The First Time Ever You and I

di Herm735
(/viewuser.php?uid=73080)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La nostra prima estate insieme ***
Capitolo 2: *** Il nostro primo respiro rubato ***
Capitolo 3: *** Il nostro primo appuntamento al buio ***
Capitolo 4: *** La nostra prima canzone d'amore ***
Capitolo 5: *** Il nostro primo riparo dalla tempesta ***
Capitolo 6: *** La nostra prima lista di desideri ***
Capitolo 7: *** I nostri primi desideri infranti ***
Capitolo 8: *** Il nostro primo passo verso la felicità ***
Capitolo 9: *** La nostra prima casa insieme ***
Capitolo 10: *** La nostra prima storia di vita e di morte ***
Capitolo 11: *** La nostra prima maledizione ***
Capitolo 12: *** Il primo posto in cui siamo state libere ***
Capitolo 13: *** I nostri primi ricordi insieme ***
Capitolo 14: *** Il primo mostro che abbiamo affrontato ***
Capitolo 15: *** La nostra prima corsa in moto ***
Capitolo 16: *** Il nostro primo furto del secolo ***
Capitolo 17: *** La nostra prima raccolta di storie ***
Capitolo 18: *** Il nostro primo caffè insieme ***
Capitolo 19: *** Il nostro primo cambio di marea ***
Capitolo 20: *** La nostra prima legge della fisica ***
Capitolo 21: *** Il nostro primo attimo di vita ***
Capitolo 22: *** La prima cosa di cui ci siamo accorte ***
Capitolo 23: *** Le nostre prime cicatrici ***
Capitolo 24: *** Il nostro primo dopoguerra ***
Capitolo 25: *** Il nostro primo fuoco perpetuo ***
Capitolo 26: *** La nostra prima mattina insieme ***
Capitolo 27: *** I nostri primi tre desideri ***
Capitolo 28: *** Il nostro primo viaggio insieme ***
Capitolo 29: *** Il nostro primo vero appuntamento ***
Capitolo 30: *** La nostra prima pioggia di marshmallow ***
Capitolo 31: *** La prima città che abbiamo visitato insieme ***
Capitolo 32: *** Il nostro primo passaggio in automobile ***
Capitolo 33: *** Il nostro primo bivio ***
Capitolo 34: *** Il nostro primo spettacolo di magia ***
Capitolo 35: *** Il nostro primo angelo custode ***
Capitolo 36: *** La nostra prima offerta di lavoro ***
Capitolo 37: *** Il nostro primo sorriso ***
Capitolo 38: *** La nostra prima gravidanza inaspettata ***
Capitolo 39: *** Il nostro primo gioco da tavola ***
Capitolo 40: *** La nostra prima idea ***
Capitolo 41: *** La nostra prima vacanza in famiglia ***
Capitolo 42: *** La nostra prima bottiglia di champagne ***
Capitolo 43: *** La nostra prima vita insieme ***
Capitolo 44: *** La prima volta che ci siamo odiate ***
Capitolo 45: *** Il nostro primo intreccio di anime ***
Capitolo 46: *** La nostra prima automobile con autista ***
Capitolo 47: *** Il nostro primo messaggio ***
Capitolo 48: *** La nostra prima partita di poker ***
Capitolo 49: *** Il nostro primo epilogo (parte I) ***
Capitolo 50: *** Il nostro primo epilogo (parte II) ***
Capitolo 51: *** La nostra prima bomba ad orologeria ***
Capitolo 52: *** La nostra prima nemesi ***
Capitolo 53: *** La prima volta che ci siamo viste ***
Capitolo 54: *** La nostra prima scatola di cereali ***
Capitolo 55: *** La nostra prima accettazione ***
Capitolo 56: *** Il nostro primo viaggio in treno ***
Capitolo 57: *** Il nostro primo sogno ad occhi aperti ***
Capitolo 58: *** Il nostro primo orologio da taschino ***
Capitolo 59: *** La nostra prima crisi di mezza età ***



Capitolo 1
*** La nostra prima estate insieme ***


Raccolta di One-Shot per provare a dimostrare che, in qualsiasi modo, in qualsiasi mondo, Callie e Arizona si sarebbero trovate. L'ambientazione cambia di capitolo in capitolo, in epoche diverse, luoghi diversi, con una sola costante: il loro amore. Almeno, è così che mi piace pensarla...

Un ringraziamento particolare a Trixie per i banner! :)


Image and video hosting by TinyPic


Image and video hosting by TinyPic





La nostra prima estate insieme


Ero rimasta in spiaggia fino a tardi anche quella sera, come le altre volte. Mi incamminai verso casa pensando al passato, come quasi sempre mi capitava all'inizio dell'estate. Anche se allora, tre mesi dopo, le cose erano migliorate.
Come ogni mercoledì entrai nella mia gelateria preferita, che si trovava sulla strada di casa. Non avevo scelto il mercoledì a caso. Tutti i mercoledì sera lavorava lì la padrona, una giovane donna sui trent'anni, i capelli biondi e ricci, gli occhi azzurri.
Quando ero arrivata lì, all'inizio dell'estate, l'unica cosa che sapevo di lei era il suo nome.
Arizona.
Con il passare delle settimane avevo imparato molto di lei, ma sentivo che ancora molto avrei voluto sapere. I mercoledì, ogni volta, mi sedevo ad uno dei tavoli, prendendo una piccola coppetta di gelato con un solo gusto. Lei lasciava a lavorare la sua commessa e si sedeva accanto a me. E parlavamo, di tutto, di niente, non era importante e allo stesso tempo era fondamentale.
Mi aveva raccontato che anche lei era un chirurgo, una volta. Un giorno aveva perso un paziente a cui la sua voglia di operare non era sopravvissuta. Allora aveva iniziato a gestire la gelateria di sua madre.
Lei mi aveva salvato. Era stata la mia luce quando credevo che non avrei mai più rivisto l'alba. Ed io ogni mercoledì rimanevo seduta insieme a lei fino all'ora di chiusura, quando le domandavo gentilmente di rivelarmi gli ingredienti del mio gusto preferito: la mousse al cioccolato. Lei, puntualmente, rifiutava, dicendomi che un mago non rivelerebbe mai i suoi migliori trucchi.
Io mi illusi che continuasse a rifiutarsi perché aveva paura che se avessi avuto quello che cercavo non mi sarei più fatta viva.
Ma in fondo al mio cuore, sapevo di essere solo una delle tante clienti della sua gelateria.
Quel mercoledì, come avevo già accennato, mi incamminai verso la gelateria. La vidi all'improvviso, come qualcosa che non mi sarei mai aspettata, anche se infondo avrei dovuto. La vidi e la mia luce nella notte si spense. Ed io la lasciai spegnere.
Quel mercoledì la vidi, tra le braccia di un uomo alto e dalle spalle larghe, che indossava l'uniforme da militare. Stavano entrambi piangendo mentre sorridevano con gioia, immaginai perché lui era tornato sano e salvo dalla guerra.
Mi vide ed io la vidi. Sorrisi e lei sorrise. Poi mi voltai e mi incamminai verso casa. Il mercoledì successivo non feci ritorno alla gelateria.
I giorni continuarono a passare ed io continuavo a darmi della stupida. Ma non importava. Ancora otto giorni e me ne sarei tornata a Seattle a fare il chirurgo.
Fu proprio quella sera che la vidi di nuovo, seduta su uno degli scalini davanti alla sua gelateria.
Tentai di far finta di niente, ma quando passai lì davanti si alzò di scatto, venendomi incontro e bloccandomi.
“Non entri? È il terzo mercoledì che non passi più.”
“Sono molto occupata in questi giorni. Devo sistemare le ultime cose prima della partenza.”
“Così presto?” chiese con la voce velata di tristezza. “Quando partirai?”
“Mercoledì prossimo in tarda serata.”
La guardai, tentando di imprimere i piccoli dettagli della sua bellezza perfetta dentro la mia memoria per l'ultima volta.
“Permettimi di rivederti ancora. Domani sera. Ogni sera. Dammi un posto ed un'ora ed io prometto che sarò lì.”
Io inspirai un po' del suo profumo che mi annebbiava i sensi.
“Forse dovresti stare insieme a lui, ogni sera. È tornato vivo dalla guerra, e questo deve pur contare qualcosa. Le mie congratulazioni, Arizona.”
Lei si voltò per un istante a guardare il giovane che avevo indicato. Io colsi il momento al volo per afferrare una ciocca dei suoi capelli e portarla dietro il suo orecchio, sfiorandola con dolcezza per la prima volta in modo così confidenziale.
“Ma io non posso rimanere a guardare.”
Senza darle il tempo di replicare mi districai dolcemente dalla sua presa e me ne andai.
Arizona era stata l'unica goccia di sole in tutta la mia estate. Non provai ad odiarla, perché sapevo che non ci sarei riuscita. Continuai invece a tenere a lei come avevo sempre fatto, tenendo stretto il suo ricordo quando la notte sembrava volermi crollare addosso.
Il mercoledì successivo fu come vivere dentro il mio più grande incubo. Le valigie erano fatte, i documenti sistemati. Me ne stavo andando con due settimane di anticipo rispetto alla fine delle mie ferie, come avevo sempre programmato di fare fin dall'inizio. Eppure mi chiesi cosa sarebbe successo se Arizona ed io fossimo state ancora in contatto. Probabilmente avrei trovato il modo di rimanere.
Probabilmente.
Ma io e lei non parlavamo più ormai da un po'.
Mi chiesi se non fosse stato stupido scoprirmi in quel modo. Forse avrei dovuto ingoiare il boccone amaro e rimanere sua amica per le ultime settimane, raccogliendo ogni ricordo di lei a cui riuscivo ad arrivare, e portandone con me più che potevo.
Sì, probabilmente sarei rimasta.
Non perché mi piacesse il mare o il vento che sembrava non stancarsi mai di soffiare in quella particolare zona. Non per il gelato più buono che avessi mai mangiato. Non perché a Seattle, in quel momento, stava probabilmente piovendo.
Io sarei rimasta perché ero innamorata di Arizona Robbins.
Io sarei rimasta lì per tutto il resto della mia vita, se fossi riuscita a trovare un modo. Avrei rinunciato all'avere bambini. Avrei rinunciato a tutto, per lei.
Quando il primario di chirurgia mi aveva visto scoppiare a piangere in mezzo ad una sala operatoria aveva pensato che avessi bisogno di alcune ferie. Così me ne aveva date quattro mesi, pagate, visto gli arretrati di tutti gli anni precedenti. E mio padre aveva coperto le spese della casa e di tutto il resto.
Tutti avevano visto che ero spezzata. Nessuno aveva mai davvero capito il perché.
Il mio super cattolico padre non sapeva nemmeno la storia della mia ex fidanzata, figuriamoci. E con Mark non riuscivo a parlare. Nessuno sapeva, eccetto Arizona.
“Non credo che tu stia così male per lei” aveva detto osservandomi. “Credo che sia più il fatto in generale che tutti sembrano finire con l'abbandonarti. Ma non è così, sai? Hai ancora i tuoi amici, hai la tua famiglia. Hai me. Devi solo essere più positiva riguardo ciò che la vita ha da offrire.”
Arizona sapeva quasi tutto di me. Ma io sapevo davvero molto di lei?
Non mi aveva mai parlato del suo orientamento sessuale, ed io quello lo capivo in un certo senso, perché lei in quel paese doveva viverci. Ok, in realtà non lo capivo. Ma lo rispettavo.
Quello che mi sorprese fu realizzare era che alla fine mi aveva abbandonato anche lei.
No, non proprio in realtà, visto che lei non mi doveva niente. Però mi sentivo come se mi avesse abbandonato, non riuscivo a evitarlo.
Salii sul treno e presi il mio posto accanto al finestrino.
Guardai fuori e vidi che tutti avevano qualcuno da salutare.
Poi vidi lui. Vidi che cercava qualcosa o qualcuno tra la folla. Non avevo dubbi. Era lui, l'uomo che avevo visto abbracciare Arizona.
E anche lui dopo qualche istante mi vide. Quello che però non mi aspettavo era che mi venisse incontro. Io non avevo ancora deciso cosa fare, quando arrivò davanti al finestrino. Ma il mio corpo decise per me, visto che mi alzai immediatamente ed aprii.
“Lei è alla stazione degli autobus” fu la prima cosa che disse.
“Cosa?”
“Arizona, è alla stazione degli autobus. Non sapeva con cosa saresti partita, così ha lanciato una monetina e poi ha mandato me qui.”
Io lo guardai con confusione dipinta sul viso.
“Sono suo fratello. Andiamo, la divisa da militare, e siamo identici. Come cavolo hai fatto a confondermi per il suo fidanzato?”
“Saresti dovuto tornare in ottobre.”
“Ho preso un colpo ad una spalla. Sono tornato e le ho detto che non sarei più andato via. Per questo le lacrime e tutto il resto.”
Stupida, stupida Callie, hai mandato tutto all'aria con la tua gelosia immotivata, pensai.
“E la monetina ha detto autobus. Sai, forse non era destino, Tim.”
Lui sorrise, sentendo che sapevo il suo nome.
Io sorrisi di rimando, ma un po' tristemente.
“Vuoi che le dica qualcosa per te?”
Io ci pensai. Ci pensai seriamente. Lo presi davvero in considerazione.
“Nah. Va bene così. Se dico qualcosa potrebbe non essere la cosa giusta, non essere quello che lei avrebbe voluto che dicessi. Quindi dille solo che ho detto ciao.”
“Ne sei sicura? Se non la rivedessi mai più? Vuoi davvero che non sappia mai cosa lei è stata per te?”
Io gli sorrisi.
“Lei lo sa. Almeno, credo che lo sappia. Lei è stata la mia luce quando non c'era più luce. È stata la mia estate in pieno inverno.”
Ci studiammo per qualche secondo.
“Puoi fare una cosa per me?”
Lui annuì.
“Assicurati che sia felice. Nessuno lo merita quanto lei.”
Chiusi il finestrino, salutandolo poi con la mano. Lui rispose al cenno, ma capii che avrebbe voluto che io restassi. Ed anche io avrei voluto restare.
Ma non lo feci.
Qualche minuto dopo sentii le porte del treno chiudersi. Fu come sentire il rumore metallico delle sbarre di una prigione che scattano quando la cella si chiude.
Fu come morire.
Fu come l'inverno.
Un rumore al finestrino mi fece voltare. Fui quasi pietrificata, ma alla fine aprii.
“Ero quasi arrivata alla stazione quando mi sono ricordata che gli autobus ti fanno venire da vomitare, quindi ho cercato un taxi, ma ovviamente non ce n'erano. Allora sono venuta qui di corsa.”
Stava ansimando fortemente mentre il treno iniziò a muoversi.
“Ti ritroverò in qualche modo” mi fece sapere con sicurezza. “Ma dovevo vederti oggi per darti questo.”
Mi passò un pezzo di carta piegato su se stesso più volte.
“So che sei a Seattle, ho nome e cognome. In qualche modo ti troverò” disse nuovamente. “Devi solo aspettarmi, ok?”
Il suo tono così fragile mi spezzò quasi il cuore.
“Arizona.”
“Calliope...”
Voleva dire qualcos'altro.
Ma non ce n'era bisogno. Avevo capito. E anche lei aveva capito.
La guardai fermarsi, mentre il treno prendeva velocità. E continuai a guardarla finché riuscii a vederla.
Poi mi sedetti al mio posto e mi resi conto che avevo ancora in mano il foglio che mi aveva passato.
Lo aprii, aspettandomi una lettera.
Lo lessi ed un sorriso mi si formò sulle labbra.
Avevo tra le mani la ricetta del gelato di Arizona.

Ero in casa a festeggiare il mio ritorno con alcuni dei miei amici.
Mark, la Bailey, Cristina e Teddy.
Stavamo ridendo di qualcosa di stupido che aveva detto Mark quando qualcuno bussò alla porta.
Mi alzai, ancora ridendo. Ma quando aprii il sorriso sparì, ed improvvisamente fui seria.
Gli altri scrutavano la figura alla porta con curiosità.
“Allora, immagina questo. Sono a casa, tutto va bene, faccio un lavoro che davvero mi piace, ma non riesco ad essere felice. Poi un giorno arriva questa donna, bella da togliere il fiato, e all'improvviso tutto intorno a me è migliore. Ma poi questa donna se ne va, torna a casa, e mio fratello mi chiede se avesse dovuto prendere il mio posto alla gelateria, se avessi ricominciato a fare il chirurgo, ed io apro la bocca per dire no, ma quello che invece esce, incredibilmente, è sì. Così ho trovato l'ospedale in cui lavori e mi sono fatta assumere come nuovo capo di chirurgia pediatrica e sono venuta qui.”
Mi guardò con le lacrime agli occhi, finalmente riprendendo fiato.
“Sei molto bella.”
Io avevo sentito abbastanza.
Feci un passo avanti, toccandole il viso con una mano, e poi la baciai.


Dopo una lunghissima assenza da EFP, eccomi di ritorno con qualcosa di completamente diverso da ciò che scrivevo di solito prima...
Ok, premetto che è la prima shot...Andando avanti migliorano! Ne ho già scritte un po', quindi penso che l'aggiornamento sarà abbastanza assiduo. Beh, sempre che qualcuno legga mai la storia.
A presto!


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il nostro primo respiro rubato ***


Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e aggiunto la storia tra le seguite, o anche chi ha semplicemente letto.
Ecco a voi la seconda shot.

Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo respiro rubato


Ancora una volta ci ritrovammo a fissare quella barca.
Era grande.
Era bianca e da quella distanza sembrava che avesse i pavimenti in legno.
Non ci eravamo mai avvicinati, ma eravamo quasi sicuri che la barca fosse vuota.
Infondo, era ormeggiata abbastanza vicino alla riva, meno di cinquecento metri. Chiunque l'avesse lasciata lì poteva essere arrivato sulla spiaggia a nuoto.
E sopra non ci avevamo mai visto nessuno.
Quindi era logico pensare che non ci fosse nessuno.
Ma io e mio fratello non siamo mai state due persone che danno esattamente ragione alla logica.
“Io dico che ci vive un pirata.”
Alzai gli occhi al cielo. “Per la milionesima volta, Timothy, non esistono più i pirati. Lì dentro ci vive una sirena.”
“Arizona, hai venticinque anni. Dovresti smetterla di credere alle favole. O a quello che vedi nei musical della Disney. Non ti fa bene, sai?”
“Oh, sta zitto. Poco ma sicuro lassù non c'è un pirata. Forse è un cacciatore di balene.”
“Giusto” mi prese in giro lui. “E forse è ossessionato da una balena bianca di nome Moby Dick. Non proprio il tuo genere no?”
Io lo colpii sul braccio.
“Qualche idea migliore?”
“Oh, sì. Vedi, sorellina, su quella barca c'è la donna della mia vita. Adesso mi tolgo la maglietta, arrivo fin lì a nuoto e conquisto il suo cuore, chiedendo poi a suo padre la sua mano.”
Io risi di gusto.
“D'accordo, cosa scommetti che ho ragione?”
Io finsi di essere seria.
“No, io sono convinta che tu abbia ragione. Anzi, guarda, facciamo un patto. Andiamo a nuoto fin là e se su quella barca c'è davvero la donna della tua vita tu non parti come soldato e mandi al diavolo papà.”
“D'accordo” accettò lui immediatamente.
Sapevamo entrambi che era impossibile.
Ma a quel punto avrei provato di tutto per convincerlo a non arruolarsi.
Mi tolsi in fretta e furia i vestiti, rimanendo in costume e lui fece la stessa cosa.
Da lì ad un paio d'ore ci sarebbe stato il tramonto, ma noi ci tuffammo lo stesso, nuotando verso quella barca che nelle ultime due settimane, cioè da quando eravamo arrivati lì con i nostri genitori, aveva attirato la nostra attenzione tutte le sere.
Arrivati nei pressi, ormai non si trattava che di una gara a chi se la sarebbe data a gambe prima.
Entrambi eravamo alla massima allerta, pronti a scattare al primo rumore.
Ma non vi furono rumori.
“Beh, ci hai provato” lo presi in giro. “Ma avevo ragione io. Qui è tutto vuoto.”
Lui guardò prima me e poi di nuovo la barca, fermandosi infine su di me.
“Allora se è vuota non ti dispiacerà andare a dare un'occhiata” mi sfidò.
Si arrampicò silenziosamente sulle scalette abbassate.
“Tim” sussurrai. “Tim, torna indietro, se ci beccano arrestano entrambi.”
“Allora sarà meglio che non ci becchino” fu la sua unica risposta.
Lo vidi salire e, dopo qualche occhiata intorno e verso la riva, pregando che fosse andato tutto per il meglio, lo seguii.
Proprio come facevo ogni volta che lui faceva qualcosa di così tanto stupido.
Salimmo sulla barca, guardandoci attorno e notando qualche oggetto di uso quotidiano sparso qua e là.
“Se su questa dannata barca c'è anche solo l'ombra di una donna sarà meglio per te che tu le chieda di sposarti, perché se rischiamo la prigione per niente ti uccido.”
Lui mi ignorò, continuando la sua perlustrazione.
All'improvviso, qualcuno alle nostre spalle si schiarì la voce. Tim si voltò. Io ero paralizzata.
Vidi la sua espressione, lo vidi rimanere incantato da ciò che aveva davanti. Proprio come il pirata di una di quelle storie che gli piacevano tanto sarebbe stato trovando il suo tesoro.
Facendomi coraggio, mi voltai.
La donna difronte a noi aveva i capelli neri e ricci, gli occhi scuri e la carnagione olivastra. I lineamenti del suo viso erano un po' troppo spigolosi per i miei gusti, ma nel complesso era bella. Potevo capire perché mio fratello ne era rimasto impressionato. A me, d'altronde, non fece lo stesso effetto.
“Buongiorno” ci salutò la ragazza.
“Giorno” le fece eco timidamente Tim.
“Volevate qualcosa in particolare o il vostro è solo un giretto turistico?” chiese con un mezzo sorriso.
“In realtà qualcosa ci sarebbe” risposi io, spintonando mio fratello. Ormai che eravamo nel mezzo a quella situazione assurda lo avrei sottoposto ad umiliazione.
“Giusto” sussurrò lui, ricordando improvvisamente il nostro patto. Si inginocchiò sotto lo sguardo attonito della ragazza misteriosa. “Vuoi sposarmi?”
Un cellulare squillò.
“Rispondi al dannato telefono e fai sapere alla mia ex ragazza che può andare a farsi fottere per quanto mi riguarda” sentimmo urlare da dentro l'abitacolo della nave.
Poi un'altra ragazza uscì, tenendo in mano il cellulare in questione.
Era alta e abbronzata, i suoi capelli erano neri e mossi, ed i suoi occhi erano scuri, ma allo stesso tempo sembravano essere la fonte di luce dell'intero universo.
Fu allora che si accorse di noi.
E fu allora che io mi presi un momento per godermi la vista di quella ragazza con addosso solo il costume da bagno.
“Vedo che hai ospiti.”
“A quanto pare.”
Il cellulare smise di suonare.
“Come mai uno di loro è in ginocchio?”
“Perché...puoi ripetermi il tuo nome?”
“Timothy. Ma tutti mi chiamano Tim.”
Lei sorrise. “Tim mi stava giusto chiedendo di sposarlo.”
La dea che avevo appena finito di fissare rise.
“Stavi chiedendo a mia sorella di sposarti davanti alla tua fidanzata?” chiese con incredulità.
“Lei è mia sorella” precisò Tim ridendosela di gusto.
“Sentito? È sua sorella” gli fece eco la donna davanti a lui. “Continua pure, Tim.”
“Come stavo dicendo” continuò mio fratello schiarendosi la gola. “Ho preso il mio nome dal mio bisnonno, Timothy Robbins, Colonnello dei Marines degli Stati Uniti d'America. Mio bisnonno, il giorno del mio diciottesimo compleanno mi disse: 'ragazzo, che io sia maledetto se riuscirò mai a capire come funziona uno di quei cosi per le orecchie' - era sordo, il poveretto - ma mi disse anche 'sposa la donna che ti porterà via il respiro quando ancora non saprai il suo nome'. Ho sempre pensato che il vecchio fosse suonato come una campana il giorno di Natale. Però adesso capisco quello che intendeva. Io non so il tuo nome, non so dove vivi, non so quasi niente di te, però mi hai tolto il fiato appena ti ho visto e vorrei che continuassi a togliermelo ogni giorno. Vuoi sposarmi?”
Per qualche istante ci fu silenzio.
“E questa sarebbe una proposta di matrimonio, brutto stupido?” lo rimproverai, colpendolo sulla nuca, mentre era ancora in ginocchio.
“Se pensi di riuscire a fare di meglio fatti pure...” tentò di rialzarsi, ma io lo rispinsi verso il basso, tenendolo in ginocchio. “...avanti.”
“Puoi contarci” risposi schiarendomi la voce a mia volta. Presi fiato, bloccandomi immediatamente, realizzando che non sapevo il suo nome.
“Aria” sussurrò la ragazza che mi aveva quasi fatto svenire, vedendo in mio soccorso.
“Aria” declamai con convinzione. “Il mio bisnonno era Colonnello nei Marines degli Stati Uniti d'America.”
“Questo lo avevo già detto.”
“Zitto e non rovinare la mia proposta. Hai avuto il tuo turno, adesso tocca a me” risposi colpendolo di nuovo con un buffetto. Poi mi schiarii di nuovo la voce. “E anche mio nonno era un Colonnello” continuai. “Così come mio padre. Adesso il mio stupido fratello ha deciso di andare in guerra per poter onorare la nostra famiglia e non per le giuste motivazioni per cui qualcuno dovrebbe arruolarsi e decidere di andare in guerra. Ma se tu adesso potessi fargli l'onore di accettare la sua proposta, lui rimarrebbe qui. Troverebbe un lavoro onesto e ti darebbe una casa e dei figli, troverebbe il modo di renderti felice ogni giorno. Perché si sveglierebbe al tuo fianco ogni mattina e sarebbe paralizzato dalla tua bellezza, ed allora ogni giorno deciderebbe di sorprenderti con un gesto semplice, ma non scontato, perché questo è il modo in cui è fatto Tim. Ed ogni sera, addormentandosi al tuo fianco, ti ricorderebbe quanto ti ama, facendoti sorridere ogni volta, anche dopo anni, solo per il modo in cui ti guarda negli occhi. Quindi, Aria, sposalo. Lo amiamo tutti fin troppo per permettere che vada a farsi ammazzare in guerra. Tim è un brav'uomo. Fai di lui un uomo completo.”
Di nuovo, silenzio. Tutti mi stavano fissando con stupore.
“Ehi Tim” lo chiamò la ragazza al mio fianco. “Se puoi mantenere queste promesse e con mia sorella le cose non funzionano, ti sposo io.”
Io la guardai. “Perché scegliere la seconda miglior soluzione? Sposa me, invece” le sorrisi in modo accattivante, mettendo in mostra le mie fossette.
“Te?” chiese lei. “Non saprei. Che lavoro fai? Quanti bambini vuoi? Cani o gatti?”
“Sto per specializzarmi in chirurgia pediatrica, sono al penultimo anno, niente bambini e preferirei dei polli.”
Lei annuì.
“Peccato. Stesso anno di chirurgia ortopedica, come minimo tre bambini e...polli? Perché dovrei tenere in casa dei polli?”
“Non in casa, in giardino. E rinuncio ai polli se tu rinunci ai bambini.”
Lei valutò la proposta.
“Polli in cambio di bambini...non hai detto che sei in chirurgia pediatrica?”
“Proprio così.”
“Mh. Strano. Beh, peccato. Io avrei potuto lasciarti senza fiato ogni giorno, sai?” chiese sorridendomi.
“Non mi è difficile immaginarlo” risposi con sincerità.
“È stato un piacere conoscerti...”
“Arizona” le tesi la mano.
“...Arizona. Prenditi cura di te.”
Si voltò, ma fu fermata da Aria.
“Aspetta, Callie. Io forse lui lo sposo.”

Quella sera stessa io e Callie eravamo le uniche testimoni del matrimonio di Aria e Tim. Fu romantico, veloce ma bello.
E prima di entrare Callie e Aria ebbero un discorso interessante.
“Allora, per cosa sta Callie?” chiesi.
“Questo è fatto per essere saputo da me e mai scoperto da te.”
“Calliope” intervenne Aria.
“Aria!”
Io sorrisi.
“Vorrei che avessi accettato di sposarmi, Calliope.”
Lei mi sorrise. “Come no. Non è nemmeno legale in questo Stato. Ok, Aria, hai solo due minuti per cambiare idea, se decidi di squagliartela.”
“Perché dovrei farlo?”
“Perché stai per sposare un tizio che non conosci.”
“Se non ricordo male anche tu hai quasi sposato un tizio che conoscevi a malapena a Las Vegas.”
“Per prima cosa, io e George eravamo stati insieme per mesi, non ore. E poi io ho quasi sposato un tizio che conoscevo a malapena. E quasi è la parola chiave qui. Sono tornata in me prima di fare una cosa così stupida, grazie al cielo. Ed ero ubriaca, almeno.”
“Se può consolarti” le rispose Aria mentre varcava l'entrata della chiesa e scorgeva Tim ad attenderla all'altare “io non sono completamente sobria.”

Un anno dopo Aria e Tim andavano in giro a raccontare a tutti come si erano sposati per dissuadere lui dall'andare in guerra e poi si erano follemente innamorati e adesso stavano vivendo una vera e propria favola.
Io, nonostante avessi visto ogni passo della loro storia con i miei stessi occhi, credevo ancora che avessero rubato la storia ad un film romantico di serie B.
Il giorno del loro primo anniversario tornammo sulla barca dei Torres, nello stesso punto dell'anno prima, solo noi quattro.
“Sei molto bella” mi complimentai con Calliope, mentre Tim tentava di capire come comandare la barca da Aria.
“Anche tu, Arizona.”
“Oh, io non intendevo questa sera” spiegai. “Intendo sempre.”
Lei mi guardò. “Anche io.”
Mi stupì la sua risposta.
Io e Callie lavoravamo insieme al Seattle Grace Hospital da circa dieci mesi. Entrambe speravamo di essere assunte come strutturate entro la fine dell'anno.
“Continuo a non volere bambini.”
“Continuo a non volere polli. Immagino che ognuno abbia i suoi difetti.”
“Mi dispiace, ma devo dissentire.”
Si voltò verso di me ed io sostenni il suo sguardo.
Era ormai da un sacco di tempo che ci stavamo girando intorno. Dal nostro primo incontro nessuna delle due aveva più avuto un appuntamento o qualcosa del genere.
Callie aveva perfino smesso di dormire con il suo amico di letto Mark Sloan, da quando ci eravamo presentate.
E in un anno avevamo imparato così tanto, l'una dell'altra.
Ma ancora molto avevamo da imparare.
“Conosco qualcuno che può essere descritto solo come pura perfezione.”
“Davvero?” mi chiese con un mezzo sorriso. “E chi sarebbe?”
Io la guardai come se la risposta fosse ovvia. Quando lei non rispose le misi una mano sulla guancia e la baciai sulle labbra.
Fu veloce, delicato. Fu come un soffio appena percepibile. Ma fu abbastanza per imprimermi in modo indelebile nella memoria la sensazione delle sue labbra sulle mie.
“Penso che capirai.”
Lei non disse niente, per un po'.
“Arizona...”
“Non devi dire niente. Volevo solo che lo sapessi.”
“Che sapessi cosa?”
“Che avresti dovuto essere tu a dire di sì quel giorno. Che dovremmo essere noi due ad essere sposate. Che ci ho provato, ma non ci riesco...non riesco a farti uscire dalla mia mente. Volevo che sapessi che...” le parole successive mi uscirono come se stessi dicendo la cosa più scontata e naturale del mondo. “Io ti amo, Calliope.”
“D'accordo” sussurrò con voce tremante, prendendo la mia mano. “Non avremo figli, se tu non ne vuoi.” Poi intrecciò le nostre dita. “Ma niente polli.”
Io risi.
“Mi spiace, ma non credo di poter vivere senza polli” le feci sapere.
Lei mi guardo con la sue espressione 'davvero??' ed aveva ragione, perché infondo lei stava rinunciando ai bambini, per me.
“Quindi credo che l'unico compromesso sia compare una casa con cinque stanze da letto e un cortile e mettere i polli in un recinto in giardino. Poi possiamo riempire le stanze vuote della casa con i nostri piccoli umani. Oppure prima i piccoli umani e poi prendiamo i polli. Oppure...mphf.”
Mi aveva baciato.
Non come avevo fatto io prima. Quel secondo bacio fu più passionale, frettoloso, bisognoso. Come se servisse a sigillare una promessa. La sua promessa.
Mi avrebbe tolto il fiato ogni giorno.




Spero che vi sia piaciuta, so che non è molto lunga, ma man mano che aumenta il numero aumentano anche le pagine, ho notato...ma non ho ancora deciso se è positivo o negativo!

Fatemi sapere che ne pensate. A presto!



Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il nostro primo appuntamento al buio ***


Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e aggiunto la storia tra le seguite, o anche chi ha semplicemente letto.
E andiamo con la terza shot.

Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo appuntamento al buio


Entrai nel bar che il mio migliore amico mi aveva indicato e mi sedetti al bancone, chiedendo a Joe un bicchiere d'acqua.
Non volevo ubriacarmi ancora prima di iniziare, quello non sarebbe stato saggio se volevo sopravvivere un altro giorno.
Mi guardai intorno, cercando una donna con una maglietta blu e dei jeans chiari. E la vidi. E non era esattamente quello che avevo pensato sarebbe stata.
Era bassa, mora, aveva gli occhi chiari, la pelle abbronzata, ed i suoi lineamenti sembravano appartenere ad una donna molto più grande di quanto la ragazza che avrei dovuto incontrare mi era stato detto essere. E perché i capelli corti? Mark sapeva che a me non piacevano le donne con i capelli corti.
Avrei voluto sotterrarmi a dieci metri di profondità e non uscire mai più.
Mi voltai verso Joe e pensai ad almeno una decina di scuse da usare per sottrarmi a quello che, ne ero sicura, sarebbe stato il più disastroso appuntamento al buio della storia.
“Questo posto è occupato?”
Mi voltai, vedendo una donna dai capelli biondi e gli occhi più azzurri di quanto il cielo di Seattle avrebbe mai potuto essere.
Aveva indicato il posto accanto al mio.
“No. Si sieda pure. Io stavo giusto per...”
“Oh, se ne sta già andando?”
Io le sorrisi un po' forzatamente.
“Il mio migliore amico mi ha organizzato un appuntamento al buio.”
“Oh” sussurrò, comprendendo. “Ha deciso di scappare?”
Io mi voltai verso il tavolo a cui era seduta la ragazza che avevo riconosciuto avere i vestiti giusti.
“Credo che sia con lei” sussurrai con un cenno della testa, tornando poi a guardare Joe.
Lei la studiò per qualche minuto. Poi riprese una posizione simile alla mia.
“Cosa c'è che non va in quella ragazza?” chiese educatamente.
“Niente. A parte il fatto che sta leggendo un romanzo d'amore di quelli sdolcinati. Odio quella roba, non sono mai riuscita a leggerne uno fino alla fine.”
“Su questo sono d'accordo, neanche a me piace il genere melodrammatico. Sebbene ammetto che sono una fan accanita di favole. Il mio film preferito è Alice in Wonderland.”
“Se parli della versione con Anne Hathaway posso capire perché” risposi, facendola ridere. “Ma in generale credo che sia una cosa molto...”
“Stana?” offrì lei.
“Carina. È carino che ti piacciano le favole. La maggior parte delle persone che conosco ha smesso di crederci ormai da tempo.”
Lei mi sorrise, mostrandomi le sue fossette.
“Anche tu hai smesso di crederci?”
Io annuii distrattamente.
“Ma vorrei davvero poterci credere ancora. Era tutto molto più bello quando credevo che ci sarebbe stato il 'vissero per sempre felici e contenti' alla fine.”
Lei mi studiò per qualche attimo.
“Cos'altro c'è che non ti piace in lei?”
Io lanciai un'occhiata alla ragazza.
“Vedi il posacenere? La sigaretta che c'è dentro non è ancora del tutto spenta, quindi probabilmente è sua. Odio chi ha il vizio del fumo. Non capisco proprio perché fare qualcosa di così stupido a se stessi.”
“Io fumavo, ogni tanto. Ma solo quando sapevo di essere in guai molto seri. Da cinque anni ho smesso, però. Lo considero il mio record, anche se non ho mai davvero fumato in modo abitudinario. Ma ti ho interrotto, continua pure.”
Fece un gesto della mano per incitarmi a proseguire.
“Sembra cupa. Io sono cupa. Non posso stare con qualcuno di cupo, ho bisogno di qualcuno che sorrida tutto il tempo, altrimenti sarebbe una relazione fin troppo triste. Finiremmo per non parlare più dopo un po' di tempo. Ci limiteremmo a chiuderci nel nostro piccolo e tetro mondo e questo è solo...”
“Deprimente?”
“Deprimente.”
“Io sorrido molto. Tutti mi dicono che sorrido molto, almeno.”
Io ricambiai il sorriso che mi stava offrendo proprio in quel momento. Mi piaceva ciò che stava insinuando.
“E Mark, l'amico che ha organizzato l'appuntamento, ha descritto la ragazza come il mio esatto tipo, fisicamente. Mi sta venendo il dubbio che non mi conosca davvero così bene come crede di fare, infondo.”
“Hai un tipo?” chiese incuriosita.
“Non esattamente. Ma secondo lui ce l'ho eccome. E se ne è davvero così tanto convinto ha chiaramente mentito, perché, voglio dire, l'ultima ragazza per cui ho avuto una cotta aveva gli occhi blu ed i capelli biondi, la pelle chiara. L'ultima donna che ho frequentato, occhi azzurri, capelli biondi, pelle chiara.”
“Hai un tipo” concluse con un sorriso.
“Se avessi un tipo, tu saresti il mio tipo” risposi, guardandola attentamente per la prima volta. “Tu sei...cavolo, sei quasi sicuramente la donna più bella che io abbia mai visto” credo che la sorpresa nel mio tono non le fosse sfuggita. “Non ci sto provando con te” mi affrettai ad aggiungere, vedendola sorridere. “Sono qui per un appuntamento, ricordi?”
Lei rise.
“Vai molto spesso ad appuntamenti al buio?”
“No, in realtà. Ma Mark sembrava così felice di poter fare qualcosa per farmi stare meglio. Lui e la sua fidanzata sono sempre così carini con me, mi sentivo in colpa a non accettare. Ed ovviamente non mi hanno detto niente di questa donna, né il suo aspetto, né il suo nome, perché secondo Mark avrei potuto cercarla su Google.”
Lei fece una faccia colpita, annuendo più volte lentamente.
“Molto da stalker. Ho sentito che va di moda.”
Io risi.
“Tutto qui? Non è molto” osservò. “Sicura che vuoi rinunciare al tuo appuntamento così facilmente?”
Io sospirai.
“Non potrei mai nemmeno prestarle un libro” risposi in un sussurro. “Perché odio le persone a cui presti i libri e tengono il segno della pagina piegando gli angoli su se stessi. Insomma, è il mio cavolo di libro. Cosa ti fa pensare che tu possa andartene in giro a piegare gli angoli?” chiesi alludendo a come la ragazza stava tenendo il segno delle pagine.
“Neanche io lo sopporto. Per me i libri sono sacri.”
“Beh, grazie. Finalmente qualcuno che mi capisce e non ride della mia ossessione per gli angoli spiegazzati.”
Ci furono altre risate.
“Quando dovevi incontrarla? Non sarai in ritardo?”
“A dire il vero sono venuta in anticipo. Ero molto nervosa. È il mio primo appuntamento dopo un sacco di tempo.”
“Definisci 'un sacco'.”
“Molto, molto tempo. Ma questo lei non deve saperlo.”
“Dammi almeno una vaga idea del tempo di cui stiamo parlando.”
“Circa un anno.”
“Davvero? Tu? Qual'è il problema della gente di questa cavolo di città? Un'epidemia di cecità, forse?” chiese incredula.
“Il problema sono io, in realtà. Continuo a rifiutare appuntamenti con persone che mi piacciono solo perché sono dannatamente terrorizzata. Le probabilità sono che non sarei riuscita nemmeno a dire ciao a quella ragazza, stasera, se mi fosse piaciuta tanto quanto Mark era sicuro che dovesse piacermi.”
“Ed il primo appuntamento che accetti è al buio?” chiese con genuina curiosità.
“Ecco...lo so che sembra stupido. Però lui è il mio migliore amico. Era lì per me quando nessun altro c'era. E mi aveva assicurato che entro una settimana sarei stata innamorata follemente della migliore amica della sua fidanzata. Io gli avevo fatto promettere di non insinuare nemmeno qualcosa del genere con lei, perché, beh, quello sarebbe stato semplicemente imbarazzante da farle sapere.”
Lei mi guardava sorridendo. Iniziai a sentire qualcosa. Lì per lì non sapevo dire cosa fosse, perché era molto tempo che non provavo niente del genere.
Poi capii.
Lei mi piaceva.
“Quindi adesso te ne andrai silenziosamente senza farti notare?” chiese, prendendo un sorso del suo drink analcolico.
“Nah” scossi la testa. “Adesso andrò da lei. Mi presenterò e mi metterò a sedere, dicendole che non mi piacciono i romanzi rosa o i fumatori, e che io sono cupa. Poi le darò il tempo di rispondere e lei potrebbe anche dirmi che la sigaretta era già nel posacenere quando si è seduta, che il romanzo le è stato prestato da una sua amica, ma che non ha alcuna intenzione di finirlo di leggere, e che è così seria per via di una terribile giornata a lavoro. Da lì in poi credo che improvviserò.”
Lei rise di nuovo.
“Oppure” suggerì con tono cospiratorio “potresti rimanere qui con me.”
Io la guardai.
Sì, senza alcuna ombra di dubbio, quella seduta con me era la donna più bella che io avessi mai visto in vita mia.
“Lei sembra più alla mia portata” le risposi con un mezzo sorriso.
Lei mi guardò, incredula.
“Tu non sei neanche vagamente vicina alla sua portata. Sei a malapena alla mia portata. Ed io sono molto sexy.”
Io risi. Ma lei era seria.
“Vorrei. Vorrei davvero poter rimanere” sussurrai distrattamente.
“Ma...” mi incoraggiò lei.
Mi lanciai un'occhiata alle spalle.
“Ma quella donna sta aspettando me” le risposi con dispiacere. Guardai l'orologio. “Dovevo incontrarla più o meno adesso. È meglio che vada.”
“Mi dispiace, ma non posso lasciartelo fare” mi disse con un sorriso.
“Ah, no?” chiesi alzando un sopracciglio con aria di sfida.
Mi alzai dallo sgabello, facendo un paio di passi all'indietro, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi.
“No. Perché adesso tu potresti andare da lei, guardarla e sorriderle e dirle che sei Calliope Torres, il suo appuntamento al buio. Le potresti dire che non ti piacciono i romanzi rosa, il fumo e che tu sei quella cupa. E lei risponderebbe che non ha la minima idea di cosa diavolo tu stia parlando. A quel punto tu ti volteresti e vedresti che io sto indossando una maglietta blu e dei jeans chiari e ti renderesti conto di aver sbagliato persona.”
Era vero. La donna del bancone, la donna dei miei sogni, stava indossando degli abiti degli stessi colori della ragazza al tavolo, che avevo dato per scontato fosse la donna del mio appuntamento al buio.
Il sorriso sul mio volto iniziò lentamente a sparire.
“Ti scuseresti educatamente con lei, raccontandole della nostra conversazione. E lei potrebbe dirti che la sigaretta era già nel posacenere quando si è seduta, che il romanzo le è stato prestato da una sua amica ma che non ha alcuna intenzione di finirlo di leggere, e che è così seria per via di una terribile giornata a lavoro. Poi potrebbe fare una battuta che ti farebbe ridere su quanto io sia stata stupida a lasciarti andare a parlare con lei. E tra cinque, dieci, vent'anni, tu e lei sareste sedute davanti ad un camino, ringraziando il cielo che la tipa schizzata con cui avevi un appuntamento al buio non ti ha fermato mentre stavi andando a parlare con la donna sbagliata.”
Io annuii, fissando il pavimento e dandomi mentalmente dell'idiota per l'incredibile figuraccia che avevo appena fatto.
“Ed io non avrei mai l'occasione di dirti che sono stata io a implorare Teddy di chiedere al suo fidanzato Mark di organizzarmi un appuntamento con te, perché ti avevo già visto in ospedale e non riuscivo a trovare il coraggio di chiederti di uscire. Così da brava codarda ho chiesto alla mia migliore amica di convincerti a venire ad un appuntamento invece di doverlo fare io. Quindi adesso capisci il mio dilemma quando dico che non posso lasciare che tu vada a parlare con quella ragazza laggiù.”
Mi servì qualche secondo per farmi coraggio e parlare.
“Bene. Direi che ho fatto abbastanza figuracce per una sera. Me ne andrò, adesso, e ti lascerò a ponderare su quanto stupida, superficiale e imbranata io debba essere per essermi cacciata in questa situazione. Ringrazia Teddy da parte mia, comunque. E...beh, immagino che ti vedrò molto presto in ospedale, perché questa è la mia solita fortuna. Cercherò di evitarti comunque, non preoccuparti. E tu puoi sempre fingere di non conoscermi.”
Mi voltai.
“Non mi stai ascoltando, Calliope.”
Sospirai. Ma non mi voltai indietro. Ripresi a camminare verso l'uscita.
Avevo bisogno di aria.
Una volta fuori mi bloccai.
L'appuntamento più veloce della storia. Circa dieci minuti.
Respirai, ma sembrava che l'aria non riuscisse ad entrare.
“Mi hai detto che sono la donna più bella che tu abbia mai visto.”
“Ho detto quasi sicuramente” la corressi, senza voltarmi.
“E che trovi carino il fatto che mi piacciano ancora le favole. In quanto, dieci minuti? Eppure adesso te ne stai andando.”
“Lo so, ok? Sono una persona orribile.”
Mi voltai, allargando le braccia.
“Cosa vuoi che dica? Vuoi che dica che Mark ha ragione? Perché tu sorridi e mi fai sorridere e non pieghi gli angoli dei libri. Per essere durato dieci minuti, e togliendo l'ultima parte, è stato un bel primo appuntamento.”
Neanche io sapevo bene perché le stessi dicendo quello che in realtà le stavo dicendo.
“E potrei innamorarmi di te. Forse non in una settimana, ma chissà, in un paio di mesi. E allora, un giorno, quando io non me lo aspetterò, mi spezzerai il cuore. Tradendomi, o semplicemente andandotene. Mi dirai che io e te abbiamo una diversa etica, o che tu sei una persona che vuole cani o gatti, ed io non voglio animali. O mi dirai che non vuoi figli. O qualcosa, qualsiasi cosa, e mi spezzerai il cuore.”
Non aveva spostato gli occhi dai miei neanche per un istante.
“Questo è quello che succederà, se io non me ne vado adesso e faccio il modo di non vederti mai più.”
“Non credo di poter sopportare il pensiero di non vederti mai più, Calliope.”
Io in quel momento potevo fare una scelta.
Potevo scegliere se crederle.
Mi si avvicino, continuando a sostenere il mio sguardo senza il minimo accenno di dubbio, ma con una sicurezza che mi spinse a rimanere immobile.
“Sei spaventata a morte” sussurrò quando fu distante da me meno di un passo. “Ed io questo lo capisco” continuò, fermandosi proprio davanti a me e guardandomi da qualche centimetro più in basso. “Ma non dovresti esserlo. Perché stimo molto la tua etica professionale, ti ho visto lavorare diverse volte nelle ultime due settimane, cercando di rimanere sempre nell'ombra e a quanto pare ci sono riuscita. Non voglio cani o gatti, ma forse un giorno potremmo comprare un pollo. Ho questa strana fissazione per i polli. E non ho mai pensato seriamente all'avere bambini, ma potremmo parlarne, suppongo. Non stasera. Durante il nostro terzo o quarto appuntamento. E alla fine riuscirai a convincermi che ne vale la pena. E mi sta bene. Mi sta bene non avere cani o gatti, mi sta bene avere figli, mi sta bene non toccare mai più una sigaretta in vita mia, se a te sta bene incontrarmi di nuovo e darmi l'occasione di dimostrarti che...andrà tutto bene.”
Io la guardai per diversi momenti senza dire niente.
“Come fai a saperlo? Non siamo mai nemmeno andate ad un vero appuntamento. Io non so ancora nemmeno il tuo nome. Come puoi dire che andrà tutto bene?” chiesi con voce intrisa di dubbio, facendole notare l'assurdità della situazione.
Lei mi sorrise.
“Ok. D'accordo. Non andrà tutto bene.”
Mi appoggiò una mano sulla guancia.
“Tutto continuerà ad andare, però.”
Sentii la punta del suo pollice accarezzarmi una guancia. Improvvisamente avevo la pelle d'oca, anche con il giacchetto. Anche se non era freddo.
“Mi chiamo Arizona Robbins. Uno di questi giorni ti racconterò perché i miei genitori hanno deciso di chiamarmi Arizona.”
Io accennai un sorriso. Mi piaceva l'idea di vederla ogni giorno.
“Sei ancora spaventata a morte.”
Aveva ragione. Ero spaventata a morte di poter rimanere ferita ancora. E avevo complessi di abbandono, ma quella era un'altra storia.
“Sto per baciarti, Calliope.”
Era stato carino da parte sua avvertirmi.
“Mi sta bene” le risposi in un sussurro, citando quello che aveva detto lei poco prima.
Le sue labbra erano morbide, proprio come sembravano essere a prima vista. Il drink che stava sorseggiando doveva essere al limone, uno dei miei gusti preferiti, perché fu quello il sapore che sentii in quel momento.
Difronte a me stava la donna che aveva capito che ero spaventata a morte. Che non piegava gli angoli dei libri e che era sempre sorridente e allegra. La donna più bella che avessi mai visto, e allo stesso tempo la ragazzina che credeva ancora nelle favole e nel lieto fine. Davanti a me c'era l'unica persona al mondo che aveva fatto suonare il mio nome completo come qualcosa di così naturale che non mi era nemmeno passato per la mente di correggerla.
Da quella sera, fui un po' meno spaventata. Perché, da quella sera, lei affrontò tutto quello che c'era di così spaventoso insieme a me.
Mi aveva detto che non avrebbe sopportato il pensiero di non rivedermi mai più.
Potevo scegliere se crederle o no.
Ci fu un momento, in cui potevo fare una scelta.
E scelsi lei.




Ok, questa era davvero sdolcinata. Non ho aggiornato domenica perché sono tornata ieri sera dal mare...Detto questo, non penso che nessuno legga mai i commenti alla fine, quindi alla prossima!

Ciao ciao!


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** La nostra prima canzone d'amore ***


Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e aggiunto la storia tra le seguite, o anche chi ha semplicemente letto.
Ecco a voi la quarta “shottina” come piace chiamarle a me. Questa è un po' più improbabile delle precedenti, ma spero che vi piaccia lo stesso!

Notare il cambiamento di rating.

Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



La nostra prima canzone d'amore


Avevo visto il suo viso tutti i giorni per non so nemmeno più quanto tempo.
Mai dal vivo, però. Lo avevo visto sui maxischermi della città e sulle riviste di gossip, sulle fiancate degli autobus e nei cartelloni in metropolitana. Lo avevo visto a casa mia. Ogni volta che prendevo in mano un disco con lei che mi sorrideva dalla copertina. Ogni volta che passavo davanti al suo poster che con il tempo aveva sostituito quello di Cindy Crawford.
L'avevo vista tutti i giorni per anni.
Ma questo non me lo rese più facile.
Anzi, se possibile, me lo rese due volte più difficile.
“Continua a respirare, ok?”
La faceva facile, lei. Callie Torres non le stava premendo una mano sulla bocca mentre la teneva schiacciata contro un muro.
Certo che no, idiota, perché lei è Callie Torres.
Non so come, non so grazie a che cosa e sinceramente non so neanche perché, ma continuai a respirare.
Ok Arizona, hai una sola possibilità. Dille qualcosa di intelligente. Qualcosa che la lasci senza parole.
“Ehm...”
Sei spacciata.
“Lo so, mi dispiace. Di solito non salto addosso a delle passanti innocenti. Però odio essere seguita dai paparazzi, così ti ho usato per seminarli. Spero che non ti dispiaccia.”
Mi rivolse il suo sorriso più sexy.
“Uh, no.”
Sei super spacciata.
Mi guardò negli occhi.
“Sei molto più bella di persona.”
Appena le parole ebbero lasciato la mia bocca mi colpii con una mano in piena fronte.
Ottimo lavoro, idiota. Adesso puoi andartene e pregare che il tuo idolo si dimentichi di te così in fretta da non usarti come barzelletta da raccontare ai suoi amici.
“Grazie” rispose lei con un sorriso, invece di farsi beffe di me.
Io annuii, decidendo che era meglio tenere la bocca chiusa. Lei capì che ero troppo emozionata per parlare.
“Vediamo se posso aiutare, ok? Tu diresti qualcosa molto simile a: 'Wow, tu sei Callie Torres! Sono la tua più grande fan'. 'Davvero?' replicherei io allora, 'perché anche la tizia che ha il mio nome tatuato sul viso mi ha detto la stessa cosa e quindi dovrò scegliere a chi credere, adesso. Ma dimmi, c'è qualcosa che potrei fare per la mia fan numero due al mondo?' E tu a quel punto chiederesti un autografo, senza nome o dedica, in modo che sia possibile poterlo vendere su internet. Procedo a firmare l'autografo o hai una richiesta più originale?”
Come cavolo era finita una persona come me in mezzo ad un casino del genere?
Oh, giusto.
Teddy Altman era da incolpare per tutto quello.
La mia migliore amica mi aveva convinto che sarebbe stata una grande idea fare un salto al centro commerciale visto che era periodo di saldi, ed io avevo controvoglia accettato.
Poi mi aveva costretto a provare una stupida maglietta che non mi piaceva neanche un po', ma che secondo lei si abbinava ai miei occhi, mentre lei mi 'aspettava fuori'. Ma se lei avesse davvero aspettato fuori, Callie Torres non sarebbe improvvisamente entrata nel mio camerino, schiacciandomi contro una delle pareti, premendo una mano sulla mia bocca e invadendo quello che avevo sempre amato considerare come il mio spazio personale.
“Forse sì, avrei una richiesta più originale” sussurrai così impercettibilmente che sperai di averlo solo immaginato.
“Davvero?” chiese, positivamente stupita. “E quale sarebbe questa richiesta, signorina...”
“Arizona Robbins” mi presentai. “Può chiamarmi Arizona.”
“Arizona. Perché non mi dai del tu e non mi dici qual'era questa richiesta?”
Io declinai gentilmente l'offerta di dare del tu all'unica e sola persona per cui avevo avuto una cotta enorme da quando avevo quattordici anni.
Ma chi prendevo in giro? Io non avevo una cotta per lei. Io ero follemente innamorata di lei. E qui follemente era la parola giusta, visto che non le avevo mai parlato.
“Potrei...potrei baciarla?”
Lei fisso i miei occhi azzurri per un secondo in più di quanto fosse necessario.
“Quanti anni hai?”
“Venti.”
“Solo un anno meno di me.”
Io annuii.
“D'accordo, Arizona. Puoi darmi un bacio, se è quello che vuoi.”
Voltò il viso di lato, porgendomi la sua guancia.
Ma io appoggiai delicatamente una mano su quella più lontana e la costrinsi a voltare la testa, finché le nostre labbra furono a pochi centimetri.
Capì quali erano le mie intenzioni.
Mentre io non capii subito quali fossero le sue. Se mi avrebbe fermato o no.
Ma, contro ogni logica, non mi fermò.
Lasciò che la baciassi sulle labbra, tenendo il suo viso tra le mani.
Fu pieno di dolcezza. Cercai di lasciare in quel bacio tutto l'affetto che non avrei mai potuto dare a lei.
La guardai negli occhi.
E vidi che era stupita da quello che era successo. Pensai che le persone non fossero dolci con lei, che non l'amassero quanto avrebbero dovuto. Perché lei, secondo me, meritava tutto l'amore del mondo.
“Addio Calliope.”
Uscii dal camerino, cercando di mantenere il battito del mio cuore ad un ritmo accettabile.
Quando fui al sicuro tra le quattro mura della mia camera, piansi.
Piansi perché non avrei mai più rivisto Callie Torres. Tutto ciò che mi sarebbe rimasto di lei era un sogno ed un dolce bacio scambiato dentro un camerino.

Il giorno dopo entrai in classe insieme a Teddy. Mi prese quasi un infarto quando vidi sul banco dove mi sedevo di solito un mazzo di fiori. Tre rose rosse con un biglietto.
Arizona, attendo un altro dei tuoi baci. -C
Bene. Almeno non avevo avuto un'allucinazione.
Oppure, più probabilmente, stavo ancora avendo un'allucinazione.
Perché cose del genere sono improbabili nella vita di gente fortunata, e quasi impossibili per qualcuno che ha una mediocre esistenza simile alla mia.
Incontrare Callie Torres dal vivo e baciarla era troppo poco probabile per realizzarsi. Ma incontrarla una seconda volta era categoricamente impossibile.
Teddy mi chiese mille volte di chi fossero i fiori. Non le dissi mai chi li mandava. Non mi avrebbe creduto.
Quella sera qualcuno bussò alla porta del mio appartamento.
Quando andai ad aprire ebbi letteralmente un infarto. Il mio cuore non riuscì davvero a battere per almeno una decina di secondi. Però feci del mio meglio per rimanere in piedi.
“Buonasera, Arizona.”
Mi sorrise in modo così accattivante da farmi domandare se davvero volessi smettere di avere quel tipo di allucinazioni. Domanda stupida. Certo che non volevo.
La feci entrare, perché lei era Callie Torres.
La baciai perché mi aveva portato altre sette rose rosse.
Andai a letto con lei perché era tutto ciò che avevo sempre voluto da interi anni a quella parte.
Era così semplice, nella mia testa.
Non le dissi che da quando lei aveva iniziato a cantare io avevo messo una croce sulla mia vita sentimentale. Quando lei aveva iniziato a cantare io avevo quattordici anni.
Non ero mai stata con nessuno prima di quella notte, ma non rimpiansi neanche un secondo del tempo che passai insieme a lei.
Non fu qualcosa che mi sarei aspettata da una cantante famosa in tutto il mondo, che avrebbe potuto avere chiunque solo con un sorriso.
Fu dolce. Fu lento. Ci prendemmo del tempo, tutto il nostro tempo, per capire come fosse possibile che qualcosa di così perfetto potesse accadere in modo così semplice.
Mi disse di non essere mai stata con una donna prima di me. Di non aver mai neanche baciato una donna prima del giorno precedente. Era stata attratta da alcune donne prima, ma non aveva mai avuto il coraggio di fare niente a riguardo. Io le credetti.
Mi disse anche che, per trovarmi, il suo assistente personale era quasi impazzito. E per trovare il mio banco era decisamente impazzito. Trovare casa mia era stato più facile. A quanto pare, se sei Callie Torres, la gente tende a darti le informazioni che chiedi.
Lasciai che dormisse dentro il mio letto.
Lasciai che si prendesse quanto voleva della mia anima e lo portasse via con sé.
Quando mi svegliai, il giorno successivo, lei non era lì.
Il suo profumo era l'unica prova tangibile rimasta della sua reale esistenza fuori dalla mia immaginazione.
Per tutto il giorno, di lei, non ebbi notizie. Niente di niente.
Non ci furono rose. Non ci furono bigliettini. Non ci furono sorprese.
Immaginai che avesse avuto quello che voleva.
Ma quella sera, quando qualcuno bussò nuovamente alla mia porta, ebbi il secondo infarto in due giorni.
“Mi dispiace se non ho mandato rose. Non ho avuto un secondo libero fino ad ora.”
Non la feci neanche finire. La tirai dentro, chiudendo la porta alle sue spalle, e baciandola come se le nostre vite dipendessero da quello.
Una settimana dopo l'avevo vista ogni sera ed avevo dormito con lei ogni notte.
Quando quella sera bussò ancora alla mia porta io mi chiesi cosa diavolo stessi facendo. Ma non sembrò importante. Stavo prendendo tutto ciò che riuscivo ad avere. Questa era la cruda e nuda realtà. Mi sorrise dalla soglia della porta.
Per la prima volta fui tentata di non farla entrare. Ma lei mi sorrise. Ed il mio cuore si sciolse, perché lei era la donna che avevo amato per sei lunghi anni. Avrei fatto tutto ciò che potevo per avere ancora un minuto insieme a lei. Sempre.
Le cose andarono avanti nello stesso modo anche la settimana successiva.
Non riuscivo a prendere sonno, quella sera.
“Una ragazza mi ha chiesto di uscire oggi.”
Non so perché lo dissi. Parlai senza pensare. Lei si sollevò su un gomito e mi guardò.
“Cosa le hai risposto?”
“Che non potevo. Ho una cena con i miei genitori il giorno che lei mi aveva proposto, cioè questo sabato. Così mi ha lasciato il suo numero.”
Continuai a fissare il soffitto, sentendo i suoi occhi su di me.
“E tu ti sei fatta lasciare il suo numero?” chiese, a quel punto confusa.
“Sì. Io mi sono fatta lasciare il suo numero.”
Si mise seduta. “Non puoi...non puoi farti lasciare numeri da altre donne. Non puoi promettere di chiamare altre donne o avere appuntamenti con altre donne.”
“Non posso?” chiesi. La voce mi tremava per il senso di tristezza che all'improvviso mi aveva invaso. Non sapevo neanche da cosa fosse causato. O forse non volevo ammetterlo a me stessa. Lei, prima o poi, se ne sarebbe andata e non sarebbe tornata mai più.
“No. Sei la mia ragazza” replicò come se fosse ovvio.
“La tua...” io risi amaramente. “Non sono la tua ragazza. Io sono la donna da cui dormirai finché non ti sarai stancata di me. E questo mi sta bene, perché, evitiamo di mentirci, io sono innamorata di te, Calliope. Credevo che se mai un giorno ti avessi incontrato mi avresti deluso così tanto che mi sarebbe passata alla velocità della luce. Ma tu...tu sei così dolce, e mi porti dei fiori, o dei cioccolatini, o lasci bigliettini. Io sono innamorata di te, quindi prenderò tutto ciò che posso avere fino a quando ti renderai conto che non sono niente in confronto a ciò che potresti avere tu e non tornerai mai più.”
Mi infilai una maglietta che era finita sul pavimento, non avrei saputo dire bene come, e mi alzai in piedi.
“Tutto ciò che ti sto chiedendo è di non illudermi.”
Mi voltai e feci qualche passo in direzione della porta del bagno. Lei mi si mise davanti, impedendomi di scappare.
“Credevo che fossi diversa. Il tipo di persona che mi vedeva solo per quello che sono e non per quello che faccio. Sono famosa, sì, è vero, ma questo non significa che non abbia dei sentimenti. E non ti ho mai dato motivo per dubitare delle mie intenzioni. Sono sempre stata gentile con te. Sono una persona gentile, e tu lo sai. Credevo che lo sapessi, almeno. Non ho mai trattato male uno solo dei miei assistenti in tutti questi anni, neanche Phil – il ragazzo che mi porta il caffè tutte le mattine. Io so il suo nome, anzi, e so che ha tre sorelle, Lucy, Julie e Mary. Sono stata invitata ai loro matrimoni, addirittura, ma non sono mai potuta andare perché ero sempre in concerto. E tu lo sai, tu sai un sacco di cose di me che nessuno ha mai saputo, e sei riuscita ad impararle solo in un paio di settimane. Non sono il tipo di cantante che si droga, non l'ho mai fatto in vita mia. Non faccio sesso con persone a caso e tu non sei, nel modo più assoluto, una persona a caso. Ora, puoi credermi, o puoi sbattermi fuori dalla tua vita. Ma prima di fare una qualsiasi di queste due cose devi accettare il fatto che tu sei la mia ragazza. Eccome. Quindi se vuoi che me ne vada dovrai lasciarmi.”
Se ne tornò a letto, sdraiandosi e mettendo su il broncio più carino che avessi mai visto, aspettando che tornassi a stendermi al suo fianco.
E non avrei potuto fare nient'altro se non quello.

Erano passate circa tre settimane dalla prima sera, quando bussò alla porta di casa mia ed io esitai prima di fare qualsiasi cosa.
“Non posso stasera. Ho, sai...le mie...” arrossii.
Lei aveva capito. Stavo per salutarla, ma lei mise una mano sulla porta, tenendola aperta.
“Non mi interessa. Fammi entrare. Lasciami solo...starti accanto.”
Due ore più tardi era seduta dentro il mio letto, con la schiena appoggiata alla spalliera e la mia testa appoggiata al suo addome, mentre mi accarezzava i capelli.
“Perché tieni ancora un mio poster appeso in camera tua? Adesso mi vedi di persona tutti i giorni.”
“Ma così posso vederti anche quando non ci sei.”
Non disse altro.
Però la mattina dopo mi fece una foto con il suo cellulare. Quella sera portò un poster della stessa grandezza e molto simile a quello che avevo di lei. Solo che ritraeva me.
“Posso chiedere perché?” chiesi con un sorriso sulle labbra mentre lei lo appendeva proprio accanto al suo.
“Perché così potrò vederti anche quando non ci sei.”
Io alzai un sopracciglio, guardandola con perplessità.
“Adesso vieni in casa mia anche quando io non ci sono?”
“Oh. Hai ragione. Beh, allora forse dovresti darmi le chiavi. Così potrò venire a vedere il mio poster ogni volta che vorrò.”
Evitai di farle notare che avrebbe potuto appendere il poster a casa sua, perché avevo questo bizzarro sospetto che tutta quella storia non fosse che un trucco per farsi dare una copia delle chiavi del mio appartamento.
Lei sapeva che, a parte me, c'erano solo due persone che avevano una copia della chiave per le emergenze. Teddy, la mia migliore amica, e mia madre.

Un paio di giorni dopo le detti la copia che mi aveva chiesto.
Il telefono squillò. Le dissi di ignorarlo. La voce di Teddy mi rimproverò di non essere mai uscita insieme a lei nell'ultimo mese.
Quella notte mi disse che le ricordavo New York.
“New York?”
“Sì. Sai, dove la gente cammina e guarda solo verso il basso e neanche si accorge del cielo meraviglioso che c'è sopra le loro teste.”
“Io non guardo il cielo?”
Lei rise. “Tu non ti accorgi, a volte. Però forse somigli più a Los Angeles. Tutto per te è riguardo il caldo e le belle ragazze. O forse sei tutte le città che ci sono tra New York e Los Angeles.”
Quella volta risi insieme a lei.
La mattina dopo mi svegliai ed il letto era vuoto. Non c'erano biglietti. Non c'erano vestiti sparsi a terra. Non c'era la doccia accesa.
Se n'era andata.
Sfiorai il cuscino che ancora aveva il suo profumo e sentii la porta aprirsi. Pensai che Teddy avesse chiamato mia madre e lei fosse venuta a controllare che tutto fosse apposto. Invece entrò in camera da letto una donna dall'aria familiare, vestita con i miei vestiti e che indossava il mio giacchetto, un cappellino con la visiera e degli occhiali da sole enormi.
“Sono andata a prendere la colazione. Hai finito il caffè.”
Appoggiò le due tazze e la piccola busta che aveva in mano sul comodino.
“Sembri un serial killer.”
“Non volevo che mi riconoscessero.”
Si tolse gli occhiali da sole e il cappellino, lasciando i suoi capelli neri precipitare. Si tolse velocemente il pesante giacchetto e la mia felpa, sfilandosi i jeans che erano l'unica parte del suo abbigliamento ad appartenerle. Rientrò a letto e sentii il freddo dalla distanza a cui mi trovavo, allora appoggiai una mano sulla sua spalla. Non mi ero sbagliata.
“Oh mio Dio, stai congelando.”
Mi sedetti dietro di lei, avvolgendola tra le mie braccia.
“Saranno almeno dieci gradi sotto zero fuori.”
Cercai di scaldarla come meglio potevo. Il caffè caldo aiutò. Continuò a lasciarsi stringere anche quando la sua temperatura fu tornata normale. Lo apprezzai.

Il primo mese e mezzo giunse ad una fine. Quella sera sembrava strana. Aveva la testa appoggiata allo stipite della mia porta e guardava in basso.
“Posso entrare?” chiese con incertezza.
“Cos'è successo?” sentii odore di liquore. “Sei...ubriaca?”
Lei rise piano. “Così sembra.”
“Perché diavolo ti sei ubriacata?”
“Perché un tipo ci ha provato con me stasera.”
Sentii un fuoco divamparmi nell'addome e capii di essere gelosa.
“Io l'ho respinto, ma lui non mollava, così una delle mie guardie del corpo lo ha allontanato e quel tipo ha pensato bene di colpirlo in faccia con un pugno. Così io mi sono alzata e ho dato un pugno in faccia a lui. Ed il suo amico ha dato un pugno in faccia a me. A quel punto le mie guardie del corpo li hanno atterrati e fatti arrestare e bla, bla, bla.”
Io pensai di essermi persa qualcosa.
“Tu hai dato un pugno ad un tipo perché ha picchiato la tua guardia del corpo?”
Lei rise di nuovo piano e annuì.
“Anche i ragazzi della scorta hanno avuto questa reazione e mi hanno offerto un sacco di drink. E io continuavo ad accettarli, perché non volevo ammettere il motivo per cui lo avevo fatto.”
“E perché lo hai fatto?” chiesi, leggermente preoccupata.
“Perché è questa, giusto? Questa è la persona di cui sei innamorata. La persona che difende qualcuno anche se è questo qualcuno che dovrebbe difendere lei. Ho pensato che forse tu non sei innamorata della cantante con le guardie del corpo, ma della donna che difende le sue guardie del corpo. E così l'ho colpito, perché voglio che tu continui ad essere innamorata di me.”
La sua fronte era ancora appoggiata sull'angolo dello stipite della mia porta.
Aveva balbettato molto e continuava a mangiarsi alcune lettere. Aveva bevuto davvero tanto.
Voltò la testa di lato per riuscire a guardarmi negli occhi.
“Oh mio Dio” sussurrai prendendole il viso tra le mani.
“Domani il mio occhio nero sarà su tutti i giornali. Ma tu puoi godertelo in anteprima.”
“Entra, dobbiamo metterci del ghiaccio.”
“Stavolta credevo davvero che fosse la volta buona che mi sbattevi la porta in faccia.”
La feci sedere sul divano e andai in cucina a preparare una borsa con del ghiaccio senza degnarla di una risposta.
“Allora...avevo ragione? Sono io o è la cantante più famosa del pianeta? Di quale delle due sei innamorata?”
Io sospirai, facendo scivolare alcuni cubetti di ghiaccio dentro la borsa.
“Perché non me lo dici tu? Io sono innamorata della donna che mi porta i fiori una sera ogni tanto, quando non mi aspetto che lo faccia. Sono innamorata della donna che mi lascia delle piccole note sul cuscino prima di uscire, perché sa che così non starò tutto il giorno a chiedermi se la rivedrò mai più. Sono innamorata della donna che mi tiene per mano quando facciamo cena insieme e che mi abbraccia quando guardiamo un film.”
Ebbene sì. Da un po' di tempo il sesso aveva smesso di essere la sola ed unica cosa che facevamo insieme. Anche se era ancora qualcosa che facevamo molto spesso. Lei aveva iniziato a venire ogni sera un paio di minuti prima e adesso arrivava verso le sette.
Cenavamo insieme nel mio appartamento la maggior parte delle volte. Poi ci rannicchiavamo sul divano a guardare un film. Dopo parlavamo per ore.
“Amo la donna che parla con me come se mi conoscesse da una vita. Amo la donna che mi abbraccia dopo il sesso invece di voltarsi dall'altra parte e fare finta che io non esista.”
Anche quella era una cosa che lei faceva sempre e che ogni volta continuava a stupirmi.
Mi sedetti accanto a lei sul divano, premendo il ghiaccio sul suo occhio.
“Sono innamorata della donna che mi guarda negli occhi e fa completamente sparire il resto del mondo nel nulla. E amo anche la donna che si fa dare pugni in faccia per fare da guardia del corpo alla propria guardia del corpo, anche se preferirei che evitassi di fare a botte.”
Lei continuò a guardarmi con l'unico occhio che riusciva a tenere aperto.
“E mi piace il fatto che tu sia una cantante, amo la tua voce, non c'è nessuno al mondo che non la ami. Ma non amo la fama o i soldi, amo le tue canzoni, amo ascoltare le emozioni che provi e sentirle mie.”
“Non sono le mie emozioni. Tutta quella roba, non sono io. Sono solo...canzoni su come l'amore dovrebbe essere o su come uno si dovrebbe sentire se la sua anima gemella lo molla. Ma non sono cose successe a me.”
Io corrugai la fronte. “Mi stai dicendo che non sei tu a scrivere le tue canzoni?”
“No, certo che sono io a scriverle. Sono solo...molto empatica. Scrivo di cose che conosco solo attraverso gli altri. Spesso le sento davvero mie, ma non sono dedicate a persone realmente esistenti. Sono solo canzoni su come ho sempre pensato che un giorno mi sarei sentita se mai mi fossi innamorata.”
Fu allora che capii che hanno ragione. C'è sempre molto di più sotto la superficie di quello che si vede da fuori.
“Non sei mai stata innamorata?”
“Non sono mai stata innamorata prima.”
“Prima di cosa?”
“Prima di te.”

Le chiamate preoccupate di Teddy e mia madre continuarono.
Noi due però non ne parlammo mai.
“Sei la tentazione fatta persona” le confidai una sera.
“Davvero?” chiese sorridendomi. “Allora tu cosa sei? Te ne stai lì, completamente nuda a guardarmi. Questo a casa mia si chiama tentare qualcuno” mi baciò.
“D'accordo. Se ti fa sentire meglio possiamo concordare che sei la tentazione fatta persona e allo stesso tempo molto facile da tentare.”
“Esattamente quello che io penso di te.”

Erano circa tre mesi che quella cosa andava avanti, quando una mattina fui svegliata dalla porta che si apriva.
La sentii muoversi dietro di me e gli occhi mi si spalancarono di loro spontanea volontà.
“Arizona, sono tre mesi che non fai altro che studiare e non esci più di casa, adesso è ora che tu...oh Santo Dio!”
Teddy sapeva che ero lesbica. Beh, tutti sapevano che ero lesbica, perché tutti sapevano che ero innamorata di Callie Torres.
Ma nessuno sapeva che ero innamorata di Calliope.
Mi tirai a sedere, facendo attenzione a tenermi il lenzuolo stretto addosso.
“Teddy, che diavolo ci fai tu qui? E quella chiave è per le emergenze, perché tu e mia madre sembrate non riuscire a capirlo?”
Callie si era stirata, svegliandosi. Quando si era accorta di Teddy si era messa a sedere.
“Questa è un'emergenza. Sono tre mesi che non...sto avendo un'allucinazione o quella stesa lì con te è Callie Torres?”
Lei arrossì. Cavolo, era la cosa più carina che avessi mai visto.
“Hai intenzione di rimanere lì con la bocca spalancata oppure...”
“No. Certo che no. Aspetterò in soggiorno.”
Si richiuse la porta alle spalle.
“Mi dispiace così tanto. Ma Teddy non è una persona che parla dei fatti degli altri. Vedrai che non dirà niente...io...sono mortificata. Mi dispiace, mi...”
Lei mi prese il viso tra le mani, mi guardò negli occhi e mi baciò.
“Non è che non ho detto niente perché non voglio. Non ho detto niente perché la tua vita sarebbe un inferno. Fotografi davanti casa tua, alla facoltà di medicina, a casa dei tuoi genitori, di Teddy, ovunque. Pensavo che non fosse quello che vuoi.”
“Non lo vorrei, infatti.”
“D'accordo. Allora che ne dici se iniziamo un passo alla volta? Puoi presentarmi a Teddy, intanto, visto che lei è qui. Come ti sembra questo?”
“Mi sembra perfetto.”
Riuscii a non scoppiare a piangere. A malapena.
Le presentai Teddy. Lei ebbe quasi un infarto. Quando le raccontammo tutta la storia mi accusò di essere una traditrice, per non averle presentato Callie. Anche lei era una sua grande fan.
Poi frugò in uno dei miei scaffali, tirandone fuori le mie otto copie degli otto cd che Calliope aveva registrato. Le spiegò che quelle erano solo le mie copie da collezione, quelle intoccate, mentre ne avevo altre sparse per tutta casa, in macchina, nel mio armadietto all'università. Insomma, la sua musica mi accompagnava ovunque, ero stata io a contagiarla secondo lei. Non ero mai stata tanto imbarazzata in vita mia.
Però avere Teddy dalla nostra parte fu utile. Mi coprì più volte con mia madre ed era molto abile ad inventare scuse. E anche lei, come me, rimaneva sempre incantata da quanto meravigliosa Callie riuscisse ad essere nonostante i suoi mille impegni.
“Domani ho una conferenza stampa” mi disse una sera. “Parlerò del mio orientamento sessuale, quindi potrei non avere più un lavoro dopodomani.”
Lo fece.
Disse al mondo con coraggio ciò che voleva, anche se io avevo cercato di dissuaderla, ed il giorno dopo aveva ancora un lavoro.

Andò un mese in tour. E allora le cose furono difficili. Ma chiamava sempre, come minimo due volte al giorno.
E appena ne ebbe la possibilità tornò a casa.
Si presentò sulla mia porta con una piccola valigia in mano e capii che non era nemmeno passata da casa sua, prima. La feci entrare.
La valigia finì sopra il mio armadio ed il suo contenuto nei miei cassetti. Fu una cosa graduale, ma alcuni dei suoi vestiti rimasero lì a tempo indefinito.

Sei mesi e tutto sembrava perfetto. Mio fratello era tornato vivo dalla guerra, così andammo a bere una birra insieme per festeggiare. Nel locale c'erano dei fotografi camuffati, che vennero costretti a uscire da degli uomini in giacca e cravatta. Uno di loro lo riconobbi. Era Joe. Ogni tanto veniva a prendere Callie, e gli avevo parlato qualche volta. Mi sorrise e mi salutò, io ricambiai con un cenno della testa e qualche parola.
Tim non ci fece caso. Poi vide Callie Torres seduta ad uno dei tavoli.
“Non ci crederai, ma in questo bar c'è il tuo idolo” me la indicò con un cenno della testa.
Io la vedi ridere insieme ad un uomo. Di nuovo, sentii un fuoco divamparmi nello stomaco.
Non sapevo se avrei dovuto parlare di lei almeno a Tim. Sapevo che avrei voluto.
“Sai, io le ho tipo...parlato...” mi guardò in procinto di scoppiare a ridere “...una volta” aggiunsi cercando di suonare più plausibile.
A quel punto scoppiò a ridere sul serio. Io lo colpii. Lui mi prese per un braccio e mi costrinse ad andare verso il suo tavolo.
Cercai di scappare, ma lui, fisicamente, era molto più forte di me.
“E dai Tim, perché devi mettermi in imbarazzo?”
“Perché è la cosa più divertente del mondo” mi sussurrò. “Salve, signorina Torres” la salutò educatamente.
Io rimasi voltata di spalle rispetto al tavolo, cercando di scappare.
“Mia sorella, qui, sostiene di averle parlato una volta. Così mi chiedevo se per caso non si ricordasse di lei.”
Ero sicura che Callie mi avesse già riconosciuto.
“Ti odio” sussurrai a Tim. Ero sicura che anche lei avesse sentito. Guardai verso di lei dagli spiragli tra le dita con cui mi ero coperta la faccia.
Lei aveva quel suo sorrisetto furbo che mi avvertiva sempre quando stava per fare qualcosa di cui avrei dovuto seriamente preoccuparmi.
“Arizona” mi salutò alzandosi e sorridendo in un modo che mi fece quasi tremare. Appoggiò una mano sulla mia schiena, baciandomi sulla guancia. “Credevo avessi deciso di rimanere a casa stasera, con tuo fratello.”
Io ero così rossa come non lo ero mai stata.
“Mark, lei è Arizona Robbins. Arizona, lui è Mark, il mio migliore amico. Ti ho parlato di lui” per un attimo sembrò volersi giustificare, farmi capire che non mi aveva mentito.
“Oh, così lei sarebbe la donna di cui non smetti mai di parlare. È un piacere conoscere l'oggetto delle ossessioni di Callie.”
Correzione. Adesso ero così rossa come non lo ero mai stata.
“Callie Torres” si presentò, tendendo una mano a Tim.
Lui la afferrò più per inerzia che altro. Era stupefatto.
“Tim Robbins.”
“Arizona mi ha detto che sei tornato qualche giorno fa dall'Iraq.”
Lui annuì.
“In realtà, stavamo festeggiando il fatto che ha deciso che non ci tornerà mai più” le feci sapere, finalmente ricordandomi perché solo qualche minuto prima ero così felice.
“Meraviglioso. Arizona è sempre molto preoccupata per te, sai? A volte è sovrappensiero e guarda lontano, come se riuscisse a vederti anche dall'altra parte del mondo. E quello che vede non sembra piacerle. Quindi credo che rimanere qui, al sicuro, sia la scelta giusta.”
Non credevo se ne fosse accorta. Non credevo che mi conoscesse così bene. Ma mi conosceva abbastanza bene, stando a quanto potevo vedere.
“Perché non vi sedete con noi?” ci propose.
Alla fine della serata si offrì di riaccompagnarmi a casa. Io accettai, salutando Tim. Dopo qualche chilometro le dissi che stava sbagliando strada. Lei mi rispose che stava sicuramente andando dalla parte giusta.
Casa di Callie era molto più grande della mia. Sembrò strano essere con lei da qualche parte che non fossero le quattro mura del mio appartamento. Ma anche casa sua andava bene.
La mattina successiva mi dette la copia della chiave che aveva fatto fare per me.
Tim mi chiese se ero stata io la ragazza di cui tutti parlavano che aveva fatto diventare gay Callie Torres. Tentai di spiegargli che una persona non può diventare gay. Alla fine gli feci solo promettere di tenere la bocca chiusa a riguardo. Lui lo fece.
Quella sera aprii la porta canticchiando una delle canzoni di Callie.
Lei sorrise sentendomelo fare. Poi mi porse una rosa. Mi disse che era felice che continuassi ad evitare di sbatterle la porta in faccia, anche se sapeva molto bene che non l'avrei mai fatto.

Tim si presentò a casa mia una sera, aveva leggermente bevuto. Callie lo riconobbe dallo spioncino ed aprì. Lui entrò, salutandola educatamente, non aspettandosi di trovarla lì. Callie si scusò, dicendo che doveva andare in bagno e ci lasciò da soli.
A quel punto ci furono urla. E poi la discussione prese una brutta piega.
“Come credi che finirà, Arizona? Credi ci sia un modo, solo uno, in cui potrebbe finire bene?”
“Non sono stupida, Tim. So che lei se ne andrà un giorno, ma non è che chiunque altro non se ne andrebbe prima o poi. Le persone si lasciano in continuazione.”
“Ma lei è Callie Torres, Arizona. Sa che sei stata innamorata di lei per sei anni prima che vi conosceste? Lei hai mai almeno detto che non eri mai stata a letto con nessuno prima? Ha una vaga idea di quanto sia importante per te?”
In quel momento odiai che mio fratello mi conoscesse così bene.
“Ti spezzerà il cuore, Arizona.”
“Lo so questo! Ma non è che se la lascio andare adesso non avrò il cuore spezzato, ok? Quindi la lascerò rimanere finché vorrà rimanere.”
Era incredulo. Se ne andò senza aggiungere altro.
Mi voltai e Callie mi guardò dalla porta della camera da letto. Capii dalla sua espressione che ci aveva sentiti.
Mi guardò e per un attimo fui terrorizzata da quale degli argomenti sollevati da Tim avrebbe deciso di usare per iniziare una discussione.
“Davvero credi che me ne andrò?” chiese.
“Credo che lo farai” risposi sinceramente.
“Mh” si voltò, sparendo dentro la mia camera.
Non ci fu alcuna discussione.

Il giorno dopo entrò in casa mia usando la sua copia della chiave.
“Ho cercato di trovare una soluzione per fare in modo che tu mi creda quando dico che non me ne andrò tanto presto, ma per quanto continui a pensare e ripensare, ce n'è solo una che mi viene in mente.”
Io rimasi ferma in piedi, a guardarla dal centro del mio soggiorno, mentre lei appoggiava uno dei suoi ginocchi al pavimento.
“Vuoi sposarmi?”
Io continuai a fissarla come se mi avesse chiesto di prendere un caffè e stessi pensando se ne avevo tempo o meno.
“Dico sul serio. Tu, tu sei l'unica persona al mondo che ama me per essere...me. Avevi ragione, mesi fa, quando hai detto che io ti guardo e faccio sparire il resto del mondo. Per me non esiste nient'altro al mondo eccetto te. Io...io amo quando ti arrabbi per una sciocchezza ed io faccio di tutto perché tu mi perdoni anche se so che comunque in due ore mi avresti perdonata lo stesso. Ma amo anche quando ti arrabbi per qualcosa di serio e allora devo lasciarti stare, perché te la prenderesti con me anche se non è colpa mia e poi passeresti ore a scusarti. Amo la tua espressione quando ti faccio una piccola sorpresa e sembra che ci siano i fuochi d'artificio nei tuoi occhi. Amo il tuo sorriso, non mi stanco mai di vederlo. Amo il modo in cui dici il mio nome. Amo il fatto che tu tenga così tanto alla tua famiglia. Amo guardarti leggere o studiare e quando invece ti lasci abbracciare. Amo la tua testardaggine, anche quando mi dà sui nervi. Io...io amo tutto di te. Quindi, sposami.”

Le cose cambiarono da quel giorno.
Non riusciva ad accettare il fatto che le avessi detto di no.
Così continuò a chiedermelo.
Una sera riprovò con un anello.
Una notte continuò a chiedermelo ancora e ancora mentre stavamo facendo sesso.
Una mattina trovai un biglietto nel mio armadietto.
Mi portò al nostro primo appuntamento in pubblico e me lo chiese di nuovo, sussurrandomelo all'orecchio mentre guardavamo le stelle dalla terrazza del mio ristorante preferito.
Continuai a dire di no.
“Te lo sto chiedendo gentilmente, per la milionesima volta. E tu continui a dire di no. Posso almeno sapere perché no?”
“Perché un giorno potresti pentirtene. Potresti renderti conto che hai sbagliato e allora io dovrei convivere con l'aver rovinato la tua vita.”
“Anche tu potresti pentirtene, un giorno. Quando capirai che io sono l'amore della tua vita. E allora dovrai convivere con l'aver rovinato la vita di entrambe. E comunque sappi che non ho intenzione di smettere.”
Una sera mi portò a sentirla cantare. Era il suo ultimo concerto prima di una pausa dal palcoscenico a tempo indefinito.
Aveva detto che sarebbe bastata una mia parola e avrebbe mollato tutto, per sempre.
Aveva detto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per rendermi felice.
Pensai che fosse davvero impazzita. Ma non presi mai in considerazione che potesse essere davvero innamorata di me.
Prima di salire sul palco mi disse che, esattamente un anno prima, io l'avevo baciata dentro il camerino del negozio di un centro commerciale.
Mi fece mettere dietro le quinte, in modo che potessi vederla mentre si esibiva.
Fu la cosa più bella che avessi mai visto. Vederla cantare e sapere che dopo sarebbe rimasta con me, fu qualcosa che mi lasciò senza fiato.
Alla fine del concerto annunciò al pubblico che voleva cantare una canzone che aveva scritto molto recentemente.
Disse che era per qualcuno di speciale. Ma era quello che diceva ogni volta, eppure mi aveva confidato che le altre canzoni erano scritte solo grazie alla sua empatia. Che non aveva mai amato davvero.
Non prima di me.

She's sun and rain, she's fire and ice
A little crazy but it's nice
And when she gets mad, you best leave her alone.
'Cause she'll rage just like a river
Then she'll beg you to forgive her
Oh, she's every woman that I've ever known.


Ok, sì. La donna della canzone poteva assomigliarmi.
Ma ero abbastanza sicura di non essere io.
Anche se era la prima canzone in assoluto in cui Calliope parlava esplicitamente di una donna.

She's so New York, and then L.A.
And every town along the way
And she's every place that I've never been.
She's makin love on rainy nights
She's a stroll through Christmas lights
And she's everything I want to do again.

Ricordai la notte in cui mi aveva paragonato a New York e poi a Los Angeles.
E in quel momento capii cosa intendesse quando mi aveva detto che io non mi accorgevo di alcune cose.
Ero stata così occupata ad aspettare il momento in cui Callie mi avrebbe lasciato che non ero riuscita a capire fino infondo cosa io significassi davvero per lei.
Avevo fatto lo stesso errore di tutti gli altri. Avevo visto la cantante prima e non la donna, lasciando che si nascondesse, che nascondesse i suoi sentimenti dietro il suo atteggiamento così sicuro di se stessa.

And it needs no explanation
'Cause it all makes perfect sense
When it comes down to temptation
She's on both sides of the fence.

Avevo le lacrime agli occhi.
Sì, lo so, è stupido piangere per una canzone.
Ma quella canzone parlava di noi. E lei la stava cantando davanti a tutto il mondo.
Teddy era tra il pubblico.
Mio fratello e i miei genitori la stavano guardando in tv.
Ed io stavo piangendo da dietro le quinte.

No, it needs no explanation
'Cause it all makes perfect sense
When it comes down to temptation
She's on both sides of the fence.

Ero innamorata di lei.
Come avrei potuto non esserlo?
E chi mai avrebbe potuto biasimarmi per esserlo?

She's anything, but typical
She's so unpredictable
Oh but even at her worst she ain't that bad.
She's as real as real can be
And she's every fantasy
Lord she's every lover that I've ever had
And she's every lover that I've never had.

C'era un velo di tristezza nella sua voce alla fine.
Io ero l'unica dei suoi amanti che era davvero stata sua. Ero l'unica che l'aveva amata ed ero l'unica che lei aveva amato. Eppure, allo stesso tempo, ero l'unica che non avrebbe mai avuto davvero fino in fondo.
Ci fu silenzio per qualche istante.
Poi ci fu un boato.
Quando la folla si fu calmata Calliope, con le lacrime agli occhi, si avvicinò di nuovo al microfono che aveva davanti.
“Arizona Robbins, vuoi, per favore, per favore, per favore, sposarmi?”
“Ok, Calliope. Ti sposo” sussurrai, anche se sapevo che lei non era in grado di sentirmi.


*La canzone in corsivo alla fine è "She's Every Woman" di Garth Brooks.

Lo so. Troppo, davvero troppo sdolcinata. D'altra parte, di loro riesco a parlare sempre soltanto in questo modo...
Fatemi sapere che ne pensate, ci sentiamo presto con il prossimo aggiornamento!

Mi fate avere un suggerimento sul numero di shot che secondo voi dovrei mettere nella raccolta? Grazie! (Solo per curiosità, voglio sapere che ne pensate...)

A presto!



Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Il nostro primo riparo dalla tempesta ***


Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e aggiunto la storia tra le seguite, o anche chi ha semplicemente letto.
Ecco qua la quinta parte di questa raccolta.

Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo riparo dalla tempesta


Arrivai all'albergo in ritardo.
Non era stata colpa mia, però. Era stata una delle giornate più sfortunate che mi erano mai capitate in vita mia.
L'aereo da Seattle era in ritardo di circa due ore, quindi avevo perso la coincidenza a Washington e avevo dovuto aspettare cinque ore all'aeroporto per prendere il volo successivo per New York, dove ovviamente avevo impiegato due ore per trovare un taxi.
Arrivata finalmente all'albergo, avevo scoperto che c'era stato un problema, in quanto un impiegato assunto da poco aveva fatto un casino con le prenotazioni, e quasi tutte le stanza riservate ai medici della conferenza erano state assegnate ad un gruppo di commercianti giapponesi venuti per un convegno su non so quale materiale da usare per i capi d'abbigliamento all'ultima moda.
L'impiegato era stato licenziato.
Molti dei medici avevano preso un'altra stanza, con le scuse del direttore.
“Capisco che c'è stato un problema, ma io ho davvero bisogno di avere una stanza.”
Lui annuì. “Capisco signora.”
Io gli rivolsi il mio miglior sorriso. “Sono sicura che possiamo trovare una soluzione” lessi il nome sul suo cartellino “Luc.”
“Vediamo” si affrettò a cercare sul computer che aveva davanti.”Ci sarebbe una camera rimasta, in realtà” il sorriso aveva ancora una volta funzionato. “L'unica stanza rimasta è al sesto piano, una doppia. Due letti singoli, vista sul lato est dell'edificio.”
“La prendo” dissi immediatamente.
Mi voltai verso destra, per guardare negli occhi la donna che aveva pronunciato la stessa frase contemporaneamente.
Anche i due ragazzi che ci stavano aiutando si scambiarono un'occhiata di puro panico.
“La prego, mi dica che non ha appena accettato una doppia con letti singoli al sesto piano” sussurrai.
“Temo di averlo appena fatto.”
“Temo di averlo appena fatto anche io” le feci notare. “E, vede, io ho davvero bisogno di questa camera, perché devo partecipare ad una conferenza in questo albergo che inizia domattina ad un'ora indecente.”
“Davvero? Aspetti, intende la conferenza sulla cartilagine, non sta andando a quella sui vestiti all'ultima moda, giusto?”
“Quella sulla ricostruzione della cartilagine ossea” confermai.
“Anche io” mi rispose con stupore. “Mi lasci indovinare, l'aereo da Seattle le ha fatto perdere la coincidenza a Washington per venire qui a New York?”
Sfoderai la mia miglior espressione empatica.
“Era sul mio stesso volo, vedo.”
“E le lascerei la camera in una qualsiasi altra occasione, ma il chirurgo che tiene questa conferenza è una leggenda. Non posso perdermi l'occasione di fare la sua conoscenza, anche se questo significa che dovrò essere qui un'ora prima che la conferenza inizi.”
“Anche lei è un chirurgo?”
Mi tese la mano e mi sorrise.
“Arizona Robbins, chirurgia pediatrica.”
Le sue fossette le davano un'aria da bambina, così come i suoi enormi occhi azzurri.
Presi la sua mano.
“Callie Torres, chirurgo ortopedico. E presumo che io sarei la leggenda che ha creato la cartilagine dal niente.”
Lei spalancò gli occhi.
“Oh mio Dio, lei è Calliope Torres? Sono così felice di conoscerla, è completamente diversa da come mi ero immaginata.”
“Si aspettava un'anziana donna sull'ottantina e l'aria da nerd, scommetto.”
“Più o meno” mi confessò.
“Beh, sul nerd ci aveva preso. Lo sono sempre stata e, infondo al cuore, lo sarò per sempre.”
Rise, mostrandomi di nuovo le sue fossette.
“Credo che a questo punto io non abbia altra scelta che lasciarle avere la stanza, visto che siamo qui per parlare delle sue scoperte.”
“A dire il vero, io e Luc, poco fa, stavamo giusto discutendo del fatto che questa stanza ha due letti singoli” estrassi la mia carta di credito, porgendola al ragazzo della reception con cui stavo parlando. “Se è possibile vorrei la stanza fino alla fine della conferenza, per favore, e se non è un problema fai in modo che qualcuno porti la mia valigia e quella della dottoressa Robbins nella stanza al sesto piano.”
Lui annuì, digitando qualcosa sul computer. Poi prese due chiavi elettroniche e me le porse.
“Se volete potete accomodarvi nella vostra camera, chiamo immediatamente qualcuno per le valigie.”
Fece un cenno ad un uomo che si avvicinò.
“Camera 602” gli fece sapere, sorridendoci poi con garbo.
Mi restituì i documenti che avevo usato per il check in e l'altro ragazzo fece la stessa cosa con la donna al mio fianco.
Entrammo in ascensore insieme al ragazzo che stava portando i nostri due trolley.
“Anche lei viene da Seattle, mi è sembrato di capire” disse appena le porte si chiusero.
“Seattle Grace” risposi.
“Mercy West.”
“Davvero? Sembra molto più il tipo da Seattle Grace, sa?”
“A dire la verità, ho ricevuto un offerta all'inizio del mese per prendere il posto del capo di chirurgia pediatrica. Ho sentito che andrà in pensione.”
“Così si dice, in effetti. Ha già preso una decisione?”
Lei mi sorrise. “C'è una decisione da prendere? Il Seattle Grace è il secondo ospedale universitario degli Stati Uniti.”
Ricambiai il sorriso.
“Se era davvero disposta a svegliarsi un'ora in anticipo per conoscere me, credo che potrebbe svenire davanti a Derek.”
“Derek, nel senso di Derek Shepherd? Chiama per nome il miglior neurochirurgo del Paese? Continua a stupirmi, dottoressa Torres.”
“Se verrà a lavorare da noi prometto di presentarglielo. Anche se devo dire che conosco molto meglio Mark Sloan. Avrà sentito nominare anche lui.”
“Chirurgo plastico. Ne ho sentito parlare, effettivamente. Ma non tutte erano cose che riguardavano i suoi metodi chirurgici. Altre erano più riguardo i suoi metodi...in generale.”
“La fama di Mark lo precede sempre. Ma non intendevo questo quando ho detto che lo conosco bene. In realtà, lui è il mio migliore amico.”
Le porte dell'ascensore si aprirono.
“Adesso mi dirà che conosce anche Miranda Bailey, Addison Montgomery e Owen Hunt.”
Ci fermammo davanti alla stanza ed io aprii la porta per lei.
“Owen è il fidanzato della mia coinquilina. Lo vedo ogni tanto, più che altro di mattina molto presto, ad orari in cui non vorrei vederlo. Addison e la Bailey...la sto sicuramente annoiando parlandole dei miei colleghi. Perché non mi racconta dei suoi, invece?”
Il ragazzo lasciò le valigie, io gli detti qualche dollaro di mancia e richiusi la porta alle sue spalle.
“Un mucchio di palloni gonfiati. Credo siano molto più interessanti i chirurghi del Seattle Grace, in tutta onestà. Mi dica, ha conosciuto anche Erica Hahn?”
“Oh, non parli di lei con me. Non lo faccia mai” le consigliai immediatamente.
“Non era la persona più gentile del mondo, quindi?”
“Questo dovrebbe essere l'eufemismo dell'anno, se non sbaglio.”
“Fino a questo punto? Vi conoscevate molto bene, quindi?”
“Sì, ci conoscevamo molto bene” risposi, cercando di non far trasparire tutto il mio sarcasmo. “O almeno, credevo di conoscerla bene, ma, con il senno di poi? Non così tanto, forse.”
“Ho sentito delle strane storie su di lei, al Mercy West. Dicono che se ne sia andata da Seattle a causa di una storia finita male con una sua collega. A quanto pare l'ha lasciata in un parcheggio ed è scomparsa nel nulla. Che razza di persona fa una cosa del genere? Insomma, è una storia assurda perfino da inventare, no?”
Si voltò verso di me. Io continuai a guardare il pavimento per qualche secondo, poi la guardai senza alzare il mento.
“Oh. Non era inventata.”
“Non era inventata” confermai. “Ma se ti può far sentire meglio, non è la cosa peggiore che mi sia successa nella vita.”
“A te? Nel senso che lei ha lasciato...te?” sembrava molto stupita del fatto che fossi io la donna di cui stavamo parlando.
Io annuii.
“Allora...” iniziai, cercando di cambiare argomento “...quale letto vuoi?”
Scelse quello più lontano dalla finestra.
Io non protestai.
Mi piaceva poter guardare il cielo quando non riuscivo a dormire.
Si cambiò in bagno. Poi mi cambiai io.
Mi stesi sul letto e tutto ciò che riuscii a fare fu fissare il soffitto.
Era tardi. Ero stanca. Il giorno dopo avrei dovuto svegliarmi molto presto.
Eppure, non riuscivo ad addormentarmi.
Ero sola, nel cuore della notte.
“Tutti pensano che io sia stata chiamata così per via dello Stato, ma in realtà il mio nome viene da una nave da guerra. La U.S.S. Arizona. Mio nonno era in servizio sull'Arizona quando i Giapponesi bombardarono Pearl Harbor e salvò diciannove uomini prima di annegare. Mio padre non ha fatto altro per tutta la vita che cercare di onorare quel singolo sacrificio. Sono stata cresciuta per essere un brav'uomo nella tempesta, per amare il mio Paese, per amare la mia famiglia e per proteggere le cose che amo. Quando mio padre, Colonnello Daniel Robbins del corpo dei Marines, ha saputo che sua figlia era lesbica, ha detto di volermi fare una domanda. Io ero pronta per 'quanto ci metti ad andartene fuori dalla mia casa?', ma invece mi chiese 'sei ancora la donna che ho cresciuto?'. Mio padre non è un uomo che si piega, ma si è piegato per me perché sono sua figlia. Io sono un brav'uomo nella tempesta.”
Non so se vide che la stavo guardando.
Ma sono sicura che lo sapeva.
Continuai a guardare il suo profilo senza dire niente.
“Anche tu sembri un brav'uomo che si ritrova per sbaglio in mezzo a una tempesta. E dovresti sapere che prima o poi la tempesta finisce, Calliope. Prima o poi il rumore cessa e il cielo si rischiara. Prima o poi il terreno si asciuga e inizia a fare più caldo. Sembri triste. E pensavo solo che dovessi sapere che prima o poi la tempesta finirà.”
Ci furono diversi momenti di silenzio.
“Sono stata in questa tempesta molto a lungo. Ormai sono abituata al rumore della pioggia e all'umidità. Ma non smette mai di stupirmi quanto la tempesta sia in grado di stancarmi.”
“Sei stanca?”
“Io sono...” cercai le parole. “...sono esausta.”
In quel momento capì cosa volevo dire.
La sentii sospirare.
“Sono esausta” ripetei in un sussurro.
Rimase in silenzio per qualche istante.
“C'è della vodka.”
“Come scusa?”
“C'è della vodka nel piccolo frigorifero della camera. Ho controllato prima mentre ti stavi cambiando. Cercavo dell'acqua, invece ciò che ho trovato è un'enorme bottiglia di vodka. Ora come ora è molto invitante. E a volte aiuta, se sei stanca.”
“Vodka” ripetei con un sussurro, alzandomi dal letto.
“Non stai chiamando la sicurezza, vero?” mi chiese, mettendosi a sedere.
“No.”
Aprii il frigo ed estrassi la bottiglia di vodka.
“Parlare in pubblico mi terrorizza.”
“E pensi che farlo dopo aver bevuto aiuterebbe?”
“Non lo so. Ma ho intenzione di provare questa tua nuova teoria.”
Presi uno dei piccoli bicchieri che erano nel frigo e mi versai uno shot, scolandomelo.
“Se questo riguarda il fatto che prima ho menzionato la tua ex...”
Buttai giù il secondo bicchierino, sedendomi sul letto. Ne porsi uno pieno anche a lei, mentre riempivo il mio terzo.
“No. Per la prima volta, questo non riguarda qualcuno dei miei ex ma solo me stessa.”
Avvicinammo i bicchieri.
Iniziavo a sentire il familiare calore che il liquore mi produceva nello stomaco. Ero ufficialmente non più così sobria.
“Dovremmo brindare alla mia vita squallida e all'aver fatto cartilagine dal niente. E a te. Dovremmo brindare al fatto che ho conosciuto te, che mi hai fatto aprire gli occhi su quanto faccia schifo la mia vita e sul fatto che in tutta la città si parli di come sono stata mollata. Anzi no, lasciamo perdere le stronzate e brindiamo a qualcosa di serio. Alla pizza, dovremmo brindare alla pizza.”
“Alla pizza” mi fece eco lei, buttando giù il bicchiere.
Del resto, tutto ciò che ricordo, sono degli spezzoni della serata.
Sono sicura che ci furono un sacco di risate.
E parlammo molto, di un sacco di cose, le prime che ci venivano in mente. Ricordo quasi tutto quello che mi disse, ma le immagini, quelle la mattina dopo se n'erano andate senza lasciare alcuna traccia del loro passaggio.
Mi svegliai molto prima di lei. La testa mi stava scoppiando. Mi infilai sotto la doccia e ne riemersi quasi mezz'ora dopo. Presi un'aspirina ed uscii dalla camera. Camminare mi aiutò a farmi passare i postumi, raggiunsi il bar davanti all'hotel e comprai quattro caffè. Non sapevo come lo prendeva Arizona, così presi i miei preferiti e li portai in camera.
Quando entrai lei stava uscendo dal bagno.
“Caffè” fu l'unica cosa che mormorò prima di lasciarsi cadere sdraiata sul mio letto.
“Abbiamo due caffè normali e due cappuccini” le indicai i vari bicchieri.
Lei prese uno dei cappuccini. “È ancora caldo” osservò con soddisfazione.
Io le sorrisi. “Anche io preferisco il cappuccino.”
Finì il caffè che le avevo portato e poi andò in bagno per vestirsi. Quando tornò mi ero bevuta gli altri tre caffè.
“Ti renderanno agitata.”
“No, mi renderanno calma. Non bere caffè mi renderebbe agitata. Non ricordo se lo avevo già detto, ma parlare in pubblico mi rende nervosa. Non è proprio la mia cosa preferita.”
La conferenza andò bene. Riuscii a non vomitare, nonostante i postumi, e a non fare la mia famosa danza della pipì, nonostante le tre tazze di caffè che avevo bevuto quella mattina.
Andò bene. Molto bene. Un sacco di miei colleghi vennero a complimentarsi con me quando finii di parlare.
E ci fu anche una sorpresa.
“Che ci fai qui?” chiesi con un sorriso enorme, abbracciando Addison.
“Sono venuta a vedere come te la cavavi nella mia vecchia città. Il discorso è stato fantastico, non ti sei bloccata neanche una volta. Siamo molto fieri di te.”
“Siete?” chiesi confusa. Poi lo vidi. “Mark!”
Mi avvolse in uno dei suoi abbracci stritola-persone.
Quando mi allontanai vidi Arizona guardarmi dall'altra parte della stanza. Distolse lo sguardo e finse un sorriso con l'uomo a cui stava parlando.
“Rimanete per il resto della conferenza?” chiesi ad Addison.
“No. Stiamo andando via subito, a dire la verità. Abbiamo il volo di ritorno tra due ore, quindi dobbiamo sbrigarci. Tanto ci vediamo a casa, giusto? Sei qui solo per altri tre giorni.”
“Giusto.”
Sorrisi, fingendo di non avere la testa da un'altra parte.
Salutati i miei amici tornai in camera. Lei era già lì, stava facendo zapping.
“Giornata lunga?” chiesi, appoggiando la borsa sopra una sedia e gettandomi sul mio letto, che era solo ad un paio di metri dal suo, disposto parallelamente.
“Giornata intensa. Ho imparato un sacco di cose. E dicono che ci sono un sacco di cose da vedere a New York, ma...”
“Non se hai i postumi.”
“Appunto.”
“Possiamo fare un giro insieme domani, se ne hai voglia. Ma non stasera. Stasera dormirò per almeno quindici ore.”
Abbracciai il cuscino, sistemandomi a pancia in sotto e chiudendo gli occhi.
“Stessa cosa” rispose senza distogliere gli occhi dallo schermo. “Ho sempre voluto vedere Time Square.”
“Possiamo andarci. E poi potremmo andare a Central Park.”
Rimase in silenzio per diversi minuti.
“Stai già dormendo?” chiese dopo un po'.
“Non ancora” risposi, chiaramente mezza addormentata.
“Mi dispiace aver detto qualcosa che ti ha spinto a volerti scolare mezza bottiglia di vodka.”
“Mi dispiace averti trascinato nel baratro insieme a me” risposi sempre impastando un po'. “Ma non ti conosco abbastanza bene da spiegarti perché l'ho fatto.”
“Oh, ma me lo hai già spiegato. Ieri sera, non ti ricordi?”
Io alzai di qualche centimetro la testa dal cuscino e assunsi un'espressione confusa.
“Davvero?”
“Sì. E ad un certo punto, se non avessi saputo di essermelo immaginato, avrei giurato che ci stessi provando con me.”
Io feci cadere di nuovo la testa sopra il mio cuscino.
“Probabilmente ci stavo provando davvero. Tendo a farlo quando bevo troppo.”
La sentii ridere piano, ma non replicò. Qualche istante dopo stavo dormendo.
Andammo a Time Square il giorno successivo, dopo la fine del secondo giorno del convegno. E poi andammo a Central Park.
Era molto tempo che non mi divertivo tanto quanto in quei due giorni.
Cenammo in un ristorante. Lei pagò la cena giustificandosi con il fatto che io avevo pagato l'albergo.
Quella sera le parlai di Addison e Mark, il tizio che mi aveva visto abbracciare. Un lampo di comprensione passò nei suoi occhi.
“Quindi Addison Montgomery, il chirurgo neonatale migliore degli Stati Uniti, è venuta qui da Seattle per sentirti tenere un discorso? Smetterò mai di sorprendermi?”
Io le sorrisi. Sembrava qualcosa che facevo spesso, intorno a lei.
I tre giorni passarono. Forse troppo in fretta. Ma neanche un attimo del tempo che riuscii a passare insieme a lei andò sprecato. Avevo imparato così tanto, di lei. E c'era ancora molto che avrei voluto sapere. Ed era tanto anche quello che lei aveva imparato di me.
Eppure, per entrambe, tanto non era ancora abbastanza.
Prenotammo posti dell'aereo vicini. Non dormimmo neanche un minuto durante il volo, ma ci raccontammo altre cose, cose inutili, cose importanti, fatti di una vita fa e cose molto più recenti. Mi parlò di suo fratello durante quel volo. Era morto sul campo perché non c'erano abbastanza medici.
Alla fine arrivammo all'aeroporto.
“Se sceglierai di cambiare ospedale, di venire a lavorare al Seattle Grace...”
“...ci vedremo a lavoro” terminò lei al posto mio.
Io annuii. “Altrimenti ci vedremo in giro, suppongo.”
“Oppure non ci rivedremo mai più” mi fece notare lei.
“E continueremo a vivere le nostre vite proprio come abbiamo fatto fino a questo momento, e ce la caveremo lo stesso.”
“Ce la caveremo” annuì più volte lentamente.
Non riuscii a capire se stava tentando di convincere me oppure se stessa.
“Addio, Arizona.”
“Ciao Calliope.”
Non le chiesi il suo numero. E lei non chiese il mio. Pensai che fosse perché semplicemente non era interessata. O perché sapeva che mi avrebbe rivisto presto.
Ma non la rividi presto.
Continuai ogni giorno ad andare a lavoro e continuai ogni giorno a cavarmela a meraviglia anche senza di lei.
Però mi mancava.
Mi mancava addormentarmi con lei ad un paio di metri, mi mancava sentire la sua voce appena sveglia, mi mancava sorseggiare il caffè con lei accanto.
Ma riuscii a cavarmela.
“Dottoressa Torres” sentii la voce del capo chiamarmi. Non alzai neanche lo sguardo dalla cartella che stavo compilando. “Sono appena stato chiamato per un codice rosso, ti dispiace finire di mostrare al nostro nuovo strutturato l'ospedale?”
“Capo, ho cinque interventi oggi. Non può farlo fare ad una delle matricole? Insomma, la consideri una punizione per tutta quella storia del provare ad operarsi a vicenda” alzai finalmente lo sguardo e smisi di parlare. “Lasci stare, capo. Ci penso io.”
Lui annuì, andandosene senza staccare gli occhi dal suo cerca persone. Io rimisi la penna apposto dentro il taschino del mio camice.
“Dottoressa Torres.”
“Dottoressa Robbins. Vedo che ha accettato il posto.”
“Avevo dei motivi personali per preferire il Seattle Grace al Mercy West, dopotutto.”
“Le ci è voluto un po' per scegliere.”
“No, avevo già scelto. Ho solo dovuto aspettare la scadenza del mio contratto.”
“Callie, ti ho trovato” mi disse Mark, ignorando Arizona. “Webber dice di aver assunto una nuova a pediatria. Se ti capita di vederla dille che vorrei scambiare due parole con lei, Derek dice che è super sexy.”
“Parlavate della nuova di pediatria?” chiese Addison arrivando. “Scommetto che Mark la sedurrà in meno di tre giorni.”
Da sopra le loro spalle vidi l'espressione scettica di Arizona.
“Avete sentito che Webber ha assunto una nuova a pediatria?” chiese la Bailey. “Dicono che va in giro su dei pattini a rotelle.”
“Sono scarpe con le rotelle, non veri pattini” feci presente io con un sussurro.
Venni ignorata.
“Ho sentito che Mark sta cercando di farsi la nuova di pediatria.” osservò Teddy, unendosi al gruppo. “Ma è vero che indossa dei pattini a rotelle?”
“Smettetela tutti, ok? Mark, giuro che se ti avvicini a meno di cinque metri da lei, quello che ti ha fatto la piccola Grey ti sembrerà un dolce ricordo in confronto a quello che ti farò io. E per l'amor del cielo, sono scarpe con le rotelle, non veri pattini. Non ne avete mai visto un paio in vita vostra?”
Li aggirai e feci un cenno con la testa ad Arizona di seguirmi.
“Salve” li salutò lei, superandoli sulle sue scarpe con le rotelle.
Gli stavo rivolgendo le spalle, ma potevo quasi vedermi le loro bocche aperte.
“Derek, stavo cercando proprio te.”
“Callie, cosa posso fare per aiutarti?”
Da quando la Bailey mi aveva insegnato come intimorirlo Derek era sempre molto disponibile nei miei confronti.
“Hai già conosciuto Arizona Robbins? È il nuovo capo di chirurgia pediatrica. Mi stava giusto dicendo che avrebbe voluto conoscerti uno di questi giorni.”
Quella sera, quando i nostri turni furono finiti, la accompagnai fuori dall'ospedale.
“Immagino che ti vedrò domani.”
Lei non rispose.
Io mi voltai, ma lei mi prese una mano, bloccandomi e facendomi voltare di nuovo.
“Era quasi un mese che aspettavo di poterti rivedere. Questa cosa non può aspettare un minuto di più, figuriamoci fino a domani. Quindi ti sarei grata se rimanessi. Cercherò di non trattenerti troppo a lungo, promesso.”
Io la guardai con confusione.
Lei mi sorrise, mostrandomi ancora una volta le sue fossette.
Io ricambiai il sorriso.
“Permettimi di essere il tuo riparo dalla tempesta, Calliope.”
Continuai a sorridere, ma tornai ad essere anche confusa.
“Hai detto di essere stata in questa tempesta molto a lungo. Ed io non riesco a spiegarmi come è possibile che una persona buona quanto te sia così...stanca. Adesso ho capito cosa intendessi quando dicevi di essere esausta. Ci si abitua al rumore martellante della pioggia, e dopo un po' di tempo non dà più neanche fastidio. Così come ci si abitua a quel senso di freddo che ci arriva fin dentro al cuore. Ma non ci si abitua alla stanchezza. Tu dici di essere stanca e a volte non si può continuare a combattere senza sosta, quindi forse hai bisogno di una pausa, di un riparo dove poterti riposare e dove poter essere al sicuro. Permettimi di essere il tuo riparo dalla tempesta, Calliope.”
Fu in quel momento che mi baciò per la prima volta.
In lei io trovai il mio porto sicuro, la mia casa. Trovai il luogo in cui potermi riposare senza aver paura di cosa sarebbe successo dopo.
In lei, trovai la mia salvezza.
Trovai un motivo per continuare a lottare nonostante la stanchezza. E la stanchezza, piano piano, passò.
Perché in lei avevo trovato il mio riparo dalla tempesta.




Spero che vi sia piaciuta! Sarebbe gradito se mi comunicaste le vostre impressioni in un commento, tanto sono sicura che siete veloci a scrivere, vi ruberò solo qualche secondo, prometto! :D

A presto!



Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La nostra prima lista di desideri ***


Dedico questa one-shot a Roxy, che mi ascolta ogni volta che sclero! Dove sarei se non ci fossi tu a incoraggiarmi a postare questa roba? Probabilmente da qualche altra parte a fare meno danni... ;)


Siamo arrivati alla sesta shot. In questa ho lasciato un po' di me...

Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic


La nostra prima lista di desideri


Uscii dalla caffetteria con la mia tazza di caffè in mano, cercando disperatamente un tavolino a cui sedermi prima di ustionarmi la mano.
Il clima era molto caldo, non come nella città in cui lavoravo.
Erano settimane che non ero stata a Seattle.
Non ci sarei tornata presto.
Una donna seduta da sola ad uno dei tavoli si rivolse a me con un sorriso.
“Usted puede sentarse aquí. He terminado, así le abandonaré el espacio.”
Io la guardai per qualche istante, terrorizzata dalla risposta si supponeva avrei dovuto darle, completamente ignara di cosa avrei dovuto rispondere ad una frase del genere.
“Sono mortificata. Non parlo una parola di spagnolo.”
Lei mi sorrise. “Si rende conto che siamo in Spagna, giusto?” mi chiese, contagiandomi con il suo sorriso.
Io annuii. “Era una vita che volevo venirci.”
“Le stavo dicendo che può sedersi se vuole, io ho già finito quindi le lascio lo spazio.”
“No, la prego, rimanga. Mi sembra scortese cacciarla dal suo tavolino, in più mi farebbe piacere un po' di compagnia.”
Lei mi sorrise, facendomi segno di accomodarmi.
“Allora, come mai la Spagna, visto che non parla una parola di spagnolo?”
“Ho sempre desiderato vedere Barcellona. In realtà, mi sono lasciata un po' guidare dalle leggende metropolitane sulla città, questa volta.”
“Questa volta?” mi chiese, genuinamente curiosa.
“È una lunghissima storia. Lei invece cosa ci fa in Spagna?”
Lei mi rivolse un sorriso furbo. “È una lunghissima storia.”
Mi piaceva la faccia tosta di quella donna.
“Posso almeno sapere il suo nome?” chiese poi.
Io rimasi in silenzio per qualche secondo.
“Lei non ha l'aria di una serial killer. Quindi credo che non le mentirò, su questa domanda. Si consideri fortunata” la avvertii. “Arizona Robbins.”
Aveva un forte fascino. Avrebbe potuto avere il mondo intero ai suoi piedi, se avesse voluto. Solo guardando qualcuno negli occhi e sbattendo le ciglia, avrebbe potuto fargli fare qualsiasi cosa.
“Mi considero molto fortunata in questo momento, Arizona Robbins.”
Stavo cercando di capire se potessi in alcun modo farla interessare a me, quando, pronunciando il mio nome, mi rivolse un sorriso che non lasciava molto spazio al dubbio.
“Allora quelle sulla Spagna non erano solo leggende metropolitane” osservai con un sorrisetto.
“Dipende di quale leggende stiamo parlando.”
“Degli affari torbidi e clandestini tra donne.”
Lei fece di nuovo quel sorriso accattivante. “Oh, no. Quelle sono davvero solo leggende. Qui non c'è niente di clandestino. Tutti gli affari torbidi sono alla luce del sole.”
Amavo come riuscisse a tenere il passo con me e le mie battute idiote.
“Tuttavia, dovrei informarla che io vengo da New York, quindi se vuole un affare torbido con una donna spagnola, dovrà continuare a cercare.”
Io alzai un sopracciglio. “Lei è super qualificata, visto che parla spagnolo. Tutto quello che mi serve adesso è sapere il suo nome.”
Di nuovo il sorrisetto. Quella donna si credeva così furba. “Callie Torres. Ma tutto quello che le serve sapere di me credo sia solamente che io sto per sconvolgere il suo mondo, signorina Robbins.”
Io ricambiai il sorriso. “Questa sì che suona come una bella promessa. Chissà se riuscirà a mantenerla.”
“Allora, mi dice perché è in Spagna?”
Presi un sorso del mio caffè e risposi con estrema calma.
“Sto per morire. Ho deciso di passare gli ultimi mesi che mi rimangono facendo avverare il maggior numero possibile di desideri sulla mia lista.”
Lei mi osservò qualche istante.
“Sta bluffando. Sono un chirurgo, sa? Se avesse incontrato una qualsiasi altra persona le avrebbe creduto.”
“Callie sta per qualcos'altro? È un nome un po' strano.”
“Perché invece Arizona non lo è affatto. Il nome completo è Calliope. Ma nessuno mi chiama mai così.”
“Allora è un peccato, perché a me piace Calliope. Non posso permettere che nessuno lo usi, non le pare? Sono un chirurgo anche io, per la cronaca. Pediatria.”
“Mia madre era fissata con la mitologia greca. Ortopedia.”
“Io ho preso il mio nome da una nave da guerra, la U.S.S Arizona. Prima o poi le racconterò tutta la storia, è interessante. Aneurisma cerebrale inoperabile. Al massimo tre mesi. Se le cose vanno male potrei non svegliarmi, domani.”
“Allora dovrebbe fare avverare più desideri possibili che ci sono su quella lista prima che il sole tramonti questa sera.”
“Era quello che stavo cercando di fare, ma sono stata distratta da questa latina sexy mentre cercavo di decidere cosa viene dopo la Spagna.”
“Io le suggerisco di fare un salto a Roma. Dia un'occhiata al Colosseo e alla fontana di Trevi. Poi scappi a Londra, la città più bella del mondo. A quel punto trovi qualcuno che le piace e ci vada insieme a Parigi, cenate a lume di candela vicino alla Torre Eiffel e ballate un lento sotto la luce della luna.”
“Sembra un piano niente male. Ma dove lo trovo qualcuno che viene con me fino in Francia?”
“Questo non saprei dirglielo” rispose pacatamente, continuando a sorseggiare il suo caffè. “Ma forse conosco qualcuno disposto ad accompagnarla al Colosseo.”
“E può farmelo incontrare prima del tramonto?”
“Mi faccia sapere cosa decide, so che c'è un aereo per Roma che parte...” guardò l'orologio che aveva al polso. “Cavolo, tra due ore. Sarà meglio che vada.”
“Sta andando a Roma? Che coincidenza che mi abbia consigliato il Colosseo come prossima destinazione.”
“Direi che non è affatto una coincidenza, no. Allora, signorina Robbins, vuole un passaggio per andare a prendere la sua valigia o ci troviamo direttamente in aeroporto?”
C'era qualcosa in quel suo modo di fare che mi aveva in pugno. C'era qualcosa di lei che mi spingeva a desiderare di cadere tra le sue braccia e non rialzarmi mai più.
“Un passaggio sarebbe gentile, da parte sua. Ad una condizione.”
“Quale?”
“Deve promettermi che non si innamorerà di me. E che non mi farà innamorare di lei.”
Senza rispondere lei mi sorrise. Mi tese la mano, aiutandomi ad alzarmi dalla sedia e conducendomi verso la sua macchina.
Le indicai l'albergo, facendo un paio di battute sul fatto che l'albergo a cui alloggiavo portava il suo cognome. Non pensavo fosse un nome diffuso, in Spagna. Mi spiegò che non lo era senza guardarmi negli occhi.
Quando entrammo mi resi conto che non stava scherzando. Il tizio della reception la salutò dandole il bentornato all'hotel.
“Salve Miguel. Potresti chiamare Londra e dire che sto andando? Fai preparare una delle camere, se non ti dispiace e prenota due biglietti sul primo volo per Roma.”
“Certo signorina Torres.”
“Te lo ripeto ogni volta, Miguel. Chiamami Callie, io non sono mio padre.”
Lui le sorrise.
Alzò la cornetta, contattando l'Hotel Torres di Londra. Ce ne erano diversi anche negli Stati Uniti, a dire la verità. Ma quando si era presentata non avevo pensato che potesse essere la proprietaria della catena di alberghi di lusso senza concorrenti al mondo.
Non mi permise di saldare il conto, ma si offrì di pagare al posto mio. Non mi permise neanche di pagare il mio biglietto per l'Italia.
Quel pomeriggio mi portò a vedere il Colosseo. Non ci fu tempo per la fontana di Trevi, perché quella sera stessa prendemmo un altro aereo per Londra. Non avevo dubbi sul perché l'avesse descritta come la città più bella del mondo. E vederla tutta di notte fu qualcosa a cui non avrei saputo dare un prezzo.
E neanche lei, visto quanto doveva aver speso nelle ultime ore.
Guardammo l'alba sorgere sulla città.
Quando mi voltai vidi che lei non stava più guardando l'alba, ma guardava me.
Spostò una ciocca di capelli dietro il mio orecchio, accarezzandomi una guancia.
Io la guardai negli occhi senza dire niente. Ma lei capì ugualmente cosa avrei voluto dire, così mi strinse delicatamente tra le sue braccia.
Quando mi baciò, capii che tutti gli altri desideri che avevo non sarebbero stati completamente realizzabili se non avessi avuto lei al mio fianco.
Mi addormentai in una delle panchine di St James's Park, con la testa sulla sua spalla.
Calliope mi svegliò qualche ora dopo, dicendomi che c'era un aereo in partenza per Parigi, se avessi accettato di andarci con lei.
Io accettai, ovviamente.
“Vuoi uscire con me stasera?”
Io la guardai. Lei mi sorrise un po' timidamente. Non ero abituata a vederla meno fiduciosa in se stessa di quando si era presentata.
“Io morirò tra qualche mese” le risposi, senza sapere cos'altro dire.
“Lo so. Per questo dovresti uscire con me. Tutto quello che ti sto chiedendo è una possibilità.”
Quella sera mi portò in un ristorante vicino alla Torre Eiffel, dove cenammo, poi mi chiese di ballare con lei sotto la luce della luna.
Il secondo bacio che mi dette fu più consapevole del primo, in un certo senso. Come se volesse dirmi che aveva capito. Tutto quello che avremmo avuto erano pochi mesi. Ma sembrava andarle bene così.
La mattina seguente mi svegliai in una delle camere del suo hotel, vedendola seduta sul bordo del letto a guardare fuori dalla finestra. Stava sorseggiando un caffè e sembrava sovrappensiero.
“A cosa pensi?” chiesi in un sussurro.
“Sei sveglia” osservò, tornando a mostrarmi il suo familiare sorriso. Mi baciò dolcemente sulle labbra, porgendomi la tazza di caffè che aveva appoggiato sul comodino.
“Cerchi di cambiare argomento?”
“Non sono così sottile come pensavo, vero?”
“Non esattamente.”
Si era fatta una doccia, mentre io stavo dormendo, perché i suoi capelli erano ancora umidi, poi si era rivestita.
“Dove vuoi andare, cosa vuoi fare adesso?”
“Devo controllare quanto è rimasto sul mio conto in banca. Non saprei, in ogni caso, ci sono un sacco di cose.”
“Non avevi parlato di una lista?”
“Sì, beh, è più un elenco mentale che una vera e propria lista. Potrebbe interessarti venire insieme a me? Ma ti avverto, puoi venire solo se accetti di condividere equamente le spese.”
“Dovresti buttare giù una vera lista, allora. E ti accompagnerei volentieri, ma se andiamo in una città con uno dei miei hotel non ti lascerò pagare.”
“Suppongo che questo sia il massimo che riuscirò ad ottenere.”
Rimanemmo a Parigi per diversi giorni, visitando la città di giorno e rimanendo insieme anche di notte.
Poi decidemmo di passare oltre.
“Che ne dici se prima andiamo a New York? Vorrei passare a casa.”
“Ho sempre voluto vedere New York.”
Durante il volo mi raccontò di quello che faceva prima di ereditare la catena di hotel. Lavorava con i migliori chirurghi del Paese, mi fece dei nomi che riconobbi, come Derek Shepherd, Addison Montgomery, Preston Burke. Poi, un giorno, aveva ricevuto una telefonata che le comunicava la morte prematura di suo padre.
Allora aveva mollato tutto e aveva cercato di godersi la vita.
Per lei, quella notizia era stata quello che per me era stata la mia diagnosi.
Un campanello d'allarme.
Qualcosa che le aveva detto 'fai quello che vuoi e goditi la vita, perché domani potresti non averne più la possibilità'.
Le raccontai di aver viaggiato molto da piccola, in quanto figlia di un militare. Le raccontai di mio padre. Del fatto che non parlavo con lui da otto anni. Da quando mio fratello era morto. Sentivo mia madre per telefono, ogni tanto, ma non ero più tornata a casa, né avevo intenzione di tornarci.
Arrivammo a New York e salimmo sulla macchina che aveva lasciato nel parcheggio dell'aeroporto quando era partita.
Viveva in un attico che aveva l'aria di valere un mucchio di soldi. Appena aprì la porta, una bambina, avrà avuto sei anni, le si lanciò tra le braccia. Era spaventosa la somiglianza che aveva con quella bambina.
“Sofia, come è andata questa settimana senza di me? Scommetto che tu e Mark vi siete divertiti da pazzi alle mie spalle.”
“Lo abbiamo fatto eccome” intervenne un uomo entrando nell'ingresso dalla cucina.
Valutai l'ipotesi che Callie fosse sposata con quell'uomo. Ma non le avevo mai visto portare una fede, non ne aveva neanche il segno.
“Dov'è Aria?” chiese all'uomo, mentre teneva in braccio la bambina. “Credevo che avrei trovato lei insieme a Sofia.”
“Il frigo era vuoto, così è andata a fare spesa.”
“Zia Callie, chi è lei?” chiese, stringendo la presa delle sue braccia intorno al collo di Callie e guardando verso di me.
“Lei è una persona molto speciale per me, Sofia. Ti piacerebbe conoscerla?”
La bambina annuì.
“Ciao” sorrisi, facendo un passo avanti. Sapere che Calliope non mi aveva nascosto una figlia mi aiutò a riacquistare le mie capacità di parola. “Io mi chiamo Arizona.”
“Come lo Stato?” chiese lei.
“Ancora meglio, come una nave da guerra.”
“Forte!” esclamò regalandomi un sorriso. “Io mi chiamo Sofia.”
“Sofia è un bellissimo nome. Ricorda quello di una principessa.”
“L'ha scelto zia Callie. Tutti mi dicono sempre così, ma non so perché lo abbiano fatto scegliere a lei. Forse a te lo spiegherà.”
“Beh, ti prometto che se riuscirò a farmi dire qualcosa, sarai la prima a saperlo, d'accordo?”
Lei annuì vigorosamente. “Potete rimanere a cena con noi?”
“A dire la verità dobbiamo ripartire subito, tesoro” rispose pacatamente Callie.
“Ma sei appena tornata, zia. Almeno Arizona può rimanere?”
“Se non è un problema potremmo rimanere” suggerii, intrappolata nell'incantesimo degli occhi nocciola di quella bambina.
Callie mi guardò per qualche secondo, poi annuì.
“D'accordo. Ma cucina Aria.”
“Vuoi vedere la mia collezione di fantasmini?” mi chiese Sofia.
“Mi piacerebbe molto.”
Qualche minuto dopo una donna dai lineamenti simili a quelli di Callie entrò in casa. Sofia cessò di essere incondizionatamente interessata solo a me e si lanciò tra le braccia della donna.
Callie mi prese per mano, facendomi entrare in una delle stanze dove avremmo finalmente potuto stare da sole.
“Sofia è la figlia di Aria e Mark, mia sorella e il mio migliore amico. Lo so, sembra la trama di una commedia romantica da quattro soldi.”
Io risi. “Per un attimo mi è preso un colpo.”
“Mi dispiace che tu li abbia incontrati così. Non mi aspettavo di trovarli nel mio appartamento, ma ogni tanto ci vengono, quando io non ci sono. Annaffiano le piante, comprano qualcosa di commestibile, cose del genere. Si prendono cura di me. Sono la mia famiglia.”
“Hai davvero scelto tu il nome di Sofia?”
Lei annuì. “Quando è nata, la sua cassa toracica era troppo piccola per sostenerla. Io l'ho operata e le ho salvato la vita. Mark mi ha chiesto che nome mi piacesse. Io ho risposto Sofia.”
“Hai salvato la vita di quella bambina” constatai.
“Lei è stata la mia ultima operazione. Avere la vita di mia nipote tra le mani mi ha...semplicemente annientato.”
“Non me lo avevi raccontato.”
“Non l'ho mai raccontato a nessuno. Sia Aria che Mark sono ancora fermamente convinti che sia stata la morte di mio padre a farmi mollare tutto, ma quello è stato solo due o tre giorni dopo.”
Aria era sua sorella solo da parte della loro madre, mentre aveva un altro padre, me lo aveva raccontato qualche giorno prima.
Tornammo in cucina. Mi presentò sua sorella e il suo migliore amico. Cenammo insieme e mi divertii davvero molto. Quando Sofia crollò addormentata Mark la prese in braccio. Ci salutarono, dirigendosi verso casa.
Calliope mi guardò negli occhi e mi chiese se ci fosse altro che desiderassi prima della fine della giornata.
Mi avvicinai a lei, che si lasciò baciare.
Il suo profumo mi invase come mai aveva fatto prima. Probabilmente perché, nel suo appartamento, tutto aveva il suo profumo.
Era incredibile come in così poco tempo Calliope fosse riuscita ad invadere completamente la mia vita. E come la sua intrusione fosse qualcosa a cui avevo dato il benvenuto senza la minima resistenza.
Il giorno dopo mi portò a visitare New York, concludendo il tour con un giro in mongolfiera. Vedere il mondo dall'alto mi aveva dato le vertigini e contemporaneamente un senso di impotenza quasi terrificante. I chirurghi non sono abituati a sentirsi impotenti.
Dopo New York decidemmo di andare a Miami, la sua città natale, avevo scoperto. Mi portò a fare immersioni. Avevo sempre voluto farlo, ma non ero mai riuscita a trovare il tempo. Calliope mi portò a nuotare insieme ai delfini.
Nel frattempo mi aveva convinto a fare una vera lista delle cose che avrei voluto fare prima di andarmene. Cercai di trovare qualcosa che potesse essere fatto in due mesi. Non le permisi di sbirciare, ma di volta in volta le dicevo cosa dovevamo fare e lei mi aiutava ad organizzarlo.

“Sei assolutamente sicura di volerlo fare?”
“Certo. Altrimenti saremmo venute a Seattle per niente.”
Entrammo in ospedale, arrivando fino all'ala di pediatria.
“Dottoressa Robbins?”
Il mio vecchio capo si voltò per parlarmi, mentre il mio ex specializzando Alex Karev e la sua specializzanda April Kepner mi guardarono come se fossi un fantasma.
Callie rimase al mio fianco, in silenzio.
“Salve dottor Stark. Voglio dirle una cosa che non ho mai avuto l'occasione di dirle durante il periodo in cui abbiamo lavorato insieme. Credo che lei sia un chirurgo molto competente e che i suoi insegnamenti mi abbiano aiutato molto nel corso degli anni.”
Lui fece quella sua espressione mezza compiaciuta.
“E penso anche che lei sia il più grande idiota sulla faccia della terra” sussurrai senza neanche un po' di incertezza.
La sua espressione cambiò.
Calliope mi dette una piccola spinta, spronandomi a continuare.
“È arrogante e cattivo senza motivo. I bambini la detestano, gli specializzandi sono terrorizzati da lei, e tutto questo perché non si prende mai la briga di comportarsi come un essere umano, ma passa tutto il suo tempo a comportarsi come se ferire gli altri fosse lo scopo della sua vita e ringrazio il cielo che non dovrò mai più sorbirmi uno dei suoi discorsi mirati a distruggere l'autostima dei suoi colleghi.”
“Ok, credo che possa bastare” mi sussurrò Callie, mettendomi una mano sulla spalla.
Lo superai. Karev alzò la mano ed io gli detti il cinque, andandomene poi dall'ospedale in cui avevo lavorato negli ultimi tre anni.
“È stata una delle cose più forti che io abbia mai visto in vita mia” mi disse lei una volta che fummo fuori dall'ospedale.
Io sospirai, sentendomi libera da un grosso peso. Sbarrai il punto numero tre della mia lista.
“Pronta per la prossima?”
Lei annuì, con un sorriso.

“Ho visto un poliziotto all'entrata del parco. Credo che ci stia seguendo” le feci notare.
“Già, perché due donne che vanno in un parco con delle pale in pieno giorno non attirano affatto sospetti” rispose sarcasticamente.
“Abbiamo il permesso del comune, no? Perché la fai tanto lunga?”
“Non capisco il senso di questa cosa.”
Io controllai la cartina che ci aveva dato il comune, chiedendo poi all'impiegato che ci aveva accompagnato fin lì se quello era il punto. Anche lui controllò la cartina e annuì.
“Qui va bene. È sicura che non vuole che lo faccia io?” mi chiese.
“No. Me ne occupo io.”
Piantai la pala nel terreno, sollevando la prima parte di terra.
“Posso aiutarti?” mi chiese Calliope.
“Credi che ti abbia lasciato portare una pala perché mi sono solo divertita a guardare mentre ti aggiravi osservandoti intorno come se stessimo andando a sotterrare un cadavere? Cioè, quello è stato davvero divertente, ma...”
Lei rise sarcasticamente e poi mi aiutò a scavare la buca.
“Così è abbastanza grande, andate qualche altro centimetro in profondità” ci dette istruzioni l'uomo.
“Allora, mi spieghi perché lo stiamo facendo?”
“Perché voglio dare vita a qualcosa che sia in grado di sopravvivere anche dopo che me ne sarò andata. Qualcosa che riuscirà a vivere anche senza di me.”
“Non era più semplice avere un bambino?”
“Io non ho nove mesi di vita, Calliope” le ricordai. “E poi, non voglio bambini.”
“Sei un chirurgo pediatrico, come sarebbe a dire che non vuoi bambini?”
“Così è abbastanza profonda” ci disse l'uomo.
Entrambe smettemmo di scavare.
“Non voglio bambini. Mi piace la mia vita così com'è, non voglio che cambi. Beh, mi piaceva la mia vita com'era” ricordai con tristezza.
“Io ho sempre voluto un bambino. Io e te non saremmo mai potute durare insieme” osservò scherzosamente.
L'uomo sgranò leggermente gli occhi, ma tentò di mascherare la sua sorpresa mentre mi passava il secchio che aveva tra le mani.
“Stai dicendo che è una fortuna che io tra due mesi sarò morta?”
“Sto dicendo che avremmo dovuto litigare non so neanche quanto a lungo, prima che decidessi che mi era impossibile vivere senza di te e fossi tornata a implorare il tuo perdono con la coda tra le gambe chiedendoti di riprendermi indietro” cercò di rimediare con un sorriso a trentadue denti.
“Oh, mi dispiace, ma nel frattempo sono andata avanti. Adesso sto insieme ad una rossa di nome Tracy. È un peccato che tu ci abbia messo così tanto per accorgerti di quanto sono fantastica.”
“Mi stai tradendo con una rossa di nome Tracy?”
“Non ti sto tradendo, sei tu che mi hai lasciato, ricordi?”
“Era stata una decisione di comune accordo, sei tu quella che non vuole bambini!”
“Appunto per quello, sei tu che mi hai lasciato. Io avrei continuato a frequentarti, perché le cose andavano così bene, prima.”
Estrassi il contenuto del secchio con delicatezza e lo immersi nella piccola buca che avevamo scavato.
“Ma adesso preferisci Tracy” osservò lei, incrociando le braccia ed inarcando un sopracciglio.
“Che posso dire? Lei mi ha consolato quando tu mi avevi spezzato il cuore.”
“D'accordo, sai cosa? Se ti vedo a meno di dieci metri da una rossa ti sollevo con la forza e ti porto via. Non mi piace questa Tracy, chi diavolo si crede di essere? La nostra storia era epica. Lei non è abbastanza per te, è solo...una barzelletta.”
“Ehi, non insultare Tracy” la minacciai con un dito sporco di terra.
“Bene” rispose lei, mettendo il broncio. “Chiama Tracy stasera quando dormirai da sola sul divano.”
Ricoprimmo le parti rimaste vuote della buca con del terriccio.
“Congratulazioni” ci disse l'uomo che era accanto a noi. Mi ero quasi dimenticata che fosse ancora lì. “Avete appena piantato il vostro albero a Seattle. Vi lascio la piantina del parco, venite a trovarlo quando sarà cresciuto.”
Rimanemmo a guardare la terra smossa diversi minuti, spalla a spalla, dopo che lui se ne fu andato.
“Non ti tradirei mai con una rossa di nome Tracy.”
“Non ti lascerei mai solo perché la pensiamo in modo diverso su qualcosa. Riusciremmo a trovare un compromesso, sempre.”
Mi abbracciò stringendo le braccia intorno ai miei fianchi. Mi rilassai contro di lei, appoggiando la tempia alla sua guancia. La sentii baciarmi dolcemente sulla testa.
“Abbiamo appena piantato un albero” osservai con un sorriso.
Quel pomeriggio andammo allo zoo.
“Dimmi come hai fatto.”
“Conosco un tizio che conosce un tizio...” rispose vagamente con un sorriso furbo stampato in faccia.
“No, seriamente. Dimmi come hai potuto far sì che questo desiderio si avverasse.”
Allungai la mano, sentendo tra le dita il pelo morbido e lungo dell'animale che stava davanti a me. “Calliope, sto accarezzando un panda.”
Non potevo vederla, ma ero sicura che stesse sorridendo.
“È come lo avevi immaginato?”
“No.” le sorrisi, voltandomi indietro per poterla guardare. “È molto meglio. Vieni, prova.”
Mi si avvicinò, accarezzando il grande animale davanti a noi con estrema cautela.
Nei suoi occhi si accese una luce che mi disse che anche lei la pensava come me.
Quella notte non avrei dormito sul divano, dopotutto.

“Hai capito le regole?” chiese ancora una volta.
“Per la milionesima volta, ho giocato a texas hold 'em prima, non sono un'idiota.”
“Stavo solo controllando.”
Distribuì le carte. Io vinsi la prima mano, facendole perdere tre delle fiches simboliche.
Lei si alzò, togliendosi le scarpe ed uno dei calzini.
“Questo desiderio è inquietante, sai? Con chi avresti giocato a streap poker se non avessi conosciuto me?”
“Calliope, non è un caso che lo streap poker sia finito sulla lista.”
La prima mano era stata solo fortuna. Lei era molto brava a quel gioco. E non le servì molto tempo per avermi esattamente come mi voleva. Con quasi niente addosso.

“Sei ancora totalmente sicura di volerlo fare?” urlò per farsi sentire sopra il rumore assordante.
“Certo che ne sono sicura, ho sempre voluto farlo” risposi con un sorriso enorme. “Tu ne sei ancora sicura?” chiesi urlando a mia volta.
“Certo che no! Io non ne sono mai stata sicura, questa cosa è semplicemente folle.”
“Andiamo, siamo già state in mongolfiera una volta, no?”
“Ma dalla mongolfiera non ci siamo buttate nel vuoto” rispose ancora urlando.
“Sarà divertente” le risposi, sorridendole. “Dammi la mano.”
“D'accordo. Ma non mollare la presa. Non posso farlo se non mi tieni la mano.”
“Al tre. Uno, due” iniziai a contare, notando che lei era preoccupantemente pallida. “Tre.”
Ci gettammo dall'elicottero.
“Oh mio Dio, non credevo che lo avresti fatto davvero” le dissi mentre stavamo precipitando.
“Se muoio giuro che ti prendo a calci in culo e se moriamo entrambe giuro che ti uccido.”
I paracadute funzionarono.
Il cuore mi stava ancora battendo a mille. Rimanemmo sdraiate a terra a guardare il cielo.
“Questa è una delle cose più fiche che io abbia mai fatto in vita mia” disse quando ebbe ripreso fiato.
Io voltai la testa di lato e guardai prima verso di lei, poi verso le nostre mani ancora intrecciate.
“Ho ancora l'adrenalina a mille, mi sento...cosa c'è?” chiese, finalmente voltandosi e vedendo la mia espressione seria.
“Ti sei buttata da un aereo per me. Stavi morendo di paura, ma l'hai fatto per me.”
Il sorriso sparì lentamente dal suo viso.
“Arizona...”
“Mi sono buttata da un aereo insieme a te. E sono ancora viva. Posso buttarmi da un aereo e sopravvivere, ma qualcosa che ho nel cervello mi sta uccidendo.”
Mi accarezzò una guancia con la mano libera.
“E tu mi stai ancora tenendo la mano. Io ti ho costretto a buttarti da un aereo e tu mi stai ancora tenendo la mano.”
Guardò in basso, vedendo le nostre mani e aumentando la stretta. Quando rialzò gli occhi vidi che erano pieni di lacrime.
“So che non riesci a capire. So che tutto quello che avrei dovuto fare nei nostri tre mesi era divertirmi insieme a te e far sì che riuscissi a far avverare tutti i tuoi desideri, ma non sono riuscita ad evitarlo, e a me sta bene così. A me sta bene passare insieme a te il tempo che abbiamo.”
“E poi mi guarderai morire?” chiesi, alzandomi con uno scatto di rabbia, lasciando andare la sua mano.
Lei mi seguì quando iniziai a camminare verso le case più vicine.
“Arizona...”
“No!” mi voltai, lacrime di rabbia rigavano il mio volto. “Avevi promesso, va bene? Tu sai che non l'ho detto a nessuno, nemmeno ai miei colleghi. Non l'ho detto ai miei genitori, Calliope. Mio padre non sente la mia voce e non mi vede da otto anni, e comunque non gli ho detto addio. Avevo organizzato tutto, ero sparita, avevo fatto in modo che nessuno fosse ancora legato a me quando i miei tre mesi fossero scaduti. E poi, tre giorni dopo che ho lasciato Seattle, sei arrivata tu e hai sconvolto la mia vita.”
Lei mi si avvicinò, ma io indietreggiai, continuando ad asciugarmi le lacrime con rabbia.
“Me lo avevi promesso!” la accusai.
“Lo so, mi dispiace. Lo so” rispose pacatamente.
“Non lo sai, tu non puoi saperlo” si avvicinò di nuovo, ma io la spinsi con la poca forza che mi era rimasta. La feci indietreggiare di un passo. Lei sospirò. “Non puoi sapere come ci si sente, quando ti dicono che la tua vita è finita. Quando capisci che il sipario sta per chiudersi e ci sono mille cose che non riuscirai mai a fare. Non potrai mai sposarti, non potrai mai presentare l'amore della tua vita ai tuoi genitori e vedere il sorriso fiero di tua madre illuminarti la giornata, non potrai mai nemmeno innamorarti più davvero. Ci fai i conti, rinunci ad alcune cose. Ti rassegni a dire addio ai tuoi amici e te ne vai per non far soffrire nessuno di loro.”
Lei continuò a guardarmi, senza dire niente, ma senza iniziare a piangere. Le lacrime dentro i suoi occhi li rendevano ancora più lucenti del solito, rifiutandosi di cadere.
“Ma tu me lo avevi promesso.”
“Mi dispiace. Ma se potessi rifare tutto da capo io non cambierei niente. Credevo di aver amato, prima, ma non avevo mai davvero amato finché ho incontrato te. So che lo avevo promesso, e mi dispiace aver rotto quella promessa, ti chiederò scusa all'infinito per quello. Ma non chiederò scusa per essermi innamorata di te.”
“Credi che si tratti di questo?” urlai, ormai incapace di avere anche un minimo controllo sulle mie lacrime. “Avevi promesso. Mi avevi promesso che non lo avresti mai permesso.”
Muovendosi velocemente mi abbracciò, non lasciando che mi allontanassi ancora una volta da lei.
Io continuai a piangere contro il suo petto, cercando di spingerla via. Non me lo lasciò fare.
“Avevi promesso. E invece hai lasciato che mi innamorassi di te.”
Fu allora che anche lei iniziò a piangere.
Mi aggrappai a lei, desiderando di potermi sciogliere dentro la sua anima e rimanere insieme a lei per sempre, di poter essere una parte di lei, in modo da non doverla lasciare mai più.

“Ci hai pensato bene? Ne hai solo uno, quindi sceglilo con cura.”
“L'ho già scelto Calliope. L'ho scelto molto tempo fa.”
Ci voltammo, continuando a tenerci per mano.
“D'accordo. Al tre. Uno, due, tre.”
Lanciammo entrambe una moneta nella fontana di Trevi di Roma, esprimendo un desiderio.
“Alla fine sei riuscita a portarmi a vedere questa fontana.”
“Ne avevi qualche dubbio?” mi chiese con un suo classico sorriso.
“Non ho mai avuto dubbi in te.”
La baciai sulla guancia. Ci allontanammo dalla fontana sorridendo.

Scendemmo insieme dalla macchina.
“Sei sicura che mi vuoi al tuo fianco? Non preferiresti farlo da sola?” mi chiese quando ci trovammo davanti alla porta.
“Scordatelo, non pensarci nemmeno. Sei tu che mi hai costretto a farlo.”
Lei mi strinse la mano, chiedendomi con quel gesto di guardarla negli occhi. E con i suoi occhi mi chiese di dirle la verità.
“Non posso farlo senza di te al mio fianco.”
Lei annuì, incoraggiandomi a suonare il campanello.
Aprì un uomo dai capelli brizzolati, indossava un maglione di lana e sembrava confuso e sorpreso di vedermi lì.
“Ciao papà” iniziai con semplicità. “So che è da tanto che non parliamo, ma vorrei dirti che sono profondamente dispiaciuta per aver detto quelle cose orribili al funerale di Timothy. Non è colpa tua se ha deciso di arruolarsi, e non è colpa tua se è morto. Un mese e mezzo fa mi è stato diagnosticato un aneurisma inoperabile al cervello e tutto quello che avrei voluto fare era tornare a casa da te e la mamma, ma poi ho pensato che io e te ancora non ci parlavamo. E non sopportavo l'idea di dovervi dare un altro dispiacere dopo Tim. Ma poi ho conosciuto qualcuno che mi ha fatto cambiare idea. Qualcuno che mi ha spinto a cercare di sistemare le cose, invece di scappare. Quindi sono venuta qui per chiederti scusa.”
Mio padre mi abbracciò.
In tutta la mia vita non lo avevo mai visto piangere. Ma quel giorno pianse.
Anche mia madre pianse.
Presentai loro Callie. Mia madre vide come mi guardava, vide il modo in cui eravamo innamorate l'una dell'altra. E allora mi sorrise. E il suo sorriso illuminò la mia giornata.

“Erano dieci desideri, giusto? Ne mancano solo un paio.”
Io lessi gli ultimi due rimasti sulla mia lista.
“A dire la verità, ne manca soltanto uno.”
“E qual'è?”
Le mostrai il foglio di carta piegato in modo che potesse leggere solo l'ultimo punto della lista.
Esaudire il più grande desiderio di Calliope.
“Cosa hai desiderato quando siamo andate alla fontana?”
Lei guardò fuori dalla finestra, dandomi le spalle.
Rimase in silenzio a lungo.
“Ho desiderato più tempo” mi confessò infine. Dal suo tono di voce capii che stava piangendo.
Avrei voluto poter fare qualcosa di utile. Invece l'abbracciai soltanto.

“Sei davvero sicura che questo è il modo in cui vuoi passare il nostro ultimo mese insieme?” le chiesi, mentre mi aiutava a sdraiarmi.
“Se tutto va come programmato, non spenderemo qui il nostro ultimo mese insieme.”
“Giusto. Perché sarò morta domani.”
“Arizona” mi riprese.
Sapevo che le dava noia quando scherzavo sulla mia morte.
“Scusa.”
Ci fu qualche momento di silenzio.
“Ma sei davvero sicura che vuoi passarlo così?” insistetti.
“Provando tutto il possibile?”
“Perdendo tempo che potremmo usare per...tornare in Spagna, o costruire il castello di carte più alto della storia. O, ancora meglio, facendo sesso.”
“Vuoi passare un mese a fare sesso?”
“Sì” risposi prontamente. “Sarebbe grandioso passare un mese a fare sesso con te. Specialmente se è l'ultimo mese in cui posso fare qualcosa.”
Un uomo entrò nella stanza.
“Callie, è un piacere rivederti.”
La abbracciò, baciandola sulla guancia.
“Derek, come vanno le cose qui a New York?”
“Come sempre. Continuano ad andare. Allora, cosa posso fare per te?”
“Lei è Arizona Robbins. Le hanno diagnosticato un aneurisma inoperabile. Ma quello era il parere di un mediocre neurochirurgo di Seattle. Voglio il tuo parere. Se anche tu mi dirai la stessa cosa, lascerò perdere” guardò me, pronunciando l'ultima frase.
Quello era il nostro patto.

Mi rigirai la lista tra le mani diverse volte.
“Calliope, devo parlarti.”
Lei continuò ad abbracciarmi senza rispondere.
“C'è un'altissima probabilità che non uscirò mai più da quella sala operatoria.”
Lei mi abbracciò più forte.
“Dopo che sarò entrata, leggi la lista, ok?”
La lasciai sul letto d'ospedale da cui mi fecero alzare per portarmi in sala operatoria.
Quando la vidi per l'ultima volta mi sussurrò qualcosa con cui disse tutto ciò che avrebbe mai potuto dirmi.
“Ti amo.”
“Ti amo.”
Ma quando lo dissi io mi sembrò che ci fosse ancora così tanto altro che avrei potuto dire e voluto dirle.

1. Vedere dal vivo un animale in via d'estinzione e poterlo toccare
2. Lanciarmi con un paracadute da un aereo
3. Dire al mio vecchio superiore quello che penso di lui
4. Piantare un albero
5. Vedere mia madre sorridere ancora una volta
6. Giocare a streap Poker con Calliope
7. Dire a mio padre che mi dispiace
8. Tornare a Roma e lanciare una moneta nella fontana di Trevi
9. Riuscire ad essere davvero felice
10. Esaudire il più grande desiderio di Calliope

Calliope,
sto cercando di esaudire il tuo desiderio, oggi. Sto cercando di darci più tempo. Cerco di costruirci un futuro.
Ma se non ci riuscissi, voglio che tu sappia che tu hai già completato la parte della lista che riguardava me. Sei riuscita a rendermi davvero felice per la prima volta in vita mia.
Quando mi hai conosciuto, ti ho fatto promettere di non innamorarti di me e di non lasciare che mi innamorassi di te.
Adesso voglio ringraziarti, perché non mantenendo quella promessa hai reso possibile far avverare tutti i miei desideri.
Adesso tocca a me. Oggi devo farcela, devo esaudire il tuo desiderio, così avremmo completato quella lista.
Quando mi hai portato alla fontana di Trevi, abbiamo espresso un desiderio. Io ho desiderato che tu potessi essere felice anche senza di me. Ma adesso mi chiedo se sia possibile.
Così ho desiderato di poter essere, in qualche modo, insieme a te per sempre.
Ho pensato a cosa significa più tempo.
Significa un futuro. Significa una casa. Per te, significa dei figli. E se questo è il tuo secondo più grande desiderio, dopo l'avere più tempo insieme a me, voglio farlo avverare come tu hai fatto per tutti i desideri che avevo io.
Per me, fino a qualche settimana fa, più tempo era qualcosa di impossibile da raggiungere, ma anche di inutile da cercare.
Più tempo significava un paio di sere in più a mangiare una cena riscaldata al microonde.
Adesso, se penso a del tempo in più io vedo il tuo viso che mi sorride.
Vorrei aver avuto più tempo, Calliope.
Ma, anche se non avessimo altro tempo, quello che abbiamo avuto è stato abbastanza. Perché il tempo che abbiamo avuto ha cambiato per sempre la mia vita e quello che sono.
Il tempo che ho avuto insieme a te mi ha fatto capire che il tempo non conta. Quello che conta è il modo in cui lo passiamo.
Ed io voglio passare il resto del mio tempo con te.
Sposami, Calliope.


To Be Continued...





Ebbene sì, era una two-shots. Probabilmente l'unica che ci sarà nella raccolta...


I commenti sono molto incoraggiati, tanto il tempo che ci mettete a scrivere qualche riga non è molto e rende chi scrive molto felice...Grazie mille!

A presto!!



Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** I nostri primi desideri infranti ***


Ringrazio tutti coloro che hanno recensito e aggiunto la storia tra le seguite, o anche chi ha semplicemente letto.

Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



I nostri primi desideri infranti


All'inizio ero arrabbiata con lei, perché non si era svegliata.
Ma poi, con il tempo, la rabbia era passata. E avevo capito. L'avevo perdonata.
L'avevo perdonata per non aver lottato.
Aveva già lottato così tanto, nei due mesi che avevamo passato insieme, che immaginai fosse stanca, a quel punto.
Troppo stanca per lottare anche solo un'ultima volta.
Ed anche io ero troppo stanca.
Ero troppo stanca per vederla andare.
Fissavo il bicchiere che avevo davanti senza davvero vederlo.
Mi chiesi perché. Perché lo avevo fatto. E mi risposi che era stata soltanto colpa mia.
Dopo essere stata arrabbiata con lei, mi ero arrabbiata con me stessa.
Ero arrabbiata per averle chiesto di lottare, anche se sapevo che non era quello che lei voleva.
Lei voleva solo rimanere insieme a me per qualche altra settimana.
E poi andarsene mentre io la avvolgevo tra le mie braccia, mentre sentiva il calore del mio corpo invaderla.
Invece io ero stata egoista.
A me qualche settimana non sarebbe bastata.
Io avevo troppe idee, troppi piani, a me sarebbe servito più tempo.
A me sarebbe servita una vita.
Ma noi non avevamo un'intera vita. Lei non aveva un'intera vita.
Quello che avevamo erano solo pochi giorni. E, per colpa mia, non avevamo più neanche quelli.
Mi aveva detto di essere felice anche senza di lei.
Come se fosse lontanamente possibile.
Presi un sorso del liquido che avevo davanti ad alzai lo sguardo quando sentii qualcuno sedersi accanto a me.
Era una donna dai capelli biondi e ricci. Aveva gli occhi di un profondo blu.
Forse, qualche mese prima, vedendola avrei pensato che fosse bella.
“Sembra forte, il tuo drink” mi disse con un piccolo sorriso.
“E pensare che invece è solo tè caldo” risposi io, continuando a bere.
Quella città era dannatamente fredda, per i miei standard.
“Non sei il tipo da bevande forti?”
“Lo ero” risposi per inerzia, senza spostare gli occhi dal mio bicchiere. “Fino a tre o quattro mesi fa, lo ero. Usavo quella roba per cercare di cancellare momenti della mia vita che non mi sentivo in grado di vivere. Ma poi ho capito che non ci sono momenti meno importanti. Ogni singolo secondo, conta.”
Mi tremò la voce, e me ne resi conto.
Ma ero in un bar e stavo bevendo solo un tè caldo. Non potevo comunque sembrare più patetica di quanto già ero.
“Quindi hai detto addio ai liquori?”
“Ho detto addio ad un sacco di cose.”
Finii il contenuto del bicchiere con un ultimo sorso.
“Per esempio?”
“Per esempio...la chirurgia. I viaggi intorno al mondo. Un tempo viaggiavo molto. Ho detto addio all'amore.”
“Eri un chirurgo?”
Annuii.
“Anche io faccio il chirurgo.”
Io risi amaramente. A quanto sembrava quella era la storia della mia vita. 'Anche io faccio il chirurgo'. E tutto quello che sapevo un attimo dopo era che avevo il cuore spezzato e non riuscivo a capire come era successo.
Feci segno al barista di avvicinarsi e gli chiesi un'altra tazza di tè, quella volta in modo che fosse possibile portarla via.
“Hai detto addio all'amore?”
Lo avevo fatto.
Da circa un mese avevo detto addio a tutto ciò che avevo mai conosciuto.
L'amore era in cima alla lista.
Un mese prima, avevo visto per l'ultima volta gli occhi dell'amore della mia vita. Gli occhi più belli che avessi mai visto.
Avevo detto addio all'amore, in ogni sua forma, avevo detto addio all'affetto e alle persone che conoscevo o avrei potuto mai conoscere.
Avevo detto addio alla voglia che avevo sempre avuto di combattere e, come lei aveva fatto molto tempo prima, anche io, mi ero infine arresa.
Avevo detto addio alla mia famiglia, a quella che avevo avuto e a quella che non avrei mai potuto avere.
Avevo detto addio al mio passato, nel momento in cui avevo visto dirmi addio il mio presente, e avevo rinunciato da un po' anche al mio futuro.
Avevo detto addio a tutti i miei desideri, a quelli che avevo realizzato e a quelli che non avrei potuto realizzare mai più.
Avevo detto addio a tutto ciò che avevo sempre amato, perché ciò che volevo amare se n'era andato ed io ero rimasta bloccata tra i miei addii a tutto ciò che aveva mai avuto importanza e a tutto ciò che non ne avrebbe mai avuta.
Avevo detto addio alla vita.
E non me ne ero mai pentita. Non mi ero mai guardata indietro.
“Ascolti, sono sicura che lei è una brava persona. Ma io sono venuta qui per stare da sola. Per riuscire a non pensare. E lei mi sta facendo pensare.”
“Non volevo disturbarla. Ma l'ho vista e ho pensato che avrebbe potuto farle piacere un po' di compagnia.”
Non dissi niente.
“Come si può rinunciare all'amore? Non dicono tutti che arriva quando meno te lo aspetti?”
Mi stava facendo sul serio irritare il fatto che non mollasse.
Come avrei potuto essere più esplicita senza dirle di andare al diavolo?
“Non fa più per me, l'amore. Non fa più per me, tutto questo” feci un gesto. “Il mondo. La vita. Non fanno più per me.”
Mi alzai, prendendo il tè caldo che il barista mi aveva preparato per essere portato via.
Arrivai alla porta, ma poi mi resi conto di quanto scortese ero stata.
Mi fermai, voltando la testa verso destra e lanciando un'occhiata alla donna al bancone.
“Qual'è il suo nome?” chiesi.
Lei mi sorrise. Era un sorriso strano. Non era brutto, ma non era come quello che avevo visto decine di volte.
“Erica.”
Non c'erano fossette. Non c'era quella scintilla nei suoi occhi, piena di voglia di vivere e di continuare a lottare.
Non vidi niente.
“Passi una bella serata, Erica.”
Niente di niente.
Non sentivo più niente.
Aprii la porta ed uscii nella fredda notte di Seattle.v Non rividi quella donna mai più.
Sapevo che andare lì con un giorno di anticipo era inutile, ma lo avevo fatto lo stesso, perché a casa non c'era niente che potessi ancora chiamare casa.
Mentre quella città, in qualche modo, mi ricordava lei.
Mi incamminai verso l'hotel. Entrai nella mia stanza, come qualcosa di automatico.
Senza riuscire a pensare e allo stesso tempo cercando con tutte le mie forze di non farlo.
Mi lasciai cadere sul letto ancora con i vestiti addosso.
Non avevo la forza di fare altro, così rimasi lì, immobile.
Rimasi ad aspettare che la notte mi crollasse addosso e pregando perché lo facesse il prima possibile.
“Mi manchi” sussurrai alla notte.
Sentivo il mio cuore battere e mi chiesi come fosse possibile che continuasse, anche se io mi sentivo come se avesse smesso ormai da tempo di farlo.
Il mio cuore batteva. Ma io avevo davvero ancora un cuore?
Forse quel suono non era altro che un ricordo di qualcosa che avevo perso. Perché, infondo, chiunque vedendomi mi avrebbe dato ragione.
Ero morta.
Quando mi hai portato alla fontana di Trevi, abbiamo espresso un desiderio. Io ho desiderato che tu potessi essere felice anche senza di me. Ma adesso mi chiedo se sia possibile.
Così ho desiderato di poter essere, in qualche modo, insieme a te per sempre.

Rileggevo spesso la lettera di Arizona. E quelle righe in particolare le portavo con me ovunque, perché il suo desiderio si era avverato.
Lei era dentro di me, era dentro la mia anima, lei era me.

Il giorno dopo mi alzai presto.
Mi feci una doccia. Mi guardai allo specchio e vidi le occhiaie che mi segnavano il viso e il rossore diffuso degli occhi.
Quanto ancora avrei potuto piangere, prima di non avere più lacrime?
Era un mese che non riuscivo a fare nient'altro che piangere, ormai non potevo avere molte più lacrime da versare, giusto?
Uscii dall'albergo, continuando a camminare a piedi. Non avevo fretta.
Non sapevo cosa dire.
Avevo pensato che, quando sarei stata lì, mi sarebbero venute le parole giuste. Avrei trovato qualcosa che valeva la pena essere ascoltato.
Ma non sapevo cosa dire.
Così dissi quello che pensavo.
“Ero arrabbiata, all'inizio. Ero così arrabbiata con te. Per avermi dato retta. E per aver smesso di lottare. Per aver deciso di andartene e lasciarmi qui, senza di te. Ma poi, la rabbia è passata. E ho capito. Ho capito che eri troppo stanca per continuare a lottare. Ed io ero troppo occupata a cercare di avere più tempo, così non ho saputo apprezzare il tempo che ci era rimasto.”
Mi asciugai una lacrima.
“Ci sono un sacco di cose che non sono mai riuscita a dirti. E adesso non so più neanche cosa dovrei dire.”
Mi sentii un'idiota per quello che stavo facendo.
“Mi manchi” sussurrai. “Mi manca tutto di te. Ma più di ogni altra cosa mi manca vedere i tuoi occhi. Mi manca la luce che riuscivo a vedere in loro. Quella luce che mi diceva che non avevi ancora finito. Che avevi ancora del tempo da vivere. Che volevi ancora lottare. E a volte mi chiedo perché tu non sia riuscita a farlo. A lottare ancora, intendo. E poi mi manca il tuo sorriso. Mi manca vederti sorridere e vedere le tue fossette che ti davano l'aria di una bambina.”
Strinsi forte un pugno, fino a piantarmi le unghie nel palmo della mano.
“So che abbiamo avuto poco tempo insieme. Ma so anche che se io non fossi stata così stupida avremmo potuto averne un po' di più.”
Mi guardai intorno. Fortunatamente c'era poca gente, quel giorno.
“Sarebbe stato oggi. Ho fatto i conti. I tre mesi scadevano oggi.”
Non sapevo cos'altro dire.
Quello era il giorno in cui sarebbe morta se io non mi fossi messa in mezzo.
“La tua piccola quercia sta crescendo. Tra qualche anno sarà davvero molto alta e farà ombra a qualche persona che si fermerà a leggere un libro con la schiena appoggiata contro il suo tronco.”
Guardai il piccolo germoglio che avevo davanti e a cui stavo, in un certo senso, parlando.
“A volte penso che tu sia qui. Credevo mi stessi aspettando qui, vicino all'albero che abbiamo piantato insieme.”
Chiusi gli occhi e per un secondo mi sembrò di sentirla accanto a me.
Mi sembrò di sentire la sua voce pronunciare il mio nome.
“Calliope.”
Inspirai forte.
“Arizona...”
Quando aprii gli occhi, per la prima volta dopo un mese fu come vedere davvero.
Non c'era più quella nebbia che aveva avvolto le mie giornate, quello strano senso di sfocato che avvolge il mondo se hai le lacrime agli occhi.
“Penso che tu sia davvero qui, dopotutto. Deve essere per forza così, perché tu sei qui, sei ancora in questo mondo. Eppure non sei più dentro te stessa, quindi devi essere qui da qualche parte, no? Ed io credo che tu mi stessi aspettando qui.”
Presi il primo aereo per New York.
Sapevo cosa dovevo fare.

Andavo in ospedale tutti i giorni, ma quel giorno le pareti sembravano chiudermisi addosso con più decisione, il bianco delle mura sembrava infondere più tristezza.
Entrai nella stanza senza fare rumore, chiudendomi la porta alle spalle.
Mi sedetti accanto al letto.
“Torna a casa” sussurrai.
Mi sentii subito in colpa, ma decisi di insistere.
“Torna a casa. Da me. So di non avertelo mai chiesto prima, di non averti mai forzato, ma adesso ho bisogno che tu lo faccia per me. Ho bisogno che tu combatta. Perché io non riesco più a essere me stessa, senza di te.”
Presi una sua mano tra le mie.
La sentii fredda come solo la morte stessa avevo mai immaginato potesse essere.
“Se ti è rimasta ancora un po' di forza, usala adesso. Se puoi ancora lottare, decidi di lottare adesso.”
Non ci fu alcuna reazione.
Ma io non mi aspettavo davvero che ci sarebbe stata.
“Torna a casa presto. Perché non c'è più vita al mondo da quando non ci sei.”
Rimasi al suo fianco in silenzio per molto tempo.
Qualche ora dopo mi alzai, e con le certezze che avevo ritrovato a Seattle, vedendo il mondo finalmente per quello che era, me ne andai.

Prelevai tutto ciò che c'era nel mio conto in banca. Donai fino all'ultimo centesimo all'ospedale di New York.
A me non servivano quei soldi. Ogni giorno i miei hotel producevano una somma di soldi vergognosa.
Avevo abbastanza cose nel frigo per una settimana o due, quindi sarei stata apposto.
Sentivo che quello, in un certo senso, aiutava a bilanciare le cose con l'universo.
“Pronto?”
“Callie?”
“Derek, sei tu?”
“C'è una cosa di cui dobbiamo parlare.”
“Anche tu? Senti, ha appena chiamato Mark, ha visto il notiziario anche lui. Non morirò di fame, d'accordo? In qualche modo me la caverò.”
“Non so di cosa tu stia parlando, ma quello di cui volevo discutere era Arizona.”
Il cuore mi si fermò finalmente nel petto.
“Cosa è successo?”
Forse perché il mio cuore aveva capito che non poteva continuare a battere se lei se n'era andata, perché sarebbe stato come cercare di resuscitare un morto. Uno spreco di tempo e fatica. Quindi, alla fine, si era arreso anche lui.
“L'attività cerebrale si è intensificata. Il suo cuore ha ripreso a battere senza l'aiuto delle macchine, e oggi l'abbiamo stubata.”
All'inizio mi dissi di non sperare. Di andarci con i piedi di piombo. Poi decisi di chiedere quello che dovevo velocemente, perché il dubbio mi stava uccidendo.
“Si sta svegliando?”
“Forse sì, si sta svegliando.”
Rimasi in ospedale per tre giorni senza neanche uscire dalla stanza. I suoi genitori erano venuti e ventiquattr'ore dopo se n'erano andati di nuovo. Non avevano più speranza. E io potevo capirli, in fondo.
Ma io ero rimasta.
Ero rimasta perché io non potevo vivere, se lei non viveva.
Una volta avevo letto un libro di Nicholas Sparks, 'I passi dell'amore'. Il ragazzo paragona il suo amore al vento. Anche quando non può più vederlo, può ancora percepirlo.
Tenendo la mano di Arizona, potevo affermare con sicurezza che quel ragazzo era un'idiota. O non era innamorato così tanto.
Perché io lo vedevo.
Ogni momento, io lo vedevo, tutto intorno a me.
Lo vedevo nel sorriso di un estraneo, lo vedevo negli occhi di un bambino, lo vedevo in tutti gli alberi e in ogni aereo che tagliava il cielo.
In ogni cosa che mi strappava un sorriso, io vedevo il mio amore per lei. Ed ogni volta che sorridevo era perché qualcosa mi aveva ricordato lei.
Era ovunque, era tutto ciò che riuscivo a vedere e tutto ciò che non potevo toccare.
Era dentro di me.
Era riuscita ad entrare fin dentro la mia anima.
Mi aveva invaso come pioggia che continuava a scorrermi addosso e sotto la pelle.
Lei era me.
Ed io ero lei.
Stavo morendo.
Ogni giorno, ogni secondo in cui lei stava morendo, stavo morendo anche io.
Odiavo l'equilibrio che mi aveva imposto. Odiavo il fatto che mi sentivo come se stessi morendo ma non ero tecnicamente morta.
Ma amavo il fatto che lei non lo fosse ancora.
Per quello ero disposta a stare in bilico.
“Torna a casa. Torna da me.”
Trentaquattro giorni erano il limite di tempo massimo che potevo sopravvivere senza vivere. Sentii un movimento impercettibile della sua mano contro la mia e all'improvviso ero alla massima allerta.
Dopo diversi minuti fui sicura di essermelo solo immaginato.
Però poi sentii qualcosa.
“Calliope...”
“Sono qui. Sono proprio qui. Vicino a te, al tuo fianco.”
Le strinsi più forte la mano.
Qualche secondo dopo aprì gli occhi.
“Calliope.”
Ed io finalmente rividi quell'azzurro che così tanto mi era mancato.
I miei desideri infranti non sembravano più così vani.
Il mondo, la vita, potevano essere cose ancora adatte a me, dopotutto.
Il mio futuro non era più qualcosa di tetro e spaventoso, ma qualcosa a cui non vedevo l'ora di appartenere.
Tutto ciò che mi servì fu uno sguardo.
“Sì. Ti sposo, Arizona.”
E, all'improvviso, vivevo di nuovo.




Sì. Lo so. Era sdolcinata. Eh. Ma non ce la facevo a non terminarla con un lieto fine, mi dispiace...È solo che loro due sono così carine e io sono preoccupata per la prossima stagione, quindi sì...Sono felici e sono insieme e non faranno mai strani incidenti in auto perché in questo universo Shonda non esiste. Oddio, sono finalmente impazzita.

A presto!



Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Il nostro primo passo verso la felicità ***


Ok, per prima cosa, ringrazio davvero tutti quelli che hanno recensito e aggiunto la storia tra le seguite e chi ha letto.
Ecco qua l'ottava shot!

Buona lettura e piccola avvertenza: Arizona è un po' out of character! (Ma vedendo la 8x18, con il senno di poi forse nemmeno tanto...)


Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo passo verso la felicità


“Io voglio solo che tu mi dia un valido motivo per quello che stai facendo.”
“No, ascolta, so che vuoi una spiegazione, ma io non posso dartela. Non c'è alcuna spiegazione diversa dal semplice fatto che questo è quello che faccio. Questo è quello che sono. Lo sapevi fin dall'inizio, credo che mentiresti se dicessi che non ne avevi idea. E non c'è...non c'è nessuna storia triste della mia infanzia su come i miei genitori non mi prestassero attenzioni, o su come mio fratello mi picchiasse, o su una fidanzata che mi ha spezzato il cuore. Sono sempre stata così, e non chiederò scusa per questo. Questa è la mia natura.”
“Stronzate. C'è qualcun altro? Voglio saperlo se c'è un'altra.”
Mi strinse le braccia intorno al collo.
La allontanai senza guardarla neanche in faccia. Tutto quello era patetico.
“C'è sempre qualcun'altra quando si tratta di me.”
Me ne andai dalla stanza, senza fare caso agli occhi puntati su di me. Non sarei più tornata in quel locale. Tutte le donne che avevo incontrato in quel posto non mi avevano portato altro che guai.
Che c'era di così difficile da capire? Io ero sempre chiara. Non volevo una storia seria.
Eppure finiva sempre che una ragazza con cui ero stata e che non avevo mai richiamato mi supplicava di darle una seconda occasione. Come se le avessi mai dato una prima occasione.
Mi passai una mano tra i capelli, incamminandomi verso il campus.
Entrai nel dormitorio, chiedendomi se la mia compagna di stanza fosse già rientrata.
Aprendo la porta trovai sia lei che le nostre amiche.
“Teddy, credevo saresti uscita.”
“Aspettavamo te a dire la verità” mi salutò con un bacio sulla guancia.
C'erano anche Addison, Cristina, Meredith e Lexie. Eravamo tutte al nostro secondo anno di medicina, eccetto Lexie, che era al primo.
“Per stasera io passo. La bionda di tre sere fa mi ha insultato davanti a tutto il locale in cui eravamo.”
“Ma come diavolo fai a beccare quelle più schizzate, Arizona?” mi chiese Addison prendendo un sorso della birra che aveva in mano.
“Dimmelo tu, sei tu quella che sta con Teddy.”
Presi una sigaretta dal pacchetto che avevo in tasca e la accesi.
“Dovresti smettere con quella merda. Non ascolti quando andiamo a lezione? Il fumo uccide” mi rimproverò Cristina prendendomi la sigaretta e spegnendola dentro il posacenere sulla mia scrivania.
Mi gettai sul letto.
“Mi chiedo quanto andrà avanti ancora questa storia, Arizona” disse in tono un po' preoccupato Teddy.
“Per sempre” risposi con un sorriso, incrociandomi le braccia sotto la testa. “Le donne sono pazze di me.”
“Credo che facendo una stima approssimativa, calcolando quante donne lesbiche tra i venti e i trent'anni ci sono in città, con quante di loro sei già stata a letto, e ipotizzando che tutte loro abbiamo almeno cinque amiche che hanno avvertito e che non verranno mai a letto con te, hai ancora una trentina di donne rimaste.”
Guardai Lexie incredula per qualche secondo.
“Tu hai un microchip della NASA impiantato nel cervello, vero?” chiese Cristina, affascinata quanto me.
“Accidenti. Quindi tra un paio di mesi dovrò passare alle diciottenni?”
“O alle quarantenni” suggerì Meredith.
“O magari ad entrambe” commentò ironicamente Lexie.
“Oppure potresti trovarti una ragazza, una sola, e rimanerci per più di due ore e mezza” propose Teddy.
“L'amore non fa per me” risposi semplicemente.
“Come fai a saperlo se non lo hai mai provato?” chiese incuriosita Lexie.
“Tu non sei mai stata con una ragazza, ma sai che non ti piacerebbe anche se non ci hai mai provato, no?” risposi, fissando il soffitto sovrappensiero.
“Andiamo, deve esserci stato qualcosa che ti ha spinto a decidere di non avere legami sentimentali, non può essere una decisione basata sul niente, giusto? Capisco che a loro tu non lo dica, ma con noi potresti confidarti” continuò la Grey più piccola.
Io inspirai, tirandomi a sedere.
“Diciamo che c'è una persona per ognuno di noi. E ci sono quasi sei miliardi e mezzo di persone al mondo. Adesso, di questi circa quattro miliardi sono donne. Di queste diciamo che approssimativamente venti milioni sono lesbiche. In tutto il mondo. Come faccio a trovare una persona giusta tra altre diciannove milioni e novecentonovantanove mila novecentonovantanove che sono sbagliate?”
“In realtà, due in meno, se consideri che Addison e Teddy sono impegnate” mi corresse Meredith ridendo.
“Dovresti cercare di fare una stima approssimativa su quelle che hanno più o meno la tua età” suggerì Lexie. “Elimineresti almeno altri dieci milioni di candidate. Questo ci lascia a nove milioni e novecentonovantanove mila novecentonovantasette.”
“Come volevo dimostrare, è una causa persa. Specialmente se consideri che quella persona potrebbe anche essere in Antartide, in questo preciso momento.”
“D'accordo, ma vedi, tra quelle che non sono la tua anima gemella, ce ne sono almeno la metà che potrebbero comunque andare bene per te.”
Io sospirai. “D'accordo, ascolta attentamente, perché te lo spiegherò una volta sola.”
Lei annuì.
“Adesso immagina che ti abbia dato ascolto, che abbia deciso di stare con una delle persone che vanno bene per me anche se non sono la mia anima gemella. E immaginati questo. È stata una giornata perfetta, grandiosa. Ho ottenuto la promozione che volevo, tutto sta andando a gonfie vele per me. Entro in casa con una bottiglia di champagne economico che ho comprato mentre rientravo nell'appartamento da quattro soldi che ho preso quando ero troppo giovane per permettermi un mutuo. Giro la chiave nella porta e sento dei rumori strani, così capisco che lei è a casa. Entro, richiudendomi la porta alle spalle ed entrando, la vedo. È sdraiata sul divano, mentre i suoi vestiti sono su tutto il pavimento dell'ingresso. Si sta facendo la sua segretaria dentro casa nostra. Nel giro di tre giorni va tutto a puttane, perdo l'appartamento, i soldi nel conto bancario, perdo tutte le certezze che avevo. Ma che ci vuoi fare? Infondo lei era solo la mia seconda miglior soluzione.”
“Questo è altamente improbabile. Avresti scelto davvero un pessimo soggetto se succedesse una cosa del genere” osservò Lexie.
“Lexie, adesso chiudi gli occhi, ok?” la incoraggiai, senza perdere la pazienza. “Lavoro come chirurgo in uno dei cinque migliori ospedali degli Stati Uniti d'America, sono la migliore nel mio campo, ci sono persone che mi invidiano, altre che fanno la fila per far operare i loro figli da me. Sì, sono un chirurgo pediatrico. Sono passati dieci anni da questa sera, forse di più, non è importante. Quel giorno è stata una delle peggiori giornate dell'ultimo anno, una cosa massacrante. Sei interventi, quattro complicazioni minori, tre arresti di cui due dello stesso bambino. Sono distrutta. Entro in casa e tutto quello che voglio è non uscire mai più dal letto. Ma poi, entrando, poso la borsa e le chiavi sul mobiletto accanto all'ingresso, e vedo lei. È vestita semplicemente con dei jeans e una maglietta, ma è la maglietta che le fascia il seno, e quelli sono i suoi jeans che preferisco. Mi saluta con un sorriso e un bacio sulle labbra, e mi porge una singola rosa rosa, e mi dice che è il simbolo della felicità perfetta. Mi fa accomodare e mi serve la cena che ha cucinato per me, perché quel giorno ha staccato prima da lavoro. E quando le chiedo perché abbia fatto tutto quello, lei mi risponde soltanto con una scrollata di spalle e mi guarda negli occhi dicendomi solo che mi ama. E io sono felice.”
“Wow.”
“Già. Ecco la differenza tra la mia anima gemella ed una qualsiasi delle altre dieci milioni.”
“Ok, tecnicamente questi erano i due estremi di quello che potrebbe mai accadere. Non è detto che se incontri la tua anima gemella avrai successo nel tuo lavoro e se hai affianco qualsiasi altra persona tutto il resto della tua vita andrà a rotoli. Ci sono un'infinità di combinazioni, e credo che la miglior soluzione, invece di farti tutte le donne che incontri o cercare la tua anima gemella in Antartide, potrebbe essere quella di trovare una donna onesta e rispettosa ed essere felice anche se le cose non saranno sempre perfette. Trova una donna che ti ami e che tu ami, con cui passare il resto della tua vita, con cui fare dei figli, cose del genere” suggerì Lexie.
“Sai, per la maggior parte di noi non farebbe differenza” dissi loro. “Anche se incontrassimo la nostra anima gemella, probabilmente la guarderemmo negli occhi e non ce ne renderemmo neanche conto.”

Il giorno dopo ci fermammo tutte insieme a fare colazione nella caffetteria dell'università.
Stavamo ridendo e scherzando, come ogni mattina, quando sentii una voce estranea alle mie spalle.
“Addison, hai dimenticato il libro di biochimica da me ieri” lo gettò sul tavolo, abbracciando abbastanza calorosamente Addison.
Teddy si alzò. Pensai che le avrebbe dato un pugno in faccia e stavo per alzarmi a darle man forte quando vidi che anche lei la abbracciò.
Dette il cinque a Cristina e poi a Meredith. Infine si voltò verso Lexie.
“Piccola Grey, i tuoi occhi risplendono più del solito oggi.”
“Callie, per la centesima volta, non intendo baciare nessuno dei due.”
Io mi schiarii la voce. “Baciare?”
“Ricordi Mark Sloan, te l'ho presentato” chiese Addison. “Lui e Callie hanno scommesso su chi dei due riuscirà a convincere per primo la piccola Grey a baciarlo.”
“Callie? La tua migliore amica di Miami?”
“Già. Mi sono trasferita qui a Seattle da un paio di mesi, a dire la verità.”
“Arizona Robbins” mi presentai, stringendole la mano. “E come mai io non ti ho mai visto? A sentire Addison non facevate altro che stare insieme a Miami.”
“Lo facciamo ancora, in realtà” mi informò lei, perplessa dal fatto che non lo sapessi, guardando poi Addison.
“Nell'ultimo paio di mesi non sei stata quasi mai insieme a noi” si giustificò la rossa con me.
“Devo andare ragazze o farò tardi a lezione. Piccola Grey, non lasciare che Sloan vinca la scommessa.”
Se ne andò sorridendo e con le mani nelle tasche del suo giubbotto di pelle.
Qualcosa di lei mi aveva fatto battere il cuore più veloce del solito.

Un paio di giorni dopo ero seduta sull'erba, con Lexie e Addison sedute su una panchina proprio accanto a me.
La vidi arrivare con un sorriso sulle labbra.
“Un fiore per i tuoi pensieri, piccola Grey” la salutò sedendosi e porgendole una rosa bianca.
“Il fiore simbolo della purezza” dissi io ad alta voce, mentre Lexie la accettava con un piccolo sorriso.
E fu quel piccolo sorriso che mi disse tutto quello che c'era da sapere.
“Lexie ha una cotta per qualcuno” canticchiai sottovoce, gli occhi nuovamente piantati sul mio libro. Poi sbirciai.
Callie le spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio mentre lei arrossiva.
“Sto iniziando a pensare che non vuoi baciarmi perché vuoi che continui a portarti fiori, piccola Grey.”
Lexie arrossì ancora di più, guardandola alzarsi.
“Addison, vieni a studiare insieme a me?” chiese. La rossa annuì alzandosi. “Arizona, quella maglietta ti sta benissimo” si complimentò con me.
Alzai un sopracciglio, confusa dalle sue parole.
“Oh, non ci sto provando con te, se è quello che pensi” si affrettò ad aggiungere. “Addison mi ha detto che tu non sei il tipo da relazione stabile. Me lo ha detto anche Teddy. E Lexie, Mark, una ragazza ti ha visto passare prima ed è scoppiata a piangere davanti ai miei occhi” elencò.
Risi della sua buffa espressione che sottolineava in modo esagerato il fatto che fosse una cosa strana.
“Non succede spesso come dicono” risposi.
“Dicono che succede ogni volta che entri in una stanza” mi fece sapere in finto tono cospiratorio.
“Le mie amiche sono sempre così gentili con me. Mi vogliono davvero bene” risposi io ironicamente.
“In realtà, cercano di proteggere me. Tu spezzi i cuori ed il mio è già messo male così, quindi, capisci...”
“Certo.”
Mi sorrise in un modo che mi fece desiderare di poter essere ciò che stava cercando.
“Ciao Arizona” mi salutò educatamente, andandosene.
Addison la seguì, dopo avermi lanciato uno sguardo di avvertimento.
“Sai chi è che le ha spezzato il cuore, per caso?” chiesi a Lexie.
Lei annuì. “Una ragazza, a Miami. Erica qualcosa, se non sbaglio. Pare che si piacessero, le cose sembravano andare bene, ma poi, quando ha provato a baciarla, Erica le ha detto di punto in bianco che non voleva avere niente a che fare con una lesbica.”
“Che razza di persona fa una cosa del genere?”
“Non lo so. Ma da quello che ho sentito la ragazza di Miami era la prima per cui Callie abbia mai avuto una cotta.”
Questo significava che non era mai stata con una donna. Era più complicato di quello che pensavo.
“Adesso c'è una ragazza del mio anno che le fa il filo, ma lei non sembra molto interessata. Eppure sembra sia il suo tipo, bionda, occhi azzurri.”
“Come me. Bene” commentai con un piccolo sorriso.
“Oh, no, Arizona. Callie è una brava persona, non farle del male, ti prego. Tutti le vogliono bene, tutti vogliono che sia felice e Addison ti odierebbe se la facessi soffrire.”
“Certo, come vuoi. Senti, devo andare adesso” mi alzai, ripulendomi dall'erba che avevo sul retro dei jeans. “E, senti Lexie, non baciare Sloan, ok? Lui non fa per te. Non prova sentimenti e tu hai il cuore nella tua...”
“Ti prego, non dirlo. Mia sorella lo dice abbastanza per tutto il resto del mondo.”
Risi, andandomene.

Tre giorni dopo ero seduta in una panchina dentro il campus.
“Calliope Torres, secondo anno di medicina. Mi chiedo come ho fatto a non notarla a lezione.”
“Perché negli ultimi due mesi sembrava che ti fosse passato sopra un camion quando eravamo a lezione” mi rispose Teddy. “Riuscivi a malapena a seguire e questo non è da te. Dovresti darti una regolata.”
Stavo per ribattere con un commento sfacciato quando vidi Calliope entrare nella mensa con una ragazza.
“Sai una cosa? Hai ragione. Dovrei darmi una regolata. Da dopo di lei” sussurrai le ultime parole tra me e me, alzandomi senza prestare attenzione all'occhiata incredula di Teddy e camminando nella sua direzione.
“Questo è molto gentile da parte tua, Sadie, ma...”
“Calliope.”
Lei si voltò nella mia direzione, l'imbarazzo che provava con l'altra ragazza rimpiazzato da un sorriso genuino.
“Arizona. Chi ti ha detto il mio nome completo?” ed ecco di nuovo l'imbarazzo.
“Segreto” sussurrai, cercando di giocarmela bene.
“Ucciderò Addison” replicò con tono scherzoso.
In realtà avevo cercato il suo nome nel database degli studenti cercando di sapere qualcosa che mi aiutasse come una dodicenne con una cotta per la sua nuova amichetta del cuore. Meh. E oltretutto non avevo scoperto niente di niente.
“Sadie” salutai la ragazza al suo fianco.
“Ah, ti ricordi il mio nome. Un privilegio che non tutte le tue ragazze hanno.”
“Me lo merito, presumo” commentai con la mascella serrata.
Ci fu silenzio per alcuni momenti.
“Dimmi, Sadie, sapevi che Arizona non ha relazioni stabili, quando sei stata con lei?” chiese Callie con calma, quasi come se fosse una domanda casuale. La bionda annuì. “E tu, invece, volevi una relazione” annuì di nuovo. “Una relazione che lei non ti ha mai promesso in alcun modo” ci fu un altro assenso. “Eppure sei stata con lei ugualmente. E adesso la biasimi per aver fatto quello che sia lei che te sapevate che avrebbe fatto e che vi aspettavate che avrebbe fatto. Perché?”
Lei scrollò le spalle con un'espressione incredula sul viso.
“Non dirmelo. Pensavi che avrebbe fatto un'eccezione per te, giusto? Anche se non ti ha mai suggerito niente del genere, né a parole, né a gesti. Se hai accettato le condizioni significa che ti andavano bene quelle condizioni, quindi non capisco perché essere scortese.”
Le rivolse un sorriso dispiaciuto per comunicarle la sua comprensione in ogni caso, e poi se ne andò. Io sentii il bisogno di accompagnarla ovunque avesse deciso di andare.
“Grazie per esserti lanciata in mia difesa” le dissi, raggiungendola.
“Mi irritava il fatto che ti stesse accusando di qualcosa che non avevi fatto, quindi, sai, non c'è di che.”
Camminai al suo fianco in silenzio.
Il suo abbigliamento mi incuriosì. Io ero abbastanza longilinea, ed avevo uno stile molto semplice, in realtà. Diciamo che per lo più indossavo jeans scuri e magliette da maschiaccio. Lei era molto più sinuosa di me, eppure anche se i jeans le stavano a meraviglia e le magliette erano molto più femminili, non era mai eccessivamente appariscente, ma riusciva ad essere meravigliosamente semplice.
“Allora...dove stai andando?”
“A prendere un caffè.”
“Posso accompagnarti?”
“Certo che puoi, ma non credo che dovresti scegliere di farlo.”
“E perché no?”
“Perché finirai per ferirmi, proprio come è successo a Sadie.”
“Perché dovrei? Non sostenevi che non fosse colpa mia?”
“Non lo è stata. E non lo sarebbe neanche con me, perché non diresti niente e non faresti niente per farmi credere che per me faresti un'eccezione. Ma poi mi sorrideresti con quelle fossette irresistibili e mi guarderesti con interesse, ed io mi ritroverei a pensare che dopotutto potrei anche riuscire a farti cambiare, ma questo non succederebbe alla fine. La colpa sarebbe mia, ma non significa che non sarei ferita.”
“E perché non potrebbe succedere?” chiesi aggrottando le sopracciglia.
“Non mi reputo abbastanza speciale per riuscire a cambiare qualcuno come te.”
“Non lo saprai mai finché non ci provi, giusto?”
Mi guardò, con l'aria realmente spiazzata.
“Tu vuoi che io ci provi?”
“Io...” non lo sapevo in realtà. O meglio, volevo che ci provasse, sì, ma non sapevo se volevo che ci riuscisse. “Io credo che tu sia abbastanza speciale per qualunque cosa al mondo.”
Ci fu silenzio.
“Andiamo. Ti offro quel caffè” mi disse, aprendo per me la porta.
Ci sedemmo ad un tavolo con due cappuccini in mano.
“Allora, tu non sei il tipo di persona che mente, giusto?”
“Esatto. Trovo che le bugie siano stupide. Mentire porta all'infelicità. Io non mento, non lo faccio e basta.”
“Questa è una cosa di te che apprezzerò molto. Quindi se io adesso ti facessi una domanda, tu saresti onesta con me?”
“Oppure non risponderei, già. Questa è la linea base di come gestisco le domande.”
Rise, sorseggiando il suo caffè.
“Quando è stata l'ultima volta che sei stata con una ragazza?”
Ci pensai un paio di secondi. “Otto giorni fa.”
“E quando sarà la prossima?”
“Non lo so, tu quando sei libera?”
Rise in un modo che mi fece aggrovigliare lo stomaco. Ma che diavolo mi stava facendo quella donna?

Diventammo amiche molto in fretta, ed io smisi di fare casini in giro. Avevo imparato un sacco di cose su di lei, come lei su di me. Cose che non avevo mai detto a nessuno prima. E questo mi sorprese.
Successe circa tre mesi dopo la prima volta che l'avevo incontrata.
Una sera le portai un fiore. Non avevo mai regalato un fiore a qualcuno prima di allora. Lo avevo scelto per il suo significato.
“Un giglio?” mi chiese, stupita. “E quale sarebbe il suo significato?”
Avrei dovuto farle vedere il mio film preferito, prima o poi.
“Ti sfido ad amarmi.”
Fu tutto quello che risposi, guardandola negli occhi. E lei decise di accontentarmi.

Mi lasciai cadere sdraiata sulla schiena. Quella doveva essere la cosa più incredibile mai accaduta nella storia del mondo. O qualcosa del genere.
Stavo cercando di riprendere fiato quando lei si alzò e iniziò a rivestirsi.
“Dove stai andando?”
Non mi rispose se non quando fu pronta per andarsene.
“Io non faccio cose come questa di solito. Non è da me. Io vado a letto con una persona solo se ho una relazione con quella persona. E questo non è il caso, quindi...già, credo che adesso me ne andrò.”
“Ok, ma vedi, se te ne andrai adesso la tua reputazione sarà...distrutta” cercai di farla ragionare. “Se invece rimani fino a domattina, mi permetti di portarti a fare colazione, e poi accetti un appuntamento con me, inizieremo una relazione e la tua reputazione sarà al sicuro. Pensaci.”
Lei mi guardò con una dolcezza con cui nessuno era mai riuscito a guardarmi prima. Sincera. Senza doppi fini. Era una bella sensazione.
“Addio Arizona.”
“Tornerò quando mi chiamerai. Non c'è bisogno di dire addio.”
Rise piano. “Adesso citi Narnia?”
“Regina Spektor, in realtà.” Mi strinsi nelle spalle. “Rimani con me.”
“È davvero quello che vuoi?”
“Sì, Calliope” risposi senza esitare.
Si sedette sul mio letto, rivolgendomi le spalle. Io mi sistemai dietro di lei, abbracciandola.
“C'è una cosa che devi promettermi non succederà mai.”
“Cosa?” domandai.
“Non dovrai mai tradirmi.”
“Va bene” risposi senza il minimo accenno di esitazione.
Mi stesi sul letto, prendendole la mano, e lei si sdraiò accanto a me.
“Con quante ragazze sei stata da quando ci siamo conosciute?” chiese all'improvviso.
“Solo con te.”
Sapeva che non mentivo e la vidi rilasciare un piccolo sospiro.
“Dammi un'occasione.”
“D'accordo” rispose guardandomi negli occhi. “D'accordo.”

Riuscii a far funzionare le cose, per un paio di mesi.
Poi incontrai una ragazza che conoscevo mentre ero in fila ad una caffetteria.
Ci salutammo mentre aspettavamo le nostre ordinazioni.
Feci una battuta idiota. Lei rise. Poi appoggiò la mano sul mio braccio.
“Siamo state bene, insieme. Potremmo rifarlo qualche volta” mi disse con un sorriso che fece immediatamente sparire il mio.
“No, non credo. Le cose sono diverse adesso.”
Arrivarono i due caffè che avevo ordinato.
“Diverse? Ascolta, ti lascio il mio numero, d'accordo? Se cambi idea...” prese una penna e lo scrisse sul cartoncino della mia tazza.
Percepii qualcuno al mio fianco prima di sentire la voce.
“Oh, no, lì non va bene. Arizona è molto distratta, lo butterebbe via senza pensarci due volte, finito di berlo. Scriviglielo su una mano. O direttamente sul cellulare, magari.”
“Emily, devo andare adesso. È stato bello vederti, ma come ho detto le cose sono diverse.”
“Tu chi saresti?” chiese però lei sfacciatamente.
“Nessuno. Io non sono nessuno” rispose lei casualmente ma con una nota triste che riuscii a percepire nella sua voce. “Comunque hai sbagliato tazza. Quello su cui hai scritto il numero è il mio caffè” le disse, prendendolo e sorseggiandolo. “Non preoccuparti. Lo restituirò ad Arizona quando lo avrò finito.”
Si allontanò da noi. Io mi affrettai a correrle dietro.
“Andiamo, mi hai sentito dirle che non volevo rivederla. So che mi hai sentito.”
“Sì, ti ho sentito” rispose in modo secco.
Uscimmo dall'edificio.
“E allora qual'è il problema?”
“Nessun problema.” Di nuovo risposta secca.
“Non mentirmi” mi misi davanti a lei. “Non voglio che tu mi menta, mai, per nessun motivo” le chiesi con voce tenera.
Lei guardava in basso, tra le mie scarpe e le sue.
“Tu le hai sorriso, hai flirtato con lei, facevi battute. Tu non sei un tipo geloso, e mi sta bene, ma io lo sono. E non è un problema. Tra un paio d'ore mi sarà passata. E non devi...non devi smetterla perché mi infastidisce, non te lo sto chiedendo. Però ho bisogno di un paio d'ore, ho bisogno solo...Devo andare a lezione, adesso. Ci vediamo più tardi?”
“Certo. Certo, ci vediamo più tardi” le accarezzai i capelli, alzandomi in punta di piedi per baciarla sulla tempia.
Lei mi passò accanto, ma poi si voltò di nuovo, tendendo il braccio verso di me. Io vidi cosa mi stava porgendo, seguendo i suoi occhi puntati in basso. Potevo leggere le cifre del numero di telefono scritto sul cartone.
E all'improvviso le mie emozioni cambiarono. Annuii più volte, lentamente. Poi afferrai il bicchiere di colpo, scagliandolo via con tutta la forza che avevo, verso una zona vuota del parco che avevamo attorno.
Lei se ne andò senza guardarmi negli occhi. Era delusa, potevo capirla. Ed io ero arrabbiata, ma non con lei. Ero arrabbiata con me stessa, perché era mia abitudine provarci con una ragazza carina che mi parlava. Questo non significava che ci sarei andata a letto, però. Ma lei non lo sapeva. E come poteva iniziare a fidarsi di me, se io continuavo a comportarmi come un'idiota?
Con il desiderio di tirare un pugno contro una parete, le andai dietro. Avevo lezione insieme a lei.
Quel pomeriggio ci trovammo con Teddy e Addison per studiare. Avevamo deciso di non dire alle nostre amiche di noi. Non feci che fissarla per tutto il pomeriggio, pregando che mi dicesse qualcosa, che mi perdonasse.
“Sei strana forte in questo periodo, lo sai?” mi fece presente la mia cosiddetta migliore amica. “Non pensavo che lo avrei mai detto, ma forse dovresti rilassarti un po', sai, con una ragazza.”
“Continua a studiare Teddy” le risposi io, facendo finta di leggere quando un secondo prima stavo fissando Calliope.
“Sai, ha ragione. Sembri sempre distratta, come se avessi un chiodo fisso” continuò Addison. “Se non ti conoscessi, direi che hai una cotta.”
Io non risposi, continuai a fingere di leggere e guardando di sottecchi la bellissima ragazza seduta alla mia sinistra.
“Non stai negando” disse incredula Teddy. “Non sta negando!” esclamò in direzione della sua ragazza. “Voglio sapere tutto. Chi è, cosa fa nella vita, quali sono le tue intenzioni con lei...Andiamo, spara.”
“Smettetela entrambe, ok? Sto cercando di studiare, e credevo che fosse questo il motivo per cui eravamo qui, per studiare. Leggere libri e ripetere insieme quello che c'è scritto sopra, tutto qui, niente di eccessivamente difficile, quindi cerchiamo di concentrarci su questo, ok? Proprio questo che sto cercando di fare, leggere, ripete, imparare. Assorbire conoscenza dai libri, cosa a cui solo io sembro interessata.”
Continuarono a fissarmi a bocca aperta finché Calliope si schiarì la voce, appoggiando una mano sul mio libro e girandolo di centottanta gradi.
“Dubito che 'assorbirai conoscenza' tenendo il libro al contrario” commentò senza staccare gli occhi dal suo.
“Grazie” mormorai arrossendo e scomparendo dietro la copertina del volume enorme che avevo tra le mani. Ero stata beccata ed entrambe lo sapevamo.
“Ok, una di voi due ci spiega che avete? Arizona, sei ancora più suscettibile del solito e Callie, tu hai a malapena aperto bocca” chiese dopo qualche istante Addison.
“Non c'è niente che non va.”
“Niente di niente.”
“Tutto va alla grande.”
“La vita è fantastica. Addison, voglio farti una domanda” iniziai poi improvvisamente. “Diciamo che tu e Teddy state prendendo un caffè, e tu stai facendo la fila, quando incontri una ragazza con cui sei stata che ti saluta, così ricambi, le sorridi, fai un paio di battute. Poi lei ti chiede di rivedervi e tu le dici di no, perché...beh, stai con Teddy. Lei insiste e ti lascia il suo numero. Tu non hai intenzione di usarlo, ma ecco che poi arriva Teddy, che ha sentito tutta la conversazione. Quanto ha il diritto di rimanere arrabbiata?”
“Non ha il diritto di essere arrabbiata” rispose lei semplicemente.
“Certo che lo sarei. Le hai sorriso, hai fatto battute. Sarei arrabbiata eccome” replicò lei.
“Chiunque lo sarebbe” disse Calliope.
“No, invece” replicò Addison. “Non avevo intenzione di chiamarla, stavo solo facendomi due risate con lei. Ma Teddy ha ragione, un po' ci ho provato. Quindi diciamo...sei ore.”
“Sei ore” ripetei guardando Calliope. Ne erano passate dieci.
“Sei ore?” chiese incredula Teddy. “Almeno due giorni. E solo se sono due giorni che stiamo passando a stretto contatto, altrimenti almeno tre.”
“Che?” chiesi improvvisamente nel panico per il fatto che avrei dovuto fare a meno del suo sorriso così a lungo.
“Sentito? Tre giorni” replicò Calliope posando il libro e guardandomi, finalmente, con una aria trionfante che non mi piacque affatto.
“No, è ridicolo. Te ne concedo uno, perché stiamo insieme da due anni. Ed un giorno scolastico normale, perché è una sciocchezza. Non l'avrei mai richiamata e non ti avrei mai tradito” continuò Addison.
“Ok, sì. Un giorno” concordò Teddy.
“Ma se invece fossi stata con lei meno tempo?” chiesi ad Addison. “Diciamo, non so...” finsi di pensare “...un paio di mesi?”
“Allora diciamo dieci ore. Teddy può essere arrabbiata dieci ore.”
“Di cui almeno tre passate con lei, per farle vedere che sto tenendo il broncio” concluse Teddy.
“No!” replicò Calliope. “Devi tenere duro, dieci ore soltanto non le faranno capire che ha sbagliato.”
Teddy aprì la bocca per rispondere.
“Sa già che ha sbagliato, non c'è bisogno che tu continui a non parlarle” risposi io.
A quel punto fu Addison ad aprire la bocca per replicare, ma di nuovo venne interrotta.
“No, secondo me non ti rendi conto di aver sbagliato, altrimenti capiresti che per me dieci ore non sono abbastanza.”
Teddy sembrò confusa e si preparò a intervenire ancora una volta.
“Io dico che dieci ore sono abbastanza.”
Addison si schiarì la voce, ma venne totalmente ignorata.
“Non sono abbastanza, invece. Smetterò di essere arrabbiata quando non mi sentirò più così tanto...d'accordo, va bene, ok, dieci ore” si arrese, vedendo i miei occhi da cucciolo smarrito. Non fallivano mai.
Teddy e Addison si scambiarono un'occhiata e poi tornarono a fissarci.
“Sono le sei, stamani erano le otto. Sono passate dieci ore” le dissi io, ancora una volta ribattendo a quello che aveva detto.
“Per otto avevamo lezione. Posso farti sopportare il mio broncio per tre ore e ti garantisco che intendo sfruttare ogni minuto che mi è concesso.”
“Oh, andiamo, abbiamo tutte le lezioni insieme. E mi sono sempre seduta vicino a te, sopportando il tuo silenzio ostinato. Per favore, mi merito di essere perdonata in questo preciso istante. Non accetterò niente di diverso.”
Lei scosse la testa, fingendo incredulità per il fatto che mi stavo lamentando come una bambina di cinque anni, ma potevo vedere che stava cercando di trattenere un sorriso.
“Ok” concesse infine.
“Sì?”
“Sì.”
Senza pensarci neanche un secondo di più sorrisi e la baciai a stampo sulle labbra.
Poi vidi le nostre due migliori amiche guardarci in modo strano.
“Me lo sono sognato o Arizona Robbins ha appena implorato di essere perdonata?” sussurrò Teddy ad Addison, ma senza distogliere gli occhi da noi.
“Che diavolo hai fatto ad Arizona?” chiese lei a Callie. “Ok, no, non voglio saperlo. Ma qualsiasi cosa sia, continua.”
Io risi, nascondendo il viso tra la spalla e il collo della bellissima donna al mio fianco.

Due giorni dopo, per farmi perdonare, decisi di portarla al cinema a vedere un film d'azione. Io li odiavo.
Sempre con lo scopo di farmi perdonare, le avevo portato una rosa. Una sola. Di colore rosa.
“Tu mi rendi felice” avevo aggiunto porgendogliela.
Sia io che lei sapevamo che non ero riuscita a dirle che ero innamorata di lei ed avevo cercato di rimediare con la seconda migliore frase. Ma per lei era abbastanza. Sapevamo entrambe che l'amavo davvero.
Quando arrivammo al cinema, i biglietti per il film d'azione erano finiti e così vedemmo una commedia romantica. Il mio genere di film molto più di quello di Callie.
“Ok, questo non va bene come appuntamento per farmi perdonare, stiamo facendo una cosa che piace molto di più a me” le dissi mentre stavamo facendo la fila per i popcorn.
“A me sta bene. Sono qui con te, no?”
Sorrisi, prendendole la mano.
Dopo il film la riaccompagnai a casa, scendendo dalla macchina e camminando fino alla porta del suo appartamento. Di solito ci incontravamo a casa sua perché io vivevo con Teddy, mentre lei era da sola, nell'appartamento di cui suo padre pagava l'affitto.
“Callie” sentii una voce chiamare quando fummo a un paio di metri dalla porta.
Dal muretto laterale che circondava l'edificio di alzò una donna.
“Erica? Che ci fai a Seattle?”
“Sono venuta a dirti che mi dispiace di aver dato di matto in quel modo. Mi ci è voluto un po' per fare i conti con quello che mi stava succedendo. Ma adesso sono qui. E sono venuta perché sono pronta per stare con te.”
Lei la guardò come se fosse pazza.
“Non so davvero come rispondere ad un'affermazione del genere.”
“Che ne dici di 'no'?” chiesi io allora.
“Tu chi sei?” mi chiese lei con una strana smorfia asimmetrica.
“La sua ragazza. E chi diavolo sei tu?” risposi io. Stavo esagerando, e lo sapevo. Anche in quel preciso momento, lo sapevo.
“Callie, ti prego” continuò ignorandomi “tu sai che tra noi può funzionare. Io ti amo.”
Mi misi davanti a Callie e tentai di apparire arrabbiata. Ci riuscii. La bruna mi prese per le spalle, tirandomi indietro verso se stessa.
“Vieni, non preoccuparti, è tutto ok. Andiamo” mi disse, prendendomi la mano e portandomi dentro casa.
Io la seguii. Quando chiuse la porta mi tolsi il giacchetto in un secondo e lo gettai sul divano.
“Sei arrabbiata? Mi dispiace, io non avevo idea...”
“Che ti amasse?” alzai un po' la voce.
“Che fosse qui” replicò lei con calma. “Mi dispiace se ti ha fatto arrabbiare, ma io non voglio lei, e tu lo sai.”
“Non sono arrabbiata” risposi con un nodo in gola che mi fece paralizzare.
“Non lo sei?”
“No. Io sto...” scossi la testa. Sentii salire le lacrime. “Sto morendo di paura. Non ho mai avuto così tanta paura in vita mia” mi passai una mano tra i capelli. “E sei stata tu a farmi diventare così. Sei stata tu a entrare nella mia vita e farmi sentire il bisogno di te così forte che adesso sono terrorizzata dal fatto che potresti andartene. E io non ci avevo mai pensato, io...”
Non riuscivo a respirare. Lei se ne accorse, mi fece sedere sul divano, mi accarezzò la schiena.
“Potresti andartene. Potresti decidere che vuoi stare con lei anche se ti ha spezzato il cuore e andartene, decidere che vuoi qualcuno migliore di me e...come...”
La guardai e non riuscii a controllare il panico che mi aveva invaso.
“Come posso...” le accarezzai il viso e le labbra. “Il tuo sorriso mi fa sentire meglio” la guardai pregandola silenziosamente di non lasciarmi, non riuscendo a ricordare che in realtà non lo stava facendo.
Lei mi abbracciò. “Ho paura anche io. Ma mi sta bene, se possiamo avere paura insieme.”
Lasciai che mi baciasse. Lasciai che per la prima volta vedesse le mie emozioni. Le lasciai vedere cosa c'era dentro di me.
L'avevo trovata. E non era in Antartide. Era proprio davanti ai miei occhi. Lo era stata per tutto il tempo.
Calliope era la mia anima gemella.

Non pensai mai di essermi sbagliata. Nemmeno molti anni dopo.
Aprii la porta di casa, posando la borsa e le chiavi sul mobile dell'ingresso.
Anche dopo tutto quel tempo, sapevo ancora che Calliope era stata l'unica donna che avessi mai amato completamente. Che avessi mai amato in assoluto, a dire la verità.
Sfiorai la fede che avevo al dito.
Lo facevo ogni volta che pensavo a lei.
“Teddy, sono a casa” urlai per farmi sentire.
Di solito mi veniva incontro, quando rientravo. Quella sera non lo fece.
Lanciai uno sguardo in soggiorno e da lì riuscii a scorgere il vaso dove io e mia moglie tenevamo le rose che di volta in volta ci regalavamo, quelle che non erano ancora appassite e poi venivamo buttate.
Entrai in salotto, trovandola mentre tentava di risistemarsi i capelli fingendo di non essere stata nel bel mezzo di qualcosa un secondo prima.
“Addison, è un piacere vederti.”
Lei si schiarì la voce, salutandomi con un sorriso e un cenno della mano.
“Allora, da quanto va avanti?” chiesi con tono casuale, mentre mi toglievo il giacchetto.
“Cosa? Non c'è niente che...”
“Teddy, smetti di mentire, d'accordo? È possibile che ci ricaschi ogni volta?”
Teddy aveva l'abitudine di litigare con Addison ogni tre mesi e di fare pace con lei andandoci a letto.
Poi mi diceva che l'avrebbe lasciata e che tra loro non avrebbe funzionato.
“Ti ho affidato la cosa più preziosa che ho al mondo e tu...”
“Oh, grazie davvero per la considerazione” sentii la porta di casa che si richiudeva di nuovo.
“Siete a pari merito, tesoro. Lo sai.”
“No, non è vero. Lei vince sempre un pochino” mi rispose avvicinandosi.
“Un pochino” sussurrai, avvicinandomi pollice ed indice per indicare che era davvero di poco.
Quando rise la baciai, togliendole il fiato.
Poi la guardai negli occhi.
Mi porse una singola rosa rossa.
“Passione. Più tardi discuteremo questa tua scelta in modo più approfondito, ok?” le dissi sorridendole suggestivamente.
“Ci contavo” rispose ricambiando il mio sorriso.
La baciai di nuovo, andando poi a sistemare la rosa con le altre sul camino.
“Teddy, Addison” le salutò. “Sapete, secondo me dovreste riprovare ad avere una relazione normale. Le cose sono parecchio cambiate dai tempi del college.”
“Forse lo faremo” sussurrò Teddy, guardando Addison e sorridendole.
Sorrisi anche io. Meritavano entrambe di riuscire ad essere felici. E l'unico modo in cui potevano riuscirci era stando insieme.
Lei andò in camera ed io la seguii.
“Ciao” salutò nostra figlia mentre io la prendevo in braccio. “Le mamme sono a casa.”
La baciai delicatamente sulla testa. Avevo sempre paura di farle del male. Era così piccola e bella, sembrava più un sogno che una bambina.
Ma mia moglie...lei era un sogno per davvero.
“Vinci ogni volta tu” sussurrai quando mi abbracciò. “Ma di poco.”
“Dici così solo perché io ho accettato di sposarti.”
“Tu credi?”
“In realtà dici così per un altro motivo. Ma non intendo spiegartelo davanti a nostra figlia.”
Non l'avevo mai tradita. Non ero mai nemmeno stata tentata di farlo, in tutta onestà. Quella era stata la parte facile.
Ma era stata dura, a volte.
Spesso c'erano cose su cui non ci trovavamo d'accordo, e quando succedeva cercavamo di incontrarci a metà strada.
Quello che era diverso con lei da qualsiasi altra donna avrei mai potuto amare, era che lei mi rendeva felice. In ogni singolo istante.
“Calliope?”
“Sì?”
“Sono felice che tu sia qui.”





Ok, sono curiosa di sapere che ne pensate, quindi fatemelo sapere in una recensione che potete lasciare scorrendo comodamente qualche riga più in basso, grazie!

A presto!


Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** La nostra prima casa insieme ***


Come sempre ringrazio davvero tutti quelli che hanno recensito e aggiunto la storia tra le seguite e chi ha letto.

Avvertimenti: Rating un po' più arancione tendente al rosso.


Image and video hosting by TinyPic



La nostra prima casa insieme


Avevo in mano un bicchiere di champagne da tutta la sera.
Avevo parlato con due delle mie zie, cinque dei miei cugini, due delle mie cugine e con quattro ragazzi sulla trentina che volevano rimorchiarmi dicendomi quanto fosse fantastico il fatto che avevo scelto di specializzarmi in chirurgia.
Così, a metà serata, mi decisi a prendere il primo sorso da quel bicchiere di champagne che avevo in mano.
E avrei così tanto voluto che fosse scotch.
“Callie, vorrei presentarti il mio giovane socio in affari di cui ti avevo parlato” sentii dire a mio padre.
Mi voltai, fingendo l'ennesimo sorriso.
Lui mi strinse delicatamente la mano.
“Signorina Torres, è un piacere fare la sua conoscenza.”
“Chiamami Callie” gli dissi, quando mio padre si fu allontanato. “Spero che tu sappia che tutta questa non è che una grande farsa per presentarti a me” gesticolai indicando tutta la sala. “Credo che tu sia l'uomo che mio padre vuole che sposi. Non sono interessata. Senza offesa.”
Lui mi sorrise timidamente.
“Temo di essere io, e non sono offeso. Mio padre mi ha incoraggiato a venire a parlarti, ma vedrai che quando gli faremo capire che non è scoccata la scintilla lasceranno perdere.”
“Non mia madre. Continuerà a presentarmi uomini finché non ne sposerò uno, così non dovrà più fare i conti con il fatto che sono lesbica.”
Lo champagne che stava bevendo gli andò leggermente di traverso.
Tossendo mi guardò, dispiaciuto per la propria reazione.
“Non preoccuparti, non sei il primo che reagisce così.”
“In realtà, mi hai solo colto alla sprovvista. Nessuno mi aveva accennato niente del genere. Mai.”
“Mio padre non ne parla molto volentieri. Capirai che la cosa lo mette a disagio.”
“Giusto” sussurrò. “Neanche mio padre, per quanto finga di essere totalmente apposto con la cosa, parla mai di mia sorella.”
“Hai una sorella?”
Lui annuì.
“Ora che ci penso, sono stato molto maleducato. Tim Robbins” offrì. “Mia sorella si chiama Arizona.”
“Pensavo che il Colonnello avrebbe scelto un nome un po' meno originale, in tutta sincerità.”
Lui mi sorrise.
“Conosci mio padre molto bene, a quanto sembra. Ma quella del nome di Arizona è una lunga storia. Forse potrai convincerla a fartela raccontare, uno di questi giorni.”
Io presi un altro sorso di champagne.
“Anche io ho una sorella, che sta venendo proprio verso di noi. C'è solo una cosa che devi sapere di lei. Non contraddirla. Mai.”
“Callie, tesoro. Papà mi ha detto che il figlio del colonnello è qui.”
“Infatti è qui” risposi io con un sorriso. “Proprio qui. Accanto a me.”
“Oh, tu devi essere Tim. È un piacere conoscerti.”
La sua espressione mi ricordò quella di un uomo colpito da un fulmine.
“Il piacere è tutto mio” sussurrò in risposta, prendendo la sua mano e portandosela delicatamente alle labbra.
Io sorrisi, compiaciuta.
Forse ero riuscita a liberarmi del problema – papà voleva che sua figlia sposasse il figlio del colonnello, in fondo, non aveva detto quale delle due doveva farlo – senza dover neanche alzare la voce.
Poi la vidi. Era dall'altra parte della stanza, indossava un vestito nero che le fasciava la vita in modo a dir poco sublime. Era bellissima. La pelle chiara ed i capelli biondi risaltavano in modo surreale contro la stoffa scura, i tacchi concedevano alle sue gambe qualche centimetro in più, non che le servisse, sarebbe stata comunque bellissima. Ma fu quando mi guardò che vidi il suo sorriso gentile che mi incantò. Poi il suo sorriso divenne autentico e riuscii ad intravedere le sue fossette. Ma la cosa che più mi affascinò di lei, furono i suoi occhi azzurri, chiari come il mare calmo di Miami in una giornata d'estate.
“Aria, chi è lei?” chiesi, indicandola discretamente con un piccolo cenno della testa.
“Non lo so. Non l'ho mai vista.”
Rimasi sorpresa. Mia sorella conosceva tutti coloro che partecipavano alle feste organizzate da mio padre.
“Io la conosco” mi voltai verso Tim, che stava sorridendo.
La donna si scusò, allontanandosi dall'uomo con cui stava parlando e venendo verso di noi.
“Tim” lo salutò. Lui la baciò sulla guancia.
“Come stai?”
“Come sempre. E tu?”
Lui guardò verso me e Aria.
“Non posso lamentarmi, al momento” sorrise e notai che anche lui aveva delle fossette simili a quelle della donna.
I miei occhi rimasero piantati in quelli perfettamente celesti davanti a me.
“Arizona Robbins” si presentò.
“Callie Torres.”
“La futura moglie di mio fratello?” chiese con un sorrisetto furbo.
“Non credo che questa sia una possibile opzione, in effetti. Ma forse mia sorella è più interessata al genere.”
“Aria Torres” si presentò lei.
La donna le sorrise.
“Mio fratello è più il suo tipo, quindi?”
“Sì” confermò Aria. “Direi che potrebbe anche essere il tipo di mia sorella. Biondo, occhi azzurri, i capelli sono abbastanza lunghi, non ha barba. Gli mancano solo le tette.”
“E...questa è la mia battuta d'uscita. Sei sempre molto sottile Aria, e sempre così di supporto per tua sorella nei momenti difficili. Vorrei rimanere per altre delle tue battute, ma devo proprio andare adesso.”
“Andiamo, sai che stavo solo scherzando.”
“Ha un appuntamento, signorina Torres?” mi chiese la donna difronte a noi.
“No. Devo andare a sistemare un tizio a cui hanno fratturato il bacino. Sono un chirurgo ortopedico.”
“Davvero? Io sono un chirurgo pediatrico. Venga, la accompagno alla macchina” si offrì, indicando l'uscita. “In che ospedale lavora?”
“Mi sto specializzando al Seattle Grace.”
“Davvero? Vorrei farmi assumere lì, visto che mi sto trasferendo qui a Seattle.”
“A che anno è?”
“Io sono al terzo. Altri due e poi avrò chiuso.”
“Sono del suo stesso anno, allora. Spero di vederla presto in ospedale.”
“Lo spero molto anche io” mi sorrise in modo disarmante.

Quando la rividi, tre mesi dopo, affrontammo un lungo discorso sul fatto che Erica era stata la prima donna con cui fossi mai stata. Lei non usciva con donne che non avevano esperienza. Se qualcuno avesse chiesto la mia opinione, avrei detto che era solo terrorizzata dal fatto che una alle sue prime esperienze avrebbe potuto lasciarla per un uomo, ma tanto chiunque altra avrebbe potuto lasciarla per una donna. Non lo capivo.
Cristina era andata a vivere con Owen, ed io cercavo una nuova coinquilina a cui affittare metà del mio appartamento. Scoprii che lei cercava casa a Seattle, per andarsene dall'appartamento di suo fratello.
La aiutai a trasferirsi da me, una domenica pomeriggio.
Nessuna delle due aveva più avuto un appuntamento dal giorno del nostro primo incontro.
E mi andava bene così.
Sarei rimasta, per provarle che non avevo bisogno di un uomo. Sarei rimasta al suo fianco. E lei lo sapeva. Era come se avessimo un silenzioso accordo.

Ad un anno dalla prima volta che ci eravamo incontrate, mio fratello ed Aria stavano per sposarsi.
“È stupido, non pensi?” mi chiese.
“Il matrimonio?” chiesi io a lei.
“Aspettare. Aspettare di essere sicura, perché non sarai mai sicura. E potremmo non avere sempre un giorno in più da far passare.”
“Aspettare di essere sicura?” chiesi confusa.
“Una delle vecchie amiche del college di Tim mi ha chiesto di uscire, ieri sera.”
Sentii un caldo bruciore allo stomaco.
“E tu che hai risposto?” chiesi con calma.
“Io le ho risposto che sono già innamorata di qualcun altro” ammise, senza guardarmi negli occhi.
“Tu pensi che io stia aspettando perché non sono sicura? Arizona, io volevo solo che tu fossi sicura che non ti avrei lasciata per un uomo. Mi avevi detto quella cosa, perché sono stata con una donna soltanto, ed io pensavo...”
“Calliope, per quanto mi riguarda, vorrei che nessuno si fosse mai avvicinato a meno di dieci metri da te eccetto me, adesso. Ero solo troppo stupida per vederlo subito e troppo orgogliosa per ammetterlo.”
“In realtà...non ci sono stata a letto. Sono uscita con lei per un po', finché abbiamo discusso e...beh, il resto lo sai.”
Fu sorpresa, ma non sembrò avere ripensamenti.
Mi prese il viso tra le mani e mi baciò con dolcezza. Mi sfiorò e basta, ma fu abbastanza per farmi martellare il cuore nel petto.
Eravamo appena fuori dalla cappella in cui Tim e Aria dovevano sposarsi, in una stanza riservata a noi due, le damigelle d'onore.
Ci scambiammo un sorriso, prima che entrassero mia madre e mia sorella. Il momento passò.
Dopo la cerimonia, mia madre mi parlò, insieme ad Aria che se ne stava lì in silenzio.
“Callie, so che vivi con Arizona adesso. E so che provi qualcosa per lei.”
Io non replicai.
“Ascolta, se tu e lei vi metteste insieme e poi vi lasciaste, pensa a quali effetti questo avrebbe su Aria e Tim. Ne sarebbero distrutti, Callie. Devi promettermi che non starai mai insieme ad Arizona, ti prego. Tua sorella non potrebbe sopportare di perderlo.”
Aria non mi guardò negli occhi, ma annuì brevemente.
“Lui...lui è tutto per me” sussurrò guardando in basso.
Non mi servì immaginazione per capire che era stata mia madre a convincere mia sorella a farmi quella richiesta.
E non so perché, ma non replicai, anche se avrei voluto rifiutare.
Quella sera tornammo a casa con la mia macchina. Il viaggio fu silenzioso. In un anno non eravamo mai state mezz'ora insieme senza scambiarci una parola.
Alla fine fermai la macchina, ma non scesi.
“Hanno fatto anche a te il discorso, non è vero? Il discorso se-si-lasciano-per-colpa-tua...” fece un gesto della mano, evitando di continuare.
Io annuii, senza incrociare il suo sguardo.
“Ma quella era solo la copertina del libro. Scommetto che in realtà il contenuto era molto più simile a non-avere-una-relazione-peccaminosa-con-una-donna e che non fosse esattamente Aria che voleva farmelo.”
“A te ha parlato tua madre?”
Annuii di nuovo.
“A me mio padre e mia madre.”
“Cavolo” commentai. “Ci sono andati pesanti.”
“Già.”
Scendemmo dalla macchina e salimmo in casa. Aprii la porta per lei, che mi sorrise così dolcemente da farmi sentire una fitta al cuore, quando realizzai che il suo era spezzato.
“Forse dovresti accettare quell'invito a cena. Forse dovresti...essere felice.”
Lei mi guardò, sempre con quel suo sorriso che ogni volta mi annientava.
“Ma io sono già felice. Io ho te. Io amo te. Questo non sparisce solo perché non possiamo stare insieme.”
Mi sedetti sul divano, e lei si rannicchiò al mio fianco. La abbracciai e non la lasciai andare neanche di un millimetro.
“Arizona?”
“Sì?”
“Ti amo anche io.”

Il tempo passava, ma nessuna delle due aveva mai neanche preso in considerazione l'idea di uscire con qualcun altro.
Avevo finalmente capito che il sesso non era tutto. E decisamente era quasi niente, se in cambio potevo avere Arizona.
“Cotolette di pollo. Potremmo provare a farle al forno” propose, gettandole nel carrello.
“Ti spiace prendere anche un paio di yogurt?” chiesi, visto che lei era quella vicina alla zona frigorifera. Io gettai dentro dei biscotti e dei cereali, i suoi preferiti.
“Allora, hai più sentito quella tipa, Sadie?”
“No, te l'ho detto. Ha una cotta per me, ma io non sono interessata.”
“Perché no?” mi chiese, gettando dentro il nostro carrello gli yogurt che le avevo chiesto.
“Vuoi davvero farmelo dire? In un supermercato affollato? Vuoi farmi confessare qui, tra il reparto dei detersivi e quello dei cibi per cani, quanto profondamente io sia innamorata di te, a tal punto da non avere occhi per nessun altra?”
Non era una cosa che riuscivo a dirle spesso, ma ogni tanto trovavo che fosse giusto ricordarle che non ci sarebbe mai stato qualcun altro, per me.
Io volevo lei.
E lei lo sapeva.
“Tutto quello che hai avuto da me è stato un bacio. Potremmo stare sul serio insieme, un giorno, e tu potresti scoprire che non ti piaccio nemmeno.”
Io feci una faccia confusa, seguendola mentre spingeva il carrello della spesa.
“Quindi, vediamo se ho capito, tu vuoi che io vada a letto con un'altra per provare, e poi se sono davvero convinta mi darai una possibilità?”
“Calliope” sussurrò, bloccandosi di colpo e fronteggiandomi. “Io impazzisco, al pensiero che lei ti sfiori” parlò a pochi centimetri dal mio viso. “E l'ultima cosa che voglio è che tu provi qualcosa con qualcuno che non sono io, perché ho paura che una cosa del genere mi ucciderebbe. Ma noi non stiamo insieme. Sei libera di fare ciò che vuoi.”
“Questo lo dici tu” le dissi in modo dolce ma diretto. “Io dico che stiamo insieme eccome. Viviamo insieme, facciamo la spesa insieme, ci addormentiamo abbracciate sul divano, andiamo a cena fuori insieme, anche se tecnicamente il fast food non è considerato un vero appuntamento. Solo perché non posso baciarti, non significa che non stiamo insieme.”
Riuscii a farla sorridere anche se un secondo prima stavamo quasi litigando.
“Stiamo insieme” concesse, ricominciando a camminare.
Io sorrisi in modo compiaciuto, seguendola.

Una sera entrai in casa quasi tremando.
“Hai una vaga idea di quanto sia freddo fuori?” urlai dall'ingresso.
“È dicembre, Calliope. A Seattle fa sempre freddo a dicembre.”
Mi tolsi la giacca, quando la vidi starsene seduta al bancone della cucina, sorridendomi.
“Ti ho preparato del tè caldo. E dei vestiti asciutti. Sapevo che ti saresti vestita troppo leggera.”
Io ricambiai il sorriso. Si prendeva sempre cura di me.
Mi cambiai, asciugandomi alla meglio i capelli con un asciugamano e poi sorseggiai il tè caldo, mentre lei era rimasta seduta leggendo una rivista medica.
Mi avvicinai e lei mi abbracciò.
“Giornata pesante?”
“Non sai quanto. Il riscaldamento della sala operatoria era rotto ed ovviamente avevi ragione, mi ero vestita troppo leggera. Sei stata fortunata ad avere il giorno libero.”
Quasi percepii il suo sorriso.
Cercò di scaldarmi come meglio poteva.
“Forse dovresti ascoltarmi quando ti parlo. Ti conosco ormai, da quasi due anni. Cosa vuoi per cena?”
Io risi. Ma la risata mi morì in gola quando sentii le sue labbra morbide appoggiarsi sulla pelle della mia spalla destra.
“Arizona” sussurrai, portando una mano al suo viso, accarezzandole la guancia con il pollice, ma senza fare alcuna mossa per allontanarla. “Stai giocando ad un gioco pericoloso, lo sai?”
“Davvero?” chiese continuando a baciare la mia pelle fino a raggiungere il mio collo, percorrendolo, finché le sue labbra furono vicine al mio orecchio. “Vuoi che smetta, quindi?” mi chiese in sussurro.
“Assolutamente no.”
Inclinai la testa di lato per darle maggiore accesso al mio collo.
Lei afferrò i miei fianchi e mi attirò più vicina, io entrai facilmente in mezzo alle sua gambe, avvicinandomi tanto quanto la sedia mi permise di fare.
Lasciò qualche altro bacio sul mio collo, poi si allontanò, guardandomi negli occhi.
Appoggiò la mano destra alla base della mia gola, sfiorando più volte delicatamente la porzione di pelle tra le mie clavicole.
“Io ti amo” sussurrò con una semplicità disarmante a pochi centimetri dalle mie labbra.
Avevamo resistito a lungo. E forse non sarebbe stato, come mi ero aspettata, un grande evento a far cambiare la situazione, ma la semplice quotidianità. Quella meravigliosa familiarità che non avevamo mai avuto prima e che avevamo trovato l'una nell'altra e costruito insieme.
Io l'amavo.
L'avrei amata per sempre, se me lo avesse permesso.
Continuai ad accarezzarle lo zigomo mentre mi avvicinavo ancora a lei.
Primo principio della dinamica, o principio di inerzia: un corpo in quiete o che si muove di moto rettilineo uniforme persevera nel suo stato finché non intervengono forze esterne a modificare tale stato.
Qualcuno bussò alla porta, facendomi fermare a meno di due centimetri dal sapore che così tanto avevo bramato.
E poi, tutti i motivi per cui non potevamo farlo ci piombarono di nuovo addosso con la solita forza ed insistenza.
“Vado io” sussurrai, allontanandomi.
Mi risistemai la maglietta ed aprii la porta.
“Aria, che bella sorpresa. Tim, come stai? È sempre un piacere vederti.”
Mi feci da parte lasciandoli entrare.
“Tim, Aria. Che ci fate qui?” li salutò Arizona, baciando suo fratello sulla guancia ed abbracciando velocemente mia sorella.
“Siamo passati per fare quattro chiacchiere” minimizzò Tim. “Che stavate facendo voi?”
“Ho dato una pulita all'appartamento, oggi, visto che era il mio giorno libero. Calliope lascia sempre la sua roba in giro” mi sorrise, mentre prendeva la mia tazza ormai vuota e la posava nel lavabo.
“Io sono tornata poco fa da lavoro, fuori si gelava. Arizona ha fatto del tè, se volete riscaldarvi.”
“Volentieri” rispose Aria.
“Tim, vuoi del vino?” chiese Arizona, mentre preparava una tazza di tè per mia sorella.
Lui annuì, così io presi uno dei bicchieri, passando una tazza ad Arizona, che ci versò dentro il tè, mentre apriva lo sportello in basso e, senza neanche guardare, mi passava il vino rosso che avevamo aperto due sere prima.
“Grazie” le dissi gentilmente, versandone un bicchiere a suo fratello.
Loro due, seduti sugli sgabelli del ripiano della cucina, sembravano essere ancora un po' spiazzati dalla nostra sintonia.
Aria aveva preso il posto che Arizona aveva occupato poco prima. Deglutii, cercando di non pensare a quello che avevano interrotto.
“Allora, le quattro chiacchiere erano su qualcosa in particolare?” chiese Arizona.
“Niente in particolare. Volevamo solo vedere come andavano le cose, qui. Tra voi due” rispose Aria, guardando verso il suo tè.
Il mio sorriso sparì alla velocità della luce. Non serviva un genio per capire che con 'sono venuta a vedere' in realtà intendesse che era venuta lì a controllare. Anche Arizona lo aveva intuito, ne ero sicura.
“Le cose vanno molto bene, a dire la verità” rispose Arizona, tirando fuori dal frigorifero dei pomodori e dei petti di pollo.
Io sorrisi a me stessa. Quando Arizona si innervosiva l'unica cosa che poteva calmarla era una cena cucinata in casa. Io pensavo alle scaloppine di pollo, mentre lei si occupava del contorno. Non era esattamente una maestra della cucina, ma a me piaceva molto cucinare per lei.
“Rimanete a cena?” chiesi, prendendo una padella e poi lavandomi le mani.
“Perché no?” rispose Tim. “Se fai le tue deliziose scaloppine, dovremmo sicuramente accettare.”
Aria si limitò a sorridere.
“Cucinate molto spesso insieme?” chiese con quella che mi sembrò genuina curiosità.
“Tutte le sere” risposi con semplicità.
“Calliope” mi corresse Arizona con un sorriso. “Non tutte le sere. Qualche volta andiamo anche a cena fuori.”
“Per la centesima volta, il fast food non conta come cena fuori.”
“Il fast food non conta come appuntamento, ma conta assolutamente come cena fuori” obbiettò suo fratello.
“Ehi, ma tu da che parte stai?” chiesi, ridendo. “Vuoi le scaloppine di pollo oppure no?” lo minacciai scherzosamente.
Lui alzò le mani in segno di resa, ridendo a sua volta.
“D'accordo, allora il fast food non conta.”
Alzai un sopracciglio guardando Arizona.
“Quindi cenate sempre insieme?” chiese Aria, sempre sembrando genuinamente incuriosita.
“E pranziamo insieme molto spesso anche” aggiunsi, mentre continuavo a preparare la cena. “È un problema? Il fatto che siamo così legate, intendo.”
“Nessun problema” rispose con tranquillità Tim.
“Sembrate andare molto d'accordo” rifletté Aria ad alta voce. “Insomma, se il più grande sogno di Callie non fosse avere un bambino, che Arizona non vorrebbe in un milione di anni, e se Callie non credesse così fermamente che il matrimonio non ha importanza, mentre Arizona ha sempre voluto sposarsi, e se Arizona non avesse fatto domanda per la Carter-Madison, che potrebbe voler dire tre anni in Africa, sareste una coppia carina.”
Posai non molto delicatamente il coltello sul ripiano e me ne andai in bagno.
“Il lavoro la sta stressando molto in questi giorni. Sì, ci sentiamo presto” sentii dire ad Arizona prima che chiudesse la porta dell'appartamento e mi raggiungesse in camera mia.
Mi si sedette accanto.
“Mia sorella ha ragione. Dovresti trovare una ragazza che non vuole bambini e sposartela dopo che tornerai dai tuoi tre anni in Africa. Sta già distribuendo i tuoi inviti di nozze, quindi sbrigati a trovare qualcuno” scherzai reprimendo un singhiozzo.
Lei mi passò un braccio intorno alle spalle, stringendomi contro se stessa.
“Ho fatto richiesta per quella borsa di studio ere fa. Se ancora non mi hanno dato una risposta, è perché non c'è una risposta da dare” tentò di rassicurarmi. “E forse tu dovresti avere un bambino, tua sorella avrà già organizzato la festa prenatale” tentò anche di farmi ridere.
“Vorrei solo che ci lasciassero avere quello che vogliamo. Vorrei solo che ci lasciassero essere felici.”
“Non siamo già felici?” mi chiese retoricamente, guardandomi negli occhi e disarmandomi con le sue fossette.

Tre mesi dopo Arizona mi disse che aveva ottenuto la borsa di studio. Sarebbe andata in Africa.
Mi chiusi in camera mia per tre giorni e piansi. C'eravamo conosciute due anni prima, e adesso dovevo passare tre anni senza di lei? In che modo quella era una cosa giusta?
Alla fine, dopo quattro giorni pieni di riflessione, mi decisi ad uscire, sedendomi accanto a lei sul divano.
“Sono molto orgogliosa di te. È una borsa di studio molto prestigiosa. Sono davvero, davvero orgogliosa di te” le feci sapere.
Era di fondamentale importanza per me che lei lo sapesse.
“Mi fa piacere” mi sorrise brevemente. “Calliope, basta una tua parola, una sola, e non partirò.” Sostenni il suo sguardo per qualche istante.
“Non posso chiederti di scegliere. Non voglio che tu scelga. Più di ogni altra cosa al mondo, vorrei che potessi rimanere con me. Ma questo è il momento in cui io ti faccio tutto il discorso strappalacrime dove cito Jim Morrison e alla fine ti lascio andare, Arizona. Voglio che tu vada. Che tu sia felice.”
“Sono tre anni” mi ricordò con la voce piena di dolore.
“Lo so.”
Le presi la mano.
“Ma io aspetterò.”
Nella luce nei suoi occhi chiari come il cristallo lessi di aver fatto la scelta giusta.

“Scriverò ogni giorno. E telefonerò.”
“Lo so. So che lo farai. Adesso vai, prima che faccia una scenata implorandoti di rimanere insieme a me” la incoraggiai, passandole lo zaino che l'avevo aiutata a portare fino alla zona d'imbarco.
“Calliope, una sola parola ed io...”
“Lo so. Lo so” sussurrai abbracciandola. “Quando sarai lì, con tutte le donne del Malawi ai tuoi piedi, ricordati di me, ok?”
Lei rise, abbracciandomi più forte.
“Se anche solo guardassi una donna nel modo sbagliato, in Malawi, mi farebbero lapidare viva” mi disse, cercando di non farmi capire quanto avrebbe voluto rimanere.
Io chiusi gli occhi, cercando di far durare quel momento il più a lungo possibile.
Quando capii che non potevo riuscire a farlo durare per sempre, avvicinai le labbra al suo orecchio.
“Ti amo” sussurrai debolmente.
Mi voltai senza guardarla negli occhi e me ne andai dall'aeroporto.
Non avrei sopportato un addio da lei.
Ogni giorno, alla stessa ora, mi arrivò una sua email. Per ventisette giorni.
Ogni lunedì, la sentii al telefono. Ma non il ventottesimo giorno.
Il volo è andato bene. Era ieri, ma sembrano secoli fa l'ultima volta che ti ho vista. Mi manchi.
So che sono passati solo sei giorni, ma già mi sembra di impazzire.
Dieci giorni e vorrei tirare un pugno contro una parete. Come resisterò tre anni?
Tredici giorni, ma ti sembra possibile? Senti la mia mancanza come io sento la tua? Perché io non riesco più a respirare.
Non sto bene. Fisicamente. E sono solo diciassette giorni. Vorrei averti qui.

Questo era il tipo di email che mi mandava all'inizio.
Giornata molto impegnativa. Ci sentiamo presto.
Oggi alla clinica è andato tutto molto bene, salutami Aria e Tim, non riesco mai a sentirli.
Tre settimane, non riesco a crederci. Tu come stai?
Scusa, non ho molto tempo per scrivere. Spero tu stia bene.

