Like Davy Jones' Locker (where the men find the eternal sleep)

di My Pride
(/viewuser.php?uid=39068)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** [ First season › I'm going slightly mad ] Land of thoughts, 01 ***
Capitolo 2: *** [ First season › I'm going slightly mad ] An island in the fog, 02 ***
Capitolo 3: *** [ Second season › Crossroads ] Separate ways, 01 ***
Capitolo 4: *** [ Second season › Crossroads ] Old sea stories, 02 ***
Capitolo 5: *** [ Third season › In pieces ] Davy Jones' Locker, 01 ***
Capitolo 6: *** [ Third season › In pieces ] Behind the legend, 02 ***
Capitolo 7: *** [ Third season › In pieces ] The Flying Dutchman, 03 ***
Capitolo 8: *** [ Third season › In pieces ] Back to home, 04 ***
Capitolo 9: *** [ Fourth season › Beating hearts ] To get the windward of him, 01 ***
Capitolo 10: *** [ Fourth season › Beating hearts ] Touching distance, 02 ***



Capitolo 1
*** [ First season › I'm going slightly mad ] Land of thoughts, 01 ***


Like Davy Jones_1
[ Prima classificata al contest «One Sentence» indetto da Reghina-chan e valutato da ZiaConnie ]
[ Prima classificata al contest «Don't be a drag, just be a Queen!» indetto da RoyMustungSeiUnoGnocco ]
[ Terza classificata al contest «No words: multifandom contest» indetto da Audrey_24th ]

Titolo: Like Davy Jones’ Locker (Where the men find the eternal sleep)
Autore: My Pride
Fandom: One Piece
Tipologia: Long fiction

Rating: Arancione
Personaggi: Mugiwara [ Accenni ZoSan, FRobin e RuNami ]
Genere: Generale, Avventura, Sentimentale, A tratti introspettivo, Vagamente Angst
Avvertimenti: Lieve Shounen ai, Linguaggio colorito, New World Arc, What if?, Probabilmente non per stomaci delicati, Spoiler dai capitoli 668 in poi (Solo accenni microscopici di essi)
Traccia: Numero venticinque › I’m going slightly mad.
Traccia: Numero nove › Lui è così stupido che si scorderebbe di morire anche se lo ammazzassero.
Note dell’autore: Note presenti alla fine della fanfiction

ONE PIECE © 1997Eiichiro Oda. All Rights Reserved.


FIRST SEASON › I’M GOING SLIGHTLY MAD
LAND OF THOUGHTS, #01
 
    Sanji trasse una lunga boccata dalla sua sigaretta e poi sbuffò, osservando distrattamente il fil di fumo che saliva con lentezza esasperante verso il cielo azzurro.
    Doveva essere accaduto dopo gli avvenimenti vissuti a Kamabakka, si disse per la trecentesima volta, cercando invano di dare una spiegazione logica ai bizzarri pensieri che, da un po’ di tempo a quella parte, avevano cominciato ad affollare la sua mente, rendendolo più nervoso ed intrattabile del solito.
    Lui amava le donne, dannazione. Negli ultimi due anni non aveva fatto altro che ripeterlo a se stesso e a tutti quei dannati travestiti che popolavano l’isola su cui era stato spedito da quel bastardo di Kuma, tentando in seguito di proteggere con le unghie e con i denti la sua virilità e il suo animo di uomo. Due lunghi anni in quell’inferno rosa confetto, due lunghi anni trascorsi a scappare come un pazzo da quei cosi e dai vestiti da donna che provavano ad infilargli in ogni modo... e dopo tutto quell’orrore e le novantanove ricette ottenute, lui che faceva? Si ritrovava con le braccia incrociate sul parapetto della Sunny a sospirare come una ragazzina alla prima cotta. E se pensava che la causa di quel suo comportamento era una persona che avrebbe volentieri preso a calci dalla mattina alla sera, beh... la cosa lo mandava in bestia il doppio, maledizione.
    A quelle sue stesse riflessioni, Sanji si strofinò vigorosamente una mano fra i capelli e gettò l’ormai mozzicone di sigaretta oltre la balaustra, vedendolo inghiottito fra le onde che sbattevano contro la chiglia della nave. Dannazione, aveva bisogno di un’altra stecca. Quante ne aveva fumate in meno di un’ora e mezza? Sei? Sette? Forse otto? Aveva perso anche il conto, perfetto. Come se fumare come una ciminiera dalla mattina alla sera potesse risolvere in qualche modo il problema, poi. Era fottuto. Letteralmente fottuto. E se non l’avesse piantata di fare costatazioni incoerenti e di continuare a cercare di raccapezzarsi in qualche modo, alla fine sarebbe del tutto impazzito e quella situazione in cui si era ritrovato sarebbe stata davvero l’ultima dei suoi pensieri.
    «Sanji-kun, potresti prepararci un the?» La voce di Nami parve essere per lui la panacea di cui aveva bisogno, giacché si riprese in un lampo e, stornando lo sguardo nella direzione da cui essa proveniva, volteggiò in direzione del castello di prua, sul quale le due ragazze avevano sistemato i lettini per prendere il sole.
    «Tutto ciò che desideri, mia dolce Nami-swan~♥!» cinguettò poi, rischiando di sanguinare quando i suoi occhi si posarono sulle forme prosperose che le sue compagne di ciurma stavano mostrando grazie agli splendidi costumi colorati che indossavano. Sanji dovette ricorrere a tutta la sua forza di volontà per tenere a freno quella stupida emorragia, per quanto un piccolo rivoletto di sangue fosse comunque riuscito ad avere la meglio e fosse fastidiosamente scivolato giù per la sua narice sinistra. Se lo ripulì alla bell’e meglio con il dorso di una mano e si sforzò di sorridere alle due ragazze, che gli gettarono uno sguardo preoccupato.
    «Sanji-san... sicuro di stare bene?» domandò Robin nel recuperare la propria maglietta, trovando più salutare per il cuoco coprirsi. Da quel che ricordava, Sanji non aveva mai avuto reazioni simili nel vederle in costume da bagno, anzi; aveva sempre elogiato la loro bellezza, blaterato su quanto fossero perfette e fatto un po’ lo scemo come suo solito, ma da qui a sanguinare dal naso e rischiare di morire, beh... avrebbe voluto chiedergli cosa fosse successo per ridurlo così, ma Robin si era resa conto che sarebbe stata una totale perdita di tempo. Sanji non avrebbe mai parlato, e lo dimostrò anche quella volta, ridacchiando nervoso.
    «Oh, mia dolce Robin-chan, non devi preoccuparti! È la vostra fulgida bellezza ad emozionarmi, sto benissimo!» esclamò falsamente euforico, filandosela giù in cucina prima ancora che le due ragazze potessero chiedergli qualche altra cosa.
    Spiegare che le sue reazioni erano dovute agli orribili avvenimenti che avevano preso forma a Kamabakka, in quel posto dove per un periodo di tempo aveva persino dimenticato di essere un uomo, sarebbe stato per lui il colpo di grazia e la sua reputazione di dongiovanni pervertito sarebbe morta e defunta insieme alla sua virilità. Anzi, si corresse una volta giunto nel suo sacro tempio, probabilmente la sua mascolinità si era sotterrata insieme al suo orgoglio e alla sua sanità mentale nel momento stesso in cui aveva realizzato di provare qualcosa per un suo compagno di ciurma. Oh, non ci sarebbe stato niente di male se si fosse trattato di Nami o Robin - che venerava comunque come Dee, bellissime com’erano -, però, purtroppo per lui, non erano loro ad attizzare del tutto il suo amichetto ai piani bassi e a richiamare la sua attenzione, e la cosa lo rendeva incerto e confuso.
    Le ipotesi erano soltanto due: o era diventato del tutto matto e aveva perso anche l’ultima rotella sana nel suo cervello, oppure - e quella gli sembrava l’opzione migliore -, visto tutto ciò che era accaduto su quell’isola, si sentiva un po’ sfatto e non era ancora in perfetta forma, dunque quello doveva essere soltanto un momento passeggero che sarebbe passato in fretta senza più lasciare traccia. O almeno lo sperava. Perché altrimenti c’era una terza ipotesi, quella che lo spaventava più di tutte e che al contempo gli faceva battere il cuore ad un ritmo frenetico: si era innamorato. E non uno di quei suoi innamoramenti che riguardavano le splendide donne su cui riusciva a posare occhio, bensì il vero amore, quello che decantava e professava a quelle stesse donne che incontrava. Forse avrebbe dovuto aspettarselo. Com’era che si diceva? A scherzare con il fuoco si rimane bruciati? Beh, lui era andato praticamente in fiamme e del suo corpo non era rimasto altro che un mucchietto di cenere.
    «Che idiota», esordì una voce alle sue spalle, facendolo trasalire; ebbe appena il tempo di voltarsi per vedere Zoro osservarlo a sua volta per un lungo momento, entrando in cucina per prendere una bottiglia di sake dalle scorte che lui stesso aveva riposto sullo scaffale. «Due anni di allenamento e tutto ciò che hai imparato è stato come perdere sangue dal naso?»
    Sanji gli si avvicinò a passo di marcia e gli levò senza tanti complimenti la bottiglia dalle mani, assottigliando le palpebre. «Fa’ silenzio e pensa allo sfregio che hai sull’occhio, marimo di merda», sbottò, ma lo spadaccino, a quel dire, si limitò a sollevare un sopracciglio con fare fin troppo scettico.
    «Una cicatrice è un effetto collaterale accettabile; morire dissanguato per aver visto un paio di tette, no».
    «Tu cosa diavolo vuoi capirne, non ti si drizza nemmeno se le ragazze te la sbattono in faccia».
    «Ho ben altro da fare che perdere tempo dietro a cose del genere, cuoco», lo freddò, riprendendosi senza tanti complimenti la bottiglia prima di dirigersi verso il divano, gettandosi a peso morto sopra di esso per osservare il cuoco da quella posizione. Lui, dal canto suo, digrignò i denti e cercò di far presa sul proprio auto-controllo, decidendo di ignorare bellamente lo spadaccino per aggirare il tavolo e il piano di legno per raggiungere i fornelli. In quel momento doveva pensare unicamente alle sue bellissime muse, non a quella stupida testa d’alga dal brutto muso che non perdeva mai occasione di fargli salire i nervi. Dannazione, avrebbe voluto volentieri prenderlo a calci in faccia e rompergli tutti i denti.
    Gli attimi che trascorsero in quella cucina furono i più lunghi e interminabili che avesse mai vissuto. Aveva preso il bollitore per preparare il the richiestogli da Nami-san e l’aveva riempito d’acqua prima di accendere il fuoco, ostinandosi a dare le spalle a Zoro per non guardarlo nemmeno in viso. Aveva però avuto la sensazione del suo sguardo su di sé, proprio fra le scapole, e aveva sentito un bizzarro brivido corrergli lungo la spina dorsale quando, con la coda dell’occhio, si era reso conto che lo spadaccino lo stava fissando sul serio - con un’attenzione tale che avrebbe fuso del tutto il cervello a chiunque -, e la cosa non gli era piaciuta per niente.
    Era riuscito a trovare un pizzico di serenità solo quando il bollitore aveva fischiato, e, per quanto avesse sussultato per essere stato preso alla sprovvista proprio da esso, era stato ben felice di finire di preparare il the e svicolare svelto dalla cucina per portarlo alle ragazze, che l’avevano ringraziato e gli avevano consigliato di andare a riposarsi non appena avevano visto il sangue che aveva imbrattato la sua camicia. Eppure, dopo lo scambio di corpo avvenuto a causa di Trafalgar Law, avevano quasi sperato che rinsavisse e la smettesse di avere quelle emorragie, dato che il cuoco aveva potuto usufruire proprio del corpo prosperoso della navigatrice. E Nami, una volta tornata normale, gli aveva fatto pagare amaramente - sia metaforicamente che da un punto di vista monetario - la palpata di seno che aveva fatto con le sue stesse mani, ma quello era un discorso a parte.
    «Forse dovremmo convincerlo a parlare con Chopper», esordì d’un tratto Robin, issandosi a sedere sulla sdraio per sorseggiare il proprio the. «Cook-san non può andare avanti così. È distratto, mogio, non sembra nemmeno se stesso... dopo Punk Hazard è diventato quasi distante».
    Se non fosse stata d’accordo con l’amica, Nami avrebbe arginato tutta quella questione facendo semplicemente spallucce, concentrandosi tutta tranquilla su ben altro. Però, e odiava ammetterlo proprio perché voleva bene a Sanji-kun, Robin aveva colto decisamente nel segno. Il cuoco non era più lui, e loro, purtroppo, non riuscivano a capire che cosa lo turbasse così tanto né tantomeno riuscivano a tirarlo in qualche modo su di morale. «Magari è soltanto una fase passeggera», cercò di essere convincente. «Forse lo scambio di corpi deve averlo stressato».
    «Anche tu ti sei ritrovata prima nel corpo di Franky e subito dopo nel suo, ma non mi sembri particolarmente stressata», ribatté Robin. «E poi, da quel che ricordo, lui si divertiva parecchio a spiare nella tua scollatura».
    «E per quello l’ho riempito di botte, sai?» ci tenne a precisare la navigatrice, soffiando sul proprio the prima di bere a sua volta un sorso. «Però, non so, sembra fin troppo agitato», e nel dir questo cercò con lo sguardo la figura del cuoco, poggiato nuovamente contro il parapetto a fumarsi l’ennesima sigaretta della giornata, «ma non riesco a capire perché».
    Robin fece fiorire sul suo braccio una mano e diede alla ragazza un’amorevole pacca su una spalla, sorridendo poi con fare rassicurante. «Vedrai che non è niente», le disse. «Probabilmente è solo stress e ci stiamo preoccupando per un nonnulla».
    Seppur ancora un pochino incerta, Nami ricambiò quel sorriso, impacciata. «Già, forse hai ragione tu, Robin», sussurrò, tornando a guardare distrattamente Sanji, che aveva gettato fin troppo in fretta quella nuova stecca nel bel mezzo dell’oceano. Forse Robin aveva davvero ragione. Forse Sanji era solo stressato da qualche piccolezza - i continui furti di cibo da parte di Rufy, le sue liti perenni con Zoro, il suo dover sfacchinare praticamente tutto il giorno per sfamarli - e la sua era semplicemente paranoia inutile.
    Allora perché, per quanto si sforzasse di dare per buona quella spiegazione, non riusciva a cancellare il brutto presentimento che le aveva attanagliato le viscere?
 
 
    «Il Log Pose continua a puntare in questa direzione, però non c’è niente», esordì Nami con voce affranta, lo sguardo fisso sugli aghi che vibravano ad indicare dritto dinanzi a lei, per quanto il mare si estendesse a perdita d’occhio.
    Era già la terza volta che capitava una cosa del genere, prima per l’Isola nel cielo e poi per quella degli Uomini Pesce, ma adesso il fenomeno era a dir poco inspiegabile. L’ago rosso non puntava né in alto né tanto meno in basso, bensì proprio davanti a loro, dove non c’era assolutamente nulla nel raggio di chilometri. Che il Log Pose fosse impazzito? Forse in quella determinata zona dell’oceano c’erano dei depositi sottomarini che avevano danneggiato la sua capacità di registrare il magnetismo delle isole? Oh, come le sarebbe piaciuto avere una spiegazione per quella dannata situazione in cui si erano ritrovati.
    «Forse dovremmo provare ad avanzare ancora un po’», propose Franky dopo essersi grattato il mento con fare pensoso, poggiandosi poi gli occhiali da sole sul naso. «Basterebbe un Coup de Burst per spingerci più avanti e vedere se riusciamo a scorgere un’isola».
    Nami scosse immediatamente il capo. «Non possiamo girare a caso, se l’ago indica proprio questo punto», sospirò, alzando lo sguardo verso l’orizzonte. «Se solo avessimo qualche indizio... non possiamo sperare che ci piombi in testa la risposta, è già capitato due volte e non siamo poi così fortunati».
    «Io sono d’accordo con Franky», s’intromise d’un tratto Rufy, richiamando su di sé l’attenzione di tutta la ciurma radunata sul ponte. Persino Zoro, che fino a quel momento non aveva fatto altro che fissare con fare diffidente un punto imprecisato dell’oceano, si era voltato verso di lui, sollevando un sopracciglio. E non perché il Capitano avesse affermato di essere d’accordo con il carpentiere, nay; probabilmente erano i suoi occhi, sfavillanti come due diamanti, a far presagire che Rufy non aveva in mente niente di buono.
    Anche Nami parve capirlo, poiché si ritrovò a schiaffarsi una manata in faccia e a sbuffare. «In che lingua volete che ve lo dica? Avanzare non cambierà le cose». Guardò ancora una volta il Log Pose e poi il mare, aggrottando la fronte nell’incontrare l’espressione ferma e più che decisa del suo giovane Capitano. «Ma questo è il Nuovo Mondo, dopotutto», soggiunse, come se volesse cercare in quelle parole una spiegazione razionale. «Si può sempre tentare».
    «Perfetto!» esultò Rufy, saltando in piedi sulla polena. «Avanti tutta, Franky!»
    Il fermento provocato da quelle due semplici parole corse frenetico in ogni membro della ciurma, che si affrettò ad eseguire gli ordini del Capitano; ognuno di loro raggiunse la propria postazione e si preparò alla partenza, chi spiegando le vele e chi prendendo posto dinanzi al timone, pronto a fare rotta nella direzione indicata dal Log Pose.
    Nami fece appena in tempo a voltarsi verso destra per controllare la situazione con il binocolo che un’improvvisa folata di vento le scompigliò i capelli, facendo sì che le ricadessero sugli occhi e le offuscassero la vista; sbuffò e se li scansò con un gesto secco, ma l’improvviso rollare della nave le fece perdere l’equilibrio, tanto che si ritrovò a sbattere il sedere sul ponte, imprecando a denti stretti. Cosa diavolo stava combinando Franky con quel timone? Si issò in piedi afferrando con una mano il parapetto di legno, e ne avrebbe di sicuro dette quattro al carpentiere se la sua attenzione non fosse stata richiamata dal rombare lontano dei tuoni; un lampo squarciò il cielo in quel preciso istante, illuminando il profilo sfocato di un lembo di terra.
    «Ma che diavolo...?!» esclamò Usopp, sconcertato. «Da dove accidenti salta fuori quella montagna?!»
    «Quella non è una montagna, è un vulcano!» urlò di rimandò Sanji, assicurando una cima all’albero maestro. Un’onda si riversò all’interno della nave e rese scivolose le assi di legno, facendo sì che gli oggetti non fissati scivolassero su di esse, così come le porte sbatterono ad ogni minima oscillazione. Gocce grandi come chicchi di grandine avevano cominciato a cadere inesorabilmente dal cielo, e le forti raffiche di vento sferzavano violentemente il vessillo nero che sventolava sul pennone, minacciando di strapparlo via.
    «Franky, tutta a babordo!» gridò Nami, tenendosi alla balaustra per evitare di cascare di sotto a causa delle brusche virate del brigantino. «Se non ci affrettiamo a cambiare rotta ci schianteremo!»
    Quando aveva avvertito quella strana sensazione di disagio alla bocca dello stomaco ci aveva visto giusto, dannazione. E adesso si trovavano in balia delle onde e del vento, gettati in pasto ad una tempesta che fino a pochi attimi prima non c’era e in procinto di scontrarsi frontalmente con un vulcano spuntato fuori dal nulla. Tutte a loro dovevano capitare? Accidenti, sembrava che non avessero mai un attimo di respiro.
    A quei suoi stessi pensieri, Nami imprecò a denti stretti e corse svelta al di sotto del cassero per aiutare Chopper con la barra, cercando di restare in equilibrio e non essere vittima dell’oscillazione della nave. Sentiva le onde infrangersi violentemente contro lo scavo e i sinistri scricchiolii dei legacci che assicuravano la vela di mezzana all’albero, e avrebbero rischiato grosso se una di esse si fosse stracciata a causa della forte pressione del vento. «Zoro!» urlò, tentando di sovrastare il possente ruggito del mare e il rombare dei tuoni per farsi sentire, riuscendo a richiamare l’attenzione dello spadaccino solo al terzo tentativo. «Tu e Sanji-kun occupatevi delle vele, io e Chopper penseremo alla barra!»
    «Ricevuto, Nami-san!» grido il cuoco di rimando, affrettandosi a correre dall’altro lato del ponte per afferrare le funi che si erano sciolte a causa delle forti raffiche di vento; gli spruzzi d’acqua provenienti dalle onde che schiaffeggiavano violentemente la nave gli inumidivano il viso e gli rendevano le mani scivolose, e dovette ripetere più volte il nodo per riuscire ad assicurare le cime agli alberi di mezzana e trinchetto, scorgendo appena con la coda dell’occhio la sagoma indistinta di Zoro che faceva lo stesso con quello maestro.
    Poterono trovare un attimo di respiro solo quando giunsero nei pressi dell’isola, dove la tempesta sembrava essersi placata. Il cielo era ancora grigio e le nuvole cariche di pioggia, ma adesso lì, con l’ancora ormai calata, si sentivano in parte più tranquilli. Certo, attraccare era stato difficile, però almeno ce l’avevano fatta.
    «Pensavo che dopo l’isola degli Uomini Pesce e Punk Hazard non ci sarebbe stato più niente in grado di stupirmi, però... ragazzi, credo che mi stia tornando la nonvogliolasciarelanaveite...» esalò Usopp con un fil di voce, accasciato sul ponte erboso della Sunny come i restanti membri dell’equipaggio, tutti esausti per quell’assurda traversata. Prima il Log Pose impazzito, poi la tempesta, il vulcano, l’isola... già, quell’esperienza si sommava a tutte quelle che avevano già provato in passato, ma non bastava di certo quello a rasserenarli. E forse il cecchino, stavolta, aveva ragione nel non voler lasciare la nave. Chopper aveva difatti gettato una rapida occhiata in direzione dell’isola e aveva sentito tutto il pelo drizzarsi sulla schiena, simbolo che a terra ci sarebbe di sicuro stato qualcosa che non sarebbe piaciuto per niente a nessuno di loro. Nell’osservare subito dopo Rufy, però, aveva stranamente compreso che qualcuno sarebbe stato costretto a seguire l’euforico Capitano per impedirgli di fare casini.
    «Andiamo, non siete curiosi di scoprire cosa nasconde quest’isola?» esclamò difatti, schizzando in piedi per gettarsi contro il parapetto, poggiando entrambe le mani su di esso mentre osservava il folto bosco che si parava dinanzi ai suoi occhi, così tetro e scuro che metteva i brividi anche solo a fissarlo da quella distanza.
    Usopp, Chopper e Nami, però, agitarono in contemporanea una mano. «Per niente», replicarono, restando seduti sull’erba e rimediandoci un’occhiata scettica da Franky.
    «Il fatto che vi spaventiate per una cosa del genere è mecha-ironico, sapete?» disse loro con fare sarcastico, e, per quanto fu guardato male dai diretti interessati, riuscì a strappare una mezza risata a Zoro, il cui sguardo era fisso nella stessa direzione verso cui stava guardando Rufy.
    «Se hanno paura, lasciamoli qui a badare alla nave», propose ironico, sentendo i loro versetti d’approvazione.
    «Sono perfettamente d’accordo con Zoro!» esclamò Usopp, alzando subito una mano a mo’ di conferma. «Ma la mia non è paura!» si affrettò ad aggiungere, assumendo persino una posa convincente dopo essersi portato due dita al mento per carezzare il pizzetto. «Il grande Capitano Usopp non ha paura di nulla, però qualcuno dovrà pur tenere d’occhio la Sunny in assenza degli altri!»
    «Quindi restate voi?» domandò Zoro, vedendoli annuire immediatamente.
    «Certo!»
    «Con piacere!»
    «Assolutamente sì!»
    Qualche istante dopo, però, un ruggito gutturale freddò tutti sul posto e fece cambiare in un lampo idea ai tre ragazzi, che trovarono molto più saggio incollarsi al povero spadaccino. «Credo che, dopotutto, avrete bisogno dell’aiuto del temerario Usopp...» pigolò quest’ultimo, stritolando fra le mani il suo braccio sinistro; Nami si era impossessata di quello destro e Chopper gli era saltato letteralmente in testa, e la scena si sarebbe anche rivelata divertente se l’atmosfera non fosse stata così cupa.
    «Smettiamola di perdere tempo!» sbottò Rufy, richiamando l’attenzione di tutti. «Scendiamo e cerchiamo una città, mi sta anche venendo fame!»
    «Sapevo che l’avresti detto, Rufy», ridacchiò Sanji, uscendo proprio in quel mentre dalla cucina con due grossi zaini sulle spalle. Sorrideva sfavillante come non mai, con la sua fedele sigaretta fra le labbra. «Ho preparato dei bentou per tutti!»
    «Sei grande, Sanji!» esclamò tutto euforico, arraffando il proprio zaino per scendere per primo, ignorando i richiami di Nami, ancora incollata al braccio di Zoro. E di questo il cuoco se ne accorse, sgranando gli occhi prima di avvicinarsi rabbioso allo spadaccino per rifilargli un calcio allo stinco, senza dar peso alla colorita imprecazione che quest’ultimo rivolse al suo indirizzo.
    «Giù le mani da Nami-san, gorilla pervertito!» sibilò, e Zoro, dopo essersi finalmente scrollato di dosso quei tre idioti, mise prontamente mano alle sue katane, fronteggiando l’altro.
    «Che cazzo fai, cuoco? Sei cieco, per caso? È lei che mi ha sequestrato il braccio!» berciò, e avrebbero di sicuro cominciato a darsele di santa ragione come loro solito se non fosse stata proprio Nami a sedare la rissa, rifilando un pugno sul capo di entrambi.
    «Diamoci una mossa, lo sapete bene che non possiamo lasciare Rufy da solo!» sbottò scontrosa, accostandosi a Robin per scendere a terra con lei. Brook e Franky, con Chopper e Usopp al seguito, si erano già avviati, così da non perdere di vista quello scemo del loro Capitano. Se si fossero distratti anche solo per un attimo, quel casinista sarebbe riuscito a combinare qualche guaio come suo solito, e di guai ne avevano già avuti abbastanza, in quel periodo. E quell’isola dava la netta sensazione che, volenti o nolenti, sarebbero stati proprio i guai a cercarli. Decisamente.








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Non saprei cosa dire esattamente, riguardo questa long fiction.
Cominciamo con il dire che questa storia di sette capitoli è
stata scritta per il contest Don't be a drag, just be a Queen! indetto da RoyMustungSeiUnoGnocco - nel quale si è classificata prima praticamente per il rotto della cuffia, come la giudice stessa afferma x) - e per il contest One Sentence indetto da Reghina-chan, ancora in corso e in fase di conclusione. Per una volta avevo una voglia pazzesca di scrivere una storia di avventura su One Piece, e finalmente questi due contest me ne hanno dato la possibilità.
Le strofe iniziali in corsivo nell'introduzione, tra l'altro, appartengono alla canzone
«The Battle of Bones» dei Flatfoot56 e la frase è del film «Pirati dei Caraibi: La Maledizione del Forziere Fantasma», e si capirà perché le ho scelte come punto di riferimento solo nel corso della storia.
Ho sempre l'impressione che manchi qualcosa, comunque, però spero che in qualche modo, per il momento vi abbia interessati.
Al prossimo capitolo. ♥




Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** [ First season › I'm going slightly mad ] An island in the fog, 02 ***


Like Davy Jones_2
FIRST SEASON › I’M GOING SLIGHTLY MAD
AN ISLAND IN THE FOG, #02
 
    Il tratto di strada che avevano percorso dal luogo in cui avevano attraccato fino a quel punto del bosco sembrava essere durato un’eternità, secondo Nami.
    Il silenzio intorno a loro era così assordante che ad ogni passo le giungeva alle orecchie il sinistro scalpiccio degli stivali che schiacciavano le foglie secche disseminate sul terreno arido, sul quale non cresceva nemmeno un filo d’erba; di tanto in tanto sorpassavano zone in cui la vegetazione era più folta, però le piante apparivano comunque avvizzite, prive di vita. Sembrava quasi che il freddo dell’inverno le avesse bruciate del tutto, e la lieve nebbiolina che era calata da una buona decina di minuti, unita al cielo plumbeo che a tratti si riusciva a scorgere dalla cappa di fogliame sopra di loro, rendeva quel paesaggio ancor più tetro ed inquietante, gelandole il sangue nelle vene.
    Nami sospirò e si strinse nella felpa che indossava, lo sguardo ostinatamente puntato sulle schiene dei suoi compagni di ciurma. Adesso, col senno di poi, quasi le veniva da chiedersi perché diavolo non fosse rimasta sulla Sunny, ruggiti infernali di possibili mostri o meno. In fin dei conti non era la stessa ragazza di due anni prima, poteva benissimo cavarsela da sola senza il costante aiuto dei suoi amici. Doveva ammettere, però, di sentirsi molto più sicura in loro presenza, e purtroppo c’era anche da contare il fattore curiosità e la semplice addizione “isola misteriosa + strani fenomeni e animali mostruosi = formidabili tesori”. Non sarebbe stata per niente la prima volta, in fin dei conti.
    «Solo a me questa foresta da’ i brividi?» chiese d’un tratto Usopp, e Nami vide distintamente Franky dargli una leggera pacca su una spalla.
    «Tranquillo, fratello, il tuo mecha-Franky è qui per questo!»
    «Yo-hohoho ♪~ Ci sono anch’io, Usopp-kun!»
    «Molto rassicurante, Brook».
    «Ohi, ragazzi, ma da qui non ci siamo già passati?» li interruppe Sanji, e bastarono quelle sue poche parole per far sì che tutti gettassero un’occhiata in giro, aggrottando la fronte nello scrutare i dintorni, e nel vedere la stessa identica pietra a forma di gatto che aveva scorto una quindicina di minuti prima, Nami non poté fare a meno di dargli ragione. Aguzzò dunque la vista, così da poter scorgere attraverso la tenue foschia il profilo del Capitano.
    «Ehi, Rufy!» lo chiamò. «Si può sapere dove diavolo stai andando?»
    «E io che ne so?» replicò lui con una semplice scrollata di spalle. «Sto seguendo Zoro!»
    Quella costatazione raggelò tutti, ma fu Sanji, dopo un’imprecazione a denti stretti, ad avanzare a grandi falcate fra il sottobosco umido per superare il Capitano, scansando malamente lo spadaccino quando lo raggiunse. «Che idiota, sarei dovuto andare io per primo!» sbottò poi tra sé e sé, senza dar peso alle rimostranze di Zoro e Rufy, che si erano visti surclassati dal cuoco in quel modo così brutale. Beh, a lui non importava un accidente di niente. Avrebbero dovuto ricordarsi molto prima che quei due avevano un pessimo senso dell’orientamento, anche se Zoro era di sicuro il peggiore fra loro. Si perdeva anche per andare al cesso, il che era tutto dire. A Punk Hazard era stato solo un caso se fosse riuscito in qualche modo ad orientarsi e avesse ricordato stranamente la direzione di quel fottuto lago ghiacciato.
    Pur avendo preso il comando Sanji, però, le cose non migliorarono così facilmente. Persino il bosco sembrava avercela con loro e non rendeva le cose per niente semplici, giacché i rami avevano cominciato a divenire sempre più bassi e fitti e il sottobosco così folto da somigliare ad una fottuta brughiera in miniatura. Erano riusciti a trarre un lungo respiro di sollievo solo quando, usciti dopo ore interminabili passate in quel bosco, scorsero una cittadella in lontananza, ritornando ansiosi nel momento esatto in cui vi avevano messo piede. Le porte e le finestre di case e negozi erano sbarrate da tre assi di legno inchiodate al muro, così fradice e annerite da dare l’impressione di essere state in balia delle intemperie da più di qualche anno; dai ciottoli che piastrellavano le strade sbucavano ciuffetti d’erba di un timido colore verdognolo, e persino la fontana che si ergeva nel bel mezzo della piazza era ricoperta da erbacce e da uno spesso strato di patina biancastra, scioltasi solo nei punti in cui il fango ormai secco aveva attecchito. La giornata cupa e uggiosa e la quiete rendevano il tutto ancor più spettrale, per non parlare poi dei sinistri cigolii delle insegne dei negozi che si muovevano ad ogni lieve folata di vento. Dannazione, che diavolo significava?
    «Chissà che fine hanno fatto tutti quanti», disse d’un tratto Robin in tono distratto, guardandosi incuriosita intorno prima di avvicinarsi ad un carretto e toccare la merce ormai avariata, ritraendo la mano con fare disgustato nel sentire al tatto il marcio viscidume di quella che una volta era stata una mela. «Forse sono tutti morti in seguito ad un incidente... o forse c’è stato un omicidio di massa».
    Nami rabbrividì, guardandola di traverso. «Non dire certe cose orribili con quel tono così pacato, Robin», la redarguì, e l’archeologa si ritrovò semplicemente a sorridere. Quella donna aveva sempre avuto un macabro senso dell’umorismo, ma durante quei due anni era decisamente peggiorata. A volte non riusciva nemmeno a capire se facesse sul serio o volesse semplicemente prendere per i fondelli tutti loro.
    La navigatrice non ci rifletté su oltre, cominciando ad esplorare i dintorni con circospezione. Le imposte esterne delle case ai margini della cittadina ruotavano sinistramente sui cardini alle folate di vento che si innalzavano di tanto in tanto dalla foresta che si ergeva ad ovest, producendo un cigolio che risuonava assordante a causa dell’assoluto silenzio che era calato sulla zona come un velo sottile; il tetto di una delle abitazioni era crollato, probabilmente colpito violentemente da qualcosa, e le travi di legno che l’avevano composto erano ricadute sulla dura terra, riversandosi in pendenza contro il muro della casa, simile ad una rampa cedevole e insicura; come se non bastasse, la puzza di carne stantia, cibo andato a male e frutta marcia appestava quel luogo, infilandosi nelle narici fino in fondo ai polmoni. Era così nauseante che Nami si sarebbe volentieri rintanata in un angolo per vomitare, se solo il suo buon senso non le avesse ordinato di restare vigile. Più avanzava, difatti, più quella situazione cominciava a non piacerle, in particolar modo a causa delle case ridotte a cumuli di macerie che stava osservando proprio in quel momento. Che cosa diamine era successo in quella città? E cos’era accaduto ai suoi abitanti? Non lo sapeva, ma era certa che, qualunque cosa fosse capitata, se ne fosse venuta a conoscenza non le sarebbe piaciuto per niente.
    «Questo posto mi ricorda tremendamente Thriller Bark... e la cosa mi terrorizza», disse Nami con un fil di voce, passandosi frettolosamente le mani sulle braccia come se volesse cacciare la strana sensazione che si era impossessata della sua pelle. Era come se avesse freddo, e non era una cosa esattamente positiva. «Non ci saranno mica zombie o altre stranezze del genere, vero?» sussurrò, e non fece nemmeno in tempo a finire di dirlo che sentì mormorare alle sue spalle «Vi siete persi, figlioli?», urlando spaventata qualche microsecondo dopo. Saltò letteralmente in braccio ad Usopp, che a sua volta si era lasciato scappare un grido, ed entrambi fissarono con gli occhi ingigantiti dalla paura la figura che era sbucata all’improvviso alle loro spalle, simile ad uno spirito tormentato che si era fatto largo fra la polvere e i detriti.
    Solo quando il battito impazzito dei loro cuori si ristabilizzò riuscirono realmente a mettere a fuoco la sua sagoma, non risparmiandosi dall’imprecargli contro. «Vecchio, ci hai fatto prendere un colpo!» sbottò Usopp, rimettendo Nami a terra per indietreggiare poi con lei. Non si poteva mai sapere che cosa potesse passare per la mente di quel tipo losco. Era un ometto basso e tarchiato dal viso scarno, così pallido da sembrare un cadavere; le guance scavate e il colorito bluastro intorno agli occhi gli conferivano un’aria quasi spettrale, e a renderlo ancor più spaventoso, probabilmente, era il sorriso che stava rivolgendo loro, abbastanza ampio da far intravedere benissimo la mancanza dell’arcata dentale superiore. Gli unici denti rimasti erano i canini e gli incisivi, così gialli e marci da dare l’impressione che sarebbero potuti cadere anche loro da un momento all’altro.
    «Perdonate, ragazzi, perdonate», proferì divertito. «Che cosa ci fate da queste parti? È da ben sei anni che nessuno mette piede in questo lato dell’isola».
    «Quindi quest’isola non è disabitata?» domandò pacatamente Robin, provocando al vecchio una sonora risata.
    «Disabitata? Oh, nay, gli abitanti si sono trasferiti in un’altra città, molto più prosperosa e vicina al mare», spiegò, annuendo come se fosse rivolto a se stesso anziché ai ragazzi che lo squadravano con attenzione. «L’unico inconveniente, purtroppo, sono i mostri che pullulano in questa zona».
    Usopp, Chopper e Nami si guardarono istintivamente nello stesso istante, e mentre i primi due cominciavano a blaterare chissà cosa riguardo a foreste stregate e che avrebbero decisamente fatto meglio a tornare alla nave, la navigatrice si schiaffò una manata in faccia, in particolar modo nel vedere l’eccitazione che si era dipinta immediatamente sul volto del Capitano. Non gli erano bastati gli orrori che avevano veduto a Punk Hazard e quello schifosissimo Smile, eh? Era proprio un tipo senza speranza.
    «Vi consiglio di sbrigarvi, ragazzi», continuò il vecchio, stringendosi nel pastrano che indossava, come se all’improvviso avesse cominciato a sentire freddo. Eppure il clima sembrava piuttosto normale. «Quando scende la notte e cala la nebbia, quei mostri si aggirano nella foresta e bramano la vita degli sventurati che perdono la via in essa».
    «Vorrà dire che li affronteremo!» replicò immediatamente Rufy con un enorme sorriso, ma il vecchio scosse appena il capo.
    «Non è così semplice, ragazzo mio», lo mise in guardia. «Hanno una forza pari a quella di tre Uomini Pesce, ma è il loro intelletto minimo a spaventare chiunque si imbatta in queste creature. Non sono esseri senzienti e si muovono unicamente in base al loro istinto, esattamente come un comune animale».
    Rufy si calcò il cappello in testa e sorrise maggiormente, osservando l’uomo con attenzione. «Non è un problema», rimbeccò, conscio di ciò che diceva o semplicemente troppo sicuro di sé come suo solito. E l’intera ciurma protendeva più per la seconda ipotesi, giacché conoscevano fin troppo bene il loro Capitano, ormai. Quando Rufy si metteva in testa una cosa non c’erano ma che lo facevano desistere, dunque erano a dir poco sicuri che, qualunque cosa avessero fatto o detto per tentare di fargli cambiare idea, non sarebbero riusciti a distoglierlo da quella sua intenzione. Avrebbero attraversato quella foresta e, se si fossero imbattuti in quei mostri, lui avrebbe messo tutto se stesso per farli fuori.
    «Io vi ho avvertiti, ragazzi. Ma se volete imbarcarvi in quest
’impresa, seguite il sentiero senza mai lasciarlo, se volete arrivare vivi a fine giornata. E ricordate bene le mie parole», sentenziò il vecchio in tono sibillino, osservandoli un’ultima volta prima di ritirarsi e sparire in direzione delle case abbandonate come un fantasma, esattamente com’era apparso qualche istante prima, facendo correre un brivido dietro la schiena di Nami.
    «Che tipo», sussurrò tra sé e sé, scuotendo il capo. Ne aveva visti di tipi loschi e strani, ma, dietro a quella sua facciata tranquilla e per niente pericolosa, quel vecchietto li batteva tutti, probabilmente. «Rimettiamoci in marcia, ragazzi. Se ciò che ha detto quel vecchio è vero, non voglio rischiare di ritrovarmi davanti a quei mostri».
    Tutta la ciurma si ritrovò a convenire con la ragazza, cominciando a seguirla verso il folto della boscaglia senza nemmeno pensarci due volte; solo Sanji, che si era attardato un secondo per accendersi una sigaretta, gettò un ultimo sguardo verso la città e poi verso il gruppo, accigliandosi tutto d’un tratto nel notare che c’era un particolare mancante, lì.
    «Un momento... dov’è finito quello stupido marimo?» domandò all’improvviso, e quel suo quesito riuscì a bloccare tutti in un momento di stasi, prima che ogni singolo membro cominciasse a guardarsi freneticamente intorno alla ricerca dello spadaccino, di cui sembravano essersi perse effettivamente le tracce.
    Aveva scelto proprio il momento peggiore per sparire come suo solito, quel cretino. Dove diavolo era andato a cacciarsi?
 
