You found me

di Seren_alias Robin_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quel profumo di salsedine ***
Capitolo 2: *** Il fascino dei chitarristi ***
Capitolo 3: *** We’ve got to believe it’ll be alright in the end ***
Capitolo 4: *** Posso abbracciarti? ***
Capitolo 5: *** Buongiorno ***
Capitolo 6: *** Le 16 e 32 ***
Capitolo 7: *** Stelle fosforescenti ***
Capitolo 8: *** Siberia ***
Capitolo 9: *** Combattenti? ***
Capitolo 10: *** You found me ***



Capitolo 1
*** Quel profumo di salsedine ***


L’estate era iniziata, aveva bussato alla sua porta prepotentemente per settimane e ora lei, piccola giovane diplomata, poteva aprire al sole.
Vera era stata promossa con ottimi voti e non vedeva l’ora di sentire il profumo familiare di salsedine riempirle le narici, ascoltare il rumore dolce del mare confondersi con la musica lontana dei lidi e le risate dei bambini. Tutto le sembrava dieci volte più bello man mano che la macchina di suo padre mangiava i chilometri che la dividevano da quel paradiso. La sua spiaggia.
Le veniva voglia di aprire i finestrini e urlare il suo entusiasmo contro i colori caldi del cielo, ma mentre premeva il bottoncino per abbassare il vetro fu richiamata da sua madre: stava facendo entrare aria calda e in auto c’era l’aria condizionata accesa. Sbruffò e cercò il suo Ipod verde nella sacca. Infilò le cuffiette appena in tempo per sentire il ritornello di una delle sue canzoni preferite in quel periodo: Somebody that I used to know. Le note la rilassavano, mentre cercava di tradurre almeno qualche parola. L’inglese non era mai stato il suo forte. Rinunciò quasi immediatamente, in testa le immagini del video di Gotye che considerava una piccola opera d’arte. Si era talmente svuotata la testa che quasi non si accorse di essere arrivata a destinazione.
La piccola casa del mare che condivideva con buona parte della famiglia “allargata” era esattamente come l’aveva lasciata l’anno prima. Il giardino era un po’ troppo vuoto per i suoi gusti, ma c’era ancora l’enorme albero di pesco che suo padre aveva piantato l’anno che era nata lei, e le conchiglie colorate incastrate al muro. La osservava incantata, con le mani incollate al vetro come quando era bambina, impaziente di scendere dall’auto. Negli anni i sentimenti che provava verso quell’abitazione erano mutati molte volte. L’aveva amata da bambina, quando bastava il grande dondolo blu per scacciar via i cattivi pensieri; era caduta così tante volte dallo scalone in giardino, sempre allo stesso modo, eppure non aveva mai pianto ogni volta che succedeva, troppo contenta di essere di nuovo lì.
L’aveva odiata poi, negli anni dell’adolescenza, innamorata persa di un ragazzo che in realtà non esisteva se non nella sua testa e nei suoi diari, impegnata a rincorrere i suoi sogni già spenti. Erano stati anni di scontri, di rifiuto per quel mare troppo grande per lei, che non sapeva consolarla; un mare che, grande com’era, non trovava spazio però per le sue lacrime giovani.
Ma tutte le tempeste finiscono prima o poi. E ora finalmente ritrovava la bellezza di quel posto, come quando era bambina, ma con una consapevolezza diversa. Era tempo di riprovare ad ascoltare il mare.
 
 
Matteo era uno strano ragazzo.
Di certo dava l’impressione di essere un tipo poco raccomandabile, con la testa rasata completamente, a parte la zona di capelli scolpiti a cresta, e i due piercing, al naso e sotto il labbro. Per non parlare poi del braccio sinistro completamente tatuato.
 
Vera era una splendida ragazza di diciannove anni. Aveva capelli lisci e neri che contrastavano nettamente con la carnagione chiara e delicata, ma senza stonare. Nulla stonava in lei.
 
Matteo era stato bocciato a scuola, l’anno della maturità.
Amava la musica, il rock in particolare, ma senza disprezzare gli altri generi. La sua cultura musicale era vastissima. Suonava la batteria, che aveva imparato da autodidatta.
 
Vera suonava il pianoforte da tredici anni. Non era stato amore a prima vista. Amava i colori e quei tasti bianchi e neri le risultavano troppo seri e tristi. Ebbe modo di ricredersi solo dopo aver imparato a suonare Per Elisa. Ma continuò a preferire tutta la vita di gran lunga la chitarra.
 
Matteo era un gran tifoso della Juve. A guardarlo non si sarebbe mai detto che potesse interessarsi di calcio. E amava gli animali, in particolare i cani.
 
Vera amava le lunghe passeggiate in solitudine, o al massimo in compagnia di chi sapesse godersi il silenzio.
A volte passava ore chiusa in camera ad ascoltare Janis Joplin. Non era musica da poter ascoltare sempre. Andava capita, letta, assaggiata, doveva possedere chiunque l’ascoltasse per quattro minuti. Quelle erano le canzoni che ascoltava fino all’ultima nota, secondo, vibrazione.
Amava il calcio, suo padre da piccola la portava allo stadio a vedere le partite. Da allora era nata la sua passione per il Milan.
 
Matteo suonava anche la chitarra. Considerava la sua chitarra meglio di qualunque ragazza. Suonarla era come fare l’amore per lui.
Da qualche tempo aveva lasciato la sua band storica.
 
 
Scese dalla macchina di suo padre e aiutò gli altri a portare dentro le valigie. Sua madre come al solito ci mise un po’ a trovare le chiavi. Le sue borse erano un’arma a doppio taglio. Ci ficcava dentro l’impossibile, e puntualmente perdeva qualcosa. Vera sorrise ricordandole che le aveva infilate in tasca poco prima di partire.
Entrarono tutti: lei, i suoi genitori, gli zii, i nonni.
Quella era decisamente la casa dei miracoli; così piccola, sapeva tenere insieme tutti.
Sua zia le si avvicinò. Vera non riusciva ancora a chiamarla zia, nonostante fosse la moglie del fratello di sua madre a tutti gli effetti da qualche mese: le passava solo dieci anni e per lei era quasi un’amica del cuore.
-          Hanno bocciato mio cugino, lo sapevi? –
La ragazza la guardò alzando un  sopracciglio. Conosceva Matteo solo per sentito dire, e di certo la notizia non la sorprese. – Da quello che mi hai raccontato c’era da aspettarselo. Come l’hanno presa i tuoi zii? –
-          Oh bene, l’hanno cacciato di casa. –
-          Cosa? – sbottò, gridando quasi, mentre iniziavano a disfare le valigie.
-          Ebbene si. Mio zio non ce la faceva più. Quest’ultima bravata gli è costata cara. – rispose sinceramente dispiaciuta. Ma si rianimò quasi subito.
-          Dove andrà ora? – chiese Vera.
-          In realtà passerà un po’ di tempo qui da noi. Ho pensato di invitarlo e i tuoi nonni sono d’accordo, tutti gli altri… -
-          Qui? -  la interruppe. – Non c’è spazio neanche per noi a momenti e tu lo inviti qui? –
-          Dormirà in camera con tuo zio e io dividerò la stanza con te. Contenta? –
Davanti a quell’entusiasmo non poté fare a meno di sorridere. In realtà non le dispiaceva affatto dividere la camera con lei. Era l’ospite a preoccuparla un pochino.
-          Fidati è un bel tipo – disse sua zia quasi a leggerla nel pensiero. – E suona la chitarra meglio di chiunque io conosca. Potrebbe essere l’occasione per rispedirlo sulla via giusta. –
Vera si limitò ad annuire, non le veniva in mente niente di meglio, mentre continuava a sistemare le sue cose nell’armadio. Sperò con tutto il cuore di trovare uno spazio per i suoi libri in un angolo di quella casa già così affollata.
 
 
Matteo si era addormentato nel pullman ascoltando i Guns N Roses. Aveva deciso di coprire le urla di sua madre che ancora facevano eco nella testa, ma si era rivelata un’impresa difficile. Una cupe nube di rimorso aleggiava su di lui. In fondo non voleva causare dispiacere a nessuno.
Si svegliò a causa dei brutti sogni. Si sentiva ansioso come non gli succedeva da tanto ma non ne capiva il motivo. Era libero. Non doveva dare conto a nessuno delle proprie azioni adesso. Non doveva per forza raggiungere sua cugina e la sua famiglia.
Ma capì che un po’ di sabbia nelle scarpe non poteva che fargli bene.
E nel frattempo era iniziata una nuova canzone. Acquiesce.
Lanciò un’occhiata alla sua chitarra, le mani che morivano dalla voglia di sfiorare quelle corde.
L’autista del pullman gli segnalò che quella era la sua fermata. Matteo afferrò la chitarra e l’enorme zaino blu e senza ringraziare scese dal pullman velocemente. Non era ancora il tramonto e un vento caldo scivolò sotto la sua maglietta nera. Era piacevole, dopotutto, quasi confortante dopo il viaggio. Uno strano modo del posto per dargli il benvenuto.
Non era difficile ascoltare il rumore del mare, anche se non era proprio vicinissimo. Lontano ma presente, poteva immaginarlo con i suoi occhi, quegli occhi che avevano rubato un po’ del colore splendente delle onde.
-          Benvenuto, dunque. – sua cugina Nunzia lo aspettava proprio vicino alla fermata, sorridente.
Qualcosa nel suo viso era diverso dall’ultima volta che lo aveva visto. I tratti si erano addolciti, la pelle era più morbida e luminosa, le guancie piene e il sorriso raggiante. Tutto questo le donava tantissimo. Era impossibile non restituire quel sorriso.
Provò a strappargli di mano lo zaino ma Matteo fu più veloce di lei e lo allontanò dalla sua portata.
-          Non sono stanco. Forza, guidami nella mia prossima prigione. –
-          Potresti amarla, questa prigione. Non vedo l’ora di presentarti mia nipote. Ha la tua stessa età. –
-          Si lo so, me ne hai parlato. -  rispose Matteo stancamente. – Immagino che sia un piccolo genio da cento e lode, futura studentessa di medicina, che mi darà ripetizioni di matematica in spiaggia e altre stronzate simili vero? –
-          In realtà Vera ha preso un voto molto più modesto. E le piacerebbe frequentare il DAMS. Perché devi sempre catalogare le persone ancora prima di conoscerle? – rispose stizzita Nunzia.
Era una bella domanda. Di certo, era quello che il resto del mondo faceva con lui.
DAMS. Bello. Avrebbe voluto provarci anche lui, se solo non avesse scelto di farsi bocciare. E ancora non aveva trovato risposta a tutte le domande che aveva sentito in quei giorni. Perché?
Chi doveva punire, a parte se stesso? Si ricordò le parole della sua prof di matematica: “A volte un anno perso è un anno guadagnato.”
Certo. Ma lui non ne aveva affatto bisogno. Non era mai stato stupido. Per lui la maturità poteva essere una passeggiata. Ogni volta che i pensieri miravano verso questa direzione si sentiva talmente male da doverli rimuovere subito.
Come la sera del venti giugno, quando aveva ascoltato al telegiornale le tracce che erano uscite alla prova di italiano. Montale. Crisi e i giovani. Il labirinto. Alcune erano davvero splendide. E poi quella traccia…
“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.”
Con quella frase Nizan, quel filosofo sconosciuto, aveva conquistato la sua stima. Non avrebbe avuto dubbi su quale traccia scegliere.
Capì di essere quasi arrivato a casa dei suoceri di Nunzia. Era il cattivo ragazzo che tutti stavano aspettando, come l’attrazione più ambita di un circo. E lui, personificazione del menefreghismo, si sentiva nervoso, scomodo, fastidioso. Era snervante quella sensazione di inadeguatezza.
Nunzia teneva aperto il cancelletto verde per lasciarlo passare. A testa bassa, con lo zaino ancora in spalla, entrò nel giardino della casa. Un dondolo si muoveva piano scricchiolando leggermente, un po’ per il vento pomeridiano che lo aveva seguito fino a lì, un po’ per un piedino che spingeva appena a intervalli regolari. Non poteva ancora vedere a chi apparteneva, finchè due occhi di un verde incredibile fecero capolino dai cuscini del dondolo, sorridenti.
Matteo rimase lì impalato per qualche secondo, mentre la ragazza gli si avvicinava, circospetta.
-          Ciao. – disse, senza entusiasmo.
-          Ciao –   rispose lui, con una punta di ostilità fin troppo percettibile. Non gli piaceva che quella tizia lo scrutasse in quel modo. Forse per i piercing, forse anche un po’ per i tatuaggi, c’era abituato e di solito non ci faceva più neanche caso. Quegli occhi invece erano diversi. Avevano lasciato crollare in un attimo le sue difese.
-          Lei è Vera. – si intromise Nunzia. – Mia nipote. Ma è talmente vecchia che non mi chiama neanche zia.- rise.
Vera lasciò cadere in avanti i lunghi capelli, sulle spalle esili, e per la prima volta sorrise.
-          Sei tu ad essere troppo giovane zietta. – poi si rivolse a Matteo. –Suoni?-
Il ragazzo guardò istintivamente la custodia nera della sua chitarra prima di rispondere. –Ah, questa, si. –
-          Si. – rispose lei. – Nunzia me lo aveva detto. –
-          Mi hai appena fatto una domanda inutile, allora. –
Vera gli lanciò un’occhiata sprezzante e senza aggiungere altro entrò in casa.
-          Bravissimo. – esclamò Nunzia a denti stretti. – proprio bravo cuginetto, non c’è che dire. L’hai proprio conquistata. –
-          Non mi piacciono le saccenti – rispose come a volersi giustificare, intento a guardarsi intensamente
 le unghie dei piedi. Sua cugina sospirò e seguì Vera dentro casa. Matteo, dopo qualche secondo di incertezza, la imitò.
 
 
Le presentazioni furono molto sbrigative, cosa di cui fu estremamente grato a tutti.
Il padre di Vera, un uomo poco più che quarantenne, sembrava severo a buono. Strinse la mano di Matteo guardandolo qualche secondo più del dovuto, e sparì in camera sua. Sua moglie era una donna bellissima dai grandi sorrisi, espansiva forse ma non invadente. Francesco invece, il marito di Nunzia e zio di Vera, era probabilmente il migliore di tutti. Lo salutò con una pacca sulla spalla, mentre i nonni giocavano a carte e lo salutavano con un cenno della mano.
-          Visto? Nessuno qui vuole giudicarti. Anzi, dato che siamo così tanti tra un po’ si scorderanno della tua presenza. – disse Francesco, mentre lo aiutava a disfare quel poco che aveva portato con sé.
La camera che avrebbero condiviso era piccola, giusto lo spazio di due letti singoli dalle lenzuola arancioni, e un armadio. Le pareti erano di un verde rilassante.
-          Fa come se fossi a casa tua. –
Frase di rito. Casa sua. Ma non era a casa sua. Tutta quella gentilezza non era richiesta, non la voleva. Prese a schiaffi il suo cervello. Doveva smetterla di mettersi a sindacare tutto.
-          Grazie. – rispose semplicemente. Un sorriso stavolta sarebbe stato troppo forzato.
Francesco uscì dalla camera chiudendo la porta. Non poteva ancora credere di trovarsi in quella situazione, ospite di sconosciuti che avevano accettato di accogliere il cattivo ragazzo in vacanza con loro. Sospirò pensando a Vera. Era davvero bella, e lui era riuscito a farla innervosire ancora prima di mettere piede in casa. Bella, si. Ma aveva quell’aria antipatica che aveva sempre detestato nelle ragazze.
La maglia che indossava era decisamente troppo sudata. Cercò qualcosa di fresco nello zaino e prese a togliersi la maglia. In quel momento qualcuno aprì la porta.
Era Vera. Si affrettò ad indossare la t-shirt bianca, arrossendo senza riuscire ad evitarlo.
-          Scusami. – disse, senza ombra di imbarazzo. Per evitare di farsi notare, si lasciò cadere sul letto, guardandola.
Indossava un abitino blu con fantasia floreale e sorrideva. Aveva sbagliato. Non era affatto bella. Era splendida.
Prima che potesse dire qualunque cosa lei si sdraiò affianco a lui sul letto, con un piccolo salto. Erano vicinissimi.
-          Senti non fare il sostenuto con me. Non ci riesci ad essermi antipatico. – disse, guardandolo negli occhi.
-          Io sono antipatico con tutti. – rispose, osservandola a sua volta. Sembrava una gara a chi avrebbe distolto per primo lo sguardo.
-          E io non sono tutti. Sono Vera. E penso di meritarmi una possibilità, non credi? –
Matteo si tirò su a sedere. Aveva perso. – Possibilità? –
-          Già. -  rispose lei continuando a fissarlo intensamente.
-          Dovrebbe essere il contrario. Voglio dire, io sono il mascalzone che è stato cacciato di casa. E tu mi chiedi una possibilità? Quand’è che si sono scambiati i ruoli? –
-          Oh ma cosa c’entra. Te l’ho detto, non riuscirai mai a risultarmi antipatico. Voglio dire, sei un chitarrista. –
Matteo sorrise. Era strana forte quella tipa.
-          Va bene. Hai la tua possibilità. –
-          Perfetto. – sorrise anche lei. – Allora metti il costume. –
E veloce almeno come era entrata, uscì dalla camera.
 
 
-          Ma ti sembra orario questo? –
-          A quest’ora non ci sta mai troppa gente e l’acqua è caldissima, dunque taci. –
Effettivamente Matteo notò che la spiaggia al tramonto era quasi deserta, salvo qualche coppietta appartata. Vera lasciò cadere ai suoi piedi il vestito blu, rivelando un bikini dello stesso colore. Lo fece con grazia, senza alcuna malizia.
Lo guardò ridendo prima di tuffarsi in quel mare tranquillo, così in fretta che Matteo non aveva avuto neanche il tempo di sfilare la maglietta. Si affrettò a seguirla.
Era vero. L’acqua era caldissima e splendente, illuminata dagli ultimi raggi di sole della giornata che dipingevano quelle piccole onde di colori. La sua pelle non avrebbe potuto chiedere di meglio: era un moto di sollievo indescrivibile.
Vera lo aveva visto entrare e si era fatta più vicina. Vide che gli occhi di lui erano ancora più belli in mare, ma si guardò bene dal dirlo ad alta voce. Erano occhi rubati un po’ al cielo, un po’ al mare. Troppo belli per le parole.
Anche lui la guardava. Aveva notato un piccolo tatuaggio dietro il collo, ora che i capelli bagnati permettevano una maggiore visuale. Era una fenice. Non ne chiese il significato. Era una di quelle cose che andava scoperta, o meglio ancora immaginata, lasciata intrappolata in quel dubbio che rendeva un tatuaggio ancora più bello.
-          Te la sei giocata bene la possibilità. Devo ammetterlo. – disse poi, quando il silenzio cominciava a pesare un po’ fra i due.
-          Lo so. Questo posto a quest’ora è un paradiso naturale. Sono anni che ci vengo da sola. –
-          A fare il bagno? – chiese stupidamente.
-          No. – rise. – Questa è la prima volta. In realtà vengo qui quando ho bisogno della compagnia della solitudine. Resto sulla spiaggia finchè la luce mi permette di disegnare, e ascolto Einaudi. –
-          Compagnia della solitudine. Che strano concetto. –
-          È semplicissimo invece. Non ti capita mai di voler stare da solo? Quei momenti in cui tutto, anche la voce delle persone che ami, ti risulta fastidioso?
Matteo non rispose. Era una sensazione troppo familiare.
-          Quando capita vengo qui a buttare le mie tristezze in mare. – continuò lei. – A volte non serve a un granché. Ma qualche volta funziona. –
-          E ascolti Einaudi? – chiese infine.
-          Già. Ti piace Einaudi? –
-          Molto. –
-          Credo che Einaudi dipinga la musica. Azzurro, quando ho bisogno di un respiro leggero. Bianco, quando c’è la pace di giorno nuovo. Giallo, quando c’è la musica che prende sottobraccio una bella notizia. –
Avrebbe potuto continuare ad ascoltarla per altri mille tramonti senza mai stancarsi. Si sentiva uno stupido per averla giudicata. Quella ragazza era decisamente strana, ma di quella stranezza meravigliosa. Sentiva che era stata ferita tante volte, che era frutto di qualcosa che le era stato fatto, e che forse lei avrebbe ascoltato un po’ delle sue parole confuse. Ma non era quello il momento di parlare. Voleva continuare ad ascoltarla.
-          E rosso? –
-          Rosso. Non ci sono canzoni rosse di Einaudi. O meglio, non ne ho ancora ascoltate. –
-          Le sue canzoni ingannano. Ti fanno credere tante volte che sia finita, e quando la fine effettivamente arriva, ti coglie impreparato. –
-          E’ vero. -  assentì lei. – ma lascia insoddisfatti. Cosa c’è di peggio che essere estremamente soddisfatti di qualcosa? Morirebbe tutto. Invece così hai sempre modo di tornare ad ascoltarlo e di rimanere insoddisfatto ancora una volta.
Ancora una volta rimase senza parole. Ma non ci fu bisogno di sforzarsi a trovarle. La vide uscire dall’acqua a passi lenti.
-          Tra un po’ farà troppo freddo per uscire da qui. Torniamo a casa, ti va? –
-          Certo. – rispose subito, e la seguì. Lei armeggiò per un po’ con la sua borsa, poi gli passo un telo.
-          Tieni. –
Lui lo prese senza ringraziare e se lo buttò sulle spalle. Fuori dall’acqua il freddo dava i brividi. senza aggiungere altro si incamminarono verso casa, avvolti nei loro teli da mare.
 
