.
  • I suoi amici.
  • E poi?
  • E volevano stuprarmi. Perché tutti vogliono stuprarmi. Perché?!
  • E cosa hai fatto?
  • Sono scappata nel bagno. Ho infilato il coltello nella gamba e sono scappata chiudendomi dentro.
Ho intimato di andarsene, di lasciarmi andar via da casa ma non mi ascoltavano.
  • Quindi?
  • Quindi ho tirato fuori la pistola e gli ho fatti fuori.
  • Santa merda! Ti hanno visto?
  • Sì!
Gabriel batté i pugni sul tavolo gridando dalla rabbia. Si accese una sigaretta, e poco dopo un’altra, contemporaneamente alla prima.
Girava per la stanza dando sempre un occhio all’entrata, poi aggiunse: “Dobbiamo fuggire… Sì. Dobbiamo fuggire. Fammi fare un giro di chiamate. Rimani qui, nascosta, immobile.”
Per due giorni ci ospitarono i nostri vicini, un’ottima idea dato che la polizia andò due volte nella mia ex casa. Una volta vennero anche a suonare, ma io mi ero nascosta bene e i signori da cui ero ospitata dissero che non mi vedevano da un po’, Dio li benedica.
Gabriel sistemò le ultime vicende coi suoi capi, si fece dare dei contatti nuovi e poi il pomeriggio del 28 Ottobre partimmo su una decappottabile bianca.
Ero fuori dalle corse ora, e capivo che la mia relazione stava inesorabilmente raggiungendo il capolinea. Owen non mi parlò per tutto il viaggio, manco mi degnò di uno sguardo.
Ma io l guardavo, lo consumavo con gli occhi, osservavo le sue smorfie, chissà cosa gli passava per la testa.
La macchina sfrecciava sola nel deserto, una triste premonizione del mio futuro? Era piuttosto raro vedere qualcuno che vi veniva incontro.
Per tutta la durata del viaggio pensai al fatto che presto o tardi tutto questo amore sarebbe finito, arrivati a Las Vegas, mi avrebbe lasciato.
“La mia vecchia roccia è un mafioso, ma è così buono che sono sicura non mi farebbe mai del male. Voglio vivere, voglio pregare, voglio respirare con te sino alla fine dei miei giorni. Dio sta vegliando su di noi, e se ti prende io potrei morire senza di te.”
E posai la testa sulle sue gambe, chiudendo gli occhi e piangendo silenziosamente.

Il Sole era quasi tramontato quando gridò: “Cazzo, nononono!”
Mi alzai di colpo e la vidi lì, in posizione orizzontale rispetto a noi, sul ciglio della strada. Una voltante della polizia con due uomini in mezzo alla strada che facevano cenno di fermarci.
Matteo spinse l’acceleratore e quando ci furono affianco, abbassato il finestrino tirai fuori la mano e feci il gesto della pistola che sparava un colpo.
La nostra ultima, disperata corsa. I cambiamenti della mia vita avvengono sempre quando sono seduta in un automobile inseguita da qualcuno.
E’ così pazzesco il modo in cui mi caccio nei guai, sono una meretrice, sono l’anticriso e sto per portare l’inferno nella Città del Peccato.

La Strip era lunga, grande e spaziosa, con grandi palme e piena di passanti sui marciapiedi. Il luogo adatto per un inseguimento con la polizia.
Giravamo per la città e ci stavano con il fiato sul collo, i loro proiettili ci mancavano di striscio e vedevamo la gente che correva disperata da una parte all’altra terrorizzata per ciò che accadeva intorno.
Riuscimmo a seminarli e dopo poco la benzina terminò e la macchina si fermò all’ingresso di una stretta via poco illuminata.
Scendemmo dalla macchina e sentimmo le sirene della polizia avvicinarsi sempre di più.
Mi tirò per un braccio e mi strinse forte a sé: “Tranquilla, ci penso io a questi. Scappa, fuggi, non voltarti indietro. Mi hai sentito? NON VOLTARTI INDIETRO.”
Mi diede un bacio. Il bacio. Il nostro ultimo bacio.
Poi mi staccai e iniziai a correre per la lunga strada, mentre la polizia lo circondava.
Alla mia destra c’era un palazzo con una rientranza dove c’era il portone. Velocemente, con uno scatto, mi misi lì dentro raggomitolandomi tutta, mentre quattro uomini della polizia di corsa mi passarono vicini senza accorgersi di me.
Era tutto finito, tutto e per sempre.
E a decidere questa volta furono proiettili, numerosi proiettili verso un’unica persona, che da quel momento non esisteva più.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Onora il Padre e la Madre ***


