it was a murder but not a crime.

di xmosquito
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo uno ***
Capitolo 2: *** capitolo due ***



Capitolo 1
*** capitolo uno ***


Il sole è dannatamente cocente. Le labbra sanno ancora dell’ultima ciliegia rubata dall’albero dei vicini, ed ogni volta che mi avvicino ad esso, sembra una fuga da un carcere. Devo correre, per non farmi vedere, o, meglio, per non ricevere una ciabatta dritta sulla schiena. Mi odia, non capisce che non faccio del male a nessuno buttandomi nel suo giardino e rubando qualche frutto; non capisce che non c’è nulla di male, non sono una ladra. Nemmeno se glielo chiedessi per favore mi lascerebbe fare, troppo preziose quelle ciliegie che lascia lì, ogni anno, a marcire. Troppo preziosa qualunque cosa che riguardi me: non mi ha mai rivolto davvero la parola, né io, né mamma sappiamo il perché. Da quando papà è morto, l’intero vicinato è come se avesse creato una barriera invisibile contro di noi: non ci vengono mai a trovare, mai ci parlano, nemmeno sappiamo di quello che accade. Ci sentiamo rinchiuse in un ghetto, grande quanto una casa. La nostra casa.
Mi fiondo sulle scale distrutte della casa che si trova sul’immenso albero che vi è davanti casa, e, no, non un ciliegio. Un semplice albero di nocciola, ormai senza frutti da diverso tempo; salgo con velocità quei pezzetti di legno calanti, fino ad arrivare al mio unico e vero rifugio. Nella maggior parte delle volte esso serve a ripararmi dal caldo, a stare lontana da tutte le persone che continuano ad ignorarci da mesi, senza motivo, ma soprattutto ad avere il dialogo più bello che possa desiderare: quello con me stessa. Un lungo confronto. Io ed Eileen parliamo di tante cose: Eileen sale sull’albero, Eileen rischia l’ennesimo sasso lanciato dalla vicina, Eileen si sente terribilmente sola. Un incubo. I capelli color cioccolato mi ricadono lungo la schiena, tenuti in ordine solo con l’utilizzo di un terribile cerchietto che non fa altro che farmi male, la piccola canottiera e gli shorts che indosso non bastano per fare cessare il caldo, vorrei solo scappare in una qualche località di mare, mettermi in costume e starci per sempre. Quello sarebbe un paradiso, non il carcere in cui sono costretta a vivere da ormai anni. Un posto morto, dove tutti sanno di tutto, e nessuno si fa mai i fatti propri. E poi, chi, come me, ama la riservatezza, passa per quella terribilmente strana. Ormai sono abituata al clima delle persone di Smallway. Una cittadina piuttosto piccola, nel Nord America, sempre distinta tra le altre non per l’attuale arretratezza e la vitalità pari a quella di un cimitero, ma per la lunga storia di omicidi che la riguardano. Nel 1263 vi fu l’assassinio di Virginia Smallway, la figlia dei fondatori attuali. Il collo pieno di graffi, la testa mozzata, il corpo ridotto a pezzi. 1581, Lucy Portman morì di freddo, ormai ridotta a pelle ed ossa e piena di sangue, lo stesso identico segno sul collo. E poi ne seguirono altri, come quello dell’anziana signora che abitava nell’ormai centro storico della cittadina nel 1800, o quello del soldato del 1941, o il ragazzo psicopatico del 1990. Dall’ultimo assassinio di ventidue anni fa, nessuno ne ha più parlato, ma gli abitanti continuano ad esserne spaventati. Molti se ne sono andati, altri, come me e mia madre, non possono permettersi di andarsene per soldi, e poi ci sono gli anziani che non potrebbero mai abbandonare il luogo in cui hanno vissuto per anni.
- Non pensi sia ora di scendere da quella casetta traballante? – Alexander. Probabilmente è l’unica persona, oltre mia madre, che si diverte a passare qualche ora insieme a me. Eppure non mi sta nemmeno particolarmente simpatico, ma insiste, e la cosa mi piace. Non mi piace però la sua sfacciataggine, il suo mettersi sempre nelle faccende degli altri, e quegli occhiali enormi che non si toglie mai, una brutta copia di Peter Parker. Me ne resto seduta, poggiando quel libro di fiabe che avevo preso tra le mani. Non ho mai tolto nulla da questa casetta, ogni cosa è rimasta intatta da quando mio padre decise di costruirmela, avevo solo cinque anni.