 
    «Merda, dove cazzo sono finiti quegli idioti?» borbottò Zoro, grattandosi il capo con fare pensoso. Eppure stavolta, e ne era assolutamente sicuro, non aveva perso di vista nemmeno per un attimo le schiene dei suoi amici, seguendoli su per il sentiero che portava fuori da quella città abbandonata. Quindi perché, adesso, si ritrovava praticamente isolato dal resto del gruppo?
    Aggrottò la fronte e gettò un’occhiata alle proprie spalle, accigliandosi nel rendersi conto che la città sembrava essere sparita nel nulla, come se non fosse mai esistita. Non si era allontanato di molto da quel posto, dunque che cosa diavolo stava succedendo? Era mai possibile che, in realtà, avesse camminato più di quanto pensasse? Sbuffò e decise di riprendere il cammino, certo che prima o poi sarebbe riuscito a ritrovare i suoi compagni. Porsi troppe domande non era mai stato da lui, in fin dei conti, quindi non vedeva il perché avrebbe dovuto cominciare proprio adesso.
    Quando cominciò a rendersi conto che stava semplicemente girando in tondo, però, iniziò davvero a spazientirsi. Gli alberi che sorgevano nei dintorni arrivavano quasi a toccare il cielo grigio e coperto di nuvole, rendendo il paesaggio ancor più buio e spettrale; dal sottobosco non si riuscivano nemmeno ad udire lo strisciare di qualche serpentello o il fruscio rapido di qualche scoiattolo che si affrettava a tornare alla tana, né tanto meno i richiami lontani di qualche lupo. Era come se l’intero bosco si fosse zittito e si fosse fermato in un silenzio quasi irreale, rendendo quella traversata ancor più irritante di quanto già non fosse stata al principio.
    Zoro si gettò un’altra rapida occhiata alle spalle solo per costatare che si era allontanato appena di qualche metro, per quanto fosse ormai in cammino da una buona decina di minuti. Era come minimo la terza volta che vedeva lo stesso tronco spezzato e la stessa carcassa di coniglio riversa sotto di esso, mezza mangiucchiata sulle zampe e con i peli incollati dal sangue ormai raggrumato. Forse in un altro momento si sarebbe chiesto cosa avesse spinto una bestia affamata a lasciare lì la propria preda e a fuggire, però, in quel frangente, era decisamente impegnato a capire dove diavolo fosse e come avesse fatto a capitare in quello stupido posto.
    Si illuminò solo quando ritrovò finalmente il sentiero, affrettandosi a percorrerlo come per timore di vederselo scomparire ancora una volta dinanzi agli occhi; dovette scansare dal suo cammino i rami più bassi e pungenti degli arbusti e quasi cadde in una radice nodosa che sporgeva dal terreno, imprecando a denti stretti ogni qual volta veniva costretto ad abbassare la testa per evitare di beccare in pieno le fronde ricoperte di foglioline verdi. Perse persino il conto delle ore che passò a fare avanti e indietro in quello sputo di posto, fermandosi solo quando trovò un ostacolo sulla propria strada.
    «Ohi, che diavolo significa?» sbottò rivolto al vuoto, osservando con la fronte aggrottata la parete di pietra che si innalzava dinanzi a lui. Eppure era sicuro di non essersi allontanato dal sentiero, quindi quel muro naturale non avrebbe dovuto esserci. Quel posto stava decisamente cominciando a stancarlo e a dargli sui nervi. Era come se qualcuno si stesse divertendo a farlo impazzire, e la cosa non gli piaceva per niente. Dannazione, quella stupida parete l’avrebbe fatta volentieri a fette se non si fosse rivelato inutile.
    Senza distogliere lo sguardo da essa, Zoro decise di indietreggiare per tornare sui propri passi, con la speranza di riuscire in qualche modo ad uscire da quella stramaledettissima quanto assurda situazione. Superò appena un paio di alberi, però, prima di rendersi conto che lì c’era qualcosa che non quadrava. Erano radi e bassi, quasi spogli, e il terreno sul quale stava camminando era cosparso da piccoli ciottoli bianchi che facevano apparire quella foresta molto simile ad una pianura innevata. Zoro si voltò quel tanto che bastava per adocchiare i dintorni, accigliandosi quando, nel girarsi del tutto, i suoi stivali affondarono a metà in un corso d’acqua che aveva tutta l’aria di essere un ruscelletto. Ma che diavolo...?
    «Adesso sto cominciando a stancarmi», borbottò, sfiorando con due dita l’elsa della sua Ichimonji in un gesto rassicurante, senza smettere di controllare lo spiazzo erboso che gli si era parato dinanzi in quel momento; vi aleggiava sopra una nebbiolina leggera che lo rendeva stranamente grigiastro, privo del colore verde brillante che avrebbe dovuto caratterizzarlo.
    Con fare guardingo e al contempo deciso, Zoro si rimise in marcia e cominciò ad ispezionare la zona, osservando minuziosamente ogni minimo particolare. Oltre al ruscello che aveva superato e all’arbusto spoglio che sorgeva poco più avanti di esso, quel posto non sembrava avere qualche segno distintivo, se si escludeva ovviamente il fatto che si trovava dove avrebbe dovuto invece esserci un bosco. La cosa ancor più strana, poi, era che alle sue narici non arrivava il classico odore fragrante di erba bagnata, né tanto meno quello delle margherite che spuntavano timidamente fra gli steli umidi, bensì un profumo salmastro e pungente, come se si trovasse nei pressi dell’oceano anziché in un vasto prato coperto di nebbia. E forse, per quanto non fosse per niente da lui, avrebbe cominciato di sicuro a farsi qualche domanda, se solo il fruscio di passi fra l’erba non l’avesse immediatamente messo in allerta, tanto che non ci pensò due volte ad afferrare saldamente con la mano sinistra l’elsa della katana bianca e a sfilarla rapidamente dal fodero; la lama sibilò contro di esso e andò prontamente a scontrarsi con un’altra, permettendo al Vice Capitano di cogliere l’espressione sgomenta dipintasi su un volto fluttuante nella nebbia.
    Un’imprecazione sommessa si levò dal bel mezzo di quel mondo bianco ed etereo, poi lo scintillio di una lama balenò per un breve istante, dando a Zoro appena il tempo di spostarsi con un sibilo dalla sua traiettoria; un grido lungo e straziante, simile a quello di una creatura ferita, gli trapanò le orecchie e lo costrinse ad indietreggiare, prima che, rinserrando la presa sull’elsa della sua arma, si gettasse contro quell’avversario invisibile in un attacco frontale, facendo affidamento unicamente sui propri sensi sviluppati per seguire con essi ogni minimo spostamento di quel losco figuro. Non dovette nemmeno far ricorso alle altre due spade, costatando, unicamente con qualche breve stoccata, che la tecnica di quel tipo, chiunque egli fosse, era pessima e priva di sfumature, per niente limata dall’esperienza; gli colpì una mano con un fendente secco e laterale con il quale gli fece volare via la spada, vedendola volteggiare con la coda dell’occhio alla sua destra prima che si conficcasse con furia nel terreno. Zoro non perse tempo a capire chi diavolo fosse il nemico, squarciandogli il ventre con un colpo netto; il sangue schizzò, macchiando lama e vestiti, prima che, con un rantolo soffocato, quel tipo crollasse a terra riverso di schiena, ansimando.
    Ripulendo la katana sulla casacca verde ormai logora, Zoro la rinfoderò e, accucciandosi sui talloni, afferrò a tentoni il bavero di quell’uomo, così da portare il suo viso ad una spanna dal proprio. «Quel colpo non ti ammazzerà, quindi parla e dimmi cosa diavolo vuoi», sibilò, e avrebbe anche aggiunto altro se, grazie alla nebbia lievemente dissoltasi, il suo sguardo non si fosse posato sul volto del suo assalitore. Il naso lungo e squadrato ricordava vagamente quello di uno squalo martello, e persino i suoi occhi, piccoli e vitrei, dava l’impressione che il viso che stava osservando non fosse per niente umano. E i dubbi dello spadaccino si dissolsero del tutto quando l’occhio cadde sulle branchie che fremevano sul collo, dilatandosi e contraendosi come se fossero bisognose d’acqua. «Un Uomo Pesce», costatò a mezza voce, però, contro ogni sua aspettativa, quell’uomo sollevò un angolo della bocca in un sorriso forzato, mostrandogli i denti aguzzi e le gengive esangui.
    «Sbagliato», ansimò, tossendo. «E presto... vi pentirete di essere arrivati sin qui», soggiunse in un soffio, e Zoro sgranò l’occhio, incredulo. Dunque quel coso sapeva che non era solo e che con lui c’erano altre persone? Che diavolo stava succedendo, su quella dannata isola? E, soprattutto, chi diamine l’aveva mandato ad attaccarlo?
    «Che cazzo significa?» berciò, scrollandolo malamente e ignorando al contempo il lamento che l’altro si lasciò sfuggire. «Se sai dove sono i miei compagni dimmelo seduta stante, altrimenti ti ammazzo».
    Quell’uomo, o qualunque cosa egli fosse, lo guardò negli occhi per un lungo istante senza proferir parola, spalancando poi la bocca zannuta per affondare violentemente i denti nella lingua, mozzandosela sul colpo; l’uomo cominciò a tremare in preda alle convulsioni, biascicando a causa della bocca ormai ricolma di sangue e saliva.
    «Merda», imprecò Zoro, lasciandolo seduta stante prima di issarsi nuovamente in piedi. C’era qualcuno, su quell’isola, che era a conoscenza della loro presenza, e probabilmente aveva già mandato altri suoi sgherri a fare il lavoro sporco, esattamente com’era appena successo con lui.
    Doveva trovare Rufy e gli altri, e doveva trovarli in fretta
.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Eccoci finalmente giunti con il secondo capitolo di questa storia.
In verità non dovrei metterci così tanto ad aggionrare visto che è già pronta, però... tra altre storie, impegni vari e giornate passate fuori casa, diciamo che mi sto dosando posando un po' e un po'
Sono comunque contenta che la storia stia piacendo, e spero che, mano a mano che andrà avanti, non lascerà deluso nessuno per lo svolgersi degli eventi
In questo capitolo abbiamo visto che il marimo non si smentisce mai e si perde anche quando non dovrebbe, ma in fin dei conti non è per niente una novità, no? Ed è anche il primo a trovare avversari... il solito fortunato, insomma u_u
I dubbi verranno chiariti più avanti, per il momento spero che vi abbia interessati :3
Al prossimo capitolo. ♥




Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** [ Second season › Crossroads ] Separate ways, 01 ***


Like Davy Jones_3
SECOND SEASON › CROSSROADS
SEPARATE WAYS, #01
 
    La ciurma si era rimessa in viaggio da ormai svariate ore, ma non avevano ancora trovato nessuna traccia di Zoro, che sembrava essere letteralmente scomparso.
    Il vecchio che avevano incontrato in quella città abbandonata aveva indicato loro la direzione da seguire se avessero voluto arrivare nei pressi del villaggio attualmente abitato, e, secondo le sue informazioni, sarebbero dovuti giungere a destinazione in meno di mezza giornata, se avessero proseguito dritto senza lasciare il sentiero. Il problema, però, era che il sentiero era sparito non appena si erano addentrati maggiormente nel bosco, quasi fosse stato risucchiato dalla vegetazione. Dire che erano rimasti tutti perplessi sarebbe stato un eufemismo. E tuttora non riuscivano più a raccapezzarsi su quanto fosse successo, sebbene non avessero smesso di muoversi nemmeno per un attimo; avevano persino cominciato a chiamare Zoro a squarciagola, nella speranza che quest’ultimo li sentisse e seguisse poi le loro voci per trovarli, tornando almeno tutti uniti. Quel posto non sembrava una zona da valicare da soli, in particolar modo per la presenza di quelle strane creature che, per il momento e per fortuna, non erano ancora riusciti a vedere.
    Asciugandosi il sudore dalla fronte, Usopp si gettò un’occhiata intorno, stringendo furiosamente fra le dita il kabuto, come se fosse in attesa di vedersi comparire improvvisamente davanti qualche strano essere; la prudenza non era mai troppa, secondo lui, e in quel posto andava addirittura intensificata.
    I suoi occhi vagavano da una parte all’altra della vegetazione, tenendo conto anche del più piccolo dettaglio, come un ramo smosso dal vento o un lieve movimento fra l’erba alta, per quanto non avessero ancora visto neanche un segno di vita nel bosco in cui si erano ritrovati. Non un uccello, non un insetto - con grande sollievo di Sanji, c’era da dire -, né tanto meno qualche animale che sbucava curioso dalla propria tana per osservare quegli strani visitatori che vagavano senza meta. Era come se l’intera foresta fosse morta o ogni suo abitante fosse andato a nascondersi per non incontrare le creature che la popolavano, e Usopp, doveva ammetterlo, non dava torto a nessuno di loro. Si era allenato per ben due anni e aveva acquisito molto più coraggio di quanto non ne avesse avuto in passato, ma ai brutti presentimenti non si poteva mai dire di no. E se aveva cominciato a provare una strana sensazione, beh, allora voleva dire che non aveva tutti i torti.
    «Dobbiamo trovare Zoro», esalò d’un tratto e tutto d’un fiato, richiamando l’attenzione su di sé in un lampo. «Rischia di imbattersi nei mostri di cui ci ha parlato il vecchio».
    Sanji, che si trovava a pochi passi da lui, si ritrovò ad abbozzare un sorriso sarcastico e a dargli una gomitata giocosa al fianco, quasi volesse tirarlo su di morale. «Tranquillo, Usopp, tanto è così stupido che si scorderebbe di morire anche se lo ammazzassero».
    «Non sei per niente divertente, Sanji», rimbrottò il cecchino, facendolo sorridere maggiormente.
    «Io infatti ero serissimo».
    «Non è il momento di discutere, ragazzi», sbottò Nami. «Voglio uscire da questa stupida foresta il prima possibile», aggiunse, e non ebbe nemmeno l’agio di poter aggiungere qualcosa che gli occhi di Sanji parvero diventare letteralmente a cuore, prima che, come un perfetto cavaliere d’altri tempi, si chinasse su un ginocchio e le prendesse amabilmente una mano fra le sue.
    «Come desideri, Nami-swan~♥!» cinguettò poi, pendendo praticamente dalle sue labbra. La ragazza sbuffò e roteò gli occhi, liberandosi dalla sua presa prima di dargli le spalle e agitare distrattamente una mano in aria, borbottando un «Diamoci una mossa» mentre si accostava a Rufy, che non aveva fatto altro che guardarsi intorno con fare estasiato. Sembrava che stesse controllando i dintorni con la speranza di vedere apparire chissà quale bestia portentosa, e la cosa non pareva far per niente piacere a Nami, che avrebbe difatti preferito che la situazione rimanesse tranquilla come lo era in quell’esatto momento. Forse avrebbe potuto essere noioso, certo, ma almeno nessuno di loro si sarebbe ritrovato a dover rischiare la vita o chissà cosa. Un po’ di tranquillità potevano averla anche loro per una volta, no?
    Non fece nemmeno in tempo a terminare quel pensiero che, con la coda dell’occhio, scorse una strana figura che si aggirava fra gli alberi, e un tic nervoso si impossessò del suo occhio sinistro nel momento stesso in cui si rese conto che non era una sua impressione. A quanto sembrava non potevano avere un attimo di pace, nossignore. Un qualunque Dio, lassù - probabilmente Ener per vendicarsi della sconfitta che gli avevano inferto a Skypiea, ironizzò mentalmente per sdrammatizzare -, non voleva concedere loro nemmeno un secondo, e ne fu assolutamente sicura non appena l’ombra che aveva adocchiato passò proprio dinanzi a loro, volteggiando a mezz’aria con un manto scuro che, contro lo sfondo del bosco fitto e nebbioso, appariva quasi consistente, per quanto si riuscissero ad intravedere attraverso di esso gli alberi che si innalzavano verso il cielo. «Quello che ci è appena passato davanti non era un fantasma, vero?» domandò con voce stranamente pacata, come se ormai si fosse del tutto arresa a situazioni assurde come quella.
    Nel sentire quelle parole, però, fu Brook ad agitarsi, portandosi entrambe le braccia scheletriche al petto prima di spalancare la bocca ossuta. «Un fantasma?!» esclamò, e avrebbe di sicuro sgranato gli occhi se solo al loro posto non vi fossero ormai le cavità oculari vuote nascoste dagli occhiali da sole. «Che paura!»
    «Tu sei uno scheletro parlante! Come diavolo fai ad aver paura di un fantasma?!» berciò Nami, tentando di ignorare la risata a cui si era lasciato andare Rufy. Perché diamine doveva trovare tutto divertente, quello scemo d’un Capitano? Ah, giusto. In fin dei conti era pur sempre di Rufy che si stava parlando, e lui riusciva a trovare strepitoso anche una bambola che portava il the. C’era da dire, però, che il più delle volte la sua esuberanza, nelle situazioni di pericolo, riusciva in qualche modo a rassicurare la ciurma, dando loro la certezza che, ammaccati o meno che fossero, sarebbero comunque riusciti a cavarsela e ad uscire fuori da qualunque situazione. Non era forse anche per quel motivo che l’avevano seguito? Insieme a Rufy, tutti, nessuno escluso, si sentivano più al sicuro. Sapeva anche essere un Capitano molto maturo, quando voleva.
    «Oh!» esclamò all’improvviso quest’ultimo, risvegliando la navigatrice dai propri pensieri; lo vide correre verso una quercia gigantesca e puntellarsi sui calcagni, mostrando loro, una volta preso con entrambe le mani, quello che aveva tutta l’aria di essere una specie di copricapo. «Guardate qui, ragazzi!» soggiunse poi con un sorriso, sollevando maggiormente quell’oggetto per mostrar loro di cosa si trattasse. «Non è grandioso? Sembra uno squalo!»
    Tutti si ritrovarono a sgranare gli occhi, increduli e forse un po’ intimoriti, nel rendersi conto che il Capitano reggeva fra i palmi delle mani un teschio con tanto di cappello pirata. La testa era quasi il triplo di quella di Rufy, e gli zigomi alti, la fronte sporgente e l’arcata dentale aguzza, esattamente come quella che avrebbe potuto possedere uno squalo, davano tutta l’impressione che quel cranio appartenesse a qualcosa di molto simile ad un Uomo Pesce.
    «Metti giù quel coso, Rufy!» ordinò Nami, schifata dal millepiedi che era appena strisciato fuori dell’orbita vuota del teschio. E rabbrividì maggiormente nel vedere un ragno calarsi dal naso e camminare indisturbato sulle poche zanne rimaste, sparendo nuovamente nel cranio fra uno spazio tra gli incisivi.
    A quel fare il ragazzo scrollò semplicemente le spalle, poggiando il teschio a terra solo per sollevare qualcos’altro qualche attimo dopo. «Beh, qui c’è anche questo», le disse poi, e gli occhi di Nami, alla vista del medaglione completamente d’oro e dei diamanti ivi incastonati, si illuminarono seduta stante, tanto che la ragazza corse immediatamente ad abbracciarlo, gettandogli le braccia al collo e schiacciandogli il viso fra i seni.
    «Oh, Rufy, sei stato fantastico!» lo elogiò tutta contenta, ignorando il vago pianto che le era sembrato di udire in sottofondo - causato da un Brook o da un Sanji particolarmente disperato per non l’aver ricevuto lo stesso trattamento, con molta probabilità - solo per concentrarsi sulle parole soffocate che a stento riuscivano ad uscire dalle labbra del Capitano, che non sembrava per niente dispiaciuto dalla piega che avevano preso le cose, a quanto sembrava.
    Quel loro attimo di contentezza, però, durò relativamente poco, giacché non fecero nemmeno in tempo ad accorgersi dei fruscii provenienti dalla cappa di fogliame sopra di loro che si ritrovarono catturati in una rete metallica, dando voce alla loro perplessità con un’esclamazione sorpresa alla quale fece eco quella della ciurma. «Li abbiamo presi!» si sentì gridare, prima che dalle cime degli alberi calassero quelli che avevano tutta l’aria di essere Uomini Pesce, per quanto fossero piuttosto piccoli e minuti. Le branchie sul collo fremevano ogni qual volta il naso schiacciato, molto più simile a quello di uno squalo che ad una parte anatomica umana, sembrava annusare l’aria nei dintorni, inspirando a fondo l’ossigeno come se fosse acqua; le mani palmate di uno di loro corsero rapide verso la fune della rete nel tentativo di chiuderla, ma non fece in tempo a farlo che Cappello di Paglia si alzò con uno scatto secco, gettandola lontano da sé prima di aiutare Nami ad alzarsi in piedi e rivolgere a quei due una rapida occhiata.
    «E voi chi diavolo siete?» domandò, e quello più vicino a Rufy, imprecando a denti stretti, non si prese nemmeno la briga di rispondere, facendo un rapido cenno al compare di allontanarsi il più possibile dal resto dell’equipaggio; prima di indietreggiare, però, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un fischietto, portandoselo svelto alle labbra per soffiarci dentro con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Il fischio cupo e prolungato che scaturì da esso costrinse la ciurma a coprirsi le orecchie, lasciandoli momentaneamente storditi a causa della velocità con cui quei due Uomini Pesce si erano poi lanciati contro di loro.
    Con un’imprecazione, Robin si affrettò a far fiorire sui corpi di entrambi gli avversari tre braccia con il Trois Fleur, nel tentativo di immobilizzarli e permettere ai suoi compagni di reagire; con una forza che l’archeologa non si aspettava, però, uno dei due riuscì a liberarsi e la colpì ad un fianco con un calcio ben assestato, facendola rotolare in terra e sbattere la schiena contro il tronco di uno degli alberi che popolavano la zona,; lei tossicchiò, stordita, e si rialzò in piedi a fatica a causa della botta ricevuta, tentando di rimettere a fuoco la situazione.
    «Robin!» esclamò Franky, andando in suo aiuto e afferrando con una delle grosse mani le caviglie di quell’Uomo Pesce per riservargli lo stesso trattamento, vedendolo spalancare la bocca per lo stupore quando, scontrandosi con il terreno umido e subito dopo contro una roccia, sentì il fiato mozzarglisi nel petto e il dolore percorrere tutto il suo corpo, quasi non riuscisse a credere che stesse accadendo davvero; Rufy si gettò a sua volta nella mischia, allungando una gamba per prendere di mira l’altro avversario, centrandolo in pieno stomaco. Il colpo lo lasciò paonazzo e senza fiato e perse subito i sensi, tanto che il Capitano si ritrovò ad aggrottare la fronte prima di ritirare la gamba, lo sguardo fisso sull’Uomo Pesce rivolto di schiena sul terreno umido.
    «Che delusione», bofonchiò poi, incrociando le braccia al petto con uno sbuffo. «Non erano per niente forti come ci aveva detto il vecchio, potevamo toglierli di mezzo anche ad occhi chiusi. Neh, Franky? Sanji?» soggiunse, voltando in direzione dei suoi amici. Franky aveva appena spiaccicato letteralmente al suolo il proprio avversario e aveva rivolto poi lui un rapido cenno affermativo, sollevando il pollice della grossa mano sinistra; il Capitano non poté fare a meno di accigliarsi, poco dopo, nel costatare che Sanji non si vedeva da nessuna parte. Dove poteva essere finito? Eppure era uno dei migliori, il suo guardaspalle insieme a Zoro, se proprio doveva metterla in quei termini. «Ohi, Sanji?» provò ancora, senza ottenere la benché minima risposta. Del cuoco sembrava essersi persa ogni traccia.
    «Sembra essere sparito nel nulla», costatò Robin in tono pacato una volta ripresasi, picchiettandosi le labbra con due dita e assumendo un’aria alquanto pensosa. Un attimo prima aveva visto il cuoco fermo accanto all’albero che aveva dinanzi, intento a tastare il terreno, e un attimo dopo era letteralmente svanito dal suo campo visivo, esattamente com’era successo contro Kuma due anni addietro. Solo che stavolta la cosa non si spiegava. Però, e lo ammetteva spudoratamente, era proprio per quel motivo che la incuriosiva e la affascinava, per quanto non si potesse dire che il resto della ciurma avesse avuto la stessa impressione, più preoccupata per il cuoco che desiderosa di sapere qualcosa di più su quel misterioso fenomeno.
    «Sanji!» gridò Chopper, arrampicandosi sulle spalle di Franky per poter avere una visuale migliore dei dintorni. «Dove sei, Sanji!»
    «Rispondi, Sanji!» cominciarono a dargli manforte Rufy e Usopp, per quanto ormai avessero capito fin troppo bene che era del tutto inutile continuare ad urlare in quel modo. Il cuoco non era lì e non avrebbe potuto sentirli, ma anche girare a vuoto senza sapere dove cercarlo era un’ipotesi da escludere. Per non parlare poi del fatto che avrebbero dovuto trovare anche Zoro. Le cose stavano cominciando a diventare decisamente complicate.
    «E se... fosse stato divorato da quei mostri o dal fantasma che abbiamo visto prima?» sussurrò Brook con un fil di voce, e avrebbe anche assunto un’espressione a dir poco spaventata se solo avesse avuto epidermide e muscoli per farlo.
    «Non cominciare anche tu a fare l’uccello del malaugurio, Brook!» sbottò immediatamente Nami, senza risparmiarsi dal rifilargli un pesante pugno in testa; il povero scheletro crollò in terra come un sacco di patate, con lo sguardo fisso verso le chiome degli alberi.
    La navigatrice non vi diede minimamente retta, gettando uno sguardo nella direzione in cui era sparito Sanji. Sperò solo che stesse bene.
 
 
    Guardandosi intorno, Sanji sbuffò, abbassando poi il capo per evitare che uno dei rami degli alberi che popolavano quella foresta gli staccassero di netto la testa dal collo. Come se non bastasse, poi, aveva cominciato a sentire nell’aria l’odore della pioggia, simbolo che, non appena si fosse diradata la nebbia, quella zona sarebbe diventata un ricettacolo d’acqua, melma e insetti, e ammetteva che sperava di non incontrare per niente proprio quest’ultimi, in particolar modo se si trattava di ragni. Avevano già i loro bei grattacapi senza che quei mostri a otto zampe lo mettessero fuori gioco.
    Mise un piede in fallo proprio nel perdersi fra quei pensieri, notando che la terra aveva cominciato a diventare meno compatta. «Fate attenzione a dove mettete i piedi, ragazzi», raccomandò dunque, tastando con la suola della scarpa il terreno dinanzi a sé, per niente stabile come avrebbe dovuto essere. «Potrebbero esserci delle...» La frase gli morì in gola nel voltarsi verso i suoi compagni, sgranando gli occhi nel rendersi conto di essere rimasto solo. Com’era possibile? Fino a pochissimi attimi prima si trovavano proprio dietro di lui, dannazione! Boccheggiò, come preso alla sprovvista, e tornò rapidamente sui suoi stessi passi, cominciando a cercare con lo sguardo i suoi amici. «Ohi, ragazzi!» chiamò, incespicando nelle radici nodose degli alberi. «Ohi! Dove siete finiti?»
    Ad ogni passo sentiva una bizzarra inquietudine farsi largo nelle sue membra, bruciandolo dall’interno come fuoco vivo. Più si guardava intorno, difatti, meno riusciva a distinguere i profili della vegetazione, che veniva a poco a poco inghiottita dalla nebbia.
    «Nami-swan! Robin-chwan!» gridò a squarciagola, e, mano a mano che tornava indietro, scansando i rami più bassi che gli intralciavano il cammino e rischiavano di ferirgli il viso, l’ansia cominciava a consumarlo sempre più dall’interno, lasciandogli ben poca lucidità per pensare come avrebbe dovuto. Prima Zoro, poi il resto dei suoi compagni... su che razza di strana isola erano sbarcati, dannazione?
    Cominciò a girovagare a vuoto mentre continuava a chiamarli a gran voce, senza ottenere la tanto agognata risposta che aveva sperato. Gli alberi e i rami di essi erano diventati più fitti e sembravano avvolgersi intorno a lui come se volessero chiuderlo in gabbia, dandogli una bizzarra sensazione di claustrofobia; era come se ad ogni passo facesse sempre più fatica a respirare, e più volte aveva resistito all’impulso di levarsi la cravatta, per quanto l’avesse allentata e l’avesse lasciata sulla camicia come un serpente che aveva appena cambiato pelle; il disagio che aveva cominciato a provare, però, non era per niente sparito, e il tutto veniva intensificato dalla nebbia che aveva ormai avvolto i dintorni e dal pensiero di come stessero i suoi compagni.
    Merda. Come se non bastasse, stava cominciando anche a preoccuparsi per quell’idiota di un marimo. Scherzando aveva detto quella frase ad Usopp, certo, ma se gli fosse capitato realmente qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato. Era già accaduto a Thriller Bark, e lì non aveva potuto fare nulla per impedirgli di sacrificarsi per il bene della ciurma. Quello stupido aveva persino osato metterlo fuori gioco per evitare che fosse lui a dare la propria vita per salvarli, e la cosa, anche dopo due anni, lo mandava ancora in bestia. Lui e le sue stupide manie di protagonismo. A causa del suo orgoglio sarebbe morto, un giorno o l’altro. L’aveva capito la prima volta che l’aveva incontrato al Baratie e ne era stato convinto in seguito, ma, dannazione, non era per niente facile pensare che avrebbe potuto tirare le cuoia in qualche luogo sperduto e loro avrebbero potuto non saperne nulla fino a quando non sarebbe stato ritrovato il suo cadavere. «Vedi di non farti ammazzare, bastardo», sussurrò al vuoto, sollevando lo sguardo verso la cappa di fogliame sopra di lui.
    Un po’ il pensiero che la sua ambizione potesse tenerlo in vita anche con una ferita mortale lo faceva sorridere e lo rassicurava, però, per quanto Zoro possedesse una forza fuori dal comune, non era di certo immortale. Era un essere umano proprio come lui, maledizione. E le probabilità che uno dei due potesse morire non erano per niente pari allo zero, per quanto gli sarebbe piaciuto credere che, anche una volta morto, quello stupido avrebbe continuato a vivere perché dimentico di tirare le cuoia. A quei suoi stessi pensieri si sfregò nervosamente una mano fra i capelli e imprecò, dandosi immediatamente dello stupido. Stava cominciando a delirare, perfetto. Sarebbe stato meglio per lo spadaccino rimanere in vita, se non voleva che, una volta trovato - che fosse un cadavere o meno, rettificò nell’immediato la mente di Sanji -, lo ammazzasse con le sue stesse mani. E avrebbe anche dovuto ritenersi fortunato, dato che lo avrebbe strozzato chiudendogli le dita intorno al collo. Un onore che non aveva ancora riservato a nessuno, visto che le sue mani erano preziose.
    Grattandosi dietro al collo e continuando ad osservare attentamente i dintorni, Sanji svoltò a destra, superando un enorme albero secolare dai rami spogli e secchi, che si estendevano verso di lui come dita scheletriche pronte ad afferrarlo; l’erba aveva cominciato ad arrivargli alle caviglie e gli solleticava i pantaloni, lasciandogli una vaga sensazione di umido sulla stoffa, giacché gli steli erano talmente bagnati da dare l’impressione che avesse piovuto da poco; come se non bastasse, poi, le radici nodose degli alberi si estendevano a perdita d’occhio sul terreno e rischiavano quasi di farlo caracollare ad ogni passo, avvolgendosi in spire come se fossero dei serpenti ammassati gli uni sugli altri.
    Si fermò di botto quando sentì un fischio prolungato, guardandosi intorno come se stesse cercando di capire da dove provenisse; si accigliò, grattandosi il capo con fare distratto, e scrollò poi le spalle, decidendo di riprendere il cammino. Sollevò un sopracciglio, però, nel vedere una roccia che gli sbarrava la strada, rendendosi conto solo in un secondo momento che non si trattava per niente di quello. «E questa cosa diavolo è?» si domandò ad alta voce, picchiettando con il piede un fianco di quell’ammasso gelatinoso. A prima vista ricordava vagamente una medusa, ma non aveva mai visto meduse di quelle dimensioni, né tanto meno sulla terra ferma e nel bel mezzo di un bosco. Quel posto si stava rivelando più strano di quanto avesse creduto al principio, e lo dimostravano tutte le assurdità che stava incontrando sul suo cammino da quando era stato separato dal resto del gruppo.
    Scuotendo il capo, decise di tornare sui propri passi, ma, prima ancora di poter dare le spalle a quella medusa o qualunque altra cosa fosse, si sentì afferrare per il collo da un braccio muscoloso, e il respiro gli morì in petto quando la presa divenne più ferrea; boccheggiando, tentò di divincolarsi, affondando le unghie nella carne e rendendosi conto solo secondariamente che quella che stava toccando era squamosa e viscida, simile a quella di un pesce. «Tu adesso vieni con noi senza fare storie», ordinò con voce possente quel misterioso interlocutore, ma Sanji sorrise, o almeno ci provò, tossicchiando.
    «Se invece decidessi di... rendervi le cose difficili?» rantolò sarcastico, facendo fatica a respirare. Aveva al contempo sollevato una gamba, quasi volesse tenersi pronto, e aveva tentato di voltarsi in direzione di quel nuovo arrivato, notandone un altro con la coda dell’occhio. Con un paio di calci ben assestati avrebbe potuto stenderli, probabilmente.
    «Allora useremo la forza», grugnì quel tipo, non dandogli nemmeno l’agio di capire che cosa stesse succedendo; se lo trascinò dietro senza allentare la presa intorno al suo collo, e il cuoco, pur avendo imprecato a denti stretti, sollevò maggiormente un angolo della bocca nella parvenza di un sorriso, per quanto ricordasse vagamente una smorfia sofferente.
    «Non... chiedevo di meglio», sussurrò, scrollandoselo di dosso con un colpo secco; lesse negli occhi di quell’Uomo Pesce un momentaneo smarrimento prima che, sollevando del tutto la gamba, esclamasse «Cruisse shot!», assestandogli un calcio all’altezza della coscia; continuò fino a che quest’ultimo non perse l’equilibrio e cadde finalmente in terra privo di sensi, e Sanji imprecò a denti stretti nel costatare che quel tipo aveva una resistenza decisamente fuori dal normale. Non perse tempo a rifletterci oltre e si gettò all’attacco del secondo Uomo Pesce che correva verso di lui a spada tratta, incurvando l’intero corpo all’indietro per distendere la gamba prima di colpirlo sul dorso della mano e disarmarlo; la spada schizzò in alto e andò a conficcarsi pochi metri più in là, ma l’attimo di smarrimento che corse sul viso del suo avversario sparì fin troppo in fretta, giacché quest’ultimo, con un grido disumano, gli di lanciò contro e gli afferrò entrambe le gambe con le grosse mani palmate, lasciando Sanji sbalordito.
    «Fa’ un buon volo, biondino!» berciò qualche istante dopo, stringendo convulsamente la presa intorno alle caviglie per sollevarlo da terra, sbattendolo violentemente con la schiena contro il tronco di un albero; il cuoco si sentì mancare il fiato nei polmoni e spalancò la bocca, lasciando cadere la sigaretta che aveva sorretto tranquillamente fra i denti fino a quel momento. Non riuscì nemmeno a prendere una boccata d’aria che venne nuovamente proiettato in alto, fino a fracassarsi letteralmente sul terriccio umido sotto di sé quando l’Uomo Pesce lo lasciò andare. Boccheggiò e si issò sui gomiti, tossendo pesantemente, sputando in terra un rivolo di sangue e saliva prima di stornare bruscamente lo sguardo su quel tipo, che aveva cominciato a scroccare le nocche come se fosse pronto a ritornare all’attacco. Beh, stavolta aveva fatto male i conti. Non si sarebbe più lasciato cogliere impreparato.
    Sanji stirò le labbra in una linea sottile e socchiuse gli occhi per focalizzare attentamente il suo avversario, poggiando una mano a terra nel momento stesso in cui lo vide gettarsi contro di lui come una furia; sollevò una gamba e gli sferrò un calcio alle costole, dandosi una spinta con il bacino per roteare l’altra gamba e colpirlo ai lombi con il collo del piede, vedendolo indietreggiare nel vano tentativo di non perdere l’equilibrio. A quel fare si inclinò subito in avanti, sferrando un calcio laterale dritto alla guancia dell’Uomo Pesce, che indietreggiò di qualche passo, preso alla sprovvista.
    Senza perderlo di vista nemmeno per un attimo, Sanji gli si gettò contro per calciargli un ginocchio, facendolo cadere del tutto riverso di schiena; fu a quel punto che, concentrando tutta la propria potenza nella gamba sinistra, spiccò un balzo e la distese completamente, colpendolo con forza al collo. Sentì il distinto scricchiolio delle ossa e la consistenza del tronco, vedendo il suo avversario sgranare gli occhi prima di reclinare del tutto il capo all’indietro, ansimando. Sanji poggiò infine stabilmente entrambi i piedi in terra, infilando una mano nella tasca dei pantaloni per tirar fuori l’accendino e il suo pacchetto di sigarette, portandosene una alle labbra prima di aprire il coperchietto con uno scatto secco e accenderla, inalando fino in fondo ai polmoni.
    «Tsk». Sbuffò del fumo dal naso, sorridendo sarcastico nel gettare un ultimo sguardo in direzione dei due Uomini Pesce riversi a terra, i cui respiri diventavano pian piano sempre più flebili. «Vi ci vorranno altri mille anni prima di riuscire a battermi».
    Si riportò la sigaretta fra le labbra e, ficcandosi le mani nelle tasche, si incamminò fra gli alberi, lasciando alle sue spalle i suoi avversari; si inoltrò nella foresta prima di allungare il passo, forse per non rischiare che, riprendendosi, quei cosi decidessero di mettersi sulle sue tracce e vendicarsi del trattamento ricevuto. Non che avesse paura di quegli idioti, nossignore, ma andava di fretta e non aveva tempo da perdere, se voleva trovare i suoi compagni senza ulteriori intoppi.
    Finì appena di fare quel pensiero che sentì un rumore sospetto alle proprie spalle, stornando bruscamente lo sguardo per osservare attentamente i dintorni. Non si muoveva una foglia e tutto sembrava tranquillo, ma aveva come la netta sensazione che qualcosa lo stesse squadrando da capo a piedi, e la cosa lo metteva stranamente in agitazione, esattamente come quando, a Kamabakka, doveva guardarsi le spalle per evitare che quei travestiti del cazzo lo cogliessero di sorpresa e lo costringessero ad indossare ancora una volta uno di quei loro orribili vestitini rosa. 
    A distrarlo, fu nuovamente un fruscio fra la vegetazione che lo circondava, e si ritrovò ad alzare la gamba destra nel momento stesso in cui vide lo scintillio sinistro di una lama, bloccandola appena in tempo; spalancò la bocca e sgranò gli occhi, però, nel rendersi conto di chi fosse l’avversario che aveva dinanzi, e non gli sfuggì l’espressione sconcertata che si dipinse sul volto di quest’ultimo.
    «Marimo?»
    «Cuoco?»
    Si guardarono per un lungo attimo senza abbassare la guardia né abbandonare la posizione in cui si trovavano, sbottando all’unisono: «E tu che diavolo ci fai qui?» nel continuare a fissarsi con tanto d’occhi, Sanji incredulo a dir poco.
    Se era riuscito a trovare Zoro, significava una cosa sola: si era perso anche lui come quell’idiota
.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Siamo entrati nella seconda stagione della storia e le cose, per i nostri amici, sembrano cominciare a farsi abbastanza complicate
Dopo la scomparsa di Zoro è scomparso anche Sanji, che ha a sua volta trovato qualche Uomo Pesce e ha quasi rischiato di venir catturato da loro, però, guarda caso, il caro cuoco è riuscito a ricongiungersi allo spadaccino... anche in canon quei due si trovano sempre, non c'è nulla di strano, quindi come potevo farmi saltare una scena del genere, ora che potevo farlo senza tanti problemi? u_u XD
Come si è potuto vedere, inoltre, le scene RuNami e FRobin non potevano mancare. Ormai anche Oda si è votato a loro, non venitemi a dire che le scene FRobin non ci sono, negli ultimi capitoli... le ho viste XD
Sclero mio a parte, spero di poter aggiornare con il quarto capitolo il prima possibile
Alla prossima. ♥




Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** [ Second season › Crossroads ] Old sea stories, 02 ***


Like Davy Jones_4
SECOND SEASON › CROSSROADS
OLD SEA STORIES, #02
 
    Sanji sbuffò per l’ennesima volta, lanciando una rapida occhiata in direzione di Zoro, che, con un braccio mollemente abbandonato sulle else delle sue katane, avanzava al suo fianco senza dire una parola, quasi fosse immerso nei suoi più disparati pensieri.
    Non che aver trovato lo spadaccino gli dispiacesse davvero come sembrava voler intendere, però, e c’era da dirlo, forse avrebbe preferito di gran lunga trovare Nami-san e Robin-chan - e anche il resto della ciurma, probabilmente - e assicurarsi che stessero bene, così da evitare anche di far pace con i propri pensieri. Era a dir poco snervante ritrovarsi con l’oggetto per il quale aveva quegli stupidi sentimenti che non avrebbe dovuto avere per niente al mondo e, al contempo, essere del tutto ignorato da quest’ultimo come se non esistesse affatto. Non sapeva dire se fosse una cosa positiva o meno, quella, anche perché non sapeva che cosa passasse per la testa di quello stupido marimo. E non aveva intenzione di fare la parte dell’idiota dicendogli qualcosa tipo «Mi piaci» e rimediarci poi una sonora risata in faccia da quel cretino. Era meglio starsene in silenzio, fare finta di niente e lasciare che gli eventi scorressero, in modo che anche quelle strane sensazioni che provava sparissero una volta per tutte e lo lasciassero in pace. In fin dei conti era ancora convinto che fossero a causa dello stress, dunque perché preoccuparsi inutilmente?
    «Ohi, cuoco». Zoro si decise finalmente ad aprire bocca, facendolo quasi trasalire. Fu difatti con sguardo omicida che si voltò verso di lui, vedendolo guardare avanti come se nulla fosse. «Non mi hai ancora detto dove sono Rufy e gli altri».
    «Credi davvero che se lo sapessi me ne starei con un marimo sperduto come te?» rimbeccò con fare sarcastico, per quanto la situazione non fosse per niente divertente. Avevano imparato a proprie spese quanto il Nuovo Mondo fosse irto d’insidie, e restare vigili era la cosa migliore che avrebbero potuto fare.  Persino Rufy stesso, a causa dei poteri del frutto Gas-Gas, aveva quasi rischiato di rimetterci le penne, a Punk Hazard, sebbene avessero faticato non poco a crederci quando gli altri l’avevano raccontato anche a loro. Anche Zoro, alla notizia, aveva abbandonato la solita maschera burbera e scontrosa per lasciar spazio ad un’espressione preoccupata, rendendo fin troppo palese quanto tenesse al proprio Capitano. Volevano tutti bene a Rufy - anche quando faceva l’idiota e si comportava in maniera quasi egoistica, aye -, ma la sua devozione, certe volte, rasentava davvero l’impossibile. E a quei suoi stessi pensieri, Sanji scosse il capo, sbuffando sonoramente come se bastasse a scacciarli. «La sola cosa che possiamo fare», cominciò poi, alzando distrattamente lo sguardo verso le fronde degli alberi, «è cercare di raggiungere la città dall’altra parte dell’isola. Eravamo diretti lì. Ma tu, ovviamente, sei sparito come al solito e non hai quindi idea di che cosa sto parlando...»
    «Mi stai dando dell’idiota, cuoco?» sbottò Zoro, ma Sanji si limitò a scrollare le spalle.
    «Sto semplicemente dicendo che hai scelto proprio il momento peggiore per perderti, marimo».
    «Non mi sono perso. Ero dietro Robin e poi voi», e ci tenne ad enfatizzare sull’ultima parola con fare saccente, «siete letteralmente scomparsi».
    Sanji, lì per lì, rimase perplesso, poiché quella era la stessa e identica cosa che era accaduta a lui. Un attimo prima era in testa al gruppo, raccomandando ai suoi compagni di fare attenzione, e un attimo dopo si era ritrovato da solo in mezzo al bosco, senza riuscire a capire cosa fosse successo. Per una volta a quello scemo d’un marimo doveva fargliene atto. Probabilmente non si era davvero perso come al solito. «Diavolo, marimo, allora il tuo senso dell’orientamento sta cominciando a migliorare», lo schernì, tentando anche di sdrammatizzare. Il fatto che si fossero persi di vista gli dava da pensare, giacché era come se fosse stata l’isola stessa a volerli vedere divisi. E se fosse accaduto anche agli altri? E se, nel girare un angolo o nel distrarsi un attimo, anche il resto della ciurma si sarebbe ritrovata nei punti più disparati dell’isola, ognuno abbandonato a se stesso come negli ultimi due anni? Diamine, per il bene delle ragazze sperava proprio di no. Pur sapendo che, nel momento del bisogno, sarebbero state capacissime di cavarsela da sole, il suo sconfinato senso della galanteria le preferiva insieme a quegli idioti, piuttosto che da sole in mezzo a quel fottuto bosco.
    Nemmeno a dirlo, non appena gli alberi cominciarono a farsi più radi e la nebbia a diminuire, si ritrovarono entrambi dinanzi ad uno strapiombo, non riuscendo a capacitarsi di che cosa diavolo fosse successo. Non si trovavano forse in una foresta, pochi attimi prima? Quel posto sembrava cambiare non appena svoltavano l’angolo o distoglievano lo sguardo, e, se non si fossero trovati nel Nuovo Mondo, si sarebbero domandati perché diamine si trovassero sempre in situazioni simili.
    «Beh, almeno abbiamo fatto un passo avanti», provò a sdrammatizzare Sanji con fare sarcastico, guardando comunque con un certo disappunto verso il basso, dove il fiume scorreva impetuoso fino a valle. «Ci troviamo su un dirupo anziché nel bel mezzo di una foresta».
    «Sto facendo i salti di gioia, cuoco», ironizzò lo spadaccino, con l’occhio a sua volta fisso oltre il baratro. Se si fossero trovati più in basso avrebbero potuto facilmente valicare il fiume e passare dall’altra parte, ma l’unica cosa che potevano fare in quel momento era quella di seguire il corso d’acqua finché potevano, con la speranza di uscire una volta per tutte da quella situazione. Peccato, però, che nemmeno quella soluzione fosse facile come appariva in realtà. Merda. Erano con l’acqua alla gola e letteralmente, arrivati a quel punto.
    «Forse ci converrebbe tornare indietro». Sanji diede voce al pensiero comune, e Zoro, pur non volendo, si ritrovò ad incrociare le braccia e ad annuire, convenendo con lui.
    «Questa è la sola cosa sensata che hai detto fino a questo momento, ricciolo», rimbeccò, dando le spalle allo strapiombo per cominciare ad incamminarsi nuovamente verso il bosco sotto lo sguardo sconcertato di Sanji, che non ci pensò due volte a corrergli dietro con un’imprecazione.
    «Dove cazzo vai da solo, tu?» sbottò. «Non mi va di venirti a cercare di nuovo, quindi vedi di starmi vicino e non perderti. Mi hai capito o devo parlarti a monosillabi?» L’occhiataccia che lo fulminò fu una risposta fin troppo esaustiva, e Sanji decise dunque di non aggiungere nient’altro, aumentando il passo per affiancarsi a Zoro.
    Ebbero appena il tempo di superare un paio d’alberi, però, prima che lo scalpiccio di piedi sui sassi richiamasse la loro attenzione, e fu con uno scatto che si voltarono entrambi, vedendo quelli che sembravano avere tutta l’aria di essere degli Uomini Pesce avanzare verso di loro, acquattati sul terreno come se volessero quasi fondersi con esso. Un paio di loro strisciavano sui sassi provocando uno stridio assordante a causa della pietra che sfregava contro il carapace color ruggine; le restanti creature si sorreggevano sulle nocche e sulle punte dei piedi, più a simili a gorilla che a veri e propri crostacei, per quanto il loro aspetto ricordasse vagamente quello di un granchio a causa delle chele che spuntavano sulle loro braccia. Sembrava che a caratterizzarli fosse l’odore salmastro che si portavano dietro come una nuvola di profumo, nonché le chiazze di muffa ed erba marina che ricoprivano gran parte dei loro avambracci e del busto, ma oltre ciò non c’era nient’altro che potesse in qualche modo farli appartenere alla stessa razza.
    «A quanto pare sono tornati all’attacco», costatò Zoro, ricevendo una vaga occhiata divertita da Sanji.
    «Oh, hai avuto anche tu il piacere di conoscere questi gentili signori, marimo?» rimbeccò con tono sarcastico, riuscendo a strappare allo spadaccino una mezza risata mentre, con la solita grazia di chi ripeteva lo stesso gesto ogni singolo momento di ogni singola ora, sfiorava con calma disarmante le else di due delle sue spade.
    «Uno o due, nulla di che», ironizzò, afferrando saldamente l’elsa delle katane senza sfoderarle, incassando la testa nelle spalle prima di flettere i muscoli delle gambe; al contempo Sanji spiccò un balzo e, calando sull’avversario che aveva dinanzi, gli assestò un potente calcio al collo; riuscì a scaraventarlo dall’altro lato della radura e lo vide sparire nella foresta con un sibilo, fino a che non sentì il tonfo sordo del suo corpo schiantatosi contro uno dei tronchi della moltitudine di alberi presenti. Non poté distrarsi nemmeno un attimo che subito ne arrivarono altri, ed imprecò a denti stretti nel guardarsi intorno.
    «Ma quanti diavolo sono?!» sbottò, avendo appena il tempo di indietreggiare per evitare che un artiglio gli squarciasse lo stomaco; poggiò in terra entrambe le mani e, facendo leva sulle braccia, sollevò l’intero peso del suo corpo, roteando su se stesso per calciare quanti più Uomini Pesce possibile.
    Merda. Non erano gli stessi Uomini Pesce che aveva incontrato prima di trovare quello scemo di Zoro. Sembravano più selvaggi, meno propensi a riflettere sulle proprie azioni e più che intenzionati a ricorrere a tutta la loro forza per ammazzarli. Che fossero quelli i mostri di cui aveva parlato loro il vecchio? In effetti, a ben pensarci, all’inizio gli era sembrato strano che gli esseri senzienti contro cui si era scontrato c’entrassero qualcosa con quelle creature, ma adesso, nel tentare di allontanare da sé a suon di calci quella specie di crostaceo mal cresciuto, aveva capito fin troppo bene di essersi dannatamente sbagliato.
    Dovette indietreggiare più volte per evitare che le grosse chele di cui erano muniti un paio di quei mostri gli staccassero la testa dal collo, e volse di poco lo sguardo in direzione dello spadaccino per vedere come se la stava cavando, sentendolo imprecare a denti stretti ogni qual volta i fendenti che menava sembravano non scalfire per niente gli avversari che aveva davanti a sé. E proprio in quel momento vide uno di loro arrivare alle spalle del Vice Capitano e sollevare le grosse mani palmate, pronto ad afferrarlo per il collo. «Zoro! Dietro di te!» esclamò, e lo spadaccino, con un movimento rotatorio del polso, utilizzò il piatto della katana per colpire quell’Uomo Pesce dritto allo stomaco, calciando quelli che aveva dinanzi prima di allontanarsi il più possibile e raggiungere il cuoco, schiena contro schiena. Fecero per gettarsi entrambi contro gli avversari con un attacco combinato quando, raccogliendo tutta la forza di cui disponeva, un Uomo Pesce dalle fattezze di un grosso squalo tigre colpì la pavimentazione che aveva dinanzi, crepando il limitare del dirupo.
    Zoro e Sanji ebbero appena il tempo di lanciarsi una rapida occhiata prima che la terra sotto i loro piedi si sbriciolasse, facendoli precipitare verso il fiume con un grido sorpreso. Sanji socchiuse gli occhi all’impatto con l’acqua gelida, sentendo il fiato mancargli nei polmoni; dovette ricorrere a tutta la potenza che aveva nelle gambe per riuscire a lottare contro la corrente, nuotando verso l’alto per prendere un bel respiro prima che venisse risucchiato nuovamente di sotto, cercando inutilmente con lo sguardo la sagoma dello spadaccino; lo trovò ad una certa distanza da sé e provò a nuotare in fretta verso di lui, afferrandolo per la casacca prima di muovere qualche bracciata, tentando in tutti i modi di raggiungere la riva. L’impresa fu più ardua di quanto non avesse creduto, sia a causa del peso del Vice Capitano sia a causa della forte corrente che rischiava ad ogni metro di trascinarli via, ma poté rilassarsi solo quando una delle sue mani affondò sulla terra, artigliandola con le dita come se non volesse lasciarla andare, issando entrambi con una certa fatica.
    Tossendo e annaspando, riversò sul terreno umido l’acqua e la fanghiglia che aveva ingoiato nel fiume, puntellandosi sui palmi delle mani prima di mettersi in ginocchio e tentare di riprendere fiato mentre tremava da capo a piedi, sentendo l’umidità sin dentro le ossa. Dannazione. C’era mancato poco. Maledettamente poco. Se non fosse stato un ottimo nuotatore e non avesse sfruttato la velocità che aveva acquisito nell’inferno di Kamabakka, probabilmente la corrente sarebbe riuscita a trascinare via sia lui sia quello stupido spadaccino che, in quel momento, tentava a sua volta di riportare il fiato nei polmoni, inzuppato da capo a piedi. Forse non avrebbe digerito il fatto di essere stato tratto in salvo da lui, ma, cazzo, per una volta avrebbe anche potuto starsene zitto e ringraziare il fatto di essere ancora vivo.
    «Merda», rantolò Zoro, lasciandosi sfuggire un altro colpo di tosse. Si era alzato in piedi e aveva cominciato a strizzare il limitare della casacca verde e a ripulirla alla bell’e meglio, per quanto fosse del tutto inutile. Tra fango, melma e terriccio, era già un miracolo che si distinguesse ancora il suo colore originale. «Rimetterci le penne in questo modo sarebbe stato... vergognoso».
    Sanji abbozzò un sorriso sarcastico, levandosi la giacca per scrollarla malamente a sua volta, dato che non avrebbe potuto di certo fare miracoli, ora come ora. Era combinato esattamente come Zoro, se non addirittura peggio. Sentiva la sporcizia persino fra i capelli, nelle scarpe e dentro i pantaloni, ma era l’ultimo dei suoi problemi, quello. «Puoi dirlo... forte, marimo», ansimò, rivestendosi prima di rimettersi in piedi. E nel farlo sgranò gli occhi e imprecò, sentendo una fitta percorrere tutta la sua gamba sinistra nel momento in cui il proprio peso gravò sulla caviglia. Dovette lasciarsi cadere nuovamente seduto, massaggiandosi il punto leso con un gemito. «Cazzo», bofonchiò poi, e Zoro gli scoccò un’occhiata, sistemandosi le katane alla cintola e stringendosi la fascia alla vita prima di avvicinarsi.
    «Che hai, cuoco?» domandò, ricevendo appena un’occhiata da Sanji.
    «La caviglia. Credo sia slogata», rispose lui senza mezzi termini, e, prima ancora che potesse aggiungere altro o rendersi conto di ciò che stava succedendo, si sentì afferrare per un braccio dalla grossa mano dello spadaccino, che sorresse contro di sé tutto il suo peso. Pur cercando di evitarlo, Sanji si sentì andare le guance in fiamme. Ma che cazzo...? «O-Ohi! Che diavolo fai?» balbettò, rimediandosi semplicemente una scollata di spalle da parte del Vice Capitano.
    «Ti do una mano, ora zitto e muoviti».
    «Nessuno te l’ha chiesto, stupido marimo», sbottò, cercando di reggersi solo sulla gamba buona, nel vano tentativo di non sforzare troppo la caviglia. Non avrebbe nemmeno voluto aggrapparsi a Zoro, in verità, ma per muoversi come si conveniva non aveva altra scelta se non quella. E di sicuro non si sarebbe fatto prendere in braccio o anche semplicemente caricare in spalle da quell’idiota, visto che non era per niente una damigella in pericolo in attesa che il principe venisse a salvarla.
    «Piantala di dire cazzate e cammina, cuoco». L’espressione sul viso dello spadaccino era tutt’altro che rassicurante, per quanto avesse pronunciato quelle parole in tono estremamente pacato. «Se non avessi agito di testa tua, adesso non ci troveremmo in questo pasticcio».
    Sanji lo fissò con tanto d’occhi, indignato. «Che cazzo fai, provi a farmi la predica?!» berciò. «Sei tu il primo che si lancia nella mischia senza riflettere o pensare alle conseguenze, quindi vedi di non farmi la paternale!»
    «Il casino stavolta l’hai combinato tu, non io», lo schernì Zoro con calma glaciale, sistemandosi lui stesso il braccio che il cuoco gli aveva poggiato dietro alle spalle. Quando fece per cingergli i fianchi con il proprio braccio per sorreggerlo meglio, però, Sanji sussultò e si allontanò da lui con uno scatto, rovinando rumorosamente con il sedere per terra sotto il suo sguardo confuso. «Che cosa diavolo ti prende?» domandò scettico, ricambiando l’occhiata spaesata che gli venne lanciata da quest’ultimo. E proprio lui, essendosi probabilmente reso realmente conto di quel suo gesto, scosse la testa e tentò di rimettersi in piedi con un’imprecazione soffocata, voltando il capo per ostinarsi a non guardare lo spadaccino nemmeno per sbaglio.
    «Niente», rantolo poi. «Non mi prende proprio un accidenti di niente, quindi vedi di non rompere, okay? Mi mantengo perfettamente in piedi da solo».
    Per quanto ai suoi occhi quel comportamento apparisse sempre più strano ogni secondo di più, il Vice Capitano di non fare domande e si limitò a scrollare brevemente le spalle, lasciando che fosse il cuoco stesso a sistemarsi come aveva già fatto in precedenza per riprendere il cammino. Prima sarebbero riusciti a ritornare dagli altri, meglio sarebbe stato. Il problema, però, era che non aveva idea di quanto li avesse trascinati via la corrente e di dove si trovassero in quel momento, dunque la situazione era doppiamente catastrofica. Se contava anche il suo pessimo senso dell’orientamento, poi, diveniva praticamente impensabile arrivare ad una soluzione in tempi relativamente brevi. Doveva quindi limitarsi a seguire il proprio istinto e sperare che, seguendo il fiume da quella direzione, arrivassero al mare o nei suoi pressi, altrimenti lui e quello scemo d’un cuoco avrebbero dovuto arrangiarsi in qualche modo.
    Anche se, e detestava ammetterlo, era comunque certo che quella si sarebbe rivelata un’impresa più ardua di quel che sembrava.
 
 
    Erano ormai ore che camminavano, e, per quanto tutto fosse dannatamente tranquillo, entrambi avevano i nervi a fior di pelle, come se dal bel mezzo della vegetazione potesse spuntare tutto d’un tratto un altro di quegli strani mostri che avevano incontrato sul loro cammino. Cominciavano ad essere stanchi e lo stomaco brontolava apertamente, però, senza selvaggina e senza nemmeno uno scorcio di fiume in cui tentare di pescare la cena, potevano semplicemente stringere i denti e andare avanti come potevano. Erano entrambi forti e nel pieno delle loro energie, per il momento, e di certo non potevano lasciarsi sconfiggere dai morsi della fame, per quanto Sanji sapesse perfettamente che cosa significasse ritrovarsi senza cibo né acqua per giorni interi.
    Il cuoco sospirò e, ignorando la rapida occhiata che gli venne lanciata da Zoro, scostò il capo di lato per evitare un ramo e si ritrovò ad imprecare contro se stesso. Perché accidenti aveva lasciato nelle mani di Usopp il proprio zaino? A quest’ora, almeno, avrebbero potuto avere qualcosa da mangiare e non sarebbe stato costretto a sentire il borbottio che di tanto in tanto si levava dallo stomaco di entrambi. Era stato un vero e proprio idiota.
    Mano a mano che avanzavano, gli alberi cominciavano a diventare più fitti e gli arbusti che fino a quel momento erano a malapena arrivati alle loro caviglie avevano cominciato a crescere e a sfiorar loro le ginocchia, dando l’impressione che tutto, lì, apparisse molto più grande di quanto non avrebbe dovuto essere. Sanji iniziò a guardarsi intorno, controllando con estrema attenzione i dintorni e le chiome degli alberi, che creavano una sorta di soffitto naturale sopra le loro teste, data la fitta cappa di fogliame in cui i rami sembravano intrecciati. Non erano neanche troppo esposti, giacché da dove si trovavano avrebbero potuto tranquillamente tener d’occhio la zona ed essere pronti ad eventuali attacchi da parte di quella strana razza di Uomini Pesce. «Per adesso conviene fermarsi qui», dichiarò infine, allontanandosi a passi malfermi dallo spadaccino, poggiando una mano contro il tronco di un albero per sorreggere senza problemi il proprio peso anche sulla caviglia slogata. «Continuare a girovagare a vuoto non ha alcun senso».
    Pur non sembrando d’accordo, dato il grugnito che si lasciò sfuggire, Zoro annuì. «Domattina ci rimetteremo in viaggio, chiaro?» parve ordinare, e Sanji gli gettò una rapida occhiata, osservandolo con un sopracciglio inarcato.
    «Se riesci a capire quando sarà domani, marimo, fammi un fischio», lo prese in giro, poiché con il persistente cielo plumbeo e la nebbiolina che calava di tanto in tanto nella zona, era già un miracolo riuscire a capire che ore fossero.
    «Davvero divertente, cuoco», replicò senza ironia, sollevando appena lo sguardo al cielo prima di avvicinarsi ad uno degli alberi, strappando i rami più bassi per cominciare poi a ripulirli sotto lo sguardo di Sanji, che per una volta decise di non fare domande. Si limitò semplicemente a lasciarsi cadere seduto sul terreno umido, poggiando la schiena contro il tronco e rabbrividendo appena per il gelo che corse in tutto il suo corpo; distese la gamba e sospirò di sollievo quando il dolore alla caviglia si attenuò un po’, sollevando il capo per tornare ad osservare lo spadaccino, che aveva ammassato una catasta di rami e un mucchietto di foglie che aveva tolto proprio da essi, spingendo il tutto nella sua direzione.
    «Cos’è, un falò improvvisato?» chiese Sanji con uno sbuffo alquanto divertito, rimediandoci un’occhiataccia da parte di Zoro.
    «Se sai fare di meglio, cuoco, alza il culo e cavatela da solo», sbottò, allungando una mano verso di lui. «Dammi l’accendino, piuttosto».
    «Vedi di non consumare tutto il gas solo per un misero fuocherello, marimo», raccomandò, gettandogli l’acciarino; Zoro lo afferrò a volo con la sinistra, sentendo la fredda consistenza del metallo sul palmo, e aprì poi il coperchietto con uno scatto secco, sfregando il pollice sulla rotella fino a che non vide scaturire una fiamma. Diede poi fuoco alle foglie che aveva gettato in precedenza sulla catasta di legno e sperò che, nonostante si trattasse di rami freschi, attecchisse in fretta, così da poter avere una fonte di calore e tenere al contempo lontane possibili bestie feroci. E se quegli Uomini Pesce avessero visto la loro posizione, beh, tanto meglio: ne avrebbero fatti fuori altri e avrebbero dimezzato il problema a Rufy e compagni.
    Rilanciando l’accendino al cuoco, Zoro si accomodò a gambe conserte dinanzi al falò, e, dopo aver riposto ordinatamente al suo fianco le sue fedeli katane, cominciò ad alimentare le fiamme con un bastone. Se c’era una cosa che aveva imparato a fare bene, prima di entrare a far parte di quella sgangherata ciurma, era proprio quella di riuscire a cavarsela anche nelle situazioni più assurde e disparate, dunque quella gli sembrava semplicemente una tranquilla passeggiata in un bosco. Se non contava le strane creature che cercavano di accopparli, ovviamente.
    «Uno di noi dovrebbe riposarsi un po’ e l’altro controllare la zona», disse di punto in bianco Sanji, riscuotendo Zoro dai suoi pensieri. Quest’ultimo alzò difatti lo sguardo su di lui e sbatté la palpebra, facendo poi spallucce.
    «Resto di guardia io, tu vattene pure a dormire».
    «Cosa? Non ci penso nemmeno, idiota. Va’ a dormire tu, piuttosto».
    Zoro aggrottò la fronte, a quel dire. «Non rompere e fa’ come ti ho detto, stupido cuoco che non sei altro».
    «Se la metti così, spadaccino, vorrà dire che nessuno dei due chiuderà occhio».
    «Mi stai sfidando?»
    «Esattamente».
    Si guardarono in viso per un lungo attimo, le palpebre assottigliate e le labbra ridotte ad una linea sottile. Sbuffarono e sbottarono, «Bene!» nello stesso istante, incrociando le braccia al petto prima di guardare da tutt’altra parte come due mocciosi che avevano appena litigato. Non che per loro fosse una novità, a ben pensarci, ma in quella situazione, almeno, faceva sì che tutto apparisse assolutamente normale, come se non si trovassero divisi dal gruppo e ignari di come stessero. Se avessero cominciato a preoccuparsi per loro avrebbero soltanto complicato le cose, e poi potevano stare tranquilli: in quei due anni erano diventati tutti più forti, persino Usopp e Nami, dunque non avevano nulla da temere. E poi con loro c’era Rufy. Per quanto certe volte si comportasse come un idiota irresponsabile ed egoista, per lui la sua ciurma era tutto, ed era sempre stato pronto a difenderla con le unghie e con i denti senza esitazioni.
    Nessuno dei due compagni riuscì a capire con esattezza quanto tempo fosse trascorso da quando si erano concessi quella silenziosa tregua, ma la quiete che era calata sulla foresta era così assordante che Sanji stava cominciando a dare di matto, in particolar modo se pensava che a pochi centimetri da lui c’era proprio la causa del comportamento bizzarro che aveva tenuto negli ultimi tempi. Maledizione. Non avrebbe potuto perdersi e ritrovare poi Nami o Robin? Di sicuro passare tutto quel tempo con una delle sue muse - o con entrambe, non gli sarebbe affatto dispiaciuto - sarebbe stata un’ottima terapia e l’avrebbe aiutato non poco a riprendersi, forse persino più di quanto lui stesso immaginava. Già aveva ben chiara la scena: la sua bella Nami che, tremante dal freddo, gli chiedeva di scaldarla, e lui, cavaliere e suo schiavo d’amore, le si avvicinava amorevolmente e la stringeva a sé, scivolando accidentalmente con due dita sulla sua spalla e poi più giù, verso il bel solco dei seni sodi, fra i quali avrebbe affondato il viso e...
    «Ohi, cuoco, ti sanguina il naso». La voce di Zoro lo distolse dalle sue depravazioni e lo richiamò a fatica alla realtà, tanto che ci mise un po’ a realizzare realmente cosa avesse detto lo spadaccino e a sfregarsi in fretta una manica sotto la narice, ripulendosi alla bell’e meglio. Accidenti, avrebbe dovuto approfittarne molto di più quando aveva avuto a sua completa disposizione il bellissimo corpo di Nami. «Stavi pensando a qualche porcheria come tuo solito, eh?» lo schernì ancora il Vice Capitano, e stavolta Sanji non si risparmiò dal rifilargli un’occhiata di fuoco.
    «Sono un uomo, dannazione», sbottò, afferrando il pacchetto di sigarette dal taschino interno della camicia per portarsene una alle labbra e mantenerla con i denti mentre afferrava l’accendino; bruciò l’estremità e inspirò a fondo, posando tutto al proprio posto prima di continuare, «È normale che mi ritrovi a fantasticare, anziché riflettere sul fatto che sono da solo in culo al mondo con un armadio a quattro ante come te».
    «Non lamentarti, nemmeno io faccio i salti di gioia nello stare con un damerino del tuo calibro», replicò schietto Zoro, lasciando a Sanji una sgradevole sensazione di viscido dietro la schiena con solo quelle poche parole. Diamine. Che freddezza, quello spadaccino di merda. Eppure, prima di quella separazione, non ricordava che le cose fossero così... gelide, fra loro. Solo con Rufy non sembrava essere cambiato per niente, e la cosa, stranamente, fece ribollire a Sanji il sangue nelle vene. Era geloso, perfetto. Ci mancava soltanto questa, cazzo.
    «Mettiamoci una pietra sopra», si affrettò a dire, forse anche nel tentativo di scacciare la bizzarra sensazione che lo aveva attraversato così all’improvviso. «Piuttosto, hai mai sentito parlare dello scrigno di Davy Jones?» chiese, e Zoro si limitò ad osservarlo con una sorta di strana curiosità.
    «Che cos’è, un tesoro?»
    Sanji scosse brevemente la testa. «È il luogo in cui riposano i marinai annegati. In passato era un eufemismo per indicare il fondo dell’oceano».
    «Perché mi dici tutto questo?»
    «Perché Davy Jones, secondo la leggenda, era un pirata dannato che era stato condannato da Calipso a vagare nell’oceano e a raccogliere le anime dei marinai che perdevano la loro vita in mare, potendo far ritorno sulla terra ferma un solo giorno ogni dieci anni», si guardò intorno con fare distratto, sbuffando una nuvola di fumo. «La sua comparsa veniva anticipata da nebbia fitta e dall’odore della salsedine, prima che il malcapitato riuscisse a scorgere le vele malridotte del suo veliero e venisse trascinato nella sua tomba in fondo al mare».
    Zoro non poté fare a meno di sollevare un sopracciglio con fare scettico, a quel dire. E adesso cosa diavolo stava blaterando, quell’idiota di un cuoco? «E con ciò?» sbuffò. «Mi stai forse dicendo che potremmo trovarci davanti a questo Davy Jones, ricciolo?» soggiunse ironico, ma nell’osservare il compagno di sottecchi e nel costatare che la sua espressione era divenuta ancor più seria di quanto non fosse stata quando aveva cominciato quel discorso, lo spadaccino si ritrovò ad accigliarsi, forse persino confuso. «Andiamo, cuoco, non dirmi che credi a cazzate del genere», rimbeccò, e Sanji gli scoccò un’occhiataccia.
    «Forse per te potrà essere semplicemente qualche diceria marinara, ma mi è stato insegnato a tenere sempre gli occhi aperti, quando si tratta del mare. È un amante infido e pericoloso», replicò, ricordando fin troppo bene ciò che gli era sempre stato detto sull’oceano. Bisognava stare in guardia in continuazione e non prenderlo mai alla leggera, e aveva ormai fatto sua quella filosofia di vita. Che quell’idiota d’un marimo pensasse ciò che voleva; lui non aveva intenzione di cadere vittima degli avvenimenti solo perché non era stato attento come gli era sempre stato raccomandato. «Ti conviene non sottovalutarlo, marimo. Poi fa’ come vuoi, non sono la tua balia».
    «Non stiamo parlando del mare, cuoco», gli tenne presente lo spadaccino con uno sbuffo, senza smettere di far vagare lo sguardo nei dintorni. Probabilmente stava calando la notte, giacché le ombre si erano infittite, ma quella nebbia non voleva saperne di diradarsi. «Tu credi davvero che in questo fottuto posto possa esserci quel tipo, Davy Jones? L’hai detto tu stesso che si tratta soltanto di una leggenda».
    «Se tanto mi da tanto, marimo, non sarebbe poi così strano», replicò semplicemente. «Ci stavo riflettendo già da un po’... si narra che anche la ciurma sia stata maledetta, quindi mi chiedevo se quei tipi che abbiamo incontrato non abbiano qualcosa a che fare con lui. In fin dei conti questo è il Nuovo Mondo», soggiunse, quasi a volerglielo ricordare.
    «Le leggende sono leggende, cuoco», tagliò corto il Vice Capitano, sdraiandosi sul terreno umido con le braccia incrociate dietro alla testa. «Quelli non sono i primi Uomini Pesce che incontriamo, quindi piantala di fantasticare su idiozie simili».
    Sanji lo osservò per un lungo istante con le sopracciglia aggrottate, sbuffando qualche attimo dopo prima di poggiarsi con il capo contro il tronco dell’albero dietro di sé. «A volte ammiro questa tua miscredenza, marimo, davvero», disse in un soffio, e Zoro faticò a capire se il cuoco l’avesse detto con ironia o se lo pensasse sul serio. Non vi diede peso più di tanto, però, osservando soltanto lo scorcio di cielo grigio che si intravedeva fra le fronde.
    Leggenda o meno, ad attenderli fra le ombre c’era di sicuro qualcosa. Se lo sentiva sin dentro le viscere.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Ci ho messo praticamente una vita per farlo, però alla fine sono riuscita ad aggiornare anche questa storia con il quarto capitolo. La storia giungerà presto a conclusione, quindi tenetevi forte :3
Comunque sia, in questo capitolo vediamo Zoro e Sanji alle prese con Uomini Pesce ben più diversi di quelli contro cui si sono scontrati finora e, come se non bastasse, il nostro caro cuoco si è slogato una caviglia... un gran bel guaio, per uno che combatte solo con i calci. Okay, ammetto che è stata una bastardata... però ammetto anche che volevo inserire un pizzico di scena ZoSan velatissima e praticamente inesistente, e quella mi sembrava una buona idea x)
Per il resto, la leggenda di Davy Jones è fin troppo conosciuta e persino Sanji stesso ha accennato a qualcosa, dunque non credo sia necessario inserire qualche nota. In caso foste interessati, però, ponete le vostre domande e io vi risponderò :3
Al prossimo capitolo. ♥




Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** [ Third season › In pieces ] Davy Jones' Locker, 01 ***


Like Davy Jones_5
THIRD SEASON › IN PIECES
DAVY JONES’ LOCKER, #01
 
    Non seppe esattamente quanto tempo passò né tanto meno se fosse ancora notte o fosse già il giorno dopo, però, nell’aprire gli occhi, Sanji si rese immediatamente conto che i brividi che avevano attraversato il suo corpo durante quelle ore di sonno - e, se proprio doveva essere sincero con se stesso, nemmeno ricordava di essersi addormentato, ad un certo punto - erano stati sostituiti da un piacevole calore che lo avvolgeva come un bozzolo. E solo quando abbassò lo sguardo su di sé comprese quale fosse la causa di quel tepore. Quell’ammasso di stoffa verde che lo copriva era la casacca di Zoro, e non riusciva proprio a capire che cosa avesse spinto quello scemo di uno spadaccino a sfilarsela per usarla a mo’ di coperta per lui. Maledizione a quell’idiota. L’aveva forse scambiato per una donna bisognosa di aiuto o cosa? Per il suo bene, e per il bene della propria sanità mentale, sperava vivamente di no. Altrimenti l’avrebbe pestato a sangue, poco ma sicuro.
    Issandosi a sedere con un po’ di fatica, dati i muscoli di cosce e braccia anchilosati per la scomoda posizione in cui si era ritrovato sul terreno, Sanji scostò da sé la casacca e la ripiegò sulle ginocchia, gettando qualche occhiata intorno. Il fuoco, per quanto debole, scoppiettava ancora allegramente e attecchiva al legname e alle foglie accatastate, dunque non poteva essere passato troppo tempo da quando aveva chiuso gli occhi; la luce non era cambiata di una virgola e i profili delle cose erano ancora indistinti e avvolti lievemente nella nebbia, quindi era anche da escludere il fatto che fosse giorno, a meno che la giornata non fosse uggiosa esattamente come la precedente; non vedeva da nessuna parte Zoro, però, e fu al pensiero che potesse essersi allontanato e perso di nuovo che scattò immediatamente in piedi, dandosi dell’idiota quando per poco non rischiò di piombare a terra come un sacco di patate a causa della caviglia slogata. Merda. Se n’era quasi dimenticato.
    «Zoro?» decise dunque di chiamarlo, sorreggendosi con una mano contro l’albero senza smettere di cercare lo spadaccino con lo sguardo. Odiava ammetterlo, ma preferiva di gran lunga la sua compagnia, anziché starsene da solo in mezzo al nulla, con il rischio di finire persino nei guai per il non poter sfruttare al meglio le proprie abilità. «Ohi, marimo!» riprovò, deglutendo e umettandosi le labbra. Stava cominciando a provare la stessa maledettissima sensazione che aveva assaporato a Sabaody, quando a causa di Kuma se l’era visto sparire dinanzi agli occhi. E, dannazione, non aveva lavorato sodo per due anni per rivivere le stesse situazioni angoscianti ancora una volta.
    Si diede una calmata solo quando lo vide comparire dal folto della boscaglia, con in viso un’espressione scocciata mentre tentava di tirar su la zip dei pantaloni neri - perfettamente visibili insieme all’haramaki a causa della mancanza della casacca  - fra un’imprecazione e l’altra. «Che diavolo hai da strillare tanto, cuoco?» borbottò a mezza voce nello scoccargli una rapida occhiata, riuscendo finalmente nella sua impresa. «Non si può nemmeno pisciare, adesso?»
    Sanji trasse un lungo sospiro di sollievo, poggiandosi con la schiena contro la corteccia. Quel dannato idiota non aveva la benché minima idea di quanto si fosse preoccupato, e probabilmente era un bene, dato che glielo avrebbe di sicuro rinfacciato come lui stesso aveva fatto a Water Seven su quello stupido treno marino. Scosse dunque il capo e cercò di riacquistare un’aria composta, e, recuperata la casacca che aveva abbandonato sul terreno.
    «Sta’ zitto, marimo, saresti capace di perderti anche dietro l’angolo. Non puoi andartene in giro da solo», bofonchiò scontroso, lanciandogli contro il suo vestiario e vedendo lo spadaccino afferrarlo al volo per infilarselo. «Perché diavolo mi hai dato la tua casacca, piuttosto? Non ne avevo per niente bisogno».
    «Non fare domande idiote e datti una mossa, cuoco. Dobbiamo trovare Rufy e gli altri», tagliò corto, non ritenendo necessario rispondere ad una domanda come quella. E Sanji, dal canto suo, nemmeno insistette, limitandosi semplicemente a seguirlo, seppur più lentamente del solito a causa del dolore alla caviglia, prima di gettare un’ultima occhiata nei dintorni.
    «Ohi, quanto ho dormito?» gli venne però spontaneo chiedere, giusto per rendersi conto di quanto tempo fosse passato con esattezza.
    «Non molto. Mezz’ora, un’ora al massimo», gli rispose semplicemente, lasciando cadere lì la conversazione per l’ennesima volta. Non sembrava aver molta voglia di parlare, e il cuoco, molto probabilmente, non aveva a sua volta intenzione di intrattenere con lui un discorso che sarebbe potuto sembrare anche solo lontanamente sensato. Si concentrarono dunque sul proprio cammino, in silenzio e più che speranzosi di non star girando a vuoto.
    Nei dintorni il silenzio era così assordante da rimbombare assurdamente nelle orecchie, dando quasi l’impressione che si trovassero entrambi sott’acqua; il terreno umido, mano a mano che avanzavano, diveniva costellato da steli d’erba e pietrisco, facendo sì che quella determinata zona sembrasse divisa dalla restante vegetazione, che appariva invece fitta e difficilmente valicabile, come se la foresta stessa volesse impedire agli incauti passanti di avanzare in quella direzione. I due compagni rimasero persino sorpresi quando, inoltrandosi nel folto del bosco e superando una macchia di larici e felci, si ritrovarono in una piccola radura, al centro della quale sorgeva una costruzione andata in rovina che un tempo sarebbe stata sicuramente un ottimo rifugio per proteggersi dagli animali della zona, se mai ce n’era stato qualcuno su quell’isola prima dell’arrivo di quegli strani Uomini Pesce. Ai lati di essa, accatastati l’uno sopra l’altro come se fossero stati riposti lì da qualcuno, si trovava la stragrande maggioranza del muro di mattoni che era crollato dal lato sinistro della dimora, la cui porta di legno sembrava essere stata sfondata da una palla di cannone e lasciava intravedere l’arredamento interno; c’era persino una stalla, ai limitari della radura, le cui travi annerite e i cumuli di paglia ormai secchi parevano essere stati divorati dal fuoco. Dall’interno della catapecchia proveniva stranamente del fumo, come se qualcuno vi abitasse ancora e non si curasse delle insolite presenza che vagavano per la foresta.
    «Chiunque sia quello là dentro, o è maledettamente forte o è tremendamente stupido», costatò lo spadaccino, portando comunque una mano a sfiorare l’elsa della sua Ichimonji, mettendo in allerta anche Sanji. Quest’ultimo assunse difatti una posizione di difesa, incassando la testa nelle spalle e ficcando le mani nelle tasche, stringendo la sigaretta fra i denti.
    «Il solo modo per saperlo è andargli in contro, marimo», propose, rimediandoci un cenno d’assenso prima che, entrambi guardinghi, cominciassero ad incamminarsi verso la costruzione, allertandosi quando un rumore metallico parve provenire proprio dall’interno di essa. Qualche istante dopo la porta si spalancò, e una figura fin troppo familiare ai due pirati comparve sulla soglia, lasciandoli interdetti nel vederla gettar loro un’occhiata prima di dileguarsi verso il bosco.
    «Rufy!» esclamò Zoro, correndogli dietro con un’imprecazione; Sanji lo seguì a ruota, decidendo di superarlo nel tentativo di raggiungere Rufy e bloccarlo, domandandosi al contempo cosa diavolo stesse succedendo. Perché era fuggito? Dov’erano gli altri? E, soprattutto, da quando Rufy era così dannatamente veloce?
    «Maledizione, Rufy, aspetta!» sbottò, saltando una radice nodosa per evitare di inciamparvi dentro, imprecando a denti stretti quando una fitta dolorosa gli percorse l’intera gamba fino alla caviglia, facendolo rendere conto anche di un’altra cosa: non era Rufy ad essere diventato veloce, era lui che, a causa del momentaneo handicap, era diventato più lento. Fece comunque ricorso a tutta la propria forza di volontà, cercando di aumentare il passo e ritrovandosi nei pressi di un fiume impetuoso. «Dove diavolo vai, razza di idiota? E dove accidenti sono Nami-san e Robin-chan?!»
    Il Capitano gettò un rapido sguardo verso di lui senza arrestare la sua folle corsa, sparendo fra le cime degli alberi con un salto degno di una scimmia; Sanji dovette fermarsi e accasciarsi contro un tronco per il dolore, guardando in alto senza riuscire a scorgere la figura del ragazzo. Che diavolo gli era preso, così all’improvviso? E dov’era il resto della ciurma, se lui si divertiva a fare l’idiota nella foresta?
    «Dove cazzo pensavi di correre con quella fottuta caviglia?!» sbottò Zoro, appena sopraggiunto a sua volta sulla riva del fiume; Sanji gli gettò un’occhiataccia, mordicchiando poi il filtro della paglia con un sonoro sbuffo.
    «Non rompere, marimo, tu sei troppo lento».
    «Almeno l’hai preso?»
    Sanji ci mise un po’ a rispondere, mugugnando qualcosa fra sé e sé prima di borbottare solo «È sparito» in tono contrariato, asciugandosi il sudore dalla fronte. Non fece in tempo ad aggiungere altro, però, che un ruggito disumano richiamasse la sua attenzione, costringendolo a stornare bruscamente lo sguardo nella direzione da cui esso proveniva. E non poté fare a meno di spalancare la bocca con fare sorpreso, tanto da rischiare di far cadere la sigaretta, quando vide in lontananza un serpente dalle squame azzurrognole che strisciava rapido nella loro direzione, innalzando le spire e il capo mastodontico verso il cielo; spalancò le fauci e ruggì ancora, mostrando le zanne enormi dalle quali Sanji riuscì perfettamente a notare il veleno che colava da esse.
    Oh, perfetto. Non solo avevano dovuto vedersela con gli Uomini Pesce o qualunque cosa fossero quei cosi contro cui avevano combattuto da quando avevano messo piede su quell’isola, ci mancava soltanto un fottuto mostro marino. Un immenso mostro marino che sembrava essere venuto proprio per reclamare la loro vita, molto simile a quello di cui aveva sentito parlare da Paty quand’era solo un marmocchio e che, secondo quanto aveva raccontato, designava le sue vittime fra i marinai che si perdevano e li perseguitava in qualunque oceano fino a prendersi la loro anima. La situazione stava cominciando ad andare sicuramente di bene in meglio. «Ohi, marimo», cominciò dunque pacatamente, alzando a poco a poco lo sguardo su quella creatura che, sradicando gli alberi che si trovavano sfortunatamente sul suo passaggio, si era parata dinanzi ai loro occhi mentre, tranquillo come non mai, afferrava con due dita la sigaretta che si era precedentemente portato alla bocca per accendersela. «Non sono il solo a vedere questa cosa enorme, vero?»
    «A meno che non siamo impazziti in due, cuoco, la vedo anch’io», replicò semplicemente Zoro, abbozzando poi un mezzo sorriso sarcastico. «Se ci fosse qui Rufy, sono certo che proverebbe ad addomesticarlo come quel maledetto Kraken», soggiunse, sfilando le prime due spade dal fodero e provocando una sonora risata a Sanji, che si ficcò le mani in tasca qualche istante dopo.
    «È grosso esattamente come quello stupido polpo, in effetti», disse, sollevando lo sguardo su quel mostro. «Basteranno due colpi».
    «Due colpi», ripeté lo spadaccino, portandosi l’elsa della terza katana alla bocca; la mantenne saldamente con i denti e rinserrò la presa sulle altre due, facendo appena un rapido cenno con il capo in direzione di Sanji prima di gettarsi all’attacco senza pensarci due volte. Non avrebbero dovuto preoccuparsi di niente né tanto meno avrebbero dovuto fare attenzione a non tagliarlo a pezzi, giacché per loro, in quel momento, era solamente un grosso ostacolo e non avrebbe avuto la benché minima utilità se non quella di bloccar loro il cammino.
    Si spostò lateralmente quando, spalancando le grosse fauci, quel gigantesco serpente si lanciò verso di lui, con la ferma intenzione di maciullarlo con le grosse zanne. Zoro lo colpì ad un fianco con il dorso di una spada, ma imprecò a denti stretti nel rendersi conto che quel coso gigantesco era più coriaceo di quanto sembrasse. Ricordava vagamente quello stupido drago che aveva fatto a fette a Punk Hazard, e probabilmente, ironizzò sul momento, era persino buono come quello cotto alla griglia.
    Indietreggiò di qualche passo ed evitò per un pelo la coda del serpente, che aveva frustato l’aria nel tentativo di colpirlo; il suo ruggito lo assordò per un breve attimo e quasi si sentì stordito, scuotendo il capo per riprendersi prima di buttarsi all’attacco. Rigirò le katane fra le mani e partì alla carica, riuscendo a scalfirlo esattamente all’attaccatura del collo, provocandogli un taglio netto ma non mortale. Fece per gettarsi ancora una volta contro di lui quando, sfruttando il suo lato cieco, la coda gigantesca del serpente lo colpì in pieno e gli mozzò il fiato nei polmoni, schiacciandolo al suolo con una forza disumana.
    Boccheggiò, premendo le mani contro la sua carne nel tentativo di levarselo di dosso, riuscendoci solo quando un calcio poderoso lo ribaltò sul terreno fangoso, facendo schiantare il corpo massiccio contro una fila d’alberi poco distante. Con la coda dell’occhio, Zoro vide Sanji calciare velocemente l’aria per saltare il più in alto possibile, arrivando esattamente al centro del petto di quel mostro gigantesco; caricando tutta la potenza che possedeva nella gamba destra, poi, roteò su se stesso e utilizzò il Diable Jambe, dandole fuoco per aumentare la propria forza prima di gettarsi contro l’avversario. Con il Grill shot, la stessa tecnica utilizzata tempo addietro contro il Kraken, lo ustionò in pieno costato, e il gemito doloroso a cui quel mostro diede vita fu capace persino di far tremare la terra sotto ai piedi di Zoro.
    «Tutto tuo, marimo!» esclamò Sanji, imprecando quando toccò il terreno e il contraccolpo si riversò interamente nella gamba; dovette accasciarsi su se stesso e afferrarsi la caviglia con una mano, sentendosi un completo idiota. Con quella dannata slogatura era più di impiccio che di aiuto, e, per quanto tentasse di far finta di niente, avrebbe forse dovuto smetterla di sforzarla più del dovuto, dato che faticava a reggersi in piedi. E intuendo probabilmente i pensieri del cuoco, lo spadaccino sollevò lo sguardo verso di lui, quasi volesse accertarsi che stesse bene, e incassò poi la testa nelle spalle, afferrando saldamente le else delle sue spade prima di farle roteare velocemente fra le mani, partendo all’attacco.
    «Sanzen sekai!» gridò con voce possente, quasi volesse darsi potenza anche in quel modo, curvando le katane e gonfiando i muscoli delle braccia, assestando un colpo dritto allo stomaco di quel bestione. Con un grido sofferente, il serpente spalancò la bocca e contrattaccò, tendendo il lungo collo verso lo spadaccino, che riuscì a spostarsi per un soffio prima di affondare con ferocia le lame nel suo corpo; grosse gocce di sangue nero e viscido schizzarono dalla ferita e sporcarono i tronchi degli alberi non appena Zoro ritrasse le spade, venendo investito in pieno da una spruzzata di liquido vermiglio.
    Il serpente stramazzò al suolo con un lugubre lamento, agonizzante, accasciando il grosso capo prima di far guizzare per un’ultima volta la lingua biforcuta, che ricadde con un tonfo sordo sul terreno sottostante quando dalla gola profonda del mostro scappò un ansito strozzato; la pozza di sangue che si allargò sotto il suo corpo macchiò sinistramente l’erba di uno smorto colorito marrone, rendendola umida e appiccicosa.
    Zoro, rinfoderando le proprie spade, storse di poco il naso prima di sbuffare. «Merda. Chissà che diavolo era quel coso», sbottò, e non finì nemmeno di dirlo che una risata divertita si levò dal bel mezzo del bosco, prima che da dietro al tronco di un albero comparisse un uomo vestito con un semplice pastrano nero e un cappello con la tesa larga, che fece vagare lo sguardo su entrambi i pirati con fare contemplativo.
    «Un Leviatano, ragazzi miei».
 
 
    Sanji, che lì per lì era rimasto in silenzio sul terreno con una mano premuta sulla caviglia, quasi potesse in qualche modo placare il dolore che lo aveva assalito, non poté fare a meno di accigliarsi non appena i suoi occhi si soffermarono sul nuovo arrivato, non mettendoci poi molto a ricordare dove l’avesse già visto. «Ohi! Tu non sei il vecchio che abbiamo incontrato al villaggio?»
    «Di che vecchio stai parlando, ricciolo?» domandò, ma Sanji non si prese la briga di rispondergli, agitando semplicemente una mano come a voler rimandare a dopo la conversazione. Il sorriso che era comparso sulle labbra di quel vecchio, difatti, non prometteva nulla di buono.
    «Vedo che la mia piccola esca ha funzionato», si limitò soltanto a dire, riuscendo ad accigliare i due compagni, che si gettarono una rapida occhiata prima di sbottare in coro: «Cosa?», facendolo ridere maggiormente. «“Gli abitanti si sono trasferiti in un’altra città”, “I mostri pullulano la zona”, “Io vi ho avvertiti”... avete davvero creduto alle mie parole?» parve schernirli. «Siete caduti nella mia rete proprio come dei bei pesciolini... non è mai stato così facile», costatò allegramente, togliendosi il cappello con fare galante. «Tipi stupidi come voi se ne incontrano raramente».
    «Ohi, vecchio, non ho idea di cosa stai parlando, ma hai proprio bisogno di qualcuno che ti prenda a calci in culo», sentenziò Sanji, zoppicando verso di lui con l’aria più spavalda che riuscì a trovare nel suo repertorio, con la ferma intenzione di far parlare chiaro quel tipo e ritrovare i lor compagni; nel momento stesso in cui poggiò un piede sul terreno per fare un passo avanti, però, un peso parve opprimergli il petto e togliergli il respiro, facendolo boccheggiare inutilmente alla disperata ricerca d’aria. Riuscì a malapena a gettare un rapido sguardo in direzione di Zoro prima che, come sospinto da una forza invisibile, venisse catapultato al di là del fiume, fra le acque impetuose; l’impatto contro le rocce sottostanti fu così violento che il cuoco perse i sensi, finendo per essere trasportato lontano dalla corrente sotto lo sguardo incredulo dello spadaccino.
    «Cuoco!»
    «Io mi preoccuperei di te stesso», sentì dire alle sue spalle, ed ebbe appena il tempo di voltarsi prima di sentire una mano dell’uomo poggiarsi a palmo aperto sul suo petto, spingendolo contro il tronco di un albero; lo spostamento d’aria fu così spaventoso che riuscì a spedirlo a più di quattro metri di distanza in una pioggia di corteccia e rami spezzati, e Zoro, sgranando l’occhio, spalancò la bocca senza emetter suono prima di ritrovarsi riverso sul terreno. Con un colpo di tosse si tirò su, sollevando di poco il capo per cercare con lo sguardo la figura dell’uomo, vedendolo immobile e sorridente come non mai. Dannazione, chi diavolo era quel tipo? Non aveva mosso un dito ed era riuscito a mettere fuori gioco il cuoco, già ferito di suo senza l’intervento di quel vecchio, e aveva persino scaraventato lui stesso contro una fottuta fila di alberi toccandolo appena di sfuggita, come se avesse posseduto la forza necessaria per farlo. Eppure appariva semplicemente come un vecchio qualunque, e non sembrava avere nessuna particolarità. Merda. Dopo essersi allenato estenuamente per due anni non aveva la benché minima intenzione di farsi mettere i piedi in testa da un tipo del genere.
    A quel pensiero serrò le labbra e, estraendo con un movimento secco l’Ichimonji dal fodero, si gettò immediatamente contro l’avversario, roteando il polso per agitare la lama senza che quel vecchio, pur vedendolo correre verso di sé, si spostasse di un solo millimetro; il colpo fendette l’aria e gli provocò uno squarcio che si estendeva dalla spalla destra fino al fianco sinistro, ma tutto ciò che la spada parve tagliare fu semplicemente della stoffa, poiché l’uomo, senza abbandonare il sorriso che si era dipinto sulle sue labbra, sfiorò appena con due dita il punto colpito, sollevando il vestiario per rivelare la pelle perfettamente integra.
    Zoro indietreggiò e, rinserrando la presa sulla propria katana, aprì la bocca con fare perplesso, la pupilla ingigantita dalla momentanea confusione. «Che diavolo significa?!» berciò a mezza bocca, sentendo nelle orecchie la risata cristallina in cui proruppe il suo avversario qualche istante dopo.
    «Significa che in questi due anni non hai imparato un bel niente da Mihawk, mr. spadaccino».
    «Come fai a sapere queste cose?» domandò guardingo, sollevando la lama della Shuusui con la punta rivolta verso di lui. «Spero che tu adesso non te ne esca con la cazzata che sei l’immagine speculare delle mie debolezze o altre stronzate simili, vecchio».
    L’uomo si lasciò scappare uno sbuffo ilare, a quel dire, lanciando il cappello nel bel mezzo della foresta. «Hai una gran bella fantasia, moccioso», rimbeccò poi, sfilandosi anche il pastrano come se volesse facilitare in quel modo i propri movimenti. Fu un attimo, prima che, con un rapido gesto del braccio sinistro, sferzasse nuovamente l’aria e allontanasse da sé lo spadaccino, che rotolò sul terreno con una colorita imprecazione nel tentativo di evitare quel colpo, venendo colpito comunque di striscio alla guancia; indietreggiò di riflesso e si portò rapidamente la mano sinistra alla cintola per afferrare la sua seconda katana, però, prima ancora che potesse estrarla dal fodero, venne sbalzato nuovamente lontano da un fendente di quel vecchio, che non gli diede nemmeno il tempo di rialzarsi e gli calciò via dalle mani la spada che sorreggeva. Si gettò poi contro lo spadaccino e, con forza sovraumana, lo afferrò per la casacca e lo sollevò di peso, stringendo le dita intorno al suo collo come se volesse soffocarlo.
    Attraverso l’orlo delle ciglia, Zoro vide il viso del vecchio trasfigurato in una maschera seria e composta, quasi non facesse nessuna fatica a tenerlo sospeso a mezzo metro da terra in quel modo. Per un lungo attimo, probabilmente a causa del poco ossigeno che aveva cominciato ad arrivargli al cervello, gli parve persino di scorgere al posto della pelle un riflesso squamoso, come se quel tipo non fosse affatto un uomo. Facendo forza sulle proprie braccia, lo spadaccino afferrò fra le mani i polsi del suo avversario nel tentativo di fargli mollare la presa, gonfiando i muscoli delle spalle e della schiena per darsi maggior potenza; sentì quelle dita divenire meno salde e, senza nemmeno pensarci due volte, con la poca lucidità rimastagli afferrò la sua Shuusui e piantò la punta della lama nella carne dell’uomo, che si lasciò sfuggire un grido di dolore prima di lasciarlo del tutto.
    Zoro cadde in ginocchio con un tonfo e, portandosi una mano al collo per massaggiarlo e riportare sensibilità in esso, stornò bruscamente lo sguardo verso l’avversario, vedendo i vestiti intrisi di sangue. «Cosa... diavolo sei, bastardo?!» tossicchiò al suo indirizzo, sentendolo ridacchiare con una certa fatica.
    «Dirti “Sono il tuo peggiore incubo” suonerebbe troppo... teatrale, vero?» lo schernì l’uomo, per quanto avesse cominciato a sputare saliva macchiata di rosso. Il colpo di Zoro sembrava essere andato a segno, stavolta, ma non pareva turbato come avrebbe dovuto essere qualcuno che stava per tirare le cuoia, anzi. Il sorriso che si era dipinto sulle sue labbra, pur essendo tirato, faceva supporre che quel tipo avesse qualcosa in mente, e non passò nemmeno mezzo secondo prima che allungasse una mano verso lo spadaccino nel tentativo di ghermirlo ancora una volta; con un’imprecazione, il Vice Capitano riuscì per un pelo a compiere un balzo all’indietro, e il terreno dove si era trovato fino a quel momento scomparve letteralmente sotto i suoi occhi non appena il braccio dell’uomo si conficcò con violenza in esso, lasciando posto ad una poltiglia ormai liquefatta.
    «Merda!» esclamò incredulo. «Che cazzo era?!»
    «Frutto Mabo-Mabo, spadaccino», rantolò in un soffio, come se stesse cominciando a mancargli il respiro; senza perdere altro tempo, come se per lui ogni secondo fosse ormai diventato prezioso, il vecchio sollevò una gamba e sferrò a Zoro un calcio che lo colpì alla spalla sinistra, facendogli sfuggire un gemito doloroso.
    Quel dannato scontro stava durando decisamente troppo, e lo spadaccino cominciava ad essere preoccupato più per il cuoco che per la sua stessa vita. Ad ogni fendente che menava era costretto ad indietreggiare per evitare di essere colpito dai poteri di quel vecchio, che si rivelavano più potenti ad ogni attacco; se fosse tutto a causa di un’illusione o meno non lo sapeva, ma era certo che se non si fosse dato una mossa quell’idiota avrebbe rischiato grosso. Ricorse dunque a tutte le sue forze per riuscire a stendere una volta per tutte l’avversario, rinserrando la presa sulla Shuusui prima di cercare con lo sguardo le altre due spade; le trovò a poca distanza da sé e, senza distogliere gli occhi dal vecchio, scartò di lato un suo calcio e rotolò sul terreno, afferrando le else delle sue armi una volta raggiunte, portandosi l’Ichimonji alla bocca. Roteando le altre due fra le mani, si gettò lui stesso all’attacco verso l’avversario a spade sguainate, pur sapendo di rischiare grosso. Se l’uomo avesse usato i suoi poteri per contrattaccare non sarebbe riuscito a scamparla, ma il gioco valeva la candela, ora come ora. Non se lo sarebbe mai perdonato se non fosse riuscito a salvare quello scemo d’un cuoco. Sarebbe morto provandoci, piuttosto. E con quel pensiero nella testa spiccò un balzo per colpirlo al petto con tutte e tre le spade, piantando le punte di esse nel suo torace prima di tirarle fuori con violenza; il sangue e la carne schizzarono a macchiargli il petto e il viso, e l’uomo, con una mano ad una spanna dal suo viso, sgranò gli occhi, come se fosse incredulo. Cadde a terra riverso di schiena, boccheggiando come un pesce fuor d’acqua mentre gli occhi, vuoti e fissi verso il cielo, sembravano tremare quasi avessero una vita a se stante.
    Zoro affondò la lama nel terreno per sorreggersi contro la katana, lo sguardo fisso sul corpo del vecchio che, a poco a poco, cominciava a scomparire; dapprima perse consistenza, divenendo simile al pallido ricordo di un fantasma, e poi la parte inferiore iniziò a svanire, dalla punta dei piedi fino al busto maciullato; lì lo svanimento parve indugiare per qualche attimo, riacquistando solidità prima di scemare gradualmente, come se la cassa toracica stesse cercando di dar vita agli ultimi battiti del cuore prima del momento della resa. Si dissolse sotto gli occhi di Zoro solo qualche attimo dopo, lasciando come unico segno della sua esistenza una pozza di liquido denso che non ricordava nemmeno lontanamente la consistenza del sangue.
    Senza perdere altro tempo e cercando di far affidamento alle poche forze rimaste, Zoro si gettò nel fiume con un’imprecazione, sentendo una dolora fitta al torace. Le ferite che gli erano state inferte parvero bruciare come se mille lame acuminate gli avessero appena trapassato il corpo, ma lui non se ne curò, stringendo i denti e assottigliando lo sguardo con la speranza di riuscire a trovare il corpo del cuoco. Ad ogni bracciata ansimava sempre più e inghiottiva acqua, sputacchiando e facendo resistenza ogni qual volta la corrente minacciava di trascinarlo via; percorse il corso del fiume e si tuffò più di una volta per controllarne il letto, ma del compagno non sembrava esserci traccia.
    Allarmato e confuso, con il sangue che aveva cominciato a rimbombargli nelle orecchie e il respiro ansimante, non si diede pace nemmeno per un attimo, provando a guardarsi intorno con preoccupazione sempre più crescente; aguzzò la vista e, qualche istante dopo, scorse contro le rocce la figura del cuoco, il cui corpo veniva smosso dalla corrente e rischiava di essere trascinato via da essa senza che quest’ultimo potesse reagire. Aveva perso i sensi e il suo viso era reclinato di lato, lasciando che i capelli fluttuassero come serpenti dorati a pelo d’acqua; con un’imprecazione, Zoro si affrettò a nuotare verso di lui e lo afferrò per un braccio, traendolo in salvo.
    Ferito e annaspante, se lo tirò su una spalla e cercò di trascinarlo il più in fretta possibile fuori dall’acqua, distendendolo di schiena non appena toccarono terra. E sbiancò nel momento stesso in cui, tentando di riprendere fiato, lo sguardo gli cadde sul torace del compagno, vedendolo immobile e privo di vita. «Merda... non respira!» esclamò in un moto di panico, poggiando entrambe le mani sulla cassa toracica per spingere; contò fino a tre e chinò il capo verso di lui per poggiare le labbra sulle sue, provando con la respirazione bocca a bocca nel vano tentativo di riportare il fiato nei suoi polmoni. Si allontanò e prese un altro lungo respiro, riprovando fino a che il cuoco, tossendo, non sputò l’acqua che aveva bevuto, reclinando il capo di lato con un lungo ansito doloroso.
    Zoro quasi trasse un sospiro di sollievo, per quanto sapesse che non era ancora finita lì. Il cuoco avrebbe potuto smettere di respirare da un momento all’altro, e non aveva tempo da perdere se voleva che entrambi uscissero vivi da quella stramaledetta situazione. Nonostante ormai non riuscisse quasi a distinguere le sagome a causa della grande quantità di sangue che aveva perso, dunque, cercò di afferrargli un braccio e di issarselo sulle spalle, scrollando la testa per cercare di riacquistare almeno in parte la vista e allontanare quella patina bianca che sembrava avergli ormai coperto l’iride e che gli impediva di visualizzare al meglio i dintorni e tutto ciò che li circondava come un velo gelido. «Non azzardarti a morire, brutto idiota, altrimenti ti ammazzo con le mie mani!» berciò poi, forse per provare a spronare persino se stesso prima di mettersi faticosamente in marcia in direzione del bosco, con la speranza di riuscire almeno in quell’impresa. Dopo due anni, dopo tutti gli allenamenti a cui si era sottoposto e le umiliazioni che aveva dovuto subire, non era riuscito a difendere uno dei suoi compagni nel momento del bisogno, maledizione. Ma ci sarebbe stato tempo per prendersela con se stesso e fare ammenda, se fosse stato in grado di portare entrambi in salvo.
    Per adesso doveva solo muoversi. Se non voleva perderlo, doveva portarlo da Chopper. E mai come in quel momento, lui, che non aveva mai creduto in nessun Dio, pregò che lo aiutasse a trovarlo in tempo
.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Due spiegazioni veloci prima di partire con le note vere e proprie: il frutto Mabo-Mabo che ha mangiato il vecchio è l’abbreviazione di “Maboroshi”, che in giapponese significa per l’appunto “Illusione”.
Appurato questo, ammetto che avrei davvero desiderato scrivere qualche capitolo in più prima di giungere a questo momento, però, purtroppo, il contest a cui la storia partecipava non comprendeva più di sei capitoli e non potevo sforare più di tanto, per quanto io desiderassi farlo
Questo non è il capitolo prima del penultimo capitolo, però, e ci tengo a precisarlo. La storia con cui ho partecipato al contest era di sei capitoli più l'epilogo, certo, ma... c'è un ma, ecco. Giacché la trama era complessa e necessitava di molti più capitoli, ho dovuto tagliare delle parti per far sì che la storia venisse accettata dalla giudice, che era stata già tanto carina a darmi un capitolo in più per far quadrare almeno l'epilogo. Tutto questo giro di parole per dire che, aye, ci sono un altro paio di capitoli in più che io avevo precedentemente scritto mentre stendevo la storia, e contavo di inserirli come spin off.
Al prossimo, dunque ♥




Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** [ Third season › In pieces ] Behind the legend, 02 ***


