Al Paletto D'Argento di Sigyn (/viewuser.php?uid=194175)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Al Paletto D'Argento ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno: La Cameriera ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due: La Mary Sue ***
Capitolo 4: *** Capitolo Tre: L'Eroe ***
Capitolo 1 *** Prologo: Al Paletto D'Argento ***
Prologo: Al Paletto
D’Argento
C’era
una locanda, nella Capitale della Regione Occidentale, alla periferia
della città umana, nei Quartieri Interrazziali.
L’immigrazione in quelle terre era massiccia e costante, ma
quella zona della città non era particolarmente sviluppata,
né particolarmente sicura, né particolarmente
pulita: la locanda si adattava, e sembrava fare uno sforzo costante per
essere sempre più scalcinata, più pericolosa e
più sporca del resto dei Quartieri.
Non aveva una
cattiva fama, perché avere un qualsiasi tipo di fama sarebbe
stato già troppo, per quel locale. I quartieri ricchi,
borghesi e poveri ma dignitosamente umani ne ignoravano
l’esistenza; il colorato e bizzarro misto di razze ed etnie
che popolava i Quartieri – benché nessuno avrebbe
mai ammesso di appartenere a quel luogo e di non essere solo in cerca
di un alloggio e un lavoro migliore – ci si recava solo
perché gli alcolici erano decenti e soprattutto abbastanza
forti da far dimenticare di esserci stati la mattina successiva. Nelle
loro vite, era solo una presenza costante ma abbastanza discreta, come
la muta consapevolezza che il Sole sorge ad est e che se una splendida
donna nuda dalla voce suadente su uno scoglio invita una ciurma di
marinai mezzi morti per la fame e le intemperie a raggiungerla la nave
farebbe meglio a cambiare rotta immediatamente.
Il nome della
locanda era Al Paletto D’Argento, e si diceva che fosse stato
scelto in omaggio alla sua variegata ed eccentrica clientela,
nonostante qualunque vampiro scaraventato dai piani alti della
società alla miseria dei Quartieri avrebbe potuto guardare
per ore con aria perplessa l’insegna traballante e non
afferrarne completamente il senso.
In
realtà, le cose era andate un po’ diversamente.
- Quella gente
paga bene per qualsiasi tipo di alcolico, mi piace ... però
non voglio vampiri, eh! Poi va a finire che spaventano gli altri
clienti, va a finire. Potremmo metterci un avvertimento, nel nome, sai
... tipo, che ne so, il paletto qualcosa ... si usano i paletti per
ammazzarli, no, Frank? - aveva chiesto una sera – o una
notte, o forse un’alba: le circostanze dell’evento
non erano del tutto chiare – il leggendario Primo
Proprietario del Paletto D’Argento ad un compagno di bevute,
in un’osteria dalla quale entrambi sarebbero stati
più tardi cacciati per rumori molesti e danze sfrenate sui
tavoli. Frank aveva annuito con aria pensosa, cercando nel frattempo di
ricordare dove avesse messo la borsa con i suoi soldi ed interrogandosi
pigramente sul perché il Primo Proprietario sembrasse
così insolitamente felice di pagare il conto per entrambi.
- Certo che
sì, Frank, certo che sì! - aveva ripreso
l’altro con entusiasmo ubriaco, interrompendosi per una lunga
sorsata di birra. - I paletti, proprio loro, di ... di ...
cos’è quella robaccia, Frank? -.
Corrugò la fronte piena di rughe, sforzandosi di pensare:
era un’azione incredibilmente difficile, quando ci si sentiva
come se si avesse una palude nella testa e i pensieri emergessero lenti
e volatili dalle nebbie sopra di essa, constatò sentendosi
improvvisamente molto poetico.