Vestito lungo e scuro, scuro come era il cappello pamela che indossavo. Nera era la mia anima e neri erano gli abiti che da allora indossavo, da quando Matteo morì in una sparatoria a Las Vegas per qualcosa che avevo combinato io, incapace di mantenere il controllo, incapace di raziocinio in momenti in cui la ragione è la qualità più importante.
Camminavo sul viottolo del cimitero, in silenzio con lo sguardo nel vuoto e tenendo in mano qualche gelsomino.
La neve aveva coperto le lapidi, la terra, e rendeva il paesaggio fermo nel tempo, come se certe ferite non potevano rimarginarsi più.
Venire qui era un obbligo morale, o forse, un cercare di riscattarsi. Non so bene neanche io cosa possa essere.
Camminavo e camminavo, la ghiaia e il sale umidi scricchiolavano sotto le mie scarpe, era l’unico rumore che si sentiva in questo paesaggio fatato ma con tinte maledette.
Arrivai alla lapide, con cura tolsi la neve che copriva tutto.
Qualcosa non quadrava.
La lapide che ho sempre visto non corrispondeva a quella che vedevo in quel momento. Mi alzai mi guardai attorno, magari distratta avevo sbagliato strada, e invece no.
Mi riabbassai e continuai a togliere la neve, una voce mi sussurrò “Quale stupido uomo la chiamerebbe “morte”? “.
Mi girai di scatto. L’avevo sentita chiaramente, ma non c’era nessuno. Era deserto.
Smisi di esser fine e tolsi velocemente la neve dalla lapide, mentre il mio cuore batteva all’impazzata.
Gabriel Owen era scomparso, al suo posto c’era “Madre”, “Padre”, “Fratello”. La mia mamma, il mio papà, mio fratello.
Mi venne una fitta micidiale allo stomaco, mi incominciò a mancare il respiro. Dalle foto erano loro. Dove diavolo ero finita?
Mi alzai velocemente e la sentii ancora quella voce: “Ti senti come se avessi perso i tuoi migliori amici?”
Mi girai a destra, sinistra, dietro, ma non c’era nessuno. Mi sembrava di impazzire e la testa stava per scoppiare, chiusi gli occhi per qualche secondo cercando di regolare la respirazione, quando gli riaprii non ero più al cimitero. O meglio, non ero più al cimitero che avevo visto fino a quel momento.
La neve era scomparsa, il tempo era grigio, le statue degli angeli avevano manette, forconi verso il basso e alcune erano incatenate, davanti a me sorgeva una statua della Madonna che mi guarda con compassione. Sulla testa aveva una corona di spine che sanguinavano.
O almeno, così mi pareva di vedere. La vista era confusa, sfuocata e gli occhi bruciavano ma in lontananza avevo visto quattro figure nere, e quella più esterna a sinistra mi puntò una pistola contro.
Iniziai a correre e dietro di me la stradina si sbriciolava cadendo all’interno di un burrone senza fondo infiammato. L’Inferno.
Corsi, senza voltarmi, sorpassai un albero con al centro del tronco una grande “M” circondata anche lei da spine che la facevano sanguinare.
Arrivai e mi riparai dietro un albero. Le figure erano scomparse.
“Oh Dio, Graz” ma la frase fu interrotta perché dal fusto uscirono numerose mani che volevano acciuffare le mele dell’albero.
Mi allontanai camminando all’indietro, spaventata dall’immagine che avevo davanti, finché con le spalle non toccai un enorme cancello d’oro. Dalle sbarre non si vedeva nulla. La luce era potentissima. Aprii ed entrai.
Ero in Paradiso. Cominciai a camminare lentamente, circondata da nuvole color rosa carne con sopra angeli immobili.
La luce proveniva da un triangolo sopra di me, non riuscivo a guardarlo per più di qualche secondo.
Raggiunsi una fontana, l’acqua era di color oro, al di sopra era presente il cuore sacro. Non riuscì a trattenermi, il mio braccio si muoveva in automatico, mosso da una forza maggiore.
Lo toccai.
Tutto cominciò ad infiammarsi e a crollare, come un grande castello di legno; e per una frazione di secondo vidi in mezzo alle nuvole, ormai color viola vidi gli occhi di un uomo. Mi erano familiari, ma non riuscivo a ricondurli a nessuno.

Mi svegliai nell’antro di una chiesa, fuori pioveva e i tuoni erano tanto potenti quanto numerosi. Mi alzai frastornata, voltandomi e tenendomi la testa con le mani. C’era una vetrata con una grande croce rossa sopra.
Iniziai a barcollare, la vista tornò ad essere confusa, stavo parlando con qualcuno. Non so chi, non so di cosa parlavamo.
La mia ultima parola fu “Bambine” e poi accadde tutto così velocemente…
BANG.

Mi alzai sudata dal letto, ansimando e gridando.
Era tutto un sogno. Mi guardai le mani, tremavano e non riuscivo ad alzarmi dal letto, ero pietrificata.
Fuori pioveva, come nella Chiesa in cui ero “appena stata”. Solo che ero da sola.
Giusto il tempo di riprendermi, di bere un bicchiere d’acqua che il telefono cominciò a squillare, mi dava fastidio. Tanto fastidio. Era come avere un martello pneumatico affianco all’orecchio.
Risposi. Era l’ambasciata italiana. Mia mamma, mio padre e mio fratello erano stati trovati morti qualche ora fa.
Rimasi pietrificata, di sasso. E se non fosse stato solo un sogno?
La dipendente dell’ambasciata stava ancora parlando quando la linea telefonica cadde e poco dopo anche la luce venne a mancare.
Mi nascosi silenziosa sotto il letto e aspettai in silenzio, coprendo il mio respiro con un panno.
Frequentando un mafioso non credi più alle coincidenze.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Oh Babilonia devastatrice, beato chi ti ricambierà il male che hai fatto a noi… ***


Erano passati tre anni dalla notte in cui tutto cambiò… ancora. Dalla notte in cui Matteo venne ucciso.
Da allora, grazie ai contatti che mi lasciò ricominciai a vivere in maniera onesta. Non ero più Canadese, ma di origine Italiana, mi chiamavo Grazia Terrasina ed ero una stretta parente della mia famiglia italiana.
Smisi di essere una prostituta, diventai un’insegnante in un poligono di tiro. Grazie alla mia manualità con le armi da fuoco insegnavo la gente a far centro in testa.
Abitavo in un motel, il proprietario era un amico di Gabriel, mi faceva uno sconto sull’affitto.
Era una brava persona, mi aveva aiutato lui a trovare lavoro e a mettermi in regola. Aveva anche lui parenti italiani, anche se non so di che grado o quanto fosse vera la cosa…
Intanto, io ero tornata bionda, e se per i primi mesi, se non per il primo anno portai un taglio molto corto, dopo aver superato il lutto li lasciai crescere, tornando ad avere i capelli lunghi come quando abitavo nella Città Eterna.

