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“Se Nanny si fosse rifiutata di accondiscendere il generale,
andandosene a servizio altrove? Se avesse lasciato Oscar tutta sola a
vedersela con l’educazione maschile imposta dal generale,
senza che né lei né di conseguenza
André, il suo punto fermo, potessero prendersene cura? Se
André da piccolo fosse stato adottato da un nobile ed avesse
mantenuto il suo carattere posato, ma spiritoso come da ragazzo? Se
Victor non avesse dovuto sfidare Oscar diventando il suo innamorato,
fedele, solitario vice? Se la bionda avesse scelto di non arruolarsi
nella Guardia Reale, ma di ritirarsi ad Arras, arrivando a conoscere
prima del tempo le condizioni di vita dei suoi contadini?
Se questi due giovani uomini, belli e sicuri di
sé, avessero saldato una strana amicizia ed Oscar
ci fosse finita in mezzo? Ovviamente, più monelli, se non un
poco libertini, in quanto ancora non conoscono la donna della loro
vita, OOC per via delle diverse esperienze in gioventù e
dello stato sociale.
“Re del mondo”, come Jack sulla prua del Titanic,
quando la gioventù rende invincibili, quasi arroganti nella
certezza di potere tutto, esponendosi di conseguenza. Tanti
“se”, una sola grande svolta.”
Titolo preso dalla omonima canzone “Les rois du
monde” dello spettacolo teatrale “Romeo e
Giulietta”, colonna sonora ideale.
Ispirato da questa immagine de “La dama di picche”
di Karmilla, riferita ad André ed a Victor:
“… dagli sguardi che riceviamo temo che stiamo
facendo la figura dei dongiovanni in cerca di una preda. Se la
situazione non fosse così delicata, ci sarebbe da riderne e
magari anche da approfittarne, chissà.”
Capitolo
1
“Moralisti… Noi?!”
25 dicembre 1755
Una villa in collina,
una delle tante costruite quando il Re Sole decise di portare la sua
luce a Versailles, un secolo prima. Le famiglie
più importanti lo avevano seguito e, come pianeti, si erano
stanziate alla giusta distanza dal loro astro. Non troppo vicine da
infastidire Sua Maestà, non troppo lontane, in modo da
poterne ammirare quotidianamente la luce che su di loro, sudditi e
figli, egli irradiava. La magione era
immersa in un parco centenario che d’estate diventava
l’invidia dell’Eden. Non sterminato, ma
estremamente curato; geometricamente preciso, ma non freddo e rigido,
lasciava spazio al colore, all’esotico e ad un non so che di
ribelle con quei due filari di rose contrapposti, rosse da un lato,
bianche dall’altro, posate dalla prima contessa che vi aveva
dimorato. La storia di
famiglia, vecchia di oltre trecento anni, diceva lo avesse fatto in
memoria delle sue origini inglesi, lei, figlia di una Lancaster e di un
York (1), fuggiti nel mezzo della guerra delle due rose, unitisi contro
il volere delle famiglie, proprio come Romeo e Giulietta. Tutto in quella casa
indicava che l’attuale proprietario teneva
all’ immagine del suo casato e alla sua personale, di uomo
rigoroso, ma al tempo stesso amante del bello.
Ed in quel momento,
pochi minuti dopo la mezzanotte, in quello che oramai era il giorno di
Natale, nella casa c’era agitazione, c’era
preoccupazione per quel momento della vita di una donna,
forse il più atteso e temuto, che per alcune può
significare anche la morte. La mano di lei
stringeva convulsamente le lenzuola madide di sudore. Non era al suo primo
parto e sapeva chiaramente che qualcosa non andava come avrebbe dovuto. “Non
c’è niente che non va”,
aveva ripetuto fino allo sfinimento il medico, ogni volta che
l’aveva visitata, ogni volta che lei aveva posto la domanda
con solo lo sguardo, perché a parole non le era permesso
aver paura. Madame De Jarjayes
non poteva mostrarsi debole. Aggraziata,
sì; elegante, sì; modesta, sì, ma
paurosa, no! Eppure lei aveva
paura. Paura di soffrire. Paura di morire. Paura per il suo
bambino. E
… paura di mettere al mondo un’altra figlia. Una figlia che lui
non voleva. Ecco cosa non andava
in quella gravidanza: non voleva che terminasse, perché se
fosse nata ancora una femmina, sarebbe stata la fine di tutto. Era
stato amore, il loro matrimonio? “Sì.” Lo
era ancora? “…
Sì.” Lo
sarebbe stato anche dopo la sesta figlia? Marguerite non voleva
doverlo scoprire.
Lui,
François Augustin Reynier de Jarjayes, passeggiava
nervosamente nel salottino della moglie; lo stesso passo svelto e
deciso di quando passava in rivista le sue truppe, ma le truppe erano
cinque bimbe nervose ed intimorite. Intimorite dalle urla
della madre, che giungevano più frequenti dalla stanza
vicina. Intimorite dal
cipiglio del padre, troppo irritato. Intimorite dallo
sguardo preoccupato che la loro governante, la loro cara Nanny, aveva
lanciato loro l’ultima volta che si era affacciata, prima ti
tornare da Madame.
Il generale De
Jarjayes si fermò davanti alla finestra e posò
entrambe le mani sulle tempie martellanti. Una creatura stava
venendo al mondo e lui riponeva in quest’essere tutto: il suo
futuro, la sua posizione, la possibilità di continuare la
vita a testa alta in quella società. Un grido di dolore,
l’ultimo, ed un vagito interruppero il martellare di tanti “e
se…?” nella sua testa. Jarjayes
tirò un sospiro di sollievo. Con passo
più incerto di prima, si portò verso la
stanza di Marguerite ed incrociò Nanny che già
gli stava portando l’ultimo nato.
-
E’ un maschio, vero! E’ un maschio
stavolta! La governante non
staccava gli occhi dal frugoletto ancora sporco di sangue e liquido
amniotico. -
E invece no: è una bellissima bambina! –
esclamò con tutto l’amore di cui era capace. Il mondo di Jarjayes
crollò all’istante. -
No… - fu il pensiero esternato e pronunciato a
labbra serrate. -
E invece sì – ribatté
testarda la vecchina, non presagendo la valanga emotiva trattenuta da
quel semplice “no”. -
Non-è-possibile… - ribadì
l’uomo sillabando. – Nella casa di un generale
c’è un assoluto bisogno di un figlio maschio
… e a me non nascono che femmine! –
sottolineò con disgusto per sé stesso. Marron
alzò lo sguardo perplesso su di lui. Lo conosceva da
sempre. Era stato” il suo primo bambino”: lo
adorava e sapeva che lui adorava lei. Perché quelle parole? Allungò
timidamente le braccia col fagottino verso di lui. Non
poteva dire sul serio, non il suo Augustin… Ma l’uomo
voltò le spalle. Troppa delusione, troppa vergogna per lui. L’ultima
dei Jarjayes, non esitò a far sentire la propria voce. Un
vagito prepotente squarciò il silenzio. Il padre sorrise suo
malgrado. -
Certo che ha dei polmoni potenti… -
mormorò. Si volse appena, guardando governante e figlia dal
di sopra della spalla. Uno sguardo che a
Nanny piacque per nulla. Si
avvicinò alla balia e fece per prendere la piccola. Nanny, spaventata
dalla luce nei suoi occhi, provò a trattenere il neonato, ma
l’uomo glielo strappò letteralmente dalle mani e
cominciò a cullarlo, mentre lo sguardo continuava a
peggiorare. -
Sì… ecco cosa
farò… Ti alleverò come un maschio: tu
sarai “mio figlio” Marron ebbe un colpo
al cuore e si portò la mano al petto. -
Ma, signore… Non potete! Lo sguardo di lui la
incenerì. -
Non-posso? … Come osi? Tu! …
dire a me cosa non posso fare! Mosse un passo verso
di lei. Marron, ne saltò due veloci all’indietro. Mai lo aveva visto
così furente. -
Se non sei in grado di rispettare il mio volere, puoi
andartene anche subito. – sibilò - Anzi,
… vattene! Crescerò da solo questo mio
figlio. Gli darò la migliore educazione, i migliori
precettori. Ci sarò io a condurlo in ogni passo della sua
vita. Sarà uomo. Sarà forte. Sarà il
mio erede. La tua presenza non è più gradita,
donna! Voltò le
spalle alla governante, cominciando a mormorare alla neonata
assurdità su un futuro nell’esercito, che a lui
pareva quasi imminente, su medaglie, onori, riconoscimenti che
l’attendevano e che avrebbero portato lustro ai Jarjayes. Per Marron,
sbigottita e senza parole, non ci fu possibilità
d’appello. Ma neppure lei avrebbe provato a chiederne, a
supplicarne uno, con quella condizione. Era innaturale, una pazzia, una
assurdità. Solo questo riusciva a pensare.
Fra gli abbracci
delle sue bambine, che l’avrebbero sempre ricordata, Marron
Glacé si congedò dalla famiglia che serviva fin
dalla tenera età. Si allontanò dalle persone che
aveva tra le più care al mondo, mentre il generale assisteva
a tutto da lontano, dietro la finestra del suo studio. Aiutata da uno dei
domestici, la donna piccola e rotondetta, si issò sul
carretto del mugnaio che si era offerto di darle un passaggio fino a
Parigi. Là, una
parente l’avrebbe ospitata finché non avesse
trovato posto come governante altrove. Avrebbe cercato un
nuovo impiego senza una raccomandazione del Generale. Non sarebbe stato
facile, ma qualcuno avrebbe capito, magari anche giustificato la sua
ribellione, perché la pazzia di
quell’uomo stava già passando di bocca
in bocca. Fu così
che Marron Glacé cambiò lavoro. Fu così
che cambiò il destino di Oscar Françoise de
Jarjayes.
Versailles, 18 giugno 1784,venerdì
“Nous
on fait l'amour on vit la vie Jour
après jour nuit après nuit A
quoi ça sert d'être sur la terre Si
c'est pour faire nos vies à genoux (2)
(Noi facciamo l’amore, viviamo la vita
Giorno dopo giorno, notte dopo notte
A che serve esser sulla terra,
Se è per fare le nostre vite in ginocchio)
Il giovane uomo dagli occhi di smeraldo sorrise alla cameriera che
l’aveva riconosciuto e ne carezzava i lineamenti con lo
sguardo.
- Lui c’è?
– chiese, indicando la porta chiusa della camera da letto.
- Sì, ma … non
è solo… - bisbigliò la fanciulla,
arrossendo.
- Chissà perché non
ne sono sorpreso, Marie… - rise piano e, strizzando
l’occhio, le fece segno di non parlare, col dito
davanti alle labbra.
Premette sulla maniglia della porta, l’aprì appena
e, nella penombra, intravide un campo di battaglia.
Bottiglie di vino, due calici, due corpi indistinti nel grande
letto…
Traversò la stanza diretto alle grandi finestre, attento ad
evitare gli abiti sparsi al suolo e tirò d’un
colpo le tende.
- Miseriaccia, Marie! –
borbottò il giovane nudo fra le lenzuola, coprendosi gli
occhi con una mano per ripararsi dalla luce che lo colpì in
pieno.
- No, non sono la tua povera
cameriera… - mormorò l’altro.
Alzò un poco la testa ed aguzzò lo sguardo per
distinguere la figura stagliata come una sagoma scura contro le vetrate
luminose.
- Maledizione, Grandier … che
ti salta in mente di svegliarmi all’alba! –
bofonchiò ricadendo col capo sul cuscino, dopo aver
riconosciuto l’amico in uniforme blu.
L’altro sorrise.
- Prendo nota che alla prima occasione ti
regalerò un orologio funzionante, Victor …
E’ quasi mezzodì.
- Ossignoresantissimo … che
notte… - borbottò portandosi una mano alla fronte
dolorante.
Si lamentò un paio di volte. Prese respiri profondi, quindi,
facendo appello agli addominali di tutto rispetto, si alzò
seduto e, senza cerimonie, tirò il lenzuolo tutto dal suo
lato, per avvolgercisi.
- Beh, complimenti … -
mormorò il moro, non potendo non ammirare le forme
interamente svelate della giovane donna addormentata. Si
avvicinò all’amico ancora ammirando la bella
distesa prona, leggermente obliqua, col viso celato da una marea di
morbidi ricci nerissimi, tanto lucidi che parevano dare riflessi blu.
- Miseriaccia! …
André, ma quanto puzzi!? – esclamò
quello turandosi il naso quando l’ufficiale gli fu abbastanza
vicino. Allungò velocemente una mano al comodino, dal quale
prese uno dei suoi fazzoletti profumati e lo inspirò
intensamente, guardando malamente l’amico.
- Ho dovuto sedare una rissa tra i miei
soldati ed il mio sergente mi ha vomitato addosso… -
spiegò André stringendosi nelle spalle.
- Dovresti piantarla di uscire con quel
buzzurro …
- Già, perché
sedare le risse degli ubriachi nelle osterie, quando potrei occuparmi
delle tue di sbronze, vero? Victor, che direbbe tuo padre se ti vedesse
… in queste condizioni! – ed
indicò con un ampio cerchio di mano la stanza, puntando alla
fine il dito su di lui.
- Ti prego … non
urlare… - disse quello premendosi le tempie fra le mani,
percependo il bisbigliare quasi fosse chiasso da mercato - E poi
è grazie a mio padre se mi sono sbronzato e sono finito a
letto con … Chi è? –
André girò attorno al letto, sollevò
un poco i ricci scuri della giovane donna e spalancò la
bocca come una trota, alzando gli occhi allarmati sull’amico.
- L’hai fatta grossa
…
- Chi è? – chiese
ancora, impensierito.
- La moglie di Fréville..
- La marchesa di
Fréville?… Ossignoresantissimo … -
imprecò sinceramente preoccupato.
- Guarda che stavolta non ti faccio da
padrino… - si premurò l’amico,
allungando un palmo ritto davanti a sé, a rafforzare
l’avvertimento. Rammentava chiaramente com’era
finita l’ultima volta che si erano trovati in un pasticcio
simile e solo per pura fortuna non erano finiti nei guai, visto che il
duello era vietato in Francia, ufficialmente.
- Beh, almeno non potrà
pretendere nozze riparatrici appena sveglia… - si
rassegnò l’altro, che cercava sempre di trovare il
lato meno nefasto di tutto.
Si riprese il capo tra le mani e posò i gomiti sulle
ginocchia, avvilito, mentre i lunghi capelli ondulati gli ricadevano ai
lati del volto; ma era evidente che ad angosciarlo non era il feroce
doposbornia in arrivo e neppure la possibilità di un duello
d’onore col marchese di Fréville.
- Cos’è accaduto con
tuo padre?
Victor si alzò accompagnandosi con un sospiro, restando nudo
accanto al letto e, con aria completamente persa, cominciò a
guardarsi intorno in cerca della veste da camera.
André la vide abbandonata sopra una chaise longue, la
raccolse e gliela lanciò.
- Ti prego … La vista dei tuoi
“gioielli” di prima mattina è
… deprimente!
- Non hai detto che è quasi
mezzodì?… - riuscì ad obbiettare,
ancora confuso.
- Ho mentito… Dicevamo di tuo
padre!
- Vuole che mi sposi. –
confessò, faticando ad infilare la seconda manica.
- Io? Con te!!! –
esclamò il moro per testare la lucidità
dell’amico.
- Ma.. io! C’io mi sposi!
… con una donna! … Smettila di prendermi in giro!
– borbottò, annodando con un gesto secco la
cintura.
Si recarono nel salotto a fianco, per parlare con più
libertà, ed Andrè richiuse la porta della camera.
- Victor, mi sembra naturale. Sei il suo
erede, la tua è una famiglia importante e se vuoi fare
carriera nella Guardia Reale …
- Da quando dai ragione a mio padre?
– lo interruppe, accostando una tenda per ripararsi da tutta
quella dannata luce.
- Ho sempre dato ragione a tuo padre.
Divertirsi va bene, ma stai andando alla deriva, Victor! –
sottolineò accennando a sedersi su di divanetto di un
delicato verde acqua.
Victor lo gelò con lo sguardo: “non provarci nemmeno
a sederti lì con quella lurida uniforme addosso”,
pareva ordinargli.
- Solo perché colgo i fiori
che mi si offrono? – ribatté.
- Hai bisogno di una donna, Girodelle.
Una sola e, possibilmente, non sposata con qualcun altro. –
spiegò lasciandosi cadere sul sofà, incurante
della minaccia.
- Sei l’ultimo che
può farmi prediche. – ribatté,
doppiamente stizzito, l’altro - Che fine ha fatto la piccola
contessina?
- Non ha funzionato… - rispose
semplicemente il moro, allungando una mano sul vassoio di paste appena
sfornate procurato dalla premurosa Marie non appena lui era arrivato.
- Grandier …
C’è solo una cosa di te che deve “funzionare”…
- commentò l’amico indicando le sue parti basse
– Mettitelo in testa o fatti frate! Le galanterie van bene
solo se portano a qualcosa… O stai ancora aspettando il
“grande amore”! –
André si volse a guardare lo sgargiante parco.
- Canzonami pure, Victor …
Continuo a pensare che “lei”
sia là fuori, da qualche parte …
- Sei un romantico inguaribile
… Come siamo amici è inspiegabile…
Marie! – tuonò inaspettatamente
all’indirizzo della domestica.
- Andiamo … Ti ho salvato la
pellaccia, quella sera a Parigi! E’ per questo che siamo
amici!
- Marie!! …Veramente, ricordo
di aver salvato io la tua… - precisò scendendo di
un tono.
- Forse eravamo abbastanza sbronzi da
esserci salvati a vicenda… - osservò
l’amico, perdendosi nei ricordi nebbiosi di quella sera di
tanti anni addietro, quando lasciata la Bonne Table con un cospicuo
quantitativo della cantina in corpo, si era imbattuto in una
aggressione.
Malviventi di strada stavano derubando quel che si rivelò
poi essere Victor Clément de Girodelle, rampollo di una
delle più antiche famiglie di Francia.
Spinto anche dall’incoscienza causata dall’alcool,
oltre che dal suo naturale altruismo e dal dovere imposto
dall’uniforme, si era lanciato al soccorso, attirando le ire
dei malviventi e mettendo sé stesso in una brutta
situazione. Solo grazie al conte che aveva recuperato il fioretto,
André non era stato trapassato vigliaccamente alle spalle da
uno dei malviventi.
Si erano davvero salvati a vicenda.
Col tempo se ne erano anche fatte le reciproche colpe. Ma la loro era
indubbiamente diventata un’ amicizia vera.
Victor lo aveva introdotto a corte, cosa che André,
aristocratico di basso lignaggio, non avrebbe potuto permettersi.
André gli aveva fatto assaporare la vita notturna di Parigi,
meno raffinata forse, ma assai più divertente che quella
della rigida Versailles.
- Ciò nonostante, continui a
preferire le serate con quel troglodita del tuo sergente! –
lo riportò al presente Victor - …. Marie!
Miseriaccia! Ma dov’è finita? –
tuonò.
- Alain non è un troglodita,
lo sembra solo … - si difese con un sorriso André
- E poi, quel che è accaduto alla sua famiglia, poteva
accadere a chiunque.
- Già, hanno perso proprio
tutto … Beh, un vero peccato che quella povera splendida
sorella che si ritrova, non possa far vita di
società… A tal proposito… Vieni al
ballo di domenica sera? – esclamò cambiando
argomento.
Spuntò la minuta cameriera.
- Ah… eccoti, finalmente!
Preparami il bagno, cara… “Victor…
Solo lui poteva mostrarsi così irritato e così
cortese ad un tempo”, pensò
l’amico.
- Sì, signor conte!
– confermò la fanciulla con un inchino,
dileguandosi immediatamente dopo.
- Ci penserò… Non
mi sento dell’umore…
- Non sei mai dell’umore!
Avanti, ci divertiremo… Magari, domenica non passerai una
notte fredda e solitaria… - lo canzonò.
- Siamo a giugno …
- Sì… e col caldo
puzzi di più… Fatti un bagno!
- Vado giù al canale a nuotare
…. – disse alzandosi.
- Bravo … così non
mi appesti la vasca!
André accompagnò il sorriso ironico con un
sospiro ed uscì rubacchiando nel tragitto ancora
una pasta dal tavolino della colazione ed un panetto di sapone dalle
mani di Marie che arrivava ancora, ma col necessario per il bagno; uno
dei famosi saponi profumati di Victor, conscio che Alain avrebbe
cominciato a chiamarlo “mademoiselle”
non appena entrato in caserma con quel “puzzo da
femminuccia” addosso.
- continua
1) Avevo una cotta per “La
freccia nera” di Stevenson
2) Tratto dalla canzone “Les
rois du monde” dello spettacolo “Romeo e
Giulietta”
Video: http://www.youtube.com/watch?v=b-TzguHJKxY
Testo (che ritroverete più avanti in bocca ad Alain) :
http://www.youtube.com/watch?v=SKs_Qzgiwrk
***Avviso che la prima parte di ogni capitolo (in blu)
riguarderà il passato dei protagonisti, ovviamente molto
diverso da quello che conosciamo perché Nanny ed
André sono mancati nell’infanzia di Oscar; non
saranno scene in sequenza, ma attinenti alla seconda parte di ogni
capitolo che si svolge “al presente”, il 1784.
Probabilmente farete fatica a capire i
“perché” di certe azioni, visto che le
spiegazioni si avranno solo alla fine o quasi. Ci vorrà
pazienza da parte vostra ed un poco di curiosità.
Inizialmente i protagonisti dovevano essere più giovani, ma
poi l’ho slittata avanti, nel 1784, quindi André
ha già 30 anni.
Avviso anche che non sarò rapida ad aggiornare
perché la trama ha ancora delle lacune.
Ringrazio Karmilla per avermi dato la “licenza” per
aggrapparmi alla strana coppia
“André-Victor-amiconi” molti mesi fa,
anche se questa storia non è collegata alla sua trama
(decisamente meglio la sua, eh eh).
E’ passato il momento di temporeggiare, quindi, bella o
brutta, lancio la storia; e sono consapevole che, ad un certo punto,
Karmilla vorrà strozzarmi per la piega che
prenderà (Ti prego! Non mordermi sul collo!!!)
: )
Sto anche preparando alcuni miei disegni per la storia e li carico sul
sito Deviantart, link per chi li vuol vedere:
http://crissi123.deviantart.com/
Aprì
d’un colpo la porta della locanda, spingendola col peso del
suo
corpo; ma, prima di uscire nella via, dovette poggiarsi allo stipide
per ritrovare equilibrio e respirare a pieni polmoni l’aria
non
viziata dal fumo e dagli odori nauseabondi, di cucina ed umani. Alle sue spalle il
festoso frastuono degli avventori, continuava; davanti a lui, si apriva
il vicolo, buio e silenzioso. Si fece forza, si
tirò su per bene ed uscì, richiudendo
l’uscio dietro di sé. Era
riuscito a sganciarsi da Terése la quale, presa in piccole
dosi,
era un amore di ragazza, ma quando finiva vittima delle sbornie tristi,
diventava più appiccicosa e noiosa di una moglie. Almeno,
così la definiva il suo nuovo amico Alain. André
più conciliante e soprattutto più pratico, sapeva
d’aver raggiunto il limite per quella sera, sia in fatto di
sonno
arretrato che di vino in corpo. Pertanto, pagare una prostituta sarebbe
solo stato denaro buttato. Sì. Pagare
per finire a sbavare su lenzuola luride, non era intelligente. E non
era neppure divertente. La
caserma non era distante dalla “Bonne
table”, per
questo quella locanda era il rifugio preferito dei militari. Ma,
si sa, quando le gambe non reggono e la testa pare un macigno, anche il
tragitto più breve appare come una fatica insuperabile. Ed il suo cavallo non
voleva collaborare. Aveva
cercato di issarsi in groppa, ma quello continuava a girare in tondo,
su sé stesso, e poi in tondo attorno al cavaliere.
Appena
André capiva il senso in cui quello ruotava, ecco che lo
stupido
animale, invertiva il senso di marcia, contribuendo alla rotazione
dell’universo. Almeno,
così percepiva l’universo André, quella
sera. Il
soldato cercava di infilare il piede nella staffa, ma non
c’era
verso di far capire al benedetto animale che doveva stare fermo per
consentirgli ciò. -
Sei ciuco, André! – ammise con sé
stesso, con un
tono quasi sorpreso, quando si trovò fronte a fronte col
quadrupede, finalmente immobile, ma certamente pronto a ricominciare
quel gioco. Sospirando,
si rassegnò a procedere a piedi, con le briglia tra le mani,
scivolando lungo le mura della case del misero quartiere e poi,
sorreggendosi alle cancellate delle abitazioni più
signorili,
nella via principale. Non era solo il
cavallo a girare. Pure il mondo attorno a lui pareva impazzito come una
girandola in un giorno ventoso. Perché
le serate con Alain finivano sempre a quel modo? E
perché se lo domandava ancora! Quello stupido
cavallo, poi, neppure ricordava la strada per la caserma! “Dove
siamo?… Accidenti …” Lo aveva guidato in
un quartiere elegante. “Stupido, stupido
animale!”, inveì sommessamente. E
proprio lì, in quel momento, gli parve di vedere qualcosa
che
come ufficiale dei soldati della Guardia Francese era suo dovere
redarguire pesantemente. Un’
aggressione. Ad un nobile, a
giudicare dal bellissimo cavallo bigio argento che nitriva spaventato
poche decine di metri più avanti. “Tre
contro uno, complimenti! “ E la vittima era a
terra, presa a calci e pugni. “Redarguire,
André!…”,
biascicò a sé stesso. -
Ehi! – strillò e l’urlo costò
al suo cervello un dolore lancinante. Strizzò
gli occhi per il male, ma tornò alla carica,
perché
quelli continuavano a massacrare il malcapitato e lui non poteva
permetterlo. Era pagato per intervenire in situazioni del genere! “Oddio
…”, rifletté, il
termine “pagato”
era una definizione esagerata del compenso che percepiva. -
Ehi! - Strillò ancora – Fermatevi! Vi ordino di
fermarvi!
In nome di Sua Maestà Cristianissima, Luigi…
Luigi… Inarcò un
sopracciglio tentando di rammentare quale numero fosse quello abbinato
al nome e ci rinunciò. Si tastò
la cinta in cerca della pistola. Inutilmente: l’aveva
lasciata in caserma. Quindi
afferrò la spada e, faticosamente, la estrasse dal fodero
per dirigersi ondeggiando verso l’assembramento. Gridò
ancora, riuscendo ad ottenere attenzione. Il più
furbo dei tre, fuggì col denaro. Il
più arrogante, incrociò la lama con
André, il
quale utilizzò tutto il peso del suo corpo ubriaco per
tentare
di sopraffarlo. Il
più vigliacco, smise di calciare la vittima, per portarsi
alle
spalle dell’ufficiale in blu ed alzare un pugnale mentre
costui
era ancora impegnato in duello. Con
una scossa di energia inaspettata, il giovane a terra
agguantò
il proprio fioretto, abbandonato sul selciato; si puntò su
di un
ginocchio, sulla mano sinistra ed allungò la destra
affondando
la lama nel ventre del vigliacco. Quindi, senza forze, preso dai
tremiti dovuti al pestaggio, scivolò nuovamente a terra,
mentre
l’avversario di André si dava ad una fuga di
convenienza. Il
rumore causato dal duello aveva attirato l’attenzione di
alcuni
cittadini, i quali si erano premurati di chiamare le guardie
metropolitane
di ronda. -
Sto bene… - mormorò André agli uomini
della sua
stessa Arma. E si chinò sul malcapitato. –
Riuscite a
sentirmi? Signore? … Il
giovane elegantemente vestito aprì gli occhi, li richiuse
subito, ma sollevò appena una mano, come a voler
tranquillizzare
il suo salvatore. André
si portò alle sue spalle e lo aiutò a mettersi
seduto,
mentre quello si toccava con la mano una ferita sulla tempia, che
probabilmente non era grave, ma grondava sangue copiosamente e faceva
dannatamente male. André gli
posò un fazzoletto sul taglio e lo aiutò a
premere per fermare il fiotto. -
Riuscite a parlare, signore? Riuscite a dirmi il vostro nome? -
Sono Victor Clément, Conte de Girodelle …
Capitano… ? -
André Grandier, Barone di Plessis Bellière (1) Il giovane
malcapitato alzò la mano dal selciato e gliela porse. -
Vi devo la vita … - mormorò.
Giardini di Versailles, 18 giugno 1784, mentre quasi tutti dormono
ancora
André Grandier De Plessis Bellière. A volte
perfino lui faticava a dirlo tutto d’un fiato.
Ma non aveva mai voluto
rinunciare al nome del suo padre naturale, quello che non aveva mai
potuto conoscere; quello che il destino si era portato via quando lui
era soltanto un neonato.
Il poveraccio che aveva amato sua madre, anche lei finita troppo presto
sottoterra.
Destino tanto bastardo con loro, quanto generoso con lui.
Un insieme di
fatalità che aveva portato un orfano nella casa
dell’ultimo barone di Plessis Bellière, anziano e
senza
eredi diretti.
Quella casa dove sua nonna
aveva servito fino alla morte, prematura anche per lei, consunta da una
delle tante piaghe così diffuse nelle città.
Marron, quella donna che il
barone aveva adorato in vecchiaia, tanto quanto aveva adorato il di lei
nipote. E adottare legalmente il ragazzo, pochi mesi prima di morire a
sua volta, gli era parso naturale.
André teneva alle sue radici, ma non poteva che riconoscere
quanta fortuna gli fosse capitata.
Victor Clément De Girodelle era stato anche lui una fortuna.
Senza i consigli del conte, non sarebbe riuscito a sopravvivere al suo
novello stato di aristocratico.
Nonostante le differenze di vedute e di carattere, Victor si era
dimostrato un vero amico, quasi un fratello.
Lasciò la vecchia ala del castello, dove i Girodelle avevano
il loro appartamento sin dai tempi del Re Sole.
Il valletto che lo aveva
atteso pazientemente nel cortile, gli porse le redini e lui, senza
bisogno del suo aiuto, si issò sulla groppa e ad andatura
lenta,
s’inoltrò nel parco del castello.
Senza Victor, probabilmente non avrebbe mai potuto metter piede in quel
posto.
Esser nobile non bastava a garantire l’accesso a Versailles.
Denaro. Serviva denaro per permettersi quel genere di vita e lui certo
non era a tal livello.
E oltre a tanto denaro,
serviva il potere. E lui, barone di Plessis Bellière non per
nascita, non godeva né di uno, né ancor meno
dell’altro.
Si guardò attorno, cullato dall’andatura
tranquilla del suo animale.
Non si poteva non restare
affascinati da quell’ immenso parco giochi per adulti che non
volevano invecchiare e che, a tal fine, si incipriavano ed
imparruccavano, sconfinando nel grottesco.
Percorrendo la via per
l’Orangerie, ammirò il sole specchiarsi nel bacino
d’acqua degli Svizzeri, attorno al quale si affaccendavano
persone intente a rasare il prato.
Fra due giorni ci sarebbe
stata la grande festa d’Estate, un evento atteso per il quale
i
preparativi erano in corso da tempo.
Era presto, ma i viali erano zeppi di giardinieri ed artigiani
all’opera.
Tutti si chinavano al suo passaggio. Non ci avrebbe mai fatto davvero
l’abitudine ai diritti del suo stato acquisito.
Tagliò tra i
vialetti verso il Gran Canal ma si accorse con disappunto che la flotta
era già stata messa in acqua per le prove delle finte
battaglie
a suon di fuochi d’artificio e lo specchio d’acqua
era fin
troppo trafficato per poterci nuotare senza incidenti. “Pazienza”,
pensò.
Versailles era stata
costruita bonificando una palude. Tutta la zona era piena di laghetti
più o meno balneabili. Una pozza dove rinfrescarsi in santa
pace
era certo l’avrebbe trovata, fuori dall’inusuale
caos dei
giardini.
Vagò per un
po’ per la campagna ed i boschetti; un po’ troppo a
dir il
vero, perché cominciava a fare caldo e davvero la sua
uniforme
puzzava in una maniera vergognosa, ma trovò ciò
che
cercava, quando ormai non ci sperava più.
Uno stagno, un piccolo laghetto circondato da canneti.
Grazioso, a dir il vero.
Tolse la sella alla sua
cavalcatura e lasciò che entrasse nell’acqua per
abbeverarsi, quindi, si levò tutti gli abiti e si
addentrò nella benvenuta frescura delle acque.
Nuotò un
po', prima di fermarsi a morto, a fissare il cielo azzurro di quel
giorno di fine primavera.
Una strana sensazione lo colse. Non avrebbe saputo se definirla
positiva o meno.
Fu come sentire che quel luogo gli appartenesse, come se fosse legato
al suo destino.
Tornò a riva a
prendere il panetto profumato di Victor e la sua uniforme, quindi si
accomodò seduto nell’acqua bassa a lavorar di
sapone, su
di sé e su quella divisa blu che sembrava non voler tornar
pulita.
A gambe incrociate, con
l’acqua alla vita, strizzava gli occhi accecato dal sole
ormai
estivo che si rifletteva sulla superficie increspata dai suoi
movimenti. I capelli quasi neri per l’acqua, gocciolavano
ancora,
freschi contro le sue guance, ma la pelle ormai asciutta, cominciava
già ad arrossarsi. “Le benedette
zanzare di Versailles…”,
pensò uccidendo con un colpo secco del palmo
l’ennesima succhiasangue che lo aveva aggredito sul bicipite.
D’altronde, anche gli esseri umani che vivevano lì
erano poco più di succhiasangue.
Il padre adottivo lo aveva
messo in guardia da quella gente. Così come lo aveva messo
in
guardia contro notai ed avvocati, d’altronde. “Ricorda, non
un titolo, non una posizione… Un uomo nasce qui e
qui”, si era raccomandato sfiorandogli la testa
ed il cuore.
Conoscere Victor,
però, era stata la prova che Versailles non era
così pessima come aveva creduto vivendo a Parigi.
Alzò il capo ad occhi chiusi. Dio,
quanto era piacevole starsene lì ad oziare, baciato dal sole
e
rinfrescato da quelle acque chiare, per nulla stagnanti… In
santa pace e benedetta solitudine!
Il fragore di un galoppo fu
improvviso, violento quasi quanto l’irrompere del candido
animale
nel lago, a pochi passi da lui.
- Ehi! … Ma che …!
– gridò scattando in piedi per lo spavento.
Il cavallo ed il suo
cavaliere, giravano su sé stessi nell’acqua bassa,
intorbidendola, schizzando in ogni direzione.
- Ma che
razza di modi! Potevate fare più attenzione! –
esclamò André, tanto arrabbiato quanto spaventato.
Il cavaliere biondo appariva sorpreso di aver trovato qualcuno appena
dietro i canneti; ma ancor più appariva furente.
Incitò il cavallo
bianco nella sua direzione con passo arrogante ed aggressivo, tanto che
André si trovò malgrado suo ad arretrare
velocemente
verso il centro del lago.
L’animale si
alzò un paio di volte sulle zampe posteriori, nitrendo
nervoso,
e ricadendo nell’acqua, bagnando ancora André.
- I miei
modi?! – esclamò il cavaliere, violento e
prepotente
quanto il suo destriero. – Ma come osate recriminare sui miei
modi, quando vi trovate, non invitato ed impresentabile,
in casa mia!
– esclamò. – Rozzo-villano-pezzente che
non siete
altro! Come siete arrivato qui e chi vi ha autorizzato? –
gridò il nobile.
-
Provengo dal parco di Versailles ed ho ragionevolmente ritenuto di
trovarmicisi ancora. – spiegò il moro.
-
Aberrante usanza di far transitare qualunque vagabondo per la
reggia… - mormorò a denti stretti il cavaliere
biondo.
– Io sono Oscar Françoise De Jarjayes,
villano, e
questo stagno si trova nelle mie terre. Voi non avete diritto di
trovarvi qui.
Il giovane fissò lo sguardo nei due occhi di ghiaccio. “Jarjayes…”
Quel nome suonava stranamente familiare ad André. “Jarjayes…” Ma sì, era la
famiglia presso la quale nonna Marron aveva servito tanti anni prima!
Ricordava delle fanciulle
che, accompagnate dalla madre, saltuariamente avevano fatto visita alla
vecchina presso la casa dei Plessis Bellière. “Gran belle
ragazze!”
Era piccolo, allora, ma certe cose le capiva già. Eppure, ricordava che
non c’erano figli maschi in quella famiglia…
Sorrise. Che,
forse, quell’arrogante pezzo di …
“aristocratico” fosse la famosa pietra della
discordia che
aveva allontanato Nanny dai Jarjayes? Che fosse la famosa
figlia allevata come un maschio?
Guardò meglio il
cavaliere che continuava con prepotenza ad inveire contro di lui;
parole velenose che neppure stava più ad ascoltare.
I suoi occhi correvano su
quella figura: i capelli biondi e ondulati, fermati appena da un fiocco
color salvia e oro; i lineamenti spigolosi, ma minuti; la pelle bianca,
liscia, priva di barba sul volto; e poi giù, polsi sottili,
dita
affusolate; un corpo esile e … beh, accidenti, riconosceva
cosce
femminili senza ombra di dubbio, in quelle che si stringevano come una
morsa sui fianchi del purosangue.
Quella doveva essere
l’ultimogenita del generale Jarjayes, senza dubbio alcuno; ed
il
carattere, a quanto pareva, era in tutto e per tutto quello del pazzo
genitore.
- Ehi, voi! Siete sordo, per
caso,… villano?
Dico a voi, fermo lì come un idiota con quelle lerce brache
fra le mani! – stava abbaiandogli contro lei.
André si riscosse
dai pensieri che accarezzavano le belle gambe fasciate dai pantaloni
verdi della donna e dagli stivali neri.
La guardò fisso negli occhi blu e gli parve di notare il
respiro di lei mozzarsi quando gli sguardi si incrociarono.
-
Intendete queste brache? – disse indicando i pantaloni che
teneva
davanti a sé, unico riparo per la sua
mascolinità. Un
sorriso beffardo gli apparve sul volto. – Se queste brache
disturbano vossignoria… - mormorò e, detto e
fatto, le
lanciò lontano.
La donna, dopo un brevissimo istante di sorpresa, sostenne il suo
sorriso beffardo con uno altrettanto canzonatorio.
- Siete impavido, villano…
Ma…Il sole oggi è molto aggressivo e, potreste
bruciarvi
in parti delicate… Prendete le vostre cose e andatevene! Non
voglio ritrovarvi qui, né oggi, né mai!
Quindi tirò le briglia e, arrogante e veloce come era
arrivata, sparì dalla sua vista. “Ma non dai
tuoi pensieri, André”, si disse il
moro, tornando a tuffarsi nell’acqua più
alta, incurante della minaccia della bionda.
***
Oscar Françoise De Jarjayes galoppava verso il suo palazzo.
Era furibonda con sé
stessa per aver perduto la calma, per aver reagito in maniera
spropositata, come mai avrebbe voluto.
Furibonda, ma allo stesso tempo divertita. “Che arrogante
pezzo di … “villano”! “,
pensava sorridendo suo malgrado, mentre frenava il bellissimo
César dopo aver saltato una siepe.
Si fermò a riprender fiato. Era forse fuggita?
Ma per favore! Non era mai fuggita davanti a niente! Semplicemente, era
stata colta alla sprovvista da quell'intruso!
E se suo padre, il
generale, non l’aveva ancora diseredata nonostante le sue
continue ribellioni, i suoi continui rifiuti ad accondiscendere i
desideri paterni, i suoi continui affronti all’onore della
famiglia, era proprio perché, tutto sommato, non poteva non
apprezzare il suo coraggio e le sue capacità.
Lei era la vergogna dei Jarjayes, l’esperimento fallito del
generale.
Era la donna che non aveva voluto essere un soldato di Sua
Maestà, ma che continuava a comportarsi come un uomo.
Era la figlia che non sapeva cosa fossero obbedienza,
docilità e femminilità.
Almeno, non come concepiva queste caratteristiche il generale.
Da quasi due mesi era tornata da Arras, dove aveva vissuto, quasi
ininterrottamente, negli ultimi quattordici anni.
Era tornata sorprendendo entrambi i genitori con un atteggiamento
stranamente remissivo.
Si era dimostrata tanto educata e sottomessa da non aver trovato nulla
da obiettare quando il padre aveva accennato un esitante “Sarebbe opportuno che
tu ti sposassi”.
La cosa, però, non
aveva sorpreso lei, che sapeva benissimo quanto non ci fosse di
remissivo o accondiscendente o amorevole nelle sue decisioni degli
ultimi mesi. Le sue ultime
decisioni…
Ecco, su questo doveva concentrarsi! Non doveva farsi distrarre da due
occhi smeraldini e, beh …
Si concesse un ultimo sospiro d’ammirazione per quel corpo
statuario dalla pelle uniformemente dorata. “Sì,
uniformemente…”, poteva affermarlo
senza esitazione perché lo aveva osservato bene. Fin nei
dettagli.
Sperò che l’uomo l’avesse ascoltata e se
ne fosse andato.
In fondo, sarebbe stato un vero peccato se si fosse
ustionato… “Una donna
meno forte avrebbe avuto un mancamento!”, si
disse sorridendo della sua stessa sfacciataggine.
- continua
1) Un
nome che mi piaceva: Plessis Bellière, uno dei nomi della
famosa
Angelica marchesa degli Angeli, personaggio di fantasia dei coniugi
Golon, ma anche una persona realmente esistita, amica di Fouquet,
ministro di Luigi XIV.
Fouquet aveva fatto
costruire il castello di Vaux Le Vicomte dagli stessi architetti che in
seguito avrebbe costruito Versailles. Quando il Re sole gli fece
visita, invidiò il suo palazzo ed il suo modo di vivere ed
il
ministro cadde in disgrazia. Chi ha visto il primo film di Angelica, sa
che questa è la stessa cosa che accade al suo primo marito.
Qualcuno sospettò
che dietro il famoso prigioniero dalla maschera di ferro ci fosse
proprio lui, Fouquet, reo di aver suscitato invidia nel suo re. ... Eh,
già ... l'invidia è una "brutta bestia"!
***
Grazie
per i commenti e per la fiducia! Avrei voluto rispondere ai Vostri
quesiti, ma avrei dovuto farlo con una serie di “no, si,
mah!,
forse, acqua, focherello …” : )
La storia dovrebbe generare domande e curiosità e, per via
del “canguro temporale”, trarvi in inganno.
Sì,
certo, è stato solo un capitolo introduttivo, come il
secondo e
come lo sarà il terzo. Sto “mettendo le carte in
tavola”.
Volevo
porre l’accento sull’enormità di
conseguenze che
può comportare una singola decisione, in questo caso il
“no” di Nanny.
Quindi
gli avvenimenti saranno molto diversi, ma spero vi
divertirete a
cercare le somiglianze coi personaggi originali anziché le
differenze. Le loro personalità sono quelle dei primi
episodi
dell’anime, quando erano un poco più arroganti,
impulsivi,
egocentrici e litigiosi; erano più entusiasti, prima che la
tristezza si impadronisse delle loro anime.
Oscar
è più maschiaccio di come la conosciamo, come mi
ha
scritto un’amica, ma non è un caso: ho sempre
creduto che
se fosse cresciuta senza André a “tirarle il
morso”,
sarebbe diventata davvero insopportabile e … non solo (ma
non
dico altro!).
Solo una cosa riguardo l’OOC, su come lo vedo. Significa
“fuori dal personaggio”
Ma cosa definisce un personaggio? Il suo carattere ed il suo modo di
reagire agli stimoli, agli avvenimenti.
Un
“what if” non stabilisce per forza un OOC, se il
personaggio si comporta coerentemente col suo carattere ed il suo
animo, anche se in situazioni diverse.
Per
quanto riguarda L.O., l’OOC poi, lo si intende riferito al
manga
o all’anime? Sono differentissimi tra loro per il carattere e
le
reazioni; alcune scelte dell’anime non piacquero alla stessa
sig.ra Ikeda (per esempio, Alain, l’uomo e le sue scelte,
cosa
che io ho adorato, invece; o certi atteggiamenti estremi che
nell’anime non ci sono).
Sono
convinta che l’unica a poter affermare l’OOC sia la
stessa
Ikeda che li ha creati ed “è nella loro
testa”.
Tutto il resto, è una valutazione soggettiva di come lo
spettatore o il lettore ha interpretato il racconto, in base al vissuto
ed alla sensibilità di ciascuno.
Per
quanto mi riguarda, una volta mantenuti i punti base, quale la
complementarietà di Oscar e André (luce ed
ombra);lei
testarda come un mulo e lui che la porta alla ragione; l'estrema
pazienza di lui, l'esasperata cecità di lei; lui che darebbe
la
vita per lei e lei che lo farebbe per la giustizia ... (e ora non mi
viene in mente altro, per fortuna!), la storia rimane una fic su L.O.
Non
credo di aver mai realmente scritto personaggi OOC, ma
d’altronde, come dico spesso “devo aver visto un
altro
anime”.
Li scrivo come li vedo; ma come li farò vedere a voi,
potrebbe ingannarvi. (???)
Ok… spero solo che la storia stia in piedi e che piaccia! : )
PS per
Karmilla. Ho una gran cura dei tuoi pupilli! Ogni sera li pettino: ad
uno faccio il codino, all’altro le trecce (che tengono le
onde
perfette!). E poi gli racconto la storia di una bimba bionda che ... : )
La camera era buia se
non per le due candele tremanti. Persiane chiuse, come a voler tener
lontana la notte con i suoi fantasmi e tutte le paure che ad essa si
associano. Il caldo opprimente
si fondeva con gli odori, di fumo, di sudore, di incenso. Di morte. Il confessore aveva
adempiuto al suo dovere, finché l’uomo era ancora
sufficientemente lucido. Prendendo lunghi
respiri, tra le parole che uscivano con sempre minore energia, aveva
confessato più che peccati, rimpianti. Rimpianto
per donne mai amate, per figli mai avuti. E sollievo,
per non aver mai compiuto, realmente e
consapevolmente, del male; sollievo per aver adottato
André prima che fosse troppo tardi. Anche se il risultato
era stato quello di mettersi contro l’intero parentado. I
figli della sua povera sorella avevano espresso piuttosto chiaramente
l’opinione riguardo il suo stato mentale in merito alla
decisione di lasciare ogni suo avere al figlio adottivo; ma il fatto
che non gli avessero più fatto visita, aveva reso quegli
ultimi mesi i più tranquilli, sereni, in un certo senso
piacevoli della sua vita. André, suo
figlio, stava seduto in corridoio e fissava la
tappezzeria scura sulla parete di fronte a lui. Si ripeteva da giorni
che così andava la vita, che era naturale. Tutti devono
morire. Ma non poteva negare un filo di risentimento verso chi aveva il
potere di decidere ciò. Verso colei che
tagliava il filo. Verso la mietitrice con la falce. Verso Dio. Il barone
aveva accettato la malattia con forza e serena rassegnazione. André lo
aveva visto godere di ogni giorno come fosse l’ultimo,
compatibilmente con le forze che gli restavano. -
Ha richiesto la vostra presenza. – disse il prete,
uscendo dalla camera. - Vi lascio solo con lui. Si è
confessato e gli ho impartito l’estrema unzione. E’
molto debole. André si
alzò stancamente ed annuì. -
No! – disse il parroco quando il giovane
accennò a guidarlo di sotto – Non è
necessario che mi accompagniate, conosco la strada.
– Posò una mano sul suo braccio.
– Andate da lui, figliolo… - e non ci fu bisogno
di specificare altro. André
restò un istante a guardarlo: un’ombra scura, per
l’abito, per i capelli, confondersi col buio del corridoio;
quindi, silenzioso, lo vide imboccare le scale e scomparire alla sua
vista. Si portò
le mani agli occhi. Non voleva piangere. Ci sarebbe stato tempo per le
lacrime. Dopo. Entrò
nella camera, prese la sedia e la portò accanto al letto del
barone, il cui respiro era mutato in una sorta di faticoso uggiolare.
Sedette vicino e posò la mano su quella fredda e gialla di
colui che lo aveva cresciuto. -
Tua nonna sarebbe stata felice ed orgogliosa di vederti
diventare uomo. – disse il genitore, esordendo nella frase
con un gemito. -
Signore, non parlate… Se vi causa dolore, non
parlate… - lo supplicò. La mano del vecchio
si mosse in cenno di diniego. -
Io … sono fiero di esser stato tuo padre, anche se
solo per via di un documento. -
Voi siete stato il solo padre che ho conosciuto,
l’unico che ricorderò per sempre, signore.
– disse il giovane mentre il proposito espresso a
sé stesso pochi minuti prima si dissolveva in lacrime
irrefrenabili. -
Segui sempre il tuo cuore. … Il tuo cuore non
sbaglia. Sei un bravo ragazzo... E sarai un gran brav’uomo,
André. André
poggiò la testa contro il torace del barone, il quale
cominciò a carezzarlo lentamente. Nel silenzio totale,
il giovane fissava sul comodino la candela che si consumava e
restò lì fino a guardarla spegnersi, parecchio
tempo dopo che la mano di suo padre era rimasta immobile sui suoi
capelli.
La sera seguente, i
vicini vennero per la veglia funebre e già il giorno dopo fu
sepolto nella tomba di famiglia. Di parenti nemmeno
l’ombra ora che avevano accertato che non avrebbero ottenuto
un soldo in eredità. Dopo la funzione,
André rientrò da solo nella casa che in pratica
era legalmente sua. Moralmente era stato
l’affetto immenso di quello sconosciuto che gli aveva fatto
da padre a renderla “casa”, non un atto notarile. Il caldo del tardo
pomeriggio era soffocante. Per le strade gridavano gli ambulanti; le
finestre erano aperte, ma le persiane tutte accostate. Si
affacciò alla stanza del defunto, dalla quale le domestiche
avevano già levato i paramenti neri collocati sul mobilio e
sugli specchi, dato aria e portato via materasso e lenzuola mentre lui
presenziava alla funerale. Si volse a guardare
la porta di fronte. La camera in cui era morta Nanny. Ed era chiusa da
tempo. Ne chiuse
un’altra dietro di sé. Restò
lì, in silenzio, con le spalle poggiate all’anta,
immerso nell’ombra. Ora era solo. Davvero
solo.
Versailles, 21 giugno 1784, tardo pomeriggio
On sait que le temps c'est comme
le vent (Sappiamo che il tempo è come il vento) De vivre y’a que
ça d'important (E di vivere ciò che
è importante) On se
fout pas mal de la morale (Ce ne freghiamo della morale) On sait bien qu'on fait pas de
mal (sappiamo bene di non far del male)
(da “Les rois
du monde”)
Una colorita Marie gli aprì la porta
dell’appartamento e si inchinò.
André non poté trattenersi dal sorridere,
immaginando cosa avesse portato le sue gote ad infiammarsi
così.
- In crisi da “cosa mi metto
stasera?”
- Oh, signore, vi prego… - lo
supplicò ricambiando il sorriso. – Voi scherzate
sempre!
Richiuse la porta alle sue spalle e lo invitò ad accomodarsi
con un cenno.
Dalla porta aperta della camera, André vide Victor intento
ad appuntarsi la spilla di smeraldi sulla cravatta e darsi gli ultimi
ritocchi all’ abito blu pavone, davanti allo specchio a
figura intera. “Blu
pavone?” , sorrise per il paragone tra le
movenze dell’amico che scrutava il proprio riflesso in cerca
di pecche e quelle di un regale pennuto.
In realtà sapeva non trattarsi di
vanità, quel modo di fare, ma solo di pignoleria.
Victor Clément De Girodelle era dannatamente perfezionista.
E André non lo avrebbe mai cambiato. Semplicemente, era
perfetto così.
Si volse a guardar fuori dalla finestra: i giardini parevano
già in fermento.
Si sentiva stanco alla sola idea di calarsi in quel ginepraio. Ma
Victor era sempre così gentile con lui. Cercava di
coinvolgerlo per il suo bene. “Tieniti
vicino gli amici, ma ancor di più i tuoi nemici”
(1), gli ripeteva in quelle occasioni in cui lui attaccava a mugugnare
scuse poco energiche.
- E quello?!
André si volse con un sussulto e chinò lo sguardo
sui propri abiti che parevano i responsabili per quella
espressione disgustata di Victor su di lui.
- Cosa?
- Come
“cosa”? Quello … quello
scempio! – chiarì Girodelle senza mezzi termini.
- Intendi il mio abito da sera?
Victor gli si avvicinò e cominciò ad indicare
particolari a sua opinione inadeguati.
- Fuori moda…
Sciatto… Semplicemente orrido…
Pessimo… Ridicolo… E poi, marrone? Per una serata
di gala estiva?! Ma come ti è venuto in mente! E
… - si avvicinò ad annusarlo, storcendo il naso
disgustato – Da quanto lo tieni nell’armadio?
André alzò gli occhi al soffitto, in
muta preghiera agli angeli che vi stavano dipinti.
- Era del barone… -
mormorò.
- Ossignoresantissimo! –
tuonò Victor, facendosi immediatamente il segno della croce
e mormorando una preghiera in penitenza per quella imprecazione
sfuggitagli.
André sorrise per quel bizzarro modo con cui, il credente
Victor, affrontava i propri peccati.
- Ah, no! Tu non scendi conciato
così! – minacciò. – Marie!
La fanciulla, fino a quel momento in silenziosa attesa in un angolo, si
rizzò attenta.
- Vai a prendere l’abito che mi
è stato consegnato la scorsa settimana, cara, quello rosso.
- Rosso? – ripetè
incredulo André– Tu hai acquistato un
abito… rosso?!
- Sì, lo so…
Volgare su di me… Me ne sono pentito subito. Ma a te
starà d’incanto.
Marie tornò con una giacca veramente ricca, rosso fuoco, con
i ricami del damasco lucidi ed opachi; leggerissimi fili
d’oro inseriti nell’ordito facevano che
sì che ad ogni movimento questa risplendesse come
l’ondeggiare di spighe sotto il sole, sparse in un campo di
papaveri. E la mostrò loro, reggendola su entrambe le
braccia tese.
- Mah…
- Che c’è?
- C’è che fa tanto
“Du Barry”… - obiettò
André.(sentita nel film "Marie Antoinette" della Coppola)
- Oh, l’importante è
che non ti faccia far tappezzeria, amico mio!
La domestica si portò alle spalle di André e lo
aiutò a levare la giacca. Quindi andò a prendere
il resto dell’abito, mentre lui continuava a levarsi i propri
indumenti e restava con la sola camicia bianca e le calze.
Dopo pochi minuti, il grosso del cambiamento era a buon punto.
André si lisciò addosso il gilet, decisamente
più corto del suo ormai fuori moda, che non nascondeva i
pantaloni più attillati.
Marie lo aiutò ad infilare la giacca, quindi si
portò davanti a lui per fissargli la sciarpa al collo. Il
giovane le strizzò l’occhio, facendola arrossire.
- Hai dei diamanti da indossare?
– chiese Victor che, passeggiando avanti ed indietro con fare
meditabondo, osservava la sua “creatura” prender
forma.
André lo guardò malamente.
- Direi che il tuo è un
“no”, ovvio… Ti presterò i
miei! Devi essere abbagliante stasera, mio caro!
L’amico si guardò allo specchio e
sbuffò.
- Abbagliante come una lanterna
cinese… - borbottò. E Marie si
allontanò soffocando una risata.
- Se serve a non mandarti in bianco, ben
venga pure la lanterna cinese. E poi stai benissimo. –
commentò il conte.
Si presentarono affiancati sulla cima della scalinata dei parterre.
Davanti a loro, tutta Versailles si era data appuntamento.
Le Loro Maestà sarebbero arrivate da lì a poco
insieme all’ospite d’onore, Re Gustavo di Svezia,
in viaggio attraverso l’Europa in compagnia del fidato Fersen
e la serata sarebbe così entrata nel vivo dei
festeggiamenti. (2)
Il sole era niente altro che un pallido bagliore
all’orizzonte: la notte di benvenuto all’estate
stava per cominciare!
- Smettila… -
sibilò Victor, innervosito dai gesti stizziti
dell’amico che evidentemente non si trovava a suo agio
nell’abito prestatogli.
André lo guardò di sbieco. Quell’abito,
certamente bellissimo, era fin troppo sfarzoso per i suoi gusti e
l’ultima cosa che voleva quella sera era attirare
l’attenzione. Avrebbe pure risposto qualcosa, ma vennero
affiancati da una coppia.
- Conte!
- Conte…
- Contessa…
- Barone!
- Conte… Contessa…
Un incrocio di inchini e riverenze e quelli si avviarono lungo la
scalinata.
La serata era cominciata e sarebbe proseguita a quel modo per ore. Alla
fine, André sapeva, non avrebbe ricordato alcuna di quelle
persone, né le conversazioni superficiali che con loro
avrebbe intavolato.
Ma doveva riconoscere che si annunciava come un grande evento mondano e
ne era incuriosito.
Sul Tapis Vert era stata approntata una pista da ballo e i giardini
erano ben illuminati. Oltre a torce e lampade, c’erano
lanterne galleggianti sull’acqua e lungo i viali
primeggiava l’invenzione scientifica dell’anno
prima, opportunamente tramutata in luminaria: mongolfiere! Un gran
numero di piccole mongolfiere, ancorate al suolo, alimentate da piccoli
bruciatori ad olio, galleggiavano nell’aria e spandevano luce
colorata tutt’attorno, diversa a seconda del tessuto con cui
erano state realizzate.
Tavole zeppe di ogni ben di dio e giocolieri, musici, danzatrici
esotiche, acrobati… Di tutto e di più per
intrattenere gli ospiti ed impressionare favorevolmente il sovrano
amico.
***
Attorno alla fontana di Latona, una donna si sventolava lentamente. Si
sarebbe detto svogliatamente, se non lo avesse fatto in modo
così sensuale.
Si teneva a giusta distanza dall’imponente monumento:
abbastanza vicina da godere della frescura portata dallo zampillare, ma
non così vicina da permettere che
l’umidità sciupasse la sua perfetta “mise”.
Abito verde mare, cangiante; parure di zaffiri sulla pelle candida e
nastri di tutte le sfumature dell’oceano fra i capelli neri;
nessuna parrucca a mortificare la chioma d’ebano, in netto
contrasto col pallore lunare del viso; nessun copricapo a nascondere le
onde perfette, morbide, lucenti. Nulla in lei passava inosservato,
neppure quel carattere, volitivo e ferreo, di una donna decisamente
controcorrente.
Il ventaglio con piume di pavone ondeggiava piano davanti al viso e
solo due occhi come il ghiaccio ne facevano capolino, fissando con
l’aria di chi ne sa qualcosa, l’immagine
dell’amante di Giove sulla cima della fonte. (3)
Accanto a lei il marito, marchese de Fréville era impegnato
a raccontare al generale Bouillé, suo ottimo amico, come
aveva trascorso quella settimana di caccia su, nei suoi possedimenti al
nord. Narrava ogni più piccolo particolare, ogni
insignificante, noioso dettaglio di quella passione che, fortunatamente
per la moglie, lo distraeva dal talamo nuziale quel tanto che bastava
per lasciarla riprendere.
Una settimana al mese, il marchese si dedicava allo sport da uomo duro
e la giovane Camelia Desirée si faceva bastare quei giorni
di libertà come gli unici degni d’essere vissuti.
André si domandava come avesse potuto una persona
incantevole come Camelia arrivare alle nozze con Fréville.
Di certo, il marchese aveva avuto solo di che guadagnare da quel
matrimonio.
Nonostante ciò che chiunque avrebbe scommesso su quella
coppia, era Camelia il buon partito. Venticinque anni, vedova di un
viceconsole inglese, la giovane donna non mancava né di
denaro, né di spasimanti. Eppure, contro ogni aspettativa,
nemmeno un anno dopo la morte del marito perito in un naufragio sulle
coste della Cornovaglia, aveva accettato la corte di
Fréville, di trenta anni più vecchio di lei, ed
in poche settimane erano convolati a nozze. Questo era accaduto la
scorso marzo.
Nulla li accomunava. Lui era pesante sotto tutti i punti di vista,
noioso, borioso, irascibile … Ciò solo ad un
esame superficiale, ma per André era già perfino
troppo.
Lei non era solo una bella donna, gradevole come accompagnatrice. Era
un passo avanti a chiunque in quel posto e, nonostante i tentativi di
Fréville di esibirla unicamente come un grazioso accessorio,
la sua intelligenza non riusciva a passare inosservata.
La gente giustificava questo matrimonio col potere.
Fréville, da poco più di un anno, era forse
l’uomo più influente di Francia, da quando era
stato nominato ministro della guerra. Godeva della fiducia del sovrano,
anzi, forse sarebbe stato più opportuno affermare il
contrario: il sovrano era nelle sue mani.
Aveva un passato talmente losco che perfino Sua Maestà
doveva averne timore. Dal suo ufficio transitavano una gran
quantità di denari e di segreti di stato; non
c’era nulla in cui lui non mettesse mano.
Si diceva che la donna lo avesse sposato per rientrare a corte, dopo il
matrimonio con un inglese, avvenuto in piena Guerra di
Indipendenza Americana, poco prima della discesa in campo della
Francia. Gli inglesi: un nemico della corona, il peggior nemico.
Aveva vissuto a Londra ed era rientrata in Francia a guerra finita,
come moglie del viceconsole inglese, rimanendo prematuramente vedova.
Ma André non aveva mai creduto a queste insinuazioni.
L’istinto gli bisbigliava che dovesse esserci altro. Di certo
sapeva solo che era veramente un peccato vedere una donna come quella
sprecata con un simile individuo. Ma d’altronde, quella era
Versailles. Perché si stupiva ancora?
In quel momento, la marchesa si accorse di loro.
- Sei stato individuato… -
mormorò a denti stretti all’amico, intento a
conversare con un collega d’armi.
Victor si volse ed il suo sguardo venne catturato da quello violetto di
lei. Picchiettò con un dito sul ventaglio chiuso, attenta a
non farsi notare.
“No, non possiamo vederci… “,
pensò scotendo impercettibilmente il capo in replica a
quella richiesta.
La vide sbattere il ventaglio sul palmo dell’altra mano. A
Camelia Desirée non piacevano i no come risposta.
Il tipo col quale stava conversando, gli sollecitò un suo
parere e Victor tornò a voltarsi verso di lui.
- Attenzione! Nemico in avvicinamento da
poppa! – esclamò in un sussurro André,
dandogli un gomito nelle costole quando vide la dama partire nella loro
direzione.
- Oh, contessa! Che piacere rivedervi a
corte! – esclamò Victor aggrappandosi
cavallerescamente al braccio di una anziana dama di passaggio, stupita
ma non certo dispiaciuta dal gesto del giovane ed affascinante uomo.
André non perse tempo e parò l’avanzata
di Camelia De Fréville, impedendole di seguire la preda.
- Barone … -
mormorò quella con un sospiro di rassegnazione ed un sorriso
tirato, aprendo il ventaglio con un singolo gesto secco.
- Marchesa De
Fréville… - sorrise André esibendo un
raffinato inchino. Al centro del Tapis, le danze erano
cominciate. – Mi concedete un ballo? –
domandò, rialzandosi, senza abbandonare la mano che aveva
appena baciato.
Camelia lo squadrò da capo a piedi.
- Solo perché dentro
quell’abito “orrendo” ci siete voi,
barone… -
Lui sorrise, incassando il mezzo insulto, e si chinò
nuovamente, posando una mano sul petto in segno
d’umiltà.
Condusse la dama al centro della pista e sapeva non essere una sua
fantasia quella di sentirsi tantissimi occhi addosso.
Invidiato dagli uomini, perché avrebbe ballato con lei;
detestato dalle donne, per lo stesso motivo.
Sì, Victor avrebbe dovuto sdebitarsi per quello. Per quello
e per avergli fatto indossare quell’abito così
vistoso che proprio lei gli aveva donato.
La danza cominciò con una reciproco, simultaneo inchino, la
marchesa posò la mano sinistra sulla destra del Barone e poi
… piccoli passi, destra, sinistra, avanti, indietro,
scivolare piano, un quarto di giro, piccoli saltelli.
Suadenti movenze, sguardi intensi tra la dama ed il suo cavaliere;
profumo di fiori e leccornie nell’aria tiepida di una sera
bellissima; chiacchiere, risate… E nessun pensiero se non
quello di divertirsi.
***
Il rumore di sottofondo era più forte, segno che le bevande
inibivano ormai i freni. La gente si divertiva.
André raggiunse Victor intento a piluccare tartine.
- Io mi defilo! –
annunciò scandendo bene la frase per farsi intendere al di
sopra delle chiacchiere e della musica.
- Come … - tentò
d’obiettare con tono irritato, ma passò subito
alla lusinga - Non resti a vedere lo spettacolo delle scimmie danzanti?
- Ho già fatto la scimmia io,
stasera … A tal proposito, potevi avvisarmi che questo abito
ti era stato regalato da una “certa” dama!
– gli rimproverò afferrandosi i bordi
della giacca.
Victor nicchiò.
- Mi ritiro nei tuoi appartamenti.
- Ma sta per cominciare la battaglia
navale!
- La guarderò dalla
reggia. – rispose mentre già si
allontanava.
L’amico non insisté ulteriormente.
- Stanno per cominciare i fuochi!
– esclamò una dama eccitata, guardando verso il
Grand Canal.
Nel movimento di folla che seguì l’annuncio,
Victor sentì qualcuno afferrarlo per un braccio e
trascinarlo via.
- Marchesa… -
ringhiò, temendo che qualcuno li notasse.
- Conte… - ribatté
lei, imitando il suo tono, trascinandolo in un sentiero appartato.
Si rassegnò a seguirla, fin nel folto di un boschetto.
- Perché non avete indossato
l’abito che vi ho regalato? – gli
domandò camminando veloce.
- Non vado molto d’accordo col
rosso, lo sapete. Perché proprio quel colore, madame?
- Non volevo rischiare di perdervi tra la
folla. – mormorò guardandolo con la coda
dell’occhio continuando ad avanzare e a tirarselo appresso.
- Fantastico! Così tutti si
sarebbero accorti di noi!
- Che imperdonabile leggerezza!
– scherzò.
- Sì e siete stata avventata
prima, alla fontana! Tutti si sono accorti che siete venuta
direttamente da me!
- Sì e non mi importa
– esclamò lei, fermandosi di colpo, volgendosi
contro di lui, calando le mani sul suo torace.
- A me sì. Mi importa di te,
di me, della nostra reputazione … –
mormorò Victor, passando ad un tono più
confidenziale e premuroso.
- … della tua carriera?
– lo istigò.
- Sì, anche. Sai benissimo che
basterebbe una parola di tuo marito per stroncarmi. –
esclamò con serietà.
La giovane allungò due dita sulle sue labbra, come a volerlo
tranquillizzare.
- E ne basterebbe una mia per innalzarti.
– mormorò, sbattendo le palpebre, incantandolo con
quelle ciglia tanto lunghe e folte che gli parve di sentirsi carezzare
dal vento caldo che muovevano.
- Agli uomini non piace venir manipolati
…
Lei rise.
- Illuso … -
mormorò accattivante, stringendolo in vita.
- A
me non piace essere manipolato. – Si corresse.
- Anima candida … - lo
canzonò affettuosamente - Toccherà a lui
selezionare i candidati per la nomina a comandante della guardia reale.
Lui mi ascolta. – aggiunse, spostando la carezza dalle labbra
alla guancia.
- Lui non ti ascolta. Non ne è
capace. Esaudisce i tuoi desideri, perché se tu sei felice e
radiosa, splende del tuo riflesso. Ma è incapace di
ascoltare.
Si aggrappò a lui, alle sue spalle.
- Camelia… no, potrebbero
vederci…
In risposta, lei lo baciò. “Che donna
… impossibile!”, pensò
ricambiando con vigore, stringendola per la vita tanto da alzarla un
poco dal suolo, nonostante quella voce nella testa lo invitasse a darsi
una regolata.
Le mani di lei si spostarono dalle spalle al suo petto, lungo il
risvolto della giacca e poi sotto, sul gilet con uno scopo.
I bottoni si sfilavano velocemente dalle asole, guidati dalla
determinazione della donna.
- E’ stato uno sbaglio.
Piacevolissimo, indimenticabile … ma non possiamo,
Camì, dobbiamo fermarci. – disse rimettendo lei e
la propria ragione, coi piedi per terra.
Non poté pronunciare una parola di più
perché le sue labbra furono ancora un tuttuno con quelle
della bella marchesa.
- Per favore, Camelia…-
riuscì a mormorare.
Le mani di lei ormai vagavano sotto il gilet, ormai erano padrone di
quel confine sotto la sua cintura.
- Camì …, per
favore …, no … Non è il caso
… - balbettò col respiro che diventava ansante.
- Quando mi son svegliata voi non
c’eravate, l’altro giorno. Non è stato
molto galante da parte vostra, abbandonarmi tutta sola nel vostro letto.
- Il dovere, Madame …
- Uomini! Quando non sapete a cosa
appellarvi, vi aggrappate al lavoro.
Si allacciò al suo collo ed egli non poté non
stringerla ancor più forte a sé.
Bella e pericolosa, perché otteneva sempre ciò
che voleva.
Camelia Desirée era proprio come il suo nome: sofisticata,
elegante … Vellutata, suadente..
Ed era infelice.