E poi avevano iniziato ad arrivare email come queste.
Arizona mi stava dimenticando.
Ed era meglio così, infondo. Avrebbe davvero trovato una ragazza che avrebbe accettato di sposarla, alla fine.
Adesso dovevo solo imparare ad essere felice per lei, perché per me non potevo esserlo.
Sentii bussare alla porta.
“Aria, per la centesima volta, non sono depressa.”
Andai ad aprire, fingendo di non aver pianto solo qualche momento prima e cercando di scacciare la puzza di liquore del mio appartamento.
“Sono tornata per te” disse soltanto.
Io continuai a guardare dritta negli occhi la mia allucinazione da Vodka.
“Sono tornata perché non riesco a vivere senza di te” continuò con le lacrime agli occhi. “So che adesso non sarai più molto orgogliosa di me, ma io dovevo tornare. Mi dispiace per le email senza anima. Mi ero stupidamente convinta che facendo finta che non mi mancassi avrei smesso di sentirmi come se stessi morendo.”
“Sono ancora molto orgogliosa di te, Arizona.”
“Anche se ho resistito solo un mese lontano da te? Lontana da casa?”
Io la presi per mano, facendola entrare e richiudendo la porta.
Le spostai delicatamente i capelli dalla fronte e poi le presi il viso tra entrambe le mani. La guardai negli occhi per assicurarmi che sapesse quello che stavo per fare.
La baciai per qualche secondo soltanto, cercando di non farle pressioni.
“Mi sei mancata” sussurrai.
Lei sospirò in maniera tremolante.
Mi baciò di nuovo, mettendomi una mano tra i capelli per assicurarsi che non mi spostassi un'altra volta.
Qualche minuto dopo, quando ci servì ossigeno per sopravvivere, ci allontanammo. La testa mi girava. Ed ero sicura che la causa non fosse la Vodka.
La feci sdraiare sul divano e passai tutta la notte a fissarla mentre le accarezzavo i capelli.
Alla fine riuscii a credere che fosse davvero lì con me.
Non successe altro. Le cose non erano cambiate. Mia madre mi stava ancora facendo pressioni, ricordandomi ogni secondo che non dovevo in alcun modo fare avance alla sorella di Tim.
Come se fossi io la sola che faceva avance.

Dopo che il nostro periodo di specializzazione fu finito, ad entrambe furono offerti dei posti da strutturati lì al Seattle Grace. Arizona fu la prima. Qualche settimana dopo toccò a me, quando il dottor Chang andò finalmente in pensione. Accettammo entrambe, ovviamente.
“Io voglio un bambino” le dissi a bruciapelo un giorno. “So che a te piace la tua vita così com'è, lo so. E mi dispiace, ma non riesco più a togliermelo dalla testa. Voglio che tu sappia, che sto pensando seriamente di avere un bambino.”
Lei si sedette, continuando a guardarmi. Non avrei saputo dire qual'era stata la sua reazione. O meglio, apparentemente, non aveva avuto alcuna reazione.
“Se pensi di poter sopportare i pianti, sarei felice di rimanere qui. Altrimenti, mi trasferirò in un altro appartamento di questo piano.”
“Mi stai lasciando?” chiese completamente e genuinamente confusa da quello che stavo cercando di dirle.
“Tecnicamente, sarai tu a lasciare me. Dicendomi che non vuoi un bambino, che non ti va di sentire il pianto ogni notte e che vuoi tenerti l'appartamento. So che ti sto chiedendo molto. Ma, la situazione in cui siamo, dura da anni. E potrebbero volerci anni per risolverla.”
“Potrebbe anche non risolversi mai” osservò lei con neutralità.
Aveva capito cosa stavo cercando dire. Avrei potuto non avere mai lei, e la mia seconda miglior soluzione era avere un bambino.
“Io voglio un bambino. Mi dispiace, ho provato a smettere di volerlo, ma non ci riesco.”
“No, io lo trovo giustissimo. Se vuoi un bambino, dovresti avere un bambino.”
Mi baciò sulla fronte, uscendo di casa per andare a lavoro.
Quella sera mi portò del vino, per festeggiare la decisione.
“Ci sto ancora pensando” le dissi a bruciapelo, probabilmente suonando più offesa di quanto in realtà avessi il diritto di essere.
In fondo, stava solo cercando di essere gentile e di supportare le mie scelte.
Eppure, la sua reazione di totale calma mi aveva fatto proprio incazzare. Solo che facevo finta di non sapere il perché.
“Cosa?” chiese, bloccandosi con il vino nella mano sinistra, il cavatappi nella destra.
“In realtà, non ho ancora deciso” replicai. “Non sono sicura di voler rinunciare a quello a cui sto rinunciando.”
Lei mi guardò aggrottando la fronte.
“A cosa stai rinunciando?”
“A te. Alla mia occasione con te” risposi senza esitare. “Quando un giorno tutte queste stronzate in cui abbiamo vissuto perderanno importanza, quando tutto perderà importanza e decideremo di fregarcene, quel giorno io voglio avere la mia chance. Non voglio allontanarti da me perché per allora io potrei avere un bambino. Io voglio la nostra occasione di essere felici.”
“Calliope...”
“So che questo significa rinunciare ad avere un figlio. E sto cercando di capire quanto lo voglio fortemente, un figlio. Quindi dammi tempo, ok? Ci sto ancora pensando.”
Mi rinchiusi in camera, sbattendo la porta.
Non avevo diritto di essere irritata. Ma lo ero comunque.
Lei era tornata dall'Africa, per me. Aveva lasciato il suo sogno per me. Come potevo lasciarla per inseguire il mio?
La porta si aprì lentamente.
“So a cosa stai pensando.”
Lo sapeva davvero. Non era la prima volta che discutevamo l'argomento bambini e io una volta le avevo confessato i miei pensieri.
Come potevo lasciarla per far avverare il mio sogno, quando lei aveva rinunciato al suo, per non rinunciare a noi?
“Ho rinunciato al mio sogno, Calliope, perché ho capito che il mio sogno non era quello. Il mio sogno è stare proprio qui, in un posto con cinque stanze che per me è come una villa con piscina, insieme all'unica persona che sarò mai in grado di amare in vita mia. Il mio sogno è stare al tuo fianco, tutto qui.”
Io la guardai, aveva la sua spalla sullo stipite della porta e le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans.
Era incredibile. Riusciva ad essere bellissima anche quando ero arrabbiata con lei.
“Il tuo sogno è avere una famiglia. Avere un bambino.”
Io fissai il pavimento.
“No. Il mio sogno è avere una famiglia solo e soltanto insieme a te. Per questo devo pensarci, perché meno di due settimane dopo che sarà nato, quando mi accorgerò che non riesco a respirare se non sei nella stessa stanza insieme a me, quando mi accorgerò che un bambino non riuscirà mai a rendermi completamente felice se non ci sei tu al mio fianco, non potrò prendere un aereo e tornare a casa. Un bambino non potrò restituirlo al negozio. Quindi devo pensare se davvero sono disposta a rinunciare ad essere felice e a te, per avere qualcosa che comunque vorrei soltanto insieme a te.”
Continuai a fissare il pavimento.
Lei non disse niente. Si voltò, prese le chiavi ed uscì.
Per la prima volta fui spaventata che potesse decidere di non tornare a casa.
Mezz'ora dopo rientrò. Quando sentii la porta aprirsi finii il bicchiere d'acqua che avevo in mano, appoggiandolo nel lavabo. Poi mi sporsi per vederla entrare nella zona della cucina.
“Facciamolo” mi disse semplicemente.
Poi appoggiò il biberon che aveva comprato sul bancone della cucina, tra di noi.
“Quando ti ho detto che sarei andata in Africa, mi hai detto che non volevi che scegliessi. Neanche io voglio che tu scelga tra un bambino e me. Io voglio essere il tuo sogno, voglio essere dentro il tuo sogno.”
Avvicinò il biberon verso di me.
“Stai scherzando?”
“Ti sembra che stia scherzando?”
“Mi sembra che tu sia impazzita.”
Lei mi sorrise.
“Vuoi un bambino insieme a me? Bene. Perché io voglio avere un bambino insieme a te. Quindi ecco cosa faremo. Troveremo un donatore anonimo, quando il bambino nascerà, scriveremo un foglio dove dichiariamo che il padre biologico ha rinunciato ai diritti di paternità, e scriviamo che io sono l'altro genitore. Sono sicura che c'è un modo in cui possiamo farlo.”
“Arizona, tu non lo vuoi un bambino.”
“No, io lo voglio un bambino insieme a te. Ne abbiamo discusso molto nell'ultimo anno, quando di tanto in tanto valutavi l'ipotesi. E voglio essere io ad alzarmi alle tre di notte quando ti viene una voglia. Voglio essere io a sopportare gli sbalzi d'umore, le crisi isteriche e quelle di pianto. Voglio essere io ad ascoltare quando ti lamenti dei dolori devastanti alla schiena e ai piedi e sempre io a farti massaggi. Voglio essere lì a dare di matto quando ti si romperanno le acque e non sapremo cosa fare, anche se siamo due chirurghi. Voglio essere io la persona con cui litigherai per il nome, per il tipo di biberon, per lo sport che dovrebbe fare, per l'università che dovrebbe scegliere. Voglio essere io.”
Feci del mio meglio per non piangere.
“Lo sapevi già, stamani? Per questo non ti sei arrabbiata? Perché avevi già deciso di voler avere un bambino?”
Lei annuì.
“Ormai è da diverso tempo che ci sto pensando. Voglio farlo. Voglio avere un bambino con te.”
Feci il giro della cucina, mettendomi davanti a lei con la mascella serrata il più stretto possibile, tentando di stringere i pugni delle mani così forte da paralizzarmele entrambe. Ma ovviamente non ci riuscii.
“Sei arrabbiata?” mi chiese confusa e un po' preoccupata.
“Perdonami per quello che sto per fare.”
Avevo le lacrime agli occhi.
Lei mi guardò, pregandomi con gli occhi di non andarmene, di non lasciarla.
Ma non era quello che avevo intenzione di fare.
Le afferrai i fianchi, attirandola verso di me mentre facevo un passo verso di lei e la baciai.
Lei mi serrò le braccia intorno al collo, tentando di avermi più vicina, anche se sapeva che era fisicamente impossibile che succedesse.
La spinsi contro il bancone della cucina, facendo scivolare la mani verso il basso. Continuai a scendere fino a raggiungere metà coscia e poi spinsi verso l'alto. Lei colse il messaggio, appoggiando le mani sul ripiano si mise a sedere sopra di esso, mentre questa azione portava le mie mani a scivolare più in basso ancora, fino a ritrovarsi dietro i suoi ginocchi. Allora feci pressione verso l'esterno, facendole aprire le gambe. Poi mi avvicinai a lei quanto più mi fu possibile.
Mi resi conto che quella era la prima volta in cui riuscivo a fare qualcosa che avesse anche solo un vago senso mentre la stavo baciando. Le altre due volte mi ero limitata a sciogliermi.
Chiuse le gambe attorno ai miei fianchi e serrò la stretta delle sue mani sui miei capelli.
Io afferrai di nuovo i suoi fianchi e la abbracciai, cercando di stringerla a me il più possibile.
Una delle mie mani scivolò sotto la sua maglietta, e sentii sotto le dita la sua pancia piatta e morbida. Era una sensazione unica poter toccare la sua pelle.
“Dimmi di fermarmi” le chiesi quando mi allontanai.
Lasciai una scia di baci sul suo collo e arrivai alla sua spalla.
“Ti prego, dimmi di fermarmi” ripetei mentre la mia mano destra si spostava verso l'alto all'interno della sua maglietta.
Sentivo il suo respiro affannato vicino al mio orecchio mentre le baciavo il collo, e tutto di lei mi spingeva a continuare e a voler continuare.
E tutto di me mi spingeva a fermarmi.
“Calliope...aspetta...”
La mia mano si bloccò quando la punta delle mia dita sfiorò il tessuto del suo reggiseno.
Mi paralizzai.
Avevo probabilmente fatto qualcosa di sbagliato. Infondo, quello era territorio quasi completamente inesplorato, per me.
Mi allontanai di qualche centimetro, ma le sue gambe avvolte attorno ai miei fianchi mi bloccarono. Mi prese la maglietta, tirandomi verso di lei e appoggiando la testa sulla mia spalla, respirando ancora in modo non molto regolare.
“Cosa...che ho fatto?” chiesi, inconsapevolmente. “Ho sbagliato qualcosa?”
La sentii ridere sottovoce.
“No, hai fatto tutto in modo perfetto.”
Alzò il viso, guardandomi negli occhi. Le sue pupille dilatate scossero qualcosa dentro il mio stomaco in modo inesplicabile.
Mi baciò a stampo ancora una volta.
“Hai mai paura che tra noi non possa scoccare la scintilla? Che potremmo essere...come dire...”
“Sessualmente incompatibili?” offrii.
“Esattamente.”
“Io non credo” scossi la testa cercando di nascondere il sorrisetto che si era fatto strada sulle mie labbra.
“Già, nemmeno io.”
Risi insieme a lei, aiutandola a scendere dal bancone, ma non facendo niente per lasciarla passare.
Lei mi guardò negli occhi senza una parola.
“Non guardarmi così.”
“Così come?” chiese.
“Come se volessi strapparmi i vestiti di dosso.”
“Non riesco a pensare a nient'altro, al momento.”
Deglutii. Poi feci un passo indietro, permettendole di passare.
All'ultimo momento ci ripensai, bloccandola soltanto mettendo un piede tra i suoi. Le sfiorai delicatamente la curva del fianco.
“Davvero credi che non ci sarà passione?” sussurrai vicino al suo orecchio.
Vederla avere un brivido fu la mia risposta.
Me ne andai a farmi una doccia fredda.

Qualche settimana dopo, era il mio giorno libero, rientrai a casa dopo aver fatto la spesa con tre buste tra le mani. Chiusi la porta con un piede e lasciai cadere le chiavi alla cieca sul mobiletto all'ingresso.
“Arizona, ci sei? Se sei a casa vieni a darmi una mano con la spesa” urlai, mentre tentavo di togliermi la borsa senza far cadere niente. “Che ne dici se preparassimo la cena insieme e poi guardassimo una di quelle commedie romantiche che ti piacciono tanto, mangiando?”
In linea generale, Arizona poteva essere tenuta davanti alla televisione per ore solo mettendo in tv uno qualsiasi dei film di Julia Roberts.
Lei sosteneva che era perché la riteneva la più grande attrice contemporanea. Secondo me, aveva solo un'enorme cotta per lei.
“E se sono fortunata mi permetterà di tenerla tra le braccia” sussurrai impercettibilmente.
Entrai in cucina, rimanendo impietrita e ringraziando il cielo di aver sussurrato l'ultima parte sottovoce.
“Calliope” mi salutò Arizona fingendo di sorridere. “Ecco dov'eri” accennò alle buste.
“Mamma. Signora Robbins. Che ci fate qui?” chiesi appoggiando le buste sul bancone.
Ripassai mentalmente quello che avevo urlato entrando, per rendermi conto se avessi detto qualcosa di inappropriato, come lo avrebbe definito mia madre.
“Ti aiuto” si offrì Arizona, prendendo una delle buste ed iniziando a mettere via il contenuto.
“Allora, che sta succedendo?” chiesi, mentre aiutavo la mia bionda preferita a mettere apposto la spesa.
Le due donne se ne stavano sedute sugli sgabelli, dall'altra parte del bancone.
“Solo una visita di cortesia alle nostre figlie. Eravamo insieme e nei paraggi, così abbiamo pensato di fare un salto qui.”
“Mamma, tu non fai visite di cortesia. Tu non fai niente che includa la parola cortesia” osservai.
“Callie, tesoro, una madre non può voler fare quattro chiacchiere con sua figlia?” chiese la signora Robbins.
“Chi è morto?” chiese Arizona con una faccia più che scioccata. “Lo zio Arold? Perché sapevo che stava male, ma...”
“Tesoro, nessuno è morto” la rassicurò la madre.
“Allora chi è che aspetta un bambino?” chiesi io ridendo. Poi vidi lo sguardo di sottecchi tra mia madre e l'altra donna e all'improvviso tornai seria. “Oh, Cristo Santo. Aria è incinta.”
“Lo è” confermò mia madre con impassibilità.
“E perché non sono venuti qui loro a dircelo?” chiese Arizona.
“Quando tua sorella è andata dal ginecologo dell'ospedale per una conferma, la signorina...” cercò di ricordare il nome.
“Lucy Fields” affermai con sicurezza. Adesso sì che avevo capito dove stava andando a parare. “Esatto” continuò mia madre. “Ha detto ad Aria di aver visitato sua sorella qualche giorno prima, insieme alla sua adorabile” cercò per un istante una parola appropriata, ma che in quel momento sembrava sfuggirle “amica” concluse.
Io strinsi le labbra.
“Lucy ha interpretato male quello che le abbiamo detto” minimizzai, come se il problema fosse quello.
“Calliope” il tono serio e l'uso completo del mio nome da parte di mia madre mi allarmarono. “Se sei andata da lei vuol dire che stai cercando di avere un figlio? Non sei sposata, tesoro” osservò con ovvietà.
Io strabuzzai leggermente gli occhi.
“E allora?”
Mia madre mi guardò come se fossi pazza.
“Ok, facciamo tutti un bel respiro” cercò di calmare l'atmosfera Arizona. “Signora Torres, perché Calliope non dovrebbe avere un bambino, se questo è quello che vuole?”
“Aria non l'ha mai voluto un figlio” replicai invece io.
“Neanche Arizona” intervenne la signora Robbins.
“Lo so questo” risposi ancora considerandolo ovvio.
“Sì che lo voglio un bambino” affermò lei con convinzione. Poi mi guardò come se avessi insinuato qualcosa di assurdo. “Certo che lo voglio un bambino” mi disse di nuovo con la sua aria da 'pronto, stai scherzando o cosa?'.
“E da quando?” chiese sua madre.
“Da” si guardò intorno nervosamente. “Da un po' di tempo. Io lo voglio un bambino” disse ancora, guardando in basso con espressione accigliata, come se stesse facendo il broncio.
Quella doveva essere per forza la cosa più carina mai esistita.
“Callie” mia madre attirò di nuovo la mia attenzione. “Vuoi davvero avere un bambino adesso? Pensa quanto questo turberebbe tua sorella.”
Certo. Di nuovo quella scusa per non farmi fare niente che andasse contro le ferree leggi del Signore.
“Mamma, ti prego. Avrò un figlio quando deciderò di avere un figlio. Sono sicura che Aria lo accetterà.”
“E dove lo crescerai? Dove dormirà? Avete solo due stanze da letto nell'appartamento e l'ultima volta che ho controllato erano entrambe occupate” osservò mia madre. “A meno che non ci sia qualcosa che non ci state dicendo.”
L'insinuazione mi fece venir voglia di urlare dalla rabbia.
“No, mamma. Esattamente come hai chiesto, sto ancora fingendo di non essere innamorata di Arizona. Non cambia il fatto che lo sono, ma resistere alla tentazione dovrà valere qualcosa, davanti agli occhi di Dio, no?” la voce mi tremava. Avevo gli occhi più umidi del solito, ma non ancora pieni di lacrime.
“Questa è una cosa molto inappropriata da dire.”
“E perché, non è quello che hai fatto?”
“Callie, per amor del Cielo, smetti di parlare così. Tutto quello che ho, che abbiamo” accennò alla signora Robbins “cercato di fare, è stato proteggere il matrimonio di Tim e Aria.”
Per i signori Robbins, la vera motivazione era che se Aria e Tim si fossero lasciati, lui avrebbe intrapreso la carriera militare. Scelta che non volevano per il loro unico figlio maschio, visto che sarebbe potuto morire in guerra. Così dovevano fare in modo che il matrimonio non fosse in alcun modo messo in pericolo. Probabilmente, se la conoscevo, era stata mia madre a convincerli che una storia tra me e Arizona avrebbe potuto fare esattamente quello.
“Callie” pronunciò il mio nome la signora Robbins, facendomi voltare. “Vorrei dirti due parole se per te non è un problema.”
Si alzò, entrando nella camera della figlia. Io la seguii dopo essermi scambiata uno sguardo confuso con Arizona, tanto non avevo niente da perdere. Mi richiusi la porta alle spalle.
La vidi prendere in mano una delle foto che la ritraeva con i figli ed il marito. Era una delle preferite della proprietaria della camera in cui eravamo.
“Ad Arizona piacciono molto i film di Julia Roberts.”
“Lo so” sussurrai.
“Immagino che abbiate visto 'Se scappi ti sposo' insieme, una volta o l'altra.”
Era uno dei suoi film preferiti. Non riuscii a trattenere un sorriso.
“Sì, lo abbiamo visto.”
“Ognuno di quei ragazzi entrava nella sua vita, convinto di poterla cambiare. Ma alla fine, la storia si concludeva sempre allo stesso modo: con lei che scappava. Quando conosce l'amore della sua vita, uno si aspetterebbe che riesca a farcela fino all'altare. Ma anche con lui ad attendere, lei se ne va, senza guardarsi indietro.”
Ripose la foto al suo posto e si voltò a guardarmi.
“So che pensi che sia stata tua madre a farmi prendere la decisione di parlare ad Arizona. Ma non è così. Arizona, lei è il tipo di persona che scappa. Lo ha sempre fatto. Fa parte di lei. È la sua natura.”
Suonava peggio di quello che era. Sul serio. Arizona aveva avuto una ragazza al liceo che aveva mollato poco prima del college. Ed una al college che aveva mollato poco prima di iniziare la specializzazione. Ed una a Washington che aveva mollato prima di trasferirsi a Seattle. Nessuna di quelle era stata una storia importante. Qualche appuntamento, un paio di mesi al massimo. Una era durata cinque mesi, tra pause varie, prima che scoprisse che l'altra donna l'aveva tradita. Scommetto che quello sua madre non lo sapeva.
“Potresti illuderti che con te non lo farà, che tu sei diversa, ma ti assicuro che tutte lo pensavano. Un paio di loro ho dovuto consolarle personalmente, al telefono, perché chiamare da noi era l'unica cosa che non avevano ancora provato. Ti ha mai parlato di Joanne?”
“La sua ragazza al liceo?”
“Già. L'ha lasciata e se n'è andata al college, senza mai prendersi la responsabilità di raccogliere i cocci che aveva rotto.”
“Forse lei non lo sa, ma Joanne aveva anche un ragazzo, signora Robbins. Arizona non è rimasta per lei perché lei non avrebbe mai detto di loro ai suoi genitori.”
Sembrò sorpresa, ma non lo ammise.
“Tyler...”
“La ragazza del college, sì, mi ha parlato anche si lei. Sapeva che Arizona non l'ha più chiamata perché prima di partire aveva scoperto che si stava di nuovo drogando dopo averle promesso che non l'avrebbe mai più fatto? Ma forse lei non sapeva che Tyler aveva problemi di droga” osservai, notando la sua espressione accigliata.
Aprì la bocca per continuare. Ma io alzai una mano, facendola segno di aspettare.
“Mi lasci finire, a questo punto. A Washington c'era Lauren. Sono state insieme per un po', finché sua figlia ha scoperto che lei si stava vedendo con la sua ex durante le pause che si prendevano. E con 'vedendo' intendo che le ha trovate a letto insieme. Vede, Lauren non voleva una storia seria. Sua figlia sì. Immagino che lei abbia parlato solo con Joanne e Tyler, quindi.”
Lei annuì.
“Qualche altra ex di cui non mi ha parlato?”
Fece segno di no con la testa.
Mi voltai, appoggiando la mano sulla maniglia, ma poi mi bloccai.
“Signora Robbins, quel film finisce che loro due si sposano, ed è proprio lei a chiedere a lui di sposarla. Lei capisce che per lui ne vale la pena, perché lui è la sua anima gemella.”
“Tu credi di essere l'anima gemella di mia figlia, tesoro?” chiese con l'affetto che mi aveva da sempre riservato.
“Lei crede che non lo sia?”
“Io credo che entrambe vorreste che lo fossi.”
“E perché non dovrei?”
Mi rivolse un sorriso triste.
“Ti stancherai di aspettare che si renda conto che tu ne vali la pena, un giorno.”
“Signora Robbins” fu il mio turno di parlarle con affetto e tentare di spiegarle qualcosa che ai miei occhi appariva ovvio. “Lei dice che Arizona scappa. Ma lei è stata qui per quasi tre anni” annuii per enfatizzare la mia osservazione. “E l'ha sentita anche lei, quando ha detto che da un po' di tempo vuole un bambino. Non scapperà. Non da me.”
Aprii la porta, vedendo sia lei che mia madre fissare il mobile che le divideva in silenzio.
“Hai risolto le cose, Barbara?” chiese mia madre, vedendoci uscire.
Lei mi guardò negli occhi.
“Non c'è alcun problema che vada risolto, a mio avviso. Come ha detto Callie, niente è cambiato tra di loro.”
Non esattamente quello che avevo detto in realtà. Feci impercettibilmente segno di no con la testa ad Arizona, per farle sapere che non erano parole mie. Lei mi sfiorò la mano sotto il ripiano, per rassicurarmi che lo sapeva.
“E niente cambierà” aggiunse mia madre con tono definitivo.
“Mi stai vietando di avere un bambino?” chiesi con incredulità.
“Ti sto suggerendo di non farlo. Sarebbe inappropriato.”
Si alzò, aprendo la porta del mio appartamento. Fece passare la signora Robbins e poi fece un passo in avanti. La mia voce la bloccò, ma non la fece voltare.
“Cos'altro mi porterai via, mamma? Hai preso tutto ciò che potevi, da me. Hai portato via la mia occasione di essere felice, mi hai portato via l'occasione di una famiglia, di una vita con la persona che amo e adesso anche questo. Cosa c'è che non hai ancora preso? Cosa rimarrà per me dopo tutto quello che mi stai facendo?”
“Il Paradiso” rispose senza voltarsi. Se ne andò, senza guardare indietro.
Iniziai lentamente a piangere. E Arizona era lì, ad asciugare ogni lacrima. Mi tenne abbracciata e non smise di farlo neanche quando le lacrime finirono.
“Guarda il lato positivo. Io sarò all'inferno al tuo fianco. Per me questo va considerato come un enorme bonus.”
Io risi, mio malgrado.
“Questa è la cosa che mi fa incazzare, che se esistesse un posto come il Paradiso, tu sei l'unica persona che abbia mai conosciuto che merita davvero di andarci.”
“Calliope, niente parolacce. Sei già abbastanza nei guai con Dio così senza peggiorare le cose, non trovi?”
Io risi di nuovo. Lei mi baciò la fronte.
“Che ti ha detto mia madre?”
Le raccontai tutto, ogni parola.
“Quella donna mi vuole così tanto bene da fare quasi paura. Quasi” commentò, accarezzandomi i capelli.
“Non importa che lei non ti creda. Un giorno dovrà capirlo per forza, giusto?”
Lei mi guardò con serietà.
“A volte ho paura. Ho paura che prima o poi vorrò scappare.”
“Hai mai voluto scappare da me?”
“No” scosse la testa, sorridendo dell'assurdità della domanda. “Certo che no. Casomai il contrario, quando ero via tutto quello che volevo era tornare a casa. Ma neanche le altre volte lo avevo programmato. Le cose andavano normalmente, finché un giorno succedeva qualcosa ed era semplicemente troppo. Così me ne andavo. Forse mia madre ha ragione, questa è la mia natura.”
Io mi appoggiai su un gomito, sollevando la testa e corrugai la fronte, fingendo di pensarci.
Guardai la sua figura, sdraiata sul divano, stesa su un fianco, accanto a me, che fino a un attimo prima ero sdraiata sulla schiena. Mi stava abbracciando, come avremmo fatto se fossimo stata una coppia qualsiasi, come se ci fosse permesso farlo ogni giorno per il resto delle nostre vite.
“Hai mai tenuto una di loro tra le braccia?”
Mi abbassai, sdraiandomi su un fianco, per starle faccia a faccia. Lei continuò a tenere il braccio sinistro attorno alla mia vita e con la mano destra ad accarezzarmi i capelli, con il braccio sopra le nostre teste.
Corrugò la fronte.
“Sì, le abbracciavo ogni tanto. Credo di avere anche io un cuore, da qualche parte, dentro il petto. Anche se mia madre sembra convinta che non sia così.”
“No, intendevo, hai mai tenuto qualcuna tra le braccia come fai con me? Per ore, senza sentire il bisogno di muoverti, senza il bisogno di pensare a qualcosa per far passare il tempo? Solo come fai sempre quando mi tieni, perché ne hai voglia e basta, senza doverlo fare e senza aspettarti qualcosa in cambio o come conseguenza, lo hai mai fatto?”
Lei ci pensò.
“No. Credo che il contatto fisico più lungo che abbia mai avuto con un qualsiasi essere umano prima di te sia stato di circa quindici minuti.”
“Davvero? Eppure quando stiamo così, solo io e te, stai a guardarmi per ore e non sembra pesarti.”
“Non mi pesa infatti” sorrise di nuovo. “E tu lo facevi spesso?”
Scossi la testa.
“Sono un tipo indipendente. Se un ragazzo avesse provato ad abbracciarmi lo avrei mollato e sarei corsa dalla parte opposta.”
“Ma a me lo lasci fare.”
“Perché mi piace che tu lo faccia. Perché non mi pesa. Perché a te cederei volentieri tutta la mia indipendenza. Se ho te, non mi serve, non la voglio.”
Strinse la presa sulla mia vita.
“Non credo che potrei mai vivere senza di te. L'Africa ce lo ha insegnato, almeno questo. E comunque non credo che vorrei farlo. Perché dovrei?”
“Allora non farlo. Non vivere senza di me, non provarci mai. Rimani, invece. Ed io ti prometto che ne varrà la pena.”
“Ne vale già la pena” sussurrò lei.
Mi guardò come se fossi la cosa più importante del mondo. E forse in quel momento lo ero, per lei. Perché lei lo era per me.
“Potremmo scappare. Andare a Las Vegas, magari” propose piano, con voce morbida.
“Con una delle macchine di mio padre.”
“E potremmo sposarci in una di quelle cappelle con Elvis come insegna.”
“Scommetto che i nostri genitori morirebbero simultaneamente di infarto.”
“Immagina i titoli di giornale. Diventeremmo famose.”
“Lesbiche uccidono genitori e suoceri facendo venire loro un infarto per essersi sposate a Las Vegas.”
Rise e risi anche io, sempre sottovoce, per non rompere il momento.
Mi avvicinai di più a lei, chiudendo gli occhi e nascondendo il viso contro il suo collo.
“Però prima o poi mi sposerai, vero?” chiese con un po' di insicurezza nella voce che non mi fece piacere sentire.
“In qualsiasi momento tu voglia.”
Baciò ancora una volta la mia fronte, con tutta la dolcezza del mondo.
“Io lo voglio in ogni momento.”

La mattina dopo, quando si svegliò, io me ne ero andata.
Quel giorno non la vidi a lavoro e rientrai a casa dopo il solito, senza rispondere ai tre messaggi che mi aveva mandato.
Stava bevendo del vino rosso, sia io che lei sapevamo che non era in grado di reggere molto bene nessun tipo di liquore.
“Ho detto qualcosa di sbagliato? Non ti ho sentito tutto il giorno, e non rientri quasi mai così tardi, e ieri sera ho detto delle cose, quindi volevo sapere” inspirò “ho detto qualcosa di sbagliato?”
“Ho avuto sei interventi oggi. Incidente d'auto.”
“Oh.”
“Già.”
“E stamani?”
“Dovevo fare una cosa.”
“Quale cosa?” sospirò. “No, aspetta. Non rispondere. Non sono affari miei.”
“Certo che sono affari tuoi” risposi, baciandola sulla guancia e abbracciandola. “E smetti di bere vino senza di me. Ti rende sempre un po' paranoica” afferrai la bottiglia, rimettendola a posto.
“Non hai risposto” osservò.
“Cosa?”
“Non hai risposto alla domanda. Dov'eri stamani?”
“Giusto” ricordai io. “Devi promettermi che non darai di matto, d'accordo?”
Aprii la borsa, frugandoci dentro.
“Non posso prometterlo. Perché se eri con qualcun altro darò di matto eccome. Scoprirò il suo nome, per prima cosa, poi dove abita e che auto guida. Poi gliela distruggerò con una mazza da baseball.”
“Una reazione un po' esagerata, non ti pare?”
“Sai cosa ho fatto quando ho scoperto una delle mie ex a letto con un'altra?” fu allora che capii che era leggermente ubriaca. Non parlava mai delle sue ex. Ma qualcosa gli poteva sfuggire dopo l'ottavo bicchiere.
“Cosa?” chiesi, non più molto tranquilla.
“Mi sono avvicinata al comodino, ho preso il libro che le avevo prestato, e me ne sono andata salutandola come se l'avessi vista prendere un caffè” scrollò le spalle. “Non l'ho mai più rivista da allora. Ora, sai cosa farei se scoprissi che qualcuno ti ha sfiorato?”
“Gli distruggeresti l'auto con una mazza da baseball?” offrii con indecisione.
“Esatto. Credo che questo sia sbagliato per una quantità di motivi indecente, ma al momento sembra davvero un'ottima idea. Probabilmente non lo farei mai e domani mattina sarò imbarazzata per averlo detto ad alta voce.”
Io trattenni una risata.
“Sei bellissima.”
“Perché sono ubriaca?”
“Perché sei Arizona.”
Lei mi sorrise.
“Volevo darti una cosa, ma non posso farlo mentre sei ubriaca, ok? Quindi perché non andiamo a letto e ne riparliamo domani?”
Le tesi la mano. Lei mi seguì fino alla sua camera. La feci entrare, baciandola su una tempia.
“Dove stai andando?”
“A letto. Quello dentro la mia stanza” specificai, vedendola confusa.
“Credo che dovresti dormire qui, stanotte. Per assicurarti che non stia male. Sai, ho bevuto molto vino” tentò di convincermi facendo una buffa espressione mentre annuiva lentamente un sacco di volte, molte più del solito.
La lasciai vincere, stendendomi affianco a lei.

La mattina dopo mi svegliai presto e le preparai la colazione.
Lei mi raggiunse in cucina quasi un'ora più tardi.
“Grazie a Dio è domenica” mormorò sedendosi e gettandosi sulla tazza di caffè caldo che le avevo preparato.
Dopo il caffè le porsi un'aspirina. La prese, ringraziandomi.
“Cosa volevi darmi ieri sera?” ricordò all'improvviso, mentre stava lavando la tazza che aveva usato.
Io lanciai un'occhiata in direzione della mia borsa.
Ci frugai dentro per qualche istante, fino ad estrarne una scatoletta. No, non era un dannato anello di fidanzamento.
“L'altra sera mi hai chiesto di sposarti. Più o meno.”
Sorrise per la mia precisazione.
“Ed io ho detto che lo avrei fatto in qualunque momento. Ma tu sembravi così indecisa quando me lo hai chiesto, così volevo fare qualcosa che te ne desse la certezza, qualcosa che potessi portare con te per ricordarti che un giorno io e te staremo insieme. Ma non potevo prendere un anello o delle fedine, perché tutti se ne sarebbero accorti. Così ho preso queste.”
Aprii la scatola, mostrandole due collanine di argento con una piccola fedina ciascuna dello stesso materiale sistemata come ciondolo.
Ne estrassi una.
“Mi prometti che un giorno mi sposerai?”
Lei cercò di non farmi notare che la mano con cui si era coperta le labbra le stava tremando, così la abbassò.
“Te lo prometto.”
Le agganciai la collanina intorno al collo.
Aveva le lacrime agli occhi.
Sussurrò dolci parole insensate al mio orecchio mentre mi agganciava l'altra collanina.
Poi mi fece voltare tra le sue braccia, baciandomi insistentemente.
Senza allontanarsi mi portò verso il divano, facendomi sdraiare sotto di lei. Si accomodò tra le mie gambe, sostenendosi con il gomito sinistro e portando la mano destra ad uno dei miei fianchi, mentre io avevo le mani tra i suoi capelli.
La sentii alzarmi la maglietta di qualche centimetro e la sua pelle contro la mia pelle mi fece andare a fuoco.
Avevo i sensi allerta, riuscivo a percepire tutto, ogni cambiamento anche millimetrico.
Si allontanò da me e la vidi guardare in basso e sorridere. Seguii il suo sguardo.
Il suo ciondolo aveva incontrato il mio proprio alla base del mio collo.
“Sembra che non possano fare a meno di stare insieme, dopotutto” commentò lei con un sorriso.
Appoggiò la fronte sulla mia e rimase immobile per diversi minuti. Percepire il suo respiro era abbastanza e per lei lo era percepire il mio.
“Non voglio che sia così, la nostra prima volta insieme” mi spiegò riaprendo gli occhi. “Non voglio che duri tre minuti sul divano del soggiorno. Vorrei portarti a cena fuori e farti i complimenti per il vestito che hai scelto. Vorrei baciarti sulla porta di casa anche se sappiamo entrambe che anche io vivo qui. Vorrei che prendessi la mia mano e mi portassi in camera nostra, dove vorrei rimanere tutta la notte a perdermi in te.”
“È quello che voglio anche io” la rassicurai.
Non fece niente per spostarsi, però. E comunque io non glielo avrei permesso.

“A cosa stai pensando?” mi chiese, vedendomi mentre studiavo la mia camera dalla soglia della porta.
“A dove potrei mettere un lettino. I primi mesi andrà bene qui, di lato” indicai a sinistra del mio letto, dove c'era dello spazio vuoto. “Ma poi ne servirà uno più grande. Stavo pensando di trasformare questa nella camera del bambino e di dormire su uno dei due divani. Infondo non è che io abbia della privacy in ogni caso” le sorrisi, facendole sapere che scherzavo.
La baciai a stampo sulle labbra e andai verso la cucina.
“Oppure” buttò lì in tono casuale “potresti dormire nella mia camera da letto. Insieme a me.”
“Davvero?”
“Perché no? Ti sembra così strana l'idea che voglia dividere un letto con te?” chiese con un suggestivo gioco delle sopracciglia.
“Ti rendi conto che con due porte chiuse avrò bisogno di un baby monitor che mi avverta quando il bambino piange e che se dormiamo nella stessa camera sveglierà anche te, vero?”
“Calliope, comprerei comunque i baby monitor quando nascerà per averne uno in camera mia. È mio figlio. Voglio sapere se si sveglia piangendo nel cuore della notte.”
“Hai ragione. Scusa. Sembra ancora surreale, a volte. Scusami. Smetterò di fare commenti idioti tipo questo.”
“I nostri genitori, i nostri familiari, perfino persone che non conosciamo, passeranno la nostra vita a ricordarci che non è mio figlio. Non voglio che anche tu la pensi così. Voglio che tu stia dalla mia parte.”
Le presi la mano.
“Io sono dalla tua parte. Come lo sono sempre. E quando avremo un bambino sarà tuo figlio. Nessuno potrebbe mai convincermi del contrario.”
Avevamo deciso che sarebbe stato meglio parlare con Aria e Tim prima di fare qualunque cosa, per assicurarci di non avere contro anche loro oltre che i nostri genitori.

Quella mattina mi presentai in cucina con addosso solo biancheria intima e canottiera. Era un caldo afoso in quei giorni a Seattle.
Arizona era vestita in modo simile.
Ogni estate la stessa storia. Di mattina vedevo le sue gambe e tutto il resto del giorno non riuscivo a pensare. A niente di niente.
Ma la situazione era addirittura peggiorata, perché avevamo un nuovo rituale mattutino.
“Buongiorno” mi disse, versandomi una tazza di caffè.
Io mi avvicinai, baciandola velocemente sulle labbra.
E per tutto il giorno l'unica cosa nella mia mente furono le gambe perfette di Arizona e la sbirciatina che avevo dato mentre la baciavo.
Stavo impazzendo.
Andammo a vedere di nuovo Lucy Fields. Mi disse che avrei potuto provare ad avere un bambino, se lo avessi voluto. Il mio utero era sano, tutto andava bene.
Qualcuno bussò alla porta, quella sera, mentre stavamo aprendo del vino.
Erano Aria e Tim. Erano così felici, e non fecero altro per tutta la sera che parlare di come sarebbe stato avere un bambino.
“Posso farvi una domanda?” ci chiese ad un certo punto Tim, con ingenua curiosità.
Io e Arizona annuimmo.
“Perché voi due non avete mai provato a stare insieme? Voglio dire, sembrate già una coppia e siete così felici. Perché non avete mai pensato di fare il passo successivo?”
Continuò a sorseggiare la birra mentre io, Aria e Arizona lo guardavamo come se fosse affetto da una grave amnesia.
“Tu” esitò “non sai niente?” chiese alla fine la bionda.
“Che dovrei sapere?”
“Del discorso che mamma e papà mi hanno fatto il giorno delle tue nozze. Del discorso che la madre di Callie ha fatto a lei. Di quando sono venute qui qualche settimana fa per...”
“Sono venute qui?”
“Sì” rispose come se fosse scontato Arizona. “Mamma ha detto a Calliope che sono una persona inaffidabile che scappa ogni volta e la signora Torres le ha praticamente detto di non avere un bambino.”
“La mamma ti ha detto di non avere un bambino?” mi chiese Aria visibilmente turbata.
“Non lo sapevi?”
“No. Penso che sarebbe fantastico se avessi un bambino della stessa età di nostro figlio. Potrebbero giocare insieme e sarebbe come avere un fratello.”
“Allora perché ci hanno chiesto di non farlo?” chiese Arizona.
“Vi?” ripeté Tim. “Da quando tu vuoi un bambino?”
“State per avere un bambino insieme?” chiese Aria con un sorriso. “Ma è fantastico. Così mamma non potrà più dire che non fate sul serio e ci lascerà in pace. Potrete avere finalmente quello che volevate.”
“Tu non eri d'accordo con lei?” chiesi io a quel punto.
“Certo che no. Io voglio che tu sia felice. E Arizona, beh, lei è l'unica persona che ti rende felice.”
Passammo il resto della serata a rispondere alle reciproche domande su quello di cui ci avevano tenuto all'oscuro i nostri genitori.

Avevo indossato un vestito rosso. Lei ne aveva uno blu. Era bellissima. Si complimentò per la scelta del vestito e mi disse che ero molto bella. Dissi lo stesso di lei mentre uscivamo.
Quando arrivammo Aria ci salutò, accompagnandoci dentro. Arizona prese due bicchieri di champagne e me ne porse uno. Poi ricordò che non potevo bere e lo passò a Tim senza dare spiegazioni quando Aria ci guardò in modo sospettoso con un sorrisetto.
Salutammo le nostre madri ed i nostri padri che stavano tenendo un'interessante discussione con alcuni vecchi compagni dell'esercito del colonnello.
Quando rimanemmo solo noi Torres e Robbins, mio padre propose un brindisi al bambino di Aria e Tim.
“Adoro questa canzone” commentai per distrarre mia madre dal fatto che non stavo bevendo champagne.
“Davvero? Anche io. Trovo che sia una delle più belle che abbia mai sentito” rispose Arizona sorridendomi. Posò il bicchiere sul tavolino che avevamo accanto. “Vieni, voglio mostrarti una cosa” sussurrò per non farsi sentire.
Sgattaiolammo via e mi portò in una terrazza all'aperto collegata direttamente alla sala principale.
“Questo posto è bellissimo. Perché è vuoto?”
“In teoria, non potremmo stare qui neanche noi. Ma il fatto che mia madre sia la proprietaria dovrà pur avere i suoi vantaggi, no?”
Mi porse una mano.
“Ti va di ballare?”
Io le sorrisi, finalmente capendo perché eravamo su quella terrazza, ed accettai.
Chiusi gli occhi, appoggiando una tempia alla sua. Appoggiai le mani sui suoi fianchi e lei appoggiò le sue alle mie spalle.
Quella canzone era davvero bella.
There is no mountain that I can't climb
For you, I'd swim through the rivers of time
As you go your way, and I go mine
A light will shine
And it will be me

“Credi che lo abbia fatto davvero? La cantante, credi che sia andata per la sua strada e abbia lasciato andare lui per la sua?”
“Arizona, questa canzone la canta Melissa Etheridge. È dedicata ad una donna.”
“Davvero?”
“Sì, tesoro. Ascolta la canzone sapendo questo e capirai perché mi piace così tanto.”
Oh, how the world seems so unfair
Creating a love that can not be shared
As you go your way, and I go mine
A light will shine
And it will be me

Si allontanò per guardarmi negli occhi.
“Stai cercando di dirmi elegantemente che vuoi andare per la tua strada?”
Io risi, scuotendo la testa.
“No, mi riferivo alla parte del creare un amore che non può essere condiviso.”
Si passò una ciocca dei miei capelli tra le dita.
“Non voglio che tu vada per una strada dove non ci sono anche io.”
“Non ho intenzione di farlo.”
Appoggiò di nuovo la tempia sulla mia.
“Arizona?”
“Sì?”
“Tu lo sapevi già chi la cantava.”
“Certo che lo sapevo.”
Risi ancora, e rise anche lei.
Quando la canzone finì rientrammo, trovando i nostri genitori che parlavano insieme ad Aria e Tim.
“Ho sempre voluto un nipotino. Lei che ne pensa, colonnello?”
“Soltanto uno, papà?” chiesi, cogliendolo alla sprovvista.
“Certo che no, mija. Sono sicuro che anche Aria e Timothy sono decisi ad avere altri bambini in futuro.”
“In realtà, non proprio” lo contraddisse Tim.
“Pensiamo che uno sia più che sufficiente. E non vorremmo mai che si creassero gelosie, quindi è escluso averne un altro tanto presto” continuò Aria.
“Tra dieci, quindici anni, quando avremo entrambi la nostra crisi di mezz'età, forse decideremo di avere un altro bambino invece di una squallida relazione extraconiugale. Ma per adesso uno ci basta. Dico bene, tesoro?”
“Esattamente quello che penso io, amore” Aria sorrise. “In più, pensavamo che invece di un fratellino sarebbe stato molto meglio un cuginetto della sua età” guardò verso di me.
“Sarebbe meraviglioso che Calliope decidesse di avere un bambino, non posso che essere d'accordo.”
“Carlos, non essere sciocco. Callie non è sposata” gli ricordò mia madre.
“Non credevo fosse legale qui a Seattle” mio padre mi guardò interrogativamente.
“Non lo è, infatti, signor Torres. Ma ci sono delle alternative, come le unioni civili.”
“Oh, questo è molto positivo, vero Calliope?” mi chiese.
Io sorrisi del fatto che mio padre si interessasse a quello che volevo. Lo trovavo molto dolce da parte sua.
“Sì papà.”
“Bene, e magari potresti avere un bambino un giorno” proseguì, soddisfatto. Sapevo quanto fortemente mio padre voleva dei nipotini.
“A dire il vero, papà, quel giorno potrebbe arrivare molto presto.”
“Cosa?” chiesero in coro mia madre e la signora Robbins.
“Calliope ed io siamo state nuovamente a vedere Lucy Fields, visto che Aria ci aveva detto che avrebbe tanto voluto un cuginetto per TJ.”
Proprio così, il bambino adesso veniva chiamato da Arizona TJ, Timothy Junior, perché lei sapeva senza ombra di dubbio che sarebbe stato un maschietto. E quello era il nome che Aria avrebbe potuto scegliere di dare ad un maschietto.
“Ma è fantastico. E dove pensi di crescerlo, Callie?” mi chiese il colonnello Robbins.
“A casa nostra, papà” rispose Arizona come se fosse strano anche solo il pensiero di considerare un altro posto.
“Sarebbe come se fosse anche figlio tuo” replicò l'uomo senza scomporsi.
“Sarà anche figlio mio, infatti.”
Il colonnello prese un lungo sorso dal suo bicchiere di champagne.
“Questo è” sospirò. “È semplicemente meraviglioso, tesoro. Sono felice che tu abbia cambiato idea.”
“Lo sono anche io, papà.”
Anche il colonnello Robbins avrebbe voluto una schiera di nipotini.
“Tutto questo è inammissibile” fu la ferrea replica di mia madre a tutta la situazione.
“E perché mai, mamma? Ho fatto quello che mi avevi chiesto, quello che è meglio per il matrimonio di Aria e Tim. Io e Arizona non stiamo insieme, ma visto che entrambe vogliamo un bambino, questo sembra il modo perfetto di averne uno. Ci fidiamo l'una dell'altra, viviamo già insieme, e Aria è felicissima di questa decisione. Tutto è ok.”
“Non dire sciocchezze, Calliope” replicò lei aspramente.
“Lucia” cercò di tranquillizzarla mio padre, il tono di leggero sconcerto per quella reazione.
“No, Carlos. Santo Dio, ma non lo vedi? Tua figlia ha una relazione con questa donna. Come può essere tutto ok? È un peccato agli occhi di Dio, ed è sbagliato. Come puoi non vederlo anche tu?”
Il mio sorriso sparì lasciando posto ad un'espressione amareggiata.
“Finalmente” sospirai. “Finalmente hai ammesso che il motivo non era Aria, la figlia perfetta, ma proprio io, ed il fatto che sono sempre stata quella difettosa delle due.”
“Callie” mia madre mi riprese, tentando di farmi tacere.
“Che c'è? Credi che non lo sapessimo tutti? Beh, tutti tranne papà, in ogni caso. Perché credi che le zie abbiano smesso di parlarti? Nessuna di loro sopportava di vedere il proprio fratello sposato con una donna che non lo ha mai amato al pari del suo primo marito. E come potresti considerarmi al pari di Aria quando io sono frutto di un'unione che tu pensi essere di secondaria importanza agli occhi di Dio?”
“Calliope” mio padre pronunciò il mio nome con tristezza. “Davvero è questo quello che pensi?”
“No. Ma è quello che pensa lei.”
Guardai mia madre negli occhi aspramente per altri due secondi. Poi mi voltai e mi diressi verso l'uscita, seguita da Arizona, che non si prese neanche la briga di salutare i suoi genitori.
Sentii la le sue dita intrecciarsi alle mie mentre uscivamo.
Guidò lei, senza che neanche glielo chiedessi.
Quando la macchina si fermò si voltò verso di me, sporgendosi per asciugare le lacrime sulle mie guance.
“Sei bellissima” sussurrò con il fiato spezzato.
Aprì la mia porta, mi prese per mano e mi condusse fino all'ascensore. Davanti all'appartamento mi baciò a fior di labbra.
E credo che in quel momento entrambe capimmo cosa sarebbe successo.
Aprii la porta, richiudendola dietro di lei.
Posammo le borse e i giacchetti e poi presi la sua mano, portandola verso camera sua. Non fu una decisione cosciente, ma solo una reazione del subconscio, visto che era quella più vicina. Ed anche la più grande. E sarebbe stata di entrambe, quando il bambino avrebbe avuto la mia.
Anche se la casa era vuota chiusi la porta della camera, prima di guardarla negli occhi.
Quando eravamo entrate aveva acceso la luce. Ed io potevo vederla alla perfezione, mentre mi avvicinavo e baciavo la sua spalla nuda.
Avvolse le braccia intorno al mio collo e poi mi baciò.
Vivevo lì insieme ad Arizona da quasi cinque anni.
Ma era la prima volta che mi sentivo come se tutto fosse finalmente al posto giusto.
Per la prima volta, ero a casa.





Fatemi sapere che ne pensate!

* La canzone in sottofondo quando ballano è "It Will Be Me" di Melissa Etheridge.


A presto!


Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** La nostra prima storia di vita e di morte ***


Come sempre ringrazio davvero tutti quelli che hanno recensito e aggiunto la storia tra le seguite e chi ha letto. Siete grandi ragazzi!

Ringrazio Trixie per il lavoro che ha fatto e sta facendo nel creare i banner per la storia :)


Image and video hosting by TinyPic


Avvertimenti: Angst (pesantemente)




La nostra prima storia di vita e di morte


A volte mi guardavo intorno e tutto ciò che vedevo era oscurità.
Come se fossi sepolta viva.
Allora inspiravo a pieni polmoni e mi muovevo lentamente, come se avessi avuto paura di fare un passo nel vuoto da un momento all'altro.
Però mi muovevo.
C'erano altre volte in cui tutto ciò che vedevo era appannato.
Come se fossi circondata da ghiaccio.
Allora non riuscivo a respirare e mi paralizzavo, aspettando che il ghiaccio si sciogliesse o mi uccidesse.
Di solito si scioglieva.
Finché, un giorno, mi aveva ucciso davvero.
Mi guardo allo specchio ed è palese.
Sono morta.
La persona allo specchio, non sono io. Quello è il ricordo che ho di me.

“Arizona Robbins.”
“Calliope Torres.”
“Primo giorno da specializzanda?”
“Sì.”
“Anche per me.”
“Chi ti è toccato?”
“La nazista.”
“Sul serio? Anche a me.”


Eravamo state amiche prima di diventare amanti.
Forse era per quel motivo che le cose funzionavano così bene, tra di noi.
Adesso, quando penso a lei, tutto ciò che ho la forza di credere è che il mio destino fosse quello di incontrarla. Di conoscerla. Di sapere chi fosse. Prima che entrambe lo dimenticassimo.

“Hai deciso che specializzazione sceglierai?”
“Pediatria. Tu?”
“Ortopedia, credo.”
“Rimarrai qui al Seattle Grace?”
“Sì. E tu?”
“Certo.”
“Se ti offrissero un posto migliore?”
“Sai che questo per me è il posto migliore.”
“Potrebbe esserci un posto migliore, invece. Se ti chiamassero da New York, per esempio.”
“Ma lì non ci saresti tu.”


La amavo. La amo ancora.
Anche lei mi aveva amato.
Mi chiese di andare a vivere con lei ed io accettai.
Mi disse di volere un figlio, ma io la lasciai.
Le dissi che avrei avuto un figlio con lei, se era davvero quello che voleva.
Mi disse che non mi avrebbe mai costretto a fare qualcosa che non volevo fare solo per egoismo, solo perché era quello che voleva lei.
Solo perché sarebbe stato più facile per noi.
La amavo. E lei amava me. E tutto il resto mi era sembrato così inutile, allora, che non avrei saputo che farmene di una vita intera senza di lei.
Poi entrò un tizio con una pistola in ospedale ed iniziò a sparare a tutti i chirurghi che incontrava.
Entrò nella stanza dove eravamo noi.
Lei si mise tra me e lui.

“Sei un chirurgo?”
“Sì, signore.”
Caricò il colpo.
“Posso solo...posso dirle addio?”
Tutto ciò che mi era concesso vedere era il volto dell'uomo e il profilo dolce di Calliope.
Aveva le mani leggermente alzate. E, leggermente, tremavano.
L'uomo mi lanciò un'occhiata e poi annuì.
“Mi dispiace. Mi dispiace averci portato via del tempo per quella stupida storia di avere un bambino. Mi dispiace che tu mi veda tremare. Se potessi tornare indietro ti direi che non importa” scosse la testa inspirando. “Davvero. Non importa. Niente di niente. Quello che conta, quello che dovrai ricordarti di me, non devono essere i due mesi in cui ci siamo lasciate, e nemmeno adesso, nemmeno le mie mani che tremano. Ricorda invece tutto ciò che c'era prima. Ricorda quanto ti ho amata e quanto ti amo. E trova una donna che sia buona con te. E magari, un giorno, riuscirai a parlarle di me e sorridere.”
“Non ho avuto abbastanza tempo. Io ho...bisogno di più tempo”le risposi piangendo silenziosamente.
“Anch'io. Ma tutto ciò che devi sapere richiede solo un secondo per essere detto. Ti amo.”
Feci un passo verso di lei, e la pistola si spostò su di me. Era quello che volevo. Perché, anche se fossi sopravvissuta, non ci sarebbe stata vita, senza si lei.
“Dei chirurghi hanno ucciso la donna che amo davanti ai miei occhi.”
Fu allora che capii che mi avrebbe ucciso davanti ai suoi.
Mi chiesi quanto sarebbe stato doloroso.
E l'unica cosa che riuscii a rispondere a me stessa, fu che mi avrebbe fatto meno male di veder morire lei.
“È stato mille volte più terribile della cosa più atroce che avessi mai potuto immaginare.”
Lo capivo.
“Nessuno dovrebbe mai vedere la persona che ama morire. È come morire anche quello. Ma, al contrario, invece di andarsene, il dolore rimane. E cresce.”
Guardò Calliope guardare me.
E abbassò la pistola che aveva puntato alla mia testa.
Se ne andò, senza dire altro.


Lentamente, come un fiore che sboccia quando arriva la primavera, dopo quel giorno io e lei ci rialzammo in piedi.
Fu difficile.
Ma riuscimmo ad essere felici di nuovo.
Adesso, se dovessi ricordare uno dei momenti in cui eravamo felici, potrei descrivere il luogo in cui eravamo, cosa stavamo facendo, di cosa stavamo parlando.
Ma non sarei più in grado di descrivere quella sensazione che averla vicino risvegliava dentro di me.
Mi guardo attorno.
Lei è stata dove sono io adesso.
Ma quello è stato molto tempo fa.

“Rimani qui. E sii felice. Ed io andrò là, e sarò felice.”
“Arizona, no.”
“Non è un ordine, non te lo sto imponendo. Voglio solo darti la possibilità di scegliere. Rimani qui e sii felice. Laggiù non lo saresti, questo lo sappiamo benissimo entrambe. Quindi rimani a casa, come è giusto che sia.”
Non dimenticherò mai lo sguardo nei suoi occhi.
Si era arresa. Rassegnata.
Sapeva che avevo mentito. Non era una richiesta. Era un ordine.
E nei suoi occhi lessi tutto il dolore che le avevo inferto.
La stavo lasciando indietro.
“Trova qualcuno che ti ami più di me, Calliope. Anche se credo che sia impossibile.”
E fu impossibile.
Non avrebbe mai trovato qualcuno in grado di amarla più profondamente di quanto avevo fatto io, poca importanza aveva quanto a lungo avrebbe continuato a cercare.
“Trova qualcuno che ti renda abbastanza felice da farti scegliere di rimanere, Arizona. Tutto quello che sono stata capace di fare io è stato fartelo desiderare.”


Non trovai mai nessuno capace di farmi scegliere di rimanere.
Ma trovai qualcuno capace di convincermi a fare molto di più.
Trovai qualcuno che mi fece scegliere di tornare indietro.
Ma era troppo tardi, quando lo feci.
Dicono che c'è un momento in cui dobbiamo scegliere. C'è una persona, nella nostra vita, che ci ha cambiato per sempre. Una persona grazie alla quale non saremo mai più gli stessi.
E quando questa persona ci lascia, quando la nostra anima gemella ci abbandona, quando sappiamo che non riusciremo mai più ad amare qualcuno allo stesso modo, allora arriva un momento in cui siamo liberi di fermarci, prenderci tutto il tempo che ci serve, e scegliere.
Scegliere di passare il resto della nostra vita con qualcuno che ce la ricordi sempre, o con qualcuno che non ce la ricordi mai.

“Mark! Hai dimenticato le chiavi?”

Lei aveva scelto qualcuno che non le avrebbe mai ricordato di me.

“Sono stata via cinque mesi. Cinque mesi. E quando torno tu sei andata avanti.”
Pronunciai le ultime due parole con disprezzo.
“Sai che non è vero.”
“Sono stata solo cinque mesi nella fottuta Africa e quando torno tu sei incinta.”
“Solo cinque mesi, Arizona? Solo? Perché a me non sono sembrati solo cinque mesi, quando ogni minuto mi sentivo come se stessi sprofondando nella terra e l'inferno mi si stesse chiudendo addosso.”
“E come credi che mi sentissi io? Come credi che mi sentissi io che ero sul serio nel bel mezzo dell'inferno e non avevo te al mio fianco?”
“Ho aspettato tre mesi che tornassi senza neanche respirare, praticamente solo fissando la porta mentre piangevo, sperando di vederti magicamente apparire a chiedermi scusa.”
“Ti ho chiesto scusa” protestai.
“Dopo cinque mesi. E comunque con due mesi di ritardo.”
“Tre mesi che me n'ero andata e tu hai dormito con lui. Questo è semplicemente devastante, per me, non so se riesci a capire quanto.”
“Io ti ho guardato andar via. Credi davvero che non sappia a quanto dolore una persona può riuscire a sopravvivere?”
Provò a richiudere la porta, ma io la fermai con una mano.
“No, ti prego. Dammi ancora qualche minuto.”
“Per quale motivo, Arizona? Perché vuoi qualche minuto?”
“Perché per quanto faccia male stare qui, davanti a te, fa meno male del solito.”


Fu come radere tutto al suolo, come fare piazza pulita.
E poi caricarsi un enorme mattone sulla schiena per portarlo sulla vetta di una montagna. Un migliaio di volte. E quando ci furono abbastanza mattoni, ricominciammo con fatica a costruire da capo la nostra casa insieme. Solo che, finalmente, avevamo realizzato che la nostra casa eravamo noi.
Non fu facile.
La maggior parte del tempo, continuò a fare male.
Come l'inferno.
Come il fuoco.
A volte mi sentivo consumare l'anima dalla fatica che mi occorreva ogni giorno per decidere di rimanere.
Ma era comunque più facile di come ero stata senza lei.

“Sei innamorata di lui?”
“Questa è gelosia. Sei gelosa.”
“E mi biasimi?”
“Non ti ho mai dato nessun motivo per essere gelosa.”
“Eccetto la piccola parte in cui ti ha messo incinta.”
“Non stavamo insieme, allora. E sai che me ne sono pentita subito dopo, lo sai. Sai come stavo, in che stato ero, in che stato mi avevi lasciato.”
“Lo so. E non passa giorno che io non mi penta di essermene andata. Vorrei solo che anche a te dispiacesse di avermi ferita.”
“Arizona, sono mortificata. E tu lo sai, lo sai” mi prese le mani.
“Sei innamorata di lui?”
“No!” mi lasciò andare le mani. “Dio, no. Non sono innamorata di lui. Smetti di chiedermelo, Arizona.”
“Se non è vero perché dovrebbe infastidirti così tanto?”
“Perché lo insinui tutto il tempo. Costantemente. Se non ti fidi di me, forse tutto questo è stato un errore. Forse abbiamo affrettato troppo le cose.”
“Forse lo abbiamo fatto.”
“Forse dovremmo ricominciare da zero. Vivere in due appartamenti separati. Ricominciare ad uscire una sera alla volta e vedere come vanno le cose. O forse dovremmo solo...prenderci una pausa.”
“O forse dovresti sposarmi.”


Accettò nonostante quanto fosse stata scadente la proposta. Non avevo neanche un anello insieme a me.
Ma non potevo sopportare il pensiero di perderla ancora una volta.
Così avevo pensato all'unico modo che avevo per far sì che lei mi provasse che voleva davvero stare con me e rimanere con me.
Così accettò.

“Non voglio che ci siano molte persone. Potremmo fare una cosa intima.”
“Per quanto mi riguarda possiamo essere solo io e te. Questo è tutto quello che voglio, in assoluto.”
Lei mi sorrise.
“Dopo che il bambino sarà nato potremmo lasciarlo con Mark per un paio di giorni mentre facciamo una piccola fuga. Magari in Canada. O in California, se hai voglia di prendere un po' di sole.”
“Sarebbe molto romantico.”
“Sarai bellissima.”
“Come fai a dirlo?”
“Perché sei sempre bellissima.”
“Arizona?”
“Sì?”
“Ti amo.”


La cosa da sapere della vita, è che le cose non vanno sempre come avresti voluto che andassero. E non tutto accade nel modo in cui lo avevi programmato.
Le cose brutte accadono.
E, nonostante sembriamo essere convinti che non possano mai accadere a noi, a volte dobbiamo fare i conti con il fatto che la vita non è giusta.
Non c'è niente di giusto in un luogo in cui qualcuno vive e qualcuno muore. Anche quando si hanno le stesse probabilità, a volte capita che sia come lanciare una moneta e vederla roteare davanti ai propri occhi.
Destra o sinistra.
Testa o croce.
Vita.
O morte.

“Cosa diavolo è successo?”
“Mark stava guidando. Sono andati a sbattere contro un camion. Sono entrambi privi di sensi al momento. Arizona, potrebbero non farcela.”


Morte.
Questa è la parte della vita che fa sparire tutto il resto.
Che rende tutto ciò che è accaduto prima troppo importante per lasciare che anche solo un secondo ne vada sprecato, e tutto ciò che accadrà dopo troppo insignificante anche solo per essere preso in considerazione.
La morte cambia tutto.
Ed è chi rimane in vita che deve fare i conti con i cambiamenti. Con il dolore.

Mark si svegliò qualche minuto dopo l'arrivo in ospedale.
“Che cosa è successo dentro la macchina? Come hai fatto a non vedere un camion fermo in mezzo alla strada?”
“Stavamo discutendo, quando ha deciso di chiamarti per sentire come andavano le cose in ospedale. Le ho preso il telefono e l'ho gettato nei sedili posteriori. Le ho detto che avrebbe dovuto scegliere me. Che avremmo dovuto crescere nostra figlia insieme e che avrebbe dovuto sposare me.”
Non trovai la forza di reagire come avrei voluto.
Quell'uomo era su un letto di ospedale. Come potevo colpirlo senza rimorso con un pugno dritto in faccia?
“Si è sganciata la cintura di sicurezza ed ha ripreso il telefono. Tutto quello che mi ha risposto è stato 'Mark, sei impazzito. Io amo Arizona.' e tutto quello che ricordo dopo è il rumore dei vetri che si fracassavano.”
Il battito del cuore gli aumentò ed andò in arresto.
Entrò in coma.


L'impatto era stato dalla sua parte. Anche se stava ancora indossando la cintura, il colpo era stato così forte da causare danni irreparabili ai polmoni e al cuore. Se ne andò per primo.
Calliope era senza cintura. Era stata gettata attraverso il parabrezza dell'auto.
Rimasi affianco al suo letto per tutto il tempo.
Quando il suo cuore si arrese, io rimasi a guardare per ore, mentre la operavano tentando di farla continuare a vivere.
Teddy ogni tanto doveva voltarsi e chiudere gli occhi, per poter continuare ad operare, guardando mentre lei a poco a poco si spegneva.
Addison, invece, si voltava spesso di lato per versare qualche lacrima. Era l'unico modo in cui poteva pulirsi la visuale e tornare ad osservare con attenzione il monitor.
Cristina le aveva tenuto la mano per quasi tutto il tempo, convinta che nessuno fosse in grado di vederla.
Poi, all'improvviso, entrarono in arresto. Sia Calliope che il bambino.

“Togliti.”
Era una bambina.
Volevo essere io a far vivere quella piccola creatura.
Volevo essere io a farla respirare per la prima volta. A farle battere il cuore, per la prima volta, mentre ascoltavo il suo primo battito con lo stetoscopio. Volevo che vivesse. Avrei dato la mia vita senza difficoltà perché lei potesse vivere.
“Sento il battito.”
Tutto ciò che sentii in risposta fu un insistente bip.


Non ci furono risposte.
Nessuno disse niente.
Nessuno si mosse.

“Ora del decesso, 23 e 06.”

E fu allora che il ghiaccio sembrò uccidermi.
Dicono che il posto peggiore che esista è l'Inferno.
Nel senso comune, però, si parla di Inferno come di un luogo in cui chi in vita ha sbagliato dovrà assumersi la responsabilità delle proprie azioni, un posto in cui dovrà finalmente scontare una pena in base ai propri crimini.
L'Inferno è un posto in cui c'è giustizia.
Il posto peggiore che esista è il mondo. Qui, non c'è giustizia.
Basta guardarsi attorno.
La vita di tutti è appesa ad un filo. Basta un soffio. E si precipita nell'oscurità.

“Inizia a vedersi” si sfiorò la pancia davanti allo specchio.
Appoggiai una mano sul piccolo rigonfiamento che iniziava ad avere.
“Ciao. Come vanno le cose lì dentro?” chiesi stupidamente al suo ombelico. “Scommetto che fa caldo.”
La sentii ridere da lassù dove si trovava.
“Non ridere, mi distrai. Sto cercando di avere una conversazione con il mio bambino, quaggiù” le dissi sottovoce, come se il bambino in questione potesse davvero sentirmi.
“Mi spiace, continua pure.”
Mi schiarii la voce.
“Come stavo dicendo, scommetto che fa caldo. Deve essere un bel posto, confortevole. Però magari troppo cupo. Vedrai, ti piacerà il mondo. C'è molta luce qui fuori. E ti piacerà la tua camera. La sto sistemando tutta da sola, perché non voglio che la tua mamma salga su una scala mentre sei ancora lì dentro. Per adesso è solo bianca, ma appena saprò se sei un maschietto o una femminuccia, la dipingerò. Ho già sistemato il lampadario e ho montato un lettino e comprato una culla. So che è presto, ma mi sento come se dovessi essere pronta quando deciderai che è il momento di venire fuori da lì.”
Calliope rise di nuovo. Poi mi tirò in alto e mi baciò.


Ricordando in seguito le mie parole mi resi conto che avevo mentito a mia figlia.
Il mondo non avrebbe avuto molta luce, ma sarebbe stato molto più tetro del posto in cui allora si trovava.
Dopo aver sentito le parole di Hunt uscii dalla sala operatoria senza guardarmi indietro.
Come ho detto, mi sentivo immersa nel ghiaccio.
Tutto intorno a me era appannato.
Tutto scorreva lentamente, come se non fosse reale.
Per un secondo pensai che, se non fosse stata incinta, forse si sarebbe salvata. Subito dopo mi chiesi che razza di persona pensa una cosa del genere. Infine, realizzai che probabilmente anche per la bambina sarebbe stata questione di ore.
Era troppo piccola. Era indifesa. Non sarebbe potuta sopravvivere.

“Che ne dici di Lily?”
“Non lo so. Forse?”
“D'accordo, che te ne pare di Matthew?”
“Credevo stessimo discutendo i nomi femminili.”
“Giusto. Allora, vediamo...Jennifer?”
“Troppo comune.”
“Hai ragione. Jane?”
“Mi prendi in giro? Quello è tipo il nome più usato nella storia dell'umanità.”
“Il mio repertorio in questione di nomi non è molto vasto. Fino a qualche tempo fa non avevo mai preso in considerazione l'idea di avere un figlio.”
“Non ho mai pensato ad un nome, in tutta onestà. Pensavo che mi sarebbe venuto quando sarebbe stato il momento.”
“Abbiamo ancora tempo.”
“Se non troviamo niente di meglio scegliamo Jamie. Andrà bene sia per un bimbo che per una bimba.”
“Perché invece non cerchiamo un nome che le ricordi le sue origini latine?”
Lei mi sorrise.
Io la baciai affettuosamente. Mi piaceva starle così vicino, a parlare di cose che avremmo deciso insieme. A parlare del nostro futuro.
Ero sdraiata accanto a lei, con un gomito mi tenevo sollevata per guardarla negli occhi, mentre con l'altra mano le accarezzavo la pancia.
“Ce l'ho” sussurrò tra un bacio e l'altro.
“Dimmi.”
“Sofia.”


Le ultime parole di Calliope erano state 'Io amo Arizona'.
Quella bambina era nostra figlia. Era mia figlia.
Eppure non potevo avvicinarmi.
La guardavo dal vetro della stanza di terapia intensiva neonatale mentre lentamente si indeboliva sempre di più.
Se ne stava andando anche lei.

“Ti prego. So che sei una che combatte, proprio come lo è la tua mamma.”
Era. Lo era la sua mamma.
Ricominciai a piangere. Non sembravo capace di fare altro in quei giorni.
“So che puoi farcela. Lo so. Puoi vivere, se scegli di farlo. So che non vorresti, lo capisco, perché neanche io riesco a trovare una ragione per continuare a combattere. Ma se tu potessi solo...se potessi vivere per me, sarebbe fantastico. Se potessi riuscire a capire che anche io sono la tua mamma, che anche io sto morendo insieme a te, e che anche io darei la vita per te, perché ti amo più della mia stessa vita, allora credo che potresti trovare una ragione, nel tuo cuore, per provare a lottare. Non ti dirò che sarà facile per noi due, perché non lo sarà. Ci saranno momenti duri e non ci sarà lì la tua mamma per aiutarci a superarli. Ma alla fine ce la caveremo, ed io mi impegnerò al massimo per ricordarti ogni giorno quanto io ti voglio bene, questo posso promettertelo. Quindi sarebbe meraviglioso se decidessi di combattere per me. E vivere per me. Ci sono tante di quelle cose che ti perderesti, della vita. Tante cose brutte, sicuro, ma anche alcune cose belle. Quelle cose per cui vale la pena vivere, anche se il mondo è così ingiusto. La tua mamma era tra le cose belle, sai? Lei era...Lei è la cosa per cui io continuo a vivere. Può essere anche tra le tue ragioni, se lo vuoi. E posso esserci anche io. Ma ti prego, ti prego, scegli la vita.”


Qualche secondo dopo il suo cuore si fermò.

“Arizona?”
“Sì?”
“Sono felice che tu sia tornata da me.”
“Lo sono anche io, amore.”
“Non potrei sopravvivere se un giorno te ne andassi di nuovo.”
“Non andrò da nessuna parte. E neanche tu riuscirai a scappare, perché anche se ci provassi io ti seguirei fino in capo al mondo.”
“Andrà tutto bene, giusto? Saremo ridicolmente felici e invecchieremo insieme, vero?”
Avevo pensato che avesse paura che ci lasciassimo di nuovo.
Ma se ripenso adesso alla vibrazione nella sua voce, mi chiedo istintivamente se non si fosse in realtà aspettata qualcosa come quello che era accaduto.
A volte penso che lo sapesse.
Aveva qualcosa negli occhi. Come una pacata rassegnazione. Come se mi stesse chiedendo di mentirle.
Ed il fatto che credessi sinceramente alle parole che avevo detto, non le rendeva diverse da una qualsiasi altra bugia.
“Andrà tutto bene.”


Sono morta.
La persona allo specchio, non sono io. Quello è il ricordo che ho di me.
È come gli altri mi vedono.
Sono morta molto tempo fa.
Quando il cuore di mia figlia si fermò, io ero al suo fianco.
Fui veloce. Ho ottimi riflessi medici, dopotutto.
Tenere la vita di tua figlia tra le mani, vederla sfuggire al tuo controllo, è qualcosa in grado di farti dissolvere. Di farti capire quanto insignificante tu realmente sia.
Esco dal bagno ed entro nella mia camera.
Mi siedo sul bordo del letto.
Sono morta.
Eppure ancora vivo.
È sbagliato. È distorto. E non è davvero come se fossi ancora dentro la mia vita.
Però vivo. Cammino. Lavoro. Sorrido. Sono felice, la maggior parte del tempo.
Non davvero felice. Ma qualche volta quello che provo ci si avvicina, un po'.
E amo ancora.
Contro ogni previsione, c'è qualcuno che sono ancora in grado di amare.
Mi volto verso il centro del letto e la vedo.
Le accarezzo i capelli delicatamente, avvicinandomi.
Calliope rimarrà sempre la ragione principale per cui ancora combatto.
“Sofia, tesoro, svegliati. È ora di andare a scuola.”
Nostra figlia è il solo altro motivo per cui continuo a vivere.





Grazie mille a tutti voi che avete letto e, se ne avete voglia, sappiate che un commento è sempre ben gradito!


A presto!


Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** La nostra prima maledizione ***


Come sempre ringrazio davvero tutti quelli che hanno letto, recensito o aggiunto la storia tra le seguite.

Avvertimenti: Crossover! (con Pirati dei Caraibi) e di conseguenza ci sono diversi personaggi OOC (in particolare sottolineo Mark e Addison)


Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



La nostra prima maledizione


“Questa nave ha di nuovo uno scopo, andremo per mari che lei non può salpare. Un giorno a terra, e dieci anni in mare. È un caro prezzo per quel che si è fatto.”
“Dipende da com'è quel giorno.”
(Pirati dei Caraibi - Ai confini del mondo)


Il sole mi picchiava sulla pelle in una delle più torride giornate d'estate che avessi mai vissuto in vita mia.
Il profumo del mare mi arrivava fin dentro il petto, facendomi sentire come se fossi su una nave in mezzo all'oceano.
La consapevolezza mi aveva bruciato, arrivandomi fin dentro le ossa.
Mi chiesi come sarebbe stata l'alba, il giorno successivo.
Mi chiesi molte cose a cui non avrei mai potuto dare una risposta.
Non importava. Andava bene anche così.
Tutto sommato, era un bel giorno per morire.
Sentii il boia far scorrere il cappio della corda attorno al mio collo.
“La qui presente Callie Torres” iniziò a leggere.
“Capitan, Capitan Callie Torres” lo corressi sottovoce.
“Per i crimini di pirateria, intralcio alla giustizia...”
Oh, se doveva leggerli tutti forse avrei visto l'alba dopotutto.
“...È stata condannata ad essere appesa per il collo finché morte non sopraggiunga.”
Vidi un uomo che conoscevo farsi strada tra la folla.
Era troppo tardi. La botola sotto di me sparì.
Una spada si conficcò qualche centimetro sotto, permettendomi di appoggiarci i piedi.
Vidi un pappagallo che volava sopra la mia testa.
“Cotton?” sussurrai tra me e me con confusione.
Vidi una donna che conoscevo fingere di svenire tra la folla.
Mi appoggiai alla spada mentre il mio salvatore saliva sul patibolo, combattendo contro il boia e poi tagliando il cappio che mi legava. Saltai a terra, usando la spada su cui avevo i piedi per tagliare la corda che mi legava i polsi.
Spada ben fatta, quella. Non ero mai stata così grata del fatto che Mark Sloan fosse un fabbro.
Scese dal patibolo e insieme ci facemmo strada tra gli uomini del re a colpi di spada.
Eravamo quasi arrivati al cornicione della torre, da cui avevo intenzione di buttarmi, quando fummo improvvisamente circondati.
C'ero andata così vicina. Di solito cose come quella funzionavano sempre, per me.
“Mark. Sono stato clemente con voi al nostro ritorno, e questo è il modo in cui mi ripagate?”
“Commodoro Avery” lo salutò lui, vedendo al suo fianco la dolce fanciulla che teneva in mano il suo cuore.
“Forse dovreste tornare al vostro posto, signor Sloan.”
“Il mio posto è qui. Tra voi e Callie.”
“Ed è anche il mio” intervenne la figlia del governatore, mettendosi al suo fianco.
“Lexie” sussurrò lui. “Mettete giù le armi” comandò. “Santo Cielo, mettetele giù!” stavolta i soldati fecero come era stato loro ordinato.
“Ed è anche il posto del vostro cuore, miss Grey?” chiese il commodoro.
Lei annuì, guardando Mark.
Io capii che quello era l'unico momento che avrei avuto.
“Beh, pare che alla fine le cose si siano sistemate” mi tolsi il cappello guardando il governatore Grey. “E voi, commodoro, è un peccato ma dovreste sapere che delle donne non ci si può fidare” gli ricordai. “Ma sappiate che tenevo per voi, amico.”
Mark, che mi aveva appena salvato dal cappio, mi guardò con incredulità.
“Alexandra. Non avrebbe mai funzionato tra di noi.”
Lei mi guardò aggrottando la fronte. Ma vidi i suoi occhi sorridere.
“Mark.”
Avrei davvero voluto dire qualcosa di significativo per l'uomo che mi aveva salvato l'unica volta in cui da sola non c'ero riuscita.
“Bel cappello” mi complimentai, indietreggiando.
Mi chiesi se li avessi mai più rivisti, realizzando che in realtà non era una cosa che mi importava molto sapere.
“Questo è il giorno che tutti voi ricorderete come il giorno in cui avete quasi condannato...”
Inciampai nel cornicione della torre, cadendo all'indietro nell'acqua.
Nuotando, riemersi, scrollandomi l'acqua dai capelli e risistemandomi il cappello.
“...Capitan Callie Torres” pronunciai la fine del discorso, nuotando in direzione della nave a cui stava volando il pappagallo che avevo visto poco prima.
“Capitano, è un piacere averla a bordo di nuovo.”
“Mastro Bailey, che fine ha fatto il codice?” chiesi.
“Abbiamo pensato che fosse più che altro una traccia.”
Sorrisi, osservando il pappagallo posarsi nuovamente sulla spalla di Alex.
“Bentornata a bordo” mi salutò.
“Abbiamo una rotta, capitano?” chiese Yang.
Io sorrisi. “Abbiamo sempre una rotta.”
Estrassi la mia bussola, preparandomi ad andare in un luogo in cui non andavo da qualche anno, ormai.
Dopo cinque giorni di viaggio, ci trovammo nel bel mezzo di una tempesta.
“Siete sicura che questa è la via giusta? Siamo in mare aperto, e gli uomini cominciano a spazientirsi.”
“Uomini?” chiesi. “Quali uomini? Avete arruolato altra gente? L'ultima volta che ho controllato Karev era l'unico uomo sulla nave.”
“Giusto. Ma avete capito cosa intendo.”
“Ho capito, mastro Bailey, ma siamo quasi arrivati. Preparatevi a risalire il fiume.”
“Oh” comprese. “Stiamo andando a vedere miss Montgomery, quindi?” mi chiese stupita.
Io sorrisi. “Ci stiamo andando, sì.”
Iniziò a dare ordini agli altri su cosa fare, dopo avermi lanciato un'ultima, scettica occhiata.
“Guarda cosa mi ha portato il mare oggi. Credo di essere stata piuttosto fortunata” mi salutò la donna sorridendomi.
“Addison. Mia carissima” le baciai la mano.
“Come posso aiutarti, Callie?”
“Mi servono le mappe che vanno ai confini del mondo” rivelai a bruciapelo, rivolgendo la mia attenzione ad una scimmia che si aggirava per la stanza.
“Un'altra delle tue folli imprese? Chi vuoi andare a riprendere dall'altro mondo?”
“Non è una persona, quello che voglio. Ma sarei felice se accettassi di venire con me.”
“E perché dovrei farlo?”
“Perché quello che sto cercando, ti porterà anche a lui. Mark Sloan.”
Il sorriso sparì dalle sue labbra.
“Il fabbro che ha ucciso l'uomo di cui ero innamorata. Allettante. Ma io ti conosco, Callie Torres, e non mi lasceresti uccidere un innocente.”
“E chi ha detto niente sull'uccidere? No, non credo che tu voglia uccidere l'uomo che ha ucciso qualcuno che amavi, credo che invece un destino peggiore della morte sarà riservato a chi ho osato ciò che non doveva in alcun modo osare. O sbaglio?”
Come sempre, tutti furono confusi dal mio discorso insensato.
“E dove vorresti recarti con le mappe che conducono ai confini del mondo?”
Io mi guardai intorno. Tanto avrei dovuto dirlo a tutti comunque, prima o poi.
“Prima voglio trovare il forziere.”
“Il forziere, quel forziere? Per quale motivo?”
“C'è qualcosa che mi appartiene, lì dentro. Qualcosa che rivoglio indietro.”
“E perché sei venuta da me? Non ti servono quelle mappe, per la tua impresa.”
“Lo so, ma comunque non so come prendere la chiave. Potresti aiutarmi, in questo?”
“Certo che potrei. Ma in cambio dovrai portarmi Mark Sloan.”
“Andata.”
Riprendemmo la marcia, con la bussola che ci indicava la direzione in cui avremmo dovuto trovare il forziere. Doveva essere in un'isola, da qualche parte nel Pacifico. Ma non ci arrivammo mai.
“C'è una nave” mi avvertì Bailey.
“In mezzo a questa tempesta? Che razza di nave...” poi la vidi. E la riconobbi. “Tutta a tribordo! Dobbiamo andarcene prima che ci raggiungano!” urlai.
Mi occupai della virata mentre gli altri si occupavano delle vele.
“Ci sta seguendo!” urlò Grey.
“Sembra...l'Olandese Volante? Cristo Santo, in che acque ci siamo cacciati?” sentii replicare la Bailey.
Presi in mano il cannocchiale ed osservai la nave che ci stavamo lasciando alle spalle.
La cercai per tutta coperta senza vederla, poi, all'improvviso, mi soffermai sul timone. Come avrei dovuto immaginare, era lì.
Vederla dal cannocchiale era come averla davanti agli occhi. Lo abbassai. E scattai all'indietro quando mi resi conto che era davvero davanti ai miei occhi.
Sguainai la spada. Mi guardai intorno. Tutti erano stati presi prigionieri da uno dei suoi.
“Dovremmo smetterla di incontrarci così” mi disse, mentre anche lei sguainava la spada.
“Se la smettessi di apparire dal nulla sul ponte della mia nave potremmo riuscirci” replicai, affondando.
Lei parò.
Continuai ad attaccare mentre lei si difendeva.
La costrinsi contro il parapetto, quando mi sorrise. Per un secondo, solo un secondo, mi bloccai.
Per lei fu abbastanza.
Cominciò a prendere il mio posto nel fare attacchi, spingendomi ad indietreggiare. Continuammo per diversi minuti il duello alla pari. Lei era più brava, ma riuscivo a tenerle testa facendo quello che sapevo fare meglio. Imbrogliando.
Alla fine, comunque, riuscì con un colpo secco e una torsione del polso a far volare via la mia spada.
Alzai le mani in segno di resa.
Lei si avvicinò, puntandomi la spada alla gola ed afferrando un lembo della mia giacca. Il suo viso era a pochi centimetri dal mio.
“Calliope Torres, temi tu la morte?” mi chiese con il suo sorriso beffardo.
“Tu non sai quanto” replicai in un sussurro. “Ma non sto morendo, giusto?”
Mi lasciò andare, riponendo la spada.
“Perché siete in queste acque?”
“Volevo fare quattro chiacchiere col capitano dell'Olandese Volante” risposi ironicamente. Lei mi fulminò. “Signora” mi corressi, come se credessi davvero che fosse il fatto che lo avevo omesso prima, il motivo di quell'occhiata.
Mi toccai il cappello, ricambiando il sorriso beffardo.
“Perché siete in queste acque?” ripeté la sua domanda.
La guardai negli occhi. “Cercavo te” mentii.
Lei perse la pazienza, toccandomi una spalla. Mi guardai intorno, accorgendomi che eravamo improvvisamente sulla sua nave.
“Sguainate la spada, capitano Torres” mi incoraggiò estraendo la sua.
“Non ricordate, mi avete disarmato. Sono ai vostri ordini” allargai le braccia con un piccolo inchino, il mio sorriso piantato sulle labbra.
Mi lanciò la sua spada. La presi al volo, mentre lei ne estraeva un'altra.
“Se vinco mi dirai ciò che ho chiesto, altrimenti ti dirò qualsiasi cosa tu voglia sapere. Qualsiasi.”
“Qualsiasi? Bene.”
Attaccai senza paura e senza pietà.
Ci battemmo per pochi minuti, prima che con un trucchetto che avevo imparato dal mio amico fabbro facessi saltare la lama della sua scadente seconda spada.
“Dannazione” imprecò, lanciando il rimanente pezzo in mare.
Le puntai la lama alla gola, afferrandola per la giacca come lei aveva fatto con me.
“Temi tu la morte” sussurrai guardandola negli occhi e con le labbra ad un soffio dalle sue “Arizona Robbins?”
“Un tempo avrei risposto che la temevo. Ma ho imparato che esistono cose peggiori della semplice morte.”
Gettai la spada che mi aveva dato a molti metri lontano da noi, senza mollare la presa sulla sua giacca.
“Questo è tutto ciò che mi occorre sapere.”
La baciai, sentendola ricambiare immediatamente.
Quando mi allontanai di qualche millimetro posò le mani sulle mie guance.
“Nove anni, cinque mesi e tre giorni. E potremo avere un altro giorno a terra.”
“Lo so” risposi onestamente. “Sto contando anche io. Mi biasimi? Per averti fatto pugnalare il cuore di Davy Jones, per aver egoisticamente rinviato la tua morte, mi biasimi?”
Mi accarezzò i capelli con una dolcezza che secondo chi non la conosceva, secondo chi non l'aveva conosciuta prima, non le apparteneva.
“No. Vorrei solo che ci fosse un modo per tenerti con me.”
Chiusi gli occhi per un solo istante. Quando li riaprii ero di nuovo sulla mia nave, e tutta la sua ciurma era scomparsa.
“Non posso aspettare nove anni” sussurrai. “Andiamo, abbiamo una nuova rotta” gridai alla gente sulla nave.
“Dove andiamo adesso?” chiese Bailey.
Tirai fuori la bussola. Ovviamente però la bussola puntava in direzione della nave che ci aveva appena lasciato in pace.
“Dannazione” sussurrai richiudendola. “Chiedi ad Addison.”
Lei annuì, andando sottocoperta.
Il giorno seguente facemmo porto all'isola di Tortuga.
“Mark Sloan. A cosa dobbiamo il piacere di una tua visita qui a Tortuga, porto di pirati e mercenari?” chiesi ironicamente.
“Mi è giunta voce che mi stavi cercando. Hai bisogno di me?”
“Al contrario. Sei tu ad avere bisogno di me. So che la marina britannica ha fatto arrestare Lexie e te per avermi aiutato.”
“E come lo hai saputo?”
“Non è importante” sventolai una mano, facendolo alzare e conducendolo fuori dal locale. “Ascolta bene quello che sto per dirti, d'accordo? C'è un forziere, nascosto da qualche parte, che io voglio trovare.”
“Oro? Sei caduta così in basso?”
“Non proprio, no. Ascoltami, devi portarmi la chiave di quel forziere. Io, in cambio, ti dirò come arrivare a Lexie.”
“La marina mi offre la stessa cosa se ti consegno.”
“Sai bene che libereranno te o lei soltanto. Io ti offro la libertà di entrambi” capii dal suo sguardo che era interessato. “La chiave ce l'ha una donna. Addison Montgomery. Voglio che tu la prenda, hai capito?”
Annuì. “E come arrivo da questa donna?”
“Di questo non dovrai preoccuparti” mi guardò interrogativamente, un secondo prima che un remo gli si abbattesse sulla nuca, facendolo svenire. “Bel colpo, Bailey.”
Lei mi sorrise, compiaciuta, battendo il cinque.
Dopo aver portato Mark sulla nave di Addison tornammo ad occuparci della ricerca di quel baule che volevo a tutti i costi.
“No, non farlo!”
Stava piovendo. La voce di Mark Sloan mi risuonò nella testa.
Una donna, a terra, ferita. E poi degli occhi che tanto conoscevo e amavo guardarono dentro i suoi.
“Alexandra Grey, temi tu la morte?”
Indecisione, lacrime, urla. Il sangue che usciva dalla carne che un pugnale aveva lacerato. Il ricordo degli occhi color vetro che aveva amato in vita.
E, come risposta, una sola parola.
“Sì.”

Quel sogno mi tormentava da molte notti, ormai. Non riuscivo a dimenticare il profilo di Arizona chinata su Lexie mentre lei era in fin di vita.
Che fosse un avvertimento?
Non poteva esserlo. Nemmeno lei aveva i poteri necessari per farmi arrivare quel tipo di messaggio, giusto?
Alla fine, dopo sei giorni, arrivammo in una piccola isola, L'Isle de Crux. Facendomi condurre dalla bussola riuscii a trovare il punto in cui era seppellito il baule. Consegnai una pala ad Alex, facendolo scavare.
Quando tirò fuori il baule tentai di forzarne la chiusura, ma senza successo.
“Mi serve quella chiave” sussurrai.
“Una bella coincidenza. Io ne ho una.”
Mi voltai, sentendo la voce di Mark. Era bagnato da capo a piedi. Era giunto fin lì a nuoto.
“Sloan. È un piacere rivederti.”
Allungai la mano, ma lui, invece, sguainò la spada.
“Mi dispiace, ma il baule mi serve.”
“E per cosa, se mi è concesso chiederlo?”
“Merce di scambio.”
“Quale merce di scambio? Con chi è che vuoi fare uno scambio?” chiesi, osservando mentre Bailey e Alex sollevavano silenziosamente il baule per portarlo al sicuro sulla nostra nave, senza che Sloan se ne accorgesse.
“Bel tentativo, Bailey. Ma il baule rimane qui.”
La voce alle mie spalle mi fece voltare. Era lì, con i piedi immersi nell'acqua fino al ginocchio, eppure abbastanza vicina sia a me che a Mark. Scommetto che non era un caso che il baule fosse così vicino al mare, sotterrato proprio in una secca.
“Capitano Robbins. Anche voi siete qui” osservò Mark.
Io ne approfittai per estrarre a mia volta la spada.
“Che c'è, non vuoi più liberare Lexie adesso?” gli chiesi.
“Lexie è morta” la rabbia nella sua voce non mi turbò.
“Non lo è” lo contraddisse Arizona, puntando la spada contro di lui.
“Allora è condannata ad una vita a metà, se preferite. Robbins l'ha arruolata sulla sua nave.”
Io iniziai a pensare ad un modo per svignarmela.
“Beh, vedo che avete dei problemi irrisolti. Vi lascio a risolverli.”
Mark puntò la spada alla mia gola.
“Non vai da nessuna parte, con il baule.”
Arizona, in risposta, puntò la spada alla gola di Mark.
“Lei non c'entra con la morte di Lexie.”
Io puntai la spada contro Arizona.
“Mi dispiace, ma voglio quel baule.”
Lei mi guardò come se fossi impazzita.
“Perché lo vuoi anche tu?” chiesi a Mark.
“Addison dice che può fare tornare Lexie, se glielo porto.”
“Alexandra ha un debito con me che deve pagare, Marcus. Cento anni al servizio dell'Olandese, come da lei promesso. Nemmeno Addison può fare qualcosa per un debito del genere. Ed inoltre, è stata lei a pugnalarla al cuore, se non ricordo male.”
“Addison ha pugnalato Lexie?” chiesi.
“Sì. Dice che siamo pari. Io ho ucciso l'uomo che amava e lei la donna che amavo io.”
“E adesso la povera Addison ha i sensi di colpa perché alla piccola Grey è toccata una sorte peggiore della morte” tirai ad indovinare.
“Dice che se le porto il forziere...”
“Mente. Vuole il forziere perché ha stipulato un patto con me molti anni fa, ed è quasi giunta l'ora di pagare il suo debito. Ritiene di poter usare il forziere per convincermi ad annullare il patto che abbiamo fatto.”
“Ed io intendo usarlo per annullare il patto che Lexie ha fatto con voi” replicò, spostando la spada in direzione di Arizona.
Io spostai la mia verso di lui.
“Dammi la chiave, Mark. Sei solo in questo momento, e il forziere andrebbe aperto comunque, prima o poi” tentai di ragionare con lui.
“Se volete la chiave” rispose con il suo solito testardo, stupido coraggio “venitevela a prendere.”
Si gettò contro Arizona, che gli tenne testa con poca difficoltà, mentre io tentavo di prendere la chiave che stringeva nella mano sinistra. Non ci stavo riuscendo.
“Andiamo, fatevi sotto” ci incoraggiò con rabbia. “Potrei andare avanti a combattere per tutta l'eternità.”
Pochi secondi dopo, cadde a terra, svenuto.
“Bel colpo Bailey, anche questa volta” mi congratulai mentre lei gettava via la piccola trave che aveva utilizzato per farlo tacere.
Gli sfilai la chiave di mano, aprendo il forziere che avevamo dissotterrato.
“Io dico che c'è dell'oro” sussurrò Meredith in direzione di Cristina.
“Non è oro, deve essere qualcosa di meglio del semplice oro, no?” rispose lei come se fosse ovvio.
“E cosa è meglio dell'oro? Siamo pirati!” le ricordò.
“In effetti...”
“State rovinando l'atmosfera” gli dissi, facendo loro segno di tacere.
Infilai la chiave, facendogli fare mezzo giro verso sinistra. Il forziere si aprì senza sforzo.
Dentro di esso c'era un baule più piccolo, oltre che delle reliquie di vario genere.
“Robbins, presumo che tu stessi cercando questo” le porsi il forziere più piccolo, che lei prese con delicatezza tra le mani.
“Presumo che in cambio vuoi che liberi Alexandra.”
“Lo gradirei, se tu potessi farlo. Avevo promesso a Sloan che l'avrebbe rivista sana e salva.”
“E tu hai trovato quello che stavi cercando, nel mio forziere?”
“Io riesco sempre a trovare quello che cerco.”
“Mi dirai mai perché la morte ti spaventa così tanto?”
Io le rivolsi il mio mezzo sorriso.
“Perché tu non puoi morire. Ed io non voglio andare in un posto dove tu non arriverai mai. Anche se per adesso devo accontentarmi di un solo giorno ogni dieci anni.”
Mi toccai il cappello, mentre Yang e Grey portavano la mia parte del bottino verso la scialuppa che ci avrebbe riportato alla nave.
“Calliope?” richiamò la mia attenzione prima che salpassimo.
Mi voltai.
“Per adesso?” chiese scettica, mentre mi guardava indietreggiare. “Per adesso, devi accontentarti di un giorno ogni dieci anni?”
“Ho un paio di idee su come riaverti indietro tra i mortali. Credo che passerò i prossimi nove anni a provarne qualcuna, visto che mi hai fatto la cortesia di lasciarmi il contenuto del forziere.”
Sorrisi di nuovo, saltando sulla scialuppa. Arrivammo alla nave portandoci dietro anche il corpo svenuto di Sloan. Quando salimmo vidi l'Olandese che ci si affiancava.
Sarebbe tornata nel mondo dei morti, a quel punto, a traghettare le anime dei perduti in mare. Era il suo compito.
Affacciata al parapetto, la osservavo mentre mi guardava.
“Cosa c'era di così importante dentro quel forziere?”
“Mastro Bailey, gli oggetti non hanno un valore, se non convenzionale. Il valore effettivo di ogni cosa, è quello che ognuno di noi gli attribuisce.”
“E cosa, per voi, era così importante da...”
Fu interrotta quando venni strattonata all'indietro.
Alzai le mani quando realizzai che Mark Sloan mi stava minacciando con un coltello che teneva nella mano sinistra. Il bastardo doveva esserselo nascosto addosso.
In un battito di ciglia, Arizona era accanto a noi.
Mark sguainò la mia spada, puntandogliela contro, mentre continuava a tenere il coltello con la sinistra.
“Che diavolo stai cercando di fare?” gli chiese.
“Sto cercando di riavere indietro la donna che amo” si giustificò con entrambe. “Liberala dal suo debito.”
Lei rise, facendosi beffe di lui.
“Non puoi uccidermi, Marcus. Ricordi? Io sono immortale” disse, estraendo la propria spada.
“Pirati. Voi pensate di poter risolvere tutto a colpi di spade” commentò scocciata la Bailey.
“Non posso uccidere voi, ma non era quella la mia intenzione.”
Lanciò un'occhiata nella mia direzione.
Io sorrisi, col mio solito mezzo sorriso.
“Ucciderò la donna che amate voi, se non liberate quella che amo io.”
Io scossi la testa lentamente.
“Che c'è, non credi che lo farei?” chiese, irritato dalla mia irriverenza.
“No, non credo che lo faresti.”
“Tu mi hai ingannato! È colpa tua se Lexie è venuta a cercarmi per mare, per colpa del tuo stupido incarico, del fatto che mi hai venduto ad Addison. E adesso lei è morta!”
Feci segno ad Arizona di non immischiarsi.
“E tu vuoi uccidere me? Beh, sappi che non andrò a fondo senza lottare.”
Dandogli una gomitata allo stomaco, mi liberai dalla sua presa, afferrando al volo la spada che Bailey mi lanciò e parando il primo dei suoi colpi. Parai l'affondo di pugnale ed attaccai il suo lato destro, che parò con la spada. Continuò ad attaccarmi con entrambe le lame che stingeva in mano, finché non riuscii a far piantare la sua spada nel legno del ponte, girandogli il polso della mano destra verso l'esterno con un colpo secco del tallone. Lasciò andare la spada.
Rinfoderai la mia, dandogli occasione di rialzarsi.
Rimase molto vicino a me.
“Ho stretto un patto con il capitano Robbins, riguardo Lexie. Ho barattato il forziere con...”
“No!” la voce di Arizona risuonò forte e chiara nelle mie orecchie.
Una sensazione fredda mi invase lo stomaco. Sentii una striscia gelata, come se qualcosa fatto di ghiaccio mi si fosse conficcato nello stomaco. Guardai in basso.
Riportai gli occhi al volto dell'uomo che avevo davanti con espressione confusa.
Lui si allontanò di un passo.
“Hai ottenuto il forziere lasciandole in cambio l'anima di Lexie?” chiese, le lacrime agli occhi.
“No” risposi io in un sussurro, mentre la bocca mi si asciugava improvvisamente. “Ho dato il forziere ad Arizona, in cambio della sua libertà, per mantenere la mia promessa.”
Stavo per barcollare all'indietro, ma due braccia forti e familiari mi accolsero, facendomi stendere a terra con delicatezza.
Non stavo più producendo saliva ormai da qualche secondo.
Le dita dei piedi e delle mani stavano già iniziando a raffreddarsi.
Il respiro era affannoso e disperato, cercavo di tirare aria, qualsiasi quantità d'aria, dentro i polmoni, senza riuscirci.
Guardai in basso e vidi la mia mano destra.
Premeva contro il mio stomaco. Tra le dita del medio e dell'anulare spuntava il manico del coltello di Mark.
Era ricoperta di sangue.
Alzai gli occhi e lo capii.
Stavo morendo.
Il cielo era azzurro, era perfetto, senza una nuvola all'orizzonte. Il tempo adatto per andare per mare. La temperatura era buona, ma non torrida. Il sole mi scaldava la pelle ormai fredda. Il vento aveva cessato di soffiare. Neanche la polvere si alzava più da terra.
Tutto sommato, era un ottimo giorno per morire.
Sembrò che tutto fosse immobile, sospeso.
Guardai in alto, e su di me vidi l'unica cosa al mondo che avrei mai desiderato di vedere pochi secondi prima di andarmene.
Dentro i suoi occhi azzurri lessi dolore, lessi rimpianti. E vidi lacrime. Era così insolito vedere quei familiari occhi pieni di lacrime. Non l'avevo mai vista piangere, in tutto il tempo in cui l'avevo conosciuta.
I suoi capelli biondi subivano i riflessi della luce in un gioco di colori che avrebbe ammaliato anche il più cinico degli uomini.
Vidi che le sue labbra tremavano leggermente, forse per paura, forse per stanchezza, non avrei saputo dirlo.
Estrassi il coltello, tentando poi di fermare l'emorragia.
Ma ormai era troppo tardi. La ferita doveva aver preso un organo vitale.
Stava per farlo. Sapevo che doveva farlo, era obbligata per natura a chiedere a tutti.
“Calliope Torres” pronunciò il mio nome con voce rotta, in un modo che mi ricordò quello di una donna che sta per sposarsi.
Chiusi gli occhi ed immaginai per un secondo soltanto che fossimo davvero davanti ad un altare.
Sarebbe potuto accadere, in un'altra vita. Forse nella vita che avremmo avuto dopo quella in cui ci trovavamo.
Una vita facile, senza problemi, senza scelte difficili.
Una vita in cui per salvare la donna che ami non devi far sì che le strappino il cuore dal petto, magari.
Riaprii gli occhi, guardando la donna più bella che avessi mai visto guardarmi con tutto l'amore che un essere umano potrebbe mai essere in grado di provare.
E allora capii.
“Calliope Torres, temi tu la morte?”
Mi feci scivolare una ciocca dei suoi capelli tra le dita, sistemandola poi dietro il suo orecchio e sorridendole.
La baciai, per sigillare la promessa che ci eravamo fatte molto tempo prima e che stavamo rinnovando.
Il mio cuore apparteneva a lei, così come il suo a me.
“No.”
Capii che non c'era più niente per me che valesse la pena di essere vissuto, se non fossi più stata in grado di amare lei.
Dicono che mentre passi cent'anni sopraccoperta, lentamente inizi a scordarti chi sei, da dove vieni, le persone che ami. Io non volevo che qualcosa del genere accadesse a noi. Volevo che mi ricordasse com'ero stata per tutta la vita.
Ero stata una persona che aveva sempre seguito il proprio cuore.
Ed era il mio cuore ad avermi portato a lei.
“E tu, amore mio, temi la morte?”
Iniziò silenziosamente a piangere. Non l'avevo mai vista piangere.
“Temo molto di più la vita senza di te.”
La guardai per l'ultima volta, un mezzo sorriso sulle labbra.



TO BE CONTINUED (1/3)




Ok, so che probabilmente non tutti hanno visto il film, ma a me piace moltissimo quindi ho deciso di fare questa cosa...vi avverto anche che la seconda parte arriverà, ma non la prossima settimana...
Nel frattempo fatemi sapere cosa ne pensate e spero che il Crossover non vi abbia infastidito troppo! :P


A presto!


Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Il primo posto in cui siamo state libere ***


Come sempre ringrazio davvero tutti quelli che hanno letto, recensito o aggiunto la storia tra le seguite. In particolare _Trixie_ per l'incredibile pazienza che ha con me e per i meravigliosi banner che ha fatto fin'ora!

Avvertimenti: Very AU (ambientata nel 1800); leggero OOC.


Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



Il primo posto in cui siamo state libere


La verità era che io l'avevo amata.
Per quanto avessi tentato di negarlo, la verità era che io l'avevo amata. Questa è l'unica premessa necessaria per comprendere ciò che accadde.
Ma ci sono così tante altre cose che si dovrebbero sapere per comprendere ciò che, invece, non accadde mai. Per esempio, di lei notai per prima cosa il tocco gentile della sua mano che lentamente mi scosse una spalla. Solo dopo, vidi i suoi occhi. Ed ecco, allora seppi, i suoi occhi sarebbero stata l'unica cosa che non avrei dimenticato. Neanche il giorno in cui avrei scordato il mio stesso nome, nemmeno allora i suoi occhi sarebbero svaniti dalla tela su cui erano stati impressi dentro la mia anima.
L'avevo amata, fin dal primo momento in cui l'avevo vista. Più di quanto sarei mai in grado di dire a parole. Eppure, non abbastanza.
A quel tempo ero l'unica donna che andava regolarmente in quel luogo fatto per gentiluomini e banditi di ogni genere. Giocavamo a carte e, a volte, qualcuno dei miei compagni di gioco s'infuriava quando una donna gli vinceva tutti i soldi.
Era una bettola da quattro soldi quella in cui ci riunivamo, ed io, di nobili origini, ero sempre in grado di coprire le spese in quelle rare volte in cui perdevo.
Non avevo preso marito, e vivevo da sola fin da quando mio fratello, unico parente rimastomi in vita, morì nella guerra d'indipendenza del 1812. Erano passati ormai tre anni e tutti, nel paese in cui vivevo, avevano rinunciato a sperare che prendessi marito.
Andavo in giro vestita con i panni del mio povero padre, morto quando avevo dodici anni, che mi stavano larghi ed erano da uomo, ma con cui mi trovavo meglio di pizzi e corpetti. I capelli lunghi - e a volte neanche quelli - erano l'unica cosa che non mi faceva sembrare un giovanotto.
Quando venivo invitata alle serate di veglia mettevo gli abiti di mia madre, morta qualche giorno dopo mio padre, entusiasta di seguirlo ovunque fosse andato, legata più a lui che a questo intero mondo, noi figli compresi, che eravamo l'unica cosa che avesse amato quasi al pari di mio padre.
Avevo denaro che mi sarebbe bastato per tutta la vita, e non solo per me. Avrei potuto permettermi di accogliere in casa un'altra mezza dozzina di persone, come minimo, e comunque non dover lavorare per sostentare tutti.
Quando mi toccò la spalla, fu solo per avvertirmi che stavo intralciando la strada ad uno dei camerieri della locanda, altrimenti non si sarebbe mai permessa di toccarmi, potevo leggerlo nel suo sguardo, e si scusò dicendo di avermi chiamato più e più volte, ma io sembravo non sentire la sua voce. Credo che fosse destino che guardassi nei suoi occhi, quel giorno.
Era una delle donne che venivano vendute alla locanda. Non lo facevo mai, ma quel giorno rimasi per la tratta degli schiavi. Era un fenomeno ancora comune nel nostro territorio, e non solo. Per la maggior parte erano uomini di colore adatti a lavorare la terra, ma a volte capitava che ci fossero delle donne. Ero contraria a quell'abominio, completamente, ma in particolar modo, sapevo cosa succedeva alle donne.
Quando l'avevo salutata avevo visto una luce nei suoi occhi. Sapevo che quella luce si sarebbe spenta la prima notte che avrebbe passato nella casa del suo nuovo padrone.
Era raro che ci fossero persone latino americane, ma non impossibile. La sua bellezza mi colpì e mi fece male, incredibilmente. Avrei voluto fare qualcosa per poterla salvare. E c'era qualcosa che potevo fare. Così la comprai. E mi sentii sporca, mi sentii come se l'avessi uccisa. Con le mie mani, le avevo tarpato le ali e tolto la libertà.
Sotto gli occhi curiosi e stupiti di chi mi conosceva, la condussi fuori da lì e promisi a me stessa che non sarebbe mai più tornata in un posto come quello per qualcosa di simile a ciò che era successo quel giorno.
Non le dissi una parola, iniziai solo a camminare. Lei mi seguì. Forse fu stupita dai miei abiti, fatti su misura per un uomo, o dal fatto che tutti mi conoscessero e salutassero ed io rispondevo loro con un cenno del capo, un sorriso, a volte qualche parola.
La condussi dentro casa e solo allora notai che la valigia con cui viaggiava poteva contenere al massimo un paio di vestiti.
“Qual'è il tuo nome?” le chiesi col massimo della dolcezza che il tono duro che avevo acquisito in anni passati in quella solitaria casa mi permise.
“Calliope, signora.”
“Il mio nome è Arizona, Calliope” le dissi. Ma lei non mi chiamò mai in altro modo che 'signora' o 'padrona'.
La condussi in quella che un tempo, nell'enorme casa in cui vivevo da sola, era stata la stanza riservata ai visitatori di passaggio, e la pregai di sistemarsi. Le portai quattro o cinque dei vestiti di mia madre, non quelli buoni che sapevo non avrebbe accettato, ma alcuni che avevano un punto scucito qua e là e che la pregai di accettare.
Generalmente le condizioni di vita erano peggiori, quindi sperai si ritenesse fortunata nello stare in quella casa insieme a me.
Ma troppo a lungo mi illusi che il tempo avrebbe potuto cambiare il significato e la natura del nostro legame: quelle mura furono per lei nient'altro che una prigione. Ben allestita e confortevole, certo, ma comunque la sua prigione.
E come ho detto la amavo. L'amavo tanto da volere che fosse sana e salva. E non abbastanza, perché desideravo che potesse esserlo con me soltanto.
I primi giorni fu difficile compito trovarle qualcosa da fare in quella casa che da me riuscivo a tenere bene. Ma, coi giorni, trovai piccoli lavoretti da farle sbrigare facendola rimanere dentro la mia proprietà, che ritenevo essere il luogo più sicuro alla sua permanenza.
Mi feci raccontare da dove veniva, di come i soldati che combattevano per l'indipendenza avessero sparato ai suoi genitori senza accennare a ripensamento e come sua sorella fosse morta in
condizioni simili pochi mesi dopo, tra le sue braccia. La persona che avevo davanti era stata scalfita dalla vita più di me, eppure si riteneva fortunata per non essere mai stata in pericolo di vita lei stessa. Io invece mi sentivo delusa: non era quella la vita che volevo per lei. Volevo che avesse il meglio.
Allo scadere del suo primo mese in casa mia le dissi che l'avrei lasciata rimanere ad un'unica condizione. Avrebbe dovuto accettare quello che le stavo offrendo e tutti i successivi suoi stipendi, visto che non era per me una serva, ma una governante.
Dopo che ebbi in più modi cercato di convincerla, la costrinsi ad accettare ordinandoglielo. E, anche allora, mentre lo facevo, sapevo che quello era il primo passo verso la sua libertà, che l'avrebbe portata molto lontano da me e da dove volevo che rimanesse.
Le raccontai dei miei genitori. Le raccontai di Timothy, di quanto uguale a me egli apparisse, e lei fu abile nel consolarmi, guardandomi coi suoi occhi nocciola e sfiorandomi con la sua mano dalla pelle delicata, che neanche il lavoro manuale era riuscito a rendere più rude.
Andavo alla locanda sempre meno, preferivo passare il tempo a casa, con Calliope, e lentamente mi ritrovai ad uscire per pochi motivi, solo quando era necessario. A lei ero restia a permettere di allontanarsi troppo. Qualcuno avrebbe potuto assalirla sapendo che era una schiava, mi convincevo, ma dentro me sapevo che il mio timore era quello di non poterla mai più vedere di nuovo.
A volte la osservavo rammendare, stando in piedi sulla soglia del soggiorno, illuminata solo dalla luce del camino perché non voleva consumare l'olio della lampada che le avevo dato apposta per la sera. Era meravigliosa, coi capelli sparsi ai lati del viso e con la pelle d'oca per il freddo provocato dall'aver messo così poca legna dentro il fuoco. Stava attenta a tutto. Non voleva che la mandassi via o che la vendessi a qualcuno, mi aveva confidato, visto che io la trattavo così bene che le sembrava di stare sognando.
Rimase con me a lungo, e la familiarità tra di noi, il modo in cui riuscivo a parlare e come lei, a volte, parlava a me, era disarmante. Ma vedevo la sua riluttanza nel toccarmi ed ogni volta mi spezzava il cuore. Mi arrabbiavo, quando notavo la sua espressione sfuggente quando le nostre mani si sfioravano, e le davo rudemente l'ordine di fare qualcosa.
Poi, una sera, osservandola rammendare, decisi di domandare.
“Hai paura di me, Calliope?”
Lei alzò gli occhi sorpresi e confusi e li fissò dentro i miei per qualche secondo, per poi posarli di nuovo sulla stoffa tra le sue mani.
“Non ho paura di voi, signora. Perché dovrei?” chiese come se fosse assurdo anche solo quel sospetto.
“Ogni volta che per sbaglio ti sfioro ti ritrai come se fossi stata bruciata. E i tuoi occhi non si azzardano a cercare i miei per intere ore, dopo.”
Lei arrossì leggermente, forse per la vicinanza al fuoco, ma non alzò lo sguardo dal lavoro tra le sue mani.
“Forse qualcuno ti ha fatto del male? Per questo sei così spaventata dal minimo contatto?” le chiesi, avvicinandomi. “Perché se qualcuno ti ha fatto del male, Calliope...”
“Niente del genere” mi rassicurò.
“Allora il problema devo essere io” constatai con amara certezza.
“Non siete voi. Il problema sono io, temo.”
“Tu? Come puoi essere tu il problema?”
“Forse la mia mente gioca brutti scherzi. Non saprei dirlo con certezza. Ma sembra che, in qualche modo, vicino a voi io sia nervosa. Non so spiegarmene il motivo, signora.”
Mi sedetti accanto a lei.
“Arizona. Ogni volta insisto, ma tu non vuoi proprio chiamarmi Arizona.”
“Sono più a mio agio mantenendo le distanze, signora.”
Io riflettei per qualche momento sulle sue parole.
“Bene. Allora ti concederò più spazio, da adesso in poi” decretai infine, alzandomi di nuovo in piedi.
Il giorno dopo mi alzai, la colazione già pronta come ormai era sua abitudine farmela trovare al mio risveglio. La mangiai e poi uscii di casa, rientrando solo nel tardo pomeriggio. La mia casa era fuori mano, non veniva mai nessuno a visitarmi, quindi potevo fidarmi a lasciarla lì da sola. Comunque, non mi allontanai così tanto da non riuscire a sentire le sue urla, se fosse successo qualcosa. Il solo pensiero di allontanarmi da lei di un solo passo più del necessario, mi spaventava più di quanto avrei tenuto ad ammettere. Così mi allontanavo a piedi, finché non ero più visibile dalla casa, e mi sedevo sull'erba, chiusa in un silenzio testardo e ostinato, decisa a farle sentire la mia mancanza, o almeno, illudendomi che potessi col tempo riuscirci.
La prima settimana sembrò rattristata dalla mia assenza. Poi iniziò a preoccuparsi, chiedendomi se dovunque facessi pranzo mangiassi a sufficienza, perché secondo lei stavo perdendo peso. Io non le risposi, visto che una risposta non c'era, e mi chiusi dentro la mia stanza. La mattina dopo, quando ebbi finito di fare colazione, mi porse un piccolo fagottino tra le mani.
“Tenete. Per quando sarete ad un miglio e mezzo da qui a tenere il broncio. Potete ignorarmi, se volete, ma saltare il pranzo vi farà ammalare, quindi mangiate.”
Per un'altra settimana continuai ad andarmene a sedere in mezzo al nulla, però continuando a mangiare i deliziosi pasti che lei mi preparava ogni mattina. Finché, un giorno, me la ritrovai improvvisamente seduta accanto mentre stavo osservando una nuvola che sembrava proprio assomigliare ad una piuma.
“Scappare non vi servirà, signora. L'unico modo per risolvere le cose è affrontarle, sapete? E scusatemi, se ho osato troppo con le mie parole.”
“Sei venuta fin qui per dirmi questo?”
“No. Avete dimenticato il pranzo, stamani” disse, porgendomi quello che aveva in mano. Poi si alzò nuovamente, dirigendosi verso la casa e tornando alle sue occupazioni. Io, senza attendere oltre, la seguii.
Quella sera la guardai rammendare dalla poltrona accanto a quella che occupava lei, assorta nei miei pensieri.
“Potresti venire con me, domani. Faremo una passeggiata.”
Lei alzò gli occhi, come ogni volta facendo impazzire il mio cuore, che accelerava all'improvviso e poi, di colpo, saltava un battito.
“Preparerò due pranzi, allora” concluse a voce alta il suo ragionamento con se stessa, riprendendo poi a rammendare una delle mie più usate camicie.
Quando fu tardi e si alzò dalla poltrona, a mia volta scattai in piedi per accompagnarla fino alla sua stanza, dove mi sussurrò la buonanotte, sfiorandomi la mano e poi guardandomi negli occhi, come a rassicurarmi che di me non riusciva ad avere paura.
Il giorno seguente la portai ad un laghetto vicino, gli passeggiammo attorno e ci fermammo sulla riva per il pranzo. Tornammo presto a casa, ridendo in modo spensierato e scherzando come se avessimo potuto fare solo quello per sempre.
Quando rientrammo a casa la convinsi, per la prima volta in assoluto, a fare cena insieme a me, sedendomisi di fronte, in modo che potessi guardarla per tutto il tempo.
Io avrei dovuto essere destinata a lei. A tenerla tra le mie braccia ogni sera. Ad amarla come già facevo, dicendole quanto ogni giorno. Invece ero nata nel corpo o nel tempo sbagliato, errori che avevano distrutto ogni possibilità che avevo di essere felice.
La vidi sempre più affezionarsi a me, alla mia presenza. E c'erano, non lo nego, giorni, in cui il suo tocco sulla mia mano mi faceva sorgere il dubbio che anche lei mi amasse. Ma erano solo alcuni momenti in cui mi sfiorava, o mi guardava negli occhi e sembrava che non esistesse altro al mondo o che altro al mondo fosse destinato ad esistere mai.
“Dovreste prendere marito” le dissi un giorno, risoluta a privare almeno lei di quell'infelicità a cui ero condannata. Se avessi potuto fare in modo che lei provasse per me quello che io sentivo per lei, avrei fatto tutto ciò che era in mio potere. Ma era semplicemente impossibile. “Un uomo che sia buono.”
Le detti del voi, cercando di prendere le distanze necessarie per fare ciò che doveva essere assolutamente fatto.
“Anche se volessi, signora, non riuscirei a trovare un uomo disposto a sposarmi. E poi credevo che foste felice di avermi al vostro fianco.”
Io le voltai le spalle, stando in silenzio per qualche momento a guardare fuori dalla finestra, perdendo il mio sguardo in mezzo al verde.
“Per voi, voglio solo che siate felice. Per me...” Per me, avrei voluto il suo cuore. “Beh, quello che voglio per me non è importante. Non lo è mai stato per me. Tanto meno lo sarà mai per voi.”
“E della mia volontà? Di quello che io desidero per me e per voi?”
Non mi voltai. Continuai a guardare il prato che circondava la mia amata proprietà.
“Temo che la vita sia indifferente ai vostri o ai miei capricci, Calliope. E se potessi io stessa scegliere il mio destino, credete forse che sceglierei questa vita, per me? O credete che avrei avuto almeno un po' di senno ed avrei preso la decisione di essere diversa da come sono e vivere diversamente da come vivo? E per voi?” continuai. “Crete che non avrei scelto una vita molto diversa, per voi?”
“E perché avreste dovuto, signora? Che sono io per voi, infondo, da come parlate adesso? Solo una serva.”
“Ditemi una volta in cui vi ho trattato come una semplice serva ed io vi porrò le mie scuse, Calliope, perché vi state illudendo se pensate che sia questo che voi siete per me.”
“Allora ditemi, cosa sono io per voi?”
“Qualcosa che non vorreste sentirmi dire. Ma io vi conosco, Calliope, e se siete la donna intelligente che credo, ormai da tempo avrete capito i miei sentimenti nei vostri confronti. Per questo vi dico di prendere marito, e che sia vostro marito un uomo libero che vi porti via da qui, lontana da me il più possibile. Io stessa pagherò la vostra dote, la mia stessa casa e la mia proprietà sarebbero un piccolo prezzo se, vendendole, potessi comprare almeno un po' di felicità per voi.”
Lei allora mi appoggiò la mano sulla spalla, come la prima volta che l'aveva fatto, facendomi voltare gentilmente per guardare nei suoi occhi. I suoi occhi che amavo più di quanto sarei mai in grado di dire a parole, più di quanto il più abile poeta sarebbe mai stato in grado di descrivere in tutta la sua vita.
“Non vendete la vostra casa, né la vostra proprietà: sarebbe inutile. Niente potrebbe mai darmi più felicità che rimanere al vostro fianco, insieme a voi.”
Chiamai un notaio che conoscevo bene, un vecchio amico di famiglia, il giorno dopo. Lo feci venire a casa mia e lo feci accomodare su una delle poltrone del soggiorno.
“Voglio che tu scriva un documento, una lettera firmata, un attestato, qualsiasi cosa. Voglio che le rendi la libertà che le è stata portata via.”
“Hai provato a cercare un uomo libero che la sposi? Sarebbe scandalo, ma i suoi figli almeno sarebbero liberi.”
“Non vuole marito. È una governante fedele, e non le piace il pensiero di lasciare questa casa.”
“Comprendo. E dei documenti falsi?”
“Chiunque la riconoscerebbe, è di origine latina. La sua pelle renderebbe vano un qualsiasi documento agli occhi della gente del paese. Anche dopo la mia morte, voglio che sia in salute. Ha almeno cinque anni meno di me, ed io ho condotto una vita poco sana. Voglio che stia bene.”
“Arizona” mi disse poi, sfiorandomi una mano. “Parlandoti come amico, questo riguarda te e lei, non è vero?”
“Alex, non so di cosa stai parlando” risposi ritraendo lentamente la mano. “Ma se lo sapessi e se, sì, lo fosse?” chiesi, consapevole che non avevo nessun'altra strada oltre la verità.
Alex mi aveva da sempre conosciuto e voluto bene più che a una sorella. La sua famiglia, povera e piena di problemi, l'aveva ripudiato. I miei genitori gli avevano pagato gli studi per diventare avvocato. Aveva sempre saputo che c'era qualcosa in me diverso dalle altre bambine. Aveva capito cosa anche prima di me, e d'allora non mi aveva mai lasciato senza che sapessi d'avere almeno la sua protezione dal resto del mondo.
Lui rimase in silenzio a lungo.
“Quanto siete disposta a perdere?”
“Tutto” risposi senza esitare.
“Arizona...”
“Alex.”
“Tu la ami, non è vero?”
“Più di quanto avrei creduto potesse mai essere possibile. Ed ogni giorno, quando mi convinco che necessariamente ho raggiunto la vetta e da un momento all'altro ricomincerà la discesa, il mio amore per lei riesce a salire ancora.”
Lui annuì. Poi mi disse cosa dovevo fare.

“Ti ho raccontato mai di quanto mio fratello fosse uguale a me, di viso?” le chiesi dopo averla chiamata dentro la mia camera. Non l'avevo mai fatto prima di allora. Lei era nervosa, ma non sembrava preoccupata che potessi farle del male. “I suoi lineamenti ed i miei, nel naso, negli zigomi, erano uguali. Ed i nostri occhi, ci aveva sempre detto mia madre, erano dello stesso blu. Ma lui portava i capelli più corti dei miei. E un po' di barba.”
Presi in mano le forbici e lei si avvicinò per bloccarmi il polso. Ma io la guardai fermamente e con serenità, districandomi dalla sua presa e riprendendo a tagliare i miei capelli biondi, lasciandoli cadere in un recipiente. Lei mi fermò di nuovo il polso, sfilandomi le forbici di mano, ed iniziando a tagliare al posto mio. Le ripetei che dovevano essere più corti almeno tre volte, ma alla fine furono quasi identici a quelli di Tim. In tre giorni scarsi riuscii a procurarmi una barba finta, grazie all'aiuto di Alex. Non feci mai domande.
Con addosso gli abiti di mio padre, però, larghi e più usati, non sembravo ancora lui. Così, per la prima volta dopo anni, entrai nella sua stanza e aprii il suo armadio, pregandolo di perdonarmi per quella mancanza di rispetto, pregandolo di capire che era per una giusta causa.
Avrei detto a tutti che ero tornato dalla guerra. Che ero tra i dispersi, non tra i morti, e della mia vita non avevo più memoria. Quando dei miei vecchi compagni d'armi mi avevano ritrovato per sbaglio in uno dei campi dei feriti dell'America del nord, e mi avevano detto dov'era la mia casa, in modo che potessi tornarci. Arizona mi aveva accolto e festeggiato, aveva scritto e firmato un testamento dove mi lasciava tutto, l'avevo già preparato e firmato insieme ad Alex, ma poi la mia amata sorella si era ammalata ed in poco tempo aveva lasciato questo mondo. Quando raccontai questa mia disavventura al parroco del paese, lui subito mi disse quale disgrazia aver perso una sorella appena ritrovata. E di buon grado lui, se io non me la fossi sentita, avrebbe preso in mano le redini delle proprietà che le erano appartenute. Lo ringraziai ugualmente e gli chiesi se avessi potuto sposarmi legalmente, visto che non ero morto e possedevo un autenticato certificato di nascita. Ovviamente, affermai, avrei pagato le spese della chiesa e qualcosa per lui che, gentile, avrebbe acconsentito a celebrare e rendere tutto legale. Egli fu contentissimo di soddisfare quella mia richiesta.

“Dovrai sposare me, Calliope, questo è l'unico modo che ho trovato per renderti la tua libertà, come io volevo, senza doverti allontanare da me, come tu volevi.”
Lei arrossì, guardandosi i piedi e non rispose. Aveva capito le mie intenzioni eppure, ne ero sicura, fin da quella sera in cui mi ero tagliata i capelli.
“Se è quello che volete, signora.”
Mi avvicinai a lei, aspettando finché alzò lo sguardo.
“Non lo voglio se non è quello che tu desideri.”
“Non è questo il problema, signora” arrossì di nuovo.
Io le afferrai le spalle con delicatezza, guardandola negli occhi ed assicurandomi che passando oltre Tim riuscisse a vedere me in quegli occhi. Ma, sapendo che probabilmente non le era più possibile vedere in me la donna che l'aveva sempre amata, le parlai dandole del voi.
“Sarà solo un documento, una firma su un pezzo di carta. E quando io morirò voi sarete libera. E potrete risposarvi e avere figli che saranno a loro volta liberi. E avrete questa casa che tanto amate e di cui voi stessa vi prendete cura. Non avrete da me alcuna imposizione, nessun tipo di limitazione alla vostra libertà, e non vi sfiorerò mai, né mai avrò per voi altro gesto d'affetto che non sia fatto per salvare le apparenze. Farò qualsiasi cosa vogliate, la decisione è vostra.”
“Cosa volete voi?” mi chiese, aspettativa e tristezza nei suoi bellissimi occhi scuri.
“Io...” mi avvicinai a lei, mantenendo la presa sulle sue spalle. Era alta quanto me, o qualche millimetro in più, quindi la mia bocca e la sua furono vicine più che mai. Ma all'ultimo momento mi bloccai, ricordando la promessa appena fatta, e mi alzai in punta di piedi, baciandola delicatamente sulla fronte e poi guardandola di nuovo negli occhi, i miei pieni di lacrime. “Io voglio qualcosa che non posso avere. Io voglio amare qualcuno che non mi ama. Io voglio te.”
Le lasciai andare le spalle e mi incamminai verso la mia stanza. Giunta al secondo piano sentii la sua voce dal fondo delle scale.
“D'accordo, Arizona. Vi sposo.”

Indossai l'abito più elegante che Tim possedeva per andare in chiesa. Era tarda sera. A lei portai uno degli abiti di mia madre, il più bello, bianco. Alex era l'unico presente oltre al pastore. Tutti coloro che incontrammo mi trattavano e salutavano come se fossi un uomo. Lo fece anche Alex, e mi chiamò Timothy come tutti gli altri. Come anche il pastore.
Dopo che ci ebbe sposate, la ricondussi a casa e lei non disse neanche una parola. Entrando mi sedetti su una delle poltrone del salotto e lei rimase in piedi.
“Siete libera, Calliope. Adesso potete andar via, se lo desiderate. Via da qui. Via da me.”
Lei mi si avvicinò e mi prese per mano. Mi fece alzare e mi condusse dentro la mia stanza, facendomi sedere sul letto. Io lasciai che mi si avvicinasse, senza parlare. Mi tolse la barba che eravamo riuscite a sistemare sul mio viso.
“Non importa se vi siete messa la barba o tagliata i capelli. Siete sempre molto bella.”
Mi aiutò a togliere la giacca e sbottonò il gilè che indossavo, me lo tolsi, rimanendo in camicia.
“E siete sempre Arizona” mi ricordò, accarezzandomi una guancia. “È voi che ho accettato di sposare” mi rassicurò.
Mi sbottonò lentamente la camicia, senza toglierla, e sentii la sue mani sul mio addome, mentre i suoi occhi si fermarono sulle bende che fasciavano strette il mio seno. Le guardò con tristezza, con disprezzo. Come se odiasse che stavo privandomi di una parte di me.
Le presi il viso tra le mani. “Ti amo” sussurrai. E poi la baciai dolcemente.
“Ti amo anch'io” rispose.
Quella fu la prima volta che mi dette del tu.

Capitava a volte che rientrassi a casa senza che lei mi sentisse. Allora la prendevo di sorpresa mentre era ai fornelli, abbracciandola. E lei, dopo avermi riconosciuto, si rilassava tra le mie braccia, voltandosi per sorridermi.
Capitava a volte che fosse lei a sorprendere me mentre guardavo fuori dalla finestra, appoggiandomi le mani sulle spalle con così tanta delicatezza che mi scioglieva il cuore, e mi sfiorava la schiena, baciandomi qualche volta sul collo ormai privo dei capelli che un tempo scendevano lunghi a coprirlo.
Toccava i miei capelli spesso, come a ricordarsi di quello che avevo perso per lei. E quando lo faceva pensavo che forse era per quello che diceva di amarmi. Altre volte mi aveva confidato quanto le desse fastidio quella finta barba che celava il mio volto dai suoi occhi. Forse, quindi, era proprio me che voleva.
“È dunque davvero me che ami?” le chiesi una notte, tenendola tra le mie braccia ed accarezzandole i capelli. “O è forse l'idea che hai di me? Tu non mi devi niente. Tutto ciò che ho fatto è stato poco più che un atto d'egoismo.”
“Io ti devo tutto” rispose, guardandomi negli occhi. “Ma non è per questo che ti amo” continuò con altrettanta semplicità. “Io amo te, Arizona.”

Il mio tempo insieme a Calliope fu quello più bello della mia intera vita.
Se avessi potuto renderla felice, lo avrei fatto. Ma non fu una mia scelta quella di lasciarla prima di quanto avessi voluto. Si accorse prima di me quando iniziai ad ammalarmi, notando il mio peso diminuito e quella brutta tosse che spesso mi assaliva. Non avrei voluto vedere un medico, perché avrebbe senza dubbio notato che non ero un uomo. Ma Calliope ne chiamò uno un giorno in cui ero troppo debole per impedirglielo e perfino per protestare.
Stavo svanendo. Davanti ai suoi occhi. Non c'era niente che una di noi potesse fare. Non c'era niente che nessuno potesse fare.
Il mio tempo insieme a lei fu il più bello della mia intera vita, ma stava finendo.
Guardai nei suoi occhi, quella sera, e capii che, non sarebbe importato quanto glielo avessi chiesto, non avrebbe mai amato qualcun altro.
Mi aveva detto che non sarebbe potuta sopravvivere se io me ne fossi andata.
Avevo desiderato per tutto quel tempo che fosse felice, e che fosse libera.
Finché capii che io ero stata la sua felicità e la sua libertà.
Sperai che la felicità che le lasciavo le sarebbe bastata per il resto della sua vita.





Io non ho idea di come questa idea mi sia venuta, ma eccoci qua. Spero vi sia piaciuta e vi aspetto la prossima settimana, nel frattempo fatemi sapere cosa ne pensate! :)


A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** I nostri primi ricordi insieme ***


Come sempre ringrazio davvero tutti quelli che hanno letto, recensito o aggiunto la storia tra le seguite.

Avvertimenti: -


Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



I nostri primi ricordi insieme


È tranquillo il posto in cui sono adesso.
C'è pace, qui.
C'è silenzio.
Non ricordo dove fossi prima, ma sono sicura che ci fosse rumore.
Il rumore era dentro di te.
Sì, c'era rumore.
Il posto di prima faceva paura.
Qui, invece, è tranquillo.
Non riesco a ricordare cosa ci fosse prima.
Ma certo che ci riesci.
Oh, ma certo.
Non c'era niente prima.
Sì, c'era qualcosa prima.
No, non c'era niente prima di adesso, ne sono sicura.
Allora non c'era niente.
Non parlo mai con gli altri. C'è altra gente, qui, dove sono. Ma io non ci parlo quasi mai.
Alcuni di loro parlano a me, a volte.
All'inizio venivano altre persone a parlarmi. E anche adesso, ogni tanto, viene qualcuno.
C'è la donna vestita di blu.
Mi si siede affianco, a volte.
E poi c'è la donna vestita di celeste.
Anche lei si siede, ma meno spesso.
E poi c'è una donna vestita in bianco. Non so perché sia in bianco.
Per il camice.
Indossa un camice. A volte ho letto il suo nome, ma non lo ricordo.
Non l'avevo mai vista prima di qualche giorno fa. Non credo che la rivedrò mai più.
Chiudo gli occhi. E quando li riapro fuori è più buio.
E seduta accanto a me c'è una donna. È vestita in bianco.
L'ho già vista forse?
Sì, sì, l'hai già vista.
No, non l'ho mai vista.
Mi tiene la mano.
Il suo tocco è confortante. È come se mi incoraggiasse, ma non so cosa dovrei essere incoraggiata a fare.
“Come stai?”
Non lo so. Come sto? Mi sento le mani stanche.
La fisioterapia.
Non so perché sono così stanche.
“Ho le mani rotte.”
“È per la fisioterapia, Callie.”
Non so perché sono rotte.
Le fisso per diversi momenti.
Ho delle cicatrici sui palmi. Come se fossi stata operata, come se avessero provato ad aggiustarle dei dottori.
C'è una linea nella mia mano.
Come se ci fosse stata una benda.
C'era una benda fino a due giorni fa.
Non c'è nessuna benda, non c'è sangue.
Le mie mani stanno bene, allora.
Eppure mi fanno male, come se fossero rotte.
“Mi riconosci?”
Di nuovo, sposto lo sguardo sulla donna davanti a me.
Ha gli occhi grandi. Ha gli occhi blu.
La conosco?
La conosci.
No, non la conosco. Non l'ho mai vista prima in vita mia.
Ma forse lei mi conosce.
Ti conosce.
Oh, bene. Allora forse lei può dirmi chi sono e perché sono qui.
C'è qualcosa sul suo camice. È una scritta. Potrei leggerla, credo, se volessi farlo.
Ma perché dovrei leggere il nome di qualcuno che non conosco?
Continuerei a non conoscerla.
Mi passo una mano sul naso e mi accorgo di non riuscire a piegarla bene.
Mi guardo le mani e c'è qualcosa che non va.
“Ho le mani rotte.”
La donna davanti a me sospira.
“È per la fisioterapia, Callie.”
Certo. Questo avrebbe senso.
“Ti ricordi di me?”
C'è qualcosa alle sue spalle.
È un quadro. È grande, molto grande. Ed è colorato. Ma le figure sono strane.
“Callie, concentrati” dice la donna, prendendomi una mano e stringendo.
Il suo tocco è confortante. È come se mi incoraggiasse, ma non so cosa dovrei essere incoraggiata a fare.
Callie sono io. È il mio nome.
So che mi ha chiesto di ricordare qualcosa, ma qualsiasi cosa fosse, non la ricordo.
Faccio segno di no con la testa.
“Io sono Arizona” si presenta.
Io sorrido.
Sono stata in Arizona. Mi piace l'Arizona. C'è tanto sole.
“Pensi di riuscire a ricordarlo?”
Ricordare cosa?
Arizona.
Mi piace l'Arizona.
No, Arizona.
Vorrei ricordare.
“Non importa” mi incoraggia ancora “un giorno ricorderai.”
Cosa devo ricordare?
Arizona.
Ricordo Arizona.
È l'unica cosa che ricordo.
Apro gli occhi. Sembra mattina.
C'è una donna seduta accanto a me.
È vestita di bianco.
Non ricordo niente. E c'era qualcosa che ricordavo, che avrei dovuto ricordare. Che avrei voluto ricordare. Ma non c'è niente da essere ricordato, qui.
La donna seduta apre gli occhi e mi guarda.
Ha gli occhi grandi. Ha gli occhi blu.
Arizona.
Non so il suo nome. Non credo di averla mai vista prima.
“Chi sei?”
Lei mi prende la mano.
“Callie, sono io. Arizona.”
Sembra che voglia piangere. Sembra che sia triste.
Sono io che l'ho resa triste?
Vorrei non averlo fatto, se sono stata io.
Forse ha visto la mia espressione colpevole.
“Sono tua moglie. Da tre anni, Calliope.”
Calliope.
Non credo che dica la verità.
Se fossi sposata me lo ricorderei.
Avrei qualche ricordo della mia vita. Di lei.
Ma forse c'è qualche ricordo.
Forse ho qualche ricordo della nostra casa.
Del grande letto in cui ti addormenti con lei tutte le sere.
Ma io non ho una casa.
Addormentavi.
Avrei ricordi delle nostre liti.
Di quando è partita per l'Africa.
Avrei ricordi di lei e di me.
Della prima volta che ti ha detto di amarti nel giorno del suo compleanno.
Avrei dei ricordi.
È tutto qui. Devi solo riuscire a farlo riaffiorare.
“Ho le mani rotte.”
Mi fanno molto male.
Ma non so perché.
Lei mi prende le mani e le bacia. Inizia con la destra, baciando il palmo e poi il dorso e il polso e le dita.
E c'è qualcosa dentro, qualcosa che dovrei dire.
Qualcosa che vorrei dire.
È importante, credo.
Fondamentale.
Ti amo.
Ma non ricordo cosa.
È tranquillo il posto in cui sono adesso.
C'è pace, qui.
C'è silenzio.

Quando entra nella stanza io sto guardando un pezzo di carta che tengo tra le mani.
Non ho ricordi del mio passato. E continuo a dimenticare le cose.
Però a volte ricordo e riesco a farle riaffiorare, solo per un secondo.
“Come stai?”
Cerco di ricordare.
Lei è la donna che veste in celeste.
“Ti ricordi di me, Callie?”
Forse mi ricordo di lei. Vorrei davvero ricordarmi di lei.
“Sono Cristina. Perché non provi a...ricordare” la sua voce non sembra spazientita. Sembra solo molto stanca.
Continuo a guardare il pezzo di carta.
“Arizona” leggo ad alta voce.
Lei si volta di scatto.
Legge il foglio che ho tra le mani e vede il nome che qualcuno ci ha scarabocchiato sopra.
È la tua scrittura.
Io. Sono stata io a scriverlo.
“Lei ti ha dato il foglio?”
Non rispondo. Non lo so.
“Arizona” leggo di nuovo.
“Callie, tesoro, chi ti ha dato il foglio?”
Non lo so. Non so...
Lo sai. Pensaci e basta. Lo sai.
Allungo la mano e prendo un blocco di carta dal mio comodino. C'è una penna sopra, la tengo in mano mentre porgo il blocco alla donna davanti a me.
Lo sfoglia.
Sono solo post-it, con dei nomi sopra.
Li legge ad alta voce. Quello più ricorrente è Arizona.
“Chi li ha scritti per te?” mi chiede.
Io non lo so. So solo che le mani mi fanno male. Le mie mani sembravano rotte. Adesso sembrano guarite, sembrano a posto. Ma fanno ancora male.
La fisioterapia.
“Questa è la tua scrittura.”
Sì. sì, è la mia scrittura.
E allora ricordo.
“Li ho scritti io. Ricordo delle cose, a volte. Ricordo dei nomi.”
Riesco a parlare la maggior parte delle volte. Non sempre. Ma quasi sempre. E ultimamente molto meglio.
Non so quanto tempo sia passato, ma qui dove sono continua a essere tranquillo.
“Callie, riesci a ricordare chi sono? Come mi chiamo?”
Vorrei. Vorrei esserne capace.
Invece, quando provo a ricordare qualcosa, qualsiasi cosa, mi sento solo lentamente invasa dal panico.
Perché non c'è con me quella stretta morbida sulla mia mano che mi incoraggia? Che mi conforta?
“Dov'è Arizona?” chiedo.
Non so bene cosa significa. Non so bene cosa sto chiedendo.
Ma so che è quello che voglio.
Quello di cui ho bisogno.
E la donna vestita in celeste corre fuori dalla stanza e sparisce tra i corridoi.
E io continuo a chiedermi perché le mani mi facciano così male, a volte.
Quando la donna vestita di celeste torna, c'è qualcuno insieme a lei.
“Li hai scritti tu?” le chiede sommessamente, mostrandole i miei post-it.
Lei fa segno di no con la testa, poi li legge. Riconosce i nomi. E mi guarda come se mi vedesse per la prima volta.
Ma questa non è la prima volta che mi vede, giusto?
Sono sicura di averla già vista prima, da qualche parte, in qualche modo.
Guardo i suoi occhi. E c'è qualcosa nelle sue fossette, nei suoi capelli biondi, c'è qualcosa di lei che mi fa ricordare qualcosa.
Qualcosa che avrei dovuto dire. Qualcuno, forse. Qualcuno che avrei dovuto chiamare.
“Arizona” ripeto, sperando che lei capisca che, anche se non sono sicura che questo sia il suo nome, sto chiamando lei.
È uno strano nome, Arizona. Forse ho fatto confusione.
Sono stata in Arizona. Mi piace l'Arizona. C'è tanto sole.
“Sì. Sì, sono io. Sono qui” mi rassicura la donna.
E mi abbraccia. E mi bacia sulle tempie e sulle guance.
Ed io ricambio l'abbraccio, perché anche il suo profumo mi ricorda qualcosa. Qualcosa che avevo dimenticato.
“Non so...Non so nient'altro. Solo...”
“Non importa” mi rassicura, accarezzandomi i capelli. “Non importa. Ti aiuterò a ricordare.”
La donna vestita di celeste esce dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé.
E lei mi si sdraia accanto, prendendomi tra le braccia.
Ed io mi sento così al sicuro. Mi sento come se fossi in salvo.
“Cosa è successo alle mie mani?”
La guardo negli occhi, pregandola con lo sguardo di spiegarmi.
Ma forse lo ha già fatto, forse più di una volta. Ma io non riesco a ricordare.
“Hai avuto un incidente. Stavi venendo in ospedale, quando hai visto una lastra di vetro precipitare addosso ad una passante dal quinto piano di un edificio. L'hai spostata. La lastra è caduta su di te, il vetro ti ha quasi reciso completamente le mani, ma Mark le ha sistemate. Derek ha dovuto...una parte della lastra, non sappiamo come, ha perforato il tuo cranio. Ha intaccato i centri della memoria, al centro del tuo cervello, e parte dell'emisfero sinistro. È per questo che non ricordi niente e non riesci a parlare molto bene. Ma il tuo cervello si riadatterà a parlare, l'operazione è stata solo tre mesi fa.”
Per me è troppo difficile.
Non so cosa abbia detto, mi sento molto stanca.
La testa mi fa male, le mani mi fanno male.
“Ok, se vuoi” mi propone “possiamo scriverlo. Ne hai voglia? E magari, leggendolo tutti i giorni, riuscirai a ricordarlo. Devi iniziare così, costruendo nuovi ricordi. I vecchi forse torneranno con il tempo.”
Forse?
“Forse?”
“Non avere paura. Io ti aiuterò lungo ogni passo del cammino, d'accordo? Sono qui, di qualsiasi cosa tu abbia bisogno.”
Prendo carta e penna. E mentre lei mi detta, inizio a scrivere le poche cose che devo sapere sul perché la mia testa e le mie mani sono rotte.
Mi sveglio, ed è mattina. E c'è qualcuno steso accanto a me.
“Arizona.”
Ricordo il suo nome, senza doverlo leggere in uno dei post-it.
Lei apre gli occhi controvoglia e quando mi vede sorride, per prima cosa. Come se fosse naturale svegliarsi accanto a me.
È normale per lei.
Forse per lei è normale.
Lo è anche per te.
E poi il mondo ed il tempo si affrettano a raggiungerla di nuovo. E riapre gli occhi e non sorride più, perché si ricorda che io non so niente di lei.
Ricordo solo che il suo nome è Arizona.
“Devo essermi addormentata.”
Cerco di ricordare, perché i suoi occhi, e il suo sorriso, e il suo profumo, e tutto di lei sembra così familiare.
Ma non ricordo. E mi sento vuota. Senza niente dentro.
Perché tutto ciò che hai dentro riguarda lei.
Arizona è molto bella. E intorno a me sorride. Ma quando pensa che non stia guardando, i suoi occhi sono tristi.
Avevi dentro.
Non ricordo nient'altro di lei. Non ricordo...nient'altro.

I miei genitori sono venuti a trovarmi, oggi. Vengono spesso a trovarmi. Ma io non ricordo di quelle volte.
Però ricordo i loro nomi. Ricordo cose che non hanno senso, per me. Ricordo cose successe quando ero piccola e ne parlo con loro. Mi assicurano che sono ricordi veri.
Sto migliorando, dice Arizona. Sto migliorando.
I miei genitori se ne vanno. E lei si siede e mi guarda, ed io non so che dire. Non so cosa voglia che io le dica.
“Ricordi di quando sono stata qui ieri? O il giorno prima?”
Stringo le labbra e ci penso per diversi secondi.
Non lo so.
“Non lo so.”
Certo che lo sai. Ricordi o non ricordi. Lo sai.
Non credo di ricordare.
Ricordi.
Forse ricordo.
Non ricordi.
Io non lo so.
“Ricordi di quando avevi cinque anni e tuo padre ti spingeva sull'altalena. Ricordi quando avevi otto anni e tua madre ti insegnava a preparare i biscotti. Ricordi quando avevi undici anni e tua sorella ti insegnava come andare in bici senza le rotelle.”
Rimango in silenzio.
Non sembrano essere ricordi miei. Forse li ricordavo, prima. Quando i miei genitori erano con me, davanti ai miei occhi, sembravano reali. Ma davanti ad Arizona non lo sembrano.
Lei sospira, e si alza. Mi bacia la fronte e mi tocca i capelli.
“Ti amo” sussurra.
Questo lo ricordo. Quando esce lo dice ogni tanto.
Ogni volta.
Lo dice ogni volta. E inizio a ricordarlo. Inizio a ricordarmi di lei che lo dice.
Ma non ricordo altro. Non so se mi ha davvero mai amato. E non so se la persona che ha amato è ancora dentro di me, da qualche parte.
“Davvero?” chiedo.
Lei si blocca, senza guardarsi indietro. Poi si volta e mi guarda negli occhi.
“Importa davvero?” mi chiede, scrollando un po' le spalle e scuotendo un po' la testa. “Farebbe qualche differenza?” continua, mettendosi le mani in tasca. “Domani non ti ricorderesti comunque di me. Domani non sapresti comunque che io sono l'amore della tua vita, che io ti ho amato incondizionatamente, che io ho dormito dentro questa stanza per un mese quando non sapevo se ti saresti mai svegliata di nuovo, io. Io.”
“Non so se la persona che hai amato è ancora da qualche parte, dentro di me. Ma se c'è, ti prometto che riuscirò a trovarla. Se questo è quello che serve perché tu mi dica che mi ami, e tu intenda davvero dire che mi ami, allora...”
Non so come prosegue il discorso.
Così prendo uno dei post-it sul mio comodino e glielo porgo.
Arizona, ho scritto, è molto bella. E intorno a me sorride. Ma quando pensa che non stia guardando, i suoi occhi sono tristi. Arizona, ho scritto più grande, è mia moglie. Arizona mi ama.
“Chi ti ha detto che sono tua moglie?” chiede.
Non so chi sia stato. Non so chi me lo ha detto.
Continuo a cercare di ricordare, ma non credo di saperlo. Non credo di ricordarlo.
Te lo ha detto lei.
“Me lo hai detto tu.”
E invece lo ricordo. Ricordo molte delle cose che mi ha detto. Ma non riesco a riportarle in superficie. Ci riuscirò col tempo, spero.
Lei mi guarda come se fossi di nuovo io, solo per un momento. Come se la conoscessi da una vita.
“Quando lo hai scritto?” chiede.
“Due giorni fa” rispondo con sicurezza.
Lei continua a guardarmi e ha le lacrime agli occhi.
Altre due donne entrano mentre lei si siede di nuovo sulla sedia accanto al mio letto, senza mai staccare gli occhi da me.
“Come stai oggi, Callie?”
Io mi guardo le mani.
“Mi fanno male” rispondo.
E Arizona rilassa le spalle, come se si fosse arresa. La donna che mi ha posto la domanda, quella vestita di blu, sospira e l'altra donna, quella in celeste, guarda verso il basso, per non guardare me.
“È per la fisioterapia” aggiungo.
E tutte e tre mi guardano di nuovo.
“Le mie mani erano rotte. E anche la mia testa è rotta. Ma le mie mani stanno guarendo e ricomincerò a parlare normalmente. A ricordare almeno le parole.”
So cosa mi è successo ormai da un po', ma questa è la prima volta che riesco a dirlo ad alta voce. Guardo Arizona e lei sembra fiera di me.

Con il tempo riprendo a parlare di nuovo, tutte le parole, anche quelle più difficili, mi ritornano pian piano in mente. E poi tornano i ricordi di dopo l'incidente.
“Sono stata sei mesi qui in ospedale, quando potrò andare a casa?”
La Bailey, la donna in blu, mi guarda, e so che sta cercando di capire se ho scritto da qualche parte il tempo che ho passato lì dentro.
“So che per un mese e mezzo ero in coma, ma comunque.”
La vedo sorridere un po'. Credo a se stessa. O forse con se stessa, ma riguardo me.
Però sorride.
“Se io ti dicessi qualcosa, in questo momento, lo ricorderesti domani?”
Annuisco. “Ricordo tutte le parole. Anche quelle difficili. Anche angiosarcoma epitelioide. O emangioblastoma cerebellare. E ricordo tutto da dopo l'incidente in poi.”
“Ma niente di prima” finisce per me.
“No, ricordo qualcosa. Cose della mia infanzia. Dei miei genitori. Cose di Arizona.”
“Ma...”
“Ma non ricordo abbastanza. Mi sento come se non ricordassi abbastanza. Come se si supponesse che a questo punto potessi ricordare di più.”
Dal suo sguardo capisco che vorrebbe aiutarmi, in qualche modo. Capisco che vorrebbe che ricordassi.
Si volta, ma poi mi dice un'ultima cosa.
“Shepherd sarebbe fiero di te.”
“Perché inizio a ricordare?”
“No. Perché sai cos'è un emangioblastoma cerebellare.”
Io rido, mentre lei esce.
Ma poi torno seria, sapendo di aver mentito. Non ricordo. Non ricordo niente dei miei genitori, anche se forse c'era un momento in cui ricordavo.
Non ricordo com'era la mia vita prima.
Ma adesso ricordo come mi hanno detto che era, e se mentire mi farà uscire da questo letto di ospedale, mentirò.
Arizona è molto bella. E intorno a me sorride. Ma quando pensa che non stia guardando, i suoi occhi sono tristi. Arizona è mia moglie. Arizona mi ama.
Rileggere quel biglietto adesso mi sembra strano.
Arizona è molto bella. Arizona è mia moglie. Ma Arizona, ormai da un po' di tempo, non mi ama più.
Arizona mi guarda e tutto quello che vede è un ricordo. E io non ho ricordi. Vorrei che amasse me, invece ama una persona che non conosco.
Quando entra, mi sorride.
Si avvicina e mi bacia sulla fronte. Ma io appoggio una mano sulla sua guancia e la tengo vicina, la guardo negli occhi, assicurandomi che sappia cosa sto per fare. Ed è solo un secondo, ma la bacio sulle labbra. E poi la guardo ancora negli occhi, e lei annuisce per farmi sapere che ha capito.
E lei è il motivo per cui mentirò, se devo. Perché vedermi in questo letto la ferisce. E io voglio che guarisca insieme a me.
“Come stai oggi?”
“Sto bene. Le mani non mi fanno più molto male, il mal di testa è diminuito rispetto a ieri, e secondo la mia cartella tutti i livelli sono nella norma, compreso il potassio, che ieri era basso, e il ferro, che ieri era alto. Perfino la Bailey dice che sto bene, quindi...sto bene.”
Riesce a stento a trattenere un sorriso.
“Mi fa piacere che il tuo potassio sia normale.”
A me fa piacere che lei sorrida.
E il suo sorriso, i suoi occhi, le sue fossette, la sua pelle, il suo profumo, i suoi capelli, mi ricordano qualcosa, una sensazione che avevo dimenticato.
E paradossalmente, non ricordo ancora niente di lei.

I ricordi tornano in modo strano. I primi a tornare sono i meno importanti. O almeno, questo era quello che avevo pensato all'inizio. Così mi siedo sul divano di casa nostra, vicino ad Arizona.
È il primo giorno dopo sei mesi che passo di nuovo a casa. E mi sento a casa davvero, anche se non riconosco i mobili, o l'arredamento, o i colori delle pareti. Dentro di me so che questa è casa mia.
“Ricordi la nostra prima notte insieme?” le chiedo e poi aspetto che si volti verso di me con quell'adorabile espressione incredula sulla sua faccia.
“Come?”
Io sorrido. “È stata qui, eravamo qui, non è vero?”
Lei si schiarisce la voce e posa i fogli che ha tra le mani e si volta per guardarmi negli occhi. Sa che non lascerò perdere, così si prepara a rispondermi.
“Dunque, vediamo” inizia, schiarendosi di nuovo la voce. “Avevi avuto un giorno difficile a lavoro” inizia a raccontare. “Cinque ragazzi erano morti durante il tuo turno in pronto soccorso.”
“Sei” la correggo.
“Giusto, sei” concorda distrattamente. “E poi eravamo andate al matrimonio di Karev e Stevens insieme. Siamo tornate qui ed è solo...successo. Come se fosse la cosa più naturale al mondo, per me e te essere destinate a stare insieme. Non credo che potrei mai descriverti cosa ho provato, quella notte, neanche con un milione di parole.”
Da quando riuscivo a ricordare quello che mi veniva detto, Arizona era sempre super dettagliata quando mi raccontava cose che ci erano successe.
“Ma c'è stato un momento, dopo che...beh, dopo. Quel momento è stato perfetto. Non fraintendermi, anche tutto il resto è stato...wow, da togliere il fiato. Ma quel momento era innocente e puro, era essenziale ma molto complesso. Ce ne stavamo lì, sdraiate, a mangiare pizza, e non ricordo neanche cosa ci avevi messo sopra” esclama incredula, quasi ridendo.
“Salame piccante. Come poteva essere essenziale ma complesso?”
Sorride di nuovo, persa nel ricordo di quel momento.
“Ce ne stavamo lì sdraiate a mangiare pizza, coperte solo dalle lenzuola che non so nemmeno perché ci eravamo tirate addosso e tutto era così semplice. Ma poi tu mi hai tolto una briciola dalle labbra e hai riso in un modo che mi ha fatto battere il cuore forte e chiaro come non lo avevo mai sentito. Ho pensato che, Dio, dovevi essere la cosa più bella sulla terra, e che io ero lì, proprio accanto a te.”
Io le sorrido. E lei ha le lacrime agli occhi al solo ricordo di quel momento.
“Era una coperta” le ricordo.
“Cosa?”
“Io ero avvolta dalle lenzuola. La tua era una coperta. Quella blu, con il ricamo in bianco.”
E proprio in questo momento si rende conto che i ragazzi erano sei e la pizza aveva sopra salame piccante e la sua era una coperta.
Così le lacrime che aveva agli occhi cadono. E io, prontamente, le raccolgo, le spazzo via, e la stringo contro di me, pronta per fare solo quello per tutto il resto della mia vita e non lasciare andare mai.
E penso che forse, solo forse, Arizona mi ama ancora. E quando mi guarda non vede solo un ricordo. Lei vede me. E il futuro che vuole con me.




Grazie a tutti per aver letto e mi farebbe piacere cosa ne pensate, quindi...recensite! :P

A presto!


Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Il primo mostro che abbiamo affrontato ***


Come sempre ringrazio davvero tutti quelli che hanno letto, recensito o aggiunto la storia tra le seguite.

Avvertimenti: AU, Cossover con Pirati dei Caraibi, OOC (per alcuni personaggi già menzionati)


Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



Il primo mostro che abbiamo affrontato


L'uomo giaceva a terra, i suoi occhi guardavano verso l'alto, cercando qualcosa che non poteva più vedere.
L'aria entrava ormai nei suoi polmoni in poco più che rantoli. I suoi occhi chiari stavano lentamente perdendo la luce che era dentro di loro fino a meno di un minuto prima.
I capelli, tagliati inusualmente corti, per il tempo, erano appena mossi dalla brezza leggera che tirava quel giorno.
Aveva capito ormai da qualche secondo che il suo viaggio era giunto al capolinea.
Le sue mani erano fredde, il viso bianco, e la ferita del suo petto continuava a sanguinare copiosamente.
Sapeva che sarebbe successo quello, era la naturale conseguenza delle sue azioni. Eppure, anche in quel momento, non si sarebbe arreso.
La sua testardaggine lo aveva portato a farsi ammazzare da qualcuno che prendeva vite per mano di altri, ma mai per mano propria.
Chi?
“Marcus Sloan, temi tu la morte?”
Io.
Spostò gli occhi vacui su di me, cercando di parlare e non trovando il fiato.
Riposi la spada insanguinata nel fodero. Non rimpiangevo di aver preso la sua vita, e avrei continuato a non rimpiangerlo qualsiasi fosse stata la sua risposta.
Meritava che le sue azioni venissero punite, e, se non avessi portato via la sua vita o la sua anima, lo avrei rimpianto per sempre.
Così ero pronta a prendermi una delle due.
“Sì. Sì. Sì” ripeté più volte, il terrore era dipinto nei suoi occhi, dove brillava l'ultima scintilla della sua vita.
Mai ero stata felice di prendere un'anima per la mia ciurma.
Come dicono, c'è sempre una prima volta.

Mi avvicinai a lei, senza paura. Non avrebbe potuto farmi del male, se anche ne fosse stata tentata.
“Sei libera. Qualcuno ha barattato la libertà della tua anima. Qualcuno che è stato ucciso per questo.”
“Chi?” domandò, mentre veniva liberata dalle catene che la imprigionavano in una segreta della mia nave.
“Sei di nuovo umana, sei di nuovo mortale. Scappa, prima che cambi idea.”
“Chi mi ha salvato? È qui, non è vero? È stato lui. Mark.”
Mi voltai di scatto.
“Mark?” chiesi con disprezzo. “No” la disillusi. “Ci ha provato, certo, ma ha fallito miseramente. Sembrava non si stesse neanche impegnando. Ha creduto alle menzogne di Addison, quando sapeva benissimo che io e Lady Montgomery avevamo un patto. Ed ha ucciso l'unica persona a cui importava di voi abbastanza da riuscire a liberarvi.”
Vidi i suoi occhi scrutare i miei, in cerca di una risposta.
“Ha ucciso l'unica persona che non avrebbe dovuto uccidere.”
Adesso sul suo viso si dipinse qualcosa di diverso. Sorpresa. Curiosità. Non sapeva di chi stessi parlando.
“Non ho mai ucciso qualcuno, da quando sono capitano di questa nave, e non ho mai arruolato qualcuno che non fosse in punto di morte.”
Gettai ai suoi piedi un medaglione.
“E lui, in pochi minuti, ha corrotto per sempre la mia anima.”
Afferrò il medaglione, aprendolo.
“No” sussurrò. “Ditemi che non lo avete fatto.”
Io non ebbi pietà dei suoi occhi supplichevoli.
“Ho condannato lui al mio stesso destino. Scappate, prima che condanni voi allo stesso a cui Sloan ha condannato la donna che ha salvato la vostra anima. Morte.”
“Donna?” chiese, portandosi una mano alle labbra. “Callie” poco più che un sussurro.
Fui a un centimetro dal suo viso in meno di un secondo.
“Non pronunciate il suo nome davanti a me. Non fatelo mai. E ora andate, sono sicura che la ciurma della Perla vi accoglierà. Ma non posso garantire” ero di nuovo lontana, nello stesso tempo in cui mi ero avvicinata “che non vi attenda una punizione, per quello che il vostro promesso sposo ha fatto al loro capitano” strascicai le parole con lenta pesantezza.
Quando entrambe fummo sulla Perla, il corpo senza vita del capitano ancora giaceva sulle fredde tavole di legno.
Le si inginocchiò affianco, iniziando a piangere silenziosamente.
“Arizona Robbins. È passato molto tempo.”
Mi voltai, la donna artefice della mia condanna fissava dritto dentro i miei occhi.
“Lady Montgomery. Stavo giusto cercando voi.”
Estrassi la spada.
“Che state facendo?” chiese. Un sorriso beffardo le apparve sul viso. “Se mi uccidete, non sarete mai libera dal nostro patto, ricordate?”
“Non io” risposi. “Ma neanche voi.”
Mi scostai di un passo, e lei riuscì a vedere il corpo ormai vuoto di Calliope Torres.
Il suo sorriso sparì, i suoi occhi lasciarono trasparire una tristezza che immediatamente velò la sua anima, davanti a quella vista.
“Chi vi libererà, adesso?” chiese, rimorso immediato nella sua voce. “Non aveva condiviso il suo piano. Neanche con me.”
“Piano? Di che state parlando?”
“Sapeva come riportarvi tra i mortali. Come spezzare la maledizione senza uccidervi. Io avrei riottenuto la mia libertà, se l'avessi aiutata a ridare a voi la vostra.”
“La tua anima appartiene a me, Addison. Mi hai trasformato in questo, in un essere che non può morire, non può trovare pace, costretto a vagare per l'eternità, sospeso tra due mondi. Hai fatto un patto col mio predecessore. Trecento anni di giovinezza, in cambio dei poteri che ti sono stati portati via, Calypso.”
Fece una smorfia, udendo il suo vero nome.
“E la tua anima, dopo, rimarrà a bordo della mia nave” aggiunsi, anche se lo sapeva già. “E, se non sbaglio, non vi rimane molto tempo.”
Mi voltai, decisa a lasciare quella nave portandomi via il corpo di Calliope.
“Lascerete il suo corpo al mare?” chiese.
La sollevai tra le braccia, voltandomi nuovamente verso la strega e dando le spalle alla piccola Grey.
Io sono il mare.”
La mia voce uscì dura, più di quanto fosse necessario.
Ma la rabbia, avevo imparato, era più facile del dolore.
E, promisi allora, nessuno avrebbe mai più ricevuto pietà da quei miei occhi, dalle mie mani, né dalla mia spada.
Mi voltai verso l'Olandese.
“E se potessi riportarla in vita?” domandò. Mi bloccai. “Coi vostri poteri e i miei, Capitano, non sarebbe una poi così ardua impresa.”
“Cosa volete in cambio?” domandai, senza voltarmi.
“Potete avere i miei poteri subito. Ma, la mia anima, non potrete averla mai.”
Guardai il viso della donna tra le mie braccia.
“Affare fatto.”
“E voglio che riportiate in vita Derek.”
Risi, amaramente.
“Se potessi riportare indietro qualcuno dal mondo dei morti, non sceglierei certo Derek.”
“Potete farlo. Lui ha donato la sua anima a voi. Rendetemela indietro, io penserò a riportare in vita il suo corpo.”
“E che anima dovrei prendermi, in cambio?”
“Prendete quella di Sloan” senza esitazione.
“No!” protestò Lexie.
“Sloan adesso non è che un condannato sulla mia nave. La sua anima non vale più niente, e di certo non vale quanto quella di un morto.”
“Sull'Olandese?” domandò perplessa la strega.
“Ha ucciso lei” guardai in basso. “E ne ha pagato il prezzo.”
Lasciai ai piedi di Addison il corpo senza vita della donna che amavo.
“Avete novanta giorni di tempo, Lady Montgomery.”
Sparii sull'Olandese.
Nel buio della mia stanza, fui finalmente libera di piangere la devastante perdita, che così a lungo avevo temuto.

“C'è una nave a cui ci stiamo avvicinando” venni distratta dalla contemplazione del piccolo anello che stringevo in mano.
“Che nave è?”
“La Perla Nera, signora.”
Mi feci strada fino al cannocchiale.
“Abbordaggio” ordinai ai miei uomini.
Pochi secondi dopo, la loro nave era sotto il nostro controllo.
“Bailey. È un po' che non ci si incontra” la salutai, notando che Mark Sloan era capitato ad essere colui che la teneva prigioniera. “Almeno un paio di mesi. Diciamo, sessantaquattro giorni.”
Lei si guardò attorno, nervosa dal fatto che non poteva vedermi finché rimanevo nell'ombra. Iniziai a passeggiare, osservando il resto della ciurma.
“Dov'è Lady Montgomery?”
“Sparita. Insieme alla piccola Grey. Pochi giorni dopo la vostra visita.”
“E dove sono andate?”
“Dove?” chiese, ironicamente. “Sulla terra ferma. Dove voi non potete andare.”
“Non ho chiesto se sono in mare, ma dove sono esattamente.”
“Isle de Crux. Vi dice qualcosa?”
Mi voltai di scatto verso di lei, smettendo di passeggiare sul ponte della nave, ma rimanendo nell'oscurità.
“Caricate chi di loro vuole unirsi a noi. E date fuoco al resto” ordinai freddamente ai miei uomini.
“E dei sopravvissuti che ne facciamo?”
Guardai velocemente verso Sloan.
“Non ci sono sopravvissuti.”
“No! Era la sua nave! Siamo la sua ciurma, Robbins. E tu ci distruggerai?” chiese in un impeto di disperazione la donna davanti a me.
“Non so di chi stiate parlando” le parole uscirono sibilando dalla mia lingua, la cadenza strascicata di chi non conosce più niente di legato alla vita. “Bruciate la nave. Nessuno di loro ha accolto l'offerta in tempo.”
Mark strinse la presa sulla sua gola.
“Aspettate, no! La Perla Nera era ciò a cui più teneva al mondo dopo di voi! Callie è ancora una parte del vostro cuore, io so che lo è.”
Presi una lanterna dal terreno, accendendola e squarciando il buio pesto della notte. La usai per illuminare il viso di Mark, vedendola impietrirsi e smettere di contorcersi alla sua presa.
Davanti non aveva più gli occhi chiari che conosceva, né i capelli tagliati corti e la barba tenuta in ordine, ma un essere dagli occhi vuoti e dalla pelle dal colore bianco della morte. Aveva tagli in viso e il corpo lacerato in più punti, vivo solo perché non sarebbe mai potuto morire.
Poi, spostai la lanterna, illuminando gli altri membri dell'equipaggio. Come lui, anche gli altri sembravano cadaveri, letali creature immortali che stavano pagando il loro debito con una condanna alla vita. Una vita diversa, però. Una vita molto più simile alla morte di quanto qualsiasi altro tipo di vita sarebbe potuto essere.
Continuò a seguire la lanterna con gli occhi, finché me la portai accanto al viso, illuminandomi.
Cadde a terra, in ginocchio, gli occhi stretti, a causa dello stupore misto al dolore. Un respiro tremolante uscì dalle sue labbra.
Davanti a lei, di nuovo il volto temuto del pirata più pericoloso di tutti i mari, in cui ormai mi ero trasformata. Davy Jones.
“Io non ho un cuore” risposi nel silenzio che era sceso sul mare.
Ordinai ai miei di tornare a bordo dell'Olandese Volante, risparmiando la Perla Nera e la sua ciurma perché andassero per terra, a raccontare che il mare aveva di nuovo un padrone.

L'Isle de Crux era esattamente come me la ricordavo.
“Novanta giorni sono trascorsi” si voltò, al suono della mia voce. “Sali sulla nave Addison. Ti porto via con me.”
Lei si alzò, venendomi incontro.
“Arizona?” chiese, strizzando gli occhi. “Vieni alla luce. Non ti vedo.”
“Non è necessario che tu mi veda. Sali a bordo.”
“Mi serve solo un altro po' di tempo. Ci sono quasi.”
“Non mi interessa” urlai, aspramente. “Preferisco di gran lunga prendere la tua anima, che riportare in vita qualcuno già morto.”
Lei mi guardò, completamente attonita.
“Che diavolo sta succedendo?” sussurrò.
Feci un passo avanti nel mare, fino ad essere inondata dalla luce proveniente da riva.
“Salite sull'Olandese, Lady Montgomery” ripetei, quando vide finalmente il mio volto.
I suoi occhi persero lentamente lo stupore, riempiendosi poi di rimorso e pietà.
“Prendete me.” Mi voltai verso la voce. “Datele altri novanta giorni, e tenete me come garanzia.”
“Alexandra. È un piacere vedervi di nuovo.”
“Prendete me” propose di nuovo.
“Ma certo. Sì, perché no? E, tra novanta giorni, prenderò l'anima di entrambe.”
Fu impagabile vedere il suo sguardo quando vide di nuovo Mark Sloan, l'amore della sua vita, dopo tutto quel tempo in cui avevano tentato di salvarsi a vicenda.
Fu una delle cose più belle che avessi mai ricordato di vedere.
Ero felicissima di averle permesso di salire sulla nave.
I suoi occhi si riempirono di disgusto, di rimpianti, misti a lacrime. Il suo cuore si spezzò proprio davanti ai miei occhi, quando vide l'uomo che amava ridotto ad un corpo vivente, ma egli già morto, anima e sentimenti ormai sepolti tra le travi della mia nave.
Era distrutta. Si stava disintegrando anche lei, proprio davanti a me.
Sì, decisamente, era stata un'ottima idea.

Tornai sull'Isle de Crux dopo tre mesi, come promesso.
E mi portai dietro la caparra che avevo ricevuto.
Corse a riva dalla mia nave così velocemente che inciampò ripetute volte.
Erano stati i tre mesi peggiori della sua vita, mi aveva confessato. E la sua confessione, mi aveva riempito di soddisfazione.
“Prendi una boccata d'aria, Lexie. Tra poco, sarai mia per sempre” sussurrai a me stessa. “Tu, e così anche Addison.”
Un sorriso distorto si formò sul mio volto.
Qualche istante dopo, tre ombre si avvicinarono alla riva, nell'oscurità della notte.
Tre?
“Arizona” il mare non la fermò.
Non aveva paura di me.
E sbagliava tremendamente.
“Arizona” ripeté, camminando verso di me, fino ad essere in acqua fino al ginocchio.
“Troverò un altro modo per appropriarmi della tua anima, Addison. Stanne pur certa” le parole uscirono come una minaccia, ma in qualche modo anche con tono rassicurante.
Lei si pietrificò a qualche metro. Mi guardò con confusione.
“Il patto non era questo” mi disse Addison. “Lei ed i miei poteri, con la vostra promessa che la mia anima non vi sarebbe appartenuta mai.”
Esitai, ma sapevo di poter fare ben poco se non onorare il nostro accordo.
“E così sia” tuonai. “Salite a bordo” mi rivolsi finalmente a Calliope.
Lei mi si avvicinò, illuminandomi con la lanterna che aveva in mano. I suoi timori trovarono tristemente conferma.
“Che ti è successo?” appoggiò delicatamente una mano nel punto del mio petto dove un tempo batteva il mio cuore.
“Sono diventata un mostro” risposi con ovvietà.
“Parlavo della tua anima” guardò dentro i miei occhi.
Mi voltai di scatto, allontanandomi da lei di un passo.
“Anch'io” ringhiai, conducendola a bordo dell'Olandese.
Mi seguì fino alle segrete, aprii una cella, facendole cenno di entrare. Lei non protestò.
“Questa sarà la vostra casa per il resto della vostra vita. Ma non temete” la rassicurai, appoggiando uno dei miei tentacoli sulle sbarre, afferrando delicatamente la sua mano. “Entro pochi giorni sarete morta di fame.”
Mi allontanai da lei, un'espressione beffarda.
“Mi dispiace per Addison. Ha faticato molto per riportarmi in vita.”
“Dovrebbe dispiacervi molto di più per voi stessa.”
“Io? Io sono di nuovo morta già da diversi minuti. Quando i tuoi occhi mi hanno guardato, e l'unica cosa che ho visto era rabbia. Proprio lì, dove un tempo non leggevo mai nient'altro che amore.”
“Amore” sussurrai con disprezzo. “Esistono cose più importanti, dell'amore.”
“L'immortalità?” chiese. “O forse questa nave?” continuò. “O un tesoro, magari?”
Io risi, scuotendo appena la testa.
“Qualcosa che né voi né io saremo mai più in grado di sperare di avere di nuovo, temo.”
“Sarebbe?”
“La libertà.”
Chiusi con forza la porta della sua prigione, andandomene via.

La mattina dopo feci ritorno sottocoperta.
“Non siete ancora morta, vedo” constatai con tono neutro.
“Solo una volta, per adesso” rispose, quel sorrisetto strafottente sul suo viso mi ricordò momenti che avevo dimenticato.
“Questo appartiene a voi. Non è più mio da molto tempo, ormai” gettai l'anello che avevo in mano, dentro la sua prigione.
Lei lo guardò per diversi istanti, prima di raccoglierlo.
“Pensate che il mio cuore non sia più vostro? Questo non potete deciderlo voi, temo. Presumo che il vostro, non sia più mio, quindi?”
Non risposi. Vidi che teneva in mano quella vecchia bussola che l'aveva salvata decine di volte. Mi avvicinai, curiosa di vedere dove puntava. La freccia, veniva dritta nella mia direzione.
“Me?” risi amaramente. “Deve essersi rotta.”
“Non lo è” affermò con risoluzione. “La cosa che più voglio al mondo, siete voi.”
“Sono un mostro, Calliope.”
Si alzò, venendo verso di me, afferrando le sbarre che ci separavano.
“Davvero? Quanti uomini avete ucciso? Senza contare Mark.”
Non risposi.
“Come pensavo” sussurrò. “Non è il vostro aspetto che fa di voi un mostro. La vostra anima, tuttavia, è piena di dolore. Ma tutto ciò che si può vedere è la rabbia che vi consuma.”
“La rabbia è più facile del dolore” risposi, incapace di guardare lontano dai suoi occhi. “Tra quanto sarà qui per prendervi mastro Bailey?”
“Non molto, ormai.”
“Avete già trovato una via per uscire dalla cella?”
“Non ancora. Ma ho un'idea.”
“Niente cannonate. Non voglio passare giorni a riparare la nave come l'ultima volta. Senza contare che dovreste andare a nuoto fino alla Perla.”
“Non preoccupatevi. Ho il massimo rispetto per la vostra nave. Non chiederei mai al mio mastro di prenderla a cannonate.”
La guardai senza parlare per diversi secondi. Poi mi voltai, incamminandomi verso gli scalini che mi avrebbero portato sul ponte.
“Non dovrei essere io la cosa che volete di più al mondo.”
“Perché no?”
“Perché non è nella natura umana.”
“Amare un mostro?”
“Volere qualcosa che già si possiede da sempre” risposi, mentre iniziavo a salire sopraccoperta.

“Capitano, la prigioniera è scappata. Ha scardinato una delle sbarre della prigione, ce n'era una fasulla. Ha atterrato due uomini ed è fuggita per mare, imbarcandosi sulla nave che sta scappando verso Ovest.”
Fissai l'anello che, in qualche modo, era riuscita a far arrivare fin sopra la mia scrivania.
“Li inseguiamo?”
Lo risposi dove tenevo le chiavi del forziere.
“Capitano? Li inseguiamo?”
“No. Lasciateli andare. Abbiamo cose più importanti da fare.”

Erano passati sei mesi dall'ultima volta che avevo visto Calliope.
Non l'avevo mai cercata, e lei non poteva trovarmi nelle acque in cui avevo viaggiato.
Quando mi imbattei di nuovo nella Perla Nera, tuttavia, non seppi resistere alla tentazione.
Provarono a fuggire. Invano.
Avevamo il favore del mare dalla nostra parte.
La sua ciurma, come ero solita fare, fu presa prigioniera dai miei uomini che, uno per uno, puntarono una lama alle loro gole.
Lei rimase ferma in mezzo al cerchio che si era formato.
“Siamo riusciti a scappare più a lungo di quanto mi aspettassi” mi comunicò con pacata rassegnazione.
“Ho avuto da fare” le comunicai, facendo cenno ad uno dei miei uomini di accendere una lanterna ed illuminare i prigionieri.
“Lexie!”
“Mark?” si sorprese quando lui riuscì a riconoscerla, a dire il suo nome con enfasi, non con indifferenza.
Callie lo guardò con confusione, osservò il fatto che fosse combattuto tra rimanere lontano da lei o disubbidire agli ordini. E ne fu turbata.
Si voltò di nuovo verso di me, quando ripresi Mark, facendolo smettere di agitarsi.
“I loro visi. Hanno ripreso colore” osservò Bailey.
“Hai avuto da fare?” domandò invece Calliope a me, incuriosita. “Troppo indaffarata perfino per una visitina?”
Io mi avvicinai, entrando nella luce della lanterna.
“Ho un compito” risposi, con un mezzo sorriso. “Traghettare anime dei morti in mare e tutto il resto. Tenere le acque sicure.”
Si avvicinò immediatamente, allungando una mano verso il mio viso. Io mi allontanai di un passo, impedendole di toccarmi e tornando nell'oscurità.
Le mie mani erano formate da cinque piccoli tentacoli, più umane di prima. Le braccia e le gambe erano tornate normali. Il mio viso aveva forma quasi umana, gli occhi di nuovo liberi, anche se la fronte ed il lato sinistro della mia mascella avevano ancora sembianze mostruose. Il resto del mio corpo era tappezzato di parti umane, qua e là.
Stavo lentamente tornando me stessa.
Ma rimanevo ancora un mostro, almeno in parte.
“Anche io ho avuto molto da fare.”
Rimasi spiazzata. Per la prima volta mi resi conto che Calliope Torres era tornata in vita. Quel suo inconfondibile modo di parlare, di camminare, di imbrogliare, quello era inconfondibile, per me. E lo stava facendo proprio in quel momento.
“Sai, viaggi ai confini del mondo e roba simile. Ho trovato qualcuno con le mappe che mi servivano.”
“Ah, sì?”
“Arizona Robbins. È passato molto tempo. Come stai?” mi si avvicinò, inchinandosi appena da gentiluomo qual'era sempre stato.
“O, qualcosa di meglio di una mappa. Diciamo, qualcuno che c'è già stato” continuò Calliope.
“Derek Shepherd. Non pensavo ti avrei mai rivisto. Non in questo mondo, almeno.”
“Mia cara, come avrei potuto non tornare, sapendo che venivo per restituirti la cosa più importante che potresti mai desiderare?”
Lo guardai, leggermente perplessa.
“La libertà” chiarì.
Io risi appena.
“La Queen Ann's Revenge non sarà presto di nuovo al vostro comando, immagino, Barbanera” gli dissi. “Se non ricordo male, l'avevo lasciata in pessime condizioni, l'ultima volta. Portate i miei saluti ad Addison.”
“Addison vi ringrazia. Per averle ceduto la mia anima indietro.”
Io annuii. Feci cenno alla mia ciurma di tornare sull'Olandese.
“La cosa più importante” conclusi, spostando lo sguardo verso Calliope. “Non è la libertà, né la mia umanità, per quanto gradirei riaverla indietro. È qualcosa che nessuno potrebbe mai riuscire a portarmi via.”
Un secondo più tardi, avevo lasciato la Perla.
Mi affacciai al parapetto, guardando verso di lei, che, a sua volta, mi stava osservando.
“Mark” chiamai. Lui arrivò al mio fianco. “Alexandra sta aspettando.”
Mi guardò, confuso.
“Vai. Sei libero. Sei sciolto dal tuo patto. Ed hai il mio perdono.”
Lui si dileguò, prima che avessi la possibilità di cambiare idea. Guardai le mie mani. Al posto dei tentacoli, erano tornate delle dita.
Guardai verso Calliope.
Strinsi in mano il suo anello.
“Ti amo” sussurrai.
Impercettibilmente. Non volendo che riuscisse a sentirmi. Ma fui sicura che, in qualche modo, ci riuscì.



TO BE CONTINUED (2/3)




Grazie a tutti per aver letto e per la pazienza nell'aspettare un paio di settimane per la seconda parte...La terza arriverà penso tra un altro paio di settimane, al massimo un mese...

Intanto fatemi sapere cosa ne pensate! =)


A presto!




Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** La nostra prima corsa in moto ***


Come sempre ringrazio davvero tutti quelli che hanno letto, recensito o aggiunto la storia tra le seguite.

Avvertimenti: AU, OOC (per Mark, Stark, e tutt'al più un po' per Callie e Arizona, ma pochissimo...)


Buona lettura!

Un minuscolo omaggio ad un grandissimo corridore.


La nostra prima corsa in moto


Non era per la vittoria.
Era per la corsa, l'adrenalina, quel senso di potenza che sembra essere lì per rimanere, e invece se ne va appena il motore si spegne.
Era per un sacco di cose, che non potrei mai riuscire a rimettere insieme.
Ma non era per la vittoria. Non si era mai trattato di quello.

“Che ci dice della gara di oggi? Questo è il quinto mondiale che vince. Come si sente?”
“Della gara di oggi dico che è stata una bella gara. Ho vinto, è vero, ma avrei potuto perdere. I miei avversari erano bravi quanto me. Sono solo stata più fortunata.”
La donna che mi stava facendo quelle domande, notai, era di bell'aspetto. Capelli biondi, occhi azzurri. Il mio tipo. Eccetto per il fatto che era una giornalista. E i giornalisti tendono a diffondere i fatti tuoi alla prima occasione che hanno.
“Solo fortuna?” chiese scetticamente.
“No, non solo fortuna. Come sempre ringrazio il mio capo meccanico. Senza di lei non sarei mai riuscita a vincere neanche la mia prima gara.”
“Ogni volta la ringrazia, come se fosse anche merito suo” mi fece notare.
“Lo è” le spiegai. “Per metà è merito suo. Abbiamo costruito e perfezioniamo la moto insieme. Senza di lei non riuscirei neanche ad uscire dai box.”
Vidi il mio agente che mi faceva un segno con la mano.
“Devo andare.”
“Aspetti. Se le viene in mente qualcosa che vorrebbe dirmi...o anche solo per parlare, mi chiami” mi porse un biglietto da visita.
Io le rivolsi un piccolo sorriso e, prendendolo, me ne andai.
“Callie, sei stata grande in pista. Davvero grande. Appena hai un momento in settimana chiamami, dobbiamo iniziare a cercare uno sponsor per la prossima stagione” mi dette una pacca sulla spalla, andandosene subito dopo.
“Grazie Mark” sussurrai a me stessa, roteando gli occhi. Odiavo quel tipo. Non avevo idea del perché continuavo a fargli fare il mio manager.
Entrai nei box.
Guardai il biglietto che avevo in mano. I giornalisti portavano solo guai. Lo strappai, gettandolo in un cestino. E, se avessi avuto fortuna, non avrei visto quella donna mai più.
“Calliope” mi sentii chiamare. Alzai lo sguardo, incontrando i suoi occhi. “Ho avuto un paio di idee su come migliorare la moto per il prossimo anno.”
“Fantastico” le sorrisi. “Possiamo iniziare a lavorarci da dopo l'ultima gara, ok?”
Lei ricambiò il mio sorriso. Le sue fossette mi fecero accelerare il battito del cuore.
“Certo.”
Arizona Robbins era il mio capo meccanico. Proprio lei, la stessa che ringraziavo dopo aver vinto ogni singola gara, a differenza dei miei colleghi che snobbavano i loro meccanici.
Era stata al mio fianco fin dalla prima gara che avevo corso e vinto a sedici anni. E da allora avevamo sempre lavorato insieme. Adesso, a ventiquattro anni, avevo vinto il quinto mondiale della mia vita. Direi che lavoravamo abbastanza bene insieme, io e lei.
“Andiamo. Dobbiamo festeggiare” mi disse. “Ti offro da bere.”
Eravamo con tutto il resto della squadra, e ci stavamo divertendo, quando arrivò Mark ad interrompere la serata, accompagnato da un uomo in giacca e cravatta.
“Callie, vorrei presentarti il signor Stark. Ha in mente una generosa offerta per farti da sponsor nella prossima stagione. Che ne dici se ne discutiamo per un secondo?” mi dette uno sguardo che non lasciava molto posto ad alcun tipo di protesta.
“Ok” sussurrai, guardando con dispiacere gli altri ragazzi. Il mio sguardo si fermò per un secondo in più su Arizona. “Ci sentiamo per quelle modifiche di cui parlavi.”
Lei annuì, un piccolo sorriso sulle sue labbra. Poi incrociò lo sguardo di Mark e il sorriso sparì senza lasciare traccia.
Mi alzai, seguendo i due uomini ad un tavolo più appartato.
Per le due ore seguenti il tizio dello sponsor non fece altro che provarci con me in modo spudorato, e quando guardai l'espressione di Mark, mi resi conto che lui doveva essere per forza d'accordo con tutta quella messinscena.
“Vado a prendere da bere” si scusò a quel punto il mio agente, alzandosi e lasciandoci da soli.
“Senta, signor Stark, non so che sta cercando di fare...”
“Davvero? Perché pensavo fosse piuttosto chiaro. Il contratto che le sto proponendo è il doppio di quello che ha attualmente. Deve davvero pensarci?” mi chiese, appoggiando una mano qualche centimetro sopra il mio ginocchio.
“No” risposi, appoggiando una mano sulla sua. “Non devo pensarci affatto” gli risposi, tirandola via con forza da dove era ed alzandomi.
“Ehi, dove stai andando?” mi chiese Mark quando gli passai affianco.
Io non gli risposi neanche, uscendo da lì prima che avessi potuto fare qualcosa di cui mi sarei pentita.
Entrai in macchina partendo subito, senza neanche allacciarmi la cintura di sicurezza. Era stupido, ma a volte lo facevo. Non volontariamente, ma perché me ne dimenticavo: in moto non serviva la cintura di sicurezza.
Al contrario di quello che chiunque avrebbe potuto pensare, in macchina ero piuttosto prudente, non facevo manovre brusche e non acceleravo troppo. Ma in quel momento ero arrabbiata. Così corsi un po' troppo veloce. Ma la velocità, come sempre, mi calmò.
Posteggiai sul familiare vialetto, arrivando alla porta e sentendomi ancora a disagio. Valutai la possibilità di bussare, ma alla fine decisi di usare la mia copia delle chiavi. Infondo era un sacco di tempo che non bussavo più. Entrai senza accendere la luce e richiusi la porta alle mie spalle, facendo scattare anche la catenina che prima non era stata inserita proprio per permettere a me di entrare senza bussare. Al buio mi feci strada attraverso il soggiorno lasciando cadere il giacchetto e la borsa sul divano, ed entrai nella camera da letto. Conoscevo quel posto a memoria, ormai. Mi tolsi la maglietta, calciando via le scarpe, e poi mi tolsi i jeans insieme alle calze. Entrai dentro il letto già sfatto e mi sentii avvolgere da quel familiare odore. Da quella sensazione di caldo.
Cercai a tentoni, finché trovai ciò che cercavo e mi avvicinai, mettendomi su un fianco, fino ad avvolgerci le braccia intorno.
“Hai le mani fredde, Calliope.”
Le baciai una spalla, rafforzando la presa. “Mi dispiace averti svegliato.”
“Non stavo dormendo. Aspettavo che tornassi a casa. Non riesco a dormire se non so che sei al sicuro.”
Sospirai, baciandola qualche altra volta sulla spalla, prima di appoggiarci la punta del naso. Mi piaceva respirare il suo profumo, la sua pelle.
“Il tizio dello sponsor ci ha provato con me” risi con amarezza. “Ad un certo punto mi ha appoggiato una mano sulla coscia. È stato terribile. Ho ancora la nausea.”
Lei si voltò tra le mie braccia, per guardarmi negli occhi. Mi accarezzò una guancia.
“Me ne sono andata di punto in bianco dopo quello. Credo che Mark si arrabbierà.”
“Hai fatto la cosa giusta. E so che questo ti fa arrabbiare. Vorrei poter fare qualcosa.”
Sapeva quanto odiavo che mi trattassero diversamente da come trattavano gli altri uomini che facevano il mio lavoro. Era ingiusto. Ma era il modo in cui andavano le cose la maggior parte del tempo.
“Stai già facendo qualcosa” dissi, realizzando con enorme sorpresa fino a che punto fosse vero. La rabbia stava passando, il disgusto era ormai andato, perfino la tristezza della costante discriminazione a cui ero sottoposta si affievoliva, in quei momenti. Vicino a lei non potevo contenere nessun tipo di emozione diversa dalla felicità. “Ti amo, Arizona.”
Mi sentii stupida quando gli occhi mi si riempirono di lacrime. Non era la prima volta che glielo dicevo, ma fui particolarmente presa in contropiede da quanto l'amavo davvero.
“Ti amo anche io” rispose, baciandomi.
“Possiamo iniziare a lavorare a quelle modifiche di cui mi parlavi dalla prossima settimana, ok? Domenica prossima corriamo l'ultima gara, anche se è una formalità a questo punto. E poi possiamo iniziare a lavorare al prototipo per il prossimo anno. Per festeggiare” le sorrisi.
“Conosco un modo migliore in cui possiamo festeggiare” mi rispose suggestivamente, salendo su di me e baciandomi con passione.
“Credo che il tuo modo mi piaccia di più” le confessai, dimenticando tutto ciò che non fosse lei.

La domenica successiva salii sulla moto con una strana sensazione alla gola.
Come se stesse per succedere qualcosa di brutto. E qualcosa di brutto successe poco dopo.
Uno dei piloti che correvano insieme a me cadde quel giorno. E non si rialzò.
Il suo nome era Jackson Avery.
Lo avevo conosciuto quando aveva iniziato a correre nella mia stessa categoria. Ci eravamo presentati e c'era questa scintilla nei suoi occhi che non ero riuscita a decifrare. Quando questo accadde avevo tre mondiali vinti alle spalle, e lui era cresciuto vedendomi correre. Aveva il mio poster in camera sua.
Non terminammo quella gara. Mi fermai appena capii cos'era successo. Lo capii appena lo vidi cadere, lo capii anche se nessuno aveva il coraggio di dirmelo.
Fu quel giorno che compresi per la prima volta la paura di Arizona di non vedermi tornare da lei a fine gara. Erano un paio d'ore, ma potevano cambiarti la vita per sempre. Potevano fare di te un eroe, o un martire. Potevano darti vita. O ucciderti.
Mi vedeva lasciare i box, ma non sapeva se ci sarei tornata. Non lo avevo mai capito. Ma, da allora, ci riuscii.
Avery era un bravo ragazzo. Perso nel suo mondo, come tutti noi piloti, e preso da se stesso più di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere. Ma era comunque un ragazzo in gamba.
Lo conoscevo poco in realtà. E pensare che avevamo corso insieme per due anni.
Ma anche io, come lui, ero persa nel mio mondo. Beh, io ero in realtà persa in Arizona, come ero sempre stata. Fin dalla mia prima corsa, a sedici anni, io e lei ci eravamo trovate. E non avevamo più avuto la forza di lasciarci andare.
Non ero mai stata complicata. Mi bastavano le due cose che amavo di più al mondo per vivere: Arizona e la mia moto. In quest'ordine. Di tutto il resto avrei potuto fare a meno.

Ero seduta sul lato del letto. Mi sentivo stanca. Non avevamo finito la gara, dopo l'incidente, ma mi sentivo stanca come mai mi ero sentita prima di allora.
Due braccia mi circondarono, stringendomi. Mi rilassai, anche se di poco, e appoggiai la schiena contro di lei, sospirando.
“Aveva un mio poster in camera sua” sussurrai. Mi salirono le lacrime agli occhi.
Lei mi sussurrò parole di conforto, stringendomi il più forte possibile, come se avesse avuto paura di vedermi scivolare via.
Avevo corso più di lui. Vissuto più di lui. Statisticamente, sarebbe stato più giusto se ci fossi stata io al suo posto. Se la moto ad andare fuori strada fosse stata la mia.
Mi tolse la maglia, mi slacciò i jeans. Me li sfilai insieme alle scarpe, entrando poi dentro al letto insieme a lei.
La guardai, un braccio attorno alla mia vita, la testa sulla mia spalla, una gamba tra le mie. Le accarezzai i capelli finché non si addormentò.
Guardandola in quel momento capii che tutti si erano da sempre clamorosamente sbagliati. Esisteva qualcosa di perfetto. Lei era perfetta.
E lei era il motivo per cui il fatto che sarei potuta essere io eccome mi aveva terrorizzato. Perché di tutte le cose che non mi sarebbe importato perdere, lì c'era l'unica cosa che non avrei mai potuto lasciar andare. Avevo tra le mie braccia la ragione per cui valeva ancora la pena vivere, nonostante tutto.
Avevo lei.

Mi vestii di nero, indossai una giacca, più o meno come avevo previsto che sarebbero stati vestiti anche gli altri piloti. Non volevo dare nell'occhio, niente vestito. Volevo essere come loro, come gli altri, quel giorno più che mai.
E allo stesso tempo volevo essere diversa, volevo fuggire dalla mia vita o che la mia vita fuggisse da me.
Volevo respirare senza paura. Volevo che sparisse una volta per tutte. Ma non succede mai. La paura è una di quelle cose che nascono e non possono fare altro che crescere, senza poter mai diminuire, crescono, crescono, finché diventano così grandi da impedirti di respirare.
Volevo respirare senza paura. Ma non ci riuscivo più.
Quando tornai a casa, a casa sua, lei era appena rientrata. Ci ostinavamo ancora a prendere macchine diverse. Ad avere case diverse. Vite diverse.
La trovai in bagno, che metteva acqua calda dentro la vasca.
L'aiutai a spogliarsi, senza dire una parola, e lei aiutò me. Mi sedetti dietro di lei, abbracciandola così stretta che per un secondo ebbi paura di farle male. Glielo chiesi. Disse che era ok. E si avvicinò a me ancora di più, appoggiando la testa sulla mia spalla e baciandomi sulle labbra.
L'acqua calda attenuò il dolore della giornata, in qualche modo. Ma, nello stesso identico modo, ne aumentò il significato.
“Non abbiamo per sempre.”
La vidi corrugare la fronte.
“Diciamo tutto il tempo 'per sempre'. Che ci ameremo per sempre e che staremo insieme per sempre. Ma non abbiamo per sempre. Potremmo perfino non avere neanche domani. Abbiamo ora. Solo ora.”
“Mi stai lasciando?”
“Ti sto chiedendo...vuoi sposarmi?”
Si districò dalla mia presa, voltandosi per guardarmi negli occhi.
Capì che ero seria, e vidi una parte di lei cadere per sempre, proprio in quel momento. E si portò via anche una parte di me.
“No. No, Calliope, non posso sposarti. Sai cosa faccio mentre corri? Durante le prime gare scherzavo con gli altri ragazzi, scommettevamo perfino su quale posto saresti stata alla fine. Ma adesso...adesso riesco a malapena ad alzare gli occhi dal monitor. Sto lì a tremare per tutto il tempo, pregando ad ogni curva che tu ne esca come ci sei entrata. E la parte peggiore è che non posso chiederti di scegliere. Non posso chiederti di scegliere tra me e la moto, perché so già cosa sceglieresti. Invece continuo a fare finta di non saperlo, fingo di avere ancora quel minimo di dignità che mi farebbe decidere di lasciarti una volta capito che io sarò sempre la seconda cosa più importante della tua vita. E non ti lascio, perché tu sopravviveresti, ma io no. Io non sopravviverei ad una vita senza te. Io continuerò a scegliere te. Ma non posso sposarti, perché anche se fingo di non saperlo, lo so. So cosa sceglieresti tu. E non sarei io.”
Si alzò, afferrando il suo accappatoio ed avvolgendoselo addosso. Velocemente mi alzai anche io, mettendomi tra lei e l'uscita. Completamente bagnata. Completamente nuda. Esposta davanti a lei come non mi ero mai sentita in tutti quegli anni.
“Chiedimi di scegliere, Arizona. Se la pensi davvero così, chiedimi di scegliere” presi una sua mano tra le mie e lentamente appoggiai uno dei miei ginocchi a terra. “Perché io sceglierei te. Sempre, in ogni caso, ti sceglierei alla mia stessa vita se dovessi farlo. Sei la persona che amo di più al mondo. La persona, la cosa, il posto, che amo di più al mondo” mi corressi, per non lasciare alcuno spazio al dubbio. “Sposami, ed io ti prometto che non salirò mai più su una moto in vita mia.”
Lei scosse la testa, con le lacrime agli occhi. Si inginocchiò a sua volta davanti a me, abbracciandomi a se stessa il più stretto possibile.
“Non posso farlo. Che persona sarei se ti privassi di qualcosa che ami così tanto? Non posso chiederti di scegliere. Ti amo fin troppo per fare qualcosa del genere.”

La stavo guardando dormire. Dopo che aveva detto di no quando le avevo chiesto di sposarmi, avevo pensato a come ottenere qualcosa. Qualsiasi tipo di passo avanti nella nostra relazione che mi facesse sentire come se, un giorno, avesse detto di sì anche a quello.
Così il giorno dopo mi ero presentata a casa sua con degli scatoloni vuoti ed avevo iniziato a metterci dentro della roba. Mi chiese cosa stessi facendo, ed io le risposi che ero stata un'idiota ad aspettare tutto quel tempo. Avrei dovuto chiederle di venire a vivere con me molto tempo prima, le dissi, visto che ormai da un sacco di tempo non riuscivo neanche a dormire se lei non era stesa al mio fianco.
Non glielo chiesi, non proprio. Chiederle le cose sembrava non funzionare in quel periodo. Così iniziai a impacchettare le cose che aveva in cucina.
“Puoi aiutarmi oppure puoi rimanere lì. Non mi interessa. Farò tutto da sola, se devo. Ma non accetterò un no come risposta, perché questo è il punto in cui, se non andiamo avanti, inizieremo ad andare indietro. Ed io non ho intenzione di perderti. E se per evitarlo dovrò avvolgere nella carta ogni singolo soprammobile di questa dannata casa, metterlo in una scatola, e fare duemila viaggi dall'altra parte della strada, puoi stare sicura che lo farò.”
Avevamo comprato case l'una di fronte all'altra. Avevamo diciotto anni quando ce n'eravamo andate dalla casa dei nostri rispettivi genitori per correre il nostro primo mondiale nella categoria più alta, eravamo troppo piccole e immature per andare a vivere insieme. Così avevamo comprato due case a circa cinque metri di distanza. Non avevo mai passato la notte in casa mia senza che ci fosse anche lei. E lei non stava a casa sua se non ero lì anche io. Eppure avevamo continuato a tenere due case per altri sei anni. Avevo intenzione di mettere fine a tutta quella storia, diventata ormai ridicola da un sacco di tempo.
Non disse niente. Andò in camera sua, tirò giù la valigia da viaggio che teneva sopra l'armadio, ed iniziò a metterci dentro i suoi vestiti.
La stavo guardando dormire. E per la prima volta mi resi conto che eravamo dentro casa nostra. Che avevamo finalmente iniziato a muoverci in avanti. E non avevo intenzione di fermarmi lì, avevo altri progetti, avevo dei piani. Soprattutto, avevo in programma di passare il resto della mia vita a realizzarli insieme a lei.

Avevamo apportato dei miglioramenti al vecchio modello già dopo due settimane di lavoro. Quel giorno, per la prima volta dall'ultima gara, salii sulla mia moto.
Era un circuito che usavamo per provare il motore, c'era una diretta molto lunga che era perfetta per avere un'idea sulla velocità massima a cui potevo portarlo. Prima di uscire dai box la guardai. E lei mi sorrise. Ma era un sorriso debole, pieno di paura, e potevo vedere anche con addosso il casco che le sue mani stavano tremando.
Accesi la moto e partii.
Il primo giro andai piano, provai i freni, scaldai il motore. Il secondo giro andai più veloce. E me la immaginai lì, come aveva detto, a fissare il monitor della telecamera sul davanti della moto, a pregare di non vedere l'asfalto avvicinarsi improvvisamente. Il terzo giro uscii dalla curva prima della diretta e accelerai fin quanto mi fu possibile.
Poi rividi Jackson mentre perdeva il controllo della moto. L'impatto. Il casco, che non aveva tenuto, fermo in mezzo alla pista. La sua moto completamente distrutta. Arizona che mi dice che non sarebbe in grado di sopravvivere. E lasciai l'acceleratore all'improvviso. Frenai, fermandomi quasi alla fine della diretta, appoggiando a terra il piede sinistro, scendendo immediatamente e lasciandola lì, a terra, mentre mi toglievo il caso e lo gettavo vicino alla moto. Mi tolsi i guanti e premetti la mano destra sul petto, cercando disperatamente di calmare il battito impazzito del mio cuore. E, allo stesso tempo, meravigliandomi che ancora battesse.
Piegai le gambe, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e prendendomi il viso tra le mani.
Arizona arrivò di corsa qualche momento dopo. Non la vidi arrivare, ma sentii la sua mano sulla mia spalla, la sua voce che mi chiedeva se stavo bene. Dal suo tocco solamente sentivo che stava ancora tremando.
Qualche momento dopo arrivò anche Alex. “Andiamo Torres. Dobbiamo togliere la moto dalla pista.”
“Mi serve un momento” sussurrai.
“Torres...”
“Aveva il mio poster in camera sua” alzai la voce. “Mi serve un momento” ripetei.
Non disse altro. Portò via la moto da solo, mentre l'unica persona che avrei potuto sopportare di avere al mio fianco in quel momento mi abbracciava, cercando utopicamente di farmi scudo col suo corpo dal dolore.

“Vuoi parlarne?”
“No.”
“Credo che dovresti.”
“Lo so.”
Aveva il gomito piegato, la testa sopra la sua mano. Ed io avevo la mia a pochi centimetri dalla sua. Con l'altra mano mi stava accarezzando i capelli.
“Vorrei che potessi fidarti abbastanza di me da farmi vedere tutto, Calliope. Non solo l'amore, la felicità, ma anche la tristezza, la rabbia. Il dolore.”
“La paura” aggiunsi, distogliendo lo sguardo.
“Lo so. So che hai paura” mi rassicurò. “Vorrei che fossi in grado di capire che non cambierebbe niente. Che se riuscissi a farmi entrare del tutto, io non ti amerei di meno. Potrei amarti di più, non lo so. Dipende se questo è già il massimo o no.”
Io risi sommessamente.
“Non ho fatto altro che amarti per tutta la mia vita, Calliope. Da quando ci siamo parlate per la prima volta in prima superiore e abbiamo deciso che avremmo costruito una moto da corsa insieme. E quando sono entrata nel bagno dei box prima della nostra prima gara cercando di calmarti e invece ho finito per baciarti. Quando più tardi, subito dopo aver vinto, mi hai chiesto di uscire con te. Non ho fatto che amare te, da sempre.”
Io la baciai dolcemente, prendendomi un momento. “Non potrei sopravvivere neanche io. Non importa quello che pensi a riguardo, se ti perdessi, non potrei sopravvivere neanche io. E ho paura che se vedi chi sono davvero e quello che vedi non ti piace, potresti...” distolsi lo sguardo, appoggiando una mano sul suo fianco timidamente, come se fosse la prima volta che lo facevo.
“Dammi una sola occasione, ed io ti proverò quanto ti sbagli.”
Rimasi a lungo in silenzio, cercando di trovare le parole.
“Potevo essere io. Ho corso per più tempo, faccio manovre più pericolose, quindi, statisticamente, era più probabile che fossi io.”
Aspettò che continuassi, ma non dissi altro.
“Calliope...tu fai manovre che sai essere in grado di fare. Hai corso per più tempo, e sfrutti la tua esperienza. Sei attenta quando sei in pista, e questo Jackson non l'ha mai fatto. Era giovane, forse troppo. Non sto dicendo che non sia pericoloso. Sai che io sono la prima a preoccuparsi.”
Ricordai le sue mani che tremavano.
“Si dimenticheranno di lui prima di quando dimenticheranno me” le feci notare.
Lei mi baciò la fronte. “Noi non ci dimenticheremo di lui” mi rassicurò.
“Non voglio essere io. Ci sono ancora così tante cose che devo fare. Non voglio essere la prossima a entrare in gara e non uscirne più.”
Cambiò posizione, avvolgendomi contro di sé. “Non sarai tu. Non puoi essere tu.”
“Ma anche tu la pensi così” le feci notare. Mi maledissi, quando sentii qualche lacrima iniziare a scendere. “Questa è anche la tua paura, no?” chiusi gli occhi, cercando di ricacciare indietro le lacrime e nascondendomi contro il suo collo.
Continuò a sussurrarmi che mi amava, finché alla fine mi addormentai tra le sue braccia.

“Ho deciso di rendere pubblica la mia relazione con Arizona” gli comunicai, una volta che si fu chiuso la porta alle spalle.
Lui mi guardò come se fossi impazzita. “Col cavolo che lo farai. Ho passato otto anni della mia vita a renderti chi sei oggi. Non ti permetterò di distruggere tutto adesso.”
“Va al diavolo Mark, tu non lo sai nemmeno, chi sono. Tutto quello che hai fatto è stato farmi firmare contratti e ordinarmi di tenere la bocca chiusa. E riuscivi a convincermi quando avevo sedici anni, ma questa storia è diventata vecchia.”
Mi sedetti sul bordo della scrivania.
“Callie, pensaci. Pensa a quanto tutto sarebbe più facile se decidessi di lasciarla. Dimmi, sei mai stata con un uomo?” mi chiese, abbassando il tono di voce, avvicinandosi.
Mi sentii accapponare la pelle dal tono che aveva usato e da come si stava avvicinando.
“Potresti scoprire che ti piace. Potresti diventare una leggenda, se sei esattamente come la gente ti vuole. Non ti dimenticherebbero mai. Saresti immortale.”
Mi si mise davanti, passandomi una mano tra i capelli. Sentii il suo corpo premere contro il mio. Lo spinsi via con forza e, quando fu ad un metro di distanza, lo colpii con tutta la forza che avevo, in piena faccia.
“Che cavolo, Mark. Sei licenziato” gli dissi, mentre la porta si apriva, lasciando entrare Alex.
Guardò con stupore l'uomo che si stava tenendo la mascella. Subito dopo di lui entrò Arizona. “Ti denuncerò per molestie sessuali e discriminazione, e non mi darò pace finché non ti avrò portato via ogni singolo centesimo che ti ho fatto guadagnare. E farò la conferenza stampa eccome. Sono stata un'idiota a darti ascolto per tutto questo tempo.”
Avrei dovuto dare ascolto ad Arizona, invece. Avrei dovuto ascoltare l'unica persona che si preoccupava per me perché davvero le importava e non perché era obbligata da un contratto.

Ero sdraiata a letto, completamente sveglia.
Che avrei detto? Che avrei fatto? Che sarebbe successo nella peggiore delle ipotesi? Volevo davvero rischiare tutto?
Sentii il piccolo corpo al mio fianco gravitare verso di me. Passai un braccio sotto al suo collo e glielo avvolsi intorno alla schiena, unendo le mani sul fianco che aveva rivolto verso l'alto. Lei si appoggiò per una buona metà su di me, una gamba tra le mie, ed un braccio su quella delle mie spalle su cui non aveva appoggiato la testa.
Sì. Avrei davvero rischiato tutto. Per lei? In un battito.
“Non riesci a dormire?” mi chiese, occhi chiusi e voce assonnata ad indicare che lei ci sarebbe riuscita benissimo.
“No” risposi baciandola tra i capelli.
“Posso fare qualcosa?”
“Fai già abbastanza. Ogni giorno sei qui, e continui ad essere qui. Questo è abbastanza.”
“Intendevo per farti dormire. Vuoi che annulli la conferenza?”
“No” risposi immediatamente, aumentando istintivamente la presa.
“Vuoi che ti faccia stancare in modo che il sonno arrivi più in fretta?” chiese di nuovo, baciandomi sulla spalla e poi sul seno.
Io risi. “Questo suona già meglio.”
“Ah sì?” chiese, improvvisamente sveglia.
“Oh, sì.”

La cosa più incredibile fu la quantità di copertine di riviste in cui c'erano foto di noi due. Quando diavolo avevano scattato tutte quelle foto? Anche la quantità di chiamate fu piuttosto impressionante. Il telefono non aveva smesso di squillare per giorni.
Avevo ripetuto così tante volte l'espressione 'no comment' che aveva perso ogni significato.
“C'è un email di Derek” era il mio nuovo manager. “Dice che ha ottenuto un contratto con un nuovo sponsor per...oh santissimo...è quasi il triplo di quello vecchio Calliope.”
“Inizio ad essere confusa. La mia popolarità non sarebbe dovuta crollare a picco? Dove diavolo sono finiti i Repubblicani?”
Lei non rispose, continuò a fissare lo schermo.
“Arizona?”
“Sshh. Sto cercando di immaginarmi qualcosa che valga così tanti soldi. Un diamante, forse. Beh, uno grande. Una villa. No, un castello. Non ci siamo ancora. Una piramide” storse il naso. “Un pezzo di luna? Quanto credi che valga un pezzo di luna?”
Io risi, avvicinandomi a lei e baciandola sul collo.
“Sempre la solita esagerata.”

Perfino sulla pista c'erano giornalisti. Nei box, sugli spalti, fuori dai cancelli. La prima gara della stagione attirava sempre molto pubblico, ma quell'anno fu una cosa ridicola.
Ero già seduta sulla moto. Finì di chiudermi la cerniera della tuta mentre io mi infilavo i guanti, ed ancora una volta vidi le sue mani tremare.
“Sta attenta” mi sussurrò, tenendo con una mano il casco davanti a me. Io lo presi, continuando a guardarla negli occhi.
“Ti amo” fu la mia unica risposta.
“Ti amo anch'io, Calliope” mi rispose.
Mi allungai velocemente, baciandola sulle labbra. Poi indossai il casco e lo allacciai.
“Prendili a calci” mi ricordò con un sorriso, tirandomi giù la visiera.
Io sorrisi a me stessa. Dopo otto anni non era ancora passata una gara senza che mi dicesse quella frase chiudendomi la visiera.

Non era per la vittoria. Non si era mai trattato della vittoria.
Era sempre stato per la corsa, l'adrenalina, quel senso di potenza che sembra essere lì per rimanere, e invece se ne va appena il motore si spegne.
“Torres, quali sono i suoi commenti sulla gara di oggi?” riconobbi quella donna. Mi aveva dato un biglietto da visita che avevo buttato da qualche parte. Non riuscii a ricordare il suo nome.
“Direi che siamo partiti con il piede giusto, no?” sorrisi alla telecamera.
“Anche oggi crede sia stato merito della fortuna?” mi chiese, facendomi ricordare la conversazione che avevamo avuto.
Io risi. “E della nuova moto, gli altri non riescono più a starmi dietro. Quindi direi che è merito del mio capo meccanico. Le modifiche di quest'anno sono state quasi del tutto una sua idea.”
Me la svignai prima che potesse avere il tempo di farmi una domanda inopportuna.
Non si era mai trattato della vittoria. Ma non si trattava più neanche della corsa, dell'adrenalina, del senso di potenza. Si trattava di fare quello che amavo. Ma lo amavo davvero, se tutto ciò che riuscivo a sentire era paura prima di partire e sollievo quando spegnevo il motore?
Forse non era rimasto niente di quello che un tempo avevo amato.
Guardai Arizona, e mi chiesi se un giorno sarebbe successa la stessa cosa con lei.

“Non sei più felice” constatò.
Io continuai ad accarezzarle la pancia, spostando però il mio sguardo nei suoi occhi.
“Non ti rendo più felice.”
“Certo che mi rendi felice. Sei l'unica cosa della mia vita che mi renda ancora felice.”
“Ma non è abbastanza” concluse per me.
“Certo che è abbastanza. Sei sempre abbastanza, per quanto riguarda me.”
“Calliope, ti prego. Lasciami entrare.”
Rimasi in silenzio, guardando dentro i suoi occhi. Potevo vedere tutto ciò che provava, solo dai suoi occhi. E vidi amore, ma anche tristezza, dolore. Vidi affetto e vidi senso di impotenza. E non mi piaceva che pensasse di non poter fare niente per me.
Non sapevo se parlarle mi avrebbe fatto sentire meglio o peggio. Ma non lo avrei mai saputo, se non ci avessi mai provato.
“Mi hai spezzato, Arizona” confessai alla fine, arrendendomi. “Quando mi hai detto che hai troppa paura per promettere di passare il resto della tua vita con me, in qualche modo, non so come, mi hai spezzato. Non c'è più niente che sia importante, niente che mi renda felice.”
Mancavano sei gare alla fine della stagione. Ero prima in classifica con un bel vantaggio dal secondo.
“Ho deciso di scegliere. La moto non mi rende felice, se so che rende infelice te. E tu non puoi essere felice finché continuerò a correre. So che non me lo stai chiedendo, ma ho bisogno di fare questa scelta per entrambe.”
“No” sussurrò, scuotendo la testa. “Ti prego, non farlo. Non lasciarmi. Non...no” continuò a scuotere la testa, avvicinandosi di più a me.
“Ho chiuso” sussurrai, accarezzandole i capelli. “Ho deciso di ritirarmi.”
Lei mi guardò, cercando conferma, credendo di aver capito male.
“Corro le ultime sei gare, a quel punto scade il contratto con lo sponsor e anche quello con la casa costruttrice. Ho chiuso.”
“Lo stai facendo per me?”
“No.”
“Stai mentendo.”
“Lo so.” La baciai sulla fronte. “Lo so.”

Ero seduta sul sellino. Mi misi i guanti e la vidi lì davanti a me, con il mio casco in mano.
“Non sei obbligata a farlo.”
“Lo so, ho già vinto comunque. Ma voglio correre. È come se ci stessimo dicendo addio” constatai, dando una pacca sulla carrozzeria della moto.
“Intendo a lasciare. Non sei obbligata a lasciare.”
Presi il casco dalle sue mani. “Ho pensato alla vita che voglio. C'è sicuramente un matrimonio lì in mezzo da qualche parte. Dei figli. Dei polli” questo le strappò una risata. “Non so cos'altro, non ho ancora pensato a tutti i dettagli. Ma ecco come non voglio che sia. Non voglio che sia corta, veloce, senza significato. Non voglio che tutta la mia vita possa essere riassunta come una gara in moto. E non voglio, neanche in un milione di anni, che sia senza di te.”
La tirai verso di me, baciandola. Dopo mi misi il casco e lo allacciai.
“Prendili a calci” mi ricordò, tirandomi giù la visiera. Poi mi sorrise.
Avevo una sensazione strana. Pensai all'anello di fidanzamento che tenevo nascosto nel mio comodino da mesi. Forse non avrei mai avuto l'occasione di darglielo. Forse era troppo tardi, forse avevo avuto ragione fin dal primo momento. Non c'era alcun per sempre. La maggior parte delle volte, non c'era neanche un domani.
Sperai che almeno sapesse quanto l'amavo.

Ogni volta che passavo in quel punto mi ricordavo di quando, un anno prima, Jackson Avery era caduto sull'asfalto.
Le prime volte avevo frenato, sentendo il cuore che mi martellava in gola. Poi un pensiero si fece strada. Sarei potuta essere io. Così avevo iniziato ad accelerare, ogni giro un po' di più.
Sapevo che ad un certo punto non ce l'avrei fatta. Che ad una certa velocità non sarei riuscita a curvare. Ma era come se stessi cercando di stabilire esattamente quale velocità questa fosse.
Era uno degli ultimi giri, quando capii che non ce l'avrei fatta.
Continuavo a vedere Jackson. Quando ci eravamo conosciuti. Quando era caduto dalla moto. I suoi occhi senza più traccia di tutta quella vita che c'era sempre stata in loro. Poi, come un angelo in mezzo ad un incubo, vidi lei. I suoi occhi che mi guardavano, pieni di qualcosa che andava oltre la semplice felicità.
Aprii la mano destra di colpo e frenai a fondo. Sentii il motore perdere giri, la moto rallentare. Dopo diversi secondi strinsi di nuovo il pugno, dando gas, mentre percorrevo la curva senza rischio.
Terminai la gara, senza fermarmi rientrai nei box, non feci il giro della vittoria, non mi vantai di aver vinto il sesto mondiale, arrivai e scesi ancora prima di essere del tutto ferma. Mi tolsi il casco come se mi stesse bruciando addosso, lasciando che cadesse a terra. Mi sfilai i guanti. E, appena la vidi, le andai incontro e la abbracciai.
Lei mi colpì su un braccio. Sapevo che mi aveva visto dare di matto. La seconda volta mi colpì più forte. Il terzo schiaffo mi arrivò sul petto. Cercò di scansarmi, ma ero notevolmente più forte di lei, quindi non ci riuscì.
“Mi dispiace” sussurrai tra i suoi capelli. “Mi dispiace, mi dispiace” continuai a ripetere, baciandola sulla testa.
Sapeva che ero rotta. Avrebbe dovuto capire. Ero come una moto a cui mancavano dei pezzi. Lei era la persona che mi conosceva meglio al mondo, quindi avrebbe dovuto sapere che il senso di colpa era arrivato a un millimetro dall'uccidermi. E nonostante questo mi colse di sorpresa che capisse davvero. Con il tempo, anche io riuscii a capire che non era colpa mia se io ce l'avevo fatta e lui no, ma mi servì l'aiuto di Arizona per arrivarci. Mi servì imparare a parlare con lei di ciò che avevo dentro, per farcela.
Smise di cercare di allontanarmi e mi strinse a sé con tutta la forza che aveva.
“Non sei obbligata a lasciare, Calliope” ripeté quello che mi aveva detto prima che iniziassi. “Ma devi promettermi che non farai mai più niente del genere.”
“Te lo prometto” mi affrettai a replicare.
“Non devi lasciare. Ti sposo comunque.”
Ero felice che avesse deciso di mettere la mia felicità davanti alle sue paure. Non aveva idea di quanto significasse per me. Ma per essere felice, l'unica cosa di cui avevo bisogno era che fosse felice anche lei.
Non presi mai in considerazione di continuare a correre.
Come ho detto, non era quella la vita che avevo in programma per noi.
Scegliere Arizona fu facile, più di quanto avevo pensato all'inizio. Non avevo mai avuto alcun dubbio, avrei scelto lei. Sempre. Ma pensavo sarebbe stato difficile.
Invece lei era lì. Ogni giorno. E questo era tutto quello che mi serviva perché non mi pentissi mai di aver scelto lei.





Spero vi sia piaciuta e spero che la tematica non vi abbia infastidito (per quelli di voi che hanno colto il velato riferimento)...

Alla prossima settimana, fatemi sapere che ne pensate! :)




Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Il nostro primo furto del secolo ***


Come sempre ringrazio davvero tutti quelli che hanno letto, recensito o aggiunto la storia tra le seguite.

Avvertimenti: AU!


Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo furto del secolo


“Questa settimana, nella residenza dei Gerard, i multimilionari che si occupano di gioielli, si terrà un ricevimento per la scelta del nuovo presidente dell'azienda di famiglia. I tre figli si contendono il posto. Da quello che sappiamo, il ricevimento durerà tutta la settimana, e si concluderà quando domenica sera verrà mostrato per la prima volta al pubblico il diamante più grande mai prodotto dalla compagnia. Forse il più grande del secolo.”
“E noi lo ruberemo.”
“Non interrompermi, Mark.”
“Scusa Derek.”
“Come stavo dicendo, noi preleveremo il diamante la sera stessa della mostra, in cui le guardie nel piano in cui viene tenuta la cassaforte saranno inferiori, perché saranno sparse per tutta la residenza a controllare gli ospiti.”
“Ha senso” concordò Addison con l'ex marito.
“Quanto vale il diamante?” chiesi.
“Il valore stimato è di cinquanta milioni di dollari. Potremmo riuscire a venderlo per quaranta al mercato nero, se siamo bravi. Il che significa dieci milioni di dollari a testa” rispose Mark.
“Che ne dite di chiedere a Teddy? Stando a quello che si dice, è davvero migliorata nel suo lavoro, potrebbe perfino essere la migliore nel suo campo” propose la rossa.
“Non se ne parla. Usare Teddy come ricettatrice è troppo rischioso, potrebbero collegarla a noi.”
“Capiranno ugualmente che siamo stati noi” risposi. “Chi altro potrebbe organizzare una cosa del genere?”
“Non useremo Teddy. Fine della discussione. Che ne dite se adesso parliamo di cose più serie? Per esempio, la cassaforte è ultima generazione, ha controlli manuali ed un secondo livello di controlli elettronici. Per quelli manuali, può pensarci pattini a rotelle, è un'esperta. Ma per quelli elettronici come facciamo?”
“Non preoccupartene. Quello è il mio lavoro. Lascialo a me” risposi alzandomi. “Parto domani per Miami. State pronti.”

“Perché no?”
“Perché non hai ancora abbastanza esperienza. Forse il prossimo colpo, Teddy.”
“Dici sempre così. Insomma, sono la tua migliore amica, no? Dovresti sostenermi e darmi una possibilità.”
“Mi dispiace Teddy. Non questa volta. Gli affari sono affari. Se va a segno questo colpo, potrei sistemarmi a vita. Mettere la testa a posto. Trovare una ragazza che faccia per me e non doverle dare un nome falso. Questo potrebbe essere il mio ultimo colpo.”
“Come ti pare. Per me vuol dire solo che non ti fidi abbastanza di me. Sai, forse non avresti dovuto svelarmi tutto il vostro piano. Voglio dire, stando alla fiducia che hai in me, potrei decidere di tradirvi. O averlo già fatto.”
Io risi. “Vieni. Accompagnami in aeroporto.”

La residenza era enorme. Solo l'ingresso era grande quanto la mia casa. Era come vivere dentro la favola di qualcun altro.
“Signorina Capshaw, finalmente è arrivata.”
Io sorrisi quando la donna accennò al cognome che avevo scelto per quella missione.
“Signora Bailey, è un piacere fare la sua conoscenza di persona. So che lei ha organizzato tutto l'evento.”
“Giusto. E lei è qui per assicurarsi di una cosa sola e mi raccomando, la riuscita o meno di questa settimana sarà nelle sue mani per la maggior parte del tempo.”
“Mi erano state date istruzioni di questo tipo. In cosa esattamente consiste il mio compito?”
“Il suo compito sarà fare tutto quello che le verrà chiesto dalla signorina Gerard. Lei esaudirà ogni suo desiderio, obbedirà ad ogni suo ordine, soddisferà ogni suo capriccio, così che suo padre e sua madre possano occuparsi degli ospiti.”
“Sarò la sua assistente personale, in altre parole.”
Lei mi guardò in modo strano.
“Se è così che la vuole mettere” rispose distrattamente. “Forse chi l'ha contattata per il lavoro si è dimenticato di dirle una cosa.”
“Cosa?”
“La signorina ha dieci anni.”

“Ho detto che voglio mangiare la pizza.”
“Tesoro, non puoi avere la pizza adesso, ti rovinerai l'appetito, tra solo due ore c'è il pranzo con tutte le famiglie dei soci di tuo padre.”
“Non mi interessa. Io voglio la pizza. Adesso!”
“Signorina Capshaw, le presento Christie. Buon divertimento.”
“Oh, lei è quella nuova? Buona fortuna” la vecchia babysitter se la svignò così velocemente che non mi sarei sorpresa di vedere la sua sagoma impressa su una delle pareti. Quella bambina doveva davvero essere difficile.
“Ciao Christie, io sono Jessica.”
“Portami della pizza se non vuoi che mi metta ad urlare. Conterò fino a tre.”
“Christie, credo che sia io che te...”
“Uno.”
“...sappiamo benissimo che non ti metteresti mai ad urlare...”
“Due.”
“...solo perché vuoi che ti porti della pizza, visto che non solo urlare...”
“Tre.”
“...non servirebbe, ma ti farebbe anche apparire molto maleducata agli occhi della signora Bailey.”
La bambina urlò così forte da portarmi via i timpani.
Smise solo quando uno dei camerieri arrivò con un vassoio di pizza, dieci minuti più tardi. Furono dieci tra i minuti più brutti di tutta la mia vita.
Perfino Mark se ne lamentò, e lui l'aveva sentita solo attraverso il microfono che mi portavo sempre addosso.
Due ore dopo si era mangiata anche un'intera barretta di cioccolata. E poi era entrata nella fase dell'iperattività post zuccheri.
Passai circa sei ore a correrle dietro per mezza casa. E quella casa era dannatamente enorme. Era così grande da avere un ascensore. Un dannato ascensore all'interno della villa, proprio così.
Per fortuna, mi ci precipitai dentro usando le rotelle delle mie scarpe, riuscendo a riafferrarla per un pelo.
“Presa, perfida bambina combina casini, sei tra le mie mani adesso, e giuro che te la farò pagare per avermi quasi fatto andare a sbattere contro la statua di marmo nell'atrio. E non dire che non l'avevi vista, sappiamo entrambe che staresti mentendo, piccola insolente...”
“Ah-ehm” si schiarì la voce qualcuno alle mie spalle.
Stringendo la bambina di dieci anni con un solo braccio, tenendola in orizzontale come se fosse un tappeto, mi voltai.
La donna dell'ascensore mi folgorò. Era di origini latine, aveva i capelli neri e gli occhi scuri che riuscirono a perforarmi l'anima senza che lei si sforzasse neanche di provarci.
Era come se non ci fosse più aria. Era come se stessi cadendo nel vuoto e lei fosse tutto ciò che riuscivo a vedere. Era come ricominciare a vivere dall'inizio senza ricordarsi come si fa.
“Ciao.”
Mi sorrise. Probabilmente aveva notato che ero rimasta folgorata, visto che non riuscivo a spiccicare parola.
“La figlia dei Gerard le sta dando problemi?” mi chiese gentilmente, sempre sorridendo. “Ho visto la bambinaia che aveva prima scappare così in fretta che non si era accorta di avere due scarpe diverse ai piedi. Se ne andava mentre io stavo arrivando. Io sono Callie.”
Io continuai a fissarla. Aprii e richiusi la bocca, ma non riuscivo a pensare abbastanza a lungo da formare parole.
“Sono qui per tutta la settimana, in una delle stanze degli ospiti. Mio zio è uno degli aspiranti soci del signor Gerard.”
Le porte dell'ascensore si aprirono proprio in quel momento. Vidi due guardie a sorvegliare le porte dell'ascensore. Quello doveva essere il piano dove era custodito il diamante. Almeno ero riuscita a scoprire qualcosa. L'ascensore riprese il suo corso, fino ad arrivare al piano terra.
“È stato un piacere chiacchierare con lei. Spero di rivederla in giro per la casa una di queste volte e si diverta con la piccola” mi rivolse un ultimo sorriso. E poi uscì.
“Ti sei spenta? Quella tipa stava parlando con te. Sei sorda o cosa?” mi chiese la bambina che tenevo in braccio.
“Tu non puoi capire Christie. Vedi, a me non piace passare il tempo con i maschi. Io preferisco le ragazze.”
“Neanche a me. Puzzano e sono sporchi di fango la maggior parte delle volte.”
“Sì, ma vedi, quando crescerai se un ragazzo ti sorriderà di farà attorcigliare lo stomaco e non riuscirai più a parlare.”
“Intendi quando mi innamorerò di qualcuno?”
“Esatto. A me quella ragazza ha fatto attorcigliare lo stomaco” risposi mentre scendevamo dall'ascensore al quinto piano. Quello con la sua stanza.
“D'accordo. Quindi stai cercando di dirmi che sei lesbica. Adesso cosa facciamo?”
Io mi schiarii la voce, guardandomi attorno, sperando che nessuno avesse sentito. Fortunatamente il corridoio era deserto.
“Adesso torniamo in camera tua.”
“No, intendevo, cosa facciamo per far sì che anche lei si innamori di te?”
Io sospirai. “Non lo so. Le scriviamo un biglietto e scopriamo a che piano della casa è la sua stanza?”
Tutto il pomeriggio non pensai ad altro che a quanto dovevo essere stupida per non averle detto almeno il mio nome. E poi mi ricordai che non potevo farlo. Ero sotto copertura con uno dei miei alias.
In più, Mark ascoltava ogni mia dannata parola.
“Ok, Steve dice che è al terzo piano. Andiamo.”
“Ascolta Christie, non che io non mi fidi del tuo orsacchiotto di peluche” iniziai mentre lei mi trascinava in ascensore “ma forse sarebbe più saggio rimanere a questo piano, dove i tuoi genitori vogliono che tu stia, e...” mi bloccai improvvisamente quando le porte si aprirono e mi ritrovai davanti ad una donna.
“Visto? Terzo piano” mi disse Christie, porgendole il biglietto che aveva scritto mentre io stavo parlando al cellulare in codice con Addison. Non del piano, ovviamente. Ma della donna sexy che mi aveva fatto sciogliere con un solo sguardo.
Io le sorrisi. Almeno ero riuscita a muovermi.
Lei prese il biglietto mentre entrava in ascensore e premeva il piano terra.
“Te lo abbiamo scritto perché Jessica ha detto che aveva lo stomaco attorcigliato, perché è innamorata di mphf” le tappai la bocca con la mano.
“Sta scherzando. Lei sta solo scherzando. Scherziamo tutto il tempo, vero, Christie? Volevo scusarmi per non aver detto neanche una parola prima, è stato molto maleducato da parte mia. E presentarmi, anche. Jessica Capshaw, sono qui solo per una settimana. Farò compagnia a Christie mentre i suoi genitori sono impegnati.”
Lei annuì. Poi aprì il biglietto.
“'Scusa se sono un'idiota'.”
“Christie” la sollevai da terra, portandomi la sua faccia a livello con la mia. “Che ti è saltato in mente? Ti ho lasciato scrivere un biglietto senza controllare, ma non credevo che glielo avremmo mai dato o che l'avresti mai trovata sul serio.”
“Sapevo che eri una fifona. Per questo gliel'ho dato io. Continua a leggere” incoraggiò la donna al nostro fianco.
“'Spero che per te non sia un problema che mi manchi qualche rotella'.”
“Christie!”
“'PS: Sposami'. Vedo che vai dritta al punto Christie.”
“Queste gioie violente hanno violenta fine” sussurrai, scuotendo la testa. “Sapevo che avrei dovuto chiuderti in camera e gettare la chiave. O ingoiarla. Andiamo, devi cambiarti per la cena piccola peste” la presi in braccio, non volendo rischiare che scappasse di nuovo.
“Christie?” chiamò la donna, bloccando l'ascensore con una mano. “Grazie mille per il biglietto, è stato molto dolce da parte tua. Io purtroppo non avevo pensato a niente da darti, però forse posso inventarmi qualcosa.”
Le mostrò il palmo vuoto della sua mano.
“Che ne diresti di...” chiuse la mano a pugno. “Un braccialetto?” chiese, mentre con l'altra mano estraeva dal pugno un piccolo braccialetto di stoffa.
“Forte!” esclamò Christie, mentre lei le legava il braccialetto al polso.
“Spero di rivedervi presto” ci salutò, sparendo dietro le porte dell'ascensore.
“Come facevi a sapere a che piano fosse?”
“Tutte le stanze degli ospiti sono al terzo piano.”
Risi, contro la mia volontà. Quella bambina era più furba di quel che sembrava.
“Credevo che fossi insopportabile. Perché mi hai aiutato?”
Lei fece spallucce. “Hai corso con me tutto il pomeriggio. Di solito le tate aspettano che mi stanchi da sola, invece tu hai giocato con me. E sembravi triste. Come se fossi stata sola per tantissimo tempo. Io sono sempre da sola, mamma e papà non ci sono mai, quindi capisco come ti senti. Ma forse da adesso puoi non essere più sola.”
Mio malgrado, mi ritrovai ad abbracciare la bambina che avevo in braccio.
“Grazie Christie” sussurrai, baciandola sulla tempia.

Passai la maggior parte del mio tempo con Christie, ma ogni volta che vedevo Callie mi sentivo sempre più interessata a lei.
Imparai tutto ciò che potevo di lei. Diventammo amiche, ma credo che le mie intenzioni le fossero chiare, perfino considerando che per la maggior parte dei nostri incontri Christie ci faceva compagnia.
Forse avevo trovato la ragazza che mi avrebbe fatto mettere la testa apposto. Abbandonare quel tipo di vita, comprare una grande casa con un giardino e un recinto bianco.
Avrei potuto essere felice con lei.
Ma ogni volta che pensavo qualcosa del genere, mi ricordavo che lei non sapeva neanche il mio vero nome.

“Alcune volte vorrei solo scappare dalla mia vita. Correre il più velocemente possibile e non permetterle mai più di raggiungermi” mi confidò, guardando Christie che si era addormentata tra le sue braccia.
“È una bella prigione, il mondo” sospirai guardandomi attorno. La capivo meglio di quanto pensasse.
“Di nuovo Shakespeare?” mi sorrise. Ma era un sorriso debole, stanco.
“Alcune volte la nostra famiglia può essere ciò che ci tiene ancorati a terra” la consolai. “Ma tu non devi permetterglielo.”
Veniva da una famiglia benestante, Callie. Era cresciuta in una gabbia d'oro, come lei stessa mi aveva detto. Aveva sogni, progetti, un futuro in mente. Voleva fare il chirurgo e salvare vite. Ma la sua famiglia aveva piani diversi per lei. Avrebbe diretto l'azienda di famiglia. Sarebbe rimasta per sempre tra le sbarre dorate di quella prigione che le tarpava le ali.
La vidi distogliere lo sguardo.
“Non stavi parlando della tua famiglia, non è vero?”
“In un certo senso, sì” sospirò. “La mia vita, il tipo di vita che faccio, non mi permette di avere una famiglia tutta mia. Dei figli...” continuò a guardare Christie. “Qualcuno che mi ami e che io ami. È il prezzo che pago per essere chi sono.”
“E chi sei, Callie?” le chiesi.
Ed i suoi occhi guardarono i miei. E capii che c'era molto altro che non mi aveva detto, e che avrebbe potuto non avere mai l'occasione di dirmi.
“Sono una sognatrice. E vorrei che i miei sogni diventassero davvero realtà. E tu chi sei, Jessica?” mi chiese a sua volta, gelandomi il cuore.
“Non so chi sono” risposi lentamente e in un sussurro. “Ma di certo questa non sono io.”
“Chiudi la bocca e tieni la copertura in piedi, Arizona” la voce di Mark mi risuonò nella testa. No, non metaforicamente. Avevo un auricolare.

“Credi si stia divertendo?” mi chiese, guardando Christie correre da una parte all'altra del piccolo ponte su cui ci trovavamo.
“Jessica” si lamentò la bambina “non riesco a vedere neanche una scimmia sveglia. Tira un sasso su una di loro in modo che faccia qualcosa” ordinò.
“Certo che si diverte. È lo zoo. A tutti i bambini piace lo zoo” le risposi.
Lei rise. “Andiamo. Voglio vedere i panda.”
“I panda?” le chiesi, confusa.
“Sì. E non fare storie, siamo già state a vedere i tuoi animali preferiti, adesso è il mio turno.”
“I delfini sono così carini, devi ammetterlo. Ma non sono i miei animali preferiti. Le farfalle sono i miei animali preferiti.”
“Credevo che fossimo venute qui per me” puntualizzò Christie. “E le farfalle sono insetti, comunque.”
“Beh, gli insetti sono comunque animali, piccola saputella” le risposi, sollevandola da terra. “Vieni. Andiamo a vedere i panda.” Continuammo a camminare per il parco, una mano di Christie nella mia, l'altra in quella di Callie.
“Jessica, perché non vuoi lasciarmi la mano?” mi chiese.
“Perché non voglio perderti. Sarebbe una tragedia ritrovarti in mezzo a tutta questa gente.”
“Lo zoo è quasi vuoto” mi fece notare.
“Sì, beh, potresti comunque scappare. Ed io non voglio doverti correre dietro, quindi non ho intenzione di lasciartelo fare.”
“D'accordo” disse, avvicinandosi ad uno dei bagni. “Devo andare al bagno. Tu stai qui e non perdere Callie. Non voglio doverle correre dietro” commentò, con quel sorrisetto compiaciuto che faceva capire quanto si sentiva furba, prendendo la mano che stringeva di Callie e mettendola nella mia. “Faccio veloce.”
“Non sei...non sei obbligata a tenermi la mano” la rassicurai dopo qualche momento.
“Lo so” rispose. Ma non lasciò andare.

Domenica sera arrivò, alla fine, ed io fui grata di poter chiudere quella storia e passare oltre. Forse, se fossi stata davvero fortunata, un giorno avremmo potuto ritrovarci di nuovo per caso e lei avrebbe capito. Ma, dentro di me, sapevo che non l'avrei mai più rivista.
“Jessica, è un piacere rivederti” mi salutò Addison mentre stavo parlando con la Bailey.
“Signorina Montgomery” la salutò la donna al mio fianco. Io le feci un cenno della testa. Addison conosceva i Gerard da un sacco di tempo, era stata lei a raccomandarmi per il lavoro dando false credenziali. E mentendo a me a riguardo, ma questo era oltre il punto.
“Vi presento il mio accompagnatore della serata, Sergej Dughanov. È un conte russo” ci sussurrò come se ci stesse raccontando un segreto.
Strinsi la mano di Mark, fingendo un sorriso.
“Mio piaceve conozevla” mi fece presente con il più strano accento russo che avessi mai sentito. Stupido Mark.
“Il piacere è tutto mio” replicai, guardandoli poi andarsene. “Dio, odio quella donna.”
“Vogliamo parlare di quel tizio? Mia nonna è più russa di lui” mi fece presente la Bailey.
Sospirai.
“Vado a salutare una persona che ho visto” mi congedai quando vidi Callie entrare nella stanza. “Sei splendida con questo vestito” mi complimentai.
“Posso dire altrettanto” rispose con un'occhiata di apprezzamento.
“Vieni” le proposi. “Prendiamo una boccata d'aria” appoggiai una mano sulla sua schiena, conducendola sul balcone.
Ci furono diversi momenti di silenzio, in cui ci godemmo la reciproca compagnia.
“Non fai davvero la babysitter, non è vero?” mi chiese all'improvviso.
“Che te lo fa pensare?”
“Di solito le babysitter non citano Shakespeare tanto frequentemente quanto fai tu.”
“Giusta osservazione.”
“Quindi non lo sei” concluse. “Voglio chiedere cosa ci fai qui?”
“No, non vuoi. Ma sai che se potessi te lo direi.”
La guardai negli occhi, leggendovi la stessa tristezza che ero sicura c'era nei miei.
“Qualsiasi cosa succeda stasera, voglio che tu sappia una cosa” mi disse. “Non avevo programmato di incontrarti. Ma sono grata di aver avuto l'opportunità di conoscerti.”
Le accarezzai una guancia.
“Sono grata anche io.”
Mi avvicinai di un passo.
“Lasciami qualcosa. Un numero di telefono, qualsiasi cosa a cui possa raggiungerti dopo stasera” la pregai a bassa voce.
Mi sorrise, porgendomi un bigliettino con su scritto un numero. Evidentemente aveva avuto la stessa idea. Mi baciò sulle labbra, velocemente, una volta sola. Poi sparì all'interno della casa.
“Arizona, sei pronta?” sentii l'auricolare che indossavo entrare in funzione, la voce di Derek nelle mie orecchie.
Sia lui, che Sloan, che Addison avevano sentito la nostra conversazione a causa del microfono che avevo, che quella sera era collegato a tutti i loro.
“Certo. Sto salendo adesso” mormorai, cercando di non pensare al bacio di Callie.
Arrivai all'ascensore velocemente, premendo il pulsante numero sette e aspettando che le porte si aprissero. Quando uscii Addison e Mark mi stavano aspettando, la guardia presente all'ingresso mi rivolse un'occhiataccia.
“Ce ne hai messo di tempo. Che stavi facendo?”
“Lascia stare, Derek. Dobbiamo sbrigarci” gli feci presente. “Comunque il vestito da guardia ti sta bene” gli sorrisi, poi attraversai la prima porta, dopo aver indossato i guanti.
Mark e Addison mi seguirono, lui rimase lì, intento ad apparire verosimile nel suo travestimento.
Attraversata la prima porta Addison inserì il codice per aprire la seconda.
“Li ho ottenuti dal capo della sicurezza prima che Derek lo stordisse” si vantò. “Incredibile quello che una scollatura può farti ottenere, no? Oppure una pistola. Pensandoci meglio, probabilmente è stata la pistola a convincerlo.”
Io scossi la testa, incredula, entrando dopo di lei.
Il codice era 763.
Mark rimase a sorvegliare la porta, tenendosi pronto per digitare di nuovo il codice al nostro ritorno.
La porta si poteva aprire solo dall'esterno.
Io e Addison entrammo nella stanza in cui era contenuta la cassaforte blindata che custodiva il diamante.
“Derek, come sono le cose all'ingresso?” chiese Addison ad alta voce.
“Tutto in ordine qui. Voi due?” sentii la risposta direttamente nel mio orecchio.
“Ce la caviamo. Mark?”
“Io sto bene. Robbins, datti una mossa.”
La prima cassaforte era manuale. Fu un gioco da ragazzi. Aprii la porta un metro per un metro, entrandovi. C'era un altro sistema di sicurezza. Elettronico. Non esattamente il mio genere, ma sarei riuscita a forzarlo. Se non fosse altro, per il gusto di non darla vinta a Mark.
“Ragazze, sbrigatevi, mi sta salendo la pressione alle stelle” ci fece presente Derek dopo qualche minuto.
“Datevi una calmata, ci sto lavorando, ok?” risposi.
“Robbins, sei stata tu a fare quel rumore?” chiese ad un certo punto Mark.
“Che rumore?” chiese a sua volta Addison, da dietro di me.
“Io non ho fatto niente, Sloan.”
“Forse me lo sono immaginato. Aspetta, ma che...” mi bloccai, ma, quando non disse nient'altro, ripresi a lavorare sul codice.
Dopo qualche istante sentii Addison schiarirsi la voce.
“Derek, com'è l'ingresso? Derek? Mark, Derek non risponde.”
“Eccola” sussurrai, aprendola. Lo presi tra le mani con delicatezza. Era addirittura meglio di quello che avevamo previsto: l'annuncio era riguardante la scoperta del diamante più grande del mondo, novemila carati. Stavo tenendo tra le mani una piccola fortuna. “Addison, ce l'ho.”
“Derek, rispondimi. Mark? Sei ancora lì? Mark?”
Uscii dalla cassaforte, il diamante tra le mani. “È bellissimo.”
“Arizona, siamo fottute.”
“Mani in alto, non fate movimenti bruschi e tutto andrà bene” una voce rassicurante mi costrinse ad alzare la testa. La donna entrò nella stanza aprendo la porta e tenendola aperta con un piede, mentre posizionava la pistola di Mark tra la porta e lo stipite per non farla chiudere. Poi si voltò verso di noi.
“Callie?”
“Posa il diamante a terra lentamente e poi spostati vicino alla tua complice.”
Guardai la pistola che mi puntava contro. Feci come mi aveva chiesto.
“Callie...”
“Agente Ramirez, FBI” mi corresse, estraendo delle manette dalla borsa ed ammanettando Addison, un anello ad un polso, l'altro ad uno dei mobili. “Arizona Robbins, ti dichiaro in arresto. Ti elencherei i tuoi diritti, ma sono sicura che ne hai già un'idea” mi venne incontro con un secondo paio di manette. “Sono onorata di essere riuscita ad arrestare la vostra squadra” mi fece presente, ammanettandomi ad un altro dei mobili. “Una squadra di miei colleghi sarà qui per prendersi cura di voi tra pochi minuti.”
Raccolse da terra il diamante, osservandolo per qualche secondo.
Si voltò verso di me. “Addio Arizona.”
Aprì la porta che poteva essere sbloccata solo dall'esterno, ma che lei non aveva mai chiuso grazie alla pistola di Mark che vi aveva incastrato.
“Dannazione” imprecai.

