Your Smile and the Other Lies

di Dernier Orage
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il volto verderame della luna ***
Capitolo 2: *** Il sole è una stella, le stelle sono sole ***
Capitolo 3: *** La casa come un tamburo di ossa di una danza macabra. ***
Capitolo 4: *** Strappi e bruciature in un lenzuolo nero. ***
Capitolo 5: *** Sovvertire stati di calma ***
Capitolo 6: *** Immediatezza espressionista ***
Capitolo 7: *** Aveva ripreso a piovere noia e umidità ***
Capitolo 8: *** Dei papaveri, da riempire di rosso. ***



Capitolo 1
*** Il volto verderame della luna ***








Your Smile and the Other Lies







Have you ever heard a big breath?
Hurricanes of skin
Torrents of frailness
Can't you feel the wound?
An Indian fury
An Indian riot
I feel the wound, that's all
Noir Désir - The Wound






Parigi, Marzo 2003

Touria le porse una salvietta per asciugarsi il volto e levare gli ultimi aloni della matita e del mascara. Louise la ringraziò con un sorriso, si sistemò la frangetta scomposta, abbassò la gonna plissettata di un paio di centimetri fino a lambire le ginocchia; non voleva che la scoprissero mentre giocava a fare la grande, incerta sull’età effettiva, sulle fasi della preadolescenza e quali fossero i tempi giusti per le minigonne ed il trucco. A scuola le sue compagne di classe si dividevano in tre gruppi: le già grandi, le ancora bambine e le indifferenti. Le indifferenti erano le studiose, non infantili come le ancora bambine e non superficiali come le già grandi.
- Sei solo arrossata, non c’è più traccia di trucco.- Touria la rassicurò volteggiando nel bagno, uno stanzino stretto e confusionario dalle piastrelle color ocra e le luci calde del mobiletto; a malapena riuscivano a specchiarsi entrambe.
- A ricreazione ho esagerato un po’.- Mormorò Louise sorridendo debolmente.- Volevo soltanto essere carina.-
Quando suonò il citofono Touria corse a rispondere. Louise sfregò ancora un po’ con la salvietta nelle pieghe degli occhi, si passò un’ultima volta le dita tra i capelli ghignando al suo riflesso e spense la luce del bagno.
- Il tuo bàba.- Annunciò Touria aiutandola a sistemare i quaderni di scuola dentro la cartella. Scosse i capelli dello stesso colore del mogano e rise illuminata dagli strass della camicia di jeans.- In Marocco il bàba è il papà.-
- Non posso dirglielo perché bàba nei paesi slavi vuol dire nonna. Touria! Smettila di ridere; gli sono venuti i capelli bianchi troppo presto... - Esclamò Louise; sbuffò contrariata e, stando attenta a non inciampare nei tappeti, girò attorno al divano per raggiungere la porta di casa.- A domani!-
- A domani!- La ragazza sentì la voce di Touria affievolirsi oltre l’acciaio della porta blindata. Saltò giù dalla prima serie di scalini tenendo la cartella su una spalla sola e sentendola sbattere contro la parete in legno nei cambi di direzione. Le suole delle scarpe contro i gradini stridevano e la mancanza di cera aumentava l’attrito. Louise respirò per qualche secondo l’aria polverosa dell’androne; appena uscita vide Ismaël spegnere la sigaretta contro lo stipite del portone e lo sentì ringraziare e salutare contro la grata del citofono.
- Ciao! Ti sei divertita?- La salutò lui battendo la punta dell’ombrello contro gli interstizi del pavé.
- Abbiamo fatto i compiti; con chi parlavi?- Louise si alzò sulle punte per dargli un bacio sulla guancia.
- Con l’interno tre.- Sospirò Ismaël accennando qualche passo verso casa.
- La casa di Touria è al cinque.- Constatò Louise rimanendo interdetta, sghemba su un ginocchio, la cartella color lilla nella spalla opposta. I capelli disordinati, lisci sulla nuca e mossi alle punte. Qualche biglia di vetro e due euro per un gelato nelle tasche del cappotto giallo.
- Lo so, una volta abitava qui una persona che conoscevo.- Le spiegò l’uomo dai capelli grigi, il montgomery blu ed una sciarpa bordeaux. La aspettò appoggiato all’ombrello di tela cerata.
- Chi?- Domandò la bambina affrettandosi ad attraversare la strada.
- Un ragazzo bordolese.- Mormorò Ismaël sorridendo brevemente; il cielo striato d’arancio e di rosa, oscurato in parte dalle nuvole grigie che fino a mezzora prima avevano riversato la pioggia sulle strade, le persone nei negozi e negli androni dei palazzi.- Siamo stati insieme quattro anni.-
- Mi racconti?- Chiese speranzosa Louise affiancandolo. Si augurò che non ricominciasse a piovere, un solo ombrello e suo padre era troppo alto, obbligarlo a camminare chinato pur di non bagnarsi e, la sera, sentire le sue lamentele per il mal di schiena, era il suo ultimo desiderio.
- E’ una storia lunga ma la strada fino a casa dovrebbe bastare.- Accennò morbido Ismaël. Dal 13 di rue de l’Abbé Grégoire al 9 di rue Deparcieux la piccola Louise, di undici anni e mezzo, si lasciò cullare dalla sua voce.

Michelle richiedeva le coccole del padre quanto Louise tendeva ad esasperarlo. Forse era genetico oppure una questione di abitudini; Annik Alunir, la nonna delle bambine, trovava come spiegazione la massima “non si sa quale forma possa prendere un desiderio, può manifestarsi in un figlio concepito pensando involontariamente ad un’altra persona” – Stéphane era certo che la madre se la fosse inventata. Quando andava a prendere a scuola la figlia minore tendeva ad accontentare ogni sua richiesta di soste lungo i giardini, tazze di cioccolata calda alla ricerca di un café che le accompagnasse con un piattino di caldi churros.
Quel giovedì pomeriggio di fine Marzo la accompagnò per comprare un paio di jeans, sostituti di quelli distrutti dalla ghiaia del cortile della scuola; Michelle era tranquilla e affettuosa, captava i discorsi altrui sulla metropolitana e si voltava a guardarlo stupefatta o divertita. Ogni volta che batteva i piedi al ritmo della musica o improvvisava balletti di gioia, Stéphane si sentiva terribilmente in colpa per averle fatto smettere di frequentare le lezioni di danza classica, convinto dalle numerose volte in cui era stato chiamato dalla maestra perché la bambina si era addormentata sul banco di scuola. Aveva cercato a lungo di farsi perdonare portandola a teatro, avevano amato entrambi La Sylphide e lui aveva sperato che un balletto in tre atti basato su Anna Karenina di Tolstoj non fosse eccessivamente gravoso per una bambina di nove anni. Dopotutto Anna Karenina era stata favolosa e il passo successivo fu il cercare di convincere la bambina a rimandarne la lettura di almeno tre, quattro anni.
Michelle saltellava e volteggiava nel cappottino bianco e nelle scarpe di tela, curiosava nelle vetrine buie dei negozi di rue Froidevaux, spostava da una spalla all’altra la cinghia della custodia della clavietta. Stéphane la lasciava fare, danzare sul marciapiede e parlare interrottamente, il suo metodo infallibile per non vedere le figlie distruggere la casa in preda alla noia e all’iperattività. Svoltarono a sinistra, rue Deparcieux, pochi metri fino al portone blu di casa. Poche immagini, punti su cui cadeva sempre lo sguardo. Un’abitudine acquisita; la cassetta della posta, le biciclette incastrate sotto la prima rampa delle scale, la porticina della cantina e dei contatori della luce chiusa col lucchetto, una riproduzione incorniciata de La tentación de San Antonio di Salvador Dalì, appesa anni prima dalla vicina.
Si incontrarono lungo le scale, al ritorno dal giorno e il cielo dalla finestra di una tonalità più scura.
- Maël…- Mormorò Stéphane prendendolo per il polso e facendolo voltare con un movimento lento, alla ricerca del suo saluto. La derivazione di sentimento da sentire, il sentire come percepire le emozioni, l’appartenenza, l’amore a fior di labbra, sfiorato ed incandescente, trepido o tranquillo. L’incontro fugace delle sue iridi, uno studio istantaneo delle mutazioni di colore e dell’incidenza della luce fioca delle scale e quella proveniente dalla finestra.
Dopo un periodo di rifiuti, di cambiamenti repentini di volontà, un periodo in cui Stéphane puniva Ismaël, negava baci e tentava di negare anche l’importanza che aveva assunto nella sua vita, spesso contraddicendosi e trovando via via più frustrante il dare un’importanza estrema a qualcosa di doloroso ma sbiadito. L’affievolirsi dei significati aveva riportato alla fiducia assoluta e il disagio per aver dimostrato un’ostinazione infantile.
- Oh, riprendono a fare la coppietta.- Sbuffò divertita Louise cercando le chiavi di casa nella cartella.- Due della quatrième sono stati sospesi perché si baciavano in corridoio. Vado di sopra. Shell, gara?-
- Il divano è occupato!- Esclamò Stéphane pregustando il controllo dello stereo, del volume della musica e la pronuncia sgangherata e l’intonazione italiana di Inch'Allah, ça va.
- Cuffie obbligatorie per la postazione-divano. Oppure puoi cucinare.- Lo avvertì Ismaël, sospirò annoiato ed aggiunse:- Io dovrò portare i panni alla lavanderia automatica.-
- Dopo cena, andiamo con l’auto.- Consigliò Stéphane, fece qualche passo e si sporse dalla balaustra.- Noodles con piselli, radicchio e salsa di soia? Ragazze, vi va bene?-
Un urlo affermativo giunse da due interpiani sopra.

La signora Santagata dell’intero 2, primo piano, era bendisposta a tenere per qualche ora le bambine dopo l’intera vita in solitaria. Preparava un caffè superbo e riempiva le tasche di Louise e Michelle di caramelle, monete da due euro e foglietti con liste della spesa. Stéphane di solito non aveva bisogno di un aiuto e raramente aveva la necessità di lasciare le bambine a qualcuno, preferendo portarle alle presentazioni o alle cene sociali del Pelloutier e magari badare meno agli oratori. Stéphane uscì di casa assicurando che ci avrebbero messo meno di un’ora.
L’odore di nuovo dell’abitacolo veniva combattuto con i finestrini aperti e le giacche abbottonate, la Golf metallic green procedeva lentamente a causa del cantiere aperto in rue Daguerre, proprio all’incrocio con rue Boulard, fino a rue Campagne Première, alla ricerca di un posto dove parcheggiare vicino alla lavanderia automatica; tra la pioggia che cadeva quasi incessantemente da quattro giorni e il fatto che fosse un lunedì sera, Stéphane non riusciva a prevedere se potessero esserci altri clienti.
- Hai portato da leggere?- Domandò Stéphane caricando l’asciugatrice. I caratteri rossi dipinti sulla vetrina creavano delle ombre sulle pareti arancioni e il linoleum grigio quando venivano colpiti dai fari delle auto. Ismaël si era accomodato su una sedia di plastica bianca e aveva tirato fuori dal cappotto un rotolo di fogli.
- Sono gli incartamenti del notaio di mia madre e le richieste dell’agenzia immobiliare.- Sospirò l’uomo, li spiegò sulle ginocchia e catturò tra le dita le pieghe che segnalavano le pagine con dati salienti.
- Volete proprio disfarvene di quella casa?- Chiese in modo retorico Stéphane. L’eredità di madame Marguerite Odette Blanchard de la Roche per i due figli consisteva in una casa rurale nei pressi di Saumur e nel vecchio appartamento a Brest, più una cifra finita direttamente sul conto in banca senza neanche esser stata pronunciata. Troppo perché Ismaël riuscisse a far prevalere l’orgoglio e rinunciasse all’eredità, non con due figlie.
- Il prima possibile e Neven vorrebbe vendere subito anche quella a Brest, mobili compresi.- Mormorò Ismaël.
- E se la settimana prossima tu cambiassi idea?- Tentò Stéphane, accennando alla gita fuori porta per vedere le condizioni della chaumière, per adoperarsi nel caso ci fossero state le tegole di ardesia da sostituire, infissi distrutti o il bisogno di una ristrutturazione generica. Lo vide dubbioso e silenzioso, alla ricerca di una soluzione che evitasse nostalgie o immobiliaristi, gli occhi bellissimi e la pelle diafana e opalina sotto le luci artificiali. Accompagnò il suo volto al viso posando una mano dietro il suo collo, per baciarlo e per respirarlo.- Sarà una forma di nostomania ma io ho il desiderio fortissimo di tornare a fare l’amore sul vecchio letto a baldacchino… è fattibile?-
Un bacio per l’aggrottamento delle sopracciglia, un’increspatura leggera sotto la cute. Dieci per i voli pindarici condivisi, le rotte cambiate all’improvviso, le vele spiegate dei discorsi. Cento nell’abitacolo dell’auto al ritorno a casa, percorrendo rue Emile Richard, tra i muraglioni delle due sezioni del cimitero di Montparnasse, il clacson di un taxi e il volto verderame della luna.










