Quello che non ti ho detto mai.

di Lue
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Capitolo - Era stato bello il nostro vivere ***
Capitolo 2: *** II Capitolo - Nel dubbio ***
Capitolo 3: *** III Capitolo - Forse. ***
Capitolo 4: *** IV Capitolo - Pace ***



Capitolo 1
*** I Capitolo - Era stato bello il nostro vivere ***



Quello che non ti ho detto mai


"I have died everyday waiting for you
Darling don’t be afraid, I have loved you
for a thousand years, I’ll love you for a thousand more".
[A thousand years - Christina Perri]


Ho capito che era finito tutto solo quando mi sono trovato davanti alla sua tomba, lucida e fredda. Fino al giorno del funerale una parte di me aveva aspettato di vederlo apparire da dietro gli alberi che ornavano il cimitero, compiaciuto, perché naturalmente ci eravamo cascati proprio tutti. Ma quando gli altri se ne furono andati, e l’odore di terra fresca ebbe impregnato le mie mani e i miei abiti, e tutto ciò che rimaneva di lui era un nome bianco inciso su una lastra nera, allora mi accorsi che la mia condizione di vittima non sarebbe mai variata e sarei rimasto sempre sospeso nella dimensione delle possibilità perse, bloccato, imprigionato, senza via d’uscita.
Cosa sarebbe successo se non me ne fossi andato?
Se fossi riuscito a salire sul tetto in tempo, se lo avessi abbracciato e convinto a fermarsi, se lo avessi protetto da lui, da tutto, da tutti… sarebbe stato ancora qui con me?
L’idea di un passato differente esplose dentro di me mentre da solo sfioravo il riflesso del sole sulla sua lapide, e fu un pensiero talmente violento che mi costrinse a inginocchiarmi e rimanere fermo, con gli occhi chiusi e la fronte poggiata alla lastra nera.
Perché quell’idea, quel “come sarebbero potute andare le cose”, portava con sé una consapevolezza ancora più grande: il pensiero di quel futuro che era andato perduto, sgretolatosi insieme alle sue ossa su un marciapiede freddo.
Non volevo immaginarlo allora e non avrei voluto immaginarlo poi, ma a volte mi capitava di svegliarmi la notte, stringere il lenzuolo tra le mani e piangere come un bambino, perché avevo sognato la nostra vita insieme e l’avevo vista andare in frantumi al mio risveglio, e la forza che impiegavo per stringere il tessuto era la forza del dolore che provavo da quel giorno, un dolore diverso da quello che mi aveva accompagnato dopo la guerra, un dolore che mi stordiva e mi mangiava il cuore.
Mi trasferii a due numeri di distanza, perché allontanarmi troppo da quella casa sarebbe stato come allontanarmi dal suo ricordo, e non ce la facevo ancora, sei mesi non erano niente. A volte invitavo la signora Hudson a pranzo da me, ma finiva sempre che cucinava lei e passava il pomeriggio a mettere a posto la stanza perché non poteva “proprio vedere questo disordine”, e a entrambi scappava sempre un sorriso perché era come essere tornati ai vecchi tempi. Ma poi nel mio salotto disordinato nessuno dei due trovava tracce della sua presenza, e allora ogni cosa si spegneva, tornava grigia.
Un paio di giornalisti vennero a casa a cercarmi, a farmi domande, ma mi arrabbiai così tanto che né loro né i loro colleghi si azzardarono a tornare. Non c’era davvero niente da dire.
Mi chiamo John Watson, sono un medico e vivo da solo. Sì, prima vivevo con lui. No, non sono gay. Era il mio migliore amico. Sì, che l’ho amato. Certo che l’ho amato.
Lo amo ancora.
 