Frank distolse
i suoi pensieri dai vaghi dubbi sulla borsa e il Primo Proprietario
appena prima che questi avessero la possibilità di diventare
veri sospetti. Si sfregò gli arruffati baffi neri striati di
grigio con una mano, poiché era gesto che lo aiutava a
riflettere. - Bronzo, o qualcosa del genere. Ferro? No, aspetta, era
più qualcosa come, come ... argento, sì. O quello
era per i lupi mannari ... ? - rimuginò, un dito che
scendeva dai baffi a un taglio sul labbro.
L’altro
uomo lo guardò con gli occhi un po’ lucidi
spalancati, vagamente perplesso.
- Avrei detto
qualcosa tipo frassino ... o un qualche altro legno. Non so, sembrano
adatti per costruire paletti - ribatté. Frank scosse la
testa, concorde con lui sull’ottusità e
l’avventatezza dei costruttori di paletti: qualcosa diceva
anche a lui che avrebbero dovuto usare il legno, anche se non era
esattamente sicuro del perché.
- Oh, beh. E
allora Al Paletto D’Argento sia! - esclamò
trionfalmente il Primo Proprietario, sbattendo sul tavolo il suo
boccale. Frank si chiese se sarebbe stato saggio tentare di leccare le
gocce cadute: l’ultima volta, il suo amico gli aveva quasi
mozzato la lingua con il pugnale che si portava sempre dietro.
Questa
è la vera storia della nascita del Paletto
D’Argento.
Generalmente,
i pochi che hanno la fortuna – o semplicemente la voglia
– di ascoltarla alla fine del racconto scoprono di aver
improvvisamente capito un sacco di cose sul locale.
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Capitolo 2 *** Capitolo Uno: La Cameriera ***
Capitolo Uno: La
Cameriera
Gernann Rog
Grothing era una donna troll, ma non per questo una selvaggia.
Al momento,
infatti, era soprattutto una cameriera, pagata male e trattata peggio.
Il Proprietario non poteva permettersi una flessuosa ninfa dal sorriso
ammiccante e gli abiti – nell’eccezionale caso in
cui avesse deciso di indossarli – leggeri e provocanti, lei
non poteva permettersi di rimanere senza un qualunque tipo di
stipendio: non era necessario che si piacessero, ed effettivamente
dovevano sopprimere ogni giorno l’istinto di uccidersi
l’un l’altro. In realtà, Gernann aveva
già quasi ceduto una volta, ritrovandosi in mano un coltello
piuttosto affilato e di fronte un Proprietario che ignaro le voltava la
schiena. Poi aveva realizzato che non sarebbe stato molto furbo
uccidere il proprio capo il primo giorno di lavoro.
Già,
il lavoro: il motivo che l’aveva spinta a partire per quella
città così vasta e al medesimo tempo
così soffocante, così piena di umani e di caos.
Lei veniva dalle montagne del Nord, con le loro cime aspre e solitarie
e le loro piccole valli isolate e verdeggianti, e, se avesse potuto, ci
sarebbe volentieri rimasta: quello era il posto giusto per un troll,
tra le alte sorgenti d’acqua cristallina e le grandi caverne
che si aprivano come ferite nella roccia.
I veri troll
erano diversi dagli stereotipi delle barzellette umane. Avevano una
cultura vecchia di secoli, una religione, una scrittura, organizzazioni
che permettevano la cooperazione tra i vari villaggi e un Capo Comune e
dei consiglieri eletti ogni anno tra i saggi delle comunità
dell’intera zona.
Poi, un
giorno, qualcuno si era accorto che qualcun altro comprava i voti in
cambio di favori e che qualcun altro ancora appena eletto proveniva da
un villaggio da cui non proprio casualmente erano venuti quasi tutti i
Capi Comuni dell’ultimo decennio. Un altro, poi, aveva
rifiutato di dimettersi, e, allora, un altro ancora aveva organizzato
una guerra civile su piccola scala. Come gran finale, alcune masnade di
elfi nomadi avevano deciso che quello era il momento perfetto per
intromettersi e razziare le loro terre senza essere fermati da gente
non completamente focalizzata sul conflitto in corso.