 
La madre di Vera li aspettava sulla porta e li rimproverò per aver fatto il bagno a quell’ora quasi serale.
-          Potete ammalarvi con questa corrente, lo sapete? –
-          Andiamo mamma, non siamo stati molto e ho portato i teli per entrambi. Fa un caldo della miseria, non farla tanto lunga che sudi e ti arrabbi solamente. – rispose sorridendole strafottente.
-          Un giorno di questi ti ci affogo nel mare. Venite dentro va, fate una doccia al volo che poi ceniamo. –
Vera si voltò verso Matteo. – Vai prima tu. Io ci metto molto più tempo. –
Le sorrise e annuì, poi andò in camera per prendere il necessario. Una doccia era quello che gli serviva in quel momento. 

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Capitolo 2
*** Il fascino dei chitarristi ***


Questo capitolo è dedicato al gruppo delle mie bellissime Disperande Innamorate,
che tanto mi appoggiano,
e tanto mi amano, 
e tanto tanto tanto amore.
Anche se con S. non è andata come avevo sperato, vi regalo una storia, e magari ci metto pure un happy ending.




Quella sera non sarebbero usciti.
Si era alzato un vento forte sul mare da quando erano tornati a casa dopo la fuga in spiaggia, e quel tempo non invitava alle passeggiate sul lungomare. Al massimo, spingeva verso un abbraccio. Ma Matteo non avrebbe mai osato toccarla di sua iniziativa. Temeva che potesse esplodere in mille pezzi alla minima carezza.
Non era solo quello il motivo per cui restavano a casa. Era una sera un po’ strana, la sera degli artisti l’aveva chiamata Vera. Si erano trovati silenziosamente d’accordo su questo. Entrambi avevano di meglio da fare che perdersi in quattro passi tra la gente.
Ogni tanto la beccava a guardarlo in un modo curioso, e lei non ritirava mai lo sguardo. Cosa c’era di meglio che sostenere uno sguardo? Anche se non si vinceva mai contro Vera.
Dopo cena, ad uno ad uno si eclissarono tutti quanti, mentre il cielo si colorava di notte. Silenziosi coinquilini persi nei loro pensieri, o forse abbastanza discreti da lasciare perdere gli altri.
Matteo si lasciò cadere sulla dondola con la chitarra e iniziò a suonare qualcosa. Era molto comodo lì.
Vera riconobbe che stava arrangiando Stairway to Heaven dalle prime tre note, ma non si avvicinò; rimase ad ascoltarlo da dentro casa affacciata alla finestra, senza che lui la vedesse, muovendo la matita sul voglio quasi a tempo.
Non voleva mettersi in mezzo tra il musicista e la sua chitarra.
Quasi non ascoltava più, la musica era solo un ronzio. Aveva lasciato perdere il suo disegno mentre la matita cadeva a terra e rotolava troppo lontano per le sue dita pigre, e osservava le dita di Matteo sulla chitarra, rapita. Mani grandi e affusolate, quasi delicate per un ragazzo; mani nate per vivere su quelle corde, di quelle corde.
Il fascino dei chitarristi.
Stava cambiando pezzo.
Imperfetto. Sporco.
Non poteva continuare ad ascoltarlo.
Sbattè con violenza i vetri della finestra per chiuderla, ma anche per manifestare la sua presenza.
Le corde della chitarra vibravano ancora, ma la musica era finita non appena l’azzurro aveva visto il verde.
-          Non volevo interromperti. –
Come si rispondeva ad una bugia?
Aveva capito che mentiva semplicemente dal fatto che non lo aveva guardato negli occhi. Non guardava da nessuna parte, mentre cercava disperatamente qualcosa da guardare che non fosse lui.
-          Figurati. – rispose con voce innaturale e un tono terribilmente cordiale.
Non cercò più i suoi occhi, e riprese a suonare la chitarra. Sentì il peso di lei sui cuscini del dondolo, mentre si sedeva affianco a lui.
-          Sei così bravo. – disse, e qualcosa nel tono di voce gli suggerì che stava sorridendo.
-          Vuoi imparare? –
-          Voglio qualcuno che mi accompagni ogni volta che ho voglia di cantare. –
Non era la risposta che si aspettava, e preferì continuare a suonare.
-          Non lo trovi noioso? -  disse dopo un po’, spezzando a metà una canzone che Vera non conosceva.
-          Non c’è niente di noioso nel suono di una chitarra. Noioso è fare la fila alla posta, o magari alla cassa del supermercato, per poi scoprire che sta per chiudere. Noiosa è una lezione di matematica che anticipa quella di filosofia. –
-          Capirai… -
-          Non ti piace la filosofia? –
-          Sono quella del terzo. – sorrise.
-          Beh, era un esempio un po’ azzardato. – sorrise anche lei scambiandosi finalmente gli occhi. Poi gli strappò la chitarra dalle mani. Lui la lasciò fare, anche se era la prima volta che una ragazza semplicemente “toccava” la sua chitarra.
-          Ho fatto qualche lezione alle medie. Qualcosa so arrangiarla – disse lei guardando lo strumento con gli occhi che brillavano; ma non osava sfiorare le corde, come se avesse paura di romperle. La tenne tra le dita per qualche frazione di secondo, poi gliela restituì. - Posso ascoltarti tutta la notte suonare questa –
-          Non hai niente di meglio da fare? –
Il tono di voce non fu sprezzante come voleva, non l’aveva scalpita neanche un po’.
-          Non ho niente di meglio da fare. –
-          Allora posso restare tutta la notte a suonare, se ti fa piacere. –
Vera tirò su i piedi e si mise a gambe incrociate, senza aggiungere altro, chiudendo gli occhi in attesa di sentire ancora Matteo suonare.
 
 
Si erano addormentati lì, l’uno con la testa sulla spalla dell’altra, e una chitarra abbandonata a terra. Nunzia li osservò un poco, e c’era tanta tenerezza in quello sguardo che probabilmente a Matteo sarebbe risultato quasi smielato, mellifluo. Ma non poteva vederla, preso a rincorrere chissà quale sogno.
-          Sveglia. – sussurrò piano Nunzia, sfiorandogli il braccio.
Aprì gli occhi di scatto, mentre vedeva i sogni sfuggirgli, risucchiati in fretta dall’imbuto della realtà. E già non ricordava più cosa stava sognando.
-          Ohi. – almeno era quello che credeva di aver detto.
-          Non credo che suo padre sarà felice di trovarla così quando si alzerà per andare a lavorare tra poche ore. – dichiarò sua cugina, facendo cenno verso Vera che ancora dormiva beata.
-          Lavorare? – capiva a stento quello che Nunzia stava dicendo, mentre si strofinava gli occhi muovendosi il minimo possibile per non disturbare la ragazza.
-          Si, lui ha accompagnato solo sua moglie e Vera. Domani mattina tornerà a lavoro. Non gli hanno dato le ferie per questo mese. –
Matteo guardò con la coda dell’occhio Vera, poi le accarezzò un braccio.
Sentì il suo respiro cambiare a poco a poco, mentre anche lei si svegliava. Aprì gli occhi, contenta di ritrovarlo affianco a lei. Temeva che l’alba oltre le stelle si portasse via anche lui.
-          Scusami Vera, è che ci siamo addormentati qui, e sicuramente vorrai dormire un altro poco nel tuo letto prima che si sveglino tutti gli altri. –
Non sapeva cosa stava dicendo. Nunzia era rientrata senza che lui se ne accorgesse, e non sapeva bene se maledirla o ringraziarla per tutta la vita. Vera si tirò su e in silenzio entrò in casa, senza voltarsi verso di lui.
Anche lei aveva fretta di ringraziare qualcuno.
 
 
Vera si svegliò con un forte dolore al collo. Forse aveva dormito male davvero, ma poco le importava. Era solo l’ennesima dimostrazione che quella chitarra aveva suonato davvero per lei. Sorrise al cuscino, girandolo dal lato fresco. Non aveva idea di che ore fossero, ma dalla luce che entrava dalla finestra e dal letto vuoto di fronte al suo di certo non era presto. Si stiracchiò per bene e si concentrò sui rumori che provenivano dalla cucina. Nessuna voce maschile che potesse riportarla a lui.
Si alzò dal letto cercando alla cieca le ciabatte, per poi osservarsi un attimo allo specchio. Aveva il trucco nero degli occhi sbavato fino alle guancie, e l’espressione stanca. Non era tardi come pensava, erano solo le 10. Andò in bagno e si preparò più in fretta che poté, ansiosa di fare colazione.
Ma quando entrò in cucina trovò solo sua nonna e l’annuncio triste che tutti erano già usciti. Anche Matteo.
Bevve il suo caffè dieci volte più amaro e salutò sua nonna prima di uscire.
-          Dove vai? –
-          Raggiungo gli altri in spiaggia. –
-          Non credo che Matteo sia andato in spiaggia. –  accennò sua nonna, mentre sciacquava la tazzina di caffè, sorridendo fra sé.
-          Ma chi ti ha chiesto niente di Matteo – rispose stizzita lei, e uscì di casa.
Prese la sua bici e si mise a pedalare a vuoto, mentre ascoltava la radio sul suo Ipod. Virgin Radio quella mattina non le era molto amica.Wonderwall.
Li odiava da quando aveva conosciuto la musica. Quei due dalle leggendarie sopracciglia non l’avevano mai conquistata, nonostante conoscesse un bel po’ delle loro canzoni.
Eppure la sera prima, quando era stato Matteo a suonarla, le era sembrata talmente bella che quasi non l’aveva riconosciuta.
Non capiva perché quel ragazzo le facesse quell’effetto. Lo conosceva solo da poche ore in fondo.
Era bello, certo, ma non era questo quello che contava. Le teneva testa, e le sfuggiva, per poi farsi ritrovare in qualche nota distratta.
Nel frattempo la canzone finiva e ne iniziava una nuova.
Green eyes.
Che simpatici quelli di Virgin Radio, a mettere i Coldplay dopo gli Oasis. Sembrava che qualcuno stesse tracciando la colonna sonora della sua giornata.
Sentiva sempre la necessità di avere musica. Una mattina senza un risveglio puramente musicale per lei era già da considerarsi negativa. Forse era anche per quello che Matteo le piaceva così tanto…
Lo cercava inconsciamente in ogni viso che incontrava, anche se era davvero difficile confondere un tipo del genere con qualcun altro.
Girò per mezz’ora sotto il sole che diventava sempre più caldo sulla sua pelle chiara. Era fastidioso. Maledicendolo si diresse verso la spiaggia, raggiungendo sua madre. Non appena fu abbastanza vicina all’ombrellone blu di suo zio, lo vide. Era lì insieme agli altri, steso all’ombra sorridente mentre chiacchierava con Nunzia.
Annullò la distanza con loro con gli ultimi tre passi e si annunciò con un timido – Buongiorno. –
-          Sei ancora addormentata? -  la prese in giro suo zio, proprio mentre Matteo si girava verso di lei, continuando a sorridere senza dire niente.
-          C’è un mare splendido stamattina. – disse poi, guardandola.
-          Potevate svegliarmi. – rispose Vera, inacidita.
Nunzia stava per dire che aveva preferito lasciarla dormire visto cos’era successa la sera prima, ma uno sguardo di Matteo fece calare il silenzio.
Vera sistemò il telo affianco a Matteo, passandogli una cuffietta.
-          Virgin? Che brava ragazza – disse lui, prendendola.
Rimasero per dieci canzoni lì, tanto che gli altri cedettero che si fossero addormentati. In realtà per gran parte del tempo si erano guardati negli occhi.
La madre di Vera la guardava ogni tanto. Conosceva troppo bene sua figlia per non capire. Quello che non capiva era come potesse piacerle quella cresta. Sorrise aprendo il suo giornale e lasciando sfuggire quei pensieri verso qualcosa di altrettanto inutile.
-          Ti va di fare due passi verso il lido? – suggerì Vera mentre un’altra canzone finiva.
-          Conosci mio cugino da ieri e me lo hai praticamente rubato. – si intromise Nunzia ridendo prima che Matteo potesse rispondere.
-          Chiedo scusa. –
-          Andiamo al lido va. – rispose Matteo, alzandosi velocemente e offrendole la mano per aiutarla ad alzarsi. – prima che mia cugina si faccia prendere da qualche assurda gelosia morbosa. –
Vera lasciò un po’ più del dovuto la sua mano in quella del ragazzo. Fu lui a ritrarsi, rimanendo comunque vicino mentre la seguiva verso il lido. Francesco li osservò con la coda dell’occhio, in preda ad una sorta di tenera gelosia verso la nipote. Guardò sua moglie, che era raggiante in volto, ed evitò di parlare.

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Capitolo 3
*** We’ve got to believe it’ll be alright in the end ***


La seconda sera di mare finalmente Vera e Matteo uscirono.
Il vento si era ritirato su qualche altra spiaggia lontana, mentre gli ultimi colori della giornata lasciavano posto alle stelle. Era il momento che preferiva. L’attimo successivo al tramonto del sole, quando vi è ancora traccia di quella luce, come un ricordo sbiadito di una felicità passata e tutta la malinconia che ne segue.
Vera indossava una maglietta color ottanio. Amava quella tinta, era la stessa che aveva scelto per il suo vestito dei diciotto anni qualche tempo prima. Uno splendido abito da sera lunghissimo, con tanto di coda per festeggiare la sua primavera. Una sera rubata ad una principessa distratta. L’unica volta, forse, in cui si era sentita veramente a suo agio in un vestito lungo, e in una favola.
Sorrise ricordando tutte le belle sorprese di quella giornata. Troppe forse. Aveva visto certe amicizie appassire come i fiori che le avevano regalato.
E quell’amica, quella che aveva conosciuto la voce dei suoi pensieri più nascosti, silenziosi, quella dei discorsi infiniti guardandosi negli occhi senza dire una parola, si era persa in un amore giovane che non le aveva lasciato spazio per nient’altro. Avrebbe mai ritrovato la stessa complicità in un’altra persona? Vera ancora non lo sapeva. Ma di certo quell’amica non esisteva più. E tutto quello che voleva era essere un po’ più se stessa e un po’ meno lei, come la canzone dei Linkin Park. Tutto quell’insieme di ipocrisia e superficialità che era diventata era troppo lontano da lei ormai, anche solo per portare dei fiori sulla tomba della loro amicizia.
Non riusciva proprio a capire come un tramonto così bello potesse lasciarla abbandonarsi a quei pensieri tristi. Forse perché era il compleanno della sua ex migliore amica. Proprio quel giorno.
Guardò Matteo che se ne stava con i piedi nell’acqua. Ancora una volta erano rimasti da soli in spiaggia.
-          Stasera ti presento i miei amici. – disse, allontanando per sempre il fantasma di quell’amica d’infanzia, mentre si perdeva invece nell’immagine dei suoi veri amici.
Era sempre stata una tipa socievole, con tante persone che entravano e uscivano dalla sua vita a intervalli regolari; ma i suoi amici c’erano sempre stati, e se per caso avevano deciso di andarsene per un poco li aveva sempre ritrovati senza doverli cercare. Andrea e Giusy.
Avevano frequentato scuole totalmente diverse, avevano ascoltato storie diverse, respirato gente diversa. Non avevano nulla da dividere. Ma erano eterni, così li chiamava nella sua testa quando pensava a loro.
Entrambi del paese dove viveva Vera, si conoscevano sin dall’asilo.
Andrea era nato lo stesso giorno di Vera, ma le rinfacciava sempre di essere più grande di lei di qualche ora. Aveva la fissa per i dilatatori, ma non riusciva ad allargare quel maledetto buco dell’orecchio nemmeno di mezzo millimetro. Era un nerd quasi malato, che condivideva con le altre due una maledette sfiga in amore che li tormentava sin dalle scuole medie. Un giorno era rimasto affianco a Vera per un intero pomeriggio, quando qualcuno l’aveva ferita così tanto da provare un dolore che andava oltre le lacrime, senza dire niente ne tantomeno spingerla a dire qualcosa. Da allora, se era possibile, aveva conquistato ancora di più tutto il suo affetto.
Giusy poi non avrebbe saputo descriverla. Era una di quelle persone comete, che passano ogni ventimila anni e che concede la sua spettacolare visione solo a pochi fortunati. Riusciva a parlare con lei liberamente di qualunque cosa, anche di sesso, senza alcun pudore, nonostante fossero fondamentalmente molto diverse. Per colpa della sua tesina, aveva preso un voto di maturità molto più basso di quanto meritava, ma era stato spettacolare sentirla parlare di erotismo davanti agli occhi di una commissione fin troppo pudica. L’avevano ritenuta coraggiosa, ma poco ortodossa. I suoi occhi erano sinceri e grandi, mentre i suoi lobi dilatati erano motivo di invidia per Andrea, che li guardava sempre con desiderio e le chiedeva continuamente di poterci fumare dentro.
Quando pensava a loro, Vera era felice. Non dovevano compensare nulla. C’erano e basta. Si erano scelti tra di loro, nessuno gli aveva imposto questa amicizia, come capitava spesso con i compagni di classe.
Non riusciva a capire perché fossero ancora entrambi single, dato che trovava sia Andrea che Giusy bellissimi. Era innamorata di entrambi, di quell’amore tenero che si può provare solo per un amico, non costretto, senza aspettarsi nulla in cambio se non un ghiacciolo al limone al bar in piazza quando non ci stanno più spicci in tasca.
Andrea aveva finalmente una macchina oltre che la patente, e anche se lui e Giusy non villeggiavano lì, le avevano promesso che sarebbero andati a trovarla qualche sera. Del resto non era poi così distante, si trattava di mezz’ora di macchina.
Matteo si voltò a guardarla spezzando i suoi pensieri. Sorrideva.
-          Pensi che potrei piacere loro? –
-          Loro chi? – rispose Vera sorridendo di rimando.
-          I tuoi amici, genio. – sospirò lui, mentre la pietra che aveva lanciato in mare saltava per la terza volta.
-          E da quando ti interessa quello che pensano di te? –
-          Da sempre, quando si tratta di te. –
Vera arrossì violentemente, ma il cielo ormai scuro la aiutò a nasconderlo.
-          Sono i miei amici, se piaci a me piacerai anche a loro. – rispose con un tono sulla difensiva.
Matteo avrebbe voluto risponderle “quindi ti piaccio?”, ma lasciò perdere quella provocazione. Avvertiva dal suo sguardo sfuggente che era un po’ in difficoltà.
-          E poi, tu piaceresti a tutti, piantala di fare l’incompreso. -  rimarcò lei, mentre si avviava verso casa.
Con un ultimo lancio, Matteo la seguì.
 