La gente mi trattava come se fossi una vedova sull’orlo della depressione, nonostante io facessi di tutto per apparire in forma. Sorridevo. Sorridevo moltissimo. Quando chiedevo ad Angelo notizie della sua ernia, quando insistevo per pagare (e poi mi facevo debolmente convincere da lui a lasciar perdere), sorridevo alla signora Hudson quando mi chiedeva come stavo, e ai miei colleghi al lavoro. Dovevo dimostrare che la vita andava avanti senza di lui.
Ma era faticoso. Recitare continuamente… Io sono un medico, non un attore.
Quando andavo a mangiare al ristorante di Angelo mi sedevo sempre a un tavolo che mi permettesse di voltare le spalle al bancone, ma questo non mi impediva di avvertire lo sguardo di Angelo su di me.
Una volta lo sentii parlare con uno dei camerieri, “Lui non paga qui. Il suo ragazzo era una gran persona, checché ne dicano i giornali. È morto qualche mese fa, s’è suicidato. Due gran persone, Sherlock e John, due gran persone”.
Il suo ragazzo. Dopo tutti i mesi passati a inalberarmi, “Non stiamo insieme!”, era così che ci ricordavano le persone: una coppia. E non avevo voglia di dire che non era vero, non avevo voglia di girarmi e sbuffare “Eravamo solo amici”, perché la verità dei fatti era evidente: non eravamo stati solo amici.
In fin dei conti non era stato così difficile capirlo: avevo sognato tante volte il futuro che avevo perso, e in ogni singolo fotogramma di quella vita era impresso il suo nome. Era bastato aprire gli occhi per capire che nessuno era stato e nessuno sarebbe mai stato come lui. E non parlo di… desiderio, di amore fisico, parlo del fatto che io avevo avuto bisogno di lui – e Dio solo sa quanto ne avevo ancora bisogno – e lui aveva avuto bisogno di me. Per vivere. E come nessuno sarebbe mai riuscito a sopportarlo quanto lo avevo sopportato io, nessuno sarebbe mai riuscito a capirmi quanto mi aveva capito lui, e a volte io lo avevo odiato e a volte lui aveva provato fastidio nei miei confronti, ma il più delle volte… era stato bello il nostro vivere.
C’erano un sacco di cose che non gli avevo detto e che avrei dovuto dire, ma non riuscii a confessarle in seguito nemmeno alla mia terapista, perché stavo cercando di apparire forte, stavo cercando di sopravvivere, anche se a volte avrei voluto solo chiudere gli occhi e non svegliarmi più. Avevo bisogno di lui, ed ero talmente arrabbiato, talmente arrabbiato! Se n’era andato in modo così egoista, come suo solito, senza pensare a me, a come mi sarei sentito… E adesso lui era libero, mentre io dovevo fare ogni giorno i conti con la sua assenza.
Cercai tra le sue carte un indizio, una spiegazione. Ma non trovai niente.
E mi arresi.
Lasciai che i mesi mi scorressero addosso come una doccia fredda, lavando via gli strati più superficiali del mio dolore. È vero, il tempo aiuta. Dopo tre anni dalla sua morte, riuscivo a passare davanti al 221B a testa alta senza che mi venisse una crisi d’asma, e avevo ricominciato a dormire la notte. Lavoravo in ospedale, non al St. Barts, naturalmente, e a volte mi accorgevo di notare i particolari dei pazienti senza nemmeno rendermene conto. Ma era una cosa che mi infastidiva: io non ero come lui, non lo sarei mai stato.
Era un pensiero che mi tormentava, in quella notte fredda. Non riuscivo ad addormentarmi perché fuori grandinava e il ticchettio sulle mie finestre si faceva sempre più insistente. Un rumore mi fece sobbalzare: un colpo, che non somigliava affatto a quello della grandine sui miei vetri.
Mi alzai e raggiunsi la porta. Nel comodino all’ingresso c’era ancora la mia pistola. Per sicurezza me la infilai nella vestaglia.
E ringraziai Dio per questo.
Perché se ce l’avessi avuta carica tra le mani, probabilmente una parte di me avrebbe spinto l’altra a premere il grilletto.
Perché lui era vivo e vegeto davanti ai miei occhi, con un bambino tra le braccia.
Non è possibile, non è possibile, sono matto, non puoi essere qui, sei morto, io ti amavo e tu sei morto.
“John…”.
Oh Gesù, è la tua voce, è la tua voce, non è possibile, sei qui, sei vivo, che cazzo.
E sapevo benissimo di sembrare un idiota, con gli occhi spalancati, e le lacrime che scendevano e avrei voluto darmi un contegno perché ero un soldato, ma rimasi a bocca aperta, spaccato a metà tra la voglia di prenderlo a calci in culo fino ad ammazzarlo, e quella di sfiorargli gli zigomi e il collo e chiedergli dove sei stato e stringerlo a me per sempre.
Mi asciugai goffamente gli occhi con il dorso della mano, e ad un tratto mi sentii terribilmente piccolo e goffo nella mia vestaglia di lana.
Gli feci cenno di entrare e la porta si chiuse alle nostre spalle con un colpo secco.
Fuori aveva smesso di grandinare. Ma il bambino aveva iniziato a piangere.
“Shh, Hamish, stai buono”.





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Eeeh boh! E' un esperimento. L'ho già scritta tutta, quindi la pubblicherò piuttosto in fretta - credo.
Bon :) ciao!