Ero sotto il letto con un fazzoletto davanti alla bocca per nascondere il respiro.
Non so chi erano, non so perché erano venuti, non so chi li aveva mandati. Avevano staccato la luce e le linee telefoniche e non sono semplici coincidenze, c’era qualcuno di esperto dietro tutto questo.
Ma come loro erano esperti lo ero anche io.
Tenevo fra le mani un coltello da macellaio, sebbene insegnassi come maneggiare una pistola avevo dimestichezza anche con le armi da taglio.
Le mie pistole purtroppo erano nell’armadio in bagno, troppo lontano per prenderle, mi ero dovuta arrangiare in qualche modo.
Aspettai quindi in silenzio, in un interminabile, angosciante silenzio.

Qualcuno inserì la chiave e lentamente, cercando di fare il più silenziosamente possibile girò la maniglia, aprì la porta entrò e chiuse di nuovo. Non vedevo la faccia, vedevo solo che indossava degli stivali e dei pantaloni aderenti neri. La seguivo con lo sguardo preparandomi bene con il coltello.
Quando mi fu sufficientemente vicino, con una forza che nemmeno io pensavo di avere in corpo tagliai gli stivali fino a raggiungere la caviglia destra, un colpo secco, e feci lo stesso con l’altra gamba.
Era una donna, anche lei capelli biondi, lunghi questa volta. Mi misi sopra di lei, le alzai la testa e le tagliai la gola.
In mano aveva una pistola, mi poteva tornare utile. La presi, lanciando un’occhiata scocciata al crocefisso sul muro: “Ancora con queste cose Gesù?”.
Mi nascosi dietro la porta questa volta. Sentivo dei passi tanto decisi quanto precisi e silenziosi avvicinarsi sempre più.
Erano in più persone. Evidentemente si aspettavano una sorta di conferma via radio dalla prima donna, che non è avvenuta e magari mi han sentito parlare con il crocefisso pensai. A momenti mi distraevo da quello che stava succedendo.
La porta si aprì.
La vedevo di spalle, si introduceva nella stanza con molta lentezza e guardandosi attorno, ma un piccolo errore fu determinante: non si guardò dietro.
Mi avvicinai con passo felino e anche la sua gola divenne un inutile parte del corpo che stava macchiando la moquette della mia stanza.

Neanche il tempo di fermarmi un secondo che qualcuno si stava arrampicando sugli esterni. Mi guardai attorno e presi il cuscino. Lo arrotolai attorno alla pistola, aprii il balcone e andai fuori.
La pioggia era fastidiosissima, così come il vento, che era un bel problema.
La vidi che si arrampicava a fatica, lei però non sembrava avermi notato.
Sparai, il rumore fu leggermente attutito dal cuscino. La beccai in testa.
Mi abbassai e tornai in casa, la porta era aperta però.
Qualcuno doveva esser entrato, e ora si stava nascondendo da qualche parte.
Mi girai per chiudere la porta finestra, prestando minima attenzione a qualsiasi cosa che si potesse muovere.
Il coltello era stretto alla mia vita dall’elastico dei pantaloni, pronta a tirarlo fuori in qualsiasi occasione che puntualmente si presentò.
Con uno scatto felino ruotai su me stessa e lanciai il coltello che finì dritto nella fronte della killer, che si era tolta persino le scarpe per fare meno rumore, ottima mossa ma non sufficiente.
Chiusi la porta tirandole un calcio e mi sdraiai sul letto, con la schiena appoggiata allo schienale e la pistola in mano puntata al materasso.
Quella che speravo fosse l’ultima stronza si stava nascondendo lì, ne ero sicura.

“Non… Non sparare” disse in italiano.
“Lancia tutte le tue armi lontane dal letto. Esci lentamente mostrandomi le mani”
Lo fece. Gettò le armi dove io potevo vederle ed uscì alzando le mani.
  • Chi cazzo sei?
  • Sono stata assoldata per ucciderti…
  • Sei italiana?
  • Affermativo.
  • Chi ti ha assoldato?
  • Non posso dirlo.

Caricai la pistola, presi la mira sulla testa
  • Non posso dirlo ma posso farti vedere questo!
Dal reggiseno tirò fuori un chicco di caffè.
“Un chicco di caffè? E’ di chi penso io?”
Annuì nervosamente.
“Poco male.”
BANG.

Cadde a terra, trasformandosi un corpo senza vita.

Scesi le scale e andai alla reception del Motel dove c’era il mio contatto, proprietario del Motel, non che amico mio e di Matteo, Luke.
Mi guardò stranito e quando fu davanti a lui: “Tutto bene?”
Indicai senza voce il camion nero dentro al parcheggio.
“Che c’è? Cosa succede?”
  • Hanno tentato di uccidermi. Una sta appesa fuori, le altre in camera mia.
  • Cosa? Chi?

Mostrai il chicco.
Rimase in silenzio.
“Allora Luke, puoi prenotarmi un volo per l’Italia?”

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te ***


Non avevo mai creduto alla fortuna, soprattutto dopo tutte le mie vicende, e non ho mai sopportato chi faceva di tutto pur di attirare l’attenzione di quella puttanella bendata, ma forse avrei dovuto ricredermi.
Ero tornata da qualche giorno a Roma e mi aveva accolto anche qui un nubifragio.
Giravo a Garbatella di notte, avevo appena comprato un paio di pistole e proiettili da un tizio che le vendeva abusivamente.
Ero ferma ad un semaforo quando nel bar sul mio stesso lato della strada ho visto un uomo scendere da quella che mi sembrava essere una Lancia Prisma bianca.
Lo guardai con attenzione, aveva qualcosa di familiare e il cuore iniziò a battermi velocemente quando capii di chi si trattava.
Feci immediatamente inversione e parcheggiai affianco alla sua auto, ed entrai nel locale.