Like Davy Jones_6
THIRD SEASON › IN PIECES
BEHIND THE LEGEND, #02
 
    D
a quando avevano messo piede su quell’isola, Nami non aveva visto nemmeno uno scorcio di sole.
    Erano ore, ormai, che vagavano senza una meta precisa nel bel mezzo di quel bosco, e della città che avrebbero dovuto raggiungere in meno di metà giornata non c’era neanche l’ombra, tanto che stava cominciando persino a credere che si fossero persi esattamente com’era accaduto a Sanji e Zoro. Ad ogni occhiata che si lanciava intorno, le sembrava di vedere sempre lo stesso e identico paesaggio, dalle piante grasse che sbucavano timidamente fra le foglie secche sul terreno alle cortecce degli alberi ricoperte di muschio; i monumenti di pietra che si ergevano a metà nel terreno erano l’unico punto di riferimento che aveva, per quanto non fosse del tutto certa che non si trattasse sempre degli stessi. Robin aveva persino tentato di decifrarne le scritte incise, spinta come sempre dalla sua insaziabile voglia di conoscenza, ma aveva ben presto scosso il capo, afflitta, mormorando che erano troppo logorate dal tempo per riuscire a leggere anche solo una riga. E si erano quindi ritrovati a riprendere il cammino nella speranza di ritrovare il sentiero, per quanto ormai si stessero rassegnando all’idea che non sapessero più dov’erano diretti.
    «Non ce la faccio più», esalò d’improvviso Rufy in un fil di voce, richiamando su di sé l’attenzione di tutti i presenti, che si accigliarono nel vederlo accasciato su se stesso. Era raro, difatti, che il Capitano si lamentasse per la stanchezza, ma bastò il borbottio del suo stomaco a far capire la causa di quella bizzarra mancanza di forze. Beh, almeno aveva resistito senza cibo più di quanto si erano aspettati, bisognava ammetterlo.
    «Credo sia meglio fare una pausa, a questo punto», propose Nami, per quanto l’idea di fermarsi in quel posto anche solo per cinque minuti non la allettasse per niente. «Abbiamo bisogno di rimetterci in forze, dopotutto».
    «Si mangia!» Rufy fu il primo ad aprire una delle borse che si erano portati dietro per fiondarsi sul cibo, per quanto Usopp avesse inutilmente tentato di sottrarla dalle sue grinfie per non rischiare che le scorte sparissero in meno di qualche secondo; ben presto, all’affamato Capitano si aggiunse anche Brook, desideroso di mettere a sua volta qualcosa nello stomaco, pur essendosi premurato di ricordar loro, ridendo come suo solito, che lui uno stomaco non l’aveva, essendo uno scheletro. In meno di mezz’ora, le scorte che Sanji aveva così diligentemente preparato si volatilizzarono, anche quelle contenute nella borsa del cuoco, finita nelle mani di Usopp poiché quest’ultimo non glielo aveva più restituito. E la cosa peggiore era che adesso non avevano più nulla, nel caso in cui fossero stati costretti a passare più tempo del dovuto in quella foresta.
    «Ah! Adesso sì che sto bene!» esclamò Rufy tutto contento, battendosi una mano sul grosso stomaco di gomma mentre con il mignolo dell’altra ripuliva gli spazi fra i denti. «Sanji è il migliore!»
    Nami storse il naso, incrociando le braccia al di sotto del seno prosperoso prima di lasciarsi sfuggire un lungo sospiro. «Che tipo... rimpinzarti in quel modo pur sapendo che Zoro e Sanji a quest’ora potrebbero essere nei guai. Non sei preoccupato nemmeno un po’?»
    Calcandosi il cappello di paglia in testa, Rufy le sorrise al di sotto della tesa. «Mi fido ciecamente di loro», ribatté come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Zoro e Sanji sono forti. Sapranno cavarsela benissimo».
    «Rufy-san ha ragione», si intromise Robin, sorridendo benevola. «Ovunque siano, sanno di sicuro che cosa fare. E poi dovremmo preoccuparci anche per noi stessi... potremmo perderci nel bosco, non riuscire a tornare indietro e morire di stenti per mancanza di cibo e acqua. Oppure quei mostri, approfittando di un nostro momento di debolezza, potrebbero decidere di attaccarci e ammazzarci tutti».
    La navigatrice rabbrividì, strofinandosi le mani sulle braccia nel tentativo di scacciare l’orribile sensazione provocatale dalle parole dell’archeologa, dette in tono così tranquillo e semplice da spaventarla. «Quando la smetterai di dire cose così raccapriccianti?» le domandò, rimediandoci unicamente una divertita scrollata di spalle. Beh, almeno lei si divertiva, accidenti.
    Ripresero la traversata in silenzio, ognuno attento al minimo suono che avrebbero potuto captare. Non avevano la benché minima intenzione di farsi cogliere impreparati dai mostri che infestavano l’isola e, al tempo stesso, speravano di cogliere qualche segnale che avesse potuto indicare loro la direzione della nave o il luogo in cui si trovavano i loro compagni. Per quanto ci provasse, però, nemmeno Chopper era riuscito a fiutare la loro presenza, pur annusando il terreno in continuazione con la speranza di individuare l’odore di Zoro o quello di Sanji. Era come se l’intera foresta fosse inodore, poiché non sentiva nemmeno quello degli animali che avrebbero dovuto abitare quel luogo.
    Si ritrovarono ben presto dinanzi ad una grossa galleria scavata nella roccia, e facendo scorrere lo sguardo dalle pareti alle stalattiti che pendevano pericolosamente dal soffitto in pietra, l’archeologa si fece pensierosa. «A quanto pare è una caverna», costatò, guadagnandoci da Nami un’occhiata di traverso.
    «L’avevamo notato anche da soli, Robin».
    «Questa caverna mi trasmette proprio una brutta sensazione...» mormorò di rimando Usopp, sentendo un brivido corrergli lungo la schiena. Di solito quando qualcosa non andava non sbagliava mai, e, anche se forse quel posto era meno pericoloso di quanto credeva, aveva imparato a sue spese che bisognava andarci cauti, quando si trattava di posti sospetti. A maggior ragione adesso che si trovavano nel Nuovo Mondo. E fu proprio a quel pensiero che si voltò rapido verso lo scheletro, puntando un dito in direzione dell’entrata. «Brook, va’ a dare un’occhiata! Tu puoi dividere la tua anima dal resto del corpo, no? Va’ e torna!»
    «Non credevo che l’avrei mai detto, Usopp... ma hai avuto proprio un’ottima idea», lo elogiò la navigatrice, pentendosene qualche attimo dopo quando il cecchino, blaterando come suo solito, divenne fin troppo orgoglioso e parve dimenticarsi che fino a poco prima non aveva fatto altro che tremare come una foglia al solo pensiero di mettere piede in quel posto. Chi lo capiva era bravo, sul serio.
    Spronato dalle due ragazze, Brook separò la propria anima e si insinuò silenziosamente nella caverna buia e fredda, sparendo alla vista; i minuti che trascorsero dalla sua scomparsa al suo ritorno sembrarono i più lunghi e ansiosi che la ciurma avesse mai vissuto, e fu alquanto difficile starsene là fuori con le braccia incrociate e lo sguardo puntato verso l’oscurità della grotta, che sembrava quasi volerli risucchiare al suo interno. Cominciarono persino a preoccuparsi quando non videro tornare in fretta lo scheletro, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo solo quando il suo fantasma fluttuante apparve nella penombra.
    «Allora? Cosa c’è lì dentro?» gli domandò Nami non appena ebbe fatto ritorno nel suo corpo, vedendolo grattarsi l’afro per un attimo prima di volgere lo sguardo verso di lei.
    «Nulla di preoccupante, Nami-san», parve rassicurarla poi, sollevando distrattamente gli occhiali da sole come se volesse osservarla meglio in viso, per quanto ormai non possedesse più i bulbi oculari per farlo. «Piuttosto... le dispiacerebbe mostrarmi le sue mutandine per infondermi un po’ di coraggio?» le domandò in tono allegro e cantilenante, e Nami non ci pensò due volte a colpirlo con un pugno ben assestato al capo. Rischiò quasi di crepare il teschio già mezzo rotto di suo, però sembrò non interessarle per niente.
    «Ma ti sembrano cose da chiedere in un momento simile?!» berciò nervosa, incamminandosi all’interno della grotta con Robin al seguito, che si era comunque lasciata sfuggire una risatina alla scena che avevano regalato loro. Dal canto suo, invece, Brook se n’era rimasto lungo disteso sul terreno umido, lo sguardo perso verso lo scorcio di cielo grigio che si intravedeva a malapena attraverso le fronde degli alberi.
    «Oh, credevo di morire», esalò con un fil di voce, ridacchiando qualche attimo dopo nello scattare in piedi più vivace che mai, «anche se io lo sono già, yo-hohoho! Skull joke!» esclamò, venendo stavolta colpito da Usopp con un’imprecazione. Non era giornata, decisamente.
    Guardandosi intorno con attenzione, i ragazzi seguirono le compagne con fare circospetto, come se si aspettassero di veder spuntare fuori dal nulla qualunque cosa; dal canto suo, Nami gettava di tanto in tanto loro un’occhiata per tenerli d’occhio, sapendo fin troppo bene di che cosa fossero capaci quando venivano abbandonati a loro stessi. E lei di guai ne aveva fin sopra i capelli, se proprio doveva essere sincera.
    Passandosi entrambe le mani sulle braccia, la navigatrice cominciò a far scorrere lo sguardo sulle pareti di pietra che li circondavano, prestando orecchio allo scrosciare lontano di un ruscelletto; il suono dell’acqua risuonava quasi assordante e sembrava rimbombare in tutta la grotta, dandole la sensazione di trovarsi sul fondale marino anziché all’interno di una caverna. Era una sensazione alquanto bizzarra, ma si ritrovò ben presto a concentrarsi su altro quando arrivarono in prossimità di una lunga galleria, terminante in un vasto spazio roccioso che la lasciò a bocca aperta per la scoperta che fece.
    «Oh, mio...» sussurrò, con il cuore palpitante di gioia. Quelli che stava osservando erano dei forzieri, dei forzieri rifiniti in oro sicuramente purissimo che contenevano tesori formidabili, ne era certa. Perché prendersi la briga di lasciare dei bauli proprio nel bel mezzo di una foresta infestata di mostri, per di più in una grotta così nascosta, se non si aveva intenzione di tenere al sicuro il proprio bottino? Senza nemmeno rifletterci su un secondo di più, Nami si fiondò pimpante su uno dei forzieri sotto lo sguardo sconcertato di tutti, con in viso un’espressione così elettrizzata da far invidia a Rufy stesso quando si trattava di avventura; nello spalancarlo con foga, però, restò sbigottita nel vedere solo il fondo di legno, chiudendo il baule con un tonfo sordo. «U-Un momento! Cosa diavolo significa?! È vuoto! Completamente vuoto!» Corse svelta verso il secondo forziere, e, rischiando di inciampare in una crepa sul terreno, si tenne al coperchio robusto per evitare di cadere, spalancandolo qualche attimo dopo con fare irritato prima di imprecare contro il nulla. «Anche questo, dannazione!» sbottò incredula, lanciando un’occhiata di fuoco al povero cecchino, che sussultò prima ancora che la ragazza potesse anche solo aprire bocca. «Usopp, datti una mossa e controlla anche quelli!»
    «O-Ohi, aspetta! Perché dovrei...»
    «Muoviti!» La voce di Nami risuonò contro le pareti della caverna in tutta la sua autorità, tanto che riuscì a convincere in men che non si dica il cecchino a fare quanto gli era stato detto; sotto il suo sguardo severo, Usopp raggiunse i forzieri restanti e li spalancò tutti ad uno ad uno, venendo ben presto aiutato anche dal Capitano, che si era stranamente dimostrato molto più euforico del compagno.
    «Ci sono degli abiti, qui», borbottò Usopp, infilando una mano nel baule per frugare fra la stoffa alla ricerca di qualche oggetto luccicante, non trovando niente come invece aveva sperato, «ma nessuna traccia di qualcosa di valore».
    «Qui ci sono delle ossa!» esclamò di rimando Rufy, sventolando in aria quello che aveva tutta l’aria di essere un femore mordicchiato da qualche animale. Vi erano rimasti attaccati anche brandelli di carne ormai rinsecchita, e a quella visione Nami storse il naso, assumendo un’espressione a dir poco schifata prima di distogliere lo sguardo e scuotere il capo. Afflitta e ormai demoralizzata, si allontanò dai bauli a passi strascicati, lasciandosi cadere pesantemente seduta su una roccia con la testa abbandonata fra le mani.
    «Vuoti... tutti vuoti», mormorò, sospirando affranta. Tutta quella strada per trovare solo dei miseri ammassi di legno e ferro che non contenevano né oro né gioielli, solo qualche inutile vestito ammuffito e un mucchio d’ossa. Che quella traversata in quell’isola dimenticata dalla civiltà si fosse rivelata solo un’inutile perdita di tempo? Beh, probabilmente era davvero così, visto che sarebbero di sicuro tornati a casa a mani vuote. Accidenti, perché Rufy, nella foga della battaglia contro quegli strani Uomini Pesce, aveva perduto quel medaglione d’oro? Almeno avrebbero avuto un bottino con cui far ritorno, anziché un mucchio di stracci.
    «Uhm... interessante».
    Nami sollevò lo sguardo verso l’archeologa, per quanto avesse ancora dipinta in viso un’aria decisamente devastata. Non le era mai piaciuto il modo in cui Robin pronunciava quelle semplici parole, nemmeno due anni addietro. E tutto perché poteva significare solo due cose: luoghi che avrebbero provocato loro un mucchio di guai, oppure civiltà misteriose che sarebbero comunque state fonte di guai. Di bene in meglio, insomma. E la sua era pura ironia. «Che cosa c’è, Robin?» si ritrovò lo stesso a chiederle, mettendo da parte la depressione per raggiungerla e osservare le pietre che stava esaminando con meticolosa attenzione. «E quelle cosa sono?»
    «Testimonianze. Testimonianze di pirati e marinai che sono stati qui prima di noi». Carezzò con la punta delle dita le incisioni presenti sulla pietra come se si fosse trattato di qualcosa di decisamente raro e prezioso, sfregando via dai polpastrelli la polvere accumulatasi. «Alcune risalgono addirittura a due secoli fa... nessuno di loro è riuscito a sopravvivere su quest’isola più di tre giorni».
    Nami si accigliò. «Cosa? E la gente di cui parlava quel vecchio?»
    «Qui non c’è scritto niente che faccia supporre che quell’uomo dicesse la verità».
    «Che senso aveva mentirci?»
    «Forse voleva semplicemente gettarci in pasto a quelle creature... o dietro a tutta questa storia c’è qualcosa di molto più complesso». Accovacciandosi dinanzi alle pietre, Robin spolverò le incisioni più vecchie e si fece più vicina per riuscire a leggere con maggior facilità, liberando la roccia dall’edera che vi si era intrecciata intorno. «Molte scritte sono rovinate, dunque è alquanto difficile capire a cosa si riferissero questi uomini con “spettro”, “diavolo” e “patto di sangue”... ma da ciò che si evince da queste testimonianze, posso affermare di sicuro che andarsene non sarà facile».
    «Che cosa intendi dire?» Per quanto Nami avesse cercato in tutti i modi di non porre quella domanda - aveva difatti imparato a sue spese che, molto spesso e volentieri, era di sicuro meglio restare nell’ignoranza -, non riuscì comunque ad evitarlo, e lo sguardo che le venne rivolto da Robin la raggelò seduta stante.
    «Ci troviamo su una rotta maledetta».  

 

    Tutto avrebbe voluto sentirsi dire tranne quelle parole. Nami ci stava rimuginando su dal momento in cui avevano lasciato la grotta e si erano infiltrati nuovamente fra la boscaglia, più che decisi a ritrovare la strada e a tornare alla nave per abbandonare quell’isola una volta per tutte, rotta maledetta o meno. C’erano due problemi, però: il primo, e sicuramente il più importante, era riuscire a ricongiungersi con i compagni perduti, sperando al contempo che stessero bene; l’altro era capire effettivamente dove fossero e come fare per raggiungere la Sunny, giacché non avevano la benché minima idea di quanto avessero camminato e quanti percorsi avessero imboccato, essendo quella foresta pressoché identica. Erano ad un punto morto, praticamente.
    Con un sospiro afflitto, Nami aumentò il passo e si accostò il più possibile ai suoi compagni, come per timore di perdere di vista anche loro; i rami degli alberi avevano cominciato a divenire più radi e il cielo in lontananza aveva iniziato a schiarirsi, per quanto non fosse ancora del tutto certa che fosse a causa dell’avvicinarsi dell’alba oppure un semplice scherzo della luce. Era stanca, le palpebre minacciavano di abbassarsi ad ogni passo che faceva e ormai i polpacci gridavano pietà, ma era unicamente l’adrenalina e il timore di venire attaccata durante il sonno che riuscivano a tenerla in qualche modo sveglia. E a quanto sembrava era così anche per gli altri. Robin, a pochi passi davanti a lei, si detergeva di tanto in tanto il sudore dalla fronte con un fazzoletto e si passava due dita sugli occhi, osservando i dintorni con minuziosa attenzione come se sperasse di vedere qualcosa che potesse richiamare la sua attenzione e svegliarla; al suo fianco, Franky aveva nascosto le occhiaie con le lenti nere e aveva incurvato le spalle, a dimostrazione della fiacchezza che animava anche lui come tutti gli altri. Probabilmente avrebbe anche dovuto fare rifornimento di cola, ma in quel momento non avevano proprio niente; Usopp e Chopper, a differenza di Rufy - come suo solito in testa al gruppo, per quanto non sapesse minimamente dove andare -, se ne stavano il più possibile vicino agli alberi, come se essi potessero in qualche modo fungere da barriera naturale contro eventuali mostri. Chopper stava persino continuando ad annusare il terreno, per quanto i suoi sforzi stessero dando risultati scarsi e insoddisfacenti.
    «Che cosa ne pensi di tutta questa storia, Robin?» chiese di punto in bianco Franky, rompendo il silenzio che, da un po’ di tempo a quella parte, era calato su di loro come un velo. L’archeologa gli lanciò una rapida occhiata, stringendosi nelle spalle.
    «Metterci in guardia da quegli esseri e poi tenerci all’oscuro di certe informazioni non avrebbe avuto senso». Stava cercando di essere razionale, però, per quanto si sforzasse, non riusciva a capire cosa ci fosse esattamente sotto tutta quella bizzarra situazione. «Sarebbe stato molto più facile non dirci niente e lasciare che andassimo impreparati contro il nostro destino».
    «Forse chi comanda quei mostri contava proprio sull’informazione», ipotizzò Chopper, voltando il muso verso di lei. «Se il vecchio non ci avesse detto niente, noi ce ne saremmo tornati subito alla Sunny, no?»
    «Ottima osservazione, Chopper». Robin incrociò le braccia sotto il seno e si picchiettò il labbro inferiore con due dita di una terza mano, pensosa. «Avremmo ripreso tranquillamente il largo per cercare un’isola su cui fare rifornimento, e avremmo in questo modo ridotto in cenere i loro piano, qualunque esso sia. Sempre se c’è un piano, dietro tutta questa storia... però, visto come si sono svolti i fatti finora, mi sembra più che plausibile».
    Nami, che se n’era rimasta in silenzio ad ascoltarla fino a quel momento, la superò agitando le mani, come se volesse scacciare unicamente in quel modo il discorso che archeologa e dottore stavano intrattenendo. «Piano o meno, io propongo di trovare il più in fretta possibile la Sunny. Forse anche Zoro e Sanji la stanno cercando e si stanno dirigendo lì».
    «Sono più che d’accordo con Nami», asserì Usopp, gettando una rapida occhiata alle sue spalle per osservare i compagni. «Non sono così sicuro di voler incontrare qualche strano mostro a tre teste o degli Uomini Pesce alti come giganti», dovette ammettere, tornando a guardare avanti; imprecò a denti stretti quando per farlo andò a sbattere contro qualcosa di duro che sulle prime non aveva minimamente notato, rendendosi conto troppo tardi che quello era un torace e che il volto che stava adesso osservando aveva una mascella squadrata e squamosa. «Oh, desolato», disse con un certo imbarazzo, sbiancando seduta stante quando si accorse che il tipo che gli aveva regalato un ghigno divertito era proprio uno di quegli strani Uomini Pesce che avrebbe tanto voluto evitare.
    «Andate da qualche parte, ragazzi?» domandò cordialmente, e forse fu proprio questo a spaventare Usopp, che si affrettò ad allontanarsi il più possibile da lui.
    «Merda! Ci hanno trovati!» gridò Franky, puntando uno dei cannoni verso l’Uomo Pesce appena apparso, che non fece una piega; si limitò semplicemente a scrutarli ad uno ad uno con attenzione da capo a piedi, come se stesse scavando nella loro anima. Ad un suo schiocco di dita, alle sue spalle comparvero altri Uomini Pesce dall’aria minacciosa, la maggior parte pronti ad affrontarli a mani nude.
    «Phatt, Fokke. Affido a voi il comando». Sorrise, mettendo bellamente in mostra i denti acuminati prima di fare qualche passo indietro, come se volesse farsi da parte. «E ricordate che li voglio vivi», puntualizzò, sollevando un braccio verso l’alto; a quel suo gesto, gli Uomini Pesce dietro di lui si gettarono all’attacco con un grido disarticolato, costringendo la ciurma ad indietreggiare per contenere almeno in parte quell’assalto improvviso.
    «Phatt! Occupati della donna!» A quel richiamo, fatto da quello che aveva tutta l’aria di essere un enorme crostaceo, un uomo dalle fattezze di squalo si mise sull’attenti e lanciò uno sguardo all’archeologa, scroccando le grosse dita palmate. Gli occhi piccoli e ferini controllavano ogni suo movimento, e prima ancora che Robin potesse anche solo tentare di usare il suo potere, Phatt gli fu addosso, bloccandola sul terreno.
    «Robin!» esclamò Nami, correndo verso di lei; trasse un sospiro di sollievo nel vedere con la coda dell’occhio che l’amica era riuscita a liberarsi e che aveva costretto Phatt a chinarsi a mezzo busto con la sua tecnica di sopraffazione, per quanto fosse ormai sul punto di cedere. E sarebbe anche andata a darle una mano se un Uomo Pesce non le si fosse parato dinanzi e non avesse arrestato la sua corsa, facendola imprecare a denti stretti. Dannazione! «Questo succede ogni volta che senti odore di avventura, Rufy!» Afferrando un’estremità del bastone che portava appeso alla cintola, Nami si affrettò a puntarlo verso l’avversario, investendolo con un getto d’aria pressurizzato; lo vide volare via con un’imprecazione sommessa e si voltò verso il Capitano, che aveva appena centrato un altro Uomo Pesce con un pugno. «La prossima volta si fa come dico io! Si resta sulla nave!»
    «Ma così non è divertente!» obiettò Rufy, scansandosi appena in tempo dalla traiettoria del suo avversario; evitò per un pelo un pugno diretto al suo viso e si appiattì contro il terreno, allungando un braccio in maniera spropositata fino ad avvolgerlo intorno al corpo dell’Uomo Pesce per attirarlo contro di sé, e così facendo si accorse degli uomini che correvano verso Brook, approfittando del fatto che lo scheletro desse loro la schiena. «Brook! Alla tua destra!» esclamò, gettando lontano da sé il proprio avversario.
    Con rapidità disarmante, a quell’avvertimento Brook sfoderò la propria arma e si fece largo fra le file di nemici, muovendo la lama con un movimento rotatorio del polso così rapido che agli occhi degli Uomini Pesce parve non muoversi affatto. «Hanauta Sanchou». Rallentò a poco a poco, uno, due, tre passi, la spada nuovamente infilata nel fodero, «Yahazu Giri!» Se in un primo momento i suoi avversari erano rimasti immobili e perplessi, si accasciarono su se stessi qualche istante dopo, le bocche spalancate in un grido senza voce e il sangue che scorreva copioso dalle ferite a loro inferte, per quanto non si fossero nemmeno resi conto d’essere stati colpiti.
    «Ragazzi!» urlò Phatt, distraendosi; con un’imprecazione, lasciò perdere l’avversario contro cui stava combattendo e sguainò la spada, correndo svelto verso lo scheletro. «Me la pagherai!»
    «Io non credo proprio». Robin gli si parò davanti, arrestando la sua corsa. «Ocho Fleur». Bloccò le gambe di Phatt, leggendo lo sconcerto sul suo viso quando, incredulo, si vide spuntare su spalle e schiena altri due paia di arti che gli fermarono collo e schiena. «Clutch!» esclamò, incrociando le braccia al petto; le mani che fino a quel momento avevano tenuto stretto il collo del suo avversario lo afferrarono saldamente e glielo ruppero con un sonoro scricchiolar di ossa, facendo lo stesso con la spina dorsale prima che  lo lasciassero del tutto andare, sparendo in un turbinio di petali; l’uomo si accasciò inerme sul terreno umido, gli occhi spalancati e ormai privi di vita, ma Robin non lo degnò nemmeno di uno sguardo e tornò all’attacco, così da poter dare manforte ai suoi amici. Se il nemico voleva il gioco duro, il gioco duro avrebbe avuto.
    «Cuerpo Fleur», mormorò, facendo fiorire il proprio busto sulla schiena e sulle cosce dell’Uomo Pesce contro cui stava combattendo Franky; allungando le braccia, gli bloccò gli arti superiori e il collo, aggrottando la fronte per concentrarsi e stringere, con la ferma intenzione di frantumargli le ossa, per quanto robuste potessero essere. Quel tipo aveva cominciato a divincolarsi e rinserrare la presa stava diventando un’impresa ardua, però, prima ancora che quest’ultimo si liberasse, fu Franky stesso ad andare in suo aiuto, colpendolo con i missili che teneva riposti nella spalla sinistra; l’Uomo Pesce andò a schiantarsi con un rantolo doloroso contro il tronco di un albero, che si spezzò fino a cadergli addosso e schiacciarlo.

    «Phatt!» esclamò Fokke nel vedere quella scena, e arricciò le labbra, rabbioso. «Maledetti!» berciò, sguainando le zanne nello gettarsi contro uno di loro. Approfittando della sua distrazione, afferrò il cecchino per le spalle e lo sbatté con forza contro il terreno, facendogli sputare sangue; lo vide spalancare gli occhi e sentì intorno a sé le urla dei suoi amici che lo chiamavano, ma lui lo colpì con un destro allo stomaco, strappandogli via dalle mani quella strana fionda che impugnava per gettarla lontano. Usopp provò a biascicare qualcosa e ad allungarsi verso il suo kabuto, strisciando nella sua direzione; venne però ben presto tirato all’indietro e il viso gli venne spiaccicato nuovamente sulla terra umida, prima che un pugno lo colpisse diretto al viso; sentì lo zigomo spaccarsi e il sangue colare lungo la guancia, e a nulla valse l’aiuto di Robin, che aveva fatto fiorire sul corpo dell’Uomo Pesce una moltitudine di braccia per bloccarlo.
    Con uno scatto secco, Fokke si liberò con facilità e si avventò ancora una volta contro Usopp, afferrandolo per il collo e sollevandolo a mezz’aria, mozzandogli il fiato nei polmoni; tirò il braccio all’indietro e caricò il montante, sorridendo all’idea di fracassare il capo di quel tizio dal naso lungo. L’avrebbe fatto per tutti i compagni che aveva perduto a causa di quella ciurma, ripagandola con la loro stessa moneta. Si fermò a pochi centimetri dal suo viso, però, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata. I denti aguzzi sembravano fremere e il suo intero corpo tremava, come se tutto d’un tratto avesse visto o percepito qualcosa che l’aveva spaventato a morte. «Ritirata!» esclamò in preda al panico, mollando Usopp e dando le spalle al gruppo di pirati per correre via, sparendo fra la vegetazione con quei pochi uomini che riuscivano ancora a reggersi sulle proprie gambe.
    La ciurma rimase senza parole, attonita ad osservare il punto in cui erano letteralmente scomparsi, come se fossero stati inglobati negli alberi stessi. «Ma che... perché sono scappati?» Quella di Rufy suonò come una lamentela, e forse fu proprio per quel motivo che il resto dell’equipaggio si voltò verso di lui solo per fulminarlo con lo sguardo, facendolo sentire minuscolo; persino Usopp, che si era rimesso in piedi a fatica proprio in quel momento, non si risparmiò dal guardarlo male, ma fu reggendosi sulle gambe malferme che alzò teatralmente un braccio, battendosi debolmente una mano sul petto.
    «Avranno avuto paura del temibile potere del sottoscritto!» si vantò tra un colpo di tosse e l’altro, sebbene si vedesse anche a miglia di distanza che stava tremando. Per quanto forte fosse diventato, il suo cranio non era indistruttibile, e se il colpo di quell’Uomo Pesce fosse andato a segno per lui sarebbe stata la fine. O, nel peggiore dei casi, gli avrebbe anche potuto spezzare il collo e lasciarlo morto sul terreno. Qualsiasi cosa fosse successa, doveva ringraziare che se ne fossero andati e che se la fosse cavata semplicemente con qualche contusione e uno zigomo spaccato.
    «Per una volta piantiamola di dire idiozie e vediamo di muoverci», asserì Nami, non prima di aver rifilato un bel pugno sulla testa del cecchino e del Capitano. «Sono scappati, dovremmo approfittare di questa chance e darcela a gambe levate anche noi».
    «Concordo», si intromise Robin, scansandosi qualche ciocca di capelli che le era disordinatamente caduta sugli occhi. «Non possiamo sapere cosa li ha spaventati, e ci converrebbe lasciare questo posto prima di scoprirlo».
    «Prima devo medicare Usopp!» rimbeccò Chopper. Si era già tolto lo zaino dalle spalle e stava frugando al suo interno, alla ricerca di ago, filo, disinfettante e garze.
    «Chopper, troviamo un posto sicuro e poi pensiamo ad Usopp. È ancora vivo, no?»
    «Ohi! Sei senza cuore, Nami!»

    «Whoa! Ragazzi, guardate là!» Il grido euforico di Rufy richiamò l’attenzione di entrambi, e lo videro con gli occhi rivolti verso l’alto. «Una nave volante!»
    «Non dire sciocchezze, Rufy, le navi non...» Nami non riuscì a finire di formulare quella frase, poiché un’ombra scura passò proprio sulle loro teste e la costrinse ad alzare lo sguardo verso il cielo, lasciandola letteralmente a bocca aperta. Lassù, galleggiando come se si trovasse nel bel mezzo dell’oceano e non in un mare di nubi, un imponente veliero cavalcava i venti che sferzavano gli stracci neri che un tempo erano state delle vele, facendo al contempo sventolare la malridotta bandiera pirata; lo scafo distrutto mostrava lo scheletro interno della nave e le botti incrostate di sudiciume accatastate sul fondo, e Nami temette che, a causa della brusca virata che la nave compì proprio in quel momento, i barili rotolassero fuori e cadessero loro addosso; il legno di cui erano composte le travi della chiglia, l’albero maestro e il castello di prua erano così marce da apparire verdognole, dando la sensazione che il veliero brillasse di una luce oltremodo spettrale. A ben guardarla somigliava maledettamente alla nave di Decken, però... accidenti, per quanto Brook avesse affermato che quella che avevano visto nelle profondità dell’oceano fosse vera, non reggeva il paragone con quella che stava osservando lei in quello stesso momento e con la sensazione negativa che essa trasmetteva.
    Quella nave era diretta verso qualcosa, e quel qualcosa si sarebbe sicuramente ritrovato in grossi guai
.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Come detto in precedenza, avevo scritto dei capitoli spin off che avrei postato a parte, e questo che avete appena finito di leggere era uno di quelli.
Ho pensato che sarebbe stato stupido dividerli dalla storia principale, dato che seguono comunque quella trama, quindi eccoli qua nella loro interezza. Spesso e volentieri faccio bene a scrivere le storie con i capitoli spin off che possono essere usati comunque nella storia stessa, anche se al principio non sembra affatto *rotola avendolo già fatto con 
Oceani in Burrasca e Under a bloody sky*
Tornando a noi: tutti i nodi verranno finalmente al pettine? I nostri eroi riusciranno a cavarsela ancora una volta oppure ci rimetteranno le penne? E la Pride la smetterà di complicare la vita a se stessa e ai lettori con storie in cui non si capisce un accidenti di niente e i capitoli anziché cancellare i dubbi ne fanno crescere altri? Lo scopriremo solo continuando ad immergerci nella lettura!
Sclero a parte, a
l prossimo capitolo. ♥




Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** [ Third season › In pieces ] The Flying Dutchman, 03 ***


Like Davy Jones_7
THIRD SEASON › IN PIECES
THE FLYING DUTCHMAN, #03
 
   
Madido di sudore per lo sforzo di mantenersi in piedi e di non caracollare a terra svenuto, Zoro strinse Sanji contro di sé, per quanto il suo corpo stesse facendo una fatica immane nel tentativo di sostenere entrambi.
    Non aveva idea di quanto avesse camminato né tanto meno se fosse vicino alla Sunny, sulla quale avrebbe potuto fare qualcosa anche in mancanza di Chopper, se i suoi amici non avessero ancora trovato il modo di tornare indietro a loro volta. In infermeria avrebbe potuto trovare garze, medicine e antibiotici che avrebbero in qualche modo aiutato, e avrebbe anche potuto sostituire i pezzi di stoffa logori con i quali aveva fasciato alla bell’e meglio le loro ferite. Il rischio di infezione non era da escludere, ma cosa avrebbe dovuto fare? Nemmeno morire dissanguato mentre cercava di salvare la pelle ad entrambi gli era sembrata una buona idea, d’altronde. Quelle bende improvvisate erano dunque state il male minore, e doveva ringraziare la propria forza di volontà e resistenza se riusciva ancora a fare qualche passo nonostante le sue precarie condizioni.
    Il respiro di Sanji era debole, ma Zoro riusciva distintamente a sentire il suo cuore battere ad un ritmo frenetico contro la sua schiena, quasi si fosse trovato con l’orecchio premuto sul petto del cuoco. Non dubitava minimamente della forza fisica che avevano acquisito i suoi compagni durante quei due anni di allenamento, però sapeva che a tutto c’era un limite e che anche quell’idiota, per quanto se la fosse sempre cavata in situazioni ben peggiori, aveva assoluto bisogno di cure mediche. E sperava vivamente che anche gli altri stessero bene. Li avevano ormai persi di vista da tempo, e, per quanto con loro ci fosse anche Rufy, quegli Uomini Pesce non erano certo avversari da prendere sotto gamba. L’aveva scoperto sulla sua stessa pelle, in fin dei conti.
    Scacciando dalla sua mente tutti quei pensieri, Zoro passò entrambe le braccia sotto l’incavo delle ginocchia di Sanji e se lo sollevò meglio sulle spalle, in modo che non potesse scivolare verso il basso, avanzando fra la boscaglia. Ovunque si guardasse vedeva solo alberi che si estendevano verso il cielo e i cui rami si intrecciavano gli uni sugli altri come delle spesse corde, dando allo spadaccino la bizzarra sensazione di essere caduto in una grossa rete; riusciva a sentire vagamente il lontano suono di quella che poteva essere una cascata, però, da quando tutti loro avevano messo piede su quell’isola, non aveva sentito il benché minimo rumore, come se l’intera foresta fosse stata inglobata in una grossa bolla che non permetteva loro di udire alcun suono. Era snervante, non lo negava. E in quel modo era ancor più difficile riuscire a trovare la strada per raggiungere la costa, poiché la nebbiolina che aleggiava nei dintorni non aiutava per niente.
    Continuando la propria traversata, Zoro mise un piede in fallo ed inciampò in una radice nodosa, rischiando quasi di cadere riverso di faccia e allentando la presa sulle cosce del compagno; la rinserrò abbastanza in fretta e riacquistò un certo equilibrio, ma rivolse un ringhio a quella stessa radice, a dir poco nervoso. «Merda», imprecò, strattonando lo stivale per liberarsi, ma fu proprio nel farlo e nel sollevare troppo velocemente lo sguardo che notò qualcosa oltre la cappa di fogliame sopra di lui, rimanendo oltremodo stranito nello scrutare l’orizzonte; il suo occhio si illuminò non appena si rese conto che quella che stava osservando era una bandiera pirata, avanzando il passo nel tentativo di raggiungerla il più in fretta possibile. In un altro momento e in una situazione più propizia si sarebbe sicuramente accorto che qualcosa non andava, e cominciò a rendersene conto mano a mano che gli alberi divenivano meno fitti e la nebbia si diradava, dandogli la visione di una nave dallo scafo ormai ridotto a pezzi e dal legno incrostato di sudiciume. Riversa sulla fanghiglia come una balena morente, pareva sul punto di spezzarsi in due a causa del peso provocato dall’albero maestro, a sua volta ridotto in pessime condizioni e tenuto su alla bell’e meglio da una riparazione di ferro e corde. Ma che diavolo...?
    «Questa... non è la Sunny». Esterrefatto, lo spadaccino sollevò lo sguardo su quel galeone maestoso per osservarlo meglio, rimanendo senza parole. Che cosa ci faceva un’imbarcazione del genere nel bel mezzo della boscaglia? Forse era un’altra nave che era stata attirata su quell’isola e il suo equipaggio aveva trovato la morte per mano di quegli Uomini Pesce? Zoro non perse tempo a rifletterci su oltre, scuotendo il capo per cancellare dalla sua mente quei pensieri. In fin dei conti domandarsi il perché della presenza di quel galeone non gli sarebbe servito per aiutare il compagno, ma avrebbe potuto trovare qualcosa proprio per fasciare le ferite del cuoco o almeno ricucirle, dannazione. Si rifiutava di credere che fosse tutto ridotto in malora e che quella nave fosse arenata lì da così tanto tempo da rendere inutilizzabili eventuali bende o affini.
    Con quel pensiero per la testa, lo spadaccino cercò di far scivolare con attenzione il cuoco dalle sue spalle e, ignorando il dolore che corse come una scarica elettrica lungo un braccio, depose il più delicatamente possibile il compagno su una trave marcia poggiata contro una roccia, accorto che non rischiasse di riversarsi di fianco; trasse poi un lungo sospiro e si asciugò il sudore dalla fronte con la manica logora della casacca, lanciando un’occhiata a Sanji. Non era il momento di riposarsi, lo sapeva, ma se non si fosse fermato almeno per un attimo e non avesse ripreso fiato, non sarebbe riuscito a fare un passo in più e avrebbe rischiato di far cadere anche il cuoco.