E Gernann si
era ritrovata in un luogo in cui la sua cultura era barbarie, la sua
scrittura erano scarabocchi e la sua religione idiozie su falsi dei. E
riguardo all’organizzazione politica, guai ad insinuare che
un saggio armato di anni di esperienza e buon senso potesse fare meglio
di qualche signorotto dall’eredità ricca e la vita
facile.
Nemmeno la sua
pelle coriacea e grigiastra, dalle sfumature verde cupo, aveva mai
fatto effetto sul Proprietario o su chiunque altro. Non che Gernann si
aspettasse di più. In fondo, anche al Nord non era mai stata
considerata una bellezza: non era mai stata abbastanza alta, o
abbastanza massiccia, e i suoi lineamenti erano troppo poco severi e
marcati. Almeno la sua pelle, però, aveva ricevuto qualche
complimento, quando abitava ancora nel suo villaggio: dura come pietra! usava
dire con orgoglio sua madre al malcapitato del giorno, che
l’arzilla donna puntualmente – ed invariabilmente
– definiva un
così buon
partito, tesoro,
un troll da
sposare.
Gernann non
rimpiangeva spesso la sua terra, comunque: era una donna troppo pratica
per concederselo. Andava avanti con la consapevolezza di dover fare un
buon lavoro e di non dover uccidere il capo, e con la certezza che
quello era molto più di quanto tanti altri immigrati
avevano. E allora serviva i clienti, ribatteva alle battute del
Proprietario con sguardi duri e frecciate sprezzanti ma abbastanza
sottili perché lui non perdesse il controllo e la
licenziasse e passava le sue giornate di lavoro sola e taciturna,
concentrata su ciò che faceva ed estranea e indifferente
alle eccentricità della clientela abituale del Paletto
D’Argento. Aveva imparato subito che era meglio non fare
troppe domande, senza alcun bisogno che l’esperienza
né tanto meno il Proprietario glielo insegnassero.
Quella
ragazza, però, non pareva essere della stessa opinione.
- Ed
è vero che la tua pelle è fatta di marmo? E che i
tuoi capelli sono licheni? E che mangi carne umana cruda? –
continuò, infatti, i grandi blu brillanti sotto le lunghe
ciglia bionde.
Gernann si
toccò istintivamente i capelli – corti, lisci e
scuri: non esattamente facili da confondere con erbe montane, insomma
– e le lanciò una lunga occhiata
d’avvertimento.
Era bassa
perfino per la media umana, minuta, con un viso ovale e allegro,
incorniciato da ricciuti capelli dorati, in cui spiccavano una piccola
bocca dalle labbra rosse e carnose e un naso un po’ troppo
lungo. Aveva una pelle molto chiara e tempestata di lentiggini, ma il
suo pallore non si avvicinava nemmeno lontanamente a quello di certi
elfi o ninfe. Umana, decisamente. E molto carina, per quanto Gernann
sapeva sugli standard di quella razza.
Carina quanto
sciocca, pensò la troll mentre la giovane la fissava
incantata, facendole decine di domande con quella sua vocina acuta ed
eccitata. Gernann poteva quasi già sentire le urla del
Proprietario che le ordinava di smettere di perdere tempo e tornare a
servire gli altri clienti.
Quel pensiero fu abbastanza per farle venire il mal di testa.
-
Sì, mangio carne umana. Specialmente ragazzine -. Una donna
troll sottopagata, vagamente asociale, bombardata di domande
impertinenti e con il mal di testa non è generalmente
l’essere più cordiale di tutta la Regione
Occidentale ... o di una Regione qualsiasi. L’umana
spalancò ancora di più gli occhi, ammutolendo
improvvisamente.
Gernann si
chiese se l’alzare gli occhi al cielo e l’invocare
la benedizione di una o due divinità troll sarebbe stato un
indizio sufficiente per farle capire che stava scherzando. Alla fine
preferì non rischiare e represse quell’impulso.