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Capitolo 2
*** Il sole è una stella, le stelle sono sole ***








Your Smile and the Other Lies





Canale di musica classica, lirica e sinfonica, canale di musica pop, commerciale ed elettronica, canale di musica rock e canale news; Louise adorava lasciarsi incantare dalle voci dei presentatori, dei giornalisti, uomini senza volto che delicatamente e appassionatamente introducevano le canzoni, voci ammalianti, sconosciute, ironiche, infuriate, veloci e sbiascicate, a volte, altre monocorde. O le musicassette jazz, rock psichedelico, registrazioni da concerti, new wave, sperimentale. “Il sole è una stella, le stelle sono cieche” recitava una voce affranta, Louise l’aveva trovata in una cassetta nascosta tra dei libri, non riusciva a riconoscerla, non riusciva a vedere ma percepiva ogni sensazione.
Mollare gli ormeggi, naufragare, allontanarsi dal tutto dichiarandolo. Il cielo, la terra, gli animali, i sentimenti, alla fine dell’inventario non trovare nulla, trovare il nulla. E rimanerne turbati.
Louise spostò l’archetto delle cuffie da sopra la nuca fino a nascondere gli occhi, per coprire i bagliori della lucina notturna della sorella e i chiarori che filtravano dalle persiane, divisa su due piani di luce, dal pavimento al soffitto.
Scese dalle scalette del letto a castello, il walkman nella tasca della vestaglia lilla. Aveva provato imbarazzo a chiederlo in regalo come tutte le compagne di classe e si era sentita un po’ speciale a non aver ricevuto un lettore portatile di CD, come le altre, ma un walkman, così avrebbe potuto tenerlo in cartella o in tasca e ribaltandolo o scuotendolo avrebbe continuato a sentire la musica, non c’era il rischio che il disco perdesse l’asse interrompendo l’ascolto o rovinandosi.
Il corridoio nella calda penombra; l’illuminazione azzurrina del bagno, due barchette di carta nel lavabo.
Un giro di ricognizione alla ricerca di passatempi, la porta della cucina chiusa, i soliti disegni dell’asilo e delle elementari in corridoio, la luce soffusa dietro la tenda della sala. Il padre che sorseggiava the e fissava lo schermo del computer, le pupille scorrevano da destra a sinistra, ogni tanto batteva qualche tasto, un ticchettio rumoroso e discontinuo.
- Sei sveglia?- Le disse a bassa voce Stéphane, il riflesso azzurro del computer contro le lenti spesse degli occhiali.
- Evidentemente.- Sbiascicò Louise sedendosi sul divano. La lampada di carta di riso traballò sullo stelo d’ottone, come un fiore sgraziato, un papavero albino, nero e rosso, nero e bianco.
- Non riesci a dormire? Ho registrato un documentario sulla Seconda Guerra Mondiale, può interessarti?- Il padre alzò lo sguardo stanco, il conforto della bevanda calda nella mano sinistra.
- Prima dell’interrogazione, sì.- Louise recuperò il telecomando per guardare la durata della videocassetta. C’era stato un periodo in cui aveva preferito rimarcare di essere nata a Londra e il non considerarsi completamente tedesca ma meno della metà. Una vergogna insita, spontanea, avvilente, catastroficamente accentuata alle spiegazioni del padre sul collaborazionismo francese. Col tempo aveva capito il continuo cadere in discorsi politici degli adulti e l’accettazione di visioni ripetute di documentari simili con nozioni identiche, era un modo come un altro per convincersi di non c’entrare niente con il passato ma non essere indifferenti.- Volevo parlare di nonno Jean.-
- Non avresti molto da dire; è nato a Vientiane, Laos, all’epoca Indocina.- Le rispose sorpreso Stéphane, aveva dato per ovvio che la figlia lo sapesse, continuò:- Non so che lavoro facesse suo padre, se ufficiale od ufficioso… comunque ha frequentato le scuole internazioni tra figli di diplomatici e di aristocratici laotiani. Non ebbero particolari problemi con l’occupazione giapponese. Louise, io i particolari non li conosco ma sicuramente Ismaël sarà contento di raccontarteli.-
Stéphane temette che la figlia volesse svegliare Ismaël perché Louise apparve curiosa e delusa di non poter sapere tutto subito, ma lei domandò con un’aria solenne: - Stai lavorando?-
- Evidentemente.- La canzonò il padre reprimendo un sospiro di sollievo.

Michelle adorava gli elefanti e il color verde menta. Amava il the aromatizzato ai frutti di bosco, le compagne della squadra di basket della sorella, il ricordo di un bambino italiano che si chiamava Tobia ed aveva incontrato l’estate prima, al campeggio con la nonna – aveva anche una sorella di nome Camilla, ma lei aveva appena quattro anni e mordeva tutti. Michelle indossava un costumino color ciliegia e la nonna le faceva una treccia disordinata legata con un fiocco di raso, una maglietta del padre come vestito, gli occhi a riempirsi di immagini da raccontare al telefono con i genitori. Divideva le vacanze nei finesettimana fuori città, ad Annecy, in Haute-Savoie; le vacanze estese, l’estate passata a Brest con la nonna seguendo i suoi ritmi e orari lavorativi o un paio di volte un campeggio sul Mediterraneo e le vacanze propriamente dette, San Pietroburgo, Berlino, Ulan Bator, Amsterdam, alla ricerca di qualcosa di indefinibile, una percentuale di vita indigena e le tracce dei grandi viaggiatori del passato, fotografi di buona famiglia, avventurieri, pittori o scrittori. I viaggi si concretizzavano nella preparazione dei bagagli ma cominciavano nelle discussioni letterarie e nelle necessità del padre di vedere ciò che avrebbe descritto, conoscere e scoprire luoghi, modi di vivere, cucine straniere, piccoli particolari. Parole dai significati dolci, virgole o punti di domanda che papa leggeva mormorando piano e fingeva che non derivassero da lui e non tornassero a lui come i raggi di una poesia, la rifrazione o la pioggia.
- E’ l’inquadratura sbagliata, è totalmente sbagliata!- Si lamentava Stéphane guardando le sedie sparse per la sala e la sciarpa allungata e composta sul tappeto come una chiazza di sangue. Le luci del pomeriggio combattute con le tende tirate e i soli bagliori delle lampade a riflettersi in ombre sul muro.
- Potresti cominciare da sotto il cadavere. Parlare del sangue che si raffredda e secca?- Provò a suggerirgli Ismaël per poi scuotere la testa, per niente convinto e quasi deluso.
- Ma se mi corico così sembro morta?- Esclamò Michelle con la bocca spalancata, gli occhi chiusi, le gambe e le braccia asimmetricamente disposte sul pavimento, i capelli mischiati alle frange della sciarpa rossa.
- Sì, quindi non coricarti così.- La gelò il padre preso dalla furia lavorativa. Erano due mesi che tentava di scrivere qualcosa ma non vi riusciva. Parole, parole, nessun senso compiuto. Eccessivi arzigogoli da limare, concetti e la totale assenza d’azioni.
- Volevo solo aiutare.- Borbottò la bambina cercando di scappare in cameretta; Ismaël la trattenne afferrandole una mano e facendola sedere sul divano.
- Shell, grazie. Grazie, sul serio, ma sono nel difficile.- Provò a spiegarsi Stéphane inginocchiandosi davanti a Michelle, guardandola dal basso, specchiandosi in degli occhi dello stesso castano liquido ed un’espressione corrucciata.
- Resta qua.- Mormorò Ismaël accarezzandole i capelli. Adorava quella bambina, il modo acuto in cui rideva o come stringeva i pugni e piegava le labbra da arrabbiata. I lineamenti simili a Stephane, le stesse movenze. I disegni che voleva fossero appesi in corridoio, la valigia sempre pronta, la richiesta di sapere quando si sarebbe partiti ogni volta che sentiva nominare una città nuova.- Lascialo parlare; raccontami… cosa hai fatto a scuola?-
- Sono caduta e mi sono fatta male!- Spalancò gli occhi la bambina; l’intero pomeriggio a giocare, ballare sulle canzoni ascoltate dalla sorella che parlavano di gelosia e di guerra, di danze che sollevavano la sabbia del deserto o l’acqua nera del mare del Nord; si era dimenticata. Sollevò la manica della felpa e una gamba dei pantaloni per mostrargli un gomito ed un ginocchio dove il rosso scuro del sangue rappreso e il rosso brillante e chiaro del mercurocromo si mischiavano e macchiavano a vicenda.- E poi abbiamo parlato di geologia ed io sapevo già tutto sui sedimenti.-
- La vaschetta di gelato con la ghiaia e la sabbia dunque è servita.- Commentò Ismaël pensieroso volgendo inconsciamente lo sguardo al davanzale del camino, dove fino ad un mese prima erano allineate le scatole con i piccoli esperimenti, i germogli dei fagioli e delle lenticchie impigliati nel cotone umido, le bacchette di legno con gli accenni di cristalli di zucchero ed un leggero alone azzurrino dovuto al colorante alimentare.
- Sì! Ho raccontato tutto alla maestra e lei ha promesso che presto lo rifaremo in classe.- Sorrise Michelle ondeggiando i capelli da un lato all’altro, tra le mani nuovamente una trottola di carta colorata come la luce nella risata.

- Intendo, non sono vecchio sul serio.- Accennò Ismaël dal volto imbronciato, gli occhi stanchi e lo sguardo fisso. Aveva disegnato dei cerchi nell’acqua per farla defluire dalla vasca; il rumore era stato un leggero sciabordio frammentato ed un suono sordo creato dal vuoto. La sua schiena riflessa nello specchio era lattea e costellata di nevi color caffelatte.- Insomma, non sono vecchio e basta. Ho quasi trentanove anni, non sono vecchio, cedermi il posto sulla metro è un affronto.-
- Maël, amore, non hai mai avuto problemi simili, no? Non è un problema. Insomma, non riuscire a scrivere è una questione seria, non qualcuno che fa un gesto gentile.- Ismaël non rispose e lo guardò a lungo con un’espressione indecifrabile. Stéphane sentì un leggero disagio e la voglia di esplodere ed esternare tutto, la guerra e la gelosia, l’atrocità dei secondi, il battito degli orologi come di animali vivi, dai titoli alla pagina degli interni, dalla cronaca nazionale allo sport nel telegiornale. Non sarebbe durato a lungo, era rabbia e consolazione passeggera, mancavano le parole per ferire e altre volte ci sarebbero state e avrebbero fatto male. Provò a tendere una mano ed accarezzalo sull’avambraccio, dal gomito al polso, la pelle ancora umida.- Ismaël, io ti venero, ti adoro. Così ti adoro. Sono innamorato di te.-
- E’ così falso, però non è un problema. Solo… non dirlo.- E fuori pioveva e sembrava non finire mai, l’asfalto pregno d’acqua non riusciva ad assorbirne altra e nei canali ai bordi delle strade scorrevano dei ruscelli veloci e gelidi; la luce delle lampadine tremava sotto il chiarore dei fulmini ed il fragore dei tuoni. La voce di Ismaël era apatica e monocorde, gli occhi nel vuoto, l’espressione decisa a non mostrare niente e a non farsi catturare da nulla, sdegnosa; somigliava ad una statua di marmo levigato che contro luce mostrava le trasparenze e le imperfezioni.
Per Stéphane il suo volto e i suoi movimenti erano d’una particolarità bizzarra, un ventaglio di estremi, l’aria divertita e le maniche arrotolate a scoprire le spalle punteggiate di nevi o lentiggini estive, l’alterità e l’impenetrabilità in presenza di sconosciuti e i guanti ripiegati infilati a caso nella tasca del cappotto di panno o tessuto spigato, la connotazione canzonatoria utilizzata nei confronti del padre o dei clienti in negozio, dall’ex presidente, a cui chiedeva consigli riguardo ai permessi comunali per mettere una rastrelliera per le biciclette fuori dalla libreria, all’anziana signora che cercava di ordinare i libri scolastici per il nipote, il ragazzo che canticchiava sulle note di una canzone di Alain Bashung alla radio. Il tono sofferente con cui cercava di spiegare a Louise la contraddizione della vita, parlandole della pena di morte e di quanto fosse sbagliata, eppure se qualcuno avesse fatto del male a lei o a sua sorella, lui, lui l’avrebbe ammazzato e poi sarebbe andato a costituirsi.
Stéphane amava il mezzo sorrisetto sulla bocca di Ismaël, amava i suoi occhi feriti e bisognosi od immensi ed autarchici; lo sguardo straziato e sublime.
- Io non sono così.- Bisbigliò Stéphane cercando di infondere nelle parole la stessa dolcezza che gli ricopriva le pupille nel guardarlo. L’attenzione, la mollezza e il timore di ferirlo del sesso, quando Ismaël gli prendeva le mani tra le sue e le stringeva sul petto, sulle spalle, alla ricerca di graffi e di segni indelebili; Stéphane portava sempre le unghie corte per limitare l’entità delle sottili e rosse ferite.
- Io neanche. Non dovrebbe importarmi così tanto.- Confessò Ismaël sfuggendo alla vista sotto il cotone di una maglietta grigia.- Eppure fa male.-
- Potremmo… ballare!- Stéphane cercò di distoglierlo tenendolo per i gomiti e stringendoselo contro, barcollando sulle piastrelle del bagno come, nel ricordo, sul ponte di una nave in una tratta nel mar Nero, davanti alle coste della Crimea, assecondando le onde immaginarie e dense nel movimento oscillatorio dell’imbarcazione.










