Nenè

di Trigger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Matrimoni e funerali ***
Capitolo 3: *** Dawson e Joey ***
Capitolo 4: *** Le tre Grazie ***
Capitolo 5: *** A differenza delle persone normali ***
Capitolo 6: *** Buon compleanno! ***
Capitolo 7: *** Mantenendo vivi i ricordi ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Alle mie due bestie, Giulia e Sonia,
che tirano fuori il meglio del peggio che c'è in me;
grazie.







Nenè
 - Introduzione -



 

Delle urla ruppero il silenzio della notte in cui la casa di Agnese era sprofondata da qualche ora. Urla di terrore che imploravano aiuto, puntuali come un orologio svizzero. Anche se, in realtà, Agnese non conosceva la differenza esistente tra gli orologi svizzeri e quelli italiani.
 
Ma se ve lo steste chiedendo: no, nessuno stava per morire preda di atroci torture. Non è il tipo di storia che vi voglio raccontare.
 
Era solo la voce agghiacciante dell’inquilina dell’appartamento che si trovava al piano superiore: una trentenne zitella senza lavoro che viveva ancora con i genitori e che, ogni singola notte da quando Agnese aveva comprato quella casa, urlava vittima - non ci è dato sapere di che tipo - di incubi alle due del mattino.
A volte Agnese si svegliava pensando che stesse semplicemente riscaldando la voce per poi intonare secondo  lei – rovinare, secondo Agnese - una delle sue arie preferite.
 
Quella sera però, Agnese non si era svegliata.
Agnese era letteralmente balzata a sedere sul letto.
Il suo problema era che non si era ancora addormentata, troppo concentrata a stringere tra le braccia il peluche a forma di dinosauro che aveva rubato dalla camera di suo fratello quando era ancora una bambina. La causa di tale insonnia era quel film horror che la televisione aveva deciso di trasmettere proprio l’unica sera in cui Agnese era rimasta a casa e la luce aveva deciso di abbandonarla.
Ma era una giovane donna impavida, Agnese, tanto da non aver voluto cambiare canale. Voleva dimostrare a Dino – il dinosauro morto soffocato tra le sue braccia –, che la guardava con quegli occhi spalancati, di non aver paura.
 
Non aveva messo in conto però, quel bambino con i capelli rossi che doveva sicuramente essere il protagonista - perché sua nonna lo diceva sempre: i bambini con i capelli rossi sono figli del demonio, Nenè! Non ti ci avvicinare mai! – e che la guardava con occhi vitrei e cattivi.
Praticamente, Agnese sudava freddo già dal terzo minuto di riprese.
Al trentesimo poi, Dino aveva preso il suo posto e l’aveva protetta dalle grinfie del 26 pollici davanti al divano verde.
Un cavaliere d’altri tempi, insomma.
Agnese, in questo modo, vide solo i titoli di coda, comunque abbastanza spaventosi da toglierle il sonno.
 
Ed ecco la storia di Agnese e del film di paura. Certamente breve, ma intensa come un pugno in pieno stomaco. Agnese infatti, non era poi così impavida come voleva dimostrare, ma aveva molte altre qualità. Era una persona equilibrata, più o meno come i piatti di una stessa bilancia aventi come pesi un elefante a destra e un canarino a sinistra, paziente come la sua prima babysitter durante quel periodo del mese – perchè la nonna le diceva sempre anche quello: non dire mai la parola ‘mestruazioni’ quando sei in compagnia, Nenè! Non è educato, Nenè. - , simpatica tanto quanto il cane di sua zia che le faceva pipì sulle scarpe ogni volta che la vedeva e dolce come una tazzina di caffé senza zucchero.
 
Non si può dire però, che non fosse una ragazza da sposare, a detta di sua madre, che non vedeva l’ora di levarsela dai piedi e propinarla ad un uomo più giovane in grado di accoglierla nella sua casa e sopportarla per il resto della sua vita.
 
Una donna adorabile, sua mamma. Più o meno come sua nonna.
 
In realtà, Agnese un fidanzato ce l’aveva già, nonostante sua mamma non lo prendesse poi così in considerazione. Si chiamava Michele, aveva due occhi… no, in realtà non era possibile definire il colore dei suoi occhi a causa delle lenti spesse come fondi di bottiglia, però era accertato che ce li avesse, due occhi. Michele infatti, era leggermente miope, ma Agnese lo trovava quasi adorabile con quegli occhialoni neri.
Facevano coppia fissa da quando avevano più o meno cinque anni e frequentavano l’ultimo anno d’asilo. Agnese un giorno gli aveva regalato un pezzo di stoffa per pulire quegli occhiali che portavano le sue impronte digitali sopra e da allora erano un po’ come uno scoglio e la sua cozza. Un paragone suggerito dalla nonna, ovviamente, che non smetteva mai di ricordarle quanto quel ragazzo fosse inutile per lei – Ma almeno, ti bacia mai quel Matteo? Michele, nonna. Quello che è Nenè, non fare la pignola.-
Ma ad Agnese riusciva bene quella parte, soprattutto quando non le andava di dare ragione alla nonna. Era solo un po’ timido, il suo Michele.
 
Agnese così, sessualmente frustrata già alla tenera età di ventidue anni, cercava conforto in Dino - certamente più virile del suo fidanzato -, nei telefilm e nel cioccolato.
 
Ma questa non è la storia che le farà trovare il principe azzurro, né una fabbrica di cioccolato dove poter lavorare e mangiare per il resto della sua vita.
Questa è la storia che narra le gesta di una bambina e del suo dinosauro; di un’adolescente e del suo fidanzato quattr’occhi; di una giovane donna, di sua madre e di sua nonna.  
 
Questa, questa è la storia di Nenè.


 

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Capitolo 2
*** Matrimoni e funerali ***


Capitolo 1
- Matrimoni e funerali -



Ventiquattro anni prima sua mamma aveva fatto il più grande errore della sua vita. Un errore che si era nutrito del suo sangue e del sangue della sua famiglia, alto un metro e ottantacinque, con grandi occhi neri, corti capelli ricci e poca materia grigia: lo chiamavano Alessandro.

Alessandro era stato per Agnese, in ordine cronologico: un bambino che stava a casa sua mattino, pomeriggio e sera, scroccava i pasti da sua madre e faceva strani versi quando giocava con le macchinine; il ragazzetto con i capelli sporchi di gelatina – ma la gelatina non si metteva solo nelle caramelle? - che le faceva i dispetti e ascoltava musica imbarazzante; il suo principe; un diciottenne incapace di aprire la porta di casa durante la notte senza far rumore; l’uomo che un giorno avrebbe sicuramente sposato; un animale domestico molto simile ad un babbuino.

Sua madre lo definiva molto simpaticamente suo fratello, ma la storia che Agnese raccontava quando le amiche le chiedevano chi fosse quel bel ragazzo che la accompagnava all’università, era certamente più drammatica e complessa.
Secondo il suo punto di vista infatti, Alessandro fu trovato che giaceva tutto sporco e vestito di stracci ai piedi del cassonetto che si trovava all’angolo della via che portava a casa sua. Era povero, solo e analfabeta, ma sua mamma, che in quegli anni possedeva ancora un cuore, lo prese con sé, dandogli una casa, un nome e, in seguito, una sorella che avrebbe venerato. Evidentemente si era dimenticata di dargli anche un’istruzione, ma Agnese sapeva che non si poteva avere tutto dalla vita. Ovviamente, non poteva nemmeno conoscere tutti i dettagli della storia perché ancora non onorava il mondo della sua meravigliosa presenza, o forse perché rischiava di destare troppi sospetti. Sua nonna le diceva sempre di non aggiungere troppi dettagli alle bugie - Nenè, le bugie hanno le gambe corte. Se le devi dire, almeno dille bene! -, eppure lei non riusciva a terminare la storia di suo fratello senza un finale con i fiocchi ed è per questo che, secondo Agnese, quando sua zia Olga – la padrona di quell’adorato barboncino bianco incontinente – lo trovò a casa, rischiò di avere un infarto.

Ma questa storia, Alessandro, non la conosceva. O forse, fingeva di non ricordarla.
Ed era sicuramente meglio così.
Agnese ricordava bene quella volta in cui lo aveva fatto infuriare – gli aveva solo detto di aver tenuto la mano a Michele! – e lo ricordavano bene anche le sue adorate bambole. Che riposino in pace, ovunque esse si trovino.

Avevano rispettivamente sei e otto anni ed era un pomeriggio d’aprile. Agnese non aveva certamente dimenticato il momento in cui aveva aperto la porta della sua meravigliosa stanzetta gialla. Lo ricordava, più precisamente, come il momento più triste e allo stesso tempo più fortunato della sua vita.