Due giorni dopo ci ritrovammo tutti in una sala per interrogatori. Nessuno ci aveva ancora rivolto parola, e la cosa iniziava ad essere ridicola.
L'uomo che era lì dentro adesso sembrava nervoso.
“Riconoscete questa donna?” ci chiese, mostrandoci una foto di Callie. O qualunque fosse il suo vero nome. Eh.
Annuimmo.
“L'ultima volta che l'ho vista mi ha fatto questo” disse Mark, indicando il suo occhio nero.
“Sapete chi è questa donna?”
Annuimmo di nuovo.
“Una federale. Agente Ramirez” disse Addison.
“O Callie Ramirez, dipende dalle circostanze in cui si presenta” sussurrai a me stessa.
“Quindi non la riconoscete dalla fotografia? Credevo foste la banda di criminali più ricercata degli Stati Uniti, non che viveste sotto una roccia. Calliope Torres. Vi ha battuto su tutta la linea, ogni furto che avete fatto negli ultimi sei mesi lei lo ha fatto meglio, in meno tempo ed il bottino è stato maggiore.”
“Ogni furto che abbiamo presumibilmente fatto” lo corresse Derek. “Aspetti. Come?”
“Torres?” chiese Mark. “Questa è Callie Torres? Questo non è proprio il modo in cui me l'ero immaginata.”
“Aspetti, sta dicendo...”
“Vi ha portato via il diamante da sotto il naso, a quanto pare. Sapeva che lo aveste rubato, non ha dovuto nemmeno fare il lavoro sporco. Una falsa identità, un tizio che le doveva un favore si è finto suo zio per farle avere una stanza nella residenza, ha aspettato che voi vi conquistaste il diamante e poi lei se lo è portato a casa. Le manette sono state un tocco di classe” valutò come se ci avesse pensato solo in quel momento. “Impressionante, visto che l'unica di voi ad aver usato il vero nome sia stata Montgomery, che non era ancora stata identificata da nessuno. Eppure lei vi ha beccato lo stesso, dalle foto di qualche videocamera di sorveglianza, immagino, vi ha riconosciuto e fatto arrestare. E adesso siete schedati dai federali. Ha azzerato l'ultimo vantaggio che vi era rimasto su di lei. Geniale, no?”
“Calliope Torres” sussurrai a me stessa. “Dannazione” imprecai di nuovo.

Non avevano abbastanza prove per trattenere nessuno di noi. Appena ci rilasciarono frugai dentro la borsa che avevo quella sera e lo ritrovai. Composi velocemente il numero di telefono sul bigliettino. Misi il vivavoce, scambiandomi un'occhiata con gli altri.
“Allora, hai già capito come ho fatto?”
“Calliope.”
Stavo per iniziare ad urlare quando mi accorsi che era un messaggio registrato.
“Sai, erano anni che volevo incontrarti. Sei una leggenda nel nostro campo. Ho avuto una cotta per te per anni. Aver avuto l'occasione di conoscerti è stata l'esperienza più emozionante della mia vita. Negli ultimi sei mesi non ho fatto altro che cercare di attirare la tua attenzione, poi ho optato per un approccio più diretto. Posso onestamente dire che non avevo programmato di incontrarti, questo te l'ho già detto, il piano era di fare la tua conoscenza solo il tempo necessario per sfilarti il diamante dalle mani. Ma quel giorno, in ascensore, non sono riuscita a trattenermi dal parlare a raffica. E tu te ne stavi lì in silenzio, e credevo davvero di averti spaventato a morte. Ma poi il bigliettino di Christie...Non ho mai mentito, neanche per un momento, su come mi sentissi quando eravamo insieme. So che lo capisci, Jessica” la sentii ridacchiare. “So che è così anche per te. E spero che un giorno capirai perché l'ho fatto.”
Un piccolo sorriso si fece strada sulle mie labbra.
“Lasciate un messaggio dopo il beep” sentii la sua voce incoraggiarmi. Poi un suono prolungato.
“Calliope, devo saperlo. Come hai fatto?” attesi che rispondesse, sicura che fosse in ascolto dall'altra parte.
Sentii un clic, capendo che aveva preso la chiamata.
“Come ho fatto cosa, esattamente? Sapere come avreste provato a rubarlo voi? Atterrare due uomini da sola? Come ho portato un diamante grande quanto un pallone da calcio fuori dalla casa passando totalmente inosservata? O come abbiamo già provveduto a vendere il diamante, ricavandone novanta milioni di dollari?”
Ci guardammo, completamente stupiti. Mark era a bocca aperta.
“Il valore stimato era addirittura inferiore. Come hai fatto a venderlo al mercato nero per un prezzo così alto?”
“Quello è tutto merito del mio ricettatore. Un lavoro eccellente. Ha avuto l'idea geniale di vendere il diamante, che era di una purezza eccezionale, invece che intero facendone pezzi più piccoli, di cui ha gonfiato il prezzo vendendoli come unici a una ventina di musei diversi. Avranno una brutta sorpresa domani mattina, quando si accorgeranno che la compravendita al nero li ha fregati e non potranno farci niente.”
“Questo è...geniale” sussurrai.
“Mi dispiace, Arizona. Come dici tu, gli affari sono affari.”
“Teddy?” parlammo tutti insieme.
“Mi dispiace avervi fregato, ma non sareste comunque mai riusciti a vendere il diamante. Mi dispiace davvero. Beh, non per Mark. Non mi sei mai piaciuto, Mark.”
“Solo perché Addison stava con me prima di diventare la tua ragazza.”
“Amore, non prendertela” sentimmo la voce di Teddy ammorbidirsi. “L'ho fatto solo perché sapevo quanto avrei potuto ricavarne, ma voi non avete voluto ascoltarmi. Spero che un giorno riuscirai a capire e mi perdonerai.”
“Quant'è la tua parte?” chiese Mark duramente. “Con quanto ti ha comprato? Due percento? Cinque?”
“Cinquanta” gli disse Callie. “Non ci sono giocatori più importanti in una squadra. In ogni caso, Teddy ha rifiutato. Allora le ho proposto un altro accordo, con cui entrambe ci sentivamo più a nostro agio. Ognuno di noi ottiene quindici milioni di dollari. Teddy vi porterà la vostra parte al più presto. È più di quanto avreste ricavato da soli quindi...direi che abbiamo tutti ottenuto quello che volevamo. Voi avete i soldi e Teddy ha dimostrato di essere la migliore nel suo campo.”
“E tu ci hai fatto schedare dal governo” concluse Derek.
“Sì, anche quello ammetto che mi ha dato soddisfazione” potevo praticamente sentirla sorridere attraverso il telefono. “Ma ciò che volevo davvero era qualcosa che non potevo ottenere, non importa quale scelta avessi fatto. È stato un piacere ragazzi. Arizona” mi salutò con dolcezza, riattaccando.

Aprii la porta indossando solo una vestaglia. Sapevo già chi era che stava bussando a quell'ora di mattina.
“Le cose sarebbero comunque andate male, per lei. Quando ti ha conosciuto, ha seriamente pensato di mollare. Tutte le sere mi chiamava, dicendo che non poteva farlo, e quando io le chiedevo perché sospirava, dicendo che era un motivo stupido, che lo avrebbe fatto. Ma per lei qualsiasi scelta era sbagliata, Arizona, riconoscile almeno questo. Se avesse mollato, tu ti saresti scordata di lei alla velocità della luce, o almeno era quello che pensava avresti fatto dopo aver scoperto che era lì sotto falsa identità per sabotare il tuo piano. Ma non mollando sapeva che tu non l'avresti perdonata.”
“Non c'è niente che debba perdonarle, Teddy. Ho ottenuto cinque milioni in più del previsto, e come sia io che te sappiamo, si tratta solo di affari.”
Lei sospirò. “Non perdonerai neanche me?”
Le sorrisi. “Ti ho già perdonato. Sei la mia migliore amica. Avrei dovuto fidarmi di te” le sorrisi, abbracciandola.
La verità era che io mi fidavo di lei più di quanto sarei mai riuscita a dirle a parole.
“Adesso vai da Addison. Le sarai mancata. Quattro giorni senza stare insieme vi avranno fatto impazzire” roteai esageratamente gli occhi fingendo irritazione, ridendo per farle sapere che scherzavo.
“Dovresti darle un'occasione” aggiunse, nonostante sapesse che non volevo sentirlo.
Rientrò in macchina. Chiusi la porta.
Rientrai in camera mia, togliendomi la vestaglia e lasciandola cadere a terra. Scivolai tra le coperte calde che avevo lasciato qualche minuto prima, rannicchiandomi contro il corpo perfetto che vi trovai dentro, abbracciandola da dietro. Mi piaceva sentire la sua pelle contro la mia.
“Calliope, glielo diremo mai?” le chiesi.
Non sarei mai riuscita a convincere Mark a far vendere il diamante a Teddy, ma sapevo che lei era l'unica che poteva riuscire a farlo per un prezzo così alto. Calliope poteva contattare Teddy ma non avrebbe potuto rubare il diamante da sola, anche se sapeva come farlo uscire di lì. Così l'unico modo in cui avremmo potuto far vendere il diamante a Teddy, ma avere abbastanza uomini per il furto vero e proprio, era se nessuno era al corrente del fatto che Calliope era stata una parte del mio piano fin dal primo momento.
La messinscena con Christie mi aveva scagionato del tutto, lei poteva testimoniare a mio favore, dicendo che non l'avevo mai vista prima di quel giorno in ascensore. Senza contare il microfono sempre acceso che Mark aveva usato per ascoltare ogni nostra conversazione.
Proprio in quel viaggio in ascensore, era stata Calliope a mostrarmi il piano in cui era custodito il diamante. Io le avevo fornito il codice della porta che Mark doveva sorvegliare.
“In tutto questo tempo non glielo hai mai detto. Non ho mai capito se era perché pensavi che non saremmo durate o per via della poca fiducia che fingi di avere in loro, quando entrambe sappiamo benissimo che gli affideresti la tua vita.”
La baciai sulla spalla.
“Non ho detto niente perché stavo cercando di proteggerti. Questo era un lavoro semplice. Ma una volta che sei dentro una squadra arrivano lavori che non vorresti. Lavori da cui potresti non tornare a casa. Non voglio questa vita, per noi.”
Si voltò tra le mie braccia, guardandomi negli occhi.
“Beh, credevo che questo fosse il punto di tutto. Adesso abbiamo abbastanza soldi per una vita tranquilla in un posto dove nessuno sia in grado di riconoscerci.”
Lanciai un'occhiata alle valige pronte. I biglietti aerei visibili anche dal letto giacevano sulla scrivania.
“Alzati. Non voglio perdere quell'aereo” la baciai con fermezza.
“Ti amo, Arizona.”
“Ti amo anche io. E non riesco ancora a credere che tu sia disposta a rinunciare a questa vita per stare con me.”
“Stai facendo lo stesso” mi ricordò, accarezzandomi una guancia.
Io le sorrisi.
Allungando una mano presi il biglietto che Christie aveva scritto per lei, porgendoglielo. Avevamo deciso di tenerlo sul comodino di camera nostra. Non volevamo ammetterlo, nessuna delle due, ma quella piccola peste ci mancava. Lei lo aprì, leggendolo per la seconda volta.
Io le indicai con il dito di leggere l'ultima riga.
PS: Sposami.
“La cosa più preziosa che io abbia mai posseduto è proprio dentro questo letto, tra le mie braccia, Calliope. Sposami.”
I suoi occhi si riempirono di lacrime mentre annuiva.
Non ringraziai mai Christie abbastanza per quel biglietto di scuse che usai per convincerla a passare il resto della sua vita insieme a me.





Una tematica più leggera rispetto alle altre, ma ho pensato che ci servisse seriamente una pausa da tutto il dramma che c'è al momento sullo show...quindi, che dire, spero che vi sia piaciuta e che vi abbia fatto almeno sorridere!
Fatemi sapere che ne pensate! :)




Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** La nostra prima raccolta di storie ***


Come sempre, ormai questo è una sorta di rituale, ringrazio davvero tutti quelli che hanno letto, recensito o aggiunto la storia tra le seguite.

Nonostante il calo di recensioni dell'ultimo periodo io sto continuando con gli aggiornamenti...non mi arrendo! :D

Avvertimenti: leggermente AU dalla settima in poi (e alcune delle scene descritte sono una rivisitazione di alcune scene dello show...di sicuro capirete quali...)


Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



La nostra prima raccolta di storie


Era una notte buia e tempestosa, di quelle in cui attorno è così scuro da non riuscire a vedere cosa accade a pochi passi da noi.
Le strade a quei tempi erano ancora illuminate male, per via dell'alto costo dell'elettricità, da poco utilizzata.
C'era qualche macchina che ogni tanto passava lenta sulla strada davanti a me, illuminando brevemente la via con i fari. Erano pochi attimi di luce in mezzo all'oscurità.
Me ne stavo sulla sedicesima strada, le spalle appoggiate al muro del locale in cui stavo per entrare, una sigaretta tra le labbra e il colletto dell'impermeabile tirato su fino alle orecchie.
Ricordo che faceva freddo. Uno di quei freddi che ti prendono le ossa.
Non lo sapevo, ancora, ma quella sera, proprio in quel posto, il corso del mio destino sarebbe cambiato per sempre.
Decisi di entrare, per scaldarmi con un bicchierino di qualcosa di molto forte.
Mi sedetti, battendo una mano sul bancone. Era un mondo di uomini, allora, così una signora doveva sapersi far rispettare.
“Joe, dammi il solito” dissi con aria da dura, ancora con la sigaretta spenta tra le labbra.
“Ecco qua” rispose porgendomi un bicchiere con del liquido marrone dentro.
Ne buttai giù un sorso e poi feci una smorfia.
“Dev'essere molto forte” osservò una delle donne della locanda.
“Solo molto caldo” sussurrai, sorseggiando il resto del mio tè.
Dopo aver bevuto decisi di andare in bagno, prima di tornare a casa. Entrai, ignara di ciò che sarebbe successo lì dentro, che avrebbe cambiato la mia vita per sempre.
Mi stavo lavando le mani, quando una strana donna che non avevo mai visto prima decise di entrare con la forza sfondando la porta con un calcio. Indossava vestiti da cowboy, aveva un cappello nero in testa e una stella da sceriffo al petto. Le mani ai lati dei suoi fianchi, vicino ai calci delle sue pistole.
“Ehi” mi disse con voce bassa e minacciosa. “Ortopedia, giusto?”
Allora mi irrigidii, posando una mano sul fodero della pistola che portavo alla vita.
“Sì. Giusto. Salve.”
Lei mi guardò, fingendosi innocente, mi sorrise perfino. Quella donna aveva qualcosa di pericoloso in mente, qualcosa di terrificante, mi resi conto.
Fu allora che disse le quattro parole che sconvolsero la mia vita per sempre.
“Arizona Robbins, chirurgia pediatrica.”


“Calliope, non è affatto così che è andata.”
“Arizona, ti prego. Sto raccontando io la storia, tu hai già avuto la tua occasione.”
“Gli stai sconvolgendo le idee! La scoperta dell'elettricità è avvenuta da poco, ma ci sono già macchine per strada con i fari, tu sei vestita come Clarke Gable in 'Via col vento' e io sembro Clint Eastwood in un film western. Senza contare che tutto è accaduto pochi anni fa e tu l'hai ambientato nei primi anni del novecento.”
“Ok, per prima cosa, il film era 'Casablanca' ed io ero Humprhrey Bogart.. E seconda cosa Clint Eastwood aveva sempre un enorme sigaro in bocca nei film western. Ti sembra che io abbia per caso nominato qualche sorta di sigaro?”
“Tu avevi in bocca una sigaretta.”
“Appunto. Quella ero io. E non era comunque un sigaro. Obbiezione respinta.”

A quel punto la donna misteriosa fece un passo nella mia direzione.
“Ti ho vista in ospedale.”


“Questo è del tutto ridicolo. Tu sei un gangster ed io un cowboy, ma lavoriamo in ospedale?”
“Fingerò che tu non mi abbia interrotto di nuovo.”

La strana donna che aveva appena ammesso di pedinarmi, sembrò all'improvviso nervosa.
“Tutto ok?” mi chiese, mentre io continuavo a scrutarla dal riflesso dello specchio davanti ai miei occhi.
“Sì, certo, sto bene” risposi velocemente, voltandomi finalmente per fronteggiarla.
“Le persone parlano. Dove lavoriamo. Parlano. Un sacco. Così, per amor di onestà, ho pensato di doverti dire che so delle cose di te.”
Non c'era più alcun dubbio. La misteriosa donna mi stava pedinando. Probabilmente, era una serial killer assunta da uno dei miei molti nemici per farmi fuori. Ma era dannatamente sicuro che non sarei andata a fondo senza lottare.
Così estrassi la pistola e...


“Phew.”
Trasalirono quando mimai il rumore di uno sparo, unendo le mani a formare una pistola per creare maggiore effetto scenico.
“Hai sparato a mamma durante il vostro primo incontro?”
“E come è sopravvissuta? L'hai operata tu? Ma se le avevi sparato perché poi l'hai salvata?”
“Mh. Ottima domanda. Dunque, vediamo...”

Il mio colpo la mancò per un pelo, lei fu veloce a gettarsi di lato, estraendo velocemente le due pistole che aveva alla vita. A quel punto tutto rimase innaturalmente calmo. Ci guardammo negli occhi.
“Parlano bene di te. Ti rispettano, si preoccupano, gli piaci davvero. A qualcuno di loro piaci
davvero.”
Fui la prima ad abbassare la pistola, ma non la rimisi nel fodero. A quel punto fu il suo turno di riporre le armi da dove le aveva inizialmente estratte.
“È solo che...sembri triste. E volevo che sapessi che parlano bene. E quando non sarai più triste, quando la tristezza sarà passata...ci saranno delle persone a fare la fila per te.”
Si aggiustò il cappello, infilando poi i pollici nella cintura che aveva in vita.
Io annuii, scoppiando poi a ridere delle sue parole. Chiaramente, quella donna non aveva idea di cosa stava parlando.
Alzai di nuovo la pistola, minacciandola.
“Vuoi farmi qualche nome?”
Lei mi guardò come se fosse ovvio.
Fece un passo verso di me, incurante della pistola, ed afferrò il mio impermeabile, tirandomi verso di lei e dandomi un bacio carico di passione.
“Penso che lo saprai.”
E, proprio come era entrata, se ne andò di nuovo. Tranne per la parte in cui sfondava la porta con un calcio. Per uscire, non ne ebbe bisogno.


“Fico. Quindi tu hai minacciato mamma con una pistola e lei ti ha comunque baciato? Mamma, non pensavo che fossi così forte.”
“Neanche io. Anche se non ho capito alcuni dei dialoghi.”
“Non c'è niente da capire, piccolo. È esattamente così che è andata” risposi, appoggiando la schiena alla spalliera del divano.
“Non è vero. Non è affatto così che è andata” mi contraddisse Arizona. “Julia e Jamie sanno benissimo la storia, l'hanno sentita da me un milione di volte. La versione vera.”
“La mia versione è più interessante, sebbene mi sia presa qualche licenza poetica su alcuni dei dettagli.”
“Mamma, adesso possiamo sentire la storia di come vi siete sposate?”
“L'avete sentita un milione di volte, Julia.”
“Non quella con le licenze poetiche” mi corresse.
Sospirai, rivolgendo però un sorrisetto vittorioso alla mia dolce metà. “D'accordo. Vediamo se riesco ancora a ricordare come andarono esattamente le cose. È stato molto tempo fa, quindi potrei sbagliare su alcuni dettagli, ma andò più o meno così...”

C'era una volta, in un regno lontano, la principessa di un paese incantato. Aveva i capelli neri e gli occhi scuri, e forza nelle mani più di chiunque altro nel regno. Era così forte, pensate, da riuscire a rompere delle ossa. Si chiamava Callie. Il castello dove abitava la principessa era molto grande, c'erano molti piani, e c'erano anche tanti altri principi e principesse.

“Questa storia mi piace di più” sussurrò Arizona, sorridendo.
“E chi erano gli altri principi e principesse?” chiese Jamie, curioso come al solito.

Allora, sì, i principi e le principesse. C'era il principe Derek, un cavaliere coraggioso che combatteva contro i draghi aiutato dalla sua amata, Meredith. Poi c'era la principessa Teddy, che combatteva contro le streghe cattive al fianco della sua apprendista, Cristina. Il principe Owen, che era conosciuto per la sua velocità in duello, la principessa Bailey, famosissima per la sua precisione con l'arco. E un sacco di vassalli, tra cui April, Jackson, Alex, insomma, un po' di rammolliti che facevano i leccapiedi degli altri principi.
E poi, ovviamente, c'era il Re del castello, Re Richard. Come quello di Robin Hood, soltanto più...come dire...intimidatorio.
In questo castello tutti convivevano in armonia, finché un giorno arrivò una nuova principessa.
Quando Callie la vide per la prima volta, il suo cuore smise di battere per almeno un minuto, fu incantata dalla sua bellezza. Come se la principessa le avesse fatto un incantesimo d'amore. Il suo nome era Lady Arizona. Ed il suo dono era quello di poter guarire i bambini affetti da malattie, anche rarissime.
Le due principesse ben presto si innamorarono, e dopo innumerevoli ostacoli Lady Arizona decise finalmente di chiedere la sua mano in matrimonio.
Decise di farlo un giorno, in cui erano in viaggio su una carrozza, per due giorni lontano dal castello.
Mentre la carrozza percorreva la strada, sdrucciolosa e instabile, un piccione si posò sul legno, porgendo una lettera alla principessa Callie dal giullare di corte. Mark. Lady Arizona, curiosa di sapere cosa dicesse la lettera, si distrasse dalla strada solo per un momento, e non riuscì a fermare la carrozza quando questa sbandò dal sentiero, colpendo un camion. Volevo dire...un albero.
Comunque, la principessa Callie fu riportata immediatamente al castello, dove tutti gli altri principi e principesse si adoperarono per aggiustare tutte le sue ferite.
Ma anche dopo che le sue condizioni si furono stabilizzate, la principessa Callie non si svegliò dal profondo sonno incantato di cui era caduta vittima.
Lady Arizona rimase al suo fianco giorno e notte, notte e giorno, parlandole e sperando che riuscisse a ritrovare la strada di casa dal buio in cui si trovava. Ma i giorni, i mesi, gli anni, passavano e la salute della principessa non dava segni di cambiamenti. Un giorno, quasi cento anni dopo, Arizona aveva perso ogni speranza. Ormai vecchia e allo stremo delle forze, entrò nella stanza per dire addio alla sua amata Calliope, baciandola per l'ultima volta sulle labbra. Quella fu la risposta. Lentamente, la principessa Callie riaprì gli occhi, mormorandole che, sì, l'avrebbe sposata.
E vissero per sempre felici e contente.


“Aspetta, quando le ha chiesto di sposarla?” chiese Jamie.
“Eeehm...prima dell'incidente in carrozza.”
“Ma adesso Lady Arizona è vecchia e il sonno incantato di Callie l'ha mantenuta giovane. Non può sposare una persona cento anni più vecchia, ew” commentò Julia.
“Aaah...il fatto è questo...il sonno di Callie era in realtà il frutto di una maledizione. Una maledizione che le aveva fatto una strega” risposi.
“Come si chiamava?”
“Ecco...”
“Una strega oscura di nome Erica” rispose Arizona al posto mio, con un sorrisetto.
“Giusto. Era davvero malvagia, così aveva fatto un incantesimo a Callie che solo il bacio del vero amore poteva rompere. Quando Lady Arizona la baciò, tutti tornarono giovani e felici.”
“Aw. Quindi mamma è il tuo vero amore” sospirò Julia. “Questo è davvero romantico.”
Io guardai negli occhi Arizona. Erica aveva davvero fatto un numero su di me. Ma il bacio del vero amore mi aveva salvato, dopotutto. Come nelle favole.
Chi dice che il lieto fine non esiste? Io avevo avuto il mio.
“Ok, ora di andare a letto” concluse Arizona, alzandosi e prendendo uno dei gemelli in braccio.
“Ma è ancora presto” protestò Jamie. “Voglio sentire un'altra favola, per favore mamma” la pregò guardandola con i suoi enormi occhi uguali ai miei che non fallivano mai dal farla cedere.
“Va bene” si arrese. “Ma soltanto un'altra.”
“Che sia una bella, mamma” ordinò Julia.
“Vediamo che riesco a fare” sospirai.

Questa non è una di quelle storie che iniziano in un posto lontano, in un tempo lontano, questa è una storia che, a dire la verità, è avvenuta proprio qui, in questa città.
Ed è una storia accaduta a due persone come tutte le altre. I loro nomi erano...diciamo pure Jack e Sally.
Jack e Sally si volevano molto bene, così tanto da decidere di passare il resto delle loro vite insieme, anche se tutti dicevano loro che era sbagliato. Dovete sapere che Sally era una strega, proprio così, una potentissima strega, mentre Jack era un mortale. Le loro strade erano destinate a separarsi, prima o poi, ma nessuno dei due riusciva a smettere di amare l'altro.
Un giorno accadde che, per motivi a Jack sconosciuti, Sally decidesse di fare un viaggio. Jack decise di andare insieme lei, non l'avrebbe lasciata per niente al mondo, ma partire lo rese irritabile, perché avrebbe dovuto lasciare la sua famiglia ed i suoi amici molto a lungo. Questa comunque non è una scusa per come si comportò.
Jack non voleva davvero partire, ma Sally doveva andare, il suo viaggio era molto importante ed avrebbe salvato tante vite. Jack tuttavia era troppo testardo per riuscire a capirlo, e mandò tutto all'aria. Sally se ne andò, lasciandolo proprio prima di partire, in mezzo ad un aeroporto.


“Partivano con l'aereo? Credevo che lei fosse una strega potentissima.”
“Vero. Ma...ecco, avrebbe dovuto infrangere un sacco di leggi magiche per arrivare in Africa con la magia.”
“Stava andando in Africa?” chiese Jamie, incredulo. “Perché? Non era consapevole di tutte le malattie che si possono prendere in Africa? Come la malaria, o la malattia del sonno, la tubercolosi, perfino l'AIDS.”
“Jamie, tesoro, niente più medical drama per te” gli comunicò Arizona.
Lui mise su il broncio, ma non protestò.

Così, Sally partì e Jack rimase.
Ma la verità era che era infelice, più di quanto lo sarebbe stato se fosse andato con lei, lasciandosi tutto il resto alle spalle.
Successe, una sera, che Jack aveva bevuto più del necessario, e si trovava a casa di una sua amica, Mary. Lei cercò di consolarlo, di tirarlo su di morale, ma Jack continuava a dirle quanto le mancasse Sally.
Così Mary fece una cosa tremendamente azzardata. Prese carta e penna e propose a Jack di scrivere una lettera alla cicogna. Insieme.


Jamie trasalì.
“Che sfacciata” osservò Julia, portandosi teatralmente una mano alle labbra. “Fare una proposta del genere a qualcuno con cui non stava nemmeno insieme. Non voglio giudicare, ma si direbbe che questa Mary fosse una ragazza facile.”
“Mamma, ma può farlo davvero? Insomma, decidono di scrivere così, senza rifletterci...e nemmeno si amano! Non sembra...giusto.”
“Non lo era. Ma Jack aveva il cuore spezzato. Capita, a volte, che avere il cuore spezzato ti faccia confondere ciò che è facile con ciò che è giusto” cercai di spiegare loro.
“Cosa successe dopo?”

I giorni passarono, e Jack si sentì sempre più solo. La lettera non l'aveva fatto sentire meglio, anzi, l'aveva fatto sentire colpevole. Sapeva che Sally non sarebbe mai più potuta essere fiera di lui, e questo lo fece sentire ancora peggio.
Poi, un giorno, qualcuno bussò alla sua porta.
Sally era tornata per lui. Non riusciva a vivere senza di lui.
Ma Jack, proprio in quel momento, prese una decisione. Chiuse la porta, chiudendo fuori Sally dalla sua vita.
Però Sally non si arrese, e allora lui le disse di tornare in Africa, per stare con le altre streghe e maghi ed essere felice, perché questo era tutto ciò che lui voleva davvero.
Ma neanche allora Sally mollò, dicendogli che era tornata per rimanere.
Fu allora che Jack le disse quello che aveva fatto. Aveva scritto una lettera alla cicogna con un'altra donna, e proprio quel giorno aveva ricevuto la risposta. In nove mesi, avrebbero avuto un bambino.


“No! Non è giusto, lui è innamorato di un'altra donna! Possono imbrogliare così la cicogna che porta i bambini?” chiese inorridita Julia.
“Non c'è più giustizia al mondo” concluse Jamie.
Entrambi stavano col fiato sospeso.

La verità era che Jack voleva bene a Mary. L'amava, perfino. Ma non era innamorato di lei. Continuò a respingere Sally, mentre passava sempre più tempo con Mary, a preparare la camera per il bambino, a comprare un letto, una culla, tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno una volta arrivato.
Poi, un giorno, Sally decise che era il momento di provare il tutto per tutto.
Disse a Jack che era pronta per crescere quel bambino insieme a lui. Jack sapeva quanto doveva essere importante per Sally, perché lei non aveva mai voluto bambini. Ma era disposta a tutto, per stare con lui.
Jack rifletté a lungo, si tormentò per giorni e notti, ma alla fine capì quello che avrebbe dovuto fare.


“Torna con Sally, non è vero?” mi chiese Julia.
“Ma ha scritto la lettera con Mary. Quello è anche il suo bambino, no?” la contraddisse Jamie.
“Ma lui non è innamorato di lei, è innamorato di Sally, vero mamma?”
“Qui non c'entra di chi è innamorato. Farà ciò che è meglio per il bambino, non può portarlo via a Mary.”
“Allora lo cresceranno tutti e tre insieme.”
“Non possono farlo, Sally è una strega. Se Mary lo scoprisse scommetto che la caccerebbe via, e poi lei vivrebbe molti anni più a lungo di tutti loro, dovrebbe vederli morire tutti, anche il suo bambino, credi che Jack glielo permetterebbe?”
“Ma lui non può vivere senza Sally. Pochi giorni senza di lui gli hanno fatto fare una cosa stupida come questa, come potrebbe farcela un'intera vita?”
Io e Arizona ci scambiammo un'occhiata. Cavolo. I gemelli erano intelligenti.
“Dai mamma, dicci la fine.”
“Sì, mamma. Sceglie Sally, vero?”

Jack capì quello che avrebbe dovuto fare.
Non era difficile. Infondo al cuore, aveva sempre saputo cosa avrebbe dovuto fare. Ma faceva male, faceva male da morire, ogni secondo.
Lasciò andare Sally.
Voleva che fosse felice, e che vivesse per sempre senza doversi preoccupare di una famiglia mortale.
Capì che lui se la sarebbe cavata, quando vide gli occhi e il sorriso del piccolo miracolo che la cicogna aveva portato loro. Ma mai, neanche per un secondo, smise di amare Sally. Fu innamorato di lei per il resto della sua vita, proprio come le aveva promesso.


“Questo è così triste.”
“Ed anche ingiusto.”
“Sally non si arrenderà, non è vero? Deve continuare a combattere.”
“Non c'è rimasto molto per cui combattere.” Ecco a voi Jamie il pessimista. “E non è che non la ami, lui la amerà per sempre. Sally lo sa.”
“Come puoi esserne sicuro?” gli chiese sua sorella.
“Lei lo sa, in qualche modo. Lo sanno sempre.”
“Tuo fratello ha ragione. Sally lo sapeva” confermai.
Jamie mi rivolse un piccolo sorriso complice. Quella frase l'aveva imparata da me, infondo. Ed io ci credevo davvero. Ricambiai il sorriso.
“Fu per questo che non se ne andò” continuai. “Rimase, anche se Jack aveva scelto di non stare con lei. Rimase per dimostrargli che anche lei lo avrebbe amato per sempre, rinunciando ai suoi poteri magici e diventando una mortale. Quando la cicogna portò loro il bambino aveva intenzione di punirli per aver mentito, ma non lo fece perché erano davvero molto pentiti, poteva vederlo benissimo. Però gli fece stringere un patto. Avrebbero cresciuto tutti e tre quel bambino, insieme, e avrebbero dovuto convivere con le conseguenze delle loro scelte.”
“Quindi la morale è 'scegli saggiamente'?”
“No. La morale è, se scegli di scrivere una lettera alla cicogna assicurati che sia con la persona giusta. E per te, Julia, niente lettere fino ai trent'anni. Come minimo.”
Arizona rise mentre i gemelli si guardarono del tutto confusi. Era stata l'unica a capire cosa intendessi.
La porta si aprì in quel momento.
“Sono tornata” ci salutò Sofia, andando per prima cosa ad abbracciare Arizona.
Ci voleva bene, a tutti allo stesso modo. Ma, per le coccole? Arizona era la sua preferita. Ma era definitivamente qualcosa con cui potevo convivere.
Il solo vederle abbracciate mi strappò un sorriso.
“Oh, mi sono persa di nuovo le storie di mamma?” chiese, facendo una smorfia di dispiacere. “Non è giusto, ogni volta che io sono con papà voi raccontate sempre qualche favola.”
Arizona la baciò sulla tempia. “Non preoccuparti. Le racconteremo di nuovo anche a te. Ancora meglio, potranno raccontartele loro” disse, accennando ai gemelli.
Jamie si illuminò. “Sofia, sapevi che mamma ha sparato a mamma durante il loro primo incontro? E che lei ha evitato il proiettile per un pelo? È stato fantastico!”
“E una strega cattiva ha fatto un incantesimo a mamma prima che si sposassero” intervenne Julia, sorridendo a trentadue denti.
“E Jack e Sally alla fine sono tornati insieme.”
“Aspettate, chi sono Jack e Sally? No, aspettate, chi ha sparato a chi?”
“Ok, bambini” iniziò Arizona. “Facciamo un po' d'ordine. Nessuno aveva delle pistole il giorno che ci siamo incontrate, e non c'era nessuna strega cattiva che ha fatto un incantesimo a vostra madre” chiarì, preoccupata dell'influenza che quelle storie potevano avere sui nostri figli.
“Lo sappiamo mamma. Sono solo storie. Sono inventate” le disse Julia, sussurrando l'ultima parte come se fosse un segreto.
“Beh, la maggior parte lo è, in ogni caso” insinuai in loro il dubbio.
Si guardarono, come se avessero appena visto una montagna di gelato davanti ai loro occhi.
Adesso Arizona avrebbe dovuto passare almeno tre sere a raccontare loro come erano andate davvero le cose. Per la milionesima volta.
Il fatto era che adoravo ascoltarla mentre raccontava quelle storie. Ogni volta era come se fossi di nuovo lì con lei. Ed infondo sapevo che anche a lei piaceva raccontarle.
Mia moglie mi fulminò con lo sguardo, io le sorrisi. Mantenne lo sguardo qualche secondo, ma alla fine crollò, ricambiandolo e scuotendo la testa.
Si sporse verso di me, baciandomi velocemente sulle labbra.
Adoravo la mia famiglia.





Ok, ammetto che mi sono divertita come una pazza a scrivere questa roba...Spero che voi vi siate divertite a leggerla quanto io a scriverla...
So che non è impegnata come le altre, ma sul serio...abbiamo bisogno di risate in questo periodo!!

La prossima sarà più seria, però!

Mi piacerebbe se mi faceste sapere che ne pensate... :)




Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Il nostro primo caffè insieme ***


Ringrazio con il cuore tutti quelli che hanno letto, recensito o aggiunto la storia tra le seguite.

Avvertimenti: leggermente AU, OOC (Mark, mi dispiace, so che gli cambio sempre il carattere, ma è più forte di me!)


Buona lettura!

Per vedere gli altri banner (sono uno per ogni capitolo) naturalmente scorrete i capitoli precedenti o fatevi un giretto sull'apposito album che ho creato sul mio account di facebook, Herm Efp...spero che le meravigliose creazioni di Trixie vi piacciano, perché io le adoro! =)


Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo caffè insieme


Ci si aspettano sempre grandi cose dalla vita.
Credo che sia perché, quando si arriva alla fine, l'unica cosa che vorremmo essere in grado di dire è che ne è valsa la pena.
Tutto il dolore, la tristezza, le lacrime, le volte in cui abbiamo avuto il cuore spezzato, alla fine vogliamo che ne sia valsa la pena.
Ci sono cose che non vado fiera di aver fatto, situazioni in cui non vado fiera di aver vissuto. È stata una strada lunga, ma adesso sono qui. Sono ancora in piedi.
E, se mi guardo intorno adesso, posso dire che ne valeva la pena.

Lavoravo a Seattle solo da un paio di mesi, a quel tempo.
Ma non avevo potuto fare a meno di notarla. Non avevo potuto fare a meno di essere attratta da lei più di quanto fossi mai stata attratta da qualcuno in vita mia. La ammiravo da lontano, ogni giorno riuscivo a perdermi quando la guardavo negli occhi, finché, un giorno, capii che non era più solo una cotta come tante.
Tutto cambiò quel giorno in cui sentii di un paio di infermiere parlare di lei.
“Sono su un paziente della dottoressa Torres.”
“Oh, sei fortunata, a te è toccata la metà migliore, io ho un caso di Sloan.”
L'altra infermiera rise.
“A volte mi chiedo perché lo abbiano fatto.”
“Secondo me, tre cose, principalmente. Las Vegas, una cappella non consacrata e una ridicola quantità di alcol.”
“Lei era ancora al secondo anno di specializzazione, o sbaglio?”
“Alla fine del primo, in realtà. E ora guardali, sei anni dopo. Amici più di prima.”
“Ho sentito che Webber vuole offrirle il posto di Chang. Sembra che finalmente se ne andrà in pensione.”
“Era ora. Ormai non riesce neanche più a firmare rimanendo lungo la riga” risero entrambe.
“Olivia, ti spiace occuparti di questo paziente? Non riesco a trovare Darcy” le chiesi. Darcy era l'infermiera pediatrica che avevo su quel caso, e che era completamente sparita alla mia vista. “Ha bisogno solo di un cambio di flebo.”
“Subito, dottoressa Robbins” rispose prendendo la cartella che le stavo porgendo.
Io e la dottoressa Torres avevamo avuto qualche caso insieme, ma non eravamo mai arrivate al punto in cui decidevamo di chiamarci per nome.
Spesso la incontravo al chiosco davanti all'ospedale. Ordinavamo lo stesso tipo di caffè, entrambe un cappuccino all'italiana con cacao e schiuma. L'avevo trovato meraviglioso. Lei prendeva il mio stesso caffè. La salutavo, tutte le mattine.
“Dottoressa Torres.”
“Dottoressa Robbins. Giornata impegnativa?”
“Il solito. Lei?”
“Come sempre. Abbia una buona giornata.”
“Anche lei, dottoressa Torres.”

Tutte le mattine. Ma di lei, scoprii quel giorno, sapevo poco e niente.
Proprio mentre Olivia stava per andarsene arrivò un'altra infermiera, che si rivolse alle due colleghe con un'espressione deliziata.
“Non indovinerete mai che caso ho tra le mani. Chirurghi, specializzandi, anestesisti e infermieri si stanno letteralmente mangiando vivi per partecipare.”
“Cos'è?”
“Hanno trovato finalmente un cuore.”
“Intendi...Aspetta, quindi lei è qui?”
“La stanno portando su ora. Dovrebbe essere un caso della dottoressa Altman, ma la dottoressa Bailey ucciderà chiunque oserà mettersi tra lei e quella sala operatoria. E credo che chiederanno alla dottoressa Robbins di assistere, solo in caso ce ne fosse bisogno.”
“Assistere cosa?” chiesi, confusa dal fatto che loro sapessero di un mio presunto caso, ma rivolgendo comunque loro un sorriso.
“Dottoressa Robbins” mi sentii chiamare, voltandomi alla mia destra.
“Dottoressa Torres. Cosa posso fare per lei?”
Mi porse una cartella.
“Femmina. Cinque anni. Problema congenito al cuore, messa in lista per il trapianto dalla nascita, il problema consiste in una malformazione dell'arteria circonflessa che non funzionava correttamente. A tre anni le è stato installato un pacemaker per tenere il battito cardiaco nella norma. Oggi è arrivato un cuore per il trapianto.”
Lessi velocemente la cartella.
“E perché aveva lei questo caso? Non sembra una paziente da ortopedia.”
“Mamma, guarda cosa mi ha dato zia Teddy!”
Callie si voltò, prendendo al volo la bambina che le stava correndo incontro. La bambina le mostrò una penna rosa con una piccola luce in fondo.
“È molto carina, hai ringraziato Teddy?”
Lei annuì.
“E zia Miranda ha detto di dirti che sta salendo anche lei, per aiutare a prepararmi.”
“D'accordo” replicò, rimettendola a terra.
“Ciao” mi salutò accorgendosi di me solo in quel momento.
“Sofia, questa è la dottoressa Robbins. Dottoressa Robbins, lei è Sofia Torres, la bambina di cui le stavo parlando” me la presentò mentre con una mano le accarezzava distrattamente i capelli.
Guardai dentro i due grandi occhi identici a quelli di sua madre. Da quel momento in poi, fui completamente conquistata da quella piccola creatura.
“Ciao Sofia” risposi, abbassandomi per guardarla meglio. Le sorrisi, mettendo in mostra le mie fossette. “Da adesso in poi io sarò uno dei tuoi dottori, se per te va bene.”
Lei annuì, prendendo la mano della donna al suo fianco.
“Ehi, Sofia. La tua stanza è pronta, andiamo” le disse l'infermiera che era sul suo caso, conducendola verso la camera lì di fronte.
“Arrivo subito, tesoro” le disse la dottoressa Torres, baciandola sulla guancia.
“Va bene, mamma.”
“Non sapevo che avesse una figlia” le dissi, cercando di nascondere il vago senso di delusione che mi aveva inspiegabilmente assalito.
“Avrà sicuramente sentito la storia da una delle infermiere” sussurrò.
Ma io scossi la testa.
“Ha avvertito il padre?” le domandai, cercando di mettermi nei suoi panni.
“Nessun padre da avvertire, siamo solo io e lei. Vado ad aiutarla a prepararsi. Mi faccia sapere se è disposta a operarla dottoressa Robbins.”
“Certo che lo sono. Non si preoccupi, le tenga compagnia. Parlerò con Teddy per un aggiornamento e poi verremo a parlarle insieme.”
Annuì, andandosene.
“Davvero non sa la storia?” mi chiese Olivia, che, sorprendentemente era ancora lì.
“Quel cambio di flebo, Olivia?” domandai con un sorriso.
“Oh, ma certo. Mi scusi. Mi sono distratta per un momento” rispose, scomparendo subito dopo.
Parlai con Teddy, che era il chirurgo ad averla operata appena nata. Mi raccontò tutto quello che era successo, e poi mi ascoltò per dieci minuti mentre mi lamentavo del fatto che era l'unica amica che avevo in quel posto e aveva lasciato che mi prendessi una cotta per una donna che aveva una figlia, nonostante sapesse benissimo come mi sentivo a riguardo.
“Callie è mia amica” si giustificò. “E non pensavo che fosse così importante.”
“Scherzi vero? Non faccio che parlare di lei, non te ne sei accorta? Soprattutto nell'ultima settimana, non riesco a pensare ad altro. Fai qualcosa, ti prego.”
“Ok, ecco quello che farò. Sto per minacciarti Arizona, non prenderla sul personale, ma voglio bene a Callie, quindi...” mi prese le spalle con entrambe le mani. “Stai lontano da lei. La farai innamorare di te con quelle fossette e quel sorriso e quegli scintillanti occhi blu, e poi le spezzerai il cuore perché tu non vuoi figli. Quindi stai lontano da lei. Chiaro?”
Io annuii velocemente.
“Fai pena come amica, comunque” le dissi quando mi lasciò andare.
“No. L'ho fatto perché sono un'ottima amica per entrambe voi due” rispose con un sorriso, sparendo dentro la camera di Sofia. La seguii senza obbiettare.
Quando entrai nella sala per lavarmi, un paio d'ore più tardi, mi sentivo un fascio di nervi. Non tutti i giorni dovevo operare la figlia di una mia collega, in fondo. Teddy era lì dentro, gli occhi chiusi, prendeva respiri profondi.
“Stai bene?”
“No. Non sto bene. Sto per aprire il torace di una bambina, che non è solo una bambina qualsiasi, ma è la figlia di Callie. Quella bimba, proprio quella stesa su quel tavolo, mi chiama zia. È mia nipote. La figlia di una delle mie più care amiche. Ed io devo aprirle il petto e tirare fuori il suo cuore. Non sto bene.”

“Siete pronti?” chiese Teddy in generale. Non ricevette proteste. “Ok, lama dieci.”
Prese il bisturi, preparandosi ad incidere, ma non decidendosi a farlo, la mano sospesa in aria, la lama a pochi millimetri dalla carne.
“Dottoressa Altman” iniziai.
Lei non sembrò avermi sentito.
“Teddy, posa il bisturi e fai un passo indietro. Ti trema la mano. Non ti lascerò aprire la figlia di Calliope mentre ti trema la mano” le dissi, avvicinandomi per essere pronta a prendere il suo posto.
Lei alzò le mani, chiudendo gli occhi. Fece un respiro profondo. Quando li riaprì era di nuovo calma. La mano aveva smesso di tremare. Si avvicinò di nuovo, facendo subito l'incisione e preparandosi ad asportare il cuore difettoso del piccolo angelo su quel tavolo operatorio.
Tutto andò abbastanza liscio, ci fu solo una volta in cui il suo ritmo cardiaco era accelerato improvvisamente, ma era bastato mettere un'altra sacca di sangue e aumentare l'anestesia.
“Ok, adesso tolgo tutto e vediamo se il cuore batte.”
Tolse le pinze e gli altri strumenti che aveva dentro il suo petto, preparandosi a vedere il cuore battere per la prima volta.
Aspettammo diversi secondi, ma non successe niente.
“Andiamo” sussurrò, sfiorandolo. “Andiamo, andiamo, andiamo” continuò a ripetere, mentre iniziava il massaggio cardiaco. Niente. “Passatemi le piastre.”
Le passai velocemente il carrello. Defibrillò una volta. Due. Tre. Niente.
Alzai lo sguardo. E capii all'istante che quella era l'unica cosa che non avrei dovuto fare. Perché fu allora che la vidi seduta lì, senza alcun potere su quello che stava succedendo proprio sotto i suoi occhi. Piangeva. Mi si spezzò il cuore.
Dopo non so più neanche quante volte che aveva provato a defibrillare, Teddy si bloccò. Tutti si bloccarono. La stanza era come congelata. Le parole che tutti lì dentro temevano, non osavano uscire dalla bocca di nessuno. Guardai Teddy. Aveva iniziato a piangere.
“Ora del decesso...”
“No, stronzate” le dissi, strappandole le piastre di mano. Non lei. Non lei. Non lei.
Sentii il bip regolare del monitor dopo degli attimi di silenzio lunghissimi. Lasciai il respiro che stavo trattenendo, prima di allontanarmi.
Dopo qualche istante di sconcerto, Teddy si avvicinò al tavolo, richiudendo in fretta cercando di lasciare una cicatrice il meno visibile possibile. Una volta finito, lei e la Bailey si guardarono e si sorrisero, guardando in alto verso Callie. Lei non era più lassù.
“Starà scendendo” disse la Bailey.
“Per un pelo. Dio, mi sento come se fossi appena invecchiata di dieci anni” rispose Teddy.
“Dobbiamo ringraziare Arizona se il suo piccolo cuore batte ancora.”
“Che dici, stasera festeggiamo?” mi chiese. Non risposi. “Arizona?” si voltò nella mia direzione con le sopracciglia corrugate.
Io ero lì, immobile, a occhi sgranati, cercando di respirare, le piastre ancora saldamente tra le mie mani che stavano tremando leggermente.
Avevamo appena quasi ucciso la figlia di Calliope Torres. Come avrei potuto guardarmi nello specchio, sapendo quello che provavo per lei? Sapendo che poche ore prima avevo rimproverato Teddy dicendo che se la bambina su quel tavolo operatorio non ci fosse stata io sarei voluta uscire con sua madre? L'avevamo quasi uccisa.
“Arizona. Ehi, guardami.”
Due enormi occhi marroni erano davanti ai miei. Erano caldi e pieni di riconoscenza.
“Puoi lasciare le piastre ora, ok?”
Pensavo che fosse scesa per Sofia. Era scesa perché io mi ero completamente paralizzata lì in mezzo e lei era l'unica ad essersene accorta. Mi prese delicatamente le piastre dalle mani, posandole sul carrello.
Mi guardai attorno, rendendomi conto che tutti gli altri se n'erano andati, portando via Sofia. La sentii appoggiarmi le mani sulle spalle.
“Ho detto loro che io avrei pensato a te, visto che non posso vedere mia figlia per due ore, secondo il protocollo dell'ospedale. Deve andare in terapia intensiva e l'ambiente deve essere sterile al massimo i primi giorni dopo il trapianto.”
“Lo so. Sono un chirurgo pediatrico” risposi stupidamente.
“Beh, lo spero. Hai appena operato mia figlia” replicò con una risatina.
Io sorrisi debolmente. Poi tornai seria.
“Io non ho mai voluto figli” iniziai, senza nesso logico. “E ho avuto questa cosa per te dal primo momento in cui ti ho vista. E qualche ora prima di entrare in sala operatoria avevo detto a Teddy che ti avrei chiesto di uscire, se non avessi avuto una figlia. Ma non dicevo sul serio, giuro che non intendevo questo, io non...Mi dispiace.”
“Le hai appena salvato la vita. In questo momento sei come un supereroe, per me. E sappi che sarei stata onorata di uscire con te.”
“Tu sei...”
“Interessata alle donne? Sì. Interessata ad uscire con qualcuno che non vuole figli? Nah.”
“Mh. Mi sembra giusto.”
“Vieni. Ti offro un caffè.”
Valutai la sua offerta.
“Mi sentirei più tranquilla se potessimo andare nella camera di Sofia e aspettare che si svegli e sentire se sta bene” le parole uscirono più appiccicate di quanto avrebbero dovuto essere.
“Va bene anche questo.”

Eravamo sedute in una delle sale conferenza per non disturbare il sonno di Sofia. Si era svegliata e stava bene. Le faceva male il petto. Probabilmente per il milione di shock che le avevamo dato con le piastre. Adesso stava riposando.
Stavo raccogliendo il coraggio per chiederle come era nata Sofia.
“Allora...come...”
“Callie, ti ho trovato. Come sta Sofia?” Mark Sloan aveva il vizio di entrare senza bussare.
“Bene. Si è svegliata, adesso sta riposando.”
Rimase in silenzio per qualche momento.
“Senti, Callie, ci ho pensato molto ultimamente, e...”
“No.”
“Non sai nemmeno che sto per chiederti. Riguarda quel foglio che ho firmato...”
“No, Mark. Scordatelo. Vai via da qui entro tre secondi e potremo ancora essere amici, altrimenti giuro che la porterò in capo al mondo fintanto che riuscirò a tenerla lontano da te. Avevamo un accordo. Non intendo ritrattare.”
Lui mi lanciò un'occhiata. Credo che si accorse che non avevo idea di cosa stesse succedendo. Non disse altro, se ne andò e basta.
“Vuoi” mi schiarii la voce “vuoi parlarne?”
Sospirò. “È una storia lunga.”
“Mi piacciono le storie lunghe.”
“Solo altre tre persone al mondo oltre me sanno cosa è successo davvero. E se adesso te lo racconto, ti sarei grata se lo tenessi per te.”
“Hai la mia parola, croce sul cuore” giurai con un sorriso.
Lei rise. “Sei anni fa, una notte, partii e andai a Las Vegas insieme al mio migliore amico, Mark Sloan. Ci ubriacammo così tanto che la mattina dopo eravamo sposati e avevamo passato la notte insieme. Due giorni dopo, quando eravamo di nuovo a Seattle e sobri, abbiamo ottenuto l'annullamento. Nessuno capiva perché, visto che tutti pensavano che fossimo andati a Las Vegas per sposarci e non che eravamo inciampati per sbaglio su un tizio con due anelli. Comunque, tre mesi dopo hanno iniziato a spargersi strane voci. Io ero incinta e tutti erano convinti che il bambino non fosse di Mark e che era per questo che aveva chiesto l'annullamento, visto che l'avevo costretto a sposarmi e solo dopo gli avevo detto di essere già incinta. La verità è che sono stata io a volere l'annullamento, non che lui abbia protestato, intendiamoci, Mark Sloan non sa cosa sia una relazione monogama, figurarsi un matrimonio. Comunque, Sofia Torres è stata concepita in quella notte a Las Vegas.”
“Sofia è figlia di Mark?” chiesi, sbalordita. “Non è possibile. È troppo carina.”
Lei rise, scuotendo appena la testa.
“Comunque, quando è nata siamo stati d'accordo che lui firmasse un foglio in cui rinunciava ai diritti e ai doveri genitoriali. Io ho avuto ciò che ho sempre voluto, una bambina, e anche lui, essere libero. Il patto era che lui sarebbe stato il più lontano possibile da Sofia, siamo rimasti amici, ma lui deve tenersi a distanza. Sofia non è sua figlia, ho un foglio dove lo dichiara davanti alla legge e poco ma sicuro non si è mai sentito come un padre. Adesso si preoccupa perché è malata. Ma tra due giorni gli passerà e tornerà a non importargliene.”
“Secondo me fai bene a tenerlo lontano. Non avrebbe un'influenza positiva. Ma hai mai pensato a cosa potrebbe succedere se un giorno lei lo scoprisse?”
“Le dirò la verità. Che lui non voleva una figlia, che è arrivato con sei anni di ritardo.”
“Lei probabilmente vorrebbe sapere comunque chi è suo padre.”
“Non lo chiede mai in realtà. Una volta gliel'ho domandato, e mi ha detto che non le importava, che lei aveva me. Se un giorno cambierà idea, dicendomi che vorrebbe conoscerlo, allora parlerò con Mark.”
“Ottima scelta.”
Mi sorrise. “Vado a controllarla. Vorrei essere lì quando si sveglia.”
“Ti spiace se vengo con te?”
Mi guardò, credo incuriosita dal mio comportamento.
“Affatto.”

“Dottoressa Robbins!” mi salutò allegramente Sofia.
“Buongiorno Sofia, come ti senti oggi? E ti ho detto un miliardo di volte di chiamarmi Arizona.”
“Sto meglio, dottoressa Arizona.”
Io le sorrisi, sedendomi sul suo letto.
“Dov'è la mamma?”
“Non è ancora arrivata. Mi sono svegliata prima.”
“Hai ragione, è prima del solito. Che ne dici, vuoi fare colazione insieme a me?”
Lei fece una faccia disgustata.
“L'ospedale fa da mangiare male. Mamma invece è bravissima a cucinare. Qualche volta dovresti venire a mangiare da noi, dottoressa Arizona.”
“Sofia, vedi, non ho un camice addosso, quindi puoi anche non chiamarmi dottoressa, in fondo io e te siamo diventate amiche, ormai, no?”
Tutti i giorni prima delle visite, da circa un mese, andavo almeno una decina di minuti a trovare Sofia. Ero sicura che Calliope lo sapesse, visto che lei le raccontava tutto, ma non riuscivo a farne a meno.
“Allora vieni a mangiare da noi, quando posso tornare a casa” ripeté.
“Perché vuoi che venga a cena da voi, Sofia?” chiesi, sentendo che c'era qualcosa sotto.
“Ho chiesto a zia Teddy perché mamma non ha un fidanzato, perché le sento sempre parlare di questa persona che piace a mamma.”
“Vorresti che fosse fidanzata per avere un papà, Sofia?”
“No, io non ho bisogno di un papà. Ma so che tutti hanno bisogno di qualcuno, per quando sono soli. Io, per esempio, ho sempre con me Missy” mi mostrò la giraffa di pezza che si portava ovunque. “E zia Teddy mi ha detto che mamma preferisce la compagnia delle femmine a quella dei maschi. E allora ho ascoltato meglio quando parlavano e sono quasi sicura che mamma parlasse di una dottoressa. Potresti essere tu, no?”
“Tesoro, potrebbe essere chiunque, mamma lavora qui in ospedale. Anche zia Teddy è una dottoressa. E anche zia Miranda. Che ti fa pensare che mamma parlasse di me?”
“Parlavano di una dottoressa che cura i bambini ma che non vuole bambini. E zia Miranda ha già un figlio, e zia Teddy e zio Henry lo vogliono molto presto. E ho pensato che tu sei l'unica altra dottoressa che cura me, quindi...”
Ero scioccata.
“Sei davvero un piccolo genio.”
Lei mi sorrise.
“Dicono tutti che sono intelligente per la mia età” rispose, visibilmente fiera. “E se non vuoi venire a cena perché non ti piacciono i bambini, io posso stare in camera mia. Non faccio tanto rumore, e prometto che non ti darò mai fastidio. Voglio solo che mamma abbia qualcuno per quando fuori ci sono i tuoni e fa paura.”
“Sofia, tu non mi hai mai dato fastidio. Mai. E essere tua madre sarebbe un onore, per me. Ma a volte i grandi hanno modi più complessi di affrontare le cose. Vorrei davvero che fosse così semplice come un invito a cena.”
Lei mi guardò attentamente per qualche momento.
“Però a cena vieni, almeno per assaggiare le lasagne di mamma, non è vero?”
Io sorrisi appena.
“Credo che dovremmo chiedere a tua madre prima.”
“A me sta più che bene” sentendo la sua voce mi voltai verso la porta della stanza. Non sapevo quanto di quella conversazione aveva sentito, ma speravo davvero che fosse appena arrivata. Ovviamente, stando così tanto tempo con Sofia, stavo molto tempo anche con lei. Inoltre avevamo pranzato quasi sempre insieme, e adesso tutte le mattine si faceva trovare al chiosco davanti all'ospedale con un caffè anche per me. Ormai la conoscevo. E lei conosceva me.
Lasciammo la camera di Sofia dopo averle fatto fare colazione.
“È stato gentile da parte tua non ferire i suoi sentimenti. Ultimamente non la si sente parlare d'altro che di te. Se avessi tentato di spiegarle che alcune persone semplicemente non vogliono bambini, non credo si sarebbe mai ripresa” scherzò. “Quindi grazie per la piccola bugia bianca” mi ringraziò cordialmente, sparendo dietro l'ascensore subito dopo.
Sono in quel momento, me ne resi conto. Non era stata completamente una bugia.

Tre giorni dopo, quando Sofia fu dimessa, ricevetti un invito a cena da parte della famiglia Torres.
“Hai salvato la vita di mia figlia. È il minimo che possa fare. In più, Sofia non la smetterà mai più di avercela con me se non ti invito a cena.”
“Passerò del tempo insieme a voi molto volentieri.”
Mi presentai con in mano una bottiglia di vino e un giglio bianco. Aprì la porta quel piccolo uragano di gioia che rispondeva al nome di Sofia.
“Arizona!” mi abbracciò all'altezza delle gambe, dove riusciva ad arrivare.
“Ehi, non è giusto, io non riesco ad abbracciarti. Lasciami posare questa bottiglia e poi ti saluterò come si deve.”
Calliope mi si avvicinò, prendendo la bottiglia che le porsi.
“Grazie mille” mi ringraziò.
Io sollevai Sofia tra le mie braccia, porgendole il fiore che avevo in mano.
“Se non ricordo male erano i tuoi preferiti.”
Lei mi abbracciò, baciandomi sulla guancia. E bastò quel piccolo gesto a scaldarmi il cuore.
Sofia non aveva mentito sulla cucina di Calliope. Era divina. Non feci che complimentarmi con lei per il tempo che impiegai a divorare le squisite lasagne che aveva preparato.
Dopo cena proposi a Sofia di mostrarmi la sua camera, lei mi fece volentieri partecipe di tutti i suoi giocattoli preferiti, tra cui le costruzioni lego. Aveva pochissime bambole, notai. Giocai con lei a costruire una città e poi, quando si fu stancata di stare seduta, a nascondino. Alla fine, arrivò l'ora di metterla a dormire.
Calliope la cambiò, mettendole il pigiama e poi la fece entrare nel piccolo letto ricoperto da un piumone raffigurante il Re Leone. Adesso capivo il perché della giraffa.
Non avevo intenzione di origliare, o intromettermi, ma ero rimasta sulla porta mentre Calliope le cantava una delle ninna nanne più dolci che avessi mai sentito. La sua voce era sublime.
Sofia si addormentò in pochi minuti, ed io e Calliope ci spostammo nuovamente in cucina.
“Non avevo mai accettato un invito a cena a casa di uno dei miei pazienti” ammisi.
“Ringraziando Dio, visto che curi bambini” rispose con una piccola risata.
“Sai che intendo” le dissi, ridendo insieme a lei. “Mi è mancato vederla in questi giorni.”
Ci sedemmo sul divano, la tavola ormai sparecchiata e i piatti al loro posto, Calliope non era rimasta con le mani in mano mentre io giocavo con Sofia.
“E tu sei mancata a lei. Era emozionatissima all'idea di rivederti stasera. Anzi, mi scuso per l'aggressione alle tue ginocchia quando sei arrivata.”
“È stata davvero una cosa carina” sussurrai, sorridendo come un'idiota.
“Disse la donna che non vuole figli” sussurrò a sua volta, seguendo una linea di pensieri uguale e contraria a quella che stavo seguendo io.
“Se fossi sicura di avere una figlia come Sofia, avrei un bambino domani.”
“Come Sofia? Le hai trapianto un cuore nuovo un mese fa, Arizona. Te ne sei dimenticata?”
“No. Non potrei dimenticarlo neanche se lo volessi” ricordai la sensazione terribile che avevo provato quel giorno. “Ma lei adesso è forte, crescerà e sarà perfetta. È perfetta anche adesso.”
Ripensai a Sofia che dormiva. Lei mi guardò per diversi momenti senza riuscire a trovare le parole.
“Ti va del vino?” mi chiese, accennando alla bottiglia che avevo portato che che giaceva intoccata davanti a noi.
“Certo.”
Si alzò, prendendo due bicchieri, aprì la bottiglia e mi porse il mio già riempito.
“Posso farti una domanda? C'è un motivo particolare per cui Sofia ha così poche bambole?”
“Questo devi chiederlo a lei. Quasi tutti i giocattoli che ha se li è scelti. I regali di Teddy e Miranda sono le cose più rosa della stanza, in generale. La coperta del Re Leone? L'ha chiesta lo scorso Natale. I lego? Ogni tanto chiede una nuova confezione per nuovi edifici che vorrebbe costruire nella sua città” prese un sorso del suo vino. “Io ho fatto del mio meglio per non condizionare le sue scelte. Ho anche pensato che potesse avere a che fare con la mancanza di una figura paterna, ma la psicologa mi ha detto che avrebbe dovuto fare tutto il contrario. Quindi ho deciso di darmi pace e gioire del fatto che mia figlia non vuole che le insegni a truccarsi a cinque anni.”
Risposi con una risata.
“Deve essere difficile crescerla da sola.”
“La maggior parte delle volte non lo è. Ci troviamo bene, io e Sofia. A volte è più dura. Sai, ho ancora lo stipendio da specializzanda e tutto.”
“Giusto” ricordai improvvisamente. “Ho sentito dire che Webber ha intenzione di offrirti il posto da primario molto presto.”
“Webber ha intenzione di offrirmi il posto da primario molto presto da circa due anni.”
Sospirai. “Le cose andranno meglio” le presi la mano.
“Potrei anche crederti” sussurrò.
La guardai negli occhi. E per un secondo soltanto pensai che avrei anche potuto baciarla, proprio lì, in quel momento. Ma lei meritava qualcosa di meglio.
Avrei voluto dirle quanto volevo un'occasione con lei. Ma sapevo che le mie parole l'avrebbero ferita, in qualche modo. Così lasciai che tenermele dentro ferisse me.

La mattina successiva, al piccolo chiosco, trovai Callie ad aspettarmi con il mio caffè.
“Che meravigliosa giornata” la salutai.
“Perché così allegra?”
“Ho avuto una magnifica serata” risposi, fossette in piena vista.
“Mi fa piacere che una serata a casa Torres ti abbia messo così di buon umore.”
“Ho il giorno libero questo venerdì, e non ho potuto fare a meno di notare che anche tu hai il giorno libero. Mi stavo chiedendo se non avessi per caso voglia di andare a pranzo insieme da qualche parte.”
Lei mi guardò in silenzio, presa in contropiede. Alla fine annuì, sorridendomi.

“Non ero mai stata in questo posto” le feci sapere dopo essermi seduta.
“Non mi sorprende. Non lavori a Seattle da molto, giusto?”
“Giusto. Un po' più di quattro mesi, prima ero a New York.”
“Vieni da lì?”
“Non esattamente. Sono figlia di un militare, quindi ci trasferivamo molto spesso. Vengo un po' da tutti gli Stati Uniti e in realtà da nessuna parte. Ma sono felice di essere a Seattle.”
“Beh, Seattle è felice di avere te.”
Sorrisi come un'idiota. “Non posso che esserne lusingata.”
Ordinammo e poi continuammo a parlare del più e del meno. Famiglia. Amici. Passato.
“Poi Sofia è nata e io non ho più avuto tempo per niente che non fosse lei e il lavoro. Teddy e Miranda mi hanno aiutato molto a gestire tutto. Non so se ce l'avrei fatta, senza di loro.”
“Aspetta, quindi Mark è stata l'ultima volta che tu...”
“Già.”
“Cavolo. È un sacco di tempo. E che mi dici dell'ultima volta che sei stata con una donna?”
“Questo argomento non è uno dei miei preferiti” rispose, facendo una smorfia. La guardai confusa, dopo qualche attimo lei cedette. “Il suo nome era Erica. Ci siamo conosciute in ospedale. Siamo diventate amiche, poi ci siamo accorte di essere più che soltanto amiche. Le cose sembravano andare bene, abbiamo avuto perfino un appuntamento, poi lei se ne esce dal niente e mi dice che lei non vuole figli. Mai, mai voluti, mai ne vorrà, e se ne va senza dire altro. Non l'ho più rivista da allora. Per fortuna Sofia non l'ha mai incontrata, solo vista un paio di volte attraverso i corridoi, ma non sapeva neanche il suo nome.”
“Ferma. Erica era la tua prima?”
“Sì” rispose con diffidenza, non sapendo dove stavo per andare a parare.
“Quindi non sei mai stata con una donna?”
“Non tecnicamente.”
Sospirai. “Deve essere stata dura provare affetto verso qualcuno che non voleva figli.”
Lei rise amaramente.
“Eppure eccomi qui, pronta a farlo di nuovo.”
“Calliope, io di solito non esco con donne che hanno appena scoperto la loro sessualità. La fase dell'esplorazione, non fa proprio per me.”
Lei mi guardò per qualche momento, poi alzò gli occhi verso il soffitto.
“Poi dicono che giocare col fuoco è pericoloso. Io a quanto pare sono così stupida da aver deciso di farmi una passeggiata in mezzo a un incendio e pretendere di non bruciarmi.”
Rilasciai un respiro tremolante.
“Io mi sono già bruciata, temo.”

Prima che me ne accorgessi, era di nuovo lunedì mattina.
“Dottoressa Robbins” mi salutò quando arrivai al chiosco. Lei se ne stava andando.
Aveva sulle labbra un sorriso dolce di quelli che mi facevano venire voglia di mandare tutto il resto al diavolo.
“Dottoressa Torres” risposi, guardandola poi mentre varcava le porte dell'ospedale.
Presi il solito caffè, persa nei miei pensieri. Pensieri di lei. Tirai fuori il borsello.
“Ehm, in realtà, ha pagato la dottoressa Torres anche per lei” mi disse la ragazza del chiosco.
Io rimasi spiazzata per un paio di secondi. Poi le sorrisi, e me ne andai. Decisi di trovare Calliope e dirle che, nonostante quello che era venuto fuori dal nostro pranzo insieme di venerdì, volevo rimanere sua amica. Rispose che non poteva essere mia amica. Non poteva proprio.
Quella sera, staccando dal mio turno, incontrai l'oggetto dei miei pensieri proprio fuori dalle porte dell'ospedale che infilava il giacchetto a Sofia.
“Mamma, non riesco a respirare.”
“Esagerata.”
“Io, esagerata? Ho addosso i guanti, la sciarpa, il cappello e due giacchetti! Tu sei esagerata.”
“Non hai due giacchetti. Uno dei due è una felpa, quindi è ok” cercò di convincerla, sorridendole.
“Mamma, non ci vedo neanche. Il cappello è troppo grande.”
“Crescerai.”
La bambina sospirò esageratamente, fingendo esasperazione.
“Sei fortunata che ti voglio bene.”
Tu sei fortunata che io ti voglio bene.”
Mi avvicinai di qualche passo, finché Sofia si accorse di me.
“Arizona!” mi corse incontro, io la presi al volo.
“Mi sei mancata” le dissi. “Stavo giusto pensando a te prima, quando...aspetta” frugai nella borsa senza lasciarla scendere. “Ecco qui” le porsi una spilla che avevo comprato insieme alla mia a forma di orso.
C'era raffigurato un leone, avevo pensato di portargliela dalla sera in cui avevo visto la coperta del Re Leone sul suo letto, ma non l'avevo più rivista.
“Adesso anche tu puoi fare la dottoressa” le dissi, fissandola alla tasca del suo giacchetto.
“Davvero?” il suo viso si illuminò. “Proprio come mamma. Grazie mille” mi abbracciò.
Io le sorrisi.
“Non c'è di che.” La baciai sulla testa, lasciando che scendesse di nuovo a terra.
“Vieni a trovarmi presto?” mi chiese, piena di speranze.
“Promesso” risposi, salutandole mentre si incamminavano verso casa.
Avevo visto qualcosa, negli occhi di Calliope, che non avevo saputo leggere. Forse mi sbagliavo, ma per un momento avevo davvero pensato che fosse speranza.
Tornai a casa.
Ultimamente era più buia del solito. Forse perché era inverno.
Mi scaldai la cena preconfezionata nel forno a microonde. Mangiai guardando la televisione. E riuscii a mandarne giù ben tre bocconi, prima di arrendermi al fatto che, anche quella sera, non sarei riuscita a fare niente senza sentire la mancanza di Callie e Sofia. Così lasciai il nodo che avevo in gola prendere spazio finché mi impedì di buttar giù anche solo un altro boccone e gettai la cena quasi intatta nel cestino della spazzatura, prima di alzarmi e spegnere la televisione.
Andai a letto, ma non riuscii a dormire.
Mi mancava ciò che avrei potuto avere e non avrei mai avuto. Ma perché mi mancava, se non era ciò che volevo?

Il giorno dopo Calliope mi aspettò al chiosco, invitandomi a cena a casa sua per due sere più tardi, giovedì, visto che Sofia l'aveva assillata per tutta la sera, dopo avermi visto, perché andassi di nuovo a cena a casa loro.
Mi rassicurò che non sarebbe stato in alcun modo un appuntamento.
Rispettava la mia decisione.
“Farai di nuovo le lasagne? Perché erano sublimi, ma sembrava davvero un sacco di lavoro.”
“Non preoccuparti. Mi piace cucinare.”
Così, due sere più tardi, mi presentai per la seconda volta all'appartamento 502, vino rosso in una mano e un libro da colorare nell'altra.
Aprì Calliope quella volta, facendomi accomodare, posare il vino, togliere il giacchetto. La salutai con un abbraccio che diceva qualcosa più di semplici conoscenti. Poi chiamò Sofia, che arrivò correndo e fu felicissima di avere la mia attenzione incondizionata mentre Calliope finiva di preparare la cena.
“C'è qualcosa che posso fare per aiutarti?” le chiesi, mentre Sofia stava andando a prendere dei giochi in camera sua.
“Mi stai aiutando tenendo il piccolo uragano lontano dalla cucina. Ti ringrazio.”
Io le sorrisi, notando per la milionesima volta quanto fosse bella, e per almeno la dodicesima volta quando fosse bella quella sera.
Ci sedemmo a tavola, iniziando a mangiare il risotto preparato da Callie.
“Mamma, posso avere una spada quest'anno per Natale?”
“Vuoi una spada?”
“Come quella dei pirati” confermò. “Ci ho pensato molto, e voglio essere preparata se un mostro gigante dovesse darmi la caccia, un giorno.”
“Ok, niente più Pirati dei Caraibi per te.”
Io sorrisi a me stessa. Adoravo quella bambina. Dopo cena si mise a colorare il libro che le avevo portato, permettendomi di aiutare Calliope a sparecchiare la tavola. Iniziò a lavare i piatti, io mi offrii di asciugarli.
Osservai il suo profilo a lungo, prima di aver raccolto abbastanza coraggio da chiederglielo.
“Pensi di poter uscire insieme a me, domani sera?”
“Come?” si voltò verso di me, fermandosi a metà di un piatto.
“Teddy potrebbe guardare Sofia, sono sicura che non le dispiacerebbe. E io e te potremmo andare a cena fuori. Sai, un appuntamento.”
“Arizona...”
“Andiamo. Non sto chiedendo molto. Esci con me, una sola volta.”
“Io ho una figlia, Arizona. E niente esperienza in fatto di donne.”
“Calliope, ho sempre preso decisioni che mi avrebbero reso la vita più facile. Niente neonate, niente figli, cose del genere. Perché ho sempre pensato che niente sarebbe mai potuto importare abbastanza da valere tutte le preoccupazioni, le fatiche, le insicurezze. Ma ho capito che anche se la strada dovesse essere piena di difficoltà, nell'affrontarle potrei incontrare qualcosa che ne vale la pena. Anzi, credo di averlo già trovato” guardai a lungo nei suoi occhi, e poi al piccolo angelo che si era addormentato sul divano. “Voi due valete la pena di affrontare qualsiasi cosa, Calliope, qualsiasi. Tutto quello che ti sto chiedendo è un'occasione per provarti che anche io ne valgo la pena” conclusi con gli occhi ormai umidi di lacrime.
“Ok” rispose, ricominciando poi a lavare i piatti.

Andai a prenderla sotto casa e salii per salutare Sofia. Ogni volta che la vedevo, era più difficile, arrivati al punto in cui dovevo andarmene.
La portai in un ristorante intimo, ma non troppo costoso, in modo che sarei anche riuscita a trovare il modo di convincerla a farmi pagare il conto.
“Sei bellissima, Calliope.”
“Anche tu” rispose, arrossendo un po'.
Ordinammo e continuammo a parlare come se ci conoscessimo da una vita. Imparai molte cose di lei, ma per la maggior parte della serata fui io a parlare. Non mi era mai successo. Di solito preferivo di gran lunga ascoltare che aprirmi con gli altri.
Le raccontai perfino di Tim.
Lei mi raccontò di come la sua famiglia aveva scoperto di Erica per sbaglio qualche mese dopo che lei se n'era andata e di come l'avevano disconosciuta.
Sua sorella andava a trovarla ogni tanto, per passare del tempo con lei e Sofia, all'insaputa di suo padre.
“Mi dispiace molto” dissi, prendendole una mano.
“Mia cara Arizona, questa non è nel modo più assoluto colpa tua. Niente per cui dispiacersi” mi rassicurò con quel sorriso capace di sciogliermi il cuore e l'anima e fonderli insieme.
La riaccompagnai fino alla porta del suo appartamento, baciandola sulla guancia e dandole la buonanotte.
Mi guardò entrare nell'ascensore e, solo quando le porte si furono chiuse, rientrò.

“Stavo pensando, potrei cucinare di nuovo una di queste sere. Venerdì per esempio” mi propose con casualità. “Sofia ha convinto Teddy che sarebbe una buona idea farla cenare a casa loro, per rendersi conto di come sarebbe avere un bambino e per pareggiare i conti, visto che l'altro giorno lei e Teddy hanno cenato insieme a casa nostra. Che ne dici?”
“Ecco, in realtà, venerdì non è il massimo per me” risposi facendo attenzione alle parole.
Lei sembrò confusa dalla mia risposta. E ne aveva motivo. Insomma, il primo appuntamento era stato fantastico.
“Stasera, magari?” chiesi speranzosa. “Visto che c'è anche Sofia” aggiunsi in un sussurro.
Lei cercò di non sorridere in maniera troppo palese.
“Che c'è, ti manca?”
Io corrugai la fronte.
“Sarebbe brutto se rispondessi di sì?”
“Affatto. Stasera a casa mia. Vieni quando stacchi.”
“Dovrei passare da casa, almeno per cambiarmi.”
“Non mi dispiace aspettarti, ma sappi che sei perfetta anche con addosso il camice da sala operatoria per me” mi fece sapere, incamminandosi poi verso l'ascensore.
Sorrisi per tutto il giorno come una stupida.
Quella sera avrei rivisto le mie due ragazze preferite.

“Arizona!”
“Sofia” la presi in braccio, lasciando che mi abbracciasse per quanto voleva.
Stringere tra le mie braccia la sua figura così piccola e fragile era incredibile. Era come se fossi in grado di proteggerla da una tempesta solo con le mie braccia.
Non feci che giocare insieme a lei per tutta la sera, a qualsiasi cosa le venisse in mente.
Alla fine della serata crollò addormentata tra le mie braccia sul divano del salotto. La sollevai senza svegliarla, portandola in camera sua.
Calliope scansò le coperte di lato, permettendomi di metterla a letto. Era un piccolo angelo, dormiva così serenamente, era così perfetta che avrei voluto rimanere proprio dov'ero e guardarla dormire fino alle prime luci dell'alba.
Quella bambina era un miracolo.
“So che doveva essere un appuntamento, mi dispiace. Prometto che mi farò perdonare” dissi a Calliope quando ci sedemmo insieme sul divano.
Lei mi si avvicinò, appoggiandomi una mano sulla guancia, e mi baciò.
“Sei stata perfetta” mi fece sapere con decisione, mentre io dovevo ancora riprendermi dal milione di sensazioni che baciarla aveva evocato. “E se ci ripensi, venerdì puoi sempre venire a cena.”
“Ne sarei felicissima” risposi distrattamente.
Poi, incapace di aspettare anche solo un attimo in più, la baciai di nuovo.

Disse che non aveva avuto molto tempo per cucinare.
Io le risposi che era pazza, e che quella roba - qualunque cosa fosse - era fantastica. Scaloppine di pollo, scoprii.
“Come è stata la tua giornata a lavoro?”
“Oh, estenuante. C'erano i genitori di questo bambino che non la smettevano più di farmi cercare da un'infermiera ogni volta che il figlio faceva qualcosa come starnutire.”
Le raccontai la mia giornata e lei la sua.
Ci sedemmo sul divano con del vino, continuammo a parlare, ogni tanto ero riuscita a strapparle qualche bacio, ma alla fine lei mi disse che era ora che andasse a prendere Sofia.
Mi offrii di accompagnarla, ma disse che era già abbastanza tardi visto che sarei dovuta tornare al mio appartamento dall'altra parte di Seattle, e che non voleva farmi perdere altro tempo.
Così l'accompagnai fino alla macchina, che era comunque poco distante da dove avevo lasciato la mia.
“Mandami un sms quando arrivi a casa, così so che siete al sicuro” mi raccomandai, baciandola velocemente sulle labbra.
Mi assicurò che lo avrebbe fatto, entrando poi dentro l'auto.

Teddy si offrì di guardare di nuovo Sofia quel fine settimana, così io le proposi di uscire di nuovo, chiedendole in quale ristorante volesse andare.
“Qualsiasi cosa andrà bene, se sono insieme a te.”
Così andai a prenderla in macchina e la portai a casa mia. Mangiammo della pizza. A letto. Con molto poco addosso. Non mi ero mai sentita felice come quella sera. Mai.
La guardai mentre dormiva e ricordai quello che avevo provato con Sofia.
Era perfetta, avrei potuto guardarla per sempre e sapevo che non mi sarei stancata mai, e non avrei mai desiderato di fare altro. Avrei voluto proteggerla da tutto e avrei sempre voluto saperla al sicuro. Perché la donna stesa al mio fianco era un miracolo.
Il più grande miracolo mai avvenuto.
“Calliope, svegliati. Sono le dieci. Se non ci sbrighiamo non potrai dare la buonanotte a Sofia” sussurrai, baciandola sulla spalla.
Lei aprì gli occhi, avvicinandosi a me ancora di più. La guardai negli occhi e tutto ciò che riuscii a pensare fu che quello era il modo in cui avrei voluto svegliarmi ogni mattina per il resto della mia vita.
“Calliope, io ti amo” mi tremò appena la voce.
Era presto. Ma non era così a caso, né improvvisamente. Era successo gradualmente, e sono sicura che lei lo sospettasse già. Mi guardò negli occhi per accertarsi di aver capito bene, poi mi baciò.
“Ti amo anch'io, Arizona.”
La riaccompagnai fino a dentro casa, volevo anche io dare la buonanotte a Sofia. Teddy se ne andò ed io finii per leggerle una favola. Si addormentò dopo soltanto pochi minuti, ed io le rimboccai le coperte, baciandola sulla fronte.
“Hai davvero un debole per lei” sussurrò Calliope dalla porta della camera.
Io sorrisi a me stessa, senza distogliere gli occhi dal respiro regolare della bambina a cui stavo accarezzando i capelli.
“È il mio piccolo angelo, Calliope” sussurrai, consapevole di averle lasciato vedere una parte di me, quella sera, che non avrei mai più potuto ritrattare.
Ero completamente me stessa davanti a lei, sapeva quanto l'amavo e quanto amavo Sofia. Lei sapeva. E sarebbe stato stupido non essere stata spaventata quanto infatti ero.
Stavo per alzarmi, ma la stretta forte della sua piccola mano sulla mia maglietta me lo impedì.
“Posso rimanere ancora un po'?” chiesi, sicura che anche lei avesse notato perché.
“Non devi neanche chiedere, Arizona” mi rassicurò.
Qualche minuto dopo la presa della sua mano si allentò abbastanza da permettermi di farci scivolare Missy, la giraffa di pezza.
Uscimmo da camera sua e Calliope mi abbracciò a lungo, dicendomi quanto era felice di avermi trovato.
Io, per la prima volta, desiderai non dovermene tornare a casa. Quella sera, tutto ciò che volevo era rimanere lì, con loro due, ad essere felice.

“Quindi tu che hai fatto?”
“Niente, me ne sono andata. Che avrei dovuto fare? Vogliono che il dottor Chang faccia l'operazione, avranno il dottor Chang. E sei mesi in più di recupero dopo l'intervento, ma questo non sembrava importargli molto.”
Erano marito e moglie, lui aveva una frattura scomposta al femore. Stavamo facendo pranzo, in quel momento. Teddy e Miranda si unirono a noi.
“Miranda, sai che odio dovertelo chiedere, ma stasera Chang vuole che faccia il turno di notte e da quando l'ultima tata si è licenziata...”
“Non sarà un problema, lei e Tuck saranno felicissimi di passare un po' di tempo insieme.”
“La tua tata si è licenziata?” chiesi tra un morso e l'altro del mio panino.
“Sì. Diverso tempo fa, a dire il vero, ancora non stavamo insieme” questo spiegava perché non ne sapevo niente. “E non la biasimo. Orari massacranti e paga da miseria. Ne sto cercando una nuova, ma non è facile. Quasi nessuno è disposto a guardarla anche di notte, e i pochi che lo fanno costano delle cifre allucinanti.”
“Quindi per adesso Sofia dorme a casa mia, quando Callie è di notte” intervenne la Bailey. “Lei e Tucker vanno molto d'accordo e a me non dispiace neanche un po' avere il piccolo uragano tra i piedi.”
“Per la maggior parte, cerco solo di non avere turni di notte. Ma ultimamente Chang mi sta massacrando. Questo mi fa ricordare che devo scappare. Ci vediamo dopo” mi salutò velocemente con un bacio sulle labbra, sparendo dietro le porte della mensa subito dopo.
Qualche ora più tardi mi presi una pausa.
Non riuscivo a fare il mio lavoro con tutti i pensieri che avevo in testa. Così andai nel reparto di Ortopedia, trovandola alle prese con una marea di scartoffie alla stazione degli infermieri e trascinandola dentro una delle stanze per la notte.
“Ok, devo chiedertelo, perché non sapere mi sta uccidendo. Ma non sei obbligata a rispondere, o lo capirei se non ti fidassi abbastanza, insomma, in fondo non stiamo insieme da anni, solo da mesi, e avresti tutte le ragioni per dirmi di farmi gli affari miei, ma devo chiedertelo comunque” ripresi fiato dal discorso a vanvera che stavo facendo. “Perché non hai semplicemente chiesto a me?”
Lei mi guardò come se fossi impazzita per qualche secondo, con gli occhi leggermente strizzati, poi alzò le sopracciglia, facendomi intuire che non aveva capito un accidente di quello che avevo appena detto.
“Perché non hai semplicemente chiesto a me di stare insieme a lei stanotte? Insomma, vivi qui di fronte, potrei andarla a prendere a scuola, portarla a casa, farle la cena, metterla a letto e dormire sul divano e se succede qualcosa, come ho detto, non solo tu sei qui a due passi, ma c'è anche un ospedale proprio qui a due passi. Quindi perché non chiedere semplicemente a me di passare la serata con lei?”
“Perché non pensavo che volessi farlo” rispose, colta del tutto alla sprovvista da quello che stava succedendo.
“Voglio farlo” le assicurai.
“D'accordo. Dirò alla Bailey di lasciar stare, e Sofia sarà entusiasta di vedere te a prenderla all'uscita da scuola.”
“Davvero?”
“Certo. Mi fido di te.”
Così lo feci. Andai a prenderla a scuola.
Fu così felice di vedermi, che sarei andata a prenderla ogni giorno, se avessi potuto. La portai a casa, preparandole la cena mentre lei guardava i suoi cartoni animati preferiti alla televisione. Finita la mezz'ora che avevamo stabilito, andò in camera sua, prendendo il libro da colorare che le avevo regalato e mettendosi sul tavolino a guardarmi impazzire tra i fornelli mentre disegnava. Riuscii a cucinare dei maccheroni al formaggio al microonde e delle uova. Non avevo idea di come fare un pasto, in effetti.
“Non diremo mai a mamma cosa abbiamo mangiato per cena, d'accordo Sofia?”
“Affare fatto. Però possiamo guardare un film dopo cena” trattò.
“Affare fatto.”
Scelse il Re Leone. Non esattamente una sorpresa.
Poi mi costrinse a giocare ai pirati. Indossò il cappello e la spada da pirata che le avevo regalato per Natale.
Alle undici in punto la misi a letto, raccontandole una storia e aspettando che si addormentasse. So che non avrei dovuto, ma rimasi diversi minuti seduta vicino a lei, a guardarla dormire, mentre le accarezzavo i capelli. Era davvero il mio piccolo angelo.

Io e Calliope ci incontravamo nelle stanze del medico di guardia, quando potevamo, per una qualche sorta di intimità. Per il resto, ormai passavo quasi tutte le sere a cena a casa di Callie, rimanevo con Sofia quando lei aveva il turno di notte - cosa che ultimamente era successa più spesso di quanto avrebbe dovuto - e stavamo facendo sempre più passi avanti. Avevamo anche avuto la nostra prima lite, su una cosa davvero stupida. Calliope, tagliata fuori dalla sua famiglia e con uno stipendio quasi da specializzanda, non riusciva più a permettersi l'appartamento con due camere da letto in cui abitavano adesso. In più il fatto che Chang le stesse facendo fare tutti i turni di notte che poteva, le impediva di fare gli straordinari retribuiti che le avevano permesso di cavarsela più o meno bene fino a quel momento.
Mi ero semplicemente offerta di aiutarla con l'affitto, mi avrebbe ripagato una volta diventata primario, ma lei era troppo testarda per accettare, dicendo che avrebbe trovato un modo, come faceva sempre.
Poi, da brave persone mature quali eravamo, evitammo l'argomento per due giorni.
Quella sera, come al solito, eravamo a cena a casa sua. Asciugavo i piatti mentre lei li lavava, quando ero sicura che Sofia era in camera sua o che non stava guardando ne approfittavo per strapparle un bacio, o ne approfittava lei per strapparlo a me. Quando Callie ricevette una chiamata da sua sorella, io mi occupai di mettere il pigiama a Sofia e rimboccarle le coperte.
“Stasera rimani?” mi chiese.
“No, piccola.”
“Perché no? Domani è domenica. Non devi andare a lavoro.”
“Stasera c'è mamma, non hai bisogno di me” le ricordai.
Lei ci pensò un momento.
“Non potete rimanere tutte e due? Io ho bisogno anche di te. Voglio che ci sia anche tu domani mattina a colazione.”
Mi salì un nodo alla gola di quelli che senti che hanno voglia di mettere casa lì.
“Certo. Certo che possiamo rimanere entrambe. Io ci sarò sempre quando avrai bisogno di me, Sofia” sussurrai.
Lei mi sorrise. Poi chiuse gli occhi e in pochi minuti si addormentò. Quando mi voltai, Calliope era sulla porta, l'espressione seria mi fece intuire che aveva sentito.
Mi richiusi la porta della camera di Sofia alle spalle. Lei mi prese per mano, portandomi in camera sua. Mi misi seduta sul letto.
“Non voglio tornare al mio appartamento” ammisi per la prima volta ad alta voce.
“Non devi, infatti. Ti prendo un pigiama.”
“No, Calliope. Non voglio dover tornare lì. Non voglio fare cena qui tutte le sere e poi guidare fino all'altra parte della città, non voglio dover aspettare sveglia perché non so se sei arrivata a casa sana e salva, non voglio dover fare i salti mortali quando ho il turno di notte per vedere Sofia prima che vada a scuola di mattina. Non voglio vivere con te solo a metà. Voglio che i tuoi occhi siano la prima cosa che vedo quando mi sveglio e l'ultima che vedo prima di andare a dormire. Voglio te accanto ogni sera e fare colazione con te e Sofia ogni mattina. Voglio vivere del tutto, non solo a metà.”
Si sedette accanto a me.
“Dici davvero?” domandò in poco più che un sussurro.
Annuii, non fidandomi della mia voce.
“Ad una sola condizione.”
“Quale?” chiese subito.
“Mi permetterai di pagare metà dell'affitto.”
La mattina dopo mi svegliai sentendo un odore che non avevo sentito di prima mattina da anni. Pancakes.
Mi alzai in fretta, andando in cucina per trovare le due persone che preferivo nell'intero universo intente a cucinare. Beh, Calliope cucinava. Sofia era solo lì in piedi accanto a lei, ma era molto carina sporca di farina sui capelli e sul viso.
“Ti abbiamo fatto i pancakes. Spero che ti piacciano” mi dette il buongiorno Sofia.
“Li adoro. E non ne mangio da un sacco di tempo” confessai, mettendomi a sedere. “Mi offrirei di aiutare, ma finirei per rovinare tutto quanto.”
“Posso chiedervi una cosa senza essere messa in punizione?” chiese Sofia, mentre Calliope mi porgeva un piatto con sopra ben tre pancake.
“Certo” la incoraggiai, assaggiando un primo morso e poi iniziando a divorarli.
“Cucinare per te è un piacere, Arizona. Da una soddisfazione immensa, mangi tutto come se non toccassi cibo vero da anni.”
“È così, infatti. Anni di pranzi in ospedale e cene al microonde. E tu e la cucina siete praticamente una cosa sola, quindi finché cucinerai con piacere, io mangerò con estremo piacere.”
Sofia si schiarì la voce.
“Scusa tesoro” disse Calliope, voltandosi verso di lei. “Cosa stavi dicendo?”
“Mi chiedevo solo quando Arizona si trasferirà qui con noi” la forchetta mi cadde sul piatto. “In pratica cena qui tutte le sere, e a volte viene anche di mattina prima di scuola, e voi due state insieme, no?”
“Sofia” Callie la sollevò, facendola mettere a sedere sul bancone. “Non puoi chiedere cose del genere, d'accordo? Come fai a dire che stiamo insieme, comunque?”
“Mamma, credi davvero che sia così ingenua? Ho quasi sette anni. Posso capire che vi volete bene da come vi comportate quando siete insieme.”
Io feci il giro del bancone, sistemandomi vicino a Calliope, guardando Sofia negli occhi.
“Sofia, ti renderebbe triste se io e tua madre decidessimo davvero che è il momento che io mi trasferisca qui?”
“No, io sono felice se ti trasferisci qui” rispose subito. “Ho solo una domanda” noi pendevamo dalle sue labbra. “Quando fuori è buio e ci sono i tuoni e fa paura, se siete insieme avete ancora paura?”
Guardai Calliope negli occhi per un momento soltanto, poi sorrisi.
“No, tesoro. Se sono insieme a tua madre non ho paura di niente” risposi per entrambe.
“Ok. Allora voglio aiutarvi a impacchettare le cose di Arizona, così può venire qui da noi prima.”

Era una sera normale. Tornammo a casa insieme dall'ospedale, stanche morte. Era tardi e dopo aver salutato Sofia andammo a letto. Avevamo vissuto insieme per cinque mesi, e tutte le sere come minimo ci concedevamo una mezz'oretta di tempo solo per noi. Ma quella sera eravamo distrutte, non avevo neanche avuto la forza di mettermi il pigiama. Così mi aiutò lei ad indossarlo. Poi mi raggiunse a letto, ed io rimasi lì, a guardarla mentre tentava di prendere sonno. Era bellissima, da togliere il fiato, anche dopo un turno di quasi trenta ore.
Calliope Torres era l'amore della mia vita.
“Calliope, stai dormendo?” le chiesi. Lei emise un suono del tutto senza senso. “Se ti chiedo una cosa, prometti di ricordartene domani mattina?” Di nuovo quel suono neutro. “Calliope, vorresti sposarmi?” I suoi occhi si aprirono all'istante. “Ti amo. Ogni volta che ti guardo, ogni volta, mi togli il fiato. Non voglio mai smettere di sentirmi così. Voglio passare con te il resto della mia vita. E ti sarei grata se tu decidessi di passare il resto della tua con me. Mi dispiace se il discorso è così sdolcinato e un cliché, ma io davvero non posso vivere senza di te.”
“Ti amo, Arizona, con tutto il cuore” sussurrò, baciandomi. “Non so da dove viene tutta questa mia fortuna, ma è dannatamente sicuro che non me ne lamenterò” continuò allontanandosi appena e poi baciandomi di nuovo. “Sì. Un milione di volte sì.”

Iniziammo ad organizzare un matrimonio in piccolo. Pochi invitati, pranzo ristretto. Poi mia madre prese le redini della situazione e la cosa non fu più così tanto 'stretta'. All'improvviso dovevamo vestirci di bianco, tenere un ricevimento, prenotare la cappella più grande di Seattle. E tutto questo in tre giorni e senza neanche venire davvero in città.
Le cose precipitarono quando anche la madre di Callie venne a sapere delle nozze, e i suoi genitori si presentarono a casa nostra implorandola di non sposarmi. Fu una gioia per il cuore vederli essere cacciati fuori da casa nostra da Calliope.
La mattina successiva alla loro visita andammo in comune, solo noi due e Sofia, a firmare i fogli per un'unione civile. Non fu la cosa più romantica del mondo, ma era quello che volevamo. Solo la nostra famiglia, le cose fatte in modo semplice.
E, soprattutto, eravamo finalmente sposate.

Rientrai a casa, posando la borsa e il giacchetto all'ingresso.
“Finalmente vedo di nuovo le mie due ragazze preferite. Ho aspettato tutto il giorno per tornare a casa” le salutai. Erano sul divano, Callie le stava leggendo un libro. La baciai velocemente sulle labbra e poi baciai Sofia sulla testa. “Ciao, piccolo angelo” le dissi mentre lei mi baciava sonoramente sulla guancia.
Mi sedetti insieme a loro, sorprendendomi ancora una volta di quanto la mia famiglia riusciva a rendermi felice.
Erano passati già due mesi da quando io e Calliope ci eravamo sposate.
Continuammo a leggere insieme per un po', poi mi alzai, offrendomi volontaria per apparecchiare la tavola e accendere il forno per riscaldare le lasagne preparate da Callie il giorno prima.
“Mamma, hai visto che tutti i bambini hanno un papà?” chiese, guardando verso Calliope.
Io la sentii dalla cucina e fui paralizzata a metà di quello che stavo facendo.
Una papà voleva dire qualcuno che avrebbe preso il mio posto nella vita di Sofia. Un papà avrebbe voluto cacciarmi via dalla vita di sua figlia. Io non avevo diritti, non avevo niente. Legalmente, io non ero nessuno.
“Hai visto che ti ho sempre detto che non volevo un papà?” continuò.
Anche Calliope era sbalordita, potevo vederlo perfino dalla cucina.
“Pensavo, può essere Arizona il mio papà? Cioè...la mia mamma. Posso avere due mamme invece di un papà? Pensi che sia possibile? Perché io le voglio bene come se fosse mia mamma. E visto che voi due siete sposate, pensavo che...” non finì mai la frase.
L'avevo abbracciata troppo stretta perché riuscisse a continuare a parlare.
“Tesoro, non c'è niente che mi renderebbe più felice al mondo che essere tua madre.”
“Davvero? Perché se non vuoi farlo...”
“Sofia, io sono già tua madre. E prenderò a calci chiunque dica il contrario, hai capito?”
Vidi Calliope sorridere nella mia visuale periferica.
Lei annuì contro la mia spalla, mentre mi stringeva con tutte le sue forze.

Mi richiusi la porta di casa alle spalle, finalmente felice di essere di nuovo dalla mia famiglia.
“Dove sono le mie ragazze preferite?” chiesi a voce alta, togliendomi il giacchetto e posando la borsa.
“Arizona” sentii la voce seria di Calliope e mi voltai.
Il sorriso felice che avevo stampato sul viso si trasformò in un sorriso educato, mentre prendevo atto della persona seduta sul divano ad angolo, mentre nell'altro erano sedute Calliope e Sofia.
“Salve” salutai l'ospite, avvicinandomi a lei, che subito si alzò in piedi.
Sofia si alzò dal divano, io la presi in collo per un momento, baciandola sulla guancia. Quando fu di nuovo a terra, con una delle sue piccole braccia mi circondò una gamba, nascondendosi in parte dietro di me. Io appoggiai una mano sulla sua spalla, nel tentativo di rassicurarla.
“Arizona, lei è Janet. L'assistente sociale.”
Il mio sorriso svanì solo per un secondo, per poi tornare mentre le tendevo la mano, presentandomi alla donna che tornò a sedersi, facendomi cenno di fare lo stesso.
Avevamo chiesto che mi fosse permesso di adottare legalmente Sofia, visto che uno dei due genitori aveva rinunciato ai suoi diritti, e ci avevano detto che un assistente sociale sarebbe venuto a farci visita. E a quanto sembrava, senza alcun tipo di preavviso.
Sia io che Sofia tornammo a sederci sul divano.
“Allora, lei e Callie siete sposate?”
“Può darmi del tu. Abbiamo firmato i documenti per l'unione civile, sì.”
“Quanto tempo fa?”
“Circa cinque mesi e mezzo.”
“E da quanto state insieme?”
“Un anno e mezzo, più o meno. Prima di allora ci siamo conosciute per circa sei mesi.”
“Bene. Sofia, ti dispiace se ti faccio qualche domanda?”
Lei guardò verso di me, che le sorrisi, incoraggiandola, poi guardò verso Calliope che le prese una mano per rassicurarla. Io avevo ancora la mia sulla sua spalla, tenendola abbracciata a me.
Guardò di nuovo la donna davanti a noi e annuì.
“Da quanto tempo conosci Arizona?”
“Non lo so. Tantissimo tempo. Da quando mi ha aggiustato.”
“Aggiustato?”
“Ero uno dei suoi dottori. Sofia ha subito un trapianto di cuore quando aveva cinque anni” le spiegai. “Io e Calliope già ci conoscevamo. Mi hanno invitato a cena da loro per ringraziarmi ed io ho accettato. Non sono solita intrattenere rapporti con i miei pazienti dopo la loro dimissione, ma Calliope era anche una mia collega e amica.”
“Capisco. Quindi lei ha operato Sofia?”
“Le ha salvato la vita” intervenne Calliope. Guardò verso la bambina, indecisa se continuare e cercando di scegliere cosa dire. “Mi creda. È merito suo se Sofia è qui, oggi” le disse soltanto.
Ma lei sembrò capire, e annuì.
“Sofia, da quanto tempo Arizona è diventata parte della tua vita?”
Lei scrollò le spalle.
“Da molto prima che lei e mamma si sposassero. Io avevo già capito che si volevano molto bene da come si guardavano. Poi Arizona ha iniziato a venire a cena da noi sempre più spesso, passava tempo anche con me, non solo con mamma. Quando mamma aveva i turni di notte, Arizona rimaneva a dormire qui insieme a me, per assicurarsi che stessi bene. Poi, una sera, le ho chiesto di rimanere anche se anche mamma era qui. E lei è rimasta.”
La stretta di Sofia sulla mia maglietta di rafforzò.
“Le hai chiesto tu di rimanere qui la prima volta?”
Sofia annuì.
“Non volevamo affrettare le cose per lei, quindi non avevamo mai fatto pressioni” specificai. “Ma stavamo già pensando come parlare a Sofia della nostra relazione.”
“Ed era venuto fuori un paio di volte anche l'argomento della convivenza, in realtà” aggiunse Calliope.
“Sofia, perché sei stupita dal fatto che Arizona volesse passare del tempo anche con te?”
Lei ci pensò a lungo, prima di rispondere.
“Quando stavo per operarmi, avevo sentito mamma e zia Teddy parlare di uno dei miei dottori, che piaceva a mamma. Questo dottore però non voleva bambini. Mia zia mi aveva detto che mamma preferiva le ragazze ai ragazzi, così pensai che questa persona di cui parlavano doveva essere Arizona. Però con me non si è mai comportata come se non volesse figli” mi guardò, e fece un sorriso enorme, di quelli che faceva solo a me o a Calliope. “Dice che sono il suo piccolo angelo.”
Io rafforzai la mia stretta.
“Non volevi figli?” mi chiese l'assistente sociale.
“C'è stato un tempo in cui pensavo di non volerne” risposi sinceramente. “Ma Sofia è la mia bambina. So che lei non lo capisce, in molti non hanno capito. Non è facile volere figli con il lavoro che faccio. E mentirei se dicessi che questo è quello che mi aspettavo dalla mia vita. Sono una persona diversa, mi preoccupo di più, ho meno certezze. Ma se mi guardo indietro adesso posso dire che ne valeva totalmente la pena. Anche il giorno in cui Sofia...in cui si è operata” conclusi sentendo il familiare nodo in gola che preannunciava le lacrime. “Ne valeva la pena, se è servito perché arrivassimo dove siamo adesso.”
Lei mi guardò, annuendo. Scrisse velocemente qualcosa sui fogli che aveva in mano, ogni tanto lo aveva fatto.
“Lei è la donna che deciderà se Arizona può essere la mia mamma?” chiese all'improvviso Sofia, che si stava finalmente rendendo conto di cosa le strane parole 'assistente sociale' significassero.
“Sì, Sofia” rispose la donna con un sorriso.
“Vuole sapere quello che penso io?”
“Certo.”
“Tutti hanno bisogno di qualcuno che gli faccia avere meno paura. Sa, per quando fuori è buio. E cosa succede se lei manda via Arizona e fuori ci sono i tuoni? Io non ho paura se c'è lei, e lei non ha paura con me e mamma. Se lei la manda via, e io ho di nuovo paura? Come faccio se lei non è più qui?”
“Sofia, no, io non andrò da nessuna parte, te lo prometto” la baciai sulla testa. “Questa signora è qui solo per una faccenda da grandi, perché ci serve il suo permesso per avere un foglio che dice che anche io sono tua madre.”
“Tutto qui?” chiese.
Io annuii. Lei pensò a lungo alle mie parole, poi guardò di nuovo l'assistente sociale.
“Allora può andare. A noi non serve un foglio. Arizona è già la mia mamma.”
Vidi un piccolo sorriso farsi strada sul viso di Janet.
“Sei davvero intelligente per la tua età, Sofia.”

Fui svegliata dalla porta della nostra camera da letto che si apriva. Mi sollevai, per guardare la piccola intrusa sulla soglia della porta, che stringeva tra le braccia la piccola giraffa di pezza.
“Sofia” sussurrai nell'oscurità, dopo aver notato che Calliope dormiva ancora.
“Mamma, ho avuto un brutto sogno” sentii dalla sua voce che era sull'orlo delle lacrime.
“Vieni qui” sussurrai immediatamente, tirando di lato le coperte per permetterle di entrare nel lettone e scostandomi leggermente dal corpo ancora addormentato di mia moglie. “Che cosa hai sognato?” le chiesi, mentre lei si accomodava tra noi due.
“C'erano dei mostri che volevano mangiarsi tutte le cose belle del mondo, e avevano iniziato dalle ciambelle. È stato orribile.”
Io la abbracciai.
“Era solo un brutto sogno, tesoro. Sei al sicuro adesso.”
Lei si avvicinò il più possibile, cercando conforto nel mio abbraccio.
“Mamma?”
“Che c'è, piccolo angelo?”
“Pensi che tu e mamma avrete mai altri bambini?”
“Perché lo chiedi?”
“Perché, se succedesse, io voglio due sorelline e un fratellino. L'ordine non è importante.”
“Ho preso nota, tesoro. Prometto che ne terrò conto.”
“Quindi avrete altri bambini?”
“Non lo so, piccola. Prima credo che dovrei sentire l'opinione di tua madre.”
“Tua madre vorrebbe riuscire a dormire, senza dovervi sentire parlare di bambini alle” alzò la testa dal cuscino solo per un momento “tre e mezza di notte.”
“Ma li avrete, mamma? Altri bambini.”
“Non lo so tesoro. Torna a dormire” le rispose, voltandosi di fianco verso di noi e accarezzandole i capelli mentre io la abbracciavo.
Qualche minuto dopo, Sofia era di nuovo nel mondo dei sogni.
“Calliope?”
“Sì?” rispose, assonnata.
“Credi che potremo avere un altro bambino?”
Aprì gli occhi, guardandomi attentamente.
“È davvero quello che vuoi? Non la stai solo viziando come fai sempre, vero?”
Io sorrisi.
“No. Ma sarebbe fantastico se avessi due bambini da viziare.”
“D'accordo, Arizona. Però ne parliamo domani” rispose, richiudendo gli occhi.
“Calliope?”
“Sì?”
“Pensi che potrei lasciarla dormire con noi, per stanotte? Non voglio riportarla in camera sua e lasciare che si svegli da sola se ha un altro incubo.”
“Certo, amore.”
Chiusi di nuovo gli occhi, il sorriso sulle labbra, sapendo di avere tutto il mio mondo lì con me.




Grazie mille a tutte per aver letto la storia e mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate. Consigli e critiche sono accettati e generalmente incoraggiati! =)

A presto!




Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Il nostro primo cambio di marea ***


Ringrazio con tutto il cuore coloro che hanno recensito la storia.

Avvertimenti: AU, Cossover con Pirati dei Caraibi, OOC (per alcuni personaggi già menzionati)


Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo cambio di marea


“Ci siamo persi!” la sentii urlare sopra il frastuono causato dalla tempesta.
“Ma certo che ci siamo persi” risposi, come se fosse scontato. “Questo è l'unico modo per trovare qualcosa di introvabile. Altrimenti, tutti saprebbero dov'è” spiegai, virando tutta a tribordo.
“Siete del tutto impazzita, ecco cosa” protestò lei. “Il troppo freddo vi ha dato alla testa, non riuscite più a pensare. Avete solo ghiaccio dove prima vi era rimasto quel briciolo di cervello che vi salvava la pelle ogni volta.”
“Certo, mastro Bailey. Se non fossi del tutto impazzita, non farei quello che sto per fare. Vi consiglio di reggervi forte. Stiamo per buttarci da una cascata.”

Quella volta ci ero andata particolarmente vicina. A morire, intendo.
Ma ero riuscita a cavarmela, come mi succedeva ogni volta.
“Deve essere qui da qualche parte. Le carte che erano dentro il forziere, dicono che quel pugnale deve essere qui.”
“Sì, beh, qui non c'è.”
“Grazie, Addison” risposi ironicamente. “Senza di te non avrei nessuno che mi ricorda sempre cose ovvie.”
“Dico soltanto che qui non c'è. Qui non c'è altro che sabbia bianca” ne prese in mano una manciata, facendola poi ricadere. “E altra sabbia, a perdita d'occhio.”
“Le mappe dicono che è qui.”
“Callie, usa semplicemente la bussola” suggerì Derek.
Io mi detti dell'idiota, mentre sistemavo le carte che avevo in mano, piegandole e riponendole nella tasca interna della mia giacca.
“Ci avevo pensato” gli dissi. “Stavo giusto per farlo.”
Lui annuì, per niente convinto. Estrassi suddetta bussola, osservandola mentre si spostava da sinistra a destra e poi impazziva del tutto, iniziando a girare all'impazzata senza fermarsi.
“Grandioso. La bussola è impazzita” Addison alzò le mani, lasciandole poi ricadere lungo i propri fianchi in un gesto di esasperazione.
“No, indica la cosa che Callie vuole di più al mondo. Cioè Arizona. Siamo dentro il suo Scrigno, quindi indovina un po'? Arizona è ovunque. E la bussola continua a girare” la corresse Shepherd, con la sua aria un po' saccente.
“Siete due idioti” dissi loro, buttando a terra la sacca che avevo sulle spalle, aprendola ed estraendo due pale. “La bussola non si ferma perché ci sono sopra. Funziona perfettamente, ve lo dimostro subito” feci un passo verso sinistra e la bussola finalmente si fermò, indicando verso Est.
Sorrisi ai miei due compagni, tracciando una X con il piede sul punto in cui ero pochi secondi prima e consegnando loro una pala per uno.
“Divertitevi.”
“Tu non scavi?”
“Io ho trovato il punto e fatto il segno. Voi scavate.”
“Sapevo che sarebbe andata a finire così” sospirò Derek, affondando la pala dentro la sabbia. “Con te, va sempre a finire così.”
“Meno parlare, più scavare.”
Due ore dopo, avevano scavato almeno una decina di metri di buca, e ancora nessuna traccia di quello che stavamo cercando.
“Sei sicura che sia quaggiù?” urlò Addison.
“Sicurissima” detti l'ennesima sbirciatina alla bussola. “Ma...si è incantata?” sussurrai, picchiettando sul vetro. “Eppure quest'affare non sbaglia mai.”
“Callie Torres, dimmi che non hai sbagliato punto!” di nuovo le urla di Addison.
“No, no, Addison. Tu continua a scavare” la rassicurai a voce alta. “Io nel frattempo penso a come non farmi uccidere da Derek” bisbigliai a me stessa, ricontrollando la direzione.
Mi spostai dall'altro lato della buca, ma la bussola puntava a Ovest. Erano decisamente nel punto giusto.
“Ok, basta così. Facci uscire da qui, non troveremo niente” ordinò Derek.
“Ma il punto è quello giusto” protestai.
“Non mi interessa. Se ne sei così sicura, vieni tu quaggiù a scavare.”
Io mi presi un momento per schernire il suo tono di voce, facendo un'imitazione di lui mentre pronunciava quella frase. Poi afferrai una fune, la lanciai in fondo alla buca e li tirai fuori da lì.
“Ok, vedi?” chiesi, mettendomi a sinistra della buca. “Est. E ora guarda” feci il giro, posizionandomi dall'altra parte. “Ovest. È il punto giusto.”
“Abbiamo scavato per dieci metri. Non c'è un bel niente, lì.”
“Se hai un'idea migliore, Derek, dimmela pure. Perché di sicuro sospeso per aria non c'è niente, quindi se secondo te non è sottoterra...”
“Ehm, ragazzi?”
“Che cosa c'è, Addison?”
“Scappate.”
“Come?”
“Scappate!”
Due enormi tentacoli stavano uscendo in quel momento dalla fossa che avevano appena scavato. Indietreggiammo lentamente, finché i tentacoli non tagliarono l'aria con una sferzata. Iniziammo a correre.
“Che diavolo è quella cosa?”
“Non lo so, ma qualsiasi cosa sia, abbiamo liberato le sue braccia scavando.”
I tentacoli iniziarono a spostare sabbia finché anche il corpo della creatura fu libero dalla sabbia ed emerse, facendosi vedere nella sua totale enormità.
“Un momento” realizzai improvvisamente qualcosa, fermandomi e voltandomi verso la creatura.
“Che stai facendo? Continua a correre” urlò la rossa verso di me.
Estrassi la bussola, la aprii, osservai la lancetta. E la bastarda andò a posarsi dritta dritta sul mostro davanti a noi. Una specie di calamaro gigante dai mille tentacoli, solo molto più cattivo e con denti aguzzi come spade. Era il Kraken. E i suoi due milioni di denti.
“Oh, beh. Tecnicamente, siamo in un limbo, non possiamo mica morire, qui, dentro lo Scrigno” mi feci coraggio, sussurrando a me stessa cose di cui neanche io ero tanto sicura. “E poi sono già morta una volta. Vista una, viste tutte.”
Sguainai la spada e riposi la bussola.
“Vediamo che sai fare, piccolo mostro” urlai contro la belva che mi stava venendo incontro.
“Callie, sei impazzita? Che stai facendo?”
“Vado a prendermi quello per cui sono venuta fin qui. Voi continuate a correre” urlai nella loro direzione.
Quando il mostro spalancò le fauci mi gettai dentro la sua bocca, passando tra le due fila di denti e ferendolo giusto il necessario perché si fermasse per qualche momento, dando la possibilità ad Addison e Derek di tornare alla Perla Nera.
“Sono come quel fottutissimo Pinocchio” sussurrai, accendendo un fiammifero e guardandomi attorno. “Ok, facciamoci da una parte.”
Aprii una delle pareti che mi stava attorno, uscendo dall'esofago del mostro, prima che mi buttasse nello stomaco e digerisse. Un urlo venne sprigionato dalla bestia. Mi permise di riconoscerne i muscoli del diaframma.
“Vediamo, dove potrebbe stare?” domandai a me stessa. “Che è quell'organo laggiù? Pensa, Callie, dove avresti ficcato tu un coltello se avessi voluto nasconderlo all'interno di un mostro? Maledetto Davy Jones, questa scommetto che è stata una sua idea. Accidenti, avrei dovuto fare il medico, almeno adesso saprei su cosa cavolo sto appoggiando i piedi.”
Tagliai un paio degli organi a casaccio, vedendoli sanguinare e ringraziando per la luce che filtrava dalle branchie della bestia e mi permetteva di darmi un'occhiata in giro. Non ero ancora riuscita a capire in che organo mi trovavo in quel momento, ma all'improvviso realizzai dove dovevo andare.
“Lo stomaco. Era lì che sarei finita. Chiunque avesse quel coltello, Davy Jones ha mandato il suo cucciolo a mangiarselo, e il Kraken l'ha ingoiato e digerito. Non il pugnale, però. Quello sarà ancora lì. Un po' corroso, magari, ma se ho fortuna sarà ancora utilizzabile.”
Mi gettai in basso, cercando di riconoscere quali di quegli organi fosse uno stomaco.
“Forse quello. Un momento. Ma con chi diavolo sto parlando?”
Seguii il tubo da cui ero uscita fino ad un organo immenso, recidendolo di netto e facendomi strada all'interno. Mi aggrappai alla parete e guardai in basso.
La leggera luce alle mie spalle mi permetteva di vedere poco, così accesi un fiammifero e guardai una seconda volta. C'erano pochi resti, qualche ossa, alcune sembravano umane. Tra gli altri oggetti, lo riconobbi immediatamente. Era un pugnale.
“Ah, bene.”
Sorrisi, tenendo un piede incastrato nello spacco e afferrando uno dei lembi con una mano, mentre mi abbassavo e con l'altra mano cercavo di afferrarlo. Ero troppo distante.
Così presi una delle corde che mi ero portata e ne feci un cappio, lanciandolo e tentando di afferrare il pugnale. Quando tirai indietro la corda, non ne era rimasto molto. Gli acidi nello stomaco della creatura l'avevano disintegrata.
“Meglio non infilarci una mano” ricordai a me stessa, estraendo la spada. “Vediamo se digerisci anche il metallo, amico.”
Immersi la spada nei succhi gastrici, spingendo il pugnale nella mia direzione e incastrandolo poi tra la parete dello stomaco e la mia spada, mentre lo tiravo verso l'alto. Appena fuori dal liquido lo afferrai con un panno, asciugandolo. Il panno si corrose, ma la mia mano rimase intatta.
“Ok. Tempo di andare a dormire, amico. Grazie dei bei momenti” mi avvicinai ad una delle pareti più esterne, immaginando che fosse la pelle. “Ancora una volta, con chi diavolo sto parlando?” mi domandai.
Scrollai le spalle, piantando la spada dentro la carne e recidendone una parte, riuscendo così ad uscire da lì dentro.
Feci i primi metri correndo a perdifiato, ma poi, quando non sentii urla né movimenti, rallentai e mi voltai per guardarmi indietro.
Sulla sabbia giaceva il Kraken. La bocca aperta in cerca del suo ultimo respiro, i denti in mostra verso il mondo, la posizione dei tentacoli innaturale, come se avesse cercato di colpire se stesso prima della sua morte. Un po' della sabbia che lo circondava, quella davanti alla bocca e intorno alla ferita da cui ero uscita, aveva preso il colore rosso. Della spaventosa belva che avevo affrontato non rimaneva che il cadavere.
“Ah, già. Ho tagliuzzato organi a caso. Quello non può avergli fatto bene.”
Ricominciai a correre in direzione della nave, il coltello in una mano e la spada insanguinata e leggermente corrosa nell'altra.
“Partite” iniziai ad urlare a diversi metri di distanza. “Partite subito. Quella cosa non rimarrà morta tanto a lungo.”
“Hai ucciso il Kraken?” mi domandò Derek mentre mi lanciava una corda e mi aiutava a risalire a bordo della Perla.
“Temporaneamente.”
“Come hai fatto?” chiese incredula Addison.
“Non è importante. Partite!” ripetei, facendo un gesto confuso con le mani che, chiaramente, significava che tutti dovevano darsi una mossa.

Stavamo tornando verso il porto da cui eravamo partiti. Ero rimasta per tutto il tragitto chiusa dentro la mia cabina ad osservare quel pugnale.
“Allora?”
Addison si era affacciata, una spalla appoggiata allo stipite della porta.
Sospirai, scrollando le spalle e scuotendo la testa.
“È solo un pugnale. Ben costruito, ma solo un pugnale. Non so se è quello giusto o no, l'ho confrontato con quello del disegno ancora e ancora, ma potrebbe essere questo come non esserlo, è troppo comune per giudicare. E, francamente, è un rischio troppo grande.”
“Lo è?”
Alzai lo sguardo nella sua direzione, gli occhi leggermente sgranati, le labbra strette in una linea sottile.
Sì. Sì, lo era.
“Voglio dire, lei non vuole quella vita. Tu non vuoi che lei abbia quella vita. Trova qualcuno che lo faccia e basta.”
Scossi la testa.
“Non è così semplice.”
“Perché no?”
“Perché se lo faccio fare alla persona sbagliata e ci troviamo con un altro Davy Jones? Avrei sulla coscienza la morte di tutte le persone innocenti che finirebbero per essere arruolate dalla sua nave o uccise dal suo equipaggio.”
“Fammi capire bene. Tu hai trovato le mappe, ti sei fatta uccidere, sei tornata in vita, mi hai aiutato a riportare in vita Barbanera perché ti portasse nello Scrigno, ti sei fatta mangiare da un mostro, hai ucciso il Kraken e sei tornata indietro dal fottuto Scrigno e ora stai avendo ripensamenti e vuoi mollare?”
“Non so, Addie” sospirai, rigirandomi l'oggetto che avevo osservato per giorni tra le mani. “La pirateria ha perso il suo gusto, sai? Ultimamente, con tutta questa tecnologia che c'è in giro...voglio dire, cinque anni fa non si sapeva nemmeno cosa diavolo fosse un doppio cannocchiale e ora tutti ne hanno uno.”
“Questo te lo sei appena inventato.”
La ignorai.
“Non c'è più il brivido di una volta. Capisci?” chiesi, scuotendo leggermente la testa. “Almeno, non per me.”
“Ti senti bene? Non si sentono fare discorsi del genere a Callie Torres tutti i giorni.”
“Forse potrei, non lo so...Ritirarmi su una piccola isola. Trovarmi un lavoro onesto. Come il presta denaro.”
“Vuoi dire lo strozzino? Non mi sembra molto onesto.”
“Magari sistemarmi. Avere una famiglia, dei figli.”
“Ok, ora parli solo a casaccio. Non metteresti mai su famiglia senza Arizona.”
“Chi dice che voglio farlo senza Arizona? Ci sono un sacco di bambini che vengono abbandonati ogni giorno. Potremmo rubarne uno.”
“Che stavi dicendo, giusto prima, sull'essere onesti?”
“Il punto è che questa vita ha perso il suo fascino per me. Andare per mare ti cambia, a lungo andare ti stanca. Ormai non sono più la persona che ero quando ho iniziato a fare il pirata, più di vent'anni fa.”
“Venti anni fa avevi nove anni.”
“Bei tempi, Addison. Bei tempi” mi alzai in piedi, affacciandomi alla finestra della mia cabina e voltandole le spalle. “Il mare era più pericoloso e le donne non venivano accolte volentieri sulle navi. Si pensava che avere una donna a bordo portasse sfortuna. Ti ho mai raccontato che per farmi imbarcare la prima volta su una nave mi sono dovuta travestire da uomo?”
“Un paio di volte.”
“Non ho mai visto mio padre così fiero di me come quel giorno, quando mi ha scoperto sulla sua nave dopo cinque giorni, quando ormai era in mare aperto. Le cose sono cambiate parecchio, da allora.”
“Soprattutto grazie a te. La tua leggenda ti segue ovunque. E le donne possono fare i pirati ed essere temute al pari degli uomini. Tua madre sarebbe molto fiera di te.”
“Mia madre avrebbe voluto un'altra vita per me. Non mi ha mai perdonato questa cosa della pirateria. Come se fosse stata una scelta” sussurrai. “Pirati si nasce” imitai una voce altisonante “è così che le ho detto. Non mi ha mai dato retta. Eppure ha fatto il pirata anche lei, sai? È da qualche parte, in Inghilterra, non sale più su una nave da anni. Qualche volta mi domando se senta ancora parlare di me, ovunque sia. Con chiunque sia.”
“Sono sicura che chiede sempre notizie di te. Che si vanta con i vecchi amici di tuo padre, che i loro figli al massimo riescono a rubacchiare qualche moneta d'oro e tu sei per mare alla ricerca del più grande tesoro.”
“Sono anni che non cerco più tesori, Addison” le feci notare, il tono di voce nostalgico. “Sono anni che non cerco più nient'altro che lei.”
“È quello che intendevo. Lei è il più grande tesoro, per te. Perché il più grande tesoro che chiunque potrebbe mai riuscire a trovare, è quello che tu hai trovato in lei.”
“Oh, l'amore. Quanto è sopravvalutato, Addison” risposi, sempre il tono nostalgico, continuando a guardare il mare muoversi dal vetro della mia finestra. “Che cosa è l'amore, senza tutto il resto attorno? Che cos'è l'amore senza un attimo di pace, un po' di respiro, un momento insieme. Cosa è se non posso avere una casa a cui tornare di sera, un letto in cui dormire la notte ed il suo viso davanti ogni giorno della mia vita? L'amore sarebbe la cosa più preziosa, è vero” conclusi con un sospiro “se potessi viverlo insieme a lei.”

Lexie Grey era a bordo della mia nave e stava fissando l'albero maestro da almeno una ventina di minuti.
“L'ho ereditata.”
“Prego?”
“La nave, dico. L'ho ereditata” le comunicai. “La Perla Nera è l'unica cosa che non ho rubato, ma che mi appartiene di diritto.”
“Un momento, quindi voi siete la figlia di Jack Sparrow?”
“In persona” risposi senza distogliere gli occhi dal mare e con le mani ben salde sul timone.
“Ma credevo che il tuo cognome fosse Torres.”
“Tesoro, Barbanera, laggiù, si chiamava Edward Teach. E ora tutti lo chiamano Derek. I pirati non hanno mai lo stesso nome due decadi di fila. Addison Montgomery fino a qualche tempo fa era anche conosciuta come Calypso. Ti dice niente? Dea del mare e tutto? Poi si è innamorata, ora loro sono entrambi immortali e vivono le loro vite felici. E poi, tu e uno dei miei marinai avete lo stesso cognome. Vorresti dirmi che pensi che per caso Meredith sia la tua sorellastra o qualcosa del genere? Non fidarti mai del cognome di un pirata, Grey” conclusi.
“Quindi tu sei la figlia di Jack Sparrow? E chi era tua madre?”
Continuai a guardare in avanti verso il mare, mentre inspiravo forte e non rispondevo.
“Angelica Teach” rispose Derek al posto mio.
“Teach? Non è anche il tuo cognome? Era, tipo, tua zia o qualcosa del genere?”
“Mia figlia, Angelica.”
“Impossibile. Questo vorrebbe dire che Callie è tua nipote.”
“Neanche dell'età, devi fidarti, quando si tratta di pirati” aggiunsi, senza distogliere lo sguardo dalle onde. “Soprattutto con quelli immortali.”
“Aspettate” rise brevemente, senza umorismo. “Tu sei sua nipote?”
“Non aspettarti di sentirmi chiamarlo nonno tanto presto, Grey. Ha pur sempre cercato di uccidere mia madre per vivere in eterno.”
“Che cosa?” domandò incredula.
“Fortunatamente, mio padre l'ha salvata.”
“Mi sono scusato per quello. Dopo essere tornato in vita la prima volta.”
“Comunque” mi intromisi “non mi è impossibile capire perché mia madre avrebbe preferito che intraprendessi una vita diversa da quella del pirata. Il mare ti cambia. E ha cambiato me più di quanto ci tenga ad ammettere.”
Ci furono diversi attimi di silenzio. Mark venne a chiamare Derek, dicendogli che Addison aveva bisogno del suo aiuto.
“Neanche Arizona usa il suo vero cognome, vero?” chiese Lexie a bassa voce quando non ci fu più nessuno attorno a noi.
“No.”
“E quale è?” chiese nuovamente, quando le rifilai una risposta secca che non aveva lasciato trapelare niente.
“Chiedilo a lei. Non è la mia storia da raccontare, quella, Grey.”

Quando ormai eravamo stati per tre giorni al porto, ancora non avevo capito quale sarebbe stata la mia prossima mossa.
“Ti stai ancora spremendo le meningi per trovare qualcuno?”
“Sì. Ma non c'è nessuno che farebbe mai una cosa del genere di sua spontanea volontà, Addison. È una causa persa.”
“Forse guardi questa cosa dalla prospettiva sbagliata.”
“E da che prospettiva dovrei guardare?”
“Ah, questo io non lo so.”
“Senti, sei tu che hai fatto questa specie di...patto. Non puoi semplicemente disfarlo?”
“Non funziona così, Callie.”
“E allora come funziona? Cosa devo fare? Da che prospettiva guardo le cose?” avevo un milione di domande e, fino a quel momento, neanche una risposta. “Forse il problema è che mi sto ponendo tutte domande sbagliate. In fondo deve pur essercene almeno una a cui sono in grado di rispondere, no?”
Lei mi guardò senza dire una parola, mi sorrise e poi si alzò dalla sedia davanti alla mia, lasciando il tavolo della taverna a cui eravamo sedute.
Si voltò indietro, lanciandomi un'ultima occhiata.
“Hai mai pensato che prima di fare qualsiasi cosa, forse dovresti considerare anche quello che desidera lei?”
La guardai andar via, immersa nei miei pensieri.
E fu allora che realizzai che quella era la domanda giusta.
“Cosa è che desidera, lei?”

Così la mattina dopo ero pronta a salpare da sola, per navigare acque molto, molto pericolose, in cerca di qualcuno che non avrei dovuto cercare.
Però metà della mia ciurma mi intercettò mentre stavo salendo sulla nave e salirono a bordo, ignorando il fatto che avevo ordinato loro di rimanere a terra.
Quindi partii, insieme a Derek, Addison, Bailey, Lexie e Mark.
“Meredith e Cristina si infurieranno quando sapranno che le hai lasciati a terra” mi informò Addison.
“Anche tutti gli altri” aggiunse la Bailey. “E anche noi lo siamo.”
“Quando due di voi moriranno, io non voglio saperne niente” le informai, mettendomi al timone ed estraendo la bussola.
“Oh-oh” Addison sgranò gli occhi.
“Accidenti” imprecò Miranda, avvicinandosi alle vele con aria scoraggiata.
“Quale è il problema?” domandò Lexie.
Addison sospirò, gli occhi su di me, mentre io davo indicazioni a Mark.
“Quando mia nipote si mette al timone della Perla, con quella bussola in mano, sta andando a cercare l'Olandese Volante.”

Quando una nave dall'aspetto minaccioso ci si avvicinò, io ero probabilmente l'unica del mio equipaggio che non sembrava preoccupata dal fatto che in venti secondi avevano espugnato la Perla.
Quando mi trovai una spada alla gola, tutto quello che feci fu sorridere.
“Dovremmo smetterla di incontrarci così.”
“Se la smettessi di apparire dal nulla sul ponte della mia nave, potremmo riuscirci” replicai.
“Se la smettessi di cercarmi usando la bussola, non apparirei dal nulla sul ponte della tua nave.”
Ripose la spada, facendo cenno alla sua ciurma di allontanarsi dalla mia e di tornare a bordo dell'Olandese.
“Stavo pensando” iniziai con casualità, passeggiando davanti a lei. “Che ne pensi del pensionamento?”
Corrugò la fronte, inclinando appena la testa di lato.
“Pensionamento?”
“Sì. Prendere una casa sulla terra ferma, smetterla con la pirateria, mettere la testa apposto. Perfino, trovare un lavoro. Rubare un bambino.”
“Rubare un b-” sussurrò, credendo di aver sentito male.
“Lunga storia. Comunque” continuai “che ne dici?”
Continuò a fissarmi con aria estremamente perplessa.
“Non posso lasciare il mare. Se c'è una battuta, lì da qualche parte, mi dispiace, ma non l'ho per niente capita.”
“Ma se potessi. Se potessi decidere di stare a terra, lasceresti il mare?”
“In un battito” rispose senza esitare. “Correrei il più lontano possibile e non mi guarderei indietro mai.”
“Il mare ti cambia” ci voltammo verso Derek. “E a lungo andare ti stanca. Parole di Callie, non mie.”
“Barbanera. Ancora sulla Perla, vedo. Sei stanca del mare?” chiese a me, ma senza staccare gli occhi da lui.
“Non lo so. Non proprio. Però mi piacerebbe. Comprare una casa, trovare un lavoro...”
“...rubare un bambino?” concluse per me con tono interrogativo ed un piccolo sorriso provocatorio sulle labbra.
“Possibile.”
Sospirò, appoggiando la sua mano contro la mia.
“Se è quello che vuoi, Calliope, non lasciare che il ricordo che hai di me ti trattenga. Quella che hai di me, è un'immagine falsata. Non è altro che un ricordo, che un'idea. Io non esisto più. Adesso non sono che una parte di questo mare in cui tutti navigano. Non sono che un'onda quando cambia la marea.”
“Io amo te. Non un ricordo, non un'idea. Io ti amo più di quanto abbia mai amato qualcosa in vita mia, e più di questa mia vita stessa. Non rinuncio a te, Arizona. Non posso farlo. Non potrei mai. E nella vita che voglio c'è un posto che nessuno al mondo potrebbe prendere. Conserverò in eterno quel posto per te.”
“In eterno” ripeté. “È la parola giusta, perché tu terrai il mio posto, ma io non arriverò mai a reclamarlo. Sono legata al mare” sussurrò, gli occhi sui miei e allo stesso tempo a interi secoli di distanza. “Non è un voto che posso sciogliere. Ma tu dovresti andare, Calliope, dovresti comprare una casa e trovare un lavoro.”
“Non ti lascio indietro” risposi con risolutezza.
“Dovrai farlo. Perché io sono bloccata e tu devi andare avanti in qualche modo. È così che stanno le cose. Non mi piace, ma devo accettarlo.”
Sparì sulla sua nave. La sua ciurma usava corde che a lei non servivano. Non era più umana, lo aveva reso molto chiaro. Ma per me lo era ancora. Per me, lei era la donna che avevo amato e che avrei amato per sempre.
“Continuerò a conservare il tuo posto, Arizona.”

Quando l'Olandese fu lontano, entrai dentro la mia cabina. C'era un forziere, sopra la scrivania, Addison era seduta sulla mia sedia, i piedi sopra il suddetto forziere e le braccia incrociate dietro la testa.
“L'hai distratta abbastanza a lungo. È stato facile.”
Le sorrisi, avvicinandomi e sfiorando il legno consumato e impregnato di acqua.
“Abbiamo questo e il pugnale. Ora tutto ciò che ci serve è quella chiave.”

Stare tanto a lungo sulla terra ferma mi faceva stare male. Non c'ero più abituata.
Quando giunsi a destinazione, mi fermai davanti all'enorme villa e guardai il cancello che mi separava dai venti metri di giardino che la precedevano.
“Allora, sei mai stata qui, prima?”
“Oh, sì” risposi alla domanda di Addison, un sorriso sulle labbra.
“Quindi sarà facile.”
“Non saprei. Mi hanno sparato addosso e urlato contro finché non ho lasciato la loro proprietà. Ma è comprensibile. Io ho corrotto la loro bambina.”
“Tu hai corrotto Arizona? In qualche modo questo mi è difficile da credere.”
“Eh. Se riesci a spiegarlo anche a loro, Addie, mi fai un favore enorme. E magari riesci pure a farti dare la chiave.”
“Intanto entriamo, che dici?” Derek si fece spazio, arrivando al lucchetto e forzandolo con due semplici spille.
“Aspetta. Forse potresti fare così anche al forziere.”
“No, per aprire quel forziere serve definitivamente una chiave” scostò il cancello, facendoci entrare e poi richiudendoselo alle spalle.
Arrivata alla porta suonai il campanello, come se avessi il diritto di trovarmi lì.
Un uomo aprì la porta. Lo riconobbi immediatamente.
“Signor Turner. È un piacere vederla di nuovo. Come sta la signora Turner?”
Quando Addison e Derek li ebbero costretti a sedersi sul divano, due pistole puntate contro le loro tempie, avevo capito che non avrei mai avuto possibilità di piacere ai miei suoceri. Nemmeno lontanamente.
“Will” iniziò Addison. “Posso chiamarti Will?”
“Preferirei di no. Signor Turner va più che bene.”
“Ok, io non voglio essere qui più di quanto voi non desideriate la mia presenza, quindi taglierò corto. Elizabeth, so che avete voi la chiave.”
“Non so di cosa stiate parlando.”
“La chiave che vi ha dato Arizona. Dove è?”
“Uccidetemi. Morirò piuttosto che rivelarvi dove si trova.”
“Mi sembra giusto” Derek caricò la sua pistola, ma io lo fermai appoggiando una mano sul suo braccio.
“Che fai, sei impazzito?”
“Lo ha chiesto lei. Possiamo uccidere entrambi e poi rovistare per la casa.”
“Derek, se ti lascio uccidere il padre e la madre di Arizona, quando io l'avrò liberata, pensi che lei vorrà ancora sistemarsi insieme a me?” gli chiesi come se fosse stupido.
“Ma se non riesci a liberarla in primo luogo...”
“Sai, per essere mio nonno, hai davvero poca fiducia in me” risposi solamente, indicando poi la donna con un cenno della testa. “La signora Turner, vedi, è una donna molto intelligente. Brillante, a dirla tutta. Mi ricorda molto sua figlia” gli spiegai. “Quindi ha messo la chiave in un posto facile da raggiungere, in modo che se fosse dovuta scappare non si sarebbe dovuta mettere a cercarla, ma allo stesso tempo nascosto alla vista.”
“Capito. Quindi mettiamo tutto all'aria finché non troviamo qualcosa.”
“Ma si può sapere perché vuoi mettere all'aria la casa? Non ce n'è affatto bisogno.”
Estrassi la spada, puntandola alla gola di Elizabeth. La feci scivolare di lato, fino ad afferrare la catenina che portava al collo. Tirai lentamente verso l'alto, facendo emergere una piccola chiave di ferro, perfetta per il lucchetto del piccolo forziere di cui ero recentemente entrata in possesso.
“Ecco fatto. Nessuno è morto e la casa è in ordine. Questo è il modo in cui fa le cose il Capitano Callie Torres” mi toccai il cappello in segno di saluto, svignandomela via verso l'ingresso della residenza.

“Non hai ancora trovato qualcuno a cui farlo fare, non è vero?”
“Non è semplice” sussurrai in risposta.
“Lo so. Non è mai semplice proteggere le persone che si amano.”
Risi amaramente, voltandomi verso di lui.
“E tu che vorresti saperne?” domandai con freddezza. “Tu hai quasi ucciso tua figlia, Barbanera. Hai quasi ucciso mia madre. Tu non sai cosa voglia dire amare. Né proteggere.”
“Lo so adesso” mi corresse. “Da dopo Addison, ho capito. L'amore non è una debolezza. È ciò che ci dà la forza.”
“Se solo fossi sicura che succederà quello che penso...”
“Succederà” mi rassicurò. “Il pugnale è quello giusto. Hai il forziere. Hai la chiave. È solo questione di tempo, ormai.”
Sospirai, affacciandomi per l'ennesima volta a quella finestra della mia cabina da cui si vedeva il mare.
“E allora è semplice. Hai visto quanto voleva allontanarsi dal mare, andare via. Io la amo. Farei qualsiasi cosa, qualsiasi, per lei. E so che le persone lo dicono tutto il tempo, ma è sempre difficile da credere. Io però dico sul serio. Farei qualsiasi cosa, quindi farò anche questo.”
“Tu? Vuoi farlo tu?”
“Lei avrà la sua libertà. Potrà tornare a terra. Andare avanti. Proprio come ha detto di fare a me, solo che io non ci riesco. Non senza lei. E spero che, invece, lei possa riuscirci senza me.”
“Ma è una follia.”
“Come dite voi” mi voltai, guardandolo attentamente negli occhi “non è mai semplice proteggere le persone che si amano. Non è semplice, ma io non ho paura.”
“Non puoi dire sul serio, hai tutta una vita davanti a te. Tutta una vita, Callie, un mondo intero da vedere.”
“Ma niente ha valore, per me. Niente ha valore se non posso viverlo insieme a lei.”
Uno scossone alla nave ci distrasse dalla nostra conversazione. Guardai fuori dalla finestra. Una nave ci aveva appena abbordato.
“Non c'era nessuno meno di un minuto fa” sussurrai. Poi, capii improvvisamente. “Prendi il forziere” ordinai a Derek. “Nascondilo dove lei non può trovarlo.”
Uscii dalla cabina, lasciandolo lì, con il forziere, la chiave ed il pugnale.
Quando uscii sopraccoperta la mia ciurma era tenuta in ostaggio dai suoi uomini.
“Cosa fai in acque così poco profonde?” domandai, fingendo un sorriso spavaldo, ostentando una sicurezza che in quel momento non avevo.
“Qualcuno ha rubato il mio forziere. Quello che avevamo scambiato, ricordi? Per l'anima di Lexie, mi avevi dato quel forziere” si voltò, guardando proprio nella sua direzione.
Era arrabbiata. Non ero abituata alla sua rabbia nei miei confronti.
“Perquisite la nave” ordinò. “Ogni angolo, ogni centimetro, ovunque! Rivoglio indietro quel forziere.”
“E perché mai?” domandai. “Quella è la tua condanna.”
“Lo è. Ma non so cosa hai in mente e prima di vederti morire di nuovo, voglio riprendermi quello che mi appartiene.”
“Ma il forziere da solo non ha comunque valore. Avrei bisogno della chiave.”
“Penso che tu sappia dove è la chiave. In realtà, penso che adesso abbia preso tu, quella chiave.”
“Ma perché io dovrei volerti uccidere?” domandai con semplicità. “Forse dovresti semplicemente fidarti di me, stavolta.”
“Calliope, rivoglio quel forziere” scandì con chiarezza ogni parola, avanzando di un passo nella mia direzione.
“State cercando sulla nave sbagliata, allora” un urlo proveniente dall'Olandese la distrasse.
Si voltò, seguii il suo sguardo. A terra, sul ponte della sua nave, c'era una chiave, vicino ad un lucchetto aperto. Proprio accanto c'era un forziere, aperto e svuotato del suo contenuto. Dietro a questo stava un uomo, con un sorriso sul viso, un pugnale in una mano ed un cuore che batteva nell'altra.
“Barbanera.”
“Non è mai semplice proteggere le persone che si amano.”
Con gli occhi fissi dentro i miei, l'ombra di un sorriso ancora sulle labbra, pugnalò quel cuore con la speranza di rimediare, almeno in parte, ad alcuni di quelli che lui stesso considerava i suoi più grandi errori.
”Ma io non ho paura” concluse.
Amava Addison. Ma non poteva lasciare che lo facessi io. Non io che avevo tutta la vita davanti, che ero alla mia unica occasione di avere una vita, che non ero e non volevo essere immortale. Non sua nipote. Non la figlia di Angelica, che avrebbe dato la vita per salvare lui. Come lui adesso dava la sua vita per salvare la mia.
La ciurma dell'Olandese fu immediatamente sulla nave, così come Derek e Arizona. La nave si staccò dalla nostra, le corde usate per l'abbordaggio si ruppero e caddero in mare. Mi sporsi, urlando, quando vidi la nave affondare davanti ai miei occhi.
Non era in quel modo che doveva finire.
Caddi in ginocchio, chiudendo gli occhi, la testa tra le mani.
Avevo perso tutto.
“Callie” la voce di Addison mi riscosse.
Aprii gli occhi e vidi la nave riemergere ancora una volta dalle profondità dell'oceano.
Derek, in piedi sul ponte, vestiva i panni del capitano dell'Olandese Volante. Lo vidi chinarsi, alzare una donna dalla figura esile dal ponte e prenderla tra le braccia. Un istante dopo era davanti a me, sulla mia nave, e mi consegnava quella donna.
La feci sdraiare a terra e le accarezzai il viso.
Non era mai stata bella come in quel momento.
“Calliope.”
“Arizona” risposi prontamente, le lacrime agli occhi.
“Mi hai salvato” terminò, gli occhi ancora chiusi.
Finalmente, anche per noi due, la marea stava cambiando.


THE END




Grazie mille per la pazienza che avete avuto, finalmente la storia dei Pirati è conclusa. Spero che vi sia piaciuta e che non fosse troppo scontata (sebbene ripresa da un film).

Fatemi sapere cosa ne pensate, e grazie ancora.

A presto!


Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** La nostra prima legge della fisica ***


Ringrazio con il cuore tutti quelli che hanno letto, recensito o aggiunto la storia tra le seguite.

Avvertimenti: leggermente AU, OOC (Mark, mi dispiace, so che gli cambio sempre il carattere, ma è più forte di me!)


Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



La nostra prima legge della fisica


La dinamica, come tutte le cose, ha delle regole. Delle leggi.
Una di queste leggi spiega cosa succede quando si appoggia un oggetto sferico su un piano inclinato, anche di pochissimo.
In breve, la cosa da sapere è che, presto o tardi, l'oggetto sferico inizierà a muoversi. E, una volta partito, continuerà a muoversi. E la sua velocità aumenterà fino al punto in cui l'attrito non riuscirà più a rallentarlo.
E questo va bene in un piano ideale, che è infinito. Ma, nella realtà, ad un certo punto, senza il minimo preavviso, il piano finisce.
E, proprio al massimo della sua velocità, l'oggetto cade.
Cade e inizia a precipitare verso il basso, e allora tutta quella velocità che aveva accumulato rende la caduta solo mille volte più tremenda. L'impatto è molto più forte, molto più traumatico.
Ma per quanto la collisione sia devastante, mai, mai, mai, l'oggetto atterrerà su un piano perfettamente bilanciato. E per quanto sembri impossibile, un giorno, dopo mesi o anni, lentamente, proprio come era accaduto la prima volta, inizierà a muoversi di nuovo.
Anche l'amore funziona così. E più ami, più ti muovi velocemente, e più devastante è l'impatto che devi affrontare.
Finché un giorno, prima o poi, inevitabilmente, l'oggetto verrà sottoposto a una caduta che lo distruggerà completamente. E allora non riuscirà a muoversi mai più.

Stava seduta lì, senza dire una parola. Era pressoché immobile. Fissava davanti a sé con lo stesso bicchiere in mano da parecchi minuti.
Era bella. L'avevo già vista prima, in ospedale. Lavorava nel reparto di Ortopedia.
Non le avevo mai parlato. Non credo sapesse chi ero, e neanche il mio nome.
Ero rimasta lì seduta, cercando di combattere l'urgenza di andarle a parlare. E alla fine, non c'ero riuscita.
Così mi alzai, andando a sedermi al suo fianco.
Lei non disse una parola, non prese nemmeno atto della mia presenza.
Continuò a stringere forte il bicchiere che aveva in mano e a guardare davanti a sé.
“Sembra che qualcosa ti turbi. Vuoi parlarne?”
Cose come questa non erano da me.
Era solo che sembrava così sola e triste e a me piaceva. Mi piaceva davvero.
Anche se in sei mesi non avevo mai trovato il coraggio di dirle ciao.
E lei non capì che stavo parlando con lei, all'inizio. Quando capì si voltò a guardarmi.
Aveva gli occhi rossi, la donna davanti a me.
Come se avesse pianto a lungo.
“Arizona. Robbins. Chirurgia pediatrica. Mi dispiace disturbarti, ti sembrerà pazzesco, ma ero seduta con degli amici e ti ho visto qui da sola. Ed è solo che...sembri triste.”
Lanciò un'occhiata al tavolo che avevo indicato, vedendoci sedute persone che sono sicura non conoscesse.
Poi tornò a guardare me.
“Callie Torres.”
Svuotò finalmente il bicchiere che aveva tra le mani con un solo, lungo, sorso.
“Allora, vuoi parlarne?”
“No” scosse la testa, guardando ancora davanti a sé. “Voglio solo trovare qualcuno che mi porti a casa sua e mi faccia bere finché non sarò più fisicamente in grado di riuscire a bere ancora.”
Feci una faccia stupita. Lei capì perché.
“Credevo fossi sposata.”
“Già.”
“Ma vuoi che qualcuno ti porti a casa sua.”
“Già.”
“Qualcuno con una gigante scorta di liquori.”
“Già.”
Annuii, chiarendo di aver afferrato il punto.
“Non giudicarmi per questo” aggiunse.
“Ho una scorta di liquori pressoché illimitata.”
Non capii se si rese conto che mi stavo proponendo di essere quel qualcuno. Non capii se sapeva di piacermi.
Ma, in ogni caso, venne con me.
“Non potevo andarmene” disse dopo il quinto, credo, bicchiere di Scotch, seduta sul mio divano.
“Cosa?”
“Non potevo. Non potevo andarmene. Sono stata sposata con lui per sette anni. Dal mio primo anno di college. Sette anni. Come puoi alzarti e andartene da qualcosa del genere?” chiese.
Ed io non lo sapevo. Non sapevo cosa avrei dovuto rispondere. E non sapevo se avevo capito di cosa stava parlando.
Lei era al secondo anno di specializzazione, io ero al quarto. Mark era all'ultimo anno, insieme agli altri chirurghi che conoscevamo.
“Sapevo delle altre. Non sono un'idiota, certo che sapevo delle altre. Sapevo di Addison. Ed è stato squallido, perché era la mia migliore amica. E sapevo dell'infermiera di cardiologia, della rappresentante nella stanza delle scorte. Addison, di nuovo - squallido, di nuovo. Fino a Lexie, pensavo che fosse solo riguardo il sesso. Ma non era così, no. Lui si è innamorato della piccola Grey. E anche allora io non riuscivo ad andarmene.”
Non sapevo cosa dire. Ma mi piaceva che ne stesse parlando con me.
“Credevo che fosse perché ero innamorata di lui, o perché era l'unica persona su cui avessi mai potuto contare. Ma la verità è che non potevo andarmene perché lui è il mio migliore amico. Non è mai stato meno di quello. Ma non è mai, mai, stato di più. Non posso ferirlo, non importa quanto lui continui a ferire me.”
“Mi dispiace” dissi, cercando di farla sentire meglio.
Ma non ero davvero convinta che avrebbe avuto alcun effetto in quel momento. Non ero convinta che avrebbe avuto effetto per niente. Ed ero abbastanza sicura che non mi stesse ascoltando, in ogni caso.
“Non è niente per cui essere dispiaciuti. Sai, mia madre è morta quando avevo sedici anni.”
“Oh mio Dio, mi dispiace moltissimo.”
“Oh, no, non è questo il punto” minimizzò.
Non ero sicura del perché fosse ancora sobria. O se fosse ancora sobria.
“Il punto è che io ero lì quando mio padre le disse addio. Mia madre lo guardò negli occhi e gli disse qualcosa che non credo sarò mai in grado di dimenticare” sospirò.
“Un'incondizionata e romantica promessa di amore eterno?”
“No” ridacchiò. “Gli disse, 'avrei chiesto il divorzio'.”
Il sorriso che avevo sulle labbra sparì senza lasciare traccia.
“Se non fosse morta, se non si fosse ammalata, lo avrebbe lasciato” continuò. “Era rimasta con lui tutto quel tempo, gli disse, ma sapeva. Lei sapeva delle altre” annuì lentamente, lo sguardo distante, persa in un ricordo che a me non era concesso vedere. “Sapeva delle altre” ripeté in un sussurro “ma era rimasta perché avevano due figlie, due meravigliose figlie che erano così grazie a loro. Per noi, era rimasta, per noi fu infelice tutta la sua vita. E sul suo letto di morte disse finalmente a mio padre che non lo perdonava.”
“Calliope...” mi tradii. Sperai che non notasse il mio uso del suo nome completo. Non le avevo detto che sapevo chi fosse prima di incontrarla quella sera al bar.
“Forse mi sentivo solo in colpa per averla resa infelice e ho continuato a sottoporre me stessa allo stesso tipo di tortura, non lo so.”
“Non è tardi per decidere di cambiare.”
Fu in quel momento, credo, che mi trovai su un piano, e ad occhio nudo non riuscivo a vederlo, ma quel piano era leggermente inclinato. Un giorno, prima o poi, avrei iniziato a muovermi, andando a velocità sempre maggiore incontro alla mia caduta.

“Ho firmato le carte del divorzio stamattina.”
Mi voltai verso di lei.
“Fantastico. Vuoi andare a festeggiare? Diciamo, da Joe alle otto?”
Mi sorrise. “Perfetto.”
E alle otto si presentò, pronta a dare fondo alle scorte di Scotch del bar.
Da quella sera di due mesi prima eravamo diventate molto amiche. Ero l'unica persona con cui aveva parlato dei suoi problemi. E lei era l'unica con cui io parlavo di me. Io e lei andavamo semplicemente d'accordo.
A fine serata mi offrii di riaccompagnarla a casa. Fu allora che lei sospirò e poi scoppiò a ridere.
“Casa. Buffo, ci stavo giusto arrivando. Mia cara Arizona, io non ho più una casa. Sono stata ufficialmente sbattuta fuori nell'istante esatto in cui ho avuto il coraggio di firmare quel foglio di carta.”
“Da Mark?”
“Da mio padre. Il divorzio non è contemplato per mio padre. Niente più fondo fiduciario, niente casa, niente di niente. Vuoi sapere cosa aggiunge al danno anche la beffa? Mark si è offerto di farmi stare insieme a lui nella sua stanza d'albergo. Come se fossi una delle sue amanti. Domani cercherò un appartamento. Per stasera credo che berrò finché Joe non mi caccerà e poi me ne andrò in ospedale, svenendo dentro una delle stanze per i medici di guardia.”
Io sospirai. “Cristina sta ancora cercando una coinquilina, da quello che dice Owen. So che siete amiche, perché non chiedi a lei?”
“Hai ragione. È quello che farò. Domani.”
Qualche ora dopo decisi che l'unica cosa saggia da fare era portarla insieme a me. Appena entrammo in casa si stese sul mio divano, affondando la faccia in uno dei cuscini.
Mi sedetti accanto a lei, guardandola mentre si voltava di lato e alzava gli occhi verso i miei.
“Che c'è?”
“Penso che quello che hai fatto oggi è stato molto coraggioso. Non tutti riescono a decidere di costruirsi una vita migliore. La maggior parte della gente, si limita a desiderare di poterlo fare. È più facile” spiegai.
Lei sospirò. “Non mi sento coraggiosa. Mi sento solo...sconfitta. Come se avessi perso una battaglia che non ho mai davvero voluto combattere. Mi sento stanca.”
“Sei libera, Calliope. Puoi fare quello che vuoi. Qualsiasi cosa.”
“Come la ragazza che balla al centro del locale” ridacchiò. Io la guardai confusa, così lei mi spiegò cosa intendesse. “Ogni ragazza che sale su un tavolo pensa di essere la ragazza più sexy della stanza, ma in realtà sta solo ballando da sola.”
Io spostai una ciocca dei suoi capelli dal suo viso.
“Odio essere ubriaca. Pensi che ti farà sentire in modo fantastico e felice, invece ti senti solo stanca e disgustosa.”
Io risi, alzandomi e sistemando una coperta su di lei.
“Buonanotte Calliope.”
“Buonanotte” sussurrò, gli occhi ormai chiusi.
Io la guardai. E qualcosa, dentro di me, sembrò all'improvviso realizzare che la donna stesa davanti e me non era più sposata.
Mi chinai, baciandola sulla fronte.
Lei aprì di nuovo gli occhi, appoggiandomi una mano sulla spalla per farmi abbassare di nuovo.
Poi mi sfiorò una guancia, appoggiando per una frazione di secondo le sue labbra sulle mie.
“Buonanotte” ripeté, chiudendo gli occhi ancora una volta.
Fu allora, credo. In quel momento, iniziai a muovermi sul piano inclinato su cui fino a quel momento ero stata in equilibrio, andando incontro ad un vuoto talmente profondo, che ancora non ero nemmeno in grado di scorgerlo.

“Mi stavo chiedendo...una di queste sere, una sera in cui non hai niente da fare, se magari avevi voglia di venire da qualche parte con me.”
“Certo” risposi distrattamente.
“Tipo...un appuntamento.”
La punta della mia penna si fermò nel bel mezzo di una 'e'.
Alzai lo sguardo. Lei si guardò attorno, poi in basso, poi guardò le mani, alla fine guardò me.
“Pensaci. Ok? Pensaci e basta” mi disse nervosamente.
“Non ho bisogno di pensarci. Sono libera domani sera.”
La vidi sorridere. “Perfetto.”
Continuai a muovermi su quel piano, finché fermarmi, fu impossibile. Anche se avessi voluto, non sarei più stata in grado di farlo. Presi velocità, ancora, ancora, ancora. Finché neanche la gravità sarebbe stata in grado di rallentare la mia discesa.

Erano passati sei mesi da quel primo appuntamento, e le cose stavano andando a meraviglia.
Il mio turno era quasi finito, e quella sera Calliope mi aveva chiesto di cenare a casa sua, proprio davanti all'ospedale, la casa che adesso divideva con Cristina.
Ero di buon umore. L'avrei rivista pochi minuti dopo.
Con un sorriso presi l'ascensore. Le porte si aprirono e entrai dentro velocemente, premendo il pulsante del piano terra. Con mio grande disappunto, però, solo un piano più in basso l'ascensore si fermò di nuovo, lasciando entrare una delle poche persone che sarebbero state in grado di rubare il mio sorriso in quel momento.
“Dottoressa Robbins.”
“Dottor Sloan” e il sorriso sparì.
Si voltò, dandomi le spalle. Eravamo solo noi dentro quell'ascensore.
“Ho saputo che sta vedendo qualcuno, ultimamente” iniziò con tono casuale.
“Non mi stupisce” ribattei, schiarendomi la voce.
“Non si illuda, dottoressa Robbins. Si accontenti del tempo che durerà e poi la lasci andare.”
“Non so onestamente di cosa diavolo stia parlando.”
Lui si voltò. “Callie torna sempre indietro. Forse stavolta ci metterà più tempo, forse per la prima volta ha sentito il bisogno di un...sorbetto sessuale, ed è arrivata perfino a chiedere il divorzio. Ma, si fidi di me, quando le dico che Callie torna sempre da me, alla fine” mi rivolse un sorrisetto carico di tranquillità. “Lei mi ama. Ed io amo lei, anche se non sempre riesco a...dimostrarlo...nel modo giusto. Ma lei ama anche questo, di me.”
“Non la sto tenendo prigioniera. È una donna adulta e del tutto libera.”
“E la sua libertà la riporterà tra le mie braccia.”
“Ne sembra molto sicuro” osservai a denti stretti.
Lui mi sorrise, quel ghigno distorto che aveva ogni tanto.
“Ho sentito un'interessante osservazione della dottoressa Altman oggi, che le è sfuggita mentre parlava di qualcos'altro con il dottor Hunt. Se c'è una cosa che Calliope ha sempre voluto, è un bambino. Stando a quello che dice Teddy, questo potrebbe essere un problema affinché la vostra relazione funzioni.”
“Questo non significa che tornerà sui suoi passi.”
“Ma certo che lo farà” mi disse come se mi stesse rassicurando. “Callie torna sempre indietro da me, alla fine.”
Fu in quel preciso momento che capii che non c'era più niente, sotto di me. Avevo iniziato a precipitare nel vuoto ad una velocità che non avrei mai pensato di raggiungere. Sapevo che la collisione sarebbe stata forte, ma non avrei mai potuto immagine quanto.

Pensai di ignorare l'argomento, ma ovviamente Mark si era assicurato che anche Calliope venisse messa al corrente di questa sua recente scoperta.
Quando entrai nel suo appartamento, lei era seduta sul divano, i gomiti sulle ginocchia, le mani intrecciate a contatto con le labbra, assorta nei suoi pensieri.
Mi sentì entrare, ma non distolse lo sguardo.
“Ha parlato anche a te, vero?” chiese, già conoscendo la risposta. “Che faremo, adesso? Insomma, tante grazie per i ricordi e ci vediamo ogni tanto a lavoro?”
Mi sedetti accanto a lei, prendendo la sua mano.
“Qualsiasi cosa tu voglia fare. Ma, prima di qualsiasi cosa, vorrei che mi guardassi un attimo soltanto negli occhi, perché devo parlarti.”
Lei si voltò.
Io, finalmente, ritrovai quel sorriso che avevo perso, nell'istante in cui incontrai i suoi occhi. Le presi il viso tra le mani. Sia io che lei avevamo le lacrime agli occhi. Ma io non riuscivo a non sorridere con dolcezza.
“Ti amo, Calliope.”
Lei fu presa alla sprovvista.
“Sei la cosa più bella che mi sia mai successa. Sei stata il piano inclinato che mi ha permesso di ricominciare a muovermi dopo che ero caduta a terra.”
Lei mi guardò, le sopracciglia ravvicinate in un'espressione di confusione.
Scossi la testa, sempre sorridendo.
“Era una cosa che mio fratello diceva parlando delle leggi della dinamica. Il punto è che tu mi hai salvato. Mi hai fatto capire di non essere rotta, di potermi ancora muovere. Io ti amo.”
“Ma io non penso di potermi più muovere, Arizona. Penso di essere rotta.”
“Ma ti sei mossa, Calliope” le presi una mano, baciandola sul dorso. “Ti sei mossa insieme a me.”
Lei mi guardò negli occhi, mentre ancora le sorridevo, le lacrime che mi rigavano le guance, ma ancora sorridevo.
“Ti amo anch'io.”
Iniziò a piangere silenziosamente.
“Non sto punendo me stessa per qualcosa che penso sia colpa mia, non lo sto dicendo per mettere fine a una discussione, non lo sto dicendo solo perché non so che altro dire. Per la prima volta in vita mia, posso dire senza ombra di dubbio e in completa onestà, che ti amo, Arizona.”

Quando mi schiantai al suolo, fu terribile. Fu come morire. Ero troppo veloce. Troppo in alto. Ero spacciata. Perché proprio quel piano su cui ero caduta, era molto più inclinato del primo, molto più ripido, molto più alto. E, ormai, non c'era alcun modo in cui sarei riuscita a fermarmi.

Sentii la sua presenza alle mie spalle ancora prima di sentire la sua voce.
“Ti avevo avvertito. Lei torna sempre da me.”
Il mio viso era lo specchio del mio cuore spezzato, presumo.
“Ho sentito che è finita.”
“Non è finita. È solo una pausa. Abbiamo bisogno di pensare.”
Lui rise tra sé e sé.
“Se lo dici tu. Hai fatto bene a non combattere, Robbins. Non ne sarebbe valsa la pena. Senza contare che non avresti comunque vinto.”
Io mi voltai.
“Forse hai ragione. Non avrei vinto. Ma ne sarebbe valsa la pena. Farei qualsiasi cosa, per lei, qualsiasi.”
“Tranne avere figli” sorrise, in quel suo modo arrogante, in quel suo modo irritante.
“E dici che torna sempre da te, ma non mi sembra che sia al tuo fianco” conclusi, fingendo di non aver sentito il suo commento. “Lei non sta tornando indietro. Non tornerà indietro. Lei vuole me.”
“Lei vuole qualcosa che tu non puoi darle. Stasera si è fatta accompagnare qui da me, immagino che non te lo abbia detto. E ti do la mia parola che alla fine di questa serata lei sarà di nuovo mia.”
“Lei non è mai stata tua” sussurrai, andandomene.
Uscii dalla casa di Meredith e Derek, qualche minuto più tardi, intravedendo due persone nell'oscurità. Non parlai, cercando di sentire le loro voci.
“Ti prego, Mark. Voglio solo andare a casa.”
“Va bene. Andiamo a casa.”
“No, a casa mia. Da sola. Lasciami andare.”
“Sai, ho sentito che c'è un appartamento vuoto proprio davanti al tuo. Potrei comprarlo e trasferirmi lì.”
“Mark. Non è più divertente. Non è un gioco, non sto mettendo il broncio. È finita.”
“L'hai già detto, Callie. Ma alla fine sei sempre tornata. Ogni volta, dopo ogni cazzata che ho fatto. Questo è quello che siamo. Siamo io e te, ci perdoniamo sempre alla fine.”
“No, io perdono. Tu continui soltanto a ripetere gli stessi errori.”
“Ok. D'accordo. Allora niente più relazioni. Da adesso in poi niente più giochetti.”
“Giochetti?” sospirò. “Cavolo, Mark. Siamo stati sposati sette anni e adesso capisci che è il caso di non avere relazioni con altre persone? Senti, lascia stare. Tu ami Lexie. Vai e sii felice.”
“Stronzate. Amo Lexie, è vero. Ma sai bene, proprio come lo so io, che solo tu puoi rendermi felice, che solo io posso rendere felice te. Vogliamo le stesse cose. Una casa. Un matrimonio. Bambini. Se te ne vai adesso cosa pensi che avrai? Forse è vero, io e te non ci siamo mai amati nel senso romantico della parola. Ma ci vogliamo bene. Sei la mia migliore amica, l'unica persona di cui mi è mai importato qualcosa. Io e te ci rendiamo felici, Callie.”
Lei tossì la sua incredulità.
“Tu mi rendi infelice quanto non lo sono mai stata. Ma su una cosa hai ragione. Io e te, Mark, io e te non ci siamo mai amati.”
Mentre parlavano percorsi in fretta il vialetto, salendo sulla mia macchina e mettendo in moto, partii per rifermarmi poco dopo proprio alla fine di quel vialetto. Abbassai il finestrino.
“Sali” dissi solo. Lei si guardò alle spalle frettolosamente, poi fece come le avevo detto.
“Grazie” sussurrò, chiudendo la porta e allacciando la cintura.
Partii. “Non volevo che dovessi aspettare un taxi con lui che ti infastidiva” mi giustificai. “Come stai?” chiesi, guardando la strada.
“Come qualcuno che ha appena perso l'amore della sua vita.”
“Lui non era l'amore della tua vita, Calliope. Il modo in cui ti ha trattato per tutto questo tempo...”
“Lo so” rispose con tranquillità. “Infatti stavo parlando di te.”
Le parole ci misero un po' a far presa. Quando accadde, accostai di lato e spensi il motore.
“Mi dispiace. Non volevo turbarti.”
“Cosa devo fare, Calliope?”
“Niente. Non devi fare niente.”
“Eppure devo fare qualcosa. Non posso perderti e basta. Io non sono lui.”
“Lo so. Tu mi rendi felice. Tu non mi tradiresti. So che non sei lui, perché tu mi ami. Tu mi ami.”
E all'improvviso capii. Aveva ragione. Io amavo lei. Amavo lei.
“Ed io non voglio figli se significa che non posso stare con te.”
“No. No. Avremo bambini. Avremo, dieci bambini, tutti i tipi di bambini. Ho sempre pensato di non essere tagliata per essere una madre, ma tu sarai una brava mamma, sarai una fantastica mamma. Ed io non posso vivere senza te e i nostri dieci bambini.”
Non avevo neanche finito, che mi baciò.
E fu allora che successe, credo. Qualcosa che non avevo mai valutato in tutti i miei piani. Lei mi aveva permesso di andare oltre le leggi della fisica. Lei mi aveva permesso di volare. Di staccarmi dai piani inclinati da cui per tutta la mia vita non avevo fatto altro che cadere.
Calliope Torres era stata la mia luna, il mio posto senza gravità. Le mie ali.
Il mio mondo, in cui le leggi della fisica non contavano affatto.





E voi? Vi sentite su un piano inclinato o avete trovato qualcosa che vi fa volare?

Grazie a tutte, siete mitiche! :)

A presto!



Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Il nostro primo attimo di vita ***


Ringrazio ancora tutti quelli che stanno continuando a recensire! =)

Avvertimenti: leggermente AU (ma sono sempre chirurghi)


Buona lettura!


Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo attimo di vita


C'era una volta, tanto tempo fa, in un posto che la memoria ha dimenticato, una favola. Sì, proprio così. C'era una favola. C'era un lieto fine.
E forse sembra scontato, adesso, perché siamo abituati a sentire tutti i lieto fine delle favole, ma non c'è niente di più prezioso al mondo.
Non c'è niente di meglio di vivere per sempre felici e contenti.
Ma questo non succede quasi mai. È un'utopia. Una leggenda. Esiste solo nei libri di storie per bambini.
Non c'è nessun 'vissero per sempre felici e contenti'. C'è a malapena un 'vissero'.
La verità è che qui, nel nostro mondo, tutte le storie finiscono allo stesso modo. Con la morte.
Ed è, paradossalmente, lo stesso punto in cui ha inizio la mia storia.
Io sono morta. Molto, molto tempo fa.

“Ora del decesso, 22:08.”
“No, no! Callie, ti prego, devi svegliarti!”
Era come se stessi sognando. Nel sogno, ero totalmente avvolta dal buio, ma intorno a me potevo ancora sentire le voci delle persone che mi circondavano. Poi ricordai. Riconobbi le voci. Non era un sogno.
“Dottoressa, deve fare un passo indietro.”
“No!”
“Dottoressa Altman, l'ho già dichiarata.”
“Callie, svegliati immediatamente. Apri gli occhi. Apri gli occhi.”
Un rumore, come se volasse una mosca vicino al mio orecchio. Poi un suono secco, una scarica, elettricità attraverso ogni millimetro del mio corpo. E, riempiendomi i polmoni il più possibile, riaprii gli occhi.


Sono stata legalmente morta per tre minuti.
Sono morta.
Ma solo dopo ho capito di non essere mai stata davvero viva. Di non aver davvero vissuto già da molto tempo prima.
Anche adesso, che cammino tra i vivi, perfino adesso non c'è traccia di vita, in me.
“Ortopedia.”
“Pediatria. Credevo lavorassi con Teddy, a dire la verità.”
Scossi la testa. “Ma siamo molto amiche. Che c'è, non frequenti gente che lavora in campi più facili del tuo?” le chiesi con un sorrisetto. “Perché allora devi avere davvero pochi amici. Tipo, Teddy e Derek e fermarti lì.”
“No, no, figurati. Ero solo sorpresa. Come sei diventata così amica di qualcuno che lavora in un campo così diverso dal tuo? Avrete sì e no un paio di casi all'anno insieme.”
Il sorriso sparì dal mio viso, quando ricordai come eravamo diventate amiche io e Teddy.
“A volte basta un incontro per fare amicizia” le feci notare. “Anche se per me di solito è più difficile” continuai con lo sguardo basso e tentando di scacciare i ricordi indesiderati che erano riaffiorati.
Si schiarì la voce. “Allora, com'è lavorare in Ortopedia? Che ti ha fatto scegliere quella specializzazione?”
Scrollai le spalle. Non era qualcosa che dicevo a chiunque. “Non lo so, istinto credo. Tu?”
“Curare i piccoli umani è ciò che mi rende...beh, me. Mi occupo di bambini perché credo nel lieto fine, credo che ognuno di noi ne abbia uno che lo aspetta, quindi io cerco di far sì che anche a loro sia data la possibilità di trovare il lieto fine che gli appartiene.”
Sorrisi genuinamente per la prima volta da non so più neanche quando. La donna davanti a me era quasi troppo carina per essere vera. Non avevo nemmeno mai usato prima l'aggettivo 'carina'.
Teddy tornò dal bagno, tirandoci fuori dalla nostra conversazione stentata.
Arizona Robbins aveva due anni più di me. Lavorava nel mio stesso ospedale, come primario del reparto di chirurgia pediatrica. Io ero a capo del reparto di ortopedia, anche se non ancora ufficialmente. Teddy di quello di cardiologia.
Con Arizona fu facile. Davvero, fu come se non dovessi neanche fingere di stare bene. Sembrava non darle fastidio che fossi sempre di pessimo umore. Diventammo amiche.
Il problema con lei era che ogni volta che pronunciava il mio nome sentivo un brivido. Non lo avevo sentito da un sacco di tempo. E all'inizio non lo riconobbi.
Le parlai di me, le lasciai intravedere chi ero. O chi un tempo ero stata. Mi consideravo ancora la stessa persona, perché avevo lo stesso corpo, la stessa mente, la stessa anima. Ma sapevo di essere cambiata, di avere un altro cuore, altre cicatrici sulla pelle. Altre storie nella testa. Altri ricordi.
Finché un giorno mi chiese come avevo conosciuto Teddy. Lo chiese a me, disse, perché lei non aveva voluto raccontarglielo, dicendole di chiedere a me. Apprezzavo che Teddy mi rispettasse così profondamente da darmi modo di raccontare quella storia, ma allo stesso tempo era una storia che non avrei voluto raccontare.
Arizona sapeva, o almeno, credo che se ne fosse accorta, che qualcosa in me non andava.
Poteva vederlo. Chiunque vicino a me poteva.
“Ho conosciuto Teddy circa cinque anni fa, attraverso un'amicizia comune.”
La vidi corrugare la fronte, abbassare lo sguardo. “Credevo ci fosse di più, onestamente.”
“C'è di più” confermai. “È solo molto difficile.”
“Non fa niente. Possiamo parlare d'altro” minimizzò. Ma poi sembrò ripensarci. “In realtà, non possiamo parlare d'altro, Calliope” ecco di nuovo il brivido quando pronunciò il mio nome. “Non possiamo parlare del perché hai scelto ortopedia, non possiamo parlare del perché non ti piace guidare, non possiamo parlare della maggior parte del tuo passato. C'è rimasto davvero poco di cui parlare, ma...ok. Mi sforzerò di trovare qualcos'altro. Scusami un secondo” mi disse, alzandosi, appoggiando sul tavolino il tovagliolo che aveva sulle gambe ed andando verso il bagno.
Io mi maledissi. Teddy e Miranda non erano ancora arrivate e io avevo già mandato a puttane la serata tra donne. Mi lanciai qualche occhiata intorno per controllare che non stessero arrivando e poi mi alzai, seguendola in bagno.
La trovai che si stava lavando le mani.
“So che ci stai provando davvero. E so che Teddy ti ha chiesto di non forzarmi, perché lei sa quale è il mio dannato problema. Vorrebbe che fossi di nuovo felice. O almeno di nuovo me stessa. Sai perché ha pensato di farti conoscere me anche se ti aveva appena incontrato perfino lei? Sperava che mi chiedessi di uscire con te.”
Lei si voltò, espressione sbigottita.
“Ma ci sono cose di cui io non parlo. Tutti abbiamo cose di cui non parliamo. Le mie sono solo una quantità ridicola. Dovresti lasciarmi perdere, Arizona. Guarda Teddy e la Bailey. Sono le uniche che sono rimaste al mio fianco, ed io le deludo tutto il tempo. Rendo infelici le persone che mi vogliono bene, quindi tu non volermene.”
Uscii dal bagno, risedendomi al tavolo, lasciandola senza parole. Quando tornò, un minuto più tardi, era arrivata anche Teddy e Arizona aveva il suo solito sorriso sulle labbra.

Ma non fece differenza quanto cercai di tenermi lontana da lei. La sua luce riusciva a trovarmi ogni singola volta, anche nella mia più profonda oscurità.
Così continuammo a vederci, a parlare, a volte anche solo io e lei.
“Vieni da Joe stasera?” le chiesi mentre ci stavamo lavando per uscire dalla sala operatoria.
“Tecnicamente, sì.”
“Tecnicamente?”
“Sarò lì con qualcuno. Ho...un appuntamento.”
“Oh. Ok. Bene. Allora...divertiti.”
“Anche tu Calliope” sentii l'ormai familiare brivido percorrermi la spina dorsale.
“Io non ho un appuntamento” le feci notare.
“Ma tu hai Teddy” sentii qualcosa di strano nella sua voce.
“Oh, sì. Teddy è molto meglio di qualsiasi appuntamento tu possa avere” replicai sorridendo appena e uscendo di lì il prima possibile.
Quella sera, io e Teddy, ci andammo comunque da Joe.
L'appuntamento di Arizona era una delle commesse di una gelateria in cui andavamo spesso, la Clock. L'unica gelateria in città che faceva il gelato al cioccolato bianco. La adoravo, c'erano settimane in cui ci andavamo anche tre o quattro volte. Era il posto in cui io e Teddy c'eravamo incontrate per la prima volta fuori dall'ospedale e lo avevamo fatto conoscere noi ad Arizona.
Da quel giorno, non ci misi mai più piede.
“Oh, è così divertente” parlai con una voce alta e stridula. “Se solo riuscissi a capire più di metà delle tue battute, con la mela che mi ritrovo al posto del cervello” mimai il labiale della tizia seduta con lei.
“Callie” mi riprese Teddy. “Una mela? Davvero?”
“Hai ragione, hai ragione. Una noce è più verosimile.”
Lei rise, suo malgrado. “Non è la ragazza giusta per lei. Non mi piace, sul serio, proprio no.”
“Oh mio...le appena...hai visto anche tu, vero?”
“Sì, ho visto anche io. E...adesso dobbiamo andarcene prima che decida di andare a dire a quella tipa come ci si comporta ad un primo appuntamento.”
Le aveva appoggiato una mano sul ginocchio, accarezzandole poi la coscia. Arizona non sembrava molto a suo agio.
Mi alzai, infilandomi il giacchetto e lasciando qualche banconota sul tavolo.
Fanculo. Dovrei esserci io” pensai. Quel pensiero mi colpì come uno schiaffo in faccia.
Non ero stata interessata ad una donna da tre anni. Non ero stata gelosa di una donna da...beh, mai in realtà.
“Teddy?”
“Sì?” mi chiese, mentre si sistemava la borsa su una spalla.
“Credo...credo che lei mi piaccia.”
“La gelataia?”
“Arizona.”
Per un attimo mi guardò e basta, la bocca leggermente aperta, mentre fissavo Arizona.
“Ar-lei ti-ti piace? Ne-nel senso di...”
“Dovrei esserci io lì con lei” detti voce ai miei pensieri.
“Ch- Allora che aspetti? Vai. Fai qualcosa.”
“Non posso fare niente. Voglio che sia felice, Teddy. Io la renderei triste. Ma è normale, vero? Che lei mi piaccia.”
“Callie” mi prese le spalle, costringendomi a voltarmi verso di lei. “Se qualcuno dicesse il mio nome in quel modo, a quest'ora vivremmo insieme, staremmo per sposarci e avremmo comprato un cucciolo di labrador di nome Spike.”
Io risi, mio malgrado. Poi la abbracciai. Era qualcosa che non facevo da molto tempo. Mi faceva sentire come se avessi bisogno di lei di nuovo. Ma la verità era che non avevo mai smesso di avere bisogno di lei, anche da quando avevo iniziato a stare meglio, non avevo mai smesso di avere bisogno della mia migliore amica.
“Mi manca” sussurrai. “Sei così uguale a lei, a volte” trattenni a stento le lacrime.
Strinse la presa. “Manca anche a me.” Mi accarezzò i capelli, dolcemente, facendomi sentire al sicuro, come solo lei riusciva a fare ormai da un sacco di tempo.
Alzai lo sguardo, incrociando quello di Arizona. Mi allontanai da Teddy, cercando di nascondere velocemente le lacrime, e rivolgendole un debole sorriso le chiesi se era pronta ad uscire.
Riuscimmo a fare solo qualche passo in direzione di casa mia, prima che una mano mi afferrasse il braccio.
“Che è successo? Stai bene? Mi era sembrato che stessi...” Arizona scrutò i miei occhi.
“Sto bene” confermai con un sorriso debole. Lanciai un'occhiata verso Teddy. Mi schiarii la voce, mettendomi le mani in tasca. “Io e Teddy ci siamo conosciute attraverso un'amicizia comune.”
“Me lo avevi già detto” mi fece notare distrattamente, palesemente ancora preoccupata dalle mie lacrime.
“Il suo nome era Addison” iniziai a raccontarle. “Tre anni fa io e lei abbiamo avuto un incidente d'auto. È morta. E anch'io.”
Teddy fu veloce ad afferrarmi la mano, rassicurandomi con la sua stretta.
“Per tre minuti. Poi Teddy mi ha salvato la vita defibrillando un'ultima volta. Sono morta. Per tre minuti. Poi mi sono risvegliata. Addison no.”
Vidi dalla sua espressione che era dispiaciuta di aver anche solo pensato di chiedere.
“Non devi, non devi...”
“Lo so. Ma voglio farlo. È stata Addison a farci conoscere. Era la mia migliore amica. Era la migliore amica di Teddy, anche. Ma io...” sospirai. Non volevo dirlo. Non volevo farlo perché mi ero pentita che Teddy lo sapesse dopo che lei era morta. Non volevo che nessun altro lo sapesse, ma Arizona voleva sapere. Ed io non sapevo come dirle di no. “Ma io...io l'amavo. Non gliel'ho mai detto. Avevo paura che stessi confondendo i miei stessi sentimenti con qualcosa di più, avevo paura perché era la prima donna da cui ero mai stata attratta, e la cosa di cui avevo più paura era che lei non ricambiasse. Così non ho mai detto niente. Credevo che avrei avuto più tempo, ma sbagliavo. Un giorno, eravamo in macchina, un tizio ubriaco ci è venuto addosso di lato a un incrocio. Il lato del guidatore era completamente distrutto, lei non è neanche arrivata fino in ospedale viva. Io sono morta. Per tre minuti. Così mi hanno detto. Ma non credo di aver mai vissuto neanche un solo giorno, da allora.”
Aspettai qualche momento. Quando capii che non avrebbe detto niente, mi voltai, incamminandomi verso casa.

La evitai, per qualche giorno. Non volevo vedere i suoi occhi pieni di pietà e compassione. Ma, alla fine, lei comunque mi trovò.
Nei suoi occhi non vidi pietà. Vidi solo comprensione, empatia, quando mi prese la mano e mi disse soltanto che mi aveva portato un caffè. Sentirla parlare, non so come, mi rassicurò. Anche se tutto ciò che aveva fatto era stato portarmi un caffè.

Arizona parlava molto, normalmente. Le piaceva parlare, ed era anche un'ottima ascoltatrice, ma visto che io non avevo quasi mai niente da dire, lei con me parlava molto.
In particolare, quando le cose iniziarono a farsi un po' più tese tra di noi, un po' più vere.
Ci fu un giorno, in cui pensai di ucciderla. Lo valutai, davvero. Ed eravamo solo a metà giornata.
Tutto era iniziato quando mi era venuta a prendere a casa, portandomi un caffè, iniziando a parlare del tempo a Seattle. Poi aveva continuato mentre camminavamo verso l'ospedale, valutando se fosse conveniente o meno comprare una casa con la situazione del mercato immobiliare in quel momento, concludendo finalmente che non sarebbe stata una buona idea, ed iniziando poi a parlare di musica fino a dopo pranzo, che facemmo insieme alla mensa dell'ospedale. Avevamo un'operazione insieme quel pomeriggio, e fu come partecipare a una conferenza sulle diverse cuffiette usate dai chirurghi dell'ospedale e della loro relazione coi caratteri dei possessori. Dopo la chirurgia, entrambe di nuovo libere, entrammo in una delle salette a prendere un caffè, quello le fornì un sacco di spunti, dalle industrie per la produzione di macchinette, all'effetto della caffeina sulle donne incinte, alla comodità dei bicchieri con il coperchio o delle tazze di ceramica e successivo confronto, fino alla comodità dei divani nella sala. Non aveva smesso per più di tre secondi, giuro. Non sapevo come faceva a trovare tutto quel fiato. Probabilmente voleva solo tenermi la mente occupata perché non le piaceva vedermi triste. Oppure cercava di fare del suo meglio per ignorare il fatto che avevo imposto un divieto sul Clock in maniera definitiva. Non affrontavo molto bene la gelosia. Eh.
Mi riaccompagnò a casa, parlando per venti minuti degli ascensori.
L'avrei strozzata. Giuro.
Alla fine, davanti alla porta di casa mia, mi voltai e pensai che avrei potuto farlo. Nessuno l'avrebbe mai saputo, avrei potuto disfarmi del corpo gettandolo in fondo al mare da sopra un ferry boat.
Mi voltai di scatto e lei per poco non mi venne addosso, da quanto era immersa nel suo monologo.
Le afferrai il viso tra le mani e feci l'unica cosa che pensai l'avrebbe fatta stare zitta per almeno sei secondi.
La baciai.
Per qualche secondo, ottenni il silenzio che tutto il giorno avevo desiderato. Poi mi resi conto che quello era qualcosa di molto meglio del silenzio.
Quella era...Arizona. Stavo baciando Arizona.
Era la prima volta che baciavo una donna. La presi con calma. Non avevo fretta. Avevo tutto il tempo del mondo, e avevo intenzione di usarlo tutto in quel momento.
Credo che già allora iniziai a sentirlo, ma mi ci volle un sacco di tempo per rendermene conto.
Mi stavo innamorando di Arizona.

“Addison non era la mia anima gemella” dissi un giorno a Teddy. “Voglio dire, io l'amavo. Davvero, ma eravamo diverse. Volevamo cose diverse. Saremmo potute stare insieme per un po', ma alla fine quelle differenze ci avrebbero distrutto, ci saremmo rese infelici.”
“Vorrei poterti dare torto, ma credo che tu abbia ragione. Addison non era la tua anima gemella.”
Mi morsi la lingua, riflettendo su quanto di quello che stavo pensando in quel momento e che mi aveva tormentato nell'ultimo periodo avrei dovuto dirle.
“Ma allora questo significa...” iniziai, guardandola di sottecchi sorseggiare il caffè. “Questo significa che forse è lì fuori da qualche parte, no?”
Posò il bicchiere lentamente, guardandomi negli occhi.
“Hai davvero bisogno che ti risponda, Callie? Credo che tu sappia già quello che penso io.”
Sospirai. “Forse dovrei solo chiudere gli occhi e gettarmi nel vuoto e pregare che, a un certo punto, il paracadute si apra.”
“Come scusa?”
“Dicono che è una delle esperienze più incredibili della vita, sai? Gettarsi da un aereo con soltanto un paracadute ad impedirti di sfracellarti sul terreno. Ma io ho sempre pensato che solo un idiota lo avrebbe fatto. Però, forse, se tutti dicono che è così bello, lo è davvero. Forse è così bello come dicono. Quindi dovrei chiudere gli occhi e saltare.”
“E pregare che il paracadute si apra, a un certo punto?”
“E pregare che il mio paracadute sia Arizona, credo.”

Era il nostro primo appuntamento. Non aveva ancora detto neanche una parola. Sembrava così insicura, come se da un momento all'altro dovessi alzarmi e andarmene.
La stavo guardando, e capii all'improvviso che era colpa mia. Ero stata io. L'avevo resa insicura e nervosa e adesso sembrava in equilibrio su una corda. E tirava vento, anche.
“Ho scelto ortopedia perché non riguarda salvare vite. Beh, non la maggior parte delle volte. Tutti voi, pediatri, cardiologi, neurologi, salvate vite. È quello che fate, ed è una delle cose più belle della storia, lo so bene. Ma io ho scelto ortopedia perché quello che volevo fare era rendere la vita delle persone migliore di quello che sarebbe stata senza di me. Ricostruire braccia e gambe dal niente, far funzionare mani distrutte da pesi insostenibili, far camminare di nuovo dritto un ragazzo con il collo rotto. Non volevo salvare la vita delle persone, non solo quello almeno, per poi lasciarli con cicatrici impossibili da mandar via. Voglio cambiare le loro vite, fare la differenza, combattere per chi ha già combattuto abbastanza. Per questo ho scelto ortopedia.”
I suoi occhi si erano illuminati. Mi sentii meglio. Quasi felice. Forse proprio felice.

Amavo Arizona.
Ogni giorno di più me ne rendevo conto. Ogni giorno di più, ero felice.
Ma non avevo mai considerato l'ipotesi che lei potesse essere troppo stanca per accorgersi dei passi avanti che stavo facendo.
Non avevo mai pensato che potesse essere troppo tardi.
“Lei mi ama...qualche volta. Le altre volte, sta...guarendo. Non posso competere con un ricordo: i ricordi sono perfetti. Il nostro subconscio sceglie per noi quello che vogliamo ricordare. Lei mi ama, ma è innamorata di un ricordo. E io non posso essere meglio di un ricordo.”
Non avrei voluto origliare. Successe e basta.
Stava parlando con Teddy.
In silenzio, me ne andai.

Mi mancava ancora Addison. Era stata la mia migliore amica. Ma più mi avvicinavo ad Arizona, più capivo che era stata ben poco più di quello. E Arizona era così tanto in più, per me. Non volevo perderla, non potevo. Perdere lei, mi avrebbe distrutto.
Amai Arizona, anche se non glielo dissi. Feci però di tutto per dimostrarglielo.
Le chiesi di venire a vivere con me. Avevo bisogno che ci muovessimo in avanti insieme.
Ma tutto, qualsiasi cosa facessi, non sembrava abbastanza.
Poi, una sera, stavamo litigando. Dovessi dirlo adesso, non ricordo neanche più per cosa.
Dopo diversi minuti e un'infinità di urla, ci sfuggì di mano.
“Perché non riesci a credermi quando dico che voglio che tu stia con me?”
“Perché non riesci a guardarmi e vedere me” mi rinfacciò.
Sembrò pentirsene velocemente, quando vide quanto mi avevano ferito quelle parole. Non ci credeva neanche lei, e io lo sapevo. Ma questo non mi fece tenere la bocca chiusa.
“Forse ci riuscirei se ti fidassi di me il tempo minimo necessario per permettermi di vedere chi sei davvero.”
“Calliope, mi fido di te.”
“Non ti fidi di me” replicai, alzando la voce. “Ti fidi di me, per cosa? Per la spesa al supermercato o per fare il bucato. Ti fideresti di me perfino se avessi tra le mani la tua vita. Ma non ti fidi di me quando dico che voglio che tu sia qui. Non ti fidi di me quando ti dico che ti amo, di certo più di quanto ho mai amato qualcuno in vita mia, e perfino più di quanto ho mai creduto fosse possibile in assoluto. Quando ti dico questo, tu non riesci a fidarti di me. Non riesci a credermi. Non mi credi neanche ora.”
“Perché dovrei crederti, Calliope? Io non mi merito che qualcuno come te mi ami.”
Devo ammettere che quello mi spiazzò. Mi ci volle qualche momento per assorbire le sue parole, le lacrime che minacciavano di cadere dai suoi occhi, ma non lo facevano, e la sua espressione timorosa, non sapevo di cosa esattamente.
“Arizona, tu non riesci a vedere le cose come le vedo io, e vorrei davvero che riuscissi almeno a capire come è la vista da dove mi trovo. Vorrei che riuscissi a capire, vorrei che almeno ci provassi. Ma se non vuoi farlo non importa. Se non mi ami, non importa” le cadde qualche lacrima dagli occhi, così mi sbrigai a farle capire cosa intendevo. “Ti amo abbastanza per entrambe. Posso amare io te, per tutte e due. Anche se non mi ami. Anche se non mi credi.”
La vidi piangere qualche lacrima e feci un passo verso di lei, che contemporaneamente fece molti più passi verso di me e mi abbracciò, con il bisogno di sentirmi contro di sé. Ricambiai velocemente, circondandole con un braccio la vita, con l'altro le spalle.
“Sai perché?” sussurrai tra i suoi capelli, con le lacrime agli occhi anch'io. “Perché tu non sei un ricordo, ma sei perfetta. Sei molto, molto meglio che perfetta.”
Mi guardò negli occhi.
Erano del celeste più bello che avessi mai visto, resi lucidi dalle lacrime non piante e brillanti dalle parole che le avevo detto. Arizona era la cosa più vicina alla perfezione che avrei mai toccato in vita mia.
Fu perdendomi in quell'immagine di assoluta e indiscutibile perfezione che lo sentii.
Come il ritmo scandito da un vecchio orologio a pendolo, ormai troppo usurato per essere di alcuna utilità.
Era basso, debole, ma era costante. Molto lento. Ma inconfondibile.
Il mio cuore stava battendo.
Ero viva.





Fatemi sapere cosa ne pensate, le critiche sono sempre bene accette.

A presto! =)




Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** La prima cosa di cui ci siamo accorte ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete grandi! =)

Caccia alla citazione da Harry Potter! Chi riuscirà a riconoscerla? XD

Avvertimenti: AU (ma sono sempre chirurghi)


Buona lettura!

Un grazie enorme a Trixie per tutti i meravigliosi banner che sta facendo per le shot. Grazie davvero, sai quanto li adoro e non riesco a trovare altre parole, soprattutto per questo. Un abbraccio!

Image and video hosting by TinyPic



La prima cosa di cui ci siamo accorte


“Non c'è poi molto da dire, no?” chiese, stringendosi nelle spalle.
“Intende per quanto riguarda la trama?”
“Esatto. È solo una storia. Una storia come tante.”
“Ma è davvero tutto qui? Insomma, il fatto che le protagoniste siano due donne, lo rende in qualche modo un libro particolare.”
“Io non la penso così. Per me è solo una storia, proprio come ho detto. La storia di due persone che per tutta la vita non fanno che passarsi accanto senza riuscire mai a sfiorarsi. La storia di due persone che si amano. Tutto qui.”
“Ma allora cosa è che rende questo libro così straordinario?”
“Non dovrebbe chiederlo a me, questo” rispose ridendo.
L'intervistatrice le sorrise. “Lei è l'autrice, in fondo, no?”
“Ho scritto il libro, è vero. Ma chi meglio delle persone che hanno vissuto questa storia potrebbe sapere perché è tanto straordinaria?”
“Sta dicendo che i personaggi sono veri?”
“Dico che sono verosimili. Considerando tutte le persone che vivono o che hanno vissuto, crede davvero che nessuno si sia mai trovato in questa situazione? Come diceva il filosofo Kant, il mondo in cui viviamo non è che l'insieme di infinite esperienze.”
“Ci racconti un po' di queste due persone. Ci dica come è possibile che due donne che si amano così tanto non riescano a stare insieme.”
“Succede” rispose con un mezzo sorriso triste sulle labbra. “Succede tutto il tempo. Ogni giorno, camminando per strada, passiamo affianco a persone che, probabilmente, non rivedremo mai più. Siamo distratti. È la natura umana, capisce? Siamo troppo occupati a fare altro. Cerchiamo di vedere cose straordinarie puntando il naso verso l'alto e non vediamo che le cose più speciali sono proprio davanti a noi. Passiamo la vita a non accorgerci. È triste. Ma è anche la verità.”
“Perdoni l'insistenza, ma da come ne parla si direbbe che questa non sia solo una storia qualsiasi, ma proprio la sua.”
Guardò verso il basso solo per un secondo, riprendendosi immediatamente dopo e tornando a guardare la conduttrice.
“Non è rilevante di chi sia la storia. Ogni storia è importante. Ed ogni storia potrebbe diventare la nostra. Ma in questo particolare caso, no, non è la mia.”

Jane non conosceva la maggior parte dei ragazzi della sua classe.
E non era mai stata una persona molto espansiva. Figuriamoci se aveva intenzione di diventarlo durante il primo giorno alle superiori.
Si sedette accanto alla sua migliore amica, cercando di non attirare attenzione in alcun modo.
Era sulla sinistra, in seconda fila.
Al suono della campanella tutti erano seduti e quando la professoressa di italiano entrò in classe, calò il silenzio. Mentre faceva l'appello, cercò di memorizzare alcuni dei nomi che sentiva leggere.
La sua attenzione fu catturata da una ragazza seduta nel primo banco della fila di destra, vicino al muro, con accanto un'altra ragazza.
Stavano parlando sottovoce, cercando di non farsi notare dall'insegnante, guardandosi attorno di tanto in tanto.
Alla fine dell'ora si alzarono in piedi, e la sua migliore amica, Lily, andò subito verso la ragazza che era stata seduta affianco alla persona che aveva attirato la sua attenzione.
Si salutarono, iniziando a parlare.
Lei spostò lo sguardo su Jane, rendendosi conto che non erano mai incontrate prima.
Le porse timidamente la mano.
“Beth Ramirez” si presentò.
“Jane Capshaw” prese la sua mano con gentilezza, rivolgendole uno dei suoi sorrisi completo di fossette.


“Allora, parliamo del libro. Ci sono due ragazze che si conoscono quando entrambe iniziano le superiori in una nuova città, giusto? Entrambe si trasferiscono a New York a causa del lavoro di uno dei loro genitori.”
“Esatto. Si vedono, si attraggono, si parlano.”
“Ma il legame che hanno è strano. Non sono così amiche, ma entrambe nutrono qualcosa nei confronti dell'altra, giusto? Non è solo l'immaginazione del lettore.”
“Assolutamente no. Però all'inizio non capiscono bene cosa sia quella sensazione di farfalle allo stomaco che hanno. Si trovano all'improvviso a fare i conti con tutte queste sensazioni nuove, è normale che siano spiazzate.”
“Concordo, direi che non potrebbe essere altrimenti. Proprio per questo le due si girano attorno, senza mai aprirsi completamente, senza diventare migliori amiche o cose del genere.”
Lei si limitò ad annuire.
“Ed è a quel punto che una delle due viene di nuovo trasferita. Stavolta a Baltimora.”
Annuì di nuovo. “Suo padre veniva spostato in continuazione” fece notare.
Fu la volta dell'intervistatrice di annuire, poi proseguì a leggere il riassunto che aveva in mano.

“Solo pochi mesi a New York, ed ecco che me ne sto andando nuovamente” sospirò.
“Ci terremo in contatto, Jane, non è vero?”
“Certo, Lily.”
“Odio vederti andar via e non poter fare niente.”
“Lo odio anch'io. Ma le cose sono come sono. Mi mancherai.”
“Mi mancherai anche tu.”
Rimasero in silenzio.
“Vorrei parlare anche con Beth, prima di andarmene.”
La guardò, confusa. “Non credevo foste così amiche.”
Lei si limitò a stringersi nelle spalle. “Le dirò comunque ciao.”


“Alla fine del primo anno di liceo Jane se ne va. Ma, circa un anno dopo, all'inizio del terzo, ritorna a New York.”
“Proprio così. Ritrovando tutte le persone che aveva lasciato, solo che sono un anno più grandi.”
“Noi però non sappiamo cosa è successo a Jane nel frattempo, perché il libro segue quello che sta succedendo a Beth” fece notare la conduttrice. “Sappiamo solo che Beth ha iniziato a frequentare un ragazzo, anche lui della loro stessa classe.”
“Matt.”
“Ed è a questo punto il colpo di scena. Quando Jane ritorna molte cose della sua vita sono diverse, ha detto ai suoi genitori di essere lesbica, ed ecco che iniziamo a capire cose erano le sensazioni che provavano quando erano insieme.”
“Sì, diciamo che vengono spiegate quelle di Jane, mentre Beth non si rende conto che potrebbe trattarsi di lei. Che quando tutti parlano di quella povera ragazza che non sarà mai in grado di avere una vita normale perché tutti continueranno a discriminarla, potrebbero parlare di lei. Non è facile rendersene conto. E quando lo fai, di solito, è sempre con qualche attimo di ritardo.”
“Precisamente. Perché, facciamo notare, Beth è all'oscuro del fatto che Jane è attratta dalle ragazze, le uniche persone che lo sanno sono i suoi genitori e Lily, con cui si era tenuta in contatto.”

Elizabeth era bellissima, proprio come se la ricordava.
Forse di più.
I suoi capelli erano più corti, aveva perso un po' di peso, ed i suoi occhi racchiudevano tracce di malinconia che era incapace di giustificare.
Sapeva che aveva iniziato a vedere un ragazzo.
Si chiamava Matt, era nella stessa classe in prima superiore, e fu in classe insieme a loro anche in terza.
Dire che a Jane non piaceva era un eufemismo. Se avesse potuto trovare una scusa, anche una squallida, gli avrebbe volentieri rotto il naso con un pugno.
Lui e Beth si lasciavano in continuazione, perché lui cercava da altre ragazze quello che lei non era disposta a dargli.
Le parlava, ogni tanto.
Ma cercava di tenersi lontano, la maggior parte delle volte, visto che sapeva che lei non avrebbe mai potuto ricambiare quello che provava nei suoi confronti.
Però c'era qualcosa che la spingeva a cercarla con lo sguardo ogni volta che entrava in un'aula, qualcosa che la spingeva ad avvicinarsi ogni volta che la vedeva da sola, a sorriderle ogni volta che la incontrava per i corridoi.
La stava distruggendo. Il non poter stare con lei, la stava distruggendo.


“Se non le dispiace, vorrei leggere un passo del libro in cui Jane parla dei suoi sentimenti per Beth alla sua migliore amica.”
“Faccia pure.”
Si schiarì la voce. Io alzai il volume della televisione. “Sono ossessionata. Sono...”

“Sono ossessionata. Sono tormentata dal pensiero che lui sta sprecando tutte le sue occasioni, ancora e ancora, mentre io non ne avrò mai neanche una, con lei. E so che non è colpa sua, lei non può farci niente, ma io non posso evitare di sentirmi come se fosse la cosa più ingiusta mai successa al mondo.”
Lily la guardò, dispiaciuta.
Ma non era colpa sua.
Non era colpa di nessuno.
“È ingiusto. È ingiusto, perché io sono una brava persona. Mi merito un'occasione, e so che potrei renderla felice. È ingiusto. Ma, alla fine, quando mai la vita è giusta in qualcosa?”
“Se ci fosse anche un po' di giustizia, tu avresti la tua occasione, Jane. Ma hai ragione. La vita non lo è mai. Cose come questa succedono tutto il tempo. La gente passa affianco alla sua anima gemella di continuo, senza riuscire a voltare lo sguardo.”


“Quello che Lily spiega a Jane è quello che ci stavi dicendo prima.”
“Sì. A volte non ci accorgiamo. È più forte di noi. E non sono sempre le cose inutili, di poco conto, quelle a cui non facciamo caso. A volte il nostro più grande rimpianto è quello di non esserci accorti di qualcosa che avremmo disperatamente voluto vedere, che avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi in modo drastico, portandoci da una condizione di apatia verso la vita sulla strada per la felicità, da una vita mediocre ad una speciale, dalla media delle persone ad una di quelle che hanno il privilegio di conoscere davvero l'amore delle loro vite. Invece, non ci accorgiamo. E rimaniamo al buio, cercando l'interruttore della luce invece di accendere la torcia che abbiamo a portata di mano. E continuiamo a vivere.”

La vide da sola, seduta su un muretto, nel cortile sul retro della scuola.
Si avvicinò in silenzio, non era sicura se volesse stare sola o meno.
“Ehi” salutò in un sussurro, facendola voltare.
“Ehi” rispose, riscuotendosi da quel filone di pensieri che sembrava averla portata ad universi di lontananza da lì.
“Sembri turbata.”
Tornò a guardare in avanti. Poi sorrise tra sé e sé.
“Pensavo solo al diploma.”
“Oh, ora sì che capisco perché sei turbata” scherzò Jane, sedendosi accanto a lei. “Non dartene troppo pensiero, mancano ancora sei mesi alla fine dell'anno.”
Sospirò. “Hai ragione. È solo...un brutto periodo.”
Jane le sorrise. “Andrà meglio. Le cose andranno meglio, Elizabeth.”
“Lo spero. Lo spero davvero” sussurrò distrattamente.
La guardò. E, per Jane, lei era perfetta. I pochi, minuscoli, difetti che aveva, non facevano che renderla ancora più bella, ai suoi occhi.
Fu in quel momento che realizzò con rassegnazione che, una parte di se stessa, la maggior parte di se stessa, sarebbe stata innamorata di lei per sempre.


“A questo punto le loro strade si separano. Scelgono università diverse, e vanno entrambe per la loro strada.”
“Esatto. Entrambe vogliono fare del bene, cercare di aiutare gli altri, ed entrambe giungono alla stessa conclusione. Diventare chirurghi. Ma Beth va alla Columbia, mentre Jane alla Hopkins.”
“La scelta di Beth di rimanere a New York è dettata dal fatto che così può rimanere con Matt?”
“In un certo senso. Iniziamo a vedere il carattere di Beth, che farebbe di tutto per rimanere con la persona che ama. Come diceva Jane Austen: 'Non so cosa significhi amare a metà. I miei affetti sono sempre eccessivi'.”
“Eppure Beth si rifiuta di essere, diciamo così, intima con Matt.”
“Il problema, qui, è che lei non si sente a suo agio con l'avere rapporti con un ragazzo. Sta iniziando a capire meglio la sua sessualità, e quel tipo di rapporto la spaventa, non è quello che vuole, e questo la spaventa ancora di più.”
“Beth quindi non vuole avere rapporti con uomini in generale.”
Lei sorrise. “Credo che questa sia più o meno la definizione di 'lesbica', sì.”
Anche la conduttrice rise. “Nel frattempo le due vanno avanti con le loro vite, che continuano a intrecciarsi - Jane torna a New York, fanno colloqui nello stesso ospedale per la specializzazione, scelgono lo stesso ristorante la stessa sera, festeggiano i compleanni nello stesso locale, anche se in mesi completamente diversi - ma non riescono mai ad incontrarsi di nuovo faccia a faccia.”
“Giusto.”
“In più, entrambe, secondo qualche sorta di intesa, non sviluppano mai relazioni a livello fisico. Come se quel legame che le univa in prima superiore fosse troppo puro per essere contaminato dalla fisicità con altre persone.”
“Esattamente. Entrambe si sentono come se stessero tradendo se stesse ogni volta che sono sul punto di fare sesso con qualcun altro. Così non lo fanno.”
“Le due si incontrano finalmente in una caffetteria di New York quando sono entrambe al quarto anno di medicina.”

La vide entrare, mentre era seduta ad uno dei tavoli.
Alzò lo sguardo, quasi come se i suoi occhi fossero stati guidati da una calamita verso quelli della donna che stava entrando.
Fu paralizzata. Ma Jane si mosse, andandole incontro.
“Jane” sussurrò riprendendosi dallo stupore. “Non posso crederci” le sorrise, abbracciandola. “È passato così tanto tempo.”
Lei ricambiò l'abbraccio e, quando si allontanò, ricambiò anche il sorriso.
“Elizabeth. Non pensavo che fossi ancora a New York. Ho sentito che i tuoi sono tornati in Florida.”
“Ed io credevo vivessi in Maryland.”
“Infatti. Sono a casa per il fine settimana.”
“Come vanno le cose?”
“Bene” mentì. “Molto cambiate, ma, sai, è la vita. Tu, come va?”
“Ok.”
Elizabeth era sempre bellissima. Sentì il cuore stringerlesi in una morsa al centro del petto e poi salire su, su fino alla gola. E fermarsi lì, come se avesse trovato il posto più comodo al mondo, e avesse intenzione di metterci casa.
“Ehi, sei arrivata” Jane fu salutata da una ragazza dai capelli bruni, che le andò incontro e la baciò a stampo sulle labbra. “Come è stato il volo?”
“Ahm...Elizabeth, ti presento Lauren. La mia ragazza.”
Il suo sorriso sparì, per un secondo. Ma tornò a piena forza il secondo successivo.
“È un piacere conoscerti. Sono una vecchia compagna di classe delle superiori di Jane” le strinse la mano.
“Ti aspetto al tavolo” si congedò Lauren.
Jane guardò Elizabeth negli occhi, cercando di convincere se stessa a non scoppiare in lacrime nel caso in cui avesse visto disgusto in quegli splendidi occhi scuri.
“Posso farti una domanda?” chiese Beth dopo un lungo silenzio carico di aspettativa.
Annuì.
“Come l'hai capito?” chiese, sembrando onestamente interessata.
Le sorrise. “Beh, il fatto che non mi piacessero i ragazzi è stato un bell'indizio.”
Lei non rispose.
“Anche io ho una domanda.”
“Spara.”
“Sei felice?”
Lei distolse lo sguardo per qualche momento. Scosse la testa, un sorriso sulle labbra che riusciva a scaldarle il cuore.
“Non direi. No.”

“Quella sera Beth torna a casa e decide finalmente di dare a Matt quello che vuole, mentre Jane entra in intimità con Lauren. Perché proprio adesso?”
“Ecco, la loro verginità era qualcosa che, in qualche modo, le legava l'una all'altra. Entrambe si rendevano conto che fare sesso con qualcun altro significava andare avanti, abbandonare il sogno adolescenziale di un amore proibito, non ricambiato, ed entrare nel doloroso mondo reale in cui quel desiderio intimo e profondo dell'anima non diverrà mai realtà.”
“Quindi si allontanano.”
“Sì.”
“Ma, un anno - e briciole - dopo, si incontrano di nuovo in un ospedale di Seattle, dove entrambe stanno per iniziare la loro specializzazione.”
Annuì.
“Si incontrano, si parlano. Ma qualcosa è diverso, qualcosa è cambiato. Beth ha lasciato Matt, ha iniziato ad esplorare la sua sessualità, ha avuto la sua prima fidanzata. Jane è single, ha tagliato i ponti con il passato.”
“Esatto.”
“Sembra il momento perfetto, il momento di collisione. Ma Jane non esce con donne senza esperienza in fatto di donne, quindi, dopo un primo passo nei confronti di Beth, è proprio lei che la rifiuta.”
“Jane è convinta che finirà per soffrire, è quello che la sua esperienza le ha insegnato, quindi è quello che lei deve credere.”
“Finché Jane riesce a superare le sue paure. Prende il coraggio a quattro mani e chiede a Beth di uscire. Ma a questo punto veniamo a sapere che Beth ha scoperto da uno dei loro colleghi che Jane non vuole avere bambini. Quindi stavolta è lei a rifiutare Jane.”
“Si stanno rincorrendo. Come hanno fatto per tutte le loro vite, no?” tentò di spiegare. “Si corrono dietro, girandosi attorno, non trovando mai un modo per riuscire a incontrarsi. Si avvicinano, alcune volte anche di molto, ma alla fine non riescono mai a toccarsi.”
“Dopo circa cinque anni di specializzazione le loro strade si separano ancora, quando Jane decide di partire per l'Africa e Beth va in Botswana con i corpi di pace.”
“Come ho detto, entrambe volevano aiutare gli altri.”

“Quanto hai deciso di rimanere là?”
“Un anno. Tu?”
“La borsa di studio dura tre anni.”
“Giusto. Me lo avevi detto.”
“Allora...Ciao, Elizabeth.”
Si voltò, sperando che lei la fermasse.
“Jane.”
E lo fece.
“Se cambiassi idea, tra un anno esatto, sarò su un volo che torna dal Botswana in questo aeroporto.”
“E se tu cambiassi idea, io sarò in una clinica in Malawii, in qualsiasi momento tu voglia.”
“Ci vediamo, Jane” la salutò, incamminandosi verso il gate.

“Beth non cambierà idea, però. Vuole avere un bambino, non riesce a costringere se stessa a rinunciarci. Sarà Jane a prendere un aereo che la porterà a Seattle il giorno in cui Beth sarebbe dovuta tornare. Attende l'aereo dal Botswana, ma di lei nessuna traccia. Così, delusa ed arresa, decide di tornare in Malawii, sicura di essere arrivata troppo tardi.”
Annuì, per l'ennesima volta.
“Ma quando arriva alla clinica scopre che, mentre lei era a Seattle, Beth era lì a cercare lei. Una volta saputo che Jane era già a Seattle era saltata sul primo aereo, quindi anche Jane si dirige in aeroporto, ma una volta lasciata la clinica finisce nel mezzo di un atto terroristico. Le sparano. Non riuscirà a prendere quell'aereo per Seattle. E Beth penserà che abbia cambiato idea ancora una volta.”
“Beth è molto insicura per quanto riguarda l'amore. È stata ferita diverse volte.”
“Vero. Passano un paio di mesi e Jane si rimette in sesto, andando finalmente a Seattle, riottenendo il suo vecchio lavoro nello stesso ospedale di Beth.”
“Ma è troppo tardi” puntualizzò l'autrice.
“Precisamente. A quel punto, Matt è andato a Seattle per consolare Beth e i due sono finiti a letto insieme. Adesso lei è incinta, e Jane non vuole essere la ruota di scorta.”
Annuì di nuovo. “È circa il terzo mese di gravidanza, quando Beth perde il bambino.”
“Non riesce più neanche a guardare in faccia Jane, perché è convinta che a lei non sia affatto dispiaciuto. Finché un giorno la trova a piangere in una delle stanze dell'ospedale. Vorrei leggere questo passo dal libro, credo sia il momento più importante.”
“Faccia pure.”

“Stai...piangendo?”
“Già.”
“Perché?”
Scosse la testa.
Beth le si sedette affianco.
“Credevo che le cose si sarebbero sistemate, sai?”
La guardò, confusa.
“Tra me e te. Avevo questo film, in testa, questa storia, in cui io e te alla fine riuscivamo a mettere da parte l'orgoglio e finivamo con l'avere la nostra famiglia.”
“Jane...”
“Ma adesso, invece, mi sento solo come se avessi perso un bambino anche io. Ero così sicura, Elizabeth, così sicura che avremmo risolto le cose e avremmo cresciuto questo bambino insieme, ma mi sbagliavo.”
“Jane.”
“Mi sbagliavo, così tanto. Abbiamo passato la vita a non fare altro che aspettare un'occasione, come se dovesse piovercene una dal cielo. Avremmo dovuto prendercela con la forza, invece, la nostra occasione. E forse, chissà, non ne avremo mai una. Forse ne abbiamo sprecata una di troppo.”
Quando finì di parlare alzò finalmente lo sguardo. Beth aveva le lacrime agli occhi.
“Per tutte le nostre vite, Elizabeth, non abbiamo fatto altro che rincorrerci, senza riuscire mai a trovarci. Ci siamo sempre passate vicino, senza mai toccarci. Io e te, siamo come gli elettroni che ruotano attorno ad un atomo. Ci guardiamo da lontano, consapevoli che le orbite che percorriamo non ci porteranno mai ad incontrarci. Eppure continuiamo a sperare di riuscire a rompere le leggi della chimica, ad uscire dalle orbite.”
“Ma non possiamo uscirne, non è vero?” chiese.
Non le rispose, prese invece il suo viso tra le mie mani, baciandola sulle labbra.
Fu un'esplosione di emozioni. Come un bambino che vede i fuochi d'artificio per la prima volta in vita sua. È spaventato dal rumore assordante che gli entra fin dentro la testa, ma non riesce a distogliere lo sguardo da quelle luci colorate che sembrano per un attimo riuscire ad illuminare l'intera esistenza. C'è luce, colore, scintille. Vita.
E, un attimo dopo, nero. Un attimo dopo, tutto si spegne. Non rimane niente. La notte torna, insistente, più scura di prima. La luce, il colore, le scintille, tutto svanisce. Perfino la vita. Non era altro che un'illusione durata un attimo soltanto.
Ma, per un attimo, ti sei sentito come se con un'occhiata riuscissi a cogliere i dettagli dell'intero universo.
Per un secondo, hai capito cos'è l'amore.


“Si scambiano un bacio. Ma Beth non ha ancora superato il trauma che l'aborto le ha causato, quindi chiede a Jane di darle più tempo. Lei però riceve un'offerta di lavoro che davvero non può rifiutare a New York, e decide di tornare nella loro città natale. Beth si convince che Jane abbia rinunciato, e anche Jane è consapevole di aver rinunciato. Ma era convinta che Beth non le avrebbe comunque mai dato l'occasione che stava inseguendo.”
“Sono spaventate. Sanno di essere innamorate l'una dell'altra, ma sono entrambe terrorizzate da quello che il perdere la persona che hanno amato fin dalla prima superiore potrebbe fare ai loro cuori. Sono terrorizzate.”
“Si arriva quindi al giorno dell'ultimo dell'anno. Beth va a New York, riesce quasi per miracolo a trovare Jane in mezzo al caos di Time Square. È destino, non ci sono altre spiegazioni. È a quel punto, che le dice...”

“Ecco qui. È adesso.”
Jane la guardò, confusa.
“Proprio adesso. È la nostra occasione” spiegò. “Ora o mai più. Avevi ragione. Non ci sarà alcuna occasione che ci pioverà dal cielo. Quindi ho creato io l'occasione per noi. Non dobbiamo fare altro che voler stare insieme e poi scegliere di stare insieme.”
“Elizabeth, io ti amo. Ti ho amato da quando avevo quattordici anni in prima superiore. C'è una parte di me - la maggior parte di me - che ti amerà per sempre.”
Fu allora che si arrese. Aveva capito.
“Ma?” chiese, il tono arreso. Gli occhi lucidi.
“Io e te siamo come due elettroni su orbite diverse. Non possiamo fare altro che guardarci da lontano.”
Capì improvvisamente, quando vide Lauren alle sue spalle, che si faceva strada tra la folla.


“Beth torna a Seattle. Jane capisce di averla persa per sempre. Ma non riesce ad accettarlo, quindi, dopo aver provato inutilmente ad andare avanti, va a Seattle, nel tentativo di mettere fine al circolo vizioso che le ha portate dove sono adesso.”

Aprì la porta.
“Mi dispiace. Per tutto quello che ho fatto. Mi dispiace per non essere riuscita a cogliere la prima occasione al volo come avevo promesso a me stessa che avrei fatto. Mi dispiace per non essere riuscita a renderti felice come avevo promesso a me stessa che avrei fatto. Mi dispiace per tutto.”
Rimase in silenzio diversi istanti.
“Non posso vivere senza di te, Elizabeth. Non posso essere felice, senza di te.”
“Lo so, Jane. E sai che vale lo stesso per me, lo sai.”
Fu confusa dalle sue parole.
“Ma...Sei in ritardo di qualche giorno.”
Fu allora che notò l'anello sul dito della mano sinistra che stava tenendo appoggiata alla porta.
“In fondo” le disse, e Jane non era sicura che sarebbe mai riuscita a dimenticare la voce che aveva, perché era la voce più triste che avesse mai sentito. “Io e te siamo come due elettroni su orbite diverse.” E non avrebbe mai dimenticato neanche i suoi occhi, perché erano i più tristi che avesse mai visto. “Non possiamo fare altro che guardarci da lontano.”


“Beth sposa Matt. Hanno una figlia. Jane sposa Lauren, che si è dovuta trasferire a Seattle per lavoro, quindi Jane torna a lavorare in ospedale insieme a Beth. E le due continuano ad essere vicine senza mai riuscire a toccarsi. Entrambe nella propria orbita. Entrambe convinte che l'altra sia andata avanti. Entrambe si sbagliano. Entrambe continuano a non accorgersene.”
Distolse lo sguardo. Sembrò pensarci su a lungo, prima di rispondere.
“No. No, alla fine, loro lo sanno. Quando ami qualcuno così tanto, c'è qualcosa che cambia dentro di te, e chi ti conosce da così tanto tempo non può che notarlo. Lo sanno, in qualche modo.
Riescono ad accorgersene, finalmente.”
“E allora perché non fanno niente?”
“Ci sono un sacco di motivi. Jane non è ancora sicura di volere un bambino, mentre Beth ha una figlia da crescere. Sono sposate con altre persone, persone a cui vogliono bene, anche se non sono innamorate di loro. Reyes diceva: 'Con uno sforzo più o meno grande ci si abitua a chiunque. Ma abituarsi non è amare'.”
“Quindi dopo tutto questo tempo, dopo tutto quello che è successo, loro due ancora si amano? E come è possibile che ancora non riescano a stare insieme?”
Si strinse nelle spalle. “Perché sono come due elettroni su orbite diverse.”
“Non possono fare altro che guardarsi da lontano?” chiese la conduttrice.
Lei scosse impercettibilmente la testa.
“Mentre si stanno avvicinando, ad un certo punto, le loro cariche le costringeranno a respingersi.”
“Pensa che il fatto che sono entrambe personaggi poco propensi a scendere a compromessi abbia influito nel fatto che non sono mai riuscite a incontrarsi a metà strada?”
“Sicuramente. Ma il problema più grande rimane la faccenda del bambino. Su qualcosa del genere, come si può trovare un compromesso? Non possono avere mezzo bambino, oppure avere un bambino nei giorni pari soltanto.”
“Crede che tra loro avrebbe mai potuto funzionare?”
“Beh, il libro non parla di altro che di questo. Credo sia piuttosto chiaro che nessuna delle due amerà mai qualcuno come si sono amate a vicenda. Le loro relazioni sono destinate al fallimento, o all'infelicità.”
“Infatti Jane divorzia e Beth è palesemente infelice” intervenne l'autrice. “Ma io le ho chiesto se tra loro due avrebbe mai funzionato.”
Calliope guardò in basso, incapace di rispondere, di ammettere quello che la conduttrice voleva farle dire.
Poi alzò gli occhi verso la telecamera e, per un attimo, ebbi l'impressione che stesse cercando i miei occhi attraverso lo schermo.
“No. Tra loro non avrebbe mai potuto funzionare.”
Ci furono lunghi momenti di silenzio. Guardò di nuovo in basso.
“Non per le loro differenze” continuò. “E neanche per mancanza d'amore, come mi pare ovvio. Tra loro non potrebbe funzionare perché entrambe hanno l'unico difetto che l'altra non riuscirebbe mai a tollerare in una relazione. Jane non riesce a impegnarsi, e Beth non può permettersi una relazione con qualcuno che non è in grado di impegnarsi, visto che ha una bambina. E Beth segue sempre ciò che le detta il cuore. Jane le ha rinfacciato più di una volta di averlo fatto. Preferirebbe che prendessero decisioni razionali insieme.”
“Tutto qui?”
“Sono due pezzi di puzzle che combaciano alla perfezione, ma entrambi hanno lo stesso angolo leggermente in fuori. Per quanto provi ad affiancarli, non combaceranno mai alla perfezione. Jane ha problemi di fiducia e Beth ha problemi a non fidarsi. Si completerebbero alla perfezione, ma non riescono ad accorgersi del fatto che, se stessero insieme, nessuna delle due ferirebbe l'altra. Così continuano ad avere paura.”
“Ma, se superassero le loro paure, potrebbero stare insieme?”
Lei le sorrise.
“Nessuno supera mai una paura. Crede solo di averlo fatto, finché non si trova di nuovo faccia a faccia con essa.”
Nello studio calò il silenzio.
“Che dire? La storia è chiara, il libro meraviglioso. C'è ancora una cosa che mi tormenta, però. Davvero questo libro non è autobiografico?”
Calliope rise.
“No, non lo è.”
“Ne è sicura?” insisté con un sorriso. “Perché ho controllato, e lei ha vissuto in Florida, si è trasferita a New York quando ha iniziato il liceo, ha frequentato la Columbia dove si è laureata in medicina, si è specializzata a Seattle.”
“Impressionante quello che si può scoprire su Facebook” fu la risposta. “Ma le assicuro che la storia non parla di me. Non ho una figlia, e non sono sposata. È solo una storia.”
“D'accordo, l'ultima domanda riguardo il libro.”
“Dica pure.”
“Come sarebbe finita questa storia, se fosse stata reale?”
Lei alzò le sopracciglia, sospirando. Rifletté qualche istante.
“Forse esattamente come è finita. Forse in tutt'altro modo. Non saprei davvero cosa rispondere. Credo che dipenda dalle decisioni che prenderebbero le due persone in questa situazione.”
“E se fosse stata lei?”
“Beh, se fossi stata io...non ci sarebbe stata nessuna storia, credo. Io non avrei mai lasciato andare una persona di cui ero così tanto innamorata. Credo che io avrei capito subito qual'era l'unica persona che il mio cuore aveva notato. Io tendo ad accorgermi delle cose.”
“C'è qualcosa che vorrebbe aggiungere?”
Ci rifletté qualche momento.
“Sì. In realtà, c'è. A tutte le Beth e le Jane che sono lì fuori, vi prego, non aspettate. Non ci sarà mai un momento giusto. Ogni momento che avete per dire alla persona che amate ciò che provate, quello è un momento più che perfetto. Perché, per quanto sembri impossibile, un giorno sarà troppo tardi. Aprite gli occhi, vivete a cento all'ora, ma fermatevi sempre per guardarvi intorno e accorgervi delle cose.”
“Bene, per oggi è tutto. In studio abbiamo avuto Callie Torres, con 'I didn't notice'. Vi aspetto...”
Spensi il televisore. Ero già fin troppo in ritardo.

“Sorpresa!”
Entrò nell'appartamento, guardandosi attorno, sorpresa di vedere lì amici e colleghi.
Si passò velocemente una mano sulla guancia, come se si stesse asciugando una lacrima o qualcosa del genere.
“Che...Che sta succedendo?” chiese a nessuno in particolare.
“Callie, è il tuo compleanno. E hai fatto un'intervista ad uno dei programmi pomeridiani più seguiti d'America. Ci sembrava giusto dare una piccola festa” spiegò Mark per tutti noi.
“Gentile da parte vostra, ragazzi.”
“Non tutti i giorni si compiono trent'anni.”
Lei sorrise debolmente, posando giacca e borsa.
Salutò tutte le persone che avevano invaso il suo appartamento. Finalmente, diverse decine di minuti dopo, ebbi un momento da sola con lei.
“Ho finito il libro ieri. Giusto in tempo per guardare il programma senza farmi raccontare il finale dalla presentatrice” scherzai.
Lei mi sorrise educatamente.
“Allora...Davvero è tutto inventato di sana pianta?” chiesi.
“Già” rispose senza convinzione.
“Sai, più o meno tutti, in questa stanza, sono convinti che il libro parli di noi.”
“Oh, no” rise, svuotando il bicchiere di champagne che aveva in mano e riempiendoselo di nuovo con la bottiglia che aveva nell'altra. “No, come potrebbe parlare di noi?” rise di nuovo.
Io mi feci contagiare dalla sua risata, sebbene leggermente confusa.
“Credo che sia perché abbiamo fatto le superiori insieme. Ricordi la prima volta che ci siamo incontrate?” chiesi.
“Come potrei dimenticare” rispose, la voce stranamente più asciutta di quanto avrebbe dovuto essere quella della donna che era stata la mia migliore amica per più di quindici anni.
“Ma, insomma...” continuai, iniziando a sentirmi spiazzata dal suo atteggiamento. “Noi due abbiamo fatto anche il college insieme, e la specializzazione. Non sei mai stata in Botswana, io non sono mai partita per l'Africa, nessuna di noi è sposata. Non abbiamo mai passato un giorno senza vederci o sentirci. Senza contare la cosa più evidente, cioè che io e te non siamo innamorate l'una dell'altra.”
“Mh mh” dette il suo assenso con la bocca piena di champagne, annuendo più volte, per farmi capire che avevo ragione. Ingoiò, facendo una faccia strana per un secondo, al bruciore che doveva aver sentito in gola. Poi rispose, nel frattempo versandosi un altro bicchiere. “Vero. Noi non siamo mai state innamorate l'una dell'altra” posò la bottiglia sul tavolino lì accanto, tenendo il bicchiere in mano. Se lo avvicinò alle labbra, ma poi lo allontanò nuovamente. Come se avesse deciso che, quello che stava per dire, avrebbe dovuto dirlo mentre era ancora sobria. “Io ho passato la mia intera vita ad essere innamorata di te.” Solo allora buttò giù lo spumante.
Corrugai la fronte, guardandola come se avesse appena lasciato cadere una bomba davanti ai nostri piedi.
“No. No, non è vero. Non siamo noi. Beth e Jane non si baciano che a più di metà della storia. Io e te ci siamo date il nostro primo bacio. Tutto qui.”
Lei scosse la testa, distogliendo lo sguardo.
“Tutto qui?” chiese, con la voce carica di delusione mista a incredulità, guardando verso il basso.
“No, intendevo...”
“Infatti, come ti ho detto, non è la nostra storia” mi fermò, prima che potessi scusarmi.
Tornò a guardarmi negli occhi.
“Quella è la mia storia. Io sono Jane. Io sono Beth. Sono la donna che non si fida di nessuno e che non può non fidarsi di te. Sono la donna che ama e la donna che non vuole essere amata. Sono io. Solo io. La storia parla di me, Arizona.”
“Calliope...”
“E non ha niente a che fare con te. Tu...L'unica parte del libro che riguarda te, è che tu non ti accorgi. Sei stata per tutta la tua vita voltata da un'altra parte. Tutta la nostra vita. Quindici anni, a cercare qualcosa che io avevo già trovato in te.”
“Non hai mai detto niente.”
“Non si supponeva che dovessi farlo. Ti ho baciato, quindici anni fa. Poi, come in una partita di scacchi, ho aspettato la tua mossa. Senza mai capire che tu eri già andata via e non stavi neanche più giocando.”
“No” sussurrai, scuotendo appena la testa. “No, io avrei notato una cosa del genere” cercai di razionalizzare.
Lei mi rivolse un sorriso dal retrogusto amaro.
“Eppure non l'hai fatto.”
“Era” iniziai, incapace di spiegarmi quello che stava succedendo. “Era solo il nostro primo bacio.”
“Non è mai passato un solo giorno da allora in cui io non ti abbia amato.”
“È stato quindici anni fa. Dopo tutto questo tempo...”
Lei rise piano, con dolcezza.
“Sempre” sussurrò.
Rimasi in silenzio, cercando di assorbire tutto ciò che mi aveva appena detto.
“Perché non hai detto niente?” chiesi, le lacrime agli occhi.
Lei rise di nuovo, con dolcezza. Perché quello era l'unico modo in cui mi avesse mai trattato, con nient'altro che dolcezza.
Mi rivolse un mezzo sorriso. Più sincero della maggior parte dei sorrisi completi che vedevo ogni giorno.
“Perché, come ho detto, io mi accorgo. Io mi accorgo delle cose, Arizona. E ho sempre saputo che tu non eri innamorata di me. Ogni secondo. Non c'è mai stato un attimo in cui mi sono illusa che potessi ricambiare. Io lo sapevo. Sapevo quello che provavi, e non ho comunque mai smesso di amarti, quindi l'unica persona da incolpare...sono io.”
Distolse lo sguardo, rivolgendolo in avanti e sospirando via le lacrime che aveva agli occhi.
“Sai, è la natura umana. Passiamo le nostre vite a tentare di farci notare da una persona, e solo quando abbiamo già provato tutto, solo quando abbiamo già il cuore a pezzi, capiamo finalmente che quella persona non ci noterà mai. Ad alcune persone, semplicemente, non importa di accorgersi di determinate cose. Alcune persone, non importa cosa facciamo o cosa saremmo disposti a fare, non ci vedranno mai.”
“Quindi io sono il cattivo di questa storia?” chiesi, incapace di dire altro.
Corrugò la fronte. “No” rispose subito. “Dio, no. Come potresti essere il cattivo? Certo che no. In questa storia, tu sei...Sei la luce. I fuochi d'artificio. Sei il lieto fine, Arizona, solo...non il mio. E una parte di me - la maggior parte di me - ti amerà per sempre.”
Avrei voluto abbracciarla e dirle che sarebbe andato tutto bene. Che un giorno avrebbe smesso di soffrire. Che avrebbe incontrato qualcuno, qualcuno che non ero io, che l'avrebbe resa felice, che le avrebbe fatto dimenticare, che avrebbe fatto in modo che ne valesse la pena. Qualcuno migliore di me, diverso da me. Perché, per quanto avessi voluto fare qualcosa, Calliope aveva ragione. Io non ero innamorata di lei.
“È stato così tanto tempo fa” sussurrai, più a me stessa che a lei.
Non si voltò, continuò a guardare in avanti.
“Per me non lo è stato. Per me è stato fino ad ora. Fino a questo momento. Fino a questa sera. Non è qualcosa di lontano e indefinito, qualcosa che 'forse se avessimo', allora 'sarebbe potuto'. È successo e sta succedendo. Eppure, è già qui, ciò che ho tanto temuto. È ora. È adesso. Questo è il momento in cui lascio andare, Arizona” concluse con dolcezza, ancora una volta prendendomi totalmente alla sprovvista.
Aprii la bocca per rispondere, ma lei si schiarì la voce, impedendomi di parlare.
Una persona di stava avvicinando.
“Joanne. Buonasera. È un piacere vederti qui” la salutò con un sorriso.
“Buon compleanno, Callie. E congratulazioni per il libro.”
Lei le rivolse un sorriso di cortesia, anche se palesemente finto.
“Scusatemi. Credo di aver visto della pizza che veniva consegnata” si congedò Calliope.
Joanne aspettò che si fosse voltata e avesse fatto qualche passo, poi si avvicinò a me per baciarmi, ma voltai la testa di lato, porgendole la guancia, sentendo la nausea al solo pensiero di baciarla in quel momento.
“Tutto ok?” mi chiese, confusa.
“Certo” risposi con un sorriso forzato. “Sai che non sono una grande fan delle dimostrazioni d'affetto in pubblico.”
Lei annuì brevemente. “Sto andando via. Vivi qui davanti, vuoi che ti accompagni fino alla porta?”
“No, non fa niente. Rimango ancora un po'. Calliope ed io...”
“...dovete passare insieme le vostre cinque ore minime quotidiane?” terminò al posto mio. “Sai, sarebbe carino se ogni tanto scegliessi me a lei.”
“Di che stai par-”
“Oh, non prendiamoci in giro. Credi che non lo veda, Arizona? Credi che chiunque, al mio posto, non se ne sarebbe accorto? C'è qualcosa tra di voi.”
“Non sono innamorata di lei.”
“Ma non sei neanche innamorata di me.”
“Joanne.”
“No, va bene così. Lo capisco. Non sarai mai in grado di amare qualcuno tanto quanto ami lei, ma non sei innamorata di lei. Non vuoi stare insieme a lei, ma lei è la persona che verrà sempre per prima. Il problema è, che a me non sta bene avere il secondo posto.”
“Quindi sono davvero io, mh?” chiesi. “La persona che non riesce a vedere” chiarii.
Sospirò. “Sapevo che non saremmo mai potute durare. Eppure sono uscita con te, comunque. Le persone fanno cose stupide, certe volte.”
Avevo conosciuto Joanne per qualche mese, ma stavamo insieme solo da un paio di settimane. Ed era tipo un record, per me. Le mie storie avevano la tendenza a finire presto.
Quando andò via, io andai a cercare Calliope. Non era più nell'appartamento. Indossai il giacchetto, prendendo in mano il suo, salendo le scale fino al tetto del palazzo. Vivevamo in due appartamenti che avevano il pianerottolo in comune. Andavamo spesso sul tetto insieme.
“Non credi sia un po' freddo per stare fuori?” chiesi, dopo essermi avvicinata silenziosamente e averla fatta sobbalzare appoggiandole il suo giacchetto sulle spalle.
Indossò la giacca che le avevo portato.
“C'è qualcosa di stranamente confortante nel non riuscire più a sperare. Credo sia per la certezza di non poter essere delusi.”
“Mi dispiace così tanto” sussurrai, guardandola mentre teneva gli occhi fissi contro il cielo.
“Non è colpa tua.”
“Se potessi solo scegliere di innamorarmi di te, se potessi farlo, tu sai che lo farei. Farei di tutto per renderti felice. Qualsiasi cosa.”
“Smettila. Smetti di dire cose come questa.”
Presi una sua mano con la mia.
“Questo è davvero l'unico modo in cui puoi essere felice?” chiesi.
Lei non rispose. Lo presi come un sì.
Le appoggiai una mano sulla guancia, forzandola a voltarsi verso di me e avvicinandomi per baciarla. Lei si allontanò, tenendomi a distanza con la mano libera dalla mia presa.
“Arizona” mi guardò come se l'avessi appena schiaffeggiata.
Io la guardai, sull'orlo delle lacrime, agitata.
“Che vuoi che faccia, allora?” chiesi, guardandola come se fosse lei quella che stava spezzando il cuore a me. “Io voglio che tu sia felice. E voglio che tu sia al mio fianco.”
“Se potessi scegliere di farlo smettere, lo farei. Sai che lo farei. Perché anche io farei di tutto per renderti felice. Proprio per questo non posso permetterti di stare con me. Di baciarmi. E poi cosa? Passerai il resto della tua vita con me, anche se non mi ami?”
“Ma io ti amo” la contraddissi. “Non posso vivere senza di te. Sei la mia migliore amica.”
Lei mi afferrò le spalle guardandomi negli occhi.
“Respira. Dei bei respiri profondi. Sopravviverai, Arizona.”
“No. No” la contraddissi con forza.
Mi abbracciò, le sue forti, familiari braccia, che ogni volta mi facevano sentire meglio, mi accolsero alla perfezione.
“Ho bisogno di un giorno, ok? Dammi...Dammi un po' di tempo.”
Annuii. “Tutto il tempo che vuoi.”

Fu il giorno più lungo, più difficile, più brutto della mia vita.
Non ero andata a casa sua per colazione. Non l'avevo vista a lavoro. Non avevamo fatto pranzo insieme, non c'eravamo incontrate nelle pause, non l'avevo chiamata, niente messaggi, niente di niente. Solo un insistente, irritante vuoto, dove non ci sarebbe dovuta essere altro che Calliope.
Stavo finalmente uscendo dall'ospedale, quando mi sentii chiamare. Voltandomi, vidi il capo Webber venirmi incontro.
“Dottoressa Robbins. Mi, ecco, mi dispiace doverglielo chiedere, probabilmente sta già avendo una brutta giornata e tutto, ma la dottoressa Torres è già uscita, e si è dimenticata la lettera di raccomandazioni che ho scritto per lei” mi porse un foglio, che fissai, senza muovere un muscolo.
“Mi scusi?” chiesi, sbalordita.
“La dottoressa Torres ha dato le dimissioni. Credevo lo sapesse. Non è la sua migliore amica?”
Io, dopo un secondo di completa paralisi, iniziai a correre verso l'edificio dall'altra parte della strada.
“Dottoressa Robbins, la lettera!”
Non mi voltai indietro.
Bussai alla porta del suo appartamento, spazientendomi dopo qualche secondo e tirando fuori il mazzo di chiavi in cui avevo una copia della sua.
Entrai, chiamandola più volte. Entrai in cucina, dove trovai in biglietto con sopra il mio nome.
Stava andando via.
Lo afferrai, senza aprirlo, correndo in strada e salendo sul primo taxi che trovai.
Arrivai in aeroporto, ma non avevo la più pallida idea di dove stesse andando.
Così mi fermai, in mezzo all'atrio, aprendo il biglietto che avevo in mano.
Oggi hai passato un giorno senza di me. Lo hai fatto una volta, Arizona. Puoi farlo ogni altro giorno. Dimenticare sembra impossibile, ma è sempre la cosa più facile, alla fine.

Stronzate.
Dimenticare lei? No. Non potevo farlo. Di quel poco ero sicura.
Ma di dove stesse andando, di quello non avevo idea.
C'era un volo per New York da lì a dieci minuti. Uno per la Florida in mezz'ora. Ero sicura che si trattasse di uno di quei due. Ma quale dei due?
Corsi. Corsi verso il volo per New York. Chiesi alla receptionist se c'era lei nella lista passeggeri.
“Non sono autorizzata a...”
“La prego. Se ne sta andando. È la mia migliore amica. Lei che farebbe, non vorrebbe dirle addio? Non tenterebbe il tutto per tutto? La prego, ho bisogno del suo aiuto.”
Mi guardò per qualche istante. L'indecisione evidente nel suo volto. “Vediamo che posso fare.”
Non era sul volo per New York. Così verso il gate del volo per Miami. Arrivata trovai un'altra receptionist.
“Mi dica solo se sta prendendo questo volo. Per favore.”
“Signorina, non sono autorizzata a divulgare alcuna informazione.”
“Lei non capisce. Sta andando via, potrei non rivederla mai più. Per favore, mi dica se è su questo aereo, la prego. È la mia migliore amica. La conosco da quando avevo quattordici anni.”
“Signorina, si allontani o sarò costretta a chiamare la sicurezza.”
Io estrassi il portafoglio.
“Non starà per caso pensando di potermi corrompere?”
Le mostrai tre fotografie formato tessera.
“Siamo io e lei. Avevamo sedici anni. Questa invece è del giorno in cui ci siamo laureate. Questa è di poco tempo fa, è più recente. Ho passato tutta la mia vita al fianco di questa donna. Tutta la mia vita. E lei se ne sta andando e l'unica cosa che mi ha lasciato è questo.”
Le mostrai il biglietto. Lei alzò lo sguardo dalle foto, leggendo quello che c'era scritto.
Mi porse indietro le fotografie. Io le rimisi dentro, arrendendomi. Chiusi la borsa.
“Mi dispiace.”
“Non è colpa sua” risposi con tristezza. “Avrei dovuto pensarci prima. Avrei dovuto...”
“No, intendo, mi dispiace, ma non è su questo volo.”
Non sapevo come avrei dovuto rispondere. “La ringrazio. Mi scusi per averla importunata.”
Mi rivolse un piccolo sorriso. Fu allora che lo sentii.
“È aperto l'imbarco per il volo diretto a Serowe delle sette e quaranta.”
Serowe. Dove avevo già sentito quel nome?