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Capitolo 3
*** La casa come un tamburo di ossa di una danza macabra. ***








Your Smile and the Other Lies





La chaumière entrata quasi per caso tra i possedimenti dei Blanchard de la Roche riceveva almeno due volte all’anno la visita di un’impresa di pulizie del paese; i dipendenti controllavano inoltre le condizioni del tetto, delle cisterne e dell’impianto elettrico e, nel caso qualcosa andasse riparato, il capo si adoperava per contattare la domestica della signora Marguerite, o, almeno, fino alla morte di quest’ultima.
Il rustico casolare era stato più volte meta delle fughe romantiche delle zie di Ismaël e poi dimenticato con l’avanzare dell’età, con l’acquisto di un paio di appartamenti per le vacanze nei pressi di Sète, con la famiglia che via via si sgretolava, i cugini di Ismaël che si trasferivano all’estero, i figli che evitavano ogni contatto con i genitori, lo spopolamento delle campagne aveva condotto l’idea stessa del possesso di una chaumière in un angolo remoto della mente. In fondo, chi mai vorrebbe rimanere da solo in una casa isolata, dove l’aria è troppo calda d’estate e si congela in inverno?
Il tutto era in ottime condizioni e perfettamente funzionante; una discreta carta da parati dal perlato color avorio e beige leggermente smorzato con una puntina di bianco, un parquet chiaro e lucido di cera. La cucina non era particolarmente accessoriata e le guarnizioni tra le piastrelle erano scure, pentole e stampi da bavarese in rame brillante, i ripiani e il lavabo in marmo. Il soggiorno caratterizzato dai ruvidi tappeti ormai arrotolati ad un lato della stanza per non farli rovinare dalla polvere e dal tempo, un salottino coloniale: una poltroncina di vimini, una sedia a dondolo ed uno scomodo divano sparsi attorno al camino.
L’aria intrisa di polvere e trattenuta dalle imposte serrate rendeva difficile il respiro.
- Andate a comprare qualcosa di commestibile, tutta questa polvere non fa bene a Michelle.- Aveva borbottato Ismaël con la voce impastata dalle ore di sonno durante il viaggio. Avevano percorso l’A11 Paris – Nantes, Stephane non sapeva di preciso se era meglio quella o l’A10 Paris – Bordeaux, i chilometri erano più o meno gli stessi, si era affidato al nome più suggestivo; L’Océane invece che L’Aquitaine, e comunque il tratto fino a Le Mans lo conosceva bene dato che era quello percorso dalle quattro alle dieci volte all’anno destinazione Brest. Nel bagagliaio due zaini da escursionismo, quattro sacchi a pelo, due latte di frutta sciroppata, qualche vestito e biancheria di ricambio.
Stéphane non sapeva cosa pensare di quella casa, di quello che aveva ospitato dentro al ventre. Le interminabili estati dell’uomo che amava, quel poco che gli aveva raccontato sulle figlie dei vicini, le corse a cavallo, il calpestare le spighe di grano. Le prime sigarette, i filari di bandiere colorate alle feste di paese e ai balli dei vigili del fuoco del Quattordici Luglio. Poteva immaginare l’afa e la noia, il sollievo tra le pagine di un libro ed un bicchiere di limonata o di sciroppo di menta, magari i giochi con la canna dell’acqua di Neven.
Mura, campi ed alberi che avevano riportato, ai primi di settembre dei quattordici anni di Stéphane, un Ismaël capace catastroficamente di far battere il cuore a mille e girare la testa, mentre avanzava con un piede sul pedale della bicicletta, l’altro a scivolare sull’asfalto, una sigaretta sfrontata tra le labbra. La pelle chiara da sfondo alle lentiggini sui gomiti e sulle spalle, comparse a causa del sole.
Louise correva appresso a Michelle, cercando di afferrarla, di fare i turni - cento metri per una, sul monopattino trovato abbandonato nel pendio di un canale; Stéphane camminava distratto, le mani nelle tasche della giacca, la sciarpa allentata per l’aria tiepida sotto il sole pallido. Il paese era un agglomerato di case attorno alla piazza principale, si allungava per qualche isolato nei pressi dell’arteria stradale, in entrata ed in uscita.
C’erano le serrande abbassate di un ferramenta e idraulico, un parrucchiere e barbiere, una cartolibreria, e quelle aperte di un edicola, un bar ed una boulangerie - da Stéphane in Francia evitate, visto che non tollerava di dover ordinare il pane in chili, che senso aveva poi? Una persona mangia una pagnotta o un panino, mica cento grammi di pane.
Avevano visto le indicazioni per un supermarket, dans 50 mètres tournez à gauche. Sotto lo sguardo e l’accento slavo della proprietaria, mentre elencava ed indicava prodotti sugli scaffali sguarniti, e la lista della spesa tra le mani di Stéphane, le bambine aveva recuperato un pacco di farina di grano saraceno, un pacco di riso, lattuga, passata di pomodoro, una retina di patate ed una di arance, quel che bastava per quattro pasti. Erano tornati a casa affrettando il passo, distinguendo chiaramente le sagome curiose e diffidenti dietro le persiane.

Ismaël cucinava con accortezza, con precisione, con la concentrazione di un alchimista, seguendo le indicazioni e le quantità alla lettera; aveva imparato per necessità con dei libri di ricette. Con una tazzina di caffè misurava la farina di grano saraceno, quattro tazzine e la lasciava tostare, l’olio, una tazzina e mescolava accuratamente, l’acqua, dodici tazzine e continuava a mescolare fino a bollore. Aveva servito in delle ciotole una crema liscia e profumata dei grani rossi di pepe e delle foglioline di menta di cui era cosparsa.
- Che vino?- Domandò Stéphane finendo di apparecchiare sul marmo del muretto che divideva la cucina dal soggiorno. Quattro tovagliette di legno di bambù, le posate, le tazze con il the alla menta, due calici dallo stelo lungo e sottile e la coppa tonda.
- Un Gewürztraminer o un Bousquet-Sauvignon.- Ismaël aprì la finestra e si sporse per fumare una Dunhill International. La terra scura risultava divelta dalle forti piogge, declinava piano verso gli alberi da frutto e verso il bosco. Il primo pomeriggio era silenzioso e terso, la noia sulle fronde dei meli e dei peri.
- Pensa a come sarebbe aggiungendo un tappeto elastico sulla sinistra, magari una piscina dove non c’è molta pendenza. L’erba tosata, uno scivolo al limitare del bosco. So che certe cose non andrebbero date per scontate ma anche le ragazze prima o poi…- Ismaël inizialmente non si era reso conto della presenza di Stéphane alle proprie spalle, piano gli aveva circondato i fianchi con le braccia. Pensava ad altro, pensava a quello che aveva vissuto, la piccola stanza della domestica al piano superiore, incastonata tra la sua camera, quella del fratello ed un bagno. La leggera colla sulle etichette dei barattoli di marmellata, le riviste della madre.- Su un giornale spiegavano che la cassa con la sabbia, i giochi per i bambini piccoli, vanno posizionati vicino alla veranda, un giardino floreale e poi, confusi tra la boscaglia, i giochi per i più grandi, nel fermento dell’esplorazione. Statue, una casa sull’albero, un tempietto monoptero.-
- Parlane con mio fratello. Posso cederti la mia metà ma non verrò a vivere qui.- Aveva commentato gelido Ismaël.
- Era solo per parlare.- Stéphane si offese e cerco di non darlo a vedere. Fingere la leggerezza con una scrollata di spalle era semplice, molto meno se la pelle di Ismaël scottava e lo sguardo scrutava oltre gli intricati rami delle siepi invernali.
- Perché qui? Perché così grande? Se vuoi una casa delle vacanze potresti guardare gli annunci per Plougonvelin o Locmaria-Plouzané.- Ismaël aveva ammorbidito la voce e si era voltato a guardarlo, sorridendo amaro. La rabbia di Stéphane si sciolse quando l’altro gli sfilò gli occhiali per capire l’entità della tristezza.- Scusa. In ogni caso, scusa. Complico sempre ogni cosa.-
- Si raffredda, vieni.- Stéphane fece per accompagnarlo, per poi vederlo sfuggire, chinarsi verso il camino e smuovere la brace con l’attizzatoio. Complicava ogni cosa, negli ultimi periodi si contendeva con il libro in cantiere il primato come maggiore causa di nervosismo, sarebbe stato perfetto in una dimensione ultraterrena e al di là dei doveri, del lavoro. Chiunque vorrebbe bastare a se stesso e non avere la necessità dell’amore altrui, dell’aiuto. Stéphane nella rabbia passeggera, negli stati di agitazione, l’insonnia e lo stress, vedeva, nascosti in ogni piega, difetti e critiche, lati che in passato l’avrebbero fatto sorridere lo urtavano e snervavano.
Aveva provato ad andare da uno psicologo per un paio di mesi, principalmente per riprendere a scrivere, se non meccanicamente sulla tastiera del computer o con una mina a graffiare la carta, almeno per ritrovare la fluidità nel pensiero, una sorta di scrittura interiore.
Lo sguardo di quell'uomo cinquantenne, con pochi capelli e molti chili, era penetrante e indagatore, in contrasto con il sorriso sul volto. Poneva poche domande, ascoltava e prendeva appunti dall’altro lato della scrivania, Stéphane aveva raccontato le sue teorie sulla prima infanzia, le bugie dei nonni, la scoperta che fino ai sette anni era stato lontano dalla madre perché lei nel frattempo aveva portato al termine un’altra gravidanza e aveva sepolto una figlia per un caso di meningite batterica, aveva parlato dell’amore per la madre, di quanto fosse fiero di lei e di come lo aveva cresciuto, degli errori che stava facendo lui stesso nei confronti della figlia maggiore, di come anni prima aveva sentito le bambine parlare della madre come une mauvaise mère e lui aveva fatto vedere loro le foto, aveva cercato di ricordare qualche aneddoto, qualche cenno d’amore materno da raccontare, spiegare che non era malvagia, semplicemente non si era sentita di crescerle perché erano bimbe troppo speciali, invece di chiamarla madre cattiva era meglio non chiamarla madre ma col suo nome, Mojca.
Aveva parlato di Ismaël, di come accettasse il tradimento solo nei confronti di Marc e di come ogni promessa, ogni fedeltà, non era stata fatta alla coppia ma alla famiglia, della vita in comune, del far colazione allo stesso tavolo e poterlo baciare prima che andasse a lavoro. Aveva accennato al contratto firmato l’anno prima, di come fosse stato automatico e di come non gli avessero attribuito lo stesso valore di alcuni loro amici, alla stregua di un matrimonio con cerimonia ed invitati. Avevano semplicemente portato un dossier composto dai documenti richiesti, gli estratti di nascita, le dichiarazioni sugli stati civili, l’attestato di residenza, gli incartamenti del divorzio, una richiesta scritta al mairie du 14e, il municipio a cui facevano riferimento, avevano preso appuntamento e qualche settimana dopo, avevano firmato per il PACS. Due anni dopo avrebbero cominciato a pagare meno tasse.
Se litigavano, poteva pensare che fossero i postumi delle sedute dallo psicologo, o forse illudersi, nell’arduo compito del cernere le intenzioni reali dagli stati mentali e condizionamenti.

Ismaël non dormiva, immobile attendeva il sonno, inerte, nella luce calda le labbra si confondevano con la pelle, statico tra gli arredamenti coloniali nella casa rustica, inane e fuori dal tempo. E la cerniera premeva contro le caviglie di Stéphane infastidendolo; trovava conforto nell’accarezzare le gambe di Ismaël, lasciar scorrere le mani dalle ginocchia ai fianchi, lentamente, tranquillamente, tutta la notte.
Era piacevole non dormire, attendere qualcosa, insieme, anche se persi in altri mondi ed in altri pensieri; Stéphane aspettò che il respiro di Ismaël si facesse meno controllato, basso e rarefatto tra i rumori della notte, nel buio fremeva e tremava e viveva un sonno tormentato, dilaniato nella totale incoscienza.
Il crepitare del fuoco era una nenia sottile e confusa, il vento fuori dalle finestre scuoteva gli alberi e faceva scricchiolare la casa come un tamburo di ossa di una danza macabra. La tempesta infuriava, danzava attorno al fuoco, bellezza indiana, spettrale, di colera ed altre infezioni – non i suoi occhi ma le sue vertigini, i suoi incubi.
Stéphane aveva assistito al risveglio notturno di Louise, l’aveva consolata e osservata riempire bicchieri d’acqua da tenere vicino al cuscino. La sua bambina - detestava le sue scenate di gelosia ed invidia, le ripeteva sovente che le amava allo stesso modo ma che Michelle non l’aveva mai seguita altrettanto, mai considerata a quel livello, non le dedicava tutto il tempo che aveva dedicato a lei. Bastava che guardasse le decine di album di sue fotografie nei primi anni di vita in confronto al paio della sorella.
Una sua piccola vittoria, l’esser riuscito a farle conoscere la noia piacevole, i giochi autogestiti, il valore attribuito e quello reale degli oggetti nella prima infanzia e potersi permettere di viziarle un pochino mentre bambina si confondeva a ragazza, nella sua maniera buffa e bizzarra, qualcosa di simile agli occhiali rotti dello Stéphane undicenne, addormentato su un banco di scuola.