- Oggi abbiamo insegnato…-
- Imparato, Nenè. –
- E’ quello che ho detto, mamma. Dicevo, oggi abbiamo imparato a scrivere le lettere in corsivo. Mi riescono tutte benissimo! –
- Proprio tutte? – Sua madre aveva sempre creduto nelle sue capacità.
- Ok, forse ho un po’ di problemi con la H maiuscola, ma non è questo il punto, mamma. –
- Qual è il punto, allora? –
- Se la smettessi di interrompermi ci arriverei, mamma. –
- Agnese! –
- Sì, sono io. Allora, dov’ero? Ah sì, ad un certo punto, Michele si è sentito male! Era diventato di un colore strano, simile al verde. Hai presente il colore delle lenzuola della nonna? Ecco, sì proprio quello. –
- Oh Dio, non ti avrà attaccato mica l’influenza! – Si era messa a toccarle la fronte e ad aprirle la bocca per controllare le tonsille, stava per alzarle la maglietta per controllare la pancia – come se avesse raggi infrarossi al posto degli occhi, poi! – quando Agnese la fermò.
- Gli ho tenuto la mano, mamma. Forse dovresti controllare quella. – e le stava seriamente porgendo la sua manina, quando suo fratello palesò la sua presenza lasciando cadere la cartella sul pavimento, in mezzo al corridoio. Era leggermente pallido e Agnese ricorda di averlo paragonato a zia Pina e alla faccia che fece quando un giorno, mentre era a prendere il sole sulla spiaggia con un grosso cappello di paglia in testa, un’ape le si posò sul naso.
- Tu hai fatto cosa? –
- Ho insegnato… -
- Imparato, Agnese. – sua mamma non mancava mai di incoraggiarla e sostenerla nei momenti di necessità.
- Ho imparato a scrivere le lettere in corsivo! –
- Cosa c’entra quel bambino? –
- Uh, Michele. Poveretto, si è sentito male e abbiamo dovuto chiamare la bidella. Però io gli sono stata accanto e gli ho stretto la mano forte forte. Mi ha anche ringraziato. – Agnese giurava di aver visto Alessandro diventare molto più simile a Casper, che alla zia Pina.
- Mamma, quello le sta troppo appiccicato, dovresti parlare con i suoi genitori. –
- Mamma, ma non gliel’hai detto che Michele ed io ci sposeremo? –
In quel momento successero troppe cose insieme: sua mamma le faceva segno di tacere, sua nonna ronfava sul divano, la televisione stava trasmettendo la pubblicità delle Gocciole Pavesi, suo fratello gridava cose senza senso – comunque, una cosa del tipo: tu non ti sposerai con nessuno! E’ tutta colpa della nonna che continua a farle vedere Beautiful - e iniziava a correre verso la sua camera.

Forse anche suo fratello si era preso l’influenza, quindi decise di andare a lavarsi quella mano infetta, prima che la malattia colpisse anche lei. Proprio non voleva diventare color lenzuolo della nonna.

Nel pomeriggio pensò che era giunto il grande momento per Ken e Barbie, avrebbero fatto il grande passo, come lo chiamavano in televisione. Erano anni ormai che convivevano ma Ken era troppo timido per chiederle di sposarlo.
Un po’ come il suo Michele.

Sua nonna le diceva sempre che i veri uomini si inginocchiavano di fronte alla propria donna, quando dovevano fare certe proposte, ma per Ken avrebbe fatto un’eccezione. Non tanto per orgoglio maschile, quanto più per mancanza di legamenti al ginocchio.

Quel giorno però, non venne celebrato alcun matrimonio.
Quel giorno Agnese pianse la morte dei due amanti, uccisi e decapitati dal quel boia di suo fratello.

- Che fai, Nenè? - sua nonna l’aveva trovata in bagno con il suo foulard stretto intorno alla fronte mentre si dipingeva le guance di nero, pronta a dichiarare guerra al nemico.
- Devo entrare nella camera di Alessandro. –
- Tua madre lo sa? –
- No, crede che mi sia chiusa in bagno per piangere, quindi acqua in bocca. –
- Promettimi solo che tornerai sana e salva. – Sua nonna era particolarmente affezionata alla sua unica nipote femmina.
- Tornerò nonna, te lo giuro. –
L’aveva lasciata così, con una carezza e lo sguardo carico di un giovane quanto forte spirito patriottico.

Com’era quel detto che le diceva sempre la nonna?
Occhio per occhio, dente per dente, Nenè. Non porgere mai la tua bella guancia all’avversario, chiunque esso sia.
Aveva tentennato un pochino solo nel momento in cui si era trovata di fronte ai calzini sporchi lasciati sul pavimento, ma tappandosi il naso con due dita, si era fatta coraggio ed era andata avanti. Dritta verso la sua meta senza mai voltarsi.
Una valorosa guerriera.
Sapeva già cosa colpire: era lì, fiero e impassibile sulla sua scrivania, il pallone d’Achille di suo fratello - anche se in realtà Agnese non sapeva per quale motivo un pallone che apparteneva ad un bambino di nome Achille dovesse appartenere anche ad Alessandro -, che non era nemmeno un pallone a dir la verità, ma un peluche.
In fondo, chi era lei per modificare antichi detti popolari?

L’aveva chiamato Rex, ma Agnese aveva sempre desiderato dargli un nome più da dinosauro che da cane. Suo fratello non aveva molta fantasia.
Era alto quasi quanto lei ed era così morbido che Agnese apportò radicali modifiche al suo piano originale, subito dopo averlo accarezzato.
Avrebbe dovuto sgozzarlo e ridurlo a pezzettini. Avrebbe voluto perfino usare la salsa della mamma per simulare un po’ di sangue, ma quel pelo e quegli occhietti – oh, quegli occhietti! – erano così soffici e dolci che Agnese aveva deciso di compiere un’azione ben più nobile dell’omicidio. Aveva deciso di adottarlo e salvarlo dalle grinfie di quella bestia che era suo fratello.
- Oh, piccolino, non devi più aver paura. Adesso ci sono io con te. -
L’aveva abbracciato e, silenziosamente, l’aveva portato in camera con lei.

- Ora ti faccio conoscere Tanya, unica sopravvissuta alla strage. -
- Tanya, questo è Dino. Lo so che può sembrarti troppo grande, ma ti assicuro che ha un cuore tenero. –

Nonostante il nome da prostituta rumena, Tanya si dedicò a Dino con tutta se stessa, anima e plastica. I due divennero amanti e si sposarono lo stesso giorno in cui Agnese decise di celebrare il funerale di Barbie e Ken, in onore del loro amore, al quale parteciparono tutti i membri della sua famiglia, compreso Alessandro, che piangeva per la commozione, o forse per la fine che sua sorella aveva fatto fare al suo compagno di giochi, coperto da uno straccio nero – E’ uno smoking, Ale. – e costretto a sposarsi. Ma questo a noi non è dato saperlo.

Al matrimonio per metà funerale, Agnese aveva invitato anche Michele – Mamma, Michele deve sapere come si svolge un matrimonio, altrimenti al nostro come farà? -, che all’epoca portava occhiali blu e camicie a quadri. L’aveva tenuto per mano, dopo essersi procurata un guanto, per tutta la durata della cerimonia - di cui lei si era proclamata sacerdotessa - per fare un dispetto a suo fratello. Non si era nemmeno accorta del rossore sulle guance del suo compagno di banco, che si sentiva morire dall'emozione ogni volta che lei intrecciava le piccole dita coperte dai guanti – si diceva che fosse una bambina freddolosa, quella Nenè - alle sue. Ma questa è un’altra storia.

Quel giorno – il più triste e allo stesso tempo più fortunato della sua vita – Agnese capiva che con i giochi da maschi ci potevano giocare anche le femmine; che non avrebbe più dovuto parlare di Michele con suo fratello; che il telefilm ‘Centovetrine’ annoiava sua nonna tanto da farla addormentare e per ultimo, ma non d’importanza, che un dinosauro come Dino era cento volte migliore di tutte le Barbie del mondo.













- Trig's corner -
Io non so come ringraziare tutte voi, davvero. Non mi aspettavo un'accoglienza così calorosa! Siete fantastiche e vi amo tutte. *Lancia pezzi di cioccolata*
Questo è il primo vero capitolo. Essendo una raccolta, sarà un insieme di episodi, probabilmente non collegati gli uni con gli altri - non a caso è detta raccolta, lo so -, che mi permetterà quindi di spaziare e dare spazio a tutti i personaggi che fanno parte della vita di Agnese. Qui troviamo Dino - che è ha un successo come playboy (?) - e Alessandro, con una spruzzatina di nonna, mamma e Matt... Michele!, qua e là.  Spero seriamente di non aver deluso le vostre aspettative e di avervi strappato quanto meno un sorrisetto. 

Per oggi è tutto gente, io mi rotolo verso il divano ora. 
Buona Pasqua e Pasquetta! Che la forza dell'alcool e del cioccolato sia sempre con noi, 
amen.

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Capitolo 3
*** Dawson e Joey ***


Capitolo 2
- Dawson e Joey -

 

Agnese aveva un grosso problema ed era molto fiera di ammetterlo a se stessa, perché farlo significava essere sulla strada della guarigione. O almeno, così dicevano gli psicologi in televisione. Sua mamma lo chiamava DODT, che a quanto pare stava per Dipendenza Ossessiva Da Telefilm; sua nonna semplicemente non lo chiamava in nessun modo, perché era consapevole di esserne affetta tanto quanto la nipote. Questione di geni.
 
Agnese aveva fatto di Dawson’s Creek la sua Bibbia, di The O.C. il suo Vangelo, di Dr. House il suo medico e di Beautiful il manuale delle cose da non fare quando si è fidanzati. Doveva tutto ai telefilm, Agnese, soprattutto una buona dose d’educazione. Era sempre stata convinta infatti, che avrebbe imparato più da quelli, che dai suoi libri di scuola. Le sue maestre non le avevano mica mai spiegato come si bacia un ragazzo, ad esempio. Altro che teorema di Pitagora. Cosa mai avrebbe dovuto farci con quello? Forse avrebbe potuto mettere un quadrato sulla testa di Michele.
 
Ma per fortuna c’era Joey Potter al mondo, creata per dare risposta a tutti i dubbi della nostra Agnese, che allora era una giovane e agguerrita donzella alla scoperta del contatto fisico. Ovviamente, vittima dei suoi terribili tentativi, altri non era che Michele, quel povero ragazzo dai buffi capelli biondi che la conosceva più o meno da quando portava ancora il pannolino.
 