    «Torno subito, cuoco», lo rassicurò, pur non essendo sicuro che lui potesse sentirlo. «Ci penso io».
    «So cosa stai pensando, Roronoa, e là dentro non troverai niente. Soltanto cadaveri».
    Zoro si voltò immediatamente nella direzione da cui sentì provenire quella voce, portandosi svelto una mano alla cintola per afferrare saldamente l’elsa della Shuusui, pronto ad estrarla se fosse stato richiesto; spalancò la bocca e rimase interdetto, però, nel vedere una figura a lui familiare accucciata comodamente sul parapetto distrutto della nave, un gomito poggiato su un ginocchio e il viso abbandonato sul palmo della mano, come se si trovasse da quelle parti assolutamente per caso. Però... dannazione, quell’uomo non avrebbe dovuto nemmeno essere in vita. Quello era l’uomo che aveva incontrato ore addietro e che aveva ucciso lui stesso, dunque che cosa diavolo ci faceva lì, proprio davanti ai suoi occhi? «Tu... tu eri morto».
    Il vecchio sorrise, agitando distrattamente una mano prima di abbandonare la sua postazione e abbassare lo sguardo verso il Vice Capitano, la cui espressione parve divertirlo più di quanto non sembrasse già. «Frutto Mabo-Mabo, spadaccino. Rammenti?» ridacchiò, e Zoro deglutì a vuoto, estraendo la katana di qualche centimetro. Era forse una presa per il culo, quella? Quel tipo voleva forse fargli davvero credere che quello scontro era stato tutta un’illusione?
Lo spadaccino mise da parte quei pensieri non appena vide l’uomo fare qualche passo verso di loro, impugnando svelto la propria arma per puntarla nella sua direzione.
    «Non muovere un altro muscolo, vecchio. Questa volta potrei decidere di non essere clemente», lo mise in guardia, ma il suo avversario si lasciò sfuggire una grossa risata.
    «Si vede lontano un miglio che ti reggi in piedi a fatica, Roronoa. Fossi in te farei meno lo spavaldo».
    «Comandante!» Il grido concitato si levò dal bel mezzo della boscaglia e richiamò l’attenzione di entrambi, che si voltarono in simultanea verso la poppa distrutta della nave, dietro la quale comparve, seppur malconcio, quello che aveva tutta l’aria di essere un grosso crostaceo; la sua pelle rossastra era disseminata di protuberanze che sembravano pulsare come se avessero vita propria, e le branchie sul collo fremevano ad ogni boccata, quasi stessero facendo una fatica immane a racimolare quanta più aria possibile e a spedirla nei polmoni. Quello stesso Uomo Pesce aveva gettato un’occhiata alla nave come se ne fosse intimorito, allontanandosi il più velocemente possibile da essa e deglutendo sonoramente, atteggiamento che Zoro, nel tener d’occhio entrambi, pronto a dar battaglia all’occorrenza, reputò come bizzarro. Perché mai un Uomo Pesce avrebbe dovuto aver paura di una nave malridotta?
    «Fokke». Il tono con cui il vecchio pronunciò il suo nome suonò vagamente accusatorio, e anche il suo viso esprimeva una certa indignazione. «Cosa ci fai tu qui? Mi sembrava di averti dato un compito».
    L’Uomo Pesce si avvicinò con passi malfermi e doloranti, tenendosi una mano premuta contro un fianco. «Abbiamo fallito... Comandante Chair», ansimò, e il vecchio si accigliò, quasi non credesse a quelle parole.
    «Cosa?» domandò difatti, traendo poi un lungo sospiro come se si fosse immediatamente rassegnato a quell’idea. «Pazienza... ci accontenteremo di loro due, per il momento». Accennò con il capo a Sanji e Zoro, il quale aveva prontamente fatto da scudo con tutto se stesso al corpo del cuoco, osservando attentamente ogni minimo movimento degli altri due. Proprio nel notarlo, Chair si voltò verso di loro e sorrise amabilmente, incatenando il proprio sguardo a quello del Vice Capitano. Agire di istinto non gli sarebbe servito a nulla, e forse era proprio per quel motivo che non era ancora partito all’attacco. Decisione saggia. Quel ragazzino era meno sprovveduto di quanto aveva creduto al principio. «Il Capitano ne sarà comunque soddisfatto», soggiunse, e gli occhi di Fokke si illuminarono di felicità.
    «Grazie, Comandante, graz-» Non fece in tempo a finire la frase che spalancò la bocca e vomitò sangue nero, abbassando lo sguardo solo per vedere la mano del vecchio trapassargli lo stomaco da parte a parte; le squame del braccio gli avevano penetrato la pelle e luccicavano sinistramente ai bagliori di quel poco sole che filtrava dalle fronde degli alberi, sfumate di rosso acceso e cobalto chiaro. «Coman...dante... per...ché?»
    «Non ho mai detto che ti avrei perdonato il fallimento. Il tuo posto è sulla nave, adesso», asserì quest’ultimo in tono glaciale, estraendo con un sol colpo il braccio; Fokke cadde a terra riverso di fianco, tossendo e sputando altro sangue, tenendosi una mano premuta sullo stomaco e l’altra ad artigliare furiosamente il terreno con le unghie, come se farlo potesse in qualche modo salvarlo. E il tutto accadde proprio sotto lo sguardo incredulo dello spadaccino, che estrasse immediatamente anche la Shuusui senza perderlo d’occhio.
    «Perché l’hai fatto?» domandò, tenendolo sotto tiro. «Era un tuo compagno, o sbaglio?»
    Chair si voltò verso di lui e lo fissò con diffidenza, come se per lui non rappresentasse una vera e propria minaccia. «Giù le spade, Roronoa», lo ammonì pacatamente. «L’unico che potrebbe farsi male sei tu».
    «Staremo a vedere, vecchio». Zoro gettò appena una rapida occhiata a Sanji, che sembrava aver cominciato a respirare a fatica, stringendo le labbra in una linea sottile. Doveva darsi una mossa, maledizione. «Non ho tempo da perdere con te», replicò, e nel dirlo si portò l’Ichimonji alla bocca, afferrando saldamente la terza katana prima di gettarsi all’attacco, più che intenzionato a porre fine a quella battaglia il più velocemente possibile; preso alla sprovvista, Chair si gettò a terra per evitare il colpo e rotolò su se stesso, imprecando a denti stretti nel sentire la lama di una delle tre spade sfiorargli un fianco. Non aveva idea se a muovere quel ragazzo fosse la disperazione o semplicemente la sua forza d’animo, ma se era riuscito a colpirlo prima ancora che lui potesse creare una delle sue illusioni, era più pericoloso di quanto volesse apparire in realtà.

    «Non voglio battermi con te, Roronoa!» gli gridò contro, inclinando il capo di lato nell’avvertire il filo della katana affondare nella sua spalla; urlò di dolore, afferrando con la propria mano la lama per tirarla fuori dalla carne gemito dopo gemito, incontrando lo sguardo omicida dello spadaccino a pochi centimetri dal suo viso.
    «Se non vuoi batterti, vedi di non intralciarmi», sibilò Zoro nel mordere furiosamente l’elsa dell’Ichimonji, facendo sempre più pressione con la spada, senza dare ascolto al lamento che strappò al vecchio. Lo spadaccino non sembrava intenzionato a far sì che estraesse l’arma, mosso da una rabbia incontrollata che Chair non riusciva a comprendere. Che cosa spingeva un essere umano come lui ad accanirsi in un modo simile?
    «Questo... non posso farlo».

    «Allora dovrò toglierti di mezzo e proseguire». Zoro sollevò il braccio con cui sorreggeva l’altra katana, e Chair approfittò di quel breve attimo per colpirlo allo stomaco con un calcio e allontanarlo da sé, vedendolo caracollare all’indietro; appariva ancora provato per lo scontro che aveva avuto con l’illusione che gli aveva mandato contro - non sarebbe riuscito a scostarlo con una tale facilità, altrimenti, lo sapeva -, ma aveva abbastanza forza per battersi con le unghie e con i denti, più che desideroso di farla finita per il bene del suo compagno, bisognoso di cure mediche. Era forse quello ciò che veniva chiamato cameratismo?
    Chair non perse tempo a rifletterci oltre, poggiando entrambe le mani a terra per sollevare il peso dell’intero corpo e colpire il collo dello spadaccino con un altro calcio, giacché il ragazzo si era nuovamente gettato verso di lui a spada tratta con il chiaro intento di colpirlo al cuore; con una sonora imprecazione, scartò di lato ed utilizzò i poteri del proprio frutto per creare una cortina fumogena, in modo da nascondere se stesso e Zoro. Immobile, con la schiena premuta contro lo scafo distrutto della nave e le palpebre abbassate, Chair ascoltò il battito furioso del cuore del suo avversario, che sembrava trovarsi proprio a pochi passi da lui; non si muoveva, quasi stesse a sua volta controllando i suoi movimenti pur non vedendolo, ma ciò bastò per comparirgli alle spalle e assestargli una ginocchiata fra le scapole, cogliendolo alla sprovvista.
    Zoro spalancò la bocca e si lasciò sfuggire le spade nel crollare in ginocchio sul terreno umido, sputando saliva e portandosi immediatamente una mano al petto; le bende con cui aveva fasciato alla bell’e meglio le sue ferite erano intrise di sangue, e non si sarebbe meravigliato nello scoprire che, probabilmente, si erano pure riaperte. Non riusciva nemmeno a capire se la foschia che vedeva dinanzi a sé fosse ancora causa di quel vecchio o se il suo occhio stesse ormai faticando più di prima a riconoscere le forme, però imprecò a denti stretti nel sentire delle forti dita palmate intrecciarsi nei suoi capelli fino a strattonarlo all’indietro, avvertendo un caldo respiro solleticargli un orecchio.
    «Ti avevo detto che non volevo combattere. Mi ci hai costretto tu».

    «Che cosa sta succedendo qui?»
   
Chair sbiancò, lasciando andare a poco a poco Zoro, il quale ricadde riverso in avanti tra un colpo di tosse e l’altro. A frenare la sua caduta furono solo i suoi gomiti, e, per quanto nelle orecchie avesse cominciato a sentire uno strano brusio lontano, quasi si trovasse in fondo all’oceano, gli pare di udire le parole «Capitano Jones» uscire dalle labbra del vecchio. Alzò dunque lo sguardo, non credendo ai propri occhi. Per quanto avesse l’aria di essere a sua volta un Uomo Pesce, intorno a lui aleggiava un velo di mistero difficilmente dissipabile, forse anche a causa delle sue fattezze più animalesche che umane. E adesso chi diavolo era quel tipo? Un momento... il vecchio l'aveva chiamato Jones. Capitano Jones. In un lampo gli tornarono in mente le parole del cuoco, la leggenda che gli aveva raccontato, e qualcosa, nella sua mente, gli diede l'agio di credere che quello fosse proprio lo stesso Jones di cui aveva sentito parlare. Che cazzo era, un fottuto scherzo?
    «Roronoa Zoro... temi tu la morte?» gli domandò quest'ultimo in tono pacato, quasi fosse ormai un quesito ordinario, e, tossendo e rimettendosi in piedi con una certa fatica, il Vice Capitano sollevò le labbra in un ghigno, sputando sangue.
    «Non posso avere paura di qualcosa che non conosco».
    Jones dapprima sembrò osservarlo come se fosse irritato da quelle parole, arricciando le labbra e serrando una mano lungo un fianco; contro ogni aspettativa, però, scoppiò a ridere. «Non potevo aspettarmi una risposta diversa, da un uomo come te». Gli si avvicinò con passi sicuri, senza temere l’aria ostile che pareva sprigionare il Vice Capitano. «Ti propongo un accordo, Roronoa», cominciò, infilando una mano in tasca per tirare fuori quella che aveva tutto l’aspetto di essere una patacca nera; la mostrò poi allo spadaccino, che, diffidente, strinse una mano intorno all’elsa della propria katana pur continuando ad osservare ciò che Jones gli stava porgendo. «La morte per te e i tuoi compagni o cent’anni ancora sovraccoperta per tutti voi, sulla mia nave. Che cosa scegli?»
    «Che razza di domanda è?» Zoro puntò la lama contro di lui, assottigliando lo sguardo. «Non so chi tu sia, ma questo non è un accordo. Mi stai proponendo praticamente la stessa cosa, e io non ho intenzione di scegliere né l’una né l’altra. È Rufy il mio Capitano».
    Jones sollevò un sopracciglio, riponendo accuratamente la patacca in tasca. «Come desideri, allora», affermò cordialmente, volgendo il capo verso il suo Vice. «Chair», lo chiamò, e il vecchio annuì, congiungendo i polpastrelli di indice e medio prima di puntare entrambe le mani nella direzione dello spadaccino, sussurrando qualcosa a denti stretti; Zoro sentì la terra tremare sotto i propri piedi, ed ebbe appena il tempo di abbassare lo sguardo prima che dei tentacoli sbucati dal nulla gli afferrassero le caviglie, avvinghiandosi intorno al suo corpo per atterrarlo una volta per tutte.
    «Che diavoleria è questa?!» sbraitò, allargando le braccia per cercare di dissipare quel groviglio che si era impossessato di lui; riuscì solo a far attorcigliare i tentacoli intorno ai suoi polsi e sulla propria bocca, e dovette mordere uno di quelli e sputarne ciò che restava a terra per riprendere a respirare, giacché sembravano avere tutta l’intenzione di soffocarlo.
    «Più ti muovi, più si stringono», gli spiegò il vecchio senza giri di parole, avendo persino la sfacciataggine di scrollare le spalle come se nulla fosse. «Queste piante sono piuttosto irritabili... ti consiglierei di stare fermo». E avrebbe anche aggiunto altro se solo non avesse colto con la coda dell’occhio il cenno della mano del suo Capitano, il quale parve imporgli silenzio con un solo sguardo.
    «Qui me ne occuperò io, Chair. Vai dai suoi compagni, e stavolta vedi di non deludermi», affermò quest’ultimo, ma la cosa parve non essere gradita al vecchio, che si ritrovò comunque a chinare il capo e a fare un passo indietro, scoccando un’occhiata allo spadaccino. Dalla sua espressione sembrava fosse stato costretto ad ingoiare letteralmente un rospo, come se quel nuovo ordine non gli piacesse per niente, però, senza sciogliere i vincoli che incatenavano Zoro, sparì dalla sua vista in silenzio, quasi fosse stato fatto di pura nebbia. Un altro effetto del frutto che aveva mangiato? Lo spadaccino non lo sapeva né tanto meno avrebbe voluto scoprirlo, troppo impegnato a lottare contro le piante che lo tenevano legato e ad imprecare inutilmente all’indirizzo di quel Jones, che pareva ignorarlo palesemente. Sotto il suo sguardo incredulo, si diresse difatti a passi rapidi e sicuri in direzione di Sanji, lasciando dentro Zoro una sgradevole sensazione di debolezza. Era lì, a neanche pochi metri da entrambi, e a causa di quegli impedimenti non poteva muovere un muscolo per aiutare un proprio compagno. Che razza di Vice Capitano era, se non riusciva nemmeno a fare una cosa simile?

    «Non osare toccarlo!» gli ringhiò contro, strattonando le braccia nel tentativo di liberarsi dai tentacoli che lo costringevano a stare in ginocchio sul terreno; la vista era offuscata e gli mancavano le forze, ma non avrebbe mai permesso al rimasuglio di una leggenda a cui lui non credeva di fare ciò che più desiderava. Quel Jones, però, si limitò semplicemente a regalargli un sorriso, chinandosi a mezzo busto per afferrare il cuoco per il collo e sollevarlo ad un metro da terra; Sanji tossì, forse persino inconsciamente, esalando un lungo sospiro doloroso nel reclinare il capo contro quella mano.
    «Non disperare, spadaccino. Arriverà anche il tuo turno», lo informò il Capitano in tono di scherno, serrando così forte le dita palmate che Zoro ebbe la sgradevole sensazione di sentir scricchiolare le ossa di Sanji. «Se non cominciassi da lui, marinaio fermamente devoto e timoroso dell’oceano, gli farei un torto».
    «Lascialo andare, altrimenti io...!»
    «Altrimenti tu cosa?» sibilò Jones, sferzando furentemente l’aria con la lunga coda biforcuta che possedeva. «Ti è stata data una scelta... adesso accetta la tua stessa decisione. Il tuo destino è stato scritto».
    «Il destino può anche baciarmi il culo», sbottò di rimando Zoro, imprecando a denti stretti nel sentire i tentacoli avvolgersi intorno al busto come le spire di un grosso serpente, strappandogli un gemito e mozzandogli il respiro; se fosse stato in forze non ci avrebbe messo nemmeno due secondi a liberarsi di quelle dannate piante, le avrebbe semplicemente sradicate senza avere neanche il bisogno di utilizzare l’haki. Però... dannazione, faceva già fatica a stare in piedi senza che ci si mettessero anche loro. Con la coda dell’occhio, vide Jones allontanarsi in direzione della nave e portare con sé il cuoco, impossibilitato a reagire come invece avrebbe fatto se fosse stato cosciente, prendendolo di sicuro a calci nonostante la caviglia slogata. Merda! Non aveva tempo da perdere dietro ai giochetti di quel tipo, aveva urgente bisogno di portare Sanji da Chopper, se voleva sperare che quell’idiota non ci lasciasse la pelle a causa sua.
    Divincolandosi, lo spadaccino provò ad allungare un braccio per recuperare almeno una delle sue katane, sfiorando a malapena l’elsa con le dita. Ci riprovò ancora una volta, sebbene ormai non riuscisse quasi più a respirare, ed esultò interiormente quando la mano si strinse intorno alla Kitetsu, per quanto l’avesse impugnata poco saldamente; con tutta la forza di cui disponeva, tese il braccio all’indietro e la lanciò contro Jones, pregando di centrare il bersaglio nel tentativo di arrestare la sua traversata.
    Dritta e rapida come una freccia scoccata da un arco, la katana si piantò esattamente al centro della viscida testa di Davy Jones, la cui presa intorno al collo del cuoco si fece meno stabile, lasciando infine che cadesse riverso di fianco sul terreno paludoso. Già sul punto di cantar vittoria, Zoro raggelò nel momento stesso in cui quel tipo, voltandosi verso di lui come se non avesse una lama conficcata nel bel mezzo della fronte, abbozzò una smorfia che parve ricordare vagamente un sorriso, carezzandosi i tentacoli che terminavano in una lunga barba scura mentre si leccava al contempo il sangue nero che gli colava sino alla bocca.
    «Complimenti, Roronoa. Mi hai appena ucciso».

 
 
   
«Rufy! Piantala di fare l’idiota e diamoci una mossa!» sbraitò per la milionesima volta Nami, tirando inutilmente il braccio di gomma del suo Capitano.
    Dal momento in cui aveva visto quella nave librarsi nel cielo, leggera come una piuma nonostante il legno di cui era composta, Rufy aveva assunto un’espressione così eccitata da ricordare un bambino dinanzi ad un negozio di giocattoli. Aveva cominciato a blaterare di volerla inseguire per vedere dove fosse diretta e chi fosse al timone, certo che quella si sarebbe rivelata un’avventura ancor più grandiosa di quella che stavano già vivendo in quell’esatto momento; Nami gli aveva giustamente fatto notare tra un cazzotto e l’altro che non avevano tempo da perdere dietro simili sciocchezze e che avrebbero dovuto trovare gli altri, ma il Capitano era stato irremovibile. Quando si metteva in testa una cosa era difficile convincerlo e provare a fargli fare il contrario di quanto appena affermato, e Nami ormai l’aveva imparato bene. Però... accidenti, non era proprio il momento di accontentare i suoi capricci, ora come ora.
    «Chissà dove sarà diretta quella nave», sussurrò Chopper, che se n’era rimasto in silenzio e in disparte a curare le ferite di Usopp, seduto a gambe conserte sul terreno. Lui e il cecchino avevano ascoltato la conversazione avvenuta fra navigatrice e Capitano e avevano tratto le loro conclusioni, e, per quanto un po’ di curiosità riguardo quella strana nave fosse venuta anche a loro, non potevano permettersi distrazioni simili. E poi c’era sempre l’incognita che quella stessa nave potesse rivelarsi un pericolo ancor più grande di quelli affrontati finora, cosa che non era per niente da escludere.
    «Non deve interessarci», lo freddò immediatamente Nami, strattonando ancora una volta a sé Rufy. Quello scemo stava avanzando senza far caso al fatto che lei avesse praticamente conficcato le unghie nel suo polso per non farlo allontanare più del dovuto, allungandosi imperterrito. «Quel che dobbiamo fare adesso è tornare alla Sunny, se questo idiota la pianta di fare il moccioso», rimbeccò, accennando al Capitano con il capo.
    «Anche se ci riuscissimo, però, resta l’interrogativo di come lasciare l’isola», le fece notare Robin, accomodatasi su una roccia con aria pensosa. «Se questa in cui ci troviamo è davvero una rotta maledetta come affermano quelle antiche scritture, salpare non sarà per niente facile».
    «Tu cosa proponi di fare?»
    Robin scrollò le spalle. «Di certo non possiamo stare qui senza far niente, ma anche tentare la fuga non ci porterà da nessuna parte». Incrociò le braccia sotto al seno, sollevando lo sguardo verso il cielo opaco come se esso potesse darle tutte le risposte di cui necessitava. «Quelle testimonianze parlavano di un patto di sangue e di uno spettro... potrebbe essere in qualche modo collegato con quanto sta accadendo sull’isola».
    Nami mollò così in fretta Rufy che quest’ultimo, per l’essersi allungato troppo, andò a schiantarsi direttamente contro il tronco di un albero, ma lei non gli diede peso, avvicinandosi speranzosa alla compagna. «Quindi se trovassimo la fonte... riusciremmo ad andarcene?» le domandò, però Robin si limitò semplicemente a scuotere il capo, incerta.
    «Non ne sono sicura, però potremmo provarci».
    «Allora cerchiamo di darci una mossa», affermò Nami, acquisendo un’aria agguerrita. Voleva andarsene da quella stupida isola e l’avrebbe fatto, anche se ci fossero voluti dei mesi per riuscirci. Senza alcun indugio, raccattò quello scemo di Rufy - che se n’era rimasto a borbottare riguardo chissà quale avventura che non avrebbe potuto vivere, la schiena poggiata vicino all’albero contro cui era stato precedentemente lanciato - e cominciò ad incamminarsi per prima, facendo sorridere Robin e scuotere il capo a Franky.
    «Nervosa la sorellina, eh?» commento, e l’archeologa si lasciò sfuggire una mezza risata.
    «In fin dei conti posso capirla, anche se mi piacerebbe reperire qualche altro monumento storico».
    Franky la osservò con un sopracciglio inarcato, sollevando poi un angolo della bocca nella parvenza di un sorriso prima di calarsi gli occhiali da sole. «Donne».
    «Hai detto qualcosa, Franky?»
    «Nah, niente», tagliò corto, agitando una mano in risposta per incamminarsi poi per primo, giacché aveva sentito una mano di Robin fiorire pericolosamente sulla sua gamba destra. Non se l’era scordata quella prima volta a Water Seven, lui. Era meglio non farla irritare e lo sapeva. «Vediamo di muoverci, piuttosto. Bisogna trovare anche Uomo Katana e Mr. Sopracciglio».
    «Sono d’accordo con te», asserì lei, superandolo come se nulla fosse e ricambiando il suo sorriso dopo aver fatto scomparire il braccio agitando semplicemente due dita. Donne. Non le avrebbe mai capite.

    Avanzarono nella boscaglia passo dopo passo, stando attenti a dove mettevano i piedi per evitare sorprese e guardandosi le spalle, in modo da evitare altri attacchi a sorpresa da parte di quegli Uomini Pesce; ad ogni metro che percorrevano, però, sembravano non essersi mossi nemmeno di qualche centimetro, poiché la foresta intorno a loro appariva simile a quella che avevano appena lasciato dietro di sé, con gli stessi rampicanti e le stesse cortecce annerite.
    La nebbia divenne soffocante, quasi fosse stato possibile toccarla con mano e intrappolarla in un barattolo, e più avanzavano in mezzo a quella foschia, tossendo nel vano tentativo di scacciare dalle proprie gole il sapore muschioso che penetrava nei loro polmoni ad ogni boccata, più sentivano i corpi pesanti e difficilmente manovrabili, come se non appartenessero a nessuno di loro. Era una sensazione bizzarra e spiacevole, ma non ebbero tempo di farsi domande, poiché un fruscio fra le fronde richiamò l’attenzione di tutti e li mise sull’attenti, ancor più quando dal folto della foresta emerse una figura gracile e tarchiata, avvolta in un pastrano logoro e stracciato.
    «A quanto pare chi non muore si rivede sul serio, ragazzi».
    «Vecchio!» esclamò Usopp, sorpreso. Nessuno di loro sapeva se ci fosse anche lui dietro a tutta quella storia né se ne fosse completamente all’oscuro, però era stato proprio quell’anziano signore a metterli in guardia sui pericoli che avrebbero potuto correre su quell’isola. Ma come avrebbe potuto sopravvivere per tutti quegli anni, completamente circondato da Uomini Pesce pronti a colpire, se così non fosse stato? C’era di sicuro sotto qualcosa, e il modo in cui quel vecchio sorrideva non faceva altro che inculcare nel cecchino l’assoluta certezza che non fosse chi voleva far loro credere di essere. Il suo istinto non sbagliava mai, e in quel momento era in completo allarme. Che diavolo c’era dietro tutta quella storia?
    Con un sospiro tra il rassegnato e il divertito, il vecchio fece qualche passo nella loro direzione, abbassando un braccio lungo un fianco. Mano a mano che si avvicinava, esso cominciava ad acquisire sfumature azzurrine e a ricoprirsi di squame, all’apparenza dure come l’acciaio; il sorriso sdentato appassì, lasciando posto ad un’arcata dentale massiccia e acuminata che sembrava appartenere ad un mostro marino; il viso scarno e pallido assunse un aspetto forte e spavaldo, la mascella si squadrò e il mento appuntito venne smussato come se fosse appartenuto ad una statua appena levigata, mostrando pian piano alla ciurma il vero volto dell’uomo che avevano dinanzi.
    «Tu sei l’Uomo Pesce contro cui sono andato a sbattere!» esalò il cecchino tutto d’un fiato, incredulo quanto gli altri. Che cazzo stava succedendo?

    Il vecchio sorrise, liberandosi del pastrano con un gesto secco prima di lanciarlo lontano da sé, nel bel mezzo della boscaglia. «Quanto acume, signor cecchino», lo prese in giro, adocchiando Rufy e facendo lui un distratto inchino, muovendo la mano sinistra con fare altezzoso. «Comandante Chair al vostro servizio. Non vogliatemene, ragazzi. Eseguo solo gli ordini del mio Capitano». E quasi parve sputare quella parola, per quanto forse fosse stata semplicemente una vaga impressione del gruppo. «Esattamente come fareste voi, suppongo».
    Robin e tutti gli altri si misero in posizione d’attacco per prevenire in anticipo qualunque mossa sarebbe potuta passare nella mente di quel vecchio, ma Rufy si parò dinanzi a loro e li bloccò con un braccio, lo sguardo fisso su quello che nella sua mente era ormai divenuto il suo avversario. E non avrebbe permesso a nessuno dei suoi compagni di intromettersi in qualche modo. «A lui ci penso io», affermò, scroccando le dita di entrambe le mani. Il sorriso che si era disegnato sulle sue labbra sembrava non promettere nulla di buono, però Chair non parve minimamente impressionato. O era sicuro delle proprie capacità, oppure era un così bravo attore da non mostrar loro quanto in realtà temesse tutti loro.
    «Monkey D. Rufy». L
’Uomo Pesce pronunciò quel nome con voce gracchiante, osservando da capo a piedi il ragazzo che gli si era parato di fronte, abbozzando poi un sorriso. «La tua immagine mi è stata davvero molto utile».
    «Di che cosa stai parlando?» domandò il ragazzo con fare guardingo, ma il vecchio scrollò semplicemente le spalle, come se la questione non lo toccasse minimamente.
    «Credo che i tuoi amici sappiano bene di cosa sto parlando... com’è che si chiamavano? Sanji e Zoro?»
    Nell’udire quei nomi, l’espressione sul volto di Rufy divenne seria. «Dove sono il mio cuoco e il mio Vice Capitano?» sibilò, togliendosi il cappello di paglia per affidarlo a Nami, la quale si ritrovò costretta ad fare qualche passo indietro per la foga con cui il giovane gli aveva consegnato quel suo tesoro. Sembrava furioso, e non distoglieva lo sguardo dall’uomo che aveva dinanzi. «Ti conviene parlare, se non vuoi che ti prenda a calci in culo».
    Vedendolo ostentare silenzio, Rufy assottigliò le palpebre e si gettò verso di lui con un grido rabbioso, colpendolo furiosamente con una raffica di pugni; ad ogni colpo, però, gli sembrava di toccare con le mani soltanto aria, quasi la persona che aveva davanti a sé non avesse la benché minima consistenza, e tale impressione fu accentuata quando, dalla sua sinistra, sopraggiunse una gomitata che lo centrò in pieno costato, facendolo barcollare di lato per la confusione. Ma che diavolo...?
    Rufy stornò bruscamente lo sguardo in quella direzione solo per vedere il volto squamoso del vecchio scomparire dinanzi ai suoi occhi, venendo colpito pesantemente alla nuca da un calcio che lo fece schiantare con il viso sul terreno. «Rufy!» esclamò Nami, e si sarebbe gettata in suo aiuto se una grossa mano di Franky non l’avesse fermata e costretta a rimanere al proprio posto, per quanto lui stesse continuando ad osservare quella bizzarra lotta.
    «È la sua battaglia», le ricordò, deglutendo a vuoto prima di sussurrare, «Andiamo, fratello», forse perché nemmeno lui riusciva a credere che il Capitano potesse davvero perdere contro quel tipo. In passato, e persino dal primo momento in cui avevano messo piede nel Nuovo Mondo, avevano tutti affrontato avversari temibili e sempre più forti, e il pensiero che adesso il ragazzo non riuscisse a cavarsela lo faceva fremere da capo a piedi, come se fosse pronto ad intervenire se si fosse ritenuto necessario. Ed esultò quando vide Rufy riuscire a mettere a segno un colpo, facendo barcollare il proprio avversario.
    Annaspando, Chair si portò una mano al viso per cancellare le tracce di sangue che gli macchiavano la bocca, schioccando poi le dita; le radici di una quercia si mossero come se avessero vita propria e strisciarono simili a serpenti in direzione di Rufy, che dovette saltare sul ramo di un altro albero nel tentativo di evitarle. Contro ogni sua aspettativa, però, quelle radici viventi si arrampicarono lungo la corteccia e gli ghermirono le caviglie, strattonandolo verso il basso fino a fargli sbattere ancora una volta il viso contro il terreno; muovendo le gambe per scivolare al di fuori di quella presa, Rufy sollevò lo sguardo verso il Comandante e allungò un braccio verso di lui, avvolgendolo intorno alla sua vita per impedirgli di allontanarsi, per quanto quest’ultimo avesse cominciato ad agitarsi freneticamente nel tentativo di liberarsi.
    «Gomu gomu no», Rufy allungò il collo all’indietro il più possibile, cominciando pian piano ad allentare la presa intorno al corpo del vecchio prima di esclamare «kane!» e scagliarsi contro di lui, colpendolo con una craniata al centro della fronte; barcollando, il vecchio sembrò faticare a reggersi in piedi, ma sarebbe sicuramente partito all’attacco ancora una volta se solo Rufy, ormai libero dalle radici che l’avevano imprigionato, non si fosse gettato contro di lui e non avesse cominciato ancora una volta a tempestarlo di pugni, lanciandolo lontano e facendogli sbattere la schiena contro il tronco di un albero.
Imprecando e tossendo, Chair si sorresse contro quello stesso albero, portandosi una mano alla spalla, dalla quale usciva copiosamente sangue. Dannazione a quello stupido spadaccino. Il colpo che gli aveva inferto la seconda volta era andato a segno e aveva quasi rischiato di tranciargli di netto un braccio, ed era specialmente a causa sua se adesso non riusciva a combattere al meglio come aveva fatto quando gli aveva mandato contro la sua illusione. Merda. Non aveva la benché minima intenzione di morire per mano di quei mocciosi e venir recluso per l’eternità su quella maledetta nave. Preferiva l’esilio a quella non-esistenza, se proprio doveva scegliere.

    Sollevando un braccio verso l’alto, gesto che subito mise in guardia il gruppo di pirati che aveva dinanzi, Chair abbozzò una sorta di sorriso sarcastico, chiudendo le dita contro il palmo e premendo talmente forte le unghie contro di esso da lasciare i segni delle mezze lune; strinse con maggior violenza, socchiudendo una palpebra quando il sangue cominciò a colare lungo il polso. «È tutto nelle tue mani, Roronoa», sussurrò poi a se stesso, alzando anche l’altro braccio fino a far coincidere le dita palmate; un violento lampo di luce rese momentaneamente ciechi i Mugiwara, i quali dovettero assottigliare le palpebre per riuscire a vedere qualcosa o almeno provarci.
    «Che diavolo...?!» esclamò Franky, schermandosi gli occhi con le lenti nel vano tentativo di capire che cosa stesse succedendo, e, per quanto la nebbia avesse cominciato a dissolversi sotto ai loro occhi, uno strano senso di abbandono si affacciò nei loro cuori, lasciando solo martellanti domande e dubbi.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Sono imperdonabile. Ci ho messo una vita pur avendo i capitoli già pronti, però una cosa tira l'altra e... va beh, adesso fortunatamente il capitolo c'è, e la storia è quasi giunta alla sua conclusione.
Comunque sia, capitolo che racchiude in sé un misto di leggende marinare, immaginazione (che non fa mai male, quando si tratta di racconti), e riferimenti storici realmente documentati. C'è persino qualche accenno presente nel manga stesso dopo l'arrivo di Hody Jones, e credo siano stati facilmente intuibili sin dagli scorsi capitoli. Il Kraken e l'Olandese volante, ad esempio. Però, ecco, io sono sempre stata fissata con le leggende marinare e tutto ciò che ne concerne - si può praticamente dire che ci sono cresciuta, con roba simile -, dunque con una storia da un titolo simile come potevano mancare precisi riferimenti ad essi?
Anyway, la versione alla quale faccio riferimento io non è quella di Marryat, bensì quella in cui il Capitano Vanderdecken, incrociando una tempesta sulla rotta per Capo di Buona Speranza, imprecò contro Dio e invocò il Diavolo, scendendo a patti con lui e promettendogli che nel giorno del giudizio avrebbe potuto prendersi la sua anima; la nave, però, si spezzò a metà e naufragò, e persino la morte rifiutò l'anima di Vanderdecken, che fu condannato a vagare da solo sul relitto del vascello.
Tralasciando questo, spero vi sia piaciuto e non abbia deluso.