 
Il tempo di una doccia ed erano già fuori. Passeggiavano vicini sul lungomare, a volte senza dirsi niente, a volte parlando fino a consumare la saliva. Man mano che camminavano Matteo si apriva sempre di più, come fosse un fiore e Vera attimo dopo attimo raccogliesse i suoi petali.
Le raccontò un po’ della sua ex classe. Aveva frequentato il liceo scientifico come lei, e aveva avuto come compagni un concentrato di snob e raccomandati. Non era mai riuscito ad accettarli, non più di quanto loro avessero accettato lui.
-          E’ questo uno dei motivi per cui ti sei fatto bocciare? –
-          Cosa ne sai tu che mi sono fatto bocciare volontariamente? – chiese Matteo sorpreso e incredulo.
-          Non posso credere che tu sia stato bocciato perché eri stupido, o maleducato. Ho capito appena ti ho conosciuto che si era trattato di una tua scelta. –
-          Si, beh, anche per questo… -  rispose lui, cercando di sorridere. Quel lato di lui provocava in Vera un moto di tenerezza tanto forte che avrebbe voluto accarezzargli il viso. Ma si limitò a sorridere anche lei.
Il suo cellulare squillò. Era Giusy. Lo prese e sospirò prima di premere il tasto verde.
-          Avete finito la benzina o vi siete persi? –
-          Maledetto l’ingegnere che ha dato la patente a questo folle! – esclamò Giusy così forte che anche Matteo riuscì a sentirla. – Stiamo arrivando comunque. –
-          Solito lido. – rispose Vera, e chiuse. Matteo sorrideva.
-          Amo questo tipo di telefonate. – disse.
-          Cioè? –
-          Veloci, chiare, concise, senza troppi convenevoli. –
-          Odio parlare al telefono. Cosa c’è di più bello che potersi guardare negli occhi? –
Senza pensarci, Matteo si era fatto più vicino. – Tu però non  mi guardi mai troppo negli occhi. -
Non aveva ancora visto il viso di Vera così da vicino. Due piccoli nei sconosciuti si rivelarono alla sua vita, entrambi vicino all’occhio sinistro. Sembravano un piercing. Questa volta la vide arrossire mentre tentava di sostenere lo sguardo senza  battere ciglio.
-          C’è qualcosa che ancora non ho visto? –
Fu la prima volta che desiderò intensamente di baciarla. Le sue labbra non erano truccate, non c’era modo di renderle più desiderabili di quanto già non fossero. Le mordeva piano, chiaramente nervosa, mentre aspettava una risposta. In quel momento arrivano i cocktail che avevano ordinato su un bel vassoio sorretto da un cameriere poco più grande di loro. Impiegò un po’ più del tempo normale per servirli, mentre guardava Vera con interesse. Lei se ne accorse, ma prese il suo Irish cooler con tanto di rametto di menta che le aveva consigliato Matteo, e non lo degnò di uno sguardo. Il ragazzo se ne andò sconsolato.
-          Questi camerieri. Tutti che ci provano, mai nessuno che offrisse da bere. – rise lei. Assaggiò il suo cocktail. – Buono.-
-          Non è fatto molto bene. – rispose Matteo posando sul tavolo il suo, mentre pensava ancora al cameriere. Si chiese quanto fosse sciocco essere geloso di una persona che conosceva da meno di due giorni.
In quel momento Vera alzò la mano in segno di saluto, verso le spalle di Matteo. Lui si girò e vide due persone, un ragazzo e una ragazza, camminare verso la loro direzione.
-          Sani e salvi. – sospirò la ragazza, mentre si sistemava i capelli dai riflessi rossi e si sedeva affianco a Vera. Doveva essere Giusy. Il ragazzo invece, si presentò subito.
-          Piacere Andrea. – disse sorridendo mentre gli stringeva la mano.
-          Matteo. – rispose sorridendo a sua volta. Quel tipo aveva l’aria simpatica. Era da tanto che non provava simpatia per qualcuno a prima vista. Anche Giusy si presentò, dopo aver rinunciato alla cura dei suoi capelli. L’aria umida del mare li aveva già increspati. Tirò fuori dalla sua borsa nera un pacco di chesterfield blu e le offrì ai presenti. Vera prese la sigaretta per prima.
-          Fumi? – chiese Matteo mentre anche lui ne accendeva una.
Vera fece un tiro lungo prima di rispondere. – Sono cinque anni ormai. Forse è per questo che sono così bassa. Mi ha bloccato la crescita. –
-          Si, pure quella del cervello. – intervenne Giusy.
Sembrava che Matteo fosse stato loro amico da sempre. Del resto andare d’accordo con tipi del genere era facile. Erano molto vicini a lui per quanto riguardava le preferenze musicali, le idee, i modi di fare. Condividere queste cose così  meravigliosamente banali a volte era fondamentale ai fini di una nuova amicizia. Per una sera, era bello buttar via cinismo e serietà. In particolare con Andrea parlarono di tutto, dai giochi di ruolo online a cui entrambi giocavano, fino a finire chissà come in quella ragnatela di discorsi veloci ai panini con mortadella e olive che era la cosa migliore da mangiare in spiaggia alle tre del pomeriggio.
-          Si, ma poi rischi di non poter fare il bagno per una settimana. – intervenne Giusy.
-          Ne vale la pena. –
Si spostarono in spiaggia. Andrea aveva portato la chitarra con sé, e in un attimo Matteo la stava già suonando, sperando che Vera cantasse per lui. Ma lei temeva di rovinare tutto con la sua voce incerta, e lasciava che la musica di Matteo fosse la sola cosa a riempire quella spiaggia. Era così bravo che non riuscì a trattenere una lacrima. Probabilmente le era avanzata dalla crisi precedente, perché rimase da sola, e non permise a nessuno di vederla. Solo la musica sapeva commuoverla così. Solo quella musica.
Giusy le si sedette accanto e prima che potesse accorgersene disse: – Se non fosse che ti piace così maledettamente, ci avrei già provato. –
Vera si girò di scatto verso di lei, spaventata. – Folle! Cosa ne sai che mi piace? –
-          Cosa ne sapevi tu che Hermione era innamorata di Ron già dal primo anno? – rispose lei. Citando Harry Potter aveva toccato un punto debole. Per fortuna la chitarra era abbastanza lontana.
Non rispose, ma sorrideva colpevole.
-          È davvero un tipo strano. – concluse Giusy sdraiandosi.
-          Si. Non credo potrebbe piacergli una come me. Cioè, non so, è sempre così criptico. –
Giusy evitò di rispondere. Non  lo conosceva ancora per poter dire qualcosa di certo, e lei non era certo tipo che si perdeva in ipocrisie. Aveva avvertito però il feeling tra i due, ma conosceva bene Vera e si guardò bene dal dirglielo. Era una tipa fin troppo entusiasta, e questo suo lato del carattere le aveva dato tante delusioni. Non doveva soffrire più. Magari questo Matteo non era altro che la sua prossima delusione.
Si accorsero che tutto era diventato improvvisamente più silenzioso. Matteo aveva smesso di studiare e si era sdraiato affianco a Vera. Nemmeno lui aveva paura di riempirsi scarpe e pantaloni di sabbia.
Andrea era rimasto a suonare un pezzo dei Beatles di cui Vera non ricordava il titolo a qualche passo da loro. Dopo un po’ rinunciò e si unì a loro. Guardavano tutti e quattro le stelle, e Vera credette di trovarsi per un secondo in quel video dei Duran Duran che unito al testo della canzone la faceva piangere.
-          We’ve got to believe it’ll be alright in the end.- si ritrovò a cantare senza sapere perchè.
-          Stai cantando! – la indicò colpevole Matteo.
Vera si coprì la bocca istintivamente. – Non è vero. –
-          Non puoi negare, ci sono testimoni. –
-          Sono miei amici, non testimonieranno mai a tuo favore. –  
-          È bravissima a cantare. – rincarò la dose Andrea. Lei lo guardò malissimo ma lui continuò. – È una vita che le chiedo di cantare in un gruppo.
-          Ho sentito troppo poco per poter giudicare. – rispose Matteo.
Senza guardarla, Vera capì che Giusy stava alzando gli occhi al cielo. – Beh, dovrai crederci sulla fiducia. Perché Vera canta pochissimo. –
-          Riuscirò a farla cantare. – rispose Matteo senza tradire emozioni. Vera sorrise.
-          Buona fortuna. -  rispose Giusy cercando di non cadere nell’acido.
Matteo poggiò la testa di lato, guardando Vera che ancora sogghignava.
-          Perché non canti per me? –
-          Io non canto per nessuno. – rispose continuando a guardare il cielo.
Il ragazzo rinunciò e si lanciò in una nuova discussione su World of Warcraft con Andrea. Dopo quasi un’ora risalirono sul lungomare. I lidi erano molto più affollati di prima e la musica si confondeva da un locale all’altro. Mentre passeggiavano Vera incontrò un gruppo di amici che frequentava spesso quando arrivava l’estate. Erano gli amici da bagno, così li chiamava lei, come i costumi, perché venivano fuori solo con la stagione estiva e per il resto dell’anno li sentiva a malapena alle feste.  Ma sembrava che a tutti andasse benissimo così, e lei si era adeguata.
Salutò tra gli altri Jenny, una biondina che conosceva ormai da anni, ma che non aveva ancora capito se le stesse sul serio antipatica oppure no, Michele, con cui l’estate prima aveva avuto una breve storia, e Giorgia, una ragazza qualche anni più piccola di lei, molto dolce. L’unica, forse, che ricordava con sincero affetto anche durante l’inverno.
-          Ti sei trasferita definitivamente per questo mese? – chiese Jenny, mentre i suoi occhi cadevano sugli altri che erano con Vera. Domanda di routine. Quest’anno la tollerava meno del solito.
-          Si. – rispose. Avrebbe evitato volentieri di fare conversazione, e anche le dovute presentazioni, ma sentiva lo sguardo di Matteo addosso e temeva che si sarebbe arrabbiato se avesse continuato ad ignorarlo.
-          Lui è Matteo. – disse, controvoglia. Jenny fu la prima a stringergli la mano. Nemmeno lei sembrava aver nulla da ridire sul suo aspetto. – Loro invece sono Andrea e Giusy. Ragazzi, sapete presentarvi da soli credo. – concluse sorridendo in modo innaturale.
Ci fu il solito stringersi le mani, ma Vera guardava il mare. Perse un po’ dei loro convenevoli, finchè non si accorse che gli argomenti di conversazione stavano terminando, e trascinò elegantemente i suoi amici lontano da quel gruppo, in particolare lontano da Jenny, che sorrideva un po’ troppo a Matteo per essere casuale. Un senso di malumore si impadronì di lei. Giusy e Andrea erano ormai abituati, ma Matteo ne rimase sorpreso. Non l’aveva mai vista così scura di volto.
-          Proprio non ti piacciono quei tipi eh? – le disse in un orecchio. Ancora una volta si era avvicinato a lei. Vera si sentì avvampare, mentre il suo respiro caldo le spostava appena una ciocca di capelli e le solleticava il collo. Si allontanò quasi subito, aspettando che lei rispondesse.
-          Non è che non mi piacciono, di solito preferisco altre compagnie. Ma non riesco a stare molto tempo da sola, e questo è quello che offre questa spiaggia. – rispose misurando le parole.
-          Capisco… - annuì semplicemente.
Andrea capì che non era proprio aria e con una scusa disse che era fatta ora di tornare a casa. Giusy assentì e dopo un veloce saluto li lasciarono soli, mentre il vento della sera prima tornava dispettoso a spettinarle i capelli e uno stereo un po’ lontano da loro cantava allegro You Never Can Tell.
Erano quelli i momenti in cui sembrava che il mondo la prendesse per il culo. Stanca e depressa, lo trascinò a casa senza dargli alcuna spiegazione, visto che comunque spiegazioni non ce n’erano.
 
 
Vera indossò velocemente il pigiama prima di infilarsi in camera sua. Suo zio non era ancora rientrato dunque poteva concedersi quella piccola pazzia. Lo trovò sdraiato in pantaloncini, a petto nudo, intento a leggere un libro. Nonostante la scarsa luce che vi era nella stanza grazie ad una piccola abat-jour sul comodino, notò comunque che aveva un piercing anche al capezzolo.
Era maledettamente sexy.
Appena la vide lasciò cadere il libro a terra. – Cosa diavolo ci fai qui? –
-          Tranquillo, non ho intenzione di violentarti. – sussurrò, chiudendo la porta alle sue spalle.
Faceva caldo in quella piccola stanza, nonostante il ventilatore girasse al massimo delle sue potenzialità. Probabilmente era anche colpa della sua voce. Si sdraiò affianco a lui vicinissima, al limite del contatto fisico.
-          Volevo scusarmi per come mi sono comportata a fine serata. –
Matteo la guardò e sentì il bisogno di stringerla fra le sue braccia, ma rimase immobile, quasi freddo, nonostante sentisse che stava sudando più del normale. Pensò a qualcosa di intelligente da dire, ma la sua presenza lo distraeva più di quanto fosse lecito. - Il disturbo bipolare si può curare tranquillamente, sai? –
-          Sei proprio un idiota. Comunque non sono venuta quaggiù per questo, ma per farti leggere un messaggio che mi è appena arrivato. – dichiarò, tirando fuori il suo cellulare.
-          E per quale motivo pensi possa interessarmi? –
-           Riguarda anche te. È di Jenny. –
-          Jenny? –
-          Oh, non far finta di non aver capito. L’hai notata anche tu. E hai fatto decisamente colpo. –
-          Le bionde hanno il loro fascino. – rispose ridendo.
-          Si ma tutto quel giallo confonde loro il cervello. – disse con una certa acidità. – Insomma, siamo invitati ad un falò domani sera. Ti va di andarci?-
Pregò con tutte le sue forze che lui dicesse di no, che preferiva rimanere con lei a guardare un’altra volta il tramonto e a perdere tempo, a parlare di tutto e di niente, qualunque cosa…
-          Si mi va di andarci. Verranno anche Andrea e Giusy? –
-          L’invito è esteso solo a te. Te l’ho detto, hai fatto colpo. – rispose con amarezza celata. Si alzò dal letto con troppa lentezza, quasi a dargli il tempo di prenderla per le spalle e chiederle di dormire con lui. Ma Matteo rimase immobile, in modo quasi innaturale, silenzioso.
-          Buonanotte. – disse lei, e tornò in camera sua.

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Capitolo 4
*** Posso abbracciarti? ***


Lo stereo in camera sua mandava By The Way.
Lo aveva acceso Nunzia, per consentirle un dolce risveglio sulle note del suo gruppo preferito, e non farla innervosire.
Poteva essere una bella giornata.
C’era Dosed.; amava quella canzone per il semplice fatto che a cantare il ritornello era Frusciante. Il suo Frusciante.
 
Way upon the mountain where she died
All I ever wanted was your life
Deep inside the canyon I can’t hide
All I ever wanted was your life
 
Pur conoscendone la traduzione non aveva mai capito il senso di quel testo, e chiedendosi quale storia stessero raccontando stavolta, cantava ugualmente contro il lato fresco del cuscino, sussurrando appena con la voce calda e incerta del mattino, ma con la carica che solo chi ascolta i Red Hot Chili Peppers può avere al risveglio. Si tirò su stiracchiandosi. Una volta la sua insegnante di matematica delle medie le aveva raccontato che sua figlia faceva gli addominali appena si svegliava. In una simile impresa, nemmeno i suoi amati potevano aiutarla. Spalancò la finestra e si lasciò illuminare il viso dal mattino.
-          Buongiorno a te sole. Stamattina mi sono alzata quasi prima di te. – pensò mentre pettinava i capelli.
Cambiò su The Zephyr Song, la sua preferita, saltando Don’t Forget me. Un po’ troppo malinconica per quell’ora.
Dei passi fuori dalla sua stanza erano ancora troppo lontani per essere avvertiti dalle sue orecchie, finchè una voce familiare la fece sussultare.
-           Buongiorno Vera. – disse Matteo entrando con una tazza di caffè.
-          Grazie. – sorrise lei prendendola, piuttosto sorpresa di ritrovarselo in camera di sua spontanea volontà, soprattutto dopo la visita notturna della sera prima.
-          Sono già usciti tutti. Io volevo aspettarti, sei davvero una dormigliona. – esclamò buttandosi sulle lenzuola fresche del letto che occupava Nunzia, con quel tono fintamente acido che ormai non la infastidiva più.
Lei approfittò del silenzio per bere un po’ di caffè. – Dio, fa schifo. L’hai fatto tu?- disse dopo il primo sorso.
-          By The Wayeh?-
-          Eh si. –
-          Non c’è una canzone che non mi piaccia di quell’album. –
Il sorriso di Vera si allargò. Era anche il suo album preferito. Tra gli altri.
-          Fa davvero così schifo? – chiese lui con un cenno verso la tazzina, con uno sguardo che recava i segni di un qualcosa simile alla supplica.
-          Solo per i veri intenditori, per il resto del mondo è passabile. –
-          Oh poveri noi, comuni mortali. – sospirò, senza aver voglia di dire niente in realtà.
Quella canzone gli piaceva davvero tanto, era da un po’ che non la ascoltava. Ricordava solo tanto blu del videoclip che aveva visto su Mtv parecchio tempo prima, con una strana nostalgia che non si sapeva spiegare. Vera lo stava fissando, in piedi immobile al centro della stanza. Guardandola così, con i capelli ancora un po’ spettinati e i segni della matita nera degli occhi sbavata, dentro quel pigiama inventato che altro non era che un pantaloncino cortissimo abbinato ad una maglia buffa ed enorme di suo zio, Matteo avvertì di nuovo la stessa voglia che aveva represso la sera prima di prenderla per una mano e baciare quelle labbra che rubavano l’innocenza del suo viso.
Maledicendo quei pensieri, smise di guardarla.
-          Non vuoi scendere in spiaggia? – chiese, reggendo ancora tra le mani la tazzina sporca di caffè.
-          Non ho voglia di fare niente finchè non sarà finita la canzone. – rispose ad occhi chiusi.
Lei posò piano la tazzina sul comodino e fece un minuscolo passo verso di lui. Lo guardò liberamente, protetta da quegli occhi chiusi, scrutando ogni parte del viso che le era sfuggita, soffermandosi sulle palpebre chiuse, e il piercing nero del labbro, e scendere ancora sulla barba appena accennata, e la pelle quasi liscia del collo, e le sue grandi braccia tatuate…
Non ce la faceva più.
-          Matteo? – lo chiamò senza che il suo cervello se ne accorgesse.
-          Dimmi. – rispose lui stancamente.
-          Posso abbracciarti? –
Lo vide spalancare gli occhi e voltare la testa verso la sua direzione. Arrossì, ma sostenne lo sguardo.
-          Vera, che razza di domanda è? –
-          Una tra le altre mille che vengono fatte ogni giorno in ogni posto del mondo. –
Matteo continuò a scrutare quegli occhi verdi quasi a volerci trovare altri mille colori, poi si abbandonò ad una risata, portando una mano chiusa in un pugno sul viso.
-          Hai degli occhi tremendamente espressivi, sai? E sei anche parecchio scema. –
-          Grazie. – rispose lei, incrociando serratamente le braccia.
Lui allargò le sue, spostandosi quel poco che  bastava. – Certo che ti abbraccio. –
Vide il broncio trasformarsi in un sorriso sghembo, trattenuto con difficoltà nella sua pienezza. Si lasciò raccogliere come un fiore da quello strano ragazzo e dalle sue braccia che da vicino sembravano ancora più grandi.
-          Vera, Vera… gli abbracci non si chiedono. – sussurrò lui al suo orecchio solleticandole la pelle mentre l’avvicinava al petto, tanto da sentirne il battito regolare, ma veloce.
-          Quelli erano i baci. – rispose lei con il viso nascosto e un tono di voce indecifrabile. I suoi capelli profumavano di estate. Era certo che fossero morbidissimi, ma non li sfiorava, ancora timoroso nel sentirla così vicina.
Abbracci, baci. Non vedeva differenza. Era solo un modo come un altro per sentirsi meno soli, per aggrapparsi a qualcuno…
-          Si. C’è tutta la differenza del mondo. – fece eco dei suoi pensieri la voce di Vera. Erano ancora una volta sulla stessa lunghezza d’onda, solo in direzioni opposte.
Rimasero abbracciati fino all’ultima nota della canzone. Vera si perse nei suoi tatuaggi, tracciandoli con gli occhi di una bambina curiosa, incapace di chiedere. Era una delle regole fondamentali: mai chiedere voti, età, o significato dei tatuaggi. E inventava storie come quando guardava le nuvole bianche su di lei, una dopo l’altra, in una catena che capiva solo lei, e solo per pochi minuti.
Con l’ultima nota, Matteo si sciolse dall’abbraccio e si mise seduto. Lei rimase sdraiata ad osservare il muro, fissando nella mente il profumo che fino a qualche secondo prima l’aveva accarezzata così da vicino, per ritirarlo fuori in qualche notte troppo nera.
 