- Ora, per
favore, potresti dirmi cosa prendi? – domandò
invece, sforzandosi di usare un tono gentile e un’espressione
distaccata. Non dovette riuscirle molto bene, perché la
ragazza sembrò improvvisamente a disagio.
- Oh
– disse, sorridendo nervosamente e rigirandosi tra le dita
una ciocca di capelli biondi. – Oh? – le fece eco
Gernann, impaziente, inarcando un sopracciglio.
- Ehm ...
– riprese l’altra, arrossendo. Fu in quel preciso
istante che la troll capì che il resto della frase
– se mai l’umana fosse riuscita a completarla
– non le sarebbe piaciuto.
- In
realtà, non bevo, sono venuta qui solo per farti qualche
domanda ... non ho mai visto un vero troll ed ero curiosa, e ...
– mugugnò la cliente, fissando insistentemente il
tavolo davanti a lei. Gernann non ascoltò nemmeno la sua
lunga lista borbottata di giustificazioni e scuse: era troppo occupata
a tentare di distrarsi dall’improvviso desiderio di scoprire
se il collo della ragazza era così fragile come sembrava.
Fu solo quando
le urla del Proprietario arrivarono davvero e il suo mal di testa si
intensificò ancora di più, però, che
la cameriera comprese quanto le mancassero veramente le montagne del
Nord.
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Capitolo 3 *** Capitolo Due: La Mary Sue ***
Capitolo
Due: La Mary Sue
Nella Regione
Occidentale, la vita può essere piuttosto difficile se si ha
la sfortuna di chiamarsi Lucy. Non che questo sia un brutto nome,
certo, ma può causare una discreta quantità di
disagio, quando il tuo cognome è Hirnadim, i tuoi genitori
Zandruzum e Xianna e gran parte delle tue coetanee si chiama Xizieyzena.
Fortunatamente,
Lucy Hirnadim non aveva mai avuto modo di confrontarsi con troppo
disagio alla volta: lei proveniva da una ricca famiglia di mercanti e
aveva un aspetto grazioso e un po’ di sangue non-umano nelle
vene grazie a sua madre, la responsabile del bizzarro nome della
ragazza. In città si credeva, infatti, che Xianna Hirnadim
fosse per metà una ninfa: in realtà, era per un
ottavo nana, ma la donna era troppo astuta ed ambiziosa per correggere
certi pettegolezzi – anche perché, secondo molti,
la fonte era lei stessa.
Ninfa o meno,
Xianna proveniva da una delle poche famiglie che avesse
l’onore di fare da anni parte del Sacro Ordine di Mary Sue
Drusyllah Krystal Leana Sparkle, la celeberrima associazione di
sacerdotesse guerriere, veggenti, maghe e Salvatrici del Mondo
assortite.
Lucy non
sarebbe mai riuscita a sostenere un dibattito teologico, maneggiare una
spada, sognare qualcosa di più importante della morte di uno
dei polli del vicino o completare un incantesimo per far bollire
l’acqua senza cavare un occhio a suo fratello.
Però, nel caso in cui un vecchio stregone
dall’aria saggia e antica avesse deciso di arruolarla in una
spedizione per salvare il mondo e la civiltà dalle orde
barbare che sembravano essere sempre incombenti, avrebbe fatto del suo
meglio per non deluderlo: poteva non essere particolarmente abile o
intelligente o scaltra, ma in compenso era molto volenterosa, anche se
con scarsi risultati.
Sua madre ne
era assolutamente deliziata: molte Mary Sue famose avevano cominciato
come complete inette, prima di sviluppare il pieno potenziale di un
dono innato o di scoprire un potere segreto, diceva sorridendo in quel
modo che aveva sempre vagamente turbato sua figlia.
Lucy non si
offendeva molto per l’essere definita un’incapace:
lo era davvero, in fondo, e inoltre riponeva la più cieca
fiducia nelle parole di sua madre.