Ogni lembo della sua pelle era niente di meno che paradiso per
lui…
Ma era pure il confine dell’inferno. Un punto di non ritorno,
il baratro sulla perdizione.
Lei sapeva cosa fare, come fare per fargli perder la testa. E lui la
perdeva, così come si perdeva in lei.
Erano riusciti ad evitare il coinvolgimento per mesi; poi, era bastata
una sera con le difese abbassate e gli argini erano stati rotti.
Lentamente, lei cominciò ad abbassarsi, trascinandolo con
sé verso il prato.
Incoscienti.
Senza freni.
Pazzi.
***
André stava salendo gli ultimi scalini verso i
Parterre d’Eau quando udì uno dei colpi
d’apertura dei fuochi.
Si volse a guardare il razzo luminoso che si alzava alto nel cielo,
illuminando lo specchio d’acqua sottostante, la grossa croce.
Due fregate di dimensioni ridotte rispetto al naturale veleggiavano
placidamente affiancate, preparandosi a darsi battaglia.
Attraversò lo spiazzo fino alla reggia e poi dentro, su per
la scalinata che conduceva agli appartamenti lussuosi delle famiglie
più importanti. Incrociò pochissime persone,
poiché tutti si erano riversati al centro del parco per gli
spettacoli.
Entrò nell’appartamento silenzioso di Victor,
illuminato dai bagliori dei fuochi che invadevano le stanze, dalle
ampie finestre completamente spalancate. Nella penombra si diresse con
passo sicuro e rilassato alla stanza riservata agli ospiti, cominciando
a levarsi la giacca, quindi la spilla che fermava la cravatta e
slacciando il gilet, accogliendo con un sospiro di sollievo la frescura
sulla pelle umida di sudore del torace.
Aprì piano la porta. Sorrise. Sapeva che l’avrebbe
trovata lì.
Voltava le spalle all’ingresso, sdraiata sul grande letto, e
guardava i fuochi attraverso la portafinestra.
I capelli castani sciolti sul cuscino, la leggera camicia di cotone che
non nascondeva le sue forme.
- Com’erano le scimmie
danzanti? Mi sarebbe piaciuto vederle. – disse, un
po’ malinconicamente.
- Non le vedi forse tutti i giorni?-
chiese beffardo, spogliandosi di farsetto e camicia.
Marie si girò sul copriletto e lo guardo avvicinarsi a
lei, mentre il bagliore di un fuoco d’artificio lo
illuminava di riflessi arancio.
Gli sorrise compiaciuta, vedendolo denudarsi del tutto, senza levare lo
sguardo da lei, e si stiracchiò lentamente allungando le
braccia, tese verso di lui.
André posò un ginocchio sul bordo del letto e si
abbassò verso di lei, posando le mani ai lati
delle sue spalle, sorridendole furbescamente, mentre un altro lampo
verde intensificava quello smaliziato dei suoi occhi.
La ragazza portò un braccio dietro al suo collo, con
l’altra mano gli sfilò il fiocco di raso,
sciogliendogli i capelli che ricaddero ai lati del volto. Si
sollevò un poco, diretta alle sue labbra, mentre con la mano
lui faceva scivolare piano la sottile camicia da notte giù
dalla spalla.
E nessuno dei due si preoccupò più di guardare lo
spettacolo pirotecnico.
Tra lo schiocco dei baci, lui sorrise al pensiero che Victor potesse
ancora essere preoccupato per le sue supposte notti fredde e solitarie.
***
Victor non poteva evitare di pensare che André aveva avuto
ragione ancora una volta.
L’amico aveva assistito al lento avvicinarsi tra Girodelle e
la Fréville e da subito, aveva annusato guai.
Il conte aveva minimizzato i suoi timori, garantendo che non era un
novellino, che si trattava solo un innocente flirtare, che avrebbe
saputo fermarsi al momento opportuno e che nessuno si sarebbe fatto
male. Invece…
Invece Camelia rischiava di diventare un problema.
Non si era mai preoccupato di incontrarsi con dame sposate. Non era un
segreto che donne annoiate dalla vita matrimoniale, trovassero
equilibrio alla loro insoddisfazione con uomini aitanti, liberi di
cuore, impegnati nella carriera, come lui.
Ciascuno otteneva ciò che desiderava da queste avventure,
senza strascichi, senza conseguenze.
Ma Camelia era sposata con un uomo che, sebbene molto più
anziano di lei, era molto geloso e purtroppo, anche molto potente.
Victor era in un certo senso abituato ad “usare”,
ma quella sera, sentiva di essere stato la vittima. Sentiva che quella
donna stava prendendo da lui più di ciò che era
disposto a dare.
Continuava a sistemarsi gli abiti con gesti stizziti. Non gli era
garbato quell’incontro con Camelia. Amava sedurre, anche
farsi sedurre, ma si era quasi sentito sfruttato da quella bellissima,
giovane e pericolosa donna. Doveva mettere distanza tra loro e doveva
farlo senza urtarla perché urtare lei avrebbe significato
affondare la sua carriera.
Svoltò a passo svelto nel viale principale, senza badare a
dove andava, preso dal volant della manica che non voleva stare in
ordine, e per poco non urtò una dama ferma dietro la siepe
di cipresso, china ad armeggiare con le proprie sottane.
Lo spavento fu reciproco.
- Oh… Perdonate, madame!
– esclamò recuperando la gaffe con un inchino
elegante, arretrando di un passo.
La donna bionda assunse una posizione meno imbarazzante.
- Perdonate voi, signore…
Io… - mormorò.
Ma, prima che potesse aggiungere altro, un’altra donna, in
compagnia di alcune dame poche decine di metri più in
là, la chiamò.
- Françoise! –
esclamò con tono spazientito – Ti stiamo
aspettando!
- Arrivo subito, madre! –
esclamò la donna, irritata. E ricominciò a
inveire contro le proprie gonne e a strattonarle.
Girodelle, incuriosito e divertito, le si avvicinò.
- Avete forse bisogno di aiuto, madame?
– si permise, in un sussurro, immergendo il suo sguardo in
quello turchino della dama.
La donna bionda sospirò, in chiaro imbarazzo.
- Temo di sì, ma …
- gonfiò il petto con un respiro, come a prender coraggio
– Credo che un ramo si sia incastrato nella mia sottogonna,
rovi credo, perché punge e si è agganciato alla
calza e ad ogni passo…
- Françoise! Ma, insomma, che
succede? Perché te ne resti indietro!–
esclamò la madre che nel frattempo li aveva raggiunti e
lanciava occhiate inquisitorie al giovane.
Girodelle, prima che la bionda Françoise potesse rispondere,
si presentò con un inchino.
- Se permettete, madame…
Colonnello Victor Clément De Girodelle, al Vostro servizio!
La donna, porse la mano secondo prassi, e galantemente, Victor
eseguì un perfetto baciamano.
- Marguerite De Jarjayes e questa
è mia figlia Françoise… - rispose
madame, lasciando cadere lo sguardo sull’anulare privo di
fede del giovane Girodelle.
- Vostro marito è forse il
generale Jarjayes? Sì? Oh, conosco molto bene il generale,
grand’uomo e grande ufficiale. – rispose Victor che
aveva notato il classico sguardo di una madre con una figlia nubile al
seguito - Stavo appunto discorrendo con la vostra incantevole
figlia di quanto sia notevole questo esemplare di cipresso di Leyland
…
Entrambe le donne lo guardarono malamente. In effetti, mai si era
sentita una scusa peggiore ed abusata di quella botanica.
- … e che, poco distante da
qui, si trova un esemplare addirittura centenario di cipresso toscano.
- La scusa peggiorava. – Sono certo che a madamigella
Françoise interesserebbe molto vederlo… -
aggiunse con candida sfacciataggine.
- Monsieur … Non sta bene che
una giovane donna si accompagni con un gentiluomo senza chaperon
… - obiettò Marguerite, con tono di rimprovero
poco deciso.
- I giardini sono pieni di persone a
passeggio … Prometto che resteremo in luoghi affollati. -
Mentì, posando la mano sul cuore, quasi un giuramento.
L’unico genere di giuramento che si permetteva di infrangere,
quello che riguardava la conquista.
Marguerite, ora che aveva riconosciuto ed inquadrato il gentiluomo,
soppesò solo un istante i pro ed i contro, quindi,
lanciò uno sguardo infuocato alla figlia.
- Comportati bene e non tardare! -
l’ammonì. – Colonnello, - disse poi
salutando Girodelle – mi fido di voi…
Victor e Françoise si chinarono ossequiosamente, salutando
madame che raggiungeva le amiche.
- Bene … Ed ora vediamo di
risolvere il vostro problema! – disse indicandole il sentiero
laterale.
Nascosti agli sguardi, al riparo dalla luce delle torce, Victor si
chinò ai piedi di Françoise, permettendo alla sue
mani di scivolare appena sul raso azzurro e lucente
dell’abito fino all’orlo.
Infilò le mani sotto le gonne che lei alzò appena
ed arrivò a sfiorarle la caviglia, risalendo lentamente
lungo il polpaccio.
- Ahi … - esclamò
piano Victor.
- Noto che lo avete trovato, …
alfine... – commentò lei, sorridendo ironica per
il lento vagare di quelle mani, tra il tulle e sui ricami delle calze.
Era davvero buio, ma lo sguardo ed i sorrisi che si scambiarono, non
potevano essere più chiari.
- E’ un compito delicato,
madamigella…
- Sì, noto con quanta
delicatezza vi impegnate… - replicò.
Uno strappo secco, un “ahi” simultaneo di entrambi
e la faccenda fu risolta.
Victor si rialzò e staccò gli occhi da quelli di
lei per osservare l’infame rametto.
- Non sembra un rovo… -
mormorò alzandolo per intercettare un raggio di luna -
… direi… No, posso affermare che è un
ramo di rosa… Già, c’è anche
un bocciolo, una rosa bianca! – e lo indicò a lei,
tornando a guardarla negli occhi. – Strano…
- Cosa?
- Un ramo di rosa in questo angolo del
parco, intendo. Non ci sono rose qui… Mah, sarà
caduto da un carretto dei giardinieri… Che increscioso
incidente… Increscioso, ma … provvidenziale.
Staccò il bocciolo dal ramo spinoso e glielo porse, gettando
il resto sotto una siepe. Ella prese la piccola rosa e, facendosi
più vicina, gliela appuntò sul collo della giacca
blu.
Vincendo la tentazione di avvicinarsi ancor più a lei,
Victor le porse il braccio, galantemente, e fu così che
cominciarono a passeggiare per i viali più tranquilli del
parco, mentre, in lontananza, la musica si affievoliva.
- Françoise De
Jarjayes… - mormorò lui dopo parecchi istanti di
silenzio – C’è forse un
“Oscar” come primo nome?
- Sì, ma mia madre lo detesta
e preferisce chiamarmi Françoise. Così, sapete di
me?
- Molti anni fa avrei dovuto battermi con
Voi alla presenza del Re per un posto di capitano…
- Oh, eravate voi?
- Già… Quanto
è strano il destino, vero?… - si sorrisero - Ma,
non vi ho mai vista a Versailles, prima.
- Sono tornata da poco da Arras, dove ho
sempre vissuto. Mio padre ha deciso che sia giunto il momento
c’io mi rassegni al matrimonio. – spiegò
con un sospiro, guardandosi distrattamente intorno.
Victor rise.
- Scusate, madamigella, ma lo avete detto
come lo direbbe un uomo…
- Come lo direbbe uno scapolo impenitente
come voi, intendete?
Victor chinò il capo, accusando la scoccata.
- Così… anche voi
sapete di me?
Erano ormai arrivati alla Orangérie. Lo si capiva solo
annusando l’aria, piena di aromi esotici: limoni, arance,
datteri, pesche…
Oscar si staccò dal suo braccio e colse una pesca.
L’annusò, intensamente, quindi se la
portò su una guancia e la strofinò piano.
Victor rimase estasiato a guardarla.
- E’ così
… vellutata. – mormorò lei,
giustificandosi.
Allungò la pesca sulla guancia dell’uomo e
ripeté i movimenti.
- Non è forse vero?
Victor chiuse gli occhi un istante.
Chissà se quella donna si rendeva conto di cosa gli stava
facendo? La morbidezza del frutto, il profumo,
l’estate… Si sentiva stordito.
Riaprì gli occhi su di lei.
- Sì, velluto…, -
mormorò con voce roca – ma mai come la vostra
pelle, madame. – aggiunse prendendole il polso e posandovi un
bacio.
Oscar sorrise, reggendo lo sguardo; quindi si liberò dalla
presa.
- E’ ora di rientrare per
me…
Victor si rassegnò a riporre le armi del seduttore e si
limitò ad indicare la scalinata che dall’
Orangérie, arrivava alla reggia.
Sembrava intenzionato a far durare quegli scalini un
eternità.
Ed in effetti riuscirono a parlare di tantissime cose lungo il
tragitto. Dovette ammettere con sé stessa che era piacevole
conversare con quell’uomo, che non era certo il tipico
aristocratico ignorante ed insensibile di cui la corte pullulava.
A Victor De Girodelle piacevano le cose belle. E da come la guardava,
doveva averne trovato una splendida.
I loro passi riecheggiarono sui marmi nel silenzio del palazzo. Ormai
la festa era finita e loro erano tra gli ultimi ritardatari.
La guardia nell’androne scattò
sull’attenti riconoscendo l’ufficiale.
Oscar posò la mano sul corrimano, piacevolmente fresco, e
salì un paio di gradini, quindi si volse.
- Non è opportuno che mi
accompagniate fino ai miei appartamenti, conte.
Victor annuì. Non si aspettava certo un invito da lei, non
era il tipo. E se anche avesse voluto la sua compagnia, era certo che
quella donna non avrebbe tergiversato, ma sarebbe andata dritta al
punto.
- Vi vedrò ancora? –
chiese solo, emozionato come un ragazzino. Oscar sorrise, ma riprese a
salire, voltandogli le spalle.
- La vita è una ruota,
colonnello… prima o poi, ripasseremo di qui. - disse.
Nella penombra lanciata dalle candele delle appliques poste alle pareti
del corridoio, Oscar arrivò alle sue stanze, con passo
stanco, forzandosi ad ignorare il dolore causato dalle scarpette.
Aprì la porta e, senza disturbare la domestica appisolata
sul divanetto dell’ingresso, prese il candelabro dai ceri
ormai quasi del tutto consumati posato su di un piccolo
tavolo ed entrò nel salottino. Riaccostò la porta
e si abbandonò contro di essa, posandovi nuca, spalle e le
braccia tenute intrecciate dietro a sé.
Sospirò. "Finalmente sola"
Quella forse era stata la serata più lunga della sua vita.
Era la prima volta che si costringeva per così tante ore in
abiti femminili.
Per un istante si domandò se poteva farcela, se sarebbe
riuscita ad arrivare fino in fondo. Rimandò la risposta
all’indomani, quando la luce del giorno e la rassicurante
sensazione di abiti maschili sulla pelle, l’avrebbero
rinfrancata e mostrato tutta la stupidità di quei dubbi.
Risollevò le palpebre e guardò il mazzo scomposto
di rose bianche, cui la domestica non aveva badato. Lo stesso mazzo dal
quale lei stessa aveva sottratto un bocciolo. Un bocciolo galeotto e
con tante spine.
- continua
1) dritta dritta da “Il
padrino”
2) Il 21 giugno 1784 ci fu davvero una
grande festa in onore del Re di Svezia, ma al Trianon.
3) La fontana illustra la storia di
Latona, amante di Giove, il quale trasformò in rane i
contadini che avevano negato aiuto a lei ed ai suoi figli.
Il disegno non si riferisce a questo capitolo, ma comincio col
presentare Camelia:
http://www.youtube.com/watch?v=b-TzguHJKxY video della
canzone “Les rois du monde“
http://www.youtube.com/watch?v=4qcoF27iOr4
testo della canzone « Les rois du
monde »
Il
freddo penetrante sembrava voler anticipare l’inverno, un
assaggio per i mesi a
venire. Un vento gelido soffiava da giorni, proveniente da nord,
ed il sole pareva essersene andato per
sempre.
André
camminava per la strada, ignorando i passanti infagottati, comunque
infreddoliti, ignorato a sua volta, infagottato a sua volta. Aveva
fatto visita
al suo conto in banca e gli era toccato constatare quanto il
barone avesse ragione anche ora, da morto:
i soldi non sono mai abbastanza.
I
conti in sospeso erano stati saldati, i passaggi per le
proprietà registrati.
Non era certo povero, ma aveva avuto una dimostrazione pratica di
quanto fosse
volatile il denaro, ovvero un momento c’è, il
momento dopo è già svanito.
E
poteva dirsi fortunato perché, grazie al suo novello stato
nobiliare, non doveva versare tasse!
Dopo
l’affanno delle prime settimane successive alla morte del
barone, giornate
trascorse a verificare lo stato delle proprietà, conoscere i
mezzadri, i
curatori, il personale; dopo ore perse a tirar somme e metter ordine
tra carte
polverose, ora si trovava con pressoché nulla da fare.
Ora
che aveva sbrigato ogni pratica possibile, inimmaginabile e assurda
presentatagli dalla burocrazia per quella successione,
André non aveva più scuse per riempire le
giornate. Era senza impegni da manco mezzora e già si
annoiava.
Un
impiego non gli avrebbe fatto male, né a lui, per tenerlo
impegnato, né alle
sue finanze, per mantenerle stabili.
Aveva
visto il cartello, ma di sfuggita e tornò indietro per
leggere meglio quel che
gli era parso uno scherzo.
Solo
un pezzo di carta affisso alla porta,
con sopra scritto “ufficio
reclutamento”.
Incuriosito,
aprì l’ingresso della locanda che lo accolse con
uno scampanellio, mentre un
avventore usciva stringendosi nel cappotto. Dentro, una mattina come
tante.
Pochi clienti intenti a scaldarsi le ossa con bevande calde, leggere un
giornale, trattare qualche affare. Signorine di mestiere
chiacchieravano
tranquille, riposandosi in attesa del lavoro serale, aiutando a servire
ai
tavoli o dedicandosi al rammendo dei loro stracci.
E
poi, ad un tavolo vicino al bancone, stava un soldataccio, uno come
tanti.
No,
a
dire il vero questo era sopra la media, in tutti i sensi. Come altezza
e come
sfacciataggine.
Avere
l’ardire di piazzare la postazione di reclutamento nel
mezzo di una taverna, con delinquenti e donnine di malaffare era
qualcosa di
più che originale.
Se
ne
stava là, con la sua uniforme blu, pulita ma con un non so
che di disordinato.
Forse per via di quel fazzoletto rosso legato al collo, che spiccava
sulla
pelle nuda, fra i lembi della camicia malamente accostata. Dava la
sensazione
di una persona di poca pazienza, più abile a ragionar con le
mani che con le
parole.
-
Come avete detto di chiamarvi?
-
Grandier,
André Grandier, Barone di Plessis Bellière
-
E
cercate un lavoro? – chiese quello senza nascondere
incredulità, alzando lo
sguardo dai registri che stava compilando.
-
Sissignore.
Penso che potrei riuscire bene nel compito, soldato al servizio dei
cittadini
di Parigi.
Il
reclutatore inarcò un sopracciglio,
perplesso, ma non espresse a parole il suo pensiero.
-
Sono 50 dindini, monsieur… - disse però
con un accenno di sorriso canzonatorio.
-
50!?!
-
Sì,
per un grado di capitano. Non vorrete arruolarvi per fare il soldato
semplice,
no? Le camerate sono orride, orride davvero! -
sottolineò con una smorfia di
disgusto volutamente esagerata.
Chinò
lo sguardo, riprendendo a scrivere sul mastro, certo che il giovanotto
dalla
faccia pulita se ne sarebbe tornato sui suoi passi.
-
Facciamo 30… - buttò lì
André, appena
appena seccato, col sospetto che il tipo stesse facendo il furbo.
- Facciamo
40! – rilanciò l’altro, sfrontatamente,
sempre continuando la sua contabilità -
Siamo la Guardia Francese: siamo economici, ma un po’
puttane. La diamo via, ma
non per niente. L’uniforme, intendo. –
Spiegò, poco diplomaticamente, ma
chiaramente.
Il
gigante alzò lo sguardo dal tavolo e gli sorrise beffardo.
-
Da queste parti non siamo pignoli coi
damerini in brutte acque economiche… - continuò
di fronte al silenzio.
-
Io
non sono economicamente in brutte acque – obiettò
André, aggrottando la fronte
per quella insinuazione.
- Sì
si! Certo, certo! come volete voi! Magari un giorno mi racconterete
pure di
esser figlio di un falegname e che vi arruolate per non morire di
fame… -
aggiunse sarcastico.
André,
disarmato da quella strafottenza, attese un istante, quindi
distese i lineamenti del volto ed
accettò il prezzo che veniva preteso con un lieve sbuffo di
rassegnazione,
mettendo mano al sacchetto del denaro.
-
Comunque,
benvenuto nella Guardia Francese, capitano Grandier De Plessis
Bellière! –
esclamò quello, voltando il registro verso di lui e
porgendogli la piuma per la
firma.
Chissà
perché, ma André era convinto che il
tizio fosse riuscito comunque a fare la cresta su quella tassa.
Era
così diventato capitano nella Guardia Francese. Una
decisione istintiva.
Dopo
i primi tempi, in cui si era ripetutamente pentito della scelta fatta,
ci aveva
fatto l’abitudine ed era arrivato ad apprezzare davvero quel
lavoro che lo
teneva a contatto con ogni sfumatura della vita di Parigi.
I
suoi commilitoni erano di quanto più variato e pure avariato
potesse esserci
nel genere umano.
Disgraziati
arrivati dalla campagna in cerca di lavoro, piccoli delinquenti
scampati alla
forca, bari, puttanieri, e come nel caso di Alain, nobile decaduto, con
un
accenno di tutti i difetti già citati per i colleghi.
Nonostante
le premesse, molti di loro dimostrarono di avere un cuore
d’oro nascosto sotto
la sporcizia delle uniformi e per André divennero quasi una
famiglia.
E
con
Alain divenne vera amicizia. L’omone, davvero un colosso,
sfacciato al di là di
ogni vergogna, spiccio e maleducato, ma per nulla stupido, non perdeva
occasione per canzonare la sua riservatezza al limite della timidezza.
Tanto
quanto Alain era spudorato ed esuberante, André appariva
morigerato e
riservato.
Così,
Alain si atteggiava a sbruffone con le fanciulle, non perdendo
occasione di
attaccar bottone con tutte quelle che gli capitavano a tiro.
Chiacchierava e
corteggiava ad ampio raggio; poi, chissà perché,
queste si mettevano in testa
che il suo amico silenzioso fosse “quello giusto da
sposare” ed André, santo
solo fino ad un certo punto, finiva col raccogliere i frutti delle
fatiche
dell’amico.
Ma
Alain non gli portava rancore. Non per molto, almeno, vista la
rapidità con la
quale passava da un grande amore a quello immediatamente successivo,
ovviamente
ancor più grande.
André
aveva poi compiuto un atto di notevole generosità.
La
madre e la sorellina di Alain, Diane, erano costrette a vivere nella
miseria
dopo la morte del capofamiglia e la rovina economica.
Il
giovane barone aveva collocato madame De Soisson e la sua bambina
presso una nobile
signora sola, che abitava nella sua stessa via e che era stata molto
amica
dello scomparso barone.
André
aveva questa abilità di prendere due piccioni con una
fava.
La
famiglia di
Alain era al sicuro e la nobildonna, grazie alle cure di madame De
Soisson ed
alla esuberanza della piccola Diane era tornata a nuova vita.
Luglio
1784, tenuta Jarjayes
- Specchio,
specchio delle mie brame…, - domandava André al
proprio riflesso nell’acqua,
lì seduto, gambe penzoloni, sullo
sgangherato pontile – dove sarà la donna
più … arrogante del reame?
Se
ne stava
pensieroso a lanciar sassi nello stagno, mordendo una mela. Era il
terzo giorno
che si recava al laghetto del primo incontro e mai l’aveva
incrociata.
Cominciava a pensare che il loro imbattersi l’un
l’altro in quel posto fosse
stato solo un caso, uno sbaglio, che non fosse abitudine di lei recarsi
in quel
luogo.
Pensò
che tutte
le sensazioni che lo avevano assalito in ogni momento delle giornate e
delle
notti dopo di allora, fossero solo i suoi ormoni impazziti e non cose
come
fato, predestinazione e giustificazioni varie che si potevano trovare
in
qualunque romanzetto per fanciulle.
Non
che lui
leggesse romanzetti, sia chiaro!
Ad
un certo
punto sentì un rumore di passi alle sue spalle, sul legno
scricchiolante.
Sorrise.
“Ecco!
… “
L’eco
di una
delle ciance da romanzetto gli stava dicendo “è
lei!”
Ebbe
la certezza
di quella sensazione quando vide l’immagine di Oscar riflessa
nell’acqua, in
piedi dietro di lui.
- Vedo
che oltre che maleducato, siete pure ottuso… villano –
lo accusò lei,
sorridendo serena, usando un tono carezzevole in contrasto con le
parole
taglienti. – Non vi avevo forse ordinato di non mostrarvi
più a me? Cosa non
avete compreso della frase “non voglio più
vedervi”?
André
si alzò
con calma e sul volto aveva una espressione gaia che non riusciva a
mascherare.
- Dovete
perdonarmi, sono più avvezzo ad ordinare che ad
obbedire… Capitano André
Grandier, Barone De Plessis Bellière – si
presentò ufficialmente.
“Ufficiale e
gentiluomo …”, pensò
lei increspando le labbra in un sorriso compiaciuto e divertito.
-
Ma
in realtà, volevo scusarmi con Voi.
Si
inchinò
umilmente.
Oscar
inarcò un
sopracciglio, sorpresa.
- Sono
stato alquanto sgarbato col mio gesto … ehm… -
tentennò, alzando lo sguardo.
- Sì,
ho
capito a quale gesto vi riferite – lo troncò lei,
continuando a sorridere
mentre visualizzava ancora la conclusione del loro primo incontro,
invitandolo a rilassarsi con un gesto della
mano.
- In
fin
dei conti ero io in torto, trovandomi nelle vostre proprietà
senza permesso,
madame. – ammise, riguadagnando la sua statura.
Oscar
inarcò
ancora una volta un sopracciglio.
-
Madame??
André
assunse
una sincera espressione interdetta.
Cosa
aveva detto
di sbagliato?
-
Quindi
voi siete venuto a scusarvi solo perché sono una donna?
Non
sorrideva
più.
André
aprì bocca
per tentare una difesa, anche se onestamente, non comprendeva ancora
perché
dovesse difendersi.
Ma
lei lo zittì
ancor prima che un qualunque suono potesse uscire dalle sue labbra.
Portò
una mano
tesa davanti a sé.
-
Oh,
no! Non provate neppure a discolparvi! Sono ovvi i motivi che vi hanno
portato
qui e la galanteria è quanto mai fuori posto, signore.
Quindi… - si volse e si
avvicinò al suo cavallo che brucava tranquillo pochi metri
più in là – Poiché
vedo che al fianco portate un fioretto, spero sappiate pure farne uso!
Estrasse
una
lama dalla custodia fissata alla sella e, dopo un paio di fendenti
tracciati
nell’aria, puntò il fioretto nella sua direzione.
André,
ancora
sgomento, corse con lo sguardo lungo la lama, fino ai due occhi
irridenti che si trovavano ai lati dell’elsa.
-
Credo
di non aver capito … Mi state forse sfidando a duello?
Oscar
abbassò
l’arma e gli si avvicinò.
-
Ma
allora siete davvero tardo… - mormorò –
Certo che vi sto sfidando! Vi siete
presentato come farebbe un signore, quindi… Vediamo di
risolvere la faccenda
come sarebbe d’obbligo fra due gentiluomini!
André
ancora non
riusciva a crederci, ma la cosa lo stava davvero intrigando. E pose
mano
all’impugnatura.
La
donna si mise
in guardia e, dopo il formale gesto di saluto, lui attaccò.
Si
trovò subito
in difficoltà. Non solo lei non era debole in difesa, non
solo attaccava con
energia, era anche molto agile e veloce.
Era
brava, davvero brava. Doveva aver
passato giorni e giorni, per chissà quanti anni, a sudare su
lezioni di
scherma, sotto la guida severa di rigidi insegnanti, sotto
l’occhio severo dello
stesso generale.
-
Siete
rigido come un pezzo di legno! Più sciolto nei movimenti!
– lo rimproverò. –
Tenete alta la guardia! Vi battete come
un marinaio ubriaco … Ma dove avete imparato a tirar di
scherma! – esclamò
provocandolo.
André
pensò a
tutte le volte in cui il suo amico Victor lo aveva ripreso,
inutilmente, allo
stesso modo.
Ma
con maggior finezza.
Davvero,
il suo
stile lasciava alquanto a desiderare … Semplicemente
l’eleganza del fioretto
non faceva per lui.
Un
attimo di
distrazione e la spada di lei gli portò via la lama dalle
mani che, con un tonfo
finì nell’acqua del lago.
Ed
Andrè si ritrovò il ferro della bionda puntato
alla gola.
-
Non siete un grande spadaccino,
signore.-
rimarcò aggrottando le sopracciglia.
-
Sono
un autodidatta. – Si giustificò sollevando le
spalle.
Oscar
abbassò l’arma.
-
Non
mi ritengo soddisfatta,… signore.
– precisò dando una impostazione
leggermente canzonatoria
all’appellativo.
-
Quindi?
-
Quindi…
André
non riusciva a crederci. Lo aveva sfidato ancora, una corsa a cavallo
stavolta.
E
lui, da imbecille, aveva accettato.
Era
una furia, lei. Non aveva mai conosciuto una donna tanto…
pazza.
Non
poteva essere definita diversamente dopo averla vista cavalcare.
Non
gli aveva quasi dato il tempo di accettare. Era balzata sul suo
purosangue
candido, lo aveva sfidato, girandogli attorno un paio di volte,
urtandolo
appena con le spalle dell’animale, scalpitante quasi quanto
lei.
Lo
aveva offeso. Lo aveva definito “mollaccione”.
Nessun
uomo che avesse rispetto di sé poteva accettare una simile
definizione che,
sotto sotto, insinuava qualcosa di perfino peggio di una debolezza di
carattere.
Sia
mai che si offenda la virilità!
Non
contenta aveva aggravato l’insulto domandandogli se aveva
forse paura di
perdere con una donna.
E
tutto ciò era accaduto in pochi secondi.
Si
interrogò su quanto sarebbe stata capace di offenderlo in
una vita intera.
André
si issò a cavallo ostentando calma ed autocontrollo; ma il
sangue pulsava nelle
vene, il cuore batteva impazzito e qualcosa gli sfarfallava nello
stomaco.
Non
si era mai sentito così eccitato ed esaltato in vita sua.
Lanciò
il cavallo sulla scia di quello della donna, la quale non gli aveva
certo
permesso alcun tipo di vantaggio.
Sua
nonna amava ripetergli “chi
dorme non piglia pesci!”, ogni mattina quando lo
buttava giù dal letto da ragazzino.
Evidentemente,
Oscar Françoise De Jarjayes non aveva mai avuto problemi di
sonnolenza
mattutina.
Era
certamente la persona più sveglia, esuberante, iperattiva,
scatenata che avesse
mai conosciuto.
E
non era un uomo.
Sorrise
fra sé.
“Certo
che no. “
Nonostante
l’abbigliamento, i modi, il linguaggio tutt’altro
che adatto ad una dama, era
quanto di più femminile avesse mai sognato.
E
desiderato.
“Pazzo!
Non la conosci nemmeno!”, si disse mentre
l’adrenalina saliva a
livelli insopportabili nel suo corpo, facendogli dolere i muscoli per
lo
sforzo.
I
cavalli correvano per la campagna arroventata, sollevando polvere,
grondando
sudore, intrecciando percorsi attorno ai covoni di fieno
ammonticchiati,
disturbando una giovane coppia nascosta tra la paglia.
- Chi
arriva primo al ciliegio laggiù! - gli aveva
gridato prima ancora che lui
potesse accettare o rifiutare la sfida.
Non
voleva che lo stracciasse anche stavolta. Ce la mise tutta, spronando
il povero
animale più di quanto immaginava fosse capace di sopportare.
Eppure lei era lì,
avanti a lui.
La
vide voltarsi e sorridere sfrontata. Riuscì a guizzare in
avanti e si illuse,
per qualche istante che, magari, avrebbero potuto tagliare insieme il
traguardo, quando si accorse di un ostacolo davanti a loro: un
torrente.
Spinto
dall’istinto, tirò le redini. Cosa che lei non
fece.
-
No! – gridò, immaginando le intenzioni
della sua avversaria.
E
lei, saltò.
Il
cuore gli mancò un battito.
Saltare,
lanciati a quella velocità, coi cavalli esausti?
"Pazzia!"
Cadere
a quella velocità?
"Follia!"
Davanti
ai suoi occhi sfilarono le immagini peggiori che si potessero
immaginare per la
conclusione di quella sfida assurda.
Ma
il purosangue non rovinò al suolo col suo cavaliere.
Lo
stallone bianco atterrò sulla riva opposta del ruscello,
nitrendo spaventato,
ma riuscendo a mantenere l’equilibrio.
La
donna, salda in sella, frenò l’animale,
permettendogli di compiere un largo
giro attorno all’enorme ciliegio, consentendogli di
rallentare senza impiantarsi.
La
sentì scoppiare a ridere.
-
A quanto pare vi ho stracciato di nuovo,
signore!
Ancora
quel tono derisorio nel “signore”.
Lo
guardò ghignando. Ma lui non si sentì offeso.
-
Il vostro cavallo è decisamente più veloce
del mia povera bestia, niente altro che un ronzino
dell’esercito. E voi siete
anche più leggera di me. – si difese, cercando di
non mostrare l’eccitazione
della sua voce.
La
bionda sgranò gli occhi, incredula.
-
Vedo che il vostro onore ne ha risentito,
capitano. Vi irrita così tanto esser stato battuto da una
donna?
-
Sto
solo osservando i punti a vostro favore …
-
Volete
una rivincita?
La
domanda non lo sorprese, visto il desiderio di primeggiare di lei, ma
si
sorprese per l’ audacia della risposta che diede.
-
Voglio rivedervi… - esclamò. E non per
una
rivincita dicevano i suoi occhi.
Il
vento gli scompose i capelli, liberamente sciolti, visto che durante la
corsa
il fiocco blu era scivolato via.
Il
cavallo di lei picchiò uno zoccolo in terra, ancora
nervoso.
Per
un istante la
donna non rispose e André avrebbe giurato che le fosse
mancato il respiro, non
per la corsa, ma per la sfrontatezza di qualche pensiero che le era
passato per
la mente.
Ma
fu solo un attimo ed il sorriso beffardo ricomparve sul viso di Oscar.
- Non
siete nella condizione di fare
richieste al vincitore. Ma… - si interruppe sorridendo,
abbassando lo sguardo,
persa in un pensiero; e si voltò per andarsene.
- Ma?
– la incalzò lui.
Gli
rispose con un cenno di saluto della mano, senza voltarsi.
Capitolo 5 *** ... qui noi siamo i re - parte 1 ***
I re del mondo cap. 5 parte 1
cap.
5
“… qui Noi siamo i re”parte 1
Parigi,
agosto 1760
Con
le tempie poggiate alle colonnine della balaustra, quasi incastrato fra
i due pezzi di pietra con la testa mora e delicatamente
riccioluta, il bambino guardava la Senna scorrere veloce,
tumultuosa dopo una settimana di pioggia incessante. Osservava
le acque di un verde scuro, torbido, spaventoso; poi alzava gli occhi
ammirati a tutti i bei palazzi che si affacciavano lungo le sponde e si
rispecchiavano, candidi, chiari grazie al sole vivace che filtrava tra
le nubi ancora minacciose. La
quiete dopo la tempesta. Cos’altro poteva augurarsi un bimbo
di sei anni appena compiuti, orfano e senza averi? Quella era Parigi. Quella era
Parigi!, ripeteva, eccitato, nella sua testina. Non
era mai stato in una città così grande. A dire il
vero, neppure in una più piccola. Quanto
chiasso! Quanta
puzza! Quanta
gente! Nuvolette
di vapore si alzavano dalla pavimentazione delle strade, risultato del
sole ancora caldo di quel fine agosto sulle pozze formatesi per gli
acquazzoni. Pochi
istanti prima, pareva l’inferno visto da Noè; ora
tutto si risvegliava alla vita. Un
po’ come quel germoglio di speranza che egli sentiva nel suo
cuoricino già troppo provato. La
voce della cugina Claire lo riportò al presente, alla
inevitabile realtà. -
Vieni, André, siamo quasi arrivati alla casa dove
presta servizio tua nonna. Sarà contenta di vederti! Gli
tese la mano ed il piccolo gliela prese fiducioso, ma non abbastanza
sicuro di ciò che l’aspettava da potersi
permettere un sorriso. “Già. I
miei sono morti, per questo sono qui. Sarà contentissima di
avermi tra i piedi! Nemmeno la riconoscerei la nonna. Dicono che
c’era quando sono nato, ma io mica me la ricordo.”,
rifletté . Arrivarono
ad una grande casa con giardino. Curato, fiorito. Il cancelletto in
ferro battuto non era chiuso a chiave e loro entrarono. Un giardiniere,
abbronzato ed accaldato, si inchinò al loro passaggio e
sorrise a Claire, ma non disse loro nulla. André non si
meravigliò: tutti gli uomini sorridevano a sua cugina Claire
e restavano senza parole. Arrivati
al portoncino d’ingresso, la ragazza
picchiò il battente d’ottone di quella casa
immensa mentre André allungava la testa
all’indietro per osservare meglio le facce strane incise
nella pietra della facciata; dopo pochi istanti, una vecchina dai
capelli grigi in abito blu e cuffietta aprì
l’uscio. Sua
nonna. “E così
questa è nonna Marron Glacé… Che nome
strano. “, pensò il bimbo, soffocato
dalle gonne delle due donne che si abbracciavano. Dopo
esclamazioni di benvenuto e frasi di rito con Claire, la piccola donna
calò lo sguardo su di lui, uno sguardo severo ma luminoso
dietro gli occhialini tondi. -
E così tu sei il mio André, eh?
… Non distrarti mentre ti parlo, giovanotto! – lo
riprese per lo sguardo preoccupato lanciato a Claire, la sempre
sorridente Claire. “Sì,
è anche una donna strana, forse perfino più del
suo nome. Fa anche abbastanza paura. E da adesso abiteremo
insieme.”
Marron
Glacé, che tutti chiamavano Nanny identificandola con il suo
lavoro di governante, li invitò ad accomodarsi
nell’anticamera del palazzo e da lì, nelle cucine. Numerose
pentole sbuffavano sulle stufe, con le diverse pietanze che sarebbero
state servite a cena da lì ad un paio d’ore. La
nonna corse a verificare lo stato di cottura, velocemente, rimestando
il contenuto di una, aggiungendo ingredienti ad un’altra. -
Sedete, sedete! – esclamò loro
– Ho preparato dei biscotti all’uva passa e
dovrebbero esser pronti. Giusto in tempo! Prese
una teglia dal forno e riversò il contenuto su di un piatto
da portata, per poi metterlo fumante e profumato proprio sotto il naso
di André. -
Una bel semifreddo al cioccolato ci starebbe proprio bene
insieme, vero André? – disse piano. André
sorrise. Il primo vero sorriso da mesi. Non aveva idea di cosa fosse un
“semifreddo”, ma la parola
“cioccolata” lo allettava parecchio.
L’aveva assaggiata una sola volta e non ne aveva mai scordato
il sapore. Cominciò
a convincersi che la nonna non dovesse poi esser malaccio …
Anche se tutti quei mestoli appesi, lo inquietavano un poco.
Terminò
il semifreddo: troppo buono! E anche i biscotti: troppo buoni! Si
pulì le mani e la bocca nel tovagliolo di cotone,
così come gli aveva insegnato mamma e si accorse che le due
donne non facevano molto caso a lui. La
nonna teneva lo sguardo basso, fisso sul grembiule e Claire parlava
piano, triste. Non
capiva bene cosa dicessero, ma era certo stessero discorrendo di sua
madre. Quando
vide la nonna levarsi gli occhialini e metter mano ad un fazzoletto,
pensò di allontanarsi. Era stanco di veder la gente attorno
a lui disperarsi.
Scivolò
piano dalla sedia e uscì dalla cucina senza che le due se ne
accorgessero. Aprì la porta che stava in fondo
all’ingresso e sbirciò dentro. Il
mondo che si apriva oltre quella porta era immenso. Una
grossa scala di legno scuro e lucido troneggiava al centro della
stanza, niente altro che un ingresso, ma André, abituato
alle misere due stanze in cui era cresciuto con mamma, non poteva
saperlo. Alla destra udì le voci di Claire e della nonna
provenire da un’altra porta che dava su un corridoio,
evidentemente un altro ingresso alle cucine. Guardò ancora
la scala che così maestosa gli incuteva un poco di paura. Si
avvicinò al primo gradino e guardò su, in alto,
al soffitto affrescato. Non aveva mai visto nulla di così
alto, forse nemmeno la chiesa del suo paese arrivava a
quell’altezza. Gli tremarono un poco le ginocchia per le
vertigini che immaginò di poter provare se fosse riuscito a
salir lassopra. A quel punto venne distratto da un tonfo, qualcosa che
era caduto sul legno del pavimento in un’altra stanza.
Andò ad affacciarsi ad una porta grandissima, coi vetri come
finestre. Un
signore ben vestito, si teneva con la mano sinistra ad un mobile e con
il bastone che teneva nella destra, brancolava sotto di questo,
borbottando piano. Evidentemente cercava di cavare qualcosa che stava
là sotto per mezzo del bastone. Ogni tanto accennava a
piegar le ginocchia e subito seguivano dei lamenti conditi con altri
borbottii e termini che una volta André aveva sentito
provenire dall’interno di una locanda. Mosse
qualche passo e si fermò accanto all’uomo anziano. -
Avete forse bisogno d’aiuto, signore? L’uomo
lo guardò sorpreso, non avendolo udito arrivare. -
A dir la verità sì, giovanotto
… mi è caduto un oggetto là sotto e
non riesco a chinarmi per prenderlo. Senza
che dovesse chiedere, André si inginocchiò sul
parquet lucido e allungò una mano sotto il grande
cassettone. Brancolò un poco inutilmente, quindi decise di
sdraiarsi completamente e di infilare anche la testa oltre alle braccia
per raggiungere l’oggetto. -
Ecco a voi, signore. – disse un istante dopo
consegnando la fiaschetta d’argento all’uomo. -
Grazie, giovanotto. Sei stato molto utile. – lo
squadrò un istante, sorpreso da quei grandi occhioni
innocenti fissi senza timore su di lui - Posso sapere il tuo nome? -
Mi chiamo André Grandier, signore. –
rispose il bimbo, educatamente e senza esitazioni. -
Ah, André! Sei forse il nipote di Nanny? André
capì che si riferiva alla nonna. Annuì. -
Piacere di conoscerti, giovanotto. Sono il Barone di Plessis
Bellière e questa è la mia casa. André
fece un inchino, così come gli era stato spiegato da Claire. -
La sua casa è davvero molto grande, signore. -
Suppongo lo sia abbastanza, André. –
ruotò lo sguardo intorno, provando ad immaginarsi bambino
– Sì, credo che dal tuo punto di vista si possa
effettivamente definirla così … -
mormorò. – Tua nonna? -
Sta conversando con la cugina Claire. -
Oh, allora suppongo ne avranno per un bel po’. Tua
nonna è una conversatrice … insistente. Se ti va,
potrei farti fare un giro per la casa? -
Volentieri, signore. -
Ah, André, la fiaschetta … Ecco, se tua
nonna dovesse … Possiamo farne il nostro segreto? André
sorrise: a quanto pareva, nonna incuteva timore anche al barone.
Annuì. -
Bene! Le cucine le hai già viste, questo
è lo studio e ora andiamo nel salone da pranzo, quindi nel
salone delle feste, quindi nel salottino delle signore … Di
salotto in salotto, André si domandò se ce
l’avrebbero fatta in tempo per cena, ma non disse nulla e si
limitò a seguire il barone che aveva cominciato a
raccontargli la storia della casa e di ogni persona raffigurata nei
dipinti alle pareti. Parlava
e gesticolava, camminando piano aiutato dal quel bastone con una testa
di leone in argento appena sotto l’impugnatura.
Cominciò a raccontargli storie di dame e di avventurieri dei
quali, a quanto pareva, il suo albero genealogico era fornitissimo. Era
davvero bravo a raccontare quelle storie. André decise, in
quell’istante, che il barone gli piaceva. La sua mamma era
brava a raccontare storie e mamma gli era piaciuta tanto. -
… e qui terminiamo con me, l’ultimo
Barone di Plessis Bellière! – esclamò
l’uomo, indicando un dipinto che lo ritraeva con
parecchi anni di meno. Restarono
entrambi in silenzio ad osservare il quadro. -
Già … - mormorò il Barone
– I Plessis Bellière finiranno con me, giovanotto.
Secoli di storia, avventure, amori … André
sentiva le domande scivolare sulla punta della lingua, ma non
poté osare perché, dal piano di sotto udirono la
voce squillante di Nanny che chiamava il nipotino. Il
barone sussultò. -
Svelto, svelto, giovanotto! Prima che tua nonna si alteri
ulteriormente! Lo
spinse verso le scale e lo invitò con uno sguardo a non
aspettarlo, mentre con cautela e qualche smorfia di dolore, scendeva i
gradini. -
André! dov’eri finito!? –
esclamò Nanny con uno sguardo truce. Claire alle sue spalle
sorrideva, ma André non ricambiò il sorriso
perché constatò che la bella cugina era
già in partenza. – Saluta Claire che riparte per
tornare a casa sua. La
ragazzina dai bei capelli castani e dagli occhi smeraldini, si
chinò, spalancando le braccia. André corse da
lei, abbracciandola stretta ai fianchi. Sapeva che forse non
l’avrebbe più vista. Non come era stato per sua
madre e suo padre, ma era consapevole che ora la sua vita sarebbe stata
accanto a sua nonna. Solo, in quella casa enorme … Con due
estranei.
Restò
sul cancelletto a guardare finché Claire non scomparve alla
sua vista. Quindi richiuse e rientrò in cucina, dove la
nonna stava collocando le pietanze cucinate nei piatti di portata. -
Lavati le mani, piccolo, laggiù in quel bacile. E
poi siedi e mangia, o si raffredda tutto. Intanto io servo la cena al
signor barone. André
obbedì, in silenzio. La
minestra era davvero buona e c’era anche una fetta di arrosto
con patate. Carne… Poteva contare sulle sue ditine le volte
che ne aveva mangiata. Ma non riusciva a gustare comunque la cena. C’era
troppo silenzio in quella casa e questo permetteva ai tristi pensieri
di riaffiorare. Vide
la nonna rientrare e borbottare qualcosa riguardo la sua camera che non
aveva ancora preparato. Lo lasciò di nuovo solo.
André spazzò il piatto, andò a posarlo
nel catino delle stoviglie, vicino alle pentole da lavare. Uscì
nel corridoio che dava sullo scalone e piano piano, andò
verso quella che il barone gli aveva indicato come sala da pranzo. L’uomo
era là. Tutto solo, a capotavola di un enorme
tavolo. La tovaglia bianca era ricoperta di argenteria fumante per le
pietanze contenute. Il barone aveva un’aria davvero triste e
faceva ciò per cui, di tanto in tanto, mamma aveva
rimproverato André quando gli riempiva il piatto di cipolle. “Non si gioca col
cibo, André!”, gli diceva. -
Non è buono? L’uomo
alzò lo sguardo sorpreso. Sorrise. Quel bambino si vedeva
quanto non fosse abituato a regole d’etichetta e differenze
sociali. Ma non gli dispiaceva questa sua genuinità. -
No, André, è tutto delizioso. Ma non ho
fame. Il
bimbo sgranò gli occhi. -
Vi fa male la pancia forse? L’uomo
sorrise di nuovo. -
Vieni qui, André. Aiutami a finire la cena. Il
bimbo avrebbe potuto dire che aveva già cenato, ma, vedendo
quanto ben di dio stava su quella tavola, pensò di omettere
il particolare. -
Ti piacciono le fragole? -
Preferisco le ciliegie, signore, ma per aiutarvi posso
mangiare anche fragole. “Furbo
il piccolo …” -
Ah, André …. -
A nonna diremo che avete finito tutto voi, signore! Esclamò
prontamente, stringendo le labbra sul frutto più grande che
era riuscito ad acciuffare. Il
barone sorrise ancora. -
Tua nonna è una brava donna, André.
Dobbiamo solo stare attenti quando ha un mestolo in mano… -
e sorrise strizzandogli l’occhio .
Andrè
iniziò a lavorare per il Barone di Plessis
Bellière, seguendo le direttive di sua nonna. Aveva
cominciato nelle cucine, aiutando a lavare i piatti, pelare patate,
tagliuzzare cipolle e ramazzando il pavimento con uno scopettone
più grande di lui. Sovente
il barone lo sottraeva ai suoi doveri di piccolo ometto, per avere la
sua assistenza nei suoi giri in carrozza, in città, per
affari o dagli amici; a Nanny diceva di aver bisogno del suo aiuto, ma
in realtà voleva lui, la compagnia di quel bimbo educato e
sveglio. Ogni
giorno la nonna era la prima ad alzarsi, prima ancora che la cameriera
e lo stalliere, gli unici due domestici fissi del barone, aprissero gli
occhi. D’inverno aspettava che il fuoco nei camini fosse ben
vivo, prima di andare a svegliare il suo piccolo. D’estate le
cose andavano diversamente: André era molto più
entusiasta di fiondarsi fuori dal lettuccio all’alba. Il
sabato mattina, si vestiva velocemente e correva dal lattaio
all’angolo a prender la panna e le uova fresche
perché una volta a settimana, nonna gli preparava
il semifreddo e lui si divertiva a mangiarlo sulla terrazza, in
compagnia del barone, giocando a chi faceva la faccia più
buffa succhiando e leccando il cucchiaio. Alla
domenica, accompagnava il barone alla prima messa, perché
c’era meno gente, meno dame imbellettate e, una volta
terminata la funzione, potevano svicolare scambiando pochi saluti con
gli ancora assonnati fedeli. Il resto della mattinata era dedicato alla
città, mentre al pomeriggio, quando il signore si ritirava
per una pennichella, André si sdraiava nell’erba,
fra i fiori del giardino a godersi il sole. La sua era proprio una
bella vita, anche se qualche volta si sentiva solo, qualche volta
avrebbe desiderato un fratellino o almeno un amico.
La
vita in quella casa di persone già più che
adulte, poteva risultare piuttosto noiosa per un ragazzino.
Il padrone aveva ritmi precisi e Nanny li rispettava in maniera ferrea. Solitamente,
la nonna serviva in tavola al barone, in silenzio, quindi si ritirava
alle sue faccende. André
era molto incuriosito da quegli strani comportamenti che nonna chiamava
“etichetta”.
Nel villaggio dove aveva sempre vissuto, non aveva visto molti nobili.
A Parigi invece erano davvero tanti e anche fra coloro non
aristocratici, erano molti quelli che si atteggiavano come tali. “Gente con
soldi.”, li aveva definiti un giorno con
acidità il giardiniere, mentre spuntava il glicine
arrampicato sul cancelletto e André lo aiutava a raccoglier
le ramaglie. Mettendo i fasci potati nella carriola,
cominciò a tentare delle proporzioni su chi potesse essere
definito “coi
soldi”. Il barone gli insegnava a leggere,
scrivere e far di conto, ed era il caso di concretizzare quelle nozioni. -
Monsieur Florent? – esordì rivolto al
giardiniere – Se possiedo due vestiti per la festa, sono
ricco? -
No. -
Vestiti e un cavallo? -
No. André
si guardò intorno. -
Vestiti, cavallo e una casa come la vostra? L’uomo
scoppiò in una sincera risata, pensando alla misera stanza
in cui viveva giù a Saint Antoine. -
No, piccolo, temo dovrai ampliare parecchio la tua visione
sul mondo per definire il significato di “ricco”! In
quel mentre, una carrozza, molto bella, grande e vistosa, si
fermò a pochi passi da loro, proprio davanti la cancellata. Un
valletto in livrea scese dal sellino posteriore e si
affrettò ad aprire lo sportello, collocare lo gabellino per
agevolare la discesa dalla vettura e porgere aiuto ai
passeggeri.
Ne scesero una dama e alcune ragazzine, cinque.
Un frusciare caotico di seta, un arcobaleno di piume, fiori e
cappellini; dopo un veloce riordinarsi dietro quella che una bimba
chiamò “mére”,
in silenzio seguirono tutte la bella donna bionda. Il giardiniere si
chinò profondamente al loro passaggio e André lo
imitò, alzando però lo sguardo sulla bimba in
rosa, bionda come tutte, poco più grande di lui, che
chiudeva la fila e che lo guardò a sua volta, alzando subito
il mento con fare stizzito. “Gente coi
soldi!”, vide che gli sillabava Monsieur
Florent, sorridendo e strizzandogli l’occhio. Fu
da allora che André collegò l’aria
impettita con il potere economico. Il
valletto picchiò all’uscio e lo sentì
dire alla cameriera che la Contessa Jarjayes e le sue figlie erano
lì per incontrarsi con Marron Glacé. “Veramente
strano”, pensò il bimbo. Quindi
mollò i rametti di glicine e si avviò verso casa,
la curiosità a muovere i suoi passi verso il finestrone del
salotto principale, col terrazzo rialzato di poco da terra. Puntò
i piedi alla soletta del balcone, si aggrappò alla balaustra
di marmo e si mise a sbirciare. Vide
Marron accorrere nella stanza con le mani giunte ed il viso felice,
salutare “madame”
con una riverenza ed abbracciare una per una le contessine. Subito dopo
sua nonna cominciò a piangere e dovette tuffare il nasino a
patata in un grande fazzoletto, levandosi gli occhialini.
André
aggrappato alla balaustra, mani incrociate sotto il mento, osservava la
scena perplesso.
Non aveva mai visto tante donne così benvestite tutte
insieme. Nanny le aveva fatte accomodare nel salone grande, col
permesso del barone, aveva servito loro del tè coi biscotti
ed ora, con la più piccola sulle ginocchia, si stava facendo
raccontare di tutto. La
più grande aveva parlato del suo ingresso in
società, la più piccola del gattino che le era
stato permesso tenere. Il gattino che Oscar aveva portato sul ramo alto
di un albero e aveva lasciato là a piangere
finché un loro domestico non era andato a recuperarlo.
Aveva detto che Oscar le aveva prese dal generale per quel dispetto,
tante e “di
santa ragione”. La piccola rimarcò
che Oscar faceva sempre dispetti. Le schizzava quando correva a
cavallo, aveva rotto la bambola bella che il padre aveva portato da
Venezia, ed era impossibile giocarci, perché Oscar voleva
sempre fare i suoi giochi “da maschio” , pretendeva
ragione anche quando non l’aveva e metteva sempre le mani
addosso. Vide
Nanny soffiarsi il naso. Di nuovo.
Chissà
chi era questo Oscar così poco simpatico! -
Che si dice, giovanotto? – la voce del barone lo
sorprese. Si mise nella stessa posizione accanto a lui, ma i piedi
dell’uomo toccavano terra, mentre quelli di André
erano ancora a più di mezzo metro dal suolo. –
Stai forse spiando tua nonna, André? -
Non la capisco. – affermò semplicemente
senza tentare di negare - Da quando quella signora con tutte quelle
ragazze è arrivata, nonna non fa che piangere. Ride e subito
dopo piange. -
Ah, le donne! André sappi che sono imperscrutabili. -
Increp… -
Imperscrutabili. Significa che noi non ci capiremo mai niente. -
Ah … beh, fa nulla. Tanto non so se ci tengo ad
avere a che fare con una femmina -
Benedetto bimbo… Un giorno ti
rammenterò questa sciocchezza che hai detto. E
gli scompigliò i capelli.
-
continua con la seconda parte
Ho
diviso il capitolo lungo in due parti, perchè
così la lettura è più agevole e
perchè ... ho tempo di aggiustare la seconda parte! :D Dovrei
riuscire a caricarla entro il fine settimana. Saluti!
: )
Capitolo 6 *** ... qui noi siamo i re - parte 2 ***
I re del mondo cap. 5 - parte 2
cap.
5
“… qui Noi siamo i re”parte 2
Parigi, caserma della Guardia Francese, sempre quel caldo luglio del
1784
Un soffio di
vento caldo gli scompigliò i capelli, riportandolo al
presente, lontano dalla sua infanzia, ma il pensiero di quella donna
arrogante ed affascinante non lo abbandonava. André
alzò il capo, perdendo lo sguardo fuori da quella finestra. “Oscar
de Jarjayes … “ Sorrise. “Il
piccolo dispettoso Jarjayes … “ Non era mai
venuto a far visita a Nanny con madre e sorelle. “Meglio
così”, pensò, “doveva essere
tremenda da piccola”. Col tempo
aveva capito il perché delle lacrime che sua nonna versava
sentendone parlare. Per Marron Glacé era stato un dolore
immenso sapere che quella bimba cresceva convinta di essere un maschio,
che il generale aveva persistito nella sua pazzia. La contessa
Jarjayes aveva raccontato che per i primi anni la bimba era stata
davvero convinta di esser l’erede del Generale. Si era
applicata negli studi riservati ad un giovane rampollo, adorava il
padre e lo seguiva ciecamente. Di tanto in
tanto, specie se il generale era lontano, qualcuno aveva osato tentare
di dirle la verità. Ma lei si era sempre rifiutata di creder
loro ed aveva reagito aumentando i dispetti, scomparendo anche per
giorni. Questo
finché la natura non aveva fatto il suo corso e la
verità non era più stata occultabile con
marachelle e mattane. Da allora era
stato anche peggio. L’amore, il rispetto,
l’adorazione che aveva provato per il padre da piccina, si
trasformarono in odio e aperta ribellione per le menzogne subite, per
sentirsi “lo scherzo” del generale. Il padre aveva
dovuto aprire gli occhi e constatare il proprio fallimento. Ma ormai
era tardi per rimediare, tardi per rattoppare. Oscar non
aveva alcuna intenzione di perdere i vantaggi offerti dallo status
maschile, ma neppure era più disposta ad accontentare il
genitore nei suoi progetti. E durante una visita, poco prima
della morte di Nanny, madame aveva confessato tra le lacrime alla
rimpianta tata che, alla fine, erano stati costretti ad allontanare
Oscar da palazzo perché la convivenza era diventata
intollerabile. “Attento
a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo
…” Il generale
aveva desiderato un figlio maschio, ed aveva ottenuto una figlia
ribelle, ingestibile.
Bussarono. -
Avanti… Alain De
Soisson entrò ed era stranamente serio. -
I turni sono stati fissati. Le pattuglie sono già uscite. Il
colonnello D’Agout ha preso le consegne e … ci
augura una buona serata. Capitano? – lo sollecitò. André
pareva perduto, come il suo sguardo, fisso sul centro della sottostante
piazza d’armi, intento ad osservare piccioni. -
Capitano …? André? L’amico
si scosse e si voltò. -
Bionda o bruna? – ridacchiò Alain. -
Fosse così semplice … - mormorò
l’ufficiale pensando alla strana donna del laghetto. -
Devo preoccuparmi? André
si scosse e ridendo portò una mano a grattarsi la nuca. -
No, tranquillo, non ho intenzione di lasciarti da solo al Palais,
stasera! -
Bene. Per te bene, che ne hai bisogno. Per quanto mi riguarda, potrei
benissimo assolvere ai miei ed anche ai tuoi di “doveri di
maschio”! – si vantò –
Però, passo da casa a salutare mia madre e a gustarmi una
cena come si deve, prima. -
Sì, pure io passo da casa. Ci vediamo al mio portone quando
hai finito. Alain lo
salutò con uno sgangherato cenno militare, strizzandogli
l’occhio e si defilò.
***
Il vociare per
le strade era ancora notevole, ma si sentiva già
nell’aria il sollievo che si prova alla fine di una lunga
giornata di lavoro. Il caldo
cominciava a scemare un poco, mentre il sole si faceva basso dietro le
case. Lungo il
cammino, entrando nel quartiere dove abitava, André
incrociò dei vicini, che lo salutarono cordialmente. -
Ehy, André, che si dice a Versailles? Sua Maestà
l’austriaca si diletta ancora con suo cognato? –
esclamò il ciabattino all’inizio della strada
spalmando di colla puzzolente il cuoio per le suole. -
Suvvia, Antoine, se anche fosse vero, non lo verrei certo a raccontare
ad un pettegolo come te! E poi son certo che i tuoi pettegolezzi di
quartiere son migliori di quelli che potrei rivelarti io! Il calzolaio
rise sonoramente, perché effettivamente la vita in quelle
strade era assai più movimentata e piccante se raffrontata a
quel mortorio abitato da manichini imparruccati. -
Antoine, non importunare il barone! – esclamò una
donna rubiconda da dietro il suo carretto di frutta – Tenete,
signore! – disse sorridente allungandogli una mela rossa tra
le tante che stava lucidando. -
Ma è splendida! Sembra levata da un dipinto, Lorette!
– l’addentò – Cielo! Ed
è anche buonissima! Davvero, Lolò, le tue mele
son sempre le migliori! – esclamò allungandole un
soldo. -
Già, è quello che dicono tanti giovanotti!
– ridacchiò il calzolaio. La donna
sbottò con un commento sulla quantità di sterco
che riusciva ad uscire da quella maledetta boccaccia e l’uomo
replicò con un secco
“Ma quanto fai pena! Ci provi di continuo con lui!” André
si allontanò sorridendo, poiché sapeva che la
loro discussione sarebbe andata avanti per un pezzo, tra accuse e
ripicche, ma senza spargimento di sangue e che alla fine, da bravi
marito e moglie, avrebbero fatto pace.
Il suo quartiere era così, non ci si annoiava mai.
Il suono di
una spinetta si spandeva per la via e si faceva più pulito
man mano che si avvicinava a casa. Arrivò
al palazzo dei Plessis Bellière, quell’edificio
che da piccolo gli era sembrato la cosa più immensa del
mondo e che ora cominciava a ridimensionare. Aprì
il cancelletto che era solo accostato, che non era mai riuscito a
riparare a dovere. Le finestre erano aperte, tutte tranne quelle di due
stanze al primo piano, le camere di Nanny e del barone. Non aveva
bisogno di guardare in su per saperlo. Lei veniva in
quella casa per cambiar aria ai locali, portargli biancheria pulita e
suonare quello strumento che lui non toccava mai; ma non aveva le
chiavi per aprire quelle due stanze. La voce
delicata, cristallina, si esibiva su note tentennanti, interrompendosi
per riprendere su quelle stonate, per ripetere una strofa
insoddisfacente, sospirando e prendendo fiato quando questa non
riusciva come evidentemente si era prefissata. André
entrò nell’ingresso. Tolse la sciabola dal fianco
e la depose sul mobile, insieme al tricorno. Passò la mano
tra i capelli sudati, iniziando a slacciare la giubba mentre si avviava
verso la stanza da musica. Il vento caldo
gonfiava le tende delle finestre tutte aperte, spazzando via
l’odor di chiuso e l’umidità.
L’aria che proveniva dalla spinetta era indecisa, ma la
musicista ce la stava mettendo tutta. Gli dava le
spalle, seduta sulla panca di velluto verde, circondata dalla nube rosa
del vestitino di cotone da ragazzina, coi capelli castani fermati da un
nastro. Tutta intenta a seguire uno spartito, mentre le dita ora
incerte, ora nervose tormentavano i tasti bianchi e neri,
riprendendo le note sbagliate e la voce canticchiava parole
d’amore. Quella voce,
gentile e melodiosa, azzardò una nota troppo alta e
stonò miseramente. -
Devo proprio farla accordare prima che le tue corde vocali si spezzino
cantando! – esclamò il giovane. Diane, la
sorellina di Alain, si volse e lo accolse raggiante. André
l’abbracciò, stampandole un bacio sulla fronte,
quindi si sedette accanto a lei ed allungò un occhio allo
spartito. -
Ancora una canzone d’amore? – chiese. -
Sono romantica senza speranza – si giustificò
guardandolo intensamente. -
Senza speranza sono i giovanotti che si consumano per te, bambina.
– ridacchiò André strappando un paio di
note dai tasti. Diane
gli si fece più vicina, fissandolo con i grandi occhi
nocciola, come un cucciolo smarrito. -
Non usare il tuo sguardo da cerbiatta con me, ragazzina! –
l’avvisò sorridendo. -
Se ti stanno a cuore i miei spasimanti, perché non fai
qualcosa per loro? La
guardò scettico. -
Sposami, André, così si metteranno il cuore in
pace! – disse lei ridendo, ma rivolgendogli
un’occhiata seria e speranzosa. Lui
esitò un istante, non era intenzionato a ferirla. -
Offerta interessante, piccola mia,- mormorò – ma
… no, per me sarai sempre la sorellina di Alain. -
Ad Alain mica dispiacerebbe averti come cognato … -
azzardò. -
Uhm, ho qualche dubbio che Alain possa trovare piacevole anche solo
l’idea di un cognato, ma, credimi, non sono io la tua
metà, piccola Diane. La fanciulla
si afflosciò su sé stessa. -
Non avrò mai la metà della mia mela, con Alain
che spaventa qualunque essere maschile tenti solo di sorridermi. In
rafforzamento di quel timore, dalla strada si udì una
pesante bestemmia. -
Diane! Ma porc … Diane! – gridò la voce
di un furibondo Soisson - E’ ora di rientrare!
André, sposala o rimandala a casa! I due si
guardarono, sospirando, senza nulla da commentare
all’evidenza: Alain De Soisson era drammaticamente e senza
scampo malato di gelosia fraterna. -
Ti ho lasciato la biancheria pulita sul letto e qualcosa da mangiare in
cucina. – disse lei alzandosi. -
Grazie per quel che fai per me, Diane. -
Che dici! Grazie a te, per esser capitato nella nostra vita. Si
chinò a baciarlo sul capo e si avviò
all’uscio. -
Sto arrivando! – la sentì esclamare per
interrompere il borbottio del fratello – Smettila di gridare!
Neppure l’arrotino fa tanta cagnara! L’occhio
di André cascò su una battuta del gentiluomo ed
una replica della dolce damigella di quel duello amoroso in note, nero
su bianco nello spartito nuovo.
Don
Giovanni: “Là ci darem la mano, là mi
dirai di sì. Vedi, non è lontano: partiam, ben
mio, di qui.” Zerlina:
“Vorrei, e non vorrei...mi trema un poco il cor...Felice,
è ver, sarei; ma può burlarmi ancor.”(1)
Era
così lui? Un uomo che si burla delle donne? Sapeva
chiaramente che non voleva burlarsi di alcuna. Eppure continuava a
raccogliere fiori senza l’intenzione di metter radici. Marie
glielo aveva fatto notare, senza alcuna recriminazione, senza colpe. Chiuse lo
spartito. Forse era giunto il momento di voltar pagina anche nella sua
vita.
**
Un paio
d’ore dopo, Alain si era ripresentato a casa
Plessis-Bellière, messo a lucido, in abiti civili come
l’amico, col panciotto leggermente tirato sul ventre. -
Credo d’aver esagerato con le patate … -
borbottò ad André, una mano posata sullo stomaco
gonfio, mentre entrambi si incamminavano verso il centro
città. “Quandomai il
contrario”, pensò André. Serata di
piena estate. Il caldo invitava i cittadini a lasciare le case per una
fresca passeggiata per le vie della città. C’erano
coppie, famiglie, soldati in libera uscita, ragazzotti in libera
uscita, fidanzati e mariti ... in uscita controllata. Di fatto,
sotto i portici del Palais Royale si sgomitava.
André
scantonava le persone, Alain semplicemente le travolgeva senza degnarsi
di chieder scusa. Aveva troppo caldo, lì in mezzo a quella
calca, per permettersi di sprecar fiato in buone maniere. Dietro a loro,
Pierre e Lasalle, ricambiavano gli occhieggi di fanciulle sorridenti,
professioniste dell’amore. -
No no no, Lasalle! – borbottò Alain acchiappandolo
per il colletto dell’uniforme – Hai voglia di topa,
lo posso capire, ma la topa non deve per forza puzzare di fogna!
Andiamo ragazzo, non sei più in campagna, qui hai scelta,
evita quelle che ti appioppano le piattole! Cerca di aprire gli occhi,
usare il naso e pure il cervello. No, nemmeno quella! –
esclamò tirandolo ancora – E’ brava, ma
ti succhia fino all’ultima moneta! Nella calca ad
André parve di scorgere poco più in
là, una sagoma conosciuta, alta, esile, bionda, entrare in
un locale sotto i portici, in compagnia di due uomini. -
Voilà, la casa delle meraviglie! –
esclamò Alain davanti all’ingresso del bordello di
cui era affezionato cliente, tirandosi su il cavallo dei pantaloni. -
Io ho voglia di bere. – disse André muovendosi
nella direzione opposta a quella puntata dall’amico, verso
l’ingresso del café d’artisti
all’interno del quale quella sagoma così
interessante era scomparsa. -
Ma no, li ci vanno tutti quei damerini con la puzza sotto il naso
dell’università! -
Se non vuoi, non venire. - Replicò l’altro senza
voltarsi né fermarsi. Pierre e
Lasalle guardarono il gigante, quindi senza proferir parola,
s’accodarono al capitano.