 
Un’altra sera.
Avevano passato tutto il pomeriggio a cercare legna in giro con gli amici di Vera. Matteo sorprendentemente si era integrato subito col gruppo, tanto che lei si chiedeva se era lo stesso ragazzo che due giorni prima si era presentato alla porta di casa sua con uno zaino troppo grande, una chitarra in spalla e due occhi capaci di ghiacciare chiunque. Forse era lei che per quanti sforzi facesse non riusciva proprio ad entrare nelle sue grazie.
Eppure non aveva mai avuto problemi a socializzare. Voleva conoscere e ascoltare quanta più gente poteva, confrontarsi con quelli diversi da lei. Aveva avuto a che fare con tipi di ogni genere. Un buon novanta per cento però della gente  che aveva incontrato crescendo era andata via dopo tre, quattro mesi. La sua stranezza aveva un prezzo nei rapporti sociali.
Finalmente fu abbastanza buio e ci fu abbastanza legna per accendere il falò. Sembrava che nessuno sapesse bene cosa stesse facendo, ma tutti trovavano la cosa estremamente divertente. Lei invece si lasciò alle spalle le risate e si sedette sulla sabbia, poi scrisse rapida un messaggio per Giusy.
Non c’è storia stasera. Non mi degna di mezzo sguardo.
Aspettando la risposta guardò il gruppo che urlava felice per essere riuscito ad accendere il fuoco. Senza saperlo sul serio, in testa conosceva già di chi era il merito. Mise le cuffie e impostò l’Ipod su riproduzione casuale. Giusy si fece attendere un po’. Quando finalmente rispose, il suo messaggio era semplice e conciso.
Idiota, se non ti sbrighi me lo faccio io.
Rise amaramente. La sua amica, che la conosceva così bene, le diceva di sbrigarsi. Sarebbe stato tutto più facile se qualcuno le avesse regalato il libretto di istruzioni per capire almeno un po’ quello strano ragazzo. Sentì che era arrivato l’alcool dal rumore di bottiglie e da un gran trafficare di mani e voci. Ancora una volta rimase lì. Proprio non riusciva a fingere che gliene importasse qualcosa di tutte quelle persone.
Eppure dentro di sé aspettava che Matteo la raggiungesse e le dicesse qualcosa, qualsiasi cosa. Si era anche preparata mille risposte alle sue possibili strambe domande su quanto era successo quella mattina.
Ma il tempo bruciava insieme alla legna e lui restava lì, sempre più in confidenza con la birra e con quella.
Intanto stava iniziando Nobody’s Wife.
Una volta assicuratasi che orecchie indiscrete fossero a debita distanza, iniziò a cantare la sua canzone piano, crescendo insieme alle note. Quando cantava così la sabbia che le entrava nelle scarpe non aveva più peso, né significato. Cantare era la sua pelle, la sua protezione.
-          Scusami. –
Una voce gentile la fece sussultare, convinta com’era della sua totale solitudine. Davanti a lei c’era una ragazza che non conosceva, probabilmente un’amica di un’amica di un’altra amica che quella sera era al falò insieme a loro, capitata per caso come tutte le cose migliori. Tutti i libri che aveva letto le davano ragione. Era bella, con i suoi lunghi capelli mossi un po’ dal mare, neri con qualche ciocca colorata che si notava appena nel buio della spiaggia. Gli occhi erano scuri e grandi, e fissandoli pensò che difficilmente avrebbe trovato la stessa intensità in un paio di occhi chiari. Sorrideva anche. Nessun estraneo le aveva mai sorriso, a parte qualche commessa di qualche negozio. Ma quella ragazza non sembrava intenzionata a venderle niente.
Si tolse la cuffia. – Dimmi. – chiese con dolcezza. Una naturale sensazione rendeva quella ragazza simpatica ai suoi occhi.
-          No, è che ti ho sentita cantare, ho riconosciuto il brano ed è una vita che cerco questa canzone, ma non ricordo mai come si chiama. – disse arrivando direttamente al sodo, senza troppi giri di parole
La sconosciuta si sedette affianco a lei. Vera le riferì il titolo della canzone e le passò una cuffia.
-          E’ splendida. – le disse, dopo il primo ritornello. – E’ un peccato non conoscere certe meraviglie. –
-          A proposito, io mi chiamo Selene. – rispose la ragazza sorridendo ancora di più e porgendole una mano. Vera la strinse e fece il primo sincero sorriso della serata.
-          E io sono Vera. E sono anche molto annoiata. Credo che tra un po’ tornerò a casa. – mentre diceva queste parole il suo sguardo cadde su Matteo che suonava già la sua chitarra, con Jenny incollata a lui.  Selene si accorse dove stavano cadendo i suoi occhi,  guardando nella stessa direzione.
-          E’ il tuo ragazzo? – chiese con un cenno impercettibile del viso verso Matteo. Vera sorrise amaramente.
-          No, è una specie di cugino acquisito. –
-          Come, siete parenti? –
-          In realtà no. E’ il cugino della moglie di mio zio, è venuto qui da noi per passare un po’ delle vacanze al mare. – poi senza sapere perché stesse dicendo quelle cose ad una sconosciuta, continuò – Mi odia. –
-          Ti odia? – il suo tono di voce spingeva alle confidenze, e Vera vi si tuffò come se fosse acqua di mare fresca dopo una giornata di sudori.
-          Mi odia. A pelle. Lo avverto proprio. Sai quando proprio una persona non riesce a piacerti ma sei costretta a vederla e passare del tempo con lei forzatamente, e ogni secondo che passa diventa un peso? –
-          Si, conosco bene quella sensazione. –
-          Ecco, è il suo caso. Ma non credo si sarebbe mai avvicinato a me in un altro contesto. –
Selene ci mise un po’ a rispondere. Il suo sguardo si posava un po’ su di lei, un po’ su Matteo, che cantava canzoni al cielo, perso esattamente come lei pochi minuti prima.
-          Ti guarda con odio. Questo dovrebbe voler dire che ti odia? –
-          Non lo so. Con lui non capisco più niente. –
-          Probabilmente sarà il fascino dei chitarristi. – annuì con una punta di amarezza impercettibile ai cuori tranquilli, ma non a Vera.
-          Sei caduta anche tu nella trappola delle corde di una chitarra? –
-          Si. E ho capito che i chitarristi mentono, un po’ come gli scrittori. –
-          Gli occhi però non mentono. –
-          Sono sempre occhi che appartengono ad un chitarrista. Io non mi fiderei. –
Rimasero in silenzio, mentre Vera si chiedeva chi avesse mandato in realtà questa ragazza, e ragionando su quanto era stato semplice parlare con lei, più semplice che respirare. Da quando esisteva ancora qualcuno capace di ascoltare?
Guardarono entrambe Matteo lasciare la chitarra a qualcun altro e concentrarsi sulla quarta birra della serata. Il ragazzo sapeva benissimo che stava esagerando, assaporando ancora di più quella piccola inutile trasgressione. Cercò Vera, troppo lontana per poterla toccare anche solo con lo sguardo, e sorrise di rabbia, incapace di alzare il sedere e di prenderla tra le sue braccia. Jenny era palesemente interessata a lui. Glielo aveva fatto capire con alcuni sguardi accesi, e carezze leggere con la punta delle unghie al suo braccio mentre suonava la chitarra. Leggermente spudorata.
Un altro sorso e la testa iniziò a girare forte, mentre avvertiva sulla pelle un dolore insostenibile. Alzandosi si tolse la maglietta e si diresse a passi incerti verso il mare. Jenny, leggendo chissà quale invito in quei gesti, lo seguì immediatamente, sfilandosi velocemente il vestito.
Lontano quattro passi e un mondo intero da lei qualcuno aveva visto tutto. Sapeva che non sarebbe riuscita a fingere ancora a lungo. Due corpi bagnati facevano ora capolino grazie alla luce flebile dei raggi di una luna dispettosa, visibili a malapena, ma presenti. Per i suoi occhi ormai, erano troppo vicini l’uno con l’altra per essere solo un caso.
-          Dai. – le disse Selene, alzandosi. – Andiamo a fare quattro passi sul lungomare, credo che il nostro falò sia durato già abbastanza. –
Il suo corpo la seguì, ma la sua testa stava già affogando tra quelle piccole onde colorate d’argento. Non ci voleva un genio a capire ciò che sarebbe successo. Era una notte troppo romantica per sprecarsi in dubbi.
Selene l’aveva presa sottobraccio, cosciente del fatto che ne aveva bisogno. Entrambe accomunate dalle stesse sofferenze, non ebbero bisogno di parole tristi quella notte.
 
 
Matteo abbandonò la testa all’indietro, mentre l’acqua salata prendeva confidenza con la sua pelle tatuata scossa dai brividi. Non era calda come la sera in cui era arrivato. Niente era uguale a quel giorno in realtà; erano altre onde, un altro vento, un altro mare.
Non era del tutto ubriaco, ma sentiva che le intenzioni della sua testa erano quelle di scoppiare da un momento all’altro; girava vertiginosamente e non gli lasciava finire di formulare un solo pensiero completo.
Davanti a lui Jenny si muoveva lenta verso la sua direzione, spinta non solo dalle onde. Il suo viso sorridente non le interessava, non c’era nulla in lei che lo spingesse a soffermarsi sui suoi occhi.
La baciò come bacia un ubriaco malinconico, nella disperata ricerca di qualcosa che non c’è.
Jenny profumava di fresco, di labbra, di passione. Non trovava poi così spiacevole accarezzare la pelle di quelle spalle esili, ma niente a che vedere con lei, con la semplice bellezza del suo viso pallido, con gli occhi più belli del mare stesso. I capelli di Jenny non erano lunghi quanto i suoi, le sue mani non erano dolci e delicate quanto quelle che quella mattina l’avevano cercato incerte e impaurite. La sua voce non era dolce come quella di lei.
Vera.
Vera che quella sera aveva deciso di non perdere altro tempo con lui e lo aveva lasciato tra le braccia di quella barbie anche col cervello di plastica.
Continuò a baciarla solo per non sentirla parlare, perché niente di quello che avrebbe potuto dire poteva interessargli.
Rosso. Nella sua testa avvertiva solo il rosso.
Jenny era un rosso maledetto, una perfetta amante per una notte.
Ma non era la donna a cui dedicare una canzone.
Rise sulle sue labbra mentre si staccava da lei. - Conosci Einaudi? – Una stupida domanda suggerita dall’alcool.
Lei lo guardò con aria stupita, e stupida. – Einaudi? –
Capì dalla sua espressione che non lei aveva idea di cosa stesse parlando. Vera aveva ragione.
Non ci sono canzoni rosse di Einaudi.
E perdendosi di nuovo si lasciò cullare dalla dolcezza di quella distrazione, dall’ennesimo errore perfetto.






Ecco a voi un altro capitolo, che nonostante non mi convinca affatto ho deciso di postare lo stesso, in quanto sto per partire e non so quando potrò aggiornare di nuovo. Userò la vacanza per scrivere tanto, disegnare, scattare foto ovunque.
E al mio ritorno vorrei postare dei prestavolto per i personaggi. Voi che ne dite? Buona estate a tutti quanti:3
Seren :*

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Capitolo 5
*** Buongiorno ***


Quando Matteo si svegliò la mattina dopo un forte dolore alla testa lo colpì come se qualcuno lo avesse sbattuto violentemente contro il muro. Si strinse le tempie con le dita cercando di alleviare quel fastidio, mentre suoni ancora indistinti provenienti da fuori riempivano la camera. Non ricordava quasi nulla della sera prima da quando aveva visto Vera allontanarsi dalla spiaggia insieme ad una ragazza che non conosceva, mentre Jenny annullava invece tutte le distanze in quel mare bruno.
Si toccò le labbra secche cercando un po’ di sale, ma non vi era traccia di ricordi. Alzandosi si rese conto di essere in camera di Vera, anche se non aveva la minima idea di come ci fosse finito. Era solo nella stanza buia, la ragazza doveva aver lasciato la finestra chiusa per non disturbarlo. Un moto di tenerezza si impadronì di lui, finchè non divenne un qualcosa troppo simile al dolore. Spalancò i vetri e lasciò che il sole svegliasse completamente i suoi occhi ancora semi addormentati. Era fastidioso, ma attenuava altre sensazioni che voleva sopprimere.
Dirigendosi in cucina nel corridoio si scontrò con sua cugina Nunzia, già nel suo costume colorato a righe pronta per andare in spiaggia. Capì che era più tardi di quanto avesse sperato.
-          Buongiorno. – lo salutò lei, guardandolo con sguardo indagatore come se cercasse su di lui qualche malanno.
Un tentativo di sorriso fu la risposta distratta di Matteo. Non aveva voglia di essere gentile.
La cucina era affollata e disordinata quella mattina. Sul tavolo vi erano una varietà di brioches, cereali e biscotti. Ognuno seduto al suo posto, ognuno col suo succo di frutta preferito, con la sua tazza di caffè sorridente o quella di latte ancora fumante. Tutti a tavola, ma non come quelle pubblicità idiote dove le persone sorridono prima di andare a scuola o a lavoro, dove tutto è a posto, ordinato. No, era decisamente meglio. Perché era reale. Mancava solo qualcosa a rendere perfetto il buongiorno che quella scena gli regalava.
Qualcuno.
Lei.
-          Dov’è Vera? – chiese a nessuno in particolare, dopo essersi seduto affianco a Francesco che leggeva la Gazzetta dello Sport mentre mangiava una yo-yo al cioccolato.
-          E’ uscita presto, ha detto che voleva fare un giro in bici e poi vi avrebbe raggiunto in spiaggia. – lo informò la nonna di Vera.
Il fatto che fosse proprio lei a rispondere lo imbarazzò moltissimo. Finì in fretta il suo caffè amaro e filò in bagno a cambiarsi, indossando solo un paio di pantaloncini blu. La testa continuava a battere fastidiosamente, e sembrava accentuarsi ogni volta che si distraeva o si rilassava anche un attimo, come fosse un castigo che non permetteva pause.
Prima di uscire chiese a Francesco se poteva prendere in prestito la sua bici. Voleva muoversi il prima possibile. Sentiva che Vera quella mattina non sarebbe scesa sul serio in spiaggia, che era turbata per qualcosa; soprattutto, anche se non capiva perché, non riusciva a liberarsi dalla dannata sensazione che fosse sconvolta a causa sua. A confermare il fatto che qualcosa non andava fu il piccolo Ipod verde abbandonato in cucina con i fili delle cuffie più aggrovigliati che mai affianco al televisore, esattamente dove l’aveva lasciato lei stessa la sera prima. Sapeva che Vera non usciva mai senza quel piccolo oggetto, neanche quando voleva perdersi un po’ da sola.
Magari è solo scarico, pensò.
Lo prese senza accenderlo e uscì, maleducato e bello, troppo veloce per lasciarsi vedere in faccia dagli altri.
Era da tanto che non prendeva una bici. Non conosceva bene quel paese di mare, per cui pedalò alla cieca per parecchi minuti, ancora un po’ ubriaco e dolorante. Sagome di vecchi seduti sulle panchine a lamentarsi e di bambini che correvano verso la spiaggia tirando i genitori per mano si alternavano e sparivano in fretta. Non li vedeva veramente, non avevano significato se non avevano qualcosa di lei. Il mare quella notte si era trasformato. In poche ore era diventato mosso, arrabbiato, scuro. Stanco di cercare il niente, scese dalla bici e si sedette sul muretto del lungomare, osservando le onde che si rincorrevano; alcune più insicure si spezzavano a metà del loro giro, ancora troppo piccole per raggiungere le altre. Dei ragazzi in lontananza giocavano a rincorrersi sulla battigia, qualcuno cadeva a terra ridendo, altri si tuffavano più decisi e sicuri.
Una morsa allo stomaco lo convinse a riprendere la sua folle ricerca. Non c’era sole quella mattina, solo un vento tagliente che gli schiaffeggiava il corpo nudo. Si chiese cosa avrebbe pensato lei vedendolo arrivare così. Forse avrebbe dovuto indossare una maglietta.
Alla fine la trovò sola in fondo alla villetta vicino al Comune. Stava dondolando sull’unica altalena ancora sana rimasta, coccolata dal vento che con lei invece sembrava gentile. Aveva gli occhi chiusi e pareva non accorgersi di quello che le accadeva intorno. Eppure appena Matteo scese dalla bici e fece un passo verso di lei spalancò gli occhi dalla sorpresa e si fermò di botto. Lo guardò a lungo, il suo sguardo era indecifrabile, finchè improvvisamente decise che le conveniva sorridere. Matteo lo interpretò come un buon segno, e la raggiunse.
I capelli di Vera erano così lunghi che anche se erano a distanza di sicurezza da baci, lo sfioravano accompagnati da quel vento amico. Lui allungò la mano che stringeva l’Ipod e glielo porse.
-          Credo che tu l’abbia dimenticato. –
-          Ottima intuizione. – rispose prendendolo nella sua piccola mano bianca. Lo accese e infilò le cuffie nelle orecchie.
Dunque non era scarico.
Il ragazzo non aveva idea di cosa stesse ascoltando, ma vide che aveva richiuso gli occhi. Prima di quanto si aspettasse però, lo spense di nuovo e se lo infilò nella tasca degli shorts di jeans.
-          Che ci fai qui? –
Aveva sperato che quella domanda non arrivasse mai. Comunque, si era preparato mille risposte, una più improbabile dell’altra.
-          Non lo so. –
-          Che risposta è “non lo so”? –
-          Una tra le altre mille che vengono risposte ogni giorno in ogni posto del mondo. –
Vera smise di guardarlo e ricominciò a dondolare dandosi una piccola spinta con il piede. Qualunque fosse il motivo, la sua risposta le andava bene così. O forse era semplicemente il fatto che lui fosse lì accanto a lei a far andare bene tutto. Ora non era più il vento a guidarla bensì Matteo che la stava spingendo lentamente.
-          Vera, cosa ho fatto ieri sera? – chiese all’improvviso.
Lei arrossì, felice di dargli le spalle e di nascondergli quel rossore delle guancie. Avrebbe tanto voluto copiare la risposta che poco prima le aveva dato lui stesso. Non sapere, niente. Ricordare faceva male, ma richiudere l’ennesimo scheletro nell’armadio lo avrebbe fatto crollare del tutto. Prese un bel respiro prima di parlare.
-          Hai bevuto un po’. –
Non era la risposta che voleva sentire. – Quanto? –
-          Quel tanto che basta per non farti ricordare quanto hai bevuto. –
-          Ottimo. Davvero fantastico. E poi? –
-          E poi non so bene quello che è successo in spiaggia, io sono tornata prima. Stavo… poco bene.–
Matteo non riuscì a trattenersi oltre. – Perché te ne sei andata senza dirmi niente? –
Vera frenò così bruscamente con entrambi i piedi che fece un solco sul prato umido.
-          Non mi pare che tu fossi da solo, ne che ti stessi annoiando. –
-          Sarei venuto ugualmente via con te se mi avessi detto che non stavi bene. – rispose lui, mentre la gola gli si annodava di rabbia.
-          Oh non lo so. Non volevo rovinarti la festa. –
-          Vera ma qual è il problema?-
-          Il problema? Non c’è nessun problema. Non da parte mia almeno. –
Matteo smise di guardarla e si lasciò cadere sul tappeto d’erba.
-          E perché stanotte ho dormito nel tuo letto? –
Stavolta ci mise un po’ prima di rispondere. Dondolò per due volte, lasciando che i capelli le coprissero ancora una volta il viso.
-          Ecco vedi, quando sei tornato non… non stavi molto bene. Sei venuto in camera mia e… - arrossì più che mai e non terminò la frase.
-          E? – la incitò Matteo. Fortunatamente per lei, sdraiato com’era, non poteva vederla.
-          E niente, devi aver confuso la camera. Ti sei addormentato sul mio letto e mi quando ti ho visto lì sembrava inutile spostarti. –
-          E tu dov’eri scusa? –
-          Io? Ero in bagno. –
Il tono di voce di Vera si era fatto acuto e distratto. Matteo si sollevò sui gomiti per portarla guardare ma lei era ancora rivolta verso il mare in lontananza.
-          Credo che tra un po’ pioverà. Faremmo meglio a tornare a casa. – disse infine, voltandosi finalmente verso di lui.
-          Vera sei sicura che non è successo nient’altro? –
-          Certo che sono sicura. Cos’altro doveva succedere?
Se nemmeno lei stessa ci credeva, quanta possibilità aveva di convincere lui?
 
 
Qualche nuvola prima.
Selene l’aveva riaccompagnata fino a casa sua quasi subito. Quella ragazza aveva qualcosa che le ricordava lei stessa, anche se non capiva ancora cosa. Forse gli occhi grandi, forse i capelli lunghi, forse niente di visibile, forse la stessa macchina fotografica, forse il sole, forse qualcosa, forse la stessa canzone. Era presto ancora per capirlo. L’unica certezza era che quel braccio l’aveva riportata lontano, perché forse da sola non avrebbe trovato subito la strada. Voleva ritrovarla, Selene. Non aveva neanche il suo numero di cellulare. Entrò in casa che tutti erano già a letto. Sbirciò in camera di suo zio e vide che Nunzia era lì, addormentata con la testa sulle braccia di zio, stretti in un abbraccio che non lasciava spazio a nient’altro. Chiuse la porta più piano che poté col cuore gonfio di emozione. L’ennesima dimostrazione di quanto fosse sciocca e sensibile. Si commuoveva per qualsiasi cosa.
Entrò in camera sua e chiuse la porta, lasciò cadere i vestiti a terra e si infilò sotto le lenzuola, troppo annoiata per cercare il pigiama. Non aveva voglia di musica, e nemmeno di leggere. Troppe canzoni e troppe parole erano tristi intorno a lei. Il sonno sembrava l’unica scelta consolatrice. Si sforzò di sognare qualcosa, ma la sua testa era come svuotata, frastornata, confusa. Non aveva ancora fatto i conti con quella scena. E con quello che le aveva provocato dentro. Cercò il lato fresco del cuscino dove poter piangere meglio, ma per quanto si sforzasse non riusciva a muovere un muscolo. Era inutile cercare qualcosa che le tirasse su il morale. Era inutile anche provare a sfogarsi. Era gelida, bloccata in quel momento che anticipa la caduta nel dolore.
Aveva perso. Come una nuotatrice squalificata prima di poter sfiorare l’acqua. Aveva deciso di non tuffarsi stavolta, di non combattere la sua battaglia, di non mettere in palio il suo cuore.
Dopo parecchie stelle dei passi la svegliarono dal suo letargo emotivo. Si tirò su coprendosi con le lenzuola, mentre Matteo entrava in camera con passo incerto e un sorriso idiota sul viso. Quanto le sarebbe piaciuto infrangergli il cuore in quel momento. Cedergli un po’ di tutto quel dolore immobile nel suo petto. Non sapeva quanto tempo fosse passato. Di certo ormai era più giorno che notte.
-          Vera. – la sua voce era calda e soffocata. – ci tocca dormire insieme stanotte. –
-          Non è necessario…- aveva tentato lei. – posso chiamare Nunzia e… -
Ma Matteo si era già sdraiato accanto a lei, cingendola con un braccio attorno alla vita in un gesto quasi impercettibile. Le lenzuola la scoprirono appena, lasciando intravedere l’orlo del reggiseno. Vera tentò di coprirsi, ma il ragazzo la strinse a sé e le baciò il collo, pungendole la pelle pallida e delicata con la barba appena incolta. Per un secondo appena decise di lasciarlo fare, nella speranza che si calmasse;rimase in ascolto del suo respiro irregolare, e si rilassò anche lei. Ma quando le mani di Matteo divennero insistenti, se lo scrollò di dosso con una spinta e si alzò dal letto, indossò velocemente una maglia pescata alla cieca nell’armadio e uscì dalla stanza lasciandolo lì, confuso e solo come la prima volta che lo aveva visto. Per quella sera si era già divertito abbastanza.
 
