Fallout: Wastelands

di _Nazariy_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Vault 101 ***
Capitolo 2: *** Danger ***
Capitolo 3: *** L'infestazione ***
Capitolo 4: *** L'incontro ***



Capitolo 1
*** Il Vault 101 ***


Qui è dove sono cresciuto, qui è dove vivo ed è qui che morirò, sì, sì, lo so. L’ho sentito dire centinaia di volte. Ora, mentre cercavo di addormentarmi, questa frase non usciva più dalla testa. Mi rifugiai sotto le coperte, sperando che le parole rimbalzassero contro di loro e si disperdessero da qualche parte in aria. Tuttavia riuscivano a trovarmi anche là sotto. Mi rassegnai e mi misi sdraiato con le braccia spalancate osservando il soffitto, poi alzai quello sinistro e guardai il Pip-Boy. È da nove anni che lo portavo al braccio, senza mai toglierlo. Lo schermo era ancora acceso.

Ogni abitante del Vault 101 ne ottiene un modello al suo decimo compleanno. Il mio è il Pip Boy 3000, è il più vecchio, però mio padre dice che è il più resistente... E io... beh, gli credo, non ricordo nemmeno quante volte si sarebbe dovuto rompere per come lo tratto. Questo è un aggeggio che mostra le funzioni cardiache, il tuo stato vitale, le malattie che hai, è un sacco figo. Ha anche una lucina incorporata, che sballo..

Stanley Armstrong era il tecnico della manutenzione del Vault. È stato lui a regalarmelo. Credo fosse il regalo migliore della giornata. Ah, no... Il regalo migliore è stato quello. Quel giorno fui stato portato nella sala comune del Vault, una sorta di mensa. Era un locale non troppo grande, ma abbastanza da far entrare tutti gli invitati ( non che ce ne fossero molti ). Quanto vi entrai, davanti a me c’era mio padre col suo solito camice bianco. Avrà messo da parte molto del suo lavoro per organizzare questa festa. Era una sorta di medico nel Vault, avevo cercato spesso di vedere cosa conserva nel suo computer, ma l’unica schermata che riuscivo a vedere era quella dove bisognava digitare la password. Dietro di lui c’era Amata Almodovar, la mia amica d’infanzia e nientemeno che la figlia del Soprintendente del Vault 101, Alphonse Almodovar. Era una sorta di... capo? Beh, sì, colui che faceva le leggi e le faceva rispettare. Quella principale era di non uscire mai dal Vault. Dopo la guerra nucleare il mondo era pericoloso, la gente è qui fin da prima che le bombe cadessero sugli Stati Uniti, nel 2077. Dopo duecento anni nessuno sa come si sono evolute le cose all’esterno, diceva. Nessuno entra e nessuno esce. La regola numero uno. Perciò la gente doveva rimanere qui, in questo bunker sotterraneo. L’unico mondo che noi conoscevamo. Quando i nostri sguardi si incrociarono, lui si avvicinò a me e si mise a fare un discorso sulle responsabilità, sul fatto che a dieci anni si era già grandi e cose del genere. Mi interessai di più quando mi mostrò il Pip-Boy. L’avevano tutti gli adulti, era importante perché permetteva di ricevere i segnali della radio del Vault e percepiva le condizioni vitali di una persona, inviando dei segnali, nel caso il proprietario stesse male, verso il centro medico. Quando me lo misi al braccio ero consapevole che non l’avrei più tolto. Era la regola. Dopo aver fatto il suo dovere, il Soprintendente tornò a parlare con l’agente Gomez, che stava bevendo qualcosa che non era esattamente da servire in una festa per bambini.

«Allora?», Amata si avvicinò a me.
«Allora cosa?», replicai.
«Non vuoi il tuo regalo di compleanno?», mi chiese prolungando l’ultima sillaba della parola ‘compleanno’ e avvicinando la sua faccia alla mia.
«Davvero mi hai fatto un regalo?», chiesi io sorpreso. Beh, Amata aveva ancora nove anni. Dove andavi a nove anni a comprare le cose?
Amata ridacchiò. «Indovina che cos’è!­­»
«Uhm, un appuntamento con Christine Kendall?»
«Non fare lo stupido», rispose lei e mi mise in mano qualcosa. Era il numero quattordici di ‘Grognak il Barbaro’, un fumetto prebellico. Alcuni numeri erano finiti nel Vault e passavano dai genitori ai figli, quindi era piuttosto difficile possederne tutti i numeri.
«L’ho trovato tra la roba di mio padre, non credo che gli interessi più», sorrise.
La ringraziai e sfogliai le pagine. Il barbaro stava lottando contro un drago che sputava fiamme, ma l’uomo le deviava abilmente con la spada. Chissà se c’erano queste creature in superficie.