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Capitolo 4
*** Strappi e bruciature in un lenzuolo nero. ***








Your Smile and the Other Lies





Le vacanze di Primavera erano cominciate il quinto giorno d’Aprile, un sabato, e sarebbero durate fino al ventidue, un martedì, per Stéphane giorni adatti per approfittarne e ritornare nella casa materna, troppo piccola per la convivenza armonica di cinque persone ma ugualmente piacevole. Se i genitori dei compagni di classe di Michelle si affidavano a babysitter o doposcuola per ritagliare dei momenti di tempo libero, lo scrittore contava sulla madre nelle settimane passate a Brest.
Marc, che conosceva Ismaël da diciotto anni, affermava che mai l’amico aveva trascurato così tanto la libreria; Charlez, suo dipendente ed amico da dieci, confermava ma si diceva contento della nuova collega. Carole, commessa nella libreria da quattro mesi, era contenta del cambiamento e della conseguente assunzione. Per Ismaël era stato inconscio il progressivo abbandono dell’attività, dipendeva probabilmente dal bisogno di creare una coppia chiusa ed indissolubile, un’inscindibilità dopo i…
- Da quanto, ormai?- Il salotto del padre di Ismaël, dai mobili moderni e contemporanei, le vetrinette illuminate con le statue indiane, le automobili in latta riciclata del Sudamerica, le maschere giapponesi e i vasi cinesi. Le tende di rafia e conchiglie addolcivano la luce metallica del pomeriggio.
- Sei anni il mese scorso.- Stéphane, stretto nella vecchia maglietta di Greenpeace presa a São Paulo nel 1990, sorrise. Lo fece perché ogni attimo era inaspettato in previsione della domanda attesa, poteva esser posta in qualsiasi modo, distrattamente o curiosamente, in correlazione con i discorsi o separatamente.
- E’ tanto.- Eveline sorseggiò il caffè d’orzo e posò la tazzina sulla tovaglia patchwork.- Michelle e Sebastien quando escono stanno a tre metri di distanza, lei davanti e lui dietro. Hanno paura di essere presi per fidanzatini.-
- Una decisione di mia figlia, immagino. Dovrò farle una lavata di capo.- Mugugnò Stéphane in previsione della richiesta di spiegazioni da porre alla figlia, lo spiegarle che così facendo feriva il cugino e che poi, quello che pensavano gli altri di loro non era così importante.
- Sono divertenti.- Ridacchiò Eveline, nei panni di padrona di casa scartò il rivestimento di un vassoio di pasticcini, rivelando dei mini éclairs con la glassa al caffè e al cioccolato. Al suono del citofono si alzò per aprire la porta.- Sono già arrivati.-
- Dubito che Sebastien si diverta.- Sbuffò Stéphane sentendo in corridoio i saluti, i commenti al non aver aspettato per fare il caffè.
- Domani verranno dei parenti di vostro padre, tremo all’idea.- Disse Eveline tendendo le labbra e facendo strada a Ismaël e Neven.
- Evelle, scoprirai il grande errore di traslitterazione dei Tzhaim-Chalm. Non rimanerne sconvolta.- Commentò Neven facendo ridere i presenti.
Somigliava parecchio al fratello ma aveva i capelli di colore più scuro, gli occhi castani e la pelle abbronzata da viaggiatore. Il sorriso caloroso contrastava con i bronci o l’aria annoiata di Ismaël. Era appena tornato da Mombasa e aveva portato dei kanga multicolore a tutte le donne della famiglia. Uscirono; era metà pomeriggio, faceva caldo e il cielo era nuvoloso.
- Un gioiellino, vero?- Accennò Neven indicando il nuovo fuoristrada dalle finiture cromate.
- Veramente.- Sospirò Stéphane girandogli attorno per osservare i cerchioni, le ruote, la carrozzeria. Neven gli lanciò le chiavi e gli cedette il posto dell’autista. Il vecchio appartamento materno non distava molto da rue de Denver, Stéphane parcheggiò nel vialetto coperto davanti al cancello, sperando che i vicini non necessitassero del passaggio per almeno mezzoretta. Il cortile era diverso da come lo ricordava, non c’erano più aiuole verdi di bossi e agrifogli ma contenevano piccoli alberi di palma, nelle fessure tra le piastrelle si raccoglieva la sabbia, i colori della facciata erano sbiaditi e scrostati.
- C’è il progetto di rifare il cortile, ridefinendo gli spazi si riuscirebbe a ricavarne tre parcheggi.- Neven tirò fuori le chiavi dalla tasca dei pantaloni, aprì il portone nero e con un sibilo accese la luce. Rimanevano i mobili antichi appoggiati alla tappezzeria di tessuto, l’assenza di suppellettili svuotava visivamente la casa, la ingrandiva e rendeva fredda. Neven si accucciò davanti al divanetto e rivoltò i cuscini per mostrare gli strappi e i tagli.- Gli ultimi anni per lei devono esser stati un inferno, era impazzita, totalmente.-
Ismaël ignorò ogni riferimento alla madre, girovagò per l’appartamento, i tre piccoli salottini, la sala da pranzo, le camere degli ospiti e i quattro bagni, le grandi cucine, le camere delle domestiche, i lunghi corridoi, quella che in gioventù fu la sua stanza. I mobili rimasti erano coperti da teloni bianchi, i letti a baldacchino si ergevano nel loro scheletro di legno, vele ammainate. I quadri e gli specchi trovavano appoggio contro il muro, le cornici e i lampadari sul pavimento, i tappeti arrotolati ai lati delle stanze, le finestre spoglie delle tende e dei tendaggi, i materassi delle lenzuola.
- C’è parecchio lavoro da fare.- Borbottò Stéphane cercando Ismaël con lo sguardo. Lo perdeva, perdeva la sua nota vicina, il suo calore, alzava gli occhi e lo ritrovava, appoggiato al davanzale, con alcuni ospiti ad una festa, vicino alla testata del letto.
- Non ne hai idea.- Asserì entusiasta Neven, srotolò le carte e le piantine, il progetto e le varie fasi stampati su carta millimetrata sulla consolle nella sala da pranzo, la più illuminata.- Un appartamento da centodieci metri quadrati, per me. Il resto si dividerebbe in tre monolocali soppalcabili, bisogna buttare giù tutto. In cinque mesi di lavoro, neanche, sarà tutto pronto.-
Ismaël tentò di immaginare tutti i cambiamenti da fare, quanto avrebbero richiesto, se ne sarebbe valsa la pena. Non amava particolarmente quella casa ma l’idea di un monolocale a Brest era allettante.
- Devo pensarci.- Mormorò imbronciato. Poneva Stéphane in degli stati di esitazione permanente, una tensione continua, qualcosa che permetteva di sentire lo stomaco avvolto tra le spire di un serpente, un pizzicore alla bocca.- Potremmo rimanere per stanotte.-
- Fate pure, passerò domani a prendere le chiavi.- Ghignò malizioso Neven raggruppando le carte.

Erano rimasti, una telefonata a casa, un’incursione nel bar in strada per prendere due croque tartiflette e il caffè, serviti da una gentile ragazza in piatti e bicchierini di plastica avvolti in carta stagnola e tovaglioli, poco tempo per consumarli, il necessario per raggiungere la passata camera da letto, la sua finestra al piano terra, la parete più chiara dove una volta si appoggiava il pianoforte, l’odore del cuoio che ricopriva lo scrittoio, il legno dei mobili rimasti.
Ismaël e Stéphane si amavano rabbiosamente sul raso trapuntato del materasso, il letto cigolava e graffiava il parquet. Quel calore bastava, l’infinito era nella pelle che sfiorava, accarezzava, sfregava, stringeva, lambiva altra pelle. Nei baci disorientati, cercati ad occhi chiusi tra scapole e spalle, la linea simmetrica della mandibola o la curva della schiena. Era cominciato con il cielo livido riflesso dalle tende sottili, propagato sui muri, gli occhi di Ismaël si erano scuriti nell’inchiostro della notte, morbido grigio ardesia allagato dal nero delle pupille, sommerso dall’alta marea.
Sul corpo di Ismaël rimanevano i segni, la pelle troppo chiara accoglieva i graffi rossi che premendo le mani di Stéphane sul petto si infliggeva, i morsi che scoprendo il collo reclamava. Le tracce, i marchi che ironicamente indicavano il possesso, rilucevano richiamando tutto il calore del sangue. Ismaël non si rendeva conto che la sua luminosità e le sue ombre lo rendevano così amabile agli occhi dei cercatori di stelle, Stéphane e Marc, il suo prestigio risiedeva nella sua debolezza, il suo viso era quello forgiato dai rintocchi dell’amore, su altre persone ed altri corpi per poi risplendere in un’unica persona.
Stéphane si svegliò con un brivido di freddo, aggrappato ad Ismaël, imprigionato nei movimenti del sonno, riscaldato a tratti sull’addome e nel viso, negli avambracci nell’amplesso, le gambe al gelo.
L’orologio da polso abbandonato sul pavimento riportava le ore sei e dieci.
- Amore, svegliati, svegliati che andiamo a vedere l’alba.- Provò a sussurrare contro la tempia dell’amato. Nell’aria si mischiavano l’odore consunto di polvere e la fragranza proveniente da una boulangerie, vicina, dall’altra parte della strada, appena.
- E’ così presto?- Borbottò quasi indistintamente Ismaël. Dopo pochi secondi il ritmo del respiro era tornato quello di un addormentato.
Stéphane si alzò e si vestì; una maglietta, i jeans e la giacca leggera. Sperò che nel bagagliaio ci fosse una coperta e, non riuscendo a svegliare Ismaël nonostante i baci a cui rispondeva sonnacchioso ed incosciente, si impegnò per infilargli i pantaloni, allacciargli la camicia.
A separarli dall’auto erano mezza dozzina di isolati, in discesa, verso l’entrata dell’area portuale, tra i primi negozianti che provavano ad alzare le serrande, i baristi, i panettieri, i giornalai, le persone che smontavano dal turno di notte e stanchi tornavano a casa, si fermavano a prendere le petit déjeuner per i famigliari, si trascinavano dietro delle sporte, avanzavano lentamente come una marcia ben calibrata.
Stéphane guidò inoltrandosi nella rada finché non colse i primi bagliori perlati e rosati, poi caldi e aranciati, lottavano contro le tenebre, le stelle erano strappi e bruciature in un lenzuolo nero.

- Dovrei dire che lo accetto soltanto perché è mio figlio e i figli vanno amati sempre? Oppure dovrei dire che, okay, conosco un paio di omosessuali e non mi stanno antipatici, ma lo fosse mio figlio non lo accetterei? Agathe, mia cara, io non accetto un bel niente.- Il tavolino era apparecchiato per quattro, con colori chiari, azzurrino e giallino, due tazzine da caffè, due tazze da caffelatte e due bicchieri di succo di mela, fette di pane, un quadrato di burro, un barattolo di marmellata di lamponi. In due piatti rimanevano poche briciole, una sbavatura rosso scuro, segni della sazietà e della successiva noia delle nipoti. Annik si era data un gran daffare per ordinare e rendere il tutto carino e familiare, non aveva molte amiche ma ci teneva a fare bella figura. Ormai era diventata un’abitudine, ricevere visite a colazione e farne altrettante.- Io non accetto “gli altri”, io non accetto mio figlio. Non credo che l’omosessualità sia innaturale. Non la reputo una cosa strana o sbagliata; okay, non è frequente. Stef dice un dieci per cento, è abbastanza, vero? Non è normale inteso come regolata da norme, però è naturale. Ed in ogni caso la maggioranza eterosessuale non può arrogarsi il diritto di considerare sbagliate le altre varianti, nessuno può considerarsi giusto.-
- Ma Annik, ascolta, è normale un attimo di costernazione, sai, le prime cose a cui si pensano sono i nipoti, devi anche capirla l’Yvette, ha scoperto la figlia, quarantenne, a letto con una donna. Ovvio che vederla svolazzare da un uomo all’altro senza serietà, e poi, beccarla con una donna, l’ha sconvolta.- Agathe era più anziana e ne aveva passate di tutti i colori. Con una reputazione ancora peggiore aveva difeso quella di Annik, più volte, in gioventù. Aveva gli occhi bistrati e i capelli ossigenati, gli anelli d’oro roteavano e tintinnavano tra le dita.
- Agathe, capisco benissimo. Sapessi quanto ho pianto, non riuscivo a smettere, mi sembrava di essere vissuta nelle bugie per anni. E poi mi mancava, mi mancava tantissimo ed era lontano più di mille chilometri. Forse aveva paura che reagissi come sta facendo adesso Yvette.- Sospirò Annik ritornando al figlio come spesso faceva, c’erano sempre troppi chilometri a separarli e vivere in quel modo, in cinque incastrati in due stanze, non le dispiaceva affatto.
Annik lasciò vagare la mente mentre Agathe guarniva di ricciolini di burro il pane. Avrebbe cucinato del riso per pranzo, riso con striscioline di omelette e pezzetti d’ananas. Poteva aggiungerci degli straccetti di pollo per il figlio, Louise invece non li avrebbe mangiati, Michelle probabilmente no ed Ismaël neanche a pensarci. Forse sarebbe stato meglio ripiegare su una minestra, sì, la minestra di nonna Annik piace a tutti.