Il primo esperimento risaliva alla quarta elementare. Quel giorno Agnese si sentiva particolarmente sicura di sé, si era perfino fatta le trecce; aveva indossato una t-shirt rosa confetto e una gonnella a quadri neri e bianchi. In realtà odiava il rosa e odiava i confetti, ma in giro si diceva che il rosa fosse da femmina e lei, quella mattina, voleva essere femmina per il suo Michele.
 
Durante le prime due ore – italiano e matematica, le ore più noiose della vita scolastica di Agnese -, la maestra Adelaide notava una certa agitazione lì al terzo banco della fila centrale. C’era quell’alunna, una certa Agnese Copetti, che continuava a scrivere per poi cancellare, e poi riscrivere ancora, bigliettini indirizzati a Michele Mele che arrossiva ogni qual volta ne leggeva uno.
 
Giunta la ricreazione, Agnese aveva finto di avere un dolorosissimo mal di testa, aveva poggiato la testa sul banco e aveva aspettato immobile la mossa del suo dolce compagno. Sapeva che l’avrebbe raggiunta e che il suo spirito da crocerossina avrebbe prevalso sulla sua timidezza. Fosse stato per lei, avrebbe fatto tutto da sé, ma la nonna, che non mancava mai di riempirle la testa di piccole perle di saggezza, proprio la sera precedente le aveva detto: “Nenè, le donne per essere amate, se la devono tirare un po’; se l’uomo non fa il primo passo, lascialo perdere e trovane un altro.”
Ma ad Agnese proprio non le andava di lasciar perdere Michele, quindi aveva deciso di dare un piccolissimo contribuito e spingerlo tra le sue braccia.
 
Come previsto, il biondino dagli occhi color cioccolato, l’aveva raggiunta preoccupato e le aveva fatto una timida carezza sui capelli.
 
- Che hai, Nenè? Stai male? Vuoi che chiami la maestra? -
Era sempre stato un tipetto un po’ ansioso, fin da bambino.
- Credo di avere un po’ di febbre, non è che puoi controllare? -
Michele aveva allargato leggermente le pupille e si era sistemato nervoso gli occhiali sul naso.
– S-sì, certo, Nenè. -
Agnese così, aveva chiuso gli occhi come da copione e aveva aspettato il bacio che l’avrebbe risvegliata. Aspettava un qualcosa che però non arrivò. Quelle che aveva sentito non erano di certo le labbra di Michele e se lo erano, facevano veramente ribrezzo. Erano screpolate e rattrappite e le avevano irritato la pelle della piccola fronte nascosta dalla frangia scura. Erano le labbra della maestra Adelaide, che Michele aveva gentilmente chiamato prima di scappare in bagno come il peggiore dei fuggiaschi.
 
Il primo esperimento era fallito miseramente, ma Agnese non si dava per vinta. Avrebbe avuto il suo bacio, con le buone o con le cattive.
 
Per il secondo tentativo, Agnese aveva scelto le cattive.
Si trovavano nel parco vicino la loro casa e ormai frequentavano la quinta elementare. Il sole faceva capolino di tanto in tanto, nascosto da grandi nuvole bianche che si muovevano alla velocità di una lumaca.
Michele se ne stava sdraiato sull’erba con le mani dietro la testa, ad osservare alcune farfalle che svolazzavano lì intorno.
 
- Sai che le farfalle vivono solo un giorno, Nenè? -
- No, Michi, non lo sapevo. –
- E sai che prima erano dei bruchi? –
- Davvero? –
- Già, e sai che la farfalla più grande al mondo può aprire le ali fino a… -
Agnese non avrebbe mai saputo quanto fosse ampia l’apertura alare della farfalla più grande al mondo, poiché gli aveva tappato la bocca con la sua.
Era un bacetto a fior di labbra che li aveva fatti rimanere con gli occhi spalancati per qualche minuto buono. Al contrario delle aspettative però, non era stato Michele a spostarsi per primo, ma Agnese. Si era pulita le labbra con la manica della maglietta blu e aveva affermato, bella come il sole:
- Che schifo. -
 
 

Dopo i primi due tentativi, Agnese non era poi così convinta di volerne ancora. Ma si sa, l’adolescenza è una brutta bestia. Se aggiungiamo poi una bella dose di ormoni, Joey Potter che bacia il suo migliore amico e nonna Gisella che incita il tutto come la cheerleader del telefilm più banale del mondo,  otteniamo Agnese e Michele avvinghiati e intenti a scambiarsi il loro primo vero bacio.
 

Avevano entrambi quindici anni e qualche mese, Agnese riempiva i reggiseni e Michele iniziava ad usare i primi rasoi. Era d’estate quando Agnese aveva dato il suo primo bacio e aveva fumato la prima e ultima sigaretta della sua vita. Prima uno, poi l’altra. Era luglio e i loro genitori li avevano spediti in campeggio con il gruppo del catechismo. Il bosco era pieno di insetti che Agnese odiava e che Michele invece studiava affascinato; lì vicino c’era un laghetto dall’acqua sporca e piena di briciole di pane che il gruppo dei più piccoli aveva lanciato a non si sa quali pesci.
Don Ugo li aveva divisi in coppie e aveva consegnato loro il materiale per costruire una tenda. C’era anche un foglietto d’istruzioni in tedesco, lì da qualche parte, che ovviamente non avevano usato.
 
Michele si era improvvisato un esperto e aveva iniziato a lavorare, infilando paletti nel terreno e qualcos’altro che Agnese non aveva saputo riconoscere sul momento; lei invece, era scomodamente seduta su una roccia a rivoltare i loro zaini in cerca di qualcosa da mangiare.
 
Il sole stava tramontando quando Michele aveva sollevato le braccia pelle e ossa, entusiasta del suo piccolo successo. La tenda era in piedi e sembrava perfino stabile!
Si girò verso Agnese e con una mano la invitò ad entrare, concedendole il disonore di provarla per prima, da gentiluomo quale era.
Agnese un po’ riluttante era entrata e si era seduta, aveva acceso una lanterna e steso il sacco a pelo.
 
Quando anche Michele aveva preso posto, entrambi si erano resi conto che quella tenda era troppo piccola per loro e che li costringeva a stare più vicini di quanto Michele avesse previsto.
Non sono pronto, si ripeteva. Eppure lei era lì, con i capelli scuri un po’ tendenti al liscio, un po’ tendenti al riccio. Gli occhi verdi le brillavano alla luce della lanterna e la pelle abbronzata era invitante come una coppa di fragole.
Forse ora sono pronta, si diceva lei. Lui era lì, con i capelli biondi che gli coprivano la fronte; gli occhi dello stesso colore delle nocciole la guardavano come se la stessero guardando per la prima volta, con quegli occhiali un po’ storti e le labbra sottili.
 
- Posso baciarti? -
L’avevano detto contemporaneamente e subito dopo avevano riso come se si fossero scambiati una battuta. Poi si erano guardati e avevano capito che sì, forse erano pronti per un bacio vero.
 
Agnese diceva in giro che era stato lui a compiere il primo passo, per non far brutta figura di fronte alla nonna che altrimenti l’avrebbe costretta a lasciarlo, ma la realtà è che si erano avvicinati insieme e avevano sbattuto la testa l’uno con l’altra; Agnese aveva posato poi la sua bocca su quella di lui come quel giorno nel parco, ma quella volta non le fece poi così schifo. Michele le  prese il viso con le mani, in un moto di tenerezza e passione insieme, poi aveva sfiorato timoroso la sua lingua.
 
Non avevano idea di come fare, tutto era bagnato e viscido e nessuno dei due sapeva come muovere quella dannata lingua, che dava la stessa sensazione che si prova prendendo un polipo in mano. Avevano mosso la testa e fatto scontrare i loro nasi, poi quando erano rimasti a corto di fiato, neanche avessero fatto una gara d’apnea, si erano staccati e si erano guardati, un po’ scioccati, un po’ divertiti.
 
- Non è stato poi così schifoso, no? – aveva chiesto Michele.
- No, non poi così schifoso. – aveva risposto Agnese, per la prima volta a corto di parole. Si erano guardati ancora e stavano per riprovarci quando la tenda crollò dolorosamente sulle loro teste.
 
Joey Potter diceva che per ogni Dawson c’era una Joey e che per ogni Joey c’era un Dawson; Agnese diceva che di Dawson, Michele aveva solo il colore di capelli, che come lui ce n’era uno solo – “Ringraziando il Cielo, Nenè”, le diceva la nonna – e che lei si sarebbe coraggiosamente fatta passare per la sua Joey, promettendo di non cercare altri Dawson al di fuori di lui.







- Trig's corner -
Ed eccomi ancora qui; mi ero ripromessa di postare una volta a settimana e stranamente, all'ultimo secondo, ce l'ho fatta. Questo capitolo è stato un parto - e sono solo al secondo, santa pazienza - e non ce l'avrei fatta se non avessi avuto le mie cheerleader personali, pleinelune/Sonia/twin e Giulia/Carolina/bestia, che non smetto mai di ringraziare, manco fossi alla premiazione degli Oscar. 
Insomma, io ho amato terribilmente Michelino in questo capitolo, che fa troppa tenerezza da quant'è impacciato, e spero che iniziate ad apprezzarlo anche voi conmigo.
E niente... (-cit. mia nonna), questo è tutto, per oggi. Risponderei ora alle meravigliUOse recensioni che mi avete lasciato, ma devo necessariamente scappare a studiare. Lo farò domani con tanto amore.