 
La sabbia era bagnata, ma non era colpa del mare. Il cielo aveva finalmente deciso di sfogarsi al posto suo, ancora incapace di ricordare come si piange.
Pioveva si, aveva aspettato la pioggia per tutta la mattina. Sperava che con quelle gocce d’acqua scivolasse via dalla sua pelle anche un po’ di tutto quel niente inutile e presente. Aveva ancora delle spiegazioni da dare a se stessa ma non poteva riuscirci finchè Matteo le restava così vicino. Nessuno dei due sembrava troppo infastidito da quell’acquazzone estivo. Quando era piccola Vera restava fuori a cercare di baciare la pioggia, perché negli altri mesi dell’anno non poteva farlo. E quando tornava a casa coi capelli bagnati era così felice che valeva la pena essere sgridata da sua madre. Bastava davvero poco per farla sorridere. Perché tutto non poteva essere semplice come allora? Le cose belle non erano eterne, questo aveva imparato a capirlo da anni. Un buon gelato finiva, un bel film finiva, una bella canzone finiva, un bel pomeriggio al mare finiva. Eppure tutto poteva tornare. Un buon gelato si poteva sempre ricomprare, un bel film si poteva guardare di nuovo, una bella canzone si poteva riascoltare, e il mare era sempre lì. Facile cullarsi nell’illusione che tutto si potesse in qualche modo fermare.
Eppure anche la fiducia finiva, così come l’amicizia, l’amore, la sincerità. Ma quelli non tornavano. Dove andavano a finire allora? Probabilmente a torturare qualcun altro.
Aveva paura Vera.
Paura di guardarlo in faccia e di non essere più in grado di sopportare il peso di quella maschera di ipocrisia che si era cucita durante la notte nell’attesa di rivederlo sobrio.
Paura che ricordasse e che non la guardasse più in faccia.
Paura di farlo vergognare.
Nonostante tutto non era ancora pronta a perderlo così. Voleva comunque conservarne un pezzetto per se, meritarsi un briciolo di attenzione da parte sua, elemosinare qualche altra nota.
E la pioggia scendeva ancora, pronta a farle compagnia in caso avesse voglia di piangere. Anche Matteo sembrava bearsi di quel cambio di programma temporale. Se ne stava lì a petto nudo a sfiorare l’erba bagnata con le dita, ascoltando la pioggia riempire quel mare. Sembrava quasi che dormisse tanto era immobile e silenzioso. Quando il cielo ebbe finito di commuoversi Vera si alzò e raccolse la sua bici.
-          Mi staranno cercando, sarà meglio tornare a casa. –
-          Ti accompagno. – rispose Matteo, alzandosi.
Avrebbe voluto dirgli di restare dov’era ma non aveva scuse. Si misero in sella e pedalarono vicini fino a casa senza scambiarsi una parola. 

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Capitolo 6
*** Le 16 e 32 ***


Capitalizzare il dolore.
Era questo il metodo, ed era anche quello che desiderava fare più di ogni altra cosa al mondo. Prendere il meglio da quelle piccole ferite sparse un po’ dappertutto, per poterle cicatrizzare una ad una. Curarsi. Guarire.
Pensare al tempo ora la faceva soffrire. Era meglio quando i suoi capelli erano più corti, come i giorni che ancora non profumavano d’estate.
Quando i suoi sogni erano ancora sciocchi.
Quando ancora non aveva la tessera elettorale. La patente. Il tatuaggio.
Quando conosceva meno canzoni.
Quando quella chitarra stava ancora zitta.
 
Non avessi mai visto il sole avrei sopportato l’ombra
 
Diceva così la sua poetessa preferita. Aveva sottolineato così tante volte quel pezzo che quasi non si leggeva più. Quel libro l’aveva comprato in una libreria in centro, e mentre si perdeva nell’odore delle pagine nuove, con lo strano sottofondo When the Love Falls di Yiruma nelle orecchie, aveva immaginato di incontrare lì lui. L’amore.
Un incontro in libreria, un po’ da film rivisto, un po’ scontato, ma maledettamente bello. Lui.
Avrebbero discusso a lungo su cosa fosse meglio da acquistare in quel mondo di capitoli, avrebbero preso un caffè e poi magari si sarebbero innamorati. Subito. Senza troppi pensieri, e probabilmente senza futuro. Perché lei non desiderava una storia seria. Lei voleva solo l’amore.
Un incontro in libreria l’avrebbe tenuta lontana dai chitarristi?
Sdraiata con la testa sul cuscino fresco, i suoi occhi furono attirati da un filo colorato dimenticato ai piedi del letto. Era un braccialetto dei desideri, arcobaleno, di quelli che vendevano tutti gli ambulanti in spiaggia a cinquanta centesimi. Regalava tre desideri a chi lo indossava, uno per ogni nodo. Ogni volta che si spezzava, o cadeva, o semplicemente i nodi si scioglievano, i desideri erano stati esauditi.  E puntualmente, ogni volta che il braccialetto le scivolava via, lei dimenticava cosa aveva espresso. Perché era quello il segreto, no? Essere talmente felici da non dover desiderare più nulla.
Stavolta era certa che non fosse suo.
Lo raccolse da terra e lo osservò. Sapeva bene a chi poteva appartenere. Se lo legò al polso esprimendo un solo desiderio, poi si girò dalla parte del muro e si addormentò, cercando quei sogni che non aveva potuto godersi la notte prima.
 


Le 16 e 32.
Era la terza volta che guardava l’orologio nello stesso minuto. Nemmeno la lancetta dei secondi si era mossa di un millimetro. Il tempo si era congelato.
Erano ancora le 16 e 32 mentre guardava Vera dormire raggomitolata su se stessa, stringendosi le gambe con le braccia. Una ciocca di capelli le cadeva sul viso coprendolo per metà, e le sue labbra addormentate sembravano chiedere un bacio al niente. Il suo respiro era quasi impercettibile, ma fu qualcos’altro ad attirare la sua attenzione. Vera aveva un nuovo braccialetto legato al piccolo polso, colorato. Doveva essergli caduto la sera prima quando si era addormentato in camera sua. E così lo aveva trovato lei. I suoi desideri stavano per avverarsi forse? Li ricordava bene. E si sentiva preso in giro dal mondo.
E ancora, le 16 e 32. Prese l’Ipod della ragazza che aveva lasciato sul comodino con i lacci delle cuffie sempre in disordine e si sdraiò anche lui sul letto di Nunzia, carico di malumore. C’era una canzone dei Red Hot Chili Peppers ogni tre canzoni.
Sorrise. Impossibile. Oasis.
 
Trattieniti 
tieni duro 
non aver paura 
non potrai mai cambiare quel che è stato e che non c'è più 
Che il tuo sorriso 
possa risplendere
non aver paura, il tuo destino ti potrà tenere al caldo 
Perché tutte le stelle 
stanno sbiadendo 
cerca solo di non preoccuparti 
un giorno le vedrai 
prendi quello che ti serve 
e continua per la tua strada 
e smetti di piangere a dirotto

 
Conosceva ancora abbastanza inglese da non dover ricorrere ad Angolo Testi. E poi lì non avrebbe neanche avuto la connessione ad internet per controllare di aver ragione. Forse aveva ascoltato quello che avrebbe voluto sentirsi dire, o forse era meglio non conoscerla affatto la traduzione di quella canzone. Per una volta avrebbe ceduto alle lacrime. Non erano in molti a saperlo, ma ci voleva forza anche a piangere.
La sua era diventata una stupida lotta contro se stesso. Amava farsi del male, ficcarsi in storie inutili o impossibili, perché dove c’era la felicità aveva paura di entrare. Era meglio fingere di amare quindici persone diverse a metà, far credere a se stesso di essersi affezionato davvero per una volta, pur di non amare veramente.
Le 16 e 33.
Guardò ancora una volta Vera ed uscì dalla stanza con ancora le cuffie alle orecchie, mentre la musica cambiava forma e iniziava un nuovo pezzo. Era Nobody’s Wife. Era la canzone di Vera.
E lui non lo sapeva, ma già immaginava di suonarla.
 


Vera si stiracchiò lentamente cercando alla cieca il suo telefono sul comodino. Non aveva dormito nemmeno mezz’ora che già qualcosa l’aveva disturbata dai suoi accenni di sogni.
La vibrazione del suo cellulare.
Un messaggio.
And I'll smile and you’ll wave. Well pretend it's okay
Le ricordava qualcosa. Di nuovo, un tuffo nel passato, l’ennesimo di quell’estate malinconica, gli anni della seconda liceo, delle ciocche dei capelli colorate, quando aveva conosciuto i Blink per la prima volta insieme ad altri gruppi grazie ad una compagna di classe. Aveva appeso sul muro della sua stanza anche un piccolo poster, per poi strapparlo via qualche anno dopo e lasciar spazio alla sua collezione di foto. Quella volta, aveva visto come il nastro adesivo rimaneva attaccato al muro, come non volesse venire via.
Rimanere.
Per sempre.
Come i ricordi. Ma con il nastro adesivo era più facile, bastava solo strappare un po’ più forte. Diverso era il resto.
Ma come si chiamava quella canzone? E soprattutto chi era il mittente? Il numero non era salvato in rubrica. Un nome le ronzava in testa dal primo istante. E non era Matteo. Si tirò su e vide che il letto affianco al suo era sfatto, come se qualcuno ci avesse dormito su. Probabilmente Nunzia si era riposata un pochino quel pomeriggio. Anche lei, come Matteo, aveva notato nel suo viso una nuova bellezza che prima non aveva visto. Sorrideva molto più spesso e i suoi tratti erano più dolci, quasi non avesse nessun motivo al mondo per aggrottare le sopracciglia, o peggio, per piangere. Un pensiero le balenò in testa. Sorrise all’idea, felice come non si sentiva da tempo, ma lo lasciò correre via subito. Avrebbe avuto altro tempo per pensarci.
Guardò di nuovo lo schermo del telefono e decise di rischiare. Al massimo, avrebbe aggiunto soltanto l’ennesima figura di merda alla sua già vasta collezione. Scrisse veloce un messaggio, col pollice che strisciava sui tasti consumati. Lei odiava il touchscreen, non era in grado di usarlo per più di venti secondi senza sbagliare clamorosamente.
“Aspettavo che ti facessi viva.”
Pochi secondi di attesa, mentre l’unghia del pollice sinistro ne pagava le conseguenze.
Un nuovo messaggio.
“Ed eccomi qua. Ci vediamo? <3”
 Vera sorrise. Era proprio Selene. Era una di quelle per cui valeva la pena perdere quella mezz’ora di sonno.
“Solo perché sei tu.”
 


Il temporale era finito. L’odore della pioggia che entrava dalla finestra aperta del bagno la cullava insieme al soffio del vento. Ma lei aveva voglia di musica. Di nuovo.
Aveva imparato questo, dalla sua malinconica tristezza. La musica poteva curare ogni ferita meglio e prima.
Si sciacquò il viso due volte e corse in camera sua. Era certa di aver lasciato l’Ipod sul comodino. Ma il suo dolce compagno verde non era lì. Cercò da tutte le parti, perfino sotto il letto, ma non vi era traccia da nessuna parte.
-          Mamma, hai visto il mio Ipod per caso? –
-          No, tesoro, non l’ho visto. –
Non che si aspettasse qualcosa di diverso.  Era la classica risposta alla classica domanda. Perché quando cercava qualcosa nessuno l’aveva vista. Mai.
Sbruffò e mise su un po’ di matita nera per allungare la linea degli occhi, lentamente, precisa come se stesse disegnando su un foglio di carta particolarmente delicato, e senza pettinarsi uscì di casa. Tanto il vento avrebbe provveduto a spettinarla ancora.
Si sentiva come se avesse perso un concerto importantissimo. Ma dov’era finito il suo Ipod?
Per fortuna stava andando da Selene. Per fortuna non c’era il sole. Per fortuna conosceva tante canzoni da cantare.
Le aveva promesso che non avrebbe fatto tardi. Ma non era ancora arrivata al bar dove si erano date appuntamento. Entrò e desiderò di non averlo mai fatto. Seduti a pochi passi da lei c’era Matteo, con una Corona in mano. E Jenny seduta affianco a lui. Non poteva voltarsi ed uscire, ormai l’avevano vista. Poteva fingere di aver scordato qualcosa, le chiavi, una telefonata… La morte del vigliacco. Non era fatta per lei. Prese un gran respiro e fece un passo entrando completamente nel bar. Jenny la stava salutando con la mano. Sorrideva anche, uno di quei sorrisi che spingeva a spaccarle i denti con un pugno. Ormai non poteva fare altro che avvicinarsi.
-          Ciao Vera! – la salutò allegramente, alzandosi e baciandola su entrambe le guancie. Probabilmente quella biondina le era anche sinceramente grata. Era solo merito suo se aveva conosciuto Matteo. No anzi. Era solo colpa sua.
-          Ciao. – riuscì a dire mantenendo un tono neutro. Matteo sembrava imbarazzato. O forse era solo quello che volevano vedere i suoi occhi.
-          Ciao. – disse. – Che ci fai qui? –
Scortese come solo lui poteva essere. Ma Vera alla scortesia sapeva rispondere con altrettanta cortesia.
-          Nulla, aspetto un’amica. E visto che credo sarà qui da un momento all’altro, me ne vado. Mi rendo conto che sono di troppo. –
Aveva appena girato le spalle che la mano di Jenny l’aveva tirata per un braccio, facendola voltare. Non ne aveva voglia, ma non voleva perdere.
-          Ma no, non preoccuparti, io e Matteo ci siamo incontrati per caso e mi ha chiesto di prendere qualcosa con lui... –
Non glielo aveva chiesto nessuno, eppure aveva deciso di dirglielo ugualmente. Leggeva molta più cattiveria di quanto ne esprimessero le parole nel suo tono di voce. Si chiese cosa avesse capito Jenny. In quel momento il rumore di una porta che si apriva sembrò il suo salvagente. Un bellissimo salvagente dalla lunga treccia nera.
Era arrivata Selene, anche lei spettinata dal vento. Appena la vide, sgranò a malapena gli occhi e poi assunse un’espressione indifferente, raggiungendoli. Non salutò nessuno a parte Vera e la trascinò quasi immediatamente fuori dal bar, lasciandosi alle spalle il muso imbronciato di Matteo.
-          Mai più in questo bar, te lo giuro. –
-          Ma il caffè è ottimo. – protestò Vera.
-          Beh, dovrebbero essere un attimino più selettivi sulla clientela. E poi puoi sempre smettere di bere caffè, è eccitante e non fa dormire. – rispose Selene
-          Appunto non posso farne a meno. –
-          Prendiamo un Estathè. –
-          Alla pesca? –
-          Alla pesca. –
E via, fino al distributore più vicino, a bere thè alla pesca riparate sotto un balcone di una palazzina. Pioveva di nuovo. Sembrava fosse già settembre.
Selene lanciò la sua lattina vuota lontano, che finì in una pozzanghera. Vera osservò nascere quei cerchi nell’acqua con lo stato d’animo pigro di chi soffre in ritardo. Cominciava a salire.
-          Se hai sofferto un minimo per un ragazzo, penso tu mi possa capire. –
Selene si voltò a guardarla. Nel suo sguardo c’era tanta tristezza quanto comprensione, ma trovò lo stesso il coraggio di sorridere all’amica.
-          Si, ti capisco. – rispose. – E penso che sia lo stesso strumento a farci star male. Solo che si tratta di due canzoi diverse. –
Vera si alzò e la guardò con mezzo sorriso stampato in faccia e le mani sui fianchi. – Chi sei tu veramente? –
Anche Selene si alzò, e anche lei sorrise. Ancora di più.
-          Sono Selene e questa è la mia storia, se avrai voglia di ascoltarla. –
 
 
 

 
 
 
 

Questo capitolo è dedicato a Samuele Bersani.
Ho seguito il consiglio di un dolce poeta.

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Capitolo 7
*** Stelle fosforescenti ***