Un fortissimo odore di fumo di sigarette ti investiva appena entravi. Uomini che giocavano a biliardo, alcuni giocavano a carte, doveva esser stato aperto negli anni ’60 a giudicare dal pavimento a quadri.
Il mio uomo era seduto al banco, mi dava le spalle, mi avvicinai lentamente e gli sussurrai nell’orecchio:

“Un mafioso senza protezione
Deve fare tanta attenzione
Rischia di trovarsi un buco in testa
Da una donna poco onesta”

Il suo sguardo si perse nel vuoto, il suo respiro si fermò e sul mio viso apparve un ghigno divertito, poi ripresi a sussurrare: “Cristo resuscitò dopo tre giorni, tu dopo tre anni. Per non essere il diretto figlio di Dio direi che non è male come cosa, non trovi Matteo Gabriel Owen?”
Mi guardò come non mai. Tristezza e terrore mentre io lo ricambiavo con uno sguardo iniettato d’odio, forse aiutato da un rossetto di colore rosso che mi rendeva ancora più bastarda.
In quel momento una donna, vestita con abiti succinti e aderenti si mise affianco a Matteo guardandomi con aria schifata: “Mmh, chi è questa?”
  • Una che è venuta a farsi un bicchierino, stavamo parlando del tempo
  • Ascolta amore, ho chiamato a casa e mio marito ha cominciato a farmi il terzo grado su con chi fossi. Quindi è meglio che vada
  • Ma sono appena arrivato!
  • Sì, lo so, ma facciamo domani o dopodomani, d’accordo?
Si baciarono e poi se ne andò, non prima di avermi regalato un altro sguardo di superiorità che non le apparteneva.
Scoppiai a ridere: “Amore? Ahaha non smetti di fartela con le puttane vedo”
  • Sono stato assieme ad una per anni, sono abituato.
Alzai il sopracciglio destro divertita, tornò a girarsi e a non guardarmi in faccia, facendo cenno al ragazzo al bancone di versargli un’altra birra.
“Beh sai. Ci sono due tipi di puttane. La prima è quella che scopa per soldi per lavoro, la seconda è una stronza, che fa le peggio cose per un tornaconto personale. Per ora hai conosciuto solo una delle due.”
  • E quindi? – disse scocciato.
Misi davanti a lui il chicco di caffè che mi diede la killer a Las Vegas.
“Chissà cosa si prova a metterlo sul corpo di qualcuno…”
Mi alzai mentre lui, mi seguiva con lo sguardo, ma non era l’unico a farlo.
Mi sentii osservata per tutto il tempo che rimasi nel bar. Non capii da chi, non ci feci neanche molto caso, ma la sensazione era forte.

Con il fermaglio aprii la macchina di Matteo e la misi in moto. Con un colpo secco spinsi l’acceleratore fino a rompere una delle vetrate del bar mentre tutti mi guardavano allibiti.
Guardai il mio ex defunto fidanzato dicendogli “Grazie per la macchina” poi feci la retro velocemente e iniziai a girare per le vie alla ricerca della sua nuova ragazza.
Passai quasi un’ora a cercarla senza successo, la pioggia rallentò la presa, la mia vendetta anche, ma la dea bendata voleva farmi un altro favore.
Ero ferma al semaforo per andare verso il mio albergo a Trastevere, quando guardai per caso nella macchina affianco e la vidi, lei ricambiò con quel suo sguardo schifato.
L’istinto animale aveva preso ormai il sopravvento.

Spinsi l’acceleratore fregandomene del semaforo rosso, andai avanti e poi feci una grande inversione a “U” colpendola frontalmente.
Rimase spaventata, ma rapidamente fece la retro e poi tirò avanti lasciandomi indietro. O così credeva.

Le stavo dietro, ogni tanto riuscivo a tamponarla ma proprio quando pensavo di avercela in pugno ecco che riusciva a seminarmi per qualche minuto, fino a poi ribeccarla ancora.
Sfrecciavamo per una Roma deserta e l’ultima volta che lo feci la vittima ero io.

Niente da fare, non si fermava, ma da una parte era meglio, mi stavo divertendo moltissimo e quando mi avvicinavo per tamponarla riuscivo a vedere la sua faccia spaventata nello specchietto retrovisore.

Entrammo nel raccordo anulare, dove cercò di spingere al massimo ancora di più l’acceleratore senza grandi risultati se non quello di perdere il controllo dell’auto.
Frazione di secondi e andò a sbattere contro l’inizio del guard rail.
La macchina si fermò, con del fumo che usciva dal cofano.

Fermai la mia poco lontano dalla sua, scesi e notai che l’airbag era scoppiato e lei era confusa, intontita.
Aprii la portiera, tolsi le chiavi e lei continuava a guardarmi e notai che si stava riprendendo. Mi fissava non più con superiorità, come fino a quel momento, ma mi chiedeva pietà con gli occhi.
Dovevo far infretta.

“Vedi tesoro, nulla di personale, ma quando vogliono farti fuori poi vuoi farla pagare al mandante e quindi…”
Tirai fuori la pistola e le sparai al fianco.
Il sangue usciva fuori a litri mentre lei gridava dal dolore toccandosi il buco.
“Ma tranquilla, ognuno ha quel che si merita. Ed è sempre così fidati. Quindi se vivi come una puttana che tradisce il proprio marito, beh, poi muori come una puttana. Con tanti saluti al perdono per i nostri fratelli!”
Bang Bang.
Due colpi dritti in fronte.

Ora dovevo semplicemente far bruciare la macchina, per evitare risalissero a me, presi un fiammifero dalla borsa, lo accesi e lo buttai sui sedili sia della macchina della stronza sia sui sedili della ex macchina di Matteo.

