I re del mondo

di crissi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Moralisti ... Noi?! ***
Capitolo 2: *** Noi ... Viviamo la vita ***
Capitolo 3: *** ... E facciamo l'amore. ***
Capitolo 4: *** Ufficiali e no ... ***
Capitolo 5: *** ... qui noi siamo i re - parte 1 ***
Capitolo 6: *** ... qui noi siamo i re - parte 2 ***
Capitolo 7: *** Una donna. Sola. Libera. ***
Capitolo 8: *** Animali e bestie. ***
Capitolo 9: *** Doppio inganno ***
Capitolo 10: *** Vivere il vento ***
Capitolo 11: *** Sangue pallido ***
Capitolo 12: *** Camelie e rose - parte 1 ***
Capitolo 13: *** Camelie e rose - parte 2 ***
Capitolo 14: *** Cherchez la femme! ***
Capitolo 15: *** Giochi di re ***
Capitolo 16: *** Illusioni perdute ***
Capitolo 17: *** Promesse ***
Capitolo 18: *** Fine dei giochi ***



Capitolo 1
*** Moralisti ... Noi?! ***


I re del mondo cap. 1

“I RE DEL MONDO”  di Crissi


“Se Nanny si fosse rifiutata di accondiscendere il generale, andandosene a servizio altrove? Se avesse lasciato Oscar tutta sola a vedersela con l’educazione maschile imposta dal generale, senza che né lei né di conseguenza André, il suo punto fermo, potessero prendersene cura? Se André da piccolo fosse stato adottato da un nobile ed avesse mantenuto il suo carattere posato, ma spiritoso come da ragazzo? Se Victor non avesse dovuto sfidare Oscar diventando il suo innamorato, fedele, solitario vice? Se la bionda avesse scelto di non arruolarsi nella Guardia Reale, ma di ritirarsi ad Arras, arrivando a conoscere prima del tempo le condizioni di vita dei suoi contadini?
Se questi due giovani uomini, belli e sicuri di sé,  avessero saldato una strana amicizia ed Oscar ci fosse finita in mezzo? Ovviamente, più monelli, se non un poco libertini, in quanto ancora non conoscono la donna della loro vita, OOC per via delle diverse esperienze in gioventù e dello stato sociale.
“Re del mondo”, come Jack sulla prua del Titanic, quando la gioventù rende invincibili, quasi arroganti nella certezza di potere tutto, esponendosi di conseguenza. Tanti “se”, una sola grande svolta.”
Titolo preso dalla omonima canzone “Les rois du monde” dello spettacolo teatrale “Romeo e Giulietta”, colonna sonora ideale.
Ispirato da questa immagine de “La dama di picche” di Karmilla, riferita ad André ed a Victor:
“… dagli sguardi che riceviamo temo che stiamo facendo la figura dei dongiovanni in cerca di una preda. Se la situazione non fosse così delicata, ci sarebbe da riderne e magari anche da approfittarne, chissà.”




Capitolo 1 “Moralisti… Noi?!”

25 dicembre 1755

Una villa in collina, una delle tante costruite quando il Re Sole decise di portare la sua luce a Versailles, un secolo prima.
Le famiglie più importanti lo avevano seguito e, come pianeti, si erano stanziate alla giusta distanza dal loro astro.  
Non troppo vicine da infastidire Sua Maestà, non troppo lontane, in modo da poterne ammirare quotidianamente la luce che su di loro, sudditi e figli, egli irradiava.
La magione era immersa in un parco centenario che d’estate diventava l’invidia dell’Eden.
Non sterminato, ma estremamente curato; geometricamente preciso, ma non freddo e rigido, lasciava spazio al colore, all’esotico e ad un non so che di ribelle con quei due filari di rose contrapposti, rosse da un lato, bianche dall’altro, posate dalla prima contessa che vi aveva dimorato.
La storia di famiglia, vecchia di oltre trecento anni, diceva lo avesse fatto in memoria delle sue origini inglesi, lei, figlia di una Lancaster e di un York (1), fuggiti nel mezzo della guerra delle due rose, unitisi contro il volere delle famiglie, proprio come Romeo e Giulietta.
Tutto in quella casa indicava che l’attuale  proprietario teneva all’ immagine del suo casato e alla sua personale, di uomo rigoroso, ma al tempo stesso amante del bello.

Ed in quel momento, pochi minuti dopo la mezzanotte, in quello che oramai era il giorno di Natale, nella casa c’era agitazione, c’era preoccupazione per quel momento della  vita di una donna, forse il più atteso e temuto, che per alcune può significare anche la morte.
La mano di lei stringeva convulsamente le lenzuola madide di sudore.
Non era al suo primo parto e sapeva chiaramente che qualcosa non andava come avrebbe dovuto.
“Non c’è niente che non va”, aveva ripetuto fino allo sfinimento il medico, ogni volta che l’aveva visitata, ogni volta che lei aveva posto la domanda con solo lo sguardo, perché a parole non le era permesso aver paura.
Madame De Jarjayes non poteva mostrarsi debole.
Aggraziata, sì; elegante, sì; modesta, sì, ma paurosa, no!
Eppure lei aveva paura.
Paura di soffrire.
Paura di morire.
Paura per il suo bambino.
E … paura di mettere al mondo un’altra figlia.
Una figlia che lui non voleva.
Ecco cosa non andava in quella gravidanza: non voleva che terminasse, perché se fosse nata ancora una femmina, sarebbe stata la fine di tutto.
Era stato amore, il loro matrimonio?
“Sì.”
Lo era ancora?
“… Sì.”
Lo sarebbe stato anche dopo la sesta figlia?
Marguerite non voleva doverlo scoprire.

Lui,  François Augustin Reynier de Jarjayes, passeggiava nervosamente nel salottino della moglie; lo stesso passo svelto e deciso di quando passava in rivista le sue truppe, ma le truppe erano cinque bimbe nervose ed intimorite.
Intimorite dalle urla della madre, che giungevano più frequenti dalla stanza vicina.
Intimorite dal cipiglio del padre, troppo irritato.
Intimorite dallo sguardo preoccupato che la loro governante, la loro cara Nanny, aveva lanciato loro l’ultima volta che si era affacciata, prima ti tornare da Madame.

Il generale De Jarjayes si fermò davanti alla finestra e posò entrambe le mani sulle tempie martellanti.
Una creatura stava venendo al mondo e lui riponeva in quest’essere tutto: il suo futuro, la sua posizione, la possibilità di continuare la vita a testa alta in quella società.
Un grido di dolore, l’ultimo, ed un vagito interruppero il martellare di tanti “e se…?” nella sua testa.
Jarjayes tirò un sospiro di sollievo.
Con passo più  incerto di prima, si portò verso la stanza di Marguerite ed incrociò Nanny che già gli stava portando l’ultimo nato.

-    E’ un maschio, vero! E’ un maschio stavolta!
La governante non staccava gli occhi dal frugoletto ancora sporco di sangue e liquido amniotico.
-    E invece no: è una bellissima bambina! – esclamò con tutto l’amore di cui era capace.
Il mondo di Jarjayes crollò all’istante.
-    No… - fu il pensiero esternato e pronunciato a labbra serrate.
-    E invece sì – ribatté testarda la vecchina, non presagendo la valanga emotiva trattenuta da quel semplice “no”.
-    Non-è-possibile… - ribadì l’uomo sillabando. – Nella casa di un generale c’è un assoluto bisogno di un figlio maschio … e a me non nascono che femmine! – sottolineò con disgusto per sé stesso.
Marron alzò lo sguardo perplesso su di lui.
Lo conosceva da sempre. Era stato” il suo primo bambino”: lo adorava e sapeva che lui adorava lei. Perché quelle parole?
Allungò timidamente le braccia col fagottino verso di lui.
Non poteva dire sul serio, non il suo Augustin…
Ma l’uomo voltò le spalle. Troppa delusione, troppa vergogna per lui.
L’ultima dei Jarjayes, non esitò a far sentire la propria voce. Un vagito prepotente squarciò il silenzio.
Il padre sorrise suo malgrado.
-    Certo che ha dei polmoni potenti… - mormorò. Si volse appena, guardando governante e figlia dal di sopra della spalla.
Uno sguardo che a Nanny piacque per nulla.
Si avvicinò alla balia e fece per prendere la piccola.
Nanny, spaventata dalla luce nei suoi occhi, provò a trattenere il neonato, ma l’uomo glielo strappò letteralmente dalle mani e cominciò a cullarlo, mentre lo sguardo continuava a peggiorare.
-    Sì… ecco cosa farò… Ti alleverò come un maschio: tu sarai “mio figlio”
Marron ebbe un colpo al cuore e si portò la mano al petto.
-    Ma,  signore… Non potete!
Lo sguardo di lui la incenerì.
-    Non-posso? … Come osi? Tu! …  dire a me cosa non posso fare!  
Mosse un passo verso di lei. Marron, ne saltò due veloci all’indietro.
Mai lo aveva visto così furente.
-    Se non sei in grado di rispettare il mio volere, puoi andartene anche subito. – sibilò - Anzi, …  vattene! Crescerò da solo questo mio figlio. Gli darò la migliore educazione, i migliori precettori. Ci sarò io a condurlo in ogni passo della sua vita. Sarà uomo. Sarà forte. Sarà il mio erede. La tua presenza non è più gradita, donna!
Voltò le spalle alla governante, cominciando a mormorare alla neonata assurdità su un futuro nell’esercito, che a lui pareva quasi imminente, su medaglie, onori, riconoscimenti che l’attendevano e che avrebbero portato lustro ai Jarjayes.
Per Marron, sbigottita e senza parole, non ci fu possibilità d’appello. Ma neppure lei avrebbe provato a chiederne, a supplicarne uno, con quella condizione. Era innaturale, una pazzia, una assurdità. Solo questo riusciva a pensare.

Fra gli abbracci delle sue bambine, che l’avrebbero sempre ricordata, Marron Glacé si congedò dalla famiglia che serviva fin dalla tenera età. Si allontanò dalle persone che aveva tra le più care al mondo, mentre il generale assisteva a tutto da lontano, dietro la finestra del suo studio.
Aiutata da uno dei domestici, la donna piccola e rotondetta, si issò sul carretto del mugnaio che si era offerto di darle un passaggio fino a Parigi.
Là, una parente l’avrebbe ospitata finché non avesse trovato posto come governante altrove.
Avrebbe cercato un nuovo impiego senza una raccomandazione del Generale.
Non sarebbe stato facile, ma qualcuno avrebbe capito, magari anche giustificato la sua ribellione,  perché la pazzia di quell’uomo  stava già passando di bocca in bocca.
Fu così che Marron Glacé cambiò lavoro.
Fu così che cambiò il destino di Oscar Françoise de Jarjayes.



Versailles, 18 giugno 1784,venerdì

“Nous on fait l'amour on vit la vie
Jour après jour nuit après nuit
A quoi ça sert d'être sur la terre
Si c'est pour faire nos vies à genoux
(2)
(Noi facciamo l’amore, viviamo la vita
Giorno dopo giorno, notte dopo notte
A che serve esser sulla terra,
Se è per fare le nostre vite in ginocchio)



Il giovane uomo dagli occhi di smeraldo sorrise alla cameriera che l’aveva riconosciuto e ne carezzava i lineamenti con lo sguardo.
-    Lui c’è? – chiese, indicando la porta chiusa della camera da letto.
-    Sì, ma … non è solo… - bisbigliò la fanciulla, arrossendo.
-    Chissà perché non ne sono sorpreso, Marie… - rise piano e, strizzando l’occhio,  le fece segno di non parlare, col dito davanti alle labbra.
Premette sulla maniglia della porta, l’aprì appena e, nella penombra, intravide un campo di battaglia.
Bottiglie di vino, due calici, due corpi indistinti nel grande letto…
Traversò la stanza diretto alle grandi finestre, attento ad evitare gli abiti sparsi al suolo e tirò d’un colpo le tende.
-    Miseriaccia, Marie! – borbottò il giovane nudo fra le lenzuola, coprendosi gli occhi con una mano per ripararsi dalla luce che lo colpì in pieno.
-    No, non sono la tua povera cameriera… - mormorò l’altro.
Alzò un poco la testa ed aguzzò lo sguardo per distinguere la figura stagliata come una sagoma scura contro le vetrate luminose.
-    Maledizione, Grandier … che ti salta in mente di svegliarmi all’alba! – bofonchiò ricadendo col capo sul cuscino, dopo aver riconosciuto l’amico in uniforme blu.
L’altro sorrise.
-    Prendo nota che alla prima occasione ti regalerò un orologio funzionante, Victor … E’ quasi mezzodì.
-    Ossignoresantissimo … che notte… - borbottò portandosi una mano alla fronte dolorante.
Si lamentò un paio di volte. Prese respiri profondi, quindi, facendo appello agli addominali di tutto rispetto, si alzò seduto e, senza cerimonie, tirò il lenzuolo tutto dal suo lato, per avvolgercisi.
-    Beh, complimenti … - mormorò il moro, non potendo non ammirare le forme interamente svelate della giovane donna addormentata. Si avvicinò all’amico ancora ammirando la bella distesa prona, leggermente obliqua, col viso celato da una marea di morbidi ricci nerissimi, tanto lucidi che parevano dare riflessi blu.
-    Miseriaccia! … André, ma quanto puzzi!? – esclamò quello turandosi il naso quando l’ufficiale gli fu abbastanza vicino. Allungò velocemente una mano al comodino, dal quale prese uno dei suoi fazzoletti profumati e lo inspirò intensamente, guardando malamente l’amico.
-    Ho dovuto sedare una rissa tra i miei soldati ed il mio sergente mi ha vomitato addosso… - spiegò André stringendosi nelle spalle.
-    Dovresti piantarla di uscire con quel buzzurro …
-    Già, perché sedare le risse degli ubriachi nelle osterie, quando potrei occuparmi delle tue di sbronze, vero? Victor, che direbbe tuo padre se ti vedesse …  in queste condizioni! – ed indicò con un ampio cerchio di mano la stanza, puntando alla fine il dito su di lui.
-    Ti prego … non urlare… - disse quello premendosi le tempie fra le mani, percependo il bisbigliare quasi fosse chiasso da mercato - E poi è grazie a mio padre se mi sono sbronzato e sono finito a letto con … Chi è? –
André girò attorno al letto, sollevò un poco i ricci scuri della giovane donna e spalancò la bocca come una trota, alzando gli occhi allarmati sull’amico.
-    L’hai fatta grossa …
-    Chi è? – chiese ancora, impensierito.
-    La moglie di Fréville..
-    La marchesa di Fréville?… Ossignoresantissimo … - imprecò sinceramente preoccupato.
-    Guarda che stavolta non ti faccio da padrino… - si premurò l’amico, allungando un palmo ritto davanti a sé, a rafforzare l’avvertimento. Rammentava chiaramente com’era finita l’ultima volta che si erano trovati in un pasticcio simile e solo per pura fortuna non erano finiti nei guai, visto che il duello era vietato in Francia, ufficialmente.
-    Beh, almeno non potrà pretendere nozze riparatrici appena sveglia… - si rassegnò l’altro, che cercava sempre di trovare il lato meno nefasto di tutto.
Si riprese il capo tra le mani e posò i gomiti sulle ginocchia, avvilito, mentre i lunghi capelli ondulati gli ricadevano ai lati del volto; ma era evidente che ad angosciarlo non era il feroce doposbornia in arrivo e neppure la possibilità di un duello d’onore col marchese di Fréville.
-    Cos’è accaduto con tuo padre?
Victor si alzò accompagnandosi con un sospiro, restando nudo accanto al letto e, con aria completamente persa, cominciò a guardarsi intorno in cerca della veste da camera.
André la vide abbandonata sopra una chaise longue, la raccolse e gliela lanciò.
-    Ti prego … La vista dei tuoi “gioielli” di prima mattina è … deprimente!
-    Non hai detto che è quasi mezzodì?… - riuscì ad obbiettare, ancora confuso.
-    Ho mentito… Dicevamo di tuo padre!
-    Vuole che mi sposi. – confessò, faticando ad infilare la seconda manica.
-    Io? Con te!!! – esclamò il moro per testare la lucidità dell’amico.
-    Ma.. io! C’io mi sposi! … con una donna! … Smettila di prendermi in giro! – borbottò, annodando con un gesto secco la cintura.
Si recarono nel salotto a fianco, per parlare con più libertà, ed Andrè richiuse la porta della camera.
-    Victor, mi sembra naturale. Sei il suo erede, la tua è una famiglia importante e se vuoi fare carriera nella Guardia Reale …
-    Da quando dai ragione a mio padre? – lo interruppe, accostando una tenda per ripararsi da tutta quella dannata luce.
-    Ho sempre dato ragione a tuo padre. Divertirsi va bene, ma stai andando alla deriva, Victor! – sottolineò accennando a sedersi su di divanetto di un delicato verde acqua.
Victor lo gelò con lo sguardo: “non provarci nemmeno a sederti lì con quella lurida uniforme addosso”, pareva ordinargli.
-    Solo perché colgo i fiori che mi si offrono? – ribatté.
-    Hai bisogno di una donna, Girodelle. Una sola e, possibilmente, non sposata con qualcun altro. – spiegò lasciandosi cadere sul sofà, incurante della minaccia.
-    Sei l’ultimo che può farmi prediche. – ribatté, doppiamente stizzito, l’altro - Che fine ha fatto la piccola contessina?
-    Non ha funzionato… - rispose semplicemente il moro, allungando una mano sul vassoio di paste appena sfornate procurato dalla premurosa Marie non appena lui era arrivato.
-    Grandier … C’è solo una cosa di te che deve “funzionare”… - commentò l’amico indicando le sue parti basse – Mettitelo in testa o fatti frate! Le galanterie van bene solo se portano a qualcosa… O stai ancora aspettando il “grande amore”! –
André si volse a guardare lo sgargiante parco.
-    Canzonami pure, Victor … Continuo a pensare che “lei” sia là fuori, da qualche parte …
-    Sei un romantico inguaribile … Come siamo amici è inspiegabile… Marie! – tuonò inaspettatamente all’indirizzo della domestica.
-    Andiamo … Ti ho salvato la pellaccia, quella sera a Parigi! E’ per questo che siamo amici!
-    Marie!! …Veramente, ricordo di aver salvato io la tua… - precisò scendendo di un tono.
-    Forse eravamo abbastanza sbronzi da esserci salvati a vicenda… - osservò l’amico, perdendosi nei ricordi nebbiosi di quella sera di tanti anni addietro, quando lasciata la Bonne Table con un cospicuo quantitativo della cantina in corpo, si era imbattuto in una aggressione.
Malviventi di strada stavano derubando quel che si rivelò poi essere Victor Clément de Girodelle, rampollo di una delle più antiche famiglie di Francia.
Spinto anche dall’incoscienza causata dall’alcool, oltre che dal suo naturale altruismo e dal dovere imposto dall’uniforme, si era lanciato al soccorso, attirando le ire dei malviventi e mettendo sé stesso in una brutta situazione. Solo grazie al conte che aveva recuperato il fioretto, André non era stato trapassato vigliaccamente alle spalle da uno dei malviventi.
Si erano davvero salvati a vicenda.
Col tempo se ne erano anche fatte le reciproche colpe. Ma la loro era indubbiamente diventata un’ amicizia vera.
Victor lo aveva introdotto a corte, cosa che André, aristocratico di basso lignaggio, non avrebbe potuto permettersi.
André gli aveva fatto assaporare la vita notturna di Parigi, meno raffinata forse, ma assai più divertente che quella della rigida Versailles.

-    Ciò nonostante, continui a preferire le serate con quel troglodita del tuo sergente! – lo riportò al presente Victor - …. Marie! Miseriaccia! Ma dov’è finita? – tuonò.
-    Alain non è un troglodita, lo sembra solo … - si difese con un sorriso André - E poi, quel che è accaduto alla sua famiglia, poteva accadere a chiunque.
-    Già, hanno perso proprio tutto … Beh, un vero peccato che quella povera splendida sorella che si ritrova, non possa far vita di società… A tal proposito… Vieni al ballo di domenica sera? – esclamò cambiando argomento.
Spuntò la minuta cameriera.
-    Ah… eccoti, finalmente! Preparami il bagno, cara…
“Victor… Solo lui poteva mostrarsi così irritato e così cortese ad un tempo”, pensò l’amico.
-    Sì, signor conte! – confermò la fanciulla con un inchino, dileguandosi immediatamente dopo.
-    Ci penserò… Non mi sento dell’umore…
-    Non sei mai dell’umore! Avanti, ci divertiremo… Magari, domenica non passerai una notte fredda e solitaria… - lo canzonò.
-    Siamo a giugno …
-    Sì… e col caldo puzzi di più… Fatti un bagno!
-    Vado giù al canale a nuotare …. – disse alzandosi.
-    Bravo … così non mi appesti la vasca!
André accompagnò il sorriso ironico con un sospiro ed uscì  rubacchiando nel tragitto ancora una pasta dal tavolino della colazione ed un panetto di sapone dalle mani di Marie che arrivava ancora, ma col necessario per il bagno; uno dei famosi saponi profumati di Victor, conscio che Alain avrebbe cominciato a  chiamarlo “mademoiselle”  non appena entrato in caserma con quel “puzzo da femminuccia” addosso.

- continua

1)    Avevo una cotta per “La freccia nera” di Stevenson
2)    Tratto dalla canzone “Les rois du monde” dello spettacolo “Romeo e Giulietta”
Video: http://www.youtube.com/watch?v=b-TzguHJKxY
Testo (che ritroverete più avanti in bocca ad Alain) : http://www.youtube.com/watch?v=SKs_Qzgiwrk



***Avviso che la prima parte di ogni capitolo (in blu) riguarderà il passato dei protagonisti, ovviamente molto diverso da quello che conosciamo perché Nanny ed André sono mancati nell’infanzia di Oscar; non saranno scene in sequenza, ma attinenti alla seconda parte di ogni capitolo che si svolge “al presente”, il 1784. Probabilmente farete fatica a capire i “perché” di certe azioni, visto che le spiegazioni si avranno solo alla fine o quasi. Ci vorrà pazienza da parte vostra ed un poco di curiosità.
Inizialmente i protagonisti dovevano essere più giovani, ma poi l’ho slittata avanti, nel 1784, quindi André ha già 30 anni.
Avviso anche che non sarò rapida ad aggiornare perché la trama ha ancora delle lacune.
Ringrazio Karmilla per avermi dato la “licenza” per aggrapparmi alla strana coppia “André-Victor-amiconi” molti mesi fa, anche se questa storia non è collegata alla sua trama (decisamente meglio la sua, eh eh).
E’ passato il momento di temporeggiare, quindi, bella o brutta, lancio la storia; e sono consapevole che, ad un certo punto, Karmilla vorrà strozzarmi per la piega che prenderà (Ti prego! Non mordermi sul collo!!!)
: )

Sto anche preparando alcuni miei disegni per la storia e li carico sul sito Deviantart, link per chi li vuol vedere:
http://crissi123.deviantart.com/

Grazie a tutti!







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Capitolo 2
*** Noi ... Viviamo la vita ***


I re del mondo cap. 2
Capitolo 2 “Noi … Viviamo la vita”

Parigi, inverno del 1776, otto anni prima

Aprì d’un colpo la porta della locanda, spingendola col peso del suo corpo; ma, prima di uscire nella via, dovette poggiarsi allo stipide per ritrovare equilibrio e respirare a pieni polmoni l’aria non viziata dal fumo e dagli odori nauseabondi, di cucina ed umani.
Alle sue spalle il festoso frastuono degli avventori, continuava; davanti a lui, si apriva il vicolo, buio e silenzioso.
Si fece forza, si tirò su per bene ed uscì, richiudendo l’uscio dietro di sé.
Era riuscito a sganciarsi da Terése la quale, presa in piccole dosi, era un amore di ragazza, ma quando finiva vittima delle sbornie tristi, diventava più appiccicosa e noiosa di una moglie.
Almeno, così la definiva il suo nuovo amico Alain.
André più conciliante e soprattutto più pratico, sapeva d’aver raggiunto il limite per quella sera, sia in fatto di sonno arretrato che di vino in corpo. Pertanto, pagare una prostituta sarebbe solo stato denaro buttato.
Sì. Pagare per finire a sbavare su lenzuola luride, non era intelligente. E non era neppure divertente.
La caserma  non era distante dalla “Bonne table”, per questo quella locanda era il rifugio preferito dei militari.
Ma, si sa, quando le gambe non reggono e la testa pare un macigno, anche il tragitto più breve appare come una fatica insuperabile.
Ed il suo cavallo non voleva collaborare.
Aveva cercato di issarsi in groppa, ma quello continuava a girare in tondo, su sé stesso, e poi  in tondo attorno al cavaliere.
Appena André capiva il senso in cui quello ruotava, ecco che lo stupido animale, invertiva il senso di marcia, contribuendo alla rotazione dell’universo.
Almeno, così percepiva l’universo André, quella sera.
Il soldato cercava di infilare il piede nella staffa, ma non c’era verso di far capire al benedetto animale che doveva stare fermo per consentirgli ciò.
-    Sei ciuco, André! – ammise con sé stesso, con un tono quasi sorpreso, quando si trovò fronte a fronte col quadrupede, finalmente immobile, ma certamente pronto a ricominciare quel gioco.
Sospirando, si rassegnò a procedere a piedi, con le briglia tra le mani, scivolando lungo le mura della case del misero quartiere e poi, sorreggendosi alle cancellate delle abitazioni più signorili, nella via principale.
Non era solo il cavallo a girare. Pure il mondo attorno a lui pareva impazzito come una girandola in un giorno ventoso.
Perché le serate con Alain finivano sempre a quel modo?
E perché se lo domandava ancora!
Quello stupido cavallo, poi,  neppure ricordava la strada per la caserma!
“Dove siamo?… Accidenti …”
Lo aveva guidato in un quartiere elegante.
“Stupido, stupido animale!”, inveì sommessamente.
E proprio lì, in quel momento, gli parve di vedere qualcosa che come ufficiale dei soldati della Guardia Francese era suo dovere redarguire pesantemente.
Un’ aggressione.
Ad un nobile, a giudicare dal bellissimo cavallo bigio argento che nitriva spaventato poche decine di metri più avanti.
“Tre contro uno, complimenti! “
E la vittima era a terra, presa a calci e pugni.
“Redarguire, André!…”, biascicò a sé stesso.
-    Ehi! – strillò e l’urlo costò al suo cervello un dolore lancinante.
Strizzò gli occhi per il male, ma tornò alla carica, perché quelli continuavano a massacrare il malcapitato e lui non poteva permetterlo. Era pagato per intervenire in situazioni del genere!
“Oddio …”,  rifletté, il termine “pagato” era una definizione esagerata del compenso che percepiva.
-    Ehi! - Strillò ancora – Fermatevi! Vi ordino di fermarvi! In nome di Sua Maestà Cristianissima, Luigi… Luigi…
Inarcò un sopracciglio tentando di rammentare quale numero fosse quello abbinato al nome e ci rinunciò.
Si tastò la cinta in cerca della pistola. Inutilmente: l’aveva lasciata in caserma.
Quindi afferrò la spada e, faticosamente, la estrasse dal fodero per dirigersi ondeggiando verso l’assembramento.
Gridò ancora, riuscendo ad ottenere attenzione.
Il più furbo dei tre, fuggì col denaro.
Il più arrogante, incrociò la lama con André, il quale utilizzò tutto il peso del suo corpo ubriaco per tentare di sopraffarlo.
Il più vigliacco, smise di calciare la vittima, per portarsi alle spalle dell’ufficiale in blu ed alzare un pugnale mentre costui era ancora impegnato in duello.
Con una scossa di energia inaspettata, il giovane a terra agguantò il proprio fioretto, abbandonato sul selciato; si puntò su di un ginocchio, sulla mano sinistra ed allungò la destra affondando la lama nel ventre del vigliacco. Quindi, senza forze, preso dai tremiti dovuti al pestaggio, scivolò nuovamente a terra, mentre l’avversario di André si dava ad una fuga di convenienza.
Il rumore causato dal duello aveva attirato l’attenzione di alcuni cittadini, i quali si erano premurati di chiamare le guardie metropolitane di ronda.
-    Sto bene… - mormorò André agli uomini della sua stessa Arma. E si chinò sul malcapitato. – Riuscite a sentirmi? Signore? …
Il giovane elegantemente vestito aprì gli occhi, li richiuse subito, ma sollevò appena una mano, come a voler tranquillizzare il suo salvatore.
André si portò alle sue spalle e lo aiutò a mettersi seduto, mentre quello si toccava con la mano una ferita sulla tempia, che probabilmente non era grave, ma grondava sangue copiosamente e faceva dannatamente male.
André gli posò un fazzoletto sul taglio e lo aiutò a premere per fermare il fiotto.
-    Riuscite a parlare, signore? Riuscite a dirmi il vostro nome?
-    Sono Victor Clément, Conte de Girodelle … Capitano… ?
-    André Grandier, Barone di Plessis Bellière (1)
Il giovane malcapitato alzò la mano dal selciato e gliela porse.
-    Vi devo la vita … - mormorò.






Giardini di Versailles, 18 giugno 1784, mentre quasi tutti dormono ancora



André Grandier De Plessis Bellière. A volte perfino lui faticava a dirlo tutto d’un fiato.
Ma non aveva mai voluto rinunciare al nome del suo padre naturale, quello che non aveva mai potuto conoscere; quello che il destino si era portato via quando lui era soltanto un neonato.
Il poveraccio che aveva amato sua madre, anche lei finita troppo presto sottoterra.
Destino tanto bastardo con loro, quanto generoso con lui.
Un insieme di fatalità che aveva portato un orfano nella casa dell’ultimo barone di Plessis Bellière, anziano e senza eredi diretti.
Quella casa dove sua nonna aveva servito fino alla morte, prematura anche per lei, consunta da una delle tante piaghe così diffuse nelle città.
Marron, quella donna che il barone aveva adorato in vecchiaia, tanto quanto aveva adorato il di lei nipote. E adottare legalmente il ragazzo, pochi mesi prima di morire a sua volta, gli era parso naturale.
André teneva alle sue radici, ma non poteva che riconoscere quanta fortuna gli fosse capitata.
Victor Clément De Girodelle era stato anche lui una fortuna.
Senza i consigli del conte, non sarebbe riuscito a sopravvivere al suo novello stato di aristocratico.
Nonostante le differenze di vedute e di carattere, Victor si era dimostrato un vero amico, quasi un fratello.

Lasciò la vecchia ala del castello, dove i Girodelle avevano il loro appartamento sin dai tempi del Re Sole.
Il valletto che lo aveva atteso pazientemente nel cortile, gli porse le redini e lui, senza bisogno del suo aiuto, si issò sulla groppa e ad andatura lenta, s’inoltrò nel parco del castello.
Senza Victor, probabilmente non avrebbe mai potuto metter piede in quel posto.
Esser nobile non bastava a garantire l’accesso a Versailles.
Denaro. Serviva denaro per permettersi quel genere di vita e lui certo non era a tal livello.
E oltre a tanto denaro, serviva il potere. E lui, barone di Plessis Bellière non per nascita, non godeva né di uno, né ancor meno dell’altro.
Si guardò attorno, cullato dall’andatura tranquilla del suo animale.
Non si poteva non restare affascinati da quell’ immenso parco giochi per adulti che non volevano invecchiare e che, a tal fine, si incipriavano ed imparruccavano, sconfinando nel grottesco.
Percorrendo la via per l’Orangerie, ammirò il sole specchiarsi nel bacino d’acqua degli Svizzeri, attorno al quale si affaccendavano persone intente a rasare il prato.
Fra due giorni ci sarebbe stata la grande festa d’Estate, un evento atteso per il quale i preparativi erano in corso da tempo.
Era presto, ma i viali erano zeppi di giardinieri ed artigiani all’opera.
Tutti si chinavano al suo passaggio. Non ci avrebbe mai fatto davvero l’abitudine ai diritti del suo stato acquisito.
Tagliò tra i vialetti verso il Gran Canal ma si accorse con disappunto che la flotta era già stata messa in acqua per le prove delle finte battaglie a suon di fuochi d’artificio e lo specchio d’acqua era fin troppo trafficato per poterci nuotare senza incidenti.
“Pazienza”, pensò.
Versailles era stata costruita bonificando una palude. Tutta la zona era piena di laghetti più o meno balneabili. Una pozza dove rinfrescarsi in santa pace era certo l’avrebbe trovata, fuori dall’inusuale caos dei giardini.

Vagò per un po’ per la campagna ed i boschetti; un po’ troppo a dir il vero, perché cominciava a fare caldo e davvero la sua uniforme puzzava in una maniera vergognosa, ma trovò ciò che cercava, quando ormai non ci sperava più.
Uno stagno, un piccolo laghetto circondato da canneti.  Grazioso, a dir il vero.
Tolse la sella alla sua cavalcatura e lasciò che entrasse nell’acqua per abbeverarsi, quindi, si levò tutti gli abiti e si addentrò nella benvenuta frescura delle acque. Nuotò un po', prima di fermarsi a morto, a fissare il cielo azzurro di quel giorno di fine primavera.
Una strana sensazione lo colse. Non avrebbe saputo se definirla positiva o meno.
Fu come sentire che quel luogo gli appartenesse, come se fosse legato al suo destino.
Tornò a riva a prendere il panetto profumato di Victor e la sua uniforme, quindi si accomodò seduto nell’acqua bassa a lavorar di sapone, su di sé e su quella divisa blu che sembrava non voler tornar pulita.
A gambe incrociate, con l’acqua alla vita, strizzava gli occhi accecato dal sole ormai estivo che si rifletteva sulla superficie increspata dai suoi movimenti. I capelli quasi neri per l’acqua, gocciolavano ancora, freschi contro le sue guance, ma la pelle ormai asciutta, cominciava già ad arrossarsi.
“Le benedette zanzare di Versailles…”, pensò uccidendo con un colpo secco del palmo l’ennesima succhiasangue che lo aveva aggredito sul bicipite.
D’altronde, anche gli esseri umani che vivevano lì erano poco più di succhiasangue.
Il padre adottivo lo aveva messo in guardia da quella gente. Così come lo aveva messo in guardia contro notai ed avvocati, d’altronde.
“Ricorda, non un titolo, non una posizione… Un uomo nasce qui e qui”, si era raccomandato sfiorandogli la testa ed il cuore.
Conoscere Victor, però,  era stata la prova che Versailles non era così pessima come aveva creduto vivendo a Parigi.
Alzò il capo ad occhi chiusi.
Dio, quanto era piacevole starsene lì ad oziare, baciato dal sole e rinfrescato da quelle acque chiare, per nulla stagnanti… In santa pace e benedetta solitudine!
Il fragore di un galoppo fu improvviso, violento quasi quanto l’irrompere del candido animale nel lago, a pochi passi da lui.
-    Ehi! … Ma che …! – gridò scattando in piedi per lo spavento.
Il cavallo ed il suo cavaliere, giravano su sé stessi nell’acqua bassa, intorbidendola, schizzando in ogni direzione.
-    Ma che razza di modi! Potevate fare più attenzione! – esclamò André, tanto arrabbiato quanto spaventato.
Il cavaliere biondo appariva sorpreso di aver trovato qualcuno appena dietro i canneti; ma ancor più appariva furente.
Incitò il cavallo bianco nella sua direzione con passo arrogante ed aggressivo, tanto che André si trovò malgrado suo ad arretrare velocemente verso il centro del lago.
L’animale si alzò un paio di volte sulle zampe posteriori, nitrendo nervoso, e ricadendo nell’acqua, bagnando ancora André.
-    I miei modi?! – esclamò il cavaliere, violento e prepotente quanto il suo destriero. – Ma come osate recriminare sui miei modi, quando vi trovate, non invitato ed impresentabile, in casa mia! – esclamò. – Rozzo-villano-pezzente che non siete altro! Come siete arrivato qui e chi vi ha autorizzato? – gridò il nobile.
-    Provengo dal parco di Versailles ed ho ragionevolmente ritenuto di trovarmicisi ancora. – spiegò il moro.
-    Aberrante usanza di far transitare qualunque vagabondo per la reggia… - mormorò a denti stretti il cavaliere biondo. – Io sono Oscar Françoise  De Jarjayes, villano, e questo stagno si trova nelle mie terre. Voi non avete diritto di trovarvi qui.
Il giovane fissò lo sguardo nei due occhi di ghiaccio.
“Jarjayes…”
Quel nome suonava stranamente familiare ad André.
“Jarjayes…”
Ma sì, era la famiglia presso la quale nonna Marron aveva servito tanti anni prima!
Ricordava delle fanciulle che, accompagnate dalla madre, saltuariamente avevano fatto visita alla vecchina presso la casa dei Plessis Bellière. 
“Gran belle ragazze!”
Era piccolo, allora, ma certe cose le capiva già.
Eppure, ricordava che non c’erano figli maschi in quella famiglia…
Sorrise.
Che, forse, quell’arrogante pezzo di … “aristocratico” fosse la famosa pietra della discordia che aveva allontanato Nanny dai Jarjayes?
Che fosse la famosa figlia allevata come un maschio?
Guardò meglio il cavaliere che continuava con prepotenza ad inveire contro di lui; parole velenose che neppure stava più ad ascoltare.
I suoi occhi correvano su quella figura: i capelli biondi e ondulati, fermati appena da un fiocco color salvia e oro; i lineamenti spigolosi, ma minuti; la pelle bianca, liscia, priva di barba sul volto; e poi giù, polsi sottili, dita affusolate; un corpo esile e … beh, accidenti, riconosceva cosce femminili senza ombra di dubbio, in quelle che si stringevano come una morsa sui fianchi del purosangue.
Quella doveva essere l’ultimogenita del generale Jarjayes, senza dubbio alcuno; ed il carattere, a quanto pareva, era in tutto e per tutto quello del pazzo genitore.
-    Ehi, voi! Siete sordo, per caso,… villano? Dico a voi, fermo lì come un idiota con quelle lerce brache fra le mani! – stava abbaiandogli contro lei.
André si riscosse dai pensieri che accarezzavano le belle gambe fasciate dai pantaloni verdi della donna e dagli stivali neri.
La guardò fisso negli occhi blu e gli parve di notare il respiro di lei mozzarsi quando gli sguardi si incrociarono.
-    Intendete queste brache? – disse indicando i pantaloni che teneva davanti a sé, unico riparo per la sua mascolinità. Un sorriso beffardo gli apparve sul volto. – Se queste brache disturbano vossignoria… - mormorò e, detto e fatto, le lanciò lontano.
La donna, dopo un brevissimo istante di sorpresa, sostenne il suo sorriso beffardo con uno altrettanto canzonatorio.
-    Siete impavido, villano… Ma…Il sole oggi è molto aggressivo e, potreste bruciarvi in parti delicate… Prendete le vostre cose e andatevene! Non voglio ritrovarvi qui, né oggi, né mai!

Quindi tirò le briglia e, arrogante e veloce come era arrivata, sparì dalla sua vista.
“Ma non dai tuoi pensieri, André”, si disse il moro, tornando a  tuffarsi nell’acqua più alta, incurante della minaccia della bionda.

***

Oscar Françoise De Jarjayes galoppava verso il suo palazzo.
Era furibonda con sé stessa per aver perduto la calma, per aver reagito in maniera spropositata, come mai avrebbe voluto.
Furibonda, ma allo stesso tempo divertita.
“Che arrogante pezzo di … “villano”! “, pensava sorridendo suo malgrado, mentre frenava il bellissimo César dopo aver saltato una siepe.
Si fermò a riprender fiato.
Era forse fuggita?
Ma per favore! Non era mai fuggita davanti a niente! Semplicemente, era stata colta alla sprovvista da quell'intruso!
E se suo padre, il generale, non l’aveva ancora diseredata nonostante le sue continue ribellioni, i suoi continui rifiuti ad accondiscendere i desideri paterni, i suoi continui affronti all’onore della famiglia, era proprio perché, tutto sommato, non poteva non apprezzare il suo coraggio e le sue capacità.
Lei era la vergogna dei Jarjayes, l’esperimento fallito del generale.
Era la donna che non aveva voluto essere un soldato di Sua Maestà, ma che continuava a comportarsi come un uomo.
Era la figlia che non sapeva cosa fossero obbedienza, docilità e femminilità.
Almeno, non come concepiva queste caratteristiche il generale.
Da quasi due mesi era tornata da Arras, dove aveva vissuto, quasi ininterrottamente, negli ultimi quattordici anni.
Era tornata sorprendendo entrambi i genitori con un atteggiamento stranamente remissivo.
Si era dimostrata tanto educata e sottomessa da non aver trovato nulla da obiettare quando il padre aveva accennato un esitante “Sarebbe opportuno che tu ti sposassi”.
La cosa, però, non aveva sorpreso lei, che sapeva benissimo quanto non ci fosse di remissivo o accondiscendente o amorevole nelle sue decisioni degli ultimi mesi.
Le sue ultime decisioni…
Ecco, su questo doveva concentrarsi! Non doveva farsi distrarre da due occhi smeraldini e, beh …
Si concesse un ultimo sospiro d’ammirazione per quel corpo statuario dalla pelle uniformemente dorata.
“Sì, uniformemente…”, poteva affermarlo senza esitazione perché lo aveva osservato bene. Fin nei dettagli.
Sperò che l’uomo l’avesse ascoltata e se ne fosse andato.
In fondo, sarebbe stato un vero peccato se si fosse ustionato…
“Una donna meno forte avrebbe avuto un mancamento!”, si disse sorridendo della sua stessa sfacciataggine.

- continua


1)    Un nome che mi piaceva: Plessis Bellière, uno dei nomi della famosa Angelica marchesa degli Angeli, personaggio di fantasia dei coniugi Golon, ma anche una persona realmente esistita, amica di Fouquet, ministro di Luigi XIV.
Fouquet aveva fatto costruire il castello di Vaux Le Vicomte dagli stessi architetti che in seguito avrebbe costruito Versailles. Quando il Re sole gli fece visita, invidiò il suo palazzo ed il suo modo di vivere ed il ministro cadde in disgrazia. Chi ha visto il primo film di Angelica, sa che questa è la stessa cosa che accade al suo primo marito.
Qualcuno sospettò che dietro il famoso prigioniero dalla maschera di ferro ci fosse proprio lui, Fouquet, reo di aver suscitato invidia nel suo re. ... Eh, già ... l'invidia è una "brutta bestia"!


***
Grazie per i commenti e per la fiducia! Avrei voluto rispondere ai Vostri quesiti, ma avrei dovuto farlo con una serie di “no, si, mah!, forse, acqua, focherello …” : )
La storia dovrebbe generare domande e curiosità e, per via del “canguro temporale”, trarvi in inganno.
Sì, certo, è stato solo un capitolo introduttivo, come il secondo e come lo sarà il terzo. Sto “mettendo le carte in tavola”. 
Volevo porre l’accento sull’enormità di conseguenze che può comportare una singola decisione, in questo caso il “no” di Nanny.
Quindi gli avvenimenti saranno molto diversi,  ma spero vi divertirete a cercare le somiglianze coi personaggi originali anziché le differenze. Le loro personalità sono quelle dei primi episodi dell’anime, quando erano un poco più arroganti, impulsivi, egocentrici e litigiosi; erano più entusiasti, prima che la tristezza si impadronisse delle loro anime.
Oscar è più maschiaccio di come la conosciamo, come mi ha scritto un’amica, ma non è un caso: ho sempre creduto che se fosse cresciuta senza André a “tirarle il morso”, sarebbe diventata davvero insopportabile e … non solo (ma non dico altro!).

Solo una cosa riguardo l’OOC, su come lo vedo. Significa “fuori dal personaggio”
Ma cosa definisce un personaggio? Il suo carattere ed il suo modo di reagire agli stimoli, agli avvenimenti.
Un “what if” non stabilisce per forza un OOC, se il personaggio si comporta coerentemente col suo carattere ed il suo animo, anche se in situazioni diverse.
Per quanto riguarda L.O., l’OOC poi, lo si intende riferito al manga o all’anime? Sono differentissimi tra loro per il carattere e le reazioni; alcune scelte dell’anime non piacquero alla stessa sig.ra Ikeda (per esempio, Alain, l’uomo e le sue scelte, cosa che io ho adorato, invece; o certi atteggiamenti estremi che nell’anime non ci sono).
Sono convinta che l’unica a poter affermare l’OOC sia la stessa Ikeda che li ha creati ed “è nella loro testa”. Tutto il resto, è una valutazione soggettiva di come lo spettatore o il lettore ha interpretato il racconto, in base al vissuto ed alla sensibilità di ciascuno.
Per quanto mi riguarda, una volta mantenuti i punti base, quale la complementarietà di Oscar e André (luce ed ombra);lei testarda come un mulo e lui che la porta alla ragione; l'estrema pazienza di lui, l'esasperata cecità di lei; lui che darebbe la vita per lei e lei che lo farebbe per la giustizia ... (e ora non mi viene in mente altro, per fortuna!), la storia rimane una fic su L.O.
Non credo di aver mai realmente scritto personaggi OOC,  ma d’altronde, come dico spesso “devo aver visto un altro anime”.
Li scrivo come li vedo; ma come li farò vedere a voi, potrebbe ingannarvi. (???)

Ok… spero solo che la storia stia in piedi e che piaccia! : )

PS per Karmilla. Ho una gran cura dei tuoi pupilli! Ogni sera li pettino: ad uno faccio il codino, all’altro le trecce (che tengono le onde perfette!). E poi gli racconto la storia di una bimba bionda che ... : )








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Capitolo 3
*** ... E facciamo l'amore. ***


I re del mondo cap. 3
CAP. 3 “ … E facciamo l’amore”


Parigi, estate 1775, nove anni prima

La camera era buia se non per le due candele tremanti. Persiane chiuse, come a voler tener lontana la notte con i suoi fantasmi e tutte le paure che ad essa si associano.
Il caldo opprimente si fondeva con gli odori, di fumo, di sudore, di incenso. Di morte.
Il confessore aveva adempiuto al suo dovere, finché l’uomo era ancora sufficientemente lucido.
Prendendo lunghi respiri, tra le parole che uscivano con sempre minore energia, aveva confessato più che peccati, rimpianti.
Rimpianto per donne mai amate, per figli mai avuti.
E sollievo, per non aver mai compiuto, realmente e consapevolmente, del male; sollievo per aver adottato André prima che fosse troppo tardi. Anche se il risultato era stato quello di mettersi contro l’intero parentado. I figli della sua povera sorella avevano espresso piuttosto chiaramente l’opinione riguardo il suo stato mentale in merito alla decisione di lasciare ogni suo avere al figlio adottivo; ma il fatto che non gli avessero più fatto visita, aveva reso quegli ultimi mesi i più tranquilli, sereni, in un certo senso piacevoli della sua vita.
André, suo figlio, stava seduto in corridoio e fissava la tappezzeria scura sulla parete di fronte a lui.
Si ripeteva da giorni che così andava la vita, che era naturale. Tutti devono morire. Ma non poteva negare un filo di risentimento verso chi aveva il potere di decidere ciò.
Verso colei che tagliava il filo. Verso la mietitrice con la falce. Verso Dio.
Il barone aveva accettato la malattia con forza e serena rassegnazione.
André lo aveva visto godere di ogni giorno come fosse l’ultimo, compatibilmente con le forze che gli restavano.
- Ha richiesto la vostra presenza. – disse il prete, uscendo dalla camera. - Vi lascio solo con lui. Si è confessato e gli ho impartito l’estrema unzione. E’ molto debole.
André si alzò stancamente ed annuì.
- No! – disse il parroco quando il giovane accennò a guidarlo di sotto – Non è necessario che mi accompagniate, conosco la strada. – Posò una mano sul suo braccio. – Andate da lui, figliolo… - e non ci fu bisogno di specificare altro.
André restò un istante a guardarlo: un’ombra scura, per l’abito, per i capelli, confondersi col buio del corridoio; quindi, silenzioso, lo vide imboccare le scale e scomparire alla sua vista.
Si portò le mani agli occhi. Non voleva piangere. Ci sarebbe stato tempo per le lacrime. Dopo.
Entrò nella camera, prese la sedia e la portò accanto al letto del barone, il cui respiro era mutato in una sorta di faticoso uggiolare. Sedette vicino e posò la mano su quella fredda e gialla di colui che lo aveva cresciuto.
- Tua nonna sarebbe stata felice ed orgogliosa di vederti diventare uomo. – disse il genitore, esordendo nella frase con un gemito.
- Signore, non parlate… Se vi causa dolore, non parlate… - lo supplicò.
La mano del vecchio si mosse in cenno di diniego.
- Io … sono fiero di esser stato tuo padre, anche se solo per via di un documento.
- Voi siete stato il solo padre che ho conosciuto, l’unico che ricorderò per sempre, signore. – disse il giovane mentre il proposito espresso a sé stesso pochi minuti prima si dissolveva in lacrime irrefrenabili.
- Segui sempre il tuo cuore. … Il tuo cuore non sbaglia. Sei un bravo ragazzo... E sarai un gran brav’uomo, André.
André poggiò la testa contro il torace del barone, il quale cominciò a carezzarlo lentamente.
Nel silenzio totale, il giovane fissava sul comodino la candela che si consumava e restò lì fino a guardarla spegnersi, parecchio tempo dopo che la mano di suo padre era rimasta immobile sui suoi capelli.

La sera seguente, i vicini vennero per la veglia funebre e già il giorno dopo fu sepolto nella tomba di famiglia.
Di parenti nemmeno l’ombra ora che avevano accertato che non avrebbero ottenuto un soldo in eredità.
Dopo la funzione, André rientrò da solo nella casa che in pratica era legalmente sua.
Moralmente era stato l’affetto immenso di quello sconosciuto che gli aveva fatto da padre a renderla “casa”, non un atto notarile.
Il caldo del tardo pomeriggio era soffocante. Per le strade gridavano gli ambulanti; le finestre erano aperte, ma le persiane tutte accostate.
Si affacciò alla stanza del defunto, dalla quale le domestiche avevano già levato i paramenti neri collocati sul mobilio e sugli specchi, dato aria e portato via materasso e lenzuola mentre lui presenziava alla funerale.
Si volse a guardare la porta di fronte. La camera in cui era morta Nanny. Ed era chiusa da tempo.
Ne chiuse un’altra dietro di sé. Restò lì, in silenzio, con le spalle poggiate all’anta, immerso nell’ombra.
Ora era solo. Davvero solo.





Versailles, 21 giugno 1784, tardo pomeriggio


On sait que le temps c'est comme le vent (Sappiamo che il tempo è come il vento)
De vivre y’a que ça d'important (E di vivere ciò che è importante)
On se fout pas mal de la morale (Ce ne freghiamo della morale)
On sait bien qu'on fait pas de mal (sappiamo bene di non far del male)

(da “Les rois du monde”)


Una colorita Marie gli aprì la porta dell’appartamento e si inchinò.
André non poté trattenersi dal sorridere, immaginando cosa avesse portato le sue gote ad infiammarsi così.
- In crisi da “cosa mi metto stasera?”
- Oh, signore, vi prego… - lo supplicò ricambiando il sorriso. – Voi scherzate sempre!
Richiuse la porta alle sue spalle e lo invitò ad accomodarsi con un cenno.
Dalla porta aperta della camera, André vide Victor intento ad appuntarsi la spilla di smeraldi sulla cravatta e darsi gli ultimi ritocchi all’ abito blu pavone, davanti allo specchio a figura intera.
“Blu pavone?” , sorrise per il paragone tra le movenze dell’amico che scrutava il proprio riflesso in cerca di pecche e quelle di un regale pennuto.
In realtà sapeva non trattarsi di vanità, quel modo di fare, ma solo di pignoleria.
Victor Clément De Girodelle era dannatamente perfezionista. E André non lo avrebbe mai cambiato. Semplicemente, era perfetto così.
Si volse a guardar fuori dalla finestra: i giardini parevano già in fermento.
Si sentiva stanco alla sola idea di calarsi in quel ginepraio. Ma Victor era sempre così gentile con lui. Cercava di coinvolgerlo per il suo bene.
“Tieniti vicino gli amici, ma ancor di più i tuoi nemici” (1), gli ripeteva in quelle occasioni in cui lui attaccava a mugugnare scuse poco energiche.

- E quello?!
André si volse con un sussulto e chinò lo sguardo sui propri abiti che parevano i responsabili per quella espressione disgustata di Victor su di lui.
- Cosa?
- Come “cosa”? Quello … quello scempio! – chiarì Girodelle senza mezzi termini.
- Intendi il mio abito da sera?
Victor gli si avvicinò e cominciò ad indicare particolari a sua opinione inadeguati.
- Fuori moda… Sciatto… Semplicemente orrido… Pessimo… Ridicolo… E poi, marrone? Per una serata di gala estiva?! Ma come ti è venuto in mente! E … - si avvicinò ad annusarlo, storcendo il naso disgustato – Da quanto lo tieni nell’armadio?
André alzò gli occhi al soffitto, in muta preghiera agli angeli che vi stavano dipinti.
- Era del barone… - mormorò.
- Ossignoresantissimo! – tuonò Victor, facendosi immediatamente il segno della croce e mormorando una preghiera in penitenza per quella imprecazione sfuggitagli.
André sorrise per quel bizzarro modo con cui, il credente Victor, affrontava i propri peccati.
- Ah, no! Tu non scendi conciato così! – minacciò. – Marie!
La fanciulla, fino a quel momento in silenziosa attesa in un angolo, si rizzò attenta.
- Vai a prendere l’abito che mi è stato consegnato la scorsa settimana, cara, quello rosso.
- Rosso? – ripetè incredulo André– Tu hai acquistato un abito… rosso?!
- Sì, lo so… Volgare su di me… Me ne sono pentito subito. Ma a te starà d’incanto.
Marie tornò con una giacca veramente ricca, rosso fuoco, con i ricami del damasco lucidi ed opachi; leggerissimi fili d’oro inseriti nell’ordito facevano che sì che ad ogni movimento questa risplendesse come l’ondeggiare di spighe sotto il sole, sparse in un campo di papaveri. E la mostrò loro, reggendola su entrambe le braccia tese.
- Mah…
- Che c’è?
- C’è che fa tanto “Du Barry”… - obiettò André.(sentita nel film "Marie Antoinette" della Coppola)
- Oh, l’importante è che non ti faccia far tappezzeria, amico mio!
La domestica si portò alle spalle di André e lo aiutò a levare la giacca. Quindi andò a prendere il resto dell’abito, mentre lui continuava a levarsi i propri indumenti e restava con la sola camicia bianca e le calze.
Dopo pochi minuti, il grosso del cambiamento era a buon punto.
André si lisciò addosso il gilet, decisamente più corto del suo ormai fuori moda, che non nascondeva i pantaloni più attillati.
Marie lo aiutò ad infilare la giacca, quindi si portò davanti a lui per fissargli la sciarpa al collo. Il giovane le strizzò l’occhio, facendola arrossire.
- Hai dei diamanti da indossare? – chiese Victor che, passeggiando avanti ed indietro con fare meditabondo, osservava la sua “creatura” prender forma.
André lo guardò malamente.
- Direi che il tuo è un “no”, ovvio… Ti presterò i miei! Devi essere abbagliante stasera, mio caro!
L’amico si guardò allo specchio e sbuffò.
- Abbagliante come una lanterna cinese… - borbottò. E Marie si allontanò soffocando una risata.
- Se serve a non mandarti in bianco, ben venga pure la lanterna cinese. E poi stai benissimo. – commentò il conte.

Si presentarono affiancati sulla cima della scalinata dei parterre. Davanti a loro, tutta Versailles si era data appuntamento.
Le Loro Maestà sarebbero arrivate da lì a poco insieme all’ospite d’onore, Re Gustavo di Svezia, in viaggio attraverso l’Europa in compagnia del fidato Fersen e la serata sarebbe così entrata nel vivo dei festeggiamenti. (2)
Il sole era niente altro che un pallido bagliore all’orizzonte: la notte di benvenuto all’estate stava per cominciare!
- Smettila… - sibilò Victor, innervosito dai gesti stizziti dell’amico che evidentemente non si trovava a suo agio nell’abito prestatogli.
André lo guardò di sbieco. Quell’abito, certamente bellissimo, era fin troppo sfarzoso per i suoi gusti e l’ultima cosa che voleva quella sera era attirare l’attenzione. Avrebbe pure risposto qualcosa, ma vennero affiancati da una coppia.
- Conte!
- Conte…
- Contessa…
- Barone!
- Conte… Contessa…
Un incrocio di inchini e riverenze e quelli si avviarono lungo la scalinata.
La serata era cominciata e sarebbe proseguita a quel modo per ore. Alla fine, André sapeva, non avrebbe ricordato alcuna di quelle persone, né le conversazioni superficiali che con loro avrebbe intavolato.
Ma doveva riconoscere che si annunciava come un grande evento mondano e ne era incuriosito.
Sul Tapis Vert era stata approntata una pista da ballo e i giardini erano ben illuminati. Oltre a torce e lampade, c’erano lanterne galleggianti sull’acqua e lungo i viali primeggiava l’invenzione scientifica dell’anno prima, opportunamente tramutata in luminaria: mongolfiere! Un gran numero di piccole mongolfiere, ancorate al suolo, alimentate da piccoli bruciatori ad olio, galleggiavano nell’aria e spandevano luce colorata tutt’attorno, diversa a seconda del tessuto con cui erano state realizzate.
Tavole zeppe di ogni ben di dio e giocolieri, musici, danzatrici esotiche, acrobati… Di tutto e di più per intrattenere gli ospiti ed impressionare favorevolmente il sovrano amico.

***

Attorno alla fontana di Latona, una donna si sventolava lentamente. Si sarebbe detto svogliatamente, se non lo avesse fatto in modo così sensuale.
Si teneva a giusta distanza dall’imponente monumento: abbastanza vicina da godere della frescura portata dallo zampillare, ma non così vicina da permettere che l’umidità sciupasse la sua perfetta “mise”.
Abito verde mare, cangiante; parure di zaffiri sulla pelle candida e nastri di tutte le sfumature dell’oceano fra i capelli neri; nessuna parrucca a mortificare la chioma d’ebano, in netto contrasto col pallore lunare del viso; nessun copricapo a nascondere le onde perfette, morbide, lucenti. Nulla in lei passava inosservato, neppure quel carattere, volitivo e ferreo, di una donna decisamente controcorrente.
Il ventaglio con piume di pavone ondeggiava piano davanti al viso e solo due occhi come il ghiaccio ne facevano capolino, fissando con l’aria di chi ne sa qualcosa, l’immagine dell’amante di Giove sulla cima della fonte. (3)
Accanto a lei il marito, marchese de Fréville era impegnato a raccontare al generale Bouillé, suo ottimo amico, come aveva trascorso quella settimana di caccia su, nei suoi possedimenti al nord. Narrava ogni più piccolo particolare, ogni insignificante, noioso dettaglio di quella passione che, fortunatamente per la moglie, lo distraeva dal talamo nuziale quel tanto che bastava per lasciarla riprendere.
Una settimana al mese, il marchese si dedicava allo sport da uomo duro e la giovane Camelia Desirée si faceva bastare quei giorni di libertà come gli unici degni d’essere vissuti.
André si domandava come avesse potuto una persona incantevole come Camelia arrivare alle nozze con Fréville.
Di certo, il marchese aveva avuto solo di che guadagnare da quel matrimonio.
Nonostante ciò che chiunque avrebbe scommesso su quella coppia, era Camelia il buon partito. Venticinque anni, vedova di un viceconsole inglese, la giovane donna non mancava né di denaro, né di spasimanti. Eppure, contro ogni aspettativa, nemmeno un anno dopo la morte del marito perito in un naufragio sulle coste della Cornovaglia, aveva accettato la corte di Fréville, di trenta anni più vecchio di lei, ed in poche settimane erano convolati a nozze. Questo era accaduto la scorso marzo.
Nulla li accomunava. Lui era pesante sotto tutti i punti di vista, noioso, borioso, irascibile … Ciò solo ad un esame superficiale, ma per André era già perfino troppo.
Lei non era solo una bella donna, gradevole come accompagnatrice. Era un passo avanti a chiunque in quel posto e, nonostante i tentativi di Fréville di esibirla unicamente come un grazioso accessorio, la sua intelligenza non riusciva a passare inosservata.
La gente giustificava questo matrimonio col potere.
Fréville, da poco più di un anno, era forse l’uomo più influente di Francia, da quando era stato nominato ministro della guerra. Godeva della fiducia del sovrano, anzi, forse sarebbe stato più opportuno affermare il contrario: il sovrano era nelle sue mani.
Aveva un passato talmente losco che perfino Sua Maestà doveva averne timore. Dal suo ufficio transitavano una gran quantità di denari e di segreti di stato; non c’era nulla in cui lui non mettesse mano.
Si diceva che la donna lo avesse sposato per rientrare a corte, dopo il matrimonio con un inglese, avvenuto in piena Guerra di Indipendenza Americana, poco prima della discesa in campo della Francia. Gli inglesi: un nemico della corona, il peggior nemico.
Aveva vissuto a Londra ed era rientrata in Francia a guerra finita, come moglie del viceconsole inglese, rimanendo prematuramente vedova.
Ma André non aveva mai creduto a queste insinuazioni. L’istinto gli bisbigliava che dovesse esserci altro. Di certo sapeva solo che era veramente un peccato vedere una donna come quella sprecata con un simile individuo. Ma d’altronde, quella era Versailles. Perché si stupiva ancora?
In quel momento, la marchesa si accorse di loro.
- Sei stato individuato… - mormorò a denti stretti all’amico, intento a conversare con un collega d’armi.
Victor si volse ed il suo sguardo venne catturato da quello violetto di lei. Picchiettò con un dito sul ventaglio chiuso, attenta a non farsi notare.
“No, non possiamo vederci… “, pensò scotendo impercettibilmente il capo in replica a quella richiesta.
La vide sbattere il ventaglio sul palmo dell’altra mano. A Camelia Desirée non piacevano i no come risposta.
Il tipo col quale stava conversando, gli sollecitò un suo parere e Victor tornò a voltarsi verso di lui.
- Attenzione! Nemico in avvicinamento da poppa! – esclamò in un sussurro André, dandogli un gomito nelle costole quando vide la dama partire nella loro direzione.
- Oh, contessa! Che piacere rivedervi a corte! – esclamò Victor aggrappandosi cavallerescamente al braccio di una anziana dama di passaggio, stupita ma non certo dispiaciuta dal gesto del giovane ed affascinante uomo.

André non perse tempo e parò l’avanzata di Camelia De Fréville, impedendole di seguire la preda.
- Barone … - mormorò quella con un sospiro di rassegnazione ed un sorriso tirato, aprendo il ventaglio con un singolo gesto secco.
- Marchesa De Fréville… - sorrise André esibendo un raffinato inchino. Al centro del Tapis, le danze erano cominciate. – Mi concedete un ballo? – domandò, rialzandosi, senza abbandonare la mano che aveva appena baciato.
Camelia lo squadrò da capo a piedi.
- Solo perché dentro quell’abito “orrendo” ci siete voi, barone… -
Lui sorrise, incassando il mezzo insulto, e si chinò nuovamente, posando una mano sul petto in segno d’umiltà.
Condusse la dama al centro della pista e sapeva non essere una sua fantasia quella di sentirsi tantissimi occhi addosso.
Invidiato dagli uomini, perché avrebbe ballato con lei; detestato dalle donne, per lo stesso motivo.
Sì, Victor avrebbe dovuto sdebitarsi per quello. Per quello e per avergli fatto indossare quell’abito così vistoso che proprio lei gli aveva donato.
La danza cominciò con una reciproco, simultaneo inchino, la marchesa posò la mano sinistra sulla destra del Barone e poi … piccoli passi, destra, sinistra, avanti, indietro, scivolare piano, un quarto di giro, piccoli saltelli.
Suadenti movenze, sguardi intensi tra la dama ed il suo cavaliere; profumo di fiori e leccornie nell’aria tiepida di una sera bellissima; chiacchiere, risate… E nessun pensiero se non quello di divertirsi.




***


Il rumore di sottofondo era più forte, segno che le bevande inibivano ormai i freni. La gente si divertiva.
André raggiunse Victor intento a piluccare tartine.
- Io mi defilo! – annunciò scandendo bene la frase per farsi intendere al di sopra delle chiacchiere e della musica.
- Come … - tentò d’obiettare con tono irritato, ma passò subito alla lusinga - Non resti a vedere lo spettacolo delle scimmie danzanti?
- Ho già fatto la scimmia io, stasera … A tal proposito, potevi avvisarmi che questo abito ti era stato regalato da una “certa” dama! – gli rimproverò afferrandosi i bordi della giacca.
Victor nicchiò.
- Mi ritiro nei tuoi appartamenti.
- Ma sta per cominciare la battaglia navale!
- La guarderò dalla reggia. – rispose mentre già si allontanava.
L’amico non insisté ulteriormente.

- Stanno per cominciare i fuochi! – esclamò una dama eccitata, guardando verso il Grand Canal.
Nel movimento di folla che seguì l’annuncio, Victor sentì qualcuno afferrarlo per un braccio e trascinarlo via.
- Marchesa… - ringhiò, temendo che qualcuno li notasse.
- Conte… - ribatté lei, imitando il suo tono, trascinandolo in un sentiero appartato.
Si rassegnò a seguirla, fin nel folto di un boschetto.
- Perché non avete indossato l’abito che vi ho regalato? – gli domandò camminando veloce.
- Non vado molto d’accordo col rosso, lo sapete. Perché proprio quel colore, madame?
- Non volevo rischiare di perdervi tra la folla. – mormorò guardandolo con la coda dell’occhio continuando ad avanzare e a tirarselo appresso.
- Fantastico! Così tutti si sarebbero accorti di noi!
- Che imperdonabile leggerezza! – scherzò.
- Sì e siete stata avventata prima, alla fontana! Tutti si sono accorti che siete venuta direttamente da me!
- Sì e non mi importa – esclamò lei, fermandosi di colpo, volgendosi contro di lui, calando le mani sul suo torace.
- A me sì. Mi importa di te, di me, della nostra reputazione … – mormorò Victor, passando ad un tono più confidenziale e premuroso.
- … della tua carriera? – lo istigò.
- Sì, anche. Sai benissimo che basterebbe una parola di tuo marito per stroncarmi. – esclamò con serietà.
La giovane allungò due dita sulle sue labbra, come a volerlo tranquillizzare.
- E ne basterebbe una mia per innalzarti. – mormorò, sbattendo le palpebre, incantandolo con quelle ciglia tanto lunghe e folte che gli parve di sentirsi carezzare dal vento caldo che muovevano.
- Agli uomini non piace venir manipolati …
Lei rise.
- Illuso … - mormorò accattivante, stringendolo in vita.
- A me non piace essere manipolato. – Si corresse.
- Anima candida … - lo canzonò affettuosamente - Toccherà a lui selezionare i candidati per la nomina a comandante della guardia reale. Lui mi ascolta. – aggiunse, spostando la carezza dalle labbra alla guancia.
- Lui non ti ascolta. Non ne è capace. Esaudisce i tuoi desideri, perché se tu sei felice e radiosa, splende del tuo riflesso. Ma è incapace di ascoltare.
Si aggrappò a lui, alle sue spalle.
- Camelia… no, potrebbero vederci…
In risposta, lei lo baciò.
“Che donna … impossibile!”, pensò ricambiando con vigore, stringendola per la vita tanto da alzarla un poco dal suolo, nonostante quella voce nella testa lo invitasse a darsi una regolata.
Le mani di lei si spostarono dalle spalle al suo petto, lungo il risvolto della giacca e poi sotto, sul gilet con uno scopo.
I bottoni si sfilavano velocemente dalle asole, guidati dalla determinazione della donna.
- E’ stato uno sbaglio. Piacevolissimo, indimenticabile … ma non possiamo, Camì, dobbiamo fermarci. – disse rimettendo lei e la propria ragione, coi piedi per terra.
Non poté pronunciare una parola di più perché le sue labbra furono ancora un tuttuno con quelle della bella marchesa.
- Per favore, Camelia…- riuscì a mormorare.
Le mani di lei ormai vagavano sotto il gilet, ormai erano padrone di quel confine sotto la sua cintura.
- Camì …, per favore …, no … Non è il caso … - balbettò col respiro che diventava ansante.
- Quando mi son svegliata voi non c’eravate, l’altro giorno. Non è stato molto galante da parte vostra, abbandonarmi tutta sola nel vostro letto.
- Il dovere, Madame …
- Uomini! Quando non sapete a cosa appellarvi, vi aggrappate al lavoro.
Si allacciò al suo collo ed egli non poté non stringerla ancor più forte a sé.
Bella e pericolosa, perché otteneva sempre ciò che voleva.
Camelia Desirée era proprio come il suo nome: sofisticata, elegante … Vellutata, suadente..
Ed era infelice.
Ogni lembo della sua pelle era niente di meno che paradiso per lui…
Ma era pure il confine dell’inferno. Un punto di non ritorno, il baratro sulla perdizione.
Lei sapeva cosa fare, come fare per fargli perder la testa. E lui la perdeva, così come si perdeva in lei.
Erano riusciti ad evitare il coinvolgimento per mesi; poi, era bastata una sera con le difese abbassate e gli argini erano stati rotti.
Lentamente, lei cominciò ad abbassarsi, trascinandolo con sé verso il prato.
Incoscienti.
Senza freni.
Pazzi.