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Capitolo 2
*** II Capitolo - Nel dubbio ***



Quello che non ti ho detto mai
 

"How can you say that your truth is better than ours?"
[I gave you all - Mumford and Sons]



Hamish.
 “Stai scherzando?”, sussurrai allibito fissando Sherlock, “Sei morto tre anni fa, sei seduto nel mio salotto, tieni tra le braccia un bambino che si chiama come me. E sei morto. Io ti ho visto”.
“John”, l’ombra di un sorrisino gli apparve sul viso, “Come sempre tu guardi ma non…”.
“Non lo dire”, la mia voce era bassa e fremeva d’ira, “Non ti permettere. Nemmeno la puoi pensare quella frase. Non in casa mia, Sherlock”.
Era la prima volta che lo vedevo abbassare la testa e accettare un rimprovero. Ma dopotutto era anche la prima volta che vedevo tornare in vita qualcuno.
“Ti posso spiegare, ci sono tante cose, John…”.
“Non ora”, lo interruppi di nuovo, e mi sorpresi delle mie stesse parole, “Non posso ascoltarti stasera. Puoi stare qui, sistemati sul divano insieme al… bambino. In fondo a destra c’è il bagno”.
Mi diressi verso la mia stanza, e la mia testa era completamente vuota. Mi addormentai subito, per qualche strano motivo, e il mio ultimo pensiero fu che dovevo ricominciare con le sedute, perché per sognarmi uno Sherlock padre in casa mia, con tanto di prole annessa, stavo proprio uscendo di testa.
 