Si mosse nervosamente da un piede all'altro. “Andrò in Botswana. Nei corpi di pace. C'è una spedizione che parte questa settimana per la città di Serowe. Non ha molto senso rimanere, per me, se tu non ci sei, Jane.”

Il libro. I corpi di pace. Ma certo.
Corsi più forte che potevo, ma ci misi comunque un sacco di tempo ad arrivare fin lì. Andai dalla hostess all'entrata del gate.
“Ultima chiamata per il volo diretto a Serowe delle sette e quaranta.”
“Salve. Devo sapere se Calliope Torres è su questo volo.”
“Non sono autorizzata a divulgare questo tipo di informazioni, mi dispiace.”
“Lei non capisce. Sta andando via, potrei non rivederla mai più. Per favore, mi dica se è su questo aereo, la prego. È la mia migliore amica. La conosco da quando avevo quattordici anni” ripetei esattamente quello che avevo detto all'altra donna, estraendo di nuovo le foto. “Ecco, siamo io e lei a sedici anni. Questa è del giorno in cui ci siamo laureate, siamo due chirurghi adesso. Questa è di poco tempo fa, invece. Vede, ho passato tutta la mia vita al fianco di questa donna. Tutta la mia vita. E lei se ne sta andando, non mi ha neanche detto ciao e l'unica cosa che mi ha lasciato è questo” le mostrai il biglietto, parlando il più velocemente possibile, cercando di non lasciar partire l'aereo senza aver tentato il tutto per tutto.
Lei lo lesse. La sua espressione si ammorbidì visibilmente.
“Signorina, mi dispiace molto, ma...” protestò debolmente.
“Non posso dimenticare, non posso” la fermai, non accettando un no come risposta. “Non posso sopravvivere. Si fidi, conosco i miei limiti, e questo è uno di quelli. Mi rifiuto. Mi rifiuto di vivere anche solo un secondo senza di lei.”
“Mi dispiace, davvero, ma c'è poco che posso fare.”
“Mi dica solo se è su questo aereo.”
“Questo non posso saperlo. Ma se vuole posso controllare se ha comprato un biglietto.”
Rilasciai il respiro che stavo trattenendo. “Sarebbe fantastico, grazie.”
“È in partenza il volo per Serowe delle sette e quaranta.”
Maledissi internamente l'altoparlante.
“C'è una Calliope Torres che ha comprato un biglietto per questo volo, sì.”
“Come posso fare per salire lì sopra?”
“Non può farlo. Ha sentito, no? Il volo sta partendo.”
“Dev'esserci un modo, deve...”
“Signorina” mi prese il braccio, facendomi cenno di guardare verso la pista. Un aereo stava decollando proprio in quel momento.
“D'accordo” tentai di riflettere. “Ok. Bene. Allora mi dia un biglietto sul prossimo volo per il Botswana.”
“Non ce ne sono così spesso” mi disse, dispiaciuta. “Dovrà aspettare un bel po'.”
“Ore?”
“Settimane.”
“Cosa? No, senta, io devo...”
“Perché non l'ha salutata?”
“Come, scusi?”
“Perché non l'ha salutata?” chiese di nuovo.
“Io...Io le ho spezzato il cuore” sentii le mie spalle abbassarsi di qualche centimetro, mentre lo ammettevo ad alta voce. “Se n'è andata via per colpa mia. Perché non sono innamorata di lei.”
“Non lo è?” domandò, sorpresa. “Perché da come sta respirando si direbbe che si è appena girata tutto l'aeroporto di corsa.”
“Prima credevo stesse andando a New York. Poi credevo stesse andando a Miami. Alla fine ho capito e sono arrivata qui, ma un paio di minuti troppo tardi.”
“Ma non è innamorata di lei.”
“Non lo sono.”
“E allora, mi spieghi, cosa ci fa qui?” chiese, con genuina curiosità.
Scrollai le spalle. “Non riesco ad essere felice senza di lei. Non riesco nemmeno a immaginare fino a che punto potrebbe essere triste e vuota la mia vita senza di lei. Oggi è stato il primo giorno in un sacco di tempo che passavo senza vederla. E, me lo lasci dire, è stato terribile.”
“Ma non la ama.”
Scossi la testa.
“Mh” sussurrò. “Ho letto un libro interessante, recentemente. 'I didn't notice'. Forse ne ha sentito parlare.”
Mi si strinse il cuore. “Io...Sì. Ne ho sentito parlare.”
“Forse non se ne rende conto, ma di solito le persone non corrono per i piani di un aeroporto, non coprano biglietti per altri continenti e non dicono di non poter vivere senza qualcuno, se non sono innamorati di loro.”
“No. No, ascolti, non c'entra ciò che io farei per lei, qui. D'accordo? L'amore si mette sempre in mezzo a incasinare tutto. Non posso perderla. Per caso era distratta mentre le spiegavo che non posso vivere senza di lei?”
“Se non è innamorata di lei, allora probabilmente è meglio che la lasci andare.”
“Non posso farlo” scossi la testa.
“Ma l'ha già fatto. L'ha già lasciata andare. E l'ha già persa.”
Solo in quel momento mi resi conto che aveva ragione.
“Cioè” si corresse. “In teoria, l'ha già persa. Ma se il mio sesto senso non mi inganna, la donna seduta un paio di metri dietro di lei che ha ascoltato tutta la nostra conversazione e la sta guardando come se fosse pazza, sta probabilmente aspettando che lei si volti.”
“Cosa?”
“Le cose non vanno come avresti voluto. Mai.”
Sorprendentemente, la voce non arrivò da davanti a me, ma dalle mie spalle.
Mi voltai. E lei era lì, con un biglietto aereo in mano e la valigia al suo fianco.
“Ho dimenticato il passaporto a casa. Non mi hanno fatto imbarcare.”
“Dio ti ringrazio” sussurrai. “Quindi non partirai?” sorrisi.
“Parto tra cinque minuti, ho chiamato il jet privato di mio padre. Sto aspettando che sia pronto per portarmi giù.”
“Quindi partirai?” smisi di sorridere.
Si alzò in piedi. “Sai tutto ciò che devi sapere. Sai che io ti amerò sempre e sai che sarai in grado di sopravvivere ogni giorno, proprio come ci sei riuscita oggi. Andrà tutto bene.”
Mi baciò sulla tempia, come le era permesso dalla differenza di altezza.
Iniziò a camminare. La seguii.
“E se sopravvivere non fosse abbastanza?” chiesi. “E se volessi di più che andare avanti ogni giorno? Se io volessi essere felice? Se volessi qualcosa di più che 'forse se avessimo', allora 'sarebbe potuto'?”
Lei si voltò, guardandomi negli occhi.
“Non credo ci sia nient'altro rimasto che un 'forse se' ormai.”
Sparì, dietro la barriera che io non potevo superare.
Estrassi il cellulare, chiamandola. Partì la segreteria.
Aprii la bocca per iniziare a parlare. O ad urlare, non avevo ancora deciso. Ma mi resi conto solo in quell'istante che non sapevo cosa avrei dovuto dire.
“Avevi ragione. Tu sei quella che si accorge delle cose. Io sono quella che non se ne accorge. Io non mi accorgo delle cose, Calliope. Forse è per questo che me ne rendo conto solo adesso che te ne stai andando. Ti ho già perso, non è vero? Molto, molto tempo fa. Perché io non mi accorgo. E non mi sono accorta che sei innamorata di me, così come non mi sono accorta di essere innamorata di te.”
Corrugai la fronte.
“Ehi, aspetta un momento...” sussurrai.
Innamorata di lei?
Era quella la verità, quindi?
Solo la paura di perderla era stata capace di farmi aprire gli occhi su qualcosa di così enorme, qualcosa che avrei dovuto vedere bene da un sacco di tempo?
“Io...io ti amo?” domandai alla segreteria telefonica.
Lei era sempre stata al mio fianco. Sempre. Ed io avevo continuato a puntare gli occhi verso il cielo, nel tentativo di cercare qualcosa di straordinario. Non perché non mi rendessi conto che non esisteva niente di straordinario quanto lei, ma perché avevo sempre pensato che potesse almeno esistere qualcosa che ci si avvicinava.
Sospirai, passandomi una mano sul viso, sentendo l'impulso di schiaffeggiarmi.
“Sono veramente un'idiota” sussurrai.
Riattaccando, mi guardai attorno, cercando un'idea. La ragazza alla scrivania mi stava guardando con un sopracciglio alzato.
“Vuole un biglietto?” chiese. “Per superare i controlli?” alzò la mano destra, un biglietto già in mano.
Le passai una carta di credito, afferrando il biglietto.
“Lei è un genio.”
Ricominciai a correre finché mi trovai sulla pista di atterraggio. La vidi, da lontano, mentre si avvicinava al jet privato di suo padre. Estrasse il telefono, ed ero abbastanza sicura che stesse ascoltando il mio messaggio prima di salire e doverlo spegnere.
Così iniziai a correre per l'ennesima volta nella sua direzione.
“Smetti...Smettila di scappare” ansimai. “Devo inseguirti fino in Bots-”
“Ssh” alzò una mano, cercando di farmi tacere, mentre si concentrava sul messaggio che stava ascoltando.
Quando sentì il suono che ne decretava la fine, alzò gli occhi su di me.
“Vuoi rendermi felice, beh, ecco la tua occasione Calliope. Non salire su quell'aereo e ti prometto che, con te al mio fianco, non passerà un solo giorno in cui non sarò felice.”
“Tu davvero lo pensi, non è così?” chiese, onestamente sorpresa.
“Davvero lo penso” confermai. “Davvero, davvero.”
Fece un passo verso di me, ed io colsi l'occasione per farne diversi verso di lei.
Fu allora che capii improvvisamente.
“Aspetta. Tu ti accorgi. Ti accorgi delle cose. Tu lo sapevi già, non è vero?” chiesi, cercando di non sorridere più di quanto già stavo sorridendo. “Tu sapevi che ero innamorata di te, ancora prima che lo sapessi io.”
“Diciamo che lo sospettavo” confermò, avvicinandosi e circondandomi i fianchi con le braccia.
“Avevi pianificato tutto” osservai, passandole le braccia intorno al collo, i gomiti sulle sue spalle.
“Beh, non tutto. Scrivere un libro, quello è solo, tipo, successo. Ma l'altra sera, a casa mia, e poi il giorno senza di me, la partenza...sì, questo era programmato.”
“Quindi non partirai?”
“Non lo so, Arizona. Dimmelo tu. Questo era il mio piano B. Nel caso in cui davvero non fossi stata innamorata di me. Il Botswana, è il mio piano di riserva. Quindi dimmelo tu. Devo rimanere? Mi darai un'occasione? Avevi solo paura di perdere la tua migliore amica, o pensi davvero le cose che hai confessato alla mia segreteria?”
“Penso ogni singola parola che ho detto. Voglio che tu rimanga. Perché ti amo. Perché ti renderò felice. Perché sei la sola persona senza la quale non posso vivere. Ma, soprattutto, perché sono innamorata di te.”
Mi baciò, finalmente.
E, per citare Calliope, fu un'esplosione di emozioni. Come un bambino che vede i fuochi d'artificio per la prima volta in vita sua. È spaventato dal rumore assordante che gli entra fin dentro la testa, ma non riesce a distogliere lo sguardo da quelle luci colorate che sembrano per un attimo riuscire ad illuminare l'intera esistenza. C'è luce, colore, scintille. Vita.
“Sono felice di essermene accorta in tempo. Ma ho davvero rischiato grosso, quindi prometto che da oggi in poi terrò gli occhi aperti.”
“Non preoccuparti. Ci sarò io a fare in modo che ti accorga delle cose, se mai dovessi distrarti. Ricordi? Io mi accorgo sempre di tutto.”
Risi, baciandola di nuovo. Non potevo credere alla mia fortuna.





Il libro ha in realtà un finale, nella mia testa, ma non mi sembrava importante ai fini della storia, quindi non l'ho inserito.
Allora, chi di voi ha riconosciuto la citazione da Harry Potter? :P

Grazie ancora a tutti, a presto!



Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Le nostre prime cicatrici ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete i migliori. =)

Avvertimenti: sort-of-Canon (fino alla fine della settima stagione)


Buona lettura!

Image and video hosting by TinyPic



Le nostre prime cicatrici


Aprii la porta, un sorriso enorme - ed enormemente finto - sulle labbra.
“Mamma, papà. Sono così felice che siate venuti. Entrate.”
La casa a due piani in cui vivevamo era abbastanza grande per ospitare i nostri genitori. Era ormai arrivata la Vigilia di Natale, e sia i miei genitori che quelli di Arizona avevano deciso di venirci a trovare.
“Mija, che bello vederti di nuovo” mio padre mi abbracciò, subito dopo che lo ebbe fatto mia madre.
“Questa casa è meravigliosa, tesoro. Non mi stancherò mai di dirtelo” mi ricordò Lucia, abbracciandomi di nuovo e baciandomi sulla guancia.
“Allora, dov'è Arizona?”
“Sta arrivando” risposi distrattamente, prendendo i loro cappotti ed appendendoli, prima di fare loro cenno di seguirmi fino alla camera degli ospiti al piano di sopra.
Sentimmo la porta che si apriva dopo aver posato le loro valige e tornammo al piano di sotto.
“Nonno, nonna!”
“Sofia, non urlare” la riprese Arizona, venendomi incontro. “Signori Torres, siete arrivati” sorrise loro. “Come è stato il volo?”
“Turbolento, cara” rispose mia madre, abbracciandola.
Poi prese in braccio Sofia e permise a mio padre di salutarla a sua volta.
“Sofia, perché non fai vedere ai nonni l'albero di Natale?” proposi.
I suoi occhi si illuminarono e si fece mettere a terra, correndo verso il soggiorno, seguita da mio padre. Mia madre ci guardò in modo strano per qualche secondo, poi scosse la testa, seguendoli.
I nostri sorrisi sparirono nell'istante esatto in cui loro ebbero lasciato la stanza.
“Vado a prendere lo Scotch. Ci servirà.”
“Finalmente una cosa sensata” sussurrai acidamente.
“Non vorrei che avessi una crisi d'astinenza davanti ai tuoi genitori” ritorse aspramente.
“Neanche io che ne avessi una tu davanti ai tuoi. Ma a quanto pare non ci sono prostitute che lavorano, la Vigilia di Natale.”
“Per fortuna i negozi di liquore sono tutti aperti, però.”
“Mamma, non riesco ad accendere le luci!”
“Arrivo tesoro” risposi ad alta voce, simulando un tono pieno di gioia. “Sarà una lunghissima settimana” sussurrai, andando in soggiorno.

“Ma che ti aspettavi? Che sarei rimasta con le mani in mano a guardare mentre tutto stava cadendo a pezzi?”
“Pensavo che stessi andando a letto insieme a qualcun altro!”
“Diciamo le cose come stanno, Arizona. Pensavi che stessi andando a letto con Mark. Spero che tu sia felice di aver mandato tutto a puttane. Sono tanto contenta per te, davvero, così tanto che sto per mettermi a piangere lacrime di gioia.”
“Callie, non farlo. Non buttare via tutto. C'è ancora una possibilità. Abbiamo ancora una possibilità di farcela, ok?” il suo tono si era addolcito.
“No, invece. Non dopo stasera” risposi freddamente.


Bussarono nuovamente alla porta. Erano i genitori di Arizona.
Ci salutarono, unendosi ai miei genitori e a Sofia subito dopo.
Mia madre ci raggiunse in cucina, chiedendo se poteva aiutarci a preparare qualcosa per la cena, ma entrambe declinammo gentilmente l'offerta.
“C'è qualcosa che non va?” chiese, titubante. “Avete...avete litigato?”
Io mi schiarii la voce. “Perché lo chiedi?”
“Siete sempre state una coppia così affettuosa. E oggi non vi siete neanche scambiate uno sguardo quando Arizona è entrata in casa. Così ho pensato...”
“No, va tutto bene, mamma. Siamo solo molto stanche, tutto qui.”
“Ok” decretò, con tono non molto convinto. “Allora torno da Sofia. Quella bambina è davvero speciale.”
Quando la porta si richiuse smisi di sorridere.
“Dovremmo dirglielo” disse subito.
“Sta zitta.”
“No, era un'idea stupida fin dall'inizio. Avremmo dovuto dirglielo già da un pezzo.”
“Non mi sembravi così contraria quando l'ho proposto.”
“Perché i miei genitori vogliono più bene a te che a me. E pensano che già sia un fallimento, mentre Tim l'assoluta perfezione. Non si degnerebbero neanche più di guardarmi in faccia.”
“E questo noi non lo vogliamo, giusto? Ci sono già io che non riesco più a farlo.”
“Credo che glielo dirò subito.”
“No che non lo farai, invece. Dobbiamo solo fingere meglio.”
“Questo non è sano. Sofia è già abbastanza confusa così com'è.”
“Perché le sue mamme si stanno separando. Non sa nemmeno cosa significa quella dannata parola. Sa solo che tu non vivi più insieme a noi e non si sente più a casa sua. Non hai idea di cosa le stia facendo questa situazione. Chiede di te, tutte le sere.”
“Chiede di te, tutto il week end” replicò a quel punto. “È una stronzata questa cosa dei giorni con mia figlia. Quando vivevo qui, tutti i giorni erano giorni con mia figlia.”
“Sei tu che te ne sei andata.”
“Sei tu che mi hai lasciato.”
“Sei tu che...” sospirai. “Lasciamo stare. Rinfacciarci le cose non ci porterà da nessuna parte, ci siamo passate un milione di volte.”
“Se solo riuscissi a guardarmi in faccia il tempo necessario ad avere una conversazione con me, a farmi parlare e a credermi, niente di tutto questo sarebbe mai successo.”
“Sì, beh...Sapevo che avresti dato la colpa a me. Questa è la cosa che ti riesce meglio.”
Non avevamo ancora parlato di quello che era successo.
E, onestamente, la rabbia non mi era ancora passata. Quindi non avevo intenzione di ascoltare la sua versione. Non ancora, almeno.
“Mamma” sentimmo Sofia chiamare dall'altra stanza. “Ho fame, quando mangiamo?”
“A minuti, tesoro” riposi. “Ti spiace apparecchiare, mentre finisco di preparare l'arrosto?”
“Ho già sceso i piatti” rispose, io mi voltai per verificare. Lo aveva fatto davvero. “Tu cucini e io apparecchio. Le vecchie abitudini sono dure a morire. Tu dovresti saperlo” fece un cenno in direzione del mio bicchiere ancora intoccato di Scotch.
Se ne andò, prima che potessi trovare una risposta.

Ci sedemmo a tavola, mio padre disse una preghiera e poi iniziammo a mangiare. I nostri padri erano a capotavola, noi da un lato con in mezzo Sofia, dall'altra parte le nostre madri.
“Allora, Sofia, perché non ci dici come ti trovi all'asilo?” chiese Daniel.
“Benissimo. La scuola è fantastica.”
Sorrisi, accarezzandole i capelli. “Spero che continui a pensarla così, tesoro.”
Lei mi guardò, sorridendo a sua volta.
“E come sono i tuoi compagni di classe?”
“Simpatici. Quasi tutti. Però ce ne sono alcuni cattivi.”
“Cattivi?”
“Sì. Alcuni mi prendono in giro. Ma io penso che sono solo gelosi, perché io ho due mamme e loro solo una.”
I nostri genitori ci rivolsero sguardi confusi.
“Un paio di bambini hanno dato problemi a Sofia perché ha due mamme” spiegai. “Abbiamo già parlato con il preside e la maestra. Adesso la situazione dovrebbe essere migliorata.”
Lei continuò a mangiare, spensierata, mentre io la guardavo, continuando ad accarezzare i suoi corti capelli neri.
“Mamma, puoi tagliarmi la carne, per favore?” chiese educatamente ad Arizona.
“Certo tesoro” rispose, con una nota nella sua voce che, ne ero sicura, nessuno aveva notato tranne me. In fondo ero la persona che la conosceva meglio al mondo.
Si alzò, per andare a prendere il pane. Io la seguii un secondo dopo, con la scusa di prendere un'altra bottiglia di vino.
Entrai in cucina, richiudendomi la porta alle spalle. Lei era voltata.
“Stai bene?” chiesi con cautela.
“Certo. Starei anche meglio se non fossi tra i piedi.”
“Arizona” dissi il suo nome con decisione, ma non con disgusto o irritazione. “No che non stai bene. So quanto ti dà fastidio, e so anche che tu sai che lo so. Quindi abbassa per una frazione di secondo il muro di mattoni che hai intorno al giacchio del tuo cuore e dimmi se c'è qualcosa che posso fare per farti sentire meglio.”
Vidi le sue spalle rilassarsi e mi avvicinai di qualche passo. Si voltò. E vidi che aveva gli occhi lucidi.
“Lo odio. Odio che sia per colpa nostra.”
“Lo so” mi avvicinai ancora.
“Odio che non sarà mai trattata come gli altri bambini, odio che potrebbe portare rancore nei nostri confronti.”
“Arizona, Sofia ci vuole bene. Lei ci vuole bene” la rassicurai, cercando comunque di non oltrepassare il confine che avevamo tracciato.
“Odio il fatto che l'unica persona al mondo in grado di farmi sentire meglio sia tu. Lo odio.”
“No, non è vero. Puoi odiare quello che sta succedendo, ma tu non odi me, Arizona.”
Ed io come potevo odiarla? Per quanto avessi voluto, per quanto fossi arrabbiata, per quanto odiassi quello che ci stava succedendo, non avrei mai potuto odiare Arizona. L'amavo fin troppo per riuscire a provare qualsiasi altro sentimento nei suoi confronti.

Continuai a guardare il soffitto a lungo.
“Che è andato storto?” sussurrò nel buio silenzioso della notte.
Trasalii leggermente quando sentii la sua voce, perché pensavo che stesse dormendo.
“Non lo so. Tutto” sospirai. Tornarono in un flash tutti i bei ricordi. “Niente” affermai con un sorriso. Poi ecco tutte le liti dell'ultimo periodo. “Tutto” ricordai con tristezza. Poi la breve vita di Sofia mi riempì di gioia. “Niente.”
“Era come se fossi su un treno che stava per schiantarsi ad una velocità allarmante contro qualcosa. Ero lì, stavo guardando, sapevo cosa stava per succedere. Ma non potevo fermarlo. Non c'era niente che potessi fare” spiegò.
“C'è sempre stato qualcosa che potevi fare” la contraddissi. “Hai sempre avuto una scelta. Potevi scegliere di sistemare le cose. Invece hai scelto di farti quella ragazzina.”
“Callie...”
“Non voglio sentirlo, Arizona.”
“Lo sentirai comunque. Sei qui, non puoi scappare a meno che tu non voglia spiegare ai nostri genitori che sta succedendo.”
“Non voglio sentirlo.”
“Callie, mi...”
“Arizona, no.”
“...mi dispiace.”
“No. No, non ti dispiace. Non è vero. Non lo avresti fatto se non avessi voluto. Non ti dispiace, e se adesso ti credo, se ti perdono, la colpa sarà mia quando avrò di nuovo il cuore spezzato.”
“Mi dispiace, e se potessi tornare indietro adesso, cambierei molte cose dell'ultimo periodo. Ma devi sapere che non è mai successo niente di quello che ti ha detto.”
“Arizona, smetti di parlare.”
“Niente di niente. E tu non avresti dovuto credere a lui, avresti dovuto credere a me.”
“Basta” la bloccai. “Basta, non capisci che ogni tua parola è...No, aspetta un secondo. Lui?”
“Sì. Mark. Non avresti dovuto credere a lui. Avresti dovuto credere a me. Sono tua moglie.”
“Arizona, Mark non ha mai detto niente. Non si è mai intromesso nelle decisioni riguardanti noi, e non glielo avrei mai permesso. Non so di cosa diavolo tu stia parlando.”
“Non è stato Mark a dirti di Polly?”
“No. Certo che no. Non avrei creduto a Mark.”
“Beh, ma allora, chi è stato?”
“A dirmi di Polly?” chiesi, sbalordita. “È stata Polly” risposi come se fosse ovvio.
“Cosa? No, Polly non può avertelo detto. Perché lei sapeva meglio di chiunque altro che non era vero. Che non è vero. Non è mai successo niente tra me e lei, mai. Come hai potuto crederle?”
“Perché non eri mai a casa! Passavi tutto il tuo tempo a lavoro, insieme a lei. Quando mi ha detto che avevate fatto sesso, devo dire che per un attimo aveva senso. E il fatto che continuasse a ripetermelo quasi ogni giorno, quello non ha aiutato.”
“Non avevo idea che lei avesse mai anche solo insinuato qualcosa del genere. E non ero mai a casa perché tu mi avevi chiuso fuori. Mi parlavi, certo, ma come avresti parlato alla tua coinquilina. Non mi lasciavi più neanche toccarti. Sai quanto è passato dall'ultima volta che ti ho vista nuda? Anni. Almeno tre. Da prima che Sofia fosse nata. Da allora sono stati solo incontri fugaci nelle oscure stanze dell'ospedale o in piena notte qui a casa con la luce spenta. Come se non volessi più guardarmi neanche in faccia.”
“Non era quello il motivo” protestai debolmente. “Non era...”
“E allora cos'era?” chiese, esasperata.
Non risposi.
“Senti, ci sto provando. Ma se tu non fai uno sforzo, allora potremmo davvero perdere tutto ciò che abbiamo avuto.”
“L'abbiamo già perso” protestai debolmente.
“Stronzate. Sai bene quanto me che io e te ci ameremo sempre. Quindi dimmi quale cavolo è il problema, cosa ti ha spinto a scappare da me per tutto questo tempo. E non voglio sentire la scusa del lavoro o della relazione, voglio la dannata verità.”
“Non è bello, ok? Non è un bello spettacolo. Da dopo l'incidente...Ho la cicatrice dell'intervento al cuore, quella del cesareo, sono piena di tagli, sembro un campo di battaglia, Arizona. Non è bello da vedersi.”
La sentii muoversi e accendere la luce. Poi si voltò verso di me.
Mi guardò, come se pensasse che da un momento all'altro sarei scoppiata a ridere e le avrei dato il vero motivo. Poi capì che stavo dicendo sul serio e diventò confusa.
“Calliope.”
Ebbi un piccolo brivido. Era molto tempo che non mi chiamava così.
“Non capisci che, ogni volta che ti guardo, io vedo la donna più bella dell'intero universo?”
“Proprio per questo. Non avrei sopportato la tua espressione mentre mi vedevi e cambiavi idea.”
“Calliope” ripeté, come qualcuno che cerca, con estrema pazienza, di spiegare qualcosa a un bambino testardo. “Sono cicatrici. Le cicatrici sono sexy, ricordi? Le cicatrici sono fiche, le cicatrici sono romantiche. E non è che al buio non le sentissi, sai? So che ci sono. Ma sono solo cicatrici. Che portano il ricordo di come Sofia è nata, di quanto sei stata forte per tutte e tre, quando Sofia non poteva ancora esserlo ed io ero distrutta dal solo pensiero di poter perdere una di voi. Tutti noi abbiamo cicatrici, Calliope. Alcune si vedono bene, altre si vedono più difficilmente, ma ci sono lo stesso.”
“Da un po' di tempo avevi perfino smesso di tentare, Arizona.”
“Perché sembrava inutile. Tu continuavi a rifiutarmi, ancora e ancora. Così ho iniziato a passare più tempo a lavoro.”
“Ma io ho pensato che avessi smesso di cercare quello che volevi da me perché lo avevi trovato da qualcun'altra” confessai tristemente, senza guardarla negli occhi.
“Ed io pensavo che tu ti fossi allontanata perché avevi già qualcun altro.”
“Quando hai iniziato a passare le notti in ospedale, ho iniziato ad avere sospetti sui nostri colleghi. Poi c'è stato l'incidente con Polly.”
“Quasi un mese fa” ricordò. “La sera in cui me ne sono andata.”

“Potrebbe denunciarti per aggressione, te ne rendi conto?”
“Sì. Me ne rendo conto.”
“E non ti importa, Callie?”
“Importa a te? Credevo che non te ne fregasse più niente di quello che faccio con la mia vita, visto che tu fai quello che ti pare con la tua.”
“Potrebbero licenziarti, Callie!”
“Non me ne frega niente, Arizona. Almeno mi sarò tolta la soddisfazione di aver schiaffeggiato la ragazzina che ha mandato all'aria il nostro matrimonio.”
“Per l'ennesima volta, io e lei non siamo mai state insieme, non ti ho mai tradito.”
“Certo, come no.”
“Senti, tu non ti rendi esattamente conto di quelle che potrebbero essere le conseguenze di quello che hai fatto.”
“Ma che ti aspettavi? Che sarei rimasta con le mani in mano a guardare mentre tutto stava cadendo a pezzi?”
“Pensavo che stessi andando a letto insieme a qualcun altro!”
“Diciamo le cose come stanno, Arizona. Pensavi che stessi andando a letto con Mark. Spero che tu sia felice di aver mandato tutto a puttane. Sono tanto contenta per te, davvero, così tanto che sto per mettermi a piangere lacrime di gioia.”
“Callie, non farlo. Non buttare via tutto. C'è ancora una possibilità. Abbiamo ancora una possibilità di farcela, ok?” il suo tono si era addolcito.
“No, invece. Non dopo stasera” risposi freddamente.

“Tutte le sere tornavo e stavi sorseggiando un bicchiere di Scotch, Callie. Pensavo che fossero i sensi di colpa. Non riuscivo a trovare un'altra spiegazione.”
Scossi la testa. “Ogni sera, prima che tu tornassi a casa, me ne versavo un bicchiere. Speravo che vedermi mentre mi autodistruggevo ti avrebbe spinto a dirmi cosa diavolo stava succedendo. Non bevo più Scotch da molto prima della gravidanza. Non bevo più niente, da molto prima della gravidanza. L'ultima volta che mi sono ubriacata è stato insieme a te. Quella volta al compleanno di Teddy.”
Lei rise. “Serata memorabile.”
Sorrisi leggermente al ricordo.
“Puoi dirlo forte.” Erano ricordi così lontani che sembravano appartenere ad un'altra vita. “Ma mi rendo conto adesso che avrei dovuto cercare un altro modo per convincerti ad aprirti con me.”
“Dimmi solo una cosa, ho bisogno di saperlo. Mi darai mai un'altra occasione?”
Aprii le labbra per replicare. Fu allora che ricordai la lettera che giaceva dentro il cassetto del comodino alla mia destra.
Così non risposi. E lei pensò che fosse un no.
“Calliope...”
Qualcuno bussò alla porta, che si aprì poi cigolando leggermente.
“Mamma, non riesco a dormire. Ho fatto un brutto sogno” sentimmo una voce sussurrare dalla soglia.
“Vieni tesoro” la incoraggiai, scostando le coperte perché entrasse e si mettesse tra di noi. “Cosa hai sognato?” chiesi, baciandola sulla testa, mentre Arizona la prendeva tra le braccia ed io avvolgevo le mie intorno ad entrambe, come eravamo solite fare prima.
“Ho sognato che mamma se ne andava per sempre, non tornava più a vivere con noi e non potevamo più stare così quando avevo un brutto sogno, mai più.”
Sentii le lacrime salirmi agli occhi.
“Era solo un brutto sogno, tesoro” sussurrai sentendo un nodo enorme in gola.
Qualche minuto dopo, stava dormendo tra di noi.
“È una mini te. Una copia esatta. È incredibile” sussurrò la donna al mio fianco, guardandola.
“Non preoccuparti. Crescerà, ed inizierà ad usare parole come 'meraviglioso' e ad andarsene in giro su delle scarpe con le rotelle. Dovrai sopportare una mini me ancora per poco.”
“Io lo intendevo come un complimento, Calliope. Per me non potrebbe essere meglio di così, è assolutamente e completamente perfetta.”
Non potevo farlo.
Non potevo mentire alla donna stesa al mio fianco.
“Arizona, devo parlarti di una cosa.”
“Non puoi farlo domani?” chiese, stringendosi ancora di più nel nostro abbraccio. “Per favore. Dammi un'ultima notte perfetta con le uniche due donne che amo al mondo e poi farò tutto ciò che mi chiederai.”
Io non riuscii a negarle quello, come non ero mai riuscita a negarle niente.
Così sussurrai un debole assenso, baciando Sofia sulla testa e chiudendo a mia volta gli occhi, pregando perché il sonno venisse al più presto e domani non arrivasse mai.

“Dottoressa Torres.”
“Polly.”
“Come vanno le cose?”
“Senti, non è un buon momento, ok? Di solito i tuoi commenti irritanti mi scivolano addosso, ma in questo momento non sono dell'umore per le tue battutine. Quindi gira i tacchi e vattene, o potrebbe finire male.”
“Che è successo? Arizona le ha finalmente parlato di noi?”
“Polly, ti ho avvertito.”
“Le avevo detto che prima o poi l'avrebbe lasciata per me, no? Io ho cercato di avvertirla, ma lei non mi ha creduto.”
“Davvero, non sto scherzando. Non è più divertente. Lasciami in pace.”
Riposi la busta che avevo in mano e che poco prima avevo letto - la stessa che giaceva la sera della Vigilia, quasi un mese dopo, nel mio comodino - all'interno della tasca del camice.
“Sono appena uscita da quella stanzetta” indicò una porta alle sue spalle. “Ero con Arizona. Se aspetta qualche istante vedrà uscire anche lei, con le mani tra i capelli nel tentativo di sistemarli e non apparire come qualcuno che ha appena fatto qualcosa che non avrebbe dovuto, proprio dentro l'ospedale.”
“Va a farti fottere Polly.”
In quel momento, tre cose successero.
Numero uno, vidi un sorrisetto, proprio di quelli che mi irritavano così tanto, formarsi sul viso della ragazzina danti a me.
Numero due, vidi Arizona uscire dalla stanzetta, mentre tentava con le mani di sistemarsi i capelli, cosa che effettivamente, ricordai solo parecchi minuti dopo, faceva ogni volta che si alzava di mattina o dopo un pisolino.
Numero tre, Polly disse: “Già fatto. E devo ringraziare sua moglie per questo.”
La cosa che successe dopo, non fu una delle mie migliori idee.
La schiaffeggiai, proprio in mezzo al corridoio. Arizona fece giusto in tempo a vedermi, allontanò Polly da me prima che reagisse e mi trascinò in una stanza lì vicino.
“Potrebbe denunciarti per aggressione, te ne rendi conto?”
“Sì. Me ne rendo conto.”
“E non ti importa, Callie?”
“Importa a te? Credevo che non te ne fregasse più niente di quello che faccio con la mia vita, visto che tu fai quello che ti pare con la tua.”

La mattina dopo mi svegliai, con accanto le due persone che preferivo al mondo.
Rimasi a guardarle dormire finché Sofia si svegliò, lentamente, e poi scattò in piedi.
“È la mattina di Natale!” esclamò, zampettando fino al piano di sotto, dove era sicura che avrebbe trovato i regali lasciati da Babbo Natale.
Ci scambiammo i regali, i nostri genitori ci avevano regalato tutte cose utili per la casa. E soprattutto tutte cose adatte ad una coppia sposata. Un nuovo set di tazzine da caffè, delle tende per la cucina, che, da dopo un piccolo incidente con i fornelli, ne era priva, causa incendio. Un nuovo mobiletto per il garage, perfino, visto che mio padre doveva sempre fare le cose in grande.
Come lo aveva portato fin lì, questo è tutt'ora un mistero ai miei occhi.
Poi, mentre loro erano occupati a dare i loro regali a Sofia, io porsi il mio ad Arizona.
“Buon Natale” sussurrai.
Lei lo prese, dopo un attimo di indecisione, sorridendomi.
Era il nuovo asciugacapelli per cui mi aveva stressato interi mesi e che non avevo voluto comprarle perché era troppo costoso. Ma era anche vero che il nostro non funzionava e con la lunga chioma che si ritrovava, avrebbe impiegato almeno mezz'ora con un fono meno potente.
“Non posso crederci” sorrise, guardando la scatola. “Sapevo che avresti ceduto. Grazie mille.”
Ricambiai il sorriso quando alzò lo sguardo. “Non c'è di che.”
Mi porse il regalo che aveva comprato per me.
Era una nuova macchinetta per l'espresso che avrei voluto comprare tempo prima, ma che alla fine avevo classificato come bene non di prima necessità e accantonato a causa del costo.
“Non avresti dovuto. Costava fin troppo.”
“Solo il meglio per te, Calliope.”
Era lì, sotto a tutti i commenti acidi, quindi. Sotto alle battutine e alle espressioni dure, c'era ancora la mia Arizona.
“Ti ringrazio” sussurrai, mentre mi perdevo nei suoi occhi.

Quella sera, dopo aver messo a letto Sofia, mi occupai di mettere apposto la cucina, mentre, uno per uno, tutti gli altri andarono a letto. Allora mi feci un tè caldo, andando a sedermi sul divano del soggiorno.
L'unico rimasto lì era mio padre, ad aspettare che il camino si spegnesse. O ad aspettare me.
Mi persi a lungo nei miei pensieri, finché decisi di chiedere qualcosa che non avevo mai osato chiedere fino a quel momento.
“Papà, posso farti una domanda?”
“Certo, mija.”
“Ricordi quando mio abuelo morì? Avevo più o meno l'età di Sofia. Forse un anno o due più grande.”
“Certo.”
“Eravamo nella casa delle vacanze. Quando ti arrivò la telefonata ci lasciasti con la tata e andasti a dirgli addio senza portarci con te.”
“Ricordo” confermò.
“Perché?” chiesi, onestamente non riuscendo a capire. “Non abbiamo mai potuto dirgli addio, né io né Aria.”
Lui sospirò. “Sai cosa diceva Edna Millay? L'infanzia non è il periodo che va dalla nascita a una certa età. L'infanzia è il regno in cui nessuno muore. Io volevo solo preservare la vostra infanzia il più a lungo possibile.”
“Ma alla fine abuelo è morto lo stesso. Solo che io non ero lì per tenere la sua mano.”
“Lui avrebbe voluto che voi foste lì. Vi voleva bene da impazzire. Che posso dire? Ho sbagliato. Avevate il diritto di saperlo, il diritto di scegliere, anche se eravate piccole. Non avrei dovuto essere io a decidere per voi.”
“Quindi è così? Ognuno dovrebbe scegliere da che parte stare? Ma, se noi avessimo scelto la cosa sbagliata da fare, se ci fosse stata data la possibilità di scegliere e avessimo deciso di non venire, a quel punto sarebbe stata colpa nostra. Così invece possiamo sempre dire che non dipendeva da noi, no?”
“Vero. Ma questo non toglie che avreste dovuto saperlo subito. Ad ognuno spetta il diritto di sapere, e quello di scegliere solo se vuole farlo. Se ve lo avessi detto e voi non aveste voluto scegliere, avrei comunque potuto scegliere io per voi.”
Riflettei a lungo sulle sue parole.
“C'è qualcosa che vuoi dirmi, mija? Questo non riguarda il tuo abuelo, non è vero? Riguarda te e Arizona?”
Io forzai un sorriso. “No, papà. Ero davvero soltanto curiosa.”
Lui non sembrò convincersi, ma ricambiò il sorriso e si alzò, baciandomi sulla fronte e andando a letto, augurandomi la buona notte per l'ultima volta.
Andai a letto anche io, stendendomi in silenzio.
“Sei sveglia?” sussurrai in maniera appena udibile.
“Sì. Stavo aspettando te. Avevi detto che dovevi parlarmi di una cosa.”
Sospirai. “Dovrei farlo. Ma non so se voglio. Non so se posso.”
“Puoi parlarmi di tutto, Callie.”
Mi fece male il cuore, a sentire che era tornata di nuovo al diminutivo.
“So che pensi che il fatto che non ho risposto volesse dire che ho deciso di non darti un'altra occasione, ma non era quello il significato.”
“No?”
“No. C'è una cosa che non ti ho detto. Una cosa che ho scoperto quel giorno. Il giorno in cui abbiamo litigato. Avevo fatto degli esami. Ho avuto la risposta subito prima di parlare con Polly.”

“Dottoressa Torres, non è mai facile dare una notizia del genere, soprattutto quando si tratta di una collega. Ma, il nodulo che ha sentito purtroppo è un tumore. Questi sono i risultati della mammografia, di solito i medici vogliono sempre ricontrollare.”
Ovviamente, ricontrollai. Anche se, a dire la verità, c'era una parte di me che ne era già praticamente sicura.
“Per fortuna è ancora ad uno stadio iniziale, ma non c'è modo di stabilire se è benigno o maligno finché non lo avremo tirato fuori e analizzato in laboratorio.”
“Lo immaginavo.”
“Le consiglio di operarsi il prima possibile, se vuole posso metterla in lista per questa settimana.”
“No. Va bene così, non voglio passare avanti a nessuno. E la prego di non parlarne con nessuno, d'accordo?”
“Certo. Ma, anche se di solito non si occupano di queste cose, so che è molto amica con la dottoressa Bailey e il dottor Sloan. Consideri di farsi operare da loro.”
“Ho un tumore al seno. Si sta davvero preoccupando di quanto mi disgusterà la mia cicatrice?”
“So che adesso le sembra stupido, ma, si fidi, quando sopravviverà, perché le assicuro che lei sopravviverà, non vorrà una cicatrice.”
“Non sarebbe che una in più” sussurrai, alzandomi. “La ringrazio davvero. E considererò il suo consiglio” le strinsi la mano, uscendo dal suo ufficio.
Andai al piano di pediatria per parlare con Arizona, ma prima che riuscissi a trovare lei qualcun altro trovò me.
“Dottoressa Torres.”
“Polly.”

“Quindi questa è tutta la storia?”
“Sì.”
“Perché non hai detto niente?”
“Pensavo che sarebbe stato più facile, per te. Non adesso, ma dopo. Quando sarei morta. Se non fossimo più state insieme, se non mi avessi più amato, allora magari non avresti sofferto poi così tanto.”
“Calliope, come puoi dire una cosa del genere? Qualsiasi cosa ti porti via da me, mi strapperà il cuore in pezzi, che sia la morte o che sia una lite. E smetti di dire che morirai, perché io non te lo permetterò.”
Voltai la testa verso di lei, incrociando i suoi occhi.
“Sofia non te lo permetterà” insistette. “Avrei voluto che me lo dicessi, anche prima di fare gli esami.”
“Non volevo farti preoccupare.”
“Ma io voglio preoccuparmi. Io sarei stata lì, a portare metà di quel tuo peso.”
“Lo so. È per questo che non ho detto niente. Ti ho già dato abbastanza pesi da portare per un'intera vita.”
Fu allora che si avvicinò ancora di più, abbracciandomi.
“Non saranno mai abbastanza finché non saranno almeno metà di quelli che porteresti tu da sola.”
Io ricambiai l'abbraccio, iniziando a piangere sulla sua spalla tutte le lacrime che mi ero tenuta dentro.
“Mi dispiace. Mi dispiace” continuò a sussurrare.
“Per cosa? Non è colpa tua” chiesi alla fine.
“Mi dispiace per non essermi resa conto di quello che stava succedendo. Di tutto. Delle cicatrici, degli esami, di quello che Polly ti ha detto.”
“Non te ne sei potuta accorgere perché io ti avevo chiuso fuori, Arizona.”
“Sappi che non te lo permetterò di nuovo. So che hai paura. O, almeno, so che io ne sto morendo. Ma io e te ce la caveremo, d'accordo?”
Annuii, disposta a credere a tutto, almeno per un po'.
“Quando? Quando devi operarti?”
“Il tre gennaio. Non volevo che lo sapessero né i nostri genitori né i nostri fratelli. Mi opererà la Bailey. Lei è l'unica che lo sa.”
Vidi i suoi occhi guardarmi perfino attraverso l'oscurità, mentre con una mano mi accarezzava il viso in un gesto che non racchiudeva nient'altro che inconfondibile amore.
“So che probabilmente non vuoi sentire quello che sto per dire, ma non sono mai stata con qualcun'altra, Calliope. Mai. Né prima, né in questo mese e non ho intenzione di farlo. So che nell'ultimo periodo non lo dicevo molto spesso, ma io ti amo.”
Chiusi gli occhi, lasciando che mi tenesse tra le sue familiari braccia.
“Sei perfetta” sussurrò vicino al mio orecchio. “Non posso credere che non riesci a vedere quello che vedo io.”

Quando mi svegliai, i nostri genitori avevano già portato Sofia al parco. Non sapevo dov'era Arizona, detti per scontato che avesse avuto ripensamenti e se ne fosse andata. Doveva essere stata lei a vestire Sofia e far andare via tutti. Aveva preparato il campo per una lite, la casa era totalmente vuota.
Mi feci una doccia nel tentativo di lavarmi via di dosso il suo odore. Non servì. Era marchiato a fuoco su di me e dentro di me.
Sospirando uscii dalla doccia, avvolgendomi attorno l'asciugamano che avevo preparato. Sentii un rumore ed alzai lo sguardo. Lei era proprio lì davanti ai miei occhi, con uno scatolone in mano che sistemava delle cose nel mobiletto del bagno.
“Che stai facendo?”
Si voltò. “Buongiorno” mi sorrise. “Sto rimettendo le mie cose al loro posto. Gentile da parte tua non riempire gli spazi vuoti.”
“Arizona.”
“Sai, mio padre oggi mi ha chiesto perché indossavo gli stessi panni per il terzo giorno di seguito. Credo che sospettino qualcosa. Poco male, visto che torno a vivere a casa.”
“Arizona.”
“Se vuoi, una volta che loro se ne saranno andati, andrò in una delle stanze per gli ospiti. Ma non ti lascerò sola, anzi, non ti lascerò, punto. Vuoi il divorzio? Chiama un avvocato. Vuoi che me ne vada da qui? Chiama un giudice. Sei mia moglie, ed io voglio stare con te. Quindi non ti renderò buttarmi fuori dalla tua vita così facile.”
“Arizona” ripetei per la terza volta.
“Cosa?”
Aprii la bocca e mi resi improvvisamente conto che non sapevo che dire.
“Hai invertito il posto del deodorante con quello del profumo” le feci notare, uscendo dal bagno per andarmi a vestire.
Non riuscivo a starle vicino, indossando solo un asciugamano. Le sue parole avevano fatto presa, ma la strada per la guarigione sarebbe stata ancora lunga.

“Sia noi che Daniel e Barbara, abbiamo deciso di accettare il vostro invito e rimanere fino a Capodanno, visto che anche Tim e Aria verranno qui da voi.”
Fingemmo un sorriso.
“Ma è...fantastico” esclamai, guardando i miei genitori.
“Dove faremo dormire Tim e Aria?” chiese Arizona, guardandomi attentamente, perché sapeva quanto facilmente entravo nel panico quando si trattava di deludere i miei genitori. O i suoi.
“In camera di Sofia” risposi prontamente, i miei pensieri correvano a mille miglia l'ora. “E Sofia dormirà con noi per qualche notte.”
“Davvero?” chiesero Arizona e Sofia con lo stesso identico tono carico di speranza, gli occhi sgranati, un sorriso enorme sui loro visi.
Scossi appena la testa.
“Davvero. Adesso andate a mettervi a tavola e, se farete le brave, stasera vi leggerò una favola della buonanotte prima di andare a dormire.”
Pranzammo insieme e quel pomeriggio andammo a pattinare sul ghiaccio. I miei genitori non erano mai stati capaci, così rimasero seduti, e neanche il colonnello, che si unì a loro volentieri. Barbara scese in pista insieme a noi.
“D'accordo, Sofia. Sei pronta per imparare a pattinare sul ghiaccio?” chiese la nonna, prendendola per mano.
Non mi sentivo un granché sicura, su quei cosi. Non avevo mai pattinato prima.
“Mamma, io insegno a Calliope se tu insegni a Sofia, ok? Altrimenti rischio che mia moglie si rompa l'osso del collo.”
La fulminai con lo sguardo, ma accettai la mano che mi stava porgendo. Ringraziai che ci fossero pochissime persone sulla pista, a causa del freddo record di quei giorni.
“Sapevo che era una pessima idea prometterle che ci saremmo venute. Si gela, ed io non sono capace, come mi pare ovvio” sussurrai, più a me stessa che a lei.
“Tieni le mie mani Calliope” ordinò, porgendomele.
Dopo solo qualche passo mi era chiaro che Arizona era una pattinatrice provetta.
“Dove hai imparato a pattinare così bene? Cioè, sapevo che sei brava, ma così brava? Stai andando all'indietro e, fino ad ora, non sono ancora caduta.”
“Beh, non tutti vengono dalla Florida” sussurrò con aria misteriosa, continuando a tentare di farmi capire come stare in piedi.
Si avvicinò di più, sorridendomi con quella sua aria felice. Mi persi nei suoi occhi per un momento soltanto. O almeno, sembrò un momento soltanto.
Poi mi ritrovai stesa sul ghiaccio, con Arizona caduta sopra di me. Scoppiò a ridere, nascondendo il naso gelato nella mia guancia. Risi insieme a lei.
“Andiamo, aiutami a rialzarmi. Sofia sta andando meglio di me, inizio a sentirmi in imbarazzo” le dissi dopo qualche secondo.
Quando fui di nuovo con i piedi sul ghiaccio, ricominciò a farmi vedere come muovermi.
Mi ci volle un po', ma alla fine riuscii a rimanere con i piedi stabili - relativamente - sul terreno senza l'aiuto di Arizona, che iniziò a pattinarmi accanto senza però lasciar andare la mia mano.

Tornammo a casa, e come promesso lessi una favola a Sofia prima di metterla a letto, prima che Arizona uscisse per il turno di notte in ospedale. La mattina dopo mi svegliai, sgattaiolando furtivamente al piano di sotto e preparando la colazione per tutti.
“Avrei aiutato” mi voltai, sorpresa che qualcuno fosse già in piedi.
“Quello era il punto di svegliarmi presto” risposi con un sorriso. “Preparare la colazione senza essere aiutata e lasciarvi riposare. Soprattutto tu, che sei tornata poco fa.”
“Intendevo il nodulo.”
“Arizona.”
“Avrei aiutato.”
“Lo so. Ma non voglio parlarne.”
Mi guardò, senza aggiungere altro al suo sguardo grave.
“Allora lasciami aiutare con la colazione.”
“D'accordo. Stavo giusto per iniziare ad apparecchiare, puoi farlo tu?”
“Certo” rispose. “Non hai idea di quanto mi è mancato. Svegliarmi così, stare qui a casa. Te. Non pensavo, onestamente, che mi sarei mai sentita di nuovo come se potessi respirare.”
Io sospirai.
“Niente pressioni, Calliope. So che dobbiamo parlare di cosa succede dopo, e ti darò tutto il tempo e lo spazio di cui hai bisogno. Dico solo che è bello sentirmi di nuovo come se non stessi affogando, tutto qui.”
“So cosa intendi. Fidati.”
Annuì, andando al piano di sopra per cambiarsi.
“Avrei aiutato” una voce più calma, più profonda, in qualche modo più saggia, mi distrasse per la seconda volta.
Sorrisi educatamente. “Va bene così. Non mi dispiace cucinare.”
“Intendevo con Arizona.”
Il sorriso sparì lentamente.
“Mamma...”
“Lo so, tesoro. Non sono affari miei. Ma posso vedere che qualcosa non va. E so che all'inizio mi sono tenuta a distanza, non mi sono interessata, ma adesso sono qui per te.”
Si avvicinò, sedendosi dall'altra parte dell'isola al centro della cucina.
“Ho visto quanto Arizona ti rende felice, Callie. Non riuscirò mai a dimenticare lo sguardo che avevi allora. E ti assicuro che non è quello che hai adesso. Sarei stata felice di aiutare.”
“Tesoro, vuoi che prima...Signora Torres. Buongiorno.”
Mia madre le sorrise. “Buongiorno, cara. Siediti. Avrei giusto voluto che fossi qui anche tu.”
“Mamma, non è necessario...”
“Posso aiutare” insistette. “Se mi dite cosa sta succedendo, sono sicura di poter aiutare. Ho anni e anni di matrimonio alle spalle. Ho vissuto a lungo, ho visto tanti matrimoni felici durare nel tempo, e matrimoni ancor più felici li ho visti fallire. Il vostro è uno di quelli che mi piacerebbe veder durare, perché è uno dei più felici che abbia mai visto, forse il più felice in assoluto. Cos'è andato storto?”
Niente, pensai, con rassegnazione. Ma le cose non sempre vanno come avremmo voluto. Alcune volte, semplicemente, è la vita ad andare storta. E per quanto vorresti continuare a far finta che sia tutto come prima, niente sarà lo stesso mai più. La vita è ingiusta e le cose brutte accadono. Tutto qui.
Sospirai.
“Niente è andato storto” risposi. “Siamo solo parecchio stressate a causa del lavoro, mamma, abbiamo una figlia piccola, le cose sono diverse, più complicate.”
Non negai di non essere felice come una volta, però. Sono sicura che lei si accorse della mia omissione, ma annuì comunque, lasciandoci sole per andare a svegliare papà.
“Calliope, so che negli ultimi mesi le cose non andavano molto bene, ma possiamo fare di meglio, io e te siamo meglio di così.”
Io sorrisi tra me e me. “Potresti rendermi di nuovo felice. E potresti essere di nuovo felice” continuai, senza smettere di tenere d'occhio le uova che stavo cuocendo. “Niente più segreti, e impareremmo a comunicare. Sarebbe una vita niente male. Sarebbe bello” alzai lo sguardo su di lei, un piccolo sorriso. “E poi c'è l'altra possibilità. Un po' più scura, ma più probabile. Sofia è piccola, col tempo si dimenticherebbe di me. Perlomeno i miei lineamenti, i miei occhi, le mie braccia. Ricorderà la mia voce, per un po'. Col tempo, scorderà anche quella. E tu avrai una bella vita, qualcun'altra ti renderà felice, ma non importerà, perché io non sarò più qui per vederlo. All'inizio penserai a me ogni volta che guarderai Sofia. Poi, pian piano, ogni volta che la guarderai vedrai soltanto lei. E sarai felice. Sarete felici. Ed io non potrei chiedere di meglio.”
Mi guardò in silenzio per meno di due secondi.
“Sei pazza se questo è quello che pensi davvero.”
Non risposi.
“Il tre ti toglierai quel nodulo, che sarà benigno. E poi ti prenderò a calci nel sedere per aver anche solo mai dubitato che ce l'avresti fatta. Smetterò di lavorare così tanto e ti obbligherò a parlarmi di tutto quello che ti aveva allontanato da me. Affronteremo qualsiasi cosa, insieme. E sarai di nuovo felice insieme a me, te lo prometto, perché io ti renderò felice ogni giorno.”
“Non hai mai smesso di farlo, Arizona. La mia infelicità non viene da te, ma solo da me stessa” sospirai con rassegnazione. Sapevo, davvero, che tutti i miei problemi erano solo nella mia testa.
“Quando è successo? Quando hai smesso di sentirti felice? Quando è stata l'ultima volta che qualcosa che ho fatto ti ha scaldato il cuore?”
“Ricordi la sera in cui sei rientrata ed io e Sofia stavamo guardando vecchie foto? Mi hai guardato, hai sorriso e hai detto che ti sarebbe piaciuto vedermi di nuovo con i capelli lunghi, prima o poi.”
“Ma quello era il giorno prima che me ne andassi” mi fece notare.
“Aspetta, hai ragione. Il giorno dopo, a pranzo, sei andata a prendere Sofia e mi avete fatto una sorpresa in ospedale. Come ho potuto dimenticare?” sorrisi al ricordo della mia bambina che si aggirava furtivamente nell'ala di ortopedia.
“Tu eri ancora felice?”
“Tu no?”
“Non sono io quella che ti ha lasciato. Ero io che passavo troppo tempo a lavoro, io che ti ho fatto venire il dubbio che ti stessi tradendo. Ma tu riuscivi ancora ad essere felice?”
“Ho smesso di essere felice quando te ne sei andata, ma fino ad allora, sì, mi bastava guardarti e mi sentivo meglio.”
Alzai lo sguardo, incrociando i suoi occhi. Poi guardai di nuovo in basso e sorrisi.
“Ho bruciato le uova” gettai nel cestino il contenuto annerito della padella, prendendone altre dal frigorifero. “Non avevi promesso di apparecchiare? Che ci fai ancora qui?”

Lasciai tutto pronto per la colazione, con severe istruzioni ad Arizona su quanti zuccheri poter far mangiare a Sofia, poi andai a lavoro.
All'entrata trovai Teddy e la Bailey, che sembravano essere lì ad aspettare me. Mi seguirono mentre entravo in ascensore.
“Come vanno le cose a casa?” chiese Teddy.
“Sai, tutto il piano non-dire-ai-nostri-genitori-della-separazione” spiegò Bailey.
“Non avete parlato con Arizona, ieri notte?”
“Non ero di turno.”
“Nemmeno io.”
“Beh, le cose vanno...bene.”
“Bene?” chiese Teddy.
“Definisci 'bene'” mi incoraggiò la Bailey, sorseggiando il suo caffè.
“Bene nel senso che...potrebbe non esserci più una separazione di cui parlare” confessai, mentre l'ascensore si fermava al piano di pediatria. “Stiamo comunicando e tentando di risolvere le cose” il sorriso sparì dalla mia faccia quando vidi chi stava aspettando l'ascensore.
“Dottoressa Torres.”
“Preston. Avevi il turno di notte?”
“No. Entro adesso. Perché?”
Scrollai le spalle. Non potevo evitare di continuare a provare irritazione al pensiero che lei avesse passato la notte in ospedale mentre anche Arizona era lì.
L'ascensore si aprì di nuovo.
“Dottoressa Bailey, dottoressa Altman. Dottoressa Torres” mi sorrise come un'idiota.
“Che hai da sorridere, Karev?”
“Arizona non gliel'ha detto?”
Io continuai a guardarlo in modo perplesso.
“Pediatria da oggi ha un nuovo strutturato. Io. Proprio così” guardò Polly con aria compiaciuta. “Io sono il nuovo strutturato.”
“Credevo avesse deciso di aspettare” risposi, onestamente non seguendo.
“Anche io. Ma ieri è andata a parlare con Webber e gli ha chiesto un altro strutturato, in modo che potesse passare più tempo a casa. Lui ha chiesto se avesse qualcuno in mente, e Arizona ha proposto me” sorrise di nuovo. “E poi mi ha chiamato, facendomi le congratulazioni e dicendomi che da questo momento la Preston è una mia responsabilità.”
“Mi ha tagliato fuori?” chiese Polly, incredula.
“Completamente. A quanto pare, non vali lo spreco del suo tempo” gongolò Alex, dondolandosi sui talloni mentre aspettava che l'ascensore raggiungesse il piano superiore. “Andiamo. Devi riempire le mie cartelle. Non vorrai fare tardi il primo giorno con il tuo nuovo capo, vero?”
Quando uscirono, noi scoppiammo a ridere.

“Mamma!”
“Sofia, che ci fai qui?”
“I nonni sono andati a fare un giro ed io e mamma siamo venute a salutarti.”
La presi in braccio.
“Molto gentile da parte vostra” sorrisi.
“Inizio il turno tra poco, quindi la porto su alla nursery” mi fece sapere.
Annuii. “Stamani ho incontrato Alex. Mi ha detto delle cose interessanti. Credo che dovremmo parlarne.”
“Niente di cui parlare. Un altro strutturato uguale più tempo libero uguale più tempo a casa. Ho mantenuto la mia promessa. Niente di cui parlare” ripeté.
Entrammo in ascensore insieme, dirette alla nursery, dove lasciammo Sofia. Poi riprendemmo l'ascensore insieme.
“Il fatto che hai scaricato al nuovo strutturato il motivo per cui ti avevo lasciato non ha niente a che vedere con me, quindi?”
“Forse non l'hai notato, ma tutto quello che faccio ha la tendenza ad avere a che fare con te.”
“Non era necessario.”
“Lo era. Dopo il modo in cui ti ha trattato, io non sarei mai stata oggettiva nei suoi confronti.” Mi guardò. “Però vorrei che parlassimo del nodulo.”
Sospirai. “Ok.”
Così ne parlammo. Ne parlammo per ore, fino alla nausea, finché il mio cerca persone suonò.
“Non ho finito” mi avvertì.
“Lo immaginavo. Donne. Sempre a parlare di come vi sentite” finsi irritazione, poi sorrisi. “Prendo Sofia quando esco, tra un'oretta” la avvertii, guardandola annuire prima di andare via.

“Domani arrivano Aria e Tim.”
“Non vedo l'ora. Sarà tutto un 'Tim e Aria questo' e 'Tim e Aria quello'. Sarà divertentissimo” sospirai.
“Sono solo tre giorni. Possiamo resistere per tre giorni.”
“Dovremmo parlare con Sofia una di queste sere. Dirle che torni a vivere qui. Se mi succedesse qualcosa...”
“Calliope.”
“L'altro giorno mi hai parlato di tutto quello che provavi, Arizona, mi hai parlato di come le cose andranno dopo l'operazione, di quanto tempo servirà per il recupero, nonostante sapessi già tutte quelle cose, visto che sono un chirurgo anche io. Adesso è il mio turno di parlarti dell'altra possibilità.”
“Non credo di essere pronta. Non credo lo sarei mai.”
“Lo capisco. Ma, se mi succedesse qualcosa, voglio che Sofia sappia che saresti rimasta. Vorrei che, se riuscisse a ricordare qualcosa di me, fosse qualcosa di bello.”

Volevo bene ad Aria. E Arizona voleva bene a Tim. Però non era facile. Loro erano la coppia tradizionale, in fondo. Si erano sposati circa un anno dopo di noi ed erano ancora nella fase dei piccioncini. Certo, non ai livelli miei e di Arizona prima che iniziassero le liti, ma comunque.
Averli attorno significava passare sempre in secondo piano. Come se il loro matrimonio valesse più del nostro, come se fossero loro il vero legame che univa le nostre famiglie. Io e Arizona non ne parlavamo, neanche tra noi. E i nostri genitori non sembravano farci troppo caso.
La casa era completamente vuota. Sofia aveva insistito per andare insieme ai nonni a prendere gli zii in aeroporto.
Stavo sistemando il salotto, quando sentii una musica familiare farsi strada nel mio subconscio, iniziando a canticchiarla tra me e me. Poi mi accorsi cos'era.
“Sul serio? Il Re Leone, Arizona?”
“Ricordi quando Sofia insisteva per guardarlo così tante volte al giorno che era ridicolo, in continuazione, e alla fine abbiamo scoperto che era solo perché, quando partiva questa canzone, io e te iniziavamo a ballare?”
Io risi, lasciando i cuscini che stavo spolverando e avvicinandomi a lei.
“Fammi indovinare. Vuoi che balli con te.”
Mi porse una mano, quella in cui non stava tenendo il telecomando, un sorriso con le fossette saldamente sul viso. Presi la sua mano, appoggiando l'altra sul suo fianco mentre lei spostava la sua sulla mia spalla. Appoggiai la guancia contro la sua, iniziando a canticchiare le parole.
“And if only they, could feel it too. The happiness I feel with you. They'd know, love will find a way.”
“Anywhere we go, we're home, if we are there together” proseguì brevemente al posto mio, dopo avermi guardato negli occhi seriamente per qualche istante.
Like dark, turning into day. Somehow we'll come through, now that I've found you. Love will find a way.
Risi, avvolgendole le braccia attorno alla vita e attirandola a me. La percepii sorridere.
Riavvolse il DVD, facendo ripartire la canzone dall'inizio. Gettò il telecomando sulla poltrona mentre ricominciavamo a ballare, ripresi una sua mano con la mia e premetti il naso sulla sua guancia, allontanandomi, poi, per guardarla negli occhi.
“Sei bellissima” sussurrò, accarezzandomi i capelli.
Disse la frase giusta al momento giusto. Fu solo quello. All'improvviso. Ed io mi sentii il cuore in gola.
“Ti amo” risposi.
Poi, feci l'unica cosa che avrei potuto fare in quel momento. La baciai.
“Ti amo anch'io” sussurrò contro le mie labbra, continuando a ballare senza allontanarsi.
Qualche istante dopo si aprì la porta.
“Mamma, zia Aria ha detto...” Sofia corse in soggiorno. “Stavate guardando il Re Leone senza di me?” chiese, con l'aria di qualcuno che aveva appena scoperto che il suo cucciolo era passato a miglior vita.
Vedendo tutti sulla porta del soggiorno, io e Arizona ci allontanammo.
“No, tesoro. Stavamo...ehm, mettendo apposto e abbiamo trovato il DVD per sbaglio.”
“Aria, Tim” salutò Arizona nel tentativo di distrarla. “Siamo felici che siate venuti.”
Guardai verso mia madre e notai che aveva un sorriso sollevato sulle labbra.
“Allora...chi vuole dei biscotti?”
Il viso di Sofia si illuminò.

Finalmente, dopo estenuanti giorni passati a sentire quanto i nostri genitori avrebbero adorato un nipotino da Aria e Tim, arrivò il primo dell'anno. Dopo pranzo, finalmente, tutti sarebbero partiti e le nostre vite sarebbero tornate alla normalità.
Ero in cucina, mentre Arizona stava apparecchiando e gli altri stavano chiacchierando. Sentii qualcuno entrare, ma non mi voltai.
“Allora, vuoi parlarne?”
Era la voce di Aria.
“Di cosa?”
“Mamma me lo ha detto.”
Mi voltai, guardandola con aria confusa.
“Non so cosa ti abbia detto, ma tra me e Arizona è tutto apposto. Mamma tende a vedere cose che non ci sono” minimizzai, prendendo in mano la forchetta che stavo usando un attimo prima.
“Mi ha detto che sei malata, Callie.”
L'oggetto che avevo in mano cadde ai miei piedi.
“Come, scusa?”
“Quindi è vero” decretò. “Non posso crederci.”
Arizona e mia madre entrarono in quel momento, notando subito entrambe le nostre espressioni contrariate. Fulminai Arizona con lo sguardo.
Mia madre se ne accorse e fece cenno ad Aria di seguirla fuori dalla cucina per lasciarci sole.
“Come hai potuto parlarle dopo che ti avevo chiesto espressamente di non farlo?” chiesi ad Arizona, alzando la voce.
“Parlare a chi di cosa?” domandò, sbalordita.
Inspirai, cercando di calmarmi.
“A mia madre” spiegai. “Aria dice che mia madre le ha detto che sono malata” tenni il tono basso.
“Io non ho detto una parola a nessuno” si difese Arizona.
“No. Certo. Sono stata io, ma sto incolpando te perché mi piace litigare. Sai, sapevo che era un errore. Lo sapevo. E adesso l'unica persona che posso incolpare è me stessa, per averti creduto” conclusi in poco più che un sussurro.
“Calliope, so che sei arrabbiata, quindi ti consiglio di non dire altro di cui potresti pentirti, perché io non ho detto niente” mi si avvicinò. “Guardami. Prendi un secondo e pensaci. Davvero credi che sia stata io? A tradire la tua fiducia? Credevo ne avessimo già discusso. Non potrai mai trovare qualcuno che ti ami più di me, in questa vita. Nessuno ti ama quanto ti amo io. E sono stata tentata di parlarne ai tuoi, perché pensavo che ti saresti pentita di non averli avuti al tuo fianco, ma non l'ho fatto, perché tu mi avevi chiesto ti tenere la bocca chiusa.”
Mi prese le mani.
“Ehi” mi sorrise. “Sono io. Sono la persona che hai sposato, la persona di cui ti fidavi di più al mondo. Cos'è successo a quella fiducia?”
Scrollai le spalle.
“La vita è successa. Il mondo è successo. E adesso è un po' più nascosta, più silenziosa. È sovrastata da altre voci, voci più forti. Io e te, non saremo le stesse persone mai più.”
“Certo che lo siamo” fece in modo che la guardassi negli occhi. “Ti amo ancora in quel modo, Calliope. In quel modo insensato, disperato, meraviglioso in cui ti amavo il giorno in cui ti ho sposato. Guardami negli occhi e dimmi che non mi credi.”
“Non ti credo. Sei l'unica persona che lo sapeva, Arizona” continuai a guardare in basso.
“Guardami” mi prese il viso tra le mani, facendomi alzare lo sguardo. “Dimmi che non mi credi.”
Scossi la testa, le lacrime agli occhi.
“Certo che ti credo, Arizona. Ti crederei se mi dicessi che il cielo è viola. Ti crederei sempre. Ci ho provato, non credere che non lo abbia fatto, ma non riesco ad andare avanti e a lasciarti andare, perché, nonostante tutto, penso ancora che io e te siamo fatte l'una per l'altra.”
Lei annuì.
“Lo so. È stato questo il punto fin dall'inizio. È stato stupido andarmene quella sera, dartela vinta perché eri arrabbiata, perché io e te litighiamo, come tutti gli esseri umani. Ma, diversamente da tutti gli esseri umani, io e te ci apparteniamo.”
“Ok, adesso basta” sospirai. “Questa conversazione non potrebbe essere più smielata di così neanche se ci provassimo.”
“Vieni. Voglio sapere chi è stato a dire a tua madre che sei malata.”
La porta si aprì lentamente.
“Sono stata io.”
“Sofia?”
“Non volevo ascoltare. Non all'inizio. Ma poi vi ho sentito che ne parlavate e ho pensato che forse nonna ne sapeva qualcosa. Così gliel'ho chiesto.”
“Come...quando hai sentito che ne parlavamo, tesoro?” chiese Arizona, prendendola in braccio e facendola sedere sul ripiano della cucina.
“L'altro giorno. Dalla porta della cucina si sente tutto, da quando la maniglia si è rotta e la porta non si chiude più.”
“Sofia, perché non hai chiesto a noi?”
I suoi grandi occhi marroni si riempirono di lacrime.
“Non volevo farvi arrabbiare. Le cose andavano così bene, mamma era di nuovo a casa.”
“Hai detto a nonna anche che mamma non stava più qui?” scosse la testa negativamente ancora prima che finissi la domanda. “Mi dispiace che tu l'abbia saputo così, tesoro. Va bene se ne parliamo quando saranno andati via tutti?”
Lei annuì.
“Anche mamma deve andare via?”
Arizona scosse la testa.
“No, tesoro. Io...io resto. Ok?”
Lei annuì, tirando su col naso.

Spiegammo a mia madre e Aria che Sofia aveva capito male, che stavamo parlando di una mia paziente e non di me. Che la cosa che avevo chiesto ad Arizona di non dire loro riguardava delle analisi che avevo fatto e di cui ancora non avevo ottenuto i risultati, ma niente di grave, tutto riguardo degli abbassamenti di pressione che avevo avuto recentemente. Non volevo farli preoccupare perché ero sicura al cento per cento che non era niente di grave.
Recitai così bene da convincere entrambe.
Li accompagnammo in aeroporto, guardandoli andare via e tirando un sospiro di sollievo che stavamo trattenendo da giorni.
Arrivate a casa, arrivò il momento della discussione con Sofia.
Dopo averle messo il pigiama, la portai in camera nostra, nel lettone che adorava tanto, facendola mettere sotto le coperte ed unendomi a lei mentre aspettavamo Arizona.
“Non mi lascerai, vero mamma?”
“No, tesoro” sussurrai accarezzando i suoi capelli. “Io sono sempre accanto a te, anche quando non puoi vedermi. Sono proprio lì al tuo fianco.”
“Per proteggermi” concluse.
Io sorrisi, stringendola tra le mie braccia.
“Mamma dorme qui, stasera?” chiese. “Anche se i nonni non ci sono più?”
“Mamma dormirà qui sempre, tesoro” rispose Arizona al posto mio, entrando sotto le coperte e avvicinandosi a noi.
Mi persi nei miei pensieri, mentre Arizona le spiegava che non doveva più stare in albergo, ma i motivi per cui aveva dovuto farlo non sussistevano più e lei poteva tornare a casa.
Uno pensa sempre a cosa vorrebbe fare prima di morire. A quale vorrebbe che fosse l'ultima cosa che i suoi occhi riescono a vedere. E pensa sempre all'aurora boreale o stronzate del genere. Ma se avessi dovuto scegliere in quel momento, avrei scelto che quella fosse l'ultima cosa che potevo vedere.
Proprio loro due. Le donne della mia vita.

“Potremmo andare a Disneyland. Sarebbe fantastico, Sofia lo adorerebbe.”
“Sarebbe davvero meraviglioso. Se andiamo in Florida potremmo passare da Miami, far vedere a Sofia il mare, il posto dove sono cresciuta.”
“Le piacerebbe la spiaggia, il sole, il caldo.”
“Le piacerebbe il negozio di gelati a due passi dalla casa delle vacanze dei miei” aggiunsi, ridendo piano. “E sono sicura che lo apprezzeresti anche tu.”
“Poco ma sicuro. Tuttavia, io apprezzerei anche Disneyland.”
Risi di nuovo. Quando la risata si attenuò la guardai dritta negli occhi.
“Prometti che la porterai a Disneyland.”
“Ce la porteremo insieme.”
“Arizona.”
“Calliope.”
“Promettimelo e basta, ok? Promettimelo.”
“Arizona, non puoi venire oltre” le fece notare la Bailey.
“Te lo prometto” disse alla fine, baciandomi velocemente e lasciando andare la mia mano mentre oltrepassavo le porte prima della sala operatoria.
“Sei pronta?” chiese.
Io annuii.
“Bailey” fermai la sua mano prima che mi mettesse la mascherina.
“Dimmi, Torres.”
“Se riesci a toglierlo tutto, se sei sicura di non dover più riaprire, chiama Mark, digli cosa sta succedendo e fai ricucire a lui.”
“Adesso ti preoccupi della cicatrice?” sorrise. “Hai finalmente capito che non ti permetteremo di andartene così facilmente, mh?”
Sorrisi anche io, più forzatamente.
“Non mi servono cicatrici in più. Ne ho abbastanza così come sono adesso.”

“Di che ti preoccupi? Si vede appena anche quando non hai niente addosso.”
“Tu devi dirle cose del genere, è il tuo lavoro.”
“No” mi contraddisse. “Il mio lavoro e averci a che fare, non complimentarmi per quanto sono perfette, cosa che sono, né farti notare che l'unica parte che ancora si vede del taglio è coperta dal costume” disse, continuando a mettersi la protezione solare.
“Non mi importa. Sono cicatrici. Le cicatrici sono sexy, le cicatrici sono fiche, le cicatrici sono romantiche.”
“Giusto” concordò. “Sono felice che te ne sia ricordata.”
“Ma è sempre carino sentirti dire che le trovi perfette.”
Mi baciò, passando una mano tra i miei capelli.
“Adoro che tu abbia di nuovo i capelli così lunghi” sussurrò sorridendo contro le mie labbra. “Vieni. Andiamo a fare il bagno, prima che Sofia si tuffi in acqua da sola.”
“D'accordo. Sarà divertente vederti provare ad insegnarle come si nuota.”
“Preferisci provare tu per prima?”
“Neanche per sogno. Perché dovrei privarmi di così tanto divertimento tutto in una volta? Sarò lì per salvarvi giusto in tempo, quando rischierete di affogare. Nel frattempo, datti una mossa con la crema solare. Nostra figlia sta aspettando.”




Preciso che la storia è stata scritta molto prima della nona stagione e il “promettimelo” non c'entra niente con l'altro “promettimelo” che ci ha spezzato il cuore.

Grazie mille a tutte, se volete farmi felice scorrete in basso e lasciatemi un commentino! =) Grazie ancora...a presto!


Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Il nostro primo dopoguerra ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete fantastici. =)

Avvertimenti: AU; leggermente OOC; PTSD in personaggi principali.


Buona lettura!

Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo dopoguerra


Dicono che le persone non cambiano.
Io la pensavo così. Siamo quello che siamo, abbiamo le nostre convinzioni, le nostre idee e i nostri modi di fare. Abbiamo un certo atteggiamento. Un certo carattere. Non cambiamo, tutt'al più ci adattiamo, ma succede così raramente che è un miracolo.
Dicono che le persone non cambiano.
Ma si sbagliano.
Mio fratello Tim era stato in guerra, ed era tornato dalla guerra. Era diverso, a volte lo vedevo sovrappensiero e sapevo che se avessi guardato nei suoi occhi non avrei visto altro che tristezza. Ma un giorno incontrò qualcuno. Una persona in grado di aggiustarlo. Una persona che rimise la luce nei suoi occhi e la vita nel suo mondo.
Mio fratello sposò una donna che gli cambiò la vita, lo fece tornare se stesso. Non era mai cambiato davvero, ma con lei era se stesso ancora di più. Era come se in guerra non fosse mai andato.
Julia Robbins aveva tre anni e mezzo quando il padre fu richiamato in guerra.
Quando tornò, un anno dopo, sano e salvo per la seconda volta, aveva promesso che non ci sarebbe mai più tornato.
Ma era cambiato per sempre.
Così radicalmente, così in profondità, che neanche sua moglie e sua figlia riuscirono ad aggiustarlo di nuovo.
Aveva scatti di rabbia, momenti di assoluta debolezza, altri momenti in cui non riusciva a smettere di piangere. Ma per la maggior parte rimase sempre rabbia.
Sindrome da stress post traumatico. O qualsiasi cosa fosse. Aveva ucciso mio fratello, la guerra, come aveva ucciso il suo migliore amico morto in un'imboscata, o i suoi due compagni di ronda, morti tra le sue braccia, prima l'uno e poi l'altro. Era scoppiata una bomba vicino al furgone che li stava portando in missione, un giorno. Venti uomini compreso lui. Diciotto morti.
Mi piaceva la domenica, perché venivo invitata a pranzo a casa dei suoceri di Tim. E lì c'erano anche Julia e mia nuora. Spesso anche Tim, tranne i giorni in cui non se la sentiva di alzarsi dal letto. E capitava più spesso di quanto uno qualsiasi di noi volesse ammettere.
Adoravo mia nipote. Adoravo come sorrideva quando affermava orgogliosamente che io salvavo vite ai bambini come lei.
Pranzammo insieme, quella domenica. Io, Julia, Aria, Tim, i signori Torres e i miei genitori.
Appena finito di pranzare, la mia nipotina di cinque anni mi scelse come destinataria delle sue attenzioni di quel pomeriggio. Mi prese per mano e mi condusse quasi correndo nella camera che un tempo era stata di sua zia.
Mi persi nei miei pensieri, osservando una delle fotografie, che ritraeva due ragazze. Una era sicuramente Aria. L'altra doveva essere sua sorella. La presi in mano, voltandola e leggendone il retro. A Calliope, con tutto l'affetto ed un pezzetto del mio cuore, Aria.
Il nome era tutto ciò che sapevo della sorella di Aria. Nessuno parlava mai di lei, né io avevo mai osato chiedere qualcosa. L'unica che ne parlava era Julia. Ogni volta che la nominava i suoi occhi si illuminavano e sorrideva come se stesse raccontando una favola. Era solo grazie ai suoi racconti che sapevo che esisteva davvero. Quella domenica sarebbe dovuta tornare a casa, così almeno mi avevano detto - una sola volta e di sfuggita. Ma di lei, ancora nessuna traccia.
Dopo due ore passate a giocare con la mia nipotina mi lasciai cadere sfinita sul letto, mentre lei si sedeva alla pianola elettrica ed iniziava a suonare note a caso. Sorrisi, rimanendo ad occhi chiusi.
“Zia, perché non balli?”
“Sono sfinita, Julia. Ma ti prometto che appena avrò ripreso fiato dal round di guardia e ladri mi alzerò in piedi.”
“Devi ballare, sennò io che suono a fare!”
“Te lo prometto, appena riesco ad alzarmi.”
Cadde di nuovo il silenzio, eccetto per le note sconnesse di mia nipote sul piano. Il mio ultimo turno era stato di diciotto ore. Era la prima volta che mi sdraiavo su un materasso in due giorni. Gli occhi, lentamente, iniziarono a chiudermisi.
“Sei migliorata pulce” venni svegliata dalla sua voce. “L'altra volta sembrava che stessi uccidendo un gatto. Stavolta sembra solo che tu lo stia picchiando. E non molto forte.”
“Zia!” Julia si alzò di scatto, interrompendo la sua straordinaria performance per correre ad abbracciare la donna. Le saltò addosso, la mora la prese al volo, sollevandola senza sforzo e abbracciandosela stretta al petto.
“Mi sei mancata.”
“Stavolta rimani, zia?”
“Per un paio di giorni.”
“Ma quando rimani per sempre?” chiese, il tono triste.
“Solo qualche altro mese, pulce. Ti ho raccontato la storia tante volte, sai bene che ho preso un impegno lungo tre anni. Poco prima del tuo secondo compleanno, sai? E adesso quei tre anni stanno per finire e io tornerò a casa per sempre.”
“E andremo al parco come mi prometti sempre?”
“E andremo al parco. Ogni volta che vorrai. E ti comprerò una montagna di gelato. Ma non dirlo alla mamma, d'accordo?”
“Promesso” rispose prontamente, schioccando alla zia un bacio sulla guancia.
Poi scese, e corse a chiamare i suoi genitori.
“Callie Torres” mi tese la mano.
“Arizona Robbins. È un piacere conoscere la donna con cui sono in competizione per il premio di migliore zia dell'anno.”
“Oh, c'è una competizione?”
“Già. Ma non preoccuparti. Non ho una chance, quella ragazzina ti venera. Quando le chiedo che lavoro vuole fare da grande risponde sempre che vuole fare quello che fai tu.”
“Eh” sospirò. “Spero di avere abbastanza tempo per farle cambiare idea.”
Io aggrottai la fronte.
“Callie, sei a casa” esclamò Aria, entrando in camera e abbracciando sua sorella.
“Ho salutato mamma in cucina, sono entrata dal retro. Stavo giusto per scendere, ma volevo rivedere la mia piccola pulce, prima.”
“Le hai di nuovo promesso gelato a volontà?”
“Niente del genere” rispose, poi mi fece un occhiolino quando Aria si fu voltata, strappandomi un sorriso completo di fossette.
Vidi entrare mio fratello.
Sapevo che si erano conosciuti prima. Ma non sapevo come.
“Maggiore Robbins.”
“Maggiore Torres.”
Riconobbi il saluto e mi si gelò il cuore. Ruppero il saluto militare e si abbracciarono.
“Congedo provvisorio?”
“Solo per un paio di giorni. Riparto domani sera.”
“Arizona, hai già conosciuto Callie?”
Lei mi sorrise. “Tim è la persona che mi ha convinto ad arruolarmi, a dire la verità. Tuo fratello se l'è cavata con un anno. Io ne ho fatti tre.”
“Due, se conti la prima volta” la corresse.
“Giusto. Io non ti conoscevo ancora, a quel tempo. Allora, Arizona, tu che lavoro fai?” chiese, cercando di cambiare argomento.
“Chirurgo pediatrico. Lavoro qui a Seattle, al Seattle Grace...”
“...Mercy West” concluse per me. “Ma non mi dire. Dovrebbero ancora avere il mio posto per quando tornerò. Così mi aveva promesso Webber. Sono un chirurgo ortopedico.”
Io le sorrisi. “Spero di poter lavorare con te una volta che tornerai a Seattle.”
Il suo sguardo si intristì.
“Stai ancora pensando di fare un altro turno?” le chiese Aria, improvvisamente preoccupata. “Ti stai perdendo un sacco di cose, Callie. Un'intera vita. Pensa a quello che potresti avere qui. Una casa. Una famiglia.”
“Una famiglia che mamma e papà non approverebbero mai. Almeno questo me lo hanno reso chiaro, tre anni fa.”
“Non sono stati loro a farti fare quella scelta, Callie.”
“Mi avevano detto di non volermi più vedere Aria. Avevo perso la mia famiglia, avevo perso metà dei miei amici, alcuni chirurghi all'ospedale non riuscivano più a guardarmi in faccia. Avevo bisogno di ricominciare da zero. Avevo bisogno di cambiare.”
“Beh, poco ma sicuro l'esercito ha cambiato te.” Callie rimase in silenzio. “E quello che non ho mai capito è perché lei. Era la prima, hai detto proprio tu che non era neanche importante.”
“Gliel'ho detto perché volevo che sapessero chi fossi. Volevo che fossero stati pronti, quando un giorno avrei presentato loro quella giusta.”
“Non la troverai di certo nell'esercito. Mai sentito parlare di DADT?” le chiese Aria, ironicamente.
“Zia! Guarda, questa è una delle medaglie di nonno. È uguale alla tua!” esclamò Julia entrando correndo dentro la stanza.
Callie la prese di nuovo in braccio. “Vediamo un po'. Oh, sì, ricordo questa medaglia, è una molto speciale, sai? Perché non mi presenti il nonno, pulce?” le chiese, avviandosi al piano di sotto.
Io la seguii in silenzio fino nella sala da pranzo, dove i miei genitori e Carlos stavano parlando. Lui, vedendo entrare la figlia, si alzò in piedi.
“Calliope.”
“Papà.”
Fu un saluto freddo, in qualche modo distante.
“Colonnello Robbins, è un piacere fare la sua conoscenza. Callie Torres.”
“Maggiore Torres, ho sentito molto parlare di te da mio figlio” si strinsero le mani.
“Signora Robbins, è un piacere conoscerla.”
“Chiamami Barbara.”
Proprio in quel momento il mio cerca persone suonò. “Devo andare in ospedale” decretai leggendo il numero su di esso. “Ci sentiamo presto” salutai i miei genitori. “Grazie per il pranzo signori Torres.”
“Non essere sciocca, cara. A domenica prossima” mi salutò Lucia.
“Ti chiamo un taxi” si affrettò Tim.
“Posso accompagnarti io in ospedale se vuoi. Pensavo di farci comunque un salto, salutare i vecchi amici, cose del genere” capii che non voleva passare lì dentro un minuto di più.
“Certo.”
Salii in macchina insieme a lei, che iniziò a guidare a memoria tra le vie di Seattle.
“Allora, da quanto lavori qui a Seattle?”
“Qualche mese. Mi sono trasferita per essere più vicina alla mia famiglia.”
“Ah, so cosa intendi. Per fortuna tra qualche mese sarò di nuovo a casa.”
“Quanto ti è rimasto?”
“Sei mesi. Fino al compleanno di Julia. Qualche giorno prima dovrei essere congedata.”
“Ne sarà felicissima.”
Parcheggiò dalla parte opposta della strada rispetto all'ospedale.
“Oh, credevo che qui potessero parcheggiare solo i proprietari degli appartamenti.”
Lei mi sorrise, mostrandomi un mazzo di chiavi.
“Appartamento numero 506. La mia coinquilina lo ha lasciato ed io stavo partendo e sapevo che in tre anni qualcuno lo avrebbe affittato. Così l'ho comprato. L'ho affittato per tre anni ad una coppia, credo siano neozelandesi. Ho incaricato Mark di cacciarli via tre mesi prima del mio ritorno. Credo che darà una festa di ben tornato, dovrebbe essere una sorpresa, ma Mark non è molto sottile.
Comunque va a mio vantaggio, visto che dovrà pulire l'appartamento pochi giorni prima del mio ritorno.”
Io risi. “Andiamo. Rispondo a questa chiamata e poi voglio conoscere i tuoi amici.”
Entrammo insieme e lei mi seguì al pronto soccorso, dove in cinque minuti visitai il bambino per cui uno specializzando del primo anno mi aveva chiamato.
“Chiami il dottor Karev e gli faccia mettere dei punti” gli dissi, alzandomi.
“Alex Karev? In pediatria? Le cose cambiano” commentò Calliope mentre salivamo in ascensore, dirette al terzo piano.
“Callie?” chiese Addison, avvicinandosi. “Credevo avessi altri sei mesi” esclamò abbracciandola.
“Ce li ho. Ho solo preso un paio di giorni” ricambiò l'abbraccio. “Mi sei mancata Addison.”
“Non quanto tu sei mancata a me. Mark è diventato noioso da quando si è sistemato con Lexie.”
“Aspetta, dicendo Mark intendevi Mark Sloan? La prostituta di chirurgia plastica?” chiesi.
“Esattamente lui. La sua fama lo precede” rispose sorridendomi.
“E tu...sei qui con Arizona” osservò Addison, sorpresa. “Cavolo. Piuttosto improvviso, ma, ok...Sono felice per voi. Era ora che Arizona si decidesse ad uscire con qualcuno, e tu Callie, ne hai davvero bisogno dopo due anni e mezzo nell'esercito.”
“Ah, ehm, no” rise nervosamente. “No. Arizona è la sorella di Tim. Il marito di Aria. Mia sorella.”
“Torres!” ed ecco l'uomo prostituta. Non sapevo perché, ma non mi piaceva quel tizio.
“Mark” lo salutò, abbracciandolo.
“Congedo breve? Vuoi andare in una delle stanzette del medico di guardia?”
“Mark.”
“Che c'è? Tutte le volte te lo propongo e tu continui a rifiutare, più lunga è l'astinenza, più le mie possibilità di successo aumentano.”
“A quanto pare ha risolto” lo corresse Addison indicando non così sottilmente nella mia direzione.
“Robbins? È il tuo tipo ora che ci penso. Bionda, occhi azzurri. Certo, eccetto la continua felicità, che è irritante. Anche se a pensarci ha senso, visto che...”
“Callie.”
“Cristina.”
“Che ci fai qui?”
“Ho accompagnato Arizona per una chiamata.”
Lanciò un'occhiata verso di me.
“Te la fai con pattini a rotelle, adesso?”
“Pattini a rotelle?”
“Sì. Robbins.”
“Ok, vi siete messi d'accordo o cosa?” gli chiese, guardandoli uno per uno.
Due cerca persone e un cellulare squillarono contemporaneamente.
Addison la salutò abbracciandola ancora una volta per un bel po' di tempo. “Arizona è una brava persona. Ci vediamo tra sei mesi.”
“Attenta alla Robbins. Non vuole figli. Ti spezzerà il cuore” Mark la abbracciò frettolosamente, lei lo spintonò scherzosamente.
“Ti vedrò tra sei mesi. Riporta qui il tuo culo sano e salvo, ci serve il miglior primario ortopedico della Costa Ovest per risalire qualche posto nella classifica di ospedali universitari. Se ti fai ammazzare ti uccido” le disse Cristina, andandosene poi a sua volta.
Ci incamminammo verso l'ascensore.
“Lascia stare” mi rassicurò, mentre le porte si aprivano. “Sei stata qui troppo poco, con il tempo ti abituerai a questo dannato posto.”
“I tuoi amici sono gente strana.”
“Gente strana non ci si avvicina nemmeno. Voglio portarti in un posto che ho...”
“Callie.”
Lei si voltò.
“George. Ciao” gli sorrise. “Come stai? E Izzie?”
“Me la cavo. E Izzie ha sposato Alex, credevo lo sapessi.”
“Oh. Mi...dispiace?” chiese, insicura su cosa avrebbe dovuto dire.
“Non preoccuparti. Non era destino. Tu invece?”
“Io me la caverò” rispose, sorridendo. Poi si voltò verso di me.
Io avevo notato la tensione, così decisi di salvarla.
“Dovevi farmi vedere quel posto...”
“Certo. Andiamo.”
Rientrammo nell'ascensore.
“Sono io o siete strani, tu e O'Malley?”
“Eh. Da quando abbiamo divorziato non...”
“Divorziato?”
“Già.”
Quel pomeriggio mi portò su una collina da cui si vedeva tutta la città. C'era una panchina.
“Odio le persone che non vivono qui e dicono che il tempo a Seattle fa schifo. Loro fanno schifo.”
Lei sospirò.
“Mi manca Seattle.”
Io la osservai mentre si guardava attorno, gli occhi tristi.
“E a Seattle manchi tu.”
Riuscii a farla ridere.
“Allora, come è successo che tutti si convincessero che io e te ci stessimo vedendo?”
“Ho rifiutato uno dei miei colleghi dicendogli che non mi piacciono gli uomini. Lui ha riso. Poi ha capito che ero seria. Il giorno dopo lo sapeva tutto l'ospedale. È il tuo turno.”
Lei rise di nuovo.
“Beh, la mia storia è breve. Uscivo con la primaria di cardiochirurgia, le cose sono andate bene per circa sei giorni, poi mi ha lasciato nel parcheggio dell'ospedale. Non avrei voluto dirlo ai miei, ma visto che vivono qui a Seattle ho immaginato che prima o poi lo avrebbero scoperto. Questo è il genere di cose che mi capita, sai, come se vivessi in uno show televisivo.”
“Quindi lei era la tua prima? È un peccato. Non esco con le neonate.”
“E tu non vuoi bambini? Andiamo, ti ho visto con Julia. La guardi e gli occhi ti si illuminano.”
“Beh, è diverso. Lei è sana. Se facessi il mio lavoro...I bambini non sempre sopravvivono.”
“Giusto. Prova a fare il mio di lavoro. Capirai che la vita è qualcosa a cui non sopravvive mai nessuno.”
“Calliope...” mi sfuggì il suo nome completo. Lei mi guardò negli occhi per un secondo e poi sorrise brevemente.
“Avrei voluto un bambino. Ma non credo che lo avrò.”
“Perché no?” chiesi confusa.
Scrollò le spalle. “È solo una sensazione.”
Non capii cosa intendesse. Non subito. Avrei dovuto, però.
“Andiamo, ti porto a cena” le dissi, alzandomi.
Cenammo in un ristorante a due passi dall'ospedale e poi si offrì di riaccompagnarmi a casa in macchina. In poche ore imparai un sacco di cose su di lei, e lei ne imparò molte su di me che nessuno a Seattle sapeva. Che nessuno in assoluto sapeva. Parcheggiò davanti casa mia, spegnendo il motore.
“Grazie per la cena, Arizona.”
“Grazie a te per avermi dato un passaggio. E avermi mostrato quella vista meravigliosa dal parco.”
Lei sorrise distrattamente.
“Non ci avevo mai portato nessuno prima. E, nonostante tu mi abbia dato della neonata, ho avuto la mia parte di disastri amorosi.”
Aveva avuto un marito, una ragazza, era stata nei corpi di pace in Botswana, nell'esercito. No, decisamente Calliope Torres non era una neonata.
“Non uno dei miei commenti più appropriati. Mi scuso, per quello.”
“Non preoccuparti. Non mi aspetto nessun trattamento di favore solo perché mia sorella e tuo fratello hanno dato alla luce la mia persona preferita al mondo” rispose con un sorriso, facendomi ridere per l'ennesima volta. “È davvero bello farti ridere. Mi dà questa sensazione allo stomaco. Forse sono le tue fossette, a pensarci bene, a causare le farfalle. Mi sto umiliando, non è vero?”
“Non direi. Il mio cuore non ha fatto altro che battere troppo veloce per tutta la sera.”
Lei si voltò verso di me ancora di più. Io afferrai il suo giacchetto. C'era qualcosa in lei di dannatamente perfetto per me. In quel momento potevo credere che fosse destino che la incontrassi quel giorno. Volevo crederlo.
La baciai. Fui io. Fu colpa mia. Merito mio. Una mia idea. Giusta o sbagliata che fosse. Forse l'ho incolpata, per molto tempo, ma riguardando indietro adesso, riesco a rendermi conto che fui io a baciare lei.
“Ho una cicatrice sulla schiena, me la sono fatta durante il primo mese di servizio. Mi fa ancora male a volte. Ho scelto ortopedia come specializzazione perché lo scheletro è l'unica cosa che ha mai avuto senso per me. Ogni osso ha un suo posto, un suo scopo, e puoi riconoscerlo in mezzo a tutti gli altri. Avevo un cane, da piccola. Si chiamava Denver, perché era completamente bianco ed io pensavo che anche Denver in inverno dovesse essere così bianca. Vorrei viaggiare di più. Avrei voluto farlo anche prima, ma non avevo mai tempo. Se riuscirò a tornare dall'Iraq voglio viaggiare di più. Andare a New York, per prima cosa. Non ci sono mai stata.”
“Ok” risposi soltanto, corrugando la fronte.
“Voglio che tu riesca a ricordarmi.”
Io le presi una mano. Non avrei potuto dimenticare qualcuno come lei.
“Quando avevo dieci anni caddi dalla bicicletta. Ho una cicatrice sul ginocchio sinistro che me ne ricorda” continuò. “Adoro la pizza. È il mio piatto preferito, non ne mangio da quasi tre anni e sto impazzendo. E forse non avrò mai nient'altro che non sia stasera, ma se avessi avuto più tempo, se me ne avessi dato il modo, ti avrei fatto cambiare idea sui bambini. Perché i nostri bambini sarebbero perfetti. Ma non preoccuparti, non avrò il tempo o il modo e tu vivrai felice anche senza di me o i nostri bambini.”
La guardai negli occhi a lungo. E tutto quello che vidi fu sincero affetto.
“Ho una cuffietta rosa con delle farfalle. Il nome Arizona non viene dallo Stato, ma da una nave da guerra. Un giorno ti racconterò tutta la storia. Non mi piacciono i cani, ma vorrei davvero tanto avere dei polli. Ho questa strana cosa per i polli. Questo prova che siamo incompatibili” sospirai, ma sorrisi subito dopo, per farle capire che stavo scherzando. “Anche io adoro la pizza, e non riesco a spiegarmi come tu abbia potuto vivere senza così a lungo. Ho scelto pediatria perché salvare bambini è quello che mi rende...me. Faccio quello che faccio perché credo nel lieto fine. Credo nella felicità. Ero anche solita credere che le persone non cambiassero. Ma adesso non ne sono più così sicura. Non dopo quello che è successo a Tim. Quindi, forse, tu potresti cambiare me.”
“Per cambiare lui, per cambiare me, è servita una guerra” mi fece notare.
“Cosa è devastante quanto una guerra?” domandai, pensando ad alta voce.
“Niente che io conosca.”

Più passava il tempo, più spesso mi chiedevo se stesse bene. Se fosse salva. Chiedevo notizie di lei ad Aria, a Tim. Di tanto in tanto chiedevo ad uno dei suoi amici se l'avessero sentita. Tutti mi rispondevano la stessa cosa. Callie non scriveva a casa.
Telefonava, qualche volta. Pochi minuti, solo per far sapere che stava bene.
Avevo perso la speranza. Mi aveva detto che voleva che la ricordassi. Ma era lei che si stava dimenticando di me. Del nostro bacio.
Poi un giorno Aria mi telefonò.
“Ho sentito Callie, oggi.”
Cercai di non mostrarmi troppo interessata, ma ero scattata in piedi.
“Come sta?”
“Se la cava. Le stavo parlando di Julia quando l'ho sentita esitare. Poi mi ha chiesto di te.”
Fui presa alla sprovvista.
“Di me? Cosa di me?”
“Mi ha chiesto come stavi. Se stavi vedendo qualcuno. Ma dal tono di voce sembrava che stesse chiedendo se stavi vedendo qualcun altro.”
“Non sto vedendo nessun altro.” Mi maledissi. “Voglio dire, non sto vedendo nessuno.”
“Interessante” fu l'unica risposta.
“Aria, lascia che ti spighi...”
“Non devi spiegarmi. Spero solo che tu riesca a farla tornare come era prima, Arizona. Mi manca.”
“Manca anche a me” confermai sommessamente, sperando che non avesse sentito.
“Ha detto di dirti che tu manchi a lei.”

Stavo uscendo dall'ospedale. Ero arrivata alle porte scorrevoli, stavo frugando dentro la borsa in cerca delle chiavi della macchina.
Poi vidi la familiare uniforme davanti a me. La cravatta. Il cappello in una mano.
Ma non poteva essere lei. Mancava ancora quasi un mese al suo congedo.
L'uomo e la donna che stavano lì fuori sembravano aspettare qualcuno. Insieme a loro c'era Aria, che stava stringendo una bandiera piegata tra le mani. Aveva gli occhi arrossati. Sapevo che significava.
“No.”
“Arizona...”
“No, davvero. No.”
“Signorina Robbins, sono il maggiore Owen Hunt.”
“Maggiore Teddy Altman” si presentò anche la donna. “Eravamo in servizio con Callie. Ci ha parlato molto di lei.”
“Abbiamo lavorato spalla a spalla per tre anni. Sia io che Teddy avevamo deciso di fare anche il quarto, e anche Callie sembrava voler rimanere con noi. Ma da quando è tornata a casa per i suoi due giorni di congedo, ha iniziato a parlarci di questa persona che aveva conosciuto, per cui sarebbe voluta tornare a Seattle una volta finito.”
“Ovviamente non poteva dirci che si trattava di una donna. Ma qualcosa che ha detto sulle cuffiette con le farfalle ci ha fatto intuire qualcosa” mi raccontò Teddy Altman.
Sorrise debolmente.
“Parlava di te, Arizona. Non sapevo se lasciare che te lo dicessero o no, perché a questo punto sarà solo altro dolore. Ma era quello che Callie voleva” mi spiegò Aria.
“Tre giorni fa è scoppiata una bomba vicino ad uno dei nostri campi attrezzati. Non ci era permesso intervenire, troppo pericoloso. Ma lei si è caricata lo zaino sulle spalle e...beh, questa era una cosa da lei. Sapeva che andando lì avrebbe potuto salvare delle vite” proseguì Owen.
“L'ultima cosa mi ha detto, prima di andare, è stata di cercare una donna di nome Arizona Robbins a Seattle e darle questa se non fosse potuta tornare a casa e dartela lei” Teddy mi porse una medaglia che riconobbi.
Era la stessa che Julia aveva visto uguale a suo nonno. Legione di merito.
“Noi siamo stati obbligati a tornare a casa in congedo anticipato. Alcuni dei nostri sono andati a perlustrare il campo quando è stato possibile farlo in sicurezza. Non c'erano rimasti altro che cadaveri. Non avevano mai visto Callie, ma molti dei cadaveri erano irriconoscibili in ogni caso.”
“Noi stiamo comunque continuando a sperare che sia ancora viva” concluse Owen.
Tenni gli occhi fissi sulla medaglia che avevo in mano.
“La prima sera che avrebbe passato a Seattle, avrei voluto portarla a mangiare la pizza. Era il suo piatto preferito e non ne mangiava da quasi tre anni” sussurrai.
“Tra qualche giorno dovrebbe arrivare la conferma ufficiale della sua morte. Poi ci saranno i funerali” mi informò Teddy. Notai che le tremava la voce. Aveva anche lei tenuto a Callie. Più di me. Più a lungo di quanto a me era stato concesso.

“Potrebbe non essere lei” la voce dall'altro capo del telefono arrivava attutita.
Continuai a rigirarmi tra le mani quella medaglia.
“Dobbiamo prima aspettare la conferma. Callie era forte, era un bravo medico. Succede continuamente che si sbaglino, sul campo.”
“Non si sono sbagliati, Tim. Lei sapeva che non sarebbe tornata.”
“Che vuoi dire?”
Esitai, per un istante.
“Voleva un bambino. Ma non credeva che avrebbe potuto averlo. Adesso capisco che intendeva. Non credeva di tornare. Non ha programmato la sua vita come se dovesse tornare.”
“Arizona, Callie aveva una brutta sensazione, forse, ma non sarebbe tornata giù se il suo sesto senso le diceva di non farlo.”
Mi chiesi se le avessero dato una medaglia all'onore il giorno del suo funerale.
“Non credo che le importasse. Vivere, intendo. Credo che sapesse che stava andando a morire, ma che non le importasse.”
“Non puoi davvero credere una cosa del genere, Arizona.”
“Mi ha detto 'se riuscirò a tornare dall'Iraq voglio viaggiare di più, andare a New York'.”
“Che hai contro New York?”
“No Timothy. Se. Se riuscirò a tornare. Lei lo sapeva.”

“Papà, cos'è successo a zia Callie? Non doveva tornare prima del mio compleanno? È la settimana prossima, ma ancora non è tornata.”
Tim non riuscì a rispondere. Così la presi in braccio io, facendola sedere sul tavolino, in modo che potessi guardarla meglio negli occhi.
“Forse zia Callie farà un po' più tardi del previsto. Sta aiutando degli uomini come il tuo papà, questo lo sai. Ed è venuto fuori che in questo momento hanno davvero bisogno di lei. Così forse non ce la farà per il tuo compleanno, ma non preoccuparti, perché ti porterò io al parco e ti comprerò tutto il gelato che vuoi.”
“Anche con la panna?”
“Certo. Una montagna di panna.”

La vita non è giusta. Lo avevo imparato. Ma ad ogni conferma che ne ricevevo, era come doverlo imparare di nuovo dall'inizio.
Wallace era morto. Avevo fatto io, per l'ultima volta, su di lui la filastrocca per scacciare i brutti sogni. I suoi genitori mi avevano perdonato. Ma io non sapevo se avevo ancora perdonato me stessa.
Presi l'ascensore diretto al piano terra, appoggiando le mani alla sbarra di ferro e la testa sulla parete. Chiusi gli occhi e per un secondo solo mi immaginai in un posto felice.
Ero al caldo. Ero al sicuro. Ero insieme a lei. Ero felice, per la prima volta in vita mia. Calliope.
Aprii gli occhi, sentendo il suono dell'ascensore. Le porte iniziarono ad aprirsi. Feci un passo avanti.
Era bellissima nella sua uniforme. Le medaglie appese a sinistra, il cappello nella mano destra. Il suo mezzo sorriso che mi faceva battere il cuore all'impazzata. Mi guardava come se si aspettasse che facessi qualcosa, che l'abbracciassi.
Sbattei gli occhi. Era sparita.

“Per quanto tempo l'ha conosciuta?”
“Non la conoscevo” risposi in un sussurro.
“Era anche lei in servizio?”
Scossi la testa.
Avevano scelto una foto dove sorrideva. Non sembrava nemmeno la donna che avevo incontrato io, che aveva gli occhi spenti.
Alzai lo sguardo e vidi anche Aria al mio fianco, oltre quella donna che non conoscevo.
“Non sapevo niente di lei. Niente. Ma mi sento come se avessi perso qualcosa irrecuperabilmente” sussurrai. “Perché mi manca? Come può mancarmi, visto che non la conoscevo?”
“Nessuno la conosceva, Arizona. Non del tutto. Io l'ho conosciuta prima che cambiasse. Altri l'hanno conosciuta dopo. Ma nessuno ha mai capito chi fosse davvero.”
Continuai a guardare la foto sulla bara che sapevo essere vuota.
“Come hanno capito che era lei?”
“Dalla cicatrice sul ginocchio. Se l'è fatta a dieci...”
“Dieci anni. Cadendo dalla bicicletta. Lo so.”
Mi guardò, sorpresa credo.
“Già. Non c'erano altre cicatrici. Capelli scuri, gli occhi...beh, di quelli non era rimasto molto. Una mina è esplosa a qualche metro da lei. Ho sentito Teddy e Owen che ne parlavano.”
Chiusi gli occhi, cercando di ricacciare le lacrime insensate che premevano per uscire.
“Come l'ha presa Julia?”
“Non vuole uscire da camera sua. Non fa che piangere.”
Sospirai. “Vado a parlarle.”

Entrai in camera della mia nipotina con in mano un bicchiere di latte caldo. Era il suo punto debole.
“Guarda che ti ho portato” le dissi, sforzandomi di sorridere. “Latte caldo. E qualche biscotto.”
Scosse la testa. Il suo piccolo corpo sembrava stanco. Aveva gli occhi rossi. Posai quello che avevo in mano sulla scrivania. Mi sedetti sul letto, accarezzandole i capelli.
“Ti manca molto, vero?” le chiesi a bassa voce.
Lei annuì. Poi alzò lo sguardo.
“Mi mancava anche quando ripartiva. Ma ora di più” mi spiegò. “A te non manca?”
Io annuii. “Moltissimo.”
“Zia, credi che la faranno entrare, in Paradiso?”
Non ero sicura che esistesse un Paradiso.
“Io penso proprio di sì. Era molto coraggiosa e forte e ha salvato tantissime vite. Quindi credo che abbia un posto parecchio bello, lassù.”
Lei rimase in silenzio a lungo. Ricordai di cosa avevo voluto darle fin dal primo momento e così mi frugai in tasca, estraendola.
“Tieni, pulce. Zia Callie avrebbe voluto che la tenessi tu” le dissi, porgendole la medaglia di legione di merito che Teddy aveva riportato a casa.
Lei la prese, guardandola attentamente.
“Sai come ha avuto la medaglia?” mi chiese. Io scossi la testa, continuando ad accarezzarle i capelli. “Ha salvato due bambini come me da un uomo che voleva fare loro del male. Le hanno dato questa perché l'uomo cattivo l'ha pugnalata alla schiena, ma lei è comunque riuscita a atterrarlo. Poi dei militari lo hanno catturato e lei ha curato i due bambini.”
Io sorrisi.
“Deve essersi fatta così la cicatrice sulla schiena.”
Lei annuì.
“È stupenda. Te l'ha fatta vedere?” feci segno di no. “A me sì. Un sacco di volte.”
Io risi. Calliope mi aveva parlato di quella cicatrice. Tornai seria.
“Julia, dobbiamo andare a mostrare quella medaglia alla mamma. Vuoi venire con me?” ci pensò su a lungo, ma alla fine annuì.

Entrai nella stanza, cercando Aria e vedendo che stava parlando con i due Maggiori. Andai subito nella sua direzione, cercando di mascherare il fiatone della corsa che avevo fatto fin lì con Julia tra le braccia.
“Mamma, guarda cosa mi ha dato zia” le disse, porgendole la medaglia.
Aria la prese distrattamente.
“Grazie per averla convinta a venire.”
“Julia, hai mai raccontato alla mamma come zia Callie ha ottenuto quella medaglia?” lei fece segno di no. “Era il suo primo mese in Iraq, vero?” annuì, sorpresa che io lo sapessi. “Vuoi raccontare alla mamma della cicatrice che zia Callie aveva sulla schiena? Tu l'hai vista, non è vero?” annuì, voltandosi poi verso sua madre.
“Era enorme, mamma.”
“Era enorme davvero, l'ho ricucita io” confermò Teddy, sorrise brevemente. Poi capì dove volevo arrivare. “Aspetta. La cicatrice.”
“Callie aveva una cicatrice sulla schiena. Una cicatrice enorme. Chiunque l'avrebbe notata, ma a te hanno detto che l'unica cicatrice era al ginocchio” spiegai ad Aria con semplicità, guardando però Julia ed accarezzandole i capelli. Poi alzai lo sguardo nella direzione di mia cognata. “Le faceva ancora male, a volte” aggiunsi.
“Possiamo fare qualche telefonata. Se Callie fosse tornata al campo, l'ultimo dei loro pensieri sarebbe quello di farlo sapere a noi, visto che siamo stati congedati” constatò Owen. “E alla famiglia non potrebbero dirlo prima di aver sistemato una pila infinita di scartoffie.”
“Possiamo chiedere un test del DNA sul corpo che hanno dichiarato essere il suo. Non sapremo comunque se è ancora viva, ma almeno sapremo se quella era lei” proposi.
Aria annuì, le lacrime agli occhi.
“Grazie Arizona” sussurrò abbracciandomi.
“Non ringraziarmi. È merito di Julia.”

“Avevi ragione. Non era lei.”
Sospirai, sentendomi almeno un po' sollevata.
“Questo può non voler dire niente, ma potrebbe anche voler dire che è ancora viva” continuò Owen.
“Doveva essere congedata due giorni fa. Se non è ancora tornata a casa...” osservò tristemente Aria.
“Non funziona così. Per prima cosa se è ferita deve rimettersi abbastanza in sesto da poter viaggiare. E anche se non si fosse ferita, è stata dichiarata morta. A me non è mai capitato, ma immagino che non sia possibile semplicemente alzarsi e andarsene” spiegò Teddy.
“Ma avrebbe chiamato” ribatté Aria con rassegnazione.
“Andrò laggiù. A vedere se è ancora viva” decretò Tim.
“Scordatelo. Non lascerai Julia da sola proprio adesso” risposi fermamente.
“Andrò io” si offrì Owen. “Sarà solo un paio di giorni. A me qualcosa diranno.”
“Non se ne parla. So come siete voi soldati. Tornate 'solo un paio di giorni', e poi firmate per rimanere un altro anno” mi opposi.
“Posso andare io. Dirò di essere tipo la sorella del cognato, o qualcosa del genere” concluse Teddy con tono definitivo.
“Io sono tipo la sorella del cognato” le feci notare.
“Non posso mandare te. Se Callie sapesse che ho mandato il chirurgo pediatrico sempre allegro che crede nel lieto fine a cercarla in quell'inferno mi ucciderebbe.”
“So come vanno le cose laggiù” replicai, cercando di non focalizzarmi sul fatto che Calliope le aveva parlato di me.
“Nessuno lo sa. Non finché non lo vede. Andrò io” ripeté il Maggiore Altman.

Stavo uscendo dall'ospedale, quando mi squillò il cellulare.
Stavo per rispondere alla chiamata di Aria, quando sentii una voce familiare davanti a me.
“Arizona.”
Indossava una camicia bianca, sotto la giacca verde, ed aveva al collo una cravatta nera. Come me l'ero immaginata molte volte, teneva il cappello nella mano destra, vicino al busto, mentre il braccio sinistro era dritto. Sulla parte sinistra della giacca le medaglie, compresa quella all'onore che le avevano dato nuova di zecca. Era bellissima. Più di quanto ricordassi, e decisamente più di quanto la mia immaginazione osava ricordare.
Lasciai che il telefono continuasse a squillare, mentre le camminavo incontro e l'abbracciavo.
“Calliope.”

La vedevo allontanarsi da me. E non riuscivo ad evitarlo. Non riuscivo a fermare la caduta che stavamo facendo insieme, ma distanti. La vedevo mentre i suoi occhi sfuggivano ai miei. La vedevo piangere a volte, cercando di non farsi sentire. La vedevo alzarsi, in mezzo alla notte, e mettersi a fissare il cielo. La vedevo, ma lei non c'era.
“Parlami” la pregai un giorno.
“Non ho niente da dire” mi rispose, nascondendosi ancora una volta dai miei occhi che avrebbero potuto capire.
Rimasi. Rimasi perché, per quanto cercavo di negarlo a me stessa, era troppo tardi. C'ero troppo dentro. Non avrei saputo come uscirne senza strapparmi il cuore dal petto.
“Stare sola è più facile” si decise a confessarmi una sera. “Le persone che mi conoscevano prima amano un ricordo. È abbastanza facile, con loro, perché vedono ciò che ero, e non gli importa se non è ciò che ancora sono. Con te è più difficile. Tu non sai chi ero. Sai a malapena chi sono adesso, perché non ti lascio vedere niente. Sono come un fantasma. E non so se sia peggio un fantasma o un ricordo.”
Guardava il soffitto, mentre io guardavo lei.
“Io vedo quello che mi lasci vedere. Forse è poco. Forse non è niente. Ma per me è abbastanza, Calliope, perché è qualcosa. Sarai un fantasma, adesso, ma io conosco te, non un ricordo, non qualcuno che non sei più. Io ti guardo e vedo te. E forse amerò un fantasma, ma almeno io amo te.”
Era la prima volta che dicevo di amarla. Si voltò a guardarmi, l'espressione incredula.
“Come hai fatto a innamorarti di me?” mi chiese, non riuscendo proprio a capire.
“Come avrei mai potuto evitarlo?” chiesi semplicemente.
Lei corrugò la fronte.
“Io ho le mie scuse. Tu sei troppo bella, troppo dolce. Tu sei rimasta quando chiunque altro se ne sarebbe andato. Tu sei perfetta. Io sono giustificata per essermi innamorata di te. Ma tu? No, non capisco come hai fatto. Io sono vuota, sono spenta, sono morta. Tu sei l'unica ragione per cui provo ancora qualcosa. Ed ami me? Come hai fatto a innamorarti di me?”
“Ti amo così tanto, Calliope. Amo il modo in cui mi guardi, come se finalmente avessi trovato qualcosa per cui valga la pena vivere. Avevo pensato che non ti importasse più, sai? E amo il modo in cui parli di Julia. Amo come sei con lei. Amo come fai il tuo lavoro, come il salvare una vita ti illumina ogni volta gli occhi. Il tuo sorriso, le tue mani sempre calde, come mi abbracci prima di addormentarti, come ti ricordi ogni piccola cosa che dico, come riesci a farmi ridere nei momenti in cui non me lo aspetto, come riesci a farmi sentire meglio quando sono triste” mi baciò, per farmi capire che era abbastanza. “Non ho ancora finito. Ho a malapena iniziato. Potrei andare avanti per giorni. Ma ho bisogno che tu mi faccia vedere anche il resto, Calliope. Ho bisogno che tu smetta di chiuderti in te stessa, perché se non riesco ad aiutarti inizierò a sentirmi come se non fossi abbastanza.”
“Sei così tanto oltre semplicemente 'abbastanza'. Sei tutto. È solo che...è difficile. Fa male. E non è bello quello che c'è qui dentro” si indicò la testa.
Le baciai la fronte.
“Ma io ti amo” le spiegai con semplicità.

All'inizio pensavo che fosse solo questione di tempo. Poi mi ero ricordata di Tim, e avevo capito che sarebbe potuto non cambiare mai. Il modo in cui non si fidava completamente di me, il modo in cui sembrava che stesse soffrendo costantemente, sarebbe potuto non cambiare mai.
Quello che era successo quel giorno, prima che tornasse, l'aveva scalfita. Con il tempo, senza insistere, senza pressioni, riuscii a farmelo raccontare. Fu allora che capii perché sembrava che fosse così cambiata. Perché lo era. Quello che aveva visto avrebbe cambiato chiunque.
Dopo un anno era riuscita ad aprirsi con me. Ma c'erano ancora giorni in cui non riusciva nemmeno a guardarmi in faccia, giorni in cui rimanevo ferma a guardarla richiudersi dentro se stessa.
“Ho chiuso. Ti ho costretto ad aprirti con me, ti ho costretto a parlarmi, ti ho costretto a fare dei passi avanti. Ma ora ho chiuso.”
“Perfetto.”
“No, dico davvero Callie. Ho chiuso. Finito. Questo è il massimo che sono disposta a perdere, sono al limite. È finita.”
“Perfetto” ripeté con indifferenza. “Non è che te ne importasse qualcosa in ogni caso.”
Sentirle dire quello mi ferì più di quanto avessi immaginato.
“Guardami negli occhi e ripetilo, se ci credi davvero.”
Non rispose.
Mi avvicinai alla poltrona su cui era seduta, prendendole il viso tra le mani e facendola voltare verso di me senza tante cerimonie.
“Ripetilo, se è quello che pensi davvero.”
“Non te ne è mai importato niente.”
Avrei voluto schiaffeggiarla, scuoterla, strattonarla, finché non avesse capito, finché non fosse tornata in sé. Invece allentai la stretta, passandole una mano tra i capelli.
“Ti amo, Calliope. Ti amerò per sempre. Ma tu non ami me. E ti ho costretto a tanto, ma questa è l'unica cosa che non posso costringerti a fare.”
Stavo per allontanarmi, quando si aggrappò alle mie spalle, guardandomi finalmente negli occhi. I suoi erano lo specchio del suo cuore spezzato. Mi tenne dov'ero. Ma non parlò. Non servì. Capii lo stesso.
“Ti amo, Arizona. Davvero. Più di quanto ho mai pensato qualcuno potesse essere in grado di amare” sussurrò come se non fosse sicura di volere che sentissi. “Ma io non vado bene per te. Tu meriti di meglio. Qualcuno che sia migliore di quanto posso essere io.”
Fu allora che ricordai perché non potevo andarmene. Non potevo chiudere. Non con lei. E capii perché c'erano giorni in cui non riusciva neanche a guardarmi. Perché pensava di non meritare che io fossi lì.
“Non mi ascolti” realizzai. “Non mi stai ascoltando, non è vero? Quando mi parli, intendo quando mi parli davvero, ti senti come se mi stessi mostrando la parte peggiore di te. E hai paura che possa spaventarmi.”
Lei mi rivolse un piccolo sorriso.
“Hai imparato a conoscermi” constatò, e fui in grado di leggere lo stupore nella sua voce. “Forse non sono più un fantasma.”
Io la abbracciai, tentando di capire cosa fare. Ma lei non mi concedeva mai niente, quando si trattava di noi. Ed ogni piccolo passo avanti era come scalare una montagna. Perfino ammettere che aveva bisogno di me era qualcosa che non riusciva a fare. Per questo quello che disse dopo mi stupì così tanto.
“Rimani con me. Non è perfetto, non è vero che è perfetto se te ne vai. Rimani con me, Arizona.”
“Non c'è nessun altro posto al mondo dove vorrei essere se non qui.”

“Zie!”
“Pulce” la salutò Calliope, prendendola in braccio.
“Siete venute insieme?” chiese Aria, mentre mi toglievo il giacchetto.
Io esitai. Calliope era nervosa quando si trattava della nostra relazione e la sua famiglia. Non che potessi darle torto dopo quello che era successo l'ultima volta.
“Sì” rispose lei per entrambe una volta che Julia fu sparita in soggiorno. “Siamo venute insieme. Perché viviamo insieme. E non è solo un modo di dire, Arizona ha venduto l'appartamento, quindi viviamo insieme nel 'Calliope, stasera dormi sul divano', 'questo posto è cupo, voglio dipingerlo di celeste' e 'abbiamo finito il latte' senso dell'espressione.”
“Ok” scrollò le spalle sua sorella. “Sarà divertente vedertelo dire a mamma e papà, se hai intenzione di usare queste esatte parole.”

Rientrai a casa mentre lei stava usando il sacco da box che aveva appeso in soggiorno. Le avevo ripetuto un miliardo di volte di smetterla. Prima o poi si sarebbe fatta male ad una mano e non avrebbe più potuto operare. Ma lei non mi stava a sentire, continuava a dire che stava sempre attenta.
“I miei genitori hanno smesso di parlarmi. Di nuovo” mi fece sapere, continuando a colpire e tenendo lo sguardo davanti a sé.
“Per via di me?”
“Per via di noi” rispose, senza perdere la concentrazione. “Non importa.”
Ma importava. Era arrabbiata, potevo vederlo dalla forza che metteva in ogni pugno.
Era stata una giornata difficile, non avevo più pazienza. E tutto quello che volevo vederle fare era smettere di essere così tanto arrabbiata. O almeno che mi guardasse in faccia.
Così mi misi tra lei e il sacco.
“Andiamo. Avanti, colpisci me” la incoraggiai. “Sei arrabbiata con me, no? Pensi che sia colpa mia, quindi colpisci me.”
Le mani le caddero vicine ai fianchi. Pensò qualche secondo, poi alzò il braccio destro. Chiusi d'istinto gli occhi. Non successe niente. Qualche momento dopo li riaprii. Aveva alzato il braccio per togliersi il guantone. Mi guardò completamente spiazzata.
“Tu” iniziò con incredulità “Tu hai paura di me.”
“No, Calliope, non ho paura...” mi affrettai, ma lei non mi lasciò finire.
“Hai paura. Ho visto il tuo viso, tu hai paura di me. Pensi che potrei davvero” si guardò le mani per un lungo istante “colpirti?”
Si strappò di dosso i guantoni, camminando verso la camera da letto.
“No, non è vero, non ho paura. Calliope, ti prego” implorai, terrorizzata che potesse andarsene da casa nostra.
Prese la scaletta che usavamo per raggiungere le cose nella parte alta dell'armadio e la portò in soggiorno, vicino al sacco. Ci salì e svitò il fermo che lo teneva fissato all'asta di ferro, appoggiandolo poi a terra. Smontò l'asta, tirò giù la catena. Poi scese di nuovo e prese in mano il sacco, uscendo di casa. Tornò qualche minuto dopo, prendendo l'asta, la catena e i guantoni. A quel punto la seguii. Uscì dall'edificio entrando nel vicolo affianco e gettò quello che aveva in mano in uno dei bidoni della spazzatura.
Poi si voltò, bloccandosi di nuovo quando mi vide lì.
Mi avvicinai, prendendole una mano tra le mie e passando l'altro braccio attorno alle sue spalle, stringendola a me.
“Non ho paura” sussurrai, accarezzandole la nuca.
“Sarebbe ok se l'avessi. Insomma, avresti dei buoni motivi. La rabbia, il dolore, la tristezza. C'è tanto di cui avere paura. Anche io la maggior parte delle volte ho paura.”
“Non devi averne. Io mi fido di te.”

“Hai ancora problemi a controllare la rabbia?”
Non avevo intenzione di origliare. Successe e basta.
“No. Non più. Tu, invece?”
“A volte. Come hai fatto a imparare a controllarla?”
Lei sospirò. “Aveva paura di me, Tim. Un giorno mi sono accorta che Arizona aveva paura di me. È stato allora che è iniziata davvero ad andare meglio. Ero un casino, le cose andavano bene solo per merito suo, perché lei teneva insieme i pezzi. Da quel giorno ho capito che, se volevo rendere felice lei, dovevo prima sistemare le cose con me stessa. Ho raccolto le macerie, l'ho fatto per lei. Perché vivere in mezzo alle mie rovine la stava distruggendo. Ho capito che, o cominciavo a risalire, o l'avrei trascinata a fondo con me. Sono così innamorata di lei che è ridicolo. Anche dopo tutto quello che abbiamo passato, è incredibile.”
Più tardi, stavamo passeggiando mano nella mano verso casa.
“Quando ci siamo conosciute, mi hai chiesto cosa è devastante quanto una guerra.”
Io la guardai in viso.
“Mi ricordo” confermai.
“Ho trovato qualcosa. Qualcosa di devastante quanto una guerra” mi informò con tono semplice, continuando a camminare. “L'amore. Ma, a differenza di una guerra, l'amore funziona anche nel senso opposto, può anche riuscire ad aggiustarti” annuì distrattamente. “Tre anni fa, tornata dall'Iraq, ero un rottame. Pensavo onestamente che non sarei mai più stata in grado di essere me stessa di nuovo. Ma ora sto migliorando. Adesso sono una persona migliore. Tu mi hai reso migliore.”
“Io non ho fatto niente Calliope. Sei stata tu ad avere la forza per rialzarti in piedi. Avevi solo bisogno di un po' di tempo per riuscire a ritrovarla.”
“Sappiamo entrambe che non è vero. Avevi ragione. E goditi questo momento, perché sai che non lo dico spesso, ma, tu avevi davvero ragione. Mi hai costretto ad aprirmi, a parlarti, a fare dei passi avanti. Ma non mi hai costretto ad amarti. Quella è stata una cosa che ho scelto io. Egoisticamente, forse. Ma l'ho scelto io. Ho scelto di amare te, e forse non è molto, ma è il meglio che posso fare. E ti prometto che mi impegnerò per essere ogni giorno un po' meglio del giorno prima, visto che ogni giorno ti amo sempre un po' di più del giorno prima. Non posso promettere che non ci saranno giorni di pioggia, o che a volte non ti capiterà di voler scappare, o che non avrai più paura. Quello non posso prometterlo. Ma posso prometterti che ti amerò, ogni secondo di ogni giorno. Anche quando litigheremo, anche quando vorrei non esserlo, anche quando sarebbe più facile se non lo fossi, sarò innamorata di te.”
Io la guardai negli occhi.
Sapevo che diceva la verità, perché era quello che provavo anche io.
C'è un momento, dopo una guerra, in cui si smette di piangere e di affrontare le perdite e si inizia a rimettersi in piedi, ricostruendo gli edifici distrutti e facendone di nuovi da capo.
C'è un momento in cui dalla discesa inizia la risalita. In cui inizia la guarigione. Quello era il nostro momento.




La storia era completa molto prima della nona stagione, quindi ogni riferimento alla situazione attuale è stato dettato dal caso.

Grazie mille a voi tutti!
Se vi sentite più buoni perché è Natale e volete farmi un regalo, scorrete in basso e lasciate una recensione...

Buone feste!!



Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Il nostro primo fuoco perpetuo ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete fantastici!! =)

Avvertimenti: AU; OOC.


Buona lettura!

Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo fuoco perpetuo


Le persone come me hanno sempre qualcosa che hanno fatto e che vorrebbero cambiare. C'è sempre qualcosa, anche se di solito, le persone come me, dicono che non c'è.
Le persone come me vanno in posti come quello e si siedono al bancone con un bicchiere in mano e aspettano. Tutti erano vestiti eleganti, tutte le donne in vestito da sera, ed io mi ero presentata in giacca.
“Vorrei sapere come hai intenzione di pagare. Possiamo davvero permetterci questo posto?”
“Rilassati. Siamo qui solo per un aperitivo.”
“Un aperitivo da ottanta dollari” sussurrai a me stessa.
“Zitta e goditi l'atmosfera.”
Io mi alzai, appoggiandomi al bancone con la schiena, in modo da poter tener d'occhio l'entrata.
Era come un tic nervoso. Non riuscivo a evitarlo.
Presi un sorso dal bicchiere che avevo in mano.
Le persone come me, a essere onesti, cambierebbero un sacco di cose, se potessero farlo.
Ma credo che l'unico motivo per cui desiderano farlo è che in realtà non possono.

“Allora, vuoi spiegarmi perché sono qui, stasera?”
“Perché altrimenti saremmo state solo io e lei.”
“E?”
“E...sarebbe sembrato come un appuntamento.”
“E?”
“E...non abbiamo un appuntamento.”
“E per quale assurdo motivo non avete un appuntamento?”
“Lo sai perché. Non riesco a trovare il coraggio di dirle quello che provo per lei.”
“Dovresti. Ho lavorato con voi solo tre mesi, ma perfino io mi sono accorta che voi due siete praticamente già una coppia.”
“E invece siamo qui per una serata tra donne, con te e una sua vecchia amica del college” replicò. “Addison, siamo qui perché non hai chiesto a Teddy di uscire. Invece hai preferito portarti dietro la tua collega interessata alle donne per seminare indizi qua e là.”
“Non l'ho fatto per quello. L'ho fatto perché sei la mia migliore amica.”
“Aw, quanto sei dolce stasera. O ubriaca. Non ho ancora capito quale delle due.”
Lei rise, ed io presi un sorso dal bicchiere che avevo in mano, la mano sinistra saldamente dentro la tasca dei pantaloni.
“Sono arrivate” le feci notare, quando vidi il cardiochirurgo entrare. Addison si alzò, voltandosi verso l'entrata.
Poi vidi la donna che era con lei. Capelli biondi come il sole, occhi azzurri più di due diamanti, la pelle chiara come la luna e quelle fossette che le davano l'aria di una bambina. Indossava un vestito da sera azzurro chiaro che mi provocava una strana sensazione di vaga familiarità.
Buttai giù quello che era rimasto del mio drink e posai il bicchiere sul bancone.
“Non l'ho mai vista prima, neanche in una foto di Teddy. Eppure da come ne parlava sembravano molto amiche. Ora che ci penso, non mi ha detto neanche il suo nome.”
“Arizona. Si chiama Arizona.”
Addison si voltò verso di me. “Come fai a saperlo?”
Stavo per rispondere, ma ormai erano davanti a noi. E lei non sembrava affatto sorpresa che io fossi lì.
“Callie, Addison” ci salutò con un bacio sulla guancia Teddy. “Questa è Arizona Robbins, una mia vecchia compagna di college.”
“È un piacere conoscervi” ci fece presente, sorridendo ad entrambe.
Oh, è così che vuoi giocartela? Vediamo come andrà a finire.
“Arizona ha preso un ramo diverso dal mio, per questo non ci vediamo più molto spesso.”
“E vivi qui a Seattle, Arizona?” le chiese Addison.
“A dire la verità sì. Sono appena tornata da un viaggio di tre mesi in Africa.”
“Ma non mi dire” sussurrai.
“Proprio così. Sono tornata a casa dopo tre mesi e ho trovato a vivere dentro casa mia una coppia di sposini.”
“Succede continuamente. Vai via tre mesi e quando torni trovi una coppia neozelandese nel tuo appartamento.”
“Così mi hanno detto” mi rispose, senza lasciar trapelare minimamente l'irritazione che ero sicura stava provando.
“Allora, Arizona, sei single, fidanzata...” tentò di indagare Addison per capire chi fosse in realtà la donna davanti a noi.
“Sposata, in realtà.”
“Non più. Appena si deciderà a firmare le carte del divorzio” la corressi.
“Sposata?” ripeté Addison, incredula, voltandosi verso di me quando assorbì anche le mie parole.
Quasi divorziata” sottolineai.
“Fammi indovinare. Non te lo aveva detto?” chiese Arizona. “Questa è un'informazione che Calliope tende a dimenticare.”
“Ok, per la milionesima volta. Non ho dormito insieme a lui. Non l'ho fatto. Continua a ripetertelo se ti fa sentire meglio quando pensi ad una giustificazione per essertene andata in Africa, ma era solo un vecchio collega. Abbiamo parlato, ci ha provato con me, io l'ho rifiutato. Fine della storia.”
“Fine della storia un bel niente.”
“Benissimo. Vuoi litigare? Perfetto. Ma sei pazza se pensi che accadrà in pubblico. Addison, Teddy, ci vediamo domani a lavoro” lanciandomi un'ultima occhiata attorno, me la svignai.
Lei, ovviamente, dopo aver salutato le due donne con cui saremmo dovute andare a cena, mi seguì.
“Sii onesta. Vuoi che firmi le carte per renderti la tua dannata libertà? Allora ammetti di esserci stata a letto.”
“Vedi? Questo è uno dei motivi che ci hanno portato alla distruzione. Zero fiducia.”
Continuai a camminare, aprendo la macchina col comando centralizzato.
“Per l'ultima volta, Arizona, tu sei l'unica persona con cui sono stata a letto negli ultimi cinque anni.”
Salii in macchina, sbattendomi la portiera alle spalle. Lei salì dalla parte del passeggero.
“Questo include gli ultimi tre mesi?”
“Certo” risposi, guardandola come se non mi avesse ascoltato fino a quel momento. Cosa che non aveva fatto. “Dove stai?”
“Archfield” rispose sommessamente. Io partii.
Calò a lungo il silenzio nello stretto spazio della mia macchina.
“Ok, Callie, ascolta” sospirò. “Non eravamo a un bel punto, ok? Stavamo litigando ogni giorno, ogni giorno. Se non era per l'avere bambini, era per il lavoro. Se non era per il lavoro, era per la casa. Se non era la casa era l'Africa. Se non era l'Africa, era per l'avere bambini. Abbiamo litigato ogni giorno per mesi. Ho pensato che così per te sarebbe stato più facile. Potevi rimanere qui e non avresti dovuto rinunciare ai tuoi sogni. E io non avrei dovuto rinunciare al mio.”
“No, vedi, tu non hai mai capito, Arizona. Non hai mai ascoltato. Ogni volta che ti parlavo dei miei sogni, un matrimonio, la casa grande in periferia, i bambini, tu non hai mai fatto altro che scappare. Non sei mai riuscita ad ascoltarmi davvero, a capire che io volevo sposarmi con te, comprare una casa con te, avere figli con te.”
Quello riuscì finalmente a farla tacere.
“Ed io, ogni volta che scappavi, ti perdonavo. Perché ogni volta che ti guardo, mi dimentico di tutti i problemi che abbiamo. Mi dimentico che non siamo mai state in grado di comunicare in maniera sana. Ci urliamo addosso e ci perdoniamo senza neanche pensarci su, perché ci amiamo così tanto che non ci fa bene. Quello che abbiamo, non ci fa bene. Ti guardo, e mi dimentico di tutte le volte che sei scappata, mi dimentico che lo farai di nuovo. Mi dimentico che i miei sogni e i tuoi, semplicemente, non sono compatibili. Dimentico tutte le volte. E ricordo quando ormai è troppo tardi. E ci siamo di nuovo dentro fino al collo.”
Accostai, posteggiando in uno dei parcheggi riservati ai clienti. Spensi il motore, scendendo dalla macchina e sussurrandole di aspettare, mentre facevo il giro e le aprivo la portiera, porgendole la mano per aiutarla a scendere.
Richiusi quando fu al mio fianco, pigiando poi il pulsante della chiusura centralizzata.
Entrammo nell'hotel, Arizona chiese la chiave alla reception. Parlò di nuovo solo quando fummo da sole dentro l'ascensore.
“Hai ragione. Io scappo. Ma ho lasciato l'Africa, Calliope. Ho lasciato il mio sogno. E adesso sono qui, e rimarrò per farti sapere ogni giorno che questo per me è un impegno. Rimarrò e ti dirò quanto mi dispiace di essermene andata per il resto della mia vita, se è quello che vuoi. Ma ti prego, ti prego, dammi un'altra occasione.”
L'ascensore si aprì, ci fermammo di nuovo davanti alla porta della sua camera. L'aprì con la chiave elettronica e mi precedette all'interno.
“Mi dispiace, Arizona. È finita. È finita già da un po' di tempo” sussurrai subito prima che le sue labbra sfiorassero le mie. Tirò la giacca che stavo indossando verso il basso, togliendomela. “Firma le carte per il divorzio. Andiamo avanti. Proviamo ad essere felici.”
Lei rise amaramente mentre sollevavo il suo vestito da sera azzurro chiaro, facendoglielo passare sopra la testa. Alzò le braccia per aiutarmi a toglierlo.
“Sai bene che non posso essere felice senza di te. Non sarei qui. Non mi è rimasto niente, ho rinunciato ai miei sogni, per te. Tu mi hai cambiato così profondamente che è ridicolo. Eppure eccomi ancora una volta qui, pronta ad essere cambiata di nuovo, ancora più profondamente, pronta a sentire ancora più dolore per essere come tu vuoi che io sia, Calliope. Almeno questo, le nostre vite ce lo hanno provato. Non possiamo vivere l'una senza l'altra.”
Io sospirai, baciandola per non sentire le scomode verità che stava disperatamente cercando di farmi ascoltare.
“C'è qualcosa, qualsiasi cosa, che potrei dire che riuscirebbe a farti cambiare idea?” chiese mentre con movimenti familiari mi toglieva la camicia che stavo indossando.
Mi fermai. Solo un secondo. E la guardai negli occhi. E quello fu il mio primo errore.
Perché tutto il mio mondo era dentro i suoi occhi. Tutto ciò che avevo amato, che amavo, e che avrei sempre amato, era lì. Proprio lì. Solo e soltanto lì.
“C'è sempre qualcosa” sussurrai.
La feci indietreggiare finché incontrò il letto, su cui si distese, portandomi con lei. Io guardai verso il basso. E quello fu il mio secondo errore. I suoi occhi erano pieni di lacrime.
Il mio mondo, stava piangendo.

Quando si fu addormentata io mi alzai, rivestendomi con calma. Ero sicura che avrebbe capito quando, svegliandosi, per la prima volta non mi avrebbe trovato al suo fianco.
Dovevo andarmene. Perché rimanere avrebbe voluto dire dimenticare ancora una volta che io e lei ci facevamo del male. Ci distruggevamo a vicenda.
Eravamo come il fuoco e la benzina in quella canzone di Chris Young. Io non andavo bene per lei, e lei non andava bene per me. E, in fondo, 'Tomorrow' era un po' la nostra canzone. O più esattamente, la storia delle nostre vite.

“Stai bene?”
Alzai lo sguardo verso Addison.
“Non proprio.”
“Ha per caso a che fare con il fatto che sei sposata?” chiese, abbandonando il tono casuale solo arrivata all'ultima parola.
Io risi. “Direi di sì.”
“Vuoi parlarne?”
Io scrollai le spalle. “È solo che mi manca.”
“L'hai rivista ieri sera” mi fece notare.
“No. No, io ho rivisto Arizona ieri sera. Ma mia moglie, la persona che non credeva nel matrimonio e mi ha sposato, la persona che voleva a tutti i costi comprare una casa in periferia con lo steccato bianco per noi e che non voleva farmi dare fondo ai risparmi di una vita per pagarne metà, quella persona non la vedo da circa otto mesi e mezzo fa.”
“Molto prima dell'Africa, allora. Che è successo?”
“Le ho detto che volevo un bambino.”
Lei non disse niente, si sedette vicino a me, appoggiandomi una mano sulla spalla.
“Lei scappa. Ho dovuto lottare per lei, sai? Quando ci siamo conosciute è scappata perché io non ero mai stata con una donna. Poi è scappata di nuovo quando è venuta fuori la storia di Mark, un vecchio collega con cui ero stata in passato che le aveva fatto venire di nuovo la paura che potessi tornare etero e mollarla di punto in bianco. Poi è scappata quando abbiamo iniziato a parlare di matrimonio. Sempre figurativamente, però. Ma questa storia del bambino, questo l'ha fatta scappare per davvero, fino in Africa. Non sembra solo un problema di fiducia nei miei confronti. Sembra che lei davvero non abbia nessun interesse nell'avere dei figli. Vogliamo cose diverse. Abbiamo sogni diversi, piani diversi. E lei mi manca.”
“Tesoro, lei non voleva sposarsi, ma ti ha sposato. Lei scappa, ma è tornata per te. Lei vuole una casa in periferia con lo steccato bianco, la donna che scappa. Se lo chiedessi a me, io direi che ti ama. Quindi la domanda è...quanto fortemente vuoi avere un bambino?”

“Te ne andrai di nuovo anche stasera?”
“Credo di sì.”
“Allora perché sei tornata?”
Rilasciai un sospiro tremolante.
Ero stesa a pancia in giù sul letto di quella stanza d'albergo in cui ormai avevo passato sette notti nell'ultima settimana. Mi stava accarezzando la schiena.
“Ricordi quando ho detto che mi basta guardarti ed inizio a dimenticare, e all'improvviso ci siamo di nuovo troppo dentro per lasciar andare?”
“Non voglio che tu dimentichi, Calliope. Neanche il minimo particolare. Voglio che tu riesca a ricordare tutto ma scelga comunque di rimanere.”
“Non mi serve dimenticare. Ci sono già dentro fino al collo. Non è vero che è finita, Arizona. Non riuscirò mai a dirlo e a pensarlo davvero, non quando si tratta di te.”
Quando si addormentò tra le mie braccia, io mi alzai e me ne andai ancora una volta. Perché, per quanto avessi voluto che fosse possibile sistemare le cose così facilmente, non lo era.
“Calliope?”
Mi immobilizzai sulla porta. “Sì?”
“Non tornerai mai più, non è vero?”
“No, Arizona” risposi, sicura che l'avesse già capito.
“Perché no?”
Il nostro era uno di quei casi in cui l'amore non basta.
Io e lei ci facevamo del male.
Ed io ogni giorno promettevo che l'avrei lasciata andare, ma non ci riuscivo.
Non riuscivo a fare a meno di lei.
Avrei davvero voluto che dirle che l'amavo avrebbe aggiustato le cose, ma non avrebbe fatto che complicarle ancora di più.
“Ci sono stata davvero, a letto con Mark” risposi senza voltarmi, richiudendomi la porta alle spalle quando uscii.
Lei non voleva un bambino. Io sì. Non era qualcosa su cui potevamo trovare un compromesso, non era qualcosa su cui potevo avere ragione io un giorno e lei un altro. Non c'erano vie di mezzo. E nessuna delle due era disposta a cambiare idea.
Era un'impasse.

Il giorno dopo, staccando da lavoro, passai in macchina davanti al suo hotel.
Rallentai. Ma non mi fermai. Anche se volevo farlo così tanto che non riuscivo neanche ad accelerare. Eppure, non mi fermai.
L'avevo tenuta per l'ultima volta tra le braccia. Avevo ceduto per l'ultima volta. Avevo fatto finta per l'ultima volta che domani non sarebbe mai arrivato. Almeno, non per me e lei. Non per noi.
Tornai a casa. Avevo cacciato i subaffittuari neozelandesi e mi ero ripresa il nostro vecchio appartamento. Per mia fortuna, non si erano ancora trasferiti lì dentro, quindi era stato facile convincerli a riprendersi i pochi mobili che avevano spostato lì e andarsene. Non sapevo ancora cosa ne avrei fatto. Forse Arizona sarebbe voluta tornare lì, visto che non aveva una casa. E a me non sarebbe dispiaciuto. Almeno, così, avrebbe per sempre avuto qualcosa che le avrebbe ricordato di me.
Sfiorai il ripiano della cucina, avevo così tanti ricordi di cene assolutamente perfette, almeno quanti ne avevo di cene bruciate perché le avevo permesso di distrarmi.
Entrai in soggiorno e guardai il divano. Non ebbi neanche bisogno di avvicinarmi che sentii un nodo in gola. Ricordi più dettagliati, più intimi, si erano fatti spazio dentro di me.
Arizona Robbins era l'amore della mia vita.
Come sarei mai potuta riuscire ad andare avanti da qualcosa del genere? Ogni momento felice o meno che avevo vissuto negli ultimi cinque anni della mia vita, ogni attimo, lei era stata al mio fianco, parte della mia vita e soprattutto parte di me.
Mi avvicinai allo stereo, che aveva sempre usato solo Arizona, attaccai la presa della corrente e premetti il pulsante per accenderlo. Quando le luci del display si illuminarono, schiacciai 'play'.

Tomorrow, I'm gonna leave here
I'm gonna let you go and walk away
like every day I said I would


Pensai che fosse uno scherzo, quando riconobbi la canzone.
Chiusi gli occhi.

But tonight I'm gonna give in one last time
Rock you strong in these arms of mine
Forget all the regrets that are bound to follow
We're like fire and gasoline
I'm no good for you, you're no good for me
We only bring each other tears and sorrow
But tonight, I'm gonna love you like there's no
Tomorrow.


Ed era così che avevamo vissuto, in fondo. Ogni giorno implorando per un giorno in più. Il sapere quanto quel giorno ci avrebbe fatto male, non ci aveva mai fermato.
Continuai ad ascoltare. Le mani in tasca. Gli occhi chiusi per non far uscire le lacrime.

And tomorrow, you won't believe it
But when I pass your house,
I won't stop no matter how bad I want to.


Eravamo già arrivate a questo punto? Eravamo davvero arrivate a domani?
Ero in casa nostra, dannazione. Casa mia e sua. La casa dove avevamo vissuto per anni. Dove mi aveva detto di amarmi per la prima volta. Dove era stata mia moglie per anni. Dove avevamo litigato ogni giorno, per mesi.

But tonight I'm gonna give in one last time
Rock you strong in these arms of mine
Forget all the regrets that are bound to follow
We're like fire and gasoline
I'm no good for you, you're no good for me
We only bring each other tears...


Il resto della canzone andò perso nel vuoto quando afferrai lo stereo gettandolo di sotto dalla mensola su cui poggiava.
Iniziai finalmente a piangere. Dopo tutto quel tempo, finalmente mi sentivo come era giusto che mi sentissi. Mi sentivo come se fosse finita.
Era finita davvero, quindi?
Non mi ero mai sentita così in vita mia. Come se non fossi mai più stata in grado di riprendermi, di smettere di piangere, di rialzarmi da terra.
E allora lo capii.
Non potevo permettere che finisse.
Perché Arizona era ciò che volevo. Era ciò che amavo. Era il mio sogno.
Non avevo mentito. Senza di lei, niente avrebbe avuto importanza, nessuno dei miei sogni.
Eppure, tutto ciò che volevo per lei era che fosse felice.
E con me, con i miei sogni così diversi dai suoi, come avrebbe potuto essere felice?
Così presi la mia decisione. Composi il numero a memoria.
“Montgomery.”
“Addison, ho bisogno di un favore” iniziai appena rispose.

Quando arrivai lei era già al bar. Inspirai, cercando di ricordare perché lo stavo facendo.
Mi avvicinai, entrando nel suo spazio personale e appoggiando la mano sinistra sul bancone alla sua sinistra e spostandomi a destra, intrappolandola perché mi ascoltasse.
“Lo so. Non era me che aspettavi” la salutai.
Lei mi guardò, sorpresa. Aveva gli occhi rossi e stanchi. Come se avesse pianto per un'intera giornata.
Mi sentii morire. E vedendola così salirono le lacrime agli occhi anche a me.
“Se sei qui per le carte del divorzio, le firmo e te le mando domani per fax” mi informò, scolandosi qualsiasi cosa ci fosse dentro il suo bicchiere.
Io scossi la testa. Poi le mostrai le chiavi che avevo in mano.
“Ho cacciato i neozelandesi. Da quando hai dipinto le pareti di quel verde chiaro, è molto più adatto a te che a chiunque altro al mondo. Sono stata lì, oggi. C'è ancora il quadro che ci ha regalato tua madre. Lo abbiamo dimenticato lì, alla fine. E c'era ancora il tuo stereo. Adesso però è rotto. Avevi lasciato dentro Chris Young. Tomorrow. Sono resistita fino al secondo ritornello prima di scoppiare a piangere e lanciarlo sul pavimento” avevo fatto pause molto spesso, cercando di non iniziare a piangere anche lì davanti a lei. Le mostrai di nuovo le chiavi. “Se vuoi, è tuo. È davanti all'ospedale. E ci siamo noi un po' ovunque” sorrisi, le lacrime ormai sull'orlo di cadere.
Posai le chiavi nel palmo della sua mano.
Approfittai di quell'istante di distrazione per prendere la sua mano tra le mie e baciarla sul dorso.
“Balleresti con me, Arizona?”
La guardai negli occhi. Sapendo che, ai miei occhi, non era mai stata capace di dire di no.
Annuì. Io guardai verso il ragazzo che stava mettendo la musica, facendogli un cenno con la testa.
La musica iniziò proprio mentre io e lei iniziammo a ballare. Le circondai la vita, mentre lei appoggiò le mani sule mie spalle.
La sentii stringermi più forte quando la riconobbe.
“But tonight I'm gonna give in one last time, rock you strong in these arms of mine” canticchiai piano vicino al suo orecchio. Lei nascose il viso tra la mia spalla e il mio collo, inspirando lentamente. “But tonight, I'm gonna love you like there's no tomorrow” sussurrai, baciandola sulla tempia.
Quando la canzone finì ci mettemmo qualche momento per riuscire ad allontanarci.
Le sorrisi, ancora le lacrime fermamente piantate dentro agli occhi, e mi offrii di accompagnarla fuori dopo averle chiamato un taxi. Accettò.
Rimasi lì in silenzio, accanto a lei nella notte più buia che il mio cuore avesse mai visto.
Perfino quando era in Africa, sapevo che sarebbe tornata. Non avevo mai avuto alcun dubbio sul fatto che Arizona fosse mia. Non fino a quel momento.
Si strinse le braccia intorno al busto, cercando di scaldarsi. Io mi tolsi immediatamente la giacca, appoggiandogliela sulle spalle.
Lei sorrise. E fu solo allora che mi accorsi che stava piangendo.
“È così che ti ricorderò, Calliope. In camicia nel freddo di Seattle, assicurandoti che io stia calda con due giacche addosso.”
“È così che io ricorderò te, Arizona. Così perfetta che se ti guardo adesso vorrei cambiare idea ancora una volta.”
Un taxi accostò davanti al locale. Doveva essere il suo. Fece qualche passo avanti, ma poi si bloccò, voltandosi di nuovo con espressione combattuta. Alla fine decise di chiedere.
“Perché?” Io non capii subito cosa intendesse. “Perché sei stata a letto con lui?”
Le sorrisi, iniziando finalmente a piangere a mia volta. “Non ci sono stata, Arizona.”
“Hai detto...”
“Io e te siamo come il fuoco e la benzina” le spiegai con semplicità. “Io non vado bene per te...”
“...ed io non vado bene per te” concluse.
Mi misi le mani in tasca, sorridendole ancora con tutta la dolcezza di cui fui capace.
“Che importanza ha che io sia infelice oggi, se così c'è anche solo la minima possibilità che tu sia felice domani?” chiesi. “Vai. Vai via, Arizona. Ti sto lasciando andare. Vai prima che cambi idea.”
Lei ricacciò indietro ciò che stava per dirmi, e salì sul taxi che la stava aspettando.
Si fece portare al nostro vecchio appartamento. Avevo lasciato una lettera per lei, vicino allo stereo che avevo rotto.

Le persone come me hanno sempre qualcosa che hanno fatto e che vorrebbero cambiare. C'è sempre qualcosa, anche se di solito, le persone come me, dicono che non c'è.
Le persone come me, a essere onesti, cambierebbero un sacco di cose, se potessero farlo.
Ma credo che l'unico motivo per cui desiderano farlo è che in realtà non possono.
All'inizio avevo pensato di dare la colpa alla coppia di sposini neozelandesi per lo stereo rotto.
Ma poi ho pensato che in fondo questo stereo non è che una delle tante cose che ho rovinato da quando mi hai conosciuto.
Per prima cosa, che è anche la più importante, ho rovinato te.
E tu hai rovinato me.
Vorrei poter essere anche la stessa persona che riesce ad aggiustarti. Perché non voglio figli se significa che non posso stare con te. Dico sul serio. Tutto quello che voglio, tutto il mio mondo, sei tu.
Sono cose che non riesco a dirti a voce, amore.
Mi dispiace, per tutto il dolore che ti ho causato.
Mi dispiace per le liti e mi dispiace per non essere stata la persona che meritavi.
Se potessi tornare indietro adesso, cambierei un sacco di cose.
Prima tra tutte, cambierei me.
Ma non posso tornare indietro.
Quello che posso fare è garantirti che non troverai mai nessuno che ti ami quanto ti amo io. Non troverai mai nessuno che ti conosca come ti conosco io. Difetti e tutto il resto.
Non lo dico per farti cambiare idea. Anzi, non farlo. Non cambiare idea. Scegli ciò che avresti scelto se non avessi mai trovato questa lettera. Per la prima volta, non scegliere ciò che ami, ma scegli ciò che ti renderà felice.
E, comunque vada, se un giorno vorrai ricordare qualcosa di buono di noi, ricorda il modo in cui io ti amo. E in cui ti amerò per sempre.
Calliope.


È stato così tanto tempo fa. Adesso non sembra più neanche verosimile che qualcosa del genere sia accaduto.
Mentirei, se dicessi che è stato facile. Che non ho mai pianto per lei. Che sono andata avanti.
La verità è che, se potessi tornare indietro, ancora oggi ci sono un sacco di cose che cambierei. E allo stesso tempo, non cambierei niente, neanche una virgola, neanche un secondo.
Perché cambiando qualcosa potrebbe cambiare tutto.
Entro in casa senza fare rumore.
Lei è lì, sul divano. Dorme con mia figlia appoggiata al petto. Dorme e sembra che sia a suo agio, che sia qui tutto il tempo.
“Arizona” sussurro. “Svegliati.”
Le sfioro una guancia, ricordando di quando potevo farlo anche quando lei non stava dormendo.
Era un mondo diverso allora. Una vita diversa.
Lei si stira, aprendo gli occhi e guardando per un attimo la bambina addormentata tra le sue braccia.
Poi io la sollevo, attenta a non svegliarla, e la porto in camera sua, mettendola a letto.
Quando torno in soggiorno Arizona è pronta per andare via.
“Dille che zia Arizona ha detto ciao” mi dice, come tutte le volte, quel suo sorriso triste a ricordarmi che non è sua madre.
Fingo un sorriso. “Certo.”
Lei si volta, ma si ferma di nuovo con una mano sulla maniglia della porta.
“Sei felice?”
“Perché lo chiedi?”
“Era il tuo sogno.”
“Te l'ho detto. Il mio sogno sei sempre stata tu.”
E di nuovo, la mia sincerità brutale la ferisce.
“Sono passati due anni.”
“Non basterà tutto il tempo del mondo per far passare te, Arizona.”
“Credevo che saresti riuscita ad essere felice. Se io mi fossi fatta da parte, credevo che col tempo...”
“E tu sei felice, Arizona?”
Ci pensa circa un secondo. “No.”
E di nuovo la sua brutale sincerità mi ferisce.
“Ho aspettato che cambiassi idea. Ho aspettato per un anno. Poi ho capito che stavo aspettando inutilmente. Che non avresti cambiato idea.”
Sofia ha tre mesi. Arizona era al mio fianco durante la gravidanza. E lo è anche adesso.
“Pensavo che finché non avessi avuto figli avrei avuto una possibilità di vederti tornare da me. Poi ho capito che non lo avresti mai fatto in ogni caso, e ci ho rinunciato. Vorrei solo poter sapere perché. In modo da poter andare avanti. C'è stata qualcun'altra?”
“Certo che no, Calliope. Sei ancora mia moglie. Siamo ancora sposate, dopotutto.”
“E allora perché?”
Mi guarda, sorridendo, come se fosse ovvio.
“Perché io e te siamo come il fuoco e la benzina, Calliope. Possiamo avvicinarci, finché non ci tocchiamo. Ma quando ci tocchiamo, tutto intorno a noi prende fuoco.”
Guarda verso la camera dove Sofia sta dormendo.
“Ti amo, Calliope” sussurra voltandosi, come se avesse bisogno di togliersi quel peso dalla coscienza. Poi apre la porta, e sparisce dentro la notte.

“Mamma, non trovo le scarpe.”
“Sotto il letto, mija” rispondo urlando dalla camera da letto.
“Ci ho già guardato, non ci sono.”
“Ci penso io” sussurra passandomi accanto. Quando torna, ha in braccio il piccolo tornado di cinque anni con le scarpe regolarmente ai piedi. “Sei pronta? Le tue ragazze stanno aspettando” chiede dalla soglia della porta.
Io vado loro incontro, baciando mia figlia sulla testa e mia moglie sulle labbra.
“Io e Tim vi abbiamo fatto un regalo.”
“Ma davvero?” chiedo, stupita.
“Non tutti i giorni si fanno tredici anni di matrimonio.”
“Smetti di ripetere quello che dice tuo nonno, tesoro” le dico, mentre sua madre la lascia scendere a terra.
“Ok. Il regalo mio e di Tim, beh, mio per la maggior parte, visto che Tim ancora non riesce neanche a stare in piedi, è nell'altra stanza.”
Sgambetta via e noi la seguiamo, curiose di vedere dove andrà a finire questa storia.
Sento una mano farsi strada contro la mia. Il peso rassicurante di una testa sulla mia spalla.
“Sono così contenta che tu mi abbia fatto cambiare idea in tempo, Calliope.”
“Mai quanto lo sono io, amore.”
Le bacio la testa. Respiro il suo profumo.
“Mamme, datevi una mossa!”
“Stiamo arrivando tesoro” risponde. “Buon anniversario” sussurra sorridendo.
“Sai, c'è sempre stato qualcosa che avrei cambiato. Le persone come me, hanno sempre qualcosa che hanno fatto e che vorrebbero cambiare. Le persone come me, ma non io. Non adesso. Adesso mi guardo attorno, e tutto è perfetto.”
“Perfetto è noioso. Penso che quello che abbiamo sia molto meglio che perfetto” risponde. “È come, come stare in mezzo al fuoco. Io e te siamo come il fuoco e la benzina, Calliope. Non riusciamo a smettere di cercarci. Io e te bruciamo senza mai scottarci. Viviamo tra le fiamme senza mai consumarci. Se getti una rosa tra le fiamme, la rosa diventa cenere, si consuma, muore. Ma quando la benzina e il fuoco si toccano, si uniscono e diventano...fuoco. Io e te bruceremo in eterno. Come un fuoco perpetuo.”
“Come un fuoco perpetuo” ripeto, baciandola una sola volta, prima di tornare alla vita reale.
Sorride.
Arizona sorride.
Guardo dentro gli occhi che sono sempre stati il mio mondo.
E lì dentro non ci sono più lacrime che minacciano di cadere, no.
Adesso vedo solo Arizona che sorride. Vedo i suoi occhi innamorati di più ogni giorno.
Vedo il mio mondo.
E il mio mondo è felice.




Grazie mille a voi tutti!
Passate un buon Capodanno, ci sentiamo per la Befana :P

Alla prossima!


Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** La nostra prima mattina insieme ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete fantastici!! =)

Avvertimenti: OOC; AU.


Buona lettura!

Image and video hosting by TinyPic



La nostra prima mattina insieme


Era bella.
Non c'è niente che potrei dire, quella fu la prima cosa che notai di lei.
Erano i suoi capelli neri, i suoi occhi scuri, il suo sorriso che mi aveva fatto fermare il cuore per un istante. Era il modo in cui rideva. Era il modo in cui parlava.
Non lo so.
Ma so che era la donna più bella che avessi mai visto.
Potrei dire che non fu per quello che mi sentii catturata da lei, ma non sarebbe vero. Fu per quello, invece. Fu per quello eccome.
Per un istante, solo un istante, il mio sguardo incontrò il suo attraverso la stanza. La vidi fermarsi, come me, che ero immobile, la vidi guardarmi. Fu solo un istante. Poi tutto tornò a muoversi. E il suo sguardo scivolò via dal mio.
Era la mia ultima sera in città. Ero stanca. Avevo bevuto. C'era poca luce. Ma non avrei mai potuto dimenticarla.
Sarebbe stata l'immagine della perfezione per me, da quel preciso momento in avanti. E non l'avrei mai più incontrata di nuovo, non avrei incrociato il suo cammino o quello dell'uomo al suo fianco, non avrei mai osato chiedere di essere io al posto di quell'uomo. Perché l'angelo seduto a quel tavolo, meritava di avere qualsiasi cosa volesse.
Ma io l'avrei per sempre ricordata come un momento in cui avevo per la prima volta capito cosa significava respirare davvero.
La guardai andare via. E l'aria, di nuovo, mi mancò.

“Sono così felice che tu sia qui, Arizona. Non puoi neanche immaginarlo.”
“Ed io sono felice di avere qualcuno che conosco che lavora con me” risposi, sorridendo.
“Allora, come sono stati gli ultimi sei mesi?”
Sospirai. “Lunghi. Miami non è mai stata la mia città.”
“Capisco che intendi. C'è troppo sole. Seattle è molto meglio.”
Teddy era abituata al sole. Al caldo. Era abituata perché aveva servito per un anno nell'esercito, era così che ci eravamo indirettamente conosciute. Brutti ricordi tornarono indietro.
“Già” sussurrai distrattamente.
Lei si accorse del cambiamento nel mio umore e tentò subito di distrarmi.
“Allora, quella ragazza, la tizia del bar...”
“Oh, avresti dovuto vederla, Teddy. Era davvero perfetta. Ma non credo la rivedrò mai più, era una settimana fa ed era dall'altra parte dello Stato.”
“Per quanto fosse bella, sono sicura che troverai qualcuno in grado di reggere il confronto.”
“Non credo. Aveva quest'aria piena di mistero, non saprei come descrivere la sensazione che mi ha dato. Ma qualcosa di lei era davvero disarmante.”
“Mi stai incuriosendo parecchio, sai? Avanti, com'era?”
“Capelli neri, occhi scuri, latina. Un corpo da urlo e...e credo di aver iniziato ad immaginarmi le cose, perché c'è qualcuno che sembra proprio lei, in fondo al corridoio.”
Teddy mi guardò incredula, seguendo il mio sguardo.
“Davvero? Era lei? Che razza di coincidenza.”
“L'eufemismo dell'anno.”
I miei piedi si mossero anche se il mio cervello non stava esattamente funzionando in quel momento.
“Aspetta” Teddy afferrò il mio braccio, mettendosi tra me e lei. “Che vuoi dirle? 'Salve, ti ho visto in un bar a Miami, ma non ne sono sicura, era buio, ero ubriaca, ma in ogni caso...vuoi uscire con me?' No, dobbiamo pensarci bene, amica mia. Non vuoi sprecare la tua occasione con la dottoressa Torres, fidati.”
Io annuii, lasciando che mi conducesse dalla parte opposta a quella in cui sarei disperatamente voluta andare.
Ci pensammo a lungo, e alla fine trovammo un piano. Le avrei parlato, usando le poche informazioni che mi aveva dato Teddy e spacciandole per gossip ospedaliero.
“Ok, come le faccio cambiare idea se pensa che io sia pazza?”
“Tu sei pazza.”
“Touché. E se non è interessata alle donne?”
“Non puoi combattere contro la natura, Arizona.”
“E se mi rifiuta?”
“Ci perde lei, tesoro. Fidati. Per quanto lei sia sexy, ho visto di meglio. Perfino dentro questo ospedale.”
“Ti riferisci alla Montgomery?”
Roteò gli occhi. “Forse” rispose evasivamente, poi mi spintonò in direzione della stazione delle infermiere a cui stava scrivendo su una cartella.
Io mi avvicinai, incerta su cosa fare.
Ok, Arizona, non è questo il momento di farsela sotto.
“Ciao.”
Lei si voltò verso di me.
“Sono Arizona...Robbins. Il nuovo primario di chirurgia pediatrica. So che ti sembrerà davvero assurdo, ma mi sembra di averti già visto. È possibile?”
Lei inclinò la testa di lato, incuriosita, lasciò la penna che aveva in mano e poi si voltò verso di me. “Credo che questo dipenda. Dove pensi di avermi visto?”
“A...Miami, ok lo so che sembra ridicolo, ma c'è qualche possibilità che tu fossi in un bar a Miami, una settimana fa?”
Lei sorrise. “Forse. Ci siamo presentate?”
“No” scossi la testa. Poi ci ripensai. “Non ancora.”
Le sorrisi, sperando di mettere in chiaro quali fossero le mie intenzioni.
“Arizona Robbins, stai forse dicendo che vorresti sapere il mio nome?”
Io continuai a sorridere. “Forse” ritorsi, mettendomi le mani nelle tasche del camice bianco che indossavo sopra il camice chirurgico.
“Nah, io penso che non ti interessi il mio nome. Quello che ti interessa davvero è un appuntamento.”
Io alzai le sopracciglia, uno sguardo di sfida. “Forse” ripetei.
Lei riprese la penna, ricominciando a scrivere sulla cartella davanti a lei.
“Stasera vado da Joe con degli amici verso le nove, magari ci vedremo lì.”
Nessuno è in grado di resistere allo charme alla Robbins.
Chiuse la cartella, rivolgendomi un ultimo sguardo e incamminandosi nella direzione opposta.
“Aspetta, non so neanche il tuo nome” mentii.
“Il nome è sul camice” rispose, girandosi per pochi secondi, coprendo la scritta con la mano sinistra e salutandomi con la destra.
“A stasera dottoressa Torres” le dissi, incamminandomi nella direzione opposta.
Girato l'angolo rischiai di avere un infarto quando Teddy mi afferrò un braccio. Ovviamente, aveva origliato tutta la conversazione.
“Vieni. Dobbiamo scegliere che ti metterai.”
Quella sera entrai nel bar che mi aveva indicato Teddy, e devo ammettere che ero di ottimo umore, per la prima volta da mesi ero uscita da lavoro con un sorriso sulle labbra.
Mi sentivo come se finalmente qualcosa stesse andando per il verso giusto, nella mia vita, dopo sei mesi assolutamente buttati a lavorare in un ospedale di Miami.
Ero al punto di svolta.
Ed era una svolta niente male.
Varcai la soglia, dandomi un'occhiata intorno. Non mi aspettavo di vederla, perché ero abbastanza in anticipo rispetto all'ora che mi aveva dato. Lei però era già lì, in uno dei tavoli all'angolo, che si notava difficilmente.
Ma qualcosa aveva attirato il mio sguardo verso di lei, qualcosa mi aveva spinto a guardare in quella direzione.
Quella donna aveva uno strano effetto su di me.
Era come una forza che mi attirava, come un buco nero, qualcosa mi spingeva verso di lei.
Rise. Poi la brunetta al suo fianco le passò una mano tra i capelli, baciandola per diversi secondi. Il sorriso sulle mie labbra vacillò, fino a sparire.
Il bacio si fece più intenso, e mi sentii il cuore sprofondare fino allo stomaco.
Che razza di idiota che ero stata. Solo perché dopo averla vista di sfuggita in un bar l'avevo incontrata di nuovo per sbaglio, non significava che fosse destino.
Mi voltai, uscendo senza guardarmi indietro.

Evitai Teddy. Evitai la dottoressa Torres. Evitai qualsiasi contatto umano che non fosse strettamente necessario.
E lì, nell'ala di pediatria e chirurgia prenatale, nessuno che conoscevo sarebbe di certo passato per caso.
E infatti non era lì per caso. Era venuta a cercare me.
“Dottoressa Robbins, non sei venuta ieri sera.”
Alzai lo sguardo solo per un secondo. Un pensiero fugace mi attraversò la mente. La sera prima il mio sguardo era stato calamitato nella sua direzione, ma in quel momento non avevo minimamente percepito la sua presenza. L'attrazione che provavo per lei, stava già svanendo.
La cosa più importante, notai che non c'era. Quella scintilla nei suoi occhi, che mi aveva catturato il fiato la prima volta che l'avevo vista, che mi aveva scosso il cuore la sera precedente, non c'era. E non c'era neanche il giorno prima in ospedale.
Abbassai di nuovo lo sguardo.
“Ero in anticipo in realtà” risposi, abbastanza freddamente. “E tu eri già lì. Con qualcun altro.”
Sembrò confusa.
“Senti, non sono affari miei. Avevo capito male, tutto qui. Ci vediamo” la salutai, dandomela a gambe subito dopo.
Non uscii di nuovo dal mio ufficio finché non fu ora di andare a prepararmi per un'operazione. Non volevo correre il rischio di incrociarla di nuovo. E non successe. Beh, non mentre stavo andando verso la sala operatoria. Mentre stavo tornando, invece, non fui così fortunata.
Stavo sorridendo perché, cavolo, avevo appena salvato la vita di quel bambino, dentro quella stanza, e questo era un motivo dannatamente buono per sorridere.
Stavo camminando per il corridoio di chirurgia prenatale, quando la porta di una delle stanzette del medico di guardia di quel piano si aprì improvvisamente.
La donna che ne uscì aveva i capelli rossi, gli occhi chiari, indossava tacchi alti. La riconobbi come Addison, Teddy me ne aveva parlato, era a capo del reparto di chirurgia prenatale. Fece un paio di passi e poi si voltò. Un'altra donna uscì dopo di lei.
“Grazie per il consulto, dottoressa Torres” disse, schiarendosi la voce e tentando di aggiustarsi i capelli.
“Non c'è di che, dottoressa Montgomery. Sa che sono sempre disponibile per un consulto, quando si tratta di lei.”
Le sorrise maliziosamente, andandosene senza neanche voltarsi nella mia direzione.
Deglutii più volte a vuoto. Eccola di nuovo lì, al posto in cui apparteneva, quella scintilla dentro i suoi occhi capace di disarmarmi ogni volta che la guardavo.
“Fantastico” sussurrai a me stessa. “Proprio fantastico.”
Subito dopo decisi che era il caso di andarmene a casa. Avevo un giorno libero, il giorno successivo, e quello dopo era domenica, quindi potevo prendermi un paio di giorni per farmi passare l'infatuazione e andare avanti con la mia vita in totale tranquillità.

Entrai in ospedale di pessimo umore. Avevo evitato ogni tentativo di Teddy di mettersi in contatto con me e avevo ripensato alla brunetta del bar e alla rossa dell'ospedale che così ovviamente non erano la stessa persona da farmi infuriare ancora di più.
E pensare che, perfino a quelle condizioni, avrei dato ogni cosa per trovarmi anche solo una volta al loro posto.
Quando aprii la stanza dello spogliatoio la scena che mi si presentò davanti fu una delle più surreali a cui avessi mai assistito.
Teddy stava ridendo come una ragazzina alla sua prima cotta.
“Ne è passato di tempo dall'ultima volta” sussurrò la donna che la stava abbracciando da dietro, baciandole il collo. “Che ne dici di una piccola rinfrescata di memoria?”
“Siamo amiche. Parecchio amiche, adesso. Questo potrebbe compromettere...” non finì la frase, quando una delle sue mani scansò la sua maglietta e entrò in contatto con la sua pelle.
Che diavolo sta succedendo?
Con l'altra mano tirò uno dei lacci dei pantaloni del suo camice, slegandoli.
Mi schiarii la voce, mettendomi a sedere su una delle panche, facendo cadere pesantemente la mia borsa, aprendo il mio armadietto rumorosamente.
“Arizona” mi salutò Teddy, sorpresa di vedermi lì. Si riallacciò velocemente il camice, cercando di darsi un contegno.
“Questa proprio non l'avevo vista arrivare, Theodora. Poteva entrare chiunque, in qualsiasi momento. E capisco la dottoressa Torres, che praticamente non mi conosce, ma tu come hai potuto farlo?”
“Arizona, ma di che diavolo stai parlando?”
“Del fatto che stavi per...con lei...qui! Sai quello che provo per lei.”
Guardai nei suoi occhi. Quella scintilla ardeva più che mai. Mi guardò, come se mi vedesse per la prima volta. E, allo stesso tempo, come se fosse sorpresa di vedermi lì.
“No, Arizona. Non posso credere che non lo sapessi, ero sicura di avertene parlato. So che sembra una scusa, ma le cose non sono come sembrano.”
Io ero incredula. La scusa peggiore di sempre.
“Sentiamo, allora, come stanno davvero le cose?” incrociai le braccia davanti al petto.
“Probabilmente” disse con una voce che in qualche modo suonò diversa dal solito. “Tu stavi cercando lei” fece un cenno della testa in direzione dell'entrata dello spogliatoio, dove vidi una versione di lei quasi uguale all'originale.
Mi voltai di nuovo verso la donna che era ancora in stretta prossimità di Teddy.
“Tu non sei Aria Torres?”
Lei mi sorrise, in modo misterioso, affascinante, seducente, e altre mille cose belle almeno quanto queste. Poi mi tese la mano.
“Callie Torres.”
La sua voce era più bassa di quella della persona incredibilmente uguale a lei. Più suadente. Mi dette un brivido il modo in cui si presentò.
Quando sfiorai la sua pelle, un milione di piccole scintille si diramarono dalle terminazioni nervose della mia mano, trasmettendosi a tutto il resto del mio corpo. Un attimo dopo, sfilò la mano dalla mia presa, portandosi via quella sensazione.
“Aria è la mia sorella gemella.”
“Un secondo. Con chi ho parlato il mio primo giorno qui?”
“Con me” rispose Aria.
“Chi era di voi due l'altra sera da Joe con una brunetta?”
“Quella ero io” rispose Callie.
“E chi delle due è venuta a cercarmi a pediatria?”
“Di nuovo io” rispose Aria.
“E con la rossa nella stanzetta del quinto piano?”
“Oh, decisamente, io” rispose Callie.
“Tu e Addison?” chiese Teddy. “Di nuovo?”
“Ehi, se vi decideste a mettervi insieme, non dovrei essere io a provarci con entrambe.”
“E chi era a Miami un paio di settimane fa?” chiesi in un sussurro.
“Come hai detto che ti chiami?” chiese Callie, quella sua voce suadente scosse qualcosa dentro di me, per l'ennesima volta.
“Arizona.”
“Come lo Stato?”
“Come la nave da guerra.”
Lei fece di nuovo quel sorrisetto. “D'accordo, Arizona come la nave da guerra. Tu saresti l'appuntamento di mia sorella che non si è mai fatto vivo, allora?”
“L'avevo vista baciare una ragazza” mi giustificai.
“Nah. Quella ero io.”
“Io non lo sapevo.”
“Mi sembra giusto. Beh, divertitevi. Teddy, io e te ci vediamo presto, giusto?”
Teddy deglutì, guardando nei suoi occhi. “Lo spero davvero” sussurrò in risposta.
“Callie, posso parlarti un secondo?” chiese sua sorella.
Lei scrollò le spalle, seguendola.
“Che cavolo è appena successo?” chiesi, quando la porta si fu chiusa.
“Beh, hai conosciuto Callie Torres. Lei è...” sospirò, l'aria sognante. “Un demone con l'aspetto di un angelo. Ho sentito un sacco di storie su di lei, un sacco di pettegolezzi. Tutte le donne in questo ospedale che andrebbero con una donna - e alcune che non lo farebbero - sono state con lei. Ma la leggenda narra che non lasci mai a nessuno ricambiare il favore, se sai quello che intendo.”
“Teddy, non voglio i dettagli sconci. Voglio solo sapere...Perché?”
“Perché cosa?”
“Perché lei. Perché doveva essere lei. Perché non potevo scegliere Aria. Perché? Insomma, sono quasi uguali.”
“No. Non lo sono.”
“No, non lo sono” alzai la voce, consapevole di essere un'idiota per aver provato a convincere me stessa.
Callie era qualche centimetro più alta e un sorriso che avrebbe fatto impazzire chiunque. Ma la differenza più grande, era la scintilla disarmante che aveva dentro gli occhi. Quella scintilla che mi faceva voltare quando entrava in una stanza, la scintilla per cui alzavo gli occhi e trovavo subito lei, quella scintilla che mi aveva tolto il respiro. E la sua voce, così morbida, più bassa, perfetta.
“So che non sono uguali e...Era lei, Teddy. Quella sera, a Miami. Era Callie.”
“Come fai a esserne sicura? Era buio. Eri ubriaca.”
“Non ero...ok, forse un po'” ammisi.
“Perché non lo chiedi a Callie? Avrai la tua risposta, fine della storia. Poi inizierai ad uscire con Aria e io potrò...”
“Ti prego, non finire quella frase.”
“Come vuoi” scrollò le spalle. “Ma, Arizona, se fosse stata Callie...lei non ha relazioni fisse. E tu non hai relazioni non fisse. Quindi forse ti conviene scegliere Aria.”
“Non si tratta di scegliere. La donna che ho visto quella sera...mi ha fatto qualcosa, Teddy.”
“Lo so. Hai provato a spiegarmelo. Lo so.”
“Lo sai? Davvero? Io non credo. Mi ha toccato il cuore, non so neanche come” esclamai, incredula, perfino dopo due settimane. “Mi ha disarmato. La donna che ho visto quella sera mi ha guardato e ha fatto sparire tutto il resto. Potrei innamorarmi di quella donna.”
Ci furono diversi istanti di silenzio.
“Devi chiedere a Callie se era lei.”
“Lo farò subito.”
Non fu difficile trovarla. Callie, ortopedia. Aria, oncologia. Non era troppo difficile da memorizzare.
“Devo parlarti.”
Non distolse gli occhi dalla cartella che stava compilando.
“Gemella sbagliata. Io sono quella malvagia.”
“Divertente” non c'era traccia di umorismo nella mia voce. “Posso farti una domanda e ottenere una risposta onesta?”
Continuò a guardare in basso, scrivendo di tanto in tanto.
“Spara, Arizona come la nave da guerra.”
“Eri tu? Due settimane fa, a Miami, eri tu?”
“Non so di cosa tu stia parlando.”
“Cavolate. Guardami negli occhi.”
Lo fece.
“So che eri tu.”
Lei si alzò, mettendosi davanti a me.
“Ho sentito per sbaglio quello che hai detto a Teddy.”
Mi spiazzò. Ma mi ripresi velocemente, fingendo indifferenza, comportandomi come se non mi importasse.
“E allora? Sei spaventata perché potrei provare qualcosa per te? Capirai. La domanda è semplice. Eri tu quella sera?”
Lei stava guardando in basso. Mi guardò finalmente negli occhi, rivolgendomi un mezzo sorriso triste.
“Magari, magari fossi stata io, Arizona. Magari fossi io la persona di cui potresti innamorarti.”
Fui confusa da quella risposta.
“No. Non ero io. Eravamo entrambe a una conferenza a Miami, ma io quella sera stavo facendo altro, non ero dentro un bar. Spero di averti dato la risposta che cercavi.”
La verità? Avrei voluto che fosse lei.
“Sì. Sei stata molto gentile, ti ringrazio.”
Mi sorrise. “Quando vuoi, Arizona come la nave da guerra.” Poi tornò a sedersi alla scrivania, dove riprese a lavorare alle scartoffie.

L'avevo cercata su Google. Non ne andavo fiera, ma l'avevo fatto. Un risultato su una ricerca sulla cartilagine mi aveva incuriosito. Cavolo, era riuscita a creare cartilagine dal niente, avrebbe incuriosito chiunque.
Comunque, dopo aver saputo che a Miami avevo incontrato Aria e non lei, avevo preso una decisione.
“Allora, sei pronta? Sarà qui a minuti.”
“Sì, Arizona. Sono finalmente pronta. Adesso smettila di stressare.”
Avevamo un appuntamento doppio, io e Aria, Teddy e Addison. In modo da rompere il ghiaccio, sia noi che loro, senza rischiare situazioni imbarazzanti.
Era una cosa semplice. Un primo appuntamento da Joe, era perfetto. Ci andavamo spesso e se una di noi avesse voluto tirarsi indietro, poteva sempre sembrare una normale serata tra colleghe, o tra amiche.
Mi offrii di andare a prendere il primo giro di aperitivi al bancone, e fu quando ebbi ordinato che sentii una voce familiare alle mie spalle.
“Arizona come la nave da guerra.”
Non capivo come poteva essere così...diversa. Diversa da qualsiasi cosa avessi mai conosciuto, diversa perfino dall'unica persona al mondo che avrebbe dovuto essere uguale a lei.
“Calliope.”
Fu sorpresa dall'uso del suo nome per intero, ma lo nascose bene.
“Ho sentito che hai un appuntamento, stasera.”
“Già.”
“E finalmente Teddy e Addison hanno deciso di darsi una svegliata.”
“Già” replicai con tono più allegro.
Lei mi guardò soltanto negli occhi, quel suo sorriso sulle labbra.
“Eri tu. Sono sicura. Dovevi essere tu” sussurrai, più a me stessa che altro.
“Vorrei essere stata io” rispose, prendendo un sorso dal bicchiere che aveva in mano. “O forse no. Perché se fossi stata io, sarei venuta a parlarti quella sera. E la mattina dopo ti saresti svegliata, senza me accanto, e mi avresti odiato. Quindi forse è meglio così. È meglio che sia Aria la persona di cui potresti innamorarti.”
Quindi non era lei. Non era davvero lei. Sentii una leggera delusione farsi strada dentro di me.
“Ecco a te” il barista mi porse i nostri quattro bicchieri.
“Aspetta, ti aiuto” si offrì, prendendone due e portandoli al tavolo per me.
Non ci avevo pensato fino a quel momento, ma le sue due migliori amiche, Addison e Teddy, erano lì con la sua gemella. Doveva sentirsi piuttosto tagliata fuori. Ma, se anche si fosse sentita ferita, fece un ottimo lavoro nel nasconderlo.
“Divertitevi” disse in generale, dopo aver posato i bicchieri. Sorrise, andandosene subito dopo.
Fu una serata piacevole. Mi divertii molto, in compagnia di Aria. Era simpatica, e una ragazza dolce.
Mi offrii - beh, Teddy si offrì per me - di accompagnarla fino alla porta di casa sua.
Mi salutò con un bacio sulla guancia, rientrando in casa. Niente scintille. Niente scariche elettriche in tutto il corpo.
Tornai verso l'ascensore. Quando le porte si aprirono, avrei voluto urlare a causa del casino totale che avevo in testa.
“Arizona.”
“Calliope.”
“Dottoressa Robbins.”
“Sadie.”
Uscirono, ed io salii in fretta, schiacciando il pulsante del piano terra ripetutamente. L'ultima cosa che vidi, prima che si chiudessero le porte, furono i suoi occhi e il dispiacere che vi lessi in risposta alla tristezza dei miei.

La mattina dopo avevo un'operazione, che tutto sommato andò bene, nonostante i genitori che non mi davano pace. Verso l'ora di pranzo scesi nella caffetteria. La vidi immediatamente e mi sedetti al suo tavolo, sospirando.
“Non puoi immaginare che mattina che ho avuto. C'erano due genitori che mi hanno dato il tormento, perfino mentre stavo operando loro figlio.”
“Che disdetta. Vuoi che andiamo nel mio ufficio e provo a tirarti su di morale?”
Alzai gli occhi dal mio vassoio. Il sorriso sulle sue labbra era inconfondibile.
“Calliope. Credevo fossi Aria. Mi dispiace, non volevo disturbarti.”
“No, anzi. Mia sorella aveva un incontro, Teddy e Addie sono in sala operatoria, quindi mi stavo annoiando. Vuoi parlarne? Mi farebbe piacere.”
“Non credo che...”
“Non credi che dovremmo parlare di lavoro? O essere amiche? O che non dovremmo parlare in assoluto, mai? Perché i pranzi del Ringraziamento potrebbero diventare strani.”
Io non potei evitare di ridere. “D'accordo. Allora, questi genitori...”
Calliope era un'ottima ascoltatrice.
Ed era divertente, era buffa, parlare con lei fu unico. Risi così tanto, che fu ridicolo. Quelle due ore passarono in un lampo.
“Allora, come hai conosciuto Teddy?” chiese, mentre uscivamo dalla caffetteria.
“Ahm, lei e mio fratello erano nella stessa Unità.”
“Oh. Tuo fratello è nell'esercito?”
“Era. È morto perché non c'erano abbastanza medici.”
“Mi dispiace molto” mi disse, prendendomi una mano per farmi fermare e guardarmi negli occhi con sincerità. “Non avrei chiesto se avessi saputo...”
“Non preoccuparti. Parlare con te è facile.”
Ignorai la pelle d'oca che avevo nel punto in cui mi aveva toccato e le sorrisi, ricominciando a camminare con lei al mio fianco.

Per il nostro secondo appuntamento, andai davanti casa sua in macchina, da lì al ristorante avrebbe guidato lei. Stavolta eravamo solo io e lei, e quando vidi la macchina che aveva avrei voluto iniziare fare piccoli salti di gioia.
“Una Thunderbird? Adoro le macchina d'epoca” stavo sorridendo come un'idiota, me ne rendevo conto.
“Certo” rispose scetticamente. “Non devi far finta che ti piaccia, non devi essere gentile. Non riesco nemmeno ad usare lo stupido cambio manuale. Ma la mia macchina è in officina, così ho preso in prestito quella di Callie.”
“Oh.”
“Quindi non c'è problema se non ti piace, è solo per questa sera.”
“Ok.”
Adoravo le macchine d'epoca. Ma non dissi niente.
Andammo in un ristorante francese che sembrava parecchio costoso. Mi sentii a disagio, non era esattamente il luogo che avrei scelto per un secondo appuntamento visto che il primo era stato da Joe. Ma non dissi niente neanche riguardo quello.
Quando a fine serata tornammo davanti all'edificio con il suo appartamento, mi offrii di accompagnarla fino alla porta.
Viveva nell'appartamento 501.
“Oh, cavolo. Ho dimenticato le chiavi” sussurrò, frugando nella borsa. “Un secondo solo, mia sorella ne ha una copia. Vieni.”
Bussò all'appartamento difronte, il 502.
Senza aspettare una risposta aprì la porta. La musica mi riempì le orecchie, era una canzone familiare.
She, she ain't real. She ain't gonna be able to love you like I will. She, is a stranger, you and I have history, or don't you remember? Sure, she's got it all, but baby is that really what you want?
Stavano ridendo come pazze, mentre ballavano per il soggiorno.
Addirittura due, stasera?
La musica alta aveva impedito loro di sentirci entrare.
La mora guardò Calliope mentre il silenzio finiva, facendole segno di iniziare a cantare.
E la sua voce, come mille altre cose di lei, mi stupì.
“Bless your soul, you've got your head in the clouds, you made a fool out of you and, boy, she's bringing you down. She made your heart melt, but you're cold to the core. Now, rumor has it, she ain't got your love anymore.”
“Rumor has it” intonarono le altre due donne, mentre lei ricominciava a ridere. Si voltò per un secondo e rimase paralizzata nel vedermi lì.
Afferrò il telecomando dello stereo, spegnendolo.
“Cal, che diavolo?!”
“Arizona, Aria, che posso fare per voi?”
“Ho dimenticato le chiavi. Ne hai una copia?”
“Ah...certo” si avvicinò all'ingresso, pescando da diversi mazzi di chiavi quello giusto al primo tentativo. “Secondo appuntamento e stai già andando nel suo appartamento?” chiese a me, un sorriso strafottente almeno quanto finto.
Guardai alle sue spalle di sfuggita, cercando di dissimulare il mio disagio. E fallendo.
“Ah, permettimi di presentarti Cristina” indicò la mora “e Meredith” la castana. “Cristina vive qui, e Meredith è una nostra amica. Sono entrambe molto etero. In caso te lo chiedessi.”
“Non se lo stava chiedendo” intervenne Aria, aprendo la porta per permettermi di uscire.
“Siete sicure di non voler rimanere per ballare un po'?” chiese, accendendo di nuovo lo stereo.
“Abbiamo cose migliori da fare” rispose Aria.
“Come posso darti torto, sorellina?” chiese, guardando verso di me. “Allora, suppongo che ci vedremo in giro.”
Andò verso la cucina, prendendo dei bicchieri e versandoci della tequila mentre uscivamo.
Mi scusai con Aria, dicendo che avevo improvvisamente mal di testa. Me ne andai, evitando di incrociare il suo sguardo.
Scesi in strada e qualcosa del tutto fuori dalla mia volontà mi spinse ad alzare lo sguardo, come una calamita, come una sensazione, neanche so che cosa. E lei era lì, alla finestra del suo appartamento, che mi guardava uscire. Mi sorrise, alzando il bicchiere verso di me, in un gesto di saluto. Mi sembrò però di capire dal suo sguardo che era felice che non mi fossi trattenuta con sua sorella. Io annuii, salutandola a mia volta, prima di andare via.
Il giorno dopo stavo frugando nel mio armadietto quando la percepii entrare. Mi irrigidii, guardando alla mia sinistra senza però voltarmi nella sua direzione.
“ Ciao, Arizona come la nave da guerra.”
“Ciao Calliope.”
Lei si tolse il giacchetto e la borsa, mettendoli nel suo armadietto mentre tirava fuori il camice blu.
“Bless your soul you've got your head in the clouds” iniziò a canticchiare, togliendosi la maglietta e rimpiazzandola con quella del camice da chirurgo. Mi voltai, dandole la privacy che evidentemente non voleva. “You've made a fool out of me, and girl you're bringing me down” continuò a sussurrare a tempo di musica. Quando fui sicura che fosse del tutto vestita mi voltai di nuovo, mettendo a mia volta i panni che mi ero tolta nel mio armadietto e richiudendolo. “You made my heart melt, yet I'm cold to the core” fu allora che capii che non stava cantando a caso. Aveva cambiato la parola 'boy' con 'girl' e quell'ultima frase aveva fatto scattare qualcosa. No, non era a caso. Stava cantando a me. Chiuse l'armadietto, appoggiandoci una spalla contro e voltandosi verso di me. “But rumor has it, I'm the one you're leaving her for.”
Sbattei l'anta del mio armadietto e me ne andai.
Mi corse dietro.
“Andiamo, stavo solo scherzando. Mi dispiace.”
“Non è vero.”
“No, non è vero.”
“Calliope.”
“Lo so, scusa. Ma dico sul serio, non lo farò più. Promesso.”
Io rallentai, sospirando.
“Adesso ci baciamo e facciamo pace?”
“Calliope” ricominciai a camminare.
“Andiamo, davvero, io sono fatta così. Scherzo, tutto il tempo. E quel sorriso che stai cercando di nascondere mi fa pensare che lo trovi adorabile. È adorabile che tu mi faccia venir voglia di essere un'idiota, è adorabile perché erano anni che non facevo l'idiota con qualcuno.”
“Ah” feci un suono di incredulità. “Fai l'idiota con tutte, tutto il tempo.”
“No, vedi, questo è il punto. Con nessuna ragazza mi comporto così. Le saluto, mi faccio dire il loro nome, le ascolto parlare di se stesse, le accompagno a casa e la mattina dopo me ne sono andata e tanti saluti. Mai una battuta sincera, mai semplice e puro flirtare. Ma tu sei qualcosa di unico, Arizona come la nave da guerra. Ma stai vedendo mia sorella, quindi ecco il patto. Possiamo essere amiche ed io posso infastidirti con le mie battutine, fin tanto che le cose non vanno oltre.”
Aveva ragione. Adoravo le sue battutine. Era capace di farmi sorridere. Era capace di farmi sentire caldo al cuore.
“Ok.”
“Perfetto. Ci vediamo a pranzo. Abbi una fantastica mattina.”
“Dopo che ho visto il tuo sorriso? Sarà più che stupenda.”
“Visto? Hai capito al volo come si gioca.”
Prendemmo direzioni opposte.

Ero ad un tavolo da sola. Nelle passate due settimane io e Aria non avevamo avuto altri appuntamenti a causa delle nostre ore di lavoro assurde. Io e Callie, del resto, ci vedevamo molto spesso in ospedale, visto che l'ascensore per andare a pediatria, quinto piano, e ortopedia, sesto, era lo stesso, perché erano nella stessa ala. Mi aspettavo che arrivasse da un momento all'altro, di solito si sedeva con me e parlavamo per tutto il tempo.
Si sedette alla mia destra, mettendosi composta e aprendo la bottiglietta d'acqua che aveva appena comprato.
Acqua e insalata, non è nemmeno un vero pranzo.
“Ciao Arizona.”
Annuii, a bocca piena.
Bevve un sorso d'acqua e iniziò a mangiare l'insalata che aveva davanti.
Poi, si mise a sedere alla mia sinistra. E allora fui confusa. Posò il vassoio, mettendo i piedi sulla sedia accanto alla sua, incrociati all'altezza delle caviglie. Aprì la lattina di coca cola che aveva in mano e dette un morso al panino che aveva comprato e dentro cui aveva messo più o meno un chilo di ketchup.
“Sei disgustosa” le feci sapere, trattenendo un sorriso.
Lei si bloccò per un secondo, poi scrollò le spalle e prese un altro morso del panino che aveva in mano.
“Non puoi cambiarmi, donna” rispose a bocca piena.
“Callie, togli i piedi dalla sedia. Siamo a tavola, Santo Cielo. E non ti fa bene bere tutta questa roba gassata. E non potresti usare meno salsa? Metà l'hai comunque fatta cadere nel piatto.”
“Aria, lasciami in pace. Acqua e insalata, questo non è nemmeno un vero pranzo. E non tutti stanno seduti come se avessero un manico di scopa-”
Addison si schiarì la voce, togliendo i piedi di Callie dalla sedia e mettendosi a sedere, Teddy prese il posto accanto a lei.
“Allora, programmi per stasera?” chiese la rossa.
“Cristina vuole andare da Joe” rispose Callie.
“Io ci sto” rispose Addison, iniziando a mangiare la pasta che aveva preso.
“Anch'io” si aggiunse Teddy.
“Di che state parlando?” chiese la mora che a quanto pareva era la coinquilina di Callie, sedendosi, insieme all'altra ragazza che avevo visto a casa sua.
“Stasera da Joe” spiegò Callie.
“Giusto. Era una mia idea” rispose Cristina. “Chi altro viene?”
“Io di sicuro” rispose Meredith. “E potremmo trasformarla in una serata tra donne. Chiederò a Lexie e April.”
“Arizona?” domandò Calliope.
“Uhm, certo.”
“Fantastico. Ehi, sei sporca qui” indicò la mia maglietta.
“Dove?” chiesi, abbassando lo sguardo.
Lei alzò la mano, sfiorandomi il naso. “Fregata.”
“Calliope!” spinsi via la sua mano, ma scoppiai a ridere.
“Oh, accidenti. Devo andare in pronto soccorso.”
“Anche io” le dissi.
“Sul serio? Chi arriva prima” mi sfidò.
Io mi alzai, guardandola con aria incredula. “Chi arriva prima?” feci il giro del tavolo, andando dalla parte più vicina all'entrata. “Sul serio?” feci un paio di passi indietro. “Ok” dissi all'improvviso, partendo sulle rotelle delle mie scarpe.
“Ehi, questo è barare” la sentii dire dietro di me.
Mi raggiunse appena in tempo per entrare nell'ascensore al mio fianco.
“Accidenti, ce l'avevi quasi fatta” mi prese in giro. “Mi sei quasi sfuggita.”
Io le sorrisi. “Calliope, perché mai dovrei volerti sfuggire?”
Fu distratta dalle mie fossette. Quindi non si accorse che eravamo arrivate al piano giusto finché non uscii dall'ascensore, pattinando fino alla stazione delle infermiere.
“Ho vinto. Stasera paghi tu da bere” le dissi, mentre si avvicinava.
“Sei davvero un'imbrogliona. Ma d'accordo. Ti comprerò tutto il liquore che riesci a reggere.”
Staccammo insieme, abbastanza presto, e decidemmo di avviarci.
“Prendi un tavolo, io porto da bere.”
“D'accordo, Calliope.”
Pochi minuti dopo che mi ero seduta mi venne incontro con diversi bicchieri su un vassoio.
“Hai preso da bere per tutte?” chiesi confusa.
Lei rise. “No, sciocchina. Questi sono per me e te. Ed è solo il giro di riscaldamento.”
“Vuoi farmi ubriacare?” chiesi. Sapeva che non reggevo molto bene il liquore.
“Quale modo migliore per sedurti, piccola?” quella sua voce mi fece venire un brivido. Posò il vassoio, sedendosi accanto a me invece che davanti a me. “Ok, iniziamo con gli shot di tequila” propose, mettendomi il mio davanti e bevendo il suo.
“Spero che tu sappia quello che stai facendo” le dissi, bevendo.
Tre shot e un aperitivo dopo, le altre erano finalmente arrivate. Ma io iniziavo ad essere andata.
“Oh, adoro questa canzone.”
“Ci scommetto” rispose, ridendo.
“Voglio ballare.”
“Aria non balla” rispose, dato di fatto.
Mi voltai verso di lei, che confermò, annuendo dispiaciuta.
“Io adoro ballare. Andiamo, Calliope. Tu balli, no? Vieni” mi alzai, prendendole la mano. “Datti una mossa, adoro questa canzone.”
Lei si lasciò trascinare, guardando verso Aria, scusandosi con lo sguardo.
Si mise a più di un metro da me. Afferrai la maglietta che stava indossando, facendola avvicinare, lei rimase immobile. Io, rendendo me stessa sempre più ridicola, iniziai a cantare.
“Singing, hey mama, don't want no drama, just a kiss before I leave. Hey lady, don't say maybe, you're the one that I can believe. Hey lover, don't want no other finger for my ring. Hey mama, hey hey mama.”
Iniziai a muovermi a tempo di musica. Lei, istintivamente, appoggiò le mani sui miei fianchi. Io continuai a cercare di avvicinarmela, le mani sulle sue spalle.
“I can see it in her cherokee eyes. Those baby brown and the golden tights.”
Mi bloccai, non tanto sicura che sarebbe stato appropriato cantare il verso successivo. Lei, istintivamente, prese il mio posto.
“What you doing for the rest of your life? 'Cause you don't wanna go, don't wanna go” sussurrò, spostandomi una ciocca di capelli dalla fronte.
Le passai le braccia attorno al collo, lei mi strinse di più la vita.
“Couldn't be more opposite. I'm hard to please and you're hard to get. You're Mississipi and I'm Oregon. You're sun tunned, and I'm porcelain skinned” sorrisi, canticchiando vicino al suo orecchio.
“Arizona, Aria ci sta guardando.”
“Stiamo solo ballando” continuai a muovermi, ma mi allontanai da lei per guardarla negli occhi.
“Che intenzioni hai con lei?”
“Non lo so. Tu che intenzioni hai con...qualsiasi sia il nome della ragazza che ti porterai a casa stasera.”
Lei si allontanò da me, scuotendo la testa. Iniziò a camminare verso l'uscita. Le afferrai la mano.
“Calliope, mi dispiace. Non sono affari miei.”
Lei si voltò. Nei suoi occhi la familiare scintilla era mischiata a qualcos'altro.
“Sadie è stata l'ultima, per tua informazione” si liberò dalla mia presa e si incamminò verso l'uscita.
Io notai che aveva lasciato il giacchetto.
Indossai il mio e presi in mano il suo.
“Dove stai andando?” chiese Aria.
“Ha dimenticato il giacchetto” risposi. “E le devo delle scuse per delle cose che ho detto.”
“Arizona, non le devi nessuna scusa. Rimani, ti accompagno a casa più tardi.”
“Mi dispiace, Aria. Ci vediamo domani.”
Incrociai lo sguardo di Teddy. Mi accorsi con amara certezza che lei sapeva. Sapeva cosa mi stava succedendo.
Uscii dal bar e corsi verso il suo appartamento. Arrivai giusto in tempo per prendere l'ascensore insieme a lei.
“Hai dimenticato il giacchetto” le feci notare, porgendoglielo.
“Ti ringrazio. Non avresti dovuto” replicò a bassa voce, prendendolo.
“Calliope...”
“Lo capisco, sai?” disse, tenendo lo sguardo basso. “Perché hai scelto lei. Lei è la scelta sicura, lei è quella delle certezze” alzò lo sguardo verso il mio. “Ed io sono un casino. Quindi capisco perché hai scelto lei.”
“Scelto?” chiesi, incredula. “Quando mai ho avuto una scelta?”
Sospirò. “Hai ragione. Io avrei solo incasinato tutto, mandando a puttane la mia occasione.”
“Tu non l'hai mai nemmeno voluta un'occasione.”
L'ascensore si aprì. Uscì, fermando le porte con una mano.
“Ti ho detto che avrei voluto essere io, la persona di cui avresti potuto innamorarti. Ma non lo sono mai stata.”
Uscii dall'ascensore, avvicinandomi a lei in maniera pericolosa.
“Sai quello che ne pensavo, Calliope. Credo che tu lo abbia sempre saputo.”
Lei sospirò, guardandomi negli occhi con qualcos'altro oltre la dolcezza che solitamente vi leggevo.
“Vieni. Sei ubriaca. Ti faccio un caffè.”
Entrai in casa sua, lei mi prese il giacchetto e la borsa, facendomi sedere sul divano. Andò in cucina, mettendo a fare del caffè.
“Non sono mai stata nell'appartamento di Aria” le feci notare, con una risatina. “E abbiamo avuto tre appuntamenti. Io e te ne abbiamo avuti, beh, zero. Ed eccomi qui. Perché questa è la verità.”
L'effetto del liquore iniziava a farsi sentire.
“Quale è la verità?” domandò confusa, raggiungendomi con una tazza di caffè caldo in mano.
“Che potrei essere una di loro. Potrei fare sesso con te, stanotte. E svegliarmi domani mattina con te sparita nel nulla e non riuscire a pentirmene. Non riuscire ad odiarti.”
“Non credo.”
“Ti assicuro che non me ne pentirei” la contraddissi.
“No. Intendevo, non credo che riuscirei ad andarmene” sospirò.
Quello fu quanto bastò. Mi spostai, mettendomi a cavalcioni su di lei e prendendole il viso tra le mani.
“Ti prego non farlo.”
“Perché no?”
“Perché se adesso mi baci, non sarò mai più in grado di lasciarti andare. E tu e Aria...”
“Non ho mai baciato Aria” le feci sapere, avvicinandomi.
“Hai bevuto. Aspetta fino a domani, dormici sopra, e se è quello che vuoi prometto che troverò una soluzione.”
Io mi avvicinai a lei, baciandola sulla guancia. Sentii un miliardo di farfalle danzarmi nello stomaco.

La mattina dopo mi svegliai in un letto che non era il mio. Ma il profumo era familiare.
La testa mi stava scoppiando. Mi tirai a sedere e mi accorsi solo allora che stavo indossando solo mutande e reggiseno.
La porta del bagno si aprì, e lei entrò dentro la camera da letto.
“Ehi, sei sveglia. Avrei voluto usare la doccia di Cristina, ma Owen è lì dentro.”
Si asciugò i capelli con un asciugamano, era completamente vestita, ma questo, stranamente, non mi tranquillizzò.
Ricordi sparsi della sera precedente mi tornarono alla memoria. Io che ballavo insieme a lei in un modo che non avrei dovuto, io che tentavo di baciarla sul suo divano, la sensazione che avevo provato baciandola sulla guancia.
“Oddio” sussurrai, coprendomi gli occhi con una mano. Che avevo fatto?
“No, ehi, no no no. Aspetta, non ti ricordi?”
Feci un respiro profondo. Qualche flash c'era. Lei che mi accompagna in camera sua. Lei che mi aiuta a spogliarmi. Lei che...mi bacia sulla fronte e esce dalla stanza?
“Ho dormito sul divano” mi disse. “Non volevo che andassi a casa da sola così tardi.”
Rilasciai un respiro tremolante. “Ti ringrazio.”
“Figurati. Ho preparato la colazione, se hai fame. E ti ho lasciato sul comodino un paio di aspirine e qualcosa di più forte se il mal di testa è troppo fastidioso. Ti aspetto in soggiorno, tu rivestiti con calma e se vuoi farti una doccia, fai come se fossi a casa tua.”
Uscì dalla stanza. Valutai la sua offerta di una doccia. Ma pensai che era meglio evitare il rischio di situazioni imbarazzanti. E me ne immaginai una quantità ridicola.
Mi vestii ed entrai in soggiorno, mangiando i pancake che mi aveva fatto e bevendo un'abbondante tazza di caffè.
Nessuna delle due parlò di quello che era successo la sera prima.
“Allora, Arizona come la nave da guerra, vuoi camminare con me fino a lavoro?”
“Sembra perfetto” risposi con un sorriso.
Indossammo i giacchetti e prendemmo le borse. Aprì la porta, facendomi uscire per prima. Mentre stava chiudendo a chiave, la porta dell'appartamento 501 si aprì.
“Arizona?”
“Aria. Ehi.”
Silenzio imbarazzante.
“Mi stava giusto chiedendo se poteva bussare” intervenne Calliope. “L'ho incontrata qui in corridoio mentre stavo uscendo, voleva venire a salutarti. Donne” finse incredulità, alzando gli occhi al cielo. “Sono così appiccicose.”
Senza guardarmi negli occhi si avvicinò all'ascensore.
“Dobbiamo parlare” mi disse.
“Sì. Sono d'accordo.”
Stava per dire qualcosa, ma fu interrotta da un piccolo urlo dal fondo del corridoio.
“Mark!”
Mi voltai. C'era un uomo alto, con i capelli grigi e la barba parecchio curata che stava uscendo dall'ascensore. Callie gli gettò le braccia al collo.
“Torres, è un piacere vederti. Sei splendida.”
“Non sai chi sono, non è vero?” chiese con un sorrisetto malizioso.
“Fammi pensare...Callie.”
“Da che l'hai capito?”
“Le tette. Le tue sono più grandi.”
Lei lo colpì su un braccio.
“Mark” Aria gli andò incontro, abbracciandolo per parecchi secondi. “Che ci fai qui?”
“Sono venuto a salutarvi. Permanentemente.”
“Cosa?”
“Ho accettato il posto come primario di chirurgia plastica.”
“Mark, è fantastico” disse Aria, abbracciandolo di nuovo.
“Sei il tipo di Miami” osservai.
“Esatto. Ti hanno parlato di me?”
“No. Intendo, io ti ho visto a Miami. In un bar, circa due mesi fa. Eri con una di loro.”
“Ah, ma certo. Erano in città per un convegno. Mark Sloan” si presentò.
“Arizona Robbins.”
“Lasciala stare Mark, non è interessata” gli disse Callie, abbastanza freddamente.
“Oh, intendi...”
“Sono lesbica.”
Lui annuì. “Lesbica tipo Aria o tipo Callie?”
“Qual'è la differenza?” chiesi, perplessa.
“Aria gioca per entrambe le squadre. Callie non più, ormai da tempo.”
“Non sono bisessuale, sono lesbica.”
“Ok, capito. Allora, con chi delle due sei stata a letto?”
“Nessuna delle due.”
“Mark, lasciala in pace. Vieni, ti offro un caffè come regalo di benvenuto al Seattle Grace” Callie cercò di portarlo via molto frettolosamente, sentii che gli stava sussurrando qualcosa, ma non riuscii a capire cosa fosse.
Io e Aria rimanemmo in un silenzio imbarazzato.
“Allora, vuoi parlare ora o...”
“Ora, se non è un problema” rispose.
Annuii. “Vieni, passeggiamo insieme.”
Camminammo in silenzio per qualche minuto, prima che lei parlasse.
“Vedo come la guardi. Come se non ci fosse niente che lei non sia in grado di darti.”
“Aria...”
“Ma ancora peggio, vedo come lei guarda te. Come se farebbe qualsiasi cosa per darti quello che vuoi.”
“Aria, mi dispiace se ti ho ferito. Avrei davvero voluto che fossi tu, credimi. Sarebbe stato più semplice, ma...non si è mai trattato di scegliere. Sto bene con te, andiamo molto d'accordo, ma più come amiche che altro.”
“Ti chiedo solo una cosa. Quando ti spezzerà il cuore, se mai deciderai che vale la pena di darmi un'altra possibilità, sappi che io sarò qui. Quindi è questo che ti chiedo. Non lasciare che una brutta fine tra di voi ci impedisca una seconda chance.”
“Non lo farei. E non è lei il punto, Aria. Non sta funzionando, ma non per causa sua” ci tenni a chiarire. “Non funziona perché non c'è scintilla.”
“Hai ragione. E non credo che potremmo mai decidere di riprovarci” osservò. “Ma, in ogni caso, ti ho detto che ne penso.”
“Aria, davvero, io e Calliope...non c'è niente tra noi. Lei non è in cerca di una storia.”
“No. Hai ragione. Lei è in cerca di te.”
La guardai, perplessa.
“Lei è in cerca di qualcuno così buono da non ferirla mai, da non tradire la sua fiducia, qualcuno che non la distrugga definitivamente. È stata ferita. E si è costruita un muro attorno al cuore. Ma tu sei già oltre quel muro, Arizona. Lo sei stata fin dal primo momento in cui i vostri sguardi si sono incontrati.”
Eravamo arrivate all'entrata dell'ospedale. Mi salutò con un sorriso, rimasi confusa più che mai. Presi l'ascensore per il sesto piano, cercandola immediatamente e trovandola nel suo ufficio.
“Devo parlarti.”
“Ehi, Arizona come la nave da guerra” mi salutò. “Dimmi.”
“Come è successo?”
“Cosa?”
“Come è successo che non riuscissi più a vedere in Aria quello che ho visto quella sera?”
“Non lo so.”
“Come è successo che prima volessi lei e poi, una volta incontrata, tutto ciò che ho fatto è stato desiderare qualcos'altro?”
“Arizona.”
“Come è successo che non riuscissi a vedere in lei quello che ricordavo?”
“Non lo so.” Si alzò, mettendosi davanti a me. “Che vuoi che ti dica?”
“Dimmi perché. Perché non potevo semplicemente scegliere lei. Perché?”
“Non lo so.”
“Perché dovevo sentire un brivido al suono della tua voce, perché dovevo amare i tuoi occhi, perché dovevo farmi venire la pelle d'oca ad un tuo tocco?”
Scosse la testa, guardando in basso.
“Perché? Come ho potuto vedere qualcosa nei suoi occhi e poi vedere la stessa cosa nei tuoi? L'amore a prima vista non esiste?”
“Certo che esiste.”
“Allora perché? Perché?”
“Non lo so.”
Continuai a ripetere la domanda, alzando di un po' la voce ogni volta e lei continuò a sussurrare che non lo sapeva.
Alla fine, mi afferrò le spalle, guardandomi negli occhi all'improvviso.
“Perché ero io.”
Mi lasciò andare.
“Dannazione” imprecò.
“Calliope.”
“No, Arizona. Dimentica quello che hai sentito. Tu e Aria...”
“Ci siamo lasciate. Minuti fa.”
Scosse la testa, chiudendo gli occhi. “No, lei mi aveva chiesto di non dirti niente, di non dire niente di Miami, perché tu le piaci davvero molto, ed io...”
“Calliope.”
Lei mi guardò di nuovo negli occhi.
“Sapevo che eri tu, l'ho saputo fin da quando ti ho visto per la seconda volta.”
Le presi le mani tra le mie.
“Adesso la sola domanda che rimane è...che vuoi fare? Che vuoi che faccia? Che succede adesso? Dove andiamo da qui?”
“Sono parecchie domande” osservò, sedendosi sul bordo della scrivania. “Come dovrei sapere la risposta a tutte?”
Io non risposi. Invece, mi avvicinai, appoggiandole una mano sulla guancia e baciandola.
L'ultima briciola di buon senso che avevo, se ce n'era rimasto alcuno, se ne andò in quel preciso momento.
“Penso che lo saprai.”
La guardai seriamente negli occhi. Poi le sorrisi. E me ne andai.

Qualche ora più tardi avevo ricevuto un semplice messaggio da Calliope.
Stasera da Joe alle nove? Dobbiamo parlare.
Avevo risposto con un semplice: A stasera, Calliope.
Così, dopo essermi cambiata, mi incamminai verso il bar a piedi, lasciando la macchina nel parcheggio dell'ospedale.
Ero di almeno un quarto d'ora in anticipo. Ricordai che era successo l'ultima volta che ero arrivata da Joe in anticipo, ma scacciai il pensiero dalla mie mente.
Devo ammettere che ero nervosa. Dobbiamo parlare, non prometteva mai niente di buono.
Aprii la porta, ancora non del tutto convinta che fosse tutto apposto.
Feci un paio di passi e poi alzai la testa. Quello che vidi, mi paralizzò.
Mark Sloan la stava baciando. E non era un bacio da semplici migliori amici. Lei aveva le spalle al muro e lui la stava baciando come se la sua vita dipendesse da quello.
No. Ti prego, no.
Per un istante pensai che, se avessi chiuso gli occhi, l'immagine tremenda davanti a me sarebbe sparita. Così lo feci. Ma quando li riaprii, loro erano sempre lì.
La porta dietro di me si aprì e sentii un braccio circondarmi le spalle.
“Ehi. Sono felice che tu sia venuta.”
Avrei riconosciuto quella voce ovunque. Mi voltai. I suoi inconfondibili occhi mi stavano osservando attentamente. Ero parecchio seria. Rilasciai un respiro tremolante. Poi scoppiai a ridere, ricambiando l'abbraccio con entrambe le braccia e nascondendo il viso contro la sua spalla.
“Grazie a Dio.”
Lei seguì la mia risata, ma la sua espressione era perplessa. Si guardò attorno. E li vide.
“Oh. Oh! Pensavi che stessi...No. Assolutamente, no. Forse anni fa, ma adesso non più.”
Mi baciò sulla guancia, sfiorandomi il naso con il suo subito dopo.
“Vieni. Mettiamoci a sedere.”
Era incredibile come fossi più affettuosa con lei che con Aria, quando io e Aria avevamo avuto tre appuntamenti e io e lei zero, ma sembravamo conoscerci da una vita.
“Di che volevi parlarmi?” chiesi.
Lei non si mise seduta davanti a me al tavolo, no. Lei mi si sedette vicino. Era questo genere di dettagli a farmi impazzire per lei.
“Vorrei provare. Se è quello che vuoi” si affrettò ad aggiungere. “Vorrei un appuntamento.”
“Dici sul serio?”
“Sì” annuì con decisione. “A tutte le tue condizioni.”
Mi guardò, aspettando che iniziassi ad elencare.
“Non voglio che tu veda altre persone.”
“Non devi neanche chiederlo, questo. So che vuol dire uscire con qualcuno, anche se è un bel po' che non lo faccio” mi rivolse il suo sorrisetto furbo.
“Non devi mentirmi. Mai.”
“D'accordo.”
“Mi verranno in mente altre cose.”
“Aspetterò.”
“Buono a sapersi.”
“Devo essere di nuovo in ospedale tra un'ora, ho il turno di notte. Vuoi che ti accompagni a casa?”
“Ho la macchina nel parcheggio dell'ospedale.”
“Vuoi che ti accompagni alla macchina?”
“Calliope, stai cercando di dirmi che non ti senti a tuo agio con l'idea che rimanga qui senza di te?”
Lei mormorò qualcosa a se stessa. Poi scosse la testa, sospirando.
“Hai ragione. Sto facendo già l'idiota. Ma neanche a te è permesso vedere altre persone, se te lo stessi chiedendo. Quindi attenta a chi ti invita a ballare e non farti baciare da nessuna di queste ragazzine. Divertiti. Ci vediamo domani” mi baciò sulla guancia, alzandosi. Se ne andò col sorriso sulle labbra.
Aspettai i miei decorosi cinque secondi, prima di seguirla.
“Calliope” la chiamai. Si voltò all'istante. “È ancora valida l'offerta di accompagnarmi alla macchina?”
Lei mi sorrise, porgendomi la mano. La presi, e non la lasciai finché non fu il momento di entrare in auto.

Entrai in ospedale fischiettando, due caffè in mano. All'ingresso notai una delle dottoresse Torres che scriveva qualcosa su una cartella, le spalle nella mia direzione.
“Aria” la salutai, superandola.
“Arizona. Ehi, aspetta un secondo. Come hai fatto a riconoscermi?”
“Fortuna” sorrisi, mettendo in mostra le fossette, poi entrai in ascensore.
Ogni giorno, riconoscerle diventata sempre più facile.
Erano passati cinque giorni da quando Calliope mi aveva chiesto di uscire. Quella sera, avevamo il nostro primo appuntamento. Andai al sesto piano e bussai al suo ufficio. Quando mi vide tolse i piedi da sopra la scrivania, mettendosi seduta dritta.
Io mi avvicinai, appoggiando uno dei due caffè davanti a lei.
“Spero che tu non abbia dimenticato.”
“Certo che no, Arizona come la nave da guerra.”
Io sorrisi. “A stasera, dottoressa Torres.”
“Ah. Non se ne parla. Ti vedrò a pranzo. Stasera è tra troppe ore.”
Indietreggiai verso la porta, sorridendo. “D'accordo. Allora a pranzo.”
Mi voltai, tornando verso l'ascensore da cui ero uscita pochi minuti prima.
Due ciclisti erano stati investiti da un'automobilista ubriaco. Tre interventi di fila impedirono a Calliope di farcela in tempo per pranzare insieme a me. Nel tardo pomeriggio arrivò in pronto soccorso un trauma. Un'auto era stata tamponata da un camion. La bambina fu portata nella sala uno d'urgenza, mentre Calliope era in sala due con il padre.
Quando entrai nello spogliatoio erano le nove passate.
“Ok, la ringrazio. Mi scusi di nuovo. Grazie per la comprensione” chiuse la chiamata. “Ho disdetto la prenotazione” mi disse. “Era per due ore fa, quindi ho immaginato che avessero già dato via il tavolo, ma ho comunque chiamato.”
“Mi dispiace, Calliope.”
“Non è mica colpa tua. E poi, io sono uscita mezz'ora fa, al massimo. Quindi comunque non avremmo fatto in tempo.”
“Domani sera?” proposi.
“Pensavo, se ti va, puoi venire da me. Sono brava in cucina. Tu non hai ancora cenato ed io non tocco cibo da stamattina, quindi...”
“Certo” accettai, ma il mio cervello mi stava urlando di non andare in quell'appartamento. Il suo appartamento. Dove c'era la sua camera da letto. Con dentro il suo letto.
Mi sorrise, l'aria stanca.
Era davvero una cuoca eccezionale. Preparai la tavola mentre lei preparava la cena e poi ci sedemmo insieme. Le scaloppine di pollo erano divine.
“Com'è andata con la bambina?”
“Tutto perfettamente. Il padre?”
“Se la caverà. Rosso o bianco?”
“Bianco.”
Versò quello a me e poi un bicchiere di rosso per se stessa.
La cena passò con conversazione leggera, imparammo a conoscerci un po' meglio. Quando finimmo mi alzai, offrendomi di lavare i piatti.
“No, lasciali” mi disse, alzandosi a sua volta. “Sono esausta. Non ho praticamente messo piede fuori dalla sala operatoria, oggi. Sto in piedi per miracolo.”
Mi prese la mano, portandomi verso il divano in soggiorno e sedendosi, aspettando che facessi lo stesso. Si rilassò contro lo schienale, chiudendo gli occhi. Mi abbracciò. Appoggiai la testa sulla sua spalla e ricambiai l'abbraccio.
“Hai un buon profumo” sussurrò incoerentemente, il sonno stava già prendendo il sopravvento.
“Non è difficile battere la sala operatoria.”
Non rispose. Si spostò, riuscendo a sdraiarsi e a farmi sdraiare al suo fianco.
“Dammi solo qualche minuto e poi ti accompagno alla macchina” sussurrò.
Io sorrisi, chiudendo gli occhi. La giornata faticosa iniziò a farsi sentire. Le palpebre mi diventarono pesanti. Un secondo dopo, era mattina.
Quando aprii gli occhi, la prima cosa che registrai fu il dolore che sentivo al collo e alla schiena per aver dormito sul divano. Poi registrai la coperta gentilmente posata sopra di me nel tentativo di tenermi al caldo. E infine, notai lei. Beh, l'assenza di lei.
Aggrottando la fronte, mi misi seduta e poi mi alzai lentamente in piedi, cercando di scacciare via il sonno strofinandomi lentamente gli occhi.
“Sei sveglia” una voce alle mie spalle mi fece voltare in direzione della cucina. “Spero che tu abbia fame, perché non sapevo cosa ti andava per colazione, così ho preparato un po' di tutto.”
Stava cucinando. Internamente, tirai un sospiro di sollievo. Non era andata via.

Per il nostro primo appuntamento la portai a cena fuori in un ristorante. La riaccompagnai in macchina e poi fino alla porta del suo appartamento. La baciai sulle labbra un secondo soltanto, prima di andare via.
Il nostro secondo appuntamento fu un sabato sera. Da Joe. Parlammo per ore. Poi, quando salimmo dentro la sua Thunderbird, iniziò a guidare, e continuò a guidare, ben oltre casa mia. Per tutta la notte, solo perché non riusciva a capire come mai il nostro appuntamento sarebbe dovuto finire così presto. Alla fine ci addormentammo in macchina, nel parcheggio di una stazione di servizio. La mattina dopo tornammo a Seattle, giusto in tempo per fare tardi in ospedale.
Per il nostro terzo appuntamento, mangiammo pizza a casa mia, visto che io non sapevo cucinare, e non saprei dove sarebbe andata a finire la serata se il cerca persone di Calliope non avesse suonato sul più bello.
Da allora andammo a cena fuori diverse volte, tre mesi dopo avevo perso il conto.
Finalmente, a cinque mesi dal nostro primo appuntamento, ne avevamo avuto abbastanza di cerca persone che suonavano puntuali come orologi svizzeri, o di telefonate che arrivavano nel bel mezzo di un po' di tempo di coppia. Così mi preparò la cena. Ci stavamo baciando sul suo divano, quando il mio cellulare iniziò a suonare.
“Teddy. No, non è un buon momento. Senti, ti richiamo. Sto attaccando. Certo, come no. Adesso attacco. No, certo che ti credo. Ciao Teddy.”
“Spegni il cellulare.”
“Lo sto già spegnendo.”
“Perfetto.”
Cellulari spenti. Telefono staccato. E i cerca persone accesi, solo per chiamate di assoluta importanza.
Doveva pur succedere, prima o poi. E successe. Successe quella notte.

Buio. Morbido. Profumo di Calliope. Freddo. Luce. Era mattina.
Aprii appena gli occhi e fui subito inondata dalla luce. Mi coprii il viso con una mano, cercando di svegliarmi. Allungai l'altra mano verso il lato del letto in cui avrebbe dovuto esserci lei. Avrebbe dovuto.
Il letto era vuoto.
Mi alzai, andando in bagno. Lì non c'era. Mi rivestii, pensando che, sicuramente, mi stava preparando la colazione. Ma non era neanche in cucina. Il cellulare non aveva suonato. Il cerca persone non aveva chiamate. Niente di niente, neanche un biglietto. Se n'era semplicemente andata via.
La prima cosa che sentii fu dolore. Tanto. Poi rabbia. Ma alla fine, l'unica cosa che rimase, fu il senso di delusione. Delusione in lei, e ancora di più in me stessa. Ma più di tutto, ero delusa da noi, o almeno, dal noi che credevo ci fosse ma che in realtà non c'era.
Così andai a lavoro e feci il mio lavoro e lo feci dannatamente bene.
Perché lo avevo saputo fin dal primo momento. Fin dal primo momento, avevo saputo che quello era il modo in cui sarebbe andata a finire. Ma saperlo non mi aveva fermato.
La giornata scivolò via come acqua, come se, per quanto ci provassi, non riuscissi a tenerla in pugno.
Il cellulare non aveva squillato. Neanche un messaggio. Niente sul cerca persone.
Mi sedetti nello spogliatoio completamente priva di qualsiasi energia. Le avevo usate tutte per cercare di non cadere a pezzi.
Dopo essermi cambiata rimasi lì seduta. A pensare a che razza di idiota dovevo essere per trovarmi dove ero a quel punto.
La percepii entrare, prima ancora di vederla. Mi irrigidii, ma pensai che avrebbe almeno avuto il buon gusto di ignorarmi. Era stata chiara, in fondo.
Invece lei mi si sedette affianco, passandomi un braccio sulle spalle.
“Ehi, che c'è che non va?” chiese a bassa voce. “Sembri sconvolta.”
“Sto bene” risposi, alzandomi immediatamente e infilandomi la giacca.
Lei corrugò la fronte. “Che ti prende, ce l'hai con me?”
“No. Ce l'ho con me stessa, Calliope. Per essermi aspettata qualcosa di diverso.”
Lei scosse la testa, guardandomi come se fossi del tutto impazzita.
“In che modo ero diversa da una qualsiasi di loro, Calliope? L'hai detto tu stessa. Le saluti, ti fai dire il loro nome, le ascolti parlare di loro e la mattina dopo te ne sei andata. Sono felice di essermi comportata esattamente” gettai la maglietta del camice nell'armadietto con forza “come” seguirono i pantaloni, con altrettanta forza “da” poi il camice bianco “copione” sbattei l'anta dell'armadietto.
Ok, forse la rabbia era ancora lì sotto da qualche parte, dopotutto.
“Ma di che diavolo...”
Mi voltai, guardandola negli occhi.
“Stai scherzando? Sei tu che sei sparita nel nulla. Ti ho avvertito appena messo piede fuori di casa con un messaggio, pensando che lo avresti letto appena sveglia. E ti ho chiamato cinque volte.” “Certo, come no.”
“Avevi il cellulare staccato.”
Sospirai, alzando gli occhi al cielo. Lei si alzò a sua volta, poi prese il proprio telefono, andando alle ultime chiamate effettuate e facendomi vedere le cinque chiamate con la data di quel giorno verso il mio cellulare.
“Felice adesso? Magari la prossima volta ricordati di riaccenderlo” rispose freddamente.
Capii solo in quel momento. Non lo avevo riacceso dalla sera precedente, quando, dopo la chiamata di Teddy, lei mi aveva chiesto di spegnerlo.
Mi passai una mano sul viso. Ero un'idiota. Per la milionesima volta quel giorno lo ripetei a me stessa, ma stavolta per ragioni diverse.
“Mi dispiace.”
Lei guardò in basso.
“Calliope, mi dispiace” ripetei con il massimo dell'onestà. “Mi faccio prendere dal panico, a volte, e non penso. Quando si tratta di cose importanti, vado nel pallone. Non posso vivere nel terrore, però. Non posso aver paura ogni volta che mi sveglio e non ti trovo accanto a me.”
“Ti ho mandato un messaggio e ti ho chiamato cinque volte” ripeté con voce bassa ma tremante, continuando a guardare in basso.
“Lo so. Ma appena sveglia, prima ancora di alzarmi, solo il fatto che non fossi al mio fianco mi ha fatto tremare di paura. Ho paura, Calliope. Tutto il tempo.”
“Stai chiudendo?” chiese, gli occhi umidi.
“No. Il punto è che credo di essere così spaventata perché non voglio rovinare quello che c'è tra noi. Non sto affatto chiudendo.”
Lei annui più volte, mordendosi l'interno di una guancia. I suoi occhi erano pieni di una quantità di lacrime che avrei detto, se me lo avessero chiesto un secondo prima, che nessuno sarebbe stato in grado di averle dentro gli occhi e riuscire comunque a non piangere.
“Allora chiudo io.”
Sentii i muscoli congelarmisi. Non potevo muovermi. L'unica cosa che fui in grado di fare fu mormorare un debole e stentato “Cosa?”
“Cinque mesi, Arizona. Se non ti fidi di me a questo punto, non ti fiderai di me mai. Non ho mai fatto niente per farti avere dei dubbi. Ma tu non ti fidi di me a causa del mio passato. E per il milione di cose di me che posso cambiare, e che cambierei solo per farti felice, il mio passato non è una di quelle. Non posso cambiare il passato. E tu, chiaramente, non puoi accettarlo.”
“Sei incredibile. Non mi stai nemmeno guardando in faccia. E dovrei fidarmi di te? Perché? Se sei in grado di spezzarmi il cuore senza neanche avere il coraggio di guardarmi negli occhi e dirmi...”
Si portò una mano davanti agli occhi. “Perché sto spezzando di più il mio” disse, alzando la voce per farmi smettere di parlare. “Perché se ti guardo negli occhi adesso cambierò idea.” Si asciugò un paio di lacrime che erano riuscite a cadere e poi mi guardò dritta negli occhi, con quella scintilla ferma in posizione. “Perché ti amo.”
Sentii ogni parte del mio corpo prendere improvvisamente fuoco.
“E chiudo io perché, se non ti fidi di me, e chiaramente non ti fidi di me, come potresti mai essere felice? Quindi chiudo io. Perché non funzionerà. E non sarà a causa dei miei problemi di fiducia, ma dei tuoi problemi di fiducia. Ma va bene così. In fondo, che importa se ad avere il cuore a pezzi per una volta sono io?”
Potevo sentire dalla sua voce quanto le mie parole l'avevano ferita.
E capii allora che non ci sarebbe stato niente che avrei potuto dire o fare per farla tornare sui suoi passi.

Entrai nel bagno di Joe e mi sentii morire alla vista davanti ai miei occhi.
“Stai bene?”
Lei inspirò, fingendo di non essersi appena asciugata il viso dalle poche lacrime che aveva lasciato andare, mettendo su quella finta aria da dura che aveva sempre ma che non aveva mai dovuto fingere con me. Si allontanò dal lavandino, voltandosi.
“Sì. Ma certo, sto bene” annuì ripetutamente. “Che altro diavolo dovrei risponderti? Sto meravigliosamente. Perché sono fredda, senza cuore e morta dentro. Era questo che ti volevi sentir dire, no?” rispose con estrema calma.
“Calliope. Volevo solo una risposta sincera.”
“Vuoi una risposta sincera? Va bene, eccoti la risposta sincera” disse piano, avvicinandosi di un passo. “Come diavolo ti permetti di chiedermi se sto bene, Arizona? Quando ho passato tutto questo tempo a cercare di raccogliere i pezzi da terra e rimetterli insieme e tutto quello che ottengo è vederti uscire con mia sorella...di nuovo?” alzò la voce. “Perché pensi che lo stessi facendo, soddisfazione personale? No, il motivo per cui lo stavo facendo - e non posso credere che lo sto davvero dicendo - eri tu. Perché io sono fredda, senza cuore e morta dentro, quindi mi sono illusa che, se fossi riuscita a diventare la persona che volevi che fossi, tu mi avresti ripreso indietro. Ma io sono merce avariata, non vado bene per niente, per nessuno, e, soprattutto, non vado bene per te. Cazzo, sono messa così male che l'amore della mia vita esce con la mia gemella” allargò le braccia, incredula. “Tre mesi. E adesso sei ad un appuntamento con lei. Tre mesi fa ti ho detto che ti amavo. Come ci sei riuscita? Tre, dannatissimi, mesi. Non hai mai provato a chiedere scusa, mai provato a guardarti indietro, mai una sola volta. Ma, di nuovo, sono io quella fredda, senza cuore e morta dentro” terminò ironicamente.
Mi superò, diretta verso la porta. Io mi voltai verso di lei, non sapendo cosa dire per fermarla.
“E non provare a chiedermi mai più come sto” aggiunse. “Perché non starò bene mai più. Vorrei essere in grado di tornare a come era prima e sono grata che tu ci sia riuscita, ma...No, ok, questa è una bugia. Non voglio tornare a come era prima. La verità, è che io rifarei tutto, ogni singola cosa, esattamente come l'ho fatta. Perché non lo capivo, ma adesso lo capisco, tutta la stronzata dell'aver amato e perduto” spiegò. “Sapere che un essere umano è in grado di provare qualcosa di così...” cercò una parola. “Speciale, incondizionato, meravigliosamente unico, che ti sconvolge la vita, che ti cambia così nel profondo da toccarti l'anima” ne trovò molte e si sentì come se ancora non bastassero. “Sapere che io posso provare qualcosa del genere, è commovente. Ma sapere che quello che provo non sarà mai ricambiato, quello mi ha ucciso” spiegò, con semplicità, come se fosse ovvio.
Mi guardò negli occhi, solo un istante di troppo.
“Ecco la tua fottutissima verità.”
Aprì la porta del bagno, una mano sulla maniglia. Mi guardò per l'ultima volta negli occhi.
“E la cosa più triste, è che, dopo tutto quello che è successo” sospirò, come se non riuscisse a crederci neanche lei “io ancora ti amo.”
Richiuse la porta delicatamente alle proprio spalle.

Entrai nello spogliatoio, una settimana più tardi, vedendo Cristina frugare nell'armadietto di Calliope.
“Buongiorno.”
Lei borbottò qualcosa, ma non rispose, non distolse neanche lo sguardo per più del tempo necessario che le servì per incenerirmi.
“Qual'è il tuo problema?” le chiesi, togliendomi il giacchetto.
“Il mio problema? Io non avevo un dannato problema, prima. Tu sei il mio problema.”
“Come ti pare” scossi la testa, sbalordita.
Gettò della roba dell'armadietto dentro uno scatolone. Poi, si voltò verso di me.
“Sai, prima di te Callie era cupa e di pessimo umore, e ubriaca la maggior parte del tempo, e c'era sempre un via vai di puttanelle nel nostro appartamento. E non mi piaceva. Poi sei arrivata tu. E allora è diventata felice e allegra e sobria e non c'erano più ragazze. Io non frequento persone felici e allegre. E non mi piaceva, neanche allora. Poi la nostalgia, la depressione, ecco con quelle potevo averci a che fare, ma adesso...ora è solo vuota. E forse non mi piaceva, ma anche quando non mi piaceva, le volevo bene. È mia amica. E tu hai l'hai rovinato per me. Adesso lei se ne va a Miami ed è per colpa tua, anche se lei si ostina a dire che non lo è. Quindi sì. Sei tu il mio dannato problema.”
Prese in mano lo scatolone e uscì dalla stanza.

“Arizona, apri la porta!”
“Vattene via, Teddy” urlai, impastando. “Per la decima volta, non ti farò entrare. Vattene.”
“Webber ha detto che sei uscita prima da lavoro perché non ti sentivi molto bene. Coincidenza del secolo, il giorno in cui hai scoperto che Callie sta andando a Miami. Apri la dannata porta!”
“No!”
“Arizona, smetti di fare la bambina.”
“Vattene via, Teddy.”
“Ok. Non mi lasci altra scelta. Sto chiamando tua madre.”
Io trasalii. “Non fare cose di cui potresti pentirti.”
“Neanche tu. Fammi entrare.”
Ponderai le opzioni per qualche secondo. Quante erano le chance di un bluff? Volevo davvero correre il rischio?
“C'è una chiave di riserva tra il legno della porta e il muro, in alto.”
Qualche istante dopo, entrò in bagno, dove io ero stesa a terra, girata su un fianco.
“Che è successo?” chiese, la voce più calma, non più arrabbiata. Si inginocchiò.
“Ho cercato di bere l'equivalente del mio peso corporeo in tequila. Ecco cosa” indicai la ceramica a meno di un metro da me. “Non ho la forza di spostarmi. E poi, è comodo qui.”
“Il pavimento è gelato” mi fece notare.
“L'ho persa. Se n'è andata. Teddy, l'ho persa per sempre.”
Lei sospirò, sedendosi con la schiena appoggiata alla vasca da bagno e le gambe distese.
“C'è una possibilità che tu stia parlando di Aria?”
“So che era stupido pensare di poterla cambiare. Ma la verità è che l'avrei presa com'era.”
“Stronzate. Lei è cambiata per te, e tu non ti fidavi di lei, quindi non l'avresti presa com'era. O non saremmo qui ad avere questa conversazione.”
“Io la amo, Teddy. E non gliel'ho mai detto. Io la amo.”
Ricominciai a piangere per la milionesima volta quella sera.
“Mi sento come se stessi cadendo a una velocità allucinante, ma l'impatto non arrivasse mai. L'attesa è devastante, preferirei di gran lunga toccare il terreno e distruggermi nell'impatto. Invece sento solo dolore, tutto il tempo, e so che un giorno il dolore mi ucciderà, ma non so quando. Ti sembra che abbia il minimo senso?”
“Sì.”
“Quindi non sono pazza, almeno?”
“No.”
“Che devo fare adesso?”
“La lasci andare.”
“Perché?” piagnucolai.
“Sei pronta a stare con lei, garantendole tutto di te? Sei pronta a fidarti di lei? Sei pronta ad ammettere che hai sbagliato, per la prima volta in vita tua?”
Non risposi.
“Allora la lasci andare.”
“Non voglio. Non voglio lasciarla andare. Non voglio vivere senza di lei.”
“Allora prova tutto quello che puoi per riprenderla.”
“Hai ragione, però. Non sono pronta. Ma questo non vuol dire che voglio perderla.”
“Allora aspetta di esserlo. E spera che, per allora, lo sia anche lei.”
Ricominciai a bere dalla bottiglia che avevo in mano. Teddy la svuotò nel lavandino subito dopo avermela strappata dalle mani. Rimasi sul pavimento del bagno per ore, a fissare il vuoto. Solo dopo molto, quando i postumi furono passati, iniziai a pensare coerentemente di nuovo.
Rimasi stesa su quel pavimento per tre giorni.
La mia vita, non sembrava più mia.

“Ha vinto” ero incredula.
Continuai a fissare l'articolo appeso alla bacheca dell'ospedale, senza riuscire a capacitarmi di quello che avevo davanti.
“Tra tutti, hanno scelto lei” sorrisi. “Ha vinto” sussurrai a me stessa. Poi mi voltai verso Teddy. “Io l'ho sempre saputo, comunque. Fin da quando è uscito il suo nome tra i candidati. Insomma, ha creato cartilagine dal niente. Chi più di lei si meritava di vincere?”
“Stai sorridendo.”
“Calliope ha vinto l'Harper Avery. È un buon motivo per sorridere.”
Mi voltai di nuovo a leggere l'articolo.
“Miami a quanto pare le ha fornito la pace che le serviva per la sua ricerca e l'ospedale ha offerto i fondi con molto piacere. Hanno creduto in lei. E lei ha vinto un Harper Avery.”
Lei continuò a fissarmi. Impietrita dalla mia reazione.
“Stai...piangendo?”
“Sì. Sì, sto piangendo” confermai, annuendo e continuando a sorridere. “Perché tutto quello che riesco a pensare è quanto sia ingiusto che io non fossi lì a tenerle la mano mentre aspettava di sapere chi avesse vinto. Non ero lì per vederla sorridere, per vederla essere felice. Io non ero lì al suo fianco, dove dovrei essere. Sto lasciando che le vertigini mi impediscano di saltare. Di nuovo. Quindi questo è quanto. Vado a Miami.”