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Capitolo 5
*** Sovvertire stati di calma ***








Your Smile and the Other Lies





I giorni scorrevano e davano opportunità all’ozio e al libero svago, senza i vincoli degli orari degli allenamenti di pallacanestro, il turno al maneggio nei fine settimana, gli impegni degli amici per andare a pattinare o al cinema. Le ore di studio, il preparare la cartella ogni giorno, ricordarsi di aggiungere i pantaloncini, la maglietta e le scarpe da ginnastica il giovedì sera.
Bastava una bicicletta, la discesa di rue de l'Église, il parcheggio di rue Neuve, i flash delle macchine fotografiche dei turisti in rue de la Tour in direzione della bastille de Quilbignon e del pont de Recouvrance. Il richiamo della nonna alla finestra avrebbe distolto Michelle dai raggi della bici e l’avrebbe fatta rientrare per cena.
Louise era china sul tavolo di cucina a fare i compiti che la professoressa di Francese si era ostinata a dare, in contrasto con il resto degli insegnanti. Le sembrava che la ruota angosciante delle interrogazioni e delle verifiche non si fosse arrestata nemmeno in quelle due settimane di vacanza. La conosceva bene, temeva il culmine della domenica sera, tirava un sospiro di sollievo a dormire fino a tardi il mercoledì. Grammatica, noia. Avrebbe preferito avere qualche libro da leggere e di cui fare una scheda, ma niente, interminabili esercizi di grammatica. Il padre, dall’altro lato del tavolo, lentamente sfogliava il giornale, soltanto per controllare che facesse i compiti, rimarcando quanto tempo stesse perdendo allo scoccare degli orari tondi.
Sei e dieci; “non mi importa dei compiti”.
Sei e quindici; “Louise, non ti alzi finché non li finisci”.
Sei e venti; “sei noioso e antipatico”.
Sei e venticinque; “tu non mi vuoi bene”.
- Papà, voglio soltanto sapere a chi rinunceresti!- Sbottò Louise posando violentemente la tazza contro il tavolo della cucina. Dopo minuti di urla e pretese, collegamenti assurdi tra argomenti e lacrime, a cui aveva risposto a bassa voce, Stéphane si era alzato e stancamente camminava per la cucina.
- Louise, basta. Stop, terminiamo qui la discussione.- Mormorò debolmente Stéphane, quei litigi per il niente, sfoghi e voglia d’urlare, trovare le parole per ferire, lo disturbavano principalmente per la durata spropositata e la risoluzione nello sfiancamento.- Non mi importa se i… “complessi del patrigno” te li sei fatti venire a scoppio ritardato. Smettila.-
- Non sono “complessi del patrigno”, voglio sapere. E’ legittimo.- Chiarì Louise aggrappandosi all’importanza passeggera nella speranza che non perdesse senso in pochi minuti. Spesso le questioni lo facevano, pungolavano, tormentavano, non permettevano di dormire e poi si risolvevano con una semplicità disarmante ed umiliante. Mostravano la pochezza di cui si sentiva intrisa.
- Avrei rinunciato alla mia felicità per voi.- Aggiunse suo padre, appoggiato al davanzale della finestra, i riflessi aranciati contro la chiara camicia di jeans. Il roteare di pochi gradi verso l’alto delle pupille, spostarsi dalla tazza stretta nuovamente tra le mani della figlia alle lacrime sulle sue guance.- Adesso sei contenta?-
- Abnegazione, Louise, è normale che tuo padre abbia risposto così. Qual è il problema?- La nonna incrociò le braccia sopra la tovaglia evidenziando le macchie caffelatte sul dorso delle mani.
I demoni dell’età sospesa, ancora bambina, ormai ragazza, dovevano uscire fuori per esser combattuti. Annik desiderava soltanto abbracciarla e dirle di smetterla.
- Non c’è nessun problema, volevo soltanto sapere.- Brontolò Louise distogliendo lo sguardo.
- Non puoi capire, non ancora. Ti tenevo nel marsupio e dormivi, chinavi la testa e dormivi, non avevi paura, non cercavi di aggrapparti perché ti fidavi. Eri… piccolissima.- Intervenne Stéphane, quasi balbettava nella dimensione dolorosa della sincerità. Tentò di riscuotersi per proseguire.- E bellissima. Dico, se vorrai avere figli, in ogni caso li amerai ma ti auguro che siano come te e Michelle, perché è una cosa pazzesca. E’ incredibile, è qualcosa di talmente immenso.-
- Papà…- Singhiozzò Louise stringendosi nelle spalle e guardandolo preoccupata.- Scusami, mi dispiace.-

La tensione diveniva tenera, fluiva dolce sul volto di Louise e sulle sue lacrime. Appariva scarmigliata ed imbarazzata, più piccola dei suoi quasi dodici anni, un cucciolo assonnato dagli occhi appannati e il sorriso piccolo e sincero. Annik la guardava, la capiva in parte, cercava di comprenderla in tutto.
Per lei la preadolescenza era stata diversa, speranzosa, ignorava tutto della vita, era convinta che si sarebbe divertita, aveva immaginato balli sulla spiaggia, le spalle forti degli ufficiali di Marina nelle sere libere, gonne roteare nei furori delle danze; per poi ritrovarsi chiusa in camera, i fratelli più grandi che, mangiando carne fredda ed erbe bollite dai piatti scompagnati, quando tornavano da lavoro, parlavano dell’apertura di fabbriche nella Germania Ovest o in Inghilterra. Lei cantava per far addormentare Alice, la sorella minore, la cullava e provava a trasmetterle gli stessi sogni.
L’indipendenza l’aveva trovata come commessa in un’edicola, e poi gli amori, un figlio, la rottura con i genitori e il trasferimento.
Ismaël volontariamente si era dimenticato di comprare le scatolette di tonno e Louise rideva cercando con lo sguardo il padre, l’espressione ilare ed incuriosita. Le bambine erano vegetariane perché erano cresciute compiendo mentalmente un collegamento in più: lo stufato, le salsicce, il petto di pollo, non erano semplicemente carne ma erano le carni degli animali uccisi. Così Annik si era ritrovata ad imparare da Ismaël a fare il seitan, lavare via l’amido dalla farina manitoba, pressare bene la pasta glutinosa ottenuta e bollirla con due cucchiai di salsa di soia e del dado di legumi, o di spezie, o vegetale.
Ismaël scese nuovamente in strada per far rientrare Michelle e Sebastien. Parecchie persone che incrociava lo salutavano, compagni di scuola, compagni di classe, un italiano che più trentanni prima girava con un carretto vicino alle scuole, con uno scalpello rompeva il ghiaccio, lo passava in un tritacarne e lo serviva in dei bicchieri di carta con sciroppo di amarena, di limone o di menta, solo tre gusti. Ancora proprietari di negozi; una sarta che veniva spesso in casa a mostrare le nuove stoffe appena arrivate dall’Inghilterra. Il vivere lontano creava amicizie dove in passato c’era soltanto il conoscersi di vista.
- Sebastien, rimani a cena?- Domandò Ismaël al nipote. Trovava assurdo l’aver quasi assistito alla sua nascita e non a quelle di Louise e Michelle. Era molto legato alla madre, Anais, prima e durante i nove mesi di gravidanza avevano avuto un fitto scambio epistolare, da due capi del mondo, due estremi separati dall’oceano Atlantico, Brest e Puerto Cabezas, nella costa dei Miskito.
Lei era stata abbandonata dal marito, lui si sentiva vedovo di Morgan. Ismaël era tornato poco prima della nascita di Sebastien; Anais era rimasta qualche mese a casa sua nel tentativo di rimettere insieme i pezzi, fino ad innamorarsi e non potendo accettarlo andarsene.
- Sì, poi viene a prendermi zia Gwenna.- Esclamò Sebastien. Ismaël vide chiaramente che desiderava aggiungere qualcosa ma cercava di trattenersi. Decise di aspettare prima di chiedergli di cosa si trattasse.
Annik era splendida ad improvvisare piatti d’effetto; aveva preparato una crema di funghi e delle polpette di riso, avevano cenato velocemente e mentre gli adulti erano rimasti a conversare, Sebastien, Louise e Michelle si erano spostati sul divano per guardare qualche cartone animato. Quasi a farlo apposta, prima dell’arrivo della zia, Sebastien si era addormentato abbracciato ad un cuscino.
Gwenna l’aveva osservato sospirando, si era seduta al tavolo e aveva lasciato scivolare i bottoni della giacca leggera fuori dalle asole.
- Sebastian non vi ha detto niente?- Aveva accennato lisciandosi distratta i capelli. L’henné li rendeva lucidi e color fuoco, in contrasto con le sopracciglia ramate e le ciglia incrostate di mascara. Proseguì incapace di contenere la dolcezza nello sguardo:- A novembre io e Neven avremo un bambino.-
- Ma è una notizia stupenda!- Esclamò Annik in un gridolino, si alzò per abbracciarla.- Potremmo stappare una bottiglia di vino ma non credo che tu berrai, vero?-
- No, tranquilla Annik. Bene, io ve l’ho detto. Maël, probabilmente subirai tuo fratello per la questione della casa, vorrebbe accelerare i lavori e il trasferimento. Possibile che sia più agitato lui di me?- Mormorò Gwenna sorridendo e districandosi lentamente dalla stretta.- Lo vado a dire alle bambine e poi scendo, ho la macchina in seconda fila e Anais che ci aspetta.-
Nonostante le esclamazioni e il chiasso fatto dalle bambine, Sebastien non si era svegliato e Ismaël aveva preferito prenderlo in braccio e portarlo in macchina. Gwenna teneva spalancata l’anta del portone e commentava riguardo al peso del bambino, a possibili ernie e divagava sui colori delle tutine unisex, non sapeva scegliere tra il verde menta o il giallo pastello.
Anais aspettava dentro l’utilitaria, i capelli biondi scarmigliati, la pelle tirata, illuminata dalle poche luci dagli svariati colori, i lampioni arancioni, le insegne azzurre del café, gli spioncini rossi e verdi nel cruscotto. Scese velocemente per tirare giù lo schienale ed aiutare Ismaël ad adagiare il bambino nei sedili posteriori.
- Grazie, sei stato gentilissimo.- Mormorò stancamente schioccando un bacio sullo zigomo di Ismaël, si era alzata in punta di piedi e per un istante lui aveva visto i suoi occhi blu, il suo caos e la sua solitudine.

Erano tornati a Parigi il sabato prima della fine delle vacanze primaverili, era il diciannove Aprile, il trentanovesimo compleanno di Ismaël. Avevano portato le camicie perfettamente stirate da Annik, i compiti faticosamente finiti di Louise, sensi di colpa nei confronti della libreria da parte di Ismaël ed un’idea persistente, da provare a sviluppare nella scrittura, per Stéphane.
Dopo il viaggio, il pomeriggio a fare lavatrici e rispondere al telefono per gli auguri da parte di mezza Montparnasse, era la calma e la tranquillità potersi coricare sul divano, attendere qualcosa come lo sbiadire della luce dietro le palpebre abbassate o pigramente rigirarsi tra i cuscini.
Nella sala c’erano molti ricordi, sparsi e confusi nei ripiani degli scaffali, ninnoli, oggettini, curiosità, disegni tratteggiati al carboncino o con i pennarelli colorati, biglietti con inviti a matrimoni, a compleanni, a feste. La porta a vetri e le finestre speculari permettevano di creare una corrente di aria tiepida, dei piccoli ganci nelle pareti oblique avrebbero presto accolto delle lenzuola bianche per isolare l’afa estiva tanto discussa dai telegiornali.
Solo la lampada dal paralume di carta di riso era accesa e diffondeva un chiarore soffuso, lo stereo portatile era appoggiato sopra la teca di plastica del giradischi, il televisore spento, utilizzato esclusivamente per le notizie e le videocassette. Il silenzio era morbido, sonnolento, pacifico.
Stéphane si appoggiava al divano con la schiena, le gambe distese sul ruvido tappeto rosso; leggeva Thomas l'imposteur di Jean Cocteau.
Ismaël lasciò scorrere le dita tra i capelli di Stéphane. L’appagamento in un momento sommesso, sussurrato, disteso. A volte le attenzioni piene d’affetto riuscivano a sciogliere anche gli animi più scontrosi, le persone che vivono con grazia sull’orlo del nulla. Le predilezioni per qualche esponente del genere umano potevano sovvertire stati di calma raggiunti con anni di lavoro. Sarebbe stato un passo avanti o un passo indietro, in nessun caso sarebbe stato sbagliato.
- Lunedì tornerai a fare il Bernard Black della situazione.- Considerò Stéphane chiudendo il libro e appoggiandolo sulle ginocchia, chinò la testa all’indietro per lasciarsi sfiorare il volto, la fronte, le tempie, tocchi morbidi sugli zigomi e lungo il collo. Si sentiva assuefatto, in sua balìa. Veniva sedotto nella sua contemplazione muta, prima distratto dalla visione di mani che ben conosceva, poi ipnotizzato dal loro tocco.
Abbandonò il libro al suo destino: il battere la costa di cartoncino bianco e blu contro il pavimento e emettere uno schiocco impolverato alla chiusura. Si voltò ed inginocchiò e si aggrappò ai suoi capelli per baciarlo sulla fronte, sul naso, sulla bocca.
Lo amava e lo cercava mordendogli le labbra, piano, solo per arrossarle.