***
André stava salendo gli ultimi scalini verso i Parterre d’Eau quando udì uno dei colpi d’apertura dei fuochi.
Si volse a guardare il razzo luminoso che si alzava alto nel cielo, illuminando lo specchio d’acqua sottostante, la grossa croce. Due fregate di dimensioni ridotte rispetto al naturale veleggiavano placidamente affiancate, preparandosi a darsi battaglia.
Attraversò lo spiazzo fino alla reggia e poi dentro, su per la scalinata che conduceva agli appartamenti lussuosi delle famiglie più importanti. Incrociò pochissime persone, poiché tutti si erano riversati al centro del parco per gli spettacoli.
Entrò nell’appartamento silenzioso di Victor, illuminato dai bagliori dei fuochi che invadevano le stanze, dalle ampie finestre completamente spalancate. Nella penombra si diresse con passo sicuro e rilassato alla stanza riservata agli ospiti, cominciando a levarsi la giacca, quindi la spilla che fermava la cravatta e slacciando il gilet, accogliendo con un sospiro di sollievo la frescura sulla pelle umida di sudore del torace.
Aprì piano la porta. Sorrise. Sapeva che l’avrebbe trovata lì.
Voltava le spalle all’ingresso, sdraiata sul grande letto, e guardava i fuochi attraverso la portafinestra.
I capelli castani sciolti sul cuscino, la leggera camicia di cotone che non nascondeva le sue forme.
- Com’erano le scimmie danzanti? Mi sarebbe piaciuto vederle. – disse, un po’ malinconicamente.
- Non le vedi forse tutti i giorni?- chiese beffardo, spogliandosi di farsetto e camicia.
Marie si girò sul copriletto e lo guardo avvicinarsi a lei, mentre il bagliore di un fuoco d’artificio lo illuminava di riflessi arancio.
Gli sorrise compiaciuta, vedendolo denudarsi del tutto, senza levare lo sguardo da lei, e si stiracchiò lentamente allungando le braccia, tese verso di lui.
André posò un ginocchio sul bordo del letto e si abbassò verso di lei, posando le mani ai lati delle sue spalle, sorridendole furbescamente, mentre un altro lampo verde intensificava quello smaliziato dei suoi occhi.
La ragazza portò un braccio dietro al suo collo, con l’altra mano gli sfilò il fiocco di raso, sciogliendogli i capelli che ricaddero ai lati del volto. Si sollevò un poco, diretta alle sue labbra, mentre con la mano lui faceva scivolare piano la sottile camicia da notte giù dalla spalla.
E nessuno dei due si preoccupò più di guardare lo spettacolo pirotecnico.
Tra lo schiocco dei baci, lui sorrise al pensiero che Victor potesse ancora essere preoccupato per le sue supposte notti fredde e solitarie.


***

Victor non poteva evitare di pensare che André aveva avuto ragione ancora una volta.
L’amico aveva assistito al lento avvicinarsi tra Girodelle e la Fréville e da subito, aveva annusato guai.
Il conte aveva minimizzato i suoi timori, garantendo che non era un novellino, che si trattava solo un innocente flirtare, che avrebbe saputo fermarsi al momento opportuno e che nessuno si sarebbe fatto male.
Invece…
Invece Camelia rischiava di diventare un problema.
Non si era mai preoccupato di incontrarsi con dame sposate. Non era un segreto che donne annoiate dalla vita matrimoniale, trovassero equilibrio alla loro insoddisfazione con uomini aitanti, liberi di cuore, impegnati nella carriera, come lui.
Ciascuno otteneva ciò che desiderava da queste avventure, senza strascichi, senza conseguenze.
Ma Camelia era sposata con un uomo che, sebbene molto più anziano di lei, era molto geloso e purtroppo, anche molto potente.
Victor era in un certo senso abituato ad “usare”, ma quella sera, sentiva di essere stato la vittima. Sentiva che quella donna stava prendendo da lui più di ciò che era disposto a dare.
Continuava a sistemarsi gli abiti con gesti stizziti. Non gli era garbato quell’incontro con Camelia. Amava sedurre, anche farsi sedurre, ma si era quasi sentito sfruttato da quella bellissima, giovane e pericolosa donna. Doveva mettere distanza tra loro e doveva farlo senza urtarla perché urtare lei avrebbe significato affondare la sua carriera.
Svoltò a passo svelto nel viale principale, senza badare a dove andava, preso dal volant della manica che non voleva stare in ordine, e per poco non urtò una dama ferma dietro la siepe di cipresso, china ad armeggiare con le proprie sottane.
Lo spavento fu reciproco.
- Oh… Perdonate, madame! – esclamò recuperando la gaffe con un inchino elegante, arretrando di un passo.
La donna bionda assunse una posizione meno imbarazzante.
- Perdonate voi, signore… Io… - mormorò.
Ma, prima che potesse aggiungere altro, un’altra donna, in compagnia di alcune dame poche decine di metri più in là, la chiamò.
- Françoise! – esclamò con tono spazientito – Ti stiamo aspettando!
- Arrivo subito, madre! – esclamò la donna, irritata. E ricominciò a inveire contro le proprie gonne e a strattonarle.
Girodelle, incuriosito e divertito, le si avvicinò.
- Avete forse bisogno di aiuto, madame? – si permise, in un sussurro, immergendo il suo sguardo in quello turchino della dama.
La donna bionda sospirò, in chiaro imbarazzo.

- Temo di sì, ma … - gonfiò il petto con un respiro, come a prender coraggio – Credo che un ramo si sia incastrato nella mia sottogonna, rovi credo, perché punge e si è agganciato alla calza e ad ogni passo…
- Françoise! Ma, insomma, che succede? Perché te ne resti indietro!– esclamò la madre che nel frattempo li aveva raggiunti e lanciava occhiate inquisitorie al giovane.
Girodelle, prima che la bionda Françoise potesse rispondere, si presentò con un inchino.
- Se permettete, madame… Colonnello Victor Clément De Girodelle, al Vostro servizio!
La donna, porse la mano secondo prassi, e galantemente, Victor eseguì un perfetto baciamano.
- Marguerite De Jarjayes e questa è mia figlia Françoise… - rispose madame, lasciando cadere lo sguardo sull’anulare privo di fede del giovane Girodelle.
- Vostro marito è forse il generale Jarjayes? Sì? Oh, conosco molto bene il generale, grand’uomo e grande ufficiale. – rispose Victor che aveva notato il classico sguardo di una madre con una figlia nubile al seguito - Stavo appunto discorrendo con la vostra incantevole figlia di quanto sia notevole questo esemplare di cipresso di Leyland …
Entrambe le donne lo guardarono malamente. In effetti, mai si era sentita una scusa peggiore ed abusata di quella botanica.
- … e che, poco distante da qui, si trova un esemplare addirittura centenario di cipresso toscano. - La scusa peggiorava. – Sono certo che a madamigella Françoise interesserebbe molto vederlo… - aggiunse con candida sfacciataggine.
- Monsieur … Non sta bene che una giovane donna si accompagni con un gentiluomo senza chaperon … - obiettò Marguerite, con tono di rimprovero poco deciso.
- I giardini sono pieni di persone a passeggio … Prometto che resteremo in luoghi affollati. - Mentì, posando la mano sul cuore, quasi un giuramento. L’unico genere di giuramento che si permetteva di infrangere, quello che riguardava la conquista.
Marguerite, ora che aveva riconosciuto ed inquadrato il gentiluomo, soppesò solo un istante i pro ed i contro, quindi, lanciò uno sguardo infuocato alla figlia.
- Comportati bene e non tardare! - l’ammonì. – Colonnello, - disse poi salutando Girodelle – mi fido di voi…
Victor e Françoise si chinarono ossequiosamente, salutando madame che raggiungeva le amiche.
- Bene … Ed ora vediamo di risolvere il vostro problema! – disse indicandole il sentiero laterale.
Nascosti agli sguardi, al riparo dalla luce delle torce, Victor si chinò ai piedi di Françoise, permettendo alla sue mani di scivolare appena sul raso azzurro e lucente dell’abito fino all’orlo.
Infilò le mani sotto le gonne che lei alzò appena ed arrivò a sfiorarle la caviglia, risalendo lentamente lungo il polpaccio.
- Ahi … - esclamò piano Victor.
- Noto che lo avete trovato, … alfine... – commentò lei, sorridendo ironica per il lento vagare di quelle mani, tra il tulle e sui ricami delle calze.
Era davvero buio, ma lo sguardo ed i sorrisi che si scambiarono, non potevano essere più chiari.
- E’ un compito delicato, madamigella…
- Sì, noto con quanta delicatezza vi impegnate… - replicò.
Uno strappo secco, un “ahi” simultaneo di entrambi e la faccenda fu risolta.
Victor si rialzò e staccò gli occhi da quelli di lei per osservare l’infame rametto.
- Non sembra un rovo… - mormorò alzandolo per intercettare un raggio di luna - … direi… No, posso affermare che è un ramo di rosa… Già, c’è anche un bocciolo, una rosa bianca! – e lo indicò a lei, tornando a guardarla negli occhi. – Strano…
- Cosa?
- Un ramo di rosa in questo angolo del parco, intendo. Non ci sono rose qui… Mah, sarà caduto da un carretto dei giardinieri… Che increscioso incidente… Increscioso, ma … provvidenziale.
Staccò il bocciolo dal ramo spinoso e glielo porse, gettando il resto sotto una siepe. Ella prese la piccola rosa e, facendosi più vicina, gliela appuntò sul collo della giacca blu.
Vincendo la tentazione di avvicinarsi ancor più a lei, Victor le porse il braccio, galantemente, e fu così che cominciarono a passeggiare per i viali più tranquilli del parco, mentre, in lontananza, la musica si affievoliva.
- Françoise De Jarjayes… - mormorò lui dopo parecchi istanti di silenzio – C’è forse un “Oscar” come primo nome?
- Sì, ma mia madre lo detesta e preferisce chiamarmi Françoise. Così, sapete di me?
- Molti anni fa avrei dovuto battermi con Voi alla presenza del Re per un posto di capitano…
- Oh, eravate voi?
- Già… Quanto è strano il destino, vero?… - si sorrisero - Ma, non vi ho mai vista a Versailles, prima.
- Sono tornata da poco da Arras, dove ho sempre vissuto. Mio padre ha deciso che sia giunto il momento c’io mi rassegni al matrimonio. – spiegò con un sospiro, guardandosi distrattamente intorno.
Victor rise.
- Scusate, madamigella, ma lo avete detto come lo direbbe un uomo…
- Come lo direbbe uno scapolo impenitente come voi, intendete?
Victor chinò il capo, accusando la scoccata.
- Così… anche voi sapete di me?

Erano ormai arrivati alla Orangérie. Lo si capiva solo annusando l’aria, piena di aromi esotici: limoni, arance, datteri, pesche…
Oscar si staccò dal suo braccio e colse una pesca. L’annusò, intensamente, quindi se la portò su una guancia e la strofinò piano.
Victor rimase estasiato a guardarla.
- E’ così … vellutata. – mormorò lei, giustificandosi.
Allungò la pesca sulla guancia dell’uomo e ripeté i movimenti.
- Non è forse vero?
Victor chiuse gli occhi un istante.
Chissà se quella donna si rendeva conto di cosa gli stava facendo? La morbidezza del frutto, il profumo, l’estate… Si sentiva stordito.
Riaprì gli occhi su di lei.
- Sì, velluto…, - mormorò con voce roca – ma mai come la vostra pelle, madame. – aggiunse prendendole il polso e posandovi un bacio.
Oscar sorrise, reggendo lo sguardo; quindi si liberò dalla presa.
- E’ ora di rientrare per me…
Victor si rassegnò a riporre le armi del seduttore e si limitò ad indicare la scalinata che dall’ Orangérie, arrivava alla reggia.
Sembrava intenzionato a far durare quegli scalini un eternità.
Ed in effetti riuscirono a parlare di tantissime cose lungo il tragitto. Dovette ammettere con sé stessa che era piacevole conversare con quell’uomo, che non era certo il tipico aristocratico ignorante ed insensibile di cui la corte pullulava.
A Victor De Girodelle piacevano le cose belle. E da come la guardava, doveva averne trovato una splendida.
I loro passi riecheggiarono sui marmi nel silenzio del palazzo. Ormai la festa era finita e loro erano tra gli ultimi ritardatari.
La guardia nell’androne scattò sull’attenti riconoscendo l’ufficiale.
Oscar posò la mano sul corrimano, piacevolmente fresco, e salì un paio di gradini, quindi si volse.
- Non è opportuno che mi accompagniate fino ai miei appartamenti, conte.
Victor annuì. Non si aspettava certo un invito da lei, non era il tipo. E se anche avesse voluto la sua compagnia, era certo che quella donna non avrebbe tergiversato, ma sarebbe andata dritta al punto.
- Vi vedrò ancora? – chiese solo, emozionato come un ragazzino. Oscar sorrise, ma riprese a salire, voltandogli le spalle.
- La vita è una ruota, colonnello… prima o poi, ripasseremo di qui. - disse.

Nella penombra lanciata dalle candele delle appliques poste alle pareti del corridoio, Oscar arrivò alle sue stanze, con passo stanco, forzandosi ad ignorare il dolore causato dalle scarpette.
Aprì la porta e, senza disturbare la domestica appisolata sul divanetto dell’ingresso, prese il candelabro dai ceri ormai quasi del tutto consumati posato su di un piccolo tavolo ed entrò nel salottino. Riaccostò la porta e si abbandonò contro di essa, posandovi nuca, spalle e le braccia tenute intrecciate dietro a sé.
Sospirò.
"Finalmente sola"
Quella forse era stata la serata più lunga della sua vita. Era la prima volta che si costringeva per così tante ore in abiti femminili.
Per un istante si domandò se poteva farcela, se sarebbe riuscita ad arrivare fino in fondo. Rimandò la risposta all’indomani, quando la luce del giorno e la rassicurante sensazione di abiti maschili sulla pelle, l’avrebbero rinfrancata e mostrato tutta la stupidità di quei dubbi.

Risollevò le palpebre e guardò il mazzo scomposto di rose bianche, cui la domestica non aveva badato. Lo stesso mazzo dal quale lei stessa aveva sottratto un bocciolo. Un bocciolo galeotto e con tante spine.



- continua


1) dritta dritta da “Il padrino”
2) Il 21 giugno 1784 ci fu davvero una grande festa in onore del Re di Svezia, ma al Trianon.
3) La fontana illustra la storia di Latona, amante di Giove, il quale trasformò in rane i contadini che avevano negato aiuto a lei ed ai suoi figli.

Il disegno non si riferisce a questo capitolo, ma comincio col presentare Camelia:




http://www.youtube.com/watch?v=b-TzguHJKxY video della canzone “Les rois du monde“
http://www.youtube.com/watch?v=4qcoF27iOr4 testo della canzone « Les rois du monde »

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Capitolo 4
*** Ufficiali e no ... ***


I re del mondo cap. 4

cap. 4 “Ufficiali e no ...”

 

Parigi, autunno di 9 anni prima, 1775

 

 

Il freddo penetrante sembrava voler anticipare l’inverno, un assaggio per i mesi a venire. Un vento gelido soffiava da giorni, proveniente da nord,  ed il sole pareva essersene andato per sempre.

André camminava per la strada, ignorando i passanti infagottati, comunque infreddoliti, ignorato a sua volta, infagottato a sua volta. Aveva fatto visita al suo conto in banca e gli era toccato constatare quanto  il barone avesse ragione anche ora, da morto: i soldi non sono mai abbastanza.

I conti in sospeso erano stati saldati, i passaggi per le proprietà registrati. Non era certo povero, ma aveva avuto una dimostrazione pratica di quanto fosse volatile il denaro, ovvero un momento c’è, il momento dopo è già svanito.

E poteva dirsi fortunato perché, grazie al suo novello stato nobiliare,  non doveva versare tasse!

Dopo l’affanno delle prime settimane successive alla morte del barone, giornate trascorse a verificare lo stato delle proprietà, conoscere i mezzadri, i curatori, il personale; dopo ore perse a tirar somme e metter ordine tra carte polverose, ora si trovava con pressoché nulla da fare.

Ora che aveva sbrigato ogni pratica possibile, inimmaginabile e assurda presentatagli dalla burocrazia per quella successione,  André non aveva più scuse per riempire le giornate. Era senza impegni da manco mezzora e già si annoiava.

Un impiego non gli avrebbe fatto male, né a lui, per tenerlo impegnato, né alle sue finanze, per mantenerle stabili.

 

Aveva visto il cartello, ma di sfuggita e tornò indietro per leggere meglio quel che gli era parso uno scherzo.

Solo un pezzo di carta affisso alla porta,  con sopra scritto “ufficio reclutamento”.

Incuriosito, aprì l’ingresso della locanda che lo accolse con uno scampanellio, mentre un avventore usciva stringendosi nel cappotto. Dentro, una mattina come tante. Pochi clienti intenti a scaldarsi le ossa con bevande calde, leggere un giornale, trattare qualche affare. Signorine di mestiere chiacchieravano tranquille, riposandosi in attesa del lavoro serale, aiutando a servire ai tavoli o dedicandosi al rammendo dei loro stracci.

E poi, ad un tavolo vicino al bancone, stava un soldataccio, uno come tanti.

No, a dire il vero questo era sopra la media, in tutti i sensi. Come altezza e come sfacciataggine. 

Avere l’ardire di piazzare la postazione di reclutamento nel mezzo di una taverna, con delinquenti e donnine di malaffare era qualcosa di più che originale.

Se ne stava là, con la sua uniforme blu, pulita ma con un non so che di disordinato. Forse per via di quel fazzoletto rosso legato al collo, che spiccava sulla pelle nuda, fra i lembi della camicia malamente accostata. Dava la sensazione di una persona di poca pazienza, più abile a ragionar con le mani che con le parole.

-      Come avete detto di chiamarvi?

-      Grandier, André Grandier, Barone di Plessis Bellière

-      E cercate un lavoro? – chiese quello senza nascondere incredulità, alzando lo sguardo dai registri che stava compilando.

-      Sissignore. Penso che potrei riuscire bene nel compito, soldato al servizio dei cittadini di Parigi.

Il reclutatore  inarcò un sopracciglio, perplesso, ma non espresse a parole il suo pensiero.

-      Sono 50 dindini, monsieur… - disse però con un accenno di sorriso canzonatorio.

-      50!?!

-      Sì, per un grado di capitano. Non vorrete arruolarvi per fare il soldato semplice, no? Le camerate sono orride, orride davvero!  - sottolineò con una smorfia di disgusto volutamente esagerata.

Chinò lo sguardo, riprendendo a scrivere sul mastro, certo che il giovanotto dalla faccia pulita se ne sarebbe tornato sui suoi passi.

-      Facciamo 30… - buttò lì André, appena appena seccato, col sospetto che il tipo stesse facendo il furbo.

-    Facciamo 40! – rilanciò l’altro, sfrontatamente, sempre continuando la sua contabilità - Siamo la Guardia Francese: siamo economici, ma un po’ puttane. La diamo via, ma non per niente. L’uniforme, intendo. – Spiegò, poco diplomaticamente, ma chiaramente.

Il gigante alzò lo sguardo dal tavolo e gli sorrise beffardo.

-      Da queste parti non siamo pignoli coi damerini in brutte acque economiche… - continuò di fronte al silenzio.

-      Io non sono economicamente in brutte acque – obiettò André, aggrottando la fronte per quella insinuazione.

-     Sì si! Certo, certo! come volete voi! Magari un giorno mi racconterete pure di esser figlio di un falegname e che vi arruolate per non morire di fame… - aggiunse sarcastico.

André, disarmato da quella strafottenza, attese un istante,  quindi distese i lineamenti del volto ed accettò il prezzo che veniva preteso con un lieve sbuffo di rassegnazione, mettendo mano al sacchetto del denaro.

-      Comunque, benvenuto nella Guardia Francese, capitano Grandier De Plessis Bellière! – esclamò quello, voltando il registro verso di lui e porgendogli la piuma per la firma.

Chissà perché, ma André era  convinto che il tizio fosse riuscito comunque a fare la cresta su quella tassa.

 

Era così diventato capitano nella Guardia Francese. Una decisione istintiva.

Dopo i primi tempi, in cui si era ripetutamente pentito della scelta fatta, ci aveva fatto l’abitudine ed era arrivato ad apprezzare davvero quel lavoro che lo teneva a contatto con ogni sfumatura della vita di Parigi.

I suoi commilitoni erano di quanto più variato e pure avariato potesse esserci nel genere umano.

Disgraziati arrivati dalla campagna in cerca di lavoro, piccoli delinquenti scampati alla forca, bari, puttanieri, e come nel caso di Alain, nobile decaduto, con un accenno di tutti i difetti già citati per i colleghi.

Nonostante le premesse, molti di loro dimostrarono di avere un cuore d’oro nascosto sotto la sporcizia delle uniformi e per André divennero quasi una famiglia.

E con Alain divenne vera amicizia. L’omone, davvero un colosso, sfacciato al di là di ogni vergogna, spiccio e maleducato, ma per nulla stupido, non perdeva occasione per canzonare la sua riservatezza al limite della timidezza. Tanto quanto Alain era spudorato ed esuberante, André appariva morigerato e riservato.

Così, Alain si atteggiava a sbruffone con le fanciulle, non perdendo occasione di attaccar bottone con tutte quelle che gli capitavano a tiro. Chiacchierava e corteggiava ad ampio raggio; poi, chissà perché, queste si mettevano in testa che il suo amico silenzioso fosse “quello giusto da sposare” ed André, santo solo fino ad un certo punto, finiva col raccogliere i frutti delle fatiche dell’amico.

Ma Alain non gli portava rancore. Non per molto, almeno, vista la rapidità con la quale passava da un grande amore a quello immediatamente successivo, ovviamente ancor più grande.

André aveva poi compiuto un atto di notevole generosità.

La madre e la sorellina di Alain, Diane, erano costrette a vivere nella miseria dopo la morte del capofamiglia e la rovina economica.

Il giovane barone aveva collocato madame De Soisson e la sua bambina presso una nobile signora sola, che abitava nella sua stessa via e che era stata molto amica dello scomparso barone.

André aveva questa abilità di prendere due piccioni con una fava. 

La famiglia di Alain era al sicuro e la nobildonna, grazie alle cure di madame De Soisson ed alla esuberanza della piccola Diane era tornata a nuova vita.

 

Luglio 1784, tenuta Jarjayes

 

-    Specchio, specchio delle mie brame…, - domandava André al proprio riflesso nell’acqua, lì  seduto, gambe penzoloni, sullo sgangherato pontile  – dove sarà la donna più … arrogante del reame?

Se ne stava pensieroso a lanciar sassi nello stagno, mordendo una mela. Era il terzo giorno che si recava al laghetto del primo incontro e mai l’aveva incrociata. Cominciava a pensare che il loro imbattersi l’un l’altro in quel posto fosse stato solo un caso, uno sbaglio, che non fosse abitudine di lei recarsi in quel luogo.

Pensò che tutte le sensazioni che lo avevano assalito in ogni momento delle giornate e delle notti dopo di allora, fossero solo i suoi ormoni impazziti e non cose come fato, predestinazione e giustificazioni varie che si potevano trovare in qualunque romanzetto per fanciulle.

Non che lui leggesse romanzetti, sia chiaro!

Ad un certo punto sentì un rumore di passi alle sue spalle, sul legno scricchiolante. Sorrise.

“Ecco! … “

L’eco di una delle ciance da romanzetto gli stava dicendo “è lei!”

Ebbe la certezza di quella sensazione quando vide l’immagine di Oscar riflessa nell’acqua, in piedi dietro di lui.

-   Vedo che oltre che maleducato, siete pure ottuso… villano – lo accusò lei, sorridendo serena, usando un tono carezzevole in contrasto con le parole taglienti. – Non vi avevo forse ordinato di non mostrarvi più a me? Cosa non avete compreso della frase “non voglio più vedervi”?

André si alzò con calma e sul volto aveva una espressione gaia che non riusciva a mascherare.

 

-    Dovete perdonarmi, sono più avvezzo ad ordinare che ad obbedire… Capitano André Grandier, Barone De Plessis Bellière – si presentò ufficialmente.

“Ufficiale e gentiluomo …”, pensò lei increspando le labbra in un sorriso compiaciuto e divertito.

-      Ma in realtà, volevo scusarmi con Voi.

Si inchinò umilmente.

Oscar inarcò un sopracciglio, sorpresa.

-    Sono stato alquanto sgarbato col mio gesto … ehm… - tentennò, alzando lo sguardo.

-    Sì, ho capito a quale gesto vi riferite – lo troncò lei, continuando a sorridere mentre visualizzava ancora la conclusione del loro primo incontro,  invitandolo a rilassarsi con un gesto della mano.

-   In fin dei conti ero io in torto, trovandomi nelle vostre proprietà senza permesso, madame. – ammise, riguadagnando la sua statura.

Oscar inarcò ancora una volta un sopracciglio.

-      Madame??

André assunse una sincera espressione interdetta.

Cosa aveva detto di sbagliato?

-      Quindi voi siete venuto a scusarvi solo perché sono una donna?

Non sorrideva più.

André aprì bocca per tentare una difesa, anche se onestamente, non comprendeva ancora perché dovesse difendersi.

Ma lei lo zittì ancor prima che un qualunque suono potesse uscire dalle sue labbra.

Portò una mano tesa davanti a sé.

-    Oh, no! Non provate neppure a discolparvi! Sono ovvi i motivi che vi hanno portato qui e la galanteria è quanto mai fuori posto, signore. Quindi… - si volse e si avvicinò al suo cavallo che brucava tranquillo pochi metri più in là – Poiché vedo che al fianco portate un fioretto, spero sappiate pure farne uso!

Estrasse una lama dalla custodia fissata alla sella e, dopo un paio di fendenti tracciati nell’aria, puntò il fioretto nella sua direzione.

André, ancora sgomento, corse con lo sguardo lungo la lama, fino ai due occhi  irridenti che si trovavano ai lati dell’elsa.

-      Credo di non aver capito … Mi state forse sfidando a duello?

Oscar abbassò l’arma e gli si avvicinò.

-      Ma allora siete davvero tardo… - mormorò – Certo che vi sto sfidando! Vi siete presentato come farebbe un signore, quindi… Vediamo di risolvere la faccenda come sarebbe d’obbligo fra due gentiluomini!

André ancora non riusciva a crederci, ma la cosa lo stava davvero intrigando. E pose mano all’impugnatura.

 

La donna si mise in guardia e, dopo il formale gesto di saluto, lui attaccò.

Si trovò subito in difficoltà. Non solo lei non era debole in difesa, non solo attaccava con energia, era anche molto agile e veloce. 

Era brava, davvero brava. Doveva aver passato giorni e giorni, per chissà quanti anni, a sudare su lezioni di scherma, sotto la guida severa di rigidi insegnanti, sotto l’occhio severo dello stesso generale.

-      Siete rigido come un pezzo di legno! Più sciolto nei movimenti! – lo rimproverò. – Tenete alta la guardia!  Vi battete come un marinaio ubriaco … Ma dove avete imparato a tirar di scherma! – esclamò provocandolo.

André pensò a tutte le volte in cui il suo amico Victor lo aveva ripreso, inutilmente, allo stesso modo. 

Ma con maggior finezza.

Davvero, il suo stile lasciava alquanto a desiderare … Semplicemente l’eleganza del fioretto non faceva per lui.

Un attimo di distrazione e la spada di lei gli portò via la lama dalle mani che, con un tonfo finì nell’acqua del lago.

Ed Andrè si ritrovò il ferro della bionda puntato alla gola.

-      Non siete un grande spadaccino, signore.- rimarcò aggrottando le sopracciglia.

-      Sono un autodidatta. – Si giustificò sollevando le spalle.

Oscar abbassò l’arma.

-      Non  mi ritengo soddisfatta,… signore. – precisò dando una impostazione leggermente canzonatoria  all’appellativo.

-      Quindi?

-      Quindi…

 

André non riusciva a crederci. Lo aveva sfidato ancora, una corsa a cavallo stavolta.

E lui, da imbecille, aveva accettato.

Era una furia, lei. Non aveva mai conosciuto una donna tanto… pazza.

Non poteva essere definita diversamente dopo averla vista cavalcare.

Non gli aveva quasi dato il tempo di accettare. Era balzata sul suo purosangue candido, lo aveva sfidato, girandogli attorno un paio di volte, urtandolo appena con le spalle dell’animale, scalpitante quasi quanto lei.

Lo aveva offeso. Lo aveva definito “mollaccione”.

Nessun uomo che avesse rispetto di sé poteva accettare una simile definizione che, sotto sotto, insinuava qualcosa di perfino peggio di una debolezza di carattere.

Sia mai che si offenda la virilità!

Non contenta aveva aggravato l’insulto domandandogli se aveva forse paura di perdere con una donna.

E tutto ciò era accaduto in pochi secondi.

Si interrogò su quanto sarebbe stata capace di offenderlo in una vita intera.

André si issò a cavallo ostentando calma ed autocontrollo; ma il sangue pulsava nelle vene, il cuore batteva impazzito e qualcosa gli sfarfallava nello stomaco.

Non si era mai sentito così eccitato ed esaltato in vita sua.

Lanciò il cavallo sulla scia di quello della donna, la quale non gli aveva certo permesso alcun tipo di vantaggio.

Sua nonna amava ripetergli “chi dorme non piglia pesci!”, ogni mattina quando lo buttava giù dal letto da ragazzino.

Evidentemente, Oscar Françoise De Jarjayes non aveva mai avuto problemi di sonnolenza mattutina.

Era certamente la persona più sveglia, esuberante, iperattiva, scatenata che avesse mai conosciuto.

E non era un uomo.

Sorrise fra sé.

“Certo che no. “

Nonostante l’abbigliamento, i modi, il linguaggio tutt’altro che adatto ad una dama, era quanto di più femminile avesse mai sognato. 

E desiderato.

“Pazzo! Non la conosci nemmeno!”, si disse mentre l’adrenalina saliva a livelli insopportabili nel suo corpo, facendogli dolere i muscoli per lo sforzo.

I cavalli correvano per la campagna arroventata, sollevando polvere, grondando sudore, intrecciando percorsi attorno ai covoni di fieno ammonticchiati, disturbando una giovane coppia nascosta tra la paglia.

    -    Chi arriva primo al ciliegio laggiù! -  gli aveva gridato prima ancora che lui potesse accettare o rifiutare la sfida.

Non voleva che lo stracciasse anche stavolta. Ce la mise tutta, spronando il povero animale più di quanto immaginava fosse capace di sopportare. Eppure lei era lì, avanti a lui.

La vide voltarsi e sorridere sfrontata. Riuscì a guizzare in avanti e si illuse, per qualche istante che, magari, avrebbero potuto tagliare insieme il traguardo, quando si accorse di un ostacolo davanti a loro: un torrente. 

Spinto dall’istinto, tirò le redini. Cosa che lei non fece.

-      No! – gridò, immaginando le intenzioni della sua avversaria.

E lei, saltò.

Il cuore gli mancò un battito.

Saltare, lanciati a quella velocità, coi cavalli esausti?

"Pazzia!"

Cadere a quella velocità?

"Follia!"

Davanti ai suoi occhi sfilarono le immagini peggiori che si potessero immaginare per la conclusione di quella sfida assurda.

Ma il purosangue non rovinò al suolo col suo cavaliere.

Niente zampe fratturate. Niente capitombolo, niente ossa rotte o collo spezzato.

Lo stallone bianco atterrò sulla riva opposta del ruscello, nitrendo spaventato, ma  riuscendo a mantenere l’equilibrio.

La donna, salda in sella, frenò l’animale, permettendogli di compiere un largo giro attorno all’enorme ciliegio, consentendogli di rallentare senza impiantarsi.

La sentì scoppiare  a ridere.

-      A quanto pare vi ho stracciato di nuovo, signore!

Ancora quel tono derisorio nel “signore”.

Lo guardò ghignando. Ma lui non si sentì offeso.

-      Il vostro cavallo è decisamente più veloce del mia povera bestia, niente altro che un ronzino dell’esercito. E voi siete anche più leggera di me. – si difese, cercando di non mostrare l’eccitazione della sua voce.

La bionda sgranò gli occhi, incredula.

-      Vedo che il vostro onore ne ha risentito, capitano. Vi irrita così tanto esser stato battuto da una donna?

-      Sto solo osservando i punti a vostro favore …

-      Volete una rivincita?

La domanda non lo sorprese, visto il desiderio di primeggiare di lei, ma si sorprese per l’ audacia della risposta che diede.

-      Voglio rivedervi… - esclamò. E non per una rivincita dicevano i suoi occhi.

Il vento gli scompose i capelli, liberamente sciolti, visto che durante la corsa il fiocco blu era scivolato via.

 

Il cavallo di lei picchiò uno zoccolo in terra, ancora nervoso. 

Per un istante la donna non rispose e André avrebbe giurato che le fosse mancato il respiro, non per la corsa, ma per la sfrontatezza di qualche pensiero che le era passato per la mente.

Ma fu solo un attimo ed il sorriso beffardo ricomparve sul viso di Oscar.

-   Non siete nella condizione di fare richieste al vincitore. Ma… - si interruppe sorridendo, abbassando lo sguardo, persa in un pensiero; e si voltò per andarsene.

-    Ma? – la incalzò lui.

Gli rispose con un cenno di saluto della mano, senza voltarsi.

Anche lei voleva rivederlo.

 

- continua

 

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Capitolo 5
*** ... qui noi siamo i re - parte 1 ***


I re del mondo cap. 5 parte 1

cap. 5  “… qui Noi siamo i re” parte 1

Parigi, agosto 1760

Con le tempie poggiate alle colonnine della balaustra, quasi incastrato fra i due pezzi di pietra con la testa mora e delicatamente riccioluta,  il bambino guardava la Senna scorrere veloce, tumultuosa dopo una settimana di pioggia incessante.
Osservava le acque di un verde scuro, torbido, spaventoso; poi alzava gli occhi ammirati a tutti i bei palazzi che si affacciavano lungo le sponde e si rispecchiavano, candidi, chiari grazie al sole vivace che filtrava tra le nubi ancora minacciose.
La quiete dopo la tempesta. Cos’altro poteva augurarsi un bimbo di sei anni appena compiuti, orfano e senza averi?
Quella era Parigi. Quella era Parigi!, ripeteva, eccitato, nella sua testina.
Non era mai stato in una città così grande. A dire il vero, neppure in una più piccola.
Quanto chiasso!
Quanta puzza!
Quanta gente!
Nuvolette di vapore si alzavano dalla pavimentazione delle strade, risultato del sole ancora caldo di quel fine agosto sulle pozze formatesi per gli acquazzoni.
Pochi istanti prima, pareva l’inferno visto da Noè; ora tutto si risvegliava alla vita.
Un po’ come quel germoglio di speranza che egli sentiva nel suo cuoricino già troppo provato.
La voce della cugina Claire lo riportò al presente, alla inevitabile realtà.
-    Vieni, André, siamo quasi arrivati alla casa dove presta servizio tua nonna. Sarà contenta di vederti!
Gli tese la mano ed il piccolo gliela prese fiducioso, ma non abbastanza sicuro di ciò che l’aspettava da potersi permettere un sorriso.
“Già. I miei sono morti, per questo sono qui. Sarà contentissima di avermi tra i piedi! Nemmeno la riconoscerei la nonna. Dicono che c’era quando sono nato, ma io mica me la ricordo.”, rifletté .
Arrivarono ad una grande casa con giardino. Curato, fiorito. Il cancelletto in ferro battuto non era chiuso a chiave e loro entrarono. Un giardiniere, abbronzato ed accaldato, si inchinò al loro passaggio e sorrise a Claire, ma non disse loro nulla. André non si meravigliò: tutti gli uomini sorridevano a sua cugina Claire e restavano senza parole.
Arrivati al portoncino d’ingresso,  la ragazza picchiò il battente d’ottone di quella casa immensa mentre André allungava la testa all’indietro per osservare meglio le facce strane incise nella pietra della facciata; dopo pochi istanti, una vecchina dai capelli grigi in abito blu e cuffietta aprì l’uscio.
Sua nonna.
“E così questa è nonna Marron Glacé… Che nome strano. “, pensò il bimbo, soffocato dalle gonne delle due donne che si abbracciavano.
Dopo esclamazioni di benvenuto e frasi di rito con Claire, la piccola donna calò lo sguardo su di lui, uno sguardo severo ma luminoso dietro gli occhialini tondi.
-    E così tu sei il mio André, eh? … Non distrarti mentre ti parlo, giovanotto! – lo riprese per lo sguardo preoccupato lanciato a Claire, la sempre sorridente Claire.
“Sì, è anche una donna strana, forse perfino più del suo nome. Fa anche abbastanza paura. E da adesso abiteremo insieme.”

Marron Glacé, che tutti chiamavano Nanny identificandola con il suo lavoro di governante, li invitò ad accomodarsi nell’anticamera del palazzo e da lì, nelle cucine.
Numerose pentole sbuffavano sulle stufe, con le diverse pietanze che sarebbero state servite a cena da lì ad un paio d’ore.
La nonna corse a verificare lo stato di cottura, velocemente, rimestando il contenuto di una, aggiungendo ingredienti ad un’altra.
-    Sedete, sedete! – esclamò loro – Ho preparato dei biscotti all’uva passa e dovrebbero esser pronti. Giusto in tempo!
Prese una teglia dal forno e riversò il contenuto su di un piatto da portata, per poi metterlo fumante e profumato proprio sotto il naso di André.
-    Una bel semifreddo al cioccolato ci starebbe proprio bene insieme, vero André? – disse piano.
André sorrise. Il primo vero sorriso da mesi. Non aveva idea di cosa fosse un “semifreddo”, ma la parola “cioccolata” lo allettava parecchio. L’aveva assaggiata una sola volta e non ne aveva mai scordato il sapore.
Cominciò a convincersi che la nonna non dovesse poi esser malaccio … Anche se tutti quei mestoli appesi, lo inquietavano un poco.

Terminò il semifreddo: troppo buono! E anche i biscotti: troppo buoni!
Si pulì le mani e la bocca nel tovagliolo di cotone, così come gli aveva insegnato mamma e si accorse che le due donne non facevano molto caso a lui.
La nonna teneva lo sguardo basso, fisso sul grembiule e Claire parlava piano, triste.
Non capiva bene cosa dicessero, ma era certo stessero discorrendo di sua madre.
Quando vide la nonna levarsi gli occhialini e metter mano ad un fazzoletto, pensò di allontanarsi. Era stanco di veder la gente attorno a lui disperarsi.

Scivolò piano dalla sedia e uscì dalla cucina senza che le due se ne accorgessero. Aprì la porta che stava in fondo all’ingresso e sbirciò dentro.
Il mondo che si apriva oltre quella porta era immenso.
Una grossa scala di legno scuro e lucido troneggiava al centro della stanza, niente altro che un ingresso, ma André, abituato alle misere due stanze in cui era cresciuto con mamma, non poteva saperlo. Alla destra udì le voci di Claire e della nonna provenire da un’altra porta che dava su un corridoio, evidentemente un altro ingresso alle cucine. Guardò ancora la scala che così maestosa gli incuteva un poco di paura. Si avvicinò al primo gradino e guardò su, in alto, al soffitto affrescato. Non aveva mai visto nulla di così alto, forse nemmeno la chiesa del suo paese arrivava a quell’altezza. Gli tremarono un poco le ginocchia per le vertigini che immaginò di poter provare se fosse riuscito a salir lassopra. A quel punto venne distratto da un tonfo, qualcosa che era caduto sul legno del pavimento in un’altra stanza. Andò ad affacciarsi ad una porta grandissima, coi vetri come finestre.
Un signore ben vestito, si teneva con la mano sinistra ad un mobile e con il bastone che teneva nella destra, brancolava sotto di questo, borbottando piano. Evidentemente cercava di cavare qualcosa che stava là sotto per mezzo del bastone. Ogni tanto accennava a piegar le ginocchia e subito seguivano dei lamenti conditi con altri borbottii e termini che una volta André aveva sentito provenire dall’interno di una locanda.
Mosse qualche passo e si fermò accanto all’uomo anziano.
-    Avete forse bisogno d’aiuto, signore?
L’uomo lo guardò sorpreso, non avendolo udito arrivare.
-    A dir la verità sì, giovanotto … mi è caduto un oggetto là sotto e non riesco a chinarmi per prenderlo.
Senza che dovesse chiedere, André si inginocchiò sul parquet lucido e allungò una mano sotto il grande cassettone. Brancolò un poco inutilmente, quindi decise di sdraiarsi completamente e di infilare anche la testa oltre alle braccia per raggiungere l’oggetto.
-    Ecco a voi, signore. – disse un istante dopo consegnando la fiaschetta d’argento all’uomo.
-    Grazie, giovanotto. Sei stato molto utile. – lo squadrò un istante, sorpreso da quei grandi occhioni innocenti fissi senza timore su di lui - Posso sapere il tuo nome?
-    Mi chiamo André Grandier, signore. – rispose il bimbo, educatamente e senza esitazioni.
-    Ah, André! Sei forse il nipote di Nanny?
André capì che si riferiva alla nonna. Annuì.
-    Piacere di conoscerti, giovanotto. Sono il Barone di Plessis Bellière e questa è la mia casa.
André fece un inchino, così come gli era stato spiegato da Claire.
-    La sua casa è davvero molto grande, signore.
-    Suppongo lo sia abbastanza, André. – ruotò lo sguardo intorno, provando ad immaginarsi bambino – Sì, credo che dal tuo punto di vista si possa effettivamente definirla così … - mormorò. – Tua nonna?
-    Sta conversando con la cugina Claire.
-    Oh, allora suppongo ne avranno per un bel po’. Tua nonna è una conversatrice … insistente. Se ti va, potrei farti fare un  giro per la casa?
-    Volentieri, signore.
-    Ah, André, la fiaschetta … Ecco, se tua nonna dovesse … Possiamo farne il nostro segreto?
André sorrise: a quanto pareva, nonna incuteva timore anche al barone. Annuì.
-    Bene! Le cucine le hai già viste, questo è lo studio e ora andiamo nel salone da pranzo, quindi nel salone delle feste, quindi nel salottino delle signore …
Di salotto in salotto, André si domandò se ce l’avrebbero fatta in tempo per cena, ma non disse nulla e si limitò a seguire il barone che aveva cominciato a raccontargli la storia della casa e di ogni persona raffigurata nei dipinti alle pareti.
Parlava e gesticolava, camminando piano aiutato dal quel bastone con una testa di leone in argento appena sotto l’impugnatura. Cominciò a raccontargli storie di dame e di avventurieri dei quali, a quanto pareva, il suo albero genealogico era fornitissimo.
Era davvero bravo a raccontare quelle storie. André decise, in quell’istante, che il barone gli piaceva. La sua mamma era brava a raccontare storie e mamma gli era piaciuta tanto.
-    … e qui terminiamo con me, l’ultimo Barone di Plessis Bellière! – esclamò l’uomo, indicando un dipinto  che lo ritraeva con parecchi anni di meno.
Restarono entrambi in silenzio ad osservare il quadro.
-    Già … - mormorò il Barone – I Plessis Bellière finiranno con me, giovanotto. Secoli di storia, avventure, amori …
André sentiva le domande scivolare sulla punta della lingua, ma non poté osare perché, dal piano di sotto udirono la voce squillante di Nanny che chiamava il nipotino.
Il barone sussultò.
-    Svelto, svelto, giovanotto! Prima che tua nonna si alteri ulteriormente!
Lo spinse verso le scale e lo invitò con uno sguardo a non aspettarlo, mentre con cautela e qualche smorfia di dolore, scendeva i gradini.
-    André! dov’eri finito!? – esclamò Nanny con uno sguardo truce. Claire alle sue spalle sorrideva, ma André non ricambiò il sorriso perché constatò che la bella cugina era già in partenza. – Saluta Claire che riparte per tornare a casa sua.
La ragazzina dai bei capelli castani e dagli occhi smeraldini, si chinò, spalancando le braccia. André corse da lei, abbracciandola stretta ai fianchi. Sapeva che forse non l’avrebbe più vista. Non come era stato per sua madre e suo padre, ma era consapevole che ora la sua vita sarebbe stata accanto a sua nonna. Solo, in quella casa enorme … Con due estranei.


Restò sul cancelletto a guardare finché Claire non scomparve alla sua vista. Quindi richiuse e rientrò in cucina, dove la nonna stava collocando le pietanze cucinate nei piatti di portata.
-    Lavati le mani, piccolo, laggiù in quel bacile. E poi siedi e mangia, o si raffredda tutto. Intanto io servo la cena al signor barone.
André obbedì, in silenzio.
La minestra era davvero buona e c’era anche una fetta di arrosto con patate. Carne… Poteva contare sulle sue ditine le volte che ne aveva mangiata. Ma non riusciva a gustare comunque la cena.
C’era troppo silenzio in quella casa e questo permetteva ai tristi pensieri di riaffiorare.
Vide la nonna rientrare e borbottare qualcosa riguardo la sua camera che non aveva ancora preparato. Lo lasciò di nuovo solo. André spazzò il piatto, andò a posarlo nel catino delle stoviglie, vicino alle pentole da lavare.
Uscì nel corridoio che dava sullo scalone e piano piano, andò verso quella che il barone gli aveva indicato come sala da pranzo.
L’uomo era là.  Tutto solo, a capotavola di un enorme tavolo. La tovaglia bianca era ricoperta di argenteria fumante per le pietanze contenute. Il barone aveva un’aria davvero triste e faceva ciò per cui, di tanto in tanto, mamma aveva rimproverato André quando gli riempiva il piatto di cipolle.
“Non si gioca col cibo, André!”, gli diceva.
-    Non è buono?
L’uomo alzò lo sguardo sorpreso. Sorrise. Quel bambino si vedeva quanto non fosse abituato a regole d’etichetta e differenze sociali. Ma non gli dispiaceva questa sua genuinità.
-    No, André, è tutto delizioso. Ma non ho fame.
Il bimbo sgranò gli occhi.
-    Vi fa male la pancia forse?
L’uomo sorrise di nuovo.
-    Vieni qui, André. Aiutami a finire la cena.
Il bimbo avrebbe potuto dire che aveva già cenato, ma, vedendo quanto ben di dio stava su quella tavola, pensò di omettere il particolare.
-    Ti piacciono le fragole?
-    Preferisco le ciliegie, signore, ma per aiutarvi posso mangiare anche fragole.
“Furbo il piccolo …”
-    Ah, André ….
-    A nonna diremo che avete finito tutto voi, signore!
Esclamò prontamente, stringendo le labbra sul frutto più grande che era riuscito ad acciuffare.
Il barone sorrise ancora.
-    Tua nonna è una brava donna, André. Dobbiamo solo stare attenti quando ha un mestolo in mano… - e sorrise strizzandogli l’occhio .

Andrè iniziò a lavorare per il Barone di Plessis Bellière, seguendo le direttive di sua nonna.
Aveva cominciato nelle cucine, aiutando a lavare i piatti, pelare patate, tagliuzzare cipolle e ramazzando il pavimento con uno scopettone più grande di lui.
Sovente il barone lo sottraeva ai suoi doveri di piccolo ometto, per avere la sua assistenza nei suoi giri in carrozza, in città, per affari o dagli amici; a Nanny diceva di aver bisogno del suo aiuto, ma in realtà voleva lui, la compagnia di quel bimbo educato e sveglio.
Ogni giorno la nonna era la prima ad alzarsi, prima ancora che la cameriera e lo stalliere, gli unici due domestici fissi del barone, aprissero gli occhi. D’inverno aspettava che il fuoco nei camini fosse ben vivo, prima di andare a svegliare il suo piccolo. D’estate le cose andavano diversamente: André era molto più entusiasta di fiondarsi fuori dal lettuccio all’alba.
Il sabato mattina, si vestiva velocemente e correva dal lattaio all’angolo a prender la panna e le uova fresche perché una volta a settimana,  nonna gli preparava il semifreddo e lui si divertiva a mangiarlo sulla terrazza, in compagnia del barone, giocando a chi faceva la faccia più buffa succhiando e leccando il cucchiaio.
Alla domenica, accompagnava il barone alla prima messa, perché c’era meno gente, meno dame imbellettate e, una volta terminata la funzione, potevano svicolare scambiando pochi saluti con gli ancora assonnati fedeli. Il resto della mattinata era dedicato alla città, mentre al pomeriggio, quando il signore si ritirava per una pennichella, André si sdraiava nell’erba, fra i fiori del giardino a godersi il sole. La sua era proprio una bella vita, anche se qualche volta si sentiva solo, qualche volta avrebbe desiderato un fratellino o almeno un amico.

La vita in quella casa di persone già più che adulte, poteva risultare piuttosto noiosa per un ragazzino.
Il padrone aveva ritmi precisi e Nanny li rispettava in maniera ferrea.

Solitamente, la nonna serviva in tavola al barone, in silenzio, quindi si ritirava alle sue faccende.
André era molto incuriosito da quegli strani comportamenti che nonna chiamava “etichetta”. Nel villaggio dove aveva sempre vissuto, non aveva visto molti nobili. A Parigi invece erano davvero tanti e anche fra coloro non aristocratici, erano molti quelli che si atteggiavano come tali.
“Gente con soldi.”, li aveva definiti un giorno con acidità il giardiniere, mentre spuntava il glicine arrampicato sul cancelletto e André lo aiutava a raccoglier le ramaglie. Mettendo i fasci potati nella carriola, cominciò a tentare delle proporzioni su chi potesse essere definito “coi soldi”. Il barone gli insegnava a leggere, scrivere e far di conto, ed era il caso di concretizzare quelle nozioni.
-    Monsieur Florent? – esordì rivolto al giardiniere – Se possiedo due vestiti per la festa, sono ricco?
-    No.
-    Vestiti e un cavallo?
-    No.
André si guardò intorno.
-    Vestiti, cavallo e una casa come la vostra?
L’uomo scoppiò in una sincera risata, pensando alla misera stanza in cui viveva giù a Saint Antoine.
-    No, piccolo, temo dovrai ampliare parecchio la tua visione sul mondo per definire il significato di “ricco”!
In quel mentre, una carrozza, molto bella, grande e vistosa, si fermò a pochi passi da loro, proprio davanti la cancellata.
Un valletto in livrea scese dal sellino posteriore e si affrettò ad aprire lo sportello, collocare lo gabellino per agevolare la discesa dalla vettura e porgere aiuto ai passeggeri. 
Ne scesero una dama e alcune ragazzine, cinque. 
Un frusciare caotico di seta, un arcobaleno di piume, fiori e cappellini; dopo un veloce riordinarsi dietro quella che una bimba chiamò “mére”, in silenzio seguirono tutte la bella donna bionda. Il giardiniere si chinò profondamente al loro passaggio e André lo imitò, alzando però lo sguardo sulla bimba in rosa, bionda come tutte, poco più grande di lui, che chiudeva la fila e che lo guardò a sua volta, alzando subito il mento con fare stizzito.

“Gente coi soldi!”, vide che gli sillabava Monsieur Florent, sorridendo e strizzandogli l’occhio.
Fu da allora che André collegò l’aria impettita con il potere economico.
Il valletto picchiò all’uscio e lo sentì dire alla cameriera che la Contessa Jarjayes e le sue figlie erano lì per incontrarsi con Marron Glacé.
“Veramente strano”, pensò il bimbo. Quindi mollò i rametti di glicine e si avviò verso casa, la curiosità a muovere i suoi passi verso il finestrone del salotto principale, col terrazzo rialzato di poco da terra.
Puntò i piedi alla soletta del balcone, si aggrappò alla balaustra di marmo e si mise a sbirciare.
Vide Marron accorrere nella stanza con le mani giunte ed il viso felice, salutare “madame” con una riverenza ed abbracciare una per una le contessine. Subito dopo sua nonna cominciò a piangere e dovette tuffare il nasino a patata in un grande fazzoletto, levandosi gli occhialini.



André aggrappato alla balaustra, mani incrociate sotto il mento, osservava la scena perplesso.
Non aveva mai visto tante donne così benvestite tutte insieme. Nanny le aveva fatte accomodare nel salone grande, col permesso del barone, aveva servito loro del tè coi biscotti ed ora, con la più piccola sulle ginocchia, si stava facendo raccontare di tutto.

La più grande aveva parlato del suo ingresso in società, la più piccola del gattino che le era stato permesso tenere. Il gattino che Oscar aveva portato sul ramo alto di un albero e aveva lasciato là a piangere finché un loro domestico non era andato a recuperarlo.
Aveva detto che Oscar le aveva prese dal generale per quel dispetto, tante e “di santa ragione”. La piccola rimarcò che Oscar faceva sempre dispetti. Le schizzava quando correva a cavallo, aveva rotto la bambola bella che il padre aveva portato da Venezia, ed era impossibile giocarci, perché Oscar voleva sempre fare i suoi giochi “da maschio” , pretendeva ragione anche quando non l’aveva e metteva sempre le mani addosso.

Vide Nanny soffiarsi il naso. Di nuovo.

Chissà chi era questo Oscar così poco simpatico!
-    Che si dice, giovanotto? – la voce del barone lo sorprese. Si mise nella stessa posizione accanto a lui, ma i piedi dell’uomo toccavano terra, mentre quelli di André erano ancora a più di mezzo metro dal suolo. – Stai forse spiando tua nonna, André?
-    Non la capisco. – affermò semplicemente senza tentare di negare - Da quando quella signora con tutte quelle ragazze è arrivata, nonna non fa che piangere. Ride e subito dopo piange.
-    Ah, le donne! André sappi che sono imperscrutabili.
-    Increp…
-    Imperscrutabili. Significa che noi non ci capiremo mai niente.
-    Ah … beh, fa nulla. Tanto non so se ci tengo ad avere a che fare con una femmina
-    Benedetto bimbo… Un giorno ti rammenterò questa sciocchezza che hai detto.
E gli scompigliò i capelli.

- continua con la seconda parte

Ho diviso il capitolo lungo in due parti, perchè così la lettura è più agevole e perchè ... ho tempo di aggiustare la seconda parte! :D
Dovrei riuscire a caricarla entro il fine settimana.
Saluti! : )

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Capitolo 6
*** ... qui noi siamo i re - parte 2 ***


I re del mondo cap. 5 - parte 2
cap. 5  “… qui Noi siamo i re” parte 2


Parigi, caserma della Guardia Francese, sempre quel caldo luglio del 1784


Un soffio di vento caldo gli scompigliò i capelli, riportandolo al presente, lontano dalla sua infanzia, ma il pensiero di quella donna arrogante ed affascinante non lo abbandonava.
André alzò il capo, perdendo lo sguardo fuori da quella finestra.
“Oscar de Jarjayes … “
Sorrise.
“Il piccolo dispettoso Jarjayes … “
Non era mai venuto a far visita a Nanny con madre e sorelle.
“Meglio così”, pensò, “doveva essere tremenda da piccola”.
Col tempo aveva capito il perché delle lacrime che sua nonna versava sentendone parlare. Per Marron Glacé era stato un dolore immenso sapere che quella bimba cresceva convinta di essere un maschio, che il generale aveva persistito nella sua pazzia.
La contessa Jarjayes aveva raccontato che per i primi anni la bimba era stata davvero convinta di esser l’erede del Generale. Si era applicata negli studi riservati ad un giovane rampollo, adorava il padre e lo seguiva ciecamente.
Di tanto in tanto, specie se il generale era lontano, qualcuno aveva osato tentare di dirle la verità. Ma lei si era sempre rifiutata di creder loro ed aveva reagito aumentando i dispetti, scomparendo anche per giorni.
Questo finché la natura non aveva fatto il suo corso e la verità non era più stata occultabile con marachelle e mattane.
Da allora era stato anche peggio. L’amore, il rispetto, l’adorazione che aveva provato per il padre da piccina, si trasformarono in odio e aperta ribellione per le menzogne subite, per sentirsi “lo scherzo” del generale.
Il padre aveva dovuto aprire gli occhi e constatare il proprio fallimento. Ma ormai era tardi per rimediare, tardi per rattoppare.
Oscar non aveva alcuna intenzione di perdere i vantaggi offerti dallo status maschile, ma neppure era più disposta ad accontentare il genitore nei suoi progetti.  E durante una visita, poco prima della morte di Nanny, madame aveva confessato tra le lacrime alla rimpianta tata che, alla fine, erano stati costretti ad allontanare Oscar da palazzo perché la convivenza era diventata intollerabile.
“Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo …”
Il generale aveva desiderato un figlio maschio, ed aveva ottenuto una figlia ribelle, ingestibile.


Bussarono.
-    Avanti…
Alain De Soisson entrò ed era stranamente serio.
-    I turni sono stati fissati. Le pattuglie sono già uscite. Il colonnello D’Agout ha preso le consegne e … ci augura una buona serata. Capitano? – lo sollecitò.
André pareva perduto, come il suo sguardo, fisso sul centro della sottostante piazza d’armi, intento ad osservare piccioni.
-    Capitano …? André?
L’amico si scosse e si voltò.
-    Bionda o bruna? – ridacchiò Alain.
-    Fosse così semplice … - mormorò l’ufficiale pensando alla strana donna del laghetto.
-    Devo preoccuparmi?
André si scosse e ridendo portò una mano a grattarsi la nuca.
-    No, tranquillo, non ho intenzione di lasciarti da solo al Palais, stasera!
-    Bene. Per te bene, che ne hai bisogno. Per quanto mi riguarda, potrei benissimo assolvere ai miei ed anche ai tuoi di “doveri di maschio”! – si vantò – Però, passo da casa a salutare mia madre e a gustarmi una cena come si deve, prima.
-    Sì, pure io passo da casa. Ci vediamo al mio portone quando hai finito.
Alain lo salutò con uno sgangherato cenno militare, strizzandogli l’occhio e si defilò.

***

Il vociare per le strade era ancora notevole, ma si sentiva già nell’aria il sollievo che si prova alla fine di una lunga giornata di lavoro.
Il caldo cominciava a scemare un poco, mentre il sole si faceva basso dietro le case.
Lungo il cammino, entrando nel quartiere dove abitava, André incrociò dei vicini, che lo salutarono cordialmente.
-    Ehy, André, che si dice a Versailles? Sua Maestà l’austriaca si diletta ancora con suo cognato? – esclamò il ciabattino all’inizio della strada spalmando di colla puzzolente il cuoio per le suole.
-    Suvvia, Antoine, se anche fosse vero, non lo verrei certo a raccontare ad un pettegolo come te! E poi son certo che i tuoi pettegolezzi di quartiere son migliori di quelli che potrei rivelarti io!
Il calzolaio rise sonoramente, perché effettivamente la vita in quelle strade era assai più movimentata e piccante se raffrontata a quel mortorio abitato da manichini imparruccati.
-    Antoine, non importunare il barone! – esclamò una donna rubiconda da dietro il suo carretto di frutta – Tenete, signore! – disse sorridente allungandogli una mela rossa tra le tante che stava lucidando.
-    Ma è splendida! Sembra levata da un dipinto, Lorette! – l’addentò – Cielo! Ed è anche buonissima! Davvero, Lolò, le tue mele son sempre le migliori! – esclamò allungandole un soldo.
-    Già, è quello che dicono tanti giovanotti! – ridacchiò il calzolaio.
La donna sbottò con un commento sulla quantità di sterco che riusciva ad uscire da quella maledetta boccaccia e l’uomo replicò con un secco “Ma quanto fai pena! Ci provi di continuo con lui!”
André si allontanò sorridendo, poiché sapeva che la loro discussione sarebbe andata avanti per un pezzo, tra accuse e ripicche, ma senza spargimento di sangue e che alla fine, da bravi marito e moglie, avrebbero fatto pace.
Il suo quartiere era così, non ci si annoiava mai.



Il suono di una spinetta si spandeva per la via e si faceva più pulito man mano che si avvicinava a casa.
Arrivò al palazzo dei Plessis Bellière, quell’edificio che da piccolo gli era sembrato la cosa più immensa del mondo e che ora cominciava  a ridimensionare. Aprì il cancelletto che era solo accostato, che non era mai riuscito a riparare a dovere. Le finestre erano aperte, tutte tranne quelle di due stanze al primo piano, le camere di Nanny e del barone. Non aveva bisogno di guardare in su per saperlo.
Lei veniva in quella casa per cambiar aria ai locali, portargli biancheria pulita e suonare quello strumento che lui non toccava mai; ma non aveva le chiavi per aprire quelle due stanze.
La voce delicata, cristallina, si esibiva su note tentennanti, interrompendosi per riprendere su quelle stonate, per ripetere una strofa insoddisfacente, sospirando e prendendo fiato quando questa non riusciva come evidentemente si era prefissata.
André entrò nell’ingresso. Tolse la sciabola dal fianco e la depose sul mobile, insieme al tricorno. Passò la mano tra i capelli sudati, iniziando a slacciare la giubba mentre si avviava verso la stanza da musica.
Il vento caldo gonfiava le tende delle finestre tutte aperte, spazzando via l’odor di chiuso e l’umidità. L’aria che proveniva dalla spinetta era indecisa, ma la musicista ce la stava mettendo tutta.
Gli dava le spalle, seduta sulla panca di velluto verde, circondata dalla nube rosa del vestitino di cotone da ragazzina, coi capelli castani fermati da un nastro. Tutta intenta a seguire uno spartito, mentre le dita ora incerte, ora nervose  tormentavano i tasti bianchi e neri, riprendendo le note sbagliate e la voce canticchiava parole d’amore.
Quella voce, gentile e melodiosa, azzardò una nota troppo alta e stonò miseramente.
-    Devo proprio farla accordare prima che le tue corde vocali si spezzino cantando! – esclamò il giovane.
Diane, la sorellina di Alain, si volse e lo accolse raggiante.
André l’abbracciò, stampandole un bacio sulla fronte, quindi si sedette accanto a lei ed allungò un occhio allo spartito.
-    Ancora una canzone d’amore? – chiese.
-    Sono romantica senza speranza – si giustificò guardandolo intensamente.
-    Senza speranza sono i giovanotti che si consumano per te, bambina. – ridacchiò André strappando un paio di note dai tasti.
Diane  gli si fece più vicina, fissandolo con i grandi occhi nocciola, come un cucciolo smarrito.
-    Non usare il tuo sguardo da cerbiatta con me, ragazzina! – l’avvisò sorridendo.
-    Se ti stanno a cuore i miei spasimanti, perché non fai qualcosa per loro?
La guardò scettico.
-    Sposami, André, così si metteranno il cuore in pace! – disse lei ridendo, ma rivolgendogli un’occhiata seria e speranzosa.
Lui esitò un istante, non era intenzionato  a ferirla.
-    Offerta interessante, piccola mia,- mormorò – ma … no, per me sarai sempre la sorellina di Alain.
-    Ad Alain mica dispiacerebbe averti come cognato … - azzardò.
-    Uhm, ho qualche dubbio che Alain possa trovare piacevole anche solo l’idea di un cognato, ma, credimi, non sono io la tua metà, piccola Diane.
La fanciulla si afflosciò su sé stessa.
-    Non avrò mai la metà della mia mela, con Alain che spaventa qualunque essere maschile tenti solo di sorridermi.
In rafforzamento di quel timore, dalla strada si udì una pesante bestemmia.
-    Diane! Ma porc … Diane! – gridò la voce di un furibondo Soisson - E’ ora di rientrare! André, sposala o rimandala a casa!
I due si guardarono, sospirando, senza nulla da commentare all’evidenza: Alain De Soisson era drammaticamente e senza scampo malato di gelosia fraterna.
-    Ti ho lasciato la biancheria pulita sul letto e qualcosa da mangiare in cucina. – disse lei alzandosi.
-    Grazie per quel che fai per me, Diane.
-    Che dici! Grazie a te, per esser capitato nella nostra vita.
Si chinò a baciarlo sul capo  e si avviò all’uscio.
-    Sto arrivando! – la sentì esclamare per interrompere il borbottio del fratello – Smettila di gridare! Neppure l’arrotino fa tanta cagnara!
L’occhio di André cascò su una battuta del gentiluomo ed una replica della dolce damigella di quel duello amoroso in note, nero su bianco nello spartito nuovo.

Don Giovanni: “Là ci darem la mano, là mi dirai di sì. Vedi, non è lontano: partiam, ben mio, di qui.”
Zerlina: “Vorrei, e non vorrei...mi trema un poco il cor...Felice, è ver, sarei; ma può burlarmi ancor.”(1)

Era così lui? Un uomo che si burla delle donne?
Sapeva chiaramente che non voleva burlarsi di alcuna. Eppure continuava a raccogliere fiori senza l’intenzione di metter radici. Marie glielo aveva fatto notare, senza alcuna recriminazione, senza colpe.
Chiuse lo spartito. Forse era giunto il momento di voltar pagina anche nella sua vita.


**


Un paio d’ore dopo, Alain si era ripresentato a casa Plessis-Bellière, messo a lucido, in abiti civili come l’amico, col panciotto leggermente tirato sul ventre.
-    Credo d’aver esagerato con le patate … - borbottò ad André, una mano posata sullo stomaco gonfio, mentre entrambi si incamminavano verso il centro città.
“Quandomai il contrario”, pensò André.
Serata di piena estate. Il caldo invitava i cittadini a lasciare le case per una fresca passeggiata per le vie della città. C’erano coppie, famiglie, soldati in libera uscita, ragazzotti in libera uscita, fidanzati e mariti ... in uscita controllata.
Di fatto, sotto i portici del Palais Royale si sgomitava.