- Sparisci, Alexander. – Mi limito a dire, anzi, ad urlare. Ha un anno in più di me, diciotto anni, ma sembra che ne abbia due. Si diverte con così poco che sfiora la pateticità. Non mi muovo nemmeno di un passo, scrollando le spalle. Se mi vuole vedere, basta che faccia attenzione e che salga le scale. La casetta è poco stabile, certo, ma riesce ancora a sostenere due persone del nostro peso. Alexander, infatti, è il ragazzo più mingherlino che abbia mai visto: alto circa un metro e ottanta, è talmente magro che potrei vedere i segni delle ossa dalla sua pelle. Non dico niente, quando, sento il rumore delle scale cigolare, mentre, quando me lo ritrovo davanti, non riesco a non roteare gli occhi vedendo la sua solita espressione da pesce lesso.
- Bé, buon pomeriggio – Sibila, sedendosi vicino a me e iniziando a sfogliare con noncuranza il libro che ho appena chiuso. Io taccio, fulminandolo con lo sguardo: è possibile buttarlo giù o cadrebbe anche l’intera casetta?
- Non dirmi che Eileen Johnson passa le sue giornate leggendo mago scorreggia e le sette puzzette. E’ dunque questo il tuo temibile hobby? – Vorrei schiaffeggiarlo, ma resto in silenzio ancora.
- Oh, no, capito. La tua vicina ti ha finalmente tagliato la lingua. – Probabilmente, che la signora voglia farlo, non è una novità. Ma saprebbe di finire in carcere ed inoltre si sente troppo vecchia e, ripeto, non è per sensi di colpa o per umanità. Mi odia, da quando ho deciso di divertirmi rubandole le ciliegie, e, come gli altri, m’ignora da quando mio padre è morto.
Scuoto il capo, ma è lui che continua a parlare. – Un segno di vita, paura.
Gli strappo il libro dalle mani, alzandomi e appoggiandolo sul tavolino a fianco, ormai marcio. Delle volte mi chiedo perché ci stia ancora qui, e l’unica risposta è ricordi.
- Delle volte spero che la serie degli omicidi colpisca te. – Scherzando, gli parlo di quanto sia irritante alle volte, e di quanto lo odio quando fa così. Ma la sua espressione non cambia di una virgola, sempre quel sorrisetto da ragazzo da prendere a schiaffi.
- Sempre più gentile, Eileen, sempre più gentile: dovresti scrivere un libro sul bon ton, diventerebbe un best seller. – Solo ora noto che porta qualcosa con sé, uno zainetto color militare pieno di buchi. Faccio un cenno verso di esso, interrogativamente. – A cosa ti serve? –
Lui lo apre ed estrae la marea di libri e cartacce che si trovavano al suo interno. – Ricerche, e mi serve una tua mano. Tu sai tutto, sei l’unica che si è interessata a tutto ciò. –
E’ la prima volta dopo cinque anni che ci conosciamo, che m’interesso davvero a un suo discorso, l’unica volta era successa proprio durante il nostro primo incontro. Lui mi aveva portato dei cioccolatini poiché nuovo arrivato nel quartiere, nonostante quella che doveva farlo ero io. E mi aveva fatto piacere, poi, ovviamente, avevo conosciuto la persona e qualche volta avevo anche pensato che era stato obbligato a portarmeli, fino a quando non me lo disse di sua spontanea volontà.
- Di che cosa stai parlando? – Domando, prima di prendere un foglio tra le mani ed avere le idee decisamente più chiare.
- Gli omicidi di Smallway. -
Allora, questa è la mia prima storia fantasy e quindi so che non è il massimo, e, questo capitolo è corto rispetto alle aspettative, ma lo conto come un Prologo, diciamo. Comunque spero che la storia sia apprezzata molto più di quanto lo sia da me stessa, e mi vanno bene anche le critiche. Grazie per la lettura, Nazza (:

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Capitolo 2
*** capitolo due ***


Smallway, 1263.