Un
po’ più seccante era l’essere spesso e
volentieri rinchiusa in torri altissime, rapita da briganti, punta da
arcolai e spilli stregati, salvata da giovani e presuntuosi cavalieri
erranti e proposta come nuova eroina ad ogni Compagnia della Regione
Occidentale. Ma, in fondo, Lucy amava l’avventura, il vedere
nuovi posti, l’incontrare nuove persone e nuove creature.
Forse era per
questo che, di nascosto da suo padre e soprattutto da sua madre, aveva
cominciato a frequentare il Paletto D’Argento, anche se non
aveva mai bevuto una birra in vita sua e non aveva certo bisogno di una
delle tante camere in disuso ai piani superiori. Forse, invece, era
stato solo per la terrorizzata fascinazione che aveva provato quando
aveva saputo che in quel locale avevano assunto una donna troll
– uno di quei minacciosi, brutali mostri da favola, con i
denti forti e appuntiti, la pelle di roccia e la bizzarra propensione a
rapire fanciulle umane benché perfino tra i loro i
più pensassero che tra le loro razze non ci potesse essere
alcuna unione.
Magari,
però, era perché Gernann – era riuscita
a strapparle il suo nome durante la loro terza conversazione, quando si
era finalmente decisa ad ordinare il suo primo boccale prima di venire
cacciata fuori dalla locanda dalla cameriera – non era
affatto un mostro, anche se a volte le incuteva ancora un certo timore,
con quella sua altezza imponente e quei suoi occhi neri freddi e
infastiditi. Perché era alta e forte e in un certo senso
quasi bella, e aveva un senso dell’umorismo abbastanza cupo,
una lingua tagliente e un sorriso – quando
sorrideva:
non succedeva spesso, e forse per questo ogni volta che lo faceva a
Lucy sembrava la prima – fin troppo aperto e spontaneo per
qualcuno chiuso e scontroso come lei.
E
perché sorrideva solo quando parlava con Lucy, ed in un
certo senso la faceva sentire molto più speciale di tutto il
tempo che tutti i paladini che aveva incontrato negli anni avevano
speso per liberarla da qualche prigionia improvvisata.
Oppure, forse,
era perché, mentre le visite al Paletto D’Argento
di Lucy si facevano sempre più frequenti, gli sguardi
seccati e condiscendenti di Gernann si facevano sempre più
rari e i suoi sorrisi non erano più così inusuali.
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Capitolo 4 *** Capitolo Tre: L'Eroe ***
Capitolo Tre:
L’Eroe
Zendrom Kadrim
era, in tutto e per tutto, un eroe.
Aveva profondi
e misteriosi occhi azzurri, soffici capelli ricciuti e dorati e diverse
cicatrici dovute tanto ad epiche battaglie contro creature mostruose e
spietate quanto alle molte volte in cui qualche vecchio saggio
dall’aria antica e imperturbabile aveva deciso per qualche
oscura ragione di trascinarlo in un bosco ed impartirgli svariati tipi
di addestramento che spesso si rivelavano sospettosamente simili
l’uno all’altro. Non gli mancava nemmeno la
famiglia adottiva, alla quale l’aveva affidato in una notte
tenebrosa la bella e caritatevole moglie di un re barbaramente
detronizzato da un manipolo di infidi traditori oppressori del popolo.
Beh, in
realtà si trattava della cortigiana preferita di un re,che
in un pomeriggio come qualsiasi altro l’aveva spinto tra le
braccia di sua cugina con un’esclamazione sulla falsariga di toh, prenditelo, io non so che farmene!
appena la poveretta si era azzardata a dire che bambino carino ...
ma il vecchio monarca vedeva più lei che sua moglie ogni
giorno, in fondo. E il manipolo di traditori era in verità
una fazione dagli intenti rivoluzionari capeggiata da alcuni nobili e
appoggiata da buona parte del popolo che aveva tentato per anni di
trasformare il regno in una repubblica e si era infine dovuta
accontentare di una monarchia regolata dalle leggi di una costituzione
e in cui il re veniva tenuto costantemente sotto controllo da un
parlamento di aristocratici.