Iniziai ad allontanarmi e capii che avevo fatto per bene il mio lavoro quando in lontananza avevo sentito lo scoppio.
La prima parte era andata bene tutto sommato, ma per prima cosa dovevo chiedere perdono a qualcuno, a Dio, per tutte le cose che ho fatto e per tutte quelle che avrei fatto nel futuro prossimo, ed erano cose brutte. Bruttissime.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Chi è come la bestia e chi può combattere contro di lei? ***


Mi risvegliai con un grande mal di testa, così forte da non riuscire a tener gli occhi aperti per più di qualche secondo.
Avevo la vista annebbiata e la testa mi bruciava, oh come mi bruciava.
Provai a portarmi le mani alle tempie ma non ci riuscivo, le sentivo strette, vicine, i polsi sfregavano contro qualcosa di ruvido.
Lentamente riacquisii la vista, non c’era molta luce e faceva parecchio freddo. L’unica sorgente luminosa proveniva da una lampadina attaccata al muro con tutti i fili scoperti.
Acqua. Entrava acqua, una goccia alla volta, con quel rumore sordo, vuoto, silenzioso quasi paradisiaco ma che in quel momento era infernale, mi rimbombava dentro, volevo morire.
In lontananza sentivo una voce maschile, familiare, calda, ma non riuscivo a capire, ad avvicinarmi anche solo mentalmente.
Provai a far mente locale ma era tutto confuso…
…camminavo per un cimitero inseguita da delle donne…
…inseguii una donna e le sparai in testa…
…mi si aprirono le porte del paradiso…
… i miei parenti. Tutti morti.
…io e il mio fidanzato atterrammo a Los Angeles…
…stavo pregando in una chiesa e si ruppe la vetrata con la croce disegnata.
Vetrata. Parlai. Parlai con un uomo. Uscì dalla chiesa e.
Urlai. Urlai e respirai a pieni polmoni. Mi guardai attorno, ero in una specie di scantinato, con Matteo seduto al mio fianco che continuava a ripetere: “E’ tutto ok, calma, è tutto ok”.
Ma non mi calmavo, non era tutto ok e anzi ora ricordavo tutto.
Dopo aver fatto fuori la ragazza di Matteo mi recai in chiesa, forzai la serratura e feci l’Atto di dolore, parlai con un uomo, un prete uscì dalla chiesa e poi il buio.
“Sì, esatto.” Disse Matteo. Evidentemente avevo pensato ad alta voce.
“Slegami stronzo, slegami immediatamente” dissi con la voce rotta dal pianto “Slegami ho detto, slegami!”
Mi fissava, sorrideva per compassione e stava in silenzio, quando mi fermai disse: “Non posso.”. Mi mostrò le mani ed erano legate anche le sue.
Mi stava tornando nel corpo quella sensazione che avevo sentito qualche ora prima. Odio, rabbia, con una certa quantità di adrenalina nelle mie vene tanto alta da farmi sentire un dio.
“Chi è stato?” chiesi con la voce ferma e decisa.
“Perché non lo vedi tu stessa? Sta tornando.” Mi rispose sempre tranquillo facendomi anche l’occhiolino.

Si sentivano dei passi e il loro eco, la costruzione doveva esser tutta in pietra, come questa stanza e vuota.
Con il suo avvicinarsi si iniziò a sentire anche la sua voce che con un tono da cantilena parlava con un tono molto alto della voce:

Poi vidi salire dal mare una bestia
Che aveva dieci corna e sette teste, e sulle
Corna dieci diademi, e sulle teste nomi di
bestemmia.”

Non poteva essere. Guardai Matteo facendo di “no” con la testa, non ci credevo, non poteva essere lui.

La bestia che vidi era simile ad una
pantera: aveva i piedi come quelli di un
orso e la bocca come quella di un leone.
Il dragone le dette la sua potenza, il suo
Trono e grande autorità.

Don Davide.
Aprì la porta e appena dentro la richiuse proseguendo con:

Vidi una delle sue teste come
Ferita a morte, ma la sua piaga mortale
Era stata guarita.

Si fermò, mi guardò sogghignando e poi viscidamente aggiunse: “No Maria, non sono più ossessionato dalle bambine. Ora sono ossessionato dalle puttane, quelle di professione.”

Si girò e lentamente posò la Bibbia su una piccolo mobile di legno che era posizionato contro il muro.
“Allora Maria, la tua mortale piaga è stata guarita? Mmh – Mi guardò stringendo gli occhi, poi guardò Davide e scoppiò a ridere – No, non è stata guarita. Sai, quando ti ho visto nel locale prima e in Chiesa poi non ho potuto far a meno di pensare che questi versi fossero stati scritti apposta per te”

“Quanta attenzione per la sottoscritta, mi sento quasi importante.” Risposi sarcasticamente, lanciando un’occhiata perplessa al mio ex che ricambiò.

“Oh, benedetta ragazza tu e il tuo amico non siete solo “quasi” importanti, siete fondamentali nella mia vita, perché voi avete rovinato la mia famiglia!”
  • E in che modo? Facendo chiudere il bordello? – Dissi ridendo
  • Don Cristoforo era mio cugino. Non lo sai in che casino hai mandato la mia famiglia per quella storia? Lui voleva solo scopare, non potevi dargliela come la dai a tutti gli altri puttanella che non sei altro?
La sua voce quasi si strozzava, la sua candida carnagione era diventata bordeaux dalla rabbia e dalla foga con cui parlava.
Poi prese fiato e mi sputò quasi addosso, mancandomi di poco.

Matteo divertito dalla scena prese la parola: “Beh, a saperlo prima lo avrei evirato e avrei fatto pervenire a Lei il suo organo.”