André scantonava le persone, Alain semplicemente le travolgeva senza degnarsi di chieder scusa. Aveva troppo caldo, lì in mezzo a quella calca, per permettersi di sprecar fiato in buone maniere.
Dietro a loro, Pierre e Lasalle, ricambiavano gli occhieggi di fanciulle sorridenti, professioniste dell’amore.
-    No no no, Lasalle! – borbottò Alain acchiappandolo per il colletto dell’uniforme – Hai voglia di topa, lo posso capire, ma la topa non deve per forza puzzare di fogna! Andiamo ragazzo, non sei più in campagna, qui hai scelta, evita quelle che ti appioppano le piattole! Cerca di aprire gli occhi, usare il naso e pure il cervello. No, nemmeno quella! – esclamò tirandolo ancora – E’ brava, ma ti succhia fino all’ultima moneta!
Nella calca ad André parve di scorgere poco più in là, una sagoma conosciuta, alta, esile, bionda, entrare in un locale sotto i portici, in compagnia di due uomini.
-    Voilà, la casa delle meraviglie! – esclamò Alain davanti all’ingresso del bordello di cui era affezionato cliente, tirandosi su il cavallo dei pantaloni.
-    Io ho voglia di bere. – disse André muovendosi nella direzione opposta a quella puntata dall’amico, verso l’ingresso del café d’artisti all’interno del quale quella sagoma così interessante era scomparsa.
-    Ma no, li ci vanno tutti quei damerini con la puzza sotto il naso dell’università!
-    Se non vuoi, non venire. - Replicò l’altro senza voltarsi né fermarsi.
Pierre e Lasalle guardarono il gigante, quindi senza proferir parola, s’accodarono al capitano.

L’interno era già strapieno. Comitive di ragazzi giovani, per lo più di classe benestante, stavano ai tavoli o al bancone, quasi tutti con un boccale in mano. André cercò con lo sguardo per la sala e ci mise poco ad individuare la folta chioma biondissima. Si era appena accomodata ad un tavolo coi suoi due amici, uno decisamente più giovane. Sembravano in confidenza.
Si appoggiò al bancone e, ostentando indifferenza, si mise a fissarla.
Alain al suo fianco lo osservava perplesso. E, man mano che possibili risposte affioravano alla sua mente, lo sguardo si incupiva e preoccupava.
-    Quindi … biondo??? – disse allarmato da quel guardare insistente dell’amico che pareva davvero uno sguardo innamorato.

In quell’istante lo sguardo di Oscar incrociò quello di André.
Gli abbozzò un saluto ed un sorriso, quindi con un cenno lo invitò ad avvicinarsi.
-    Bene bene bene … - disse Alain al suo fianco, con un tono che indicava l’esatto contrario.  Quindi lo seguì.
-    Che incontro inaspettato!- disse Oscar.  – Barone, permettete che vi presenti i signori Robespierre e Chatelet.
-    André Grandier De Plessis Bellière. - disse con un inchino.
-    Alain de Soisson. E basta. – aggiunse Alain, nonostante nessuno si mostrasse ansioso di conoscerlo.
-    Oscar Françoise de Jarjayes. – si presentò al gigante, il quale alternava occhiate strane al suo amico moro e a lei.
-    Il conte … mi da lezioni … di scherma. – André sentì di doversi giustificare.
Alain azzardò un mezzo sorriso.
-    Sì, certo certo … E sicuramente sei un allievo diligente. – fece sarcastico.
Scostò l’amico, costringendolo a fare un passo indietro e si chinò a fianco di Oscar spostando la sedia vuota accanto a lei, accomodandosi non invitato. Nel chinarsi si fece volutamente vicino alla bionda e ne annusò i capelli.
-    Il tuo insegnante profuma di rose, Grandier – mormorò allusivo senza farsi sentire dagli altri, quando anche André lo imitò sistemandosi tra lui ed il giovane Chatelet.
-    Bene bene, posso osare domandare a lor signori, quale attività conducono nella vita?
-    Sono studente, mentre il signor Robespierre è avvocato. – esordì il ragazzo con aria di superiorità.
Alain acciuffò un boccale di birra dal vassoio di una cameriera di passaggio e gustò un lungo sorso.
-    Sì, beh, questo lo avevo intuito dal vostro parlare forbito, giovanotto, dai modi raffinati e dalla totale mancanza di  calli sulle mani. Intendevo nel dettaglio a quale futuro ambite?
-    A me piacerebbe diventare giornalista, e tu? Cosa vorresti diventare da grande? – lo provocò il giovane con supponenza.
Lasalle e Pierre, alle spalle di Alain, fischiarono in tono allarmato.
-    Bernard … - lo richiamò severamente all’ordine l’uomo seduto dall’altro lato di Oscar.
-    Calmi calmi, stiamo solo facendo conversazione, vero Bernard? … Dunque, per rispondere al tuo quesito, non ho ancora obiettivi definiti, ma di certo so cosa non vorrei mai essere.
Tutti tesero orecchio, mentre André con un filo di preoccupazione cominciava a massaggiarsi le tempie indolenzite dall’ansia.
-    Il re! – esclamò Alain come se fosse la cosa più scontata del mondo. – Andiamo gente, davvero qualcuno vorrebbe essere al suo posto? Chiariamoci … So che non se la passa male sotto certi punti di vista e che la pollastrella austriaca non è da buttare, ma … Come? Le vostre facce esprimono perplessità: non mi credete? Ora vi do una dimostrazione di che significa fare il re.
Si alzò in tutta la sua statura e senza esitare salì in piedi sulla sedia e da lì sul tavolo.
-    Pierre… renditi utile! – ordinò al soldato.
-    Che devo fare capo?
-    Ora tu cominci a passeggiare attorno al tavolo e declami le mie lodi.
-    De… cosa?
-    Mi parli delle mie qualità.
-    E sarebbero?
Alain strappò il cappello dalla testa del soldato e lo colpì con una berrettata sulla fronte.
-     Ehh cavolo! Con tutte le qualità che ho! Comincia col dirmi che sono il migliore degli amici, il più divertente, il più spassoso… Continua, dai!
-    Beh, ecco … - mormorò quello massaggiandosi il capo e cominciando a camminare attorno al tavolo.- Sì, Alain, tu sei un grande!
-    Bene!
-    Sei il migliore a freccette! … - disse, preso da una improvvisa illuminazione riguardo l’amico.
-    Sì, ecco continua!
-    E anche a braccio di ferro nessuno ti batte!
-    Bravo !
-    Poi reggi il vino come nessuno … e, oh,sì, con le signore sei un maestro!
-    Benissimo, stai andando davvero bene!
-    Sei il nostro idolo,  Alain! Sei il nostro capo!
-    Continua! Continua …
-    Senti, Alain, il gioco è divertente, ma mi son stufato …Non possiamo far cambio? Salgo io sul tavolo ora! (3)
-    Ecco, vedi! – esclamò Alain, abbassandosi accosciato all’altezza dello sguardo sorpreso dell’amico, puntandogli un dito in mezzo agli occhi - Hai centrato il punto! Questo è il re!- disse rialzandosi ed  indicando sé stesso sul tavolo -  Se ne sta lì, fermo, sopra tutti, una immobilità noiosa e pretende che lo lodiamo, che ripetiamo all'infinito quanto è grande; ma non possiamo stancarci di farlo? I re son solo capaci di prendere! Stanno lassù, nei loro palazzi e nemmeno sanno quel che realmente pensiamo di loro noi, qui in basso. E quel che è peggio, loro devono proteggersi da tutto, perfino dall’amore! Si fanno le guerre l’un con l’altro, si aspettano che noi combattiamo per loro senza neppure sapere il perché, se non che sono giochi per loro, giochi da re!  Hanno paura di tutto, confondono cani con lupi, costruiscono trappole dove un giorno saranno loro a cadere. Vivono lontani da noi, rinchiusi nei loro castelli, ma Luigi sarà re a Versailles e non sa che quaggiù i veri re siamo noi! (2)
Robespierre accostò la bocca all’orecchio di Oscar.
-    Come vedete mia cara, i tempi sono pronti. Oramai manca poco, molto poco al crollo di questo regime. Le folle sono pronte a sollevarsi. Hanno solo bisogno di una spinta. E quel giorno dovremo essere pronti, preparati, e nei posti giusti.
Oscar annuì con aria complice.
-    Già! Noi! Noi che viviamo la vita, giorno dopo giorno…- continuava Alain, infervorato – Noi! – saltò giù dal tavolo ed abbracciò la  cameriera, tastandole i floridi seni, acchiappando un manrovescio automatico sul viso . – sorrise beffardo massaggiandosi la guancia arrossata – noi…  Che facciamo l’amore, notte dopo notte e ce ne fottiamo della morale, noi che non facciamo del male! Che senso ha vivere, se dobbiamo vivere in ginocchio? Pertanto … – alzò un boccale verso il loro tavolo – questo voglio fare da grande, Bernard: vivere la vita, fregandomene perché, andiamo, alla fine so di non far del male!



Finalmente Alain aveva finito di cantare, ballare, imprecare, blaterare, insultare ed era crollato sul tavolo.
Oramai nella locanda erano rimasti pochi avventori. Lasalle e Pierre si erano ritirati in compagnia di due ragazze: Lasalle con quella “brava” e Pierre con quella con le piattole.  D’altronde, Lasalle aveva bisogno di pratica e Pierre, beh, lui le piattole le aveva già.

Solo loro due erano svegli.
Anche Bernard e Robespierre se ne erano andati, mentre Oscar aveva dichiarato di voler restare ancora un po’.
L’avvocato era rimasto perplesso, evidentemente poco tranquillo all’idea di lasciare l’amica in compagnia di soldati, uno dei quali decisamente alticcio.
-    Sicura che …?
-    Sì. – si era limitata a rispondergli. E Maximilien ormai la conosceva abbastanza da sapere che quel tono era una decisione irremovibile.
-    Se vuoi, posso restare io ancora un po’ – aveva aggiunto Bernard, in piedi dietro a lei, sostenendo lo sguardo su André, mentre le posava una mano al centro della schiena in un modo che il capitano aveva trovato oltremodo irritante. Ma la donna aveva troncato immediatamente la provocazione.
-    Non serve, grazie Bernard.
Si congedarono con un cenno del capo e li lasciarono soli al tavolo con Alain fuori combattimento, addormentato sulle sue braccia conserte.
André le sorrise, tormentando il boccale ancora pieno a metà.
Oscar ricambiò il sorriso e bevve dal proprio, a piccoli sorsi, guardandolo di tanto in tanto con la coda dell’occhio, mentre l’uomo non distoglieva lo sguardo da lei neppure un istante.
Attorno a loro era calato uno strano silenzio, dopo il chiasso che c’era stato qualche ora prima.
Ad interromperlo di tanto in tanto a parte il russare di Alain ed il monologo sommesso di un ubriaco, il tintinnare di boccali che venivano lavati e riposti.
-    Sapete, è buffo che noi ci sia incontrati per sbaglio quel giorno, nella vostra proprietà.  Mia nonna è stata per molti anni al servizio della vostra famiglia.
Oscar scosse il capo, sorpresa e perplessa.
-    Io sono il figlio adottivo del Barone Di Plessis Bellière … - spiegò André – Mia nonna era la vostra governante, Marron Glacé …
Il viso di Oscar si illuminò.
-    Oh, sì, la vecchia governante. Mia madre la ricorda sempre con affetto e così pure le mie sorelle. Io ebbi un maggiordomo personale, mio padre insistette affinché non fossi seguita dal personale che si occupava delle mie sorelle. Come sta vostra nonna?
Lui si strinse nelle spalle.
-    E’ mancata … Da molti anni.
-    Mi spiace. – disse convinta – E …
-    No, nessun altro parente prossimo.

L’oste annunciò l’orario di chiusura.
André rivolse uno sguardo sconsolato all’amico.
-    Ancora una volta mi tocca mettermelo in spalla… Alain, dai muoviti, è ora di andare
Il gigante grugnì un “Mamma, lasciami dormire ancora un po’!” ed entrambi risero.
Che bambinone!
André lo tirò su per la giacca e lo obbligò a passargli il braccio al collo.
Dovette tirarlo su quasi di peso, mentre l’oste reggeva la seggiola affinché non cadesse.
-    Vi do una mano a portarlo fino ai cavalli – si offrì Oscar.
-    Oh, no, non è un problema … Ci sono abituato …
L’oste apri loro la porta, salutandoli con un inchino.
Oscar si sistemò il tricorno sul capo mentre André, realmente abituato a serate come quella, schivando i baci ed abbracci dell’espansivo  ed incontrollato amico, riusciva a farlo salire in groppa al cavallo fulvo.
-     Madamigella Oscar… Non interpretate male l’offerta che sto per farvi, ma … Casa mia è vicina e, se volete approfittare…
Oscar non trattenne la risata.
-    Un po’ difficile non interpretare malamente, signore!
-    Ecco, intendevo che è molto tardi e la vostra residenza è assai lontana da Parigi. Davvero, non dovete aver timore ad accettare la mia ospitalità … - gli sguardi si facevano seri – Vi assicuro che il mio sergente non ha mai avuto di che lamentarsi della mia ospitalità! E che non l’ho mai molestato. – scherzò per stemperare la tensione.
Oscar non gli rispose, se non con un sorriso tirato. Quindi salì in groppa a César.
-    Grazie per l’allettante offerta, signore ma la lunga strada non è un problema … Non ho paura del buio da molto tempo… - disse,  con un ultimo saluto, sfiorando la tesa del cappello ed avviandosi verso Palazzo Jarjayes.
-    E di me? Di me avete paura? – le chiese Andrè improvvisamente.
Oscar sorrise dalla sella e se ne andò senza replicare, vincendo la tentazione di voltarsi a guardarlo.
Ma tra sé pensava: “Sì, perché quando mi guardate mi sento debole e ogni cosa che non sia il vostro sguardo su di me, perde importanza”
E quello sguardo la seguì finché fu possibile e lei scomparve nella notte.

-    Continua : )


1)    Mozart scrisse il “Don Giovanni” qualche anno dopo, nel 1787. Licenza!!! XD
2)    adattamento del testo della canzone “Les rois du monde”
3)    tutta questa scena è un vago ricordo di un film di serie molto “B”, anni 70, credo … Assolutamente non ricordo che film. Era un monologo di Lucifero a proposito di Dio che ho adattato al caso.

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Capitolo 7
*** Una donna. Sola. Libera. ***


I re del mondo cap. 6
Cap. 6 “Una donna. Sola. Libera.”

 
Palazzo Jarjayes, aprile 1770

Da settimane il generale era nervoso. Ogni giorno si recava a Versailles. Ne tornava ora esaltato, ora abbattuto.
Oscar aveva collegato quella eccitazione all’imminente arrivo di lei, Maria Antonietta, che sarebbe diventata la nuova Delfina di Francia e chissà quando, Regina.
Una sera aveva sorpreso il padre a discutere animatamente con Madame, la quale aveva cercato di dissuaderlo da qualcosa. La discussione tra i coniugi era terminata come terminavano sempre le discussioni col Conte: “Così ho deciso!”, erano sempre le sue ultime parole.
Oscar era convinta che tutto quel agitarsi l’avrebbe presto coinvolta.
Difatti una sera, suo padre la convocò nel suo studio. Doveva essere veramente qualcosa di importante.


-    Sua Maestà, il Re, concede un grande privilegio alla nostra famiglia. – esordì il generale, veramente emozionato - C’è la possibilità che tu possa entrare nella Guardia Reale per occuparti personalmente della protezione della futura Delfina.
“Ah, ecco di che si trattava, quindi …”, pensò la figlia non eccitata quanto il genitore a quell’idea.
-    Certo, c’è un piccolo particolare, una condizione che non ho potuto evitare. – aggiunse Jarjayes, picchiettando la pipa che faticava ad accendersi sul marmo del caminetto -  Il posto in questione toccherebbe di diritto al figlio del conte Girodelle. - specificò con una smorfia stizzita, un po’ per quel contrattempo nei suoi progetti, un po’ per la pipa recalcitrante. - Ma Sua Maestà è disposto a valutare le reali capacità di entrambi e premiare il più meritevole. – aggiunse con un sorriso, vedendo il tabacco incendiarsi. Diede un tiro alla pipa ed espirò il fumo, rilassandosi - Ha deciso che tu ed il giovane Girodelle dovrete battervi in sua presenza. Il vincitore otterrà il posto di guardia personale di Maria Antonietta. Io non ho dubbi sulla tua riuscita. Sono anni che ti preparo per questo momento e conosco perfettamente il tuo valore. Che c’è, figlio mio? Perché quell’espressione?
La mancanza di entusiasmo era palese.
-    C’è che io non ho nessuna intenzione di proteggere una donna. – disse a capo chino, in un sospiro, più che altro a sé stessa; una riflessione che sorgeva spontanea dal profondo dell’anima.
-    Come … - balbettò sorpreso.
-    Padre, avete appena riconosciuto le mie capacità. – Sentì di dover insistere su quella sensazione, di dover chiarire - Come posso abbassarmi a diventare il mero esecutore dei capricci di una ragazzina? Accompagnarla nelle passeggiate, sorvegliarla giorno e notte durante le sedute di trucco, parrucchiere, conversazione e pettegolezzo, balli, ricevimenti … - Scosse il capo sconsolata, abbassando ancora lo sguardo - Padre, voi mi avete sempre ripetuto che il valore di un soldato si misura sul campo di battaglia. Ed io questo ritengo di meritarlo: la possibilità di dimostrare il mio valore.
La mano calò pesante sul suo viso senza preavviso. E ciò la sorprese. Da tempo non accadeva che suo padre la punisse fisicamente.
-    Tu indosserai quella uniforme, che ti piaccia o no.
Inaspettatamente, Oscar si trovò a ribadire a voce alta la sua convinzione.
-    No.
L’esplosione di collera fu peggiore di quanto avesse mai potuto immaginare.
Era accaduto, sì, che suo padre la punisse corporalmente, specie quando da piccola commetteva marachelle a ripetizione; e non era più successo dopo la pubertà, dopo quel giorno in cui la verità le era scivolata tra le gambe, umiliandola, e non c’era più stato un possibile sostegno alla menzogna.
Gli altri non mentivano: solo suo padre a lei e lei a sé stessa.

Il generale prese il figlio insolente per il collo della camicia e lo strappò fuori dal suo ufficio, perché anche solo invitarlo ad uscire sarebbe stata una concessione che tale atteggiamento non meritava.
Quella ribellione era inammissibile: a parole non poteva esprimere il suo disgusto per quel che Oscar aveva detto. Insulto alla corona, insulto al modo di vivere della nobiltà, insulto a lui, che tanto si era esposto per collocarlo nel posto migliore. Che quasi si era umiliato davanti al re per ottenere quella possibilità.
-    Tu ti batterai e vincerai il duello! Ti batterai per ordine del re e vincerai per ordine di tuo padre!
La spintonò contro la balaustra di marmo, alla quale lei si aggrappò per miracolo.
Il taglio sul labbro bruciava, la guancia bruciava, ma l’orgoglio ribolliva.
-    No! – esclamò ancora con lo sguardo ben fisso in quello del generale.
L’uomo fuori di sé, perché quel rifiuto lo metteva davvero in una situazione difficile, gettò la pipa, afferrò Oscar con entrambe le mani, la sollevò per il gilet e la scaraventò di peso giù dalle scale, come un giocattolo che non diverte più.
La ragazza non riuscì ad attutire la caduta.
Il rumore secco di una frattura spezzò qualunque progetto, suo o di suo padre che fosse.
Alcuni domestici accorsero.
Jarjayes non si mosse di un centimetro, neppure quando il valletto alzò lo sguardo preoccupato e si spaventò per quello gelido del padrone.

-    Portatelo nella sua camera e chiamate il dottore. – ordinò prima di ritirarsi nel suo studio, chiudendosi la porta alle spalle e abbandonando quel fallimento nelle mani di estranei.

Oscar strinse i denti: voleva esser forte, ma si domandava perché? Per proteggere una donna?
Tutte le capacità, il sudore, i sacrifici … per finire col mettersi al servizio di una bambola, civettuola e capricciosa?
Non poteva esser quella la sua vita, non voleva che lo fosse. Tutto il suo impegno per ridursi ad una attrazione bizzarra in una corte di pagliacci.
Così Oscar smise di stringere i denti, si arrese al dolore, e svenne.
“Io non voglio proteggere una donna … “, pensò.

La brutta caduta aveva salvato l’onore dei Jarjayes. Quella frattura al braccio sinistro fu una scusa plausibile per non presentarsi al duello con Girodelle, senza portare il disonore sulla famiglia.
Fu anche qualcosa che le avrebbe ricordato per sempre quel giorno, lo sguardo sorpreso e disgustato del generale, specie quando il tempo cambiava e lei si trovava a massaggiarsi l’arto offeso, dolorante.
Fu così che, poche settimane dopo quello che suo padre raccontava come un malaugurato incidente, Oscar si trovò spedita ad Arras con la necessità di convalescenza a motivazione, ma in realtà accompagnata dal saluto freddo di suo padre: “Resterai là finché non metterai giudizio”, aveva sentenziato.
Oscar sentiva che quel tipo di giudizio, non avrebbe mai potuto averlo in sé. Non per come era stata educata.
L’orgoglio del soldato mal si conciliava con la frivolezza della corte. Eppure suo padre pareva con cogliere questo controsenso.
Ma sarebbe anche il caso di sottolineare “spedita”, sì, al femminile.
Ora che il generale la considerava un figlio indegno, tanto valeva metter fine ai pettegolezzi, dichiarare la verità, far sapere che Oscar non era uno scherzo di natura, che davvero era una femmina.
Almeno poteva avere un alibi per il suo fallimento come genitore.
Non si può cavar sangue dalle rape, non si può tramutar il piombo in oro.
Una donna resta una donna in ogni caso.
Una rosa non sarebbe mai stata un lillà, avrebbe potuto dire qualcuno con poco più tatto.
Per questo non poteva essere un bravo figlio.
Era donna.
Femmina.
Un peso.
Ciò nonostante, restava l’erede legale del suo patrimonio.
Una piccola parte del generale era restia a parificarla alle altre sorelle, peraltro già tutte sposate e liquidate con la loro cospicua dote.
In una parte del suo cuore, Oscar restava sempre il figlio che avrebbe voluto.

Arras.
Graziosa cittadina di campagna.
In realtà, non le era mai piaciuta, quelle poche volte che vi si era recata col padre.
Tutto quel silenzio. Quei vigneti sterminati. I meleti.
“Odio le mele.”, pensò Oscar quando cominciò a ritrovarsele in tavola condite in ogni ricetta.
Ma almeno lì non ci sarebbero stati né il generale, troppo impegnato coi suoi incarichi ufficiali, né sua madre impegnata altrettanto nel tentativo di conquistare la nuova stella di Versailles: Maria Antonietta.
Anche in quella sera d’autunno, Oscar massaggiava il braccio, consapevole  che quel noioso formicolio non sarebbe scomparso comunque, con lo sguardo perso tra le fiamme del camino ed un buon bicchiere di sidro stretto tra le dita.
Ecco, sì, così ridotte le mele le piacevano davvero!
Tramutate in alcool, che ottenebrava i cattivi pensieri e rendeva meno opprimente la solitudine.
E così, anche quella lagna di romanzo che il libraio le aveva venduto spacciandolo per il grande successo degli ultimi venticinque anni, “La nuova Eloisa”, diventava quasi piacevole.
Niente più obblighi militari e cavallereschi per l’erede dei Jarjayes e nessun tentativo da parte di Madame di trasformarla in quel che non avrebbe ma potuto essere: una brava figlia.
Aveva preso in mano gli affari della tenuta agricola, cosa che suo padre aveva sempre delegato e seguito con scarso interesse.
Non le dispiaceva più così tanto vivere ad Arras.
Sola e indipendente. Come un uomo.
Alzò le gambe e posò i piedi sullo sgabello imbottito, si rilassò nella poltrona.
“Se sarò fortunato, non tornerò più a Versailles.”, si augurò.
Era stata l’imbarazzante esperimento del generale Jarjayes.
Ed ora se la sarebbe cavata da sola.


***


1784, ancora il laghetto, in quella estate sempre più calda


Non aveva dovuto far altro che sedersi ad aspettarla.
Quella volta. Poi un’altra. Ogni giorno libero che aveva, si recava lì. Ed aspettava.
Pensò che forse non aveva fatto altro nella vita, se non aspettare lei.
Quel giorno la vide da lontano. Lo aveva preceduto.
Era là, pensierosa seduta sul pontile, dondolava le gambe penzoloni sull’acqua.
La vide alzare il viso contro il sole. La  pelle era ormai dorata in barba alla regola che voleva le donne come porcellana.
Non era la stessa donna che aveva incontrato al Palais. Sicura di sé, quasi sprezzante ed impavida.
Non era la ribelle, antimonarchica che attaccava parte della sua stessa classe a testa bassa.
Capì che la sua infanzia doveva esser stata un inferno.
Quella laggiù, che lo stava aspettando, era Oscar, la bimba cresciuta senza affetti, prigioniera di regole già assurde per un ragazzo ed a maggior ragione per lei.
Sentì che avrebbe voluto esser lì con quella bambina quando c’erano stati i momenti peggiori.
Ma il destino aveva scelto diversamente. Nanny aveva scelto.
André poteva esserci ora, per lei. Voleva esserci.
La vide ripiegare le gambe e posarci il mento, mentre si accorgeva di lui.
La vide sorridergli. E pensò che si sarebbe impegnato a farla sorridere per il resto dei suoi giorni.

Duellarono coi fioretti, si esercitarono con le pistole, provarono prese di lotta.
La confidenza tra loro aumentava. Anche i contatti accidentali.
André aveva raccontato qualche esperienza del vivere coi suoi soldati.
Avevano riso dei modi spicci di Alain, della irrimediabile imbranataggine di Lasalle, della puzza letale degli stivali di Pierre.
Poi si erano seduti sull’erba, accaldati e divertiti.
André aveva preso una foglia dalla pianta che li ombreggiava e ne stava traendo note stridule.
-    Ah, no, basta, abbiate pietà! Ho bisogno di riposarmi. Voi non vi stancate mai?
-    Strano, avrei detto la stessa cosa di voi … Siete una donna con molteplici interessi.
Oscar lo guardò sbieco.
-    Che intendete?
André non nascose i suoi pensieri.
-    Non è frequente trovare un nobile rampollo del vostro livello in certi ambienti …
-    Avete preso informazioni sui miei amici? – si indignò lei.
-    Deformazione professionale. Persone come loro, sono sempre sott’occhio da parte delle autorità.
Lo guardò malamente, indecisa sull’atteggiamento da tenere con lui.
-    Perché andate da Orleans? – le chiese, diretto, mostrando di conoscere i loro spostamenti.
-    Si professa liberale e ci lascia libero accesso al palazzo come luogo di ritrovo e discussione .– ammise. Negare sarebbe stato inutile.
-    Liberale? Lui? Vuole solo mettersi al posto di Luigi XVI!
-    Sì, ne siamo consapevoli. Ma per ora ci fa comodo.
-    A cosa arrivereste perché “vi fa comodo”?
-    Cosa state insinuando!
-    Domando. Solo domando.
Oscar non rispose.
Guardò la superficie del lago che rifletteva il cielo e nascondeva le sue profondità.
Come lei. E pensò che fosse il caso che certe ombre restassero celate.
-    Sono tornata per sposarmi.
Fu come se un fulmine a ciel sereno lo avesse colpito.
-    Questa proprio non me l’aspettavo da voi!
-    Perché? Non ho problemi a farlo. Si tratta di un contratto come altri, dal quale potrò avere dei vantaggi.
-    Idea vostra, quindi.
-    Veramente … no. E’ un sollecito ricevuto da mio padre, un sollecito che impedisce di scordare di che pasta è fatto il generale Jarjayes. Un richiamo che ho ignorato per anni, ma che ora sto riconsiderando.
-    Ed avete già scelto il “fortunato”?
Oscar cercò d’ignorare il tono acido, anche se una parte di lei trovava quella sua irritazione piacevole.
-    Ho fatto una lista di candidati. Con i pro ed i contro. E tra i pro non manca la piacevolezza del pretendente. – aggiunse in replica al tono da lui usato, scrutandolo con  finta indifferenza per carpire la sua reazione.
-    Oh, questo cavillo è una sorpresa ancor più sorprendente della prima! – esclamò sinceramente colpito.
-    Niente altro che logica, signore. Aggiungerei che un uomo non tralascerebbe questo aspetto del matrimonio.
-    Quindi avete già individuato la vostra vittima?
-    Non ho intenzione di renderlo una vittima. Semplicemente sarà … un  reciproco dare avere. – Non è stato forse così anche per la nostra sovrana? Aveva quattordici anni quando si sposò. Almeno io non ho delegato la scelta a dei burocrati. Quell’austriaca è molle anche in questo.
-    Era solo una bimba e questa presunta mollezza si definisce “ragion di stato”.
-    Quale stato? Il re? “Lo stato sono io”, disse il Re Sole. Quindi? dovrei identificare la Francia in un ometto incapace con una consorte frivola. Perché così si ricorderanno di loro i posteri. “Dopo di me, il diluvio”, disse invece Luigi XV: forse fu una predizione? Bella incoscienza! - ringhiò.
-    I sovrani non sono esattamente ciò che state sintetizzando, Oscar. Se li conosceste da vicino, mi dareste ragione. Il punto è che un nobile deve fedeltà al re e come erede di una delle più antiche famiglie voi …
-    Ed il re mai ha dovuto fedeltà a qualcuno, pur dichiarandosi padre dei francesi? La Francia sta andando allo sfascio, ma a Versailles nessuno pare preoccuparsene realmente. Mantengono arrivisti e adulatori come i Polignac, dimenticandosi della vera nobiltà. Abbiamo pubblicamente sostenuto le ragioni Americane ed ora fingiamo di non vedere quanto c’è di sbagliato nella nostra stessa terra? Ho visto persone costrette a scelte atroci per miseria; persone condannate senza giudizio, ad opera di lettre de cachet in bianco da usare ed abusare all’occorrenza. Le grandinate hanno distrutto i raccolti, le guerre hanno distrutto una generazione; ma a Versailles il tempo batte sempre allo stesso modo. Sinceramente non capisco se Sua Maestà assume questo atteggiamento per evitare un'altra Fronda o se semplicemente … non è interessato!
-    Vostro padre è a conoscenza di queste vostre convinzioni?
-    Mio padre. Il generale. Totalmente, incondizionatamente, ciecamente devoto al re … - sibilò con sdegno.
La guardò in silenzio.
Lei si sentì a disagio e lo sollecitò con lo sguardo.
-    Mi sto domandando perché siete qui a perder tempo con me. – disse André inaspettatamente.
-    Come?
-    Non è per far conversazione, visto che avete già i vostri amici “intellettuali” del Palais; non è a scopo matrimonio, perché credo abbiate già scelto il vostro futuro consorte. Sinceramente, non riesco a dipingervi nella mia mente come angelo del focolare. Nemmeno come angelo. No. Forse una dea della guerra potrebbe ritrarvi ... Mi sto solo domandando quale altro motivo potrebbe spingervi ad avvicinarvi a me?
Un istante di silenzio. Uno sguardo prolungato. Poiché una risposta transitò simultaneamente nelle loro menti, André balzò in piedi.
-    Penso farò un bagno rinfrescante. Mi farete compagnia? – la invitò, come fosse stata la cosa più ovvia da fare; come fossero davvero amici.
-    No. Io …
-    Io?
-    Non amo particolarmente l’acqua.
-    Non sapete nuotare?
Lo guardò come a dire “ovvio che sì”.
-    Certo che so nuotare, faceva parte della mia educazione; semplicemente non è una attività sportiva che trovo piacevole.
André iniziò a togliersi gli stivali, saltellando da un piede all’altro.
-    Questo vuol dire che non vi riesce bene … - insinuò.
-    No, mi riesce benissimo ma … - ribatté quasi offesa.
-    Ma? – incalzò levandosi la camicia.
Lei chinò lo sguardo, di fronte al suo torace nudo che la turbava irragionevolmente.
-    Una volta ho rischiato di annegare, qui. – ammise.
-    Oh … - riuscì a dire, poiché non si sarebbe aspettato tale confessione da lei.
-    Avevo cinque anni ed ero venuta qui da sola col mio pony. Il generale mi aveva proibito di venirci senza di lui ma …
-    Ma poiché siete una testa calda avete pensato bene di disobbedire. – sorrise  - Non avete più cinque anni, Oscar, e non siete qui sola. Forse è il caso di affrontare questo brutto ricordo non credete?
Allungò la mano.
-    No, si è fatto tardi.
Sì alzò velocemente e fingendo distacco ed autocontrollo si avvicinò a Cesar, gli balzò in groppa.
In realtà quell’uomo le entrava troppo nell’anima. E più le si faceva vicino, più lei sentiva di volerlo vicino.
Ciò la tormentava. La ragione diceva una cosa, il resto di lei, tutt’altro.
André portò le mani ai fianchi, stancamente, deluso da quel suo atteggiamento. Stava fuggendo ancora.
-    Devo dirvelo, Oscar. Questa volta e poi più. Le vostre liste, i pro, i contro, non funzioneranno mai. Dovete fermarvi e diventare una donna, se è questo che avete deciso.
Si allontanò veloce da lui.
Era quello che aveva deciso? Diventare donna?
“No”, gli avrebbe risposto, “quanto di più lontano”.
A dir il vero, non si era neppure posta quella domanda.
Esser donna … Era una implicazione che non aveva contemplato.

I suoi progetti puntavano alla meta, le tappe non erano importanti.
Eppure …  Cominciava ad avere dei dubbi e la colpa era solo sua, di lui, della sua gentilezza, del suo esser in sintonia con quella parte di lei che Oscar neppure vedeva.





***

Victor non lo avrebbe ammesso mai, ma era davvero nervoso.
Alzò lo sguardo alla sua immagine riflessa dallo specchio.  Uniforme in ordine, medaglie al loro posto, barba rasata, capelli …
“Uhm … ”, non era mai soddisfatto dei suoi capelli, neppure quando erano perfetti.
Tirò un po’ qua e là la nuova uniforme che sembrava stargli più stretta delle altre, ma sapeva che era solo una sua fissa. Il taglio di quell’abito, come di tutti i suoi abiti, era perfetto.
Lui non avrebbe indossato niente che non fosse perfetto.
Guardò nei suoi occhi riflessi, la verità.
Era il nuovo incarico a renderlo nervoso.
Comandante della Guardia Reale.
Tra meno di un’ora, subito dopo la parata, Sua Maestà in persona gli avrebbe appuntato i nuovi gradi.
Sapeva di essere all’altezza, aveva lavorato tanto per questo momento, fin da ragazzino.
Era il lato politico di quel ruolo ad innervosirlo. I tempi stavano cambiando ed il suo compito era difendere la corona.
Senza incertezze. Ora più che mai, la nobiltà e quell’incarico gli imponevano lealtà.
Sospirò.
Senza ulteriore indugio, prese il tricorno che l’attendente gli porgeva, lo calzò e si decise ad uscire, a scendere nella Corte Reale dove lo attendevano i suoi compagni d’arme, quelli che tra poco sarebbero diventati “i suoi soldati”.

La sua prima parata nella piazza d’armi, in qualità di comandante della Guardia Reale.
Tutti gli sguardi erano su di lui. Uniforme bianca, fascia turchese.  Le piume del cappello mosse appena dall’aria calda che si alzava dal selciato rovente di quel pomeriggio. E lui lì, sotto il sole estivo, a recitare ciò che il suo ruolo imponeva; ad esibirsi nella sua parte, secondo il complicato rito imposto dalle usanze della corte.
La parata avrebbe reso omaggio al suo superiore, che quel giorno dava addio al servizio attivo, per cedere le redini del comando al suo successore.
Fra rulli di tamburi e squilli di trombe, i soldati avrebbero reso onore per l’ultima volta al comandante. Quindi, quello avrebbe riconsegnato i segni distintivi a Sua Maestà, che avrebbe provveduto con la nuova nomina: Victor Clement Conte De Girodelle.
Poi ci sarebbero stati i festeggiamenti pubblici nei giardini. Infine, sapeva, Camelia avrebbe preteso un festeggiamento in privato, non appena il marchese si fosse ritirato in compagnia di qualche cortigiana.
Sarebbe stata una giornata davvero lunga.
"Camelia … "
Soffermò il suo sguardo sul parasole rosa, che ruotava piano qualche decina di metri più in là, accanto al palco reale, due passi dietro a Freville.
Boccoli scuri spuntavano sotto la stoffa leggera, i nastri, i fiori. Poi lei scostò l’ombrellino ed i loro sguardi si incrociarono.
"Camelia … "




Tutta in rosa. Le stava bene quel colore.
Finto delicato. Come lei.
L’amalgama tra bianco e rosso. Tra innocenza e passione.
Come lei.
Era perfetta, Camelia Desirée.
Dondolava appena l’ombrellino e di tanto in tanto tormentava il suo collier, elargendo sorrisi dovuti e muti saluti a coloro che il marito le presentava.
Una donna di rappresentanza, impeccabile.
"Ma quella collana …"
Rosa di Francia, ametiste violette e filigrana d’oro; un pregiato e delicato  quarzo in vari toni di rosa proveniente da una miniera della famiglia Girodelle, nella Loira.

Ametista: la pietra dei re.
Gemme magistralmente lavorate ed incastonate in un capolavoro di oreficeria finissima, opera del gioielliere più in vista di Parigi. Commissionato in segreto e donato nell’intimità di un  pomeriggio lontani da tutti.
"Buffo in  effetti … "
A Versailles, i gioiellieri custodivano più segreti che gli austeri confessori della Chiesa di Roma.

Riusciva ancora a vederla, nella penombra delle candele quando, la sera, lo aveva atteso nuda nel suo letto, con addosso solo quel collier scintillante, incorniciato dalla cascata di ricci neri, morbidi, liberi sulle spalle.
Victor ricordava bene quel finesettimana nella sua casa in campagna e quel pegno d’amore. Perché era questo che Desirée provava per lui quando gli si era concessa. E pure lui, anche se non voleva ammetterlo.  
Ripensò ai suoi occhi, lucidi più dei quarzi e delle ametiste, quando si erano giurati un cedimento, uno solo. Poi ciascuno sarebbe tornato alla sua vita, ai suoi doveri.
Invece era accaduto ancora ed ancora.
Quella mattina in cui André li aveva sorpresi insieme, aveva mentito, lasciandogli ad intendere che fosse un’avventura come tante.
Ma la storia con lei andava avanti già da un po’. E non poteva confessarlo neppure a lui, il suo migliore amico.
Perché la verità era una sola.
Tra le tante donne della sua vita, mai nessuna era stata in  grado di catturarlo nell’anima. Camelia sì. Ma era di un altro.
Non c’era futuro per loro.
Da sempre lui si preparava per questo giorno, la svolta della sua carriera. Una svolta che avrebbe potuto portarlo lontano, anche ad un ministero.
Ormai, doveva solo volerlo.
Non era più il tempo della leggerezza. Non più giornate fini a sé stesse. Non più notti di solo piacere.
Suo padre lo caldeggiava, la sua posizione lo richiedeva.
Perfino André lo aveva sottolineato: una donna, una sola e possibilmente non sposata a qualcun altro.
Il sorriso di lei si smorzò all’improvviso. Pareva avesse intuito i suoi pensieri.
La vide abbassare il parasole, stancamente davanti a sé.
Arresa.  O forse solo delusa.

Iniziò la parata, lo sfilare dei soldati.
Il re prese le consegne dal comandante delle guardie, quindi appuntò una nuova medaglia al suo successore, unitamente alle stellette.
Victor prese dalle mani del suo predecessore la sciabola d’ordinanza, insieme alle congratulazioni di quello.
Ora era il nuovo comandante della Guardia Reale del Re di Francia, del paese più importante ed ammirato d’Europa.
Giurava la sua fedeltà a Luigi XVI, al sole di Versailles, alla monarchia ed alla Francia.
La sua vita, da sempre, era stata un susseguirsi di giuramenti, di promesse.
Victor Clément.
Vittoria e clemenza. Un nome che era un impegno.
"Prometto di essere buono".
Il giuramento del bimbo.

"Prometto di riuscire nello studio, nel lavoro".
Quello del ragazzo.

"Prometto di non alzare la mia spada sul debole, di essere giusto e generoso".
L’impegno dell’uomo.

Correttezza, fedeltà, nobiltà.
Non sempre aveva tenuto fede ad ogni impegno, almeno non nella misura che si era imposto. Ma doveva anche ammettere di esser sempre stato piuttosto severo con sé stesso, di essersi concesso margini molto stretti per gli errori.
Le medaglie sul suo petto, il rispetto che gli veniva dimostrato, chiarivano che non era così lontano da ciò che si era prefissato. E, a differenza di tanti, troppi adulatori e raccomandati, lui si era guadagnato fino all’ultimo riconoscimento.
Ma ora cominciava davvero una nuova vita.
Come un bambino che ripone per sempre i suoi giochi, sapeva di dover voltare pagina. Metter la testa a posto, crearsi una famiglia.
“Una sola donna, non sposata a qualcun altro.”


In quel momento la vide, come un segno del destino. Lei, Oscar Françoise. Tra la folla. In mezzo ad un mare di ombrellini colorati,  incurante del sole a picco in un abito color perla, lucente, abbagliante come uno specchio. Non passava di certo inosservata.
Avvertì un certo turbamento. La conferma di quella eccitazione provata al loro primo incontro.
Recitò la sua parte con la consueta serietà, con precisione e fermezza. Ma il luccicare dei movimenti della dama, riusciva a percepirli anche con la sola coda dell’occhio. E la sua agitazione aumentava.
La parata, la cerimonia, le congratulazioni ufficiali, le strette di mano… Tutto gli parve durare un’eternità.
Poi, finalmente, il clamore si quietò ed avvertì la presenza alle sue spalle.
La guardò finalmente negli occhi. Si scambiarono un sorriso.
-    Le mie congratulazioni, colonnello…
-    Madame… - s’inchinò, baciandole la mano.
-    Colonnello, c’è una dama che vi fissa troppo intensamente … - disse lei, nascondendo la bocca dietro al ventaglio bianco e argento, con chiara  allusione allo sguardo poco amichevole della marchesa di Fréville, la quale sempre un passo dietro al marito, non nascondeva la sua insofferenza per quella giornata e che, dal momento in cui Oscar si era mossa verso Victor, non le aveva levato gli occhi di dosso.
-    Confesso, non sono un santo, madamigella. Potrebbe capitare che qualche nobildonna vi guardi male vedendovi in mia compagnia.

-    State facendo il pavone, signore. Potrei diventar gelosa, io, e non sarebbe un bene. Ho un temperamento poco conciliante. – civettò con tono severo e studiato.
Si guardò intorno.
-    E se ci spostassimo in un angolo meno caldo?
-    Cercando di non farci notare? – ironizzò lui, visto che entrambi vestivano di bianco ed erano facilmente individuabili.
-    Possiamo sempre metterci a correre …
Sì volse con uno scatto e cominciò a camminare verso ovest a passo sostenuto.
Dopo un istante di sorpresa la seguì e dovette quasi rincorrerla; Oscar rise ed aumentò ancora il passo. Ormai quasi correvano davvero, per quando le scarpette di raso di lei potessero permetterlo. La donna si infilò in un sentiero laterale, togliendosi dallo sguardo curioso della folla e lì rallentò un poco. Lasciò che le si affiancasse e passeggiarono attraverso uno dei curati boschetti.
-    Giornata logorante? – esordì lei.
-    Giornata inevitabile.
-    Ma come? Cos’è questo tono?
-    Non sono particolarmente amante di certe formalità e di questi riti.
-    Ma meritate questa promozione, sono quindici anni che attendete ciò che vi spetta.
-    Mi avete forse tenuto d’occhio?
-    Ne ridete?
-    Pensavo … No…
-    Cosa?
-    Pensavo che se le cose fossero andate diversamente, in questa uniforme potreste esserci voi.
-    E voi sareste stato il mio fedele vice. E vi tratterei malissimo.
-    Ed io sopporterei in silenzio.
-    A malincuore …
Lui sorrise, come se volesse tentar di negare la sua insinuazione.
-    Ammettetelo, Girodelle … Tanto non è andata così e non potrò farvi mettere ai ceppi! Lo dite solo per adularmi, perché siete cortese ed in tanti anni a Versailles avete imparato a giocare a questo gioco. Ma non avreste mai digerito di dover prendere ordini da una donna.
-    Ammetto di avere riserve …
-    Vi avrei battuto, Girodelle.
-    Ho sentito a suo tempo ben parlare di voi; ma, no non credo proprio.
-    Oh, sì, vi avrei stracciato. Perché mi avreste sottovalutata.
Ripensò a se stesso, al suo carattere irruento e di poca pazienza di allora, alla sua arroganza giovanile. E scosse il capo, poiché una parte di lui ammetteva che lei avrebbe potuto aver ragione.

Arrivarono al boschetto detto "di Encelado”.
Al centro una fontana insolita circondata da un anello, un pergolato.
Transitarono sotto un' arcata del recinto avvolto di rose rampicanti, ma invece di uscire all’interno del perimetro, Oscar si infilò a destra, all’interno della galleria.
Tra loro una grata a dividerli, fiori bianchi e spine.
Scacchi di luce ricamavano l’abito di Oscar, i lembi della sua pelle, rincorrendosi ad ogni passo e nei suoi occhi si alternavano luce ed ombra

-    Dite, Girodelle, …
-    Victor, vi prego …
-    Victor, perché non siete sposato?
-    Sfacciata e diretta, madamigella! – rise.
-    Non immaginate neppure quanto.
-    Troppi impegni.
-    Andiamo, non vi manca di certo il tempo di corteggiare belle dame. Almeno, così si dice nei salotti. Il vostro diretto subalterno ha solo vent’anni ed è padre. Che scusa adducete alla vostra vita solitaria?
-    Non vi facevo curiosa di tali argomenti. Avete preso informazioni su di me?
-    Mia madre è felice se mi tengo aggiornata sui pettegolezzi. E sugli scapoli.
-    E cosa avete scoperto su di me?
-    Siete ligio, rispettoso, perfetto, ma sempre in conflitto con quella piccola parte vulcanica in voi, insofferente alle ingiustizie, ai conflitti, a regole che sapete essere quasi dei soprusi. Quella parte di voi incapace di volgere lo sguardo altrove. Ed è questa la parte che trovo interessante. – disse, uscendo da sotto il pergolato.
Le si parò dinnanzi e quasi Oscar ci sbatté contro.
-    Così, mi trovate … interessante? – sottolineò fissandola divertito negli occhi, molto vicino al suo viso.
-    In parte, Victor, in parte … - alitò, scivolando di lato.
Fece pochi passi e si fermò a fissare la fontana, il gigante Encelado imprigionato dalla lava.
-    Conoscete la storia di Encelado, conte?
Guardò il viso sofferente, imprigionato dalle rocce scure.
-    Sì ….
-    Un monito …
-    Sì, può essere.
-    Sì. È. – ribadì sicura -  Gli dei che punirono i Giganti perché volevano il loro paradiso e sotterrarono Encelado sotto i massi dell’Etna. I Giganti, l’aristocrazia senza potere, che ha sangue blu, ma deve sottostare ai capricci degli dei di Versailles. E pur essendo dello stesso sangue, quegli dei non esiterebbero ad imprigionarli, annientarli, sotterrarli.
-    Sono idee sovversive queste.
-    Nulla di più che la verità. Queste fontane sono moniti da un re ai suoi nobili.
Dallo sguardo gelido intuì un rimprovero.
-    Il mio compito è un altro.
-    Difendere la famiglia reale!
-    A qualunque costo!
-    E se il Re facesse del male a qualcuno che vi è caro?
-    Non potrei mai vedervi soffrire – disse implicando sentimenti che non aveva ancora palesato. – Ma una bella donna non dovrebbe crucciarsi con simili pensieri. – aggiunse.
Oscar tacque.
Guardò la fontana con la figura di Encelado,  figlio di dei,  prigioniero degli dei;  sofferente, imprigionato sotto le rocce dell’Etna.
Si sentiva come lui: figlia dell’aristocrazia, figlia del re, prigioniera del re.

Passarono sotto l’arco, varcando l’uscita dalla gabbia di Encelado mentre la fontana lanciava rumorosamente il suo getto alto nel cielo.
-    Il grido di dolore del gigante … - mormorò Oscar – Un gigante incatenato dalle catene della povertà e della sottomissione.
-    Non credo d’aver mai conosciuto una donna come voi … Françoise … Oscar … - la fermò, trattenendola per la mano. Si sporse verso di lei, alzando le mani al suo viso, sfiorandole le guance come a volergliele imprigionare in un abbraccio, arrivando quasi alle sue labbra con le proprie.
Ma … Si udì un vociare di folla avvicinarsi.
-    Oh, finalmente! Ecco il nostro festeggiato! – esclamò la voce del Conte Girodelle padre, in compagnia di amici e parenti.
Si volse verso la piccola folla e, con la coda dell’occhio, percepì un' ombra muoversi.
Lei era scomparsa.
Un gruppo di cortigiani giunto fin lì si sparse attorno alla fontana. Il padre prese sottobraccio il figlio, con aria orgogliosa e raggiante.
-    Quindi, figliolo, ce l’hai fatta!
-    Sì, signore.
-    Una bella posizione per un uomo così giovane, non credi?
-    Sì, signore.
-    Sai cosa sarebbe opportuno ora, vero?
-    Un matrimonio?
-    Perspicace il mio ragazzo! – esclamò stringendolo per le spalle.
-    Veramente … Credo di aver già in testa la donna perfetta, signore.

Una donna. Una sola e libera.

-    Continua


***

Casomai, tra i tanti dubbi sul personaggio, vi venisse giustamente da pensare che … Oscar adora le mele, vi dico solo di immaginare di mangiarle senza André che le lucida e le affetta. Ecco :D! Che noia!
E comunque, avrà modo di rivalutare il piacere di una mela rossa ... in compagnia! ; )

Nel manga, Oscar scelse con entusiasmo di entrare nella guardia reale; nell'anime, fu più restia ed ebbe quel per me bellissimo atto di ribellione che fu il duello con Girodelle. Quest'ultima è la Oscar che ho preferito; quella che non desiderava confrontarsi con la parte più femminile di Versailles (e di sè).
Senza André, l'ho immaginata ancor meno disposta a subire, visto che non c'era lui a frenarla.
Lui, invece, è l'André che le disse "non voglio la lotta alla nobiltà, ma solo capire cosa sta accadendo (più o meno, a memoria, eh!)"; calmo e ragionevole, come sempre.

Vi avviso che andrò più lenta coi prossimi capitoli: dita e testa non vogliono collaborare! XD
Saluti!!!





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Capitolo 8
*** Animali e bestie. ***


I re del mondo - cap. 7
Cap. 7: “Animali e bestie”

Arras, 25 dicembre 1782


Pioggia. Una goccia. Un’altra. Sulla fronte, sulla palpebra. Fastidiose. Gelide.
Si arrese ed aprì gli occhi, malvolentieri. La situazione le fu subito chiara.
La luce invernale che illuminava la stanza non era ottima, ma quella macchia sul velluto del baldacchino, proprio sul colmo, si vedeva anche in quella deprimente penombra. Il tetto perdeva ancora e naturalmente proprio nella sua stanza, proprio sul suo letto.
-    Buon compleanno, Oscar! - mormorò.
Sfilò le gambe da sotto la voluminosa trapunta, rabbrividì e svelta indossò la pesante vestaglia di taglio maschile poggiata sulla poltrona.
Il fuoco si era spento del tutto. Era sempre così fredda quella casa: una vecchia magione di campagna della quale ci si era sempre curati poco.
Tirò il cordino della campanella e cominciò a tirar indietro le coperte che si stavano bagnando, sapendo che il suo fido ma acciaccato maggiordomo ci avrebbe messo un po’ ad arrivare.
Era un dato di fatto: quella proprietà necessitava di pesanti ristrutturazioni, ma le rendite assegnatele dal generale non sarebbero mai bastate e lui non era interessato ad investire in quella tenuta.
C’erano state gelate che avevano rovinato la vendemmia e grandinate che se l’erano presa con i meleti già in estate. La manodopera aveva finito con l’esser reclutata a forza per il conflitto in America.
Le cose andavano niente affatto bene per i suoi affari.
Certo, la guerra di Indipendenza stava per arrivare alla conclusione. Le armi erano state deposte ufficialmente tra colonie e Inghilterra e presto i soldati francesi sarebbero rientrati. Non si sapeva quanti, né in che stato.
Forse la prossima stagione sarebbe stata decente.
Pensò che se avesse a suo tempo accettato quel posto nella Guardia Reale, non avrebbe avuto tutti questi guai.

A Versailles i problemi delle campagne non venivano percepiti. Là si gozzovigliava ancora.
Udì i passi stanchi del vecchio e acciaccato Armand al di là della porta.
-    Mi avete chiamato signore?
-    Sì, Armand. Il tetto perde ancora, come prima più di prima. Entrate.
L’anziano si trascinò traballando nella stanza. Indossava una vestaglia ed una papalina da notte sopra la lunga camiciona che lo rendevano nell’insieme più simile ad uno spettro che ad un uomo.
-    Il capomastro è già stato pagato?
-    Non ancora, signore.
-    Bene, tanto non ha riparato nulla. Quindi nulla gli va dato. Dobbiamo cercare qualcuno di realmente competente Armand! Più tardi mandate a levare lenzuola e coperte. E dobbiamo spostare il mobilio. Io mi trasferirò nella stanza padronale finché i lavori non saranno finiti.
-    Gliela faccio preparare in pochi minuti, signore.
-    Non c’è fretta, ormai sono sveglia. Uscirò per un giro a cavallo. E voglio far colazione.
-    Sì, signore, glielo faccio sellare e provvedo subito a svegliare Cécile, signore.
-    Non serve. Mi arrangerò, per tutto. Tornate a dormire. Fa molto freddo ed entrambi siete piuttosto acciaccati.
Il vecchio sorrise. Dopotutto madamigella Oscar sapeva non essere un orco, quando voleva.
-    Grazie, signore.

Si vestì battendo i denti e con sempre addosso la vestaglia pesante, scese al piano terra. La cucina era ancora tiepida e profumata come tutte le cucine dove si spadella con passione per il buon cibo. E Cécile, la sua corpulenta cuoca, non nascondeva questa passione nemmeno nell’aspetto florido dovuto agli abbondanti assaggi.
Il camino era stato alimentato meglio di quello della sua stanza, forse perché la cuoca aveva lavorato fino a tardi per preparare il pane allo zenzero e tutto quanto necessario per il pranzo di compleanno oltreché natalizio della padrona  e le braci erano ancora calde.
Posò un paio di ciocchi ed attizzò le fiamme.

Annusò l’aria intrisa del profumo di vaniglia, mandorle, cioccolato … ed i suoi succhi gastrici reclamarono un boccone, uno qualunque per placare l’acquolina.
Ma non osò toccare gli impasti natalizi: Cécile sapeva essere vendicativa.
Prese del dolce della sera prima, ovviamente alle mele, e latte gelido dalla brocca.
Piluccando e sorseggiano, guardò fuori dalla finestra il cielo che a malapena albeggiava.
Che inverno strano era quello.
Era nevicato, poi un riscaldamento anomalo aveva sciolto tutto quanto e il paesaggio era un immenso e deprimente pantano invece del bianco  Natale che rende le feste più Feste.
Si sentì osservata ed abbassò lo sguardo sul cortile ancora buio.
Si trovò a fissare due occhi vacui,  dei ricci candidi sul capo, due orecchie a sventola …
Una pecora.
Se ne stava lì fuori della finestra e a sua volta la fissava con una espressione assolutamente ovina e totalmente apatica.
-    Ma .. cosa? … Ohh nooo, no!
Mollò tutto sul tavolo, infilò velocemente gli stivali della cuoca lasciati accanto al camino, prese un mantello appeso dietro l’uscio e corse fuori.
Sotto lo sguardo assente ed indifferente della riccioluta bestiola, si allontanò a passo sostenuto verso i campi, scivolando di tanto in tanto sul fango viscido. Non ebbe bisogno di giungere nel meleto per trovar conferma ai suoi timori.
Belati, belati in tutti i toni, tanti belati irritanti.
Un bel gruppetto di ovini pasteggiava tranquillamente con i rami bassi delle sue piante da frutta.   
-    Maledette voi ed il duca di Villaine cui appartenete!  … Via maledette bestiacce! Via dalla mia terra, distruttori che non siete altro! – gridò al gran numero di animali che allegramente aggredivano i tronchi degli alberi.
Il buon vicinato con Villaine non aveva funzionato.
I rapporti non erano mai stati idilliaci: quell’uomo non aveva mai considerato il lavoro altrui qualcosa da rispettare e se ne infischiava beatamente dei campi coltivati con fatica, lasciando pascolare ovunque il suo bestiame; ma un abuso di tale portata nei confronti dei Jarjayes, mai c’era stato. Da quando il vecchio duca era finito all’altro mondo, ed in tanti speravano stesse bruciando all’inferno, il figlio si era rivelato pure peggio. Si era trasferito a Versailles a far la bella vita ed aveva delegato la conduzione dei suoi possedimenti a soggetti che definire poco raccomandabili era un addolcimento della realtà.
Oltrepassavano continuamente i confini col bestiame e la facevano da padroni per le campagne, vanificando il lavoro dei contadini.

Il raccolto di pomi era stato fortunatamente fatto in ottobre, ma il brucare di quegli animali avrebbe potuto compromettere la vitalità stessa delle piante e rappresentare la fine di tutto.
Rientrò velocemente, diretta alle scuderie; sellò furiosa Cesar e, senza pensarci due volte, si scapicollò alla residenza del Duca di Villaine.
-    Sono Oscar Françoise De Jarjayes: esigo di incontrare il signor Duca! -  esclamò irosa al brutto ceffo di guardia.
-    Aspettate qui. – borbottò quello, dopo averla scrutata da capo a piedi ed aver sputacchiato del tabacco masticato sui gradini dell’ingresso.
Diversi minuti dopo, con calma, si fece avanti un uomo massiccio, dall’aspetto peggio che poco curato. Infilò entrambe le mani nelle tasche della pesante e per lui fin troppo ricca vestaglia, gambe piantate e sguardo fisso su di lei.
-    Il Signore non si trova nella villa al momento. E comunque, per voi non ci sarebbe in ogni caso. – disse, freddo ed esplicito.
-    Chi ha la responsabilità della tenuta in sua assenza? Pretendo di conferire con questa persona.
-    Lo state già facendo.
Oscar inarcò un sopracciglio, non nascondendo il suo disgusto per il tizio scelto dal duca.
-    Le vostre pecore hanno invaso la mia proprietà.
-    Oh, davvero spiacente. – disse seccamente e con tono falso.
-    Mi hanno creato danni notevoli.
-    Quelle povere bestiole hanno diritto a nutrirsi. – cantilenò.
-    Non a scapito mio.
-    Abbiamo il diritto legale di transitare sulle vostre terre per giungere al torrente!
-    Voi dovete ripagarmi i danni! – ringhiò ed il suo nervosismo si trasmetteva alle zampe di César, tanto irrequieto da non riuscire a starsene immobile
-    Non credo proprio.
L’uomo dall’aspetto rozzo estrasse un documento, ripiegato e chiuso con un sigillo in ceralacca, dalla tasca interna della giacca e l’alzò in modo che lei potesse veder bene il timbro e l’insegna impressa sulla carta.
Oscar sentì un brivido percorrerla tutta.
-    Sapete cos’è questa?
-    Sono certa che stiate per dirmelo voi. – lo sfidò.
-    E’ una lettre de cachet, conte.
Lei rise, un sorriso sprezzante, ma forzato.
-    Un pezzo di carta non vi autorizza a distruggere i miei frutteti e le mie vigne.
-    Autorizza me, in quanto rappresentante del signor duca, a … - rise – a qualunque cosa mi passi per la testa! – Diede tempo alla pausa di fare effetto - E’ in bianco – specificò - e posso compilarla come meglio credo, con qualunque cosa possa farmi comodo. Potrei scriverci  che il bestiame è libero di transitare sulle terre dei Jarjayes senza nulla dovutovi; o posso sequestrarvi il terreno che mi serve o che so, … farvi mandare a Pinerolo con addosso una maschera di ferro.
Inclinò le labbra in un ghigno feroce.
Oscar incupì lo sguardo
“E va bene. “, pensò: sapeva riconoscere una battaglia persa.
Ma una guerra è fatta da più battaglie.
Tirò le briglia e si rassegnò a ritirarsi senza proferir una sola parola.




Oscar si lasciò cadere pesantemente sul materasso del letto padronale, affondando nello spessore avvolgente della piuma. Chiuse bene la vestaglia sulle gambe nude. Il bagno caldo aveva levato il fango, ma non le preoccupazioni.
“Lettre de cachet” … Ne aveva sentito parlare.
Aveva fatto la gradassa con lo sgherro del duca perché non le andava di andarsene oltreché a mani vuote, con la coda tra le gambe e le orecchie basse, ma se davvero De Villaine aveva tra le mani uno di quei maledetti documenti, sapeva di non poterci scherzare.
Sin da piccola aveva sentito parlare di persone scomparse senza lasciar traccia, senza motivo ad opera di documenti simili.
E quel nome, quell’oggetto vago, identificato nella sua immaginazione di bimba come un pezzo di carta con marcati segni in inchiostro, per lei a quel tempo solo semplici sgorbi, ne aveva mietute assai di vittime.
Un giorno, quando era più grande, aveva osato chiedere al generale cosa fosse. La risposta era stata: “spera di non vederne mai una”.
Doveva tutelarsi. Assolutamente.

Emise un lamento. Già il pensiero di averne bisogno la disturbava, ma qualche volta erano un male necessario. Loro.
-    Armand! – chiamò.
Il vecchio spuntò dalla vicina stanza da bagno, maniche risvoltate e strofinaccio in mano.
-    Dite, signore.
-    Che mi dite dell’avvocato Sanpitre?
-    Abile, ma è il legale che cura gli interessi del duca. Accompagnarsi con una simile persona sarebbe poco dignitoso.
Sospirò. Lo sapeva. Voleva soltanto sentirselo confermare da quella saggezza pelle, ossa e ormai senza capelli del suo leale maggiordomo.
-    Non troverò mai un avvocato che si metta contro Sanpitre e De Villaine… - borbottò.
-    Potreste tentare con quello strano. Lo chiamano l’avvocato dei poveri. Certo potrebbe rifiutarsi di assistervi ma...
Si alzò seduta.
-    Chi?
-    Il signor Robespierre.
Quel nome non le era nuovo: Maximilien De Robespierre.
-    Ma non studiava a Parigi?
-    Ormai è da un anno che esercita qui ad Arras.
Lo congedò con un gesto della mano ed il maggiordomo tornò a pulirle la vasca.
Armand era una inesauribile fonte di pettegolezzi. Senza di lui sarebbe vissuta completamente fuori del mondo.

E così Robespierre era tornato al paese avito.
Le venne alla mente quella sera in cui lo aveva conosciuto.
Era il 1778 e faceva freschetto. L’autunno era arrivato. Decisamente. Il vento forte strappava le ultime foglie morte dagli alberi ed annunciava una notte da lupi.
Oscar si trovava alla locanda del sig. Coranne, sola come sempre, e si gustava una cenetta tipica del locale.
Ad un tavolo appartato sedeva un giovane, serio, composto, abbigliato modestamente. Non lo aveva mai visto prima. Gli aveva rivolto solo un cenno di cortesia alla falda del cappello quando era entrata e poi si era accomodata al tavolo accolta come sempre bene dall’oste.
-    Un  altro boccale, per favore. – ordinò il ragazzo.
-    Sì, certo, signore. Menù di funghi, madamigella? – aveva chiesto il proprietario portandole la solita bottiglia di rosso.
-    Sì, grazie e abbondi che ho appetito! Chi è quel giovane? – bisbigliò  - Non l’ho mai visto prima.
-    E’ di queste parti, ma studia da avvocato a Parigi, al Louis Legrand. E’ stato una mezza celebrità qui: pensate, ha avuto l’onore di leggere il discorso di benvenuto al nuovo re quando venne incoronato.
L’oste si allontanò e lei guardò il giovane. Gli sorrise. Lui la ignorò.
La incuriosiva.
-    Permettete … Voi venite da Parigi?
-    Sì.
Silenzio.
-    Come vanno le cose in città? E’ da molto che manco.
-    Al solito.
Silenzio.
-    E sarebbe …?
Il giovane sospirò. A quanto pareva l’altro avventore era intenzionato a far conversazione.
-    Sarebbe che nemmeno i nuovi sovrani paiono interessarsi della situazione in cui versa la nostra nazione. E le conseguenze si vedono per le strade.
Lo disse con un certo astio.
-    Perdonate … Credevo d’aver capito che foste voi ad aver riservato al nuovo re un discorso di benvenuto ed augurio.
-    Sì e vorrei non averlo mai pronunciato. Signor …?
-    Jarjayes. Perché dite ciò?
-    Ci aspettavamo molto di più dai nuovi sovrani. Invece il clientarismo è aumentato. Il re si dimostra debole, indeciso. Una gran parte dell’aristocrazia viene ignorata a favore di una elite minoritaria. Si dice che a Versailles ormai sia tutto nelle mani dei Polignac.
-    Immagino ci sia un poco di … nervosismo a corte a causa di questi favoritismi.
-    Immaginate bene.
-    Meglio qui a mangiar il mio spezzatino ai funghi piuttosto che banchettare con le guardie del re, vero madamigella Oscar? – rise l’oste posando un bel piatto fumante davanti a lei.
-    La … Guardia Reale?- domandò incuriosito.
-    La nostra bella madamigella Oscar sarebbe dovuta diventare guardia del corpo della nostra regina! – spettegolò Coranne.
-    Ed invece sto alla locanda di Arras e non ne son pentita! – lo complimentò lei.
-    Sarei rimasto sorpreso di scoprire una bella donna tra le guardie del Re. Piacevolmente sorpreso. – disse il giovane.
A salvarla dall’imbarazzo di un evidente omaggio cui dover far fronte, si spalancò la porta di colpo e uno dei mezzadri dei Jarjayes irruppe precipitosamente.
-    Ehy, Sugane, come mai qui a quest’ora di un giorno settimanale? Hai forse litigato con la tua signora? – scherzò l’oste.
-    Hai del ghiaccio da prestarmi?- mormorò l’uomo sconvolto, tormentandosi le mani.
-    Che succede?
-    Mio figlio, Gilbert, sta malissimo. Ha la febbre alta e non scende. Non so più che fare.
-    Ma certo, amico mio, – disse l’oste preoccupato – scendo subito nella ghiacciaia a prendertelo.
-    Avete chiamato il dottore? – si intromise Oscar, mentre Coranne scompariva nello scantinato.
-    Oh, buonasera signore, non vi avevo visto. No, niente dottore. Il dottore si è spostato nel paese vicino. Qui non aveva abbastanza clienti. Paganti, si intende.
-    Non potete aspettare ancora, vi accompagno io. – disse alzandosi ed afferrando il suo pastrano appeso ai ganci nella parete dietro di lei.
-    Non posso, non ho denaro per pagarlo.
-    E volete rischiare di farlo morire? Che razza di padre siete! – sbottò lei.
Gli occhi dell’uomo si fecero lucidi.
-    Non credo ci sia al mondo un uomo che non morirebbe per salvare il proprio figlio, ma … - si accasciò su di una sedia - Che devo fare? Potrei solo vendere la mucca, ma così facendo condannerei la mia famiglia a morir di fame.
-    Intendete che scegliete la  mucca in vece che vostro figlio!
-    Per come sono andati gli ultimi raccolti, una volta pagate le tasse mi resterà a malapena l’affitto che devo a voi. Non riusciremmo a superare l’inverno senza poter vendere latte e formaggi.
Arrivò l’oste col sacco di ghiaccio.
-    Andiamo da vostro figlio. – disse Oscar calzando il tricorno.
Mentre uscivano, Robespierre la chiamò.
-    Signor Jarjayes … E’ questo il genere di conseguenze che si vede per le strade di Parigi. Non dovete prendervela con voi stesso.
-    Invece lo faccio. Sono arrabbiata con me stessa perché vivo in mezzo a loro e non mi ero mai accorta di quanto fosse miserabile la loro esistenza. Ero così presa dai miei problemi da essere cieca.
-    Qui le persone devono fare scelte difficili. – disse Robespierre. – Ma sono pronto a giurarvelo: io salverò questa Francia che sta morendo, ma che amo con tutto il cuore.
-    Voi sarete avvocato, un giorno, e le vostre armi saranno le parole; ma per quanto riguarda me, scelte difficili richiedono contromisure altrettanto difficili. Non vogliatemene, Robespierre, ma alle parole preferisco i fatti.
Se ne era uscita, richiudendo la porta dietro di sé.
Alla fine il bimbo ce la fece. Lo aveva portato dal medico a sue spese e, con una buona dose di chinino, la febbre se ne era andata.
Ora era un ragazzino in salute, lavorava per lei e suo padre Sugane era il suo uomo più fidato.
Ma per un bimbo che ce l’aveva fatta, si era domandata quanti Gilbert si trovavano in punto di morte e quanti padri erano costretti a scelte assurde. Non aveva più visto Robespierre dopo quella sera e non ci aveva più pensato. Fino ad ora.