Ma la mattina dopo fui svegliato da uno strillo acuto, che non apparteneva certo a un adulto.
Lui era in piedi e cercava di tenere fermo il bambino, che scalciava in direzione della mensola della mia libreria. C’era il vecchio teschio lì, l’unico oggetto di Sherlock che avevo tenuto.
“Mio!”, strillò il bambino. Solo allora mi accorsi che era più grande di quanto pensassi, sembrava di circa due anni.
“Ne fa due tra quattro mesi”, decretò Sherlock, serrando le braccia intorno alle gambette scalcianti del bambino.
Non avevo niente da dire. Era come se avessi messo da parte ogni emozione e pensiero e non mi fossi ancora reso conto di quello che era successo.
“Hamish”, sussurrò Sherlock al bambino, picchiettandogli piano sulla gamba, “Lui è John”.
Lui alzò lo sguardo su di me, mi fissò per qualche istante, come mi se stesse analizzando, e poi scoppiò in una risata sdentata e a singhiozzo.
Poi sbadigliò.
“Non ha dormito molto stanotte”, mi spiegò Sherlock indicandolo con un cenno.
Così lo accompagnai in camera mia e lasciai che lo adagiasse su letto, tra le lenzuola. Rimanemmo a guardarlo qualche minuto, mentre lui già dormiva placidamente, ma poi Sherlock mi fece cenno di seguirlo in salotto.
Sospirò.
“Ci sono molte cose che devo spiegarti”.
“Prego”, lo invitai.
“Non… devi andare al lavoro?”.
Io scrollai le spalle.
“Non ci vado”.
Lui mi fissò negli occhi, e poi distolse lo sguardo annuendo.
“Bene, allora… da dove cominciare…”.
Cominciò dal tetto. E io dovetti fare uno sforzo immane per rimanere serio e attento e concentrato, perché tutto quello che mi ero portato addosso per tre anni mi stava esplodendo nel petto. Ma dovevo tenerlo dentro, almeno finché lui non avesse finito di raccontare.
E lui raccontò, mi parlò del piano per inscenare la sua morte, di come fosse l’unico modo per salvarci tutti – e una lacrima solitaria mi solcò la guancia, ero proprio invecchiato, ma apprezzai il fatto che lui fingesse di non averlo notato – di come poi lui fosse fuggito in Russia e fosse stato contattato da lei, dalla Donna.
“…Aspetta”, lo interruppi con un groppo alla gola, “Anche lei… è morta”.
Lui storse la bocca in una smorfia colpevole.
“Abbiamo vissuto insieme per qualche mese e…”.
“Come… è successo?”, era una domanda idiota e al solo pensiero rabbrividii, ma la curiosità era troppo grande, quasi febbrile. Volevo sapere come lui aveva amato quella donna mentre io piangevo la sua morte.
“John”, il mio nome suonava come un rimprovero tra le sue labbra.
Mi sentii incredibilmente stupido. Avevo passato anni a pensare a lui, a rimpiangere tutto quello che mi ero lasciato scivolare tra le dita, e intanto lui giocava alle spie con quella donna. Mi ero immaginato tutto. Non c’era mai stato niente tra di noi, niente più di un’amicizia tra colleghi, tra coinquilini.
“Hai fatto il test?”, accantonai quello che mi passava per la testa.
“Certo che no. Ma sono certo di essere il padre”.
“E da cosa l’hai capito? Dal risvolto dei pantaloni?”, ridacchiai, e l’ombra di un sorriso apparve anche sul suo volto mentre ricordava come me un passato che sembrava appartenere a un’altra vita.
“È sparita due giorni dopo il parto, naturalmente, e io mi sono preso cura di lui. È mio figlio, John”, affermò sicuro.
E guardando i suoi occhi, la sua espressione così salda, le vene azzurrine sul suo collo, i suoi zigomi, mi spezzai. Mi spezzai tutto. E mi spezzai in silenzio, con le crepe che si allargavano dentro al mio petto, e l’unica cosa che potevo fare era aggrapparmi alla poltrona su cui ero seduto, e conficcare le unghie a fondo nel tessuto, come quando mi svegliavo la notte invocando il suo nome.
“John…”, si avvicinò.
“Sei tornato”, sussurrai, “Sei qui davanti a me. Ma questo non cancella il dolore che ho provato. E tu ti divertivi con quella donna, mentre io… annaspavo da solo in questa cazzo di casa vuota, e non mi dire che l’hai fatto per me, Sherlock! Un segno, un messaggio, non chiedevo altro, in tre anni…”, abbassai la voce perché a un tratto mi ricordai del bambino addormentato nell’altra stanza, “E torni con un bambino?! Che si chiama come me. Stai… stai cercando di prendermi in giro, Sherlock?”.
Lui mi fissò a bocca aperta.
“No… Io non… Non potevo rischiare, John”, mi guardò come se fosse tutto ovvio, “Mi sono messo in contatto con Mycroft, e abbiamo eliminato ogni fonte di pericolo prima che io potessi tornare! E ora sono tornato”.
Io rimasi in silenzio.
“John”, continuò allora lui agitato, “Lo so che hai sofferto, e mi dispiace. Ma sei vivo. E questo era il mio obiettivo”.
“Avresti dovuto dirmelo! Metterti in contatto con me in qualche modo!”.
Perché? Avrei dovuto comunque fingere di essere morto agli occhi di tutti”.
“Non è la stessa cosa!”, sbraitai, “È stato doloroso! E ora so che avresti potuto evitare…”.
Pa’!”, strillò Hamish dalla camera da letto, “Pipì!”.
“Continuiamo questo discorso dopo”, si alzò continuando a guardarmi, e si diresse con passo fermo verso la camera. Poi portò Hamish in bagno. Da lì mi raggiunse la sua voce.
“John! Puoi portarmi il vasino di Hamish? È nella borsa nera, non ci riesce a farla nel water!”.
Sospirai e feci come mi diceva, ma un suo verso schifato mi raggiunse dal bagno. Immaginai che Hamish non fosse riuscito a trattenersi.
Non sapevo se sospirare, mettermi a piangere e urlare, o scappare di casa.
Nel dubbio, li raggiunsi in bagno.







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Aggiorno ora perchè purtroppo poi non avrò il computer per due settimane D: spero che mi aspetterete :)
Grazie per le recensioni! Un bacio,
Lu

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Capitolo 3
*** III Capitolo - Forse. ***



Quello che non ti ho detto mai



"And I can't fight this feeling anymore
I've forgotten what I started fighting for
It's time to bring this ship into the shore
And throw away the oars, forever"
[Can't stop this feeling - Reo Speedwagon]

 