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Capitolo 6
*** Immediatezza espressionista ***








Your Smile and the Other Lies





Metà Giugno
L’aria dei ventilatori non bastava a rinfrescare la libreria, si abbatteva contro gli scaffali e non circolava tra i corridoi. Sollevava le copertine dei libri in esposizione nella vetrina, libri antichi, lontani dalle mode letterarie del momento, dalle classifiche dei più venduti, dalla critica furiosa e plastica. Libri da leggere in silenzio, per non rivelare i loro segreti, muri di parole ormai desuete.
Il caldo faceva venire dolorosissime emicranie a Carole, cercava distratta refrigerio in un bicchiere di carta pieno di milkshake alla fragola, piccoli sorsi aspirati con la cannuccia rosa. Si faceva aria con un ventaglio, un gesto quasi istintivo, lo sventolava furiosamente, era di plastica, pescato tra tanti in un cesto di vimini alla cassa di un magazzino cinese. Aveva spento lo stereo e le casse nascoste sopra gli scaffali avevano emesso degli inquietanti stridìi. Carole gettò la custodia di un CD masterizzato in un tirétto della cassettiera metallica, c’era una collezione di dischi non indifferente ma confusionaria, da Barry McGuire ai Doors, dai Sound ai Complot Bronswick, un gruppo originario di Rennes, e poi i Bunker Strasse, il duo Kas Product. Attirava lo sguardo la copertina ciano con scritto semplicemente “Dvořák” e seguito in corsivo da “orchestrato da Jarmil Burghauser”.
Carole stava immaginando un pachiderma rosa che attraversava gli Champs-Élysées, era enorme, con la proboscide teneva un mazzo di margherite, sbatteva le palpebre per scacciare le luci stroboscopiche del corteo di sapeur-pompier che lo accompagnava verso l'arc de triomphe. A stento udì il campanello sopra la porta che annunciava un cliente, venne invece disturbata dal fracasso dietro gli scaffali e le étagères. Vide una signora anziana con un vestito a fiori ed una borsetta di lacca bianca ma aveva lo sguardo ancora appannato dal sogno ad occhi aperti.
- Buongiorno, aspetti un attimo, la prego.- Disse precipitosa quando si riscosse; si dileguò nel retro della libreria.- Ismaël, che succede?-
- Sono caduto dal divano.- Bofonchiò il datore di lavoro seduto di traverso e scarmigliato.
- Caduto dal divano, ma che?- Domandò stupita la ragazza; la lampada, di solito accesa, sulla scrivania ed il computer erano spenti, quell’intero angolo della libreria era nella penombra.
- Mi sono un attimo addormentato.- Minimizzò Ismaël cercando di liquidare il tutto con una scrollata di spalle, ma l’espressione sconvolta da chi si è svegliato di soprassalto lo tradiva.
- Non dormi di notte?- Chiese apprensiva Carole guadagnandosi un’occhiate eloquente.- Vado, c’è una signora.-
Ismaël rimase a guardare i profili delle due donne, Carole, da dietro al bancone, era china su dei cataloghi, la signora si era voltata per vedere a che categoria corrispondessero i libri allineati negli scaffali a muro, tra le mani teneva una piccola borsetta bianca e, ogni tanto, vi tamburellava sopra con la punta delle dita.
- Cosa cerca?- Mormorò Ismaël quando vide ritornare la ragazza.
- Le Juif errant di…- Cominciò Carole allontanandosi ed avvicinandosi ad uno scaffale come molte persone fanno davanti ai quadri dei musei, per catturare sia il colpo d’occhio che il particolare.
- Eugène Sue.- Ismaël recuperò il portasigarette da una tasca della giacca abbandonata sullo schienale del divano. Si prese il tempo necessario a tirare fuori una sigaretta, accenderla ed inspirare profondamente, poi aggiunse:- In basso, a sinistra. Ecco.-
Quando, un paio d’ore dopo, Stéphane entrò nella libreria, Ismaël seppe d’aver sprecato un’intera mattinata a fumare e fissare il vuoto. Eppure Stéphane era raggiante, lui gli aveva preso il polso per controllare l’orologio ed aveva continuato a tenerlo per mano.
Stéphane era rimasto in piedi, gli aveva ricordato del pranzo nel microonde, pronto ad esser scaldato, gli aveva chiesto come stava, si era avvicinato e lo aveva abbracciato, aveva detto che doveva andare a prendere Michelle a scuola perché sennò avrebbero ritardato all’appuntamento dal dentista. Ismaël aveva visto la sua mano scivolare dalle dita, aveva sentito le sue labbra premute contro la bocca. E poi Stef se n’era andato.
Stef se n’era andato ed Ismaël era rimasto a fumare sul divano.

Louise, a dodici anni appena compiuti, veniva accompagnata a scuola e, invece, tornava a casa da sola. Quel martedì diciassette Giugno – mancavano neanche dieci giorni all’inizio delle vacanze estive, cercando di sopportare il caldo e il vociare degli italiani e degli spagnoli, raggiunse la libreria. A casa non c’era nessuno, sarebbe potuta andare con Jasmine per negozi ma voleva aspettare l’inizio dei saldi. Victorio era tornato a Formentera per passare l’estate con il padre, la madre di Touria era venuta a prenderla a scuola, Julie era in punizione e Alice era partita con il padre per Tahiti, dopo la morte della madre era rimasta per due settimane a casa loro, la notte piangeva e lei provava a consolarla con il cuore stretto e costretto tra le costole. Si immaginava nella stessa situazione, si chiedeva cosa sarebbe successo, fosse morto Ismaël, il padre sarebbe impazzito; fosse morto il padre, lei sarebbe finita con la madre o, con un po’ di fortuna, con la nonna. L’idea stessa le dava troppi pensieri e preoccupazioni.
In negozio c’era soltanto Ismaël, poteva giocare indisturbata al computer mentre lui stava alla cassa. Separava le carte rosse da quelle nere e le allineava in ordine decrescente, sullo schermo del monitor c’era un fastidioso riflesso dovuto alla polvere.
- Se vuoi il the, è pronto. In quella scatola ci sono dei biscotti al burro.- Le disse Ismaël ruotando sullo sgabello, la vide sbadigliare sommessamente.- Sei stanca?-
- Il the è freddo? Li ha portati una cliente?- Domandò Louise osservando i fuochi d’artificio che festeggiavano la conclusione di una partita al computer. Erano color ciano, magenta e giallo.
- A temperatura ambiente. Sai che li ha portati la madre di Carole? Non sono poi così cattivi.- Erano biscotti di tipo danese, molto dolci e pastosi, differenti dai palets bretons, friabili, dai deliziosi sentori salati del burro e morbidi dello zucchero vanigliato. Si trovavano sovente nel reparto dei prodotti regionali dell’Auchan.
Louise si era inginocchiata sulla sedia ed aveva aperto il quaderno di matematica, ogni tanto smangiucchiava un biscotto, soffiava via le briciole e cercava di non rovesciare il the sopra i compiti.
Capitava che il disegno fosse l’unico modo per vedere i cambiamenti del tempo nelle persone vicine, come guardare fotografie scattate a distanza di mesi, ma molto più profondo e sconvolgente, non manifestandosi direttamente agli occhi ma con leggere diversità dei movimenti tracciati a matita. Nei ritratti di Louise il mento si faceva appuntito, le sopracciglia dritte, scure e sottili. Le guance scavate evidenziavano gli zigomi. Ismaël rimaneva disorientato a non riconoscerla completamente. I suoi tratti poco precisi, scuri di mine morbide, dati con velocità e caparbietà, si incuneavano, si accavallavano, si incrociavano, saturavano la carta. Nei pochi dettagli a favore dell’immediatezza espressionista spiccavano gli occhi, enormi, vuoti, appena tinti con la grafite rimasta sulla punta delle dita.
- Posso muovermi?- Borbottò Louise aggrottando la fronte, doveva scostarsi i capelli dagli occhi, doveva cercare sul libro un’altra pagina con una colonna di esercizi.
- Sì, tranquilla.- Ismaël lasciò la matita sul bancone, piegò il foglio in quattro e lo coprì con un quaderno cartonato.- Sai che mi sono innamorato di tuo padre ritraendolo?-
Louise sentì la curiosità crescere e volle farsi raccontare. Ismaël le spiegò che, quando frequentò la première littéraire, scelse come materia Arte perché garantiva settantadue ore annuali di laboratorio, d’atelier d'expression artistique, e poi come terza lingua l’Italiano, abbandonato prontamente il Settembre successivo. Dopo un trimestre a ricopiare nature morte, Côme, l’insegnante, propose di mettersi a coppie per una prima lezione di ritratto frontale e profilo. Nella narrazione, Ismaël represse ogni dubbio riguardo all’avvenimento, ogni esitazioni di fronte alle date o alle variazioni di intensità, decise che quel pomeriggio sarebbe stato la svolta su cui basare l’intera storia, l’intera vita. Tra i cavalletti e le tavole di legno, il foglio teso con tre puntine, la musica proveniente da un mangianastri sulla cattedra, aveva notato per la prima volta la fronte spaziosa di Stéphane, il naso non troppo pronunciato, dritto e sottile fino alla curva arrotondata della punta, la fossetta sopra il labbro superiore, il colore della bocca, la linea del mento. Forse per la prima volta percepì Stéphane come un’entità separata, lontana, entrata per caso nella sua orbita e scombussolata dalla stessa. Notò il colore degli occhi, della pelle. Con un pennello imbevuto di acquerello blu gli aveva percorso una guancia. Già conosceva il corpo di Stéphane in rapporto al suo, le eccitazioni, i brividi, le preferenze, ma, quel pomeriggio, scoprì la sua individualità.

Fine Giugno
L’aria rovente creava una zona sfocata poco sopra il livello della strada. Se Stéphane avesse lasciato vagare la mente avrebbe potuto immaginare l’asfalto sciogliersi sotto le ruote e colare verso i guardrail dell’autostrada infinita per Brest.
Abbassò la musica e alzò l’aria condizionata, Louise fingeva di dormire e Michelle lo faceva sul serio. Macinava chilometri in tranquillità, il traffico nella direzione opposta; aveva rallentato quando un’automobilista gli aveva lampeggiato, aveva controllato che le figlie avessero le cinture di sicurezza. Aveva distinto i profili di una pattuglia di flics dietro un’insegna, mimetizzati, pronti a prendere le targhe; era tranquillo, guidava appena sotto al limite, aveva i fari accesi.
Raramente vedeva le croci verdi luminose delle farmacie, soprattutto nelle zone commerciali e industriali delle periferie, incastonate tra i capannoni di una catena di abbigliamento, o di articoli sportivi, o arredamento, o ristorazione, piccole botteghe dagli interni bianchi, non legni e ampolle ma truciolati impiallacciati. Via via che si avvicinavano al Finistère, i numeri dei gradi centigradi diminuivano, fino a trovare una leggera pioggia negli ultimi cento chilometri, capace di scongiurare il traffico del rientro dopo una giornata al mare.
Le bambine scaricarono i loro borsoni, Stéphane le aiutò a portarli fino all’ultimo piano, lui sarebbe ripartito la sera dopo.
L’appartamento sfitto del secondo piano aveva cambiato la porta blindata, probabilmente dentro era stato completamente rinnovato. Sicuramente sua zia Alice aveva chiamato per chiedere quanto era l’affitto, Stéphane non pensava che fosse una buona idea: erano quasi trent’anni che sua zia viveva da ospite, sui divani e sulle brandine delle case dei fratelli o della sorella, da amici in giro per il mondo, certe cose non andrebbero cambiate. Chissà quale allineamento di pianeti aveva portato il nucleo originario della famiglia Alunir, indigeni e legati al territorio, a vagare per il mondo, portare il cognome in Germania, in Inghilterra del Nord. Tenersi in contatto garantiva il modo più economico di viaggiare. Giusto l’anno precedente, Friedrich, suo cugino, aveva passato l’estate a Parigi, in casa loro; non era stato facile rilassare la tensione iniziale, non sapeva come trattare Ismaël e un po’ lo metteva in soggezione.
Il gradimento di certi piatti si basava su quante sensazioni positive fossero in grado di scatenare, allacciandosi ai ricordi, ai colori. Un piatto etnico o sconosciuto doveva avere almeno una percentuale, ben definita, di sapori comuni. C’era la tovaglia blu con i girasoli, una brocca d’acqua traboccante di cubetti di ghiaccio. Sul piatto gli spinaci, l’uovo al tegamino e le patate bollite al burro, occupavano tre spazi ben distinti, mancava un po’ di sale e il pepe. Era buono, quel buono composto da sapori semplici da comprendere, ben bilanciati, carezzevoli ma di consistenze differenti.
Annik aveva i capelli corti biondo platino, la permanente e la matita azzurra sotto gli occhi. Era felice di stare con le nipoti e le bambine sarebbero state più libere che a casa. Louise raccontava dell’ultimo giorno di scuola, del fermento, di due ragazze che piangevano. Il padre notò come cercasse di omettere dalla narrazione il bacio sul naso da parte di un compagno di classe. A lui l’aveva raccontato imbarazzatissima.
Il telefono squillava a vuoto. Ismaël non rispondeva, probabilmente era con Marc, chissà se a cena fuori o già a letto. Faceva un po’ male, ma non tantissimo.
Stéphane temeva che un giorno gli potesse capitare di sentire l’odore di Marc tra i capelli di Ismaël. Non si sarebbe arrabbiato, ne sarebbe rimasto turbato.