L’interno
era già strapieno. Comitive di ragazzi giovani, per lo
più di classe benestante, stavano ai tavoli o al bancone,
quasi tutti con un boccale in mano. André cercò
con lo sguardo per la sala e ci mise poco ad individuare la folta
chioma biondissima. Si era appena accomodata ad un tavolo coi suoi due
amici, uno decisamente più giovane. Sembravano in confidenza. Si
appoggiò al bancone e, ostentando indifferenza, si mise a
fissarla. Alain al suo
fianco lo osservava perplesso. E, man mano che possibili risposte
affioravano alla sua mente, lo sguardo si incupiva e preoccupava. -
Quindi … biondo??? – disse allarmato da quel
guardare insistente dell’amico che pareva davvero uno sguardo
innamorato.
In
quell’istante lo sguardo di Oscar incrociò quello
di André. Gli
abbozzò un saluto ed un sorriso, quindi con un cenno lo
invitò ad avvicinarsi. -
Bene bene bene … - disse Alain al suo fianco, con un tono
che indicava l’esatto contrario. Quindi lo
seguì. -
Che incontro inaspettato!- disse Oscar. – Barone,
permettete che vi presenti i signori Robespierre e Chatelet. -
André Grandier De Plessis Bellière. - disse con
un inchino. -
Alain de Soisson. E basta. – aggiunse Alain, nonostante
nessuno si mostrasse ansioso di conoscerlo. -
Oscar Françoise de Jarjayes. – si
presentò al gigante, il quale alternava occhiate strane al
suo amico moro e a lei. -
Il conte … mi da lezioni … di scherma.
– André sentì di doversi giustificare. Alain
azzardò un mezzo sorriso. -
Sì, certo certo … E sicuramente sei un allievo
diligente. – fece sarcastico. Scostò
l’amico, costringendolo a fare un passo indietro e si
chinò a fianco di Oscar spostando la sedia vuota accanto a
lei, accomodandosi non invitato. Nel chinarsi si fece volutamente
vicino alla bionda e ne annusò i capelli. -
Il tuo insegnante profuma di rose, Grandier –
mormorò allusivo senza farsi sentire dagli altri, quando
anche André lo imitò sistemandosi tra lui ed il
giovane Chatelet. -
Bene bene, posso osare domandare a lor signori, quale
attività conducono nella vita? -
Sono studente, mentre il signor Robespierre è avvocato.
– esordì il ragazzo con aria di
superiorità. Alain
acciuffò un boccale di birra dal vassoio di una cameriera di
passaggio e gustò un lungo sorso. -
Sì, beh, questo lo avevo intuito dal vostro parlare forbito,
giovanotto, dai modi raffinati e dalla totale mancanza di
calli sulle mani. Intendevo nel dettaglio a quale futuro ambite? -
A me piacerebbe diventare giornalista, e tu? Cosa vorresti diventare da
grande? – lo provocò il giovane con supponenza. Lasalle e
Pierre, alle spalle di Alain, fischiarono in tono allarmato. -
Bernard … - lo richiamò severamente
all’ordine l’uomo seduto dall’altro lato
di Oscar. -
Calmi calmi, stiamo solo facendo conversazione, vero Bernard?
… Dunque, per rispondere al tuo quesito, non ho ancora
obiettivi definiti, ma di certo so cosa non vorrei mai essere. Tutti tesero
orecchio, mentre André con un filo di preoccupazione
cominciava a massaggiarsi le tempie indolenzite dall’ansia. -
Il re! – esclamò Alain come se fosse la cosa
più scontata del mondo. – Andiamo gente, davvero
qualcuno vorrebbe essere al suo posto? Chiariamoci … So che
non se la passa male sotto certi punti di vista e che la pollastrella
austriaca non è da buttare, ma … Come? Le vostre
facce esprimono perplessità: non mi credete? Ora vi do una
dimostrazione di che significa fare il re. Si
alzò in tutta la sua statura e senza esitare salì
in piedi sulla sedia e da lì sul tavolo. -
Pierre… renditi utile! – ordinò al
soldato. -
Che devo fare capo? -
Ora tu cominci a passeggiare attorno al tavolo e declami le mie lodi. -
De… cosa? -
Mi parli delle mie qualità. -
E sarebbero? Alain
strappò il cappello dalla testa del soldato e lo
colpì con una berrettata sulla fronte. -
Ehh cavolo! Con tutte le qualità che ho! Comincia
col dirmi che sono il migliore degli amici, il più
divertente, il più spassoso… Continua, dai! -
Beh, ecco … - mormorò quello massaggiandosi il
capo e cominciando a camminare attorno al tavolo.- Sì,
Alain, tu sei un grande! -
Bene! -
Sei il migliore a freccette! … - disse, preso da una
improvvisa illuminazione riguardo l’amico. -
Sì, ecco continua! -
E anche a braccio di ferro nessuno ti batte! -
Bravo ! -
Poi reggi il vino come nessuno … e, oh,sì, con le
signore sei un maestro! -
Benissimo, stai andando davvero bene! -
Sei il nostro idolo, Alain! Sei il nostro capo! -
Continua! Continua … -
Senti, Alain, il gioco è divertente, ma mi son stufato
…Non possiamo far cambio? Salgo io sul tavolo ora! (3) -
Ecco, vedi! – esclamò Alain, abbassandosi
accosciato all’altezza dello sguardo sorpreso
dell’amico, puntandogli un dito in mezzo agli occhi - Hai
centrato il punto! Questo è il re!- disse rialzandosi
ed indicando sé stesso sul tavolo - Se
ne sta lì, fermo, sopra tutti, una immobilità
noiosa e pretende che lo lodiamo, che ripetiamo all'infinito quanto
è grande; ma non possiamo stancarci di farlo? I re son solo
capaci di prendere! Stanno lassù, nei loro palazzi e nemmeno
sanno quel che realmente pensiamo di loro noi, qui in basso. E quel che
è peggio, loro devono proteggersi da tutto, perfino
dall’amore! Si fanno le guerre l’un con
l’altro, si aspettano che noi combattiamo per loro senza
neppure sapere il perché, se non che sono giochi per loro,
giochi da re! Hanno paura di tutto, confondono cani con lupi,
costruiscono trappole dove un giorno saranno loro a cadere. Vivono
lontani da noi, rinchiusi nei loro castelli, ma Luigi sarà
re a Versailles e non sa che quaggiù i veri re siamo noi!
(2) Robespierre
accostò la bocca all’orecchio di Oscar. -
Come vedete mia cara, i tempi sono pronti. Oramai manca poco, molto
poco al crollo di questo regime. Le folle sono pronte a sollevarsi.
Hanno solo bisogno di una spinta. E quel giorno dovremo essere pronti,
preparati, e nei posti giusti. Oscar
annuì con aria complice. -
Già! Noi! Noi che viviamo la vita, giorno dopo
giorno…- continuava Alain, infervorato – Noi!
– saltò giù dal tavolo ed
abbracciò la cameriera, tastandole i floridi seni,
acchiappando un manrovescio automatico sul viso . – sorrise
beffardo massaggiandosi la guancia arrossata –
noi… Che facciamo l’amore, notte dopo
notte e ce ne fottiamo della morale, noi che non facciamo del male! Che
senso ha vivere, se dobbiamo vivere in ginocchio? Pertanto …
– alzò un boccale verso il loro tavolo –
questo voglio fare da grande, Bernard: vivere la vita, fregandomene
perché, andiamo, alla fine so di non far del male!
Finalmente
Alain aveva finito di cantare, ballare, imprecare, blaterare, insultare
ed era crollato sul tavolo.
Oramai nella locanda erano rimasti pochi avventori. Lasalle e Pierre si
erano ritirati in compagnia di due ragazze: Lasalle con quella
“brava” e Pierre con quella con le
piattole. D’altronde, Lasalle aveva bisogno di
pratica e Pierre, beh, lui le piattole le aveva già. Solo loro due
erano svegli. Anche Bernard
e Robespierre se ne erano andati, mentre Oscar aveva dichiarato di
voler restare ancora un po’. L’avvocato
era rimasto perplesso, evidentemente poco tranquillo all’idea
di lasciare l’amica in compagnia di soldati, uno dei quali
decisamente alticcio. -
Sicura che …? -
Sì. – si era limitata a rispondergli. E Maximilien
ormai la conosceva abbastanza da sapere che quel tono era una decisione
irremovibile. -
Se vuoi, posso restare io ancora un po’ – aveva
aggiunto Bernard, in piedi dietro a lei, sostenendo lo sguardo su
André, mentre le posava una mano al centro della schiena in
un modo che il capitano aveva trovato oltremodo irritante. Ma la donna
aveva troncato immediatamente la provocazione. -
Non serve, grazie Bernard. Si congedarono
con un cenno del capo e li lasciarono soli al tavolo con Alain fuori
combattimento, addormentato sulle sue braccia conserte. André
le sorrise, tormentando il boccale ancora pieno a metà. Oscar
ricambiò il sorriso e bevve dal proprio, a piccoli sorsi,
guardandolo di tanto in tanto con la coda dell’occhio, mentre
l’uomo non distoglieva lo sguardo da lei neppure un istante. Attorno a loro
era calato uno strano silenzio, dopo il chiasso che c’era
stato qualche ora prima. Ad
interromperlo di tanto in tanto a parte il russare di Alain ed il
monologo sommesso di un ubriaco, il tintinnare di boccali che venivano
lavati e riposti. -
Sapete, è buffo che noi ci sia incontrati per sbaglio quel
giorno, nella vostra proprietà. Mia nonna
è stata per molti anni al servizio della vostra famiglia. Oscar scosse
il capo, sorpresa e perplessa. -
Io sono il figlio adottivo del Barone Di Plessis Bellière
… - spiegò André – Mia nonna
era la vostra governante, Marron Glacé … Il viso di
Oscar si illuminò. -
Oh, sì, la vecchia governante. Mia madre la ricorda sempre
con affetto e così pure le mie sorelle. Io ebbi un
maggiordomo personale, mio padre insistette affinché non
fossi seguita dal personale che si occupava delle mie sorelle. Come sta
vostra nonna? Lui si strinse
nelle spalle. -
E’ mancata … Da molti anni. -
Mi spiace. – disse convinta – E … -
No, nessun altro parente prossimo.
L’oste
annunciò l’orario di chiusura. André
rivolse uno sguardo sconsolato all’amico. -
Ancora una volta mi tocca mettermelo in spalla… Alain, dai
muoviti, è ora di andare Il gigante
grugnì un “Mamma,
lasciami dormire ancora un po’!” ed
entrambi risero. Che
bambinone! André
lo tirò su per la giacca e lo obbligò a passargli
il braccio al collo. Dovette
tirarlo su quasi di peso, mentre l’oste reggeva la seggiola
affinché non cadesse. -
Vi do una mano a portarlo fino ai cavalli – si
offrì Oscar. -
Oh, no, non è un problema … Ci sono abituato
… L’oste
apri loro la porta, salutandoli con un inchino. Oscar si
sistemò il tricorno sul capo mentre André,
realmente abituato a serate come quella, schivando i baci ed abbracci
dell’espansivo ed incontrollato amico, riusciva a
farlo salire in groppa al cavallo fulvo. -
Madamigella Oscar… Non interpretate male
l’offerta che sto per farvi, ma … Casa mia
è vicina e, se volete approfittare… Oscar non
trattenne la risata. -
Un po’ difficile non interpretare malamente, signore! -
Ecco, intendevo che è molto tardi e la vostra residenza è
assai lontana da Parigi. Davvero, non dovete aver timore ad accettare
la mia ospitalità … - gli sguardi si facevano
seri – Vi assicuro che il mio sergente non ha mai avuto di
che lamentarsi della mia ospitalità! E che non
l’ho mai molestato. – scherzò per
stemperare la tensione. Oscar non gli
rispose, se non con un sorriso tirato. Quindi salì in groppa
a César. -
Grazie per l’allettante offerta, signore ma la lunga strada
non è un problema … Non ho paura del buio da
molto tempo… - disse, con un ultimo saluto,
sfiorando la tesa del cappello ed avviandosi verso Palazzo Jarjayes. -
E di me? Di me avete paura? – le chiese Andrè
improvvisamente. Oscar sorrise
dalla sella e se ne andò senza replicare, vincendo la
tentazione di voltarsi a guardarlo. Ma tra
sé pensava: “Sì,
perché quando mi guardate mi sento debole e ogni cosa che
non sia il vostro sguardo su di me, perde importanza” E quello
sguardo la seguì finché fu possibile e lei
scomparve nella notte.
-
Continua : )
1)
Mozart scrisse il “Don Giovanni” qualche anno dopo,
nel 1787. Licenza!!! XD 2)
adattamento del testo della canzone “Les rois du
monde” 3)
tutta questa scena è un vago ricordo di un film di serie
molto “B”, anni 70, credo …
Assolutamente non ricordo che film. Era un monologo di Lucifero a
proposito di Dio che ho adattato al caso.
Da
settimane il generale era nervoso. Ogni giorno si recava a Versailles.
Ne tornava ora esaltato, ora abbattuto. Oscar
aveva collegato quella eccitazione all’imminente arrivo di
lei,
Maria Antonietta, che sarebbe diventata la nuova Delfina di Francia e
chissà quando, Regina. Una
sera aveva sorpreso il padre a discutere animatamente con Madame, la
quale aveva cercato di dissuaderlo da qualcosa. La discussione tra i
coniugi era terminata come terminavano sempre le discussioni col Conte: “Così ho
deciso!”, erano sempre le sue ultime parole. Oscar
era convinta che tutto quel agitarsi l’avrebbe presto
coinvolta.
Difatti una sera, suo padre la convocò nel suo studio.
Doveva essere veramente qualcosa di importante.
-
Sua Maestà, il Re, concede un grande privilegio alla nostra
famiglia. – esordì il generale, veramente
emozionato -
C’è la possibilità che tu possa entrare
nella
Guardia Reale per occuparti personalmente della protezione della futura
Delfina. “Ah, ecco di che si
trattava, quindi …”, pensò
la figlia non eccitata quanto il genitore a quell’idea. -
Certo, c’è un piccolo particolare, una condizione
che non
ho potuto evitare. – aggiunse Jarjayes, picchiettando la pipa
che
faticava ad accendersi sul marmo del caminetto - Il posto in
questione toccherebbe di diritto al figlio del conte Girodelle. -
specificò con una smorfia stizzita, un po’ per
quel
contrattempo nei suoi progetti, un po’ per la pipa
recalcitrante.
- Ma Sua Maestà è disposto a valutare le reali
capacità di entrambi e premiare il più
meritevole.
– aggiunse con un sorriso, vedendo il tabacco incendiarsi.
Diede
un tiro alla pipa ed espirò il fumo, rilassandosi - Ha
deciso
che tu ed il giovane Girodelle dovrete battervi in sua presenza. Il
vincitore otterrà il posto di guardia personale di Maria
Antonietta. Io non ho dubbi sulla tua riuscita. Sono anni che ti
preparo per questo momento e conosco perfettamente il tuo valore. Che
c’è, figlio mio? Perché
quell’espressione? La
mancanza di entusiasmo era palese. -
C’è che io non ho nessuna intenzione di proteggere
una
donna. – disse a capo chino, in un sospiro, più
che altro
a sé stessa; una riflessione che sorgeva spontanea dal
profondo
dell’anima. -
Come … - balbettò sorpreso. -
Padre, avete appena riconosciuto le mie capacità.
–
Sentì di dover insistere su quella sensazione, di dover
chiarire
- Come posso abbassarmi a diventare il mero esecutore dei capricci di
una ragazzina? Accompagnarla nelle passeggiate, sorvegliarla giorno e
notte durante le sedute di trucco, parrucchiere, conversazione e
pettegolezzo, balli, ricevimenti … - Scosse il capo
sconsolata,
abbassando ancora lo sguardo - Padre, voi mi avete sempre ripetuto che
il valore di un soldato si misura sul campo di battaglia. Ed io questo
ritengo di meritarlo: la possibilità di dimostrare il mio
valore. La
mano calò pesante sul suo viso senza preavviso. E
ciò la
sorprese. Da tempo non accadeva che suo padre la punisse fisicamente. -
Tu indosserai quella uniforme, che ti piaccia o no. Inaspettatamente,
Oscar si trovò a ribadire a voce alta la sua convinzione. -
No. L’esplosione
di collera fu peggiore di quanto avesse mai potuto immaginare. Era
accaduto, sì, che suo padre la punisse corporalmente, specie
quando da piccola commetteva marachelle a ripetizione; e non era
più successo dopo la pubertà, dopo quel giorno in
cui la
verità le era scivolata tra le gambe, umiliandola, e non
c’era più stato un possibile sostegno alla
menzogna. Gli
altri non mentivano: solo suo padre a lei e lei a sé stessa.
Il
generale prese il figlio insolente per il collo della camicia e lo
strappò fuori dal suo ufficio, perché anche solo
invitarlo ad uscire sarebbe stata una concessione che tale
atteggiamento non meritava. Quella
ribellione era inammissibile: a parole non poteva esprimere il suo
disgusto per quel che Oscar aveva detto. Insulto alla corona, insulto
al modo di vivere della nobiltà, insulto a lui, che tanto si
era
esposto per collocarlo nel posto migliore. Che quasi si era umiliato
davanti al re per ottenere quella possibilità. -
Tu ti batterai e vincerai il duello! Ti batterai per ordine del re e
vincerai per ordine di tuo padre! La
spintonò contro la balaustra di marmo, alla quale lei si
aggrappò per miracolo. Il
taglio sul labbro bruciava, la guancia bruciava, ma
l’orgoglio ribolliva. -
No! – esclamò ancora con lo sguardo ben fisso in
quello del generale. L’uomo
fuori di sé, perché quel rifiuto lo metteva
davvero in
una situazione difficile, gettò la pipa, afferrò
Oscar
con entrambe le mani, la sollevò per il gilet e la
scaraventò di peso giù dalle scale, come un
giocattolo
che non diverte più. La
ragazza non riuscì ad attutire la caduta. Il
rumore secco di una frattura spezzò qualunque progetto, suo
o di suo padre che fosse. Alcuni
domestici accorsero.
Jarjayes non si mosse di un centimetro, neppure quando il valletto
alzò lo sguardo preoccupato e si spaventò per
quello
gelido del padrone. -
Portatelo nella sua camera e chiamate il dottore. –
ordinò
prima di ritirarsi nel suo studio, chiudendosi la porta alle spalle e
abbandonando quel fallimento nelle mani di estranei.
Oscar
strinse i denti: voleva esser forte, ma si domandava perché?
Per proteggere una donna? Tutte
le capacità, il sudore, i sacrifici … per finire
col
mettersi al servizio di una bambola, civettuola e capricciosa? Non
poteva esser quella la sua vita, non voleva che lo fosse. Tutto il suo
impegno per ridursi ad una attrazione bizzarra in una corte di
pagliacci. Così
Oscar smise di stringere i denti, si arrese al dolore, e svenne. “Io non voglio
proteggere una donna … “,
pensò.
La
brutta caduta aveva salvato l’onore dei Jarjayes. Quella
frattura
al braccio sinistro fu una scusa plausibile per non presentarsi al
duello con Girodelle, senza portare il disonore sulla famiglia. Fu
anche qualcosa che le avrebbe ricordato per sempre quel giorno, lo
sguardo sorpreso e disgustato del generale, specie quando il tempo
cambiava e lei si trovava a massaggiarsi l’arto offeso,
dolorante. Fu
così che, poche settimane dopo quello che suo padre
raccontava
come un malaugurato incidente, Oscar si trovò spedita ad
Arras
con la necessità di convalescenza a motivazione, ma in
realtà accompagnata dal saluto freddo di suo padre: “Resterai
là finché non metterai giudizio”,
aveva sentenziato. Oscar
sentiva che quel tipo di giudizio, non avrebbe mai potuto averlo in
sé. Non per come era stata educata. L’orgoglio
del soldato mal si conciliava con la frivolezza della corte. Eppure suo
padre pareva con cogliere questo controsenso. Ma
sarebbe anche il caso di sottolineare “spedita”,
sì, al femminile. Ora
che il generale la considerava un figlio indegno, tanto valeva metter
fine ai pettegolezzi, dichiarare la verità, far sapere che
Oscar
non era uno scherzo di natura, che davvero era una femmina. Almeno
poteva avere un alibi per il suo fallimento come genitore. Non
si può cavar sangue dalle rape, non si può
tramutar il piombo in oro. Una
donna resta una donna in ogni caso. Una
rosa non sarebbe mai stata un lillà, avrebbe potuto dire
qualcuno con poco più tatto. Per
questo non poteva essere un bravo figlio. Era
donna. Femmina. Un
peso. Ciò
nonostante, restava l’erede legale del suo patrimonio. Una
piccola parte del generale era restia a parificarla alle altre sorelle,
peraltro già tutte sposate e liquidate con la loro cospicua
dote. In
una parte del suo cuore, Oscar restava sempre il figlio che avrebbe
voluto.
Arras. Graziosa
cittadina di campagna. In
realtà, non le era mai piaciuta, quelle poche volte che vi
si era recata col padre. Tutto
quel silenzio. Quei vigneti sterminati. I meleti. “Odio le
mele.”, pensò Oscar quando
cominciò a ritrovarsele in tavola condite in ogni ricetta. Ma
almeno lì non ci sarebbero stati né il generale,
troppo
impegnato coi suoi incarichi ufficiali, né sua madre
impegnata
altrettanto nel tentativo di conquistare la nuova stella di Versailles:
Maria Antonietta. Anche
in quella sera d’autunno, Oscar massaggiava il braccio,
consapevole che quel noioso formicolio non sarebbe scomparso
comunque, con lo sguardo perso tra le fiamme del camino ed un buon
bicchiere di sidro stretto tra le dita. Ecco,
sì, così ridotte le mele le piacevano davvero! Tramutate
in alcool, che ottenebrava i cattivi pensieri e rendeva meno opprimente
la solitudine. E
così, anche quella lagna di romanzo che il libraio le aveva
venduto spacciandolo per il grande successo degli ultimi venticinque
anni, “La
nuova Eloisa”, diventava quasi piacevole. Niente
più obblighi militari e cavallereschi per l’erede
dei
Jarjayes e nessun tentativo da parte di Madame di trasformarla in quel
che non avrebbe ma potuto essere: una brava figlia. Aveva
preso in mano gli affari della tenuta agricola, cosa che suo padre
aveva sempre delegato e seguito con scarso interesse. Non
le dispiaceva più così tanto vivere ad Arras. Sola
e indipendente. Come un uomo. Alzò
le gambe e posò i piedi sullo sgabello imbottito, si
rilassò nella poltrona. “Se sarò
fortunato, non tornerò più a
Versailles.”, si augurò. Era
stata l’imbarazzante esperimento del generale Jarjayes. Ed
ora se la sarebbe cavata da sola.
***
1784, ancora
il laghetto, in quella estate sempre più calda
Non aveva
dovuto far altro che sedersi ad aspettarla. Quella volta.
Poi un’altra. Ogni giorno libero che aveva, si recava
lì. Ed aspettava. Pensò
che forse non aveva fatto altro nella vita, se non aspettare lei. Quel giorno la
vide da lontano. Lo aveva preceduto. Era
là, pensierosa seduta sul pontile, dondolava le gambe
penzoloni sull’acqua. La vide alzare
il viso contro il sole. La pelle era ormai dorata in barba
alla regola che voleva le donne come porcellana. Non era la
stessa donna che aveva incontrato al Palais. Sicura di sé,
quasi sprezzante ed impavida. Non era la
ribelle, antimonarchica che attaccava parte della sua stessa classe a
testa bassa. Capì
che la sua infanzia doveva esser stata un inferno. Quella
laggiù, che
lo stava aspettando, era Oscar, la bimba cresciuta senza affetti,
prigioniera di regole già assurde per un ragazzo ed a
maggior
ragione per lei. Sentì
che avrebbe voluto esser lì con quella bambina quando
c’erano stati i momenti peggiori. Ma il destino
aveva scelto diversamente. Nanny aveva scelto. André
poteva esserci ora, per lei. Voleva esserci. La vide
ripiegare le gambe e posarci il mento, mentre si accorgeva di lui. La vide
sorridergli. E pensò che si sarebbe impegnato a farla
sorridere per il resto dei suoi giorni.
Duellarono coi
fioretti, si esercitarono con le pistole, provarono prese di lotta. La confidenza
tra loro aumentava. Anche i contatti accidentali. André
aveva raccontato qualche esperienza del vivere coi suoi soldati. Avevano riso
dei modi
spicci di Alain, della irrimediabile imbranataggine di Lasalle, della
puzza letale degli stivali di Pierre. Poi si erano
seduti sull’erba, accaldati e divertiti. André
aveva preso una foglia dalla pianta che li ombreggiava e ne stava
traendo note stridule. -
Ah, no, basta, abbiate pietà! Ho bisogno di riposarmi. Voi
non vi stancate mai? -
Strano, avrei detto la stessa cosa di voi … Siete una donna
con molteplici interessi. Oscar lo
guardò sbieco. -
Che intendete? André
non nascose i suoi pensieri. -
Non è frequente trovare un nobile rampollo del vostro
livello in certi ambienti … -
Avete preso informazioni sui miei amici? – si
indignò lei. -
Deformazione professionale. Persone come loro, sono sempre
sott’occhio da parte delle autorità. Lo
guardò malamente, indecisa sull’atteggiamento da
tenere con lui. -
Perché andate da Orleans? – le chiese, diretto,
mostrando di conoscere i loro spostamenti. -
Si
professa liberale e ci lascia libero accesso al palazzo come luogo di
ritrovo e discussione .– ammise. Negare sarebbe stato inutile. -
Liberale? Lui? Vuole solo mettersi al posto di Luigi XVI! -
Sì, ne siamo consapevoli. Ma per ora ci fa comodo. -
A cosa arrivereste perché “vi fa
comodo”? -
Cosa state insinuando! -
Domando. Solo domando. Oscar non
rispose. Guardò
la superficie del lago che rifletteva il cielo e nascondeva le sue
profondità. Come lei. E
pensò che fosse il caso che certe ombre restassero celate. -
Sono tornata per sposarmi. Fu come se un
fulmine a ciel sereno lo avesse colpito. -
Questa proprio non me l’aspettavo da voi! -
Perché? Non ho problemi a farlo. Si tratta di un contratto
come
altri, dal quale potrò avere dei vantaggi. -
Idea vostra, quindi. -
Veramente … no. E’ un sollecito ricevuto da mio
padre, un
sollecito che impedisce di scordare di che pasta è fatto il
generale Jarjayes. Un richiamo che ho ignorato per anni, ma che ora sto
riconsiderando. -
Ed avete già scelto il “fortunato”? Oscar
cercò d’ignorare il tono acido, anche se una parte
di lei trovava quella sua irritazione piacevole. -
Ho
fatto una lista di candidati. Con i pro ed i contro. E tra i pro non
manca la piacevolezza del pretendente. – aggiunse in replica
al
tono da lui usato, scrutandolo con finta indifferenza per
carpire
la sua reazione. -
Oh,
questo cavillo è una sorpresa ancor più
sorprendente
della prima! – esclamò sinceramente colpito. -
Niente altro che logica, signore. Aggiungerei che un uomo non
tralascerebbe questo aspetto del matrimonio. -
Quindi avete già individuato la vostra vittima? -
Non ho
intenzione di renderlo una vittima. Semplicemente sarà
…
un reciproco dare avere. – Non è stato
forse
così anche per la nostra sovrana? Aveva quattordici anni
quando
si sposò. Almeno io non ho delegato la scelta a dei
burocrati.
Quell’austriaca è molle anche in questo. -
Era solo una bimba e questa presunta mollezza si definisce “ragion di
stato”. -
Quale stato? Il re? “Lo
stato sono io”,
disse il Re Sole. Quindi? dovrei identificare la Francia in un ometto
incapace con una consorte frivola. Perché così si
ricorderanno di loro i posteri. “Dopo
di me, il diluvio”, disse invece Luigi XV: forse
fu una predizione? Bella incoscienza! - ringhiò. -
I
sovrani non sono esattamente ciò che state sintetizzando,
Oscar.
Se li conosceste da vicino, mi dareste ragione. Il punto è
che
un nobile deve fedeltà al re e come erede di una delle
più antiche famiglie voi … -
Ed il
re mai ha dovuto fedeltà a qualcuno, pur dichiarandosi padre
dei
francesi? La Francia sta andando allo sfascio, ma a Versailles nessuno
pare preoccuparsene realmente. Mantengono arrivisti e adulatori come i
Polignac, dimenticandosi della vera nobiltà. Abbiamo
pubblicamente sostenuto le ragioni Americane ed ora fingiamo di non
vedere quanto c’è di sbagliato nella nostra stessa
terra?
Ho visto persone costrette a scelte atroci per miseria; persone
condannate senza giudizio, ad opera di lettre de cachet in bianco da
usare ed abusare all’occorrenza. Le grandinate hanno
distrutto i
raccolti, le guerre hanno distrutto una generazione; ma a Versailles il
tempo batte sempre allo stesso modo. Sinceramente non capisco se Sua
Maestà assume questo atteggiamento per evitare un'altra
Fronda o
se semplicemente … non è interessato! -
Vostro padre è a conoscenza di queste vostre convinzioni? -
Mio
padre. Il generale. Totalmente, incondizionatamente, ciecamente devoto
al re … - sibilò con sdegno. La
guardò in silenzio. Lei si
sentì a disagio e lo sollecitò con lo sguardo. -
Mi sto
domandando perché siete qui a perder tempo con me.
– disse
André inaspettatamente. -
Come? -
Non è per far conversazione, visto che avete già
i vostri amici “intellettuali”
del Palais; non è a scopo matrimonio, perché
credo
abbiate già scelto il vostro futuro consorte. Sinceramente,
non
riesco a dipingervi nella mia mente come angelo del focolare. Nemmeno
come angelo. No. Forse una dea della guerra potrebbe ritrarvi ... Mi
sto solo domandando quale altro motivo potrebbe spingervi ad
avvicinarvi a me? Un istante di
silenzio. Uno
sguardo prolungato. Poiché una risposta transitò
simultaneamente nelle loro menti, André balzò in
piedi. -
Penso
farò un bagno rinfrescante. Mi farete compagnia? –
la
invitò, come fosse stata la cosa più ovvia da
fare; come
fossero davvero amici. -
No. Io … -
Io? -
Non amo particolarmente l’acqua. -
Non sapete nuotare? Lo
guardò come a dire “ovvio
che sì”. -
Certo
che so nuotare, faceva parte della mia educazione; semplicemente non
è una attività sportiva che trovo piacevole. André
iniziò a togliersi gli stivali, saltellando da un piede
all’altro. -
Questo vuol dire che non vi riesce bene … -
insinuò. -
No, mi riesce benissimo ma … - ribatté quasi
offesa. -
Ma? – incalzò levandosi la camicia. Lei
chinò lo sguardo, di fronte al suo torace nudo che la
turbava irragionevolmente. -
Una volta ho rischiato di annegare, qui. – ammise. -
Oh … - riuscì a dire, poiché non si
sarebbe aspettato tale confessione da lei. -
Avevo
cinque anni ed ero venuta qui da sola col mio pony. Il generale mi
aveva proibito di venirci senza di lui ma … -
Ma
poiché siete una testa calda avete pensato bene di
disobbedire.
– sorrise - Non avete più cinque anni,
Oscar, e non
siete qui sola. Forse è il caso di affrontare questo brutto
ricordo non credete? Allungò
la mano. -
No, si è fatto tardi. Sì
alzò velocemente e fingendo distacco ed autocontrollo si
avvicinò a Cesar, gli balzò in groppa. In
realtà
quell’uomo le entrava troppo nell’anima. E
più le si
faceva vicino, più lei sentiva di volerlo vicino. Ciò
la tormentava. La ragione diceva una cosa, il resto di lei,
tutt’altro. André
portò le mani ai fianchi, stancamente, deluso da quel suo
atteggiamento. Stava fuggendo ancora. -
Devo
dirvelo, Oscar. Questa volta e poi più. Le vostre liste, i
pro,
i contro, non funzioneranno mai. Dovete fermarvi e diventare una donna,
se è questo che avete deciso. Si
allontanò veloce da lui. Era
quello che aveva deciso? Diventare donna? “No”,
gli
avrebbe risposto,
“quanto di più lontano”. A dir il vero,
non si era neppure posta quella domanda. Esser donna …
Era una implicazione che non aveva contemplato. I suoi
progetti puntavano alla meta, le tappe non erano importanti. Eppure … Cominciava
ad avere dei dubbi e la colpa era solo sua, di lui, della sua
gentilezza, del suo esser in sintonia con quella parte di lei che Oscar
neppure vedeva.
***
Victor non lo
avrebbe ammesso mai, ma era davvero nervoso. Alzò
lo sguardo alla
sua immagine riflessa dallo specchio. Uniforme in ordine,
medaglie al loro posto, barba rasata, capelli … “Uhm …
”, non era mai soddisfatto dei suoi capelli,
neppure quando erano perfetti. Tirò
un po’
qua e là la nuova uniforme che sembrava stargli
più
stretta delle altre, ma sapeva che era solo una sua fissa. Il taglio di
quell’abito, come di tutti i suoi abiti, era perfetto. Lui non
avrebbe indossato niente che non fosse perfetto. Guardò
nei suoi occhi riflessi, la verità. Era il nuovo
incarico a renderlo nervoso. Comandante
della Guardia Reale. Tra meno di
un’ora, subito dopo la parata, Sua Maestà in
persona gli avrebbe appuntato i nuovi gradi. Sapeva di
essere all’altezza, aveva lavorato tanto per questo momento,
fin da ragazzino. Era il lato
politico di quel ruolo ad innervosirlo. I tempi stavano cambiando ed il
suo compito era difendere la corona. Senza
incertezze. Ora più che mai, la nobiltà e
quell’incarico gli imponevano lealtà. Sospirò.
Senza
ulteriore indugio,
prese il tricorno che l’attendente gli porgeva, lo
calzò e
si decise ad uscire, a scendere nella Corte Reale dove lo attendevano i
suoi compagni d’arme, quelli che tra poco sarebbero diventati
“i suoi soldati”.
La sua prima
parata nella piazza d’armi, in qualità di
comandante della Guardia Reale. Tutti gli
sguardi erano su
di lui. Uniforme bianca, fascia turchese. Le piume del
cappello
mosse appena dall’aria calda che si alzava dal selciato
rovente
di quel pomeriggio. E lui lì, sotto il sole estivo, a
recitare
ciò che il suo ruolo imponeva; ad esibirsi nella sua parte,
secondo il complicato rito imposto dalle usanze della corte. La parata
avrebbe reso
omaggio al suo superiore, che quel giorno dava addio al servizio
attivo, per cedere le redini del comando al suo successore. Fra rulli di
tamburi e
squilli di trombe, i soldati avrebbero reso onore per
l’ultima
volta al comandante. Quindi, quello avrebbe riconsegnato i segni
distintivi a Sua Maestà, che avrebbe provveduto con la nuova
nomina: Victor Clement Conte De Girodelle. Poi ci
sarebbero stati i
festeggiamenti pubblici nei giardini. Infine, sapeva, Camelia avrebbe
preteso un festeggiamento in privato, non appena il marchese si fosse
ritirato in compagnia di qualche cortigiana. Sarebbe stata
una giornata davvero lunga. "Camelia
… " Soffermò
il suo
sguardo sul parasole rosa, che ruotava piano qualche decina di metri
più in là, accanto al palco reale, due passi
dietro a
Freville. Boccoli scuri
spuntavano
sotto la stoffa leggera, i nastri, i fiori. Poi lei scostò
l’ombrellino ed i loro sguardi si incrociarono. "Camelia
… "
Tutta in rosa.
Le stava bene quel colore. Finto
delicato. Come lei. L’amalgama
tra bianco e rosso. Tra innocenza e passione. Come lei. Era perfetta,
Camelia Desirée. Dondolava
appena
l’ombrellino e di tanto in tanto tormentava il suo collier,
elargendo sorrisi dovuti e muti saluti a coloro che il marito le
presentava. Una donna di
rappresentanza, impeccabile. "Ma quella collana …"
Rosa di Francia, ametiste violette e filigrana d’oro; un
pregiato
e delicato quarzo in vari toni di rosa proveniente da una
miniera
della famiglia Girodelle, nella Loira. Ametista: la
pietra dei re. Gemme
magistralmente
lavorate ed incastonate in un capolavoro di oreficeria finissima, opera
del gioielliere più in vista di Parigi. Commissionato in
segreto
e donato nell’intimità di un pomeriggio
lontani da
tutti. "Buffo in effetti
… "
A Versailles, i gioiellieri custodivano più segreti che gli
austeri confessori della Chiesa di Roma. Riusciva
ancora a vederla,
nella penombra delle candele quando, la sera, lo aveva atteso nuda nel
suo letto, con addosso solo quel collier scintillante, incorniciato
dalla cascata di ricci neri, morbidi, liberi sulle spalle. Victor
ricordava bene quel
finesettimana nella sua casa in campagna e quel pegno
d’amore.
Perché era questo che Desirée provava per lui
quando gli
si era concessa. E pure lui, anche se non voleva
ammetterlo. Ripensò
ai suoi
occhi, lucidi più dei quarzi e delle ametiste, quando si
erano
giurati un cedimento, uno solo. Poi ciascuno sarebbe tornato alla sua
vita, ai suoi doveri. Invece era
accaduto ancora ed ancora. Quella mattina
in cui
André li aveva sorpresi insieme, aveva mentito, lasciandogli
ad
intendere che fosse un’avventura come tante. Ma la storia
con lei andava avanti già da un po’. E non poteva
confessarlo neppure a lui, il suo migliore amico. Perché
la verità era una sola. Tra le tante
donne della
sua vita, mai nessuna era stata in grado di catturarlo
nell’anima. Camelia sì. Ma era di un altro. Non
c’era futuro per loro. Da sempre lui
si preparava
per questo giorno, la svolta della sua carriera. Una svolta che avrebbe
potuto portarlo lontano, anche ad un ministero. Ormai, doveva
solo volerlo. Non era
più il tempo
della leggerezza. Non più giornate fini a sé
stesse. Non
più notti di solo piacere. Suo padre lo
caldeggiava, la sua posizione lo richiedeva. Perfino
André lo aveva sottolineato: una donna, una sola e
possibilmente non sposata a qualcun altro. Il sorriso di
lei si smorzò all’improvviso. Pareva avesse
intuito i suoi pensieri. La vide
abbassare il parasole, stancamente davanti a sé. Arresa.
O forse solo delusa.
Iniziò
la parata, lo sfilare dei soldati. Il re prese le
consegne dal
comandante delle guardie, quindi appuntò una nuova medaglia
al
suo successore, unitamente alle stellette. Victor prese
dalle mani del suo predecessore la sciabola d’ordinanza,
insieme alle congratulazioni di quello. Ora era il
nuovo comandante della Guardia Reale del Re di Francia, del paese
più importante ed ammirato d’Europa. Giurava la sua
fedeltà a Luigi XVI, al sole di Versailles, alla monarchia
ed alla Francia. La sua vita,
da sempre, era stata un susseguirsi di giuramenti, di promesse. Victor
Clément. Vittoria e
clemenza. Un nome che era un impegno. "Prometto di essere buono".
Il giuramento del bimbo. "Prometto di riuscire nello
studio, nel lavoro".
Quello del ragazzo. "Prometto di non alzare la mia
spada sul debole, di essere giusto e generoso".
L’impegno dell’uomo. Correttezza,
fedeltà, nobiltà. Non sempre
aveva tenuto
fede ad ogni impegno, almeno non nella misura che si era imposto. Ma
doveva anche ammettere di esser sempre stato piuttosto severo con
sé stesso, di essersi concesso margini molto stretti per gli
errori. Le medaglie
sul suo petto,
il rispetto che gli veniva dimostrato, chiarivano che non era
così lontano da ciò che si era prefissato. E, a
differenza di tanti, troppi adulatori e raccomandati, lui si era
guadagnato fino all’ultimo riconoscimento. Ma ora
cominciava davvero una nuova vita. Come un
bambino che ripone
per sempre i suoi giochi, sapeva di dover voltare pagina. Metter la
testa a posto, crearsi una famiglia. “Una
sola donna, non sposata a qualcun altro.”
In quel
momento la vide,
come un segno del destino. Lei, Oscar Françoise. Tra la
folla.
In mezzo ad un mare di ombrellini colorati, incurante del
sole a
picco in un abito color perla, lucente, abbagliante come uno specchio.
Non passava di certo inosservata. Avvertì
un certo turbamento. La conferma di quella eccitazione provata al loro
primo incontro. Recitò
la sua parte
con la consueta serietà, con precisione e fermezza. Ma il
luccicare dei movimenti della dama, riusciva a percepirli anche con la
sola coda dell’occhio. E la sua agitazione aumentava. La parata, la
cerimonia, le
congratulazioni ufficiali, le strette di mano… Tutto gli
parve
durare un’eternità. Poi,
finalmente, il clamore si quietò ed avvertì la
presenza alle sue spalle. La
guardò finalmente negli occhi. Si scambiarono un sorriso. -
Le mie congratulazioni, colonnello… -
Madame… - s’inchinò, baciandole la mano. -
Colonnello, c’è una dama che vi fissa troppo
intensamente
… - disse lei, nascondendo la bocca dietro al ventaglio
bianco e
argento, con chiara allusione allo sguardo poco amichevole
della
marchesa di Fréville, la quale sempre un passo dietro al
marito,
non nascondeva la sua insofferenza per quella giornata e che, dal
momento in cui Oscar si era mossa verso Victor, non le aveva levato gli
occhi di dosso. -
Confesso, non sono un santo, madamigella. Potrebbe capitare che qualche
nobildonna vi guardi male vedendovi in mia compagnia.
-
State facendo il pavone, signore. Potrei diventar gelosa, io, e non
sarebbe un bene. Ho un temperamento poco conciliante. –
civettò con tono severo e studiato. Si
guardò intorno. -
E se ci spostassimo in un angolo meno caldo? -
Cercando di non farci notare? – ironizzò lui,
visto che
entrambi vestivano di bianco ed erano facilmente individuabili. -
Possiamo sempre metterci a correre … Sì
volse con uno scatto e cominciò a camminare verso ovest a
passo sostenuto. Dopo un
istante di sorpresa
la seguì e dovette quasi rincorrerla; Oscar rise ed
aumentò ancora il passo. Ormai quasi correvano davvero, per
quando le scarpette di raso di lei potessero permetterlo. La donna si
infilò in un sentiero laterale, togliendosi dallo sguardo
curioso della folla e lì rallentò un poco.
Lasciò
che le si affiancasse e passeggiarono attraverso uno dei curati
boschetti. -
Giornata logorante? – esordì lei. -
Giornata inevitabile. -
Ma come? Cos’è questo tono? -
Non sono particolarmente amante di certe formalità e di
questi riti. -
Ma meritate questa promozione, sono quindici anni che attendete
ciò che vi spetta. -
Mi avete forse tenuto d’occhio? -
Ne ridete? -
Pensavo … No… -
Cosa? -
Pensavo che se le cose fossero andate diversamente, in questa uniforme
potreste esserci voi. -
E voi sareste stato il mio fedele vice. E vi tratterei malissimo. -
Ed io sopporterei in silenzio. -
A malincuore … Lui sorrise,
come se volesse tentar di negare la sua insinuazione. -
Ammettetelo, Girodelle … Tanto non è andata
così e
non potrò farvi mettere ai ceppi! Lo dite solo per adularmi,
perché siete cortese ed in tanti anni a Versailles avete
imparato a giocare a questo gioco. Ma non avreste mai digerito di dover
prendere ordini da una donna. -
Ammetto di avere riserve … -
Vi avrei battuto, Girodelle. -
Ho sentito a suo tempo ben parlare di voi; ma, no non credo proprio. -
Oh, sì, vi avrei stracciato. Perché mi avreste
sottovalutata. Ripensò
a se stesso,
al suo carattere irruento e di poca pazienza di allora, alla sua
arroganza giovanile. E scosse il capo, poiché una parte di
lui
ammetteva che lei avrebbe potuto aver ragione.
Arrivarono al
boschetto detto "di Encelado”. Al centro una
fontana insolita circondata da un anello, un pergolato. Transitarono
sotto un'
arcata del recinto avvolto di rose rampicanti, ma invece di uscire
all’interno del perimetro, Oscar si infilò a
destra,
all’interno della galleria. Tra loro una
grata a dividerli, fiori bianchi e spine. Scacchi di
luce ricamavano
l’abito di Oscar, i lembi della sua pelle, rincorrendosi ad
ogni
passo e nei suoi occhi si alternavano luce ed ombra
-
Dite, Girodelle, … -
Victor, vi prego … -
Victor, perché non siete sposato? -
Sfacciata e diretta, madamigella! – rise. -
Non immaginate neppure quanto. -
Troppi impegni. -
Andiamo, non vi manca di certo il tempo di corteggiare belle dame.
Almeno, così si dice nei salotti. Il vostro diretto
subalterno
ha solo vent’anni ed è padre. Che scusa adducete
alla
vostra vita solitaria? -
Non vi facevo curiosa di tali argomenti. Avete preso informazioni su di
me? -
Mia madre è felice se mi tengo aggiornata sui pettegolezzi.
E sugli scapoli. -
E cosa avete scoperto su di me? -
Siete
ligio, rispettoso, perfetto, ma sempre in conflitto con quella piccola
parte vulcanica in voi, insofferente alle ingiustizie, ai conflitti, a
regole che sapete essere quasi dei soprusi. Quella parte di voi
incapace di volgere lo sguardo altrove. Ed è questa la parte
che
trovo interessante. – disse, uscendo da sotto il pergolato. Le si
parò dinnanzi e quasi Oscar ci sbatté contro. -
Così, mi trovate … interessante? –
sottolineò fissandola divertito negli occhi, molto vicino al
suo
viso. -
In parte, Victor, in parte … - alitò, scivolando
di lato. Fece pochi
passi e si fermò a fissare la fontana, il gigante Encelado
imprigionato dalla lava. -
Conoscete la storia di Encelado, conte? Guardò
il viso sofferente, imprigionato dalle rocce scure. -
Sì …. -
Un monito … -
Sì, può essere. -
Sì. È. – ribadì sicura
- Gli dei che
punirono i Giganti perché volevano il loro paradiso e
sotterrarono Encelado sotto i massi dell’Etna. I Giganti,
l’aristocrazia senza potere, che ha sangue blu, ma deve
sottostare ai capricci degli dei di Versailles. E pur essendo dello
stesso sangue, quegli dei non esiterebbero ad imprigionarli,
annientarli, sotterrarli. -
Sono idee sovversive queste. -
Nulla di più che la verità. Queste fontane sono
moniti da un re ai suoi nobili. Dallo sguardo
gelido intuì un rimprovero. -
Il mio compito è un altro. -
Difendere la famiglia reale! -
A qualunque costo! -
E se il Re facesse del male a qualcuno che vi è caro? -
Non
potrei mai vedervi soffrire – disse implicando sentimenti che
non
aveva ancora palesato. – Ma una bella donna non dovrebbe
crucciarsi con simili pensieri. – aggiunse. Oscar tacque. Guardò
la fontana
con la figura di Encelado, figlio di dei,
prigioniero degli
dei; sofferente, imprigionato sotto le rocce
dell’Etna. Si sentiva
come lui: figlia dell’aristocrazia, figlia del re,
prigioniera del re.
Passarono
sotto
l’arco, varcando l’uscita dalla gabbia di Encelado
mentre
la fontana lanciava rumorosamente il suo getto alto nel cielo. -
Il
grido di dolore del gigante … - mormorò Oscar
– Un
gigante incatenato dalle catene della povertà e della
sottomissione. -
Non
credo d’aver mai conosciuto una donna come voi …
Françoise … Oscar … - la
fermò,
trattenendola per la mano. Si sporse verso di lei, alzando le mani al
suo viso, sfiorandole le guance come a volergliele imprigionare in un
abbraccio, arrivando quasi alle sue labbra con le proprie. Ma
… Si udì un vociare di folla avvicinarsi. -
Oh,
finalmente! Ecco il nostro festeggiato! – esclamò
la voce
del Conte Girodelle padre, in compagnia di amici e parenti. Si volse verso
la piccola folla e, con la coda dell’occhio,
percepì un' ombra muoversi. Lei era
scomparsa. Un gruppo di
cortigiani
giunto fin lì si sparse attorno alla fontana. Il padre prese
sottobraccio il figlio, con aria orgogliosa e raggiante. -
Quindi, figliolo, ce l’hai fatta! -
Sì, signore. -
Una bella posizione per un uomo così giovane, non credi? -
Sì, signore. -
Sai cosa sarebbe opportuno ora, vero? -
Un matrimonio? -
Perspicace il mio ragazzo! – esclamò stringendolo
per le spalle. -
Veramente … Credo di aver già in testa la donna
perfetta, signore.
Una donna. Una
sola e libera.
-
Continua
***
Casomai,
tra i tanti dubbi sul personaggio, vi venisse giustamente da pensare
che … Oscar adora le mele, vi dico solo di immaginare di
mangiarle senza André che le lucida e le affetta. Ecco :D!
Che
noia! E
comunque, avrà modo di rivalutare il piacere di una mela
rossa ... in compagnia! ; )
Nel
manga, Oscar scelse con entusiasmo di entrare nella guardia reale;
nell'anime, fu più restia ed ebbe quel per me bellissimo
atto di
ribellione che fu il duello con Girodelle. Quest'ultima è la
Oscar che ho preferito; quella che non desiderava confrontarsi con la
parte più femminile di Versailles (e di sè). Senza
André, l'ho immaginata ancor meno disposta a subire, visto
che non c'era lui a frenarla. Lui,
invece, è l'André che le disse "non voglio la
lotta alla
nobiltà, ma solo capire cosa sta accadendo (più o
meno, a
memoria, eh!)"; calmo e ragionevole, come sempre.
Vi
avviso che andrò più lenta coi prossimi capitoli:
dita e testa non vogliono collaborare! XD Saluti!!!
Pioggia.
Una goccia. Un’altra. Sulla fronte, sulla palpebra.
Fastidiose. Gelide. Si
arrese ed aprì gli occhi, malvolentieri. La situazione le fu
subito chiara. La
luce invernale che illuminava la stanza non era ottima, ma quella
macchia sul velluto del baldacchino, proprio sul colmo, si vedeva anche
in quella deprimente penombra. Il tetto perdeva ancora e naturalmente
proprio nella sua stanza, proprio sul suo letto. -
Buon compleanno, Oscar! - mormorò. Sfilò
le gambe da sotto la voluminosa trapunta, rabbrividì e
svelta
indossò la pesante vestaglia di taglio maschile poggiata
sulla
poltrona. Il
fuoco si era spento del tutto. Era sempre così fredda quella
casa: una vecchia magione di campagna della quale ci si era sempre
curati poco. Tirò
il cordino della campanella e cominciò a tirar indietro le
coperte che si stavano bagnando, sapendo che il suo fido ma acciaccato
maggiordomo ci avrebbe messo un po’ ad arrivare. Era
un dato di fatto: quella proprietà necessitava di pesanti
ristrutturazioni, ma le rendite assegnatele dal generale non sarebbero
mai bastate e lui non era interessato ad investire in quella tenuta. C’erano
state gelate che avevano rovinato la vendemmia e grandinate che se
l’erano presa con i meleti già in estate. La
manodopera
aveva finito con l’esser reclutata a forza per il conflitto
in
America. Le
cose andavano niente affatto bene per i suoi affari. Certo,
la guerra di Indipendenza stava per arrivare alla conclusione. Le armi
erano state deposte ufficialmente tra colonie e Inghilterra e presto i
soldati francesi sarebbero rientrati. Non si sapeva quanti,
né
in che stato. Forse
la prossima stagione sarebbe stata decente.
Pensò che se avesse a suo tempo accettato quel posto nella
Guardia Reale, non avrebbe avuto tutti questi guai. A
Versailles i problemi delle campagne non venivano percepiti.
Là si gozzovigliava ancora. Udì
i passi stanchi del vecchio e acciaccato Armand al di là
della porta. -
Mi avete chiamato signore? -
Sì, Armand. Il tetto perde ancora, come prima più
di prima. Entrate. L’anziano
si trascinò traballando nella stanza. Indossava una
vestaglia ed
una papalina da notte sopra la lunga camiciona che lo rendevano
nell’insieme più simile ad uno spettro che ad un
uomo. -
Il capomastro è già stato pagato? -
Non ancora, signore. -
Bene, tanto non ha riparato nulla. Quindi nulla gli va dato. Dobbiamo
cercare qualcuno di realmente competente Armand! Più tardi
mandate a levare lenzuola e coperte. E dobbiamo spostare il mobilio. Io
mi trasferirò nella stanza padronale finché i
lavori non
saranno finiti. -
Gliela faccio preparare in pochi minuti, signore. -
Non c’è fretta, ormai sono sveglia.
Uscirò per un
giro a cavallo. E voglio far colazione. -
Sì, signore, glielo faccio sellare e provvedo subito a
svegliare Cécile, signore. -
Non serve. Mi arrangerò, per tutto. Tornate a dormire. Fa
molto
freddo ed entrambi siete piuttosto acciaccati. Il
vecchio sorrise. Dopotutto madamigella Oscar sapeva non essere un orco,
quando voleva. -
Grazie, signore.
Si
vestì battendo i denti e con sempre addosso la vestaglia
pesante, scese al piano terra. La cucina era ancora tiepida e profumata
come tutte le cucine dove si spadella con passione per il buon cibo. E
Cécile, la sua corpulenta cuoca, non nascondeva questa
passione
nemmeno nell’aspetto florido dovuto agli abbondanti assaggi. Il
camino era stato alimentato meglio di quello della sua stanza, forse
perché la cuoca aveva lavorato fino a tardi per preparare il
pane allo zenzero e tutto quanto necessario per il pranzo di compleanno
oltreché natalizio della padrona e le braci erano
ancora
calde. Posò
un paio di ciocchi ed attizzò le fiamme.
Annusò
l’aria intrisa del profumo di vaniglia, mandorle, cioccolato
… ed i suoi succhi gastrici reclamarono un boccone, uno
qualunque per placare l’acquolina. Ma
non osò toccare gli impasti natalizi: Cécile
sapeva essere vendicativa. Prese
del dolce della sera prima, ovviamente alle mele, e latte gelido dalla
brocca. Piluccando
e sorseggiano, guardò fuori dalla finestra il cielo che a
malapena albeggiava. Che
inverno strano era quello. Era
nevicato, poi un riscaldamento anomalo aveva sciolto tutto quanto e il
paesaggio era un immenso e deprimente pantano invece del
bianco
Natale che rende le feste più Feste. Si
sentì osservata ed abbassò lo sguardo sul cortile
ancora buio. Si
trovò a fissare due occhi vacui, dei ricci candidi
sul capo, due orecchie a sventola … Una
pecora. Se
ne stava lì fuori della finestra e a sua volta la fissava
con
una espressione assolutamente ovina e totalmente apatica. -
Ma .. cosa? … Ohh nooo, no! Mollò
tutto sul tavolo, infilò velocemente gli stivali della cuoca
lasciati accanto al camino, prese un mantello appeso dietro
l’uscio e corse fuori. Sotto
lo sguardo assente ed indifferente della riccioluta bestiola, si
allontanò a passo sostenuto verso i campi, scivolando di
tanto
in tanto sul fango viscido. Non ebbe bisogno di giungere nel meleto per
trovar conferma ai suoi timori. Belati,
belati in tutti i toni, tanti belati irritanti. Un
bel gruppetto di ovini pasteggiava tranquillamente con i rami bassi
delle sue piante da frutta. -
Maledette voi ed il duca di Villaine cui appartenete!
…
Via maledette bestiacce! Via dalla mia terra, distruttori che non siete
altro! – gridò al gran numero di animali che
allegramente
aggredivano i tronchi degli alberi. Il
buon vicinato con Villaine non aveva funzionato. I
rapporti non erano mai stati idilliaci: quell’uomo non aveva
mai
considerato il lavoro altrui qualcosa da rispettare e se ne infischiava
beatamente dei campi coltivati con fatica, lasciando pascolare ovunque
il suo bestiame; ma un abuso di tale portata nei confronti dei
Jarjayes, mai c’era stato. Da quando il vecchio duca era
finito
all’altro mondo, ed in tanti speravano stesse bruciando
all’inferno, il figlio si era rivelato pure peggio. Si era
trasferito a Versailles a far la bella vita ed aveva delegato la
conduzione dei suoi possedimenti a soggetti che definire poco
raccomandabili era un addolcimento della realtà. Oltrepassavano
continuamente i confini col bestiame e la facevano da padroni per le
campagne, vanificando il lavoro dei contadini.
Il
raccolto di pomi era stato fortunatamente fatto in ottobre, ma il
brucare di quegli animali avrebbe potuto compromettere la
vitalità stessa delle piante e rappresentare la fine di
tutto. Rientrò
velocemente, diretta alle scuderie; sellò furiosa Cesar e,
senza
pensarci due volte, si scapicollò alla residenza del Duca di
Villaine. -
Sono Oscar Françoise De Jarjayes: esigo di incontrare il
signor
Duca! - esclamò irosa al brutto ceffo di guardia. -
Aspettate qui. – borbottò quello, dopo averla
scrutata da
capo a piedi ed aver sputacchiato del tabacco masticato sui gradini
dell’ingresso. Diversi
minuti dopo, con calma, si fece avanti un uomo massiccio,
dall’aspetto peggio che poco curato. Infilò
entrambe le
mani nelle tasche della pesante e per lui fin troppo ricca vestaglia,
gambe piantate e sguardo fisso su di lei. -
Il Signore non si trova nella villa al momento. E comunque, per voi non
ci sarebbe in ogni caso. – disse, freddo ed esplicito. -
Chi ha la responsabilità della tenuta in sua assenza?
Pretendo di conferire con questa persona. -
Lo state già facendo. Oscar
inarcò un sopracciglio, non nascondendo il suo disgusto per
il tizio scelto dal duca. -
Le vostre pecore hanno invaso la mia proprietà. -
Oh, davvero spiacente. – disse seccamente e con tono falso. -
Mi hanno creato danni notevoli. -
Quelle povere bestiole hanno diritto a nutrirsi. –
cantilenò. -
Non a scapito mio. -
Abbiamo il diritto legale di transitare sulle vostre terre per giungere
al torrente! -
Voi dovete ripagarmi i danni! – ringhiò ed il suo
nervosismo si trasmetteva alle zampe di César, tanto
irrequieto
da non riuscire a starsene immobile -
Non credo proprio. L’uomo
dall’aspetto rozzo estrasse un documento, ripiegato e chiuso
con
un sigillo in ceralacca, dalla tasca interna della giacca e
l’alzò in modo che lei potesse veder bene il
timbro e
l’insegna impressa sulla carta. Oscar
sentì un brivido percorrerla tutta. -
Sapete cos’è questa? -
Sono certa che stiate per dirmelo voi. – lo sfidò. -
E’ una lettre de cachet, conte. Lei
rise, un sorriso sprezzante, ma forzato. -
Un pezzo di carta non vi autorizza a distruggere i miei frutteti e le
mie vigne. -
Autorizza me, in quanto rappresentante del signor duca, a …
-
rise – a qualunque cosa mi passi per la testa! –
Diede
tempo alla pausa di fare effetto - E’ in bianco –
specificò - e posso compilarla come meglio credo, con
qualunque
cosa possa farmi comodo. Potrei scriverci che il bestiame
è libero di transitare sulle terre dei Jarjayes senza nulla
dovutovi; o posso sequestrarvi il terreno che mi serve o che so,
… farvi mandare a Pinerolo con addosso una maschera di ferro. Inclinò
le labbra in un ghigno feroce. Oscar
incupì lo sguardo “E va bene. “,
pensò: sapeva riconoscere una battaglia persa. Ma
una guerra è fatta da più battaglie. Tirò
le briglia e si rassegnò a ritirarsi senza proferir una sola
parola.
Oscar
si lasciò cadere pesantemente sul materasso del letto
padronale,
affondando nello spessore avvolgente della piuma. Chiuse bene la
vestaglia sulle gambe nude. Il bagno caldo aveva levato il fango, ma
non le preoccupazioni. “Lettre de
cachet” … Ne aveva sentito parlare. Aveva
fatto la gradassa con lo sgherro del duca perché non le
andava
di andarsene oltreché a mani vuote, con la coda tra le gambe
e
le orecchie basse, ma se davvero De Villaine aveva tra le mani uno di
quei maledetti documenti, sapeva di non poterci scherzare. Sin
da piccola aveva sentito parlare di persone scomparse senza lasciar
traccia, senza motivo ad opera di documenti simili. E
quel nome, quell’oggetto vago, identificato nella sua
immaginazione di bimba come un pezzo di carta con marcati segni in
inchiostro, per lei a quel tempo solo semplici sgorbi, ne aveva mietute
assai di vittime. Un
giorno, quando era più grande, aveva osato chiedere al
generale cosa fosse. La risposta era stata: “spera di non vederne
mai una”. Doveva
tutelarsi. Assolutamente.
Emise
un lamento. Già il pensiero di averne bisogno la disturbava,
ma qualche volta erano un male necessario. Loro. -
Armand! – chiamò. Il
vecchio spuntò dalla vicina stanza da bagno, maniche
risvoltate e strofinaccio in mano. -
Dite, signore. -
Che mi dite dell’avvocato Sanpitre? -
Abile, ma è il legale che cura gli interessi del duca.
Accompagnarsi con una simile persona sarebbe poco dignitoso. Sospirò.
Lo sapeva. Voleva soltanto sentirselo confermare da quella saggezza
pelle, ossa e ormai senza capelli del suo leale maggiordomo. -
Non troverò mai un avvocato che si metta contro Sanpitre e
De Villaine… - borbottò. -
Potreste tentare con quello strano. Lo chiamano l’avvocato
dei
poveri. Certo potrebbe rifiutarsi di assistervi ma... Si
alzò seduta. -
Chi? -
Il signor Robespierre. Quel
nome non le era nuovo: Maximilien De Robespierre. -
Ma non studiava a Parigi? -
Ormai è da un anno che esercita qui ad Arras. Lo
congedò con un gesto della mano ed il maggiordomo
tornò a pulirle la vasca. Armand
era una inesauribile fonte di pettegolezzi. Senza di lui sarebbe
vissuta completamente fuori del mondo.
E
così Robespierre era tornato al paese avito. Le
venne alla mente quella sera in cui lo aveva conosciuto. Era
il 1778 e faceva freschetto. L’autunno era arrivato.
Decisamente.
Il vento forte strappava le ultime foglie morte dagli alberi ed
annunciava una notte da lupi. Oscar
si trovava alla locanda del sig. Coranne, sola come sempre, e si
gustava una cenetta tipica del locale. Ad
un tavolo appartato sedeva un giovane, serio, composto, abbigliato
modestamente. Non lo aveva mai visto prima. Gli aveva rivolto solo un
cenno di cortesia alla falda del cappello quando era entrata e poi si
era accomodata al tavolo accolta come sempre bene dall’oste. -
Un altro boccale, per favore. – ordinò
il ragazzo. -
Sì, certo, signore. Menù di funghi, madamigella?
–
aveva chiesto il proprietario portandole la solita bottiglia di rosso. -
Sì, grazie e abbondi che ho appetito! Chi è quel
giovane?
– bisbigliò - Non l’ho mai
visto prima. -
E’ di queste parti, ma studia da avvocato a Parigi, al Louis
Legrand. E’ stato una mezza celebrità qui:
pensate, ha
avuto l’onore di leggere il discorso di benvenuto al nuovo re
quando venne incoronato. L’oste
si allontanò e lei guardò il giovane. Gli
sorrise. Lui la ignorò. La
incuriosiva. -
Permettete … Voi venite da Parigi? -
Sì. Silenzio. -
Come vanno le cose in città? E’ da molto che manco. -
Al solito. Silenzio. -
E sarebbe …? Il
giovane sospirò. A quanto pareva l’altro avventore
era intenzionato a far conversazione. -
Sarebbe che nemmeno i nuovi sovrani paiono interessarsi della
situazione in cui versa la nostra nazione. E le conseguenze si vedono
per le strade. Lo
disse con un certo astio. -
Perdonate … Credevo d’aver capito che foste voi ad
aver
riservato al nuovo re un discorso di benvenuto ed augurio. -
Sì e vorrei non averlo mai pronunciato. Signor …? -
Jarjayes. Perché dite ciò? -
Ci aspettavamo molto di più dai nuovi sovrani. Invece il
clientarismo è aumentato. Il re si dimostra debole,
indeciso.
Una gran parte dell’aristocrazia viene ignorata a favore di
una
elite minoritaria. Si dice che a Versailles ormai sia tutto nelle mani
dei Polignac. -
Immagino ci sia un poco di … nervosismo a corte a causa di
questi favoritismi. -
Immaginate bene. -
Meglio qui a mangiar il mio spezzatino ai funghi piuttosto che
banchettare con le guardie del re, vero madamigella Oscar? –
rise
l’oste posando un bel piatto fumante davanti a lei. -
La … Guardia Reale?- domandò incuriosito. -
La nostra bella madamigella Oscar sarebbe dovuta diventare guardia del
corpo della nostra regina! – spettegolò Coranne. -
Ed invece sto alla locanda di Arras e non ne son pentita! –
lo complimentò lei. -
Sarei rimasto sorpreso di scoprire una bella donna tra le guardie del
Re. Piacevolmente sorpreso. – disse il giovane. A
salvarla dall’imbarazzo di un evidente omaggio cui dover far
fronte, si spalancò la porta di colpo e uno dei mezzadri dei
Jarjayes irruppe precipitosamente. -
Ehy, Sugane, come mai qui a quest’ora di un giorno
settimanale?
Hai forse litigato con la tua signora? – scherzò
l’oste. -
Hai del ghiaccio da prestarmi?- mormorò l’uomo
sconvolto, tormentandosi le mani. -
Che succede? -
Mio figlio, Gilbert, sta malissimo. Ha la febbre alta e non scende. Non
so più che fare. -
Ma certo, amico mio, – disse l’oste preoccupato
–
scendo subito nella ghiacciaia a prendertelo. -
Avete chiamato il dottore? – si intromise Oscar, mentre
Coranne scompariva nello scantinato. -
Oh, buonasera signore, non vi avevo visto. No, niente dottore. Il
dottore si è spostato nel paese vicino. Qui non aveva
abbastanza
clienti. Paganti, si intende. -
Non potete aspettare ancora, vi accompagno io. – disse
alzandosi
ed afferrando il suo pastrano appeso ai ganci nella parete dietro di
lei. -
Non posso, non ho denaro per pagarlo. -
E volete rischiare di farlo morire? Che razza di padre siete!
– sbottò lei. Gli
occhi dell’uomo si fecero lucidi. -
Non credo ci sia al mondo un uomo che non morirebbe per salvare il
proprio figlio, ma … - si accasciò su di una
sedia - Che
devo fare? Potrei solo vendere la mucca, ma così facendo
condannerei la mia famiglia a morir di fame. -
Intendete che scegliete la mucca in vece che vostro figlio! -
Per come sono andati gli ultimi raccolti, una volta pagate le tasse mi
resterà a malapena l’affitto che devo a voi. Non
riusciremmo a superare l’inverno senza poter vendere latte e
formaggi. Arrivò
l’oste col sacco di ghiaccio. -
Andiamo da vostro figlio. – disse Oscar calzando il tricorno. Mentre
uscivano, Robespierre la chiamò. -
Signor Jarjayes … E’ questo il genere di
conseguenze che
si vede per le strade di Parigi. Non dovete prendervela con voi stesso. -
Invece lo faccio. Sono arrabbiata con me stessa perché vivo
in
mezzo a loro e non mi ero mai accorta di quanto fosse miserabile la
loro esistenza. Ero così presa dai miei problemi da essere
cieca. -
Qui le persone devono fare scelte difficili. – disse
Robespierre.
– Ma sono pronto a giurarvelo: io salverò questa
Francia
che sta morendo, ma che amo con tutto il cuore. -
Voi sarete avvocato, un giorno, e le vostre armi saranno le parole; ma
per quanto riguarda me, scelte difficili richiedono contromisure
altrettanto difficili. Non vogliatemene, Robespierre, ma alle parole
preferisco i fatti. Se
ne era uscita, richiudendo la porta dietro di sé. Alla
fine il bimbo ce la fece. Lo aveva portato dal medico a sue spese e,
con una buona dose di chinino, la febbre se ne era andata. Ora
era un ragazzino in salute, lavorava per lei e suo padre Sugane era il
suo uomo più fidato. Ma
per un bimbo che ce l’aveva fatta, si era domandata quanti
Gilbert si trovavano in punto di morte e quanti padri erano costretti a
scelte assurde. Non aveva più visto Robespierre dopo quella
sera
e non ci aveva più pensato. Fino ad ora.
Si
fece coraggio e decise di scendere in città per parlare con
lui.