Alla settimana prossima - si spera -,
Trig.

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Capitolo 4
*** Le tre Grazie ***


Capitolo 3
- Le tre Grazie -

 

 
- Secondo te qual è il Sol? -
- Non ne ho idea. Prova con un tasto bianco. –
- Nenè, ce ne sono cinquantadue bianchi! –
- Li hai contati? –
- Mi annoiavo. -
- Oh, allora prova con uno nero. –
- Nah, non mi sembra un Sol questo. E’ troppo nero per esserlo. –
- Forse è un Do. Adesso provo. – Carolina aveva schiacciato un La e il ragazzo davanti era saltato sullo sgabello per lo spavento.
- Nah, probabilmente è un Mi. Il Do è più basso, non può essere. –
- Se nella scala lo dici per ultimo è il più alto! –
- Ma se lo dici per ultimo da dove cominci? -
- Ragazze, Santo Cielo! Sto cercando di ascoltare! –
- Chi? –  Agnese e Carolina riuscivano sempre a parlare contemporaneamente.
- Il maestro! Ma non lo vedete quant’è affascinante? –
- Per bacco! C’è un maestro? Lina, tu lo sapevi? –
- Cosa vuoi che ne sappia? Io pensavo stessimo qui per ingannare l’attesa del pullman! –
 
- Signorine, voi lì in fondo. Se non siete interessate, potete tranquillamente abbandonare la lezione. C’è gente che vorrebbe seguire. – aveva affermato l’uomo vestito di nero nascosto dietro un lungo pianoforte a coda.
 
- Mari, ma adesso anche i becchini suonano il piano? Allora va di moda! – aveva sussurrato estasiata, Agnese.
- Si dice necroforo, Nenè, non fare la popolana! – Carolina ci aveva provato sul serio, a fare l’intellettuale, ma subito era stata smontata.
- Ma chi sei tu? Lo spirito di Marina si è impossessato di te? Esci dal corpo della mia migliore amica, Satana! –
 
E fu quando Agnese aveva iniziato a scuotere violentemente Carolina per le spalle, che Marina aveva deciso di trascinarle fuori dall’aula tirandole per i polsi prima di prendere la drastica decisione di mettere la testa sotto terra, tanta era la vergogna.
Mai, mai più nella sua vita, le avrebbe portate ad una lezione di pianoforte.
Cosa avrebbe pensato il suo adorato maestro?
 
Diciotto anni di vita buttati via come macchine fotografiche usa e getta.
 

 

***

 

Alessandro le chiamava ‘le tre Grazie – Grazia, Graziella e Graziana –’ e ogni qualvolta apparivano sulla soglia di casa, decideva autonomamente di doversi fare un giro per la città insieme a Michele, che gli faceva una gran pena – non avrebbe augurato nemmeno al suo peggior nemico una giornate con le Grazie -, e Dino, che non avrebbe mai dimenticato il lavaggio in lavatrice – e la conseguente perdita di quel verde vivo che caratterizzava il suo pelo – dovuto ad un make-up da vero fotomodello, che le arpie gli avevano propinato per provare nuovi tipi di ombretti luminosi. Per non offenderle però, Alessandro diceva di voler passare solo un po’ di tempo con il suo vecchio amico e dare delle dritte a suo cognato in fatto di donne.

 
Mamma Vittoria era convinta che ad Agnese proprio non facevano bene quelle due strambe ragazze, mentre nonna Gisella le accettava di buon grado perché quando passavano i pomeriggi a casa a sperimentare nuove ricette, anche lei aveva il permesso di guardare quel programma di cucina con quel cuoco affascinante che diceva tante parolacce – Gordò Ramsik, le pareva si chiamasse – e che lanciava i polli sul muro. 

 
 

***

 

Carolina Campana, per le amiche Lina,era venuta alla luce un piovoso venerdì 17 novembre del lontano 1990. Il giorno in cui era nata non le aveva mai portato molta fortuna, tanto che quando arrivava a casa, si chiudeva a chiave lasciando fuori il suo gatto nero, che girovagava per la città in cerca del cibo che la sua orrenda padrona si dimenticava di lasciare fuori la porta.
 

Lina studiava ingegneria aerospaziale – Sembra scema, ma se la metti a terra cammina, se ne usciva ogni tanto nonna Gisella dopo una delle sue visite - nella facoltà che si trovava di fronte alla pasticceria più fornita della città; aveva una smodata passione per le Converse, per Marte e per gli animali – molto spesso piangeva per la morte delle formiche e si era iscritta al WWF per proteggere la rara specie dei panda a pois; sognava di morire tuffandosi dalla roccia più alta delle cascate del Niagara e di sposarsi con il fratello di una delle sue migliori amiche nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi, nonostante conoscesse a malapena due parole in francese e odiasse la Tour Eiffel per quell’altezza spaventosa, che solo guardarla dal basso le faceva venire le vertigini.

 

Marina era la terza parte del trio, un po’ come lo Spirito Santo nella Santissima Trinità o il Paradiso di Dante dopo l’Inferno e il Purgatorio o ancora – ad Agnese piaceva molto di più questo paragone –, come Aldo dopo Giovanni e Giacomo.

 

Erano l’una l’opposta dell’altra - ad Agnese, per esempio, piaceva la vodka alla pesca, a Carolina quella alla fragola e Marina era quella che riusciva ad ubriacarsi anche con una lattina di Coca Cola -, litigavano un giorno sì e l’altro pure, ma in fondo, avrebbero dato la vita – un braccio, al massimo – per le altre.

 

Marina, oltre a quella per i maestri di pianoforte, aveva la passione per il mare e i ragazzi biondi, per i Beatles e per Abbey Road, che sognava di poter attraversare – travestita da John Lennon – almeno una volta nella sua vita; oltre ai Beatles, solo un’altra era la cosa che amava di più al mondo: la sua Vespa gialla. Le era stata regalata il giorno del suo diciassettesimo compleanno e da quel momento non se ne era più separata. La usava perfino per andare al supermercato che si trovava a 50 metri da casa sua, ed era con quella che Marina, Carolina e Agnese sognavano di fare il giro del mondo, un giorno.

 

- Io voglio assolutamente passare dall’Azerbaigian. – diceva Carolina in quelle serate passate sul divano – lei sul lato destro, Marina al centro con il mappamondo sulle gambe e Nenè sulla sinistra, seduta sopra la coda del suo dinosauro – a scegliere il percorso da seguire.
- Io voglio passare dall’Uganda, dicono che lì si mangino ottime banane verdi. –
- Agnese, le banane verdi le vende anche Pino il fruttivendolo sotto casa mia. –
- Sei così demotivante, Marina. –
- Sono solo oggettiva! –
 
E mentre Agnese era impegnata a farle il verso alle spalle, lei aveva scelto la sua destinazione.
- Passeremo da Roma. –
Le amiche l’avevano guardata perplesse.
- Che c’è? –
- Marina, tesoro, a Roma possiamo andarci anche domani. –
- Sul serio? – non poteva credere alle…
- No. Andiamo, vogliamo fare il giro del mondo e tu vuoi passare da Roma? E’ così banale! - …sue orecchie, appunto.
Adorava le sue amiche.

 

- Mari, c’è mica posto anche per Dino sulla tua Vespa? -
- Solo se riesce a dimagrire di almeno cinque chili, Nenè. –
- Dino, hai sentito? Da lunedì tutti a dieta! – Agnese non aveva mica perso la convinzione di poter parlare con un peluche, crescendo.
- Nenè, ma dici così tutte le domeniche dopo pranzo! –

 


***

 

Erano più o meno cinque anni che le loro vite continuavano a fare a pugni tra loro; tutto era cominciato davanti alla vetrina del negozio di elettronica in via Venezia…
 

- Michi, amore, non è che per caso vieni a prendermi? Sono senza ombrello, piove e fa freddo! -
- Ma Nenè, sono in gita a Firenze! –
- Per tutti i cani della Carica dei 101! Perché non me lo hai detto? –
- Scherzi, vero? – Michele non era certo che fosse una battuta, ma preferiva sempre chiedere. Il suo silenzio però, rispondeva per lei.
- Agnese, te l’ho detto quattro volte prima di partire! –
Erano due i casi in cui Michele chiamava Agnese con il suo nome per intero: il primo era nei momenti d’intimità, il secondo era quando la rimproverava.
- Ma infatti ti prendevo in giro Michi, non fare il drammatico! – No, non lo prendeva in giro per niente, Agnese. Aveva solo la memoria un po’ corta - Ti ho chiamato per dirti che mi mancavi. Divertiti anche per me lì a Bologna! -
- Firenze, Nenè. – aveva sospirato esasperato Michele.
- Uh, un pullman, devo andare, ciao! –
Agnese aveva chiuso in fretta, prima di farlo arrabbiare sul serio.
Di fianco a lei, una giovane ragazza dal viso buffo aveva assistito alla telefonata. Se ne stava con la faccia attaccata alla vetrina e guardava con attenzione un documentario sui delfini trasmesso da venti piccoli televisori esposti.
 
- Che fai? – se doveva aspettare che finisse di piovere almeno doveva passare il tempo.
- Ssh, i delfini si stanno accoppiando! –
- Che schifo! –
- E’ una scena così bella, vieni a vedere! -
- Ma non ti si incrociano gli occhi? – le aveva chiesto Agnese con noncuranza.
- Non poi così tanto, basta centrare lo sguardo su un solo televisore. –
- Io sono Agnese, comunque. – le aveva dato distrattamente la mano mentre si avvicinava curiosa al vetro.
- Carolina, ma basta chiacchiere. –
Ad Agnese era quasi venuto da ridere pensando al suo nome: Carolina, come la mucca che suo zio allevava in campagna.
 