Si fece coraggio e decise di scendere in città per parlare con lui. Immaginava dove poterlo trovare a quell'ora del giorno di Natale.
La gente stava lasciando la chiesa principale dopo la funzione. Lo vide, intento a chiacchierare col parroco, sotto braccio con una giovane donna che gli somigliava molto.
-    Avvocato Robespierre? Avrei occorrenza di consultarvi – lo chiamò.
-    Mi spiace, oggi non lavoro. – replicò dopo un istante di sorpresa.
-    E’ una emergenza.
-    Signor Jarjayes, io non difendo aristocratici! – esclamò senza mezzi termini.
Il prete la fissava in silenzio. Lei lo ricambiò stizzita, inducendolo a volger lo sguardo altrove. I loro rapporti si erano decisamente guastati quando, per uno dei tentativi di suo padre di farla ragionare, ovvero di tentare d’accasarla, il parroco era intervenuto a mediare; lei gli aveva esploso addosso tutta la sua bile e quello se ne era andato borbottando contro quella indemoniata di Jarjayes, facendosi il segno della croce.
Oscar naturalmente non aveva più rimesso piede nella sua chiesa visto poi che il suo vestire da uomo non era gradito al sacerdote.
Robespierre le volse le spalle, avviandosi dopo un cenno di saluto con la sorella al braccio ed il religioso al seguito.
-    Il duca minaccia di usare una lettre de cachet contro di me! – esclamò Oscar.
L’uomo si fermò, la guardò al di sopra della spalla.
Con un bisbiglio invitò la sorella a precederlo a casa, insieme al sacerdote, loro ospite per il pranzo di Natale. La sorella, Charlotte, obiettò qualcosa, con tono contenuto. Maximilien la tranquillizzò tenendo la mano tra le sue e quella si rassegnò, non senza però lanciare uno sguardo ostile verso Oscar: la bizzarra contessa, della quale aveva sentito parlare ed che aveva intravisto in città di tanto in tanto, non le era mai piaciuta.
-    E va bene. – acconsentì – Andiamo a prenderci qualcosa di caldo alla locanda, così mi spiegherete tutto.

Gli fece un riassunto di tutte le varie angherie subite, davanti a due bavaresi fumanti.
-    Non siete la sola ad aver avuto la sfortuna di scontrarvi con quella gente. – Commentò lui. - Per lo più le persone cedono, perché c’è sempre qualcosa di peggio da perdere. Ma ho sentito dire che ultimamente De Villaine sta incontrando problemi economici a Versailles e si crea parecchi nemici. Potremmo anche ritrovarcelo tra i piedi in persona, più incattivito. Per tornare al vostro caso specifico,  certo, le pecore sono animali transumanti, hanno diritto di transitare per arrivare all’acqua ed il vostro vicino è tenuto a risarcirvi i danni …
-    Nessun risarcimento sarà mai sufficiente se continuano a mandarle senza controllo nella mia piantagione! Lo fanno intenzionalmente, vogliono rovinarmi economicamente per poi prendersi la mia terra! Un giudice non può non darmi ragione!
-    La verità è che nei tribunali, quando va bene, si trova la legge, non necessariamente la giustizia. Se poi ha davvero una lettre de cachet …
-    Cosa posso fare?
-    Temo che la sola cosa sarebbe rivolgersi direttamente a Sua Maestà.
-    Potrebbero passare mesi prima che mi conceda udienza. Potrebbe anche non concedermela mai. E al mio ritorno da Versailles non troverei più nulla da difendere.
-    Mi spiace. Temo di non potervi essere utile. Quelle dannate lettere sono più letali di un arma da fuoco … - mormorò.
Mentre l’avvocato sorseggiava piano la bevanda calda, Oscar fece una piccola riflessione.
-    Sapete che mi avete dato un’idea! E pensare che credevo che gli avvocati fossero inutili.
Finì di bere d’un colpo l’ultimo sorso, quindi si alzò.
-    Devo davvero ringraziarvi, Robespierre! – esclamò calzandosi il tricorno sul capo – E vi prego, fatemi avere la vostra parcella per questa consulenza!
-    Ma veramente …
-    Vi terrò aggiornato!
E se ne andò.
Alla fine era tutto molto semplice.
Come già aveva detto una volta proprio a lui, lei preferiva i fatti alle parole.
E fatto era che un fucile valeva più di mille irritanti verbi.

Alla fine i brutti ceffi si erano decisi. Nel pomeriggio si erano presentati in tre per riprendersi il gregge, come nulla fosse.
Lei li aspettava al centro della via, con un moschetto dalla lunga canna al suo fianco, posato a terra quasi come un bastone cui sostenersi. Il fido maggiordomo aspettava a bordo strada.




I tre figuri parvero sorpresi di vederla.
-    Siamo venuti a riprendere le nostre bestie.
-    Spiacente. Potrete riaverle solo quando mi ripagherete i danni.
Quello al centro fece per aprir bocca, con aria tracotante.
-    Ah sì, la lettre … - lo prevenne lei - Vedete, la forza di un arma sta nella sua possibilità di far fuoco, in quanto è minacciosa. Una volta sparato il colpo, se è il solo a disposizione, si perde il vantaggio. Non penso il duca vorrà privarsi di quel colpo in canna con tutti i nemici che si sta facendo a Versailles. Armand!
-    Si, signore?
-    Potresti esser così gentile da dire a questi signori quale è il tempo migliore da me ottenuto negli allenamenti col fucile?
-    Sì signore, se non ricordo male, il vostro miglior tempo è stato 3 colpi in 40 secondi. (1 )
Alzò la canna dell’arma in direzione del brutto ceffo. Allineò lo sguardo sul mirino.
-    Ho già un colpo in canna e non posso mancarvi.
-    Siamo in tre o non sapete contare?
-    Conto benissimo: so che voi avete un documento infame, uno solo, mentre io ho molte cartucce nella bisaccia. So che il vostro padrone sta dando fastidio a parecchia gente a Versailles e che quella lettre potrebbe volerla usare su qualcun altro; so anche che uno di voi sarà morto prima che gli altri possano metter mano alle pistole. E so che, se mi doveste mancare, potrei ricaricare molto più velocemente di voi e che quindi due di voi saranno morti prima che il terzo mi spari a sua volta. – strizzò un occhio, puntando bene - Al punto in cui siamo un fucile è più convincente di mille parole.  – mormorò.
Sollevò il cane.
-    E poiché so contare … conterò fino a dieci per permettervi di andarvene senza più ritornare. Naturalmente accetto il vostro gregge come risarcimento per i danni alla mia terra.
I brutti ceffi cercarono una risposta dal loro capo con uno sguardo.
-    Ci ritiriamo. Ma non finisce qui, Jarjayes!
-    Ci potete scommettere …

Invece finì lì.
Il duca si rovinò con le sue stesse mani ai tavoli da gioco. Dovette vendere tutto per saldare creditori perfino più delinquenti di lui e la famosa “lettre” gli servì per non finire in galera lui stesso.

Oscar raccontò tutto a Robespierre il giovedì seguente, la sera di capodanno, alla locanda durante la cena settimanale che lei si concedeva e quello che era stato fino a quel momento un appuntamento solitario, divenne un’ abitudine tra amici durante la quale discorrere di animali, ma anche di “bestie” a due gambe, che avrebbero dovuto mostrarsi senzienti e troppo spesso erano solo arroganti.
Su parecchie cose trovava quell’uomo irritante, ma si sentiva intellettualmente coinvolta.
Certo le idee di Robespierre riguardo le donne e la loro inferiorità, non potevano non urtarla.
-    Dovreste chiedermi scusa, Robespierre! – esclamò quando lui se ne uscì con quella convinzione di Rousseau per cui, “dimostrato che gli uomini e le donne non hanno, e non debbono avere, lo stesso carattere o lo stesso temperamento, ne consegue che non debbono ricevere la stessa educazione.”
-    Sono un avvocato. Noi non ci scusiamo mai, specialmente quando sbagliamo davvero.- disse con espressione seria. Poi cedette ad uno dei suoi rari sorrisi. – Oscar, siete la prima donna che non riesco a considerare tale!
-    Vista la considerazione che avete delle donne, lo ritengo un complimento, sebbene sia chiaramente un’offesa … - ribattè un poco confusa.
-    Madamigella Oscar, Vi trovo estremamente interessante come donna, mi ricordate una fiera ed indipendente amazzone, ma riferendomi ad una tipica donna del nostro mondo, non vi è nulla femminile in voi …
Era vero?



Palazzo Jarjayes, primi di agosto del 1784

Les rois du monde ont peur de tout
C'est qu'ils confondent les chiens et les loups
Ils font des pièges où ils tomberont un jour
Ils se protègent de tout même de l'amour
I re del mondo hanno paura di tutto
E’ per questo che confondono i cani ed i lupi
Fanno delle trappole dove loro cadranno un giorno
Essi si proteggono da tutto, anche dall’amore
(dal testo della canzone “Les rois du monde”)


Il segretario lo fece accomodare nello studio dove il generale lo attendeva. Aveva presentato richiesta di un incontro già il giorno prima, mandando un valletto con una  missiva. Il generale gli aveva confermato appuntamento per quel tardo pomeriggio.
-    Conte Girodelle, è un vero piacere rivedervi! Vostro padre?
-    Sta ottimamente, grazie.
-    E madame la contessa?
-    Splendidamente, grazie …
-    Desiderate qualcosa da bere? – lo interruppe ancora.
Victor sorrise. Evidentemente il generale aveva un protocollo da seguire per ricevere ospiti.
-    Un assaggio del vostro brandy di Arras mi sarebbe gradito, sì, grazie.
Un gesto di Jarjayes ed il maggiordomo scomparve per andare ad eseguire l’ordine.
-    Ma sedete, sedete … Oh, permettete che vi presenti le mie congratulazioni per la vostra nomina al comando della Guardia Reale. Purtroppo non ho potuto partecipare al ricevimento in vostro onore e farvele personalmente perché mi trovavo ai confini del paese.
-    Ho ricevuto il vostro biglietto di auguri ed il vostro dono, vi ringrazio.
-    Non c’era bisogno che veniste di persona a ringraziare, Victor.
-    Infatti non sono qui per quello … Almeno, non solo per quello.
Il maggiordomo arrivò col vassoio e due bicchieri di brandy. Victor dovette interrompersi ancora.
Brindarono. Al re, alla regina, alla Francia e a loro stessi.
-    Chiedo la mano di vostra figlia, Francoise. – disse Victor all’improvviso, tra un sorso e l’altro.
Jarjayes deglutì malamente e dovette dare un paio di colpi di tosse per chiarirsi la gola.
-    La mia Oscar Françoise? – chiese incredulo.
Girodelle sorrise per la sua espressione sorpresa, ma si trattenne dal rispondere.
-    Oh, sì, certo, quale sennò. – constatò Jarjayes - Caro conte … La cosa mi sorprende, tanto, tantissimo … E mi riempie di gioia, non sapete neppure quanto. Ma tengo a precisarvi che non ho intenzione di forzare mia figlia: l’ultima parola sarà sua, è sempre stata molto indipendente.
-    Non chiedo diversamente.
Jarjayes prese fiato e si lanciò in un discorso che aveva già fatto cinque volte nella sua vita, e che ricordava abbastanza bene anche se erano passati parecchi anni dall’ultimo fidanzamento delle sue figlie.
-    La dote …
-    La dote e, vi prego, non abbiatene a male, ma non mi interessa. Generale, credetemi, sono certo di dover esser io a dovermi dimostrare meritevole di vostra figlia, non il contrario. Se madamigella mi concedesse l’onore di condurla all’altare, mi farebbe felice e non avrei bisogno di null’altro. Chiedo il permesso di corteggiare la vostra stupenda figlia, signore e, se lei mi vorrà, di renderla felice.
Jarjayes restò spiazzato dalla passione, dalla fermezza del giovane che, a differenza di tutti gli altri pretendenti sfilati per le altre cinque figlie, lo guardava fermamente negli occhi, e se timore aveva, non lo dimostrava affatto.
-    Vostro padre? Ne avete già discorso con lui?
-    Non chiede di meglio che diventare una sola famiglia.
L’uomo restò un istante senza parole.
-    Credo che a questo punto, io possa solo darvi la mia approvazione e … - si bloccò a guardare verso la porta.
Victor si volse per scoprire il motivo di quello sguardo.
-    Credo che ora vorrete parlare con mia figlia. – disse Jarjayes - Vieni avanti, Oscar.
Lei stava là, appena fuori della porta e sorrideva. Vestiva da uomo, ma il farsetto attillato non nascondeva le sue forme, tutt’altro; si stava sfilando i guanti che aveva indossato per cavalcare.
Victor si alzò e salutò con un inchino.
-    Madamigella …
-    Conte, che piacevole sorpresa! … Se volete, possiamo parlare in giardino: il roseto è un incanto in questi giorni. Sapete, padre, il conte Girodelle è … un amante della botanica.
Victor le lanciò una divertita occhiata di rimprovero, visto che il generale gli stava di spalle e non poteva vederlo. D’altronde, la scusa della botanica funzionava sempre.
-    Oh, in questo caso deve assolutamente visitare il nostro giardino, caro Girodelle. Oscar le farà volentieri da cicerone!


Così gli fece strada, accompagnata dal beneplacito del genitore.
Scesero lo scalone e traversarono l’atrio in silenzio. Lo guidò attraverso il cortile, girando attorno alla fontana e poi nei vialetti, attraverso il giardino all’inglese e poi al roseto in piena fioritura.
Ma il conte non pareva interessato ai fiori, almeno non quanto lo era a scrutare le sue forme. Era la prima volta che la vedeva in abiti maschili e coi capelli sciolti. Non riusciva ad evitare di osservarla muoversi, perché ogni gesto esaltava quanto fosse femminile, così nascosta ed al contempo così esposta al suo sguardo.
-    Vi piacciono le mie rose, Victor?
-    Come?
-    Conte … Tenete gli occhi sui fiori! – lo canzonò bonariamente.
-    Un po’ difficile con voi accanto … Avete una vena sadica, lo sapete?
-    Sì. – ammise senza vergogna - Di cosa volevate parlarmi, Girodelle?
-    Volete farmi credere che non lo sapete? – la stuzzicò.
-    Insinuate che stessi origliando? Così mi offendete!- rise, perché naturalmente aveva ascoltato tutto fin da quando il maggiordomo era uscito dopo aver servito il brandy.
Oscar pensò che il generale le era parso abituato a trattare la “compra-vendita” di una figlia da ammogliare, quanto i contadini di Arras trattavano l’acquisto delle mucche. E la cosa doveva ammettere che l’aveva delusa. In cuor suo sperava ancora di essere “diversa” per lui.
“Animali e bestie … “
Le donne rimanevano donne in ogni caso e il loro volere poteva contare quanto quello di un animale da fattoria. Sia che si trattasse di aristocratici coriacei come suo padre, o di liberali come l’amico Robespierre.
Alla fine le idee di Rousseau riguardo le donne erano radicate ad ogni livello sociale maschile.

-    Voglio corteggiarvi, Oscar. Voglio farlo seriamente, come si conviene, come è giusto, come meritate.
Almeno Girodelle non era di questo avviso, però. Aveva davvero delle qualità quell’uomo.
-    E lo avete chiesto a mio padre?
-    Il generale lascia a voi la decisione.
-    Ha solo timore che possa metterlo in imbarazzo, magari presentandomi in abiti maschili ad una festa di fidanzamento piena di pretendenti, creando uno scandalo senza precedenti.
-    Voi lo fareste, vero?
Rise.
-    Certo che lo farei! – garantì sincera - State cambiando idea su di me, Victor?
-    No. Resterei il solo pretendente a quella festa e nessuno ci disturberebbe più. – spiegò con semplicità.
-    Non amate la competizione?
-    Non amo perdere tempo. Sono qui oggi perché quando ci si accorge di voler passare il resto della vita con qualcuno, si vuole che il resto della vita cominci il più presto possibile. (2)
Oscar, non poté nascondere quanto la frase l’avesse colpita.
-    Victor … io …
-    No. – la zittì – Non dite nulla, non ora. Vi chiedo solo di conoscermi meglio. Mi permettete di corteggiarvi? L’ho chiesto a vostro padre, perché così è dovuto, e lui non si oppone. Ma è il vostro consenso quello che attendo e desidero.
-    Victor …
-    Voglio baciarvi, Oscar.
-    Ma quanta fretta …
-    Lo voglio dalla prima volta che vi ho visto. E credo di amarvi già da allora. Voglio baciarvi perché mi giocherò tutto in questo bacio. Voglio portarvi via ogni dubbio, ogni cruccio, ogni tensione, ogni dolore.
Le prese il viso tra le mani e non attese il suo permesso. Oscar chiuse gli occhi, trattenendo il respiro, tremando senza volere.
Era il suo primo bacio e anche lei sapeva che si stava giocando tutto.
Un salto nel buio. Ma stranamente, dopo un primo istante di terrore, capì che l’istinto l’avrebbe guidata. Si sentì sciogliere al delicato solleticare di quelle labbra sulle sue e si lasciò condurre. La cosa non era affatto sgradevole, dovette ammettere mentre lui la stringeva più forte. E non trovò sconveniente il suo pretender di più dalla sua bocca.
Si abbandonò e ricambiò l’abbraccio.


E più il bacio si faceva profondo, più la scena che immaginava da tanto, diventava concreta nella mente di Oscar.
Riusciva a vedersi mentre chiedevano consenso al re per il matrimonio.
Vedeva il re concederlo perché non c’era motivo per opporsi ad una così perfetta unione.
Si vedeva invitata nel salottino della regina, con le dame più in vista, in quanto fidanzata del comandante delle guardie; vedeva sé stessa ammaliare Sua Maestà quanto e più della Polignac.
Si immaginava accanto ai reali, ogni giorno; li scopriva a fidarsi di lei, quanto si fidavano del suo futuro consorte.
Non poté evitare di pensare che se a suo tempo fosse entrata a far parte della guardia reale ora non avrebbe avuto necessità di tutte queste macchinazioni.
Robespierre non era d’accordo con lei ed anche Bernard aveva espresso delle riserve.
Ma i tempi stavano cambiando.
Le cose dovevano cambiare.
E se avvocati e giornalisti preferivano usar parole, lei si trovava certamente più a suo agio con pugnali e pistole.

Non doveva essere necessario. No, questo no. Ma se lo fosse stato, lei sarebbe stata lì.
Luigi e Maria Antonietta …
E lei.
La persona giusta.
Al posto giusto.
Al momento giusto.


-    Continua

***

La vera Oscar non accettò di indossare un abito femminile nemmeno per difendere Maria Antonietta, ma era giovane, doveva far valere il suo grado, rispettare l’uniforme per la quale il generale aveva tanto insistito, doveva sentirsi “uomo” davanti ai suoi soldati. Questa Oscar non ha una uniforme  da dover onorare, né soldati ai quali mostrarsi perfetta: questa Oscar è disposta ad essere più subdola per arrivare dove vuole.
Avrete riconosciuto frasi che nell’anime venivano pronunciate da Bernard e da Saint Just. Alla fine non ho messo la frase completa che diceva Saint Just:  “Luigi e Maria Antonietta: vai e uccidili”: Oscar non lo crede necessario, ma, nel caso, lei potrebbe avere anche questa opportunità.
Per lo stravolgimento della scena del manga, quella nel roseto,  giustamente penserete che Oscar non lo baciò perché ricordava il bacio di André e voleva restasse il solo. Ma qui non è accaduto, non ha nessun paragone da fare. … :D non ancora !


Due date: Robespierre inizia ad esercitare ad Arras: 8 novembre 1781; il 15 novembre 1783 parte per tornare a Parigi e “la mia” Oscar lo segue poco dopo.
E’ una parte che avrei voluto più corposa, ma … boh, vedremo.
Salutiiiiii!

1)    Come tanti, pensavo che i moschetti fossero lenti da caricare, invece ho letto che un soldato allenato poteva arrivare a sparare ben 3 colpi in 45 secondi. Quindi … Oscar può metterci anche meno! :D
2)    “rubata” al film “Harry, ti presento Sally”




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Capitolo 9
*** Doppio inganno ***


I re del mondo cap. 8
Cap. 8: “Doppio inganno”

Vigilia di Natale 1783, Parigi

Alla porta era uno scampanellio continuo quella sera.
Parenti e amici si presentavano a decine ed era un susseguirsi di auguri, baci, abbracci.
Poi, puntualmente, arrivava la domanda seria, scomoda, inevitabile e la risposta dei padroni di casa era lo stesso identico dondolare sconsolato di capo.
“Povera ragazza”, mormoravano tutti.
Camelia Desirée, da febbraio vedova Chatwell, sedeva in un angolo fingendo di non sapersi al centro dei mormorii, del compianto.
“Una donna così giovane, così bella … Una coppia così affiatata, così felice.”
“Figli?”
Non erano arrivati.
” Probabilmente, lei”, l’opinione prevalente maschile; ”Probabilmente, lui”, quella femminile.
Tutti concordi che, di certo, era stata una sciagura. Figlia unica, giovane e già tanto provata dalla vita.
“Povera ragazza, povera Desirée.”
Il nero non le donava affatto. Con quella pelle di perla, quelle labbra rosee, gli occhi velati di violetto ed i capelli neri più dell’abito.
L’oggetto di così tanto pettegolezzo, notò quell’uomo. Lui le sorrise da lontano e ella cercò e trovò un sorriso, sepolto nelle profondità del suo dolore, col quale ricambiarlo.
Non lo aveva più visto dal giorno del funerale, a Londra.
- Ambasciatore… E’ da molto che non ci vediamo. – constatò quando lui le si avvicinò per renderle omaggio.
- Me ne rammarico. Ma, ditemi, come state, milady?
Ella abbassò lo sguardo sul proprio abito a lutto, accompagnandosi con un respiro, ma senza proferir parola. Il suo aspetto già diceva tutto.
- Lui non avrebbe voluto vedervi così.
- Non riesco a farmene una ragione di questo destino.
- Il destino c’entra poco con la morte di vostro marito. – si lasciò sfuggire volontariamente.
Lo sguardo di Camelia si fece improvvisamente cupo.
La mente tornò a quando proprio quell’uomo elegante, distinto, una persona di famiglia per lei e Ross, le aveva portato la notizia: una terribile ed improvvisa tempesta, uno schianto sugli scogli, un drammatico naufragio. Pochi sopravissuti e la certezza che lui non fosse tra quelli.
Le era stato accanto, l’aveva assistita e scortata in persona a Londra per le esequie. L’aveva sorretta accanto alla bara nella quale le era stato impedito di guardare. Poi lei aveva preferito rientrare in Francia, perché il solo legame con l’Inghilterra era lui, Ross; ed ora che non c’era più, non voleva sentire il peso che i suoi parenti facevano ricadere su di lei: la colpa di essere viva, oltreché francese.
Adesso l’ambasciatore se ne usciva con quella frase sibillina. Le parve di vedere crollare una maschera dal suo volto.
La tragedia l’aveva fatta crescere; era diventata osservatrice e cinica nei giudizi; aveva portato allo scoperto tanti falsi amici; ormai riconosceva le tracce delle menzogne sui volti.

- Spiegatevi! – ordinò senza convenevoli.
- La nave incappò in una tempesta e fece naufragio, questo è vero. Ma il viceconsole era già morto accoltellato a bordo. Abbiamo più di un testimone a confermarlo, oltre all’esame delle sue spoglie.
- Assassinato? Mi state dicendo che è stato assassinato!
- Vostro marito lavorava per i servizi segreti di re Giorgio, milady. E’ perito per ragioni di servizio, per mano francese.
- Chi? – balbettò - E perché solo ora ne vengo informata!- aggiunse mentre la rabbia montava.
- Come avete probabilmente saputo, abbiamo un nuovo primo ministro. L’incartamento di vostro marito è giunto in sue mani a seguito di un rapporto segreto su un personaggio di spicco del gabinetto francese che a suo tempo faceva il doppio gioco e guidò in trappola Lord Ross William Chatwell. Milady, posso assicurarvi che il responsabile materiale del vostro lutto è perito nel naufragio. Il cadavere dell’assassino venne trovato sulla spiaggia. Il povero Chatwell vendette cara la pelle … Ma il mandante si trova qui a Parigi e gode di ottima salute. Disgraziatamente per l’Inghilterra.
- Perché dovrei credere a voi, avvezzo a giocare con le persone, quanto un baro lo è con le carte?- lo pungolò senza celare il veleno.
L’uomo mise mano al panciotto e ne estrasse una lettera.
Camelia la prese con mano tremante, avendo già riconosciuto il sigillo del marito impresso nella ceralacca.
- Vi chiedo solo di credere a vostro marito …
La donna prese la busta, la tenne fra i palmi delle mani, respirando profondamente ad occhi chiusi, tentando di quietare il battere furioso del suo cuore.
Non voleva piangere, ma il dolore, mai diminuito in quei mesi, e la rabbia montante per quei segreti rendevano molto difficile trattenere le lacrime.
Spezzò il sigillo e cominciò a leggere.
Già alla prima riga, una goccia salata fece capolino e non poté trattenerla: era davvero una lettera di Ross.

“ Mia adorata moglie, debbo domandarvi perdono. Sì, perché se state leggendo queste righe, non sono più con voi. Vi ho delusa. Questa lettera significa che tutto ciò che sognavamo è svanito. E vi sto dando un altro dolore perché il marito che conoscevate ed al quale nulla nascondevate, aveva invece segreti per voi.
Un obbligo che mi ha sempre pesato, ma al quale ero purtroppo tenuto.
Voglio dirvi che vi ho amata, totalmente, infinitamente. Lo sapete già, ma non ve l’ho ripetuto abbastanza.
So che poiché state leggendo queste parole, vi è stata detta la verità sulla mia doppia vita, sul mio incarico a Parigi. E, se conosco il vostro animo come penso, starete ribollendo per le mie menzogne ed al contempo brucerete dal desiderio di vendicare la mia morte. Ma se il colpevole è colui che credo, vi supplico di desistere, di non cedere alle pressioni. Si tratta di un uomo molto pericoloso e, se i servizi segreti inglesi sono da voi, ora, è segno che questa persona sta diventando un serio pericolo anche per l’Inghilterra oltre che per la Francia, verso la quale non nutre certo sentimenti di lealtà.
Abbandonate ogni desiderio di vendetta, mia Desirée.”

- Chi è il mandante?- chiese prima ancora di finir di leggere la lettera.
L’amabsciatore si avvicinò e, guardandosi attorno con aria circospetta, la spinse in un angolo e le bisbigliò un nome.
Gli occhi violetti si spalancarono per la sorpresa e dovette portarsi una mano sullo stomaco, rivoltatosi.
Se lo conosceva? Certo, le era stato molto vicino dopo la “disgrazia”, quel tipo di vicinanza che, glielo aveva confidato apertamente, si augurava potesse mutare in altro, una volta terminato il lutto … Le era stato vicino, sì, troppo, con troppa insistenza. E sebbene lo trovasse lontanissimo da una persona che avrebbe anche lontanamente potuto trovare interessante, mai, mai avrebbe potuto immaginare che … Si aggrappò con la mano alle tende, mentre sbiancava oltre il suo pallore già preoccupante.
Il console la prese per un braccio, certo che stesse per avere un mancamento. Ma Camelia lo allontanò, secca, attirando lo sguardo scandalizzato di alcuni invitati.
Solo furia cieca, non un malore.
- Ditemi tutto.- ordinò.
L’ambasciatore lesse la determinazione nel suo sguardo. Ci aveva sperato in quel furore.
- Sappiamo che questo individuo è salito nella gerarchia del potere grazie alle informazioni trafugate facendo il doppio gioco. Sappiamo che Re Luigi lo tiene molto vicino ed in palmo di mano poiché teme possa tradire ancora la Francia e perché ha necessità delle informazioni che costui riesce ancora a reperire. Purtroppo, ha ancora molti segreti da poter diffondere, alcuni veramente pericolosi. Il nostro ministro ha potuto verificare che egli gode tuttora di una rete di informatori, di traditori dell’Inghilterra. Re Giorgio desidererebbe fermare questo individuo e coloro che lo aiutano.
- Ed io? Perché dovrei … In questa lettera, Ross non mi chiede di aiutarvi e la mia lealtà va unicamente al suo ricordo. Per non dire che, in fondo, sono Francese e cugina di Sua Maestà …
- Perché il nome di vostro marito è in queste liste fra traditori, prezzolati, farabutti. E, sebbene sia tutto falso, non ne esce un ritratto onorevole di lui, da qualunque lato della Manica lo si guardi.
Lo guardò disgustata.
"Un ricatto, insomma.
"
- Perché io? Perché ora?
- Non obbligatemi a spiegarvi quale vantaggi può avere una donna, incantevole quale siete voi, su un uomo siffatto. Siamo a conoscenza dei suoi … programmi sentimentali nei vostri riguardi. Accontentare il mio re, vi permetterebbe la vendetta, milady. Dovete solo trovare quei documenti imbarazzanti e poi ci accerteremo che costui abbia la fine che merita.
- Mi state chiedendo ciò che penso? Voi osate chiedermi …
- Non siete obbligata a … concedervi, no. Ma più lo illuderete, più ci avvicineremo alla distruzione della sua rete. Troppi agenti sono periti o scomparsi seguendolo. E purtroppo, non basta tagliare la testa al serpente per sconfiggerlo, in questo caso.
Camelia scrutò gli invitati che la fissavano.
Nei loro occhi si vedeva riflessa come una povera giovane donna in lutto. Una derelitta. Sguardi pietosi, pochi quelli sinceramente preoccupati.
Lo sguardo tornò alla lettera, e venne attirata dalla parola “abbandonate”.
- Io non abbandono chi amo … - mormorò carezzando la firma.


***


Parigi, 1784, metà agosto

La donna raggomitolata sulla poltrona, piangeva.
Nel buio, tra le mani, stringeva un piccolo ritratto, di un giovane biondo e bello.
“Cosa ti porto da Londra?”, le aveva chiesto prima di salire sulla carrozza quel giorno.
“ Il mio londinese”, aveva risposto lei stringendolo forte.
Invece a Londra non ci era mai nemmeno arrivato.
Carezzò l’immagine con un dito, senza riuscire a frenare le lacrime.
“Non abbandono chi amo”, si era detta quel giorno in cui aveva giurato di vendicarsi. Ma quella vendetta le stava costando molto cara.
Fréville era stato parecchio insistente con lei, col suo corteggiamento, ed il solo modo per avvicinarsi, indurlo se non a fidarsi, almeno a confidarsi, l’aveva spinta a fare sul serio, con un vero matrimonio al quale lui teneva particolarmente, sicuramente più per il prestigio che gliene sarebbe derivato che per reale interesse verso di lei; Camelia era di stirpe reale, non in lista al trono solo perché donna. Ma averla sposata portava Fréville un passo più vicino al Re.

Tutto ciò aveva implicato il sacrificio del suo corpo alle voglie pressanti di quell’uomo orribile.
Per fortuna si era stancato presto della poca partecipazione della moglie, preferendo la stanza della servetta alla sua.
Quando capitava, chiudeva gli occhi e si rifugiava nei ricordi, nella menzogna, immaginando altre labbra, altra pelle.
Con sorpresa, in queste fantasie era apparso Victor e ciò la faceva disperare, alternando la gioia di conoscerlo all’angoscia di non poterlo avere liberamente.
Non lo avrebbe mai immaginato allora, non solo che sarebbe accaduto ancora quel che aveva ritenuto impossibile, addirittura così presto, ma così era stato: era innamorata di un altro. Amava Victor.
E lui ora si sarebbe cercato una sposa, una donna che avrebbe amato, perché sapeva che lui non concepiva un’ unione di puro interesse.
Certo, una selezione per affinità, lignaggio, stato sociale ed economico era ragionevole.
Acqua e olio non si mischiano.
Ma non avrebbe messo solo testa nella ricerca, il cuore per lui era essenziale.
E lei ora poteva solo piangere perché era diventata vittima della sua stessa vendetta.
Il Natale precedente, si era detta che il responsabile avrebbe pagato, a costo di danzare col diavolo per riuscirci, ma l’impegno a fornire a re Giorgio ciò che richiedeva, l’aveva portata a letto con Lucifero, non solo a volteggiarci. Quel matrimonio era un prezzo troppo alto.
Le informazioni che riusciva costantemente a passare ai suoi contatti erano preziose, erano tante e rodevano l’organizzazione di Fréville, rendendolo ansioso come una belva circondata dall’acqua che sale. Vederlo così sulle spine era la sola cosa che la mandava avanti. In quei pochi mesi aveva sgretolato la sua rete, arrivando sempre più vicina al cuore; una ragnatela costruita in decenni di inganni, macchinazioni, omicidi. Ma la famosa lista per la quale messa in gioco, continuava a restare più una leggenda che qualcosa di concreto.
Sposandolo era riuscita ad ottenere molto, informazioni, nomi, luoghi, spostamenti … Ma gli incartamenti che avrebbe potuto rovinare la memoria di suo marito, quelli erano ancora un segreto. E cominciava a domandarsi se esistessero davvero o se fosse tutta un’invenzione per poterla reclutare.

Trovarli avrebbe significato la fine del suo impegno a tallonare Fréville e, in un modo o nell’altro, quel matrimonio sarebbe giunto alla fine.
Aveva cercato dovunque, origliato chiunque, ma il dubbio che tali carteggi non si trovassero né a Parigi né a Versailles, diventava sempre più una certezza.
E lei al nord non era mai riuscita a farsi portare. Un ostacolo dovuto alla sua fragilità solo apparente, alla sua femminilità.
Ci aveva provato a farsi invitare dal marito, ma insistere toppo avrebbe finito con l’aumentare i suoi sospetti.
Sapeva che quei viaggi al confine non erano solo un hobby. Lassù Fréville trafficava, ma non c’era modo di avvicinarsi, tanto meno di infiltrarsi. Il solo agente che ci era riuscito, aveva fatto una fine orrenda sotto il ghiaccio del lago.
Il marchese era conscio di essere controllato dai servizi inglesi e che tra i suoi collaboratori, tra i suoi domestici, c’era una talpa. Per questo avvicendava spesso il personale, specie quello maschile visto che non reputava le donne una minaccia.
Si sentiva anche lei impotente.
Come poteva indurlo a smuovere le prove?
Udì uno scricchiolio. Passi felpati sul parquet.
Sbirciò dal lato della poltrona, tirando contemporaneamente su i piedi e raggomitolandosi ancor di più, diventando invisibile.
Un’ombra era appena entrata nel salotto passando dalla porta finestra che dava sulla grande terrazza.
Vestiva di nero e si muoveva piano, con cautela, ma decisa alla debole luce della luna che si rifrangeva sugli ampi specchi della sala. Vide l’intruso spostarsi verso lo studio dall’altro lato della galleria principale. Vide una candela accendersi e sentì un debole frusciare dei cassetti, legno su legno, poi carta su carta. Rumori sordi, picchiettare e poi un colpo più secco: aveva trovato lo scomparto segreto.
Camelia aveva già frugato lì, sapeva esattamente cosa conteneva; aveva già perquisito, esaminato, copiato tutto quanto due giorni prima.
Chi era costui? Un concorrente?
Scese piano dalla poltrona e, scalza e leggera, si diresse nel corridoio. Nascosta appena dallo stipite, poteva vedere l’intruso di spalle, solo un’ombra riflessa leggermente distorta nello specchio sul caminetto; era intento ad esaminare gli stessi carteggi per i quali lei aveva inoltrato rapporto al suo contatto inglese; carteggi che avrebbero dovuto trovarsi a Versailles ed invece Fréville se li teneva molto vicini.

- Camelia? Siete voi?
La donna sussultò e capì che pure l’intruso si era allarmato perché scorse la debole luce spegnersi di colpo.
“Maledizione a lui ed al suo sonno leggero!”
E la servetta era andata a trovare la madre malata. Lui non aveva “impegni notturni”.
Si era finta addormentata al suo rientro e lui non l’aveva scomodata.
- Sì, mio signore! – s’affrettò a rispondere, avviandosi ai pochi gradini che introducevano al corridoio per le stanze private. Ma lui era già sceso nella galleria.
- Non vi sentite bene, mia cara?
- Solo un po’ di arsura che mi ha portata alle cucine a cercare dell’acqua, ora possiamo tornare a dormire.
L’uomo si guardò intorno.
- Avete udito rumori sospetti?
- No, a meno che non siano le vostre guardie sul portone.
Lo prese sottobraccio con l’intenzione di portarlo lontano e lui inarcò un sopraciglio, sorpreso dal suo modo di fare.
“Pessima idea, Desirée”, si disse notando il suo sguardo.
- E’ una serata molto calda, vero?
Le passò due dita sullo scollo della camicia che, allacciata malamente, le lasciava nude le spalle e parte del petto.
Camelia arretrò di un passo, spinta dal pensiero prepotente di lui, urtando la parete.
- Torniamo a dormire, signore, è molto tardi. – tentò.
- Mi è completamente passato il sonno, madame.
Le abbassò lo scollo sul seno e si chinò a baciaglielo.
Camelia si morse un labbro, cercando di farsi forza.
- Signore, non stareste più comodo nella nostra stanza?
- Troppo lontana, amore mio …
La strinse sulle anche attirandola contro il suo bacino.
Si appoggiò pesantemente a lei, spingendola ancor più contro la parete.
Un bacio sulla bocca, pesante, sgraziato, avido.
La sua mano brancolava sulla veste da notte, sollevandogliela fino alla vita. Quindi si portò alla mano alla cintola, denudandosi dove gli occorreva, dove il tessuto era già una costrizione dolorosa.
Alzò la coscia di lei e premette brutalmente, incurante di quanto potesse non essere pronta la moglie ad accoglierlo.
Camelia si portò una mano alla fronte e chiuse gli occhi, cercando di ignorare i versi animaleschi di Fréville impegnato a sbavare sul suo collo, suoni più adatti ad un suino che ad un gentiluomo.
“Non dire il suo nome, non invocare il suo aiuto!”, si forzava pensando a due occhi verdi, sinceri ed appassionati, a quelle ciocche bionde che le avevano lambito i seni ed il ventre solo poco tempo prima con una delicatezza trattenuta e generosa.
“Victor, ti amo … Sei la sola cosa che mi separa dalla pazzia. E non sei mio”

Approfittando della situazione, l’intruso lasciò lo studio, traversò la galleria e si infilò nel salone, scivolando alle spalle di Fréville.
Camelia guardò la persona in nero e la riconobbe, non senza stupore, anche nell’ombra, con quei capelli così biondi.
E non poté non avvampare per la rabbia.
Cosa stava tramando Oscar Françoise De Jarjayes?
Le aveva già portato via Victor, cosa voleva ora, con quei panni da bandito addosso, a casa di Fréville?


André alzò lo sguardo al cielo che si stava facendo sempre più nero e tra poco avrebbe oscurato la luna. Stavano arrivando nubi cariche di pioggia, lo si capiva dall’odore nell’aria; un gran bel temporale estivo del quale già si sentiva in lontananza il tuonare.
Con Alain stava finendo il giro di ronda per quella notte, seguiti a pochi metri da Lasalle e Pierre.
- Quindi? Davvero non vuoi dirmi niente della tua bionda? – continuava a tormentarlo l’amico.
- Non è “la mia” bionda …
- Sì, scusa: il tuo “istruttore”. Le lezioni vanno bene?
- Non hai una vita tua della quale occuparti?
- Attualmente, la tua è più interessante.
Attraversarono la piazza e salutarono le guardie al cancello del ministro, che a fatica ricambiarono.
- I soliti pezzi di … - mormorò Alain.
Svoltarono l’angolo attorno alla residenza, alcune gocce cominciavano a cadere.
Un rumore di fronde attirò la loro attenzione.
- Ehi, ma …
Un ombra stava calandosi dal terrazzo dei Fréville, scendendo lungo la grande magnolia che profumava di limoni.
- Alt! – gridò Alain.
Lasalle alzò il fucile e, prima che il “no” di André finisse di riecheggiare, il colpo era a destinazione.
Videro la sagoma cadere, un tonfo sordo.
- Preso!
Allo sparo di Lasalle fecero eco le grida dei militari al cancello, che correvano attraverso il giardino.
Alain e Pierre si mossero a ritroso verso l'ingresso alla villa.
- Di là! di là! – esclamò Lasalle, vedendo l’intruso scavalcare la cancellata più in là.
André si lanciò all’inseguimento, seguito dai suoi uomini.
Dovettero dividersi, poiché il “presunto ladro” si era già perso in uno dei tanti vicoli che si diramavano dalla via maestra.
Fréville si era affacciato alla terrazza e seguiva l’inseguimento con aria preoccupata. Immobile, poggiata all’ampia finestra dietro di lui, Camelia, umiliata, si stringeva nella camicia da notte, combattuta tra due desideri: quello razionale, che Oscar non venisse catturata così la sua copertura sarebbe stata ancor più sicura; e quello umano di veder la propria rivale languire prigioniera alla Bastiglia.

La pioggia decise di rovesciarsi in quel momento.
André lasciò la sua cavalcatura e scese le scale del vicolo, pistola alla mano. Era abbastanza sicuro di aver visto il ladro infilarsi lì, ma non aveva detto nulla ai suoi compagni perché era altrettanto abbastanza sicuro che non si trattasse di un ladro.
Una figura esile ed elegante come quella … E quei capelli così biondi …
Avanzò piano, nel buio quasi totale, frastornato dall’acqua, dai tuoni che facevano tremare le vecchie mura.
Poi un lampo. E la vide. Acquattata dietro pile di legname ed immondizia, lo fissava con la pistola su di lui. Tremava e con l’altra mano si stringeva un fianco.
La vide strizzare lo sguardo, abbassare l’arma non per scelta ed inclinare il capo, perdendo i sensi.

- Capitano! – stava gridando Alain dall’imbocco del vicolo.
- Qui non c’è nessuno! - mentì André incontrandolo – Voi?
- Niente! Il bastardo è sparito, capo. Evidentemente, Lasalle ha fatto cilecca anche stavolta.
- Già … - mormorò André. – Torniamo alla residenza e raccogliamo le testimonianze.
Fréville li attendeva sotto il portico. Non nascose la sua irritazione quando André riferì che l’intruso aveva fatto perdere le tracce.
- Non mi sarei aspettato diversamente dalla Guardia Francese. –
Il capitano inghiottì l’insulto, mantenendosi imperturbato: non gli importava l’opinione di quel gradasso.
- Andate, domani voglio un rapporto ufficiale.
Scattò sull’attenti.
- Sissignore.

Alain lo aspettava fuori, guardandosi in cagnesco coi soldati della guardia personale del ministro.
- Calci in culo o zerbino?
- Un po’ di entrambi.
- Che pallone gonfiato, eh? Se non ci trattano di merda non son contenti, quelli come lui.
- E’ un ministro …
- Già e deve pur buttarlo fuori tutto il gas che si ritrova dentro, no?
André si avvicinò al proprio cavallo, Pierre gli passò le redini.
La pioggia non accennava a diminuire ed erano ormai fradici.
- Signori, direi che per stanotte abbiamo finito. Tornate pure alle camerate, io me ne vado a casa. Domani voglio il vostro rapporto sulla serata.
- Sissignore – esclamarono in coro.
Si salutarono e partirono in direzioni opposte.
Dopo un centinaio di metri, André certo di non poter esser visto, tornò al vicolo.
Lei era ancora là, appena riparata dalla pioggia più violenta. Posò due dita sul collo per verificare il battito. Sospirando di sollievo, le scostò una ciocca umida dalla guancia e la carezzò piano.
La serata per lui non era ancora finita.



***



Aprì gli occhi e vide le fiamme del camino, il cui calore era stata la prima sensazione avvertita mentre si risvegliava.
Sentì violento il bruciore al fianco, ma ciò che più la disturbava era quel martellare sordo nella sua testa.
Cercò di tirarsi su, confusa, non riconosceva quel luogo.
- Ehi ehi, piano! – esclamò André accorrendo al suo fianco.
Lo riconobbe e gli permise di rimetterla sdraiata sulla chaise longue, dove affondò nei cuscini.
- Che è successo? – borbottò Oscar.
- Non ricordi? Stavi uscendo in modo poco ortodosso dalla casa di Fréville …
- Oh… sì … - ammise rammentando - Mi hai sparato tu?
- Se così fosse, saresti morta. Difficilmente manco il bersaglio da quando mi alleno con te.
Le sorrise.
- Sei svenuta per la bella botta che hai in testa. – chiarì – Niente sangue, ma un bozzo grande come un limone. D’altronde suppongo che la tua testa sia più dura del marmo sul quale hai sbattuto … - aggiunse con ironia.
Oscar lo guardò malamente, reprimendo una smorfia di dolore quando le posò una pezza intrisa d’acqua fresca sui capelli.
Si guardò intorno, soffermandosi sui ritratti solenni, in posa, di persone che non aveva mai conosciuto, probabilmente morte da tempo.
- E’ casa tua?
- Sì, era il posto sicuro più vicino.
- Non ti somigliano.. – mormorò alludendo ai ritratti.
- Non sono parenti miei. – rispose semplicemente - Ora controlliamo la ferita. Per fortuna il soldato Lasalle non ha mai avuto una gran mira … - sollevò la camicia nera, completamente aperta, dai suoi fianchi; i pantaloni stavano leggermente abbassati, là dove aveva posato le garze, che levò per controllare. - Ti ha presa di striscio e già non sanguini più. Tra poco tornerai come nuova.
Disse sfiorando con delicatezza la pelle attorno allo sfregio, attorno al quale stavano altre vecchie cicatrici.
- Mio padre non è mai stato tenero negli allenamenti … - spiegò lei in risposta alla muta domanda.
Le carezzò piano i tagli rimarginati che non dolevano più da anni, ma che in un altro modo facevano ancora male.
Oscar rabbrividì.
Lui la guardò e le dita si allargarono in cerchi più ampi, passando dal fianco al costato ed al centro del torace.
- Vestire da uomo ti rende “maschio” nelle azioni? – mormorò.
- Mi rende “libera”. – disse prontamente, cercando di reprimere i fremiti.
- La libertà nasce dentro: qui e qui. – ribatté indicando con l’altra mano, la testa ed cuore, come un tempo il barone aveva fatto con lui - Io vedo solo sbarre attorno a te. Tuo padre e i suoi esperimenti, i tuoi “amici” rivoluzionari … Sei passata da una gabbia ad un altra. Perché ti sei mischiata con gente del genere! Ci sono teste calde, estremisti …
- Noi siamo dei privilegiati – disse Oscar.
- Ci sono cose che non vanno, lo ammetto, ma esistono altri modi per cambiare le cose …
- Non riesco a stare a guardare! Tu sì?
- Io devo tutto ad un aristocratico, un uomo buono, non certo il solo, e non amo sputare nel piatto in cui mangio. Tu sì?
Per qualche istante si udì solo lo scoppiettare del fuoco nel camino e lo scrosciare del temporale estivo.
L’uomo tardava a levarle la mano dal petto.
- Stai aspettando il permesso? – lo sfidò lei.
- Aspetto di sentire un po’ di calore invece di questo blocco di ghiaccio che ti porti nel cuore.
- Ohh, ma io sono tutta un fuoco… - obiettò lei prendendogli la mano e spostandogliela sul seno.
Dopo un istante di sorpresa, il moro sorrise beffardo.
- Ma che intraprendenza… - mormorò abbassando appena lo sguardo, con un certo imbarazzo.
- Come un maschio? Sì, questo mi è stato insegnato ad essere; ogni mio ricordo, è il ricordo di un maschio; anche rifiutare di entrare nella Guardia Reale per badare ad una ragazzina viziata è stata una mia scelta. Nella vita ho sempre fatto come ho voluto, ho sempre preso, proprio come un uomo.
- Solo finché ti è stato concesso da tuo padre. Non hai forse detto che sei tornata perché vuole che ti sposi? – obiettò, muovendo il pollice sulla pelle morbida, inciampando nel capezzolo. Oscar sussultò a quella sensazione. – E poi… - sorrise affilando lo sguardo – non sono sicuro di questa spavalderia che dimostri, no, non in questo campo.
Allungò l’altra mano, sfiorando il ventre nudo fino al bordo dei pantaloni , ci infilò due dita, facendole scivolare piano sulla sua pelle, sorridendo dei suoi brividi.
- Hai cominciato una partita nella quale non conosci tutte le regole del gioco, una partita che non credo tu abbia mai giocato fino alla fine, Oscar Françoise De Jarjayes.
La vide artigliare i cuscini del divano. Massaggiava la parte sulla quale lei, così spavaldamente, gli aveva spostato la mano e, mentre la distraeva su quel fronte, con l’altra mano tirava piano l’angolo dei pantaloni, cedevoli quanto lei, zigzagando sulla sua pelle con due dita, finchè si imbattè nei riccioli del suo inguine, nei quali sostò. Oscar chiuse gli occhi, mentre, lento ed inesorabile si chinava sul suo viso, librandosi a pochi centimetri dalle sue labbra, come in attesa .
Lei pareva morire, combattuta dal desiderio di insultarlo per quella deliberata lentezza, e la voglia di affrontare in prima persona l’azione, invece di subire.
André si chinò di più, arrivando a sfiorarle la guancia col naso, mentre dirigeva le labbra al suo collo per aggredirlo, piano. Scese poi sul petto, sostituendo le labbra alla mano, e lei dovette abbandonare la presa sul divano per artigliare il suo capo. E poi ancora più giù, verso l’altra carezzevole mano. E si sentì vinta, sconfitta a quel gioco che lei stessa, avventatamente, aveva iniziato.
- Lo so come ti senti… Sono solo anch’io – disse ad Oscar sulle sue labbra. – Ma non è un buon motivo …
E si alzò da lei, abbandonandola improvvisamente.
- Vado a prenderti qualcosa da mangiare.
Non poté far altro che restarsene lì, ansimante e confusa.

Tornò presto con cioccolata calda, biscotti e due mele.
Oscar teneva il capo chino, lo sguardo basso ed imbarazzato.
Stupida, cosa pensava di fare?
Ma pareva che lui non desse importanza alla sua sciocca avance.
L’aiutò a sollevarsi sui cuscini, toccandola senza malizia.
Le porse la tazza calda, invitandola a bere.
Quindi si sedette sul bordo della chaise longue e cominciò a sbucciare ed affettare una mela.
Le allungò una fetta in silenzio. Oscar accennò un tentativo di sottrarsi al suo volerla imboccare.
- Mangia! – ordinò in un sussurro.
Lo sguardo fisso su di lei, severo, luccicava per le fiamme del camino, mentre lo scroscio dell’acqua fuori ed i fulmini sovrastavano il crepitare delle fiamme.
Oscar aprì piano le labbra. Non era mai stata brava ad obbedire, ma quell’uomo … Forse era solo debole per la brutta caduta e lo sfregio: non si sentiva di combatterlo.
Sbocconcellò la fetta del frutto, un pezzetto alla volta, fino all’ultimo che prese fra le labbra insieme alle due dita che glielo porgevano. Le dita si attardarono all’angolo della sua bocca, per pulirle da una goccia di cioccolata.
E si fece improvvisamente caldo per entrambi.
- Io … per me è stata una giornata pesante. – disse lui, levando velocemente la mano ed alzandosi. – Vado a riposare. E dovresti farlo anche tu. Buonanotte, Oscar.


La pioggia scendeva incessante, ma il temporale pareva essersi quietato.
Le fiamme nel camino stavano morendo piano e con esse la luce.



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Guardava i volti, appena distinguibili nella penombra, di quegli sconosciuti appesi alle pareti e le sembrava di guardare la sua stessa famiglia. Poco più di ombre vaghe, non veri affetti.
“Sono solo anch’io”, le aveva detto. Lo conosceva da poco, eppure riusciva a capirla più di quanto lei capisse sé stessa.
E allora sentì il bisogno di farlo.
Posò un piede, nudo, sul pavimento, poi l’altro. Tenendo una mano premuta sul fianco si alzò e si diresse alla porta.
La casa era buia, silenziosa. Triste.
Prese un candelabro che lui aveva lasciato acceso sul tavolo, salì le scale. Il legno stagionato scricchiolava piano sotto i suoi piedi. Era caldo, diverso dal marmo di palazzo Jarjayes.

Di sopra, provò più di una porta, ma solo una si aprì.
Ferma lì lo vide, coperto malamente da un lenzuolo, sdraiato di schiena e scomposto nel letto; nonostante la pioggia, la camera al primo piano era afosa.
Disturbato dal debole spicchio di luce, l’uomo apri gli occhi. Non dormiva ancora.
Oscar si mosse verso di lui, posando nel tragitto il lume, un passo dopo l’altro, limitata nel movimento dal dolore della ferita, ma decisa, dritta come una bimba spaventata dal temporale. E come una bimba spaventata salì sul letto e, con cautela e qualche lamento, si rannicchiò al suo fianco.
Non una parola accompagnò i suoi movimenti. Non una domanda fece lui.
Si sdraiò sul lato sano, a ridosso dell’uomo., premurandosi di prendere la sua mano e trascinargli il braccio sotto il suo capo.
Egli si sollevò un poco per guardarla in volto, quindi posò il capo sul cuscino, affondando nei capelli biondi. E si addormentò.


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Il mattino arrivò ancora una volta. La pioggia torrenziale si era sfogata, causando danni qua e là, come normalmente consegue agli eccessi di qualunque tipo.
Mosse la mano leggermente posata sul ventre della donna e capì che anche lei era sveglia, perché il respiro si fece più profondo a quel contatto.
Spostò la mano sulla fronte: era fresca, niente febbre, niente infezioni.
Non sapeva che dire. Qualunque cosa gli pareva stupida, se non inappropriata in quella posizione alquanto imbarazzante.
Non era la prima volta che giaceva con una donna nel letto, ma di certo era la prima volta che ci dormiva.
Tuttavia, erano rimasti nella stessa posizione tutta la notte e sentì il bisogno di muoversi.
Sfilò cautamente il braccio da sotto il capo di Oscar, sollevandosi sul gomito, e lei si volse piano, per aiutarlo, mettendosi quasi di schiena. Si trovarono così a guardarsi negli occhi.



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Un pesante imbarazzo rese ancor più silenzioso il silenzio fra loro. La curiosità reciproca era evidente.
E nell’indecisione del momento, André pensò “perché parlare?”
L'approccio fu più delicato di quello della sera prima e lei lo ricambiò con uguale dolcezza.
Non vi era alcunché di arrogante, violento nel loro esplorarsi reciproco.
André scavalcò il suo corpo, attento a non urtale il fianco, in modo da metter lesi di fronte, continuando a baciarla piano, mentre la mano le spostava la camicia solo accostata e quella di lei si insinuava nel bordo posteriore dei suoi mutandoni. Si lasciò scivolare sul fianco, per non poggiarsi su di lei.

Oscar sussultò appena quando lui le sfiorò la pelle del ventre. Era stato attento a non toccare la ferita che cominciava a tirare fastidiosamente, segno di iniziata guarigione. Le dita di André corsero sotto la vita, abbassandole i pantaloni, fin dietro sulla natica, e poi giù, nel suo intimo, tirandola contro di sé.
Oscar emise un lamento, ma non di dolore e a sua volta, gli cinse il collo con la mano destra, bloccata fra loro, mentre la sinistra gli percorreva la schiena su, giù, con la delicatezza dei polpastrelli, col taglio delle unghie. Le carezze si erano appena spostate sul ventre di lui che udirono dei colpi alla porta principale.
Sobbalzarono.
Il battente continuava a picchiare. Una voce di donna chiamò il nome di André.
- Torno …
- … subito, sì. – terminò Oscar col fiato corto.
Balzò fuori dal letto e corse giù per le scale.
- Un attimo! – esclamò all’impaziente visitatore, prendendo tempo per rimettersi in ordine le brache.

Le aprì la porta, con addosso solo i pantaloni. Diane lo guardò perplessa, vedendolo scarmigliato.
Lui si sentì inquisito da quello sguardo e si passò la mano sui capelli, ostentando indifferenza, ma trasudando nervosismo, incrociando infine le braccia sul petto nudo, in modo difensivo. Anche se la parte che avrebbe fatto bene a celare non stava così in alto.
- Ciao, Diane.
Senza ricambiare il saluto, la ragazza allungò la pentola davanti a sé.
- Mia madre ti manda la zuppa di verdure, perché Alain ha detto che ieri-stavi- poco- bene. – disse la ragazza ponendo enfasi sulle ultime parole.
- Oh, grazie… - disse lui, afferrando la padella.
Ma Diane non mollò la presa.
Sorrise furbetta. In quelle occasioni André riusciva a riconoscerla davvero come sorella di Alain: stessa espressione di sorpresa, sopracciglia inarcate e labbra beffardamente incurvate.
- Stai con una donna… - affermò.
- No.
- Hai fregato un’altra ragazza ad Alain, vero?
- Cosa..? no! – Strappò la pentola dalle sue mani, posandola su di un fianco per reggerla con una sola mano mentre con l’altra la prese per una spalla e la fece voltare – Fila! – ordinò.
Diane si avviò, voltandosi di tanto in tanto ridendo.
“Accidenti…”
Ora la piccola Soisson avrebbe raccontato tutto della sua teoria alla madre; madame avrebbe ripetuto e commentato tutto alla padrona di casa che, forse un po’ troppo petulante e sadica, non avrebbe perduto tempo per rinfacciarlo ad Alain. E l’amico lo avrebbe messo sotto torchio per sapere chi, come e … quante volte.

Richiuse la porta dietro di sé, posò la pentola sul mobile dell’ingresso e corse su.
Ma la incrociò che usciva dalla sua stanza, più arruffata di lui.
Con una sola mano cercava di chiudersi la camicia, mentre premeva l’altra sul fianco dolorante.
- Dove vai!
- Via – E si buttò sulla destra per scansarlo.
- Ma … - obiettò lui, imitando il gesto.
Lei schivò il placcaggio, cambiando direzione, ma lui la seguì.
- Non è il caso che io resti ancora qui. Devo … devo andare a riprendere il mio cavallo. – ribattè scendendo le scale più velocemente che poteva.
- Posso farlo io – si offrì, allungandosi per sostenerla quando la vide cedere.
- Sto bene! – disse tenendolo a distanza e mordendosi un labbro per il dolore e per il conflitto interiore.
I piedi scalzi di entrambi picchiavano sordi sulle scale, che lei percorreva comunque troppo velocemente, per quella che sembrava una vera fuga.
Entrò nel salone del piano terra e cominciò a cercare i suoi stivali.
- Aspetta almeno che ti prepari qualcosa da mangiare…
Lei si lasciò cadere sulla schaise longue e, piegandosi con un certo sforzo, iniziò ad infilarsi gli stivali.
André balbettava scuse, ma lei si rialzò, prese gilet e giacca e si avviò alla porta.
Lui si parò dinnanzi a lei.
- Oscar…
- Fammi uscire. – disse perentoria.
Scosse il capo, fissandola in quello sguardo gelido nel quale non riconosceva la donna che stava imparando ad amare: non voleva lasciarla andare. Ma non oppose resistenza quando lei lo spinse da parte e, senza una sola parola in più, se ne andò.
Oscar non si voltò a guardarlo: i suoi progetti erano avviati e quegli occhi profondi erano solo una distrazione dai suoi veri obbiettivi.

Camminava in mezzo alla folla del primo mattino, tenendo il capo chino, cercando di farsi notare il meno possibile, fin quando si infilò in quel vicolo, giù per una anonima scaletta che portava alle cantine di un edificio adiacente il Palais. Picchiò all’uscio. Un ritmo insolito che qualcuno dall’altro lato avrebbe riconosciuto.
Bernard in persona le aprì.
- Santo cielo, Oscar, dov’eri finita? E’ tutta la notte che ti cerchiamo! Ho saputo che ci sono stati spari … Ma … sei ferita? – chiese vedendola crollare su di una sedia.
- Di striscio, un graffio.
- Ma .. – e le toccò la testa, dove aveva notato un leggero rigonfiamento.
- Sono caduta, niente di grave! – esclamò stizzita scansandogli la mano che le carezzava piano i capelli.
Bernard la scrutò, sorpreso da tutta quella irritazione.
- Va bene, se lo dici tu … Racconta! Hai scoperto qualcosa sul carico d’armi?
Oscar sorrise, soddisfatta.
- L’indiscrezione sul carico arrivato a Meudon è assolutamente vera. Ho visto coi miei occhi la pianta col tragitto segnato per il convoglio in partenza.
- C’era lo scomparto segreto?
- Sì, esattamente come pensava il tuo amico ebanista.
Non nascose la soddisfazione,
- Hai scoperto anche di quanti fucili si tratta?
- Altro che fucili! Capisco finalmente il perché di tutta la segretezza che ha accompagnato questo trasporto e dell’interesse che ha portato il re in persona a Meudon. Non ci crederai mai, Bernard, ...
Lo sguardo del giovane si illuminò mentre si sedeva di fronte a lei.
- Una nuova arma! …
- Una mongolfiera, Bernard. Funzionante ed attrezzata per ricognizione alle postazioni nemiche, dotata di un bruciatore che permette di gestirne la rotta con le diverse correnti. Perfetta per lo spionaggio, ma anche per portare squadre addestrate oltre le linee, nel completo silenzio.
Mentalmente il giornalista fece due conti.
- Ho assistito al primo volo libero lo scorso anno, a Parigi. Se si tratta di un prototipo da guerra, il valore sarà inestimabile.
- Potremo chiedere una cifra ben superiore come riscatto. Non solo fucili. – concluse Oscar, guardando il vino che le stava versando in un boccale.
Bernard alzò il proprio bicchiere verso di lei.
- Sono contento che una mente come la tua lavori per noi. – si complimentò, affascinato e tentatore.
Ma Oscar non ricambiò il brindisi. L’aria stranamente assente, un dito ad accarezzarsi le labbra memori di un calore ed una morbidezza che non volevano abbandonarla.
“André …”
André era stato come un balsamo, per le labbra e per il cuore. Non si era mai sentita tanto serena, calda e soddisfatta come tra le sue braccia.
Erano qualcosa che la confondeva, che non sapeva gestire, le emozioni che le suscitava.
Qualcosa che andava oltre il piacere fisico. Quello stava imparando a capirlo, perché Victor non la lasciava indifferente.
Ma André …
- Oscar?
Le prese la mano poggiata sul tavolaccio. Lei si scosse e la ritrasse come scottata.
- Oscar … che facciamo? – chiese aggrottando le sopracciglia per quella sua reazione quasi disgustata che non gli aveva certo fatto piacere.

- Ce la prendiamo. – disse lei, tornando in sé.
Si fece passare carta e penna.
- Questo è il tragitto. – disse tracciando una mappa - Qui è un punto critico, una gola. Dovrai con una squadra tendere un agguato.
- Difenderanno il carico strenuamente.
- Soldati di mio padre, sì. Non si risparmieranno di certo.
- Potrebbe scapparci il morto … - sottolineò Bernard.
- E’ il destino del soldato, sacrificarsi per qualcosa di più importante. - disse con freddezza.


- continua




Il 21 novembre 1783 ci fu il primo volo umano libero della storia in mongolfiera, sorvolarono Parigi. In precedenza c'era stata una esibizione a Versailles alla presenza del Re.
Questo è il decollo della mongolfiera a Parigi, nella miniserie "John Adams", bella scena in costume.
http://www.youtube.com/watch?v=QB32OLW7suA&feature=related

Lo so, non ho ancora risposto alle recensioni per le quali vi ringrazio tanto, ma poichè il tempo è poco, ho immaginato avreste preferito il nuovo capitolo alla "Harmony" :D
Non ho ancora neppure finito i disegni, ancora solo in bianco e nero. Magari li aggiornerò più avanti.
Grazie!
: )



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Capitolo 10
*** Vivere il vento ***


I re del mondo cap. 9


Cap. 9: “Vivere il vento.”



Parigi, inverno 1776

Il valletto, imparruccato e dai modi formali, lo aiutò col cappotto e con il fioretto.
Il giovane ufficiale si lisciò la fascia glicine sul torace, sistemò il colletto dell’uniforme e le onorificenze già numerose per un uomo di ventitre anni.
Trattenne il respiro prima di decidersi ad entrare nel salotto. Quindi espirò e con un coraggioso sorriso, varcò la soglia.
- Zio Victor! Zio Victor! – gridarono quasi in sincrono i suoi due nipotini più grandi correndogli incontro.
- Finalmente! Benedetto ragazzo, ma dove eri finito? – esclamò il padre – Siamo in ritardo per la cena!
- Perdonate, Signore, sono stato trattenuto a corte. Problemi con l’organizzazione della sorveglianza riservata ad un ospite straniero.
Si chinò verso la madre, seduta sul divanetto accanto alla figlia minore che teneva tra le braccia un neonato.
- Maman … - mormorò baciandola sulla fronte.
- Vieni a salutare la tua nuova nipotina, fratello! – lo incoraggiò la giovane madre sollevando appena il fagottino umano che teneva in grembo.
Victor sorrise. Non poteva non adorare sua sorella Beatrice, la piccola e monella Girodelle che, in meno di un anno, aveva realizzato tutto ciò che prima si ostinava a detestare: matrimonio e prole. Si era presentata una mattina a colazione e con poche parole li aveva zittiti tutti.
“Padre, madre, fratello … Mi sono innamorata”, aveva esclamato con un candore tanto disarmante che per qualche istante nessuno era riuscito a fiatare.
Poi c’erano stati i melodrammi: chi? Quando? Da quanto! E lui com’era? E la sua famiglia com’era e poi … Poi il silenzio, un’alzata di spalle come una resa da parte di lei e gli abbracci, perché i loro genitori erano così: severi ma dal cuore d’oro e fiduciosi nel buon senso dei loro figli. Poco più di nove mesi dopo le nozze, anche lei era diventata madre, così i nipoti arrivavano già a quattro.

La cena fu ottima, divertente, piacevole nonostante la giornata intera con la famiglia fosse stata stancante.
Al mattino avevano festeggiato il battesimo dell’ultima nata, la prima figlia di Beatrice, poco più di una bimba a sua volta.
La settimana prima, era toccato al primogenito di sua sorella Natalie.
Victor tra sé ringraziava di aver un incarico di rilievo nella Guardia Reale che, di tanto in tanto, gli forniva la scusa inappellabile per staccarsi un poco da quella esuberante combriccola, proprio come era accaduto nel pomeriggio.