Dopo mi misi a guardare gli invitati. Tra di loro c’era anche quel odioso di Butch DeLoria. Quel ragazzino aveva la madre alcolizzata e si comportava come se fosse lui a comandare. Beh, a dire il vero alcuni seguaci (che io chiamerei leccaculo) ce li aveva. Ora stava chiacchierando con Paul Hannon Jr, un ragazzino piuttosto calmo, però ero sicuro che se fosse rimasto per molto con Butch sarebbe cambiato. Distolsi lo sguardo da loro e notai che al tavolino vicino a me era seduta la signora Palmer, forse l’abitante più vecchia del Vault. Come regalo, mi diede un dolce fatto da lei. Piuttosto ironico, considerando il fatto che c’era la torta, che sarebbe bastata per tutti. Tuttavia la ringraziai, cercava sempre di fare il meglio per tutti. Sempre meglio di Beatrice, che ‘regalava’ a tutti delle poesie scritte da lei. La consideravo sempre una spilorcia.
Dopo nemmeno un minuto, il robot (che qualcuno aveva affidato alla cucina) stava tagliando la torta. Con la motosega incorporata. La lama rotonda stava affettando la torta. Il piatto. Il banco da cucina. I pezzi di torta finirono in faccia alle persone vicine e sui muri.
«Ma che diavolo ha combinato quel coso??», urlò Butch. «È per quella che ero venuto!», poi guardò me. «Ehi tu! Dammi quel rotolo dolce che hai in mano!»
«È meglio che non parli con me, Butch, non sono stato io ad invitarti», non perdeva occasione di innervosirmi.
«Stai zitto e dammi quel coso!», ribadì.
Ormai incominciavo a non sopportarlo più. «Sei venuto per il dolce perché tua madre è troppo ubriaca per distinguere lo zucchero dal sale?» Ops, forse non avrei dovuto dirlo.
Butch si alzò. Non era un buon segno. Cominciai ad indietreggiare guardandomi intorno per notare qualche volto che stesse osservando la scena, ma nulla. Butch era già vicino a me. Sentii un dolore alla mascella prima che mi accorgessi del pugno di quello stronzo. Ok, ora un ragazzo a terra non era così difficile da notare. L’agente Gomez fu subito vicino a noi e stava portando Butch da qualche parte, mio padre era vicino a me e mi stava parlando. Raggruppando le parole che stava dicendo, capii il suo discorso.
«...problemi in famiglia. Per questo devi lasciarlo perdere. Non ci sono molti bambini della tua età nel Vault, quindi volevo che ci fossero più invitati possibile.»
«Sì, è stata un po’ anche colpa mia, però sai che io a quello non lo sopporto...», dissi rialzandomi.
«Dai, ora non ti preoccupare. C’è un altro regalo importante che ti aspetta. Scendi nel Livello Reattore, nel deposito, Jonas ti sta aspettando con una sorpresa.»
«Davvero?» Jonas era un grande amico di mio padre, una sorta di scienziato come lui, doveva essere qualcosa che non avevano tutti.
«Certo, vai! Sono sicuro che gli invitati potranno fare a meno della tua presenza per un pochino.» Sorrise. Ma a me bastava solo un altro incoraggiamento e fui già nel corridoio. Mentre stavo scendendo, vidi Beatrice che stava per girarsi. Voltai l’angolo appena in tempo. Era imbarazzante guardarla negli occhi e sentirla recitare una poesia ogni anno. Girando a sinistra presi la strada più lunga, ma dopo nemmeno cinque minuti fui di fronte alla porta del deposito.
«Sei ancora qui?»
Mi girai e vidi mio padre che si stava dirigendo verso di me.
«Ah, è che...», non sapevo cosa dire.
«Forza, apri la porta!», si vedeva che era entusiasta anche lui, doveva essere qualcosa di grandioso.
Grazie papà, mi hai salvato.
Entrai nel deposito. Jonas era vicino ad un tavolino, sistemando dei rottami e gettandoli nel secchio. Appena sentì il rumore della porta che si apriva si girò verso di noi.
«Oh, ecco il nostro festeggiato!», esclamò.
«Ciao Jonas!», quello che era poggiato vicino al tavolino era il mio regalo?
«Auguri, campione», prese quella cosa e me la porse.
Era un fucile. Un vero fucile ad aria compressa. Era considerata una vera arma qui nel Vault.
Io non dissi nulla, ma la mia faccia non nascose lo stupore.
«L’abbiamo costruito usando questa roba vecchia, ci crederesti? E poi è stata una fortuna che Butch avesse lasciato il suo coltello a molla fuori dalla sua stanza.»