Il pomeriggio era passato così, con Agnese e Carolina che tenevano le mani a coppa sulla vetrina per poter guardare nonostante il riflesso della luce. Il delfino maschio era riuscito nell’atto della procreazione e il delfino femmina era in cerca d’un ginecologo marino.
 
Verso la fine, si era aggiunta una terza ragazza dalle lentiggini sul naso e capelli rossi, che solo in seguito avrebbero scoperto si chiamasse Marina, che aveva lasciato la sua Vespa color canarino sul ciglio della strada e aveva imitato le ragazze.
 
Alla fine del documentario, Carolina era in lacrime per la brutta fine che il cucciolo di delfino aveva fatto per colpa di quel pescatore, Marina si stava ancora chiedendo cosa ci facesse esattamente lì e Agnese aveva deciso quale televisore regalare alla nonna per Natale.
 

- Bene ragazze, domani trasmetteranno il documentario sulle sardine! Chi è con me? -
 

Era bastato un solo sguardo per capire che sì, anche se ci fosse stato il sole, l’indomani si sarebbero ritrovate di nuovo davanti la vetrina del negozio di elettronica in Via Venezia.







- Trig's corner -
Lo so, lo so che sono pessima perchè non l'ho nemmeno cominciata e già sono in ritardo, però giuro che è colpa del lama domestico che ho a casa, che mi ha mangiato il computer (?).
By the way, questo è il capitolo - no, ma davvero? - e abbiamo altre due comparse - due pazze, più che altro -, liberamente ispirate alle mie due comari di fiducia che non nomino, altrimenti si montano la testa.
Non so come ringraziarvi per l'affetto con cui recensite e con cui mi assecondate - ma chi ve lo fa fare? - e vi manderei un pezzo di tiramisù virtuale, se potessi.

Alla prossima - ormai ometto la parola settimana, visto che quando la dico finisco per aggiornare un mese dopo LOL -, 
baci alla nutella, 
Trig.

 

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Capitolo 5
*** A differenza delle persone normali ***


Capitolo 4
- A differenza delle persone normali-

 

 

A differenza delle persone normali, ad Agnese piaceva andare a scuola. Proprio così: Agnese amava andare a scuola… fino al terzo ed ultimo anno d’asilo, quando la maestra le faceva colorare disegni già stampati o, se proprio era in vena di torture, le faceva scrivere il suo nome a caratteri cubitali – avendo paura che lo dimenticasse, probabilmente -, per poi lasciarla giocare con le costruzioni Lego che amava tanto. Ricordava con nostalgia quel periodo della sua vita e ricordava persino la storia di Alì - L’elefantino senza sì, che la maestra Palma le raccontava quando, attaccata alle gambe della mamma, si rifiutava di entrare in classe. Era forse una vaga allusione al suo essere leggermente elefantesca anche alla tenera età di cinque anni?
 

I bei tempi però, erano presto finiti: non aveva fatto in tempo nemmeno ad abituarsi alla nuova maestra Katia, che subito si era trovata in prima elementare. Era stato allora che Agnese aveva dovuto fare i conti con, non una, bensì quattro maestre e materie diverse. A sei anni, dunque, Nenè aveva avuto il suo primo incontro ravvicinato con la matematica, la storia e la geografia –che aveva imparato essere un duo inseparabile-, l’inglese e l’italiano.
 
 
- A come Ape. – Iniziava la maestra Carmela.
- B come Bambino. – Continuavano poi a turno i suoi compagni.
- C come Cane. – diceva Federica, la bambina con la benda sull’occhio.
- D come Dado. - aveva affermato Antonio con le dita nel naso.
- E come Elefante.- Elefante a chi?
Era quasi arrivato il suo turno e Agnese era entrata nel panico.
- F come Fiore. -
Ecco, dopo la F cosa c’era? La S, forse?
- Ehm…-
La maestra la guardava paziente.
- Agnese, non avere paura, avanti. G come…? -
Oh, era la G! Sarebbe stato un gioco da ragazzi.
- G come Gigolò. – aveva proclamato con soddisfazione.
La maestra, imbarazzata, aveva cercato di fare un sorriso.
- Agnese, chi ti ha insegnato questa parola? -
- La nonna! – diceva con voce orgogliosa.
- E sai cosa significa? –
- Non è un nuovo accessorio per le Barbie? Nonna dice che ogni donna dovrebbe trovarsene uno. -
La sua compagna di banco, Ilaria dai capelli color pipì, l’aveva guardata ammirata.
- Wow, dove si compra? – le aveva sussurrato all’orecchio.
- Agnese, non è un gioco: è un uomo che, diciamo, fa d’accompagnatore ad una donna. –
- Oh, quindi Michele è il mio gigolò? –
 
 
Aveva imparato a contare grazie alle dita delle mani, come continuava a fare anche a ventidue anni, aveva imparato che l’Italia non era una città e che quando diceva bitch, non stava di certo parlando di una spiaggia.
 

Poi era arrivato il tempo delle mele – no, non quello di Michele -, più comunemente conosciuto come il tempo delle medie; l’istituto Luigi Pirandello era famoso per la serietà dei professori e la diligenza degli alunni, per lo meno fino a quando non era arrivata l’iscrizione della nostra giovane protagonista, che andava in giro affermando che lei studiasse in un ex manicomio abbandonato, con professori pazzi e camicie di forza per chi si comportava male.
 
Alla Pirandello lavorava Lucia, un’anziana signora ben piazzata, che non si spostava mai, neanche solo di un millimetro – forse perché troppo grassa –, dal bancone della segreteria. Agnese non aveva mai capito esattamente quale fosse il suo compito lì, a parte quello di spaventare i nuovi arrivati con la sua voce affannata e gracchiante.
 

- Signorina, fila in classe! -
- Mi servirebbe un po’ di ges…-
- Ti sembra un cartolaio questo? –
- Ma signora, io…-
- Se avessi voluto essere come Tonio Cartonio, avrei fatto la Melevisione non la Collaboratrice scolastica! – oh, si chiamava sul serio così quel lavoro?
- Lei vede sul serio la Melevisione, signora Lucia? -
- Ora chiamo il preside! –
- Chiamatelo! Forse lui potrà darmi un po’ di gesso! – aveva urlato esasperata Agnese, che all’epoca aveva solo tredici anni, ma la pazienza di una marmotta – “Perché proprio una marmotta, Nenè?” “Perché le marmotte non hanno pazienza, Michi.” “Perché, tu hai mai parlato con una marm…” “Michele Attilio Umberto Mele! Smettila di stressarmi con tutte queste domande, sei peggio dell’Inquisizione spagnola!” –.
Lucia si era sentita ferita nell’animo, nascosto sotto chili e chili di ciccia, e aveva cominciato a piagnucolare, affannandosi per scappare in bagno o forse no; Agnese non lo avrebbe mai saputo perché quando lei se n’era andata, Lucia stava ancora cercando di disincastrarsi dai braccioli della sedia con le rotelle.
 
 
 
In terza media Agnese aveva raggiunto il record di ammonizioni nella storia dell’istituto. Ricordava ancora una delle sue note preferite, che come una dolce melodia, recitava così:
 
Nonostante i continui richiami della sottoscritta, l’alunna Copetti molesta verbalmente il compagno Mele, durante la lezione di educazione all’affettività e sessualità; per tale motivo, viene ammonita severamente.

Siglanonbenidentificata”

 
 
- Allora ragazzi, come prima cosa: chi di voi viene a disegnare l’apparato riproduttore maschile alla lavagna? -
Nessun segno di vita.
- Allora? Su, non siate timidi! -
Timida? Nessuno osava dare della timida alla curiosa e sfacciata Nenè!
- Vengo io! Michi, abbassati i pantaloni, così posso disegnarlo. -
Michele quel giorno aveva sperimentato tutte le possibili tonalità di rosso esistenti.
- Signorina, credo che sia più opportuno lasciarlo disegnare ad un ragazzo. -
- Cos’è questa discriminazione, professoressa? Michele, dille che io posso sia vederlo che disegnarlo il tuo apparato riproduttore! –
Il biondino pian piano era scivolato sotto il banco, imbarazzato oltre i limiti dell’immaginario, con l’unico desiderio di infilare la testa sotto il pavimento e sparire per i seguenti dieci anni. Non rispondeva neanche, magari la fortuna era dalla sua parte e la professoressa non avrebbe capito che il destinatario era proprio lui.
- Perché ti nascondi, biscottino? Vuoi che ti aiuti anche a slacciarli? -
E pensare che quell’anno non l’aveva nemmeno ancora baciato.
 

Ma tralasciando questi insignificanti episodi, dettati dalla tipica fase ribelle che ogni ragazzina deve superare, Agnese era una studentessa modello: brava in scienze, inglese e spagnolo, con un po’ di difficoltà nella geografia e nei temi d’italiano. Aveva un solo problema, che la caratterizzava da quand’era una bambina con l’unico compito di imparare la poesia per la mamma: la memoria, per l’appunto.
Tutti nella sua famiglia credevano che fosse affetta da Alzheimer, ma nessuno le diceva niente per non offenderla, a parte sua nonna che ogni mattina, a colazione, le metteva una pillola rosa accanto alla tazza di caffé, perché: “Sei vecchia dentro Nenè, prendi questa e ricorderai anche il colore delle mutandine che indossavi un mese fa! Però non dire a tua madre che te l’ho data io”; a scuola questo si ripercuoteva nello studio di materie come la storia. Ad Agnese proprio non piaceva: tutte quelle date da ricordare, tutti quei re, tutte quelle battaglie. A stento ricordava la sua data di nascita!
 