Al prossimo. ♥



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** [ Third season › In pieces ] Back to home, 04 ***


Like Davy Jones_8
THIRD SEASON › IN PIECES
BACK TO HOME, #04
 
    Dal momento in cui quella lama aveva attraversato il capo di Jones senza ucciderlo, sembrava essere passata un’eternità.
    Zoro era rimasto ad osservarlo ad occhi sgranati, faticando a considerare veritiera quella scena. Erano passati esattamente due anni dall’ultima volta in cui, a Thriller Bark, si era sentito completamente inerme dinanzi ad un nemico, e aveva giurato a se stesso di diventare ancora più forte per fare in modo che nessuno dovesse mai agire come aveva deciso di fare lui per il bene della ciurma; provare dunque la stessa sensazione di devastante impotenza l’aveva momentaneamente paralizzato, poiché mai, dopo tutti i sacrifici compiuti durante quegli anni di separazione, avrebbe creduto di potersi sentire ancora una volta così. Debole. Un debole che non riusciva nemmeno a liberarsi di qualche insulsa pianticella per aiutare un proprio compagno.
    A quei suoi stessi pensieri, Zoro imprecò, cercando ancora una volta di strattonare i tentacoli che lo costringevano ad incurvare sempre più la schiena all’indietro, dandogli quasi l’orrenda sensazione che la spina dorsale potesse spaccarsi a metà; non aveva perso d’occhio nemmeno per un attimo la figura di Jones che, portandosi distrattamente una mano dietro la testa, aveva afferrato saldamente l’elsa della katana e se l’era sfilata come se nulla fosse, gettando l’arma sul terreno con fare sciatto e annoiato. «Ti pregherei di non distrarmi oltre, Roronoa. Presto il posto di tutti voi sarà a bordo della mia nave».
    «Non cantare vittoria troppo presto, bastardo!» gracchiò in risposta lo spadaccino, mordendosi il labbro inferiore nel sentire le piante avvolgersi intorno al busto. Premevano con forza contro le sue ferite e aveva l’impressione che esse fossero percorse da mille lame acuminate che penetravano nelle sue carni, maciullandole dall’interno; la casacca e l’haramaki erano ormai completamente impregnati di sangue ed era solo per miracolo se riusciva ancora a tenere gli occhi aperti e il capo sollevato, o forse era tutto merito di quei tentacoli e delle spire soffocanti in cui gli avevano avvinghiato il collo, non permettendogli di reclinarlo né all’indietro né tanto meno in avanti. Come se non bastasse, quel Jones sembrava ignorarlo come se non aprisse minimamente bocca, e la cosa stava cominciando a diventare snervante.
    Nel vederlo afferrare nuovamente il cuoco e caricarselo in spalla, Zoro tentò di divincolarsi ancora una volta, sentendosi un vero e proprio incapace per quella sua mancanza di spirito. Cazzo! Come diavolo avevano fatto a ritrovarsi in quella dannata situazione? Eppure fino a pochi giorni prima non avrebbero mai pensato di vivere un incubo come quello. Nemmeno dopo Punk Hazard avrebbero creduto ad una cosa del genere, maledizione. «Ti ho detto di non toccarlo!» gridò con tutto il fiato che aveva in gola, ma Jones continuò ad avanzare imperterrito in direzione della nave, come se non fosse mai stato fermato e non avesse un buco sanguinante nel cranio. «Lascialo andare, figlio di puttana!» urlò, lo sguardo fisso sul volto pallido del compagno. Non l’aveva visto di quel colorito nemmeno quando aveva rischiato di morire per quelle sue stupide emorragie nasali, e, purtroppo, stava cominciando a credere anche lui che ormai non ci fosse più niente da fare. Erano davvero destinati a veder terminare i loro sogni su quell’isola dimenticata da un qualunque Dio?
    Senza riuscire a comprendere quel suo modo di fare, Zoro vide quel Jones lanciare contro la nave il cuoco, il cui corpo si accasciò fra le botti annerite e le casse distrutte, quasi l’avesse caricato a bordo alla stregua di un pacco; poi, come se nulla fosse, il Capitano volse lo sguardo sullo spadaccino e sorrise, o almeno così parve. Era difficile distinguere la sua espressione su quella maschera di carapace che era ormai divenuta il suo volto, che di umano non aveva conservato un bel niente. «Dovevi solo attendere, Roronoa. Te l’avevo ben detto», asserì poi, incamminandosi a passi moderati nella sua direzione, quasi non avesse fretta. Merda. Quindi quella era davvero la fine?
    Zoro non finì nemmeno di formulare quel pensiero che le piante che lo tenevano prigioniero allentarono la presa intorno ai suoi polsi e al suo collo e si seccarono, lasciandolo finalmente libero di toccare terra; persino la nebbia nei dintorni si diradò, per quanto nell’aria persistesse ancora un velo di foschia che non permetteva di distinguere i profili lontani, dando solo una vaga visione del paesaggio circostante. Ciò che Zoro riuscì a vedere bene, però, fu la smorfia che parve dipingersi sul volto di Jones, immobile a pochi passi da lui.
    «Quel maledetto traditore...» sibilò, facendo schioccare furentemente le dita della mano sinistra come se si fosse trattato della chela di un granchio. Lo spadaccino non fu in grado di capire a cosa si riferisse, però, se l’incantesimo che l’aveva tenuto intrappolato fino a quel momento si era sciolto, forse c’entrava proprio il vecchio che l’aveva lanciato?
    Zoro non perse tempo a divagare oltre su quei pensieri e, allungando un braccio per afferrare l’elsa di almeno una delle proprie katane con entrambe le mani, si alzò in piedi sulle gambe malferme, lanciandosi contro l’avversario prima ancora che quest’ultimo potesse rendersene del tutto conto; concentrò tutta la propria forza in quell’unico colpo, accertandosi di aver trapassato da parte a parte la carne di Jones, tentando di non badare alle scosse dolorose che fulminarono il suo corpo ferito. La sensazione della lama che tagliava la carne come se fosse burro si diramò lungo i suoi arti superiori, dandogli una scarica di adrenalina che arrivò dritta al suo cervello; sentì il sangue schizzargli sul viso, l’ansimo sofferente fuggito dalla labbra dell’avversario, e si girò appena in tempo per vederlo cadere su un ginocchio, tenendo lo sguardo fisso sullo squarcio che partiva dalla spalla fino al fianco destro.
    Per un attimo il mondo parve fermarsi in un momento di stasi. Non si muoveva nemmeno una foglia e anche la nebbia sembrava essere diventata consistente, tanto che sarebbe bastato poco per sfiorarla con le dita e catturarla, almeno fino a quando Jones non si sollevò in piedi, grondando sangue, e si voltò con aria di sufficienza per osservare il volto incredulo dello spadaccino, scuotendo il capo. «Per quante volte tu mi colpisca, non potrai mai uccidermi».
    Zoro strinse le dita intorno all’elsa dell’Ichimonji, deglutendo nel continuare a fissarlo in viso, la pupilla ingigantita dalla confusione. Non poteva crederci, dannazione. «È uno scherzo. Un fottuto scherzo», cercò di auto-convincersi, eppure ciò che stava vedendo era del tutto vero. Che non potesse davvero fargli nulla? A quel suo stesso pensiero trasse un lungo sospiro, quasi volesse provare a riacquistare la calma, cosa per niente facile, in quel momento. Non doveva scoraggiarsi né tanto meno perdere di vista il proprio obiettivo primario, poiché farlo avrebbe significato arrendersi e gettare all’aria tutto l’allenamento a cui si era sottoposto fino a quel momento.
    Assottigliando le palpebre, Zoro fletté le gambe e caricò il colpo, lanciandosi con furia verso Jones, che scartò di lato così in fretta che quasi parve avergli letto nella mente; ogni fendente con cui lo spadaccino tentava di colpirlo veniva prontamente schivato e rispedito al mittente, rendendo vani tutti quegli sforzi. Con agilità inumana, il Capitano si piegò sulle ginocchia e gli sferrò un calcio dritto al viso, costringendo Zoro ad indietreggiare tra un colpo di tosse e l’altro, e fu solo per miracolo che quest’ultimo non allentò la presa sulla katana, rinserrandola; provò comunque a contrattaccare, però ebbe appena il tempo di sollevare lo sguardo prima che un altro colpo lo centrasse dritto in mezzo al petto, mozzandogli il fiato. Boccheggiando, scosse la testa nel vano tentativo di schiarirsi la mente, ma un altro calcio si abbatté con furia sulla sua guancia, facendogli sputare sangue.
    «Sei cocciuto, Roronoa», disse Jones con calma assoluta, sferzando il terreno con la coda per far crollare di schiena il Vice Capitano, sfruttando lo spostamento d’aria e la sua espressione provata; approfittò poi di quella sua momentanea confusione per afferrarlo per la casacca e sollevarlo da terra, chiudendo una mano a pugno per colpirlo violentemente al viso.
    Quel colpo lo scagliò dritto contro lo scafo della nave, mandando in frantumi le assi ormai logorate dagli anni e dalla salsedine; cadde riverso di schiena sulle rocce sottostanti, in una pioggia di schegge di legno, muffa e povere, e tossì nel vano tentativo di riprendere fiato, passandosi una mano sugli occhi per ripulirli. Non riusciva a vedere bene - difficile dire se per il colpo ricevuto o se per le ferite che non gli davano tregua - e sentiva il sangue tamburellargli nelle orecchie, però, assottigliando la palpebra, provò a mettere a fuoco almeno i dintorni, riconoscendo a poco a poco la figura del compagno, rannicchiato poco distante. Alcune assi dello scafo gli erano cadute addosso e l’avevano ricoperto di polvere e detriti, e forse era stato solo per miracolo se non avevano infilzato le sue carni, nascondendolo solo parzialmente.
    «Ormai è morto... un vero peccato». Simili ad una lama a doppio taglio, le parole di Jones trapassarono i suoi timpani e riuscirono a far correre dentro tutto il suo essere un moto di panico, tanto che, seppur barcollante e quasi privo di forze, Zoro si sforzò di raggiungere il cuoco per controllare lui stesso, sperando vivamente che quell’idiota non ci avesse lasciato le penne. Profonde occhiaie violacee gli contornavano gli zigomi, risaltando sinistramente sul volto scarno, la cui carnagione era di un pallore quasi mortale; goccioline di sudore gli avevano imperlato la fronte e le labbra livide erano distese in una linea sottile, ma la sua cassa toracica, vagamente intravedibile attraverso il legno che lo ricopriva, era immobile, cosa che fece temere il peggio allo spadaccino. Quando, una volta scansate tutte le assi che gli erano cadute addosso per farlo respirare meglio, accostò l’orecchio al suo petto e riuscì a sentire il battito del suo cuore, quasi esultò interiormente, issandosi in piedi e poggiandosi con la schiena contro lo scafo per mantenere l’equilibrio.
    «Non dire cazzate, non è ancora morto», sibilò poi all’indirizzo di Jones, senza riuscire a trattenere un breve tremito nella voce, puntando la lama contro di lui; quest’ultimo si limitò semplicemente a scrollare le spalle, sfilando con un movimento fluido il fioretto che teneva appeso alla cintola.
    «Ma lo sarà molto presto. Sta per raggiungere la nave».
    «Stronzate. Solo stronzate».
    Per quanto sembrasse voler convincere più se stesso che il proprio avversario, fu continuando a ripetersi quelle parole nella testa che Zoro si lanciò contro di lui, recuperando una seconda spada per gettarsi all’attacco; alzando il fioretto in fretta, Jones riuscì a parare quel colpo appena in tempo, e, sollevando una gamba, poggiò un piede sul petto dello spadaccino e lo calciò lontano da sé, inclinando il busto verso di lui per affondare nel suo fianco la lama sottile della propria arma.
    Barcollando, Zoro si portò una mano nel punto ferito nel vano tentativo di arrestare l’emorragia, sentendo il sangue sgorgare fra le dita in fiotti caldi e vischiosi; stringendo i denti e rinserrando la presa sulle katane, però, non si diede per vinto e tornò all’attacco, conficcando una lama nel petto di Jones con tutta la potenza che gli era rimasta. Dovette far pressione nell’incontrare l’ostacolo della gabbia toracica, ma, prima ancora che riuscisse ad andare più a fondo nella carne, il Capitano lo allontanò ancora una volta, facendolo ruzzolare lontano.
    Senza dare allo spadaccino il tempo di alzarsi in piedi, fu Jones stesso a corrergli in contro e, sfilando con forza la katana che gli era rimasta conficcata nel petto, utilizzò la stessa per colpire il viso del suo avversario, il quale ebbe almeno la prontezza di reclinare in fretta il capo all’indietro; Zoro vide la lama passargli proprio davanti agli occhi e ne sentì il filo gelido fra i capelli, e fu solo per miracolo se non gli venne staccata di netto la testa, per quanto avesse assunto un’espressione esterrefatta. E spalancò la bocca quando, senza alcun ritegno, Jones premette un piede sulle sue ferite e, colpendogli la mano per fargli abbandonare l’arma, lo costrinse con la schiena contro il terreno, strappandogli un gemito e poi un urlo nel conficcare il proprio fioretto negli squarci già aperti e sanguinanti che gli percorrevano il corpo.
    Lo spadaccino tentò di allontanare quell’arto da sé, avvolgendo debolmente le mani intorno alla caviglia per quanto le sue dita glielo permettessero, sentendo il respiro venir meno e il capo divenire sempre più dolente, come se lo stesso pensare fosse divenuto una sofferenza. Ogni più piccola fibra del suo essere era concentrata sulla sgradevole sensazione che gli trasmetteva quella pressione sempre più marcata, sul freddo metallo della spada che gli dilaniava le carni, sul sinistro scricchiolio che aveva cominciato a sentire nelle orecchie e sul terribile presentimento che quel suono fosse provocato dalle sue ossa che si stavano spezzando, e per un attimo fu quasi tentato di lasciarsi andare del tutto e di allentare persino quella presa che lo teneva ancora ancorato al proprio avversario. Forse era colpa del poco ossigeno che aveva cominciato ad arrivare al suo cervello, forse per il sangue che sgorgava senza sosta dalle sue ferite brutalmente rovistate dalla punta di quella lama, ma qualcosa, dentro di lui, voleva solo che tutto quel dolore finisse e che potesse finalmente riposare in pace. Jones sembrava giocare con lui come un gatto che aveva catturato un topo, indugiando nel dargli il colpo di grazia, e lui non riusciva più a sopportarlo.
    Come se non gli appartenessero, sentì le dita scivolare inermi dalla caviglia del Capitano e le braccia piombare pesantemente lungo i fianchi, facendo serpeggiare dentro di lui un brivido al quale non seppe dare spiegazione; con un ansito doloroso, strinse violentemente le labbra in una linea sottile e reclinò il capo di lato, trovando conforto nella terra umida contro la quale premette il viso. Fu proprio nel farlo, però, che scorse la figura del compagno attraverso la palpebra socchiusa, i capelli biondi scompigliati a nascondergli parzialmente il volto insanguinato e una delle braccia piegate ad un’angolazione impossibile, come se l’arto fosse ormai rotto. Respirava sempre più a fatica e il suo battito cardiaco sembrava sul punto di arrestarsi da un momento all’altro, e fu il pensiero che avrebbero potuto perderlo che riconnesse i nervi del suo cervello, facendogli spalancare l’occhio. Merda. Che diavolo stava facendo? Non avrebbe nemmeno dovuto pensare, anche solo per un momento, di arrendersi come un maledetto idiota. Che cosa avrebbe detto Rufy, il suo Capitano, il futuro Re dei Pirati, se lo avesse visto in quelle miserevoli condizioni?
    Imprecando contro se stesso, Zoro cercò a tentoni la propria arma e provò ad impugnarla, ma Jones intercettò il suo movimento e la scansò lontano da lui, schiacciandogli la mano con il tacco dello stivale; nonostante il dolore che corse lungo il suo braccio e si conficcò come un coltello nel suo sistema nervoso, lo spadaccino approfittò di quell’opportunità per far ricorso alle poche forze che gli erano rimaste e riafferrare la caviglia del Capitano, scansandolo brutalmente da sé. Il sangue scivolò lungo i suoi arti e sul suo petto quando, seppur a fatica, si sollevò in piedi sulle gambe malferme, però non ebbe il tempo di preoccuparsi delle proprie condizioni, indietreggiando il più velocemente possibile per evitare l’affondo con cui tentò di colpirlo Jones.
    Sforzandosi di rimanere lucido, lo spadaccino rotolò sul terreno per recuperare la propria arma, riuscendo a non farsi colpire da un nuovo attacco del nemico grazie a chissà quale miracolo; alzò la lama per parare un nuovo affondo e dovette strisciare per terra nel tentativo di allontanarsi e di riacquistare almeno in parte il controllo delle proprie facoltà mentali, sentendo una dolorosa fitta al costato quando, sollevandosi di peso su entrambe le braccia, riuscì ad issarsi nuovamente in piedi.
    Pur non riuscendo più a distinguere i profili con la stessa chiarezza di poco prima, Zoro sferrò un calcio a Jones con tutta la forza che possedeva e provò a farlo indietreggiare il più possibile da sé, incassando la testa nelle spalle per caricare il braccio e puntare la katana al suo sterno; non riuscì a colpirlo al primo tentativo come aveva sperato, eppure non si diede per vinto, incrociando la propria arma con quella del suo avversario. In un cozzar di metallo e scintille, con il tamburellare del proprio cuore nelle orecchie e quelle fasciature improvvisate ormai completamente intrise di sangue, Zoro si gettò ancora una volta contro di lui con un grido rabbioso, compiendo un affondo con il quale gli trapassò lo stomaco. Jones afferrò la lama con una mano e chiuse le dita intorno ad essa, sfilandosela con uno scatto secco; ignorò il sangue che cominciò a stillare dalla ferita che si provocò e, con una rapida stoccata, sollevò il proprio fioretto per colpire un braccio dello spadaccino, il quale sibilò di dolore e indietreggiò.
    Il Capitano provò a colpirlo ancora una volta, però, con un’imprecazione, Zoro scartò e, flettendo le gambe, ruotò svelto il polso con cui sorreggeva la spada, parando l’affondo con il piatto della lama; piroettò poi di lato e, piegando le ginocchia, assottigliò la palpebra per concentrare tutta la propria potenza sulla mano dell’avversario, esultando interiormente quando riuscì a fargli allentare la presa intorno alla sua arma e a tenerlo sotto tiro; vide la spada volare lontano e il Capitano fermarsi con un piede dietro di sé, ansimando quasi quanto lui.
    Jones rimase immobile, la lama dello spadaccino puntata alla gola e lo sguardo fisso proprio su quest’ultimo, limitandosi semplicemente ad abbandonare le braccia lungo i fianchi. Per quanto tremasse visibilmente dalla testa ai piedi a causa del sangue perduto  - il quale gocciolava pigramente lungo i suoi arti e gli sporcasse il viso, imbrattandogli anche gli abiti - e mantenere l’equilibrio gli costasse uno sforzo enorme, la presa intorno all’elsa della katana era salda e sembrava più che intenzionato a staccargli la testa dal collo, per quanto avesse capito a proprie spese che battersi con lui era del tutto inutile. Quel ragazzino aveva una tenacia che non aveva mai visto negli ultimi secoli, e la cosa lo fece stranamente ghignare. «Ti sei battuto bene, Roronoa... sarà un vero piacere averti nella mia ciurma, quando arriverà il momento».
    Con il poco fiato che aveva ancora nei polmoni, Zoro gli soffiò contro «Quel momento non arriverà mai», rinfoderando con una certa fatica la propria katana; a passi malfermi e zoppicanti, poi, si diresse verso Sanji per issandoselo in spalla meglio che poté, ignorando il sorriso di scherno che gli venne rivolto da Jones, il quale fece un rapido inchino.
    «Staremo a vedere, spadaccino. Staremo a vedere», sussurrò, sparendo nella nebbia come l’eco lontana di una sinistra risata
.


    Schermandosi gli occhi con una mano, Nami sollevò lo sguardo verso il cielo grigio che sovrastava tutti loro, costatando piacevolmente che, nonostante il tempo non fosse dei migliori, la nebbia che li aveva accompagnati fino a quel momento si era finalmente diradata, facendo sì che potessero vedere tutto ciò che li circondava senza problemi.
    Non aveva capito con esattezza che cosa fosse successo e dove fosse sparito lo strano vecchio contro cui si stava scontrando Rufy, però, non appena i suoi occhi erano riusciti ad abituarsi alla luce accecante che aveva investito tutti loro, si era resa conto di essere nuovamente soli e che il luogo in cui si erano ritrovati fino a quel momento si era dissolto insieme a lui.
    L’immensa foresta che avevano percorso si era rivelata per ciò che era in realtà, ovvero un boschetto in cui alberi e cespugli si innalzavano timidamente verso il cielo; la cittadina che avevano visitato non appena avevano messo piede sull’isola era esattamente dinanzi a loro, però adesso, grazie alla mancanza della nebbia, appariva meno spaventosa e sinistra di quanto non lo fosse stata fino a quel momento, pur continuando ad essere decadente e disabitata; alla loro destra, proprio ad una decina di metri dal bosco, si poteva scorgere alla perfezione una cascata e un fiumiciattolo che scorreva verso il mare, serpeggiando sinuoso fra l’erba alta e le pietre accatastate su entrambi i lati. Si riusciva anche a sentire distintamente lo scrosciare dell’acqua, cosa che prima, a causa della nebbia e della bizzarra quiete in cui la stessa aveva avvolto tutta l’isola, non erano per niente stati in grado di fare. E di questo Robin se ne accorse, cominciando a guardarsi intorno con fare pensoso, volgendo poi lo sguardo verso la città oltre il sentiero.
    «A quanto pare siamo stati tutti vittime di un’illusione», esordì pacatamente, scansandosi qualche ciuffo di capelli dalla fronte prima di sistemarsi gli occhiali da sole sul capo. «La nebbia deve aver compromesso le nostre facoltà intellettive e alterato le nostre percezioni, facendoci credere di essere in un luogo infestato dagli spiriti».
    Brook le gettò uno sguardo, rabbrividendo al ricordo di ciò che avevano veduto fino a quel momento. «Ma quei fantasmi e quei mostri sembravano veri, yo-hohoho!» esclamò, e Usopp non poté fare a meno di convenire con lui, incrociando poi le braccia al petto qualche attimo dopo.
    «Quel che è certo è che quel tizio che abbiamo affrontato era reale... forse anche troppo reale». Al ricordo tremò per un attimo, gettandosi un’occhiata intorno come per timore di vederselo ricomparire dinanzi agli occhi di punto in bianco. «Inoltre vorrei ricordarvi che Zoro e Sanji non sono ancora qui», ci tenne a far notare, e Chopper annuì energico, saltandogli in spalla.
    «Adesso che la nebbia è sparita abbiamo più possibilità di trovarli», replicò. «Dobbiamo tornare nel bosco e andare a cercarli. Le parole di quel vecchio non mi sono piaciute per niente... non vorrei fossero nei guai».
    Nel sentirli, Nami sospirò, poggiando una mano sul fianco per far scorrere poi lo sguardo sul viso di entrambi. «Se adesso torniamo a cercarli, loro potrebbero riuscire a ritrovare la strada e noi potremmo di nuovo perderci nel bosco». Per quanto fosse a sua volta preoccupata per i suoi amici, non potevano rischiare che, nel fortuito caso in cui ritornassero sui propri passi, non trovassero nessuno ad attenderli. «La soluzione migliore è restare qui ad aspettarli», soggiunse, sforzandosi di sorridere. «Quei due sanno cavarsela, no? Non è detto che quel vecchio stesse dicendo la verità su di loro. In fin dei conti ci ha ingannati per tutto il tempo, e anche la sua lotta con Rufy non mi è parsa per nulla seria come avrebbe dovuto», cercò di suonare rassicurante, così da poter in qualche modo calmare l’ansia che aveva attanagliato se stessa e il piccolo Chopper.
    Non seppero quanto tempo rimasero lì in attesa, chi seduto con le gambe incrociate sul terreno e chi semplicemente in piedi, tutti con lo sguardo fisso sulla foresta che erano riusciti ad abbandonare con così tanta fatica. Fortunatamente, oltre a quegli Uomini Pesce e a qualche strano essere, sul loro cammino non avevano incontrato nient’altro. Escludendo la nave volante e quel vecchio dai loschi scopi che nessuno aveva compreso, ovviamente. Il pensiero di tutti, in quel momento, era che anche i loro compagni fossero stati altrettanto fortunati. Non che non credessero nelle loro capacità, certo, ma avevano imparato a diffidare di tutto e a tenere sempre gli occhi aperti, specialmente lì nel Nuovo Mondo, dunque il modo in cui si sentivano in quel momento era più che legittimo. Restava pur sempre il dubbio che tutto ciò che avevano incontrato fosse stato soltanto frutto dell’illusione creata dalla nebbia che, come Robin stessa aveva affermato, aveva probabilmente alterato la loro mente e mostrato loro cose che in realtà non esistevano, ma ognuno di loro ricordava fin troppo bene quanto fossero apparse reali le cose che avevano veduto e contro cui si erano scontrati, quindi, per quanto facesse molto comodo a tutti dar per buona quell’ipotesi, non poteva essersi trattato unicamente di un abbaglio.
    La preoccupazione che aveva attanagliato la ciurma era tale che persino Rufy, di solito quello che non perdeva il sorriso nemmeno nelle situazioni più disperate, se n’era rimasto seduto sul terreno con lo sguardo rivolto verso la foresta, lo zaino abbandonato al proprio fianco e le braccia incrociate al petto. In un altro momento, forse, si sarebbe persino lamentato di aver fame - i bentou che erano stati così diligentemente preparati da Sanji se li era spolverati tutti quando il suo stomaco aveva ardentemente reclamato del cibo - e di voler mangiare assolutamente qualcosa, ma adesso, con in viso un’espressione talmente seria che quasi stonava con la sua intera persona - anche il modo in cui si era ripreso il cappello era apparso nervoso, ma Nami si era solo limitata a sospirare e a tenerlo d’occhio per evitare che, in preda alla sua solita irruenza, facesse qualcosa di stupido -, pareva essere unicamente concentrato su ogni minimo fruscio che proveniva dal folto della foresta, immersa in cinguettii e canti lontani come se la natura stessa si fosse improvvisamente risvegliata. Sembrava che si aspettasse di veder comparire da un momento all’altro i suoi due amici, per quanto fosse passato ormai molto tempo e di loro non avessero ancora visto nessuna traccia.
    «Basta così!» esclamò all’improvviso nell’alzarsi in piedi di scatto, facendo sussultare i restanti membri della ciurma; si voltarono tutti in simultanea verso di lui e lo osservarono con tanto d’occhi, quasi non fossero riusciti a capire che cosa gli fosse preso.
    «Che hai, fratello?» domandò di rimando Franky, e fu solo a quel punto che Rufy gli gettò appena una rapida occhiata, la fronte aggrottata e con in viso la stessa espressione che aveva mantenuto fino a quel momento.
    «Io vado a cercarli», asserì deciso, stornando nuovamente lo sguardo verso il bosco. «Ci stanno mettendo troppo. Non è da loro».
    «Non pensarci nemmeno, Rufy», rimbeccò Nami, aggrottando la fronte. «Siamo tutti preoccupati, ma non possiamo agire senza riflettere. Aspetta almeno un altro po’».
    «Ho aspettato abbastanza», sbottò il Capitano, più che convinto di ciò che diceva. Quell’attesa stava cominciando a snervarlo, e lui aveva giurato a se stesso che non avrebbe perso più nessuno a cui voleva bene, men che mai i suoi compagni. Dopo la morte di Ace aveva creduto di aver perduto tutto ciò che gli era più caro, e non era stato per rivivere quella stessa sgradevole sensazione che aveva deciso, probabilmente anche in modo egoistico, di ritardare l’incontro con i suoi compagni - i suoi amici, la sua famiglia - per due lunghissimi anni. Era arrivato il momento di comportarsi come un buon Capitano e andare a cercare il suo cuoco e il suo spadaccino. Anche perché, e odiava ammetterlo, forse quel vecchio gli aveva inculcato il tarlo del dubbio. E se fosse successo davvero loro qualcosa? Non se lo sarebbe mai perdonato, dannazione.
    Senza dar peso ai richiami di Nami, né tanto meno venendo fermato dagli altri - avevano probabilmente compreso il suo stato d’animo e deciso di lasciarlo stare, sapendo fin troppo bene che quando prendeva una decisione nulla sarebbe stato capace di smuoverlo -, cominciò ad avviarsi in direzione del bosco, calcandosi il cappello di paglia in testa prima di chiudere i pugni lungo i fianchi. Se avesse incontrato qualcuno sulla propria strada, illusione o meno che fosse, non avrebbe esitato a farlo fuori in un lampo. E se gli fosse ricapitato di nuovo fra i piedi quel vecchio... gli avrebbe spaccato il culo una volta per tutte e avrebbe continuato ad avanzare, senza inutili interruzioni di sorta. Faceva sul serio e l’avrebbe dimostrato, se ciò avrebbe potuto aiutarlo in qualche modo a raggiungere i suoi amici, ovunque essi si trovassero in quel determinato frangente. Mosse appena qualche passo, però, prima che un fruscio proveniente dal folto del bosco richiamasse la sua attenzione, facendogli aguzzare la vista in quella direzione; una figura sfocata sembrava avanzare lentamente verso di loro, quasi a tentoni, e Rufy non ci mise molto a capire di chi si trattasse, riconoscendone la sagoma.
    «Eccoli, finalmente!» esclamò tutto contento, con un enorme sorriso sornione che gli illuminava il viso; quello stesso sorriso, però, gli morì sulle labbra non appena si soffermò sulle condizioni dei suoi due amici, facendo scorrere lo sguardo sui loro vestiti strappati e insanguinati e sul volto pallido e scarno che Zoro, sostenendo malamente Sanji sulle spalle, stava mostrando a tutti loro. L’unico occhio sembrava osservarli vacuamente, senza vitalità alcuna, e anche il modo in cui avanzava appariva fiacco e stanco, per niente simile alla solita camminata spavalda e fiera che lo caratterizzava di solito. Sembrava persino che, nel vederli, l’intera ciurma si fosse pietrificata, come se nessuno di loro riuscisse a credere ai propri occhi o a mettere veramente a fuoco l’immagine che avevano dinanzi. Erano rare, se non praticamente nulle, le volte in cui quei due si ritrovavano in così pessime condizioni, e ciò era riuscito a fermarli in un momento di stasi.
    «Chopper...» chiamò infine lo spadaccino in un soffio, non riuscendo più a sostenere sulle gambe il proprio peso e quello del cuoco; cadde in avanti, riverso con il viso nella terra umida, allentando la presa con cui fino a quel momento aveva sorretto contro di sé Sanji, il cui corpo si accasciò inerme sulla sua schiena.
    Il piccolo medico, a quella vista, riuscì finalmente a riscuotersi e corse immediatamente da loro in preda al panico, trasformandosi per potersi occupare di entrambi nel pieno delle sue facoltà. «Zoro! Sanji!» Provò a riscuoterli senza successo, imprecando a denti stretti prima di afferrare il polso di Zoro; trasse un sospiro di sollievo nel sentire il suo battito cardiaco, sbiancando seduta stante quando si ritrovò a fare lo stesso con Sanji. Il polso era debole, troppo debole, e il suo respiro era lieve, appena accennato, come se potesse smettere di incanalare aria nei polmoni da un momento all’altro. «Franky!» strillò, passando un braccio robusto sotto il busto di Sanji per sistemarselo in spalla il più delicatamente possibile, alzandosi alla svelta. «Prendi Zoro e raggiungetemi alla Sunny, presto!» raccomandò loro, affrettandosi a discendere il sentiero per poter attraversare la città, correndo a perdifiato in direzione del promontorio dove ore addietro, se non addirittura interi giorni, avevano attraccato la loro imbarcazione, perfettamente visibile ora che la nebbia era scomparsa.
    Sotto lo sguardo preoccupato dei suoi amici, Franky non perse tempo ad eseguire l’ordine datogli dal dottore, e, dopo aver recuperato il corpo del Vice Capitano ed esserselo caricato sulla schiena, fece cenno a tutti gli altri di seguirlo in fretta, inoltrandosi nel folto della città per tornare indietro.
    Un solo attimo di ritardo avrebbe potuto compromettere la vita di entrambi i loro compagni.








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Per chi non lo sapesse - ma suppongo che ormai lo sappiano tutti -, Davy Jones non ha un cuore, quindi non può essere ucciso con metodi tradizionali. Ecco spiegato tutto l'ambaradan (?) che c'è dietro e la sua fuga - che proprio fuga non è, in verità - anziché una sua colossale sconfitta. E poi, beh, i Mugi non possono sempre sconfiggere gli avversari con successo, no? x)
Ammetto poi che in questo capitolo mi sono lasciata parecchio andare, anche se per qualche attimo ho pensato - e penso tuttora - che avessi strafatto e che forse avrei dovuto tagliare un po' di cose che sarebbero potute sembrare alquanto inverosimili. E credo ancora che questo capitolo non sia abbastanza soddisfacente e faccia letteralmente schifo. Mi scuso
Comunque sono anche troppo contenta, perché su due contest a cui questa storia ha partecipato si è piazzata prima ad entrambi, quindi, boh, una volta tanto volevo condividere con tutti voi che mi state seguendo questa piccola felicità personale. Vuol dire che questa long fiction non è così pessima come l'avevo reputata io stessa al principio, e sapere che viene apprezzata è una piccola soddisfazione. Grazie mille a tutti voi

Al prossimo capitolo. ♥



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** [ Fourth season › Beating hearts ] To get the windward of him, 01 ***