Si guardò intorno, nel salone chiassoso, tra il tintinnar di posate e bicchieri, le risa, le chiacchiere. Una folla che era la sua famiglia.
Suo padre era felicissimo ed orgoglioso dei quattro figli; Victor, il maggiore, non lo aveva mai deluso e neppure le tre figlie che erano arrivate in rapida successione e, senza difficoltà, avevano trovato marito appena cresciute.
Però, il fatto che il suo unico figlio maschio non avesse ancora trovato moglie, un po’ lo indisponeva. Forse perché le ragazze erano in pieno entusiasmo riproduttivo, mentre il nipote che più gli premeva non arrivava.
- Dovrà estinguersi con te il casato dei Girodelle?
Lo guardò sorridendo. Ultimamente i discorsi di suo padre viravano spesso sul tema della continuità del loro nome.
Sarà stato perché le riunioni famigliari erano ormai trasformate in feste per bimbi dei quali nessuno portava il nome Girodelle.
Feste che Victor tendeva a disertare appena possibile. Gli piacevano i bambini, adorava i nipoti e le sorelle, un po’ meno i cognati ed il loro umorismo. Ma non era pronto a vedersi marito ed ancor meno padre.
- Davvero, quando mi renderai nonno?
- Guillaume, dagli tregua! – intervenne la madre in sua difesa – Lo sai che Sua Altezza non gli lascia un attimo di riposo.
- Già, passi molto tempo con lei. Dovrei preoccuparmi?
- Padre! – esclamò indignato.
- Ah, non so, se ne sentono tante sulla nuova regina. E tu sei una tomba in proposito, il che non conferma, ma neppure smentisce.
- Padre, sapete benissimo che non posso parlare di ciò che accade o no a corte. E comunque, non avete assolutamente da preoccuparvi. Le chiacchiere, come sempre, sono esagerate. Semplicemente Sua Maestà è una persona molto attiva, esuberante, socievole; ed essendo io la sua guardia personale divento altrettanto attivo e più impegnato, in quanto responsabile della sua sicurezza.
I cognati ridacchiarono.
- Ammettetelo, Victor: Sua Maestà si diverte! Ci ricordiamo bene del famoso ballo in maschera a Parigi! L’inizio di un lunga serie! – esclamarono quasi in coro.
Si limitò a guardarli furente; se quel commento fosse stato fatto da qualcun altro, lo avrebbe volentieri arrestato.
- Sono ancora giovane ed ho una carriera alla quale pensare. – mormorò tornando a rivolgersi al genitore.
- Figlio mio, il tempo scorre veloce, come il vento. Occorre vivere ciò che è importante e la famiglia lo è. Non permettere che la carriera ti conduca come una foglia nel maestrale, lontano dal tuo albero. Qualcuno potrebbe obiettare che niente è più importante della Francia, ovvero delle Loro Maestà, ma la famiglia è la tua vita, Victor.
- Chissà che il vostro albero non abbia già semi pronti a germinare in qualche fecondo terreno … - insinuò metaforicamente ed inopportunamente uno dei cognati.
Victor strinse il pugno su una posata. Il padre gli strinse la mano per quietarlo, guardando al contempo il figlio acquisito in un modo spaventoso, che non ammetteva dubbi di interpretazione sul suo pensiero.
- Scusate, battuta infelice … - disse il giovane abbassando lo sguardo e riprendendo a mangiare il dolce.

I discorsi virarono in altre direzioni e Victor ne approfittò per riempirsi il bicchiere più volte, proibendosi di partecipare alle conversazioni.
Che malignità gratuita era stata quella del cognato!
Sì, era vero: si divertiva, non era un monaco. D’altronde, la Guardia Reale non gli permetteva neppure il tempo per una relazione poco più che frivola.
Seguire Maria Antonietta nei suoi spostamenti lo impegnava a tempo pieno: nessuna donna innamorata avrebbe accettato una simile concorrenza.
Ma figli illegittimi, no, era certo di non averne. E, nel caso, si sarebbe assunto le proprie responsabilità. Non era certo uno di quegli uomini alla Rousseau: conosceva bene i suoi doveri di gentiluomo.



Aveva bevuto, non poco, tentando di non udire i cognati e le loro stupide pensate; le loro battute sulla regina ed il re, sul matrimonio non ancora consumato; il loro insinuare che una giovane così esuberante non potesse non essersi già rivolta altrove.
E lui lì, a doversi morder la lingua e tacere, perché sebbene avesse voluto dire la verità, ciò non gli era permesso. Avrebbe potuto testimoniare che Maria Antonietta non era quell’arrogante maligna come veniva dipinta dagli invidiosi; che era buona, generosa; che se la si conosceva, non si poteva evitare di provare affetto per lei e che prima di lanciarle addosso assurde cattiverie avrebbero fatto bene a sciacquarsi la bocca col sapone. Ma non parlò.
D’altronde non era tutta colpa loro: quelle erano le voci che circolavano; e forse quei giovani che avevano catturato il cuore delle sue adorate sorelle non erano davvero così stupidi come spesso gli sembravano, ma solo un poco irritanti.
Va bene: tanto irritanti!
Semplicemente, non trovava nessun uomo degno delle sorelle e non voleva neppure tentare di farseli piacere.
Accampando una scusa, era uscito prima di tutti da casa di Beatrice col desiderio di continuare a bere, magari fermandosi per la notte da quella certa sua amica che dava senza chiedere mai.
Mentre cavalcava piano immaginando nei dettagli il corpo caldo, soffice ed accogliente, capace di placare ogni sua tensione, non si avvide dei movimenti nell’ombra finché un figuro si parò dinnanzi a lui.
Sussultò, frenando bruscamente il suo cavallo.
Senza una parola quello tese la mano avanti, come un questuante: un gesto chiaro.
- Favorite la borsa, Signore.
- Un favore posso farvelo, quello di arrestarvi invece che uccidervi. – replicò Victor.
Dall’ombra uscirono altri due malviventi.
Sospirò sconfortato immaginando due belle gambe accavallarsi e negarsi.
Niente affetto per quella sera, a quanto pareva …
Mise mano al fioretto e lo estrasse. Non era tipo da farsi derubare senza tentar difesa. Era anche troppo irritato dalla serata per cedere e lasciare i denari, come avrebbe dovuto suggerirgli il buon senso in quella situazione.
Avanzò sul suo cavallo bigio verso colui che gli bloccava la strada, menando nel contempo fendenti a destra e a manca per tenere lontani gli altri due.
All’improvviso un dolore alla tempia dovuto ad una sassata mandata a segno, lo fece vacillare. Nell’attimo di intontimento, uno dei tre riuscì ad agguantarlo per il cappotto e lo strappò al suolo.
Nella caduta, perse l’arma ed in un attimo furono su di lui come un branco famelico, ma a differenza delle bestie, non erano spinti solo dalla fame: quegli esseri godevano nel far del male.
Stordito dal colpo e disarmato, non poté altro che ripararsi dai calci, tentando di evitare quanto poteva.
E quando ormai si sentiva perduto, udì quel grido.
I minuti che seguirono persero una linea temporale nella sua mente e solo l’istinto lo guidò nel riappropriarsi del fioretto, portando a termine con successo la mossa, affondando nel ventre di uno dei suoi aggressori.
Riverso sul selciato, a malapena distinse quegli occhi grandi ed onesti del suo salvatore, che gli chiedeva come stava, che domandava il suo nome.
Girodelle … Victor Clément, conte de Girodelle …
L’ultimo dei Girodelle. Ci era mancato poco.
Solo grazie a quell’uomo in uniforme blu, la linea diretta del suo casato non si era estinta in quella strada, quella notte.





Parigi, agosto 1784

On sait que le temps c'est comme le vent (si sa che il tempo è come il vento)
De vivre y a que ça d'important (di vivere quel che è importante)
On se fout pas mal de la morale (ce ne freghiamo della morale)
On sait bien qu'on fait pas de mal (sappiamo bene di non far del male)



Grazie al cielo il suo ufficio si affacciava al lato nord dell’edificio. D’inverno forse non era il più accogliente degli ambienti, ma al freddo ci era abituato. Quell’estate invece, ringraziava i muri spessi e freschi e quel venticello continuo, che d’inverno cambiava nome e diventava “il maledetto spiffero”.
Prese tra le mani la pila di documenti da esaminare.
La burocrazia era qualcosa che aveva sempre detestato, sebbene riconoscesse quella parte del suo lavoro un male necessario. Ma con l’afa di quegli ultimi giorni, l’ennesima stupidaggine dell’ennesimo passacarte, avrebbe potuto fargli perdere la proverbiale calma per la quale Alain lo canzonava e, segretamente, invidiava.
Stava leggendo la risposta dello Stato Maggiore alle richieste da lui presentate con largo anticipo per l’inverno a venire.
Incremento delle razioni … Rifiutato.
Aumento delle paghe … Rifiutato.
Manutenzione delle camerate … Permessi solo lavori di consolidamento.
“ La sua richiesta per quarantanove paia di stivali invernali verrà valutata …”
- Ma come “quarantanove”! – sbottò leggendo la risposta. – Cinquanta ne ho richiesti! Cinquanta uomini, cinquanta paia di stivali!
Cosa c’era di così difficile da capire!
“Stupide teste di legno”, pensò appropriandosi del termine che solitamente Alain riservava al loro comandante, il colonnello D’Agout, uomo taciturno ed apparentemente indifferente a tutto e a tutti, che si limitava a sottoscrivere quanto richiesto da André senza porre domande.
Sbuffò sonoramente al pensiero di quante lettere avrebbe dovuto scrivere, condite con salamelecchi ed adulazioni varie, per ottenere la rettifica a quella richiesta non ancora valutata, col rischio di farla slittare in coda ed ottenere un bel nulla.

Alain entrò nella stanza, bussando, aprendo e varcando la soglia nello stesso istante.
La solita educazione alla De Soisson e non c’era verso di fargli capire quale fosse la sequenza necessaria agli eventi: ovvero bussare, attendere risposta, aprire ed entrare.
Stava ridacchiando.
- Devi scendere in cortile!
- Come?
- Devi scendere in cortile a vedere una cosa! – ripeté Alain senza smettere di sorridere.
- Una cosa … Cosa? – disse ancora irritato dal documento che teneva tra le mani.
- Capitano, - si spazientì il gigante - alzi quel suo grazioso deretano e scenda a vedere! Le hanno mandato un … pensierino.
A quel punto André era abbastanza seccato dal modo di fare del suo amico.
- Va bene, va bene … Scendo. – disse alzandosi, conscio dell’inutilità di altre parole o azioni diverse – Ma il tuo tono non mi è piaciuto … e neppure quel “grazioso”.
In cortile lo attendevano i suoi uomini, tutti in fila, in modo poco ordinato e non uno riusciva a restare serio, qualcuno fischiò al suo passaggio, come avrebbe fatto alla vista di una bella damina.
- Complimenti capitano!
- Il nostro capitano ha doti nascoste, eh!!!
- Ma che gli fai alle donne, capo?
Un gruppetto di loro si scostò ed apparve il motivo di tanto trambusto che il valletto in livrea incaricato della consegna aveva annunciato come “da parte di madamigella”.
Era più che bello, più che bellissimo.
Era da favola.
André si accostò al purosangue nero, lustro e caldo come la pece.
I finimenti in ottone scintillavano, ma non erano le borchie di lusso od il pellame di prima scelta della sella ad attrarre la sua attenzione. No.
Si avvicinò e carezzò il muso dell’animale, sorridendo, fissando i suoi occhi scuri. Con la mano scompigliò il ciuffo, sfiorò la criniera per tutta la lunghezza, scivolando sull’ultima ciocca, giù fino a dove stava un biglietto, legato al pomolo con un nastro in seta blu, lo stesso che lui aveva perso qualche tempo prima durante la loro sfida al laghetto.
“Non hai più scuse. Domenica. Stesso posto, stessa ora.”
Lo strano modo di ringraziare di Oscar Françoise de Jarjayes. Proporgli una sfida ad armi pari.
In fondo, “grazie” sarebbe stato sufficiente …
- Voglio vedere come lo spiegherai a Bouillè … - ridacchiò Alain.
- Potrò sempre dire che ho risparmiato rinunciando ai tuoi stivali ed al tuo rancio … - ribatté André, stroncando l’ilarità dell’amico.


Domenica. Stesso posto, stessa ora. Era arrivato in anticipo, ma l’aveva trovata già lì ad attenderlo.
Ora, alcune ore dopo, la guardava sdraiata nell’erba, le mani incrociate dietro la nuca, piedi nudi, caviglie intrecciate.
Avevano duellato, cavalcato, rubato ciliegie. Poi erano crollati nell’erba ad osservare gli uccelli di passaggio tra le fronde della robinia fiorita e profumata.
La sua scherma era decisamente migliorata da quando si batteva con lei; era una brava insegnante e lui un allievo diligente come mai aveva immaginato di poter essere.
E poi … Poi gli piaceva che lei lo toccasse per aiutarlo con l’assetto. Gli spiegava come tenere le spalle, quanta forza imprimere in un affondo e nel far ciò la mano di Oscar che gli sfiorava prima il braccio per correggerlo, poi i fianchi per rettificare la postura, che gli correva lungo la spina dorsale per invitarlo a tener dritta la schiena … Lo riempivano di brividi.
Ogni tanto, quando si allenavano con le armi da fuoco, gli posava il mento sulla spalla, per verificare la linea di tiro e lui si distraeva, solleticato dai suoi ricci sulla guancia.
Lei pareva non accorgersi del respiro che gli si bloccava, per poi deglutire e gonfiare il petto, chiudendo un occhio per prender la mira, cercando di dimostrare che quelle lezioni non erano vane, ma che gliene servivano ancora parecchie.
Per dimostrare che aveva bisogno di lei.
Sarebbe stato disposto a perdere per sempre pur di averla accanto.
Sarebbe stato disposto ad esser la sua ombra per poterla seguire.
- Non fissarmi … - borbottò Oscar.
- Non posso farne a meno … - mormorò tradendosi - Credevo dormissi. – aggiunse poi, come scusa.
Prese una larga foglia d’erba e la portò alle labbra, iniziando a trarne suoni striduli per distrarsi dai pensieri pericolosi che lo assalivano quel pomeriggio.
- Per favore, no … - mormorò lei.
Si interruppe e la guardò aggrottare la fronte ad occhi chiusi.
- Beh, non sono Mozarth, ma non era così male … – scherzò per nascondere l’emozione che lo prendeva vedendola così rilassata accanto a lui.
- No, è che … pensavo. Sai, se le cose fossero andate diversamente, saremmo cresciuti insieme e di giornate così ne avremmo avute tante da non poterle ricordare tutte.
- Se le cose fossero andate diversamente, sarei un tuo servitore e tu nemmeno mi rivolgeresti la parola. – replicò con una punta di acidità.
Aprì gli occhi e lo guardò come ferita.
- Sì. Sei così tu. Non lo fai apposta, ma attorno a te circola una corrente polare, il tuo scudo … Fai belle riunioni coi tuoi amici sovversivi, fai bei discorsi a te stessa, ma potrei giurare che non hai mai guardato realmente in volto uno dei tuoi domestici. Per non dire altro … Hai mai permesso a qualcuno di avvicinarti davvero?
Si allungò carponi sull’erba verso di lei. Oscar scattò in piedi.
- Come pensavo …
- Cosa pensavi!
- Tanto coraggiosa, ma appena il gioco si fa interessante … Proprio come l’altra volta.
- Non sei così interessante, Grandier! – esclamò cattiva, sperando di interrompere una conversazione che non voleva affrontare.
- E cosa ti spinge a perdere tempo con me, allora?
Disse alzandosi a sua volta, avanzando verso di lei. Oscar arretrò verso il laghetto ed entrò nell’acqua.
- Non avvicinarti! – lo minacciò.
- Dai, facciamo un bagno! – scherzò lui, con un velo di irritazione nella voce, abbassandosi, immergendo le mani a coppa e schizzandola.
- Non mi piace nuotare. Te l’ho già detto. E non mi piace dovermi ripetere.
- Accidenti, quante cose non piacciono a madamigella Oscar! Cosa ti piace? – la sfidò avanzando ancora. – Il tuo amico Robespierre? O quel ragazzo, Bernard, così saccente …
- Smettila! Che ti prende? Abbiamo interessi in comune, tutto qua … E non vedo perché dovrei giustificarmi con te.
- Interessi?
- Politica.
- Sai che potrebbero finire arrestati da un momento all’altro, vero? – esclamò continuando ad avanzare nell’acqua, spingendola ad arretrare.
- Condivido le loro idee.
- Sediziose.
- Libertarie. Ma che ti prende? – esclamò smettendo di arretrare - Lo sai meglio di me come vive chi non è aristocratico.
- Tutte scuse! A che punto arriveresti per vendicarti di tuo padre?
La fronte di lei si corrugò pericolosamente. Nemmeno parlare di suo padre era piacevole per lei.
- Non cerco vendetta. Cerco giustizia.
André scoppiò a ridere. Rideva di lei.
- Non con tutta la rabbia che hai in corpo. – spiegò con niente più di allegro nel tono.
- Rabbia? Sì, forse … Almeno io provo qualcosa! – gli ringhiò di rimando - Tu non fai che divertirti e chiudere gli occhi! Le cose non possono andare avanti così. La gente deve ribellarsi ai soprusi della famiglia reale. La corte sperpera cifre impensabili per cose assurde. La regina è solo una donna frivola, presa da sé. Il re la accontenta per quieto vivere e si intestardisce ad ascoltare solo i consigli che più gli aggradano. Appare inetto ed incapace, ma sa sfruttare appieno i suoi privilegi. La Corona guida la Francia per volere di Dio? Dove sta Dio? Di certo non nei vicoli di Parigi!
- Io chiudo gli occhi? – disse movendosi in avanti, con una espressione offesa e minacciosa.
- Stai cominciando a ragionare come quei cortigiani intriganti, lontani miglia dalla vera nobiltà … Non avvicinarti! –
Gli diede una spinta, per tenerlo distante.
Lui la spinse a sua volta, violentemente e la fece cadere nell’acqua ancora bassa.
Istintivamente, Oscar reagì con un calcio al ginocchio, che gli fece cedere la gamba e cadde a sua volta.
Lei si allontanò; ormai l’acqua era alla vita. André saltò in avanti e la trascinò sotto con sé.
Riemersero insieme, sbattendo all’indietro i capelli lunghi e zuppi.
Oscar lo schiaffeggiò, lui rispose allo stesso modo.
La replica di lei fu un pugno, inaspettatamente violento che lo fece barcollare; prima ancor di riflettere, lui reagì in egual maniera, facendole perdere l’equilibrio, spedendola sottacqua dove, leggermente stordita, affondò veloce come un sasso.
Immerse le mani e la tirò su per il collo della camicia. Oscar sputò l’acqua che stava inghiottendo e rimessasi in piedi lo spinse via. Una volta. Due volte. Con rabbia sempre in crescendo.
E si sorprese di sè quando, afferratolo per la camicia, invece di allontanarlo ancora, lo attirò a sé e lo baciò.
La rabbia scivolò via, come l’acqua che, tolto il tappo, si avvita in un vortice e si perde nel buio, non si sa dove.
Dopo un tempo infinito abbandonò le sue labbra e nascose il volto sul suo petto. Poggiava la fronte sul cotone zuppo della sua camicia ed osservava il petto di André gonfiarsi in respiri affannosi come i suoi.
Si staccò dall’uomo, immobile, senza guardarlo.
Sentiva dei brividi percorrerle le membra: forse adrenalina, forse ansia, forse l’acqua fresca. Forse paura.

Uscì dallo stagno, a passo deciso, vincendo la pesantezza dell’acqua contro le sue gambe. Infilò gli stivali, raccolse le sue cose. S’avvicinò a Cesar, ne prese le briglia tra le mani e si voltò a guardare André, al di sopra della spalla. La stava raggiungendo. Si accostò a lei, immergendo lo sguardo nel suo, ma senza toccarla.
Oscar si issò in sella e lui ne accompagnò i movimenti, sfiorandola appena; le braccia, le spalle, i fianchi, le cosce e si fermò alle ginocchia quando ormai era salda in sella.
Lei spronò il cavallo e si allontanò di qualche passo. Quindi si fermò.
Non si volse, ma l’esitazione nel movimento esprimeva in realtà una decisione presa nell’istante stesso in cui era uscita dal lago. Attese finché non udì i passi del cavallo nero affiancarsi al suo, quindi scalciò piano il ventre di Cesar.
Camminarono al passo, rilassati solo in apparenza. Attorno a loro, solo i rumori della campagna, il picchiar degli zoccoli sul sentiero , qualche sbuffo dei loro animali. Il sole del primo pomeriggio li colpiva, frammezzo le fronde dei platani del viale; oltre il filare, il torrente correva vivace al loro fianco.
Dopo una mezz’ora di cammino in silenzio, avvistarono i cancelli di quello che André suppose fosse palazzo Jarjayes.
La seguì nel cortile, attorno alla fontana zampillante. Non fecero in tempo ad avvicinarsi all’ingresso che un domestico stava già correndo verso di loro, proveniente dalle scuderie. Inchinandosi prese le redini che Oscar gli lanciò e restò chino finché ella non fu scesa da cavallo. Si drizzò solamente per prendere in affido la cavalcatura di André, accompagnandosi con un altro inchino, quindi condusse gli animali alle scuderie.
Oscar salì decisa i gradini, mentre André si attardò un istante ad ammirare il palazzo chiaro, dalle enormi vetrate.
Entrò nell’atrio, dal pavimento a scacchi bianchi e neri; grandi finestre sulla sinistra illuminavano un salone bianchissimo, ricco di piante esotiche, mentre davanti a lui, un ampio scalone di marmo policromo portava al piano superiore. La vide parlare con due cameriere, quindi avviarsi al piano superiore, mentre le due donne schizzavano veloci verso le cucine, probabilmente per eseguire gli ordini ricevuti.

Non si volse verso di lui. Per un attimo pensò si fosse scordata della sua presenza, ma giunta a metà della rampa si fermò e si volse a guardarlo. Non una sola parola e riprese a salire.
André la seguì di sopra, fin dentro quel che capì essere i suoi appartamenti, luminosi come il resto del palazzo, ma per nulla femminili. Alla parete c’era un ritratto di un giovanetto biondo e capì che si trattava di lei: meno di quindici anni doveva aver avuto all’epoca.
Un grande e moderno pianoforte troneggiava al centro del salotto, nero ma lucente, spiccava in mezzo al candore abbagliante del marmo di Carrara.
Lei scomparve in un’altra sala; lui si avviò verso la finestra spalancata su una grande terrazza.
Restò lì a guardare il parco, cullato dal vento che carezzava i capelli. Ebbe la sensazione come se avesse dovuto conoscere quel posto, come se avesse dovuto aver già calpestato quei pavimenti. Pensò che sua nonna era nata ed aveva servito fin da ragazzina in quella casa. Pensò a come sarebbe stato se non se ne fosse andata.
- Vuoi bere qualcosa, mangiare un frutto? – chiese lei alle sue spalle.
André vide le cameriere uscire e richiudere la porta dell’appartamento, dopo aver posato dei vassoi sul tavolo rotondo con acqua, vino, pane e frutta.
Oscar si avvicinò, attratta dal suo mutismo.
- Desideri qualcosa? – sussurrò ambiguamente, quasi sul suo volto.
Lui sorrise, senza ancor un suono, fece scorrere la mano sotto i suoi capelli, sul collo, sulla nuca. L’attirò a sé ed Oscar ebbe la risposta alla domanda.
Come Davide per Betsabea, come Sansone per Dalila, egli capiva di aver perso contro quella donna e che per lei avrebbe fatto di tutto, compreso donarle la vita. Naturalmente sperava che ciò che stava iniziando sulle loro labbra, sulla loro pelle, non dovesse finire in così biblica tragedia.
Niente altro che amore desiderava, niente altro che due persone unite come accadeva da millenni e per questo avrebbe ringraziato il cielo, perché la sua vita in ombra avrebbe avuto la sua luce.
E sentiva che era così anche per lei.
Non più solo. Non più sola.
Doveva esser così.

Oscar arretrò, malferma nei passi, distratta dai baci.
Guidandola alla cieca, André la portò ad urtare piano la colonna laterale dell’arco d’ingresso alla camera da letto. Lei si inarcò con una spinta sulla schiena, spingendo il bacino contro quello di André, staccando le labbra dalle sue, carezzandogli il petto, sostenendo la pausa dello sguardo. Egli la strappò via, riabbracciandola, riprendendo a divorarla, volteggiando con lei verso il centro della stanza in quei movimenti apparentemente scoordinati della danza tra i sessi. In realtà nulla avveniva per caso, le carezze sfilavano le camicie dai pantaloni e percorrevano sentieri che li conducevano rapidamente alla destinazione.
Il sole si affacciava alla grande vetrata completamente aperta e si rifletteva nello specchio sopra il camino aumentando ancora di più la luce del marmo e degli stucchi bianchi e oro.
Allungando una mano dietro di sé, Oscar afferrò il cordone che teneva legate le cortine del baldacchino; lo tirò e la tenda si lasciò andare di colpo, portando ombra fino a metà del grande letto ove lei si lasciò cadere.
Alzò una gamba verso di lui, attirando la sua attenzione sullo stivale. André non si fece pregare; afferrò la calzatura e delicatamente gliela sfilò, lasciandola cadere. Oscar propose quindi l’altro piede e lui, paziente come avrebbe fatto il migliore degli attendenti, si accinse a replicare l’azione. Ma forse per il piede ancora bagnato che lo aveva calzato, lo stivale sembrava poco propenso a farsi levare. L’uomo accompagnò la presa sul polpaccio, cercando di sfilarlo con piccole mosse, ma nulla pareva smuovere quel calzare dal piede. Sorrise allo sguardo esaminatore di lei.
Cosa credeva? Che si sarebbe arreso?
Passò quindi senza esitare a modi più decisi, anche se ciò imponeva una mancanza di finezza, volgendole le spalle, stringendo la gamba tra le ginocchia per afferrare con entrambe il recalcitrante stivale.
Oscar lo guardava intento nel suo compito, chino e concentrato e, tra un pensiero ammirato ed uno dispettoso, non riuscì a resistere.
Posò il piede nudo sulla natica soda, calda e … spinse. Grazie al gesto d’aiuto, lo stivale si sfilò di colpo ed André per un istante perse l’equilibrio.
Si volse a guardarla, falsamente torvo.
Oscar si sollevò sui gomiti, ridendo, ma lui riuscì subito a farle cambiare l’espressione in una compiaciuta, sfilandosi la camicia dal capo e lanciandogliela addosso, dispettoso quanto lei.
Restarono qualche istante a guardarsi, consapevoli che la schermaglia preliminare era finita e stavano per cominciare i veri giochi.


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Egli si sfilò a sua volta gli stivali e tornò scalzo al letto, sedendosi accanto a lei, abbassandosi su di lei che tornava a sdraiarsi sul copriletto cremisi.
Come due ragazzi che sperimentano un nuovo gioco, ubriachi di caldo ed adrenalina, cominciarono a baciarsi e carezzarsi, piano, con tutta la calma del mondo, mentre i lacci della camicia di Oscar cedevano piano al sapiente sbrogliare di lui. Ma quando la mano di André scese sul bordo dei pantaloni, iniziando a slacciarle i bottoni, quella di lei scattò a fermarlo per un istinto che non sapeva spiegare. Si sfilò dall’abbraccio e si rintanò confusa contro la testiera, all’ombra della cortina, raccogliendo le ginocchia al petto, riparandosi dal sole e da lui.
André gattonò verso di lei, si appoggiò con una spalla alla testiera, sedendosi al suo fianco e la fissò in silenzio, cercando il suo sguardo che lei continuamente distoglieva.
- Non aver paura. – disse quando finalmente riuscì ad incrociare i suoi occhi.
Mantenendo lo sguardo, posò un dito sul suo collo dove la vena pulsava forte, quindi scese piano sul petto, tra i seni e giù, su stomaco, ventre e giù ancora sul confine di quell’indumento maschile che da sempre la proteggeva e nascondeva. Corse sul bordo un paio di volte, solleticando la pelle delicata, quindi cominciò a slacciare i bottoni, il primo, il secondo, il terzo, mentre il fiato di lei si spezzava per la tensione e posava la fronte contro la sua.
Levò la mano da lei, baciandola senza toccarla; quindi la infilò sotto la camicia, posandogliela in vita; scese sul fianco, sulla natica; percorse la coscia fino al ginocchio piegato e risalì piano, all’interno, con un tocco che anestetizzava qualunque pensiero conscio, inducendola ad abbandonarsi mentalmente e fisicamente.
Mentre lei si lasciava scivolare sui cuscini, egli tornò all’orlo dei pantaloni, da dove era partito, per cominciare a sfilarglieli senza incontrare altre opposizioni.
Per un tempo che parve infinito e breve al contempo, si avvicinarono, conobbero; e quando alfine divennero una cosa sola, la paura di lei era cosa ormai lontana.



La guardava dormire, lì, seduto per terra accanto al letto.
Si era svegliato nel cuore della notte sapendo di dover andare per potersi trovare a Parigi prima dell’alba.
L’aveva scostata delicatamente dal suo torace dove riposava incredibilmente serena ed in silenzio aveva cominciato a vestirsi. Non era la prima volta che fuggiva da una alcova con l’alibi del dovere. Era piacevole lasciarsi travolgere dalla follia dei sentimenti, dal pulsare del sangue nelle vene, dall’eccitazione. Ma alla fine, la realtà del mondo prendeva il sopravvento e lo portava razionalmente a separarsi dall’amante del momento.
Ed a quel punto del pensiero si era bloccato. L’aveva guardata e non ce l’aveva fatta; si era dovuto sedere accanto al letto dove lei, pancia sotto aveva lasciato cadere un braccio dal bordo. Si era fatto vicino al suo viso e la guardava ancora dormire. Alla luce della luna piena, seguiva le ombre di quel volto che gli pareva di conoscere da sempre.
Fino a quel momento, André aveva affrontato la vita vivendo la giornata così come il mattino gliela presentava, senza obblighi particolari, senza vincoli particolari.
Ora sentiva che lei era la sua vita. Che per lei avrebbe potuto morire. Che nulla senza di lei aveva senso. Che la solitudine era cosa ormai intollerabile.
Che forse la solitudine era davvero finita e qualcosa di grande stava cominciando.
Non era più solo un desiderio, una speranza.
Lei.
Era lei “quella là fuori”!
Sollevò la mano per scostarle una ciocca dalla guancia, con due dita, e posargliela dietro l’orecchio.
E posò il mento sulle lenzuola, vinto dallo spettacolo di lei, impossibilitato a muoversi da lì.
Dovette guardar fuori, distogliersi da quella vista verso il parco ancora buio, ma rischiarato dall’astro che cominciava a calare.
Aveva sempre dovuto riconoscenza alla nonna ed alla sua scelta che alla fine gli aveva permesso la nobiltà, una vita migliore, la parità con persone del rango di Oscar. Lo doveva a quella scelta se lui poteva trovarsi lì, ora.

Si sentì sfiorare il capo.
- Volevi andartene come un ladro nella notte? – la sentì sorridere nel bisbiglio.
- Devo essere in caserma per l’adunata. Alain non può coprirmi all’infinito. – disse tornando a voltarsi verso di lei. Le carezzò l’avambraccio inerme nel vuoto.
- Non sembri un uomo ansioso di lasciarmi. – constatò Oscar, sollevando la mano per stringere la sua.
- Temo l’alba come mai null’altro nella mia vita.
- Sei triste? Perché?
- Stavo cercando di immaginare quanto avrei sofferto se fossi cresciuto qui senza poterti amare. Quindi temo l’alba del giorno che potrebbe svegliarmi da questo sogno.
Oscar si sollevò appena, quel tanto per poter prendere il suo capo e volgerlo verso la finestra, imponendogli un punto preciso verso il quale guardare.
- Laggiù, la grande quercia. – disse – Là, sotto le radici, da piccola vi ho sepolto il mio tesoro come fanno i pirati. Ma non si trattava certo del tesoro di Alessandro, intendiamoci: solo una trottola di legno ed un coltello dal manico rosso. Ma mi resi subito conto, che nessuno ne avrebbe mai saputo nulla perché nessuno si è mai curato di me. Di cosa facevo, cosa pensavo. Dove andavo a piangere, quali giochi facevo. Quali fossero i miei sogni, le mie paure … Sarebbe stato bello averti qui, André. Saresti stato la mia consolazione ed un giorno avrei potuto lasciarti il mio tesoro. A che serve un tesoro se non hai qualcuno con cui dividerlo? – lo indusse a voltarsi ancora verso di lei – Lo vuoi tu il mio tesoro, André? – chiese con un tremito nella voce.
Le carezzò le labbra con l’indice, come a voler zittire un pensiero scomodo e spaventoso.
- Voglio te, nessuna eredità. Perché parli come se mi dovessi lasciare?
Ella si scosse, prese la mano e gli baciò il palmo.
- Nulla. Non far caso ai miei deliri. La notte non dovrebbe esser fatta per dar voce agli incubi. Solo ai sogni. Ma ora vai, o il canto dei galli ti sorprenderà ancora per strada.
Si sporse a baciarla e si alzò dal pavimento, con Oscar allacciata al suo collo, incapace lei stessa di rispettare il sollecito ragionevole che gli aveva imposto e staccare le labbra dalle sue.
Finì di vestirsi davanti a lei, seduta sul bordo del letto, vincendo a fatica la tentazione di levarsi ancora tutto e rituffarsi tra le sue cosce così provocatoriamente appena dischiuse.
Gli sorrise, intuendo il suo tormento. Lui sospirò.
- Ah, cosa non si fa per la Corona … - scherzò, allacciandosi il fioretto in vita.
Non avvicinandosi a lei per evitare ulteriori tentazioni, girò attorno al baldacchino ed aprì la porta che dava direttamente sul corridoio, lentamente, imponendosi di non far il minimo rumore.
- André …
La guardò dallo spicchio aperto che già stava richiudendo.
- Ti avrei amato lo stesso … - mormorò seria.
Sorrise. Le credeva. Anche lei ci credeva.

Andò alla finestra, avvolta nel lenzuolo che sapeva di lui, stringendocisi, stringendolo tra le gambe laddove un calore mai provato la informicolava ancora tutta.

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Guardò la sua ombra traversare il cortile verso le scuderie e pochi minuti dopo uscirne a cavallo. Lo guardò scomparire. Ed improvvisamente avvertì un peso al petto.
Il peso dell’inganno.
Pensò a Victor. Ai progetti studiati coi suoi compagni di intrighi. Ai rischi per tutto quanto aveva messo in moto.
Era il peso della certezza di aver fatto qualcosa che non avrebbe dovuto, anche se onestamente non era certa di cosa fosse sbagliato: se i suoi obiettivi ed il modo scelto per perseguirli o provare quel che stava provando per quell’uomo e che, con tutta la ragione, non era riuscita ad evitare.
Sentiva finalmente quel vento caldo e sconvolgente che aveva sempre ignorato nella sua vita e la voglia prepotente di abbandonarcisi.
Ma cos’era giusto, sbagliato o necessario non lo sapeva più.

- continua




Non ce l'ho fatta. Dopo tanto rimuginare, alla fine “l’harmony” non mi è venuto; mi è uscito un “harm” senza “ony”.
Lascio le parti sexy a chi le sa davvero scrivere bene. :D
Ma so che da brave fans saprete mettere a fuoco e personalizzare la mia dissolvenza nella vostra mente, certamente meglio di come l’avrei potuta scrivere io! :P
Saluti!!! :D


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Capitolo 11
*** Sangue pallido ***


I re del mondo cap. 10

cap. 10 “Sangue pallido”

Parigi, marzo 1775


Aveva esitato un attimo prima di firmare.

Ora stava lì a fissare il foglio, penna in mano, sospeso, senza un vero pensiero in elaborazione nella mente.
Semplicemente in pausa tra ciò che era accaduto l’istante prima e quel che sarebbe dovuto accadere l’istante immediatamente successivo.
Perché quella esitazione?
Con quella firma avrebbe siglato la fine di una vita, l’inizio di un’altra.
Poteva solo provare gratitudine per il barone, ma gli pareva di fare un torto ai suoi veri genitori, un torto a Nanny
- E’ solo un nome… - mormorò il barone, al quale era bastato uno sguardo per intuire il suo dubbio – Non cambia quello che sei, ragazzo mio.
- E’ che … non esisteranno più – disse André.
Il barone posò la mano sulla sua spalla, quindi si rivolse all’uomo in nero, dall’altro lato della scrivania scura.
- Vorremmo apportare una modifica al documento, se possibile. – disse, utilizzando una cortese forma al condizionale che nulla aveva però della semplice richiesta. Quello era un ordine.
Il notaio sospirò appena. Documenti da rifare, insomma.
- Dite pure, barone.
- Per cortesia, modificate il nome di adozione. Da André De Plessis Bellière, in André Grandier De Plessis Bellière. E’ possibile ?
André sgranò gli occhi. Fece per aprir bocca, ma il barone lo zittì affettuosamente.
- Oh, intendete mantenere il nome di sangue? Sì, certo, è possibile. Devo redigere nuovamente i documenti … - esaminò velocemente i manoscritti - Ci vorrà un’oretta per prepararli.
- Fate con comodo. Noi andiamo a pranzo, vero figliolo? E’ un giorno importante questo e dovrà essere perfetto. Niente di meglio di un pranzo coi fiocchi per festeggiare!
- Io … non so come ringraziarvi, signore.
Il barone picchiettò sulla sua mano, minimizzando la portata della sua generosità, e gli fece cenno di alzarsi per primo, quindi puntò il bastone e si drizzò. André lo aiutò a scostare la sedia e gli porse il braccio.
- Prendetela con calma, amico mio. – disse al notaio – Abbiamo intenzione di trattenerci fino all’ultima portata che saranno in grado di preparare per noi, giù alla locanda. Il bello di essere ad un passo dalla morte è che l’indigestione è l’ultimo dei miei pensieri! Andiamo, André!... Ragazzo mio, pensavo … e se facessimo un colpo di testa? Insomma, perché non partire dal dolce per una volta!
- Magnifica idea, signore …
- Se tua nonna fosse qui, ci prenderebbe a mestolate entrambi … - ridacchiò.

***


Le fiamme del camino danzavano sui caratteri precisi e nitidi dell’atto di adozione.
Erano rientrati da un paio d’ore e André, seduto sul tappeto del salotto a gambe incrociate, non riusciva a staccare gli occhi da quei termini legali, freddi, ma che altro non erano se non la traduzione burocratica dell’immenso affetto che il suo benefattore provava per lui.
Alzò lo sguardo sul vecchio, infagottato nella vestaglia da camera, freddoloso come tutte le persone al tramonto della vita, che a sua volta lo studiava, sorridendo divertito da come il ragazzo leggeva e rileggeva quell’atto legale. Quello lo vide sottolineare ancora con l’unghia quel nome, Grandier, che per poco non era scomparso.
- Grazie… - mormorò André, mentre gli occhi iniziavano a luccicare.
- Non hai motivo di ringraziarmi per ciò. Il tuo nome non saranno solo pochi caratteri scarabocchiati qua e là: dovrà identificarti. E poiché sei una persona stupenda come sei, lungi da me che il tuo nome non ti identifichi più. Ma ti avverto, André, non tutti la vedranno in questo modo. Per alcuni, anzi, per molti, tu resterai sempre André Grandier, uno che è stato solo fortunato.
- State dicendo che sarò nobile, ma non nobile, vero?
- Sapranno che ti ho adottato, André. Contro un nobile di sangue blu da generazioni, sarai sempre comunque tu a perdere. – disse il barone allungandogli il bicchiere affinché il giovanotto potesse rabboccare ancora il cognac della sera. - Sarai un nobile di seconda classe. Avrai il mio titolo ed i miei possedimenti, miseri possedimenti, non montarti la testa, figliolo. Potrai mantenerti senza preoccupazioni, ma solo se sarai accorto. I denari finiscono molto in fretta. Ricordalo! Ed il potere vale più dei soldi. Ma anche da quel piedistallo si cade. Da un momento all’altro, sei nessuno e tutti sanno subito che sei nessuno. E comunque a te il potere verrà sempre negato. Il tuo sangue blu, sarà sempre più pallido del loro.– concluse amaramente, saggiando un sorso.





Fine agosto 1784



Seduti al tavolo di una locanda sovraffollata e rumorosa, parevano solo due giovanotti intenti a parlar innocentemente del più e del meno.

- Quindi sono pronti a partire? – chiese Oscar, spezzettando un crepe al formaggio.
Bernard restò un istante incantato a guardarla con quanta fredda, precisa eleganza incideva, divideva quella pietanza. La stessa fredda, decisa eleganza che le aveva visto utilizzare per mettere a tacere la sua ilarità, il suo sarcasmo, le sue freddure riguardo donne ed armi. Una dimostrazione senza riguardi, senza mezze misure.
- L’uomo che ho infiltrato al castello di Meudon dice che hanno terminato le modifiche e rimediato ai problemi presentati dal progetto iniziale. Sì, sembra che siano pronti a partire. Il re ha presenziato ad una seconda dimostrazione che lo ha soddisfatto pienamente ed ha dato il suo benestare per il prosieguo dell’operazione, ma stanno attendendo il ricongiungimento con un altro carico che proviene da nord, cosa non si sa: “affari” di Fréville. – rispose.
- Metti in pre allarme la tua squadra, Bernard. Avremo poco tempo per agire quando si metteranno in moto.
- Sarai dei nostri?
- Vedremo … Ho cose in movimento sull’altro fronte che potrebbero trattenermi a Versailles.
- Non mi piace quel fronte … - disse tormentando il cibo nel piatto, come un bimbo capriccioso.
- Non deve piacere: deve essere utile.
- Non piace neppure a Robespierre.
- Fosse per voi, risolvereste tutto in chiacchiere.
- Mi sembra di averti dimostrato il mio appoggio in più di una occasione – si risentì lui – E non vedo la necessità che ti abbassi a …
- A? Continua, Bernard, - lo esortò con uno sguardo da paura – dimmi chiaramente a cosa mi starei abbassando! Sempre se non pensi lo abbia già fatto …
- Non intendevo …
- Oh, sì che intendevi! E non è affar tuo. – Si alzò e gettò alcune monete sul tavolo con fare risoluto. – Tienimi aggiornata.



Pian piano il mondo smetteva di essere un sogno, strano e troppo colorato, e diventava realtà, una realtà più bella di qualunque sogno. Si svegliò, affondato nei cuscini, sul divanetto in ferro battuto sul quale era crollato subito dopo pranzo.
- Scusa, - mormorò mettendo a fuoco la padrona di casa, seduta al tavolo, intenta a leggere - mi sono addormentato …
- Fate turni massacranti. – lo motivò lei senza alzare lo sguardo dal volumetto che scorreva con interesse.
- Parigi è nervosa e siamo in pochi. Sai, il prezzo del pane è aumentato ancora.
- Sì, Bernard mi ha raccontato di un assalto ad un forno a Saint Antoine.
- Quando lo avresti visto? – chiese aggrottando le sopracciglia.
- Capitano … Mi par di cogliere un filo di gelosia nel suo tono … - azzardò Oscar rivolgendogli un sorriso.
- Gli caverei un occhio se provasse ad importunarti- minacciò lui, torvo ed irresistibile.
Andò a sistemarglisi accanto, chinandosi a placarlo con un bacio.
- Stai cercando di distrarmi? – chiese quando lei scese verso il suo torace.
- Sì.
- Funziona … - ruggì, afferrandole la nuca.
La trascinò cavalcioni su di sé.

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Si schiarì appena la voce, interrompendo le effusioni, quando intravide un’ ombra discreta posare un vassoio sul tavolo.
E altrettanto discretamente quella svanì ad un cenno imperioso di Oscar.
- Ma … non dicono nulla? – chiese stupito dalla riservatezza del personale, alludendo al suo frequentare indisturbato il palazzo.
- Solo se fossero interrogate direttamente: non conviene far la spia di libera iniziativa. Ma nessuno dei miei famigliari farà mai domande per paura della risposta. E poi il generale già certamente pensa peste e corna di me; ammetto di avergliene dato indizi qua e là, negli anni. Non gradirebbe di certo la disinvoltura con la quale ci incontriamo, ma finché occhio non vede, orgoglio non duole … - interruppe con un bacio.
- Quindi, è sempre così deserta questa casa? – continuò mentre seguiva il contorno delle sue labbra con un dito, quasi incredulo che fossero tutte per lui.
- Da quando le mie sorelle son tutte obbedientemente e con entusiasmo maritate, sì. Maman o è a Versailles, o è a Parigi ed il generale si muove spesso per la Francia. – chiarì riprendendo a baciarlo.
- Senti, ci penso da un po’…
- Pensi sempre troppo … - lo canzonò.
Le prese il mento tra il pollice e l’indice, costringendola a guardarlo negli occhi.
- Voglio andare da tuo padre. Voglio fare sul serio.
Oscar distolse lo sguardo, scivolò via, andando a posare orecchio sul suo cuore.
- Che c’è? Perché taci?- si preoccupò André.
- Non ti basto io?... Noi ?
- Sei tutto e per questo vorrei poter palesare il tutto.
- Siamo più liberi così. A che serve il matrimonio … - mormorò ella, mentre il pensiero faceva punto su ben altri motivi.
Egli tacque anche se il poco entusiasmo di lei lo sorprendeva e feriva.
- Cos’è? – domandò invece levandole il libriccino dalle mani.
- Il primo volume delle “memorie di Jeanne Valois” .
- Ma hai idea di quanti ne ho dovuto sequestrare? – sbottò - Questa robaccia spunta ovunque!
- Non la chiamerei robaccia: fa luce su tante cose.
- Luci da palcoscenico, certo. Jeanne Valois ha molta fantasia.
- Intanto la gente fa la fila per farle visita in galera. E poi, davvero è tutta fantasia?
- Sono persone, Oscar, con luci ed ombre, come tutti. – mormorò cauto, pensando alle accuse pesanti mosse alla Regina da colei che, nel tentativo di scagionarsi dalla accusa di furto di un collier di inestimabile valore, si era proclamata sua amica e amante, pur non avendo nemmeno mai frequentato Versailles.
- Sono persone con immense responsabilità che però trattano la Francia come un parco giochi! Come una miniera da sfruttare fin nel profondo! – esclamò accennando a sollevarsi.
La strinse di più sul suo torace.
- Basta! Basta parlar di loro … Se ti causa dolore, basta. Non credere che non capisca, Oscar; ma temo che questa tua passione possa finir col divorarti come un incendio ed io … Io non potrei lasciarti bruciare. Non potrei mai lasciarti sola.
La sentì scivolare piano dal suo abbraccio, turbata, silenziosa.
- Jeanne Valois, sai … io l’ammiro. Non guardarmi così, André … - aggiunse con un sorriso, sedendosi sul bordo del divanetto – Mia madre mi diceva che donne così, come la Du Barry, loro, le cortigiane, quelle che si fanno strada usando le sole armi che possiedono, sono una vergogna. Ma mi son guardata attorno, per le strade, nelle case. Ho visto uomini prendere quel che volevano, col denaro, col potere, la bellezza, l’adulazione, l’inganno, la forza … E se non ottenevano, calunniavano. Ma gli uomini sono così. – si strinse nelle spalle, accettando il fatto come una fatalità - Sono le donne che non capisco. Una donna non dovrebbe mai dare della battona ad un’altra … Ci sono tanti modi in cui la vita ti fa prostituire, in cui ti chiede di pagare il conto. Una donna come Jeanne potrebbe fare qualunque cosa per ciò in cui crede, ciò che vuole. E allora? Questo la rende meno degna di chi dalla vita ha avuto solo rose? La rende meno affettuosa coi suoi figli o meno radiosa se innamorata? Ho visto puttane meno bagasce di tante nobildonne altezzose e più pure d’animo di monache dedicate a Dio! – allentò i pugni che aveva stretto sul bordo in ferro del divano - André … Anch’io ho le mie luci e le mie ombre. Anch’io potrei fare cose discutibili. Io, che non sono uomo, che non sono donna e finora sono vissuta in un limbo tra le mie identità. Invidio Jeanne Valois, che ha avuto coraggio, non si è spezzata; nonostante la vita schifosa che le era stata riservata, ha vissuto come ha voluto. Ed ora paga. – terminò con un sussurro.
André allungò la mano sulla sua che ella ritrasse, alzandosi e volgendogli le spalle.
- Vado ad impartir ordini per la cena. Tu resti? – chiese.
Lui annuì quando Oscar lo sbirciò per ottener risposta.
Quindi la donna si avviò verso il palazzo, ricacciando indietro le lacrime di rabbia.
Perché proprio lui, proprio ora? Quell’uomo e la Francia. Fuoco contro fuoco, passione contro passione. Due tipi di amore egualmente forti e lei, incapace di rifiutarli e di farli coesistere.
Sperava che la Francia ne valesse la pena.

***

La carrozza frenò davanti al cancello della villa Plessis Bellière. Il valletto, che aveva viaggiato in piedi sul retro del veicolo, balzò velocemente giù e si premurò di aprire lo sportello, ma il conte non gli diede tempo di approntare il predellino e scese agilmente con un salto. Aveva fretta e non gli garbava dover attendere servi e valletti per riti che gli facevano solo perdere tempo. Il cancelletto era solo accostato ed arrivò in un attimo alla porta d’ingresso che casualmente si aprì prima che potesse farlo lui.
La ragazza sobbalzò per la sorpresa, ma si riebbe all’istante riconoscendolo.
- Conte Girodelle! Che bello vedervi qui a Parigi!
- Madamigella Diane… - ossequiò Victor con un inchino, levando il cappello in uno svolazzo di piume. – Vi trovo incantevole, come sempre…
- Galante, come sempre, signore.- ringraziò con una riverenza ed un sorriso.
- Vostra madre?
- Sta ottimamente, grazie. Cercate il Barone?
Non la sorprese il fatto che non le chiedesse del fratello. Sapeva del loro trovarsi reciprocamente insopportabili.
- Sì, ho una certa urgenza di parlargli. E’ in casa?
Diane si scostò, invitandolo ad entrare.
- Nel salone, impegnato con le grandi pulizie.
- Il mio caro amico avrebbe davvero bisogno di un po’ di svago.
- Temo che la sua mente sia “svagata” a sufficienza, signore. – ammiccò Diane.
- Svagata da cosa, madamigella?
- Da “chi”! – puntualizzò ella con un grande sorriso – Credo proprio che il vostro miglior amico sia vittima di un grande amore, di quelli che fanno soffrire. Purtroppo non conosco la fortunata dama e non posso fornirvi altre informazioni. E’ molto abbottonato … - bisbigliò – e pure un po’ triste ed assente. Magari voi avrete più fortuna di me come investigatore. Ora vi lascio, ho un po’ di bucato da fare. - Sorrise indicando il voluminoso involto tra le braccia.
- Portate i miei ossequi alla vostra gentilissima madre e spero di rivedervi presto, madamigella!
- Signore… - rispose lei, eclissandosi con un sorriso ed una veloce riverenza al di là dell’uscio.
A passo deciso, si diresse nel salone come indicatogli.
"Bene! "
Quindi André si era fatto rapire il cuore e con lui non aveva fatto parola!
La cosa lo sollevava un po’, visto che neppure lui era stato un gran confidente negli ultimi tempi. Non gli aveva detto tutto di Camelia e non aveva neppure accennato a Françoise. Domenica, sì, domenica avrebbe rimediato. Perché André era sempre il suo migliore amico, anche se ultimamente avevano avuto entrambi troppo da fare per frequentarsi come un tempo.

L’aria correva veloce dalle finestre tutte aperte della casa e lo vide, in piedi su di una scala, intento a levare un pesante tendaggio in velluto.
- Non capirò mai questo tuo intestardirti a fare a meno di personale di servizio. – esclamò l’amico sconfortato. – Davvero non vuoi che ti mandi Marie?
- La tua povera piccola Marie ha già abbastanza da fare a correr dietro a te – rispose André, raccogliendo con un certo sforzo l'ingombrante tessuto per evitare di cadere. Quindi scese e posò tutto in un mucchio dove già stavano gli altri tendaggi.
- La “piccola” Marie – ripetè facendogli il verso - mi ha anche chiesto qualche giorno di permesso. Si sposa, la “piccola” Marie! – comunicò. – E poi dovrò trovare una sostituta, visto che non potrà più restare a Versailles. – specificò sconsolato.
Dall’amico nessuna reazione.
André lo sapeva già.
Marie glielo aveva detto in quell’ultima notte insieme, alla festa d’estate.
Perché acqua e olio non si mischiano, perché non voleva trovarsi sola con un cuore spezzato, perché la vita è qualcosa di più delle luci di Versailles e ciascuno deve saper riconoscere la sua strada. E quel ragazzo, anche lui domestico presso la famiglia Girodelle, era un giovane a posto, che da tempo aveva manifestato affetto per lei e serie intenzioni.
- Desolato che tu abbia così tanti problemi. – ironizzò piano André. - Come mai a Parigi? Posso offrirti una limonata fresca?
- Avevo delle pratiche burocratiche da assolvere. Tentato dall’offerta, ma no, grazie. Vado troppo di fretta. Mi sono fermato solo per invitarti alla mia casa in campagna questa domenica. So che sei di riposo, quindi non provare nemmeno a rifiutare. La tua presenza è essenziale. Vieni al mattino, andiamo a Messa.
- Al mattino dormo. Ho il turno di notte e so che sai pure questo. – ribatté infilando le mani nelle tasche.
- Ci ho provato. – borbottò l’altro - Non sto scherzando, però. Devi assolutamente venire. Il perché è una sorpresa, quindi zitto! Ti aspetto per pranzo! – esclamò mentre già stava uscendo.
- Primo pomeriggio, Victor… - gli gridò.
Guardando dalla finestra, lo vide sul vialetto, borbottare fra sé, e salire agilmente sulla sua vettura.
Pensò che una giornata lontana da Parigi gli avrebbe fatto bene. Era così preso da Oscar, ma lei a volte sembrava voler tener le distanze. Era attratta da lui, lo voleva davvero; e André sapeva di non essere un passatempo, ma gli era capitato di sorprenderla pensierosa, triste come una donna innamorata non avrebbe dovuto essere.
E lui si sentiva triste di rimando.

***


La carrozza mandatagli da Victor per impedirgli di dimenticare l’impegno, arrivò alla tenuta dei Girodelle che era già pomeriggio inoltrato. Rifiutò cortesemente l’offerta del maggiordomo di accompagnarlo: conosceva la strada. Non era la prima riunione familiare cui era invitato.
La festa era in giardino dove stavano giocando a croquet.
Grida di bambini, richiami di adulti, risate. Tutti radunati sotto le tende di un grande gazebo bianco, mosse appena da un leggero vento di fine estate.

- Ancora cinque minuti di ritardo ed avresti pagato pegno – disse Victoire, la sorella maggiore, agitando la mazza da croquet nella sua direzione.
André spalancò le braccia come a chieder venia.
Victor era impegnato in un tiro particolarmente complicato. Stava di spalle ad una dama, la cingeva con le braccia e mormorava al suo orecchio indicazioni su come effettuare il lancio. La sua mano scivolava piano sul tessuto avorio dell’abito della donna, un tono più chiaro di quello del suo gilet; carezzava la spalla, il braccio, il fianco e si stringeva sulla mano piccola, chiusa sul legno.
André sorrise fra sé.
Il solito trucco del "ti mostro come regger la mazza"?
Victor sapeva sfruttare certi piccoli stratagemmi e lo faceva in modo sempre tanto galante da riuscire ad affascinare qualsiasi dama, anche la più ritrosa, pudica o smaliziata che fosse.
Mormorava suadente, parole che potevano esser semplici indicazioni di gioco, o vere e proprie dichiarazioni d’amore. Di certo la vittima non avrebbe colto differenze, stregata quanto un aspide dal suo incantatore.
Victor De Girodelle aveva quanto di meglio la vita potesse offrire in bellezza, eleganza, intelletto, fascino e fortuna. Ed il meglio era ciò che meritava.
- Ehi, laggiù, poche libertà giovanotto! – esclamò il padre della fortunata donzella, un uomo alto, dal fisico asciutto, gli occhi chiari, estremamente rilassato dallo chardonnay che l’amico Guillaume gli proponeva assiduamente.
- Non mi permetterei mai di mancar di rispetto a vostra figlia, generale! – esclamò - Anche perché non voglio essere da lei, per prima, passato a fil di spada. Già mi ha colpito al cuore…, - aggiunse in un bisbiglio all’orecchio, mentre lanciavano la palla e tutti erano distratti dal seguire la sfera invece che loro due.
Ella rise, si sciolse dall’abbraccio con una piroetta e … Il respiro si mozzò incrociando lo sguardo del nuovo venuto.
- Oh, finalmente sei arrivato! – osservò Victor, avviandosi incontro all’amico tanto atteso - Françoise, mia adorata, - la chiamò porgendole la mano - vi presento il barone de Plessis Bellière, mio amico fraterno, che sarà nostro testimone di nozze. André, quest’angelo terreno è la mia fidanzata, Oscar Françoise De Jarjayes. Sorpreso?
Per un istante interminabile, si udirono solo i suoni della campagna, l’ovattato chiacchiericcio dei commensali ed il tintinnar di bicchieri.
- Ma … vi conoscete? – chiese Victor, stupito dal silenzio piombato all’improvviso.
- No, decisamente non la conosco … - mormorò André con un tono di condanna che sfuggì all’amico ma non ad Oscar.


I genitori degli sposi promessi si erano ritirati poco dopo cena. I bimbi ed i fanciulli erano spariti con le tate già prima del desinare.
Restavano loro, i giovani, ed il fumo di sigaretta che aleggiava nella stanza da gioco, annebbiando i colori di abiti ed arredi, sfumando contorni e sguardi.
I signori si sfidavano a biliardo, mentre le sorelle Girodelle e la loro futura cognata, mettevano sul piatto del tavolo da gioco carte e pettegolezzi.
Oscar lanciava occhiate caute ed imperscrutabili ad André e Victor, intenti a parlottar tra loro tra un colpo ed un altro.
André la guardava di sottecchi sotto la stecca, tirando colpi secchi, che andavano a segno come pallottole sul bersaglio.
E lei si agitava, cercando di non mostrare tensione per la situazione che mai in tutti i suoi progetti folli e dettagliati, aveva immaginato si sarebbe potuta creare.

- Non hai fatto un solo commento su di lei – notò Victor con una punta di delusione, mentre uno dei cognati imprecava sul proprio pessimo tiro.
- Che dire: una bella donna, complimenti. Mi hai davvero sorpreso. Pensavo ti vedessi ancora con Camelia …
- Era una storia senza futuro ed ho capito che era giunto il momento di metter la testa a posto. – disse ostentando distacco per quella rinuncia obbligata.
- Ma che sai di lei?
- Che nasconde tante sorprese.
- Ne sono sicuro … -
- No, davvero! Françoise ha ricevuto una educazione militare. Il padre l’ha cresciuta come un maschio fino a quindici anni. Voleva farla entrare nella Guardia Reale. Pensa, avrebbe dovuto occupare il mio posto.
- Che uomo pazzerello … - commentò con tono beffardo, studiando le possibilità di tiro sul panno.
- Per mia fortuna così non è stato. – mormorò Victor, osservando incantato la fidanzata che in quel preciso momento stracciava le avversarie.
- Fortuna, già … Qualcosa di cui potresti aver bisogno con lei. – sibilò a mezza bocca, scoccando un colpo che sarebbe stato da maestro se non per l’eccessiva violenza che mandò una delle palle a rimbalzare oltre il bordo del tavolo, scivolando poi sul pavimento in legno della stanza, dritta verso un obiettivo forse non casuale.

- Françoise, sembrate distratta – osservò Victoire, chinandosi a raccogliere la sfera che puntava dritta sull’orlo dei loro voluminosi abiti, afflosciati attorno al tavolo da gioco, dove con le altre sorelle Girodelle, si sfidavano nell’ennesima partita a carte.
- Secondo me muore dalla voglia di cimentarsi al tavolo – ipotizzò Beatrice a voce alta, seguendo lo sguardo di Oscar che puntava al biliardo alcuni metri più in là.
- Secondo me è pentita d’aver slittato il matrimonio a primavera – replicò Victoire, maliziosamente, interpretando lo sguardo della futura cognata come il desiderio represso per un gioco di tutt’altro genere.
- Prima è impossibile organizzare un matrimonio decente, lo sai. Troppo poco tempo prima di Natale e poi Pasqua arriverà presto, quaranta giorni di periodo proibito, il Carnevale … . Tanto vale aspettare primavera. – sottolineò severa Natalie, riordinando le carte che aveva tra le mani.
- Mhmmm… certo che André … - incalzò la maggiore succhiando una pasta dall’aspetto goloso.
- Victoire!
- Che c’è, Natalie! Una donna sposata non può più sognare? E’ un attentato quell’uomo! Non pare anche a voi, Françoise?
- E’ tutta presa da nostro fratello, lasciala stare, svergognata!
- Guardateli lì, Françoise, due dei più begli uomini di tutta Versailles … - la istigò Victorie fissandola in volto.
- Sì e quello accanto è quel rospo di tuo marito …- ridacchiò Beatrice, piuttosto su di giri, riposizionando le proprie carte nelle mani.
- Ho vinto. – disse Oscar, freddamente, posando sul tavolo la giocata fortunata, senza interrompere il contatto visivo con Victoire.
- Ma no! Ancora! Che fortuna sfacciata! – si imbronciò Beatrice, ormai prossima agli effetti della sbornia triste.
- Al gioco e pure in amore! O, forse, sa semplicemente contare meglio di noi. – risolse Natalie.
- Sì, sono certa che la nostra Françoise i conti sa farseli bene … - replicò Victoire con tono sospettoso e volutamente acido.
Oscar si alzò, decisa, innervosita da quel punzecchiamento troppo insistente.
- Signore, la giornata è stata lunga. E’ giunta ora c’io mi ritiri.
Natalie osservò lo sguardo della futura cognata staccarsi da Victoire con uno sbatter di ciglia, come a sottolineare il punto alla fine del paragrafo di un libro che non intendeva continuare a leggere.
- Si è fatto tardi per tutti, a dir il vero. – commentò, alzandosi a sua volta in un gran fruscio di raso.
Oscar si mosse verso il biliardo, mentre Victor, premuroso, le si faceva incontro.
- Vi sentite stanca, mia adorata? – chiese, prendendo la mano che gli veniva porta, guidando la fidanzata verso l’anticamera e lo scalone che conduceva al piano superiore.
- E’ stata una giornata intensa, sotto tutti i punti di vista, e domani già ripartiamo per Versailles. Anche voi dovreste riposare. – rispose sensatamente.
Victor portò la mano alle labbra.
- Una richiesta difficile da soddisfare, sapendovi così vicina e così inavvicinabile comunque. – mormorò galante e malizioso.
L’arrivo delle sorelle e dei cognati, tutti docilmente al seguito delle consorti, salvò Oscar dal dover rispondere. Si limitò a sorridergli e, come il gruppo, salì verso le camere.
Victor rientrò nel salone dove era rimasto soltanto André.
Si era accomodato su di una poltrona, con un bicchiere ben colmo di cognac e fissava le fiamme tremolanti del candelabro posato al centro del tavolino.
- Vedo che hai avuto un’ottima idea, come sempre. – disse Victor, prendendo la bottiglia e servendosi a sua volta. – Ma perché bevi? Son io quello che si sposa! Una donna, una donna sola e … castità fino a primavera. Ossignoresantissimo … sarà dura! – bevve, mentre sedeva sull’altra poltrona.
André inarcò un sopracciglio, divertito suo malgrado.
- Come mai avete fissato la data ad aprile?
- Richiesta di Françoise. Vuole un matrimonio all’altezza delle nostre posizioni ed una casa tutta nostra. A quanto pare, nessuna delle nostre residenze la soddisfa.
Le sopracciglia inarcate diventarono due.
- Quindi? … - lo guardò.
- Niente. – replicò Victor, secco.
- Niente …?
- Niente, fino al matrimonio. E’ … timida su certe cose. – aggiunse esitante, col riserbo di una persona che non gradisce divulgare certi particolari.
André si sorprese. Decisamente questa Françoise non s’avvicinava alla Oscar che aveva conosciuto all’inizio dell’estate. Non solo la sapeva totalmente indifferente agli aspetti esteriori dei cerimoniali, ma la riteneva anche una donna che una volta presa una decisione, non perde tempo e nemmeno si fa intimidire dai luoghi oltre che dalle persone. Dopo la prima volta al laghetto e nella sua stanza a palazzo Jarjayes, non si era di certo intimidita in quella di André a Parigi, dove gli teneva compagnia tra un pesante turno e l’altro; non si era preoccupata della paglia tra i capelli nella penombra delle scuderie dei Jarjayes, non si era scomposta del vicolo buio vicino al Palais Royale dove lui l’aveva raggiunta al termine di una riunione con Robespierre e … Gli si seccò la gola al pensiero e dovette bere.
- Non ce la farai mai … - disse a Victor.
L’amico sorrise un po’ tristemente e André colse qualcosa di diverso in lui.
- Ma voglio farcela. – disse Girodelle - Voglio essere un buon marito e se lei vuole così, così sarà.
- L’ami? – bisbigliò appena André, sapendo che la risposta l’avrebbe comunque ferito.
- Siamo simili, abbiamo molto in comune … - esordì.
- Non ti ho chiesto questo.
Victor lo guardò con una espressione serena che André non gli aveva mai visto.
- So che sarà un buon matrimonio, ci credo davvero André.
Forse non era totalemente, follemente ubriaco d’amore, forse non ancora, ma André non lo ricordava tanto determinato e coinvolto, in tanti anni di amicizia. Non lo avrebbe mai smosso da quella convinzione. Tornò a fissare le fiammelle, senza un commento, senza un fiato. Solo un sorso, poi un altro.
- Sarai mio testimone, vero?
- Certo. – mormorò tristemente, seguitando a bere.
- Bene, perché sei un fratello per me ed il più bel giorno della mia vita non sarebbe tale senza la tua presenza – dichiarò Victor - Ora, mi ritiro anch’io, sono davvero stanco. – disse, lievemente amareggiato da come l’amico stava affrontando quella novità – André, resta pure ad annegare qualunque dispiacere tu abbia e del quale non vuoi rendermi partecipe. Io ti auguro una buonanotte, mio buon amico.