 
- Copetti, quando fu scoperta l’America? -
- 1325? –
- Ritenta, Copetti. –
- C’era un 2 di mezzo? –
- Sì. – sospirava stancamente il suo professore di storia e geografia.
- 1952? –
- Copetti, per tutti gli storici del mondo, secondo te è possibile che sia stata scoperta cinquant’anni fa? –
-  Professore, io cinquant’anni fa nemmeno esistevo, tutto è possibile! –
- Sai almeno da chi è stata scoperta? –
- Galileo Galilei? –
- Cristoforo Colombo, Agnese! –
- Non pensavo fosse così megalomane, tanto da non accontentarsi di moltiplicare i pani e i pesci! Mi scusi! –
- Quello è Cristo! –
- Non stavamo parlando di lui? -
 
Forse aveva qualche problema anche con la religione, Agnese, nonostante andasse in chiesa ogni Natale, credesse in Buddha e pregasse per avere un paio di stivali di pelle gialli ogni sera prima di andare a dormire.
 

 
Finito il tempo delle mele, Agnese aveva dovuto affrontare la scelta più importante della sua vita: iscriversi al liceo scientifico dei suo sogni, pieno di esemplari di maschio in via d’estinzione, oppure iscriversi al liceo classico Quinto Ennio pieno di esemplari di femmina che si sarebbero estinti a furia di calci nello stomaco e che si trovava precisamente in via delle Balene, la traversa parallela a via dei Trichechi, quella di casa sua.
 
Ovviamente aveva scelto la seconda opzione, solo per il piacere di potersi svegliare alle otto meno dieci, scendere di casa alle otto in punto senza dover per forza consumare il libretto delle giustificazioni a suon di ritardi – sì, era pure tremendamente ritardataria- e dimostrare che in via delle Balene c’erano anche meravigliose sirene.
 
 
 
- Vacca! -
Era un insulto che risuonava spesso nei corridoi del liceo, ma mai, mai nessun essere sano di mente avrebbe pensato di rivolgerlo a lei, la regina delle regine: Carlotta Polasi, alta un metro e ottanta, con gli occhi più azzurri del cielo d’estate, i capelli rossi come il maglione di Michele a Capodanno e la bocca di rosa che metteva l’amore sopra ogni cosa. Un giorno però aveva osato mettere amore proprio dove non avrebbe mai dovuto: su Alessandro.
 
Agnese non era mai stata un ragazza gelosa - solo una volta era capitato che facesse una scenata quando una bambina le aveva detto di volere Dino per il suo compleanno -, soprattutto di suo fratello, che cambiava ragazza e orientamento sessuale come il vento cambiava la sua direzione; quella volta però, in seconda Liceo, Agnese era uscita fuori di testa. Forse era in quel periodo del mese.
 
- Dici a me? -
- Vedi altre vacche in giro? –
Le aveva sbarrato l’entrata della sua aula, in attesa di prenderla e strapparle quei meravigliosi capelli uno ad uno, per poi magari farci una parrucca e indossarla.
- Ma come ti permetti? Chi sei? –
Carlotta non era famosa di certo per le sue litigate.
- La fidanzata del ragazzo che hai appena baciato. -
Nonna sarebbe stata fiera di lei.
-  Alex non ci starebbe mai con una come te, non ti credo. -
- Vuoi che ti dica anche quanto ce l’ha lungo o hai già verificato con mano? -
- Mi stai dando della poco di buono? –
- Oh ma allora sai anche leggere tra le righe! Allora vedi leggere il mio labiale perché te lo dirò una sola volta: toccalo ancora, con qualsiasi parte del tuo corpo da vacca, e ti mando a casa la bestia feroce che cresco da quando avevo sei anni che hai così tanta fame che ti staccherebbe le tette a morsi. Ci siamo intese? -
- Lotta nel fango! Lotta nel fango! –
Loris De Santis era invece famosissimo per le sue frasi d’incitamento.
- Io ti faccio denunciare da mio padre, pazza! -
Poi era stato tutto un Come diavolo mi hai chiamato?, Ahi, mi hai spezzato un’unghia!, Toglietevi le magliette! di qua e terriccio – terriccio nel corridoio della scuola? - di là, spuntato probabilmente dalle tasche di Loris che ne portava sempre un po’, per poi sputarci su e creare il fango dei suoi sogni per occasioni come quella.
Ovviamente Alessandro aveva poi firmato i documenti per disconoscerla come sua sorella legittima e non le aveva parlato per più di tre mesi perché:
- Potevi almeno aspettare che me la desse, Nenè, porca miseria!-
 


Alla fine del suo viaggio per le Indie – la maturità! La maturità! – era riuscita a strappare alla commissione d’esame un 75 pieno, poi aveva bruciato i suoi libri e graffiato la moto del suo professore di filosofia.
 
Dicevano fosse diventata una persona matura, ma i professori non sapevano che dopo aver visto i risultati degli esami Agnese aveva saltellato per la strada insieme al suo dinosauro di fiducia per poi farsi comprare un chupa-chups alla coca cola dal suo santo fidanzato.





- Trig's note -

In realtà non è poi così tardi, no? *Si nasconde per evitare di essere presa a calci nel sedere* Posso spiegare!
Un corvo mi ha rubato l'ispirazione, ecco. Poi quand'è tornato, me l'ha restituita un po' masticata quindi faceva un po' schifo e ho dovuto tirar fuori questo capitolo, che mi rendo conto non valga tutta l'attesa.
AH! Poi m'è preso il momento dell'angst è mi è uscita fuori e
questa
, quindi ho trascurato tutto ma giuro di non andarne fiera.
Ora vado a rispondere alle recensioni a cui non ho ancora risposto, ma per le quali vi ho amate immensamente e vi lascio pure il link del gruppo che condivido da poco con Giulia la scimmia. Venghino i signori, venghino! (?)

Vi abbraccio e vi lancio Gocciole con amore,
Triggernonpiùhappy.


 

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Capitolo 6
*** Buon compleanno! ***


Capitolo 5
- Buon compleanno! -




Tutti i bambini del mondo aspettano con ansia solo tre cose nella vita: la risposta alla letterina spedita a Babbo Natale in Lapponia, l’arrivo di un cagnolino al posto della propria sorella e il proprio compleanno.

Agnese, all’età di ventidue anni, aspettava ancora con una certa speranza le prime due cose ma di certo no, non aspettava con ansia il giorno in cui sarebbe invecchiata di un altro anno. Ad Agnese infatti, i compleanni facevano piangere, ma di quei pianti così forti che agli estranei poteva sembrare che le stessero strappando il cuore dal petto.
Ogni 5 marzo quindi, da quando aveva varcato la soglia dei diciotto, Agnese restava chiusa in casa con una coppa di gelato al pistacchio sulle gambe, il dvd del Moulin Rouge messo a ripetizione al televisore e Dino, con un imbarazzante cappellino rosa a punta sulla testa, stretto tra le braccia. Agnese era depressa perché sapeva che ogni compleanno la avvicinava alla vecchiaia e si sa, la vecchiaia porta con sé le rughe e Agnese proprio non poteva immaginarsi con delle orrende zampe di gallina intorno ai suoi meravigliosi occhi verdi. E i capelli bianchi? Per tutte le parrucche del mondo, si sarebbe tinta i capelli di verde, piuttosto!

- Dino, amore di mamma, tu mi ameresti con i capelli verdi? Farebbero pendant con il tuo pelo.
- Lo so, lo so che sarebbe una tragedia, ma cosa posso farci? Il tempo scorre per tutti.
- No, per te no, ma tu sei un peluche! Oh, Dino! Come vorrei essere te in questo triste giorno di pioggia.
- Vuoi un po’ di gelato?
- Non mi guardare così, lo so che diventerò una cicciona come la signora Lucia e che Michele non mi vorrà più. Ma tu resterai sempre con me, dillo!

Era arrivata persino ad imitare quella che poteva essere, secondo la sue fervida immaginazione, la voce del dinosauro.
- Certo che non ti lascerò, ma smettila di mangiare come una scrofa.
- Perché, perché sei così cattivo con me?

E puntualmente, arrivata a metà coppa, metà film e metà monologo, scoppiava in lacrime e si girava dall’ altra parte, voltando le spalle perfino al peluche che immobile, continuava a fissarla con due occhietti neri, come da sedici anni a quel giorno.

Ad Agnese però, solo un tipo di compleanni le piaceva: quello degli altri.
Probabilmente ci godeva nel celebrare la vecchiaia altrui e si divertiva da matti nell’organizzare le feste. Certo, a volte aveva successo, altre no, ma questi, per Agnese erano solo piccoli incidenti di percorso sulla strada della sua carriera da organizzatrice di compleanni.

Una volta, ad esempio, per il compleanno di nonna Gisella, Agnese aveva affittato una barca, invitato tutte le sue amiche del poker del venerdì sera e pagato Jim, il maestro californiano di windsurf tutto pettorali e niente cervello, per delle lezioni private. La nonna ancora non smetteva di ringraziarla con baci volanti e paghette passate sottobanco.