Le ragazze,
comunque, preferivano la prima versione della storia. Zendrom le
accontentava.
Era proprio
per via di una ragazza che quella sera era stato costretto ad
avventurarsi coraggiosamente e con fiero sprezzo del pericolo nelle
buie profondità dei Quartieri Interraziali, fino
all’ancora più buia e più profonda
locanda chiamata Al Paletto D’Argento.
Non che lei
glielo avesse espressamente chiesto. E, in effetti, non sembrava molto
in pericolo, o perlomeno spaventata.
Ma Lucy
Hirnadim per quanto carina era sempre stata una ragazza un
po’ strana, in fin dei conti, ed aveva comunque lunghi
capelli biondi e grandi occhi blu. Ergo, era in pericolo ed
era spaventata,
solo che probabilmente non se ne rendeva ancora conto. E poi, nel
tragitto fino alla locanda, Zendrom aveva avuto modo di sconfiggere un
feroce e selvaggio orco ed un ancora più agguerrito
venditore ambulante: un ottimo allenamento e una doppia vittoria,
considerando che i due nemici erano la stessa detestabile persona. Era
stata una battaglia lunga e terribile, soprattutto quando
l’infido avversario aveva sfoderato armi temibili come le
riproduzioni sottovetro della Capitale e i bracciali a prezzi
stracciati al posto di normalissime e rassicuranti asce e mazze
chiodate.
Per fortuna
– nonché per la sua ineguagliabile
abilità nel lanciare piazze e palazzi in miniatura -, ora il
pericolo era passato. Ma Zendrom, seduto al tavolo più
vicino all’entrata, vigilava ancora, i sensi
all’erta e ogni fibra del suo corpo pronta a scattare al
primo segnale di pericolo.
Quel posto non
gli piaceva, pensò. Era vecchio, e sporco, e buio, e
frequentato da gente strana. Lanciò uno sguardo diffidente
ad un uomo – o. almeno, Zendrom supponeva fosse
un normale uomo – incappucciato in un angolo particolarmente
oscuro del locale e una rapida occhiata ad un gruppetto di folletti
vicino alle scale che portavano alle camere per i clienti, e non
guardò nemmeno l’uomo robusto e pieno di capelli
qualche tavolo alla sua destra – probabilmente un lupo
mannaro, o qualcosa del genere.
Il suo sguardo
si posò ancora una volta sulla figura minuta della ragazza a
qualche passo da lui. Lucy non sembrava notare niente che avrebbe
innervosito qualsiasi altra persona normale, dall’aspetto
sgradevole degli avventori agli aloni scuri delle vecchie macchie sui
tavoli al vetro opaco e la ceramica crepata dei boccali. Invece,
sembrava perfino eccitata.
Zendrom si
sporse un po’ oltre il tavolo per osservarla, e
notò che anche qualche altro avventore stava facendo la
stessa cosa. La sua mano destra corse rapida al pugnale che teneva
sempre in una tasca, mentre un’espressione sospettosa si
dipingeva sul suo volto.
Si
preparò a scattare dalla sedia appena avesse visto uno
sguardo troppo intenso o un gesto minaccioso, pronto a difendere
l’onore di Lucy. Gli sembrava che ogni suo muscolo fosse teso
come una corda di violino.
Forse sta finalmente per
succedere qualcosa!, si disse speranzoso. Si sentiva
ribollire di eccitazione. Un
litigio, o
una rissa, o un duello, o ...
- Avete deciso
cosa prendere? – giunse una voce seccata alle sue spalle,
facendolo sobbalzare. In un attimo, Zendrom estrasse il pugnale e si
voltò con un gesto fulmineo, pronto a colpire.