C’erano moltissime cose da fare, e sapevo di non poter pensare a me stesso ora che c’era un bambino di mezzo.
Se da una parte era impossibile associare Sherlock alla parola “padre”, dall’altra avevo la prova davanti ai miei occhi. E, voglio dire, era un bambino adorabile. Era sveglio e sapeva già dire qualche parola, capiva quando doveva andare in bagno e ci chiamava subito. La cosa strana era che usava lo stesso nome per entrambi: “Pa’”, anche se era evidente che fossi io quello di troppo. Mi costava ammetterlo, perché Sherlock non se lo meritava, ma era passata una settimana ed ero felice come non succedeva da tre anni. Sembravamo una famiglia.
Che pensiero sciocco, me lo levai dalla testa mentre Hamish cominciava a borbottare in una lingua incomprensibile, stringendosi al petto il teschio faticosamente conquistato.
Sherlock si sedette sulla poltrona di fronte a noi.
“Mycroft dice che è tutto pronto. Possiamo uscire”.
Negli ultimi due anni, da quando Mycroft era venuto a conoscenza della situazione, aveva lavorato parecchio: aveva individuato e eliminato i sicari assunti da Moriarty e altri elementi che sarebbero risultati pericolosi. Era stato meno difficile di quanto pensasse, stando a come diceva lui, perché coloro che erano stati fedeli a Moriarty erano stati spinti dalla paura più che dalla lealtà nei suoi confronti, e dopo la sua morte non avevano avuto alcuna ragione per perseguire il suo (insano) progetto.
“Beh, Mycroft ci ha messo due anni a capirlo, nonostante io abbia cercato di spiegarglielo più volte. Voleva essere certo che voi tutti foste al sicuro prima di fare qualcosa”, Sherlock abbassò la voce, “Questo è il motivo per cui non ti ho contattato, John. Stavo aspettando. Ma forse ho aspettato un po’ troppo”, abbozzò un sorriso timido.
Io alzai le spalle perché non volevo, e non potevo, dargli la soddisfazione di un perdono così immediato. Ma sfuggì un sorriso anche a me.
 
Il primo passo fu preparare la gente al ritorno di Sherlock senza suscitare l’assalto dei media e a questo proposito Mycroft si occupò personalmente di informare coloro che erano stati più vicini a me e a Sherlock.
Alcuni di loro (non più di quattro o cinque in realtà, compresi Lestrade e Mrs Hudson) accorsero a casa mia a trovarlo. Mrs Hudson si presentò una mattina, di buon’ora, trepidante e commossa. Gettò le braccia al collo di Sherlock, e guardò sorpresa me e Hamish che giocavamo sul divano con un coniglio di pezza.
“È suo figlio” dissi subito, perché non pensasse che eravamo tornati al lavoro rapendo un bambino.
Lo sguardo, dopo un attimo di stuporoso sgomento, che Mrs Hudson riservò a me e a Sherlock, ecco, mi colse di sorpresa. Era come se stesse cercando di rimproverare lui e volesse al contempo abbracciare me. Ero sicuro che non fosse sfuggito a Sherlock, e così concentrai l’attenzione su Hamish, colto di sorpresa dall’arrivo di Mrs Hudson. Strinse le dita al mio maglione e mi guardò incerto prima di lasciarsi andare tra le braccia protese della nostra antica padrona di casa.
“Pa’?”, mi sussurrò. Davanti ai suoi occhi chiari, mi si scaldò il cuore. Annuii, lasciando che Mrs Hudson lo prendesse tra le braccia.
“Somiglia a tutti e due però!”, commentò lei, accarezzandogli i capelli neri.
Sherlock alzò gli occhi al cielo e io ridacchiai.
“Per l’amor del cielo, Mrs Hudson, come può affermare che Hamish assomiglia a John quando…”.
“Lo so bene”, lo zittì lei, “che non può essere anche suo figlio. Ma ha… qualcosa, sembra più… ragionevole di te, Sherlock, mio caro”, decretò pensierosa.
Lui sbuffò.
“Ad ogni modo, presto anche tu, John, sarai suo padre a tutti gli effetti. Lì sul tavolo”, indicò un plico di fogli, “Ci sono i moduli per richiedere l’adozione di Hamish anche da parte tua…”.
Prego?”, mi strozzai con la mia stessa saliva dalla sorpresa.
“Ti chiama papà”, disse Sherlock con ovvietà, mentre io, paonazzo, cercavo di riprendermi dall’attacco di tosse, “E non può avere solo me come genitore. Se mi succedesse qualcosa?”.
“Ma così”, la mia voce era ancora roca, “Sembreremo una… famiglia”.
“Ma è quello che siete”, si intromise Mrs Hudson sorridendo e mostrandoci come Hamish le si era accoccolato addosso, addormentandosi.
Io lo presi in braccio e lo portai nel lettino. Rimasi a guardarlo per un po’. Mio figlio.
 