- Nenè, non dirlo a Luca…-
- Chi è Luca, nonna? –
- Tuo fratello, smemorata. –
- Mio fratello si chiama Alessandro nonna, e si dia il caso sia anche tuo nipote.-
- Te l’ho mai detto quanto sei pignola, tesoro? –
- Ogni giorno della mia vita, nonnina. –
- Bene, dicevo, non dirlo a tuo fratello, ma posso giurare che tu sei la mia nipote femmina preferita in assoluto. –
- Sono l’unica nipote femmina, nonna. –
- E non sei contenta? Ti lascerò tutta la mia eredità per questo! –
- Oh nonnina, tu sì che sei la nonna più buona del mondo. Mi lascerai anche la casa in montagna? –
- Possiedo una casa in montagna, tesoro? –
- No, ma speravo ne comprassi una prima di tirare le cuoia. –
- Lo farò solo se Jerry…-
- Jim, nonna. –
- Insomma, lo farò solo se Mr.Muscolo mi farà dare una palpatina alla sua tartaruga! –
- Mamma! –
- Oh cielo, è arrivata tua madre, perché l’hai invitata? –
- Io la distraggo e tu palpi Jim? –
- Affare fatto, sei proprio la nipote più bella dell’universo. -

Nella camera della nonna era ancora affissa al muro la fotografia di lei con degli occhiali da sole enormi e un sombrero, appiccicata al famoso insegnante californiano di windsurf. Nonna l’aveva voluta formato gigante e se la guardava ogni sera prima di recitare il rosario delle dieci.



Un altro anno, per Michele e i suoi vent’anni, aveva organizzato una festa così bella, ma così bella – aveva perfino preparato una torta! – che… nessuno degli invitati si era fatto vedere.

- Amore, sei sicura di aver dato l’indirizzo esatto? – le aveva chiesto timoroso Michele.
- Ma certo che sì, tesoro. –
- Via delle Aragoste, 32? Sicura? –
- Michele, ti dico di sì! Guarda! Sull’invito c’è scritto via delle cic… Oh. Amore bello come il sole? –
- Non mi dire, tesoro. –
- Mi ami? –
- Non ne sono molto sicuro in questo momento. –
- In fondo le cicale e le aragoste sono animali così simili! –
- Oh sì, in fondo vivono entrambe nel mare, giusto? –
- Esatto! Mi piace la tua visione del disastro, micino. –
- Perché, perché proprio io? –
- A chi parli, Michi? –
- Al soffitto. –
- Non è che stai avendo una visione divina? –
- Sì, cielo, Spiderman è con noi! –
- Oh, allora hai visto che qualcuno è venuto alla fine? -

Poi Michele non aveva più retto e si era attaccato alla bottiglia di champagne, finendo per ubriacarsi e addormentarsi con la faccia nella torta di Superman, che la sua fidanzata aveva accuratamente preparato, incurante del fatto che Superman era il suo supereroe preferito quando aveva cinque anni.



La festa epica però, una di quelle che sarebbero rimaste nei ricordi di generazioni intere, risaliva a tre anni prima: Marina avrebbe compiuto diciannove anni ed era, ufficialmente, il primo compleanno che festeggiavano da quando il trio delle Tre grazie aveva preso vita. Agnese ci teneva tantissimo a fare le cose per bene, così con un mese di anticipo, aveva già prenotato la sala di uno strip club in centro, chiamato le amiche e le cugine della festeggiata e incaricato il pasticcere per una torta a quattro piani. Il giorno effettivo del compleanno poi, il 9 giugno, Agnese si era infilata l’abito delle grandi occasioni, truccata con il trucco delle grandi occasioni e pettinata con la pettinatura delle grandi occasioni. Poi era arrivato il turno di Dino, unico uomo della serata, e gli aveva messo una cravatta al collo – una di quelle che suo fratello metteva per le grandi occasioni, ovviamente – e spalmato un po’ di olio sulla coda.
Solo il ricordo ad Alessandro, faceva venire la nausea. Non l’avrebbe più toccato, mai più!

- Dino, stasera sei l’unico maschio, quindi non farmi sfigurare. Uscirai da una torta, in un modo che non ho ancora studiato, e no, non la mangerai. Ma pensi sempre a una cosa? Nessuno la mangerà, perché saranno troppo distratte ad ammirare te. Devi essere sexy, lo sai che Marina ti ama. -

- Nonna! Vado a mettere Dino in una torta e poi a comprare gli alcolici per stasera! Ci si vede domattina! -
- Tua madre lo sa? –
- No, ma tu dille che sono da Marina! –
- Va bene tesoro, divertiti! E non accettare le caramelle dagli sconosciuti! –

Per tutta la serata, le ragazze avevano ballato, Carolina si era ubriacata con della tequila, Marina si divertiva come quando Alessandro aveva trovato un hula hoop per strada e Agnese aspettava trepidante il momento della torta. Forse più che per la sorpresa, era per la paura che Dino soffocasse nella panna.

- Miao! -
- Lina, sei per caso ubriaca? –
- MIAO! –
- Marina, Lina è andata! –
- Dove? –
- Nel paese dei gatti che non c’è. –
- Bellini i gatti, dove sono? –
- Non c’è nessun gatto Teresa. –
- Io sono una gatta! E sto sul tetto. Miao! -
- Lina, guarda! Un cane! –

Ed era stato così che Carolina era saltata sopra il bancone del bar e da lì non si era mossa per tutta la serata, continuando a miagolare e barcollare di tanto in tanto come Osvaldo, il barbone sotto il ponte in centro.

Poi era arrivato il tanto atteso momento della torta. A Marina, Agnese aveva detto che ci sarebbe stato l’amore della sua vita.

- Signore e signore! Siamo qui riunite per celebrare degnamente… -
- Seh, i santi misteri. Nenè, muoviti! –
- Un po’ di pazienza, perdinci! –
- Abbiamo fame! –
- Ma se avete mangiato come bufale! –
Quando avevano iniziato a lanciarle le noccioline, Agnese aveva capito che non c’era più tempo per le presentazioni, così aveva fatto entrare la torta.
Un faro era puntato su di essa, Marina aveva preso il coltello e Agnese era girata verso Carolina e… aveva tagliato la torta e un orecchio di Dino.
Marina aveva urlato, Carolina aveva miagolato, le invitate erano scappate e Agnese era svenuta.

- Oh mio Dio, sei un’assassina! -
- Non sono stata io! –
- Se l’è tagliato da solo, l’orecchio? –
- E’ stata la forza di gravità a spingere il coltello. –
- Ma dico io, come ti è venuto in mente di tagliarla con un coltello da prosciutto? Come?! –
- E a te come è venuto in mente di metterlo nella torta? –
- Era il mio regalo di compleanno! –
- Miao. –

Una festa epica, lo era stata comunque: Dino non avrebbe mai più avuto il suo orecchio, Marina non avrebbe mai più tagliato una torta e Agnese avrebbe smesso di cercare l’originalità dei regali.




- Però se ci pensi, adesso assomiglia a Van Gogh. – aveva detto Michele al telefono, quando la sua fidanzata l’aveva chiamato disperata.









- Trig's note -
Sono di strafrettissima, ma dovevo essere qui. Questo capitolo è dedicato interamente alla mia amichetta Sonia alias Marina alias pleinelune alias chi più ne ha più ne metta, perchè è il suo 168° compleanno e questo è l'unico modo che ho per farle capire che se fossi lì con lei forse... sarebbe peggio. LOL
Questo capitolo è un omaggio anche a Giulia alias l'ubriacona alias occhidigatto che stanotte si è ubriacata e mi mandava messaggi molesti con versi da gatto, altrettanto molesti. #Poverapatria.
E inoltre, è per voi tutte, che come al solito mi rendete la tonna più felice del mondo con le vostre recensioni e le vostre letture. Perdonate anche questo ritardo, domani prometto di rispondere a tutte.

Ora scappo *cade*,
vi sbaciucchio tutte,
Trig.

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Capitolo 7
*** Mantenendo vivi i ricordi ***


Capitolo 6
- Mantenendo vivi i ricordi -

 


Il tepore dell’aria di quel pomeriggio di mezz’estate, accarezzava la pelle dorata dei quattro bambini – più Dino - sdraiati in cerchio tra l’erba alta della campagna. Agnese indossava un vestitino che in origine doveva esser bianco, lungo fino al ginocchio e che le intralciava i movimenti – “I pantaloni sono da maschiaccio, Nenè! Fammi contenta e vestiti da femmina almeno quando sei con me, suvvia!” diceva sempre la nonna-; i piedi erano nudi e neri di terra per la corsa che le aveva lasciato ancora un po’ di fiatone addosso. Con i petti che si alzavano e abbassavano velocemente, i quattro cugini guardavano il sole perché li facesse diventare ciechi – avevano sempre sognato di girare durante la notte con gli occhiali da sole e un bastone di legno senza che nessuno dicesse loro qualcosa – e poi ridevano fino a perdere quel poco di fiato che avevano recuperato nel mentre, perché vedevano cerchietti gialli ovunque.
 
- Nenè hai un terzo occhio adesso! -
- Non che non ce l’ho! –
- Sì, guarda è proprio sulla tua fronte! –
- Ale digli che non è vero! –
- Non è vero. – l’aiuto di suo fratello era stato fondamentale.
- Ma se nemmeno ti ha guardata! -
- Smettila di dire bugie! Il mio Ale mi guarda sempre. Lo dirò alla mamma! –
- Sembri l’alieno del cartone che abbiamo visto ieri! –
- Ah sì? Tu allora sei un ciccione! –
 
Ed ecco che Giulio era scoppiato in lacrime, fuggendo sotto la gonna ampia di zia Verruca che giocava a scala quaranta con nonna Gisella non molto lontano da lì.
 