La cameriera
alzò gli occhi al cielo, ma non sembrò
particolarmente turbata, come se fosse abituata a certi gesti violenti
e li considerasse solo una banale seccatura. Ripeté la
domanda, impassibile. Zendrom quasi si ritrovò ad arrossire,
mentre si rilassava e riponeva lentamente nella tasca il coltello.
Poi si
ricordò che non aveva motivo di sentirsi in imbarazzo per il
giudizio di un essere inferiore – una cameriera troll, per di
più: la corporatura massiccia e il malsano colorito
verdastro erano indizi sufficienti per stabilirlo.
- Un birra,
sguattera – borbottò, tornando subito a rivolgere
la sua attenzione a Lucy. Avrebbe potuto giurare di aver sentito la
troll mormorare qualche parola dall’aria non molto
lusinghiera nella sua lingua barbara, ma non vi badò. Era
lì per qualcosa di più importante della
maleducazione di una straniera ignorante che probabilmente non
l’aveva nemmeno riconosciuto per il guerriero valoroso ed
eroico che era.
Fu proprio in
quel momento che quel
qualcosa di più importante decise di voltarsi
verso di lui e prestargli attenzione per la prima volta in tutta la
serata.
Il grazioso
viso candido della ragazza parve illuminarsi, risplendere di una luce
abbagliante nell’insopportabile penombra del locale, e i suoi
limpidi occhi blu divennero, se possibile, ancora più
grandi. Zendrom fu quasi certo di averla vista sbattere le lunghe
ciglia dorate in un gesto che avevo un che di ingenuo e di civettuolo
allo stesso tempo. L’eroe gonfiò il petto e le
regalò il più smagliante dei suoi sorrisi
– il Numero Quarantatre, per la precisione, quello che faceva
arrossire come mele mature le locandaie e sospirare le fanciulle di
buona famiglia.
- Gernann!
– esclamò Lucy, entusiasta, lo sguardo fisso
sull’imponente donnone troll.
- Cosa?
– riuscì a dire Zendrom, dopo un attimo di
completo disorientamento, il sorriso svanito dalla sue labbra senza
aver provocato nemmeno uno svenimento.
Gernann, da parte
sua, rimase in silenzio e fece un cenno con la testa verso la ragazza,
prima di avvicinarsi al suo tavolo. – Stavolta mi lascerai
prendere le ordinazioni in pace? – chiese, inarcando un
sopracciglio con aria severa. Lucy rise – una risata
spontanea, argentina, come una tra buoni amici – e perfino la
serva troll si concesse un breve sorriso, qualcosa simile a un misto di
rassegnazione e riluttante affetto nell’espressione ad
addolcire i lineamenti di pietra del suo viso.
- Cosa?
– ripeté Zendrom. Entrambe lo ignorarono.
C’era
decisamente qualcosa di anormale in Lucy Hirnadim, Zendrom
l’aveva sempre detto. Magari dipendeva dal frequentare troppo
quel locale – chissà quante tempo aveva passato
con vampiri e licantropi e gente del genere, per avere una simile
confidenza con una selvaggia troll!
Sì,
dovevano aver sfruttato la sua ingenuità, il suo buon cuore,
il suo ostinarsi a vedere qualcosa di buono in tutti ... beh, anche se
in questo caso qualcosa
di buono doveva essere stato difficile da trovare anche
per lei.
Lucy, ignara
del suo sguardo, salutò candidamente la troll agitando una
mano mentre la cameriera riprendeva a fare il suo lavoro.
O forse Lucy
era solo strana.
Ma questo non
significava che Zendrom non avesse il dovere o almeno il diritto di
proteggerla – almeno fino a quando non fosse arrivata in
città un’orda di orchi o una vecchia megera piena
di decotti di erbe e amuleti dall’aria inquietante. Qualcosa
di interessante,
insomma.
Sarebbe
tornato, si disse l’eroe, frastornato ma deciso, prima di
affrettarsi ad uscire dalla locanda.
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