Appena arrivai due dei miei precedenti colleghi mi accolsero subito con calore. Mi raccontarono di come era avere tra di loro la vincitrice del Harper Avery. Mi dissero che quella sera avevano organizzato un incontro in un bar lì vicino, uno a cui andavamo sempre quando ancora lavoravo lì, per festeggiarla. Mi invitarono a partecipare, offrendo di presentarci.
Io accettai. Così, quando entrai nel bar a serata già iniziata, non fu una sorpresa vederla mentre veniva praticamente trascinata sul palco da due dei suoi colleghi.
“Ok, Callie, sappiamo tutti che hai deciso di licenziarti” parlò uno dei due, dentro il microfono. “E noi ancora non sappiamo niente di te. Quindi raccontaci la storia della tua vita. Una cosa che ti dà soddisfazioni, il tuo rimpianto più grande, una cosa che cambieresti se potessi. Cose del genere. Dicci chi sei, visto che ti vedremo andar via comunque. Stasera siamo come sconosciuti disposti ad ascoltare la tua storia. E fai in modo che sia una bella storia.”
Si allontanò, spingendo lei vicino, prima di scendere. Lei rise, nervosa. Parlare in pubblico non era esattamente la sua passione più grande. Aveva un bicchiere nella mano destra, la sinistra nella tasca dei pantaloni. Stava indossando una camicia bianca. Adoravo il bianco, come contrastava con la sua pelle, le avevo sempre detto quanto.
“Non so proprio che dire. Per prima cosa, grazie per la serata. Non c'era bisogno che affittaste il locale, David, davvero” disse, rivolgendosi all'uomo che aveva parlato prima di lei.
Era leggermente alticcia. Potevo sentirlo da come trascinava le parole. Mi sedetti in fondo, per fare in modo che non mi notasse.
“Dunque, vediamo” si schiarì la voce. “Una cosa che mi dà soddisfazione, direi il mio lavoro, per ovvi motivi” tutti risero. “Il mio più grande rimpianto...non aver declinato l'invito per stasera?” di nuovo, tutti risero.
“Sii seria per un momento. Andiamo. Tutti hanno una storia triste. Raccontaci la tua” la incoraggiò l'uomo che, più che probabilmente, era l'organizzatore della serata. David, mi era sembrato di capire.
Lei guardò in basso verso il proprio bicchiere. Sorrise nostalgicamente.
“Il mio più grande rimpianto è aver lasciato andare l'amore della mia vita” confessò, sospirando.
Sentii un tuffo al cuore. Quel titolo, probabilmente, non era più mio.
“Cos'è successo?” chiese David, empaticamente.
“Non è questo il punto. Il punto è che l'ho vista per l'ultima volta il giorno che ho lasciato Seattle. Un anno, due mesi...” fece mentalmente il conto “...undici giorni, credo. E non è passato un giorno in cui non abbia pensato a lei. Il che mi porta al terzo punto, cioè, se potessi cambiare una cosa, cosa cambierei. Beh, se potessi cambiare qualcosa, vorrei vedere il suo viso tutti i giorni. Perché anche solo vederla, anche dopo che ci eravamo lasciate, mi faceva sorridere. Darei qualsiasi cosa per avere indietro quella sensazione.”
La stanza fu avvolta dal silenzio.
“Questo è il posto in cui l'ho vista per la prima volta” ricordò, sorridendo appena. “Proprio qui, dentro questo bar. Strano, eh? Sembra la fine di un viaggio.”
Di nuovo, cadde il silenzio per qualche momento.
Come era possibile che, dopo tutti gli sbagli che avevo fatto, si trattasse ancora di me?
“Prima di lei io...” continuò, persa nel momento. “Ho dormito con delle persone” prese un sorso di coraggio liquido prima di continuare. “Lei non riusciva a vedere oltre il mio passato. E all'inizio lo capivo. Giuro che lo capivo. Ma dopo un po' mi aspettavo che si fidasse di me. Almeno, finché non le avessi dato un motivo per non farlo. Ma sto andando fuori traccia, il punto era che a causa del mio passato lei pensava che fossi una persona distaccata, fredda, a cui non piace essere coinvolta in relazioni stabili. L'ultima volta che l'ho vista, stava uscendo con la mia sorella gemella.”
I chirurghi nella stanza reagirono con delle facce di appoggio allo sconcerto di Calliope.
“Lo so, giusto?” chiese, bevendo un altro sorso e poi appoggiando il bicchiere sopra un ripiano lì nel palco. “Io ho sempre voluto che fosse felice, quindi l'ho lasciata andare. No, fermi, questa è una bugia. Io ho sempre voluto che fosse felice insieme a me. Ho sempre creduto fermamente che io sarei stata la persona a renderla il più felice possibile, se me ne avesse data l'occasione. Ma non credo di averne mai davvero avuta una.”
Sospirò, grattandosi una guancia distrattamente e poi passandosi la mano tra i capelli.
“Quando cresci con una gemella sei abituata a condividere tutto. Andandomene, quel giorno, non ho perso solo l'amore della mia vita, ma ho perso anche mia sorella. Sapevo che con me lì a ricordare costantemente loro del passato, non sarebbero potute essere felici. Così me ne sono andata e non ho più guardato indietro. La chiamo, una volta al mese, quando sono sicura che non è in casa, e le lascio un messaggio dicendo che sono ancora viva. Lei ha provato a chiamare, mandare messaggi, email. Ma io non posso dimenticare. E parlare con Aria riporterebbe alla mente tutti i ricordi che ho di lei. Aria è mia sorella” spiegò, colta da un ripensamento.
“Quindi non parli direttamente con tua sorella gemella da più di un anno?” chiese uno dei chirurghi in prima fila.
“Già. Volevo che fosse felice. Spero che lo sia. Ma io avevo bisogno di una mia vita, una vita che non fosse più così intrecciata alla sua, una vita come persona, per la prima volta ho desiderato una vita che non fosse a metà, divisa con lei. Dovevo fare in modo che non accadesse mai più.”
“Che tua sorella uscisse con una tua ex?”
“Che mia sorella uscisse con l'amore della mia vita.”
“Continui a ripeterlo, ma...non sarebbe dovuta essere qui se fosse stata davvero l'amore della tua vita?”
Lei rise piano. “Sai, lo capisci. So che sembra impossibile, ma lo capisci. Non subito, ma appena ti rendi conto che è finita, allora la verità ti appare cristallina davanti agli occhi. È l'amore della tua vita, perché non hai mai provato niente di simile prima di lei, o dopo di lei, perché non hai termini di paragone, perché niente ci si avvicina neanche. Allora lo sai. Ma è troppo tardi.”
Di nuovo, ci fu qualche attimo di silenzio.
“La cosa buffa è che lei sta insieme a mia sorella e io comunque non sono riuscita mai a superare il modo in cui è finita. Il fatto che avesse così poca fiducia in me, nel fatto che sarei rimasta, nel fatto che non l'avrei tradita. Volevo provare a me stessa che aveva torto. E più che altro, ha rovinato tutto per quanto mi riguarda. Niente sarebbe mai lontanamente comparabile, quindi ho lasciato perdere, mi sono messa l'anima in pace.”
“Celibato?” chiese David, sbalordito.
Lei rise. “Credo che la parola giusta per una donna sia castità. Ma, ehi, promettete di non spargere la voce, o la mia reputazione sarà rovinata per sempre.”
L'avevo rotta. Avevo rotto la mia Calliope. Che avevo fatto?
“La cosa più triste di tutte è che io la amo ancora. Dopo un anno, due mesi e undici giorni, per quello che importa. Potrebbe passare una vita e io la amerei ancora. Ma lei...non ha mai amato me. Non mi ha mai detto niente per illudermi. Era tutto nella mia testa. Questa cosa che avevamo io e lei, era nella mia testa. Me lo sono inventato. Lei ha scelto di essere mia cognata. Quello è il posto che avrà da adesso in poi nella mia vita. Il posto che si è scelta, nella mia vita.”
Si voltò, prendendo il bicchiere che aveva posato prima e svuotandolo in un unico, lungo, sorso.
“Quindi, già. Questa era la mia storia. Non è una bella storia, non è una storia che parla di come una volta vinto un Harper Avery le cose inizino ad andare bene. Ma è una storia come tante. Quindi alzatevi e uscite da questo bar. E forse non riuscirete a rendere le vostre vite migliori, però è poco ma sicuro che se rimanete qui non faranno che peggiorare. Una vita da schifo, una vita nel dubbio di non sapere se la persona che ami si fida, o si fiderà mai, di te, è sempre meglio di...nessuna vita. Che è quello che più o meno ho adesso. Ma, ehi, almeno io ho un Harper Avery, chi di voi perdenti può dire lo stesso?”
Tutti risero ancora una volta, mentre lei scendeva dal palco.
“Vieni. Te la presento” mi disse Lydia, la mia precedente collega.
Si alzò, fallendo nel notare le lacrime che mi avevano riempito gli occhi. Mi fece cenno con la testa di seguirla.
Quando fummo davanti a lei e David, quando mi vide, la sua faccia cadde completamente.
La familiare scintilla era ridotta ad un piccolo luccicare stanco.
“Callie, lei è...”
“Era pur sempre un posto” tagliai corto, finalmente di nuovo davanti a lei. “Essere tua cognata, era pur sempre un posto nella tua vita. O ne ero fuori completamente, o quello era l'unico posto che c'era per me.”
Scosse la testa. Non riusciva a credere che ancora non avessi capito.
“Non lo sapevo. Ma lo so adesso. Adesso so che posso scegliere che posto avere, e se lo avessi saputo prima, non avrei fatto il terribile sbaglio che invece ho fatto. Quello non è il posto della tua vita a cui sono destinata, e, credimi, adesso ho capito. Quando te ne sei andata, mi ci sono voluti tre giorni per rialzarmi dal pavimento del bagno. Calliope, per tutta la mia vita ero persa. Ero immersa nel buio e mi muovevo a tentoni. Poi ho visto i tuoi occhi ed è stato come trovare l'interruttore. Da quel preciso momento ho saputo qual'era il mio posto nel mondo, ed era accanto a te.”
“Non ti fidavi di me.”
“Mi hai lasciato” ritorsi.
“Sei uscita con mia sorella tre mesi dopo.”
“Una sola volta. E tu hai lasciato lo Stato.”
“Volevo che fossi felice.”
“Non lo ero, senza di te.”
Lei sospirò. Scosse la testa. “Non ero pronta a vederti qui. Dovevo vederti tra una settimana, Webber avrebbe dovuto avvertirvi...”
“Webber?”
“Sì. E per allora mi sarei preparata un bel discorso per spiegarti come pensavo che dovessimo fare per evitare di vederci. Avevo anche preparato una parte su come io avrei preso l'ascensore i giorni pari e tu i giorni dispari.”
“Perché io i dispari?”
“Perché in un anno ci sono più giorni del mese dispari, e so che tu odi fare le scale.”
“Calliope...”
La sua espressione si rabbuiò improvvisamente. Era come se avesse realizzato per la prima volta cosa stava accadendo. Qualcosa, nel suo viso, era cambiato.
“Le cose non sono diverse, Arizona. Niente è cambiato.”
Mi superò, avviandosi verso l'uscita senza guardarsi indietro. La seguii, ma, una volta che fu salita su un taxi, fu troppo tardi in ogni caso.
La guardai andar via, incrociando il suo sguardo attraverso il vetro posteriore. Stava scappando da me. Perché aveva paura. Quindi io dovevo avere coraggio per entrambe.

“Quando atterra il suo aereo?”
Mark e Teddy mi guardarono e poi si scambiarono un'occhiata prudente.
“Aaaaahm, non sono sicuro che sia una buona idea...”
“Mark. Quando atterra il suo aereo?” scandii.
“Arizona, magari dovresti...” tentò Teddy.
“Ho aspettato. Ho aspettato e le ho dato spazio e tempo. E lei ha usato lo spazio e il tempo per lasciare la città - no, lasciare lo Stato. Quindi adesso farò a modo mio. Chiederò un'ultima volta prima di salire in macchina e appostarmi all'entrata dell'aeroporto come la più scadente degli stalker e aspettare che esca. E vi giuro che aspetterò, dovesse arrivare dopodomani, io non lascerò la porta a vetri non sorvegliata per più di due secondi, avete capito?” dissi loro con una fermezza che non avevo più nella voce ormai da tempo.
Mark deglutì con forza.
“Stasera. Sei in punto.”
“Vado a prenderla io.”
Nessuno dei due provò neanche a parlare.

Sapevo che c'era una buona probabilità che mi mandasse al diavolo. Ma che altro si supponeva che facessi? Io dovevo essere lì. Dovevo essere lì ad aspettare lei.
Quando mi vide lì in piedi come un'idiota, dire che fu sorpresa sarebbe un eufemismo. Mi venne incontro, confusione dipinta sul suo viso.
“Che ci fai qui?” chiese con un sopracciglio inarcato.
“Sono venuta a prenderti.”
“Ah, no. Grazie lo stesso. Prendo un taxi.”
“Come ti pare. Comportati da ragazzina e spendi venti dollari per un taxi per qualcosa che io mi sto offrendo di fare gratis, ma non correre da me quando i soldi del Harper Avery finiranno e ti troverai all'angolo di una strada a fare l'elemosina.”
“Fidati, non saranno venti dollari a fare la differenza sull'assegno del premio. E faccio pur sempre il chirurgo. Sono piuttosto sicura di guadagnare abbastanza per prendere un taxi che mi porti a casa” si sforzò di non sorridere.
“Vuoi davvero rischiare?” domandai, cercando di mantenere un tono serio.
“Sì, credo che correrò questo rischio.”
Mi superò. Io la raggiunsi in un lampo, afferrando la valigia dalle sue mani e iniziando a camminare in direzione dell'uscita.
“Mi dispiace, adesso sono sorda da un orecchio, quindi non ho sentito quello che hai detto. Ma suppongo che fosse qualcosa sulla linea di 'Grazie, Arizona, sei stata meravigliosa a pensare di venirmi a prendere e sei stata carina a venire fino a Miami per parlarmi, per poi aspettare una settimana che tornassi a Seattle senza cercare di nuovo di annegarti in una botte di bourbon come quando me ne sono andata. Adesso, per evitare di ridurre di nuovo entrambe a due casini ambulanti, invece di scappare come due teenager terrificate se vuoi possiamo provare ad avere una vera conversazione riguardo i nostri sentimenti, il perché abbiamo fatto quello che abbiamo fatto e su dove vogliamo che le cose vadano da qui'.”
Raggiunsi la macchina, mettendo la sua valigia sul sedile posteriore e aprendo per lei la porta dal lato del passeggero, facendole segno con la mano sinistra di accomodarsi.
Lei mi fissò per qualche istante a braccia incrociate.
“Io non avrei mai e poi mai detto una cosa del genere.”
Inarcai un sopracciglio.
“Non avrei detto 'Arizona', avrei detto 'Arizona come la nave da guerra'” concluse con aria seria.
Entrò in macchina, mentre io ridevo, scuotendo la testa. Richiusi la portiera, spostandomi verso il lato del guidatore.
“Allora, dove andiamo?”
“In ospedale. Devo farmi vedere da Webber e parlare con Cristina.”
Il viaggio trascorse con il suo ostinato silenzio e il mio testardo continuare a parlare di niente, veramente niente, come per esempio il tempo di Seattle.
Incontrammo Cristina appena varcata la soglia dell'ospedale, rimasi un paio di metri indietro, cercando di non intromettermi, ma sentii cosa si stavano dicendo in ogni caso.
“Sei tornata” le disse Cristina, che era stata già avvertita con largo anticipo.
“Sì.”
“Finalmente hai capito che Miami fa schifo?”
“Qualcosa del genere. Mi dispiace di essermene andata.”
“Avevi le tue ragioni. Lo capisco. Non deve piacermi, ma lo capisco.”
“Hai trovato un coinquilino?”
“Ho fatto un paio di colloqui. Ma erano tutti troppo...”
“Non me?”
Scrollò le spalle.
“Allora, devo mettermi in lista per un colloquio anche io o...”
“Il tuo mazzo di chiavi è sul mobiletto dell'ingresso. Stasera vengo ad aprirti quando stacco così puoi riportare la tua roba dentro.”
“Cristina, non dare di matto, ok? Sto per abbracciarti.”
Uno sguardo di panico misto a finto disgusto le attraversò il volto. “Ti prego, non farlo.”
“Grazie mille, Cristina” le disse, abbracciandola e ignorando il suo precedente commento.
Dopo diversi secondi, Cristina ricambiò lentamente la stretta, anche se di poco. “Questo non vuol dire che verrò a letto con te, Torres.”
“Ew. Ti ha dato di volta il cervello?” chiese lasciandola andare. “Non andrei mai a parare lì.”
“Bene. Ci vediamo stasera a casa.”
E, con quello, se ne andò. L'accompagnai davanti all'ufficio del capo.
“Sai, non devi seguirmi. Puoi andare adesso. Hai sentito Cristina, vivo di nuovo qui di fronte.”
“Non ho niente di meglio da fare che farti da guardia del corpo. E non penserai sul serio di liberarti di me così facilmente, semplicemente dicendomi di andarmene?”
“Sfortunatamente, suppongo di no” ritorse, bussando alla porta dell'ufficio di Webber e poi entrando senza aspettare una mia risposta.
Quando uscì, mezz'ora dopo, io ero praticamente sdraiata su una delle sedie lì fuori, annoiata a morte. Mi tirai improvvisamente a sedere e quando incrociò il mio sguardo mi alzai in piedi.
“Già fatto?”
Alzò una delle sue sopracciglia perfettamente scolpite.
“Come se non sapessimo entrambe che stavi praticamente morendo di noia, sdraiata su una di quelle cose scomode quanto l'inferno. Sarà stato un anno fa, ma ti conoscevo meglio di quanto abbia mai conosciuto qualcun altro, inclusa me stessa. Quindi non pensare di fregarmi, perché ti conosco ancora esattamente come allora, non ho dimenticato niente, neanche il più piccolo dettaglio. E questo fa di me la persona che ti conosce meglio al mondo, inclusa te stessa.”
“So-tutto-io” risposi con una smorfia.
Lei alzò gli occhi al cielo. “Già, questo non è per niente immaturo.”
L'accompagnai fino alla porta del suo appartamento. Era incredibile come le cose fossero facili, più di quanto avevo previsto nelle mie ipotesi migliori. Potevamo ancora scherzare, e ridere, prenderci in giro. Eravamo sempre noi.
Mi avvicinai a lei con le mani nelle tasche posteriori dei miei jeans.
“Aspetterò. Se mai deciderai di darmi una seconda occasione, aspetterò per tutto il resto della mia vita.”
“E se non te ne dessi mai una?” chiese, scherzando solo a metà. “Sarebbe uno spreco di tempo.”
“Non posso correre il rischio di non essere qui se mai decidessi di farlo, quindi non preoccuparti. Come dimostrato dal colossale fallimento che è stato per me l'ultimo anno, non è che una vita senza di te varrebbe la pena di essere vissuta, in ogni caso.”
La baciai sulla guancia prima che potesse protestare, sentendo per la prima volta in più di un anno le vertigini, le farfalle allo stomaco, la pelle d'oca.
“Buonanotte, Calliope.”

“Callie era da Joe ieri sera.”
“Ok” risposi, non capendo dove Teddy volesse andare a parare e allacciandomi una delle scarpette da tennis che avevo ai piedi.
“È venuta a salutarci dopo che l'avevi accompagnata a casa.”
“Mi fa piacere” ancora non seguivo.
“Ha incontrato una ragazza. Con cui era stata anni fa.”
Sentii il familiare nodo della gelosia attanagliarmi lo stomaco. Iniziai a legarmi l'altra scarpa.
“Ok.”
“Ok?” chiese, sbalordita.
“Sì. Ok. Non ho alcun diritto su di lei, sono stata io l'idiota. E se è stata con un'altra, se questo è quello che credeva fosse giusto in quel momento, allora va bene così. Mi fido di lei, ciecamente e incondizionatamente.”
Alzai lo sguardo verso di Teddy, ma invece mi cadde l'occhio sulla persona alle sue spalle. Ne vidi solo la schiena, visto che stava andando via, ma sono sicura che aveva sentito quello che avevo detto. La domanda era una soltanto ed una molto semplice: era Calliope o Aria?
Fui consumata dal dubbio fino all'ora di pranzo, quando entrai nello spogliatoio per prendere una cartella che avevo lasciato lì quella mattina e vidi Calliope che si toglieva il giacchetto.
“Stai iniziando il turno adesso?” chiesi cercando di suonare casuale.
“Sì. Perché?”
Mi strinsi nelle spalle. “Ero solo curiosa.” Una parte di me fu sollevata. L'altra parte delusa. Chissà, forse se avesse sentito le mie parole, forse avrebbe potuto cambiare idea.
“Beh...abbi una meravigliosa giornata.”
“Anche tu, Arizona come la nave da guerra.”

“Ehi. Stacchi anche tu?” chiesi, entrando di nuovo in quella stanza diverse ore dopo.
“Già.”
“Posso accompagnarti a casa?” chiesi. “Mi cambio in fretta. Due minuti, al massimo.”
“Fai con calma, non mi dispiace aspettarti” mi sorrise, uscendo dalla stanza.
L'accompagnai fino alla porta del suo appartamento. E alla fine di quei due minuti - scarsi - di strada, eravamo piegate letteralmente in due dalle risate.
“Non l'ha detto davvero.”
“Giuro di sì” insistette ridendo. Aprì la porta, esitando. “Vuoi entrare? Posso preparare qualcosa da mangiare. Sono sicura che non tocchi cibo da stamani.”
Io annuii, con un mezzo sorriso riconoscente.
La guardai cucinare per due minuti. Alla fine, il bisogno di sapere mi aveva sopraffatto del tutto.
“Teddy ha detto che eri con una ragazza da Joe, ieri sera.”
Lei si voltò lentamente verso di me.
Mi detti una manata sulla fronte. Non doveva davvero uscirmi a voce alta.
“Ti prego, fingi che non abbia parlato. Che stai cucinando?”
Lei si voltò di nuovo verso i fornelli. “Salmone.”
Rimasi in silenzio per qualche istante. “Ma se, per ipotesi, avessi parlato?” chiesi con un po' di esitazione. “No, è stupido. Io sono stupida. Non rispondere. Vuoi che faccia qualcosa?”
“Potresti apparecchiare la tavola?”
Io mi alzai, facendo quello che mi aveva chiesto.
“Quindi...Hai cambiato idea di già?”
Lei rise. “Come avrei potuto non cambiare idea? Voglio dire, tutto il pedinamento in aeroporto, vederti gelosa quando ancora neanche stiamo insieme, come potrei resistere al tuo charme?”
“Non ti piaccio per il mio charme, ti piaccio perché sono completamente matta. E infantile. E per le scarpe con le rotelle, anche se non lo ammetteresti mai” le rivolsi il mio miglior sorriso, completo di fossette.
“E io ti piacevo per la mia aria misteriosa e impenetrabile, no? Ma credo che quello se ne sia andato quando sei passata oltre le mie difese” spense il fornello, mettendo il pesce in due piatti.
“Tu non mi piacevi” risposi, con fermezza, come se anche solo l'idea risultasse completamente assurda. Era ora di mettere le carte in tavola. “Io ti amavo. E ti amo ancora. Hai ragione, come sempre, Calliope, hai ragione. Niente è cambiato. Non una singola cosa. E questa particolare cosa non cambierà mai” ci tenni a farle sapere.
Sospirò. “Ok, Arizona. Abbiamo provato a modo tuo, abbiamo provato a fare le cose con calma e come si deve, e non è andata bene” aprì il frigo, mettendo lì i due piatti invece che sul tavolo. Poi mi si avvicinò, guardandomi negli occhi. Quella familiare scintilla bastò per farmi martellare il cuore nel petto. “Adesso proviamo a modo mio” sussurrò con quella voce bassa di cui mi ero innamorata.
Subito dopo, le sue mani erano sui miei fianchi e la sua bocca era contro la mia.
Ricambiai il bacio senza pensare, immergendo le mani nei suoi capelli.
“Calliope, aspetta...”
“Arizona, eppure hai sentito il discorso, no? È passato quasi un anno e mezzo. A meno che tu non creda davvero che ieri sera mi sia portata a casa una ragazzina dopo aver aspettato per tutto questo tempo di poterti tenere di nuovo tra le mie braccia” sussurrò tra un bacio e l'altro.
“No. Se mi dici che non l'hai fatto, ti credo. Mi fido di te.”
“Lo so. Ti ho sentito per sbaglio parlare con Teddy.”
Corrugai la fronte. “Credevo fossi entrata all'ora di pranzo.”
“Infatti. Sono uscita per un paio d'ore, dovevo sistemare alcune cose in comune, per la residenza e il resto” disse, mentre continuava a baciarmi.
“Per questo non ti sei arrabbiata, quando ho chiesto?”
“Chi dice che non mi sono arrabbiata?”
“Non sembri...arrabbiata” sentii le sue mani sulla pelle dei miei fianchi, sotto la maglietta.
“Arizona. Hai dieci secondi per dire qualsiasi cosa tu voglia dire. Quindi fai in fretta, perché dopo non voglio più sentire parole per il resto della notte. Uno.”
“Ok, vediamo...”
“Due.”
“Ti amo, non voglio una relazione a caso, non mi importa se sto per rovinare l'unica occasione che ho per stare di nuovo con te, ma vorrei davvero che non ci ripensassi, anche se dobbiamo parlare di quello che è successo, perché credo davvero che ci sia un futuro per noi.”
“Ok, ok, riprendi fiato” rise. “Parleremo...domani.”
Non trovai alcun motivo per cui avrei dovuto replicare.

Entrai nel suo ufficio con due caffè in mano.
“Ehi” la salutai con voce morbida.
Lei alzò lo sguardo, sembrando un cerbiatto catturato nella luce di due fari abbaglianti.
“Ehi” rispose, esitante.
Mi avvicinai alla scrivania, porgendole uno dei caffè. Lei lo prese con un piccolo sorriso.
“Eri...” guardai in basso. “Eri già andata via, stamattina.”
“Arizona, mi dispiace, è solo che...” scosse la testa, sospirando, guardando in basso, coprendosi gli occhi con una mano. Tutti gesti che lasciavano intuire il suo nervosismo. “Non potevo rimanere. Non potevo. L'ultima volta che ero disposta a farlo, tu hai cambiato idea su di me. Non potevo. Mi dispiace.”
“No. Lo capisco. Sono io che ho rovinato le cose, mandato all'aria la nostra occasione. Quindi adesso devo prendere quello che posso. Allora...qual'è la tua posizione riguardo gli appuntamenti?”
“Arizona.”
“D'accordo. Niente appuntamenti. Posso venire a casa tua stasera?”
“Arizona.”
“No, Calliope, ti prego. Solo...ti prego. Qualsiasi posto andrà bene, a questo punto. Tranne che nessun posto. Perché quando si tratta di chiunque altro, vale la regola del 'lontano dagli occhi, lontano dal cuore'. Ma non quando si tratta dell'amore della tua vita. In quel caso, un posto, davvero qualsiasi posto, nella sua vita, è meglio di...nessun posto.”
Mi guardò negli occhi senza dire niente.
La persona fragile, insicura, che ero, che ero diventata dopo lei, che lei era diventata dopo me - non rispecchiava nessuna di noi due.
“Ok. C'è ancora il salmone di ieri sera in frigo.”
Annuii, sorseggiando il mio caffè mentre lei si rigirava tra le mani il suo.
“D'accordo.”

Mi stirai, alzandomi lentamente. Mi vestii e poi andai in soggiorno.
“Ehi, Pattini a Rotelle, ho fatto il caffè.”
“Grazie, Cristina.”
Lei annuì, sparendo subito dopo in camera sua.
Eravamo venute a patti con la situazione strana in cui ci trovavamo. Ero abituata a svegliarmi da sola in camera di Calliope, e lei era abituata a trovarmi lì, di mattina. Così avevamo imparato ad andare d'accordo.
Cioè, ovviamente lei pensava che fosse strano. Così come Teddy, Addison, Mark, Aria e chiunque altro lo avesse scoperto per sbaglio. Noi non avevamo intenzione di spiegargli cosa stesse succedendo, e loro non potevano capire. Quindi si limitavano a pensare che fossimo impazzite, da qualche parte, lungo la strada.
E chi poteva dar loro torto? Di giorno ero la sua migliore amica. Pranzavamo insieme, ridevamo tutto il tempo, sembrava che tutto fosse tornato come prima. Perfino Calliope e Aria erano di nuovo in ottimi rapporti. Eppure quasi ogni mattina mi svegliavo da sola dentro il suo letto.
Era praticamente un disastro che aspettava di accadere.

Bussai alla porta, aspettando che aprisse. Invece la sentii urlare di entrare, visto che era già aperto.
Entrai, richiudendo la porta a chiave. Lasciava aperto per me, quando stava cucinando. In modo da non bruciare niente come era successo le ultime tre volte che mi aveva aperto la porta.
Spense tutto proprio mentre stavo entrando, venendomi incontro e provando a baciarmi. Voltai la testa di lato, lo sguardo fermamente piantato a terra.
“Ho bisogno della mia migliore amica per due minuti, ok?”
“Che è successo?” chiese, iniziando a preoccuparsi. Alzai la testa. Trasalì leggermente vedendo i miei occhi rossi. “Hai pianto?”
“Ho perso un paziente” tirai su col naso. “Uno di quelli che non avrei dovuto perdere, uno di quelli che avrebbero dovuto salvarsi e tornare a casa con i loro genitori, dalle loro famiglie. E invece qualcosa è andato storto e non è stato in grado di lottare. Il suo cuore ha ceduto a metà dell'operazione.”
Lei mi abbracciò, accarezzandomi i capelli e baciandomi una tempia ripetutamente. Mi aggrappai a lei cercando disperatamente di rimanere a galla.
“Ce...Ce la stava facendo” iniziai a piangere di nuovo. “E, un attimo dopo, non ce la stava facendo più. Così. Senza una ragione.”
“Arizona, tesoro, non è colpa tua.”
“Lo so, è solo che...è così ingiusto.”
Rilasciò un respiro tremolante, poi, senza allentare la presa su di me, mi fece sedere sul divano lì ad un passo, continuando ad abbracciarmi.
“Solo...Ti prego, non lasciarmi andare” balbettai, incapace di smettere di piangere.
“Non lo farò. Non ti lascio andare” sussurrò, rafforzando la presa.
Ma non mantenne la sua promessa.
La mattina dopo mi svegliai su quel divano, completamente vestita, ma, per l'ennesima volta, sola.

Mi sedetti in caffetteria. Stavo a malapena tenendo insieme i pezzi, quel giorno. Avevo la mente annebbiata, le mani mi tremavano appena. Non stavo bene.
“Ehi, come stai?” chiese, sedendosi al mio fianco e scrutandomi attentamente.
“Bene” risposi, senza guardarla. Aprii la bottiglietta d'acqua che avevo comprato, prendendone un sorso.
“Davvero? Non mi sembra.”
“Ho detto che sto bene, Calliope” risposi freddamente.
“Ti tremano le mani. Quanti caffè hai bevuto?” io non le risposi. “Hai operazioni oggi pomeriggio?”
Sapevo dove stava andando a parare. Allungai la mano per prendere un tovagliolo, ma il fatto che stava tremando mi fece rovesciare la bottiglietta, il cui contenuto finì per lo più sui miei pantaloni.
“Dannazione” mi alzai di scatto. Afferrai la bottiglietta, ormai quasi vuota, e il vassoio, gettando via il mio pranzo quasi intatto.
“Arizona” mi seguì, provando a fermarmi, afferrandomi un braccio delicatamente.
Io tirai via con forza, uscendo in fretta e lasciandola senza sapere esattamente come avrebbe dovuto reagire. Mi seguì, mancando l'ascensore su cui ero per un soffio.
Sfortunatamente per me, era la persona che mi conosceva meglio al mondo, quindi, un paio di minuti dopo, mi aveva raggiunto sul tetto dell'ospedale.
“Si può sapere che ti prende?”
“Senti, ho bisogno di tempo per pensare. Tempo da sola” risposi, senza voltarmi.
“Che significa tempo per pensare? A cosa devi pensare che non puoi discutere con me?”
“Calliope.”
“No, sul serio. Cos'è?” rimase a diversi metri da me.
“Noi. Devo pensare a noi.”
“A noi? Cosa su di noi?”
Continuai a guardare verso una delle strade più trafficate di Seattle, i suoi rumori che facevano da sottofondo.
“A come tirarmi indietro senza rovinare la nostra amicizia.”
“Vuoi tirarti indietro?” adesso stava passando da confusa ad arrabbiata.
“Sì.”
“Perché?”
“Credo sia arrivato il momento.”
Arrivato il momento? Quindi lo avevi messo in conto fin dall'inizio?”
“Sapevo che era una possibilità, sì.”
“Oh, davvero? Beh, grazie per avermi avvertito.”
“Come ti aspettavi che sarebbe andata a finire? Che saremmo andate avanti così per il resto delle nostre vite?” le dissi freddamente.
Non rispose.
“Non è questo che voglio. Io voglio un impegno, voglio una famiglia, voglio una casa.”
“Quindi, questo è quanto? Tanti saluti e grazie per i ricordi?”
“Lasciami riformulare. Voglio che tu prenda un impegno nei miei confronti, voglio costruire una famiglia insieme a te, voglio comprare una casa che sia nostra, mia e tua. Non è quello che vuoi tu, e lo capisco. Non ti forzerò a fare niente che non vuoi.”
“Io...Non ho idea da dove tutto questo stia saltando fuori. Pensavo che le cose andassero bene.”
“Era così.”
“Era così?” rispose, alzando la voce. “Quindi, cosa? Ti sei annoiata?”
“Francamente? Sì.”
“Sì?” praticamente urlò.
“Sì. Mi sono...annoiata, di svegliarmi da sola ogni mattina. Mi sono annoiata di sognare la vita che vorrei e ripetere a me stessa che un giorno la otterrò quando so che non è vero. Mi sono annoiata di amare qualcuno che non vuole essere amato. Non da me, in ogni caso.”
“Oh, adesso siamo tornati a me che ti tradisco?”
“No, non intendevo questo. Tu non vuoi me. Non vuoi me, perché io sono proprio qui e se avessi voluto me, avresti avuto me, molto tempo fa.”
“Arizona.”
“Va bene così. Ho aspettato, e aspettato e continuato ad aspettare, pensando che un giorno avresti cambiato idea. Ma non cambierai mai idea. Il punto è che fino a ieri sera, non avevo mai pensato che avrei potuto dubitare di qualcosa che dicevi, non di nuovo. Ma le abitudini sono dure a morire, giusto?”
“Bene, quindi adesso abbiamo di nuovo problemi di fiducia senza alcun motivo?”
Mi voltai di scatto. “Senza alcun motivo?” chiesi alzando la voce a mia volta.
Fu presa in contropiede dalle lacrime che rigavano il mio viso.
“Senza motivo? Mi hai promesso, promesso, che non mi avresti lasciato andare. Come mia migliore amica, mi hai promesso di non lasciarmi andare. Ma stamani non c'eri. Come ogni altra mattina, anche stavolta, ma stavolta come mia migliore amica, te ne sei andata. Quindi visto che parli tanto dei miei problemi di fiducia, dimmi solo una cosa. Perché dovrei fidarmi di te? Ti ho ferito e mi dispiace e ti ho chiesto scusa un milione di volte per quello, ma ho pagato il mio prezzo. Ho pagato il mio prezzo, però tu continui a punirmi, Calliope. Non puoi essere la mia fidanzata, e io l'ho accettato. Non puoi essere la persona con cui esco e ho accettato anche quello. Ma adesso non puoi più essere neanche la mia migliore amica, quindi quale diavolo è il posto che vuoi nella mia vita? Perché, onestamente, non ci sto più capendo un accidente. Ho passato gli ultimi sei mesi a cercare di capire e sto iniziando a pensare che non ci sia niente da capire, che quello che abbiamo non andrà da nessuna parte, che questo per te è stato solo...cosa, esattamente?”
Non rispose.
“Io ho reso piuttosto chiaro quale è il posto che voglio nella tua, quindi non c'è rimasto granché da aggiungere.”
Mi voltai di nuovo verso il parapetto. Rimase in silenzio a lungo.
“Ti ho ferita.”
Stavolta fui io a non rispondere. Fece dei passi verso di me. La sua voce era più vicina.
“Non voglio vederti soffrire, mai. E ho promesso a me stessa che avrei fatto qualsiasi cosa in mio potere perché niente riuscisse mai a ferirti. Ma in qualche modo, da qualche parte lungo il cammino, io sono diventata ciò che ti feriva. Non me ne ero resa conto fino a questo momento. Quindi sono io a doverti chiedere scusa.”
Mi sfiorai il viso con una mano, strappando via una lacrima.
“Sei perdonata. Qualsiasi sia la cosa per cui stai chiedendo perdono.”
“E perché?” chiese, avvicinandosi ancora.
“Perché cosa?”
“Perché sono perdonata, se non sai neanche il motivo per cui chiedo scusa?”
Scossi la testa, ridendo di me stessa, di quanto disperatamente fossi innamorata di lei.
“Perché, Calliope, io ti perdonerei se decidessi adesso di strapparmi il cuore dal petto e gettarlo in mezzo all'autostrada qui di sotto.”
Sentii le sue mani appoggiarsi delicatamente sui miei fianchi.
“Vieni. Andiamo a casa.”
Scossi la testa. Le si avvicinò ancora di più, finché i nostri corpi furono premuti insieme.
“Andiamo a casa, Arizona” sussurrò, vicino al mio orecchio.
Come poteva riuscirci? Come poteva convincermi ogni volta così facilmente? Ma, di nuovo, come potevo non farmi convincere da lei?
Inspirai, rilasciando poi un respiro tremolante.
“D'accordo.”
“Sì?”
“Sì. Mi fido di te. Che è assurdo, perché non mi fidavo quando avevo un buon motivo per farlo, e adesso che ho un motivo per non farlo, non posso non fidarmi di te.”
“Ti darò un buon motivo, allora. Andiamo. Parlerò io con Webber. Gli dirò che hai l'influenza, o qualcosa del genere, e che io mi prendo mezza giornata di ferie. E se non vuole darmela gli dirò che sono la cavolo di vincitrice del Harper Avery e che mi licenzio.”
Risi, contro la mia volontà. E lasciai che mi portasse verso casa.

Era perfetta. È una cosa banale da dire, e non sembra mai del tutto vera, perché, come può qualcuno essere perfetto? Ma lei lo era.
Sfiorai delicatamente il suo viso, tracciando i suoi lineamenti senza svegliarla. Ero sdraiata su un fianco. Lei aveva il viso per metà affondato nel cuscino, sdraiata sulla pancia, con un braccio che circondava la mia vita. Dopo qualche momento, i suoi occhi si aprirono lentamente.
“Non riesci a dormire?” chiese in un sussurro.
“No” confessai, senza aggiungere altro.
Lei si avvicinò, avvolgendomi tra le sue braccia, appoggiando le labbra contro la mia fronte.
“You've been on my mind, I grow fonder every day. Lose myself in time, just thinking of your face. God only knows, why it's taken me so long, to let my doubts go. You're the only one that I want” iniziò a cantare sottovoce. “I don't know why I'm scared, I've been here before. Every feeling, every word, I've imagined it all. You'll never know if you never try, to forgive your past and simply be mine” continuò, accarezzandomi la schiena. Iniziai a sentire gli occhi chiudersi di loro spontanea volontà. “I dare you to let me be your, your one and only. I promise I'm worth it, to hold in your arms. So come on and give me a chance, to prove that I'm the one who can walk that mile. Until the end starts...” smise di cantare, baciandomi sulla fronte. “Buonanotte” sussurrò. Quando non risposi, aggiunse, con una voce quasi impercettibile, “Ti amo.”

Era strano. Era come se il suo profumo fosse lì più del solito. Ed ero al caldo. Ero a mio agio. Così tanto che avrei anche potuto non muovermi di un millimetro per il resto della mia vita ed essere felice. Beh, sarebbe stata una vita breve, senza cibo né acqua, ma una vita davvero felice.
Poi sentii qualcosa di morbido accarezzarmi la schiena.
Aprii gli occhi, cercando di abituarmi alla luce del mattino che mi aveva colto alla sprovvista.
Avevo ancora le sue braccia attorno a me, il mio viso nascosto contro il suo collo. Tirai indietro la testa per guardarla negli occhi. Fui incontrata dalla familiare scintilla che vi vedevo ogni volta.
“Buongiorno, Arizona come la nave da guerra” mi rivolse quel suo mezzo sorriso. Poi mi strinse di più, baciandomi il collo, nascondendo il viso contro la mia spalla. “Come stai oggi?”
Io le strinsi le braccia attorno al collo e mi avvicinai finché fu fisicamente impossibile avvicinarmi di più.
“Sto bene” risposi in un sussurro. “Sto bene.”




*Le canzoni sono rispettivamente "Rumor Has It" di Adele, "Hey Mama" di Mat Kearney e "One and Only" di Adele.

La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte...Buona Epifania a tutti voi! :D

Se ne avete voglia, lasciate una recensione sapendo che se decidete di farlo mi renderete felice! =)

Alla prossima!


Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** I nostri primi tre desideri ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete fantastici <3

Il banner è il più bello mai visto! Un grazie a Trixie, che è stata magnifica, come sempre, solo stavolta ancora di più, nell'assecondare le mie folli richieste. =)

Avvertimenti: AU.


Buona lettura!

Image and video hosting by TinyPic



I nostri primi tre desideri


~ E cos'è una favola, senza un drago da uccidere? ~

Sospirai, appoggiando il gomito del braccio sinistro sul ripiano che avevo davanti, e poi sistemando il mento sul palmo aperto della mia mano.
Così era questo l'amore?
E se...E se avessi trovato il coraggio di parlarle? E se lei avesse ricambiato i miei sentimenti? E se avessi potuto avere il lieto fine che non mi ero mai azzardata a sognare?
“Callie.”
Tornai bruscamente alla realtà che mi circondava dal mondo della fantasia in cui mi ero immersa.
“Sì?”
“La Principessa ha chiesto di vederti.”
Annuii, alzandomi in piedi ed uscendo dalla stanza, diretta al piano superiore.
Non potevo evitarlo, anche se sapevo che gli unici motivi per cui la Principessa chiedeva di me erano legati al mio lavoro, ogni volta che mi faceva chiamare il cuore iniziava a martellarmi nel petto.
Entrai nella sala principale del castello, facendomi strada tra i servitori silenziosamente in attesa ad entrambi i lati dell'ampio ingresso. Aveva solo tre anni più di me, ma sembrava molto più matura della sua età. Quando arrivai ai gradini di marmo bianco, mi inchinai.
Quello era il mio posto. Sei gradini troppo in basso.
“Callie, finalmente. Ho bisogno che facciate una cosa per me.”
“Tutto ciò di cui avete bisogno, Principessa” risposi, tenendo lo sguardo fisso a terra.
Conoscevo il mio posto. Non mi piaceva, ma quello era il modo in cui stavano le cose, e lo rispettavo.
“Avrete saputo che un mese fa ho mandato anche l'ultimo dei guerrieri rimasti a corte a combattere contro il drago che sta portando distruzione nel nostro Regno. Sir O'Malley. Non mi stupisce che non abbia fatto ritorno dalla tana del mostro” sospirò tristemente. “Ma è stato un mio errore. Era fin troppo debole, per combattere contro quella creatura.”
Il mio cuore protestò quando sminuì George. Era stato un fedele amico. Per diciotto anni, dal giorno in cui ero nata, lo avevo conosciuto e rispettato. Ma pochi, oltre me, avevano visto il coraggioso uomo nascosto dietro il ragazzo.
“George era un eroe. È morto da eroe, ed è così che lo ricorderemo.”
“Giusto” rispose distrattamente. “Questo mi riporta al motivo principale per cui vi ho fatto chiamare. Serve qualcun altro che vada a combattere. I migliori guerrieri, addestrati da mio padre, perfino, sono andati e mai tornati indietro. Sir Sloan, Karev, perfino Sheperd e Hunt, per l'amor del cielo. Voglio che facciate un bando. Chiunque dei nostri cittadini voglia provare, sarà munito di un armatura e di una spada. E, se qualcuno fa ritorno con la testa del drago tra le mani, allora gli verrà concessa la mano della Principessa futura erede al trono, in matrimonio.”
Il mio cuore si riempì di inaspettato dolore. Alzai la testa di scatto. Lei era l'erede al trono.
“Ma, Principessa, credete davvero che sia saggio...”
“Cerco solo di fare ciò che è meglio per il mio popolo, Callie.”
“E chiedere a cittadini non addestrati di combattere contro un drago è il bene del vostro popolo?”
“State forse insinuando che la mia decisione è sbagliata?”
Esitai solo per un momento.
“No, Principessa” abbassai di nuovo lo sguardo verso il pavimento.
“Bene. Andate, adesso. E non dimenticate di avvertire mio padre, dopo che avrete fatto ciò che ho chiesto.

Trovai il re nelle sue stanze, che scriveva una lettera. Non era insolito che lo trovassi a fare qualcosa del genere.
La sua saggezza era infinita, e senza dubbio in lui c'era qualcosa di magico. Sapeva sempre cosa stava per accadere.
“Maestà, scusate se interrompo i vostri pensieri. Vostra figlia mi ha mandato ad avvertirvi di certi provvedimenti che ha preso per il Reame.”
“Vieni avanti, giovane Torres. Ti stavo aspettando a dire la verità. Quale delle mie figlie ti manda?”
“La Principessa” risposi. Sapeva che mi riferivo a lei che un giorno avrebbe preso il suo posto nel governare il Regno e che si stava già occupando di molti degli affari reali.
“Ah, la storia del drago, quindi” annuì, alzandosi e facendo qualche passo verso di me. Unì le mani dietro la schiena, guardandomi dall'alto.
Richard era stato il migliore Re che il Regno avesse avuto in molti secoli. Ma non era più lo stesso, ormai, da quando la sua quarta ed ultima moglie era passata a miglior vita. Ellis Grey, una delle donne più fredde che avessi mai avuto il dispiacere di conoscere. La sua unica figlia biologica, Meredith, era la più piccola delle figlie di Re Richard.
La sua terza moglie, la mia preferita, aveva dato alla luce Miranda. Era una donna troppo buona per governare ed era morta fin troppo giovane. Miranda aveva sempre una buona parola per me, così come Meredith, in qualsiasi circostanza le incontrassi. La seconda moglie, per anni era stata il tormento della Corte. Avevo sentito dire a molti che c'era qualcosa di malvagio, in lei, ma non mi ero mai fidata delle voci. Lei era la madre dell'attuale Principessa. Aveva sposato il Re quattordici anni dopo la morte della prima moglie, dandogli una figlia l'anno successivo.
Prima, molto prima, c'era stata un'altra donna. Ne sentivo sempre parlare da tutti come Regina. Era, in fondo, l'unica degna di tale nome, o almeno questo era quello che tutti dicevano. Alla prematura età di venti anni era morta dando alla luce la primogenita del Re, destinata, un giorno, a governare il Regno. Nessuno pronunciava mai il suo nome, come per la madre, perché i ricordi riguardanti lei erano pieni di dolore e rimorsi di ciò che il Regno aveva perso insieme a lei. Il giorno del suo diciottesimo compleanno era sparita. E il Re non aveva affrontato molto bene la perdita, da ciò che avevo sentito.
“La Principessa mi ha fatto mettere un bando. Chiunque dei cittadini potrà provare ad uccidere il drago e sarà munito di ciò che necessita dalla Corte. Se qualcuno riesce a portare la testa del drago a vostra figlia, lei lo sposerà.”
“Interessante” sussurrò a se stesso, voltandosi ed avvicinandosi alla finestra. “Sapete, giovane Torres, a volte mia figlia è distratta nel tentare di vedere lontano, e non si accorge di ciò che ha proprio a portata di mano. Io, tuttavia, vedo come la guardate. Siete qui per dirmi che vi offrite di partire?”
Richard mi chiamava 'giovane Torres' perché mi aveva sempre detto che gli ricordavo terribilmente mio padre nell'atteggiamento. Carlos era uno spadaccino molto abile, ed era stato lui ad insegnarmi tutto quello che sapevo su come usare una spada. E non ne sapevo poco, anzi, più di una volta mi era stato detto che ero brava. Richard sosteneva che mio padre mi aveva trasmesso del talento naturale. Erano stati molto amici quando lui era in vita e, quando quattro anni prima mio padre era morto, il Re mi aveva offerto un lavoro lì a Corte per permettermi di mantenere mia madre a la mia sorella più piccola, Aria.
“Mi dispiace, signore” mi scusai, sapendo che non era appropriato. Una semplice serva come me, non avrebbe mai potuto aspirare alla mano della Principessa. “Però è vero che sto contemplando di andare per prima a cercare di uccidere il drago. Se riuscissi nell'impresa, salverei molte vite innocenti, e, se fallissi, non perderei poi molto in ogni caso. Mia sorella ormai ha sedici anni, sta per sposarsi e presto potrà provvedere a mia madre. Voglio rendermi utile, e non c'è bisogno di me, qui dove sono adesso.”
“Non dispiacerti. Piuttosto, questa sembra l'occasione perfetta. Quando non sarai più a portata di mano, il vizio di mia figlia di guardare lontano potrebbe portare i suoi occhi a posarsi finalmente su di te. Proverei a dissuaderti, ovviamente, ma so che non sarebbe di utilità alcuna” disse, voltandosi verso di me. “Ma, ricorda, giovane Torres, tra un mese esatto da domani mi risposerò con la Contessa Adele. Voglio vedervi alle mie nozze, con o senza quella testa di drago tra le mani, purché siate viva.”
Un piccolo sorriso si formò sulle mie labbra. Webber mi aveva sempre trattato come se anche io fossi una delle sue figlie. Si era offerto di mantenere mia madre e noi, ma io gli avevo chiesto di darmi un lavoro in modo che potessi mantenere la mia famiglia con le mie forze.
“Fin dal giorno in cui sei nata, ho sempre saputo che avresti sposato la mia figlia destinata al trono e regnato insieme a lei su questo Regno. Spero solo che il mio sogno non venga ridotto e nient'altro che questo: un bel sogno. E devo avvertirti, giovane Torres, che nessuno riesce mai davvero ad arrivare fino al drago. Capirai cosa intendo, presumo, lungo il cammino.”
Io corrugai la fronte, ma decisi di non soffermarmi troppo a pensare alle sue parole. A volte, quell'uomo, era incomprensibile.
“Lo terrò a mente, signore” annuii, congedandomi dalle sue stanze.
Adesso dovevo solo prepararmi a partire.

“Questa è un'idea stupida, Callie.”
“Aria, se riuscissi a uccidere il drago, risparmierei la vita a molti uomini.”
“Non sconfiggerai mai il drago” mi ricordò, esasperata. “Devo ricordarti di Sloan? E Derek? Owen, il più impavido guerriero di Re Richard? E tutti sono morti tentando.”
“Lo so, lo so. Ma io devo tentare.”
Sospirò, esasperata.
“Questo è solo un piano contorto per conquistare la Principessa, non è vero?”
Scossi la testa.
“Stai per sposarti. Tu e Gavin potete prendervi cura di mamma, se non faccio ritorno. Ho diciotto anni, Aria. Devo fare qualcosa con la mia vita, prima che sia troppo tardi. Non credo di tornare vincitrice, non mi illudo. So a cosa vado incontro, ma so anche che non c'è niente per me qui, non c'è amore che sia ricambiato, né possibilità di essere felice. Andrò e voglio vedere il drago coi miei occhi, sai come sono fatta. Probabilmente tornerò indietro ancora prima di arrivare alla montagna. Ma devo almeno vedere dove il mio coraggio riuscirà a portarmi.”
“C'è un margine confuso tra la fine del coraggio e l'inizio della stupidità.”
Mi voltai per guardarla in volto, smettendo si preparare la mia sacca solo per un minuto.
Sembrava già grande, con le mani sui fianchi e l'aria tutta preoccupata. Ma era ancora solo una bambina, per me. Sarebbe stata sempre la mia sorellina.
Le sorrisi, avvicinandomi e arruffandole i capelli con una mano.
“Non preoccuparti, Aria. Ho promesso al Re che entro un mese sarò di ritorno. E sai che io mantengo sempre le mie promesse.”

“Callie” una voce preoccupata mi fece fermare mentre percorrevo il corridoio diretta alle scuderie.
Io mi voltai, inchinandomi quando vidi chi aveva chiamato il mio nome.
“Miranda, Meredith, che posso fare per voi?” chiesi alle ragazze di sedici e quattordici anni. “Dacci un taglio e tirati su” disse la sorella maggiore con tono deciso.
Io feci come richiesto. Meredith prese allora le mie mani tra le sue.
“Non andare. Ti farai ammazzare, Callie, solo per provare qualcosa a nostra sorella.”
“Ha ragione, Torres. Non ne vale la pena, dammi retta. Puoi trovare di meglio di nostra sorella, sempre annoiata, sempre a pensare a se stessa. Un giovane pieno di speranze, o una bella ragazza, qualsiasi cosa tu scelga di cercare questo mese” mi prese in giro.
Io le sorrisi.
“Voi non riuscite a vederla come io la vedo. E vi ho detto mille volte, Miranda, che George era solo un amico.”
“Ah-ah. E per Sloan valeva la stessa cosa?”
Il mio sorriso si allargò.
“Assolutamente sì. Amicizia e del tipo completamente platonico perfino.”
“Non sorridere, Callie, è una cosa seria” disse Meredith, stringendo di più le mie mani. “Perderti sarebbe un duro colpo per nostro padre e per noi.”
“Ho già parlato con vostro padre.”
“Allora deve essere impazzito, se non ha tentato di fermarti.”
Io risi, mio malgrado. “Non abbiate paura. Prometto che tornerò tutta intera da questo viaggio. È probabile che non affronti mai nemmeno il drago, ma un viaggio mi farà bene.”
Miranda sospirò.
“E va bene. Ma, ti prego, non fare niente di stupido.”
Annuii.
Si guardò attorno.
“E prendi questi. Potrebbero farti comodo” mi offrì un piccolo sacchetto che ero sicura contenesse monete d'oro.
Scossi la testa, ma lei mi afferrò una mano, gettandocelo sopra.
“Non farmi arrabbiare, Torres. Pensa solo a salvarti la pelle.”
“E stai attenta” aggiunse Meredith, stringendo le mie mani un'ultima volta prima di lasciarle andare del tutto.

In due ore di cammino, ero già da molto fuori dalle mura della città.
“Stupido scudiero. Poteva almeno darmi un cavallo, anche uno di quelli storpi” mormorai tra me e me. “Li abbatteranno in ogni caso, no? No, certo che no, devo andare fino alla stupida grotta dello stupido drago a piedi. Non posso credere che abbia riso quando gli ho chiesto una delle armature che la Principessa ha offerto ai cittadini volontari per combattere il drago” calciai qualche sasso che mi stava tra i piedi. “E mi ha dato la roba più scadente che aveva, come se non dovessi nemmeno arrivarci alla caverna. Ridicolo. Solo perché sono una donna.”
Calciai un altro sasso, con un po' più di forza. Fu allora che mi sembrò di sentire un rumore strano, come se qualcuno avesse appena detto 'Ouch'.
Mi guardai attorno, ma non c'era nessuno nelle mie vicinanze.
“Fantastico. Adesso non solo parlo da sola, ma sento anche delle voci.”
Feci un paio di passi in avanti, ma mi bloccai di nuovo.
“Non senti delle voci. E non avrai intenzione di lasciarmi in queste condizioni, vero?”
Mi bloccai, guardandomi di nuovo attorno, stavolta con più attenzione.
“Sono quaggiù” la piccola voce veniva da dietro una roccia.
Era la direzione in cui avevo calciato l'ultimo sasso. Seguii il rumore attutito di qualcuno che sembrava agitarsi. Dietro una grande roccia, vidi un piccolo oggetto dorato, che giaceva caduto su uno dei suoi lati.
“Non parlo di solito, se non faccia a faccia, ma qualsiasi cosa tu mi abbia tirato, ha ribaltato l'intero posto. Sarebbe carino se potessi almeno raddrizzarmi.”
La voce veniva da dentro l'oggetto.
Ed era strana. Come se a parlare fosse stato un moscerino o qualcosa di altrettanto piccolo. Era acuta e riecheggiava a causa della rotondità dell'oggetto.
Lo sollevai, l'espressione confusa, scuotendolo appena.
“Ehi, vacci piano. C'è qualcuno qui dentro.”
Era una lampada ad olio. Corrugai la fronte. Come poteva, qualcuno, essere così piccolo da entrare lì dentro?
Tentai di leggere l'incisione su un lato, ma era sporca di terra a causa del fatto che l'avevo fatta cadere. Strofinai delicatamente, cercando di ripulirla. Al contrario, una nube di fumo si sollevò da essa. Davanti ai miei occhi, apparve una donna.
Era bellissima, i capelli biondi e gli occhi azzurri. Il suo sorriso innocente mi incantò, aveva delle fossette che le davano un aspetto molto dolce.
“Chi sei?” domandai.
Lei allargò le braccia, rivolgendomi un sorriso.
“Io sono il Genio della Lampada. Puoi esprimere tre desideri. Niente di più, niente di meno. Non puoi desiderare altri desideri e non puoi in alcun modo aggirare questa regola, usando connettivi o desiderando a tua volta poteri magici come i miei. I desideri non possono riguardare la vita e/o la morte e/o l'amore, inoltre, non puoi usare un desiderio per annullarne uno precedente, non importa quali siano state le conseguenze.”
Io osservai l'oggetto tra le mie mani per diversi momenti.
“Ehm, no. Grazie lo stesso” le porsi la lampada.
Lei guardò in basso, verso l'oggetto tra di noi, e poi di nuovo nei miei occhi.
“Non è così che funziona. Come ho detto, tre desideri. Niente di più, niente di meno.”
“Non voglio tre desideri” risposi, appoggiando la lampada a terra. “Comunque è stato un piacere incontrarti, Genio delle Fossette” mormorai ricominciando a camminare, la sacca con l'armatura sulle spalle.
“Ah, questa è carina” raccolse la lampada da terra, correndomi dietro e raggiungendomi, iniziando poi a camminarmi affianco. “Andiamo, non rendere questa cosa complicata per entrambe. Esprimi tre desideri e poi tu vai per la tua strada ed io per la mia.”
“Non ho desideri da esprimere.”
Quello la colse di sorpresa. Si fermò. Poi si riprese dallo stupore, affiancandomisi di nuovo.
“Davvero? Perché sembra che potrebbero tornartene utili un paio. Per esempio, potresti desiderare un mezzo di trasporto.”
Sospirai. “Senti, sto andando ad uccidere un drago, ma tu non puoi aiutarmi con la morte, e lo sto facendo per conquistare il cuore di una donna, ma tu non puoi aiutarmi con l'amore. Quindi, no, non ho desideri da esprimere. E poi, ho sentito parlare di voi Geni. Nessuno dei desideri che realizzate finisce mai bene per chi lo esprime.”
“Sei una donna saggia” osservò. “D'accordo, perché non inizi dicendomi il tuo nome?”
Lanciai un'occhiata nella sua direzione. Non avrebbe mollato. Quindi decisi di accontentarla.
“Callie Torres.”
Calliope Torres? Che coincidenza, oserei dire, bizzarra. Veniamo dalla stessa città. Sai, io ero presente, il giorno in cui sei nata.”
Corrugai la fronte, senza fermarmi. “Davvero?”
“Già. Ero lì con mio padre. Diciotto anni fa, giusto? Mia sorella aveva appena tre anni, e io ne stavo per compiere diciotto.”
“Quindi tu avresti trentasei anni?”
“Oh, no. Sono un Genio, te l'ho detto, quindi ormai ho smesso di invecchiare.”
“Tuo padre conosceva i miei genitori?”
“Già. È ancora vivo, ho sentito. Da qualche parte in città. La baracca che ha per casa sta ancora in piedi a quanto sembra.”
“Baracca? Un uomo del popolo, uh?”
“Già. Ma non dovremmo parlare di me, Calliope. Hai tre desideri” mi porse la lampada. “Hai strofinato la lampada. Adesso devi esprimerli.”
Io presi la lampada e la gettai dentro la sacca che avevo sulla schiena.
“Se vuoi puoi tornare lì dentro, ma quando inizierò a scalare potrei sballottarti un po'. Altrimenti, puoi seguirmi coi tuoi poteri magici, Genio delle Fossette.”
Ripresi a camminare. Lei aprì la bocca per protestare, ma ben presto rinunciò, seguendomi.
“A proposito, non so ancora il tuo nome.”
Lei esitò solo per un istante. Forse perché, di solito, le persone non chiedevano niente riguardo lei, mentre era tutto ciò che io stavo facendo.
“Mi chiamo Arizona.”

Mi fermai per la notte in un villaggio a circa un settimo della strada verso la montagna in cui il drago che dovevo affrontare aveva messo su casa. Feci rientrare Arizona nella lampada e poi affittai una stanza nell'unica locanda che trovai.
“Ecco qua” la locandiera aprì la porta per me. “Volete che vi svegli domattina?”
“Non sarà necessario.”
“E per la colazione?”
“Qualsiasi cosa avete andrà più che bene.”
“Non la penserete così, se troverete in cucina Cristina, la ragazza che era prima giù all'entrata.”
Le sorrisi.
“Allora qualsiasi cosa cuciniate voi.”
Ricambiò il sorriso.
“Chiedete alla cameriera di portarvi qualcosa preparato da Teddy, domani mattina, e vedrò che posso fare.”
La ringraziai, osservandola ritirarsi nelle sue stanze.
“Allora, Calliope, pensato a un desiderio?” di nuovo quella voce piccola e innaturalmente acuta.
“Fai silenzio, voglio andarmene a dormire.”
“Si sta scomodi qui dentro, posso almeno uscire fuori?”
“Perché me lo domandi?”
“Sei la mia padrona” rispose, uscendo fuori dalla lampada.
Risi.
“Io non sono la padrona di nessuno” risposi piano, stendendomi sul letto. “Dormono i Geni delle Lampade?” chiesi all'improvviso.
“Certo, altrimenti come passerei tutto quel tempo che ho lì dentro?”
“Allora mettiti comoda. Sarà una lunga giornata, quella di domani. Se hai intenzione di seguirmi a piedi, avrai bisogno di riposo.”
Dopo qualche attimo in cui ponderò la situazione, sentii il letto accanto a me sprofondare verso il basso, chiaro segno che qualcuno vi si era steso sopra.
“Fa freddo, qui fuori. Dentro la mia lampada è più caldo.”
Mi voltai verso di lei, e l'espressione da bambina che aveva in quel momento mi strinse il cuore in una morsa.
“Ti prendo una coperta” sussurrai, alzandomi e andando verso l'armadio per fare ciò che avevo detto.
“Allora, vuoi raccontarmi che ti ha spinto ad offrirti di andare ad ammazzare un drago? E prima che tu chieda, sì, so del bando. Sono un Genio, ma vivo pur sempre nel Reame.”
“Ma è stato proclamato solo un giorno fa.”
“Eppure già lo sanno tutti, anche agli angoli del Regno.”
Stesi la coperta su di lei, poi vi entrai sotto al suo fianco.
“Come ho detto, lo faccio per amore. Spero che la principessa mantenga la sua promessa e mi conceda la sua mano, se uccido il drago.”
Si voltò verso di me.
“E così, ne sei innamorata?”
“Lo sono” confermai.
“Qual'è il suo nome?”
“Credevo che vivessi pur sempre nel Reame” le sorrisi. “E non sai il nome della Principessa?” la presi in giro.
“Ah, ma ce ne sono tre” mi fece notare, ricambiando il mio sorriso e avvicinandosi ancora un po' verso di me.
“Si chiama Sadie.”
Annuì, capendo. “La maggiore. Vuoi governare il Regno? Che ti spinge a volerti assumere una responsabilità così grande?”
“Hai ragione, è una grande responsabilità, ma tutto ha un prezzo. E questo è un prezzo che pagherei volentieri, per amore.”
“Non è forse l'unica cosa, l'amore, per cui non esiste prezzo troppo alto?” domandò.
Sorrisi, richiudendo gli occhi.
“Buonanotte, Calliope.”
“Buonanotte, Genio delle Fossette.”

La mattina dopo riprendemmo il viaggio subito dopo colazione. Quando la cameriera - Cristina, penso fosse il nome - venne a portarmi da mangiare, mi sembrò di vederla parlare con un uomo dai capelli rossi che mi ricordò Sir Hunt. Ma non poteva essere, il cavaliere più addestrato di Re Richard era partito per sconfiggere il drago, e non era mai tornato. Il sonno, mi giocava brutti scherzi. Ed ero solo un giorno lontano da casa.
La sacca che avevo sulle spalle era pesante, quindi ci muovevamo lentamente. In più, non ero esattamente abituata a grandi sforzi fisici, il mio lavoro a Corte era più che altro burocratico.
“Sicura di non volere un cavallo? Tutto ciò che devi fare, è chiedere usando le parole giuste.”
“Quali parole?”
“Io desidero.”
Risi, continuando a camminare.
“Te l'ho già detto, ogni desiderio finisce col ritorcersi contro a chi lo ha espresso. Questo è il motivo per cui io non ne farò.”
“Ma devi farne almeno tre. O io dovrò rimanere al tuo fianco finché non morirai.”
“Non sarà molto tempo. Altri cinque giorni di cammino ci porteranno alla montagna, una settimana per scalarla e poi ti libererai di me.”
“Calliope, io l'ho visto quel drago. E fidati di me quando ti dico che potresti sconfiggerlo ad occhi chiusi.”
“Ne dubito fortemente. Ha ucciso tutti i migliori guerrieri del Re, e continua a fare strage di raccolti nelle valli e di persone nei villaggi.”
Sospirò, scuotendo la testa come se non la stessi ascoltando di proposito. Ero testarda, lei lo sapeva, io lo sapevo, non c'era scopo nel negarlo.
“Il viaggio verso un mostro mette sempre in discussione una persona su se stessa. Nessuno dei guerrieri è mai arrivato neanche vicino alla montagna. Guarda” puntò in avanti. “Vedi quel villaggio? Due di loro sono lì, e un altro era nella città che stamattina abbiamo lasciato.”
Non le detti ascolto. Di nuovo.
“Solo storie” mormorai. Eppure, l'uomo dai capelli rossi...
Era il tramonto. Quello era il posto in cui ci saremmo sistemate per la notte.
Entrai in una locanda, chiedendo alla donna dai capelli rossi all'ingresso una stanza per la notte.
“Va bene al primo piano?”
“Certo.”
“Vi faccio accompagnare. Chiamo mio marito per portarvi la sacca su di sopra e una cameriera per mostrarvi la stanza.”
Le sorrisi ed aspettai.
Quando vidi chi fosse suo marito, ricordai le parole di Arizona chiaramente. Che stesse dicendo la verità? Che nessuno di loro fosse mai davvero arrivato alla montagna?
“Derek.”
Insieme a lui c'era una ragazza molto giovane, detti per scontato fosse la cameriera che avrebbe dovuto mostrarmi la mia stanza.
“Callie! Cosa ci fai da queste parti? È un piacere rivederti” mi abbracciò, il sorriso sulle labbra. Non ricordavo di averlo mai visto tanto felice quanto in quel momento. “Vieni. Voglio presentarti mia moglie, Addison.”
“Sei sposato? Tu? Non credo alle mie orecchie” gli sorrisi.
Strinsi la mano alla padrona della locanda che mi aveva accolto.
“E Mark sarà così felice di vederti, gli manchi così tanto che a volte rimpiange di non poter tornare indietro.”
“Mark è qui?” chiesi con sorpresa. “Credevo foste morti. Tutti quanti. Tu, lui, Alex, Owen, George. Sono stati anni difficili questi ultimi, vedere ognuno di voi partire e non tornare, mi ha spezzato il cuore.”
“Nessuno è mai riuscito ad arrivare alla montagna. Tutti partono e durante il viaggio trovano, per la prima volta in vita loro, qualcosa per cui vale la pena vivere. Qualcosa per cui vale la pena essere codardi. Mi sono innamorato” sorrise ad Addison. “Così ho deciso di nascondermi, per non dover servire il Re e morire nel suo nome, o peggio, quello di sua figlia” il suo sorriso vacillò. “La Principessa Sadie è fuori controllo, ho letto il bando.”
“Callie!” mi trovai avvolta tra le sue forti braccia e sollevata da terra.
“Mark, sia ringraziato il cielo, sei ancora vivo” ricambiai l'abbraccio.
“Callie, ti presento Lexie. Avevi ragione dal principio, ho smesso di fare l'idiota, mi sono sistemato e l'ho sposata. Adesso sono felice, per la prima volta in vita mia.”
Guardai la ragazzina che avrebbe dovuto mostrarmi la mia stanza.
“È un piacere fare la vostra conoscenza” le sorrisi.
“Che ci fai da queste parti, piuttosto?” chiese Mark.
“Sono in viaggio. Avete sentito del bando, no? Beh, voglio provare a sconfiggere quel drago.”
Calò il silenzio.
“Devi essere impazzita” disse Mark.
“Inutile tentare, non arriverai mai alla montagna. Chiunque tenti, si innamora prima di arrivare a metà strada.”
“Non conterà per me, quindi. Io sto facendo tutto questo per amore, l'ho già trovato senza dover neanche fare un passo fuori dal castello. Ma l'unica speranza perché mi noti è uccidere quel drago, ed è quello che devo fare. Scusatemi, ho bisogno di riposo. È stata una giornata lunga, e domani dovrò alzarmi presto.”
Pagai in anticipo il conto della locanda e mi feci scortare fino alla mia stanza.
“Qualsiasi cosa tu faccia, Callie, ti prego, stai attenta” fu l'ultima cosa che mi disse Mark.
Aprii la sacca e tirai fuori la lampada, permettendo ad Arizona di uscire. Mi sedetti sul letto, togliendomi le pesanti scarpe che indossavo.
“Ti riferivi a questo, non è vero? Dicendo che nessuno arriva alla montagna. Nessuno arriva mai oltre metà strada. Ma perché?” le domandai, sdraiandomi.
“È uno degli incantesimi che proteggono il drago. Chiunque tenti di raggiungerlo, lungo il cammino incontrerà la sua anima gemella, un motivo per vivere una vita che fino a quel momento gli era sembrata inutile.”
“Non sarà un problema per me, in ogni caso. La donna che amo è nel luogo che ho lasciato, di certo non la incontrerò lungo questo viaggio. Ma tu come fai a sapere tutto questo?”
“Perché la donna che ha portato il drago anni fa nel nostro Regno, è la stessa che diciotto anni fa ha imprigionato me perché l'avevo scoperta. E mi ha condannato a questo destino” mi mostrò i polsi, stretti in spessi bracciali d'oro, simbolo della sua prigionia. “Era una strega parecchio potente. Poi si è indebolita sempre di più, consumando la sua forza con tre grandi incantesimi. Il primo, quello per non far trovare la caverna a chiunque la cerchi, facendo trovare loro il vero amore lungo la strada. Il secondo, quello che ha fatto a me. Allora si è accorta di quanto fosse diventata debole e, dopo aver finto la sua morte, ne ha fatto un terzo, fondendo se stessa con il drago in modo da poter vivere per sempre. O almeno, finché qualcuno non ponga fine alla sua vita. Ma, come ho detto, è ormai vecchia e debole. Chiunque riuscisse ad arrivare alla sua caverna, potrebbe ucciderla molto facilmente.”
“E pensi che sarò io, visto che hai detto che potrei sconfiggerlo ad occhi chiusi” osservai. “Perché?”
“Come tu stessa hai detto, l'amore non ti fermerà lungo il viaggio, perché l'amore ti attende a casa. Ce la farai, Calliope. Devi solo credere in te stessa.”
Mi stesi, chiudendo gli occhi con le sue parole che mi risuonavano nella testa e lei stesa al mio fianco.
Sarei davvero arrivata alla caverna? Il mio vero amore mi aspettava a casa, giusto?
Voltai la testa, guardandola dormire.
Che mi stava succedendo? Due giorni lontano da lei e già dubitavo del mio cuore? Ma non era la prima volta che eravamo separate, lei viaggiava spesso e viaggiavo anche io parecchio, per conto della Corte.
Allora cosa c'era di diverso nella donna stesa affianco a me? Avevo forse la tendenza a innamorarmi di persone che non potevo avere? Ma no, non poteva essere. Io amavo Sadie.
Mi addormentai, guardando dormire la donna più bella che avessi mai visto.

“Tutto ciò che devi fare, è esprimere un desiderio.”
Era andata avanti in quel modo fin da quando avevamo lasciato la locanda, prima dell'alba. Non volevo correre il rischio che Derek e Mark mi convincessero a desistere.
Dopo sei ore di marcia e niente cibo nello stomaco, non ne potevo più della sua voce.
“Beh, in realtà tre. Ma cominciamo dal primo, d'accordo? Avanti, desidera pure” mi incoraggiò.
“Ok, va bene. Sta zitta.”
“Non funziona così. Devi dire 'Io desidero' oppure 'Il mio primo desiderio è' altrimenti non funziona.”
Io desidero” iniziai con voce decisa “non avere desideri” sbottai.
“Calliope, non puoi in alcun modo aggirare la regola numero uno. I desideri sono tre e tre rimarranno.”
“Sto per arrabbiarmi. Sì, sto proprio per arrabbiarmi come si deve. E sai perché? La tua voce mi fa arrabbiare, anzi no, la tua presenza soltanto, mi fa arrabbiare.”
“Allora esprimi i desideri, così non dovrai più sopportarmi.”
“Per rischiare di morire in modo improbabile nelle prossime quattro ore? No grazie” borbottai, continuando a camminare.
“Sii ragionevole” iniziò, ma non la lasciai continuare.
“No, tu sii ragionevole. Sei una persona intelligente. Che vuoi da qualcuno come me? Io non ho il tuo cervello, Arizona. Non ho il tuo coraggio, non ho i tuoi poteri, non ho la tua bellezza. Tutto quello che ho sono solo...io. Ed è deprimente, sì, per una vasta serie di ragioni. E adesso sono qui, nel bel mezzo del maledetto nulla a cercare un modo per dimostrare a una donna che non crede in me, che mi ritiene poco più che una semplice serva, che valgo qualcosa. Qualsiasi cosa. Non è facile essere te, e lo capisco, davvero. Ma non è facile neanche essere me, visto che io sono una nullità.”
“Tu non sei una nullità, Calliope. Dovresti vedere le cose attraverso i miei occhi per poter capire, suppongo.”
“E questo che dovrebbe significare?”
“Sono in cammino con te da tre giorni, ormai. Hai un sacchetto con dei soldi, ma non li usi per mangiare, preferisci raccogliere della frutta o tiri fuori da quella tua sacca del formaggio e del pane, perché quei soldi probabilmente sono di qualcuno a cui tieni e conti di poterglieli ridare quasi intoccati, per ora, li hai usati solo per pagare i posti in cui abbiamo dormito. E ho visto l'armatura che è lì dentro. Poco più che un pezzo di latta arrugginita. Ma non ti ho sentito lamentartene. Beh, ok, questo non è vero. È così che hai incontrato me, ma non hai cercato di rubarne una migliore o di comprarla, né l'hai chiesta come desiderio. Dici di non avere coraggio, ma io ti vedo dimostrarne in ogni gesto che fai. Come hai detto tu stessa, stai cercando di salvare delle persone innocenti, uccidendo quel drago. E lo stai facendo per la migliore causa a cui potrei pensare, dico sul serio. Non per fama, denaro o nobiltà, ma per amore. Il tuo cuore è puro, Calliope, e per questo conosce la ragione.”
La guardai negli occhi a lungo.
“Ed è vero, sei impulsiva. Ma il tuo unico difetto, è che faresti qualsiasi cosa per le persone che ami. E ami persone che non si meriterebbero l'amore di qualcuno tanto speciale quanto te. Meriti qualcuno che sia sempre comprensivo, che ti tratti con rispetto, che abbia fiducia in te e ancora di più in quello che fai. E in tutta onestà, non capisco cosa ci vedi in questa Principessa Sadie. Da quel che ho capito, non è neanche molto gentile, con te.”
Sospirai, ricominciando a camminare.
“Non lo è. Ma se la vedessi, capiresti. E capiresti perché non sono alla sua altezza.”
“Potrebbe essere la persona più bella del mondo” mormorò a se stessa “e ancora non riterrei lei essere alla tua.”
“Fermiamoci qui per il pranzo” proposi, mettendomi seduta all'ombra di un albero di mele, raccogliendone da terra un paio buone ed offrendone una a lei.
“E questa è un'altra cosa che mi affascina. Come pensi sempre anche a me, nonostante continui a ripetere che sono un peso morto. Sei una persona gentile. È raro trovarne una di questi tempi.”
“Beh, tu sei un peso morto” chiarii, dando un morso alla mia mela. “Ma è anche vero” aggiunsi, guardandola di sottecchi “che io sono gentile.”
Mi sorrise, addentando il frutto che le avevo offerto.
“Non ero mai stata così tanto tempo all'aria aperta, da quando sono stata intrappolata nella lampada” confessò dopo qualche momento. “E non ho mai raccontato a qualcuno così tanto di me. Di solito la gente mi trova, esprime tre desideri, e poi mi lascia all'angolo di una via. O dietro una roccia, come hai potuto constatare.”
Le sorrisi.
“Ti piace fuori? Il cielo, il sole, l'erba” chiarii. “Ti piace qui?”
Lei guardò in alto, godendosi la luce e il caldo della tiepida giornata primaverile, poi inspirò, annusando l'odore dell'erba, mentre il sole continuava a scaldarle la pelle. Ma, alla fine, il suo sguardo torno su di me, dove si soffermò a lungo.
“Mi piace qui” rispose sommessamente.
Tornò a guardare in avanti. Poi, dopo qualche momento, appoggiò la tempia sulla mia spalla destra, le nostre schiene ancora appoggiate al grande albero. Io sorrisi, posando la guancia sulla sua testa, inspirando quel suo profumo che aveva qualcosa di indubbiamente magico.
Rimanemmo in quel modo a lungo, perdendo la cognizione del tempo, parlando del più e del meno, le raccontai di ciò che avevo lasciato indietro, mentre lei mi raccontò come erano stati i suoi diciotto anni di prigionia.
Quando arrivò la sera, avevamo percorso meno strada degli altri giorni, ma ci trovammo comunque ad un villaggio abbastanza conosciuto, dove sapeva per certo esserci una locanda. Mi ci condusse, aspettando poi che tirassi fuori la lampada per farcela rientrare. Io esitai.
“Se vuoi puoi rimanere fuori. Non farà molta differenza in ogni caso, nessuno mi conosce, nessuno capirà chi sei.”
“Meglio non rischiare.”
“Ne sei sicura?”
Mi sorrise. Un attimo dopo, vidi fumo attorno alla sua figura. E poi rimase il fumo, ma lei non c'era più.

Gli altri giorni di cammino passarono come i precedenti, tranne il fatto che, pian piano, aveva smesso di chiedermi di esprimere desideri. Ed io avevo smesso di pregarla di andarsene via. La sua presenza mi rallegrava. Non sarei arrivata fino a quel punto, senza di lei. Dopo una settimana di viaggio dalla Corte, arrivai finalmente alle pendici della montagna.
“Più in là di quanto chiunque prima di me sia mai arrivato” osservai. “Già qualcosa. Vieni, c'è una piccola caverna. Dovremo passare la notte lì, non ci sono villaggi da queste parti.”
Potevo vedere che aveva freddo. Ne avevo anche io, ma lei era abituata al caldo della sua lampada, non a stare fuori con la pioggia e il vento a pochi metri da noi.
“Puoi tornare dentro” le proposi. “Farà più caldo. Starai meglio.”
“E tu?” mi chiese, le ginocchia al petto nel tentativo di tenersi al caldo. “Se senti freddo, chi si prenderà cura di te?”
Non risposi. Invece, presi una coperta, avvolgendomela attorno alle spalle.
“Vieni qui” ordinai, aprendo le gambe perché vi si sedesse in mezzo.
Strinsi le braccia attorno alla sua esile figura, avvolgendola insieme a me in quella coperta che non avrebbe tenuto tanto caldo, se non fosse stato che il mio corpo, così vicino al suo, sembrava avere all'improvviso sentito il bisogno di prendere fuoco.
Appoggiai la guancia alla sua.
“Meglio?”
“Molto meglio, ti ringrazio.”
La tenni stretta a me, finché fui svegliata dal sole che sorgeva.

Scalare la montagna non fu facile. Ci vollero sei giorni e cinque notti per arrivare quasi alla cima, ed ogni notte lei si rifiutava di andare nella lampada e lasciarmi sola. Così la tenevo stretta, cercando di scaldare il suo corpo almeno la metà di quanto solo vederla mi scaldava il cuore.
Era la sesta notte che passavamo in una grotta, ed ogni notte era più freddo a causa dell'altezza che aumentava.
Avrei potuto esprimere il desiderio che stesse al caldo, ma ero terrorizzata che potesse succederle qualcosa, che prendesse a fuoco proprio davanti ai miei occhi, forse. Quasi tutti i desideri avevano un prezzo, e non potevo permettere che fosse lei a pagare. Solo pochi desideri non avevano terribili ripercussioni, ma mi fu difficile riuscire a pensare anche solo a uno.
Così la tenni tra le braccia, ma continuò a tremare.
“Dovresti entrare nella lampada.”
“Non tremo per il freddo. Non soltanto, almeno. Non stasera.”
“E allora perché?”
“Perché ho paura. Che possa succederti qualcosa.”
“Arizona, perché non hai tentato di fermarmi? Voglio dire, sei l'unica persona che non ha almeno provato” le feci notare.
Avevo paura che il motivo fosse che non teneva a me abbastanza perché le importasse della mia vita o della mia morte.
“Perché io credo in te” rispose con tranquillità. “So che puoi sconfiggere quella creatura, e non ho dubbi che ci riuscirai domani stesso. Ma ho paura. Perché il solo pensiero che ti possa succedere qualcosa quassù, lontano dalle persone che ami e che ti amano, mi rattrista.”
“Andrà tutto bene” sussurrai, stringendola più forte. “E, almeno, una delle persone a cui tengo di più al mondo sarà al mio fianco, domani.”
Voltò la testa e mi guardò negli occhi a lungo.
“E se dovesse succederti qualcosa” mi fece sapere “almeno una delle persone che ti amano sarà lì con te.”

La mattina successiva mi svegliai, preparando l'armatura vecchia e malconcia che mi aveva dato lo scudiero. Tutto ciò che c'era era una spada, uno scudo, una protezione per il busto e degli stivali di ferro arrugginito, che il solo indossare mi avrebbe fatto venire il tetano.
Non provai nemmeno ad indossare il busto, chiaramente fatto per un uomo e che non poteva contenere le mie forme femminili. Così presi lo scudo e la spada, lasciando lì il resto.
Arizona mi stava osservando ormai da qualche minuto, quando decisi di essere pronta per incamminarmi verso la cima.
“Ti spiace portare questa sacca?” le chiesi. “Adesso è vuota, ma voglio metterci dentro la testa del drago.”
Scalammo l'ultimo pezzo di montagna, fino ad arrivare alla cima. Era primavera, eppure a quell'altezza le rocce erano impolverate di neve.
C'era un'enorme caverna. Senza dubbio era la dimora del drago.
“Per prima cosa, devo farlo uscire da lì dentro” osservai.
Iniziavo ad essere nervosa. Non era tutti i giorni che mi trovavo davanti una creatura maestosa di almeno dieci metri di altezza. Impugnai con forza lo scudo nella mano sinistra e la spada nella destra, sbattendola contro una delle rocce per attirare l'attenzione del drago.
Per tre volte, un rumore forte riecheggiò nella cima della montagna su cui eravamo quando la lama della mia spada incontrò la dura roccia.
Poi, niente. Solo silenzio.
“Beh? Niente drago?” chiesi, voltandomi verso Arizona. “Quindi, cosa? Era solo uno scherzo? Una specie di metafora su come il difficile sia il viaggio e non la meta?”
Poi lo sentii. Era come se qualcosa si fosse mosso appena sotto i miei piedi. Si ripeté più volte, finché le scosse diventarono molto più avvertibili. Il terreno stava tremando. Mi voltai di nuovo verso l'entrata della caverna.
I dieci metri d'altezza erano la cosa meno spaventosa. La sua figura imponente avvolta dalla penombra mi aveva messo i brividi. Riuscivo a vedere solo i contorni della sua forma immersa nell'ombra a causa del muro di roccia che formava la caverna da cui era appena uscito. Dischiuse le ali, ingiusto vantaggio che aveva nei miei confronti, e soffiò una piccola vampata di fuoco nel cielo sopra le nostre teste.
“No. Niente scherzo” osservò Arizona.
“Non sei d'aiuto” le feci sapere, cercando di nascondere il puro panico che mi aveva travolto.
Io dovevo uccidere quella creatura, perché io mi ero offerta di farlo.
Chiaramente, avevo dei seri problemi di sanità mentale.
Poi, venne avanti, entrando nella luce.
E allora aggrottai la fronte, inclinando la testa di lato.
“È...” cercai la parola giusta.
Le squame della sua pelle erano meno lucide di quanto pensavo sarebbero state, la faccia del mostro era segnata da profonde rughe e i tratti erano stanchi e segnati dal tempo. I movimenti erano limitati dalla fatica degli anni.
“Vecchio” conclusi.
Fu allora che i suoi occhi ci scrutarono per la prima volta. Non ho idea di come notai una cosa del genere, ma qualcosa nella sua espressione cambiò.
“Arizona?” la voce della creatura era tetra e stanca.
“Giusto. Lì dentro c'è la strega cattiva, ergo il drago parla” ricordai a me stessa in un sussurro.
“Elizabeth” venne la fredda replica da dietro di me.
“È passato molto tempo.”
“Già. L'ultima volta, mi avete imprigionato dentro una lampada.”
“Che ci fai qui?”
“Vi sono stata condotta. Come sapete bene, non ho più libertà. Ho seguito la mia padrona.”
Il suo sguardo si spostò verso di me.
“Qual'è il tuo nome?”
Io deglutii.
“Callie Torres.”
“Come hai fatto ad arrivare fin qui? Avresti dovuto incontrare il tuo vero amore. Nessuno può arrivare fino a me. La maledizione è infallibile.”
“Ha lasciato il suo amore nella città da cui è partita. Suppongo che il tuo piano non avesse previsto questo.”
“Sciocchezze. Nessuno lascia la città in cui si trova il suo vero amore.”
“Tristemente, invece, le persone lo fanno tutto il tempo” rispose Arizona con qualcosa di strano nella voce.
“Vi ho detto il mio nome. Adesso ditemi il vostro” chiesi ad alta voce.
“Non rispondete” la pregò Arizona. “Non ditele chi siete.”
Lei abbassò la testa, appoggiandosi anche sulle zampe anteriori, finché i suoi occhi furono più o meno all'altezza della mia figura.
Mi resi conto che, con molta probabilità, mi stava degnando di una risposta solo perché Arizona l'aveva pregata di non farlo.
“Il mio nome è Elizabeth. Ma tu mi conoscerai sicuramente meglio come la seconda moglie di Re Richard.”
Mi sentii persa per un momento. La mia presa sulla spada si allentò. Abbassai lo sguardo, poi lo rialzai di nuovo.
“Voi siete la madre della Principessa Sadie?”
“Sono io” sul suo volto mostruoso fui sicura di vedere formarsi un sorriso tetro, che mi fece venir voglia di indietreggiare. “Sfortunatamente, non vivrai mai abbastanza per portare questa terribile notizia a mia figlia.”
Strinsi forte tra le dita l'impugnatura della spada che avevo in mano.
“Siete voi, che avete imprigionato Arizona?”
Valutò a lungo se degnarmi di una risposta. Decise che lo avrebbe fatto.
“Era l'unico modo in cui mia figlia sarebbe potuta diventare Regina, un giorno. Con lei imprigionata, quando il Re morirà, la corona passerà direttamente a Sadie.”
Vide l'espressione confusa sul mio viso.
“Ma come, non lo sai? Arizona è la primogenita del nostro amato Re, la figlia di Regina Barbara, non ve lo aveva detto? Scomparsa all'età di diciotto anni e mai più ritrovata. Probabilmente perché l'ho rinchiusa dentro una minuscola gabbia d'oro.”
Sentii il cuore sprofondarmi.
Arizona mi aveva mentito.
“Calliope” la voce di Arizona mi distrasse dai miei pensieri. “Sadie non ne sa niente, non avrebbe mai potuto neanche immaginare tutto questo. Non lasciarti toccare dalle sue parole, Sadie farà un buon lavoro con il Regno, nonostante i motivi che l'hanno portata al comando.”
La creatura davanti a me interpretò le sue parole, facendo due più due.
“Non dirmelo” rise in un modo che mi fece rabbrividire. “Oh, cielo” sospirò drammaticamente. “E così sei innamorata di mia figlia?” mi prese in giro. “E uccideresti sua madre? No, non credo che potresti mai farle qualcosa del genere, giusto? Perché, invece, non torni indietro? Raggiunte le pendici del monte, cancellerò con la magia la tua memoria, e non dovrai mai ferire la donna che ami. Potresti tornare indietro, dire di aver provato ad uccidermi ma, tristemente, di non esserci riuscita. Sarai un'eroina. L'unica mai tornata indietro viva, per quanto ne sanno loro. Ed avrai il tuo lieto fine con mia figlia.”
E lei avrebbe continuato a distruggere campi, mangiare raccolti di interi anni e uccidere persone innocenti.
Niente di più semplice.
“Avete ragione. Potrei darvi ascolto. Potrei avere il mio lieto fine. Il lieto fine che non mi sono mai nemmeno azzardata a sognare.”
Gettai a terra lo scudo.
“Sapevo che avresti visto le cose a modo mio.”
“Calliope” la voce di Arizona era poco più che un sussurro.
“Andiamo, Arizona. Dobbiamo tornare a valle. Ma, prima di farlo, lasciami solo chiedere gentilmente una cortesia ad Elizabeth.” Alzai gli occhi verso quelli del drago. “Io desidero che rimaniate immobile” dissi con voce ferma.
Lei mi guardò, confusa. Poi scoppiò a ridere, raddrizzando la schiena e sbattendo le ali.
“Ogni tuo desiderio, è un ordine per me.”
La risata le morì in gola, quando le grandi ali improvvisamente si paralizzarono, seguite lentamente dalle zampe posteriori, dalle schiena, dal busto, dalle zampe anteriori e, infine, dalla testa.
“Grazie, Arizona. Molto gentile da parte tua tenerla ferma.”
Cambiai impugnatura della spada che avevo in mano, spostando il braccio all'indietro ed impugnandola come una lancia.
La scagliai con decisione verso il suo petto, centrando in pieno il suo cuore, grazie alla precisione che avevo con la spada, insegnatami da mio padre.
Con un terribile, lacerante, urlo di dolore, il corpo senza vita della creatura, cadde pesantemente a terra. Quando smise di contorcersi e gli spasmi furono finiti, mi avvicinai, sfilando via la spada dal suo cuore. Andai fino al suo collo, dove recisi con decisione la testa dal resto del suo corpo.
“Portami la sacca.”
Lo fece, senza esitazione.
Mi aiutò a mettere la testa dell'animale dentro. Me la caricai sulla spalla sinistra, continuando a portare la spada con la destra.
Iniziai a camminare. Notai, con la coda dell'occhio, che stava per raccogliere lo scudo che avevo gettato a terra.
“Lascialo” le dissi. “Non è che un peso inutile per il viaggio di ritorno.”
Mi seguì in silenzio verso la caverna dove la notte precedente avevamo dormito e dove avevo lasciato il resto delle cose che mi ero portata.
“Mi dispiace averti mentito. Anche se, tecnicamente, non ho mai mentito. È stata più una bugia per omissione, ma in ogni caso, ecco, mi dispiace.”
“Scuse accettate” mormorai, mentre scendevamo la parete rocciosa.
“Non mi sembri particolarmente sincera. Non capisco perché sei arrabbiata, però. Hai ottenuto quello che volevi. Sadie ti sposerà, l'ha promesso. Hai la testa del drago, l'hai ucciso per lei, tutto apposto.”
“Tutto apposto un bel niente” borbottai. “Non l'ho ucciso per lei” la contraddissi proprio mentre entravamo nella caverna della sera prima. “L'ho ucciso perché stava causando dei danni incalcolabili a tutto il Regno.”
Gettai la sacca a terra, dirigendomi verso i miei averi sparsi sul fondo della caverna. Ma mi voltai di nuovo, improvvisamente.
“Anzi no, sai che ti dico? Non farò come te. Non mentirò per omissione.”
Lei mi guardò, confusa.
“L'ho uccisa perché, il danno peggiore, l'ha fatto a te. Ti ha rinchiuso dentro una prigione dorata, queste sono le sue parole, come se fossi un animale. Lei ti ha fatto del male. Ti ha costretto ad una vita senza le persone che ami e che amano te. Meritava di morire per tutto il dolore che ha causato a te, a Richard, e anche a persone che neanche conosceva. Ecco perché l'ho fatto. Avrei ucciso un drago per lei, due settimane fa, ma non avrei mai ucciso una donna, nemmeno una strega, per lei. Eppure l'ho fatto, per te.”
Le mie parole la colsero alla sprovvista.
“La strega aveva ragione. Non si lascia una città se il tuo vero amore resta indietro. E se lasci quella città, sei destinato all'infelicità. Ma io non sono infelice. Al contrario, non sono mai stata più felice in vita mia. E aveva ragione anche sul fatto che la maledizione è infallibile.”
Mi voltai, cercando tra la mia roba il piccolo sacchetto di denari e mettendomelo in tasca. Del resto, non rimaneva che un'armatura arrugginita, qualche avanzo di cibo, e la coperta con cui ci eravamo scaldate quelle sere.
Lasciai tutto lì dove era, prendendo in mano la coperta. Le voltai le spalle, non volendo che vedesse il mio viso mentre tenevo quel pezzo di stoffa tra le mani. Non potevo lasciarla lì. Aveva il suo profumo addosso. Ed avrebbe potuto essere l'unica cosa che avrei avuto per ricordarmi di lei in futuro. Eppure, per portarmela, avrei dovuto metterla nella sacca con la testa del drago, quindi avrebbe perso il suo odore, acquistando quello del sangue. Me la portai al viso, inspirandone piano il profumo un'ultima volta, prima di lasciarla cadere a terra, insieme agli altri oggetti che avrei lasciato indietro.
“Che vuoi dire?” si decise a chiedere quando mi voltai di nuovo.
Sospirai, guardando in basso.
“Come tutti gli altri, anche io ho incontrato il mio vero amore lungo il viaggio. L'unico motivo per cui io sono riuscita ad arrivare comunque fino alla cima della montagna, è stato il fatto che il mio vero amore è rimasto al mio fianco fino all'ultimo passo del cammino. Ero solo troppo stupida per accorgermene prima di ieri notte. E troppo codarda per dire qualcosa sapendo che oggi sarei potuta morire.”
Si avvicinò, prendendomi le mani tra le sue.
“Penso che sia stato molto coraggioso, invece. Hai cercato di proteggere il mio cuore. Ma io sapevo che ci saresti riuscita.”
“Perché credi in me” conclusi per lei, sempre guardando in basso.
Lei mi prese il viso tra le mani, costringendomi al alzare lo sguardo verso il suo.
Nei suoi occhi lessi tutto ciò che avevo bisogno di sapere.
“Anche io penso di essere il tuo vero amore, Calliope. O almeno, lo spero. Perché, senza ombra di dubbio, tu sei il mio.”
Avvicinò lentamente il viso al mio. Ma, a meno di un centimetro dalle sue labbra, mi fermai. E si fermò anche lei. Provai ad avvicinarmi ancora, e ci provò anche lei, ne fui sicura.
“Non possiamo” sussurrò, arrendendosi.
“Perché tu sei un Genio” osservai.
“Già” confermò con tono arreso.
Stupida magia.
Mi accarezzò una guancia, alzandosi in punta di piedi e baciandomi teneramente sull'altra.
Io l'abbracciai.
“Ti amo, Arizona” sussurrai con voce impercettibile al suo orecchio, prima di allontanarmi del tutto da lei.
Era vero. L'amavo. Prima di lei, non avevo idea di cosa quelle parole significassero. Ed ero sicura che lei fosse riuscita a capirlo, a vedere ciò che avevo nel cuore semplicemente guardando nei miei occhi. Molto prima che lo capissi io, sono sicura che lei già lo sapeva. Ecco perché non era stata sorpresa nel sentirmelo ammettere.
Raccolsi da terra la lampada, porgendogliela perché fosse lei a tenerla. Poi raccolsi la spada con la mano destra e la sacca con la testa del drago con la sinistra, gettandomela oltre la spalla e cercando di stabilizzarla.
Sospirai.
“Pronta?” le chiesi.
Annuì. “Pronta.”
Chiusi gli occhi, inspirando e cercando di scegliere le parole giuste.
Perlomeno, sapevo che il mio Genio non avrebbe tentato di tendermi un tranello.
Abbassai la testa. Chiusi gli occhi.
“Desidero solo essere a casa.”
“Ogni tuo desiderio, è un ordine per me.”
Quando aprii di nuovo gli occhi, ci trovavamo davanti alle porte principali del castello. Quella che consideravo la mia vera casa.
Sorrisi, quando sentii l'insieme di voci provenire dall'interno.
“È il primo sabato del mese” realizzai improvvisamente.
Gran parte della città, quel giorno, era riunita nella sala principale del castello. Era il giorno del mese in cui il Re ascoltava le richieste dei suoi sudditi, e tutti cercavano di avere un posto in prima fila per assistere.
“Mi fa piacere vedere che mio padre mantiene questa tradizione” sorrise a sua volta.
Mi voltai, sospirando.
“Mi manca un ultimo desiderio” le feci notare.
Lei deglutì.
“Desidera un bacio. Ti prego, Calliope. Desidera che possa baciarti, anche solo una volta.”
La tentazione era forte. Le sfiorai il viso e le spostai una ciocca di capelli dietro l'orecchio, mentre ammiravo la sua bellezza.
Cosa non avrei dato, per un suo bacio.
Ma avevo qualcosa di più importante da desiderare.
Con riluttanza, scossi la testa negativamente alla sua richiesta, guardando per un secondo in direzione del pavimento tra di noi e poi di nuovo nei suoi occhi celesti, molto più chiari del più puro dei cristalli.
Le rivolsi un mezzo sorriso.
“Io desidero che tu sia libera.”
Mi guardò con confusione. Poi sollevò gli avambracci. Entrambe guardammo in basso. I pesanti polsini d'oro, simbolo della sua condanna, si aprirono di scatto, cadendo con un piccolo tonfo sul terreno tra di noi.
“Adesso puoi tornare a casa” le dissi, voltandomi ed aprendo le porte della sala principale.
Lei rimase immobile, però.
Non mi seguì all'interno, ma io proseguii.
Le voci che fino ad un attimo prima l'avevano riempita, improvvisamente cessarono. Calò il silenzio, mentre entravo con una sacca sulle spalle e una spada con la lama sporca di sangue nella mano.
Percorsi il corridoio, consapevole degli sguardi di tutti puntati su di me.
Richard era seduto sul trono, Miranda e Meredith in piedi alla sua destra e Sadie in piedi alla sua sinistra.
Arrivai davanti ai sei gradini sotto cui avevo passato tutta la mia vita e mi fermai. Appoggiai il ginocchio sinistro a terra, chinando la testa e appoggiando la spada a lato del mio piede destro. Poi presi la sacca, posizionandomela davanti, e la scoprii, lasciando che il macabro contenuto ne venisse rivelato.
Una serie di brusii riempì la sala.
“Silenzio” intimò ad alta voce il Re.
Di nuovo, tutto fu tranquillo.
“Ce l'avete fatta, giovane Torres” mi sorrise, orgoglio nei suoi occhi.
Mi riempì il cuore di gioia vedere che era fiero di me.
Mi alzai di nuovo in piedi.
Vidi un sorriso aprirsi sulle labbra di Sadie.
Miranda e Meredith stavano praticamente per scoppiare di gioia nel vedermi viva. Tra la folla, mia madre e Aria avevano espressioni molto simili.
E potevo capire perché. Avevo finalmente ottenuto tutto ciò che avevo sempre voluto e cercato senza sosta di raggiungere.
“Vi ho portato un dono migliore, Maestà.”
Mi voltai per metà, tendendo un braccio alle mie spalle.
Varcò la soglia della stanza con un po' di indecisione, dettata dal fatto che non metteva piede a castello da anni, ormai.
Avanzò lentamente nella mia direzione. Quando fu abbastanza vicino prese la mia mano, fermandosi al mio fianco.
Richard si alzò, scendendo i gradini che li separavano in una sorta di trance. Quando si abbracciarono, la sua mano scivolò via dalla mia.
“Padre.”
“Arizona” i suoi occhi si riempirono di lacrime.
Le fece mille domande, senza però darle modo di rispondere.
Quando, parecchi minuti dopo, si separarono, le fece salire i gradini, facendola mettere alla sua immediata sinistra, tra se stesso e Sadie.
Si sedette di nuovo.
Gli occhi di Arizona si fermarono su di me.
“Presumo che adesso tu voglia reclamare ciò che ti era stato promesso” concluse Richard, quasi commosso da ciò che avevo fatto per lui.
Una parte di me, mi stava dicendo che l'unico motivo per cui non mi aveva fermato, era che lui sapeva come sarebbe andata a finire tutta quella storia fin dall'inizio.
Ma il fatto che lo sapesse già da prima, stando a quello che potevo vedere, non lo portò a sminuire il mio gesto.
“A dire il vero, vostra Maestà...” scrollai leggermente le spalle, perfino io ero incredula di ciò che stavo per dire. “No.”
Stavo quasi per ridere dell'assurdità della situazione.
Inclinò la testa di lato.
Gli occhi di Sadie si ingrandirono inverosimilmente.
Meredith spalancò la bocca.
“Non ascoltatela, padre. Sta delirando. Probabilmente è l'adrenalina per aver ucciso il drago ed essere tornata sana e salva” cercò di giustificare il mio comportamento Miranda.
“Giovane Torres, non ti spaventerà dover regnare, non è vero?”
“Non è quello, Maestà. Ho solo capito che ho bisogno di avere affianco qualcuno che abbia fiducia in me” il mio sguardo si spostò brevemente su Arizona. “Qualcuno che mi ami per ciò che sono e non perché ho sconfitto un drago.”
Guardai di nuovo Richard, sperando che non avesse colto il vero significato delle mie parole.
“E poi, tecnicamente, Maestà, sposando Sadie non regnerei. Visto che adesso Arizona è di nuovo a corte, non è lei la legittima erede al trono?”
“Hai ragione” concordò annuendo. “Tuttavia, e correggimi se sbaglio giovane Torres, non dice il bando, e cito, che 'chiunque porti al Re la testa del drago che vive nel nostro Reame, sarà ricompensato con la concessione della mano della Principessa futura erede al trono, in matrimonio'?”
“Sì, vostra Maestà.”
“Credo quindi che non sia la mano di Sadie, come voi avete giustamente fatto notare, che deve esservi offerta oggi.”
Corrugai la fronte.
“Arizona” disse, voltandosi verso sinistra, prendendo la mano della donna al suo fianco.
Lei appoggiò il palmo sul dorso della mano del Re, mentre egli tendeva il braccio nella mia direzione.
“Ma, vostra Maestà, lei non è mai stata d'accordo con tutto questo, non è stata lei a chiedere che fosse fatto quel bando.”
Lui si voltò di nuovo verso la figlia.
“Non sei forse d'accordo, Arizona?”
“Sono perfettamente d'accordo” confermò lei. “Mi hai reso la libertà, Calliope. È giusto che ottenga ciò per cui hai combattuto, se lo desideri.”
Era questo ciò di cui si trattava? Un mio desiderio? Stava forse cercando di restituirmi quello che avevo usato per liberare lei?
Scossi la testa, guardando in basso.
“Non sono degna di portare una corona. Ho imparato, nel corso della mia vita, Maestà, e soprattutto nel corso di questo viaggio, quale è il posto a cui appartengo. Ed è qui. Al di sotto di questi sei scalini di marmo bianco.”
Arizona sollevò la mano da quella del padre, facendo un passo avanti.
“E allora è anche il mio” affermò, scendendo gli scalini a cui mi riferivo. Prese la mia mano con la sua, facendomi alzare gli occhi. Mi sorride dolcemente, cercando di rassicurarmi sul motivo per cui lo stava facendo. Poi si voltò verso Richard. “Rinuncio al trono, padre. Questo è il posto a cui appartengo” spiegò, voltando la testa per guardarmi di nuovo. “Perché è il posto a cui appartiene il mio cuore.”

Tuttavia, Re Richard era un uomo che raramente non otteneva le cose a modo suo.
Due settimane dopo, una volta sposato di nuovo, abdicò.
Arizona venne proclamata regina. Cinque giorni dopo ci sposammo. Suppongo che non ci sia molto altro da dire.
Il mio viaggio era iniziato con un sogno, ma alla fine, la realtà, aveva superato di molto quella mia fantasia.
Lungo il viaggio, avevo trovato ciò che stavo cercando. L'amore.
Finalmente avevo capito cosa significava davvero amare e essere amata.
E forse non era la persona che mi sarei aspettata, e non era successo nel modo in cui mi sarei aspettata, ma alla fine la vita è così stupefacente proprio perché è imprevedibile.
Dal giorno in cui avevo incontrato Arizona, la mia vita non era mai stata come la favola che mi ero un tempo immaginata.
Era molto, molto meglio.

~ Le favole non servono a spiegare ai bambini che i draghi esistono. Questo lo sanno benissimo da soli. Le favole servono a spiegare ai bambini che i draghi possono essere sconfitti. ~




Sapete cosa fare, se volete lasciare una recensione...e sapete che il gesto sarà apprezzato! =)

Grazie mille a tutte, alla prossima!


Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Il nostro primo viaggio insieme ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete meravigliosi :D =)


Buona lettura! ...e perdonate la lunghezza...

Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo viaggio insieme


“Quindi questo è quanto? Te ne vai e basta?”
“Che altro dovrei fare? Sei infelice. Io sono ubriaco. Quasi tutto il tempo. E se non sono ubriaco, stiamo litigando.”
“Andartene dovrebbe risolvere le cose?”
“No. Ma potrebbe migliorarle per te. E per nostra figlia.”
“Credi che non avere suo padre a casa migliorerà le cose per lei?”
“Suo padre è un maledetto alcolista con la Sindrome da stress post traumatico, quindi sì. Andrò a disintossicarmi. Quando sarò sobrio andrò da un maledetto psicologo. Voglio guarire, voglio essere migliore, voglio essere come ero prima. E per allora, spero che lei mi abbia perdonato.”


Aprii gli occhi per la prima volta da ore.
Mi tolsi le cuffiette dalle orecchie.
Non mi piaceva viaggiare in treno.
Quando scesi, mi ci volle qualche minuto per individuarlo tra la folla. Era molto cambiato dall'ultima volta che lo avevo visto, quattro mesi prima. Ed era ancora più diverso dall'ultima volta che era stato a casa nostra. Per prima cosa, non era ubriaco. Non aveva più la barba incolta, ma il viso pulito. I capelli erano tagliati come si deve e non semplicemente 'aggiustati' come era solito dire lui.
Quando mi vide mi venne incontro, abbracciandomi.
Non era vecchio, ma non era più neanche molto giovane. Aveva quarant'anni, ma si teneva ancora in forma. Era più alto di me di una decina di centimetri.
“Arizona” mi passo una mano sulle spalle, con l'altra prese la mia valigia, portandola per me verso la macchina che aveva parcheggiato poco al di fuori della stazione.
“Daniel.”
Il suo sorriso vacillò. Ma non si fece scoraggiare dal mio comportamento.
“Ho preparato la tua camera. Ti piacerà, vedrai. Ma devo dire che sono stato aiutato.”
“Come va col programma di riabilitazione?”
“Benissimo. Sono sobrio da un anno e dieci mesi. Ho un lavoro qui a Miami, come preparatore in un'accademia militare.”
“Bene. Sono felice per te, papà.”
Mi sorrise. Gli volevo bene. Sul serio. Ed era pur sempre mio padre. Ero fiera di lui, stava facendo dei passi avanti importanti.
Era solo che a volte non capivo perché per riuscirci aveva avuto bisogno di lasciare la mamma. E me.
No, non aveva lasciato me. In realtà, aveva chiamato appena atterrato a Miami per spiegarmi con calma perché aveva deciso di lasciare lo Stato. Prima viveva in Maryland, insieme a noi. Dopo essersi assicurato che avessi capito che non era colpa mia, che la sua decisione non dipendeva in alcun modo da me, aveva promesso di richiamare. E lo aveva fatto. Tutti i fine settimana finché non si era disintossicato, poi due volte a settimana. Adesso chiamava un giorno sì e uno no, per sentire come me la cavavo.
Era tornato il padre a cui volevo bene.
Ma era anche tornato il padre che mi piaceva avere al mio fianco. Per questo odiavo che se ne fosse andato.
“Allora, quando hai detto che è?” chiesi una volta che la macchina fu partita.
“Tra tre mesi esatti, alla fine dell'estate. Sono felice che tua madre ti abbia lasciato venire.”
“Non c'è problema. Ho diciotto anni, adesso. E lei è andata avanti in ogni caso.”
“Davvero?”
“Ah-ah” annuii senza convinzione. Ma sono sicura che lui non lo notò. In fondo, i suoi occhi erano fissi sulla strada.
“Beh, buon per lei.”
“Già.”
Ci furono diversi momenti di silenzio.
“Allora, lei dov'è?”
“Ci aspetta a casa.”
“Ah, bene” commentai sarcasticamente, roteando gli occhi. Per mia fortuna, non vide neanche quello.
“Arizona, sii gentile. Ci tengo davvero a questa donna.”
“D'accordo, Daniel.”
Mi voltai verso il finestrino alla mia destra, dove tenni lo sguardo incollato per il resto del silenzioso viaggio in auto.

“Questa non è una casa” sussurrai a me stessa. “Questa è una cavolo di villa.”
Mio padre portò le mie valige per me fino alla mia camera.
Dalla mia finestra si vedeva la piscina sul retro. Sì, la casa aveva una piscina sul retro.
“Posso andare a nuotare?”
“Certo. Anzi, lei è lì. Così te la presento prima di andare via.”
Mi baciò sulla fronte, uscendo per permettermi di cambiarmi. Improvvisamente, non avevo più voglia di nuotare.
Un paio di minuti dopo, comunque, ero al piano inferiore, con addosso i miei occhiali da sole preferiti.
Chissà, magari questa donna aveva una figlia che potevo far diventare gay. Così avrebbe lasciato mio padre, almeno.
Non puoi far diventare qualcuno gay, ricordai a me stessa. Giusto. Stupida biologia.
Comunque, magari la donna aveva una figlia a cui potevo far scoprire di essere gay, o qualcosa del genere.
Mi ero presa la briga di mettermi una maglietta e dei pantaloncini sopra il costume. La figlia della fidanzata di mio padre? Non così tanto.
Aprii la porta a vetri e la vidi uscire dalla piscina con addosso un costume. O meglio, quello che un tempo era un costume e probabilmente si era ristretto durante un viaggio in lavatrice.
Era alta, mora, occhi scuri, due gambe da urlo.
Era bellissima.
Era bagnata.
“Tu devi essere Arizona” mi salutò.
Gli occhiali da sole avevano impedito ai miei occhi di schizzarmi fuori dalle orbite. Grazie al cielo non mi aveva beccato a fissarla come un'idiota, almeno.
“Sono io” confermai, tendendole la mano.
“Callie Torres” si presentò, stringendomela.
“Arizona” la voce di mio padre mi distrasse. Ci si avvicinò, passando un braccio attorno alle spalle della dea davanti a me. “Vedo che vi siete già conosciute.”
Annuii con un piccolo sorriso. Se sua madre era sexy la metà di lei, capivo perché mio padre aveva perso la testa.
“Lei è la donna che tra tre mesi diventerà mia moglie.”
Prima che riuscissi a fermarla, la mia mascella toccò terra.
Quella era la mia futura matrigna? Non esattamente il modo in cui me l'ero immaginata.
Mi ricomposi velocemente, facendo finta di niente.
“Devo andare a lavoro, adesso. Voi due approfittatene per fare conoscenza.”
La baciò sulla guancia, poi baciò me sulla fronte, e se ne andò.
Incrociai le braccia al petto.
“Quanti anni hai?”
“Ventidue.”
“Ventidue? Dio, sei una ragazzina.”
“No. Tu sei una ragazzina. Hai compiuto diciotto anni, quando? Ieri?”
“Tre mesi fa” precisai.
“Ah, beh, tre mesi fa, tutta un'altra storia, allora.”
“Come ti è venuto in mente di sposarti a ventidue anni?”
“Tesoro” si avvicinò di un passo. “Quando tuo padre aveva ventidue anni, tua madre stava già aspettando te.”
Tesoro, la mia bisnonna ha avuto un bambino a sedici anni. Ma quello è stato un secolo fa.”
“Ascolta, ragazzina, io e te possiamo andare molto d'accordo, oppure possiamo avere molti, molti problemi. Sta a te scegliere. Dipende da quanto deprimenti per entrambe vuoi che siano i tuoi tre mesi qui a Miami.”
La guardai a lungo senza rispondere.
“Parlami di te” la incoraggiai infine, sedendomi su una delle sdraio.
Lei mi si sedette davanti, assecondandomi anche se non aveva capito bene dove sarei andata a parare.
“Sono nata qui a Miami, e ho vissuto qui per tutta la mia vita. Il prossimo anno frequenterò l'ultimo anno di college.”
“In cosa ti stai laureando?”
“Medicina.”
“Credevo che a medicina andassero solo i tipi intelligenti.”
Lei mi rivolse un sorrisetto.
“Hai del carattere, ragazzina. Che pensi di fare dopo?”
“Andrò al college.”
“Quale?”
“John Hopkins.”
“Facoltà?”
“Medicina.”
“Credevo che a medicina andassero solo i tipi intelligenti.”
“Anche io, ho scoperto solo recentemente che questo è più che altro uno stereotipo. La fidanzata di mio padre frequenta medicina, e non sembra un genio a prima vista” ritorsi.
“Oh, carino” sussurrò. “Per tua informazione sono la più brava del mio anno.”
“Allora, che ne pensano i tuoi genitori del matrimonio?” cambiai velocemente argomento.
“Io e miei non andiamo molto d'accordo. Gli sta bene che mi sposi, si sono offerti di pagare per il matrimonio, ma Daniel non glielo ha permesso.”
“Quindi vieni da una famiglia benestante?”
“Molto.”
“Che vuoi fare dopo la laurea?”
“Chirurgia. Sarò fantastica.”
“Non sembri intenzionata a mollare il lavoro dopo esserti sistemata.”
“Scherzi, vero? Io sono nata per fare il chirurgo.”
“Allora non capisco” fu la mia conclusione.
“Cosa, esattamente?”
“Vieni da una famiglia benestante. Vuoi fare il chirurgo. Sei intelligente. Non hai bisogno di mio padre.”
“No, infatti. Però lo amo.”
“Tu credi di amarlo. Sei troppo giovane per amare.”
Mi tolsi gli occhiali da sole.
Per un attimo, si paralizzò e mi guardò negli occhi e basta. Deglutì. Un attimo dopo un sorriso strafottente era tornato sulle sue labbra, e se fossi stata meno attenta avrei anche potuto pensare di essermi immaginata quel momento.
“Tu saresti un'esperta, non è vero, grande saggia?”
“Una mia amica ha avuto una relazione con il padre di un'altra mia amica. Non è stato molto divertente.”
“Come no. Sostituisci 'amica' con 'me stessa' e 'padre' con 'patrigno di dieci anni più giovane della madre' e potrei crederti.”
“Perché non chiedi a mio padre? Lui era ancora a casa, quando è successo. Una mia compagna di classe, Railey, ha trovato il padre Mark e la sua migliore amica Lexie che ci davano dentro nel letto dei suoi genitori. Libera di non credermi.”
“Non credo che lo farò, infatti” rispose senza mancare un battito. “Tu non puoi capire, ragazzina. Il modo in cui mi fa sentire...”
“Ah, fammi indovinare. Ti senti al sicuro, nelle sue forti braccia. E tutta la sua esperienza di vita ti fa pensare che potrebbe prevedere qualsiasi cosa. È affascinante, anche se non è più bello, e averlo attorno ti fa sentire come se fossi di nuovo piccola. Come se i tuoi sogni non dovessero mai infrangersi.”
Guardai mentre il suo sorriso spariva dal suo viso man mano che parlavo, la sua fronte si corrugò appena in un piccolo cipiglio.
“Ci sono andata vicino?” domandai. “Questo è quello che diceva di provare la mia amica, ma forse tu sei davvero innamorata di lui, chi lo sa.”
Mi alzai, passandole accanto.
“E, comunque, il motivo per cui ti fa sentire come se fossi di nuovo piccola” le spiegai, togliendomi la maglietta. “È che potrebbe essere tuo padre” mi sfilai anche i pantaloncini. “E, che tu sei piccola.”
Mi tuffai dentro l'acqua tiepida della piscina.
Lei si sedette sul bordo, immergendo dentro le gambe fino al ginocchio.
“Vedo che hai scelto i problemi.”
Nuotai fino al punto in cui era e mi sollevai fuori dalla piscina, sedendomi accanto a lei.
“Ma no, Calliope. Sono sicura che io e te andremo perfettamente d'accordo.”
Notai lo sguardo confuso alla pronuncia del suo nome per intero.
“Ho letto gli inviti. Pensavo fosse il minimo” spiegai. “È un nome meraviglioso. Non vedevo l'ora di usarlo. E, onestamente, mi sembra adatto per te.”
“Stai dicendo che sembro una vecchietta greca? Perché non sarebbe il modo migliore per andare d'accordo.”
Risi. “No. Dico che sembri una dea.”
Mi gettai nuovamente dentro l'acqua, ricominciando a nuotare.
“Calliope era una musa” mi urlò dietro.
“Abbastanza vicino” mormorai.

Sentii rientrare mio padre mentre ero ancora stesa fuori ad asciugarmi. Calliope era rientrata a preparare la cena. Sì, la donna cucinava, come se non fosse abbastanza. Il bell'aspetto e l'intelligenza erano troppo poco per convincermi che non era un mostro, quindi doveva essere assolutamente perfetta. Sembrava che il destino non volesse lasciarmi odiare la mia matrigna in pace.
“Quando si cena?” rientrai in casa con addosso solo il costume e il mio paio di occhiali da sole preferiti.
“Appena ti sarai vestita” mi fece sapere Calliope. “E le scarpe non contano” mi disse mentre stavo salendo le scale.
Quando scesi di nuovo, per poco non vomitai. Mio padre le stava dando un bacio a stampo. Sulle labbra.
“Disgustoso” borbottai.
Si allontanarono di un passo immediatamente.
“Come?” chiese mio padre.
“Delizioso” risposi a voce più alta. “C'è un profumo delizioso.”
“Callie è una cuoca provetta.”
“Dan, dopo cena vorrei andare a fare un giro, pensavo che Arizona potrebbe venire insieme a me, se a te non dispiace” gli disse, mentre serviva la cena. “Potremmo legare un po', cose del genere” spiegò.
“Certo che non mi dispiace. Devo aspettarvi alzato?”
“Non importa, faremo tardi. Voglio mostrarle un posto in cui ero solita andare da piccola che è un po' fuori mano.”
Sperai che non fosse una specie di codice per dire 'la porterò in mezzo ai boschi in modo che sia più facile disfarmi del suo cadavere'.
“A dire la verità, sono piuttosto stanca. Grazie lo stesso, Calliope.”
“Arizona, non chiamarla così. La infastidisce. Callie va bene.”
“Se sei stanca perché non prendi un caffè?” quel suo tono pseudo-gentile mi dava fortemente sui nervi.
“Non sono una grande fan del caffè, Calliope.”
“Arizona.”
“Lascia stare Dan” lo rassicurò. Poi si voltò verso di me. “Finisci la cena, Arizona. Partiamo tra mezz'ora.”
“D'accordo, mamma.”
“Oh” sussurrò con tono dolce. “Vedi, Daniel? Siamo già arrivate al punto in cui decide di chiamarmi mamma” mi afferrò la mano sopra al tavolo, sorridendomi. “Mi scalda il cuore sentirtelo dire.”
Io mi morsi un labbro per non sorridere.
Mio padre rise, alzandosi per prendere qualcosa dalla cucina.
“Non pensavo che esistesse qualcuno che riuscisse a tenere il mio passo” sussurrai.
“Non pensavo che qualcuno potesse tenere il mio. Per una volta, è un piacere essermi sbagliata” mi disse piano.
“Dove vuoi portarmi?”
Mi rivolse un sorrisetto. “Diciamo solo che potrei aver detto una minuscola bugia a tuo padre, dicendo che era fuori mano.”
“Bene” risposi. “Non voglio andare in un bosco.”
“Io non vado nei boschi. Sono sporchi, e ci sono molti, molti insetti.”
Io sorrisi. “Fantastico. Idee su cosa dovrei indossare?”
“Qualsiasi cosa andrà più che bene” sussurrò in risposta.
La guardai perplessa, ma lei non rispose, schiarendosi la voce mentre mio padre tornava a sedersi a tavola.
Mezz'ora dopo stavamo uscendo. Mio padre era seduto sul divano a guardare una partita di Baseball.
“Noi andiamo, Dan.”
“Ok. Ehi, non portarla a conoscere i tuoi amici. So che sono tipi scatenati” disse in tono scherzoso, facendole l'occhiolino.
“D'accordo” lo baciò sulla guancia. “A più tardi.”
“Ciao papà” lo salutai, seguendola fuori dalla porta.
“Allora, dove...Oh, mio, Dio. Ti prego, dimmi che questa è la tua macchina.”
Mi trovai davanti ad una Thunderbird azzurro metallizzato. Era così bella che avrei potuto commuovermi.
“No, questa non è la mia macchina” rispose. “Questa è metà della mia anima” aggiunse salendo dalla parte del guidatore.
Io mi precipitai dentro, ancora incredula.
“Lasciamela guidare” buttai fuori all'improvviso.
Lei scoppiò a ridere di gusto. “No” rispose come se fosse ovvio. “Credo che preferirò continuare a vivere.”
“Tu non capisci. Questa è una Thunderbird del '57, Calliope.”
“Lo so. L'ho rimessa a nuovo con le mie mani” avviò il motore. “Nemmeno mio padre ha mai guidato la mia piccolina. Nemmeno tuo padre. E me lo ha chiesto con le lacrime agli occhi. Quasi piangendo. Un uomo adulto. Un colonnello dell'esercito, per l'amor di Dio.”
“Sei senza cuore.”
“Lo so. Ti ci abituerai.”
Mi rassegnai, lasciandomi cadere contro lo schienale.
“Dove stiamo andando?”
“Ovunque tu voglia.”
“Davvero?”
“Sì. Davvero. Ma se scegli un luogo per cui serve un documento di identità falso per farti entrare, devi promettere che non lo racconterai a tuo padre.”
Ci pensai qualche momento.
“Voglio conoscere i tuoi amici.”
“Davvero?” chiese, sorpresa. “Perché? Sono solo gente del college.”
“Proprio perché sono gente del college” esclamai.
“Ah, giusto. Tu ancora vai al liceo.”
“Andavo. Ho finito giusto un paio di settimane fa, se te ne fossi dimenticata.”
Lei rise della mia precisazione. Poi un pensiero mi attraversò la mente.
“Mio padre non li ha mai incontrati?” chiesi con attenzione.
Lei sospirò, il suo sorriso sparì e venne prontamente rimpiazzato da uno più piccolo e visibilmente più finto.
“Li ha incontrati. Ogni tanto. È un uomo impegnato” rispose sommessamente, concentrandosi sulla strada.

“Callie, sei arrivata. Ho letto il messaggio solo qualche minuto fa, ma sono felice che tu abbia deciso di venire. Meredith, Cristina e Teddy ci stanno aspettando al tavolo.”
“Bene” si voltò verso di me. “Addison, questa qui è Arizona. La figlia di Daniel.”
Il suo sguardo si spostò su di me. “Piacere di conoscerti” mi tese la mano, il sorriso rimpiazzato da uno di cortesia.
Io ricambiai il sorriso, prendendole la mano.
Quando arrivammo al tavolo indicato dalla rossa, vidi altre tre donne della loro età, una bionda, una dai capelli castano chiaro e una asiatica. Callie mi presentò nello stesso modo. Di nuovo, loro si irrigidirono. Mi rivolsero sorrisi gentili e cercarono di far finta di niente. Ma era palese che camminavano su gusci d'uovo.
Alla fine, le altre quattro si alzarono per ballare, lasciandoci sole al tavolo.
“Allora, perché tutti sembrano congelarsi quando scoprono che sono la figlia di Daniel?” chiesi casualmente.
“Sai, odia quando lo chiami così.”
“Lo so. È il motivo per cui lo faccio.”
Ridacchiò, sorseggiando il suo drink. Non mi stava guardando.
“Allora, è perché non approvano la vostra relazione, o...” cercai di indurla a parlarmi di ciò che avevo chiesto.
“No. Non proprio almeno. Cioè, loro capiscono perché lo sto facendo. Avrebbero solo preferito che ci fosse un altro modo.”
“Un altro modo?”
Scosse la testa. Continuò a guardare altrove.
“Perché io potessi essere felice, ecco” spiegò senza convincermi granché.
“E lo sei? Felice?”
Sospirò.
“È complicato.”
“Non lo è sempre?”
“La situazione con la mia famiglia non mi rende molto felice. Ma tuo padre è fantastico. Averlo al mio fianco aiuta. Non so cosa farei senza di lui, davvero. Dovresti esserne orgogliosa. È un uomo meraviglioso.”
“Già” concordai, non riuscendo a non far trasparire un tono triste dalla mia voce.
“E tu sei felice, Arizona?” chiese, voltandosi finalmente per guardarmi negli occhi.
Le rivolsi un mezzo sorriso, inclinando leggermente la testa di lato. “È complicato” ripetei le sue parole.
“Se vuoi parlarne...”
“Ho...” scossi la testa, fissando lo sguardo sul tavolo. “Ho recentemente rotto con una persona di cui pensavo di potermi fidare ma di cui in realtà non potevo. E non è che sono infelice, davvero. Ma non ho un motivo particolare per essere felice, in questi giorni. Tutto qui. Quindi sì, direi che è complicato.”
Mi prese la mano con la sua, dando una piccola stretta.
“Troverai qualcuno che ti darà tutti i tipi di motivi per essere felice” mi rassicurò, con un sorriso che mi scaldò il cuore. In un attimo, mi persi nei suoi occhi.
Il momento fu interrotto quando Addison si sedette davanti a noi. Ci voltammo entrambe per guardare lei.
“Lei è qui” disse velocemente. “Erica. È qui.”
L'espressione di Callie cambiò all'improvviso, diventando prima di puro sconcerto, poi di gelida indifferenza.
“Non mi importa. Non avrà il coraggio di venirmi a parlare, spero. Ha lasciato la città mesi fa senza neanche un saluto. Può tornarsene ovunque sia stata fino a questo momento.”
“Immaginavo che non ti sarebbe importato, ma, solo perché tu lo sappia, sta chiedendo a tutti qui dentro di te. È questione di tempo prima che trovi il tavolo. Quindi se vuoi andartene via, questo preciso momento sarebbe davvero un'ottima scelta” il suo sguardo, lentamente, ma con un chiaro scopo, scivolò nella mia direzione fino a posarsi dentro i miei occhi. Poi, velocemente, tornò dentro quelli di Callie. Si schiarì la voce. “Potremmo andare a cercare un ragazzo carino per Arizona” propose con casualità.
“Ehm, no grazie” intervenni, pur non comprendendo fino in fondo quello che mi stava accadendo attorno.
“Perché no?” chiese allora Callie. “È perfetto. Non hai detto di aver appena rotto con il tuo ragazzo?” si stava guardando distrattamente intorno.
Joanne era la mia ragazza. Io sono gay.”
“Che hai appena detto?” chiese Callie, voltandosi per guardarmi attentamente negli occhi con la fronte corrugata.
“Sono gay. Che c'è? È un problema?” chiesi incredula.
Lei si limitò a guardarmi, mantenendo un'espressione di strana perplessità.
“Perfetto” roteai gli occhi. “Adesso mio padre non solo sta per sposare una ventiduenne, ma a lei non va bene che io sia gay, proprio fantastico” mi morsi l'interno di una guancia. “Senti, almeno non parlargliene, d'accordo? Voglio farlo io. Quindi ti sarei grata se potessi dimenticare quello che ho appena detto.”
“Tuo padre non lo sa?”
Scossi appena la testa. “Solo mia madre per adesso. Per favore, non dirglielo” distolsi lo sguardo, a disagio.
“Ehi, no, ascolta. A me va benissimo l'essere gay, davvero. Non ti sto giudicando. Anzi, penso che sia fantastico.”
Addison scoppiò a ridere. “Ok, che ne dite di discuterne da un'altra parte? Sarebbe meglio che andassimo via da qui.”
“E allora andiamo” annuì, alzandosi. Uscì dalla panca e mi tese una mano per aiutarmi a fare lo stesso. La presi senza pensare.
“Allora le voci sono vere. Sai, quando mi hanno detto che eri entrata qui dentro con una ragazzina, stasera, ho pensato che stessero esagerando. Eppure eccoti qui con qualcuno che sono sicura potrei far buttare fuori da questo posto, se chiedessi ad uno dei ragazzi all'entrata di controllare un suo documento.”
“Hahn. Perfino l'inferno ti ha risputato fuori, vedo” la salutò Addison.
“Montgomery. Ho sentito che Shepherd ti ha piantato. Finalmente.”
Callie si mosse verso l'uscita senza lasciare la mia mano. Lo sguardo nei suoi occhi non poteva che voler dire guai.
“Callie, aspetta. Sono sicura che il lavoro come babysitter è pagato bene, davvero, ma se dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi.”
“Certo. Oh, no, aspetta. L'ultima volta che ti ho visto eravamo in un parcheggio e poi sei sparita nel nulla senza lasciare traccia, quindi no. Non saprei come trovarti. Ma non preoccuparti. Non cambierò comunque idea.”
Lo sguardo della donna davanti a noi si spostò verso di me.
“Ma guardati. Capelli biondi, occhi azzurri, sembri una mini-me. Solo di una decina di anni più piccola.”
Callie lasciò andare la mia mano e fece un passo avanti.
“Non è affatto come te. Non è una stronza, è gentile, sorride perfino. Se tu riesci a imparare come si fa, mandami una foto” il suo tono era aspro e freddo allo stesso tempo.
“Ragazzina, quanti anni hai? Sedici?” chiese a me, ignorando Callie.
“Ventuno” mentii. “Ma non vado in giro vestita come una vecchietta” ritorsi, squadrandola da capo a piedi. “Anche se sembra che vada di moda” osservai, con tono strafottente.
“Senti, piccola...”
Fece un passo verso di me. Callie fu veloce a fermarla con una mano.
“No. Dico sul serio, no. Sto tracciando un limite qui. Se ti vedo a meno di cinque metri da lei, te lo giuro Erica, te la farò pagare. E tu me lo devi, tu mi hai portato via qualcosa, e se ti importa qualcosa di me, o se ti è almeno mai importato, mi darai ascolto. Non supererai questo limite, mi pare il minimo che tu possa fare. Starai lontano da lei. Me lo devi” ripeté, voltandosi nella mia direzione, mettendomi una mano sulla schiena, e portandomi velocemente fuori dal locale.
Per tutto il tragitto, Addison rimase al suo fianco.
Mentre uscivamo, notai diversi sguardi verso di noi. Callie continuò a guardare in avanti, Addison verso il pavimento.
“Che diavolo è appena successo? Chi era quella tizia?” chiesi, appena la porta si richiuse alle nostre spalle.
“Nessuno” rispose immediatamente Callie.
“Bel colpo con la battuta della 'vecchietta', comunque” si congratulò Addison. “Centrata e affondata.”
“Addison, non sei d'aiuto.”
“Rilassati Callie. Non c'è niente da nascondere alla ragazzina, no? Non sono affari suoi in ogni caso” le rispose con una scrollata di spalle.
“Cosa non è affar mio?”
“Ti rendi conto di quanto devi essere ficcanaso per chiedere una cosa del genere? Cosa non è affar tuo, davvero?”
“Sono una persona estremamente curiosa, Calliope.”
“Oh, Dio. Adesso arriva” sussurrò Addison, facendo un'espressione buffa.
Ma non successe niente. Callie guardò verso sinistra, ignorando il commento, ed io la fissai, confusa.
“Adesso arriva cosa?”
“L'esplosione. Ne arriva sempre una, quando qualcuno la chiama in quel modo. Una volta io l'ho fatto e per poco non...cosa?” chiese, vedendo lo sguardo che le stava rivolgendo Calliope.
Lei alzò gli occhi al cielo.
“Lascia stare. Sta esagerando” mi disse. “Vieni. Andiamo a fare un giro.”
Scrollai le spalle, pronta a seguirla.
La porta si aprì all'improvviso, dal locale uscirono le tre donne che erano al nostro tavolo prima di tutto il casino.
“Ehi, hai visto la malvagia strega dell'ovest?” chiese Cristina. “A quanto pare non si era sciolta, sfortunatamente.”
“Hai...Ahm, hai visto con chi era?” chiese con attenzione Teddy.
“No. Con chi era?” chiese, poco interessata, Callie.
“Izzie e George. A quanto pare la biondina ha preso male il mio commento sull'avere una relazione con la cardiochirurgia e adesso vuole farmi il culo e prendere il mio posto quando verrà il momento di lavorare con la Hahn” spiegò Cristina. “Non mi sarà d'aiuto averle dato della 'puttana egoista' quando sarà la mia diretta superiore, ma perfino adesso posso dire che ne è valsa totalmente la pena” ricordò con un sorrisetto.
“Già. A proposito, non c'era davvero bisogno che lo facessi” rispose Callie con espressione dispiaciuta.
“No problem. Qualsiasi cosa per la mia coinquilina preferita.”
“E unica. Visto che nessuno vuole vivere nel tuo casino eccetto me.”
“Beh, eppure adesso ti sposi e mi lasci a vivere nel mio casino da sola. Tempo due settimane e la spazzatura mi arriverà fin sopra le ginocchia. Darò la colpa a te per quello.”
“Fai pure. Ma adesso andiamocene via da qui, ok?”
“La mia curiosità mi sta implorando di fare delle domande” annunciai. “Numero uno. Chi è che ha una relazione con la cardiochirurgia e perché un commento del genere dovrebbe farla arrabbiare?”
“Izzie Stevens. Perché due anni fa, quando ho fatto quel commento al nostro primo anno di medicina, era appena venuto fuori che stava avendo una relazione con il ragazzo della sorellina di Meredith, George. Lei vive ancora in Maryland e stavano avendo una relazione a distanza. Finché Izzie Stevens è capitata.”
“Io vengo dal Maryland. Baltimora.”
“Anche mia sorella abita lì. Frequenta la Baltimora West High School.”
“Scherzi? Quello era il mio liceo.”
“Davvero? Conoscevi Lexie Grey?”
“Oh mio Dio, tu sei la sorella della piccola Grey?”
“La gente la chiama ancora così?” chiese ridendo. “Ma adesso che io non ci sono più non c'è nessuna grande Grey.”
“Già, ma il piccola Grey è rimasto. Anche se adesso le dà fastidio. Sai, Mark era solito chiamarla così e adesso...”
“Ferma” intervenne Callie. “Quando parlavi della tua amica che aveva una relazione con un uomo più grande...Mark Sloan?”
“Mark Sloan” confermai.
“Non è cambiato per niente” affermò Addison, sorridendo. “Un tempo ero io la ragazza più giovane con cui aveva relazioni. Prima che si sistemasse in Maryland” aggiunse.
“Ok, non che non mi piaccia stare qui a parlare di quante assurde coincidenze ci siano nelle nostre vite, ma vorrei andarmene” fece presente Callie.
“Oh, certo. Andiamo a casa mia” propose Meredith. “Possiamo ubriacarci e sono sicura che a Daniel non dispiacerà se rimani da me.”
“Ah, non stasera ragazze. Devo riportare a casa la ragazzina sana e salva” scherzò, arruffandomi i capelli con una mano, mentre con l'altra estraeva le chiavi della sua meravigliosa auto. “Chi viene con me?”
“Mi lasceresti guidare?” chiesi con tono innocente.
“Ah. Come se ciò potesse mai accadere. Nessuno si avvicina alla mia piccola.”
“Ragazze, avreste dovuto vedere Arizona. Ha tenuto testa alla Hahn come se non avesse fatto altro per tutta la vita” iniziò a raccontare Addison. “Vi racconto mentre siamo in macchina. Ci vediamo lì tra cinque minuti” disse nella nostra direzione.
“Beh, credo che questo lasci solo me e te” mi disse, facendomi cenno di precederla verso la macchina.
Io la superai, sorridendo. “Proprio il modo in cui mi piace che sia.”
Lei strizzò leggermente gli occhi, osservandomi. Puntò un dito verso di me.
“Sai, avevo avuto l'impressione che ci stessi provando, in effetti. Ma non ho mai avuto un buon gaydar, quindi pensavo di essermelo solo immaginato. Ma adesso che ne sono sicura, dovrò chiederti di smettere.”
“Puoi provare se vuoi, a chiedermi di smettere. Suppongo che dipenda da quanto gentilmente me lo chiedi.”
“Lo stai facendo di nuovo.”
Le rivolsi un mezzo sorriso beffardo. “Lo so.”
Il viaggio in macchina iniziò silenziosamente.
“Allora, chi era questa Erica?” decisi di continuare con una delle tante domande che avevo in testa.
Lei rifletté per qualche momento. Infine, sospirò.
“Potrei mentirti, ma non ne vedo il punto. Erica è un'ex. Siamo uscite insieme per tipo, due mesi, o qualcosa del genere. Prima ragazza. Non un'esperienza facile. Immagino che tu sappia cosa intendo.”
“Non proprio. Io, ecco, sono sempre stata molto sicura riguardo l'essere attratta dalle ragazze. Non mi sono mai davvero posta il problema di capire se potevo cambiarlo, o aggirarlo, o ignorarlo, perché sapevo che non potevo farlo e, onestamente, non volevo.”
Lei sorrise, occhi sulla strada. Accostò davanti ad una grande casa, slacciandosi la cintura e voltandosi parzialmente verso di me.
“Mi fa piacere sentirlo. Tuttavia, per me le cose sono andate diversamente. Ho fatto sesso. Con un uomo. Molto. Per convincermi di non essere gay. Non ha funzionato. Così ho provato a vedere dove andavano le cose con Erica e per lei è stata come una rivelazione. Non avrebbe mai più neanche preso in considerazione l'idea di un uomo. Qualcosa sulle foglie e sugli occhiali e sulla miopia, credo. Un discorso davvero inquietante. In ogni caso, io non avevo avuto nessuna epifania. Così sono stata a letto con un uomo. Di nuovo. Ma non era diventato ripugnante.”
“Quindi...Sei bisessuale?” cercai di processare. “E allora? A chi importa?”
“A Erica importava. Secondo lei non potevo essere 'quasi lesbica'. Così mi ha piantato in un parcheggio senza un addio, delle spiegazioni, niente. Ha accettato un lavoro chissà dove e se ne è andata. E adesso è tornata. Ma io sono andata avanti.”
“Quanto tempo fa è stato?”
Rifletté per diversi momenti. Stava decidendo se essere sincera o meno, potevo dirlo con certezza.
“Vuoi la verità?”
“Certo.”
“Tre mesi fa.”
“Tre...E adesso stai per sposarti?”
“Già. Conoscevo già tuo padre. Lui era lì quando sono caduta a pezzi. Mi ha aiutato a rialzarmi da terra. Abbiamo iniziato a frequentarci e tutto è sembrato immediatamente...giusto.”
“Quindi lui lo sa? Di Erica?”
“Sì.”
“E...E cosa ti è sembrato che ne pensasse a riguardo? Del fatto...Del fatto che...”
“Che sono gay?” mi aiutò.
Annuii, a corto di parole.
“Dai più credito a tuo padre, Arizona. È un uomo di polso, ma è sempre disposto a cedere per le persone che ama. E lui ti ama. Sei la persona che ama di più al mondo” mi fece sapere dolcemente.
“Non ne sembri infastidita.”
Scosse la testa, un sorriso di disarmante meraviglia sul suo viso.
“È bellissima, Arizona, quella luce nei suoi occhi quando parla di te. Come se, per proteggerti, fosse disposto a tutto. È un amore così puro, così vero, che mi fa chiedere se un giorno sarò in grado di amare allo stesso modo. E se un giorno mia figlia o mio figlio mi ameranno nel modo in cui lui ama te.”
“Un tempo amava così anche mia madre” sussurrai, persa in ricordi che non sapevo neanche di avere. “Poi, sono successe delle cose e lui ha iniziato a bere e la sindrome da stress post traumatico è tornata a farsi sentire e le cose sono andate a rotoli piuttosto in fretta.”
“Mi dispiace” sussurrò con voce morbida.
“Non è colpa tua. È stato più di due anni fa.”
Cadde il silenzio.
“Lei gli manca” disse all'improvviso. “Non ne parla spesso, ma quando lo fa, puoi sentirlo nella sua voce. Lei gli manca.”
“Non sembri arrabbiata.”
Scosse la testa.
“Arizona, Daniel amerà tua madre con il suo ultimo respiro. È importante che tu lo sappia. Ma non pensa che lei riuscirebbe mai a perdonarlo.”
“Lo avrebbe fatto. Lo farebbe in ogni momento.”
“Lo so” sussurrò. “So che lo farebbe. Il modo in cui parla di lei basta per capire che il loro è quel tipo di amore che sopravvive a qualsiasi cosa.”
“Eppure lui sta sposando te” puntualizzai.
Lei distolse lo sguardo, osservando la strada davanti a noi.
Provò a spiegarmelo, ci provò davvero.
“A volte succede, per una strana serie di eventi, che ci troviamo a passare la nostra vita con qualcuno che non è la persona che abbiamo amato di più in assoluto. Questo non significa che non amiamo la persona che stiamo sposando. Significa solo che sappiamo che amare di più è possibile, anche se improbabile, ma sappiamo anche che l'amore si consuma. Possiamo scegliere testardamente di stare con l'amore della nostra vita, e non fare altro che litigare, oppure possiamo essere felici e amare di meno. Sono rari i casi in cui l'amore della tua vita è anche la tua anima affine.”
“Stai parlando dei miei genitori, non è vero?” chiesi con un nodo in gola delle dimensioni del Grand Canyon.
Lei annuì.
“Di certo non sto parlando di me” sussurrò, la voce velata di tristezza. “Io non sono capace di amare così.”
“Così come?”
“Così...intensamente. Come se la vita dovesse finire domani e l'amore non dovesse finire mai. Non so se capisci che intendo.”
“Lo capisco.”
Tornò a guardarmi negli occhi.
Per diversi secondi non disse niente. Poi mi prese le mani tra le sue, stringendole delicatamente.
“Tua madre non era felice. Tuo padre era un casino. Se n'è andato perché pensava che meritaste qualcuno migliore dell'uomo che lui poteva essere. Se n'è andato perché voleva riuscire a diventare quell'uomo. Ma non può tornare indietro, adesso. Non può farlo perché prima ha bisogno del vostro perdono.”
“Mia madre non lo perdonerà di certo vedendolo sposare un'altra donna.”
“Lo so. E lo sa anche lui. Ma quello che c'è tra noi, questa cosa, quello che stiamo facendo...Questo è qualcosa che sta facendo per se stesso. Tu e tua madre siete le persone che ama di più al mondo, ma non siete le sole.”
Annuii. Avevo capito. C'era riuscita. Non lo avevo mai capito fino a quel momento. Ma lei era riuscita a spiegarmelo.
“Grazie” mormorai.
“Quando vuoi” rispose in un sussurro. “Andiamo a casa adesso. Non sono più dell'umore giusto per ubriacarmi.”
“No?” la presi in giro.
“Nah. Mi hai fatto smettere di essere arrabbiata. Non so bene come, ma non me ne lamenterò” prese in mano il cellulare, componendo un numero mentre metteva in moto. “Addison, noi andiamo a casa. Lo so, mi dispiace. No, non sono io con la TBird davanti casa di Mer. Non so di cosa tu stia parlando. A presto.”

Ero stata nella villa di Miami per un mese.
Ed avevo scoperto che era di Calliope. La ragazza era ricca sul serio. Beh, i suoi genitori lo erano. Dolorosamente, dovetti ammettere a me stessa che mi piaceva averla attorno.
Non avevo amici a Miami, e lei voleva che mi divertissi. Quindi passava tutto il suo tempo insieme a me.
Durante il giorno stavamo per la maggior parte delle volte a casa.
Le altre volte, andavamo a fare spesa per la casa insieme, o a fare shopping, o a provare un ristorante etnico particolare. Fino a quel momento, eravamo state in un ristorante Cinese, in uno Greco, Giapponese, Messicano, Italiano e Turco.
Ma quei momenti, erano i miei preferiti.
Indossavo i miei occhiali da sole, quindi non poteva vedermi mentre la fissavo. E lei se ne stava seduta sul bordo della piscina, rivolta nella mia direzione, gli occhi chiusi, le mani leggermente dietro la schiena, a cercare di abbronzarsi più di quanto già non fosse, come se quello fosse possibile.
Era così bella.
Come poteva esistere qualcuno di così assolutamente privo di difetti?
Non mi era mai capitato di pensare che potesse esistere al mondo qualcuno come lei. Invece, non solo esisteva, ma io l'avevo anche incontrata.
Avrei potuto passare giorni interi a guardarla. Anzi, in realtà, lo avevo fatto. E non ne rimpiangevo neanche un secondo.
Mi tolsi gli occhiali da sole, calandomi dentro la piscina. Lei aprì gli occhi a causa del rumore e, vedendomi dentro, fece la stessa cosa.
“Allora” iniziai avvicinandomi lentamente. “Quale è la tua posizione riguardo l'adulterio?”
Alzò un sopracciglio nella mia direzione.
“Tecnicamente, prima del matrimonio non è adulterio.”
“Fantastico.”
“E, comunque, io non tradisco.”
“Questo non è fantastico.”
“Arizona, non avevamo concordato che avresti smesso?”
“No. Tu hai detto 'smetti' e io ho detto 'no'. Questo non è concordare. Per concordare le due persone devono pensarla allo stesso modo riguardo il problema di cui si sta discutendo, giusto? E noi non la pensiamo di certo allo stesso modo. Riguardo il problema 'Arizona, smetti di provarci con me', intendo.”
“Arizona, smetti di provarci con me.”
“No” risposi. “Visto? Non siamo d'accordo.”
“Arizona.”
“Calliope.”
“Sei una ragazzina, lo sai, vero? Altrimenti avresti smesso di fare così dopo la terza volta in cui ti ho chiesto di smettere.”
Sarebbe suonata più convincente se fosse stata seria. Ma il suo sorriso la tradiva. Si stava divertendo.
Mi sollevai a sedere sul bordo della piscina, prendendo la sua mano e tirandola verso di me, finché non fu tra le mie gambe. Passai le braccia attorno al suo collo, guardandola negli occhi dall'alto verso il basso.
“Pensi che potremmo rimanere amiche?” chiesi, interrompendo il contatto visivo per abbracciarla.
“Arizona” appoggiò una mano sulla mia schiena e l'altra sulle mattonelle alla mia destra per sollevarsi appena e poter ricambiare meglio l'abbraccio. “Non ti illuderò. Io e te non staremo mai insieme.”
“Lo so. Amiche non vuol dire niente di più che amiche. Se ti avessi chiesto, faremo mai sesso? Allora avresti potuto rispondermi di no e fare una faccia incredula. Ma amiche significa davvero solo amiche. Mi piace averti attorno. Mi piace il modo in cui mi fai sentire tranquilla. Mi piace il fatto che adesso ho almeno un motivo per essere felice. Tu sei un motivo abbastanza valido, sei la mia migliore amica. E ti assicuro che questa è l'ultima cosa che avrei pensato di dire sulla mia futura matrigna.”
Voltò la testa di lato, baciandomi sulla tempia.
“Sei così dolce che finirò per avere i denti cariati, ragazzina. Ma anche tu sei diventata mia amica, quindi suppongo di avere le mani legate. Non credo che tra un paio di mesi ti lascerò andar via promettendo di non parlarti mai più.”
Eravamo raramente così.
La maggior parte delle volte, fingevamo di darci sui nervi.
Era più facile per tutti. Era più facile soprattutto per me, quando mi ricordavo che la donna che stavo tenendo tra le braccia, era il motivo per cui mio padre non stava tornando a casa.
E lei accettava i miei sbalzi d'umore senza mai farmeli pesare troppo, tenendo il passo con le mie frecciatine.
Poi c'erano quei momenti in cui dimenticavo che stava per sposare mio padre e mi ricordavo solo che si stava per sposare.
E forse era anche peggio. Ma non le avevo mai detto qualcosa del genere.
E poi arrivavano momenti come quello.
Momenti in cui potevo abbracciarla e sentire il suo corpo appena uscito dall'acqua coperto solo da un costume premuto contro il mio e l'adolescente in me si riteneva pienamente soddisfatta.
Momenti in cui la guardavo negli occhi e per un istante, un solo istante, immaginavo come sarebbe stata la vita se le cose fossero state più semplici.
Momenti in cui non avrei voluto altro che dirle che quando la guardavo, o anche solo sentivo il suo profumo, il cuore mi batteva all'impazzata.
E quella sensazione di pace, di tranquillità, di felicità perfino, che sentivo, era dovuta a lei.
Era passato solo un mese. Come poteva rendermi felice? Come potevo...
“Callie, sei a casa?”
Si allontanò lentamente, guardandomi negli occhi. Mi baciò sulla guancia, districandosi poi dal nostro abbraccio e uscendo dalla piscina.
“Sul retro” rispose, mettendosi sdraiata sul lettino che avevo occupato io fino a poco prima ed indossando i miei occhiali da sole.
Quando nascondeva i suoi occhi, qualcosa la turbava.

“Sai, sono una persona molto curiosa.”
“Me lo hai già detto” mi fece notare.
“Questo significa che ho in testa più o meno un migliaio di domande al secondo.”
Lei rise, non distraendosi dai fornelli.
“Me ne fai la maggior parte” mi fece notare di nuovo.
“Ti dà fastidio? Perché posso cercare di smettere.”
“Non mi dà fastidio” mi rassicurò.
“Sicura? Perché alla maggior parte delle persone dà fastidio.”
“Non a me.”
“Quindi prometti di non arrabbiarti per una domanda? Neanche quando sarai arrabbiata con me per qualcosa di diverso?”
“Prometto.”
“La maggior parte delle mie domande sono inappropriate. Ma non riesco a fermarmi in tempo. È come se non avessi niente per tenere lontano le cose che penso dalla parte di me che le dice ad alta voce.”
Lei rise, voltandosi ed avvicinandosi a me con una forchetta in mano, l'altra sotto di essa per evitare che il contenuto cadesse a terra.
“Assaggia. Ti sembra cotto?”
Si avvicinò a me, facendomi assaggiare il riso che stava cucinando.
“Perfetto” mormorai, senza neanche aver ingoiato.
“Puoi farmi tutte le domande che vuoi, Arizona. E se qualcuna è oltre il limite, mi limiterò a non rispondere.”
“D'accordo. Stasera vuoi uscire?”
La maggior parte delle sere, mi portava in giro. Mi aveva mostrato Miami di notte, che trovavo bellissima, una sera mi aveva portato a vedere una partita di Baseball dal vivo, un'altra eravamo andate in una piccola spiaggia in cui si avventurava quando era piccola. Era oltre diversi scogli, un po' fuori mano, ma ne valeva del tutto la pena.
Io e lei stavamo insieme molto più tempo di quanto stavamo insieme io e mio padre. E anche di più di quanto stavano insieme lei e mio padre.
Dato che non ci vedevamo spesso, Daniel passava con me ogni momento in cui lui non era a lavoro e io non ero fuori con Calliope.
In pratica, loro due, si vedevano solo durante la cena e in poche altre occasioni. Ad entrambi sembrava andare bene così. Non sembravano esattamente due persone che stavano per sposarsi, in realtà.
Ma, conclusi dopo una lunga riflessione, quelli non erano affari miei.

“Sono qui da un mese e mezzo, ormai. Come mai non ho mai incontrato i tuoi genitori?”
“Io e i miei genitori abbiamo una politica ferrea sulle visite reciproche, in modo da tenere le liti familiari ad un minimo.”
“Quale politica?”
“Natale, Ringraziamento, Compleanni e Anniversari.”
“Cavolo. Non sembra che vi vediate molto spesso.”
“Già, questo è quello che tiene le liti familiari al minimo.”
“Ma adesso che stai per sposarti, non dovrebbero essere intorno più spesso?”
“Verranno al matrimonio. Fine della partecipazione che voglio che abbiano in questa storia. Se li vedessi più spesso, finirebbero per il rovinare tutto, dammi retta.”
“A proposito del matrimonio, come mai non ti vedo organizzare mai qualcosa?”
“Sarà una cosa intima. Amici e parenti stretti, una ventina di invitati al massimo. Non vogliamo addobbi nella Chiesa e non faremo nessun ricevimento dopo. Siamo entrambi dell'opinione che il matrimonio riguardi un legame, non una cerimonia. Quindi tutto ciò che abbiamo fatto è stato prenotare una chiesa e comprare degli abiti.”
“Hai già il tuo?”
“Sì. Vuoi dare un'occhiata?”
“Sarebbe fantastico.”
Mi fece cenno di seguirla al piano superiore.
“E i vestiti delle damigelle?”
“Niente damigelle.”
“Oh.”
“Tuo padre ha telefonato a tua madre. Verrà un paio di settimane prima del matrimonio, in modo da potermi conoscere e tutto. Ho detto di chiederle di rimanere qui, ma Daniel dice che ha declinato. Magari potresti convincerla tu. Mi sento in colpa per costringerla a dover pagare un albergo quando qui ci sono stanze vuote in abbondanza.”
Aprì l'armadio, estraendone un vestito bianco molto semplice.
“È molto bello” mi complimentai. “Mi rincuora che tu non abbia scelto una cosa enorme fatta di tulle e merletti.”
Rise. “Rincuora anche me. Fare le cose in pubblico mi mette ansia. Non avrei mai potuto indossare niente del genere davanti a più di tre persone alla volta.”
Ricambiai la risata, poi spostai nuovamente lo sguardo verso il vestito e il mio sorriso vacillò. Lei mi osservò per diversi istanti senza dire niente.
“Non dovresti sposarlo” sussurrai.
Avevo un nodo enorme alla gola. E sono sicura che poteva vedermi gli occhi brillare a causa delle lacrime che mi rifiutai di piangere.
“Arizona” sospirò. “Credevo che avessimo chiarito che tuo padre...”
“Non perché è mio padre” scossi la testa, interrompendola subito. Poi alzai il viso e incontrai il suo sguardo. “Non dovresti sposare...” scossi la testa, chiudendo forte gli occhi e voltando il viso verso il basso.
Era stupido.
Niente mi dava il diritto di fare pensieri come quello.
E lei aveva messo in chiaro fin dall'inizio che io e lei non saremmo mai state insieme.
Eppure, era quello che pensavo. Era quello che sentivo. Era quello che avrei voluto dirle tutto il tempo.
Ma non potevo.
“Mi dispiace” mi scusai in un sussurro. “Forse sono davvero la bambina che pensi che io sia” mi arresi, uscendo dalla stanza e chiudendomi nella mia.
Era arrivato il momento di crescere, però.
Di chiudere gli occhi e far finta di niente come qualsiasi altra persona adulta avrebbe fatto al mio posto.

Il silenzio in cui eravamo era una delle cose più tranquillizzanti e piacevoli che avessi mai sperimentato.
Avevo la testa appoggiata sulla sua spalla. Era stesa sulla schiena vicino a me, io ero sul fianco sinistro. Il sole aveva contribuito a cullarmi fino a uno stato di dormiveglia, accompagnato dal lento movimento della sua mano destra sulla mia schiena.
“Questa casa è fantastica. Credo che verrò a trovarvi durante tutte le mie prossime vacanze invernali, lasciando i poveri sfigati del Maryland immersi nel gelo, e tornerò indietro con un'abbronzatura.”
La sentii ridere con la voce più roca del solito. Probabilmente a causa del sonno.
“E tu potresti venire a trovarmi in primavera” proposi. “E potrei passare le estati con te e Daniel, quando il college è chiuso.”
“Sarebbe bello averti attorno così tanto” sussurrò più a se stessa che davvero a me.
“Cristina impazzirebbe” risi. “Credo che il vedermi sorridere le dia sui nervi.”
“Non è il vederti sorridere. È il vederti sorridere sempre. Tutto il tempo. Costantemente.”
“Sono una persona solare” risposi, colpendola scherzosamente su un braccio.
“Lo so. Ecco perché le dai sui nervi. È quel tuo sorriso con le fossette.”
Continuai a ridere.
Aprii gli occhi per guardarla. Lei aveva i suoi chiusi. Un sorriso felice giocava sulle sue labbra, i capelli ancora umidi a causa della piscina.
Dovevo smettere di farmi cogliere impreparata dalla sua perfezione.
Ogni volta mi toglieva il fiato.
Ma, del resto, come potevo essere preparata a qualcosa di così tremendamente perfetto?
Sollevai la testa, scostandole una ciocca di capelli bagnati dal viso. Poi mi abbassai, baciandola sulla guancia.
Aprì gli occhi. Le lacrime che li riempivano in contrasto con il dolce sorriso ancora fermo sulle sue labbra.
“Mi mancherà il tuo sorriso.”
Non pianse. Non l'avevo mai vista piangere. Ma non l'avevo mai vista nemmeno con le lacrime agli occhi. Eppure, aveva le lacrime agli occhi.
Appoggiai la fronte sulla sua guancia, appoggiando una mano sull'altra e cercando di non dire quello che in realtà volevo dire.
“Mi mancheranno i tuoi occhi” risposi sommessamente.
Mi abbracciò.
“Promettimi soltanto che sarai felice, ok? Più felice di quanto io avrei mai potuto renderti.”
Le sue parole mi colsero alla sprovvista.
E per giorni non avrei fatto che pensare a ciò che mi aveva detto in quel momento.
Ma, allora, mi limitai a risponderle, con assoluta sincerità.
“Non posso promettertelo. Sai che mantengo sempre le mie promesse.”

“Devo parlarti.”
Alzò lo sguardo, osservandomi per un momento.
“Devo parlarti di una cosa. Mamma pensava che fosse meglio che lo facessi di persona, così ho pensato che avrei potuto farlo in questi mesi. Ma fino ad adesso non sono mai riuscita a decidermi a parlartene, quindi devo farlo adesso. All'inizio pensavo che avrei dovuto aspettare fino a dopo il matrimonio, in caso che avessi deciso di cacciarmi via. Ma non posso aspettare un altro mese, ho bisogno di parlartene adesso” annuii, per convincere me stessa ancor più di lui.
Continuò a fissarmi da sopra gli occhiali che stava indossando, cercando di ignorare il fatto che avevo appena parlato a vanvera per due minuti.
Con calma, posò il giornale che stava leggendo sul piccolo tavolo di legno davanti a se stesso, togliendosi gli occhiali.
Mi fece segno di mettermi seduta sulla poltrona, alla destra del divano che stava occupando lui.
“Puoi parlarmi di qualsiasi cosa, Arizona, lo sai.”
Sospirai, sedendomi.
Avevo pensato diverse volte a come avrei iniziato il discorso. Ne avevo perfino preparati un paio, nei miei momenti più profondi di panico. Ma adesso qualsiasi parola anche solo vagamente utile era come se fosse stata rimossa chirurgicamente dal mio cervello.
Lui continuò a guardarmi, senza fare pressioni, senza perdere la pazienza.
Cercai a lungo le parole adatte, finché capii che non c'erano parole adatte.
“Sono gay.”
Ero pronta per sentirmi dire: 'Quanto diavolo ci metti ad andartene da casa mia?'
Invece lui mi chiese: “Sei ancora la persona che ho cresciuto?”
Sembrava una domanda retorica, di cui lui comunque conosceva già la risposta. Come se per lui fosse scontato.
Ci riflettei per un momento.
Ero stata cresciuta da mio padre per essere un brav'uomo in mezzo alla tempesta. E di certo non ero perfetta, ma ero una brava persona. Ero la persona che lui aveva cresciuto. Ero un brav'uomo nella tempesta.
“Sì, papà.”
“Questo è tutto quello che importa, Arizona. Sei esattamente chi ti ho cresciuto per essere. Non potrei essere più orgoglioso di te.”
Indossò di nuovo gli occhiali, prendendo in mano il giornale e aprendolo dalla pagina a cui si era interrotto.
“E comunque, tesoro, io lo sapevo già. Tua madre all'inizio pensava fossi pazzo. Tim, invece, ha sempre saputo che avevo ragione io.”
Avevo le lacrime agli occhi.
Non dissi nient'altro.

“Se ti dico qualcosa prometti di non odiarmi?”
“Arizona, non potrei mai odiarti” mi sorrise.
“Vorrei che tornasse a casa.”
Il suo sorriso sparì lentamente.
“Vorrei che tornasse a casa perché non è affatto vero che mia madre è andata avanti. Lo vorrei perché lei riesce ad essere felice solo con mio padre affianco. Quindi vorrei che tornasse a casa. E mi sento in colpa ogni volta che lo penso, perché so che lui ti rende felice, ed io voglio che tu sia felice, davvero. Ma a volte penso solo che le cose sarebbero più facili se lui tornasse a casa e potesse essere felice con mia madre e rendesse felice mia madre e lasciasse a me un'occasione per provare a rendere felice te. A volte penso solo che questo non è il modo in cui le cose dovrebbero essere.”
Appoggiò i gomiti ai lati del piatto che aveva davanti, incrociandosi le mani davanti alla bocca e guardandomi negli occhi.
“Dicono che in amore vince chi fugge. Questo dovrebbe voler dire che chi rimane soffre, mentre chi se ne va soffre di meno o non soffre affatto. Lasciami dire una cosa a riguardo. È una cazzata. Tuo padre ha spezzato il suo stesso cuore più del vostro. Tu hai perso tuo padre. Barbara ha perso suo marito. Devastante, no? Daniel ha perso sua moglie e sua figlia. Come pensi che si sentisse? Come pensi che si senta?”
Si alzò, prendendo il proprio piatto e appoggiandolo dentro il lavandino alle sue spalle, rimanendo girata verso la parete, le mani appoggiate al lavandino, la testa bassa.
“Anche io vorrei che potesse solo ingoiare il suo orgoglio e tornarsene dove vuole davvero essere. A casa vostra.”

Stavamo guardando un programma alla televisione. Era una cosa stupida, un gioco a premi. Ce la stavamo spassando a prendere in giro i partecipanti che si mettevano in ridicolo.
Mio padre entrò, trovandoci che ridevamo come pazze.
“Arizona, dobbiamo parlare.”
“Dimmi papà” risposi distrattamente.
“Tua madre sta prendendo l'aereo adesso. C'è stato un problema.”
“Che problema?” chiesi, distogliendo finalmente gli occhi dallo schermo.
“Arizona, lei si è...Si è dimenticata di prenderla, tesoro.”
Improvvisamente, ogni traccia di umorismo era stata spazzata via da me.
“Non può essere. Mi sono raccomandata con lei almeno un migliaio di volte.”
“Era di fretta, ha quasi mancato il volo. Si è ricordata di averla lasciata a casa solo in aeroporto. Mi dispiace.”
“No” mi alzai dal divano. “Papà, no. Può tornare indietro...”
“Stava già salendo. E sai che deve essere qui per domani se vuole andare a quell'incontro che ha organizzato la sua compagnia.”
Mia madre era sempre pronta a bilanciare lavoro e vita privata. Il suo capo aveva acconsentito a due settimane lontano da Baltimora solo a condizione che partecipasse a delle riunioni a cui avrebbero in ogni caso dovuto mandare qualcuno.
“Allora puoi andare tu. Sarai qui di nuovo tra meno di tre giorni.”
“Arizona, io devo lavorare, lo sai. Vorrei davvero poter andare.”
“No, papà non farlo. Sai che io ho paura di volare. È il motivo per cui ho preso il treno e gli autobus la prima volta, il motivo per cui non potevo portarla io.”
“Lo so, tesoro.”
“Non posso rifare tutto il viaggio di andata e ritorno, la prima volta ci sono riuscita solo perché c'erano ancora degli autobus scolastici in servizio. Ma adesso siamo alla fine di Agosto, ci vorrebbe chissà quanto per arrivare a casa.”
“Lo so tesoro.”
Capii che intendeva dal suono arreso della sua voce. Nessuno sarebbe tornato indietro a quel punto.
“No, papà ti prego, non puoi sposarti se Tim non è qui.”
Avevo le lacrime agli occhi.
“Arizona, quella bandiera non è tuo fratello.”
“Ma è tutto ciò che rimane di lui” mi prese le spalle delicatamente tra le mani.
Io mi scrollai di dosso la sua presa, indietreggiando di un passo.
Quando lo feci, altre due braccia, forti, accoglienti, mi fecero sentire al sicuro.
“Ti accompagno in macchina. Sono diciotto ore, all'incirca, giusto? In due giorni andiamo, in due giorni torniamo. Al massimo tra una settimana saremo di nuovo qui, giusto in tempo per aggiustare gli ultimi dettagli per il matrimonio.”
“Callie, non sei obbligata...” iniziò mio padre.
“Voglio farlo” lo rassicurò. Guardò i miei occhi lucidi. “Per Arizona è importante, quindi è importante. Partiamo domani mattina, ok? Prepara uno zaino o qualcosa del genere” mi disse, stringendo un'ultima volta la mia spalla prima di allontanarsi.
Annuii, correndo al piano superiore. Subito dopo aver finito di preparare una piccola valigia, aprii la porta, origliando.
Era così che facevo quando litigavano i miei genitori. Era così che avevo sentito quando mio padre diceva a mia madre che se ne sarebbe andato. Era così che sentii loro.
“No, senti, non posso farlo.”
“Callie, ormai è tardi per i ripensamenti.”
“Non sto più cambiando solo la tua vita, qui. Non ci siamo in ballo solo noi, Dan.”
“Lo so questo. Non si è mai trattato solo di noi. Ma che altro dovremmo fare? Mi sembra l'unica soluzione, non ne vedo altre, non ne abbiamo viste altre, o non saremo qui a discutere di questa cosa.”
“Senti, lascia perdere. Annulliamo tutto. Tu, tu devi tornare a casa, da Arizona e da tua moglie. Loro hanno bisogno di te.”
“Barbara ha chiesto il divorzio due anni fa. Non ha bisogno di me, o avrebbe tentato di farmi tornare indietro, non mi avrebbe spinto via definitivamente.”
Non avevo saputo, fino a quel momento, chi dei miei genitori era stato a chiedere il divorzio.
“Dan, loro ti rivogliono indietro. E tu vuoi tornare indietro. Io troverò un altro modo. Ma tu, tu devi andare. Dico sul serio, devi...devi andare.”
“No.”
“Sì, invece.”
“No. Tu domani mattina salirai su quella macchina e andrai nel maledetto Maryland e tornerai indietro e mi sposerai. Fine della discussione.”
“Daniel.”
“Credi che non sappia che questa è una pessima situazione in cui trovarsi? Ma ci siamo dentro entrambi. Ne siamo parte, siamo parte del problema, quindi dobbiamo essere parte della soluzione. La colpa è in parte mia, quindi voglio assumermi le mie responsabilità. I tuoi genitori, vogliamo parlarne? No, l'unica cosa da fare è andare fino in fondo. Ed è quello che faremo.”
Fu allora che lo capii.
Calliope stava aspettando un bambino.
Asciugandomi velocemente le guance, rientrai silenziosamente in camera, mettendo la sveglia presto, in modo da partire il prima possibile.

“Sei arrabbiata?” chiese, dopo le prime due, silenziosissime, ore di viaggio in macchina.
“No” risposi sommessamente.
“Sembri arrabbiata.”
“Non lo sono.”
“D'accordo.”
Prese un sorso del caffè che si era portata.
“Sai, non dovresti bere caffè. Dicono che faccia male ai bambini.”
“Sei tu quella che ha diciotto anni, io non sono più una bambina.”
“Intendo che fa male alle donne incinte.”
“Cosa?” rise. “Io non sono incinta.”
“Ah, no?” chiesi freddamente, chiaramente convinta del contrario.
“No” rise un'ultima volta, prima di tornare seria. “Certo che no. Che ti ha fatto venire in mente una cosa del genere? È un modo poco carino per dire che mi trovi ingrassata?”
Fu solo allora che ci pensai. Se avevano organizzato il matrimonio perché lei era incinta, doveva esserlo da un bel po', quindi avrebbe dovuto avere almeno un accenno di pancia. Invece, il suo addome era perfetto come lo era sempre stato.
“No, al contrario. Ma ieri sera, tu e Daniel...”
“Sai, dovresti proprio smetterla di chiamarlo così. Gli si spezza il cuore ogni volta.”
“Lo so. Hai ragione.”
Cadde il silenzio.
“Che stavi dicendo di ieri sera?” mi incoraggiò a continuare.
“Vi ho sentito parlare” confessai. “Da come ne parlavate, sembrava che ci fosse un motivo diverso dall'amore per cui vi state sposando. Ho semplicemente pensato...”
“Hai origliato?” chiese, incredula.
“No” mi difesi. “La porta della mia camera era aperta, e non eravate esattamente silenziosi.” Ok, sì, in realtà, avevo origliato. Ma non potevo di certo dirle la verità.
“Arizona, senti, le cose sono complicate. Non immischiarti in questa storia, ok? Sappi solo che le cose andranno per il meglio.”
Guardai il suo profilo a lungo.
“Come ti pare” borbottai, tornando a guardare fuori dal finestrino della TBird.

Circa sette ore dopo ci fermammo per la notte in un albergo vicino alla strada. Ero stanca e logorata dall'insostenibile silenzio.
Le cose tra noi non erano mai state così, e non mi piaceva che lo fossero.
Prese una sola stanza, quella che costava di meno.
“Credevo fossi ricca” osservai quando si richiuse la porta alle spalle.
“Oh, adesso miss-maturità mi parla di nuovo. Che onore” rispose con voce carica di ironia. Chiuse la porta a chiave. E fece bene, quel posto dava seriamente i brividi. “Ti ho detto un milione di volte che sono i miei genitori ad essere ricchi. E che ultimamente le cose tra noi non stanno andando molto bene.”
Posai la valigia a terra, stendendomi al centro del letto a due piazze.
“Quale lato vuoi?” chiesi.
“Quello dove non stai tu” rispose, appoggiando la valigia sul pavimento ed aprendola.
“Davvero?” chiesi con un sorrisetto. “Perché io stavo tipo sperando che invece volessi dividere la mia metà.”
Ed ecco che eravamo di nuovo noi due.
Rise, tirando fuori una maglietta a maniche corte.
“Un'ottima idea. Perché tenersi lontano da una tentazione se puoi dormirle accanto, giusto?”
“Oscar Wilde diceva che l'unico modo per liberarsi da una tentazione, è cedervi.”
“Oscar Wilde diceva anche che le domande non sono mai indiscrete, ma lo sono, talvolta, le risposte. Oscar Wilde, chiaramente, non aveva conosciuto te.”
Risi, ma la risata mi morì in gola quando lei mi si spogliò davanti agli occhi.
“Vedo che adesso non hai più parole” sussurrò, mettendosi la maglietta che aveva preso prima dalla valigia.
Si infilò dentro il letto, voltandosi verso la parete, le spalle nella mia direzione.
“Allora, vuoi rimanere lì o preferisci venire sotto le coperte?” chiese, la voce già un po' addormentata.
Io mi alzai, cambiandomi velocemente. Lei rimase voltata. Non sbirciò, neanche una volta. Come lei, mi lasciai solo una maglietta. Fuori c'erano quasi trenta gradi.
Entrai dentro il letto, cercando di non fare rumore.
“Calliope, sei sveglia?” sussurrai nell'oscurità.
“No.”
Sorrisi, avvicinandomi a lei e posando cautamente una mano sulla sua vita.
“Mi dispiace averti trascinato in questo viaggio.”
“Non dispiacerti. A me non dispiace. E capisco perfettamente perché lo hai fatto.”
Deglutii. “Mi manca Tim” confessai in un sussurro mozzato.
Lei si mosse, prendendo la mano che avevo sul suo fianco con la sua, intrecciando le nostre dita, coprendo il mio dorso con il suo palmo, e permettendomi di abbracciarla, facendo scivolare le nostre mani verso la sua pancia.
“Adesso dormi, ok? Lunga giornata domani.”
Appoggiai il palmo della mia mano contro il suo addome.
“Calliope?”
“Sì?” rispose con voce piena di sonno.
“Non sei assolutamente incinta.”
La sentii ridacchiare.
Mi avvicinai a lei il più possibile.
Stavamo spesso abbracciate. Ma mai in un letto a due piazze. E mai in un letto a due piazze con solo delle magliette addosso.
Il suo profumo mi aveva accerchiato.
La baciai sulla spalla.
“Buonanotte.”
“Dormi bene.”
Io ero innamorata di lei.

“Questa macchina è la cosa in assoluto più bella della storia.”
“Già. È per questo che tu non la toccherai mai neanche con un dito.”
“Tecnicamente, ci sono seduta dentro.”
“Hai capito che intendo, saputella.”
“Andiamo, neanche cento metri?”
“Neanche mezzo secondo. Ma puoi sempre comprartene una uguale da grande.”
“I tuoi commenti riguardo la mia età stanno diventando obsoleti. Dovresti trovare qualcos'altro di cui lamentarti.”
“Hai ragione. Credo che il secondo punto sulla lista siano i commenti inappropriati su una nostra ipotetica relazione.”
“Ipotetica, per adesso.”
“Tipo questo” mi fece notare. “C'è una stazione di servizio tra un chilometro. Mi fermo, chiamo tuo padre, tu nel frattempo puoi comprare qualcosa da mangiare se hai fame.”
“D'accordo.”
“Stai solo attenta agli sconosciuti e non accettare caramelle da nessuno” si raccomandò.
Scossi la testa, ignorando il suo commento. Scesi dalla macchina, lei fece altrettanto, sedendosi sul cofano posteriore e guardandomi mentre ascoltava il telefono squillare.
“Daniel, sono Callie. No, siamo appena...È un brutto momento? Sento qualcuno...ridacchiare...in sottofondo, o qualcosa del genere. Posso richiamare più tardi, se vuoi” propose, un'espressione confusa sul suo viso. “No, volevo solo dirti che siamo quasi arrivate. Domani saremo a casa vostra, al massimo dopodomani ripartiamo” ci fu una pausa. “No, sta bene, è proprio qui. Te la passo” tese il telefono verso di me.
“Papà?” risposi.
“Ehi, tesoro. Come vanno le cose?”
“Alla grande. Calliope è fantastica, come sempre. C'è qualcuno con te?” sentivo una risata in sottofondo.
“No, figurati. Sto solo...pranzando, con tua madre.”
“Ah. Senti, dobbiamo andare. Ci sentiamo domani.”
“D'accordo. Ciao, tesoro.”
Riagganciai. Alzai lo sguardo verso Calliope, la fronte corrugata.
“Era con mia madre.”
Lei scrollò le spalle.
“Sì. Sembrava si stessero divertendo. Vieni. Compriamo qualcosa da mangiare e poi ripartiamo.”

Chiuse la stanza a chiave. Doppia mandata.
Gettai la maglietta con cui dormivo sul letto, voltandomi verso di lei.
“Ancora non capisco perché non possiamo permetterci un albergo decente.”
“E io non capisco come sono finita ad accompagnare una bambina in un viaggio in auto attraverso il Paese. Ognuno ha i suoi problemi.”
“Ed ecco di nuovo che sono una bambina” borbottai. “Sai cosa, mi sono stancata. Mi sono stancata di essere tenuta all'oscuro di tutto. Qui tutti sanno cosa sta succedendo tranne me. Ed ho il diritto di saperlo.”
“No, invece. Dovresti solo farti gli affari tuoi, per una volta in vita tua.”
“Questi sono affari miei, Calliope. Hai detto che c'erano altre persone coinvolte, io e mia madre siamo due di quelle persone. Ti ho sentito fare i nostri nomi” incrociai le braccia al petto. “Quindi penso sia giusto che tu mi dica cosa sta succedendo.”
“Niente. Non sta succedendo niente.”
“Questa è una patetica bugia, e tu lo sai.”
“Vai a letto.”
“Calliope, non è una discussione che puoi ignorare.”
“Arizona. Vai a letto.”
“No.”
“Ragazzina.”
“Bugiarda.”
“Ficcanaso.”
“Codarda.”
Quello la colse di sorpresa.
“Se avessi un minimo di coraggio, ammetteresti che provi qualcosa per me.”
“Se avessi un minimo di orgoglio, smetteresti di inseguire qualcuno che continua a rifiutarti.”
“Mi rifiuti solo perché non sei disposta nemmeno correre un rischio.”
“E perché dovrei? Per te? Non ne vale neanche la pena.”
Quello mi fece stare zitta.
Mi limitai a guardarla negli occhi, senza dire una parola.
“Ok, questo non è...” si passò una mano sugli occhi, prima di guardarmi di nuovo. “Non è vero, Arizona. Tu vali la pena di correre qualsiasi rischio. E lo avrei fatto - lo farei - in un attimo, se dipendesse solo da me, ok?” fece un passo verso di me. “Ma non sono l'unica persona a cui devo rendere conto, lo capisci?”
“No. No, non lo capisco.”
Si avvicinò ancora, mettendomi le mani sulle spalle, trascinandole lungo le mie braccia fino a prendermi le mani tra le sue.
“Un giorno capirai. Spero che tu non debba mai trovarti al mio posto, a scontare gli errori di qualcun altro. Ma la vita è ingiusta e le cose brutte accadono e io devo pagare per lo sbaglio di qualcuno che amo.”
Guardai in basso a lungo, incapace di incontrare il suo sguardo. Alla fine, alzai il viso verso il suo. Lei sembrò aver preso una scossa. L'espressione sul suo viso divenne di profonda tristezza.
“Ti prego, non guardarmi così.”
“Così come?”
“Come se non mi conoscessi. Come mi guardano tutti gli altri.”
Non risposi. Non mi mossi.
Chiuse gli occhi, abbassandosi per appoggiare la sua tempia contro la mia.
Voltai il viso di lato, sfiorando con la punta del naso la punta del suo.
“Per cosa stai pagando, Calliope? Cosa è successo?” domandai in un sussurro, accarezzandole i capelli con una mano.
La sentii avvicinarsi ancora di più. Poi si bloccò. Si tirò di nuovo indietro, voltò la testa di lato, poi si allontanò del tutto da me.
Rimpiansi di aver parlato. Rimpiansi di aver anche solo respirato. Perché qualcosa l'aveva spinta ad allontanarsi da me.
“Sono al verde. Ecco perché le stanze da due soldi e il cibo da autogrill.”
Si lasciò cadere seduta sul letto, appoggiandosi una mano sulla fronte.
“I miei genitori mi hanno tagliato i fondi quando gli ho detto di essere gay. Voglio dire, pagano ancora per il college e la manutenzione della casa in cui vivo, mi mandano dei soldi tutti i mesi, per la spesa e cose del genere. Ma non è più come prima. Non ho più accesso illimitato al fondo fiduciario.”
“Soldi? Si tratta di soldi? Mio padre può aiutarti, Calliope.”
Mi sedetti accanto a lei, prendendole la mano che aveva sul viso perché mi guardasse negli occhi. Lei la strinse con la sua e si voltò con il busto nella mia direzione.
“Ho una sorella. Si chiama Aria” iniziò, gli occhi lucidi. “Ha venticinque anni. Quando aveva più o meno la tua età è entrata in un brutto giro. Il suo ragazzo si divertiva a spacciare nel nostro liceo. La trattava bene, però, quindi non gli ho mai dato problemi. Finché un giorno è tornata a casa con un labbro sanguinante e un polso slogato.”
“Oh, no” sussurrai, chiudendo gli occhi.
“Uno pensa sempre a come è possibile che quelle donne in relazioni violente non riescano ad andarsene. Ma le cose sono sempre più difficili quando ci sei dentro. Aveva paura. Davvero paura. E l'unico modo in cui è riuscita ad affrontare la situazione è stato con l'alcol. Lui l'avrebbe comunque picchiata, tanto valeva essere incosciente mentre avveniva” ironizzò. “Due anni dopo che lo aveva conosciuto fu arrestato e condannato a vent'anni per una serie di reati tra cui, oltre lo spaccio, il possesso illegale di un'arma da fuoco. Fu allora che capii perché mia sorella aveva così paura. Aria si è disintossicata. Alcolisti anonimi e tutto il resto, si è rimessa in piedi. Per quattro anni e mezzo, non l'ho vista mai neanche avvicinarsi ad una bottiglia di liquore.”
“E poi?”
“Poi...” sospirò. Potevo vederla perdersi in quei ricordi così spaventosi. “Poi lui è uscito di prigione, spifferando il nome del tizio che gli forniva la roba. Lasciami dire, non la sua migliore idea. Aria diceva che era cambiato. Un uomo nuovo. E forse era anche vero. Non gli è stata mai data l'occasione di dimostrarlo. Il tizio di cui ha fatto il nome lo ha fatto giustiziare a cento metri dall'uscita della prigione. Aria lo ha saputo. È entrata in un bar, si è scolata tre bottiglie di qualsiasi cosa le capitasse a tiro. Poi è uscita, è entrata in macchina, e ha iniziato a guidare.”
“Ti prego, dimmi che non le è successo niente.”
“Eccetto un paio di costole rotte e qualche grossa contusione. La macchina è distrutta. Insieme alla parete dell'edificio pubblico a cui è andata addosso.”
Sospirai, abbracciandola. Non sapevo che altro fare.
“Sei mesi di prigione obbligatori. Scadono a inizio Settembre. Allora potrà uscire su cauzione. Una cauzione di ventimila dollari, per cui i miei genitori non hanno intenzione di sborsare neanche un centesimo. Io non ho ventimila dollari, Arizona” la sua risata amara fu attutita dalla mia spalla.
Mi allontanai da lei, accarezzandole il viso.
“La madre di mio padre mi ha lasciato dei soldi in un fondo fiduciario prima di morire. Io e Aria siamo sorelle solo da parte di mia madre” spiegò. “Il problema è che potrò accedere ai soldi di questo fondo solo quando avrò venticinque anni. O dopo che mi sarò sposata.”
All'improvviso, tutto mi fu chiaro.
“Non posso farla rimanere lì dentro per altri tre anni” sussurrò con voce tremante.
“Se ne parlassi con mio padre...”
“Che razza di persona credi che sia?” chiese, leggermente ferita. “È ovvio che tuo padre lo sa già. Non lo avrei mai ingannato in questo modo.”
E a quel punto anche la conversazione che avevo origliato, aveva senso.
Si alzò, mettendo un paio di passi di distanza tra di noi.
“Due anni fa, quando tuo padre è entrato nel programma di disintossicazione qui a Miami, Aria era già pulita da tre anni. È diventata il suo sponsor. Passavano parecchio tempo insieme, si sono aiutati a vicenda a venirne fuori. È stata lei a credere in lui quando nessuno era disposto a farlo. Adesso lui vuole aiutarmi a credere in lei. Avrei volentieri rifiutato il suo aiuto e gli avrei risparmiato di essere coinvolto in questa...” rise amaramente, aprendo le braccia. “In questa farsa. Ma, eccetto me, è rimasto l'unico disposto a darle un'altra chance.”
Mi alzai, andandole incontro.
“Sto per dire una cosa, e tu penserai che io sia l'idiota più egoista sull'intero maledetto pianeta, ma sai bene quanto me che la mia totale mancanza di filtri mi impedisce di tenermela dentro. Quindi sappi che mi dispiace. Ma sto per dirlo comunque.”
Azzerai la distanza tra di noi, appoggiando la fronte sulla sua spalla.
Grazie a Dio.”
“O-ok. Non esattamente la reazione che mi sarei aspettata, ma non la peggiore che mi ero immaginata” sussurrò con la voce velata di divertimento.
Io rilasciai una risatina.
“Grazie a Dio non sei innamorata di mio padre. Non puoi immaginarti i sensi di colpa che ho avuto per tutti i miei pensieri impuri.”
Lei rise. “Pensieri impuri?”
“Menomale. Menomale che mio padre mi ha mentito, mi ha ingannato e ha messo su tutto questo casino, perché adesso non devo più sentirmi in colpa.”
“In colpa per cosa?”
Sospirai, allontanandomi e guardandola negli occhi. Le presi il viso tra le mani e la guardai come se fosse ovvio.
“Per questo.”
Mi alzai in punta di piedi, sfiorando le sue labbra con le mie.
Passarono diversi secondi. Alla fine sentii le sue mani sui miei fianchi. Abbassò la testa, ricambiando il bacio.
Per un attimo, fu come smettere di respirare. Come se la vita fosse in pausa.
Lentamente, sentii le sue mani farsi strada sotto la mia maglietta. Con un unico, fluido movimento me la tolse.
Il cuore iniziò a martellarmi nel petto. Mi guardò da qualche centimetro più in alto dritta negli occhi.
Avrei potuto fermarla in quel preciso istante, se avessi voluto.
Invece mi sbottonai i pantaloni, calciando via le scarpe mentre me li toglievo.
Lei si avvicinò, baciandomi di nuovo. La sentii allungare una mano per prendere qualcosa da sopra il letto. Non capii esattamente cosa finché non si allontanò da me, e sentii il tessuto di una maglietta passarmi attraverso la testa. Era la maglietta che usavo per dormire, che avevo appoggiato lì qualche minuto prima.
Infilai le braccia nelle maniche e guardai il sorrisetto che aveva sulle labbra mentre mi abbracciava, esprimeva sicurezza e maliziosità, in palese contrasto con le lacrime che stavano riempiendo i suoi occhi.
“Sei così carina” sussurrò, unendo le mani sulla mia bassa schiena, stringendomi contro se stessa.
Le circondai il collo con le braccia.
“Non cambierebbe niente, non è vero? Lo sposerai comunque. Qualsiasi cosa potrei dire in questo esatto momento, non sarebbe mai abbastanza. Non potrebbe sistemare un bel niente.”
Sfiorò il mio naso con il suo.
“Sei sveglia. Adesso capisco la cosa di medicina.”
“Mio padre è l'uomo più fortunato di questo stramaledetto pianeta.”
“Non ho mai” scosse la testa velocemente, scrollando appena le spalle. “Non ho mai nemmeno baciato tuo padre. Non così.”
Abbassò di nuovo la testa, dandomi un bacio lento e sensuale.
“Bene. Un marine non credo che reagirebbe pacificamente se dovessi per sbaglio tirargli in testa un mattone.”
Lei rise, perfettamente al corrente del leggero problema di gelosia nei suoi confronti che avevo.
“L'ho baciato una sola volta. L'abbiamo fatto perché tu ci vedessi. In modo che non ti venissero strani sospetti. Come ho detto, sei sveglia. Beh, la maggior parte del tempo, in ogni caso.”
“Ah, il bacio in cucina. Ogni volta che ci ho pensato mi è venuto da vomitare per settimane.”
“Disgustoso, oh, volevo dire, delizioso” si esibì in una pessima imitazione di me.
Io mi alzai in punta di piedi, per baciarla sulla punta del naso.
“Non sono pronta a rinunciare a questo. Non voglio. Non posso. Non lo farò. E so che io andrò al college in Maryland e tu abiti in Florida, lo capisco, davvero, ma...”
“Arizona.”
“No. Ti prego, non farlo. Dico davvero. Non ti azzardare a rinunciare senza neanche provarci. Forse per te non vale la pena di correre il rischio, ma per me sì.”
“Correrei qualsiasi rischio per te, Arizona, te l'ho già detto. Lo farei in un attimo, se fossi l'unica persona a dipendere da me.”
“No, senti, non ti sto chiedendo di non sposarlo. Solo, pensaci, d'accordo? Dico solo che quello che abbiamo, qualsiasi cosa sia, non deve finire per forza. Possiamo trovare un modo. Anche con quattro Stati che separano i due in cui abitiamo, possiamo trovare un modo. E so che è stupido, fidati. Mi sento stupida, in questo momento, qui ad implorarti con addosso solo una maglietta e della biancheria. Ma so che se non provo a farti rimanere adesso, lo rimpiangerò per il resto della mia vita.”
Spostai una ciocca dei suoi capelli dal suo viso.
“Tu sei molto importante per me.”
Per la prima volta in tutta la mia vita, i filtri funzionarono. Per la prima volta, non dissi ciò che avrei voluto dire davvero.
“Arizona” mi disse come se stesse spiegando la cosa più scontata che fosse mai stata sentita da anima viva. “Io ti amo.”
Guardai nei suoi occhi, percependo la mia bocca aprirsi leggermente a causa dell'incredulità.
“Calliope.”
“No. Ti prego, non dirlo” scosse la testa, chiuse gli occhi e appoggiò la fronte sulla mia. “Se lo dici non posso più chiudere gli occhi e far finta che non esista. Che quello che provo non sia reale, nonostante sia l'unica cosa reale della mia intera esistenza. E so che lo senti, lo vedo nei tuoi occhi ogni volta che mi guardi, lo vedo in ogni gesto che fai. Ma se te lo sento dire, tutte le difese che ho passato anni a costruire, verranno giù tanto facilmente quanto il vento sposta un filo d'erba già tagliato. Ti amo. Sei la cosa più bella che io abbia mai visto, la persona migliore che abbia mai incontrato, e amare te è stato un privilegio. Non un onore - la differenza è sottile. Ma un onore, per quanto importante, è concesso a tanti. Un privilegio, quello è solo per pochi. Tu sei stata un privilegio, Arizona.”
La guardai negli occhi. Avrei davvero voluto avere qualcosa da dire che valesse la pena di essere ascoltato.
Ma non trovai niente.
Non c'era niente.
Così la baciai di nuovo. Pregando che il dolore se ne andasse.
La baciai. E l'unica cosa che riuscii a sentire fu l'amore che provavo e che provava lei.
Quali parole sarebbero state così significative, che cosa avrei mai potuto dire, che valesse la pena di essere ascoltato più di quel bacio?

Mi svegliai lentamente.
Ero nell'unico posto che avessi mai conosciuto dove il mondo non poteva raggiungermi. Tra le sue braccia.
“Ciao” sussurrò, guardando mentre mi stiravo cercando di non allontanarmi neanche di un millimetro.
“Ciao” risposi in un sussurro.
Mi accarezzò i capelli, aspettando la mia mossa successiva.
Io afferrai un pugno della sua maglietta, quell'orribile indumento che non si era lasciata togliere la notte precedente, poi mi allungai verso l'alto e la baciai sulle labbra.
“Buongiorno” sussurrai, strappandole un altro piccolo bacio.
“Buongiorno” rispose, richiudendo gli occhi e inspirando.
“So cosa stai pensando. Se mi svegliassi così tutte le mattine, tutti i giorni sarebbero buoni. Almeno, questo è quello che sto pensando io.”
Sorrise.
“Vieni. Dobbiamo andare” sospirò, districandosi dal nostro abbraccio.

Il silenzio che scese su di noi quando entrammo in macchina, non era uno di quelli carichi di tensione come negli ultimi giorni. Ero a mio agio, a starmene lì e guardarla guidare.
“Dobbiamo fermarci a comprare qualcosa da mangiare. Scommetto che casa tua è vuota. In più, ho finito lo shampoo.”
“C'è un centro commerciale vicino a casa mia. Possiamo passarci.”
“D'accordo. Fammi da navigatore.”

Ci eravamo fermate davanti ad un piccolo scaffale con gli occhiali da sole. Ne presi un paio a caso, mettendoglieli.
“Hai bisogno di un paio di occhiali da sole. Devi smetterla di prendere in prestito i miei” la informai. “Prova questi” gliene passai un secondo paio.
Lei li provò, non molto entusiasticamente.
“Non mi convincono” rimise al loro posto entrambi i paia di occhiali.
“Mettiti l'anima in pace, non usciremo da qui finché non ne comprerai un paio.”
Provò qualche altro paio di occhiali, scartando tutti. Quando la guardai di traverso lei scrollò le spalle e si giustificò dicendomi soltanto: “I tuoi mi piacciono di più.”
Sorrisi. Poi lanciai un'occhiata veloce alle sue spalle.
“Oh no” sussurrai, cercando di non farmi notare.
“Che c'è?” chiese.
Stava per voltarsi a guardare, ma io le afferrai le spalle, facendola rimanere ferma.
“Non ti muovere.”
Corrugò la fronte. “Adesso stai giocando a nascondino? Credevo avessi diciotto anni, hai mentito sulla tua età?” chiese con un sorrisetto. “Perché potrei essere arrestata.”
“No, è solo che...Ho visto qualcuno che conosco.”
“Chi, esattamente?”
Mi morsi l'interno di una guancia. “Ti dice niente il nome Joanne?”
“Oh. Intendi...” inspirò. “La tua ex” espirò.
“E il suo gruppo di amiche cloni” sussurrai. “Una delle cose di lei che non ho mai capito, sai che intendo, no? Perché dovrei frequentare sempre e soltanto persone identiche a me?”
Rise piano.
“Allora, perché ti stai nascondendo?” sussurrò con tono cospiratorio.
Sospirai pesantemente.
“Mi ha mollato perché non volevo fare sesso con lei” roteai gli occhi, facendole capire quanto lo ritenevo stupido.
Corrugò la fronte. “Quanto siete state insieme?”
“Circa otto mesi e mezzo.”
Sgranò leggermente gli occhi, inclinando appena la testa di lato. Poi rise brevemente.
“Ma se hai tentato di entrare dentro i miei pantaloni dal giorno numero uno” smise di ridere quando vede che ero leggermente a disagio. “Che c'è, sei ancora vergine?” chiese retoricamente.
Io abbassai lo sguardo, mormorando un imbarazzatissimo “No.”
Credo fu il tremendo rossore sulla mia faccia a tradirmi.
“Oh, Dio” tornò seria improvvisamente. “Mi dispiace. Mi dispiace tantissimo. Sono un'idiota, non avrei dovuto ridere.”
“Sei arrabbiata? Delusa?” azzardai con cautela.
“No” mi rassicurò. “Vorrei che me lo avessi detto, però. Magari, prima di ieri notte.”
“Non è successo niente ieri notte” corrugai la fronte, guardandola di nuovo negli occhi.
“No, ma se fosse successo qualcosa di più, e io avessi fatto qualcosa di sbagliato...” lasciò la frase in sospeso, poi si perse per qualche momento nei suoi pensieri, chiaramente ripercorrendo gli eventi della notte precedente. “Non ho fatto qualcosa che ti ha traumatizzato, non è vero?”
Io risi, colpendola su un braccio. “No.”
“Allora, l'idiota ti ha lasciato solo perché non volevi andare a letto con lei?”
“Già. Tempo due giorni, l'intera scuola sapeva perché. E adesso il suo stupido gruppo di cloni non fa altro che prendermi in giro ogni volta che ci incontriamo. Ma non nel modo classico, no, loro fingono di essermi amiche e mi mandano queste frecciatine subdole.”
Lei mi guardò come se fosse ovvio.
“E tu dì loro che non sei più vergine.”
Io risi. “Già. Perché di sicuro non capirebbero che sto mentendo.”
Lei alzò gli occhi al cielo.
“Dipende dal modo in cui glielo fai intuire” mi guardò con un sorrisetto che prometteva guai. “Oh, vedo dove vuoi andare a parare. Ragazza più grande frequenta ragazza più piccola, ragazza più grande travia ragazza più piccola.”
“Ehi, io non ti ho affatto traviato” mi disse seriamente. “Beh, non ancora” aggiunse, cercando di non sorridere.
Io risi, mettendole addosso l'ennesimo paio di occhiali.
“Questi sono perfetti” le dissi sinceramente. “Oh, no. Eccole che arrivano” mi voltai verso lo scaffale, sperando che valesse la regola del 'se io non posso vedere loro, loro non possono vedere me'.
“Arizona” la voce fredda di una delle quattro ragazze insieme alla mia ex mi costrinse a voltarmi. Mi piazzai un sorriso finto in faccia, voltandomi.
“Ciao ragazze. Che ci fate qui?”
Calliope si tolse lentamente gli occhiali, sistemandoseli nel collo della maglietta che stava indossando.
“Niente di che. Facevamo un giro” rispose lentamente Joanne. Poi si voltò in direzione di Calliope, guardandola per qualche secondo. “Salve.”
“Ah, giusto, che maleducata. Lei è...” mi voltai per guardarla negli occhi. Come la presentavo? La fidanzata di mio padre? La donna che amavo? Futuro chirurgo? “...Callie.”
“Piacere di conoscervi” aggiunse lei.
“Non ti ho mai visto nel nostro liceo” osservò una delle ragazze.
“Già, questo è probabilmente perché frequenta il college. Medicina. Il prossimo sarà il suo ultimo anno” spiegai.
“Ah” fu l'unico commento di Joanne. “È una tua amica, o qualcosa del genere?”
“Lei è...” iniziai, ma, ancora una volta, non avevo idea di come quella frase proseguiva.
“Una sua amica o qualcosa del genere” confermò Callie al posto mio, tendendo una mano in direzione di Joanne. “Tu devi essere Joanne. Ho sentito parlare di te.”
“Ti dispiace se io e Arizona parliamo per un momento?” chiese dopo aver stretto la mano che le era stata offerta. “Da sole” chiarì.
“Certo. Io vado a pagare questi” sollevò gli occhiali da sole, guardandomi velocemente. “Ti aspetto in macchina” sussurrò.
Le cose erano già abbastanza complicate così come erano, non c'era bisogno che io le incasinassi ancora di più.
Non volevo che avesse dubbi sul fatto che io non volessi altro che lei.
“No. Non importa. Io e lei non abbiamo niente di niente da dirci” mi voltai verso Joanne. “Non sono affari tuoi, niente che mi riguardi è più affar tuo. Hai rinunciato a quel diritto quando mi hai mollato, Joanne. Divertiti con Kyle” quello la colse alla sprovvista. “Che c'è? Credevi davvero che non lo sapessi?”
Le ragazze si voltarono verso di lei con sguardi perplessi.
“Guarda un po'. Non dirmi che loro non sapevano che ogni tanto ti divertivi a tradirmi.”
Mi voltai, senza guardarmi indietro. Calliope mi seguì verso la cassa.
“Non che non sia stato divertente” osservò. “Ma credo che in effetti ci sia qualcosa di cui dovete parlare. Ci sembrano essere questioni irrisolte.”
“Nessuna questione irrisolta. Non sarebbe mai durata tra di noi. E non ho rimpianti su ciò che è successo con lei.”
Lei si fermò, facendomi voltare.
“Ci stanno ancora fissando?” chiese.
Guardai oltre le sue spalle.
“Sì. Mi dispiace. Sanno essere davvero piccole quando ci si mettono.”
Non avevo neanche finito di parlare quando la sentii abbracciarmi e poi baciarmi. Non ero mai stata una grande fan delle dimostrazioni d'affetto in pubblico. Ma se era Calliope a baciarmi, non avevo alcun tipo di lamentela da fare.
“Ecco fatto. Adesso quando ti prenderanno in giro perché sei vergine, potrai come minimo sentire nei loro toni la mancanza di convinzione.”
Io risi, mio malgrado.

Aprii la porta di casa, facendole segno di precedermi all'interno. Entrammo in salotto, dove la tenevamo. Era dentro una teca di legno con il lato superiore in vetro, in modo che fosse visibile senza il bisogno di essere aperta.
Sfiorai il vetro con la punta delle dita, perdendomi tra i ricordi che avevo di mio fratello.
“Il ricordo più bello che ho di lui è di un giorno d'estate, avevo quattordici anni, lui ne aveva già venti. Entrò in camera mia e mi trovò che piangevo silenziosamente” sussurrai, senza quasi accorgermi che lo stavo dicendo ad alta voce. “Mi chiese cosa avevo, perché stavo piangendo. Gli risposi che pensavo di essere gay. Era la prima persona a cui lo avessi mai detto. Lui rise, mettendosi sul letto insieme a me e abbracciandomi. 'E pensi che questa sia una cosa per cui piangere?' mi chiese, sempre ridendo. 'Significa solo che adesso possiamo andare insieme per locali e che c'è una cosa in più in cui sarò più bravo di te' sembrava davvero che lo avesse saputo da tutta una vita. L'ultima cosa che mi chiese fu: 'Questo significa che sposerai una donna?'. Gli dissi di sì. Lui mi disse, 'ballerò così tanto, al tuo matrimonio'.”
Due braccia forti mi strinsero contro una figura leggermente più alta di me.
“Mi manca” sussurrai.
“Lo so.”
“Capisco perché lo stai facendo. E non ti biasimo. Anche io farei qualsiasi cosa, se potessi riavere mio fratello indietro.”

La mattina dopo, per la prima volta da quasi tre mesi, mi risvegliai dentro il mio letto. E, per la prima volta in vita mia, non ero sola.
Stesa sotto di me, con un braccio fermamente attorno alla mia vita, c'era la donna più bella.
La svegliai con un bacio. Un lungo, dolce, tenero, bacio.
“Dobbiamo andare. Se partiamo subito, potremmo farcela in due giorni soltanto e dovremmo pagare un solo albergo.”
“Oppure” propose “potremmo stare qui, tutta la mattina. E dire ai tuoi che non ci siamo svegliate, e a questo punto pensiamo sia più saggio rimanere qui un altro giorno, ripartire domani mattina, e come hai giustamente fatto notare tu stare una sola notte in albergo.”
“Sapevo che doveva esserci un motivo per cui eri riuscita ad entrare alla facoltà di medicina. E cosa avresti in mente di fare, tutta la giornata?”
“Non lo so. Siamo nella tua città. Sorprendimi.”
Le rivolsi un sorriso così malizioso che ogni traccia di umorismo sparì dal suo viso.
“Con piacere.”

“Non vale. Hai barato.”
“Non è vero. Ho vinto onestamente.”
“Non è vincere onestamente se mentre io tento di tirare tu mi tocchi il sedere. Ho tirato sei palline fuori dal tavolo. Le uniche due volte che mi hai lasciato tirare indisturbata, ho mandato tre palline in buca. Tre palline in due volte, questo non ti dice niente su chi avrebbe vinto se tu non avessi barato?”
“Accetta la sconfitta, Calliope” sorrisi, appoggiandomi al tavolo da biliardo che avevo affianco.
“D'accordo. Ti sfido a bowling. Se vinco, siamo pari. Se vinci tu, faremo ciò che vuoi per il resto della giornata.”
“Andata.”
Il bowling non era molto distante dalla sala con i tavoli da biliardo. Inutile dire che vinse con uno stacco notevole. Non c'era storia. E non ci sarebbe stata neanche al biliardo, se non avessi imbrogliato.
“D'accordo, va bene. Adesso?”
“Adesso...ci serve uno spareggio. Se vinco dovrai ammettere di aver barato al biliardo, però.”
“Ok. Se vinco io, scelgo qualsiasi cosa fare dopo cena.”
Le tesi la mano per sigillare il patto. Dopo una leggera esitazione la prese, dando uno strattone e facendo avvicinare i nostri corpi.
“Il patto vale fintanto che le attività serali non comprendono la mancanza di abbigliamento e un letto” sussurrò con voce bassa.
Poi, come se niente fosse successo, si allontanò di un passo da me.
“Bene. Dovrò accontentarmi di un divano” borbottai.
“Vieni. Andiamo a pranzo.”
Insistetti per mangiare della pizza. Non il pranzo più salutare, ma in assoluto il mio preferito. E anche il suo, da un po' di tempo.
Mentre eravamo in fila, non mi lasciò andare neanche per un secondo. Se ne stava in silenzio dietro di me, con le braccia attorno alla mia vita, come se niente fosse. Come se potessimo farlo sempre, tutto il tempo, tutti i giorni, per il resto della nostra vita.
“So che stai facendo. Ti attacchi a questi momenti perché pensi che non ne avremo mai più di simili. Ma sappi che io combatterò per te. E ti convincerò che vale la pena di tentare. Ti sto solo avvertendo” le dissi casualmente.
“Credo che ne prenderò un pezzo con il salamino piccante.”
“Quattro formaggi” decisi.
“Mi attacco a questo momento perché è un momento insieme a te. Potrei averne una vita, e mi attaccherei comunque a tutti e ad ognuno, perché sono insieme a te” mi baciò sulla spalla delicatamente. “Ti amo” sussurrò, baciandomi poi il collo con dolcezza. “Dovrei essere meno attaccata?” chiese, allentando la presa.
Le afferrai le mani, stringendo di nuovo le sue braccia il più possibile attorno alla mia vita.
“No. Attaccati pure quanto vuoi. Anzi, sei troppo distante, dovresti stare più vicina.”
Potevo praticamente percepirla sorridere.
Dopo aver preso i nostri tranci ci sedemmo ad uno dei tavolini all'aperto. Era una così bella giornata.
La prima cosa che fece dopo essersi seduta, fu tirare fuori i suoi occhiali da sole nuovi di zecca e indossarli.
“Che stai facendo? Non posso vedere i tuoi occhi” mi lamentai.
“Non sarebbe educato se la gente mi vedesse fissarti.”
Quel suo sorriso e le cose che mi faceva.
“Callie Torres. Che mi venga un colpo se pensavo di incontrarti a Baltimora.”
Alzammo lo sguardo contemporaneamente.
“Mark Sloan” sorrise, togliendosi gli occhiali ed alzandosi in piedi per abbracciarlo. “Ho sentito dire che ti sei ambientato anche qui.”
“Stessa vecchia storia.”
Risero entrambi per qualcosa che non capii.
“Ma le cose sono diverse. Sai, sto cercando di mettere la testa a posto. Ho divorziato, tanto per iniziare. Railey non è stata molto contenta, ma...Adesso sono felice. E, reggiti forte, sono innamorato.”
“Ah, l'ho sentito dire. Storia buffa. Andavi al liceo con il fratello maggiore di Addison, quando la tua ex moglie è rimasta incinta, giusto? Lei conosce Teddy, te la presenta, Teddy conosce Cristina, lei conosce Meredith e alla fine incontri la piccola Grey. È di lei che parlavi, non è vero?”
Lui annuì, un sorriso idiota sulla faccia.
“L'ho lasciata per due minuti in coda in un negozio mentre venivo a comprare qualcosa da bere. Sta venendo in questa direzione in realtà.”
Io mi voltai, seguendo il suo sguardo.
“Arizona” mi salutò.
Io mi alzai, abbracciandola.
“Lexie.”
“Credevo fossi ancora in Florida.”
“Ah, ci sto tornando. Domani riparto. Mia madre si era solo scordata di sistemare delle cose, così sono dovuta tornare per un paio di giorni.”
“Callie, questa è Lexie Grey” le presentò Mark.
Callie le rivolse un sorriso.
“Spero davvero che tu abbia diciotto anni.”
“Calliope.”
“Mi dispiace. Stavo solo scherzando.”
“Non preoccuparti. All'inizio non li avevo” confidò Lexie. “Ringraziamo solo il cielo che allora mio padre non ne fosse al corrente.”
Lei rise. “Quanti anni di differenza ci sono tra di voi?”
“Venti. Ho avuto Railey a diciotto anni. Lexie è più piccola di due anni, quindi...”
“Capisco. Beh, Mark, sono felice di vedere che sei felice. Porterò tue notizie ad Addison.”
“Salutamela.”
“Lo farò.”
C'era qualcosa di strano nel sorriso che gli rivolse guardandolo andare via. Tornò a sedersi, gli occhiali da sole sul viso, senza parlare molto.
Finii di pranzare in silenzio, poi decisi che era il caso di chiedere.
“Tutto ok?”
“Certo.”
“Ripeterò la domanda. Cosa non è ok?”
Scosse la testa.
“Mi infastidisce quando tieni per te cose che ti fanno stare male e non mi lasci aiutarti” le dissi francamente. “Ma lo rispetto e non ti farò pressioni.”
“Può stare con lei” rispose all'improvviso, il tono infastidito.
“Come, scusa?”
“Lui può stare con lei. Ha più del doppio della sua età, ma nessuno dirà mai niente sul fatto che loro possono stare insieme.”
“Calliope...”
“E noi non possiamo farlo. Per la maggior parte, perché io sono un'idiota. E parzialmente perché sono abbastanza sicura che tuo padre mi ucciderebbe se gli venisse anche solo il vago sospetto che io potrei aver corrotto la sua bambina. Ma comunque...” sospirò. “Può stare con lei. Quindi lasciami un momento per sentirmi in colpa del fatto che sono gelosa di un uomo che sta divorziando da sua moglie.”
Sospirai. “Mi dispiace.”
“Non è, nemmeno nel più piccolo frammento, colpa tua. Questa è tutta colpa mia. E dovrò conviverci per il resto della mia vita. Ma non farti mai venire il dubbio, neanche per un momento, che tu sia da incolpare per qualsiasi cosa ci succederà. È colpa mia. Sono io che alla fine sposerò qualcun altro. È colpa mia.”
Scossi la testa. Presi la sua mano con la mia.
“Merito tuo. Ogni secondo che abbiamo, ogni bacio, ogni sorriso. È merito tuo. Perché hai deciso che valeva la pena concedermi almeno un po' di questo tempo. E sarò per sempre grata di ogni momento, Calliope, ogni mio respiro insieme a te. È merito tuo. Qualsiasi cosa accada, non dimenticarlo mai.”

La mattina successiva uno strano senso di impotenza mi era sceso addosso.
Eravamo pronte a ripartire, le valige già in macchina, la teca con la bandiera sistemata in uno dei sedili posteriori. Ero sulla porta, indecisa su cosa avrei dovuto dire o fare.
La richiusi, girando la chiave a doppia mandata ed allontanandomi di un passo.
“Pronta?” chiese retoricamente.
“No. Ma non credo che lo sarò mai.”
“Conosco la sensazione.”
“Vorrei solo...Vorrei che potessimo salire sulla tua macchina e guidare nella direzione opposta e non guardarci mai indietro.”
Scosse appena la testa, guardando in basso e ridendo per mezzo secondo.
“Ironico. Se non ti amassi davvero lo farei. Metterei in moto e inizierei a guidare e non mi guarderei mai indietro. Lo farei. Non c'è niente per me che valga la pena di essere ricordato. Aria se la caverebbe. Penserebbe solo che le ho dato ascolto e ho smesso di tentare di aiutarla. Ma tu...Tu, un giorno, forse tra anni, ti guarderesti indietro e penseresti, 'Dio, se avessi frequentato la facoltà di medicina della Hopkins, chissà dove sarei oggi'. Non saresti felice.”
“E tu?” sussurrai appena.
Lei alzò lo sguardo, un mezzo sorriso saldamente sulle labbra.
“Lo sarei” confermò con tono sognante. Eppure le tremava la voce. Era sincera. “Sì che lo sarei. Io sarei felice a lavorare sedici ore al giorno in un fast food per pagarti un'università pubblica. Vedendoti due ore al giorno, e nemmeno tutti i giorni, e le cinque notti a settimana, quando non sono di turno per pulire i pavimenti. Sarei felice perché due ore al giorno e cinque notti a settimana sono meglio di una volta ogni due anni per il pranzo di Natale.”
I suoi occhi non erano mai stati belli come in quel momento. Ed io amavo i suoi occhi con ogni fibra del mio essere.
“Sarei felice finché” continuò, schiarendosi la voce “finché tu non lo saresti più. E allora dovrei ascoltare mentre ti lamenti che non c'è acqua calda nell'appartamento schifoso che possiamo permetterci, che non riesci a studiare perché la coppia di vecchietti al piano di sopra tiene la televisione a tutto volume, che sei stanca di una relazione con qualcuno che non vedi mai. E anche allora, Arizona, non ti lascerei perché due ore al giorno e cinque notti a settimana sarebbero meglio di...” rise di nuovo, amaramente. “Niente” concluse.
La vidi perdersi nelle possibilità che le invasero la mente, distante interi universi da quel momento e da me.
“Ma a quel punto cosa rimarrebbe, di ciò che amo, di ciò che amerò sempre? Niente più risate, niente conversazione facile, niente ventiquattr'ore al giorno insieme a ancora avere cose da dirsi tanto da rimanere sveglie fino a tardi a parlare” abbassò lo sguardo, fissando il terreno tra di noi. “Il sorriso con le fossette andato da un pezzo” aggiunse in un sussurro. “E allora non è meglio una volta ogni due anni per il pranzo di Natale, se posso vederti essere felice? So quale è il prezzo, fidati, lo so. Ed è alto. Stare da parte e guardarti vivere la tua vita senza di me, non essere la ragione della tua felicità, non poterti mai ricordare che, qualsiasi cosa accada, avrai il mio cuore tra le tue mani. Essere infelice.”
Alzò di nuovo gli occhi per incontrare i miei.
“Ma se ciò che ottengo è la tua felicità, non c'è prezzo che sia troppo alto perché io mi rifiuti di pagarlo.”
“Questo è il punto.”
Il tono della mia voce la confuse. Era arreso e disperato.
“Io non sarò felice.”
Deglutii pesantemente.
“Oppure lo sarò brevemente a intervalli regolari, in cui riuscirò per poco a dimenticarmi di te. Ma poi tornerà. Questo senso di assoluta...mancanza. Tornerà ogni volta puntuale a ricordarmi che tu non ci sei. Non starò mai più bene, da adesso in poi, senza di te. E come potrei? Nessuno guarisce mai del tutto. Avrò sempre con me la tua cicatrice.”
“Le cicatrici guariscono.”
“Le ferite guariscono” la contraddissi.
“Allora le cicatrici sbiadiscono, se preferisci. Le cicatrici ti insegnano qualcosa, qualche volta, qualcosa di importante, ma alla fine della giornata, non è importante come ti sei fatto la cicatrice, ma solo quello che la caduta ti ha insegnato. E ti rialzi. E se tra cinquant'anni qualcuno dovesse chiederti come ti sei fatta quella cicatrice, gli risponderesti che non te lo ricordi. Forse quella volta sulla bici, o quando hai provato ad arrampicarti su un albero, o quando il cane di tua zia ti ha morso.”
Mi prese le spalle delicatamente, guardandomi negli occhi.
“Sbiadirò dalla tua memoria. E questo mi spaventa, sì, ma come ho detto, conosco il prezzo di ciò che sto facendo.”
“Io voglio te. Voglio solo te” ripetei, imperterrita, cercando di convincerla. “E forse ora non è il momento giusto, ma arriverà. Ed io sarò lì, per la nostra occasione. Io aspetterò. Dovessi aspettare per tutto il resto della mia vita trattenendo il fiato, aspetterò.”
Mi guardò negli occhi.
E decise di mentire.
Decise di mentire per farmi sentire meglio.
“Forse hai ragione. Forse un giorno avremo la nostra occasione. E allora potremo andarcene via. E andremo verso qualcosa invece di scappare da qualcuno. Ti prometto che anch'io sarò lì per la nostra occasione, Arizona.”
La abbracciai, nascondendo il viso contro il suo collo.
Chissà che ne sarebbe stato di noi. Molto probabilmente, non avremmo mai avuto l'occasione che ci meritavamo. E, se l'avessimo avuta, probabilmente l'avremmo sprecata. Le cose belle, in questa vita, non sono fatte per durare.
“Nel frattempo, se vuoi, ho pensato a qualcosa che potrebbe farti sentire meglio” sussurrò, senza smettere di ricambiare il mio abbraccio.
“Cosa?” domandai.

“Ancora non posso credere che me lo stai lasciando fare.”
“Neanche io. Fidati.”
“È una delle sensazioni migliori che abbia mai provato, dico sul serio.”
“Lo so. Adesso capisci, non è vero?”
“Oh, sì” risposi, abbassando gli occhi per un momento.
“Ehi, occhi sulla strada” mi riprese. “Avevi promesso.”
“Scusa. Hai ragione” tornai a guardare in avanti. “Ma questa macchina è così fantastica.”
“Lo so” la percepii sorridere senza neanche dovermi voltare. “Una delle cose migliori della mia vita.”
“Una delle? Che potrebbe esserci che supera questo?”
Ci fu una pausa. Percepii l'atmosfera diventare più seria.
“Tu. Tu sei meglio di questo” sussurrò. “Appena” aggiunse.
Io risi. “Sei sempre così romantica.”
“Che posso dire? È una dote.”
“Una delle molte.”
“Adesso accosta. Dieci minuti mi sembrano più che sufficienti per la prima volta. Sto iniziando ad essere gelosa.”
“Tranquilla. Non scapperò con la tua macchina, sai che preferisco te, Calliope.”
Lei mi guardò come se fossi impazzita.
“Io mi riferivo alla macchina” accarezzò il cruscotto. “Però sono tranquilla, anche lei preferisce me.”

Poteva essere l'ultima volta.
L'ultima volta che dormivo con lei affianco. L'ultima volta che eravamo nello stesso letto. L'ultima volta che mi teneva tra le braccia. L'ultima volta che sentivo il suo profumo tutto attorno a me. Poteva essere l'ultima volta che le stavo così vicina.
“Cos'è che ti preoccupa?” sussurrò, senza avere nemmeno bisogno di aprire gli occhi.
“Ti sto perdendo” confessai lentamente.
Le sue palpebre si sollevarono lentamente, e mi guardò con leggera perplessità.
“Ogni secondo che passa, lo sto sprecando. Eppure, come posso perderti, se prima, non ti ho neanche mai avuto davvero? E allora voglio riuscire almeno ad averti, per poi poterti perdere come si deve.”
“Mi sono persa qualcosa. È una metafora, o qualcosa del genere?”
Mi voltai sulla schiena e mi tirai a sedere. Lei fece lo stesso, sempre confusa, appoggiandomi una mano sul ginocchio.
“Niente metafore. Niente giri di parole. Niente ripensamenti, stavolta. Non abbiamo più tempo. E se devo perderti, se così deve essere, non voglio rimpianti. Non voglio dovermi chiedere per il resto della mia vita 'e se?'. Quindi, per una volta, le parole non hanno un significato diverso da quello che hanno di solito. Voglio stare con te.”
Mi sfilai lentamente la maglietta che stavo indossando, cercando di non rendermi completamente ridicola. Riuscii a togliermela senza ulteriori umiliazioni e la gettai da qualche parte alla mia destra, senza fare molto caso a dove sarebbe atterrata.
“Voglio solo stare con te.”
“Arizona...”
“Quando sono lì fuori, lì in mezzo al mondo” spiegai “mi sento come se non potessi controllare niente di ciò che succede. Tutto scorre, sfugge al mio controllo, il tempo passa velocemente. Se chiudo gli occhi, quando li riapro il mondo è cambiato.”
Appoggiai le mani sulle sue spalle, avvicinandomi di più a lei.
“Ma qui dentro, qui posso chiudere gli occhi” lo feci, riaprendoli un paio di secondi dopo “e quando li riapro tu sei ancora qui. Niente è cambiato, siamo ancora noi, col nostro passato, il nostro presente e con quello che proviamo ancora dentro il cuore.”
Presi il tessuto della sua maglietta tra le mani, accarezzandole i fianchi nel processo.
“Non so come è possibile. Ma qui dentro tutto è fermo. Il caos del mondo non ci inonda. Siamo solo io e te, come entità indipendenti dal tempo e dallo spazio. Dal presente, da quello che succederà e che sta già succedendo.”
“Stai cercando di dirmi che ti senti al sicuro” per metà chiese, per metà affermò.
“Sì” rilasciai un respiro tremolante, grata che avesse capito. “Sì. Sono al sicuro, tra le tue braccia, sono al sicuro, dentro il tuo cuore. Sono al sicuro.”
Annuii, per convincerla del fatto che lo pensavo davvero. Poi la baciai. E sentii la sua ultima briciola di decisione crollare definitivamente.

Era sera quando arrivammo finalmente di nuovo alla casa di Miami.
Calliope parcheggiò la Thunderbird e poi si voltò verso di me. Non disse una parola, ma aveva le lacrime agli occhi. Annuì. Poi distolse di nuovo lo sguardo per riuscire a parlare, ma all'ultimo momento sembrò ripensarci e decidere che doveva dirmi ciò che stava per dire guardandomi negli occhi. Esitò per un momento.
“Ti ho detto tutto ciò che dovevi sapere.”
Non ci riuscì. Distolse di nuovo lo sguardo, fissando la finestra illuminata del soggiorno della casa attraverso il parabrezza.
“Ricorda quello che ti ho detto, ok?” aprì lo sportello della TBird. “E andrà tutto bene” spiegò, uscendo dalla macchina.
Feci lo stesso, seguendola all'interno della casa. Posammo all'ingresso le due valige, entrammo in soggiorno, io avevo ancora in mano la teca con la bandiera.
Mi paralizzai sulla soglia.
“Siete arrivate” ci salutò mio padre. “Bene. Dobbiamo parlarvi.”
Rimasi ferma, immobile, in piedi, con la teca ancora tra le mani.
Callie invece si mosse.
“Ah, lei deve essere Barbara. È un piacere conoscerla” tese la mano alla donna seduta affianco a mio padre sul divano.
Mia madre la strinse con un sorriso sincero.
Ero sveglia. L'avevo visto arrivare da millesettecento chilometri di distanza - letteralmente.
“Dobbiamo parlarvi” ripeté mio padre. “Mentre voi non c'eravate, io e Barbara abbiamo avuto modo di discutere. Del nostro passato, del nostro presente, e di quello che potrebbe portarci il futuro.”
“No” sussurrai impercettibilmente. Corrugai la fronte, guardando in basso. Sembrò che nessuno avesse fatto caso a me.
“Callie, le ho raccontato la verità” confessò.
Io ero sempre immobile sulla soglia del soggiorno, i miei seduti sul divano e Callie in piedi, tra di noi.
Annuì. Anche lei era sveglia. Anche lei non era sorpresa da quello che stava succedendo.
“Avete deciso di tornare insieme” concluse, risparmiando a lui la fatica.
“Mi dispiace. So che contavi sul mio aiuto. E sai cosa ne pensavo fino a pochi giorni fa. Ma la mia famiglia...”
“No. Non serve che tu dica niente, Daniel. La famiglia prima di tutto, lo capisco. Credimi, lo capisco. Tu puoi riavere la tua indietro, quindi dovresti cogliere l'occasione al volo. Nessun rancore.”
Gli tese la mano, sorridendogli. Lui la strinse, tirandola verso di sé ed alzandosi in piedi per abbracciarla.
“Ti ringrazio, Callie. Questo è anche merito tuo.”
Sentii un senso di dolore acuto invadermi lo stomaco. Cercai di deglutire via il dolore, ma non funzionò.
“No” borbottai di nuovo.
“No, io non c'entro. Hai fatto tutto da solo, Dan. Ti sei rimesso in riga e hai riavuto indietro quello per cui hai lottato. Non potrei essere più felice per te.”
Si allontanò, guardando mia madre.
“Non ho mai voluto allontanarlo da voi, per quello che vale.”
Il dolore allo stomaco si alzò fino al petto, stavo iniziando a sudare freddo. Non mi sentivo fisicamente bene.
Chiusi gli occhi. “No.” Scossi la testa, cercando di dissipare la nebbia che aveva invaso i miei pensieri.
“Lo so, cara. Potresti essere nostra figlia per l'età che hai” le rivolse un sorriso cortese. “Daniel mi ha spiegato tutto. Rispetto ciò che stavi cercando di fare per la tua famiglia. E mi dispiace davvero.”
“Non dovrebbe. Io sono davvero felice per voi. È la cosa giusta.”
“No” ripetei ancora una volta, ma a voce notevolmente più alta. Scossi la testa, facendo un paio di passi avanti e posando la teca sulla poltrona più vicina a me.
Calliope si spostò di lato, lasciandomi il modo di parlare con i miei genitori.
“Tesoro” iniziò mio padre “so che la cosa può confonderti un po', al momento, ma ti assicuro che io e tua madre abbiamo parlato molto. Ci sono ancora molti problemi da risolvere, ma io e lei ci amiamo, di questo sono sicuro. Ed io voglio tornare a casa, passare più tempo con te, essere di nuovo lì con voi.”
“Ti prego, papà, non farlo” gli dissi con voce tremante.
“Questa è una cosa bella, Arizona” mi guardò, notevolmente confuso dalla mia reazione. “Dovresti essere felice.”
Scossi forte la testa, le lacrime ormai mi avevano riempito gli occhi. Quando alzai lo sguardo, la prima cadde.
“Perché stai piangendo, bambina mia?” mi chiese, cercando di avvicinarsi a me.
Io feci un passo indietro. Continuai a guardarlo negli occhi. Sapevo che in quel momento avevo un aspetto fragile e spezzato, ma in fondo era come mi sentivo.
“Non farle questo” sussurrai impercettibilmente.
“Arizona” pronunciò il mio nome con quello che poteva essere definito solo come sconcerto, credendo che mi riferissi a mia madre.
Io inspirai a fondo, guardando verso Calliope per diversi secondi. Lei aveva capito. La sua bocca si aprì leggermente per l'incredulità causata da ciò che stavo per fare.
Chiusi gli occhi per un solo istante. Quando mi voltai di nuovo verso mio padre, qualcosa nel mio sguardo gli fece finalmente capire. Ma io avevo bisogno di dirlo ad alta voce. Così lo feci, le lacrime che avevo tenuto dentro così a lungo finalmente libere, la voce tremante, l'espressione sul viso carica di dolore e tristezza.
“Io sono innamorata di lei, papà.”
Ci furono parecchi momenti di silenzio dopo la mia confessione sussurrata.
“Ti prego, non farlo, non farle questo. Noi abbiamo già la nostra famiglia, niente potrebbe mai portarcela via. Quindi ti sto implorando di sposarla, e darle indietro la sua famiglia. Darle indietro sua sorella.”
Mio padre si irrigidì quando capì che sapevo la verità, voltandosi appena verso Calliope, cercando di guardarla negli occhi. Non ci riuscì, però, perché lei stava guardando me.
“Non è colpa sua, lei non ha mai fatto niente che potesse darmi l'impressione che ricambiasse i miei sentimenti” la giustificai. “Sono solo io. Incolpa me. Però firma quelle carte.”
Non riuscivo a smettere di piangere.
“Arizona” la voce di mio padre continuava ad essere incredula.
“Ti prego, papà” ripetei. “Così è come se portassi via un po' della sua felicità per me stessa. Non voglio farlo, non la voglio. Voglio che lei sia felice. E tu puoi darle indietro la sua famiglia, sua sorella” a quel punto non ce la facevo più a guardarlo negli occhi.
Abbassai lo sguardo, cercando di smettere di piangere. Fallendo miseramente, anche.
Fu allora che sentii due braccia forti cercare di tenermi insieme.
Non erano le braccia a cui mi ero abituata crescendo, quelle che mi avevano rimesso in sella alla mia bici la prima volta che ero caduta. Erano braccia diverse. Meno forti, eppure più sicure. O forse, sicure in modo diverso.
“Aria non è Tim, Arizona.”
Quella frase sussurrata a mezza voce mi spezzò il cuore.
“Aria non è Tim” ripeté. “So che ti manca. È normale che ti manchi. E vorrei poterti dire che con il tempo passa, ma non è vero. Però migliora. Ti prometto che un giorno riuscirai a pensare a lui senza che ti si spezzi il cuore, penserai a...a quanto avrebbe ballato al tuo matrimonio, e ti verrà voglia di sorridere.”
Mi accarezzò piano i capelli.
Il battito del suo cuore, il suo profumo, mi fecero calmare. Ricominciai a respirare normalmente, le lacrime smisero di scendere, ricominciai ad ascoltare i rumori attorno a me.
“Non so come hai fatto. Ogni volta che piange per Tim, l'unica cosa che posso fare è stare a guardare mentre si chiude in camera e piange tutte le lacrime che ha. E in meno di due minuti tu l'hai fatta smettere” sentii parlare mia madre, concentrandomi ancora sul ritmo del cuore che batteva sotto la pelle del collo su cui avevo appoggiato l'orecchio.
“Ha solo bisogno che qualcuno le ricordi quello che già sa, convincendola di ciò che già pensa. È una persona forte, può cavarsela da sola. A volte, è solo più facile non farlo” le rispose in un sussurro. “Stai meglio?” chiese.
Io annuii. “Grazie.”
Lasciai andare la presa ferrea che avevo su di lei, spostandomi al suo fianco. Lei continuò a tenermi vicina con il braccio destro attorno alla mia vita.
Aveva ragione. Ero in grado di cavarmela da sola. Ma perché avrei dovuto scegliere di cavarmela da sola, se potevo invece scegliere di avere lei?
“Mi dispiace” si scusò ad alta voce. “Mi dispiace davvero.”
“Per cosa ti dispiace?” le chiese mio padre con voce ferma.
“Mi dispiace” la sua presa su di me si rafforzò, voltò la testa per guardarmi, prima di tornare a guardare i miei genitori. “Perché anch'io la amo. E non posso lasciarla andare” scosse la testa più volte, guardando mio padre negli occhi.
Mia madre si alzò dal divano, facendo diversi passi nella nostra direzione, guardando Calliope dritta negli occhi.
“Nella tua vita ti troverai a scusarti praticamente per tutto. Ma non chiedere mai, mai, scusa perché ami. L'amore non è qualcosa di cui essere dispiaciuti, ma qualcosa di raro, di cui essere orgogliosi. Non tutti sono in grado di amare, e chi non ci riesce pretenderà delle scuse da te che invece puoi, ma tu non scusarti. Cammina a testa alta e mostra con orgoglio ogni cicatrice che l'essere in grado di amare ti ha causato.”
Sembravamo due ragazzine impaurite a morte, sotto lo sguardo attento di mia madre, quando poco prima entrambe avevamo parlato con decisione a mio padre, un colonnello dell'esercito, senza battere ciglio.
“Cosa avete intenzione di fare adesso, Callie? Perché se pensi che permetterò a mia figlia di non andare al college...” iniziò mio padre.
“Non se ne parla. Arizona andrà alla Hopkins. Io finirò il college qui a Miami, a questo punto sono solo altri due semestri. E ci vedremo durante le vacanze invernali e quelle primaverili. Posso venire a Baltimora un fine settimana al mese, perfino. Troverò un modo.”
“E dopo? Pensi di venire a lavorare in Maryland?”
“In qualche modo sistemerò le cose” rispose con risoluzione.
“E Aria?” domandai. “Mancano altri tre anni perché tu possa accedere al fondo fiduciario.”
“Lo so. Penso che mi troverò un lavoro. Anche se questo significherebbe meno tempo da dedicare allo studio e il rischio di rimanere indietro a medicina, ma in un paio d'anni potrei riuscire a pagare la cauzione.”
“Potresti vendere la villa” proposi timidamente.
“Ci ho già pensato. Ma è intestata a Carlos.”
Ci fu un silenzio abbastanza imbarazzante.
“Beh, credo sia meglio che vada in albergo” disse infine mia madre.
“No, la prego, insisto perché rimanga. Ci sono un sacco di stanze in questa casa. Lei e Daniel potete tenere quella in cui sono le sue cose adesso ed io mi sistemerò nella mia vecchia camera.”
Si scambiarono uno sguardo prolungato, finché mia madre annuì.
“Vieni, Daniel. Mostrami dov'è questa camera” lo trascinò al piano di sopra.
Calliope li guardò sparire lungo la scalinata, voltandosi poi verso di me ed abbracciandomi.
“Grazie” sussurrò, la voce rotta. “Quello che hai fatto, Arizona, è stata la cosa più altruista che io abbia mai visto fare a qualcuno. Avevi tutto da perdere e niente da guadagnare e l'hai fatto comunque, per me. Non so nemmeno come...” scosse la testa. “Solo, ricorda che ti amo, ok?”
“E tu ricorda che io amo te.”
Si allontanò appena, guardandomi negli occhi. Mi baciò appena, sfiorandomi il viso con la punta delle dita.

Aprii la porta lentamente, cercando di non fare rumore. Me la richiusi alle spalle, appoggiandoci la schiena contro.
“Calliope” bisbigliai nel buio. “Sei sveglia?”
La luce della lampada accanto al letto si accese all'istante.
“Sì. Non riesco a dormire” la sua voce era chiara, per niente toccata dal sonno. Era davvero rimasta sveglia.
“Neanche io” replicai, avvicinandomi al letto. “Non riesco a dormire senza di te” confessai timidamente, fissandomi i piedi come un bambino beccato a rubare dei biscotti.
Sospirò pesantemente.
“Vieni.”
Scostò le coperte. Velocemente, mi sistemai al suo fianco. Lei non perse tempo, abbracciandomi da dietro contro il suo petto.
“Hai un buon profumo” non riuscii a trattenermi dal dirle.
“Sei bellissima” rispose, profonda ammirazione nella sua voce mentre guardava il mio viso.
Mi voltai appena, notando qualcosa di strano nella sua voce.
“È la cosa più semplice del mondo” aveva le lacrime agli occhi. “Dormire, intendo. Ti sdrai, chiudi gli occhi, ti addormenti. Niente di che. Respirare richiede una sforzo maggiore, devi farlo quasi una volta al secondo. Camminare, mille volte più difficile, devi perfino pensare a quello che stai facendo. Parlare, non ne parliamo neanche. E allora spiegami se non riesco neanche a dormire senza di te, come posso respirare, camminare, parlare, se non sei qui?”
Era la prima volta che vedevo una lacrima, seppur solitaria, uscire dai suoi occhi.
“Come posso vivere se non sei con me?”
“Calliope, è solo un anno.”
“Non sarà solo un anno. Ho fatto domanda alla seconda miglior clinica universitaria del Paese. Seattle Grace.”
“Ma è fantastico. È un'opportunità meravigliosa.”
“No, invece. Sono sette anni più uno qui a Miami, Arizona. Ed io non posso dormire una notte.”
“Per prima cosa, cinque anni. Farò domanda lì anche io. E poi, non è che non ci vedremo mai, ci vedremo tutto il tempo. Te lo prometto.”
“No, invece.”
“Ti sbagli di grosso se pensi che rinuncerò a te così facilmente.”
“Intendo no, non accetterò la borsa di studio al Seattle Grace.”
“Scordatelo. La accetterai eccome. Ed io sarò proprio lì, quattro anni dietro di te. Ce la faremo, Calliope. Dobbiamo solo tenere duro per qualche anno.”

Non lo avevo fatto di proposito. Era solo capitato che mi trovassi ad origliare. Ero sulle scale, ma avevo una visuale perfetta della cucina, attraverso il soggiorno e l'ingresso.
Undici decimi di vista, la cosa migliore del mondo.
“No, Daniel, non posso accettare.”
“Puoi, invece. E lo farai.”
“No, ti ringrazio, davvero. Ringrazio entrambi, ma non mi sembra il caso.”
“È il minimo che possiamo fare dopo quello che hai fatto per noi.”
“No, il minimo che potete fare è ringraziarmi e mandarmi una cartolina a Natale. Ventimila dollari non sono il minimo di niente.”
“Callie” la voce di mia madre intervenne. Non riuscivo a vederla da dove mi trovavo, ma anche lei era in cucina. “Se ti trovi un secondo lavoro, non avrai tempo per studiare, ti laureerai più tardi, starai più tempo lontano da Arizona. E a giudicare dal poco che ho visto, non è ciò che vuole nostra figlia. Quindi considerala come una cosa del tutto egoista da parte nostra.”
“Questa è la cosa meno egoista del mondo.”
“Non è vero. Sono abbastanza certa che la cosa meno egoista del mondo l'abbia fatta Gandhi. O Madre Teresa, forse.”
“Comunque, si classifica piuttosto in alto, ne sono sicura.”
“Parla con tua sorella, ok? Fai in modo che ne sia valsa la pena” si raccomandò mio padre.
“D'accordo” si arrese Calliope alla fine.
Scesi gli ultimi gradini, attraversando il soggiorno e l'ingresso ed entrando in cucina.
“Ehi gente, che succede?”
“Che c'è, dalle scale non sentivi abbastanza bene?” chiese Calliope con un sorrisetto.
I miei genitori la guardarono sorpresi. Nessuno mi beccava mai a ficcanasare. Anni e anni di pratica.
“Non so di cosa tu stia parlando” le dissi con casualità.
“Come no.”

“Era l'ultima?” chiese, lasciando cadere uno degli scatoloni a terra.
“Sì” risposi allegramente, lasciandomi cadere sul divano.
Lei si sedette accanto a me.
“Sei stanca?” le chiesi, rannicchiandomi al suo fianco.
Mi passò un braccio attorno alle spalle. “Un po'. Tu?”
“Esausta.”
Rise. “È stato un lungo viaggio fin qui.”
Io la guardai, sorridendo.
Ero partita da Baltimora, anni e anni prima. Un'estate a Miami aveva sconvolto la mia vita. E poi, la distanza, l'università, le liti al telefono. Una volta al mese Calliope veniva a trovare me, una volta al mese andavo a trovare lei. Passò il Natale con noi, io passai le vacanze di primavera a Miami.
Poi c'era stata Seattle.
E allora il fuso orario, i turni da specializzanda, ed io con i miei casini, e altre liti al telefono e un giorno avevo rotto con lei.
E il giorno dopo lei era lì, ricoperta di pioggia, a bussare alla mia porta e a chiedermi di lasciarla guardandola in faccia, come minimo.
Ma lei aveva attraversato il Paese e aspettato sotto la pioggia ed era l'amore della mia vita. Così la feci entrare e le dissi che mi dispiaceva, e che l'amavo più di quanto avrei mai creduto fosse possibile prima di incontrare lei.
E lei mi disse che sarebbe andato tutto bene, anche se non ci credeva più neanche lei già da un pezzo.
E poi il suo secondo anno, e i turni un po' meno lunghi, i miei esami, e quattromila cinquecento chilometri di distanza. Ma avevo paura che se l'avessi lasciata di nuovo, non si sarebbe guardata indietro.
Così strinsi i denti. Chiusi gli occhi. Chiusi la bocca.
Ma lei capì ugualmente. Mi chiamò, una sera, e la sua voce era come non l'avevo mai sentita. Era chiaro anche al telefono che aveva pianto per giorni. Era consumata.
“Dovrei lasciarti andare. Ti ho chiamato per lasciarti andare. Per lasciarti.”
Aspettai.
“Ma non posso farlo. Devi farlo tu, d'accordo? Devi farlo tu, perché io mi sento fisicamente male al solo pensiero di rinunciare a te, al pensiero che non sentirò la tua voce domani, che non ti vedrò mai più di persona” stava piangendo sommessamente. Potevo sentirlo. “Quindi dovrai farlo tu. Devi lasciarmi, perché io ti sto facendo male e perché ti sto tenendo a freno.”
“Sei l'amore della mia vita. L'unica persona che ho mai amato. L'unica persona che mi conosce davvero. L'unica persona con cui voglio stare, se penso alla persona perfetta, penso a te. Quindi no, non devo farlo io, non devo fare un bel niente, se non continuare a chiamarti tutti i giorni e dirti quanto ti amo.”
“Mi manchi.”
“Mi manchi anche tu.”

E poi, c'era stata la gelosia. La mancanza di intimità. Il mio ultimo anno di college.
Era andato tutto a puttane così in fretta, che non me n'ero quasi accorta.
“Mi dispiace. Ricordati solo...Ricordati quello che ti ho detto, d'accordo? E sappi che ho sempre sentito ogni parola. Ricordalo.”
Un messaggio in segreteria.
Così fui io ad andare da lei, a Seattle. Trovai il suo appartamento con il navigatore satellitare dell'auto e continuai a bussare finché non venne ad aprire la porta alle tre e mezzo di notte.
“Davvero, Calliope? Dopo tutti questi anni? Adesso che mi mancano tre mesi per finire con il college?”
“Chi è?” una voce da dentro l'appartamento. La voce di una donna. Una donna che non ero io.
“Non posso crederci” sussurrai, entrando dentro, passandole accanto senza nemmeno preoccuparmi di essere invitata a entrare. “Non posso davvero crederci.”
Ero arrabbiata, triste, confusa, tradita. Più di tutto, ero arrabbiata.
“Arizona.”
“No. Ci sono rimasta male. Ho preso il primo aereo. E arrivo qui e tu sei con un'altra? Come diavolo è successo, Calliope? Come siamo arrivate a questo punto?”
“Ehi, ragazzina, abbassa la voce, ok? C'è qualcuno che cerca di dormire.”
La donna che uscì dalla camera da letto mi lasciò di stucco.
“Cristina?”
“Sì. Sorpresa di vedermi qui? Anche io sono sorpresa di vedere te, qui. Pensa un po', però, la differenza è che io ci vivo.”
“Vuoi sapere come siamo arrivate a questo punto?” mi chiese Calliope. “Bugie. Ecco come.”
“Bugie?” solo allora notai gli occhi arrossati, le occhiaie profonde.
Aveva pianto molto. E non solo allora, ma nel corso degli anni, aveva pianto molto. Il meraviglioso essere che quando c'eravamo conosciute non era in grado neanche di versare una lacrima, a causa mia ne aveva versate tante da poter riempire più di un cratere nella luna.
“Bugie” confermò. “Le tue. Ti dice niente 'Il New York Presbiterian è felice di comunicarle che ha accettato la sua domanda per una borsa di studio presso il nostro ospedale'?”
“Come...”
“Daniel” spiegò. “L'ospedale universitario numero uno del Paese ti vuole e tu confermi con il Seattle Grace. Senza parlarmene.”
“Non c'è niente di cui parlare.”
“Andrai al Presbiterian. È l'occasione di una vita.”
“No.”
“No?”
“No” replicai con forza. “Non andrò al maledetto Presbiterian. Non andrò ad essere infelice, ma con ottimi chirurghi attorno. No. Voglio essere felice. Voglio alzarmi e respirare. Voglio vivere. E non lo farò a New York. Lo farò con te al mio fianco. Lo farò solo se la smetterai di chiederti cosa è meglio per me e giungere alla conclusione che la cosa migliore per me include lo starti lontana. Sono stanca di starti lontana, francamente. Lo so io cos'è meglio per me, è meglio essere felice, per me. Spero che tu riesca ad accettarlo. Perché tra tre mesi mi laureo e poi mi trasferisco a Seattle e sarà difficile per te continuare a fingere che io non esista, perché ti starò attaccata finché non mi riprenderai indietro. O mi manderai al diavolo, suppongo. Ma non è questo il punto, hai capito quale è il punto.”
Mi afferrò le spalle delicatamente.
“Amore, respira. Stai di nuovo parlando a vanvera. E sai che lo trovo adorabile, ma devi davvero respirare ad un certo punto, o inizierai a diventare blu.”
Feci un respiro profondo.
“Voglio che andiamo a vivere insieme” le dissi tutto d'un fiato, decidendo che quello era il momento migliore per chiedere a una donna con cui tecnicamente non stavo più di andare a vivere insieme in un appartamento che tecnicamente non avevo ancora.
“Oh, perfetto. Io me ne vado a vivere con Owen” borbottò Cristina, uscendo dal soggiorno. Non mi ero accorta che lei fosse ancora nella stanza.
Due occhi caldi e scuri mi guardarono a lungo.
“Non ti permetterò di tingere le pareti di rosa. Non voglio vivere nella casa del Coniglio di Pasqua.”
“No, tu vuoi, in realtà, vivere nella Bat-Caverna. Ma incontrami a metà strada.”