Camminava a piedi scalzi lungo la riva del lago, con la lunga camicia da notte che le arrivava fino alle ginocchia. Virginia era appena scappata dal grande palazzo del borgo in cui abitava. Era circondata da famiglie particolarmente povere mentre, la sua, quella dei fondatori, era eccessivamente ricca. Non si era mai preoccupata delle condizioni sociali delle persone che la circondavano, l’unica cosa di cui le importava era se stessa. Quella sera aveva litigato con il padre, voleva che si sposasse con un ragazzo di un altro posto: i soldi erano piuttosto importanti ed erano capaci di farla sposare con un cugino, pur di averli. E lei non era d’accordo, era innamorata di quel ragazzo del borgo, l’unico povero per il quale aveva rispetto. Aveva la pelle olivastra, gli occhi verdi, i capelli neri come la pece: era il ragazzo più perfetto che avesse mai visto, secondo lei. Con i piedi immersi nell’acqua, scrutava ogni singolo rumore, ogni singolo rumore che cercava di contrastare il tombale silenzio. Il fruscio delle foglie calpestate fu quello che attirò maggiormente la sua attenzione. Non era sola come pensava. Si guardava attorno, ma sembrava non esserci nessuno e, ogni volta che si girava, il fruscio diventava sempre più forte. Il prenderla in giro era divertimento.
- Chiunque tu sia, non è divertente! – Gridava.
- Si deve fermare, mia signorina. – Virginia non prestò attenzione alle parole udite, alle grida, e continuò imperterrita a camminare avanti e indietro lungo il lago, proseguendo come nulla fosse, sempre a piedi scalzi. Avrebbe rischiato di ammalarsi, di morire.
- Ma signorina! –
E fu un ragazzo dai capelli scuri, era l’unica cosa che riuscì a notare Virginia quando egli le afferrò il polso fermandola. Sentì le ossa particolarmente fragili alla sua presa, e i brividi le percorsero lungo la schiena. Il suo profumo, riusciva nella notte a vedere i suoi occhi. Era lui, il ragazzo di cui tanto era innamorata. Sostenne lo sguardo, senza però dire niente.
- Signorina! - Ripeteva – Cosa fa a quest’ora qui al freddo signorina?Potrebbe ammalarsi! –
- Problemi di famiglia – borbottò lei.
- Ma non è un bene per una come lei vagare sola la notte, signorina! – Il ragazzo allungò la mano per carezzarle la guancia, Virginia si ritrovò sbilanciata e in un secondo tra le braccia di quel ragazzo che desiderava da così tanto. Se solo l’avesse vista suo padre!
- Ti amo. – Era nel calore delle sue braccia che glielo disse per la prima volta, dopo tutte quelle in cui aveva parlato con lui di nascosto e lui stesso non aveva nemmeno osato darle del “tu”. Lui sorrise, avvicinò lentamente il viso al suo, con lo scopo di baciarla e… Un grido.
L’unico rumore successivo fu quello del cadavere cadere a terra, pieno di sangue, ridotto a pezzi. E l’amore provato in quell’istante era ancora impresso nei suoi occhi, mentre vicino a lei non vi era più anima viva. L’unica compagnia che aveva era il vento che folava lentamente.
- L’hanno ammazzata! – Gridava la madre, in lacrime. – Hanno ammazzato mia figlia! Mia figlia! Che paghino le pene dell’inferno! –
se ne restava chiusa in casa, nella disperazione, ad urlare quelle parole. Nessuno osava varcare la porta d’ingresso perché lei aveva esplicitamente espresso il volere di restare in solitudine.
Fu solo il marito, la notte, ad entrare in camera e a poggiarsi sul letto, con le mani al viso.
- Hanno giustiziato il colpevole – sospirava. La moglie alzò improvvisamente lo sguardo.
- Era… Un puma. Particolarmente aggressivo. –

- E incolparono un puma, lo “giustiziarono” – dice, facendo il gesto delle virgolette con le mani – e chiusero il caso. Come sai, sono sempre secoli fa. – Alexander, leggendo ogni documento riguardante quell’omicidio, sembra non sentire nulla, mentre io rischio le lacrime.
- Quindi si sa solo di questa ragazza trovata sulla riva di un lago… squartata viva? – Domando, asciugandomi gli occhi che brillano di lacrime trattenute.
- Oh, Eileen, l’esagerata… si parla continuamente di omicidi al giorno d’oggi. –
Faccio una smorfia, è sempre la stessa persona, nonostante quello di cui abbiamo parlato.
- E dimmi, come possiamo documentarci di più? Con quali scritti? Ho studiato talmente poco storia che non so nemmeno se sapevano scrivere, al tempo. – Commento, prendendo i fogli che tiene tra le mani e scrutandoli con attenzione. I documenti che parlano dell’argomento sono pochi e, soprattutto, vaghi.