“Prepara la tua roba, John, domattina torniamo al 221B!”, esclamò Sherlock, appena Mrs Hudson se ne fu andata.
Io rimasi a fissarlo.
“Sherlock… no”, mi sedetti sul divano, “Tutto questo è… troppo. Il tuo ritorno, è successo tutto così in fretta che non mi sembra neanche vero!”.
“Non vuoi tornare in Baker Street con me?”, mormorò, colto di sorpresa.
“Certo che voglio…”.
“Ma?”, mi interruppe, “Qual è il problema?”.
“Ma non te lo meriti”, dissi tutto d’un fiato.
Lui alzò gli occhi al cielo in un riflesso incondizionato e si sedette sulla poltrona di fronte a me.
“Torniamo ancora qui?”, mi guardò negli occhi, “Ho fatto uno… sbaglio”, quella parola doveva essergli costata uno sforzo immane, “Mi dispiace di non averti contattato e di averti fatto soffrire, ma non posso più farci niente”.
“Non è per quello!”, esclamai esasperato, “Voglio dire, è anche per quello, naturalmente, ma tu hai fatto un figlio con quella donna, mentre io…”, la frase mi morì in gola mentre un lampo di comprensione attraversava gli occhi di Sherlock in un’espressione che avevo imparato a riconoscere.
“John…”.
“No, Sherlock, lascia perdere…”, mi alzai.
John”, si alzò anche lui e mi guardò negli occhi, “Ho bisogno che tu venga a Baker Street con me e Hamish, a vivere con noi. Come ho avuto bisogno di te ogni giorno da quando me ne sono andato. Pensaci su, posso dire a Mrsh Hudson di aspettare”, si fermò un secondo, “Vado a vedere come sta Hamish”, e si diresse verso la mia camera, dove avevamo sistemato il lettino.
E io pensai. Pensai tutto il pomeriggio e tutta la notte, ritrovandomi la mattina dopo stordito dal sonno. Ma continuai a pensare, pensai mentre salutavo Sherlock e Hamish prima di andare al lavoro, e mentre aspettavo la metropolitana e ogni volta che bevevo un caffè nelle pause.
Mi presi il tempo che io stesso mi ero negato da quando Sherlock era tornato, il tempo necessario per… capire. Mi chiesi se quello che credevo di provare per Sherlock derivasse semplicemente dal fatto che avevo pensato di averlo perduto per sempre, e la risposta arrivò immediata: no, non dipendeva da quello, era qualcosa i più profondo e radicato dentro di me. Dal momento in cui avevo creduto di non poterlo vedere mai più e avevo ammesso a me stesso di provare qualcosa di più che semplice amicizia non potevo tornare indietro, non potevo ignorare la rabbia ogni volta che pensavo che Sherlock era stato a letto con quella donna, e non potevo fingere di non avvertire un peso sullo stomaco ogni volta che mi chiedevo se lui l’avesse mai amata e voluta. Solo verso la fine della giornata, dopo l’ennesimo caffè, riuscii a sbrogliare il gomitolo che era diventata la mia vita. Rimanevano i due capi di un filo lunghissimo: l’inizio e la fine, restare o andare, osare o… Oppure? Qual era l’alternativa? Continuare a fingere, mesi, anni, e perderlo di nuovo con la consapevolezza che questa volta davvero non sarebbe tornato, e sapere che la colpa era stata solo mia, mia e della mia codardia, se non ero riuscito a realizzare nemmeno uno dei futuri che avevo sognato per noi?
No. Avevo rischiato di morire, tante volte, per portare in salvo dei compagni di reggimento, potevo benissimo sopportare l’idea di un rifiuto da parte di Sherlock.
Forse.






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ciaaao a tutti! sono tornata!
non ci saranno più ritardi con l'aggiornamento, promesso :)
al prossimo (e ultimo) capitolo!
baci, Lu

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Capitolo 4
*** IV Capitolo - Pace ***


 

Quello che non ti ho detto mai

"Love is why we do it,
love is worth the pain,
love is why we fall down
and get back up again.
Love is where the heart lies,
love is from above.
Love is this, this is love"
[This is love - The Script]