Non riuscii a trattenere la risata. Ringraziai Jonas e mio padre, i quali mi incoraggiarono subito di andarlo a provare. C’era un poligono da tiro non lontano da lì. Quando sparai, sentii il rinculo, ma ero abbastanza forte da non perdere il controllo dell’arma. Dopo un paio di tentativi, colpì il bersaglio al centro. Loro si congratularono con me, dopo di che mio padre guardò dietro alle mie spalle e sorrise.
«Sii spietato ora.»
Jonas rise silenziosamente. Mi girai e vidi spuntare da dietro ai cassoni, sopra i quali erano poggiati i bersagli, uno scarafaggio radioattivo. Questo era abbastanza grosso, tanto da farmi spaventare la prima volta che lo vidi. Sarà stato lungo quasi un metro. Ricaricai il fucile e presi la mira. La bestiaccia si era accorta di me e si stava avvicinando. Mio padre si preparò ad avvicinarsi, ma non ce ne fu bisogno. Sparai due volte. Il primo piombino colpì una zampa allo scarafaggio, mozzandogliela. Il secondo lo colpì dritto in quella che sarebbe dovuta essere la testa. Formò un profondo buco, facendo un rumore particolare, come quello che facevo mangiando le patatine. Crock. Roba verde gli uscì dal foro e quella creatura schifosa si accasciò a terra, senza vita.
«Sei incredibile», mio padre sorrise e tirò fuori la macchina fotografica che diede a Jonas. «Dai, fammi una foto con mio figlio, ora che è diventato un uomo.»

Un lungo flash. Ed ora stavo osservando la foto di nove anni fa sul comodino vicino al letto. Non avevo dormito molto, dato che le luci erano ancora spente, qualcuno mi aveva svegliato. Vidi un’ombra che mi scuoteva.
«Svegliati, devi svegliarti subito!»

Era Amata.
 
 

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Capitolo 2
*** Danger ***


Non avevo mai visto Amata in quelle condizioni. Era agitata e la sua voce tremava, a metà tra lo strillare e il singhiozzare.
«Ma che diavolo...», cominciai a parlare, non ero ancora totalmente cosciente, il sonno mi aveva rimbambito.
«Non c’è tempo, ti prego, alzati!», Amata mi stava tirando giù dal letto.
«Mi spieghi che sta succedendo?», chiesi impaziente.
«Mio padre sta mettendo a soqquadro il Vault! Tuo padre è scappato, qui è un casino!», ora più che singhiozzare, stava strillando.
«Mio padre... mio padre, cosa? Scappato in che senso? Che significa che è scappato?»
«Che è scappato! Non è più nel Vault! Ora mio padre sta cercando te e non ha buone intenzioni!»
Si poteva fuggire dal Vault?
«Devo... devo vedere Jonas, lui saprà cosa fare, fammi passare...»
«Non puoi vedere Jonas... L’hanno ammazzato! È morto, capisci? Per proteggere tuo padre!»
Cosa? Ma che cosa stava succedendo? Rimasi con gli occhi fissi nel vuoto per un lasso di tempo che mi era sembrato eterno. Che aveva fatto mio padre? Perché mi aveva abbandonato? Perché delle persone erano state uccise nel Vault?
«Che cazzo sta succedendo!?», stillai e corsi fuori dalla mia stanza.
«Fermati! Ti prego!», Amata mi prese per la manica e mi fermai. «Gli uomini di mio padre ti stanno cercando, ti ho detto. Per ‘ti stanno cercando’ intendo che ti vogliono uccidere...», lei non trattenne le lacrime.
«Tu sai che è successo?»
«Tutto quel che so te l’ho già detto», disse piangendo.
La abbracciai e la lasciai piangere sulla mia spalla. Avrei capito tutto parlando con il Soprintendente.
«Portami da tuo padre, Amata.»
«È pericoloso... ti prego, vattene da qui. Ti farò uscire io, ho preso la password da mio padre. Ti prego...»