La storia di Selene era giunta al termine prima che Vera potesse finire di bere il suo thè alla pesca in lattina, lasciandole un senso di insoddisfazione e di curiosità nello stesso tempo. Era una storia troppo semplice da capire e troppo triste da riascoltare, come la canzone della colonna sonora di un film drammatico.
Soprattutto, fin troppo simile alla sua sfortuna in quanto note musicali. Ma era certa che fosse solo alla fine del primo capitolo.
Selene.
La guardò per tutto il tempo che passarono insieme quel pomeriggio, fino all’imbrunire, cominciando a masticare l’idea che quella ragazza abitava lontano da lei. Tanto lontano. Non voleva usare il termine “troppo” per descrivere quella distanza. Qualcosa nei suoi modi di fare, nella sua voce rassicurante, nella sua spalla bagnata di lacrime sincere, le suggeriva che lei sarebbe rimasta vicina comunque, molto più vicina di altri. Era il tramonto, ma alla fine l’alba era sempre puntuale.
Eppure nonostante le parole di conforto faceva male, era l'ennesimo mal di pancia. La fine dell’estate avrebbe avuto il sapore degli addii.
Le sembrava di essere finita in una di quelle serie-tv americane, in cui le cose hanno il vizio di complicarsi per forza.  Trovare un'amica, doverla vedere andare via. E trovarsi da sola, ancora.
Abbracciò forte la ragazza per l’ultima volta e tornò a casa, cercando disperatamente la voglia di fare qualcosa. In genere Vera amava fare tante cose, ma non voleva farne nessuna in quel momento.
Il suo Ipod era sempre un mistero, così una volta a casa fu costretta ad ascoltare la radio del cellulare, che la deludeva il 90% delle volte.
Incantevole. Subsonica. Era sempre bello rivalutare una canzone.
Si portò una mano vicino al viso e chiuse gli occhi. Lei non metteva mai troppo profumo, la sua pelle profumava già di suo, nonostante fossero davvero pochi privilegiati a conoscere bene quell'essenza. Avrebbe stonato con qualunque altra cosa.
Ma quella sera voleva essere diversa.
Tingersi i capelli non era la soluzione, e nemmeno truccarsi gli occhi di nero.
Sentiva che era lei il problema. Qualunque cosa andasse troppo bene per lei non poteva funzionare. Era noia, era insoddisfazione.
Guardò il proprio riflesso pallido allo specchio vicino al letto, e spense la luce. Quel viso le dava fastidio.
Tante nuvole attraversarono il cielo, portandosi dietro storie che non raccolse nessuno. Da quattro giorni aveva smesso di parlare con Matteo, da quando l'aveva incontrato in quel bar insieme a Jenny. Si sentiva denudata, infelice. Ormai era chiaro che lui aveva capito tutto. In ogni caso, doveva aver capito molto più di quanto riuscisse ad accettare.
Aveva regalato mille sospiri al cuscino ogni notte, ma lui non era mai entrato, non aveva mai cercato una spiegazione a quel suo mutismo. Un tacito accordo che era più comodo per entrambi.
In fondo era meglio così. Sarebbe stato come spiegare l'insoddisfazione di aver trovato la propria canzone preferita in radio all'ultima nota ad un sordo. O semplicemente a chi non vuol sentire.
L’apatia era diventata sua compagna estiva. Restava a guardare le ore trascorrere rinchiusa spontaneamente in camera sua a disegnare visi che poi finivano per essere strappati o accartocciati senza potersi mostrare a nessuno. Non prendeva più il sole sulla spiaggia, man mano che il tempo scivolava via sembrava impallidirsi sempre di più. Per trascorrere il tempo, aveva persino comprato un libro di preparazione per i test dell’università, che la teneva impegnata con quiz di logica che la fregavano difficilmente. Giocare al Professor Layton al Nintendo DS per così tanto tempo aveva portato a qualche risultato.
Stava ragionando su un quesito particolarmente difficile quando sentì bussare alla porta. Rimase a fissare il vuoto nello spazio di tempo di un sospiro, mentre il cuore manifestava la sua presenza battendo un po’ più forte. Cercando di riunire tutto l’autocontrollo che aveva dentro in un’unica parola, disse: - Avanti. –
Non era ovviamente quello che sperava. Nunzia entrò in camera con un paio di magliette colorate in mano e la solita espressione esasperata e comprensiva nello stesso tempo che aveva assunto nei confronti di lei e Matteo da qualche giorno.
-          Ti ho portato queste, a me non vanno più. Provale. – le disse, scrutandola.
-          Grazie zia. – rispose Vera senza degnare il minimo guardo alle magliette. Nunzia le posò sul letto e le si sedette affianco.
-          Mi hai chiamato zia, sul serio? –
-          Beh, da qualche parte devo pure iniziare. –
Nunzia fissò sua nipote con gli occhi da grande per la prima volta. Anche lei, visti i pochi anni di differenza, non riusciva a fare per bene il ruolo della zia. Ma guardando quel viso segnato dalla tristezza scritta negli occhi, non poté trattenere un senso di protezione nei suoi confronti.
-          Mi spiace se ti ha fatto arrabbiare. – sembrava dispiaciuta sul serio.
-          Lui non mi ha fatto arrabbiare. –
-          Se avessi saputo come sarebbero andate le cose…-
-          Stanno andando benissimo le cose. Matteo è molto più sereno rispetto a quando è arrivato. Ha fatto amicizia con molti bravi ragazzi qui e sta anche studiando un po’, l’ho visto l’altro giorno sfogliare un libro…-
-          Era una raccolta di fumetti. Ma questo non mi importa. A me interessa sapere come stai tu. –
-          Io? Starei meglio se riuscissi a capire questo quesito e se piovesse un altro po’, oggi fa decisamente troppo caldo. –
-          Posso chiedergli di tornare a casa, se tu… -
-          No. – la interruppe subito. Poi ci pensò su e aggiunse – Non mi sembra il caso, sta ancora imparando ad integrarsi qui, credo che un altro po’ di tempo lontano da casa possa solo fargli del bene. –
La verità era molto più semplice e chiara, ma non poteva dirla ad alta voce e soprattutto non alla cugina di Matteo. Non voleva vederlo andare già via, probabilmente avrebbe significato non rivederlo più.
-          Come vuoi. Mi piacerebbe solo tirarti su il morale in qualche modo. Mi sento responsabile. –
-          L’unica cosa che potrebbe tirarmi su il morale in questo momento sarebbe il ritorno di Frusciante nei Red Hot Chili Peppers. Pensi di poterlo convincere, o magari di trovarmi una notizia migliore di questa, soprattutto reale? –
-          Penso di averla, si. Sono incinta. –
Vera alzò lo sguardo dall’Alpha-test e fu come se vedesse per la prima volta quei capelli chiari e scompigliati dal mare, il viso giovane e fresco da giovane sposa, gli occhi lucidi di amore e felicità. Si sentì sciocca e stupida per aver fatto aspettare una notizia così bella solo per le sue sciocche paranoie. Man mano che accorciava la distanza per correre ad abbracciarla, l’idea di quella notizia arrivata così all’improvviso iniziava a prendere forma dentro di lei.
E fu musica, fu energia, fu amore.
Suo zio sarebbe diventato padre. Il suo zio amico, il suo fratello maggiore, la spalla più forte che avesse mai accolto le sue lacrime, padre. Accarezzò la pancia di sua zia, cosciente che era vita laggiù da qualche parte, meravigliandosi come una cosa tanto piccola potesse riempirla così immensamente. E per la prima volta, dopo troppo tempo, vide lo splendore dell’amore. Quello che sarebbe stato, grazie ad esso. Chiuse gli occhi, mentre abbracciava ancora una volta Nunzia, e non lasciò posto nemmeno ad una lacrima.
Mentre la stringeva, Vera capì che erano più distanti che mai. Nunzia era felice, innamorata, soddisfatta. Tutto quello che lei avrebbe desiderato essere.
Staccandosi dall’abbraccio una voce dalla porta sembrò urlarle nelle orecchie, anche se il tono di voce di Matteo era quasi un sussurro.
-          Che succede? Vera, tutto ok? –
Vera lo guardò negli occhi, incredula. Non le sembrava vero che Matteo stesse rivolgendo quella domanda, o anche solo la parola, proprio a lei. Prese un gran respiro e si sforzò di sorridere. Ripensando a sua zia e alla notizia appena data, non le riuscì poi così difficile.
-          Ciao Matteo. Va tutto bene, benissimo. – sorrise a Nunzia. Sua zia ricambiò il sorriso, poi guardò anche lei Matteo.
-          Aspetto un bambino. –
-          Sul serio? – lo sguardo duro di Matteo si intenerì. Sorrise tanto da fare male a Vera, che distolse lo sguardo, mentre i due cugini si abbracciavano.
-          Io e Francesco avevamo deciso di dare la notizia stasera a cena insieme a tutti gli altri, ma non ce la facevo più a tenermi dentro una cosa così. Però tenetevela per voi, mi raccomando. – si assicurò stringendo per l’ultima volta Matteo. Fece una carezza a Vera, che sorrideva ancora seduta ai piedi del letto, ed uscì, lasciandoli soli per la prima volta dopo giorni di silenzio.
Fu Matteo a parlare, mentre si sedeva affianco a lei. – Per una volta, splendide notizie. –
Vera lo guardò, ma non trovò i suoi occhi. Il ragazzo aveva lo sguardo incollato sul pavimento scuro, come se vi leggesse la più avvincente delle storie tra quelle vecchie mattonelle. Sembrava si sforzasse di fare conversazione, e soprattutto che trovasse estremamente difficile in compito. Questo sembrò dare coraggio a Vera.
-          Mi ha risolto tutti i problemi che avevo. Tante cose ora sembrano sciocchezze, vero? –
-          Già. – Con un sospiro, tirò su il viso e la guardò. I suoi occhi erano blu di tristezza, di scuse. Non avrebbe mai staccato lo sguardo da quegli occhi se non le avessero fatto male.
-          Matteo, è tutto ok. – fu ancora lei a parlare. Non poteva fare altrimenti, se non poteva baciarlo.
-          No, non lo è. – rispose lui, carico di amarezza. – E vorrei capire perché. Perché Vera? Perché non riusciamo ad andare d’accordo?-
-          Chi ti dice che non ci riusciamo? Io stavo bene con te, mi piaceva parlare, mi piaceva prenderti in giro. Mi piaceva guardarti mentre suonavi la chitarra e ti perdevi nei tuoi accordi, e stringevi la lingua tra i denti, e mi guardavi sorridendomi, e a tratti chiudevi gli occhi, e le tue mani scivolavano, e ti perdevi un’altra volta… - Arrossìma non distolse lo sguardo.Sorrise soltanto– Non volevo dirlo. –
-          E per quale motivo abbiamo smesso di parlarci? Non ti piace più tutto questo? –
Stavolta era più difficile. Vera chiuse gli occhi e abbandonò la testa all’indietro, stancamente.
-          Vera. – Matteo le aveva preso una mano e la stringeva. Nonostante il suo più grande desiderio fosse quello di aprire gli occhi, Vera rimase immobile, fissando nella mente quelle dita lisce che giocavano con le sue.
-          Matteo, mi dispiace. Mi dispiace tanto. – fu tutto quello che il suo cuore riuscì a dire. La sua mente aveva deciso di lasciarla libera per un po’.
-          Che significa mi dispiace? Vera. – continuava a ripetere quel nome disperatamente, cercando quegli occhi che lei gli nascondeva, esasperandolo.
-          Vera guardami. –
Vera aprì gli occhi e guardò il soffitto, dove qualcuno prima di lei aveva attaccato delle stelle adesive fosforescenti. Possibile che non le avesse mai notate? Qualunque cosa pur di sfuggire alla verità. Ma era tempo ora.
Spegni la luce che il cielo c’è.
E lei lo guardò, e fu il cielo più bello che potesse trovare, anche senza stelline adesive dell’Ikea.
-          Non tocca a me sentirti suonare. –
-          Sei tu. Sei sempre stata tu. –
Oramai i suoi occhi non erano più in grado di mettere a fuoco. Il viso di Matteo era così vicino da sembrarle sfocato, irreale.
-          Matteo, che stiamo facendo. –
Suonava di domanda, ma lui non la sentì nemmeno. Avvertì solo il movimento delle labbra di Vera solleticarlo, così vicine alle sue.
La baciò dimenticandosi del resto, dissetando quel bisogno di lei che lo perseguitava dal primo giorno che l’aveva vista dondolare spingendosi con un piedino. La baciò e fu solo Vera, la chitarra più bella da suonare. La baciò, e non se ne rese conto finchè lei stessa non si staccò da lui, sorridendo.
-          Cosa c’è da ridere? – disse lui con gli occhi ancora semichiusi d’amore, sorridendo di rimando.
-          E’ un sorriso. Solo un sorriso. Abbracciami. –
Inutile richiesta. Matteo la stava già cingendo con le braccia, abbandonando il suo viso tra il colloe la spalla di lei, continuando a sorrideree dimenticandosi di come si stava male prima.
-          Possiamo stare così per tutto il tempo di By the Way? – chiese lei, accarezzandogli con le unghie l’avambraccio tatuato.
-          Ma intendi l’album o la canzone? – rispose Matteo con una punta di preoccupazione nella voce.
-          L’album, ovviamente. –
-          Non preferiresti che te lo suonassi tutto con la chitarra? – chiese lui baciandola sul collo.
-          Lascia perdere quella stupida chitarra per una volta. –
-          L’ho già fatto, sono con te. –
 
 
Fuori dalla stanza qualcuno aveva finito di spiare.
Voltando le spalle a quei due cuori ritrovati la donna si accarezzò la pancia felice, e le parve di sentire un battito nuovo da qualche parte dentro di lei condividere la stessa felicità.




Dedico il capitolo ai ragazzi che si amano. Tutti. E in particolare a Jessica, che oggi compie gli anni... AUGURONI TESORO.
Ogni tanto ricompaio, ma chi scrive sa che purtroppo non lo si fa a comando. Per farvi ancora più contenti (marò come mi sto dando stasera) quaggiù vi posto anche un disegno di come immagina la mia mano e la mia testa Matteo, muaaa:*

 

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Capitolo 8
*** Siberia ***


http://www.youtube.com/watch?v=ADmCFmYLns4
 
Of Before.
Era un singolo di Frusciante da solista, dell’album Shadows Collide with People.
Matteo lo aveva scovato sull’Ipod di Vera, un brano perso in una sottocartella, probabilmente ascoltato pochissime volte. Il testo era semplice, ma forte. Parlava di un uomo perso in una forte luce, definita come una stella in volo troppo luminosa per lui, tanto da non essere in grado di coglierne i frutti. E finiva per svegliarsi ogni giorno continuando a non vedere via d’uscita, perché la notte distruggeva il percorso che cercava di costruire per arrivare a lei, la sua stella in volo, la sua luce.
Non le aveva ancora restituito l’Ipod. Era certo che vi avrebbe trovato ancora tante meraviglie come quella.
Accarezzò con la punta delle dita la spalla illuminata appena di Vera, che ancora dormiva beatamente con un’espressione di serenità di cui non vi era traccia l’ultima volta che era rimasto a guardarla dormire.
Era il finire della notte, l’orario più bello per le ultime stelle, privilegio per pochi eletti. Eppure erano le stesse stelle da secoli. Stelle custodi di magnifici segreti, compagne di migliaia di sospiri persi nel tempo, spettatrici di grandi amori consumati.
Un po’ come Nunzia, che era rimasta a dormire con Francesco un’altra volta, ma stavolta di proposito. Anche lei come quelle stelle, custode del loro bellissimo ritrovarsi, aveva deciso di far loro un regalo.
Avrebbe voluto svegliare Vera solo per poterle dire che era bellissima lì, stretta finalmente tra le sue braccia. Le sue labbra presero il posto delle dita, baciandole la pelle fresca delle spalle esili. La ragazza dormiva in modo buffo, con un piede sollevato e le labbra imbronciate. Sorrise, e la baciò. Stavolta doveva averla svegliata sul serio, perché spalancò gli occhi dapprima spaventata.
-          Tu. Fammi dormire. – sorrise, girandosi dall’altra parte.
-          Non posso. Non è giusto che tu dorma così e io no. –
-          Cosa ti impedisce di farlo? – rispose con voce flebile, ancora molto stanca.
-          Sono accecato. –
Vera non capì il senso di quelle parole d’amore, ma si voltò nuovamente verso di lui, accoccolandosi tra le sue braccia.
-          Dormi, Matteo. –
-          Solo se mi canti la ninna nanna. –
-          Hai vent’anni. Non rompere. –
La vide richiudere gli occhi, ma non il sorriso.
-          Vera. –
-          Cosa c’è? –
-          Hai mai ascoltato quella canzone dei Maroon 5 dove nel videoclip c’è Adam Levine con una biondona in un letto, e la gente li guarda da un vetro? –
Spalancò gli occhi, sembrava quasi arrabbiata. – Cioè, di tutto il video tu hai notato solo la bionda vero? –
-          Stavo per dirti una cosa bellissima, ma non te la dico più –
Stavolta fu lui a darle le spalle, ritirando il braccio che la stringeva. Vera si tirò su e prese a picchiarlo.
-          Ferma Vera, se si alza tua madre sono dolori. –
-          Voglio la mia carineria delle 5 e 10 del mattino e la voglio adesso. Non mi importa se dovrò svegliare tutta la casa. –
-          A me un po’ si. Vorrei avere ancora le gambe per camminare alla fine dell’estate. –
Smise di picchiarlo, ma incrociò braccia e gambe rifiutandosi di avvicinarsi troppo a lui. – Allora? –
-          Niente – rispose lui con un sorriso ironico, cercando di tirarla per un braccio. – Tu sei molto più carina di quella biondona del video. –
Vera si lasciò scappare un verso che sapeva un po’ di sbruffo.
-          E poi, sai, se non ricordo male la traduzione, lui dice, canta in realtà, che non avrebbe più lasciato quel letto. Ecco. Io non vorrei mai dover lasciare questo letto, adesso. –
La vide sciogliersi in un sorriso. Tornò affianco a lui, stringendolo. – E non potevi dirmelo senza citare la bionda? –
Matteo sorrise e prese ad accarezzarle i capelli, prima di addormentarsi di nuovo insieme a lei.
 
 
-          Alzati. –
Quella voce calda di mattino cercava con tutte le sue forze di non risultare fastidiosa, ma proprio non ci riusciva.
Matteo resistette all’impulso di tapparsi le orecchie e obbedì, sbadigliando. Cercò di muoversi il meno possibile mentre si tirava su, per non svegliare Vera che ancora dormiva beata alla ricerca di quell’abbraccio che gli era stato appena sottratto, trattenendo l’impulso di baciarla di nuovo, ed uscì dalla stanza seguendo i passi di sua cugina. Fortunatamente era l’unica ad essere già in piedi in casa. Guardò l’orologio a cucù di legno appeso alla parete in corridoio, sbruffando perché erano solo le otto e mezzo del mattino.
-          Non posso fare questa vita. –
Nunzia lo guidò in cucina, spalancò le due grandi finestre dalle tende blu e si fiondò sul frigorifero.
-          Vuoi fare colazione o preferisci andare a dormire un altro po’? –
-          Non credo che riuscirei a dormire. – rispose Matteo versandosi un po’ di caffè in una tazzina con su il disegno di una faccina sorridente.
-          Odio queste tazzine. – disse Nunzia mentre si sedeva anche lei, guardando il piccolo oggetto blu che suo cugino reggeva. – Sono un regalo della prima ragazza di Francesco, e sono ancora in questa casa, da anni. –
-          Beh. Sono carine. –
-          Già. Le vedi carine perché sei felice. Pensa a dover bere il caffè da una di queste sottospecie di tazzine dopo una nottata tremenda. Penseresti che non c’è proprio niente da sorridere. Penseresti che il mondo vuole prenderti per il culo. –
-          Ma che pensieri profondi alle otto del mattino, cugina cara. Ma in fondo non hai tutti i torti. – finì il suo caffè, poi senza averlo premeditato, buttò la tazzina nell’immondizia. Nunzia lo guardò con occhi sgranati. – Prometto che comprerò un servizio nuovo oggi. Non saranno delle stupide tazzine a farvi arrabbiare. –
-          Farvi? –
-          Siete in due ormai. – sorrise lui alzandosi. Le diede un bacio leggero sulla fronte. – Non posso crederci ancora. –
Nunzia sorrise, si alzò e abbracciò forte il cugino. In quella vacanza stava imparando a conoscerlo molto più di quanto ci fosse riuscita prima di allora. E con un gesto naturale, prese anche le la sua tazzina e la lasciò scivolare giù nella pattumiera. Non si ruppe. Un chiaro segno che il passato non si poteva cancellare. Ma i suoi fantasmi si.
-          Vorrei che fosse una bambina. – disse ancora Matteo, più a se stesso che a lei. – lo so cosa stai per dirmi. L’importante è la salute e tutte le stronzate solite. Ovvio, lo sappiamo tutti che l’importante è che la piccola stia bene. Ma ecco, si, se fosse femmina sarei ancora più felice. Sarebbe bellissima. –
-          La piccola. Ne parli già come se lo sapessi. –
Questa volta Matteo non disse niente, si sedette ancora una volta e aprì il giornale.
-          Matteo, come vanno le cose con Vera? – chiese Nunzia all’improvviso. Il ragazzo alzò lo sguardo. Si chiese fino a che punto valesse la pena mentirle.
-          È semplicemente adorabile. E non vedo l’ora che si alzi da quel dannato letto. Pensi che possa bastarti come risposta? –
 
 
Vera quella notte non aveva sognato nulla. O almeno non vi era traccia di sogni al suo risveglio. La notte le aveva portato via oltre che le stelle, anche le braccia di Matteo. Non era più affianco a lei, ma era rimasto il suo calore sulle lenzuola colorate, il profumo della sua pelle che aveva cercato per tutto il tempo che erano rimasti insieme. Sorrise, chiedendosi se non fosse proprio quello il sogno che non riusciva a ricordare.
Si alzò e cercò il cellulare. Non c’era ancora nessun messaggio per lei quella mattina. Voleva chiamare le sue amiche, raccontare loro quanto era successo la sera prima, ma era certa che stessero ancora dormendo, non erano nemmeno le dieci. Stiracchiandosi per l’ultima volta accese la radio sul suo cellulare e infilando le cuffie si fiondò in bagno. Quella mattina i vj dovevano essere tutti depressi, o forse era lei ad essere troppo esigente. Si rese conto di quanto le mancasse il suo Ipod quando beccò un pezzo di Marco Carta, e decise di rimettersi alla ricerca immediatamente. Indossò un paio di pantaloncini blu e una maglia enorme che aveva comprato all’Hard Rock di Barcellona, quando sbagliò taglia e finì per comprarne una maschile. Fu la prima volta che le saltò in mente l’idea di un viaggio insieme ai suoi amici. Non aveva fatto il viaggio della maturità, suo padre era stato irremovibile. Ma con l’anno nuovo magari avrebbe avuto modo di riprovarci, di convincerlo. Sognava la Grecia, Vera. Sognava le isole. Santorini, oppure Mykonos con le loro stradine, il mare cristallino e i mercatini dove poter comprare delle splendide collane a tutti. Sognava una settimana in una di quelle casette bianche dai tetti blu del cielo, che aveva visto solo in foto su internet o tra gli album del viaggio di nozze dei suoi zii. Paradisi, che non vedeva l’ora di fotografare.
Pensando alla meraviglia di quei posti ancora inesplorati, capì che non aveva molta voglia di andare al mare quella mattina. Si diresse verso la cucina mentre mandava lo stesso messaggio a Giusy e Selene.
Erano già tutti in piedi, come ogni mattina era l’ultima. Solo che stavolta Matteo era rimasto lì ad aspettarla. Nemmeno lui aveva messo il costume, ma era bellissimo con la sua maglietta nera dei Pink Floyd e i pantaloncini. La guardò sorridendo, complice e colpevole, e fu una fortuna che altri fossero presenti altrimenti probabilmente non avrebbe saputo resistergli. Affianco a lui sua madre e sua nonna stavano armeggiando con le borse.
-          Buongiorno tesoro. Dormito bene? – la salutò sua madre con un sorriso.
-          Benissimo mamma, grazie. – rispose, sedendosi vicino a Matteo.
-          Ho aspettato, ma ora devo proprio uscire con tua nonna. Vuole che l’accompagni a fare la spesa e poi da sua sorella, sai quella che abita vicino alla gelateria, hai capito dove? Vera, mi ascolti? –
In realtà Vera aveva ascoltato fino alla parola “uscire”. Matteo aveva preso ad accarezzarle una gamba da sotto il tavolo e lei faticava a restare concentrata sulla conversazione con la madre.
-          Si mamma scusami. Non preoccuparti, vuoi che prepari io qualcosa per l’ora di pranzo? –
-          No, penso di rientrare prima. – concluse, baciandola sui capelli. Salutò gli altri ed uscì seguita dalla nonna. Non appena la porta si chiuse, Vera spinse Matteo lontano da lei.
-          Grazie, davvero. Per un po’ mia madre non capiva qualcosa. –
-          Buongiorno anche a te Vera, sei bellissima stamattina. –
-          Idiota.  Ti sei alzato presto stamattina? –
-          8 e mezza. Tutto per colpa tua, e devo anche farmi trattare così. Ti pare giusto. –
A quel punto Vera, senza neanche controllare se in quel momento ci fosse qualcuno o stesse per arrivare, lo baciò. Quella notte non c’erano stati troppi baci tra di loro, forse per questo Matteo li ricordava uno ad uno, ma riscoprire quelle labbra fu bellissimo come la prima volta.
-          Buongiorno Matteo. – disse infine, stampandogli un ultimo bacio veloce. – Cosa vorresti fare stamattina? –
-          Possiamo restare anche a casa per me, non è un problema. –
Il telefono di Vera vibrò sul tavolo. Selene.
-          E invece no. – rispose Vera. – Si va al lido, Selene ci aspetta lì tra mezz’ora. –
Matteo non chiese chi fosse Selene, ma dallo sguardo felice di Vera capì che si trattava di una persona importante per lei, che non poteva definire con delle sciocche parole. Dal canto suo, Vera era certa che la sua amica si sarebbe fatta amare anche da lui.
Allo stesso tempo si rese conto di quanto le mancasse Giusy. Aveva parecchia voglia di rivederla, e sul messaggio di risposta le aveva scritto che quella sera forse sarebbe passata insieme ad Andrea. Aveva troppe cose da raccontare a tutti loro che probabilmente non sarebbe bastata una cassa intera di thé alla pesca. Guardò Matteo, che di tutte le sue lacrime secche non ne sapeva niente, e quasi non credette possibile come nell’arco di poche ore tutto potesse essere cambiato tanto.
Matteo l’aveva baciata. Una, due, tre volte… non poteva trattarsi di un errore. E nemmeno di un sogno.
 