E quindi mi ero trasferita nell'appartamento 502 di un edificio ad un solo isolato di distanza dall'ospedale in cui lavoravamo.
Prima di portare lì tutta la mia roba, però, avevamo tinto le pareti di verde chiaro. Cambiato qualche mobile. Sistemato i miei giochi per il Nintendo Wii accanto a quelli di Calliope. Insomma, le cose più importanti per prime.
Eravamo felici. Eravamo insieme.
Potevamo di nuovo respirare, camminare, parlare e perfino dormire, dopo anni di assoluta apatia.
“È stato un lunghissimo viaggio” la baciai, guardandola poi negli occhi. Aveva capito cosa intendevo. “Ma ne valeva totalmente la pena.”




Fatevi sotto e lasciate una recensione...il gesto sarà apprezzato! =)

Quindi...che ne pensate? Mai più una scena rossa, mi sono umiliata abbastanza?

Grazie mille a tutte, alla prossima!


Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Il nostro primo vero appuntamento ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete mi-ti-ci! <3 =)

Avvertimenti: leggero OOC, leggero AU.


Buona lettura!

Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo vero appuntamento


~ My love for Linton is like the foliage in the woods. Time will change it, I'm well aware of it, as winter changes the trees. My love for Heathcliff resembles the eternal rocks beneath. ~

A pezzi.
Ecco come la vita mi aveva ridotto.
Ci avevo pensato a lungo, ma non riuscii a trovare nessun altro aggettivo che corrispondesse ai criteri adatti.
Le persone che avevo incontrato nel corso della mia vita, ognuno di loro, si erano presi qualcosa, da me. Qualcosa che non mi avevano mai restituito in alcuna forma. Qualcosa di cui ogni giorno sentivo un po' la mancanza.
Coloro che avevo amato, mi avevano portato via qualcosa.
C'ero abituata, in realtà. Perché dopo un po' avevo capito che quello era il modo in cui ogni relazione della mia vita era destinata a finire.
Ero a pezzi.
Tutto qui.
Ero come un puzzle con dei buchi qua e là, di pezzi che un bambino ha perso giocandoci anni prima, altri che erano andati bruciati per sbaglio, altri ancora a cui era caduto qualcosa sopra ed erano stati buttati perché completamente irriconoscibili. E alla fine il puzzle era sempre lo stesso che era all'inizio, l'immagine nel suo complesso si poteva ancora riconoscere, ma non era più bello com'era stato un tempo.
Io ero così. La vita mi aveva fatto a pezzi. E alcuni li avevo persi per sempre. Altri non li avevo mai nemmeno avuti. E l'immagine sulla confezione, più o meno, era ancora lì sotto da qualche parte.
Ma non ero più come una volta.

Adoravo mia nipote con tutto il cuore.
Avevo insistito per andare alla sua festa di compleanno. E lei aveva insistito perché io fossi lì.
Il punto era che, alla festa di una bambina di sei anni, ci sono per la maggior parte bambini di sei anni. Quindi io non avevo molto da fare. Me ne stavo lì, seduta su una sedia, ai margini della stanza, ad osservare come il clown che stava intrattenendo i fanciulli stesse facendo un ottimo lavoro.
Finché una donna mi si sedette affianco.
“Stai bene?”
“Mi hai fatto la stessa domanda ogni volta che mi hai visto, nell'ultimo mese. Per quanto ancora continuerai?”
“Il tempo che ci vorrà.”
Sospirai, continuando a guardare i bambini ridere. Incrociai le braccia al petto.
“L'amavo, Aria. La maggior parte dei giorni, credevo fosse la donna con cui avrei passato il resto della mia vita. Ci vorrà del tempo.”
“Non ti è mai servito tempo. Nemmeno dopo George. E tu eri sposata con George.”
“Stavolta è diverso.”
“Come diverso?”
“Dopo George, c'è stato qualcun altro.”
Sentii la risata cristallina di mia nipote risuonare attraverso la stanza.
“Stavolta potrebbe non esserci qualcun altro mai più.”
Sentii mia sorella inspirare lentamente. Non le detti il tempo di intervenire.
“Lei doveva essere il mio lieto fine, capisci? Dopo tutto quello che ho passato, lei doveva essere la persona che non mi avrebbe mai spezzato il cuore. Mai lasciato indietro. E invece, una stupida discussione sull'avere figli, me l'ha strappata via. Il lavoro l'ha spinta ad andarsene, ed io alla fine non ho contato abbastanza perché lei rimanesse.”
“Callie, tu lo sai che se fosse potuta rimanere...”
“Sinceramente, no. Non lo so. Perché poteva. Poteva rimanere, ma ha scelto di andarsene. Lei doveva essere la ricompensa per tutti i fallimenti della mia vita. Ma adesso sto iniziando a pensare che non esista niente di simile ad una ricompensa. E quindi che senso ha continuare a lottare con tutta me stessa, se non avrò mai quello per cui mi sto battendo?”
“Non lo pensi sul serio. Stai solo dicendo queste cavolate perché sei arrabbiata e delusa. Ed è comprensibile, ma questo non vuol dire che non ti innamorerai di nuovo. Succederà, e tu non potrai farci niente.”
“Forse è questo che mi spaventa. Forse non voglio. Forse non voglio amare nessun'altra, non voglio dimenticarmi di lei. Forse sono troppo stanca.”
Dall'altra parte della stanza, una bambina dai capelli bruni chiamò la mamma. Mia sorella, rivolgendomi uno sguardo che mi fece capire che la conversazione non era comunque finita, si alzò ed andò incontro alla figlia.
Controllai il cerca persone che avevo agganciato in vita per assicurarmi di non essermi persa una chiamata. Non c'era niente, fortunatamente. E poi, se ce ne fosse stato bisogno, qualcuno sarebbe potuto salire dal pronto soccorso e venire a chiamarmi.
Ero nell'ala di pediatria del Seattle Grace.
Questo era stato l'unico compromesso che i dottori di Abby avevano accettato per lasciarle festeggiare il suo compleanno. Era confinata in ospedale da tre mesi e sembrava che sarebbe dovuta rimanere lì ancora a lungo.
Qualcuno mi si sedette affianco.
Alzai velocemente lo sguardo per vedere chi fosse, prima di riportare gli occhi su mia nipote, ma quasi immediatamente mi voltai per la seconda volta. L'immagine alla mia destra era a dir poco surreale.
Prendendo un morso del mini panino che stringeva in mano, accorgendosi che lo stavo fissando, mi rivolse un sorriso, continuando a masticare. Io, inarcando un sopracciglio, tornai a guardare in avanti.
“È un lavoro estenuante” giustificò il fatto che si stava riposando.
Io sorrisi.
“Provi a fare il chirurgo per qualche giorno.”
Mi voltai di nuovo, accorgendomi di qualcosa di bizzarro nei lineamenti della persona seduta al mio fianco.
“Lei è una donna” osservai, sorpresa evidente nella mia voce.
Il clown al mio fianco mi rivolse uno sguardo perplesso, inclinando leggermente la testa di lato.
“Mi perdoni” mi scusai immediatamente. “È per via del trucco e dei capelli e dei vestiti di due volte più grandi. Avevo dato per scontato che ci fosse un uomo lì sotto.”
Lei rise.
“Il bianco può confondere” mi assecondò, riferendosi al fatto che tutto il suo viso fosse ricoperto di cerone bianco. “Per non parlare del fatto che le mie labbra sono sparite sotto circa quattro chili e mezzo di rossetto a lunga resistenza.”
Mi unii alla sua risata. Finì di mangiare in silenzio.
“Allora, è qui in veste di medico?”
“In realtà sono la zia della festeggiata.”
“Capisco. Noto una certa somiglianza, adesso che me lo dice.”
Le rivolsi un piccolo sorriso. Lei mi guardò in viso a lungo.
“Sembra triste” concluse. “Ed io sono qui per strappare un sorriso a tutti, in questa stanza. Quindi, mi trovo costretta a chiederle di sorridere, almeno una volta.”
Le rivolsi un sorriso che aveva ben poco di sincero, tornando a guardare davanti a me.
“La guarda come se avesse paura di vederla sparire da un momento all'altro” disse lentamente in un sussurro. “È a causa della sua malattia, non è vero? Ma non deve preoccuparsi, sa? Ho sentito che la nuova primaria di chirurgia pediatrica si sta dedicando al suo caso con particolare attenzione.”
“Anche la sua ultima dottoressa” sussurrai appena. “Eppure se n'è andata da un momento all'altro, senza prendersi mai il disturbo di guardare indietro.”
“Comunque, lei non deve preoccuparsi. Sua nipote sarà fuori dall'ospedale in men che non si dica.”
Mi voltai di nuovo verso di lei, spostando gli occhi un po' più in alto del suo viso.
“La parrucca è in dotazione con il costume?” chiesi accennando all'enorme chioma di capelli rosa sopra cui giaceva un cappello verde smeraldo.
Lei mi sorrise.
“No. È il mio tocco personale all'aspetto scenico. I vestiti da clown che l'ospedale distribuisce ai volontari sono standard, ma io lo faccio spesso, quindi ho comprato il mio costume personale. Le piace?”
“Molto di classe.”
Il costume era costituito da degli enormi pantaloni celesti ed una giacca rossa, con sotto una camicia gialla. Nel taschino della giacca, saltava all'occhio un fiore bianco. Una margherita di plastica.
“Pieno di colori, perfetto per un clown.”
Mi sorrise genuinamente.
“La ringrazio.”
“Si figuri” risposi educatamente.
Lei si protese verso di me, sorridendomi e immobilizzandomi con i suoi elettrici occhi azzurri.
“Tutti meritano almeno un sorriso al giorno. Altrimenti che razza di giorno sarebbe?” chiese, alzandosi subito dopo. “Cerchi di tenerlo a mente. Sorrida, almeno una volta, tutti i giorni.”
Mi fece un cenno con l'indice, indicandomi di aspettare solo per un momento. Prese il fiore che aveva nel taschino, tirandolo. Il fiore fece resistenza, ma poi finalmente iniziò a scorrere. Se non fosse stato che, attaccati al fiore, c'erano almeno due metri e mezzo di gambo. Quando lo ebbe tirato fuori tutto, spezzò il gambo all'altezza giusta perché il fiore avesse un aspetto presentabile, rimettendo come se niente fosse lo stelo dentro il proprio taschino.
Sorridendo di nuovo, si chinò verso di me, porgendomelo.
Io non riuscii ad evitare di sorriderle come un'idiota, accettando la margherita che mi stava porgendo.
“Non strappi i petali” si raccomandò. “Che la persona dei suoi pensieri la ami o che non la ami, cosa mai avrebbe fatto la margherita per farsi spogliare petalo a petalo?”
“Perché dovrei voler sapere barando se mi ama? Non ci sarebbe alcun divertimento, in quel modo.”
“Non dimentichi di sorridere almeno una volta ogni giorno” si raccomandò, sorridendomi per l'ultima volta, prima di tornare ad intrattenere i bambini.
Avrei voluto rimanere, chiedere il suo nome, chiedere qualsiasi cosa, ma mentre si stava allontanando, il mio cerca persone suonò, mostrandomi il codice 911.
Quindi me ne andai, senza dare troppa importanza al fatto che non l'avrei rivista mai più.

Non potevo sapere quanto clamorosamente mi sbagliavo. Una domenica di esattamente un mese dopo, salendo nel reparto di pediatria a trovare mia nipote, vidi i bambini riuniti nella sala giochi ed intrattenuti da un buffo clown con la parrucca rosa.
Sorrisi riconoscendo quel clown all'istante.
Quando mi vide sulla porta, con una spalla appoggiata allo stipite, mi rivolse un sorriso. Almeno, credo che lo fece, ma non potevo esserne sicura a causa del trucco che aveva sul viso.
Vedendo che la mia bambina preferita era impegnata, tornai in pronto soccorso, salendo di nuovo un paio d'ore più tardi, alla fine del mio turno.
I bambini erano sparsi per la sala, ed il clown dalla parrucca rosa stava parlando con una coppia di genitori. Aspettai a debita distanza. Quando la coppia si allontanò io mi avvicinai, un sorriso piantato sulle labbra.
“Vedo che sta seguendo il mio consiglio.”
“Un sorriso al giorno. È fortunata ad assistere a quello di oggi.”
Lei mi rivolse un sorrisetto furbo.
“Non lo metto in dubbio.”
Poi fu un lampo. Un flash. Un momento iniziato e subito dopo già finito.
Vidi qualcosa nei suoi occhi. Qualcosa che avevo dimenticato. Qualcosa di familiare eppure vago, qualcosa che non aveva senso. Non avrei mai potuto guardare gli occhi azzurri di qualcuno senza che mi venisse in mente lei, che aveva gli occhi più chiari del mondo.
Il mio sorriso sparì. E sono sicura che vide i miei occhi scivolare ad una vita di distanza da dove eravamo. Perché una vita di distanza era più o meno dove si trovava la donna che avevo perso.
“Zia Callie!”
Distolsi lo sguardo, grata della scusa fornita dalla mia nipotina. La presi in braccio, sollevandola da terra.
“Abby. Come stai oggi?”
“Bene. Come ieri. Ma quanto ancora dovrò rimanere qui in ospedale?”
“Non lo sappiamo tesoro. Speriamo poco, ok?” la baciai sulla fronte.
“Ok.”
“Torna a giocare. Se hai bisogno di me, di qualsiasi cosa, qualsiasi, fammi chiamare da...”
“...chiamare da una delle infermiere” terminò a memoria. “D'accordo, zia.”
Io annuii, sorridendole, rimettendola a terra e lasciandola andare.
“Ha perso qualcuno” affermò con un tono che non sembrava quello di una domanda. “Forse?” si affrettò ad aggiungere poi con tono più dubbioso. “Ha gli occhi di chi ha perso qualcuno” mi spiegò.
“Che significa?”
Scrollò le spalle.
“Sa, chi cerca qualcosa e poi si ricorda che non riuscirà a trovarlo. All'improvviso viene ricordato di ciò che avrebbe di gran lunga preferito dimenticare. Gli occhi delle persone parlano da soli. Se si sa leggere tra le righe, non c'è nessuno che non metta le proprie emozioni in bella vista, almeno una volta ogni tanto.”
Guardai dentro i suoi occhi azzurri.
“Ci siamo già viste da qualche parte, non è vero? Quando lei non indossava una parrucca rosa e tutto questo trucco. Come si chiama?”
Mi sorrise.
“Risponderò alle sue domande quando lei risponderà alle mie.”
Io mi misi le mani in tasca. La donna davanti a me avrebbe potuto essere chiunque.
“Sì. Ho perso qualcuno.”
“Mi dispiace molto per la sua perdita.”
Io corrugai leggermente la fronte.
“Oh, no. Non quel tipo di perdita. Non ho subito un lutto. Ho solo perso una persona che credevo essere l'amore della mia vita e che invece se n'è andata e basta.”
Annuì, rassicurandomi che aveva capito bene fin dall'inizio.
“E quale lutto potrebbe mai essere peggiore di questo?” domandò.
Mi fece segno di attendere con l'indice.
“Ho qualcosa per lei. Perché si ricordi di me.”
Si frugò nelle tasche giganti degli enormi pantaloni, nella giacca, perfino nel taschino in cui aveva un fiore all'occhiello nuovo di zecca.
“Non è necessario. Ho tenuto la margherita finta, sa?”
“Ma dove l'ho messo...Ah!” afferrò qualcosa dalla tasca sul retro dei pantaloni. “Eccolo qui” tirò fuori un fazzoletto di stoffa. “Oh, no” sussurrò, iniziando ad estrarre una quantità ridicola di fazzoletti di tutti i tipi di colori esistenti. “Il trucco dei fazzoletti annodati. Aspetti un secondo” mi disse, continuando a tirare. “Questo no, neanche questo, niente da fare. Devo averlo messo per ultimo.”
La scena davanti a me era troppo buffa perché riuscissi a non ridere. La sua espressione concentrata, intenta ad esaminare ogni singolo fazzoletto che veniva fuori da quella tasca, era impagabile.
“Trovato. Era l'ultimo sul serio. Mi dispiace, ogni volta che voglio regalarle qualcosa finisco per umiliarmi con uno dei miei stessi trucchi da clown. Ecco a lei” mi porse un fazzoletto rosa. “Questo dovrebbe rispondere alla sua domanda.”
“'A.' Lei si chiama 'A.'?”
“Lo consideri un inizio. Per le altre lettere c'è sempre tempo, giusto?” mi rivolse uno di quei suoi sorrisi furbi, accennando un piccolo inchino, togliendosi il cappello dalla parrucca enorme che aveva in testa. “Viva con prudenza, dottoressa Torres” indietreggiò. “O, ancora meglio, non lo faccia. Viva completamente, invece.”
“Questo non è per niente giusto. Lei sa il mio nome.”
“Credo che questo risponda all'altra sua domanda, no?”
“Quindi ci siamo incontrate prima.”
“Mai detto questo. Però ci siamo incontrate, giusto?” il suo sguardo si spostò qualche centimetro in basso.
Lo seguii, fino a leggere il ricamo sul mio camice bianco che aveva chiaramente ricamata sopra la scritta 'Torres'.
Scossi la testa, ridacchiando.
“Questo si chiama” alzai lo sguardo, ma lei non era più nella stanza. Era completamente sparita nel nulla “barare.”

La donna clown dagli occhi azzurri attraversò i miei pensieri.
Non ero sicura che facesse volontariato in ospedale regolarmente, ma valeva la pena tentare, così dopo un altro mese, sempre di domenica, tornai nella sala giochi del reparto di pediatria.
Ma lei non c'era.
Passai qualche ora con mia nipote, fino all'inizio del mio turno, quando fui chiamata in pronto soccorso perché una bambina si era rotta un polso cadendo da un albero.
“Cosa abbiamo?”
“Sospetta frattura del metacarpo della mano sinistra.”
Palpai il punto molto piano, sentendo subito la bimba protestare.
“D'accordo, portiamola su Kepner, fai una radiografia e portamela in sala operatoria mentre l'anestesista la addormenta.”
“Subito.”
Mi voltai, andando verso gli ascensori.
“Oh, e, Kepner, fai chiamare pediatria.”
Ero nella sala pre operatoria, preparandomi ad uscire, un sorriso sulle labbra, quando la porta si aprì improvvisamente.
“Eccomi, mi dispiace di avervi fatto aspettare.”
Alzai lo sguardo dal lavandino.
“Non si preoccupi, ho già finito. È bastato mettere un gesso. È tutto nella cartella.”
“Molto bene. Quindi la paziente passa a me, adesso?”
“Sì. Ma la prego, se ha bisogno di fare un altro intervento si assicuri che io sia presente, ok?”
“Certo. E mi scusi ancora se non sono arrivata subito. Ero nella stanza accanto, un bambino con l'appendice esplosa.”
“Ouch. Come sta?”
“Tutto risolto.”
Le sorrisi, asciugandomi le mani.
“La ringrazio per essere comunque venuta il prima possibile.”
“Certo” annuì, facendosi di lato per farmi passare ed aprendo la porta per me.
La guardai brevemente negli occhi, ricambiando il cenno della testa.
“Arrivederci, dottoressa Robbins.”
“Dottoressa Torres.”
Mi diressi verso la camera di Abby per controllare se avesse bisogno di qualcosa prima di tornare a casa.
“Zia, ti sei persa la signora clown, oggi. Dov'eri?”
“Mi dispiace, piccola. Ero in sala operatoria.”
“Non fa niente, tanto oggi non è rimasta molto. E comunque torna presto.”
“Viene spesso?” le chiesi, accarezzandole distrattamente i capelli.
“Quasi tutte le settimane, di domenica.”
“Capito.”
“Zia, puoi chiamare la dottoressa Robbins?”
“La dottoressa Robbins?” domandai, perplessa.
“Sì.”
“Perché?” corrugai la fronte.
“Mi ha detto di chiamarla se sento di respirare peggio del solito. Oggi è peggio del solito.”
Per un istante mi bloccai completamente.
Poi scattai in piedi.
“Avresti dovuto dirmelo prima, Abby. Torno subito, tesoro.”
Uscii nel corridoio. Non era alla stazione del piano. Mi precipitai verso il suo ufficio. Bussai alla porta, pregando che non fosse già andata via.
“Avanti.”
“Dottoressa Robbins” aprii immediatamente la porta. “Mi dispiace disturbarla, so che ha avuto una giornata lunga. Ma Abby non sta respirando molto bene. Potrebbe darle un'occhiata? Solo per...per essere sicuri.”
Si alzò subito, venendomi incontro.
“Le ha auscultato il respiro? A quanto era la saturazione?”
Fu allora che mi resi conto di quanto ero stata stupida. Ero un dottore, per l'amor di Dio, dovevo comportarmi come tale.
“Io non” scossi la testa, cercando di ricordare se, per riflesso, avessi controllato. “Non lo so. Mi dispiace. Mi è preso il panico. Lei è mia nipote” le spiegai.
Si affrettò ad uscire dall'ufficio, percorrendo il corridoio.
“Sì, lo so. Ha fatto bene a chiamare me. Non si preoccupi, ok? Ci penso io.”
Mi paralizzai all'istante, fermandomi fuori dalla stanza e guardandola entrare. Osservai la scena attraverso la porta a vetri.
“Non preoccuparti di niente. Ci penso io, Callie. Abby è al sicuro.”
L'ultima volta che avevo chiamato qualcuno per prendersi cura di Abby, le cose erano precipitate all'improvviso.
“Non ho idea di come faccia mia sorella. Lavora quattordici ore al giorno per pagare questa maledetta stanza e poi rimane qui, a guardarla dormire, per assicurarsi che non smetta di respirare nel sonno. Come può una persona sopravvivere a questo?”
Ero intrappolata tra i ricordi e il presente, incapace di muovermi, di reagire, di andare dove avrei dovuto essere. Dentro quella stanza. A tenere la mano a mia nipote.
“Quindi, cosa? Non vuoi figli?”
Rimasi in silenzio.
“Mai?” era incredula.

La fece mettere seduta, auscultando con lo stetoscopio il suo respiro.
“Non stai dicendo sul serio.”
“Ti pare che stia scherzando? Mi dispiace. Non posso avere figli. Non dopo quello che ho visto Abby passare tutti i giorni.”
“Callie...”

Ricominciai lentamente a funzionare.
Entrai nella stanza, guardando il monitor. La saturazione era sessantacinque. Praticamente inesistente. Stava avendo un attacco.
“Mi dispiace.”
“Stai soffrendo, adesso. Lo capisco. Ma quando Abby avrà il trapianto di polmoni, la paranoia ti passerà e cambierai idea su questa storia di non avere bambini. È inutile litigare adesso per questa cosa.”
“Non cambierò idea.”
“Lo farai. Io ti conosco. Tu hai sempre voluto un bambino.”
“Non cambierò idea” alzai la voce, mettendo fine alla discussione.

“Chiamate la dottoressa Altman. Ditele di raggiungerci di sopra, immediatamente. Ok, Abby.
Dobbiamo andare in Sala Operatoria.”
“Di nuovo? Ma mamma non è qui.”
“Lo so, ma dobbiamo andarci proprio adesso.”
“Ma...”
“So che sei spaventata, ma che ne dici se ti faccio tenere la mano da zia Callie?”
“Durante tutta l'operazione?”
“Certo. Finché non sarai di nuovo sveglia, ok?”
Annuì, guardandomi.
“Lei non lascerebbe mai che mi accadesse qualcosa senza che prima abbia potuto salutare la mamma.”
Sentii un nodo in gola.
“Che è successo?” chiesi, aiutando la dottoressa Robbins a portare la barella verso l'ascensore.
“Non può più respirare da sola. Dobbiamo operare subito. Senta, dottoressa Torres, sua sorella non ha ancora firmato il consenso, ma se vogliamo mettere quel polmone artificiale, non c'è miglior momento di adesso. Abby non riesce più a respirare da sola” ripeté.
“Quindi come facciamo? La chiamo? Ci metterà almeno un'ora ad arrivare da lavoro, sempre ammesso che riesca a liberarsi subito, è una delle ore di punta” la voce mi tremò. “Ed io conosco il suo capo, e si fidi, non la farà uscire prima della fine del suo turno, ma anche se dovesse farla uscire subito, noi non” ero nel panico, stavo iniziando a sudare freddo. Ci fermammo davanti all'ascensore. Chiusi gli occhi. Non potevo perderla. Non potevo e basta. “Noi non abbiamo un'ora, non è vero?”
Salimmo sull'ascensore, premette il pulsante del settimo piano, voltandosi verso di me.
“No.”
Si voltò in avanti, guardando il numero dei piani scorrere.
“Quindi cosa facciamo? Posso decidere io? Cioè, so di non poter decidere io, non sono il suo medico e sua madre non c'è, ma...”
“Se sua sorella non firma il consenso Webber pretenderà la mia testa su un vassoio d'argento.”
“La opererà?”
“Sì. Che altro potrei fare? Aspettare? Non è un'opzione al momento.”
“Ma se Aria si rifiuta di firmare...”
“Lo so. Probabilmente perdo la licenza. Ma almeno avrò salvato Abby.”
Potevo vedere che non era una decisione che stava prendendo a cuor leggero.
“No.”
“Dottoressa Torres, se non la opero subito sua nipote non sopravviverà. Ed io le ho promesso che vivrà, giusto?”
Non mi aveva mai promesso niente del genere, in realtà. Ma immaginai che lo stesse facendo in quel momento.
“Intendo che sarò io a prendermi la responsabilità se qualcosa dovesse andare storto” le dissi con risoluzione.
Mi guardò negli occhi per un lungo momento. Annuii, rassicurandola.
Le porte si aprirono.
Ci precipitammo fuori.

“Mi fa male.”
Strinsi la piccola mano di più.
“Lo so, tesoro. Ho chiamato mamma, ok? Sta arrivando.”
Annuì, massaggiandosi lo sterno con l'altra mano.
“Attenta ai punti, ok?”
“Sì, zia.”
Aprì finalmente gli occhi, guardandomi.
Finsi un sorriso rassicurante quanto più riuscii a sembrare.
“Ho fame.”
Risi. “Vado a prenderti qualcosa da mangiare, ok? Non muoverti.”
“Dove vuoi che vada?”
“L'ultima volta, sei scappata nella stanza di Janie subito dopo l'operazione.”
“Volevo farle vedere la cicatrice.”
“Lo so. Torno subito.”
La baciai sulla fronte, alzandomi. Appena uscita il sorriso sparì. Arrivai alla macchinetta, vedendo subito la merendina preferita di Abby.
Misi un dollaro dentro, ma l'affare lo risputò. Lo stirai, provando di nuovo. Niente da fare. Feci un respiro profondo, provando una terza volta.
Mollai un cazzotto allo stupido affare, borbottando insulti.
“Lasci provare me.”
Prese delicatamente il dollaro dalla mia mano sinistra.
Non alzai lo sguardo. Non avevo mai lasciato che nessuno mi vedesse piangere in tutta la mia vita, ecco perché mettevo fine alle discussioni urlando. Rendeva più facile non piangere. Io non piangevo, fine della storia. E le poche volte che lo avevo fatto era in privato. Quindi non volevo che vedesse le lacrime nei miei occhi.
“Come sta Abby?”
“Sveglia” risposi solo, la voce strana.
“Mi dispiace che stia soffrendo.”
“Sto bene. È lei che sta soffrendo. Il petto le fa male. E come potrebbe essere altrimenti? Ha un polmone artificiale dentro al torace.”
Inserì il dollaro nella macchinetta, che lo prese al primo tentativo. Io mi limitai a ridere amaramente.
“Tipico” borbottai, roteando gli occhi.
Selezionai la merendina, aspettando che scendesse.
“La ringrazio immensamente per quello che ha fatto, dottoressa Robbins. È merito suo se Abby è viva.”
“Sa bene quanto me che questo è il nostro lavoro.”
Esitò per un lungo istante, poi mi prese la mano con la sua, leggermente più fredda.
“Non smetta di sperare.”
Alzai lo sguardo, incrociando i suoi occhi. Mi rivolse un sorriso sincero, rassicurante.
“A presto, dottoressa Torres.”
Lasciò la mia mano e se ne andò.

“Dov'è Aria?”
Alzai la testa per un momento, riportando subito dopo gli occhi davanti a me.
“È venuta, l'ha salutata, è tornata a lavoro. Storia della sua vita.”
“Dovrebbe andare a casa e riposarsi.”
“Non posso. Non riesco a smettere di guardarla respirare.”
“Controlla che non smetta di respirare mentre dorme? Sembra estenuante.”
“Ma che altro dovrei fare?”
“Vada a casa” ripeté. “Si riposi. Torni tra qualche ora. E nel frattempo, dorma.”
Io continuai a guardare il corpo della bambina davanti a me.
“Sono di turno stanotte. Rimango io con lei. Tanto devo solo dare un'occhiata a delle scartoffie, posso farlo anche qui. E se mi chiamano faccio venire un'infermiera.”
Io esitai a lungo, pensando alla sua offerta. Era stato un giorno terribile. Un letto sembrava un miraggio, al momento.
“Ne è sicura?”
“Vada a casa. Si tolga dai piedi, su” mi fece cenno di alzarmi, spingendomi poi verso la porta delicatamente.
Io le afferrai una mano, guardandola negli occhi.
“Ha sei anni” le ricordai fermamente. “Non può morire, ok?”
“Lo so. Adesso vada. Noi staremo bene.”
Mi arresi, andandomene dall'inferno in cui mia nipote era costretta a rimanere.

La domenica successiva, mia nipote era ancora costretta a rimanere a letto. Ero passata a salutarla, e mentre stavo per tornare al piano di ortopedia, avevo visto per sbaglio i bambini riuniti nella sala giochi.
Entrai, riconoscendo subito il motivo delle loro risate.
Mi mimetizzai tra i genitori, osservando lo spettacolo della donna senza farmi notare. Ci sapeva davvero fare con i bambini. Aspettai che avesse finito e che mi notasse. Un'espressione di piacevole sorpresa le accarezzò i lineamenti del viso.
“Dottoressa Torres” mi sorrise, avvicinandosi.
“Donna dai capelli rosa.”
“Non sta sorridendo. Non avevamo un patto, io e lei?”
Distolsi brevemente lo sguardo.
“Mi dispiace, ma oggi non ho molto per cui sorridere.”
“Vuole parlarne?”
“Di mia nipote? Ne parlo abbastanza con mia sorella. Tipo, tutti i giorni per ore.”
Annuì, comprendendo a cosa mi stavo riferendo.
“E dell'altra questione? Quel qualcuno che ha perso?”
“È una storia lunga e noiosa.”
“Ma io ho finito per oggi. Quindi ho molto tempo libero.”
Esitai. Non sapevo nemmeno il suo nome.
“Facciamo così” prese dal tavolo alla sua destra una delle candeline di compleanno rimaste lì sopra dall'ultimo compleanno di uno dei bambini. Me la mostrò. “Io la accendo. E lei mi racconta quello che riesce a raccontarmi di questa sua storia prima che la fiamma si spenga. Ed io verrò martedì sera alle otto davanti all'entrata. Niente parrucca, niente trucco, niente pantaloni giganti.”
“Mi sta chiedendo di uscire?”
“No. Potrà sempre decidere di non uscire a cena con me, se quello che vedrà una volta tolto il cerone non le piace.”
Il suono di un cerca persone mi distrasse.
“Accidenti. Devo andare, mi dispiace” mi scusai, leggendo un 911. “Tenga la candelina. Se martedì è davanti all'entrata, potrei decidere di accettare la sua proposta e raccontarle quella lunga storia.”
“Ci vediamo martedì.”

“Che stai facendo qui fuori? Si congela.”
“L'idiota. Ecco cosa sto facendo” borbottai.
“Callie, di che stai parlando?”
“Sono stata qui fuori mezz'ora, sai? Ad aspettarla. Ma non verrà. Lei non verrà.”
“La donna dai capelli rosa?”
“Lei” confermai, mentre lei si appoggiava accanto a me, sullo stesso muretto su cui ero appoggiata io.
“Mi dispiace.”
“No, sai, meglio così. Ho avuto tempo per pensarci. Non sono pronta per soffrire di nuovo. Non sono pronta per un altro fallimento. E non voglio illudere questa donna, ed uscire con un'altra sarebbe illuderla, perché io non ho dimenticato lei, Teddy.”
Sospirò. “Lo so. E non è detto che tu debba uscire con un clown. Arizona Robbins è gay, lo sapevi?”
“Niente da fare. Voi due siete amiche. Le cose diventerebbero strane tra me e te quando la nostra relazione affonderebbe inevitabilmente.”
“Le cose non diventeranno mai strane tra me e te.”
Chiusi gli occhi, appoggiando la tempia alla sua spalla.
“Mi manca.”
“Lo so.”
Appoggiò la guancia alla mia testa.
“Ma tornerà indietro. Lei tornerà. Te lo assicuro. È tanto infelice quanto te.”
“Vorrei poter dire che mi è rimasta quel poco di dignità necessaria per non perdonarla. Ma mentirei. Se tornasse, oggi, domani, tra vent'anni, io la perdonerei. La riprenderei indietro in ogni momento, se lei solo tornasse da me.”
“Tornerà” sussurrò, passandomi un braccio attorno alle spalle e stringendomi. “Cambierà idea.”
Dei passi alla nostra destra ci distrassero. Alzai la testa dalla sua spalla.
“Arizona.”
“Teddy. Dottoressa Torres” ci salutò educatamente, proseguendo verso la sua auto.
“Cavolo. Dici che ha sentito?”
“La parte in cui dicevi di non voler stare con lei o la parte sull'essere disposta a perdonare qualcuno che ti ha fatto il cuore a pezzi in meno di mezzo secondo?”
Feci una smorfia.
“Perché penso che abbia sentito entrambe.”

Il giorno dopo ricevetti una chiamata che mi informava che la dottoressa Robbins aveva urgenza di parlarmi nel reparto di pediatria.
Mi aveva addirittura fatto convocare per dirmi quanto quella mia frase l'avesse infastidita?
Andai in reparto con riluttanza, avvicinandomi alla stazione delle infermiere.
“La dottoressa Robbins mi ha fatto chiamare. Sapreste dirmi dove posso trovarla?”
“Dottoressa Torres, venga dentro” mi voltai, vedendo che si era affacciata dalla camera di mia nipote.
Feci come mi aveva chiesto, vedendo mia sorella che stringeva la mano ad Abby.
“Pensavo che volesse essere qui mentre parlavo con sua sorella e sua nipote” mi informò, richiudendo la porta. “Guardi la saturazione.”
Lessi il monitor.
“Novantacinque” sussurrai, guardando nuovamente verso di lei. “Un momento” portai nuovamente gli occhi sul monitor. “Novantacinque?” ripetei a voce più alta, cercando conferma nello sguardo della donna al mio fianco.
Un sorriso a dir poco magnifico apparì sul suo viso.
“Abby respira bene. Meglio di quanto dovrebbe, meglio di quanto abbia mai respirato prima. Il polmone artificiale ha migliorato la condizione dei suoi polmoni in meno di due settimane.”
“Quindi può usarlo finché non riusciamo ad avere il trapianto?” chiese Aria.
Io feci il giro del letto, togliendomi lo stetoscopio dal suo posto attorno al mio collo, per auscultare il suo respiro.
“Ho fatto tutti i test necessari” iniziò. “Non c'è bisogno del trapianto. Abby sta bene. Tra dieci giorni la dimettiamo” il suo sorriso illuminò la mia vita.
“Lei sta dicendo di aver guarito mia nipote” elaborai ad alta voce.
“Con il suo aiuto, ricorda?”
“No. No, no, no, lei ha guarito mia nipote. La ringrazio. Non si immagina nemmeno...”
“Non c'è problema.”
Mia sorella fu di molte meno parole. Si alzò, abbracciandola.
“Lei è un genio” le disse, lasciandola andare. “Calliope, chiama papà. Falli venire qui subito.”
“Chiama tu, Aria. Sai che io e papà...”
“Oh. Giusto. Certo.”
“Dottoressa Robbins, permette una parola?”
“Certo” mi seguì fuori dalla stanza.
“Non so come ringraziarla. Davvero. Lei è appena diventata il mio eroe.”
“Davvero, non è necessario” continuò a sorridere. “Sono solo felice che Abby stia bene.”
“Voglio anche scusarmi per quello che ha sentito ieri sera della mia conversazione con la dottoressa Altman.”
Lei sminuì le mie parole con un gesto della mano.
“Probabilmente aveva ragione. Teddy prenderebbe di sicuro le mie parti se io e lei dovessimo lasciarci e le cose tra voi due sarebbero strane” scherzò.
Io risi. Mi sentivo il cuore leggero.
“Grazie. Grazie mille. La dottoressa che la curava prima” scossi la testa “ci aveva promesso un trapianto in poco tempo, ma come lei stessa ha visto non è mai arrivato.”
Il suo sorriso sparì poco a poco.
“Voi due eravate...” iniziò, indecisa se continuare o meno. “Eravate coinvolte sentimentalmente, giusto?”
Le voci correvano al Seattle Grace.
“No. Non risponda” si corresse immediatamente. “Non sono affari miei. Ci vediamo in giro, dottoressa Torres” se ne andò dopo avermi rivolto un ultimo sorriso.

Le mie gambe mi avevano portato lì contro ogni ordine che il mio cervello aveva cercato di impartire loro. Stupidi arti inferiori.
Non avrei nemmeno dovuto essere in ospedale, quella domenica. E invece ero lì, a guardare mia nipote che giocava con gli altri bambini, seduta su una sedia in fondo alla stanza.
Lei mi si sedette vicino dopo aver finito il tempo di volontariato.
“Mi dispiace.”
“Non ce n'è bisogno.”
“Che ci creda o no, ho avuto un imprevisto a lavoro.”
“Divertente. Potrei crederle, se sapessi che lavoro fa. Ma non so neanche il suo nome.”
“Lavoro qui in ospedale.”
“Questo restringe il campo. Medico, chirurgo, medico legale, tecnico di laboratorio, infermiera, assistente di sala, donna delle pulizie, tizia del banco dei caffè, contabile, avvocato, segretaria. Devo continuare?”
“Andiamo, non sia arrabbiata con me. Ero a lavoro, in fondo. Avrei voluto avvertirla, ma non avevo il suo numero di telefono.”
Sospirai.
“Non sono arrabbiata con lei.”
“Senta, perché intanto non mi racconta quella storia, e se un giorno le viene voglia di darmi un'altra possibilità, me lo lascia sapere, ok?”
Io la guardai negli occhi per diversi momenti, indecisa su cosa fare.
“Ha ancora quella candelina?”
Mi sorrise, estraendola.
Aspettammo che i bambini tornassero nelle loro camere, poi lei la accese, aspettando che iniziassi a parlare.
“Era una donna. Quel qualcuno, era una donna. Il suo nome era Addison. Ci siamo frequentate per sei mesi, ma ci siamo conosciute per anni. Era la mia migliore amica, finché poi, un giorno, non era più solo quello. Le cose erano fantastiche. Credevo onestamente che avrei passato con lei il resto della mia vita. Era un amore diverso da come mi sarei aspettata. Non era quel tipo di amore che ti capovolge l'anima, che ti strappa il cuore. Andavamo d'accordo, eravamo perfette l'una per l'altra, capisce? Io avrei potuto vivere con lei al mio fianco per i prossimi cinquant'anni e sarei stata felice.”
“Cos'è andato storto?”
Sospirai lentamente.
“Lei voleva un figlio. Io no. Non dopo aver fatto questo lavoro, non dopo Abby.”
“Posso capire perché.”
“Abbiamo litigato. Tutti i giorni per almeno due settimane. Poi lei mi ha detto che se ne andava. Mi ha detto che mi avrebbe portato dentro il suo cuore e che se un giorno fosse riuscita ad immaginare la sua vita senza figli, sarebbe tornata. Ma non penso che lo farà. Sono passati tre mesi e mezzo, ormai.”
“Tornerà” mi contraddisse.
“Non lo so. Ma so che se dovesse tornare adesso mi servirebbe del tempo per perdonarla.”
“Davvero?”
“Sì.”
“Non penso” dichiarò. “Penso che ti servirebbe tempo per fidarti di nuovo di lei, ma non per perdonarla. Hai detto tu stessa che litigavate ogni giorno. Penso che tu sappia perché ha deciso di andar via e che abbia capito.”
Ci pensai attentamente.
“Forse hai ragione.”
“E prima di lei?”
Così iniziai a raccontarle di George e di Mark. Di come Addison mi aveva aiutato dopo il divorzio, di come i miei non erano stati così supportivi quando avevo detto loro di essere gay, mentre Aria non aveva mai smesso di essere dalla mia parte.
Parlai a lungo, parlai alla persona che non conoscevo e che pensavo di conoscere, liberandomi di tutti i pesi enormi che avevo sulle spalle.
“Ho un fratello” mi disse. “Si è sposato tre anni fa, ha un bambino di due anni. La mamma è morta dandolo alla luce e mio fratello è stato distrutto dalla sua morte. Ma alla fine ha trovato una ragione per vivere in quel bambino. Io vedo quello che hanno e penso che lui sia la più grande gioia della sua vita” mi raccontò.
Capii finalmente dove stava andando a parare.
“Non smette mai di stupirmi il modo feroce in cui i genitori amano.”
Cadde il silenzio, entrambe eravamo immerse nei nostri pensieri.
“Io voglio un figlio. Un giorno.”
L'aveva detto come una semplice informazione di poco conto.
Soffiò sulla candelina che aveva in mano.
“Tengo il resto per la prossima volta” mi sorrise, alzandosi in piedi. “Ricordi di sorridere almeno una volta al giorno.”
La guardai andar via. Avrei voluto sapere di più su di lei. Ma quello era pur sempre un inizio.

Per altre tre domeniche ci incontrammo, rimanendo dalla fine del suo volontariato fino a molto tardi a parlare. Scoprii di più sul suo passato, sui suoi genitori, sulla sua prima cotta, sul suo primo giorno di superiori, su come fosse finita a lavorare a Seattle.
Avevo il suo numero di telefono, quindi continuammo a sentirci durante la settimana tramite messaggi di giorno e telefonate di sera.
Ci scambiammo storie, sorrisi, perfino silenzi confortevoli.
Quei momenti più che rari in cui le parole smettono di essere un cordiale obbligo per evitare l'imbarazzo e diventano solo un eccesso che fallisce nel creare quell'armonia che già il silenzio riesce a riempire.
“Devo andare. Abby mi ha fatto promettere di passare a casa sua per vedere i disegni che ha fatto a scuola prima che arrivi per lei l'ora di andare a letto.”
“Oh, ha ricominciato ad andare a scuola? È fantastico.”
Sorrisi, annuendo.
“Meraviglioso.”
Mi alzai, facendo qualche passo verso la porta. Ripensandoci, mi voltai di nuovo quando ero già con un piede fuori dalla stanza.
“Giovedì alle otto davanti all'entrata. Penso io alla cena. Stavolta non darmi buca.”
Mi rivolse un sorriso che sembrò illuminare l'intera stanza.
“Nossignora.”

“Sono un'idiota. Non posso credere di essermi cacciata in questa situazione di nuovo” iniziai a dare piccoli calci al muretto con la punta della scarpa, cercando di non danneggiare il mazzo di rose che avevo in mano.
Un minuto. Tre minuti. Cinque minuti. Sette minuti.
Le porte scorrevoli si aprirono. Raddrizzai la schiena. Sapevo che, probabilmente, non era lei. Mi voltai lentamente.
“Dottoressa Robbins” la salutai con un cenno della testa.
Lei mi sorrise in modo impacciato.
“Buonasera.”
Mi si avvicinò, stringendosi un braccio attorno al busto e grattandosi distrattamente la nuca con l'altra mano.
“Credo che stia aspettando me” confessò leggermente in imbarazzo.
Mi mostrò qualcosa che aveva nella mano che prima aveva attorno alla vita, indossandolo. Era il suo naso da clown.
“Mi dispiace. So che tecnicamente ho mentito per omissione” si tolse il naso velocemente, arrossendo a causa della voce nasale causata dall'enorme naso rosso che le avevo visto addosso già un sacco di volte.
Io non potei evitare di sorridere.
Arizona Robbins non era una persona timida. La donna clown, non era una persona timida. Quindi tutto quello era incredibilmente carino.
Si schiarì la voce, scacciando via il tono nasale.
“Probabilmente sarà delusa” continuò.
Io continuai a sorridere, il suo nervosismo mi aveva suscitato un'enorme dolcezza.
“Devo confessare che sarei stata incredibilmente delusa se non fosse stata lei. Senza contare che sarebbe stato imbarazzante spiegare il nome sul bigliettino.”
Le porsi le sette rose che avevo in mano, con attaccato un piccolo biglietto che recava scritto a mano 'Ad Arizona'.
“I suoi occhi sono inconfondibili.”
“Quindi lo sapeva già.”
Accennai un sorriso.
“La mia macchina è da questa parte. Ho prenotato in un ristorante spagnolo, mi ricordavo che avrebbe voluto provarlo. Questo se vuole ancora uscire con me, naturalmente.”
“Possiamo darci del tu. Le persone ai primi appuntamenti si danno del tu, di solito.”
“Giusto. Andiamo, Arizona?” domandai, sorridendo, tendendo una mano verso di lei.
“Andiamo” confermò, ricambiando il mio sorriso con uno fin troppo furbo per i miei gusti. Prese la mano che le stavo porgendo. “Calliope” terminò in un sussurro.
Scossi la testa, ridendo, portandoci verso la mia automobile.

Doveva essere una storia di passaggio. Lo sapeva lei e lo sapevo anch'io. Volevamo cose diverse, ma ci piacevamo.
Doveva essere qualcosa di breve, divertente, felice, sereno, meraviglioso.
Ma i giorni diventarono settimane e le settimane diventarono mesi.
E fu meraviglioso. Ma non fu breve.
Ed io non lo avevo di certo programmato.
Era solo capitato che per comodità le facessi una copia della chiave del mio appartamento. Per sicurezza. E poi era capitato che la invitassi a pranzo e che ci fossero anche Aria ed Abby. Mia nipote non capiva, ma mia sorella aveva i suoi sospetti su quello che le stava succedendo sotto il naso.
E quando la vedevo con Abby, mi scoppiava il cuore. Sempre due volte. La prima volta, perché Arizona era perfetta con lei, un giorno sarebbe stata una mamma fantastica. Un giorno avrebbe avuto quello che aveva sempre sognato. Un giorno, che avrebbe vissuto senza me al suo fianco. Ed ecco che allora, per la seconda volta, mi scoppiava il cuore. Sempre due volte. Ma la seconda volta più forte.
Sei mesi dentro quella relazione avevano contato, per me. Certo che avevano contato, non ero un mostro senza cuore.
Finché un giorno lei mi guardò, dritta negli occhi, proprio dentro l'anima, nel mezzo di un discorso serio e mi disse:
“Non sono stupida, Calliope. Io lo so che sceglieresti lei, se mai dovesse tornare indietro. E lei tornerà. Chi non tornerebbe, per te? Ma ci convivo. Perché questo è l'unico modo in cui posso avere le cose, ed io voglio qualcosa che sia con te. Quindi andrà bene. Che sia un altro minuto, un altro giorno, o un altro mese, il tempo che mi è rimasto andrà bene. È pur sempre qualcosa che mi è rimasto con te.”
E io non dissi niente.
La guardai andare via.
Perché come mai sarei potuta riuscire a guardarla negli occhi, in quei suoi perfetti occhi del colore del cristallo, e dirle che aveva ragione?
E non era che non l'amassi. Certo che l'amavo. La amavo come si può amare qualcosa di così bello e così innocente come era sempre stata lei.
La guardavo dal centro del mio mondo distrutto e in fiamme, e lei era tutto ciò che c'era di buono, tutto ciò che avessi mai visto di buono.
Come avrei potuto non amarla? Non potevo. E allora la amavo, ogni giorno di più. La amavo, ogni giorno.
Ed ogni giorno, non l'amavo abbastanza.
Doveva essere qualcosa di breve, divertente, felice, sereno, meraviglioso.
Ma i giorni diventarono settimane e le settimane diventarono mesi.
E fu meraviglioso. Ma non fu breve.
Ed ogni volta che uno dei nostri amici parlava di avere figli, lei entrava nel suo mondo e si attaccava a quei pensieri dentro cui non mi lasciava mai entrare.
Nei giorni peggiori, non riusciva neanche a rimanere nella stanza mentre qualcuno ne parlava. La vedevo allontanarsi prima con la mente e poi alzarsi in piedi ed uscire in silenzio, senza neanche salutare.
Avrei voluto rassicurarla, ma non sapevo neanche di cosa avesse paura.
Forse aveva paura di non riuscire a convivere con il fatto che io non volevo figli, aveva paura che io non avrei mai cambiato idea. Forse, invece, aveva paura che un giorno avrei potuto cambiare idea eccome, e che una volta che mi fossi adattata all'idea di avere figli, sarei salita sul primo volo per Los Angeles.
Ed io non sapevo che avrei dovuto dirle. Non sapevo se avrei dovuto mentire. Avrei potuto rassicurarla, dirle che un giorno avremmo avuto figli senza pensarlo davvero. Perché sapevo, come lo sapeva lei, che un giorno le nostre strade si sarebbero divise. Sarebbe stata solo una bugia a fin di bene.
Ma poi la guardavo, e come potevo mentire a lei? Lei, tra tutte le persone, che era l'unica che era rimasta.
Lei che mi aveva afferrato per la punta delle dita mentre stavo già cadendo dentro un precipizio di cui neanche riuscivo a vedere il fondo da quanto era nero, ed era riuscita a trascinarmi di nuovo in superficie.
Mentire a lei che mi aveva salvato quando tutti avevano già capito che non potevo essere salvata, compresa io.
Proprio a lei che era quella specie di miracolo, ma non proprio, perché i miracoli sembrano sempre più di quello che in realtà sono davvero, mentre lei continuava ad essere ogni istante meglio di quello prima.
Ecco. Lei era meglio di un miracolo. Forse avrei potuto dirle quello e sperare che bastasse ad aggiustare le cose. Ad aggiustare noi.
Alcune volte, fingevamo che andasse tutto bene.
Che le cose sarebbero potute andare avanti per sempre.
L'abbracciai da dietro, vedendola guardare Abby che giocava con Aria sul divano del mio soggiorno.
“Vorresti un bambino o una bambina?” le chiesi piano, baciandola sulla spalla.
La sentii irrigidirsi appena tra le mie braccia.
“Non lo so. Una bambina?” domandò.
“Come faccio a saperlo io?” chiesi ridacchiando. “Io so che preferirei un maschietto. Meno problemi, meno drammi.”
Si voltò lentamente tra le mie braccia, per guardarmi negli occhi con un'espressione mortalmente seria.
“Che c'è?” continuò a guardarmi senza rispondere. “Ok, d'accordo” sospirai, roteando gli occhi scherzosamente. “Prima una femminuccia. Gesù, sei tipo un bullo.”
“Tu non vuoi figli.”
Un lampo che squarcia il cielo nero in piena notte.
Il mio sorriso sparì.
Le accarezzai i capelli.
Non potevo mentire ad Arizona. Ma non ce n'era bisogno. Perché non era più una bugia. Io e lei, noi due eravamo tutto tranne che una bugia.
“No, avremo figli. Avremo dieci figli. Tutti i tipi di figli, tutti quelli che vuoi. E una casa grande, con dei polli sul retro, con due piani e una monovolume in garage. Ma scordati che venda la Thunderbird.”
Mi zittì con un bacio.
Sentii le risate divertite di Aria ed Abby dal divano.
“Sembra che zia Callie abbia una fidanzata.”
“Sembra che zia Callie sia fidanzata con Arizona” la corresse Abby.
Noi scoppiammo a ridere. Lei nascose il viso contro la mia spalla, arrossendo. Dio, adoravo quando arrossiva.
La baciai sullo zigomo, rafforzando la presa che avevo su di lei.
Qualche ora dopo, Aria portò via un'addormentata Abby tra le sue braccia, salutandomi con un sorriso soddisfatto e consapevole. Richiusi la porta, voltandomi solo per trovare Arizona ferma sull'attenti davanti a me.
Sapevo che stava per succedere qualcosa di grosso. Lo capivo dall'espressione che aveva in faccia. “Posso farmi una doccia?”
“Certo. Non devi neanche chiedere” le ricordai.
“Voglio che tu faccia una cosa.”
Ecco che stava per arrivare.
“Cosa?”
Abbassò lo sguardo.
“Cerca il numero di quella clinica privata su internet.”
“Scusa, come?”
“Hai detto che lei è l'amore della tua vita. Un giorno tornerà. Potresti fare in modo che quel giorno sia oggi, se solo la chiami e le dici che hai cambiato idea. Quindi adesso io vado in bagno. Tu cerchi il numero e la chiami. Se ti dice che sta tornando, quando esco prendo tutta la mia roba e me ne vado. Altrimenti, da sotto la doccia non ti sentirò parlare al telefono e potremo fare finta che non sia mai successo.”
Si voltò, aprendo la porta della camera e dirigendosi verso il bagno.
Io mi ripresi dallo stupore e la seguii immediatamente, aprendo la porta mentre lei si stava togliendo i jeans.
Si voltò, guardandomi in tutta la sua bellezza, con addosso solo la biancheria.
“Bell'idea. Sì, sai, eccetto per il fatto che fa schifo” le dissi con tono leggero. Mi tolsi velocemente la maglietta. Lei mi guardò, perplessa. “Preferisco la mia idea. E cioè, visto che la mia fidanzata vuole farsi una doccia, il posto in cui dovrei essere io non è al telefono, ma è dentro una maledetta cabina da doccia” mi tolsi i pantaloni. “Obbiezioni?” la sfidai, aprendo la porta della doccia per lei, continuando a guardarla negli occhi. Lei rimase in silenzio. “Perfetto. Sapevo che avresti visto le cose dal mio punto di vista. Dopo di te” le feci cenno di entrare.
Si tolse gli ultimi indumenti che le erano rimasti, entrando dentro la doccia ed aprendo il getto dell'acqua. Io la seguii immediatamente dopo. Lei rimase voltata verso la parete, ed io la abbracciai, inspirando il suo profumo.
Era un sollievo.
Ogni volta quel profumo riusciva a tranquillizzarmi.
La baciai sulla testa, sorridendo tra i suoi capelli.
“Calliope, mi dispiace.”
“Per cosa?”
“Per quello che ho detto.”
Pensai al modo migliore per spiegarglielo.
Avvicinai le labbra al suo orecchio, assicurandomi che mi sentisse sussurrare parole che il mio cuore si rifiutava di urlare.
Parole che erano come un segreto.
Andavano protette, custodite, bisognava prendersi cura di loro affinché quelle stesse parole si prendessero cura di noi.
Così le dissi piano, lasciando che fossero il nostro migliore segreto.
“Non voglio figli. Non con lei. Non con chiunque altro. Ma con te. Voglio dei bambini coi tuoi occhi azzurri. Voglio vederli correre per casa, distruggere vasi, rompere tavolini, scrivere sui muri, cavarsela ogni volta senza essere puniti perché io non riesco a resistere agli occhi azzurri uniti alle fossette.”
La strinsi più forte, continuando a baciarle i capelli ormai bagnati.
“E potrei dirti che ti amo. Proprio adesso, e non sarebbe nemmeno una bugia. Ma in fondo che significa? Sono solo parole senza un vero significato preciso. Ho detto ad altre persone che li amavo, ma non mi sono mai sentita come se fosse vero, ho sempre pensato che amore dovesse voler dire qualcosa di più di quello che sentivo. Non avrebbe senso dirti che ti amo, perché se ho mai conosciuto qualcosa che si avvicina all'amore, allora tu sei l'amore. Quindi che senso avrebbe? Che significa dire che io amo? Persone che amano si lasciano, si feriscono, si abbandonano, si tradiscono.”
La feci voltare. Non potevo esserne sicura, a causa del getto, ma sembrava che stesse piangendo, o almeno, aveva le lacrime agli occhi.
“Invece voglio dirti delle cose che non ho mai detto a nessun altro al mondo. Per esempio, voglio dirti che sei bellissima. Spettacolare. Dico sul serio, una cosa ridicola averti conosciuto, lasciamo stare il fatto che tu stia con me” risi, toccando la punta del suo naso con la punta del mio, facendo sorridere anche lei. “Adoro quando dici la parola 'fantastico'. Intendo, lo adoro davvero, mi fa sorridere ogni volta. E amo quando ti preoccupi per me. Mi fa sentire al sicuro. Amo la tua dolcezza, il modo in cui viene fuori in piena forza quando mi accarezzi i capelli. E più di tutto, amo la tua innocenza.”
Appoggiai le mani sopra le sue, sulle mie spalle, intrecciando le nostre dita, premendo i miei palmi contro il dorso delle sue mani.
“Quando mi guardi proprio come stai facendo adesso. E non riesco a capire, non ci riesco” scossi appena la testa, ma non lasciai andare il suo sguardo. “Come qualcuno con il tuo cuore puro possa riuscire ad amare qualcuno come me.”
Le sue spalle si abbassarono impercettibilmente. Distolse lo sguardo.
“Io so che mi ami, Arizona. Lo vedo ogni volta che mi guardi. Lo rendi così chiaro in ogni gesto che fai che sarebbe ridicolo se ne dubitassi. So che ho detto che la frase non significa niente, ed è così, non significa niente, sono solo parole. Ma queste non sono solo parole, questa è la prova che le parole davvero significano qualcosa. Ma quello che non riesco a capire è come puoi non vederlo tu, in ogni cosa che faccio, che dico? Come puoi non vedere che ogni piccola parte del tuo amore è presente identica in me?”
Lei mi guardò di nuovo negli occhi.
E piangeva. E piangevo anch'io. E speravo che grazie all'acqua non se ne accorgesse, perché non avevo più pianto davanti a qualcuno da un sacco di tempo e mi ero ritrovata a piangere proprio davanti a lei.
“Io lo so che mi ami” mi fece sapere, senza alcuna traccia di dubbio dentro la sua voce. “Ma alcune volte ho paura che non sia abbastanza.”
“Voglio dirti un segreto.”
Lei fu colta alla sprovvista dal tono leggero della mia voce.
“In questi otto mesi ci siamo raccontate un sacco di cose, ed abbiamo deciso di non avere segreti, quindi voglio raccontarti l'ultimo che mi è rimasto. È un segreto recente. Per questo non lo sapevi ancora” spiegai.
Lei aprì la bocca per parlare, ma alla fine non trovò niente da dire, quindi si limitò ad annuire, dandomi il via per continuare.
Le rivolsi un mezzo sorriso.
“So che hai avuto la varicella.”
“Cosa?”
“So che hai avuto la varicella.”
Era a corto di parole.
“Come?” chiese infine.
“Mi hai raccontato che quando eravate piccoli tuo fratello ha avuto la varicella ed ha rischiato grosso, a quell'età è difficile non venire contagiati. In più prima di me è stato malato tuo nipote, tu sei andata a trovarlo, sei tornata senza neanche un raffreddore ed io due giorni dopo avevo la febbre a quaranta. Diciamo che chiedermi chi abbia incubato il virus per me non mi ha fatto perdere molto sonno né ha richiesto troppa immaginazione. Inoltre, hai una piccola cicatrice sul fianco sinistro che sembra proprio una conseguenza della varicella.”
Mi guardò scetticamente.
“E Lexie ha vuotato il sacco.”
Ridemmo insieme, la strinsi più forte.
Chiusi gli occhi, sospirando.
“Mi sento come se dovessi lasciarti andare. Voglio vederti felice e con me, invece, ti vedo sempre avere paura. Quindi mi sento come se dovessi lasciarti andare” confessai, baciandola poi sulla tempia.
“Non lasciarmi andare. È la cosa peggiore che potrebbe mai venirti in mente di fare. Non stare con te mi renderebbe tanto infelice quanto potrei mai esserlo.”
“D'accordo. Ma io voglio che tu sia felice. Quindi dimmi qualsiasi cosa possa fare per aiutare in quello, e la farò. Qualcuno, una volta, mi ha detto che è bene sorridere almeno una volta al giorno, in modo che tutti i giorni valgano la pena di essere vissuti.”
Si alzò in punta di piedi, baciandomi sulla guancia.
“Chiunque te lo abbia detto, è una persona molto saggia.”

“No, invece non lo capisco!”
Non eravamo solite litigare in ospedale.
“Calliope, ti prego. Che c'è da capire?”
A dire la verità, non era mai successo prima di allora.
“Spero che tu stia scherzando.”
Chiunque fosse passato fuori dalla porta avrebbe potuto sentirci discutere, probabilmente.
“Non capisco dove è il problema.”
Pensandoci meglio, non avevamo mai litigato così prima, punto.
“Il problema è che non vuoi vivere con me!”
Ormai erano tre giorni che quella discussione andava avanti, senza sosta.
“Non ho detto questo. Ho detto solo che non penso che sia una buona idea che io mi trasferisca da te.”
Ed i toni stavano diventando più duri ora dopo ora.
“Ah, beh, messa così è molto meglio” esclamai ironicamente.
Era estenuante.
“Calliope” sospirò. “Ho solo detto che preferirei che comprassimo una casa. Perché questa sembra essere una pretesa così assurda?”
Non mi piaceva per niente.
“Perché ci vorrebbero mesi per comprare una casa nuova, sistemarla, arredarla. Mesi.”
Eravamo arrivate al punto in cui entrambe pesavamo ogni parola che l'altra diceva.
“Quindi il problema è aspettare? Che c'è, pensi che tra qualche mese non staremo più insieme?”
E personalmente ero arrivata al punto in cui avevo smesso di pensare a chi avrebbe vinto la discussione e avevo iniziato a chiedermi se quella discussione si sarebbe mai risolta. Chiaramente, eravamo a due punti diversi delle nostre vite. Quindi a che punto poteva mai essere la nostra relazione? Né al mio, né al suo, e non c'erano vie di mezzo.
“Senti, lascia stare” abbassai la voce. “Questo ha smesso da un pezzo di riguardare la casa e ha iniziato a riguardare il fatto che stai morendo di paura. Quindi non importa. Aspetterò. E quando saranno passati anni e staremo ancora insieme e staremo ancora cercando una stupida casa dovrai rimangiartelo. La cosa che mi fa incazzare è che non vuoi ammettere il vero motivo. Lasciamo perdere, quindi. Ti aspetto a cena. Sempre che tu decida di farti vedere, stasera, visto quanto improvvisamente detesti il mio appartamento.”
Me ne andai, sbattendomi la porta alle spalle.

Appoggiai la fronte al vetro della finestra.
Forse avevo rovinato tutto.
Forse la mia totale incapacità di controllare le mie parole e la sua totale incapacità di trovare delle parole, ci avevano rovinato.
E se non fosse tornata a casa mai più?
Sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi.
Perché era così importante? Non poteva solo essere...Non poteva essere facile?
Dio, se non fosse tornata a casa, non avrei mai più potuto alzare gli occhi da terra.
Avevo bisogno che lei tornasse a casa.
Alzai gli occhi, guardando il cielo.
E quasi come se fossi stata sentita, una stella cadente brillò davanti ai miei occhi, precipitando nel cielo all'orizzonte.
“Per favore fai che torni a casa.”
Chiusi di nuovo gli occhi, immaginandomi i suoi occhi blu davanti ai miei.
Bussarono alla porta.
Sentii le spalle che si rilassavano, i muscoli della mia gola sciogliere il nodo che avevano formato, ricacciai indietro le lacrime.
“Grazie” sussurrai a nessuno in particolare, andando verso la porta ed aprendola lentamente.
Aveva le lacrime agli occhi.
“Ciao” la voce le tremava. “Sono a casa” disse semplicemente.
Casa.
Fu quella parola che fece scattare qualcosa.
Ed io?
Io ero a casa?
Era quella la mia casa?
Cercai qualcosa da dire, qualsiasi cosa. Cercai di pensare a qualcosa che valesse la pena di essere ascoltato. Ma scoprii che non c'era niente. Non c'era niente che valesse la pena di essere detto né sentito.
In quel momento ottenni la conferma che avevo così disperatamente cercato.
Non c'era più niente, sotto la superficie.
Era finita.
Avevo ancora la mano sulla porta.
La tirai verso di me, lasciando che la maniglia mi scivolasse tra le dita e che la porta si chiudesse lentamente.
Il rumore che aveva fatto chiudendosi, mi aveva come spento.
All'inizio rimasi ad ascoltare il silenzio.
Poi lo sentii di nuovo. E non smise. Continuò a bussare per interi minuti.
Alla fine, uscii dallo stato di trance in cui ero caduta e ricominciai a muovermi. Mi sedetti sul divano, prendendo in mano il cellulare e componendo il numero a memoria.
Dopo cinque squilli, partì la segreteria.
Chiusi gli occhi.
“Ti prego, torna a casa. Farò qualsiasi cosa. Voglio solo vederti. Voglio solo che tu sia qui.”
Riagganciai, sperando che lo ascoltasse presto.
Non aveva smesso di bussare. Così mi alzai dal divano. Inspirai ed espirai lentamente.
Aprii di nuovo la porta, con aria più calma.
La guardai negli occhi. Lei rimase immobile, ricambiando il mio sguardo. Inclinai la testa di lato, gli occhi tristi.
Cercai di capire cosa avevo dentro. Qualsiasi cosa. Rabbia, tristezza, felicità, amore, affetto, rimorso. Ma non c'era niente. Niente di niente.
“Mi dispiace” sussurrò.
Annuii, facendole capire che lo sapevo.
“Ti prego, dimmi qualcosa.”
Ci pensai attentamente.
Erano le prime parole che le dicevo dopo più di un anno.
Quali volevo che fossero?
Me lo chiesi, ma in realtà già lo sapevo.
Lo avevo sempre saputo.
C'erano solo tre parole che avrei mai potuto dirle rivedendola.
Le presi le mani tra le mie.
Sentii le porte dell'ascensore aprirsi, il rumore fu seguito da alcuni passi nella nostra direzione.
“Io ti perdono.”
Lo dissi lentamente, in modo che riuscisse a leggere la sincerità nella mia voce.
E poi il rumore di un cellulare che cadeva sul pavimento.
Alzai la testa di scatto. Stava ascoltando il mio messaggio probabilmente.
Lei seguì il mio sguardo, voltandosi.
Si chinò, raccogliendo il cellulare che aveva fatto cadere. Rialzandosi, vide che la stavamo guardando.
“Mi dispiace. Io devo” scosse appena la testa ed indicò con il pollice l'ascensore che si era richiuso alle sue spalle. “Devo aver sbagliato piano.”
Si voltò e premette il pulsante di chiamata.
Mi mossi dalla soglia, andandole incontro. Entrò nell'ascensore velocemente, io mi intrufolai giusto in tempo dietro di lei.
“Dobbiamo parlare.”
Lei si voltò lentamente nella mia direzione.
“Non ce n'è bisogno” mi rassicurò. “Ho capito.”
“No. Io ho capito. Avevi ragione. Qui non va bene. Non è mai nemmeno stata casa mia, non posso pretendere che sia la nostra.”
“Io volevo solo” ammise con una scrollata di spalle “volevo solo una casa grande su due piani, con dei polli sul retro e una monovolume accanto alla T-Bird nel garage.”
Si avvolse le braccia attorno al busto.
“Ma non importa, Calliope. Davvero, non importa” concluse con tono rassegnato.
“Certo che importa, Arizona.”
“No, invece. Sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato. Mentirei se dicessi che non me ne ero mai resa conto prima. E penso che tu sappia quale sia la scelta giusta. Penso che tu sappia che dovresti andare da lei. So che è difficile, credimi, ma il cuore tiene in sé la più profonda delle ragioni.”
“Mi stai dicendo di scegliere lei?”
“Ti sto dicendo che dovresti” mi corresse. “Ma ti sto anche implorando di non farlo. Ti sto implorando di scegliere me, ma so che non puoi. E non ti do la colpa per niente” mi disse con orgoglio. “Sono fiera di te.”
“Di me?” chiesi, perplessa.
“Sì. Sono fiera di come sei riuscita a rialzarti.”
“Ma è stato solo grazie a te.”
“No” mi spiegò dolcemente. “Io ti ho preso per mano, ma sei stata tu a fare tutta la parte difficile. Io ero solo lì al tuo fianco. Ma sei stata tu a salvare te stessa, Calliope. Nessun altro. E nessun altro ci sarebbe mai potuto riuscire.”
“Non è vero. E lo sai anche tu, lo hai visto con i tuoi occhi. Mi hai visto con i tuoi occhi. Ero a pezzi. Come un puzzle di cui a malapena si riconosce ancora l'immagine sulla scatola, da quanti pezzi mancano. E per quanto fossi a pezzi, tu mi hai guardato e mi hai visto immediatamente. Proprio me. E comunque mi hai cambiato, come tutti, ma a differenza degli altri, tu mi hai cambiato in meglio. Sono più forte. Sono cresciuta. Sono migliore. Ed è solo grazie a te, e dire che non lo è stato, sarebbe una bugia.”
“Calliope.”
“No, dico sul serio. Pensavo che la mia vita non potesse funzionare senza qualcuno al mio fianco, ma tu mi hai fatto capire che l'unica persona che può decidere che io non valgo niente, sono io. Solo io. Ma tu non hai una pessima influenza su di me. Tu non sei un affetto distorto, tu sei un affetto e basta. E sei il più grande affetto che abbia mai avuto.”
Distolse velocemente lo sguardo. Sapeva che lei, probabilmente, era ancora davanti alla porta di casa mia, e lo sapevo anche io. Ma a me non importava. No, che non importava. Niente importava tranne lei.
“E non è che non posso vivere senza di te. Ci posso vivere senza di te. Davvero. Ma che senso avrebbe vivere senza sentirmi al sicuro tra le tue braccia, senza poter vedere nei tuoi occhi quanto mi ami, senza sentirti parlare del nostro futuro con la voce sognante che usi di solito? Quindi forse non ci voglio vivere senza di te.”
Corrugò la fronte, riflettendo sulle mie parole per qualche momento. Poi mi guardò negli occhi.
“Tu, stai cercando di dirmi...che sceglieresti me?”
“Questa non è una scelta, Arizona. Questa è una battuta. Non si è mai trattato di scegliere. Io ho già scelto. Non sarei qui altrimenti.”
Lei si perse di nuovo nei suoi pensieri.
“Tu” iniziò incerta, indecisa se continuare. “Ricordi di avermi promesso che avremo bambini, non è vero?”
Io risi, mio malgrado.
“Certo che lo ricordo.”
Annuì.
“Stavo solo controllando” mi disse con casualità. “E voglio comprare una casa a due piani, ok? Ma non tra qualche mese, adesso, accelerare i tempi e tutto, in modo da poter andare a vivere insieme il prima possibile.”
“D'accordo.”
“E un giorno io e te ci sposeremo. Tanto perché tu lo sappia.”
“Ho preso nota.”
“Mi dispiace per aver urlato, stamani, in ospedale.”
“Dispiace anche a me.”
La abbracciai, chiudendo gli occhi, sentendola stringermi contro sé stessa con tutta la forza che aveva.
“Non ti darei la colpa. Se cambiassi idea, in qualsiasi momento, non ti biasimerei. L'hai amata a lungo. E capirò se questo non può cambiare.”
Pensai a come farglielo capire.
“Hai mai letto Cime Tempestose?” risposi a bassa voce, senza smettere di tenerla stretta contro di me.
“Sì. Anni fa. Perché?”
“Ad un certo punto, Cathrine sta parlando di Heathcliff con la governante. Ricordi?”
“Più o meno.”
“Il mio amore per Linton è come il fogliame nei boschi. Il tempo lo cambierà, ne sono consapevole, come l'inverno cambia gli alberi. Il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce eterne che stanno sotto quegli alberi.”
Mi allontanai lo stretto necessario per poterla guardare negli occhi.
“L'inverno ha cambiato il mio amore per lei. Ed ha rivelato ciò che giaceva al di sotto, un amore più profondo, più radicato, più disarmante. Il mio amore per te non può cambiare. Perché cambiare questo amore sarebbe cancellare me stessa. E, di me stessa, ho già perso fin troppo.”
“Spero che tu sia sicura. Perché se non decidi di andartene adesso, io non sarò mai più in grado di lasciarti andare.”
La presi per mano e la guardai negli occhi.
“Mai stata così sicura di qualcosa come adesso” mentii.
Ogni volta che amavo, mi sembrava di non aver mai amato prima.
Non avevo mai amato così tanto qualcuno quanto avevo amato Addison. Non sarei mai più riuscita ad amare qualcuno come avevo amato lei. Era l'unica persona al mondo con cui avrei potuto passare il resto della mia vita.
E poi, un giorno, era arrivata Arizona.
E non avrei potuto amare Addison, mai più. Arizona aveva oltrepassato le mie difese con una facilità con cui nessuno mai era riuscito a farlo. Con cui nessuno sarebbe mai stato in grado di farlo di nuovo.
Ma ne ero sicura?
No.
E come avrei potuto esserlo?
Le condizioni cambiano senza alcun preavviso.
Un giorno stavo affogando ed il giorno dopo ero in grado non solo di respirare di nuovo, ma bene come mai in vita mia.
Lei mi aveva salvato.
Con altrettanta facilità, avrebbe potuto distruggermi.
Ma in quel preciso momento, in quell'istante, in quell'ascensore, io l'amavo per sempre.
Tutto il resto, era di troppo poca importanza.
E no, non ero sicura.
Era un rischio. Come tutte le cose migliori della vita, stavamo correndo un rischio disarmante, il rischio di strapparci via un pezzo di noi.
Ma io, che senza di lei non ero niente, come potevo non accettare di correre quel rischio?
E se anche lei si fosse portata via un pezzo di me, non sarebbe importato.
Perché lei mi aveva insegnato a guardare all'immagine sul davanti della scatola, e a ricostruire i pezzi che mi mancavano su misura.
Non avevo bisogno di qualcun altro, per vivere.
Solo di me stessa. E, ancora di più, avevo bisogno di lei.




Scorrete in basso per recensire ed ottenere così la mia eterna gratitudine.

Grazie mille a tutte, alla prossima!


Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** La nostra prima pioggia di marshmallow ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete mi-ti-ci! <3

Avvertimenti: Canon fino alla settima stagione. OOC.


Buona lettura!

Image and video hosting by TinyPic



La nostra prima pioggia di marshmallow


Avevo tutto quello che avevo sempre desiderato.
E poi era stato tutto distrutto.
C'è qualcosa di particolare in una storia d'amore che finisce.
La maggior parte delle volte, una delle due persone coinvolte ha il cuore a pezzi. Può capitare che nessuno dei due soffra, e allora quella storia era finita da un pezzo. Ma, più raramente, può capitare che soffrano entrambe le persone. E allora, la loro storia non è ancora davvero finita.
Comunque vada, c'è qualcosa di diverso in ogni storia che finisce.
Qualsiasi cosa sia successa, stia per succedere o succederà, quando la tua relazione sta arrivando al capolinea, hai finalmente un minimo di controllo su quei sentimenti che ti eri sempre sentito incapace di reprimere.
Puoi far finta che non faccia male. Puoi far finta che non ti importi più niente. Puoi perfino riuscire a fingere di non amare più.
Ma alla fine, se ami ancora, tornerà tutto indietro a colpirti quando meno te lo aspetti.

(Dicembre 2061)
Dopo qualche momento la sentii ridere piano.
“Che c'è?”
“Guardaci, sedute qui su un dondolo, sotto il portico. Sembra che alla fine siamo davvero invecchiate insieme” appoggiò la testa sulla mia spalla, ridendo piano e rafforzando la presa sulla mia mano.


(Aprile 2012)
Chiusi la valigia che avevo preparato, guardandomi attorno per l'ultima volta.
Quel posto era stato casa mia per sette anni.
Conoscevo ogni difetto di quella casa, così come ogni suo pregio, avevo passato lì quasi ogni notte per sette anni.
Eppure, mentre mi preparavo ad andarmene, notai che tutta la mia roba entrava dentro a una sola valigia. Come era possibile?
Forse perché avevo lasciato la maggior parte delle mie cose lì. Non volevo ricordi. Era meglio fare tabula rasa e ricominciare tutto da capo.
I ricordi portano con sé sempre molto più dolore che gioia, molti più rimpianti che sollievi e molti più rimorsi che soddisfazioni.
Quindi preferivo non ricordare troppo spesso, né troppe cose alla volta.
Ma, nonostante le mie migliori intenzioni, ricordavo.
Anche troppo di frequente. Mi bastava chiudere gli occhi. E ricordavo.
Forse, perché c'era troppo da ricordare, cose troppo importanti, cose troppo belle per essere semplicemente dimenticate.
Quando presi la valigia da sopra il letto e la spostai sul pavimento, mi accorsi che mi stavano tremando le mani.
E a malapena riuscivo a respirare.
Forse un giorno sarei riuscita a ricominciare da zero. A dimenticare davvero.
Ma, in quel momento, tutto ciò che potevo fare era chiudere gli occhi e lasciarmi travolgere dai ricordi.

(Gennaio 2005)
Era il mio primo giorno in una nuova città.
Quindi ero spaesata.
Ma non fu un problema, almeno, non lo sarebbe stato finché fossi rimasta dentro l'ospedale. Era un posto grande, ci si poteva perdere, certo, ma non tanto grande da pensare che non avresti ritrovato la tua strada, prima o poi.
Magari anche la vita potesse essere così semplice.
Mandarti fuori carreggiata, ma prima o poi farti trovare un sentiero che ti riporti sulla via principale da percorrere. No, la vita non lo fa.
Quel giorno, quando decise di buttarmi fuori strada, lo fece coi fiocchi. Come si deve. Lo fece completamente.
Tutto cambiò all'improvviso. Ma il cambiamento avvenne così in profondità, che fu solo fino a moltissimo tempo dopo che non me ne accorsi.
“Chi è lei?”
“Chi? Oh, dice la mora? Callie Torres. Chirurgo ortopedico.”
Così. Come un fulmine a ciel sereno.
Qualcosa che non ti aspetti, anche se passi tutto il tempo a sperare che un giorno possa succedere proprio a te.
Come sperare che un giorno possano piovere marshmallow. Ti alzi tutte le mattine, sperando che prima o poi accada, ma non succede mai. Perché, guardando in faccia la realtà, in che universo potrebbero mai piovere dei dolci? Eppure continui testardamente a sperarci. Non puoi farci niente, questo è il tipo di persona che sei.
Ma c'è un motivo se tutti ti dicono che non dovresti sperare in qualcosa di impossibile.
È perché, dopo che le tue speranze sono state distrutte un numero infinitamente grande di volte, non riesci più a sperare in niente. Neanche in cose possibili. E allora ti arrendi.
Ma io, al tempo in cui la vidi per la prima volta, credevo ancora che far piovere marshmallow fosse possibile.
Credevo ancora in tante cose, impossibili o possibili che fossero.
Credevo al modo in cui mi batteva il cuore all'impazzata la sera in cui entrai nel bagno di quel bar e la vidi specchiarsi.
Ecco a cosa credevo.
Credevo ai suoi occhi, al suo sorriso, credevo alle sue mani che mi tremavano davanti al viso.
Credevo a lei.
In lei.
Credevo in me stessa.
E in noi.

(Maggio 2006)
“Mi piace questo posto. È tranquillo. C'è pace.”
“Piace molto anche a me.”
La panchina su quella collina che dava un meraviglioso panorama della città era diventata in fretta il nostro posto.
La vista che avevo da lassù era senza ombra di dubbio la cosa più bella che avessi mai visto in vita mia.
Eppure, non ci andavo mai da sola, senza di lei. Quando volevamo fuggire dal mondo e dal male lì era dove ci rifugiavamo.
Mi bastava sedermi su quella panchina e guardare Seattle dall'alto e mi sentivo meglio. Da lassù, dove una città così grande sembrava piccola, i miei problemi sembravano tanto minuscoli da poter sparire.
La verità, era che mi succedeva perché lei faceva parte della vista.
Era davanti al suo essere unica che tutto ciò che poteva turbarmi impallidiva, spariva, cessava di avere importanza, perché lei era lì. Contro ogni tipo di previsione, lei aveva scelto di stare insieme a me.
Niente al mondo, niente nel senso più assoluto, avrebbe mai potuto reggere il paragone con qualcosa del genere.

(Marzo 2012)
“Non posso più farlo, Arizona. Mi dispiace.”
Non riusciva nemmeno a guardarmi negli occhi.
“Ci ho provato. Pensavo che sarei riuscita ad aggiustare questo casino, ad aggiustare...noi. Ma ho imparato che c'è solo un certo numero di volte che puoi riparare qualcosa prima che si rompa definitivamente.”
Teneva lo sguardo basso, come se si fosse presa la briga di stampare quelle parole sulla moquette del soggiorno perché doveva leggerle per riuscire a dirle davanti a me.
“Ho bisogno di andare avanti. Ho bisogno di tempo e spazio, e anche tu.”
“Non voglio tempo o spazio. Uso male il tempo e lo spazio in cui non ci sei tu.”
“Mi dispiace.”
“Non scusarti. Non hai fatto niente di male. Avrei dovuto capire che stavamo finendo molto tempo fa” cercai di non piangere. “Io e te non saremmo mai potute durare.”
Cercai di prendermi il potere che volevo avere su di lei. Ma la verità è che era lei ad avere sempre avuto il controllo di me.
“So che lo pensi” rispose pacatamente, alzando gli occhi e fissando dentro i miei. “Ma non è mai stato vero, finché tu non lo hai reso vero.”
“Sei tu quella che se ne sta andando.”
“Ma sei tu che mi hai lasciato molto tempo fa.”
“Hai vissuto qui molto prima di me. Dovresti rimanere tu. Me ne andrò io.”
“Non fa niente. Qui non è mai stata casa mia, comunque.”
“Non è quello che mi hai detto cinque anni fa.”
“Già, beh...Non parlavo dell'appartamento al tempo.”
Si voltò. Era già con la mano sulla maniglia della porta, quando parlai. Ma quello che dissi, la paralizzò.
“Io sono innamorata di te. E ti sto implorando. Farò qualsiasi cosa. Qualsiasi. A tutte le tue condizioni. Ma ti prego, ti prego, non andartene via. La mia vita non esiste, senza di te. Io non ho senso, senza di te.”

(Marzo 2007)
Mi guardai attorno ancora una volta, per abitudine.
“Magari ridipingendo le pareti.”
“Arizona.”
“Lo so, mi dispiace. Avevo promesso che avrei smesso di lamentarmi del tuo appartamento.”
“Non fraintendermi. Voglio che ti senta a casa tua, visto che ti trasferisci qui. Ma dipingere il soggiorno di verde chiaro farà sembrare questo posto il cesto delle uova di Pasqua. Ed io non voglio vivere in un uovo di Pasqua.”
“No, tu vuoi in realtà vivere nella Bat caverna, ma incontrami a metà strada.”
Eravamo abbracciate sul divano. Sospirò, guardandosi attorno e poi baciandomi sulla testa.
“Sai che ti dico? Dipingi le pareti di qualsiasi colore beige tu voglia. Compra mobili nuovi e una nuova televisione, se questo ti farà sentire a casa. Cavolo, puoi perfino comprare un'intera cucina nuova, se sarà d'aiuto.”
Corrugai la fronte, sollevando la testa dalla sua spalla e guardandola negli occhi.
“E tu? Questo è il tuo appartamento.”
Lei mi guardò negli occhi, stringendo le spalle.
“Io mi sento già a casa.”
No. Lei non parlava dell'appartamento.
Lei stava parlando di me.

(Aprile 2012)
“La stai fissando di nuovo.”
Non spostai lo sguardo neanche di un millimetro.
“Credi che non lo sappia?”
“Può vederti Arizona. Non è stupida. Sa che stai guardando lei.”
“Se la cosa le crea problemi può sempre venire a parlarmi e chiedermi di smettere, no?”
“Certo. Lo farà di sicuro” sussurrò ironicamente.
“Tutto ciò che chiedo è che perdoni le mie cazzate. Non mi pare una pretesa così ridicola. La gente perdona e viene perdonata di continuo. Ma lei non è capace di farlo, questo è il problema. Quindi la colpa è sua, giusto?”
“Lei perdona sempre le tue cazzate. Di continuo.”
Sbuffai, incredula. “Quando mai è successo che mi perdonasse qualcosa?”
“Ti dice niente la parola Africa?”
Quello mi fece tacere per un lungo momento.
“Touché.”
“Non è lei il problema, Arizona. La verità, è che hai fatto una cazzata di troppo e adesso che il vaso è traboccato ti ritrovi con l'acqua alla gola e senza scarpe asciutte.”
“Già. Aspetta, cosa?” mi voltai finalmente verso di lei, rivolgendole uno sguardo confuso e inclinando appena la testa di lato.
“Lascia stare. Sto iniziando ad essere ubriaca. Senti, il punto è che forse c'è un motivo per cui la vostra storia sembra così difficile da non poter funzionare.”
“E sarebbe?”
“Perché non può funzionare.”

(Luglio 2007)
“No, invece, non lo capisco. Tutti vogliono un figlio, e tu, tra tutte le persone, tu porti scarpe con le rotelle.”
La verità è che la vita non è mai nel modo in cui la vorresti.
“Forse sono fredda, senza cuore e morta dentro.”
Semplice, tranquilla, piacevole.
Mai una volta che succeda che qualcosa vada esattamente come lo avevi programmato.
“Chiudi gli occhi. E immagina un bambino, che ti stringe le braccia paffute attorno al collo.”
Tutto sembra andare bene.
Poi succede qualcosa, un dettaglio cambia e rivoluziona l'intera storia, che all'improvviso non è più come l'avevi scritta da solo nella tua testa.
Tutto sembra andare bene. Finché, a un certo punto, niente sembra più andare da nessuna parte. “Sai cosa mi fa battere il cuore? La Spagna. Tu in un bikini. In mano un bicchiere di sangria.”
E tutto va a rotoli. Tutto in un secondo.
E cosa ti resta in mano a quel punto?
“Sangria? Per questo non possiamo avere un bambino, della stupida sangria?”
Proprio un bel niente, se non una grandissima manciata di fumo, che quando riapri il pugno, scopri essere sparito per sempre nel nulla.

(Maggio 2012)
“Se potessi tornare indietro adesso, ci sono molte cose che cambierei. Moltissime cose che farei diversamente. Altre che non farei affatto.”
“Vuole farmi degli esempi?”
Andare in terapia non era stata una mia idea.
Callie mi aveva costretto.
Ma, in fondo, quelle erano le sue condizioni.
“Qualcosa che farebbe diversamente?”
Chiusi gli occhi. Ingoiai a vuoto. Ricacciai indietro le lacrime con forza.
“L'Africa.”

(Settembre 2008)
“Tu stai qui, e sii felice. Ed io andrò laggiù, e sarò felice.”
Non avevo mai creduto a quelle parole.
Mai, nemmeno per mezzo secondo mentre le dicevo ad alta voce.
Sapevo che era una bugia.
In altre cose, invece, ci avevo creduto.
“Ci stiamo urlando contro in mezzo a un aeroporto. È già finita.”
A quello ci credevo.
Non l'ho fatto molto a lungo, ma in quel preciso momento, stando in piedi davanti a lei, in quell'istante ci avevo creduto.
Pensavo che fosse finita.
Pensavo che non ci fossero altre possibilità.
Ne avevamo sprecate troppo, per poter sperare che ne avremmo avute altre.
Alcune, le avevamo anche buttate via per motivi stupidi. Come la storia della neonata o la questione del disconoscerla dei suoi genitori.
In ogni caso, a quello ci avevo creduto.
Finché non avevo messo piede sull'aereo e avevo capito che era ridicolo da parte mia pensare che fosse finita.
Amavo lei più di quanto fossi mai stata capace di amare la vita stessa.
Ma questo non mi impedì di andarmene in Africa per tre mesi. Come se lì fossi stata al sicuro, al sicuro da lei e dall'amare lei. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, giusto?

(Dicembre 2008)
“E così sono tornata.”
Il modo in cui l'amavo mi lasciava senza fiato, la maggior parte delle volte.
“Sei molto bella.”
Lei mi lasciava senza fiato, la maggior parte delle volte.
“Sono incinta. Del bambino di Mark.”
Altre volte, invece, mi distruggeva. Mi faceva crollare il mondo addosso.
“Che ne dici adesso?”
Quella era una delle volte in cui mi distruggeva.

(Maggio 2012)
“Non mi fraintenda. Amo Sofia con tutto il mio cuore. Non la cambierei per niente al mondo, mi creda. Ma il modo in cui ho fatto soffrire Calliope” inspirai a denti stretti. “Il modo in cui lei ha fatto soffrire me” aggiunsi in un sussurro. “A volte mi disarma. Ecco tutto. Come due persone che si amano così tanto possano ferirsi in questo modo, mi disarma. Lei, mi disarma.”
“Arizona, lei è ancora innamorata di Callie?”
Alzai lo sguardo improvvisamente, rendendomi conto di quello che avevo detto e che invece avrei solo dovuto pensare.
“Non può dirlo a lei. Segreto professionale, giusto?”
“Stia tranquilla. Non avevo intenzione di farlo. Ho avuto la sessione singola con Callie la settimana scorsa. Ho le informazioni necessarie su entrambe, quindi direi che dalla prossima settimana possiamo iniziare la terapia di coppia.”
Annuii.
“Perfetto.”
Come diavolo eravamo finite a quel punto?
Io e lei, che ci amavamo in un modo che mi lasciava ogni volta senza fiato, come eravamo arrivate fino a lì?

(Ottobre 2006)
“Ti trovo meravigliosa. Sei talmente bella da togliere il fiato. Non riesco a smettere di guardarti, Calliope.”
“Sei un miracolo, Arizona. È un miracolo che tu sia qui con me. Ero un casino, la mia vita era una catastrofe, prima che incontrassi te. Non so nemmeno come hai fatto, come è stato mai possibile, ma so che mi hai salvato.”
Quando rientrai a casa, la sera del mio compleanno, lei era sdraiata sul divano del soggiorno con indosso solo della biancheria.
Iniziò a parlare velocemente. Qualcosa sui cappelli e sui regali e sulle ciambelle e sulla lingerie, credo. Qualcosa di poco importante.
Lei era lì.
Ed io ero senza fiato, com'ero sempre stata davanti a lei.
Era la persona più gentile che io avessi mai incontrato.
Non c'è una parola migliore per descriverla se non esattamente questa. Aveva una gentilezza che mi spiazzava. Era il tipo di persona che pregava per la vita della donna con cui l'ex marito l'aveva tradita. Era incredibile.
“Io ti amo.”
Da allora, non è passato un giorno in cui quella frase sia stata una bugia.
L'amavo. L'avevo amata fin dal primo momento in cui l'avevo vista. E l'avrei amata qualsiasi cosa fosse successa da allora in poi.
“Davvero?”
“Davvero.”
Tenni fede alla tacita promessa che l'avrei amata per il resto della mia vita.
“Ti amo anch'io.”
E anche lei.

(Aprile 2009)
“Non ti è permesso dirmi che non stiamo insieme, noi stiamo insieme. Perché io ti amo e tu mi ami e niente di tutto il resto importa qualcosa. Io e te, stiamo insieme.”
Quella era la vita in cui ero finita.
“C'è mio figlio lì dentro. E non voglio che succeda niente a mio figlio.”
“Tuo figlio, uh?”
Non era la vita che avevo progettato per me stessa.
“Non l'ho scelto io. E non lo odio. Ma non voglio una vita con lui. Eppure, in qualche modo, questo è ciò che ho. Una vita di decisioni.”
“Che dovrei fare? Insomma, è suo figlio.”
“Non c'è bisogno che me lo ricordi. Non me ne dimentico proprio mai.”
E non era la vita che volevo.
Lontano dall'essere la vita che avevo sognato, in realtà, e più vicina all'esatto opposto.
Stavo per avere un figlio, mio figlio avrebbe avuto un padre, sarei stata per sempre legata ad un uomo.
Tutte le mie difese, tutti i miei piani, lei aveva mandato tutto a puttane. Era entrata nella mia vita in punta di piedi e poi si era messa a fare casino, a tirare le cose per terra e ad urlare nel silenzio più totale.
Prima di lei, la mia vita era vuota.
Ma la vita che avevo con lei, non era il mio sogno. Non era quello che volevo.
“La mattina di Natale. Con...Mark.”

(Luglio 2010)
“Sono sua madre. Voglio dire, sono l'unica che la fa addormentare di nuovo quando si sveglia nel bel mezzo della notte. E lei mi chiama mamma. So che sembra che balbetti, ma lo dice a me. Lei mi chiama mamma, perché sono la sua mamma.”
“Lo so. Faremo quel foglio, d'accordo?”
Annuii.
“Vieni qui.”
Il tempo si fermò immediatamente, appena lei strinse le braccia attorno a me.
Ecco, quello era il posto in cui ero salva.
In cui ero al sicuro.
In cui ero a casa.

(Novembre 2011)
“Sai, ultimamente ho avuto questa sensazione.”
“Che sensazione?” chiesi, senza voltarmi verso di lei.
“Che qualcosa non andasse. Dico, tra me e te.”
Corrugai la fronte.
“Che vuoi dire?”
“Non so bene come spiegarlo, ho avuto questa vibrazione, come se qualcosa di brutto ci stesse per accadere ed io non me ne fossi resa conto prima di adesso.”
Mi voltai verso di lei, lasciando perdere il trucco e andandole incontro.
“Pensi che ci sia un problema?” le domandai, sorridendole. “Credevo fossimo felici.”
Lei ricambiò il sorriso.
“Lo siamo. È solo...questa sensazione. Sembra che sia venuta per restare, non riesco a farla andare via.”
“Non c'è niente di cui preoccuparsi” le dissi, alzandomi in punta di piedi per baciarla sul naso. “Io e te non abbiamo niente che non va, amore.”
Lei mi rivolse quel suo sorriso sbiego che mi fermava il cuore ogni volta.
“Ti amo, Calliope” le dissi con voce mozzata.
“Ti amo anch'io.”

(Gennaio 2012)
“Voglio che prendi tutta la tua roba e te ne vai.”
“Ti prego. Non farlo.”
“Dev'essere tutto sparito per domani. Quando torno a casa non voglio trovare niente di tuo qui dentro.”
“No, no, no. Ti prego, ascoltami. Ti imploro.”
Le afferrai un polso. Si liberò ferocemente dalla mia presa.
“Parleremo di quando potrai vedere Sofia. Per adesso, voglio che tu te ne vada.”
Aprì la porta facendomi cenno di varcarne la soglia con la mano con cui non la stava tenendo aperta.
“Callie, se solo tu sapessi quanto mi dispiace...”
“Ma non capisci che qualsiasi cosa tu dica adesso non farà che peggiorare tutto, Arizona?” alzò la voce. “Non ti credo. Non mi fido di te. Potrei non riuscire a fidarmi mai più. Vattene via, per favore. Vattene e basta.”
Non riusciva neanche a guardarmi in faccia.
“Io ti amo.”
Si strappò via bruscamente una lacrima dalla guancia.
“È finita.”

(Maggio 2012)
“E cos'è che non farebbe affatto?”
La sua voce mi strappò dai miei ricordi.
“Come, scusi?”
“Ha detto che se potesse tornare indietro farebbe alcune cose diversamente, come l'Africa, mentre altre non le farebbe affatto. Può farmi un esempio?”
Serrai la mascella.
Potevo farle così tanti esempi da tenerla lì dentro per due settimane senza neanche pause per mangiare o dormire.
Ma il primo che mi venne in mente, il più grande di tutti, fu l'errore per cui, in quel momento, ero seduta su quel divano.
Non volevo parlarne. Non lo avevo ancora neanche fatto per bene con Callie. Ma ero in terapia per un motivo. Perché lei me lo aveva chiesto. Perché ero disperata e avrei fatto tutto. E tutto, tristemente, includeva anche parlare di quello.
“Polly Preston.”

(Gennaio 2012)
Aprii la porta e lei era seduta sul divano, con le mani intrecciate davanti alle labbra.
Mi bastò guardarla ed istintivamente capii che lei lo sapeva.
Richiusi la porta lentamente, posando la borsa e il giacchetto, sedendomi sull'altro divano.
Lei mi guardò e basta per parecchi secondi.
“Tutti mi dicono che sto impazzendo. Che sono fuori di testa. Voglio che tu risponda a tre domande, Arizona. E qualsiasi cosa tu mi dica, io ti crederò e la smetterò di pensare a questa maledetta storia e di preoccuparmi per qualcosa che è soltanto nella mia testa.”
Tre domande.
Quanto è facile mentire a tre domande?
Bastava una parola.
No.
Sono due lettere. Quanto mai poteva essere difficile non dire altro che quello?
Il problema erano i suoi occhi.
Quei suoi occhi rischiarati dalle lacrime che sembravano risplendere perfino sotto la luce artificiale della lampada del nostro soggiorno.
Il problema era che ero stanca. Ero sfinita. Non potevo - e non volevo - più mentire.
“Mi hai tradito con Polly Preston?”
“Sì.”
Nessuna di noi riuscì a guardare altrove.
“Da quanto tempo va avanti?”
“Tre mesi.”
Mi guardò negli occhi ancora per un secondo. Poi distolse lo sguardo, rivolgendolo alle proprie mani, intrecciate tra le sue ginocchia.
Poi arrivò, in poco più di un sussurro. E mi distrusse.
“La ami?”
Chiusi gli occhi per un secondo. Li riaprii.
“Sì. Ma non nel modo in cui amo te. Non sono innamorata di lei. Tu sei la mia famiglia. Ed io...”
Si alzò dal divano. Aveva sentito abbastanza. In fondo, mi aveva avvertito. Aveva soltanto tre domande.
“Callie, mi dispiace così tanto.”
“Voglio che prendi tutta la tua roba e te ne vai.”
“Ti prego. Non farlo.”
“Dev'essere tutto sparito per domani. Quando torno a casa non voglio trovare niente di tuo qui dentro.”

(Maggio 2012)
“Mi ha chiesto di andarmene da casa nostra, ma io non l'ho fatto. Ho continuato ad implorarla finché ha accettato di fare un tentativo. Ha provato a perdonarmi, a superare la cosa, ci abbiamo provato entrambe. Ho smesso di lavorare con Polly, ovviamente. Questo è successo a gennaio. A marzo mi ha detto che non ce la faceva più ad avermi attorno. L'ho implorata di non lasciarmi, di non andarsene, ho detto che avrei fatto qualsiasi cosa. Non è servito. Così me ne sono andata anch'io. Troppi ricordi di lei. Una delle sue condizioni è la terapia di coppia. Non per noi” mi affrettai a chiarire. “Vuole che siamo abbastanza civili l'una con l'altra da non far capire a nostra figlia che lei mi odia e che io la amo ancora. Potrebbe confonderla. Questa è la sua opinione.”
Calliope mi aveva lasciato.
Avevo fatto una cazzata di troppo.
Perfino per lei, che era la persona che mi amava di più al mondo.
Ero stata capace di fare qualcosa di così terribile che neanche lei era in grado di perdonarmi.
“Credevo che mi avrebbe parlato di quello che ha fatto la settimana scorsa.”
“No. Quello probabilmente lo farei di nuovo. Non stavo molto bene, la settimana scorsa.”
Si era accorta che non ero più interessata nella conversazione che stavamo intrattenendo.
“Il nostro tempo è finito. Ci vediamo la prossima settimana, verrà qui insieme a sua moglie e vedremo di capire cosa provate.”
Annuii, alzandomi in piedi.

(Giugno 2012)
Cercai di concentrarmi sul ticchettio dell'orologio. Era l'unico rumore della stanza, ed era un buon segno. Significava che il tempo stava passando sul serio e non si era realmente congelato come sembrava a me.
Avevo il gomito appoggiato sul bracciolo ed il mento sul palmo della mano, non provavo interesse per quello che stava succedendo all'interno della stanza.
Contai qualcosa come un milione di battiti, forse di più. Poi guardai la lancetta dei minuti. Segnava le 18:02. Erano passati solo due cavolo di minuti. Impossibile.
“Prima di iniziare, ci tengo a chiarire che non siamo qui per aggiustare il nostro matrimonio. Siamo qui per nostra figlia.”
“Non c'è bisogno che tu lo ripeta in continuazione, ok?” alzai la voce, passandomi una mano sulla fronte. “È chiaro. Ho capito” guardai ovunque tranne che nella sua direzione. “È finita” sussurrai piano.
Ricominciai a contare il passare dei secondi.
Era decisamente più divertente che dover fare i conti con il fatto che lei era seduta proprio accanto a me, e ancora era a milioni di chilometri di distanza.
“Ne avete mai parlato?”
“Di cosa?” chiese Callie. Capì cosa intendesse dal suo sguardo e scosse subito la testa. “No. Perché dovremmo? Non c'è niente di cui parlare.”
“Le persone affrontano il tradimento in due modi, principalmente. Il primo modo è quello di parlarne fino alla nausea, di sapere tutti i dettagli dell'adulterio stesso. Il secondo è quello di ignorarlo completamente. Lei sembra trattare sempre la questione nel secondo modo, perfino con il suo ex marito...”
“Aspetti, che c'entra adesso lui? Io non le ho raccontato niente di lui.”
“L'ho fatto io” intervenni, il mento ancora appoggiato sulla mano, lo sguardo fisso sull'orologio, ero distante da quella stanza almeno quanto lo era lei.
Si voltò di scatto nella mia direzione.
“Perché lo hai fatto?”
Scrollai le spalle. La conversazione aveva nuovamente perso interesse per me.
“Arizona, voglio che tu dica a Callie perché abbiamo parlato del suo ex marito.”
“Non penso che sia una buona idea” replicai. L'orologio segnava le 18:05.
“La guardi in faccia e le parli di quello che mi ha detto, se non vuole che lo faccia io stessa.”
“Non può” risposi con indifferenza. “Quello che le dico è confidenziale. Potrei denunciarla se ripete qualcosa.”
“Non verso Callie. Questa è terapia di coppia. Entrambe avete il diritto di sapere qualsiasi cosa l'altra mi dica, perfino quando siete in seduta singola.”
“Sta bluffando.”
“Vuole correre il rischio?”
Non risposi.
“Posso sopportarlo. Andiamo, che le hai raccontato? Di come non ho mai superato la rottura con George? O di come secondo te non sono abbastanza lesbica?”
Io distolsi lo sguardo dallo scorrere del tempo, voltandomi verso Calliope e togliendo il gomito da sopra il bracciolo. Parlai molto lentamente. Era l'unico modo in cui riuscivo a parlare in quel periodo della mia vita.
“Il senso di colpa per averti tradito mi ha fatto cadere in depressione. Calo di attenzione, disinteresse generale, esposizione orale rallentata. Ho iniziato la terapia e la dottoressa mi ha prescritto degli psicofarmaci. Due settimane fa ho preso cinque pillole in una volta sola. Teddy è entrata nel mio ufficio mentre li stavo ingoiando e mi ha fatto bere un intruglio disgustoso per farmi vomitare. La settimana scorsa ho detto alla dottoressa che se tornassi indietro probabilmente lo rifarei. I farmaci inizieranno a fare effetto tra un paio di settimane, quindi devo solo cercare di non tentare di uccidermi di nuovo nel frattempo. Le ho parlato di George perché uno dei motivi per cui mi sento più in colpa è che ho sempre pensato di essere diversa dai tuoi ex, di essere migliore, di amarti molto più di tutti loro messi insieme. Invece me ne sono andata senza guardarmi indietro come ha fatto Erica e ti ho tradito come ha fatto George. La verità è che le cose impossibili non succedono. Le cose stanno così per definizione. Non possono piovere marshmallow ed io e te non possiamo stare insieme per sempre. Sono dati di fatto, in effetti. Ma entrambe le cose mi rendono infinitamente triste.”
Sapevo che quello spiegava molto. Il motivo per cui non avevo ancora pianto davanti a lei, il motivo per cui sembravo sempre così indifferente a tutto quello che ci succedeva.
L'espressione sul suo volto era di preoccupazione.
Non avrebbe dovuto preoccuparsi per me.
Avrebbe dovuto odiarmi. Disprezzarmi. Cancellarmi dalla sua vita. E avrebbe dovuto farlo mentre io continuavo ad amarla.
Mi voltai di nuovo, appoggiando il gomito sul bracciolo del divano e poi il mento sul palmo della mano. L'orologio segnava le 18:09. ricominciai a contare i secondi.
“Probabilmente la depressione di Arizona è genetica” sentii la dottoressa spiegare. “Era già lì da molto tempo, quello che è successo tra di voi, quello che Arizona ha fatto a lei, l'ha fatta tuttavia notevolmente peggiorare.”
“Potrebbe essere stata una delle cause del tradimento?”
“Capisco che sarebbe più facile se riuscisse semplicemente ad odiarla, per quello che le ha fatto, la rabbia è un sentimento molto più semplice del dolore. Quindi so che non è quello che vorrebbe sentirsi dire, ma è molto probabile che lo sia stata.”
“Come è possibile che io non me ne sia accorta? Sono un medico. Lei è un medico. Come ci è sfuggito?”
“Non è facile fare una diagnosi oggettiva su noi stessi o su qualcuno che amiamo. È del tutto comprensibile che vi sia passata inosservata.”
“Non l'ho fatto a causa della mia depressione.”
Entrambe voltarono la testa nella mia direzione, ma io continuai a fissare le lancette che si muovevano.
“L'ho fatto principalmente perché entro ogni giorno in soggiorno e vedo Mark che tiene in braccio Sofia. Non l'ho programmato. E non l'ho fatto per vendetta. Credevo davvero che sarei potuta essere felice con metà dei miei sogni realizzati e l'altra metà della mia vita che rispecchiava il mio incubo più grande. Finché un giorno ho smesso di crederlo. L'ho fatto perché mi sento sola, ogni volta che siamo tutti e quattro a casa. Ma devi credermi quando dico che non è stato per vendetta. Se avessi voluto vendicarmi di qualcuno, mi sarei vendicata di Mark. L'ho fatto perché volevo ricominciare a provare qualcosa, qualsiasi cosa in realtà. Speravo che mi avrebbe fatto sentire meglio. Invece mi ha fatto sentire da schifo.”
“Arizona, si rende conto di aver appena ammesso che lo ha fatto per sentire qualcosa? L'apatia che provava, era quasi sicuramente uno dei suoi sintomi.”
“Infatti ho detto principalmente. Se potessi tornare indietro non farei mai niente del genere. Se potessi cambiare il passato cancellerei tutti gli errori che ho fatto in questi sette anni, eccetto per l'Africa.”
“Perché l'Africa?” chiese Calliope.
“Non posso vivere senza Sofia.”
Continuarono ad osservarmi mentre fissavo l'orologio appeso alla parete.

(Dicembre 2010)
Avevo sempre amato il mese di Dicembre.
Quando ero piccola, io e mio fratello ci svegliavamo la mattina di Natale e correvamo a svegliare i miei genitori, perché sapevamo che ci avrebbero fatto aprire i regali solo dopo aver fatto colazione tutti insieme.
Così ci sedevamo a tavola, il colonnello affettava per noi il dolce che mamma aveva preparato il giorno prima e mangiavamo in silenzio, tutti con il sorriso sulle labbra. Non era un silenzio strano o perché non avevamo niente da dirci. Ma la mattina di Natale la colazione si faceva in fretta per correre a strappare via l'incarto dai regali. Poi ci sarebbe stato tempo per parlare e ridere e raccontarci storie.
Ma appena svegli, un sorriso contornato dalla schiuma del latte caldo, bastava a rendermi la persona più felice del mondo.
Crescendo, il Natale aveva perso il suo fascino. Avevo smesso di credere a Babbo Natale e avevo smesso di credere alla magia.
Dentro di me, però, Natale era sempre rimasto quel giorno dell'anno in cui tutto era possibile. E quando avevo incontrato Calliope, il Natale era tornato ad essere il giorno che preferivo. Il primo Natale che passammo insieme, mi svegliai rendendomi conto di essere completamente intrecciata a lei.
Non parlammo molto. Ci scambiammo gli auguri e poi mi preparò la colazione, mangiammo in silenzio, scambiandoci sorrisi tutto il tempo, fino al momento di aprire i regali.
Il Natale era di nuovo come lo avevo sempre preferito.
Mi lasciava senza parole.
Quell'anno, quando mi svegliai, il letto accanto a me era vuoto. C'era rumore in soggiorno, la televisione era accesa, Mark stava urlando mentre guardava la replica di una partita in tv. Tenendo in braccio mia figlia. Seduto accanto a mia moglie.
Quando entrai nella stanza Calliope si alzò, venendomi incontro con un sorriso e baciandomi a fior di labbra.
“Buon Natale.”
I suoi occhi sembravano contenere delle scuse. Finsi di non accorgermene.
Mi aveva preparato la colazione. Mi si sedette accanto mentre la mangiavo, limitandosi a sorridermi.
Ed io sorridevo a lei.
Calliope Torres era l'amore della mia vita.
La mia anima gemella.
Non avrei mai amato nessuno al mondo nel modo in cui amavo lei.
“Andiamo, prendi quella palla!”
Ma la mattina di Natale con Mark che urlava dentro casa mia, non era la vita che avevo sognato. E per quanto fingessi che le cose andassero bene, non sarebbe mai potuta essere la vita che volevo, qualsiasi tipo di vita che includesse lui.

(Giugno 2012)
“Ho pensato molto a quello che ha detto l'altra volta. Sa, che ci sono due modi di reagire quando si viene traditi. La prima volta io e lui non ne abbiamo mai parlato. E non sono mai riuscita a perdonarlo. Quindi forse per perdonare Arizona dovrei parlare di quello che è successo con lei, scoprire le mie colpe e cercare di comprendere le sue.”
“Mi sembra un'ottima idea.”
“A me no.”
“Arizona” sussurrò Callie con tono esasperato. “Vuoi risolvere questa cosa o vuoi continuare a fare passi indietro?”
“Vorrei che non fosse mai successo. Il solo pensiero di quello che ho fatto, adesso, mi fa venire i brividi.”
“E allora perché lo hai fatto?”
“Perché sono stata stupida.”
“Arizona, sappiamo entrambe che non è vero. Tra le due, sei sempre stata tu quella più razionale, ricordi?”
“Mi trovo a dissentire. Costruire delle mura attorno al mio cuore per proteggermi dall'amore non era razionale. Proteggere me stessa, nel corso degli anni, mi ha aiutato. Mi ha salvato un numero infinito di volte dal soffrire. È la sola cosa che mi ha permesso di non annegare nella mia stessa vita.”
“Appunto, vedi...”
“Prima che incontrassi te” aggiunsi, facendola tacere. “Da quel momento in poi invece di proteggere me la mia reticenza non ha fatto altro che ferire te. La mia razionalità è stata stupida. E quindi non razionale.”
“D'accordo, Callie, vuole fare delle domande inerenti al tradimento?”
“Ho notato che ha tolto l'orologio” osservai prima che Callie avesse modo di rispondere alla sua domanda.
“Sì. L'ho fatto.”
“Perché?” chiesi fissando il quadro che aveva appeso al suo posto.
“La distraeva dalla nostra conversazione.”
“Tutto mi distrae. Non riesco più a concentrarmi a causa della depressione. Ma le medicine dovrebbero iniziare a fare effetto a giorni, ormai. C'è solo una cosa su cui riesco a concentrarmi, ma non è una cosa che sento spesso.”
“E cos'è?”
“La voce di Calliope.”
“Arizona” mi riprese con voce morbida la psicologa. “Perché non smette di guardare il quadro e prova a concentrarsi anche sulla mia voce?”
“Mi scusi. La stavo ascoltando. Ma i colori di quel quadro ad olio sono molto belli. Mi avevano distratto.”
“Non c'è problema. Adesso provi a guardare Callie quando le parla, però, d'accordo?”
“Se guardo nei suoi occhi non riesco a mentire.”
“Non deve mentire qui dentro. Si fida di Callie?”
Annuii.
“Io ho il segreto professionale, quindi direi che siamo apposto. Quello che viene detto qui dentro non uscirà mai da questa stanza.”
“Me ne rendo conto. Penso solo che ci sono alcune cose che è meglio che Callie non sappia per il bene della mia dignità. Visto che lei non vuole aggiustarci e io non riesco a pensare ad altro che a lei. Vede? L'ho fatto di nuovo. Non riesco a mentire se la mia attenzione è su di lei.”
“Va tutto bene, Arizona” mi rassicurò la dottoressa.
“Cosa ho sbagliato?”
Mi voltai verso di lei.
“Perché lo chiedi?”
“Perché non sei la sola che se tornasse indietro cambierebbe delle cose. Non sei la sola che pensava che io e te saremmo state insieme per sempre.”
“Non ha più importanza. Non puoi perdonare un tradimento. Ed io non posso disfare quello che ho fatto, non importa quanto vorrei fosse possibile.”
Mi afferrò una mano all'improvviso.
“Cosa ho sbagliato?” ripeté senza darsi per vinta.
Io la guardai negli occhi. Non potevo mentire.
Riportai lo sguardo verso il quadro, cercando qualcos'altro da poter guardare mentre parlavo, appoggiando il mento sul palmo della mano e il gomito nuovamente sul bracciolo del divano.
“Niente. Tu sei assolutamente perfetta. La colpa di quello che ci è successo è solo e soltanto mia. E sai che farei e darei e direi qualsiasi cosa per farmi perdonare, ma so che non puoi farlo. Non mi piace, ma lo accetto. Perché tu sei l'amore della mia vita, Calliope. Non c'è nessuno come te. Non amerò mai nessuno quanto ho amato te. Sei la mia anima gemella. Ed ogni frase, anzi no, ogni parola, che ti ho detto l'ho sempre sentita con il cuore. Ma sono stata troppo fragile per fare la cosa giusta. E mi dispiace. Così tanto che il senso di colpa mi uccide, letteralmente. Hai il mio cuore tra le mani. Spetta a te decidere cosa ne farai.”
“Perché lo hai fatto? Non capisco. Pensavo che, onestamente, pensavo che avessi smesso di amarmi.”
“E come potrei? Non potrei mai smettere di amarti. Ho solo...Ho solo imparato a vivere senza di te.”
“Arizona, io sono qui.”
Scossi appena la testa.
“Il tuo corpo è qui. Ma tu sei più distante da me di quanto lo fossi quando io ero in Africa. Ti ho perso, non è vero?”
“No, Arizona, guardami.”
“Capisco che è tuo compito amare anche lui. Vorrei solo che non lo amassi quanto hai amato me. Ho pensato che forse anch'io potevo amare qualcun altro nel modo in cui amo te.”
“Arizona, io non lo amo. Gli voglio bene, ma non sono innamorata di lui. Perché non mi hai mai parlato di questo?”
Perché suonava preoccupata? Non avrebbe dovuto preoccuparsi per me.
“Perché tu eri sempre più distante. E così ho pensato che avrei dovuto allontanarmi anche io. Che sarebbe stato più facile per te, se io...” mi fermai giusto in tempo.
“Se tu mi avessi dato un motivo per lasciarti?”
Mi morsi l'interno di una guancia.
“Io sono quella che scappa dagli impegni. Niente di nuovo. Ma tu non abbandoni qualcuno che ha bisogno di te. Anche se lo avessi amato più di me, non mi avresti mai lasciato, a meno che non avessi avuto un motivo.”
“Quindi questo, la depressione, l'infelicità. Come puoi dire che io non ho colpe? Se solo avessi aperto gli occhi...”
“Non avresti comunque potuto fare niente. Le mie insicurezze non te lo avrebbero permesso. Ho sentito la mia vita scivolarmi tra le dita come acqua che non riuscivo ad afferrare e stringere in pugno.”
“Arizona, guardami.”
Ignorai la sua richiesta.
Lei mi prese il viso tra le mani, facendomi voltare e guardandomi dritta negli occhi.
“Io sono qui. Sono proprio qui.”
Afferrai i suoi polsi con le mani, assicurandomi che fosse davvero lì insieme a me.
“Questa è la prima volta che mi tocchi da quasi un anno.”
Corrugò la fronte.
“Scherzi?”
“No. Agosto dell'anno scorso, quando abbiamo ballato insieme al matrimonio di Alex. Da allora, neanche una volta, nemmeno per sbaglio prendendo il latte a colazione.”
Lei abbassò lo sguardo, pensandoci a lungo, ma non riuscì a contraddirmi.
Quando mi guardò di nuovo io avevo gli occhi pieni di lacrime.
“È stata colpa mia.”
Scossi la testa con decisione.
“Hai ragione. Ero lontana anni luce e non me ne sono nemmeno accorta.”
Mi spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
“Ok. Va bene. Facciamolo. Proviamo ad aggiustarci.”
La guardai con gli occhi che emanavano speranza.
“Dici sul serio?”
Annuì.
“Dico sul serio.”

(Febbraio 2006)
“Baciami.”
Sorrisi.
“In quale universo potrei mai rifiutarmi di fare una cosa del genere?”
Mi abbassai, facendo quello che mi aveva chiesto.
“San Valentino è appena diventato la mia festa preferita. E sai bene che io amo qualsiasi tipo di festa.”
Risi, accarezzandole i capelli.
“Arizona, sei molto bella.”
La mano che avevo tra i suoi capelli si fermò. Guardai i suoi occhi, la sua testa era appoggiata sulle mie gambe, era sdraiata nel divano su cui io ero seduta.
“Non fraintendermi” si affrettò ad aggiungere. “Sei sempre meravigliosa, ma qui dentro, con la luce soffusa delle candele e gli occhi che risplendono, sei ancora più bella del solito. Pensavo che dovessi saperlo.”
Cercai di parlare, aprii perfino la bocca, ma non ne uscì niente.
Lei mi sorrise, soddisfatta, voltando la testa di lato per tornare a guardare le candele che avevo acceso prima che tornasse a casa.
“Calliope?”
“Mh?”
Ti amo. Davvero, ti amo. So che sembra assurdo, ma io sono innamorata di te.
“Sei la donna più bella che io abbia mai visto.”

(Giugno 2012)
“Gli antidepressivi stanno funzionando. Sto meglio.”
“Mi fa piacere sentirlo, Arizona.”
“Voglio parlare di Polly Preston.”
Sia io che la dottoressa ci voltammo verso Callie.
“Ha detto che sarebbe stato meglio parlarne. Bene. È il momento. Parliamone.”
La donna davanti a noi mi guardò cercando conferma che la cosa non mi mettesse a disagio. E c'era davvero un solo problema. E cioè che la cosa mi metteva a disagio eccome.
Inspirai dal naso ed espirai con un lungo sbuffo silenzioso dalla bocca.
“Parliamone” concessi.
Non ero un'idiota. E non mi ero fatta illusioni a riguardo. Sapevo che era finita.
Avevo fatto un casino così grande che neanche Callie avrebbe potuto aggiustarmi quella volta, avevo distrutto una delle uniche due cose al mondo per cui per me valeva la pena vivere. E la cosa peggiore è che lo avevo saputo fin dal primo momento. Non mi ero mai illusa che quello che stavo facendo fosse giusto, o che lei non lo avrebbe mai scoperto né che addirittura un giorno mi avrebbe perdonato. Io sapevo che era finita.
“Quando è iniziata?”
Ma se per caso avessi avuto qualche minimo dubbio, quella conversazione sarebbe bastata per cancellarlo definitivamente.
“A settembre. La sera in cui tu e Mark siete andati con Sofia a cena a casa di Derek.”
“Credevo stessi lavorando quella sera.”
“Infatti. E lavorava anche lei.”
“Cosa è successo?”
“Abbiamo iniziato a parlare. A scherzare. A ridere. Mi ha ascoltato mentre le raccontavo tutto quello che mi preoccupava. Mi ero illusa che potesse capirmi, ma la verità è che non hai mai neanche lontanamente capito chi sono. Mi ha lasciato il suo numero. Avrei voluto che diventassimo amiche, o qualcosa del genere. Lei aveva altri piani, però. Ci vedevamo tutti i giorni a lavoro e ci siamo sentite un paio di volte per messaggi. Una sera, verso Dicembre, sono andata a casa sua. Era il 23, tu e Mark eravate a cena con suo padre e Sofia. Ed io mi sentivo...”
“Sola” concluse prima che potessi trovare la parola giusta.
“Sola” confermai. “Esclusa. Non una parte della vostra famiglia. Se ci ripenso adesso sembra ridicolo, ma allora mi era sembrata una buona idea andare a casa sua.”
“È mai stata a casa nostra?”
“Cosa? Certo che no. No, è stato solo quella volta. Il giorno dopo le ho detto che non credevo fosse una buona idea continuare a sentirci al di fuori del lavoro. Non l'ha presa bene, ma ha accettato la situazione per quella che era. Sapeva fin dall'inizio che l'unica donna al mondo che posso amare sei sempre stata tu.”
“Che è successo quella sera?”
“Callie, ti prego. Lascia stare.”
“No, la dottoressa dice che ci sono due modi in cui possiamo affrontare la cosa. Non parlarne non ha funzionato. Quindi adesso voglio sapere.”
“Callie, forse quello che Arizona...”
“No. Non cerchi di giustificarla. Ho il diritto di sapere quello che è successo tra di loro. Lei era mia moglie, eravamo sposate e mi ha tradito con una ragazzina. Voglio capire perché e per farlo ho bisogno di sapere i dettagli. Qualsiasi cosa che mi aiuti a trovare una ragione a quello che ci è successo.”
“Sono arrivata al suo appartamento, mi ha ascoltato parlare di quanto il fatto che Mark mi avesse tenuto lontana da suo padre mi ferisse.”
“E poi?”
“E poi? Che significa e poi?”
“Significa, cosa è successo dopo?”
“Callie, questa conversazione non sta andando nella direzione giusta.”
“Cosa intende?”
“Quando le ho detto che affrontava la cosa nel modo sbagliato, intendevo che forse avrebbe dovuto trovare una via di mezzo.”
“Non voglio cercarla nemmeno una via di mezzo. Voglio solo che mi dica quello che è successo.”
“Quello che Arizona ha da dire potrebbe peggiorare la situazione più di quanto si immagina.”
“Peggiorare la situazione?” chiese con tono ironico. “Non vedo come. Sono diventata completamente paranoica. Sa cosa penso ogni volta che vedo la Preston? Mi chiedo se si sta immaginando mia moglie nuda. O se si è fatta quattro risate pensando a quanto devo essere stata stupida per essermi fatta strappare via l'amore della mia vita da lei. E anche quando non la vedo, penso a cosa è successo tra loro. Se stanno lavorando insieme a un caso, cosa si diranno la prossima volta che si vedranno, se è mai stata tentata di tradirmi di nuovo. Come potrebbe mai andare peggio di così?”
“Abbiamo fatto sesso sul divano. Non mi sono neanche tolta i vestiti. Le ho dato quello che aveva voluto fin dalla prima parola gentile che mi aveva rivolto, mi sono alzata e me ne sono andata prima di scoppiare a piangere o di vomitare. Sono andata a casa e mi sono fatta tre docce, ero disgustata da me stessa come non lo ero mai stata. Da allora ho cercato di evitarla il più possibile, lei lavora con Stark ed io lavoro con Alex, non ci sentiamo né vediamo fuori dal lavoro. Ed io sono ancora tua moglie. Io e te siamo ancora sposate.”
“Lo so. Non intendevo...”
“So cosa intendevi meglio di quanto lo sappia tu. Ho fatto un casino. Probabilmente non avrò mai la possibilità di rimediare. Ma se fossi così fortunata ed un giorno decidessi di lasciarmi provare, non ci sarebbe un prezzo troppo alto da pagare per quello. Quindi fai pure, vai avanti, chiedi tutto quello che vuoi sapere. Non c'è momento migliore per farlo di adesso.”
Per diversi momenti ci fu un silenzio strano. Sfortunatamente, non durò abbastanza.
“Perché lei?”
“Perché lei era lì.”
“Questo non significa niente.”
“Andiamo, tu l'hai usata un milione di volte come giustificazione per quello che è successo tra te e Mark. 'Lui è il mio migliore amico, era lì, è sempre stato lì'.”
“Non puoi dire sul serio.”
“Sono molto seria, invece. È un po' due pesi due misure, non credi?”
“Ah, no.”
“Ma lo è. Senti, non ho un altro motivo, ok? Questa è la verità. Lei era lì. Era lì quando tu non c'eri, quando eri a conoscere il padre di Mark, o a cena a casa di Derek insieme a Mark. Lei era lì ad ascoltarmi parlare di quanto la vita è ingiusta. Non è stato per il sesso, non è stato perché lei era più bella o intelligente o divertente di te, né sono mai stata innamorata di lei. Ma lei era quando non c'era nessun altro. Quando anche tu, eri a milioni di miglia di distanza.”
“Quindi avevo ragione, quando ho detto che è colpa mia.”
“No. Non sto cercando di sminuire le mie colpe. Sono consapevole che quello che è successo è una mia esclusiva responsabilità.”
“Ma, quando sono stata io a tradirti...”
“Calliope, tu non mi hai mai tradito.”
“Mi sentivo come se lo avessi fatto” mi contraddisse. “Mi sentivo malissimo.”
“Lo so. E ti amo per questo. Ma non l'hai mai fatto davvero. Io e te non stavamo insieme, è un torto che hai fatto a te stessa, non a me, e non mi hai mai tradito. Io sì. Questo è colpa mia.”
“No, non lo è. Credo che sia semplicemente colpa di entrambe.”
“Mi dispiace. Dico davvero. Sono profondamente dispiaciuta per quello che ho fatto. E se mai decidessi di darmi un'altra occasione...”
“Arizona.”
“No, so che probabilmente non succederà, ma se mai decidessi di darmi un'altra occasione, non commetterei mai più un errore del genere.”
“Arizona, io ti sto già dando un'altra occasione. Non sarei qui, altrimenti.”

(Luglio 2012)
“Ho preso in considerazione l'aborto.”
Parlò rimanendo rivolta verso la dottoressa davanti a noi. Io mi voltai immediatamente verso di lei, guardando l'espressione apparentemente calma sul suo viso.
“Come, scusa?”
“Intendo, quando ho saputo di essere incinta di Sofia. Voglio bene a Mark, e lo ritengo una brava persona. Ma non volevo un figlio con lui, né pensavo che fosse adatto a fare il padre. Almeno su questo, fortunatamente, mi sbagliavo.”
“Su questo? Quindi non avresti comunque voluto un figlio con Mark?”
Corrugò la fronte alla mia domanda, lanciando un'occhiata nella mia direzione, ma rimanendo con il busto rivolto in avanti.
“Non se avessi potuto scegliere come far andare le cose, no. Avrei preferito che mia figlia non fosse stata concepita con il mio migliore amico. Perché sei così sorpresa?”
Esitai a lungo, cercando di scegliere le parole giuste.
“Non lo so. Credo di aver sempre dato per scontato che questo fosse quello che volevi.”
“Lo era. Lo è. Ma non insieme a Mark. Lui non era parte del piano che avevo per la mia vita. Per la nostra vita” si corresse.
Mi vennero in mente un milione di miliardi di domande da farle a riguardo. Stava cercando di farmi sentire ancora più in colpa facendomi capire fino a che punto lei si era pentita di aver dormito con lui anche se noi in realtà non stavamo insieme? Stava solo cercando di farmi capire quanto la mia felicità valeva per lei? Avrebbe preferito che Sofia non fosse mai nata? Le avrebbe portato rancore pensando che, forse, se lei non ci fosse stata, io non l'avrei mai tradita? Voleva avere altri bambini, un giorno? Ed un'infinità di altre ancora.
Ma dopo essermi ripresa dalla depressione e dopo diverse sedute di psicoterapia avevo imparato che è di fondamentale importanza chiedere la cosa giusta al momento giusto. Per tutte le altre domande c'è sempre tempo, dopo aver avuto la risposta alla domanda che la persona che ci sta parlando vuole che le facciamo.
Quindi feci un respiro profondo, mi stampai sul viso un'espressione di neutra contemplazione, pensai a cosa Callie avrebbe voluto sentirsi chiedere e corsi il mio rischio.
“E quale era il piano che avevi per la nostra vita?”
Lei mi guardò, stupita che avessi scelto proprio quella domanda invece che farle il terzo grado sul significato delle sue parole. Scrollò appena le spalle, voltando il busto nella mia direzione e pensando attentamente alla risposta prima di espormela.
“Una casa grande. Magari in periferia. Con un giardino enorme per far giocare i bambini e spazio sul retro per dei polli.”
Mio malgrado, risi, cercando di farlo a bassa voce.
“Due auto in garage, anche se poi ne viene sempre usata una soltanto, perché andiamo a lavoro insieme. E un dondolo sul portico. Non so perché, ma ho quest'immagine di noi a sessant'anni o, novant'anni, sedute mano nella mano su un dondolo in legno nel portico. E dieci...”
“Dieci camere da letto per i nostri dieci figli” conclusi al posto suo.
Ci scambiammo un sorriso consapevole, entrambe tenevamo a quel ricordo.
“È un bel sogno” confermai. Poi il sorriso che avevo sparì poco a poco. “Ma io ho rovinato la nostra possibilità di averlo, non è così?”
“Cosa? No” mi disse immediatamente. “No, Arizona. Era un bel sogno. Entrambe abbiamo fatto cose che ci hanno allontanato da esso, ma questo non vuol dire che sia rovinato. I sogni si adattano, giusto? Non fraintendermi. Amo la vita che abbiamo. Non cambierei Sofia per niente al mondo. E non rimpiango un solo minuto di quello che abbiamo avuto insieme. Ma, moltissimo tempo fa, quando ancora non sapevamo come sarebbero andate le cose, questo era il modo in cui le immaginavo nei miei sogni ad occhi aperti.”
Continuai a guardala senza sapere esattamente cosa rispondere.
“Sai, non ti avrei mai forzato a mantenere la promessa.”
Corrugai la fronte.
“Di avere un figlio. So che eri sincera, e se un giorno avessi deciso di essere pronta io sarei stata completamente d'accordo. Ma non avrei mai più accennato nemmeno all'avere figli. Non ti avrei costretto a mantenere la promessa che mi avevi fatto dopo che un tizio mi aveva puntato una pistola contro. Non lo avrei fatto e basta.”
Appoggiai una mano sulla sua, esitando solo per qualche momento.
“Io avrei avuto dieci figli” risposi soltanto. “Avrei mantenuto quella promessa senza esitazione, e adesso so che non mi sbagliavo. Sei una madre fantastica.”
“Lo sei anche tu. Sei l'unica che può farla riaddormentare nel bel mezzo della notte” ci scambiammo un sorriso, entrambe con le lacrime agli occhi.

(Agosto 2009)
“Io prendo te, Calliope Torres, come mia legittima sposa. Prometto di amarti, ogni attimo di ogni giorno per il resto della mia vita.”
“Scelgo te, per essere la persona con cui passerò il resto della mia vita.”
C'era qualcosa nel ricordo di quel momento che mi dava pace.
Anche dopo tutto quello che era successo nel corso degli anni, in quel frammento della mia memoria trovavo confortevole rifugio.
Forse era qualcosa nei suoi occhi.
Qualcosa capace di rassicurarmi anche nei momenti peggiori della mia vita che, qualsiasi cosa sarebbe successa, io e lei ci eravamo amate.
Quello che avevamo avuto era stato reale.
Una persona come lei, era in grado di amare me.
Ed era semplicemente meraviglioso. E meravigliosa era la sensazione che mi aveva lasciato dentro e che ancora mi lasciava ogni volta che me ne ricordavo.
Io e lei ci eravamo amate.
Niente avrebbe potuto portarmi via quello.
Neanche il futuro, neanche i cambiamenti, niente. Lì, al sicuro tra i miei ricordi, avrei sempre trovato lei.

(Agosto 2012)
“Mark e Julia si sposano tra due mesi.”
La dottoressa mi guardò senza dire niente, aspettando che continuassi.
“Callie ha ricevuto un invito e ha confermato a Mark che avrà un accompagnatore.”
Lei sbuffò, voltandosi nella direzione opposta alla mia e fissando la parete alla sua sinistra. La psicologa continuò a non dire niente.
“E si rifiuta di dirmi chi è.”
“Non mi rifiuto di dirti chi è. Te l'ho detto. È solo un tizio.”
“Questo dovrebbe essere meglio? Che la madre di mia figlia porti al matrimonio del padre di mia figlia un tizio che è 'solo un tizio' dovrebbe essermi di conforto?”
“Non lo so. Che dovrei rispondere?”
“Voglio riformulare la domanda. Che mia moglie, porti al matrimonio...”
“Arizona.”
“Quanto tempo fa lo hai conosciuto?”
“Smettila.”
“Avete già avuto appuntamenti insieme?”
“Dove vuoi arrivare?”
“Ci sei andata a letto?”
“Non sono affari tuoi.”
“Non sono...” ripetei in un sussurro. “Wow. Solo, wow.”
Mi alzai, indossando la giacca e prendendo la borsa.
“Che stai facendo?”
“Me ne vado. Non ha più senso nel continuare a tentare di aggiustare qualcosa che tu non mi permetti di aggiustare. Mi hai chiuso fuori. Hai tagliato tutto. Mi hai tenuto inchiodata a questo divano mentre mi facevi raccontare ogni secondo che ho passato insieme a Polly e adesso io non posso neanche avere un nome. Non sei più innamorata di me, Callie. Ed io sono innamorata di te e voglio che tu sia felice, quindi ti lascio andare. Non ha più senso continuare.”
Guardai la dottoressa, che annuì. Mi incoraggiava sempre ad agire secondo i miei sentimenti. O forse, quella volta, pensava solo che avessi ragione.
“La vedrò dopodomani per la seduta singola” la salutai.
“Seduta singola?”
“Già. Ho continuato a vedere la dottoressa da sola per cercare di guarire dalla depressione, non volevo che lo sapessi perché pensavo che non mi avresti dato un'altra occasione se avessi pensato che ci ero ancora dentro. Ma, chiaramente, non mi hai mai davvero dato un'altra occasione, quindi va bene.”
Me ne andai, chiudendomi lentamente la porta alle spalle.

(Marzo 2013)
“Penso che quando le persone dicono che il tempo guarisce tutte le ferite stiano dicendo una bugia di cui sono dolorosamente consapevoli. Si convincono che il tempo riesca a fare miracoli, ma non è così. Va meglio, questo è vero. I ricordi si offuscano e il dolore si annebbia. È un dolore più confuso, meno chiaro, ma c'è ancora. Oh, sì che c'è ancora. Però arriva un momento in cui il dolore diminuisce abbastanza da permetterti di ricominciare a respirare. E allora puoi guardare indietro e ripensare alla persona che hai perso e sorridere quando ne ricordi la bellezza, la gentilezza, l'amore. Puoi sorridere e il ricordo che hai di loro, che è ciò che ti tiene ancora ancorato al dolore, in un modo strano è anche ciò che ti aiuta ad andare avanti. Per quanto ti sia possibile andare avanti.”
Alzai lo sguardo dalle mie mani per guardare verso di lei.
“Ma non sparisce nel nulla. Non sparisce con il tempo. Si attenua, certo. Ma ti cambia, non in meglio o in peggio, ti cambia e basta. Io non sarò la stessa persona mai più” conclusi.
“Neanche io. Ma è normale. Se succedesse il contrario, vorrebbe dire che invece di crescere stiamo tornando indietro.”
Non mi voltai per guardarla. Non potevo più guardarla, non potevo e basta.

(Agosto 2012)
Questo tipo di cose succedono in modo strano. Quando accadono all'improvviso, è impossibile non riuscire a notare che qualcosa è cambiato. È così ovvio, tutto il tempo. Così tanto che anche un idiota se ne accorgerebbe. Ed è facile da notare soprattutto per chi è vicino mentre tutto questo accade. Ma quando succedono un passo alla volta, lentamente, accorgersene diventa quasi impossibile, perfino per chi coglie anche i minimi dettagli. E soprattutto, quando succede gradualmente è più facile rendersene conto per chi non conosce le persone coinvolte in tutta la dannata situazione.
Inizia in modo strano. Inizia con le parole “Una vecchia amica è tornata in città.” E continua sulla linea di “Mark non si sposa più. Un peccato. Avrei portato lei, voleva davvero venirci. Non tutti i giorni puoi vedere Mark essere disposto a sposarsi.”
E inizia in modo così subdolo che i pochi fatti che hai sembrano a caso. Random.
Ma poi ricordi che quello del matrimonio doveva essere 'solo un tizio' e ti pare chiaro che non lo è per almeno due motivi. Primo, lei non è un tizio. Secondo, lei non è nemmeno solo qualcuno. Lei è molto più di solo una donna.
Per prima cosa, la più ovvia, lei non è te. È un'altra donna. Ma questo non è nemmeno il punto, perché davvero, il punto è solo che lei ci sarebbe andata insieme al matrimonio e loro erano solo amiche. Quindi aveva parlato di 'solo un tizio' senza dire il suo nome solo per farti ingelosire, e c'era pure riuscita.
È così che inizia.
Il punto è che continua.
“Si trasferisce di nuovo a Seattle. Ha riavuto il suo vecchio lavoro. Scommetto che ti piacerà lavorare con lei, è una persona meravigliosa.”
No. No, non lo è. È solo una donna. Certo, è bella, intelligente, sensibile, dolce, gentile. Ma in fondo è solo una donna, giusto? Non può prendere il tuo posto. Lei non è te.
Inizia in modo strano, ma continua in modo ancora più strano ed ogni tanto riesci a vederle ridere nella tua visuale periferica, finché un giorno esci dall'ospedale e la vedi nel parcheggio che apre la porta del passeggero per tua moglie nel modo in cui si suppone dovresti farlo tu. Le vedi ogni tanto sorridersi quel sorriso segreto che vi scambiavate ogni tanto tu e lei. Le loro dita si toccano appena e loro arrossiscono e ridono e guardano altrove. Ma tu rimani all'oscuro, perché guardando in faccia la verità, probabilmente saresti rimasta all'oscuro sulla nuova ragazza di tua moglie perfino con un faro da stadio puntato tra i tuoi occhi.
Quando ti colpisce, succede all'improvviso.
Se fossi stata una sconosciuta, sarebbe stato così dolorosamente ovvio dal modo in cui si guardano o dal modo in cui sorridono quando sono nella stessa stanza o anche solo...Era ovvio e basta, ecco tutto.
Ma io ero coinvolta ed era iniziato piano. Era iniziato in modo attenuato, soffocato, come sentire un urlo quando sei sott'acqua.
E Mark non si sposa più. Perché l'amore della sua vita è tornata in città. E tua moglie se la sta portando a letto.
Mettere insieme i pezzi è più difficile di quello che sembra, perché se Mark è innamorato di Addison ed Addison è innamorata di Mark, perché passa tutto il suo tempo con Callie? E allora inizi a notare come è sempre nell'appartamento di Callie ultimamente, come Addison viva da lei anche se ormai è in città da mesi e potrebbe anche solo trovarsi un suo fottuto posto in cui vivere. Il modo in cui quando vai a vedere tua figlia, noti che quelle coperte sul divano non sono mai sgualcite e sembra che siano lì solo per apparenza.
E ti confonde. E neanche poco. Addison e Mark? Mark e Callie? Addison e Callie? A quel punto, davvero, volevo solo sapere la verità.

(Novembre 2012)
“Si tratta di tutti e due.”
“Mi perdoni?”
“È innamorata di tutti e due . Ma questo lei lo sa già, visto che Callie viene ancora da lei, sbaglio? Callie sta uscendo sia con Addison che con Mark.”
Lei non trovò in sé la forza di rispondermi.
“Mi mette a disagio” continuai.
Lei sembrò essere incuriosita da quello che avevo appena detto. Non esprimevo mai disagio per nessun tipo di cosa. Appoggiavo Callie in pieno, qualsiasi cosa volesse fare. L'avevo appoggiata perfino quando aveva deciso di smettere di provare.
“Non è perché sono tre persone in una relazione, anche se devo ammettere che sembra davvero una folla. Insomma, certe volte, perfino due persone sono troppe in una relazione, se capisce che intendo.”
Annuì. Nient'altro. Annuì e basta. Poi, finalmente, decise di parlare.
“Non ho un problema con il fatto che abbiano relazioni aperte. Se è innamorata, è la cosa migliore che potesse capitare a Calliope. Il punto, è che Sofia era mia figlia. Ma adesso la vedo a malapena. Ed Addison va più che bene per farla riaddormentare nel bel mezzo della notte. Non sente la mia mancanza. Mia figlia non sente la mia mancanza. O forse questo è solo quello che voglio credere in modo da non sentirmi in colpa quando deciderò di uscire dalle loro vite in punta di piedi senza mai guardarmi davvero indietro. Amo Sofia con tutto il cuore. Sarà sempre una parte di me. Ma rimanere qui sembra la strada giusta solo per fare un errore dietro l'altro. E quattro genitori potrebbero confonderla. Anche tre genitori potrebbero confonderla. E, insomma, e se un giorno si lasciassero e tutti noi ci rifacessimo una vita? Otto genitori non sono genitori, sono un albero genealogico al completo. Sa come si dice, per crescere un figlio serve un paese, ma così è un po' troppo letterale. Lei è la mia psicologa, quindi penso che dovrebbe essere lei a dirmi se sto solo cercando delle scuse per scappare o se sono solo preoccupazioni sincere per il futuro di una delle due persone che amo di più al mondo.”
“Penso che siano un po' di entrambe. Arizona, è arrivata a questo punto e forse quello che sto per dirle le sembrerà ridicolo. Perché non prova solo a seguire il suo cuore?”
Io inspirai a fondo.
“Perché il mio cuore mi riporta sempre indietro verso Calliope, qualsiasi cosa accada.”
Rilasciai un respiro tremolante.

(Marzo 2013)
“Ho avuto un'offerta di lavoro. Una che proprio non potevo rifiutare.”
“Oh.”
Non è che non lo sapesse già. Lo sapeva. Sapeva che me ne stavo andando. Ma non pensava che l'avrei buttata sull'aver trovato un altro lavoro.
Le cose erano quelle che erano.
“Ci sentiremo per telefono.”
“Di sicuro. E ti manderò una cartolina a Natale.”
“Arizona, è Marzo.”
Avrei dovuto probabilmente dire qualcosa che assomigliasse alla verità. Potevo dirle che era l'amore della mia vita. O che non l'avrei mai dimenticata. O che non potevo capire, neanche a costo della mia vita, cosa ci fosse successo.
“Sofia è mia figlia.”
“Non ho mai pensato-”
“È solo che lei non lo saprà” conclusi. Lo sospettava già, presumo. Resi le cose più facili per entrambe chiarendo ad alta voce come sarebbero andate le cose. “Ha quattro anni. Non se ne ricorderà. Se non vuoi parlarle di me, non farlo. Andrà bene. Voi tre la crescerete come si deve, ed io mi faccio da parte.”
Era figlia mia. Sofia Robbin Torres portava il mio nome in mezzo al suo. Ma rimanere avrebbe significato psicoterapia, psicofarmaci, o depressione, altri tentativi di suicidio. Avrei reso la sua vita peggiore più di quanto avrei potuto renderla migliore in quel momento. Non stavo bene. Dovevo a me stessa di ammettere almeno quello.
“Se un giorno dovessi guarire, stare meglio...”
“Noi saremo qui.”
“Ti ho lasciato un regalo in macchina. Voglio un'uscita dalla tua vita in grande stile.”
“La mia macchina è chiusa.”
“Lo so. L'ho incastrato nel tergicristallo. Sii la persona più felice che questo infelice, terribile mondo abbia mai visto.”
Era un biglietto. Sopra c'era un indirizzo. Avrei voluto vedere la sua faccia quando ci entrava per la prima volta. Avevo lasciato le chiavi a Teddy. Me lo sarei fatto raccontare per telefono.
Avevo trovato la casa dei suoi - nostri - sogni in vendita. Non l'avevo comprata o cavolate simili, era decisamente oltre il limite. Volevo solo che fosse lei a comprarla. A vivere lì. In una casa grande in periferia con un giardino davanti e spazio sul retro, il posto per due auto dentro il garage. Non c'era il dondolo sul portico, però. Ma tanto quel sogno non sarebbe mai potuto diventare in ogni caso realtà.
Teddy mi raccontò che aveva le lacrime agli occhi ancora prima di entrare in casa.
Avevo affittato una di quelle macchine per la neve. E lasciato un biglietto in mezzo al tavolo del soggiorno.
“L'ho avvertita prima di entrare che secondo me era disgustoso e appiccicoso e ci sarebbero voluti giorni per ripulire, ma è entrata comunque” raccontò Teddy.
Il meccanismo si era accesso appena era entrata nel salotto, aveva un sensore per il movimento. Non ne uscì neve, però. L'avevo sostituita con qualcos'altro.
Aveva preso il biglietto in mano.
Io e te siamo questa pioggia di marshmallow.
Io e te siamo impossibili, eppure siamo accadute.
Porto dentro il mio cuore il ricordo di quanto- no, di come ti ho amato.

Mi aveva detto che erano rimasti lì, lei, Addison e Mark, mentre Calliope piangeva in mezzo al soggiorno, un foglio di carta stretto contro il cuore.

(Dicembre 2027)
Era bellissima.
E mi rendevo conto che probabilmente fissarla sembrava davvero raccapricciante, quindi distolsi lo sguardo. Alla fine.
L'intera situazione in cui ci trovavamo era imbarazzante.
Non sapeva cosa dire. E a me le parole erano mancate per diversi minuti ormai. Dal momento in cui avevo aperto la porta del mio appartamento in poi.
“Sì?”
“Salve. Arizona?”
“Sono io” confermai ignorando la strana familiarità della ragazza.
“Sofia. Torres” aggiunse. Come se ce ne fosse stato bisogno. Solo il suo nome era bastato a far precipitare il mio cuore dal petto fino alle scarpe e poi giù, giù, nel terreno, fino a seppellirsi diversi metri sottoterra.
E così ce ne rimanemmo lì in silenzio. Stava bevendo il tè che le avevo preparato. Non avevo idea di come una conversazione del genere sarebbe dovuta iniziare.
“Beh, non so cosa sai di me. Quindi partiamo dall'inizio.”
“Mia madre non sa che sono qui.”
Quello mi sorprese. Ma in fondo non conoscevo più mia figlia. Non conoscevo la persona che era diventata.
“Ok.”
“E nemmeno mio padre.”
Annuii.
“Né zia Addie.”
Mi paralizzai per un secondo. “Zia?”
“Già. Per un po' di tempo lei e i miei genitori sono stati insieme. Non so se tu eri ancora lì, ma spero che capisca cosa intendo.”
“Ero lì.”
“Pensano che io non lo ricordi. Ma lo ricordo.”
“Sofia, come hai fatto a trovare il mio appartamento?”
“Ho preso l'indirizzo dalle lettere che mia madre ti scrive.”
Corrugai la fronte. “Tua madre non mi scrive.”
“Oh, sì che lo fa. È solo che non le spedisce.”
Sentii un nodo in gola.
“Sofia, hai...hai qualche ricordo di me?”
Annuì con decisione.
“Certo. Un sacco. All'inizio pensavo di averti inventato io. Tipo un'amica immaginaria che avevo quando ero davvero piccola, o qualcosa del genere. Ma poi, una sera, ho sentito mio padre e mamma che parlavano di come con il tempo ho smesso di chiedere di te. Ma ho smesso solo perché loro non mi davano le risposte che cercavo. Così me le sono trovata da sola.”
“Quali risposte cercavi?”
Per qualche istante mi guardò e basta.
“Tu eri mia madre. Non è vero?”
Come potevo mentirle? Come avrei mai potuto mentirle?
“Sì, Sofia. E lo sono ancora. È solo molto, molto complicato.”
“So la storia. Tutta la storia. Dopo che mia madre è dovuta venirmi a prendere alla stazione di polizia perché avevo rubato un rossetto, mi ha mandato in terapia dalla sua vecchia psicologa. Ha dei fascicoli. Parecchi. Su di voi. Li ho fotocopiati di nascosto e li ho letti.”
Aveva poco e niente di Mark.
Poco che io riuscissi a vedere, in ogni caso.
Era bella come sua madre, intelligente come sua madre, parlava perfino come lei.
“Hai tradito mia madre.”
Inspirai, cercando di decidere come avrei dovuto rispondere a una domanda del genere.
“E lei ha tradito te” continuò Sofia. “E tu sei andata via. Soffrivi di depressione, capisco che tu lo abbia fatto perché pensavi che sarei stata meglio senza di te, ma non lo sono stata.”
“Mi dispiace.”
Il silenzio si trascinò in modo strano. Avremmo entrambe voluto dire qualcosa che non potevamo o non trovavamo il coraggio di dire.
Presi delicatamente una delle sue mani tra le mie.
“Sei felice, Sofia?”
Lei sembrò sorprendersi non poco della mia domanda.
“Sì, credo di sì.”
Scossi immediatamente la testa, sentendo l'incertezza che velava la sua voce.
“Voglio che ti prenda un momento per pensarci sul serio. Pensaci attentamente. So che non sei infelice, te lo leggo negli occhi. Ma ti sto chiedendo, sei felice?”
Guardò le nostre mani che si sfioravano per un istante.
“Non proprio.”
Rimasi in silenzio per darle la possibilità di continuare a parlare, se lo avesse voluto.
“È solo che loro non riescono a capire.”
“A capire cosa?”
“A capire me.”
Corrugai la fronte. “Cosa di te?”
Scrollò le spalle.
“Qualche volta mi sembra solo di vivere dentro una casa di estranei. Fino a qualche mese fa, prima di leggere quei fascicoli, ero convinta che la mia madre biologica fossi tu. Ho dei ricordi di te di quando avevo poco più di tre anni e capivi quello che volevo anche solo gettando un'occhiata nella mia direzione.”
“Volevo che avessi il meglio, tesoro. Te lo giuro. E pensavo che non lo avresti avuto se fossi rimasta lì e avessi serbato rancore a tua madre, a tuo padre, se loro ne avessero serbato a me. Volevo solo...Volevo il meglio.”
“Lo so. Per questo sono qui. Non voglio chiederti di tornare indietro, né ti costringerò. Hai fatto una scelta molti anni fa, e qualcosa deve averti fatto pensare che fosse quella giusta, altrimenti non l'avresti fatta dal principio. Volevo solo poterti conoscere. Poterti vedere con i miei occhi. Credo che mi aspettassi di trovare da te qualche risposta.”
“Riguardo cosa?”
Scrollò di nuovo le spalle. “Chi sono. Dove sto andando. Cosa c'è nel mio passato e cosa mi aspetta nel futuro.”
“Beh, Sofia, io non so dirti dove stai andando. Del tuo passato conosco solo i primi quattro o cinque anni. E spero che il futuro ti porti tutto ciò che potresti mai desiderare. Ma se ti chiedi chi sei, forse per quello posso dare un piccolo aiuto. Sei il tipo di persona che vola attraverso tutti gli Stati Uniti solo per poter vedere sua madre, il tipo di persona che vuole conoscere quella madre, anche se lei se n'è stupidamente andata, credendo di potersela cavare. Sei la persona a cui ho pensato di più in questi quattordici anni, ogni giorno della mia vita. Beh, tu e tua madre. Sei la figlia di due persone meravigliose, che farebbero qualsiasi cosa per te, come del resto farei anch'io, che vorrei potermi fare strada di nuovo dentro la lista delle persone che ti hanno cresciuto. Sono sicura che hai il grande cuore di tua madre, su questo non ci si può sbagliare. Ma queste...Queste mura che ti sei costruita attorno” le rivolsi un sorriso triste “quelle le hai prese da me. Io non so chi sei, Sofia, e non so chi diventerai. Questo è quello che so sulla persona che ho davanti, ma sono sicura che c'è così tanto di più su di te che non so e che amerei sapere. Basta una tua parola, e farò tutto ciò che mi è possibile per riuscire a conoscerti meglio, in modo da poterti aiutare a capire chi sei.”

(Gennaio 2028)
Niente è come un tempo era stato nei tuoi ricordi.
Rivedi una città dopo quindici anni ed è cambiata.
Ma non era cambiata solo Seattle, non era cambiata solo la storia. Lei era cambiata, entrambe eravamo persona diverse. Due estranee l'una per l'altra. Due sconosciute.
Rivedi una persona, dopo quindici anni, ed è cambiata più della città.
Fu strano non riuscire a trovare niente da dire.
Qualche volta hai in mente così tante cose che non riesci a decidere da dove iniziare. Altre volte, invece, non hai niente da dire e basta.
Lei non sapeva da dove iniziare. Io non avevo niente da dire.
“Ho sentito che hai un nuovo lavoro. In città. Ritorno alle origini, uh? Anche se, non proprio, visto che non sono qui le tue origini, ma...Hai capito che intendo, giusto? L'ospedale è parecchio cambiato, sembra un posto nuovo. Non per me, ovviamente, il cambiamento è stato così graduale che me ne sono a malapena accorta. Ma suppongo che per qualcuno che non ci mette piede da quindici anni, sia un posto del tutto nuovo. Che c'è?” si fermò all'improvviso, vedendo l'espressione sul mio viso.
Scrollai le spalle.
“Sembri felice.”
Il suo sorriso nervoso si trasformò in uno triste, sparendo poi definitivamente dal suo viso.
“Ho fatto la scelta giusta, Calliope. Sembri felice.”
Riuscii a malapena a capire cosa sussurrò verso la mia schiena quando ero a diversi metri da lei, non disposta a mostrarle le lacrime che avevano riempito i miei occhi.
“Le apparenze ingannano.”
Non mi voltai.

(Aprile 2028)
Inizia in modo strano.
Inizia in punta di piedi, come se non volesse disturbare. Inizia e tutti quei sentimenti con cui eri convinta di aver chiuso per sempre tornano a tormentarti più forti e più inappropriati che mai.
È il posto auto in più nel vialetto. È che ceni a casa loro più spesso di quanto dovresti. È che tua figlia dopo un po' di tempo inizia a trattarti come sua madre e questo sarebbe abbastanza per farti esplodere il cuore anche se non ci fosse lì Calliope.
È un po' di tutto, ma in realtà davvero non è niente. Non è niente di tutto questo. E niente di niente, in realtà.
La tua vita non esiste.
Sei morta, come lo eri qualche mese fa. Sei morta e non hai senso. Però inizia così piano che non te ne accorgi, e poi, prima che tu possa rendertene conto, ci sei già in mezzo.
Hai ricominciato a vivere. A sperare. Ad amare.
E non vuoi. Perché, guarda cosa è successo l'ultima volta. Quindi non vuoi. Ma lo fai ugualmente, senza neanche accorgertene, senza bisogno che qualcuno te lo chieda.
E anche questa volta il problema è lo stesso. Il problema non è che inizia, ma è che continua.
Finché la tua auto ha un posto dentro il garage invece che nel vialetto. Finché le cene a casa loro passano da terribilmente spesso a 'sii puntuale stasera a cena'. Finché da 'non puoi guidare con gli occhi che ti si chiudono, è solo per una sera', in qualche strano modo si arriva fino a 'cosa intendi quando dici mio appartamento? Oh, quello. Già, sono settimane che non ci metto piede'.
E forse è perché altre persone ti danno conforto. O forse è perché loro ti danno conforto. Ma molto più probabilmente, è per quella parola che non vuoi nemmeno azzardarti a pensare. Famiglia.
Inizia in punta di piedi e continua senza fare il minimo rumore, ma il punto è che a un certo punto finisce.
Ad un certo punto, ti alzi, prendi la tua roba, e te ne vai.
Perché quello che ti eri ripromessa di non fare era intrometterti e rovinare le loro vite, e hai paura che sia quello che stai facendo.
Ma forse il vero problema, il vero punto centrale della questione, non è che inizia, né come continua e nemmeno che alla fine si ferma. Forse il punto è che non se ne va. Quella sensazione di casa non se ne va più. Sei costretta a vivere il resto della tua vita mentre ti accompagna. E non sai se lo odi più di quanto lo ami, ancora.
Ma sai che è una sensazione che non se ne andrà mai.
Ed è allarmante.

(Maggio 2028)
“Non passi più da casa nostra. Non vieni più a cena. Non dormi più da noi. Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
“No. Certo che no.”
“E allora cosa c'è che non va?”
“Che non posso più farlo.”
“Cosa non puoi più fare?”
La guardai come se fosse molto più che semplicemente ovvio.
“Dormire sul divano di casa tua.”
“Perché no?”
A quel punto le rivolsi lo sguardo del 'sei impazzita?' e tossii la mia incredulità.
Ma il suo sguardo innocente era sincero, così provai a spiegarglielo.
“Quando ero piccola, quando sapevo che non avrei dovuto pensare alle ragazze nel modo in cui facevo, pensavo con la testa sotto le coperte. Come se nel buio più totale quello che pensavo, quello che provavo, non importasse. Se nessuno poteva vedere, sentire, sapere, allora era come se non contasse. Ma contava. Con il tempo ho capito che contava.”
Lei annuì.
“Era una sensazione così spiacevole” le spiegai. “Sentirmi come se non contasse, era orribile, perché era una parte di me che veniva cancellata da quello che ne pensavano gli altri, capisci che intendo?”
Annuì di nuovo.
“Dormire sul tuo divano mi riporta indietro a quei giorni. Sapere che adesso dividi il tuo letto con un uomo, e che lui mi permette di dormire da voi come se non mi vedesse neanche come una specie di minaccia per voi, mi fa sentire come se avessi la testa sotto le coperte e quello che faccio non contasse.”
“Non capisco.”
“Ero tua moglie. Credi che, se fossi stata un uomo, lui mi avrebbe lasciato dormire sul vostro divano così facilmente?”
“Sai che non è questo il motivo. Si fida di me, si fida di te, sa che non potremmo mai fare niente del genere.”
“Ma io lo farei” le spiegai, cercando di non suonare troppo affrettata. “In mezzo secondo, se mi si presentasse l'occasione. Senti, tu sei andata avanti con la tua vita, hai trovato qualcuno, sei felice ed io non potrei chiedere niente di meglio” presi le sue mani tra le mie. “Eccetto, essere la causa di questa tua felicità. Io non sono andata avanti, e va bene così. Ma non posso più sentirmi come se quello che penso e faccio non contasse. Sono troppo grande per nascondere la testa sotto le coperte e fingere che i miei pensieri non contino.”

(Agosto 2039)
“Sofia è bellissima. Non credi?”
I miei occhi non la lasciarono neanche per mezzo secondo.
“Sì. Lo è. È bellissima” confermai vedendola finire di sistemarsi il velo.
“Sono così felice che si stia sposando.”
“Lo sono anch'io.”
Il suo vestito bianco aveva riportato alla mia memoria dei ricordi che pensavo di aver perso per sempre. Delle sensazioni, che pensavo non avrebbero più potuto perseguitarmi ormai da molto tempo. Invece era tutto ancora lì, pronto a cogliermi alle spalle al segno della mia prima debolezza.
“Sono felice che abbia voluto indossare il mio vestito da sposa” mi sussurrò con il sorriso sulle labbra.
Quando si era sposata con George, in una cappella consacrata ad Elvis, indossava un vestito da sera che aveva comprato a Las Vegas, azzurro chiaro. La sua corrente relazione era stata ufficializzata in comune, e l'unica cosa bianca che aveva addosso era il suo sorriso perfetto. Il vestito che aveva dato a Sofia, quello era il vestito con cui aveva sposato me.
“Le sta molto bene” sussurrai con il cuore in gola. Era così simile a sua madre che avrei voluto piangere.
“Posso avere un minuto per parlare con papà da sola?” ci chiese ad alta voce.
Noi annuimmo, uscendo silenziosamente dalla stanza.
“Pensi che sarà felice?” mi chiese gettando un'occhiata all'interno della cappella.
Pensai allo sguardo che aveva negli occhi quando guardava la persona che stava per sposare.
“Non lo so” sussurrai. Perché quel suo sguardo mi ricordava terribilmente il mio. “Ma sono dannatamente sicura che si ameranno per sempre.”
“Siamo pronti per iniziare” ci avvertì l'organizzatrice.
“Chiamo Sofia” mi offrii.
Bussai, aprendo la porta piano.
“No. Non lo capisco. È assurdo Sofia, ho aspettato questo giorno da quando sei nata, e adesso mi dici che non è quello che vuoi? A due minuti dall'inizio della cerimonia?”
“Mi dispiace, papà. Ma vorrei che rispettassi la mia decisione.”
“Sofia, Mark” attirai la loro attenzione. “Stiamo per iniziare.”
Mark mi guardò, poi spostò la direzione dei suoi occhi su nostra figlia e infine di nuovo su di me.
“Non vi capisco, Sofia, né tua madre né te. Non importa quante volte continui a deludervi, terrà sempre il vostro cuore più di chiunque altro al mondo. Amerete sempre lei più di chiunque altro al mondo” sussurrò. “Fai quello che davvero desideri. Tutto quello che voglio è la tua felicità.”
Mi superò, uscendo dalla stanza.
Corrugai la fronte. “Di che stava parlando?” chiesi, sconcertata.
Sofia scosse appena la testa.
“Gli ho detto che preferirei che fossi tu ad accompagnarmi all'altare.”
Sentii il cuore contorcermisi nel petto.

(Dicembre 2027)
“Hai mai pensato di tornare indietro? Dico, prima che mi presentassi alla tua porta.”
“Ogni giorno della mia vita, Sofia. Ed un paio di volte l'ho anche fatto” le confessai.
Lei mi guardò, distogliendo lo sguardo dal finestrino dell'aereo. La stavo riaccompagnando a casa, in fondo era un'adolescente che si era data alla macchia. Come adulta responsabile, era mio compito riaccompagnarla a casa sana e salva.
“Sono venuta a Seattle ed ho aspettato fuori dalla tua scuola mentre uscivi solo per vedere con i miei occhi che stavi bene. Chiamo Teddy quasi tutte le sere, per chiederle se ti ha visto e come te la cavi. E se per più di tre sere mi dice che non ti ha incontrato, la obbligo a venirvi a trovare per farmi raccontare quanto in fretta stai crescendo. So che suona patetico e un po' da stalker, ma non potevo allontanarmi più di così.”
Lei appoggiò una mano sulla mia.
“Ti ringrazio. Per esserti voluta assicurare che stessi bene.”
“Ti ho visto ballare. Quando avete fatto quella recita a scuola in quinta elementare. Mark mi ha spedito il video per email.”
“Davvero?”
Annuii. “E ho costretto Teddy ha riprenderti mentre stavi cantando al secondo anno di liceo.
Quando l'anno scorso mi ha detto che sareste venuti a New York per le nazionali del campionato di cheerleader sono venuta a vedervi esibire. Ma eravamo migliaia di persone, quindi è comprensibile che tu non mi abbia visto.”
I suoi occhi si velarono di lacrime.
“Ti voglio bene, Sofia. Mi dispiace che mi ci siano voluti tutti questi anni per riuscire a dirtelo. Per essere la persona che ti meriti di avere come madre. Ma più il tempo passava, più tornare indietro sembrava difficile. Era come se la porta che avevo varcato si fosse lentamente chiusa sempre di più alle mie spalle.”
“Beh, la porta è aperta adesso. Hai tutto il tempo per recuperare.”

(Giugno 2028)
“Andiamo. Ti porto a casa.”
“Sto bene. Voglio rimanere.”
“Vuoi rimanere a bere finché non ti farai venire un buco nel fegato? Già, beh, un peccato che non ti lascerò in pace finché non sarai al sicuro a casa tua.”
“Vattene via, Callie.”
“No.”
“Senti, non sono affari tuoi. Vattene e basta, ok? Lasciami sola.”
“Arizona, ti stai comportando da bambina.”
“E tu ti stai comportando come mia madre. Lasciami fare cosa cavolo mi pare e fatti i tuoi maledetti affari.”
“Joe, giuro sulla mia stessa vita che se le dai anche solo un altro drink...”
“Adesso vuoi impedire alle persone di fare il loro lavoro?” le chiesi, esterrefatta. “Questo è molto maturo da parte tua.”
Mi alzai, pagando il conto ed uscendo dal bar.
Neanche due passi e mezzo dopo, sentii la porta aprirsi di nuovo dietro di me.
“E per la cronaca, sì che sono affari miei. La madre di mia figlia che si ubriaca tre volte nella stessa settimana, sono affari miei.”
“No, invece.”
“Sì, invece. Sono affari miei, anche se abbiamo divorziato.”
Mi girai di scatto, urlandole addosso le parole che mi stavano affondando ogni istante di più con il loro peso insostenibile.
“Hanno smesso di essere affari tuoi quando hai deciso di sistemarti con Mark.”
Si immobilizzò.
“Di tutte le persone al mondo, tu hai dovuto scegliere lui.”
“Lui era...” lì.
Già. Quella frase suonava familiare.
“Non dirlo. Ti prego non dirlo nemmeno” mi coprii il viso con le mani. “Tutte le altre volte era vero. Ma non stavolta, Callie. Non stavolta, perché quando è iniziata io ero ancora qui. Al tempo in cui frequentavi lui ed Addison, io ero qui a guardare il mio mondo cadere a pezzi. Io ero qui. Tu hai scelto lui.”
Premetti le dita contro le mie tempie.
“Non berrò più, se questo è il problema. Non è che mi aiutasse in ogni caso. Niente mi aiuta davvero.”
Mi voltai, andandomene via.
Ripensai a quella frase che avevo detto anni ed anni prima alla nostra psicologa, pensando che sembrava più vera che mai.
Il mio cuore mi riporta sempre indietro verso Calliope, qualsiasi cosa accada.

(Agosto 2039)
“Sei sicura? Non è troppo tardi se vuoi chiamare tuo padre. Sono sicura che c'è rimasto male, Sofia.”
“Lo so” alzò gli occhi al cielo, non cercando nemmeno di nascondere la sua irritazione. “Non ha fatto altro che dirmi quanto c'è rimasto male da quando gli ho detto quello che avevo deciso.”
“Tesoro, sai che questa cosa mi rende davvero, davvero felice, ma posso sapere perché questa scelta?”
Scrollò le spalle.
“Tu non volevi figli.”
“Scusami?”
“L'ho letto nel tuo fascicolo, quando avevo diciotto anni. Certo, avevi già cambiato idea, ma avresti comunque potuto andartene. Però sei rimasta, anche se significava dover avere una figlia con un uomo che non ti stava simpatico già da tempo prima.”
“Sofia, tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata.”
“Lo so. E sai perché lo so? Perché me lo ripeti tutto il tempo. Io so quanto bene mi vuoi. Eppure non eri obbligata. Hai scelto di rimanere quando hai sentito il battito del mio cuore.”
Era la verità. Raccontare quello alla psicologa era stato davvero difficile, ma volevo farlo. Volevo che mi dicesse che il fatto che avevo amato mia figlia solo dal battito del suo piccolo cuore era normale.
“Che hai pensato quando lo hai sentito?”
Io sorrisi quando me ne ricordai.
“Ho pensato ai tuoi primi passi. Ho pensato alla prima parola che avresti detto. Alla tua prima lezione di danza, o di canto, o di calcio. Ho pensato al tuo primo giorno di asilo, di elementari, di liceo e di college. Al tuo primo Natale. E a questo. Al tuo matrimonio. Ho pensato che avrei voluto essere lì per le cose importanti della tua vita e per quelle più piccole, per farti ridere quando ti senti triste e per proteggerti se un giorno non avessi più la forza di farlo da sola.”
“Ecco perché” rispose semplicemente. “Mamma ha pensato di abortire” feci una smorfia alle sue parole. Dannato fascicolo. “Ma non l'ha fatto, perché già mi amava. Lei voleva un bambino. Mio padre voleva un bambino. Tu non volevi un bambino. Tu volevi me.”
“Tua madre ti ama esattamente quanto me, Sofia. E anche tuo padre.”
“Lo so. Ma loro non mi hanno scelto. Loro mi hanno avuto. Tu, invece, tu mi hai scelto.”

(Gennaio 2005)
“Ciao.”
“Ciao.”
Esitai mentre la porta si chiudeva lentamente alle mie spalle.
“Ortopedia, giusto?”
“Sì. Giusto.”
“Sono Arizona Robbins. Chirurgia pediatrica.”
La prima volta che vidi i suoi occhi da così vicino, erano pieni di lacrime.
“Ti ho vista, in ospedale. Le persone parlano un sacco lì. E per amor di onestà credo di doverti dire che so delle cose di te. Perché le persone parlano” risi nervosamente. “Sembri triste. E volevo solo che sapessi che quando non sarai più triste ci saranno delle persone a fare la fila per te.”
“Vuoi farmi qualche nome?” chiese dopo essere scoppiata a ridere.
La guardai per un istante, prima di mandare al diavolo la ragione ed avvicinarmi per baciarla piano, quasi come se avessi paura di svegliarla.
Fu in quel preciso momento che capii che tutto ciò che volevo era che nei suoi occhi non ci fossero mai lacrime che avevo causato io.
“Penso che lo saprai.”
Purtroppo, le cose non vanno mai come vorresti.

(Agosto 2039)
Sorseggiavo lentamente il mio champagne, rimanendomene in disparte. Non ero molto dell'umore per la compagnia.
La guardavo ballare insieme a Mark e nonostante l'avessi accompagnata io all'altare, non potevo evitare la scintilla di gelosia che mi attanagliava lo stomaco. Era lui ad avere il ballo padre-figlia insieme a lei.
“Sembra felice” sospirò sedendomisi accanto.
“Penso che lo sia. Ricordo che io lo ero” ricordai con un sorriso, senza distogliere lo sguardo dalla sua figura.
Mi persi ancora una volta nei miei pensieri su tutto quello che la mia bambina era diventata nel corso degli anni, su quanto era cresciuta, finché un giorno non era più una bambina sotto nessun punto di vista tranne il mio.
“Dove abbiamo sbagliato?”
“Da nessuna parte. Sofia è assolutamente perfetta” risposi con decisione.
“Parlavo di noi.”
Spostai lo sguardo verso di lei.
“Calliope.”
“Lo amo. Davvero. Ma non capisco perché non riesco ad essere innamorata di lui.”
“Ed io non capisco perché non riesco a non essere innamorata di te. Succede e basta. Non scegliamo mai la persona di cui ci innamoriamo.”
“Perché non possiamo solo essere noi di nuovo?”
Scrollai le spalle.
“Forse perché è passato troppo tempo. Forse perché ne è passato troppo poco e venticinque anni non mi sono bastati per dimenticarmi quanto ti amo. Forse perché ci abbiamo provato troppo o forse non ci abbiamo provato abbastanza. Forse abbiamo buttato le occasioni che abbiamo avuto, o forse non abbiamo mai avuto un'occasione che funzionasse davvero” era una lunghissima lista di contraddizioni. “Forse ci amavamo troppo. O, forse, ci amavamo davvero, davvero, davvero troppo.”
“Forse è stato meglio così. Giusto?” chiese, anche se palesemente non era quello che stava pensando.
Tornai a guardare nostra figlia ballare.
“Pensi che un mondo dove non piovono marshmallow sia migliore?” le chiesi facendo finta di ponderare davvero la situazione.
Lei rise piano, ma non rispose.
“Io credo di no. Credo che sia un mondo triste e patetico. È un mondo dove esistono cose
impossibili, che non posso accadere, punto e basta. Non c'è niente di migliore in questo, rispetto a un mondo ideale dove i giorni di sole sono quasi peggiori dei giorni di pioggia, perché, voglio dire, quando piove, piovono marshmallow. Come si può battere qualcosa del genere? Questa vita, questo mondo, non sono migliori di un posto dove tutto è possibile. Anzi, se va detta tutta la verità, questo mondo fa schifo. L'unica cosa che vale lo sforzo immane che faccio per respirare ogni giorno è Sofia” mi voltai per guardarla negli occhi. “E l'amore che ho per te.”
Stava per rispondermi, quando una voce dolce la anticipò.
“Mamma, credi che potrei avere anche un ballo insieme a te?” tese la mano verso Calliope.
“Certo, mija” rispose alzandosi.
Il suo sorriso era così luminoso che rischiò di abbagliarci.
“Inizia a fare stretching” mi avvertì. “Dopo è il tuo turno.”
Ricambiai il suo sorriso, annuendo appena.
Calliope mi guardò, facendomi capire che quella conversazione non era finita.
Quando fu il mio turno di ballare con mia figlia, cercai di non ripensare a quando avevo ballato con sua madre mentre indossava quello stesso vestito. Di quanto l'avevo amata allora. Di come adesso non l'amavo neanche il minimo di meno.
Quando la canzone terminò sentii una mano posarsi leggera sulla mia spalla.
“Posso avere questo ballo?” domandò Calliope, tendendo una mano nella mia direzione.
Io le sorrisi. “Con molto piacere. Credo che nostra figlia sia attesa da qualcuno in ogni caso per il prossimo ballo” le rivolsi un sorriso complice, lasciando poi che Calliope mi trascinasse a qualche metro, appoggiando le mani sui miei fianchi mentre io le circondavo il collo con le braccia.
Quando riconobbi la canzone sentii una fitta al cuore. Lei si avvicinò ancora di più, appoggiando la guancia vicino alla mia tempia.
“Questa canzone mi ricorda così tanto di te” le dissi in un sussurro mozzato.
The first time ever I saw your face, I thought the sun rose in your eyes.
“Continua a cogliermi di sorpresa il modo in cui ti amo. Vuoi sapere una cosa divertente? Ha smesso di cogliere di sorpresa Mark molto, molto tempo fa.”
And the first time ever I kissed your mouth, I felt the earth move in my hands.
“Vorrei poter tornare indietro e fare tutto in modo diverso” fu la mia unica risposta. “Vorrei poter chiudere gli occhi e svegliarmi nel 2005 e poter rifare tutto da capo, anche se il risultato fosse lo stesso, solo per rivivere ancora una volta quei momenti insieme a te.”
And the first time ever I lay with you, I felt your heart so close to mine. And I knew our joy would fill the earth, and last till the end of time.
“E poter avere quei dieci figli e vivere insieme in quella casa che non è mai stata completa senza di te” sussurrò “e invecchiare insieme su quel dondolo che ho fatto mettere sul portico. Mano nella mano.”
“Mano nella mano.”

(Dicembre 2061)
Camminavo molto più lentamente di un tempo.
Ma camminavo ancora, non di meno.
Natale era una festa grande ogni anno, ma quel Natale in particolare fu bellissimo. Avevamo pranzato tutti insieme a casa di Callie, c'era Sofia con i suoi due figli, Teddy ed Henry, loro figlio con la moglie, la Bailey e Eli con Tucker Junior e la sua compagna, c'era perfino Addison. Era stato un bel giorno di Natale.
Uscii dalla casa, andando a sedermi sul dondolo sotto il portico.
Immediatamente ricordai ciò che un tempo aveva significato, nei giorni in cui mi illudevo ancora di avere molto tempo. Adesso avevo molti più 'ieri' che 'domani'.
Sentii il dondolo spostarsi sotto il peso di qualcun altro che si sedeva accanto a me.
“Troppa confusione, lì dentro, non è vero?”
“Già. I ragazzi fanno rumore” scherzai.
“Mark e Henry si sono messi di nuovo a discutere su quella partita di baseball che abbiamo giocato con il Seattle Grace quando Owen era primario. Ti ricordi?”
“Mi ricordo. Un certo esterno in movimento mi aveva distratto mentre cercavo di concentrarmi sulla partita.”
Con il tempo quella sensazione di panico era diminuita.
Adesso riuscivamo a parlare del nostro passato con quella pacata rassegnazione di due persone che sanno di non avere più altre occasioni.
“Ricordo che eri sexy. Il softball ti donava” rispose.
Chiusi gli occhi mentre un sorriso si formava sulle mie labbra.
“Lui si starà chiedendo che fine hai fatto.”
Lei scrollò le spalle, appoggiando una mano sulla mia.
Io sorrisi.
Dopo qualche momento la sentii ridere piano.
“Che c'è?”
“Guardaci, sedute qui su un dondolo, sotto il portico. Sembra che alla fine siamo davvero invecchiate insieme” appoggiò la testa sulla mia spalla, ridendo piano e rafforzando la presa sulla mia mano.
“Sai che non lo intendevo proprio così” le ricordai con un sorriso. “Ma va bene lo stesso” sussurrai appoggiando delicatamente la testa sulla sua e chiudendo gli occhi. “Ve bene lo stesso.”





Ok, questa settimana voglio proporvi un'idea, ditemi che ne pensate. Potrei scrivere una shot “su richiesta”...Mi spiego meglio. Se vi va potete mandarmi una situazione in cui vi piacerebbe vedere Callie e Arizona in una delle storie ed io sceglierò la più bella e proverò a cercare di accontentare una richiesta...(specifico che non è per mancanza di fantasia, perché ne ho già scritte molte altre e non sono assolutamente alle strette, ma mi sembrava un modo carino di ringraziare tutte voi che leggete le mie storie). Fatemi sapere che ne pensate! =)

Grazie mille a tutte voi lettrici, il mio amore va a chi di voi vorrà recensire! =)

Alla prossima!


Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** La prima città che abbiamo visitato insieme ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete fantastici! <3

Avvertimenti: very AU. OOC. Characters death (morte di personaggi principali. Vengono trattati temi forti, come omicidio e aggressione, non leggete se questi temi possono disturbarvi.)


Confesso che dopo aver visto questo banner ho giurato amore eterno a Trixie. Purtroppo lei non ricambia...ma tranquille, ha spezzato il mio cuore molto delicatamente!

Image and video hosting by TinyPic



La prima città che abbiamo visitato insieme


~ Hello there, the angel from my nightmare. The shadow in the background of the muorge. The unsuspecting victim of the darkness in the valley. ~

Uscii di casa fischiettando.
Era una bella giornata, la prima giornata di sole dalla fine dell'estate precedente. E pensare che era Marzo, quindi ne era passato di tempo.
Ma per Londra la pioggia non era una novità.
Scesi le scale con calma, sapendo di avere tutto il tempo del mondo.
Incrociai una delle inquiline del sesto piano all'ingresso, salutandola con un sorriso e un cenno della testa.
“Signora Leroy, è un piacere vederla. Sta salendo o scende adesso?”
Lei fu felicissima di una scusa qualsiasi per parlare con qualcuno e così mi trattenne per due chiacchiere sulle rumorose attività notturne dei due ragazzi del quarto piano. Io mi limitai a dirle che non ci avevo fatto caso, ascoltando però le sue lamentele e annuendo di tanto in tanto per farle sapere che aveva ancora la mia attenzione.
Era una vecchietta un tantino ficcanaso e a volte parecchio noiosa, ma in fondo era buona con tutti ed era molto gentile. Perfino quando ancora non sapeva neanche il mio nome, mi aveva sempre trattato bene.
Quando entrò un'altra delle donne che abitavano nel palazzo, si scusò per andarle a parlare di qualcos'altro.
Io sorrisi a me stessa della frivolezza di quella donna, decidendo che era il caso di andar via se volevo portare a termine le commissioni della giornata.
Ero stata a Londra per tre mesi, a causa di un impegno di lavoro. Il mio datore di lavoro aveva provveduto a pagare per l'affitto di quell'appartamento e ad un pagamento per i miei servizi che avveniva tutti i mesi e che prevedeva una liquidazione finale.
La signora Leroy non riusciva mai a ricordarsi quale era il mio lavoro.
Ogni volta dovevo mettermi a rispiegarle, con pazienza, che lavoravo nel campo della progettazione informatica. E a quel punto dovevo spiegarle cosa era la progettazione e cosa era l'informatica, dicendole in cosa consisteva il mio lavoro e che attualmente stavo lavorando per una banca di Londra ad un programma di sicurezza per i loro dati registrati su database informatico. Erano molti dati, ecco perché ero dovuta rimanere tutto quel tempo.
Ma era uno sforzo inutile, sembrava proprio non riuscire ad entrarle in testa.
Non mi dispiaceva rispiegarglielo, però.
Avevo molto tempo libero.
Uscii all'aperto, indossando i miei occhiali da sole e aprendo la macchina con il comando centralizzato.
Mi piaceva guidare per Londra. Era una città in cui il poco traffico che c'era non sembrava pesare agli abitanti. Era raro sentire un clacson suonare o qualcuno urlare. Mi piaceva come città. Avrei anche potuto viverci per il resto della mia vita.
Parcheggiai davanti ad un bar, uscendo dalla macchina e iniziando a camminare verso l'edificio in fondo alla via.
Era un palazzo composto da otto piani, il colore all'esterno era uno strano bianco sporco, tendente al giallo. Ero fuori dal centro della città, era un quartiere residenziale. Non era particolarmente trafficato.
Un posto tranquillo, con un vicinato tranquillo.
Il posto ideale in cui sarei voluta andare a vivere io. Mi piaceva proprio quella città.
Quando arrivai davanti al palazzo giusto, mi appoggiai con le spalle al muro a destra della porta d'ingresso.
Improvvisamente, il cielo aveva iniziato ad oscurarsi. Respirai e sentii nell'aria l'umidità crescente, capendo immediatamente che da lì a poco sarebbe iniziato a piovere. Ed io avevo lasciato l'ombrello in macchina.
Sospirai, tirando fuori un paio di guanti neri e indossandoli.
Finalmente, dopo circa una decina di minuti, qualcuno uscì dal palazzo. Io guardai la donna dai capelli biondi allontanarsi con la coda dell'occhio.
Quando fui sicura che non mi avrebbe notato, afferrai la maniglia della porta giusto un attimo prima che si richiudesse, entrando all'interno dell'edificio. Mi avvicinai immediatamente all'ascensore, seguendo la strada che avevo imparato a memoria, senza neanche un'incertezza. Premetti il bottone ed attesi.
Non avevo fretta, in fondo.
Dentro l'ascensore c'era una musichetta tranquillizzante, di quelle tipiche da ascensori o da ristorante cinese. La dolce melodia mi entrò subito in testa. Era orecchiabile. Iniziai a fischiettarla senza rendermene conto.
Arrivata al quinto piano uscii, percorrendo il corridoio fino all'ultimo appartamento.
Eccolo lì, appartamento 507.
Volevo sbrigarmi a fare quella maledetta commissione di lavoro. Avevo programmato un pomeriggio intenso di shopping dall'altra parte della città e dovevo sbrigarmi se volevo avere una speranza di trovare posto nel mio ristorante preferito.
Bussai alla porta, mentre mi toglievo gli occhiali da sole e me li sistemavo appesi al collo della maglietta.
“Sì?” venne la risposta dall'interno.
“Salve, stavo cercando il signor Grant. È a casa?”
“Chi lo cerca?”
“Devo fare una consegna. Ho bisogno solo di una sua firma. Se è in casa da solo e si sente più a suo agio, posso far passare il modulo sotto la porta e una volta firmato può aprire per prendere il pacco, ma devo assicurarmi che lei lo riceva.”
“Non può lasciarlo fuori dalla porta?”
“Mi dispiace, signore. È il mio lavoro.”
“Capisco perfettamente. Solo un secondo.”
Qualche istante dopo, dopo aver sentito scattare diversi lucchetti, la porta si aprì.
Era più giovane di quello che mi aspettavo. Vent'anni, nel fiore della sua età. Era di bell'aspetto, dai tratti delicati, ma il viso era trascurato, la barba lasciata crescere. Eppure, aveva l'aria di un bambino che si era perso per sbaglio nel mondo degli adulti. Qualcuno doveva prenderlo per mano e mostrargli la strada di casa.
“Dove devo firmare?” chiese, un po' nervosamente.
Io gli sorrisi.
“Un secondo, ho una penna.”
Infilai la mano destra nella tasca interna del giacchetto che stavo indossando.
Lui si guardò alle spalle, ignorando il fatto che non avevo in mano un modulo né dei fogli da fargli firmare. Si voltò di nuovo nella mia direzione mentre io estraevo la mano destra dal giacchetto e gli sparavo in mezzo alla fronte.
Cadde immediatamente all'indietro. Io lo afferrai al volo, attenta a non macchiarmi i vestiti, appoggiandolo sul pavimento delicatamente, evitando di far insospettire gli inquilini al piano inferiore.
“Dio benedica i silenziatori” sussurrai, chiudendogli le palpebre e dando un'occhiata veloce all'appartamento.
Sembrava tutto vuoto.
Gettai un ultimo sguardo al corpo senza vita ai miei piedi, poi uscii, richiudendomi silenziosamente la porta alle spalle.
Sarebbero passati giorni, prima che qualcuno trovasse il suo corpo.
Per allora, io sarei stata in un altro continente.
Risistemai la pistola dentro la tasca interna della giacca e salii in ascensore.
Una volta fuori dall'edificio, mi accorsi che era di nuovo uscito il sole. Iniziai a passeggiare verso il punto in cui avevo lasciato l'auto, togliendomi i guanti. Mi rimisi gli occhiali da sole, felice che il sole fosse tornato per illuminare e riscaldare il lungo pomeriggio di compere che mi attendeva.
Involontariamente, mi trovai a fischiettare la musichetta che pochi minuti prima avevo ascoltato in ascensore.
Mi era davvero entrata in testa.
Continuai a camminare verso la macchina, giocherellando con le chiavi che avevo in mano.
Per essere pieno giorno, la strada era relativamente silenziosa.
Amavo profondamente quella città.

“Risponda solo sì o no alle domande che le farò. Conosce il funzionamento della macchina a cui è attaccata?”
“Sì.”
“È una macchina della verità basata sul battito cardiaco e gli impulsi nervosi.”
“Ok.”
“Risponda solo sì o no, per favore. Inizierò con alcune domande che registreranno i suoi dati quando dice la verità e poi passerò a farle alcune domande riguardanti il suo caso. La macchina sarà in grado di dirci se sta mentendo. È pronta?”
“Sì.”
“Benissimo. Iniziamo dai dati anagrafici.”


New York non era paragonabile a Londra.
Era caotica. Troppo frenetica, per i miei gusti.
Ma ero stata in posti peggiori.
Il lavoro come free lance informatico mi piaceva. Potevo cambiare città ogni volta che volevo senza avere problemi nel trovare un lavoro quasi immediatamente.
E anche se non trovavo lavoro, non era un problema. Avevo i risparmi di una vita per mantenermi tutto il tempo che avessi voluto passare senza far niente.
C'era un bar di New York che mi piaceva particolarmente. Ci andavo ogni mattina che passavo in città. Mi lamentavo tanto del caos di quella città, ma in realtà era una delle mie preferite al mondo, una di quelle in cui andavo più spesso.
Certo, non l'amavo quanto Londra, ma non era tutti i giorni che potevo concedermi un viaggetto oltreoceano.
Insomma, andavo in questo bar e mi sedevo ad uno dei tavoli all'aperto, con gli occhiali da sole anche in pieno inverno e osservavo i passanti, cercando di indovinare chi fossero, dove fossero diretti, cosa facessero nella vita.
Due uomini ad uno dei tavoli avevano attirato la mia attenzione. Non sembravano lì per caso, e più di una volta avevo notato uno dei due lanciare occhiate nella mia direzione. Ma alzarmi e iniziare a correre, probabilmente, non sarebbe stato il modo migliore per non attirare attenzione.
Rimasi lì a sorseggiare il mio cappuccino finché la sveglia che avevo impostato sul cellulare iniziò a squillare. Dopo aver premuto il pulsante per spegnerla, mi portai il cellulare vicino all'orecchio, assicurandomi di parlare a voce abbastanza alta, ma non talmente alta da destare sospetti.
“Ehi, sono in ritardo. Mi sono fermata per un caffè. Sto arrivando, sarò lì tra una decina di minuti, ok? Ciao.”
Finsi di chiudere una conversazione mai iniziata e poi mi alzai, afferrando il mio giacchetto ed andandomene.
I due uomini si alzarono immediatamente.
Svoltai il primo angolo e appoggiai le spalle contro il muro, sparendo tra l'ingresso di un palazzo e un piccolo albero. Pochi secondi dopo anche i due uomini entrarono nella via, proseguendo a dritto, guardandosi intorno.
Dilettanti.
Io tornai sui miei passi, cambiando totalmente direzione. Non potevo preoccuparmi di loro, avevo da fare. La sveglia che era appena suonata sul mio telefono significava che era ora di smettere di perdere tempo in giro e iniziare.
Passeggiavo, con le mani in tasca, tranquilla come al solito. La presenza dei due uomini, non mi aveva turbato.
Cosa mai avrebbero potuto fare? La cosa peggiore che potevano fare era uccidermi.
Sorrisi al pensiero, iniziando a fischiettare mentre mi avvicinavo all'edificio dove era richiesta la mia presenza, indossando i guanti.
Quando bussai alla sua porta, lei mi osservò per qualche istante dallo spioncino. Il mio sorriso innocente probabilmente la convinse, perché, senza neanche chiedere il mio nome, tolse la catena ed aprì.
“Posso fare qualcosa per lei?”
“Salve. Cercavo la signorina Donovhan.”
“Sono io.”
“Suo fratello mi ha dato questo indirizzo. Ha detto che mi stava aspettando.”
Lo sguardo sulla sua faccia si tranquillizzò.
“Entri pure, agente. Non pensavo si trattasse di una donna.”
Si spostò dalla soglia, facendomi cenno di entrare. Io ricambiai il sorriso, facendomi strada all'interno dell'appartamento.
Era arredato in maniera sofisticata, di certo non quello che mi sarei aspettata da una segretaria, ma dopotutto, il fratello era nei ranghi alti dell'esercito. Doveva aver pur fatto qualcosa con tutti quei soldi. E quale uso migliore, se non quello di viziare la sorellina?
“Allora, cosa le ha raccontato esattamente suo fratello?”
“Niente di particolare. Che è successo qualcosa, laggiù. Qualcosa di grosso. Che avrebbe mandato qualcuno per farmi portare al sicuro.”
Annuii, esaminando la superficie perfettamente pulita del tavolo.
“Lei è affetta da un OCD, non è vero?” chiesi sommessamente.
“Mi scusi?”
“Per via dell'incredibile pulizia di questo posto, dell'ordine, della simmetria. Ci sono due lampade ai lati opposti della stanza” indicai le due pareti. “Due divani posti di rimpetto, con al centro un tappeto, su cui è raffigurato un disegno a tratti lineari simmetrici, non una figura semplice. I quadri sono sistemati a coppie poste di rimpetto, due sono di argomento religioso, altri due sono paesaggi e gli ultimi due sono ritratti. Quando siamo entrate la prima cosa che ha fatto è stato sistemare l'angolo semi avvolto del tappeto e poi ha risistemato uno dei cuscini in modo che fosse perfettamente dritto, anche se il disordine della casa non dovrebbe essere un problema visto che sono qui per portarla via.”
Feci una pausa. Lei non rispose.
“Inoltre, i numeri sulla porta di ingresso sono incredibilmente puliti per un appartamento così vecchio, perfino negli angoletti del numero '7'. Sembra che qualcuno li abbia lucidati usando uno spazzolino da denti. E il non riuscire a confrontare uno sconosciuto con la porta chiusa può voler dire che ha problemi a relazionarsi con persone...”
“D'accordo” mi fermò. “Comprendo che il mio disturbo è evidente ai suoi occhi.”
“Mi dispiace” mi scusai. “Non volevo metterla a disagio. Sono abituata a fare questo tipo di osservazioni, nel mio lavoro.”
“Capisco. Fare il suo lavoro deve essere difficile.”
Le rivolsi un mezzo sorriso.
“Dobbiamo sbrigarci. C'erano due uomini che mi seguivano mentre stavo venendo qui.”
“Due uomini? L'hanno seguita fino a qui?” chiese spaventata.
“Oh, no, non si preoccupi” la tranquillizzai. “Li ho depistati. Non sanno ancora dove è il suo appartamento.”
Lei annuì, andando verso la camera da letto. Ma, una volta sulla porta, si bloccò.
“Chi pensa che fossero questi due uomini?” chiese, voltandosi lentamente.
Io le rivolsi un piccolo sorriso, guardandola con le mani nelle tasche dei pantaloni.
“Gli agenti dell'FBI che dovevano venire a prenderla” le spiegai brevemente.
Fece un passo indietro.
“Se suo fratello si fosse degnato di spiegarle che non possono venire a prenderla prima di essersi accertati che qualcuno la sta davvero cercando, avrebbe saputo che gli agenti non sarebbero stati qui prima di tre giorni.”
I suoi occhi erano pieni di terrore.
Mi piaceva quella sensazione. Mi piaceva perché era quello che doveva aver provato lei a suo tempo. Mi piaceva che la provassero anche loro.
“Ma allora lei chi è?”
Avanzai lentamente nella sua direzione.
Era letteralmente paralizzata dalla paura.
“Io sono la persona che la stava cercando, signorina Donovhan.”
Estrassi lentamente la pistola dal posto che aveva dentro il mio giacchetto e la puntai contro la sua testa.
“La prego, non lo faccia. Non ho fatto niente di male, non ho fatto niente. La prego, la supplico, non mi uccida.”
“Avrei voluto prendermi il mio tempo. Spiegarle perché sta morendo. Spiegarle chi è davvero suo fratello. Ma come ho detto, dobbiamo sbrigarci. L'FBI troverà il suo cadavere tra tre giorni. Per allora, io devo aver lasciato lo stato. È un vero peccato. Avrei voluto che almeno uno di voi sapesse, prima di morire” confessai, caricando il colpo. “Oh, beh, sarà per il prossimo.”
“No, per favore. Se è per qualcosa che ha fatto mio fratello se la prenda con lui, la imploro. La prego, la prego non mi uccida” iniziò a piangere sommessamente.
Me la sarei presa volentieri con suo fratello, in effetti. Ma i quattro bastardi erano spariti dalla faccia della terra.
Feci un altro passo verso di lei.
Cadde in ginocchio a due passi da me, continuando a piangere.
“La prego, la prego” continuò a ripetere come un mantra.
Sentii un nodo in gola.
Potevo risparmiare quella donna. Se volevo, potevo andarmene da lì in quel preciso momento e lasciarla vivere.
Ma poi un flash. Un'immagine complessiva di quelle infinite fotografie apparve ancora vividissima nella mia memoria.
Aveva implorato anche lei? Anche lei aveva pregato per una libertà che non era mai arrivata? Anche le sue suppliche erano state vane?
Quello che stavo facendo mi si abbatté addosso come una scarica da un milione di volt.
Io non ero migliore di loro.
Abbassai il braccio destro finché fu disteso lungo il mio fianco, immobile.
Dicono che in ognuno di noi ci sono due parti. Una buona, l'altra cattiva. Quale di queste due indoli prende il sopravvento, è poco più che un caso. Basta qualcosa di piccolo, minuscolo, per farci cadere da una parte o dall'altra. L'equilibrio è molto precario. Ma alla fine dei conti, è quello che ci è stato fatto che stabilisce il tipo di persona che diventiamo.
Io non ero una persona cattiva.
Un tempo, ero stata una persona buona. Ed avevo sempre avuto un carattere gentile.
Però, mi era stato fatto qualcosa.
Personalmente, credo che chiunque sarebbe in grado di fare qualunque cosa, se messo in determinate condizioni, anche le cose più tremende, che non pensava sarebbe mai stato capace di fare.
Alzai la pistola e la uccisi.

“Il suo nome è Arizona Robbins?”
“Sì.”
“La sua data di nascita è il 9 Agosto del 1979?”
“Sì.”
“Il nome di suo padre è Daniel Robbins. Conferma?”
“Sì.”
“Quello di sua madre Barbara Robbins.”
“Sì.”
“Ha un fratello.”
“Sì.”
“Il suo nome è Tim Robbins.”
“Sì.”
“Abbiamo abbastanza dati per proseguire. Parliamo del motivo per cui si trova qui oggi. Conosce i suoi capi d'imputazione?”
“Sì.”


Non ero mai stata in Australia.
Ma il clima caldo di Sydney fu un piacevole cambiamento rispetto all'inverno che stavo affrontando a casa.
Era venuto fuori che gli agenti speciali che mi stavano seguendo in realtà non erano affatto agenti speciali, ma due tizi mandati da Jeffry Corchoran per cercarmi.
E non erano nemmeno tanto svegli.
Era stato stupido, in effetti, da parte mia, pensare che l'FBI fosse stata coinvolta.
Tutte le parti in causa volevano che quella questione rimanesse fuori dal radar di azione del Bureau, e per Jeffry era stato facile convincere Donovhan a mentire alla sorella.
Ero stata lì per due settimane, quando decisi che era meglio chiudere quella storia, prima che gli uomini di Corchoran riuscissero a trovarmi di nuovo. Non potevo essere sicura che non avesse mandato un paio di scagnozzi più intelligenti, quella volta.
Quella sarebbe stata la mia ultima sera in città. Decisi di godermela, mi vestii a dovere ed entrai in un bar.
Robert era un dottore di origini Californiane. Tutta via, i numerosi anni che aveva passato lavorando a Sydney, gli avevano causato un buffo accento a metà tra quello americano e quello tipico degli australiani.
Era divertente ascoltarlo parlare.
Ed è quello che feci per quasi mezz'ora dentro quel bar.
Mi piaceva, Robert. Oltre l'accento, anche le sue battute erano divertenti. Era un tipo sicuro di sé al punto giusto, non tanto da essere presuntuoso, ma abbastanza da risultare estremamente affascinante.
Così, quando, dopo a malapena mezz'ora dalla prima volta che i nostri sguardi si erano incrociati, mi propose di seguirlo fuori dal locale, accettai con un sorriso la sua offerta.
Iniziammo a passeggiare al chiaro di luna.
“Fa piuttosto freddo questa sera” mi fece notare con quel suo buffo accento.
Sembrava un ragazzino con ancora qualche difficoltà nel capire come si pronunciavano bene alcune parole. Faceva tenerezza.
“Hai ragione” concordai, abbottonandomi il giacchetto ed indossando dei guanti.
Lui si limitò a sorridermi.
“C'è un albergo, proprio in fondo alla strada. Forse, per evitare che tu prenda freddo, potremmo prendere una stanza.”
Ed ecco che, da sicuro di se stesso, Robert diventava presuntuoso. Ma questo cambiamento non fece vacillare il sorriso sulle mie labbra.
“Credevo onestamente che avresti proposto casa tua.”
Sembrò, per un attimo, essere imbarazzato.
“Al momento, ci sono delle persone a casa mia. Diciamo che me la sono svignata e non ci tengo proprio a tornare lì.”
Lo guardi, perplessa.
“Lascia stare. È una lunga storia.”
Io guardai dentro i suoi occhi scuri come la notte. Robert era un bell'uomo, ma i suoi occhi erano quelli inespressivi di un ragazzo che non ha ancora imparato molto dalla vita.
“Che albergo sia, allora” gli feci cenno di precedermi.
Quando arrivammo davanti alla porta di ingresso, io mi fermai, fingendo di ricordarmi improvvisamente una chiamata che dovevo fare quella sera stessa.
“Mio padre sarà preoccupato. Avevo promesso di chiamare oggi pomeriggio. Facciamo così, prendi una stanza e mandami il numero per messaggio. Ti raggiungo appena ho finito, se per te non è un problema.”
Per un attimo valutò se il mio potesse essere un modo carino per rifiutarlo e darmela a gambe lasciandolo ad aspettarmi tutta la notte in quella stanza.
Poi, decidendo di correre il rischio, mi sorrise e annuì.
Lo guardai entrare, poi aspettai, finché, un paio di minuti dopo, mi arrivò per messaggio il numero della camera. Attesi ancora dieci minuti. Fortunatamente, all'interno dell'hotel sembrava esserci un via vai di gente parecchio vasto. Nessuno avrebbe notato la mia presenza.
L'importante era che Robert non mi registrasse al check-in. E sarebbe stato difficile, visto che di me sapeva solo un nome, per giunta falso.
Salii le scale fino al terzo piano. Nessuno mi aveva visto.
Bussai alla camera. Lui aprì con un sorriso radioso.
“Speravo che non avessi deciso di scappare.”
Gli rivolsi un mezzo sorriso, entrando. Rimasi con le spalle appoggiate alla porta, cercando di distrarlo parlando.
“Allora, chi sono le persone che in questo momento sono a casa tua?” chiesi, mentre lui si metteva seduto sul letto e si allentava la cravatta.
Mi portai una mano dietro la schiena, trovando a tentoni la chiave della porta. Per fortuna, Robert mi aveva incoraggiato ad indossare i miei guanti.
“Come ti ho detto, è una lunga storia.”
“Vuoi che provi ad indovinare?” proposi. “Tre tentativi.”
“Perché invece non vieni a sederti qui, sul letto, accanto a me?”
Io gli rivolsi un sorriso intrigante.
“Numero uno, stai ospitando dei vecchi compagni di college, con cui però non hai più molto in comune.”
Lui rise, accettando finalmente la mia provocazione.
“Fuochino.”
“Numero due, in realtà sei sposato e ci sono i tuoi suoceri a casa tua, che monopolizzano la televisione.”
Lui rise di gusto.
“Acqua. Acqua profonda. Sei del tutto fuori strada.”
“D'accordo” strinsi gli occhi, pensando attentamente, sfiorandomi il mento con una mano e sedendomi sul bordo della scrivania che arredava la piccola stanza, probabilmente la più economica dell'hotel rimasta disponibile. “Ah, ci sono. Tuo fratello ha chiamato l'altro giorno e ha detto che ci sono stati dei problemi. È successo qualcosa. Non ti ha detto cosa, è rimasto sul vago, ma potevi benissimo capire dal suo tono, che è qualcosa di molto serio.”
La sua espressione cambiò lentamente, mentre parlavo, passando da tranquilla a stupita, e infine iniziò ad essere leggermente preoccupato.
“Così ha mandato degli uomini a proteggerti. Uomini armati. A cui però, onestamente, importa poco di proteggere un uomo che non vuole protezione. Così non è stato difficile riuscire a sgattaiolare via. Dimmi, dottor Corchoran, sono vicina al fuoco, adesso?”
Scattò in piedi, correndo verso la porta. Chiusa a chiave. La chiave sparita. Era saldamente nascosta dentro la mia tasca. Ringraziai il fatto che aveva scelto un motel tanto economico da non avere ancora le chiavi ad apertura magnetica.
Si voltò verso di me, vedendomi tenere in mano una pistola con il silenziatore già al proprio posto, gli occhi sgranati. Stava iniziando ad avere paura.
“Siediti, Robert. Facciamo due chiacchiere. Non vuoi sapere cos'è che tuo fratello ti sta nascondendo?”
“No. Voglio solo andarmene via.”
“So che hai paura, ma in realtà non c'è niente di cui avere paura. Personalmente, trovo che la vita faccia molta più paura della morte.”
“Mi ucciderai?” chiese. La voce gli tremò.
“Sì.”
“Chi sei?”
“Tre anni fa, quando tuo fratello era ancora...”
“Chi sei?” chiese a voce più alta.
Lo stava chiedendo, ma non voleva davvero saperlo.
Non provava interesse nel sapere chi fossi.
Non era una storia che voleva sentire.
Non capivo perché avessero tutti così paura. Non volevano prendersi il tempo di sapere per quale motivo stavano morendo? Nessuno di loro sembrava interessato a sapere perché. Volevano solo disperatamente tentare di evitare il loro destino, pur sapendo che non ci sarebbero potuti riuscire in quel modo. Non era un comportamento razionale, il loro.
Ma in fondo, chi ha paura, non è mai razionale.
“Nessuno. Non sono nessuno.”
Rimasi un paio di minuti. I suoi occhi ancora aperti si spensero. Era come se fossero stati ricoperti da un velo. Si erano prosciugati. Avrei potuto avvicinarmi e chiudere le sue palpebre. Ma il sangue che scorreva dalla sua fronte su tutto il suo viso avrebbe sicuramente macchiato i miei guanti, e non avevo intenzione di farmi beccare proprio allora.
Così me ne andai, lasciando la chiave dentro la stanza.
Scesi al piano terra, sorridendo quando realizzai che il guardiano notturno stava dormendo. Era come se non fossi mai stata lì dentro.
Uscii, chiamando un taxi che mi portasse verso l'aeroporto.
Quando arrivai, riconobbi l'elicottero nero anche da una certa distanza.
Salii a bordo, indossando le cuffie per il viaggio.
“Hai registrato il volo?”
“Né l'andata né il ritorno” rispose, preparandosi a decollare.
“Grazie, Teddy.”
Lei mi osservò per un momento. Poi si alzò in volo.
“Non voglio entrare in questa storia. Non sono stupida, so quello che sta succedendo. Ma, tecnicamente, quello che sta succedendo non ha motivo di succedere, quindi se vogliono muovere qualche accusa dovranno venire allo scoperto. E puoi stare tranquilla, non è qualcosa che nessuno di loro ha intenzione di fare. Quindi, come ho detto, io non voglio entrare in questa storia.”
Per qualche attimo lasciai che il solo rumore fosse quello dell'elicottero che si alzava verso il cielo notturno di Sydney.
Quando l'elicottero fu alto sull'oceano, estrassi la pistola. Dei sette colpi presenti originariamente nel caricatore, ne erano rimasti dentro solo quattro. Tolsi il caricatore, facendo cadere i proiettili sul palmo della mia mano. Gettai la pistola e il caricatore, seguito da tre proiettili, nelle profondità dell'oceano sotto di noi, tenendo un solo colpo e riponendolo dentro la tasca interna del giacchetto che indossavo.
Era tutto quello che mi serviva.
Mi era rimasto un solo colpo da sparare, e non avevo intenzione di sprecarlo.
“Non so di cosa stai parlando, Teddy.”
“Esattamente quello che speravo di sentirti dire, Callie.”
“Comunque, ho chiuso questa storia. È finita.”

“Sto per mostrarle tre fotografie. Riconosce la donna delle immagini?”
“Sì.”
“L'ha mai incontrata prima, di persona?”
“Che razza di domanda è questa?”
“Signorina Robbins, risponda solo con un sì o un no.”
“Sì. Certo che l'ho incontrata. E lo sapete benissimo.”
“Signorina Robbins, un sì o un no sono sufficienti. Non c'è bisogno che li argomenti con osservazioni personali del tutto inutili ai fini dell'indagine. Si attenga al protocollo da qui in avanti, ha capito?”
Ci fu una lunga pausa. Infine, la risposta sommessa.
“Sì.”
“Ha mai incontrato questa donna di persona?”
“Sì.”
“Ha mai parlato con questa donna prima di due settimane fa?”
“Sì.”
“Riconosce il luogo delle immagini?”
“Sì.”
“Di tutte e tre?”
“Sì.”
“Questo è il suo appartamento?”
“Sì.”
“Quest'altra invece è stata scattata in uno dei parchi di Seattle.”
“Sì.”
“E anche quest'ultima è stata fatta a Seattle.”
Prese la fotografia delicatamente tra le dita, accarezzandone la superficie.
Come poteva dimenticare?
“No. No, non è Seattle.”


Di tutte le città in cui ero stata negli ultimi cinque mesi, Londra, New York, Sidney, nessuna era mai davvero stata casa mia.
Casa mia era Seattle.
Tornarci fu un sollievo.
Era finita.
Potevo finalmente riprendere a vivere.
Senza più problemi, senza dover tenere il fiato sospeso.
Avevo fatto quello che dovevo fare. Quello che sarebbe successo da allora in poi, era solo un bonus in aggiunta alla vita che avevo programmato per me stessa.
Dicono che la vita è quello che ti succede mentre sei occupato a programmare qualcos'altro. Non mi ero mai resa conto di quanto fosse vero, finché un giorno mi sedetti dentro ad una caffetteria, in uno dei tavoli più lontani dall'ingresso, e la vidi entrare.
Non fu una sorpresa.
Quello era il suo posto preferito in città.
Andava a prendere un caffè lì dentro cinque giorni a settimana, alle otto in punto.
L'avevo vista spesso. Ma avevo sempre pensato che non avrei mai avuto l'occasione di poter andare a parlare con lei.
Ma, in fondo, cosa mi tratteneva a quel punto?
Così andai a parlarle. Tutto quello che le dissi fu 'Ciao'. Da allora, qualcosa dentro di me cambiò per sempre. Non fui la stessa persona mai più.
Le strinsi la mano. Parlammo a lungo. Quando mi disse che doveva tornare a lavoro, le risposi che, se conosceva il bar in fondo alla strada, sarei stata lì quella sera alle otto. Le dissi che speravo venisse a bere qualcosa insieme a me. L'unica risposta che ottenni fu un sorriso.
Ma quella sera, alle otto in punto, la vidi varcare la soglia di quel bar.
Era divertente. Sorrideva molto. Aveva qualcosa negli occhi. Una scintilla, non so bene come spiegarlo. So solo che i suoi occhi mi scaldavano il cuore.
“Che ne dici di uscire da qui?”
“Mi sembra un'ottima idea” risposi, seguendola fuori dal locale.
Indossò la giacca, stringendosela addosso dopo aver avuto un piccolo brivido.
“Fa molto freddo, stasera.”
Io le rivolsi il fantasma di un sorriso.
“Hai ragione. Fa freddo.”
Sfilai i guanti dalla borsa, indossandoli.
“Suppongo che quindi fare due passi sia fuori discussione?” le domandai. “Potremmo andare da me, ti offro un altro giro.”
Esitò solo per qualche istante.
“Mi sembra una buona idea.”
Le rivolsi un sorriso, fermando il primo taxi che vidi passare. Aprii la portiera per lei, entrando subito dopo.
“Archfield Hotel” ordinai al tassista.
“Whoa. Credevo andassimo da te, non in un hotel” la sua protesta mi colse alla sprovvista. “Come siamo passate da 'un altro drink' a 'prendiamo una stanza in un albergo'?”
“Questo è imbarazzante.”
“Sì, lo è.”
“No, intendo, è imbarazzante perché” sospirai. “Io vivo in quell'hotel.”
La sua espressione passò da irritata a confusa.
“Mi dispiace. Non volevo metterti a disagio. Vuoi che scenda e ti lasci il taxi?” chiesi, non sapendo bene come avrei dovuto comportarmi.
“No, no, certo che no. È colpa mia, sono saltata alle conclusioni. Possiamo andare nel mio appartamento, se per te fa lo stesso. C'è una cucina, e un soggiorno. In una camera d'albergo di solito c'è solo...”
“Un letto?”
“E un frigo bar.”
“Casa tua va benissimo.”
Casa sua era anche meglio. Sarebbe stato difficile da spiegare perché non avevo una stanza in quell'albergo.
Davanti alla porta del suo appartamento, capii che era il momento in cui avrei dovuto togliermi i guanti. Però non lo feci. Entrai dopo di lei, guardandola richiudersi la porta alle spalle. Mi guardai attorno.
L'arredamento era sobrio e ordinato, forse c'erano un po' troppi colori per i miei gusti, ma non era strano o volgare. C'erano diverse foto sparse per l'appartamento e qualche quadro appeso alle pareti, la cucina era separata dal soggiorno e c'era una camera da letto che si poteva intravedere perfino dall'ingresso dell'appartamento.
Quando mi voltai di nuovo verso di lei, mi accorsi che stava nervosamente giocando con le chiavi che aveva in mano.
Avrebbe dovuto stare tranquilla. Non c'era niente di cui avere paura.
Feci qualche passo verso di lei, osservando attentamente i suoi occhi. C'era qualcosa di magico, in lei.
“Ci siamo” pensai. “Se non lo faccio adesso, in questo istante, non troverò il coraggio di farlo mai più.”
Mi avvicinai ancora, rivolgendole un piccolo sorriso.
“Sei davvero molto bella, Arizona.”
Le detti a malapena il tempo di inspirare, poi mi abbassai di qualche centimetro, baciandola a fior di labbra.
E, in quel momento, il resto del mondo cessò di esistere.

Stavo leggendo il menù quando la sentii ridere.
Mi sorprese, perché io avevo i nervi a fior di pelle. Raramente ero stata così agitata per qualcosa in vita mia.
Ma il nostro primo appuntamento doveva andare bene.
“Scusa” mi disse, coprendosi le labbra con una mano prima di sparire a sua volta dietro al menù che stava leggendo.
Io per un attimo fui spaesata, ma poi tornai a leggere le pietanze che il ristorante offriva quella sera, e stavo giusto valutando di ordinare una pizza hawaiiana, quando la sentii di nuovo. Quella risata cristallina.
Sbirciai da sopra il mio menù, vedendola cercare di nascondersi dietro il suo.
“Scusami. Mi dispiace. È solo che...” altra risatina. “Leggi a pagina cinque.”
Voltai un paio di pagine.
“Calzone” ridacchiò di nuovo.
La donna di fronte a me era completamente incomprensibile, la maggior parte delle volte. Ma forse, se avessi avuto abbastanza tempo, avrei potuto imparare a capirla alla perfezione, forse addirittura meglio di quanto a volte capivo me stessa.
“Che cosa c'è di così buffo in una pizza arrotolata?”
“Hai mai sentito parlare di Brangelina? O di Bennifer? Tomkat?”
“Isole tropicali?”
“Coppie di attori. I fan mischiano parti dei loro nomi per formare dei soprannomi. Per esempio, Brad Pitt e Angelina Jolie, Brangelina. O Ben Affleck e Jennifer Lopez, Bennifer.”
“Fammi indovinare. Tom Cruise e Kathrine Holmes...”
“Tomkat.”
Annuii lentamente, iniziando a capire cosa significavano quegli strani nomi.
“E perché questo ti fa ridere? Intendo, a parte il fatto che i nomignoli sono ridicoli.”
Lei mi sorrise.
“Se fai la stessa cosa con i nostri nomi” voltò il menu nella mia direzione, i suoi occhi sporgevano da sopra il bordo, lessi la scritta in rosso proprio dove avrebbe dovuto trovarsi il suo naso.
“Calzona.”
Io inclinai la testa di lato, alzando le sopracciglia e trattenendo a malapena un sorriso.
“Mi dispiace. Non so perché mi è venuto in mente. Era davvero una pessima cosa da dire ad un appuntamento.”
Io tornai a leggere il menù, schiarendomi la voce.
“Quindi saremmo una pizza arrotolata? Delizioso. E Calzona è molto meglio di Bennifer.”
La guardai di sottecchi mentre rideva.
“Mi dispiace così tanto, Calliope. Non riesco a smettere di ridere.”
“Mi piace sentirti ridere” le dissi immediatamente. “Anzi, farò il possibile perché tu non faccia mai altro.”
La sua risata si trasformò in un sorriso dolce.
“Siete pronte per ordinare?” ci chiese il cameriere avvicinandosi al nostro tavolo.
Io sorrisi, chiudendo il menù e riconsegnandoglielo.
“Io prendo un calzone.”
Di nuovo, le sentii fare quella melodiosa risata.

“Non lo so. Che ne dici di Londra?”
“Mi piace Londra. È la mia città preferita al mondo” risposi sorridendo, mentre nascondevo il naso contro il suo collo.
Lei rise, continuando a sfogliare la rivista che aveva tra le mani. Era seduta tra le mie gambe, io ero appoggiata con la schiena alla spalliera del letto.
“Allora è deciso. Londra. Quando vuoi partire?”
“Fammi pensare” la baciai sulla guancia. “Mi stai chiedendo quando voglio partire” mormorò un assenso, distratta dai miei baci sul suo collo. “Per andare a Londra insieme a te. Le due cose che preferisco al mondo. Vediamo...Subito?”
Rise, voltando la testa di lato e baciandomi.
“E allora partiamo subito” mi guardò intensamente negli occhi, sfiorandomi una tempia con la punta delle dita.
Sentii un nodo in gola.
Mi salirono le lacrime agli occhi.
Dopo tutto quello che avevo fatto, dopo tutto il male, il dolore che avevo causato, avevo comunque trovato lei.
“Calliope?” sussurrò, baciandomi su uno zigomo.
“E allora partiamo subito” confermai.

“È Londra.”
“Londra? Dice sul serio?”
“Sì. Più o meno sei mesi dopo che ci eravamo conosciute, avevamo deciso di fare un viaggio insieme. Avevamo scelto Londra” la voce le tremò.
“Lasciamo stare le foto, che ne dice?”
Annuì. “Le dispiace” guardò per qualche altro secondo le due figure presenti nella foto. “Le dispiace se questa la porto via con me?”
“Faccia pure. Ne abbiamo una copia.”
“La ringrazio.”
“Adesso mi dica, quanto tempo fa è stato il vostro primo incontro?”
“Circa un anno.”
“Che tipo di rapporto c'era tra di voi?”
Quella domanda la irritò.
Il figlio di puttana sapeva benissimo che tipo di rapporto c'era tra loro.
“Stavamo insieme.”
“Intende dire che eravate sentimentalmente coinvolte e avevate una relazione?”
Si morse la lingua per non urlargli addosso.
E rispose la sola cosa che le era concesso rispondere dentro quella stanza.
“Sì.”
Ci fu un lunghissimo silenzio.
“Cosa è successo esattamente quella sera? Tutti i dettagli che riesce a ricordare.”
Sentì un nodo in gola.
Preferiva di gran lunga quando le uniche risposte che poteva dare erano sì o no, rispetto ai dettagli di quella storia.


Ero una persona molto intuitiva.
Avevo capito quando stava per finire. Non che servisse un genio.
Ma se anche non lo avessi capito prima, i suoi occhi chiari non mi avrebbero lasciato comunque il minimo dubbio.
Non sapeva mentire a me.
Avevo avuto un lungo preavviso, comunque. Almeno dodici ore. Non è da tutti un privilegio del genere.
Erano le otto di mattina quando, uscendo di casa, trovammo suo fratello ad aspettarci davanti alla porta.
“Tim Robbins.”
“Callie Torres.”
“Tim, ti ho parlato spesso di Calliope. Sono felice che tu la conosca, finalmente.”
“Anche io sono felice di avere finalmente questo piacere.”
“Arizona mi ha parlato moltissimo di te” replicai con un sorriso.
Avrei potuto fare qualcosa, in quelle dodici ore.
E invece rimasi dentro casa. Sdraiata su quel suo letto che era diventato il nostro. Persa nei miei ricordi, persa in domande che non avrebbero mai avuto una risposta.
Avrei dovuto probabilmente fare una valigia e sparire prima che tornasse a casa.
E se allora avessi scelto di farlo, forse avrei potuto salvare le cose.
Salvare noi.
Ma non ne fui capace.
Di tutte le cose che avevo deciso di non cercare, lei era l'unica che mi aveva trovato comunque. Non potevo scappare.
Così feci qualche commissione, ma poi tornai a casa ed aspettai, fino alle otto di sera, quando tornò anche lei.
Esitò sulla soglia, giocherellò con le chiavi che aveva in mano, aspettò che dicessi qualcosa, ma io rimasi ferma dov'ero con le mani in tasca.
Poi mi guardò negli occhi. Ed ebbi la conferma che cercavo.
Era finita.
Annuii, distogliendo lo sguardo solo quando non riuscii più a nascondere quello che stavo provando.
Presi il giacchetto da sopra il divano, indossandolo.
“Dove stai andando?”
“Via” risposi solo. Risposte secche. Non più di due sillabe alla volta. In modo che le lacrime non cadessero.
Lei posò le chiavi, gettando a terra la borsa e mettendosi davanti a me.
Mi guardò negli occhi per parecchi secondi.
Poi appoggiò le dita di entrambe le mani sulle mie tempie, si alzò in punta di piedi e mi baciò sulla fronte.
“So che hai in testa un casino, ma prometto che posso aiutare.”
Con il più piccolo dei gesti, lei riusciva a disarmarmi.
Io continuai a guardarla.
L'unica persona a cui ero riuscita a mostrare le mie debolezze era l'unica persona al mondo a cui non importava che fossi debole. L'unica persona che non voleva altro che essere parte della mia forza.
Spostò le mani sul mio viso.
“So che adesso vuoi scappare. So che il tuo primo istinto è quello di andartene dell'altra parte del mondo. Ma non farlo, ok? Non senza di me.”
“Arizona.”
“Ovunque tu stia andando, torna a casa, stasera. E domani mattina andremo via insieme. Andremo a...” aveva le lacrime agli occhi. “Andremo a Londra. Vivremo lì. Compreremo una casa in un quartiere tranquillo, in periferia, come hai sempre voluto.”
Coprii le sue mani con le mie, sperando che potesse capire tutto quello che non ero mai riuscita a dirle e che di certo in quel momento non era appropriato dire.
“Ci vediamo tra poco” la rassicurai.
Poi mi abbassai di quei tre centimetri che ci allontanavo e la baciai.
Speravo solo che se fosse successo qualcosa, in qualche modo, un giorno, fosse venuta a conoscenza della verità.
Mi allontanai e andai velocemente verso la porta, aprendola. Mi bloccai solo per un secondo, voltai la testa di lato, senza voltarmi di nuovo verso di lei.
“La prima cosa da cercare sono i calzini rossi, nel primo cassetto del mobile in camera nostra. Sono la primissima cosa, ok?”
Senza aspettare una risposta, me ne andai.
Lui mi stava aspettando proprio lì fuori, a qualche metro dall'ingresso dell'edificio.
“Tenente Robbins.”
“Callie Torres. Ho parlato con il Maggiore Corchoran, proprio l'altro giorno. Immaginerai la mia sorpresa quando mi ha detto che ti aveva finalmente trovato. Soprattutto quando mi ha dato l'indirizzo di casa tua ed era quello di mia sorella.”
“Corchoran. Interessante. Pensavo sinceramente che a trovarmi sarebbe stato il Sergente.”
“No” scosse la testa, guardando per un istante verso il basso. “No, vedi, Grant ha smesso di provarci tempo fa. Pensava di aver pagato il prezzo per l'azione terribile che aveva commesso e si era dato pace. È sempre stato un tipo debole. Ma noi non potevamo lasciar stare, soprattutto non io, che ho ancora molto da perdere.”
“E cosa farai, esattamente? Perché c'è un sacco di gente in questa strada, al momento. Almeno uno di loro ti riconoscerebbe.”
“Correrò il rischio, se necessario.”
Annuii lentamente.
“Lei un giorno saprà la verità.”
Rise, facendo un passo nella mia direzione.
“No. No, io non credo.”
“Quale verità dovrei sapere?”
Entrambi ci voltammo di scatto.
Nessuno dei due aveva previsto che lei sarebbe potuta scendere in strada. Nessuno di noi due la voleva lì.
Mi bastò un attimo.
Infilai la mano destra nella tasca interna del giacchetto, strinsi l'oggetto saldamente in mano.
“No!”
“Arizona, non avvicinarti.”
Lei non lo ascoltò. Mi corse affianco, inginocchiandosi vicino a me.
Guardò la mia mano destra.
La afferrò delicatamente, facendomi dischiudere le dita. Prese il piccolo oggetto, studiandolo attentamente.
“Questo era il mio, non è vero?” chiese, alzando gli occhi dal proiettile.
“Avrei voluto poterti spiegare, ma adesso è un po' troppo tardi” balbettai in modo vagamente incoerente.
Alcune persone si erano radunate attorno alla scena. Qualcuno aveva chiamato un'ambulanza, altri la polizia. Quando si erano accorti che l'uomo che mi aveva sparato aveva ancora la pistola in mano, si dispersero velocemente. Non importava.
Avrebbero ricordato il suo viso in modo perfetto. La paura, avevo imparato, è molto di aiuto per la memoria.
Bastava quello per assicurarmi che passasse il resto della sua vita nel posto a cui apparteneva. In prigione.
“Se sapessi tutta la storia, forse allora avrei una minuscola possibilità di avere il tuo perdono” le dissi in modo poco chiaro.
“Calliope, tu hai tutto ciò che vuoi da me. Hai il mio perdono. Io ti perdono.”
Il mio sorriso sparì, corrugai la fronte.
“Puoi tenermi la mano? Fa male. Fa davvero male.”
Guardai in basso. C'era molto sangue. Era quasi finita.
Vedevo le sue labbra muoversi. Credo mi stesse pregando di vivere. Ma non ne fui sicura. Ormai, l'unico rumore che mi riempiva le orecchie era quello assordante del silenzio. La gola mi stava andando a fuoco. Sentivo gli occhi chiudersi lentamente.
Cercai qualcosa da dire. Qualsiasi cosa. Ma c'erano troppe cose. E, tristemente, non mi venne in mente niente che potesse bastare.
Nessuna vita poteva essere riassunta in un'unica frase. O almeno, nessuna vita degna di essere vissuta.
Quindi capii che non c'era niente che sarebbe mai potuto essere abbastanza da dire.
Guardai nei suoi occhi perfetti e sorrisi.
“Sono solo grata di averti trovato.”

“Quindi conferma che è stato suo fratello ad uccidere la donna della fotografia?”
“Sì.”
“Signorina Robbins, c'è una persona che vorrebbe parlarle. Ha seguito l'interrogatorio da dietro lo specchio a vetro. Posso farla entrare?”
“Sì.”
Quando la donna le si sedette davanti fu stupita nel vederla indossare l'uniforme militare.
“Da adesso non stiamo più registrando l'interrogatorio, Maggiore.”
La donna annuì, prendendo atto della situazione.
“Buongiorno signorina Robbins. Il mio nome è Teddy Altman. Ho prestato servizio come medico d'urgenza nell'esercito insieme ad Aria Torres.”
Corrugò la fronte alla familiarità del nome.
“Era la sorella di Callie.”
La sua confusione crebbe ulteriormente. Non era quello il motivo per cui quel nome le era così familiare. Callie, non le aveva mai parlato di una sorella.
“Immagino che Callie non le abbia mai parlato di lei. Ma probabilmente il nome le dice qualcosa, ha seguito il suo caso. Due anni e mezzo fa. Lavorava come agente all'FBI. Quello di Aria le fu presentato come caso interno, di solito le competenze militari non sono date allo Stato, ma l'episodio si è verificato qui.”
Appoggiò un fascicolo sul tavolo. Arizona, esitante, lo prese tra le mani.
“Sì. Adesso ricordo. È la donna che aveva accusato quattro dei suoi colleghi militari di aggressione e stupro. Tim era tra gli imputati, ma il caso non finì mai in tribunale. La donna ammise di essersi inventata tutto.”
Teddy annuì, porgendole alcune foto.
“Aria Torres si è tolta la vita circa una settimana dopo. Aveva subito delle minacce che l'avevano spinta a ritirare le accuse. Ma non è riuscita a convivere con quello che le era stato fatto.”
“Aspetti. Maggiore Corchoran, Sergente Grant, Tenente Donovhan, Tenente Robbins. Questi nomi mi dicono qualcosa.”
“Il fratello del Sergente Grant è stato ucciso a Londra, un anno è quattro mesi fa, nella tranquillità della sua casa. Poco dopo di lui la sorella di Donovhan ha avuto una sorte simile. L'ultimo è stato Robert Corchoran, il fratello del Sergente Jeffrey Corchoran.”
L'espressione sul suo viso si trasformò in una di amara comprensione.
“Calliope.”
“È l'ipotesi più probabile, sì. Adesso che Grant ha deciso di confessare, che tutta la storia è venuta allo scoperto, il movente sembra molto chiaro. Loro quattro avevano minacciato di uccidere Callie se Aria non avesse ritirato le accuse, così, quando Aria si è tolta la vita, lei ha deciso di far pagare ai fratelli dei quattro uomini che hanno violentato sua sorella il prezzo che loro non avrebbero mai pagato. Erano spariti dalla faccia della terra. Senza contare che Callie non aveva paura della morte, quindi per lei non sarebbe stata una punizione sufficiente per ciò che hanno fatto. In più, i rispettivi fratelli avevano rilasciato dichiarazioni preliminari dicendo che erano con loro al momento dell'accaduto, costringendo così Aria a ritirare la denuncia.”
“Il proiettile che aveva in mano, era per me.”
Teddy chiuse il fascicolo che Arizona stava ancora fissando, attirando così il suo sguardo.
“Sì” rispose senza esitazione. “La prima volta che ti ha visto è stato quando stavi seguendo il caso di sua sorella, anche se non ti ha mai parlato di persona. Dovevi essere la prima. Non sarebbe tornata a Seattle mai più. Ha iniziato a venire ogni giorno nella caffetteria vicino a casa tua, sapeva che andavi lì ogni mattina alla stessa ora. Non so cosa è successo. Ha smesso di tenersi in contatto con me, se n'è andata a Londra. Poi a New York. Infine a Sidney. È tornata a Seattle, con quel proiettile ma senza più nemmeno avere una pistola. Sono stata io a riportarla qui da Sydney, ed è stato allora che mi ha detto che aveva chiuso con questa storia, che per lei era finita. Non aveva mai avuto in programma di ucciderti. Credo che tenesse quel proiettile per ricordare a se stessa che era stata una sua scelta. Avrebbe potuto ucciderti, in qualsiasi momento, sia prima di partire per Londra che quando è tornata, ma ha deciso di non farlo. Credo che per lei quella fosse la prova che il suo cuore batteva ancora, visto che era stata in grado di scegliere di non sparare a qualcuno che...”
“...amava” concluse per lei.
“Già” sussurrò Teddy in risposta. “Aveva programmato la sua morte fin dall'inizio, temo. Voleva che Tim andasse in prigione, ma non aveva prove. E, da quando sua sorella era morta, non aveva più neanche un testimone che l'aiutasse a fare giustizia. Sapeva che sparare ad una donna disarmata in mezzo ad una strada affollata, però, lo avrebbe mandato dietro le sbarre piuttosto in fretta.”
Il silenzio calò sulla stanza mentre Arizona scrutava quella foto di loro due durante il loro viaggio a Londra.
“Se un giorno riuscissi a perdonarla, se riuscissi a ricordare quanto l'hai amata, allora lei non sarebbe morta invano.”
“Oh, io la amo” rispose subito Arizona. “Ma avrei potuto evitare tutto, se solo non avessi dato per scontata l'innocenza di mio fratello.”
Non alzò lo sguardo.
Continuò a fissare quegli occhi che ogni giorno le mancavano.
Teddy si alzò in silenzio, dirigendosi verso la porta. Si bloccò quando aveva già un piede fuori dalla stanza.
“Cosa c'era dentro quei calzini rossi?”
Scrollò le spalle.
Si perse per un attimo nei suoi pensieri.
Alla fine, alzò lo sguardo verso di lei e rispose in un sussurro.
“La chiave di una cassetta di sicurezza.”


“Signorina Torres, è un piacere vederla tornare.”
“Salve Becky.”
“Vuole tornare alla cassetta di sicurezza di sua sorella?”
“No, grazie. Vorrei comprarne un'altra, se non è un problema.”
“Ma certo, nessun problema. Mi segua.”
Conoscevo bene l'edificio.
I primi tempi dopo la morte di Aria, lo visitavo molto spesso. Becky mi accompagnava in una stanza, aprivo la cassetta di sicurezza, e rileggevo le dichiarazioni di Aria alla polizia, pagine di diario che aveva scritto, registrazioni telefoniche di minacce che aveva ricevuto, era tutto lì. In una scatola di metallo era contenuta la prova che lei aveva detto la verità.
“Vuole concludere la procedura oggi stesso?”
“Sì, purtroppo domani devo partire. Lascio la città.”
“Si prende una vacanza?”
“In realtà, viaggio di lavoro. Vado a Londra per tre mesi, una banca mi ha offerto un lavoro di programmazione informatica, mi occuperò di aggiornare i loro database.”
“Sembra interessante.”
“Sono sicura che lo sarà” risposi, pensando improvvisamente alla pistola che avevo comprato soltanto poche ore prima illegalmente.
“D'accordo. Firmi qui, qui e qui. Questa è la sua copia della chiave. Terremo l'altra, ovviamente, in modo che sia possibile aprire la cassetta solo sotto la nostra supervisione. Se vuole che sia possibile consentire ad altre persone di accedervi scriva i loro nomi qui.”
Feci velocemente tre firme, poi, nell'ultimo punto che mi aveva indicato scrissi velocemente un nome.
“Agente speciale Arizona Robbins” lo lesse ad alta voce. “FBI?”
“Già.”
“Vi conoscete molto bene?”
Io le sorrisi, riponendo la penna.
“Diciamo di sì.”
Io ed Arizona Robbins non avevamo mai parlato prima.
“Posso chiederle di aggiungere il suo nome anche nella lista della cassetta di mia sorella?” le domandai.
“Possiamo farlo appena finiamo qui.”
Annuii, soddisfatta dalla sua risposta.
“Bene. Direi che siamo apposto. Sa che devo chiederle di sistemare gli oggetti in mia presenza, per essere sicura che il contenuto della cassetta di sicurezza non sia illegale.”
“Oh, ma certo. Si tratta solo di poche cose.”

“Dentro ci sono tutte le prove dello stupro e delle minacce. In poco tempo farò in modo di ripulire il nome di Aria da ogni sospetto di diffamazione e farò arrestare gli uomini che le hanno distrutto la vita.”
Teddy annuì.
“Callie sarebbe grata.”
“Lo spero davvero” sussurrò.
Non poteva fare a meno di sentirsi come se quello che era successo a Calliope fosse completamente colpa sua.
Se avesse indagato più a fondo, Aria sarebbe stata ancora viva, Callie non sarebbe mai diventata un'assassina, e quel giorno sarebbe stata ancora sana e salva al suo fianco.
Con suo enorme rammarico, non poteva cambiare il passato.
Quando l'FBI le consentì di andarsene dalla sala interrogatorio, Arizona si incamminò verso il suo appartamento.
In realtà, le chiavi erano due.
La seconda, aveva aperto una cassetta contenente solo tre oggetti.
Un CD su cui era incisa una sola canzone - I miss you, dei Blink.
Un pezzo di carta con sopra una scrittura inconfondibile - 'Le cose non vanno nel modo in cui avresti voluto che andassero. Mai.'
E un anello di fidanzamento, con un nome inciso all'interno - Arizona.


“Signorina Torres. È passato un sacco di tempo dall'ultima volta.”
“Lo so. Devo mettere una cosa nella cassetta a mio nome. Una cosa velocissima.”
“D'accordo. Mi segua. Allora, l'ultima volta che ci siamo viste stava partendo per Londra.”
Io le sorrisi, consegnandole nel frattempo la mia copia della chiave.
“Da allora sono stata in parecchi posti. Ma giusto la settimana scorsa ero di nuovo a Londra, e continuo ad essere convinta che sia la città più bella del mondo.”
“Di nuovo per lavoro?” chiese, porgendomi la cassetta già aperta.
“No. Stavolta no. Ero lì con la persona che amo.”
Estrassi dalla cassetta la lettera che vi avevo riposto tempo prima, esitando per qualche secondo prima di stracciarla. Un tempo, desideravo che conoscesse la mia storia, che sapesse quello che stavo per fare e che poi avevo in effetti fatto.
Ma in quel momento, non volevo che venisse a conoscenza di ciò che era successo. Non volevo che sapesse la verità, volevo solo che fosse felice.
Riposi dentro la cassetta di sicurezza un CD ed un pezzo di carta.
Poi presi la piccola scatoletta che avevo in tasca e la aprii, guardando quell'anello per l'ultima volta.
Quello era stato il mio piano fin dall'inizio, ma questo non significava che non mi stesse lasciando con moltissimi rimpianti che avrebbero continuato a perseguitarmi in eterno.
Non avrei mai avuto il privilegio di darglielo io stessa. Non avrei mai potuto vedere la sua espressione di sorpresa quando mi inginocchiavo davanti a lei. Non l'avrei mai vista vestita di bianco.
Così lo risposi insieme agli altri oggetti, sapendo almeno che, dopo la mia morte, lei lo avrebbe trovato.
“Andiamo Becky” sussurrai. “Ho finito.”

Guardando il suo viso, la sua espressione pacifica, gli occhi chiusi e la bocca incurvata in un sorriso, mi abbassai e la baciai sul collo. Poi appoggiai le labbra vicino al suo orecchio.
“Ti amo” le dissi per l'ennesima volta, in un sussurro. “Qualsiasi cosa succeda, cerca di non dimenticarlo mai. È l'unica cosa di cui devi essere sicura sempre.”





Ho convinto me stessa che in realtà Callie sia sopravvissuta e Teddy l'abbia aiutata a fuggire in un'isola sperduta per non farla arrestare e che dopo l'interrogatorio abbia portato Arizona da lei...ma questo è un altro discorso...

Comunque...abbiate una buona giornata (e settimana), e premetto che la prossima domenica potrei non farcela ad aggiornare, visto che avrò due esami nella stessa settimana e a malapena sono riuscita a farcela questa domenica...

Alla prossima! :)





Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Il nostro primo passaggio in automobile ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete mi-ti-che...e mi scuso per il ritardo!

Avvertimenti: AU



Image and video hosting by TinyPic



Il nostro primo passaggio in automobile


Le persone dicono cose in cui non credono davvero.
Lo fanno di continuo.
Forse perché ripetendo agli altri ad alta voce quelle parole come un mantra, sperano di riuscire a crederci anche loro, prima o poi.
Va tutto bene.
No, non va tutto bene. Niente va mai bene in questa vita. Le cose non vanno per il meglio, vanno come vanno, punto e basta. Ma suppongo che questo vada bene.
È la persona sbagliata.
Vorrei un nome, solo un nome, di qualcuno che in tutta la storia dell'umanità si è innamorato di una persona che non era sbagliata. Giulietta si è innamorata del nemico, si è adagiata in un sepolcro ed ha bevuto del veleno. Le persone dicono che era il suo destino, ma forse se l'è un po' cercata, dopotutto. Comunque, tutti si innamorano della persona sbagliata, questo è il modo in cui va la vita, ma il bello sta proprio nel riuscire a far funzionare quella relazione, finché non diventa la persona giusta.
Sto bene.
Si dice tutto il tempo. Ma quanti, di coloro che lo dicono, ci credono davvero? Se dovessi tirare ad indovinare, direi pochi. Pochi davvero. Quasi nessuno.
Quello che non ti uccide ti rende più forte.
Chiedete al tizio che ha avuto un infarto. Mai stato più debole prima.
Però ce lo ripetiamo, convinciamo noi stessi che tutto ciò che abbiamo dovuto passare, tutto il male che ha attraversato la nostra strada, sia servito a qualcosa.
Ci ripetiamo che ci ha reso più forti.
Ma forse tutte quelle volte in cui abbiamo avuto il cuore spezzato, non hanno fatto che renderlo più debole. Più stanco. Meno disposto ad amare e a lasciarsi amare.
Forse non siamo più forti. Forse siamo più deboli. Più stanchi. Più impauriti. Forse è solo che, con il tempo, impariamo a nasconderlo meglio.
E poi, c'è la mia preferita.
Tutto accade per una ragione.