- Ti ricordo che parliamo dei fondatori, non di una famiglia comunque… - Io cerco di parlare, ma lui m’interrompe.
- Hanno un archivio, possiamo comunque vedere. – Resto in silenzio per qualche secondo, annuendo leggermente.
- E dove si trova, quest’archivio? – Domando.
Lui ride, irritante, come al solito.
- Nel loro immenso palazzo millenario, forse? – Parla come se si stesse rivolgendo ad una persona con gravissimi problemi mentali. Mantengo un’evidentissima smorfia.
- Oh, scusami, volevo solo essere illuminata dalla tua intelligenza…-
Finiamo per ridere entrambi. E la cosa è strana, dato che in tutti questi anni non ho mai riso in sua compagnia.
Suoniamo al campanello. Forse non ho mai visto una casa tanto grande come quella degli Smallway: i fondatori che, ovviamente, avevano dato anche quel nome eccessivamente originale alla loro cittadina. Alexander mi sorride, io ricambio, non capendone il motivo, anche se dopo tutti questi anni dovrei conoscere i suoi modi. Ripeto, ogni volta che vedo quel ghigno sempre presente nel suo volto, vorrei soltanto prenderlo a schiaffi, nel modo più potente possibile.
Lui si toglie gli occhiali, per la prima volta da quando lo conosco. Forse erano quelli a rendere la sua figura sempre così odiosa. Così, riesco a vedere meglio i suoi occhi e il suo viso, bello non c’è che dire, non è più coperto da quell’enorme montatura. Scuoto il capo, capendo che lo sto fissando in un modo eccessivo. Ma lui sorride comunque e cambio nuovamente rotta ai miei pensieri, tornando a quella dell’odio profondo. Sto solo con lui perché l’argomento è sempre interessato anche a me, non per fargli un favore.
Pochi istanti e la porta viene aperta, ci ritroviamo davanti la figura del sindaco in persona. Eric Smallway è la persona più gentile dell’intera cittadina a quanto dicono e probabilmente è stato votato proprio per questo motivo. E’ un uomo piuttosto alto, i capelli bianchi e corti, dei piccoli baffi. Lui e la moglie sono sempre stati insieme, nonostante non siano mai riusciti ad avere figli e non abbiano mai pensato di adottarne uno. Girano tante voci al riguardo: che la moglie sia sterile, o che semplicemente uno dei due o entrambi non vogliano figli. Eppure dicono anche che siano terribilmente affettivi e dolci con i bambini dei loro fratelli.
Ci guarda con uno sguardo interrogativo: il primo a parlare, ovviamente, è Alexander.
- Mi scusi è che… stavamo facendo un progetto per scuola, sulle famiglie fondatrici. E ci chiedevamo se potevamo vedere qualcosa di più nell’archivio. – Afferma, senza peli sulla lingua e arrivando subito al nocciolo della situazioni. L’uomo, inaspettatamente, annuisce subito. Ci stiamo cercando di fare i fatti della sua famiglia e non ci dice niente?Probabilmente ha abboccato alla scusa di Alexander, anche se all’ottanta per cento dei casi ci seguirà negli archivi. In tal caso vedremo altre cose, ma qualcosa sulla giovane Virginia possiamo trovare sicuramente.
- Seguitemi ragazzi…Allora, perché proprio questo progetto? – Domanda.
Questa volta sono io a rispondergli, balbettando e non trovando le parole giuste.
- P – p – erchè… -
Per fortuna, forse è l’unica volta che lo dico in vita mia, con me c’è Alexander.
- Dobbiamo parlare di qualche cosa che è caratteristica della nostra cittadina. Allora abbiamo subito pensato all’egregia e gentilissima famiglia dei fondatori. –
Un lecchino. Un insopportabile lecchino, ecco cos’è Alexander. Trova sempre questo metodo per uscirsene dalle situazioni, anche se in questo caso dovrei solamente ringraziarlo.
Scendiamo qualche scala, fino ad arrivare al seminterrato. Il sindaco prende un mazzo enorme di chiavi e al primo colpo, ci apre la porta. Non accende nemmeno la luce, non c’è, e ci porge due torce. Con la terza, illumina la stanza, mentre noi cerchiamo ancora di accendere le nostre. - Potete guardare dove volete, eccetto il terzo scaffale. Sono cose personali e non credo v’interessino per una ricerca scolastica. Beh, buona fortuna. - Disinteressato, se ne esce e ci lascia. Probabilmente non gli importa nemmeno che leggiamo anche da quello scaffale, perché altrimenti sarebbe rimasto insieme a noi.