Non sapevo cosa fare. Era successo tutto così all’improvviso. L’altra possibilità per scoprire le cose era parlare con mio padre. Non avevo alcuna idea su cosa l’avesse spinto a lasciare il Vault. Nemmeno su cosa avesse spinto il Soprintendente ad uccidere delle persone. Cercavo di fare delle ipotesi. Alphonse Almodovar era impazzito? Le guardie non l’avrebbero appoggiato nella causa. Mio padre era un pericoloso criminale nel Vault che vivisezionava gli esseri umani e il Soprintendente l’aveva scoperto? Ma dai... Ero sicuro che non avrei potuto immaginarmi un motivo.
Ora stavo indossando la tuta blu del Vault, con quel grosso numero giallo ‘101’ sulla schiena. Presi il mio vecchio fucile ad aria compressa e uscii dalla stanza scansando Amata.

«Dove vai? Per uscire dobbiamo salire da questa parte!», mi indicò le scale dalla parte opposta.
«A parlare con tuo padre», risposi senza voltarmi.
«Ti prego... So che lo stai odiando, ma è pur sempre mio padre!»
«Ti ho detto che gli voglio solo parlare!», credevo di averla spinta troppo forte, perché lei cadde a terra. Adesso era lì a piangere in silenzio, le lacrime le scorrevano da sotto le mani, con le quali stava coprendo gli occhi. Era seduta sul pavimento e a tratti singhiozzava, poi si lasciò cadere. Rimasi lì a guardarla. In un’altra situazione sarei precipitato da lei, l’avrei abbracciata e cercata di consolare in tutti i modi. Ma ora stava accadendo un disastro per colpa di suo padre. Mi girai e continuai a camminare. Non sapevo dove andavo esattamente, l’ufficio del Sovrintendente era da tutt’altra parte. Il mio inconscio mi stava guidando. Voleva vedere la situazione nel Vault e incontrare facce famigliari. Invece rividi Amata. Mi stava reggendo per la tuta dopo che svoltai l’angolo.
«Per favore, non fare del male a nessuno...», stava ancora piangendo.
Non fare del male a nessuno. Volevo gridale in faccia quello che provavo per gli abitanti del Vault, per i leccaculo del Sovrintendente, per lei. Suo padre non voleva solo farmi del male. Voleva uccidermi. Mi limitai ad ignorarla.
«...Ti aiuterò, ti prego! Distrarrò mio padre... tu invece devi aprire la porta dell’armadietto nella sala delle riunioni, lì ci sono dei documenti e la password per il terminale nel suo ufficio. È proprio lì che c’è l’ingresso per il tunnel che porta all’uscita.»
Ah, bene. L’uscita si trova proprio nell’ufficio del Sovrintendente. Che coincidenza.
«Va bene, ma se Alphonse è nella sala delle riunioni faresti meglio e sbrigarti ad andare da lui e portarlo fuori da lì». Ora era il posto dove mi stavo dirigendo. Continuai a non guardare Amata. Non volevo mettermi a piangere anch’io. Amata corse davanti a me. Io camminavo lentamente cercando di non pensare a nulla, ma le immagini di mio padre passavano davanti ai miei occhi, come se qualcuno si stesse divertendo a buttare le sue foto dal soffitto davanti a me. Ero così assorto nei pensieri, che non mi accorsi quando un uomo mi sbarrò la strada. Era l’agente Gomez. Aveva la pistola puntata su di me. 

Ci guardavamo negli occhi. Colui che il giorno prima stava proteggendo il Vault (probabilmente anche ora lo stava proteggendo, da me) era diventato il mio nemico. Aveva la classica tuta blu, con il giubbotto antiproiettile ed un casco nero, con una visiera di vetro. Teneva lo sguardo fisso su di me. Feci un salto indietro e mi nascosi dietro all’angolo. Il cuore mi batteva ancora più forte di prima e stavo sudando freddo. Forse solo in questo momento mi accorsi seriamente del pericolo che stavo correndo. Potevo morire. Mio padre mi aveva messo in questa situazione. Dovevo incontrarlo non solo per capire il motivo delle sue azioni, ma specialmente per dargli un pugno in faccia.  