Tornai a casa, e trovai Sherlock intento ad osservare un addormentatissimo Hamish.
“Guarda”, sussurrò, facendomi cenno di avvicinarmi, “Guarda com’è concentrato… Quella ruga minuscola sulla frote indica che non sta facendo un bel sogno. Naturalmente è ancora troppo piccolo per fare dei veri e propri sogni, bisognerà aspettare ancora qualche mese, al massimo un anno. Ma anche adesso… anche adesso i suoi sogni hanno una consistenza, sono un insieme di emozioni, colori, luci, volti di persone…”.
“Sherlock…”, mi avvicinai. Lui spostò lo sguardo pensieroso su di me.
“Il corpo dice molto di quello che una persona sta sognando, John, il corpo degli adulti, più di quello dei bambini”.
“Sherlock, devo parlarti…”.
“Il tuo corpo dice molto, mentre sogni”.
Lo fissai interdetto.
“Come fai a saperlo?”.
Lui alzò le spalle, “Viviamo nella stessa casa”.
Rimanemmo un attimo in silenzio.
“Non dormi mai davvero bene”, riprese subito lui, “Ti agiti e il respiro ti si fa affannoso, a volte c’è un esponenziale aumento della sudorazione. Ripeti spesso una parola, ‘mio’, al massimo ‘miei’, si vede che possiedi qualcosa che temi di perdere, o meglio, che temi ti sia sottratto. Si restringe il campo: soggetto maschile (è ovvio che non sia qualcosa di materiale dall’attaccamento che ne risulta), dunque o io o Hamish. Di cosa hai paura, John?”, concluse in modo veloce, continuando a guardarmi negli occhi.
Chiusi gli occhi.
“Sherlock…”.
“La risposta è piuttosto semplice. Le tue paure più grandi sono due, ed entrambe riguardano me e Hamish: per quanto riguarda me, temi che io possa andarmene di nuovo, morire, e lasciarti di nuovo nel dolore, per quanto riguarda me e Hamish, invece, temi che qualcuno ci possa portare via. Qualcuno. Chi? Irene Adler, ovviamente, l’unica persona che potrebbe mai avere qualche interesse verso entrambi… John”.
Finalmente, tacque.
Io sospirai.
“Per tre anni sono tornato ogni settimana a strappare le erbacce dalla… dalla tua tomba. Ho sperato in un miracolo, ho pregato di poterti vedere ancora una volta per dirti tutto quello che non ti avevo detto, che non ti avevo detto mai. E poi tu sei tornato. E ho pensato fosse arrivato il momento di dirti tutto, avrei voluto dirtelo, ma ogni volta che pensavo a te e a me, pensavo anche a te e a lei”, deglutii, “E questo è… è…”, mi mancarono le parole.
“Lei è la madre di tuo figlio. Hamish… è sua madre. Io sono… John”, conclusi con un sorriso triste.
Sherlock prese un gran respiro, e, quando cominciò a parlare, sembrò combattere con la parte più sociopatica e irritante di sé.
“Quando l’ho conosciuta mi sono sentito… smarrito”, confessò con una punta di fastidio, “Perché era la prima volta che qualcuno riusciva a confondermi. Anche quando ti ho conosciuto, mi sono sentito smarrito. Hai ripetuto la parola ‘fantastico’ un centinaio di volte nella stessa giornata, descrivendo quello che facevo. Nessuno mi aveva mai trovato fantastico. Quando sono smarrito con te”, sospirò; quelle parole dovevano costargli davvero molta fatica, “Quando sono smarrito con te, sono comunque a casa. E lo stesso è per Hamish, sei suo padre, esattamente come lo sono io – tralasciando le implicazioni genetiche naturalmente. Sei John!”, esclamò esasperato, “Siamo Sherlock e John, tu sei la mia casa, e se non vieni con me e Hamish, se rimani qui…”, non riuscì a finire la frase.
In uno slancio di coraggio – dopotutto ero stato un soldato – gli impressi un bacio sulle labbra.
“Ci vengo, Sherlock. Certo che ci vengo”
 