Giulio era cugino di Agnese di primo grado, figlio di zia Graziella, nipote della sua stessa nonna, cugino di suo fratello e fratello a sua volta di Vincenzino, che se ne stava immobile alla sinistra di Agnese con la salopette di jeans slacciata sulle spalle a far bolle con la saliva. Giulio pesava quanto un bambino di tredici anni, ma in realtà ne aveva solo otto, tre in più di Vincenzino, due in meno di Alessandro e uno in più di Agnese che, insensibile al senso di colpa che avrebbe dovuto farsi strada in lei dopo aver scatenato il pianto e la fuga di suo cugino, aveva cominciato a vedere strani disegni tra le nuvole.
 
- Vincenzino, guarda quella nuvola! Non sembra anche a te la pancia di una balena rovesciata? -
- Io vedo una polpetta. –
- E quella? Quella a me sembra un ornitorinco che balla! Non è divertente, Vincenzino caro? –
- Io vedo un’altra polpetta. –
- Dino ha più fantasia di te. –
- Dino è una polpetta? –
 
Sicuro era che Vincenzino non ci avrebbe messo granché a seguir la strada tracciata da suo fratello, se al posto degli ornitorinchi danzanti vedeva polpette in ogni dove. Se non erano le polpette, al massimo era l’Uomo Ragno di pezza che gli aveva regalato suo fratello e che presentava a chiunque trovasse per la strada.
 
- Ciao! –
- Ciao! – aveva risposto una biondina in bicicletta, che passava di lì per caso.
- Io sono Vincenzino. –
- Ciao Vincenzino, io sono Camilla. –
- Ciao Camilla, lui è l’Uomo Ragno che uccide i cattivi con le ragnatele. Però questo le ragnatele non le lancia perché è di pezza e io sono troppo povero per comprare un Uomo Ragno vero che spara ragnatele. Tu sei ricca, Camilla? -
 

***

 
Con le urla dei bambini a far da colonna sonora al pomeriggio, zia Verruca in coppia con nonna Gisella, sfidava a carte il caro vecchio zio Vituccio, scapolo di settantacinque anni attaccato principalmente a tre cose soltanto, nella vita: l’amaca in campagna, il calcio alla televisione e le parolacce inopportune.
 
Agnese ne era terrorizzata, tanto che gli girava al largo ancor prima che arrivasse, per via di un episodio che le aveva raccontato suo fratello qualche anno prima e che la vedeva protagonista di uno degli attacchi di collera dello zio più famosi della storia.
 
- Zio, posso salire sull’amaca con te? -
- No, Fiorella. –
- Ma il mio nome è Agnese. –
- Questo non ti farà salire sull’amaca. –
- Non è giusto che ci stai sempre tu! –
- Non è giusto un cazzo, questa è la mia cazzo di amaca, nella mia cazzo di campagna e tu sei solo una cazzo di bambina figlia di non ricordo nemmeno chi e che non ha nessun cazzo di potere su di me! Intesi? Ora fila a giocare con una cazzo di palla. –
 
E mentre per la prima volta Agnese era scoppiata in un pianto non tanto diverso da quello di un bambino di fronte all’uomo nero, Alessandro se l’era goduta e da allora si era proclamato suo allievo indiscusso. Era stato grazie a lui che aveva imparato gli insulti più coloriti e le tecniche di seduzione più efficienti:
- Andrea, – gli aveva detto una mattina tirandoselo a sedere sulle gambe, mentre Alessandro lo ascoltava affascinato a tal punto da non premurarsi nemmeno di correggerlo – le donne sono come le conchiglie: se aprono le gambe, ci trovi la perla; ma sta’ attento! Quando arrivi al punto in cui, per smollare la perla, chiedono in cambio dei sentimenti conditi con cioccolatini e fiorellini… figliolo, fidati di me: lascia perdere tutto e vai a puttane. –
 
Alessandro aveva preso appunti, annuito, sorriso e poi era comunque arrivato ad andare a uomini piuttosto che a puttane – richiedevano troppi soldi per il suo salvadanaio a forma di maialino -, quando la situazione con una ragazza andava a parare su un qualsivoglia sentimento. Forse era per quello che zia Verruca ogni tanto gli presentava ragazze di paese per farlo innamorare. Prima che morisse travolta da una barca a vela, un giorno d’aprile nel mar Nero.
 
Zia Verruca –pace all’anima sua- era la zia preferita di Agnese; una zia sobria, gentile e premurosa con tutti, sorella di nonna Gisella e zio Vituccio. Agnese non ricordava quale fosse il suo vero nome, ma ricordava lucidamente il perché venisse chiamata Verruca, forse perché il motivo le si palesava davanti agli occhi ogni qualvolta andasse a mare con lei e la zia decidesse di mettere le infradito. Piedi orribili, cuore grande.
 
Quand’era piccola, ad Agnese piaceva addormentarsi tra le sue tette – le tette più grosse e morbide che avesse mai toccato -, così come piaceva a Giulio che ne approfittava per infilarci le tozze manine, ascoltando i suoi strambi racconti.
 
 
- Era un giorno di pioggia ed io me ne stavo sul divano a guardare Beautiful…- iniziava sempre.
- Esisteva anche ai tuoi tempi? –
- Nenè, Beautiful esiste dai tempi della pietra, non fare quella faccia sconvolta. –
- Questo vuol dire che anche Dino quand’era con la sua famiglia lo guardava dopo pranzo? –
- Esattamente, tesoro. Ma andiamo avanti: sul tavolino di fronte al divano c’era un noce di cocco spaccata a metà; era la cosa più bella che io avessi mai visto, così la presi e ne assaggiai un po’. –
- E com’era? –
- Faceva schifo, così l’ho risputato dentro dopo averlo masticato un po’. –
- Quindi hai buttato la bella noce di cocco? –
- Qui viene il bello, Nenè cara. Hai presente zio Vituccio? –
- L’uomo nero, certo. –
- Bene, quel giorno mi aveva fatta arrabbiare particolarmente perché mi aveva vietato di uscire con il mio fidanzatino dell’epoca…-
- Oh come mi manca il mio Michi…-
- Nenè, cara, vuoi ascoltare o vogliamo piangerci addosso per tutto il giorno pensando all’amore perduto? –
- Io non ho mica perso Michi! –
- E allora non fare quella faccia da Madonnina in lutto. Dicevo… mi aveva fatto arrabbiare moltissimo, così decisi di lasciare la noce di cocco con dentro la poltiglia che avevo sputato sul tavolino. Se fossi stata fortunata lui l’avrebbe mangiata e io l’avrei preso in giro per anni. –
- L’ha fatto? L’ha mangiata sul serio? –
- Certo che sì! Era troppo stupido per chiedersi cosa ci fosse di strano. Anzi, ci aveva preso gusto! Lo prendeva con le dita, se lo metteva in bocca ed esclamava “Oh che buono questo cocco”. –
Agnese rideva ogni volta un po’ più forte.
- Ma tu zia, poi gliel’hai detto, n’è vero? -
- Ovviamente, bambina mia. Passò tutto il pomeriggio chiuso in bagno a cercar di vomitare il possibile. -
 
I suoi racconti rallegravano le feste di Natale, quelle di Pasqua e anche Ferragosto. Non c’era anima viva, nella famiglia, che non li conoscesse. Anche Michele aveva avuto l’onore di ascoltarne uno una volta, ma probabilmente s’era trattato sempre della mirabolante storia del cocco e zio Vituccio.
 
Grazie a lei, Agnese aveva scoperto le gioie della vita, come i piaceri nascosti in una semplice fetta d’anguria, mangiata infilandoci la testa dentro e spuntando i semini nella terra come se non ci fosse un domani e tuttora ne portava orgogliosamente i segni addosso.

- Agnese, che stai facendo? -
- Cerco di tenere vivo il ricordo di zia Verruca nei nostri cuori. –
- Sputando i semi d’anguria giù per il balcone di una palazzina in centro, dal nono piano, cercando di centrare le teste degli anziani che passeggiano e nascondendoti subito dopo per sfuggire alle loro bestemmie? –
- Se sai esattamente cosa sto facendo, perché me lo hai chiesto mamma? –
- Perché speravo di avere semplicemente delle visioni e la mia figliola ventenne non stesse realmente facendo tutto ciò. - 
- E invece no, son proprio io, mammina cara! Ora se non ti dispiace chiama nonna e dille che credo di aver colpito in pieno il suo procugino Ubaldo con la buccia del melone! E che ora è a terra. E che forse è svenuto. Oh!, mammina, forse è meglio che tu chiami prima l’ambulanza, non vorrei averlo ucciso. Oh!, zia Verruca come sarebbe contenta! – 







- Trig's note -
Come da tradizione inizio le mie note con le scuse per il ritardo. Ormai scrivo più scuse che il resto, me ne rendo conto. Allora, giovani tonne che nuotano nel mare! Spero che stiate tutte bene e che il caldo non vi abbia ammazzato tutte, come invece sta facendo con me. 
Non discriminate questo capitolo solo perchè non c'è Michi o Dino o nonna. È che bisogna dar loro un po' di tregua, altrimenti mi si scaricano. E nulla, io non so più che dire perchè l'ultimo neurone mi si è suicidato nella stesura del capitolo. Che riposi in pace anche lui, amen.

AH! Cosa importantissima: devo straringraziare tonna Sonia per i meravigliosi banner che mi ha fatto e che vedrete appena capirò come inserirli in un capitolo. LOL 
Grazie grazissimo, tonnola. <3

Vi lascio il link al mio gruppino appena nato, se voleste farci un saltino: L'inutilità della puntualità.
E anche una fetta d'anguria, pane mio quotidiano, che vi rinfresca un po'. 

Trig.

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