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Capitolo 7
*** Aveva ripreso a piovere noia e umidità ***








Your Smile and the Other Lies





Sette di mattina, un parziale silenzio rivestiva i mobili. Liquido, morbido e inconsistente. Fili di fumo sfocati uscivano dai comignoli, si infrangevano contro la pioggia finissima. Parigi era grigia, calda. Avvolgeva come una coperta quando le ossa bruciano per la febbre. Così bianco il cielo, come una malattia.
La cucina in laminato aveva i pomelli scompagnati, di vari colori. Il telaio in acciaio del tavolino era fresco contro le ginocchia di Stéphane; lasciava vagare lo sguardo alle nuvole metalliche, di mercurio, ad una decappottabile rossa parcheggiata in strada, ai muri che avrebbero avuto bisogno di essere tinteggiati.
Il caffè scottava e Ismaël scribacchiava su un quadernetto. Lentamente ricopiava il primo paragrafo del manuale di un corso intensivo di italiano, un angolo della bocca si sollevava se ricordava qualcosa, corrucciava la fronte se invece le nozioni gli parevano nuove. Come delle parole crociate o una partita a scacchi, entusiasmanti nel silenzio. Per Stéphane erano appassionanti nella contemplazione.
Ismaël indossava una maglia bianca, leggera, con le maniche lunghe e i bottoncini di ottone ossidato. Lo scrittore non l’aveva mai vista prima ma doveva ammettere che gli fasciava perfettamente gli avambracci. Evidenziava la muscolatura sottile e nervosa, i polsi. Lasciava il collo scoperto, privo di cravatta, colletto, compostezza.
- Cosa succede?- Stéphane si accorse dopo qualche secondo della domanda e dello sguardo incuriosito degli occhi meravigliosamente sgranati. Bizzarro come ogni giorno gli apparisse più desiderabile.
- Niente.- Stéphane si alzò per sfiorargli il profilo antico, le tempie. Lasciargli baci tra i capelli, estremamente arricciati per l’umidità. Chissà quali formule matematiche delineassero quelle spirali, legittimassero lo sciogliere una ciocca, aprirla come un ventaglio, scoprire la fronte, un accenno di increspatura tra le sopracciglia, un solco che compariva allo socchiudere le palpebre per focalizzare le immagini e le profondità.
Ancora qualche minuto, un abbraccio. Poi Ismaël si sarebbe alzato, sarebbe andato a lavarsi i denti, avrebbe preso il blazer dall’attaccapanni, l’ombrello dal vaso cinese e sarebbe andato a tirare su le serrande della libreria. Ancora qualche minuto, un bacio.
Per Stéphane, la routine ormai era aspettare il trillare del telefono, raggruppare taccuini, giornali, documenti, appunti, matite e penne e scendere al primo piano, fino all’appartamento della signora Santagata. Lì la temperatura era quasi accettabile, la signora era anziana e la compagnia le faceva bene.
Stéphane faceva una seconda colazione e cominciava a lavorare, la padrona di casa cucinava o leggeva un libro. A volte lei chiedeva delle spiegazioni riguardo dei vocaboli, lui consigli riguardo a delle scene. Le tremavano le mani, faceva cadere gli oggetti, parlava in sussurri e teneva alto il volume del televisore, come quelli degli alberghi, sovente sintonizzati sulle reti nazionali italiane. Chiedeva sempre di Louise e Michelle scordandone i nomi, spesso diventavano nella sua lingua Marisa e Isabella.
Quando le conversazioni deviavano sulla politica si rabbuiavano, manifestavano inconsciamente la totale disillusione e sfiducia per il domani. La vincita totale degli estremismi di destra, il profondo disgusto per certi individui della politica e per il loro elettorato. Stéphane, alle presidenziali dell’anno precedente, aveva votato al primo turno il primo ministro uscente, al secondo era stato costretto a scegliere il male minore.
Era stata la signora Santagata ad insinuare, nell’immaginazione e nella sensibilità di Stéphane, l’idea pretenziosa di descrivere il sublime ed inquietante mondo di un alveare con una trasposizione umana, tra api regine ed api regine vergini, raggomitolamenti, sciamature, voli nuziali, regine emerse che trafiggono le altre attraverso le celle reali. Rimaneva ancora una visione distorta, muta, dai toni soffusi e le ambientazioni egizie. Giochi di trasparenze, ombre cinesi, rifrazioni, qualcosa di intraducibile su un foglio bianco. Un’idea accarezzata per mesi, lasciata crescere alla ricerca delle forze e delle capacità necessarie.

- Attenzione.- Accennò Charlez intrufolandosi tra Ismaël e il bancone per raggiungere la cassa. Era una mattina frenetica, tra la fine della scuola e la previsione delle vacanze di Agosto, parecchi clienti girovagavano tra gli scaffali, chiedevano informazioni, volevano prenotare o vendere libri.- Ti ho fatto male? Cos’hai?-
- Flessioni, ottanta flessioni. Ho perso una scommessa.- Borbottò Ismaël massaggiandosi con una mano una spalla e coprendo l’addome con l’altro gomito.- Non sono più abituato.-
- Se mai lo fossi stato.- Soffiò Charlez sorridendo ad una signora dai capelli rossi. Incassò una gomitata ed aggiunse:- Schiavismo, questo è schiavismo.-
- Cerchiamo di mantenere una parvenza rispettabile e seria.- Ironizzò il proprietario della libreria. La conversione dal franco all’euro stampata sulla copertina nera del libro era sbagliata, le case editrici avevano già iniziato a lucrarci sopra con la scusa dei numeri tondi.- Dobrodošao, monsieur Dejanović.-
- Buongiorno, Ismaël.- L’anziano era entrato togliendosi il panama. Se non ci fosse stata tutta quella confusione, Ismaël gli avrebbe offerto una tazza di the in cambio di qualche aneddoto, un po’ di passato. Lo turbava leggermente il fatto che quel signore avesse conosciuto i suoi nonni, in modo più intimo di quanto avesse fatto lui stesso.
Ismaël andò nel retrobottega per recuperare i volumi ordinati dal signor Dejanović, un pacco di carta ruvida e corda celava tre prime edizioni pregiatissime, recuperate dopo ore di telefonate, di contrattazioni, di legatoria. Vide gli occhi dell’anziano letterato illuminarsi, incapace di trattenere un sorriso mentre strappava un assegno, e poi richiudersi la porta dietro, portando la mattinata alla sua conclusione.
Aveva ripreso a piovere noia e umidità. Pioggia leggera ed interminabile che rendeva la città assordante, un fragore continuo, Ismaël aveva parcheggiato la bicicletta nell’androne del palazzo e si era chinato per togliere gli elastici dai pantaloni.
In casa appese il blazer all’attaccapanni, i capelli umidi si allungavano sugli occhi, infastidendolo. La luce proveniva debole dalle fessure sotto le porte della cucina e del bagno e chiara, vivida, dall’estremità del corridoio.
- Sì, mamma. L’importante è che si divertano, okay. Louise? Un’ora al giorno di compiti basterebbe.- Stéphane lo aveva sentito, aveva voltato il capo. Ismaël poté vedere le sue pupille dilatarsi, nello sfilarsi la maglia si sentì come emergere dal buio. Lo scrittore stringeva la cornetta contro la bocca, con lo sguardo lo percorreva. Accelerava e si impigliava tra le parole, vedeva gli elastici delle bretelle scendere, lo scivolare di due bottoni fuori dalle asole, i pantaloni scuri, leggeri, senza nemmeno i passanti per la cintura, cadere senza rumore sul pavimento.- Stasera non saremo in casa. Sì, ceneremo fuori, forse. Comunque, buona giornata. Bacia le bambine da parte mia. Buon pomeriggio.-
Rimasero a guardarsi lungamente in attesa di un segno, di un gesto di avvicinamento dell’altro. Qualcosa che giustificasse i baci e le carezze che avrebbero voluto darsi, il perdere l’equilibrio, non calcolare bene le distanze e capitombolare dal letto, il ridere come ossessi, non riuscire a rimanere seri. Il muoversi come immersi nell’acqua, oscillare, movimenti ampi, stringersi nuovamente al centro del letto per non cadere.
Due ore dopo erano rimasti pigramente a letto. Stéphane cercava di tradurre dal tedesco il libro di un autore italiano, non era semplice, leggeva sottovoce un paragrafo, provava a spiegarlo in francese per Ismaël, perdeva il filo e ricominciava la pagina dall’inizio.

Il club aveva gli interni di un cafè fin de siècle, il bancone del bar addossato alla parete laterale, di fronte allo sbocco del primo corridoio e del guardaroba, carta da parati nera con arabeschi dati dal gioco di lucentezza e opacità, lampadari e specchi dalle cornici di ottone anticato, divani di consunto velluto verde, rigido e ruvido.
Stéphane sentiva ancora gli effetti dello shot di vodka preso dalla bottiglia sopra la specchiera, prima di uscire, chiacchierava, si guardava intorno. Aveva visto Marc indicarli e parlare con il barista, il cenno affermativo dell’uomo, gli avventori, una folla eterogenea che entrava a flusso continuo dal corridoio, una parte si accalcava al bancone, alcuni tenevano i posti sui divanetti, si appoggiavano ai separé, caricavano la pipa o rollavano una sigaretta, altri si dileguavano in un vano buio in fondo al locale.
Ismaël, appoggiato con il capo al suo ventre, lo osservava dal basso, seguiva la conversazione e studiava la gestualità di Stéphane da un’altra prospettiva, il modo di allargare le mani, tenderle, perpendicolari al petto, per sottolineare un concetto.
Un cameriere svestito aveva portato loro, su un vassoio, un calice di torbido pastis per Marc, del liquore di génépi per Ismaël, vodka per Stéphane dato che non voleva mischiare. Ismaël aveva acceso una sigaretta ed un ragazzo dalle pupille dilatate si era accovacciato davanti al divano, cercando di lambire la sua bocca. Stéphane aveva cercato di allontanarlo gentilmente, irritandosi non poco quando Marc gli aveva avvicinato uno sgabello e lo aveva invitato ad aggregarsi.
- Io sono Romain.- Aveva sorriso il ragazzo giocando con la cannuccia nera del cocktail.
Dopo aver sciorinato le presentazioni Marc gli chiese:- Di cosa ti occupi, Romain?-
- Di import-export.- Avrà avuto una trentina d’anni, abbronzato, coi capelli corti sulle tempie e una polo bianca.
- Più import o export?- Domandò Marc finendo in un sorso il pastis, lasciando pochi, oscillanti, cerchi gialli sul fondo.
- Non vuoi scoprirlo da solo?- Fu l’ultima cosa che Stéphane udì perché poi decise di ignorarli, sapendo già come sarebbe andata a finire. Non si stupì, minuti dopo, di vederli alzare e dirigersi verso il fondo della sala. Ismaël gli aveva spiegato che al piano inferiore c’erano i bagni e poi la dark room, le cabine, due croci di sant’Andrea, un labirinto, una sling. Avevano giocato a riconoscere i colori del code-foulards o handkerchief-code, l’estraneità a quei costumi, quel modo di vivere, complicava la competizione.
- Non qui.- Aveva sussurrato imperioso Stéphane bloccando i polsi di Ismaël sopra la sua nuca, per impedirgli di provocarlo.
- La maggior parte viene proprio per questo.- Asserì Ismaël strusciando impietoso il volto contro il suo sesso, sulla stoffa dei pantaloni.
- Io no.- Gemette Stéphane, sbuffò, provò ad accostarsi con le labbra alla sua bocca per dissuaderlo. Avrebbe voluto continuare, dire qualsiasi cosa; rimase a vigilare mentre Ismaël si girava dall’altra parte e scorreva lo sguardo lungo la sala, il sorrisetto divertito.
- Sei dolce, Stéphane Alunir.- Sussurrato con un tono così basso da essere quasi stato immaginato, da indurre a sparpagliargli i capelli, scompigliarglieli fino alla fine.- E trovo terribilmente dolce il nostro rimanere su un divano a tormentarci a vicenda, in un locale di questo tipo.-
Verso le quattro di notte il Marais era lucido di pioggia, le strade umide e profumate, i chiarori dei lampioni riflessi in ogni dove.
Prima che venisse accesa la luce Ismaël si mise gli occhiali da sole; l’appartamento di Marc aveva quel gusto borghese per il legno e l’antiquariato. La nota contemporanea era data da una libreria bassa che proseguiva continua, scaffale dopo scaffale, quasi per tutta la casa, per il corridoio, per la sala, per la camera da letto patronale. Volumi di medicina, testi universitari, vinili, romanzi, le letture più disparate, un campionario delle opere di Dennis Cooper, di Yves Navarre, dossier di Masques, volantini ed opuscoli della Act Up-Paris, una miscellanea di saggi dal collettivismo a Charles Fourier, dalle api al dissenso nell’epoca vittoriana.
- Collezioni Têtu?- Esclamò Stéphane trovando ordinati svariati numeri della rivista, tra dei libri di poesie e delle biografie. Andando avanti, scorrendo con l’indice le copertine, si sorprese davanti ad una ventina di edizioni del Gai Pied Hebdo.
Distese le gambe sul pavimento di marmo, la schiena appoggiata allo stipite della porta, iniziò a sfogliare un numero del millenovecentonovanta. L’atmosfera era soffusa, quasi accomodante, avevano spento la luce del lampadario per accendere qualche lampada dai paralumi scuri.
Quattro e mezza di mattina; Marc ed Ismaël giocavano in cucina, cuocevano a vapore delle morchelle, pe-tsaï, zucchine e tofu a listarelle, dopo averli cosparsi e lasciati assorbire il porto. Gli schiamazzi da ubriachi riempivano la casa.
Per Stéphane fu un finale alternativo, una realtà surreale, raccogliersi nel pieno della notte attorno ad un tavolino basso, giocare a domino, mangiare con le bacchette da delle ciotole raku e sorseggiare un vino liquoroso. Addormentarsi accosciato tra le gambe dell’uomo che amava, tra i dialoghi delle cinque di mattina.