«Esci da lì.» La voce di Gomez risuonò nel corridoio.
«Per farmi ammazzare da un cane del Sovrintendente?», cercavo di fare il duro, ma la mia voce tremava.
«Allora sai qualcosa. Chi hai incontrato prima di me?», aveva un tono piuttosto sorpreso.
«Beh, guardando la situazione si capisce, no?», dicevo cose senza senso, non sapevo che mi passava per la testa.
«Vieni qui», sentivo dei passi avvicinarsi. Pensavo che avrei potuto voltarmi e correre nell’ufficio del Soprintendente, ma la voglia di incontrarlo era più forte in quel momento. Impugnai il fucile ad aria compressa, i piombini avrebbero fatto abbastanza male da distrarlo. Uscendo dall’angolo puntai il fucile verso di lui, pronto a sparare, però Gomez lo afferrò prontamente e lo scostò. Colpii il muro alla mia destra. L’agente, con la sua forza, tirò l’arma verso di se, strappandomela dalle mani e gettandola a terra. Poi mi afferrò la mano e puntò la pistola alla tempia.
«La vuoi smettere di fare l’eroe? Capisci che qui ti vogliono morto?», io lo guardavo, non sapendo a cosa pensare. L’agente Gomez abbassò l’arma. «L’ufficio del Soprintendente è dall’altra parte, Amata ti sta aspettando.» 
Come sa di Amata?
«Le ho detto io cosa fare.», disse come se mi stesse leggendo nella mente.
«Grazie...», dissi, dopo aver capito le cose. «Però prima devo sap-»
«Ti ho già aiutato troppo», Gomez mi interruppe.
«Ho capito.»
Iniziai a correre, superando l’agente, che si voltò di scatto.
«Spero tu stia facendo la cosa giusta...», disse a se stesso.

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Capitolo 3
*** L'infestazione ***


Io continuavo a correre lungo il corridoio. Le porte e le finestre delle diverse stanze mi sfrecciavano accanto. Persone che mi guardavano. Tutti erano al corrente della situazione, forse erano stati tenuti svegli durante la notte. Chissà cosa aveva trasmesso la radio dal Pip-Boy quella notte. La verità sull’accaduto? O delle accuse infondate contro mio padre e me?
«È lui! È il ragazzo! Chiamate il Soprintendente!», un uomo stava urlando dietro ad un vetro e vi sbatteva le mani sopra, guardandomi. Mi venne il desiderio di spaccare la finestra e ucciderlo con il calcio del fucile, colpendolo ripetutamente in testa. Mi limitai a guardarlo con odio e proseguire la corsa. Se quell’uomo aveva reagito così significava che Alphonse era lì vicino.

«Se siamo incasinati è tutta colpa tua e di quello stupido di tuo padre!», mi strillò dietro. Feci finta di non sentire a continuai a correre.
Mi fermai solamente quando i pensieri si fecero meno densi nella mia mente e iniziai a percepire meglio quello che accadeva intorno a me. Suonava l’allarme intermittente e le luci d’emergenza erano accese. A un tratto, dagli altoparlanti, risuonò una voce famigliare.
«A tutti i residenti! L’infestazione degli scarafaggi radioattivi è sotto controllo. Preghiamo tutti di rimanere nei vostri alloggi. Chi sarà scoperto essere fuori verrà punito severamente. È tutto.»

Il vecchio Alphonse si dava da fare. L’infestazione di scarafaggi, certo.
Dopo essere entrato nell’atrio, però, mi accorsi che era vero. Due scarafaggi stavano divorando le gambe di un uomo. Era un agente della sicurezza, ma non seppi riconoscerlo, il suo volto era rivolto verso il pavimento. Quelle creature, muovendo le loro zampe sul sangue di quella persona, si girarono verso di me, con ancora brandelli di carne umana attaccati alle potenti mascelle.
Era una coincidenza quest’infestazione e la fuga di mio padre? Era stato mio padre a provocarla?
Sapevo già la risposta. Non era nulla di tutto questo.