 
Il lido dove si erano date appuntamento si trovava vicino alla spiaggia, ma non c’era mai troppa gente di mattina. A dire la verità quel giorno sembrava ci fosse solo Selene abbandonata su una sdraio arancione, che indossava un paio di occhiali scuri grandi e leggeva un libro giocando con una ciocca di capelli spettinati dal vento con le dita, mentre la radio passava distratta Naive, dei The Kooks. Appena vide arrivare Vera insieme a Matteo però sorrise, e alzò la mano facendo loro segno di avvicinarsi. Vera l’abbracciò forte facendole volare a terra gli occhiali, ma Selene non ci badò. La guardò come a voler cercare risposte nei suoi occhi ridenti, e forse vi lesse sul serio qualcosa perché si voltò per scrutare Matteo. Gli occhi di Vera caddero sul libro che stava leggendo. Non ci poteva credere. Wuthering Heights.
-          Lo leggi in lingua originale? –
-          Ovviamente. Tante sfumature sfuggono alla traduzione. –
-          Vorrei esserne capace anche io, si. – sospirò Vera ridendo. – E’ il mio libro preferito. –
-          Chissà perché lo sapevo. Piacere, io sono Selene. – aggiunse, allungando la mano verso Matteo.
-          Matteo. –
Ma non fu lui a parlare, bensì una voce alle sue spalle. Jenny li aveva visti da lontano e li aveva raggiunti correndo. Probabilmente veniva dalla spiaggia, perché indossava un mini costume colorato che le metteva in risalto il fisico perfetto, e i lunghi capelli biondi erano ancora umidi di sale. Una volta raggiunti, si chinò su Matteo e lo baciò sulle labbra.  Quando quelle labbra si erano unite qualcosa si era staccato nel petto di Vera.
Avrebbe ringraziato per sempre il suo autocontrollo, che non le permise di scappare lì nel cesso di quel lido. Sentiva Selene vicinissima, ma non riusciva a guardare nessuno di loro. Il suo viso rimase fisso sulla copertina del libro che l’amica aveva lasciato sul tavolo, consumata dal tempo. Doveva piacerle davvero tanto. Intorno a lei era tutto un brusio di voci indistinte, confuse. L’unica cosa che importava al mondo era solo quella copertina e i suoi colori.
Era Siberia, l’immagine che tanto la teneva incollata. Un quadro ad olio del 1894 di Vasnetsov. Non lo conosceva, ma l’ipnotizzava. Non sapeva neanche bene cosa potesse c’entrare con la storia di Heathcliff e Catherine, ma non le interessava in fondo. Stava sfuggendo alla realtà, e poco importava se stesse usando la copertina di un libro per farlo. Non poteva strapparsi gli occhi.
-          Ciao Vera. – Jenny stava salutando lei. La sua voce sembrava un eco, un eco fastidioso che non le permetteva di dormire.
Lasciami in pace, sto osservando un bellissimo quadro che non aveva mai visto prima…
-          Non sapevo foste qui, siete arrivati da tanto? –
Ripensandoci, quel quadro proprio non le piaceva. Aveva rovinato la copertina di un libro meraviglioso.
-          Tantissimo, stiamo andando via. – la voce di Selene risultava più autentica, quasi facesse parte anche lei del suo dolore strano, che sentiva crescere man mano che Jenny parlava. La sentì blaterare altre frasi senza senso, finchè non pronunciò l’ultima che per lei, Vera, aveva meno senso di tutto il resto.
-          Io e Matteo ci siamo messi insieme. –
 
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** Combattenti? ***


Vera aveva chiamato sua madre di fretta qualche ora prima, solo per rassicurarla sul fatto che andava tutto bene, e che si sarebbe fermata a casa di Selene per tutta la giornata. Forse avrebbe dormito lì. La madre aveva creduto solo alla metà delle cose che le stava dicendo, conoscendo troppo bene quel tono di voce trascinato e spento, ma non poteva fare molto via telefono e sperò che il buonsenso della ragazza avesse la meglio, in qualunque situazione si trovasse.  Subito dopo, Vera spense il cellulare.
La casa di Selene era bella e accogliente, con un grande terrazzo tutto piante e fiori colorati, che profumavano d'estate e resistevano al caldo torrido. Per fortuna era anche vuota; i suoi genitori erano partiti per lavoro quella mattina stessa e sua sorella era uscita con la sua comitiva. Nonostante Selene cercasse di spronarla, Vera non mangiava niente, se non il fumo delle sigarette. Ne era rimasta solo una nel pacchetto di Chesterfield blu da dieci, lo stesso che aveva comprato con Matteo quella mattina, quando era uscita piena di entusiasmo insieme a lui. Non sapeva che farsene di un pacchetto di sigarette vuoto e di una canzone.
Selene sopportava benissimo i suoi silenzi, ma era molto in pensiero per lei. Non aveva fatto nessun riferimento alla cosa, l'aveva semplicemente trascinata il più lontano possibile da quel lido mettendola in salvo dalle onde del dolore. Non aveva molto senso insultare lei o lui, ripetere all'infinito quanto fosse stato stronzo non avrebbe cambiato le cose, non gli avrebbe ridato indietro quel sorriso. Era arrivato il momento di fare i conti, nonostante Vera cercasse con ogni parte del suo corpo di non pensare a niente. Rimandare non serviva, avrebbe soltanto acuito il dolore. Poggiò la testa sulla ginocchia e finalmente pianse, forte, come fosse vitale. Ma stranamente la reazione non la faceva sentire nemmeno troppo fragile. Si sentiva solo svuotata, ancora una volta derubata del suo cuore. Quando le sue guance furono asciutte, Selene le diede un bacio sulla fronte  e le mise in mano un quaderno e una penna.

- Scrivi, scrivi tutto. Liberati di questi mostri. -

Capitalizzare il dolore, ancora una volta

C'era una volta una principessa nuova.
Indossava le stesse scarpe da anni, nere con i lacci stretti, che non aveva mai perso perché non c'era mai stato un ballo da cui scappare. La principessa era circondata da persone meravigliose che non si risparmiavano mai un sorriso e l'accompagnavano a fare la pipì ogni volta che ne necessitava. Chiamava queste persone "amici". Non erano molti, ma erano eterni, come un armadio che contiene gli stessi vestiti da anni, in ottime condizioni, colorati e perfetti da indossare. 
La principessa aveva un cuore grande, puro e sincero, che purtroppo non trattava con giusta cura e attenzione, ma che anzi mostrava a tutti, incapace di credere che nelle persone potesse esserci solo malvagità o cattiveria, e niente di buono. Venne il giorno in cui la fanciulla conobbe un giovane. Non era bello da togliere il fiato forse, senza i riccioli d'oro, ma le andava bene così. Il giovane era un musicista, e finì per suonare le corde del cuore puro della principessa. Una, due, tre volte. 
La fanciulla quasi non riusciva a fare niente tanto era incantata, meravigliata, soggiogata dalla musica che quel giovane le aveva regalato. Eppure il giovane era distante, distratto da altre corde, da altri cuori e da altre parti del corpo. Finì per contaminare il cuore puro della fanciulla, glielo strappò dal petto e se lo portò con se', così che gli tenesse compagnia nelle sere più malinconiche, nel letti più freddi che avrebbe trovato nella sua strada.
E la principessa rimase sola e  vuota, senza il suo cuore. Non sentiva più la musica, non vedeva più i sorrisi dei suoi amici. Era come spenta, solo il cervello le imponeva di continuare a mangiare, bere, uscire dal suo rifugio felice. Passavano i giorni così come passavano le nuvole. Erano nuvole bianche, dolorose, perché con il loro candore ricordavano alla principessa quanto fosse stata sciocca e avventata a donare il suo cuore puro in mano a quel giovane ormai lontano, che lo avrebbe tenuto sul comodino come un trofeo poco più splendente degli altri. Dentro di sè sentiva il bisogno e la speranza del ritorno di quel cuore puro.
Intanto il fanciullo che le aveva rubato il suo cuore puro tornò, per ignoti motivi, dalle quelle parti. Il profumo della sua pelle era rimasto identico, immutato. La fanciulla lo ricordava perfettamente . Sorrise, quando la vide, stringendo in mano il cuore puro della principessa, graffiato un po' in superficie ma ancora limpido e forte. Batteva fortissimo, teneva il tempo della sua splendida musica. Vedendo il suo cuore, la principessa pianse lacrime di felicità, e non ci fu bisogno di parole per dirgli che si, lo perdonava. Lo perdonava per qualcosa che aveva già dimenticato.
Il giovane continuava a regalarle sorrisi e canzoni, e le orecchie della principessa si abituarono così tanto a quelle note che credette di non voler ascoltare mai più niente in vita sua. A che servivano poi, altre canzoni, altre labbra, altri profumi?
Ma la delusione era nascosta in un angolo d'ombra che gli occhi abbagliati d'amore della principessa non riuscivano a vedere. Scivolò di nuovo sullo stesso errore, aprì il suo petto e posò il suo cuore puro ma graffiato nelle mani ruvide del giovane che ancora una volta lo contaminò con bugie e menzogne, stringendolo senza rispetto e senza dolcezza in mano, e andò via così, a cercare qualcos'altro di più interessante da fare, come per esempio restare al mare a giocare con una fanciulla dai capelli biondi, a dedicare nuove canzoni, ad accarezzare altri capelli, più belli di quelli della principessa nuova, che erano pieni di doppie punte e borotalco.
La principessa pianse forte senza smettere nemmeno per riprendere fiato, dopo che la sua migliore amica le aveva consigliato di dimenticarsi per sempre del suo cuore puro perduto, in quanto sapeva quanto costassero quella parole e quanto giusto fosse quel consiglio. Pianse ancora per un po', si asciugò gli occhi, e cancellò dalla mente ogni cosa che potesse ricordargli il suo amore perduto. Niente doveva spingerla a pensare ancora a quel giovane che per due volte l'aveva illusa e l'aveva svuotata della cosa più bella e importante che aveva.
Se c'era una cosa che la fanciulla aveva imparato era che il tempo avrebbe guarito le ferite forse, ma era una stronzata dire che il dolore rendeva più forti. Probabilmente se non avesse avuto i suoi amici la principessa si sarebbe semplicemente raggomitolata su se stessa e avrebbe guardato tutte le nuvole passare senza provare nient'altro che vuoto e solitudine. La musica era diventata sua nemica, la principessa aveva smesso di cantare, di scrivere, di disegnare. Perché ogni canzone, ogni favola, ogni disegno portava il volto e il nome del giovane che le aveva rubato il suo cuore puro e graffiato, quel cuore che, così maltrattato e distante da lei, non era più così puro, ma freddo e striminzito

 

Selene lesse tutta la storia senza staccare gli occhi dal foglio scarabocchiato nemmeno per un istante. Vera la guardava, rileggendo la sua stessa scrittura in quegli occhi grandi, e chiedendosi se l'amica stesse almeno respirando. Quel pensiero così casuale e sciocco la fece quasi sorridere. Sorrideva spesso per niente quando era bambina, quando girava bene, semplicemente le piaceva sorridere agli sconosciuti e osservare le loro reazioni. Un sorriso poteva essere una garanzia. Di certo, erano davvero pochi quelli che ricambiavano. Dov'era finita quella bambina adesso che era lei ad aver bisogno dei suoi stessi sorrisi?
Quando ebbe finito, Selene lasciò cadere il quaderno e si stiracchiò, come se avesse letto una storia particolarmente carina di Topolino.
- Non sarà questo il tuo finale, te lo prometto. Il tuo cuore è tuo e non permetteremo a nessuno di fargli del male, nemmeno al chitarrista più bravo della spiaggia. -

La sua voce era roca, come fosse un residuo di un pianto senza fine. - E invece sarà così. Il mio cuore è suo, e io non lo rivoglio. -
- Non sarà questo il tuo finale.-  ripeté. Vedendola finalmente più tranquilla andò in cucina e tornò un minuto e mezzo dopo con un grande pacco di patatine e due birre in lattina. "Mangiamo. E apri quel cellulare. Credo che i tuoi amici stasera debbano venire a trovarti. Casa mia è disponibile a farsi esplodere, con discrezione, ho dei vicini."

- Vuoi organizzare un festino? - chiese Vera aprendo la sua birra e buttandone giù un sorso. Era fresca e piacevole.

- Voglio che i tuoi amici conoscano la tua amica strafiga di Milano. -

- Mi sembra giusto. - tirò fuori dalla tasca dei jeans il suo cellulare e lo accese. Attese una manciata di secondi, poi partirono i messaggi. Sua madre non l'aveva ancora chiamata, meglio così. Giusy e Andrea l'avevano data praticamente per dispersa, e poi vi erano una serie di messaggi e di chiamate perse di un numero che non conosceva. 

“Vera, rispondimi.”

“Non è come pensi.”

“Dove sei finita?”

Potevano essere solo di Matteo. Non le interessava al momento come avesse ottenuto il suo numero, non era così complicato. Cancellò tutto, e fece il numero di Giusy. Le spiegò velocemente dove abitava Selene, e pregò loro di raggiungerla il prima possibile. Inutile a dirsi, in un'ora erano già lì a bere le stesse birre.

- Perché le prendi in lattina? - chiese Andrea a Selene.

- Mi scordo sempre l'apribottiglie. -

Vera li studiava, sperando ancora una volta che i suoi amici andassero tutti d'accordo. Non aveva modo di temere niente. Selene erano abbastanza simili per piacersi e abbastanza diverse per non odiarsi, e Andrea era affascinato dalla bellezza di Selene che probabilmente stava già valutando l'idea di provarci. Si lasciò sfuggire il secondo sorriso sincero della giornata. 

- Ora non per fare quella sapiente del cavolo... - esordì Giusy accendendosi una sigaretta “ma è un chitarrista, sapevi a cosa stavi andando incontro.”

- Sembrava diverso... -rispose Vera stringendosi nelle spalle. Il suo telefono, affianco a lei, si illuminava ogni due minuti ora che era aperto. Matteo continuava a chiamarla e sembrava diventare sempre più insistente man mano che passava la giornata. Selene guardava lo schermo con un sopracciglio sollevato.

- Dovresti risponderlo.-

- No, non dovrei. -

Anche Giusy ci aveva fatto caso. - Sono d'accordo con Selene, ti sta scaricando la batteria. -

- Vorrà dire che smetterà presto. -

- Senti cosa ha da dire almeno. -

- No, ho già fatto la figura della stupida abbastanza. -

- Se c'è qualcuno che ha fatto la figura dello stupido è lui.” concluse Selene prendendo in mano il cellulare.”E tra poco risponderò io se non lo farai tu. -

- NO! - riprendendolo al volo dalle mani dell'amica.

- Allora? -

Vera guardò lo schermo che si stava illuminando per la centesima volta. Nella sua mente si affacciava un'immagine confusa di Matteo da solo in spiaggia in attesa di un segno di vita di lei. Era quasi l'ora del tramonto, e sapeva che stavano pensando la stessa cosa. Con un sospiro, si allontanò dai tre e  premette il tasto verde, senza dire nulla. 

- Vera. Dimmi dove sei, ti vengo a prendere. -

Non le piaceva affatto come aveva esordito. Il tono di voce era diverso da come se l'aspettava. Non c'erano tracce di ansia o preoccupazione, sono tanta stanchezza e tristezza da stringerle il cuore.

- Sono a casa di un'amica, non preoccuparti sto bene -

- No, dimmi dove sei, per favore -

- Io non voglio vederti -

- A me non interessa, devo parlarti e devo farlo adesso. Dopo potrai anche mandarmi a quel paese. -

- Torna a casa Matteo, stasera torno a casa e parleremo di ciò che vuoi. Ora ti saluto -

- Vera -

- Non ho intenzione di aggiungere altro - e chiuse la conversazione. Quando tornò in casa c'era qualcun altro che non conosceva. Era un ragazzo poco più grande di loro, molto alto, dai capelli castani e mossi e dal sorriso piacevole. La cosa migliore è che non portava nessuna chitarra con sé.

- Lui è Alessandro. - li presentò Selene. - è un mio amico ed è passato a salutarmi. -

- Spero non sia un problema. - disse subito, sorridendo.

- No, ma ti pare. Non sarò molto di compagnia stasera però, devo avvisarti. - detto questo, riprese in mano il suo quaderno, facendo caso solo ora alla copertina. Era arancione, con la scritta bianca Je t'aime. Pessimo gusto. Ripescò una penna e lasciò che le voci intorno a lei diventassero solo un ronzio confuso, mentre terminava quello che aveva lasciato a metà.

Forse, se c'era qualcuno che giocava le carte del destino delle persone, allora quel qualcuno si stava divertendo a farli perdere per poi ritrovarsi ancora una volta. Quel che è certo è che il giovane ritornò ancora una volta dalle stesse parti di sempre, ma legato a quella ragazza bionda che, andando al passo con le favole moderne, apriva meglio le gambe del cuore e tanti cari saluti al resto. La musica del giovane sarebbe cambiata, non sarebbe stata più bellissima, ma stonata e assordante. Anche il suo profumo sarebbe stato meno dolce, più pungente. La fanciulla provava quasi compassione per lui, così povero che, nonostante avesse ancora in tasca il suo cuore, seppur freddo e striminzito, preferiva i capelli biondi e le altre meraviglie che questa gli prometteva. Provava compassione e affetto, e malinconia e tenerezza. In fondo il giovane non era cattivo. Era solo privo di un cuore proprio. Era vuoto e inutile, come una chitarra senza le corde, come i Red Hot Chili Peppers senza Frusciante, come una macchina senza pieno, come le carte di +4 che rimangono mentre si gioca ad “Uno” e hai già perso perché non hai voluto rischiare di far partire una giostra senza fine, e qualcuno ha chiuso prima di te.  Era vuoto si, e alla principessa non rimase altro che compassione. Quando il fanciullo, abbandonato dalla propria ragazza, tornò dalla principessa stringendo il cuore freddo e striminzito nelle mani ruvide, ella non lo riconobbe più. Allungò una mano per prenderlo, ma all'ultimo secondo lo lasciò cadere a terra con un tonfo che fece tremare tutti i muri, dichiarando che quello non era più il suo cuore, che poteva tenerlo per giocarci se preferiva, e questa volta fu lei ad andarsene via. Con l'unica differenza che la principessa senzacuore non sarebbe più tornata.
Questa è una favola all'ordine del giorno. E' una favola moderna, e nelle favole moderne non c'è alcun lieto fine.Forse un giorno la principessa avrà un cuore in regalo da qualche altro fanciullo, ma a quel punto probabilmente sarà già abbastanza abituata da vivere senza.