Immaginava dove poterlo trovare a quell'ora del giorno di Natale. La
gente stava lasciando la chiesa principale dopo la funzione. Lo vide,
intento a chiacchierare col parroco, sotto braccio con una giovane
donna che gli somigliava molto. -
Avvocato Robespierre? Avrei occorrenza di consultarvi – lo
chiamò. -
Mi spiace, oggi non lavoro. – replicò dopo un
istante di sorpresa. -
E’ una emergenza. -
Signor Jarjayes, io non difendo aristocratici! –
esclamò senza mezzi termini. Il
prete la fissava in silenzio. Lei lo ricambiò stizzita,
inducendolo a volger lo sguardo altrove. I loro rapporti si erano
decisamente guastati quando, per uno dei tentativi di suo padre di
farla ragionare, ovvero di tentare d’accasarla, il parroco
era
intervenuto a mediare; lei gli aveva esploso addosso tutta la sua bile
e quello se ne era andato borbottando contro quella indemoniata di
Jarjayes, facendosi il segno della croce. Oscar
naturalmente non aveva più rimesso piede nella sua chiesa
visto
poi che il suo vestire da uomo non era gradito al sacerdote. Robespierre
le volse le spalle, avviandosi dopo un cenno di saluto con la sorella
al braccio ed il religioso al seguito. -
Il duca minaccia di usare una lettre de cachet contro di me!
– esclamò Oscar. L’uomo
si fermò, la guardò al di sopra della spalla. Con
un bisbiglio invitò la sorella a precederlo a casa, insieme
al
sacerdote, loro ospite per il pranzo di Natale. La sorella, Charlotte,
obiettò qualcosa, con tono contenuto. Maximilien la
tranquillizzò tenendo la mano tra le sue e quella si
rassegnò, non senza però lanciare uno sguardo
ostile
verso Oscar: la bizzarra contessa, della quale aveva sentito parlare ed
che aveva intravisto in città di tanto in tanto, non le era
mai
piaciuta. -
E va bene. – acconsentì – Andiamo a
prenderci
qualcosa di caldo alla locanda, così mi spiegherete tutto.
Gli
fece un riassunto di tutte le varie angherie subite, davanti a due
bavaresi fumanti. -
Non siete la sola ad aver avuto la sfortuna di scontrarvi con quella
gente. – Commentò lui. - Per lo più le
persone
cedono, perché c’è sempre qualcosa di
peggio da
perdere. Ma ho sentito dire che ultimamente De Villaine sta incontrando
problemi economici a Versailles e si crea parecchi nemici. Potremmo
anche ritrovarcelo tra i piedi in persona, più incattivito.
Per
tornare al vostro caso specifico, certo, le pecore sono
animali
transumanti, hanno diritto di transitare per arrivare
all’acqua
ed il vostro vicino è tenuto a risarcirvi i danni
… -
Nessun risarcimento sarà mai sufficiente se continuano a
mandarle senza controllo nella mia piantagione! Lo fanno
intenzionalmente, vogliono rovinarmi economicamente per poi prendersi
la mia terra! Un giudice non può non darmi ragione! -
La verità è che nei tribunali, quando va bene, si
trova
la legge, non necessariamente la giustizia. Se poi ha davvero una
lettre de cachet … -
Cosa posso fare? -
Temo che la sola cosa sarebbe rivolgersi direttamente a Sua
Maestà. -
Potrebbero passare mesi prima che mi conceda udienza. Potrebbe anche
non concedermela mai. E al mio ritorno da Versailles non troverei
più nulla da difendere. -
Mi spiace. Temo di non potervi essere utile. Quelle dannate lettere
sono più letali di un arma da fuoco … -
mormorò. Mentre
l’avvocato sorseggiava piano la bevanda calda, Oscar fece una
piccola riflessione. -
Sapete che mi avete dato un’idea! E pensare che credevo che
gli avvocati fossero inutili. Finì
di bere d’un colpo l’ultimo sorso, quindi si
alzò. -
Devo davvero ringraziarvi, Robespierre! – esclamò
calzandosi il tricorno sul capo – E vi prego, fatemi avere la
vostra parcella per questa consulenza! -
Ma veramente … -
Vi terrò aggiornato! E
se ne andò. Alla
fine era tutto molto semplice. Come
già aveva detto una volta proprio a lui, lei preferiva i
fatti alle parole. E
fatto era che un fucile valeva più di mille irritanti verbi.
Alla
fine i brutti ceffi si erano decisi. Nel pomeriggio si erano presentati
in tre per riprendersi il gregge, come nulla fosse. Lei
li aspettava al centro della via, con un moschetto dalla lunga canna al
suo fianco, posato a terra quasi come un bastone cui sostenersi. Il
fido maggiordomo aspettava a bordo strada.
I
tre figuri parvero sorpresi di vederla. -
Siamo venuti a riprendere le nostre bestie. -
Spiacente. Potrete riaverle solo quando mi ripagherete i danni. Quello
al centro fece per aprir bocca, con aria tracotante. -
Ah sì, la lettre … - lo prevenne lei - Vedete, la
forza
di un arma sta nella sua possibilità di far fuoco, in quanto
è minacciosa. Una volta sparato il colpo, se è il
solo a
disposizione, si perde il vantaggio. Non penso il duca vorrà
privarsi di quel colpo in canna con tutti i nemici che si sta facendo a
Versailles. Armand! -
Si, signore? -
Potresti esser così gentile da dire a questi signori quale
è il tempo migliore da me ottenuto negli allenamenti col
fucile? -
Sì signore, se non ricordo male, il vostro miglior tempo
è stato 3 colpi in 40 secondi. (1 ) Alzò
la canna dell’arma in direzione del brutto ceffo.
Allineò lo sguardo sul mirino. -
Ho già un colpo in canna e non posso mancarvi. -
Siamo in tre o non sapete contare? -
Conto benissimo: so che voi avete un documento infame, uno solo, mentre
io ho molte cartucce nella bisaccia. So che il vostro padrone sta dando
fastidio a parecchia gente a Versailles e che quella lettre potrebbe
volerla usare su qualcun altro; so anche che uno di voi sarà
morto prima che gli altri possano metter mano alle pistole. E so che,
se mi doveste mancare, potrei ricaricare molto più
velocemente
di voi e che quindi due di voi saranno morti prima che il terzo mi
spari a sua volta. – strizzò un occhio, puntando
bene - Al
punto in cui siamo un fucile è più convincente di
mille
parole. – mormorò. Sollevò
il cane. -
E poiché so contare … conterò fino a
dieci per
permettervi di andarvene senza più ritornare. Naturalmente
accetto il vostro gregge come risarcimento per i danni alla mia terra. I
brutti ceffi cercarono una risposta dal loro capo con uno sguardo. -
Ci ritiriamo. Ma non finisce qui, Jarjayes! -
Ci potete scommettere …
Invece
finì lì.
Il duca si rovinò con le sue stesse mani ai tavoli da gioco.
Dovette vendere tutto per saldare creditori perfino più
delinquenti di lui e la famosa “lettre” gli
servì
per non finire in galera lui stesso. Oscar
raccontò tutto a Robespierre il giovedì seguente,
la sera
di capodanno, alla locanda durante la cena settimanale che lei si
concedeva e quello che era stato fino a quel momento un appuntamento
solitario, divenne un’ abitudine tra amici durante la quale
discorrere di animali, ma anche di “bestie” a due
gambe,
che avrebbero dovuto mostrarsi senzienti e troppo spesso erano solo
arroganti. Su
parecchie cose trovava quell’uomo irritante, ma si sentiva
intellettualmente coinvolta. Certo
le idee di Robespierre riguardo le donne e la loro
inferiorità, non potevano non urtarla. -
Dovreste chiedermi scusa, Robespierre! – esclamò
quando
lui se ne uscì con quella convinzione di Rousseau per cui,
“dimostrato che gli uomini e le donne non hanno, e non
debbono
avere, lo stesso carattere o lo stesso temperamento, ne consegue che
non debbono ricevere la stessa educazione.” -
Sono un avvocato. Noi non ci scusiamo mai, specialmente quando
sbagliamo davvero.- disse con espressione seria. Poi cedette ad uno dei
suoi rari sorrisi. – Oscar, siete la prima donna che non
riesco a
considerare tale! -
Vista la considerazione che avete delle donne, lo ritengo un
complimento, sebbene sia chiaramente un’offesa … -
ribattè un poco confusa. -
Madamigella Oscar, Vi trovo estremamente interessante come donna, mi
ricordate una fiera ed indipendente amazzone, ma riferendomi ad una
tipica donna del nostro mondo, non vi è nulla femminile in
voi
… Era
vero?
Palazzo
Jarjayes, primi di agosto del 1784
Les
rois du monde ont peur de tout C'est
qu'ils confondent les chiens et les loups Ils
font des pièges où ils tomberont un jour Ils
se protègent de tout même de l'amour I
re del mondo hanno paura di tutto E’
per questo che confondono i cani ed i lupi Fanno
delle trappole dove loro cadranno un giorno Essi
si proteggono da tutto, anche dall’amore (dal testo
della canzone “Les rois du monde”)
Il segretario
lo fece
accomodare nello studio dove il generale lo attendeva. Aveva presentato
richiesta di un incontro già il giorno prima, mandando un
valletto con una missiva. Il generale gli aveva confermato
appuntamento per quel tardo pomeriggio. -
Conte Girodelle, è un vero piacere rivedervi! Vostro padre? -
Sta ottimamente, grazie. -
E madame la contessa? -
Splendidamente, grazie … -
Desiderate qualcosa da bere? – lo interruppe ancora. Victor
sorrise. Evidentemente il generale aveva un protocollo da seguire per
ricevere ospiti. -
Un assaggio del vostro brandy di Arras mi sarebbe gradito,
sì, grazie. Un gesto di
Jarjayes ed il maggiordomo scomparve per andare ad eseguire
l’ordine. -
Ma
sedete, sedete … Oh, permettete che vi presenti le mie
congratulazioni per la vostra nomina al comando della Guardia Reale.
Purtroppo non ho potuto partecipare al ricevimento in vostro onore e
farvele personalmente perché mi trovavo ai confini del paese. -
Ho ricevuto il vostro biglietto di auguri ed il vostro dono, vi
ringrazio. -
Non c’era bisogno che veniste di persona a ringraziare,
Victor. -
Infatti non sono qui per quello … Almeno, non solo per
quello. Il maggiordomo
arrivò col vassoio e due bicchieri di brandy. Victor dovette
interrompersi ancora. Brindarono. Al
re, alla regina, alla Francia e a loro stessi. -
Chiedo
la mano di vostra figlia, Francoise. – disse Victor
all’improvviso, tra un sorso e l’altro. Jarjayes
deglutì malamente e dovette dare un paio di colpi di tosse
per chiarirsi la gola. -
La mia Oscar Françoise? – chiese incredulo. Girodelle
sorrise per la sua espressione sorpresa, ma si trattenne dal rispondere. -
Oh,
sì, certo, quale sennò. –
constatò Jarjayes
- Caro conte … La cosa mi sorprende, tanto, tantissimo
…
E mi riempie di gioia, non sapete neppure quanto. Ma tengo a precisarvi
che non ho intenzione di forzare mia figlia: l’ultima parola
sarà sua, è sempre stata molto indipendente. -
Non chiedo diversamente. Jarjayes prese
fiato e si
lanciò in un discorso che aveva già fatto cinque
volte
nella sua vita, e che ricordava abbastanza bene anche se erano passati
parecchi anni dall’ultimo fidanzamento delle sue figlie. -
La dote … -
La dote
e, vi prego, non abbiatene a male, ma non mi interessa. Generale,
credetemi, sono certo di dover esser io a dovermi dimostrare meritevole
di vostra figlia, non il contrario. Se madamigella mi concedesse
l’onore di condurla all’altare, mi farebbe felice e
non
avrei bisogno di null’altro. Chiedo il permesso di
corteggiare la
vostra stupenda figlia, signore e, se lei mi vorrà, di
renderla
felice. Jarjayes
restò
spiazzato dalla passione, dalla fermezza del giovane che, a differenza
di tutti gli altri pretendenti sfilati per le altre cinque figlie, lo
guardava fermamente negli occhi, e se timore aveva, non lo dimostrava
affatto. -
Vostro padre? Ne avete già discorso con lui? -
Non chiede di meglio che diventare una sola famiglia. L’uomo
restò un istante senza parole. -
Credo
che a questo punto, io possa solo darvi la mia approvazione e
…
- si bloccò a guardare verso la porta. Victor si
volse per scoprire il motivo di quello sguardo. -
Credo che ora vorrete parlare con mia figlia. – disse
Jarjayes - Vieni avanti, Oscar. Lei stava
là, appena
fuori della porta e sorrideva. Vestiva da uomo, ma il farsetto
attillato non nascondeva le sue forme, tutt’altro; si stava
sfilando i guanti che aveva indossato per cavalcare. Victor si
alzò e salutò con un inchino. -
Madamigella … -
Conte,
che piacevole sorpresa! … Se volete, possiamo parlare in
giardino: il roseto è un incanto in questi giorni. Sapete,
padre, il conte Girodelle è … un amante della
botanica. Victor le
lanciò una
divertita occhiata di rimprovero, visto che il generale gli stava di
spalle e non poteva vederlo. D’altronde, la scusa della
botanica
funzionava sempre. -
Oh, in
questo caso deve assolutamente visitare il nostro giardino, caro
Girodelle. Oscar le farà volentieri da cicerone!
Così
gli fece strada, accompagnata dal beneplacito del genitore. Scesero lo
scalone e
traversarono l’atrio in silenzio. Lo guidò
attraverso il
cortile, girando attorno alla fontana e poi nei vialetti, attraverso il
giardino all’inglese e poi al roseto in piena fioritura. Ma il conte
non pareva
interessato ai fiori, almeno non quanto lo era a scrutare le sue forme.
Era la prima volta che la vedeva in abiti maschili e coi capelli
sciolti. Non riusciva ad evitare di osservarla muoversi,
perché
ogni gesto esaltava quanto fosse femminile, così nascosta ed
al
contempo così esposta al suo sguardo. -
Vi piacciono le mie rose, Victor? -
Come? -
Conte … Tenete gli occhi sui fiori! – lo
canzonò bonariamente. -
Un po’ difficile con voi accanto … Avete una vena
sadica, lo sapete? -
Sì. – ammise senza vergogna - Di cosa volevate
parlarmi, Girodelle? -
Volete farmi credere che non lo sapete? – la
stuzzicò. -
Insinuate che stessi origliando? Così mi offendete!- rise,
perché naturalmente aveva ascoltato tutto fin da quando il
maggiordomo era uscito dopo aver servito il brandy. Oscar
pensò che il
generale le era parso abituato a trattare la
“compra-vendita” di una figlia da ammogliare,
quanto i
contadini di Arras trattavano l’acquisto delle mucche. E la
cosa
doveva ammettere che l’aveva delusa. In cuor suo sperava
ancora
di essere “diversa” per lui. “Animali
e bestie … “ Le donne
rimanevano donne
in ogni caso e il loro volere poteva contare quanto quello di un
animale da fattoria. Sia che si trattasse di aristocratici coriacei
come suo padre, o di liberali come l’amico Robespierre. Alla fine le
idee di Rousseau riguardo le donne erano radicate ad ogni livello
sociale maschile.
-
Voglio corteggiarvi, Oscar. Voglio farlo seriamente, come si conviene,
come è giusto, come meritate. Almeno
Girodelle non era di questo avviso, però. Aveva davvero
delle qualità quell’uomo. -
E lo avete chiesto a mio padre? -
Il generale lascia a voi la decisione. -
Ha solo
timore che possa metterlo in imbarazzo, magari presentandomi in abiti
maschili ad una festa di fidanzamento piena di pretendenti, creando uno
scandalo senza precedenti. -
Voi lo fareste, vero? Rise. -
Certo che lo farei! – garantì sincera - State
cambiando idea su di me, Victor? -
No.
Resterei il solo pretendente a quella festa e nessuno ci disturberebbe
più. – spiegò con semplicità. -
Non amate la competizione? -
Non amo
perdere tempo. Sono qui oggi perché quando ci si accorge di
voler passare il resto della vita con qualcuno, si vuole che il resto
della vita cominci il più presto possibile. (2) Oscar, non
poté nascondere quanto la frase l’avesse colpita. -
Victor … io … -
No.
– la zittì – Non dite nulla, non ora. Vi
chiedo solo
di conoscermi meglio. Mi permettete di corteggiarvi? L’ho
chiesto
a vostro padre, perché così è dovuto,
e lui non si
oppone. Ma è il vostro consenso quello che attendo e
desidero. -
Victor … -
Voglio baciarvi, Oscar. -
Ma quanta fretta … -
Lo
voglio dalla prima volta che vi ho visto. E credo di amarvi
già
da allora. Voglio baciarvi perché mi giocherò
tutto in
questo bacio. Voglio portarvi via ogni dubbio, ogni cruccio, ogni
tensione, ogni dolore. Le prese il
viso tra le
mani e non attese il suo permesso. Oscar chiuse gli occhi, trattenendo
il respiro, tremando senza volere. Era il suo
primo bacio e anche lei sapeva che si stava giocando tutto.
Un salto nel buio. Ma stranamente, dopo un primo istante di terrore,
capì che l’istinto l’avrebbe guidata. Si
sentì sciogliere al delicato solleticare di quelle labbra
sulle
sue e si lasciò condurre. La cosa non era affatto
sgradevole,
dovette ammettere mentre lui la stringeva più forte. E non
trovò sconveniente il suo pretender di più dalla
sua
bocca.
Si abbandonò e ricambiò l’abbraccio.
E
più il bacio si faceva profondo, più la scena che
immaginava da tanto, diventava concreta nella mente di Oscar. Riusciva a
vedersi mentre chiedevano consenso al re per il matrimonio. Vedeva il re
concederlo perché non c’era motivo per opporsi ad
una così perfetta unione. Si vedeva
invitata nel
salottino della regina, con le dame più in vista, in quanto
fidanzata del comandante delle guardie; vedeva sé stessa
ammaliare Sua Maestà quanto e più della Polignac.
Si immaginava
accanto ai reali, ogni giorno; li scopriva a fidarsi di lei, quanto si
fidavano del suo futuro consorte. Non
poté evitare di
pensare che se a suo tempo fosse entrata a far parte della guardia
reale ora non avrebbe avuto necessità di tutte queste
macchinazioni. Robespierre
non era d’accordo con lei ed anche Bernard aveva espresso
delle riserve. Ma i tempi
stavano cambiando.
Le cose dovevano cambiare.
E se avvocati e giornalisti preferivano usar parole, lei si trovava
certamente più a suo agio con pugnali e pistole. Non doveva
essere necessario. No, questo no. Ma se lo fosse stato, lei sarebbe
stata lì. Luigi
e Maria Antonietta … E lei. La persona
giusta. Al posto
giusto. Al momento
giusto.
-
Continua
***
La
vera
Oscar non accettò di indossare un abito femminile nemmeno
per
difendere Maria Antonietta, ma era giovane, doveva far valere il suo
grado, rispettare l’uniforme per la quale il generale aveva
tanto
insistito, doveva sentirsi “uomo” davanti ai suoi
soldati.
Questa Oscar non ha una uniforme da dover onorare,
né
soldati ai quali mostrarsi perfetta: questa Oscar è disposta
ad
essere più subdola per arrivare dove vuole. Avrete
riconosciuto frasi che nell’anime venivano pronunciate da
Bernard
e da Saint Just. Alla fine non ho messo la frase completa che diceva
Saint Just: “Luigi e Maria Antonietta: vai e
uccidili”: Oscar non lo crede necessario, ma, nel caso, lei
potrebbe avere anche questa opportunità. Per
lo
stravolgimento della scena del manga, quella nel roseto,
giustamente penserete che Oscar non lo baciò
perché
ricordava il bacio di André e voleva restasse il solo. Ma
qui
non è accaduto, non ha nessun paragone da fare. …
:D non
ancora !
Due
date: Robespierre inizia ad esercitare ad Arras: 8 novembre 1781; il 15
novembre 1783 parte per tornare a Parigi e “la mia”
Oscar
lo segue poco dopo. E’
una parte che avrei voluto più corposa, ma … boh,
vedremo. Salutiiiiii!
1)
Come
tanti, pensavo che i moschetti fossero lenti da caricare, invece ho
letto che un soldato allenato poteva arrivare a sparare ben 3 colpi in
45 secondi. Quindi … Oscar può metterci anche
meno! :D 2)
“rubata” al film “Harry, ti presento
Sally”
Alla
porta era uno scampanellio continuo quella sera. Parenti
e amici si presentavano a decine ed era un susseguirsi di auguri, baci,
abbracci. Poi,
puntualmente, arrivava la domanda seria, scomoda, inevitabile e la
risposta dei padroni di casa era lo stesso identico dondolare
sconsolato di capo. “Povera
ragazza”, mormoravano tutti. Camelia
Desirée, da febbraio vedova Chatwell, sedeva in un angolo
fingendo di non sapersi al centro dei mormorii, del compianto. “Una
donna così giovane, così bella … Una
coppia così affiatata, così felice.” “Figli?”
Non
erano arrivati. ” Probabilmente,
lei”, l’opinione prevalente maschile; ”Probabilmente,
lui”, quella femminile. Tutti
concordi che, di certo, era stata una sciagura. Figlia unica, giovane e
già tanto provata dalla vita. “Povera
ragazza, povera Desirée.” Il
nero non le donava affatto. Con quella pelle di perla, quelle labbra
rosee, gli occhi velati di violetto ed i capelli neri più
dell’abito. L’oggetto
di così tanto pettegolezzo, notò
quell’uomo. Lui le
sorrise da lontano e ella cercò e trovò un
sorriso,
sepolto nelle profondità del suo dolore, col quale
ricambiarlo. Non
lo aveva più visto dal giorno del funerale, a Londra. -
Ambasciatore… E’ da molto che non ci
vediamo.
– constatò quando lui le si avvicinò
per renderle
omaggio. -
Me ne rammarico. Ma, ditemi, come state, milady? Ella
abbassò lo sguardo sul proprio abito a lutto,
accompagnandosi
con un respiro, ma senza proferir parola. Il suo aspetto già
diceva tutto. -
Lui non avrebbe voluto vedervi così. -
Non riesco a farmene una ragione di questo destino. -
Il destino c’entra poco con la morte di vostro
marito.
– si lasciò sfuggire volontariamente. Lo
sguardo di Camelia si fece improvvisamente cupo. La
mente tornò a quando proprio quell’uomo elegante,
distinto, una persona di famiglia per lei e Ross, le aveva portato la
notizia: una terribile ed improvvisa tempesta, uno schianto sugli
scogli, un drammatico naufragio. Pochi sopravissuti e la certezza che
lui non fosse tra quelli. Le
era stato accanto, l’aveva assistita e scortata in persona a
Londra per le esequie. L’aveva sorretta accanto alla bara
nella
quale le era stato impedito di guardare. Poi lei aveva preferito
rientrare in Francia, perché il solo legame con
l’Inghilterra era lui, Ross; ed ora che non c’era
più, non voleva sentire il peso che i suoi parenti facevano
ricadere su di lei: la colpa di essere viva, oltreché
francese. Adesso
l’ambasciatore se ne usciva con quella frase sibillina. Le
parve di vedere crollare una maschera dal suo volto.
La tragedia l’aveva fatta crescere; era diventata
osservatrice e
cinica nei giudizi; aveva portato allo scoperto tanti falsi amici;
ormai riconosceva le tracce delle menzogne sui volti. -
Spiegatevi! – ordinò senza convenevoli. -
La nave incappò in una tempesta e fece naufragio,
questo
è vero. Ma il viceconsole era già morto
accoltellato a
bordo. Abbiamo più di un testimone a confermarlo, oltre
all’esame delle sue spoglie. -
Assassinato? Mi state dicendo che è stato
assassinato! -
Vostro marito lavorava per i servizi segreti di re Giorgio,
milady. E’ perito per ragioni di servizio, per mano francese. -
Chi? – balbettò - E perché
solo ora ne vengo
informata!- aggiunse mentre la rabbia montava. -
Come avete probabilmente saputo, abbiamo un nuovo primo
ministro.
L’incartamento di vostro marito è giunto in sue
mani a
seguito di un rapporto segreto su un personaggio di spicco del
gabinetto francese che a suo tempo faceva il doppio gioco e
guidò in trappola Lord Ross William Chatwell. Milady, posso
assicurarvi che il responsabile materiale del vostro lutto è
perito nel naufragio. Il cadavere dell’assassino venne
trovato
sulla spiaggia. Il povero Chatwell vendette cara la pelle …
Ma
il mandante si trova qui a Parigi e gode di ottima salute.
Disgraziatamente per l’Inghilterra. -
Perché dovrei credere a voi, avvezzo a giocare con
le
persone, quanto un baro lo è con le carte?- lo
pungolò
senza celare il veleno. L’uomo
mise mano al panciotto e ne estrasse una lettera. Camelia
la prese con mano tremante, avendo già riconosciuto il
sigillo del marito impresso nella ceralacca. -
Vi chiedo solo di credere a vostro marito … La
donna prese la busta, la tenne fra i palmi delle mani, respirando
profondamente ad occhi chiusi, tentando di quietare il battere furioso
del suo cuore. Non
voleva piangere, ma il dolore, mai diminuito in quei mesi, e la rabbia
montante per quei segreti rendevano molto difficile trattenere le
lacrime. Spezzò
il sigillo e cominciò a leggere. Già
alla prima riga, una goccia salata fece capolino e non poté
trattenerla: era davvero una lettera di Ross.
“
Mia adorata moglie, debbo domandarvi perdono. Sì,
perché
se state leggendo queste righe, non sono più con voi. Vi ho
delusa. Questa lettera significa che tutto ciò che sognavamo
è svanito. E vi sto dando un altro dolore perché
il
marito che conoscevate ed al quale nulla nascondevate, aveva invece
segreti per voi. Un
obbligo che mi ha sempre pesato, ma al quale ero purtroppo tenuto. Voglio
dirvi che vi ho amata, totalmente, infinitamente. Lo sapete
già, ma non ve l’ho ripetuto abbastanza. So
che poiché state leggendo queste parole, vi è
stata detta
la verità sulla mia doppia vita, sul mio incarico a Parigi.
E,
se conosco il vostro animo come penso, starete ribollendo per le mie
menzogne ed al contempo brucerete dal desiderio di vendicare la mia
morte. Ma se il colpevole è colui che credo, vi supplico di
desistere, di non cedere alle pressioni. Si tratta di un uomo
molto pericoloso e, se i servizi segreti inglesi sono da voi, ora,
è segno che questa persona sta diventando un serio pericolo
anche per l’Inghilterra oltre che per la Francia, verso la
quale
non nutre certo sentimenti di lealtà. Abbandonate
ogni desiderio di vendetta, mia Desirée.”
-
Chi è il mandante?- chiese prima ancora di finir
di leggere la lettera. L’amabsciatore
si avvicinò e, guardandosi attorno con aria circospetta, la
spinse in un angolo e le bisbigliò un nome. Gli
occhi violetti si spalancarono per la sorpresa e dovette portarsi una
mano sullo stomaco, rivoltatosi. Se lo conosceva? Certo,
le era stato molto vicino dopo la “disgrazia”,
quel tipo di vicinanza che, glielo aveva confidato apertamente, si
augurava potesse mutare in altro, una volta terminato il lutto
…
Le era stato vicino, sì, troppo, con troppa insistenza. E
sebbene lo trovasse lontanissimo da una persona che avrebbe anche
lontanamente potuto trovare interessante, mai, mai avrebbe potuto
immaginare che … Si aggrappò con la mano alle
tende,
mentre sbiancava oltre il suo pallore già
preoccupante. Il
console la prese per un braccio, certo che stesse per avere un
mancamento. Ma Camelia lo allontanò, secca, attirando lo
sguardo
scandalizzato di alcuni invitati. Solo
furia cieca, non un malore. -
Ditemi tutto.- ordinò. L’ambasciatore
lesse la determinazione nel suo sguardo. Ci aveva sperato in quel
furore. -
Sappiamo che questo individuo è salito nella
gerarchia del
potere grazie alle informazioni trafugate facendo il doppio gioco.
Sappiamo che Re Luigi lo tiene molto vicino ed in palmo di mano
poiché teme possa tradire ancora la Francia e
perché ha
necessità delle informazioni che costui riesce ancora a
reperire. Purtroppo, ha ancora molti segreti da poter diffondere,
alcuni veramente pericolosi. Il nostro ministro ha potuto verificare
che egli gode tuttora di una rete di informatori, di traditori
dell’Inghilterra. Re Giorgio desidererebbe fermare questo
individuo e coloro che lo aiutano. -
Ed io? Perché dovrei … In questa
lettera, Ross non
mi chiede di aiutarvi e la mia lealtà va unicamente al suo
ricordo. Per non dire che, in fondo, sono Francese e cugina di Sua
Maestà … -
Perché il nome di vostro marito è in
queste liste
fra traditori, prezzolati, farabutti. E, sebbene sia tutto falso, non
ne esce un ritratto onorevole di lui, da qualunque lato della Manica lo
si guardi. Lo
guardò disgustata. "Un ricatto, insomma." -
Perché io? Perché ora? -
Non obbligatemi a spiegarvi quale vantaggi può
avere una
donna, incantevole quale siete voi, su un uomo siffatto. Siamo a
conoscenza dei suoi … programmi sentimentali nei
vostri
riguardi. Accontentare il mio re, vi permetterebbe la vendetta, milady.
Dovete solo trovare quei documenti imbarazzanti e poi ci
accerteremo che costui abbia la fine che merita. -
Mi state chiedendo ciò che penso? Voi osate
chiedermi … -
Non siete obbligata a … concedervi, no. Ma
più lo
illuderete, più ci avvicineremo alla distruzione della sua
rete.
Troppi agenti sono periti o scomparsi seguendolo. E purtroppo, non
basta tagliare la testa al serpente per sconfiggerlo, in questo caso. Camelia
scrutò gli invitati che la fissavano. Nei
loro occhi si vedeva riflessa come una povera giovane donna in lutto.
Una derelitta. Sguardi pietosi, pochi quelli sinceramente preoccupati. Lo
sguardo tornò alla lettera, e venne attirata dalla parola
“abbandonate”. -
Io non abbandono chi amo … - mormorò
carezzando la firma.
***
Parigi, 1784,
metà agosto
La donna
raggomitolata sulla poltrona, piangeva. Nel buio, tra
le mani, stringeva un piccolo ritratto, di un giovane biondo e bello. “Cosa ti porto da
Londra?”, le aveva chiesto prima di salire sulla
carrozza quel giorno. “ Il mio
londinese”, aveva risposto lei stringendolo
forte. Invece a
Londra non ci era mai nemmeno arrivato. Carezzò
l’immagine con un dito, senza riuscire a frenare le lacrime. “Non abbandono chi
amo”, si era detta quel giorno in cui aveva
giurato di vendicarsi. Ma quella vendetta le stava costando molto cara.
Fréville
era stato
parecchio insistente con lei, col suo corteggiamento, ed il solo modo
per avvicinarsi, indurlo se non a fidarsi, almeno a confidarsi,
l’aveva spinta a fare sul serio, con un vero matrimonio al
quale
lui teneva particolarmente, sicuramente più per il prestigio
che
gliene sarebbe derivato che per reale interesse verso di lei; Camelia
era di stirpe reale, non in lista al trono solo perché
donna. Ma
averla sposata portava Fréville un passo più
vicino al Re.
Tutto
ciò aveva implicato il sacrificio del suo corpo alle voglie
pressanti di quell’uomo orribile. Per fortuna si
era stancato presto della poca partecipazione della moglie, preferendo
la stanza della servetta alla sua. Quando
capitava, chiudeva gli occhi e si rifugiava nei ricordi, nella
menzogna, immaginando altre labbra, altra pelle. Con sorpresa,
in queste
fantasie era apparso Victor e ciò la faceva disperare,
alternando la gioia di conoscerlo all’angoscia di non poterlo
avere liberamente. Non lo avrebbe
mai
immaginato allora, non solo che sarebbe accaduto ancora quel che aveva
ritenuto impossibile, addirittura così presto, ma
così
era stato: era innamorata di un altro. Amava Victor. E lui ora si
sarebbe
cercato una sposa, una donna che avrebbe amato, perché
sapeva
che lui non concepiva un’ unione di puro interesse. Certo, una
selezione per affinità, lignaggio, stato sociale ed
economico era ragionevole. Acqua
e olio non si mischiano. Ma non avrebbe
messo solo testa nella ricerca, il cuore per lui era essenziale. E lei ora
poteva solo piangere perché era diventata vittima della sua
stessa vendetta. Il Natale
precedente, si
era detta che il responsabile avrebbe pagato, a costo di danzare col
diavolo per riuscirci, ma l’impegno a fornire a re Giorgio
ciò che richiedeva, l’aveva portata a letto con
Lucifero,
non solo a volteggiarci. Quel matrimonio era un prezzo troppo alto. Le
informazioni che
riusciva costantemente a passare ai suoi contatti erano preziose, erano
tante e rodevano l’organizzazione di Fréville,
rendendolo
ansioso come una belva circondata dall’acqua che
sale. Vederlo così sulle spine era la sola cosa che la
mandava
avanti.
In quei pochi mesi aveva sgretolato la sua rete, arrivando sempre
più vicina al cuore; una ragnatela costruita in
decenni di
inganni, macchinazioni, omicidi. Ma la famosa lista per la quale messa
in gioco, continuava a restare più una leggenda che qualcosa
di
concreto. Sposandolo era
riuscita ad
ottenere molto, informazioni, nomi, luoghi, spostamenti … Ma
gli
incartamenti che avrebbe potuto rovinare la memoria di suo marito,
quelli erano ancora un segreto. E cominciava a domandarsi se
esistessero davvero o se fosse tutta un’invenzione per
poterla
reclutare.
Trovarli
avrebbe
significato la fine del suo impegno a tallonare Fréville e,
in
un modo o nell’altro, quel matrimonio sarebbe giunto alla
fine. Aveva cercato
dovunque,
origliato chiunque, ma il dubbio che tali carteggi non si trovassero
né a Parigi né a Versailles, diventava sempre
più
una certezza. E lei al nord
non era mai
riuscita a farsi portare. Un ostacolo dovuto alla sua
fragilità
solo apparente, alla sua femminilità. Ci aveva
provato a farsi invitare dal marito, ma insistere toppo avrebbe finito
con l’aumentare i suoi sospetti. Sapeva che
quei viaggi al
confine non erano solo un hobby. Lassù
Fréville
trafficava, ma non c’era modo di avvicinarsi, tanto meno di
infiltrarsi. Il solo agente che ci era riuscito, aveva fatto una fine
orrenda sotto il ghiaccio del lago. Il marchese
era conscio di
essere controllato dai servizi inglesi e che tra i suoi collaboratori,
tra i suoi domestici, c’era una talpa. Per questo
avvicendava spesso il personale, specie quello maschile visto che non
reputava le donne una minaccia. Si sentiva
anche lei impotente. Come poteva
indurlo a smuovere le prove? Udì
uno scricchiolio. Passi felpati sul parquet. Sbirciò
dal lato
della poltrona, tirando contemporaneamente su i piedi e
raggomitolandosi ancor di più, diventando invisibile. Un’ombra
era appena entrata nel salotto passando dalla porta finestra che dava
sulla grande terrazza. Vestiva di
nero e si
muoveva piano, con cautela, ma decisa alla debole luce della luna che
si rifrangeva sugli ampi specchi della sala. Vide l’intruso
spostarsi verso lo studio dall’altro lato della galleria
principale. Vide una candela accendersi e sentì un debole
frusciare dei cassetti, legno su legno, poi carta su carta. Rumori
sordi, picchiettare e poi un colpo più secco: aveva trovato
lo
scomparto segreto. Camelia aveva
già
frugato lì, sapeva esattamente cosa conteneva; aveva
già
perquisito, esaminato, copiato tutto quanto due giorni prima. Chi
era costui? Un concorrente? Scese piano
dalla poltrona
e, scalza e leggera, si diresse nel corridoio. Nascosta appena dallo
stipite, poteva vedere l’intruso di spalle, solo
un’ombra
riflessa leggermente distorta nello specchio sul caminetto; era intento
ad esaminare gli stessi carteggi per i quali lei aveva inoltrato
rapporto al suo contatto inglese; carteggi che avrebbero dovuto
trovarsi a Versailles ed invece Fréville se li teneva molto
vicini.
- Camelia?
Siete voi? La donna
sussultò e
capì che pure l’intruso si era allarmato
perché
scorse la debole luce spegnersi di colpo. “Maledizione
a lui ed al suo sonno leggero!” E la servetta
era andata a trovare la madre malata. Lui non aveva “impegni
notturni”. Si era finta
addormentata al suo rientro e lui non l’aveva scomodata. -
Sì, mio signore! –
s’affrettò a
rispondere, avviandosi ai pochi gradini che introducevano al corridoio
per le stanze private. Ma lui era già sceso nella galleria. - Non vi
sentite bene, mia cara? - Solo un
po’ di arsura che mi ha portata alle cucine a cercare
dell’acqua, ora possiamo tornare a dormire. L’uomo
si guardò intorno. - Avete udito
rumori sospetti? - No, a meno
che non siano le vostre guardie sul portone. Lo prese
sottobraccio con
l’intenzione di portarlo lontano e lui inarcò un
sopraciglio, sorpreso dal suo modo di fare. “Pessima idea,
Desirée”, si disse notando il suo
sguardo. - E’
una serata molto calda, vero? Le
passò due dita sullo scollo della camicia che, allacciata
malamente, le lasciava nude le spalle e parte del petto. Camelia
arretrò di un passo, spinta dal pensiero prepotente di lui,
urtando la parete. - Torniamo a
dormire, signore, è molto tardi.
– tentò. - Mi
è completamente passato il sonno, madame. Le
abbassò lo scollo sul seno e si chinò a
baciaglielo. Camelia si
morse un labbro, cercando di farsi forza. - Signore, non
stareste più comodo nella nostra
stanza? - Troppo
lontana, amore mio … La strinse
sulle anche attirandola contro il suo bacino. Si
appoggiò pesantemente a lei, spingendola ancor
più contro la parete. Un bacio sulla
bocca, pesante, sgraziato, avido. La sua mano
brancolava
sulla veste da notte, sollevandogliela fino alla vita. Quindi si
portò alla mano alla cintola, denudandosi dove gli
occorreva,
dove il tessuto era già una costrizione dolorosa. Alzò
la coscia di lei e premette brutalmente, incurante di quanto potesse
non essere pronta la moglie ad accoglierlo. Camelia si
portò una
mano alla fronte e chiuse gli occhi, cercando di ignorare i versi
animaleschi di Fréville impegnato a sbavare sul suo collo,
suoni
più adatti ad un suino che ad un gentiluomo. “Non dire il suo nome,
non invocare il suo aiuto!”,
si forzava pensando a due occhi verdi, sinceri ed appassionati, a
quelle ciocche bionde che le avevano lambito i seni ed il ventre solo
poco tempo prima con una delicatezza trattenuta e generosa. “Victor,
ti amo … Sei la sola cosa che mi separa dalla pazzia. E non
sei mio”
Approfittando
della
situazione, l’intruso lasciò lo studio,
traversò la
galleria e si infilò nel salone, scivolando alle spalle di
Fréville. Camelia
guardò la
persona in nero e la riconobbe, non senza stupore, anche
nell’ombra, con quei capelli così biondi. E non
poté non avvampare per la rabbia. Cosa
stava tramando Oscar Françoise De Jarjayes? Le
aveva già portato via Victor, cosa voleva ora, con quei
panni da bandito addosso, a casa di Fréville?
André
alzò lo
sguardo al cielo che si stava facendo sempre più nero e tra
poco
avrebbe oscurato la luna. Stavano arrivando nubi cariche di pioggia, lo
si capiva dall’odore nell’aria; un gran bel
temporale
estivo del quale già si sentiva in lontananza il tuonare. Con Alain
stava finendo il giro di ronda per quella notte, seguiti a pochi metri
da Lasalle e Pierre. - Quindi?
Davvero non vuoi dirmi niente della tua bionda?
– continuava a tormentarlo l’amico. - Non
è “la
mia” bionda … -
Sì, scusa: il tuo “istruttore”.
Le lezioni vanno bene? - Non hai una
vita tua della quale occuparti? - Attualmente,
la tua è più interessante.
Attraversarono
la piazza e salutarono le guardie al cancello del ministro, che a
fatica ricambiarono. - I soliti
pezzi di … - mormorò Alain. Svoltarono
l’angolo attorno alla residenza, alcune gocce cominciavano a
cadere. Un rumore di
fronde attirò la loro attenzione. - Ehi, ma
… Un ombra stava
calandosi dal terrazzo dei Fréville, scendendo lungo la
grande magnolia che profumava di limoni. - Alt!
– gridò Alain. Lasalle
alzò il fucile e, prima che il “no”
di André finisse di riecheggiare, il colpo era a
destinazione. Videro la
sagoma cadere, un tonfo sordo. - Preso! Allo sparo di
Lasalle fecero eco le grida dei militari al cancello, che correvano
attraverso il giardino. Alain e Pierre
si mossero a ritroso verso l'ingresso alla villa. - Di
là! di là! – esclamò
Lasalle, vedendo
l’intruso scavalcare la cancellata più in
là. André
si lanciò all’inseguimento, seguito dai suoi
uomini. Dovettero
dividersi, poiché il “presunto
ladro” si era già perso in uno dei
tanti vicoli che si diramavano dalla via maestra. Fréville
si era
affacciato alla terrazza e seguiva l’inseguimento con aria
preoccupata. Immobile, poggiata all’ampia finestra
dietro
di lui, Camelia, umiliata, si stringeva nella camicia da notte,
combattuta tra due desideri: quello razionale, che Oscar non venisse
catturata così la sua copertura sarebbe stata ancor
più
sicura; e quello umano di veder la propria rivale languire prigioniera
alla Bastiglia.
La pioggia
decise di rovesciarsi in quel momento. André
lasciò
la sua cavalcatura e scese le scale del vicolo, pistola alla mano. Era
abbastanza sicuro di aver visto il ladro infilarsi lì, ma
non
aveva detto nulla ai suoi compagni perché era altrettanto
abbastanza sicuro che non si trattasse di un ladro. Una
figura esile ed elegante come quella … E quei capelli
così biondi … Avanzò
piano, nel buio quasi totale, frastornato dall’acqua, dai
tuoni che facevano tremare le vecchie mura. Poi un lampo.
E la vide.
Acquattata dietro pile di legname ed immondizia, lo fissava con la
pistola su di lui. Tremava e con l’altra mano si stringeva un
fianco. La vide
strizzare lo sguardo, abbassare l’arma non per scelta ed
inclinare il capo, perdendo i sensi.
- Capitano!
– stava gridando Alain
dall’imbocco del vicolo. - Qui non
c’è nessuno! - mentì André
incontrandolo – Voi? - Niente! Il
bastardo è sparito, capo.
Evidentemente, Lasalle ha fatto cilecca anche stavolta. -
Già … - mormorò
André. –
Torniamo alla residenza e raccogliamo le testimonianze. Fréville
li
attendeva sotto il portico. Non nascose la sua irritazione quando
André riferì che l’intruso aveva fatto
perdere le
tracce. - Non mi sarei
aspettato diversamente dalla Guardia Francese.
– Il capitano
inghiottì l’insulto, mantenendosi imperturbato:
non gli importava l’opinione di quel gradasso. - Andate,
domani voglio un rapporto ufficiale. Scattò
sull’attenti. - Sissignore.
Alain lo
aspettava fuori, guardandosi in cagnesco coi soldati della guardia
personale del ministro. - Calci in
culo o zerbino? - Un
po’ di entrambi. - Che pallone
gonfiato, eh? Se non ci trattano di merda non son
contenti, quelli come lui. - E’
un ministro … -
Già e deve pur buttarlo fuori tutto il gas che si
ritrova dentro, no? André
si avvicinò al proprio cavallo, Pierre gli passò
le redini. La pioggia non
accennava a diminuire ed erano ormai fradici. - Signori,
direi che per stanotte abbiamo finito. Tornate pure
alle
camerate, io me ne vado a casa. Domani voglio il vostro rapporto sulla
serata. - Sissignore
– esclamarono in coro. Si salutarono
e partirono in direzioni opposte. Dopo un
centinaio di metri, André certo di non poter esser visto,
tornò al vicolo. Lei era ancora
là,
appena riparata dalla pioggia più violenta. Posò
due dita
sul collo per verificare il battito. Sospirando di sollievo, le
scostò una ciocca umida dalla guancia e la
carezzò piano. La serata per
lui non era ancora finita.
***
Aprì
gli occhi e vide le fiamme del camino, il cui calore era stata la prima
sensazione avvertita mentre si risvegliava. Sentì
violento il
bruciore al fianco, ma ciò che più la disturbava
era quel
martellare sordo nella sua testa. Cercò
di tirarsi su, confusa, non riconosceva quel luogo. - Ehi ehi,
piano! – esclamò
André accorrendo al suo fianco. Lo riconobbe e
gli permise di rimetterla sdraiata sulla chaise longue, dove
affondò nei cuscini. - Che
è successo? – borbottò
Oscar. - Non ricordi?
Stavi uscendo in modo poco ortodosso dalla casa
di Fréville … -
Oh… sì … - ammise
rammentando - Mi hai sparato tu? - Se
così fosse, saresti morta. Difficilmente manco
il bersaglio da quando mi alleno con te. Le sorrise. - Sei
svenuta per la bella botta che hai in testa. –
chiarì
– Niente sangue, ma un bozzo grande come un limone.
D’altronde suppongo che la tua testa sia più dura
del
marmo sul quale hai sbattuto … - aggiunse con ironia. Oscar lo
guardò
malamente, reprimendo una smorfia di dolore quando le posò
una
pezza intrisa d’acqua fresca sui capelli. Si
guardò intorno,
soffermandosi sui ritratti solenni, in posa, di persone che non aveva
mai conosciuto, probabilmente morte da tempo. - E’
casa tua? -
Sì, era il posto sicuro più vicino. - Non ti
somigliano.. – mormorò alludendo
ai ritratti. - Non
sono parenti miei. – rispose semplicemente - Ora
controlliamo la ferita. Per fortuna il soldato Lasalle non ha mai avuto
una gran mira … - sollevò la camicia nera,
completamente
aperta, dai suoi fianchi; i pantaloni stavano leggermente abbassati,
là dove aveva posato le garze, che levò per
controllare.
- Ti ha presa di striscio e già non sanguini
più. Tra poco tornerai come nuova. Disse
sfiorando con delicatezza la pelle attorno allo sfregio, attorno al
quale stavano altre vecchie cicatrici. - Mio
padre non è mai stato tenero negli allenamenti …
-
spiegò lei in risposta alla muta domanda. Le
carezzò piano i tagli rimarginati che non dolevano
più da anni, ma che in un altro modo facevano ancora male. Oscar
rabbrividì. Lui la
guardò e le dita si allargarono in cerchi più
ampi, passando dal fianco al costato ed al centro del torace. - Vestire da
uomo ti rende “maschio”
nelle azioni? – mormorò. - Mi rende “libera”.
– disse prontamente, cercando di reprimere i fremiti. - La
libertà nasce dentro: qui e qui. –
ribatté
indicando con l’altra mano, la testa ed cuore, come un tempo
il
barone aveva fatto con lui - Io vedo solo sbarre attorno a
te.
Tuo padre e i suoi esperimenti, i tuoi “amici”
rivoluzionari … Sei passata da una gabbia ad un
altra. Perché ti sei mischiata con gente del genere! Ci sono
teste
calde, estremisti … - Noi siamo
dei privilegiati – disse Oscar. - Ci sono cose
che non vanno, lo ammetto, ma esistono altri
modi per cambiare le cose … - Non riesco a
stare a guardare! Tu sì? - Io devo
tutto ad un aristocratico, un uomo buono, non certo il solo, e non amo
sputare nel piatto in cui mangio. Tu sì? Per qualche
istante si udì solo lo scoppiettare del fuoco nel camino e
lo scrosciare del temporale estivo. L’uomo
tardava a levarle la mano dal petto. - Stai
aspettando il permesso? – lo sfidò
lei. - Aspetto di
sentire un po’ di calore invece di
questo blocco di ghiaccio che ti porti nel cuore. - Ohh, ma io
sono tutta un fuoco… -
obiettò lei prendendogli la mano e spostandogliela sul seno. Dopo un
istante di sorpresa, il moro sorrise beffardo. - Ma che
intraprendenza… - mormorò
abbassando appena lo sguardo, con un certo imbarazzo. - Come un
maschio? Sì, questo mi è stato insegnato ad
essere; ogni
mio ricordo, è il ricordo di un maschio; anche rifiutare di
entrare nella Guardia Reale per badare ad una ragazzina viziata
è stata una mia scelta. Nella vita ho sempre fatto come ho
voluto, ho sempre preso, proprio come un uomo. - Solo
finché ti è stato concesso da tuo padre. Non hai
forse
detto che sei tornata perché vuole che ti sposi? –
obiettò, muovendo il pollice sulla pelle morbida,
inciampando
nel capezzolo. Oscar sussultò a quella sensazione.
– E
poi… - sorrise affilando lo sguardo –
non sono
sicuro di questa spavalderia che dimostri, no, non in questo campo. Allungò
l’altra mano, sfiorando il ventre nudo fino al bordo dei
pantaloni , ci infilò due dita, facendole scivolare piano
sulla
sua pelle, sorridendo dei suoi brividi. - Hai
cominciato una partita nella quale non conosci tutte le regole del
gioco, una partita che non credo tu abbia mai giocato fino alla fine,
Oscar Françoise De Jarjayes. La vide
artigliare i
cuscini del divano. Massaggiava la parte sulla quale lei,
così
spavaldamente, gli aveva spostato la mano e, mentre la distraeva su
quel fronte, con l’altra mano tirava piano l’angolo
dei
pantaloni, cedevoli quanto lei, zigzagando sulla sua pelle con due
dita, finchè si imbattè nei riccioli del suo
inguine, nei
quali sostò. Oscar chiuse gli occhi, mentre, lento
ed
inesorabile si chinava sul suo viso, librandosi a pochi centimetri
dalle sue labbra, come in attesa . Lei pareva
morire,
combattuta dal desiderio di insultarlo per quella deliberata lentezza,
e la voglia di affrontare in prima persona l’azione, invece
di
subire. André
si
chinò di più, arrivando a sfiorarle la guancia
col naso,
mentre dirigeva le labbra al suo collo per aggredirlo, piano. Scese poi
sul petto, sostituendo le labbra alla mano, e lei dovette
abbandonare la presa sul divano per artigliare il suo capo. E poi
ancora più giù, verso l’altra
carezzevole mano. E
si sentì vinta, sconfitta a quel gioco che lei stessa,
avventatamente, aveva iniziato. - Lo so
come ti senti… Sono solo anch’io – disse
ad Oscar
sulle sue labbra. – Ma non è un buon motivo
… E si
alzò da lei, abbandonandola improvvisamente. - Vado a
prenderti qualcosa da mangiare. Non
poté far altro che restarsene lì, ansimante e
confusa.
Tornò
presto con cioccolata calda, biscotti e due mele. Oscar teneva
il capo chino, lo sguardo basso ed imbarazzato. Stupida,
cosa pensava di fare? Ma pareva che
lui non desse importanza alla sua sciocca avance. L’aiutò
a sollevarsi sui cuscini, toccandola senza malizia. Le porse la
tazza calda, invitandola a bere. Quindi si
sedette sul bordo della chaise longue e cominciò a sbucciare
ed affettare una mela. Le
allungò una fetta in silenzio. Oscar accennò un
tentativo di sottrarsi al suo volerla imboccare. - Mangia!
– ordinò in un sussurro. Lo sguardo
fisso su di lei,
severo, luccicava per le fiamme del camino, mentre lo scroscio
dell’acqua fuori ed i fulmini sovrastavano il crepitare delle
fiamme. Oscar
aprì piano le
labbra. Non era mai stata brava ad obbedire, ma quell’uomo
… Forse era solo debole per la brutta caduta e lo sfregio:
non
si sentiva di combatterlo. Sbocconcellò
la
fetta del frutto, un pezzetto alla volta, fino all’ultimo che
prese fra le labbra insieme alle due dita che glielo porgevano. Le dita
si attardarono all’angolo della sua bocca, per pulirle da una
goccia di cioccolata. E si fece
improvvisamente caldo per entrambi. - Io
… per me è stata una giornata pesante.
– disse lui,
levando velocemente la mano ed alzandosi. – Vado a riposare.
E
dovresti farlo anche tu. Buonanotte, Oscar.
La pioggia
scendeva incessante, ma il temporale pareva essersi quietato. Le fiamme nel
camino stavano morendo piano e con esse la luce.
Guardava i
volti, appena
distinguibili nella penombra, di quegli sconosciuti appesi alle pareti
e le sembrava di guardare la sua stessa famiglia. Poco più
di
ombre vaghe, non veri affetti. “Sono solo
anch’io”, le aveva detto. Lo conosceva
da poco, eppure riusciva a capirla più di quanto lei capisse
sé stessa. E allora
sentì il bisogno di farlo. Posò
un piede, nudo,
sul pavimento, poi l’altro. Tenendo una mano premuta sul
fianco
si alzò e si diresse alla porta. La casa era
buia, silenziosa. Triste.
Prese un candelabro che lui aveva lasciato acceso sul tavolo,
salì le scale. Il legno stagionato scricchiolava piano sotto
i
suoi piedi. Era caldo, diverso dal marmo di palazzo Jarjayes. Di sopra,
provò più di una porta, ma solo una si
aprì. Ferma
lì lo vide,
coperto malamente da un lenzuolo, sdraiato di schiena e scomposto nel
letto; nonostante la pioggia, la camera al primo piano era afosa. Disturbato dal
debole spicchio di luce, l’uomo apri gli occhi. Non dormiva
ancora. Oscar si mosse
verso di
lui, posando nel tragitto il lume, un passo dopo
l’altro,
limitata nel movimento dal dolore della ferita, ma decisa, dritta come
una bimba spaventata dal temporale. E come una bimba spaventata
salì sul letto e, con cautela e qualche lamento, si
rannicchiò al suo fianco. Non una parola
accompagnò i suoi movimenti. Non una domanda fece lui. Si
sdraiò sul lato
sano, a ridosso dell’uomo., premurandosi di prendere la sua
mano
e trascinargli il braccio sotto il suo capo. Egli si
sollevò un
poco per guardarla in volto, quindi posò il capo sul
cuscino,
affondando nei capelli biondi. E si addormentò.
Il mattino
arrivò
ancora una volta. La pioggia torrenziale si era sfogata, causando danni
qua e là, come normalmente consegue agli eccessi di
qualunque
tipo. Mosse la mano
leggermente
posata sul ventre della donna e capì che anche lei era
sveglia,
perché il respiro si fece più profondo a quel
contatto. Spostò
la mano sulla fronte: era fresca, niente febbre, niente infezioni. Non sapeva che
dire. Qualunque cosa gli pareva stupida, se non inappropriata in quella
posizione alquanto imbarazzante. Non era la
prima volta che giaceva con una donna nel letto, ma di certo era la
prima volta che ci dormiva. Tuttavia,
erano rimasti nella stessa posizione tutta la notte e sentì
il bisogno di muoversi. Sfilò
cautamente il
braccio da sotto il capo di Oscar, sollevandosi sul gomito, e lei si
volse piano, per aiutarlo, mettendosi quasi di schiena. Si trovarono
così a guardarsi negli occhi.
Un pesante
imbarazzo rese ancor più silenzioso il silenzio fra loro. La
curiosità reciproca era evidente. E
nell’indecisione del momento, André
pensò “perché parlare?” L'approccio fu
più delicato di quello della sera prima e lei lo
ricambiò con uguale dolcezza. Non vi era
alcunché di arrogante, violento nel loro esplorarsi
reciproco. André
scavalcò il suo corpo, attento a non urtale il fianco, in
modo
da metter lesi di fronte, continuando a baciarla piano, mentre la mano
le spostava la camicia solo accostata e quella di lei si
insinuava nel bordo posteriore dei suoi mutandoni. Si lasciò
scivolare sul fianco, per non poggiarsi su di lei.
Oscar
sussultò
appena quando lui le sfiorò la pelle del ventre. Era stato
attento a non toccare la ferita che cominciava a tirare
fastidiosamente, segno di iniziata guarigione. Le dita di
André
corsero sotto la vita, abbassandole i pantaloni, fin dietro sulla
natica, e poi giù, nel suo intimo, tirandola contro di
sé. Oscar emise un
lamento, ma
non di dolore e a sua volta, gli cinse il collo con la mano destra,
bloccata fra loro, mentre la sinistra gli percorreva la schiena su,
giù, con la delicatezza dei polpastrelli, col taglio delle
unghie. Le carezze si erano appena spostate sul ventre di lui che
udirono dei colpi alla porta principale. Sobbalzarono. Il battente
continuava a picchiare. Una voce di donna chiamò il nome di
André. - Torno
… - …
subito, sì. –
terminò Oscar col fiato corto. Balzò
fuori dal letto e corse giù per le scale. - Un
attimo! – esclamò all’impaziente
visitatore,
prendendo tempo per rimettersi in ordine le brache.
Le
aprì la porta, con addosso solo i pantaloni. Diane lo
guardò perplessa, vedendolo scarmigliato. Lui si
sentì
inquisito da quello sguardo e si passò la mano sui capelli,
ostentando indifferenza, ma trasudando nervosismo, incrociando infine
le braccia sul petto nudo, in modo difensivo. Anche se la parte che
avrebbe fatto bene a celare non stava così in alto. - Ciao, Diane. Senza
ricambiare il saluto, la ragazza allungò la pentola davanti
a sé. - Mia madre ti
manda la zuppa di verdure, perché
Alain ha detto che ieri-stavi-
poco- bene. – disse la ragazza ponendo enfasi
sulle ultime parole. - Oh,
grazie… - disse lui, afferrando la padella. Ma Diane non
mollò la presa. Sorrise
furbetta. In quelle
occasioni André riusciva a riconoscerla davvero come sorella
di
Alain: stessa espressione di sorpresa, sopracciglia inarcate e labbra
beffardamente incurvate. - Stai con una
donna… - affermò. - No. - Hai fregato
un’altra ragazza ad Alain, vero? - Cosa..?
no! – Strappò la pentola dalle sue mani, posandola
su di
un fianco per reggerla con una sola mano mentre con l’altra
la
prese per una spalla e la fece voltare – Fila! –
ordinò. Diane si
avviò, voltandosi di tanto in tanto ridendo. “Accidenti…”
Ora la piccola Soisson avrebbe raccontato tutto della sua teoria alla
madre; madame avrebbe ripetuto e commentato tutto alla padrona di casa
che, forse un po’ troppo petulante e sadica, non avrebbe
perduto
tempo per rinfacciarlo ad Alain. E l’amico lo avrebbe messo
sotto
torchio per sapere chi, come e … quante volte. Richiuse la
porta dietro di sé, posò la pentola sul mobile
dell’ingresso e corse su. Ma la
incrociò che usciva dalla sua stanza, più
arruffata di lui. Con una sola
mano cercava di chiudersi la camicia, mentre premeva l’altra
sul fianco dolorante. - Dove vai! - Via
– E si buttò sulla destra per
scansarlo. - Ma
… - obiettò lui, imitando il gesto. Lei
schivò il placcaggio, cambiando direzione, ma lui la
seguì. - Non
è il caso che io resti ancora qui. Devo … devo
andare a
riprendere il mio cavallo. – ribattè scendendo le
scale
più velocemente che poteva. - Posso farlo
io – si offrì, allungandosi
per sostenerla quando la vide cedere. - Sto
bene! – disse tenendolo a distanza e mordendosi un labbro per
il
dolore e per il conflitto interiore. I piedi scalzi
di entrambi
picchiavano sordi sulle scale, che lei percorreva comunque troppo
velocemente, per quella che sembrava una vera fuga. Entrò
nel salone del piano terra e cominciò a cercare i suoi
stivali. - Aspetta
almeno che ti prepari qualcosa da mangiare… Lei si
lasciò cadere sulla schaise longue e, piegandosi con un
certo sforzo, iniziò ad infilarsi gli stivali. André
balbettava scuse, ma lei si rialzò, prese gilet e giacca e
si avviò alla porta. Lui si
parò dinnanzi a lei. -
Oscar… - Fammi
uscire. – disse perentoria. Scosse il
capo, fissandola
in quello sguardo gelido nel quale non riconosceva la donna che stava
imparando ad amare: non voleva lasciarla andare. Ma non oppose
resistenza quando lei lo spinse da parte e, senza una sola parola in
più, se ne andò. Oscar non si
voltò a
guardarlo: i suoi progetti erano avviati e quegli occhi profondi erano
solo una distrazione dai suoi veri obbiettivi.
Camminava in
mezzo alla
folla del primo mattino, tenendo il capo chino, cercando di farsi
notare il meno possibile, fin quando si infilò in quel
vicolo,
giù per una anonima scaletta che portava alle cantine di un
edificio adiacente il Palais. Picchiò all’uscio.
Un ritmo
insolito che qualcuno dall’altro lato avrebbe riconosciuto. Bernard in
persona le aprì. - Santo
cielo, Oscar, dov’eri finita? E’ tutta la notte che
ti
cerchiamo! Ho saputo che ci sono stati spari … Ma
… sei
ferita? – chiese vedendola crollare su di una sedia. - Di striscio,
un graffio. - Ma ..
– e le toccò la testa, dove aveva
notato un leggero rigonfiamento. - Sono
caduta, niente di grave! – esclamò stizzita
scansandogli
la mano che le carezzava piano i capelli. Bernard la
scrutò, sorpreso da tutta quella irritazione. - Va bene, se
lo dici tu … Racconta! Hai scoperto
qualcosa sul carico d’armi? Oscar sorrise,
soddisfatta. -
L’indiscrezione sul carico arrivato a Meudon
è
assolutamente vera. Ho visto coi miei occhi la pianta col tragitto
segnato per il convoglio in partenza. -
C’era lo scomparto segreto? -
Sì, esattamente come pensava il tuo amico ebanista. Non nascose la
soddisfazione, - Hai scoperto
anche di quanti fucili si tratta? - Altro
che fucili! Capisco finalmente il perché di tutta la
segretezza
che ha accompagnato questo trasporto e dell’interesse che ha
portato il re in persona a Meudon. Non ci crederai mai, Bernard, ... Lo sguardo del
giovane si illuminò mentre si sedeva di fronte a lei. - Una nuova
arma! … - Una
mongolfiera, Bernard. Funzionante ed attrezzata per ricognizione alle
postazioni nemiche, dotata di un bruciatore che permette di gestirne la
rotta con le diverse correnti. Perfetta per lo spionaggio, ma anche per
portare squadre addestrate oltre le linee, nel completo silenzio. Mentalmente il
giornalista fece due conti. - Ho
assistito al primo volo libero lo scorso anno, a Parigi. Se si tratta
di un prototipo da guerra, il valore sarà inestimabile. - Potremo
chiedere una cifra ben superiore come riscatto. Non solo
fucili.
– concluse Oscar, guardando il vino che le stava
versando
in un boccale. Bernard
alzò il proprio bicchiere verso di lei. - Sono
contento che una mente come la tua lavori per noi. – si
complimentò, affascinato e tentatore. Ma Oscar non
ricambiò il brindisi. L’aria stranamente assente,
un dito
ad accarezzarsi le labbra memori di un calore ed una morbidezza che non
volevano abbandonarla. “André
…” André
era stato come
un balsamo, per le labbra e per il cuore. Non si era mai sentita tanto
serena, calda e soddisfatta come tra le sue braccia. Erano qualcosa
che la confondeva, che non sapeva gestire, le emozioni che le
suscitava. Qualcosa che
andava oltre
il piacere fisico. Quello stava imparando a capirlo, perché
Victor non la lasciava indifferente. Ma
André … - Oscar? Le prese la
mano poggiata sul tavolaccio. Lei si scosse e la ritrasse come
scottata.
- Oscar … che facciamo? –
chiese aggrottando
le sopracciglia per quella sua reazione quasi disgustata che non gli
aveva certo fatto piacere. - Ce la
prendiamo. – disse lei, tornando in
sé. Si fece
passare carta e penna. - Questo
è il tragitto. – disse tracciando una mappa - Qui
è
un punto critico, una gola. Dovrai con una squadra tendere un agguato. - Difenderanno
il carico strenuamente. - Soldati di
mio padre, sì. Non si risparmieranno di
certo. - Potrebbe
scapparci il morto … -
sottolineò Bernard. - E’
il destino del soldato, sacrificarsi per
qualcosa di più importante. - disse con freddezza.
- continua
Il
21
novembre 1783 ci fu il primo volo umano libero della storia in
mongolfiera, sorvolarono Parigi. In precedenza c'era stata una
esibizione a Versailles alla presenza del Re. Questo
è il decollo della mongolfiera a Parigi, nella miniserie
"John Adams", bella scena in costume. http://www.youtube.com/watch?v=QB32OLW7suA&feature=related
Lo so, non ho ancora
risposto alle
recensioni per le quali vi ringrazio tanto, ma poichè il
tempo
è poco, ho immaginato avreste preferito il nuovo capitolo
alla
"Harmony" :D Non ho ancora neppure
finito i disegni, ancora solo in bianco e nero. Magari li
aggiornerò più avanti. Grazie! : )
Il valletto,
imparruccato e dai modi formali, lo aiutò col cappotto e con
il fioretto. Il giovane ufficiale
si lisciò la fascia glicine sul torace, sistemò
il colletto dell’uniforme e le onorificenze già
numerose per un uomo di ventitre anni. Trattenne il respiro
prima di decidersi ad entrare nel salotto. Quindi espirò e
con un coraggioso sorriso, varcò la soglia. - Zio Victor! Zio
Victor! – gridarono quasi in sincrono i suoi
due nipotini più grandi correndogli incontro. - Finalmente!
Benedetto ragazzo, ma dove eri finito? –
esclamò il padre – Siamo in ritardo per la cena! - Perdonate, Signore,
sono stato trattenuto a corte. Problemi con
l’organizzazione della sorveglianza riservata ad un ospite
straniero. Si chinò
verso la madre, seduta sul divanetto accanto alla figlia minore che
teneva tra le braccia un neonato. - Maman …
- mormorò baciandola sulla fronte. - Vieni a salutare la
tua nuova nipotina, fratello! – lo
incoraggiò la giovane madre sollevando appena il fagottino
umano che teneva in grembo. Victor sorrise. Non
poteva non adorare sua sorella Beatrice, la piccola e monella Girodelle
che, in meno di un anno, aveva realizzato tutto ciò che
prima si ostinava a detestare: matrimonio e prole. Si era presentata
una mattina a colazione e con poche parole li aveva zittiti tutti. “Padre, madre,
fratello … Mi sono innamorata”, aveva
esclamato con un candore tanto disarmante che per qualche istante
nessuno era riuscito a fiatare. Poi c’erano
stati i melodrammi: chi? Quando? Da quanto! E lui com’era? E
la sua famiglia com’era e poi … Poi il
silenzio, un’alzata di spalle come una resa da parte di lei e
gli abbracci, perché i loro genitori erano così:
severi ma dal cuore d’oro e fiduciosi nel buon senso dei loro
figli. Poco più di nove mesi dopo le nozze, anche lei era
diventata madre, così i nipoti arrivavano già a
quattro.
La cena fu ottima,
divertente, piacevole nonostante la giornata intera con la famiglia
fosse stata stancante. Al mattino avevano
festeggiato il battesimo dell’ultima nata, la prima figlia di
Beatrice, poco più di una bimba a sua volta. La settimana prima,
era toccato al primogenito di sua sorella Natalie. Victor tra
sé ringraziava di aver un incarico di rilievo nella Guardia
Reale che, di tanto in tanto, gli forniva la scusa inappellabile per
staccarsi un poco da quella esuberante combriccola, proprio come era
accaduto nel pomeriggio.
Si guardò
intorno, nel salone chiassoso, tra il tintinnar di posate e bicchieri,
le risa, le chiacchiere. Una folla che era la sua famiglia. Suo padre era
felicissimo ed orgoglioso dei quattro figli; Victor, il maggiore, non
lo aveva mai deluso e neppure le tre figlie che erano arrivate in
rapida successione e, senza difficoltà, avevano trovato
marito appena cresciute. Però, il
fatto che il suo unico figlio maschio non avesse ancora trovato moglie,
un po’ lo indisponeva. Forse perché le ragazze
erano in pieno entusiasmo riproduttivo, mentre il nipote che
più gli premeva non arrivava. - Dovrà
estinguersi con te il casato dei Girodelle? Lo guardò
sorridendo. Ultimamente i discorsi di suo padre viravano spesso sul
tema della continuità del loro nome. Sarà stato
perché le riunioni famigliari erano ormai trasformate in
feste per bimbi dei quali nessuno portava il nome Girodelle. Feste che Victor
tendeva a disertare appena possibile. Gli piacevano i bambini, adorava
i nipoti e le sorelle, un po’ meno i cognati ed il loro
umorismo. Ma non era pronto a vedersi marito ed ancor meno padre. - Davvero, quando mi
renderai nonno? - Guillaume, dagli
tregua! – intervenne la madre in sua difesa
– Lo sai che Sua Altezza non gli lascia un attimo di riposo. - Già,
passi molto tempo con lei. Dovrei preoccuparmi? - Padre! –
esclamò indignato. - Ah, non so, se ne
sentono tante sulla nuova regina. E tu sei una tomba
in proposito, il che non conferma, ma neppure smentisce. - Padre, sapete
benissimo che non posso parlare di ciò che
accade o no a corte. E comunque, non avete assolutamente da
preoccuparvi. Le chiacchiere, come sempre, sono esagerate.