Faceva caldo.
Probabilmente perché erano ore che camminavo sotto il sole ed era quasi mezzogiorno. Scorsi una macchina, in lontananza, avvicinarsi a me, diretta verso dove stavo andando anche io. Sospirai, alzando il pollice per la milionesima volta quel giorno.
Fui non poco sorpresa di vedere la macchina accostarsi al ciglio della strada e rallentare fino a fermarsi.
Il finestrino si abbassò lentamente.
“Ha bisogno di un passaggio” osservò.
“Già. Sto andando verso il Maryland.”
Lei alzò le sopracciglia, inclinando leggermente la testa di lato.
“Che coincidenza. Sto andando verso New York, quindi devo passare da lì” mi sorrise educatamente.
Mi affrettai a salire, prima che valutasse la possibilità che potessi essere una serial killer e scappasse.
“Callie Torres” si presentò.
“Arizona Robbins” tesi una mano nella sua direzione. “È il diminutivo di qualcosa?” chiesi, incuriosita.
“No” rispose un po' troppo in fretta, stringendo la mia mano subito prima di ripartire. “Allora, Arizona Robbins, che ci fa qualcuno diretto in Maryland quaggiù in Florida?”
“Potrei fare la stessa domanda di New York.”
“Avrebbe potuto. Ma io l'ho battuta sul tempo.”
“Lavoro” risposi, tenendomi parecchio sul vago. “Tu?” le chiesi, passando alla seconda persona singolare.
“Faccende personali” anche lei rimase molto sul vago.
Scrollai le spalle. Non volevo fare amicizia, avevo solo bisogno di un passaggio fino a Boston.
Il viaggio continuò in silenzio per almeno mezz'ora.
Poi si schiarì la voce.
“Siamo vicine ad una stazione di servizio, vero?”
“Non ne ho idea” risposi. “Perché?”
“Non abbiamo molta benzina. Ce n'era una tipo una ventina di minuti fa, ma siamo in autostrada, quindi dovrebbe essercene un'altra a breve.”
“Certo. Al massimo un paio d'ore.”
“Possiamo reggere ancora per almeno quattro” mi fece sapere con un sorriso tirato.
Il silenzio si fece di nuovo sentire.
Guardai fuori dal finestrino verso la costa della Florida che ci scivolava affianco e prima che me ne accorgessi il sole mi aveva cullato fino ad un sonno privo di qualsiasi sogno.
Quando mi svegliai lo feci all'improvviso.
“Dove siamo?” chiesi quasi come se mi stessero rapendo.
“Quasi al confine. E ancora nessuna stazione di servizio.”
“Per quanto ho dormito?”
“Tre ore e mezza, prendere o lasciare.”
“Cavolo. E ancora ci stiamo muovendo?”
“Ancora per poco” rispose nell'esatto istante in cui il motore iniziò a singhiozzare.
Erano quasi le sei di pomeriggio, a quel punto. Ed era un bene perché il sole si era abbassato e non rischiavamo più un'insolazione a stare sotto il sole. Ma era anche un male, perché quale persona sana di mente si metterebbe a viaggiare nel mezzo del nulla alle sei di sera invece di aspettare la mattina successiva?
“Che facciamo?”
“Beh, ci mettiamo sedute comode e aspettiamo che qualcuno passi di qui e ci dia un passaggio.”
Corrugai la fronte.
“Questo è tutto il piano?”
“Se hai in mente qualcosa di meglio, sono tutta orecchie.”
Sbuffai, mettendomi però a sedere.
“Allora, Callie, raccontami qualcosa di te” cercai di rallegrare l'atmosfera tirando fuori quella personalità allegra e spensierata che avevo da tempo perduto.
“Ho ventitré anni. Studio per diventare medico.”
“Dove?”
“A New York.”
“Io ho frequentato la Hopkins.”
“NYU” rispose, accomodandosi sul cofano dell'auto mentre io mi ero appoggiata al lato della vettura che dava sulla strada. “Che studiavi?”
“Questa ti piacerà” le feci sapere. “Medicina.”
Lei rise piano.
“Sai come si dice. Ce ne vuole uno per riconoscerne un altro.”
“Oh, quindi mi hai dato un passaggio perché il tuo doc-radar ti aveva informato che sono un medico?”
“Certo” mi guardò come se fosse ovvio.
Io risi, distogliendo lo sguardo.
“Sei all'ultimo anno?”
“Già. Sto cercando un posto per la specializzazione. Stavo pensando a Miami, per questo sono tornata in Florida.”
“Tornata?”
“Lì è da dove vengo” chiarì. “Dove la mia famiglia vive.”
Annuii.
“E tu?”
“Io sono al terzo anno di specializzazione.”
“No, intendo, da dove vieni?”
“Oh.” Scrollai le spalle. “Un po' da ogni parte e in realtà da nessuna parte davvero. Sono cresciuta con un padre che faceva il militare.”
“E in cosa ti stai specializzando?”
“Chirurgia.”
“Interessante.”
“Tu cosa farai?”
“Non lo so. Dipende da chi mi offre il miglior lavoro, presumo. Quindi tuo padre faceva il militare?”
Ci trovammo di nuovo a starcene nel più totale silenzio mentre nella mia testa un miliardo di pensieri si alternavano a centinaia di miglia l'ora.
“Allora, com'è New York?” chiesi tentando di cambiare argomento e allo stesso tempo di scoprire qualcosa di lei.
Andammo avanti a parlare del più e del meno per parecchio, ridendo, scherzando, più che altro tenendoci compagnia a vicenda e basta.
Quando di nuovo rimanemmo in silenzio mi ritrovai a pensare a quello di cui avevamo parlato parecchio prima, apparentemente senza motivo. La mia infanzia. Mio padre. Tim.
Alla fine mi alzai, arrabbiata. Non con lei. Con me stessa. Con tutto il mondo, in realtà. E più che altro con la vita in generale.
“Mi sembra chiaro che non passerà nessuno, quindi io me ne vado. Divertiti qui in mezzo al deserto di notte.”
“Te ne vai? E dove di preciso?”
“Vado in avanti, visto che quattro ore di macchina mi separano dalla stazione più vicina da dove siamo venute.”
“Sta per fare buio. Io direi di chiuderci dentro la macchina invece di farci mangiare da qualche sciacallo ed aspettare che domani mattina qualcuno passi da queste parti.”
“Ah. Dubito che qualcuno passerà mai da queste parti, visto che siamo nel mezzo del nulla.”
Presi il mio zaino dalla macchina, notando la sua patente nel ripiano adiacente al volante. Sorrisi vedendo che aveva mentito sul suo nome. Uscii dall'abitacolo ed iniziai a camminare.
“Benissimo. Ma non ti aspettare che mi fermi quando avrò di nuovo benzina nella macchina e tu starai urlando mentre una buona metà del tuo corpo è stata già divorata dai coyote.”
“Non ci sono coyote, è la Florida, non il Nevada” le dissi. “Ci vediamo Calliope” la salutai usando il nome che avevo letto sulla patente.
Non ottenni alcuna risposta.
Quando guardai l'orologio per quella che sembrò la milionesima volta mi accorsi che avevo camminato solo per circa un'ora.
Sentii il rumore di una macchina che si avvicinava alle mie spalle. Mi voltai immediatamente, facendo un passo dentro la carreggiata e inclinando il pollice, pregando con tutta me stessa che si fermassero a darmi un passaggio. Il finestrino posteriore si abbassò. Un familiare viso si affacciò mentre la vettura stava rallentando.
“Buona fortuna per i coyote, Arizona.”
Rimasi ferma a guardare i fanali posteriori sparire nell'oscurità, mentre un sorriso lento si faceva strada sul mio viso. Quella donna era senza dubbio qualcosa di diverso.

La macchina rallentò.
“Sali.”
“Oh, adesso vuoi che salga?” chiesi senza fermarmi.
“Muoviti, prima che ci ripensi” mi venne dietro procedendo a passo d'uomo.
“Non sembrava che volessi darmi un passaggio quando sei passata la prima volta con i tuoi nuovi amici, né la seconda volta quando sei tornata indietro con il carro attrezzi e la benzina.”
“Dai, non avrai mica pensato che ti avrei lasciato a piedi a fare l'autostop fino a New York con il rischio di incontrare qualche pazzo omicida?”
“Per quanto ne so, tu potresti essere una pazza omicida. Cavolo, per quanto ne sai, io potrei essere una pazza omicida.”
“Arizona, sali sulla macchina. Non voglio che i coyote ti divorino.”
“Per l'ultima volta, Calliope. Non ci sono coyote da queste parti.”
Proprio in qual momento un gelido ululato risuonò nei pressi della strada in cui ci trovavamo.
Mi paralizzai.
“Al diavolo, voglio andarmene di qui” sussurrai, aprendo lo sportello dalla parte del passeggero ed entrando.
“Adesso sì che si ragiona” fu la sua unica risposta prima di accelerare.
Passammo il resto del viaggio in auto a parlare. Forse, anche se non era quello che avevo programmato, io e lei saremmo potute diventare amiche. Riuscivo a strapparle un sorriso con ogni mia frase e lei riusciva a farmi pendere dalle sue labbra. Sì, forse potevamo essere amiche.
Quando arrivammo all'hotel più vicino era mezzanotte passata. Lo vidi da lontano. Era piccolo. E da fuori non sembrava avere una struttura molto stabile. Lei, però, parcheggiò in quello dall'altra parte della strada, che era così grande che probabilmente l'unico modo in cui sarei riuscita a permettermi di entrarci sarebbe stato dalla porta di servizio come dipendente. Pazienza. Avrei messo la notte in conto al Colonnello.
“Mi rifiuto di guidare anche solo per un altro minuto” mi comunicò spegnendo il motore.
Quindi fu comprensibile la mia preoccupazione quando sentii la risposta del receptionist alla nostra domanda di avere due singole.
“Non capisco che intende” risposi semplicemente.
L'uomo davanti a me non si scompose minimamente. Era impeccabile. Dall'accento e dalla postura, se avessi dovuto tirare ad indovinare, avrei detto che era di origine britannica.
“Esattamente quello che ho detto. Che non ci sono più singole disponibili per stanotte. Mi dispiace.”
“No, vede” lessi il nome sulla targhetta “Joeffrey, se lei non ci da delle camere, la mia amica qui, che si rifiuta di continuare a guidare, mi costringerà a dormire dentro la sua macchina. La sua meravigliosa, ma incredibilmente poco flessibile, macchina d'epoca. Ora capisce perché un no non andrà proprio bene come risposta?”
“Certo” rispose diplomaticamente. Ci rifletté per qualche momento. “Se posso permettermi, perché non guida lei, se la signorina è stanca?”
“Perché la signorina non vuole lasciare che metta le mani sulla sua, certamente meravigliosa, ma incredibilmente poco flessibile, costosissima, macchina d'epoca.”
“Capisco. Beh, forse posso offrirvi un'alternativa. Abbiamo una sola camera libera a disposizione per stanotte.”
“La prendiamo” rispose Calliope senza esitazione.
Lui temporeggiò.
“Forse volete un minuto per pensarci meglio sopra. È la suite luna di miele per le coppie di novelli sposini, la più costosa che l'albergo ha da offrire nonché la più romantica. Forse potrebbe non essere la scelta più confortevole nella vostra situazione.”
Guardai verso Calliope, che mi sorrise facendo un passo nella mia direzione e passandomi un braccio attorno alle spalle.
“Joeffrey, per caso abbiamo menzionato quanto follemente io e la signorina Robbins siamo innamorate?” chiese, passando sopra al bancone una carta di credito finché fu a portata di mano dell'uomo davanti a noi.
Lui nascose un sorriso.
“Benissimo, allora. Avrò bisogno dei documenti di identità di entrambe e dopo la registrazione posso mostrarvi la camera.”
La camera non era in realtà tanto una camera quanto un piccolo appartamento.
“Ok. Sono piuttosto sicura di non potermi permettere questa cosa” dissi, entrando con circospezione.
Calliope lasciò la mancia a Joeffrey e poi chiuse la porta, gettandosi sul letto matrimoniale a forma di cuore.
“Per un attimo ho temuto che il materasso fosse ad acqua. Per fortuna mi sbagliavo. Anzi, è piuttosto comodo.”
“Tipo, dovrei accendere un mutuo per potermi permettere questa camera.”
“Se ci pensi ha senso, però. Non possono aspettarsi che due persone riescano a fare sesso su un materasso ad acqua.”
“Cosa?”
“Cosa?”
“Chi ha parlato di fare sesso?”
Corrugò la fronte.
“È la suite luna di miele. Non mi stupirei se le persone qui dentro non passassero il loro tempo a giocare a carte.”
Deglutii.
“Giusto. Rimane il fatto che non posso permettermi questa stanza.”
“Non preoccuparti. Offre la casa. Non c'erano singole in ogni caso, quindi avrei dovuto dormire qui con o senza di te.”
“Beh, ma...”
“Senti, saremmo potute andare nella piccola baracca qui di fronte e rischiare la vita, ma sono stata io a scegliere questo posto. E diciamo solo che una camera di questo albergo non sarà mai qualcosa di cui dovresti essere preoccupata quando sei con me, ok?” cercò di cambiare argomento velocemente. “Vuoi farti una doccia?” chiese guardando verso il bagno.
“C-con te?”
Lei mi guardò, inclinando leggermente la testa di lato e sorridendo con sincero divertimento.
“Pensi di riuscire a rilassarti o rimarrai lì in piedi con lo zaino sulle spalle? Intendevo se vuoi farti una doccia prima che vada io.”
“Oh. No, puoi andare tu per prima. Aspetterò che tu esca.”
“D'accordo” saltò giù dal letto, afferrando un asciugamano e delle cose dalla sua valigia. “Ma, eventualmente, una sola doccia invece di due sarebbe una cosa buona per l'ambiente. Sai, se per caso dovessi cambiare idea, io sarò lì dentro.”
Scosse le sopracciglia. Io risi, finalmente rilassandomi leggermente.
“Potrei anche accettare, sai?”
Si limitò a ridere, chiudendosi la porta alle spalle.
Mi lasciai cadere sul letto con un sorriso idiota sulle labbra. Sarebbe stata un'idea così cattiva entrare per controllare che non facesse sul serio? Forse no. Ma sarebbe stato davvero, davvero imbarazzante dormire lì se stava davvero solo scherzando.
Risi, voltandomi di lato e chiudendo gli occhi per un momento.
Sentii il letto spostarsi. Mi voltai verso la fonte del movimento. Corrugai la fronte.
“Non sei appena entrata in bagno per farti una doccia?”
“Quello era un bel pezzo fa. Sono uscita, mi sono cambiata, asciugata i capelli e adesso sto per andare a dormire. Dovresti fare lo stesso.”
“No, sono appiccicosa e puzzo di sabbia e benzina. Non dormirò con una donna con questo odore addosso, ew.”
Lei rise.
“Come preferisci. Ma sappi che qui sotto è incredibilmente caldo.”
La guardai solo per un istante. Avevo sottovalutato la sua bellezza fino a quel momento. Mi alzai, decidendo che era meglio tornare quando lei si fosse addormentata.
“Ho davvero bisogno di togliermi questo odore di dosso.”
“D'accordo” rispose con la voce assonnata e gli occhi già chiusi.

Avrei preferito non aver mai fatto quel sogno.
Perché adesso ogni volta che la guardavo arrossivo e poi ero costretta a voltarmi per non rendere me stessa completamente ridicola.
E poi mi aveva lasciato una sensazione di bisogno, di insoddisfazione. Per tutta la mattina non avevo fatto altro che chiedermi se baciarla sarebbe stato tanto bello quanto nel mio sogno. Se il suo profumo da tanto vicino sarebbe stato così buono. Se i suoi capelli sarebbero stati tanto morbidi quanto avevo immaginato.
Mi guardò di sfuggita.
Arrossii e voltai la testa verso il finestrino.
“Sei silenziosa.”
“Non ho dormito bene.”
“Davvero?” chiese sorpresa. “Perché dall'espressione che avevi sul viso stamani sembrava che avresti preferito dormire per sempre. Che stavi sognando?”
“Non mi ricordo” mentii, arrossendo ancora di più.
Per fortuna doveva tenere gli occhi sulla strada.
“Aspetta, perché mi stavi guardando?”
Per fortuna, io non dovevo tenere gli occhi sulla strada.
Arrossì quasi impercettibilmente.
“Oh, che carina. Mi stavi spiando mentre dormivo. Tipo stalker.”
“No, non è vero” rispose sconcertata.
“Sì, è vero.”
“No, invece. Stavi russando. Era difficile non notarti, attiravi parecchio l'attenzione su di te.”
“Non c'è bisogno di trovare scuse, sai? Mi è già capitato di incontrare ragazze etero con una cotta per me. Un paio di loro mi hanno anche baciato. Ma nessuna di loro era bella quanto te.”
Trattenne a stento un sorriso, mordendosi le labbra.
“Abbiamo passato Jacksonville, se può interessarti” cambiò abilmente argomento.
“Bene. Siamo a sei ore da Miami e abbiamo tutto il resto della giornata per andare verso New York.”
“Sono più o meno sedici ore da qui. Dovremmo farcela in un paio di giorni, tre al massimo.”
“Se non rimaniamo di nuovo senza benzina.”
“O non veniamo aggredite da un serial killer.”
“O da un branco di coyote.”
“Per tua informazione, io sono bisessuale.”
Sorrisi a me stessa.
“Due o tre giorni sembra perfetto.”

“Siamo già in North Carolina?”
“No, siamo ancora nel South. Ci sono le indicazioni per Georgetown. Possiamo fermarci lì per la notte, è giusto al confine tra i due Stati.”
“Perfetto. Stasera pago io, però.”
“Arizona, te l'ho detto. Avrei comunque dovuto fare il viaggio e dormire da qualche parte. Non preoccuparti troppo delle spese e goditi la mia meravigliosa compagnia.”
Sorrisi, ma non risposi immediatamente. Quando stavo per farlo, lei mi anticipò.
“Se domani riusciamo ad arrivare da Georgetown a Washington, che sono tipo, otto ore di viaggio, dopodomani posso lasciarti in Maryland senza nessun problema e riuscire ad arrivare a casa giusto in tempo.”
“In tempo?”
“Già. Quell'impegno di cui ti avevo parlato, ricordi?”
“Oh, giusto. Che impegno era, ora che ci penso?”
Si schiarì la voce.
“Il mio matrimonio.”
Cercai di non smettere di respirare per la sorpresa.
“Il tuo matrimonio?” ripetei sbalordita.
“Già. Mi sposo tra cinque giorni.”
“Cavolo.”
“Già.”
“Non sembri molto entusiasta.”
“Lo sono. Moltissimo entusiasta.”
“Se lo dici tu.”
“Lo dico io.”
“Bene.”
“Benissimo.”
“Congratulazioni.”
“Ti ringrazio.”
“Figurati.”
“Devi sempre avere l'ultima parola?”
“E tu?”
Quella conversazione andò avanti con frasi da poche sillabe finché finalmente non arrivammo a Georgetown.
Rimasi in silenzio mentre Calliope chiedeva due singole e durante la registrazione, non dissi una parola in ascensore e non le detti la buonanotte quando mi richiusi la porta di camera mia alle spalle.
Qualcosa mi aveva irritato e non sapevo perché. Ma, di sicuro, non era per il fatto che stava per sposarsi. Quello sarebbe stato semplicemente ridicolo, perché avrebbe significato che io ero gelosa di lei. Cosa che non ero.
Dopo essermi fatta la doccia ed essere rimasta per un'ora sdraiata sul letto mi decisi ad alzarmi e a bussare alla sua stanza, proprio difronte alla mia. Avevo il pugno sollevato a meno di due centimetri dal legno. Ero proprio lì in piedi in mezzo al corridoio con addosso un pigiama. Avrei dovuto sbrigarmi, invece ero paralizzata. Non ci riuscii. Sospirando, abbassai il braccio e mi voltai, facendo un paio di passi verso la mia camera. Avevo la maniglia in mano quando la porta di camera sua si aprì. Mi voltai lentamente.
“Che stai facendo?” chiese con l'espressione di un cerbiatto catturato dai fari di un'automobile.
“Stavo venendo...” indicai la porta sulla cui soglia lei si era fermata. “E tu che stavi facendo?”
“Stessa cosa” rispose velocemente e distogliendo lo sguardo.
“Mi dispiace. Mi sono comportata in modo immaturo.”
“Dispiace anche a me. Vuoi...” si scansò dalla porta, indicando l'interno della sua stanza con una mano.
“Che ne penserebbe il tuo fidanzato di questa proposta?” chiesi, forse con un po' troppo sarcasmo nella voce.
Lei si limitò a fissarmi con espressione dura.
“È una cosa che fai abitualmente?” anche prima che le parole lasciassero la mia bocca potevo rendermi perfettamente conto di quanto erano sbagliate ed ingiuste, ma non ero riuscita a fare a meno di dirle ad alta voce. I sensi di colpa si fecero sentire immediatamente alla vista della sua espressione ferita. Ma non mi fermai. “Tradirlo, intendo. O ti sei in qualche modo convinta che le donne non contino?” alzai un sopracciglio nella sua direzione. Da dove mi era venuta fuori una frase del genere?
Scusati con lei, pensai.
La porta della sua camera si chiuse con un rumore forte che sembrò colpirmi dritto in pieno viso e svegliarmi.
Troppo tardi per le scuse, idiota.

Non dormii molto. Quasi per niente, in realtà. La mattina dopo ero in piedi parecchio presto. Dopo aver fatto colazione in albergo preparai le mie cose ed uscii, pronta all'eventualità che Calliope si fosse rifiutata di passare altro tempo con me.
Indossava degli occhiali da sole, quindi era impossibile capire se mi aveva visto arrivare. Era seduta sul cofano della macchina.
“Non credo ce ne sarà bisogno, tesoro. Sarò lì entro mercoledì, venerdì andrà benissimo. Lo so, ma non potevo rimandare, volevo la macchina a casa prima di iniziare la specializzazione. Sì, è ancora qui con me, è appena arrivata. Maryland. Le dirò che lo hai detto. Ci sentiamo più tardi.”
Scese dal cofano, aprendo la portiera dell'auto per me.
Salii senza fare domande.
Vorrei poter dire che il viaggio trascorse in silenzio, perché quello sarebbe stato notevolmente più facile. Ma è risaputo che le persone tendono a prendere la strada meno semplice, la maggior parte delle volte.
“Dico solo, quanto potrà mai essere importante se in due giorni non hai mai parlato del fatto che ti stavi sposando?”
“Vuoi, per favore, lasciar perdere?”
“Che ne pensano i tuoi genitori di questo tizio?”
“Io ed i miei non siamo in rapporti molto stretti al momento” rispose a bassa voce. “Non sono molto d'accordo con alcune delle mie relazioni precedenti. Soprattutto per quanto riguarda la mia ex ragazza.”
Cambiai argomento alla svelta.
“Non capisco perché non vuoi parlarne. Sono solo preoccupata che il tuo matrimonio vada ad incrementare la percentuale dei divorzi degli Stati Uniti.”
“Come no. Senti, tu non preoccuparti del mio matrimonio. O del mio divorzio, perché per tua informazione non ce ne sarà uno. Sono sicura della decisione che sto facendo e non ho intenzione di cambiare idea.”
“Che stai facendo?”
“Accosto.”
“Perché?”
“Perché mi dai così tanto sui nervi che se non esco da qui entro due minuti potrei non presentarmi al mio matrimonio a causa di un processo per omicidio in cui dovrei spiegare al giudice che se non ti avessi mandato a dormire con i pesci tu mi avresti fatto impazzire. E non nel senso buono del termine.”
“A dormire con i pesci? Cosa sei, un membro della mafia?”
“Oddio, devi essere la persona più irritante del fottuto Maryland. Degli Stati Uniti. Della Terra. Del Sistema solare, della Via Lattea, dell'intero Universo conosciuto e sconosciuto.”
“Un tuo pregio è che non tendi mai ad esagerare la realtà dei fatti.”
Il suo cellulare squillò mentre uscivamo dalla macchina.
“Pronto?” rispose bruscamente. “Oh, tesoro, no. No non è un brutto momento, mi dispiace. Sono solo molto stanca dopo aver guidato per tre ore. Sai, stavo pensando che forse abbiamo fatto le cose un po' troppo in grande. Insomma, è uno dei posti più grandi di New York, c'entrano centinaia di persone e...” si bloccò per ascoltare la replica. “No, certo che no. Hai ragione. È stata una tua idea e le tue idee sono sempre le migliori.”
Alzai gli occhi al cielo. Avevo bisogno di mangiare qualcosa prima di poter finalmente riuscire a vomitare per la conversazione più smielata che avessi mai sentito.
“Parliamone.”
Sospirò.
“Che ne dici se, invece, tanto per cambiare un po', evitiamo di parlarne? Ancora meglio, evitiamo di parlare di qualsiasi cosa e basta.”
“Io credo che dovresti spiegarmi perché mi hai invitato a fare una doccia con te ed illuso visto che stai per sposarti.”
“Stavo scherzando” mi disse come se fosse ovvio. Ed un po' lo era. Insomma, che razza di persona invita qualcuno che ha appena conosciuto nella doccia? “Non sapevo nemmeno che fossi interessata alle donne” continuò esasperata. “Adesso possiamo parlare di qualcos'altro, per favore? Ti prego.”
Io rimasi in silenzio per qualche istante.
Sospirò di sollievo intuendo che avevo lasciato cadere l'argomento.
“Chi è il tizio con cui ti sposi in ogni caso?”
“Sei così irritante.”

Non saprei come successe.
So solo che mi ritrovai con le spalle contro una parete, una mano nei suoi capelli e l'altra tenuta premuta contro il muro sopra le nostre teste da una delle sue, mentre teneva l'altra appoggiata sul mio fianco. E mi stava baciando.
Non avevo idea di come fosse successo.
Un attimo prima stavamo urlando in macchina, un attimo dopo stavo prenotando una doppia e pagandola con la mia carta di credito, poi avevamo litigato in ascensore e appena entrate, dopo un mio ennesimo commento riguardo il suo matrimonio, mi aveva guardato con qualcosa ben oltre la semplice rabbia.
Un attimo dopo non c'era un millimetro di spazio tra di noi.
Tristemente, finì prima che potessi anche solo realizzare che stava succedendo davvero.
Si sedette sul letto con una mano tra i capelli.
“Che diavolo sto facendo?” sussurrò a se stessa.
Sospirando, mi sedetti accanto a lei.
“Senti, vorrei poterti dire che tutto quello che succede a Washington rimane a Washington, o qualcosa del genere che ti farebbe finire tra le mie braccia per qualche momento che poi vorresti poter dimenticare. Oppure vorrei poterti dire che potremmo avere un bel futuro insieme ovunque tu stia andando. Ma le probabilità sono che ti ricorderai di questa notte come di un errore, qualsiasi cosa tu decida di fare. Siamo due perfette estranee in una stanza d'albergo e non ci rivedremo mai più una volta che io sarò a Baltimora e tu a New York. Ma tu saprai sempre ciò che è successo davvero tra di noi e dovrai conviverci. Quindi la scelta spetta a te. È solo sesso. Se può consolarti, lui non lo saprà mai. E ciò che non sa non può ferirlo.”
“Io e te non ci conosciamo affatto” sussurrò, persa nei suoi pensieri.
“Già. È proprio questo il punto quando qualcuno dice che è solo sesso.”
Mi guardò con quegli occhi così profondi ed infiniti che perdervisi era inevitabile e scosse impercettibilmente la testa.
“Non è mai soltanto sesso.”
Corrugai la fronte, stavo per replicare, ma lei mi anticipò.
“Può essere amore, amicizia, solitudine, tristezza, vendetta, felicità, in generale qualsiasi tipo di problema al mondo o qualsiasi tipo di emozione positiva. Ma c'è sempre qualcosa che sta dietro la scusa banale che è quella frase.”
“E tu ti senti sola, non è vero, Calliope?” sfidai la sorte, cercando di giocare bene le pessime carte che avevo. “Stai per sposarti e non ti sei mai sentita così sola” le accarezzai i capelli mentre continuavo a memorizzare i suoi lineamenti.
Era stata una bugia, ovviamente. Io e lei, ormai, ci conoscevamo meglio di quanto entrambe ci tenevamo ad ammettere.
“Qual'è il tuo motivo, Arizona?” domandò gentilmente in poco più di un sussurro.
Scrollai le spalle, deglutendo a vuoto.
“Vorrei che tu mi guarissi. Sei una persona così gentile, così buona. Ed io sono rotta. Io non sono in grado di amare.”
Corrugò la fronte.
“Cosa te lo fa pensare?”
“Io fuggo. Ho passato la mia intera vita a scappare via da qualsiasi tipo di impegno, per quanto riguarda l'amore e l'affetto in generale. Tu non sei come me. Posso leggerti negli occhi che hai capito perfettamente cos'è l'amore. Tutto quello che vorrei è che tu mi guarissi. Vorrei provare a capirlo anche io.”
Mi guardò con le lacrime agli occhi e vi lessi tanta tristezza da far commuovere anche il più duro dei cuori.
“Va tutto bene” la rassicurai, passandole una mano tra i capelli. “Andrà tutto bene” mi corressi.
“Non posso” sussurrò.
“Lo so” la tranquillizzai.
“Non posso” ripeté.
Annuii, avvicinandomi ed abbracciandola. Sentii alcune lacrime toccare la pelle del mio collo e della mia spalla, ma non riuscii a mollare la presa che avevo su di lei.

La mattina dopo la aspettai nel parcheggio dell'albergo con lo zaino in spalla.
“Buongiorno” mi salutò timidamente.
“Ciao” cercai di sembrare rassicurante mentre ricambiavo il sorriso.
Calliope Torres era bella. La più bella donna che io avessi mai visto. Ma era molto più di quello, in realtà.
Avevo la morte nel cuore per la consapevolezza che non avrei mai avuto l'occasione di scoprire chi fosse davvero Calliope fino in fondo.
“Allora” iniziai. “Quei ragazzi laggiù stanno tornando alla Hopkins in realtà” indicai un gruppo di ragazzi dall'altra parte del parcheggio. “Stanno nel quartiere accanto al mio, così ho pensato che avrebbero potuto accompagnarmi loro. È più comodo per tutti, tu non dovrai perdere tempo per portarmi fino a lì e arriverai perfettamente in tempo per...” non riuscii a terminare la frase.
Sembrò parecchio spiazzata. Guardò verso la macchina che avevo indicato.
“Sei sicura? Non dovrei allungare di molto, comunque.”
“No, sono sicura” le sorrisi. “Buona fortuna per tutto, Calliope.”
Lei si rigirò le chiavi della propria automobile tra le mani.
“D'accordo” si arrese con una strana espressione di preoccupazione, forse tristezza. “Allora buon ritorno a Baltimora. E buona fortuna anche a te, Arizona.”
Feci un passo nella sua direzione. Lei rimase immobile. Ma era la cosa giusta da fare, lasciarla andare. Tesi lentamente una mano nella sua direzione. Lei la prese delicatamente, ed invece di scuoterla in segno di saluto si limitò a stringerla e ad accarezzare il dorso della mia mano con il pollice.
“Addio Arizona.”
“Addio, Calliope.”
Salì in macchina e mi guardò avvicinarmi al gruppo dei ragazzi. Quando fui più o meno a metà strada mi voltai, salutandola con la mano mentre indietreggiavo.
Lei ricambiò il gesto. Poi mise in moto e partì. Per qualche istante rimasi ferma a guardare la sua auto sparire.
Mi voltai verso i ragazzi che a quel punto erano ad un paio di passi da me.
“Ciao” li salutai.
Quello che doveva essere il proprietario dell'auto si voltò nella mia direzione, ricambiando il mio saluto con un cenno della testa.
“Avete per caso una sigaretta?” domandai loro.
Uno dei suoi amici mi sorrise, offrendomene una e porgendomi un accendino. Appena inalata la prima boccata di fumo glielo restituii, allontanandomi.
Poi rimasi a guardare mentre uscivano dal parcheggio prendendo la direzione opposta a quella in cui ero diretta io.
Finii la sigaretta con calma.
Quando inalai l'ultima boccata di fumo quel desiderio di nicotina che sembrava volesse mangiarmi fino a poco prima si era finalmente calmato. Gettai il mozzicone a terra, calpestandolo velocemente prima di avvicinarmi al bordo della strada e iniziare a camminare nonostante il caldo, alzando il braccio ogni volta che vedevo passare un'automobile.
Dopo un paio d'ore sotto il sole e davvero poca distanza effettivamente percorsa, qualcuno finalmente si fermò. Guardai la ragazza e sospirai mentre il finestrino davanti a me si abbassava.
Ed ecco che si ricomincia da capo, pensai.
“Ha bisogno di un passaggio” osservò.
“Già” risposi sommessamente, notando come Calliope aveva usato le stesse parole, anche lei senza usare il tono di una domanda ma quello di un'affermazione. “Sto andando verso il Maryland.”

Rimasi a lungo in silenzio. Pensando a lei.
“Sta bene? Ha detto a malapena una parola.”
“Tutto ok.”
“D'accordo.”
Continuai a non parlare. Perlopiù perché non sapevo cosa dire.
“Sto scappando” mi disse senza motivo apparente. “Credo che dovrebbe saperlo. Sono una fuggitiva.”
Mi voltai verso di lei con gli occhi leggermente sgranati.
“Tipo, dalla legge?”
“Cosa? No” rise. “No, certo che no. Da mio marito. Che ha scoperto che l'ho tradito col suo migliore amico, ma che non sa che in realtà lo amavo davvero e che dopo che lui se n'è andato ho vissuto insieme a lui per tre mesi e abortito il suo bambino e ora scappo perché mio marito, o dovrei dire ex marito, suppongo, non mi vuole, ed io non voglio il suo migliore amico” mi spiegò con un piccolo sbuffo alla fine, senza distogliere gli occhi dalla strada. “Mi scusi, ma avevo davvero bisogno di dirlo a voce alta, e lei si trovava proprio qui, nel posto giusto al momento giusto.”
“Ok.”
“Lei che mi racconta, invece?”
Scrollai le spalle.
“Andiamo, non c'è niente che vorrebbe dire ad alta voce a qualcuno che non la giudicherà?” chiese guardando brevemente verso di me.
“Chi le dice che io non la stia giudicando?”
“Mi sta giudicando?”
“Affatto. Anzi, la capisco. Anche io gestisco le cose scappando. Io scappo sempre, tutto il tempo, da qualsiasi cosa. A dire la verità è quello che ho fatto anche oggi, sono scappata.”
“Continui. La ascolto.”
“Una donna mi ha dato un passaggio dalla Florida a qui, mi sono presa una cotta per lei, ma lei venerdì si sposa ed io l'ho lasciata andare perché non penso che sarei mai in grado di darle quella stabilità di cui una persona come lei ha bisogno, o di mettere i suoi bisogni davanti ai miei, così l'ho lasciata andare.”
“Ma non avrebbe voluto farlo.”
“No.”
“Però lo ha fatto lo stesso, perché credeva sarebbe stata la cosa migliore per lei.”
“Sì.”
“Mi dispiace dirglielo, ma ha già messo i bisogni di questa donna davanti ai suoi quando ha deciso di darle la possibilità di andare via.”
Io corrugai la fronte.
“Sì, forse è vero. Ma vorrei non averlo fatto.”
“Dove ha detto che abita?”
“Baltimora.”
“Perfetto. Stavo pensando di fermarmi lì per la notte in ogni caso e domani mattina proseguo per New York.”
“Sta andando a New York?”
“Sì. Mi hanno offerto un lavoro lì in città.”
“Se vuole può dormire a casa mia e della mia coinquilina. Mi sembra il minimo visto che mi ha dato un passaggio fino a casa.”
Lei sorrise. “Sarebbe senza dubbio più conveniente che pagare una stanza. È sicura?”
“Certo.”

Addison Montgomery e Teddy Altman si guardarono negli occhi e qualcosa, da qualche parte, dentro di loro, precipitò e fece un gran rumore. Fu così forte che scosse tutto e che svegliò qualcosa di addormentato dentro le loro anime. Rimasero per parecchi secondi con le mani che si toccavano, del tutto immobili, a guardarsi negli occhi.
Addison Montgomery e Teddy Altman si conobbero e mi fecero credere che forse, tutto sommato, l'amore a prima vista esisteva davvero.
Era di quello che si trattava per me e Calliope?
“Vengo con te a New York” dissi rompendo quella sorta di trance in cui erano cadute entrambe, facendole voltare verso di me. “Devo trovare Calliope prima che sposi quel tizio e dirle che dovrebbe scegliere me. Anche se sembra folle e non ha senso, perché io non la conosco e lei non conosce me, ma io sento nel più profondo del mio cuore che se solo lei mi desse un'occasione io potrei renderla felice.”
Teddy corrugò la fronte. “Chi è Calliope?”
“La sua anima gemella, a quanto sembra” la aggiornò Addison. “Devo andare a New York in ogni caso, domani. Ed ho un posto in più se la tua coinquilina vuole venire” disse, voltandosi verso Teddy.
La bionda le sorrise, limitandosi ad annuire.
“Bene. Allora è deciso. Domani mattina partiamo per New York.”
E così facemmo, giovedì mattina partimmo e nel primo pomeriggio eravamo in città.
“Ok. Adesso dimmi il nome della chiesa così posso metterlo nel navigatore satellitare” mi dette istruzioni Addison.
Io mi morsi il labbro inferiore, cercando di pensare in fretta.
“Anzi, ancora meglio, inseriscilo tu stessa” mi indicò il piccolo schermo.
Io esitai.
“Che c'è?” chiese, corrugando la fronte.
“Oh, mio Dio, tu non sai in che chiesa si sta sposando” affermò Teddy con indignazione.
“Non è che ne abbiamo proprio parlato, ok? Io facevo domande riguardo quanto idiota fosse il suo fidanzato e lei mi rispondeva che ero la persona più irritante al mondo. Fine. Non so nemmeno il nome del tizio.”
Per qualche istante ci fu silenzio.
“Non posso crederci, Arizona. Mi hai trascinato qui e non sappiamo nemmeno dove stiamo andando, è stato tutto completamente inutile” disse Teddy, alzando la voce, mentre si lasciava ricadere contro il sedile.
È uno dei posti più grandi di New York, c'entrano centinaia di persone.
“Beh, so che è una delle più importanti chiese della città” sperai che quello fosse d'aiuto, ma ne dubitavo.
“Ok, non disperiamoci prima del tempo” disse Addison. “Sai almeno se è di religione protestante, cattolica...”
“Come dovrei fare a saperlo?”
“Non lo so. Ha menzionato qualcosa sul celibato del suo prete o sulla moglie del suo pastore in una delle vostre conversazioni, per caso?”
“Non che io ricordi. Ma è di origini latine, quindi se dovessi tirare ad indovinare direi cattolica.”
“Ok, sono solo io o questo era un filino razzista?” chiese Teddy. “E poi il suo fidanzato potrebbe essere protestante. O ebreo, perfino.”
La ignorammo.
“A New York ci sono tre chiese cattoliche molto importanti” mi fece sapere Addison “ma due di esse sono cattedrali. Non penso che abbia talmente tanti soldi da potersi permettere di sposarsi in una cattedrale, quindi io punterei sulla chiesa. La Trinity Church.”
“Andiamo” la incoraggiai mentre inserivo il nome nel navigatore.
Si fermò davanti alla chiesa, scesi di corsa, nonostante non ce ne fosse motivo visto che il matrimonio era il giorno successivo. La chiesa era pressoché vuota, il Parroco stava sistemando delle decorazioni sull'altare. Sospirando, mi avvicinai.
“Padre, mi scusi” sussurrai, cercando di non interferire con qualsiasi cosa di spirituale stesse facendo. “Ha un minuto da concedermi per un paio di domande?”
Lui si alzò in piedi, sorridendomi mentre si voltava verso di me.
“Dimmi pure, mia cara” mi incoraggiò, intrecciando le dita delle proprie mani.
Mi schiarii la voce.
“So che è una domanda un po' strana, ma domani per caso verrà celebrato un matrimonio qui?”
Lui sorrise.
“Celebriamo un matrimonio quasi ogni domenica. Ma se vuole prenotare una data così ravvicinata forse posso...”
“Oh, no. No, no” risi di gusto, scuotendo la testa. “No” risposi con decisione. “Vorrei sapere se domani Calliope Torres si sposerà qui.”
Rifletté per un momento.
“Teresa.”
“Mi scusi?”
“Il nome della sposa mi sembra che fosse Teresa. Una cara ragazza, viene dalla Spagna, i suoi genitori sono davvero molto cordiali.”
Corrugai la fronte.
“Ne è sicuro?”
Annuì.
“Non conosco una Calliope Torres, mi dispiace.”
“Non si preoccupi. La ringrazio per il suo tempo.”
Tornai in macchina ignorando i clacson delle vetture della fila che Addison aveva causato fermandosi in mezzo alla strada. Ripartì appena salii per farli smettere.
“Allora?”
“Nessuna Calliope Torres che si sposa lì domani” ammisi, sconfitta.
Ci fu qualche momento di silenzio.
“Mi dispiace, Arizona” cercò di incoraggiarmi Addison.
“Ah, hai detto Torres?” chiese invece Teddy. “Forse dovremmo controllare le due cattedrali.”
Mi voltai verso il sedile posteriore, corrugando la fronte.
“Torres. Gli alberghi a quattro stelle diffusi su tutto il pianeta. Possibilità che lei sia la figlia dell'uomo che possiede la catena?”
Una camera d'albergo non è qualcosa di cui dovresti mai preoccuparti quando sei con me.
“Quale è il nome delle due cattedrali?” chiesi in un sussurro.
Dopo quasi un'interminabile ora di fila, entrai nel piccolo abitacolo in cui il Pastore stava confessando. Quella era la mia ultima opzione, doveva per forza essere la chiesa giusta.
Disse qualcosa sommessamente che non riuscii a capire a causa del fatto che ero distratta dai miei pensieri.
“Quale peccato sei qui per confessare?” chiese con voce gentile.
“È una storia parecchio lunga. Ma, in breve” tagliai corto. “Credo di essermi innamorata di una donna.”
“Non temere, figliola. Tutte le pecorelle del Signore smarriscono la via, di tanto in tanto. Ma questo non significa...”
“Oh, no. Vede, in realtà io non penso che questo sia un peccato. In tutta onestà, non sono nemmeno cattolica. Padre” aggiunsi sperando di non mancare di rispetto. “In ogni caso, come le dicevo, credo di essermi innamorata di questa donna, che deve sposarsi domani. Mi chiedevo se per caso lei sapesse se il matrimonio verrà celebrato qui. Il suo nome è Calliope Torres.”
Rimase in silenzio a lungo.
“Mi dispiace, ma non posso aiutarla.”
“No, senta, lo so che lei pensa che io sia malata e tutto il resto. Ma io devo assolutamente parlare con questa persona, capisce? Perché credo che stia commettendo il più grande errore della sua vita e tra cinque, o magari cinquant'anni, non amerà l'uomo che sta sposando come penso che avrebbe potuto amare me. So che lei non lo capisce, e lo rispetto, davvero, ma sono sicura che non vorrebbe celebrare un matrimonio che con il tempo finirà per essere infelice.”
Si schiarì la voce.
“Non posso aiutarla perché non conosco nessuna donna con quel nome.”
“Oh.”
“Se non le dispiace, vorrei continuare con le confessioni.”
“Certo. Mi scusi, mi tolgo subito dai piedi. Buona giornata.”

Quando quella sera mi lasciai cadere sopra al divano nel soggiorno dell'appartamento di Addison, avevo un senso di delusione addosso difficile da poter cancellare.
“Ok, quindi non era una delle tre più importanti. Possiamo provare di nuovo domani” propose Addison.
“Non la troverò mai. Sai quante chiese cattoliche ci sono in tutta New York City?” le domandai chiudendo gli occhi. “Solo le più importanti sono undici. Ho controllato su Google. Non la troverò mai in tempo.”
“Forse non era destino. Forse, come hai detto tu, la cosa giusta era lasciarla andare” cercò di consolarmi la rossa.
“Forse sì” sussurrai sommessamente.
“Mi rifiuto di crederci” intervenne Teddy con decisione. “Arizona, tu scappi. Costantemente, da tutte le relazioni che hai avuto. Eppure eccoci qui, a New York, a cercare una donna che non conosci per convincerla a non sposarsi perché pensi che dovrebbe passare il resto della sua vita con te.”
“Dannatamente giusto” risposi.
“E allora pensa. Qualsiasi cosa che ha detto a riguardo potrebbe aiutarci. Abbiamo tutta la notte e la sfrutteremo in pieno.”
“Non mi viene in mente niente. Neanche il più piccolo dettaglio.”
“Ok, non stiamo vedendo questa cosa nel modo giusto. Ci sono un sacco di chiese, questo è sicuro, ma una sola Calliope Torres. Quindi, come troviamo una persona in una città dove ce ne sono più di otto milioni?” chiese la bionda ad alta voce.
“Si deve sposare domani. Quindi non sarà a casa sua, ma dai suoi genitori” ipotizzò Addison. “Perfetto. Qualcuno saprà dove si trova il proprietario di una delle catene di alberghi più famose degli Stati Uniti, no?” Teddy le sorrise.
“Ragazze, no. Non è dai suoi genitori. Non è in buoni rapporti con loro da quello che ho capito. Ha accennato al fatto che non erano completamente d'accordo con una sua passata relazione con una donna.”
“Ma allora Teddy ha ragione. Se non si sta sposando con qualcuno cattolico le probabilità che sia in una chiesa cattolica sono parecchio basse, visto che ha litigato con i suoi genitori probabilmente si è anche staccata un po' dalla sua fede e tutto. Continuare a cercare in chiese a caso non sembra la soluzione.”
Qualcosa con quella frase andò al proprio posto. All'improvviso, era tutto chiaro.
“Ma certo” mi alzai di scatto. “Il municipio.”
Mi guardarono entrambe con aria perplessa.
“Il posto grande era la sala per il ricevimento, non una delle tre chiese più grandi. Si sta sposando in municipio, ecco perché nonostante sia cattolica e ricca non si sta sposando in una di quelle tre chiese.”
“Potresti avere ragione” Addison sorrise. “Aspettiamo domani mattina e andiamo a controllare.”
“Ma, Arizona, se ti sbagli, non c'è più tempo per fare altro. Quindi cerca di pensare anche a questa possibilità, ok?”
Annuii alla richiesta di Teddy, mettendomi di nuovo seduta sul letto.

Sorseggiai lentamente il caffè che avevo in mano.
“Mi sto annoiando.”
“Mi dispiace per te” replicai. “Se vuoi puoi andartene, Teddy. Ma io rimarrò qui tutto il giorno, nell'eventualità che si presenti.”
Dopo un paio d'ore di attesa Teddy scese per andare a pranzo, Addison salì qualche minuto dopo con un panino per me. Teddy tornò dopo pranzo e rimase mentre Addison andava a presentarsi al suo nuovo datore di lavoro. Quando tornò era ormai tardo pomeriggio.
“Mi dispiace, Arizona” sussurrò Teddy prendendomi la mano. “Ma non credo che lei verrà.”
“Pensavo davvero che sarei riuscita a trovarla” sussurrai più a me stessa che a loro due, alzandomi finalmente in piedi per la prima volta da quella mattina. Non avevo distolto gli occhi dall'ascensore neanche per un momento per tutto il giorno. Ma non c'era traccia di lei. “A quanto pare mi sbagliavo.”
Ci fermammo davanti all'ascensore, Teddy premette il pulsante di chiamata ed aspettammo.
Sarei andata avanti con la mia vita, a quel punto, come se niente di tutto quello avesse importanza, come se quella settimana non fosse mai accaduta. Mi sarei trasferita a Seattle, da lì a poco, e avrei terminato la specializzazione in chirurgia pediatrica. Me la sarei cavata. Era questo che dovevo continuare a ripetermi.
“Avresti dovuto vederla, Teddy” confessai. “Era...” con un piccolo suono le porte dell'ascensore si aprirono.
La donna all'interno alzò lo sguardo, corrugando la fronte e inclinando leggermente la testa di lato. Non c'era paragone con l'aspetto che aveva avuto dopo ore ed ore di viaggio dentro una macchina sotto il sole, era truccata in modo più sofisticato e vestita con abiti parecchio più eleganti.
Era una visione ad occhi aperti, in quel momento.
Ma dopo ore ed ore di viaggio in macchina sotto il sole, la sua bellezza era più semplice e allo stesso tempo più incontenibile. Era come se si imponesse con forza anche quando le probabilità erano a sfavore. Era una bellezza primitiva.
La donna che avevo davanti era di una bellezza più classica. Più angelica. Ma, sorprendentemente, altrettanto incontenibile.
“...perfetta” conclusi. Sbattei le palpebre, cercando di riacquistare un minimo di controllo su me stessa. “Sei perfetta, Calliope. Semplicemente bellissima” mi complimentai.
“Arizona. Che” guardò le due donne alla mia sinistra. “Che ci fai qui?” chiese, uscendo dall'ascensore. Aveva la fronte corrugata.
Improvvisamente ricordai. Corrugai la fronte, guardando in basso.
“Non sposarlo” la mia voce uscì stracolma di tristezza. “Sarebbe un errore.”
Continuò a guardarmi con espressione perplessa, le sopracciglia vicine.
Un suono simile al primo annunciò l'apertura delle porte dell'altro ascensore.
“Eccomi. Ho preso i fogli che avevo lasciato in macchina. Hai chiesto al giudice di aspettare? Callie?”
Lei continuò a guardare me, la solita espressione confusa, ma dura.
“Sadie, puoi aspettare un momento? C'è una vecchia amica con cui devo scambiare due parole.”
“Ma” il sorriso sul suo viso vacillò “il giudice non rimarrà ancora per molto. Faremo tardi al ricevimento o, anche peggio, potremmo non fare in tempo a sposarci affatto.”
“Ci vorranno solo due minuti” le rispose senza distogliere lo sguardo da me. Mi afferrò il gomito con il braccio ed iniziò a camminare velocemente lungo il corridoio, spingendomi alla fine dentro un bagno. “Che ci fai a New York?”
“Cercavo te.”
“Perché?”
“Non hai sentito? Non ti sposare” le presi le mani tra le mie. “Vieni via con me.”
“Arizona” chiuse gli occhi, sospirando. “È complicato.”
“Prova a spiegarmi.”
Si appoggiò al ripiano dei lavandini. Inspirò, prima di iniziare.
“Conosco Sadie da quando eravamo piccole. Abbiamo fatto tutto insieme, dall'asilo fino al diploma. Alla fine l'ho perfino convinta a seguirmi a medicina. Ma la verità è che sono io che farei qualsiasi cosa per accontentare lei. Un po' di tempo fa stavo con questa ragazza, Erica. Una persona con un carattere...” cercò la parola giusta. “Duro. Con un cuore duro. Ai miei genitori non piaceva. Non mi hanno mai perdonato quei tre mesi in cui siamo state insieme. Hanno sempre adorato Sadie, però. Credono che sia la persona giusta per me e, francamente, lo credo anch'io. Mi sono fatta avanti qualche mese fa, lei ricambiava, così abbiamo iniziato ad uscire insieme. Ho sempre pensato che un giorno, quando avremmo entrambe avuto un buon lavoro, ci saremmo sistemate e le avrei chiesto di sposarmi. Poi mi sono laureata ed il giorno prima che partissi per Miami per recuperare la mia vecchia automobile mi ha detto che voleva che ci sposassimo. Il prima possibile. Che non vuole passare altro tempo senza essere sposata con me, se può evitarlo. Come ho detto, io farei qualsiasi cosa per lei.”
Sospirai, alzando gli occhi verso il soffitto.
“Credo semplicemente di non aver trovato niente di sbagliato nel concetto 'perché aspettare? Prima o poi ci sposeremmo comunque e staremo insieme per sempre, in ogni caso'. Ma poi sono partita per Miami. Ed ho incontrato te. E adesso non sono più sicura di niente.”
La guardai vedendo il suo viso appannato dalle lacrime che si erano fermate dentro i miei occhi.
“Perché non mi hai detto che era una donna?”
Scrollò le spalle.
“Avrebbe fatto qualche differenza?”
“Suppongo di no.”
Una volta, una sola volta avevo aperto il cuore a qualcuno. Ed ecco il risultato. Una ferita proprio contro quello stesso cuore che non avrei mai dovuto scegliere di aprire.
“Credo che dovresti andare. Prima che il giudice vada via” sussurrai, ricacciando indietro le lacrime.
“È davvero quello che vuoi?”
“No” risposi francamente. “Ma non sono io la persona per cui faresti qualsiasi cosa, giusto?”
“Potresti esserlo. Potresti davvero.”
“Forse sì. E lo sarei meglio di lei, Calliope. Senza secondi fini e senza obbligarti a fare niente che in realtà non vuoi già fare, ecco il modo in cui dovrebbe essere. Forse avrei potuto esserlo. Ma, ora, in questo momento, non lo sono. Fidati quando ti dico che non riesco a credere a quello che sto dicendo, visto che ho passato ieri a cercarti in giro per alcune chiese cattoliche di New York prese praticamente a caso e oggi seduta per tutto il giorno qui sperando di vederti arrivare, ma credo che dovresti andare, o farai tardi al tuo matrimonio.”
Lei mi si avvicinò. Era leggermente più alta di me. Mi guardò negli occhi ed appoggiò la mano destra sulla mia guancia sinistra, facendo scorrere la punta del pollice lungo il mio naso, prima di abbassarsi e baciarmi a fior di labbra.
“Non credo che sarò mai in grado di dimenticarmi di te.”
“Io sono sicura che non lo farò, Calliope.”
Si allontanò. Rimasi ad occhi chiusi.
“Calliope?”
“Sì?”
“Ricordi quando ti ho detto che speravo che riuscissi ad aggiustarmi? Di come io non riesco ad amare?”
“Mi ricordo, sì.”
Inspirai, cercando un po' di coraggio. Aprii gli occhi.
“Non sono brava con le parole. Non posso guardarti negli occhi e farti uno di quei grandi discorsi che cambiano la vita” sussurrai con rassegnazione. “Non so come si fa una cosa del genere” ammisi scrollando appena le spalle. “Io non so parlare d'amore. Non so spiegare cosa sia l'amore” scossi la testa, la voce mi tremò leggermente. “Io amo.” Non c'era dubbio nella mia voce. “Adesso, grazie a te, io amo, Calliope.”
“Mi fa piacere sentirtelo dire” cercò di mantenere un tono distaccato. “Ti auguro tutto l'amore del mondo, Arizona. E ricorda sempre che hai già il mio.”
La porta del bagno si richiuse piano alle sue spalle. Dopo tre secondi esatti uscii, praticamente precipitandomi verso l'ascensore e poi fuori da quel posto, Teddy ed Addison dietro di me.
Ed ecco che, ancora una volta, mi ritrovavo a fuggire via.

Tutto accade per una ragione.
Ci sono al mondo più di sette miliardi di persone. Più di trecento milioni solo negli Stati Uniti. Di queste, quasi diciannove milioni vivono in Florida.
Tra tutte le persone che avrei potuto incontrare quel giorno, io avevo trovato lei.
E nonostante non fosse il momento, il luogo né la persona giusta, mi ero innamorata di lei.
Tra sette miliardi di persone, avevo conosciuto l'unica che era stata in grado di avvicinarsi tanto da spezzarmi il cuore.
Dicono che tutto accade per una ragione.
Ma se c'è una ragione per questo, io non l'ho ancora trovata.

Ed ecco che si ricomincia da capo, pensai.
Il finestrino si abbassò lentamente.
“Ha bisogno di un passaggio.”
Il mio cuore mancò un battito.
“Già. Sto andando verso Seattle.”
“Che coincidenza. Sto andando lì anche io.”




Finale molto aperto, lo so...ma prometto che questo è l'ultimo! :P

Ok, sparo un numero...60? Che ve ne pare, come numero di shot della raccolta? Troppe? Troppo poche? Un numero accettabile?

Grazie mille per aver letto! :)



Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Il nostro primo bivio ***


Ringrazio ancora tutte voi che avete recensito la storia, siete fantastiche <3

Avvertimenti: molto AU! Song-fiction.




Uploaded with ImageShack.us



Il nostro primo bivio


C'è sempre un momento in cui abbiamo la possibilità di scegliere.
Questo non vuol sempre dire che decidiamo di farlo davvero. Capita che sia solo più semplice limitarsi a non scegliere, ecco tutto. Ma alla fine, se tu non riesci a farlo, saranno gli altri a scegliere per te.
Quindi forse è meglio fare un bel respiro, chiudere gli occhi, e limitarsi a prendere testa o croce, perché la verità è che potrebbe andar male in entrambi i casi. O potrebbe andar bene in entrambi i casi. Nessuno può mai saperlo prima, quindi è di questo che si tratta. Di lanciare una moneta ad occhi chiusi. Di scegliere una delle due strade senza pensarci troppo, come viene, a istinto, e cercare di ricavare il meglio dalla strada che abbiamo preso.
Alla fine, è questo quello che importa, giusto?
Cercare di cavarsela con le carte che la vita ci ha passato.
Che siano un poker d'assi o una coppia di nove. Certo, rimane vero che con la prima è più facile vincere, ma quando si è in gioco, vale sempre la pena di provare.
“Ti ho fatto una domanda piuttosto chiara, Calliope. Voglio una risposta diretta.”
Chiusi gli occhi.
Inspirai.
Testa o croce.
Destra o sinistra.
Pari o dispari.
Sì. O no.

“Sì.”
Il problema è che le cose nella vita non sono mai così semplici.
Magari il mondo fosse in bianco e nero. Le cose sarebbero di gran lunga più facili. Ma la verità è che ci sono infinite sfumature di grigio con cui non riusciamo a tenere il passo.
E qualche volta, semplicemente, non c'è una risposta giusta.
Ma la mia era stata definitivamente quella sbagliata.

“No.”
Il problema è che le cose nella vita non sono mai così semplici.
Magari il mondo fosse in bianco e nero. Le cose sarebbero di gran lunga più facili. Ma la verità è che ci sono infinite sfumature di grigio con cui non riusciamo a tenere il passo.
E qualche volta, semplicemente, non c'è una risposta giusta.
Ma la mia mi aveva permesso di arrivare a fine giornata.

“Fuori.”
“Papà...”
“Vattene. Esci da casa mia.”
“Papà, ti prego.”
“Carlos, che sta succedendo?”
“Mamma, mi dispiace così tanto.”
“Di cosa ti dispiace, tesoro?”
“Diglielo. Dille di cosa ti dispiace, Callie” quel nome detto da mio padre suonava strano, impersonale. Freddo.
“Mi dispiace” ripetei, guardandomi le mani. La voce mi tremava. Perché non potevo mentire come tutti gli adolescenti? Raccolsi ogni briciola di coraggio che mi era rimasta. “Mi piacciono le ragazze” sussurrai. “Nel modo in cui dovrebbero piacermi i ragazzi.”
Mio padre colpì con forza un libro appoggiato sul tavolino del soggiorno, mandandolo a sbattere contro una parete.
“Vai a prendere le tue cose” mi disse, passandosi la mano che aveva scaraventato il libro sul viso con lentezza. “Ti voglio fuori da qui entro un'ora.”
Osservai Lucia per diversi momenti. Era come paralizzata.
“Mamma, mi dispiace. Se potessi farci qualcosa...”
“I segreti si chiamano segreti per un motivo, Callie. Perché dovrebbero rimanere tali. Hai idea di quanto sia difficile crescere una figlia...Amare una figlia...E sapere che quella figlia non andrà in Paradiso?”
Scossi la testa, chiudendo gli occhi.
“Gesù può perdonarmi. Siete voi che non potete farlo.”

“Ridicolo. Come ti viene in mente?”
“Il rapporto che hai con quella ragazza, quella Erica” disse il suo nome come se stesse sputando qualcosa di amaro. “Non mi piace. Ha una cattiva influenza su di te, Calliope. Preferirei che non la vedessi più, d'accordo?”
Io e Erica non stavamo insieme. Avevo diciotto anni, ma non avevo mai baciato una ragazza, né un ragazzo. Però mio padre non aveva visto niente che non ci fosse davvero: Erica mi piaceva più di quanto avrebbe dovuto.
“D'accordo, papà.”
La porta si aprì lentamente.
“Sono a casa” sentimmo una voce chiamare dall'ingresso. Poco dopo mia madre apparve in soggiorno.
“Lucia.”
Ci guardò, per un momento, seduti in salotto.
“Qualcosa non va?” chiese, corrugando la fronte.
“No. È tutto perfettamente apposto. Io e Calliope stavamo giusto avendo una chiacchierata tra padre e figlia.”
Mio padre sorrise, appoggiandomi una mano sulla spalla.
Avevo un nodo in gola. Ma sapevo che avrei solo dovuto resistere finché non avrei più vissuto sotto il loro tetto.

Avevo prosciugato il fondo fiduciario prima che mio padre potesse metterci mano. Erano un sacco di soldi, mi sarebbero bastati almeno per qualche anno. Ma non avevo intenzione di sprecarli, dovevo essere pronta ai molti giorni di pioggia che mi si prospettavano davanti. Così aprii un altro conto a mio nome, uno a cui i miei genitori non avevano accesso, e vi depositai tutto, tenendo in contanti solo il minimo necessario che mi avrebbe permesso di andarmene da lì senza lasciare traccia di dove fossi diretta.
Presi il primo treno che andava verso nord. Il più lontano possibile da Miami. Dalla vita che mi stavo lasciando alle spalle.
Chiusi gli occhi e risi amaramente alla conversazione che avevo avuto al telefono con Erica.
“Cosa gli hai risposto?”
“Ho detto la verità. E lui mi ha buttato fuori di casa. Possiamo vederci?”
Poi un lungo silenzio.
“Non credo che sia una buona idea.”
Corrugai la fronte, anche se lei non poteva vedermi.
“Cosa?”
“Callie, realisticamente, non ne sei nemmeno sicura, giusto? Insomma, so che io non lo sono. Non hai mai nemmeno baciato una ragazza, no?”
“E allora? Fammi capire bene, hai intenzione di scoprirlo per tentativi? Perché io sono sicura di ciò che sento senza bisogno di prove.”
Sospirò pesantemente.
“Tuo padre parlerà con il mio. Se ti incontro adesso inizierà ad avere i suoi sospetti anche lui.”
Oh, bene. Quindi c'era davvero qualcosa che poteva essere scoperto.
Beh, almeno non mi ero immaginata tutto quanto. Era comunque un buon segno. Più o meno. Non proprio. In effetti no.
“Dovresti tornare a casa” mi disse.
“Certo. Dovrei tornare a comportarmi come qualcuno che non sono e che odio fingere di essere, come ho fatto a non pensarci prima. Ottimo consiglio, ti ringrazio Erica.”
“Che ti aspettavi che facessi?”
“Non lo so. Ma non che mi voltassi le spalle all'improvviso e mi dicessi addio.”
“Non ti sto dicendo addio. Chiama tuo padre e digli che ti sbagliavi. Che eri ubriaca. O fatta. O qualcosa di simile.”
Strinsi i denti finché le guance mi fecero male.
“Un giorno ti pentirai di aver scelto di vivere dentro una bugia.”
Furono le ultime parole che le dissi.

Appoggiai la fronte al vetro freddo del finestrino.
Feci respiri profondi. Mi ripetei che sarebbe andato tutto bene. In fondo, non ero che una delle moltissime persone che sarebbe dovuta crescere troppo in fretta in questo mondo. Me la sarei cavata.

“Senti, la scuola è finita. Tra un paio di mesi andremo al college. Sai che io rimarrò a studiare qui a Miami, mentre tu sarai a Baltimora. Mi dispiace, Erica. Ma credo che sia per il meglio.”
“Interessante. Il discorso lo ha scritto lui?”
“Come?”
“Ti ha scritto lui anche quello che dovevi dirmi o ha solo avuto lui l'idea? Dico tuo padre, se avessi bisogno di altre chiarificazioni.”
Sospirai.
“Senti, non fare l'ipocrita, ok? Che avresti fatto se gli avessi detto che mi piacciono le ragazze? Ci saremmo messe insieme? Avresti detto la verità anche tu?”
Lei abbassò lo sguardo senza rispondere.
“Già. È quello che pensavo. Ti voglio bene, te ne vorrò sempre. Ma io e te non ci amiamo. Io sarò qui e tu sarai alla Hopkins e tra di noi ci saranno tre Stati di distanza. Guardami negli occhi adesso e dimmi che mi sbaglio, dimmi che potrebbe funzionare tra me e te, e andrò dritta da mio padre per cambiare la mia risposta.”
Continuò a guardare in basso senza emettere neanche il minimo rumore, senza dire niente.
“Ci vediamo in giro, Erica.”
Forse, in fondo, avevo fatto la scelta giusta.
Avevo tutto da perdere e quasi niente da guadagnare. Il gioco non valeva la candela. Era una scelta semplice da fare, se si riduceva tutto ad un semplice calcolo matematico. Eccetto il fatto che non lo era.

“Mi scusi, ha bisogno di aiuto?”
Il mio sguardo si spostò verso l'alto piuttosto velocemente, incontrando la figura di una ragazza dai capelli rossi.
“Non ho potuto fare a meno di notare che è stata seduta su quella panchina per un bel po' di tempo, immersa completamente nei suoi pensieri. Si è persa, per caso?”
“No” le sorrisi. “Forse. Credo di sì. Probabilmente. Il fatto è questo” cercai di trovare un modo più eloquente per spiegarle come stavano le cose. “Non sono mai stata in questa città, ma sembrava davvero un'ottima idea quando ho deciso di attraversare tutti gli Stati Uniti in treno solo perché ero arrabbiata. E ora sono a Baltimora, cavolo, senza avere una minima idea di quello che sto facendo.”
“E adesso la rabbia le è passata.”
“Già. Solo una grande delusione, ma niente rabbia. E non ho un lavoro, non ho un posto in cui vivere, non ho una cartina della città e sono circa al cinquanta percento sicura che quella sia la porta da cui sono uscita dalla stazione, quindi stavo pensando di attraversarla e tornare indietro.”
“E cosa la sta trattenendo?”
“Il fatto che non ho niente da cui tornare.”
Lei annuì, sedendosi affianco a me sulla panchina che stavo occupando e unendosi a me nella contemplazione del panorama circostante.
“E lei che mi dice? Cos'è che la spinge a chiedere ad una sconosciuta se si è persa o se è semplicemente fuori di testa?”
“Gli sconosciuti sono lì apposta per essere conosciuti, prima o poi.”
Attesi qualche istante.
“No, sul serio. Cos'è che l'ha spinta a parlare con una sconosciuta fuori da una stazione?”
Lei rise.
“Non ci crederà, ma è stato davvero solo qualcosa nel suo sguardo. Sembrava così sperduta. E sola.”
Io non le risposi. Forse non ero io quella delle due mentalmente instabile, in fondo.
“Non ci crederà, ma forse conosco qualcuno che può offrirle un lavoro.”
“Mi sento come se dovessi chiedere che tipo di lavoro, ma, sul serio, qualsiasi tipo di lavoro mi andrebbe bene a questo punto.”
“Bene” mi sorrise. “Andiamo.”
“Aspetti. Non stava aspettando qualcuno qui in stazione?”
Lei scrollò le spalle. “Ho accompagnato un amico. Stava partendo oggi per Miami. Adesso andiamo” ripeté alzandosi. “Quel lavoro non aspetterà per sempre.”
Mi alzai anche io, lei prontamente tese una mano nella mia direzione.
“April Kepner.”
Esitai solo per una frazione di secondo.
“Callie Torres.”
Mi rivolse un sorriso enorme, facendomi cenno di seguirla.
“Allora, signorina Kepner, lei se ne va sempre in giro a citare Dylan Dog agli sconosciuti?”
“Non proprio” rispose con una risata. “Ma stando con qualcuno che ha letto tutti i fumetti, è difficile non assorbire qualche frase qua e là.”

Chiusi la porta di casa alle mie spalle, appoggiandomici contro per un momento e chiudendo gli occhi.
Avevo fatto quello che mi aveva chiesto. Ed ero fermamente convinta che a quel punto tutto sarebbe tornato come prima, niente più sguardi sospettosi, frasi strane. Era finita.
Da lì ad un paio di mesi sarei stata al college e avrei rivisto la mia famiglia giusto un paio di giorni a settimana. Almeno per il primo periodo. Poi una settimana sì ed una no, infine una volta al mese. Dopo avrei accettato il lavoro più lontano che mi sarebbe stato offerto e me ne sarei andata senza guardarmi indietro.
Era un buon piano.
Ed avrebbe funzionato alla grande.
Se solo anche mio padre non avesse avuto un piano per la mia vita, uno molto, molto diverso dal mio.
Sentii delle risate provenire dal soggiorno ed entrai cautamente, cercando di fare il meno rumore possibile per l'eventualità in cui avessi deciso di andarmene senza neanche salutare chiunque fosse che stava facendo ridere i miei genitori.
Non fui così fortunata, però. Mio padre notò subito la mia presenza appena fuori dalla soglia della stanza.
“Calliope, vieni. C'è qualcuno che vorrei presentarti.”
Entrai con circospezione. Qualcosa riguardo quell'intera situazione non sembrava essere come avrebbe dovuto.
“Questi sono i signori Avery.”
Sgranai gli occhi.
“Avery? Nel senso del figlio di Harper Avery?” chiesi, mentre l'uomo si alzava per stringermi educatamente la mano, sorridendomi. Io ero sprofondata in una specie di trance, in cui l'unica cosa che il mio cervello riusciva a registrare era 'Stai stringendo la mano al figlio del tuo idolo, idiota. Dì qualcosa di intelligente.' “Credevo viveste a Baltimora.”
“Infatti. Siamo venuti per un colloquio di lavoro qui in città. E perché nostro figlio stava pensando di venire a studiare qui a Miami.”
“No, papà. Tu pensavi che sarebbe stata una buona idea andarcene da Baltimora per farmi studiare qui a Miami” chiarì quello che presumevo essere il figlio dei due chirurghi che mi stavano davanti.
“Calliope” mio padre mi appoggiò una mano sulla schiena, forzandomi ad avvicinarmi a quello sconosciuto seduto sul divano del nostro salotto. “Ti presento Jackson. Sono sicuro che avete molte cose in comune. Perché non andate a fare quattro chiacchiere, mentre io e i signori Avery parliamo d'affari?”
Sembrava una domanda e aveva il tono di una domanda. Ma anche il più stupido degli imbecilli avrebbe capito che quella che mio padre mi aveva appena fatto non aveva davvero niente di simile ad una richiesta.

Il posto era piccolo. E buio. E a quell'ora di notte era già chiuso. E mi dava i brividi.
Ma non avevo davvero molta scelta su dove trovarmi in quel momento, quindi lì andava bene.
C'erano una decina di tavoli, un piccolo palco in disuso da anni, il bancone e, sul retro, quella che presumevo essere una cucina, visto che ne uscivano dei cibi pronti per essere mangiati.
“Andiamo, Cristina. Non ha un lavoro, non ha una casa. Ha la nostra età. È come noi, come tutti noi.”
“Hai esperienza come cameriera?”
“Non proprio.”
“Ripeto quello che ho detto la prima volta che lo hai chiesto, Kepner. No.”
“Imparo in fretta” le feci sapere. “E ci so fare con le persone.”
Lei fece scorrere velocemente lo sguardo sui miei vestiti.
“Hai mai almeno lavorato un solo giorno in vita tua, signorina Richie Rich?”
“No. Quindi ci rifletta attentamente. Se non mi assume lei, nessuno sarà disposto a farlo e mi ritroverò a morire di fame in mezzo alla strada. Vuole davvero la mia vita sulla coscienza?”
Lei ci pensò qualche altro secondo, continuando a piegare tovaglioli di carta.
“Che ti fa pensare di saperci fare con le persone?”
“Mio padre aveva spesso delle cene a cui invitava un sacco di gente. Sono abituata a frasi di cortesia prive di significato, a sorridere quando vorrei urlare e a stringere mani quando tutto quello che vorrei fare davvero è strapparmi i capelli. So cosa sta pensando, che magari mio padre è un miliardario bastardo con due case per le vacanze in due Stati diversi e una catena di alberghi. La verità? Sì, lo è. Ma io non sono lui. Tutta la mia vita è chiusa dentro questa valigia” indicai il piccolo trolley ai miei piedi. “È tutto qui. Il mio passato, il mio presente, è tutto entrato dentro più o meno mezzo metro cubo di spazio. Posso fare la cameriera. Tutto quello che le chiedo sono ventiquattro ore per provarglielo.”
Picchiettò ripetute volte le dita a turno sul bancone.
“Stacco tra dieci minuti” mi disse, voltandosi per spegnere la macchinetta del caffè. “Ho due camere libere, visto che la mia prima coinquilina è andata via e la seconda è andata a vivere col suo fidanzatino” notai April fare un suono indignato e arrossire. Il fidanzatino doveva essere il patito di Dylan Dog, pensai. “Puoi averne una se mi aiuti a trovare qualcuno che viva nell'altra. E, che Dio mi sia testimone, se ti trovo senza vestiti sul divano ti butto fuori di casa. Ci sono camere da letto apposta per queste cose. Il soggiorno di quell'appartamento è sacro. Chiedi a Meredith, lei dovrebbe saperlo, visto che l'ho buttata fuori e poi ho dovuto comprare un nuovo divano.”
“Chi è Meredith?”
“Quella dovrei essere io” una ragazza uscì dal retro, appoggiando delle tazze pulite sul bancone. “E tu dovresti essere qui per prendere il mio posto. Da lunedì smetto di lavorare. Devo sistemare le cose prima di iniziare medicina a settembre.”
“Beata lei che può permetterselo. Noi comuni mortali dobbiamo continuare a lavorare per poterci permettere l'università. A proposito, tu che hai intenzione di fare?”
Ci avevo pensato. E ripensato. E pensato ancora. Ma la verità è che avevo trovato un'unica risposta a quella domanda.
“Aspettare.”
La mora corrugò la fronte. “Aspettare cosa?”
Scrollai le spalle. “Non ci sono più università che accettano domande a questo punto dell'anno. L'unica università a cui ho fatto domanda è a Miami. E col cavolo che ho intenzione di tornare a Miami.”
Lei ci pensò qualche istante, poi annuì. “Ha senso” concluse. “Quindi inizierai l'anno prossimo?”
Annuii. “Vorrei fare medicina. Chirurgia. Non so ancora come, ma in qualche modo.”
Loro si scambiarono sguardi incuriositi.
“Cosa c'è?” chiesi.
“Io vengo da Beverly Hills, April da una città dell'Ohio, non ho ancora capito bene dove sia di preciso, Meredith viene da Seattle. Ci siamo conosciute online, tutte e tre vogliamo andare alla Hopkins, così abbiamo affittato una casa insieme e abbiamo iniziato a lavorare qui dopo la scuola per tre anni. Abbiamo finito la pre-Med School quest'anno.”
“E i vostri genitori erano d'accordo con il vostro trasferimento?”
“I nostri genitori non sanno dove siamo” rispose April. “I miei hanno una fattoria. Volevano che rimanessi lì ad aiutarli. Ci sentiamo per telefono, ma non hanno intenzione di mantenermi. Per fortuna ho una borsa di studio.”
“Mia madre si è risposata, già prima le importava poco, ma adesso per lei posso fare quello che voglio. Mi manda un assegno tutti i mesi, li sto mettendo da parte per la retta” concluse Cristina.
“Sono la figlia di Ellis Grey. Mia madre è a favore dell'indipendenza, quindi quando a diciotto anni le ho detto che me ne andavo si è limitata a scrollare le spalle. Mi pagherà l'università, però, quindi è tutto ok.”
“Il punto era che tutte e tre vogliamo diventare chirurghi” terminò Cristina. “E Meredith convive anche con uno.”
Dopo qualche attimo di silenzio decisi finalmente quale era la prima delle innumerevoli domande che volevo fare loro.
“Tu sei la figlia di quella Ellis Grey?”

Non potevo crederci. Ero seduta accanto al nipote di Harper Avery.
“Credi che stiano parlando di noi?” chiese.
“Mio padre ha detto che parlavano d'affari” gli ricordai. “Certo che stanno parlando di noi.”
“Credi che stiano, tipo, organizzando un matrimonio combinato?”
L'idea mi fece preoccupare non poco.
“Come mai tuo padre vuole portarti via da Baltimora? Credevo che tutti gli Avery andassero alla Hopkins.”
“Non io. Non se a decidere è mio padre. Vuole portarmi via da quella città.”
“Come mai?”
“Sai tenere un segreto?”
“Certo.”
Scrollò le spalle. “La mia ragazza non gli piace molto.”
Eufemismo dell'anno, se voleva portarlo a Miami per allontanarlo da lei.
“Quindi è la verità. Vogliono che ci mettiamo insieme e che facciamo un bambino chirurgo dietro l'altro.”
Lui rise. “E i tuoi genitori che motivi hanno?”
“Sai tenere un segreto?” ripetei la sua domanda.
“Certo.”
“La mia ragazza non gli piace molto.”
Lui rise. “Ah. Beh, questo potrebbe spiegare tutto. Quindi che facciamo?”
“Gli diamo corda” mi guardò come se fossi pazza. “Ci frequentiamo per un paio di settimane, ci innamoriamo follemente, poi decidiamo di trasferirci a Baltimora per il bene della tua carriera ed andiamo entrambi alla Hopkins. Sono sicura che se lo desiderano davvero i tuoi genitori possono trovare un modo per farmi ammettere anche se le iscrizioni sono scadute. Tu continui a vedere la tua ragazza, io divento un chirurgo, tutti vincono.”
Lui ci pensò per qualche momento.
“Sai, potrebbe anche funzionare” concluse. “Andata.”
Alzò una mano nella mia direzione, io feci scontare delicatamente il mio pugno contro il suo.

Non potevo crederci. Ero seduta accanto alla figlia di Ellis Grey.
L'appartamento non era grandissimo o particolarmente di classe. Ma era un appartamento con un tetto, ed era tutto quello di cui avevo bisogno.
“Allora. Qual'è la tua storia?” chiese, passandomi una birra.
Io scrollai le spalle.
“Ho litigato di brutto con mio padre.”
“Riguardo cosa?” chiese April suonando quasi casuale.
Improvvisamente mi sentii nervosa.
“Probabilmente avrei dovuto parlarvene prima” valutai sottovoce, distogliendo lo sguardo. “Mi ha cacciato di casa quando gli ho detto che mi piacevano le ragazze.”
Le guardai, una alla volta. Loro aspettavano di sentirmi continuare.
“La regola del divano vale ancora. Quando inviti una ragazza a casa tenetevi i vestiti addosso finché non siete in camera tua” mi fece sapere Cristina.
Arrossii.
“Davvero non c'è altro?” chiese Meredith gentilmente.
Scossi la testa senza dire niente.
“Beh, tuo padre deve essere o molto vecchio o molto Cattolico.”
“Cristina!”
“Entrambi” risposi prontamente.
Cristina rise. “Oh, io e te ci divertiremo insieme. Domani sera potremmo dare una festa. Darti il benvenuto. Farti conoscere gente.”
“Andata.”

Continuai a fissare lo schermo del mio cellulare cercando di capire cosa avrei dovuto fare.
Bastava che avessi premuto quel maledetto tasto e avrei potuto dirle che stavo andando a Baltimora anche io.
“Mija, la cena è pronta.”
Alzai lo sguardo verso mio padre, leggermente spaesata dal fatto che fosse apparso dal nulla. O più realisticamente, non lo avevo sentito arrivare.
Lui si accorse che qualcosa non andava ed entrò nella stanza.
“Stavi preparando la valigia?”
“Già” sussurrai.
“Un'occasione notevole, no? Poter andare alla John Hopkins.”
Annuii. Lui si sedette sul letto affianco a me.
“Jackson è davvero un bravo ragazzo. Ti piace?”
“Certo che mi piace, papà.”
“Intendo se ti piace davvero.”
Esitai per qualche momento. Lui sospirò, alzandosi di nuovo in piedi. Sapevo cosa stava pensando, e non volevo che ci pensasse troppo.
“Stiamo pensando di andare a vivere insieme, quando saremo a Baltimora” gli dissi improvvisamente. “Io sarò lontano da casa, e lui non vuole che viva con qualcuno che non conosco. Sarebbe più tranquillo se stessimo nello stesso appartamento.”
“Calliope, andrai a vivere con un uomo quando sarai sposata.”
“Possiamo sempre prendere due camere separate” suggerii allora.
“Due camere molto, molto vicine tra loro.”
“Ma sempre due camere separate.”
“Ne riparliamo, mija. Adesso scendi a cena.”
Mi baciò sulla fronte, accostando la porta mentre usciva.
Io tornai a guardare il telefono. Non potevo più tornare indietro. Chiusi gli occhi solo per un istante, cercando la forza. Quando li riaprii, cancellai il numero di Erica dalla mia rubrica e chiamai Jackson.
“Pronto?”
“Ha detto di no. Non possiamo vivere insieme finché non ci sposiamo.”
Sospirò. “Beh, per tua fortuna conosco qualcuno che ha un appartamento con una stanza libera a Baltimora.”
“Bene” sussurrai. Ci fu una lunga pausa. “Ti ho interrotto? Stavi facendo qualcosa?”
“Leggevo un fumetto.”
“Che fumetto?”
“Dylan Dog.”
Io risi. “Devo andare, la cena è pronta. Saluta la tua ragazza per me. Ci vediamo dopodomani quando arrivo lì, ok?”
“D'accordo. Ciao Callie.”
“Ciao.”

“Se fai schifo come cameriera te ne andrai anche dall'appartamento?”
“Cristina” la riprese duramente Meredith.
“Che c'è? Sono solo curiosa.”
“Penso che rimarrò” risposi ridendo. “Mi piace questo posto.”
“Bene” Meredith mi sorrise. “E devi ammettere che anche la compagnia non è male.”
Cristina era già ubriaca. E ancora le uniche persone presenti alla festa eravamo noi tre.
“Eh, sì. La compagnia è ottima.”
Quando qualcuno suonò alla porta mi offrii volontaria per andare ad aprire.
“April, ciao.”
“Callie” mi sorrise, abbracciandomi velocemente. “Ti presento il mio ragazzo, Jackson Avery.”
Lui mi sorrise, tentandomi la mano. Io la strinsi, ricambiando il sorriso.
“Il ragazzo con cui vivi che legge sempre Dylan Dog.” “La nuova coinquilina lesbica di Cristina.”
“Jackson!” April lo colpì su un braccio. Forte.
“Bisessuale. Ma credo che non sia questo il punto. Entrate. Cristina ha finito la tequila, ma ci sono un paio di bottiglie di vodka da qualche parte. Meredith le ha nascoste perché Cristina non se le scolasse da sola, ma dopo i primi due bicchieri di Rum ha dimenticato dove sono.”
Qualcosa come un paio d'ore dopo la situazione era sfuggita leggermente dalle nostre mani.
“Tutti qui dentro sono uno stereotipo gigante” osservò Cristina.
“Che vuoi dire?” chiesi, buttando giù un sorso di birra, l'unica cosa che avevo bevuto per tutta la sera. Qualcuno doveva essere abbastanza sobrio da ricordarsi e riuscire a comporre il numero del pronto soccorso in caso qualcuno si fosse sentito male.
“Numero uno. April. L'ubriaca triste.”
Voltai la testa verso di lei.
“No, la verità è che vuoi lasciarmi solo perché non abbiamo ancora fatto sesso” stava piangendo a dirotto mentre parlava con Jackson e lui faceva del suo meglio per ignorare il suo momentaneo isterismo.
“Numero due. Meredith. L'ubriaca ballerina di lap dance.”
Era su un tavolo che ballava come una pazza mentre un suo amico - George, credo fosse il suo nome - ballava accanto a lei. O meglio, addosso a lei. Proprio in quel momento il fidanzato salì sul tavolo, alzandola di peso e facendola scendere di nuovo a terra, sollevando le proteste sia di lei che dei tre ragazzi che stavano sbavando guardandola.
“Numero tre. Mark. L'ubriaco che ci prova con qualunque cosa.”
“Sei davvero bellissima. Dovremmo definitivamente sentirci qualche volta.”
Corrugai la fronte, inclinando la testa di lato.
“Sta cercando di farsi lasciare il numero dalla nostra lampada da soggiorno?”
“Già. Ma, d'altra parte, lui ci prova sempre con qualunque cosa gli capiti troppo vicino, quindi forse non conta. Numero quattro. Alex e Izzie. Gli ubriachi incazzati.”
Li vidi urlarsi addosso, ma erano troppo lontani perché riuscissi a distinguere le loro parole sopra la musica assordante.
“Numero cinque. Jackson e Derek. Gli ubriachi gelosi.”
“Ehi, smettila di fissare la mia ragazza” Jackson spintonò Derek.
“No, tu smettila di fissare la mia” rispose allo spintone.
Poi entrambi si voltarono nella direzione opposta, trascinando le rispettive donne il più lontano possibile dall'altro.
“Numero sei. Addison. L'ubriaca allegra.”
“Cristina, sei così simpatica” le disse lei, ridendo come una pazza dal pavimento accanto a noi. Non mi ero nemmeno accorta che fosse lì fino a quel momento. In ogni caso, Cristina aveva ragione, non faceva altro che ridere.
“Numero sette. Teddy. L'ubriaca che vuole spassarsela.”
“Che intendi...”
Prima che potessi continuare una ragazza dai capelli biondo cenere mi si sedette sopra, passandomi una mano tra i capelli.
“Ciao. Derek dice che ti piacciono le ragazze. Vuoi darci dentro?”
Io avevo gli occhi sgranati e le mani alzate.
“Ehm, no, grazie lo stesso.”
Lei mi fece l'occhiolino.
“Sarà per la prossima volta.” Si alzò, andandosene.
“Come non detto. Ho capito da sola cosa intendevi.”
“Ed infine, numero otto, io e te. Noi abbiamo un vero motivo per bere, speriamo di dimenticarci qualcosa che ci è successo, ma ci rimane solo l'amaro in bocca quando capiamo che fingere che il problema non esiste, tristemente, non lo farà sparire nel nulla.”
“Cosa ti è successo?” chiesi piano.
Scrollò le spalle.
“Il mio ex ragazzo aveva dei problemi.”
“Che tipo di problemi?”
“Non ti conosco abbastanza bene per parlarne.”
Capii che era meglio non fare pressioni se non volevo giocarmi la possibilità che si aprisse mai con me.
“Allora, chi facciamo venire nella terza stanza?”
“Non lo so. Stasera ho conosciuto una sola persona che al momento non ha un appartamento in cui stare.”
“E sarebbe?” chiese, confusa dal fatto che a lei era evidentemente sfuggito.
“Ehi, Addison” richiamai l'attenzione della donna sul pavimento. “Vuoi venire a vivere qui con me e Cristina?”
Lei continuò a ridere.
“Certo. Ma da domani voglio un letto vero invece del pavimento.”
“Congratulazioni” mi disse Cristina, sollevando il bicchiere per farlo sbattere piano contro la mia bottiglia di birra ancora mezza piena. “Ci siamo trovare una coinquilina.”

Sentii qualcuno bussare.
“Sono pronta papà. Sto chiudendo la valigia adesso.”
Annuì distrattamente.
“Ho parlato al telefono con Jackson. Ne abbiamo discusso e alla fine mi ha convinto che sarebbe una buona idea lasciarvi andare a vivere insieme.”
“Oh. Davvero?” domandai, incredula. Guardai l'ora. “Devo andare se non voglio perdere l'aereo, ci sentiamo stasera per telefono, d'accordo?”
Ci furono dei saluti lacrimevoli, ma alla fine riuscii a salire sul taxi con un buon margine per non rischiare di far tardi al check in.
Mentre ero in macchina chiamai Jackson.
“Cosa gli hai detto per convincerlo?”
“Io?” finse innocenza. “Niente. Gli ho solo detto che ti avevo trovato un appartamento in cui vivere, con la mia amica Melody e la sua fidanzata. Ma tuo padre ha insistito perché andassimo a vivere insieme.”
Io risi, mio malgrado.
“Hai un'amica di nome Melody?”
“No. Ma sembrava davvero un nome da spogliarellista, quindi ho pensato che sarebbe stato perfetto per lo scopo.”
“Sono quasi in aeroporto. Ci vediamo stasera.”
“Certo.”

Il lavoro da cameriera era duro, ma niente in confronto a non avere alcun lavoro.
Presto imparai tutto quello che c'era da sapere su quel lavoro. Il primo mese fu il più difficile, ma una volta guadagnata la fiducia dei clienti abituali e le loro mance, tutto iniziò ad andare un po' meglio.
“Dovremmo proporre a Derek di fare qualcosa con quel palco.”
Sì, il padrone del posto era Derek. Era così che aveva conosciuto Meredith.
“Tipo?” mi chiese Cristina mentre mi aiutava a sistemare i tavoli prima della chiusura.
“Non lo so. Serate cabaret. O karaoke. Qualcosa che ci permetta di tirare un po' su i prezzi e che faccia venir voglia alla gente di bere.”
“Cabaret? Hanno chiamato gli anni '20. Rivogliono indietro le loro idee.”
Io risi.
“D'accordo. Niente cabaret. Ma se riusciamo a ripulirlo un po' potrebbe venirci fuori qualcosa di buono.”
“Sai, in realtà il karaoke non è una brutta idea. Insomma, sentir cantare qualcuno dei nostri clienti potrebbe davvero far venire a tutti voglia di bere.”
“Sono seria, Cristina.”
“Anch'io” si difese. “Ma se suggeriamo questa cosa a Derek obbligherà noi due a spazzare i tre cadaveri in versione polvere che ci sono lì sopra e togliere le tende del sipario, ci farà montare l'attrezzatura che ci obbligherà a scegliere. Credi davvero ne valga la pena?”
Ci pensai per qualche istante.
“Aspetta, ci sono. Cantiamo noi.”
“Io e te?”
“E Addison, Alex e April.”
“Ancora non vedo entrate nelle nostre tasche.”
“Se questo tipo di serate vanno bene Derek ci pagherà per cantare.”
“Senti, l'idea non è male. Ma hai mai sentito Alex cantare? Sembra che qualcuno stia cercando di uccidere una povera gallina. Ed April? La sua voce è irritante così com'è, senza che si metta ad usare il falsetto. E io non canto. Punto.”
Io guardai il vecchio palco per qualche momento.
“No, hai ragione. La maggior parte dell'incasso andrebbe comunque a Derek e noi dovremmo lavorare il doppio” sospirai. “Posso comunque pulirlo e togliere il sipario. Farebbe un'altra figura.”
“Accomodati pure. Ma sappi che non ti aiuterò.”

“Che ti è successo, Jackie? Hai una faccia” lo presi in giro con un sorriso.
Dopo un anno di convivenza eravamo diventati come fratello e sorella.
“April mi ha lasciato.”
Il sorriso sparì dalla mia faccia.
“E non la biasimo. Non possiamo più praticamente vederci. I miei genitori sono ovunque, in università, qui a casa nostra. Tu non hai ancora avuto una serata libera da quando sei in città e probabilmente non l'avrai fino alla laurea.”
“Questo è probabilmente perché mio padre ha chiesto ai tuoi di controllare ogni mia mossa. Ma se vuoi posso portarli da qualche parte e tu puoi vedere April. Tipo, all'opera. Sanno che tu odi andarci, quindi non avranno sospetti quando dirò loro che io invece la adoro e si offriranno volontari per portarmici.”
“Lascia stare Callie. Era da un po' che doveva succedere.”
“Mi dispiace” gli presi una mano. “Davvero.”
“Non preoccuparti. D'altra parte, mi farebbe piacere andare una sera all'opera. Vederti indossare un vestito elegante, cose del genere.”
Io risi, colpendolo scherzosamente su un braccio.
“Andiamo. Faremo tardi a scuola.”

Una volta tolta tutta la polvere e le pesanti tende rosse quel piccolo palco aveva un aspetto quasi presentabile.
C'erano delle prese per l'attrezzatura elettronica, e perfino un microfono che non funzionava più probabilmente da dopo gli anni Settanta.
Sentii la radio suonare le prime note di 'Over the Rainbow' ed alzai il volume mentre continuavo a ripulire la parete prima nascosta dal sipario.
Quasi senza accorgermene iniziai a canticchiare.
“Somewhere over the rainbow, skies are blue. And the dreams that you dare to dream really do come true.”
Già. Da qualche parte, ma di sicuro non lì. Non nella mia vita. Non in quel piccolo locale di Baltimora.
“Somewhere over the rainbow, bluebirds fly. Birds fly over the rainbow. Why then, oh why, can't I?”
“Sai cantare.”
Mi voltai di scatto.
“Cristina. Mi hai quasi fatto venire un infarto.”
“Sai cantare nel senso che potresti tirare giù una vetrata usando solo le tue corde vocali.”
“Adesso non esagerare. Però potremmo fare karaoke e far cantare i clienti. La gente pagherebbe per rendersi ridicola davanti ad altra gente.”
“Giusto. E sai per cosa pagherebbero di più? Vedere te che ti siedi davanti a loro con qualcosa di attillato addosso e canti una bella canzone su quanto sei sola e disperata.”
“No, dico sul serio. L'idea del karaoke non era del tutto da scartare. Dobbiamo solo capire come farci qualche soldo prima di proporla a Derek.”
Lei aveva quell'espressione in cui potevi praticamente vedere gli ingranaggi dentro la sua testa girare ad un milione di miglia all'ora. Poi, all'improvviso, quasi come se avesse avuto l'illuminazione che cercava, mi sorrise.
“Ok. Lascia che mi occupi io dell'albero di monete, Gatto.”
“Abbiamo un patto, Volpe.”

Ero felice.
Certo, era brutto che i miei genitori non sapessero la verità su una parte della mia vita, ma alla fine ero felice.
Stavo diventando una dottoressa nella migliore università del Paese. Era un sogno che si avverava, per il resto avrei trovato tempo.
“Sei pronta?”
“Certo.”
Mi prese per mano, aprendo la porta del ristorante per me.
“Allora, sei nervosa quanto me?”
“Un po', sì” confessai, con un sorriso. “Ridicolo se ci pensi, visto che abbiamo vissuto insieme per due anni.”
“Già. Ma un primo appuntamento rende sempre nervosi, suppongo.”
Io e Jackson avevamo deciso di uscire insieme perché ci volevamo bene. Lui sapeva tutto quello che c'era da sapere di me, e mi faceva sentire al sicuro. In due anni non mi aveva mai visto uscire con nessuno, così aveva deciso di farsi avanti e chiedermi di andare ad un appuntamento insieme a lui.
Ed io avevo accettato.
Forse entrambi lo stavamo facendo per far contenti i nostri genitori, ma era solo un primo appuntamento.
Niente di particolarmente importante.

Lavoravo lì da quasi cinque mesi quando organizzammo la nostra prima serata karaoke.
Fu circa verso le nove di sera in cui mi accorsi che la Volpe mi aveva teso una trappola, trasformandomi in Pinocchio, che crede che l'albero delle monete esista sul serio.
“Ti odio” le dissi a denti stretti.
“Sono solo pochi minuti. Sali lì sopra e falli secchi.”
“Sei una stronza egoista Cristina.”
“Sì, tesoro. È per questo che mi vuoi così tanto bene. Ora canta, gallina dalle uova d'oro.”
Mi ritrovai scaraventata sul palco, davanti ad un microfono. Sotto al palco Cristina, Addison e Meredith si erano prese una pausa solo per ascoltarmi, mentre April e Alex si occupavano di servire tutti i tavoli del locale.
Riconobbi la canzone dalla primissima nota. Cristina aveva in qualche modo messo le mani sul mio IPod.
Avrei ucciso quella donna. Ma iniziai comunque a cantare.
“I heard, that you settled down...”
Ok, quindi forse sì, avevo una bella voce. Ma le urla delle tre ragazze che mi incitavano erano un attimino oltre la linea.
Quando la canzone finì, al maggior parte dei clienti erano silenziosi. Vidi Cristina allontanarsi poco prima del finale e girare per i tavoli con un acquario per pesci vuoto. Quando scesi dal palco le tre traditrici se l'erano svignata. Jackson mi venne incontro, sorridendomi.
“Sei stata fantastica.”
Ricambiai il sorriso.
“Sei gentile, ma davvero non era niente di che.”
“Beh, allora posso solo immaginare cosa succede quando fai del tuo meglio.”
Io risi. Rimanemmo a parlare insieme per qualche istante, entrando nell'argomento preferito di Jackson. April. Finché mi decisi a fargli una domanda che avevo in testa da diverso tempo.
“I tuoi sono d'accordo che vi frequentiate? Insomma, lei non ha esattamente un albero genealogico di chirurghi come il tuo.”
“A dire la verità, me ne sono andato di casa perché i miei non volevano che la vedessi. Volevano organizzarmi un incontro con la figlia di un amico di famiglia o qualcosa del genere, ma io me ne sono andato. Mio nonno ha saputo tutta la storia. Harper è un uomo duro, ma ha un punto debole per le faccende di cuore. Lui ha perso l'amore della sua vita quando era molto giovane, mia nonna era la luce dei suoi occhi. Quindi ci ha comprato l'appartamento e si è offerto di pagare per i nostri studi. April ha rifiutato, ma da me non ha accettato un no. Ecco come riesco a frequentare la Hopkins.”
“Non hai mai pensato di assecondare i tuoi?”
“Oh, sì. Ci penso spesso. A cosa mi sarebbe successo se mio nonno non fosse stato l'uomo che è, e penso che sarei morto di fame. Ma se non fossi scappato, non avrei legato con lui così tanto. Anzi, probabilmente lui non avrebbe mai saputo la mia storia ed io non avrei mai saputo la sua.”
In quel momento, Cristina mi si presentò davanti, mostrandomi la boccia per pesci piena fino all'orlo di banconote che aveva in mano.
Mi ci volle un secondo per capire cosa era successo.
“Hai elemosinato usando la mia voce.”
“No. Abbiamo elemosinato usando la tua voce.”
Le presi la vaschetta dalle mani, soppesandola.
“Questi li prendo io. Dalla prossima magari dividiamo, se ti degni di avvertirmi.”

“Dove pensi che dovremmo andare?”
“Non lo so.”
“Per adesso credo che Seattle sarebbe la cosa migliore da fare. Abbiamo entrambi avuto un'offerta di lavoro lì.”
“Hai ragione” concordai. “Penso che i tuoi potrebbero avere qualcosa da dire a riguardo.”
“Chi se ne importa. Non voglio più fare quello che mi dicono loro. Facciamo quello che vogliamo fare io e te. Loro dovranno accettare le cose per quello che sono. Quindi dimmi, dove ti piacerebbe andare a lavorare dopo la laurea?”
Io gli sorrisi.
“Ovunque ci sia tu, Jackson.”
Lui ricambiò il sorriso, baciandomi.
Eravamo stati innamorati.
Forse non era così che erano iniziate le cose, ma ci eravamo innamorati. Ci volevamo bene. E quello rimase, anche quando ci rendemmo conto che non era quella la sensazione di cui la gente parlava quando parlava d'amore. La verità era che pensavamo di essere innamorati.
Anche dopo i primi mesi, quando capimmo che non ci amavamo davvero, preferimmo chiudere gli occhi e far finta di niente.
Avere qualcuno su cui contare era più facile che non avere nessuno.

“Oh, I wanna dance with somebody. I wanna feel the heat with somebody. Yeah, I wanna dance with somebody. With somebody who loves me.”
Stavo pulendo i tavoli del locale ormai deserto prima di chiudere e poter tornare a casa. Avevo già messo il cartello che specificava che il locale era chiuso, quindi non mi aspettavo di veder entrare qualcuno.
La radio stava trasmettendo una delle mie canzoni preferite di Withney, quindi mi ero messa a canticchiare mentre mi muovevo tra i tavoli a tempo di musica.
Fu quindi con grande imbarazzo che mi paralizzai quando, voltandomi, vidi una ragazza dai capelli biondi starsene in piedi vicino alla porta.
Schiarendomi la voce abbassai il volume della radio ad uno più consono.
“Siamo chiusi” sussurrai nel più totale imbarazzo.
Lei mi sorrise.
“Di solito questo non mi ferma.”
Corrugai la fronte.
“Mi scusi?”
Addison uscì dalla cucina in quel momento con la sua borsa in mano, pronta ad andarsene a casa, quando vide la ragazza alla porta.
“Arizona” la salutò, gettando la borsa sul bancone ed avvicinandosi per abbracciarla.
Cristina si affacciò dalla cucina.
“Ho sentito bene?”
Le due si scambiarono uno sguardo.
“Yang.”
“Robbins.”
“L'uniforme da cameriera continua a starti da schifo.”
“E tu fuori dall'università continui a sembrare uno dei bimbi sperduti fuori dall'isola che non c'è.”
Il suo sguardo si mosse per tutto il locale, prima di soffermarsi su di me.
“Questo posto sembra finalmente decente.”
“Ringraziamo Callie per questo” le fece presente Addison. “A proposito. Callie, questa è Arizona, viene con noi alla Hopkins.”
Sorrisi debolmente, incontrandola a metà strada per stringerle la mano.
“È un piacere conoscerti. Addison, Cristina, Meredith e April non la smettono di parlare di quanto tu sia perfetta. Hai rimesso a nuovo questo locale, riportato il vostro appartamento ad un livello di pulizia sanitariamente accettabile e a sentire loro canti meravigliosamente.”
Sminuii le sue parole con un gesto della mano.
“Sai come sono. Sempre ad esagerare.”
“Ne dubito” le sfuggì. Si guardò nuovamente attorno. “Era tanto che non venivo qui. Credo che passerò più spesso da adesso in poi.”
“Vedi qualcosa che ti piace?” la prese in giro Addison con una piccola gomitata.
“Andiamo, voglio guardare le repliche di Lost in televisione prima di andare a dormire. Callie, hai finito qui?” chiese Cristina.
“Sì. In cucina?”
“Tutto sistemato. Andiamo.”
“Vieni con noi? Ti offriamo una birra. A casa ce ne sono almeno due dozzine” propose Addison alla bionda.
“Certo, perché no? Teddy è con Meredith ed April, in ogni caso, quindi non ho molto da fare.”
“Aw, ti manca la tua amica del cuore?” la prese in giro Cristina indossando il giacchetto.
Lo squillo di un cellulare rubò la risposta che stava per uscire dalle labbra della donna coi capelli biondi. Era il mio. Lessi il nome sullo schermò, accettando la chiamata con titubanza, sperando che non fossero i miei.
“Aria?” mi voltai di spalle, cercando di mantenere parte della conversazione almeno un po' privata.
“Callie, dove sei?”
“Perché vuoi saperlo?”
“Si tratta di Erica. Dice di averti visto a Baltimora. A fare la cameriera in un bar o qualcosa del genere. Mamma e papà sono parecchio preoccupati, stanno litigando. Ma adesso lei è ripartita e non hanno idea di come trovarti.”
“Questa è una bugia. Se Carlos volesse trovarmi saprebbe come fare. Devo andare adesso. Tu prenditi cura di te, ok? Come se ci fossi ancora io a farlo.”
“Mi manchi” aveva dieci anni. I nostri genitori non erano spesso a casa, io ero l'unico punto di riferimento che aveva avuto crescendo. “Qui fa paura da quando non ci sei. Tutti stanno zitti e con me non parla nessuno. E non riesco a dormire.”
Strinsi il telefono con forza.
“Dove sei adesso?”
“Sono a letto. Ho preso il cordless senza che mamma e papà mi vedessero.”
“Chiudi gli occhi” sussurrai. “E immagina che io sia lì accanto a te.”
“Ok.”
Chiusi a mia volta gli occhi, immaginandomi su quel letto a proteggere la mia sorellina. Iniziai a cantare a bassa voce.
“Beth I hear you calling, but I can't come home right now. Me and the boys are playing, and we just can't find the sound. You say you feel so empty, that our house just ain't our home. I'm always somewhere else and you're always there alone. Beth I know you're lonely and I hope you'll be alright, 'cause me and the boys will be playing all night.”
Cantai saltando il ritornello della canzone ed ascoltando il suo respiro diventare sempre più lento finché si stabilizzò. Stava dormendo. Allontanai il cellulare dal mio orecchio, chiudendo la chiamata.
“Ora capisci che intendiamo quando diciamo che canta meravigliosamente?” sentii sussurrare Addison.
“Già. Posso capire da dove arriva l'idea.”

“Guarda quello.”
“Bello. Ma non è davvero il mio genere.”
Lui strinse la mia mano con la sua.
“Troppo rosa?”
“Troppo rosa” confermai, osservando il letto dalla vetrina. “Magari qualcosa di un po' più...sobrio.”
“E con sobrio intendi cupo.”
Lo colpii sul petto con le mani che avevamo intrecciate. Scoppiammo a ridere.
“Callie?”
Ci voltammo entrambi verso destra. Il mio sorriso sparì.
“Erica.”
“Ciao. Come stai?”
“Bene. Bene, tu?”
“Bene. Già” ci fu un momento imbarazzante in cui nessuna delle due trovò niente da dire. “Che maleducata. Questo è il mio fidanzato. Preston Burke.”
“Ci sposiamo il prossimo mese” si intromise lui.
Io gli sorrisi, stringendogli la mano.
“Jackson Avery” presentai Jackson ad Erica. “Il mio ragazzo” le sorrisi. “E così ti stai sposando?”
Annuì, forzando un sorriso.
“Bene. È una bella cosa. Sono molto felice per te.”
“Allora” si intromise Jackson cercando di allentare il silenzio carico di tensione. “Tu sei Erica, nel senso la ragazza del liceo?”
“Sì, io e Erica eravamo nella stessa classe.”
“No, intendevo, non è stata la tua prima ragazza?” chiese con tranquillità. Jackson era più a suo agio con la mia sessualità di quanto lo fossi io.
“Jackson sta scherzando, lo fa sempre. Gli piace prendermi in giro perché al liceo ho avuto una ragazza” mentii. “Tesoro, te l'ho detto un milione di volte, si chiamava Jane” inventai, cercando di non forzare Erica a dire niente che non volesse.
“Ah, beh, molte ragazze attraversano una fase di confusione, al liceo” fu l'unico commento di Burke.
“Oh, non sono confusa” chiarii con un sorriso. “Sono bisessuale. È stato un piacere conoscerti. Erica, è stato bello rivederti.”
Trascinai Jackson dentro il negozio di letti.
“Era necessario?” gli chiesi in maniera un po' agitata.
“Sì. Continuerò finché non ti sentirai a tuo agio con la cosa. Non dovresti vergognarti della persona che sei, Callie. Io sono fiero di te, di tutto ciò che sei.”
Sentii la rabbia dissiparsi, sostituita dall'affetto che avevo per il mio migliore amico. Gli sorrisi, avvicinandomi per baciarlo sulla guancia.
“Sei il fidanzato perfetto.”

Quando rientrai a casa, quella sera, c'era musica a tutto volume e diverse bottiglie vuote sul pavimento del soggiorno. E una ventina di persone dentro l'appartamento.
“Cristina, che diavolo sta succedendo?”
“Stiamo dando una festa” rispose, chiaramente ubriaca. “Per la fine del primo semestre di università.”
“Questi sono tutti i tuoi compagni di corso?”
“No. Solo i più divertenti” spiegò, ridendo.
“C'è qualcuno sobrio qui dentro?” chiesi, guardando Addison, che aveva di nuovo bevuto fino alla bisessualità, baciare Teddy sul divano, mentre Meredith e April ballavano con i rispettivi partner e Alex e Mark ci stavano provando con due gemelle.
“Io lo sono” arrivò una risposta dalle mie spalle.
Mi voltai.
“Ehi” le dissi con un sorriso. “Sei qui” la salutai con un bacio sulla guancia. Dopo un paio di volte l'imbarazzo per essermi fatta beccare a cantare mi era passato ed eravamo diventate amiche. Molto amiche. “E decisamente non sei sobria, Arizona” le feci sapere osservando il modo in cui teneva la testa piegata, qualcosa nei suoi occhi e nel modo in cui sorrideva.
Lei mise su un piccolo broncio.
“Cosa c'è?” chiesi gentilmente.
“Nessuno vuole ballare con me.”
“Questo perché fai pena” le comunicò Cristina.
Io la colpii piano su un braccio, allontanandola da noi.
“Andiamo. Ballo io con te.”
Ottenni l'effetto in cui avevo sperato. Il broncio sparì e tornò a sorridere.
Ballai con lei – o meglio, rimasi ferma mentre lei mi saltellava attorno – finché non fu abbastanza stanca per accettare di andare a dormire. La portai in camera mia, l'unica camera libera.
“E tu?” chiese, affondando la faccia nel cuscino.
“Aspetterò che tutti se ne vadano e dormirò sul divano.”
“Devi lavorare domani mattina. Hai bisogno di riposo.”
Mi sedetti sul letto, guardandola mentre chiudeva gli occhi e si lasciava andare al sonno.
“Anche Addison, visto che è domenica. Ma non credo che lei e Teddy si riposeranno stasera.”
“Addison e Teddy? Di nuovo? È la terza volta questo mese.”
Io risi. “La quinta. Credo che si piacciano sul serio” le accarezzai i capelli.
“Lo credo anche io. Adesso vieni a letto. C'è abbastanza spazio per sei persone, posso dormire qui senza metterti le mani addosso, prometto.”
“Non è di te che mi preoccupo.”
“Che vuoi dire?” chiese, sempre ad occhi chiusi.
“Niente” sussurrai. “Buonanotte” la baciai sulla fronte, facendo il giro del letto e stendendomi il più lontano possibile da lei.
“Buonanotte” arrivò la risposta borbottata.
La mattina dopo uscii in silenzio, andando a lavoro. Fu solo quando tornai a casa quel pomeriggio che notai che Arizona aveva lasciato la giacca nel nostro appartamento. La chiamai al cellulare.
“Ciao” rispose con incertezza.
“Ehi, ho la tua giacca.”
“Come?”
“La tua giacca” sembrava spaesata, timida, distante. “L'hai lasciata qui ieri sera.”
“Oh. La giacca. Certo.”
“Cosa c'è che non va?”
“Cosa? No, niente.”
“Arizona.”
Si schiarì la voce, esitando per un istante prima di rispondere.
“Abbiamo dormito insieme?”
“Sì” risposi senza pensare. Sgranai gli occhi appena capii cosa intendeva davvero. “Oh, no. No, no, no. Assolutamente no. Eri ubriaca, credi che me ne sarei approfittata?”
La sentii tirare un sospiro di sollievo.
“Grazie a Dio. Non me lo sarei perdonato se avessi dimenticato la nostra prima notte insieme.” Arrossii e sorrisi contemporaneamente.
“Voglio dire, non che ce ne sarà di sicuro una, eh” potevo praticamente percepire il suo imbarazzo anche attraverso il telefono.
“Posso riportartela domani mattina, accompagno Cristina in facoltà e se ci aspetti in un posto che lei conosce possiamo venire a restituirtela. E parlare del tuo lapsus freudiano.”
“Te ne sarei grata. Per la giacca.”
Sorrisi. “A domani, allora. Mandale un sms con l'ora e il posto.”
“Ok. Ciao. E, Callie? Spero davvero che prima o poi avremo una prima notte insieme.”
Io risi. “Ne riparliamo dopo il terzo appuntamento.”
“Terzo? Allora sarà meglio che mi dia una mossa ed organizzi il primo. Inizierò con il chiederti di uscire con me domani mattina quando saremo faccia a faccia.”
“Non vedo l'ora.”
Rimasi con un sorriso idiota in faccia fino alla mattina dopo, lunedì, quando arrivò il momento di accompagnare Cristina ed Addison. Arrivammo e la prima cosa che notai fu quanto era grande la facoltà. Un posto enorme. Dovevamo incontrare Arizona in giardino, in una delle panchine dove di solito studiavano tutte insieme.
Stavamo ridendo di Cristina che imitava la loro professoressa di biologia quando sentii Addison emettere un suono tra il disgustato e l'irritato.
“Cosa ci fanno insieme a lei?”
Io e Cristina seguimmo il suo sguardo. Il cuore mi sprofondò di almeno venti centimetri. E fu lì, più o meno, dove il mio stomaco lo digerì.
“Devo andare” saltai giù dalla panchina, ero seduta sulla spalliera con i piedi appoggiati sopra il vero ripiano. “Datele la giacca da parte mia” la porsi ad Addison, ma lei non la prese.
“Callie, sei qui perché volevate vedervi” disse lentamente, non capendo. “Avremmo potuto portargliela noi, ma vi siete messe d'accordo perché volevate stare qualche minuto insieme, giusto? Almeno, noi avevamo capitò così” guardò velocemente Cristina, altrettanto perplessa.
“Lei è la ragazza di Miami.”
“Arizona?” chiese perplessa Cristina.
“No” risposi, guardandola come se fosse impazzita. “Erica, è la ragazza di Miami.”
“Oh, questo sarà divertente” sussurrò Cristina.
Addison mi prese per le spalle.
“Respira. Sii forte. E passivo aggressiva, se ti è di aiuto.”
“Ok. Potrebbe esserlo. Consegno la giacca e me ne vado.”
“Bene. Adesso prenditi la ragazza che vuoi. Ed è meglio per te che tu abbia capito che parlavo di Arizona, se non vuoi che ti colpisca.”
Io sorrisi, mio malgrado. Quando mi voltai, erano a pochi passi da noi.
Erica si bloccò.
“Callie.”
“Vi conoscete?” chiese Arizona, avvicinandomisi.
“Credevo di sì, ma adesso non ne sono più così sicura” risposi tranquillamente, porgendole l'indumento che avevo in mano.
“Grazie” mi sorrise, prendendo la sua giacca con una mano ed afferrando la mia con l'altra, avvicinandomi a lei un po' di più.
“Ci vediamo stasera?”
Annuii, abbassandomi per baciarla sulla guancia. Lei afferrò il mio giacchetto con la mano che aveva libera dalla mia presa.
“Solo se passi al locale, però. Devo chiudere io, quindi stacco molto tardi e so che tu domani hai scuola, ok?”
“Certo.”
“Stai bene con la felpa della Hopkins” non riuscii a trattenermi. La vidi arrossire leggermente. “A stasera” le dissi, poi la baciai di nuovo sulla guancia, mi districai dalla sua presa sul mio giacchetto, e me ne andai con un sorriso idiota sulle labbra.

Ci trasferimmo a Seattle insieme. Vivere con lui ormai era una cosa che davo per scontata, dopo cinque anni di università.
Io e Jackson non ci eravamo posti troppe domande.
Mi ero limitata a vivere giorno dopo giorno pensando che prima o poi sarebbe arrivato il momento in cui sarei stata in grado di volare da sola. Ma quel giorno tardava ad arrivare ed io e lui ci volevamo bene.
Così rimanemmo insieme anche quando i nostri genitori non potevano più dire granché riguardo le nostre vite.
Trovammo un appartamento e ci sistemammo.
Sette anni dopo, quando diventammo chirurghi, vivevamo ancora in quello stesso appartamento, stavamo ancora insieme, ci volevamo ancora bene ed io aspettavo ancora il giorno in cui sarei riuscita a volare da sola.

“Cosa ci fa lei qui?”
“L'ha invitata Arizona. Stanno lavorando ad un progetto insieme e a quanto pare si comporta meno da stronza se lei la tratta come un'amica.”
“Addie, devo cantare stasera.”
“E allora? Fregatene. Non vedo dove è il problema, lei non ricambiava, chi se ne frega, meglio per te, visto che è una stronza.”
“Non ricambiava? Addison, è stata lei a provarci con me, ok? Giuro che un paio di volte ha provato a baciarmi e si è tirata indietro all'ultimo secondo. Non me lo sono immaginato, io le piacevo, era solo troppo codarda per ammetterlo.”
“Il punto è sempre lo stesso. Lei perde, tu vinci.”
Guardai il palco per un istante, poi le due bionde sedute ad un tavolo e poi di nuovo Addison.
“Bene. Allora ho qualcosa che vorrei proprio dirle, visto che deve comunque sentirmi cantare.”
Salii sul palco qualche minuto più tardi, quando April mi disse che era il mio turno. Parlammo velocemente, accordandoci su quello che avrebbe dovuto dire al microfono. Mi avvicinai al karaoke, mettendo in pausa la canzone e sedendomi al piano che, teoricamente era lì solo per bellezza.
“Molti di voi hanno già sentito cantare Callie, giusto?” ci fu qualche applauso ed un paio di fischi dai tavoli. Ok, sì, Cristina aveva ragione. Ero brava. “Stasera, invece del karaoke, ci canterà qualcosa che ha scritto lei stessa” ci furono molti più applausi e qualche incitamento. “Ok, allora iniziamo” mi disse, sorridendomi per incoraggiarmi.
Ero imbarazzata. E mi veniva da vomitare. Ma quella era la persona che volevo essere. Volevo avere la forza di fare l'imprevedibile e il coraggio di fare la cosa giusta. Iniziai a suonare.
“Two birds on a wire. One tries to fly away and the other watches him close from that wire. He says he wants to as well but he is a liar” enfatizzai l'ultima parola, gettando un'occhiata verso i tavoli al centro del locale. “I'll believe it all, there's nothing I won't understand. I'll believe it all, I won't let go of your hand” l'avevo scritta quasi subito dopo arrivata a Baltimora. Era solo uno sfogo, non pensavo che qualcuno l'avrebbe mai davvero sentita. “Two birds of a feather, say that they're always gonna stay together. But one's never going to let go of that wire, he says that he will but he's just a liar. Two birds on a wire. One tries to fly away and the other watches him close from that wire. He says he wants to as well but he is a liar” uno dei due, non sarebbe mai riuscito a volare. “Two birds on a wire. One tries to fly away and the other...” ma uno dei due, uno dei due c'era riuscito. Era riuscito a volare. E non si sarebbe guardato indietro.
Scesi dal palco mentre ancora sentivo gli applausi a tutto volume. L'espressione sul viso di Cristina letteralmente uccise il mio sorriso.
“Sei impazzita?”
“Abbassa la voce” corrugai la fronte. “Che c'è, non ti è piaciuta?”
“Dovevi cantare quella maledetta canzone sdolcinata che mette in risalto la tua voce.”
Scrollai le spalle.
“La farò la prossima volta, quale è il problema?”
“Non ci sarà una prossima volta, ok?”
Quello mi colse di sorpresa.
“Che vuoi dire?”
Inspirò, tentando di spiegarmelo con le parole giuste.
“Derek ha convinto un agente discografico a venirti ad ascoltare. Non te l'avevamo detto perché non volevamo che fossi nervosa. Ha chiesto un sacco di favori per darti un'occasione, e tu l'hai sprecata per vendicarti contro la tua cotta del liceo.”
Per un istante sentii il mondo crollarmi addosso. Mi sentii come se fossi stata al centro di un buco nero.
“Non l'ha rovinata.”
Ci voltammo entrambe verso sinistra.
“Miranda Bailey” si presentò. “Derek aveva ragione, la tua voce è splendida. Ma non sarebbe stata abbastanza in ogni caso.”
Le spalle di Cristina si abbassarono. Fu in quel momento che capii quanto aveva a cuore il mio futuro. Quanto le importava di me.
“Ma quello che ho sentito non è stata solo la tua voce. Hai scritto una canzone meravigliosa, questo è quello che ci serve al momento. Quindi se decidi di essere interessata alla carriera come cantautrice perché non vieni in studio domani e ne parliamo?” mi porse un biglietto da visita.
Io e Cristina la guardammo tornare a sedersi, poi ci scambiammo uno sguardo incredulo. Mi avvicinai e la abbracciai. Lei alzò una mano solo per darmi un piccolo colpetto sulla schiena.
“Non c'è di che.”

“Finalmente possiamo vedervi insieme, erano secoli che non venivate a trovarci.”
Io e Jackson ci scambiammo un sorriso veloce.
“Già” sussurrai.
“Beh, un brindisi ad entrambi i nostri bambini che sono finalmente due chirurghi” propose Cathrine. Mio padre la assecondò immediatamente.
“In realtà, volevamo parlarvi di qualcosa” si fece coraggio Jackson una volta passata l'euforia del brindisi.
“Di cosa?” chiese mia madre, versandosi dell'acqua.
Lui mi prese una mano, guardandomi. Io gli sorrisi, poi mi voltai verso i nostri quattro genitori e mi schiarii la voce.
“Io e Jackson ci sposiamo.”

“Ok, questo è folle. Hai diciannove anni e la tua faccia è su una rivista di musica. Quanto è forte questa cosa?”
“Sono solo tra le nuove scoperte. Potrei essere fuori dal giro in tre mesi” le feci notare.
“Oppure il tuo cd potrebbe essere nella top ten tra tre mesi” ribatté con un sorrisetto furbo.
Io mi bloccai ai piedi del letto e la guardai mentre sfogliava la rivista che aveva in mano.
“Eccolo qui. Vediamo un po'. Callie Torres, nome per intero Calliope. Wow. Sono alla prima riga ed ecco già qualcosa che non sapevo. Calliope è un nome sexy. Ti sta bene.”
Le afferrai le caviglie, tirandola verso di me. Lasciò andare la rivista quando mi stesi sopra di lei.
“Posso onestamente dire che sei la prima persona che me lo dice.”
Mi mise le mani tra i capelli, facendomi abbassare la testa per baciarmi.
“Devi andare in università, Arizona” le ricordai.
“E tu devi andare a lavoro. No, aspetta, non devi, perché non fai più la cameriera, perché ti hanno pagato migliaia di dollari per incidere un cd.”
Roteai gli occhi.
“Il primo e l'ultimo, vedrai. Sono un mito costruito sul niente. Ancora il cd nemmeno esiste. E quando si renderanno conto che sono solo una decina di canzoni su una ragazza che ama un'altra ragazza e di come il mondo faccia schifo per non accettarlo tanto quanto dovrebbe, mi dimenticheranno più in fretta di quanto si possa dire 'fama'.”
“Solo? Calliope, non ti permettere” disse con tono serio. “Stai cercando di cambiare le cose, qui. Di rendere il mondo migliore, facendoti strada nel cuore della gente a suon di canzoni per dire loro quanto l'odio sia sbagliato. Lo trovo meraviglioso.”
La zittii con un bacio, intrecciando le dita di una delle mie mani con le sue e premendole contro il letto, poco più in alto della sua testa.
“Che fine ha fatto la regola del terzo appuntamento?” chiese con un sorrisetto che percepii ad occhi chiusi.
“Oh, c'è ancora. Non provare nemmeno ad imbrogliare te stessa credendo che me ne sia dimenticata. E, come ho detto, devi andare a lezione.”
“Allora togliti da sopra di me.”
“Tu togliti da sotto di me.”
“Questa frase non ha una coerenza logica.”
“La prossima volta che non vuoi fare tardi a lezione non dormire qui.”
“Questa invece non è attinente alla conversazione che stiamo avendo al momento.”
“Non stiamo avendo una conversazione, al momento. Tu stai parlando mentre io ti bacio sul collo.”
Sospirò. “Posso fare tardi a lezione per una volta.”
“No. Mi rifiuto di avere una cattiva influenza su di te. Alzati, ti ho preparato il caffè e dei pancake.”
Quella sera Cristina ed Addison insistettero per dare una festa in onore del cd che avrei iniziato ad incidere la settimana successiva.
Ero seduta sul divano, le gambe di Arizona di traverso sulle mie, le sue braccia attorno al mio collo.
“Siamo praticamente circondate dalla nebbia” sussurrai. “C'è più fumo che ad un concerto di Lady Gaga.”
Lei rise. “Una cantante in una stanza piena di fumo, non sembra fuori dalla media.”
“Oh, quindi diventerò come tutti gli altri? Droga, alcol, sesso e poco più?”
“Se vuoi drogarti dovrai passare sul mio cadavere, se bevi io devo essere presente e l'unica persona con cui puoi fare sesso sono io” mi fece sapere prima di baciarmi.
“Lunedì inizio ad incidere e per adesso ho finito di scrivere solo una canzone. Che parla di due uccelli. Questa storia finirà prima di poter iniziare, vedrai.”
“Che succede se non ce la fai?”
Scrollai le spalle.
“Mi danno delle canzoni che hanno scritto loro. Ne ho ascoltate un paio. Fanno davvero parecchio schifo.”
Lei rise.
“Beh, sappi che io sarò lì per il tuo primo concerto. E che sarò al tuo fianco quando deciderai che è arrivato il momento di fare l'ultimo.”
Sorrisi.
“Davvero?”
“Davvero. Te lo prometto” mi guardò negli occhi con serietà. Era una bella promessa. “Vuoi andare in camera tua? Qui c'è un odore strano.”
“Già. Di vino e profumo da due soldi” concordai. “Aspetta. Eccola qui.”
“Cosa?”
“La canzone.”
Fu il primo singolo rilasciato dal mio album circa un mese dopo. E l'avevo scritta grazie a lei.
“A singer in a smoky room, the smell of wine and cheap perfume. For a smile they can share the night, it goes on and on and on and on.”
Spensi la radio.
“No, che fai? Mi piace questa canzone” Cristina riaccese lo stereo.
“La trasmettono ovunque. Di continuo. Mi tormenta.”
“Perché l'hai scritta tu” mi fece notare. “Mio stereo, mia macchina, si ascolta quello che voglio io.”
“Non vedo l'ora di essere a casa. Lì nessuno mi ricorderà quanto sono nei casini. Il mio cd da dieci canzoni ha solo, tipo, sei canzoni, e la prossima settimana devo incidere il resto. Faccio schifo in questo lavoro.”
“Certo. È per questo che la tua voce è ovunque e ti perseguita. Chiaramente, tutti pensano esattamente che fai super mega schifo.”
Volevo mettermi a scrivere appena arrivata a casa. E lo avrei fatto. Se Addison non avesse organizzato una festa per il rilascio del primo singolo. Adesso tutti sapevano davvero come cantavo, invece di ripetere quello che la mia agente aveva detto a tutti di scrivere nelle loro 'stupide riviste per bambine' come le aveva chiamate lei.
Non ero lì nemmeno da dieci minuti quando qualcuno mi prese per mano, trascinandomi verso la porta.
“Arizona, che stai...”
“Aspetta e vedrai.”
Un quarto d'ora ed un viaggio in taxi dopo, eravamo nel suo appartamento. Mi portò un blocco ed una penna.
“Mettiti a scrivere. Ti mancano quattro canzoni e non si scriveranno da sole.”
Io le sorrisi. “Ti ringrazio. In quel casino non avrei combinato un bel niente.”
“Lo so” ricambiò il sorriso, baciandomi velocemente prima di sedersi accanto a me.

“Ok, questo è folle. Hai trentadue anni e la tua faccia è su una rivista di medicina. Quanto è forte questa cosa?”
“Sono a margine. Il mio nome non si legge nemmeno. A nessuno interessa il fatto che ho creato cartilagine dal nulla, Jackson.”
“A me interessa. Questa cosa salverà milioni di vite.”
“Ci ho pensato a lungo. Voglio passare la fase di sperimentazione della ricerca a qualcun altro.”
“Sei impazzita?”
“No. Ma questa ricerca è davvero importante. Ed è perfetta, lo so che detto da me sembra che mi stia solo vantando, ma lo è davvero. Cambierà la vita ad un sacco di persone, è il tipo di ricerca...”
“...che ti fa vincere un Harper Avery.”
Mi morsi la lingua.
“Mi dispiace.”
“E tu non lo vincerai perché sei sposata con suo nipote. Quindi vuoi togliere il tuo nome da lì sopra.”
“Non è colpa tua, Jackson.”
“No. Eppure lo è.”
“Senti, il mio sogno era diventare un chirurgo. Salvare delle vite, cambiare delle vite. E così posso farlo. Non mi interessa se non vinco premi per questo, o se devo passare la mia ricerca a qualcun altro. Sono felice.”
“Dici davvero?”
“Certo. Questa è la vita che volevo.”

“Questa non è la vita che volevo.”
Corrugò la fronte, guardandomi, sbalordita.
“I soldi, essere famosa, incidere un cd. Questa non era la vita che volevo. Volevo fare il chirurgo, in realtà. Solo quello. Qualcosa di importante, che aiutasse le persone.”
Appoggiò una mano sulla mia schiena.
“Sono felice che non sia successo, però. Chissà dove sarei adesso.”
“Magari saresti stata il miglior chirurgo del mondo” mi disse piano.
“Forse” le detti ragione. “Ma sarei stata senza di te. Quindi di sicuro non sarei stata così felice.”
Mi sorrise dolcemente quando mi voltai per guardarla negli occhi.
“Ti amo, Arizona.”
“Lo so” mi rassicurò. “Ti amo anche io.”
Appoggiai la testa sulla sua spalla, chiudendo gli occhi.
“Sarà sempre così?” chiese piano. “Saremo sempre un segreto?”
“Lo sto facendo per te” le ricordai. “Non è che non si capisca dai miei cd che sto con una donna, no? Ma non voglio fotografi che ti pedinano in università, o al tuo appartamento, a casa dei tuoi genitori.”
“No, lo so. E hai ragione. Ma alcune volte vorrei poter tenere la tua mano anche fuori da qui.”
“Anche io, credimi.”
Un paio di volte erano uscite su delle riviste foto di me insieme ad una ragazza dai capelli biondi sempre poco riconoscibile. Nessuno aveva ancora capito di chi si trattasse ed io li avrei lasciati continuare a sparare nomi a caso.
“La prossima settimana parti per il tuo prossimo tour.”
“Già.”
“Se mi tradisci ti lascio.”
“Lo so. Stessa cosa per me.”
Entrambe ridemmo. Poi mi fece alzare la testa dalla sua spalla per guardarmi negli occhi.
Ogni volta che ero partita per un tour negli ultimi tre anni e mezzo, quello era il modo in cui mi aveva guardato. Con nient'altro che amore, ed una promessa di aspettare per me.
Ed ogni volta l'aveva mantenuta.

“Bene.”
“Perfetto.”
“Mi fa piacere che siamo d'accordo su questa cosa.”
“Già.”
“Ad essere sincero ero un po' nervoso al pensiero di parlartene. Non sapevo se era qualcosa che volevi anche tu.”
“No, certo. Assolutamente.”
“Ok. Allora, che dovremmo fare adesso?”
“Vuoi iniziare da subito?”
“Ok” scrollò le spalle, avvicinandosi.
Io risi, allontanandolo con una mano sul petto.
“Non in quel senso. Intendevo, da oggi.”
“Oh. Beh, credo di sì.”
“Va bene. Smetto di prendere la pillola e dalla prossima settimana possiamo iniziare a provare.”
Mi rivolse un sorriso smagliante.
“Inizierò a cercare una culla.”
Risi, scuotendo la testa.
“Non sono nemmeno incinta, ancora.”
“No, ma mi ci vorranno secoli per riuscire a montarla.”

Una volta lontana da casa, quando ero in tour e non dovevo scrivere canzoni, quella sembrava l'unica cosa che ero in grado di fare.
La Bailey origliò per sbaglio mentre la canticchiavo e mi disse che l'avrei cantata durante un'intervista che dovevo fare a Los Angeles. Ero via da casa da cinque settimane, ormai. La sentivo ogni sera al telefono, ma non era la stessa cosa.
“Well it’s good to hear your voice, I hope you’re doing fine. And if you ever wonder, I’m lonely here tonight.” Ripensai a quando mi aveva detto che se l'avessi tradita mi avrebbe ucciso. Mi mancava così tanto. “I’m lost here in this moment and time keeps slipping by. And if I could have just one wish, I’d have you by my side. And I love you more than I did before, and if today I won’t see your face nothing’s changed. No one can take your place, it gets harder every day. Say you love me more than you did before and I’m sorry it’s this way. But I’m coming home, I’ll be coming home. And if you’ll ask me I will stay. I will stay” chiusi gli occhi e vidi i suoi. Non mi piaceva non averla accanto. Non che non mi stessi divertendo in tour, i concerti mi facevano battere il cuore e firmare autografi mi sembrava ancora particolarmente strano. Mi piaceva cantare, ma lei mi mancava da morire. “I never wanna lose you. And if I had to, I would chose you. You’re the one that I hold on to, 'cause my heart would stop without you.”
Certo che avrei scelto lei. Se un giorno mi avesse chiesto di scegliere, avrei scelto lei in un batter d'occhio. Ma per il momento, la musica mi rendeva felice quasi quanto lei.
“Dopodomani è l'ultima tappa” le dissi. “Miami. E poi sono a casa.”
“Credevo che Miami fosse casa tua.”
“Nah. Baltimora è casa mia.”
“Scusa, non riesco a sentirti sopra il rumore delle tue bugie.”
Arrossii. Ogni volta riusciva a capirlo.
“Tu sei casa mia” confessai semplicemente.
“Ti amo così tanto, Calliope.”
“Ti amo anch'io. Ci vediamo tra tre, massimo quattro giorni, ok?”
“Ciao, amore.”
Quelle ultime due parole mi scaldarono il cuore.
Così presi un aereo e mi presentai a casa sua quella sera stessa. Sarei potuta rimanere poco, ma era pur sempre meglio di niente. Bussai alla porta sorridendo. Lei mi aprì con gli occhi rossi.
“Credevo stessi andando a Miami.”
Corrugai la fronte.
“Cosa è successo?”
Mi fece entrare, porgendomi una rivista, la chiara causa delle sue recenti lacrime.
Callie Torres ai primi scandali. Svelata l'identità della fidanzata?
Però nella foto non c'era lei.
“Stronzate. Arizona, questa foto è tipo di tre anni fa. Eri lì anche tu.”
“Sì? Perché nella foto io non ci sono.”
“Eri con Addison a prendere i caffè al bancone. Era la mattina prima che Teddy partisse per andare dai suoi a Natale, mi avevi praticamente costretto a venire insieme a voi” ricordai, incredula riguardo le sue lacrime. “Non puoi arrabbiarti per una foto di me ed Erica che parliamo. Lei è amica tua, non mia.”
“Se la foto è vecchia, come mai qualcuno ha fatto una foto a te? Pensi che abbiano preso una persona a caso da fotografare?”
“No, l'ha scattata Teddy. Davvero non ti ricordi?”
“Quindi adesso la mia migliore amica diffonde foto della mia ragazza che mi tradisce?”
La guardai, semplicemente sbigottita.
“In che modo, in questa foto, ti sto tradendo?” le sventolai la rivista davanti agli occhi. “Non ci stiamo nemmeno toccando. Lei guarda me ed io guardo alle spalle dell'obbiettivo, dove tu eri in fila per i nostri caffè.”
“Certo. Di sicuro.”
“Fantastico. Meraviglioso. Sai, devo viaggiare tutta la notte in treno per essere lì in tempo per le prove, ma pensavo che per vederti per qualcosa come sedici minuti ne sarebbe valsa la pena. Bei sedici minuti, una lite in cui credi a una rivista invece che a me” lanciai la rivista senza grazia sul divano e mi diressi verso la porta.
In treno indossai un cappellino e degli occhiali da sole per non farmi riconoscere.
E, di nuovo senza volerlo, mi ritrovai a scrivere.
“Dove diavolo sei?”
“Calma, Bailey. Sto arrivando in treno.”
“Te la sei svignata perché volevi prendere il treno?”
“Già. Sembra che lo abbia fatto” sussurrai, pensando che era l'unica cosa che avevo ottenuto.
“Senti, vedi di arrivare in forma perché ci hanno appena offerto di trasmettere il concerto in diretta tv, quindi ci serve una nuova canzone. Magari una un po' deprimente.”
“Vedrò che posso fare” sussurrai, chiudendo la conversazione.
Fantastico, pensai. Il concerto a Miami sarebbe stato per forza rimandato di almeno una settimana per poter organizzare la diretta televisiva. E in quella settimana nessuna notizia da lei.

“Non capisco perché.”
“Capita e basta, Callie.”
“Non capisco perché a noi” cercai di smettere di piangere.
Lui mi abbracciò.
“Abbiamo provato solo per qualche mese. Forse è ancora presto per dirlo. Anche la dottoressa...”
“Non mi piace quella Montgomery” tirai su con il naso.
“Anche lei ha detto che potrebbe volerci più tempo perché tu rimanga incinta” terminò.
La conoscevamo a malapena. Perché dovevamo fidarci di lei?
Onestamente, non sapevo neanche perché stavo piangendo. Non volevo un bambino così tanto da disperarmi a riguardo, eppure ero lì a piangere come una ragazzina che viene mollata dal primo fidanzatino.
Avrei voluto fare tutto tranne che piangere, in realtà.
Volevo alzarmi ed urlare, volevo arrabbiarmi con me stessa e mi sentivo stupida, così stupida, per essere finita in quel posto, in quella relazione, in quel matrimonio.
Invece continuai a piangere, lasciando che lui mi abbracciasse.

Andava ogni volta a finire su quel fronte e francamente ero stufa di ripetere 'no comment'.
“Recentemente è uscito un articolo che parla di una sua relazione. Conferma ciò che è stato scritto?”
Mi avvicinai al microfono.
“Assolutamente no. La donna della fotografia ed io abbiamo delle amicizie in comune. Questo è tutto.”
“Quindi lei non è impegnata?”
“Non ho detto questo.”
“Quindi sta vedendo qualcuno?”
“Ci sono domande attinenti alla mia musica? No? Nessuno? Perfetto. Questa conferenza stampa è terminata. Vi ringrazio per il vostro tempo.”
Quella sera salii sul palco con un nodo in gola. Fino all'ultimo istante avevo sperato che il cellulare squillasse. Ma lei non aveva chiamato.
Quando si arrivò al gran finale mi presi un attimo di tempo per raccogliere i miei pensieri.
Qualche anno prima, mia madre mi aveva detto che non sarei andata in Paradiso a causa del fatto che mi piacevano le ragazze. La prima volta che avevo baciato Arizona, avevo pensato che forse potevo rinunciare al Paradiso se quello era ciò che avevo in cambio. Poi ho capito che non dovevo rinunciarci, perché lei era il mio Paradiso. Così avevo pregato che potessimo stare insieme, ma lei era perfetta, quindi era stato come sperare che piovesse in mezzo al deserto.
Era triste pensare che mi sarebbe mancata ogni giorno per il resto della mia vita.
“C'è una persona, lì fuori, da qualche parte. Spero che mi stia guardando, perché questa canzone parla di lei.”
Ci siamo, pensai. Ecco che arriva il niente.
“A drop in the ocean, a change in the weather. I was praying that you and me might end up together. It's like wishing for rain as I stand in the desert” tristemente, era quella la verità. E non è che prima non mi fosse mai venuto il dubbio. Lei era quasi troppo perfetta per essere vera. Io e lei non saremmo potute finire insieme. Ma avevo sperato che succedesse ogni giorno dal momento in cui l'avevo conosciuta. “But I'm holding you closer than most, 'cause you are my heaven.”
Speravo che quella canzone dicesse tutto. Tutto quello che non ero riuscita a dirle, neanche quando avrei potuto, tutto quello che le avevo detto e tutto quello che sapeva senza bisogno di una sola parola.
“I don't wanna waste the weekend, if you don't love me, pretend. A few more hours, then it's time to go” nel nostro caso non si era trattato di un week end, ma di sedici minuti. Ma quello rendeva comunque bene l'idea. “And as my train rolls down the East coast” avevo iniziato a scriverla quella notte in treno. “I wonder how you keep warm. It's too late to cry, too broken to move on.”
Avevo scoperto che Teddy non c'entrava con la pubblicazione della foto. L'aveva messa su facebook un anno prima e qualche maniaco l'aveva spedita a un giornale in cambio di un migliaio di dollari.
“Misplaced trust and old friends, never counting regrets, by the grace of God, I do not rest at all. The last excuse that I'll claim, I was a girl who loved a woman like a little girl.”
Lei era la prima donna che avevo amato. Era l'unica donna che avevo amato. E il fatto che potesse dubitarne mi rattristava più di quanto mi faceva arrabbiare.
“Still I can't let you be, most nights I hardly sleep, don't take what you don't need, from me. Just a drop in the ocean, a change in the weather. I was praying that you and me might end up together. It's like wishing for rain as I stand in the desert. But I'm holding you closer than most, 'cause you are my...Heaven doesn't seem far away anymore now, no. Heaven doesn't seem far away.”
Non credevo più a quello che mi aveva detto mia madre. Non da quando avevo capito cos'era davvero il Paradiso. Quel posto in cui nessuno può farti male, quel posto in cui ogni cosa è giusta e tutto è come dovrebbe essere. Ed io quel posto lo avevo già trovato. E continuavo a trovarlo ancora e ancora, ogni volta che ero insieme a lei.
“A drop in the ocean, a change in the weather. I was praying that you and me might end up together. It's like wishing for rain as I stand in the desert. But I'm holding you closer than most, 'cause you are my heaven. You are my heaven.”

“Hai preso questa cosa del bambino parecchio peggio di quanto avevo pensato.”
La sua voce mi fece sobbalzare. Mi voltai verso l'entrata del laboratorio.
“Jackson. Da quanto sei qui?”
“Qualche minuto. Ti stavo guardando lavorare. Non hai fatto altro per due settimane, ormai, e sto iniziando a preoccuparmi.”
“Non dovresti. È tornato tutto a com'era prima. Pensavo che sarebbe stato più semplice per te, in questo modo.”
Ci rifletté un momento.
“Cosa sarebbe dovuto essere più semplice per me nel fatto che praticamente non torni più a casa?”
Scrollai le spalle.
“Tradirmi” spiegai semplicemente.
Vidi la sua espressione praticamente precipitare mentre deglutiva in modo strano.
“Credevi che non sapessi che hai ricominciato a vedere April?”
Mi voltai, continuando ad occuparmi della ricerca sulla cartilagine.
“Non importa, Jackie. Va bene così, è così che le cose devono essere. Lei è innamorata di te. Io non lo sono. Se puoi essere felice, probabilmente dovresti provarci. Io lo farei, se fossi in te. Avrei solo voluto che me lo avessi detto.”
Mi sfilai i guanti.
“Credevo avessi mollato la ricerca.”
“Quando avrai firmato le carte per il divorzio e non sarò più tua moglie, il mio nome sarà il primo sulla lista del Harper Avery, vedrai. Sai come funzionano queste cose. Tuo padre non vorrà che si venga a sapere chi ha tradito chi, chi ha lasciato chi, lo sai, Jackson. D'altronde, sei cresciuto nella tua famiglia, dovresti esserci abituato.”
“Stai...Stai dicendo che lo sapevi dall'inizio e lo tiri fuori adesso perché divorziando col tempismo giusto il tuo nome finirà su quella lista, se lo chiedo a mio padre?”
“Non ce ne sarà bisogno. Lo farà senza che tu dica una parola. Credi che non abbia sempre saputo che l'unico motivo per cui io e te stavamo insieme era perché mio padre e tuo padre volevano questo?”
“Io ti amavo.”
“Non è vero. Tu mi volevi bene” lo corressi, con tono statico. “Ma non mi amavi. Non l'hai mai fatto.”
“Callie, mi dispiace così tanto, ma vendicarti rubando un premio non...”
“Non sto rubando niente, Jackson. Ti ho solo detto, stai a guardare. Se tra sei mesi non ho vinto, hai ragione tu ed il mondo è un posto bello e pieno di unicorni e arcobaleni. Ma, te lo garantisco, sarò su quella lista. Se c'è una cosa che ho imparato dalla mia vita è che l'apparenza è l'unica cosa che conta davvero. Tuo padre lo sa meglio di chiunque altro al mondo, e vedrai fino a che punto si spingerà per mantenerla.”
“Quindi aspetterai e basta?”
“No. Nel frattempo devo scrivere il discorso con cui rifiuto il premio in quanto lo ritengo una mazzetta per non distruggerti con il divorzio, visto che non abbiamo un accordo prematrimoniale e mi hai tradito. Andrò a fondo con stile, Jackie. E tuo padre verrà giù con me.”
“Perché?”
“Perché se lui e mio padre non si fossero messi d'accordo per farci conoscere e 'sistemare' le cose, io avrei detto la verità ai miei genitori e tu saresti rimasto insieme ad April fin dall'inizio.”
Fu solo allora che capì.
“Non può proteggere la nostra credibilità quando non avremo più credibilità.”
“Tu ed April siete destinati a stare insieme, Jackie. Dille questo, ok? E lascia che mi occupi io del resto. Come ho detto, andrò giù in grande stile.”

Dopo un attimo di silenzio assoluto riecheggiarono le urla degli spettatori, insieme ai loro applausi. La canzone era piaciuta.

Chiusi gli occhi per riuscire a non piangere e mi voltai, uscendo dal palco.
“Sei stata incredibile. Gli ascolti sono stati spettacolari” mi aggiornò Bailey riguardo la diretta televisiva.
“Bene.”
“Non sembri eccessivamente felice.”
“Lo sono. Scoppio di felicità. Non lasciarti ingannare dalle apparenze. Se c'è una sola dannata cosa che la mia vita mi ha insegnato è che non c'è niente che conti meno delle apparenze.”
Mi fermò, afferrandomi per un braccio.
“Si tratta della piccola principessina, vero?”
“Non chiamarla così, Bailey. Sai che lo odia” inspirai. “Non ha più chiamato da quando ha visto l'articolo. Per quasi quattro anni l'ho sentita tutti i giorni e adesso è sparita nel nulla per più di una settimana. Ed ho paura che sia finita. Tipo, sul serio. E la cosa peggiore è che non è colpa sua, ma non è nemmeno colpa mia. Teddy ha fatto la foto, l'ha messa sul suo profilo, ma non è di certo neanche colpa sua, come poteva immaginarlo? Ma anche chi ha venduto la foto ai giornali, e gli editori che l'hanno pubblicata, come potevano saperlo? Non è colpa di nessuno. Sono solo cose che succedono. È solo, difficile, sai?”
“Già. Lo so. Guardati, Callie. Sei...” mosse le mani davanti a me dall'alto verso il basso e poi le scosse da sinistra verso destra. “Cresciuta. Sei una donna matura. Prima che te ne accorga sarai invecchiata. E pensare che sembra ieri quando ti ho sentito cantare in quel locale. Sono così fiera di te.”
“Aw, Bailey. Vuoi un abbraccio?” offrii, allargando le braccia.
La sua espressione si indurì.
“Cosa? No. Tieni le mani lontano da me.”
Io la ignorai, abbracciandola.
“Sono tipo una sorella per te, non è vero? Non ti crederò se mi dici che sono solo un'altra cliente, quindi assecondami e lasciami sognare.”
La percepii sorridere. Ricambiò l'abbraccio.
“Sei un pochino più importante degli altri. E forse una volta o due sei stata tipo una sorella per me, ma questo è quanto. Ora lasciami andare e cambiati. Tra meno di mezz'ora hai una conferenza stampa.”
“Ai tuoi ordini, Bailey.”
Entrai in camerino, guardandomi allo specchio. Due settimane prima la mia vita era praticamente perfetta. Come poteva essere tutto rovinato da una fotografia su una rivista di gossip? Appoggiai le mani sul ripiano davanti allo specchio, chiudendo gli occhi e cercando di non piangere. Ci avrebbe ripensato. Avrebbe capito di aver esagerato e sarebbe tornata da me.
Fu pensando questo che due giorni dopo entrai nel suo appartamento con la chiave che mi aveva dato.
Era vuoto.
Aveva preso tutta la sua roba e accettato un posto per la specializzazione chissà dove, lasciandomi indietro.
Avevo chiamato. Le sue scuse mi erano sembrate ridicole.
È troppo difficile. Dovresti vivere in pieno questo essere famosa. La canzone era bellissima. È meglio se non ci sentiamo. Comunque ti amo.
Ma se mi avesse amato sarebbe stata ancora al mio fianco.
“Ti auguro tutta la felicità del mondo” le dissi.
Risi amaramente, chiudendo la conversazione e la mia vita con lei semplicemente schiacciando un pulsante.
Quando Erica mi aveva voltato le spalle le avevo detto che se ne sarebbe pentita, mentre ad Arizona avevo detto quello. Il motivo era semplice, in realtà. Arizona se la sarebbe cavata molto meglio senza di me. Quello era il motivo per cui mi aveva lasciato. Non potevo biasimarla, perché ci vedevamo per un paio di mesi e poi io sparivo per almeno sei, lei doveva frequentare l'università ed io avevo firmato un contratto dopo l'altro. Avevamo due vite troppo poco compatibili, ma non era questo il motivo. Il motivo era che lei sarebbe stata felice comunque. E quindi io ero d'accordo sul fatto che avrei dovuto farmi da parte.
Fu qualche notte dopo, quando il liquore nel mio organismo aveva inibito le mie paure che mi ero finalmente sentita in grado di lasciarle un messaggio in segreteria. Anche se avrei preferito parlarle di persona.
“Non rimpiango niente. Neanche un attimo. Perché per quanto quello che sento adesso sia come stare in piedi in mezzo al fuoco, ho saputo anche cosa si prova a stare nel posto più felice dell'universo. Con te. E ovunque tu sia adesso questo non cambia, nessuno potrà mai portarmelo via. È davvero come dicono, meglio aver amato e perduto che non aver amato mai. Perché almeno ti ho conosciuto.”
Sentii un beep. Il tempo a mia disposizione era finito. Composi di nuovo il numero, lasciandone un secondo. Parlai velocemente per farmi bastare quei due minuti che avevo a disposizione.
“Mi mancherai. Tutto qui. Tipo, mi mancherai davvero. Ogni momento di ogni singolo giorno, per un sacco di tempo. Finché, un giorno, mi sveglierò e tu sarai sparita. E inizierò a vivere con la mia cicatrice. Non mi accorgerò più nemmeno che non ci sei. E allora tutto l'amore, tutto il dolore, tutto quanto, sarà stato invano. Tutto ciò che adesso mi sembra così grande e infinito, sarà sparito nel nulla” ripresi fiato. “Mi mancherai tanto che mi sentirò morire, finché un giorno non mi mancherai più. E non so ancora cosa mi faccia più paura tra le due cose. Ma so che in entrambi i casi non sarà la cosa giusta. Non se non sarai qui.”
Riattaccai. E ricominciai a bere dalla bottiglia di whisky che avevo in mano.

Salii sul palco con un sorriso sulle labbra, nonostante avessi la morte nel cuore.
L'uomo col completo mi fece segno di avvicinarmi al microfono. Così lo feci, accettando il premio che mi stava porgendo.
“Cavolo. D'accordo, sto tenendo in mano un Harper Avery, ho bisogno di un attimo per registrare questa sensazione” scherzai.
Sentii qualche risata dal pubblico.
Avevo vinto il premio che era stata invece negato ad un certo Preston Burke. Non avevo mai sentito il suo nome, quindi non poteva aver fatto niente di troppo importante, no?
“No, ma seriamente, non posso dire di essere sorpresa” ci fu qualche altra risata.
Aspettai qualche momento che ci fosse silenzio, poi ripresi a parlare senza traccia di divertimento nella voce.
“No, dico sul serio, non sono affatto stupita. Sapete perché? Perché sto tenendo in mano l'oggetto con cui il signor Avery, figlio di Harper” incontrai il suo sguardo facilmente, visto che era seduto in prima fila “sta cercando di corrompermi, in modo che quando divorzierò da suo figlio non mi prenda metà del suo patrimonio di famiglia. Beh, mio carissimo signor Avery, sono onorata di essere l'oggetto della sua corruzione, quest'anno, ma per quanto mi riguarda da quando suo padre è venuto a mancare questa cerimonia si è trasformata in una pagliacciata, e questo premio ultimamente viene sempre assegnato al miglior offerente, non è così? Mi dispiace ma io non mi farò comprare. Non voglio questo premio, e non voglio neanche un centesimo dalla sua famiglia. La lascio a cercare un modo per distruggere la mia carriera e la mia vita, adesso” dissi, allontanandomi dal microfono e lasciando la statuetta nelle mani dell'annunciatore, che aveva sul viso un'espressione di impagabile meraviglia.

Dopo otto anni ero di nuovo davanti a quella casa.
“Me la ricordavo più grande” dissi ad Addison.
“Forse eri tu ad essere più piccola.”
“Già.”
La porta si aprì. Mio padre scese i due scalini che vi erano davanti, fermandosi. Mia madre gli si mise affianco. Alle loro spalle vidi Aria esitare sulla porta, poi sparì, correndo al piano superiore. Per sei anni l'avevo sentita tutte le sere al telefono.
Aria amava ballare.
I nostri genitori le avevano detto che quello non era un lavoro, era un gioco. Che doveva continuare a studiare e smettere di perdere tempo a sgambettare in giro.
Stavano distruggendo lei ed il suo sogno come avevano distrutto me ed il mio.
Aspettai qualche secondo, poi la vidi uscire dalla porta con in mano una sola valigia. Proprio come avevo fatto io otto anni prima.
Si voltò verso i nostri genitori, lessi le sue labbra mentre sussurrava loro uno spezzato 'mi dispiace davvero' con le lacrime agli occhi.
Aprii la portiera posteriore della macchina. Lei salì senza dire una parola. Addison salì dalla parte del passeggero.
“Dove la stai portando?” sentii mio padre urlare mentre si avvicinava, una volta ripresosi dallo stupore.
“In un posto dove può essere se stessa. Che non è qui” risposi, aprendo la porta dal lato del guidatore e lanciando un'ultima occhiata alla casa. “Adesso è maggiorenne. Può fare ciò che vuole. E ciò che vuole è ballare, non fare il dottore. Avevi una figlia che voleva fare il medico, ma l'hai disconosciuta, ti ricordi? Le hai detto che essere se stessa era sbagliato, proprio come stai facendo con Aria. Il mio sogno era fare il chirurgo. Voi avete rovinato quel sogno per me. Non vi permetterò di rovinare il suo.”
“Sei felice?” sentii la voce speranzosa di mia madre.
Pensai a quando ero stata a Miami per un concerto tre anni prima. A quando poi ero tornata a casa e avevo scoperto che Arizona se n'era andata via.
A come il mondo e la vita mi erano crollati addosso.
Nessuno dei miei sogni si era realizzato, in fondo.
Il Paradiso mi era sfuggito proprio mentre lo tenevo tra le mani, come acqua.
E dopo anni ancora mi mancava.
“No. Non lo sono.”
Salii in macchina.
“Grazie per essermi venuta a prendere. So che non mi devi niente, Callie.”
“Sei mia sorella, Aria. Sai quanto ti voglio bene. Sarei venuta prima, ma eri minorenne e mi avrebbero arrestato per rapimento.”
Lei rise. “Ti voglio bene.”
Misi in moto, guardando Carlos paralizzato e Lucia che piangeva in silenzio.
“Ti porto via da qui” sussurrai, partendo.

Parlai con i miei genitori con calma, raccontando la storia fin dall'inizio e spiegando loro perché avevo lasciato Jackson, raccontai del suo tradimento, del fatto che non lo avevo mai amato e sposato solo perché volevo tenere un segreto.
E poi parlai loro di quel segreto.
Per anni mi avevano visto essere infelice. E ciò che pensavano fosse meglio per me, era cambiato nel corso del tempo.
Mi dissero che tutto quello che volevano era che tornassi a sorridere e che i miei occhi brillassero di nuovo.
E se avessi trovato una donna che mi amava tanto da spingermi a ricominciare a vivere, a riprendere tutto in mano, se un uomo non sarebbe mai stato in grado di farmi battere il cuore, allora anche una donna andava bene.
Ero così fiera di loro in quel momento.

“Ne sei assolutamente sicura?”
“Me lo hai già chiesto, Bailey. Sono sicura. Questa è l'ultima volta.”
“Sì, però, lo sai. È un peccato. Tutti quei soldi, tutti quei ragazzi che ti adorano.”
“Ho abbastanza soldi per questa vita e quell'altra. E poi questa canzone è il mio capolavoro. Me ne vado con i fuochi d'artificio. Voglio che il mondo mi ricordi così. Salgo su quel palco e lascio questa canzone a quei ragazzi e spero che chiunque l'ascolti senta quello che provo io quando la canto.”
“E con chiunque, intendi in modo dolorosamente ovvio lei.”
“Già.”
“Un vero peccato” ripeté sottovoce. “Tutto questo talento” lasciò la frase in sospeso. “Le hai spedito il cd?” chiese a voce più alta.
“L'ho fatto. Con Don't Stop Believing, Stay, A Drop in the Ocean e la canzone di stasera.”
“Hai mai riflettuto sul fatto che i tuoi più grandi successi sono stati scritti per lei?”
“Non sai ancora se questa sarà un successo. Potrebbe fare schifo al pubblico, per quello che ne sai.”
“Come no. Comunque” continuò “lei che ha detto?”
Scrollai le spalle, distogliendo lo sguardo dal mio riflesso.
“Niente.”
“Che vuol dire niente?”
“Niente. Non ha risposto niente. Non si è fatta sentire. Comprensibile, dopo tre anni. Sarà una persona diversa adesso, immagino. Magari ha una famiglia, si è sposata, ha continuato a vivere nel modo in cui io non sono riuscita a fare.”
“È davvero quello che pensi?”
“È davvero quello che spero.”
Non disse niente per diversi secondi.
“Sul palco tra due minuti” uscì richiudendosi la porta alle spalle.
Non me la sentivo di fare un gran discorso d'addio. Così chiusi gli occhi e inspirai lentamente.
“Questa canzone è per l'amore della mia vita. Ovunque sia adesso, spero che stia sorridendo proprio come era solita sorridere a me.”
La musica partì e solo in quel momento realizzai che era davvero la fine. Era l'ultima canzone che avevo scritto. Era il mio ultimo concerto. L'ultimo palco su cui stavo in piedi. Ma lei non era lì per vederlo come aveva promesso.
“It's cold again and I do not know what to do. I need a friend, but all I really want is you. Where have you been? I haven't seen you for so long. I guess you're gone, you're really gone.”
Ricordai di aver pensato che era stata una bella promessa, ma in fondo erano solo parole, quello era tutto ciò che aveva significato. E, come ogni promessa che mi aveva fatto, anche quella era destinata ad essere infranta.
“So long ago, you told me you'd never leave. What do you know? Things have changed so suddenly, and here I am. I am moving on without you. Without you.”
Chiusi gli occhi. Già. Stavo andando avanti senza di lei. Allora perché ogni volta che chiudevo gli occhi tutto ciò che vedevo era l'azzurro dei suoi?
“Now the years have passed us by, and I still do not know why before you tried you chose to quit. So where are you tonight? You could make everything right, but instead you're missing it. You're missing it.”
Ricordai una conversazione che avevo avuto con Addison qualche settimana prima. Era la conversazione che aveva ispirato quella canzone.
“Quello che hai fatto per Aria è stato meraviglioso, Callie. Le hai dato la possibilità di avere la vita che vuole. Se Arizona fosse qui, sarebbe fiera di te.”
Mi irrigidii.
“Sì, beh, non c'è. Lei non è qui. Non è qui per vedere le cose che faccio, la persona che sono diventata.”
“E fidati di me, quando ti dico che la persona che sei diventata è meravigliosa. E lei sapeva che saresti stata in grado di diventare ciò che sei anche senza di lei, altrimenti non se ne sarebbe mai andata.”
“Ma non ha avuto senso. Tutta la mia vita, tutta quanta, non ha avuto e non ha il minimo senso, perché le cose buone che faccio, la persona che sono, lei se le sta perdendo. Si sta perdendo tutto quanto. Si sta perdendo me.”

“You're missing it. All the things that I have done, you're missing it, everything I have become. So wave goodbye. You can never get it back, no you can't. You really can't. 'Cause now the years have passed us by, and I still do not know why, before you tried, you chose to quit. So where are you tonight? You could make everything right, but instead you're missing it. You're missing it.”
La cosa peggiore di tutte era che io mi stavo perdendo lei. Andandosene, mi aveva portato via il privilegio di vederle vivere la sua vita, anche solo dal margine.
Sarebbe potuta essere ancora lì al mio fianco, in quel momento. Ma aveva scelto di andarsene senza neanche provare a fare in modo che le cose tra noi funzionassero, ed il perché ancora mi sfuggiva in realtà.
Forse per paura, forse per coraggio. Forse per qualcosa che non aveva nemmeno niente a che vedere con noi o con me. Forse per la mia carriera, per la mia musica, per la mia celebrità.
Non sapevo perché, ma in realtà poco importavano le ragioni di un risultato che comunque non cambiava. Ed il risultato era che se n'era andata.
“There'll be a day, when you wish you could go back. When your mistakes will catch up with where you're at. Before you know, all your chances will be gone. They will be gone.”
Aveva distrutto la mia vita.
Per tutto quel tempo avevo vissuto in funzione di lei, che non era più nemmeno lì.
Mi aveva spezzato.
“'Cause now the years have passed us by, and I still do not know why, before you tried, you chose to quit. So where are you tonight? You could make everything right, but instead you're missing it. You're missing it.”

“Mi scusi. Lei è Calliope Torres?”
Era successo che altri dottori mi riconoscessero in ospedale. In fondo la scenata che avevo fatto aveva fatto il giro tra i miei colleghi di tutto il mondo. Non era una cosa da tutti i giorni vedere qualcuno rifiutare un Harper Avery. O essere onesto.
Mi voltai con un sorriso di cortesia sulle labbra.
“Già, la pazza che ha rifiutato un Avery, sono io.”
“A dire la verità, volevo complimentarmi per la brutale sincerità. Non voleva quella vita, ed ha avuto il coraggio di cambiarla. La stimo davvero molto per quello che ha fatto.”
Per un momento rimasi in silenzio. Mi aveva colto totalmente alla sprovvista.
“Oh. Ehm, la ringrazio.”
Mi sorrise.
Fu allora che la guardai davvero.
Era molto bella, qualcosa di lei era davvero familiare.
“Ci conosciamo?” chiesi distrattamente, studiando i suoi tratti.
Lei guardò in basso, con un sorriso che sembrava quello di qualcuno che stava tenendo un segreto.
“Abbiamo frequentato la Hopkins nello stesso periodo, ma non ci conoscevamo. Io sono due anni più grande di lei, ma abbiamo avuto un paio di classi insieme.”
“Oh, giusto” ricordai all'improvviso, un'immagine chiara di lei che prendeva appunti in classe mi apparve per un momento quasi come se potessi toccarla. “Mi scusi, ma non ricordo il suo nome.”
Lei continuò a sorridere, spostando lo sguardo per guardarmi negli occhi.
Tese una mano nella mia direzione.
“Arizona Robbins.”
I suoi occhi mi avevano ipnotizzato. Afferrai la sua mano delicatamente.
“Callie Torres.”
Dio, quanto era bella.
“Già” mi ricordò. “Lo so.”

Entrò in camerino con circospezione. Quasi come se pensasse di non doversi trovare lì. Fu la prima a parlare.
“Ciao.”
“Ciao.”
Rimasi in silenzio.
“Sei stata meravigliosa.”
“Mi dispiace davvero, per tutto quello che ho fatto e che non ho fatto.”
“Non sai nemmeno per cosa ti stai scusando.”
“Qualsiasi cosa sia, mi dispiace. Perché qualsiasi cosa sia, ti ha portato via da me.”
“Non è stata colpa tua. Per quanto suoni banale, era colpa mia. Ero io che non potevo starti accanto come avrei voluto. Ma adesso sono qui, per vedere le cose che hai fatto e la persona che sei diventata, Calliope. Non voglio più perdermi neanche un attimo.”
“Sei tornata adesso perché era il mio ultimo concerto?”
“Sono tornata adesso perché fino a quando non hai mandato quel cd pensavo di aver sprecato la mia unica occasione con te.”
Sembrava sincera.
“Ok.”
E aveva le lacrime agli occhi.
“Ok.”

C'erano una volta due uccellini posati su un filo della corrente. Uno dei due provò a volare via e l'altro disse che anche lui voleva provare. Ma era soltanto un bugiardo.
L'uccellino che volò via ebbe una vita difficile, incontrò molte tempeste e fu costretto ad abbandonare alcuni dei suoi sogni per sopravvivere, ma alla fine, essere libero di volare fu la più grande esperienza della sua vita.
L'altro uccellino rimase su quel filo per moltissimo tempo, la sua vita fu semplice, non ci furono giorni di pioggia e quella familiarità era confortevole il più delle volte. Realizzò i suoi sogni ed i suoi genitori furono sempre al suo fianco, ma non fu mai davvero felice, perché non poteva dispiegare le ali e spiccare il volo. Solo molti anni dopo, si rese conto del terribile sbaglio che aveva fatto, e capì che i suoi sogni non si sarebbero mai davvero realizzati se non fosse mai riuscito a volare.
C'erano una volta due uccellini posati su un filo della corrente. Uno dei due provò a volare via e l'altro...l'altro, un giorno, lo seguì.




Perdonate l'incredibile ritardo, chiedo umilmente venia! Mi volete bene lo stesso, vero?

Fatemi sapere quello che ne pensate, e soprattutto...su facebook è nata una pagina dedicata a questa storia, alle shot e ai banner, a me e Trixie...quindi, niente...se vi va, passate! :)

Hermixie ~ Calzona Fanworld



Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Il nostro primo spettacolo di magia ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, you're awesome!

Avvertimenti: leggermente AU




Uploaded with ImageShack.us



Il nostro primo spettacolo di magia


Amavo il mio lavoro.
Ed ero molto brava nel farlo.
Probabilmente, ero così brava proprio perché amavo fare quello che facevo.
Salvare bambini, quello era più o meno il riassunto di tutta la mia vita.
E non era stata una scelta dettata dal cuore.
Salvare bambini permetteva all'umanità di continuare ad esistere. Era semplice fino a questo punto, davvero.
Io salvavo bambini.
Era quello che facevo, ma ancora di più era quello che ero.
Non c'era mai stato niente nella mia vita, niente, né una scelta, né uno sbaglio, né un'azione, che fossero state dettate dall'irrazionalità, mai.
Io ero una persona con i piedi saldamente ancorati a terra. Ero strettamente legata alla realtà.
Ero un medico.
Credevo a ciò che vedevo con gli occhi, a ciò che potevo toccare con le mani, ma non a ciò che potevo sentire con il cuore.
Il cuore, il cuore non è fatto per sentire.
Il cuore umano è fatto per battere. Per pompare sangue in tutto il corpo. Per tenerci in vita. Il cuore agisce. Non sente. Non pensa. Non sa che cosa è meglio e quindi non sa scegliere. Lasciarlo decidere sarebbe un errore. È solo un organo come tutti gli altri, è fatto da muscoli, è un insieme di cellule.
Il cuore può sbagliare.
Ed io, scegliendo invece con il cervello, il centro del pensiero, delle emozioni, la calcolatrice perfetta del nostro corpo, ero convinta di non potermi sbagliare mai.

Avevo curato Amanda da quanto aveva cinque mesi di vita.
Era stata la prima bambina che avevo avuto in pediatria. La mia prima piccola umana. Era affetta dalla sindrome di Gaucher di terzo tipo.
E dal primo giorno, sapevo che non sarebbe riuscita ad arrivare al suo terzo compleanno. Era stata dura per suo padre. E come avrebbe potuto non esserlo? Sua figlia stava morendo davanti ai suoi occhi. Per tre anni anni, sua figlia stava morendo davanti ai suoi occhi. Questo è abbastanza da distruggere chiunque.
Ma i tre anni erano passati ed io da specializzanda ero diventata strutturato e poi primaria del reparto ad un altro ospedale della città, e Bernard aveva deciso che voleva che io continuassi a curare sua figlia. I tre anni erano passati e Amanda non era ancora morta.
Era uscita da poco una cura sperimentale, un farmaco che rallentava l'avanzare dei sintomi neurologici della malattia. Avevo proposto al padre che lei fosse una tra i primi a provarlo. Era costoso. Era rischioso. Ma era anche la sua miglior possibilità.
Amanda era sopravvissuta oltre i cinque anni di età.
Amanda avrebbe avuto una vita. Forse più corta della media, forse più difficile della media, ma avrebbe avuto una vita quando tutti pensavamo che non l'avrebbe avuta.
Amanda era la prova che le condizioni possono cambiare senza preavviso.
Per questo quando firmai la sua ultima cartella di dimissione dall'ospedale, la settimana del suo sesto compleanno, lei mi invitò ad uno spettacolo.
La mia testa mi stava urlando di non andare, ma quando avevo guardato dentro i suoi occhi, avevo capito che andare l'avrebbe resa felice, anche se trovavo l'intrattenere rapporti troppo personali con i pazienti inappropriato. Ma la mia mente mi ricordò che lei, da quel giorno, non era più una mia paziente.
Così accettai.
Andammo a vedere uno spettacolo di magia.
Solo io e lei.
Non ero mai stata a vedere uno spettacolo di magia, ma lei ne parlava come se fosse la cosa più bella del mondo.
E forse lo era.
Forse la magia era la cosa più bella del mondo, per chi riusciva a crederci.
Amanda ci riusciva. Lei stessa, era una magia.
Io? No, io non credevo più alla magia da quando avevo otto anni. Mio zio faceva il mago, andava alle feste di compleanno dei bambini come intrattenitore. Una volta, entrai nel suo camerino prima che arrivasse.
Scoprii che il cappello a cilindro aveva un doppio fondo, che le carte erano truccate, che gli anelli di ferro si aprivano da soli.
La magia era un trucco. Un imbroglio. Un'invenzione.
Ci sedemmo in terza fila, le rivolsi un sorriso radioso. Forse non credevo nella magia, ma credevo in Amanda. Credevo nella sua vita. E se lei riusciva ancora a credere nella magia, allora non potevo che essere fiera di lei, perché sperava ancora, e di me stessa, perché avevo fatto un buon lavoro nel mantenere la sua innocenza nonostante la sua malattia.
Parlammo finché le luci iniziarono ad abbassarsi. In sala scese il silenzio.
Sentimmo dei chiari passi provenire dalle nostre spalle, il tacco di qualcuno che risuonava nel marmo dell'atrio del teatro.
La porta della sala si spalancò. Tutti continuammo ad osservare, confusi dal fatto che non ci fosse nessuno.
“Che state guardando, tutti?”
Ci voltammo di scatto in avanti.
Lei se ne stava lì, in piedi sul palco, ad osservare la porta come tutti noi un attimo prima, una mano sulla fronte come se cercasse di vedere meglio. Notai il suo abbigliamento, conforme a quello dei più famosi maghi mai esistiti, completo di cappello a cilindro e mantello.
Finse di rendersi improvvisamente conto che stavamo guardando lei, togliendosi la mano dalla fronte e schiarendosi la voce.
“Ah, guardavate me, quindi” disse, sorridendo lentamente. “Signore e signori, buonasera.”

“Si spengono le luci. Lo spettacolo finisce. La magia, invece, la magia continua.”
“È stato fantastico” stava praticamente saltellando mentre esprimeva la gioia causata dallo spettacolo finito qualche momento prima. “Hai visto quando è entrata nella gabbia insieme al leone, hai visto?”
“Sì, Amanda” risposi con un sorriso dettato dalla meraviglia sul volto della ragazza.
“Possiamo aspettare che esca per avere un autografo?”
Temevo che in realtà la signorina non si sarebbe fermata a firmare autografi, ma mi limitai ad annuire.
“Perché no” le porsi una mano che lei afferrò prontamente, tirandomi verso il palco.
“Non penso che uscirà da qui” sussurrai. “Forse ho un idea migliore. Vieni.”
La portai sul retro dell'edificio, vicino all'uscita secondaria di cui ero a conoscenza. Ci sedemmo su un muretto, aspettando.
“Allora, come mai hai scelto proprio questo spettacolo?”
Scrollò le spalle. “Alcuni dei miei compagni di classe sono stati a vederla e mi hanno detto che è fantastica. E poi io adoro gli spettacoli di magia.”
“Anche io adoravo tutto ciò che riguardava la magia, quando ero piccola.”
“Poi cosa è successo?”
Mi strinsi nelle spalle. “Sono cresciuta. Ed ho smesso di crederci, presumo.”
“Nessuno dovrebbe mai smettere di credere alla magia. È un mondo parecchio triste e vuoto, se tutto ciò che succede non può mai andare oltre la razionalità.”
Corrugai la fronte. Era incredibilmente accurato per una bambina di sei anni, ma in effetti il mondo era parecchio triste e vuoto, oltre che assolutamente privo di alcun tipo di magia.
Sentimmo una pesante porta di metallo aprirsi alle nostre spalle. Ci misi qualche istante prima di riconoscere la donna fuori dai suoi abiti di scena e con un trucco parecchio meno appariscente sul viso, ma era senza dubbio lei. Scesi dal muretto subito dopo Amanda.
“Lascia parlare me” sussurrai, quando la donna fu abbastanza vicina da accorgersi della nostra presenza. “Salve” continuai a voce più alta. “Perdoni il disturbo, sarà una donna molto impegnata e sono sicura che molti dei ragazzi che assistono al suo spettacolo la infastidiscono con richieste assurde, ma Amanda sperava di poter avere un suo autografo.”
Guardai in basso verso la ragazza, che allungò le braccia tenendo in mano un foglio ed una penna che avevo trovato dentro la mia borsa.
La donna fece del suo meglio per trattenere un sorriso davanti all'innegabile fascino degli occhi da cucciolo di Amanda.
“Ma certo” rispose avvicinandosi ulteriormente e prendendo la penna, scrivendo velocemente sulla carta. “Ti piace la magia?” chiese quasi con casualità.
“La adoro.”
“Mi piace la tua molletta. Posso prenderla in prestito per un secondo?” chiese, indicando il piccolo oggetto rosa con una margherita di plastica sopra che teneva fermi i suoi capelli.
La bambina fu veloce a sfilarsela e porgergliela.
“C'è una piccola margherita sopra. È molto carina” osservò. “Ma sai cosa è meglio?”
Amanda scosse la testa, prestando attenzione.
“Una margherita vera” rispose, stringendo l'oggetto nella mano sinistra mentre con la destra estraeva dal pugno, a quel punto chiuso, una margherita già fiorita. “Ecco a te” la porse ad Amanda con un sorriso.
Lei la guardò stupefatta. Poi, incapace di resistere, abbracciò la donna davanti a lei.
“Ti ringrazio.”
“No, Amanda” la contraddisse la donna con un sorriso, abbassando la voce e chinandosi verso di lei. “Sono io che ringrazio te, perché credi nella magia. Spero che niente di convinca mai del contrario. Qualsiasi cosa ti dicano, la magia esiste. E non c'è niente che sia più potente al mondo.”
Raddrizzò la schiena, guardandomi negli occhi per un breve istante.
Ricominciò a camminare, mentre Amanda si voltava nella mia direzione.
“Che c'è?” chiese quando vide un'espressione di pura confusione sul mio viso.
Allungai una mano, passandola tra i suoi capelli e porgendole l'oggetto che vi trovai.
“Forte” esclamò, rigirandosi tra le mani la molletta con la margherita. “Come pensi che abbia fatto?”
“Non lo so” risposi. Probabilmente mentre si erano abbracciate l'aveva riposizionata tra i suoi capelli.
Ci voltammo contemporaneamente, ma della donna non c'era ormai più alcuna traccia in quel vicolo scarsamente illuminato.

Era passata una settimana da quella sera, quando vidi Amanda di nuovo.
Ero seduta nella mensa, vicino a Teddy, quando il rumore di qualcosa che veniva appoggiato sul tavolo e strisciato nella mia direzione mi distrasse.
“Ilusión” lessi ad alta voce. “Non so cosa significhi.”
“Significa 'Illusione'. È lo spettacolo di stasera.”
Continuai a sorseggiare rumorosamente il mio milk shake.
“Mio padre lavora. Così ho pensato che potresti accompagnarmi tu.”
“Niente da fare Amanda, stasera non posso.”
“Ti prego, Arizona. Le voci di corridoio dicono che è il suo ultimo spettacolo, non posso perdermelo, dopo quello che ha fatto l'altra volta.”
“Che ha fatto l'altra volta?” chiese Teddy.
Amanda si illuminò istantaneamente.
“È riuscita a far volare delle colombe che ha estratto dal suo cilindro, ha fatto sparire una ragazza da sopra il palco dopo averla tagliata in tre pezzi e l'ha fatta riapparire intera, è entrata in una gabbia con un vero leone” esclamò l'ultima con particolare entusiasmo. “E dopo ha trasformato la mia molletta in una margherita vera.”
“Impressionante. E il leone non l'ha neanche graffiata?”
“L'ha trasformato in un gattino. Ci crederesti?” le chiesi con un mezzo sorriso.
“Cavolo. Ti dico cosa, se non vuole venirci Arizona, ci verrò io con te.”
“Davvero? Grazie dottoressa Teddy.”
“Non c'è di che.”
“Aspettate. Stavo solo facendo la difficile, ma avrei accettato” protestai.
“Troppo tardi. Hai perso la tua occasione” mi disse Teddy alzandosi e prendendo la mano della bambina, incamminandosi verso l'uscita della mensa.
“Dove lo trovo adesso un biglietto in più?” sussurrai, seguendole a ruota con il milk shake ancora in mano.

Non era che volevo vedere di nuovo lei, né tanto meno il suo stupido spettacolo di magia. Quel sorriso che mi aveva fatto la settimana prima mi era del tutto scivolato addosso. Non ero attratta da lei per niente.
Lo stavo facendo per Amanda, ecco tutto. Volevo passare del tempo con lei.
La verità era che non aveva mai conosciuto sua madre. E suo padre era sempre stato assente quando lei era in ospedale, occupato dai tre lavori che gli servivano per potersi permettere le cure di sua figlia. Una volta mi aveva detto che ero stata io a crescerla, più di chiunque altro. Che si sentiva fortunata rispetto agli altri bambini senza una mamma perché almeno lei aveva avuto me. Io non volevo figli. Ma Amanda non era stata una mia scelta. Le volevo così bene che, sì, avrebbe potuto essere figlia mia. Ormai quella sensazione era dentro di me e non potevo più mandarla via, ma sapevo che una volta guarita, io e lei ci saremmo allontanate e quell'affetto che provavo per lei si sarebbe attenuato.
Lo spettacolo iniziò a luci spente. Come in un vicolo buio fuori da un fast food.
Uno dei fari si accese improvvisamente, puntando dritto verso il pubblico. Come i fari di un automobile che si avvicinano ad un uomo.
Poi partì una strana musica, misteriosa ma con alcune noti che la rendevano leggermente inquietante.
Il palcoscenico fu invaso dal fumo artificiale che sembrava quasi la fitta nebbia che a Seattle si vedeva abbastanza spesso.
Poi uno scoppio riecheggiò. Come uno sparo.
Ed una figura entrò incerta sul palco, coperta dalla scarsa illuminazione e dal mantello attorno al suo busto. Come quella di un predatore che si avvicina alla sua vittima.
Il mantello venne tirato di lato quasi improvvisamente, il volto della donna venne rivelato al pubblico nella penombra. Qualcosa di quella scena mi aveva turbato. Una sensazione di disagio mi avvolse e rimase ferma nel mio stomaco fino a fine serata.
“Pronto?”
“Dottoressa Robbins, dovrebbe venire in ospedale il prima possibile.”
“Non sono di turno, Karev, chiama qualcun altro.”
“Si tratta di Bernard Morris.”
Corrugai la fronte, voltandomi verso la donna e la ragazzina che parlavano animatamente vicino all'uscita sul retro del teatro.
“Che cosa è successo?”
“Rapina finita con un colpo di pistola. Era già morto quando è arrivato in ospedale. Questo era il suo contatto per le emergenze. Mi dispiace molto dottoressa Robbins.”
“Ha un fratello, Paul Morris, puoi chiamare anche lui?”
“Subito.”
Chiusi la chiamata, avvicinandomi ad Amanda e Teddy. Ma la loro attenzione non era su di me.
“Amanda. Deve esserti proprio piaciuto il mio spettacolo per venire a vedermi due volte in una settimana. Oppure mi stai seguendo, visto che ti trovo sempre sul retro?” chiese, sorridendo e abbassandosi per essere al pari di altezza della bambina.
“Ti ricordi il mio nome.”
Si limitò a rispondere ampliando il suo sorriso.
“Ci scusi se abbiamo di nuovo usato la porta sul retro, sappiamo che se volesse avere bambini tra i piedi passerebbe da davanti, ma Amanda voleva chiederle qualcosa” spiegò Teddy, con una mano sulla spalla della ragazza.
“Non c'è davvero alcun problema” la rassicurò, guardando poi di nuovo verso il basso. “Chiedimi pure tutto quello che vuoi, Amanda.”
“Ecco, c'è questa persona” iniziò con tono vago. “Dice che crescendo ha smesso di credere nella magia.”
“Hai paura che succeda anche a te?”
Lei non rispose subito, ci pensò per qualche istante, dando l'impressione che il suo dilemma andasse ben oltre la semplice preoccupazione.
“Se la magia esistesse davvero, non potrebbe fare in modo che tutti ci credano?”
Le rivolse un sorriso dolce.
“Ma se tutti ci credessero, non sarebbe più così speciale, no? La magia è soltanto per pochi, Amanda. È solo per chi ci crede e non tutti riescono a vedere oltre il proprio naso. C'è chi non vi ha mai creduto davvero e chi probabilmente non lo farà mai. Ma c'è anche chi, come me, vede un po' di magia tutto attorno a sé.”
Lei ci rifletté a lungo.
“Capisco.”
“Promettimi una cosa, Amanda. Non smettere mai di credere alla magia. Perché, se ci credi davvero, arriverà da te quando meno te lo aspetti.”
Lei annuì con estrema serietà.

Era in silenzio. Era stata in silenzio per ore, a quel punto. Con lo sguardo a terra e dondolando le gambe sotto la sedia. Ed io ero stata seduta accanto a lei per tutto il tempo, non sapendo cosa dire o fare. Mi alzai solo quando vidi suo zio uscire dalla camera in cui era suo padre, andando incontro all'uomo. Teddy mi si affiancò per darmi sostegno morale.
“Signor Morris” gli tesi la mano.
Aveva il viso particolarmente pallido, dovuto probabilmente al fatto che aveva dovuto riconoscere il cadavere del proprio fratello.
“Dottoressa Robbins” mi salutò nervosamente. “Ho parlato con il poliziotto. Hanno già preso il tizio che gli ha sparato. C'era anche un assistente sociale.”
“Che cosa ha detto?” chiesi, vedendo il suo nervosismo irradiarsi dal suo corpo.
“Sono il parente più vicino ad Amanda. I miei genitori sono morti, quindi Amanda non ha nonni. E l'assistente sociale dice che dovrei essere io ad occuparmi di lei, ma io non posso farlo. So a malapena prendermi cura di me stesso, come posso provvedere a una bambina?”
“Signor Morris, se Amanda non viene via con lei stasera l'assistente sociale dovrà compilare un documento su Amanda per l'affidamento e da quel momento la sua vita cambierà per sempre, e non in meglio, glielo assicuro.”
Sapevo come funzionavano quelle cose meglio della maggior parte delle persone. Spesso dovevo operare fratture dei polsi o delle costole in bambini affidati a genitori che davano loro a malapena un letto per l'assegno mensile dello Stato e li trattavano come scarti.
Non potevo permettere che Amanda avesse quella vita.
“Cerchi di capire, dottoressa Robbins. Non ho assicurazione medica, non ho niente da offrirle, Amanda è una bambina speciale. Ha bisogno di cure. E io non posso permettermele.”
“Paul” gli presi una mano. “Non lasci che le succeda questo” lo pregai.
“Mio fratello ha lasciato delle volontà. Sapevo di dover chiamare quel numero se gli fosse successo qualcosa e l'ho fatto. Il notaio è arrivato dopo che avevo detto all'assistente sociale di non potermi occupare di Amanda. A quanto pare Bernard sapeva che io non sono la persona giusta per crescere sua figlia, perché non ha chiesto che fossi io a farlo.”
Corrugai la fronte.
“L'ha nominata sua tutrice.”
Aprii la bocca per replicare, ma non ne uscì alcun suono.
Mi voltai verso la bambina con lo sguardo fisso a terra e i piedi che ancora si muovevano sotto la sedia.
“Poteva davvero fare una cosa del genere senza il mio consenso?”
“No. Ecco perché ho detto al notaio che lei lo sapeva.”
Voltai la testa di scatto nella sua direzione.
“Può sempre dire che non è vero, ma volevo darle la possibilità di pensarci, prima. La decisione spetta a lei.”
L'uomo si allontanò di qualche passo quando anche il poliziotto uscì dalla camera.
“Arizona” iniziò Teddy, ma non la lasciai finire.
“No. Non posso farlo. Non posso e basta.”
“Ok.”
“Non ho la minima idea di come si cresca un bambino. Voglio il meglio per Amanda ed il meglio non sono io.”
“Tu la stai già crescendo” mi fece notare. “Da sei anni.”
La ignorai.
“Non ho mai voluto figli. Mai. E sai perché? Per questo. Perché se le condizioni di Amanda dovessero peggiorare, io impazzirei.”
“Lo so.”
“Non posso farlo.”
“Lo so.”
Mi allontanai, sedendomi accanto a lei con l'intenzione di spiegarle ciò che le sarebbe successo nelle quarantotto ore seguenti, in modo che si trovasse il meno spaesata possibile.
Si stava rigirando qualcosa tra le mani.
“Cosa hai lì?” chiesi, appoggiandole una mano sulla spalla.
Aprì il piccolo pugno, mostrandomi la molletta con la margherita.
“Avevi ragione” per la prima volta da ore guardò verso l'alto, incontrando il mio sguardo. Aveva gli occhi pieni di lacrime anche se non stava piangendo. “Non esiste la magia.”
Io la presi per le spalle, avvicinandola e avvolgendo le braccia attorno al suo piccolo busto, permettendole di piangere sul mio camice fresco di lavanderia.
Quando alzai lo sguardo vidi diverse persone davanti a me, tra cui Teddy, Paul insieme ad un uomo che pensai essere il notaio, un poliziotto e un tizio in giacca e cravatta che doveva essere l'assistente sociale.
“Lei rimane con me.”
Teddy inspirò, facendo mezzo passo avanti. “Arizona...”
“Bernard mi aveva detto che avrei dovuto occuparmi di lei se gli fosse successo qualcosa” mentii immediatamente. “Quindi lei rimane con me.”
Paul mi guardò con sollievo. L'assistente sociale annuì, porgendomi dei fogli da leggere, firmare e restituire. Presi una penna dal taschino del mio camice e firmai senza lasciar andare Amanda.
Tesi il fascicolo nella sua direzione, guardando velocemente tutti i presenti.
“Lei rimane” ripetei ancora una volta, inutilmente.

“È tutto?”
Annuì in silenzio.
“Bene. Allora andiamo a...” la parola morì prima di potermi uscire dalle labbra.
Perché c'eravamo già a casa sua. Il posto dove stavamo andando, il mio appartamento, quella non era casa sua. Era il posto in cui avrebbe vissuto da allora in poi, ma non era casa sua.
“Andiamo” conclusi senza aggiungere altro.
Avevamo caricato tutte le sue cose sulla mia auto e le stavamo portando via.
Non mi piaceva vedere Amanda triste. Non era mai triste, neanche con due o tre aghi dentro le sue piccole braccia mi aveva mai negato un sorriso.
Fu allora che lo vidi. Era enorme, impossibile da non notare. Il cartellone della giornata per la lotta contro la leucemia nei bambini. Si sarebbe tenuta proprio quel pomeriggio nel più grande parco di Seattle. Lo slogan recitava: 'Aiutaci anche tu a fare una magia.' E c'era lei, col cappello e il mantello che ci guardava dall'alto.
Feci inversione, dirigendomi verso quel parco.
“Non siamo a casa tua.”
“No, hai ragione.”
Scesi dalla macchina, facendo poi il giro per aiutare lei. Entrammo nel parco proprio mentre lo spettacolo stava finendo e solo allora mi accorsi che era quasi il tramonto. Avevamo impiegato diverse ore per il trasloco. La presi per mano e ci avvicinammo al palco mentre tutti si allontanavano.
“Aspettami qui” le dissi, alzandola su una delle sedie e accarezzandole di sfuggita i capelli.
La intercettai mentre scendeva gli scalini laterali del palco.
“Ancora lei? Sto iniziando a pensare che mi stia seguendo” mi disse con il sorriso sulle labbra ed il tono chiaramente divertito.
“Mi scusi. Sono davvero mortificata perché mi rendo conto che la sto perseguitando. Ma ho davvero bisogno che lei faccia una cosa per me.”
Si accorse del tono serio della mia voce e ricacciò indietro la risposta ironica che stava per darmi, facendo un'espressione più seria anche lei.
“Amanda sta bene?” chiese, un po' preoccupata.
“Non proprio. Suo padre è morto due giorni fa.”
“Eravate al mio spettacolo due giorni fa.”
Annuii. “Se Amanda non fosse stata insieme a me, quella sera, forse sarebbe morta anche lei, adesso.”
“Le mie condoglianze. Lei e suo padre eravate divorziati?”
“Cosa?” corrugai la fronte, sgranando gli occhi.
“Mi scusi, è solo l'impressione che ho avuto da come ne parla.”
“No, io...Io non sono la madre di Amanda. Sono il suo chirurgo. Dottoressa Arizona Robbins” mi presentai, porgendole una mano che lei prontamente strinse. “La conosco da quando aveva pochi mesi e il padre ha voluto che fossi io ad occuparmi di lei.”
“Capisco. Deve essere dura. Ha altri figli?”
Io risi, una risata un po' amara, un po' strozzata.
“Ecco la cosa ironica. No, non ho mai voluto figli. Io vedo quanto può soffrire un bambino ogni giorno della mia vita. Vedo i loro genitori e ho sempre pensato che essere uno di loro sarebbe stata la cosa peggiore che potesse accadermi. E adesso ho lei che è una bambina così speciale e che merita il meglio ed io non so come fare per darle tutto ciò che merita. Non so neanche come farla sorridere” spiegai, scoraggiata. “Ma forse lei potrebbe riuscirci, quindi sono qui per implorarla di provare. La prego.”
“Lo faccio molto volentieri” mi disse.
Accennai un sorriso, facendo un cenno della testa in direzione di Amanda.
Le si avvicinò, mettendosi a sedere vicino a lei.
“È una bellissima giornata, non è vero Amanda?”
Lei alzò lo sguardo senza rispondere.
“Qualcuno è preoccupato perché non ti vede più sorridere.”
“Forse Arizona aveva ragione” spiegò abbassando di nuovo la testa. “Forse non esiste la magia.”
“Capisco. Sai, stavo giusto mischiando un mazzo di carte, e mi chiedevo se tu potessi pescarne una per me. La magia non funziona se non ci credi davvero, quindi non penso di riuscire a trovare la carta che hai pescato, però potremmo comunque provare.”
Le mostrò il mazzo di carte aperto a ventaglio. Amanda ci rifletté qualche secondo, poi ne prese una, la guardò ed infine la reinserì tra le altre.
La donna le sorrise, scorrendo lungo il mazzo velocemente fino all'ultima carta, a malapena guardandole.
“Vediamo” sussurrò con un cipiglio confuso, grattandosi il cilindro come se stesse pensando attentamente. Quando tolse la mano, una carta era attaccata alla superficie dell'accessorio. Era il tre di cuori. “Non è questa” prese una carta dal mazzo, gettandola via, poi ne prese una seconda, guardandola attentamente. “No.” Ne prese una terza, soffermandosi ad annusarla. “Neanche questa.”
Amanda sorrise mentre lei continuava a tirare tutte le carte all'aria, una per una, con aria sempre più concentrata e confusa, fino all'ultima.
“Accidenti. Mi hai fregato. Sapevo che non avrebbe funzionato se non credi più alla magia. Dimmi, Amanda, che carta era?”
Lei, che aveva riso fino a quel momento, si alzò in piedi sulla sedia e staccò la carta dal suo cappello, porgendogliela.
“Il tre di cuori.”
“Santo cielo! Era sul mio cappello?” chiese in un misto di stupore e preoccupazione. “Ci hai messo altre carte, dentro?” domandò, togliendoselo e frugandoci. “Un tre di cuori” lo mostrò alla bambina, gettandolo in aria e cercando di nuovo. “Eccone un altro” lanciò via anche quello. “Quanti ce ne hai nascosti, Amanda?” chiese fingendo irritazione, mentre carta dopo carta continuava ad estrarre tre di cuori dal cilindro.
“Io non ho fatto niente” rispose la bambina, ormai ridendo a crepapelle.
“E chi può averlo fatto? Dici che non esiste la magia!”
“Credo di essermi sbagliata” intervenni. “Deve esistere per forza, perché io ero qui, e Amanda non ha messo niente dentro il suo cappello.”
“Ha ragione?” chiese alla bambina.
“Penso di sì.”
“Allora il mio lavoro qui è finito” concluse alzandosi.
Tese la mano alla bambina, che la prese prontamente. Poi la strinse a me.
“Arrivederci signorina Robbins.”
“Non so il suo nome.”
“Mi chiamo Callie Torres” si presentò.
“La ringrazio infinitamente per quello che ha fatto oggi.”
“È stato un piacere.”
Si diresse verso il palcoscenico, mentre io mi sedevo accanto alla bambina. La guardai andar via ancora col sorriso sulle labbra.
“Sai, si vede che ti piace.”
“Tu dici?” domandai ridendo.
“Sì. La guardi come mio papà guardava la sua fidanzata.”
“Non è una bella storia, quella.”
“No, io penso che fosse una bella storia. Aveva solo un brutto finale. Ma tu e lei potreste anche non lasciarvi mai.”
“Quindi credi che dovremmo continuare a perseguitarla?”
Scrollò le spalle.
“Non avremmo dovuto farlo se ti fossi decisa a chiederle il numero.”
“Troppo tardi. Credo che ormai sia andata via. E poi non avrebbe comunque voluto uscire con me, probabilmente.”
“Beh, lo vediamo subito. Sta tornando qui” puntualizzò.
Alzai lo sguardo giusto in tempo per vederla arrivare.
“Stavo pensando” iniziò, fermandosi ad un paio di passi da noi. “Le lascio il mio numero, se vuole. Così può chiamarmi se ha bisogno di una mano con Amanda, invece di seguirmi tipo stalker. O, sa, se preferisce può continuare a seguirmi tipo stalker, non mi disturba, in realtà.”
“Mi farebbe piacere” risposi subito. “Avere il suo numero, intendo. Non continuare a seguirla tipo stalker.”
Lei rise, porgendomi un biglietto da visita.
“Lei piace ad Arizona, lo sa, vero?” le chiese Amanda fin troppo innocentemente.
“Amanda” la ripresi, voltandomi verso di lei con gli occhi sgranati.
“Spero davvero che tu abbia ragione, Amanda” disse, rivolgendoci un ultimo sorriso prima di andare via.

Stavo tenendo Amanda per mano quando la vidi arrivare al volante della sua automobile che ormai avevo imparato a riconoscere.
Parcheggiò e poi scese, la bambina al mio fianco le corse incontro, abbracciandola di slancio e guadagnando un bacio sulla guancia.
“Ti ho portato una cosa” la avvertì subito prima di far apparire dal niente un mazzo di margherite di plastica. “So che sono i tuoi fiori preferiti.”
Lei le rivolse il più grande dei sorrisi, abbracciandola di nuovo.
“Grazie, Callie.”
Poi lo sguardo della donna si spostò su di me. Il suo sorriso diventò più dolce ed il suo sguardo brillò per un istante.
“Vieni” aprì lo sportello posteriore, facendo sedere Amanda ed agganciando per lei la cintura di sicurezza.
Poi richiuse lo sportello e si avvicinò a me, dandomi la buonasera con un sospiro ed un bacio sulla guancia. Più precisamente, su una delle fossette che era immediatamente comparsa appena avevo scorto lei.
Poi mi guardò negli occhi il minimo indispensabile per farmi percorrere la spina dorsale da un brivido.
A quel punto aprì lo sportello del passeggero, prendendo qualcosa da sopra il sedile e porgendomelo.
“Ho pensato che tu avresti preferito un mazzo vero” sussurrò porgendomi una composizione di rose rosa. “Sono nove” puntualizzò. “Quante le settimane che ho dovuto aspettare dal giorno in cui ti ho dato il mio numero ad oggi.”
“Calliope, sono stupende” risposi, ignorando il fatto che avesse rimarcato che avevo aspettato più di due mesi da quando avevamo iniziato a vederci a quando avevo accettato di uscire con lei.
All'inizio quando ci incontravamo era soprattutto dopo i suoi spettacoli o comunque di pomeriggio insieme ad Amanda. E in effetti Amanda sarebbe venuta anche quella sera insieme a noi a cena fuori, ma Calliope aveva deciso che contava come primo appuntamento, e non aveva accettato obbiezioni a riguardo.
Lei mi rivolse un sorriso radioso.
“È pur sempre il nostro primo appuntamento” mi ricordò, tenendo aperto lo sportello dell'auto mentre io salivo dentro la macchina.

Avevo comprato quella casa quasi subito dopo che Amanda era venuta a vivere con me, in modo che avesse una camera tutta sua e che io ne avessi una che non consistesse in un divano in mezzo al soggiorno. Certo, all'inizio era stata dura pensare di dover fare una rampa di scale ogni volta che volevo andare in camera mia, ma non rimpiangevo averla comprata, perché era luminosa e abbastanza vicina all'ospedale da permettermi di svegliarmi tutte le mattine almeno mezz'ora più tardi rispetto a prima. Ma c'erano dei giorni in cui mi mancavano l'ordine e il silenzio che avevo perso. O almeno, c'erano giorni in cui mi rendevo conto che avrei almeno dovuto sentirne la mancanza.
Ma quando tornavo a casa, e ad aspettarmi trovavo una scena come quella, quel dolore che sentivo in mezzo al petto certe sere era più forte di me.
“Scegli una carta.”
No, non mi mancava. Non mi mancavano l'ordine ed il silenzio, non mi mancava scaldarmi una cena preconfezionata al microonde e guardare le repliche di soap opere argentine alla televisione. E di certo non mi mancava la solitudine tremenda in cui avevo vissuto.
“Arizona, il gioco non funziona se non prendi una carta.”
Ma avevo sempre saputo che niente è destinato a durare in eterno, e di tanto in tanto mi chiedevo se, invece, quello un giorno mi sarebbe mancato. Vedere Amanda in piedi dietro al tavolino basso del soggiorno con Calliope in ginocchio al suo fianco, mentre io ero seduta sul divano. Mi chiesi se un giorno mi sarebbero mancati gli spettacolini di magia improvvisati o trovare la cena calda quando tornavo a casa dopo un'operazione di otto ore. Litigare per decidere se guardare il baseball o un film romantico e finire ogni singola volta a vedere il DVD de 'Il Re Leone' o 'La Bella e la Bestia'.
“Tesoro, va tutto bene?”
Quando ero sola era più facile. Ecco come sapevo che avrebbe dovuto mancarmi come erano prima le cose.
Ma poi guardavo loro.
E il dolore lancinante al petto mi avvertiva che un giorno, loro due, loro sì che mi sarebbero mancate.
“Presa.”
“Ok, adesso guardala e rimettila nel mazzo” ordinò Amanda, aprendo le carte a ventaglio davanti a me.
Feci come mi aveva chiesto, guardandola mentre le girava e le guardava, Calliope affianco a lei osservava tutto da sopra la sua spalla.
Amanda sembrò confusa per un istante. Poi prese una carta.
“Il quattro di quadri” lo voltò nella mia direzione.
Io le sorrisi. “Diventi ogni giorno più brava.”
Lei mi rivolse un sorriso abbagliante, prima di abbracciare Callie e correre verso la sua cameretta al piano di sopra. Lei si alzò dal pavimento, sedendosi accanto a me.
“Era il sette di picche, non è vero?”
Annuii, appoggiando la testa sulla sua spalla e passando un braccio sopra la sua pancia mentre mi rannicchiavo contro di lei.
“Era il trucco delle carte capovolte?”
“Già. Le avevo detto di togliere i quattro, ma deve essersene dimenticata” rispose accarezzandomi lentamente la schiena. “Giornata pesante?”
Annuii, senza spostarmi.
“Prima o poi capirà che la magia non esiste.”
La sentii ridere.
“Che c'è?” chiesi allontanandomi il minimo indispensabile per poterla guardare negli occhi.
“Tu, tra tutte le persone, vieni a dirmi una cosa del genere?” chiese sorridendo, alzandosi per andare verso la cucina. “Amanda, si cena tra dieci minuti” urlò passando vicino alle scale.
“Arrivo” fu la risposta urlata dal piano di sopra.
Seguii Calliope in cucina.
“Ovviamente” rimarcai. “Solo perché ho visto tutti i tuoi spettacoli non significa che la mia opinione in materia di magia sia cambiata. Al contrario, ho anche capito come fai a fare alcuni dei tuoi numeri.”
“Quella non è magia, Arizona. Quella è un'illusione. Un trucco” spiegò, spegnendo il forno mentre io mi appoggiavo al ripiano in marmo.
“Fartelo ammettere è stato più facile di quello che pensavo” scherzai con un sorriso.
“Sai benissimo che intendo. La vera magia è da altre parti. È strano che sia proprio tu a non crederci.”
“Per la seconda volta, non capisco cosa vuoi dire” risposi, facendo spallucce.
Lei sospirò, mettendo le mani sui miei fianchi e avvicinandosi, guardandomi dall'alto dei suoi cinque centimetri in più di altezza.
Io ho trovato te, Arizona Robbins, chirurgo pediatrico, ad uno spettacolo di magia insieme ad una bambina, te che non frequenti mai i tuoi pazienti fuori dal lavoro – e queste sono parole tue – e che non credi minimamente nella magia. Tra tutte le persone che ci sono al mondo, io ho trovato te. Un anno fa, quando tutto andava nella direzione sbagliata e mi ero rassegnata a chiudere i miei sogni dentro ad un cassetto, ho trovato te. E adesso sei innamorata di qualcuno che per vivere fa spettacoli di magia.”
Fece una breve pausa per baciarmi velocemente.
“E non venirmi a dire che non mi ami” mi baciò di nuovo. “E non venirmi a dire che è stata una coincidenza” altro bacio. “Io e te sappiamo bene che le coincidenze non esistono. Chiamalo destino, chiamalo karma, chiamalo con qualsiasi nome tu voglia. Ma lasciami dire una cosa. Non so in che giorno, in che posto, in che modo tra noi finirà. Forse, tra cinquant'anni, saremo ancora in questa casa a tenerci per mano. O, forse, domani, litigheremo per qualcosa di davvero stupido, e non ci vedremo mai più. Ma qualsiasi cosa succeda, io ti amerò per sempre. E questo è tanto da dire, perché, se ripenso alle relazioni che mi sono lasciata alle spalle, non amo più nessuno di loro. Ed ho una paura enorme di perderti, di perdervi, tutti i giorni della mia vita.”
“Ho paura anche io” sussurrai quasi impercettibilmente.
“Ma ho capito che avere paura va bene. Perché significa che hai qualcosa di così speciale che il solo pensiero di farne a meno ti spaventa. Quindi va bene.”
Annuii, abbracciandola. Avevo bisogno di sentirmi stringere tra le sue braccia anche solo per un momento.
“Calliope, cerchiamo di fare in modo di essere ancora esattamente in questa posizione tra cinquant'anni, ok?” chiesi rafforzando la presa.
La sentii ridere appena.
“Ok.”
Dei passi leggeri percorsero la scalinata e varcarono la soglia della cucina.
“È già pronta la cena?”
“Sto per mettere le lasagne nei piatti, ti sei lavata le mani?”
“Certo.”

Ecco la cosa che pochi sanno riguardo la magia.
La magia non è un numero, un'illusione, un trucco. E non si trova sopra un palcoscenico o dentro una scatola.
È magia quando ti batte forte il cuore, o quando pensi di non essere mai stata così felice. Quando un bambino doveva morire e invece vive. È riuscire a trovare l'unica persona giusta tra tutte quelle sbagliate.
La magia è strana, perché nessuno può vederla davvero. Ed è nelle nostre vite, tutto il tempo. Ma il bello è che solo chi ci crede davvero riesce ad accorgersene.
Ed io credevo a ciò che vedevo con gli occhi, a ciò che potevo toccare con le mani, ma non a ciò che potevo sentire con il cuore.
Perché il cuore può sbagliare.
Ma, ecco, è proprio questo il punto quando si parla di magia. Prima o poi, ti rendi conto che non è importante come qualcosa inizia.
“Signore e signori, buonasera.”
Né come va a finire.
“Lo spettacolo finisce. La magia, invece, continua.”
Quello che conta davvero, è quello che sta nel mezzo. Il viaggio.
E che senso c'è in un viaggio tranquillo, se è privo di eventi e deludente?
Quindi è meglio rischiare. Avere il cuore a pezzi. È meglio soffrire, piangere, cercare qualcosa che forse neanche esiste.
È meglio vivere e dover convivere con le proprie ferite, piuttosto che non essere in grado di vivere affatto.

“So che è la prima volta che siete di turno in Pediatria con me, per alcuni di voi. Voglio che capiate che gestisco il mio reparto in modo un po' diverso dal consueto. Questa non è chirurgia generale in miniatura, questi sono i piccoli umani.”
Io salvavo bambini.
Credevo che salvare bambini fosse ciò che permetteva all'umanità di continuare ad esistere, credevo fosse semplice fino a questo punto, davvero.
Ma non lo era. Non lo era mai stato.
“Questi sono bambini. Loro, credono nella magia. Giocano a fare finta. Nelle sacche di soluzione salina c'è la polvere di stelle. Loro sperano e incrociano le dita ed esprimono desideri. E questo li rende più forti degli adulti, guariscono prima, sopravvivono al peggio. Loro credono. In Pediatria ci sono i miracoli. E la magia. In Pediatria tutto è possibile.”
Prima non avrei detto una cosa del genere neanche sotto tortura. Ma niente era più uguale a come era stato.
Quando alla fine del turno tornai a casa era già notte. Posai le chiavi ed appesi il giacchetto facendo il minimo rumore possibile. Salii le scale in punta di piedi e sbirciai attraverso la porta accostata prima di aprirla lentamente e farmi strada a tentoni dentro la camera che conoscevo a memoria. La luce in corridoio mi permise di avvicinarmi al letto senza fare rumore. Mi abbassai per baciarla sulla fronte, poi passai al letto dall'altro lato della stanza, ripetendo le stesse azioni. Uscii riaccostandomi la posta alle spalle ed entrando nella stanza affianco. Raggiungi il letto abbassandomi oltre le sbarre per ripetere una terza volta il rituale del bacio sulla fronte. Alla fine mi diressi verso la camera in fondo al corridoio.
Lanciai la maglietta ed i jeans sulla sedia alla scrivania. Di solito mettevo in ordine i panni, ma non quando tornavo in piena notte. Mi infilai sotto le coperte sentendo una fonte di calore gravitare istantaneamente verso di me, mentre una mano mi afferrava attorno alla vita possessivamente. Mi faceva sorridere ogni volta.
“Probabilmente domani mattina una di noi due si sveglierà sul pavimento” mi aveva detto la prima notte che avevamo dormito nello stesso letto. “Scalcio molto e tutti mi dicono che spingo via le persone mentre dormo. Perfino mia sorella, quindi non prenderla sul personale. Ho bisogno dei miei spazi.”
Sorprendentemente non era mai successo niente del genere. Mentre dormiva aveva questo strano bisogno di abbracciarmi e tenermi il più stretta possibile contro se stessa. Ed io lo adoravo.
Mormorò qualcosa di incomprensibile, affondando il viso contro il mio collo.
“Ti ho svegliata, non è vero?”
“No” rispose in piena fase di negazione verso se stessa.
“Calliope?”
“Mh?”
“Ti amo. Lo sai, giusto?”
“Mh.”
“Bene. Adesso torna a dormire.”
“Ti amo anche io. Sei la cosa più fantastica mai creata. Sei meglio della pizza.”
Finsi di trasalire.
“Non lo pensi davvero. Stai solo straparlando a causa dello stato di semi-coscienza” la accusai.
“Lo penso. Lo penso davvero” rispose mentre gettava una gamba sopra alle mie, avvicinandomi ancora di più a lei.
Feci passare un braccio sotto al suo collo ed unii gli avambracci dietro la sua testa mentre mi voltavo di lato.
“E lo sai qual'è la parte migliore?”
Non le risposi. La baciai, invece. In modo dolce e spostandomi ancora il più vicino possibile a lei, finché la fisica rese impossibile che le fossi più vicina senza che dovessi diventare acqua.
“Qual'è?”
“Che sei mia” rispose baciandomi di nuovo e poi aprendo finalmente gli occhi, facendomi battere il cuore all'impazzata. “Mia. L'unica cosa migliore della pizza. Tutta per me. Per sempre.”
“È carino che tu sia così disponibile anche dopo che ti ho svegliata.”
“Non lo hai fatto apposta. E poi è ancora presto. È che non c'è molta compagnia in questa casa dopo le dieci se tu non ci sei.”
Io risi. “Sono stati tutti bravi?”
“Amanda ha tenuto d'occhio Timmy mentre Lucy aiutava in cucina. E il piccoletto si è addormentato in perfetto orario.”
Chiusi gli occhi, ma anche senza guardare sapevo che stava fissando quel sorriso enorme che avevo in faccia.
“Ti ho mai detto che adoro la vita che abbiamo?” le chiesi.
“Una volta o due” scherzò.
“Allora devo dirlo più spesso. Perché è così, adoro il fatto che tu e Amanda mi abbiate fatto cambiare idea.”
La sentii trattenere il fiato. Sapevo quanto sentirmelo dire fosse ogni volta impagabile per lei.
“Sono passati tutti questi anni e ancora mi togli il respiro. Dieci anni fa te ne andavi in giro a tenere lezioni su quanto la magia fosse stupida e ora indossi la cuffietta rosa che le tue figlie hanno autografato per te ogni volta che entri in sala operatoria. E aspetta che Timmy sia abbastanza grande per tenere in mano un pennarello. Inizierà a marcare il territorio in un batter d'occhio. Amanda sta prendendo la patente e se ne va in giro chiamandoti mamma. Guardami negli occhi adesso e dimmi che la magia non esiste.”
Avevo il naso premuto contro il suo quando aprii gli occhi e lasciai che rimanessero dentro i suoi a lungo prima di parlare di nuovo.
“Sto guardando negli occhi un'illusionista. Come posso non credere alla magia?”




Spero seriamente di riuscire ad aggiornare domenica prossima, in caso contrario mi scuso in anticipo!
Grazie mille a tutte, siete mitiche. Alla prossima!


Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Il nostro primo angelo custode ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete fantastiche!<3

Avvertimenti: very AU! Multi-crossover (Rizzoli & Isles; Glee; Pretty Little Liars; Dr House; Once Upon a Time)




Uploaded with ImageShack.us



Il nostro primo angelo custode


Eravamo sulla terrazza, ci eravamo accomodate sulle rispettive sdraio. C'era una vista niente male, ma noi ci stavamo concentrando sul cielo. Non c'era una nuvola, quella sera, ed ogni stella sembrava particolarmente luminosa.
Presi un sorso del mio drink, continuando a tenere gli occhi puntati verso l'alto.
“È una stranissima serata” osservò Teddy, che era un po' fissata con l'astrologia e cavolate come quella.
Alzai gli occhi al cielo.
“Ci risiamo” sussurrai a me stessa.
“Dico sul serio, succederà qualcosa di strano. Me lo sento. Ho avuto una strana vibrazione per tutta la settimana.”
“L'ultima volta che hai detto una cosa del genere la cosa più emozionante che è accaduta è stato che Addison ha comprato una coca cola non diet” le ricordò la Bailey, anche lei sorseggiando il proprio drink.
“Forse dovremmo smetterla di venire in posti come questo e andare, tipo, a Las Vegas. Lì di sicuro troveremmo compagnia” propose la rossa, sentendosi chiamata in causa.
“No, grazie. Sto cercando la mia anima gemella, non una malattia venerea” le ricordò Miranda.
“Non essere così rigida, Bailey. La tua anima gemella potrebbe arrivare nella forma in cui meno te l'aspetti” continuò Addison.
“Come no” borbottò sarcasticamente.
“Beh, anima gemella o malattia venerea, questi tre giorni sono stati vuoti da entrambi i fronti. È la sera di capodanno e siamo noi quattro da sole nell'attico di New York di Addison che dice di non riuscire a vendere a causa del fatto che ha vissuto per anni qui, mentre tutti sappiamo che non riesce a venderlo a causa della persona con cui viveva qui.”
“Teddy, sta zitta” la riprese la rossa.
“Cosa? È la verità” si difese.
“Oh, ehi, guardate” puntai verso il cielo. “Una stella cadente. Chiudete gli occhi ed esprimete un desiderio.”
Era più che altro un modo per farle smettere di punzecchiarsi.
Chiudemmo tutte e quattro gli occhi, sussurrando la stessa identica frase:
“Desidero trovare il vero amore.”
Forse aveva avuto ragione Teddy fin dal primo momento. Forse, invece, avevamo tutte bevuto troppo e a quel punto ci immaginavamo cose che non esistevano. Fatto sta che le nostre versioni di ciò che accadde in quel momento sono uguali.
Davanti a noi si propagò una luce abbagliante, che ci costrinse a chiudere gli occhi per qualche momento.
Poi sentimmo la voce di una donna.
“Il vostro desiderio è esaurito.”
Poi più niente. Era sparita. La voce, la luce, non c'era più niente.
Ci guardammo, spaesate, per diversi istanti.
“Lo avete visto?” chiese Miranda.
“Io l'ho visto” confermò subito Teddy, eccitata per quello che stava succedendo quasi al punto di essere terrificante.
“E sentito” aggiunse Addie.
“Dio mio, che diavolo era?” chiese Bailey.
“Angelo.”
“Qualsiasi cosa fosse, io dico di darcela a gambe prima che...” iniziai. “Un momento. Chi ha appena parlato?”
Ci voltammo di scatto.
“Angelo” ripeté. “Sono un angelo. Aiutiamo Cupido, di tanto in tanto. Sapete, ha un mucchio di roba da fare” scherzò.
“Ok, Addison, c'è una donna dentro casa tua. Chiama la polizia” ordinai.
“Provaci, se vuoi. Sarà divertente quando arriveranno qui, non saranno in grado di vedermi e vi rinchiuderanno in un manicomio.”
“D'accordo. Niente polizia allora. Dammi la tua mazza da baseball” propose Teddy, tirandosi su le maniche. “Sono stata nell'esercito, dolcezza, e se...”
“Ti prego, non chiamarmi dolcezza, Theodora. Chi pensi che sia, Addison?” chiese, indicando la rossa. “Avete espresso un desiderio, no? Ed io sono qui per esaudirlo” ci disse rivolgendoci un sorriso completo di fossette.
“Ok, questa è un'allucinazione” concluse Addison con semplicità. “Io dico di andare a dormire e vedrete che, domani, quando ci sarà passata la sbronza, non vedremo nessuna donna dai capelli biondi che proclama di essere un angelo.”
“Ferme, ferme, ferme. Aspettate un secondo” ci bloccò Teddy, alzando le mani in maniera palesemente alticcia. “Come funziona questa cosa?” chiese alla donna davanti a noi. “Nel senso, dobbiamo venderti la nostra anima o cose del genere?”
La donna alzò gli occhi al cielo.
“Angelo” puntò un dito contro se stessa. “Sono qui per aiutarvi, visto che sembrate incapaci di risolvere i vostri problemi da sole.”
“Questo che vorrebbe dire?” chiese la Bailey con aria scettica, nel modo in cui era solita rivolgersi a chiunque dubitasse di lei.
“Nel corso delle vostre vite vi sono state mandate delle ottime seconde scelte, sapete?” chiese, facendo apparire delle immagini semplicemente passando una mano nello spazio tra lei e noi. “Ma nessuno di loro vi ha mai accontentato minimamente. Miranda, tu hai avuto Tucker, lui era in una buona posizione, sul secondo gradino, Ben era sul terzo, ma nessuno di loro due è riuscito a mantenere le tue aspettative” spiegò.
“Woah, aspetta, aspetta, che sono adesso i gradini?” chiesi, cercando di capirci qualcosa.
“Ok, facciamo un passo indietro. Sapete quello che si dice, che per ognuno esiste un'anima gemella a questo mondo, da qualche parte?”
“Vuoi dire che non è vero? Dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per cercarla?” domandò Teddy, incredula.
“No, certo che esiste. Ma, a volte, capita che qualcuno non possa stare con la propria anima gemella per qualche motivo. Nel caso di Miranda, non riesce ad aprire gli occhi su qualcuno che vive molto vicino a lei. Per Teddy le cose sono più complicate. Doveva incontrare la sua anima gemella anni fa, ma si è arruolata e la sua anima gemella ha sposato qualcun altro. Addison, al contrario, sa perfettamente chi è, almeno inconsciamente, ma è spaventata a morte di sbagliarsi e non riesce a fare i conti con la verità. E tu, Calliope, non farmi nemmeno iniziare. Parlando in senso romantico, sei un disastro che cammina.”
“Pfff, non è vero.”
“Ok, parliamo di George. Lui era un gradino otto. Otto, Calliope.”
“Ed eccoci di nuovo a parlare di gradini.”
“Ok, lasciatemi spiegare. Come dicevo, capita che le persone non possano stare con la loro anima gemella. Ma potranno comunque essere felici, incontrando una delle altre persone che possono accompagnarle nel cammino di questa vita. Supponiamo che ci sia una scala, dove l'anima gemella occupa il primo posto. Che si riesca a trovare, è davvero una cosa molto rara per un motivo o per l'altro. Per la maggior parte, la gente si stufa di cercare e smette di guardare proprio un attimo prima di quanto avrebbe dovuto. Comunque, le persone finiscono per stare con qualcuno sul terzo, quarto, qualche volta perfino quinto gradino. Più in giù è una perdita di tempo, da non arrivare nemmeno al secondo appuntamento. Più in su è amore a prima vista.”
Rimase in silenzio per qualche istante, lasciandoci elaborare.
“Il punto è che la maggior parte delle persone passano accanto alla loro anima gemella senza rendersene conto e vanno avanti con le loro vite e non lo sapranno mai” concluse brevemente.
“Che è successo al mio vero amore?” chiesi. “A loro hai dato una spiegazione, a me hai solo detto che sono un disastro.”
Lei mi rivolse un sorriso così piccolo da poter passare anche inosservato, se non fosse stato accompagnato da una fossetta sulla sua guancia.
“Il tuo vero amore ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare e si è trovato in una pessima situazione. Era in servizio in Iraq quando una bomba è esplosa vicino alla sua unità. È morto perché non c'erano abbastanza dottori, laggiù” mosse di nuovo la mano, facendo apparire l'immagine di un uomo molto affascinante, con i capelli biondo cenere e gli occhi azzurri, un'ombra di barba gli circondava il viso, mentre l'uniforme da soldato gli faceva le spalle più grandi di quello che, probabilmente, erano in realtà. “Si chiamava Timothy Robbins. Ti sarebbe davvero piaciuto, Calliope.”
“Ti assomiglia, in qualche modo. Tu...Tu chi sei?”
Lei mi sorrise di nuovo di sfuggita.
“Il mio nome è Arizona. Sarei dovuta nascere, ma serviva un angelo ed hanno scelto me” sventolò una mano. “Storia lunga, non c'entra niente adesso” cambiò discorso sbrigativamente. “Tornando ai tuoi disastri. Il tizio che hai sposato, George? Scalino otto. Non so come sia stato possibile, davvero, considerando che sullo scalino dieci, l'ultimo, ci sono le persone per cui si ha una sorta di antipatia.”
“Che scalino era Owen?” chiese a quel punto Teddy.
“Cinque. Passabile. Se non avesse incontrato Cristina, certo.”
“E Derek?” intercettò Addison.
“Terzo. C'eri davvero vicina. Ma lui e Meredith sono al primo posto l'uno per l'altra.”
“Che mi dici di Mark?” chiesi a quel punto.
“Per te o per lei?”
Io e la mia migliore amica ci scambiammo un'occhiata strana.
“Comunque un due, per entrambe. Ma anche lui ha incontrato il suo numero uno.”
“Lexie” conclusi al posto suo.
“Già.”
“Aspetta, e dov'è quindi Timothy, adesso?”
Lei mi rivolse un sorriso che mi spiazzò per un attimo.
“È proprio accanto a te, Calliope. Tutto il tempo. Tu non puoi vederlo, certo, ma lui è lì. Di voi, tu sei l'unica ad avere un angelo custode personale. In realtà, sei una delle pochissime persone al mondo.”
Io non riuscii a rispondere niente. Chiusi gli occhi, ma non percepii nessuno al mio fianco. Era un colpo duro, scoprire che la persona che avevo cercato per tutta la mia vita, non c'era più. Che non l'avrei mai trovata.
La voce di Arizona mi distrasse da quei pensieri.
“ Allora, iniziamo dalle cose semplici” tirò fuori dalla tasca un foglio molto lungo, che controllò velocemente. “Miranda. Mi vedrai un giorno o l'altro a lavoro” le fece sapere. “Potresti non riconoscermi a prima vista, ma capirai che sono io, fidati” le rivolse un occhiolino. “Con voi tre, ci rivediamo appena ho finito con Miranda” ci fece sapere, sparendo nel nulla subito dopo.
Noi ci scambiammo delle occhiate di confusione.
Fissai il punto in cui era un attimo prima.
“Nah” conclusi alla fine, voltandomi verso la porta della terrazza, preparandomi a rientrare dentro casa. “No, non mi è appena successo davvero.”

Il giorno dopo eravamo di ritorno a lavoro a Seattle. Avevamo evitato di parlarne per il bene delle nostre saluti mentali. Erano passate un paio di settimane, e tutto sembrava essere tranquillo e normale. Proprio come avrebbe dovuto essere.
“Mi serve la cartella della paziente nella 22-34” disse ad alta voce la Bailey.
“Gliela prendo subito” un infermiere le rispose immediatamente.
Lei annuì, mormorando un ringraziamento senza neanche alzare la testa dai fogli che stava compilando.
Fu a quel punto che qualcuno si schiarì la voce.
“Salve, stavo cercando la stanza 22-34.”
Entrambe ci voltammo, probabilmente captando una familiarità nella voce.
“È una parente?” domandai.
“Non importa” le disse Bailey. “L'orario delle visite è terminato. Non può entrare al momento.”
“D'accordo. Tutto ciò che volevo fare, comunque” ci informò scrollando le spalle “era portare un messaggio, chiaro e inconfondibile.”
“E sarebbe?”
“Ecco a lei la cartella dottoressa Bailey.”
“Alza gli occhi, Miranda” sussurrò la donna che ci aveva rivolto parola.
Lei fece come le era stato chiesto, incrociando lo sguardo dell'infermiere e rimanendo spiazzata per un lungo momento.
“Ah, grazie Eli.”
“Si figuri” le sorrise, annuendo brevemente e togliendo il disturbo.
Eccetto per il fatto che non sembrava affatto che Bailey si sentisse disturbata.
“Stai bene?” le chiesi, corrugando la fronte.
“Benissimo” rispose distrattamente, seguendo Eli con lo sguardo.
“L'hai mancato per tutta la tua vita praticamente a causa di una frazione di secondo, Miranda. Spero che da adesso in poi tu sia in grado di vedere.”
Mi voltai per risponderle, ma al nostro fianco non c'era più nessuno.
“Ok, sto iniziando a pensare di essere pazza.”
“Allora siamo in due, Torres. Siamo in due.”
I suoi occhi erano ancora saldamente posizionati sull'infermiere.

Entrai al bar, qualche sera più tardi, sedendomi davanti ad Addison e Teddy.
“Ok, non ci crederete mai.”
Avevano l'aria parecchio abbattuta.
“Lo sappiamo già.”
Fui presa in contropiede. Volevo parlare loro del primo appuntamento in onore del terzo giorno delle fistole. Di sicuro quello non potevano saperlo, giusto?
“Bailey ve lo ha raccontato?”
“No, non Bailey” spiegò Addison. “La nuova cameriera” indicò con l'indice verso il bancone, dove una donna dai capelli biondi e con addosso una maglietta che lasciava poco all'immaginazione stava servendo da bere ai clienti.
“Alla faccia dell'angelo” sussurrai a denti stretti.
Guardò immediatamente nella mia direzione, come se mi avesse sentito. Forse lo aveva fatto, a pensarci bene.
“Che vi ha detto?”
“Non molto. A quanto pare prima di noi ci sono un bel po' di persone sulla lista, quindi dovremo aspettare” continuò la rossa.
“Ma ha anche accennato al fatto che con la Bailey è stato molto, molto più semplice della media, di solito ci vogliono delle settimane perché le cose si stabilizzino, qualche volta dei mesi interi. Quindi potremmo dover aspettare un sacco di tempo” l'espressione di Teddy rispecchiava quella delusa di Addison.
Guardai nella sua direzione.
“Aspettatemi qui. Vado a prendermi un drink” dissi loro, alzandomi in piedi e dirigendomi verso il bancone.
Feci un cenno alla cameriera che subito si diresse verso di me.
“Che posso fare per te?”
“Una vodka doppia con ghiaccio, per prima cosa.”
Lei prese un bicchiere e la bottiglia in questione.
“Adesso si danno ordini?” chiese, guardandomi di sottecchi e cercando di trattenere un sorriso, fallendo però miseramente.
“Hai detto che la mia anima gemella è morta.”
Non ero il tipo da girare attorno alla questione.
Il suo sorriso sparì.
“È così.”
“Ma loro hanno ancora una possibilità, no?” lanciai un'occhiata verso le mie due migliori amiche, al nostro tavolo.
“Sai bene quanto me con chi sono destinate a stare, Calliope. Ma prima di occuparmi di loro ho una lista infinita di persone che non sono così fortunate da avere semplicemente gli occhi chiusi come Teddy o da essere in piena fase di negazione come Addison.”
“E allora portaci con te. Quando vai a far innamorare la gente. Questo potrebbe aprire loro gli occhi, giusto?”
Scrollò le spalle, prendendo del ghiaccio.
“Possibile.”
“Andiamo, sei un angelo. Potrai fare una cosa tipo 'Canto di Natale' e fargli realizzare come stanno le cose una volta per tutte, no?”
Sospirò. “Potrei provarci. Ma non prometto niente.”
“Sono uscita con un tizio, un paio di sere fa” le raccontai. “Appuntamento al buio organizzato dal mio presunto migliore amico. La definizione di catastrofe naturale non si avvicina nemmeno a descrivere quel tipo.”
Lei rise, scuotendo la testa e porgendomi la mia vodka doppia con ghiaccio.
“Sappi che incolpo te per questo” la informai. “Io sto davvero provando a non appesantirti il lavoro, ma tu e il tuo amico Cupido mi state rendendo le cose parecchio difficili” sussurrai con tono cospiratorio.
“Ti dirò un segreto” mi fece cenno di avvicinarmi e si protrasse attraverso il bancone. “Non esiste davvero Cupido. Ognuno trova la sua anima gemella coi suoi tempi e nel suo modo. Ma ci sono casi particolari in cui interveniamo noi angeli. Io mi occupo di una categoria di coppie in particolare.”
“Quale?”
“Credo che lo capirai, quando avremo la nostra prima coppia” mi disse, emozionata, tornando a lavorare.
Io sorrisi, guardandola per un secondo in più, mentre sorseggiavo il mio drink.
Mi alzai, tornando al tavolo da cui mi ero alzata poco prima.
“Via le facce tristi” le ripresi. “L'ho convinta ad uno sconto di pena.”
Alzai il mio bicchiere. Loro dopo un momento che gli servì per registrare il significato delle mie parole, mi sorrisero, facendo scontrare i loro con il mio e svuotandoli subito dopo.

Dopo circa un mese, avevamo avuto il tempo di abituarci all'idea di come sarebbe stato lavorare insieme a lei.
All'inizio sembrava una cosa impossibile e francamente surreale, ma ci avevamo fantasticato sopra talmente tanto che, quando finalmente arrivò il giorno, quasi non vedevamo l'ora di sapere come sarebbe stato rendere felici due persone semplicemente facendole incontrare al momento giusto.
“Questo è strano per me, non l'avevo mai fatto insieme a qualcun altro.”
“Beh, io non l'avevo mai fatto e basta se può consolarti” la informai sorseggiando il mio caffè.
“Ok, ecco l'auto di Jane.”
“Che te ne pare?” sussurrò Addison, che era voltata di spalle.
“Niente male” ammisi. “Capelli castani, non molto alta. Veste parecchio elegante.”
“Oh, no. Quella non è Jane” sussurrò la donna al mio fianco. “Quella è Jane.”
Vidi una donna scendere dal lato del guidatore.
“Lei è più alta. Capelli mori, ricci. Veste un po' come un uomo, ma stranamente le sta comunque molto bene quello che ha addosso” descrissi brevemente.
“Che intendi, come un uomo?” chiese Teddy, voltandosi per lanciare un'occhiata.
“La donna più bassa si chiama Maura. Sono davvero, davvero, un caso senza speranze. Sono la quinta persona che lavora con loro e le ho tenute d'occhio per un mese senza arrivare a conclusioni valide.”
“Che intendi?” chiese Addie, continuando a bere caffè.
“Si lasciano sfuggire tutte le migliori seconde scelte. Jane ha avuto Dean e Casey, Maura ha perfino incontrato la persona esattamente al secondo posto di cui lei stessa parla come il suo grande amore, perfino Tommy, il fratello di Jane, era abbastanza in alto per lei, ma nessuna delle due riesce ad avere una storia stabile.”
“Sono, tipo, rotte o qualcosa del genere?” domandò Teddy, sbirciando di nuovo.
“No” Arizona rise. “Ma non puoi accontentarti di nessuno al secondo gradino, se hai la tua prima scelta che ti sta accanto tutto il tempo come succede a loro.”
“Non sarà un problema per me, giusto? La mia prima scelta è morta” sapevo che non era colpa sua, ma continuavo a rinfacciarle la cosa.
Lei decise, saggiamente, di ignorarmi.
“Eccoci di nuovo allo stesso punto di sempre.”
Ci voltammo tutte, guardando la scena davanti ai nostri occhi.
“Ok, niente supposizioni, te lo prometto. Parola di scout, Maura.”
“Giovanni sembra un tipo simpatico.”
“Oh, oh no. No, no. Sei stata già da quelle parti, ti ricordi? Ho dovuto fingere di essere la tua fidanzata per tirarti fuori dai guai. Due volte!”
“Dico solo...”
“No. Non dire niente, nah-ah. Non mi farò tirare dentro a qualcosa del genere un'altra volta. Se prova di nuovo a mangiarti la faccia, stavolta sei da sola.”
“Ew. Volgare” sussurrò Teddy.
“Questa cosa sta andando a finire dove penso?” sussurrai.
“Dipende. Se pensi che Maura sposerà il fratello di Jane, no, non andrà a finire dove pensi” mi rivolse un sorrisetto che mi fece capire che lei sapeva esattamente cosa stavo pensando e che proprio lì sarebbe andata a finire.
Tornai ad ascoltare loro. La mora stava rispondendo a qualcosa che l'altra le aveva appena detto. “Beh, anch'io. Ma non vuoi venire a letto con me, vero?”
“Oh, Gesù” sussurrai.
“Vero?” chiese in modo più esitante alla mancanza di una risposta.
“No! E non è la prima volta che me lo chiedi, ma la risposta rimane sempre la stessa.”
“Forse lei spera che cambi” commentai con una risata.
“Ferme, quindi sarebbero anime gemelle? Loro due?” chiese Addison. “No, impossibile. Una delle due porta tacchi da cento dollari e l'altra scarpette da tennis.”
“Sai come si dice. Gli opposti si attraggono.”
Io mi alzai, posando il bicchiere ormai vuoto di caffè, sorridendo alla mia idea geniale.
“Ci penso io a loro due. Aspettatemi qui, ci metto un secondo.”
Mi avvicinai alla mora, mettendo su un aria infastidita.
“Mi scusi, non ho potuto fare a meno di notare il distintivo della polizia di Boston. Mi dispiace disturbarla, ma ho un favore da chiederle.”
“Certo, dica pure” mi rispose cordialmente, con un sorriso.
“Ok, vede quella donna?” le indicai Arizona.
“Ah-ah.”
“È la mia ex fidanzata. Sono circa due mesi che mi pedina, adesso è arrivata a importunare perfino le mie amiche. Non è che potrebbe farle un paio di minacce vuote, mostrarle il distintivo, sa, per spaventarla e farla sparire dalla mia vita una volta per tutte?”
Per un attimo sembrò spiazzata.
“Ah, ecco, ok. Certo.”
Le sorrisi educatamente, avvicinandomi al tavolo insieme a lei e la sua amica.
“Ok, mi hai costretto a farlo. Lei è della polizia” mi rivolsi ad Arizona, indicando Jane. “Adesso te lo dirò per l'ultima volta. Smettila di seguirmi” scandii. “Non è più dolce e romantico, è solo disperato e disturbante. Ti ho lasciato, fattene una ragione.”
Quasi si strozzò con il suo caffè.
“Signorina, sono il detective Jane Rizzoli della polizia di Boston. Devo chiederle di smettere e voglio ricordarle che lo stalking è un reato punito molto severamente.”
Lei spostò lentamente lo sguardo su di me.
“Oh, adesso ti seguo?” chiese, inclinando la testa di lato. “Maturo da parte tua, davvero maturo” per un istante pensai che stesse per tradire la balla che avevo raccontato. “Non mi sembrava che la pensassi così, l'altro giorno, quando mi hai fatto fare i salti mortali per non farci beccare da tuo marito.”
Alzai gli occhi al cielo.
“Erano tre mesi fa, le cose sono parecchio diverse, adesso. Ti ho detto che è finita.”
“Un secondo, lei ha un marito?” mi chiese la detective.
“Ah, sì. In realtà adesso siamo separati, ma quando noi ci frequentavamo ero ancora sposata” ammisi casualmente.
“Oh, ok” lanciò un'occhiata alla sua amica.
“Ah, adesso ti sei decisa a lasciarlo?”
“Non ricominciare, ti prego.”
“No, invece ricomincio eccome. Ti ho chiesto di lasciarlo per due anni, due maledetti anni, in cui tu hai ignorato i miei sentimenti e le mie richieste, facendomi sentire sempre come una seconda scelta.”
Se la stava giocando davvero bene. E le finte lacrime agli occhi erano un colpo di classe. Ma non ero disposta a mollare la presa, ancora.
“Beh, l'avrei fatto, se non fossi stata nel bel mezzo di violenze domestiche.”
“Woah, aspetti. Lei subisce violenze domestiche?” chiese Jane, confusa.
“Subivo. E più che altro erano psicologiche” mi ricordai che lavorava per la polizia e mi avrebbe probabilmente chiesto le generalità per denunciare il tipo, se avessi continuato su quella lunghezza d'onda.
“Già, eccetto per le due costole che ti aveva rotto o l'occhio che avevi nero una settimana sì e una no.”
Jane si voltò lentamente verso di me, mentre io distoglievo lo sguardo.
Colpii Addison su un braccio.
“Dille che non è vero” la incitai.
Lei si scambiò un'occhiata veloce con Arizona. Un'occhiata che, in sostanza, significava, 'stai dalla mia parte o scordati la tua anima gemella'.
“I giorni peggiori erano quelli in cui era ubriaco” iniziò a raccontare. “Era terribile.”
“Non stanno dicendo sul serio” rassicurai Jane.
Alzò un sopracciglio nella mia direzione, guardandomi con aria scettica ed aspettando una spiegazione valida.
“Ok, metterò le carte in tavola” iniziai, voltandomi verso di lei ed inspirando. “Noi siamo qui” le dissi, schioccando la lingua “per farvi incontrare la vostra anima gemella” il suo sguardo incredulo mi fermò solo per un istante. “Lei” indicai Arizona “è una specie di Cupido, che fa innamorare le persone.”
“No, no no, in realtà, io faccio solo incontrare alla gente la persona giusta.”
“Tipo, una compagnia di incontri organizzati?” chiese Maura.
“Niente del genere” scossi la testa.
“Una setta, allora?” azzardò Jane. “Perché io non pago nessuna iscrizione e non vi intesto la mia casa, sia chiaro.”
“No, ascoltate. Noi siamo qui” parlai lentamente “per farvi aprire gli occhi sulla persona giusta per voi” spiegai con semplicità, terminando il discorso con un sorriso.
Jane mi osservò per qualche momento, annuendo. Poi si voltò verso Arizona.
“È seria? Perché se è seria devo portarla in centrale per una perizia psichiatrica.”
“No, certo che non è seria” le sorrise. “Ha perso una scommessa. Doveva raccontare le storie più assurde che le venissero in mente ad un agente di polizia.”
Sospirai. “La prego non mi arresti. Lei mi ha costretto” indicai Addison, vendicandomi per il voltafaccia di poco prima.
Maura, sorprendentemente, sorrise.
“Deve essere una situazione strana.”
“Non ne ha idea” confessai.
“Ok, Calliope. Seconda occasione” sussurrò Arizona.
All'improvviso, ero di nuovo in piedi davanti al tavolo, ma girata di spalle, diretta verso le due donne che erano ancora a diversi metri di distanza da noi.
Mi aveva dato l'occasione di tentare di nuovo da capo. Mi voltai verso di lei, che mi rivolse un piccolo occhiolino, mentre continuava a parlare con Addison e Teddy. Loro due, probabilmente, non si erano accorte di niente.
“Poco male” sussurrai a me stessa. “Vada per il piano B.”
Mi avvicinai inspirando profondamente. Perché mai avevo accettato di cacciarmi in quella situazione a dir poco assurda? Gettai un'occhiata alle mie spalle. Ah, giusto. Le mie due migliori amiche.
“Salve” salutai entrambe le donne con un sorriso.
Si voltarono verso di me, ricambiando il saluto.
“Io e la mia amica, laggiù” indicai la bionda “vi abbiamo visto arrivare e ci chiedevamo se per caso voleste unirvi a noi.”
Jane mi guardò confusa, scuotendo appena la testa mentre corrugava la fronte.
“Oppure, se siete occupate, potreste lasciarci i vostri numeri” sperai di essere stata più chiara, con quella frase. Il punto era che io, quale donna eterosessuale, non avevo idea di come avrei dovuto provarci con un'altra donna.
“Ah, siamo lusingate. Davvero” rispose Maura, che aveva finalmente capito dove stavo andando a parare. “Ma, sfortunatamente, già impegnate” si affrettò a prendere la mano di Jane.
“Già impegnate?” dissi con incredulità. “Per piacere, una persona può percepire da sei chilometri di distanza la tensione sessuale tra di voi. Se vi decideste ad aprire gli occhi e...” puntai un dito contro di loro, mettendomi l'altra mano su un fianco.
“Terzo tentativo!”
Di nuovo, ero al tavolo e loro erano lontane. Sospirai, andando loro incontro.
“Buongiorno, mi scusi, ha l'aria familiare. Ci siamo già incontrate prima?”
“No, non credo.”
“Ne è sicura, perché a me sembra proprio di averla già vista da qualche parte.”
Probabilmente la voce che avevo usato era molto lontano dal tono sexy che volevo e più vicino a quello di un maniaco, perché vidi una delle sue mani che scivolava lentamente verso il fodero della pistola.
“Quarto, quarto, quarto” sussurrai, chiudendo gli occhi. “Ti prego, quarto.”
Quando li riaprii ero di nuovo a diversi metri di distanza. Stavo seriamente iniziando a perdere la pazienza.
“Salve, vi occupate di omicidi? Perché ho appena ucciso una persona e...”
“Calliope. Preferirei non farti condannare a morte per oggi, grazie comunque” la sua voce risuonò nella mia testa. “Quinto.”
“Ciao, mi chiedevo se aveste da cambiare cinque dollari.”
“Sesto.”
“Buongiorno, vorrei denunciare un furto, agente. I suoi occhi mi hanno rubato il cuore.”
“Settimo!”
“Ad una di voi va una sveltina? No? E una cosa a tre?”
“Ok, basta. Basta così.”
Fui catapultata di nuovo a sedere al tavolo. Non mi ero mai davvero alzata, a quanto sembrava. Mi aveva semplicemente fatto analizzare cosa sarebbe successo da dentro la mia mente, o qualcosa del genere.
“Lascia fare a me” mi disse con un mezzo sorriso. “Vieni.”
Prese il proprio caffè con una mano e posizionò l'altra saldamente nella mia. Teddy e Addison si misero comode per osservare la scena.
“Guarda e impara” mi disse, mentre ci avvicinavamo alle due donne che stavano parlando animatamente avvicinandosi al piccolo bar.
“E c'era questo...”
Non ho idea di come fece, ma Arizona fece in modo che Jane, gesticolando, colpisse il suo bicchiere, rovesciandole il caffè sulla maglietta.
“Oh, accidenti. Mi scusi, mi scusi tantissimo” prese dei tovaglioli da uno dei tavoli lì all'esterno, porgendoli ad Arizona.
Io fui veloce ad intercettarli, tentando di asciugare la macchia per lei.
“Lascia fare a me. Aspetta. Non muoverti.”
“Cavolo, sono sempre la solita imbranata” disse Arizona, rivolgendole un sorriso di scusa.
“No, è colpa mia. Sono mortificata. E poi è una maglietta bianca.”
“Non si preoccupi” la rassicurai con un sorriso. “Ha un milione di magliette bianche. Praticamente è l'unico colore che indossa. Ora che ci penso, non credo di averti mai visto con altro addosso” notai, ridendo.
“Sempre la solita esagerata. Comunque è vero, ne ho tantissime. Non si deve preoccupare per una macchia, la mia fidanzata riesce a smacchiare qualsiasi cosa. È, tipo, il suo super potere” sorrise, incrociando il mio sguardo.
“Vero” confermai. “Sono quasi magica.”
Se la notizia di noi due le colse alla sprovvista, non lo dettero troppo a vedere.
“Mi lasci almeno ricomprarle il caffè.”
“È davvero molto gentile da parte sua offrirsi di farlo, ma non ce n'è davvero bisogno” le sorrise, includendo le fossette.
“Dice sul serio” intervenni. “Prende qualcosa come sedici caffè al giorno. Uno in meno non può che essere positivo” sorrisi guardandola negli occhi e riprendendo la sua mano con la mia.
“Oh, cavolo” il suo sguardo scivolò verso la cintura della donna davanti a noi. “Polizia?” chiese con un sorriso.
“Già. Detective Jane Rizzoli” le porse la mano.
“Arizona” la strinse velocemente. “Lei è la mia fidanzata, Callie” anche io strinsi velocemente la sua mano.
“Dottoressa Maura Isles” si presentò l'altra donna, stringendo la mano ad entrambe.
“Oh, dottoressa? Davvero? Io sono un chirurgo” le sorrisi.
“Io sono una patologa.”
“Ah. Beh, questo spiega come vi siete conosciute.”
“Callie, lasciale in pace” mi colpì scherzosamente, ma sorridendo dolcemente. “Anche noi ci siamo incontrate a lavoro in realtà.”
“Sapete come si dice. L'unica persona che possa riuscire a tenere a bada l'ego di un chirurgo è un altro chirurgo” spiegai loro, voltandomi poi verso di lei. “E funziona benissimo per me” terminai in modo tenero.
“Di solito le persone che incontriamo per caso vengono fuori essere i principali sospettati di un omicidio, quindi probabilmente farete parte del nostro prossimo caso” ci disse Maura con un sorriso.
“Eh, solo se la vittima è una di loro due” feci un cenno della testa verso il nostro tavolo, dove le due donne furono veloci a distogliere lo sguardo.
Jane gettò un'occhiata verso di loro, poi mi sorrise.
“Devo interpretarla come una minaccia?”
“Oh, sì” confermai. “Sì, dovrebbe. Non fanno altro che comportarsi come una coppia, ma continuano a dire a tutti di non essere una coppia” alzai gli occhi al cielo. “I primi tempi era carino, adesso è solo faticoso.”
Teddy inclinò la testa di lato alle spalle di Jane e Maura, mentre Addison mimò con le labbra la frase 'io ti ucciderò'.
“Già, alcune volte le persone non si rendono conto di quello che hanno davanti agli occhi” continuò Arizona. “Noi due siamo state migliori amiche per anni, prima di renderci conto si essere innamorate.”
Passai un braccio sulle sue spalle, avvicinandola e limitandomi a guardare il suo viso e mantenere realistica la mia parte mentre lei continuava a parlare con loro.
“Allora, suppongo che ci vedremo quando ci accuserete di omicidio, giusto?” sorrise in quel modo che le faceva brillare gli occhi. “È stato un piacere conoscervi.”
Le salutammo con un gesto della mano, tornando a sederci.
“Spero davvero che si rendano conto di quanto si amano” sussurrò. “Quello che hanno è meraviglioso.”
“Un po' mi rende triste pensare che lui sia morto” le confessai, mentre guardavo le due donne interagire. “Ma suppongo che non me ne accorgerò nemmeno. Troverò qualcuno e mi convincerò che amare di più sia impossibile, giusto?” mi voltai, intercettando i suoi occhi, fissi su di me.
Distolse immediatamente lo sguardo.
“Giusto” confermò. “Andiamo. Voglio vedere come sono cambiate le cose nel presente. Se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, oggi ormai dovrebbe essere cambiato qualcosa, considerando che qui era un anno fa.”
Teddy e Addison erano rimaste in silenzio per tutto il tempo.
Stavamo aspettando fuori dalla stazione di polizia.
“Vado io” mi offrii.
“Oh, no. Non possiamo metterci una decina di tentativi anche stavolta. Aspettatemi qui, ok?” si allontanò quando le vide dall'altra parte della strada.
Rimasi appoggiata al muretto insieme alle mie migliori amiche.
“Frustrante, no? Insomma, entrambe erano in piena fase di negazione, ma infelici senza aversi accanto.”
“Siamo noi, non è vero?”
Voltai la testa di scatto verso Addison, vedendo i suoi occhi pieni di lacrime.
“Siamo io e Teddy. Siamo come loro.”
“No, non siete come loro. Secondo me, loro se ne erano accorte da tempo, in realtà. Ma pensavano che così fosse più semplice. Voi due...voi non lo sapevate ancora, no? Tutto dipende da cosa farete adesso.”
“Questo cambia tutto, tra noi tre. Vero?” chiese sommessamente Teddy.
“Questo non cambia niente. Voi continuerete a comportarvi da coppia ed io continuerò a prendervi in giro per questo. Tutto sarà esattamente come è sempre stato” dissi loro. “Però voi due sarete molto, molto più felici. Sarà bellissimo. E se sono perfino io a dirlo, deve essere proprio vero, giusto?”
Le feci sorridere. Mi avvicinai, abbracciando entrambe.
“Andrà tutto bene, ok? Voi sarete le persone più schifosamente felici sulla faccia del pianeta” presi le loro mani, avvicinandole finché non intrecciarono le dita.
“Ok, finito. Sono felicemente fidanzate da più di sei mesi e non hanno di certo bisogno del nostro aiuto per far funzionare le cose” ci informò Arizona, tornando. Estrasse la lista dalla tasca dei suoi pantaloni. “I loro nomi sono spariti. Ehi, un momento, perché sono sparite anche Teddy ed Addison?” alzò gli occhi, vedendo le loro mani intrecciate. “Oh. Beh, congratulazioni. Avete trovato la vostra anima gemella. Adesso vi riporto a casa, ok?”
Riaccompagnammo loro due a casa di Addison e poi decidemmo di fare una passeggiata verso il mio appartamento.
“Allora, quindi tutta la storia di Dio era vera, uh?”
“Ed io come potrei saperlo secondo te?” corrugò la fronte. “Non sono mica morta, ancora. Tutto quello che so è che ci sono delle entità che gestiscono l'ordine del mondo in modo che non si crei il caos totale, che fanno in modo che certe leggi vengano rispettate e cose del genere.”
“Aspetta, quindi tu sei viva?”
“Più o meno. Cioè, sono viva, ma non mi è concesso intrattenere rapporti con gli altri esseri umani, quindi è come se fossi morta. Suppongo di doverli ringraziare però, visto che altrimenti sarei morta davvero.”
Corrugai la fronte.
“Credevo avessi detto che non ti hanno permesso di nascere.”
“Oh, certo. È quello che intendevo” si grattò la testa.
“E così gli angeli mentono, eh? Interessante” le sorrisi. “Allora, quindi io avrei il mio angelo personale?”
“Esatto.”
“E dove era, esattamente, e cosa stava facendo, mentre io decidevo di sposare un uomo che a malapena conoscevo?”
“Non ha potuto fare niente per quello. Nessuno può negarti il più grande diritto della vita che inizia con la nascita stessa.”
“L'amore?”
Lei rise, un po' sarcasticamente.
“Il libero arbitrio.”
Aveva ragione. Niente è più grande della libertà.
“Ha provato ad impedirtelo mandandoti dei segnali, alcuni anche molto evidenti. Ma era un periodo molto strano per te. Il tuo cuore, in qualche modo, si era reso conto di aver perso il suo destino ed avevano iniziato a succederti cose strane. George, diventare specializzando capo, il desiderio più che improvviso di avere bambini. E poi erano le sue prime settimane come tuo angelo custode, visto che era appena morto.”
“Già. Non deve essere stato semplice abituarsi a quello.”
Lei rise. “Non lo è mai. La morte è uno strano passo nel cammino della vita. Le persone non si rendono conto che può però non essere l'ultimo passo.”
“Giusto. Quindi che hai intenzione di farne di me? Rimarrò single a vita? O mi presenterai uno dei tizi sullo scalino due, o sul tre?”
Lei mi sorrise enigmaticamente, ma non rispose. Eravamo arrivate al mio appartamento.
“Addio, Calliope.”
“No, aspetta. Voglio continuare ad aiutarti con quella lista. Prima finisci con loro, prima arriva il mio turno, giusto?” chiesi speranzosa. “Lasciami venire con te la prossima volta che torni indietro nel tempo.”
“Te lo farò sapere” rispose non molto definitivamente. “Ci vediamo in giro.”
Mi lasciò da sola nella notte di Seattle.