***

Origliava alla porta della sua stanza, spazientita ed ormai sul punto di arrendersi: tutti si erano già ritirati ed il palazzo era immerso nel totale silenzio. Tutti ormai cullati da Morfeo, tra lenzuola preziose e profumate, in abbracci conosciuti e rassicuranti, immersi in sogni di un futuro felice.
Tutti tranne Oscar e lui, che tardava ancora.
Gli doveva una spiegazione. Doveva fargli capire. Doveva …
Strinse i pugni, furente con sé stessa: non aveva previsto una simile situazione.
Finalmente, udì dei passi malfermi che echeggiavano nel corridoio dell’ala riservata agli ospiti, facendosi sempre più vicini ed aprì la porta, certa che fosse André.
Lui si fermò vedendola comparire all’improvviso.
Restò in silenzio, incantato, affascinato, trasognato, non potendo non trovarla bellissima nella camicia da notte candida ed impalpabile, i capelli sciolti dalle onde perfette, gli occhi brillanti nonostante fosse illuminata appena dalle candele del corridoio.
Lei, l’immagine di un angelo, l’aspetto di una dea, e l’anima nera che gli aveva nascosto.
Si inchinò con scarso equilibrio, in un omaggio che suonava canzonatorio.
- Dobbiamo parlare! – bisbigliò irritata da quel gesto.
Egli scosse il capo e con una scrollata di spalle si rimise a camminare, disinteressato al richiamo di quella sirena. Oscar si sporse, lo afferrò per la manica e senza tante cerimonie, lo trascinò nella sua stanza, sbattendolo al muro e chiudendo l’anta.
Lui ridacchiò per la violenza da lei impiegata.
- Sei davvero molto forte, per essere una donna …
- Devo spiegarti …
- Cosa? Che sei una proprietà Girodelle? – le alitò sul volto.
Si ritrasse da lui, disgustata.
- Sei ubriaco?
- Tranquilla, il mio giudizio su di te non è annebbiato. Solo un po’ i tuoi contorni … - borbottò assottigliando lo sguardo per meglio metterla a fuoco.
- André, non è come pensi … - cominciò.
- No, sicuramente è peggio. – la interruppe con nulla di più divertito nel tono di voce - Voi, - sibilò accostando il volto a quello di lei - il vostro sangue blu, i vostri privilegi da perpetuare …
Oscar serrò le labbra. Avrebbe voluto dirgli che quel fidanzamento era solo un contratto, un fragile pezzo di carta non vincolante al successivo passo matrimoniale, che poteva essere stracciato in qualunque momento. Era solo un mezzo per qualcosa di più importante: non cambiava le cose tra loro.
Voleva spiegargli che i sentimenti non c’entravano, che non avrebbe portato a termine la promessa resa quel giorno davanti alle autorità civili ed ecclesiali. Ma quel tono, quel rancore appena celato, indicavano che André non fosse nella disposizione di accettare spiegazioni.
- Avevo creduto di contar qualcosa per te … - mormorò avvilito, scivolando pesantemente lungo la parete.
- E’ così! Sei il mio punto fermo, la mia vita vera … - cercò di scuoterlo, stringendolo per le spalle.
- Ma vinceranno le luci di Versailles, vero? A volte sono solo un illuso, uno stupido illuso … - concluse, avvicinandosi al suo volto e carezzando le labbra che riuscivano a mentire così bene.
- Non è come credi, André … - ripeté, ma con voce incrinata per lo sguardo vuoto e scuro che le rivolgeva..
- Credevo fossi diversa, ma in fondo non mi stupisce la tua scelta. Ero stato avvisato: il mio sangue sarebbe sempre stato più pallido del vostro. Devo ammetterlo, a volte sono proprio un illuso … Sì, a volte dimentico di non esser nobile di nascita e che voi queste cose non le dimenticherete mai e poi mai. – mormorò sarcastico dandole ai nervi - Ma qualunque cosa tu possa pensare, sono l’unico in grado di difenderti …
- So difendermi benissimo da sola! – lo interruppe irritata.
- … da te stessa, Oscar, difenderti da te stessa! Perché sei tu il tuo peggior nemico.
La scostò da sé.
- André, io …
Ma prima che lei potesse anche solo tentare di formulare qualcosa di sensato e convincente, l’uomo aveva già richiuso la porta della stanza lasciandola sola.
Il desiderio di rincorrerlo, scomparve, travolto dalla rabbia.
“Fai come credi”, mormorò.
Andò al suo letto e ci si lasciò cadere, ostentando indifferenza a sé stessa, pensando al contempo che una battaglia persa non compromette tutta una guerra, confidando in un filo di speranza; ma tra un istante in cui si convinceva di riuscire a provar distacco per quell’uomo ed un altro nel quale già le mancava terribilmente, non poteva ignorare la sensazione di essersi giocata il meglio della vita.
Ciò nonostante, esausta e confusa più che mai, continuava a sperare che la Francia ne valesse la pena.


- continua




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Capitolo 12
*** Camelie e rose - parte 1 ***


I re del mondo - cap. 11 prima parte
cap. 11: “Camelie e rose” - prima parte

Parigi, privavera 1784


Il colonnello Victor Clément de Girodelle, impeccabile nella sua uniforme di un bianco abbagliante, scivolò lungo il divanetto azzurro polvere della carrozza e sbirciò fuori del finestrino le vie della Parigi notturna, quella che con le tenebre non dormiva per riposarsi di un duro lavoro, quella che se la godeva, che viveva al meglio.
Riconobbe la loro destinazione affacciata sulla grande piazza: un palazzo moderno, circondato da una cancellata degna di Versailles, era illuminato a festa.  Altre carrozze sostavano per far scendere ospiti, poi ripartivano, girando attorno alla mastodontica fontana, per andare infine a posteggiarsi in un angolo loro riservato.
Sapeva che i suoi uomini avevano già provveduto ad annunciare l’arrivo della carrozza reale e del suo seguito oltre che a mettere in sicurezza la zona, ma non si sentiva mai realmente tranquillo.

Sua Maestà, la Regina, aveva insistito a presenziare a casa di Fréville per quel ricevimento dato dagli sposi al ritorno dal viaggio di nozze, la loro prima apparizione pubblica a Parigi. Il re si era negato con eleganza, una piccola frecciata a quel ministro che alzava troppo la cresta, ma anche lui teneva alla partecipazione della consorte. In fondo Fréville era un suo ministro importante ed aveva appena impalmato la seconda donna più bella di Francia, nonché unica erede di una delle famiglie più benestanti, per di più sua cugina di terzo grado, che se solo fosse stata maschio si sarebbe trovata in lizza per il trono quasi alla pari di D’Orleans, ma di lui era senz’altro più piacevole, aveva confidato la Regina al suo accompagnatore.
Maria Antonietta l’aveva conosciuta in occasione del fidanzamento e del relativo benestare reale.
“Davvero graziosa, quella ragazza.”
Forse sì, pensava Victor, ma doveva essere una pessima persona per aver sposato quell’uomo orrendo, totalmente privo di scrupoli. Questi era un ministro del Re, era un suo superiore, ma per tutto questo non doveva necessariamente piacergli.
-    Andiamo colonnello, levatevi quell’ombra dal viso. State accompagnando la vostra regina ad un ricevimento come invitato. Fate le veci del vostro sovrano quale  mio cavaliere, mostratevi un poco più felice, ve ne prego!
-    Perdonate, Maestà, davvero. Sono solo preoccupato per alcuni avvenimenti poco felici accaduti di recente a Parigi e non posso scordare di essere responsabile della vostra incolumità.
-    Caro conte, cercate di essere responsabile anche per il mio buonumore già che ci siete, un piccolo sforzo. In fondo, voci di palazzo mormorano che non siate poi così riservato e burbero come vi atteggiate … Non in privato, almeno.
Insinuò sorridendo ed agitando pigramente il ventaglio davanti al viso dimodoché la luce birichina del suo sguardo ne risultasse accentuata.
Victor aprì appena le labbra e le serrò subito, ma concesse alla sua regina un sorriso tirato.
Va bene, Sua Maestà gli ordinava di divertirsi. Avrebbe almeno cercato di rilassarsi un poco e di non sembrare la solita storica rigida armatura alle spalle di Sua Altezza.
Certo, il ruolo di accompagnatore lo innervosiva. D’altronde, il comandante in carica della Guardia Reale era troppo anziano per presenziare a qualunque cosa e lui cercava di sostituirlo il più possibile. Per questo negli ambienti si mormorava riguardo la sua probabile, imminente nuova nomina a comandante. Inoltre, Maria Antonietta aveva candidamente ammesso che Victor aveva un aspetto decisamente più gradevole del suo anziano e malandato superiore ed era risaputo quanto ella gradisse circondarsi di persone giovani e piacenti.


L’entrata, come sempre quand’era in compagnia di Sua Maestà, calamitò sguardi ed esclamazioni. Maria Antonietta riempiva la scena, sempre e dovunque, non perché fosse la Regina, semplicemente perché era sé stessa: la stella.
Victor si guardò attorno, con l’occhio vigile della guardia del corpo, allenato da una vita a scrutare e notare ciò che gli altri non vedono.  Attirò l’attenzione del suo vice, l’efficientissimo e giovane capitano Brunet, quindi mosse qualche passo indietro per parlare con lui e portare la sua attenzione ad una finestra troppo vicina alla strada che sarebbe stato il caso di proteggere con una guardia.
Fréville si pavoneggiava all’imbocco della sala da ballo, davanti a dipinti di battute di caccia nelle sue terre al nord, dove lui veniva ritratto come il più grande dei cacciatori, con quindici chili e dieci anni di meno, per generosità del pittore.
Alcune dame, dopo essersi doverosamente prostrate al passaggio di Sua Maestà, tornarono ai loro discorsi. Victor attardatosi per richiamare il suo subordinato a prestare attenzione ad alcuni punti nervi scoperti del palazzo in tema di sicurezza, non poté non cogliere i loro discorsi.
-    Così dite che è in attesa? – insinuava una.
-    Sicuramente da prima delle nozze! – garantiva l’altra con tono di disprezzo.
-    Questo spiegherebbe con quanta precipitosità siano state celebrate. – risolse la terza.
-    Ammetto che la cerimonia è stata all’altezza sebbene sia stata preparata in fretta e furia.
-    Sì, superba, reale oserei dire!
-    D’altronde è questo che si crede il nostro ospite. Perché pensate che Sua Maestà, il re, non sia presente? Il nostro sovrano, non è certo un festaiolo, ma il messaggio che ha voluto mandargli è chiaro. Si fosse trattato di qualcun altro, non sarebbe mancato. In fondo la marchesa è sua cugina, anche se di terzo grado! Ha voluto mettere sull’avviso il ministro! D’altronde, chi dimentica quanto accaduto a Fouquet?
Victor inarcò un sopracciglio: sì, la marchesa doveva essere una “cara” ragazza davvero, come l’aveva definita la Regina. Morto un marito, non aveva certo perso tempo prima di trovarne un altro. E niente di meno che un ministro di Sua Maestà.
D’altronde ormai sapeva quanto la regina Maria Antonietta non fosse abile nel valutare le persone. Buona e generosa, sì, ma negata per finanza e rapporti coi suoi sudditi.
La sovrana era già stata omaggiata dai padroni di casa e velocemente era stata accalappiata dalla cara amica Polignac, che l’aveva coinvolta in un gruppo di dame invitate a conversare in modo informale col minimo dell’etichetta dovuta. Lui era rimasto solo, un po’ perso a seguire la sovrana nei suoi movimenti, quando si sentì chiamare dal loro ospite in persona.
-    Conte Girodelle! Venite, venite, caro Conte! Non siete a Versailles, potete sciogliervi un poco, non restatevene lì! Tengo a presentarvi finalmente la mia diletta consorte.
-    Mi dispiace di non aver potuto partecipare al vostro matrimonio, ministro. – si scusò Victor omaggiandolo con un inchino - Mi trovavo all’estero proprio per una identica occasione.
-    Sì, in Italia mi fu detto.
-    Esatto, una cugina a Torino.
In realtà aveva tanto sperato che le nozze della cugina lo avrebbero tenuto lontano dal giro mondano di Fréville, che in versione sposino innamorato era veramente irritante. Non era servito.
-    Non crucciatevi, caro Girodelle. Un colpo di testa è stato il mio, ma capirete il perché di questa mia follia anche solo vedendo la mia Camelia. Non potevo permettere che qualche giovanotto brillante e di bell’aspetto come voi, me la portasse via. Mia cara, voglio presentarvi un giovane dal futuro promettente.
La giovane si volse, scusandosi con le dame che l’attorniavano.
Fu un reciproco mancamento di respiro che li accumunò.
Camelia ebbe la sensazione di trovarsi davanti qualcuno che si era già conosciuto, del quale fidarsi.
Victor pensò subito che lei fosse fuori posto accanto a quell’uomo, oltre che indicibilmente bella.
Decisamente non aveva l’aria della sgualdrina che immaginava potesse reggersi al braccio di Fréville. E questa sensazione di sorpresa era destinata ad aumentare nel corso della serata ed ancor di più nei giorni seguenti.
-    Conte Girodelle … Mio marito parla assai bene di voi. – disse la marchesa porgendo la mano.
-    Mi stupisce che il Marchese non parli solo d’amore, con voi al fianco. – ribatté con galanteria, baciandogliela.
-    Ecco cosa intendevo alludendo al timore che qualcuno potesse portarmela via: Girodelle, ricordate che state trattenendo la mano della mia sposa … - osservò con sguardo torvo, ma divertito il marchese.
“Stupido pavone”, pensò Victor.
-    Così siete appena tornato dall’Italia, mi si è detto. – s’informò Camelia.
-    Sì, madame. I miei genitori non se la sentivano di affrontare le fatiche di un tale viaggio ed è toccato a me portare i doni e gli auguri della famiglia agli sposi.
-    Una cugina?
-    Sì, figlia del fratello di mia madre. Sono per metà italiano. – bisbigliò come in una confessione.
-    Non è un delitto, Conte. Invece, essere francese ed al tempo stesso ….  così poco francese come me,  pare lo sia. Aver sposato un inglese ed aver vissuto oltremanica durante la guerra, non è particolarmente apprezzato e mi rende una straniera in terra madre. – disse indicando di sfuggita con un movimento del ventaglio le malelingue che poco prima Victor aveva udito parlar di lei.
-    Ora questo non dovrà più disturbarvi, mia cara – s’intromise Fréville cingendole la vita con forza, a voler sottolineare il possesso – Ora siete la Marchesa di Fréville.
E Victor si accorse di qualcosa per quel gesto. Un impercettibile segno di stizza sul volto di lei, un disgusto a malapena trattenuto. Fuori luogo in una sposa novella.

Altri invitati si intromisero nella conversazione, il rumore della festa travolse tutto. Victor perso in quella piccola espressione di sofferenza che lo avrebbe turbato per tutta la sera, continuò a seguire con lo sguardo la padrona di casa, così bella e triste, mentre intratteneva gli invitati con grazia e simpatia.
Brindò, piluccò e fece danzare sua maestà che stranamente si stancò abbastanza presto ed espresse desiderio di ritirarsi nel suo appartamento alle Tuileries, poiché stroppo stanca per rientrare a Versailles.
Usciti che furono mentre aiutava la regina a salire in carrozza, dovette voltarsi per quella sensazione, come un tocco sulle spalle, forse solo il vento profumato di fine aprile. Ma la vide là, da sola sulla terrazza, illuminata dalle lampade ed avrebbe giurato che stava guardando proprio lui. Uno sguardo che non sarebbe riuscito a dimenticare nei giorni seguenti, non con la luce, non col buio, non nel frastuono di Versailles, o nel silenzio delle sue notti solitarie, nei suoi sogni più peccaminosi, percependo distintamente il suo profumo anche nel mezzo del puzzo della reggia, terrificante con le temperature in aumento .
Camelia Desirée gli era già entrata sotto pelle, incuriosendolo, attirandolo. E così cominciò tutto tra loro in quella dannata primavera.

***

L’aveva vista apparire in lontananza, l’aveva seguita con lo sguardo finché era diventata qualcosa più di un immagine sfuocata. Aveva potuto distinguere prima i colori, legno scuro e porpora: classico, non eccessivo, distinto ma non esibito; poi i dettagli: il passo dei cavalli, quattro; la polvere sollevata dai loro zoccoli; il sole del tramonto che si rifrangeva sul vetro del veicolo: toni caldi, ricchi come l’oro dei decori; poi aveva riconosciuto la sagoma del cocchiere, un uomo noto, ed infine anche lo stemma sui portelli: il suo stemma, quello dei Girodelle.
Era stato immobile, lì, solo alla grande finestra della sua stanza, respirando appena, trattenuto, come se avesse avuto paura di un movimento di troppo, di un fiato, di un rumore che potesse infrangere quello stato di attesa.
Era nervoso. Strano. Non gli accadeva spesso.
Sì, strano, non era il tipo, almeno non lo aveva mai creduto prima. Eppure era così: fremeva.
Non pensava che lei avrebbe accettato.
Lei, novella sposa, lei, roccia, lei donna complicata.
Aveva osato oltre l’incoscienza: la moglie di Fréville. Perché tanta arroganza? Perché esporsi così? Perché rischiare l’affronto? Le conseguenze di uno scandalo, la vergogna, il carcere, l’esilio, o anche solo un duello con Fréville!
E perché lei aveva ceduto? Avventata, leggera, eppure consapevole di tutto. Sfrontata, crudele. Irresistibile.
La carrozza dei Girodelle si fermò con un leggero sobbalzo davanti all’entrata della villa di campagna.
Una coppia di domestici si avvicinò alla vettura, pronti ad accogliere l’ospite.
Victor, che nel frattempo era sceso al pianterreno, si avvicinò alla vettura mentre il lacchè aiutava la dama a scendere; era vestita con un abito ricamato a fiori in vari toni di rosa: camelie.
-    Siete venuta, quindi – mormorò estasiato alla donna celata da un  velo che ne confondeva i lineamenti.
Il sorriso appena sfrontato non venne occultato dal semplice tessuto.
-    Riponete poca fiducia nel vostro fascino, signore. Non desideravo altro che incontrarvi. – sospirò ed il suo fiato mosse appena l’impalpabile drappo, come una ragnatela cullata dalla brezza.
Victor prese i lembi del velo con entrambe le mani e lo sollevò scoprendo il viso che fino ad allora aveva potuto ammirare solo di nascosto, in silenzio, con colpa.

Dopo il loro primo incontro l’aveva rivista spesso a Versailles e mai era stato un caso. Avevano parlato tanto, di viaggi e terre lontane che la giovane Marchesa aveva visitato col primo compianto marito. Ed aveva notato quanto si illuminasse coi ricordi e con la sua compagnia e quanto si adombrasse invece accanto al marito.
Così aveva osato la folle proposta.
Non si aspettava un suo sì, ma lo desiderava come mai in vita sua.
Fréville partiva a fine settimana per la sua battuta di caccia al nord. Lei non doveva far altro che recarsi all’angolo della via che le avrebbe indicato e la carrozza dei Girodelle l’avrebbe portata da lui, fuori città, lontano da sguardi indiscreti.
Avventato, rischioso. Eppure lei era lì.

Le prese la mano.

-    Venite, vi mostro la casa. – Appena entrati nell’ingresso le indicò una giovane cameriera - Nicolette si occuperà di voi per il tempo della vostra permanenza, non avete che da chiedere.
La fanciulla si inchinò e prese la borsa da viaggio di madame per portarla nella stanza degli ospiti, insieme agli altri bagagli pesanti portati da altri domestici.
Victor le porse il braccio e cominciò a guidarla per un breve giro d’orientamento attraverso la casa ed i giardini fioriti di maggio.
Camminavano e parlavano e la mano di lei carezzava il suo braccio teneramente, finché Victor gliela prese e la portò alle labbra, prima di chinarsi e baciarla con trasporto sulle labbra.
Non era il primo bacio. Ma era il primo alla luce del sole e fu emozionante.
Camelia si strinse a lui. Non c’era bisogno di parole, soltanto di arrendersi all’inevitabile.
Restarono lì in piedi, abbracciati, come persi nel tempo. Non esisteva più nessuno al mondo: non i doveri di Versailles, non quel dannato  matrimonio con Fréville.

La governante, riservata, composta, ma non severa, li raggiunse per informarli che la cena era pronta per esser servita. Victor aveva preteso una tavola intima, informale, dove avrebbe potuto trovarsi vicino alla sua ospite quanto bastava per permettersi qualche gesto affettuoso,  ma anche abbastanza lontano da riuscire a mantenere un decoroso contegno.
Camelia rideva serena agli aneddoti sulla sua infanzia e lui faceva altrettanto per le imitazioni irriverenti che la giovane faceva delle zie del sovrano.
Al termine della cena, il maggiordomo portò un cofanetto di velluto rosa e su ordine del conte lo aprì per mostrare il contenuto a madame.

-    Victor non posso. E’ troppo! – esclamò ella, portando una mano al petto.
-    Niente è troppo per rendere la misura del mio trasporto per voi.
-    Victor … non sono il tipo di donna che ha bisogno di doni per ascoltare il cuore!
-    Insisto . – disse lui.
Camelia accettò con un piccolo gesto del capo.
Victor si alzò, prendendo il gioiello con entrambe le mani. Si portò alle spalle della dama, mentre il domestico e la cameriera lasciavano la stanza, lasciandoli soli.
Ella seguì il collier scendere davanti al suo volto, lentamente, scintillante alla luce delle candele che attraversava ogni singola pietra, ogni singola goccia trasparente, moltiplicandosi sulle sue iridi con tutti i colori dell’arcobaleno.
Toccò la pelle del petto e la donna sussultò per la sensazione di calore seguita al contatto con la pietra fredda e non poté trattenere un sospiro. Reclinò il capo all’indietro quanto le bastò per incrociare il suo sguardo lucido, risplendente per l’eccitazione più delle gemme della Loira.
Victor proseguì e posato il dono sulla pelle, lo allacciò dietro la nuca, dove le sue mani solleticarono quella parte sensibile da principio solo incidentalmente, poi per volere. Ella chiuse le palpebre assaporando le sensazioni provocate da quel tocco in regioni opposte del suo corpo.
Le mani di Victor si spostarono un istante sulle spalle, ferme, quel tanto che bastò a far rallentare il battere del cuore; quindi le dita ripresero a scendere sul collier, raddrizzando le pietre lungo il collo e poi giù a sistemare l’ultima goccia deposta nell’incavo dei seni.
-    Semplicemente perfetto per voi … - mormorò.
Ella risollevò le palpebre e lo guardò fisso, in attesa.
Si chinò a baciarla, un bacio al contrario, scomodo, nervoso, ma che portava le sensazioni nella giusta direzione. Con le mani carezzava la seta ricamata sulle braccia di lei e la fronte sfiorava il suo seno che ritmicamente si sollevava ad ogni colpo di lingua, sempre più prepotente.
Camelia alzò una mano sulla sua nuca e lo obbligò a sé come a voler aumentare il contatto che si trasferì dalle labbra alla guancia, all’orecchio, al collo e non fu più sufficiente. Le lasciò le spalle per afferrare lo schienale della sedia che trasse all’indietro mentre ella si alzava ruotando in fronte a lui e prendeva il suo viso tra le mani, baciandolo, baciandola, in un divorarsi reciproco ed egualmente impaziente.
Improvvisamente, lei si staccò e posò due dita sulla sua bocca per impedirgli di ricominciare.
-    Qualche istante … Solo qualche istante – ansimò, le gambe che le cedevano.
Victor annuì. La lasciò andare ed ella arretrò, con una mano a riparar qualche ricciolo e l’altra sullo stomaco, sul bustino troppo stretto che la soffocava, illudendosi di riuscire a trattenere così gli spasmi del suo ventre.
-    Qualche istante … - ripeté ancora, uscendo dalla porta del salone appena oltre la quale, l’attendeva composta e invisibile la cameriera. Victor lasciò che salisse al piano superiore guidata dalla domestica.
-    Qualche istante … - bisbigliò a sé stesso prendendo a passeggiare su e giù per la stanza.

In poco tempo, perse e riperse il conto dei secondi, dei minuti … Quanto sono “alcuni istanti”? Un minuto, di meno, di  più … Un’eternità?
Decise di salire. La cameriera attendeva fuori dalla stanza. S’inchinò al suo passaggio e si ritirò senza un fiato.
Egli allungò la mano sulla maniglia. Esitò. Aprì.
Il buio lo accolse, ma non era veramente buio. Semplicemente le cortine del letto dal suo lato erano calate ed impedivano la vista di quanto stava celato dietro ad esse, ma tutto attorno poteva percepire l’ alone di candele diffondersi debolmente. Girò attorno al letto e la vide così, prona, una gamba pigramente sollevata, la mano sinistra a regger il capo, l’altro braccio sul copriletto, nascondeva il petto nudo, ma non quel prezioso collier luminoso quasi quanto il suo sorriso.
-    Vi sta molto bene addosso, madame
-    Dite? Non lo trovate … eccessivo? – scherzò Camelia riguardo il contrasto con la propria nudità.
-    E’ l’abito adatto all’occasione.
-    Diamo quindi inizio alle danze? – sussurrò maliziosamente.



Sorridendo, Victor fece scivolare dalle spalle la giacca chiara fino a che gli giunse ai polsi. La levò, la gettò su di una poltrona. Reggendo il suo sguardo, slacciò con decisione uno dopo l’altro i bottoni del farsetto il quale seguì lo stesso destino della giacca. Slegò i lacci dei polsi, levò il fermacravatta, la sciolse, la lasciò cadere.
Restò lì un istante, fermo, mentre la camicia leggerissima, non trattenuta da lacci o bottoni, come fosse stata dotata di vita propria, scivolava lungo i muscoli del suo petto, denudandolo in parte, lasciando intravedere la scultura della muscolatura, non in difetto con quella di un dio greco.
Poi andò a sedersi ai piedi del letto, accanto a lei, sprofondando nel materasso di piume. Si guardò la punta delle scarpe, sorridendo incredulo che lei fosse così vicino a lui, le scalciò. Sentì la mano di Camelia sulla sua.
-    Pronto a danzare, monsieur?
Volgendosi verso di lei, le ciocche ondulate scivolarono ad incorniciargli il viso, ed ancor più quando fornì la sua risposta, chinandosi a baciarla. Ella si stese sulla schiena, rotolando su di sé con la sensuale e misurata movenza di un felino; lui la seguì nel movimento osando accompagnarla col tocco delle mani; tocco che divenne carezze, all’inizio solo accennate, poi sempre più audaci ed intime. Ed ella lo ringraziò con una sorta di fusa, attirandolo su di sé, sfilando la camicia dalla prigione dei pantaloni, per poter insinuare i suoi artigli e percorrere le carni tese del suo dorso.
Cinse i suoi fianchi, imprigionandolo tra le cosce, mentre egli non smetteva di percorrere con le labbra la pelle del suo collo.
-    Sì, - la sentì sussurrare nell’eco di un sorriso compiaciuto - … sì …
-    Sì? – chiese guardandola in volto, perplesso.
Ella si morse un labbro, divertita, eccitata, sfrontata.
-    Sì … Oh, sì che siete pronto a danzare! - rise, strofinando il proprio ventre contro il suo sesso.
Egli si puntellò sui gomiti, spingendosi di più a confermare che non l’avrebbe lasciata insoddisfatta, strappandole un gemito.
-    Desirée (*) … Mai nome avrebbe potuto rappresentarvi di più, ora, qui, per me. (*Desiderata)
Scese a baciarle i seni, non privando neppure un solo lembo di pelle delle sue attenzioni, del suo provocare, titillare, solleticare. Ella confermava il gradimento arcuando la schiena, spingendo il suo capo con le mani, direzionandolo ove provava più piacere e trattenendolo lì. Ma Victor non era tipo da eseguire passivamente e proseguì oltre, cogliendola di sorpresa, impreparata all’ondata di piacere che egli trasse dalla profondità del suo esser femmina, piacere al quale cedette senza poter opporre resistenza, senza proroghe, travolta dalla sua decisa aggressione.
Prima le signore, si era sempre imposto Victor nelle questioni di letto, questo fin da quando aveva capito quanto una donna mettesse di sé nei rapporti amorosi e quanto rischiasse in termini di onore, emozione, e non ultimo, salute di mente e corpo, quando cedeva alla passione. Rischi che la quasi totalità degli uomini o ignoravano o deliberatamente trascuravano col solo scopo di soddisfare i propri sensi.
Cosa realmente deplorevole per un vero gentiluomo, pensava di ciò Victor. Perché esseri che così tanto davano, con così tanto coraggio, avevano almeno diritto al maggior piacere ottenibile dai sensi, a sentirsi il centro dell’universo prima di donare tutto quanto di sé.
La lasciò solo quando la sentì perdere il controllo, smarrita in piaceri che Fréville le aveva fatto dimenticare e per questo ancor più intensi ora.
Boccheggiante, ansimante, si coprì la fronte col dorso della mano, mentre Victor si sollevava in ginocchio tra le sue cosce prive di forza.
Sorrise divertito dalla scomparsa della sua vena canzonatoria mentre sfilava la camicia dal proprio torso accaldato e poneva mano all’ultima barriera tra i loro corpi, denudandosi.
L’afferrò per le braccia, la tirò su con uno strattone deciso, portandola cavalcioni dei suoi fianchi.

La tenne lì, più vicina che non si poteva, carezzandole il centro della schiena mentre l’umidità del suo godimento ancora pulsante lo accoglieva.
Amava far l’amore. Non aveva mai avuto dubbi. Amava amare le donne ed esserne riamato. Non aveva prezzo il momento in cui si perdeva nello sguardo della compagna come ora. L’eternità prima dell’abbandono.
La baciò, piano, la depose delicatamente sul letto sotto di sé, dentro di lei, perso sui lineamenti del suo volto accaldato, carezzandole i capelli umidi. Sapeva esattamente cosa avrebbe provato ora, sapeva sarebbe stato bello, travolgente, anche di più perché lei era fantastica, incredibile, divina. Sarebbe andato in crescendo fino al momento di doversi disgiungere, prima di perdere la cognizione di tutto, il senso di ogni cosa, trovarsi solo e fuori del mondo.
E così fu: bellissimo, fantastico, esaltante finchè capì di doverla lasciare. Si mosse appena, ma lei lo precedette impedendogli di scivolare via.
-    Restate … - mormorò.
-    Camelia … non posso …
-    Non preoccupatevi, non ci saranno conseguenze. – disse stringendolo, inarcandosi verso di lui, trascinandolo al punto di non ritorno.
Decise di doversi fidare di quella motivazione, anche perché non ebbe il tempo di ottenerne altre.
E fu diverso.
Un gentiluomo è sempre gentiluomo. Si era promesso una infinità di volte che mai sarebbe diventato un uomo alla Rousseau, che non si cura delle donne, delle conseguenze dell’amore fisico, che gode ed abbandona. Era sempre concentrato quando arrivava il momento, per prevenire conseguenze spiacevoli. Non come accade con la persona con la quale si è scelto di vivere la vita, non come con la moglie con la quale metterai su famiglia, e tutto diventa la desiderata conseguenza.
Ma quella notte, con Camelia, si lasciò andare completamente, senza pensare a dopo, libero.
E un po’ si spaventò accorgendosi, in un certo senso, di aver fatto sempre solo sesso, appassionato, sì, ma limitato, misurato, vincolato.                   
Si sentì diverso e cominciò a pensare che alla radice di questa diversità ci fosse l’amore. Un amore triste perché senza futuro.

Alla luce dell’ultima candela ancora accesa, la guardava sul suo stesso cuscino mentre, ad occhi chiusi, riposava accanto a lui, più misteriosa di quando avesse mai potuto pensare.
-    Lui lo sa? – chiese.
-    Cosa?
-    Che non gli darete eredi?
Spalancò gli occhi turchini.
-    No.
-    Non apprezzerà. Sono note le sue ambizioni dinastiche.- constatò accigliato.
-    Affronterò il problema quando si presenterà. – disse ella scrollando le spalle.
-    E’ pericoloso, Camelia.
-    Vi preoccupate per me, Victor?
-    Certo … - rispose teneramente con un filo d’ansia, come se si trattasse di cosa ovvia.
Gli carezzò il volto.
-    Camì … Voi mi amate? – chiese ricambiandola.
Rispose annuendo, perché udire la propria voce ammetterlo le avrebbe fatto paura.
Innamorarsi? Non poteva innamorarsi.
-    Ma? Non sono il vostro unico amore, vero?
Forse lui pensava a Fréville, come sarebbe stato corretto.
Lei non negò, ma il pensiero correva invece a chi non era più.
Quel sentimento sarebbe sempre restato lì, dolce e doloroso. Incancellabile, inguaribile.
-    L’amore ha molte forme e sfumature. Nessuna è minore. Vi pare impossibile?
-    No, capisco, ma vorrei tanto non fosse così. Vorrei avervi conosciuta prima.
Anche lei. Ma non prima di quelle dannate nozze. Prima di tutto. Prima di quel giuramento, prima di quel proposito, prima di quel passo con Fréville.
Se avesse conosciuto prima Victor, una decisione così non l’avrebbe mai presa. Non avrebbe gettato un futuro felice in pasto alla vendetta. Si strinse a lui, rannicchiata sul suo petto, carezzandoglielo.
-    Alcune volte, occorre fare delle scelte. Altre volte, bisogna far coesistere ciò che è irrinunciabile, altrimenti è la pazzia.
Egli guardò le tende gonfiarsi con la brezza notturna, ormai vicina alle temperature estive.
-    Non so se sarò in grado di dividervi … - mormorò Victor.
Alzò gli occhi su di lui, lucidi di tristezza e desiderio.
-    Non dovete dividermi con nessuno ora. Sono qui, con voi, per voi. – disse mentre le carezze si spostavano dal torace a parti più intime, provocandolo.
Un colpo di vento fece piombare la stanza nell’oscurità.
Victor le carezzò il fianco, strinse la mano dietro al suo ginocchio e sollevò la gamba piegata sui suoi lombi, portandole il bacino a contatto con quella parte di lui che non aveva bisogno di altre sollecitazioni per mostrarsi interessato.
Era lì, con lei, per lei. Solo per lei.


-    Continua




Breve cronologia per orientarsi coi flashback (ormai vi ho confusi più che a sufficienza!) di questa storia che, a farla breve, si svolge solo durante l'estate del 1784 e si concluderà coi primi freddi : )
Avrei anche potuto titolarla "La lunga estate calda" (così tanto per rubare un titolo ad un bellissimo film!)



1753 nasce Victor (non conosco la vera data) Ho immaginato per lui 3 sorelle minori, con 1, 3 e 6 anni di meno.
26/8/1754 nasce André
25/12/1755 nasce Oscar
1759 nasce Camelia
agosto 1760: André bambino va a vivere dal barone di Plessis Bélliere
giugno 1770: Oscar va a vivere ad Arras
primavera 1775: André viene adottato dal barone e diventa l'ultimo dei Plessis Bélliere
estate 1775: muore il barone
autunno 1775: André conosce Alain e si arruola
inverno 1776: André conosce Victor
1777: Camelia si sposa a 18 con l'inglese lord Ross William Chatwell (che per farmi del male ho immaginato uguale a Matthew McConaughey)
febbraio 1783: lord Chatwell viene assassinato, lasciando Camelia vedova e disperata (come la capisco!)
maggio 1783: il marchese De Fréville diventa ministro della guerra
Natale 1783: Camelia viene arruolata dai servizi segreti di Re Giorgio
marzo 1784: Camelia sposa Fréville
aprile 1784: Camelia conosce Victor ed il mese seguente ne diventa l'amante (come la capisco!)
7/6/1784: Fersen torna a Parigi al seguito di Re Gustavo di Svezia (e 9 mesi dopo nascerà il principino Charles ... mah...)
18/6/1784: André conosce Oscar al laghetto
21/6/1784: Victor conosce Oscar Françoise a Versailles, durante la festa al Trianon in omaggio a re Gustavo di Svezia
primi di agosto 1784: Victor decide di sposare Oscar
fine agosto 1784: fidanzamento ufficiale e amara sorpresa per André







 
















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Capitolo 13
*** Camelie e rose - parte 2 ***


I re del mondo - cap. 11 seconda parte
cap. 11: “Camelie e rose” – parte 2


5 settembre 1784, domenica

Non aveva potuto far altro che sedersi ad aspettarlo.
Quella volta. Poi un’altra.
Ogni giorno si recava lì. Ed aspettava.
Pensò che forse non aveva fatto altro nella vita, se non aspettare lui.
Ma non lo trovò mai ad attenderla sul pontile nei giorni seguenti la lite.
Non riusciva a levarsi dalla testa il suo sguardo di quella notte.
Ubriaco, ma non confuso. Stanco, ma non vinto.
Lui non capiva. Come avrebbe potuto? Lui l’amava. Anche Oscar lo amava, ma lei portava sulle spalle il peso di un rancore che non riusciva a scaricare, che le impediva di andare da lui e lasciar perdere tutto.
La notte del suo fidanzamento si era addormentata col proposito di ritentare l’indomani con le spiegazioni, ma al suo risveglio aveva scoperto che André era ripartito all’alba per Parigi. Non aveva voluto concederle un’altra possibilità.
La colazione con la vivace famiglia Girodelle, il seguente viaggio di ritorno a Parigi coi genitori, erano stati un supplizio.
Chiusa nel suo mutismo, non aveva replicato alle ormai rituali frecciate di Victoria, né ai rimproveri di madame riguardo il suo modo di comportarsi, muoversi, atteggiarsi; non aveva badato agli sguardi indagatori del padre, né alle premure di Victor. Arrabbiata con sé stessa, pensava solo a come risolvere la situazione, possibilmente senza rinunce.

Così si era recata a Parigi, sotto casa sua, decisa ad affrontarlo e sì, anche a supplicarlo di ascoltarla, pronta a dirgli la verità, sperando non decidesse di farla arrestare, lei e tutti coloro coinvolti nella sua organizzazione, come sarebbe stato suo dovere di ufficiale.
Ma si era fermata all’altro lato della strada, impietrita, vedendo quella giovane ragazza spalancare le persiane della sua stanza, invitandolo ad alzarsi dal letto, cinguettante ed affettuosa come lei mai sarebbe potuta diventare.
Già, perché mai André non avrebbe dovuto sostituirla con un anima pia e ben disposta a cucire e curare le ferite che lei gli aveva inferto?
Lo aveva messo al secondo posto. Aveva preferito tramare nell’ombra piuttosto che vivere alla luce con lui.
Abbattuta come mai era quindi andata al ritrovo nelle cantine del Palais Royale per decidersi a portare a termine ciò che aveva iniziato.
Ormai quello era tutto ciò che le restava.

Anche quel giorno, quello in cui la sua squadra capeggiata da Bernard avrebbe agito, era andata al laghetto.
Un ultimo tentativo, l’ultima fiammella di speranza inconscia.
Un tentativo inutile.
Aveva atteso contando i passi sulle assi di legno del pontile; strappando fili d’erba ad uno ad uno, seduta sul leggero crinale che portava all’acqua; tirando sassi nello stagno, che affondavano inesorabilmente come la sua speranza.
Si rialzò per avviarsi verso casa. Stupidamente, si era augurata che fosse lui a fare il primo passo, a tenderle la mano nonostante tutto; a darle un appiglio, ad essere una tentazione invincibile per poter mandare tutto a monte, per strapparla fuori dal quel pantano in cui si era invischiata.
Ma non sarebbe stato così.
Diede una scossa all’abito turchese da cavallerizza che aveva badato a non sporcare sull’erba.
Quel giorno il generale era a palazzo e così pure maman. Ormai doveva farci l’abitudine a vestire come loro si aspettavano. Ormai era fidanzata ufficialmente e, sebbene il futuro sposo non avesse fatto la minima rimostranza sul suo modo di vestire e svagarsi, sapeva di doversi preparare a dire addio a certi atteggiamenti una volta entrata a corte.

Tornò senza fretta a palazzo, cavalcando mestamente, lasciandosi alle spalle un luogo felice dove non voleva più stare senza lui, diretta verso un luogo dove non voleva arrivare.
Nel cortile trovò una carrozza.
Quella di Bouillè, il capo supremo dell’esercito, amico di vecchia data di suo padre, uomo ben poco amichevole.
L’istinto le suggerì che qualcosa bolliva in pentola ed era sicuramente nulla di buono per lei.
Lasciò Cesar libero nel cortile posteriore; svelta salì le scale e si appostò fuori dell’ufficio del padre ad origliare, come faceva da mesi. Pratica forse poco onorevole, ma sicuramente proficua.
- Quindi, cambiano i programmi? – stava chiedendo il generale.
- Sì, in parte: il ministro Fréville ha richiesto che la scorta dai boschi di Meudon venga affidata alla Guardia Reale
- Strana scelta: non è un compito adatto a loro. Tantomeno con Girodelle direttamente al comando. I miei soldati darebbero meno nell’occhio.
- Lui pensa il contrario. Se la scorta sarà fatta dalla Guardia Reale, tutti crederanno a qualche nuovo gioco della nostra sovrana, non ad un apparato bellico.
- Sì, forse. – esitò - Quindi, ne avete già parlato con Girodelle?
- Gli ordini sono già sulla sua scrivania. Partirà tra poco per Meudon e stanotte il carico sarà in viaggio sul tragitto già previsto. Arrivato in Normandia, tutto verrà rimesso nuovamente nelle vostre mani. Ma ho saputo che il caro Girodelle diventerà presto vostro figlio! – divagò Bouillé.
- Sì, abbiamo festeggiato da poco il fidanzamento, ma dovranno aspettare il prossimo aprile per le nozze.
- Alla fine la brutta esperienza con la vostra Oscar si risolve nei migliori dei modi, non è così?
- Già, non ci speravo più. – ammise Jarjayes alzando il calice per un brindisi.


Oscar si sostenne alla parete.
Victor avrebbe scortato il convoglio? No, questo cambiamento non andava affatto bene.
Lei era stata chiara con Bernard: fare il necessario. E pure Victor avrebbe fatto il necessario.
Doveva impedirlo o tutto il suo tramare per avvicinarsi ai reali sarebbe stato vanificato se il suo fidanzato avesse incrociato la lama con Bernard, un giovane troppo impulsivo, oltre che ingiustificatamente geloso e permaloso.
Per fermare Bernard e la squadra era troppo tardi, si trovavano già sulla strada per la Normandia. Poteva solo tentare di fermare Victor.

Questa era la versione che si ripeteva ritornando in cortile e riacciuffando Cesar intento a brucare i fiori preferiti di madame.
In realtà sapeva che contemplare vittime sconosciute era una cosa ben diversa. Non poteva ammettere che Victor, ora che lo conosceva …
Non voleva che gli venisse fatto del male. Tutto lì.
Lo stava usando e ciò le piaceva sempre di meno, ma se fosse rimasto ferito o addirittura ucciso in una operazione organizzata da lei non se lo sarebbe mai perdonato.
Fin da piccola si era sempre sentita un soldato, pur non avendo mai indossato l’uniforme, e come tale era convinta che un soldato dovesse essere in grado di fare ciò che era necessario: uccidere, al bisogno, senza porsi domande, senza esitare.
Ma ora, che questa eventualità si faceva sempre più concreta, cominciava a chiedersi se ne sarebbe stata in grado.
E coi Girodelle, sebbene certa che non avrebbe mai fatto parte di quella famiglia, aveva scoperto cosa significasse davvero quel termine: un insieme di persone dove tra alti e bassi, picche e ripicche, risate e sfuriate, tutti si vogliono bene e si sostengono.
Victor aveva quel tipo di vita che a lei era sempre stato negato e che iniziava ad invidiargli.


***



Egli la vide arrivare, guardando dalla finestra del suo ufficio.
Cavalcava splendidamente alla amazzone in quell’abito turchese dalla foggia insolita, quasi militare, dalla linea morbida su un corpo non costretto, evidentemente privo di armature. La vide scivolare agilmente giù dalla sella, senza attendere aiuto dal soldato ed entrare nell’edificio, picchiettando nervosamente il frustino sul palmo.
Irruppe nel suo ufficio, con un passo veloce, deciso, che non concedeva tempo ai vari strati di mussola della gonna di ritornare fluidamente a cadere e quasi si annodavano alle sue gambe . I capelli stavano raccolti sotto un piccolo tricorno che lasciava sfuggire boccoli artificiosamente costretti in quelle forme e tuttavia liberi, saltellavano un poco ribelli nel movimento elastico che seguiva il passo.
- Mia cara, che sorpresa gradita! – esclamò Victor andandole incontro a braccia aperte.
- Oh, ero in giro per una cavalcata ed ho pensato di farvi un’ improvvisata. – Spiegò schivando il suo abbraccio; senza guardarlo, si avvicinò all’ampia finestra spalancata e levò lo spillone che tratteneva il cappellino.
- A cavallo con questo caldo? Siete imprevedibile! E poco attenta a voi stessa: potevate rischiare un mancamento – la riprese sorridendo, incassando l’ennesimo gelido rifiuto in quella settimana, pensando che la nave matrimoniale sarebbe stata assai difficile da governare una volta varata; domandandosi addirittura se tale vascello avrebbe galleggiato o se non sarebbe miseramente affondato al primo accenno di tempesta.
Rassegnato a mostrarsi paziente, tornò alla scrivania per prendere la spada.
- Purtroppo mi devo allontanare. Sono già in ritardo. – disse volgendole le spalle.
- Ve ne andate?
- Sì. Ho un incarico che mi terrà lontano da Versailles per qualche giorno. – spiegò appena, mentre fissava l’arma alla cintura e calzava il tricorno sul capo.
Quando si volse, trovò che Oscar si era avvicinata e gli stava quasi addosso. Posò il cappellino sulla scrivania, avvicinandosi ancor più a lui.
- Non andate … - mormorò, fissandolo negli occhi.
Victor sorrise. Gli sbalzi d’umore di lei lo meravigliavano ed intenerivano.
- Madame starò via solo fino a dopodomani …
- Non andate. .. – ripeté ancora, abbassando involontariamente la voce, che prese un tono sensuale.
- Françoise … Oscar … - aggiunse perché quello era il nome in cui lei si riconosceva.
- Ho un brutto presentimento …
- Vi prego, non agitatevi così! – disse Victor, che cominciava a preoccuparsi per lo strano comportamento di lei; la prese per le braccia, immobili lungo i suoi fianchi, e cominciò a carezzargliele, dalle spalle ai gomiti.
- Oscar … è il mio lavoro, non sarebbe saggio per me ignorare un ordine diretto del Ministero. - replicò alla muta richiesta dei suoi occhi.
- Io tengo a voi. – dichiarò - Tengo davvero tanto a voi. Più di quanto vorrei … - e lo stava dicendo più che altro a sé stessa.
Victor inclinò il capo per guardarla meglio in volto. Lei non distolse lo sguardo.
Si avvicinò al suo viso. Lei non si volse per evitarlo.
Accostò le proprie labbra a quelle della sua promessa sposa.
Un respiro profondo, caldo uscì da quelle di Oscar.
Un invito?
Posò la bocca sulla sua e non gli parve vero, non finché la sentì dischiudersi e respirare il suo stesso respiro.
Da principio fu solo uno sfiorarsi, come quello di un’ape che ronza sul fiore, come di ali di farfalla che sbattono piano; un carezzarsi ad occhi chiusi, leggero come una piuma che cade.
Ma quando sentì le mani di lei posarglisi sulla schiena e la sua bocca catturargli il labbro inferiore, capì che non lo avrebbe più fermato.
L’attirò contro di sé, con tutto il desiderio provato fin dalla prima sera, quando lei lo aveva carezzato con la pesca sulla guancia.
Lasciò le sue braccia per afferrarla possessivamente, stringerla, carezzarle la schiena, baciandola come se non avesse mai baciato prima d’allora.
Lei portò le mani sul suo viso, infilò le dita tra i suoi capelli, scalzando il tricorno che cadde a terra; incatenandolo a sé, mentre la sua mente ripeteva la verità al suo cuore incredulo: “Tengo tanto a voi”.
Oscar si alzò sulle punte dei piedi, inseguendo le carezze della sua lingua con la propria; spingendosi contro di lui, spingendolo a sua volta contro la scrivania con prepotenza. E per un attimo lui la sollevò da terra, cedendo all’indietro sul piano di marmo, portandola su di sé, spostando una mano sui suoi fianchi coperti da pochi strati di mussola leggera, sotto la balza della giacca.

Un leggero tossicchiare interruppe il momento.
- Scusate, comandante … Non era mia intenzione disturbare, ma … - mormorò il capitano Brunet.
Victor lasciò Oscar. Oscar lasciò Victor e si portò una mano alla bocca arrossata, allontanandosi da lui.
- Il drappello attende nel cortile. – terminò il subordinato.
- Sì, certo, capitano. Scendo subito.
Sistemò l’uniforme turchina tutta stropicciata e lisciò i capelli in disordine.
La guardò in silenzio. Lei chinò il capo poi di scatto lo rialzò, indispettita. Prese il cappellino dalla scrivania e, senza una parola, lasciò la stanza.
- Oscar! – la richiamò Victor, non sapendo però cosa dire.
- Signore, se posso permettermi …
- Dite, capitano … - sospirò.
- Non è necessario che siate voi al comando. Se permettete, mi offro volontario per questa missione.
- Ma …
- Signore, mi permetto ancora … Madame era chiaramente … - sorrise cercando una definizione corretta, ma galante e rispettosa - … presa dai suoi pensieri su di voi. Non è saggio innervosire una promessa sposa, credetemi. - sorrise ancora. – Davvero, signore, per me sarebbe un piacere accompagnare questo trasporto. Perché alla fine, di questo si tratta: un trasporto.
- Non tanto “banale”, però. – gli ricordò Girodelle.
- Un motivo in più perché non si attiri l’attenzione con voi al comando, signore.
In effetti tutti i torti non li aveva il giovane Brunet. Un giovane ufficiale avrebbe abbassato l’attenzione su quel carico, diminuendo l’interesse, rendendo l'operazione più sicura. Fréville poteva fare tutte le richieste assurde che voleva, ma l'ultima decisione toccava lui in quanto ad organizzazione.
- Va bene! – cedette Girodelle, pensando alla relazione che si era promesso di far funzionare e che per la prima volta pareva promettere bene - Siete a conoscenza di tutti i dettagli. Non vi è altro ch’io vi debba spiegare.
Il giovane scattò sull’attenti.
- Sissignore, grazie, signore.
- Potete andare ora. Mi fido di voi. – si raccomandò.
- Non ve ne pentirete, signore. E … i miei ossequi a madame! - azzardò sommessamente allontanandosi dopo averlo salutato militarmente.

Victor scese le scale di corsa e riuscì a raggiungerla che stava già per montare a cavallo.
Lei lo guardò sorpresa, ma non disse una parola quando il fidanzato le allungò la mano in un invito, indicandole con lo sguardo la carrozza con lo stemma dei Girodelle.
- Dobbiamo parlare. – disse lui.
Oscar lasciò le redini all’attendente che tirò César fino alla vettura e lo legò dietro.
Victor l’aiutò a salire, ma prima di richiudere lo sportello si sporse verso il conducente.
- Facciamo un giro per il parco – ordinò piano.
Quindi si andò a sedere accanto a lei e la carrozza si avviò.
Si scambiarono degli sguardi imbarazzati. Poi lui rise.
- Madame Oscar Françoise De Girodelle … - ripeté un paio di volte guardandola.
- Non dovrei essere io a far le prove del nome? – ribatté Oscar.
- Mi piace come suona. E’ come se foste nata per questo nome. – disse con calma, prendendole una mano. Slacciò i bottoncini del guanto blu e cominciò a sfilarglielo.
- Oscar, mi avete sorpreso prima. Una sorpresa piacevole, ma confesso che la vostra ansia ed il vostro … entusiasmo, mi hanno turbato.
- Girodelle … - esordì, ma il contatto delle sue labbra sul suo palmo la fecero trasalire.
- Sì, ditemi … Vi ascolto. – la esortò continuando a baciarle piano la mano.
Alzò gli occhi su di lei ed i raggi del tramonto appena cominciato, incendiarono ancor più quegli specchi lucidi ed appassionati.
Oscar sentì il proprio respiro interrompersi a quell’incrociarsi di sguardi.
Voleva conquistarlo e ne era rimasta conquistata. Quella era la semplice verità.
Le si fece più vicino.
- Avete detto di tenere a me, Oscar.
Lei dovette interrompere il contatto perché il cuore cominciava a battere furiosamente. Distolse lo sguardo da lui e si volse verso il finestrino.
- Ma … non stiamo andando alla Reggia? – constatò con apprensione.
Victor le si avvicinò, lasciando la sua mano ma portando il proprio viso sopra la sua spalla.
- Ho ordinato al cocchiere di fare una passeggiata per i giardini. Sono molto belli al tramonto …
Sfiorò i suoi ricci col naso, socchiudendo gli occhi e beandosi della sensazione della sua guancia così vicina.
- Sono felice che proviate preoccupazione per me. Io vi amo, Oscar. Vi amo tanto.

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Oscar aveva pensato di poter condurre la partita, magari di trovare una scusa ed eclissarsi all’ultimo istante.
Ma aveva ragione André: era lei il suo peggior nemico, perché non era brava a quel gioco.
Con sorpresa, si rese conto di non voler esser brava.
Victor Clément le piaceva. Più di quanto avrebbe voluto. Più di quanto sarebbe stato ragionevole, visti i suoi propositi.
Più di quanto sarebbe stato normale per una donna innamorata di un altro.
Ma ormai, tutto era finito, si disse ripensando alla voce cristallina della ragazza affacciatasi alla camera di André, a quella fresca meravigliosa risata che lo avrebbe consolato, come sicuramente aveva già fatto.
Tra pochi mesi era previsto il matrimonio e, contro ogni sua aspettativa, rischiava di diventare un matrimonio d’amore.
Col tempo.
Le implicazioni non previste del suo piano.
Il diventare donna.
Era meno fredda di quel che aveva immaginato di sé. Meno risoluta, meno determinata, meno …
“Maledizione, Oscar …”
Si lasciò scivolare contro lo schienale, guardando fuori il sole specchiarsi sul Grand Canale, concedendo due lacrime al suo fallimento, mentre la mano di lui le scostava i capelli e le labbra morbide iniziavano a carezzare il suo collo con baci delicati.
Sentì che le sfiorava il seno, intento a slacciare gli alamari argentati della giacca.
Socchiuse gli occhi avvertendo il suo tocco attraverso la seta della camicia bianca.
Ad un vero uomo non sarebbe accaduto di cedere così, pensò di sé.
Ma purtroppo lei non era un uomo.
“… Per fortuna, non sono un uomo…”, dovette correggersi volgendo il capo per incontrare le sue labbra.
“maledizione, Oscar…”
Il bacio riprese con la stessa foga di quando erano stati interrotti, ma con maggior consapevolezza.
La mano di lui continuava con perizia a vincere lacci e laccetti, mentre Oscar teneva saldamente il suo capo contro di sé, contro le labbra.
Le allentò la sciarpa e la lanciò sul sedile opposto. Quindi cominciò a carezzarla sotto la camicia, su quel corsetto leggero che copriva appena i capezzoli, baciandola dietro l’orecchio.
Travolta dalle sensazioni, guardò fuori il paesaggio che scorreva piano, all’andatura lenta, regolare, cullante della vettura.
Posò la mano sulla sua, calda sul suo ventre ancora coperto dal leggero busto. Intrecciò le dita con le sue, indice di cosa sarebbe accaduto tra loro, lì, tra poco.
- Victor … - mormorò – Victor … - ripeté cercando di vincere la forza annientante di quei baci, di quelle carezze sulla sua volontà – Victor, io … non sono la donna che … io … Voi non siete … - cercò di spiegare volgendo il viso verso di lui, in un ultimo istante di lucidità.
La zittì con due dita e subito dopo con un altro bacio.
Si staccò per guardarla negli occhi, credendosi consapevole della confessione che voleva fargli. E le carezzò la guancia, togliendo l’unica lacrima.
- Non mi importa del vostro passato, Oscar. Con voi, è il futuro che desidero. – mormorò.
Totalmente disarmata da quella dichiarazione, tornò a sistemarsi sul fianco, appoggiata allo schienale e a guardar fuori il parco che si faceva scuro, mentre lui proseguiva sul cammino di seduzione intrapreso, scivolando con la mano sotto l’orlo della gonna ed avvicinandosi sempre più a lei.
Oscar sentiva quella voce, lontana; era la sua coscienza che sussurrava a proposito di un tradimento. Ma scelse di ignorare quella voce, quella sensazione. Ci avrebbe pensato domani, forzandosi ad ignorare quell’immagine mentale di due occhi smeraldini colmi di delusione.
Ora si sentiva stanca per quelle complicazioni. Voleva solo cedere e godere con lui, di lui, se ciò serviva a tenerlo lontano dal luogo dell’agguato. Stava semplicemente usando la sola arma a sua disposizione. Alla fine, stava andando tutto come doveva essere, come aveva scelto che fosse.
Una conseguenza delle sue scelte.
Victor scivolò in ginocchio tra i due sedili, sul pavimento della vettura. Restò un istante ad ammirarla, prima di infilare le mani sotto l’abito leggero e risalire le sue gambe.
Oscar si raddrizzò di fronte a lui, sussultando per quella sensazione, quel solletico, quella scossa sulla sua pelle che raggiungeva le sue profondità e puntò le mani al sedile. Quando si era lanciata in quell’impresa non credeva di dover arrivare a questo punto, anzi, era convinta non sarebbe stato un problema temporeggiare, aver solo vantaggi e nessun onere.
Venne colta dal desiderio di fuggire. Ma solo per un istante. Respirò profondamente.
Bernard, Robespierre … Dicevano che tutti i nobili sono uguali. Ma si sbagliavano.
Il conte Girodelle era ai suoi piedi come si era prefissata. Ma Victor Clément aveva valori, aveva un cuore.
Era un gentiluomo, intelligente, piacente, leale, buono. E lei lo stava ingannando.
Ingannava lui per arrivare ad ingannare la corona quando sarebbe stato il momento.
Lo avrebbe tradito come aveva già tradito la fiducia di André. E nessuno dei due meritava ciò.
“Andiamo … “, diceva la sua testa, contraddicendo il cuore, “non gli stai facendo male. Un uomo non muore per un cuore spezzato”
Eppure esitava. E non capiva se questa esitazione fosse causata dal programma che si era prefissata o dalla tentazione di voler cedere ad una romantica possibilità, di voler rendere tutto reale.
Allungò una mano sul suo volto, a scostargli all’indietro una ciocca di capelli ondulati.
- Victor, … io …
Lo vide sorridere, come un ragazzino.
- Niente spine … - spiegò lui, permettendo alla sua mano di scorrere dalla caviglia all’orlo della calza, poco sopra il ginocchio.

Come era stato poco prima per i baci, decise di arrendersi e vivere il momento senza curarsi delle conseguenze.
“Sopravviverà”, si ripeteva nella testa mentre, chinatasi, raggiungeva le sue labbra.
Victor interpretò quell’avvicinamento come un permesso ad osare. Ripercorse a ritroso le lunghe gambe, lasciando le gonne sollevate sulle sue ginocchia. Le afferrò i lembi della giacca e li fece scorrere giù dalle spalle, insieme alla camicia, giù fino ai polsi.
Oscar sì liberò di quegli indumenti, senza smettere di baciarlo.
Le carezzò le braccia nude, pose una mano al centro del petto e l’altra in vita ad allentare i laccetti frontali.
Oscar cominciò a slacciargli l’uniforme; Victor la liberò dal corsetto leggero.
Quando gli saltò l’ ultimo bottone della giubba, saltò anche il suo autocontrollo.
Diventò spasmodico, si levò la giacca, si strappò la camicia fuori dei pantaloni, la levò con gesti bruschi.
Si sporse verso Oscar baciandole il seno. Le mani si rintanarono sotto le gonne, corsero oltre le calze, sulla sua pelle nuda, sui fianchi che afferrò e attrasse verso di sé, sul bordo del sedile, incuneandosi tra le di lei cosce.
Si fermò, ansante per guardarla in volto, mentre il desiderio cresceva, pulsava e diventava impellente.
Era la donna giusta, non poteva essere altrimenti.
Quella per la vita, quella che gli avrebbe tenuto la mano in punto di morte rivolgendogli fino all’ultimo quel suo meraviglioso sorriso.
Avrebbe fatto qualunque cosa per lei.
Le aveva detto d’amarla e così sarebbe stato.
Ne era più che certo mentre lei gli concedeva di anticipare la loro prima notte di nozze sui sedili di una lussuosa carrozza, nel mezzo di un parco privo del movimento umano che lo contraddistingueva di giorno, ma non silenzioso in quell’ora in cui la luce incontra la tenebra.
Il cocchiere, arrivato al termine del canale, aveva sostato la vettura e, senza disturbarli, aveva preso César per rientrare alla Reggia, lasciandoli soli ed impegnati.
Si potevano udire rane gracidare ed in lontananza i ruggiti delle fiere e gli altri irrequieti animali esotici del serraglio.
I suoni della natura.
Ed era naturale quel trasporto per lei, così bella.
Eppure fu diverso.
Per entrambi.
E pensarono che la diversità fosse l’amore, quel tipo d’amore che mancava.

Cosa aveva che non andava Victor? Si domandava Oscar ore più tardi, stesa su di lui, stretta tra le sue braccia, mentre il silenzio della notte si era fatto quasi assoluto.
Nulla, ma non era André.
E mentre arricciava una ciocca dorata sul suo dito, stretta al petto dell’uomo che forse avrebbe realmente sposato, col quale aveva appena fatto l’amore, ben fatto dovette sottolineare a sé stessa, si sorprendeva che fosse chiara e non scura.

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Come una doccia fredda la verità si riversò su di lei.

Sì, voleva sposarlo. André, nessun altro. Tutto il resto contava nulla.
E sentì spezzarsi il cuore che aveva creduto di non possedere, consapevole che forse era troppo tardi.
Strinse il pugno sul petto di Victor e lo udì sospirare.


- Qualcosa non va, vero? Non c’è bisogno che mi rispondiate: sento che non siete qui con me. Ma io posso accogliervi, Oscar, insieme al resto … la tristezza che portate nel cuore, il peso della sofferenza … Tutto quanto, lasciateli a me! (*)

Oscar alzò lo sguardo su di lui, leggendo la verità nei suoi occhi. Ma non poté baciarlo quando lui avvicinò le labbra alle sue ancora una volta.
Nella mente aveva quello sguardo, di chi avrebbe potuto morire se lei avesse sposato qualcun altro.
E volse il capo, scansandolo.
- Amate solo me, Victor? – chiese improvvisamente, le labbra posate sul suo petto.
La domanda lo sorprese. Esitò, carezzandole la nuca.
- Esistono molte forme d’amore. – si trovò a sospirare, ricordando ciò che a lui era stato detto solo pochi mesi prima.
- Ma quando vi sposerete, lei ne morirebbe?
Rimosse l’immagine addolorata di Camelia quel giorno sotto il sole della piazza d’armi.
- Forse … bisogna solo far coesistere ciò che è irrinunciabile. - continuò ritentando l’approccio, scendendo con le carezze lungo quel corpo morbido ed irresistibile, per mezzo del quale voleva dimenticare.
- Forse, bisognerebbe solo cambiare lo stato delle cose. – disse lei fermandolo.
Victor si arrese, la strinse a sé teneramente, ignorando il desiderio fisico.
- Purtroppo, non sempre c’è rimedio a ciò che è fatto, da noi o da altri.
Oscar colse un rammarico nella sua voce; avrebbe voluto osare, domandare di quel dolore nel suo cuore, ma sentì la stanchezza sopraffarla e si addormentò fra le braccia protettive di quell’uomo gentile.

Sì svegliò, sola, al sobbalzare della carrozza.
Addosso aveva una leggera coperta che la scaldava dall’umidità della notte e niente altro.
Lui, vestito di tutto punto, si affacciò al finestrino. Restò un istante a guardarla rassettarsi la stoffa su di sé, immotivatamente pudica, forse a disagio per un differente tipo di nudità, quella dello spirito.
Aveva staccato i cavalli dal tiro per farli abbeverare e li aveva rimessi al loro posto, scalpitanti, desiderosi di rientrare nelle loro stalle.
- Non avrei voluto svegliarvi ma tra poco sarà l’aurora. Dobbiamo rientrare.
Scomparve oltre il margine dei finestrini e la carrozza ondeggiò leggermente quando egli salì a cassetta.
Oscar cominciò a rivestirsi, svogliatamente, assonnata, confusa, omettendo di indossare calze e stivaletti. Lisciò con la mano i capelli sciolti, ribelli, ancora umidi di sudore.
Scese dalla vettura. L’aria fresca la colpì, la fece rabbrividire insieme all’erba bagnata sotto la pianta dei piedi. Ma ne aveva bisogno: tornare coi piedi per terra, non solo metaforicamente.
Sentì il suo sguardo su di lei. Si volse e gli allungò una mano affinché l’aiutasse a salire a cassetta con lui.
Non si scambiarono una parola tornando verso la reggia, seduti l’uno accanto all’altra, non si guardarono, non si toccarono.
L’oscurità cominciava a sbiadire, le stelle parevano meno lucenti. Tra un’ora o poco più, il sorgere del sole dall’altro lato del palazzo avrebbe inondato di luce gli appartamenti reali e la cour de marbre, portando calore nel freddo delle pregiate pietre. Entrambi erano però consapevoli che nulla avrebbe potuto riscaldare ancora ciò che fra loro era divampato e bruciato velocemente, lasciando solo cenere.

Girodelle guidò la carrozza nel cortile delle scuderie e si arrestò davanti ai portici nel punto in cui spiccava lo stallone bianco di lei, condotto per le briglie dal cocchiere che li aveva visti arrivare.
Victor smontò per primo e l’aiutò a scendere. Si attardò un istante per rimetterle in ordine la camicia che nel movimento si era scostata troppo; accostò i lembi della giacca, prese le estremità della sciarpa, tirò piano verso di sé, posando la propria fronte sulla sua, dischiudendo le labbra incapaci però di pronunciare le parole adatte.
In quel mentre sentirono passi di qualcuno che arrivava di corsa.
- Signor conte! – chiamò il segretario, attirando la loro attenzione.
Quando fu vicino abbassò il tono, tormentandosi le mani.
- Una tremenda disgrazia, signore …
Victor si avvicinò al servitore, allontanandosi di qualche passo dalla fidanzata.
Oscar non poteva distinguere ogni parola bisbigliata, ma sapeva che la “tremenda disgrazia” doveva esser legata al gruppo di Bernard.
Dalla concitazione nell’atteggiamento del portavoce, l’incontro con la guardia reale non doveva essere andato molto bene.
- Brunet?! – sentì esclamare da Victor.
- Sì, signore. Morto. – ripeté il segretario – Il ministro Fréville è piuttosto adirato con voi, signore. Vi ha convocato nel suo ufficio, con urgenza e … - esitò – Anche Sua Maestà desidera interrogarvi.

Victor comprese l’assoluta gravità della situazione.
Aveva di fatto ignorato un ordine diretto del Ministro e mentre si intratteneva con la fidanzata, un carico prezioso veniva rubato, mettendo in pericolo la sicurezza del Paese, ed un ufficiale era stato ucciso. Anche se di quest’ultimo fatto era solo lui a dannarsi, non certo Fréville.
- Brunet aveva moglie ed un figlio piccolo … - mormorò portandosi una mano alla fronte.
- Purtroppo sì, signore …
Si volse verso Oscar che attendeva accanto a César.
- Disgraziatamente è accaduto un fatto gravissimo. Devo lasciarvi, ma vi farò scortare al vostro palazzo …
- Non serve, Girodelle. Fate ciò che dovete. – replicò nervosa, issandosi in groppa.
Strattonò le redini, brusca. Forse lui l’avrebbe intesa come un ennesimo capriccio quella fuga precipitosa, ma lei, per tanti motivi, non poteva restare lì un istante di più.






Rientrò che albeggiava appena, a cavallo, a passo lento.
Dalle cucine di palazzo Jarjayes proveniva una pallida luce, segno che la servitù si era già svegliata. Era rientrata appena in tempo.
Si lasciò scivolare dalla sella; prese le redini in una mano, mentre nell’altra reggeva i suoi stivaletti.
Scalza camminò sul selciato ruvido e freddo, fin dentro l’edificio, sulla paglia che attutiva il gelo sulla pelle. Purtroppo, nulla la riparava dal gelo nell’anima. Si sentiva uno straccio. Una stanchezza, un malessere che potevano essere definiti con un solo vocabolo: colpa.
Tutta quella sofferenza attorno a lei, era colpa sua.
E per la sua personale sofferenza, invece …
Non poteva vivere senza André, non poteva insieme a Victor. Anche quello, solo colpa sua.

Con movimenti stanchi, ripose César al suo posto nella stalla, gli levò la sella, lo carezzò distrattamente e si mosse verso l’uscita, col buio della stalla alle sue spalle e l’aurora rosa davanti a lei, quando sentì uno scricchiolio.