Semplicemente Sua Maestà è una persona molto
attiva, esuberante, socievole; ed essendo io la sua guardia personale
divento altrettanto attivo e più impegnato, in quanto
responsabile della sua sicurezza. I cognati
ridacchiarono. - Ammettetelo,
Victor: Sua Maestà si diverte! Ci ricordiamo
bene del famoso ballo in maschera a Parigi!
L’inizio di un lunga serie! – esclamarono quasi in
coro. Si limitò
a guardarli furente; se quel commento fosse stato fatto da qualcun
altro, lo avrebbe volentieri arrestato. - Sono ancora giovane
ed ho una carriera alla quale pensare. –
mormorò tornando a rivolgersi al genitore. - Figlio mio, il
tempo scorre veloce, come il vento. Occorre vivere
ciò che è importante e la famiglia lo
è. Non permettere che la carriera ti conduca come una foglia
nel maestrale, lontano dal tuo albero. Qualcuno potrebbe
obiettare che niente è più importante della
Francia, ovvero delle Loro Maestà, ma la famiglia
è la tua vita, Victor. - Chissà
che il vostro albero non abbia già semi
pronti a germinare in qualche fecondo terreno … -
insinuò metaforicamente ed inopportunamente uno dei cognati. Victor strinse il
pugno su una posata. Il padre gli strinse la mano per quietarlo,
guardando al contempo il figlio acquisito in un modo spaventoso, che
non ammetteva dubbi di interpretazione sul suo pensiero. - Scusate, battuta
infelice … - disse il giovane abbassando lo
sguardo e riprendendo a mangiare il dolce.
I discorsi virarono
in altre direzioni e Victor ne approfittò per riempirsi il
bicchiere più volte, proibendosi di partecipare alle
conversazioni. Che
malignità gratuita era stata quella del cognato! Sì, era
vero: si divertiva, non era un monaco. D’altronde, la Guardia
Reale non gli permetteva neppure il tempo per una relazione poco
più che frivola. Seguire Maria
Antonietta nei suoi spostamenti lo impegnava a tempo pieno: nessuna
donna innamorata avrebbe accettato una simile concorrenza. Ma figli illegittimi,
no, era certo di non averne. E, nel caso, si sarebbe assunto le proprie
responsabilità. Non era certo uno di quegli uomini alla
Rousseau: conosceva bene i suoi doveri di gentiluomo.
Aveva bevuto, non
poco, tentando di non udire i cognati e le loro stupide pensate; le
loro battute sulla regina ed il re, sul matrimonio non ancora
consumato; il loro insinuare che una giovane così esuberante
non potesse non essersi già rivolta altrove. E lui lì,
a doversi morder la lingua e tacere, perché sebbene avesse
voluto dire la verità, ciò non gli era permesso.
Avrebbe potuto testimoniare che Maria Antonietta non era
quell’arrogante maligna come veniva dipinta dagli invidiosi;
che era buona, generosa; che se la si conosceva, non si poteva evitare
di provare affetto per lei e che prima di lanciarle addosso assurde
cattiverie avrebbero fatto bene a sciacquarsi la bocca col sapone. Ma
non parlò. D’altronde
non era tutta colpa loro: quelle erano le voci che circolavano; e forse
quei giovani che avevano catturato il cuore delle sue adorate sorelle
non erano davvero così stupidi come spesso gli sembravano,
ma solo un poco irritanti. Va
bene: tanto irritanti! Semplicemente, non
trovava nessun uomo degno delle sorelle e non voleva neppure tentare di
farseli piacere. Accampando una scusa,
era uscito prima di tutti da casa di Beatrice col desiderio di
continuare a bere, magari fermandosi per la notte da quella certa sua
amica che dava senza chiedere mai. Mentre cavalcava
piano immaginando nei dettagli il corpo caldo, soffice ed accogliente,
capace di placare ogni sua tensione, non si avvide dei movimenti
nell’ombra finché un figuro si parò
dinnanzi a lui. Sussultò,
frenando bruscamente il suo cavallo. Senza una parola
quello tese la mano avanti, come un questuante: un gesto chiaro. - Favorite la borsa,
Signore. - Un favore posso
farvelo, quello di arrestarvi invece che uccidervi.
– replicò Victor. Dall’ombra
uscirono altri due malviventi. Sospirò
sconfortato immaginando due belle gambe accavallarsi e negarsi. Niente
affetto per quella sera, a quanto pareva … Mise mano al fioretto
e lo estrasse. Non era tipo da farsi derubare senza tentar difesa. Era
anche troppo irritato dalla serata per cedere e lasciare i denari, come
avrebbe dovuto suggerirgli il buon senso in quella situazione. Avanzò sul
suo cavallo bigio verso colui che gli bloccava la strada, menando nel
contempo fendenti a destra e a manca per tenere lontani gli altri due. All’improvviso
un dolore alla tempia dovuto ad una sassata mandata a segno, lo fece
vacillare. Nell’attimo di intontimento, uno dei tre
riuscì ad agguantarlo per il cappotto e lo
strappò al suolo. Nella caduta, perse
l’arma ed in un attimo furono su di lui come un branco
famelico, ma a differenza delle bestie, non erano spinti solo dalla
fame: quegli esseri godevano nel far del male. Stordito dal colpo e
disarmato, non poté altro che ripararsi dai calci, tentando
di evitare quanto poteva. E quando ormai si
sentiva perduto, udì quel grido. I minuti che
seguirono persero una linea temporale nella sua mente e solo
l’istinto lo guidò nel riappropriarsi del
fioretto, portando a termine con successo la mossa, affondando nel
ventre di uno dei suoi aggressori. Riverso sul selciato,
a malapena distinse quegli occhi grandi ed onesti del suo salvatore,
che gli chiedeva come stava, che domandava il suo nome. Girodelle
… Victor Clément, conte de Girodelle … L’ultimo
dei Girodelle. Ci era mancato poco. Solo grazie a
quell’uomo in uniforme blu, la linea diretta del suo casato
non si era estinta in quella strada, quella notte.
Parigi, agosto 1784
On sait que le temps c'est
comme le vent (si sa che il tempo è come il
vento) De vivre y a que
ça d'important (di vivere quel che è
importante) On se fout pas mal de la
morale (ce ne freghiamo della morale) On sait bien qu'on fait pas
de mal (sappiamo bene di non far del male)
Grazie al cielo il suo ufficio si affacciava al lato nord
dell’edificio. D’inverno forse non era il
più accogliente degli ambienti, ma al freddo ci era
abituato. Quell’estate invece, ringraziava i muri spessi e
freschi e quel venticello continuo, che d’inverno cambiava
nome e diventava
“il maledetto spiffero”.
Prese tra le mani la pila di documenti da esaminare.
La burocrazia era qualcosa che aveva sempre detestato, sebbene
riconoscesse quella parte del suo lavoro un male necessario. Ma con
l’afa di quegli ultimi giorni, l’ennesima
stupidaggine dell’ennesimo passacarte, avrebbe potuto fargli
perdere la proverbiale calma per la quale Alain lo canzonava e,
segretamente, invidiava.
Stava leggendo la risposta dello Stato Maggiore alle richieste da lui
presentate con largo anticipo per l’inverno a venire. Incremento delle razioni
… Rifiutato. Aumento delle paghe
… Rifiutato. Manutenzione delle
camerate … Permessi solo lavori di
consolidamento. “ La
sua richiesta per quarantanove paia di stivali invernali
verrà valutata …”
- Ma come
“quarantanove”! – sbottò
leggendo la risposta. – Cinquanta ne ho richiesti! Cinquanta
uomini, cinquanta paia di stivali! Cosa c’era di
così difficile da capire! “Stupide teste
di legno”, pensò appropriandosi del
termine che solitamente Alain riservava al loro comandante, il
colonnello D’Agout, uomo taciturno ed apparentemente
indifferente a tutto e a tutti, che si limitava a sottoscrivere quanto
richiesto da André senza porre domande.
Sbuffò sonoramente al pensiero di quante lettere avrebbe
dovuto scrivere, condite con salamelecchi ed adulazioni varie, per
ottenere la rettifica a quella richiesta non ancora valutata, col
rischio di farla slittare in coda ed ottenere un bel nulla.
Alain entrò nella stanza, bussando, aprendo e varcando la
soglia nello stesso istante.
La solita educazione alla De Soisson e non c’era verso di
fargli capire quale fosse la sequenza necessaria agli eventi: ovvero
bussare, attendere risposta, aprire ed entrare.
Stava ridacchiando.
- Devi scendere in cortile!
- Come?
- Devi scendere in cortile a vedere una
cosa! – ripeté Alain senza smettere di sorridere.
- Una cosa … Cosa? –
disse ancora irritato dal documento che teneva tra le mani.
- Capitano, - si spazientì il
gigante - alzi quel suo grazioso deretano e scenda a vedere! Le hanno
mandato un … pensierino.
A quel punto André era abbastanza seccato dal modo di fare
del suo amico.
- Va bene, va bene … Scendo.
– disse alzandosi, conscio
dell’inutilità di altre parole o azioni diverse
– Ma il tuo tono non mi è piaciuto … e
neppure quel “grazioso”.
In cortile lo attendevano i suoi uomini, tutti in fila, in modo poco
ordinato e non uno riusciva a restare serio, qualcuno
fischiò al suo passaggio, come avrebbe fatto alla vista di
una bella damina.
- Complimenti capitano!
- Il nostro capitano ha doti nascoste,
eh!!!
- Ma che gli fai alle donne, capo?
Un gruppetto di loro si scostò ed apparve il motivo di tanto
trambusto che il valletto in livrea incaricato della consegna aveva
annunciato come “da
parte di madamigella”.
Era più che bello, più che bellissimo.
Era da favola.
André si accostò al purosangue nero, lustro e
caldo come la pece.
I finimenti in ottone scintillavano, ma non erano le borchie
di lusso od il pellame di prima scelta della sella ad attrarre la sua
attenzione. No.
Si avvicinò e carezzò il muso
dell’animale, sorridendo, fissando i suoi occhi scuri. Con la
mano scompigliò il ciuffo, sfiorò la criniera per
tutta la lunghezza, scivolando sull’ultima ciocca,
giù fino a dove stava un biglietto, legato al pomolo con un
nastro in seta blu, lo stesso che lui aveva perso qualche tempo prima
durante la loro sfida al laghetto. “Non hai
più scuse. Domenica. Stesso posto, stessa ora.”
Lo strano modo di ringraziare di Oscar Françoise de
Jarjayes. Proporgli una sfida ad armi pari. In fondo,
“grazie” sarebbe stato sufficiente …
- Voglio vedere come lo spiegherai a
Bouillè … - ridacchiò Alain.
- Potrò sempre dire che ho
risparmiato rinunciando ai tuoi stivali ed al tuo rancio … -
ribatté André, stroncando
l’ilarità dell’amico.
Domenica. Stesso posto, stessa ora. Era arrivato in anticipo, ma
l’aveva trovata già lì ad attenderlo.
Ora, alcune ore dopo, la guardava sdraiata nell’erba, le mani
incrociate dietro la nuca, piedi nudi, caviglie intrecciate.
Avevano duellato, cavalcato, rubato ciliegie. Poi erano crollati
nell’erba ad osservare gli uccelli di passaggio tra le fronde
della robinia fiorita e profumata.
La sua scherma era decisamente migliorata da quando si batteva con lei;
era una brava insegnante e lui un allievo diligente come mai aveva
immaginato di poter essere. E poi
… Poi gli piaceva che lei lo toccasse per aiutarlo con
l’assetto. Gli spiegava come tenere le spalle, quanta forza
imprimere in un affondo e nel far ciò la mano di Oscar che
gli sfiorava prima il braccio per correggerlo, poi i fianchi per
rettificare la postura, che gli correva lungo la spina dorsale per
invitarlo a tener dritta la schiena … Lo riempivano di
brividi.
Ogni tanto, quando si allenavano con le armi da fuoco, gli posava il
mento sulla spalla, per verificare la linea di tiro e lui si distraeva,
solleticato dai suoi ricci sulla guancia.
Lei pareva non accorgersi del respiro che gli si bloccava,
per poi deglutire e gonfiare il petto, chiudendo un occhio per prender
la mira, cercando di dimostrare che quelle lezioni non erano vane, ma
che gliene servivano ancora parecchie.
Per dimostrare che aveva bisogno di lei.
Sarebbe stato disposto a perdere per sempre pur di averla accanto.
Sarebbe stato disposto ad esser la sua ombra per poterla seguire.
- Non fissarmi … -
borbottò Oscar.
- Non posso farne a meno … -
mormorò tradendosi - Credevo dormissi. –
aggiunse poi, come scusa.
Prese una larga foglia d’erba e la portò alle
labbra, iniziando a trarne suoni striduli per distrarsi dai pensieri
pericolosi che lo assalivano quel pomeriggio.
- Per favore, no … -
mormorò lei.
Si interruppe e la guardò aggrottare la fronte ad occhi
chiusi.
- Beh, non sono Mozarth, ma non era
così male … –
scherzò per nascondere l’emozione che lo prendeva
vedendola così rilassata accanto a lui.
- No, è che …
pensavo. Sai, se le cose fossero andate diversamente, saremmo cresciuti
insieme e di giornate così ne avremmo avute tante da non
poterle ricordare tutte.
- Se le cose fossero andate diversamente,
sarei un tuo servitore e tu nemmeno mi rivolgeresti la parola.
– replicò con una punta di acidità.
Aprì gli occhi e lo guardò come ferita.
- Sì. Sei così tu.
Non lo fai apposta, ma attorno a te circola una corrente polare, il tuo
scudo … Fai belle riunioni coi tuoi amici sovversivi, fai
bei discorsi a te stessa, ma potrei giurare che non hai mai guardato
realmente in volto uno dei tuoi domestici. Per non dire altro
… Hai mai permesso a qualcuno di avvicinarti davvero?
Si allungò carponi sull’erba verso di lei. Oscar
scattò in piedi.
- Come pensavo …
- Cosa pensavi!
- Tanto coraggiosa, ma appena il gioco si
fa interessante … Proprio come l’altra volta.
- Non sei così interessante,
Grandier! – esclamò cattiva, sperando di
interrompere una conversazione che non voleva affrontare.
- E cosa ti spinge a perdere tempo con
me, allora?
Disse alzandosi a sua volta, avanzando verso di lei. Oscar
arretrò verso il laghetto ed entrò
nell’acqua.
- Non avvicinarti! – lo
minacciò.
- Dai, facciamo un bagno! –
scherzò lui, con un velo di irritazione nella voce,
abbassandosi, immergendo le mani a coppa e schizzandola.
- Non mi piace nuotare. Te l’ho
già detto. E non mi piace dovermi ripetere.
- Accidenti, quante cose non piacciono a
madamigella Oscar! Cosa ti piace? – la sfidò
avanzando ancora. – Il tuo amico Robespierre? O quel ragazzo,
Bernard, così saccente …
- Smettila! Che ti prende? Abbiamo
interessi in comune, tutto qua … E non vedo
perché dovrei giustificarmi con te.
- Interessi?
- Politica.
- Sai che potrebbero finire arrestati da
un momento all’altro, vero? – esclamò
continuando ad avanzare nell’acqua, spingendola ad arretrare.
- Condivido le loro idee.
- Sediziose.
- Libertarie. Ma che ti prende?
– esclamò smettendo di arretrare - Lo sai meglio
di me come vive chi non è aristocratico.
- Tutte scuse! A che punto arriveresti
per vendicarti di tuo padre?
La fronte di lei si corrugò pericolosamente. Nemmeno parlare
di suo padre era piacevole per lei.
- Non cerco vendetta. Cerco giustizia.
André scoppiò a ridere. Rideva di lei.
- Non con tutta la rabbia che hai in
corpo. – spiegò con niente più di
allegro nel tono.
- Rabbia? Sì, forse
… Almeno io provo qualcosa! – gli
ringhiò di rimando - Tu non fai che divertirti e
chiudere gli occhi! Le cose non possono andare avanti così.
La gente deve ribellarsi ai soprusi della famiglia reale. La corte
sperpera cifre impensabili per cose assurde. La regina è
solo una donna frivola, presa da sé. Il re la accontenta per
quieto vivere e si intestardisce ad ascoltare solo i consigli che
più gli aggradano. Appare inetto ed incapace, ma sa
sfruttare appieno i suoi privilegi. La Corona guida la Francia per
volere di Dio? Dove sta Dio? Di certo non nei vicoli di Parigi!
- Io chiudo gli occhi? – disse
movendosi in avanti, con una espressione offesa e minacciosa.
- Stai cominciando a ragionare come quei
cortigiani intriganti, lontani miglia dalla vera nobiltà
… Non avvicinarti! –
Gli diede una spinta, per tenerlo distante.
Lui la spinse a sua volta, violentemente e la fece cadere
nell’acqua ancora bassa.
Istintivamente, Oscar reagì con un calcio al ginocchio, che
gli fece cedere la gamba e cadde a sua volta.
Lei si allontanò; ormai l’acqua era alla vita.
André saltò in avanti e la trascinò
sotto con sé.
Riemersero insieme, sbattendo all’indietro i capelli lunghi e
zuppi.
Oscar lo schiaffeggiò, lui rispose allo stesso modo.
La replica di lei fu un pugno, inaspettatamente violento che lo fece
barcollare; prima ancor di riflettere, lui reagì in egual
maniera, facendole perdere l’equilibrio, spedendola sottacqua
dove, leggermente stordita, affondò veloce come un
sasso.
Immerse le mani e la tirò su per il collo della camicia.
Oscar sputò l’acqua che stava inghiottendo e
rimessasi in piedi lo spinse via. Una volta. Due volte. Con rabbia
sempre in crescendo.
E si sorprese di sè quando, afferratolo per la camicia,
invece di allontanarlo ancora, lo attirò a sé
e lo baciò.
La rabbia scivolò via, come l’acqua che, tolto il
tappo, si avvita in un vortice e si perde nel buio, non si sa dove.
Dopo un tempo infinito abbandonò le sue labbra e nascose il
volto sul suo petto. Poggiava la fronte sul cotone zuppo della sua
camicia ed osservava il petto di André gonfiarsi in respiri
affannosi come i suoi.
Si staccò dall’uomo, immobile, senza guardarlo.
Sentiva dei brividi percorrerle le membra: forse adrenalina, forse
ansia, forse l’acqua fresca. Forse paura.
Uscì dallo stagno, a passo deciso, vincendo la pesantezza
dell’acqua contro le sue gambe. Infilò gli
stivali, raccolse le sue cose. S’avvicinò a Cesar,
ne prese le briglia tra le mani e si voltò a guardare
André, al di sopra della spalla. La stava raggiungendo. Si
accostò a lei, immergendo lo sguardo nel suo, ma senza
toccarla.
Oscar si issò in sella e lui ne
accompagnò i movimenti, sfiorandola appena; le braccia, le
spalle, i fianchi, le cosce e si fermò alle ginocchia quando
ormai era salda in sella.
Lei spronò il cavallo e si allontanò di qualche
passo. Quindi si fermò.
Non si volse, ma l’esitazione nel movimento esprimeva in
realtà una decisione presa nell’istante stesso in
cui era uscita dal lago. Attese finché non udì i
passi del cavallo nero affiancarsi al suo, quindi scalciò
piano il ventre di Cesar.
Camminarono al passo, rilassati solo in apparenza. Attorno a loro, solo
i rumori della campagna, il picchiar degli zoccoli sul sentiero ,
qualche sbuffo dei loro animali. Il sole del primo pomeriggio li
colpiva, frammezzo le fronde dei platani del viale; oltre il filare, il
torrente correva vivace al loro fianco.
Dopo una mezz’ora di cammino in silenzio, avvistarono i
cancelli di quello che André suppose fosse palazzo Jarjayes.
La seguì nel cortile, attorno alla fontana zampillante. Non
fecero in tempo ad avvicinarsi all’ingresso che un domestico
stava già correndo verso di loro, proveniente dalle
scuderie. Inchinandosi prese le redini che Oscar gli lanciò
e restò chino finché ella non fu scesa da
cavallo. Si drizzò solamente per prendere in affido la
cavalcatura di André, accompagnandosi con un altro inchino,
quindi condusse gli animali alle scuderie.
Oscar salì decisa i gradini, mentre André si
attardò un istante ad ammirare il palazzo chiaro, dalle
enormi vetrate.
Entrò nell’atrio, dal pavimento a scacchi bianchi
e neri; grandi finestre sulla sinistra illuminavano un salone
bianchissimo, ricco di piante esotiche, mentre davanti a lui, un ampio
scalone di marmo policromo portava al piano superiore. La
vide parlare con due cameriere, quindi avviarsi al piano superiore,
mentre le due donne schizzavano veloci verso le cucine, probabilmente
per eseguire gli ordini ricevuti.
Non si volse verso di lui. Per un attimo pensò si fosse
scordata della sua presenza, ma giunta a metà della rampa si
fermò e si volse a guardarlo. Non una sola parola e riprese
a salire.
André la seguì di sopra, fin dentro quel che
capì essere i suoi appartamenti, luminosi come il resto del
palazzo, ma per nulla femminili. Alla parete c’era un
ritratto di un giovanetto biondo e capì che si trattava di
lei: meno di quindici anni doveva aver avuto all’epoca.
Un grande e moderno pianoforte troneggiava al centro del salotto, nero
ma lucente, spiccava in mezzo al candore abbagliante del marmo di
Carrara.
Lei scomparve in un’altra sala; lui si avviò verso
la finestra spalancata su una grande terrazza.
Restò lì a guardare il parco, cullato dal vento
che carezzava i capelli. Ebbe la sensazione come se avesse dovuto
conoscere quel posto, come se avesse dovuto aver già
calpestato quei pavimenti. Pensò che sua nonna era nata ed
aveva servito fin da ragazzina in quella casa. Pensò a come
sarebbe stato se non se ne fosse andata.
- Vuoi bere qualcosa, mangiare un frutto?
– chiese lei alle sue spalle.
André vide le cameriere uscire e richiudere la porta
dell’appartamento, dopo aver posato dei vassoi sul tavolo
rotondo con acqua, vino, pane e frutta.
Oscar si avvicinò, attratta dal suo mutismo.
- Desideri qualcosa? –
sussurrò ambiguamente, quasi sul suo volto.
Lui sorrise, senza ancor un suono, fece scorrere la mano sotto i suoi
capelli, sul collo, sulla nuca. L’attirò a
sé ed Oscar ebbe la risposta alla domanda.
Come Davide per Betsabea, come Sansone per Dalila, egli capiva di aver
perso contro quella donna e che per lei avrebbe fatto di tutto,
compreso donarle la vita. Naturalmente sperava che ciò che
stava iniziando sulle loro labbra, sulla loro pelle, non dovesse finire
in così biblica tragedia.
Niente altro che amore desiderava, niente altro che due persone unite
come accadeva da millenni e per questo avrebbe ringraziato il cielo,
perché la sua vita in ombra avrebbe avuto la sua luce.
E sentiva che era così anche per lei.
Non più solo. Non più sola.
Doveva esser così.
Oscar arretrò, malferma nei passi, distratta dai baci.
Guidandola alla cieca, André la portò ad urtare
piano la colonna laterale dell’arco d’ingresso alla
camera da letto. Lei si inarcò con una spinta sulla schiena,
spingendo il bacino contro quello di André, staccando le
labbra dalle sue, carezzandogli il petto, sostenendo la pausa dello
sguardo. Egli la strappò via, riabbracciandola, riprendendo
a divorarla, volteggiando con lei verso il centro della stanza in quei
movimenti apparentemente scoordinati della danza tra i sessi. In
realtà nulla avveniva per caso, le carezze sfilavano le
camicie dai pantaloni e percorrevano sentieri che li conducevano
rapidamente alla destinazione.
Il sole si affacciava alla grande vetrata completamente aperta e si
rifletteva nello specchio sopra il camino aumentando ancora di
più la luce del marmo e degli stucchi bianchi e oro.
Allungando una mano dietro di sé, Oscar afferrò
il cordone che teneva legate le cortine del baldacchino; lo
tirò e la tenda si lasciò andare di colpo,
portando ombra fino a metà del grande letto ove lei si
lasciò cadere.
Alzò una gamba verso di lui, attirando la sua attenzione
sullo stivale. André non si fece pregare; afferrò
la calzatura e delicatamente gliela sfilò, lasciandola
cadere. Oscar propose quindi l’altro piede e lui, paziente
come avrebbe fatto il migliore degli attendenti, si accinse a replicare
l’azione. Ma forse per il piede ancora bagnato che lo aveva
calzato, lo stivale sembrava poco propenso a farsi levare.
L’uomo accompagnò la presa sul polpaccio, cercando
di sfilarlo con piccole mosse, ma nulla pareva smuovere quel calzare
dal piede. Sorrise allo sguardo esaminatore di lei.
Cosa credeva? Che si sarebbe arreso?
Passò quindi senza esitare a modi più
decisi, anche se ciò imponeva una mancanza di
finezza, volgendole le spalle, stringendo la gamba tra le ginocchia per
afferrare con entrambe il recalcitrante stivale.
Oscar lo guardava intento nel suo compito, chino e concentrato e, tra
un pensiero ammirato ed uno dispettoso, non riuscì a
resistere.
Posò il piede nudo sulla natica soda, calda e …
spinse. Grazie al gesto d’aiuto, lo stivale si
sfilò di colpo ed André per un istante perse
l’equilibrio.
Si volse a guardarla, falsamente torvo.
Oscar si sollevò sui gomiti, ridendo, ma lui
riuscì subito a farle cambiare l’espressione in
una compiaciuta, sfilandosi la camicia dal capo e lanciandogliela
addosso, dispettoso quanto lei.
Restarono qualche istante a guardarsi, consapevoli che la schermaglia
preliminare era finita e stavano per cominciare i veri giochi.
Egli si sfilò a sua volta gli stivali e tornò
scalzo al letto, sedendosi accanto a lei, abbassandosi su di lei che
tornava a sdraiarsi sul copriletto cremisi.
Come due ragazzi che sperimentano un nuovo gioco, ubriachi di caldo ed
adrenalina, cominciarono a baciarsi e carezzarsi, piano, con tutta la
calma del mondo, mentre i lacci della camicia di Oscar cedevano piano
al sapiente sbrogliare di lui. Ma quando la mano di
André scese sul bordo dei pantaloni, iniziando a slacciarle
i bottoni, quella di lei scattò a fermarlo per un istinto
che non sapeva spiegare. Si sfilò dall’abbraccio e
si rintanò confusa contro la testiera, all’ombra
della cortina, raccogliendo le ginocchia al petto, riparandosi dal sole
e da lui.
André gattonò verso di lei, si
appoggiò con una spalla alla testiera, sedendosi al suo
fianco e la fissò in silenzio, cercando il suo sguardo che
lei continuamente distoglieva.
- Non aver paura. – disse
quando finalmente riuscì ad incrociare i suoi occhi.
Mantenendo lo sguardo, posò un dito sul suo collo dove la
vena pulsava forte, quindi scese piano sul petto, tra i seni e
giù, su stomaco, ventre e giù ancora sul confine
di quell’indumento maschile che da sempre la proteggeva e
nascondeva. Corse sul bordo un paio di volte, solleticando la pelle
delicata, quindi cominciò a slacciare i bottoni, il primo,
il secondo, il terzo, mentre il fiato di lei si spezzava per la
tensione e posava la fronte contro la sua.
Levò la mano da lei, baciandola senza toccarla; quindi la
infilò sotto la camicia, posandogliela in vita; scese sul
fianco, sulla natica; percorse la coscia fino al ginocchio piegato e
risalì piano, all’interno, con un tocco che
anestetizzava qualunque pensiero conscio, inducendola ad abbandonarsi
mentalmente e fisicamente.
Mentre lei si lasciava scivolare sui cuscini, egli tornò
all’orlo dei pantaloni, da dove era partito, per cominciare a
sfilarglieli senza incontrare altre opposizioni.
Per un tempo che parve infinito e breve al contempo, si avvicinarono,
conobbero; e quando alfine divennero una cosa sola, la paura di lei era
cosa ormai lontana.
La guardava dormire, lì, seduto per terra accanto al letto.
Si era svegliato nel cuore della notte sapendo di dover andare per
potersi trovare a Parigi prima dell’alba.
L’aveva scostata delicatamente dal suo torace dove riposava
incredibilmente serena ed in silenzio aveva cominciato a vestirsi. Non
era la prima volta che fuggiva da una alcova con l’alibi del
dovere. Era piacevole lasciarsi travolgere dalla follia dei sentimenti,
dal pulsare del sangue nelle vene, dall’eccitazione. Ma alla
fine, la realtà del mondo prendeva il sopravvento e lo
portava razionalmente a separarsi dall’amante del momento.
Ed a quel punto del pensiero si era bloccato. L’aveva
guardata e non ce l’aveva fatta; si era dovuto sedere accanto
al letto dove lei, pancia sotto aveva lasciato cadere un braccio dal
bordo. Si era fatto vicino al suo viso e la guardava ancora dormire.
Alla luce della luna piena, seguiva le ombre di quel volto che gli
pareva di conoscere da sempre.
Fino a quel momento, André aveva affrontato la vita vivendo
la giornata così come il mattino gliela presentava, senza
obblighi particolari, senza vincoli particolari.
Ora sentiva che lei era la sua vita. Che per lei avrebbe potuto morire.
Che nulla senza di lei aveva senso. Che la solitudine era cosa ormai
intollerabile.
Che forse la solitudine era davvero finita e qualcosa di grande stava
cominciando.
Non era più solo un desiderio, una speranza.
Lei. Era lei
“quella là fuori”!
Sollevò la mano per scostarle una ciocca dalla guancia, con
due dita, e posargliela dietro l’orecchio.
E posò il mento sulle lenzuola, vinto dallo spettacolo di
lei, impossibilitato a muoversi da lì.
Dovette guardar fuori, distogliersi da quella vista verso il parco
ancora buio, ma rischiarato dall’astro che cominciava a
calare.
Aveva sempre dovuto riconoscenza alla nonna ed alla sua scelta che alla
fine gli aveva permesso la nobiltà, una vita migliore, la
parità con persone del rango di Oscar. Lo doveva a quella
scelta se lui poteva trovarsi lì, ora.
Si sentì sfiorare il capo.
- Volevi andartene come un ladro nella
notte? – la sentì sorridere nel bisbiglio.
- Devo essere in caserma per
l’adunata. Alain non può coprirmi
all’infinito. – disse tornando a voltarsi verso di
lei. Le carezzò l’avambraccio inerme nel vuoto.
- Non sembri un uomo ansioso di
lasciarmi. – constatò Oscar, sollevando la mano
per stringere la sua.
- Temo l’alba come mai
null’altro nella mia vita.
- Sei triste? Perché?
- Stavo cercando di immaginare quanto
avrei sofferto se fossi cresciuto qui senza poterti amare. Quindi temo
l’alba del giorno che potrebbe svegliarmi da questo sogno.
Oscar si sollevò appena, quel tanto per poter prendere il
suo capo e volgerlo verso la finestra, imponendogli un punto preciso
verso il quale guardare.
- Laggiù, la grande quercia.
– disse – Là, sotto le radici, da
piccola vi ho sepolto il mio tesoro come fanno i pirati. Ma non si
trattava certo del tesoro di Alessandro, intendiamoci: solo una
trottola di legno ed un coltello dal manico rosso. Ma mi resi subito
conto, che nessuno ne avrebbe mai saputo nulla perché
nessuno si è mai curato di me. Di cosa facevo, cosa pensavo.
Dove andavo a piangere, quali giochi facevo. Quali fossero i miei
sogni, le mie paure … Sarebbe stato bello averti qui,
André. Saresti stato la mia consolazione ed un giorno avrei
potuto lasciarti il mio tesoro. A che serve un tesoro se non hai
qualcuno con cui dividerlo? – lo indusse a voltarsi ancora
verso di lei – Lo vuoi tu il mio tesoro, André?
– chiese con un tremito nella voce.
Le carezzò le labbra con l’indice, come a voler
zittire un pensiero scomodo e spaventoso.
- Voglio te, nessuna eredità.
Perché parli come se mi dovessi lasciare?
Ella si scosse, prese la mano e gli baciò il palmo.
- Nulla. Non far caso ai miei deliri. La
notte non dovrebbe esser fatta per dar voce agli incubi. Solo ai sogni.
Ma ora vai, o il canto dei galli ti sorprenderà ancora per
strada.
Si sporse a baciarla e si alzò dal pavimento, con Oscar
allacciata al suo collo, incapace lei stessa di rispettare il sollecito
ragionevole che gli aveva imposto e staccare le labbra dalle sue.
Finì di vestirsi davanti a lei, seduta sul bordo del letto,
vincendo a fatica la tentazione di levarsi ancora tutto e rituffarsi
tra le sue cosce così provocatoriamente appena dischiuse.
Gli sorrise, intuendo il suo tormento. Lui sospirò.
- Ah, cosa non si fa per la Corona
… - scherzò, allacciandosi il fioretto in vita.
Non avvicinandosi a lei per evitare ulteriori tentazioni,
girò attorno al baldacchino ed aprì la porta che
dava direttamente sul corridoio, lentamente, imponendosi di non far il
minimo rumore.
- André …
La guardò dallo spicchio aperto che già stava
richiudendo.
- Ti avrei amato lo stesso … -
mormorò seria.
Sorrise. Le credeva. Anche lei ci credeva.
Andò alla finestra, avvolta nel lenzuolo che sapeva di lui,
stringendocisi, stringendolo tra le gambe laddove un calore mai provato
la informicolava ancora tutta.
Guardò la sua ombra
traversare il cortile verso le scuderie e pochi minuti dopo uscirne a
cavallo. Lo guardò scomparire. Ed improvvisamente
avvertì un peso al petto.
Il peso dell’inganno.
Pensò a Victor. Ai progetti studiati coi suoi compagni di
intrighi. Ai rischi per tutto quanto aveva messo in moto.
Era il peso della certezza di aver fatto qualcosa che non avrebbe
dovuto, anche se onestamente non era certa di cosa fosse sbagliato: se
i suoi obiettivi ed il modo scelto per perseguirli o provare quel che
stava provando per quell’uomo e che, con tutta la ragione,
non era riuscita ad evitare.
Sentiva finalmente quel vento caldo e sconvolgente che aveva sempre
ignorato nella sua vita e la voglia prepotente di abbandonarcisi.
Ma cos’era giusto, sbagliato o necessario non lo sapeva
più.
- continua
Non ce l'ho fatta. Dopo
tanto rimuginare, alla fine “l’harmony”
non mi è venuto; mi è uscito un
“harm” senza “ony”. Lascio le parti sexy a
chi le sa davvero scrivere bene. :D Ma so che da brave fans
saprete mettere a fuoco e personalizzare la mia dissolvenza nella
vostra mente, certamente meglio di come l’avrei potuta
scrivere io! :P Saluti!!! :D
Aveva esitato un attimo prima di firmare. Ora
stava lì a fissare il foglio, penna in mano, sospeso, senza
un vero pensiero in elaborazione nella mente. Semplicemente
in pausa tra ciò che era accaduto l’istante prima
e quel
che sarebbe dovuto accadere l’istante immediatamente
successivo. Perché
quella esitazione? Con
quella firma avrebbe siglato la fine di una vita, l’inizio di
un’altra. Poteva
solo provare gratitudine per il barone, ma gli pareva di fare un torto
ai suoi veri genitori, un torto a Nanny -
E’ solo un nome… - mormorò il
barone, al
quale era bastato uno sguardo per intuire il suo dubbio – Non
cambia quello che sei, ragazzo mio. -
E’ che … non esisteranno più
– disse André. Il
barone posò la mano sulla sua spalla, quindi si rivolse
all’uomo in nero, dall’altro lato della scrivania
scura. -
Vorremmo apportare una modifica al documento, se possibile.
– disse, utilizzando una cortese forma al condizionale che
nulla
aveva però della semplice richiesta. Quello era un ordine. Il
notaio sospirò appena. Documenti da rifare, insomma. -
Dite pure, barone. -
Per cortesia, modificate il nome di adozione. Da
André De
Plessis Bellière, in André Grandier De Plessis
Bellière. E’ possibile ? André
sgranò gli occhi. Fece per aprir bocca, ma il barone lo
zittì affettuosamente. -
Oh, intendete mantenere il nome di sangue? Sì,
certo,
è possibile. Devo redigere nuovamente i documenti
…
- esaminò velocemente i manoscritti - Ci vorrà
un’oretta per prepararli. -
Fate con comodo. Noi andiamo a pranzo, vero figliolo?
E’ un giorno importante questo e dovrà essere
perfetto.
Niente di meglio di un pranzo coi fiocchi per festeggiare! -
Io … non so come ringraziarvi, signore. Il
barone picchiettò sulla sua mano, minimizzando la portata
della
sua generosità, e gli fece cenno di alzarsi per primo,
quindi
puntò il bastone e si drizzò. André lo
aiutò a scostare la sedia e gli porse il braccio. -
Prendetela con calma, amico mio. – disse al notaio
–
Abbiamo intenzione di trattenerci fino all’ultima portata che
saranno in grado di preparare per noi, giù alla locanda. Il
bello di essere ad un passo dalla morte è che
l’indigestione è l’ultimo dei miei
pensieri!
Andiamo, André!... Ragazzo mio, pensavo … e se
facessimo
un colpo di testa? Insomma, perché non partire dal dolce per
una
volta! -
Magnifica idea, signore … -
Se tua nonna fosse qui, ci prenderebbe a mestolate entrambi
… - ridacchiò.
***
Le
fiamme del camino danzavano sui caratteri precisi e nitidi
dell’atto di adozione. Erano
rientrati da un paio d’ore e André, seduto sul
tappeto del
salotto a gambe incrociate, non riusciva a staccare gli occhi da quei
termini legali, freddi, ma che altro non erano se non la traduzione
burocratica dell’immenso affetto che il suo benefattore
provava
per lui. Alzò
lo sguardo sul vecchio, infagottato nella vestaglia da camera,
freddoloso come tutte le persone al tramonto della vita, che a sua
volta lo studiava, sorridendo divertito da come il ragazzo leggeva e
rileggeva quell’atto legale. Quello lo vide sottolineare
ancora con
l’unghia quel nome, Grandier, che per poco non era scomparso. -
Grazie… - mormorò André,
mentre gli occhi iniziavano a luccicare. -
Non hai motivo di ringraziarmi per ciò. Il tuo
nome non
saranno solo pochi caratteri scarabocchiati qua e là:
dovrà identificarti. E poiché sei una persona
stupenda
come sei, lungi da me che il tuo nome non ti identifichi
più. Ma
ti avverto, André, non tutti la vedranno in questo modo. Per
alcuni, anzi, per molti, tu resterai sempre André Grandier,
uno
che è stato solo fortunato. -
State dicendo che sarò nobile, ma non nobile, vero? -
Sapranno che ti ho adottato, André. Contro un
nobile di
sangue blu da generazioni, sarai sempre comunque tu a perdere.
–
disse il barone allungandogli il bicchiere affinché il
giovanotto potesse rabboccare ancora il cognac della sera. - Sarai un
nobile di seconda classe. Avrai il mio titolo ed i miei possedimenti,
miseri possedimenti, non montarti la testa, figliolo. Potrai mantenerti
senza preoccupazioni, ma solo se sarai accorto. I denari finiscono
molto in fretta. Ricordalo! Ed il potere vale più
dei
soldi. Ma anche da quel piedistallo si cade. Da un momento
all’altro, sei nessuno e tutti sanno subito che sei nessuno.
E
comunque a te il potere verrà sempre negato. Il tuo sangue
blu,
sarà sempre più pallido del loro.–
concluse
amaramente, saggiando un sorso.
Fine
agosto 1784
Seduti
al tavolo
di una locanda sovraffollata e rumorosa, parevano solo due giovanotti
intenti a parlar innocentemente del più e del meno.
-
Quindi sono pronti a partire? – chiese Oscar,
spezzettando un crepe al formaggio. Bernard
restò un istante incantato a guardarla con quanta fredda,
precisa eleganza incideva, divideva quella pietanza. La stessa fredda,
decisa eleganza che le aveva visto utilizzare per mettere a tacere la
sua ilarità, il suo sarcasmo, le sue freddure riguardo donne
ed
armi. Una dimostrazione senza riguardi, senza mezze misure. - L’uomo che
ho infiltrato al castello di Meudon dice
che
hanno terminato le modifiche e rimediato ai problemi presentati dal
progetto iniziale. Sì, sembra che siano pronti a partire. Il
re
ha presenziato ad una seconda dimostrazione che lo ha soddisfatto
pienamente ed ha dato il suo benestare per il prosieguo
dell’operazione, ma stanno attendendo il ricongiungimento con
un
altro carico che proviene da nord, cosa non si sa:
“affari”
di Fréville. – rispose. - Metti in pre allarme
la tua squadra, Bernard. Avremo poco
tempo per agire quando si metteranno in moto. - Sarai dei nostri? - Vedremo …
Ho cose in movimento
sull’altro fronte che potrebbero trattenermi a Versailles. - Non mi piace quel
fronte … - disse tormentando il
cibo nel piatto, come un bimbo capriccioso. - Non deve piacere:
deve essere utile. - Non piace neppure a
Robespierre. - Fosse per voi,
risolvereste tutto in chiacchiere. - Mi sembra di averti
dimostrato il mio appoggio in
più di
una occasione – si risentì lui – E non
vedo la
necessità che ti abbassi a … - A? Continua,
Bernard, - lo esortò con uno sguardo
da
paura – dimmi chiaramente a cosa mi starei abbassando! Sempre
se
non pensi lo abbia già fatto … - Non intendevo
… - Oh, sì
che intendevi! E non è affar
tuo. – Si
alzò e gettò alcune monete sul tavolo con fare
risoluto.
– Tienimi aggiornata.
Pian
piano il
mondo smetteva di essere un sogno, strano e troppo colorato, e
diventava realtà, una realtà più bella
di
qualunque sogno. Si svegliò, affondato nei cuscini, sul
divanetto in ferro battuto sul quale era crollato subito dopo pranzo. - Scusa, -
mormorò mettendo a fuoco la padrona di
casa,
seduta al tavolo, intenta a leggere - mi sono addormentato … - Fate turni
massacranti. – lo motivò lei
senza alzare
lo sguardo dal volumetto che scorreva con interesse. - Parigi è
nervosa e siamo in pochi. Sai, il prezzo
del pane è aumentato ancora. - Sì,
Bernard mi ha raccontato di un assalto ad un
forno a Saint Antoine. - Quando lo avresti
visto? – chiese aggrottando le
sopracciglia. - Capitano
… Mi par di cogliere un filo di gelosia
nel suo
tono … - azzardò Oscar rivolgendogli un sorriso. - Gli caverei un
occhio se provasse ad importunarti-
minacciò lui, torvo ed irresistibile. Andò a
sistemarglisi accanto, chinandosi a placarlo con un bacio. - Stai cercando di
distrarmi? – chiese quando lei
scese verso il suo torace. - Sì. - Funziona
… - ruggì, afferrandole la
nuca. La trascinò
cavalcioni su di sé.
Si schiarì
appena la voce, interrompendo le effusioni, quando intravide
un’
ombra discreta posare un vassoio sul tavolo. E altrettanto
discretamente quella svanì ad un cenno imperioso di Oscar. - Ma … non
dicono nulla? – chiese stupito
dalla
riservatezza del personale, alludendo al suo frequentare indisturbato
il palazzo. - Solo se fossero
interrogate direttamente: non conviene far la
spia di libera iniziativa. Ma nessuno dei miei famigliari
farà
mai domande per paura della risposta. E poi il generale già
certamente pensa peste e corna di me; ammetto di avergliene dato indizi
qua e là, negli anni. Non gradirebbe di certo la
disinvoltura
con la quale ci incontriamo, ma finché occhio non vede,
orgoglio
non duole … - interruppe con un bacio. - Quindi, è
sempre così deserta questa
casa?
– continuò mentre seguiva il contorno delle sue
labbra con
un dito, quasi incredulo che fossero tutte per lui. - Da quando le mie
sorelle son tutte obbedientemente e con
entusiasmo maritate, sì. Maman o è a Versailles,
o è a
Parigi ed il generale si muove spesso per la Francia. –
chiarì riprendendo a baciarlo. - Senti, ci penso da
un po’… - Pensi sempre troppo
… - lo canzonò. Le prese il mento tra
il pollice e l’indice, costringendola a guardarlo negli occhi. - Voglio andare da tuo
padre. Voglio fare sul serio. Oscar distolse lo
sguardo, scivolò via, andando a posare orecchio sul suo
cuore. - Che
c’è? Perché taci?- si
preoccupò André. - Non ti basto io?...
Noi ? - Sei tutto e per
questo vorrei poter palesare il tutto. - Siamo più
liberi così. A che serve il
matrimonio
… - mormorò ella, mentre il pensiero faceva punto
su ben
altri motivi. Egli tacque anche se
il poco entusiasmo di lei lo sorprendeva e feriva. -
Cos’è? – domandò
invece levandole il libriccino dalle mani. - Il primo volume
delle “memorie di Jeanne
Valois” . - Ma hai idea di
quanti ne ho dovuto sequestrare? –
sbottò - Questa robaccia spunta ovunque! - Non la chiamerei
robaccia: fa luce su tante cose. - Luci da
palcoscenico, certo. Jeanne Valois ha molta fantasia. - Intanto la gente fa
la fila per farle visita in galera. E
poi, davvero è tutta fantasia? - Sono persone, Oscar,
con luci ed ombre, come tutti. –
mormorò cauto, pensando alle accuse pesanti mosse alla
Regina da
colei che, nel tentativo di scagionarsi dalla accusa di furto di un
collier di inestimabile valore, si era proclamata sua amica e amante,
pur non avendo nemmeno mai frequentato Versailles. - Sono persone con
immense responsabilità che
però
trattano la Francia come un parco giochi! Come una miniera da sfruttare
fin nel profondo! – esclamò accennando a
sollevarsi. La strinse di
più sul suo torace. - Basta! Basta parlar
di loro … Se ti causa dolore,
basta.
Non credere che non capisca, Oscar; ma temo che questa tua passione
possa finir col divorarti come un incendio ed io … Io non
potrei
lasciarti bruciare. Non potrei mai lasciarti sola. La sentì
scivolare piano dal suo abbraccio, turbata, silenziosa. - Jeanne Valois, sai
… io l’ammiro. Non
guardarmi
così, André … - aggiunse con un
sorriso, sedendosi
sul bordo del divanetto – Mia madre mi diceva che donne
così, come la Du Barry, loro, le cortigiane, quelle che si
fanno
strada usando le sole armi che possiedono, sono una vergogna. Ma mi son
guardata attorno, per le strade, nelle case. Ho visto uomini prendere
quel che volevano, col denaro, col potere, la bellezza,
l’adulazione, l’inganno, la forza … E se
non
ottenevano, calunniavano. Ma gli uomini sono così.
– si
strinse nelle spalle, accettando il fatto come una fatalità
-
Sono le donne che non capisco. Una donna non dovrebbe mai dare della
battona ad un’altra … Ci sono tanti modi in cui la
vita ti
fa prostituire, in cui ti chiede di pagare il conto. Una donna come
Jeanne potrebbe fare qualunque cosa per ciò in cui crede,
ciò che vuole. E allora? Questo la rende meno degna di chi
dalla
vita ha avuto solo rose? La rende meno affettuosa coi suoi figli o meno
radiosa se innamorata? Ho visto puttane meno bagasce di tante
nobildonne altezzose e più pure d’animo di monache
dedicate a Dio! – allentò i pugni che aveva
stretto sul
bordo in ferro del divano - André …
Anch’io ho le
mie luci e le mie ombre. Anch’io potrei fare cose
discutibili.
Io, che non sono uomo, che non sono donna e finora sono vissuta in un
limbo tra le mie identità. Invidio Jeanne Valois, che ha
avuto
coraggio, non si è spezzata; nonostante la vita schifosa che
le
era stata riservata, ha vissuto come ha voluto. Ed ora paga.
–
terminò con un sussurro. André
allungò la mano sulla sua che ella ritrasse, alzandosi e
volgendogli le spalle. - Vado ad impartir
ordini per la cena. Tu resti? –
chiese. Lui annuì
quando Oscar lo sbirciò per ottener risposta. Quindi la donna si
avviò verso il palazzo, ricacciando indietro le lacrime di
rabbia. Perché
proprio lui, proprio ora? Quell’uomo e la Francia. Fuoco
contro
fuoco, passione contro passione. Due tipi di amore egualmente forti e
lei, incapace di rifiutarli e di farli coesistere. Sperava che la Francia
ne valesse la pena.
***
La
carrozza
frenò davanti al cancello della villa Plessis
Bellière.
Il valletto, che aveva viaggiato in piedi sul retro del veicolo,
balzò velocemente giù e si premurò di
aprire lo
sportello, ma il conte non gli diede tempo di approntare il
predellino e scese agilmente con un salto.
Aveva fretta e non gli garbava dover attendere servi e
valletti
per riti che gli facevano solo perdere tempo. Il cancelletto era solo
accostato ed arrivò in un attimo alla porta
d’ingresso che
casualmente si aprì prima che potesse farlo lui. La ragazza
sobbalzò per la sorpresa, ma si riebbe all’istante
riconoscendolo. - Conte Girodelle! Che
bello vedervi qui a Parigi! - Madamigella
Diane… - ossequiò Victor con un
inchino, levando il cappello in uno svolazzo di piume. – Vi
trovo
incantevole, come sempre… - Galante, come
sempre, signore.- ringraziò con una
riverenza ed un sorriso. - Vostra madre? - Sta ottimamente,
grazie. Cercate il Barone? Non la sorprese il
fatto che non le chiedesse del fratello. Sapeva del loro trovarsi
reciprocamente insopportabili. - Sì, ho
una certa urgenza di parlargli.
E’ in casa? Diane si
scostò, invitandolo ad entrare. - Nel salone,
impegnato con le grandi pulizie. - Il mio caro amico
avrebbe davvero bisogno di un po’
di svago. - Temo che la sua
mente sia “svagata” a
sufficienza, signore. – ammiccò Diane. - Svagata da cosa,
madamigella? - Da
“chi”! –
puntualizzò ella con un
grande sorriso – Credo proprio che il vostro miglior amico
sia
vittima di un grande amore, di quelli che fanno soffrire. Purtroppo non
conosco la fortunata dama e non posso fornirvi altre informazioni.
E’ molto abbottonato … - bisbigliò
– e pure
un po’ triste ed assente. Magari voi avrete più
fortuna di
me come investigatore. Ora vi lascio, ho un po’ di bucato da
fare. - Sorrise indicando il voluminoso involto tra le braccia. - Portate i miei
ossequi alla vostra gentilissima madre e spero
di rivedervi presto, madamigella! - Signore…
- rispose lei, eclissandosi con un
sorriso ed una
veloce riverenza al di là dell’uscio. A passo deciso, si
diresse nel salone come indicatogli. "Bene! "
Quindi
André si era fatto rapire il cuore e con lui non aveva fatto
parola!
La cosa lo sollevava un po’, visto che neppure lui era
stato un gran confidente negli ultimi tempi. Non gli aveva detto tutto
di Camelia e non aveva neppure accennato a Françoise.
Domenica,
sì, domenica avrebbe rimediato. Perché
André era
sempre il suo migliore amico, anche se ultimamente avevano avuto
entrambi troppo da fare per frequentarsi come un tempo. L’aria
correva veloce dalle finestre tutte aperte della casa e lo vide, in
piedi su di una scala, intento a levare un pesante tendaggio in velluto. - Non
capirò mai questo tuo intestardirti a fare a
meno di
personale di servizio. – esclamò l’amico
sconfortato. – Davvero non vuoi che ti mandi Marie? - La tua povera
piccola Marie ha già abbastanza da
fare a
correr dietro a te – rispose André, raccogliendo
con un
certo sforzo l'ingombrante tessuto per evitare di cadere. Quindi scese
e
posò tutto in un mucchio dove già stavano gli
altri
tendaggi. - La
“piccola” Marie –
ripetè facendogli
il verso - mi ha anche chiesto qualche giorno di permesso. Si sposa, la
“piccola” Marie! – comunicò.
– E poi
dovrò trovare una sostituta, visto che non potrà
più restare a Versailles. – specificò
sconsolato. Dall’amico
nessuna reazione. André lo
sapeva già. Marie glielo aveva
detto in quell’ultima notte insieme, alla festa
d’estate. Perché
acqua e olio non si mischiano, perché non voleva trovarsi
sola
con un cuore spezzato, perché la vita è qualcosa
di
più delle luci di Versailles e ciascuno deve saper
riconoscere
la sua strada. E quel ragazzo, anche lui domestico presso la famiglia
Girodelle, era un giovane a posto, che da tempo aveva manifestato
affetto per lei e serie intenzioni. - Desolato che tu
abbia così tanti problemi.
–
ironizzò piano André. - Come mai a
Parigi? Posso offrirti una limonata fresca? - Avevo delle pratiche
burocratiche da assolvere. Tentato
dall’offerta, ma no, grazie. Vado troppo di fretta. Mi sono
fermato solo per invitarti alla mia casa in campagna questa domenica.
So che sei di riposo, quindi non provare nemmeno a rifiutare. La tua
presenza è essenziale. Vieni al mattino, andiamo a Messa. - Al mattino dormo. Ho
il turno di notte e so che sai pure
questo.
– ribatté infilando le mani nelle tasche. - Ci ho provato.
– borbottò
l’altro - Non sto
scherzando, però. Devi assolutamente venire. Il
perché
è una sorpresa, quindi zitto! Ti aspetto per pranzo!
–
esclamò mentre già stava uscendo. - Primo pomeriggio,
Victor… - gli gridò. Guardando dalla
finestra, lo vide sul vialetto, borbottare fra sé, e salire
agilmente sulla sua vettura. Pensò che
una giornata lontana da Parigi gli avrebbe fatto bene. Era
così
preso da Oscar, ma lei a volte sembrava voler tener le distanze. Era
attratta da lui, lo voleva davvero; e André sapeva di non
essere un passatempo,
ma gli era capitato di sorprenderla pensierosa, triste come una donna
innamorata non avrebbe dovuto essere. E lui si sentiva
triste di rimando.
***
La
carrozza
mandatagli da Victor per impedirgli di dimenticare l’impegno,
arrivò alla tenuta dei Girodelle che era già
pomeriggio
inoltrato. Rifiutò cortesemente l’offerta del
maggiordomo
di accompagnarlo: conosceva la strada. Non era la prima riunione
familiare cui era invitato. La festa era in
giardino dove stavano giocando a croquet.
Grida di bambini, richiami di
adulti, risate. Tutti radunati sotto le tende di un grande gazebo
bianco, mosse appena da un leggero vento di fine estate. - Ancora cinque minuti
di ritardo ed avresti pagato pegno
–
disse Victoire, la sorella maggiore, agitando la mazza da croquet nella
sua direzione. André
spalancò le braccia come a chieder venia. Victor era
impegnato in un tiro particolarmente complicato. Stava di spalle ad una
dama, la cingeva con le braccia e mormorava al suo orecchio indicazioni
su come effettuare il lancio. La sua mano scivolava piano sul tessuto
avorio dell’abito della donna, un tono più chiaro
di quello
del suo gilet; carezzava la spalla, il braccio, il fianco e si
stringeva sulla mano piccola, chiusa sul legno. André
sorrise fra sé. Il solito trucco del
"ti mostro come regger la mazza"? Victor sapeva
sfruttare certi piccoli stratagemmi e lo faceva in modo sempre tanto
galante da riuscire ad affascinare qualsiasi dama, anche la
più
ritrosa, pudica o smaliziata che fosse. Mormorava
suadente, parole che potevano esser semplici indicazioni di gioco, o
vere e proprie dichiarazioni d’amore. Di certo la vittima non
avrebbe colto
differenze, stregata quanto un aspide dal suo incantatore. Victor De
Girodelle aveva quanto di meglio la vita potesse offrire in bellezza,
eleganza, intelletto, fascino e fortuna. Ed il meglio era
ciò che meritava. - Ehi,
laggiù, poche libertà giovanotto! –
esclamò
il padre della fortunata donzella, un uomo alto, dal fisico asciutto,
gli occhi chiari, estremamente rilassato dallo chardonnay che
l’amico Guillaume gli proponeva assiduamente. - Non mi permetterei
mai di mancar di rispetto a vostra figlia,
generale! – esclamò - Anche perché non
voglio
essere da lei, per prima, passato a fil di spada. Già mi ha
colpito al cuore…, - aggiunse in un bisbiglio
all’orecchio, mentre lanciavano la palla e tutti erano
distratti
dal seguire la sfera invece che loro due. Ella rise, si
sciolse dall’abbraccio con una piroetta e … Il
respiro si
mozzò incrociando lo sguardo del nuovo venuto. - Oh, finalmente sei
arrivato! – osservò
Victor,
avviandosi incontro all’amico tanto atteso -
Françoise,
mia adorata, - la chiamò porgendole la mano - vi presento il
barone de Plessis Bellière, mio amico fraterno, che
sarà nostro
testimone di nozze. André, quest’angelo terreno
è
la mia fidanzata, Oscar Françoise De Jarjayes. Sorpreso? Per un istante
interminabile, si udirono solo i suoni della campagna,
l’ovattato chiacchiericcio dei commensali ed il tintinnar di
bicchieri. - Ma … vi
conoscete? – chiese Victor,
stupito dal silenzio piombato all’improvviso. - No, decisamente non
la conosco … -
mormorò
André con un tono di condanna che sfuggì
all’amico
ma non ad Oscar.
I
genitori degli
sposi promessi si erano ritirati poco dopo cena. I bimbi ed i fanciulli
erano spariti con le tate già prima del desinare. Restavano loro, i
giovani, ed il fumo di sigaretta che aleggiava nella stanza da gioco,
annebbiando i colori di abiti ed arredi, sfumando contorni e sguardi. I signori si
sfidavano a biliardo, mentre le sorelle Girodelle e la loro futura
cognata, mettevano sul piatto del tavolo da gioco carte e pettegolezzi. Oscar lanciava
occhiate caute ed imperscrutabili ad André e Victor, intenti
a
parlottar tra loro tra un colpo ed un altro. André la
guardava di sottecchi sotto la stecca, tirando colpi secchi, che
andavano a segno come pallottole sul bersaglio. E lei si agitava,
cercando di non mostrare tensione per la situazione che mai in tutti i
suoi progetti folli e dettagliati, aveva immaginato si sarebbe potuta
creare.
-
Non hai fatto un solo commento su di lei –
notò
Victor con una punta di delusione, mentre uno dei cognati imprecava sul
proprio pessimo tiro. - Che dire: una bella
donna, complimenti. Mi hai davvero
sorpreso.
Pensavo ti vedessi ancora con Camelia … - Era una storia senza
futuro ed ho capito che era giunto il
momento di metter la testa a posto. – disse ostentando
distacco
per quella rinuncia obbligata. - Ma che sai di lei? - Che nasconde tante
sorprese. - Ne sono sicuro
… - - No, davvero!
Françoise ha ricevuto una educazione
militare. Il padre l’ha cresciuta come un maschio fino a
quindici
anni. Voleva farla entrare nella Guardia Reale. Pensa, avrebbe dovuto
occupare il mio posto. - Che uomo pazzerello
… -
commentò con tono
beffardo, studiando le possibilità di tiro sul panno. - Per mia fortuna
così non è stato.
–
mormorò Victor, osservando incantato la fidanzata che in
quel
preciso momento stracciava le avversarie. - Fortuna,
già … Qualcosa di cui potresti
aver
bisogno con lei. – sibilò a mezza bocca, scoccando
un
colpo che sarebbe stato da maestro se non per l’eccessiva
violenza che mandò una delle palle a rimbalzare oltre il
bordo
del tavolo, scivolando poi sul pavimento in legno della stanza, dritta
verso un obiettivo forse non casuale.
-
Françoise, sembrate distratta –
osservò
Victoire, chinandosi a raccogliere la sfera che puntava dritta
sull’orlo dei loro voluminosi abiti, afflosciati attorno al
tavolo da gioco, dove con le altre sorelle Girodelle, si sfidavano
nell’ennesima partita a carte. - Secondo me muore
dalla voglia di cimentarsi al tavolo
–
ipotizzò Beatrice a voce alta, seguendo lo sguardo di Oscar
che
puntava al biliardo alcuni metri più in là. - Secondo me
è pentita d’aver slittato il
matrimonio a primavera – replicò
Victoire,
maliziosamente, interpretando lo sguardo della futura cognata come il
desiderio represso per un gioco di tutt’altro genere. - Prima è
impossibile organizzare un matrimonio
decente, lo
sai. Troppo poco tempo prima di Natale e poi Pasqua arriverà
presto, quaranta giorni di periodo proibito, il Carnevale …
.
Tanto vale aspettare primavera. – sottolineò
severa
Natalie, riordinando le carte che aveva tra le mani. - Mhmmm…
certo che André … -
incalzò la
maggiore succhiando una pasta dall’aspetto goloso. - Victoire! - Che
c’è, Natalie! Una donna sposata non
può
più sognare? E’ un attentato quell’uomo!
Non pare
anche a voi, Françoise? - E’ tutta
presa da nostro fratello, lasciala stare,
svergognata! - Guardateli
lì, Françoise, due dei
più begli
uomini di tutta Versailles … - la istigò Victorie
fissandola in volto. - Sì e
quello accanto è quel rospo di tuo
marito
…- ridacchiò Beatrice, piuttosto su di giri,
riposizionando le proprie carte nelle mani. - Ho vinto.
– disse Oscar, freddamente, posando sul
tavolo la giocata fortunata, senza interrompere il contatto visivo con
Victoire. - Ma no! Ancora! Che
fortuna sfacciata! – si
imbronciò
Beatrice, ormai prossima agli effetti della sbornia triste. - Al gioco e pure in
amore! O, forse, sa semplicemente contare
meglio di noi. – risolse Natalie. - Sì, sono
certa che la nostra Françoise
i conti sa
farseli bene … - replicò Victoire con tono
sospettoso e
volutamente acido. Oscar si
alzò, decisa, innervosita da quel punzecchiamento troppo
insistente. - Signore, la giornata
è stata lunga. E’
giunta ora c’io mi ritiri. Natalie
osservò lo sguardo della futura cognata staccarsi da
Victoire
con uno sbatter di ciglia, come a sottolineare il punto alla fine del
paragrafo di un libro che non intendeva continuare a leggere. - Si è
fatto tardi per tutti, a dir il vero.
–
commentò, alzandosi a sua volta in un gran fruscio di raso. Oscar si mosse verso
il biliardo, mentre Victor, premuroso, le si faceva incontro. - Vi sentite stanca,
mia adorata? – chiese, prendendo
la mano
che gli veniva porta, guidando la fidanzata verso
l’anticamera e
lo scalone che conduceva al piano superiore. - E’ stata
una giornata intensa, sotto tutti i punti
di
vista, e domani già ripartiamo per Versailles. Anche voi
dovreste riposare. – rispose sensatamente. Victor
portò la mano alle labbra. - Una richiesta
difficile da soddisfare, sapendovi
così
vicina e così inavvicinabile comunque. –
mormorò
galante e malizioso. L’arrivo
delle sorelle e dei cognati, tutti docilmente al seguito delle
consorti, salvò Oscar dal dover rispondere. Si
limitò a
sorridergli e, come il gruppo, salì verso le camere. Victor
rientrò nel salone dove era rimasto soltanto
André. Si era accomodato
su di una poltrona, con un bicchiere ben colmo di cognac e fissava le
fiamme tremolanti del candelabro posato al centro del tavolino. - Vedo che hai avuto
un’ottima idea, come sempre.
–
disse Victor, prendendo la bottiglia e servendosi a sua volta.
– Ma perché bevi? Son io quello che si sposa! Una
donna, una donna
sola e … castità fino a primavera.
Ossignoresantissimo
… sarà dura! – bevve, mentre sedeva
sull’altra poltrona. André
inarcò un sopracciglio, divertito suo malgrado. - Come mai avete
fissato la data ad aprile? - Richiesta di
Françoise. Vuole un matrimonio
all’altezza delle nostre posizioni ed una casa tutta nostra.
A
quanto pare, nessuna delle nostre residenze la soddisfa. Le sopracciglia
inarcate diventarono due. - Quindi? …
- lo guardò. - Niente. –
replicò Victor, secco. - Niente …? - Niente, fino al
matrimonio. E’ … timida
su certe
cose. – aggiunse esitante, col riserbo di una persona che non
gradisce divulgare certi particolari. André si
sorprese. Decisamente questa Françoise non
s’avvicinava
alla Oscar che aveva conosciuto all’inizio
dell’estate. Non
solo la sapeva totalmente indifferente agli aspetti esteriori
dei
cerimoniali, ma la riteneva anche una donna che una volta presa una
decisione, non perde tempo e nemmeno si fa intimidire dai luoghi oltre
che dalle persone. Dopo la prima volta al laghetto e nella sua stanza a
palazzo Jarjayes, non si era di certo intimidita in quella di
André a Parigi, dove gli teneva compagnia tra un pesante
turno e
l’altro; non si era preoccupata della paglia tra i capelli
nella
penombra delle scuderie dei Jarjayes, non si era scomposta del vicolo
buio vicino al Palais Royale dove lui l’aveva raggiunta al
termine di una riunione con Robespierre e … Gli si
seccò
la gola al pensiero e dovette bere. - Non ce la farai mai
… - disse a Victor. L’amico
sorrise un po’ tristemente e André colse qualcosa
di diverso in lui. - Ma voglio farcela.
– disse Girodelle - Voglio
essere un
buon marito e se lei vuole così, così
sarà. - L’ami?
– bisbigliò appena
André,
sapendo che la risposta l’avrebbe comunque ferito. - Siamo simili,
abbiamo molto in comune … -
esordì. - Non ti ho chiesto
questo. Victor lo
guardò con una espressione serena che André non
gli aveva mai visto. - So che
sarà un buon matrimonio, ci credo davvero
André. Forse non era
totalemente, follemente ubriaco d’amore, forse non ancora, ma
André non lo
ricordava tanto determinato e coinvolto, in tanti anni di amicizia. Non
lo avrebbe mai smosso da quella convinzione. Tornò a fissare
le
fiammelle, senza un commento, senza un fiato. Solo un sorso, poi un
altro. - Sarai mio testimone,
vero? - Certo. –
mormorò tristemente, seguitando
a bere. - Bene,
perché sei un fratello per me ed il
più bel
giorno della mia vita non sarebbe tale senza la tua presenza
–
dichiarò Victor - Ora, mi ritiro
anch’io, sono
davvero stanco. – disse, lievemente amareggiato da come
l’amico stava affrontando quella novità
–
André, resta pure ad annegare qualunque dispiacere tu abbia
e
del quale non vuoi rendermi partecipe. Io ti auguro una buonanotte, mio
buon amico.
***
Origliava
alla
porta della sua stanza, spazientita ed ormai sul punto di arrendersi:
tutti si erano già ritirati ed il palazzo era immerso nel
totale
silenzio. Tutti ormai cullati da Morfeo, tra lenzuola preziose e
profumate, in abbracci conosciuti e rassicuranti, immersi in sogni di
un futuro felice. Tutti tranne Oscar e
lui, che tardava ancora. Gli doveva una
spiegazione. Doveva fargli capire. Doveva … Strinse i pugni,
furente con sé stessa: non aveva previsto una simile
situazione. Finalmente,
udì dei passi malfermi che echeggiavano nel corridoio
dell’ala riservata agli ospiti, facendosi sempre
più
vicini ed aprì la porta, certa che fosse André. Lui si
fermò vedendola comparire all’improvviso. Restò in
silenzio, incantato, affascinato, trasognato, non potendo non trovarla
bellissima nella camicia da notte candida ed impalpabile, i capelli
sciolti dalle onde perfette, gli occhi brillanti nonostante fosse
illuminata appena dalle candele del corridoio. Lei,
l’immagine di un angelo, l’aspetto di una dea, e
l’anima nera che gli aveva nascosto. Si inchinò
con scarso equilibrio, in un omaggio che suonava canzonatorio. - Dobbiamo parlare!
– bisbigliò irritata
da quel gesto. Egli scosse il
capo e con una scrollata di spalle si rimise a camminare,
disinteressato al richiamo di quella sirena. Oscar si sporse, lo
afferrò per la manica e senza tante cerimonie, lo
trascinò nella sua stanza, sbattendolo al muro e chiudendo
l’anta. Lui
ridacchiò per la violenza da lei impiegata. - Sei davvero molto
forte, per essere una donna … - Devo spiegarti
… - Cosa? Che sei una
proprietà Girodelle? –
le alitò sul volto. Si ritrasse da lui,
disgustata. - Sei ubriaco? - Tranquilla, il mio
giudizio su di te non è
annebbiato.