Si avvicinò con sguardo furente all’altro uomo: “Fai lo spiritoso, ma qui l’unico che vince sono io.”
  • Che cosa hai intenzione di fare? – Chiesi in maniera seria.
  • Io? Niente. La natura? Il suo corso. Vi farò morire di fame, qui. Poi getterò i vostri cadaveri in mare e tanti saluti.

Si girò e aprì la porta ma fu interrotto dalla mia domanda: “Un’ultima cosa Don”
“Sì?”
  • Che fine ha fatto suo cugino?
  • A Milano, perché?
  • Giusto per sapere.

La porta si chiuse con un tonfo e lo sentimmo allontanarsi cantando “Osanna è Osanna è Osanna a Cristo Signor”; passarono pochi minuti e Matteo si alzò in piedi come se nulla fosse: “Vuoi una mano?”
“Cosa? Come hai fatto?”
“Se sei un prete dico io fai il prete! Puoi pure ingegnarti quanto vuoi per unire le corde al muro e attaccare lì chiunque tu voglia ma se non togli i coltellini svizzeri dalle tasche dei malcapitati sei proprio un coglione, oltre che un prete.”

Pochi secondi ed eravamo entrambi in piedi pronti ad uscire.

“Come intendi farlo? Con il coltellino svizzero?” chiesi sottovoce
  • No, con quello
E indicò un crocefisso di medie dimensioni di ferro con le estremità a punta. Lo prese e salimmo nell’antica e lussuosa casa di Don Davide.
Mobili pregiati in legno, quadri raffiguranti Gesù e altri Santi, vetrine piene di bomboniere e bicchieri di cristallo.
Girammo l’angolo ed era lì. Seduto di spalle sulla sua poltrona di tessuto rosso vicino al caminetto che leggeva, si bagnava il dito con la saliva e girava la pagina.
Entrammo lentamente nella stanza poi Matteo attaccò a parlare:

Poi vidi una nuova Terra e un nuovo cielo
Perché il primo cielo e la prima terra erano spariti
E il mare non esiste più.
Ma stia tranquillo Don, sono cose che non vedrà mai.

A nulla valse lo scatto che il prete fece per alzarsi che Matteo infilo più e più volte il crocefisso all’interno del corpo dell’uomo di Chiesa.
Dieci, venti, trenta pugnalate, una scena agghiacciante e raccapricciante che però non mi toccò di striscio.
Mentre tutto ciò accadeva con lo sguardo giravo per la stanza finché vidi la pistola con cui mi drogò.
Mi avvicinai e notai che dentro c’era una fialetta.
La presi in mano e in quel momento il mio complice mi disse: “Ok, finito.”
Lo guardai un attimo, stava fissando il cadavere.
“Matteo?”
“Eh?”
Mi fissò distratto, con lo sguardo perso di chi aveva mille pensieri in testa.

Un lieve rumore e cadde a terra.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Bang Bang ***


Entrai nel portone di un palazzo di ringhiera, al primo bivio girai a destra e incominciai a salire le scale.
Non c’era nessuno, era notte fonda, e l’unica cosa che si poteva udire erano i miei passi che rimbombavano per lo stabile.
Uno stabile malridotto, malfamato dove vivevano per la maggior parte ceti bassi, quella considerata feccia dalla società così detta “borghese”.
Non era difficile in alcuni punti sentire odore di urina, chissà se provocata da qualche uomo troppo brillo o da qualche cane che aveva deciso di far i bisogni in questa cantina a cielo aperto.
Arrivata al quarto piano girai a sinistra e camminai lungo lo stretto pianerottolo toccando, con la mano vestita dal guanto di pelle nera, la ringhiera arrugginita.
Era la seconda volta che venivo qua.
La prima volta fu la mattina seguente al mio “incidente” con Don Davide. Avevo affittato questo bilocale apposta per questo evento, far salire le scale a Matteo confuso e drogato con i bambini che ti guardavano male non è stato facile ma mentire e dir loro “Mi raccomando, non bevete mai alcolici da grandi” è stato divertente tutto sommato.