Probabilmente uno dei scarafaggi era stanco della carne morta, dato che puntava verso di me, lasciando impronte insanguinate lungo la via che percorreva. Non ebbe tempo di aprire le sue mascelle, che io lo colpì con il calcio del fucile dritto su quella che poteva essere chiamata la sua testa. Si aprì in due, bagnando l’arma con un denso liquido verde. Ora che mi era così vicino, mi accorsi di quanto puzzasse. Il fetore, tuttavia, non mi impedì di puntare il fucile verso l’amichetto di quella creatura e sparare. Il primo colpo mancò e l’animale inizio a zampettare velocemente verso di me. Mi feci prendere dall’ansia e il secondo colpo rimbombò da qualche parte dietro allo scarafaggio. Indietreggiai velocemente ricaricando l’arma. Il terzo colpo non centrò la creatura in pieno, però riuscì a colpire una delle zampe. Quella centrale sinistra, per la precisione. Lo scarafaggio iniziò a comportarsi stranamente, come se all’improvviso avesse indossato dei pattini. Capii che era diventato inoffensivo e continuai a correre. Sprecare i piombini non mi andava e non volevo più sentire di nuovo il fetore di uno scarafaggio radioattivo che si apre in due. Passando vicino all’agente morto decisi prendere il giubbotto antiproiettile, il casco e il manganello. A lui non sarebbero più serviti.
Continuai a correre.

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Capitolo 4
*** L'incontro ***


Ero nell’atrio. La sala delle riunioni era a poche aree da dove mi trovavo. Mi fermai per un attimo per riprendere il fiato. Intorno a me continuavo a sentire il continuo rumore dell’allarme e la voce del Sovrintendente che si ripeteva ogni volta. Vedevo solo luci rosse che lampeggiavano e mi accorsi del mio dolore alla testa. La misi tra le mie mani e mi sedetti a terra in un angolo.
   Dopo un po’ mi rialzai, non potevo rimanere lì a perdere tempo. Tuttavia qualcosa mi disse che dovevo rimanere giù ancora un po’: due persone stavano correndo come me verso la direzione dell’ingresso del Vault.
«Mary, ascoltami.», l’uomo mise entrambe le mani sulle spalle della donna, «Non possiamo tornare! È la nostra possibilità!»
«Dobbiamo tornare!», la voce della donna era agitata, sembrava che continuasse a tremare.
«Ma non capisci? Possiamo fare come il dottore! Non voglio che i nostri figli crescano in questo posto, non vedranno altro che questo! Se lui c’è riuscito, possiamo riuscirci anche noi!»
    Ora ne ero sicuro. Erano Tom e Mary Holden, una giovane coppia che si era sposata da poco. La donna tremava con le lacrime agli occhi. I lunghi capelli castani le ricadevano sulle spalle mentre l’uomo li accarezzava.
«Ora stai tranquilla, va bene?», Tom la baciò e si diressero entrambi verso una porta, che si trovava a sinistra di quella che conduceva verso la sala delle riunioni. Però non fecero in tempo ad avvicinarsi nemmeno di dieci passi, che questa si aprì da sola.
   Una pioggia di proiettili percosse i corpi delle due persone. L’uomo non si accorse nemmeno di quello che accadde, ma Mary, che era dietro di lui, era stata colpita solo alle gambe e ad un braccio. Iniziò a strillare. Probabilmente il dolore non lo sentiva nemmeno. Strillava per lo shock. Il viso di Tom ora era vicino il suo braccio, che fissava il vuoto, immerso nel sangue. Dai due buchi sulla sua fronte sgorgava il sangue denso e si mescolava con quello che era a terra. La donna perse la luce negli occhi e smise di strillare, continuò solo a fissare gli occhi del marito. Un altro sparo. Mary cadde sul corpo dell’uomo. Il loro sangue si stava unendo.
   Era questo quello che intendevi dire per ‘molto severamente’, stronzo?
   Dalla porta uscì un agente della sicurezza, perlustrando l’area. Mi vide. Impugnava già la pistola in mano, mentre io dovetti alzare il fucile e prendere la mira. Non era la cosa migliore da fare, però. Lo capii subito, non appena un proiettile mi sfiorò la gamba. Più che dolore, percepii un forte bruciore.
   «Oddio, guarda chi abbiamo qui...», la guardia mi riconobbe.
Il suo momento di distrazione era perfetto per me. Avevo progettato di sparagli per distrarlo e fuggire. Però il piombino lo colpì alla testa. Perforò la visiera di vetro e gli entrò nell’occhio. In un attimo era coperta di sangue, che continuo a scorrergli sul volto e tra le mani, con le quali si stava stringendo la ferita. Cadde in ginocchio. Sarebbe morto? Sarei stato felice se fosse successo.