Solo un po’ i tuoi contorni … -
borbottò
assottigliando lo sguardo per meglio metterla a fuoco. - André,
non è come pensi … -
cominciò. - No, sicuramente
è peggio. – la
interruppe con nulla
di più divertito nel tono di voce - Voi, - sibilò
accostando il volto a quello di lei - il vostro sangue blu, i vostri
privilegi da perpetuare … Oscar
serrò le labbra. Avrebbe voluto dirgli che quel fidanzamento
era
solo un contratto, un fragile pezzo di carta non vincolante al
successivo passo matrimoniale, che poteva essere stracciato in
qualunque momento. Era solo un mezzo per qualcosa di più
importante: non cambiava le cose tra loro. Voleva spiegargli
che i sentimenti non c’entravano, che non avrebbe portato a
termine la promessa resa quel giorno davanti alle autorità
civili ed ecclesiali. Ma quel tono, quel rancore appena celato,
indicavano che André non fosse nella disposizione di
accettare
spiegazioni. - Avevo creduto di
contar qualcosa per te … -
mormorò
avvilito, scivolando pesantemente lungo la parete. - E’
così! Sei il mio punto fermo, la mia
vita vera
… - cercò di scuoterlo, stringendolo per le
spalle. - Ma vinceranno le
luci di Versailles, vero? A volte
sono
solo un illuso, uno stupido illuso … - concluse,
avvicinandosi al suo volto e carezzando le labbra che riuscivano a
mentire così bene. - Non è
come credi, André … -
ripeté,
ma con voce incrinata per lo sguardo vuoto e scuro che le rivolgeva.. - Credevo fossi
diversa, ma in fondo non mi stupisce la tua
scelta. Ero stato avvisato: il mio sangue sarebbe sempre
stato
più pallido del vostro. Devo ammetterlo, a volte sono
proprio un
illuso … Sì, a volte dimentico di non esser
nobile di
nascita e che voi queste cose non le dimenticherete mai e poi mai.
– mormorò sarcastico dandole ai nervi - Ma
qualunque cosa
tu possa pensare, sono l’unico in grado di difenderti
… - So difendermi
benissimo da sola! – lo interruppe
irritata. - … da te
stessa, Oscar, difenderti da te stessa!
Perché sei tu il tuo peggior nemico. La scostò
da sé. - André, io
… Ma prima che lei
potesse anche solo tentare di formulare qualcosa di sensato e
convincente, l’uomo aveva già richiuso la porta
della
stanza lasciandola sola. Il desiderio di
rincorrerlo, scomparve, travolto dalla rabbia. “Fai come
credi”, mormorò. Andò al
suo letto e ci si lasciò cadere, ostentando indifferenza a
sé stessa, pensando al contempo che una battaglia persa non
compromette tutta una guerra, confidando in un filo di speranza; ma tra
un istante in cui si convinceva di riuscire a provar distacco per
quell’uomo ed un altro nel quale già le mancava
terribilmente, non poteva ignorare la sensazione di essersi giocata il
meglio della vita. Ciò
nonostante, esausta e confusa più che mai, continuava a
sperare che la Francia ne valesse la pena.
Il
colonnello Victor Clément de Girodelle, impeccabile nella
sua
uniforme di un bianco abbagliante, scivolò lungo il
divanetto
azzurro polvere della carrozza e sbirciò fuori del
finestrino le
vie della Parigi notturna, quella che con le tenebre non dormiva per
riposarsi di un duro lavoro, quella che se la godeva, che viveva al
meglio. Riconobbe
la loro destinazione affacciata sulla grande piazza: un palazzo
moderno, circondato da una cancellata degna di Versailles, era
illuminato a festa. Altre carrozze sostavano per far scendere
ospiti, poi ripartivano, girando attorno alla mastodontica fontana, per
andare infine a posteggiarsi in un angolo loro riservato. Sapeva
che i suoi uomini avevano già provveduto ad annunciare
l’arrivo della carrozza reale e del suo seguito oltre che a
mettere in sicurezza la zona, ma non si sentiva mai realmente
tranquillo.
Sua
Maestà, la Regina, aveva insistito a presenziare a casa di
Fréville per quel ricevimento dato dagli sposi al ritorno
dal
viaggio di nozze, la loro prima apparizione pubblica a Parigi. Il re si
era negato con eleganza, una piccola frecciata a quel ministro che
alzava troppo la cresta, ma anche lui teneva alla partecipazione della
consorte. In fondo Fréville era un suo ministro importante
ed
aveva appena impalmato la seconda donna più bella di
Francia,
nonché unica erede di una delle famiglie più
benestanti,
per di più sua cugina di terzo grado, che se solo fosse
stata
maschio si sarebbe trovata in lizza per il trono quasi alla pari di
D’Orleans, ma di lui era senz’altro più
piacevole,
aveva confidato la Regina al suo accompagnatore. Maria Antonietta
l’aveva conosciuta in occasione del fidanzamento e del
relativo benestare reale. “Davvero
graziosa, quella ragazza.” Forse
sì, pensava Victor, ma doveva essere una pessima persona per
aver sposato quell’uomo orrendo, totalmente privo di
scrupoli.
Questi era un ministro del Re, era un suo superiore, ma per tutto
questo non doveva necessariamente piacergli. -
Andiamo colonnello, levatevi quell’ombra dal viso.
State
accompagnando la vostra regina ad un ricevimento come invitato. Fate le
veci del vostro sovrano quale mio cavaliere, mostratevi un
poco
più felice, ve ne prego! -
Perdonate, Maestà, davvero. Sono solo preoccupato
per
alcuni avvenimenti poco felici accaduti di recente a Parigi e non posso
scordare di essere responsabile della vostra incolumità. -
Caro conte, cercate di essere responsabile anche per il mio
buonumore già che ci siete, un piccolo sforzo. In fondo,
voci di
palazzo mormorano che non siate poi così riservato e burbero
come vi atteggiate … Non in privato, almeno. Insinuò
sorridendo ed agitando pigramente il ventaglio davanti al viso
dimodoché la luce birichina del suo sguardo ne risultasse
accentuata. Victor aprì
appena le labbra e le serrò subito, ma concesse alla sua
regina un sorriso tirato. Va
bene, Sua Maestà gli ordinava di divertirsi. Avrebbe almeno
cercato di rilassarsi un poco e di non sembrare la solita storica
rigida armatura alle spalle di Sua Altezza. Certo,
il ruolo di accompagnatore lo innervosiva. D’altronde, il
comandante in carica della Guardia Reale era troppo anziano per
presenziare a qualunque cosa e lui cercava di sostituirlo il
più
possibile. Per questo negli ambienti si mormorava riguardo la sua
probabile, imminente nuova nomina a comandante. Inoltre, Maria
Antonietta aveva candidamente ammesso che Victor aveva un aspetto
decisamente più gradevole del suo anziano e malandato
superiore
ed era risaputo quanto ella gradisse circondarsi di persone giovani e
piacenti.
L’entrata,
come sempre quand’era in compagnia di Sua Maestà,
calamitò sguardi ed esclamazioni. Maria Antonietta riempiva
la
scena, sempre e dovunque, non perché fosse la Regina,
semplicemente perché era sé stessa: la stella. Victor
si guardò attorno, con l’occhio vigile della
guardia del
corpo, allenato da una vita a scrutare e notare ciò che gli
altri non vedono. Attirò l’attenzione
del suo vice,
l’efficientissimo e giovane capitano Brunet, quindi mosse
qualche
passo indietro per parlare con lui e portare la sua attenzione ad una
finestra troppo vicina alla strada che sarebbe stato il caso di
proteggere con una guardia. Fréville
si pavoneggiava all’imbocco della sala da ballo, davanti a
dipinti di battute di caccia nelle sue terre al nord, dove lui veniva
ritratto come il più grande dei cacciatori, con quindici
chili e
dieci anni di meno, per generosità del pittore. Alcune
dame, dopo essersi doverosamente prostrate al passaggio di Sua
Maestà, tornarono ai loro discorsi. Victor attardatosi per
richiamare il suo subordinato a prestare attenzione ad alcuni punti
nervi scoperti del palazzo in tema di sicurezza, non poté
non
cogliere i loro discorsi. -
Così dite che è in attesa? –
insinuava una. -
Sicuramente da prima delle nozze! – garantiva
l’altra con tono di disprezzo. -
Questo spiegherebbe con quanta precipitosità siano
state celebrate. – risolse la terza. -
Ammetto che la cerimonia è stata
all’altezza sebbene sia stata preparata in fretta e furia. -
Sì, superba, reale oserei dire! -
D’altronde è questo che si crede il
nostro ospite.
Perché pensate che Sua Maestà, il re, non sia
presente?
Il nostro sovrano, non è certo un festaiolo, ma il messaggio
che
ha voluto mandargli è chiaro. Si fosse trattato di qualcun
altro, non sarebbe mancato. In fondo la marchesa è sua
cugina,
anche se di terzo grado! Ha voluto mettere sull’avviso il
ministro! D’altronde, chi dimentica quanto accaduto a
Fouquet? Victor
inarcò un sopracciglio: sì, la marchesa doveva
essere una
“cara” ragazza davvero, come l’aveva
definita la
Regina. Morto un marito, non aveva certo perso tempo prima di trovarne
un altro. E niente di meno che un ministro di Sua Maestà. D’altronde
ormai sapeva quanto la regina Maria Antonietta non fosse abile nel
valutare le persone. Buona e generosa, sì, ma negata per
finanza
e rapporti coi suoi sudditi. La
sovrana era già stata omaggiata dai padroni di casa e
velocemente era stata accalappiata dalla cara amica Polignac, che
l’aveva coinvolta in un gruppo di dame invitate a conversare
in
modo informale col minimo dell’etichetta dovuta. Lui era
rimasto
solo, un po’ perso a seguire la sovrana nei suoi movimenti,
quando si sentì chiamare dal loro ospite in persona. -
Conte Girodelle! Venite, venite, caro Conte! Non siete a
Versailles, potete sciogliervi un poco, non restatevene lì!
Tengo a presentarvi finalmente la mia diletta consorte. -
Mi dispiace di non aver potuto partecipare al vostro
matrimonio,
ministro. – si scusò Victor omaggiandolo con un
inchino -
Mi trovavo all’estero proprio per una identica occasione. -
Sì, in Italia mi fu detto. -
Esatto, una cugina a Torino. In
realtà aveva tanto sperato che le nozze della cugina lo
avrebbero tenuto lontano dal giro mondano di Fréville, che
in
versione sposino innamorato era veramente irritante. Non era servito. -
Non crucciatevi, caro Girodelle. Un colpo di testa
è stato
il mio, ma capirete il perché di questa mia follia anche
solo
vedendo la mia Camelia. Non potevo permettere che qualche giovanotto
brillante e di bell’aspetto come voi, me la portasse via. Mia
cara, voglio presentarvi un giovane dal futuro promettente. La giovane si volse,
scusandosi con le dame che l’attorniavano. Fu un reciproco
mancamento di respiro che li accumunò. Camelia ebbe la
sensazione di trovarsi davanti qualcuno che si era già
conosciuto, del quale fidarsi. Victor
pensò subito che lei fosse fuori posto accanto a
quell’uomo, oltre che indicibilmente bella. Decisamente
non aveva l’aria della sgualdrina che immaginava potesse
reggersi
al braccio di Fréville. E questa sensazione di sorpresa era
destinata ad aumentare nel corso della serata ed ancor di
più
nei giorni seguenti. -
Conte Girodelle … Mio marito parla assai bene di
voi. – disse la marchesa porgendo la mano. -
Mi stupisce che il Marchese non parli solo d’amore,
con voi
al fianco. – ribatté con galanteria,
baciandogliela. -
Ecco cosa intendevo alludendo al timore che qualcuno potesse
portarmela via: Girodelle, ricordate che state trattenendo la mano
della mia sposa … - osservò con sguardo torvo, ma
divertito il marchese. “Stupido
pavone”, pensò Victor. -
Così siete appena tornato dall’Italia,
mi si
è detto. – s’informò Camelia. -
Sì, madame. I miei genitori non se la sentivano di
affrontare le fatiche di un tale viaggio ed è toccato a me
portare i doni e gli auguri della famiglia agli sposi. -
Una cugina? -
Sì, figlia del fratello di mia madre. Sono per
metà
italiano. – bisbigliò come in una confessione. -
Non è un delitto, Conte. Invece, essere francese
ed al
tempo stesso …. così poco francese come
me,
pare lo sia. Aver sposato un inglese ed aver vissuto oltremanica
durante la guerra, non è particolarmente apprezzato e mi
rende
una straniera in terra madre. – disse indicando di sfuggita
con
un movimento del ventaglio le malelingue che poco prima Victor aveva
udito parlar di lei. -
Ora questo non dovrà più disturbarvi,
mia cara
– s’intromise Fréville cingendole la
vita con forza,
a voler sottolineare il possesso – Ora siete la Marchesa di
Fréville. E
Victor si accorse di qualcosa per quel gesto. Un impercettibile segno
di stizza sul volto di lei, un disgusto a malapena trattenuto. Fuori
luogo in una sposa novella.
Altri
invitati si intromisero nella conversazione, il rumore della festa
travolse tutto. Victor perso in quella piccola espressione di
sofferenza che lo avrebbe turbato per tutta la sera,
continuò a
seguire con lo sguardo la padrona di casa, così bella e
triste,
mentre intratteneva gli invitati con grazia e simpatia. Brindò,
piluccò e fece danzare sua maestà che stranamente
si
stancò abbastanza presto ed espresse desiderio di ritirarsi
nel
suo appartamento alle Tuileries, poiché stroppo stanca per
rientrare a Versailles. Usciti
che furono mentre aiutava la regina a salire in carrozza, dovette
voltarsi per quella sensazione, come un tocco sulle spalle, forse solo
il vento profumato di fine aprile. Ma la vide là, da sola
sulla
terrazza, illuminata dalle lampade ed avrebbe giurato che stava
guardando proprio lui. Uno sguardo che non sarebbe riuscito a
dimenticare nei giorni seguenti, non con la luce, non col buio, non nel
frastuono di Versailles, o nel silenzio delle sue notti solitarie, nei
suoi sogni più peccaminosi, percependo distintamente il suo
profumo anche nel mezzo del puzzo della reggia, terrificante con le
temperature in aumento . Camelia
Desirée gli era già entrata sotto pelle,
incuriosendolo,
attirandolo. E così cominciò tutto tra loro in
quella
dannata primavera.
***
L’aveva
vista apparire in lontananza, l’aveva seguita con lo sguardo
finché era diventata qualcosa più di un immagine
sfuocata. Aveva potuto distinguere prima i colori, legno scuro e
porpora: classico, non eccessivo, distinto ma non esibito; poi i
dettagli: il passo dei cavalli, quattro; la polvere sollevata dai loro
zoccoli; il sole del tramonto che si rifrangeva sul vetro del veicolo:
toni caldi, ricchi come l’oro dei decori; poi aveva
riconosciuto
la sagoma del cocchiere, un uomo noto, ed infine anche lo stemma sui
portelli: il suo stemma, quello dei Girodelle. Era
stato immobile, lì, solo alla grande finestra della sua
stanza,
respirando appena, trattenuto, come se avesse avuto paura di un
movimento di troppo, di un fiato, di un rumore che potesse infrangere
quello stato di attesa. Era nervoso. Strano.
Non gli accadeva spesso. Sì, strano,
non era il tipo, almeno non lo aveva mai creduto prima. Eppure era
così: fremeva. Non pensava che lei
avrebbe accettato. Lei, novella sposa,
lei, roccia, lei donna complicata. Aveva
osato oltre l’incoscienza: la moglie di Fréville.
Perché tanta arroganza? Perché esporsi
così?
Perché rischiare l’affronto? Le conseguenze di uno
scandalo, la vergogna, il carcere, l’esilio, o anche solo un
duello con Fréville! E perché
lei aveva ceduto? Avventata, leggera, eppure consapevole di tutto.
Sfrontata, crudele. Irresistibile. La carrozza dei
Girodelle si fermò con un leggero sobbalzo davanti
all’entrata della villa di campagna. Una coppia di
domestici si avvicinò alla vettura, pronti ad accogliere
l’ospite. Victor,
che nel frattempo era sceso al pianterreno, si avvicinò alla
vettura mentre il lacchè aiutava la dama a scendere; era
vestita
con un abito ricamato a fiori in vari toni di rosa: camelie. -
Siete venuta, quindi – mormorò estasiato
alla donna
celata da un velo che ne confondeva i lineamenti. Il sorriso appena
sfrontato non venne occultato dal semplice tessuto. -
Riponete poca fiducia nel vostro fascino, signore. Non
desideravo
altro che incontrarvi. – sospirò ed il suo fiato
mosse
appena l’impalpabile drappo, come una ragnatela cullata dalla
brezza. Victor
prese i lembi del velo con entrambe le mani e lo sollevò
scoprendo il viso che fino ad allora aveva potuto ammirare solo di
nascosto, in silenzio, con colpa.
Dopo
il loro primo incontro l’aveva rivista spesso a Versailles e
mai
era stato un caso. Avevano parlato tanto, di viaggi e terre lontane che
la giovane Marchesa aveva visitato col primo compianto marito. Ed aveva
notato quanto si illuminasse coi ricordi e con la sua compagnia e
quanto si adombrasse invece accanto al marito. Così aveva
osato la folle proposta. Non si aspettava un
suo sì, ma lo desiderava come mai in vita sua. Fréville
partiva a fine settimana per la sua battuta di caccia al nord. Lei non
doveva far altro che recarsi all’angolo della via che le
avrebbe
indicato e la carrozza dei Girodelle l’avrebbe portata da
lui,
fuori città, lontano da sguardi indiscreti. Avventato, rischioso.
Eppure lei era lì. Le prese la mano. -
Venite, vi mostro la casa. – Appena entrati
nell’ingresso le indicò una giovane cameriera -
Nicolette
si occuperà di voi per il tempo della vostra permanenza, non
avete che da chiedere. La
fanciulla si inchinò e prese la borsa da viaggio di madame
per
portarla nella stanza degli ospiti, insieme agli altri bagagli pesanti
portati da altri domestici. Victor
le porse il braccio e cominciò a guidarla per un breve giro
d’orientamento attraverso la casa ed i giardini fioriti di
maggio. Camminavano
e parlavano e la mano di lei carezzava il suo braccio teneramente,
finché Victor gliela prese e la portò alle
labbra, prima
di chinarsi e baciarla con trasporto sulle labbra. Non era il primo
bacio. Ma era il primo alla luce del sole e fu emozionante. Camelia si strinse a
lui. Non c’era bisogno di parole, soltanto di arrendersi
all’inevitabile. Restarono
lì in piedi, abbracciati, come persi nel tempo. Non esisteva
più nessuno al mondo: non i doveri di Versailles, non quel
dannato matrimonio con Fréville.
La
governante, riservata, composta, ma non severa, li raggiunse per
informarli che la cena era pronta per esser servita. Victor aveva
preteso una tavola intima, informale, dove avrebbe potuto trovarsi
vicino alla sua ospite quanto bastava per permettersi qualche gesto
affettuoso, ma anche abbastanza lontano da riuscire a
mantenere
un decoroso contegno. Camelia
rideva serena agli aneddoti sulla sua infanzia e lui faceva altrettanto
per le imitazioni irriverenti che la giovane faceva delle zie del
sovrano. Al
termine della cena, il maggiordomo portò un cofanetto di
velluto
rosa e su ordine del conte lo aprì per mostrare il contenuto
a
madame.
-
Victor non posso. E’ troppo! –
esclamò ella, portando una mano al petto. -
Niente è troppo per rendere la misura del mio
trasporto per voi. -
Victor … non sono il tipo di donna che ha bisogno
di doni per ascoltare il cuore! -
Insisto . – disse lui. Camelia
accettò con un piccolo gesto del capo. Victor
si alzò, prendendo il gioiello con entrambe le mani. Si
portò alle spalle della dama, mentre il domestico e la
cameriera
lasciavano la stanza, lasciandoli soli. Ella
seguì il collier scendere davanti al suo volto, lentamente,
scintillante alla luce delle candele che attraversava ogni singola
pietra, ogni singola goccia trasparente, moltiplicandosi sulle sue
iridi con tutti i colori dell’arcobaleno. Toccò
la pelle del petto e la donna sussultò per la sensazione di
calore seguita al contatto con la pietra fredda e non poté
trattenere un sospiro. Reclinò il capo
all’indietro quanto
le bastò per incrociare il suo sguardo lucido, risplendente
per
l’eccitazione più delle gemme della Loira. Victor
proseguì e posato il dono sulla pelle, lo
allacciò dietro
la nuca, dove le sue mani solleticarono quella parte sensibile da
principio solo incidentalmente, poi per volere. Ella chiuse le palpebre
assaporando le sensazioni provocate da quel tocco in regioni opposte
del suo corpo. Le
mani di Victor si spostarono un istante sulle spalle, ferme, quel tanto
che bastò a far rallentare il battere del cuore; quindi le
dita
ripresero a scendere sul collier, raddrizzando le pietre lungo il collo
e poi giù a sistemare l’ultima goccia deposta
nell’incavo dei seni. -
Semplicemente perfetto per voi … -
mormorò. Ella
risollevò le palpebre e lo guardò fisso, in
attesa. Si
chinò a baciarla, un bacio al contrario, scomodo, nervoso,
ma
che portava le sensazioni nella giusta direzione. Con le mani carezzava
la seta ricamata sulle braccia di lei e la fronte sfiorava il suo seno
che ritmicamente si sollevava ad ogni colpo di lingua, sempre
più prepotente. Camelia
alzò una mano sulla sua nuca e lo obbligò a
sé
come a voler aumentare il contatto che si trasferì dalle
labbra
alla guancia, all’orecchio, al collo e non fu più
sufficiente. Le lasciò le spalle per afferrare lo schienale
della sedia che trasse all’indietro mentre ella si alzava
ruotando in fronte a lui e prendeva il suo viso tra le mani,
baciandolo, baciandola, in un divorarsi reciproco ed egualmente
impaziente. Improvvisamente, lei
si staccò e posò due dita sulla sua bocca per
impedirgli di ricominciare. -
Qualche istante … Solo qualche istante –
ansimò, le gambe che le cedevano. Victor
annuì. La lasciò andare ed ella
arretrò, con una
mano a riparar qualche ricciolo e l’altra sullo stomaco, sul
bustino troppo stretto che la soffocava, illudendosi di riuscire a
trattenere così gli spasmi del suo ventre. -
Qualche istante … - ripeté ancora,
uscendo dalla
porta del salone appena oltre la quale, l’attendeva composta
e
invisibile la cameriera. Victor lasciò che salisse al piano
superiore guidata dalla domestica. -
Qualche istante … - bisbigliò a
sé stesso
prendendo a passeggiare su e giù per la stanza.
In
poco tempo, perse e riperse il conto dei secondi, dei minuti
…
Quanto sono “alcuni istanti”? Un minuto, di meno,
di
più … Un’eternità? Decise
di salire. La cameriera attendeva fuori dalla stanza.
S’inchinò al suo passaggio e si ritirò
senza un
fiato. Egli
allungò la mano sulla maniglia. Esitò.
Aprì. Il
buio lo accolse, ma non era veramente buio. Semplicemente le cortine
del letto dal suo lato erano calate ed impedivano la vista di quanto
stava celato dietro ad esse, ma tutto attorno poteva percepire
l’
alone di candele diffondersi debolmente. Girò attorno al
letto e
la vide così, prona, una gamba pigramente sollevata, la mano
sinistra a regger il capo, l’altro braccio sul copriletto,
nascondeva il petto nudo, ma non quel prezioso collier luminoso quasi
quanto il suo sorriso. -
Vi sta molto bene addosso, madame -
Dite? Non lo trovate … eccessivo? –
scherzò
Camelia riguardo il contrasto con la propria nudità. -
E’ l’abito adatto all’occasione. -
Diamo quindi inizio alle danze? –
sussurrò maliziosamente.
Sorridendo,
Victor fece scivolare dalle spalle la giacca chiara fino a che gli
giunse ai polsi. La levò, la gettò su di una
poltrona.
Reggendo il suo sguardo, slacciò con decisione uno dopo
l’altro i bottoni del farsetto il quale seguì lo
stesso
destino della giacca. Slegò i lacci dei polsi,
levò il
fermacravatta, la sciolse, la lasciò cadere. Restò
lì un istante, fermo, mentre la camicia leggerissima, non
trattenuta da lacci o bottoni, come fosse stata dotata di vita propria,
scivolava lungo i muscoli del suo petto, denudandolo in parte,
lasciando intravedere la scultura della muscolatura, non in difetto con
quella di un dio greco. Poi
andò a sedersi ai piedi del letto, accanto a lei,
sprofondando
nel materasso di piume. Si guardò la punta delle scarpe,
sorridendo incredulo che lei fosse così vicino a lui, le
scalciò. Sentì la mano di Camelia sulla sua. -
Pronto a danzare, monsieur? Volgendosi
verso di lei, le ciocche ondulate scivolarono ad incorniciargli il
viso, ed ancor più quando fornì la sua risposta,
chinandosi a baciarla. Ella si stese sulla schiena, rotolando su di
sé con la sensuale e misurata movenza di un felino; lui la
seguì nel movimento osando accompagnarla col tocco delle
mani;
tocco che divenne carezze, all’inizio solo accennate, poi
sempre
più audaci ed intime. Ed ella lo ringraziò con
una sorta
di fusa, attirandolo su di sé, sfilando la camicia dalla
prigione dei pantaloni, per poter insinuare i suoi artigli e percorrere
le carni tese del suo dorso. Cinse i suoi fianchi,
imprigionandolo tra le cosce, mentre egli non smetteva di percorrere
con le labbra la pelle del suo collo. -
Sì, - la sentì sussurrare
nell’eco di un
sorriso compiaciuto - … sì … -
Sì? – chiese guardandola in volto,
perplesso. Ella si morse un
labbro, divertita, eccitata, sfrontata. -
Sì … Oh, sì che siete pronto
a danzare! -
rise, strofinando il proprio ventre contro il suo sesso. Egli
si puntellò sui gomiti, spingendosi di più a
confermare
che non l’avrebbe lasciata insoddisfatta, strappandole un
gemito. -
Desirée (*) … Mai nome avrebbe potuto
rappresentarvi di più, ora, qui, per me. (*Desiderata) Scese
a baciarle i seni, non privando neppure un solo lembo di pelle delle
sue attenzioni, del suo provocare, titillare, solleticare. Ella
confermava il gradimento arcuando la schiena, spingendo il suo capo con
le mani, direzionandolo ove provava più piacere e
trattenendolo
lì. Ma Victor non era tipo da eseguire passivamente e
proseguì oltre, cogliendola di sorpresa, impreparata
all’ondata di piacere che egli trasse dalla
profondità del
suo esser femmina, piacere al quale cedette senza poter opporre
resistenza, senza proroghe, travolta dalla sua decisa aggressione. Prima
le signore, si era sempre imposto Victor nelle questioni di letto,
questo fin da quando aveva capito quanto una donna mettesse di
sé nei rapporti amorosi e quanto rischiasse in termini di
onore,
emozione, e non ultimo, salute di mente e corpo, quando cedeva alla
passione. Rischi che la quasi totalità degli uomini o
ignoravano
o deliberatamente trascuravano col solo scopo di soddisfare i propri
sensi. Cosa
realmente deplorevole per un vero gentiluomo, pensava di ciò
Victor. Perché esseri che così tanto davano, con
così tanto coraggio, avevano almeno diritto al maggior
piacere
ottenibile dai sensi, a sentirsi il centro dell’universo
prima di
donare tutto quanto di sé. La
lasciò solo quando la sentì perdere il controllo,
smarrita in piaceri che Fréville le aveva fatto dimenticare
e
per questo ancor più intensi ora. Boccheggiante,
ansimante, si coprì la fronte col dorso della mano, mentre
Victor si sollevava in ginocchio tra le sue cosce prive di forza. Sorrise
divertito dalla scomparsa della sua vena canzonatoria mentre sfilava la
camicia dal proprio torso accaldato e poneva mano all’ultima
barriera tra i loro corpi, denudandosi. L’afferrò
per le braccia, la tirò su con uno strattone deciso,
portandola cavalcioni dei suoi fianchi.
La
tenne lì, più vicina che non si poteva,
carezzandole il
centro della schiena mentre l’umidità del suo
godimento
ancora pulsante lo accoglieva. Amava
far l’amore. Non aveva mai avuto dubbi. Amava amare le donne
ed
esserne riamato. Non aveva prezzo il momento in cui si perdeva nello
sguardo della compagna come ora. L’eternità prima
dell’abbandono. La
baciò, piano, la depose delicatamente sul letto sotto di
sé, dentro di lei, perso sui lineamenti del suo volto
accaldato,
carezzandole i capelli umidi. Sapeva esattamente cosa avrebbe provato
ora, sapeva sarebbe stato bello, travolgente, anche di più
perché lei era fantastica, incredibile, divina. Sarebbe
andato
in crescendo fino al momento di doversi disgiungere, prima di perdere
la cognizione di tutto, il senso di ogni cosa, trovarsi solo e fuori
del mondo. E
così fu: bellissimo, fantastico, esaltante finchè
capì di doverla lasciare. Si mosse appena, ma lei lo
precedette
impedendogli di scivolare via. -
Restate … - mormorò. -
Camelia … non posso … -
Non preoccupatevi, non ci saranno conseguenze. –
disse
stringendolo, inarcandosi verso di lui, trascinandolo al punto di non
ritorno. Decise di doversi
fidare di quella motivazione, anche perché non ebbe il tempo
di ottenerne altre. E fu diverso. Un
gentiluomo è sempre gentiluomo. Si era promesso una
infinità di volte che mai sarebbe diventato un uomo alla
Rousseau, che non si cura delle donne, delle conseguenze
dell’amore fisico, che gode ed abbandona. Era sempre
concentrato
quando arrivava il momento, per prevenire conseguenze spiacevoli. Non
come accade con la persona con la quale si è scelto di
vivere la
vita, non come con la moglie con la quale metterai su famiglia, e tutto
diventa la desiderata conseguenza. Ma quella notte, con
Camelia, si lasciò andare completamente, senza pensare a
dopo, libero. E
un po’ si spaventò accorgendosi, in un certo
senso, di
aver fatto sempre solo sesso, appassionato, sì, ma limitato,
misurato,
vincolato.
Si
sentì diverso e cominciò a pensare che alla
radice di
questa diversità ci fosse l’amore. Un amore triste
perché senza futuro.
Alla
luce dell’ultima candela ancora accesa, la guardava sul suo
stesso cuscino mentre, ad occhi chiusi, riposava accanto a lui,
più misteriosa di quando avesse mai potuto pensare. -
Lui lo sa? – chiese. -
Cosa? -
Che non gli darete eredi? Spalancò
gli occhi turchini. -
No. -
Non apprezzerà. Sono note le sue ambizioni
dinastiche.- constatò accigliato. -
Affronterò il problema quando si
presenterà. – disse ella scrollando le spalle. -
E’ pericoloso, Camelia. -
Vi preoccupate per me, Victor? -
Certo … - rispose teneramente con un filo
d’ansia, come se si trattasse di cosa ovvia. Gli carezzò
il volto. -
Camì … Voi mi amate? – chiese
ricambiandola. Rispose annuendo,
perché udire la propria voce ammetterlo le avrebbe fatto
paura. Innamorarsi? Non
poteva innamorarsi. -
Ma? Non sono il vostro unico amore, vero? Forse lui pensava a
Fréville, come sarebbe stato corretto. Lei non
negò, ma il pensiero correva invece a chi non era
più. Quel sentimento
sarebbe sempre restato lì, dolce e doloroso. Incancellabile,
inguaribile. -
L’amore ha molte forme e sfumature. Nessuna
è minore. Vi pare impossibile? -
No, capisco, ma vorrei tanto non fosse così.
Vorrei avervi conosciuta prima. Anche
lei. Ma non prima di quelle dannate nozze. Prima di tutto. Prima di
quel giuramento, prima di quel proposito, prima di quel passo con
Fréville. Se
avesse conosciuto prima Victor, una decisione così non
l’avrebbe mai presa. Non avrebbe gettato un futuro felice in
pasto alla vendetta. Si strinse a lui, rannicchiata sul suo petto,
carezzandoglielo. -
Alcune volte, occorre fare delle scelte. Altre volte, bisogna
far
coesistere ciò che è irrinunciabile, altrimenti
è
la pazzia. Egli guardò
le tende gonfiarsi con la brezza notturna, ormai vicina alle
temperature estive. -
Non so se sarò in grado di dividervi …
- mormorò Victor. Alzò gli
occhi su di lui, lucidi di tristezza e desiderio. -
Non dovete dividermi con nessuno ora. Sono qui, con voi, per
voi.
– disse mentre le carezze si spostavano dal torace a parti
più intime, provocandolo. Un colpo di vento fece
piombare la stanza nell’oscurità. Victor
le carezzò il fianco, strinse la mano dietro al suo
ginocchio e
sollevò la gamba piegata sui suoi lombi, portandole il
bacino a
contatto con quella parte di lui che non aveva bisogno di altre
sollecitazioni per mostrarsi interessato. Era lì, con
lei, per lei. Solo per lei.
-
Continua
Breve cronologia per orientarsi coi flashback (ormai vi ho confusi
più che a sufficienza!) di questa storia che, a
farla breve, si svolge solo durante l'estate del 1784 e si
concluderà coi primi freddi : )
Avrei anche potuto titolarla "La lunga estate calda" (così
tanto per rubare un titolo ad un bellissimo film!)
1753 nasce
Victor (non conosco la vera data) Ho immaginato per lui 3 sorelle
minori, con 1, 3 e 6 anni di meno. 26/8/1754
nasce André 25/12/1755
nasce Oscar 1759 nasce
Camelia agosto 1760:
André bambino va a vivere dal barone di Plessis
Bélliere giugno 1770:
Oscar va a vivere ad Arras primavera
1775: André viene adottato dal barone e diventa l'ultimo dei
Plessis Bélliere estate 1775:
muore il barone autunno 1775:
André conosce Alain e si arruola inverno 1776:
André conosce Victor 1777: Camelia
si sposa a 18 con l'inglese lord Ross William Chatwell (che per farmi
del male ho immaginato uguale a Matthew McConaughey) febbraio 1783:
lord Chatwell viene assassinato, lasciando Camelia vedova e disperata
(come la capisco!) maggio 1783:
il marchese De Fréville diventa ministro della guerra Natale 1783:
Camelia viene arruolata dai servizi segreti di Re Giorgio marzo 1784:
Camelia sposa Fréville aprile 1784:
Camelia conosce Victor ed il mese seguente ne diventa l'amante (come la
capisco!) 7/6/1784:
Fersen torna a
Parigi al seguito di Re Gustavo di Svezia (e 9 mesi dopo
nascerà
il principino Charles ... mah...) 18/6/1784:
André conosce Oscar al laghetto 21/6/1784:
Victor conosce Oscar Françoise a Versailles, durante la
festa al Trianon in omaggio a re Gustavo di Svezia
primi di agosto 1784: Victor decide di sposare Oscar
fine agosto 1784: fidanzamento ufficiale e amara sorpresa per
André
Non aveva potuto far altro che sedersi ad aspettarlo.
Quella volta. Poi un’altra.
Ogni giorno si recava lì. Ed aspettava.
Pensò che forse non aveva fatto altro nella vita, se non
aspettare lui.
Ma non lo trovò mai ad attenderla sul pontile nei giorni
seguenti la lite.
Non riusciva a levarsi dalla testa il suo sguardo di quella notte.
Ubriaco, ma non confuso. Stanco, ma non vinto.
Lui non capiva. Come avrebbe potuto? Lui l’amava. Anche Oscar
lo
amava, ma lei portava sulle spalle il peso di un rancore che non
riusciva a scaricare, che le impediva di andare da lui e lasciar
perdere tutto.
La notte del suo fidanzamento si era addormentata col proposito di
ritentare l’indomani con le spiegazioni, ma al suo risveglio
aveva scoperto che André era ripartito all’alba
per
Parigi. Non aveva voluto concederle un’altra
possibilità.
La colazione con la vivace famiglia Girodelle, il seguente viaggio di
ritorno a Parigi coi genitori, erano stati un supplizio.
Chiusa nel suo mutismo, non aveva replicato alle ormai rituali
frecciate di Victoria, né ai rimproveri di madame riguardo
il
suo modo di comportarsi, muoversi, atteggiarsi; non aveva badato agli
sguardi indagatori del padre, né alle premure di Victor.
Arrabbiata con sé stessa, pensava solo a come risolvere la
situazione, possibilmente senza rinunce.
Così si era recata a Parigi, sotto casa sua, decisa ad
affrontarlo e sì, anche a supplicarlo di ascoltarla, pronta
a
dirgli la verità, sperando non decidesse di farla arrestare,
lei
e tutti coloro coinvolti nella sua organizzazione, come sarebbe stato
suo dovere di ufficiale.
Ma si era fermata all’altro lato della strada, impietrita,
vedendo quella giovane ragazza spalancare le persiane della sua stanza,
invitandolo ad alzarsi dal letto, cinguettante ed affettuosa come lei
mai sarebbe potuta diventare.
Già, perché mai André non avrebbe
dovuto
sostituirla con un anima pia e ben disposta a cucire e curare le ferite
che lei gli aveva inferto?
Lo aveva messo al secondo posto. Aveva preferito tramare
nell’ombra piuttosto che vivere alla luce con lui.
Abbattuta come mai era quindi andata al ritrovo nelle cantine del
Palais Royale per decidersi a portare a termine ciò che
aveva
iniziato.
Ormai quello era tutto ciò che le restava.
Anche quel giorno, quello in cui la sua squadra capeggiata da Bernard
avrebbe agito, era andata al laghetto.
Un ultimo tentativo, l’ultima fiammella di speranza
inconscia.
Un tentativo inutile.
Aveva atteso contando i passi sulle assi di legno del pontile;
strappando fili d’erba ad uno ad uno, seduta sul leggero
crinale
che portava all’acqua; tirando sassi nello stagno, che
affondavano inesorabilmente come la sua speranza.
Si rialzò per avviarsi verso casa. Stupidamente, si era
augurata
che fosse lui a fare il primo passo, a tenderle la mano nonostante
tutto; a darle un appiglio, ad essere una tentazione invincibile per
poter mandare tutto a monte, per strapparla fuori dal quel pantano in
cui si era invischiata.
Ma non sarebbe stato così.
Diede una scossa all’abito turchese da cavallerizza che aveva
badato a non sporcare sull’erba.
Quel giorno il generale era a palazzo e così pure maman.
Ormai
doveva farci l’abitudine a vestire come loro si aspettavano.
Ormai era fidanzata ufficialmente e, sebbene il futuro sposo non avesse
fatto la minima rimostranza sul suo modo di vestire e svagarsi, sapeva
di doversi preparare a dire addio a certi atteggiamenti una volta
entrata a corte.
Tornò senza fretta a palazzo, cavalcando mestamente,
lasciandosi
alle spalle un luogo felice dove non voleva più stare senza
lui,
diretta verso un luogo dove non voleva arrivare.
Nel cortile trovò una carrozza.
Quella di Bouillè, il capo supremo dell’esercito,
amico di vecchia data di suo padre, uomo ben poco amichevole.
L’istinto le suggerì che qualcosa bolliva in
pentola ed era sicuramente nulla di buono per lei.
Lasciò Cesar libero nel cortile posteriore; svelta
salì
le scale e si appostò fuori dell’ufficio del padre
ad
origliare, come faceva da mesi. Pratica forse poco onorevole, ma
sicuramente proficua.
- Quindi, cambiano i programmi?
– stava chiedendo il generale.
- Sì, in parte: il ministro
Fréville ha
richiesto che la scorta dai boschi di Meudon venga affidata alla
Guardia Reale
- Strana scelta: non è un
compito adatto a
loro. Tantomeno con Girodelle direttamente al comando. I miei soldati
darebbero meno nell’occhio.
- Lui pensa il contrario. Se la scorta
sarà
fatta dalla Guardia Reale, tutti crederanno a qualche nuovo gioco della
nostra sovrana, non ad un apparato bellico.
- Sì, forse. –
esitò - Quindi, ne avete già parlato con
Girodelle?
- Gli ordini sono già sulla
sua scrivania.
Partirà tra poco per Meudon e stanotte il carico
sarà in
viaggio sul tragitto già previsto. Arrivato in Normandia,
tutto
verrà rimesso nuovamente nelle vostre mani. Ma ho saputo che
il
caro Girodelle diventerà presto vostro figlio! –
divagò Bouillé.
- Sì, abbiamo festeggiato da
poco il
fidanzamento, ma dovranno aspettare il prossimo aprile per le nozze.
- Alla fine la brutta esperienza con la
vostra Oscar
si risolve nei migliori dei modi, non è così?
- Già, non ci speravo
più. – ammise Jarjayes alzando il calice per un
brindisi.
Oscar si sostenne alla parete.
Victor avrebbe scortato il convoglio? No, questo cambiamento non andava
affatto bene.
Lei era stata chiara con Bernard: fare il necessario. E pure Victor
avrebbe fatto il necessario.
Doveva impedirlo o tutto il suo tramare per avvicinarsi ai reali
sarebbe stato vanificato se il suo fidanzato avesse incrociato la lama
con Bernard, un giovane troppo impulsivo, oltre che ingiustificatamente
geloso e permaloso.
Per fermare Bernard e la squadra era troppo tardi, si trovavano
già sulla strada per la Normandia. Poteva solo tentare di
fermare Victor.
Questa era la versione che si ripeteva ritornando in cortile e
riacciuffando Cesar intento a brucare i fiori preferiti di
madame.
In realtà sapeva che contemplare vittime sconosciute era una
cosa ben diversa. Non poteva ammettere che Victor, ora che lo conosceva
…
Non voleva che gli venisse fatto del male. Tutto lì.
Lo stava usando e ciò le piaceva sempre di meno, ma se fosse
rimasto ferito o addirittura ucciso in una operazione organizzata da
lei non se lo sarebbe mai perdonato.
Fin da piccola si era sempre sentita un soldato, pur non avendo mai
indossato l’uniforme, e come tale era convinta che un soldato
dovesse essere in grado di fare ciò che era necessario:
uccidere, al bisogno, senza porsi domande, senza esitare.
Ma ora, che questa eventualità si faceva sempre
più
concreta, cominciava a chiedersi se ne sarebbe stata in grado.
E coi Girodelle, sebbene certa che non avrebbe mai fatto parte di
quella famiglia, aveva scoperto cosa significasse davvero quel termine:
un insieme di persone dove tra alti e bassi, picche e ripicche, risate
e sfuriate, tutti si vogliono bene e si sostengono.
Victor aveva quel tipo di vita che a lei era sempre stato negato e che
iniziava ad invidiargli.
***
Egli la vide arrivare, guardando dalla finestra del suo ufficio.
Cavalcava splendidamente alla amazzone in quell’abito
turchese
dalla foggia insolita, quasi militare, dalla linea morbida su un corpo
non costretto, evidentemente privo di armature. La vide scivolare
agilmente giù dalla sella, senza attendere aiuto dal soldato
ed
entrare nell’edificio, picchiettando nervosamente il frustino
sul
palmo.
Irruppe nel suo ufficio, con un passo veloce, deciso, che non concedeva
tempo ai vari strati di mussola della gonna di ritornare fluidamente a
cadere e quasi si annodavano alle sue gambe . I capelli stavano
raccolti sotto un piccolo tricorno che lasciava sfuggire boccoli
artificiosamente costretti in quelle forme e tuttavia liberi,
saltellavano un poco ribelli nel movimento elastico che seguiva il
passo.
- Mia cara, che sorpresa gradita!
– esclamò Victor andandole incontro a braccia
aperte.
- Oh, ero in giro per una cavalcata ed ho
pensato di
farvi un’ improvvisata. – Spiegò
schivando il suo
abbraccio; senza guardarlo, si avvicinò all’ampia
finestra
spalancata e levò lo spillone che tratteneva il cappellino.
- A cavallo con questo caldo? Siete
imprevedibile! E
poco attenta a voi stessa: potevate rischiare un mancamento –
la
riprese sorridendo, incassando l’ennesimo gelido rifiuto in
quella settimana, pensando che la nave matrimoniale sarebbe stata assai
difficile da governare una volta varata; domandandosi addirittura se
tale vascello avrebbe galleggiato o se non sarebbe miseramente
affondato al primo accenno di tempesta.
Rassegnato a mostrarsi paziente, tornò alla scrivania per
prendere la spada.
- Purtroppo mi devo allontanare. Sono
già in ritardo. – disse volgendole le spalle.
- Ve ne andate?
- Sì. Ho un incarico che mi
terrà
lontano da Versailles per qualche giorno. – spiegò
appena,
mentre fissava l’arma alla cintura e calzava il tricorno sul
capo.
Quando si volse, trovò che Oscar si era avvicinata e gli
stava
quasi addosso. Posò il cappellino sulla scrivania,
avvicinandosi
ancor più a lui.
- Non andate … -
mormorò, fissandolo negli occhi.
Victor sorrise. Gli sbalzi d’umore di lei lo meravigliavano
ed intenerivano.
- Madame starò via solo fino a
dopodomani …
- Non andate. .. –
ripeté ancora,
abbassando involontariamente la voce, che prese un tono sensuale.
- Françoise … Oscar
… - aggiunse
perché quello era il nome in cui lei si riconosceva.
- Ho un brutto presentimento …
- Vi prego, non agitatevi
così! – disse
Victor, che cominciava a preoccuparsi per lo strano comportamento di
lei; la prese per le braccia, immobili lungo i suoi fianchi, e
cominciò a carezzargliele, dalle spalle ai gomiti.
- Oscar … è il mio
lavoro, non sarebbe
saggio per me ignorare un ordine diretto del Ministero. -
replicò alla muta richiesta dei suoi occhi.
- Io tengo a voi. –
dichiarò - Tengo
davvero tanto a voi. Più di quanto vorrei … - e
lo stava
dicendo più che altro a sé stessa.
Victor inclinò il capo per guardarla meglio in volto. Lei
non distolse lo sguardo.
Si avvicinò al suo viso. Lei non si volse per evitarlo.
Accostò le proprie labbra a quelle della sua promessa sposa.
Un respiro profondo, caldo uscì da quelle di Oscar.
Un invito?
Posò la bocca sulla sua e non gli parve vero, non
finché
la sentì dischiudersi e respirare il suo stesso respiro.
Da principio fu solo uno sfiorarsi, come quello di un’ape che
ronza sul fiore, come di ali di farfalla che sbattono piano; un
carezzarsi ad occhi chiusi, leggero come una piuma che cade.
Ma quando sentì le mani di lei posarglisi sulla schiena e la
sua
bocca catturargli il labbro inferiore, capì che non lo
avrebbe
più fermato.
L’attirò contro di sé, con tutto il
desiderio
provato fin dalla prima sera, quando lei lo aveva carezzato con la
pesca sulla guancia.
Lasciò le sue braccia per afferrarla possessivamente,
stringerla, carezzarle la schiena, baciandola come se non avesse mai
baciato prima d’allora.
Lei portò le mani sul suo viso, infilò le dita
tra i suoi
capelli, scalzando il tricorno che cadde a terra; incatenandolo a
sé, mentre la sua mente ripeteva la verità al suo
cuore
incredulo: “Tengo tanto a voi”.
Oscar si alzò sulle punte dei piedi, inseguendo le carezze
della
sua lingua con la propria; spingendosi contro di lui, spingendolo a sua
volta contro la scrivania con prepotenza. E per un attimo lui la
sollevò da terra, cedendo all’indietro sul piano
di marmo,
portandola su di sé, spostando una mano sui suoi fianchi
coperti
da pochi strati di mussola leggera, sotto la balza della giacca.
Un leggero tossicchiare interruppe il momento.
- Scusate, comandante … Non
era mia intenzione
disturbare, ma … - mormorò il capitano Brunet.
Victor lasciò Oscar. Oscar lasciò Victor e si
portò una mano alla bocca arrossata, allontanandosi da lui.
- Il drappello attende nel cortile.
– terminò il subordinato.
- Sì, certo, capitano. Scendo
subito.
Sistemò l’uniforme turchina tutta stropicciata e
lisciò i capelli in disordine.
La guardò in silenzio. Lei chinò il capo poi di
scatto lo
rialzò, indispettita. Prese il cappellino dalla scrivania e,
senza una parola, lasciò la stanza.
- Oscar! – la
richiamò Victor, non sapendo però cosa dire.
- Signore, se posso permettermi
…
- Dite, capitano … -
sospirò.
- Non è necessario che siate
voi al comando. Se permettete, mi offro volontario per questa missione.
- Ma …
- Signore, mi permetto ancora
… Madame era
chiaramente … - sorrise cercando una definizione corretta,
ma
galante e rispettosa - … presa dai suoi pensieri su di voi.
Non
è saggio innervosire una promessa sposa, credetemi. -
sorrise
ancora. – Davvero, signore, per me sarebbe un piacere
accompagnare questo trasporto. Perché alla fine, di questo
si
tratta: un trasporto.
- Non tanto
“banale”, però. –
gli ricordò Girodelle.
- Un motivo in più
perché non si attiri l’attenzione con voi al
comando, signore. In effetti
tutti i torti
non li aveva il giovane Brunet. Un giovane
ufficiale avrebbe abbassato l’attenzione su quel carico,
diminuendo l’interesse, rendendo l'operazione più
sicura.
Fréville poteva fare tutte le richieste assurde che voleva,
ma
l'ultima decisione toccava lui in quanto ad organizzazione.
- Va bene! – cedette
Girodelle, pensando
alla relazione che si era promesso di far funzionare e che per la prima
volta pareva promettere bene - Siete a conoscenza di tutti i
dettagli. Non vi è altro ch’io vi debba spiegare.
Il giovane scattò sull’attenti.
- Sissignore, grazie, signore.
- Potete andare ora. Mi fido di voi.
– si raccomandò.
- Non ve ne pentirete, signore. E
… i miei
ossequi a madame! - azzardò sommessamente allontanandosi
dopo
averlo salutato militarmente.
Victor scese le scale di corsa e riuscì a raggiungerla che
stava già per montare a cavallo.
Lei lo guardò sorpresa, ma non disse una parola quando il
fidanzato le allungò la mano in un invito, indicandole con
lo
sguardo la carrozza con lo stemma dei Girodelle.
- Dobbiamo parlare. – disse lui.
Oscar lasciò le redini all’attendente che
tirò César fino alla vettura e lo legò
dietro.
Victor l’aiutò a salire, ma prima di richiudere lo
sportello si sporse verso il conducente.
- Facciamo un giro per il parco
– ordinò piano.
Quindi si andò a sedere accanto a lei e la carrozza si
avviò.
Si scambiarono degli sguardi imbarazzati. Poi lui rise.
- Madame Oscar Françoise De
Girodelle … - ripeté un paio di volte guardandola.
- Non dovrei essere io a far le prove del
nome? – ribatté Oscar.
- Mi piace come suona. E’ come se foste
nata per questo nome. – disse con calma, prendendole una
mano.
Slacciò i bottoncini del guanto blu e cominciò a
sfilarglielo.
- Oscar, mi avete sorpreso prima. Una
sorpresa
piacevole, ma confesso che la vostra ansia ed il vostro …
entusiasmo, mi hanno turbato.
- Girodelle … -
esordì, ma il contatto delle sue labbra sul suo palmo la
fecero trasalire.
- Sì, ditemi … Vi
ascolto. – la esortò continuando a baciarle piano
la mano.
Alzò gli occhi su di lei ed i raggi del tramonto appena
cominciato, incendiarono ancor più quegli specchi lucidi ed
appassionati.
Oscar sentì il proprio respiro interrompersi a
quell’incrociarsi di sguardi.
Voleva conquistarlo e ne era rimasta conquistata. Quella era la
semplice verità.
Le si fece più vicino.
- Avete detto di tenere a me, Oscar.
Lei dovette interrompere il contatto perché il cuore
cominciava
a battere furiosamente. Distolse lo sguardo da lui e si volse verso il
finestrino.
- Ma … non stiamo andando alla
Reggia? – constatò con apprensione.
Victor le si avvicinò, lasciando la sua mano ma portando il
proprio viso sopra la sua spalla.
- Ho ordinato al cocchiere di fare una
passeggiata per i giardini. Sono molto belli al tramonto …
Sfiorò i suoi ricci col naso, socchiudendo gli occhi e
beandosi della sensazione della sua guancia così vicina.
- Sono felice che proviate preoccupazione
per me. Io vi amo, Oscar. Vi amo tanto.
Oscar aveva pensato di poter condurre la partita, magari di trovare una
scusa ed eclissarsi all’ultimo istante.
Ma aveva ragione André: era lei il suo peggior nemico,
perché non era brava a quel gioco.
Con sorpresa, si rese conto di non voler esser brava.
Victor Clément le piaceva. Più di quanto avrebbe
voluto.
Più di quanto sarebbe stato ragionevole, visti i suoi
propositi.
Più di quanto sarebbe stato normale per una donna innamorata
di un altro.
Ma ormai, tutto era finito, si disse ripensando alla voce cristallina
della ragazza affacciatasi alla camera di André, a quella
fresca
meravigliosa risata che lo avrebbe consolato, come sicuramente aveva
già fatto.
Tra pochi mesi era previsto il matrimonio e, contro ogni sua
aspettativa, rischiava di diventare un matrimonio d’amore.
Col tempo.
Le implicazioni non previste del suo piano.
Il diventare donna.
Era meno fredda di quel che aveva immaginato di sé. Meno
risoluta, meno determinata, meno …
“Maledizione, Oscar …”
Si lasciò scivolare contro lo schienale, guardando fuori il
sole
specchiarsi sul Grand Canale, concedendo due lacrime al suo fallimento,
mentre la mano di lui le scostava i capelli e le labbra morbide
iniziavano a carezzare il suo collo con baci delicati.
Sentì che le sfiorava il seno, intento a slacciare gli
alamari argentati della giacca.
Socchiuse gli occhi avvertendo il suo tocco attraverso la seta della
camicia bianca.
Ad un vero uomo non sarebbe accaduto di cedere così,
pensò di sé.
Ma purtroppo lei non era un uomo.
“… Per fortuna, non sono un
uomo…”, dovette correggersi volgendo
il capo per incontrare le sue labbra.
“maledizione, Oscar…”
Il bacio riprese con la stessa foga di quando erano stati interrotti,
ma con maggior consapevolezza.
La mano di lui continuava con perizia a vincere lacci e laccetti,
mentre Oscar teneva saldamente il suo capo contro di sé,
contro
le labbra.
Le allentò la sciarpa e la lanciò sul sedile
opposto. Quindi cominciò a carezzarla sotto la
camicia, su
quel corsetto leggero che copriva appena i capezzoli, baciandola dietro
l’orecchio.
Travolta dalle sensazioni, guardò fuori il paesaggio che
scorreva piano, all’andatura lenta, regolare, cullante della
vettura.
Posò la mano sulla sua, calda sul suo ventre ancora coperto
dal
leggero busto. Intrecciò le dita con le sue, indice di cosa
sarebbe accaduto tra loro, lì, tra poco.
- Victor … -
mormorò – Victor
… - ripeté cercando di vincere la forza
annientante di
quei baci, di quelle carezze sulla sua volontà –
Victor,
io … non sono la donna che … io … Voi
non siete
… - cercò di spiegare volgendo il viso verso di
lui, in
un ultimo istante di lucidità.
La zittì con due dita e subito dopo con un altro bacio.
Si staccò per guardarla negli occhi, credendosi consapevole
della confessione che voleva fargli. E le carezzò la
guancia,
togliendo l’unica lacrima.
- Non mi importa del vostro passato,
Oscar. Con voi, è il futuro che desidero. –
mormorò.
Totalmente disarmata da quella dichiarazione, tornò a
sistemarsi
sul fianco, appoggiata allo schienale e a guardar fuori il
parco
che si faceva scuro, mentre lui proseguiva sul cammino di seduzione
intrapreso, scivolando con la mano sotto l’orlo della gonna
ed
avvicinandosi sempre più a lei.
Oscar sentiva quella voce, lontana; era la sua coscienza che sussurrava
a proposito di un tradimento. Ma scelse di ignorare quella voce,
quella sensazione. Ci avrebbe pensato domani,
forzandosi ad
ignorare quell’immagine mentale di due occhi smeraldini colmi
di
delusione.
Ora si sentiva stanca per quelle complicazioni. Voleva solo cedere e
godere con lui, di lui, se ciò serviva a tenerlo lontano dal
luogo dell’agguato. Stava semplicemente usando la sola arma a
sua
disposizione. Alla fine, stava andando tutto come doveva essere, come
aveva scelto che fosse.
Una conseguenza delle sue scelte.
Victor scivolò in ginocchio tra i due sedili, sul pavimento
della vettura. Restò un istante ad ammirarla, prima di
infilare
le mani sotto l’abito leggero e risalire le sue gambe.
Oscar si raddrizzò di fronte a lui, sussultando per quella
sensazione, quel solletico, quella scossa sulla sua pelle che
raggiungeva le sue profondità e puntò le mani al
sedile.
Quando si era lanciata in quell’impresa non credeva di dover
arrivare a questo punto, anzi, era convinta non sarebbe stato un
problema temporeggiare, aver solo vantaggi e nessun onere.
Venne colta dal desiderio di fuggire. Ma solo per un istante.
Respirò profondamente.
Bernard, Robespierre … Dicevano che tutti i nobili sono
uguali. Ma si sbagliavano.
Il conte Girodelle era ai suoi piedi come si era prefissata. Ma Victor
Clément aveva valori, aveva un cuore.
Era un gentiluomo, intelligente, piacente, leale, buono. E lei lo stava
ingannando.
Ingannava lui per arrivare ad ingannare la corona quando sarebbe stato
il momento.
Lo avrebbe tradito come aveva già tradito la fiducia di
André. E nessuno dei due meritava ciò.
“Andiamo … “, diceva la sua
testa, contraddicendo il
cuore, “non
gli stai facendo male. Un uomo non muore per un cuore
spezzato”
Eppure esitava. E non capiva se questa esitazione fosse causata dal
programma che si era prefissata o dalla tentazione di voler cedere ad
una romantica possibilità, di voler rendere tutto reale.
Allungò una mano sul suo volto, a scostargli
all’indietro una ciocca di capelli ondulati.
- Victor, … io …
Lo vide sorridere, come un ragazzino.
- Niente spine … -
spiegò lui,
permettendo alla sua mano di scorrere dalla caviglia all’orlo
della calza, poco sopra il ginocchio.
Come era stato poco prima per i baci, decise di arrendersi e vivere il
momento senza curarsi delle conseguenze.
“Sopravviverà”, si ripeteva
nella testa mentre, chinatasi, raggiungeva le sue labbra.
Victor interpretò quell’avvicinamento come un
permesso ad
osare. Ripercorse a ritroso le lunghe gambe, lasciando le gonne
sollevate sulle sue ginocchia. Le afferrò i lembi della
giacca e
li fece scorrere giù dalle spalle, insieme alla camicia,
giù fino ai polsi.
Oscar sì liberò di quegli indumenti, senza
smettere di baciarlo.
Le carezzò le braccia nude, pose una mano al centro del
petto e l’altra in vita ad allentare i laccetti frontali.
Oscar cominciò a slacciargli l’uniforme; Victor la
liberò dal corsetto leggero.
Quando gli saltò l’ ultimo bottone della giubba,
saltò anche il suo autocontrollo.
Diventò spasmodico, si levò la giacca, si
strappò
la camicia fuori dei pantaloni, la levò con gesti bruschi.
Si sporse verso Oscar baciandole il seno. Le mani si rintanarono sotto
le gonne, corsero oltre le calze, sulla sua pelle nuda, sui fianchi che
afferrò e attrasse verso di sé, sul bordo del
sedile,
incuneandosi tra le di lei cosce.
Si fermò, ansante per guardarla in volto, mentre il
desiderio cresceva, pulsava e diventava impellente.
Era la donna giusta, non poteva essere altrimenti.
Quella per la vita, quella che gli avrebbe tenuto la mano in punto di
morte rivolgendogli fino all’ultimo quel suo meraviglioso
sorriso.
Avrebbe fatto qualunque cosa per lei.
Le aveva detto d’amarla e così sarebbe stato.
Ne era più che certo mentre lei gli concedeva di anticipare
la
loro prima notte di nozze sui sedili di una lussuosa carrozza, nel
mezzo di un parco privo del movimento umano che lo contraddistingueva
di giorno, ma non silenzioso in quell’ora in cui la luce
incontra
la tenebra.
Il cocchiere, arrivato al termine del canale, aveva sostato la vettura
e, senza disturbarli, aveva preso César per rientrare alla
Reggia, lasciandoli soli ed impegnati.
Si potevano udire rane gracidare ed in lontananza i ruggiti delle fiere
e gli altri irrequieti animali esotici del serraglio.
I suoni della natura.
Ed era naturale quel trasporto per lei, così bella.
Eppure fu diverso.
Per entrambi.
E pensarono che la diversità fosse l’amore, quel
tipo d’amore che mancava.
Cosa aveva che non andava Victor? Si domandava Oscar ore più
tardi, stesa su di lui, stretta tra le sue braccia, mentre il silenzio
della notte si era fatto quasi assoluto.
Nulla, ma non era André.
E mentre arricciava una ciocca dorata sul suo dito, stretta al petto
dell’uomo che forse avrebbe realmente sposato, col quale
aveva
appena fatto l’amore, ben fatto dovette sottolineare a
sé
stessa, si sorprendeva che fosse chiara e non scura.
Come una
doccia fredda la verità si riversò su di
lei.
Sì, voleva sposarlo. André, nessun altro. Tutto
il resto contava nulla.
E sentì spezzarsi il cuore che aveva creduto di non
possedere, consapevole che forse era troppo tardi.
Strinse il pugno sul petto di Victor e lo udì sospirare.
- Qualcosa non va, vero? Non
c’è bisogno
che mi rispondiate: sento che non siete qui con me. Ma io posso
accogliervi, Oscar, insieme al resto … la tristezza che
portate
nel cuore, il peso della sofferenza … Tutto quanto,
lasciateli a
me! (*)
Oscar alzò lo sguardo su di lui, leggendo la
verità nei
suoi occhi. Ma non poté baciarlo quando lui
avvicinò le
labbra alle sue ancora una volta.
Nella mente aveva quello sguardo, di chi avrebbe potuto morire se lei
avesse sposato qualcun altro.
E volse il capo, scansandolo.
- Amate solo me, Victor? –
chiese improvvisamente, le labbra posate sul suo petto.
La domanda lo sorprese. Esitò, carezzandole la nuca.
- Esistono molte forme d’amore.
– si
trovò a sospirare, ricordando ciò che a lui era
stato
detto solo pochi mesi prima.
- Ma quando vi sposerete, lei ne
morirebbe?
Rimosse l’immagine addolorata di Camelia quel giorno sotto il
sole della piazza d’armi.
- Forse … bisogna
solo far coesistere
ciò che è irrinunciabile. -
continuò
ritentando l’approccio, scendendo con le carezze lungo quel
corpo
morbido ed irresistibile, per mezzo del quale voleva dimenticare.
- Forse, bisognerebbe solo cambiare lo
stato delle cose. – disse lei fermandolo.
Victor si arrese, la strinse a sé teneramente, ignorando il
desiderio fisico.
- Purtroppo, non sempre
c’è rimedio a ciò che è
fatto, da noi o da altri.
Oscar colse un rammarico nella sua voce; avrebbe voluto osare,
domandare di quel dolore nel suo cuore, ma sentì la
stanchezza
sopraffarla e si addormentò fra le braccia protettive di
quell’uomo gentile.
Sì svegliò, sola, al sobbalzare della carrozza.
Addosso aveva una leggera coperta che la scaldava
dall’umidità della notte e niente altro.
Lui, vestito di tutto punto, si affacciò al finestrino.
Restò un istante a guardarla rassettarsi la stoffa su di
sé,
immotivatamente pudica, forse a disagio per un differente tipo di
nudità, quella dello spirito.
Aveva staccato i cavalli dal tiro per farli abbeverare e li aveva
rimessi al loro posto, scalpitanti, desiderosi di rientrare nelle loro
stalle.
- Non avrei voluto svegliarvi ma tra poco
sarà l’aurora. Dobbiamo rientrare.
Scomparve oltre il margine dei finestrini e la carrozza
ondeggiò leggermente quando egli salì a cassetta.
Oscar cominciò a rivestirsi, svogliatamente, assonnata,
confusa,
omettendo di indossare calze e stivaletti. Lisciò con la
mano i
capelli sciolti, ribelli, ancora umidi di sudore.
Scese dalla vettura. L’aria fresca la colpì, la
fece
rabbrividire insieme all’erba bagnata sotto la pianta dei
piedi.
Ma ne aveva bisogno: tornare coi piedi per terra, non solo
metaforicamente.
Sentì il suo sguardo su di lei. Si volse e gli
allungò
una mano affinché l’aiutasse a salire a cassetta
con lui.
Non si scambiarono una parola tornando verso la reggia, seduti
l’uno accanto all’altra, non si guardarono, non si
toccarono.
L’oscurità cominciava a sbiadire, le stelle
parevano meno
lucenti. Tra un’ora o poco più, il sorgere del
sole
dall’altro lato del palazzo avrebbe inondato di luce gli
appartamenti reali e la cour de marbre, portando calore nel freddo
delle pregiate pietre. Entrambi erano però consapevoli che
nulla
avrebbe potuto riscaldare ancora ciò che fra loro era
divampato
e bruciato velocemente, lasciando solo cenere.
Girodelle guidò la carrozza nel cortile delle scuderie e si
arrestò davanti ai portici nel punto in cui spiccava lo
stallone
bianco di lei, condotto per le briglie dal cocchiere che li aveva visti
arrivare.
Victor smontò per primo e l’aiutò a
scendere. Si
attardò un istante per rimetterle in ordine la camicia che
nel
movimento si era scostata troppo; accostò i lembi della
giacca,
prese le estremità della sciarpa, tirò piano
verso di
sé, posando la propria fronte sulla sua, dischiudendo le
labbra
incapaci però di pronunciare le parole adatte.
In quel mentre sentirono passi di qualcuno che arrivava di corsa.
- Signor conte! –
chiamò il segretario, attirando la loro attenzione.
Quando fu vicino abbassò il tono, tormentandosi le mani.
- Una tremenda disgrazia, signore
…
Victor si avvicinò al servitore, allontanandosi di qualche
passo dalla fidanzata.
Oscar non poteva distinguere ogni parola bisbigliata, ma sapeva che la
“tremenda disgrazia” doveva esser legata al gruppo
di
Bernard.
Dalla concitazione nell’atteggiamento del portavoce,
l’incontro con la guardia reale non doveva essere andato
molto
bene.
- Brunet?! – sentì
esclamare da Victor.
- Sì, signore. Morto.
– ripeté il
segretario – Il ministro Fréville è
piuttosto
adirato con voi, signore. Vi ha convocato nel suo ufficio, con urgenza
e … - esitò – Anche Sua
Maestà desidera
interrogarvi.
Victor comprese l’assoluta gravità della
situazione.
Aveva di fatto ignorato un ordine diretto del Ministro e mentre si
intratteneva
con la fidanzata, un carico prezioso veniva rubato, mettendo in
pericolo la sicurezza del Paese, ed un ufficiale era stato ucciso.
Anche se di quest’ultimo fatto era solo lui a dannarsi, non
certo
Fréville.
- Brunet aveva moglie ed un figlio
piccolo … - mormorò portandosi una mano alla
fronte.
- Purtroppo sì, signore
…
Si volse verso Oscar che attendeva accanto a César.
- Disgraziatamente è accaduto
un fatto
gravissimo. Devo lasciarvi, ma vi farò scortare al vostro
palazzo …
- Non serve, Girodelle. Fate
ciò che dovete. – replicò nervosa,
issandosi in groppa.
Strattonò le redini, brusca. Forse lui l’avrebbe
intesa
come un ennesimo capriccio quella fuga precipitosa, ma lei, per tanti
motivi, non poteva restare lì un istante di più.
Rientrò che albeggiava appena, a cavallo, a passo lento.
Dalle cucine di palazzo Jarjayes proveniva una pallida luce, segno che
la servitù si era già svegliata. Era rientrata
appena in
tempo.
Si lasciò scivolare dalla sella; prese le redini
in una mano, mentre nell’altra reggeva i suoi stivaletti.
Scalza camminò sul selciato ruvido e freddo, fin dentro
l’edificio, sulla paglia che attutiva il gelo sulla pelle.
Purtroppo, nulla la riparava dal gelo nell’anima. Si sentiva
uno
straccio. Una stanchezza, un malessere che potevano essere definiti con
un solo vocabolo: colpa.
Tutta quella sofferenza attorno a lei, era colpa sua.
E per la sua personale sofferenza, invece …
Non poteva vivere senza André, non poteva insieme a Victor.
Anche quello, solo colpa sua.
Con movimenti stanchi, ripose César al suo posto nella
stalla,
gli levò la sella, lo carezzò distrattamente e si
mosse
verso l’uscita, col buio della stalla alle sue spalle e
l’aurora rosa davanti a lei, quando sentì uno
scricchiolio.
Non ebbe il tempo di voltarsi che una mano premeva già sulla
sua bocca ed un’altra l’afferrava in vita.
L’istinto fu più veloce di qualunque pensiero:
scattò con una violenta gomitata nelle costole,
afferrò
la testa dell’aggressore e chinandosi bruscamente lo
ribaltò sopra di lei, lasciandolo cadere pesantemente al
suolo.