Aprii le due porte, una a poca distanza dall’altra e lo trovai esattamente dove lo avevo lasciato:seduto al tavolo.
Ma d’altronde non si poteva muovere, era legato mani e piedi alla sedia.
Stava dormendo profondamente. Forse era morto.
Presi un pentolino, ci misi l’acqua e la lasciai scaldare sul gas per qualche minuto, giusto il tempo di farla diventare bollente, presi in mano la piccola pentola e versai l’acqua in faccia a Matteo che incominciò a gridare dal dolore.
E mentre si lamentava presi un’altra sedia, girai la sua e mi sedetti dalla parte dello schienale davanti a lui a fissarlo con compassione mentre finiva di contorcersi per il dolore.
“Ben svegliato mon amour”
“Tu sei pazza!” gridò con tutto il fiato che aveva in gola.
“Pazza?  - scoppiai a ridere – No Gioia, ahaha, non sono pazza. Beh, sì, forse posso sembrarlo ma questo non farebbe onore alle tue elevate capacità deduttive, ma probabilmente sono tutte andate a farsi fottere con l’ausilio della cocaina.”
  • Pazzoide – disse a fatica
  • Naaah, sei monotono sai? Non sono pazza è come dire un viaggio di crescita interiore… Insomma, quando Dio ti volta le spalle sei tu a dover essere la giustizia divina in Terra.
  • Pazza.
Presi il pentolino e glielo tirai in faccia.
  • Ora hai davvero stufato. Ti sei ripreso? Sì o no.
Rimase muto, con una smorfia in faccia dal dolore. Aspettai che finì, poi rispose affermativamente.
  • Beh, senza ulteriori indugi. Come hai fatto a fingerti morto.
  • Le prime due volanti… le prime due volanti… - respirava a fatica e ogni tanto sputava a terra del sangue – le prime due volanti erano mie. Quella che mi circondò sparo’ in aria, la seconda invece fece bloccare la polizia mettendosi di traverso a causa di quella che era una “manovra accidentale.” Giusto il tempo di farmi fingere morto e farmi portare via da altri miei uomini.
  • E perché se eran tutti per te io non ne ho saputo niente fino a qualche settimana fa?
  • Ordini superiori.
  • Superiori a chi.
  • A me.
  • E da chi.
  • La famiglia.
  • Chi?
  • La famiglia mafiosa per cui lavoravo, mi rivoleva in Italia.
  • E non potevi dirmelo?
  • Non si fidavano di te.
Presi il pentolino e glielo stavo per ritirare in faccia, ma a pochi millimetri dal viso mi fermai.
  • Pensavano che fossi pazza?
  • No, pericolosa.
Sorrisi, lui fece lo stesso.
  • Non è bello fingersi morto in questo modo. L’altra polizia era vera?
  • Sì, eravamo davvero ricercati. Sei riuscita a sopravvivere a Las Vegas perché i miei compari dissero che ero io il ricercato e tu eri solo una povera vittima, quindi ti lasciarono in pace. Non basta cambiare colore ai capelli e l’identità per sfuggire alla polizia americana.
  • Ma perché tornare in Italia? Che senso aveva.
  • Guerra di mafia.
  • Cosa?!
  • Sì, i miei capi mi rivolevano per tentare di sistemare le faccende giù in Sicilia e magari tentare l’approccio con qualche imprenditore di qui, di Roma.
  • Non farmi ridere ti prego.
  • E’ la verità.
  • E perché hai ucciso i miei genitori? – Dissi avvicinandomi con il viso al suo.
  • Come fai a sapere che sono stato io?
  • Tesoro, sono stata per anni con un mafioso, so che se nella stessa notte che uccidono i tuoi parenti vogliono far fuori anche te è perché il mandante è uno solo.
  • Beh… tuo padre non voleva pagare alcuni debiti.
  • Palle – gridai
  • No.
Mi alzai e con l’ausilio del piede spinsi la sedia in modo tale che cadde a terra con lui ancora legato.
  • Sono delle fottute palle, mio padre non aveva niente a che fare con voi
  • E’ quello che credi tu e probabilmente crederai anche che lui non ha mai avuto niente a che fare con il mondo della Santa Sede.
Rimasi in piedi, dentro di me provavo disgusto. I miei genitori, mio padre in particolare, vicino a quel mondo da me sempre odiato e rifiutato.
Con il tacco dei miei stivali iniziai a premere sul palmo di una delle sue mani e iniziai a gridare: “Ti sei divertito brutto figlio di puttana? Ti sei divertito ad uccidere tre fottuti innocenti?”
Gridava dal dolore, non rispondeva, e più gridava più premevo con il tacco fino a che decisi di fermarmi.
Andai nella stanza adiacente, a pochi metri da lui, guardando fuori dalla finestra:
“Dimmi Matteo sei innamorato?”
  • Sì.
  • Tanto?
  • Moltissimo.
  • Come si chiama?
  • Giulia, perché?
  • Beh, Giulia è morta. La troveranno fra poco, o forse l’han già trovata. Dentro la sua macchina, con un colpo al torace e due in testa. Forse vittima di un inseguimento perché a poca distanza della sua macchina ne è stata trovata un’altra. Entrambe bruciate, quindi anche il suo cadevere.
E mentre parlavo incominciò a gridare di no piangendo disperatamente.
  • Non ti facevo così… sentimentale.
  • Sei una puttana di merda, sei una troia, zoccola, ti distruggo, ti faccio venire a cercare, ti faccio bruciare viva, lasciami andare che vedi.
Scoppiai a ridere e mi riavvicinai a lui. Presi fra la mano la sua faccia e strinsi la sua bocca fino a fargli assumere un espressione strana: “Ho rischiato di esser stuprata per te. Sono andata a letto con ogni tipo di uomo per te tu con cosa mi hai ringraziato? Mandandomi in casa una squadra di donne assassino. Ti prego, dimmi chi deve uccidere chi perché davvero, non riesco a capirlo.
Mi guardò con una furia negli occhi, se mi avrebbe potuto uccidere con lo sguardo lo avrebbe fatto e probabilmente ci stava riuscendo, perché una parte di me era definitivamente morta in quel momento.
Mi girai e andai a bere dal rubinetto, mentre lo facevo lui disse: “Non è stata una mia scelta, dovevo farlo. Ho dovuto uccidere i tuoi e c’era il rischio che tu saresti venuta in Italia a mandare tutto a monte, non avrei voluto farlo, ma l’ho fatto e ho dovuto. Spero che tu possa capire.”
  • E spero che tu possa capire il perché delle mie azioni – Dissi subito dopo essermi asciugata la bocca con la manica del mio impermeabile nero.
  • L’uccisione di Giulia?
  • Non solo, Matteo, non solo.
Mi avvicinai e con gran fatica tirai su la sedia, mi guardava insospettito, per poi capire cosa avevo in mente quando tirai fuori dalla mia borsa la pistola.
“Matteo, hai un ultimo desiderio?”
“Che tu possa andare all’Inferno.”
“Ma non c’è dubbio che io ci vada, ma infondo infondo  spero che ci vada anche tu e sai perché?”
“No…”
Mi avvicinai al suo orecchio sinistro e sussurrai: “Perché così potrò ucciderti ancora, ancora, ancora, ancora, ancora e ancora.”
Gli tappai il naso e spinsi indietro la testa in modo tale che la bocca si aprì, infilai la pistola al suo interno con fare deciso e…
Bang bang.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** I primi saranno gli ultimi ***