Infatti Alexander, per prima cosa, si butta sullo scaffale degli affetti personali. Io lo seguo, non sapendo cosa fare. I libri sono terribilmente impolverati e faccio fatica solo a respirare nella stanza, non voglio nemmeno toccarli, ma devo.
- Tranquilla, non mangiano. Non sono carnivori – Esclama, prendendone uno. Non è un libro, ma contiene svariati fogli quasi marciti. La cartellina, probabilmente con i quali sono stati archiviati anni più tardi, ha come titolo “Virginia”.
- Bingo. – Quando mi sorride, non posso altro che ricambiare. Per la seconda volta.
Ci sediamo a terra, in quel pavimento lurido, di quella stanza piccolissima, più della mia cantina in cui sì e no ci stiamo in tre persone. Lì, probabilmente, sono gli svariati scaffali ad occupare lo spazio necessario.
- Allora, che aspetti, leggi! – Dico, non avendo nemmeno il coraggio di toccare quel libro. Eppure sul pavimento sono seduta.
- Sì, dammi il tempo piccola. Non ti ho mai vista così euforica: sarà la mia presenza. - Si rimette gli enormi occhiali, sorridendomi egocentricamente.
La conclusione è che la mia vicina di casa poteva essere una compagnia più allettante.
- “Uccisa nell’anno 1263 da una terribile bestia. L’evidente segno sul collo della testa mozzata, il corpo ridotto a pezzi. Questa fu la fine di Virginia” – Sospira – Questo è tratto da un giornale del 1967. C’è scritto poco, e credo niente che non sappiamo. – Sbuffa.
Io, stufa, inizio a rovistare nello scaffale, mentre, ogni tanto, qualche nuvoletta di polvere si agita contro la mia faccia. E Alexander ride quando tossisco talmente forte da potermi far sentire dall’intera cittadina.
Quasi mi tremano quando, tra le mani, ho dei manoscritti particolarmente vecchi ed illeggibili. Mi fiondo verso il ragazzo e glieli mostro.
- “ Oggi lo vedrò. Al lago, il nostro solito posto.” – seguono parole indecifrabili, quasi sporche da quanto sono vecchie – “Spero solo mio padre non ne vada al corrente, sarebbe troppo anche per il mio orrendo promesso sposo.” – Sono quelle le uniche parole che riesco a leggere, oltre alla piccola firma di Virginia. Probabilmente faceva parte di un diario, se all’epoca essi si tenevano.
Guardo Alexander dritto negli occhi, puntandogli la lucina contro, per accecarlo. Lui mi guarda male e io rido. Per la terza volta faccio qualcosa di spontaneo con lui. Dovrei curarmi.
- Cosa dici? – Chiedo.
- Che la piccola Virginia era innamorata… - Senza fantasia, o non ha mai letto libri dell’orrore fino ad ora.
- Non potrebbe essere stato suo padre?Perché non voleva sposare il tipo in questione? – Continuo – Oppure il promesso sposo, geloso, dopo averla vista con questo suo grande amore. –
Lui ride, ma fragorosamente e io lo fisso male, e delusa. La mia era un’idea pressoché geniale!
- Tu guardi troppi telefilm. –

L’essere tornata a casa senza sapere nulla e aver trascorso una giornata inutile con uno come Alexander è la cosa che più m’infastidisce. Forse una ricerca su internet sarebbe stata più utile, invece che andare ad impolverarmi in un vecchio archivio.
Entro in casa, probabilmente mamma non è ancora rientrata dal lavoro perché appena la chiamo, nessuno mi risponde.
Salgo le scale, giusto per andare un po’ in camera mia. Le porte sono aperte. Quella d’ingresso era chiusa, quindi mamma se le è dimenticata aperte.
Mi dirigo nel corridoio verso camera mia, entrando e buttandomi sul letto.
Poi noto.
La finestra è aperta, me ne accorgo dal vento che entra forte in camera mia. Sarà sempre colpa di mamma, anche perché nessuno di umano potrebbe entrare da una finestra al terzo piano, con un balcone che nemmeno è collegato ad alberi, o qualcosa del genere.
Vado verso di essa per chiuderla, fino a quando la mia attenzione non si rivolge al comodino.
Il cassetto è aperto.
All’interno vi è una mano mozzata, sporca di sangue fresco.

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