Stava per sferrare un calcio sullo sterno quando l’uomo
vestito
di scuro sollevò una mano davanti a sé, in difesa.
- Ferma! Ferma, Oscar! sono io!
- Bernard? – esclamò
ella fermandosi
appena in tempo – Ma … che accidenti ci fai qui? E
che
accidenti ti salta in mente di aggredirmi!
- Non volevo che urlassi per la sorpresa!
Gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi. Restò un attimo
interdetta ad osservarlo, nella penombra dell’alba.
C’era qualcosa di strano: sì, un occhio nero
dietro la
maschera, talmente tanto nero che spiccava anche con quella scarsa luce.
- Non è andata esattamente
come ci auguravamo.
– Bofonchiò lui in imbarazzo, constatando dove
puntava il
suo sguardo - Sono fortunato che non me lo abbiano cavato,
quest’occhio!
- La mongolfiera? –
ringhiò lei, intuendo guai.
- Perduta.
- Come sarebbe a dire perduta! Come si fa
a perdere
una mongolfiera? Non stiamo parlando di un bottone della giacca!
- Ecco … Inglesi, a giudicare
dall’accento e, beh, anche dall’inglese che
parlavano.
- Se tu fossi un soldato, per un disastro
come questo ti toccherebbe una punizione corporale, anche la morte!
- Senti, il piano era tuo e mi pare che
non avessi previsto una tale eventualità!
Già, ultimamente i suoi piani facevano acqua da tutte le
parti.
- Ma non sono tornato a mani vuote
…
Si allontanò verso un angolo buio della stalla e
tornò
con qualcosa tra le mani: un piccolo scrigno portadocumenti.
- Il tanto misterioso carico di
Fréville.
– mormorò lei, meno irritata. – Ci hai
guardato
dentro?
- Un po’, intanto che ti
aspettavo. A proposito, dov’eri?
Si trattenne dal fargli un secondo occhio nero.
Uscì per leggere alla pallida luce, mentre il giovane in
nero reggeva il cofanetto.
Sfogliò i documenti.
C’erano mappe, rapporti, un elenco di nomi.
Le mappe riportavano le coste inglesi, indicazioni sulle rotte percorse
dalla loro marina; le roccaforti sulla terraferma; il grado di
armamento; l’entità delle truppe assegnate.
Riconobbe un nome in calce ad un rapporto. Aveva udito parlar di lui
… Lei … Lui
… Cielo! Quel “qualunque
cosa” fosse quel Cavalier D’Eon!
A dir il vero, sapeva di
quel personaggio più per i pettegolezzi sulla sua persona
che
riguardo le sue avventure. Ma era certa di una cosa: era stato un
agente del Segreto di Luigi XV. E quando l’attuale Re aveva
ufficialmente smantellato il reparto, D’Eon si era rifugiato
oltremanica insieme alla sua polizza vita.
- I piani d’invasione
dell’Inghilterra! (
**)– esclamò Oscar al sorridente Bernard.
– Ma
perché li aveva Fréville?
Cominciò a passeggiare, tornando con lo sguardo sugli altri
fogli. Cupamente, nuvole di pensieri riguardo il possibile utilizzo di
tutte quelle notizie si stavano accumulando nella sua mente,
ipotizzando risvolti che mai avrebbe immaginato prima.
Scorse i nomi dell’elenco uno dopo l’altro. Niente
era
indicato accanto a loro. Cominciò a pronunciarli uno per
uno.
Inglesi.
Finché uno di questi fece scattare un collegamento.
Possibile?
- Bernard, credo di sapere che fine
abbia fatto la nostra mongolfiera …
Continua ... per un paio di capitoli :)
La prima parte di questo capitolo, se vi pare nota è
perché è lo specchio dell’inizio della
seconda
parte di “Una donna. Sola. Libera.”
(*) dichiarazione di Victor “rubata” alla versione
del manga
(**) tra Francia ed Inghilterra non era mai corso buon sangue e Luigi
XV aveva istituito i suoi servizi segreti, detti “Il
segreto” (gran fantasia ...), che tra altre cose elaborarono
piani di invasione dell’Inghilterra, mai messi in atto. Una
volta
incoronato, Luigi XVI sciolse questi servizi segreti ed uno degli
agenti, il Cavaliere D’Eon, uomo che giocò tutta
la sua
vita sulla sua ambiguità sessuale, fuggì in
Inghilterra
per paura di ritorsioni, trattenendo gran parte degli incartamenti
segreti allo scopo di tutelarsi.
Articolo del Corriere sul Cavaliere dalla vita così simile a
quella di Oscar:
http://archiviostorico.corriere.it/1997/aprile/18/Eon_cavaliere_con_gonne_co_0_970418354.shtml
Alain
borbottò ancora un’imprecazione. Una pesante.
Segno che ormai ne aveva davvero le scatole piene. Quella era
l’ultima, si disse, sì, l’ultima bettola
che avrebbe rivoltato per cercarlo. Poi se ne sarebbe
fregato! André era
adulto e se non voleva spiegarli perché fosse
così incasinato, peggio per lui. Era stanco di coprirlo con
D’Agout perché arrivava sempre tardi al lavoro,
perché quando c’era aveva la testa altrove. Una di quelle mattine
Diane stessa era andata a buttarlo giù dal letto, trovandolo
in condizioni pietose, reduce da una sbronza coi controfiocchi. La settimana era
cominciata malissimo, perché il suo capitano era tornato
dalla campagna con la luna decisamente storta. Va bene, si era detto:
un finesettimana pessimo. Capita. Specie se vai
a trastullarti con la famiglia pazzoide del tuo amico damerino. Pazienza. I veri amici
servono anche a questo: a sbollire quando altri amici ti irritano. Ma le paturnie del
capitano non erano passate neppure al martedì, quando aveva
deciso di raddoppiare i turni a tutti quanti e farli marciare nelle ore
più calde con l’equipaggiamento al completo.
Beveva in servizio, se ne erano accorti tutti, e alla sera spariva in
una taverna o si rinchiudeva nel suo ufficio, bevendo ancora. Quella mattina non si
era neppure presentato all’appello e D’Agout se ne
era accorto, lui che non si accorgeva o fingeva di non accorgersi quasi
di nulla. Alain lo aveva
dichiarato malato e lo aveva sostituito ancora, ma aveva giurato a
sé stesso che era l’ultima volta. Davvero. Aveva frettolosamente
assegnato i turni di guardia facendo litigare Pierre e Lasalle per
presunti, inesistenti favoritismi e poi si era messo in cerca
dell’amico. Nei soliti posti non
c’era: non alla taverna del Gobbo Guercio, non al bordello
del Palais, non alla cappella delle suorine del Sacro Cuore dove si
confessava con irritante regolarità e nemmeno su quella
panchina del Lungosenna dove amava imbambolarsi a guardare il sole che
si rifrangeva sull’acqua increspata dalle lavandaie, cosa cui
Alain aveva sempre creduto poco, sospettando che fossero proprio le
lavandaie a fargli assumere quell’aria trasognata. Pareva proprio che a
Parigi non ci fosse, ma, insomma, non poteva essere scomparso! Era così
arrivato a sera tarda, stanco e ben oltre un normale livello di
irritazione. Non era
così che dovevano andare le cose: Alain era quello che
faceva tardi, si ubriacava e perdeva i sensi sotto i tavoli delle
taverne. André era quello perfettino, che lo rintracciava,
lo riportava in caserma e gli parava il culo coi superiori. André era
il bravo ragazzo, lui quello scapestrato! Così andava il
mondo, quello era il verso giusto e così doveva riprendere a
girare tutto quanto, si ripeteva fermo sulla soglia del locale
più sudicio che avesse mai visto. -
Ti prego signore, fa che non sia qui dentro … O se
c’è, fa che sia ancora vivo e senza malattie
… - borbottò alzando gli occhi al cielo mentre un
avventore usciva di corsa e rimetteva di tutto a pochi passi da lui. Sbirciò
dentro, nel buio del locale, troppo poco chiassoso per essere un luogo
di divertimento. Mosse qualche passo, evitando un altro cliente
barcollante, quindi si diresse al bancone sotto lo sguardo attento
dell’oste. -
Che ti servo, soldato? – chiese quello mentre un
sorcio correva tra loro, squittendo, sul bancone appiccicoso. Alain si
limitò ad inarcare un sopracciglio. -
Solo informazioni. -
Non campo di ciance, io. Sospirò
mettendo mano alla sacchetta del denaro per l’ennesima volta
in quella giornata, tenendo mentalmente il conto del rimborso che
avrebbe chiesto ad André. Mostrò la
moneta al tipo. -
Cerco un amico: alto, moro, silenzioso, educato
…** -
Il tuo fidanzatino? L’espressione
di Alain si fece feroce. -
Ti paio il tipo, forse? – ringhiò. -
No, ma laggiù c’è uno che
corrisponde alla tua descrizione, a parte il fatto che non è
silenzioso: da quando è arrivato stasera, non ha smesso di
bere, né di borbottare e piagnucolare riguardo un certo
Oscar. Ha rifiutato tutte le mie ragazze e , beh … ho tirato
le mie conclusioni. Alain
guardò dove gli veniva indicato e lasciò cadere
la moneta nella mano dell’oste. André
vestito con i suoi abiti civili, che avevano visto giorni migliori di
quello, stava riverso sul tavolo più appartato della sala,
mano stretta sul boccale e davvero non smetteva di borbottare, sebbene
non sembrasse sveglio. -
André … André, hei, amico
… - lo scosse piano Alain. – Dio, ma come ti sei
ridotto? – mormorò scrutandolo alla pallida luce
delle candele. – Su, alzati, ti porto a casa
… - disse prendendolo per un braccio. André si
divincolò preda di una energia improvvisa, inaspettata. -
No! Ho detto che non voglio compagnia! –
gridò. -
Mi guardo bene dall’offrirtela, cavolo! –
balbettò Alain, sorpreso. – Su, dai, che ci
guardano tutti! – ritentò. L’amico
alzò appena la testa dal tavolaccio, aprendo un occhio su di
lui. -
Alain …? -
Esatto, io … Chi ti aspettavi in soccorso? Non gli rispose. Si
rizzò, con aria confusa, portò il boccale alle
labbra, ma lo distaccò immediatamente, preso da un conato. -
Non darti pena, qui non badano molto alla pulizia.
– Ironizzò Alain mentre l’amico piegato
in due rimetteva sotto il tavolo. – Ce la fai ad alzarti? Ti
tirò su io, al tre … uno, due … -
André rimise ancora qualcosa - … tre …
- aggiunse Alain dopo qualche istante, tirandolo su di peso. Tenendolo per la vita,
con l’altro braccio allacciato al suo collo, lo
portò fuori. -
Ricordi dove hai lasciato il cavallo? André non
rispose. -
Ricordi almeno se avevi un cavallo? André si
strinse nelle spalle. -
Cielo! – borbottò Alain – Devo
ricordarmi di ringraziarti per tutte le volte che ti sei trovato al mio
posto, con me nelle tue condizioni … Pazienza, vuol dire che
ce la faremo a piedi fin casa tua. Un passo dopo l’altro,
dai! Un due, un due …
Fu una vera fatica,
anche per un uomo robusto come Alain, trascinare l’amico per
poche migliaia di metri che parevano molti di più in quelle
condizioni. Aprì con un
calcio il cancelletto sempre solo accostato. Sorresse André
per tutto il vialetto, mentre questo pareva cedere irrimediabilmente
proprio ora che si trovavano a pochi passi dalla meta. Alain si
afferrò alla balaustra di pietra per reggersi mentre
André lo trascinava verso gli scalini di pietra
dell’ingresso, col peso morto del suo corpo anestetizzato
dall’alcool. -
Fai uno sforzo, non voglio prenderti in braccio. –
lo incitò Alain. Riuscirono ad arrivare al portoncino che il
soldato aprì con la chiave nascosta nella bocca della rana
di granito della fioriera. – Dai, che ce l’abbiamo
fatta. – guardò la scalinata che portava alle
camere e scosse il capo, optando per il divanetto del salottino
più vicino. Lasciò crollare il corpo
dell’amico sulla chaise longue e si drizzò in
tutta la sua statura per sgranchire i muscoli doloranti della schiena. Restò a
guardare l’amico che lentamente dava segni di ripresa. -
Si può sapere che ti è preso?
… - mormorò sinceramente preoccupato, mentre
accendeva una candela sul camino con l’acciarino che portava
sempre in tasca. Incrociò lo sguardo di André,
arrossato, lucido, incastonato in un volto dimagrito. -
Guardati! Non ti radi, non ti curi, sei sempre in disordine,
puzzi! – esclamò, alzando il tono. –
Qualunque cosa sia accaduta, non cambierà a questo modo! André si
sollevò seduto, prendendosi il capo fra le mani. -
Oscar … Oscar, non ti sposare … -
pianse, ancora confuso. -
Cosa? -
Oscar … lei … Si sposa. Con
Victor. Domenica era il loro fidanzamento ed io … -
E tu hai fatto la figura del fesso. Tutto chiaro, ora si
spiega: la bionda ti ha steso davvero! -
So che mi ama, so che non lo sposerà
… ma … Volevo fosse lei a fare il primo passo,
invece … -
Invece hai strisciato tu, va bene, sei un uomo: quando
c’è una donna di mezzo, facciamo questo ed altro
– sentenziò con amara ironia. -
Sono andato a casa sua, non c’era; sono andato al
laghetto, non c’era; ed allora sono andato a Versailles e
… l’ho vista con lui -
Lui? -
Victor. -
Fammi capire … Il damerino e la tua donna
… insieme? -
Saliva sulla sua carrozza e si inoltravano nel parco e
… -
Ah … - commentò Alain intuendo cosa
celasse quella pausa. -
Io credevo … Non pensavo che lei … -
Fatti forza … non sei il primo cornuto al mondo!
Cosa ti aspettavi a far amicizia con quel capellone tutto profumi e
balocchi? Quelle come lei sceglieranno sempre quelli come lui.
Rassegnati, è perduta e vedi di non perder anche la testa
per amore! – Esitò pensando non fosse il caso di
continuare con la ramanzina - Senti, signorina lacrima facile, stattene
a casa domattina e rimettiti, ma al pomeriggio presentati se non vuoi
esser spedito all’Abbazia! Anche un testa di legno come
D’Agout può venir preso per i fondelli, ma solo
fino ad un certo punto! Siamo d’accordo? André
annuì. -
Posso lasciarti ora? Annuì di
nuovo. -
Sicuro? Non mi combini altre cazzate? Annuì con
più energia. Alain gli
mollò una pacca sulla spalla e senza altre parole, lo
lasciò solo.
André
sentì il portoncino d’ingresso che veniva chiuso,
la chiave che girava nella toppa, la serratura che scattava e pochi
istanti dopo il cigolio dei cardini del cancelletto che veniva
riaccostato. Rumori familiari, quotidiani, immutati negli anni. Le lacrime
riaffiorarono nei suoi occhi al pensiero che tutto sarebbe continuato
senza di lei. Era piombata nella sua vita all’improvviso,
sconvolgendogliela; eppure per lui era come se ci fosse sempre dovuta
essere. Finalmente non si era più sentito solo ed ora
… In un moto di rabbia
si alzò, barcollando appena e si resse al caminetto.
Respirò profondamente, prese il candelabro e con decisione,
un passo dopo l’altro, uscì dalla stanza e si
diresse su per la scalinata. Con passo malfermo, traballante e tuttavia
con uno sguardo determinato percorse il corridoio fino alla prima
stanza. Esitò. Si sostenne al cassettone del corridoio,
quindi aprì il primo cassetto e ne estrasse una chiave: la
chiave per quella porta chiusa da un’eternità. Dopo dieci anni
l’aprì, adoperando un poco di forza sulla
serratura ossidata, mai lubrificata per tutto quel tempo. L’anta,
nello schiudersi, portò con sé pesanti ragnatele.
Un forte odore di
chiuso, di stantio e di polvere lo travolse. Vinse l’istinto
di trattenere il respiro ed entrò. Scostò con la
mano le ragnatele che gli sfioravano il viso, mosse dal movimento
d’aria calda attorno alla candela. Si guardò in
giro. E si commosse a ripensare a quella stanza quando lei era ancora
viva. Andò alla
specchiera, dove stavano ancora le sue cose: la sua colonia, la sua
spazzola, la sua immancabile cuffietta.
Tutto era come il
giorno in cui aveva chiuso quella stanza dopo il suo funerale. Il
marchese aveva insistito affinché tutto restasse al suo
posto, come se Nanny fosse solo uscita, come se dovesse tornare di
lì a minuti. Vicino alla damina di
ceramica, regalatale da madame Jarjayes, c’era il suo cesto
per il rammendo. Era coperto di polvere e ragnatele al punto da rendere
irriconoscibile il colore originario. Lo aprì. I suoi
rocchetti principali, bianco e blu, per la sua uniforme di casa. Era
sempre stata un mezzo soldato, la sua nonna, un vero generale che
armata di mestolo rimetteva in riga i suoi ometti. Sorrise sfiorando il
cuscinetto porta aghi ornato di roselline di seta: lo aveva cucito lui,
quelle volte che da piccolo nonna aveva preteso che imparasse almeno i
punti base; così avrebbe potuto essere sempre in ordine, gli
diceva, attaccarsi i bottoni, farsi gli orli, rammendare piccoli
strappi in modo invisibile. Così sarebbe stato presentabile
con le ragazze anche se lei non ci fosse stata più; ed un
giorno una brava ragazza lo avrebbe sposato perché era un
giovanotto d’oro. -
No, niente brave ragazze, nonna. Non sono diventato il nipote
che avresti voluto. – mormorò. Si guardò
nello specchio opaco: un relitto d’uomo che non riconosceva. La coda era sfatta:
quel segno distintivo della nobiltà, che non riusciva a
sentire suo. Forse non si era mai sentito nobile. Lo faceva soffrire
questo pensiero. Tanta fortuna, tanta generosità verso di
lui … Eppure. Prese le forbici dal
cesto ed afferrò i suoi capelli. -
Non sono mai stato nobile. Non lo sarò mai!
– ringhiò pensando al vantaggio che Victor aveva
su di lui - … Ma … Oscar, non ti
sposare! E diede un taglio
netto, poi un altro. Lasciò scivolare i capelli recisi,
posò d’un colpo la forbice ed entrambe le mani sul
piano della toeletta e guardò nello specchio la sua nuova
immagine.
-
Tu non hai potuto far nulla per lei, nonna. Ma io la porto
via. La vita è troppo breve per sprecarla in giochi di
potere più grandi di noi. Non c’è nulla
di male ad esser aristocratici … ma io non lo sono. E mentre nella sua
testa maturavano le decisioni più importanti,
uscì dalla stanza che non avrebbe più richiuso. Perché il
tempo non può esser trattenuto e quel che è
accaduto non può cambiare. Ma il futuro è sempre
in movimento e la direzione poteva deciderla lui.
Versailles, mattina
del 6 settembre 1784
Victor guardava oltre
le vetrate della sala del consiglio, giù, la Cour de Marbre,
coi suoi chiaro scuri che si alternavano, che confondevano la
prospettiva. Attendeva con
signorile rassegnazione che Sua Maestà fosse pronto a
riceverlo, domandandosi come il re avrebbe valutato la sua posizione:
più bianca o più nera?
Il sovrano era rinchiuso con Fréville nella stanza della
pendola, quella adiacente la sua camera privata, da quasi
mezz’ora per decidere del suo futuro, forse della sua stessa
vita. Il cielo stava per
rovesciare sul suo capo una tempesta dagli esiti catastrofici, eppure
lui riusciva solo a pensare a Brunet, morto al suo posto. Forse lo avrebbero
deferito al tribunale militare, forse il re in persona lo avrebbe
mandato all’Abbazia. Poco importava. Udì i passi
di un valletto e si volse. Non c’era
bisogno di parole, né di gesti. Sapeva che doveva seguirlo,
che le decisioni erano state prese. Entrò negli appartamenti
privati. Per primo vide
Fréville, in piedi, torvo, eppure con un ghigno
indecifrabile sul volto. Si avvicinò
alla scrivania dietro la quale Sua Maestà, ancora in veste
da camera, aiutato dal segretario, apponeva sigilli e firme a
documenti che forse riguardavano il suo destino. Si
inginocchiò ancor prima che glielo si potesse sollecitare,
così come gli era stato insegnato, così come ci
si aspettava. -
Conte Girodelle … - esordì il sovrano
senza rivolgergli una sola occhiata – Mi avete realmente
deluso. Conoscevate l’importanza di questo apparato bellico,
conoscevate il mio personale interesse nella realizzazione di questo
progetto scientifico; vi era stato richiesto dal ministro in persona di
scortare il convoglio, eppure così non è stato.
Avete qualcosa da dire? -
Purtroppo, ho ritenuto che una scorta meno vistosa sarebbe
stata più sicura e … -
Colonnello, sarei disposto anche a credervi se non sapessi
che in realtà avete delegato il vostro subordinato per
potervi intrattenere con la vostra fidanzata. Girodelle, Voi
… - si trattenne, reprimendo un moto di disgusto - Avete
anteposto le vostre faccende personali a quelle di stato, a quelle del
Vostro Re! Inutile che cerchiate attenuanti al vostro irresponsabile
comportamento! Victor si
prostrò ancor di più. Ormai, la sua vita era
finita … -
Tuttavia, per il rispetto che porto a Vostro padre, intendo
darvi ancora una possibilità. Secondo le testimonianze dei
soldati scampati, pare che l’agguato fosse in
realtà un doppio agguato. Ci risulta che spie inglesi
abbiano trafugato la nostra mongolfiera e che lo stesso tentativo sia
stato fatto da ribelli francesi. Ora, pare evidente che ciò
per il quale abbiamo speso tempo, denari ed ingegno, ormai ci si
ritorce contro, non essendo più non solo un vantaggio
tattico perduto, ma pure un potenziale imbarazzo diplomatico
… Inoltre, poiché l’intera faccenda era
nota solo a pochi uffici e persone, pare evidente che abbiamo talpe
nella catena di comando. Ho fiducia nel ministro Fréville,
ho fiducia in Bouillé e nel generale Jarjayes, che ha
seguito l’operazione fin dall’inizio ed era
inizialmente incaricato del trasporto … Devo domandarmi se
siete voi l’anello debole di questa catena, Girodelle? Vi do
48 ore di tempo per trovare elementi concreti che non mi inducano a
pensare che la vostra già grave situazione possa
ulteriormente peggiorare! Trovatemi la spia, Girodelle, o sarete voi a
farne le spese di questo pasticcio! Con un gesto della
mano, lo congedò seccamente. Victor si alzò a
capo chino, si ritirò, arretrando senza alzare lo sguardo,
senza osare respirare finché restò nel campo
visivo del sovrano. Appena svoltato
l’angolo camminando a ritroso, strinse nervosamente la mano
sull’elsa della spada, girò sui tacchi e si
lanciò a passo deciso nella galleria degli specchi. E la
vide, pallida, priva di belletto, la pelle un tutt’uno col
rosa chiaro dell’abito nella pallida luce della stanza. Era
sorpreso di incontrarla a quell’ora così mattutina. Non poteva evitarla,
lì a pochi passi che lo fissava. Le andò
incontro. Erano soli, eccetto un uomo dalla chioma fulva che si
allontanava nel corridoio fino a scomparire nella porta celata dagli
specchi, quella che conduceva alle scale di servizio, l’eco
dei cui stivali era il solo suono in quell’ala del castello
che potesse coprire i loro respiri. -
Marchesa … -
Conte … -
Avete saputo?... -
Sì, vengo ora dall’appartamento dei
Brunet. Non è colpa vostra, Victor! – si
affrettò a dire. -
Siete la sola a pensarlo … -
Non è colpa tua! – ribadì
scandendo le parole, avvicinandoglisi per rafforzare il tono
più intimo. -
Sei l’ultima persona che dovrebbe sostenermi, vista
la situazione. -
Oh, sì … In effetti … Lei
dov’è? La rosa bianca, l’algida e
sostenuta Oscar De Jarjayes, che decide di sciogliersi improvvisamente
al tuo tocco, come neve al sole, come la più disinibita
delle cortigiane e … sparisce! –
esclamò sibillina. I pettegolezzi
viaggiavano veloci a Versailles, anche all’alba. -
Non prendertela con lei! Lei … -
Non c’entra? Oh, Victor … Siete sempre
troppo buono! – sussurrò velatamente maligna,
sfiorandogli il braccio e lasciandolo solo per raggiungere il marito
che si affacciava nel corridoio. -
Mio signore … - lo salutò, udendo alle
sue spalle i passi di Victor che si allontanavano. Fréville la
scrutò. -
Stavate conversando col conte Girodelle? -
Lo aggiornavo sulla situazione di madame Brunet. -
Chi? -
La vedova. – sottolineò Camelia senza
riuscire a reprimere un tono rabbioso ed indignato. -
Ah, sì. – commentò
Fréville con noncuranza – Gradirei però
che manteneste una certa distanza da Girodelle mia cara: la sua caduta
è rinviata di poco, di sole 48 ore, e … conosco i
vostri gusti in fatto di potenti, madame! - insinuò al suo
orecchio, prima di prenderla sottobraccio e con decisione, tenerla
stretta. Camelia
inghiottì il messaggio, ripetendo nella sua mente un altro
conto alla rovescia che la tranquillizzava, poiché
riguardava qualcosa di veramente liberatorio per lei.
Victor uscì
nel piazzale che cominciava ad animarsi col via vai di domestici,
segretari, fornitori di corte. La crema dell’aristocrazia si
sarebbe cullata nell’ozio ancora qualche ora, ma la vita vera
era già in fermento. Gli erano stati
concessi due giorni per trovare i responsabili: una grande concessione
fatta dal sovrano, ma veramente poco tempo per lui, che non sapeva
neppure da dove cominciare. Si scostò
per lasciar passare i garzoni del fioraio che portavano ingombranti
ceste, profumate e variopinte. Veder passare accanto
a sé una quantità assurda di rose bianche, lo
irritò ricordandogli le battute gelose di Camelia. Non poteva certo
aspettarsi che la sua amante sarebbe stata felice di vedersi lasciata
per Oscar, ma che pretendeva Camelia? Lui non era Fersen, lo svedese
che aveva rinunciato a farsi una famiglia, infischiandosene del volere
paterno, perché la sola donna che desiderava sposare era
già sposata. Alle dame piaceva
crogiolarsi in questa versione romantica che l’amante di sua
maestà forniva di sé, e per la quale gli venivano
perdonate le numerose relazioni, senza impegno, senza cuore. La famiglia era
importante per Victor. Non avrebbe ferito suo padre per inseguire il
sogno di un amore romantico ma senza speranza. Eppure questa gelosia
di Camelia lo feriva e lo faceva sentire in colpa. Aveva sperato che lo
comprendesse. Si era perfino illuso che potesse apprezzare la sua
onestà del volere un matrimonio rispettabile e rispettoso.
Si era meravigliato dell’acredine nei confronti di Oscar. Ma era davvero
gelosia? Pensò ad un certo punto. Cosa aveva inteso con
“siete troppo buono”? Quella definizione
veniva sovente utilizzata nei confronti di coniugi ciechi sul
carattere delle loro dolci metà. Era stato cieco? Aveva
forse voluto vedere solo il bello nella sua fidanzata? Aveva forse
classificato come semplici capricci qualcosa di non così
fatuo? Una carriera rovinata,
una vita spezzata, una famiglia distrutta perché aveva
ceduto alle lusinghe di una donna in una notte di fine estate. Ed ora,
sempre a causa di una donna, delle sue sottili insinuazioni, stava
mettendo ogni sua mossa sotto esame. Oscar … Cercò di
ripensare al tempo trascorso con lei, anche se gli riusciva difficile
concentrarsi su qualcosa che non fosse la notte appena vissuta. Sì, si
comportava stranamente; ma d’altronde era anche una donna
fuori dell’ordinario, con una vita ed una educazione
“originali” alle spalle. Era molto interessata al
suo compito di responsabile della sicurezza, alla vita quotidiana dei
reali. Ma era comprensibile, vista l’educazione militare e la
poca dimestichezza con le regole della corte, cui sarebbe dovuta
sottostare sposandolo. L’anello debole della
catena … Che fosse davvero lui?
No, era certo di non aver detto o fatto più di quanto fosse
lecito.
Venne distratto da una
carrozza recante lo stemma reale che passò proprio dinnanzi
a lui. Era guidata da un cocchiere che non passava inosservato con quei
capelli rossi, così vistosi. “Che colore
volgare”, pensò, “tipico di popolazioni
rozze come i vicini …” Interruppe
di colpo quei pensieri, colto da un dubbio, proprio mentre la carrozza
frenava un centinaio di metri più avanti per far salire una
dama in rosa. La sua dama. -… inglesi!
- terminò a voce alta aggrottando la fronte. -
Cherchez la femme, Victor!- si disse pensando di esser stato
davvero troppo fiducioso. A questo punto voleva
vederci bene e non perché gli era stato ordinato da sua
maestà. E sapeva pure da dove cominciare.
Continua
* “cherchez
la femme”, letteralmente “ cercate la
donna”, inteso nel senso: dove c’è
intrigo, c’è donna, quindi per trovare il capo
della matassa cercate la donna della vicenda.
** “
… con occhi smeraldini, che fa le docce e usa
lavandini” … scriverei per far scalpitare
Serelalla! XD Scherzo!!!
Da questo capitolo,
non ci saranno più parti in blu, perché si svolge
tutto continuativamente al presente, fino alla fine. … 48 ore e
qualcosa in più.
***
Cap. 13: “Giochi di
re”
6 settembre 1784,
mattina
… Les rois du
monde se battent entre eux (I re del mondo si battono tra
loro) … Ils font des
pièges où ils tomberont un jour (costruiscono
trappole dove loro stessi cadranno un giorno) Et nous en bas leur guerre on
la fera pas (E noi, quaggiù, la loro guerra non
faremo) On sait même pas
pourquoi tout ça c'est jeux de rois (non si sa
nemmeno perchè, tutto questo son giochi da re) - dalla
canzone I re del mondo
La carrozza
frenò nel sagrato antistante la vecchia chiesa medioevale,
in rovina, sconsacrata.
Il cocchiere dai capelli rossi saltò agilmente
giù da cassetta ed aiutò Camelia De
Fréville a scendere dal veicolo, guardandosi intorno con
fare circospetto. Le porse il braccio e la sorresse mentre scavalcavano
le parti più danneggiate della gradinata in pietra. Appena entrata, la
donna restò sorpresa dal fermento e dal rumore che
all’esterno non giungeva, protetto dagli spessi muri
edificati secoli prima. Alla debole luce del
primo mattino, che filtrava dalle bifore, e delle torce accese, una
squadra di una decina d’uomini lavorava alacremente a quello
che pareva un mostro marino sdraiato nel mezzo dell’edificio
vuoto: una grossa seppia sgonfia, di seta bianca e gialla. I colori
del re di Francia. -
Impressionante … - mormorò ella. -
Il tempo ci è nemico. – ribatté
l’uomo sconfortato. – Stiamo prendendo nota di
tutto: materiali, dimensioni, tipo di armi di cui è dotata,
funzionamento del bruciatore; stiamo disegnando schemi e dimensioni, ma
… trasportarla via sarà praticamente impossibile,
anche fatta in pezzi. -
So che vi cercano sulle vie per il nord: pensano abbiate
proseguito sfruttando le miglia di vantaggio che il convoglio aveva
già. – Disse Camelia camminando ai bordi del
pallone aerostatico ed osservandone la fattura. -
Ciò ci farà guadagnare tempo: di certo
non pensano che siamo tornati indietro, così vicino a
Parigi. Ma appena si accorgeranno che il convoglio non ha proseguito,
non ci metteranno molto a scovare questo posto. Non sono tanti i luoghi
con le caratteristiche necessarie a nascondere un tale marchingegno in
riservatezza. Camelia si
sfilò un guanto e si chinò a tastare con la mano
nuda il tessuto del pallone. -
Incredibile la quantità di seta sprecata
… - mormorò. L’uomo rise. -
Vostro marito diceva sempre che la moda era il vostro
paradiso ed il suo inferno … - il riso si smorzò
nel vederla adombrarsi. – Perdonatemi, non volevo … -
Non ne avete motivo, caro Scott *. E’ che
… Siete stato il suo migliore amico da sempre, avete passato
così tanto tempo con lui, ben più di quanto ci
abbia vissuto io che … - chinò lo sguardo
– un poco vi invidio. Le porse la mano per
aiutarla ad alzarsi. -
Un giorno ci siederemo in riva al mare e vi
racconterò tutto quel che non sapete di lui. Anche quelle
cose che lo farebbero vergognare … - disse serio. Non poté
evitare di sorridergli e gli porse la mano riguadagnando altezza in un
fruscio di gonne. -
Ho comunque un’idea alternativa per questa
mongolfiera. Sono certa di conoscere chi si nasconde dietro alla nostra
concorrenza, coloro che hanno fra le mani i piani di D’Eon. -
Non possiamo renderla ai francesi. -
Re Luigi non potrebbe in ogni caso permettersi di utilizzarla
in un attacco: ormai sappiamo di questo progetto. Ma potrebbe tenere a
riavere il prototipo. Possiamo ancora fargli credere che può
riaverla. -
Dovremmo chiedere un riscatto? -
Non noi. I francesi. - replicò candidamente.
***
Il sole era ormai
caldo nel cielo.
Oscar alzò lo sguardo verso il balcone del palazzo di
Fréville proteggendo lo sguardo dalla luce forte. Aveva lasciato
Bernard, dopo aver nascosto con lui i documenti segreti di
D’Eon, tenendo per sé solamente la lista coi nomi.
Gli aveva ordinato di tornare al Palais ed attendere. Si era rifiutata
di spiegargli cosa avesse in mente: aveva già combinato
abbastanza pasticci e non voleva metterlo in mezzo. Quando aveva visto
quel nome, aveva capito tutto: Ross William Chatwell. Era il primo marito di
Camelia De Fréville. Non poteva non esserci un collegamento. Era lì da
almeno due ore. Aveva incrociato la carrozza dei Fréville
con lo stemma reale che lasciava Versailles diretta a Parigi.
L’aveva preceduta in città, galoppando veloce per
sentieri più disagevoli, che tagliavano il
tragitto, ma la carrozza doveva aver fatto qualche sosta
perché era entrata solo da pochi minuti nel cortile della
villa. E la marchesa era
scesa da sola, senza l’ingombrante marito. Quello che Oscar
voleva. Si
raddrizzò la giacca maschile e si avviò
all’uscio. -
Sono Oscar Françoise De Jarjayes. – si
presentò al maggiordomo che le aprì il portoncino. -
Buongiorno, signore! Purtroppo, il signor marchese non si
trova alla residenza. – disse quello. -
Sono qui per conferire con madame, la marchesa, se
è possibile. Il maggiordomo si
inchinò e la invitò ad entrare e ad accomodarsi
nel salotto. -
Vado ad informarmi se sua signoria può ricevervi.
– disse allontanandosi. Oscar si distrasse ad
ammirare i quadri. Ritraevano tutti Fréville: in alta
uniforme, a cavallo, in nave, a caccia l’estate
precedente … -
… Sempre con dieci anni e quindici chili di meno
che nella realtà … - borbottò
acidamente tra sé. In quel mentre
rientrò il maggiordomo. -
Se il signore vuole seguirmi … La signora marchesa
l’attende.
Oscar seguì
l’uomo al piano superiore, attraverso lo stesso corridoio ed
infine nello stesso salone che lei aveva già visitato una
volta, non invitata, e dal quale si era allontanata in maniera
rocambolesca.
Camelia era
lì. Si era appena tolta il cappellino e si stava sfilando i
guanti. -
Vi ringrazio di avermi concesso udienza, marchesa.
– disse Oscar, inchinandosi. -
Se non foste venuta da me, sarei venuta io da voi,
madamigella Oscar. Credetemi. Posso offrivi qualcosa? Oscar scosse il capo,
quindi Camelia licenziò il domestico. Rimasero sole. -
Felice di avervi risparmiato il tragitto. Ora parliamoci a
viso scoperto: voi sapete chi sono ed io so chi siete voi, madame. Io
ho qualcosa che vi riguarda e voi avete quel che cerco. –
disse Oscar. Camelia sorrise. -
Sempre diretta … -
Non amo fare salotto. La marchesa si
avvicinò alla finestra. Il vento fresco le
scompigliò appena i boccoli morbidi sciolti sulle spalle.
Era veramente molto bella, pensò Oscar. Troppo bella per uno
come Fréville. -
Mi domandavo quale fosse il collegamento di quei documenti
con il Marchese, come facessero gli inglesi a sapere del trasporto
della mongolfiera; poi ho visto questo nome in questo elenco, - disse
estraendo il documento - quello del vostro primo marito in quella che
pare proprio una lista di doppiogiochisti inglesi e francesi. Vostro
marito era un venduto, madame? -
Mio marito era leale, onorato e fedele al giuramento, al suo
paese. – disse Camelia con voce incrinata. -
E voi siete leale con lui, non è vero? -
Ve lo domando direttamente, anche se suppongo di conoscere la
risposta: cosa volete per darmi quella lista? –
esclamò la marchesa, riprendendo il controllo. -
Quel che mi avete rubato, madame. -
Non posso, non mi sarebbe permesso rendervi un arma. Specie
ora che avete tra le mani i piani d’invasione
dell’Inghilterra. -
Ed io non posso lasciarvela. Pur non amando questa monarchia,
resto francese. Si scrutarono qualche
istante in silenzio. -
Sarò franca, madamigella Oscar. Voglio togliere di
mezzo Fréville. -
Il sospetto mi è balenato nella mente. –
ribatté ironica. -
Ho questa proposta … Potrei rendervi la mongolfiera
affinché possiate proseguire nel vostro progetto, in cambio
della distruzione dei documenti di D’Eon e della rovina di
Fréville. -
Continuate … -
Fréville ha comprato i piani da D’Eon,
che finora aveva sempre trattenuto quei documenti per difendersi dal
Re. Una polizza vita. Il marchese carezza da sempre due ambizioni:
ascendere al trono al posto dei Borboni ed essere il primo a realizzare
ciò che nessun monarca francese è mai riuscito a
fare: conquistare l’Inghilterra. -
Sarebbe una pazzia! Siamo appena usciti da una guerra che ci
ha dissanguati; siamo oppressi da carestia, dalle tasse per le spese
folli della corte e Fréville vorrebbe lanciarci in un nuovo
conflitto? E’ assurdo. -
Concordiamo con voi. Ed ho motivo di credere che neppure re
Luigi vorrebbe ciò. Se dovesse scoprire i veri intenti del
suo ministro … -
Per Fréville sarebbe la fine. Ma io cosa ci
guadagno? Così rafforzerei Luigi. -
Il sostegno inglese. -
Fatemi capire … voi mi aiutereste … -
… a far cadere il Re di Francia. Vi sto proponendo
un colpo di stato. Possiamo appoggiare Orléans. -
Cosa? Volete mettere un Orléan sul trono? -
Costituzionale… - specificò Camelia. -
Non mi fido di Orléan –
manifestò Oscar. -
Ma vi appoggiate a lui e dovete continuare a farlo. Le cose
possono cambiare in seguito… – promise
l’altra, sottintendendo che un re non necessariamente deve
restare sul trono per sempre. Oscar
annuì. Non le garbava
l’aiuto inglese, ma poteva funzionare. La guerra in America
aveva ridotto allo stremo entrambi i paesi. Continuare le
ostilità non avrebbe giovato a nessuno di loro. Potevano
uscirne a testa alta, eliminando un comune nemico. La Francia sempre
più debole di Luigi era altrettanto pericolosa di una
Francia arrogante nelle mani di uno come Fréville, per
l’Inghilterra. Per un istante si
fissarono in silenzio, poi un pensiero personale traversò la
mente di Oscar: pensò all’uomo che aveva guardato
quegli occhi violetti così come si era perso nei suoi la
notte scorsa. -
Che accadrà a Victor? – si
preoccupò Oscar. -
Gli hanno concesso 48 ore per smascherarci … -
E’ un brav’uomo … -
mormorò Oscar. -
… e leale. – sottolineò,
perché tale virtù, ad aver a che fare con donne
nella loro posizione diventava uno svantaggio. - Non ho intenzione di
fargli del male. – garantì Camelia. -
Oltre a ciò che avete già fatto?
– l’accusò Oscar. -
Non molto diverso da ciò che avete fatto voi.
– rincarò. -
Touché … – ammise
la bionda. Victor restava
stritolato da loro due. -
Non voglio gli succeda qualcosa di irreparabile. –
ribadì Oscar. -
Ed allora … Non accadrà.
Penserò io a Victor. – garantì Camelia.
- Voi mi date quella lista e … -
Voi mi aiutate col colpo di stato … Impasse. -
Ci tocca fidarci … - sottolineò
Camelia. Il silenzio di Oscar fu il suo assenso. -
Useremo la mongolfiera. – Esclamò
all’improvviso, rivitalizzata da ciò che le
riusciva meglio: l’azione. - Chiederò un riscatto
a Sua Maestà e casualmente spunterà parte dei
documenti pericolosi di D’Eon, collegati a
Fréville e al suo doppio gioco che per anni ha fatto con
l’Inghilterra. Sua Maestà perderà la
pazienza, scatenando la reazione del ministro e ci insinueremo a corte
fra le due fazioni: i sostenitori del marchese ed i fedeli al re. Luigi
farà la figura del sovrano molle di fronte
all’invasione del nemico, sia interno che esterno, e Orlean
assumerà il potere e poi … -
… e poi, un passo alla volta.
Un applauso improvviso
interruppe il mormorio del complotto. Fréville
era entrato senza farsi notare ed aveva probabilmente ascoltato gran
parte della loro discussione. -
Complimenti, signore mie. Nemmeno
all’operà recitano bene quanto voi due. Su di voi
mia cara, ammetto che da un po’ covavo qualche sospetto:
troppe fughe di notizie e la trappola della mongolfiera ha funzionato,
vi ha fatta scoprire; ma che l’altezzosa Oscar de Jarjayes,
fosse invischiata a tal livello non me lo sarei proprio immaginato.
Addirittura con D’Orleans … Mosse qualche passo
verso di loro, incrociando le braccia dietro a sé, senza
timore. -
Interessante situazione, vero? – scherzò
vedendole scambiarsi uno sguardo allarmato. – Sembra proprio
senza uscita. Temo dovrò farvi arrestare entrambe e,
credetemi, occupare le celle della Bastiglia con due fiori
come voi, è davvero un dispiacere …
Povero Girodelle, entrambe le sue amate messe ai ceppi … -
rise all’espressione sorpresa di Camelia. –
Già, alla fine non è morto per proteggere il
giocattolo del suo re come avevo organizzato, ma finirà male
comunque. Che vi aspettavate, mia cara? Siete sempre mia moglie! Avrei
dovuto permettere a quel damerino di trastullarsi impunemente?
La situazione non
lasciava altra scelta. Oscar estrasse il fioretto. Fréville
esplose in una risata. -
Sì, ho saputo che il generale vostro padre vi ha
educata come un figlio maschio ed ho trovato tutto molto divertente.
– la derise, non dando impressione di voler ingaggiar duello. -
Avete forse paura di perdere con una donna? – lo
istigò Oscar, mentre Camelia lentamente si avvicinava alla
parete, tentando una fuga approfittando della distrazione di
Fréville. Il marito le
bloccò il passo ed estrasse al contempo la spada,
invitandola tramite quella ad arretrare. -
Tutt’altro, madamigella Oscar. – disse
tornando a rivolgersi a lei - Credo che alle persone come voi
servano lezioni severe.
Oscar lo
assalì e cominciano a duellare. Lui era molto forte,
rozzo, e si batteva per vincere. Non era interessato
allo scontro elegante, tanto quanto non gli interessava ciò
che rendeva un nobile degno di quella definizione: non era altro che un
assassino, un delinquente, un violento; era privo di scrupoli, di
sentimenti, di ideali. E per tutto questo era
più bravo di quanto lei, con i suoi rigurgiti di coscienza,
mai sarebbe stata. Il rumore
dell’incrociarsi di lame aumentava. Oscar si
trovò a schivare affondi sempre più rapidi,
più violenti. La lama di Fréville si
abbatté su qualunque oggetto lei frapponesse tra loro nel
tentativo di riprender fiato. Cadde un vaso, poi un
busto. Camelia
guardò preoccupata verso l’ingresso del salone,
che non poteva raggiungere, incastrata tra il balcone ed i due
duellanti, aspettandosi da un momento all’altro
l’arrivo di qualcuno. Ed allora sarebbe stata la fine per
entrambe. -
E’ vero, siete abile, - esclamò Oscar -
ma con me non c’è nulla da fare. Fréville,
urtato dal commento, fece un passo falso spinto dalla rabbia. Oscar
scartò di lato ed approfittò del suo
sbilanciamento per trafiggerlo da parte a parte. Il marchese
lasciò cadere la spada, premendosi il costato che sanguinava
copiosamente, scivolando in ginocchio senza forze, cadendo a terra.
In quel momento si
affacciò una guardia. Un veloce scambio di sguardi
spaventati tra Oscar e Camelia e la marchesa lanciò un grido. Senza dubbio, Camelia
Desirée era veloce nel prender decisioni. Ed indicare nella
sua rivale il capro espiatorio era la soluzione migliore per lei, oltre
che la sola possibile.
Oscar si
lanciò fuori dalla finestra sulla grande terrazza, pronta a
ripercorrere il più velocemente possibile la stessa via
già utilizzata una volta. Disgraziatamente,
Fréville aveva pensato bene di radere al suolo la bella
magnolia, così comoda per la discesa degli intrusi. Evitando per un soffio
la presa della guardia, ripiegò su una via più
difficile: saltò il parapetto della terrazza e si
lasciò cadere sul tetto del portico a fianco. Un bel salto.
Il peso del suo corpo trascinò sotto di sé alcune
tegole e pensò che non sarebbe riuscita ad arrestare in
tempo la sua caduta. Senza sapere bene come, riuscì ad
aggrapparsi ad un doccione** di granito, mentre le tegole si
fracassavano tre metri sotto di lei. Ormai le grida delle
guardie e della servitù erano ovunque. Facendo forza sulle
braccia, si tenne alla grondaia e, senza altre possibilità,
si dondolò appena e si lasciò cadere appena oltre
il marciapiede di pietra, atterrando sul prato che smorzò
l’impatto della caduta. Rotolò
sull’erba e si rialzò subito, ignorando le
contusioni che avrebbe pagato poi, scappando verso la cancellata. Con un ultimo sforzo
la scavalcò e, protetta dal via vai di gente e carri della
tarda mattinata, si perse per le vie di Parigi.
Nel caos scatenato
dalla fuga rocambolesca di Oscar, Camelia si gettò sul corpo
del marito a terra, fingendosi la più disperata delle mogli,
allontanando le altre guardie arrivate a prestare soccorso. -
Lo ha ucciso! Lo ha ucciso! – gridò
indicando il balcone dal quale l’assassina era fuggita, come
ad invitarli all’inseguimento, mentre, con fare disinvolto,
allontanava la spada che Fréville, rantolante per il colpo
che gli aveva trapassato un polmone, cercava ancora di afferrare. Le guardie si
divisero: il grosso di loro tornò alle scale; solo un paio
di coraggiosi seguirono invece la via percorsa da Oscar. E lasciarono sola la
marchesa. Fréville,
impossibilitato a parlare per il sangue che gli si affollava in gola,
forte di rabbia, agguantò al collo la donna che lo aveva
raggirato e per la quale si era rovinato, nel disperato tentativo di
non morire da solo. Camelia
afferrò un cuscino dalla vicina poltrona e, senza
esitazioni, anzi, con un certo doloroso piacere, premette con forza sul
volto dell’odiato consorte, soffocandolo in pochi istanti. Quando non
avvertì più alcuna resistenza, gli
levò il cuscino dal volto e restò immobile a
fissare le fattezze deformate dalla morte e dal sangue. Si
afflosciò sulle ginocchia, stringendo il cuscino.
Lì vicino, sul parquet, notò il foglietto quello
che Oscar aveva tra le mani poco prima dell’entrata di
Fréville. Prese la lista, l’aprì e
scorgendo il nome di colui per il quale aveva affrontato tutto,
sospirò sollevata. Nascose il pezzo di
carta tra i seni. Restò lì, in attesa
dell’ultimo atto, con lo sguardo perso davanti a
sé ed un solo pensiero nella mente: l’incubo
cominciato il Natale prima, quando aveva scoperto chi fosse il mandante
dell’omicidio di Ross, era finito! Finalmente, era finito
…
- continua
* Scott Baker, il
capitano inglese che aiuta Oscar e André ne “Il
mio dovere” … L’ho ripescato in una
ambientazione diversa.
**Stavolta il termine
non è improprio e, a proposito della doccia, ho pensato: se
una persona del 700 si trovava sotto un doccione (ad esempio uno di
quelli a forma di Gargoyle, tanto carucci d’aspetto e
conciliatori di bei sogni…) e si prendeva una lavata in capo
durante un acquazzone, possiamo dire che “si era preso una
doccia fredda?” … Così tanto per
riflettere sui vocaboli XD
Oscar corse
per Parigi, rallentando di tanto in tanto quando le fitte per i danni
derivanti dalla caduta diventavano insopportabili; corse fino a quel
vecchio palazzo, residenza del duca d’Orléans;
corse
attraverso quel vicolo che fiancheggiava i portici, fino alla scaletta
dove era certa che avrebbe potuto trovare riparo. Dovunque
veniva strillata la notizia dell’assassinio del marchese di
Fréville e le strade già pullulavano di soldati
in cerca
del colpevole. Non c’era un solo parigino che non lo sapesse. Picchiò
all’uscio della cantina. Non ottenne risposta
subito e presa dalla furia picchiò ancora. - Bernard, sono io!
Apri, maledizione! So che sei lì! Dall’altro
lato della porta chiusa, una mano fermò quella del cavaliere
in
nero, pronta a far scattare il chiavistello. Lo sguardo del
giornalista si incrociò con quello dell’avvocato. - Ma …
Robespierre! E’ Oscar! –
esclamò piano. - Lei
capirà. – bisbigliò
l’altro.
– Ormai è compromessa e può solo
mettersi da parte,
cavarsela da sola e tacere per il bene comune. Un soldato deve essere
in grado di sacrificarsi per un bene superiore. Questo bene
è la
Francia che merita di liberarsi della sua schiavitù. Oscar
ne
è consapevole. Capirà.
Oscar restò
in ascolto del silenzio. Di quella serratura che non scattava. E ...
capì. Posò la
fronte contro il legno, serrando gli occhi. Ne avevano
parlato tanto durante le loro cene del giovedì ad Arras,
quando
discorrevano di tutto, quando ipotizzavano una Francia diversa ed i
modi per poterci arrivare, arrivando ad immaginare scenari di
resistenza alla monarchia assoluta. Era stata
proprio Oscar ad insegnarglielo, così come suo padre lo
aveva
insegnato a lei: nessuno è più importante del
fine
ultimo. Eppure… Eppure era
cambiata così tanto la sua vita durante
quell’estate e
quel concetto da freddo militare lo sentiva sempre più
lontano
da sé, sempre più ingiusto. Si lasciò
scivolare
lungo lo stipite della porticina, accosciandosi sui gradini in pietra
del vicolo. Prese la testa fra le
mani. Improvvisamente sapeva
che tutto quel che l’attendeva erano la fuga, la miseria, la
solitudine. O, nel caso peggiore,
la prigionia, anche la morte. Era stata
ad un passo dalla felicità completa e questo la faceva
impazzire. Pensava che nulla valesse più la pena, che nulla
valeva ciò che aveva perduto. E non si trattava di coloro al
di
là di quella porta. Non stava
rinnegando i suoi ideali, questo no; stava solo dando una misura al
modo in cui aveva affrontato il mondo: stava guardando tutto da un
passo di distanza. “La vita è
troppo breve per sprecarla in giochi di potere più grandi di
noi …”, si disse. Doveva allontanarsi da
lì. L’istinto a sopravvivere faceva parte di lei,
non si sarebbe arresa senza lottare.
Girovagando a vuoto,
evitando posti di blocco, priva di una meta precisa, arrivò
nel quartiere dove viveva André. Una
improvvisa, violenta pioggia si stava riversando su Parigi, abbassando
la temperatura che lasciava presagire a breve l’arrivo
dell’autunno. Sì.
L’estate era finita. Quei mesi durante i quali aveva giocato
con
le persone come un re che gioca a sentirsi dio. Zuppa e
grondante, strizzando lo sguardo infastidita dalle gocce che restavano
intrappolate fra le sue ciglia, guardò in fondo alla via, la
casa dove aveva passato momenti felici. Tanto intensi, ma
troppo brevi. Irripetibili. Aveva rovinato tutto. Udì
la porta del negozio del fruttivendolo all’angolo aprirsi con
uno
scampanellio ed una ragazza dalla voce cristallina uscì
rimproverando quello che riconobbe come l’amico di
André. “…
come si chiama? … ah, sì: Alain.” - Adesso capisco
perché hai voluto che ti
accompagnassi a
far compere: sono il tuo mulo da soma, sorellina! –
esclamò il soldato che accanto alla ragazza minuta, pareva
un
gigante. “Sorellina?” - Smettila di
lamentarti, fratellone! Il nostro amico
André
ha bisogno di rimettersi in forze e niente di meglio della buona
cucina! Una bella torta di mele tanto per cominciare! “Sorellina??
“ Ma …
allora era la sorella di Alain quella che aveva visto alla finestra?
André le aveva parlato di lei, di loro: erano diventati la
sua
famiglia. Vide la
coppia riparasi sotto la cerata militare di lui ed incamminarsi verso
la loro casa, poco più in là di quella dei
Plessis
Bellière. Non
l’avevano vista, lì nell’ombra di un
ingresso a ripararsi appena dalla pioggia scrosciante. Sì
sentì una stupida. Dentro di
sé sapeva che André non era tipo da ripicche,
vendette,
eppure aveva pensato che l’avesse sostituita con la
facilità con la quale si cambia una candela consumata. Lui non era
così. Era lei quel tipo di persona. - Sono una persona
orribile … - sussurrò. Vincendo la vergogna
di sé, posò il piede nella via, diretta alla casa
di André.
Il barone di Plessis
Bellière entrò dal passo carraio, cavalcando
veloce sotto la pioggia. Aveva fatto
tutto quel che aveva deciso di fare durante la notte appena trascorsa:
la notte dei fantasmi passati, presenti e futuri. Non era
stato difficile: d’altronde, una volta prese certe decisioni,
il
grosso è fatto, resta solo una strada in discesa da
percorrere. Il notaio
era rimasto sorpreso dalla sua richiesta, ma lo aveva accontentato,
scrollando il capo come si fa quando si ha a che fare coi muli testardi
o coi matti. André
soppesò la cartella di cuoio consegnatagli
dall’ometto in
nero che aveva curato la sua adozione. Era tutto lì.
Esattamente
come aveva richiesto.
Levò la
sella al cavallo, lo splendore nero regalatogli da Oscar. Sorrise fra
sé. Era un miracolo che il quadrupede fosse tornato a casa
da
solo, illeso, la notte appena trascorsa, quando lui si era sbronzato in
quella topaia vicino al Cimitero degli Innocenti e lo aveva perso. Diede una
pacca sul collo all’intelligente bestia, mostratasi
più
sensata del padrone, e si coprì con la mantella per
attraversare
la corte correndo. Si sarebbe
cambiato, avrebbe raccolto le poche cose necessarie poi sarebbe andato
a spiegare tutto ad Alain, il quale avrebbe fatto resistenza,
brontolato, imprecato, ma alla fine avrebbe ceduto, da quel
sentimentalone che era. E poi … Alzò lo
sguardo. Il
“poi” lo attendeva sotto il portico sul retro,
accucciata, stretta per scaldarsi. Alzò gli
occhi su di lui, che saliva i gradini lentamente, incurante della
pioggia, sorpreso di trovarla lì. Gli occhi di lei erano
lucidi, di un azzurro vivissimo, supplichevoli, disperati.
L’uomo prese
un fazzoletto dalla tasca e glielo porse con un sospiro. - Grazie,
André, ti ringrazio tanto … -
mormorò Oscar, sfiorando appena le sue dita nel prendere la
pezzuola.
***
Palazzo
Fréville era un brulicare di uniformi. Soldati mandati da
Versailles entravano ed uscivano; in tanti davano ordini. L’omicidio
del ministro aveva gettato lo stato maggiore nel caos. Il corpo
era stato spostato in un’altra stanza al pian terreno dove
l’impresa di pompe funebri si era già messa
all’opera per rendere presentabile il cadavere ed allestire
la
camera ardente. Camelia
sedeva sulla poltrona ove si era accasciata immediatamente dopo che
Fréville aveva esalato l’ultimo respiro. Ai suoi
piedi,
una chiazza rossa inzuppava un pregiato tappeto delle manifatture De La
Savonnerie, rovinato irrimediabilmente. L’abito
rosa pallido era macchiato vistosamente di sangue, stretto a
sé
teneva ancora il cuscino che aveva utilizzato su Fréville ed
il
suo volto era spaventosamente terreo. In un angolo della stanza, Victor
si teneva in disparte, silenzioso, severo, imperscrutabile. Furente. Dall’ingresso
si udì la voce tonante di Bouillè che domandava
della marchesa. Victor si
avvicinò a Camelia ed afferrò il cuscino che lei
non era
ancora riuscita a deporre. Un cuscino dove un occhio attento poteva
intravedere le fattezze di un volto dipinto dal sangue. - Lascialo!
– le intimò in un bisbiglio.
–
Lascialo! – ripeté strappandoglielo dalle mani e
nascondendolo dietro a tanti altri cuscini simili sul divanetto, giusto
un istante prima che Bouillè facesse irruzione. Il generale
tossicchiò per schiarirsi la voce.
- Marchesa,
innanzitutto presento le mie sentite condoglianze
per
la vostra perdita e … - lo sguardo cadde su Victor.
–
Colonnello Girodelle, che ci fate voi qui? L’ufficiale
in azzurro, meno perfetto del solito e con la barba non rasata,
scattò sull’attenti. - Mi trovavo
casualmente nei pressi e sono stato tra i primi ad
accorrere, signore. Il generale
grugnì un appena percettibile assenso, sebbene poco convinto
da quel “casualmente”. - Avete visto
l’omicida, Girodelle? - Purtroppo no,
signore. Il bandito si è calato
dalla
terrazza ed ha fatto perdere le tracce velocemente. Alcuni dei soldati
lo hanno visto di sfuggita, ma forniscono descrizioni discordi. Bouillè
grugnì ancora. - Madame, - disse
rivolgendosi a Camelia – siete in
grado di presentarmi una descrizione dei fatti? Camelia
alzò appena lo sguardo, come persa. Victor intervenne
ancora, incurante di irritare con ciò il superiore. - Temo che madame la
marchesa sia troppo sconvolta per poter
fornire una versione precisa ed obiettiva dei fatti, signore. Abbiamo
mandato a chiamare un medico. – Aggiunse in un bisbiglio a
voler
sottolineare lo stato emotivo della donna. Il superiore
grugnì di nuovo. - Vedo che avete tutto
sotto controllo, Girodelle. –
ribatté ironico. – Fossi in voi, però,
mi
preoccuperei di quanto vi ha ordinato Sua Maestà: il tempo
corre
veloce. Fece cenno al soldato
al suo fianco. - Trovatemi le guardie
che erano presenti al fatto. Subito! Uscì senza
più rivolgersi a Camelia. Victor le si
accosciò accanto. - Guardami!
– disse perentorio. Quando ebbe la sua
attenzione, addolcì il tono e proseguì.
– Non dire
nulla. Se serve, fingi un malore. Ricorda che sei una vedova, nessuno
si aspetta di più da te! – ordinò - Lei
dov’è? – chiese cambiando registro. Camelia lo
scrutò. - Sei in pena per lei?
– mormorò con le
lacrime agli occhi. - Sono in pena per
noi, per tutti noi. –
sottolineò – Sai dove è andata? Ella distolse lo
sguardo. Victor prese il suo
volto tra le mani e la costrinse a guardarlo ancora, gentile ma fermo. - Se sai dove
è andata, dimmelo. Non sto scherzando,
Camì.
***
La giornata si faceva
sempre più buia.
Nuvoloni temporaleschi continuavano ad addensarsi nelle brevi pause tra
uno scroscio e l’altro e la sera arrivava veloce. André
aveva acceso le candele ed il caminetto nella sua stanza. Le aveva
offerto una camicia asciutta e qualcosa da mangiare.
Seduta sul tappeto di fronte al fuoco, le lunghe gambe nude
rannicchiate sotto di sé, Oscar si scaldava, finendo fino
all’ultima briciola che aveva nel piatto. André la
osservava in silenzio, poggiato alla mensola del camino. - C’entri
qualcosa con quello che è
accaduto al
marchese de Fréville? – chiese
all’improvviso. - Qualcosa
… sì. – disse
masticando, tenendo lo sguardo basso. - Che ne diresti di
raccontarmi tutto dall’inizio? - Non voglio
coinvolgerti. - Sono già
coinvolto. –
constatò pacato. Oscar
allora gli riassunse tutto: l’amicizia con Robespierre, la
collaborazione con Bernard, il suo progetto di entrare nella cerchia di
Maria Antonietta tramite un matrimonio con il comandante delle Guardie
Reali. E poi l’occasione di rubare la mongolfiera per
chiedere un
riscatto, la sorpresa che gli inglesi portavano avanti un progetto
simile; le carte di D’Eon; il ruolo insospettato di Camelia;
le
trame di Fréville … Omise un solo particolare: la
notte
con Victor. André
restò in silenzio, ostentando una tranquillità
che non
provava, fingendo di non sentirsi un pupazzo senza ruolo in
quell’assurdo spettacolo di marionette. - Credi di poter
tornare a palazzo Jarjayes, a casa?
– chiese. Non la voleva
lì! Ella depose il piatto
in grembo, mentre una lacrima scendeva e cadeva nella porcellana. - Sei tu la sola casa
che ho … - mormorò. Si guardarono negli
occhi. Capì che
non era stato lui il primo porto ove lei aveva tentato
l’approdo e che il soccorso le era stato rifiutato. - Devi lasciare
Parigi, non hai altre possibilità.
– disse André. – Ci hai pensato? - Sì,
Camelia potrebbe aiutarmi … - La marchesa deve
pensare a sé stessa e lo
farà,
come lo ha fatto Robespierre. Sei sacrificabile. - No, lei ha obiettivi
diversi... - mormorò
ricordando come aveva difeso il primo marito. - Non farti troppe
illusioni. Comunque, domani
cercherò un
modo per farti allontanare. Ora possiamo solo riposare. Si diresse verso il
letto e si infilò sotto le coperte. Oscar lo
seguì e fece altrettanto. - Spegni la candela
quando ti sei sistemata. – disse
freddamente, voltandole le spalle. Non poteva
aspettarsi altro, si disse Oscar soffiando sullo stoppino e
coricandosi. Era già tanto che le rivolgesse ancora la
parola. E poi …
Lui sapeva. La sua piccola omissione. Non c’erano dubbi. Forse taceva
perché aspettava da lei una richiesta di perdono. Forse taceva
perché la stava già perdonando. Ma Oscar non poteva
permettere che si addormentasse senza domandarglielo.
- André, io
… mi sono fidanzata con
Victor per i
motivi sbagliati e sono stata con Victor, sempre per motivi sbagliati.
Ed ho fatto tutto questo anche se sapevo chiaramente che mi volevi
molto bene, che mi amavi. E’ mai possibile che tu possa
amarmi
ancora? Per qualche
istante si udì solo lo scroscio della pioggia, poi un tuono
sordo. Infine arrivò il suo sospiro, rassegnato. - Sempre. Io ti amo da
sempre. Si voltarono in
contemporanea e lei si rifugiò nel suo abbraccio. - Anch’io ti
amo, André! Ti amo davvero
… - pianse. - Vedrai, ora nulla
potrà più dividerci.
–
disse lui scompigliandole i capelli, stringendola forte; tutto quanto
già dimenticato, il debito azzerato, perché
sarebbe stato
inutile combattere un sentimento che lì era e lì
restava.
– Domani troveremo un modo per andarcene da qui. Ed io
verrò con te.
Dal centro della
strada deserta, un uomo era rimasto a guardare la luce spegnersi. Strinse la
mano sull’elsa della spada, come sempre faceva quando si
sentiva
nervoso e combattuto. I bei capelli biondi resi piatti e scuri dalla
pioggia; gli occhi sottili per la rabbia, per il dolore. La donna che aveva
scelto di sposare … Il suo migliore amico
… Insieme. Inequivocabile. Eppure non riusciva a
credere all’evidenza.
Chinò il
capo. Aveva bisogno di
riflettere. Del tempo
concessogli dal sovrano restava ancora più di un giorno e
lui
ormai aveva tutto quanto gli sarebbe servito per soddisfare la
richiesta. Sapeva tutto o quasi. Poteva dedurre
ciò che non conosceva. Poteva però
fidarsi delle deduzioni di un’anima che si sentiva tradita su
ogni fronte? Di certo sapeva di
esser stato raggirato da tutti coloro che aveva amato.
Poco, tanto … Non gli interessava in quel momento. Pensare. Doveva pensare.
Perché in quel momento il frastuono del sangue che
ribolliva,
del cuore che martellava, metteva sotto silenzio la ragione. Si avviò ed
incrociò un uomo che si allontanava a passo svelto
dall’angolo della villa. Anche lui stava
guardando la finestra la cui luce era appena stata spenta? Per un istante
pensò fosse André, vista la somiglianza. Per un istante, si
illuse che non fosse André quello che dormiva con la sua
promessa sposa nel letto. Ma per Victor De
Girodelle era finito il tempo delle illusioni. Sarebbe tornato a
Versailles. Avrebbe avuto tutta la
notte per decidere cosa fare. O cosa non fare.
7 settembre 1784 Il momento che precede
l’alba è il più silenzioso. Quando la
notte è davvero fonda e perdura da tanto che non si spera
più che il sole possa sorgere. E’anche il
momento perfetto per gli agguati. Ombre si muovevano
furtive intorno a palazzo Plessis Bellière. Ombre si
muovevano caute all’interno, sulla scala, nel corridoio,
davanti alla camera che era stata chiusa a lungo. Le assi che dovevano
scricchiolare non lo fecero. La maniglia che
avrebbe potuto cigolare, non lo fece. Ciò che
avrebbe potuto andare bene, andò storto. Nemmeno Oscar, dal
sonno sempre leggero, ancora stretta ad André, finalmente
serena, si avvide del pericolo se non quando una guardia reale
l’afferrò brutalmente per i capelli e la
strappò via da lui. In un istante fu il
caos. Ella non
poté evitare di cacciare un urlo, tentando di afferrare il
soldato che la stava trascinando via, facendola cadere dal letto,
sbattendola brutalmente sul pavimento, immobilizzandola a terra.
André saltò sul letto, ma il calcio di un fucile
lo colpì in pieno alla spalla. Ed anche lui urlò
accasciandosi per il dolore, urlò il nome di lei. -
Oscar! Lasciatela! – gridò mentre altri
gendarmi lo trattenevano. -
André! No! Lui non c’entra! –
fu il primo pensiero di lei, mentre veniva sollevata di peso da terra.
Inutile era il suo scalciare, inutile la sua furia. La trascinarono fuori
dalla stanza, tirandola per le braccia quando puntava i piedi a terra,
tirandola per la vita quando si gettava sul pavimento, opponendo
resistenza col proprio peso, e la spintonarono per farle perdere
equilibrio, bloccando ogni suo tentativo disperato di rialzarsi, di
liberarsi, di andare da lui. La condussero in malo
modo giù dalle scale, facendola cadere, obbligandola a
rialzarsi, spingendola violentemente contro lo stipite
dell’uscio aperto e poi fuori, fino nella strada dove
Bouillè in persona li attendeva a cavallo con altre guardie. -
Oscar Françoise De Jarjayes, in nome di Sua
Maestà, il re, vi dichiaro in arresto per
l’omicidio del marchese di Fréville e per
attività sovversiva. Portatela via! –
terminò mentre un soldato le legava le mani dietro la
schiena ed un altro la imbavagliava affinché non potesse
replicare. -
No! Fermi! Fermi! – gridò
André che si era fatto strada fino al cordone di soldati che
proteggeva il generale e al tempo stesso lo separava da Oscar.
– Non è possibile! Lei … Lei era con
me! – mentì. -
Plessis Bellière … Vi informo che la
vostra posizione è spaventosamente in bilico per aver dato
asilo ad una assassina e rivoltosa. Non tirate la corda! – lo
mise sull’avviso il generale. -
Quali prove avete per queste accuse? –
tentò André, fingendo di non aver recepito la
minaccia insita in quell’avvertimento. -
Le guardie di Fréville la riconosceranno come
colei che è fuggita dalla residenza e, poiché ci
tenete tanto ad atteggiarvi a suo difensore, aggiungo che un suddito
fedele ci ha informati di dove si trovava. Cercate di non indurmi a
dubitare della vostra fedeltà al re, barone! André non
poté far altro che obbligarsi al silenzio per non peggiorare
quanto di peggiore stava già accadendo. A stento
si trattenne dall’intervenire mentre i soldati la issavano su
un cavallo perché impossibilitata a farlo da sé,
lì, scalza, seminuda, con addosso la sola camicia di lui. Lo sguardo di Oscar
non gli rimproverava nulla per quel silenzio; anzi, solo dispiacere
poteva leggerle negli occhi, per come finivano le cose tra loro, per il
fatto che lui ci fosse andato di mezzo. Eppure
André era incapace di darsi pace a quell’immagine
di lei, maltrattata, umiliata, forzatamente inerme. Doveva fare qualcosa
per aiutarla.