   Di nuovo mi misi a correre. Aprii la porta verso la Sala delle Riunioni. Il corridoio era lungo, ma mancavano ancora pochi passi.
   La Sala era alla mia sinistra, dovevo percorre almeno altri dieci metri per raggiungerne la porta.
«… pericoloso per noi!»
«E che vuoi fare? Mandare altri uomini fuori? Non se ne parla! Sicuramente non sopravvivrà là fuori.»
«Guarda che non è la prima volta, anche se sono passati molti anni, di sicuro non ha dimenticato come muoversi.»
   Le due voci continuarono a parlare, mentre io mi abbassai per passare sotto la finestra. Era almeno due metri in lunghezza, quindi non sarei potuto passare velocemente ed inosservato. Quando, però, sentii quel nome, mi appoggiai contro il freddo metallo per ascoltare meglio la conversazione.
«… che James potrebbe tornare?», disse la voce più giovane.
«Avrebbe ragioni valide, ma non credo proprio che tornerà, quel bastardo.», parlò il Sovrintendente. Le due voci si fecero meno chiare e fu difficile seguire il discorso. Si erano spostati in un’altra stanza, probabilmente.
Sbirciai. La Sala delle Riunioni era vuota, a sinistra c’era la porta aperta, da dove le voci provenivano ancora.
   Gli amiconi vanno a pisciare insieme.

Mi fiondai velocemente verso la porta e la girai la leva e questa cominciò a scorrere in alto, aprendosi. Fece più rumore di quanto mi aspettassi. Di solito queste dannate porte non fanno così casino, cazzo.
«Abbiamo detto di non entrare, Dolan!», l’altro uomo che era nella sala risultò essere l’agente O’Brian, uno capi responsabili. Appena mi vide, inarcò un sopracciglio e fece una breve risata. «Non è Dolan, signore!»
Il Sovrintendente uscì, allacciandosi la cintura e tenendo lo sguardo fissò su di me. «Il ragazzo è più intelligente di quanto pensassimo», poi guardò il fucile ad aria compressa che tenevo stretto in una mano. «O sei soltanto stupido?», chiese, facendo divenire il suo tono di voce più serio.
   «Io … Mi serve la password. Per l’uscita.»

Di certo avere un uomo che ti punta la pistola addosso e il responsabile del casino che si è venuto a creare di fronte a me non mi aiutava a far uscire le parole dalla bocca e a formulare frasi complete. Mi dava ancora di più sui nervi il fatto che il Sovrintendente sorridesse e fosse nella calma più assoluta. Devo avere un’arma vera, cazzo. Avrei dovuto prendere la pistola da Dolan Richards, l’agente semi morto che aveva ucciso Mary e Tom, ma non mi era passato di mente che ne avrei avuto bisogno, in fondo dovevo solo parlare. E per ora lo stavo facendo. Strinsi ancora di più il fucile e una goccia di sudore mi cadde dalla fronte. Si schiantò leggera al suolo, frantumandosi in altre gocce. Tutto questo accadde come al rallentatore. Mentre la goccia cadeva, Alphonse Almodovar  faceva un passo indietro, O’Brian tendeva il braccio con la pistola verso di me e io spostavo il mio sguardo dal Sovrintendente verso l’agente. Ancor prima che tutto accadesse, avevo capito tutto. Mi lasciai cadere a terra e si sentì uno sparo. Il proiettile colpì la porta e io sbattei il mio didietro sul freddo pavimento metallico e subito dopo scivolai verso il divano. Altri tre colpi lo colpirono, senza perforarlo però. I vecchi divani Lerciume&Zecche vecchi duecento anni erano abbastanza solidi da trattenere i colpi. Dovevamo parlare? Certo. Con le armi. Solo che la mia arma… non era esattamente un’arma, anche se, forse, aveva ucciso un uomo.  

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