Mise un punto e rilesse la sua opera. Faceva schifo, eppure si sentiva già molto meglio. Le ore stavano passando tranquille. Con l'arrivo della sorella di Selene giocarono ad uno per gran parte del tempo, e non si risparmiavano strategie e coalizioni. Andrea e Alessandro, gli unici maschi, persero miseramente per primi. 
Vera era decisamente sollevata, rideva e scherzava con gli altri, ma una parte di lei temeva per quello che avrebbe detto a Matteo tornando a casa, se lo avesse trovato sveglio. In più aveva notato che Alessandro la guardava un po' troppo spesso per essere casuale, e la cosa la innervosiva parecchio, perché non aveva assolutamente bisogno di altre complicazioni.  Andrea e Giusy se ne andarono per mezzanotte, visto che avevano parecchio strada da fare, mentre Vera rimase ancora un po'. Alessandro doveva essere un patito dei Red Hot perché aveva tutto l'album Blood Sugar Sex Magik sul suo lettore mp3. Era tra i suoi preferiti, soprattutto visto che in quel momento non poteva ascoltare By The Way.

- Adoro suonare questa. - le disse mentre passava a Suck My Kiss.

Vera tolse la cuffia e lo guardò esasperata. - No, ti prego, dimmi che non sei un dannato chitarrista anche tu, ti prego. -

Alessandro rise.  - Decisamente no. -

- No perché la nostra potenziale futura amicizia si comprometterebbe irrimediabilmente -

- E mi dispiacerebbe terribilmente. Comunque, sono un batterista, astio anche verso la batteria per caso? -

Sorrise rimettendo la cuffia al suo posto e perdendosi nella voce di Anthony che iniziava a cantare una nuova canzone. - No, nessun astio per la batteria. -

Your feelings are burning

You're breaking the girl

She meant you no harm

 

Ascoltando quella strana ballata, Vera si lasciò andare ad un pensiero sciocco ma sincero. Non era vero che c'era una canzone per ogni momento. C'era invece, un momento per ogni canzone. E con i suoi Red Hot quel momento somigliava tantissimo a sempre. Si chiese se con la musica di Matteo poteva mai essere lo stesso.

No, nient'altro era meglio di loro, soprattutto uno sciocco ragazzino con la chitarra in spalla.

Verso l'una salutò Selene dichiarando che doveva tornare a casa, ma lei la trattenne con un braccio. 

- A piedi da sola tu non vai da nessuna parte. Ale, accompagnala. -

- Certo, dove abiti? - rispose subito il ragazzo, sorridendo. Vera si spaventò.

- Non sto lontano da qui, non preoccuparti. - rispose lanciando uno sguardo supplichevole all'amica che però fu irremovibile.

- Meglio così, vi farete una passeggiata, op. - la spinse verso il cancello e l'abbracciò forte.

- Non so come ringraziarti Sè, sul serio. Credo che non ce l'avrei fatta da sola. -

- Prendi questo. Credo che avrai bisogno di scrivere un altro po'. - disse, ficcandole in mano il quaderno dalla copertina arancione e stampandole un bacio sulla guancia. - E sogni d'oro -

Alessandro si era materializzato dietro di loro. Salutò Selene e chiuse il cancelletto. - Beh, guidami -

- E' imbarazzante avere quasi vent'anni e doversi far accompagnare. - rispose Vera, dirigendosi verso casa.

Ma mentre camminavano l'imbarazzo andava via con le scarpe e la ragazza scoprì che avevano in comune molte più cose di quanto credesse. La passione per Harry Potter, gli stessi gusti musicali se non fosse stato per il metal, la stessa dose di idiozia nel voler fare un video scemo in cui cantano Barbie Girl con tanto di parrucca bionda. Quasi non si accorse, presa com'era nel parlare, che era arrivata a casa, finché non intravide Matteo profondamente addormentato sul dondolo esterno, senza tracce di chitarra in giro. Sospirò, salutò di fretta Alessandro e si affrettò ad aprire il cancello con le chiavi. 
Una parte di lei, quella meno nobile e soprattutto più ferita, avrebbe voluto lasciarlo lì. Lo svegliò sfiorandogli un braccio con la punta delle dita. Matteo aprì subito gli occhi, rossi e stanchi come non li aveva mai visti, e istintivamente provò a stringerla a sé, prendendole le mani. Vera lo lasciò fare, rimanendo immobile, pietrificata. Sapeva che c'era tutta la differenza del mondo tra quello che effettivamente voleva, desiderava profondamente, e quello che invece andava bene per lei, per essere felice. E non era Matteo. Si prese un po' di tempo per pensare, mentre le sue mani si aggrappavano alle braccia di Matteo senza che potesse fermarle. Sentiva che stava per piangere di nuovo, e che tutto quello che aveva fatto fin'ora, tutto il voler stare bene per forza, e i vari auto convincimenti erano stati del tutto inutili. Lei non era una combattente, era semplicemente un'altra vittima che si era arresa. E guardava la notte allontanarsi ancora una volta, e ascoltava Matteo tacere tra le lacrime. Si chiese cosa stesse pensando lui, così accoccolato fra le sue braccia. Nemmeno lui sembrava tanto un combattente, non era mai stato così vulnerabile ai suoi occhi. Non c'erano parti, non c'erano eroi, ma lei aveva ugualmente un bisogno terribile di essere salvata. Dopo mille sospiri Vera cercò i suoi occhi e lui forse lo capì perché mollò la presa e la guardò in attesa.

- Non voglio stare con te. -disse lei, tremando.

Matteo aveva uno sguardo indecifrabile.  - Non vuoi? -

- E' troppo complicato. Io ho bisogno di una relazione sana. E poi io e te siamo praticamente parenti. Non vedo come dovrebbe funzionare... - si stava arrampicando su specchi troppo scivolosi. Ma non ebbe bisogno di continuare.

- Va bene Vera. - rispose lui, alzandosi. Quella risposta così povera le fece gelare il sangue. 

Va bene. 

Cosa c'era che andava bene? Era felice che si stesse togliendo di mezzo di sua spontanea volontà così da potersi concentrare nei suoi porci comodi con Jenny? Sapeva di essere sbiancata, ma sperò che la luce tenue della notte non la tradisse. Matteo le prese il viso tra le mani e la baciò, poggiando appena le labbra sulle sue per pochi secondi, ad occhi chiusi. Non li riaprì fin quando il suo viso fu alla portata di Vera, ed entrò in casa socchiudendo la porta, lasciandola da sola.





 
 
WEWE FANCIULLE (E CAVALIERI lol)
Dovevo festeggiare il mio primo VENTISEI, si 26 auuuu, e dovevo farlo insieme a voi.
Quindi vi lascio con questo capitolo in stramegaultraritardo, sperando col cuore che vi piaccia. (L'università mi distrugge, lunedì ho un'altro esame T.T)
http://www.youtube.com/watch?v=u3DQrC8vy8A
Questa canzone ha ispirato l'intero capitolo.
Un bacione ad ognuno di voi, ma grandissimo.  
Seren
<3
 
p.s. la parte in cui Vera scrive sul quadernino, come molti di voi immagineranno, è semplicemente una pagina riveduta e corretta del mio diario personale che ho voluto condividere con voi. 
 

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Capitolo 10
*** You found me ***


Matteo non dormì quella notte, ma rimase ad osservare Francesco che riposava tranquillo nel letto affianco, con l'espressione beata di chi non ha avuto una giornata perfetta, ma sicuramente felice. Lo invidiava da morire, era un ragazzo buono e gentile come pochi, e adorava Nunzia con tutto se stesso. Sarebbero stati felici, ne era sicuro. Sembrava fossero nati per stare insieme. L'incontro predestinato con l'anima gemella, forse non era solo un concetto astratto. Quei due erano l'amore. 
La finestra illuminava d'argento la piccola stanza con l'arrivo del giorno. Gli occhi del ragazzo, che si stavano abituando alla luce, caddero su un vecchio album di fotografie, sotto il comodino. Si alzò cercando di far meno rumore possibile, e prese l'oggetto fra le mani. La copertina era ruvida, di un giallo pallido, senza alcuna scritta. Nessuna presentazione, ma sapeva in fondo al cuore quello che sperava di trovare.
E non rimase deluso. C'erano foto di una minuscola Vera, tre mesi appena, tutto l'azzurro degli occhi e i sorrisoni sdentati. Una in particolare lo fece ridere: sollevava la manina vicino al viso, sdraiata su morbide lenzuola di cotone a fiori, quasi come se volesse salutare la macchina fotografica e chi le stava dietro. E ancora Vera tra le braccia di Francesco, che allora era appena un ragazzino magrissimo e sorridente, su quello stesso dondolo in cui poco prima il suo cuore si era frantumato. Via quella foto, via quel pensiero. Vera, sempre Vera al mare, più grande, almeno sei anni, con un costumetto verde dai fiocchetti gialli, e i piedi bagnati dalle piccole onde blu, che illuminavano i suoi occhi grandi. Sorridendo ad ogni fotografia, prima di sentire puntualmente la stessa solita fitta allo stomaco, violenta, dolorosa, e guardandola crescere tra le immagini, osservando la sua bellezza fiorire a poco a poco. Man mano che diventava più simile alla Vera che conosceva lui, quella che era diventata ora, soffriva. Chiuse l'album prima di terminarlo e lo rimise al suo posto. Dormire non era una buona idea, era certo che Vera sarebbe arrivata anche nei suoi sogni. Rimase a fissare le pareti che prendevano colore, finché Francesco non si mosse, girandosi da un lato e sollevando in alto le braccia per stiracchiarsi. Finse un'espressione assonnata e sorrise al suo compagno di stanza, come se avesse dormito beatamente quanto lui.

- Buongiorno- disse, tirandosi su a sedere. - Che ore sono?-

- Le nove e dieci- rispose Matteo, strofinandogli gli occhi. Si sentiva stanco, e rimpiangeva di non aver dormito un po'. Ora gli toccava affrontare la maxi colazione di famiglia con Vera. Un pensiero cominciava a farsi largo nella sua mente, partorito dalla luce del sole più decisa finalmente. Non sapeva se i suoi lo avrebbero riaccettato volentieri prima del previsto. Era certo che sua madre sarebbe stata felice. E comunque, a casa lo avrebbero voluto sicuramente più di lei.

"Non voglio stare con te."

Aveva detto esattamente così. Era chiaro e limpido che Vera non lo voleva, e poteva forse biasimarla? Lei era perfetta, una ragazza da fare invidia, e da far impazzire tutti. Era dolce, intelligente, calorosa, spiritosa, anche parecchio scema, nel senso più bello del termine. Era quello che avrebbe voluto essere. E lui? Cos'era lui se non un idiota senza neanche un diploma? Cos'era stato in grado di fare in quei giorni, per lei, se non allontanarla ancora di più? Cosa le aveva lasciato di bello, ora che se ne stava andando, se non il ricordo di un ragazzo scanzonato che l'aveva presa in giro? Perché questa era la cosa più facile da credere, la più ovvia. Si era lasciato andare ad una notte con Jenny, illudendo anche quella stupida ragazza, un altro peso da aggiungere al suo bagaglio di rimorsi, giocando a fare i dispetti a Vera come un ragazzino innamorato di un amore impossibile. Perchè era quello che aveva fatto. Poteva inventarsi altre mille scuse nobili nella sua testa, per sfamare la sua coscienza, ma l'essenza rimaneva quella. Cercando in un metodo del tutto idiota di riprendersela, scatenando una qualunque reazione in lei, l'aveva persa.  E lei non lo voleva. Nonostante avesse lasciato Jenny cuocere nella delusione di essere stato solo un oggetto, Vera non lo voleva più. Ripensò ai suoi occhi quando Jenny aveva detto quelle parole, la mattina prima. Si erano spenti, pietrificati, erano morti insieme al suo sorriso. 
La soluzione era andarsene il prima possibile, spingere i vestiti nello zaino blu, insieme a tutto in resto che nella sua testa proprio non aveva spazio. Sarebbe partito quella mattina stessa se non fosse stato per Nunzia. Doveva delle spiegazioni alla persona che lo aveva accolto quando tutto sembrava stesse andando nella direzione sbagliata, quando era rimasto solo. Doveva ringraziare tutti in quella casa per l'accoglienza, tutti, anche se qualcuno in particolare. Doveva sparire in fretta, ma educatamente, per mostrarle almeno un minimo che non era la persona squallida che credeva lei, che sapeva essere anche gentile e cortese, che meritava quelle attenzioni che lei gli aveva concesso. Doveva, e doveva subito.
Quanto le sarebbe mancata una persona che conosceva da così poco tempo? Sarebbero passati giorni, mesi, o non sarebbe passato niente? Era sbagliato, sbagliatissimo, dare un tempo ai sentimenti. Nessuno aveva mai detto con certezza quanto tempo ci voleva per innamorarsi, e allo stesso tempo era impossibile stabilire quanto tempo avrebbe sofferto ancora. Una cosa lo consolava. Aveva tantissimo materiale per nuove canzoni. L'ispirazione arrivava sempre nei momenti peggiori. Se avesse avuto la forza di scrivere, avrebbe riempito le pareti di quella stanza di poesie disordinate. 
Aveva nascosto l'ipod di Vera in una tasca interna dello zaino. Non glielo avrebbe ridato. Quando anche il ricordo del suo profumo se ne sarebbe andato, avrebbe avuto sempre una nuova canzone su cui piangere. Chiuse gli occhi, e quando li riaprì vide di essere solo in camera. Si cambiò la maglietta, e sistemò come meglio poteva le sue cose preso da una strana adrenalina. 
Uscendo dalla cucina si imbattè nel viso stanco e triste di Vera, che stava uscendo dal bagno. Le pesanti occhiaie tradivano l'idea che nemmeno lei aveva riposato tanto bene. Quella notte Matteo aveva resistito all'impulso di correre ad abbracciarla mentre dormiva, proprio perchè temeva di trovarla sveglia. L'ultima cosa che voleva ora era importunarla. Sfuggì in fretta ai suoi occhi, cercando sua cugina con lo sguardo, ma Nunzia non era in cucina. La trovò fuori in giardino. Per fortuna non era seduta sulla dondola. Lo guardò con una nota di rassegnazione e di tristezza in volto, e gli fece cenno di avvicinarci.

- So che vuoi andartene. - disse senza troppi giri di parole. Era meglio. Un taglio netto.

- Avete parlato? -

- Già, e ho intuito che saresti partito. Mi sbaglio? -

Non riuscì più a guardarla in faccia. - No.-

- Non preoccuparti per gli altri, parlerò io con loro. Diremo che tua madre vuole sistemare le cose e sei tornato a casa. Capiranno. -

- Di certo capiranno più di me. - rispose, senza riuscire a trattenersi.

- Mia suocera e mia cognata sono uscite. Non devi aspettarle se vuoi andartene subito. -

Tornò a guardarla, e trovò molta più tristezza di quanto potesse sopportare. - E Francesco? A lui non mi va di raccontare stronzate. -

- Vuoi...? -

- No, parla tu con lui. Digli che è davvero un gran bravo ragazzo, e per quello che vale lo stimo tantissimo. E te mi raccomando. - la raggiunse e le prese le mani. - Non te la prendere, non è andata, io e te siamo sempre cugini. -

- Questo non potrebbe mai cambiare. Ma sarebbe stato carino averti anche come nipote. - rispose stringendo le mani di Matteo, e sorridendo.

- Abbi cura di te cuginetta. Spero di vederti prima del lieto evento, manca ancora così tanto.- e abbracciandola tornò dentro. La cucina era ancora vuota. Si versò il caffè in una tazzina che quella mattina non sorrideva, poi tornò in camera e sistemò le ultime cose, fece qualche telefonata e si preparò a partire.

 

***

 

Vera era tornata in camera sua. Persino il rumore delle scarpe di Matteo le dava fastidio. Si lasciò cadere sul letto, con i capelli confusi sul cuscino, chiedendosi che sapore avrebbero avuto ora le sue lacrime. Non aveva più cercato il suo ipod, si era arresa all'idea di averlo lasciato in spiaggia, ma ne sentiva terribilmente la mancanza. Mai come in quel momento aveva bisogno di evadere. Raccolse matita e foglio, si mise a scarabocchiare qualcosa, ma le linee erano troppo incerte, instabili. Si alzava in continuazione dal letto, solo per cercare qualcosa potenzialmente inutile, e si rituffava sul materasso. Se solo avesse avuto a portata di mano pillole per dormire, avrebbe mandato giù l'intera scatola. Ma doveva resistere a mandare avanti il giorno senza crolli. Le voci dalle altre stanze erano confuse, era un viavai di passi.
Matteo stava andando via, lei lo sapeva. Aveva ascoltato quanto bastava della conversazione tra Nunzia e il ragazzo per capire che non avrebbe cambiato idea. Un'altra cosa a cui si era arresa: aveva rinunciato a cercare anche lui. Ancora una volta perdente. Ancora una volta principessa imprigionata nella torre più alta delle sue paure, pigra e impacciata, piuttosto che guerriera forte e fiera, quello che desiderava essere, per non dover mai ringraziare nessuno su quello che avrebbe ottenuto. Le sue cuffie di riserva avevano deciso di farle un ulteriore dispetto, e ora solo una le trasmetteva le note della radio. Non sapeva su quale canale fosse sincronizzata, ne le importata. Tutto era meglio di quel silenzio. No, quasi tutto.

 

But in the end everyone ends up alone

Era vero. Ma in quel momento si sentiva più sola di chiunque altro. Il dolore stesso sembrava inconcebile, inspiegabile, imparagonabile. 

 

Losing her the only one whose ever known

Matteo, Matteo. Quanto avrebbe voluto essere lei a capirlo...

 

Who I am, who I'm not, who I want to be

No way to know how long she will be next to me 

Basta. 
Si strappò via la cuffietta con violenza. Probabilmente aveva rotto anche quella ormai. Disegnò, direttamente con la penna, un'immagine confusa e sciocca, per poi allontanare il foglio da sè e alzarsi ancora una volta dal letto. Infilò le sue infradito verdi e tornò in cucina. Matteo non era lì. Non era nella camera di Francesco, e nemmeno in bagno. Non era da nessuna parte. La magia si era persa. Non aveva molto senso rincorrerlo ora. Figli di scelte sbagliate e casualità, entrambi avevano perso la stessa battaglia facendosi la guerra, incosapevoli di essere invece alleati. Sciocchi, come gli ultimi romantici innamorati. Che cosa poteva fare adesso?
Uscì di casa senza sapere nemmeno se avesse addosso qualcosa di diverso dal pigiama, ma camminava a testa alta. Solo un po' di vento rovinava la perfezione del mare e dei suoi capelli, il sole cominciava a picchiare più alto, e lei non gli avrebbe degnato attenzione nemmeno quella mattina. Non aveva più nulla, solo una tristezza che non poteva esprimere a parole. E a chi dirle, poi? Dentro di sè sperava di non incontrare nessuno, almeno per un po'. Quando il dolore lasciava un po' di spazio alla razionalità, si chiedeva come fosse possibile essere travolti, assorbiti, in un sentimento così giovane, così nuovo.

"Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si distruggono al primo bacio."

Ridicolo. Era ridicolo lasciarsi abbindolare dalle poesie. 
Stava crollando di nuovo.
Non lo avrebbe permesso. 
Si fermò per qualche istante, osservando il mare. Non aveva nulla di interessante quella mattina. Niente più tempo perso. Prese il telefono e chiamò Selene. Dieci minuti e l'aveva raggiunta in spiaggia. Erano lei e Alessandro. Quel ragazzo era dovunque, un po' come i tizi dei volantini. Ma non le dava fastidio. Si sedette affianco a loro e ripresero il discorso dove l'avevano interrotto. Nella sua svolta alla vita, Matteo era cancellato, sparito, guarito. Una parentesi scritta a matita tra le pagine di un libro che sa ancora di nuovo. Era chiaro che Vera piacesse molto ad Alessandro, e probabilmente anche lei avrebbe potuto trovarlo interessante se solo il suo cuore non si fosse congelato. Ora voleva solo stare bene. Rimasero a chiacchierare per ore, insieme a Selene, che guardava la coppia senza entusiasmo. Quando Alessandro si alzò per andare a fare il bagno, si avvicinò a Vera.

- Avete parlato? -

- Si. E' partito. Torna a casa. Forse riuscirò a vivermi gli ultimi giorni di vacanza come si deve. -

- Come è partito? Quando? - chiese Selene sconvolta da quella notizia.

- Stamattina. - rispose Vera, spegnendosi. Le sue buone intenzioni stavano bruciando come fogli di carta in un camino acceso.

- Così? Senza dirti nulla? -

- No. Senza dirmi nulla. Ieri sera gli ho detto che non volevo stare con lui, che non potevo stare con lui. - si corresse. Almeno a Selene avrebbe detto la verità.

- E che reazione ha avuto? -

- Il nulla. Mi ha detto che gli andava bene e se n'è andato. -

Selene era rimasta senza parole. Del resto Vera non aveva bisogno neanche di quelle ormai. 

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