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Non ebbe il tempo di voltarsi che una mano premeva già sulla sua bocca ed un’altra l’afferrava in vita.
L’istinto fu più veloce di qualunque pensiero: scattò con una violenta gomitata nelle costole, afferrò la testa dell’aggressore e chinandosi bruscamente lo ribaltò sopra di lei, lasciandolo cadere pesantemente al suolo. Stava per sferrare un calcio sullo sterno quando l’uomo vestito di scuro sollevò una mano davanti a sé, in difesa.
- Ferma! Ferma, Oscar! sono io!
- Bernard? – esclamò ella fermandosi appena in tempo – Ma … che accidenti ci fai qui? E che accidenti ti salta in mente di aggredirmi!
- Non volevo che urlassi per la sorpresa!
Gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi. Restò un attimo interdetta ad osservarlo, nella penombra dell’alba.
C’era qualcosa di strano: sì, un occhio nero dietro la maschera, talmente tanto nero che spiccava anche con quella scarsa luce.
- Non è andata esattamente come ci auguravamo. – Bofonchiò lui in imbarazzo, constatando dove puntava il suo sguardo - Sono fortunato che non me lo abbiano cavato, quest’occhio!
- La mongolfiera? – ringhiò lei, intuendo guai.
- Perduta.
- Come sarebbe a dire perduta! Come si fa a perdere una mongolfiera? Non stiamo parlando di un bottone della giacca!
- Ecco … Inglesi, a giudicare dall’accento e, beh, anche dall’inglese che parlavano.
- Se tu fossi un soldato, per un disastro come questo ti toccherebbe una punizione corporale, anche la morte!
- Senti, il piano era tuo e mi pare che non avessi previsto una tale eventualità!
Già, ultimamente i suoi piani facevano acqua da tutte le parti.
- Ma non sono tornato a mani vuote …
Si allontanò verso un angolo buio della stalla e tornò con qualcosa tra le mani: un piccolo scrigno portadocumenti.
- Il tanto misterioso carico di Fréville. – mormorò lei, meno irritata. – Ci hai guardato dentro?
- Un po’, intanto che ti aspettavo. A proposito, dov’eri?
Si trattenne dal fargli un secondo occhio nero.
Uscì per leggere alla pallida luce, mentre il giovane in nero reggeva il cofanetto.
Sfogliò i documenti.
C’erano mappe, rapporti, un elenco di nomi.
Le mappe riportavano le coste inglesi, indicazioni sulle rotte percorse dalla loro marina; le roccaforti sulla terraferma; il grado di armamento; l’entità delle truppe assegnate.
Riconobbe un nome in calce ad un rapporto. Aveva udito parlar di lui …
Lei … Lui … Cielo! Quel “qualunque cosa” fosse quel Cavalier D’Eon!
A dir il vero, sapeva di quel personaggio più per i pettegolezzi sulla sua persona che riguardo le sue avventure. Ma era certa di una cosa: era stato un agente del Segreto di Luigi XV. E quando l’attuale Re aveva ufficialmente smantellato il reparto, D’Eon si era rifugiato oltremanica insieme alla sua polizza vita.

- I piani d’invasione dell’Inghilterra! ( **)– esclamò Oscar al sorridente Bernard. – Ma perché li aveva Fréville?
Cominciò a passeggiare, tornando con lo sguardo sugli altri fogli. Cupamente, nuvole di pensieri riguardo il possibile utilizzo di tutte quelle notizie si stavano accumulando nella sua mente, ipotizzando risvolti che mai avrebbe immaginato prima.
Scorse i nomi dell’elenco uno dopo l’altro. Niente era indicato accanto a loro. Cominciò a pronunciarli uno per uno. Inglesi.
Finché uno di questi fece scattare un collegamento.
Possibile?
- Bernard, credo di sapere che fine abbia fatto la nostra mongolfiera …



Continua ... per un paio di capitoli :)



La prima parte di questo capitolo, se vi pare nota è perché è lo specchio dell’inizio della seconda parte di “Una donna. Sola. Libera.”




(*) dichiarazione di Victor “rubata” alla versione del manga

(**) tra Francia ed Inghilterra non era mai corso buon sangue e Luigi XV aveva istituito i suoi servizi segreti, detti “Il segreto” (gran fantasia ...), che tra altre cose elaborarono piani di invasione dell’Inghilterra, mai messi in atto. Una volta incoronato, Luigi XVI sciolse questi servizi segreti ed uno degli agenti, il Cavaliere D’Eon, uomo che giocò tutta la sua vita sulla sua ambiguità sessuale, fuggì in Inghilterra per paura di ritorsioni, trattenendo gran parte degli incartamenti segreti allo scopo di tutelarsi.
Articolo del Corriere sul Cavaliere dalla vita così simile a quella di Oscar:
http://archiviostorico.corriere.it/1997/aprile/18/Eon_cavaliere_con_gonne_co_0_970418354.shtml










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Capitolo 14
*** Cherchez la femme! ***


I re del mondo - cap. 12
 



Capitolo 12: “Cherchez la femme!”*

Parigi, sempre il 5 settembre 1784, tarda sera

Alain borbottò ancora un’imprecazione. Una pesante. Segno che ormai ne aveva davvero le scatole piene.
Quella era l’ultima, si disse, sì, l’ultima bettola che avrebbe rivoltato per cercarlo.
Poi se ne sarebbe fregato!
André era adulto e se non voleva spiegarli perché fosse così incasinato, peggio per lui. Era stanco di coprirlo con D’Agout perché arrivava sempre tardi al lavoro, perché quando c’era aveva la testa altrove.
Una di quelle mattine Diane stessa era andata a buttarlo giù dal letto, trovandolo in condizioni pietose, reduce da una sbronza coi controfiocchi.
La settimana era cominciata malissimo, perché il suo capitano era tornato dalla campagna con la luna decisamente storta.
Va bene, si era detto: un finesettimana pessimo.
Capita. Specie se vai a trastullarti con la famiglia pazzoide del tuo amico damerino.
Pazienza. I veri amici servono anche a questo: a sbollire quando altri amici ti irritano.
Ma le paturnie del capitano non erano passate neppure al martedì, quando aveva deciso di raddoppiare i turni a tutti quanti e farli marciare nelle ore più calde con l’equipaggiamento al completo. Beveva in servizio, se ne erano accorti tutti, e alla sera spariva in una taverna o si rinchiudeva nel suo ufficio, bevendo ancora.
Quella mattina non si era neppure presentato all’appello e D’Agout se ne era accorto, lui che non si accorgeva o fingeva di non accorgersi quasi di nulla.
Alain lo aveva dichiarato malato e lo aveva sostituito ancora, ma aveva giurato a sé stesso che era l’ultima volta. Davvero.
Aveva frettolosamente assegnato i turni di guardia facendo litigare Pierre e Lasalle per presunti, inesistenti favoritismi e poi si era messo in cerca dell’amico.
Nei soliti posti non c’era: non alla taverna del Gobbo Guercio, non al bordello del Palais, non alla cappella delle suorine del Sacro Cuore dove si confessava con irritante regolarità e nemmeno su quella panchina del Lungosenna dove amava imbambolarsi a guardare il sole che si rifrangeva sull’acqua increspata dalle lavandaie, cosa cui Alain aveva sempre creduto poco, sospettando che fossero proprio le lavandaie a fargli assumere quell’aria trasognata.
Pareva proprio che a Parigi non ci fosse, ma, insomma, non poteva essere scomparso!
Era così arrivato a sera tarda, stanco e ben oltre un normale livello di irritazione.
Non era così che dovevano andare le cose: Alain era quello che faceva tardi, si ubriacava e perdeva i sensi sotto i tavoli delle taverne. André era quello perfettino, che lo rintracciava, lo riportava in caserma e gli parava il culo coi superiori.
André era il bravo ragazzo, lui quello scapestrato! Così andava il mondo, quello era il verso giusto e così doveva riprendere a girare tutto quanto, si ripeteva fermo sulla soglia del locale più sudicio che avesse mai visto.
-    Ti prego signore, fa che non sia qui dentro … O se c’è, fa che sia ancora vivo e senza malattie … - borbottò alzando gli occhi al cielo mentre un avventore usciva di corsa e rimetteva di tutto a pochi passi da lui.
Sbirciò dentro, nel buio del locale, troppo poco chiassoso per essere un luogo di divertimento. Mosse qualche passo, evitando un altro cliente barcollante, quindi si diresse al bancone sotto lo sguardo attento dell’oste.
-    Che ti servo, soldato? – chiese quello mentre un sorcio correva tra loro, squittendo, sul bancone appiccicoso.
Alain si limitò ad inarcare un sopracciglio.
-    Solo informazioni.
-    Non campo di ciance, io.
Sospirò mettendo mano alla sacchetta del denaro per l’ennesima volta in quella giornata, tenendo mentalmente il conto del rimborso che avrebbe chiesto ad André.
Mostrò la moneta al tipo.
-    Cerco un amico: alto, moro, silenzioso, educato …**
-    Il tuo fidanzatino?
L’espressione di Alain si fece feroce.
-    Ti paio il tipo, forse? – ringhiò.
-    No, ma laggiù c’è uno che corrisponde alla tua descrizione, a parte il fatto che non è silenzioso: da quando è arrivato stasera, non ha smesso di bere, né di borbottare e piagnucolare riguardo un certo Oscar. Ha rifiutato tutte le mie ragazze e , beh … ho tirato le mie conclusioni.
Alain guardò dove gli veniva indicato e lasciò cadere la moneta nella mano dell’oste.
André vestito con i suoi abiti civili, che avevano visto giorni migliori di quello, stava riverso sul tavolo più appartato della sala, mano stretta sul boccale e davvero non smetteva di borbottare, sebbene non sembrasse sveglio.
-    André … André, hei, amico … - lo scosse piano Alain. – Dio, ma come ti sei ridotto? – mormorò scrutandolo alla pallida luce delle candele. – Su, alzati, ti porto a  casa … - disse prendendolo per un braccio.
André si divincolò preda di una energia improvvisa, inaspettata.
-    No! Ho detto che non voglio compagnia! – gridò.
-    Mi guardo bene dall’offrirtela, cavolo! – balbettò Alain, sorpreso. – Su, dai, che ci guardano tutti! – ritentò.
L’amico alzò appena la testa dal tavolaccio, aprendo un occhio su di lui.
-    Alain …?
-    Esatto, io … Chi ti aspettavi in soccorso?
Non gli rispose. Si rizzò, con aria confusa, portò il boccale alle labbra, ma lo distaccò immediatamente, preso da un conato.
-    Non darti pena, qui non badano molto alla pulizia. – Ironizzò Alain mentre l’amico piegato in due rimetteva sotto il tavolo. – Ce la fai ad alzarti? Ti tirò su io, al tre … uno, due … - André rimise ancora qualcosa - … tre … - aggiunse Alain dopo qualche istante, tirandolo su di peso.
Tenendolo per la vita, con l’altro braccio allacciato al suo collo, lo portò fuori.
-    Ricordi dove hai lasciato il cavallo?
André non rispose.
-    Ricordi almeno se avevi un cavallo?
André si strinse nelle spalle.
-    Cielo! – borbottò Alain – Devo ricordarmi di ringraziarti per tutte le volte che ti sei trovato al mio posto, con me nelle tue condizioni … Pazienza, vuol dire che ce la faremo a piedi fin casa tua. Un passo dopo l’altro, dai! Un due, un due …

Fu una vera fatica, anche per un uomo robusto come Alain, trascinare l’amico per poche migliaia di metri che parevano molti di più in quelle condizioni.
Aprì con un calcio il cancelletto sempre solo accostato. Sorresse André per tutto il vialetto, mentre questo pareva cedere irrimediabilmente proprio ora che si trovavano a pochi passi dalla meta.
Alain si afferrò alla balaustra di pietra per reggersi mentre André lo trascinava verso gli scalini di pietra dell’ingresso, col peso morto del suo corpo anestetizzato dall’alcool.
-    Fai uno sforzo, non voglio prenderti in braccio. – lo incitò Alain. Riuscirono ad arrivare al portoncino che il soldato aprì con la chiave nascosta nella bocca della rana di granito della fioriera. – Dai, che ce l’abbiamo fatta. – guardò la scalinata che portava alle camere e scosse il capo, optando per il divanetto del salottino più vicino. Lasciò crollare il corpo dell’amico sulla chaise longue e si drizzò in tutta la sua statura per sgranchire i muscoli doloranti della schiena.
Restò a guardare l’amico che lentamente dava segni di ripresa.
-    Si può sapere che ti è preso?  … - mormorò sinceramente preoccupato, mentre accendeva una candela sul camino con l’acciarino che portava sempre in tasca. Incrociò lo sguardo di André, arrossato, lucido, incastonato in un volto dimagrito.
-    Guardati! Non ti radi, non ti curi, sei sempre in disordine, puzzi! – esclamò, alzando il tono. – Qualunque cosa sia accaduta, non cambierà a questo modo!
André si sollevò seduto, prendendosi il capo fra le mani.
-    Oscar … Oscar, non ti sposare … - pianse, ancora confuso.
-    Cosa?
-    Oscar … lei …  Si sposa. Con Victor. Domenica era il loro fidanzamento ed io …
-    E tu hai fatto la figura del fesso. Tutto chiaro, ora si spiega: la bionda ti ha steso davvero!
-    So che mi ama, so che non lo sposerà  … ma … Volevo fosse lei a fare il primo passo, invece …
-    Invece hai strisciato tu, va bene, sei un uomo: quando c’è una donna di mezzo, facciamo questo ed altro – sentenziò con amara ironia.
-    Sono andato a casa sua, non c’era; sono andato al laghetto, non c’era; ed allora sono andato a Versailles e … l’ho vista con lui
-    Lui?
-    Victor.
-    Fammi capire … Il damerino e la tua donna … insieme?
-    Saliva sulla sua carrozza e si inoltravano nel parco e …
-    Ah … - commentò Alain intuendo cosa celasse quella pausa.
-    Io credevo … Non pensavo che lei …
-    Fatti forza … non sei il primo cornuto al mondo! Cosa ti aspettavi a far amicizia con quel capellone tutto profumi e balocchi? Quelle come lei sceglieranno sempre quelli come lui. Rassegnati, è perduta e vedi di non perder anche la testa per amore! – Esitò pensando non fosse il caso di continuare con la ramanzina - Senti, signorina lacrima facile, stattene a casa domattina e rimettiti, ma al pomeriggio presentati se non vuoi esser spedito all’Abbazia! Anche un testa di legno come D’Agout può venir preso per i fondelli, ma solo fino ad un certo punto! Siamo d’accordo?
André annuì.
-    Posso lasciarti ora?
Annuì di nuovo.
-    Sicuro? Non mi combini altre cazzate?
Annuì con più energia.
Alain gli mollò una pacca sulla spalla e senza altre parole, lo lasciò solo.

André sentì il portoncino d’ingresso che veniva chiuso, la chiave che girava nella toppa, la serratura che scattava e pochi istanti dopo il cigolio dei cardini del cancelletto che veniva riaccostato. Rumori familiari, quotidiani, immutati negli anni.
Le lacrime riaffiorarono nei suoi occhi al pensiero che tutto sarebbe continuato senza di lei. Era piombata nella sua vita all’improvviso, sconvolgendogliela; eppure per lui era come se ci fosse sempre dovuta essere. Finalmente non si era più sentito solo ed ora …
In un moto di rabbia si alzò, barcollando appena e si resse al caminetto. Respirò profondamente, prese il candelabro e con decisione, un passo dopo l’altro, uscì dalla stanza e si diresse su per la scalinata. Con passo malfermo, traballante e tuttavia con uno sguardo determinato percorse il corridoio fino alla prima stanza. Esitò. Si sostenne al cassettone del corridoio, quindi aprì il primo cassetto e ne estrasse una chiave: la chiave per quella porta chiusa da un’eternità.
Dopo dieci anni l’aprì, adoperando un poco di forza sulla serratura ossidata, mai lubrificata per tutto quel tempo.
L’anta, nello schiudersi, portò con sé pesanti ragnatele.
Un forte odore di chiuso, di stantio e di polvere lo travolse. Vinse l’istinto di trattenere il respiro ed entrò. Scostò con la mano le ragnatele che gli sfioravano il viso, mosse dal movimento d’aria calda attorno alla candela. Si guardò in giro. E si commosse a ripensare a quella stanza quando lei era ancora viva.
Andò alla specchiera, dove stavano ancora le sue cose: la sua colonia, la sua spazzola, la sua immancabile cuffietta.

Tutto era come il giorno in cui aveva chiuso quella stanza dopo il suo funerale. Il marchese aveva insistito affinché tutto restasse al suo posto, come se Nanny fosse solo uscita, come se dovesse tornare di lì a minuti.
Vicino alla damina di ceramica, regalatale da madame Jarjayes, c’era il suo cesto per il rammendo. Era coperto di polvere e ragnatele al punto da rendere irriconoscibile il colore originario. Lo aprì. I suoi rocchetti principali, bianco e blu, per la sua uniforme di casa. Era sempre stata un mezzo soldato, la sua nonna, un vero generale che armata di mestolo rimetteva in riga i suoi ometti.
Sorrise sfiorando il cuscinetto porta aghi ornato di roselline di seta: lo aveva cucito lui, quelle volte che da piccolo nonna aveva preteso che imparasse almeno i punti base; così avrebbe potuto essere sempre in ordine, gli diceva, attaccarsi i bottoni, farsi gli orli, rammendare piccoli strappi in modo invisibile. Così sarebbe stato presentabile con le ragazze anche se lei non ci fosse stata più; ed un giorno una brava ragazza lo avrebbe sposato perché era un giovanotto d’oro.
-    No, niente brave ragazze, nonna. Non sono diventato il nipote che avresti voluto. – mormorò.
Si guardò nello specchio opaco: un relitto d’uomo che non riconosceva.
La coda era sfatta: quel segno distintivo della nobiltà, che non riusciva a sentire suo. Forse non si era mai sentito nobile.
Lo faceva soffrire questo pensiero. Tanta fortuna, tanta generosità verso di lui … Eppure.
Prese le forbici dal cesto ed afferrò i suoi capelli.
-    Non sono mai stato nobile. Non lo sarò mai! – ringhiò pensando al vantaggio che Victor aveva su di lui -  … Ma … Oscar, non ti sposare!
E diede un taglio netto, poi un altro. Lasciò scivolare i capelli recisi, posò d’un colpo la forbice ed entrambe le mani sul piano della toeletta e guardò nello specchio la sua nuova immagine.

 

-    Tu non hai potuto far nulla per lei, nonna. Ma io la porto via. La vita è troppo breve per sprecarla in giochi di potere più grandi di noi. Non c’è nulla di male ad esser aristocratici … ma io non lo sono.
E mentre nella sua testa maturavano le decisioni più importanti, uscì dalla stanza che non avrebbe più richiuso.
Perché il tempo non può esser trattenuto e quel che è accaduto non può cambiare. Ma il futuro è sempre in movimento e la direzione poteva deciderla lui.



Versailles, mattina del 6 settembre 1784

Victor guardava oltre le vetrate della sala del consiglio, giù, la Cour de Marbre, coi suoi chiaro scuri che si alternavano, che  confondevano la prospettiva.
Attendeva con signorile rassegnazione che Sua Maestà fosse pronto a riceverlo, domandandosi come il re avrebbe valutato la sua posizione: più bianca o più nera?
Il sovrano era rinchiuso con Fréville nella stanza della pendola, quella adiacente la sua camera privata, da quasi mezz’ora per decidere del suo futuro, forse della sua stessa vita.

Il cielo stava per rovesciare sul suo capo una tempesta dagli esiti catastrofici, eppure lui riusciva solo a pensare a Brunet, morto al suo posto.
Forse lo avrebbero deferito al tribunale militare, forse il re in persona lo avrebbe mandato all’Abbazia. Poco importava.
Udì i passi di un valletto e si volse.
Non c’era bisogno di parole, né di gesti. Sapeva che doveva seguirlo, che le decisioni erano state prese. Entrò negli appartamenti privati.
Per primo vide Fréville, in piedi, torvo, eppure con un ghigno indecifrabile sul volto.
Si avvicinò alla scrivania dietro la quale Sua Maestà, ancora in veste da camera,  aiutato dal segretario, apponeva sigilli e firme a documenti che forse riguardavano il suo destino. Si inginocchiò ancor prima che glielo si potesse sollecitare, così come gli era stato insegnato, così come ci si aspettava.
-    Conte Girodelle … - esordì il sovrano senza rivolgergli una sola occhiata – Mi avete realmente deluso. Conoscevate l’importanza di questo apparato bellico, conoscevate il mio personale interesse nella realizzazione di questo progetto scientifico; vi era stato richiesto dal ministro in persona di scortare il convoglio, eppure così non è stato. Avete qualcosa da dire?
-    Purtroppo, ho ritenuto che una scorta meno vistosa sarebbe stata più sicura e …
-    Colonnello, sarei disposto anche a credervi se non sapessi che in realtà avete delegato il vostro subordinato per potervi intrattenere con la vostra fidanzata. Girodelle, Voi … - si trattenne, reprimendo un moto di disgusto - Avete anteposto le vostre faccende personali a quelle di stato, a quelle del Vostro Re! Inutile che cerchiate attenuanti al vostro irresponsabile comportamento!
Victor si prostrò ancor di più. Ormai, la sua vita era finita …
-    Tuttavia, per il rispetto che porto a Vostro padre, intendo darvi ancora una possibilità. Secondo le testimonianze dei soldati scampati, pare che l’agguato fosse in realtà un doppio agguato. Ci risulta che spie inglesi abbiano trafugato la nostra mongolfiera e che lo stesso tentativo sia stato fatto da ribelli francesi. Ora, pare evidente che ciò per il quale abbiamo speso tempo, denari ed ingegno, ormai ci si ritorce contro, non essendo più non solo un vantaggio tattico perduto, ma pure un potenziale imbarazzo diplomatico … Inoltre, poiché l’intera faccenda era nota solo a pochi uffici e persone, pare evidente che abbiamo talpe nella catena di comando. Ho fiducia nel ministro Fréville, ho fiducia in Bouillé e nel generale Jarjayes, che ha seguito l’operazione fin dall’inizio ed era inizialmente incaricato del trasporto … Devo domandarmi se siete voi l’anello debole di questa catena, Girodelle? Vi do 48 ore di tempo per trovare elementi concreti che non mi inducano a pensare che la vostra già grave situazione possa ulteriormente peggiorare! Trovatemi la spia, Girodelle, o sarete voi a farne le spese di questo pasticcio!
Con un gesto della mano, lo congedò seccamente. Victor si alzò a capo chino, si ritirò, arretrando senza alzare lo sguardo, senza osare respirare finché restò nel campo visivo del sovrano.
Appena svoltato l’angolo camminando a ritroso, strinse nervosamente la mano sull’elsa della spada, girò sui tacchi e si lanciò a passo deciso nella galleria degli specchi. E la vide, pallida, priva di belletto, la pelle un tutt’uno col rosa chiaro dell’abito nella pallida luce della stanza. Era sorpreso di incontrarla a quell’ora così mattutina.
Non poteva evitarla, lì a pochi passi che lo fissava. Le andò incontro. Erano soli, eccetto un uomo dalla chioma fulva che si allontanava nel corridoio fino a scomparire nella porta celata dagli specchi, quella che conduceva alle scale di servizio, l’eco dei cui stivali era il solo suono in quell’ala del castello che potesse coprire i loro respiri.
-    Marchesa …
-    Conte …
-    Avete saputo?...
-    Sì, vengo ora dall’appartamento dei Brunet. Non è colpa vostra, Victor! – si affrettò a dire.
-    Siete la sola a pensarlo …
-    Non è colpa tua! – ribadì scandendo le parole, avvicinandoglisi per rafforzare il tono più intimo.
-    Sei l’ultima persona che dovrebbe sostenermi, vista la situazione.
-    Oh, sì … In effetti … Lei dov’è? La rosa bianca, l’algida e sostenuta Oscar De Jarjayes, che decide di sciogliersi improvvisamente al tuo tocco, come neve al sole, come la più disinibita delle cortigiane e … sparisce! – esclamò sibillina.
I pettegolezzi viaggiavano veloci a Versailles, anche all’alba.
-    Non prendertela con lei! Lei …
-    Non c’entra? Oh, Victor … Siete sempre troppo buono! – sussurrò velatamente maligna, sfiorandogli il braccio e lasciandolo solo per raggiungere il marito che si affacciava nel corridoio.
-    Mio signore … - lo salutò, udendo alle sue spalle i passi di Victor che si allontanavano.
Fréville la scrutò.
-    Stavate conversando col conte Girodelle?
-    Lo aggiornavo sulla situazione di madame Brunet.
-    Chi?
-    La vedova. – sottolineò Camelia senza riuscire a reprimere un tono rabbioso ed indignato.
-    Ah, sì. – commentò Fréville con noncuranza – Gradirei però che manteneste una certa distanza da Girodelle mia cara: la sua caduta è rinviata di poco, di sole 48 ore, e … conosco i vostri gusti in fatto di potenti, madame! - insinuò al suo orecchio, prima di prenderla sottobraccio e con decisione, tenerla stretta.
Camelia inghiottì il messaggio, ripetendo nella sua mente un altro conto alla rovescia che la tranquillizzava, poiché riguardava qualcosa di veramente liberatorio per lei.


Victor uscì nel piazzale che cominciava ad animarsi col via vai di domestici, segretari, fornitori di corte. La crema dell’aristocrazia si sarebbe cullata nell’ozio ancora qualche ora, ma la vita vera era già in fermento.
Gli erano stati concessi due giorni per trovare i responsabili: una grande concessione fatta dal sovrano, ma veramente poco tempo per lui, che non sapeva neppure da dove cominciare.
Si scostò per lasciar passare i garzoni del fioraio che portavano ingombranti ceste, profumate e variopinte.
Veder passare accanto a sé una quantità assurda di rose bianche, lo irritò ricordandogli le battute gelose di Camelia.
Non poteva certo aspettarsi che la sua amante sarebbe stata felice di vedersi lasciata per Oscar, ma che pretendeva Camelia? Lui non era Fersen, lo svedese che aveva rinunciato a farsi una famiglia, infischiandosene del volere paterno, perché la sola donna che desiderava sposare era già sposata.
Alle dame piaceva crogiolarsi in questa versione romantica che l’amante di sua maestà forniva di sé, e per la quale gli venivano perdonate le numerose relazioni, senza impegno, senza cuore.
La famiglia era importante per Victor. Non avrebbe ferito suo padre per inseguire il sogno di un amore romantico ma senza speranza.
Eppure questa gelosia di Camelia lo feriva e lo faceva sentire in colpa. Aveva sperato che lo comprendesse. Si era perfino illuso che potesse apprezzare la sua onestà del volere un matrimonio rispettabile e rispettoso. Si era meravigliato dell’acredine nei confronti di Oscar.
Ma era davvero gelosia? Pensò ad un certo punto. Cosa aveva inteso con “siete troppo buono”?
Quella definizione veniva sovente utilizzata nei confronti di coniugi ciechi  sul carattere delle loro dolci metà. Era stato cieco? Aveva forse voluto vedere solo il bello nella sua fidanzata? Aveva forse classificato come semplici capricci qualcosa di non così fatuo?
Una carriera rovinata, una vita spezzata, una famiglia distrutta perché aveva ceduto alle lusinghe di una donna in una notte di fine estate. Ed ora, sempre a causa di una donna, delle sue sottili insinuazioni, stava mettendo ogni sua mossa sotto esame.
Oscar …
Cercò di ripensare al tempo trascorso con lei, anche se gli riusciva difficile concentrarsi su qualcosa che non fosse la notte appena vissuta.
Sì, si comportava stranamente; ma d’altronde era anche una donna fuori dell’ordinario, con una vita ed una educazione “originali” alle spalle. Era molto interessata al suo compito di responsabile della sicurezza, alla vita quotidiana dei reali. Ma era comprensibile, vista l’educazione militare e la poca dimestichezza con le regole della corte, cui sarebbe dovuta sottostare sposandolo.
L’anello debole della catena …
Che fosse davvero lui? No, era certo di non aver detto o fatto più di quanto fosse lecito.

Venne distratto da una carrozza recante lo stemma reale che passò proprio dinnanzi a lui. Era guidata da un cocchiere che non passava inosservato con quei capelli rossi, così vistosi.
“Che colore volgare”, pensò, “tipico di popolazioni rozze come i vicini …”
 Interruppe di colpo quei pensieri, colto da un dubbio, proprio mentre la carrozza frenava un centinaio di metri più avanti per far salire una dama in rosa. La sua dama.
-… inglesi! -  terminò a voce alta aggrottando la fronte. - Cherchez la femme, Victor!-  si disse pensando di esser stato davvero troppo fiducioso.
A questo punto voleva vederci bene e non perché gli era stato ordinato da sua maestà. E sapeva pure da dove cominciare.


Continua



* “cherchez la femme”, letteralmente “ cercate la donna”, inteso nel senso: dove c’è intrigo, c’è donna, quindi per trovare il capo della matassa cercate la donna della vicenda.

** “ … con occhi smeraldini, che fa le docce e usa lavandini” … scriverei per far scalpitare Serelalla! XD Scherzo!!!

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Capitolo 15
*** Giochi di re ***


I re del mondo - cap. 13 "Giochi di re"




Da questo capitolo, non ci saranno più parti in blu, perché si svolge tutto continuativamente al presente, fino alla fine.
… 48 ore e qualcosa in più.

***

Cap. 13: “Giochi di re”


6 settembre 1784, mattina


… Les rois du monde se battent entre eux (I re del mondo si battono tra loro)
… Ils font des pièges où ils tomberont un jour (costruiscono trappole dove loro stessi cadranno un giorno)
Et nous en bas leur guerre on la fera pas (E noi, quaggiù, la loro guerra non faremo)
On sait même pas pourquoi tout ça c'est jeux de rois (non si sa nemmeno perchè, tutto questo son giochi da re)
- dalla canzone  I re del mondo


La carrozza frenò nel sagrato antistante la vecchia chiesa medioevale, in rovina, sconsacrata.
Il cocchiere dai capelli rossi saltò agilmente giù da cassetta ed aiutò Camelia De Fréville a scendere dal veicolo, guardandosi intorno con fare circospetto. Le porse il braccio e la sorresse mentre scavalcavano le parti più danneggiate della gradinata in pietra.

Appena entrata, la donna restò sorpresa dal fermento e dal rumore che all’esterno non giungeva, protetto dagli spessi muri edificati secoli prima.
Alla debole luce del primo mattino, che filtrava dalle bifore, e delle torce accese, una squadra di una decina d’uomini lavorava alacremente a quello che pareva un mostro marino sdraiato nel mezzo dell’edificio vuoto: una grossa seppia sgonfia, di seta bianca e gialla. I colori del re di Francia.
-    Impressionante … - mormorò ella.
-   Il tempo ci è nemico. – ribatté l’uomo sconfortato. – Stiamo prendendo nota di tutto: materiali, dimensioni, tipo di armi di cui è dotata, funzionamento del bruciatore; stiamo disegnando schemi e dimensioni, ma … trasportarla via sarà praticamente impossibile, anche fatta in pezzi.
-    So che vi cercano sulle vie per il nord: pensano abbiate proseguito sfruttando le miglia di vantaggio che il convoglio aveva già. – Disse Camelia camminando ai bordi del pallone aerostatico ed osservandone la fattura.
-    Ciò ci farà guadagnare tempo: di certo non pensano che siamo tornati indietro, così vicino a Parigi. Ma appena si accorgeranno che il convoglio non ha proseguito, non ci metteranno molto a scovare questo posto. Non sono tanti i luoghi con le caratteristiche necessarie a nascondere un tale marchingegno in riservatezza.
Camelia si sfilò un guanto e si chinò a tastare con la mano nuda il tessuto del pallone.
-    Incredibile la quantità di seta sprecata … - mormorò.
L’uomo rise.
-    Vostro marito diceva sempre che la moda era il vostro paradiso ed il suo inferno … - il riso si smorzò nel vederla adombrarsi. – Perdonatemi, non volevo …
-    Non ne avete motivo, caro Scott *. E’ che … Siete stato il suo migliore amico da sempre, avete passato così tanto tempo con lui, ben più di quanto ci abbia vissuto io che … - chinò lo sguardo – un poco vi invidio.
Le porse la mano per aiutarla ad alzarsi.
-    Un giorno ci siederemo in riva al mare e vi racconterò tutto quel che non sapete di lui. Anche quelle cose che lo farebbero vergognare … - disse serio.
Non poté evitare di sorridergli e gli porse la mano riguadagnando altezza in un fruscio di gonne.
-    Ho comunque un’idea alternativa per questa mongolfiera. Sono certa di conoscere chi si nasconde dietro alla nostra concorrenza, coloro che hanno fra le mani i piani di D’Eon.
-    Non possiamo renderla ai francesi.
-    Re Luigi non potrebbe in ogni caso permettersi di utilizzarla in un attacco: ormai sappiamo di questo progetto. Ma potrebbe tenere a riavere il prototipo. Possiamo ancora fargli credere che può riaverla.
-    Dovremmo chiedere un riscatto?
-    Non noi. I francesi. - replicò candidamente.

***

Il sole era ormai caldo nel cielo.
Oscar alzò lo sguardo verso il balcone del palazzo di Fréville proteggendo lo sguardo dalla luce forte.

Aveva lasciato Bernard, dopo aver nascosto con lui i documenti segreti di D’Eon, tenendo per sé solamente la lista coi nomi. Gli aveva ordinato di tornare al Palais ed attendere. Si era rifiutata di spiegargli cosa avesse in mente: aveva già combinato abbastanza pasticci e non voleva metterlo in mezzo.
Quando aveva visto quel nome, aveva capito tutto: Ross William Chatwell.
Era il primo marito di Camelia De Fréville. Non poteva non esserci un collegamento.
Era lì da almeno due ore. Aveva incrociato la carrozza dei Fréville con lo stemma reale che lasciava Versailles diretta a Parigi. L’aveva preceduta in città, galoppando veloce per sentieri più disagevoli,  che tagliavano il tragitto, ma la carrozza doveva aver fatto qualche sosta perché era entrata solo da pochi minuti nel cortile della villa.
E la marchesa era scesa da sola, senza l’ingombrante marito. Quello che Oscar voleva.
Si raddrizzò la giacca maschile e si avviò all’uscio.
-    Sono Oscar Françoise De Jarjayes. – si presentò al maggiordomo che le aprì il portoncino.
-    Buongiorno, signore! Purtroppo, il signor marchese non si trova alla residenza. – disse quello.
-    Sono qui per conferire con madame, la marchesa, se è possibile.
Il maggiordomo si inchinò e la invitò ad entrare e ad accomodarsi nel salotto.
-    Vado ad informarmi se sua signoria può ricevervi. – disse allontanandosi.
Oscar si distrasse ad ammirare i quadri. Ritraevano tutti Fréville: in alta uniforme,  a cavallo, in nave, a caccia l’estate precedente  …
-    … Sempre con dieci anni e quindici chili di meno che nella realtà … - borbottò acidamente tra sé.
In quel mentre rientrò il maggiordomo.
-    Se il signore vuole seguirmi … La signora marchesa l’attende.

Oscar seguì l’uomo al piano superiore, attraverso lo stesso corridoio ed infine nello stesso salone che lei aveva già visitato una volta, non invitata, e dal quale si era allontanata in maniera rocambolesca.

Camelia era lì. Si era appena tolta il cappellino e si stava sfilando i guanti.
-    Vi ringrazio di avermi concesso udienza, marchesa. – disse Oscar, inchinandosi.
-    Se non foste venuta da me, sarei venuta io da voi, madamigella Oscar. Credetemi. Posso offrivi qualcosa?
Oscar scosse il capo, quindi Camelia licenziò il domestico. Rimasero sole.
-    Felice di avervi risparmiato il tragitto. Ora parliamoci a viso scoperto: voi sapete chi sono ed io so chi siete voi, madame. Io ho qualcosa che vi riguarda e voi avete quel che cerco. – disse Oscar.
Camelia sorrise.
-    Sempre diretta …
-    Non amo fare salotto.
La marchesa si avvicinò alla finestra. Il vento fresco le scompigliò appena i boccoli morbidi sciolti sulle spalle. Era veramente molto bella, pensò Oscar. Troppo bella per uno come Fréville.
-    Mi domandavo quale fosse il collegamento di quei documenti con il Marchese, come facessero gli inglesi a sapere del trasporto della mongolfiera; poi ho visto questo nome in questo elenco, - disse estraendo il documento - quello del vostro primo marito in quella che pare proprio una lista di doppiogiochisti inglesi e francesi. Vostro marito era un venduto, madame?
-    Mio marito era leale, onorato e fedele al giuramento, al suo paese. – disse Camelia con voce incrinata.
-    E voi siete leale con lui, non è vero?
-   Ve lo domando direttamente, anche se suppongo di conoscere la risposta: cosa volete per darmi quella lista? – esclamò la marchesa, riprendendo il controllo.
-    Quel che mi avete rubato, madame.
-    Non posso, non mi sarebbe permesso rendervi un arma. Specie ora che avete tra le mani i piani d’invasione dell’Inghilterra.
-    Ed io non posso lasciarvela. Pur non amando questa monarchia, resto francese.
Si scrutarono qualche istante in silenzio.
-    Sarò franca, madamigella Oscar. Voglio togliere di mezzo Fréville.
-    Il sospetto mi è balenato nella mente. – ribatté ironica.
-   Ho questa proposta … Potrei rendervi la mongolfiera affinché possiate proseguire nel vostro progetto, in cambio della distruzione dei documenti di D’Eon e della rovina di Fréville.
-    Continuate …
-    Fréville ha comprato i piani da D’Eon, che finora aveva sempre trattenuto quei documenti per difendersi dal Re. Una polizza vita. Il marchese carezza da sempre due ambizioni: ascendere al trono al posto dei Borboni ed essere il primo a realizzare ciò che nessun monarca francese è mai riuscito a fare: conquistare l’Inghilterra.
-    Sarebbe una pazzia! Siamo appena usciti da una guerra che ci ha dissanguati; siamo oppressi da carestia, dalle tasse per le spese folli della corte e Fréville vorrebbe lanciarci in un nuovo conflitto? E’ assurdo.
-    Concordiamo con voi. Ed ho motivo di credere che neppure re Luigi vorrebbe ciò. Se dovesse scoprire i veri intenti del suo ministro …
-    Per Fréville sarebbe la fine. Ma io cosa ci guadagno? Così rafforzerei Luigi.
-    Il sostegno inglese.
-    Fatemi capire … voi mi aiutereste …
-    … a far cadere il Re di Francia. Vi sto proponendo un colpo di stato. Possiamo appoggiare Orléans.
-    Cosa? Volete mettere un Orléan sul trono?
-    Costituzionale… - specificò Camelia.
-    Non mi fido di Orléan – manifestò Oscar.
-    Ma vi appoggiate a lui e dovete continuare a farlo. Le cose possono cambiare in seguito… – promise l’altra, sottintendendo che un re non necessariamente deve restare sul trono per sempre.
Oscar annuì.
Non le garbava l’aiuto inglese, ma poteva funzionare.
La guerra in America aveva ridotto allo stremo entrambi i paesi. Continuare le ostilità non avrebbe giovato a nessuno di loro. Potevano uscirne a testa alta, eliminando un comune nemico.
La Francia sempre più debole di Luigi era altrettanto pericolosa di una Francia arrogante nelle mani di uno come Fréville, per l’Inghilterra.
Per un istante si fissarono in silenzio, poi un pensiero personale traversò la mente di Oscar: pensò all’uomo che aveva guardato quegli occhi violetti così come si era perso nei suoi la notte scorsa.
-    Che accadrà a Victor? – si preoccupò Oscar.
-    Gli hanno concesso 48 ore per smascherarci …
-    E’ un brav’uomo … - mormorò Oscar.
-    … e leale. – sottolineò, perché tale virtù, ad aver a che fare con donne nella loro posizione diventava uno svantaggio. - Non ho intenzione di fargli del male. – garantì Camelia.
-    Oltre a ciò che avete già fatto? – l’accusò Oscar.
-    Non molto diverso da ciò che avete fatto voi. – rincarò.
-    Touché …  – ammise la bionda.
Victor restava stritolato da loro due.
-    Non voglio gli succeda qualcosa di irreparabile. – ribadì Oscar.
-    Ed allora … Non accadrà. Penserò io a Victor. – garantì Camelia. - Voi mi date quella lista e …
-    Voi mi aiutate col colpo di stato …
Impasse.
-    Ci tocca fidarci … - sottolineò Camelia. Il silenzio di Oscar fu il suo assenso.
-    Useremo la mongolfiera. – Esclamò all’improvviso, rivitalizzata da ciò che le riusciva meglio: l’azione. - Chiederò un riscatto a Sua Maestà e casualmente spunterà parte dei documenti pericolosi di D’Eon, collegati a Fréville e al suo doppio gioco che per anni ha fatto con l’Inghilterra. Sua Maestà perderà la pazienza, scatenando la reazione del ministro e ci insinueremo a corte fra le due fazioni: i sostenitori del marchese ed i fedeli al re. Luigi farà la figura del sovrano molle di fronte all’invasione del nemico, sia interno che esterno, e Orlean assumerà il potere e poi …
-    … e poi, un passo alla volta.


Un applauso improvviso interruppe il mormorio del complotto.
Fréville era entrato senza farsi notare ed aveva probabilmente ascoltato gran parte della loro discussione.
-    Complimenti, signore mie. Nemmeno all’operà recitano bene quanto voi due. Su di voi mia cara, ammetto che da un po’ covavo qualche sospetto: troppe fughe di notizie e la trappola della mongolfiera ha funzionato, vi ha fatta scoprire; ma che l’altezzosa Oscar de Jarjayes, fosse invischiata a tal livello non me lo sarei proprio immaginato. Addirittura con D’Orleans …
Mosse qualche passo verso di loro, incrociando le braccia dietro a sé, senza timore.
-    Interessante situazione, vero? – scherzò vedendole scambiarsi uno sguardo allarmato. – Sembra proprio senza uscita. Temo dovrò farvi arrestare entrambe e, credetemi, occupare le celle della Bastiglia con due fiori come  voi, è davvero un dispiacere … Povero Girodelle, entrambe le sue amate messe ai ceppi … - rise all’espressione sorpresa di Camelia. – Già, alla fine non è morto per proteggere il giocattolo del suo re come avevo organizzato, ma finirà male comunque. Che vi aspettavate, mia cara? Siete sempre mia moglie! Avrei dovuto permettere a quel damerino di trastullarsi impunemente?

La situazione non lasciava altra scelta. Oscar estrasse il fioretto.
Fréville esplose in una risata.
-    Sì, ho saputo che il generale vostro padre vi ha educata come un figlio maschio ed ho trovato tutto molto divertente. – la derise, non dando impressione di voler ingaggiar duello.
-    Avete forse paura di perdere con una donna? – lo istigò Oscar, mentre Camelia lentamente si avvicinava alla parete, tentando una fuga approfittando della distrazione di Fréville.
Il marito le bloccò il passo ed estrasse al contempo la spada, invitandola tramite quella ad arretrare.
-    Tutt’altro, madamigella Oscar. – disse tornando  a rivolgersi a lei - Credo che alle persone come voi servano lezioni severe.

Oscar lo assalì e cominciano a duellare.
Lui era molto forte, rozzo, e si batteva per vincere.
Non era interessato allo scontro elegante, tanto quanto non gli interessava ciò che rendeva un nobile degno di quella definizione: non era altro che un assassino, un delinquente, un violento; era privo di scrupoli, di sentimenti, di ideali.
E per tutto questo era più bravo di quanto lei, con i suoi rigurgiti di coscienza, mai sarebbe stata.
Il rumore dell’incrociarsi di lame aumentava.  Oscar si trovò a schivare affondi sempre più rapidi, più violenti. La lama di Fréville si abbatté su qualunque oggetto lei frapponesse tra loro nel tentativo di riprender fiato.
Cadde un vaso, poi un busto.
Camelia guardò preoccupata verso l’ingresso del salone, che non poteva raggiungere, incastrata tra il balcone ed i due duellanti, aspettandosi da un momento all’altro l’arrivo di qualcuno. Ed allora sarebbe stata la fine per entrambe.
-    E’ vero, siete abile, - esclamò Oscar - ma con me non c’è nulla da fare.
Fréville, urtato dal commento, fece un passo falso spinto dalla rabbia.
Oscar scartò di lato ed approfittò del suo sbilanciamento per trafiggerlo da parte a parte.
Il marchese lasciò cadere la spada, premendosi il costato che sanguinava copiosamente, scivolando in ginocchio senza forze, cadendo a terra.

In quel momento si affacciò una guardia. Un veloce scambio di sguardi spaventati tra Oscar e Camelia e la marchesa lanciò un grido.
Senza dubbio, Camelia Desirée era veloce nel prender decisioni. Ed indicare nella sua rivale il capro espiatorio era la soluzione migliore per lei, oltre che la sola possibile.

Oscar si lanciò fuori dalla finestra sulla grande terrazza, pronta a ripercorrere il più velocemente possibile la stessa via già utilizzata una volta. Disgraziatamente, Fréville aveva pensato bene di radere al suolo la bella magnolia, così comoda per la discesa degli intrusi.
Evitando per un soffio la presa della guardia, ripiegò su una via più difficile: saltò il parapetto della terrazza e si lasciò cadere sul tetto del portico a fianco. Un bel salto. Il peso del suo corpo trascinò sotto di sé alcune tegole e pensò che non sarebbe riuscita ad arrestare in tempo la sua caduta. Senza sapere bene come, riuscì ad aggrapparsi ad un doccione** di granito, mentre le tegole si fracassavano tre metri sotto di lei.
Ormai le grida delle guardie e della servitù erano ovunque.
Facendo forza sulle braccia, si tenne alla grondaia e, senza altre possibilità, si dondolò appena e si lasciò cadere appena oltre il marciapiede di pietra, atterrando sul prato che smorzò l’impatto della caduta.
Rotolò sull’erba e si rialzò subito, ignorando le contusioni che avrebbe pagato poi, scappando verso la cancellata.
Con un ultimo sforzo la scavalcò e, protetta dal via vai di gente e carri della tarda mattinata, si perse per le vie di Parigi.

Nel caos scatenato dalla fuga rocambolesca di Oscar, Camelia si gettò sul corpo del marito a terra, fingendosi la più disperata delle mogli, allontanando le altre guardie arrivate a prestare soccorso.
-    Lo ha ucciso! Lo ha ucciso! – gridò indicando il balcone dal quale l’assassina era fuggita, come ad invitarli all’inseguimento, mentre, con fare disinvolto, allontanava la spada che Fréville, rantolante per il colpo che gli aveva trapassato un polmone, cercava ancora di afferrare.
Le guardie si divisero: il grosso di loro tornò alle scale; solo un paio di coraggiosi seguirono invece la via percorsa da Oscar.
E lasciarono sola la marchesa.
Fréville, impossibilitato a parlare per il sangue che gli si affollava in gola, forte di rabbia, agguantò al collo la donna che lo aveva raggirato e per la quale si era rovinato, nel disperato tentativo di non morire da solo.
Camelia afferrò un cuscino dalla vicina poltrona e, senza esitazioni, anzi, con un certo doloroso piacere, premette con forza sul volto dell’odiato consorte, soffocandolo in pochi istanti.
Quando non avvertì più alcuna resistenza, gli levò il cuscino dal volto e restò immobile a fissare le fattezze deformate dalla morte e dal sangue. Si afflosciò sulle ginocchia, stringendo il cuscino. Lì vicino, sul parquet, notò il foglietto quello che Oscar aveva tra le mani poco prima dell’entrata di Fréville. Prese la lista, l’aprì e scorgendo il nome di colui per il quale aveva affrontato tutto, sospirò sollevata.
Nascose il pezzo di carta tra i seni. Restò lì, in attesa dell’ultimo atto, con lo sguardo perso davanti a sé ed un solo pensiero nella mente: l’incubo cominciato il Natale prima, quando aveva scoperto chi fosse il mandante dell’omicidio di Ross, era finito! Finalmente, era finito …

- continua

* Scott Baker, il capitano inglese che aiuta Oscar e André ne “Il mio dovere” … L’ho ripescato in una ambientazione diversa.

**Stavolta il termine non è improprio e, a proposito della doccia, ho pensato: se una persona del 700 si trovava sotto un doccione (ad esempio uno di quelli a forma di Gargoyle, tanto carucci d’aspetto e conciliatori di bei sogni…) e si prendeva una lavata in capo durante un acquazzone, possiamo dire che “si era preso una doccia fredda?” … Così tanto per riflettere sui vocaboli XD

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Capitolo 16
*** Illusioni perdute ***



I re del mondo - cap. 14 Illusioni perdute


Cap. 14: “Illusioni perdute”


Parigi, 6 settembre 1784


Oscar corse per Parigi, rallentando di tanto in tanto quando le fitte per i danni derivanti dalla caduta diventavano insopportabili; corse fino a quel vecchio palazzo, residenza del duca d’Orléans; corse attraverso quel vicolo che fiancheggiava i portici, fino alla scaletta dove era certa che avrebbe potuto trovare riparo.
Dovunque veniva strillata la notizia dell’assassinio del marchese di Fréville e le strade già pullulavano di soldati in cerca del colpevole. Non c’era un solo parigino che non lo sapesse.
Picchiò all’uscio della cantina.
Non ottenne risposta subito e presa dalla furia picchiò ancora.
- Bernard, sono io! Apri, maledizione! So che sei lì!
Dall’altro lato della porta chiusa, una mano fermò quella del cavaliere in nero, pronta a far scattare il chiavistello.
Lo sguardo del giornalista si incrociò con quello dell’avvocato.
- Ma … Robespierre! E’ Oscar! – esclamò piano.
- Lei capirà. – bisbigliò l’altro. – Ormai è compromessa e può solo mettersi da parte, cavarsela da sola e tacere per il bene comune. Un soldato deve essere in grado di sacrificarsi per un bene superiore. Questo bene è la Francia che merita di liberarsi della sua schiavitù. Oscar ne è consapevole. Capirà.

Oscar restò in ascolto del silenzio. Di quella serratura che non scattava. E ... capì.
Posò la fronte contro il legno, serrando gli occhi.
Ne avevano parlato tanto durante le loro cene del giovedì ad Arras, quando discorrevano di tutto, quando ipotizzavano una Francia diversa ed i modi per poterci arrivare, arrivando ad immaginare scenari di resistenza alla monarchia assoluta.
Era stata proprio Oscar ad insegnarglielo, così come suo padre lo aveva insegnato a lei: nessuno è più importante del fine ultimo.
Eppure…
Eppure era cambiata così tanto la sua vita durante quell’estate e quel concetto da freddo militare lo sentiva sempre più lontano da sé, sempre più ingiusto. Si lasciò scivolare lungo lo stipite della porticina, accosciandosi sui gradini in pietra del vicolo.
Prese la testa fra le mani.
Improvvisamente sapeva che tutto quel che l’attendeva erano la fuga, la miseria, la solitudine.
O, nel caso peggiore, la prigionia, anche la morte.
Era stata ad un passo dalla felicità completa e questo la faceva impazzire. Pensava che nulla valesse più la pena, che nulla valeva ciò che aveva perduto. E non si trattava di coloro al di là di quella porta.
Non stava rinnegando i suoi ideali, questo no; stava solo dando una misura al modo in cui aveva affrontato il mondo: stava guardando tutto da un passo di distanza.
“La vita è troppo breve per sprecarla in giochi di potere più grandi di noi …”, si disse.
Doveva allontanarsi da lì. L’istinto a sopravvivere faceva parte di lei, non si sarebbe arresa senza lottare.

Girovagando a vuoto, evitando posti di blocco, priva di una meta precisa, arrivò nel quartiere dove viveva André.
Una improvvisa, violenta pioggia si stava riversando su Parigi, abbassando la temperatura che lasciava presagire a breve l’arrivo dell’autunno.
Sì. L’estate era finita. Quei mesi durante i quali aveva giocato con le persone come un re che gioca a sentirsi dio.
Zuppa e grondante, strizzando lo sguardo infastidita dalle gocce che restavano intrappolate fra le sue ciglia, guardò in fondo alla via, la casa dove aveva passato momenti felici.
Tanto intensi, ma troppo brevi.
Irripetibili.
Aveva rovinato tutto.
Udì la porta del negozio del fruttivendolo all’angolo aprirsi con uno scampanellio ed una ragazza dalla voce cristallina uscì rimproverando quello che riconobbe come l’amico di André.
“… come si chiama? … ah, sì: Alain.”
- Adesso capisco perché hai voluto che ti accompagnassi a far compere: sono il tuo mulo da soma, sorellina! – esclamò il soldato che accanto alla ragazza minuta, pareva un gigante.
“Sorellina?”
- Smettila di lamentarti, fratellone! Il nostro amico André ha bisogno di rimettersi in forze e niente di meglio della buona cucina! Una bella torta di mele tanto per cominciare!
“Sorellina?? “
Ma … allora era la sorella di Alain quella che aveva visto alla finestra? André le aveva parlato di lei, di loro: erano diventati la sua famiglia.
Vide la coppia riparasi sotto la cerata militare di lui ed incamminarsi verso la loro casa, poco più in là di quella dei Plessis Bellière.
Non l’avevano vista, lì nell’ombra di un ingresso a ripararsi appena dalla pioggia scrosciante.
Sì sentì una stupida.
Dentro di sé sapeva che André non era tipo da ripicche, vendette, eppure aveva pensato che l’avesse sostituita con la facilità con la quale si cambia una candela consumata.
Lui non era così. Era lei quel tipo di persona.
- Sono una persona orribile … - sussurrò.
Vincendo la vergogna di sé, posò il piede nella via, diretta alla casa di André.





Il barone di Plessis Bellière entrò dal passo carraio, cavalcando veloce sotto la pioggia.
Aveva fatto tutto quel che aveva deciso di fare durante la notte appena trascorsa: la notte dei fantasmi passati, presenti e futuri.
Non era stato difficile: d’altronde, una volta prese certe decisioni, il grosso è fatto, resta solo una strada in discesa da percorrere.
Il notaio era rimasto sorpreso dalla sua richiesta, ma lo aveva accontentato, scrollando il capo come si fa quando si ha a che fare coi muli testardi o coi matti.
André soppesò la cartella di cuoio consegnatagli dall’ometto in nero che aveva curato la sua adozione. Era tutto lì. Esattamente come aveva richiesto.

Levò la sella al cavallo, lo splendore nero regalatogli da Oscar.
Sorrise fra sé. Era un miracolo che il quadrupede fosse tornato a casa da solo, illeso, la notte appena trascorsa, quando lui si era sbronzato in quella topaia vicino al Cimitero degli Innocenti e lo aveva perso.
Diede una pacca sul collo all’intelligente bestia, mostratasi più sensata del padrone, e si coprì con la mantella per attraversare la corte correndo.
Si sarebbe cambiato, avrebbe raccolto le poche cose necessarie poi sarebbe andato a spiegare tutto ad Alain, il quale avrebbe fatto resistenza, brontolato, imprecato, ma alla fine avrebbe ceduto, da quel sentimentalone che era.
E poi …
Alzò lo sguardo.
Il “poi” lo attendeva sotto il portico sul retro, accucciata, stretta per scaldarsi.
Alzò gli occhi su di lui, che saliva i gradini lentamente, incurante della pioggia, sorpreso di trovarla lì.
Gli occhi di lei erano lucidi, di un azzurro vivissimo, supplichevoli, disperati.
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L’uomo prese un fazzoletto dalla tasca e glielo porse con un sospiro.
- Grazie, André, ti ringrazio tanto … - mormorò Oscar, sfiorando appena le sue dita nel prendere la pezzuola.


***

Palazzo Fréville era un brulicare di uniformi.
Soldati mandati da Versailles entravano ed uscivano; in tanti davano ordini.
L’omicidio del ministro aveva gettato lo stato maggiore nel caos.
Il corpo era stato spostato in un’altra stanza al pian terreno dove l’impresa di pompe funebri si era già messa all’opera per rendere presentabile il cadavere ed allestire la camera ardente.
Camelia sedeva sulla poltrona ove si era accasciata immediatamente dopo che Fréville aveva esalato l’ultimo respiro. Ai suoi piedi, una chiazza rossa inzuppava un pregiato tappeto delle manifatture De La Savonnerie, rovinato irrimediabilmente.
L’abito rosa pallido era macchiato vistosamente di sangue, stretto a sé teneva ancora il cuscino che aveva utilizzato su Fréville ed il suo volto era spaventosamente terreo. In un angolo della stanza, Victor si teneva in disparte, silenzioso, severo, imperscrutabile. Furente.
Dall’ingresso si udì la voce tonante di Bouillè che domandava della marchesa.
Victor si avvicinò a Camelia ed afferrò il cuscino che lei non era ancora riuscita a deporre. Un cuscino dove un occhio attento poteva intravedere le fattezze di un volto dipinto dal sangue.
- Lascialo! – le intimò in un bisbiglio. – Lascialo! – ripeté strappandoglielo dalle mani e nascondendolo dietro a tanti altri cuscini simili sul divanetto, giusto un istante prima che Bouillè facesse irruzione.
Il generale tossicchiò per schiarirsi la voce.

- Marchesa, innanzitutto presento le mie sentite condoglianze per la vostra perdita e … - lo sguardo cadde su Victor. – Colonnello Girodelle, che ci fate voi qui?
L’ufficiale in azzurro, meno perfetto del solito e con la barba non rasata, scattò sull’attenti.
- Mi trovavo casualmente nei pressi e sono stato tra i primi ad accorrere, signore.
Il generale grugnì un appena percettibile assenso, sebbene poco convinto da quel “casualmente”.
- Avete visto l’omicida, Girodelle?
- Purtroppo no, signore. Il bandito si è calato dalla terrazza ed ha fatto perdere le tracce velocemente. Alcuni dei soldati lo hanno visto di sfuggita, ma forniscono descrizioni discordi.
Bouillè grugnì ancora.
- Madame, - disse rivolgendosi a Camelia – siete in grado di presentarmi una descrizione dei fatti?
Camelia alzò appena lo sguardo, come persa.
Victor intervenne ancora, incurante di irritare con ciò il superiore.
- Temo che madame la marchesa sia troppo sconvolta per poter fornire una versione precisa ed obiettiva dei fatti, signore. Abbiamo mandato a chiamare un medico. – Aggiunse in un bisbiglio a voler sottolineare lo stato emotivo della donna.
Il superiore grugnì di nuovo.
- Vedo che avete tutto sotto controllo, Girodelle. – ribatté ironico. – Fossi in voi, però, mi preoccuperei di quanto vi ha ordinato Sua Maestà: il tempo corre veloce.
Fece cenno al soldato al suo fianco.
- Trovatemi le guardie che erano presenti al fatto. Subito!
Uscì senza più rivolgersi a Camelia.
Victor le si accosciò accanto.
- Guardami! – disse perentorio. Quando ebbe la sua attenzione, addolcì il tono e proseguì. – Non dire nulla. Se serve, fingi un malore. Ricorda che sei una vedova, nessuno si aspetta di più da te! – ordinò - Lei dov’è? – chiese cambiando registro.
Camelia lo scrutò.
- Sei in pena per lei? – mormorò con le lacrime agli occhi.
- Sono in pena per noi, per tutti noi. – sottolineò – Sai dove è andata?
Ella distolse lo sguardo.
Victor prese il suo volto tra le mani e la costrinse a guardarlo ancora, gentile ma fermo.
- Se sai dove è andata, dimmelo. Non sto scherzando, Camì.



***

La giornata si faceva sempre più buia.
Nuvoloni temporaleschi continuavano ad addensarsi nelle brevi pause tra uno scroscio e l’altro e la sera arrivava veloce.

André aveva acceso le candele ed il caminetto nella sua stanza. Le aveva offerto una camicia asciutta e qualcosa da mangiare.
Seduta sul tappeto di fronte al fuoco, le lunghe gambe nude rannicchiate sotto di sé, Oscar si scaldava, finendo fino all’ultima briciola che aveva nel piatto.

André la osservava in silenzio, poggiato alla mensola del camino.
- C’entri qualcosa con quello che è accaduto al marchese de Fréville? – chiese all’improvviso.
- Qualcosa … sì. – disse masticando, tenendo lo sguardo basso.
- Che ne diresti di raccontarmi tutto dall’inizio?
- Non voglio coinvolgerti.
- Sono già coinvolto. – constatò pacato.
Oscar allora gli riassunse tutto: l’amicizia con Robespierre, la collaborazione con Bernard, il suo progetto di entrare nella cerchia di Maria Antonietta tramite un matrimonio con il comandante delle Guardie Reali. E poi l’occasione di rubare la mongolfiera per chiedere un riscatto, la sorpresa che gli inglesi portavano avanti un progetto simile; le carte di D’Eon; il ruolo insospettato di Camelia; le trame di Fréville … Omise un solo particolare: la notte con Victor.
André restò in silenzio, ostentando una tranquillità che non provava, fingendo di non sentirsi un pupazzo senza ruolo in quell’assurdo spettacolo di marionette.
- Credi di poter tornare a palazzo Jarjayes, a casa? – chiese.
Non la voleva lì!
Ella depose il piatto in grembo, mentre una lacrima scendeva e cadeva nella porcellana.
- Sei tu la sola casa che ho … - mormorò.
Si guardarono negli occhi.
Capì che non era stato lui il primo porto ove lei aveva tentato l’approdo e che il soccorso le era stato rifiutato.
- Devi lasciare Parigi, non hai altre possibilità. – disse André. – Ci hai pensato?
- Sì, Camelia potrebbe aiutarmi …
- La marchesa deve pensare a sé stessa e lo farà, come lo ha fatto Robespierre. Sei sacrificabile.
- No, lei ha obiettivi diversi... - mormorò ricordando come aveva difeso il primo marito.
- Non farti troppe illusioni. Comunque, domani cercherò un modo per farti allontanare. Ora possiamo solo riposare.
Si diresse verso il letto e si infilò sotto le coperte.
Oscar lo seguì e fece altrettanto.
- Spegni la candela quando ti sei sistemata. – disse freddamente, voltandole le spalle.
Non poteva aspettarsi altro, si disse Oscar soffiando sullo stoppino e coricandosi. Era già tanto che le rivolgesse ancora la parola.
E poi … Lui sapeva. La sua piccola omissione. Non c’erano dubbi.
Forse taceva perché aspettava da lei una richiesta di perdono.
Forse taceva perché la stava già perdonando.
Ma Oscar non poteva permettere che si addormentasse senza domandarglielo.

- André, io … mi sono fidanzata con Victor per i motivi sbagliati e sono stata con Victor, sempre per motivi sbagliati. Ed ho fatto tutto questo anche se sapevo chiaramente che mi volevi molto bene, che mi amavi. E’ mai possibile che tu possa amarmi ancora?
Per qualche istante si udì solo lo scroscio della pioggia, poi un tuono sordo. Infine arrivò il suo sospiro, rassegnato.
- Sempre. Io ti amo da sempre.
Si voltarono in contemporanea e lei si rifugiò nel suo abbraccio.
- Anch’io ti amo, André! Ti amo davvero … - pianse.
- Vedrai, ora nulla potrà più dividerci. – disse lui scompigliandole i capelli, stringendola forte; tutto quanto già dimenticato, il debito azzerato, perché sarebbe stato inutile combattere un sentimento che lì era e lì restava. – Domani troveremo un modo per andarcene da qui. Ed io verrò con te.





Dal centro della strada deserta, un uomo era rimasto a guardare la luce spegnersi.
Strinse la mano sull’elsa della spada, come sempre faceva quando si sentiva nervoso e combattuto. I bei capelli biondi resi piatti e scuri dalla pioggia; gli occhi sottili per la rabbia, per il dolore.
La donna che aveva scelto di sposare …
Il suo migliore amico …
Insieme.
Inequivocabile.
Eppure non riusciva a credere all’evidenza.

Chinò il capo.
Aveva bisogno di riflettere.
Del tempo concessogli dal sovrano restava ancora più di un giorno e lui ormai aveva tutto quanto gli sarebbe servito per soddisfare la richiesta.
Sapeva tutto o quasi.
Poteva dedurre ciò che non conosceva.
Poteva però fidarsi delle deduzioni di un’anima che si sentiva tradita su ogni fronte?
Di certo sapeva di esser stato raggirato da tutti coloro che aveva amato.
Poco, tanto … Non gli interessava in quel momento.

Pensare. Doveva pensare.
Perché in quel momento il frastuono del sangue che ribolliva, del cuore che martellava, metteva sotto silenzio la ragione.

Si avviò ed incrociò un uomo che si allontanava a passo svelto dall’angolo della villa.
Anche lui stava guardando la finestra la cui luce era appena stata spenta?
Per un istante pensò fosse André, vista la somiglianza.
Per un istante, si illuse che non fosse André quello che dormiva con la sua promessa sposa nel letto.
Ma per Victor De Girodelle era finito il tempo delle illusioni.
Sarebbe tornato a Versailles.
Avrebbe avuto tutta la notte per decidere cosa fare.
O cosa non fare.

- continua



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Capitolo 17
*** Promesse ***


I re del mondo - cap. 15 Promesse






Cap. 15: “Promesse”



7 settembre 1784
    
Il momento che precede l’alba è il più silenzioso. Quando la notte è davvero fonda e perdura da tanto che non si spera più che il sole possa sorgere.
E’anche il momento perfetto per gli agguati.
Ombre si muovevano furtive intorno a palazzo Plessis Bellière. Ombre si muovevano caute all’interno, sulla scala, nel corridoio, davanti alla camera che era stata chiusa a lungo.
Le assi che dovevano scricchiolare non lo fecero.
La maniglia che avrebbe potuto cigolare, non lo fece.
Ciò che avrebbe potuto andare bene, andò storto.
Nemmeno Oscar, dal sonno sempre leggero, ancora stretta ad André, finalmente serena, si avvide del pericolo se non quando una guardia reale l’afferrò brutalmente per i capelli e la strappò via da lui.
In un istante fu il caos.
Ella non poté evitare di cacciare un urlo, tentando di afferrare il soldato che la stava trascinando via, facendola cadere dal letto, sbattendola brutalmente sul pavimento, immobilizzandola a terra. André saltò sul letto, ma il calcio di un fucile lo colpì in pieno alla spalla. Ed anche lui urlò accasciandosi per il dolore, urlò il nome di lei.
-    Oscar! Lasciatela! – gridò mentre altri gendarmi lo trattenevano.
-    André! No! Lui non c’entra! – fu il primo pensiero di lei, mentre veniva sollevata di peso da terra. Inutile era il suo scalciare, inutile la sua furia.
La trascinarono fuori dalla stanza, tirandola per le braccia quando puntava i piedi a terra, tirandola per la vita quando si gettava sul pavimento, opponendo resistenza col proprio peso, e la spintonarono per farle perdere equilibrio, bloccando ogni suo tentativo disperato di rialzarsi, di liberarsi, di andare da lui.
La condussero in malo modo giù dalle scale, facendola cadere, obbligandola a rialzarsi, spingendola violentemente contro lo stipite dell’uscio aperto e poi fuori, fino nella strada dove Bouillè in persona li attendeva a cavallo con altre guardie.
-    Oscar Françoise De Jarjayes, in nome di Sua Maestà, il re, vi dichiaro in arresto per l’omicidio del marchese di Fréville e per attività sovversiva. Portatela via! – terminò mentre un soldato le legava le mani dietro la schiena ed un altro la imbavagliava affinché non potesse replicare.
-    No! Fermi! Fermi! – gridò André che si era fatto strada fino al cordone di soldati che proteggeva il generale e al tempo stesso lo separava da Oscar. – Non è possibile! Lei … Lei era con me! – mentì.
-    Plessis Bellière … Vi informo che la vostra posizione è spaventosamente in bilico per aver dato asilo ad una assassina e rivoltosa. Non tirate la corda! – lo mise sull’avviso il generale.
-    Quali prove avete per queste accuse? – tentò André, fingendo di non aver recepito la minaccia insita in quell’avvertimento.
-    Le guardie di Fréville la riconosceranno come colei che è fuggita dalla residenza e, poiché ci tenete tanto ad atteggiarvi a suo difensore, aggiungo che un suddito fedele ci ha informati di dove si trovava. Cercate di non indurmi a dubitare della vostra fedeltà al re, barone!
André non poté far altro che obbligarsi al silenzio per non peggiorare quanto di peggiore stava già accadendo.  A stento si trattenne dall’intervenire mentre i soldati la issavano su un cavallo perché impossibilitata a farlo da sé, lì, scalza, seminuda, con addosso la sola camicia di lui.
Lo sguardo di Oscar non gli rimproverava nulla per quel silenzio; anzi, solo dispiacere poteva leggerle negli occhi, per come finivano le cose tra loro, per il fatto che lui ci fosse andato di mezzo.
Eppure André era incapace di darsi pace a quell’immagine di lei, maltrattata, umiliata, forzatamente inerme.
Doveva fare qualcosa per aiutarla.