***
Il silenzio era
assoluto come solo in una chiesa gelida e deserta poteva essere. La
pallida luce del primo mattino filtrava dalle imponenti vetrate della
cappella principale di Versailles, ma non portava il minimo calore. Victor stava immobile,
sdraiato prono sul marmo freddo con la speranza che quel freddo potesse
gelargli il cuore, che potesse intorpidirlo come le sue membra
addormentate che non riuscivano quasi più a muoversi. “Gelami il cuore, Dio,
affinché non soffra più”,
pregava. Era lì da
ore, da quasi tutta la notte, solo, nel silenzio, ma con quel rumore a
tormentarlo nella testa: frasi, ordini, pensieri. Le accuse di
Bouillè, il suo disprezzo, la vergogna, la rabbia. Cos’era
accaduto? Come poteva essere accaduto? Tornò con
la mente al pomeriggio precedente. Camelia gli aveva
fornito alcune ipotesi su dove supponeva potesse trovarsi Oscar: al
caffè del Palais dove si incontrava con Robespierre, qualche
altro ritrovo di persone non gradite alla monarchia, e poi quel nome,
“dal suo André”, aveva detto Camelia; a
quel punto, Victor non aveva avuto bisogno di sentire altro. Dopo la
sorpresa, incredibile e spiacevole, arrivò la certezza di
comprendere finalmente. E sentiva che sarebbe stato inutile cercare
Oscar altrove: sapeva che l’avrebbe trovata da lui. Era una
convinzione che gli veniva da dentro. Si era recato
là, a villa Plessis Bellière; li aveva visti
entrare e come in trance era rimasto sotto la pioggia ad aspettare una
soluzione, consapevole che non sarebbe arrivata dal cielo, ma incapace
di prendere una qualsiasi decisione. Il danno era fatto.
Irreparabile, con tutte le sue conseguenze. Forse nessuno era
realmente colpevole in quella storia, ma certamente, nessuno era
totalmente innocente.
La luce che si era
spenta a quella finestra, era stata come uno scossone, come un brusco
risveglio; era quindi tornato a Versailles, mestamente, dove
Bouillè lo aveva accolto nel modo peggiore. Neppure il tempo
di tentare di scansare il confronto; di esitare una replica, confondere
una versione, di ragionare su soluzioni: qualcuno aveva parlato, gli
dissero, fatto il nome di Oscar, fatto il nome di chi la ospitava. Il cerchio si era
stretto attorno a Victor: la sua fidanzata, il suo migliore amico. Possibile che egli non
sapesse? Possibile che non fosse coinvolto? Non aveva saputo
rispondere. Non aveva risposte. Se non che aveva
fallito. Come uomo, come
ufficiale. Poteva reggere la
responsabilità affidatagli? Poteva salvaguardare la famiglia
reale quando non aveva avuto il minimo sentore degli intrighi che
accadevano sotto il suo naso? In coscienza, aveva
dovuto rispondere di no. Non sapeva spiegarsi questa sua imperdonabile
cecità. Era il primo ad accusarsi per tutto quanto. E l’accusa
era stata pronunciata: venne posto in stato di fermo nei suoi
appartamenti fino a quando Sua Maestà avesse deciso la sua
punizione e poi, quasi certamente, sarebbe stato trasferito alla
prigione militare dell’Abbazia.
Umiliato, sotto scorta
dei suoi stessi soldati, era poi finito lì,
l’ultimo rifugio, cosa che gli era stata concessa. Quando gli esseri
umani non hanno più appigli, si appellano a Lui, anche se
quotidianamente lo ignorano. Victor era stato
compassionevolmente lasciato solo, a pregare. Inizialmente,
lì, nel buio e nel silenzio della cappella, era stato ritto
in piedi, come un pari. Poi si era abbassato
in ginocchio, come un servo. Infine, sempre
più consapevole della immensa gravità della sua
situazione, si era prostrato a terra, come un disperato colpevole. Ed
aveva atteso. “Ci sei Dio? So che ci
sei. Ma allora parlami, dimmi, perché? Che dovevo fare?
Condannare la donna che amo? Condannare quella che avrei amato? E
perché lui, Dio: mio fratello … Come posso
condannare loro per la richiesta di un re? …”,
aveva pregato. Sapeva che avrebbe
dovuto pentirsi per quell’ultimo pensiero, che già
quello rappresentava un tradimento; ma non poteva mentire a
sé stesso. Non poteva ripetersi fandonie cui non credeva
più da molto. Dogmi imposti dalla monarchia, che era stato
educato a rispettare ma nei quali mai aveva riposto fede. Guardò le
iniziali di San Luigi nel mosaico di marmo del pavimento proprio sotto
la sua fronte. “Luigi
… Luigi Augusto, non sei Dio.” Sentì un
rumore di passi, l’eco di stivali che percorrevano la navata.
Un suono lento, ma regolare. Due piedi si fermarono
accanto a lui. Volse appena lo sguardo sul marmo freddo. -
Così sei qui, André? –
mormorò. Si alzò da
terra e restò in ginocchio, seduto sui talloni, lo sguardo
rivolto all’altare dove l’immagine del figlio di
Dio caduto in disgrazia veniva calato dalla croce da mani pietose
– Suppongo che i miei uomini ti abbiano fatto visita,
André … -
Sono qui per supplicarti, Victor: lei … -
esordì l’amico - Lo sai, lei non merita questo.
Non per uno come Fréville … - Tu
supplichi me, André? Supplica lui! –
esclamò stancamente, indicando il Cristo deposto, pronto a
risorgere – E’ lui l’onnipotente. Io
nulla posso. -
Puoi intercedere per lei, chiedere clemenza! Sei il
comandante della Guardia Reale, sei rispettato .. -
Io sono cosa??? – Si alzò ringhiando, in
un repentino cambiamento d’umore. – Vedi forse
onorificenze su questo petto? – domandò
afferrandosi i lembi dell’uniforme slacciata - Vedi forse
gradi, André? Vedi forse il segno esteriore di tutto quanto
per me aveva valore? Ciò per cui io,
l’ultimo dei Girodelle, ho lavorato ogni giorno della mia
esistenza? André
restò perplesso osservando l’uniforme nuda, dalla
quale Bouillè in persona aveva strappato i segni del comando. -
Aiutarti??? – Victor rise amaramente per la propria
caduta in disgrazia - Come potrei? Non ci sono più i simboli
del comando su questa uniforme! Mi sono stati tolti, così
come la mia autorità. Sono sotto inchiesta perché
la mia fidanzata, che sarebbe entrata nella cerchia più
ristretta dei cortigiani, si è rivelata una ribelle, oltre
che un’assassina. E non posso fare nulla per frenare questa
indagine. Non posso aiutare lei più di quanto possa aiutare
me stesso! In questo momento incaricati del re stanno mettendo a
soqquadro anche palazzo Jarjayes e lo stesso generale sta subendo
questa infamia senza poter alzare lo sguardo. Tutti hanno ingannato
tutti! Mi accusi di essere un delatore, anche se non a parole, te lo
leggo in volto, e vieni a chiedere a me di aiutarla? Come non mi
conosci, amico mio … - mormorò arreso. -
Ma … -
No, non sono stato io a denunciare Oscar! – lo
interruppe - Non sono stato io a mandare le guardie reali a casa tua.
Qualcuno ha risolto il mio dilemma e ha deciso per me. Mi è
stato riferito che un servo devoto di Sua Maestà, ha
comunicato anonimamente dove si trovava l’assassina di
Fréville. Dal suo amante! Lo sguardo iroso
completò il pensiero. -
Anch’io ero all’oscuro Victor.
– si giustificò André. -
Ti sei divertito al mio fidanzamento?? -
Non sapevo nulla, posso giurartelo! -
Giura … giura … Ma poi? Poi sapevi ed
hai taciuto! -
Che potevo dirti, Victor?! -
Potevi essere onesto! O la nostra amicizia valeva
così poco? “Valeva?
Passato, André …” -
Non sapevo .. Cosa … Come .. -
La verità! André, la verità! -
E tu l’avresti ascoltata la verità?
– si irritò André che sentiva il tempo
prezioso scorrere veloce e vano, come sabbia in una clessidra troppo
piccola. -
Non lo saprai mai. Si chinò a
raccogliere il proprio fioretto abbandonato sul pavimento. -
Hai tradito la mia fiducia col tuo silenzio, e hai tradito la
mia amicizia … Io, … l’avrei amata!
Totalmente, per tutta la vita! – gridò disperato. -
Io l’amo. - mormorò André
spalancando le braccia come in un gesto di resa, con tutta la
semplicità della verità, non potendo negare le
accuse di Victor e rendendosi conto che le speranze di salvarla si
affievolivano sempre più. La sua espressione era
così disperata e sincera che Girodelle esitò, ma
… -
Sei niente altro che un essere ignobile. Battiti! La ragione gli diceva
che non pensava davvero questo di André, ma quel cuore
spezzato faceva troppo male. L’amico in
uniforme blu continuava a tenere il capo chino. Victor si
avvicinò e lo spintonò, una volta, due volte. Lo
fece barcollare. -
Usciamo di qui e battiti se sei un uomo! Battiti per il tuo
onore, se ne hai! O sennò, battiti per la tua vita,
perché non ti lascerò andare comunque! -
Non voglio! -
Non vuoi? – ripeté caustico - Pensi che
ogni mattina mi alzo e faccio solo ciò che voglio? Mi vedi
come un giullare idiota in questo spettacolo osceno? E’
questo che pensi sia un nobile? Un nobile, un vero nobile, ha regole di
condotta, ha doveri da adempiere, obblighi ai quali non può
sottrarsi! Un passato da ricordare, un futuro da costruire! Essere
nobile non significa vivere a Versailles, agghindarsi, mascherarsi e
fare solo ciò che si vuole. Tu hai pensato questo di me? -
No, mai. Lo spinse fuori della
cappella, mandandolo a sbattere contro le colonne dell’atrio. -
Battiti! -
Victor … -
Battiti!!! – gridò sferzando
l’aria con la lama, mandandola a colpire una delle colonne. Lo guardò,
ansimante di rabbia. -
Prometto! … - sussurrò a sé
stesso. Brandì un
altro colpo contro la colonna. Piccolissime schegge di pietra
saettarono tutto attorno, accompagnate dalle scintille del ferro. -
… di essere buono! – esclamò. Victor
Clément. Vittoria e clemenza. Un nome che era stato un
impegno. -
… di essere giusto e generoso! –
sferrò un altro colpo sulla colonna successiva, mentre
André cominciava ad arretrare. Prometto di essere
buono. Il giuramento del bimbo. Prometto di riuscire
nello studio, nel lavoro. Quello del ragazzo. Prometto di non alzare
la mia spada sul debole, di essere giusto e generoso.
L’impegno dell’uomo. Correttezza,
fedeltà, nobiltà. … Ora solo
parole vuote che riecheggiavano nel nulla di quel luogo. -
Victor … Non voglio battermi contro di te! -
ribadì André cercando di mantenersi il
più determinato e calmo possibile. Ma Girodelle non
pareva di quell’avviso. -
La tua volontà non è vincolante,
André. – sibilò. E suo malgrado,
André si trovò costretto a parare. Un colpo dopo
l’altro: assalto, difesa, assalto, difesa e si ritrovarono
nella piazza d’armi, attirando lo sguardo di tutti coloro
già al lavoro e di alcune guardie che erano rimaste di
piantone ad attendere Girodelle. Nella testa di Victor
il rumore era ripreso. Pressante, assordante, incalzante.
Pensava che avrebbero
indagato ancora, fatto pressione su di lui, sarebbe saltato fuori il
ruolo di Camelia che al momento era la sola non sotto indagine. Certi rappresentanti
di sua Maestà sapevano come far affiorare la
verità, specialmente la verità che faceva loro
più comodo. Avrebbe resistito qualche giorno, ma poi avrebbe
ceduto ai pestaggi, alla tortura. Era combattuto per
Camelia: “l’odio e l’amo”. Era combattuto per
Oscar: “le avrei dato tutto ma per lei ero niente.” Non era combattuto per
André, il suo migliore amico, finalmente, sinceramente,
totalmente innamorato di una donna, ma avrebbe tanto voluto che non
fosse stato zitto quella sera in campagna. E ci fu un attimo di
esitazione in lui. Un attimo fatale. André,
allenato da tutti i combattimenti con Oscar, reagì
istintivamente all’ultima mossa e disgraziatamente Victor non
parò il colpo. Avvenne tutto in una frazione di istante e
André sentì sé stesso disperarsi ed
urlare il proprio dolore ancor prima che la lama affondasse
completamente nel fianco dell’amico. -
Nooooo!!! Victor si
accasciò, trapassato da parte a parte dalla lama che veloce
era affondata e subito era stata ritratta dalle sue carni. André
lanciò il fioretto e sostenne il corpo dell’amico,
che rovinava al suolo. Accorsero guardie.
Alcune strapparono via André, altre presero Victor. Vennero separati e
nessuno dei due vide più l’altro.
***
Si guardava attorno,
passeggiando piano nell’umida cella nella quale, in tempi
più agitati, i prigionieri venivano stipati a decine. Ora
era sola e sola sperava di rimanere: l’ultima cosa che
desiderava era trovarsi in compagnia di qualche vero criminale in un
posto come quello. Vero criminale? Sospirò:
lei era un criminale! E non doveva farsi illusioni sulla
possibilità di uscire viva da lì. Si coprì
gli occhi con le mani, mugolando quello che doveva essere un grido
trattenuto di impotenza. E nella memoria, vide
lui. Lo sguardo inerme di
André le era rimasto impresso nella mente e poteva solo
sperare che non facesse qualche colpo di testa per tentare di salvarla,
che la lasciasse perdere. Si augurava che agisse per il proprio bene,
dimenticandola, andando oltre. Era così
facile cadere in disgrazia nella Francia dei Borbone... L’avevano
trascinata lì in camicia da notte, le avevano lanciato un
paio di brache da indossare affinché non si presentasse in
maniera indecorosa davanti al giudice, come se la sua nudità
potesse aggravare i suoi reati, come se l’oltraggio fosse
quello e non la farsa di un processo dall’esito scontato. In quel mentre,
udì un clangore di metallo, chiavi che picchiavano contro le
sbarre, che venivano girate in una serratura antica. E poi passi sulla
pietra. Pensò che
fossero venuti a prenderla per condurla al tribunale. Pensò anche
che fosse ancora troppo presto per un tribunale. Non capiva che ora
fosse, visto che non vi erano finestre dalle quali poter vedere il
cielo, ma non doveva essere mattina inoltrata. Non ancora. Quando il nuovo
arrivato venne illuminato dall’unica torcia appesa nel
corridoio, si sentì gelare. Non si aspettava una sua visita. -
Padre? Jarjayes fece un cenno
alla guardia, che contrariamente al regolamento li lasciò
soli. Segno che forse il nome di quel casato valeva ancora o che forse
valevano i denari coi quali Jarjayes lo aveva convinto. -
Sì, Oscar, tuo padre. Dimmi, quanto
c’è di vero nelle accuse? – disse
avvicinandosi alla grata che li separava con quell’incidere
autoritario che lo distingueva. Oscar
arretrò di un passo. Forse l’inconscio terrore
collegato ai ricordi di quando da piccola si era trovata in colpa verso
il genitore, forse il ricordo delle punizioni, forse anni di timore
inculcatole. Anche quando non aveva torti, Oscar si era sempre sentita
colpevole dinnanzi a lui. -
Suppongo ci sia tutto di vero. Forse meno che nella
realtà. – lo sfidò con un sorriso
sfrontato. -
Non è il caso di mostrarsi arrogante, Oscar. La
situazione è seria: sei accusata di tradimento! -
Niente altro? – obiettò fingendosi
delusa. -
Oscar, sappi che sei sempre mia figlia –
mormorò Jarjayes stranamente comprensivo e
quell’atteggiamento la spiazzò. – Ho
sbagliato, ti ho allevata come un maschio per soddisfare un mio assurdo
capriccio. Ti ho privata di tutto ciò che rende felici le
altre donne, ho scatenato la tua rabbia, ti ho indotta ad odiarmi. Ma
Oscar, non è troppo tardi per rimediare. Confessa
i tuoi errori, chiedi la clemenza di Sua Maestà! Il nostro
re sa essere magnanimo, Oscar. Non gettare la tua vita! Non
è troppo tardi, pensaci: un matrimonio, una vita tranquilla,
dei figli … E’ ancora possibile! E se non ti piace
Girodelle, troveremo qualcun altro... Ella
scoppiò a ridere. -
Padre, sapete benissimo che quando in una famiglia nobile
c’è un traditore, la sola soluzione è
la morte! Non condannerò i miei
“complici”, come sono stati chiamati con disprezzo.
La responsabilità di quanto accaduto è mia e mia
soltanto. Ma state tranquillo: morirò chiedendo perdono a
Dio e senza maledirvi. Anzi, suppongo che dovrei ringraziarvi!
– esclamò e, sorprese sé stessa,
perché ne era davvero convinta - Allevandomi come avete
fatto, mi sono state permesse cose che le altre donne neppure sognano.
Ed una volta assaporata la libertà, non se ne può
più fare a meno. Io lo so e molti francesi lo stanno
scoprendo; è solo questione di tempo perché tutto
il mondo che conoscete crolli come un castello di carte. E per quanto
riguarda l’amore … - esitò solo un
istante, in imbarazzo perché non credeva si sarebbe trovata
un giorno ad affrontare un simile argomento col generale - …
allevarmi come un maschio non mi ha certo impedito di innamorarmi di un
uomo. Jarjayes
esitò un attimo per quell’ultima confessione, ma
non chiese altro, preferendo tornare a ciò che gli premeva. -
Oscar, fai i nomi di chi proteggi col tuo silenzio!
E’ stato uno di loro a tradirti, non merita la tua
lealtà! L’espressione
di Oscar non nascose sorpresa, né la seguente immediata
delusione intuendo chi potesse essere stato. -
No, io non mi abbasserò al tradimento. Quale
infamia può essere peggiore della delazione? No, posso
essere più “uomo” di lui, del Cavaliere
Nero, superiore alle sue invidie, alla sua piccolezza. Non
tradirò la bontà di un ideale solo per la
miserabilità di un piccolo uomo convinto che tutti i nobili
siano uguali, privi di volontà e spina dorsale. Ha
sicuramente pensato che volessi tradirlo, io, che … andavo a
letto col nemico … - ridacchiò. -
Te lo chiedo ancora una volta, figlia: pensaci. Quando ti
porteranno davanti al giudice, salva la tua vita! Pensa al dolore che
la tua morte recherebbe a tua madre! Pensa al dolore per le tue sorelle! -
Veramente, temo che il dolore più grande, madame e
le sue figlie lo provino per la vergogna di avermi in famiglia
… - mormorò memore di una infanzia in solitudine
– Dovrei supplicare, prostrami, passare il resto della mia
vita in ginocchio? No, non avrebbe senso. Non ho intenzione di cambiare
idea, no, padre, non lo farò. -
La vita è un dono: non sprecarla, Oscar! -
La vita è una partita con la dea fortuna e
l’accetto come viene, padre. Quando non hai niente, non hai
niente da perdere. – concluse amara. (*) -
Puoi mentire a me, ma non mentire a te stessa, figlia mia.
– Terminò l’uomo, e si volse,
nascondendo il tremito nella voce. – Voglio sperare che
cambierai idea, per questo non ti dico addio. Si avviò al
cancello che una guardia gli stava già aprendo. -
Perdonate! … - mormorò improvvisamente
Oscar – Perdonate se vi ho dato solo dispiaceri. –
si trovò a dirgli suo malgrado, come addio. Jarjayes
esitò, ma non si volse: avrebbe voluto dirle che non poteva
perdonarla: arrendersi alla fine ingloriosa non era comprensibile per
lui. Ma non lo fece. E se ne andò consapevole che ormai
anche la sua vita finiva lì con lei, perché
nonostante tutto, l’aveva amata davvero e l’aveva
già persa il giorno in cui non aveva rispettato la sua
scelta.
***
André era
stato posto in stato di fermo in una stanza sorvegliato da due guardie
reali intenzionate ad esser per nulla gentili con il feritore del loro
comandante, ma fino a quel momento si erano limitati a guardarlo con
aria minacciosa. Bouillè si
affacciò. -
Come sta lui? – si premurò
André, scattando in piedi. -
Barone di Plessis Bellière, –
esordì quello gelidamente, ignorando la domanda –
siete in arresto per ordine di Sua maestà.
L’accusa è di complotto ai danni del sovrano e
della Francia, nonché di tentato omicidio nella persona del
conte Victor Clement de Girodelle. Accusa che rimarrà tale
per poco prima di diventare omicidio, viste le sue condizioni disperate
… - -
E’ stato un incidente, non volevo… Non
voleva … -
Non tentate di discolparvi! I fatti parlano chiaro. Il
rapporto intrattenuto con la spia è confermato dalla
servitù dei Jarjayes e per quanto riguarda il vostro amico
… è incosciente, non potrebbe difendervi neppure
volendo, cosa di cui dubito. Sappiate inoltre che i medici si sono
espressi negativamente sul suo stato: Girodelle sta morendo e voi, per
me, siete già il suo assassino. Portatelo via! -
Dove mi state portando? -
Andrete a tener compagnia alla vostra amante alla Bastiglia.
Un gesto di compassione prima della inevitabile condanna per entrambi,
Plessis Bellière!
***
Aveva temuto di poter
crollare. Sotto
l’esame di un giudice, di una commissione. Sguardi di
disprezzo oltre che di condanna. Per un istante,
l’istinto le aveva strillato nella testa: “Salvati!
Pensa a te stessa”. Ma poi la paura era
passata. Vedersi con gli occhi dei suoi carnefici, vedersi con il loro
disgusto, l’aveva portata a ritrovare tutta
l’energia, tutte le motivazioni che l’avevano
condotta a saltare la barricata. Non era vero che non
aveva nulla e nulla da perdere: aveva André e lui era tutto.
Ma poteva solo pensare che sarebbe stato meglio senza di lei, che non
attirava altro che guai. Sarebbe morta, portando con sé
tutto quanto di negativo si trovava addosso e lui l’avrebbe
dimenticata. Sarebbe tornato a vivere. Il giudice aveva
ritenuto oltraggiosa la sua reticenza e l’aveva condannata
alla fustigazione per questa alterigia e alla morte per
l’omicidio di Fréville e per il tradimento nei
confronti della corona. Aveva temuto ancora di
cedere sotto i colpi di frusta. Pochi, ma dolorosi. Invece aveva
superato anche quello. Ora la stavano
riportando in cella e all’alba dell’indomani
sarebbe finito tutto. E fu invece tra quelle
mura che venne invasa dal terrore. Perché ci
trovò lui. Le guardie la
gettarono dentro, spingendola a terra, senza scrupoli o riguardi. -
André? Ma come … Perché?
… - riuscì solo a balbettare quando lui si
avvicinò per sollevarla. Un ufficiale irruppe
nel corridoio antistante la loro cella, svolse un documento che
stringeva tra le mani e con voce tonante iniziò a leggere la
sentenza. -
Oscar Françoise De Jarjayes e André
Grandier De Plessis Bellière! In nome di Sua
Maestà vi comunico che siete stati condannati per omicidio e
tradimento. La pena è la morte che avverrà
mediante impiccagione domattina all’alba. Picchiò i
tacchi e ripiegando il foglio se ne andò. Oscar venne presa da
brividi. -
No … André
cercava di sollevarla da terra, impietrito davanti alla camicia
lacerata sul di lei dorso che lasciava ben vedere la pelle scorticata e
in alcuni punti sanguinante. -
Oscar … -
No … Tu non dovresti essere qui!
Perché? – con uno scatto cercò di
alzarsi – Guardia! Guardia! –
d’improvviso sentiva la necessità di confessare:
avrebbe scambiato la vita del mondo intero con quella di
André. Egli la
zittì e la strinse. Sapeva bene che nulla avrebbe potuto
cambiare la sentenza, ormai. Sussurrò
parole incomprensibili per quietarla, la guidò a terra, fra
le sue braccia, cullandola in carezze, adagiandola fra le sue gambe,
con la giacca blu a coprirle la schiena nuda e ferita. Le
spiegò quindi del duello con Victor e lei non
riuscì a proferir parola in merito, perché anche
quella disgrazia era colpa sua. -
Non doveva andare così tra noi … -
mormorò lei tra le lacrime. -
Shss … - la zittì carezzandole le
labbra. -
No, è la verità.
C’è qualcosa di ingiusto, André.
Saresti dovuto comparire sul mio cammino molto tempo prima. Se avessi
avuto te al mio fianco, non saremmo qui ora. Noi avremmo dovuto stare
sempre insieme, fin da piccoli. Vivere una vita intensa, travolgente. E
alla fine morire insieme, perché solo con te sento di vivere. -
E allora sarà così: tutti e due vivi o
tutti e due morti. Oscar, con un
singhiozzo, allungò la mano sulle sue labbra, come
già aveva fatto lui. -
Non dire così. Saperti qui per colpa mia
… -
Dove altro dovrei essere se non accanto a te? Si strinse a lui,
piangendo silenziosa. Forse era così, forse era il destino e
non gravava tutto sulla sua coscienza. Forse André sapeva
mentire bene per farla sentire meglio. In ogni caso, nulla
potevano più fare.
Oscar era pian piano
scivolata in un sonno agitato, più simile ad uno stato di
semi-incoscienza. Parlottava e piangeva, respirava male, stringeva la
camicia di lui, la lasciava, la stringeva ancora. André le
toccò la fronte: febbre. Forse per il freddo e la pioggia
del giorno prima, forse per le frustate, anche se le lesioni non
parevano infette. Le carezzò il capo, la guancia accaldata. Ma in fondo, che
importava: dovevano comunque morire … Anzi,
l’avrebbe preferita incosciente, inconsapevole. Non
sopportava di vederla soffrire.
Udì un
vocione al di là della porta, un vocione conosciuto, sempre
più nitido man mano che si avvicinava al cancello in ferro
dell’ala dove erano ospitati. -
Grazie, amico! Allora giovedì ci vediamo alla
locanda per due boccali in compagnia! Davvero, mi fa molto piacere che
tua sorella si sia sposata! -
Hai cinque minuti, Alain, non uno di più
– rispose quello con aria severa. Alain restò
buono e sorridente finché il carceriere non richiuse il
cancello e si allontanò, quindi si avvicinò
veloce alla cella. André fece
scivolare con cautela Oscar sulla paglia, si alzò e si
avvicinò all’inferriata. -
Alain, che ci fai qui? Il colorito
dell’amico non era dei migliori e la baldanza ostentata
parlando col carceriere era completamente svanita. -
Come sarebbe “che ci fai qui?”
– esclamò – Tu, che ci fai qui!? Sono
venuti in caserma, hanno perquisito il tuo ufficio; D’Agout
ha chiesto spiegazioni e gli hanno detto di Girodelle, che è
morente. André
chinò il capo. -
Non hai colpa: è andata così. Poteva
accadere a te. E poi Girodelle è
“morente”, non morto: non è colpa tua se
riccioli d’oro è delicato! André lo
guardò di sbieco, sorridendo appena per il tentativo
maldestro di fare umorismo. -
Ho ingannato un amico. Il mio silenzio ha peggiorato le cose.
E’ colpa mia. Ma come hai fatto ad entrare? -
Sono uscito un paio di volte con la sorella del tizio qua
fuori. Gli ho detto chiaramente che tu ed io traffichiamo con le
derrate del reggimento e non so dove nascondi la mercanzia, quindi
dovevo parlarti. Gli ho promesso una parte e non ha fatto storie
… Sai, un bellimbusto imbranato gli ha messo incinta la
sorella e lui deve mantenerli tutti. -
Finirai nei guai! -
I tuoi sono più urgenti. Ho parlato coi ragazzi e
sono d’accordo: troveremo un modo per farti uscire! -
Alain, no. Ho vissuto fregandomene di tutto, mi sentivo un
re, amavo e lasciavo. Aveva ragione Marie: la vita è
qualcosa di più delle notti di Versailles. Ho gettato il mio
tempo quando al mondo c’era lei e dovevo solo cercarla: lei
la mia vita. Ora l’ho trovata, la sto perdendo, nulla avrebbe
più senso senza di lei. Anni fa, ho ricevuto una fortuna e
non l’ho saputa utilizzare. Tu sarai migliore di me, ne farai
buon uso e magari i Blessis Bellière non finiranno con te. Alain
sgranò gli occhi, preoccupato. -
Che intendi dire? -
Ho monetizzato quel che ho potuto: tutti i documenti
necessari al passaggio delle proprietà e del titolo sono in
una cartella di cuoio nello studio, in casa. Vacci prima che le guardie
saccheggino la villa e mi privino di questo mio diritto. Da oggi sei
legalmente il nuovo Barone di Plessis Bellière. Lo sguardo di Alain si
incupì ed il volto cominciò ad assomigliare ad un
vulcano sul punto di eruttare. -
Ti-sei-bevuto-il-cervello?! – tuonò
– Io non ti permetto di farti ammazzare e compiere pure un
grande gesto! Ti ho perdonato l’amicizia col damerino,
André! Ti ho anche compreso quando ti sei perso dietro alla
bionda che, te lo concedo, ha un arsenale di tutto rispetto, ma fare di
me di nuovo un aristocratico, dopo tutto il letame che da anni spando
sulla categoria, no, questo non te lo permetto! -
Non voglio sentire obiezioni: hai una madre ed una sorella
cui pensare. Il mio destino è deciso, il tuo è
ancora da scrivere. Sei stato un amico impareggiabile, Alain. Porta un
saluto ai ragazzi ed un bacio alle signore da parte mia. –
aggiunse tornando a sedersi accanto ad Oscar, mentre Alain, senza
parole, piangeva come un ragazzino messo alle strette da quella scelta
irrevocabile. -
Alain! I cinque minuti sono passati, devi andartene!
– gli intimò il carceriere. Le mani di Alain
ancora strette alle sbarre, scivolarono piano sul ferro. -
Lo sapevo che per lei ti saresti fatto ammazzare. –
mormorò – Stupido romantico … -
borbottò piano allontanandosi, portando la mano al berretto
in un ultimo saluto al capitano. – Sei uno stupido romantico,
André ...
André riprese Oscar tra le braccia e, rassegnato, si
preparò a trascorrere la sua ultima notte.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso, quando il
cancello in ferro si aprì di colpo facendolo sobbalzare.
Entrarono due uomini. Uno prese ad
armeggiare con il mazzo di chiavi per aprire la cella mentre
l’altro immobile, ben piantato sui piedi, li fissava con uno
sguardo gelido, accentuato da due occhi di un azzurro intenso, degni di
un angelo ma con una espressione che mise André in allarme. La serratura
scattò e i visitatori entrarono uno dopo l’altro
nella cella. Non erano ben vestiti,
ma i modi di fare non parevano quelli di due miserabili addetti alla
prigione. Quello dallo sguardo
determinato, portava una giacca posata sulla spalla ed un sacco tra le
mani. I capelli chiari, forse biondi, un po’ più
scuri, sciolti, gli incorniciavano il volto, toccando appena le spalle,
e contribuivano a rendere più penetrante lo sguardo fisso su
André, come a volerlo sfidare. -
Spogliala! – ordinò
all’improvviso al compare – E facciamo in fretta! André la
strinse più a sé, terrorizzato, immaginando che
il peggio, che ancora non le era stato riservato, stesse per accadere. -
Non sprecare energie! Così ci fai solo perdere
tempo e non cambierà ciò che dobbiamo fare.
– disse l’uomo dallo sguardo affilato, sbattendolo
al muro e bloccandolo lì, mentre l’altro gli
portava via Oscar, intontita dalla febbre. Si
immobilizzò, impaurito più per Oscar che per
sé stesso, terrorizzato dalla consapevolezza di non poter
far nulla per fermarli. Tentò
ancora una reazione, ma l’altro lo bloccò
premendogli l’avambraccio sul collo. -
Tanto coraggio … fuori luogo. –
mormorò il carceriere. E la frase sibillina, incomprensibile
portò André a fissare l’uomo negli
occhi in modo interrogativo, mentre questo, con la mano libera,
lanciava il sacco all’altro impegnato a spogliare Oscar, che,
incapace di reagire se non con deboli “no” e
qualche schiaffo privo di forze, dovette lasciar fare.
***
Alla fine era arrivata
l’alba del loro ultimo giorno. 8 settembre 1784. I due carcerieri li
stavano guidando fuori, nel cortile della prigione, dove erano stati
approntati un palco per le autorità e la struttura per
l’esecuzione. Oscar a malapena si
reggeva in piedi. Entrambi avevano le mani legate dietro la schiena.
Indossavano delle giacche informi sulle larghe camicie portate
disordinatamente fuori dei calzoni. Oscar si
poggiò al suo braccio con la fronte. -
Se avessi saputo prima cosa avrei perso … -
mormorò. André
sorrise per quella sua incapacità nel pronunciare due
semplici parole. -
Sì, anch’io ti amo. -
Hai … paura? – mormorò Oscar
mentre anch' egli fissava i due cappi penzolare nel mezzo del cortile
davanti a loro. André
annuì. -
Mi piacerebbe svegliarmi domattina, senza sapere cosa mi
capiterà, chi incontrerò, dove mi
troverò … (*) – cominciò. -
Imparare ad accettare la vita come viene, così
ogni singolo giorno avrebbe il suo valore.(*) –
aggiunse Oscar – André, e … se
invece…? -
Non pensarci. – la interruppe. Sì
voltò e le sorrise mestamente. – Siamo insieme,
Oscar. Mi dispiaccio per tante cose: per il tempo buttato, per il male
causato, ma non per essere con te. Il commissario dal
palco fece un cenno e le guardie li spinsero in avanti. Salirono al patibolo,
uno dopo l’altra, preceduti e seguiti dai loro boia che
infilarono loro i cappi attorno al collo. -
Tutti e due vivi… - sorrise lui guardandola
un’ultima volta. -
… o tutti e due morti - rispose lei. Una lacrima le
solcò la guancia per quel gioco da re, sfuggitole di mano il
giorno stesso in cui si era innamorata, perché non poteva
esserci spazio per l’odio con André nella sua
vita. Si rammaricava di essersene accorta quando oramai era troppo
tardi. I respiri si fecero
più affannosi quando i carnefici si fecero ancora appresso;
nuvolette di vapore per il freddo diventarono più dense
sulle loro labbra. Il boia ed il suo
aiutante infilarono loro i cappucci sul capo e, armeggiando sotto il
bordo di questi, strattonarono la corda per verificarne la
tenuta, per esser certi che fosse ben stretta. Entrambi i condannati si
agitarono, un apparente ultimo istinto di sopravvivenza ben
sapendo quanto fosse inutile, ma i carnefici li costrinsero a calmarsi. Ci fu uno scambio di
sguardi tra il boia dagli occhi azzurri ed il commissario, circondato
da pochi testimoni. Quindi un cenno di assenso. Le leve vennero
tirate, le botole si sganciarono ed i corpi caddero giù,
appesi nel vuoto. Nel silenzio
innaturale, tra quelle fredde mura, un lugubre corvo
gracchiò e si alzò in volo, libero.
Era finita. Tutto aveva trovato il
suo principio e la sua conclusione in poco meno di un’
estate. Poche settimane frenetiche in ascesa e 48 ore in rovinosa
caduta. Era il destino di chi
si atteggia a re: salire fino alla cima e cadere. A volte.
- continua
* frasi
“rubate” a “Titanic”
Nooooooooooooooooooooooooooooooooooo!
:$ Eppure …
sì. O no? Continua?
Sì, continua! Perché
continua? Come continua!? Eppur …
continua: la mongolfiera dovrà pur servire a qualcosa, no? Leggere per credere!
… Il prossimo capitolo
però è davvero l’ultimo :D …
e spero di non metterci un’eternità.
Grazie per la pazienza.
Versailles,
pomeriggio del 10 settembre 1784 nell’appartamento
dei Girodelle
Beatrice non
aveva smesso
di piangere un istante da quando il fratello era stato ferito tre
giorni prima, ma poi, vinta, era crollata tra le braccia di Natalie che
sommessamente recitava incessantemente il rosario. Victoire
uscì mesta
dalla stanza della madre, per la quale il dolore era stato troppo
forte: alla notizia del ferimento del figlio aveva avuto un grave
malore e solo ora, diversi giorni dopo, poteva dirsi fuori pericolo. Sfatta e
pallida,
guardò i familiari raccolti nel salotto inondato dal sole
del
pomeriggio di tarda estate; le sorelle ed il padre e per ultima lei,
Camelia, l’intrusa.
Mentre tutti si erano disperati in quei
giorni nei quali Victor era stato come morto, lei era sempre stata
silenziosamente presente, nonostante nessuno le rivolgesse la parola
oltre il dovuto od il necessario. Camelia,
l’amante tollerata, forse un poco temuta. Se ne era
rimasta in
disparte, lei: discreta, ma vigile, attenta
all’andirivieni
dei medici di corte, attenta alle parole più o meno
sussurrate,
alle espressioni preoccupate. Non aveva mai
oltrepassato
la soglia della stanza dove Victor lottava con la morte, vigilato dalle
sorelle che si davano il cambio senza mai lasciarlo solo. Si era
limitata a guardarlo da lontano, tradendo l’angoscia solo
tramite
le dita intrecciate e nervose. Avvolta nel
suo abito a
lutto, atto dovuto ma non certo sentito, si era assentata soltanto per
presenziare formalmente alle esequie di Fréville. Per tutto
il
resto del tempo, non si era allontanata da quegli appartamenti.
Attendeva
come tutti, un cambiamento. Il fatto che
si trovasse
lì, era già quello uno scandalo, ma a Guillome de
Girodelle questo non interessava. Era bastato uno sguardo scambiato con
quella donna per intendersi: qualunque chiarimento poteva attendere. Si
era limitato ad inclinare il capo di lato e a cederle il passo. Non
accettata, tollerata, significava, ma tutti si sarebbero adeguati alla
decisione del capofamiglia e nessuno l’avrebbe cacciata. Anche Camelia
si era adattata alla loro freddezza. Li comprendeva, ma non aveva
intenzione di vergognarsi di esser lì. L’ultimo
suo
interesse erano i pettegolezzi recitati a mezza voce alle sue spalle,
lì come in tutta Versailles, riguardo la vedova
non
affranta. Lei sopportava tutto stoicamente, forte di conoscersi, forte
di sapersi nel giusto, forte di avere a cuore soltanto lui. Non un capello
fuori posto, non una lacrima, non un qualunque segno di cedimento in
pubblico. Una donna di
ghiaccio, la
giudicava Victoire squadrandola da lontano. Evidentemente il suo povero
fratello aveva un debole per donne di quel genere, ragionò;
ma
non aveva la forza di criticare, nemmeno ci voleva pensare. Importava
solo che lui ce la facesse. E questo accumunava tutti loro. Di
André, dopo tutte
le falsità circolate senza averlo potuto difendere, dopo le
verità venute a galla, nessuno voleva parlare, ma la
sensazione
era di aver perso due fratelli grazie a quella Jarjayes. Victoire si
avvicinò
alla stanza del fratello, dove il padre assisteva il figlio durante
l’ennesima visita di un medico. Nella notte
appena
trascorsa, la febbre aveva toccato il culmine per poi ridiscendere
improvvisamente e stabilizzarsi a valori accettabili, riaccendendo le
loro speranze. Verso
l’alba Victor
aveva aperto gli occhi, chiedendo acqua; solo pochi istanti di
lucidità prima di crollare di nuovo
nell’incoscienza. Ma
il medico lo aveva visitato ancora: la ferita non aveva leso organi e
ciò era già un miracolo; i battiti erano normali,
così pure
il respiro. Stava migliorando. Nel pomeriggio
aveva riaperto gli occhi ed era rimasto cosciente, vigile sebbene
ancora confuso. Il dottore
uscì
dalla stanza, richiudendo la porta dietro a sé, e si rivolse
al
padre che gli si era fatto più vicino insieme a Victoire. -
La
ferita è in buone condizioni. La cicatrizzazione
è
iniziata, non ci sono segni di infezione. E’ ancora molto
debole,
ma il fisico è resistente. Ha perduto molto sangue, ma il
suo
organismo sta recuperando. Potete fargli preparare qualcosa di leggero,
un brodo, tanto per cominciare. La convalescenza sarà lunga,
ma
possiamo ben sperare. Ha detto di non avere appetito, ma credo che il
motivo di questa inappetenza non sia da cercare nella sua salute fisica
quanto in quella spirituale. Ha chiesto di voi e … del suo
amico. – aggiunse mestamente guardando il conte direttamente
negli occhi. Guillome de
Girodelle si
fece forza: doveva raccontare la verità a suo figlio.
Temporeggiare
poteva solo peggiorare la situazione; inoltre, Guillome non era mai
stato abile con le menzogne, neppure quelle dette a fin di bene: si
sarebbe tradito. Strinse fra le
sue la mano che la figlia gli aveva posato sul braccio, preoccupata. - Meglio che
lo sappia da me e che lo sappia subito – le disse. Entrò
nella stanza
in penombra perché persiane e tende erano state riaccostate
per
tener fuori il caldo umido ed opprimente di un qualsiasi pomeriggio a
Versailles, in quel periodo che non era più estate, ma che
non
pareva ancora intenzionato a farsi riconoscere come autunno. Si
avvicinò a Victor, cinereo, esausto, in un bagno di sudore. -
Come
stai, figliolo? – chiese posandogli il palmo sulla fronte.
Gelato
era il suo ragazzo a quel tocco, come se la morte gelida e crudele lo
stesse cingendo ancora a sé e Guillome rabbrividì. -
Sono
stato peggio quella volta a Marsiglia, signore …
–
ironizzò Victor parlando con un fil di voce di quando da
piccolo
era stato male per aver mangiato del pesce poco fresco. Il tocco del
padre scese sulla guancia, scostandogli affettuosamente una ciocca
appiccicosa di capelli umidi. Sorrise al
ricordo dello
scampato pericolo di allora, il primo viaggio fatto col suo
primogenito, una “cosa da uomini”, gli aveva detto. -
Niente più zuppa di pesce … - promise. -
Padre,
dov’è André? … Ho ricordi
confusi, padre, ma
… Non è colpa di André: sono stato io
a sfidarlo,
lui si è solo difeso. E per Oscar …
Fréville se
l’è cercata. Vi prego padre, devo parlare con Sua
Maestà, devo spiegare, devo aiutarlo … devo
aiutarla
… Padre … Guillome de
Girodelle lo
aveva lasciato parlare quel tanto perché si sfogasse, ma
dopo
poche frasi non ce l’aveva più fatta ed aveva
distolto lo
sguardo. -
Figlio mio, la verità è che … -
La … verità? –
balbettò Victor intimorito dal tono. Anche lui,
nelle ultime
parole che gli aveva rivolto, aveva chiesto la verità ad
André, ma in quel momento non era certo di volerla udire da
suo
padre. -
Eri
stato dato per spacciato, ti era anche stata data l’estrema
unzione, figlio mio e Sua Maestà ha voluto impartire una
punizione esemplare, per coloro che tramano contro la corona e per i
nobili che si macchiano del sangue di altri nobili. Mi spiace, ragazzo:
sono stati condannati entrambi e giustiziati all’alba di due
giorni fa. Victor si
lasciò
affondare nei cuscini, portando una mano al centro del petto, dove un
dolore acuto gli fece scordare per una attimo il pulsare della carne
lacerata.
Guillome lo
prese per il
viso e con decisione lo richiamò al dovere, quel dovere che
vieta ad un soldato, ad un uomo, ad un nobile, di mostrare dolore e
debolezza. Una delle tante
maschere degli esseri umani. -
Victor
… Più ci si avvicina al sole di Versailles,
più
è facile restar bruciati. Ci sono i vantaggi, la gloria, ma
il
rischio è alto. E questo è accaduto a te,
figliolo. Sei
salito, sei caduto. Puoi solo prendere le distanze da tutto e sperare
che Versailles dimentichi le tue debolezze: amore ed amicizia. Lo
abbracciò con
affetto, piangendo con lui. Quindi lo lasciò solo con tutte
le
sue ferite per le quali come padre non poteva far nulla.
Nell’anticamera
Camelia parlava con un uomo alto, dai capelli rossi, chiari, quasi
biondi, dagli occhi di un azzurro pallido, fresco, ma con una luce di
determinazione sul fondo; egli si zittì quando il vecchio
conte
Girodelle gli passò accanto. Un affrettato ma composto e
cortese
saluto, scambiato tra loro, ed il riservato e silenzioso gentiluomo
sparì. -
E’ andato tutto nel migliore dei modi. –
riprese
l’uomo parlando inglese - Il mio aiutante è
già
arrivato al punto di incontro ed io lo raggiungerò sulla via
per
Le Havre, quindi prenderemo il mare. La staffetta incaricata di
consegnare i documenti sottratti a Fréville insieme ai
disegni
esecutivi della mongolfiera, ha riportato questi per voi. Le
consegnò una
busta ed un piccolo astuccio. Ella guardò i sigilli apposti
su
entrambi e spalancò gli occhi. -
Direttamente dal suo ufficio! – esclamò
incredula. L’uomo
annuì. Camelia
spezzò la ceralacca della busta e lesse. Una lacrima le
scese sul volto. -
Voi conoscevate il contenuto di questo dispaccio, Scott? L’inglese
sorrise. -
Lo leggo ora sul vostro volto, Camelia. E sono felice per voi. -
Sono libera. – disse incredula, come destata da un
brutto sogno. Aprì
l’astuccio di velluto porpora. Lì poggiata sul
fondo
avorio, una medaglia al valore a nome di Lord Ross William Chatwell,
ufficiale di Sua Maestà Giorgio III, perito compiendo il suo
dovere. Un uomo di valore, un uomo pulito. Scott le prese
le mani. -
Un
ultima cosa … - sentì che depositava una chiave
nelle
sue. – Fuori città c’è una
casa che abbiamo
utilizzato come base. Nelle cantine c’è un
forziere
…- lo sguardo di Camelia si allarmò –
Beh, nessuno
mi aveva ordinato di recuperare altro oltre ai documenti, quindi
… - sorrise – lo sporco denaro della corruzione di
Fréville, spendetelo tutto per voi… e per lui! Sorrise,
facendole l’occhiolino.
Quell’uomo era incorreggibile, pensò Camelia. -
Ma e i piani di D’Eon? -
Questa
è un’altra storia, Camelia, un problema mio che
risolverò vedendomela col complice ingrato di Oscar che se
ne
è fatto padrone. – sorrise ancora Scott,
pregustando il
brutto tiro in preparazione per Bernard. – Intanto abbiamo
la lista con i contatti di Fréville, che non saranno
più
un pericolo per i nostri uomini; abbiamo la mongolfiera, o quel che ne
resta, - specificò con una leggera smorfia buffa - da
trattare
col Cavaliere Nero. Il vostro compito era di spiare il marchese e
fornirci elementi per annientarlo insieme alla sua rete, quindi
è terminato. Sapete che non ero d’accordo con
quanto vi
era stato proposto dal nostro ambasciatore. Io non vi avrei mai
permesso di … - non riuscì a trovare parole
decorose per
definire la decisione di Camelia di sposare Fréville e
distolse
lo sguardo, che rialzò su di lei dopo qualche istante
–
No, non ve lo avrei permesso, perché tengo a voi, ma
così
facendo vi avrei impedito di salvare tante vite che quel mostro avrebbe
annientato. Camelia, ora dovete dimenticare! Pensate solo a
vivere la vostra vita, visto che Dio vi concede un’altra
possibilità. – ed indicò Victor, appena
visibile
nel riflesso di uno specchio, che aiutato da un valletto veniva
sollevato sui cuscini del suo sontuoso letto. -
Vi auguro ogni bene, amica mia. So che anche Ross lo vorrebbe. Camelia lo
guardò
rattristita, sentendo tutta la tensione degli ultimi giorni e degli
ultimi mesi scivolarle lungo le membra, come una maschera che non
serviva più. -
Portate
il mio abbraccio a Virginia ed un bacio ai vostri figli. Mi
mancherà la vostra amicizia, Scott. Le
baciò la mano,
galante, rispettoso. Ma ella lo abbracciò
d’impeto,
incurante di quanta etichetta avesse infranto col gesto. L’abbracciò
perché quello era quasi certamente un addio definitivo
all’amico di una vita che scompariva definitivamente; la vita
in
cui era stata giovane, ingenua, superficiale e felice. Il capitano
Scott Baker,
strizzò ancora l’occhiolino impertinente e
rivolgendole un
ultimo sorriso, si volse e si allontanò.
Camelia
rientrò nel
salotto dei Girodelle e lo trovò stranamente vuoto. Sapere
che
Victor stava realmente meglio aveva allentato la tensione generale.
Beatrice e Natalie si stavano occupando della madre nella stanza di
lei, mentre Victoire, nello studio del padre, ascoltava dal dottore le
raccomandazioni riguardo la convalescenza del fratello. Nessuno badava
a lei.
Sostò davanti ai finestroni che davano sul parco: perfino
l’aria non era più calda come prima e non
giungevano odori
sgraditi, tipici della reggia; anzi, stranamente dal parco arrivava un
profumo, quello degli ultimi fiori d’estate portato dal vento
serale. Percepì uno sguardo su di lei e guardò di
nuovo
dentro la sua stanza. Dalla penombra Victor la osservava.
Entrò,
per non rimandare ciò che non poteva più esser
rimandato,
e dimezzò la distanza tra loro. -
Mio padre ha detto che sei sempre stata qui –
mormorò lui con un fil di voce. Camelia
respirò profondamente. Ormai era senza maschera,
più che nuda davanti a lui come mai era stata. -
Vuoi che ti apra le persiane? L’aria sta
rinfrescando … - temporeggiò. Victor
annuì. Non
era facile per lei tornare a fidarsi di qualcuno e ancor meno mostrarsi
in tutta la sua debolezza, quella della vera sé stessa. La
guardò muoversi
di scatto verso la finestra, quasi volesse fuggire, tirare le tende con
decisione e spalancare le ante delle persiane. La luce
arancio del
tramonto illuminò il raso iridescente del suo abito a lutto.
Era
la seconda volta che vestiva di nero per la vedovanza, ma stavolta per
lei il nero era il colore della libertà. Si
voltò a guardarlo, ma rimase a distanza, lì,
ferma contro la luce. Indecisa. Victor
inspirò
più profondamente che poté, immettendo aria
fresca nei
polmoni intossicati dal fumo delle candele rimaste sempre accese in
quella stanza, in quei giorni. "Camelia … Lei,
novella vedova, lei non così roccia, lei giovane donna
complicata …”, pensò
rammentando e rivedendo quei
primi pensieri su di lei. -
Non
dovresti trovarti qui. – le mormorò –
Qui, accanto
ad un reietto. Un uomo fallito. Sarà scandalo. -
Vogliono parlare? Lasciali parlare. – risolse ella
con
decisione, scrollando le spalle come una bimba pronta a far capricci
per nascondere la paura strisciante - Le loro frivole danze dureranno
ancora poco: lascia che volteggino sui pettegolezzi se questo li
diverte. Ben presto i nobili francesi avranno poco su cui ridere. -
Quindi, hai intenzione di restare? Non rispose
subito. La mano
nella tasca nascosta tra le pieghe della gonna stringeva ancora la
lettera e sentì un crampo allo stomaco salirle al cuore. Si volse
appoggiandosi allo
stipite della finestra ed estrasse la pergamena. Abbassò
nuovamente gli occhi sulla lettera, ricordando ancora una volta la sera
del natale precedente, quello in cui aveva preso decisioni che mai
avrebbe immaginato di poter prendere allora. Lesse ancora
quelle righe e
si domandò dove fosse finita la ragazza che c’era
stata
prima della Marchesa di Fréville, la vanitosa, raggiante,
travolgente lady Chatwell. Si chiese se potesse un giorno tornare la
stessa, ma la voce in sé le stava già rispondendo
negativamente. E non era un male; stava a lei salvare ciò
che di
positivo aveva vissuto ed imparato in quei mesi per amalgamarlo con
quanto di buono era stata prima. Rilesse alcune
parole.
Sono
stato informato di
quanto fatto da voi e posso garantire sul mio onore che non
solo
il nome del vostro sfortunato marito, lord Ross William Chatwell
verrà innalzato agli onori senza neppure il sentore
dell’ingiusto sospetto, ma che nulla è
più dovuto
per l’impegno che prendeste col nostro paese. Intendo
accogliere la
vostra richiesta, i vostri sacrifici non sono stati vani. Sua
Maestà ed il regno tutto vi ringraziano. Consideratevi
sciolta da
qualsivoglia obbligo verso questo paese, che continuerà al
contrario ad essere in debito con voi per il vostro sacrificio ed il
vostro coraggio. Vi
auguro un meritato riposo ed una vita finalmente serena.
William
Pitt, primo ministro
-
Camelia? … - non gli rispose - Camì?
… Non
dovresti starmi vicino … - ripetè. Lo
guardò. Aveva gli
occhi rossi di
pianto per André, per Oscar; cerchiati di viola, nel pallore
del
volto di chi è stato ad un passo dalla morte, ma Victor non
provava vero rancore per nessuno, né per quello,
né per altro.
Solo dolore per come erano andate le cose, solo il vuoto per quella
mancanza. Egli
abbassò le palpebre non riuscendo ad impedire alle lacrime
di farsi strada ancora. Camelia si
avvicinò al letto. Gli prese la mano nella sua, poi con
entrambe gliela carezzò. Un giorno gli
avrebbe
raccontato tutto, quando si sarebbe sentito in forze, quando il tempo
avrebbe messo distanza tra lui ed Oscar, tra lui ed André.
Quando avrebbe potuto perdonare loro, lei e sé stesso. Intanto gli
disse una cosa,
già detta in memoria di un altro che non c’era
più
per poterla udire. Qualcosa che sentiva profondamente e che se Victor e
Dio glielo avessero permesso, gli avrebbe ripetuto fino alla vecchiaia. -
Rassegnati, Victor… Non abbandono chi amo.
– disse perentoria.
Il tintinnare
di posate li distrasse. Victoire aveva
appena varcato la soglia reggendo un vassoio tra le mani. -
La
cameriera ha portato un leggero brodo di pollo come consigliato dal
dottore affinché il nostro malandato Victor si rimetta
più velocemente … - esordì. Il fratello
sfilò la mano da quelle di Camelia e fece un cenno di
diniego alla sorella. -
A
quanto pare il nostro malandato
Victor ha ancora energia per fare
capricci … - commentò ironica ed un tantino acida
come da
sua abitudine, ponendo l'accento su quel "malandato". Si
avvicinò a
Camelia che sorpresa sgranò gli occhi quando Victoire le
allungò il vassoio contro il ventre, obbligandola ad
afferrarlo. -
Marchesa, a voi l’onore … o
l’onere, dipende
da quanto si impunterà il mio caro, capriccioso fratello. Quindi si
volse ed uscì, chiudendo la porta della stanza dietro a
sé. Camelia,
leggermente
interdetta, restò qualche istante immobile con
l’ingombrante vassoio tra le mani. Le era parso di aver
intravisto un sorriso sulle labbra sottili di Victoire. O
forse era un ghigno ad averle increspate? Mah, che importava?
Si
strinse nelle spalle e si avvicinò a Victor, sedendo sul
letto e
posando il vassoio sul materasso fra loro. -
No, non lo voglio – ribadì lui quando
ella avvicinò il cucchiaio colmo alle sue labbra. -
Non ho intenzione di pregarti… Mangia. -
Non sei
ancora mia moglie … - sussurrò divertito da
quell’atteggiamento dittatoriale. – E non so
nemmeno se
voglio che lo diventi! – aggiunse indicando l’abito
nero
– Non hai dei precedenti rassicuranti. Camelia non si
scompose. -
Victor
… se continui con stupidaggini simili … salto il
terzo e
passo direttamente al quarto! – minacciò
avvicinando
nuovamente il cucchiaio alle sue labbra. Aggrottò
le sopracciglia a rafforzare l’intimidazione. Lui fece
altrettanto, ma dopo un istante cedette ed aprì la bocca,
rassegnato. -
Bravo! Hai capito come devono funzionare le cose! Sarai un
maritino coi fiocchi, Victor!
Dall’altro
lato della
porta, Victoire staccò l’orecchio dal legno,
sorridendo per
ciò che aveva origliato. In fondo i
gusti di suo fratello non erano pessimi come aveva pensato, si disse. Andò
al balcone e si poggiò alla balaustra in pietra rimanendo
immobile per qualche istante. Portò
quindi le mani
sulla chioma e sciolse i lunghi capelli castani che aveva raccolto alla
bene meglio sul capo lasciando pochi boccoli a ricadere sulle spalle e
permise che la brezza li carezzasse, percorrendoli tutti, dando loro
volume come se scomposti dalle dita di un amante; da tanto non si
permetteva di fare un cosa del genere, una cosa da ragazzina. Chiuse
gli occhi e lacrime calde scivolarono sulle guance, lungo il mento,
lungo il collo, sul petto, tra i seni. Si raccolsero lì,
nell’incavo. Victorie infilò due dita nello scollo
del
corpetto ed estrasse un nastro blu che lì teneva nascosto da
anni, un nastro dove le sue lacrime si erano fermate. Lo stesso nastro
che Andrè aveva lasciato nel suo letto quando aveva fatto
l’amore con lei, tanto tempo prima. Non era stata
la prima
volta per nessuno dei due, lei era anche già sposata e
madre; ma
era stato quanto di più vicino al primo vero amore, rimasto
tale, immutato anche se solo per lei.
André era stato sempre
affettuoso, attento, perfetto, ma non si era mai realmente innamorato,
non di lei, non di altre; pareva attendere qualcosa del quale non era
cosciente; attendeva qualcuno. Victoire aveva
capito che
l’attesa di André era finita quando aveva
conosciuto
Oscar; aveva seguito l’altra metà del suo cuore e
con lei
era morto . Intrecciò
il fiocco
fra dita, lo sfilò piano godendo il solleticare del tessuto
sulla pelle sensibile, tenendolo poi con due dita per una
estremità e lo lasciò ondeggiare nel vento. Finché
c’è vita c’è speranza, si era
sovente
ripetuta; e lei aveva sperato sempre, pur non avendone diritto, fino a
quel momento. Ora non
restava nulla,
null’ altro che un’ombra nella memoria, che sarebbe
impallidita col tempo, impalpabile, inafferrabile come il vento ed al
vento affidò quell’ultimo ricordo di lui.
Parigi, due
giorni prima, all’alba
I corpi erano
rimasti
appesi quindici minuti, il tempo di sincerarsi che i condannati fossero
spirati.
Uno dei due boia tastò sulla giugulare e scosse il capo
verso il commissario a confermagli che nessuno dei giustiziati
presentava più battito. Allora,
l’incaricato
di sua maestà fece cenno di rimuovere i cadaveri, cosa che
doveva essere un segno di rispetto alle famiglie nobiliari, invece
della pubblica ostentazione per giorni dei corpi come veniva
solitamente riservato ai comuni malfattori.
I due carnefici sfilarono
le corde lasciando scivolare i corpi a terra con insolita
delicatezza. Sfilarono loro cappi e cappucci, li caricarono sul
carretto scoperto e subito li coprirono con un telo lurido, ma pietoso. Il carro
lasciò la
prigione e percorse le vie semideserte della città. Solo
qualche
ubriaco dallo sguardo perso, qualche signorina che rientrava dopo una
notte di duro lavoro, gruppetti di nobili giovanotti ubriachi e
chiassosi, come unici testimoni di quel viaggio. Per Oscar ed
il suo
Andrè c’era solo lo scricchiolio del legno secco
del
misero, stagionato veicolo, delle sue rigide ruote rivestite con una
lamina di ferro che stridevano sull’acciottolato. Il carretto
varcò
l’ingresso del Cimitero degli Innocenti, che sarebbe stato
chiuso
definitivamente da lì a poco per motivi sanitari,
più che
evidenti all’olfatto. Passò
tra lugubri
cappelle antiche, misere tombe in terra, croci in ferro, lapidi, fino
ad arrivare ad orrende e nauseabonde fosse comuni, delle quali una era
ancora aperta. Accanto a quella gli spalatori, ormai insensibili al
fetore che li circondava, attendevano immobili. All’arrivare
del
carro si alzarono in piedi dai ceppi e non si sarebbe potuto dire se
fossero loro a regger le pale o gli arnesi a regger loro. Ma il
conducente senza un
cenno di saluto, passò oltre, lasciandoli stupiti anche se
non
realmente sorpresi. Dopo un attimo di smarrimento, tornarono a sedersi.
Ormai nulla di ciò che accadeva in quel campo di silenzio e
di
orrore li toccava più.
Le ruote del
carro,
urtarono il cordolo di una tomba. Uno dei due corpi si mosse. Un
movimento apparentemente involontario, ma quello successivo non lo fu. Oscar
scalciò via il
telo che copriva i loro corpi, respirando come in un singhiozzo,
respirando come colui che sta per annegare e miracolosamente riguadagna
la superficie. Inspirò tutta l’aria che
poté e,
gemendo di dolore, si tastò il collo abraso dalla ruvida
canapa
del cappio, quindi si toccò una spalla, poi
l’altra; scese
giù sull’addome, sui fianchi, le cosce,
l’inguine
… Tutto doleva. E poi quel pensiero, terribile,
spaventoso
si impadronì di lei. Si
gettò sul corpo immobile che le giaceva accanto. Nessun alito
proveniva da
lui, nessun vapore nell’aria fredda davanti alle sue labbra,
alle
sue narici. Si chinò quindi sul torace sul quale aveva
riposato
serena per tutta quell’estate; lo fece ansiosa, realmente
spaventata come mai in vita sua. Rimase qualche
istante ad
ascoltare, ma il pulsare della propria agitazione le impediva di udire
quel rumore, il solo che avrebbe potuto calmarla. Chiuse gli occhi,
mentre il terrore di averlo perduto le strappava un singhiozzo. Ma
improvvisamente riconobbe un battito, un altro, un altro ancora: deboli
ma regolari, sempre più distinti. Si permise di
piangere
senza ritegno per il sollievo, beandosi del suono rassicurante di quel
cuore mentre il suo accelerava. Si sollevò su di un gomito,
gli
scostò la camicia dal petto. Restò ad osservare
gli
stessi segni rossi suoi, sul collo, più marcati
perché
lui era più pesante ed era stato più vicino alla
morte
per questo. Carezzò
le abrasioni
sulla pelle e le sottili corde di resistentissima seta bianca e gialla,
cucita ed intrecciata, con le quali, come lei, era stato imbragato.
Incisioni sufficienti a graffiare e lacerare in superficie, ma non a
strappare carne e vertebre cervicali. Cercò e
sganciò il
moschettone sul retro del collo, nascosto dal risvolto della giacca,
col quale erano stati agganciati al cappio, proprio sopra il nodo
scorsoio, dimodoché il loro peso non gravasse sulla canapa
stretta attorno al collo, ma si scaricasse lungo tutto il corpo,
sull’imbracatura di seta. Era stato fatto al
momento
dell’incappucciamento, quando si erano agitati un
po’ per
confondere i movimenti dei boia, in realtà lì per
salvarli.
Un inganno, un trucco degno di circensi.
Un’
architettura per la quale non le era stato detto chi ringraziare, ma un
sospetto lo aveva. Si
lasciò scivolare
supina accanto a lui, stringendogli la mano, sentendo le dita muoversi
appena
mentre lui tornava cosciente e spalancò gli occhi su quel
cielo
azzurro e sgombro che stupidamente non si era mai soffermata ad
ammirare a dovere. Inspirò a pieni polmoni come mai
più
pensava avrebbe potuto fare, tutti i sensi amplificati a godere di
quella rinascita e, nonostante il dolore diffuso per il contraccolpo
subito quando era caduta nel vuoto, si permise di sorridere.
In pochi
minuti,erano
arrivati ad un altro cancello.
Una carrozza nera, priva di insegne o
decori appariscenti, una qualunque corriera, attendeva solo loro.
Accanto a quella, su un cavallo di pregio, stava uno dei due boia,
quello con gli occhi azzurri, ma i capelli ora stavano legati in un
codino e gli abiti dimessi erano celati da un pesante mantello di buona
fattura. Vedendo il carro arrivare, scese e si avvicinò al
conducente. Gli porse una sacchetta con il compenso pattuito. Il
becchino aprì e contò una ad una le monete con
esasperante malfidenza. Rivolse poi un cenno soddisfatto al signore che
si poté avvicinare al retro per prelevare il suo
“carico”. Oscar si era
sollevata seduta e come Andrè stava strisciando al bordo per
scendere. Restò
un istante a
guardare meglio lo sconosciuto salvatore, perché ora,
così ripulito, alla luce del sole, aveva un’aria
non
nuova. Dove lo avesse visto, non avrebbe saputo dichiararlo con
certezza: forse a Parigi, forse a Versailles, ma aveva
l’impressione che per un po’ fosse stata la sua
ombra. -
Io
… - tentò di parlare ella, con voce rauca, ma
dovette
bloccarsi, portando una mano alla gola e strizzando gli occhi per il
dolore. -
Non
forzatevi a parlare – ordinò l’uomo dai
capelli
ramati, di un tono di rosso tanto chiaro da parere biondo –
La
gola è irritata, potreste danneggiarla irrimediabilmente.
Concedete tempo alle corde vocali di riprendersi dal trauma. Qui ci
sono documenti, denaro, nuove identità. – disse
porgendole
un plico - In carrozza troverete abiti puliti per cambiarvi. “Ma
…?”, sillabò lei muta. -
Una
nuova vita vi attende. Nei prossimi giorni vi raggiungerò e
vi
fornirò ulteriori dettagli. Per ora sappiate solo che a
Versailles avete ancora chi vi è amico. “Camelia
…”, dissero le sue labbra. L’uomo
sorrise. -
Sono il
capitano Scott Baker, milady, per ora vi basti sapere che mi
è
stato chiesto di portarvi in salvo. Ora basta esitare, potrebbero
vederci e sospettare. La
invitò a dirigersi alla carrozza sulla quale
André stava già salendo. Oscar si volse
ancora per potergli stringere la mano e nel farlo posò
l’altra sul proprio petto: “grazie”. -
Riferirò a lei … - disse il gentiluomo
inchinandosi e ruotandole la mano per poterla baciare.
Prese posto
accanto ad André che sollevò un braccio per
attirarla a sé. Scott Baker
fece un cenno deciso
al conducente e la carrozza si avviò. Oscar
ricambiò
l’abbraccio di André che, baciandole i capelli,
socchiuse
gli occhi e si rilassò contro lo schienale, portandola con
sè. Finalmente
avrebbero riposato. Niente
più re,
niente più giochi d’azzardo, niente più
macchinazioni. C’era voluto tempo, c’era voluto
dolore, ma
alla fine era arrivata dov’era giusto arrivasse. Oscar,
sentendo le palpebre
sempre più pesanti, guardò un ultima volta il
paesaggio
familiare della città scorrere fuori del finestrino. Si sarebbe
svegliata l’indomani chissà dove, non sapendo cosa
le sarebbe capitato, o chi avrebbe incontrato. Forse,
d’ora innanzi,
avrebbe vissuto il resto della vita nell’incertezza. Di certo
aveva solo lui, André che la stringeva a sé con
l’evidente intenzione di non lasciarla più e
ciò le
bastava. Qualche notte
prima potevano bere champagne, forse la prossima avrebbero dormito
sotto un ponte. Fa nulla, si
disse. Anche
se piena di incognite, la vita era un dono, ne era cosciente e non
aveva più alcuna intenzione di sprecarla, anche
perché
dopo tutti i piani, i progetti elaborati e falliti, dopo tutti i
tentativi di manovrare la sua e altrui esistenza, aveva compreso quanto
tutto fosse imprevedibile al mondo. Non poteva
immaginare che carte le sarebbero capitate in questa mano. Ma era certa
di una cosa:
se lei fino a quel momento era stata una solitaria regina di spade, di
sicuro il re di cuori era colui che le stava accanto.
- fine (o
l’inizio, dipende dai punti di vista :D)
Il moschettone ... ufficialmente non era ancora stato inventato, ma non
mi garbava l'idea di appenderli con ganci da macellaio :/ ...
Licenza! :D Nota bene: che
a nessuno
venga in mente di imitare la scena dell’impiccagione (beh,
nemmeno le altre) perché … ci si accoppa!
Ricordo che ho
“saccheggiato” battute e pensieri oltre che dal
manga e
dall’anime, dai film “Maria Antonietta”,
“Harry
ti presento Sally”, “Titanic” e
… ora non mi
viene in mente se ho scordato qualcosa...Angelica! dimenticavo la marchesa degli angeli Ricordo
inoltre, che se
Karmilla non avesse scritto “la dama di picche”,
questa
storia non mi sarebbe venuta in mente. XDD
Saluti!!!