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Capitolo 8
*** Dei papaveri, da riempire di rosso. ***








Your Smile and the Other Lies





Agosto e la pigrizia da spiaggia, il lasciar correre la mente, lo sguardo attratto dalle onde del mare, il vociare dei bagnanti coperto dal vento. Il caldo sulla pelle, la luce riflessa dai cristalli di sale sulle ginocchia e i polsi, i momenti perfetti quando il rombo del motore di una barca diveniva flebile e rimanevano delle onde enormi ad infrangersi contro gli scogli e le pietre, sollevando turbinii di sabbia e sassolini, vetri levigati verdi, blu, trasparenti, ambrati.
Stéphane abbandonava le preoccupazioni, portate dietro fino al viaggio in auto verso Brest, quando ad una stazione di servizio si era fermato per chiamare impensierito Lala, una vicina di casa. Aveva cercato nell’abitacolo un numero di telefono, magari del cellulare, sbuffando aveva trovato soltanto un biglietto da visita della gastronomia senegalese, aveva risposto Bathie, il marito, e lui l’aveva pregato di dare un occhio alla signora Santagata, che quel caldo non le avrebbe fatto bene, non aveva l’aria condizionata in casa e, come molti anziani, non beveva i consueti due litri d’acqua durante la giornata. Ismaël nascosto dall’espositore sfogliava il Libé; dopo uno di quei caffè lunghi dei distributori ripresero il viaggio.
Il sole perpendicolare creava ombre brevi e scure, la sabbia scottava. Ciuffi di sterpaglie gialle adornavano e si arrampicavano sugli scogli, la spuma bianca sollevava legni chiari e nodosi. Le macchie di colore degli ombrelloni distesi, sempre a rischio per la brezza, rossi, bianchi, verdi, gialli, i teloni da mare tenuti fermi da borse di rafia o jeans, da paia di scarpe, libri abbandonati, spiegazzati, aperti e sfogliati dalle folate di vento.
Sebastian e Michelle si rincorrevano sulla spiaggia, saltavano dentro i salvagente come fossero stati degli ostacoli, Louise con l’orologio li cronometrava. Stéphane aveva le braccia e il naso già spellati, gli occhi socchiusi, distratti. Aspettava che si asciugassero i capelli e la sabbia sulle gambe, così da levarla con una scrollata; il brivido successivo all’uscita dall’acqua si era protratto per poco tempo.
Il sonno intenso li accolse a casa, dopo una doccia, dopo il pranzo. Le persiane accostate creavano una penombra dove Louise difficoltosamente cercava di leggere. Il caldo, il sale, il pasto avevano fatto addormentare Michelle e Sebastien sul lettone.
La camera che fu di Stéphane sembrava ogni anno più piccola, raccolta, schiacciata dal mobiletto della macchina da cucire, dal letto a castello di metallo laccato di rosso (non era una struttura solidissima, difficilmente avrebbe sopportato il peso di due adulti). Isolato ricordava vagamente il mobilio di una colonia estiva. Due étagères, una colma di riviste con cartamodelli, album di foto, raccoglitori con ricette battute a macchina, l’altra con dei piccoli adesivi sullo smalto dei ripiani, i nomi delle bambine scritti a penna, per non farle litigare su una maglietta non propria, dei pantaloni troppo lunghi per la piccola, una maglietta troppo stretta per Louise. I vestiti perfettamente piegati erano una profusione di colori confusionari. Davanti alla finestra, tra la scrivania ed il davanzale, era posizionato un vecchio computer senza connessione Internet, ricevuto dalla madre di seconda o di terza mano, quando il figlio del proprietario del bar aveva comprato un modello più recente.
La tranquillità non sembrava una tregua ma un momento di stasi, l’interruzione dello scorrere di un orologio. La sospensione della campionatura delle esperienze, l’impossibilità a riversarle nel lavoro, pagine e pagine. Avrebbe scritto, avrebbe aspettato. Dalla finestra aperta si vedevano ancora le gru e i carriponte, le luci lampeggianti, il verde ed il rosso, gruppi di portuali dalle divise blu stinte e i caschetti bianchi o gialli. Sotto il sole lavoravano lentamente, indicavano percorsi, numeri di container con le dita, comunicavano con delle ricetrasmittenti, dentro i gabbiotti bevevano acqua da bicchieri di plastica e segnavano su gli interminabili elenchi le compagnie di spedizionieri.
All’orizzonte il mare era d’argento, mille bagliori metallici ferivano gli occhi, poco sopra una linea di piombo delimitava il confine del cielo. Se Stéphane avesse socchiuso gli occhi avrebbe notato i vortici blu del cielo non uniforme.

- Attenzione alla ferita, non credo che vada d’accordo con la vernice.- Aveva proferito Ismaël alle dieci di mattina, i resti della colazione in bicchieri di carta, briciole e fazzoletti stropicciati sopra una consolle.- Ci mettiamo un cerotto? Dovrei averne nel portafoglio.-
- Con i bambini si iniziano a tenere i cerotti invece che i profilattici.- Rise Anais porgendogli il dorso della mano destra e cercando con l’altra il pacchetto delle sigarette nella tasca dei pantaloni. Aveva le occhiaie marcate e gonfie. Non era riuscita a scacciare il nervosismo nel tempo di dipingere un’intera parete, aveva tenuto la scala ferma mentre Ismaël passava il rullo sul soffitto.
Finire in un unico giorno era una buona media, sarebbe dovuta bastare per comprendere, dopo anni, quale ruolo Anais dovesse attribuire ad Ismaël. Pensava che fosse un innamoramento adolescenziale, ognuno a casa propria, forse non sarebbe nemmeno riuscita a viverci insieme, a domarlo, a non farsi ferire – poi ragionava che non avesse molto senso pensarci. Se il destino aveva scelto così, c’era qualche motivo; le situazioni non si risolvono a metà. Era indecisa tra l’accettare di rimanere sola, desiderare la forza per riuscirci, o aver il coraggio per trovare una relazione. Nel frattempo, osservava.
Nel tardo pomeriggio avevano finito di tinteggiare tutte le pareti portanti, le cornici delle finestre, avevano levato i cartoni di protezione dai pavimenti e lasciato circolare l’aria.
Il grande appartamento aveva cambiato completamente volto: dopo il portone si accedeva in un lungo corridoio, sulla sinistra una prima porta per un locale, una sorta di lavanderia con una lavatrice ed un’asciugatrice, un lavandino e la centralina elettrica; una seconda porta per la grande prima casa di Neven e Gwenna, il salone enorme, uno studio, due bagni, una cucina e le camere al piano superiore, collegati tramite una scala a chiocciola – avevano già installato un piccolo cancelletto per quando il bambino, o la bambina, avrebbe cominciato a camminare. Sul lato destro c’erano le porte dei tre monolocali, differivano di poco sulla pianta ma nell’arredamento erano quasi opposti. In particolare i due da mettere in affitto, il mobilio funzionale e minimale da catena di arredamento, colori accesi e coordinati; adatti a delle giovani coppie, qualcuno a cui fosse agevole la camera da letto in un soppalco.
La porta in fondo al corridoio era dipinta di un colore che Anais aveva definito verde persiano, alcuni arabeschi dorati decoravano i cardini e la serratura; un cartellino gemello a quello della pulsantiera del citofono riportava entrambi i cognomi, Alunir e Chalm, ordinati secondo l’alfabeto.
La disposizione e il restauro dei mobili non aveva risentito, come invece era accaduto per l’appartamento di rue Deparcieux, del feng shui di Cricri, della povertà, della poca voglia e della solitudine. Due credenze speculari in mogano esibivano fiere il sostegno di due, quattro sfingi accosciate, all’interno lo spazio era conteso da camicie di cotone mal piegate, latte di zuppa pronta, qualche bottiglia di superalcolico, bicchieri, tazze e piatti spaiati, qualche volume sgualcito di poesia.
Disposti in modo simmetrico, due divani di un verdeblu freddo e i cuscini di velluto nero riempivano la stanza. Non c’era una televisione o una radio, le porte del piccolo bagno e del cucinino erano chiuse, all’interno avrebbero rivelato due stanzette dai soffitti bassi e due piccole finestrelle orizzontali. Le scale erano ripide e conducevano alla camera da letto; il parapetto di ottone era un pezzo originale di inizio Novecento, precedentemente collocato nel primo pianerottolo. La struttura del letto non era alta, si accordava al soffitto, le lenzuola nere. Nel complesso la stanza era spoglia ed appena adatta a brevi soggiorni.
Ismaël aveva socchiuso le palpebre disteso sul divano, i minuti si erano trasformati in quarti d’ora, i quarti d’ora si erano trasformati in un’ora e mezza. Qualche immagine si era rincorsa: una cravatta allentata, un paesaggio invaso dalla luce, un vertiginoso abisso dai colori seducenti e i profumi dolci. Si era svegliato sotto il peso e il solletico di Sebastien. Il bambino faceva il diavolo a quattro, urlava, lo scuoteva; appena vide gli occhi aperti si allontanò, forse temendo di essere sgridato.
- Tu devi esserci al mio compleanno. Tuo marito ti lascia venire?- Domandò Sebastien aggirando il divano, appoggiò i gomiti sulla spalliera, con le mani lisciò il velluto di un cuscino.
- Mio marito mi lascia andare?- Ripeté Ismaël ad alta voce, non trattenendo un incerto sorriso.
Stéphane dalla cucina cadde dalle nuvole, tossì per l’acqua andata di traverso.
- Sebastien…- Cominciò lo scrittore, non seppe andare avanti per spiegargli che no, non erano propriamente sposati. Non seppe farlo o se fosse giusto farlo, come il dare per scontate certe situazioni, certi modi di fare.- Certo che verrà.-
A quasi quarant’anni si erano risolti bene. Avevano sciolto dei nodi, districato dei fili, assestato qualche curva ad una retta immaginaria. Avevano tinto un maglione di lana, da azzurro a blu, ma era solo un estremo simbolismo.

L’eccesso di tristezza di Louise fu altamente spiegabile. Il velo che rendeva gli occhi opachi, la felpa leggera che si era voluta mettere nonostante fosse fine Estate e facesse discretamente caldo, quei sospiri fatalisti e arrabbiati, autocommiserevoli mentre smangiucchiava una tavoletta di cioccolato al latte.
Stéphane avrebbe dovuto portare le figlie e Sebastian al mare, per gli ultimi bagni prima del ritorno a casa e a scuola. Avevano preparato tutto, come ogni giorno di sole, i costumi e i teli si asciugavano in appena due ore; era passato a prendere il nipote, aveva lasciato l’auto in seconda fila in rue Neuve. Annik gli aveva chiesto di salire, doveva parlargli.
Dieci minuti dopo Ismaël aveva sentito le chiavi girare nella serratura, il vociare del corridoio.
- Louise è diventata signorina.- Stéphane aveva imitato la voce e il tono della madre, appoggiandosi alla porta, pronto ad andar via.- E sì, è intrattabile.-
- Papà, non è vero!- Sbottò la piccola dallo sguardo disperato ed imbarazzato.
- Hai cambiato stazione radio ogni cento metri, sei intrattabile.- Aggiunse Stéphane prima che la porta venisse chiusa.
Ismaël pensò che non avrebbe potuto dirle che si sarebbe abituata, che era una cosa normale, forse sì di non aver imbarazzo. Le preparò una tazza di latte freddo e tagliò una fetta della torta di pere e cioccolato che Annik aveva sfornato.
- Possiamo giocare a scacchi.- Propose trasportando il vassoio di legno fino al tavolino davanti al divano. Louise si stringeva nella felpa, socchiudeva gli occhi sorseggiando il latte o studiando le mosse. Aveva gli occhi lucidi di lacrime e opachi di tristezza, come se vergognasse o cercasse un’estrema scusa all’esser cresciuta, come se fosse un momento di stordimento, come se quel miscuglio che stava provando rimbombasse contro la cassa toracica.- Vuol dire che stai bene, anche se noiosa, non è una brutta cosa. Però avrai una scusa in più per rimanere a casa.-
- Con papà? Preferisco la scuola.- Aveva declamato Louise con un’espressione buffa, togliendo tutte le sue pedine, vicina all’ennesima disfatta. Stando attenta a non sporcare la carta aveva aperto un blocco da disegno, sfilato una matita incastrata nella spirale di fil di ferro.
- Potrai venire con me in negozio.- Accennò Ismaël.
- Si comincia a ragionare.- Borbottò Louise mentre con perizia cercava di stabilire il centro del foglio. Era carta-cotone, elegante, bianchissima, adatta agli acquerelli, anche senza conoscere il prezzo del blocco, Louise percepiva il suo valore, inconsciamente tentava di non sbagliare, di trovare la perfezione al primo colpo. Indugiava con la punta della matita, premeva appena per tracciare un’ossatura fatta di ovali, di cerchi leggeri.
Ismaël si sporse per tracciare una lunga riga con la penna blu.
- Lou, è inutile. Non puoi avere paura di un foglio; devi contaminarlo.- Ismaël poggiava i gomiti sulle ginocchia, i pantaloni della tuta che Stéphane indossava le rare volte che andava a correre. Erano macchiati della vernice bianca e quella color carta da zucchero.
Lei lo guardò imbronciata, poi dubbiosa. Con concentrazione disegnò dei fiori confusi, sbiaditi, trepidanti.
Dei papaveri, da riempire di rosso.















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