***

Il silenzio era assoluto come solo in una chiesa gelida e deserta poteva essere. La pallida luce del primo mattino filtrava dalle imponenti vetrate della cappella principale di Versailles, ma non portava il minimo calore.
Victor stava immobile, sdraiato prono sul marmo freddo con la speranza che quel freddo potesse gelargli il cuore, che potesse intorpidirlo come le sue membra addormentate che non riuscivano quasi più a muoversi.
“Gelami il cuore, Dio, affinché non soffra più”, pregava.
Era lì da ore, da quasi tutta la notte, solo, nel silenzio, ma con quel rumore a tormentarlo nella testa: frasi, ordini, pensieri.
Le accuse di Bouillè, il suo disprezzo, la vergogna, la rabbia.
Cos’era accaduto? Come poteva essere accaduto?
Tornò con la mente al pomeriggio precedente.
Camelia gli aveva fornito alcune ipotesi su dove supponeva potesse trovarsi Oscar: al caffè del Palais dove si incontrava con Robespierre, qualche altro ritrovo di persone non gradite alla monarchia, e poi quel nome, “dal suo André”, aveva detto Camelia; a quel punto, Victor non aveva avuto bisogno di sentire altro. Dopo la sorpresa, incredibile e spiacevole, arrivò la certezza di comprendere finalmente. E sentiva che sarebbe stato inutile cercare Oscar altrove: sapeva che l’avrebbe trovata da lui. Era una convinzione che gli veniva da dentro.
Si era recato là, a villa Plessis Bellière; li aveva visti entrare e come in trance era rimasto sotto la pioggia ad aspettare una soluzione, consapevole che non sarebbe arrivata dal cielo, ma incapace di prendere una qualsiasi decisione.
Il danno era fatto. Irreparabile, con tutte le sue conseguenze.  
Forse nessuno era realmente colpevole in quella storia, ma certamente, nessuno era totalmente innocente.

La luce che si era spenta a quella finestra, era stata come uno scossone, come un brusco risveglio; era quindi tornato a Versailles, mestamente, dove Bouillè lo aveva accolto nel modo peggiore. Neppure il tempo di tentare di scansare il confronto; di esitare una replica, confondere una versione, di ragionare su soluzioni: qualcuno aveva parlato, gli dissero, fatto il nome di Oscar, fatto il nome di chi la ospitava.
Il cerchio si era stretto attorno a Victor: la sua fidanzata, il suo migliore amico.
Possibile che egli non sapesse? Possibile che non fosse coinvolto?
Non aveva saputo rispondere. Non aveva risposte.
Se non che aveva fallito.
Come uomo, come ufficiale.
Poteva reggere la responsabilità affidatagli? Poteva salvaguardare la famiglia reale quando non aveva avuto il minimo sentore degli intrighi che accadevano sotto il suo naso?
In coscienza, aveva dovuto rispondere di no. Non sapeva spiegarsi questa sua imperdonabile cecità. Era il primo ad accusarsi per tutto quanto.
E l’accusa era stata pronunciata: venne posto in stato di fermo nei suoi appartamenti fino a quando Sua Maestà avesse deciso la sua punizione e poi, quasi certamente, sarebbe stato trasferito alla prigione militare dell’Abbazia.



Umiliato, sotto scorta dei suoi stessi soldati, era poi finito lì, l’ultimo rifugio, cosa che gli era stata concessa.
Quando gli esseri umani non hanno più appigli, si appellano a Lui, anche se quotidianamente lo ignorano.
Victor era stato compassionevolmente lasciato solo, a pregare.
Inizialmente, lì, nel buio e nel silenzio della cappella, era stato ritto in piedi, come un pari.
Poi si era abbassato in ginocchio, come un servo.
Infine, sempre più consapevole della immensa gravità della sua situazione, si era prostrato a terra, come un disperato colpevole. Ed aveva atteso.
“Ci sei Dio? So che ci sei. Ma allora parlami, dimmi, perché? Che dovevo fare? Condannare la donna che amo? Condannare quella che avrei amato? E perché lui, Dio: mio fratello … Come posso condannare loro per la richiesta di un re? …”, aveva pregato.
Sapeva che avrebbe dovuto pentirsi per quell’ultimo pensiero, che già quello rappresentava un tradimento; ma non poteva mentire a sé stesso. Non poteva ripetersi fandonie cui non credeva più da molto. Dogmi imposti dalla monarchia, che era stato educato a rispettare ma nei quali mai aveva riposto fede.
Guardò le iniziali di San Luigi nel mosaico di marmo del pavimento proprio sotto la sua fronte.
 “Luigi … Luigi Augusto, non sei Dio.”
Sentì un rumore di passi, l’eco di stivali che percorrevano la navata. Un suono lento, ma regolare.
Due piedi si fermarono accanto a lui. Volse appena lo sguardo sul marmo freddo.
-    Così sei qui, André? – mormorò.
Si alzò da terra e restò in ginocchio, seduto sui talloni, lo sguardo rivolto all’altare dove l’immagine del figlio di Dio caduto in disgrazia veniva calato dalla croce da mani pietose – Suppongo che i miei uomini ti abbiano fatto visita, André …
-    Sono qui per supplicarti, Victor: lei … - esordì l’amico - Lo sai, lei non merita questo. Non per uno come Fréville …
-   Tu supplichi me, André? Supplica lui! – esclamò stancamente, indicando il Cristo deposto, pronto a risorgere – E’ lui l’onnipotente. Io nulla posso.
-    Puoi intercedere per lei, chiedere clemenza! Sei il comandante della Guardia Reale, sei rispettato ..
-    Io sono cosa??? – Si alzò ringhiando, in un repentino cambiamento d’umore. – Vedi forse onorificenze su questo petto? – domandò afferrandosi i lembi dell’uniforme slacciata - Vedi forse gradi, André? Vedi forse il segno esteriore di tutto quanto per me aveva valore?  Ciò per cui io, l’ultimo dei Girodelle, ho lavorato ogni giorno della mia esistenza?
André restò perplesso osservando l’uniforme nuda, dalla quale Bouillè in persona aveva strappato i segni del comando.
-    Aiutarti??? – Victor rise amaramente per la propria caduta in disgrazia - Come potrei? Non ci sono più i simboli del comando su questa uniforme! Mi sono stati tolti, così come la mia autorità. Sono sotto inchiesta perché la mia fidanzata, che sarebbe entrata nella cerchia più ristretta dei cortigiani, si è rivelata una ribelle, oltre che un’assassina. E non posso fare nulla per frenare questa indagine. Non posso aiutare lei più di quanto possa aiutare me stesso! In questo momento incaricati del re stanno mettendo a soqquadro anche palazzo Jarjayes e lo stesso generale sta subendo questa infamia senza poter alzare lo sguardo. Tutti hanno ingannato tutti! Mi accusi di essere un delatore, anche se non a parole, te lo leggo in volto, e vieni a chiedere a me di aiutarla? Come non mi conosci, amico mio … - mormorò arreso.
-    Ma …
-    No, non sono stato io a denunciare Oscar! – lo interruppe - Non sono stato io a mandare le guardie reali a casa tua. Qualcuno ha risolto il mio dilemma e ha deciso per me. Mi è stato riferito che un servo devoto di Sua Maestà, ha comunicato anonimamente dove si trovava l’assassina di Fréville. Dal suo amante!
Lo sguardo iroso completò il pensiero.
-    Anch’io ero all’oscuro Victor. – si giustificò André.
-    Ti sei divertito al mio fidanzamento??
-    Non sapevo nulla, posso giurartelo!
-    Giura … giura … Ma poi? Poi sapevi ed hai taciuto!
-    Che potevo dirti, Victor?!
-    Potevi essere onesto! O la nostra amicizia valeva così poco?
“Valeva? Passato, André …”
-    Non sapevo .. Cosa … Come ..
-    La verità! André, la verità!
-    E tu l’avresti ascoltata la verità? – si irritò André che sentiva il tempo prezioso scorrere veloce e vano, come sabbia in una clessidra troppo piccola.
-    Non lo saprai mai.
Si chinò a raccogliere il proprio fioretto abbandonato sul pavimento.
-    Hai tradito la mia fiducia col tuo silenzio, e hai tradito la mia amicizia … Io, … l’avrei amata! Totalmente, per tutta la vita! – gridò disperato.
-    Io l’amo. - mormorò André spalancando le braccia come in un gesto di resa, con  tutta la semplicità della verità, non potendo negare le accuse di Victor e rendendosi conto che le speranze di salvarla si affievolivano sempre più.
La sua espressione era così disperata e sincera che Girodelle esitò, ma …
-    Sei niente altro che un essere ignobile. Battiti!
La ragione gli diceva che non pensava davvero questo di André, ma quel cuore spezzato faceva troppo male.
L’amico in uniforme blu continuava a tenere il capo chino. Victor si avvicinò e lo spintonò, una volta, due volte. Lo fece barcollare.
-    Usciamo di qui e battiti se sei un uomo! Battiti per il tuo onore, se ne hai! O sennò, battiti per la tua vita, perché non ti lascerò andare comunque!
-    Non voglio!
-    Non vuoi? – ripeté caustico - Pensi che ogni mattina mi alzo e faccio solo ciò che voglio? Mi vedi come un giullare idiota in questo spettacolo osceno? E’ questo che pensi sia un nobile? Un nobile, un vero nobile, ha regole di condotta, ha doveri da adempiere, obblighi ai quali non può sottrarsi! Un passato da ricordare, un futuro da costruire! Essere nobile non significa vivere a Versailles, agghindarsi, mascherarsi e fare solo ciò che si vuole. Tu hai pensato questo di me?
-    No, mai.
Lo spinse fuori della cappella, mandandolo a sbattere contro le colonne dell’atrio.
-    Battiti!
-    Victor …
-    Battiti!!! – gridò sferzando l’aria con la lama, mandandola a colpire una delle colonne.
Lo guardò, ansimante di rabbia.
-    Prometto! … - sussurrò a sé stesso.
Brandì un altro colpo contro la colonna. Piccolissime schegge di pietra saettarono tutto attorno, accompagnate dalle scintille del ferro.
-    … di essere buono! – esclamò.
Victor Clément. Vittoria e clemenza. Un nome che era stato un impegno.
-    … di essere giusto e generoso! – sferrò un altro colpo sulla colonna successiva, mentre André cominciava ad arretrare.
Prometto di essere buono. Il giuramento del bimbo.
Prometto di riuscire nello studio, nel lavoro. Quello del ragazzo.
Prometto di non alzare la mia spada sul debole, di essere giusto e generoso. L’impegno dell’uomo.
Correttezza, fedeltà, nobiltà.
… Ora solo parole vuote che riecheggiavano nel nulla di quel luogo.
-    Victor … Non voglio battermi contro di te! - ribadì André cercando di mantenersi il più determinato e calmo possibile.
Ma Girodelle non pareva di quell’avviso.
-    La tua volontà non è vincolante, André. – sibilò.
E suo malgrado, André si trovò costretto a parare.
Un colpo dopo l’altro: assalto, difesa, assalto, difesa e si ritrovarono nella piazza d’armi, attirando lo sguardo di tutti coloro già al lavoro e di alcune guardie che erano rimaste di piantone ad attendere Girodelle.
Nella testa di Victor il rumore era ripreso. Pressante, assordante, incalzante.

Pensava che avrebbero indagato ancora, fatto pressione su di lui, sarebbe saltato fuori il ruolo di Camelia che al momento era la sola non sotto indagine.
Certi rappresentanti di sua Maestà sapevano come far affiorare la verità, specialmente la verità che faceva loro più comodo. Avrebbe resistito qualche giorno, ma poi avrebbe ceduto ai pestaggi, alla tortura.
Era combattuto per Camelia: “l’odio e l’amo”.
Era combattuto per Oscar: “le avrei dato tutto ma per lei ero niente.”
Non era combattuto per André, il suo migliore amico, finalmente, sinceramente, totalmente innamorato di una donna, ma avrebbe tanto voluto che non fosse stato zitto quella sera in campagna.
E ci fu un attimo di esitazione in lui.
Un attimo fatale.
André, allenato da tutti i combattimenti con Oscar, reagì istintivamente all’ultima mossa e disgraziatamente Victor non parò il colpo. Avvenne tutto in una frazione di istante e André sentì sé stesso disperarsi ed urlare il proprio dolore ancor prima che la lama affondasse completamente nel fianco dell’amico.
-    Nooooo!!!
Victor si accasciò, trapassato da parte a parte dalla lama che veloce era affondata e subito era stata ritratta dalle sue carni.
André lanciò il fioretto e sostenne il corpo dell’amico, che rovinava al suolo.
Accorsero guardie. Alcune strapparono via André, altre presero Victor.
Vennero separati e nessuno dei due vide più l’altro.





***

Si guardava attorno, passeggiando piano nell’umida cella nella quale, in tempi più agitati, i prigionieri venivano stipati a decine. Ora era sola e sola sperava di rimanere: l’ultima cosa che desiderava era trovarsi in compagnia di qualche vero criminale in un posto come quello.
Vero criminale?
Sospirò: lei era un criminale! E non doveva farsi illusioni sulla possibilità di uscire viva da lì.
Si coprì gli occhi con le mani, mugolando quello che doveva essere un grido trattenuto di impotenza.
E nella memoria, vide lui.
Lo sguardo inerme di André le era rimasto impresso nella mente e poteva solo sperare che non facesse qualche colpo di testa per tentare di salvarla, che la lasciasse perdere. Si augurava che agisse per il proprio bene, dimenticandola, andando oltre.
Era così facile cadere in disgrazia nella Francia dei Borbone...
L’avevano trascinata lì in camicia da notte, le avevano lanciato un paio di brache da indossare affinché non si presentasse in maniera indecorosa davanti al giudice, come se la sua nudità potesse aggravare i suoi reati, come se l’oltraggio fosse quello e non la farsa di un processo dall’esito scontato.
In quel mentre, udì un clangore di metallo, chiavi che picchiavano contro le sbarre, che venivano girate in una serratura antica. E poi passi sulla pietra.
Pensò che fossero venuti a prenderla per condurla al tribunale.
Pensò anche che fosse ancora troppo presto per un tribunale. Non capiva che ora fosse, visto che non vi erano finestre dalle quali poter vedere il cielo, ma non doveva essere mattina inoltrata. Non ancora.
Quando il nuovo arrivato venne illuminato dall’unica torcia appesa nel corridoio, si sentì gelare. Non si aspettava una sua visita.
-    Padre?
Jarjayes fece un cenno alla guardia, che contrariamente al regolamento li lasciò soli. Segno che forse il nome di quel casato valeva ancora o che forse valevano i denari coi quali Jarjayes lo aveva convinto.
-    Sì, Oscar, tuo padre. Dimmi, quanto c’è di vero nelle accuse? – disse avvicinandosi alla grata che li separava con quell’incidere autoritario che lo distingueva.
Oscar arretrò di un passo. Forse l’inconscio terrore collegato ai ricordi di quando da piccola si era trovata in colpa verso il genitore, forse il ricordo delle punizioni, forse anni di timore inculcatole. Anche quando non aveva torti, Oscar si era sempre sentita colpevole dinnanzi a lui.
-    Suppongo ci sia tutto di vero. Forse meno che nella realtà. – lo sfidò con un sorriso sfrontato.
-    Non è il caso di mostrarsi arrogante, Oscar. La situazione è seria: sei accusata di tradimento!
-    Niente altro? – obiettò fingendosi delusa.
-    Oscar, sappi che sei sempre mia figlia – mormorò Jarjayes stranamente comprensivo e quell’atteggiamento la spiazzò. – Ho sbagliato, ti ho allevata come un maschio per soddisfare un mio assurdo capriccio. Ti ho privata di tutto ciò che rende felici le altre donne, ho scatenato la tua rabbia, ti ho indotta ad odiarmi. Ma Oscar, non è troppo tardi per rimediare.  Confessa i tuoi errori, chiedi la clemenza di Sua Maestà! Il nostro re sa essere magnanimo, Oscar. Non gettare la tua vita! Non è troppo tardi, pensaci: un matrimonio, una vita tranquilla, dei figli … E’ ancora possibile! E se non ti piace Girodelle, troveremo qualcun altro...
Ella scoppiò a ridere.
-    Padre, sapete benissimo che quando in una famiglia nobile c’è un traditore, la sola soluzione è la morte! Non condannerò i miei “complici”, come sono stati chiamati con disprezzo. La responsabilità di quanto accaduto è mia e mia soltanto. Ma state tranquillo: morirò chiedendo perdono a Dio e senza maledirvi. Anzi, suppongo che dovrei ringraziarvi! – esclamò e, sorprese sé stessa, perché ne era davvero convinta - Allevandomi come avete fatto, mi sono state permesse cose che le altre donne neppure sognano. Ed una volta assaporata la libertà, non se ne può più fare a meno. Io lo so e molti francesi lo stanno scoprendo; è solo questione di tempo perché tutto il mondo che conoscete crolli come un castello di carte. E per quanto riguarda l’amore … - esitò solo un istante, in imbarazzo perché non credeva si sarebbe trovata un giorno ad affrontare un simile argomento col generale - … allevarmi come un maschio non mi ha certo impedito di innamorarmi di un uomo.
Jarjayes esitò un attimo per quell’ultima confessione, ma non chiese altro, preferendo tornare a ciò che gli premeva.
-    Oscar, fai i nomi di chi proteggi col tuo silenzio!  E’ stato uno di loro a tradirti, non merita la tua lealtà!
L’espressione di Oscar non nascose sorpresa, né la seguente immediata delusione intuendo chi potesse essere stato.
-    No, io non mi abbasserò al tradimento. Quale infamia può essere peggiore della delazione? No, posso essere più “uomo” di lui, del Cavaliere Nero, superiore alle sue invidie, alla sua piccolezza. Non tradirò la bontà di un ideale solo per la miserabilità di un piccolo uomo convinto che tutti i nobili siano uguali, privi di volontà e spina dorsale. Ha sicuramente pensato che volessi tradirlo, io, che … andavo a letto col nemico … - ridacchiò.  
-    Te lo chiedo ancora una volta, figlia: pensaci. Quando ti porteranno davanti al giudice, salva la tua vita! Pensa al dolore che la tua morte recherebbe a tua madre! Pensa al dolore per le tue sorelle!
-    Veramente, temo che il dolore più grande, madame e le sue figlie lo provino per la vergogna di avermi in famiglia … - mormorò memore di una infanzia in solitudine – Dovrei supplicare, prostrami, passare il resto della mia vita in ginocchio? No, non avrebbe senso. Non ho intenzione di cambiare idea, no, padre, non lo farò.
-    La vita è un dono: non sprecarla, Oscar!
-    La vita è una partita con la dea fortuna e l’accetto come viene, padre. Quando non hai niente, non hai niente da perdere. – concluse amara. (*)
-    Puoi mentire a me, ma non mentire a te stessa, figlia mia. – Terminò l’uomo, e si volse, nascondendo il tremito nella voce. – Voglio sperare che cambierai idea, per questo non ti dico addio.
Si avviò al cancello che una guardia gli stava già aprendo.
-    Perdonate! … - mormorò improvvisamente Oscar – Perdonate se vi ho dato solo dispiaceri. – si trovò a dirgli suo malgrado, come addio.
Jarjayes esitò, ma non si volse: avrebbe voluto dirle che non poteva perdonarla: arrendersi alla fine ingloriosa non era comprensibile per lui. Ma non lo fece. E se ne andò consapevole che ormai anche la sua vita finiva lì con lei, perché nonostante tutto, l’aveva amata davvero e l’aveva già persa il giorno in cui non aveva rispettato la sua scelta.


***
 

André era stato posto in stato di fermo in una stanza sorvegliato da due guardie reali intenzionate ad esser per nulla gentili con il feritore del loro comandante, ma fino a quel momento si erano limitati a guardarlo con aria minacciosa.
Bouillè si affacciò.
-    Come sta lui? – si premurò André, scattando in piedi.
-    Barone di Plessis Bellière, – esordì quello gelidamente, ignorando la domanda – siete in arresto per ordine di Sua maestà. L’accusa è di complotto ai danni del sovrano e della Francia, nonché di tentato omicidio nella persona del conte Victor Clement de Girodelle. Accusa che rimarrà tale per poco prima di diventare omicidio, viste le sue condizioni disperate … -
-    E’ stato un incidente, non volevo… Non voleva …
-    Non tentate di discolparvi! I fatti parlano chiaro. Il rapporto intrattenuto con la spia è confermato dalla servitù dei Jarjayes e per quanto riguarda il vostro amico … è incosciente, non potrebbe difendervi neppure volendo, cosa di cui dubito. Sappiate inoltre che i medici si sono espressi negativamente sul suo stato: Girodelle sta morendo e voi, per me, siete già il suo assassino. Portatelo via!
-    Dove mi state portando?
-    Andrete a tener compagnia alla vostra amante alla Bastiglia. Un gesto di compassione prima della inevitabile condanna per entrambi, Plessis Bellière!

***

Aveva temuto di poter crollare.
Sotto l’esame di un giudice, di una commissione. Sguardi di disprezzo oltre che di condanna.
Per un istante, l’istinto le aveva strillato nella testa: “Salvati! Pensa a te stessa”.
Ma poi la paura era passata. Vedersi con gli occhi dei suoi carnefici, vedersi con il loro disgusto, l’aveva portata a ritrovare tutta l’energia, tutte le motivazioni che l’avevano condotta a saltare la barricata.
Non era vero che non aveva nulla e nulla da perdere: aveva André e lui era tutto. Ma poteva solo pensare che sarebbe stato meglio senza di lei, che non attirava altro che guai. Sarebbe morta, portando con sé tutto quanto di negativo si trovava addosso e lui l’avrebbe dimenticata. Sarebbe tornato a vivere.
Il giudice aveva ritenuto oltraggiosa la sua reticenza e l’aveva condannata alla fustigazione per questa alterigia e alla morte per l’omicidio di Fréville e per il tradimento nei confronti della corona.
Aveva temuto ancora di cedere sotto i colpi di frusta. Pochi, ma dolorosi. Invece aveva superato anche quello.
Ora la stavano riportando in cella e all’alba dell’indomani sarebbe finito tutto.
E fu invece tra quelle mura che venne invasa dal terrore.
Perché ci trovò lui.
Le guardie la gettarono dentro, spingendola a terra, senza scrupoli o riguardi.
-    André? Ma come … Perché? … - riuscì solo a balbettare quando lui si avvicinò per sollevarla.
Un ufficiale irruppe nel corridoio antistante la loro cella, svolse un documento che stringeva tra le mani e con voce tonante iniziò a leggere la sentenza.
-    Oscar Françoise De Jarjayes e André Grandier De Plessis Bellière! In nome di Sua Maestà vi comunico che siete stati condannati per omicidio e tradimento. La pena è la morte che avverrà mediante impiccagione domattina all’alba.
Picchiò i tacchi e ripiegando il foglio se ne andò.
Oscar venne presa da brividi.
-    No …
André cercava di sollevarla da terra, impietrito davanti alla camicia lacerata sul di lei dorso che lasciava ben vedere la pelle scorticata e in alcuni punti sanguinante.
-    Oscar …
-    No … Tu non dovresti essere qui! Perché? – con uno scatto cercò di alzarsi – Guardia! Guardia! – d’improvviso sentiva la necessità di confessare: avrebbe scambiato la vita del mondo intero con quella di André.
Egli la zittì e la strinse. Sapeva bene che nulla avrebbe potuto cambiare la sentenza, ormai.
Sussurrò parole incomprensibili per quietarla, la guidò a terra, fra le sue braccia, cullandola in carezze, adagiandola fra le sue gambe, con la giacca blu a coprirle la schiena nuda e ferita. Le spiegò quindi del duello con Victor e lei non riuscì a proferir parola in merito, perché anche quella disgrazia era colpa sua.
-    Non doveva andare così tra noi … - mormorò lei tra le lacrime.
-    Shss … - la zittì carezzandole le labbra.
-    No, è la verità. C’è qualcosa di ingiusto, André. Saresti dovuto comparire sul mio cammino molto tempo prima. Se avessi avuto te al mio fianco, non saremmo qui ora. Noi avremmo dovuto stare sempre insieme, fin da piccoli. Vivere una vita intensa, travolgente. E alla fine morire insieme, perché solo con te sento di vivere.
-    E allora sarà così: tutti e due vivi o tutti e due morti.
Oscar, con un singhiozzo, allungò la mano sulle sue labbra, come già aveva fatto lui.
-    Non dire così. Saperti qui per colpa mia …
-    Dove altro dovrei essere se non accanto a te?
Si strinse a lui, piangendo silenziosa. Forse era così, forse era il destino e non gravava tutto sulla sua coscienza. Forse André sapeva mentire bene per farla sentire meglio.
In ogni caso, nulla potevano più fare.
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By crissi123 at 2012-06-24

Oscar era pian piano scivolata in un sonno agitato, più simile ad uno stato di semi-incoscienza. Parlottava e piangeva, respirava male, stringeva la camicia di lui, la lasciava, la stringeva ancora.
André le toccò la fronte: febbre. Forse per il freddo e la pioggia del giorno prima, forse per le frustate, anche se le lesioni non parevano infette. Le carezzò il capo, la guancia accaldata.
Ma in fondo, che importava: dovevano comunque morire … Anzi, l’avrebbe preferita incosciente, inconsapevole. Non sopportava di vederla soffrire.


Udì un vocione al di là della porta, un vocione conosciuto, sempre più nitido man mano che si avvicinava al cancello in ferro dell’ala dove erano ospitati.
-    Grazie, amico! Allora giovedì ci vediamo alla locanda per due boccali in compagnia! Davvero, mi fa molto piacere che tua sorella si sia sposata!
-    Hai cinque minuti, Alain, non uno di più – rispose quello con aria severa.
Alain restò buono e sorridente finché il carceriere non richiuse il cancello e si allontanò, quindi si avvicinò veloce alla cella.
André fece scivolare con cautela Oscar sulla paglia, si alzò e si avvicinò all’inferriata.
-    Alain, che ci fai qui?
Il colorito dell’amico non era dei migliori e la baldanza ostentata parlando col carceriere era completamente svanita.
-    Come sarebbe “che ci fai qui?” – esclamò – Tu, che ci fai qui!? Sono venuti in caserma, hanno perquisito il tuo ufficio; D’Agout ha chiesto spiegazioni e gli hanno detto di Girodelle, che è morente.
André chinò il capo.
-    Non hai colpa: è andata così. Poteva accadere a te. E poi Girodelle è “morente”, non morto: non è colpa tua se riccioli d’oro è delicato!
André lo guardò di sbieco, sorridendo appena per il tentativo maldestro di fare umorismo.
-    Ho ingannato un amico. Il mio silenzio ha peggiorato le cose. E’ colpa mia. Ma come hai fatto ad entrare?
-    Sono uscito un paio di volte con la sorella del tizio qua fuori. Gli ho detto chiaramente che tu ed io traffichiamo con le derrate del reggimento e non so dove nascondi la mercanzia, quindi dovevo parlarti. Gli ho promesso una parte e non ha fatto storie … Sai, un bellimbusto imbranato gli ha messo incinta la sorella e lui deve mantenerli tutti.
-    Finirai nei guai!
-    I tuoi sono più urgenti. Ho parlato coi ragazzi e sono d’accordo: troveremo un modo per farti uscire!
-    Alain, no. Ho vissuto fregandomene di tutto, mi sentivo un re, amavo e lasciavo. Aveva ragione Marie: la vita è qualcosa di più delle notti di Versailles. Ho gettato il mio tempo quando al mondo c’era lei e dovevo solo cercarla: lei la mia vita. Ora l’ho trovata, la sto perdendo, nulla avrebbe più senso senza di lei. Anni fa, ho ricevuto una fortuna e non l’ho saputa utilizzare. Tu sarai migliore di me, ne farai buon uso e magari i Blessis Bellière non finiranno con te.
Alain sgranò gli occhi, preoccupato.
-    Che intendi dire?
-    Ho monetizzato quel che ho potuto: tutti i documenti necessari al passaggio delle proprietà e del titolo sono in una cartella di cuoio nello studio, in casa. Vacci prima che le guardie saccheggino la villa e mi privino di questo mio diritto. Da oggi sei legalmente il nuovo Barone di Plessis Bellière.
Lo sguardo di Alain si incupì ed il volto cominciò ad assomigliare ad un vulcano sul punto di eruttare.
-    Ti-sei-bevuto-il-cervello?! – tuonò – Io non ti permetto di farti ammazzare e compiere pure un grande gesto! Ti ho perdonato l’amicizia col damerino, André! Ti ho anche compreso quando ti sei perso dietro alla bionda che, te lo concedo, ha un arsenale di tutto rispetto, ma fare di me di nuovo un aristocratico, dopo tutto il letame che da anni spando sulla categoria, no, questo non te lo permetto!
-    Non voglio sentire obiezioni: hai una madre ed una sorella cui pensare. Il mio destino è deciso, il tuo è ancora da scrivere. Sei stato un amico impareggiabile, Alain. Porta un saluto ai ragazzi ed un bacio alle signore da parte mia. – aggiunse tornando a sedersi accanto ad Oscar, mentre Alain, senza parole, piangeva come un ragazzino messo alle strette da quella scelta irrevocabile.
-    Alain! I cinque minuti sono passati, devi andartene! – gli intimò il carceriere.
Le mani di Alain ancora strette alle sbarre, scivolarono piano sul ferro.
-    Lo sapevo che per lei ti saresti fatto ammazzare. – mormorò – Stupido romantico … - borbottò piano allontanandosi, portando la mano al berretto in un ultimo saluto al capitano. – Sei uno stupido romantico, André ...
André riprese Oscar tra le braccia e, rassegnato, si preparò a trascorrere la sua ultima notte.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso, quando il cancello in ferro si aprì di colpo facendolo sobbalzare.
Entrarono due uomini.

Uno prese ad armeggiare con il mazzo di chiavi per aprire la cella mentre l’altro immobile, ben piantato sui piedi, li fissava con uno sguardo gelido, accentuato da due occhi di un azzurro intenso, degni di un angelo ma con una espressione che mise André in allarme.
La serratura scattò e i visitatori entrarono uno dopo l’altro nella cella.
Non erano ben vestiti, ma i modi di fare non parevano quelli di due miserabili addetti alla prigione.
Quello dallo sguardo determinato, portava una giacca posata sulla spalla ed un sacco tra le mani. I capelli chiari, forse biondi, un po’ più scuri, sciolti, gli incorniciavano il volto, toccando appena le spalle, e contribuivano a rendere più penetrante lo sguardo fisso su André, come a volerlo sfidare.
-    Spogliala! – ordinò all’improvviso al compare – E facciamo in fretta!
André la strinse più a sé, terrorizzato, immaginando che il peggio, che ancora non le era stato riservato, stesse per accadere.
-    Non sprecare energie! Così ci fai solo perdere tempo e non cambierà ciò che dobbiamo fare. – disse l’uomo dallo sguardo affilato, sbattendolo al muro e bloccandolo lì, mentre l’altro gli portava via Oscar, intontita dalla febbre.
 Si immobilizzò, impaurito più per Oscar che per sé stesso, terrorizzato dalla consapevolezza di non poter far nulla per fermarli.
Tentò ancora una reazione, ma l’altro lo bloccò premendogli l’avambraccio sul collo.
-    Tanto coraggio … fuori luogo. – mormorò il carceriere. E la frase sibillina, incomprensibile portò André a fissare l’uomo negli occhi in modo interrogativo, mentre questo, con la mano libera, lanciava il sacco all’altro impegnato a spogliare Oscar, che, incapace di reagire se non con deboli “no” e qualche schiaffo privo di forze, dovette lasciar fare.

***

Alla fine era arrivata l’alba del loro ultimo giorno.
8 settembre 1784.
I due carcerieri li stavano guidando fuori, nel cortile della prigione, dove erano stati approntati un palco per le autorità e la struttura per l’esecuzione.
Oscar a malapena si reggeva in piedi. Entrambi avevano le mani legate dietro la schiena. Indossavano delle giacche informi sulle larghe camicie portate disordinatamente fuori dei calzoni.
Oscar si poggiò al suo braccio con la fronte.
-    Se avessi saputo prima cosa avrei perso … - mormorò.
André sorrise per quella sua incapacità nel pronunciare due semplici parole.
-    Sì, anch’io ti amo.
-    Hai … paura? – mormorò Oscar mentre anch' egli fissava i due cappi penzolare nel mezzo del cortile davanti a loro.
André annuì.
-    Mi piacerebbe svegliarmi domattina, senza sapere cosa mi capiterà, chi incontrerò, dove mi troverò … (*) – cominciò.
-    Imparare ad accettare la vita come viene, così ogni singolo giorno avrebbe il suo valore.(*)  – aggiunse Oscar – André, e … se invece…?
-    Non pensarci. – la interruppe. Sì voltò e le sorrise mestamente. – Siamo insieme, Oscar. Mi dispiaccio per tante cose: per il tempo buttato, per il male causato, ma non per essere con te.
Il commissario dal palco fece un cenno e le guardie li spinsero in avanti.
Salirono al patibolo, uno dopo l’altra, preceduti e seguiti dai loro boia che infilarono loro i cappi attorno al collo.
-    Tutti e due vivi… - sorrise lui guardandola un’ultima volta.
-    … o tutti e due morti - rispose lei.
Una lacrima le solcò la guancia per quel gioco da re, sfuggitole di mano il giorno stesso in cui si era innamorata, perché non poteva esserci spazio per l’odio con André nella sua vita. Si rammaricava di essersene accorta quando oramai era troppo tardi.
I respiri si fecero più affannosi quando i carnefici si fecero ancora appresso; nuvolette di vapore per il freddo diventarono più dense sulle loro labbra.
Il boia ed il suo aiutante infilarono loro i cappucci sul capo e, armeggiando sotto il bordo di questi, strattonarono la corda per verificarne la tenuta, per esser certi che fosse ben stretta. Entrambi i condannati si agitarono,  un apparente ultimo istinto di sopravvivenza ben sapendo quanto fosse inutile, ma i carnefici li costrinsero a calmarsi.
Ci fu uno scambio di sguardi tra il boia dagli occhi azzurri ed il commissario, circondato da pochi testimoni. Quindi un cenno di assenso.
Le leve vennero tirate, le botole si sganciarono ed i corpi caddero giù, appesi nel vuoto.
Nel silenzio innaturale, tra quelle fredde mura, un lugubre corvo gracchiò e si alzò in volo, libero.

Era finita.
Tutto aveva trovato il suo principio e la sua conclusione in poco meno di un’ estate. Poche settimane frenetiche in ascesa e 48 ore in rovinosa caduta.
Era il destino di chi si atteggia a re: salire fino alla cima e cadere.
A volte.

 
- continua

* frasi “rubate” a “Titanic”

 
 
Nooooooooooooooooooooooooooooooooooo! :$
Eppure … sì.
O no?
Continua? Sì, continua!
Perché continua? Come continua!?
Eppur … continua: la mongolfiera dovrà pur servire a qualcosa, no?
Leggere per credere! …
Il prossimo capitolo però è davvero l’ultimo :D … e spero di non metterci un’eternità.
Grazie per la pazienza.

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Capitolo 18
*** Fine dei giochi ***


I re del mondo cap. 16 Fine dei giochi
Cap. 16, epilogo: “Fine dei giochi”




Versailles, pomeriggio del  10 settembre 1784 nell’appartamento dei Girodelle

Beatrice non aveva smesso di piangere un istante da quando il fratello era stato ferito tre giorni prima, ma poi, vinta, era crollata tra le braccia di Natalie che sommessamente recitava incessantemente il rosario.
Victoire uscì mesta dalla stanza della madre, per la quale il dolore era stato troppo forte: alla notizia del ferimento del figlio aveva avuto un grave malore e solo ora, diversi giorni dopo, poteva dirsi fuori pericolo.
Sfatta e pallida, guardò i familiari raccolti nel salotto inondato dal sole del pomeriggio di tarda estate; le sorelle ed il padre e per ultima lei, Camelia, l’intrusa.
Mentre tutti si erano disperati in quei giorni nei quali Victor era stato come morto, lei era sempre stata silenziosamente presente, nonostante nessuno le rivolgesse la parola oltre il dovuto od il necessario.

Camelia, l’amante tollerata, forse un poco temuta.
Se ne era rimasta in disparte,  lei: discreta, ma vigile, attenta all’andirivieni dei medici di corte, attenta alle parole più o meno sussurrate, alle espressioni preoccupate.
Non aveva mai oltrepassato la soglia della stanza dove Victor lottava con la morte, vigilato dalle sorelle che si davano il cambio senza mai lasciarlo solo. Si era limitata a guardarlo da lontano, tradendo l’angoscia solo tramite le dita intrecciate e nervose.
Avvolta nel suo abito a lutto, atto dovuto ma non certo sentito, si era assentata soltanto per presenziare formalmente alle esequie di Fréville. Per tutto il resto del tempo, non si era allontanata da quegli appartamenti. Attendeva come tutti, un cambiamento.
Il fatto che si trovasse lì, era già quello uno scandalo, ma a Guillome de Girodelle questo non interessava. Era bastato uno sguardo scambiato con quella donna per intendersi: qualunque chiarimento poteva attendere. Si era limitato ad inclinare il capo di lato e a cederle il passo. Non accettata, tollerata, significava, ma tutti si sarebbero adeguati alla decisione del capofamiglia e nessuno l’avrebbe cacciata.
Anche Camelia si era adattata alla loro freddezza. Li comprendeva, ma non aveva intenzione di vergognarsi di esser lì.
L’ultimo suo interesse erano i pettegolezzi recitati a mezza voce alle sue spalle, lì come in tutta Versailles,  riguardo la vedova non affranta. Lei sopportava tutto stoicamente, forte di conoscersi, forte di sapersi nel giusto, forte di avere a cuore soltanto lui.
Non un capello fuori posto, non una lacrima, non un qualunque segno di cedimento in pubblico.
Una donna di ghiaccio, la giudicava Victoire squadrandola da lontano. Evidentemente il suo povero fratello aveva un debole per donne di quel genere, ragionò; ma non aveva la forza di criticare, nemmeno ci voleva pensare. Importava solo che lui ce la facesse. E questo accumunava tutti loro.
Di André, dopo tutte le falsità circolate senza averlo potuto difendere, dopo le verità venute a galla, nessuno voleva parlare, ma la sensazione era di aver perso due fratelli grazie a quella Jarjayes.
Victoire si avvicinò alla stanza del fratello, dove il padre assisteva il figlio durante l’ennesima visita di un medico.
Nella notte appena trascorsa, la febbre aveva toccato il culmine per poi ridiscendere improvvisamente e stabilizzarsi a valori accettabili, riaccendendo le loro speranze.
Verso l’alba Victor aveva aperto gli occhi, chiedendo acqua; solo pochi istanti di lucidità prima di crollare di nuovo nell’incoscienza. Ma il medico lo aveva visitato ancora: la ferita non aveva leso organi e ciò era già un miracolo; i battiti erano normali, così pure il respiro. Stava migliorando.
Nel pomeriggio aveva riaperto gli occhi ed era rimasto cosciente, vigile sebbene ancora confuso.
Il dottore uscì dalla stanza, richiudendo la porta dietro a sé, e si rivolse al padre che gli si era fatto più vicino insieme a Victoire.
-    La ferita è in buone condizioni. La cicatrizzazione è iniziata, non ci sono segni di infezione. E’ ancora molto debole, ma il fisico è resistente. Ha perduto molto sangue, ma il suo organismo sta recuperando. Potete fargli preparare qualcosa di leggero, un brodo, tanto per cominciare. La convalescenza sarà lunga, ma possiamo ben sperare. Ha detto di non avere appetito, ma credo che il motivo di questa inappetenza non sia da cercare nella sua salute fisica quanto in quella spirituale. Ha chiesto di voi e … del suo amico. – aggiunse mestamente guardando il conte direttamente negli occhi.
Guillome de Girodelle si fece forza: doveva raccontare la verità a suo figlio. Temporeggiare poteva solo peggiorare la situazione; inoltre, Guillome non era mai stato abile con le menzogne, neppure quelle dette a fin di bene: si sarebbe tradito.
Strinse fra le sue la mano che la figlia gli aveva posato sul braccio, preoccupata.
- Meglio che lo sappia da me e che lo sappia subito – le disse.
Entrò nella stanza in penombra perché persiane e tende erano state riaccostate per tener fuori il caldo umido ed opprimente di un qualsiasi pomeriggio a Versailles, in quel periodo che non era più estate, ma che non pareva ancora intenzionato a farsi riconoscere come autunno.
Si avvicinò a Victor, cinereo, esausto, in un bagno di sudore.
-    Come stai, figliolo? – chiese posandogli il palmo sulla fronte. Gelato era il suo ragazzo a quel tocco, come se la morte gelida e crudele lo stesse cingendo ancora a sé e Guillome rabbrividì.
-    Sono stato peggio quella volta a Marsiglia, signore …  – ironizzò Victor parlando con un fil di voce di quando da piccolo era stato male per aver mangiato del pesce poco fresco.
Il tocco del padre scese sulla guancia, scostandogli affettuosamente una ciocca appiccicosa di capelli umidi.
Sorrise al ricordo dello scampato pericolo di allora, il primo viaggio fatto col suo primogenito, una “cosa da uomini”, gli aveva detto.
-    Niente più zuppa di pesce … - promise.
-    Padre, dov’è André? … Ho ricordi confusi, padre, ma … Non è colpa di André: sono stato io a sfidarlo, lui si è solo difeso. E per Oscar … Fréville se l’è cercata. Vi prego padre, devo parlare con Sua Maestà, devo spiegare, devo aiutarlo … devo aiutarla … Padre …
Guillome de Girodelle lo aveva lasciato parlare quel tanto perché si sfogasse, ma dopo poche frasi non ce l’aveva più fatta ed aveva distolto lo sguardo.
-    Figlio mio, la verità è che …
-    La … verità? – balbettò Victor intimorito dal tono.
Anche lui, nelle ultime parole che gli aveva rivolto, aveva chiesto la verità ad André, ma in quel momento non era certo di volerla udire da suo padre.
-    Eri stato dato per spacciato, ti era anche stata data l’estrema unzione, figlio mio e Sua Maestà ha voluto impartire una punizione esemplare, per coloro che tramano contro la corona e per i nobili che si macchiano del sangue di altri nobili. Mi spiace, ragazzo: sono stati condannati entrambi e giustiziati all’alba di due giorni fa.
Victor si lasciò affondare nei cuscini, portando una mano al centro del petto, dove un dolore acuto gli fece scordare per una attimo il pulsare della carne lacerata.

Guillome lo prese per il viso e con decisione lo richiamò al dovere, quel dovere che vieta ad un soldato, ad un uomo, ad un nobile, di mostrare dolore e debolezza. Una delle tante maschere degli esseri umani.
-    Victor … Più ci si avvicina al sole di Versailles, più è facile restar bruciati. Ci sono i vantaggi, la gloria, ma il rischio è alto. E questo è accaduto a te, figliolo. Sei salito, sei caduto. Puoi solo prendere le distanze da tutto e sperare che Versailles dimentichi le tue debolezze: amore ed amicizia.
Lo abbracciò con affetto, piangendo con lui. Quindi lo lasciò solo con tutte le sue ferite per le quali come padre non poteva far nulla.

Nell’anticamera Camelia parlava con un uomo alto, dai capelli rossi, chiari, quasi biondi, dagli occhi di un azzurro pallido, fresco, ma con una luce di determinazione sul fondo; egli si zittì quando il vecchio conte Girodelle gli passò accanto. Un affrettato ma composto e cortese saluto, scambiato tra loro, ed il riservato e silenzioso gentiluomo sparì.
-    E’ andato tutto nel migliore dei modi. – riprese l’uomo parlando inglese - Il mio aiutante è già arrivato al punto di incontro ed io lo raggiungerò sulla via per Le Havre, quindi prenderemo il mare. La staffetta incaricata di consegnare i documenti sottratti a Fréville insieme ai disegni esecutivi della mongolfiera, ha riportato questi per voi.
Le consegnò una busta ed un piccolo astuccio. Ella guardò i sigilli apposti su entrambi e spalancò gli occhi.
-    Direttamente dal suo ufficio! – esclamò incredula.
L’uomo annuì.
Camelia spezzò la ceralacca della busta e lesse.
Una lacrima le scese sul volto.
-    Voi conoscevate il contenuto di questo dispaccio, Scott?
L’inglese sorrise.
-    Lo leggo ora sul vostro volto, Camelia. E sono felice per voi.
-    Sono libera. – disse incredula, come destata da un brutto sogno.
Aprì l’astuccio di velluto porpora. Lì poggiata sul fondo avorio, una medaglia al valore a nome di Lord Ross William Chatwell, ufficiale di Sua Maestà Giorgio III, perito compiendo il suo dovere. Un uomo di valore, un uomo pulito.
Scott le prese le mani.
-    Un ultima cosa … - sentì che depositava una chiave nelle sue. – Fuori città c’è una casa che abbiamo utilizzato come base. Nelle cantine c’è un forziere …- lo sguardo di Camelia si allarmò – Beh, nessuno mi aveva ordinato di recuperare altro oltre ai documenti, quindi … - sorrise – lo sporco denaro della corruzione di Fréville, spendetelo tutto per voi… e per lui!
Sorrise, facendole l’occhiolino.
Quell’uomo era incorreggibile, pensò Camelia.

-    Ma e i piani di D’Eon?
-    Questa è un’altra storia, Camelia, un problema mio che risolverò vedendomela col complice ingrato di Oscar che se ne è fatto padrone. – sorrise ancora Scott, pregustando il brutto tiro in preparazione per Bernard. – Intanto abbiamo la lista con i contatti di Fréville, che non saranno più un pericolo per i nostri uomini; abbiamo la mongolfiera, o quel che ne resta, - specificò con una leggera smorfia buffa - da trattare col Cavaliere Nero. Il vostro compito era di spiare il marchese e fornirci elementi per annientarlo insieme alla sua rete, quindi è terminato. Sapete che non ero d’accordo con quanto vi era stato proposto dal nostro ambasciatore. Io non vi avrei mai permesso di … - non riuscì a trovare parole decorose per definire la decisione di Camelia di sposare Fréville e distolse lo sguardo, che rialzò su di lei dopo qualche istante – No, non ve lo avrei permesso, perché tengo a voi, ma così facendo vi avrei impedito di salvare tante vite che quel mostro avrebbe annientato. Camelia, ora dovete dimenticare!  Pensate solo a vivere la vostra vita, visto che Dio vi concede un’altra possibilità. – ed indicò Victor, appena visibile nel riflesso di uno specchio, che aiutato da un valletto veniva sollevato sui cuscini del suo sontuoso letto.
-    Vi auguro ogni bene, amica mia. So che anche Ross lo vorrebbe.
Camelia lo guardò rattristita, sentendo tutta la tensione degli ultimi giorni e degli ultimi mesi scivolarle lungo le membra, come una maschera che non serviva più.
-    Portate il mio abbraccio a Virginia ed un bacio ai vostri figli. Mi mancherà la vostra amicizia, Scott.
Le baciò la mano, galante, rispettoso. Ma ella lo abbracciò d’impeto, incurante di quanta etichetta avesse infranto col gesto.
L’abbracciò perché quello era quasi certamente un addio definitivo all’amico di una vita che scompariva definitivamente; la vita in cui era stata giovane, ingenua, superficiale e felice.
Il capitano Scott Baker, strizzò ancora l’occhiolino impertinente e rivolgendole un ultimo sorriso, si volse e si allontanò.

 
Camelia rientrò nel salotto dei Girodelle e lo trovò stranamente vuoto. Sapere che Victor stava realmente meglio aveva allentato la tensione generale.
Beatrice e Natalie si stavano occupando della madre nella stanza di lei, mentre Victoire, nello studio del padre, ascoltava dal dottore le raccomandazioni riguardo la convalescenza del fratello.

Nessuno badava a lei. Sostò davanti ai finestroni che davano sul parco: perfino l’aria non era più calda come prima e non giungevano odori sgraditi, tipici della reggia; anzi, stranamente dal parco arrivava un profumo, quello degli ultimi fiori d’estate portato dal vento serale. Percepì uno sguardo su di lei e guardò di nuovo dentro la sua stanza. Dalla penombra Victor la osservava.
Entrò, per non rimandare ciò che non poteva più esser rimandato, e dimezzò la distanza tra loro.

-    Mio padre ha detto che sei sempre stata qui – mormorò lui con un fil di voce.
Camelia respirò profondamente. Ormai era senza maschera, più che nuda davanti a lui come mai era stata.
-    Vuoi che ti apra le persiane? L’aria sta rinfrescando … - temporeggiò.
Victor annuì. Non era facile per lei tornare a fidarsi di qualcuno e ancor meno mostrarsi in tutta la sua debolezza, quella della vera sé stessa.
La guardò muoversi di scatto verso la finestra, quasi volesse fuggire, tirare le tende con decisione e spalancare le ante delle persiane.
La luce arancio del tramonto illuminò il raso iridescente del suo abito a lutto. Era la seconda volta che vestiva di nero per la vedovanza, ma stavolta per lei il nero era il colore della libertà.
Si voltò a guardarlo, ma rimase a distanza, lì, ferma contro la luce. Indecisa.
Victor inspirò più profondamente che poté, immettendo aria fresca nei polmoni intossicati dal fumo delle candele rimaste sempre accese in quella stanza, in quei giorni.
"Camelia … Lei, novella vedova, lei non così roccia, lei giovane donna complicata …”, pensò rammentando e rivedendo quei primi pensieri su di lei.
 
-    Non dovresti trovarti qui. – le mormorò – Qui, accanto ad un reietto. Un uomo fallito. Sarà scandalo.
-    Vogliono parlare? Lasciali parlare. – risolse ella con decisione, scrollando le spalle come una bimba pronta a far capricci per nascondere la paura strisciante - Le loro frivole danze dureranno ancora poco: lascia che volteggino sui pettegolezzi se questo li diverte. Ben presto i nobili francesi avranno poco su cui ridere.
-    Quindi, hai intenzione di restare?
Non rispose subito. La mano nella tasca nascosta tra le pieghe della gonna stringeva ancora la lettera e sentì un crampo allo stomaco salirle al cuore.
Si volse appoggiandosi allo stipite della finestra ed estrasse la pergamena. Abbassò nuovamente gli occhi sulla lettera, ricordando ancora una volta la sera del natale precedente, quello in cui aveva preso decisioni che mai avrebbe immaginato di poter prendere allora.
Lesse ancora quelle righe e si domandò dove fosse finita la ragazza che c’era stata prima della Marchesa di Fréville, la vanitosa, raggiante, travolgente lady Chatwell. Si chiese se potesse un giorno tornare la stessa, ma la voce in sé le stava già rispondendo negativamente. E non era un male; stava a lei salvare ciò che di positivo aveva vissuto ed imparato in quei mesi per amalgamarlo con quanto di buono era stata prima.
Rilesse alcune parole.

Sono stato informato di quanto fatto da voi e posso garantire sul  mio onore che non solo il nome del vostro sfortunato marito, lord Ross William Chatwell verrà innalzato agli onori senza neppure il sentore dell’ingiusto sospetto, ma che nulla è più dovuto per l’impegno che prendeste col nostro paese.
Intendo accogliere la vostra richiesta, i vostri sacrifici non sono stati vani. Sua Maestà ed il regno tutto vi ringraziano.
Consideratevi sciolta da qualsivoglia obbligo verso questo paese, che continuerà al contrario ad essere in debito con voi per il vostro sacrificio ed il vostro coraggio.
Vi auguro un meritato riposo ed una vita finalmente serena.

William Pitt, primo ministro


-    Camelia? … - non gli rispose - Camì? … Non dovresti starmi vicino … - ripetè.
Lo guardò.
Aveva gli occhi rossi di pianto per André, per Oscar; cerchiati di viola, nel pallore del volto di chi è stato ad un passo dalla morte, ma Victor non provava vero rancore per nessuno, né per quello, né per altro. Solo dolore per come erano andate le cose, solo il vuoto per quella mancanza.
Egli abbassò le palpebre non riuscendo ad impedire alle lacrime di farsi strada ancora.
Camelia si avvicinò al letto. Gli prese la mano nella sua, poi con entrambe gliela carezzò.
Un giorno gli avrebbe raccontato tutto, quando si sarebbe sentito in forze, quando il tempo avrebbe messo distanza tra lui ed Oscar, tra lui ed André. Quando avrebbe potuto perdonare loro, lei e sé stesso.
Intanto gli disse una cosa, già detta in memoria di un altro che non c’era più per poterla udire. Qualcosa che sentiva profondamente e che se Victor e Dio glielo avessero permesso, gli avrebbe ripetuto fino alla vecchiaia.
-    Rassegnati, Victor… Non abbandono chi amo. – disse perentoria.

Il tintinnare di posate li distrasse.
Victoire aveva appena varcato la soglia reggendo un vassoio tra le mani.
-    La cameriera ha portato un leggero brodo di pollo come consigliato dal dottore affinché il nostro malandato Victor si rimetta più velocemente … - esordì.
Il fratello sfilò la mano da quelle di Camelia e fece un cenno di diniego alla sorella.
-    A quanto pare il nostro malandato Victor ha ancora energia per fare capricci … - commentò ironica ed un tantino acida come da sua abitudine, ponendo l'accento su quel "malandato".
Si avvicinò a Camelia che sorpresa sgranò gli occhi quando Victoire le allungò il vassoio contro il ventre, obbligandola ad afferrarlo.
-    Marchesa, a voi l’onore … o l’onere, dipende da quanto si impunterà il mio caro, capriccioso fratello.
Quindi si volse ed uscì, chiudendo la porta della stanza dietro a sé.
Camelia, leggermente interdetta, restò qualche istante immobile con l’ingombrante vassoio tra le mani. Le era parso di aver intravisto un sorriso sulle labbra sottili di Victoire.  
O forse era un ghigno ad averle increspate?
Mah, che importava? Si strinse nelle spalle e si avvicinò a Victor, sedendo sul letto e posando il vassoio sul materasso fra loro.
-    No, non lo voglio – ribadì lui quando ella avvicinò il cucchiaio colmo alle sue labbra.
-    Non ho intenzione di pregarti… Mangia.
-    Non sei ancora mia moglie … - sussurrò divertito da quell’atteggiamento dittatoriale. – E non so nemmeno se voglio che lo diventi! – aggiunse indicando l’abito nero – Non hai dei precedenti rassicuranti.
Camelia non si scompose.
-    Victor … se continui con stupidaggini simili … salto il terzo e passo direttamente al quarto! – minacciò avvicinando nuovamente il cucchiaio alle sue labbra.
Aggrottò le sopracciglia a rafforzare l’intimidazione.
Lui fece altrettanto, ma dopo un istante cedette ed aprì la bocca, rassegnato.
-    Bravo! Hai capito come devono funzionare le cose! Sarai un maritino coi fiocchi, Victor!

Dall’altro lato della porta, Victoire staccò l’orecchio dal legno, sorridendo per ciò che aveva origliato.
In fondo i gusti di suo fratello non erano pessimi come aveva pensato, si disse.
Andò al balcone e si poggiò alla balaustra in pietra rimanendo immobile per qualche istante.  
Portò quindi le mani sulla chioma e sciolse i lunghi capelli castani che aveva raccolto alla bene meglio sul capo lasciando pochi boccoli a ricadere sulle spalle e permise che la brezza li carezzasse, percorrendoli tutti, dando loro volume come se scomposti dalle dita di un amante; da tanto non si permetteva di fare un cosa del genere, una cosa da ragazzina. Chiuse gli occhi e lacrime calde scivolarono sulle guance, lungo il mento, lungo il collo, sul petto, tra i seni. Si raccolsero lì, nell’incavo. Victorie infilò due dita nello scollo del corpetto ed estrasse un nastro blu che lì teneva nascosto da anni, un nastro dove le sue lacrime si erano fermate. Lo stesso nastro che Andrè aveva lasciato nel suo letto quando aveva fatto l’amore con lei, tanto tempo prima.
Non era stata la prima volta per nessuno dei due, lei era anche già sposata e madre; ma era stato quanto di più vicino al primo vero amore, rimasto tale, immutato anche se solo per lei.
André era stato sempre affettuoso, attento, perfetto, ma non si era mai realmente innamorato, non di lei, non di altre; pareva attendere qualcosa del quale non era cosciente; attendeva qualcuno.

Victoire aveva capito che l’attesa di André era finita quando aveva conosciuto Oscar; aveva seguito l’altra metà del suo cuore e con lei era morto .
Intrecciò il fiocco fra dita, lo sfilò piano godendo il solleticare del tessuto sulla pelle sensibile, tenendolo poi con due dita per una estremità e lo lasciò ondeggiare nel vento.
Finché c’è vita c’è speranza, si era sovente ripetuta; e lei aveva sperato sempre, pur non avendone diritto, fino a quel momento.
Ora non restava nulla, null’ altro che un’ombra nella memoria, che sarebbe impallidita col tempo, impalpabile, inafferrabile come il vento ed al vento affidò quell’ultimo ricordo di lui.

 


Parigi, due giorni prima, all’alba

I corpi erano rimasti appesi quindici minuti, il tempo di sincerarsi che i condannati fossero spirati.
Uno dei due boia tastò sulla giugulare e scosse il capo verso il commissario a confermagli che nessuno dei giustiziati presentava più battito.

Allora, l’incaricato di sua maestà fece cenno di rimuovere i cadaveri, cosa che doveva essere un segno di rispetto alle famiglie nobiliari, invece della pubblica ostentazione per giorni dei corpi come veniva solitamente riservato ai comuni malfattori.
I due carnefici sfilarono le corde lasciando scivolare i  corpi a terra con insolita delicatezza. Sfilarono loro cappi e cappucci, li caricarono sul carretto scoperto e subito li coprirono con un telo lurido, ma pietoso.

Il carro lasciò la prigione e percorse le vie semideserte della città. Solo qualche ubriaco dallo sguardo perso, qualche signorina che rientrava dopo una notte di duro lavoro, gruppetti di nobili giovanotti ubriachi e chiassosi, come unici testimoni di quel viaggio.
Per Oscar ed il suo Andrè c’era solo lo scricchiolio del legno secco del misero, stagionato veicolo, delle sue rigide ruote rivestite con una lamina di ferro che stridevano sull’acciottolato.
Il carretto varcò l’ingresso del Cimitero degli Innocenti, che sarebbe stato chiuso definitivamente da lì a poco per motivi sanitari, più che evidenti all’olfatto.
Passò tra lugubri cappelle antiche, misere tombe in terra, croci in ferro, lapidi, fino ad arrivare ad orrende e nauseabonde fosse comuni, delle quali una era ancora aperta. Accanto a quella gli spalatori, ormai insensibili al fetore che li circondava, attendevano immobili. All’arrivare del carro si alzarono in piedi dai ceppi e non si sarebbe potuto dire se fossero loro a regger le pale o gli arnesi a regger loro.
Ma il conducente senza un cenno di saluto, passò oltre, lasciandoli stupiti anche se non realmente sorpresi. Dopo un attimo di smarrimento, tornarono a sedersi. Ormai nulla di ciò che accadeva in quel campo di silenzio e di orrore li toccava più.

Le ruote del carro, urtarono il cordolo di una tomba. Uno dei due corpi si mosse. Un movimento apparentemente involontario, ma quello successivo non lo fu.
Oscar scalciò via il telo che copriva i loro corpi, respirando come in un singhiozzo, respirando come colui che sta per annegare e miracolosamente riguadagna la superficie. Inspirò tutta l’aria che poté e, gemendo di dolore, si tastò il collo abraso dalla ruvida canapa del cappio, quindi si toccò una spalla, poi l’altra; scese giù sull’addome, sui fianchi, le cosce, l’inguine …  Tutto doleva. E poi quel pensiero, terribile, spaventoso si impadronì di lei.
Si gettò sul corpo immobile che le giaceva accanto.
Nessun alito proveniva da lui, nessun vapore nell’aria fredda davanti alle sue labbra, alle sue narici. Si chinò quindi sul torace sul quale aveva riposato serena per tutta quell’estate; lo fece ansiosa, realmente spaventata come mai in vita sua.
Rimase qualche istante ad ascoltare, ma il pulsare della propria agitazione le impediva di udire quel rumore, il solo che avrebbe potuto calmarla. Chiuse gli occhi, mentre il terrore di averlo perduto le strappava un singhiozzo. Ma improvvisamente riconobbe un battito, un altro, un altro ancora: deboli ma regolari, sempre più distinti.
Si permise di piangere senza ritegno per il sollievo, beandosi del suono rassicurante di quel cuore mentre il suo accelerava. Si sollevò su di un gomito, gli scostò la camicia dal petto. Restò ad osservare gli stessi segni rossi suoi, sul collo, più marcati perché lui era più pesante ed era stato più vicino alla morte per questo.
Carezzò le abrasioni sulla pelle e le sottili corde di resistentissima seta bianca e gialla, cucita ed intrecciata, con le quali, come lei, era stato imbragato. Incisioni sufficienti a graffiare e lacerare in superficie, ma non a strappare carne e vertebre cervicali. Cercò e sganciò il moschettone sul retro del collo, nascosto dal risvolto della giacca, col quale erano stati agganciati al cappio, proprio sopra il nodo scorsoio, dimodoché il loro peso non gravasse sulla canapa stretta attorno al collo, ma si scaricasse lungo tutto il corpo, sull’imbracatura di seta.  Era stato fatto al momento dell’incappucciamento, quando si erano agitati un po’ per confondere i movimenti dei boia, in realtà lì per salvarli.
Un inganno, un trucco degno di circensi.
Un’ architettura per la quale non le era stato detto chi ringraziare, ma un sospetto lo aveva.

Si lasciò scivolare supina accanto a lui, stringendogli la mano, sentendo le dita muoversi appena mentre lui tornava cosciente e spalancò gli occhi su quel cielo azzurro e sgombro che stupidamente non si era mai soffermata ad ammirare a dovere. Inspirò a pieni polmoni come mai più pensava avrebbe potuto fare, tutti i sensi amplificati a godere di quella rinascita e, nonostante il dolore diffuso per il contraccolpo subito quando era caduta nel vuoto, si permise di sorridere.

In pochi minuti,erano arrivati ad un altro cancello.
Una carrozza nera, priva di insegne o decori appariscenti, una qualunque corriera, attendeva solo loro. Accanto a quella, su un cavallo di pregio, stava uno dei due boia, quello con gli occhi azzurri, ma i capelli ora stavano legati in un codino e gli abiti dimessi erano celati da un pesante mantello di buona fattura. Vedendo il carro arrivare, scese e si avvicinò al conducente. Gli porse una sacchetta con il compenso pattuito. Il becchino aprì e contò una ad una le monete con esasperante malfidenza. Rivolse poi un cenno soddisfatto al signore che si poté avvicinare al retro per prelevare il suo “carico”.

Oscar si era sollevata seduta e come Andrè stava strisciando al bordo per scendere.
Restò un istante a guardare meglio lo sconosciuto salvatore, perché ora, così ripulito, alla luce del sole, aveva un’aria non nuova. Dove lo avesse visto, non avrebbe saputo dichiararlo con certezza: forse a Parigi, forse a Versailles, ma aveva l’impressione che per un po’ fosse stata la sua ombra.
-    Io … - tentò di parlare ella, con voce rauca, ma dovette bloccarsi, portando una mano alla gola e strizzando gli occhi per il dolore.
-    Non forzatevi a parlare – ordinò l’uomo dai capelli ramati, di un tono di rosso tanto chiaro da parere biondo – La gola è irritata, potreste danneggiarla irrimediabilmente. Concedete tempo alle corde vocali di riprendersi dal trauma. Qui ci sono documenti, denaro, nuove identità. – disse porgendole un plico - In carrozza troverete abiti puliti per cambiarvi.
“Ma …?”, sillabò lei muta.
-    Una nuova vita vi attende. Nei prossimi giorni vi raggiungerò e vi fornirò ulteriori dettagli. Per ora sappiate solo che a Versailles avete ancora chi vi è amico.
“Camelia …”, dissero le sue labbra.
L’uomo sorrise.
-    Sono il capitano Scott Baker, milady, per ora vi basti sapere che mi è stato chiesto di portarvi in salvo. Ora basta esitare, potrebbero vederci e sospettare.
La invitò a dirigersi alla carrozza sulla quale André stava già salendo.
Oscar si volse ancora per potergli stringere la mano e nel farlo posò l’altra sul proprio petto: “grazie”.
-    Riferirò a lei … - disse il gentiluomo inchinandosi e ruotandole la mano per poterla baciare.

Prese posto accanto ad André che sollevò un braccio per attirarla a sé.
Scott Baker fece un cenno deciso al conducente e la carrozza si avviò. Oscar ricambiò l’abbraccio di André che, baciandole i capelli, socchiuse gli occhi e si rilassò contro lo schienale, portandola con sè.
Finalmente avrebbero riposato.
Niente più re, niente più giochi d’azzardo, niente più macchinazioni. C’era voluto tempo, c’era voluto dolore, ma alla fine era arrivata dov’era giusto arrivasse.
Oscar, sentendo le palpebre sempre più pesanti, guardò un ultima volta il paesaggio familiare della città scorrere fuori del finestrino.
Si sarebbe svegliata l’indomani chissà dove, non sapendo cosa le sarebbe capitato, o chi avrebbe incontrato.
Forse, d’ora innanzi, avrebbe vissuto il resto della vita nell’incertezza. Di certo aveva solo lui, André che la stringeva a sé con l’evidente intenzione di non lasciarla più e ciò le bastava.
Qualche notte prima potevano bere champagne, forse la prossima avrebbero dormito sotto un ponte.
Fa nulla, si disse. Anche se piena di incognite, la vita era un dono, ne era cosciente e non aveva più alcuna intenzione di sprecarla, anche perché dopo tutti i piani, i progetti elaborati e falliti, dopo tutti i tentativi di manovrare la sua e altrui esistenza, aveva compreso quanto tutto fosse imprevedibile al mondo.
Non poteva immaginare che carte le sarebbero capitate in questa mano.
Ma era certa di una cosa: se lei fino a quel momento era stata una solitaria regina di spade, di sicuro il re di cuori era colui che le stava accanto.

- fine (o l’inizio, dipende dai punti di vista :D)

Il moschettone ... ufficialmente non era ancora stato inventato, ma non mi garbava l'idea di appenderli con ganci da macellaio :/ ...
Licenza! :D
Nota bene: che a nessuno venga in mente di imitare la scena dell’impiccagione (beh, nemmeno le altre) perché … ci si accoppa!

Ricordo che ho “saccheggiato” battute e pensieri oltre che dal manga e dall’anime, dai film “Maria Antonietta”, “Harry ti presento Sally”, “Titanic” e … ora non mi viene in mente se ho scordato qualcosa...Angelica! dimenticavo la marchesa degli angeli
Ricordo inoltre, che se Karmilla non avesse scritto “la dama di picche”, questa storia non mi sarebbe venuta in mente. XDD
Saluti!!!




 


 

 

 
 

 
 

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