Like Davy Jones_9
FOURTH SEASON › BEATING HEARTS
TO GET THE WINDWARD OF HIM, #01
 
    Quando riprese conoscenza, la prima cosa che Zoro mise immediatamente a fuoco fu la figura massiccia di Chopper, riconoscendo solo in un secondo momento il tono concitato della sua voce. Era riuscito a trovare gli altri? Erano forse tornati alla nave? E, soprattutto... era riuscito ad arrivare in tempo? Non ne aveva la benché minima idea, e fu proprio all’orribile pensiero di aver fallito che, con un gemito doloroso, tentò di sollevarsi a mezzo busto, avendo appena una fugace visione dell’infermeria prima di ripiombare a peso morto sulla brandina e sentire una fitta al braccio. Nel voltarsi vide distintamente una flebo, ma non era ancora certo di aver fatto del tutto mente locale. Merda... si sentiva completamente rintronato e aveva come la sensazione che qualcuno avesse poggiato un macigno sul suo petto e l’avesse abbandonato lì, per niente voglioso di tornare a riprenderselo per portarselo via. Che diavolo era successo?
    «Il cuoco», rantolò a mezza voce, dovendo tossire un paio di volte per schiarirsi la gola. Quanto tempo era passato da quando era svenuto? «Dov’è il cuoco?» chiese con tutta la fermezza che riuscì a trovare, sforzandosi ancora una volta di alzarsi da quel maledetto letto; ma la grossa mano pelosa di Chopper glielo impedì, schiacciandolo con la schiena contro la branda prima di scusarsi nel sentirlo imprecare per il dolore.
    «È meglio se resti sdraiato ancora un po’, Zoro», gli sussurrò in tono tremendamente comprensivo, serrandogli il cuore in una morsa. Ohi, ohi, un momento... perché Chopper gli parlava come se non volesse urtarlo in qualche modo? E perché diavolo non aveva ancora risposto alla sua domanda?
    Lo spadaccino trasse un lungo respiro e il solo farlo gli mandò i polmoni in fiamme, ma strinse i denti e tenne duro, alzando il viso per incontrare lo sguardo addolorato del dottore. Nay, andiamo... Chopper stava scherzando, vero? Lo stava semplicemente prendendo per il culo, no? «Chopper», cominciò, e sul suo viso, oltre alla sofferenza provocatagli dallo sforzo che gli costava parlare, si riusciva benissimo a leggere anche la rabbia che di lì a poco sarebbe esplosa. «Dove cazzo è quel fottuto cuoco di merda?» Pose quel quesito senza alterarsi e senza minimamente alzare la voce, certo, però fu proprio quella sua calma così sottile a freddare Chopper, che si sentì tremare dinanzi allo sguardo gelido del Vice Capitano. Allontanò  la mano dal suo petto e tornò alla sua forma originale, guardandolo dabbasso e torcendosi gli zoccoli.
    «Qui... non c’è molto spazio, ma abbiamo tolto il tavolo e sistemato un’altra branda per farlo riposare meglio
», rispose concitato. «Non è messo per niente bene, Zoro. Ho fatto il possibile per farlo riprendere, però...»
    «Cosa? Diavolo, no!» si alterò lo spadaccino, e, ignorando il dolore al costato, si strappò la flebo dal braccio con rinnovato vigore, mosso dall’orribile presentimento che quell’idiota potesse rimetterci le penne anche dopo tutta la fatica che aveva fatto per riportarlo a casa. Non avrebbe mai accettato di veder morire qualcun altro a lui caro senza poter far niente per impedirlo, dannazione. Men che meno uno dei suoi compagni. «Il tuo possibile non è abbastanza, Chopper». Cercò di riacquistare un minimo di razionalità, ma ormai, visti i nervi a fior di pelle, era più facile a dirsi che a farsi. «Quel fottuto idiota non può morire in questo modo». Si premette una mano su un fianco e, con un gemito, gettò i piedi oltre il bordo della brandina per provare ad alzarsi, venendo oscurato dall’ombra possente della renna, ritrasformatasi proprio per bloccarlo.
    «Non devi affaticarti, Zoro. Anche tu sei in pessime condizioni», lo redarguì, osservandolo in viso con un’espressione a dir poco severa. «Cerca di darti una calmata e dimmi cos’è successo».
    «Prima voglio vedere il cuoco», mise a condizione lo spadaccino, allungando il collo verso la seconda branda, e, per quanto Chopper avesse tentato di fargli cambiare idea, la sua decisione fu irremovibile. Il dottore, con un sospiro, dovette quindi acconsentire, capendo che Zoro non si sarebbe messo l’anima in pace fino a che non si fosse accertato con i suoi stessi occhi delle condizioni di Sanji. Lo aiutò lui stesso ad alzarsi in piedi, stando attento a non toccare nessuna ferita ricucita da poco o qualche contusione. Un’impresa piuttosto ardua, a ben vedere, poiché il Vice Capitano era tutto un livido. Ancora si chiedeva come avesse fatto a camminare conciato in quel modo, ma forse avrebbe dovuto smetterla di farsi quesiti così idioti, conoscendo Zoro.
    Chopper lo lasciò solo quando, raggiunta la branda del cuoco, gli impose di sedersi su uno sgabello che lui stesso aveva portato lì, prendendone poi un secondo per accomodarsi a sua volta non appena si ritrasformò. E non osò fiatare per tutto il tempo in cui lo spadaccino tenne gli occhi fissi sul viso di Sanji, come se lo vedesse per la prima volta.
    «Si riprenderà?» domandò infine Zoro in tono lieve, facendo vagare lo sguardo dal colorito cadaverico del viso del cuoco ai lividi violacei che gli segnavano il collo e lo scorcio di petto che riusciva ad intravedere al di sotto del lenzuolo. Il dottore si era premurato di lavargli via il sangue che gli aveva incrostato il volto e i capelli, e in parte era un bene, giacché avrebbe potuto credere che quello fosse stato tutto solo un fottuto incubo. Peccato che fosse la realtà, maledizione. E se pensava che quel Jones avrebbe anche potuto spezzargli il collo... cazzo, era stato fortunato ad essersela cavata solo con quelle contusioni.
    «Se reagisce bene alle medicine che gli ho dato, in un paio di giorni dovrebbe tornare cosciente», spiegò Chopper, a sua volta con lo sguardo puntato sul viso del biondo. «Sanji è forte... il suo organismo si riprende in fretta», aggiunse, forse nel tentativo di provare a convincere anche se stesso di quelle parole, ma si sforzò comunque di sorridere all’indirizzo di Zoro. «In fondo riesce a dare del filo da torcere anche a te, no?» Quel patetico tentativo di alleggerire la sgradevole situazione che si era venuta a creare parve funzionare, poiché anche lo spadaccino sollevò un angolo della bocca in una smorfia divertita.
    «Proprio per questo farà meglio a riaprire gli occhi», asserì, allungando fiaccamente un braccio verso Chopper per carezzargli la delicata peluria che aveva sulla testa. «E se non lo fa in fretta, ci penso io a spedirlo all’altro mondo».
    Rimasero in religioso silenzio, subito dopo, entrambi con lo sguardo fisso sul capezzale del cuoco. Chopper non aveva fatto altro che ripetersi mentalmente che sarebbe andato tutto bene e che Sanji si sarebbe presto svegliato, e, per quanto all’inizio si sarebbe potuto sentire un po’ confuso a causa dei farmaci che gli aveva somministrato, avrebbe riacquistato a poco a poco le forze e sarebbe tornato quello di un tempo, il cuoco attivo ventiquattr’ore su ventiquattro e con tutti gli arti funzionanti. Ecco. Doveva convincersi proprio di questo. Sanji avrebbe aperto gli occhi, la sua caviglia e il braccio sarebbero guariti con il tempo e tutti loro avrebbero potuto riprendere a viaggiare per realizzare i propri sogni.
    A quei suoi stessi pensieri, Chopper sollevò il viso verso lo spadaccino, osservandolo con attenzione. «Adesso puoi dirmi cos’è successo?» riuscì finalmente a chiedere, sicuro che quello che attraversò il compagno fosse un brivido. Lo vide poi scuotere il capo, ingobbendosi e abbandonando i gomiti sulle ginocchia.
    «Niente», replicò in tono schietto, ma il medico sospirò.
    «Mi avevi detto che me ne avresti parlato, se ti avessi lasciato vedere in che condizioni era Sanji».
    «Allora dammi la tua parola che resterà una cosa tra noi. Tra medico e paziente».
    Chopper si accigliò, incredulo. Perché tutta quella segretezza? Cos’era accaduto su quell’isola, se Zoro non voleva che gli altri lo sapessero? «Zoro... cos’è successo, esattamente?» domandò in un soffio, venendo folgorato da un orribile pensiero quando vide lo sguardo dello spadaccino indugiare sul viso del cuoco, come se si sentisse dannatamente in colpa per qualcosa. «Non... non sarai stato tu a ridurre Sanji in questo modo, vero?» pigolò, e bastarono quelle poche parole per far sì che Zoro si voltasse svelto verso di lui con la palpebra serrata.
    «Non dire stronzate, Chopper», sibilò, però, per quanto il tono apparisse scontroso e aggressivo, la renna trasse comunque un breve sospiro di sollievo. Non avrebbe dovuto nemmeno pensare una cosa del genere, certo, ma quel senso di colpa e quel suo voler tenere tutto nascosto avevano inculcato in lui il tarlo del dubbio. Dubbio che era stato velocemente dissipato dallo spadaccino, fortunatamente. Non avrebbe saputo come reagire, altrimenti. «Però... se fossi stato più forte, tutto questo non sarebbe successo».
    Chopper aggrottò la fronte e gli si avvicinò, battendogli delicatamente uno zoccolo su una spalla con fare comprensivo. Come aveva potuto dubitare in quel modo di Zoro, l’uomo che avrebbe dato la sua stessa vita per il bene comune della ciurma? Era stato un vero idiota. «Ci sono cose che non possono essere previste, Zoro. Non devi sentirti in colpa», provò a rassicurarlo, ma il Vice Capitano scosse immediatamente il capo.
    «Ero con lui, Chopper. Avrei dovuto fare tutto il possibile per evitarlo. Non mi sono allenato per due anni solo per veder morire i miei compagni davanti ai miei occhi».
    «Sei riuscito a portarlo alla nave nonostante tu fossi gravemente ferito, Zoro. Una persona normale sarebbe morta».
    Se fosse stato più lucido, probabilmente Zoro avrebbe di sicuro dato ragione al medico - ne aveva passate tante, era stato rattoppato alla bell’e meglio altrettante volte e nonostante tutto il sangue perduto non era mai crepato, cosa che un essere umano nella media avrebbe fatto prima ancora di raggiungere la Rotta Maggiore -, ma in quel momento non riusciva a fare a meno di pensare che avrebbe dovuto allenarsi più di quanto non avesse già fatto fino a quel momento, se non voleva rischiare di non possedere la forza necessaria per difendere i propri compagni. Dannazione, più di una volta aveva dimostrato a se stesso che sarebbe stato capace di sacrificare la sua stessa vita pur di mettere tutti loro al sicuro. «Davy Jones», dichiarò di punto in bianco, e Chopper lo osservò come se non avesse realmente compreso ciò che aveva appena detto.
    «Cosa?»
    «Me ne ha parlato il cuoco», spiegò senza mezzi termini. «L’ha chiamato così. Davy Jones. Un pirata maledetto, una leggenda vivente relegata sulla sua nave insieme alla sua ciurma, un demone del mare che reclama le anime dei marinai annegati... e quello stronzo era venuto a prendersi anche quella di questo dannato idiota». Il solo pensiero lo fece sorridere ironico, sebbene sapesse che non ci fosse assolutamente nulla di divertente, in quella maledetta storia. «Una fottuta leggenda si è presa il disturbo di attirarci su quest’isola come ha fatto con tante altre navi... ci crederesti?»
    Gli occhi di Chopper brillarono per un attimo alla sola idea che i due amici avessero incontrato un tipo del genere, tremando nell’immaginarselo come un uomo mostruoso munito dei tratti tipici di un Uomo Pesce, con tanto di occhi iniettati di sangue e incrostazioni sul carapace che componeva la sua schiena. Una figura oltremodo spaventosa, quella che si era affacciata nella sua giovane mente. Zoro e Sanji avevano rischiato grosso e si erano ritrovati ad affrontare un nemico simile, e il solo pensiero gli fece ammettere che erano stati decisamente fortunati a cavarsela; però, subito dopo, si lasciò sfuggire un sospiro accondiscendente. «Faresti bene a riposarti un po’, Zoro», provò a spronarlo, rimediandoci uno sguardo duro dallo spadaccino.
    «Non sto delirando, se pensi questo».
    «Non ho mai detto una cosa del genere», si affrettò a rassicurarlo, per quanto l’avesse davvero assalito il dubbio che i farmaci, uniti alle condizioni di Sanji e all’esperienza vissuta su quell’isola fatta di misteri ed illusioni, avessero alterato in qualche modo la fantasia dello spadaccino. A quei suoi stessi pensieri scosse il capo e afferrò il camice. «Devo cambiare le bende a Sanji, tu sdraiati lì e non muoverti», gli ordinò, indicandogli la branda con uno zoccolo. «E non provare nemmeno a toglierti le fasciature come tuo solito, capito?» lo freddò immediatamente, giacché lo spadaccino aveva portato prontamente una mano al petto per cominciare a disfarsi proprio delle bende che gli fasciavano il torace. Accidenti a Chopper. Non gli sfuggiva mai nulla.
    «Lo sai che non ne ho bisogno», borbottò Zoro per avere l’ultima parola, ma all’occhiataccia del medico fece come gli era stato detto, anche perché, e purtroppo doveva ammetterlo a se stesso, si sentiva maledettamente stanco.
    Forse Chopper aveva ragione. Un po’ di riposo avrebbe fatto bene anche a lui
.


    «Come stanno?»
    Non appena Chopper aveva aperto la porta dell’infermeria, il resto della ciurma non aveva perso un attimo a porgli in simultanea quella domanda, preoccupati a dir poco per i loro amici. Il dottore si era infatti chiuso lì dentro per oltre un’ora e mezza e, ormai divorati dall’angoscia, i ragazzi non erano più riusciti a resistere dal togliersi quel peso dallo stomaco, senza dare al medico nemmeno un attimo per respirare o fare il punto della situazione.
    Chopper si richiuse silenziosamente la porta alle spalle, zampettando verso il ponte con un lungo sospiro. «Zoro si è ripreso, ora sta riposando», informò, sfiorando con lo zoccolo la punta del naso per grattarselo distrattamente. «Chi mi preoccupa di più è Sanji... adesso si è stabilizzato, ma aveva il battito debole e respirava a fatica. Se Zoro non fosse riuscito a portarlo subito da me, a quest’ora sarebbe...» non continuò, lasciando la frase in sospeso. Sembrava che il solo pensiero lo atterrisse, e come dargli torto? Già una volta, a causa delle sue emorragie, gli aveva fatto prendere un colpo del genere e aveva rischiato di rimetterci la pelle, quello scemo di Sanji. Per non parlare di Zoro, poi. A volte aveva come l’impressione che ad entrambi facesse schifo la vita, visti i guai in cui si cacciavano in continuazione.
    «Ma adesso cook-san sta bene?» gli domandò accorato Brook, sorreggendo con due dita la tazzina ricolma di the che Robin era stata così gentile da preparare. Erano stati tutti agitati fino a quel momento, dunque l’idea di quella bevanda era sembrata la migliore che sarebbe potuta venire in mente all’archeologa.
    «Fortunatamente sono intervenuto in tempo, ma è ancora troppo presto per essere sicuro che non ci siano state conseguenze», rispose il medico, lasciandosi cadere seduto sul sostegno di legno circolare fissato all’albero maestro. «Erano entrambi pieni di ferite e contusioni... Zoro mi ha vagamente raccontato qualcosa», e si guardò bene dal dire cosa, avendo promesso che non ne avrebbe parlato con nessuno, «ma ho paura che le medicine che gli ho somministrato gli abbiano provocato qualche allucinazione», asserì, non riuscendo del tutto a credere alle parole dello spadaccino. Un demone del mare di nome Davy Jones? Anche se all’inizio era diventato euforico al solo pensiero, aveva poi attribuito il tutto ad un effetto collaterale dovuto ai farmaci. A ben rifletterci, però, da quando erano entrati nel Nuovo Mondo di cose bizzarre ne avevano viste, ma indagare oltre, ora come ora, sarebbe stato inutile.
    «Avranno incontrato quei mostri spaventosi, illusioni o meno che fossero. In fin dei conti abbiamo appurato noi stessi quanto fossero pericolosi». La costatazione di Robin lo distrasse dai suoi pensieri, e, proprio come gli altri - per quanto riluttanti a loro volta alla sola idea di quella prospettiva -, annuì. Le cose non potevano essere andata in nessun altro modo, d’altronde. Quei due se ne davano continuamente di santa ragione, era vero, ma da qui ad ammazzarsi a vicenda... beh, ne correva di acqua sotto i ponti, dunque non si erano di certo feriti combattendo fra loro. In fin dei conti, per quanto non l’avessero mai ammesso né a se stessi né al resto del gruppo, si rispettavano e si volevano bene come amici, se non come fratelli in eterna competizione.
    La ciurma passò poi i successivi due giorni a riprendere le normali attività, lasciando riposare i due compagni com’era stato raccomandato loro da Chopper, per quanto Rufy e Usopp andassero di tanto in tanto a controllare come stessero passando dall’infermeria alla cabina per tener d’occhio l’uno e l’altro. Sanji non aveva ancora ripreso conoscenza e se ne stava praticamente immobile nella branda dell’infermeria, mentre Zoro, di tanto in tanto, si girava su un fianco e imprecava chissà cosa fra sé e sé ogni qual volta sbatteva contro la cuccetta o le ferite strusciavano contro il materasso, per quanto avesse ancora la fronte sudata e sembrasse persino delirante.
    Sotto diretto ordine di Nami, inoltre, avevano tirato su l’ancora e, innalzato il vessillo sull’albero maestro, avevano sciolto i legacci e le cime delle vele, lasciando che il vento proveniente dall’oceano le gonfiasse per allontanarsi il più possibile da quella maledetta isola. Non avevano dovuto affrontare il temporale che li aveva improvvisamente colti all’inizio, fortunatamente, per quanto il mare ingrossato avesse reso comunque difficile e faticoso navigare in quelle acque e riuscire a manovrare il timone. Avevano potuto trarre un sospiro di sollievo solo quando la nebbia si era del tutto diradata e il sole li aveva quasi accecati, bagnando loro stessi e la Sunny con i suoi caldi e confortevoli raggi. E tuttora splendeva alto nel cielo, segnando mezzogiorno.
    «Uffa, quando si sveglia Sanji».
    Afflosciato sulla polena della nave, Rufy non faceva altro che guardare il prato che ricopriva il ponte e  sbuffare, provando inutilmente ad ignorare gli insistenti brontolii del suo stomaco. Si stava avvicinando l’ora di pranzo e lui non metteva qualcosa sotto i denti da più di un giorno, e bisognava ammettere che, conoscendolo, era decisamente un record. L’ansia per i suoi amici gli aveva persino chiuso lo stomaco, ma adesso che sembrava andare quasi tutto per il meglio aveva ricominciato ad aver fame.
    Robin, che in quel momento si trovava sul castello di prua ad innaffiare i fiori, gettò lui una rapida occhiata e sorrise benevola, mormorando un «Dos Fleur» per far fiorire due mani proprio dinanzi al Capitano, che si riprese seduta stante nel vedere i pasticcini ordinatamente riposti sui palmi. «Non saranno molto, ma spero che ti piacciano, Capitano», gli disse. «Li aveva preparati cook-san per me, ma posso cederteli tranquillamente, se hai fame. C’è anche del the», soggiunse, per quanto fosse sicura che il ragazzo avesse unicamente visto i pasticcini. E glielo dimostrarono i suoi occhi, che scintillarono come quelli di un bambino che aveva appena ricevuto un nuovo giocattolo.
    «Grazie, Robin!» esultò, tirandosi a sedere per afferrare i dolcetti nel momento stesso in cui le mani che li trasportavano sparirono; se li mise in bocca senza nemmeno gustarseli, troppo affamato per farci anche solo un pensiero, e, per quanto non avessero per niente placato la sua fame smisurata, erano pur sempre qualcosa. E mentre era intento a leccarsi le dita tutto contento per ripulirle dalla cioccolata rimasta, dabbasso vide con la coda dell’occhio la figura di Zoro, seguito a ruota dal piccolo Chopper.
    «Devi tornare a letto!» strepitò il dottore, venendo bellamente ignorato dallo spadaccino, che si limitò a voltare lo sguardo in direzione del Capitano nello scorgere il gesto di saluto e il sorriso che gli aveva appena rivolto.
    «Stai bene, Zoro?» gli venne chiesto con voce gioiosa e una mezza risata, e stavolta Zoro sorrise a sua volta, sollevando un angolo della bocca con fare sarcastico prima di alzare un pugno a scopo dimostrativo.
    «Mai stato meglio, Capitano».
    «Zoro!» lo richiamò all’ordine Chopper, aggrappandosi alla sua gamba destra. «Come medico ti ordino di tornare a letto!» sbottò, riuscendo finalmente a richiamare su di sé l’attenzione dello spadaccino, che si chinò verso di lui per afferrarlo sotto le braccia e allontanarlo delicatamente da sé.
    «Io sto bene, Chopper», gli fece notare poi, pur portandosi debolmente una mano al fianco che si era ferito in battaglia. Ah, accidenti... doveva andarci piano, con i movimenti. «Pensa piuttosto a quello scemo d’un cuoco».
    «Ma hai perso molto sangue!»
    «E dove sarebbe la novità?» tentò di sdrammatizzare, e Chopper non si risparmiò dal saltargli addosso per assestargli una zoccolata proprio in mezzo alla fronte, lasciando un bel segno rosso di quella forma.
    «Proprio per questo devi stare a letto», borbottò, senza dar peso al mezzo lamento sfuggito dalle labbra di Zoro. Secondo il suo parere di medico, stavolta se l’era proprio cercata. «Vado a prendere le erbe per Sanji, se quando torno non ti trovo in cabina ti somministro un sedativo per cavalli e ti ci porto io trascinandoti per i piedi», soggiunse scontroso, riuscendo comunque a strappare al Vice Capitano un sorrisetto; lo vide poi trotterellare svelto verso il castello di prua, dove metteva spesso ad essiccare le sue erbe medicinali, e scosse il capo, venendo ben richiamato da un’altra risatina di Rufy, che scese dalla sua postazione per annullare la distanza che li separava.
    «Forse dovresti ascoltarlo», gli disse con un gran sorriso, e Zoro sbuffò ilare, adocchiandolo di sfuggita.
    «Ma sentilo... non sei forse tu il primo a fare l’esatto contrario di ciò che ti si dice?»
    «Io sono il Capitano, posso permettermelo», affermò divertito, dandogli una poderosa pacca su una spalla; lo spadaccino si accasciò in avanti e imprecò a denti stretti nel faticare a ricomporsi, tanto che Rufy allontanò immediatamente la mano e si grattò dietro il capo, facendo praticamente finta di niente. «Scusa, Zoro! Ti fa male?»
    «Nah, sto alla grande», ironizzò, per quanto non ci fosse nulla di divertente in quella situazione. Merda... si sentiva praticamente a pezzi, peggio di quella volta a Thriller Bark. Ma si sarebbe squarciato il ventre piuttosto che ammettere una cosa del genere. «Piuttosto, uhm... prova a tenere occupato Chopper».
    «Vai a trovare Sanji?» Zoro, a quella domanda posta così a bruciapelo, si accigliò. Accidenti, quando voleva sapeva essere davvero perspicace, quello scemo di un Capitano. Oppure era lui ad essere letteralmente un libro aperto e ciò che aveva intenzione di fare gli si leggeva in faccia. Scosse il capo, adocchiando Rufy.
    «Tu provaci e basta... ti rimedio qualcosa da mangiare», se la sbrogliò, sortendo l’effetto sperato. Rufy difatti allargò il sorriso e si lasciò sfuggire una grossa risata, facendogli un cenno sbrigativo con una mano come a dargli via libera; lo spadaccino non se lo fece ripetere due volte, e, dopo aver gettato una rapida occhiata verso le piante di mandarini di Nami - dove si scorgeva solo vagamente il cappello di Chopper, chino a raccogliere le sue erbe -, si affrettò a salire le scale per aggirare dal basso il castello di prua e raggiungere una volta per tutte l’infermeria, aprendo la porta il più silenziosamente possibile. Se tanto gli dava tanto, prima del ritorno di Chopper aveva una decina di minuti o poco più. Potevano bastargli.
    Non appena entrò fu accolto dal lieve russare del cuoco, disteso sulla branda con una coperta che gli arrivava fin sotto al mento. Il viso era ancora un po’ pallido - più di quanto non lo fosse la sua carnagione normalmente, appuntò nella sua mente lo spadaccino - e aveva dei segni viola che gli contornavano gli occhi, ma tutto sommato sembrava star bene. Più di quando se l
era ricaricato in spalla sicuramente. «Brutto idiota», sussurrò alla sua figura dormiente, resistendo all’impulso di rifilargli un cazzotto sulla testa per vedere se riusciva a svegliarlo. «È la seconda volta che mi fai prendere colpi del genere, vedi di non farla diventare un’abitudine».
    Subito dopo, però, aggrottò la fronte nel soffermarsi attentamente sul viso del compagno, avendo avuto l’impressione che le sue labbra si fossero piegate in un breve sorriso. Scosse la testa e si diede dell’idiota, imputando quella stupida visione alla stanchezza che aveva accumulato in quel breve lasso di tempo. Secondo Chopper ci sarebbero voluti altri due o tre giorni prima che quello scemo d’un cuoco riprendesse del tutto conoscenza, dunque quel movimento delle labbra se l’era semplicemente sognato. Non poteva essere altrimenti. Si guardò comunque intorno con fare furtivo e, avvicinandosi piano al giaciglio di Sanji, gli sfiorò la fronte con due dita, in una lieve carezza rozza. «Cerca di riprenderti in fretta, ricciolo. Se lasciamo di nuovo i fornelli a Nami, finiremo tutti indebitati fino al collo», soggiunse in un soffio vagamente divertito.
    E mentre si allontanava in direzione della porta, lasciandosi alle spalle la branda del cuoco, le palpebre di quest’ultimo tremarono lievemente, sollevandosi per una manciata di secondi solo per catturare la fugace visione del pantalone nero di Zoro che spariva oltre la soglia
.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Sono schifosamente in ritardo, lo so. Volevo postarlo pian piano in attesa dell'arrivo dei risultati del contest a cui sta partecipando, ma la cosa andrà per le lunghe e far aspettare ancora per soli due capitoli mi sembrava un tremendo azzardo. Dunque eccolo qui.
Comunque metto subito le mani avanti: lo so che può sembrarlo, ma l'inizio di questo capitolo non è esattamente ZoSan. Cioè, insomma, l'intenzione è quella, ma volevo premere più sul fatto che Zoro sarebbe capace di fare ciò che ha fatto per qualunque dei suoi compagni, non solo per Sanji. Ecco il perché di tutto quel suo discorso sul non essere abbastanza forte e affini. Ehi, per quanto mi piaccia la coppia - e molti lo sanno fin troppo bene, in un certo senso -, anche io so capire il bromance e il nakamaship, su!
La seconda parte, invece, un pochino lo è. Ma soltanto un po', anche se persino Rufy ha subito capito che Zoro vuole andare da Sanji per vedere come sta. Non è così stupido come tutti credono, il buon vecchio Capitano u_u e chi meglio di lui riesce a capire quello zuccone dello spadaccino? Diciamo che si capiscono entrambi, ecco
Sproloqui miei a parte, la storia sta arrivando alla sua conclusione e il capitolo che posterò a breve - si spera - sarà l'ultimo
Al prossimo! ♥




Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** [ Fourth season › Beating hearts ] Touching distance, 02 ***


Like Davy Jones_10
FOURTH SEASON › BEATING HEARTS
TOUCHING DISTANCE, #02
 
    «Non devi sforzare troppo il braccio, né tanto meno devi azzardarti a togliere il bendaggio triangolare; potrebbero saltare i punti e la ferita potrebbe riaprirsi, con il rischio di infezione. S
e ti da’ fastidio vieni da me, non fare di testa tua. Per quanto riguarda la caviglia, devi evitare il più possibile di stressarla, quindi niente cucina o attività che ti costringano a stare in piedi. Ah, e ti concedo una sola sigaretta al giorno. Capito, Sanji?»
    Era già la terza volta che Chopper gli ripeteva sempre le stesse cose, per quanto Sanji non avesse fatto altro che annuire svogliato per tutto il tempo, costretto dal piccolo dottore a starsene seduto sul lettino dell’infermeria. Gli aveva più volte tenuto presente che lui avrebbe dovuto cucinare pranzo e cena per tutti i membri dell’equipaggio, occuparsi delle solite faccende e che in fin dei conti stava meglio di quanto pensasse, però Chopper era stato irremovibile: niente sforzi, niente fumo e niente cucina. In tre sole semplici mosse l’aveva praticamente ammazzato. E da quel che aveva capito aveva davvero rischiato di morire, per quanto lui non ricordasse praticamente niente del genere. L
’unica cosa fin troppo chiara nella sua mente era il momento in cui si era diretto, seppur zoppicando, verso quel fottuto vecchio, poi c’era stata semplicemente un buio totale per chissà quanto tempo. Gli avevano raccontato che era rimasto privo di sensi per due giorni interi e che era riuscito a cavarsela solo grazie a Zoro, che aveva avuto la prontezza di caricarselo in spalla e di affrettarsi a cercarli. Come fosse poi riuscito a trovarli era un mistero, ma avevano avuto ben altro di cui preoccuparsi, non appena l’avevano visto ferito e con il respiro che si udiva a malapena.
    In un primo momento, e non lo nascondeva, Sanji era quasi scoppiato a ridere istericamente. Da quando si era riunito alla ciurma dopo quei due anni nell
’inferno di Kamabakka aveva rischiato di tirare le cuoia più di una volta, specialmente a causa delle sue continue emorragie nasali. E al ricordo degli energumeni che gli avevano donato il sangue era rabbrividito, scuotendo il capo per scacciare quel pensiero e concentrarsi sulle parole del piccolo Chopper, che si era anche premurato di ricordargli di non bere alcolici. Aveva poi attaccato con quella lagna, però quella sua preoccupazione aveva intenerito Sanji, che, per quanto scocciato, non aveva potuto fare a meno di sorridere.
    «Ho capito, Chopper, ho capito», esordì infine il cuoco, issandosi dal lettino con una certa fatica. La caviglia che si era slogato nella foresta gli procurava un fastidioso formicolio ogni qual volta poggiava il piede in terra, però, tutto sommato, riusciva a camminare abbastanza bene. L’unico problema era proprio il braccio, e avrebbe dovuto purtroppo attendere che guarisse. Ci sarebbe voluto tempo, ma la pazienza, in quanto cuoco, non gli mancava di certo.
    Sanji salutò Chopper con un cenno del capo, affrettandosi ad uscire dall’infermeria prima che la renna ricominciasse con le sue raccomandazioni; una volta sul ponte inspirò fino in fondo ai polmoni l’odore salmastro e benefico che proveniva dal mare, sorridendo nell’avvicinarsi alla balaustra. Poggiò il braccio buono su di essa e si perse nell’osservare il riflesso argentato della luna, che appariva come un disco distorto sulla superficie scura dell’acqua; piccole onde sbattevano placidamente contro la chiglia della nave e creavano una strana melodia che riusciva a calmarlo, esattamente come accadeva quando, da bambino, si rifugiava sulla polena del Baratie e fissava l’orizzonte con il pensiero rivolto al suo All Blue. A quei ricordi gli venne da sorridere ancor più, ma scosse immediatamente il capo quando nella sua mente si affacciò l’immagine sfocata dello spadaccino, che gli era persino parso di vedere nel momento stesso in cui aveva aperto gli occhi in infermeria. Prese una sigaretta e se la portò alle labbra, cercando di trovare un significato a quella visione. Forse aveva semplicemente sognato. Forse aveva passato talmente tanto tempo da solo con Zoro che si era assuefatto all’idea di averlo vicino, quando invece non sarebbe dovuto affatto essere così. Loro due potevano litigare, essere in disaccordo su qualunque cosa e convenire poi sulla stessa al momento del bisogno, ma oltre a quello non ci sarebbe stato nient’altro. Non avrebbe dovuto esserci nient’altro. Oh, merda, aveva ricominciato a riformulare le proprie frasi al condizionale. Pessimo segno. Quell’avventura su quell’isola gli aveva doppiamente confuso le idee, maledizione, e la cosa stava cominciando a diventare stressante.
    «Sanji! Come stai?» La voce di Usopp riuscì fortunatamente a riportarlo alla realtà, e fu con un sincero sorriso di gratitudine che si voltò verso di lui, grattandosi distratto dietro al collo nonostante la presenza del bendaggio.
    «Tutto sommato sto bene», replicò, «anche se il braccio mi fa un male cane e la caviglia mi sta letteralmente uccidendo».
    «Dovresti startene a letto, sai?» lo schernì il cecchino, e fu solo nel guardarlo meglio che si accorse della sigaretta che sorreggeva fra i denti, lasciandosi sfuggire uno sbuffo ilare. «Oh! Chopper ti ha dato il permesso di fumare?» domandò con un gran sorriso divertito, riuscendo a strappare a Sanji una mezza risata.
    «Solo una al giorno, Usopp», rispose, fingendosi afflitto. «Ma meglio di niente».
    «Potresti prendere in considerazione l’ipotesi di cominciare a smettere».
    «Nemmeno per sogno, nasone. Le sigarette sono l’emblema del piacere».
    Usopp scosse il capo, probabilmente persino incredulo per quella risposta ricevuta. «Contento tu, contenti tutti», lo prese in giro, dandogli una lieve pacca sulla spalla buona. «Comunque sia, Nami mi ha mandato a dirti che non devi preoccuparti per la cena. Ci penseranno lei e Robin», soggiunse, e poco ci mancò che per la sorpresa Sanji ingoiasse la sigaretta.
    «Che cosa?!» sbottò incredulo. «Non posso lasciare che le mie dee si stanchino in questo modo!» e sarebbe di sicuro corso in cucina tutto zoppicante, se solo Usopp non l’avesse costretto con la forza a rimanere inchiodato lì dove si trovava.
    «Sta’ calmo, non te l’ho detto per farti agitare», sbuffò. «Sta’ buono qui, fumati la tua sigaretta e quando è pronto ti chiamo. Se no giuro che dico a Chopper di somministrarti della morfina e di legarti a letto finché non guarisci».
    Sanji strinse la stecca fra i denti e, borbottando, poggiò nuovamente i gomiti sulla balaustra, scoccando appena un’occhiataccia al cecchino. «Siete dei selvaggi», bofonchiò. «Far lavorare due splendide fanciulle come loro per preparare da mangiare a dei rozzi ingrati come voi...»
    «Certo, certo, come ti pare», lo assecondò, battendogli ancora una volta una mano su una spalla come se volesse fargli coraggio; con la coda dell’occhio localizzò poi la figura di Zoro, e non si risparmiò dall’ammonirlo immediatamente con lo sguardo nel vederlo avvicinarsi. «Vedete di non litigare come al solito, voi due», raccomandò, decidendo di lasciarli soli.
    Il silenzio che piombò fra loro, però, fu decisamente imbarazzante. Sanji continuava imperterrito a fumare e Zoro se ne stava praticamente immobile di fianco a lui, muto come una statua e con la stessa inespressività dipinta in viso. Era come se fra loro aleggiassero parole che nessuno dei due aveva il coraggio di esprimere, e probabilmente si sarebbero sicuramente presi a botte da soli per quella vigliaccheria. Di solito si inalberavano per un nonnulla e avevano sempre pronta la scusa per menarsele di santa ragione, ma adesso, complici anche gli impedimenti fisici e la spossatezza che li animava, sembrava che si trovassero ad un punto morto anche su quel loro bizzarro modo di relazionarsi. Però non potevano continuare così, dannazione. E fu proprio Zoro a prendere il toro per le corna, aggrottando la fronte nel farsi più vicino.
    «Cuoco», lo chiamò, e Sanji sbuffò, creando un anello di fumo nel togliersi la sigaretta da bocca. Merda. Aveva tanto sperato che quel cretino se ne andasse e lo lasciasse da solo a fumare quella maledetta paglia in santa pace, portandosi via anche i suoi interrogativi. In fin dei conti aveva subito una bella batosta anche lui, no? Che se ne andasse a riposare.

    «E adesso cosa vuoi, stupido marimo?» sbottò, resistendo all'impulso di tirargli un bel calcio nello stomaco. La gamba gli faceva abbastanza male - era già tanto se riusciva a stare in piedi - e non aveva la benché minima voglia di finire con il culo a terra a causa sua, in particolar modo se si contava il fatto che era già nervoso per proprio conto senza che ci si mettesse anche lui. «Se hai ancora intenzione di rompere le palle vedi di sparire, altriment-» Sanji non ebbe nemmeno il tempo di realizzare del tutto la cosa che si ritrovò le labbra dello spadaccino incollate alle proprie, venendo zittito seduta stante; sgranò gli occhi e lasciò cadere a terra il mozzicone di sigaretta che fino a quel momento aveva sorretto con due dita, non riuscendo a credere che stesse accadendo davvero. Quella era una fantasia ad occhi aperti, ne era certo. Era del tutto impazzito e ciò che stava succedendo era soltanto una proiezione della sua mente malata. Quando sentì la lingua di Zoro lappargli il mento irto di barba e premere poi con fare insistente contro le labbra, però, si rese conto che in realtà era tutto vero, e nemmeno si accorse subito di aver aperto la bocca quel tanto che bastava per far intrufolare quella lingua attraverso di essa, andandole incontro con la propria; la sentì scontrarsi con i denti, carezzare il suo palato, gustando il bizzarro sapore ferruginoso dello spadaccino, che si era spinto contro di lui per annullare del tutto la distanza che li separava. Quel bacio fu consumato troppo in fretta e gli mozzò il fiato nei polmoni, ma fu con un bizzarro imbarazzo che non era per niente da lui che fissò in volto il Vice Capitano non appena quest’ultimo si allontanò.
    «Consideralo la mia risposta a quella domanda che mi hai fatto nella foresta, cuoco», replicò Zoro, leccandosi via un rivolo di saliva prima di dargli semplicemente le spalle per lasciarlo lì, immobile e senza più difese, ad osservare la sua schiena mentre a poco a poco si allontanava.
    Sconcertato, scombussolato, e con il cuore che batteva a mille, Sanji si sfiorò con due dita il labbro inferiore, imprecando a denti stretti qualche istante dopo prima di accasciarsi sui calcagni nonostante la fitta dolorosa che gli trapassò la caviglia; si tenne la testa con una mano e, abbandonando il braccio bendato in grembo, mugolò frustrato, intrecciando violentemente le dita fra i capelli, quasi volesse strapparli alla radice. Accidenti a quell’idiota. Baciava anche da schifo, come se non bastasse. Però, e la cosa era a dir poco snervante, con quel pessimo bacio lo spadaccino era riuscito a dissipare ogni suo dubbio, lasciandolo ancor più sgomento di quanto non avesse creduto lui stesso al principio.
    Alla fine era successo. Come un naufrago in balia delle onde, lui era diventato vittima delle sue stesse sensazioni, cogliendo troppo tardi il significato dei bizzarri comportamenti che l’avevano animato fino a quel momento. Era pazzo di quel cretino - quel cretino che aveva rischiato la propria vita per lui, rettificò nell’immediato -, e la cosa gli piaceva maledettamente, accidenti. E fu proprio a quel pensiero che si alzò in piedi in un lampo, zoppicando verso Zoro per passargli il braccio buono dietro le spalle e attirarlo a sé sotto il suo sguardo accigliato.
    Che la parte razionale del suo cervello andasse a farsi fottere, per una volta. Loro avevano ben due anni da recuperare.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
E finalmente, dopo tutto questo tempo, siamo arrivati alla tanta sospirata conclusione di questa storia.
Ammetto che in un certo momento la situazione mi è un po’ sfuggita di mano, comunque. All’inizio l’idea non sarebbe dovuta essere questa - difatti volevo ambientare la storia in Strong World, non in un punto imprecisato della New World Arc -, visto che la storia sarebbe dovuta essere una one-shot. Una cosa tira l’altra, però, e alla fine è venuta fuori una cosa del genere a cui non riesco ancora a trovare un vero e proprio senso e... aye, con Sanji sono stata una vera e propria bastarda, ma quando ci vuole ci vuole.
Poi. La ZoSan c’è ma si vede esplicitamente soltanto verso la fine della storia perché, e mi preme tantissimo dirlo, avevo una voglia matta di lasciare tutto in sospeso fino a questo momento, senza far svolgere la storia con il solito “Si amano ma non se lo dicono finché non si trovano da soli in una situazione pericolosa”. È tutto molto velato anche perché il loro rapporto mi piace così com’è, senza uno scontato romanticismo e senza situazioni che potrebbero renderli troppo OOC. Insomma, che sia visto come Romance o puro e semplice Bromance, insieme sono comunque stupendi, per me. Ovviamente, inoltre, tutte le tecniche presenti nel corso delle battaglie sono quelle che vengono utilizzate dai personaggi nell’anime/manga, e, visto che potevo sfruttare l’elemento avventura, ho pensato che per mantenere la stessa atmosfera e dare credibilità sarebbe stato perfetto inserirle. È stato un pochino difficile valorizzare le scene proprio perché in One Piece i combattimenti vengono resi sicuramente meglio nella trasposizione su carta o su anime, però spero che in qualche modo si sia capito ciò che volevo esprimere. Adoro inoltre le scene nel bel mezzo dei boschi e quella strana sensazione di quiete che si prova nello stare dinanzi al fuoco, ma questo credo che sia stato ampiamente notato durante il corso della storia e anche in altre one-shot che ho scritto sia su questo fandom sia su altri.
Non saprei cos’altro dire né tanto meno cosa spiegare, dunque spero semplicemente che per voi sia stata una bella avventura tanto quanto lo sia stata per me scriverla.
Oh, dimenticavo di spiegare una cosa molto importante e che alcuni hanno notato: Davy Jones è scappato, aye, ed il motivo è semplice: questa storia ha un seguito. Non so quando lo posterò, se riuscirò a finirlo in tempo - infatti sono ferma sullo stesso punto da... praticamente quattro mesi - o se lo reputerò abbastanza buono per essere definito storia, ma in tal caso restate sintonizzati.
Alla prossima.  ♥



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di scrittori.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1144998