Se un tempo la vita al 221B di Baker Street era stata rumorosa e quotidianamente pericolosa, con l’arrivo di Hamish e il consolidamento del rapporto tra me e Sherlock, divenne se possibile ancora più chiassosa e confusionaria.
La camera al piano di sopra, che era stata mia, la più piccola, servì da cameretta per Hamish, contenente tutti i giocattoli regalatigli da tutti i nostri conoscenti e amici (che si erano irrimediabilmente innamorati di lui), e la piscinetta gonfiabile, e la quantità abnorme di abitini donati da Mycroft.
Io e Sherlock dormivamo insieme nella camera di sotto, svegliandoci a ogni più lieve rumore proveniente dall’interfono sul mio comodino, comunicante con la stanza di Hamish.
Ricominciammo a prendere dei casi e – non ne siamo mai stati troppo fieri – spesso portavamo Hamish con noi. Fu così che conobbe, e adorò, Molly. In una delle poche visite – presto capimmo che non era un luogo adatto a un bambino – all’obitorio.
Il primo giorno di scuola di Hamish, io e Sherlock fummo irraggiungibili per i nostri clienti, e accompagnammo il nostro bambino a scuola.
Tra una folla di mamme starnazzanti e ragazzini in lacrime, noi tre spiccavamo di sicuro. Hamish, mio figlio, appena vide avvicinarsi quella che doveva essere la maestra, si voltò desolato verso di me, stringendomi la mano.
“Guarda che adesso pa’ comincia…”.
Ci misi meno di mezzo secondo per capire, il tempo necessario a Sherlock per cominciare.
“A-ha. Celibe, sui trentasei anni, ha un gatto, persiano. Figlia unica, ha dormito da un’amica, i residui di zucchero sul maglione, sotto il seno, indicano che è piuttosto goffa, si è fatta cadere addosso la ciambella. Pupille allargate e guance rosse: ama il suo lavoro. Mh”, rifletté, mentre io e Hamish ci scambiavamo uno sguardo, “Può andare”.
Sollevato dal verdetto, Hamish si alzò in punta di piedi e abbracciò Sherlock, che gli accarezzò delicatamente i capelli.
“Non vergognarti di essere più intelligente degli altri, anzi cerca di insegnare loro quello che non…”.
“Non ascoltarlo”, lo interruppi con un’occhiataccia, rivolgendomi a Hamish, “Sii gentile con tutti, e non fare lo sbruffone come tuo padre”, Sherlock emise un verso di disappunto, “Ci vediamo tra qualche ora”, sorrisi mentre Hamish mi si gettava tra le braccia, e ricambiai la sua stretta.
“Non sono uno sbruffone”, protestò Sherlock mentre Hamish e gli altri bambini entravano in classe.
“Sei decisamente uno sbruffone. Ma sono passati quasi dieci anni e ti amo ancora lo stesso, quindi non me ne preoccuperei troppo”.
Sherlock scoppiò in una risatina soddisfatta, si abbassò finché le nostre labbra non furono allineate e mi diede un bacio leggero.
“Dici che andrà tutto perfettamente, vero? Che si troverà degli amici e sarà contento…”, gli sussurrai all’orecchio.
“Naturalmente. Per fortuna, mi tocca dire, ha preso qualcosa anche da te”.
 
Ho trascorso tutta la mia vita in cerca di qualcosa che si avvicinasse all’idea di pace. In passato non ho avuto molta fortuna, sono stato ferito in molti modi diversi e mi sono trovato tante volte sull’orlo del baratro, indeciso se buttarmi o provare a rimanere in piedi, una volta ancora. Beh, sono rimasto in piedi. Nonostante tutto. E oggi posso dire di aver trovato quello che cercavo. La pace.
Hamish sta frequentando il college, vuole laurearsi in medicina e – con leggero disappunto di Sherlock – diventare un pediatra.
Per quanto riguarda me e Sherlock, viviamo ancora in Baker Street e accettiamo i casi che ci vengono proposti. Naturalmente solo quelli che Sherlock non reputa troppo noiosi. Ma devo dire che col tempo si è fatto più indulgente.
La mia pace è la mia famiglia. È trovare Sherlock sul divano, nell’esatta posizione in cui l’avevo lasciato quando sono uscito per fare la spesa. Sono le telefonate di Hamish, e il modo in cui risponde “Ciao pa’”, e lo sento proprio che è felice di parlare con me. Le foto sul caminetto, accanto al teschio, naturalmente, e il nuovo frigorifero nell’angolo, perché con un bambino non potevamo certo tenere parti umane accanto ai pomodori.
Mi sono arrabbiato con la mia vita, tante volte, per tutto quello che mi ha tolto e che ho perduto, ma se queste cicatrici mi hanno permesso di diventare quello che sono e di avere quello che ho adesso, allora non rinnego neanche la più piccola.
Mi chiamo John Watson, sono un medico e vivo al 221B di Baker Street. Sì, con il mio compagno e mio figlio. No, non sono propriamente gay. Sì, esatto, sono solo innamorato di lui.
Sì, sì, sono felice. Sono molto felice.
 





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Ecco l'ultimo capitolo :) Ringrazio tutti coloro che hanno lettorecensitoseguito questa storia, tipo che vi ho amato <3
L'avventura di John, Hamish & Sherlock non finisce qui per la vostra (spero) felicità ehehe!
Ho già pronti due spin-off e due altri in cantiere su questa straana famiglia! E bbeh, dato che sono in una landa desolata senza niente da fare, li finirò/pubblicherò molto presto. Magari anche nei prossimi giorni :3
Eee bon, niente, mi permetto di farmi un po' di pubblicità (volete sprofondare nella disperazione, perchè angst è sempre sempre meglio? cosa aspettate!? correte a leggere Beneath - e poi, se volete, potete anche uccidermi), e di ringraziarvi ancora.
Un bacione e alla prossima!
Lu

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