La luna, le stelle, il buio, miei eterni grandi amici. Riflettevo su tutto ciò che mi era avvenuto nella mia vita accadeva con il benestare e la benedizione degli astri.
E così un’altra notte insonne, un’altra notte sveglia, questa volta sulla spiaggia di Santa Maria.
Pensavo alla mia vita, la storia di una bellissima regina degenerata e caduta nell’oblio.
Camminavo e camminavo, avevo percorso ormai chilometri e ormai la mia birra era finita, ma qualcosa mi impediva di lanciare la bottiglia di vetro in qualsiasi direzione, la tenevo stretta in mano, forse manco mi ero accorta in un primo tempo che fosse completamente vuota.
Svuotata.
Ecco come mi sentivo quando ero giovane, quando avevo i miei quindici, sedici e diciassette anni.
Non sono mai stata una figlia modella, ho sempre fatto disperare i miei genitori e Dio solo sa se mi han perdonato dopo tutto ciò che ho fatto.
Non c’era solo la storia del bordello di cui non andar fieri, c’erano anche le decine di ragazzi con cui uscivo con la mia amica, le numerose sere in cui non tornavo a casa a dormire e le segnalazioni dei carabinieri e della polizia di quando correvamo in topless sulla spiaggia di notte.
Quando accettai quel lavoro in mezzo a tutti gli uomini di Chiesa dentro di me sapevo che ero arrivata al limite, l’inizio della fine della mia anima, e per quanto pregassi, per quanto leggessi la Bibbia e il Vangelo non volevo rendermi conto della mia situazione.
Poi, incontrato il mio fidanzato, ho fatto di tutto pur di renderlo felice e contento. E’ questo che ci rende donne: subire, ingoiare, perdere le nostre speranze per l’amore. E’ questo che ci rende speciali e lo facciamo perché speriamo che un giorno i nostri sforzi non siano vani ma siano riconosciuti.
Sono sempre stata credente ma la mia fede si è sbriciolata. Dicono che la condanna divina avvenga una volta morti, davanti al Signore e a San Pietro. A me pare di esser stata punita ancora in vita, e nonostante le mie preghiere sembra che di esser stata abbandonata senza alcuna remora da parte del Padre Eterno.
Dio vede e provvede, ho dovuto provvedere da sola e infatti sono qui, con la fine sabbia e una vista oceanica davanti ai miei occhi, con il rumore dell’acqua che si infrange sull’Isola che culla il mio universo di pensieri, ormai stanco e ossessionato da una o due persone.
Avrei dovuto svegliarmi prima forse, avrei dovuto aprire gli occhi e agire, invece ho preferito rilassarmi su un treno che andava a cinquecento kilometri orari coi freni rotti, aspettando inesorabilmente di morire, per lo meno interiormente.

Entrai nell’acqua indossando un lungo vestito nero, con i miei capelli biondi lisci con la riga di lato. L’acqua gelida non mi impressionava minimamente.
Camminavo finché l’acqua non raggiunse i due terzi del mio petto.
Dal seno tirai fuori la pistola e ripensai a quello che avevo scritto poche ore prima.

“Caro Luke,
Santa Maria è una bellissima isola, le persone sono squisite, il tempo caldo e la casa accogliente, sebbene non sia nulla in confronto alle abitazioni americane.
A volte mi pento di ciò che ho fatto, a volte no, quello di cui non mi pento è di esser diventata una tua amica perché so che di te e della tua famiglia potrò sempre fidarmi. A proposito come sta Anne? I bambini? Salutameli tanto.
Allegata a questa lettera dovresti trovare l’intero manoscritto di cui parlammo tempo fa, ricordi?
Non ti so aiutare con i nomi, sono sempre stata un disastro, Matteo lo diceva sempre, magari Atto di Dolore potrebbe andar bene, ma scegli tu.
Se senti che un prete è stato trovato bruciato e mutilato nella sua casa, beh, potrei esser stata io.
Si trattava di Don Cristoforo, colui che mi rapì. L’ultimo sulla mia lista, il primo che mi cacciò in questo guaio.
A seguito dello scandalo fu spostato a Milano, e dopo aver fatto fuori Matteo sono giunta nella città della Madonnina per sistemare i conti con lui.
Mi ha fatto incontrare il serpente della mia storia, si meritava tutto ciò che gli ho fatto.
Legato alla sedia che perdeva gli arti uno dietro l’altro. Non sono un amante del macabro ma ti dirò che gli ho gridato “Vorresti ancora penetrarmi” dopo che lo infilzai con il coltello. Non so se ne vado fiera, ma l’istinto animale prende il sopravvento a volte e sebbene sia nostro compito controllarlo a volte è necessario esser selvaggi e privi di freni e regole morali.
Ti ringrazio anche per avermi spedito le ultime cose che avevo lasciato nella mia camera, è stata una vagonata di ricordi rileggere alcune lettere, disegni e biglietti dei vicini.
Ce n’è una anche della mia cara amica Paula che si congratulava del test di gravidanza positivo. Io e Matteo.
Non so se lui ti disse qualcosa, io e Matteo aspettavamo un bambino. Ma la sera in cui fui quasi stuprata ebbi un aborto spontaneo e i due giorni precedenti alla nostra partenza per Las Vegas servivano anche per riprendermi dallo shock della perdita del bambino
Discutevamo, nel senso buono del termine s’intende, per decidere il nome. Io volevo qualcosa di americano, lui qualcosa di italiano. I miei non seppero nulla, non c’era stato il tempo materiale di avvertirli, è tutto successo così in fretta in quel periodo.
Hai inviato anche un proiettile, non so se sai quando lo comprò.
Mi disse: “Quando nascerà sparerò questo proiettile in aria”. Non so se è una tradizione mafiosa oppure un’altra delle sue fisse per le armi da fuoco, fatto sta che il proiettile non verrà sprecato.
Nella mia testa o in aria, questo proiettile stasera verrà sparato.

Vi voglio un mondo di bene,
Maria”.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1142626