“Ok, quindi sono passate due settimane e non si è più fatta viva?” chiese Addison.
“No. Non credo che tornerà, l'avete sentita ragazze. La mia anima gemella è due metri sotto terra.”
“Attenta a come parli. Potrebbe sentirti, se Arizona dice la verità è sempre al tuo fianco, no?” mi riprese Teddy.
“Siete pronte per ordinare?”
“Una doppia vodka con ghiaccio” risposi senza alzare gli occhi dal tavolo.
Lui scrisse velocemente i nostri drink e se ne andò. Appoggiai la guancia sul palmo della mia mano, sospirando.
“Non lo so. Forse non troverò mai qualcuno abbastanza in alto sulla maledetta scala. Forse è meglio così in ogni caso.”
“Andiamo, non puoi semplicemente arrenderti. Ci dev'essere qualcuno.”
“Salve, questo posto è occupato?”
“Oh, sì. Stiamo aspettando una nostra amica” risposi, guardando in basso verso il giacchetto che ci avevo appoggiato sopra.
Lui se ne andò senza fare altre domande. Tolsi il giacchetto, sperando che Bailey arrivasse di lì a poco.
“Insomma, non deve essere una passeggiata per lui, no?” chiesi a bassa voce. “Vedere la sua anima gemella vivere felice con qualcun altro.”
“Callie, non lo conosci nemmeno, no? Per quello che ne sai, non ti sarebbe neanche piaciuto più di tanto.”
“No, sentite, quello che avevo con Mark, non era giusto. Potevo sentirlo quando eravamo insieme. E lui era allo scalino numero due” spiegai. “Grazie” dissi al cameriere che ci portò i drink che avevamo ordinato, prendendo il mio distrattamente.
“Ma forse non era proprio il numero due, no? Forse c'è qualcuno tra Mark e quel tizio.”
“Scusi, mi saprebbe dire l'ora?”
“Ah, le nove e mezza” risposi sovrappensiero, senza prendermi il disturbo di alzare lo sguardo.
Lui aspettò un istante in più, quando capì che non avrei aggiunto altro se ne andò.
“Ok, Calliope, mi stai rendendo le cose difficili, lo sai, vero?”
Ci voltammo per vedere il posto della Bailey occupato da una donna con i capelli biondi.
“Guarda un po', chi non muore si rivede.”
“Tecnicamente, sono morta eccome. Ma non è questo il punto. Io mi sto davvero impegnando, ma solo stasera hai bruciato tre persone. Nell'ultima settimana dodici. Non so come ci riesci, davvero, non li guardi nemmeno negli occhi. Come pretendi che io ti faccia innamorare? Hai ignorato il cameriere, il tizio del posto, quello dell'ora. Ho fatto assumere nella tua caffetteria preferita uno del terzo scalino come cameriere ed in due settimane non gli hai ancora rivolto parola eccetto per ordinare il tuo cappuccino!”
“Cavolo. Faccio proprio schifo” osservai.
Si passò una mano tra i capelli.
“No, forse, sai, forse è colpa mia.”
Si guardò attorno, finché, improvvisamente, sembrò essere colta da un'idea.
“Ok, ci sono. Andiamo, ti porto in un posto con me.”
La seguii fuori dal locale. Aprii la porta per lei, varcandola subito dopo. Ma quando fui dall'altra parte non vidi la strada buia di una serata umida di Seattle. Quello che vidi fu il corridoio di un liceo di non so quale città.
“Dove siamo?”
“Lima, Ohio.”
“Che ci facciamo qui?”
“Guarda tu stessa.”
Mi voltai verso l'unico ragazzo presente nel corridoio. Aveva i capelli castani, non era molto alto e non sembrava atletico. Aveva la faccia di un ragazzino tranquillo, però.
“Ehi, Kurt.”
“Oh, ciao Brittany. Che ci fai ancora a scuola?”
“Mi sono persa di nuovo.”
Il ragazzo sorrise.
“Vieni, ti accompagno a casa.”
“No, non fa niente. So che hai le prove con i ragazzi della banda.”
“La banda?” chiesi, corrugando la fronte.
“Dovresti sentire come canta quel ragazzo, Calliope. O vedere come balla quella ragazza. Erano entrambi destinati a far parte del Glee club della loro scuola, ma non ce n'è più uno da qualche anno a causa del numero insufficiente di iscrizioni.”
Arrivarono dei ragazzi con dei giubbotti, probabilmente giocatori di football.
Uno di loro, passando, gettò Kurt addosso agli armadietti con forza.
“Che idiota” scattai in avanti, ma Arizona mi fermò.
“Non ti vedono” mi ricordò.
Io lo guardai ridere insieme ai suoi amici, per poi prendere la mano di una delle poche cheerleader che erano con loro.
“Vedi quella ragazza? Sarebbe dovuta essere il membro del Glee che permetteva al gruppo di esistere, ma i suoi cosiddetti amici non avrebbero approvato, quindi non si è mai unita al club. E quest'anno avrebbero vinto i campionati nazionali, Calliope.”
Il gruppo di giocatori si allontanò. La ragazza si gettò un ultimo sguardo indietro, incrociando gli occhi dei due ragazzi che di sicuro i suoi amici consideravano perdenti. Non lei, però, notai vedendo il suo sguardo dispiaciuto. Lei sarebbe voluta rimanere e avrebbe voluto aiutare quel ragazzo a rialzarsi.
“Lei è la parte più triste in questa realtà” indicò con un cenno della testa la ragazza bionda che stava aiutando il suo amico a rialzarsi. “È persa.”
Non si riferiva solo al fatto che si era persa in quel momento dentro la scuola, lo sapevo. Era qualcosa di ben più profondo. Un velo nei suoi occhi che non aveva nome, se non forse proprio quello che Arizona aveva implicato. Solitudine.
“È persa senza la sua anima affine.”
“È terribile” sussurrai.
“Torniamo indietro, adesso. E cambiamo qualcosa di piccolissimo, stavolta.”
Mi condusse fuori dal liceo passando dalla porta principale.
Eravamo in mezzo ad un parco giochi quasi deserto. C'erano sì e no una decina di bambini, divisi in tre, forse quattro gruppi. C'era una bambina, però, che stava giocando da sola. Che teneva in mano la corda con cui stava saltando in modo strano perché non c'era nessuno a reggerla per lei.
Il mio sguardo, però, fu catturato da un'altra bambina. Era seduta su una delle altalene. Anche lei era da sola. Aveva sulla testa un cappello che la copriva alla vista del mondo e copriva la vista del mondo a lei.
“È la ragazza di prima. La bionda.”
“Brittany” mi ricordò Arizona.
“Lei” confermai. “Perché siamo qui?”
Mi sorrise. “Stiamo per scrivere una delle più grandi storie d'amore che il mondo abbia mai visto, Calliope. Guarda.”
Mosse una mano nell'aria. Non c'era stato un filo di vento, fino a quel momento, ma il cappello di Brittany volò via da sopra la sua testa solo per andarsi a posare proprio davanti alla bambina con la corda. Lei lo raccolse da terra, porgendoglielo non appena la vide arrivare.
“Grazie.”
“Prego.”
“Sarebbe volato via di sicuro, se tu non l'avessi raccolto” se lo risistemò sulla testa, rivolgendo un sorriso smagliante alla bambina davanti a lei.
“Vuoi saltare con la corda insieme a me?”
Il viso della bambina dai capelli biondi si illuminò.
“Mi chiamo Brittany.”
“Io sono Santana.”
Il tempo iniziò a scorrere più velocemente. In pochi secondi, vidi tutto il pomeriggio che avevano passato insieme, finché, al tramonto, erano tornate verso i loro genitori.
Sorrisi. Avevano i mignoli intrecciati.
“Vuoi vedere come sono le cose adesso?”
Annuii.
Quando fummo di nuovo dentro il liceo, in particolare dentro una stanza con delle sedie ed un pianoforte, notai un trofeo enorme.
“Hanno vinto le nazionali” notai.
“E non è tutto. Guarda” uscimmo nel corridoio.
Il ragazzo che avevo visto prima essere buttato contro un armadietto stava prendendo dei libri proprio come la prima volta. Lo stesso ragazzo, lo buttò contro lo stesso identico armadietto.
“Ehi Karofsky, ti conviene dartela a gambe. Ho delle lamette tra i capelli, sono tutte lì” fece un gesto attorno propria testa.
Il ragazzo forzò un sorriso e poi si dileguò. Era la ragazza dagli occhi tristi che lo teneva per mano nella realtà precedente, la cheerleader che non era nel Glee la prima volta per colpa dei suoi cosiddetti amici.
“Tutto bene, Hummel?”
“Sì. Ti ringrazio Santana.”
“Non dirlo nemmeno. Il tuo preziosissimo canarino mi avrebbe rotto per mesi se non ti avessi difeso.”
“Usignolo” la corresse. “E ormai è un anno che è con noi nei Nuovi Percorsi.”
“Come ti pare. Devo andare. Brittany mi sta aspettando.”
Lo superò, solo per fermarsi qualche armadietto più in là.
“Ehi Britt-Britt. Perché quella faccia?”
“Credo che Lord Tubbington abbia ripreso a fumare. E mi sono persa di nuovo.”
La ragazza dai capelli mori sorrise.
“Sai che non puoi perderti mai, finché ci sono io, Britt. Io ritroverò sempre la strada di casa per te, così come ritroverò sempre la strada fino a te, ovunque tu sia.”
Le tese la mano.
La ragazza intrecciò il proprio mignolo con il suo, sorridendole in modo disarmante.
“Sai, Quinn ha comprato a Rachel un abbonamento per andarla a trovare.”
“Oh, Dio. Giuro che qualche volta l'ottusità di Quinn mi demoralizza. Cioè, quanto altro tempo ci metterà a capire che Berry sbava dietro il suo sedere foderato dall'uniforme da cheerleader da tre anni?”
“Non essere gelosa, Santana.”
“Gelosa?” chiese, ritraendo il mignolo solo per intrecciare la mano completamente a quella dell'altra ragazza. “Perché mai dovrei essere gelosa? Io ho te” le ricordò, baciandola a fior di labbra.
Si sorrisero, riprendendo a camminare.
“Se sapessi tutto quello che hanno passato, capiresti quanto è incredibile questa storia” mi fece sapere Arizona.
“Mi basta guardare i loro occhi mentre si guardano per capire quanto è incredibile questa storia” sussurrai, guardandole ridere insieme mentre si allontanavano.

“Allora, ancora niente? Neanche un appuntamento?”
“No, niente di niente. Arizona ha detto che devo avere pazienza, Addie, ma onestamente non so dopo quanto tempo la speranza diventa disperazione.”
“Se può consolarti io e Teddy non siamo mai state così felici.”
“Oh, sì. Sì, la vostra felicità mi consola. No, aspetta. Questo non sembra sollievo” osservai. “Oh, giusto” schioccai le dita teatralmente. “Perché è gelosia.”
Lei rise.
“Non lo so. Continuavo ad uscire sempre con tipi uguali, sai? Ragazzi di bell'aspetto, però anche gentili. Ma tutti finivano sempre per comportarsi da stupidi con me. Forse sono io che sono sbagliata.”
“No, io non penso. Penso che stai cercando il tipo sbagliato d'uomo, questo sì.”
“Il punto, Addison, è che non ho nemmeno più idea di quale sia il tipo giusto, ormai.”

“Ok, per prima cosa, dove siamo?”
“Siamo a Rosewood, Pennsylvania.”
“Bene. E che ci facciamo qui?”
“Dopo l'ultima volta, ho pensato che ti avrei portata di nuovo. Sembravi così grata di vedere Brittany e Santana felici.”
“Lo ero” confermai. “Lo ero davvero. Sembravano diverse da prima. Mi rende un po' triste sapere che a me non succederà, ma allo stesso tempo sono contenta di poterlo almeno vedere in altre persone.”
“Ecco qui, guarda.”
“Oh, oh mio Dio, quella tizia sta tentando di affogare un'altra ragazza.”
“No. No, stai a vedere.”
Non potevamo sentirle parlare. Poco importante, visto che un attimo dopo la scena era cambiata ed eravamo in una camera da letto.
“Sai, tu eri il tipo di ragazzo che cercavo quando ancora cercavo un ragazzo. Qualcuno che mi facesse salire su un palco e cantare.”
“Che? Aspetta, loro due? No, ha tentato di affogarla! Deve esserci un errore” protestai.
“Sssh, ascolta e basta, ok?”
Il posto cambiò di nuovo. Eravamo ad una specie di ballo.
“Non eri pronta. E questo va bene.”
“Vorrei aver lottato più duramente per te” le disse con le lacrime agli occhi.
“Mi dispiace, Paige.”
“Non te lo sto dicendo perché tu sia dispiaciuta. Ma perché voglio essere onesta. Ci tengo a te, quindi sarò qui per te. Per qualsiasi cosa ti serva.”
“Quello che mi serve adesso è un'amica.”
“Allora è ufficiale. Siamo amiche.”
Il modo in cui la guardava. Il modo in cui suoi occhi brillavano. Mio Dio, forse il momento era sbagliato, ma loro due erano giuste. Erano perfette l'una per l'altra. Sorrisi brevemente, guardandole sorridersi.
“Non capisco che c'è che non va in questa storia. È perfetta. Quando arriverà il momento, la loro amicizia diventerà qualcosa di più” conclusi con sicurezza.
Mi voltai verso Arizona, che le stava guardando con gli occhi che le brillavano. Diventai immediatamente seria.
“Penseresti che questo sia ciò che dovrebbe accadere, no?” chiese, voltandosi verso di me con un sorriso triste sulle labbra. “Ma questa è l'ultima volta che Emily e Paige si parleranno. Non si vedranno mai più, per tutto il resto delle loro vite.”
Mi voltai di nuovo verso le due ragazze.
“Ma...ma la guarda con una luce negli occhi che...toglie il fiato.”
“Lo so. Paige ha già capito che Emily è la sua anima gemella, ma lei è ancora attaccata al suo primo amore, Alison.”
“Cosa possiamo fare?” chiesi, senza distogliere lo sguardo da loro due. “Dobbiamo salvarle in qualche modo, no?”
Lei sospirò. “Vorrei che potessimo farlo, ma non so come. Ho provato, davvero. Ma tutto ciò che ottengo sono piccoli cambiamenti. Forse sto sbagliando qualcosa.”
“Forse non sei andata abbastanza indietro.”
“Oh, no. Con loro due non si può. Il loro passato deve rimanere com'è. Ma c'è qualcosa che devo poter fare, in quest'ultimo periodo delle loro vite.”
“Aspetta. La ragazza con gli occhi che brillano, Paige, giusto?”
“Giusto.”
“Si è scusata per qualcosa che ha fatto.”
“Oh, aspetta. Lascia che te lo faccia vedere.”
Ci trovammo fuori da un ristorante, osservai attentamente la scena che si svolse davanti ai miei occhi e che terminò in un bacio mancato.
“Eccolo. Ecco cosa puoi cambiare. Dice di aver sbagliato, di voler essere qualsiasi cosa di cui ha bisogno. Il problema è il bacio. Forse se lei non facesse pressioni adesso, Emily sarebbe più aperta la sera in cui si parlano.”
“Beh, possiamo provare. Ma non sarà facile, cambiare la sua scelta. Il libero arbitrio...”
“Sì, sì. Mi ricordo. 'Libere scelte. Bla bla. Le persone sbagliano. Bla bla bla.' Lascia fare a me.”
Mi riportò all'inizio della conversazione.
Appena vidi cosa stava per succedere mi avvicinai, schiarendomi la voce e attirando la loro attenzione.
“Scusate, sapreste dirmi l'orario?” chiesi con un sorriso appena accennato.
Ecco fatto. Avevo rovinato il momento.
“Ah, un quarto alle dieci” rispose Emily educatamente.
“Vi ringrazio. Buona serata” augurai loro, tornando verso Arizona, rivolgendole un piccolo occhiolino.
“Ok, vediamo che è successo” propose.
Emily e Paige andarono al ballo insieme. Danzarono e parlarono e ci fu un momento davvero dolcissimo in cui entrambe sentirono l'elettricità nell'aria.
Si baciarono in modo casto e veloce, perché chiunque dei loro compagni di classe si sarebbe potuto voltare da un momento all'altro.
“Vorrei aver lottato più duramente per te” le sussurrò mentre ballavano, evitando di guardarsi negli occhi a causa del momento che avevano appena vissuto.
Emily alzò gli occhi, guardandola per qualche istante.
“Sei qui adesso. Sei tornata indietro, mentre le altre persone si sono limitate a scappare.”
“Tornerei sempre indietro per te.”
Ed ecco che di nuovo aveva le lacrime agli occhi e quello strano tono di voce, come se stesse un po' tremando.
Emily l'abbracciò un po' più forte e si spostò un po' più vicina.
“Sono felice di sentirtelo dire.”
Sorrisi a me stessa. Sapevo che sarebbe stata una buona idea.
“Diamo un'occhiata al futuro, ti va?” domandò conoscendo già perfettamente la risposta.
“Ci puoi scommettere.”
Eravamo una decina, forse vent'anni nel futuro.
“Sembrano felici” osservai, vedendole scherzare mentre stavano pranzando insieme. “Davvero felici.”
“Lo sono” intervenne sommessamente. “Hanno finalmente capito entrambe.”
Si voltò verso di me, sorridendomi.
“Devo riportarti a casa” mi informò, inclinando la testa di lato.
“Odio questa parte in cui sparisci per giorni e giorni, sai? Odio quando devi riportarmi indietro, mi piace questo lavoro, rendere le persone felici. E mi piace passare del tempo con te.”
Rise di cuore.
Ma un attimo dopo ero comunque da sola davanti alla porta del mio appartamento.

“Questa storia è andata avanti anche troppo a lungo” mi disse Teddy.
“Secondo me tre coppie sono più che sufficienti, adesso dovrebbe essere il tuo turno” mi fece notare Addison.
“No, sono sicura che lei nel frattempo mi stava mandando persone adatte a me, è solo che mi sembra di non riuscire a vedere nessuno di loro. Forse, sapete, è il periodo sbagliato. Forse mi serve tempo per me stessa.”
“E gli ultimi tre anni cos'erano, una pausa dall'amore tra il tempo per te stessa di prima e quello di adesso?”
“No” la guardai con incredulità. “C'è stato George” le ricordai “e Mark.”
“Entrambi un fiasco.”
“Sì, ma non è questo il punto. Mi sto stancando di provare, ragazze. Forse dovrei accontentarmi di quello che ho.”
“E cosa sarebbe esattamente?” domandò scetticamente Teddy.
“Un angelo custode.”
“Ok, sapevo dove saresti andata a parare. Di nuovo con questa storia. Va bene, ti dico io che devi fare. Devi trovare questo tipo, andare a parlare con la sua famiglia e farti dire qualcosa di lui, in modo da convincerti che probabilmente non sareste andati neanche lontanamente d'accordo, così puoi dimenticartelo e tornare ad occuparti delle tue relazioni sentimentali con gente che è ancora nel mondo dei vivi.”
Io risi. “Magari fosse così semplice. Vedete, la vita è un cammino e la morte non è che un passo di questo cammino. Solo che, qualche volta, non è l'ultimo.”
“Fammi indovinare, questa frase è della tua nuova migliore amica.”
Io alzai gli occhi al cielo.
“E anche se fosse? Arizona mi piace, ok? Mi piace passare del tempo con lei e non ho intenzione di rinunciarci a causa della vostra paranoia.”
“D'accordo. Ok, va bene, mi arrendo” Addison alzò entrambe le mani in segno di resa. “Continua a giocare coi dardi di Cupido quanto vuoi. Ma, te lo chiedo come favore personale, nel frattempo, cerca di scoprire chi era questo tizio.”
Sospirai pesantemente, spostando lo sguardo da lei a Teddy e viceversa per diverse volte.
“Perché no” dissi alla fine. “Potrebbe essere utile, alla fine.”
Continuai a sorseggiare il mio caffè mentre l'argomento della discussione si spostava sull'imminente convivenza di Miranda ed Eli.

“Benvenuta a Princeton, New Jersey.”
“Ok, questo posto è più strano del solito. Dove siamo?”
“Fuori da un locale gay. Vieni, entriamo. Ti offro da bere.”
Io la seguii all'interno, molto incerta.
“Mi stai chiedendo di uscire? Perché se mi hai portato in un altro Stato per...”
“Oh, no no no. Figurati. Stiamo aspettando la nostra prossima persona che si è persa in questo lungo, lungo cammino.”
“Ok, beh, fammi un fischio quando arriva. Ma visto che si è persa ed è un lungo cammino potrebbe volerci un po'” le feci presente. “Quindi io nel frattempo mi prendo qualcosa da bere. Vuoi qualcosa?”
Lei rise. “No, ti ringrazio.”
Ordinai una vodka doppia con ghiaccio al barista.
“Oh, wow. Guarda la ragazza di stasera. Bruna con gli occhi scuri ed un fisico da paura. Remy si sta allontanando sempre di più” mi voltai, seguendo il suo sguardo.
“Chi è Remy?” domandai, vedendo due ragazze interagire.
“È una donna che ha vissuto tutta la sua vita alla ricerca disperata di qualcosa. L'aveva quasi trovato, ma poi la sua malattia...”
“Malattia?”
“Ha la corea di Hungtington.”
“Cavolo” sussurrai, facendo una smorfia. “È terribile.”
“Lo è. Ma quel che è peggio è che invece di passare i suoi ultimi giorni con il suo grande amore se ne va in giro a rimorchiare ragazze nei bar.”
“Possiamo fare qualcosa?”
Mi voltai per vederla rivolgermi un sorriso.
“Possiamo sempre fare qualcosa.”
La scena davanti ai nostri occhi era cambiata. La ragazza di prima era insieme ad un uomo alto, dai capelli neri e gli occhi scuri.
“Chi è lui?”
“Il suo nome è Eric Foreman.”
“Sembrano una coppia carina.”
“Vero. Non staranno insieme ancora a lungo, però.”
Eravamo in un laboratorio analisi. Quando spostai lo sguardo dal profilo di Arizona non c'era più l'uomo di prima accanto a lei. C'era una donna.
“Dovresti leggere quei risultati. Credo che dovresti farlo.”
“Non credo...” scosse la testa. “Non voglio leggere quello che c'è scritto lì dentro.”
“Perché li hai fatti, allora?”
“Volevo solo zittire House.”
“Ah, questo posso capirlo” le rivolse un sorriso empatico. “Io facevo cose del genere tutto il tempo, finché ho capito che non esiste un modo efficace per far stare zitto House.”
“Ti ha cambiata, non è vero? Lavorare con lui intendo.”
“Già” rise con se stessa di qualcosa che non disse ad alta voce, guardando in basso. “Mi ha cambiata più che altro tutto quello che è successo mentre lavoravo con lui. La mia vita è molto diversa da com'era anni fa.”
“Capisco che intendi” sussurrò, rigirandosi la busta tra le mani. “Tieni. Aprila tu.”
L'altra donna fissò la carta senza muovere un muscolo.
“Non credo che sia una buona idea.”
“Andiamo, sei un medico. Dai brutte notizie ai pazienti tutto il tempo, no?”
“Generalmente sono persone che non rivedrò mai più, non colleghi o amici.”
“Noi non siamo amiche” le disse con aria seria.
L'altra donna rise.
“Hai rubato una battuta di Foreman, lo sai?”
“Dico sul serio. Ci conosciamo a malapena. Noi sai niente di me.”
Non le rispose. Picchiettò le dita sul ripiano davanti a loro.
“Probabilmente hai ragione. Ma questo non cambia il fatto che non leggerò i risultati per te.”
“Se ne sta per andare” sentii la voce di Arizona al mio fianco. “A breve lascerà la città.”
“La bionda?” chiesi. “Credevo che la sua anima gemella fosse il tizio di colore.”
“Oh, cielo, no. Hai visto come guarda lei? Sfortunatamente, non si vedranno mai più. A meno che noi non facciamo in modo che rimanga.”
“E come, esattamente?”
“Non hai ancora imparato? Dal loro passato, ovviamente.”
Uscimmo dalla stanza, solo perché mi ritrovassi ancora più confusa del solito mentre passeggiavamo in un pronto soccorso.
“Dove siamo?”
“Al loro primo incontro da sole.”
“House ti sta dando il tormento, vero?”
“Come riuscivi a stargli dietro?”
“Non ci riuscivo. Ecco perché ho dato le dimissioni.”
“Sì, ma i tre anni prima...”
“Non puoi tenere il passo con House, Tredici. Lui sta sempre sei passi avanti.”
“Non chiamarmi in quel modo. Lo fa abbastanza lui per tutti.”
“Scusa” rispose con una piccola risata. “Remy, giusto?” le tese una mano. “Allison Cameron.”
“So chi sei” rispose, tuttavia stringendogliela. “Sei una specie di leggenda.”
La donna rise di gusto, scuotendo la testa.
“Lavorare con House è stato snervante. Per tre anni, tutto ciò che mangiavo, bevevo e dormivo era il lavoro. Non è una vita che consiglio a nessuno.”
“Sei molto incoraggiante.”
“Mi dispiace. Sono sicura che te la caverai meglio di quanto sono riuscita a fare io.”
“Senti, che ne dici di condividere con me qualche storia che possa tornarmi utile? In cambio pago da bere io per tutta la sera.”
La bionda si fermò, sorridendole.
“Sono di turno stasera.”
“Oh, no, non lo sei” sussurrai, guardando Arizona. “Scommetto che puoi fare in modo che qualcuno la sostituisca.”
“Va bene. Stavolta facciamo a modo tuo” mi rispose, mentre la scena davanti ai nostri occhi cambiava.
Erano sedute vicine al bancone di un bar.
“Sono uscite insieme, quindi” osservai.
“No. Stanno parlando, per il momento, visto che Cameron pensa di essere etero.”
“Aspetta, come può essere la sua anima gemella, se è etero?”
“Non ho detto che lo è. Ho detto che pensa di esserlo.”
“Non posso crederci. A vedere i Monster Truck?”
“Non ridere, ok? È stata una bella serata. Foreman non la smetteva più di prendermi in giro a riguardo, però.”
Remy abbassò lo sguardo.
“Sembra un tipo apposto.”
“Oh, guarda chi si è presa una cotta la sua prima settimana di lavoro” la prese in giro la donna al suo fianco.
“Ah, no. Non sono proprio interessata ad una storia ora come ora. Sono uscita da una relazione seria e non sono pronta a frequentare di nuovo qualcuno.”
“Come si chiamava lui?” chiese distrattamente Allison, sorseggiando il suo drink.
“Shannon.”
Quasi si strozzò con il contenuto del bicchiere.
“Ok, quindi o i suoi genitori gli volevano davvero molto male, oppure lui era in realtà una lei” sorrise, riprendendosi dall'essersi quasi strozzata.
“È un problema?”
“No, perché dovrebbe esserlo?”
“Beh, ecco fatto. Diventeranno migliori amiche, si fidanzeranno, si sposeranno e vivranno per sempre felici e contente” le rivolsi un sorriso abbagliante.
“Non esattamente. Questa non è una storia come le altre. Diventeranno migliori amiche, su questo avevi ragione. Ma Remy non parlerà mai dei suoi sentimenti per paura di perdere Allison. Finché, un giorno, inizieranno gli spasmi.”
Il sorriso che avevo sparì lentamente e fu rimpiazzato da un'espressione seria di contrariata tristezza.
“Cameron rimarrà al suo fianco per tutta la malattia.”
Mi voltai di nuovo. Al bancone del bar c'era seduta solo la donna dai capelli biondi, che stava sorseggiando qualcosa dall'aria particolarmente forte.
“Solo dopo la sua morte si renderà conto di averla amata. Più di quanto avrebbe dovuto in quanto sua migliore amica. Si sono amate. E questo va bene, anche se non lo sapranno mai.”
“Avrebbero potuto essere felici” le feci notare.
“Non avrebbero potuto. Era una corsa contro il tempo. Cameron sarebbe stata spaventata dai suoi sentimenti, si sarebbe allontanata a lungo, avrebbe perso un sacco di tempo. Così, invece, le è rimasta affianco per tutta la sua vita. Ogni secondo.”
“Ma...ma potevano essere felici” sussurrai, incapace di accattare quel finale.
“Non più di quanto lo sono state, Calliope. Capita, a volte, che la tua anima gemella sia la persona che ti è rimasta affianco per tutta la tua vita. Capita che la tua anima gemella sia la tua migliore amica.”
“Guardala, Arizona. È infelice. È distrutta. È persa” sussurrai l'ultima parola. “Non è cambiato niente, non si è risolto niente.”
“Certo che si è risolto qualcosa. Qualsiasi cosa succeda da adesso in poi, lei avrà sempre il ricordo di Remy ad accompagnarla. Lo terrà sempre stretto al cuore, in modo che la guidi. Cameron non sarà da sola mai più, Calliope. Non si perderà mai più.”
Guardai verso Allison. Aveva gli occhi arrossati ed aveva pianto. Sembrava triste. Sembrava un dolore, il suo, di quelli che non vanno più via neanche dopo anni, neanche dopo la guarigione. Ma a guardarla bene negli occhi, facendo caso a quella piccola luce che vi brillava dentro, si poteva vedere che, per quando distrutta, non era sperduta.

“Stavo cercando il suo nome su Google, ieri sera” raccontai alla Bailey. “È andata via la corrente all'improvviso.”
“Strano.”
“Non è tutto. Stamani ci ho riprovato qui in ospedale. Il computer che stavo usando ha iniziato letteralmente ad andare a fuoco. C'era del fumo che usciva da quell'affare. Ho chiamato un tecnico e lui mi ha detto che qualche giorno fa era apposto e stamani si sono inspiegabilmente fusi alcuni dei circuiti.”
“Ok, questo va ben oltre la mia definizione di strano.”
“È esattamente quello che ho pensato anche io. È come se qualcuno non volesse farmi trovare informazioni sul suo conto.”
“Non serve certo un campione di Cluedo per capire chi esattamente ti sta mettendo i bastoni tra le ruote.”
Io la guardai, la fronte corrugata.
“È lui Torres, sveglia. Il tuo angelo custode ti sta impedendo di scoprire cose sul suo conto. Forse è un segno. Dovresti lasciar perdere.”
“Non posso lasciar perdere, Bailey. Sto impazzendo. Devo sapere qualcosa su di lui, qualsiasi cosa che possa aiutarmi a capire chi fosse. Ho bisogno di qualche risposta alla mia ridicola quantità di domande.”
“D'accordo. Stai solo attenta nel frattempo a non far esplodere un altro computer. O una risonanza magnetica.”
Io risi.
“Ci proverò.”

“Questa città è strana davvero.”
“Che te lo fa pensare?”
“Non lo so. È più che altro una sensazione. Ma c'è qualcosa di incredibilmente surreale in queste persone.”
Lei si limitò ad una piccola risata, chiaramente a conoscenza di cose che io non sapevo.
“Dove hai detto che siamo?”
“Storybrook, Maine.”
“Ok, chi dobbiamo aiutare stavolta? Le due ragazze laggiù? O quelle due donne dall'altra parte della strada? No, non dirmelo, sono le due tizie sedute dentro la tavola calda.”
“Che ti fa pensare che si tratti di due donne?”
“Oh, per piacere. Come se non avessi capito che sta succedendo.”
La vidi deglutire pesantemente.
“Hai capito?”
“Certo. Tu ti occupi solo di questo tipo di coppie. Mi sta bene” le dissi scrollando le spalle. “Ma sappi che se c'è qualcosa che vuoi dirmi, qualsiasi cosa, io non sono il tipo di persona che giudica gli altri, ok?” le dissi con tono drammatico, prendendo una delle sue mani.
Lei roteò gli occhi, tirando via la mano ed usandola per colpirmi su un braccio.
“Concentrati. Sarà una cosa veloce.”
“Quanto veloce? Perché ho un impegno stasera.”
“Cosa? Con chi? Perché io non ne sapevo niente?”
“Non è una cosa romantica” le risposi, alzando gli occhi al cielo. “Devo solo incontrare Bailey per una cosa che deve aiutarmi a fare.”
“Cos'è tutto questo mistero improvviso? Sei arrabbiata con me o qualcosa del genere? Perché non so che ho fatto, ma mi dispiace comunque.”
Io sorrisi come un'idiota.
“Non hai fatto niente, ma sei perdonata comunque.”
Ricambiò il mio sorriso.
“D'accordo. Allora sbrighiamoci, così puoi fare questa cosa super segreta insieme a Miranda, va bene?”
Scrollai le spalle.
“Puoi venire anche tu, se vuoi. Anzi, potresti tornarmi utile. Sto cercando di scoprire qualcosa in più su Timothy.”
Il suo sorriso vacillò per un lungo momento.
“Ah, no, non fa niente. Ho altri piani per stasera. Ma non credo che sia una buona idea sapere cose in più su di lui.”
“Hai altri piani?” chiesi corrugando la fronte. “Che c'è, stai vedendo qualcuno?” le domandai ridendo.
Lei distolse lo sguardo, incrociando le braccia. Io diventai improvvisamente seria.
“Oh mio Dio, chi stai vedendo?”
“Nessuno” sminuì la mia affermazione. “Figurati, nessuno” borbottò. “Sai, questo non è il mio primo lavoro.”
“Ah, no?”
“No. Io sono un angelo custode. Stasera sono con uno dei miei protetti. Mi dispiace però, avrei accettato volentieri l'invito a cena. Sai, fare l'angelo non rende bene come uno tenderebbe a pensare.”
Io risi, scuotendo la testa.
“Andiamo, fammi vedere chi sono stavolta. E sarà meglio per te che ci sia un lieto fine, perché l'ultima volta mi sono chiusa in camera mia a piangere per tre giorni.”
Lei indicò con un cenno della testa due donne che stavano uscendo dalla tavola calda. Una delle due aveva lunghi capelli biondi, mentre l'altra li aveva tagliati corti e neri.
“Come si chiamano?”
“Dipende dall'universo in cui sono. Qui, ora come ora” rispose “si chiamano Emma e Mary Margaret.”
“Che dovrebbe significare qui?”
“Questa ti piacerà, Calliope. Mary Margaret, in realtà è Biancaneve.”
Mi voltai verso di lei, corrugando la fronte, sgranando gli occhi e inclinando la testa di lato nella mia migliore performance dello sguardo 'sei impazzita del tutto?'.
“Ed Emma chi sarebbe, la bella addormentata?”
“No. Emma si chiamava comunque Emma. È sua figlia.”
E fu a quel punto che non ci capii davvero più niente.
“Forse non ho capito bene cosa dobbiamo fare.”
“C'è questa donna, Regina” iniziò a raccontare, mentre passeggiavamo, seguendole. “Che sarebbe in realtà la Regina Cattiva, che ha portato tutti in questo universo con una maledizione, eccetera eccetera. Comunque, Regina ha provato in più occasioni ad uccidere Biancaneve o il suo Principe Azzurro, fallendo di volta in volta.”
“Oh, e noi siamo qui per far mettere insieme Biancaneve e il Principe Azzurro? Perché sembra già abbastanza destinato ad accadere così com'è, senza che io e te ci mettiamo ad incasinare le cose. Si chiamano favole perché hanno sempre il loro lieto fine, no?”
“Infatti non siamo qui per loro.”
“E per chi siamo qui, allora?”
Lei mi sorrise, facendomi un cenno della testa in direzione di una donna dai capelli neri che stava praticamente marciando in direzione di Emma e Mary Margaret. Cioè...Biancaneve. Insomma, loro due.
“Siamo qui per Regina ed Emma.”
Mi voltai verso loro tre e per un secondo pensai che stesse scherzando.
“Ok. Bene. Niente di più facile, giusto? L'anima gemella di quel personaggio delle favole è la matrigna cattiva che ha provato ad uccidere sua madre e suo padre reiterate volte, la quale madre, fatto difficile da lasciarsi sfuggire, ha più o meno la sua stessa età. Fammi pensare, ho dimenticato qualcosa?”
Lei mi guardò con un sopracciglio alzato.
“Oh, giusto. In più sono entrambe donne” le feci notare con un sorriso sarcastico. “Cosa mai potrebbe andare storto?”

Inutile dire che arrivai all'incontro con Miranda in ritardo.
“Come è andata, oggi?”
“Non vuoi davvero saperlo” le risposi. “Diciamo solo che non voglio più vedere una mela a meno di duecento metri da me per almeno una ventina di giorni.”
Lei rise, scuotendo la testa ed aprendo la porta per permettermi di entrare.
“Ecco a te” mi disse, prendendo dei fogli da sopra il tavolo e porgendomeli. “Ho scoperto delle cose interessanti su questo tizio. A quanto pare si è arruolato ed è stato spedito in Iraq. I genitori vivono nel Maryland. Ho anche controllato il cimitero del paesino in cui abitano ed in effetti ho trovato un Robbins.”
“Questi cosa sono?” domandai, soppesando i fogli che mi aveva consegnato.
“Le cartine per arrivarci” rispose, alzando un sopracciglio.
“Sei grande, Bailey” la abbracciai.
“Vuoi che venga con te?”
“Lo vorrei. Non sai quanto. Ma è una cosa che devo fare da sola.”
“D'accordo. Quando hai intenzione di partire?”
“Stasera.”
“Come, scusa? Potresti ripetere?”
“Se gli lascio del tempo proverà a fermarmi, facendo esplodere la mia marmitta o qualcosa del genere” spiegai con un sospiro. “Devo occuparmene adesso, coglierlo di sorpresa.”
“Proverei a dissuaderti, ma non credo che niente che potrei mai dire avrebbe alcun tipo di effetto su di te.”
“Sapevo che c'era un motivo per cui tu eri quella intelligente, Miranda” le dissi, abbracciandola ancora una volta prima di uscire.

“Oh, andiamo. Non posso crederci” sussurrai, provando per la decima volta ad avviare il motore della macchina. “Carino” fu l'unico modo in cui riuscii a commentare quello che mi stava succedendo. “Quindi questo è il modo in cui vuoi giocartela, eh?” chiesi ad alta voce, sperando che il mio cosiddetto angelo custode mi stesse ascoltando. “Ti faccio vedere io, che succede quando il gioco si fa duro.”
Estrassi il telefono, chiamando Addison e chiedendole di venirmi a prendere davanti casa di Miranda.
Mentre aspettavo, ovviamente, iniziò a piovere a dirotto. Nel giro di due minuti ero completamente bagnata.
Non mi mossi neanche di un passo.
Addison accostò, abbassando il finestrino.
“Apri la macchina” le dissi.
Lei scosse la testa, guardandomi con entrambe le sopracciglia alzate, probabilmente chiedendosi se fossi impazzita.
“Apri e basta, Addison” la implorai, con un gesto della mano che indicava il marciapiede. “La mia auto si è rotta ed ho bisogno di un passaggio in aeroporto. So che sono completamente bagnata, ma devi farmi entrare. Ti prego.”
Ci pensò diversi istanti, mordendosi un labbro. Sapevo esattamente quanto aveva pagato quei sedili in pelle, ma il mio sguardo da cucciolo bastonato non falliva mai nel farmi ottenere tutto ciò che volevo da lei.
Roteò gli occhi.
“Sali. Ma stai almeno attenta allo stereo, ok? Ancora meglio, vai sul sedile posteriore.”
“Ti ringrazio, Addie. Sei un tesoro” entrai dentro l'auto, esultando internamente.
“Perché non hai chiamato un taxi, in ogni caso?”
“Perché tu costi molto, molto di meno.”
Il mio aereo era tre ore in ritardo.
“Senti, vorrei davvero rimanere, ma io e Teddy abbiamo un appuntamento tra meno di un'ora ed io devo cambiarmi.”
“Non preoccuparti. Me la caverò.”
“Ne sei sicura? Perché non voglio stare in pensiero finché non so che sei al sicuro e ho l'impressione che se me ne vado adesso è esattamente quello che mi ritroverò a fare per i prossimi tre giorni.”
“Ti preoccupi troppo, Addison. Salutamela e dille addio da parte mia, se non dovessi tornare viva da questo viaggio.”
“Non esagerare. Per ora ci sono stati solo un paio di intoppi, giusto?”
“Giusto. Come il fatto che la mia macchina si è bloccata all'improvviso.”
“Non sarebbe successo se ogni tanto la portassi dal meccanico per una revisione.”
“O il fatto che è saltata la corrente mentre cercavo il suo nome su Google.”
“A Seattle piove parecchio, probabilmente uno dei cavi si è bagnato.”
“Uno dei computer in ospedale, controllato da un tecnico qualche giorno prima, ha quasi preso fuoco davanti a me.”
“Questo è perché quei computer hanno un milione di anni.”
“Visto? Non hai niente di cui preoccuparti, quindi vai al tuo appuntamento con Teddy” risposi con un sorriso furbo.
Lei sospirò.
“D'accordo, hai vinto. Buona fortuna, Callie” mi abbracciò velocemente, lasciandomi ad aspettare da sola.
Dopo cinque ore, finalmente, ci fu permesso di fare il check in.
“Dovresti imparare a leggere meglio i segnali, Calliope” mi voltai verso la donna apparsa improvvisamente al mio fianco.
“Che ci fai tu qui?” chiesi, confusa. “Credevo che avessi già un impegno per stasera.”
“Ce l'avevo, ma sono riuscita a sbrigarmela in fretta, quindi eccomi qui a cercare di impedirti di fare qualcosa di stupido.”
“Cercare di scoprire qualcosa sulla mia anima gemella non è stupido. Voglio solo un paio di risposte, e le otterrò che tu sia dalla mia parte o meno.”
“Non ci arriverai mai. Ovunque sia che stai andando. Posso percepire quanto il tuo angelo custode è risoluto a riguardo.”
“Lo vedremo” sussurrai a denti stretti, oltrepassando il punto di check in e porgendo il mio passaporto all'operatrice con un sorriso palesemente finto ben piantato sulla labbra.
La prima cosa che feci, salendo sull'aereo, fu allacciarmi la cintura di sicurezza. Tuttavia, sapevo che un angelo, in quanto tale, di certo non avrebbe ucciso tutte quelle persone solo per far recepire a me qualcosa.
“Signore e signori, siete pregati di allacciare le cinture di sicurezza. Stiamo per decollare.”
Di sicuro, non me lo sarei fatto ripetere due volte.
Chiusi gli occhi appena sentii i motori accendersi.
“Ha paura degli aerei?” chiese l'uomo al mio fianco.
Io scossi la testa. “Ho paura di questo qui e basta” sussurrai a me stessa.
E infatti, a circa venti centimetri da terra, invece di prendere quota l'aereo tornò con le ruote sull'asfalto. I motori si spensero e ci fu un black out delle luci.
“E va bene, Tim. L'hai voluto tu.”
Scesi dall'aereo e mi diressi immediatamente verso il noleggio macchine lì accanto, chiedendo la macchina più veloce e sicura che avessero, senza preoccupazioni per il prezzo.
Guidai per tutta la notte in un ostinato silenzio, con la radio spenta e i denti che mi mordevano l'interno di una guancia.
“Se non la smetti di preoccuparti così tanto ti verrà un'ulcera.”
“Vattene via.”
“Io avevo cercato di avvertirti, Calliope, ma tu non mi hai dato ascolto. Dovresti prendertela con te stessa, non con me.”
“Vai via” ripetei con il massimo della freddezza.
“Andiamo, non è che...”
“Arizona, dico sul serio. Vattene. Non voglio il tuo aiuto, non voglio che tu mi faccia incontrare qualcuno del secondo o terzo scalino, non voglio nemmeno più sentire la tua voce. Vattene via, ti prego.”
Le mie parole la colsero del tutto alla sprovvista. Me ne accorsi perfino senza voltarmi verso il posto del passeggero.
“Se me ne vado adesso non tornerò, Calliope.”
“Beh, menomale.”
Continuai a guidare in silenzio finché fui talmente stanca da dovermi per forza fermare e presi una stanza in hotel.
Quando ripartii, la mattina dopo, ero quasi al confine con l'Idaho e fuori c'era il sole.
“Finalmente qualcosa di positivo” borbottai.
Non ero più dello stesso parere quando, qualche ora dopo, la macchina si ruppe improvvisamente nel bel mezzo del nulla e mi ritrovai ad aspettare un carro attrezzi per sei ore in mezzo al deserto sotto il sole.
Niente in confronto a quello che mi successe il giorno dopo, quando mi ritrovai quasi nel centro di un uragano con la macchina, finii la benzina – e giuro, lo giuro, un minuto prima c'era quasi il pieno nel serbatoio – di nuovo in mezzo al niente e il telefono dell'albergo quasi mi scoppiò tra le mani quando provai a chiamare Addison per farle sapere che ero sana e salva. Beh, no. Non sana e salva, ma perlomeno ancora viva. Non riuscii a chiamarla.
Il quarto giorno ripartii dal Montana e fu super divertente.
Soprattutto le tre ore che passai in prigione per possesso di marijuana.
L'idiota che aveva noleggiato l'auto prima di me ne aveva lasciata qualche grammo dentro il cruscotto e i cani della polizia, ovviamente, l'avevano fiutata quando ero stata fermata ad un posto di blocco.
Il risultato nel database della polizia del Minnesota quando cercarono il mio nome fu una fedina penale con precedenti assurdi.
Tre ore in prigione erano bastate per far arrivare un fax della mia vera fedina da Washington, esattamente come me la ricordavo: pulitissima. La ditta di noleggio macchine aveva perfino provveduto a mandare le generalità del tipo che l'aveva noleggiata prima di me, il cui profilo era consistente con il possesso di droga.
All'inizio del giorno quattro ero ancora al confine tra il North Dakota e il Minnesota, a circa metà del viaggio.
Guidai per dieci ore, prima che mi si bucasse una gomma.
Accostai, scesi dalla macchina, presi il crick dal portabagagli e sollevai la parte posteriore destra della vettura come avevo visto fare una volta a mio padre. Svitai i bulloni della ruota bucata e la tolsi, gettandola nel bagagliaio ed afferrando quella di scorta, che smontai da sotto la macchina in circa mezz'ora, perché non riuscivo a vedere la vite che la teneva attaccata. Poi la montai e strinsi i bulloni più forte che potevo. Incredibile la forza che viene data dalla rabbia ad una persona normalmente calma.
Buttai gli attrezzi che avevo usato dentro il portabagagli, mi pulii le mani unte e quasi del tutto nere sui miei jeans di marca e poi richiusi la quinta porta con un rumore secco, risalendo in macchina e sentendo il cellulare squillare da dentro la mia borsa.
“Pronto?”
“Tesoro, come sta andando il viaggio?” era la voce di Addison.
“Bene” risposi con uno strano di voce. Non sembrava nemmeno che fossi stata io a pronunciare quella parola.
“Bene?” chiese in maniera esitante.
“Sì” confermai. “Se escludi il fatto che l'aereo su cui ero non è riuscito a decollare, che ho noleggiato una macchina che si è rotta il secondo giorno e ho dovuto aspettare aiuto per sei ore sotto il sole a quaranta gradi, che mi hanno arrestato per possesso di droga perché il tizio che ha noleggiato la macchina prima di me l'ha lasciata nel cruscotto, che la mia fedina penale aveva precedenti per prostituzione, spaccio, furto, vendita di alcolici ai minori e tentato omicidio, che sono stata quasi travolta da un uragano, che dopo aver appena fatto il pieno la mia macchina è rimasta senza benzina, che mi è quasi esploso un telefono in mano quando ho provato a chiamarti e che si è bucata una ruota della macchina che ho appena cambiato a mani nude indossando vestiti firmati, tutto va alla grande.”
Ci furono parecchi momenti di silenzio.
“Ho menzionato l'uragano? Era enorme e molto, molto veloce...e gigantesco.”
“Torna immediatamente indietro.”
“Col cavolo. Tra circa un'ora sarò a Chicago. Spera solo che l'albergo in cui mi fermo non crolli o prenda fuoco, ok? Ci sentiamo.”
“Callie, sono seria. Torna immediatamente qui!”
“Se non ci parlassimo mai più, ti ho amata Addison. Con tutto il cuore.”
Riattaccai, sospirando mentre rimettevo in moto.
Quando posai la testa sul cuscino fui invasa da un senso di stanchezza infinito. Ero esausta. Non capivo cosa c'era in Maryland che non avrei dovuto trovare, ma qualsiasi cosa fosse, stavo quasi per perdere la pazienza.
E infatti successe.
Il giorno cinque. Quando, dopo sette ore e mezza di macchina mi ritrovai in mezzo ad un temporale quasi epico, e un'altra delle mie ruote si bucò.
“Oh, oh, questo è meraviglioso” uscii sbattendo la portiera. “Ho usato l'unica ruota di scorta che avevo, e adesso la mia ruota di scorta si è bucata” urlai in mezzo al nulla. “Tu” guardai verso l'alto, non sapendo bene dove avrei dovuto guardare in realtà. “Tu non sei la mia anima gemella” urlai con rabbia mentre il più grande temporale che avessi mai visto si abbatteva su di me ed io rimanevo lì in mezzo alla strada senza neanche un ombrello. “Tu sei la mia nemesi. Angelo custode un cavolo, stai cercando di uccidermi!”
L'unica risposta fu altra pioggia, più forte e più fitta.
“Sto cercando di parlare con te, d'accordo? Sto cercando di venire da te e scoprire chi sei, ma l'unica cosa che sto ottenendo sono calamità naturali, prima un uragano e adesso il fottuto diluvio universale!” continuai ad urlare contro il cielo, noncurante del fatto che nessuno stava ascoltando e intoccata dall'apparire come una pazza agli occhi di chiunque passasse da lì.
“Dimmi solo cosa vuoi che faccia, ok? Dimmi perché non vuoi che vada a casa tua. Dimmi perché, dimmi solo perché” le mie lacrime iniziarono a mischiarsi alla pioggia. “Perché mi hai lasciato da sola. Perché mi hai lasciato a perdermi in un mondo in cui tutti possono ritrovare la loro strada. Ho passato gli ultimi mesi a guardare Arizona che mi dimostrava che prima o poi tutti trovano la propria strada, tutti trovano la propria casa, ma non io” non stavo più urlando, parlavo a voce normale, anzi, quasi in un sussurro, in realtà. “Io sono persa, perché tu non sei qui al mio fianco, dove eri destinato ad essere. Voglio solo sapere perché” implorai, con voce mozzata. “Perché è successo a me di essere così disperatamente persa per la mia intera vita solo perché tu non eri con me.”
Mi coprii il viso con le mani.
Continuai a piangere, finché il freddo della pioggia mi costrinse a tornare in macchina e a chiamare l'officina più vicina.
Dopo che mi ebbe portato ad un'ora più avanti e cambiato la gomma erano passate altre tre ore ed era quasi sera. Ma io ricominciai a guidare per altre due ore e mezza circa, alla fine mi fermai quando non riuscivo quasi più a tenere gli occhi aperti.
Ero a un paio d'ore dal paese che stavo cercando, quindi la mattina dopo mi alzai di buon ora e ci arrivai con addirittura qualche minuto in anticipo rispetto al previsto.
“Niente ruote bucate, nessun tornado, niente agenti di polizia, nessuna esplosione e in cielo splende il sole” osservai parcheggiando davanti al cimitero. “O ti sei arreso o stai preparandoti al colpo finale, uh?”
Chiusi la macchina a chiave, dirigendomi verso i cancelli chiusi del cimitero.
“Un momento. Chiusi?” chiesi a me stessa. “Oh, no. Non farmi questo ti prego” sussurrai, prendendo una delle sbarre di metallo in una mano e dando una leggera spinta. La porta si aprì immediatamente. Tirai un sospiro di sollievo.
All'ingresso trovai un uomo anziano che stava annaffiando le siepi.
“Salve, mi scusi, lei è il custode del cimitero?”
“Sono io. Dica pure.”
“Stavo cercando la tomba di Timothy Robbins.”
Si grattò la testa. Sembrava parecchio in là con gli anni, dubitavo si ricordasse tutti i nomi incisi in quel posto, ma dopo qualche secondo la sua espressione si illuminò.
“Ma sì, mi sembra che ci sia un Robbins. Comunque se c'è lo trova proseguendo da quella parte, le tombe meno recenti degli ultimi due anni sono state risistemate di recente in ordine alfabetico.”
“La ringrazio” gli sorrisi, incamminandomi nella direzione che mi aveva appena indicato.
Era un cimitero piuttosto grande per la piccola città in cui mi trovavo.
“Ridley, Riggleman, Roach, Robbins, Robertson” tornai un passo indietro. “Robbins.”
Per qualche istante fissai il marmo senza riuscire a formare un pensiero coerente.
Appena il mio cervello riprese a funzionare mi inginocchiai davanti alla lapide.
“Oh, Dio.”
Allungai una mano, sfiorando le lettere scolpite sul marmo.
Scossi la testa.
Fissai gli occhi nell'immagine che era incastonata nella pietra accanto al nome e sentii le lacrime riempirmi gli occhi.
Mi stava facendo più male di quello che mi ero aspettata.
“Mi scusi” sentii una voce alle mie spalle ed alzai gli occhi. “Vi conoscevate?”
Mi alzai in piedi. Aveva un'aria familiare. Ci messi sì e no due secondi per realizzare chi fosse l'uomo davanti a me.
Non risposi, mi voltai di nuovo e lessi per la seconda volta l'effige.
Beloved daughter, sister and friend.
Il nome inciso sopra mi fece gelare il sangue per la seconda volta, era tutto troppo poco probabile per essere vero.
Arizona Robbins.
“Non per molto tempo” risposi. “Ma mi manca più di quello che avrei pensato.”
“Io sono...beh, ero, suo fratello” tese una mano verso di me, che la presi immediatamente.
“Timothy. Arizona mi ha parlato molto di te. Mi ha fatto perfino vedere una tua fotografia, una volta.”
Beh, più una specie di fumo colorato in mezzo all'aria con delle immagini al centro, ma comunque, sapevo chi era.
“Io sono Callie Torres.”
Corrugò la fronte.
“Callie, nel senso di Calliope? Credevo non ti avesse conosciuto quando era ancora viva. Aspetta, volevo dire...”
“Un momento. Tu lo sai? Che lei è un angelo, dico.”
Sembrò sollevato dal fatto che fossi già a conoscenza di quella notizia.
“Viene a trovarci, di tanto in tanto. Molto di rado, però. Dice che ha qualcuno di cui deve prendersi cura” rimase molto sul vago. “Allora, vuoi raccontarmi perché sei qui?”
“Io stavo” mi voltai di nuovo verso la lapide. “Stavo cercando te, in realtà. Arizona mi ha detto che eri la mia anima gemella, ma che eri morto in Iraq.”
“No, sono tornato dall'Iraq” si indicò con un gesto dal petto in giù “come è ovvio” aggiunse con una risata. “È stato per merito suo, in realtà. Stavo per essere ucciso, ma lei mi ha salvato la vita. È utile, qualche volta, avere un angelo come sorella.”
“Lei è” mi schiarii la voce, cercando di suonare normale. “È morta quattro anni fa” osservai, senza traccia di domanda. Potevo benissimo leggere l'anno di morte inciso sul marmo. “Il periodo subito prima che iniziassi a frequentare George” sussurrai a me stessa.
“Oggi è l'anniversario della sua morte.”
Io deglutii.
“Non voleva fermarmi. Voleva che arrivassi qui al momento giusto per incontrare te, voleva che ti conoscessi, almeno di sfuggita” gli dissi, capendo finalmente il motivo delle mie più che incredibili disavventure.
“Vorrei che venissi con me. Ci sono un paio di persone che avrebbero voluto conoscerti più di qualsiasi altra cosa al mondo.”
Annuii, seguendolo.

Ad aprire la porta fu una donna sulla sessantina. Aveva gli occhi arrossati, non era difficile indovinare che aveva pianto.
“Tim, che ci fai qui? Non ti aspettavamo prima di mezzogiorno.”
“Mamma, c'è una persona che vorrei che tu e papà conosceste.”
Mi si strinse il cuore. Erano i suoi genitori.
“Signora Robbins, so che non è un buon momento. Ero in città e Tim ha pensato che sarei potuta passare a presentarmi. Sono Callie Torres, un'amica di Arizona.”
Vidi la sua espressione cambiare, la sua bocca si dischiuse appena in un'espressione di perplessità. “Callie?” guardò suo figlio, che annuì in conferma. “Entrate” ci disse con un sorriso. “Daniel è in soggiorno. Perché non lo raggiungiamo?” propose, facendo strada.
Dopo che ebbe detto a suo marito chi ero, si sedettero sul divano facendo accomodare noi due in quello davanti.
“Cosa posso portarti da bere?” mi chiese gentilmente la signora Robbins.
Io trattenni a stento l'urgenza di rispondere con il nome di qualche alcolico molto forte e forzai un sorriso.
“Sono a posto così, la ringrazio.”
“Arizona di solito rispondeva doppia vodka con ghiaccio” ricordò Tim con un sorriso.
Sentii una morsa allo stomaco. Esattamente quello che prendevo io di solito.
“Da quello che ho capito, vi aveva parlato di me” iniziai con incertezza.
“Infatti” confermò Daniel. “Parla molto bene di te.”
“Parlava” lo corresse Barbara, appoggiando una mano sul suo braccio. “Parlava” ripeté. Poi si voltò verso di me. “È ancora difficile abituarsi, anche dopo quattro anni.”
“Soprattutto visto che l'ultima volta che l'abbiamo vista erano circa cinque giorni fa” intervenne Tim.
Barbara e Daniel si scambiarono un'occhiata di incredulità.
“E questo spiega l'impegno improrogabile che aveva quella sera” sussurrai a me stessa.
“L'hai” Daniel attirò la mia attenzione. “L'hai incontrata dopo, non è vero? Dopo che era già diventata...”
“Un angelo” terminai per lui, annuendo. “Già.”
Per diversi momenti rimasi in silenzio mentre il signor Robbins mi osservava.
“Sei esattamente come ti ha descritto” concluse.
Io mi schiarii la voce, raccogliendo il coraggio.
“Signori Robbins, so che probabilmente è una domanda molto delicata e poco appropriata, ma mi domandavo se potreste dirmi qualcosa sul modo in cui è morta Arizona.”
“Ha avuto un incidente automobilistico” rispose brevemente il signor Robbins.
“Stava andando a lavoro, aveva ricevuto una chiamata d'urgenza” continuò Barbara. “Non doveva nemmeno essere di turno quel giorno, ma uno dei suoi colleghi si era sentito male all'ultimo momento e così avevano chiamato lei.”
“Ma non sarebbe dovuta morire, giusto?” domandai. “Non era quello il suo destino.”
“No, non lo era” concordò Tim. “Ma è impossibile sapere cosa è andato storto. Ci sono così tanti dettagli che avrebbero potuto cambiare tutta la storia, che fare un'ipotesi è impensabile. Tutto quello che sappiamo è che un paio di settimane dopo era diventata un angelo.”
“Com'era lei? Intendo, nella vita di tutti i giorni. Com'era?”
“Era” Tim sembrò pensarci a lungo. Alla fine rise, scuotendo la testa. “Allegra.”
“Sembra sempre felice infatti. Sembra il tipo di persona che dipingerebbe le pareti di casa sua come il cesto delle uova di Pasqua.”
“Vuoi vedere camera sua? O qualche foto?” chiese sua madre.
“La ringrazio, ma dovrei probabilmente andare. Voi dovrete fare pranzo ed io avevo in programma di ripartire.”
“Perché non rimani a pranzo con noi?” offrì cordialmente.
“Non vorrei intromettermi.”
“Non essere sciocca, saremmo più che felici di averti con noi.”
Sarebbe stata un'idea più saggia rifiutare, ma come potevo guardare dentro gli occhi speranzosi della donna davanti a me e declinare?
E, allo stesso tempo, come potevo illuderla?
Non sarei mai stata quello che lei voleva che fossi. Non sarei mai stata insieme a sua figlia. Non sarei mai stata parte della loro famiglia.
“Vorrei potermi fermare, davvero. Lo vorrei. Ma è meglio che riparta.”
Mi rivolse un sorriso triste.
“Posso ripassare, però. A salutarvi, intendo. Prima di lasciare la città” le promisi.
Tim mi accompagnò alla porta, io entrai in macchina chiudendo la portiera e scuotendo una mano nella sua direzione per salutarlo. Quando rientrò io chiusi gli occhi e posai le mani sul volante.
“Perché non hai detto niente?”
“Pensavo che sarebbe stato più facile per te non aver mai saputo.”
Scossi la testa.
“Perché?”
“Principalmente” iniziò sospirando “tutta la storia dell'essere attratta dalle donne. Non è facile farci i conti. Non volevo causarti dolore, quindi ho mentito.”
“Quindi eri l'unica donna di cui mi sarei mai innamorata?”
“Già. Ma non l'unica donna con cui avresti avuto una relazione. Ma io non sarei mai arrivata, quindi la tua vita non ti ha preparato a, ecco, diciamo...me.”
Aprii gli occhi, voltando la testa di lato verso il sedile del passeggero molto lentamente.
“Eri davvero la mia anima gemella, non è così?”
Lei annuì.
“Lo ero. Lo sono” si corresse. “Tuttavia credo sia giusto avvertirti che l'uragano non era per rallentarti, stavo davvero cercando di fermarti.”
Io risi. “Già, a pensarci bene avrei dovuto aspettarmelo. Capisco perché volevi tenermelo nascosto, davvero, ma perché? Perché è successo a noi?”
“Succede, Calliope. Non siamo il primo caso, di certo non saremo l'ultimo.”
“Tu lavori davvero come Cupido o anche quella era una bugia?”
Arricciò il naso e scosse appena la testa.
“Io sono il tuo angelo custode. Mi sono state assegnate la Bailey, Teddy ed Addison e le coppie che abbiamo aggiustato io e te insieme, solo come copertura. Beh, quelle che abbiamo visto insieme erano più che altro perché ti fosse data la possibilità di renderti conto che era una donna con cui eri destinata a passare il resto della tua vita.”
“Sei stata con me per, quanto, quattro anni?”
“Sì. E qualche volta non è stato facile. Ma la maggior parte dei giorni sei un vero spasso.”
Mio malgrado, risi della sua battuta.
“Quindi perché sono riuscita a vederti solo qualche mese fa?”
“Beh, non dovevi renderti conto che io sono il tuo angelo custode, in realtà. Ma quando hai espresso quel desiderio, la sera di capodanno, tu non hai chiesto semplicemente la felicità, o l'amore. Tu hai chiesto il vero amore. Qualcosa che non poteva esserti dato. Così mi hanno mandato perché esaudissi almeno il tuo desiderio che le tue migliori amiche potessero trovarlo.”
“E questo come lo hai saputo? Perché ricordo di averlo pensato, ma non di averlo detto ad alta voce.”
“Sono dentro di te, Calliope. La maggior parte delle volte, almeno. Esisto dentro la tua testa, dentro la tua anima. Sono una parte di te. Riesci a capire in che senso?”
Ci riflettei qualche istante. Alla fine annuii.
“Non andare via, ok? Dammi un arco di tempo, anche solo, tipo, dieci minuti al giorno, in cui posso vederti. Non andare.”
Mi guardò negli occhi con espressione mortalmente seria. Eravamo tutte due sull'orlo delle lacrime, ma non ci azzardavamo a piangere.
“Vorrei che fosse possibile” mormorò.
“No” chiusi gli occhi. “No” ripetei a voce più alta. “Rimani con me e basta.”
“Non posso. Non sono io che faccio le regole.”
No. Ma io avevo bisogno di lei. Così come Tim, così come i suoi genitori.
“Dio, i tuoi genitori. Mi trattano come se fossimo state insieme per anni. Vieni almeno a salutarli con me stasera. Lascia che ci vedano insieme solo per stavolta. Avresti dovuto vedere gli occhi di tua madre quando le ho detto il mio nome, Arizona. Era come se avesse appena avuto qualcosa a cui aveva da tempo rinunciato a sperare.”
Incontrai di nuovo il suo sguardo. E nei suoi occhi blu lessi per la prima volta quel pensiero che avevo paura anche solo ad ammettere.
Lo sentii forte e chiaro urlato dal mio cuore e recepito dalla mia testa.
Mi sarei potuta innamorare di lei.

Quando mi presentai davanti a quella stessa porta, neanche un'ora più tardi, avevo le mani che mi tremavano. Bussai mentre inspiravo forzatamente.
Sentii una mano scivolare dentro la mia.
“Andrà tutto bene.”
“Facile dirlo per te” replicai, voltandomi per sentirmi rassicurare da quel suo sorriso dolce.
Fu Tim ad aprire la porta.
“Sei arriv- Arizona?”
“Ciao Tim.”
Il suo sguardo cadde sulle dita intrecciate tra i nostri corpi. Sorrise come un idiota alla realizzazione che ci stavamo tenendo per mano.
“Mamma, vieni un attimo qui” urlò verso il soggiorno. “Mi offrirei di fare una fotografia, ma non so se Arizona verrebbe immortalata. Con il fatto di essere un angelo e tutto.”
Lei lo colpì su una spalla, entrando dentro la casa.
La signora Robbins, con le lacrime agli occhi, provò però davvero a farci una foto, quando ci vide tenerci per mano, e venne fuori che Arizona si vedeva perfettamente. Tim si offrì di mandarmela per email.
Rimanemmo a parlare con loro a lungo. Barbara, così aveva insistito che la chiamassi la signora Robbins, mi aveva raccontato alcune storie dell'infanzia di Arizona. Era davvero imbarazzata, ma si vendicò raccontando nel dettaglio ciò che avevo dovuto passare per arrivare fin lì.
Era come se fossi stata lì tutto il tempo, se fossi potuta rimanere per sempre. Era come se potessimo vederci tutti i giorni e parlare tutti i giorni.
E invece non potevo.
Fu il Colonnello ad accompagnarci alla porta quando dissi loro che era davvero ora per me di andare. Aveva detto a malapena due frasi. Più che altro mi aveva guardato con espressione indecifrabile.
Aprì la porta per noi e poi guardò Arizona dritta negli occhi.
“Callie è un brav'uomo nella tempesta. Posso capire perché ti saresti innamorata di lei.”
Arizona lo guardò negli occhi a lungo. Infine annuì soltanto. Lui si voltò nella mia direzione, io gli strinsi prontamente la mano che mi stava offrendo.
“Se mai dovesse, ecco, aver voglia di passare due minuti di tempo in cui non sa cosa fare, il numero di casa mia lo trova nell'elenco di Seattle sotto il nome di Calliope Torres. Mi farebbe piacere sentire lei e Barbara, se mai ne avrete voglia.”
Lui rafforzò la stretta sulla mia mano, tirando per farmi avvicinare e mi abbracciò velocemente, ringraziandomi in un sussurro.
Salimmo in macchina in silenzio.
Posai le mani sul volante, ma non accesi il motore.
“Mio padre ti adora. Quello che ha detto sulla tempesta, quello è più o meno il più alto complimento nella sua scala. Non ha mai nemmeno imparato il nome di una delle ragazze di Tim, né delle mie, perché sapeva che non si sarebbero fermate a lungo.”
“Già, beh, io sono la tua anima gemella però” mormorai, accendendo il motore ed iniziando a guidare.
I primi minuti passarono in silenzio finché fummo fuori dalla città.
“Ha detto 'ti saresti', sai?” stavo pensando ad alta voce. “Ha detto che ti saresti innamorata di me, ma onestamente io non ne sono così sicura. Voglio dire, sei stata al mio fianco per quattro anni. Se dovevi innamorarti di me ormai sarebbe successo, no?”
Gettai un'occhiata verso di lei, quando non rispose. E la vidi che mi guardava in silenzio, con quei suoi occhi tristi e il sorriso dispiaciuto.
“Mi sono innamorata di te il secondo esatto in cui ti ho vista, Calliope.”
La voce le tremava in un modo in cui non l'avevo mai sentita.
Continuai a guidare in silenzio.
“Vuoi che vada via?” chiese in un sussurro.
“No” risposi immediatamente. “No, rimani. Rimani per tutto il tempo che puoi.”
Sentii il peso di una mano che si appoggiava timidamente sul mio ginocchio.
“Sai, posso sentirti. Quando mi tocchi.”
“Lo so.”
“Perché non puoi rimanere e basta?”
“Non mi è consentito avere una seconda occasione. Sono morta. I morti non sono fatti per andarsene in giro nel mondo dei vivi.”
“Ma non è giusto. Ho aspettato tutta la mia vita, tutto questo tempo...”
“Ero persa anche io” intervenne, bloccandomi. “Sai?”
“Stavi origliando mentre urlavo sotto la pioggia?”
“Ero persa e non avevo la minima idea di quello che stavo facendo con la mia vita” continuò ignorando la mia domanda. “Ma ho trovato la mia strada.”
“Quando?” le chiesi scuotendo la testa. “Come?” “Quando ho visto i tuoi occhi distrutti dalla vita, sapevo che quello era il posto in cui appartenevo, proprio lì al tuo fianco, a cercare di far andare via le lacrime dai tuoi occhi.”
“Non è giusto. Noi andiamo nel passato della gente tutto il tempo. Abbiamo aggiustato delle persone, perché adesso non possiamo aggiustare noi?”
“Non si gioca con la morte, Calliope. Ricordi, non potevamo andare a incasinare il passato di Emily.”
“Ma tu...Tu mi manchi e sei qui. Tu mi manchi quando posso sentire la tua mano” afferrai la mano che aveva sul mio ginocchio, intrecciando le nostre dita “proprio in questo modo contro la mia, ancora mi manchi. Non voglio che tu vada via.”
“Ma devo farlo. Non capisci che non dipende da me?”
“Quindi continuerai a starmi affianco? A guardarmi vivere e tenermi fuori dai guai? Continuerai a mandarmi gente finché non mi piacerà uno di loro abbastanza da decidere di smettere di farti soffrire e sistemarmi?”
“Voglio solo il meglio per te.”
Tu sei il meglio per me. O, lo saresti stata, se non ti avessero portato via.”
Non rispose, ma mi strinse la mano più forte.
“Se davvero mi ami, Arizona, come puoi stare a guardare mentre amo qualcuno che non sei tu? Ogni giorno della tua vita, dovrai rimanere al mio fianco e convivere con il fatto che io e te eravamo destinate a stare insieme e ciò che era nostro ci è stato strappato via.”
“Come ho detto, voglio il meglio per te, Calliope. E se non posso avere il massimo, la seconda miglior soluzione dovrà andare bene lo stesso.”
“Quindi questo è quanto? Ad un certo punto chiuderò gli occhi e tu sparirai per sempre e non ti vedrò mai più? E basta? Non proverai nemmeno a combattere? Nemmeno ci proverai, nemmeno per noi?”
“Credi che non abbia provato? Ma non me lo lasciano fare, non mi lasciano stare con te. Non capisci che questo è il mio più grande incubo che diventa realtà? Vederti stare insieme a qualcuno che non sono io, vederti dimenticarti di me giorno dopo giorno, vedere che tutto sommato riesci a cavartela anche senza di me.” Abbassò la voce a livello impercettibile quando arrivò ad elencare l'ultima delle sua paure. “O vederti avere il cuore spezzato a causa mia.”
“Ma è successo, ok? Tutto questo, è già successo, sta succedendo, succederà e poi succederà di nuovo, ancora e ancora e ancora. E loro mi devono qualcosa, ok? Hanno rovinato le nostre vite e si sono presi qualcosa di mio che non spettava a loro avere.”
“E cosa sarebbe?”
“Tu. La mia perfezione. Non eri loro da prendere e non eri loro da tenere, ma ti hanno portata via da me ed io ti rivoglio indietro.”
“Calliope, non si può tornare indietro.”
“Ma...” la guardai per un breve istante. “Ma io sono innamorata di te.”
Quello la colse alla sprovvista.
“Tutte le persone che abbiamo aiutato, in un modo o nell'altro, loro potevano starsi accanto, giusto?” chiesi sospirando. “Io voglio quello per noi due. Voglio che tu mi sia accanto.”
“E lo sono. Lo sarò sempre. Anche quando non mi vedrai, io sarò proprio lì a prendermi sempre cura di te, ok?”
Scossi la testa.
“Ed io come farò a prendermi cura di te?”
Non aveva una risposta a quella domanda.

Avevo preso una singola, visto che, in ogni caso, il ragazzo alla reception dell'albergo non era in grado di vederla. Aprii la porta, precedendola all'interno e sentendola richiudersi poi la porta alle spalle.
“Allora, lato sinistro o lato destro?” scherzai guardando il letto ad una sola piazza.
Mi voltai con il sorriso sulle labbra, solo per trovarmi davanti ad una stanza completamente vuota. Smisi all'istante di sorridere e feci scivolare velocemente lo sguardo lungo tutta la stanza.
“Non smetterò mai di cercarti ancora.”

Arrivai in città di sera e, dopo aver restituito la macchina, chiesi al tassista di portarmi a casa di Addison. Sapevo che sarebbero state tutte e tre lì ad aspettarmi.
Quando entrai mi assalirono con un milione di domande alla volta. Io feci loro segno di tacere mentre posavo il giacchetto e gli facevo segno di sedersi comode.
“Una alla volta.”
“Com'era il ragazzo?” domandò Addison.
“Non c'era nessun ragazzo” scossi la testa.
Sembrarono tutte e tre molto perplesse.
“No, nel senso” intervenne Teddy “sappiamo che è morto e tutto, ma hai sentito qualche sorta di connessione davanti alla tomba, o...” fece un cenno con la mano invitandomi a continuare.
“Leggendo il nome sulla tomba, il mio primo pensiero è stato che mi si stava spezzando il cuore senza motivo. Sapevo che il mio vero amore era morto da un sacco di tempo. Ma posso onestamente dire che non mi stavo aspettando di vedere quello che ho visto, né di incontrare chi ho incontrato.”
“Che hai visto?” chiese Bailey.
“Tim” risposi semplicemente, vedendo i loro sguardi perplessi. “Timothy Robbins è ancora vivo e vegeto grazie all'intervento del mio angelo custode.”
“Fantastico” esultò Addison. “La tua anima gemella è ancora viva. Perfetto.”
“No, Addie. Il mio angelo custode è la mia anima gemella. Ed è anche la persona il cui nome era scritto su quella lapide. Tim aveva una sorella, Arizona Robbins.”
Le osservai mentre finalmente i pezzi del puzzle si sistemavano.
“Le ho parlato, mi ha detto che stava cercando di proteggermi e che non la rivedrò mai più. Eppure lei è proprio qui e mi sta ascoltando” mi guardai brevemente attorno. “E se la vedessi ora come ora proverei a colpirla” aggiunsi. “E mi manca” sussurrai.
E mi mancava sul serio.
“Che farai adesso?” chiese Teddy, la prima a riprendersi dallo stupore.
“Non lo so. Probabilmente niente. Eccetto ricordarle” alzai la voce “che so che è proprio qui vicino a me e che non smetterò di parlare con lei finché non si deciderà a combattere perché ci venga data una chance.”
“È invisibile, non sorda” mi ricordò Addison.
Quando arrivai a casa quella sera, ero infinitamente stanca. Posai la borsa, mi tolsi il giacchetto ed entrai dentro la camera da letto, gettandomi sul letto ancora vestita.
“Dammi solo un segno che ci sei ancora, ok?” sussurrai alla stanza vuota ed immersa nell'oscurità.
Mi coprii il viso con entrambe le mani.
“Ti prego, ti prego. Qualsiasi cosa. Fammi solo sapere che non mi sono persa di nuovo.”
Non successe niente di niente.
Mi tolsi le mani dagli occhi. Fui colta di sprovvista dalla luce. Mi tirai a sedere, voltandomi, confusa.
La lampada sul mio comodino era improvvisamente accesa.
Mi cambiai, indossando un pigiama e mi infilai sotto le coperte, sfiorando il cuscino vuoto dall'altro lato del letto.
“Buonanotte, Arizona.”

Ormai la maggior parte delle sere andava a finire in quel modo. Con me che piangevo in silenzio sdraiata dentro il letto e me la immaginavo lì al mio fianco.
Dopo sei mesi ormai le cose sarebbero dovute iniziare ad andare meglio.
Invece era sempre peggio.
Ero sempre più sola, sempre più inutile, sempre più depressa.
Sempre più persa.
Non riuscivo più a pensare a niente che non fosse lei.
“Sono rotta” ammisi in un sussurro. “Mi hai spezzato.”
Chiusi gli occhi, sentendo le lacrime ricominciare a cadere.
“Vi prego, ridatemela indietro. Cambiate il passato, qualsiasi cosa, solo ridatemela indietro perché non posso vivere senza di lei. Me lo dovete. Sono una brava persona, salvo vite tutti i giorni. E tutto quello che ho mai voluto dalla vita è lei e voi ve la siete portata via.”
“Sssh” sentii delle labbra premute contro la mia fronte ed una mano che mi accarezzava i capelli nel tentativo di calmarmi. “Sono proprio qui.”

Mi svegliai di soprassalto.
Avevo il respiro irregolare e affannato.
Stavo sudando freddo.
Non riuscivo ad aggiustare la vista all'oscurità.
Mi passai una mano tra i capelli cercando di distinguere la realtà in cui mi trovavo.
Ero spaesata in un modo che non avrei mai creduto possibile.
Tutto tornò improvvisamente alla memoria quando sentii il tocco gentile di una mano sulla mia spalla.
“Qualcosa non va?”
“Solo un sogno.”
“Un incubo o un bel sogno?”
“Non lo so. Solo un sogno, penso” mi voltai per guardarla attraverso l'oscurità. “No, era decisamente un incubo.”
“Ti senti bene? Sembri molto scossa” si tirò a sua volta a sedere, abbracciandomi.
“Tutto bene” risposi, sdraiandomi di nuovo e trascinandola con me. “Ho solo fatto il più strano dei sogni.”
“Eri di nuovo sposata ad Owen Hunt? Perché potrei iniziare a cercare dei mattoni, la prossima volta che lo vedo.”
“No. Niente del genere. Ma tu eri...Eri morta. E poi eri diventata il mio angelo custode, perché eri la mia anima gemella.”
“Oh. Beh, sempre meglio di vederti insieme ad Hunt.”
La ignorai, continuando il mio discorso senza senso.
“E, voglio dire, sei sempre stata il mio angelo, sei bella e dolce più di qualsiasi altra cosa al mondo, così come ho sempre saputo che sei la mia anima gemella, dal primo momento in cui ti ho guardata negli occhi. Ma lì eri morta ed era terribile.”
Appoggiò la testa sulla mia spalla, continuando ad ascoltare mentre veniva però trascinata nuovamente nel mondo dei sogni.
“Era solo un terribile, terribile sogno, tesoro. Torna a dormire, ok?” alzò la testa per baciarmi velocemente.
Fissai il soffitto per diversi momenti.
“Arizona?”
“Mh?”
“Se avessero esaudito il mio desiderio, se fossero tornati nel passato e avessero cambiato le cose in modo che tu non fossi mai morta, se questa fosse in realtà la nostra seconda occasione, noi non lo sapremmo mai.”
“Suppongo di no. Ma, pensaci bene. È improbabile che esistano davvero gli angeli.”
Ci pensai ancora qualche momento.
“Ma sì. Hai ragione. Era solo un sogno.”
Le accarezzai lentamente la schiena, baciandola sulla testa.
“E poi, se fosse la nostra seconda occasione, in qualche modo ce ne accorgeremmo, giusto?”






Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** La nostra prima offerta di lavoro ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia, siete fantastiche!<3

Avvertimenti: AU




Uploaded with ImageShack.us



La nostra prima offerta di lavoro


La fine del liceo è un po' la fine di un'era.
Arrivi al giorno del diploma ed è fatta. Sei cresciuto. Sei nel mondo degli adulti, adesso, fuori dal tuo territorio.
Ed è una cosa così meravigliosamente terrificante che all'inizio sei spiazzato. Non capisci subito bene come devi comportarti o cosa devi fare.
Ti sembra di non poter tornare indietro mai più. Ma la verità è che, se a tutti fosse data la possibilità di scegliere se rivivere il liceo, la maggior parte delle persone direbbero di no, riderebbero nervosamente e cambierebbero discorso.
Il liceo, per la maggior parte, è terribile. Atroce, perfino.
Per me? Per me era stato fantastico.
Io ero nel gruppo dei ragazzi popolari ed ero al top. Ero in cima alla piramide della catena alimentare. Andava tutto per il verso giusto.
Io sentivo la mancanza del liceo tutti i giorni.
Poi il liceo era finito, avevo perso di vista i miei compagni più sfigati che erano andati a studiare non-ho-idea-di-cosa nell'università di non-so-dove, mentre io ed i miei amici più intimi ci eravamo trovati un lavoro nella stessa compagnia, ci eravamo trasferiti in città, ed avevamo vissuto le nostre vite alla grande.
Fino ai ventotto anni, esattamente dieci anni dopo il liceo.
Quando la crisi della borsa mondiale si abbatté anche sulle agenzie di vendita immobiliare. E noi ci trovammo tutti sul filo del rasoio.
“Godiamoci la vita finché possiamo. Potremmo non avere più un lavoro, domani” era stata la reazione di Alex ai primi licenziamenti degli stagisti.
“Mi sembra il minimo. Che si aspettavano? Il loro lavoro è scadente e nemmeno vengono pagati per stare qui. Dovevano vederla arrivare” fu invece il commento di Mark.
“Al diavolo. Io dico di rubare più risme di carta che possiamo prima che chiudano tutta la baracca e tutti finiscano con le gambe all'aria.”
“Yang, mi piace il modo in cui pensi.”
“Grazie, Sloan.”
“Secondo me stiamo esagerando. Le cose non possono essersi già messe così tanto male in così poco tempo. Giusto?” domandò Meredith.
“Tutto è possibile” sussurrai. “Un momento. Ragazzi, quella è April che piange?”
Si diresse a passo di carica verso l'uscita, ma arrivata nella nostra zona Alex la fermò mettendosi bruscamente davanti a lei.
“Che ti è successo?”
“Mi hanno licenziata. Hanno trovato un nuovo direttore amministrativo mandato dalla sede principale.”
Non ci dette altre spiegazioni. Avevo conosciuto April solo per qualche anno e mai in maniera approfondita, ma sapevo che lavorava in maniera impeccabile.
“Hanno mandato via la ragazza la cui faccia ha riempito la parete 'impiegati dell'anno' a soli ventisette anni? Dannazione, il mondo va a rotoli” osservò Mark.
“Se licenziano lei, nessuno di noi è al sicuro.”
Ci guardammo negli occhi brevemente prima di tornare a lavoro.

Adoravo la mia vita.
Soprattutto perché ogni sera era una ragazza diversa e ogni sera non mi importava di come andava a finire o di cosa succedeva la mattina dopo.
Mi piaceva quando lasciavano che me ne andassi senza insistere per un numero di telefono che avrei comunque falsificato. Era semplice, senza complicazioni.
Eccetto quando facevo tardi a lavoro.
In quei giorni odiavo la mia vita.
“Non voglio più ripetermi, mi sono spiegata?”
Ma quando era Mark ad arrivare tardi a lavoro, adoravo la mia vita più che mai.
“Sissignora.”
“Bene. Torna a lavorare, adesso.”
Addison Montgomery era un capo esigente. Era precisa, puntuale, pignola. Ed era dannatamente esigente. Ma era così che quella compagnia era diventata grande. Grazie al fatto che lei era così brava nel fare il suo lavoro.
“Avete sentito della riunione di oggi pomeriggio?” chiese in un sussurro Alex.
“Sì. Ho sentito che arriverà il nuovo direttore amministrativo. Il nuovo braccio destro di Satana sarà qui alle tre in punto” rispose Meredith, facendo un cenno della testa in direzione di una signorina Montgomery piuttosto impegnata in una conversazione telefonica.
“Non ci crederete mai” ci disse la Yang avvicinandosi al tavolo a cui stavamo parlando. “Ho sentito Addison fare il nome del nuovo amministratore. E vi ripeto che non ci crederete mai” non sembrava particolarmente deliziata dalle notizie che era venuta a riferirci nella stanzetta adibita alla pausa degli impiegati.
“Sputa il rospo, ho bisogno di buone notizie” pregò Mark.
“Vi ricordate Callie Torres? Vi do un indizio, abbiamo fatto il liceo insieme.”
“Perfetto” esclamò Alex. “Siamo vecchi compagni. Non ci licenzierà di sicuro. Finalmente una buona notizia.”
“Tu non hai la più pallida idea di chi sia Callie Torres, non è vero?” gli chiesi, mentre Meredith si colpiva la fronte con il palmo di una mano.
“Eravamo tanti al liceo” si giustificò. “Dovrei ricordarmi di tutti?”
“No, ma di lei sì” continuai. “Stava sempre seduta in fondo alla classe.”
Ci pensò un istante. “No, non suona nessun campanello.”
“Le davamo soprannomi orribili e le buttavamo i libri per terra tutte le mattine.”
“Oh, adesso mi ricordo. Dici Dexter, la ragazza che assomigliava a quel bambino nerd del cartone animato.”
“Anche conosciuta come 'la ragazza mangia capelli' come la chiamava Mark” terminò Meredith al posto mio.
“Siamo tutti quanti fottuti.”
“Indubbiamente.”
“Ho un'idea.”
“Zitto Mark, le tue idee ci mettono sempre nei casini.”
“Beh, stavolta casino più grande di questo è parecchio difficile da immaginare. Però ho un piano. Vi ricordate, Torres era una ragazza timida, introversa, che aveva poca considerazione dai ragazzi. Sono sicurissimo che basterà tirar fuori un po' di charme alla Sloan e cadrà ai miei piedi. E poi di solito le ragazze timide del liceo rimangono complessate a vita e farebbero di tutto per compiacere i loro vecchi compagni. Vi ricordate quel tizio, Marcus, che è venuto a comprare una casa il mese scorso? Ha fatto impazzire la Bailey a tal punto che Addison è stata costretta a un richiamo verbale, che poi, con la crisi, le è costato il posto. Ve lo garantisco ragazzi, la Torres è come la Bailey. Datemi cinque minuti con lei e sarà ai miei piedi. Appena riuscirò a smettere di ridere per il ridicolo maglione di lana a collo alto che sono sicuro starà indossando.”
Le sue parole riuscirono a farci rilassare, Alex rise perfino, dandogli il cinque.
“Andrà tutto bene” concluse, facendoci un occhiolino.
Uscimmo tutti e cinque dalla stanza con il sorriso sulle labbra e tornammo al nostro lavoro.
A dieci alle tre eravamo a qualche metro dall'ascensore, pronti per l'entrata in scena della nuova amministratrice.
Ci eravamo tranquillizzati. In fondo, avere paura di una ragazzina che si sedeva sempre all'ultimo banco proprio non era da noi.
Allo scoccare delle tre in punto le porte dell'ascensore si aprirono.
Ho bisogno di un momento di pausa per descrivere quello che vidi, perché fu come se il tempo si fosse fermato. Quello che vidi furono due tacchi a spillo, una valigetta e degli occhiali da sole firmati. Quello che vidi fu un tailleur nero di marca e delle gambe che sembravano non finire mai, una gonna sopra il ginocchio e una camicia bianca. Capelli neri e pelle ambrata, una bellezza degna di ogni dea. Entrò nella stanza e tutti si fermarono per guardarla. Forse perché il loro lavoro dipendeva da lei, più probabilmente perché era mozzafiato.
Dopo un paio di secondi in cui tutti rimanemmo attoniti, Mark fece la sua mossa, avvicinandosi alla donna.
“Buongiorno, non so se...”
“Un cappuccino con panna” rispose continuando a camminare.
“Mi scusi?”
Lei rallentò, voltandosi appena e abbassando di un centimetro gli occhiali da sole per guardarlo negli occhi.
“Lei non è il ragazzo del caffè?” domandò. Poi si risistemò gli occhiali e riprese a camminare velocemente verso l'ufficio di Addison, che le fece cenno di entrare prima di chiudersi la porta alle spalle.
“Santo Dio, quella era Callie Torres?” chiese Cristina.
“Ragazzo del caffè” ripeté Alex ridacchiando.
“Magari ha cambiato il suo aspetto, ma sotto sotto è ancora quella ragazzina spaventata in cerca d'approvazione. Dobbiamo insistere su questa strada” osservò Meredith. “Riprova di nuovo appena la vedi” ordinò a Mark, mentre tornavamo a lavoro.
Non riuscii a pensare ad altro che a lei per le due ore successive. Una metamorfosi impressionante, all'esterno.
Ma Meredith aveva ragione.
Le persone cambiano molto più difficilmente quando si tratta del loro cuore. Ed io sapevo bene quanto esattamente il cuore di quella donna era stato grande quando lei era una ragazza.
Era il motivo principale per cui continuavo a tormentarla.

Era uno dei primi giorni di scuola del secondo anno del liceo.
Già c'erano stati dei commenti poco carini sul conto della ragazza seduta nella seconda fila di sulla destra, ma nessuno particolarmente pesante. Non era eccessivamente disprezzata, ecco. Più che altro, era invisibile.
Ma io l'avevo vista.
Fu quello che successe quel pomeriggio che cambiò tutto in modo imprevedibile.
Una donna anziana salì sull'autobus, avrà avuto almeno un'ottantina di anni. Lei si era immediatamente alzata per cederle il proprio posto, nonostante sapesse benissimo che tutti a scuola l'avrebbero presa in giro per quello. Lei si era alzata in piedi comunque. Quello era il tipo di persona che era.
Quel gesto era così semplice tanto quanto straordinario.
Fu da quel momento in cui resi uno degli scopi principali della mia vita dare il tormento a quella ragazza, che per quanto impopolare e invisibile, per quanto palesemente si trovasse poco bella e si vestisse in modo strano, riusciva ad essere una persona migliore di me. Di quanto io avrei mai potuto essere.
Lei era invisibile. Finché io l'avevo vista.
Ed avevo cercato di fare in modo che anche tutti gli altri vedessero quanto di sbagliato c'era dentro di lei. O meglio, quanto di sbagliato mi ero inventata che ci fosse in lei.
Era invisibile.
Ma io l'avevo vista.


“La riunione è tra due minuti.”
“Lo so” annuii. “Andiamo.”
Ci sedemmo insieme agli altri ad un tavolo parecchio lungo nella sala conferenze. C'eravamo tutti, gli agenti immobiliari che lavoravano sul campo, chi lavorava alle pratiche, gli unici due tecnici rimasti dopo i tagli, il nostro capo, la nuova direttrice amministrativa ed un altro tizio dall'aria vagamente familiare.
“Sapete perché siete qui” iniziò Addison. “Siamo in crisi, gente. La nuova direttrice amministrativa è qui per cercare di risanare il bilancio dell'azienda. Insieme a noi, solo per oggi, c'è anche un rappresentante degli azionisti proprietari, Derek Shepherd, che ha preso alcune decisioni molto importanti e molto difficili insieme a noi due.”
Derek Shepherd. No. Non poteva essere.
“Ma dai, il ragazzo con i brufoli e la pettinatura afro che suonava il sassofono?” sentii Meredith chiedere in un sussurro a Cristina.
“Siamo stra super fottuti” rispose.
“La riunione di oggi sarà molto breve, solo qualche parola dai miei colleghi e abbiamo finito.”
La Torres si alzò in piedi mentre Addison si sedeva.
“Un periodo di crisi non è facile da gestire. Quando c'è un passivo, i primi tagli che vengono fatti sono quelli che hanno effetti immediati sul bilancio, quelli ai dipendenti. La compagnia ringrazia tutti ed ognuno di voi per la preziosa collaborazione che avete offerto in questi anni, ci teniamo a farvi sapere che non saremmo arrivati a misure tanto estreme se la situazione non fosse stata così problematica. Ci dispiace per quelli di voi che perderanno il proprio lavoro e vogliamo che sappiate che queste scelte non sono state fatte con leggerezza.”
Il suo sguardo vagò per la stanza, soffermandosi per qualche secondo su ognuno dei presenti a quell'incontro.
“Detto questo, la seguente lista di persone è licenziata con effetto immediato. Karev Alex, Robbins Arizona, Sloan Mark. È tutto. Vi ringraziamo per la vostra attenzione.”
Ecco quello che eravamo per loro.
Nomi su una lista.
Quelle belle parole non significavano un bel niente. Ci avevano comunque tagliato le gambe. Ci avevano buttato per strada. Letteralmente.
Un'ora dopo, me ne stavo sul marciapiede con in mano una scatola di cartone con gli ultimi dieci anni della mia vita dentro. Lo sguardo davanti a me, non mi ero nemmeno presa la briga di chiamare un taxi.
Ripresi a funzionare solo quando la vidi uscire dalle porte a vetri dell'edificio e avvicinarsi al ciglio della strada per fermare un tassista.
“Sei contenta?” le chiesi, dopo averla raggiunta a passo di marcia. “Ti sei presa la tua rivincita per il liceo e mi hai distrutto la vita.”
Lei si voltò nella mia direzione, abbassandosi di un centimetro gli occhiali da sole come aveva fatto qualche ora prima con Mark.
“Ci conosciamo?” mi chiese freddamente, ma sembrando onestamente confusa.
“Mi hai appena licenziato. Per vendicarti del fatto che quando eravamo al liceo ti buttavo i libri per terra di mattina.”
Si tolse gli occhiali lentamente.
“Sapevo di aver già sentito quel nome da qualche parte. Mi dispiace per il suo lavoro, signorina Robbins, ma le nostre scelte sono state dettate dall'interesse economico, ecco tutto.”
“Come no, senti, noi tre siamo bravi più di tutti gli altri in quello che facciamo. Ma guarda caso avete licenziato noi.”
“Conosce John Abraham?” chiese, tentando di nuovo di fermare un taxi.
“Sì. Ha lavorato qui per tre anni.”
“Ha una moglie e una figlia. Il signor Rogers? Vedovo con tre figlie. Conosce la signorina Jennifer Trevis?”
Annuii.
“Ha due fratelli a carico, orfani di entrambi i genitori. Cristina Yang mantiene la madre e la sorella, Meredith Gray ha una madre malata ricoverata in una casa di cura.”
Indossò di nuovo gli occhiali da sole.
“Non abbiamo scelto voi per ripicca, ma perché siete gli unici tre dipendenti che non hanno nessun familiare a carico. Potete cambiare città più facilmente, trovare un altro lavoro. Il signor Niccolini, invece, un signore italiano a due anni dalla pensione, potrebbe non essere così fortunato da trovare un lavoro in tempo per lasciare qualcosa alla moglie che non riceve una pensione nonostante abbia subito due cicli di chemioterapia perché la loro assicurazione non è abbastanza alta.”
Finalmente il terzo taxi si fermò quando lei fece un cenno con la mano.
“Non tutti sono così attaccati a cose successe più di dieci anni fa, signorina Robbins” mi disse aprendo lo sportello. “Adesso, va da qualche parte? Perché posso dividere questo taxi con lei e far finta di essere indignata quando farà pagare a me la corsa per averla licenziata.”
Strinsi le labbra in una linea sottile.
“Bene” dissi seccamente alla fine. “Ma prenderò apposta la strada più lunga” la avvertii salendo attraverso la portiera che stava tenendo aperta per me.

Ero arrivata al punto in cui non mi toglievo più il pigiama nell'arco della giornata. A che scopo fare qualcosa il cui unico effetto era quello di obbligarmi a fare l'azione inversa soltanto poche ore dopo?
Ero passata da “Chi diavolo guarda ancora le repliche di Charmed in tv?” a “Adesso non posso parlare, Piper sta cercando di uccidere un demone trasformista. Ti richiamo più tardi. O domani. O più probabilmente la prossima settimana.”
Avevo iniziato a cenare in soggiorno e non uscivo dal mio appartamento da sei giorni. Da sette non mi facevo una doccia. Non uscivo più di sera da quando ero stata licenziata, ero troppo depressa. In quel momento stavo mangiando patatine davanti alla tv. Stare seduta sul divano ventiquattro ore al giorno era dannoso per la mia schiena e le mie gambe.
Fu allora che ebbi la geniale idea di portare il televisore al piano di sopra, così mi alzai e provai ad iniziare a spingere il mobile. Non si mosse neanche. Riflettei per un secondo e decisi che la cosa più semplice da fare era uscire a comprarne uno nuovo a cristalli liquidi invece che a tubo catodico, in modo che fosse più leggero da spostare.
Mi diressi verso la porta, ma poi ricordai di essere in pigiama e pantofole. E puzzavo. Avrei dovuto cambiarmi e farmi una doccia prima di poter andare da qualche parte. Quello significava fare tutte le scale fino al piano di sopra, togliermi i vestiti, entrare nella doccia, lavare me stessa e i miei capelli, asciugarmi i capelli, scegliere dei vestiti decenti per uscire, indossarli, ripercorrere di nuovo tutte le scale fino al piano terra, prendere le chiavi dell'auto, uscire di casa, guidare fino al negozio dove avrei dovuto passare ore a litigare con un commesso per scegliere il televisore con il miglior rapporto qualità/prezzo e poi avrei dovuto caricarlo sulla mia auto e portarlo a casa dove avrei dovuto montarlo e...
“Al diavolo. Lo ordino su internet.”
Accadde circa tre mesi dopo il mio licenziamento che mi ritrovai a fissare il quotidiano per dieci minuti senza leggere una parola. Il titolo dell'articolo, tuttavia, mi era rimasto bene impresso. La compagnia per cui avevo precedentemente lavorato era salita al primo posto nella classifica delle agenzie immobiliari per numero di vendite. Il merito di tutto era apparentemente attribuito a Callie Torres, scoprii quando riacquistai la lucidità necessaria per leggere l'articolo. Erano di nuovo al massimo delle potenzialità, come erano stati prima della crisi grazie anche a me, Mark ed Alex. No, non anche, soprattutto grazie a noi.
Il telefono al mio fianco squillò proprio mentre stavo buttando il giornale nella spazzatura.
“Pronto?”
“Salve, cercavo Arizona Robbins.”
“Sono io.”
“Signorina Robbins, chiamo a nome della DreamlandHomes per informarla che la compagnia desidera rioffrirle il suo vecchio lavoro.”
Per diversi secondi non risposi.
“Callie?”
Esitò qualche momento. “Sì.”
“Grazie per l'offerta, ma non torno a lavorare per voi.”
Riattaccai il telefono senza pensarci due volte. Circa mezzo secondo dopo squillò di nuovo.
“Pronto?”
“Hai trovato un altro lavoro?”
“Certo. Ho avuto un sacco di offerte, sono un asso nel mio lavoro.”
“Come si chiama la tua nuova compagnia?”
“Si chiama...” cercai di inventarmi qualcosa di plausibile, ma dalle mie labbra non uscì niente “...si chiama fatti gli affari tuoi, ecco come si chiama” le risposi allora.
“Inizi lunedì.”
“Scordatelo.”
“Ti serve un lavoro.”
“No, invece. Non uno che mi offri tu.”
Attaccai nuovamente senza nessun tipo di preavviso. Stavolta passarono due secondi.
“Cosa?” risposi di nuovo.
“Andiamo, ti propongo lo stesso stipendio che avevi con i tuoi anni di anzianità. Chi altro ti offrirebbe uno stipendio simile al primo ingaggio?”
“Non voglio la tua compassione. Non tornerò a farmi il sedere per un mucchio di ingrati solo perché tu non ti senti apposto con la coscienza per aver licenziato delle persone che non se lo meritavano, nossignore. Puoi scordartelo e, onestamente, non capisco perché sei così gentile con me visto che al liceo ti torturavo. Ora lasciami in pace.”
Attaccai per l'ennesima volta. Trascorsero ben sette secondi, quando risposi di nuovo.
“Ascoltami bene, perché lo dirò una volta soltanto. Io e te non siamo niente, niente, mi hai capito? Il fatto che tu ti senta in colpa per la situazione tremenda in cui mi hai messo non ti dà il diritto di considerarti una parte della mia vita, perché non lo sei. E non fingerò il contrario perché tu e la tua facciata di perbenismo possiate cavarvela anche stavolta senza sensi di colpa. Io non ti perdono. Né per il licenziamento né per tutto il resto. Io non ti perdono.”
“Arizona?”
“Mamma?”
“Tesoro, ti prego dimmi che non hai letto il numero nel display.”
“Mamma, sto aspettando una chiamata importante. Ti richiamo io, ok? Ti voglio bene.”
Riattaccai, aspettando che il telefono squillasse di nuovo. Non successe. Così cercai la lista delle ultime chiamate in entrata, ricomponendo il penultimo numero.
“Pronto, risponde la DreamlandHomes, trovate insieme a noi la casa dei vostri sogni.”
Alzai gli occhi al cielo.
“Sul display c'è il numero di un cellulare personale, quindi puoi smettere di far finta di non esserti accorta che ero io fin dall'inizio.”
“Guarda un po' chi è tornato sui suoi passi.”
Potevo praticamente percepirla sorridere.
“Ti sbagli di grosso. Voglio solo dirti due parole. Io e te non siamo niente, niente. Il fatto che tu ti senta in colpa per la situazione tremenda in cui mi hai messo non ti da il diritto di considerarti una parte della mia vita, perché non lo sei. E non fingerò il contrario perché tu e la tua facciata di perbenismo possiate cavarvela anche stavolta senza sensi di colpa. Io non ti perdono. Né per il licenziamento né per tutto il resto. Io non ti perdono.”
Ero impressionata dalla mia abilità di ripetere il discorso esattamente come la prima volta. Beh, sì, ok, forse ci avevo fantasticato troppo sopra. Ma la disoccupazione porta ad una quantità allarmante di tempo libero, così mi ero preparata quella specie di discorso nell'eventualità di rincontrarla.
“Non ti perdono neanche io.”
Nonostante fosse qualcosa che avrei dovuto veder arrivare, sentii una stretta al cuore.
“Lo so.”
“E non lo sto facendo come atto di misericordia e carità. Voglio essere il tuo capo per torturarti e rendere la tua vita un inferno come hai fatto tu con me al liceo.”
Sentii l'impulso di giustificarmi, invece risposi velenosamente.
“Te lo meritavi. Nessuno è davvero così buono. Le tue bugie mi danno sui nervi. Non lo voglio un lavoro da te.”
“Tu me lo devi, Arizona. Mi hai buttato i libri per terra tutte le mattine per anni. Me lo devi.”
Non riuscii a dire niente. Se solo avesse saputo la verità.
“Come ti pare” sussurrai amaramente alla fine.
“Lunedì mattina” mi ricordò.
“E comunque sapevo che non potevi esserti davvero scordata di me. Ci avrei scommesso che mi avevi riconosciuto fin dal primo momento.”
“Ciao Arizona.”
Rimasi con il ricevitore all'orecchio ad ascoltare il suono della conversazione che aveva appena terminato.
“Mi manca il liceo tutti i giorni” sussurrai alla stanza vuota. “Tutti i maledettissimi giorni, Calliope.”

Io e lei avevamo quasi tutte le classi insieme.
Io e lei non ci parlavamo quasi mai da sole. Se le rivolgevo la parola nei dintorni c'erano sempre Alex o Mark, in modo che sarei riuscita più facilmente a trattenermi da dire qualcosa di stupido o oltre la linea.
La disprezzavo, la sua esistenza mi irritava, averla attorno mi dava sui nervi. Si poteva perfino arrivare a dire che io la odiavo.
La odiavo per quello che mi aveva fatto.
Per l'irreparabile danno che lei aveva causato in me.
Io la odiavo con ogni singola briciola di forza che avevo. Ed avevo un sacco di forza, io. Ero stata cresciuta per essere il brav'uomo nella tempesta, ed era ciò che ero finita per diventare, quindi di forza ne avevo anche troppa.
Ogni sua parola era irreparabilmente sbagliata, ogni cosa che faceva era indegna di essere osservata da occhio umano.
Io odiavo Calliope Torres così tanto che rendere la sua vita insopportabile era diventata la mia ossessione.


Mi guardai attorno facendo particolare attenzione a quanto poco quell'edificio fosse cambiato nel corso di tre mesi. Uscendo dall'ascensore la sensazione di familiarità mi travolse. Mi sembrava di essere stata seduta alla mia scrivania solo il giorno prima.
La prima persona che vidi mi si fermò davanti, esaminandomi velocemente con lo sguardo.
“Ti sei fatta una doccia.”
“Sì, Cristina.”
“Per un po' ho pensato che fossi morta sotto dei rifiuti ed i tuoi vicini non riuscissero a distinguere la puzza della scarsissima igiene che avevi nell'ultimo periodo da quella del tuo cadavere.”
“No, distinguerebbero la puzza di sicuro. Se fossi morta, smetterei di produrre spazzatura e il cattivo odore diminuirebbe.”
Ci pensò su un secondo. “Plausibile” concluse scrollando le spalle e tornando a lavoro.
“Robbins, prendi una penna e seguimi” mi disse mentre passava davanti a dove mi trovavo.
Confusa, seguii istintivamente l'ordine che mi era stato dato, tirando fuori una penna dalla mia borsa. La seguii dentro la sala conferenze. Mi fece segno di mettermi a sedere mentre prendeva tre documenti da un archivio e li posizionata sul tavolo davanti a me.
“Numero 12 di Madison Street, 71 della 4th Avenue e il 57 della 5th Avenue. Sai cosa sono?”
“Case nella parte Est della città?”
“Case di nostra competenza rimaste invendute negli ultimi quattro anni. Se vuoi il tuo lavoro indietro devi venderle tutte e tre.”
“Questo mese?” chiesi scioccata.
“No, certo che no” rispose come se fossi impazzita. “Questa settimana. Pensi di riuscire a cavartela?”
Nessuno può vendere una casa in una settimana. Figuriamoci tre case in cinque giorni effettivi. Era impossibile. E avrei dovuto dirle quello, con quelle esatte parole.
“Io riesco sempre a cavarmela” replicai con una sicurezza che in quel momento non provavo.
Lei mi rivolse un sorrisetto di sfida.
“Hai cinque giorni di tempo, venerdì sera voglio i contratti sulla mia scrivania.”
“Hai una scrivania? Tipo, dentro un ufficio di tua proprietà? Questo significa che sei qui per rimanere?”
“Come da te esplicitamente chiarito noi non abbiamo nessun rapporto al di fuori di quello professionale. Io sono il tuo capo, la persona che decide quanto sarà difficile il tuo lavoro questa settimana o se avrai in primo luogo un lavoro questa settimana. Quindi ti conviene non farmi arrabbiare.”
Abbassò il tono di voce, appoggiando le mani sul tavolo e chinandosi verso di me.
“Non sono più la persona che ero al liceo, Robbins. Sai come ho risollevato la compagnia? Perché sono brava a individuare ed eliminare i problemi. Non ci sono danni dove ci sono io e da quello che ho sentito tu combini un sacco di guai, fai di testa tua, aggiri le regole. Creami un problema ed io ti sbatto fuori di qui più in fretta di quanto si possa dire 'Dexter'. Chiaro?”
Le rivolsi un lento sorriso strafottente.
“Sissignora.”
“Fuori” ordinò indicando con il pollice la porta alle sue spalle e raddrizzando la schiena.
Non me lo feci ripetere due volte.
Nei tre giorni successivi avevo capito perché quelle case erano rimaste invendute per anni. Erano invendibili, ecco il motivo. Costavano tanto e andavano ristrutturate. Avevo già mostrato la prima casa a cinque coppie e la seconda ad otto persone. La terza era totalmente inguardabile, perfino dall'esterno. Non avevo idea di come avrei potuto cavarmela, quella volta.
“L'interno è molto amplio, se avete intenzione di avere figli è quello che fa al caso vostro.”
“No, non penso che avremo figli” rispose distrattamente l'uomo.
“Beh, potreste sempre usare lo spazio extra per qualcosa per voi, come una palestra, uno studio o una stanza per gli ospiti.”
“Senta, sarò molto chiara con lei” intervenne la moglie, abbassandosi gli occhiali da sole. “Questo posto cade a pezzi. I soldi non sono un problema, e siamo disposti ad aspettare qualche mese per i lavori, ma la casa che vogliamo dovrà essere molto, molto più grande. Almeno su tre piani, non voglio che i nostri dipendenti dormano sul nostro stesso piano. E voglio una cucina grande per quando avremo bisogno del servizio di catering. Non avrebbe qualcosa...con un foyer?”
Un barlume di speranza si accese.
“Ci sarebbe una casa perfetta. Foyer d'epoca, cucina enorme con un isola al centro e un piano cottura quasi infinito, quattro piani in totale. Ma devo avvertirla che è costosa e assolutamente da rimettere a nuovo.”
“Come le ho detto, se posso avere il mio foyer il prezzo non sarà un problema.”
Alla fine della giornata di mercoledì avevo firmato il primo contratto. Uno dei possibili acquirenti del monolocale avrebbe dovuto richiamarmi la mattina successiva, mentre per la casa numero uno ero rimasta a corto di candidati. Rimasi per tutta la sera in ufficio a rileggere tutti i possibili acquirenti, senza riuscire a capire come uscire da quella situazione.
Finii per addormentarmi lì. Fui svegliata, cinque ore dopo, dallo squillo del telefono d'ufficio.
“Pronto?” risposi con voce assonnata.
“Buongiorno, sono Jeremy Klaine, chiamo per la casa sulla 4th Avenue. A dire la verità, pensavo che non fosse in ufficio, volevo lasciarle un messaggio.”
“Mi dica pure” lo incoraggiai. Contavo su quella chiamata.
“Vorrei vederla di nuovo, se non le dispiace.”
“In qualsiasi momento della giornata” risposi immediatamente.
“Non si può fare la settimana prossima?”
Avrei voluto imprecare.
“Mi dispiace, la casa deve essere venduta in giornata. Gli altri due possibili acquirenti faranno la loro offerta nel primo pomeriggio. Ma, se lei vuole vederla stamani, potrebbe batterli sul tempo e aggiudicarsi la casa senza neanche un'asta al rialzo.”
Gliela feci pagare anche qualche decina di migliaia di dollari più di quello che valeva, usando sempre la scusa delle altre immaginarie persone interessate.
Avevo un giorno e mezzo per vendere l'ultima casa, quella sulla Madison, e poi potevo riavere indietro il mio lavoro.
Mostrai quella stupida casa ad altre cinque coppie solo quel pomeriggio, dicendo a tutti di prendersi il loro tempo per pensarci e richiamarmi il giorno dopo. Stessa cosa feci la mattina con altre quattro coppie, avvertendoli di richiamarmi nel primo pomeriggio.
A quel punto era andata. Non c'era altro che potessi fare eccetto sedermi davanti al telefono ed aspettare il verdetto. Le prime sei chiamate furono ognuna un colpo al cuore, ogni volta che sentivo una frase come 'non è quello che fa per noi' oppure 'non è quello che avevamo in mente'. La settima chiamata non fece nemmeno in tempo ad iniziare prima di finire con un semplice 'no, grazie' o qualcosa del genere. All'ottavo 'no' avevo perso la speranza. Poi arrivò anche la nona chiamata, la mia ultima possibilità.
“No, capisco perfettamente.”
Era finita.
“Grazie per la disponibilità.”
“Grazie a voi” replicai educatamente prima di riagganciare.
Guardai l'orologio. Meno di un'ora. Mi lasciai cadere all'indietro contro la sedia, passandomi un braccio sugli occhi. I giochi erano chiusi. Avevo perso. Avevo fatto del mio meglio e avevo comunque fallito. Avevo perso il lavoro.
Il telefono squillò per la milionesima volta, alzai la cornetta in automatico e risposi, ascoltando solo vagamente.
“Chiamo per la casa sulla Madison. L'ho visitata martedì.”
Improvvisamente scattai a sedere, occhi spalancati.
Un'ora e quindici minuti più tardi l'ascensore mi aveva riportato al piano degli uffici, con soli quindici minuti di ritardo. Dall'altra parte dell'ufficio vidi la donna dei miei incubi alzare lo sguardo e accorgersi della mia presenza mentre parlava con Addison. Mi si avvicinò.
“Tra cinque minuti nella sala riunioni.”
Annuii, senza dire altro. Cinque minuti dopo ero seduta al tavolo di cinque giorni prima, aspettando che lei arrivasse. La porta si aprì ed io mi voltai, corrugando la fronte.
“Arizona?”
“Mark? Che ci fai qui?”
“Devo incontrare la Torres. Tu?”
“Anche io.”
“Eccomi, sono in ritardo solo di qualche...che ci fate voi qui?”
“Alex?”
“Aspettiamo la Torres. Tu?”
“Anche io.”
Fu in quel momento che lo capii.
“Ha dato anche a voi tre case da vendere in una settimana, vero? Mettetevi seduti comodi, ho come l'impressione che solo uno di noi riavrà il lavoro che gli è stato promesso.”
Si sedettero accanto a me, mentre la porta si apriva ancora una volta.
“Non vedo contratti qui sopra. Neanche una, nessuno di voi?” chiese, mettendosi dall'altra parte del tavolo e rimanendo in piedi.
“Io ne ho vendute due” le disse compiaciuto Alex, appoggiando le cartelle relative alle vendite davanti a lei.
Aprì i fascicoli, scorrendo velocemente le pagine.
“Hai venduto entrambe le case al di sotto del loro costo” osservò.
Il sorriso compiaciuto sul viso di Alex si indebolì.
“Ma in così poco tempo...”
“Sloan?” chiese, richiudendo le pratiche.
“Una. Al prezzo di mercato” le passò il documento.
Lo esaminò in pochi secondi, senza neanche prendersi la briga di commentare in alcun modo.
“Robbins.”
“Ho venduto la prima e la terza a costo di mercato” appoggiai i tre contratti sopra il tavolo “e la seconda ad un valore superiore di quello stimato.”
Mi guardò per un secondo, impressionata. Controllò velocemente i fascicoli, richiudendoli e schiarendosi la voce.
“Lunedì vi farò trovare delle proposte di contratto negoziabili. Il modello di partenza sarà stabilito in base ai vostri risultati, Shepherd ve li presenterà in mattinata e potrete decidere se firmarli e rimanere o andarvene” raccolse i sei contratti dal tavolo, muovendosi verso la porta. “Buona serata.”
“Tutto qui?” chiesi. “Ho fatto praticamente un miracolo” osservai con incredulità. “Mi aspettavo almeno una pacca sulla spalla o un bacio sulla fronte.”
“Non sono il tipo da pacche sulle spalle, ma scommetto che Sloan ti bacerà volentieri ovunque tu voglia, se glielo chiedi gentilmente” suggerì, uscendo dalla stanza.
Io tirai un sospiro di sollievo, insieme agli altri due.
“Addio disoccupazione” esultò Alex.
“E addio soprattutto alla depressione.”
“Avete presente come diciamo sempre che ci mancano gli anni del liceo?” chiesi loro. Entrambi voltarono le teste verso di me e annuirono. “Io ho sempre mentito a riguardo. Il liceo per me faceva schifo. Dovevo nascondere chi ero, chi mi piaceva, pensavo che essere gay fosse sbagliato ed essere me la più grande condanna della mia vita. Il liceo faceva abbastanza schifo. Ma se potessi, cavolo, se potessi tornerei indietro in mezzo secondo” conclusi, alzandomi.
“Perché, se era così male?” chiese Alex quando avevo già un piede fuori dalla porta.
Mi fermai, ma non mi voltai.
“Ci sono cose che farei in maniera diversa” risposi semplicemente, andandomene via.

Vidi un ragazzino del primo anno far cadere per sbaglio tutti i suoi libri, lei si fermò immediatamente per aiutarlo a raccoglierli. Si alzò, porgendoglieli con un sorriso gentile, non aspettandosi nemmeno un grazie, che non arrivò a causa del fatto che mi avvicinai a loro ed appena il ragazzino mi vide si dileguò.
“Dexter” si voltò giusto in tempo per poterle buttare a terra i libri che aveva in mano e passarle accanto senza guardarla in faccia.
Non potevo sopportare di guardarla negli occhi. O in realtà di guardarla e basta, se lei mi stava guardando a sua volta.
E odiavo passarle troppo vicino, mi dava fastidio.
Ogni volta che la vedevo, sentivo parlare, o anche solo pensavo a lei, sentivo immediatamente un senso di repulsione incontrollabile. Sia verso di lei che verso me stessa.


Avevo avuto molto tempo per pensare nei miei tre mesi a casa. E nei due mesi in cui ero tornata a lavoro.
Era passato così tanto tempo dall'ultima volta che l'avevo vista, in fondo. Dieci anni. Erano tanti, ma erano anche pochi, perché onestamente pensavo che non l'avrei rivista mai più. E mai più è un tempo considerevolmente più lungo di dieci anni.
Io sapevo che mi era successo al liceo, ma lei non lo sapeva.
Io sapevo la verità e le dovevo almeno la mia onestà, dirle perché avevo fatto quello che avevo fatto.
O veramente al limite, le mie scuse.
Ma mentre cercavo di raccogliere il coraggio mi ero convinta che a lei non importava. Lei lo aveva superato, in realtà. Era andata oltre. Ero io che non riuscivo a convivere con il modo in cui mi ero comportata.
Ma se a lei non importava, io avrei trovato il modo di conviverci senza bisogno di umiliarmi con una patetica giustificazione che lei probabilmente neanche voleva davvero sentire. Ecco cosa ero stata, ero stata patetica.
“Calliope?” bussai alla porta del suo ufficio, affacciandomi.
Sapevo che odiava quando la chiamavo così in pubblico, ma era più forte di me.
Lei era sovrappensiero, una foto in mano e lo sguardo assente. Si voltò verso la porta.
“Arizona, entra pure.”
Io mi chiusi la porta alle spalle, sedendomi davanti alla scrivania.
“Ho portato il contratto della casa che ho venduto ieri sera, ho finito la pratica, è pronta per l'archivio.”
Glielo porsi, lei lo prese, lasciando cadere la foto che aveva in mano sulla sua scrivania. Fui in grado di vederla, anche se capovolta.
“Chi è la donna nella foto?”
Seguì il mio sguardo.
“Nessuno” rispose, nascondendola velocemente.
Corrugai la fronte.
“Nessuno è nessuno” replicai.
“Io lo ero, no?” mi disse con un po' di amarezza nella voce. “Al liceo. Per te, io ero nessuno. Una nullità. Un fantasma. Questa donna” mi passò la foto sulla sua scrivania “per molti lei non è nessuno. Si chiama Erica.”
“E per te chi è?”
“La prima donna che abbia mai licenziato. Porto sempre con me la sua fotografia per ricordarmi che il lavoro e la vita privata devono rimanere strettamente distinti. Ho imparato a mie spese che le cose non vanno bene quando vengono mischiati.”
“Eravate amiche?”
“Già. Fino a quando mi hanno ordinato di licenziarla. Non l'ho più vista o sentita da quel momento, è semplicemente sparita nel nulla.”
Le restituii la fotografia.
“Non è vero che non eri nessuno. Sei sempre stata qualcuno, per me.”
“Come no.”
“Non puoi capire” sussurrai, scuotendo la testa.
“No, non posso. Non se tu non provi a spiegarmelo.”
Le rivolsi un sorriso debole.
“È una lunga storia. Un'altra volta magari. Devo tornare a lavoro. Conosci il mio capo, è una stronza” mi alzai.
“Spero che tu stia parlando di Addison” scherzò.
Sorrisi, mentre uscivo senza risponderle.

Avevo lavorato al suo fianco per cinque mesi e sapevo che qualcosa non andava. Non era un segreto che fosse infelice, ma ogni giorno sembrava più distante. E me ne sarei volentieri lavata le mani, se non fosse stato che non era vero che io e lei non eravamo niente. E non era vero che lei non era nessuno.
Ogni volta che ci vedevamo fuori dal lavoro, a volte per bere qualcosa io e lei insieme, altre volte per una cena, ma sempre noi da sole, ci avvicinavamo sempre di più, ma il giorno dopo a lavoro lei era di nuovo distante come il primo giorno. Ed io volevo mettere una fine a quella storia.
Era sera. Molto, molto tardi. Eravamo le uniche due persone rimaste in ufficio quando mi sedetti davanti a lei dentro il suo ufficio.
“Stai bene?”
Lei alzò lo sguardo, confusa.
“Sì, certo.”
“No, intendo, stai bene?”
Lei posò la penna che aveva in mano, avvicinando di più la sedia alla scrivania.
“Mi sto affezionando a questo posto. E non dovrei, perché potrei dovermene andare domani, per quello che ne so.”
“Non c'è niente di male nell'affezionarsi alle cose. O alle persone.”
“Alle persone” mi fece eco. “Alle persone è meglio non affezionarsi, se loro non si affezionano a te” osservò con un tono triste e rassegnato al tempo stesso.
“Chi mai non si affezionerebbe a te?” domandai incredula.
Lei rise, riprendendo la penna in mano.
“E mi parli tu di affezionarsi?” chiese, firmando il rapporto che aveva davanti.
“Io mi affeziono” difesi me stessa. “Non a tutti, certo. E non molto spesso. Ma quando mi affeziono a qualcuno mi rimane qualcosa dentro che non se ne va più via.”
“Davvero?” chiese, incuriosita.
“Già.”
“C'è una cosa che ho sempre voluto chiederti se mai ti avessi incontrato di nuovo dopo il liceo” mi disse. “Perché? Perché io? Che c'era di così profondamente sbagliato in me?”
Scossi la testa, esitando solo per un momento prima di continuare.
“Ricordi quella lunga storia? Su noi due e il liceo?”
“Sì, mi ricordo.”
“Beh, è tardi e siamo sole. Quindi magari vuoi sentirla.”
Posò di nuovo la penna.
“Sto ascoltando.”
“Io” pensai a come si supponeva che iniziassi un discorso del genere. “Io ti odiavo al liceo, ecco la verità.”
“Questa storia inizia in medias res” osservò con un sorriso.
“No, ascolta come suona, io ti odiavo. Che è ridicolo, no?”
“Sì, visto che non ricordo di averti mai fatto niente di così terribile da spingerti ad un'antipatia così forte nei miei confronti.”
“Ma hai fatto qualcosa” replicai, stringendo i denti. Era veramente difficile parlarne, anche dopo tutto quel tempo. “Tu” il disprezzo nella mia voce e la rigidità nei miei lineamenti trasmetteva rabbia e tristezza, ne ero sicura. “Eri così buona con tutti, anche con chi non se lo meritava, anche con me. Con me. Tu eri, sei, intelligente. Calliope, per me tu rappresentavi la perfezione. Ed ogni volta che ti guardavo mi ricordavo di due cose. La prima era che io non sono perfetta. Non sono così buona, non lo sarò mai, probabilmente, perché non voglio esserlo principalmente, ma anche se lo volessi non ci riuscirei” scossi la testa più volte. “Tu sei speciale. Ed io ero...me.”
Mi guardò come se pensasse che la stessi prendendo in giro.
“E quale era la seconda cosa che ti ricordavi quando mi vedevi?”
Avevo le lacrime agli occhi e mi veniva da vomitare.
“Che c'era qualcosa di sbagliato in me. Perché tu sei bellissima, intendo, guardati. Sul serio, non c'è una sola persona al mondo che possa dire il contrario. Ma non per le scarpe col tacco o i vestiti firmati. Calliope, tu eri la persona più bella del mondo con” sorrisi come un'idiota, con le lacrime che mi appannavano gli occhi, quando mi venne in mente un'immagine di lei al penultimo, o forse era il secondo, anno di liceo “con i vestiti troppo larghi e le scarpette da ginnastica e senza un filo di trucco.”
Era difficile per me spiegarglielo. Era stato a suo tempo difficile perfino ammetterlo a me stessa, figuriamoci a lei.
“La seconda cosa che mi ricordavo ogni volta che ti vedevo era che c'era qualcosa di sbagliato in me, perché secondo me eri perfetta e bellissima ed io ero innamorata di te in modo così dolorosamente ovvio, Calliope, che se ci ripenso adesso non ho idea di come sono riuscita a continuare a fingere così bene. Ripetevo a me stessa che ti odiavo per la tua perfezione, che la tua bontà era finta, che io e te non eravamo niente. Mi ripetevo che odiavo i tuoi occhi, che non sopportavo il tuo profumo, perché ogni volta che lo sentivo mi prendeva un nodo allo stomaco da starci male. Però poi pensavo a te tutto il tempo. E dopo il liceo sono scappata, perché pensavo che sarebbe stato più facile, e lo è stato. La maggior parte dei giorni.”
Abbassai lo sguardo.
“Non avendoti attorno non mi ricordo costantemente di essere imperfetta, ma allo stesso tempo non posso avere il privilegio di vedere ogni giorno cosa sia la perfezione. È stato più facile, ma ha fatto anche decisamente più schifo. Ecco perché tornerei al liceo, se potessi. Perché ti vedevo ogni giorno. E adesso, ogni giorno vorrei poter tornare indietro e fare tutto in modo diverso.”
Io non piangevo davanti alla gente. Mai.
Io ero la persona coraggiosa in mezzo alla maledetta tempesta, dannazione.
Quindi trattenni le lacrime.
“Non ho mai, neanche per mezzo secondo, pensato che tu fossi niente meno che perfetta.”
“Io non sono perfetta.”
“Sì che lo sei” incontrai di nuovo i suoi occhi, rialzando la testa e facendole un mezzo sorriso. “Lo sei. Forse vale solo per me, perché io ti amo e quindi ai miei occhi non c'è niente che tu possa sbagliare. Ma ti assicuro che, almeno per me, sei perfetta.”
“Arizona...”
“No, lo so. Lo so. Tu non mi perdoni. Non importa.”
“No, io” appoggiò una mano sulla mia sopra la sua scrivania. “Certo che ti perdono.”
“Lo stai facendo di nuovo. La cosa di essere troppo gentile con chi non se lo merita. Perché questo è il tipo di persona che sei.”
“Tu meriti gentilezza” rispose con tono ostinato. “Tu meriti qualcuno molto più che perfetto.”
“Beh, allora sono sulla strada giusta, perché ho già trovato qualcuno così” sorrisi, cercando di farle capire che mi ero da tempo arresa al fatto che i miei sentimenti non sarebbero mai potuti essere ricambiati e che lo avevo accettato.
“Hai detto” iniziò, fermandosi improvvisamente, ma decidendo poi di continuare. “Che mi ami. Hai usato il tempo presente.”
“Calliope” risi, inclinando la testa di lato, stringendomi nelle spalle. “Io ti amerò sempre. Sei dentro di me, parte di me. Chi può battere la perfezione?”
Una singola, solitaria, tremenda, lacrima scese sulla mia guancia sinistra.
Si alzò, facendo il girò della scrivania. Mi alzai, per fronteggiarla. Ma lei non disse niente. Invece, mi abbracciò, appoggiando una mano sul retro della mia testa e l'altra sulla parte bassa della mia schiena. Io le afferrai le spalle, nascondendo il viso contro la sua spalla.
“Non piangere, andrà tutto bene” sussurrò mentre mi accarezzava i capelli.
“Mi dispiace” mi scusai.
“Non dispiacerti. Va tutto bene, Arizona. Io sono qui.”
Si allontanò appena, ma io la bloccai premendo di più le mani sulle sue spalle.
“No, non lasciarmi andare. Ancora per un momento, ok?”
“Non ti lascio andare” protestò appoggiando entrambe le mani sulle mie guance. “Ti prego, non piangere. Non ti lascerò mai andare.”
Non era come mi ero immaginata che sarebbe stato.
Era durato solo un secondo, ma non era simile a niente che avessi mai provato prima di allora. Era soffice e dolce, gentile, puro. Un secondo di annebbiamento dei sensi, ecco come lo avrei descritto se avessi dovuto farlo. Un attimo di chiarezza dell'anima. Una perfetta contraddizione, ma del tutto piena di coerenza. Era la cosa più semplice e straordinaria che avessi mai provato.
Era un bacio.
Rimasi ad occhi chiusi, perché non volevo che il mondo continuasse. Andava bene così. Adesso poteva finire tutto, abbuiarsi il palcoscenico e chiudersi il sipario. L'umanità poteva essere sterminata da un meteorite, per quello che me ne importava.
Quando, dopo parecchi secondi, riaprii finalmente gli occhi, incontrai i suoi, le sue mani ancora sul mio viso. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì assolutamente niente. Così lei richiuse i suoi e mi baciò di nuovo. Ma non per un secondo, più a lungo. Ed io rimasi immobile a respirare quel profumo che mi stordiva i sensi.
Finché lo capii. Lei era la persona più gentile al mondo ed io le avevo appena detto che l'avrei amata per sempre.
“Calliope” mi allontanai il minimo indispensabile per parlare.
“No. Non puoi rimangiartelo. Non puoi farlo, almeno per qualche minuto” rispose con aria ostinata, rifiutandosi di aprire gli occhi. “Ti prego.”
“Non mi rimangerei niente. So che adesso non ti fidi di me, ma con il tempo se solo tu decidessi di darmi un'occasione...”
“Pensavo che mi odiassi.”
“Odiavo me stessa. Pensavo che essere gay fosse sbagliato. E me la prendevo con te perché pensavo che se non ti avessi mai conosciuto non me ne sarei mai accorta” risi all'assurdità di quella convinzione.
“Mi manderanno via, presto o tardi” mi ricordò improvvisamente. “Mi spediranno in un'altra sede e io e te non ci vedremo mai più.”
“Verrai a visitarmi.”
“Sì. Sì, verrò tutte le settimane. E poi una settimana sì e una settimana no. Poi una volta al mese. Un week end ogni tre mesi. A Natale. E alla fine non ti vedrò mai più.”
“Cerca di non pensare a domani, ok? Pensa ad ora. A quello che c'è adesso. A noi.”
“Ci sto provando.”
“Andiamo via da qui” feci un cenno della testa verso l'ascensore. “Ti offro da bere. Nel solito posto qui vicino.”
Ci pensò qualche secondo. Poi annuì.
Ci sedemmo ad un tavolo del bar, ordinando da bere. Era curioso perché ci sedevamo sempre vicine, mai di fronte, per non so quale motivo. Certo, per me era meglio, perché potevo sentirla respirare ogni volta che stava per ridere. Inalava aria a piccole dosi in modo davvero carino, non potevo perdermelo.
Prese un sorso del suo drink.
“Che stiamo facendo?”
“Prendendo da bere?” chiese distrattamente.
“No, intendo, io e te, che stiamo facendo? Usciamo insieme? Perché io non sono solita uscire con le persone.”
“Io non sono solita non uscire con le persone. Quindi incontriamoci a metà strada, ok?” propose.
“Che vuoi dire?”
“Non lo so. Possiamo uscire e vedere come va e nel frattempo tenerlo per noi. Oppure possiamo non uscire affatto, come ho detto prima, visto che io potrei andarmene da un momento all'altro e tu non esci con le persone. E ci risparmiamo direttamente il disturbo.”
Storsi il naso.
“Non mi piace quest'ultima idea.”
“Fai come ti pare. Facciamo quello che vuoi” finì il suo drink con un lungo sorso. “Io vado a casa, però. È tardi e domani inizio presto. Ci vediamo in ufficio.”
“Fatti almeno accompagnare a casa.”
Lei lasciò qualche dollaro sul tavolo, poi si voltò verso di me con espressione seria.
“Credo ti serva tempo per pensare. E a me serve di sicuro.”
Stavo per protestare, ma sapevo che aveva ragione.
“Allora a domani.”
“A domani” rispose con un piccolo sorriso, prima di alzarsi ed uscire dal locale mentre osservavo ogni sua mossa.

Ero ferma immobile, perché pensavo che anche battere gli occhi avrebbe fatto scomparire quello che stavo vedendo. Avevo la mascella serrata e nella mano destra una penna con cui non stavo scrivendo neanche più, le spalle appoggiate alla sedia in una posizione leggermente scomposta, più sdraiata del dovuto.
Lei era, più o meno, a cinque metri dalla mia scrivania, nei suoi tacchi alti e con addosso dei pantaloni neri, una camicia bianca. Stava ridendo di qualcosa insieme ad Addison.
Ed io la stavo fissando da circa dieci minuti. E tutto quello che riuscivo a vedere a quel punto era una ragazza con gli occhiali da vista troppo spessi, una felpa e dei jeans di due taglie più grandi e scarpette da ginnastica ai piedi. Tutto quello che riuscivo a pensare era quanto mi piaceva quella ragazzina forse un po' troppo grande per essere così timida e un po' troppo piccola per essere così intelligente.
Poteva avere qualsiasi persona al mondo avesse desiderato. Mark le aveva proposto di uscire almeno cinque volte, Alex tre. Ma loro non capivano. Loro non vedevano. Non erano stati in grado di farlo quando avrebbero dovuto, in ogni caso.
Io l'avevo vista quando lei era invisibile.
Lei era mia.
E forse non le piacevo, forse nemmeno le piacevano le donne, ma lei mi aveva baciato. Quindi era colpa sua.
Mi mossi solo quando la vidi uscire dall'ufficio, seguendola fino alla sua automobile e salendo dalla parte del passeggero senza neanche chiedere il permesso.
Lei mi guardò come se fossi da rinchiudere in manicomio, le chiavi sospese a metà strada tra lei e il quadro dell'auto.
“Voglio uscire con te.”
Lei pensò di non aver capito bene.
“Non te lo sto nemmeno chiedendo, quindi risparmiati una protesta inutile. Te lo sto comunicando, tanto perché tu lo sappia. Io ho il diritto di uscire con te, non loro, nessuno di loro. Non sanno chi sei, non si ricordano come eri prima. Non vedono più in là dell'apparenza. Io vedo. Io ti ho vista, quando nessuno si era preoccupato di provarci. Io ti ho vista quando eri invisibile.”
Lei non si mosse, mi guardò e basta.
“Quindi, sì, io mi merito una chance più di tutti loro. Ecco perché non te lo sto chiedendo. Ti chiamo per il posto e l'ora, ci vediamo stasera.”
Uscii dalla macchina sentendomi una completa idiota, praticamente correndo in direzione degli uffici.

Non mi sarei stupita se mi fosse venuto un infarto mentre aspettavo. In realtà, non mi sarei stupita più di niente a quel punto.
Si sedette ed io la smisi di giocare con le posate e raddrizzai la schiena.
“Ehi” la salutai stupidamente.
Lei mi rivolse un sorriso.
“Non dovrei essere io quella nervosa e tu quella controllata? Sai, io ero quella sfigata e tu quella popolare.”
Io risi, guardando in basso.
“No, decisamente tu sei quella popolare e io sono la sfigata.”
“Andiamo, sappiamo entrambe benissimo che non è vero. Non c'è bisogno di adulazioni, mi sono presentata, no?”
“Dico sul serio, Calliope. Io sono l'idiota che si è fatta scappare dieci anni, che era troppo codarda per fare qualcosa. Che non riesce a togliersi dalla testa il pensiero di come saresti adesso con una felpa addosso. Che ha paura che non riuscirà mai a vederlo coi suoi occhi e che pensa sia quasi del tutto colpa sua che tu non ti vesta più come allora.”
“Non starei bene, te lo assicuro.”
“Ma non importa. Non è quello il punto. Saresti bellissima in pigiama, Calliope. Il punto è che è qualcosa di così semplice, qualcosa di innocente. Che solo tu potresti rendere speciale, ne sono sicura” sospirai. “Sei ancora la stessa persona. Noi siamo meno innocenti, meno piccoli, meno buoni. Il mondo ci ha contaminato. Ma non te.”
“Come fai ad esserne così sicura?”
Feci spallucce.
“Addison dice che hai tagliato i soldi dei nostri stipendi da quelli dei dirigenti. E che hai quasi dimezzato il tuo.”
“Beh, April Kepner guadagnava parecchio di più rispetto a quello che prende Addison. Quindi ho tagliato qualcosa dal mio stipendio, sì.”
“Mi hai salvato la vita. Di nuovo.”
“Arizona, sai che non è vero.”
“No, invece è vero.”

“Robbins, il contratto che aspetto da tre giorni?”
“Eccolo” lo presi da uno dei cassetti della mia scrivania, porgendoglielo.”
“Non basta compilarli, lo sai? Devi anche consegnarli con una certa puntualità, non dovrei venirteli a chiedere io.”
“Me ne dimentico sempre” sorrisi in modo un po' strafottente.
“Io ed Addison potremmo dimenticarci di firmare il tuo stipendio il mese prossimo” mi fece notare con casualità.
“Divertente” risposi senza traccia di umorismo nella voce.
Quando fu tornata dentro il suo ufficio Mark si sedette sulla mia scrivania.
“Allora, che aspetti a cercare di portartela a letto?”
“Mark, sei disgustoso.”
“Non dirmi che non ci hai mai fatto un pensierino.”
“Fatti una vita” risposi bruscamente.
“Che c'è? Ti ha già detto di no?”
“Io sono professionale, a differenza tua.”
“Come no. Ci vediamo stasera per un paio di drink, ok?”
Se ne andò prima che potessi dirgli che quella sera avevo impegni.
Il resto della giornata passò tra le tre pratiche che dovevo ancora finire di compilare per l'archivio di quel mese. E che mi presi perfino la briga di andare a consegnare a fine giornata.
“Ecco a te” le lasciai cadere sulla sua scrivania in modo che facessero rumore. “Come mi hai chiesto, le sto consegnando in tempo utile.”
“Perfetto” le prese in mano con un sospiro pesante, dirigendosi verso l'archivio.
“Cosa c'è?”
“Giornata pesante” mi fece presente con un sorriso debole.
“Ehi, se sei stanca possiamo fare un'altra sera.”
“No, figurati, non vedo l'ora di staccare. Ci vediamo al bar tra una decina di minuti?”
“Certo” le sorrisi, indietreggiando fino alla porta senza rompere il contatto visivo.
Quando entrai nel bar, però, mi accorsi che i miei colleghi avevano scoperto quel posto a due passi dall'ufficio.
“Arizona” Alex sventolò una mano nella mia direzione.
Io mi congelai. Poi decisi di sedermi con loro, dopo aver preso da bere al bar.
“Insomma, viene fuori che lei e Shepherd hanno una storia.”
“Chi?” chiesi, dopo essermi quasi strozzata con il drink che avevo in mano.
“Lui e Addison. Ci crederesti?” domandò Cristina.
Mi rilassai di nuovo.
“Pensavi parlassimo di Torres, non è vero?” indagò Mark.
“No, ero solo curiosa.”
“Come no. Insomma, che c'è tra voi due?”
“Niente. Perché?”
“Effettivamente, di recente sei strana” osservò Meredith. “Beh, più del solito” si corresse.
“Lasciatemi in pace.”
“Secondo me si stanno vedendo” concluse Mark dopo averci pensato ulteriormente per qualche secondo.
“Smettetela. Io e lei non ci stiamo vedendo, non siamo niente al di fuori del lavoro. Lei è il mio capo come è il vostro, ok? Solo perché si rifiuta di venire a letto con te non significa che sia perché sta venendo a letto con me” dissi a Mark aspramente.
Fu allora che mi accorsi del sorrisetto che aveva Sloan e della mano che copriva la faccia di Alex, mentre Cristina stava scuotendo la testa e sgranando gli occhi, come se volesse dirmi di smettere di parlare.
“Cosa?”
“Oh cavolo” sussurrò Meredith, accanto a me, mentre Callie passava accanto al nostro tavolo senza nemmeno voltarsi.
“Mi rendi il gioco sempre così facile, Robbins” sussurrò Mark, sempre sorridendo. Poi si sporse nella mia direzione. “Scommetti che stasera si farà consolare da me?”
Svuotò il suo drink e poi si diresse verso il bancone, dove lei aveva già ordinato il suo.
“Secondo giro” annunciai, poi mi alzai anche io afferrando il mio bicchiere vuoto, avvicinandomi a loro per origliare la conversazione.
“Sparisci, ho avuto una giornata pesante. Non mi serve anche la tua presenza.”
“Potrei aiutarti a rilassarti, se vuoi” le propose con un sorriso.
“Tu sai che io potrei denunciarti per molestie sessuali, vero?”
“Non siamo a lavoro” le fece notare.
Lei non rispose, ma finì il contenuto del suo bicchiere in un lungo sorso.
“Sei davvero bella quando indossi questa camicia, lo sai? Ed hai un buon profumo.”
“Senti” si voltò verso di lui. “Non verrò a letto con te. Quindi stai perdendo tempo, mentre potresti essere da un'altra parte a parlare con qualcuna con cui hai una possibilità. Perché quindi non sparisci?”
Lui rimase in silenzio qualche secondo, mentre lei iniziava a sorseggiare il secondo bicchiere di quella che ero sicura fosse tequila.
“Non finisce qui, Torres.”
“Sì, invece. Finisce qui” si voltò verso di lui. “Finisce esattamente in questo momento, perché alla prossima battuta che fai, o alla prossima frase da rimorchio anche appena accennata, ti sbatto in mezzo a una strada. Ora vattene da qui prima che decida di licenziarti come prima cosa domani mattina.”
Il suo sorriso sparì, si arrese, tornando al tavolo con gli altri.
“E tu smettila di fissarmi” disse con tono neutro, guardando in avanti. Ma ero sicura che stesse parlando con me.
“Calliope...”
“Ti conviene non dire niente, per due motivi. Uno, non vorrei che i tuoi amici ti sentissero parlare con me. Due, la tua voce mi irrita ora come ora.”
Picchiettai le dita sul ripiano per qualche secondo, finché il barista mi passò il drink che avevo ordinato.
“Ti chiamo più tardi” le dissi, andandomene.
Quasi un'ora più tardi, non ero più sicura che avrei mantenuto quella promessa. Non dopo aver visto Addison con una mano sopra la sua gamba in quel modo. Non dopo aver visto il modo in cui rideva alle sue battute. Non dopo aver bevuto così tanto che se anche avessi cambiato idea e voluto provare a chiamarla a quel punto non sarei riuscita a vedere i tasti sul cellulare.
Capii che non avrei sopportato un minuto in più senza fare niente quando si prepararono ad andarsene insieme.
Gettai un'occhiata attorno a me, Mark e Alex erano spariti in cerca di ragazze, Meredith e Cristina erano al karaoke. Me la svignai silenziosamente, seguendola fuori dal locale.
Quando la vidi stava camminando da sola in direzione della sua automobile, Addison doveva aver preso un taxi. La raggiunsi dopo essermi assicurata che il terreno non mi sprofondasse sotto i piedi, chiamando il suo nome per farla rallentare. Ottenni l'effetto contrario.
“Andiamo, sono ubriaca, non posso tenere il passo.”
“Non mi importa.”
“Ok, va bene. Lasciami in mezzo a una strada in questo stato. Che potrebbe mai succedermi di male, in fondo?”
Rallentò progressivamente, fermandosi davanti alla sua auto e, invece di aprire lo sportello del guidatore aprì quello del passeggero, aspettando che la raggiungessi.
“Ti odio” mi disse quando fui al suo fianco.
“Io ti amo” le risposi, stampando le mie labbra sulle sue.
“No, tu sei gelosa, ecco cosa.”
“Pfff, io non so il significato di quella parola.”
“No, hai ragione. Non dopo tutto il whisky che hai buttato giù.”
“Davvero, io non sono mai gelosa. Io non mi affeziono alle donne abbastanza da essere gelosa, più precisamente. È Addison che non sa tenere le mani a posto” le dissi, entrando in macchina e provando ad allacciarmi la cintura.
Lei salì dall'altro lato, vedendomi litigare con l'infernale affare che non voleva srotolarsi abbastanza da essere allacciato.
Sospirò, sporgendosi per allacciarlo al posto mio.
“Grazie” le dissi, inspirando il suo profumo. “E la colpa è tua, mi sembra chiaro. Se tu fossi stata meno perfetta, io non sarei come sono adesso. Non sarei gelosa, non sarei innamorata e soprattutto non sarei ubriaca.”
“Logica schiacciante. La colpa è mia perché ti ho fatto affezionare a me.”
“Esatto. Vedi che hai capito?”
Lei non riuscì ad evitare di ridere.
Senza che me ne rendessi conto – probabilmente perché avevo passato il viaggio a fissarla – ci ritrovammo davanti casa mia.
Mi fece scendere, accompagnandomi alla porta e prendendo le chiavi dalla mia borsa per aprirla al posto mio.
“Tu sai che l'ho fatto perché non voglio che sappiano che mi hai distrutto, non è vero? Perché adesso io sono il tipo di persona che ho passato una vita a prendere in giro. Il tipo di persona che ha dei sentimenti e che ama e stronzate del genere.”
“Pensi di riuscire a salire le scale?” ignorò le mie parole.
“Certo, mica ho due anni” feci un passo avanti, inciampando nel piccolo rialzo dell'ingresso. Mi guardai indietro con la fronte corrugata. “Quello quando è stato messo lì?”
Sospirò, entrando insieme a me e chiudendo a chiave la porta.
“Dove è la tua camera?” chiese una volta che la rampa di scale fu alle nostre spalle.
Io indicai una stanza sulla sinistra. Ci muovemmo in direzione della destinazione, ma poi io scoppiai a ridere e mi fermai.
“Però tu non puoi entrarci. Nessuno ci è mai entrato eccetto me.”
Risi di nuovo.
“Scherzi?” chiese.
Io stavo continuando a ridere, poi improvvisamente divenni mortalmente seria.
“No.”
“Andiamo” mi tirò per un braccio.
“Ok, però prometti di non ridere. Se ridi ho il diritto di picchiarti.”
“Hai detto che non siamo niente. Di nuovo. Io ho il diritto di picchiare te.”
Aprì la porta di camera mia, spingendomi all'interno e varcandone la soglia subito dopo di me.
Io barcollai fino al letto, buttandomici sopra.
Lei fu paralizzata da quello che vide quando riuscì a trovare e accendere la luce, quindi rimase immobile a guardarsi attorno.
“Dove hai trovato tutta questa roba?”
Feci spallucce, poi rotolai fino a trovarmi a pancia in su.
“Qua è là. Non avevo foto tue. E poi, appenderle sarebbe stato inquietante da parte mia, se mai qualcuno fosse entrato qui dentro.”
“Arizona, è pieno di poster, peluche, statuine in miniatura, qui c'è una tazza e credo che quella sia una poltrona gonfiabile.”
“Quella sì che è stata difficile da trovare. E da farmi vendere. Ma il tizio della bancarella non ha potuto dire no quando gli ho offerto il triplo di quanto quel bambino aveva convinto il padre a pagarla” raccontai con una risata fiera.
“Hai mai almeno visto una puntata di quel cartone animato?”
“Per chi mi hai preso? Ho tutti i cofanetti sopra la scrivania” indicai il punto con la mano sinistra, vedendola voltarsi per controllare.
“Il laboratorio di Dexter” lesse a voce alta, prendendo il primo in mano. Rise piano. “Sei pazza. Lo sai, giusto?”
“Non è vero. È che tanto eri ovunque in ogni caso. Dentro di me, intendo. E quindi ho fatto in modo che, almeno qui dove potevo averti, fossi ovunque anche fuori.”
Si avvicinò al letto, guardandomi dall'alto in basso.
“Tu lo sai che io ti amo, vero?” chiesi con incertezza.
“Lo so” mi rassicurò con gentilezza. “E ti amo anche io. È solo che in questo momento non mi piaci molto, ecco tutto.”
“Sai, è la prima volta che me lo dici.”
“Perché avevo paura.”
“Paura di cosa?”
“Che tu lo avessi detto solo per venire a letto con me.”
“E perché hai cambiato idea?”
“Perché, dopo quello che hai detto stasera, io e te non faremo sesso almeno finché ci saremo sposate.”
Corrugai la fronte.
“Aspetta, ma...Non potremo farlo mai, in questo Stato.”
“Oh, tesoro” si abbassò, sorridendomi dolcemente mentre scansava dei capelli dalla mia fronte e mi baciava su una tempia. “Vedo che hai capito alla perfezione dove volevo andare a parare.”
Ci misi diversi secondi a registrare il significato delle sue parole.
“Scordatelo. Piuttosto ci trasferiamo in un altro Stato, ma mi rifiuto di praticare l'astinenza per il resto della mia vita.”
Lei rise, guardandomi con dolcezza.
“Ci vediamo domani, ok?”
“Rimani” la pregai, afferrandole una manica. “Mi sei mancata.”
“Davvero? Non sembrava, anzi, sembrava ti stessi divertendo coi tuoi amici.”
“E allora sembrava male. Mi sei mancata stasera, e oggi tutto il giorno. Mi sei mancata negli ultimi dieci anni” ammisi piano. “E anche prima di allora, anche quando ti vedevo ogni giorno, comunque mi mancavi. Quindi non voglio più stare senza di te. Rimani qui.”

Il giorno in cui Addison mi convocò dentro il suo ufficio per parlarmi in privato per poco non mi venne un infarto. Fortunatamente, non ero lì per essere licenziata.
Al contrario, mi trovavo nel suo ufficio perché ero stata promossa. Avrei quasi voluto abbracciarla quando me lo disse. Quasi.
Così quella sera decisi che era il caso di festeggiare insieme ai miei colleghi. Andammo insieme a prendere qualcosa da bere e mi offrii di pagare il primo giro per tutti. Meredith, Cristina ed Alex erano davvero felici per me. C'era qualcosa che non andava con Mark, però. Aveva tenuto il muso per tutta la sera.
Quando finalmente decise di degnarci di qualche parola, non fu niente di particolarmente carino. “Che pagliacciata” sussurrò dentro il bicchiere che aveva in mano.
Mi voltai verso di lui con un'espressione a dir poco incredula sul viso, che rifletteva alla perfezione il mio stato d'animo.
“Scusami?”
Rise amaramente, senza prendersi la briga di voltarsi verso di me.
“Come se non lo avessi saputo già da un pezzo.”
Guardai Alex con la fronte corrugata, lui scrollò le spalle per farmi sapere che neanche lui aveva idea di cosa stesse parlando.
“Andare a letto con il capo ha dato i suoi frutti” chiarì per me, voltandosi finalmente per guardarmi negli occhi.
“Come hai detto?” feci un passo verso di lui, che si alzò in piedi, fronteggiandomi.
“Hai capito benissimo. Tu e Torres state combinando qualcosa da tipo tre mesi, ormai. Se ne sono accorti tutti, solo che nessuno ha le palle per dirti che ne pensa perché ha paura che tu possa convincere Callie a licenziarlo. Beh, indovina un po', io non ho paura di te, quindi ecco che ne penso. Sei patetica.”
“Io sarei patetica, mister gelosia? Hai gli occhi verdi, Mark, credi che non me ne accorga? So che volevi anche tu una promozione, ma il fatto che l'abbia avuta io per prima non significa che non arriverà il tuo momento.”
“Senti, non si tratta di uno stupido lavoro, ok? Tu devi sempre essere migliore di tutti in tutto quello che fai, non importa chi arrivi a calpestare.”
“Ma di che diavolo stai parlando?”
“Parlo del fatto che le davi soprannomi e le buttavi i libri a terra prima che ti accorgessi di quanto c'è dietro. E puoi risparmiarti le cazzate su quanto ti dispiace e le mille scuse che sono sicuro avrai rifilato a lei, ma c'è gente a cui importava davvero.”
Io non risposi, perché onestamente non avevo idea di cosa stessimo parlando da diversi minuti, ormai.
“Sapevi che Alex ha dato a Callie il suo primo bacio, prima che tu la prendessi di mira e la tormentassi al liceo? Si piacevano davvero, ma lui non ha mai detto niente perché ha sempre saputo benissimo che tutto ciò che vuoi, trovi un modo per averlo. Tu volevi che fosse trattata come una perdente e le hai rovinato la vita. Tu, non noi. Ed io provo davvero qualcosa per lei. Forse non sono stato bravo nel chiarire le mie intenzioni, ma sai che faccio schifo con le parole. Ma a te non è importato, tu pensi che questo sia un gioco, la fine del cerchio. Hai demolito la sua autostima per anni e adesso ti bastano un paio di frasi ben strutturate, col tono di voce giusto, e lei non si chiederà mai quanto di sincero c'è in te. Dovrebbe però, non è vero?”
Non mi mossi. Non dissi niente.
“Dovrebbe chiedersi cosa avresti fatto se l'avessi rincontrata per strada, per caso, dopo tutti questi anni. Se non fosse stata il tuo capo. Forse nemmeno l'avresti salutata. Chissà. Tutto quello che so è che saresti potuta essere disoccupata, ma ti è bastato dirle che la trattavi in quel modo al liceo per una qualsiasi ragione del cavolo, portartela a letto, ed ecco che invece hai una promozione.”
Non me ne accorsi subito, in realtà. Fu quando mi trovai con un braccio alzato e vidi Alex precipitarsi tra me e lui, quando mi accorsi che si stava coprendo una parte della faccia, che realizzai che lo avevo appena colpito.
Sbattei gli occhi diverse volte, per assicurarmi che non fosse solo un sogno. Quando l'adrenalina tornò a livelli accettabili, mi scrollai Alex di dosso, voltandomi ed uscendo dal locale senza aggiungere una sola parola.
Rimasi ferma immobile dentro la macchina con il volante stretto tra le mani e fissando la strada davanti a me.
Avrei dovuto andarmene, ecco la verità. Mark, per quanto si sbagliasse su alcune delle cose che mi aveva sbattuto in faccia, aveva perfettamente ragione quando si arrivava al punto fondamentale della questione.
Io non andavo bene per lei.
Ecco qualcosa che sapevo già, che era stato il chiodo fisso delle mie paranoie. Ed ecco qualcosa che avrebbe dovuto sapere anche lei.
Così ricordai perché ero lì e scesi dalla macchina, bussando così piano alla porta di casa sua che quasi speravo non mi avesse sentito.
Aprì la porta, sorridendomi in modo un po' incuriosito.
“Non sapevo più che pensare dopo dieci minuti, se saresti entrata o te ne saresti riandata via da un momento all'altro.”
“Hai visto arrivare la macchina?”
“Già” mi fece cenno di entrare con una mano.
Posai il giacchetto mentre lei richiudeva la porta e poi la seguii verso la cucina.
“Grazie ai venti minuti che hai passato in contemplazione del marciapiede, però, la cena si è freddata. Quindi incolpa te stessa.”
Stava sorridendo, non sembrava eccessivamente preoccupata dal mio comportamento. Ecco le parole chiave. Non sembrava. Ma lo era. Mi considerava una persona così imprevedibile che, se avessi cambiato idea su qualsiasi cosa e a qualsiasi livello, in un momento qualsiasi delle nostre vite, lei probabilmente avrebbe scrollato le spalle e mi avrebbe comunicato che se lo aspettava e che andava bene così.
“Non devi far finta che sia normale. Sai, il fatto che io non riesca a...gestire, determinate cose.”
“E cosa è che non riesci a gestire, esattamente?” chiese, mentre prendeva un paio di piatti dalla dispensa e li sistemava sulla tavola.
“Il mio passato. Il mio presente.” Mi avvicinai di un passo, mentre lei continuava ad apparecchiare, sapendo che le prossime parole che avrei detto l'avrebbero finalmente fatta fermare per un momento. “Te.”
Mi guardò negli occhi, il sorriso che aveva si indebolì significativamente.
“Me?”
Annuii. “Te.”
“Che c'è che non va in me?”
Mi avvicinai ancora di più, inclinando la testa di lato, stringendomi nelle spalle come se fosse ovvio.
“Non c'è niente che non va, in te. A volte è opprimente avere a che fare con il mio passato. Con quello che ho detto e fatto anni fa, con cose che, se potessi, cambierei. Perché certe volte mi succede di dare per scontato che quello che stiamo vivendo sia provvisorio. Che un giorno ti renderai conto che io non valgo assolutamente niente e deciderai che puoi avere qualcuno che ti tratti meglio fin dal primo momento di quanto ho fatto io per anni.”
“Arizona.”
“Ecco qualcosa che dovresti sapere già, Calliope. Io non vado bene per te.”
Lo sguardo triste nei suoi occhi era quello di una persona che pensava che le mie parole fossero sbagliate, ridicole perfino. Ma a me non faceva che dare la conferma di quanto lei fosse gentile, di quanto avessi ragione a dire quello che stavo dicendo, quelle stesse parole che avevano causato quello sguardo nei suoi occhi.
“E puoi chiedere a chiunque se vuoi, perché tutti ti diranno la stessa cosa che ti sto dicendo io adesso. Io non vado bene, per te.”
Fu allora che successe qualcosa che non sarei riuscita a prevedere nemmeno se avessi potuto tirare a indovinare per un milione di anni.
Mi sorrise, come se stesse tenendo un segreto, poi mi si avvicinò, appoggiando la mano sinistra sulla mia vita e la destra sulla mia guancia, passò la punta del pollice lungo il mio naso, tracciandone il profilo e fermandosi sulla punta.
“Ora capisco da dove arriva. Hai solo paura di perdermi.”
Il modo dolce in cui lo disse, il tono, che era quello di una persona che sta condividendo un segreto, mi fecero quasi rispondere al suo sorriso.
“Certo che ho paura” risposi, distogliendo lo sguardo.
“No, non ti stai ascoltando, Arizona” mi fece voltare di nuovo per incrociare i suoi occhi. “Tu hai paura di perdermi. Perché mi ami. Perché tieni a qualcuno in un modo in cui non ti aspettavi che succedesse. Non mi importa di chiunque ti abbia detto che non mi meriti stasera per farti rimanere per venti minuti fuori da casa mia, perché io sono l'unica persona che è riuscita a vedere questo. Io sono l'unica persona che ti conosce davvero. Ed io dico che mi meriti eccome, quindi che possono saperne loro?” mi sorrise di nuovo. “Ti fidi di me, non è vero?”
“Certo che mi fido di te” dissi quasi con tono esasperato a causa della risposta assolutamente scontata.
“E allora smettila. Possiamo avere paura insieme, credi che io di tanto in tanto non consideri l'ipotesi che ricomincerai a buttarmi i libri per terra?”
“Questo non aiuta i miei sensi di colpa” intervenni.
Lei mi zittì con un'occhiata eloquente, continuando il discorso.
“Ma poi mi ricordo che non siamo più al liceo, non siamo due ragazzine spaventate. Adesso possiamo parlare delle cose in modo civile. E possiamo avere paura insieme. E puoi chiamarmi Dexter, se ti fa sentire meglio.”
E a quel punto non ricambiare quel sorriso meraviglioso fu davvero impossibile.
“Solo quando avrò visto il tuo laboratorio segreto” mossi suggestivamente le sopracciglia, guadagnandomi un colpo sul braccio. “Senti, seriamente” iniziai, riacquistando un'espressione preoccupata quasi involontariamente. “C'è una domanda che vorrei farti.”
Lei alzò gli occhi al cielo.
“Non ho nessun raggio laser che puoi usare, se era questo che volevi sapere.”
Io risi, poi scossi la testa.
“Perché hai deciso di darmi una promozione?”
Lei scosse la testa.
“Io non ho fatto niente. Anche se avessi voluto, non avrei potuto. È Derek che si occupa di queste cose.”
Corrugai la fronte.
“Dici sul serio?”
“Sì. Perché?” chiese, senza ottenere risposta. “Non avrai pensato...”
“No, certo che no” sminuii la sua insinuazione, ma poi distolsi lo sguardo, quindi lei capì ugualmente cosa era successo.
“Dimmi chi è stato ad insinuare che non ti meritavi una promozione e giuro che qualcuno si presenterà a lavoro con un occhio nero, domani.”
“Già, qualcuno di sicuro si presenterà a lavoro con un occhio nero, domani” ammisi. “Potrei non aver reagito molto bene all'insinuazione che tu potessi fare qualcosa di sbagliato solo perché mi vuoi bene.”
Lei rise, scuotendo la testa.
“Promettimi solo una cosa” mi guardò negli occhi seriamente.
“Qualsiasi cosa” risposi senza esitare, con una stretta al cuore.
“Non sfuggirmi proprio ora che sei tra le mie braccia.”

Sembra sempre strano quando qualcuno parla delle proprie ferite con tranquillità. Con quella pacata rassegnazione di qualcuno che volge lo sguardo ad un passato che ormai ha accettato. Sembra sempre un po' fuori luogo, ecco.
C'è quel magone, quella piccola traccia di amarezza che fa sempre apparire quello che si dice come una bugia.
Non che sia la verità, è chiaro. La maggior parte delle cose che si dicono in quei casi, sono frasi di circostanza.
È che dopo un po' di tempo ci si abitua e non sembra più sbagliato neanche mentire, perché in fondo dove è il male in una piccola bugia? Ti fa quasi sentire meglio, quindi forse non ce n'è. La verità, quella è una storia più complicata. Servirebbe ammettere che quasi nessuno ha la vita che si era aspettato di avere, che aveva programmato e voluto quando non sapeva come sarebbero andate a finire molte cose.
La verità è difficile, perché è una strada fatta di sbagli. Di cose che, se potessimo, non importa cosa diciamo adesso, cambieremmo in un istante.
Ma non lo ammettiamo, no, perché sarebbe troppo doloroso. Ecco come nasce la bugia, nasce per nascondere agli altri la sofferenza che ci portiamo dentro. Diciamo che va tutto bene anche quando ci sta crollando il mondo addosso, perché così è più facile.
Nessuno vorrebbe sentire la verità.
Perché la verità è che, la maggior parte delle persone, finiscono per stare insieme a qualcuno che non è l'amore della loro vita. Sposano qualcuno che amano, e di cui sperano, un giorno, di potersi innamorare.
Capita. È tremendo, ma succede tutto il tempo. Questa è la verità.
Se vivi in questo mondo, in questa epoca, le probabilità sono che tu e la tua anima gemella prendiate strade differenti, o che non vi incontriate mai. Nessuno vorrebbe sentirsi dire una cosa del genere. Per questo mentire fa meno male.
Tendiamo ad incolpare noi stessi, per quello che ci succede. Ma la verità è che, la maggior parte delle volte, non avevamo mai avuto davvero un'occasione che le cose funzionassero, fin dal primo momento.
Alcune storie, semplicemente, non sono scritte con un lieto fine.
Non sono nemmeno scritte per averne uno. Sono solo scritte per finire, prima o poi, in un modo così banale e stupido che riesce a coglierti di sorpresa anche quando te lo saresti dovuto aspettare da tempo.
Forse è meglio così, però. Giusto? Insomma, non ci sarebbe nessun film decente se l'amore fosse davvero semplice e nessun libro degno di essere letto se tutto finisse bene.
Forse è destino che le cose vadano nel modo in cui vanno. E lottare contro il destino è uno spreco inutile di forze. È tutto già scritto, è tutto esattamente come deve essere. E un giorno sapremo il motivo per cui le cose sono andate come sono andate.

“Come sta andando il nuovo lavoro?”
“Bene. Bene, le persone sono simpatiche, il lavoro va bene, va tutto...”
“Bene?”
“Eh.”
“Non va tutto bene, vero?”
“No.” Pausa. “Mi manchi.”
“Mi manchi anche tu, Calliope. Ma ti vedrò questo fine settimana, giusto? O siamo già arrivate a 'una volta al mese'?” chiesi ricordando una conversazione che avevamo avuto tempo prima.
“Parto venerdì, appena stacco.”
“Perfetto.”
Avevo provato a chiedere il trasferimento, ma non mi era stato concesso. E a lei avevano offerto parecchi più soldi e le avevano detto che, se fosse voluta rimanere lì, non avrebbe più avuto alcun lavoro per cui rimanere.
Si dice che all'inizio sia più dura. Erano passati tre mesi, ma era ancora terribile esattamente come il primo giorno.
“Arizona?”
“Sì?”
“Vorrei che potessimo tornare al liceo.”
“Tu odiavi il liceo. Soprattutto a causa mia.”
“Lo so. Ma vorrei comunque che potessimo tornare al liceo.”
“Perché ci vedevamo tutti i giorni?”
“Perché ci vedevamo tutti i giorni.”
Sospirai.
“È esattamente quello che vorrei anch'io.”

“Mi dispiace così tanto.”
“No, Calliope, dico sul serio. Smetti di scusarti. Lo capisco. Se devi lavorare, devi lavorare. Non voglio stare in mezzo tra te e la tua prossima grande conquista” le dissi con tono allegro. “In senso professionale, intendo. Perché se scopro che fai qualche altro tipo di conquiste...”
“Arizona.”
“Sto scherzando.”
“Vorrei che fossi qui. Anzi, ancora meglio, vorrei essere lì.”
“Anche io vorrei che fossi qui.”
Chiusi gli occhi e mi immaginai di essere circondata dal suo profumo. Ma, ormai da parecchi mesi, il suo profumo non c'era più.
“Ci vediamo il mese prossimo, ok?”
“Ok” rispose con riluttanza.

Era venuta a trovarmi. Tutte le settimane, era venuta a trovarmi. E poi era venuta un week end sì ed uno no. Poi una volta al mese. A quel punto, tra i miei impegni e i suoi, ci vedevamo a malapena una volta ogni tre mesi.
La realizzazione arrivò all'improvviso, nel bel mezzo della notte, quando meno me lo aspettavo.
Scattai in posizione seduta e afferrai il mio cellulare, premendo immediatamente il tasto di chiamata rapida.
“Pronto?” rispose una voce particolarmente assonnata.
“Calliope, ci siamo.”
“Arizona?” la sentii muoversi nel letto, probabilmente per controllare l'ora sulla sveglia sul suo comodino. “È successo qualcosa? Stai bene?”
“Sto bene” risposi al volo, ansiosa di cambiare argomento. “Ma, senti questa...”
“Sono le due e mezza di notte” mi fermò, la voce intrisa di sonno. “Se non sei in pericolo di vita, non possiamo parlarne domani mattina?”
“Calliope, concentrati un secondo. Ci siamo in mezzo, ok? È arrivato.”
“Cosa è arrivato?”
“Siamo a Natale.”
“Natale? Arizona, stai bene? È luglio, tesoro.”
“No, intendo, dopo una volta ogni tre mesi, c'era 'ci vedremo solo a Natale'. Ti ricordi?”
Ci mise qualche istante. Probabilmente, anche se aveva capito di cosa stavo parlando, aveva paura di dove sarei andata a parare.
“Io non ti lascio andare” disse con risolutezza.
“No, no. Ci siamo. Stavo cercando di addormentarmi, ma senza di te non ci riuscivo, e mi è arrivata la soluzione come una folgorazione, come se fossi stata colpita da un fulmine in mezzo agli occhi, capisci? Ero qui a pensare a cosa avrei fatto quando avresti deciso di finirla e a cosa avrei detto a tutti quelli che avrebbero continuato a chiedermi di te, e a come avrei vissuto qui da sola senza sentirti tutti i giorni al telefono, e ho capito.”
“Cosa, esattamente?”
Io risi, quasi come se fossi sollevata.
“Che era semplice, in realtà. Mi licenzio.”
“Puoi ripetere? Non ti sento sopra al rumore di te che parli a vanvera.”
“Ci sarà qualcuno che assume un'agente immobiliare da quelle parti, no? Guadagnerò di meno, e allora? In qualche modo faremo.”
“Arizona, sai che non si può fare.”
“No, ascolta, è perfetto. Voi non assumete, ma ci saranno altre compagnie. E so che sarà dura quando saremo in competizione, ma...”
“Sai che abbiamo una sorta di monopolio, qui. E sai che le compagnie concorrenti non assumono perché in meno di un anno le ho quasi mandate tutte in bancarotta.”
“Lo so, Callie, ma...”
“Ma?”
“Ma non voglio stare senza di te” sussurrai, grata di essere immersa nell'oscurità. “Ci stiamo perdendo tutto. Vivere insieme, comprare una casa. Ce lo stiamo perdendo. E nessuno ci garantisce che questa situazione sia provvisoria, potremmo perderci tutta la nostra vita insieme senza neanche rendercene conto.”
“Non mi fanno mai stare in un posto troppo a lungo. Vedrai che a breve mi trasferiranno da un'altra parte e allora sarebbe stato inutile farti venire qui.”
Mi passai una mano sul viso.
“Non ti fermerai mai, non è vero? Non finirà mai, ci sarà sempre una sede da migliorare, una sede nuova da gestire, non finirà mai. Non ti fermerai mai in un posto tanto a lungo da poterci mettere su casa.”
“Ne abbiamo parlato. Non dipende da me.”
“È quello che dici, ma non so più a cosa credere, Callie. So che vuoi entrare tra i dirigenti della sede centrale, ma potrebbero volerci anni. Ed io non posso vivere così per anni. So che hai un piano per la tua vita, so che io non ho mai fatto parte di quel piano, ma pensavo che prima o poi si sarebbe adattato per contenere anche me. Adesso non so più se succederà mai.”
“Pensi che io non voglia le stesse cose? Stare con te, vivere insieme, comprare una casa?” chiese incredula.
“Ma la tua priorità rimanere riuscire a venderle, giusto?”
“La mia priorità è avere un lavoro che mi permetta di darci una bella vita.”
“Davvero? E quando hai intenzione di vivere questa vita, quando saremo morte? Una bella vita è un qualsiasi tipo di vita dove posso vedere i tuoi occhi di persona tutti i giorni, per me.”
Ci fu un lungo silenzio.
Sapevamo entrambe che quello che voleva dire era che avrebbe voluto avere un lavoro che le facesse guadagnare abbastanza da permettere a me di non lavorare, in modo che l'avessi seguita alla sede centrale una volta che fosse entrata tra i dirigenti, anche se lì non avessero avuto un lavoro per me. Ma il punto era che io l'avrei seguita ovunque in ogni caso, anche se fossi finita a friggere patatine in un fast food.
Presi un lungo respiro, parlando con più calma.
“Sai, ti dico sempre che mi sono innamorata di te quando...”
“...indossavo vestiti di due taglie più grandi.”
“Già. Ma non ho mai avuto modo di dimostrarti che dico sul serio. Vivrei con te sotto un ponte, Calliope, letteralmente, se volesse dire che finalmente potrei vivere con te. E ti amo, davvero. È solo che, a volte, mi sembra che tu veda in me solo la ragazza popolare del liceo. Io non ho molto da darti, non ho un lavoro importante. Però ti amo, e ti ho dato il mio cuore, quello sì. Ma per te sembra valere molto meno di un lavoro e quando ho questa impressione mi sembra che non sia più tu la persona con cui sto parlando. Ti amo, ti amo come non mai. Ma mi viene spontaneo chiedermi se tu puoi ancora dire la stessa cosa a me.”
Aspettai a lungo una risposta nel silenzio che si era creato, ma non arrivò. Così, col cuore distrutto tra le mani, allontanai il cellulare dal mio orecchio e terminai la conversazione.

Ero a lavoro, ma non stavo davvero lavorando. Più che altro fissavo i fogli che avevo davanti senza riuscire a trovare la forza per leggerli.
Era il giorno numero tre.
Non era stato facile, il giorno dopo la conversazione al telefono, riuscire ad alzarmi ed andare in ufficio. E mi ero pentita di averlo fatto, non appena avevo incontrato Addison, che mi aveva chiesto, in uno slancio di cortesia, come se la passasse Callie.
“Bene” avevo risposto cercando di ingoiare il nodo che avevo in gola. “Sta bene.”
Ma ancora peggio era andato il secondo giorno, quando Alex era riuscito, dopo quasi un anno, a vendere finalmente quella che un tempo era stata la casa di Callie. E non la smetteva più di parlarne, era come se si fosse messo d'impegno nell'escogitare un modo per torturarmi. E tutti mi guardavano e sorridevano. Poi vedevano la mia espressione e sorridevano un po' di meno, in modo più empatico che altro. Pensavano tutti che mi mancasse. E mi mancava. Solo in un modo diverso da quello che si aspettavano loro.
Quindi quello era il giorno numero tre.
“Allora, come vanno le cose con Torres?” chiese Mark, sedendosi sulla mia scrivania come faceva di solito.
Per il mio dispiacere, era una delle persone che mi conoscevano meglio al mondo. Poteva vedere che qualcosa non andava. Dopo qualche mese era venuto a patti con il fatto che io e Callie ci stessimo frequentando, e, anzi, mi supportava anche. Però avrei preferito non parlarne, quindi mi dava fastidio che se ne fosse accorto così in fretta.
Così scrollai le spalle.
“Credo che sia finita.”
Corrugò la fronte. Fu confuso dall'espressione neutra che stavo mantenendo, dal mio tono di voce afono e dal fatto che stavo evitando il contatto visivo.
“Che significa che credi che sia finita? Non lo sai per certo?”
Mi limitai a ripetere la mia caratteristica scrollata di spalle.
“L'ho sentita al telefono, ho detto delle cose, lei non ha risposto, da tre giorni non la sento. Credo che sia finita” feci un breve riassunto per lui.
“Beh, chiamala” propose come se fosse ovvio.
“No, non importa Mark. Sai, questo era il modo in cui sapevamo entrambe che sarebbe andata a finire una relazione a distanza. Non abbiamo mai davvero avuto un'occasione fin dal primo momento.”
“E allora perché, se era tutto così scontato fin dall'inizio, sembra che ti sia passato sopra un camion?”
“Perché è il giorno numero tre. Mi sembra di essere in procinto di soffocare, mi manca letteralmente come l'aria. Ma sono sopravvissuta fino al giorno tre, quando pensavo che fosse impossibile cavarmela anche solo per due minuti. Quindi fosse posso sopravvivere per ogni altro giorno della mia vita, giusto? Forse con il tempo andrà meglio.”

Mentiamo a noi stessi, in parte perché è più semplice non far vedere alle persone che ci stanno attorno il nostro dolore. Ma soprattutto, mentiamo perché la verità è terribile da affrontare la maggior parte delle volte.
Perché la verità è che alcune storie, semplicemente, non sono scritte con un lieto fine. Finiscono e basta. In un modo che ti saresti dovuta aspettare, ma che invece ti distrugge cogliendoti alla sprovvista.
Per un po' di tempo ti senti come se alcuni dei tuoi sensi non funzionassero più come prima. È come se ti muovessi a rallentatore, sentissi tutti i suoni in modo attutito e la tua visione fosse leggermente sfuocata.
E ti chiedi come hai fatto per anni ed anni a vivere prima di incontrare lei, ma non te lo ricordi più molto bene, perché in realtà una parte di lei ha vissuto con te per tutta la tua vita, pronta per essere svegliata. Ma una volta che lei se n'è andata, che non c'è rimasto niente, non riesci più a ricordare come avevi fatto a vivere.
Ed è una sensazione che rimane anche dopo molto tempo, è una sensazione strana. In parte, la sensazione di perdita non se ne va più via.
Ma dopo giorni, mesi, o anni, riprendi a muoverti a passo più veloce, a sentire i suoni più chiari, perfino la visione del mondo riacquista un po' della sua chiarezza.
Questo non significa che non ti manchi, perché ti manca. Temi che ti mancherà per tutto il resto della tua vita.
Finché un giorno la vedi entrare nell'ufficio in cui lavori e, certo, è cambiata in qualche modo, ma per il resto è sempre lei.
E ti innamori di nuovo, devi rifare tutto da capo, ma ne vale la pena perché puoi correre alla velocità della luce e senti il battito d'ali di una farfalla e vedi una briciola anche a chilometri di distanza.
Quando la perdi di nuovo, però, è devastante.
È come se fossi paralizzato dalla vita in giù, completamente sordo e, per una buona metà, hai perso la vista.
La differenza è che stavolta sai che non riuscirai ad abituarti, o perlomeno sai che dieci anni non ti erano bastati la prima volta.
Quindi non puoi porti un obbiettivo a lungo termine, perché sai che non ce n'è alcuno. Allora ti dai dei piccoli traguardi. Come arrivare alla fine di una giornata. Alla fine di un turno. Alla fine di un'ora. O di un minuto.
Il giorno cinque, il giorno cinque andai avanti minuto per minuto, costringendo me stessa a respirare anche quando non avrei voluto farlo.
Finché il giorno sei entrai in ufficio nella più totale apatia e mi sedetti giusto in tempo per vedere le quattro persone che si erano radunate attorno alla mia scrivania.
“Ha fatto davvero un numero su di te, non è vero?” chiese Cristina, le mani sui fianchi. “Tra voi non può finire. Voi dovete avere il vostro lieto fine, la vostra storia è come quella di una favola. Se non potete farcela voi, nessuno di noi ha una chance” mi disse, invece, Meredith.
“Senti, non puoi fartela scappare così, ok? Dovrà pur esserci qualche stronzata sdolcinata che puoi dirle per riprendertela” intervenne Alex in maniera più diretta.
“So che non vorresti che ti parlassimo di lei, ora come ora, ma vediamo il modo in cui ti manca e pensiamo che dovresti fare qualcosa.”
Io li guardai tutti per un istante. Almeno, pensai, almeno ho loro che tengono a me.
“Non è colpa mia. Lei non è più la persona che conoscevo” spiegai loro con calma. “Oppure è la persona che conoscevo, solo molto più ambiziosa. In ogni caso, non le importa quanto io la amo o che non posso vivere senza di lei. È troppo impegnata a cercare di ottenere una promozione per richiamarmi e sistemare le cose, quindi forse è meglio che non chiami affatto. Vorrei dirvi che un giorno starò meglio e non sarò più innamorata di lei, ma non voglio mentirvi.”
Presi uno dei fascicoli sulla mia scrivania e lo aprii, fingendo di iniziare a leggerlo, mettendo una fine chiara a quella conversazione.
Per il mio tremendo dispiacere, ci fu un giorno sette. Ed un giorno otto dopo di quello. Fino al giorno nove.
Ero seduta alla mia scrivania, quando alzai lo sguardo e vidi Addison proprio davanti a me, che mi osservava con attenzione.
“Qualcosa mi dice che tutto questo mi si ritorcerà contro prima o poi” sussurrò più a se stessa che ad altri. “Dovevo un favore ad una persona. Quindi hai il resto della giornata libero, prendi le tue cose ed esci prima che cambi idea su questa intera faccenda.”
Corrugai la fronte.
“Quale intera faccenda?” chiesi alla sua nuca, mentre lei si dirigeva verso il proprio ufficio. “Quale intera faccenda?” domandai di nuovo, a voce più alta.
Non me lo feci ripetere, però. Gettai le mie cose dentro la mia borsa e mi alzai, dirigendomi verso l'ascensore. Mi fermai prima di raggiungerlo però, perché la persona che ne vidi uscire era stranamente familiare, in un modo che non mi sarei aspettata.
“Ciao.”
Sentii la bocca spalancarmisi contro la mia volontà.
“Ho dato le dimissioni” annunciò, per primissima cosa. “Addison mi doveva diversi favori, visto che ho salvato l'azienda dalla crisi, un anno fa. Quindi l'ho convinta ad assumermi.”
“Credevo non avessero più il tuo lavoro qui” osservai in maniera idiota, visto che sapevo benissimo che non c'era più un amministratore, ma non era esattamente una cosa in alto sulla lista per priorità di cose da dire in quel momento.
“Infatti. Ora sono un'agente immobiliare. Non è stato semplice farmi assumere, visto che ho una laurea e anni di esperienza come amministratrice sono troppo qualificata per il lavoro, ma la mia esperienza nel settore ha aiutato. Quindi, beh, ora non possiamo più permetterci di comprare una casa senza accendere un mutuo trentennale, ma...” non terminò la frase, cambiando approccio. “Io sono ancora la stessa persona che hai sempre conosciuto” affermò con decisione. “E avrei voluto una vita, per noi, il più facile possibile, ma hai ragione. Una bella vita è una qualsiasi vita che abbiamo insieme, quindi eccomi qui” mi disse, squadrando se stessa per qualche istante. “Con i vestiti di due taglie più grandi, le scarpette da ginnastica e gli occhiali da vista. Non importa se non posso permettermi vestiti firmati o lenti a contatto, e so che ho fatto un pessimo lavoro nel dimostrartelo, ma io la penso esattamente come te, su tutto. E ti amo, ti amo come non mai.”
La baciai prima che mi rendessi conto di averlo fatto.
“Sai che possiamo ancora permetterci i tuoi vestiti di marca, o perlomeno le lenti a contatto, non è vero?” mi assicurai.
Lei mi sorrise.
“Sì. Ma ho pensato che così avrei avuto più impatto scenico. Volevo farti una sorpresa, ma sistemare tutto ha richiesto più tempo del previsto e ho pensato che così mi avresti perdonata più facilmente.”
Io risi, baciandola di nuovo, tenendo il suo viso tra le mani.
“E sento che dovrei avvisarti che Addison mi ha fatto promettere solennemente, niente dimostrazioni pubbliche di affetto in ufficio. Vuole mettere una clausola in entrambi i nostri contratti.”
Risi di nuovo, prendendo la sua mano con la mia.
“E allora andiamo via di qui” proposi.
Lei annuì, sorridendo.
“Non te la prendere, ma per prima cosa voglio cambiarmi in qualcosa di più...”
“...da adulti?”
“Sì” ammise con riluttanza.
“Adesso possiamo andare a vivere insieme?”
Lei si portò le nostre mani unite vicino al viso, baciando il dorso della mia.
“Faremo spostare gli scatoloni ad Alex e Mark” propose.
“Mi piace il modo in cui pensi.”

La cosa strana?
Calliope, tre settimane dopo, ricevette sul serio una proposta per entrare a far parte dei dirigenti. A quanto pare le sue dimissioni avevano messo nei guai un sacco di gente e nessuno riusciva ad essere tanto efficiente quanto lei. Offrendole un posto tra i dirigenti speravano di poterle far gestire un po' tutte le sedi senza bisogno di farla spostare in continuazione, cosa che aveva causato le sue dimissioni in primo luogo.
La sua risposta era stata una lunga risata, seguita da un “Assolutamente no, grazie.”
Certo, poi io l'avevo costretta ad accettare. Lei aveva richiamato e detto loro che aveva una sola, imprescindibile condizione. Che anch'io avessi un lavoro lì.
Quindi eravamo tornate all'imbarazzante situazione in cui lei era il mio capo.
Eccetto che non era imbarazzante. Era fantastico, in realtà. La vedevo tutti i giorni in ufficio e tutte le sere a casa. Certo, in ufficio dovevamo comportarci professionalmente, ma era un piccolo prezzo da pagare per la vita che ci stavamo costruendo insieme.
Il trasloco non era stato facile. Soprattutto per tutte le scatole – e erano parecchie – che Mark aveva dovuto portare via da camera mia, con una scritta sul cartone che recitava 'LABORATORIO'. Non avevo risposto a nessuna delle sue domande, impedendogli in tutti i modi di sbirciare al loro interno. Nella nuova casa, ci avevo riempito una stanza.
Calliope mi aveva guardato con aria divertita dalla soglia ed io, sulla difensiva, mi ero giustificata dicendole solo:
“Cosa? Preparo per quando il nostro primogenito sarà abbastanza grande da dormire in una stanza da solo.”
Lei mi si era avvicinata, mi aveva guardato negli occhi e poi mi aveva baciato.
“Tesoro, potrebbe non piacergli Dexter, soprattutto visto che il cartone è di più di dodici anni fa. Ma forse potresti provare con la serie tv. Quando avrà più di sedici anni” aggiunse in fretta, giusto prima che avessi l'occasione di farle notare che la serie parlava di un assassino.
Comunque, la casa nuova, a Los Angeles, aveva una piscina sul retro. Questo significa sì, alte spese per la manutenzione, ma anche che la maggior parte dei giorni potevo vedere Calliope indossare un costume da bagno. Quindi forse, dopotutto, la vita che aveva pianificato per noi non era così male.
La verità è che la maggior parte delle storie non sono scritte con un lieto fine. Ma la nostra non era la maggior parte delle storie, noi eravamo fuori dal comune, eravamo speciali, lo eravamo sempre state.
Avevo avuto paura di affezionarmi a lei, di aprirle il mio cuore, ma alla fine il mio amore si era rivelato la cosa più grande che potesse mai capitarmi.
Io e lei ci eravamo amate. Contro ogni previsione. Anche quando sarebbe stato più facile non farlo, anche quando non ci piacevamo, ci amavamo comunque.
Alla fine, era venuto fuori che a nostra figlia non piaceva Dexter. In compenso, aveva tappezzato la sua cameretta con tutti i poster di una cosa chiamata 'Glee' che era riuscita a trovare.




Un grazie enorme a Trixie che ancora mi sopporta e ci regala i capolavori di grafica che vedete a inizio pagina ogni volta. Sei un mito. Grazie anche a pincopanco e pancopinco, che mi sostengono in qualsiasi cosa decida di fare, e che si sono sposate a mia insaputa a Las Vegas qualche giorno fa. Siete pessime. Ma adorabili.


Grazie a tutte, siete delle grandi. Alla prossima!


Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Il nostro primo sorriso ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU




Uploaded with ImageShack.us



Il nostro primo sorriso


Non è vero. La maggior parte delle volte, almeno. Non è vero quando ti senti raccontare che è successo all'improvviso, senza motivo.
Non c'è niente che accada senza alcuna ragione. C'è sempre qualcosa, un evento o un momento che scatenano una reazione. E, certo, forse questa reazione è imprevista, inaspettata, ma non è all'improvviso.
La maggior parte delle volte, le persone se ne accorgono.
La vedono arrivare da una distanza a malapena concepibile e si rendono conto di cos'è fin dall'inizio, dal primissimo momento della sua esistenza, quando, quella situazione, non era che il principio di un'idea.
Inizia in punta di piedi, come se non volesse disturbare.
Ed è tutto strano, perché tutto è come dovrebbe essere e poi all'improvviso non lo è più.
Comunque sia, almeno nel mio caso, ho avuto tutto il tempo per capirlo. Davvero, ho avuto tutto il tempo.
Tuttavia, è più raro, ma succede che le persone non ne abbiano idea. Qualche volta la vita ti coglie alla sprovvista.
E di tanto in tanto succede perfino in entrambi i modi.

“Che ne dici della Florida?”
“Troppo calda.”
“Whasington?”
“Troppo umida.”
“New York?”
“Troppo fredda.”
“Ok, perché non proponi qualcosa tu, allora?” le dissi con un sorriso.
Lei ci pensò per un lunghissimo momento.
“Sai, la verità è che non mi importa.”
Alzai un sopracciglio, chiaramente convinta del contrario.
“Qualsiasi posto in cui ci sia tu, andrà più che bene per me.”
Sorrisi dolcemente, baciandola.
Avevo incontrato il mio grande amore quando avevo ventuno anni.
Era la donna più bella su cui io avessi mai soffermato lo sguardo.
Aveva cambiato la mia vita.
Ma non era rimasta abbastanza a lungo da viverla insieme a me.
L'avevo amata, inutile a dirsi, ma l'avevo amata davvero.
Frequentavamo ancora entrambe l'università di medicina, quando avevamo iniziato a vederci. Lei passava la maggior parte del tempo nel mio appartamento, ma pagava ancora un affitto inutile nel suo.
Le cose andavano alla grande. Eravamo in un bel posto delle nostre vite. Potevamo prendere le cose con calma, ma potevamo prendere tutto. Tutto quello che la vita aveva da offrirci.
Fu un giorno quasi alla fine del penultimo anno, quando le presentai una ragazza che avevo conosciuto durante una delle lezioni che io e lei avevamo separatamente. Si chiamava Teddy Altman.
Loro due andarono istantaneamente d'accordo. Fu quasi strano vederle diventare amiche così in fretta, ma ero davvero fiera dell'ottimo lavoro che avevo fatto nel presentarle una persona con cui fosse così in sintonia.
Non si incontrarono per tutta l'estate, sia io che lei eravamo tornate a casa per le vacanze estive e avremmo ripreso insieme il college in autunno. Mi sarei aspettata che durante l'ultimo anno ci sarebbero stati dei cambiamenti nella nostra relazione, ma tutto era rimasto statico. Case separate, vite indipendenti.
Quando le lezioni ripresero, lei e Teddy si incontrarono di nuovo.
Iniziarono ad uscire spesso. Tra gli esami e il resto, il tempo che riuscivamo a passare insieme era già poco anche prima. Iniziò a venire da me sempre più di rado e anche quando si presentava era distratta. Era assente, poco concentrata.
“Allora, come è andata la tua giornata?” chiesi sedendomi accanto a lei sul divano.
“Mh?” chiese, voltandosi nella mia direzione. Poi registrò le mie parole. “Oh, bene. Niente di che, lezione e poi pranzo con Teddy.”
“Credevo avessi il corso aggiuntivo all'ora di pranzo” osservai casualmente. “Non ci siamo incontrate per quello.”
“Infatti. Ha deciso di fare qual corso insieme a me, abbiamo finito tardi, ma poi siamo andate a mangiare qualcosa.”
Io annuii.
“Giusto” le rivolsi un sorriso, aspettandomi che a quel punto si avvicinasse come faceva ogni volta che guardavamo un film insieme.
C'era un'aria strana tra noi due.
Globalmente, era tutto come sempre. Ma se si guardavano i dettagli, le piccole cose, era tutto sbagliato.
Le cose andarono avanti in quel modo per almeno sei mesi.
Me ne resi conto, fin dal primo momento, ma non dissi niente per paura di perderla. Non dissi niente perché era più facile chiudere gli occhi e fingere che tutto fosse come era sempre stato e come doveva essere.
Finché fingere era diventato inutile e stancante.
Così le chiesi cosa non andava.
“Che intendi?”
“Mi sei sembrata distante. Nell'ultimo periodo, in generale.”
“Ma no. Non sono distante. Mi sto solo preparando a come sarà dopo.”
“Dopo?”
“Sì. Dopo, sai? Quando vivremo in due città diverse e cose così.”
Corrugai la fronte.
“Credevo che non fosse questo quello che volevi” osservai con semplicità. “Avevamo parlato di dove andare per la specializzazione e al tempo mi era sembrato di capire che fossi abbastanza sicura di voler scegliere un posto in cui andare insieme.”
“Erano anni fa.”
Io la guardai e basta, un sopracciglio alzato. Non dissi niente.
“Non è uscita nel modo migliore, ma...”
“Erano anni fa? Davvero? Quindi mi stai dicendo che non abbiamo mai avuto un'occasione in ogni caso?”
“Abbiamo ventiquattro anni. Ti senti davvero pronta per sistemarti e cose del genere?”
“Ok, adesso parli come mia madre. Qui non c'entra l'età, c'entra la persona di cui si sta parlando. E nel nostro caso pensavo davvero che saremmo potute resistere parecchio più a lungo.”
“Mi dispiace.”
“Ti dispiace? Perché? Non è quello che vuoi, va bene. Non lasciare che qualcuno ti dica mai che quello che desideri è sbagliato. Non sei pronta, e questo va bene.”
La sua espressione tradì quello che sospettavo da un sacco di tempo.
“È tutta un'altra storia, tuttavia” continuai a voce bassa “se sei pronta e il problema sono io. Perché in quel caso ci terrei a saperlo. Vorrei che fossi onesta con me. C'è qualcosa che dovrei sapere su cosa ti ha fatto cambiare idea?” chiesi con voce calma e controllata, mantenendo un'espressione neutra.
“Spero che tu sappia che non sto mentendo quando dico che non ho mai voluto che niente del genere accadesse.”
Risi amaramente, scuotendo la testa e distogliendo lo sguardo.
“So che tu andrai a Seattle” continuò. “E tu sai che io sono stata accettata anche lì.”
Anche?”
“Mi hanno preso anche a New York.”
“Bene, quindi questa cosa è iniziata parecchio tempo fa. Addirittura prima che iniziassimo ad inviare le domande.”
“Neanche tu hai fatto domanda solo a Seattle, no?”
“No, ma New York non era nella lista. E sai perché? Perché secondo te è troppo dannatamente fredda” le spiegai con voce calma, cercando di non alzare il tono.
“Mi dispiace.”
“Quello è il miglior programma di insegnamento degli Stati Uniti, credi che non avessi voluto provare ad entrare lì?”
“E allora perché non l'hai fatto?”
“Perché credevo che stessimo progettando una vita per noi, insieme. Non volevo andare in un posto in cui tu non volevi venire.”
“Se può consolarti, odio davvero il freddo di New York.”
“Già. Almeno su quello non hai mentito. E cos'è tanto importante da spingerti a cambiare idea in così poco tempo?”
Distolse lo sguardo.
Chiusi gli occhi appena lo capii e mi maledissi.
“Fammi indovinare. New York è dove si specializzerà Teddy.”
“Non è come credi.”
“No?”
“No. È la mia migliore amica, sto uscendo da una storia lunga con te e mi farà bene averla al mio fianco.”
“Oh, quindi sapevi da tempo che ci saremmo lasciate e hai addirittura già progettato il tuo periodo di cordoglio. A New York. Dove non volevi andare, dove mi hai dissuaso dal fare domanda. Non stai solo scappando da me, quindi. Stai scappando insieme a lei. Hai trovato qualcosa di più importante di me, che ti facesse cambiare idea.”
Scosse la testa, passandosi una mano sulla fronte.
“Non posso crederci” sussurrai.
“Ed io non posso credere che non te ne fossi accorta.”
“No, me ne ero accorta eccome” ritorsi. “Ma sono stata zitta perché non volevo perderti. Perché tu significhi il mondo, per me.”
Riportò gli occhi dentro i miei e mi guardò per un lungo secondo.
Poi si avvicinò, prendendomi il viso tra le mani e mi baciò. All'inizio fu lento e dolce, ma ben presto si trasformò in tutto quello che eravamo state io e lei. Amore e passione.
Mi allontanai, coprendomi il viso con le mani.
“Ho bisogno di sentirtelo dire.”
“Cosa?”
“Dillo ad alta voce.”
Lei rimase in silenzio.
“Ci sei stata a letto?”
“Calliope.”
“Rispondi alla domanda.”
Rimase in silenzio per un altro lungo istante.
“Sì.”
Scossi la testa, in un tentativo di schiarirmi le idee che andò completamente fallito.
“Fuori.”
“Ti prego, non...”
“Vattene. Prendi la tua roba e vattene da qui. Quando torno non voglio più vedere niente di tuo.”
Presi il giacchetto e le chiavi ed aprii la porta dell'appartamento. Esitai, incapace di varcare la soglia.
“Teddy sta con qualcuno. Lo sapevi?” le domandai freddamente.
Lei alzò lo sguardo da terra e scosse la testa affermativamente.
“Hai rovinato la vita a quella persona. Le conseguenze delle tue azioni, delle tue azioni, si sono ripercosse su quella persona e su di me.”
Lei annuì più volte, lo sguardo triste.
“Riflettici quando avrai portato via da qui tutto quello di tuo che riesci a trovare” le dissi, sbattendomi la porta alle spalle.
Pensai che avrebbe combattuto perché la perdonassi.
Invece, quando tornai, l'appartamento era esattamente come quando lo avevo lasciato. Mancavano solo i suoi occhiali da sole da sopra il tavolino, tre dei suoi libri da una delle mensole, qualche indumento dai cassettoni. E lei.

Ogni tanto mi capitava di ripensare a lei.
Così andavo da Joe, mi mettevo a sedere, ed ordinavo da bere.
“La mia vita è un disastro” sussurrai, prendendo un sorso del mio drink.
“Mi scusi, sta parlando con me?”
Mi voltai verso la donna seduta accanto a me. Lei mi rivolse un sorriso gentile.
“Non riesco mai a capire se le persone sono pazze o stanno parlando al cellulare con un auricolare, ultimamente.”
“Oh, no. Io sono all'antica” le risposi accennando un sorriso. “Sono pazza.”
“Buono a sapersi. Odio la tecnologia” roteò gli occhi in maniera esagerata. “Beh, quella che non ha a che fare con la chirurgia.”
Io risi. “Anche lei è un chirurgo?”
Per un attimo sembrò perplessa dalla domanda. Senza rispondere, inclinò la testa di lato e mi sorrise.
“Allora, perché la sua vita sarebbe un disastro?”
“Ah, ecco” forzai una risata mentre mi voltavo di nuovo in avanti. “L'amore della mia vita mi ha piantato.”
“Ouch.”
“Quattro anni fa.”
“Un po' meno ouch.”
“Dopo avermi tradito per non so quanto tempo.”
“Super ouch.”
“Qualcosa del genere, sì.”
Chiusi gli occhi per un secondo.
“Mi scusi” le dissi, alzandomi e dirigendomi verso il bagno.
Neanche due minuti dopo, entrò anche lei.
“Ehi.”
“Ehi” risposi immediatamente.
“Ortopedia, giusto?”
Fui perplessa che ne fosse a conoscenza. Irradiavo una vibrazione di qualcuno che spezza le ossa alla gente per vivere, per caso?
“Sì, giusto.”
“Sono Arizona. Robbins. Lavoro in chirurgia pediatrica. Ti ho vista in ospedale.”
Ed ecco quindi spiegato lo sguardo perplesso di quando le avevo chiesto se anche lei fosse un chirurgo. Con tutto il gossip del Seattle Grace, era praticamente impossibile non conoscere tutti i propri colleghi.
“Stai bene?”
“Ma sì, sì, sto bene.”
“Le persone parlano, dove lavoriamo. Parlano, molto. Quindi per amor d'onesta penso che dovrei dirti che so delle cose di te, perché le persone parlano.”
“Intendi...” lasciai la frase in sospeso. “Fantastico.”
“Lo è” confermò. “Quello che dicono” chiarì. “Alle persone piaci molto, ti rispettano, si preoccupano e si interessano. Ad alcuni di loro, piaci davvero. È solo che sembri triste. E volevo che sapessi che parlano bene. E che quando non sarai più triste, le persone faranno la fila per te.”
Io la guardai con aria seria.
E poi scoppiai a ridere perché, sveglia. Erano passati quattro anni. Ero stata lì per quattro anni. Se ci fosse stata una fila, qualcuno si sarebbe fatto avanti, ormai.
“Mi vuoi fare qualche nome?”
E avrei dovuto vederlo arrivare.
Ma, come ho detto, alcune cose te le aspetti da un sacco di tempo. Per altre, invece, la vita ti coglie alla sprovvista.
Lei non rispose, non si mosse. E così io non lo capii.
“Penso che lo capirai” sussurrò e basta, uscendo dal bagno.
Io la guardai andare via, confusa.
Che intendesse se stessa? Ma non poteva essere. E in più, se fosse stata lei, avrebbe fatto qualcosa per renderlo più chiaro.
Tornai al bar e lei non c'era più.
“Joe” attirai l'attenzione del barista. “Quanto ti devo?”
“Niente in realtà. La donna che era seduta qui ha pagato per entrambe” mi sorrise, tornando velocemente al centinaio di persone che aspettavano di essere servite.
Io lo guardai, perplessa, sbrigandomi ad uscire.
Ma lei era sparita nel nulla.

Quando la rividi a lavoro, tre giorni dopo, fu perché fui chiamata a lavorare su un caso che aveva anche lei.
Il mio primo istinto fu quello di voltarmi ed andarmene nell'angolo più lontano da lì che l'ospedale avesse da offrirmi.
Ed è esattamente quello che tentai di fare, e che avrei fatto, se quell'idiota del mio migliore amico non mi avesse preso per le spalle, fatto voltare di nuovo, ed entrare nella stanza.
“Buongiorno. Avete chiamato ortopedia e chirurgia plastica?”
Arizona si voltò per un istante soltanto.
“Sì, mi serve qualcuno di ortopedia per sistemare la frattura scomposta di Abby.”
La ragazzina di quindici, forse quattordici, anni, si stava agitando sul lettino.
“Fa ancora male.”
“Lo so, ma ti abbiamo dato tutti gli antidolorifici possibili. La radiografia dovrebbe essere pronta, però. Quindi ti portiamo su e ti operiamo subito, ok?”
“Avete chiamato chirurgia plastica per una gamba? Che c'è, a pediatria non vi insegnano a mettere dei punti?”
“I miei genitori hanno insistito. È colpa loro” la difese Abby. “Pensano che una cicatrice sarebbe dannosa per la mia carriera. Sono una modella.”
“Davvero?” chiesi, corrugando la fronte. “Avrai al massimo quindici anni.”
“Quattordici” mi corresse. “Mi fa davvero male.”
“Andiamo” ordinò Arizona ai due specializzandi al suo fianco. “E perché hanno mandato una specializzanda? Avevo chiesto due strutturati” si lamentò scherzosamente mentre entravamo in ascensore.
“No, avevi chiesto il meglio. Io sono il meglio che ortopedia ha da offrire, quindi hanno mandato me.”
“Abby, sai dirmi che succede se i genitori di una modella di quattordici anni denunciano uno strutturato?” chiese Arizona.
“Il poveretto viene licenziato.”
“Ottimo. Ora, sai dirmi che succede se viene denunciato uno specializzando?”
“Il poveretto viene licenziato?” chiese, stavolta con incertezza.
“Chi è responsabile del caso viene licenziato” la corresse Mark.
“E quella sarei io” intervenne Arizona con un sorriso. “Quindi cerca di non farmi licenziare, d'accordo, Calliope?” mi rivolse un sorrisetto mentre uscivamo dall'ascensore.
“Chi ti ha detto quel nome?” chiesi, corrugando la fronte.
Lei si limitò a ridere.
“No, sul serio. Chi ti ha detto quel nome?”

“Ottima operazione” commentò uscendo dalla sala. “Dottor Sloan, dottoressa Torres” ci salutò, sorridendoci, mentre si allontanava.
“La farai davvero andar via?” sussurrò Mark.
“Assolutamente no” risposi, affrettandomi nella sua direzione.
Entrai dentro l'ascensore proprio mentre le porte si stavano richiudendo.
“Dottoressa Robbins, vorrei discutere di questo caso con lei.”
“Davvero?” domandò. “Perché è andato tutto liscio come l'olio, non pensavo ci fosse molto di cui discutere.”
“Ho un paio di domande” sbattei gli occhi qualche volta, pensando attentamente ad una buona scusa, senza successo. “Potremmo parlarne stasera. Diciamo, da Joe?”
Lei mi guardò con aria divertita.
“Su cosa ha avuto dei dubbi, esattamente, dottoressa Torres?”
“Non lo so. Ma vedrà che entro stasera troverò sicuramente qualcosa.”
Si voltò in avanti, sempre sorridendo.
“Perché no.”
Le porte dell'ascensore si aprirono.

Arizona diventò la mia migliore amica più in fretta di quanto mi sarei aspettata.
Forse la colpa fu mia, perché ci stavo mettendo troppo a fare la prima mossa. O forse la colpa era sua perché non aveva fatto la prima mossa lei quando avrebbe dovuto, cioè moltissimo tempo prima. Fatto sta che dopo sei mesi eravamo sempre migliori amiche. Niente di meno, ma, tristemente, niente di più.
Io avevo promesso a me stessa che non avrei mai detto niente, per non rovinare la nostra amicizia, avevo promesso che mi sarei portata quel segreto dentro fino alla fine.
Ma la natura umana è strana.
I tuoi segreti ti sfuggono quando meno te lo aspetti.
“Mark ci aspetta giù alla mensa” mi fece presente appena fui fuori dalla sala operatoria. “Ho appena avuto un suo messaggio.”
“Adesso tu e lui vi mandate messaggi?” chiesi, sorridendo.
Lei alzò gli occhi al cielo.
“Lo sto facendo per te. È amico tuo, quindi ci tengo che sia anche in buoni rapporti con me. Non vorrei che ti trovassi mai a scegliere se invitare uno o l'altra ad una cena, perché sai quanto entrambi adoriamo la tua cucina.”
Io risi, ignorando il fatto che la sua argomentazione sembrava essere quasi completamente priva di logica.
Parlammo del più e del meno finché non ci trovammo quasi davanti alle porte della caffetteria. Fu allora che mi bloccai e il mio sorriso sparì tanto velocemente quanto ci mise il cerca persone che avevo in mano a toccare terra.
“Addison.”
“Callie. Ho chiamato Mark e mi ha detto che stavi andando a pranzo.”
Io non mi mossi.
Arizona si abbassò e raccolse per me il cerca persone, rimettendo le batterie al loro posto e riaccendendolo.
“Fortunatamente non si è rotto” mi sorrise, porgendomelo.
Io lo presi distrattamente.
Corrugai la fronte, mentre fissavo quell'affare e facevo un passo in direzione della mensa.
“Callie, aspetta. Dobbiamo parlare.”
“No. Non è vero” risposi, alzando lo sguardo per incontrare il suo. “Io non devo fare niente. Io e te non siamo più niente.”
“Io ti aspetto dentro, se...” iniziò cautamente Arizona, cercando di lasciarci da sole.
“Non importa. Ho finito” le dissi, voltandomi verso la mensa e bloccandomi appena vidi la persona che mi stava davanti.
“Teddy.”
“Arizona.”
Io guardai verso la donna al mio fianco.
“Voi due vi conoscete?” domandai, corrugando la fronte.
“Ci conoscevamo, un sacco di tempo fa” rispose Arizona con un sorriso. “Come stai?” le domandò educatamente. “Sono anni che non ti sento. Da circa, cavolo, saranno almeno quattro anni, perché ero al mio terzo anno di specializzazione a New York.”
“Sto bene. Tu come stai?”
Scrollò le spalle.
“Sto...” guardò nella mia direzione “...andando a pranzo?”
“Voglio che tu sappia che quando ho fatto domanda per il trasferimento non sapevo che tu lavorassi qui.”
“Non c'è problema Teddy, davvero. Sarà divertente lavorare con te” sorrise a trentadue denti, abbracciandola velocemente e cogliendola del tutto alla sprovvista. “Ci vediamo in giro.”
La salutò tenendo aperta la porta della mensa per me.
Guardai Addison per un secondo soltanto con l'aria di qualcuno che non ci sta davvero capendo più niente.
“Tu odi la pioggia” sussurrai.
Poi scossi la testa e me ne andai dentro la mensa. Sentii Arizona sospirare pesantemente, prima di seguirmi. Sfortunatamente, quella discussione non sembrava essere finita lì.
“Immagino fosse lei. La donna che ti ha tradito.”
Non risposi.
“Sai, ho smesso di credere nelle relazioni a distanza dopo Teddy. Sapevo che non sarebbe stato facile, ma non pensavo che sarebbe stato tanto difficile.”
Continuai a non rispondere.
“Capisco che tu sia arrabbiata. O amareggiata. Ma è passato molto tempo. Devi riuscire a lasciar andare.”
“Sai quando” la bloccai “succede qualcosa di stupido. Tipo, qualcuno ci porta un libro che avevamo prestato loro con gli angoli piegati e diciamo 'non presterò mai più un libro a qualcuno'. Per colpa di qualcuno, non siamo la stessa persona che eravamo prima. Lei mi ha cambiato. Ha cambiato la mia vita. Mi ha spezzato il cuore. Ed io sono lì che penso 'non amerò mai più qualcuno nello stesso modo'. Ed ecco fatto, mi ha rotto.”
Lei annuì, distogliendo lo sguardo.
“Sono solo così arrabbiata, sai, per quello che mi ha tolto.”
“Lo capisco. E vedrai che un giorno, in qualche modo, riuscirai ad andare avanti.”
“Ci vediamo stasera a casa mia?” chiesi, speranzosa.
“Come ogni giovedì, è la serata del film, giusto?” chiese, sorridendo.
Quando ci sedemmo mi guardò con il sorriso ancora sulle labbra. Non sembrava sincero come era di solito però.
C'era un'ombra strana sul suo viso.

“Guardale, guarda come ridono e si divertono.”
“Callie” lo disse in modo molto annoiato.
“Mark” ripetei imitando il suo tono di voce.
“Lascia stare, ok? Lasciala perdere. È il suo secondo giorno qui, lascia passare almeno una settimana prima di dare alle infermiere qualcosa di cui parlare, d'accordo?”
Io infilzai una foglia d'insalata con la forchetta.
“D'accordo” acconsentii.
“Perfetto. Adesso, non dare di matto, ma sta venendo da questa parte.”
Io alzai lo sguardo, trovandomela davanti.
“Ti prego sii civile” sussurrò Mark.
“Callie, possiamo parlare?”
“Certo. Mi è passato l'appetito in ogni caso.”
La seguii dentro una delle stanze on-call. Era vuota.
“Sto ascoltando.”
“Mi sei mancata.”
Quello mi colse di sorpresa.
“Pensavo che ormai non provassi più niente per te, quando me ne sono andata, ma invece mi sei mancata.”
“Ok.”
“La verità è che non sarei venuta qui se Teddy non avesse insistito così tanto. Non volevo intromettermi nella tua vita. Ma le cose tra noi non vanno molto bene ed ho pensato che, magari, dandole almeno questa vinta, saremmo riuscite a risolvere alcuni dei nostri problemi.”
Io mi chiesi se avesse detto parole simili a quelle a Teddy, quattro anni prima, quando mi aveva tradito con lei.
“Sai, Teddy è il tipo di persona che non ha mai capito cosa significhi amare qualcuno così tanto da essere fedele in ogni senso della parola.”
Corrugai la fronte, ma decisi che era meglio non chiedere spiegazioni riguardo quella sua ultima ammissione.
“Mi dispiace che tu abbia fatto la scelta sbagliata.”
“L'ho fatta davvero, non è così?” chiese, avvicinandosi di un passo. “Ti ho rivista ed è tutto tornato indietro.”
“Lei ti ha cambiato” le dissi. “New York e Seattle sono solo esempi. Ti ha cambiato in un sacco di modi. Io non lo avrei fatto, Addie. Io ti avrei amata esattamente per quello che eri sempre stata prima di lei.”
Uscii da quella stanza senza guardarmi indietro.

“Penso che provi ancora qualcosa per me” le dissi.
“Io penso che tu provi ancora qualcosa per lei.”
“Non essere ridicola, Arizona.”
Lei scrollò le spalle.
“Io, quando penso di avere ancora dei sentimenti per qualcuna con cui ho rotto tempo prima, generalmente cerco di scoprire se si tratta di attrazione, perché, sai, quella non se ne va mai, oppure se si tratta ancora di amore.”
“E come lo capisci?” chiesi, prendendo un sorso d'acqua.
“Andandoci a letto” rispose come se fosse ovvio.
Quasi mi strozzai.
“Ok. No, Addison è fidanzata. E quello sarebbe sbagliato.”
“Lo so. Infatti ho detto io.” Poi mi sorrise. “Perché hai pensato ad Addison mentre parlavamo di sentimenti irrisolti?”
“Divertente. Sei davvero furba. Davvero.”
“Comunque concordo con te. Niente donne fidanzate. Quando Teddy lo ha fatto a me...”
“Aspetta” feci un conto veloce degli anni. “Tu eri la persona con cui stava quando ha iniziato a vedere Addison, non è vero?”
“Beh, sì. Pensavo lo avessi capito.”
Io mi morsi una guancia.
“Adesso capisco Teddy ancora di meno” sussurrai a me stessa, scuotendo la testa e riprendendo a mangiare.
Lei mi guardò ancora per un momento, prima di tornare al suo pranzo.
Forse avrei dovuto fare qualcosa per rendere ancora più chiare le intenzioni che avevo nei suoi confronti.

Io e Arizona non stavamo insieme.
Fu quello che continuavo a ripetermi mentre Addison mi baciava sul collo.
Non la stavo tradendo.
Andava tutto bene.
Eccetto che mi sentivo come se la stessi tradendo e che non andava per niente bene.
“No, Addison, fermati.”
Mi alzai e mi risistemai il camice.
“Che c'è?”
“Non posso farlo. Mi dispiace.”
Era sera, tardi, molto tardi. Era soltanto il suo secondo turno di notte in ospedale, visto che era stata lì meno di un mese e per le prime due settimane non ne aveva avuti. Eravamo entrambe di turno e mi ero offerta di mostrarle alcune delle stanze più comode dell'ospedale, cercando di essere civile con lei. Come suggerito da quell'idiota di Mark, che, poco ma sicuro, avrei colpito appena ci saremmo incontrati.
“Devo andare.”
Uscii da lì dentro e dall'ospedale, visto che il mio turno era in realtà finito quasi mezz'ora prima. E c'era assolutamente una cosa che dovevo fare prima di perdere il coraggio che ero riuscita a racimolare.
Aprì la porta di casa sua con aria confusa.
“Lei mi ha rotto” iniziai senza sapere dove stavo andando a parare. “Ed io pensavo che non sarei riuscita ad amare mai più” le dissi.
Guardò in basso.
“Calliope” cercò di interrompermi, ma io non la ascoltai.
“E poi, un giorno, improvvisamente, incontro te.”
Alzò di scatto lo sguardo.
“Sai, c'è uno studio che dimostra che una cotta per una persona dura al massimo quattro mesi. Se dura più a lungo, significa che è amore.”
“Calliope, mi dispiace così tanto. Ho bevuto parecchio ieri sera, ed ho un ricordo molto confuso di tutta la notte” spiegò, passandosi una mano sugli occhi.
La guardai, leggermente confusa.
“Chi c'è alla porta?”
Sentendo la voce da dentro l'appartamento, notai che Arizona stava indossando soltanto una vestaglia, mentre la donna che apparì alle sue spalle era in accappatoio e aveva i capelli bagnati.
“Teddy.”
“Callie. Credevo fossi di turno.”
“Ho finito un'ora fa.”
Annuì, sparendo di nuovo dalla mia vista.
Spostai lo sguardo su Arizona.
“Spero che tu abbia capito che tipo di sentimenti hai per lei” le dissi, incredula.
“Non ho nessun tipo di sentimento per lei, Calliope.”
“Come no. Senti, non importa. Lascia stare.”
Mi incamminai verso l'ascensore alla fine del corridoio.
“Tu sai che io...” mi urlò proprio mentre sentivo le porte chiudersi e la sua voce sparire.

Quando la mattina dopo entrai in ascensore ero consapevole di avere gli occhi rossi. Mi appoggiai con le spalle alla parete.
Ero salita dal parcheggio sotterraneo, Mark mi aveva visto attraversare la strada e fatto salire in automobile insieme a lui in modo che gli raccontassi della sera prima. Io avevo mantenuto un silenzio ostinato.
Al secondo piano, con un suono metallico, le porte dell'ascensore si aprirono.
Non alzai nemmeno lo sguardo da terra, ma riconobbi le voci di Addison e Teddy dare il buongiorno. Incrociai le braccia davanti al petto ed osservai il numero dei piani scorrere sul display dell'ascensore.
Stavamo tornando verso il primo piano, non potevo crederci. Quel viaggio in ascensore non sarebbe finito mai.
Quando le porte si aprirono ed incrociai il suo sguardo, raddrizzai la schiena.
Lei esitò, salendo dopo essersi guardata attorno con incertezza. Eravamo proprio tutti lì.
Quando ci trovammo di nuovo davanti al terzo piano scoppiai a ridere, pensando all'assurdità della situazione.
Quattro paia di occhi si voltarono nella mia direzione.
“Mark, volevi che ti raccontassi di ieri sera, giusto?” le porte, al quarto piano – quello di ortopedia e otorino-laringoiatria – si aprirono e sia io che lui uscimmo. “Senti questa. Ero di turno in ospedale...” le porte dell'ascensore si richiusero alle nostre spalle ed io smisi di parlare, tornando seria. “Quando vedi Addison, Teddy o Arizona, fai finta di sapere che hanno fatto qualcosa che non avrebbero dovuto” suggerii. “Prima o poi ad una di loro sfuggirà la verità su quello che è successo, ma non sarò io a raccontartelo.”
Gli detti una pacca sulla spalla mentre mi allontanavo.

La rividi un paio di giorni dopo, all'ora di pranzo. Mi si sedette affianco e mi afferrò un braccio quando provai ad alzarmi, tenendomi seduta.
“Possiamo parlare?” chiese quasi timidamente.
Io ricordai le parole di Mark sull'essere civile.
“Certo” risposi con riluttanza. “Perché no.”
Continuai a guardare verso il tavolo.
“So che quello che è successo l'altra sera...”
“No. Lascia stare. Non voglio sentirlo” lei aprì nuovamente la bocca. “Dico sul serio, Arizona. So che le cose non sono mai in due dimensioni. Viviamo in un mondo in cui esiste anche la profondità, e la maggior parte delle volte ne siamo tutti davvero grati. Ma io non concepisco il tradimento, non ci riesco proprio. Per questo quando Addison ci ha provato con me io me ne sono andata e sono venuta da te, perché io voglio...” chiusi gli occhi ed inspirai. “Vorrei qualcuno da poter tenere per mano senza che se ne vergognasse. Vorrei qualcuno che mi lasciasse prendermi cura di entrambe e che mi permettesse di essere me stessa. E so bene che Addison non è quel qualcuno, non lo è mai stata, ma pensavo onestamente che tu potessi esserlo.”
“Io non tradirei mai qualcuno, Calliope. E tu lo sai.”
“Ma Teddy lo ha fatto, insieme a te. Questo conta qualcosa. Non posso chiudere gli occhi e fare finta di non averlo mai saputo, perché ora come ora non riesco nemmeno a guardarti in faccia, mi dispiace.”
“Sono la stessa persona che ero tre giorni fa.”
“No. Non lo sei. Nessuno lo è. Cresciamo in continuazione, è la vita.”
“Avevo bevuto. E se tornassi indietro...” iniziò, prima di rendersi conto che era del tutto inutile. “Tu sai che io non volevo altro che te” mi disse, prendendomi una mano. “E se non lo sapevi allora sono disposta a prendermi la colpa di tutto quanto. Di tutto quello che ci è successo.”
La guardai per la prima volta da quando si era seduta.
Il mio cerca persone scelse quel momento per suonare.
“911” borbottai, alzandomi ed andandomene.

La evitai per il resto della giornata, però quella sera pensai molto a lei. A quello che era successo, al modo esagerato in cui avevo reagito.
Lei non mi stava tradendo.
Io e lei non eravamo mai state insieme. Aveva tutto il diritto di fare quello che voleva.
E allora perché mi ero sentita così ferita?
Forse perché in realtà volevo che lei cercasse solo me.
Ma allora non era colpa sua.
Era colpa mia.
Io avrei dovuto fare qualcosa perché lei riuscisse a vedermi.
Invece ero rimasta a guardare mentre le mie occasioni, una dopo l'altra, andavano sprecate senza una ragione.
Avrei dovuto usare meglio il tempo che avevo avuto. E mi ripromisi di farlo, da quel momento in poi.

Il giorno dopo entrammo in ospedale praticamente in contemporanea.
Lei ne approfittò per appoggiare una mano sul mio gomito e farsi seguire dentro uno degli ascensori.
Io non le davo occasioni di parlare, così lei se le prendeva da sola con la forza. Non potevo biasimarla.
“Dove ero rimasta ieri?” chiese mentre le porte si chiudevano. “Ah, sì. Giusto. Sono disposta a prendermi la colpa di tutto quello che ci è successo, Calliope. Ma voglio che tu ti renda conto di quanto è ingiusto che io non avrò mai l'occasione che sto aspettando da tutto questo tempo perché mentre stavo aspettando che tu riuscissi a vedermi ho fatto un errore. E sì, era un grande errore, ma...”
“Ma io ti ho sempre vista” sussurrai, scuotendo appena la testa. “Non so perché hai aspettato così tanto. No, anzi, non so perché io ho aspettato così tanto. No, un momento, quello lo so. Era perché non volevo perderti. Perdere la tua amicizia. Avevo paura che non fossi interessata a me in quel senso.”
“Ti sei scordata la prima volta che ci siamo incontrate, per caso?” chiese, incredula. “Ti ho detto che ci sarebbero state delle persone in fila per te.”
“Mi ricordo. Pensavo solo che tu non fossi tra quelle.”
“Davvero? Perché a me sembrava di essere stata abbastanza chiara.”
“Dovevi essere più chiara, allora. Tipo, baciarmi o qualcosa del genere.”
“Che razza di persona bacia una sconosciuta nel bagno di un bar?”
“Non lo so. Che razza di persona bacia la sua migliore amica in un ascensore?”
“Co-mphf.”
Fu breve. E dolce. E fantastico. E dolce.
Rimasi in silenzio per qualche istante, cercando di comporre qualche pensiero anche solo vagamente razionale.
“Però devi, devi darmi un po' di tempo” le dissi ad occhi ancora chiusi. “Il minimo indispensabile per dimenticarmi di quello che è successo.”
“Vorrei che non avessi bisogno di dimenticare” sussurrò. “Vorrei che potessi solo perdonarmi, ma mi sta bene. Prenditi tutto il tempo che vuoi.”
“Io non devo perdonarti niente, non mi hai tradito. Non hai fatto niente di male. Questa è solo una mia paura, lo sai. Che un giorno cambierai idea su di me e deciderai che non sono abbastanza e mi tradirai.”
“Non lo farei.”
“E io lo so. Davvero, lo so. Ma ho bisogno di un paio di giorni, tra me e te, di come era fino ad un paio di mesi fa. In modo da potermi ricordare perché ne sono così sicura, ok?”
Lei annuì.
Presi una delle sue mani con la mia.
“Non userai” guardò in basso verso le nostre mani “questo tempo” e poi di nuovo dentro ai miei occhi “per ripensamenti su Addison, vero?”
“Non essere ridicola.”
Strinse la mia mano con più decisione.
“Prendi tutto il tempo del mondo.”

All'inizio ero convinta che sarebbe servito del tempo. Parecchio tempo.
Un paio di giorni dopo ero in corridoio, alla postazione delle infermiere e Mark era al mio fianco, avevo i gomiti e la schiena appoggiati sul bancone mentre la guardavo parlare con i genitori di un suo paziente.
“La stai fissando” mi fece notare l'uomo al mio fianco.
“Non posso evitarlo. È...” quasi fui sorpresa di quello che stavo per dire. “Mark, è bellissima.”
“Già, non c'è nemmeno bisogno che tu me lo dica. Te lo leggo negli occhi da quando l'hai incontrata.”
“E il modo perfetto in cui sorride. Guardala, Mark. Guarda.”
“Non mi serve guardare” rispose compilando una cartella. “Ha quell'effetto solo su di te” mi fece sapere, cliccando la penna prima di rimetterla al suo posto nel taschino del proprio camice. “E questo è perché tu la ami.”
Io lo guardai per un istante, ma poi tornai di nuovo a concentrarmi su Arizona.
“Non capisco cosa tu stia aspettando. Lei è proprio lì, Torres” mi appoggiò una mano sulla spalla, stringendo appena. “È proprio a portata di mano” sussurrò “ma le cose non rimarranno in questo modo per sempre.”
E poi se ne andò, mentre io invece andavo incontro a lei. Aspettai che i due genitori si allontanassero, prima di schiarirmi la voce.
“Calliope” mi salutò con un sorriso.
“Mi stavo chiedendo se avessi voglia di vedere un film a casa mia, stasera.”
Lei mimò un espressione colpita.
“E non è nemmeno giovedì. Deve essere il mio giorno fortunato, oggi. Alle sette?”
“Alle sette” confermai. “Niente take away, però. Cucino io.”
“Il mio giorno fortunato davvero” osservò, mentre mi allontanavo.
Quando arrivò avevo preparato tutto. Il film era dentro il lettore DVD, la cena era pronta per essere mangiata davanti alla televisione.
Le porsi il suo piatto e poi mi sedetti accanto a lei con il mio. A circa metà del film avevamo finito di cenare e appoggiato tutto sul piccolo tavolo davanti a noi.
Appoggiò la testa sulla mia spalla.
Io mi voltai verso di lei, sentendo il profumo del suo shampoo. Le passai un braccio attorno alle spalle, guardandola negli occhi quando alzò il viso verso di me e sorridendole appena.
Lei sollevò la testa dalla mia spalla e mi guardò un lungo momento, posando una mano sull'altra mia spalla prima di avvicinarsi e baciarmi.

Avevo incontrato il mio grande amore quando avevo ventuno anni.
Era la donna più bella su cui io avessi mai soffermato lo sguardo.
Aveva cambiato la mia vita.
Ma avevo incontrato la mia anima gemella quando avevo ventotto anni.
Era la donna più bella su cui io avessi mai soffermato lo sguardo. No, non è vero. Era la donna più bella.
Questo è più accurato.
Era gentile, quello era il tratto principale del suo carattere che mi aveva sconvolto il cuore. Era così gentile e aveva un sorriso per tutti. Anche per chi non si meritava di avere un suo sorriso. E anche per me.




Un grazie di cuore a tutte. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** La nostra prima gravidanza inaspettata ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito! Questa shot inizia in medias res, vi avverto...E inoltre, il banner è il mio preferito <3

Avvertimenti: AU




Uploaded with ImageShack.us



La nostra prima gravidanza inaspettata


Calliope Torres era rimasta incinta all'età di diciotto anni.
Il padre di sua figlia le aveva dato cinquecento dollari e le aveva detto di prendersi cura della questione. E lei lo aveva fatto, ma non nel modo in cui lui aveva suggerito.
Avevo conosciuto Sofia Torres quando aveva due anni. Era la bambina più bella che io avessi mai visto.
Ricordo ancora la sera in cui si addormentò completamente sdraiata su di me. Mi servirono due ore per decidermi a spostarmi. La accompagnai a letto e la guardai dormire per diversi minuti, mentre Calliope guardava me dalla soglia della camera.
Eravamo state insieme per quattro anni. Mi si avvicinò e mi strinse contro se stessa, facendomi appoggiare la schiena contro di lei. Poi mi spostò i capelli di lato e sussurrò vicino al mio orecchio per non svegliare Sofia.
“Appena finiamo medicina io ti chiederò di sposarmi. Credo che sia giusto che tu ne sia consapevole.”
Voltai le testa di lato guardandola negli occhi. Non c'era alcuna traccia di umorismo.
“Non ho bisogno di sei mesi per pensarci” le feci notare.
Mi sorrise. Ed io la baciai.
“Non amerò mai nessun'altra come ho amato te, lo sai, non è vero?” le chiesi.
“E tu sai che vale anche per me?”
Guardai di nuovo Sofia, sospirando.
“Possiamo avere un altro bambino?” domandai con un filo di voce mentre la osservavo respirare pacificamente. “Prima o poi” aggiunsi come se fosse un compromesso valido o una sorta di giustificazione.
“Possiamo avere tutti quelli che vuoi.”
Sei mesi dopo nello Stato di Washington si stava discutendo sulla legge per i matrimoni gay. E così decidemmo di aspettare e vedere come sarebbe andata a finire.
Nel frattempo Sofia stava crescendo ed io avevo iniziato la specializzazione insieme a Calliope, lei si era subito indirizzata verso ortopedia, mentre io nel giro di tre mesi iniziai a seguire soltanto casi di chirurgia pediatrica.
“Penso che dovemmo smettere di provare.”
“Stai dicendo quello che penso tu stia dicendo?”
“Forse c'è un motivo per cui non ci stiamo riuscendo. E non credo che avere un altro bambino sia una buona idea.”
Aveva saputo delle mie paure fin dal primo momento in cui erano nate, ma non pensava che avrei mai permesso a qualcosa di mettersi tra noi e quel sogno meraviglioso che avevamo.
“Mi dispiace.”
Lei mi prese una mano, guardandomi negli occhi a lungo.
E capì che mi dispiaceva davvero e che avevo la morte nel cuore, ma che non potevo avere un figlio e rischiare che fosse malato.
“Chiamo Addison e annullo il prossimo appuntamento” mi disse.
Potevo vedere che non era quello che voleva e sapevo che non sarebbe stata quella la fine della discussione. Ma per il momento avremmo smesso di provare, almeno finché non avremmo chiarito la situazione.
I primi tre tentativi erano andati a vuoto. E non ce ne fu mai un quarto.
“Mi dispiace.”
“Non lo capisco, Calliope.”
“Lo so. Ma ti assicuro che è la cosa giusta.”
“La cosa giusta? Abbiamo fatto preparare gli inviti di nozze. Stavamo cercando una casa, fino a due settimane fa. E ora te ne stai andando?”
Guardai verso le tre valigie che aveva preparato.
“Un giorno capirai. Mi dispiace.”
“Continui a ripetermelo, ma te ne stai comunque andando. Ti stai portando via mia figlia” la accusai, guardando Sofia che aveva una mano nella sua.
“Sì. Lo so.”
Io scossi la testa, ricacciando indietro le lacrime e sollevai la bambina di otto anni, prendendola in braccio.
“Ti voglio bene, Sofia. Promettimi che non te ne dimenticherai.”
“E tu prometti di non dimenticarti di noi” mi disse. “Ti voglio bene anche io, mamma.”
Non aveva idea di quello che stava succedendo, del perché ero obbligata a dirle addio così all'improvviso.
La cosa ridicola è che non riuscii mai a biasimarla per essersene andata. Perché anche dai suoi occhi si vedeva che non avrebbe voluto farlo ma lo stava facendo perché pensava davvero di fare la cosa giusta.
Non per se stessa, certo, perché lei mi amava. Sapevo, perfino in quello stesso momento, perfino quando la guardai andar via, che lei avrebbe di gran lunga preferito rimanere al mio fianco per il resto della sua vita.
No, lo stava facendo per me, invece. Perché io avevo detto qualcosa di stupido come il fatto che non volevo avere figli. Ma ne avevamo già una. Sapevo che lei la pensava come me riguardo il fatto che per sei anni ero stata la mamma di Sofia, non aveva mai avuto un singolo dubbio a riguardo. La colpa di quel disastro fu solo mia.
Non passò un solo giorno della mia vita senza che pensassi a loro.

“Andiamo, sono passati...quanti anni, esattamente? Devi ricominciare ad uscire.”
“Quante volte ti ho detto di lasciar perdere le mie relazioni sentimentali, Teddy?”
“Forse intendi, la mancanza di qualsiasi tipo di relazione sentimentale.”
“Lascia perdere. Solo, lascia stare, ok?”
“Perché?”
“Perché io non andrò mai avanti” le dissi alla fine, stringendomi nelle spalle e allargando le braccia come se fosse ovvio. “Avresti dovuto capire, ormai, che io non andrò mai da nessuna parte, senza di lei. Soprattutto non avanti.”
Mi guardai attorno, assicurandomi che nessuno ci stesse ascoltando.
“Mi manca” continuai con la voce che mi tremava “ogni giorno della mia vita.”
Lei annuì, facendomi capire che lo sapeva perfettamente.
“Non andrò avanti, quindi smetti di tentare di obbligarmi a farlo. Le ho fatto una promessa qualcosa come dieci anni fa. Ho promesso che non avrei mai amato nessun'altra nel modo in cui ho amato lei e dicevo sul serio. Manterrò quella promessa fino all'ultimo giorno della mia vita. Anche se lei non dovesse farlo.”
“Arizona, è sparita nel nulla.”
“Me lo ricordo” le feci notare. “Ma un giorno potrebbe tornare.”
Mi prese una mano da sopra il tavolo. Scosse la testa.
“Non tornerà, Arizona.”
“Lo so. Ma in qualche modo devo trovare la forza di continuare a respirare, no?”

“Dottoressa Robbins, c'è una lettera per lei” mi disse una delle infermiere, appena entrai in ospedale.
Corrugai la fronte, prendendola. Solo cose della massima importanza arrivavano lì.
“Ti ringrazio, Rose.”
“Si figuri.”
La aprii mentre entravo in ascensore.
All'attenzione di Arizona Robbins, dallo studio legale Herbert Sullivan & Co.
Presentiamo la seguente lettera per informarla delle gravi condizioni...

“Non è possibile.”
Nomina a custode legale - poi, a fine riga - dopo il decesso di Calliope Torres.
Scesi al piano sbagliato di proposito, dirigendomi verso l'ufficio di Teddy e chiudendomi la porta alle spalle mentre lasciavo cadere la lettera sopra la sua scrivania.
“Dimmi che non dice quello che penso che dica.”
Lei mi guardò come se fossi impazzita, poi sollevò il foglio ed iniziò a leggere in silenzio mentre io percorrevo ritmicamente la stanza.
“Arizona, sono mortificata.”
“No. Non guardarmi così. Non può essere vero.”
“Callie ha avuto un incidente. Non è al momento in grado di occuparsi dei suoi figli.”
“Significa che è morta” chiarii per lei, in caso non fosse stato ovvio abbastanza. “Se fosse stata in coma, non avrebbero chiamato me, ma qualcuno che se ne occupasse provvisoriamente, come...”
“Chi? I suoi genitori? Difficile, visto che non le parlavano, no?”
“Sua sorella” buttai lì.
“Qui dice che ti ha nominata custode legale di entrambi i suoi figli, minori di sedici e otto anni.”
“Otto anni, Teddy. Sai che significa?”
“No.”
“O il suo secondo bambino è nato molto, molto prematuro, o Calliope se ne è andata perché era già incinta. Se ne è andata perché mi aveva tradito.”
“Arizona, non è questo il momento per pensare a qualcosa del genere. Ci sono due persone che hanno bisogno di te, adesso.”
“Io...pensavo davvero che l'avrei rivista, prima o poi.”
Sentii il peso del mondo crollarmi addosso quando il significato della lettera arrivò nella sua completezza.
“Qui c'è scritto che arriveranno qui a Seattle tra dieci giorni.”
“Ok. E quando è stata spedita?”
Afferrò la busta, leggendo l'intestazione.
“Ehm, dieci giorni fa.”
“Die- Come è possibile?”
“Sistema di consegne poco efficiente?”
“Devo andare. Devo andare in aeroporto. Parlerò con Webber mentre sto andando lì.”
Praticamente mi teletrasportai dentro l'ascensore, premendo il tasto del piano terra circa sette volte, prima di arrendermi al fatto che non sarebbe andato più veloce. Avevo il cellulare in una mano e con l'altra stavo cercando di rimettermi il giacchetto che mi ero tolta entrando.
Quando fui davanti alla postazione delle infermiere fui fermata dalla voce di Rose.
“Dottoressa Robbins?”
“Non preoccuparti, Rose, sto avvertendo il primario per telefono, devo andare in aeroporto, sono sicura che capirà.”
“Dottoressa Robbins, ci sono due persone che la stanno aspettando” mi fece un cenno della testa verso le sedie dell'atrio. “Stavo giusto per chiamarla al cerca persone. La ragazza ha detto che è urgente.”
Riattaccai la conversazione, togliendomi il giacchetto ancora una volta.
“Grazie, Rose.”
Andai verso di loro con calma, un piccolo sorriso si formò sulle mie labbra.
“Sofia.”
Lei si alzò appena mi vide, porgendomi dei fogli di carta con espressione seria.
“Ho ricevuto la lettera soltanto stamani. Stavo giusto venendo in aeroporto.”
“Ci hanno costretto a venire qui. Ma tutto quello che devi fare è firmare questo documento” indicò le carte che mi aveva appena consegnato. “Dice che rinunci alla nostra custodia legale, io divento una minorenne emancipata e così posso prendermi cura di mio fratello da sola, senza l'aiuto di nessuno.”
Il mio sorriso sparì lentamente. Corrugai la fronte.
“Sofia, ti ricordi di me?” chiesi, spostando nervosamente il peso da un piede all'altro.
Lei mi guardò raddrizzando le spalle impercettibilmente, con aria orgogliosa e allo stesso tempo testarda.
“Io mantengo sempre le mie promesse.”
Guardando quella ragazza di sedici anni, l'unica cosa che riuscivo a vedere era la bambina di due che avevo tenuto in braccio per la prima volta.
Guardai i fogli che avevo in mano, strappandoli a metà e buttandoli nel cestino alla destra della ragazza.
Poi mi voltai verso il bambino alla sua sinistra, che nel frattempo si era alzato e stava per metà nascosto dietro la sorella.
Mi inginocchiai.
“Ciao, mi chiamo Arizona. Vuoi dirmi il tuo nome?”
Guardò in alto, verso gli occhi familiari di Sofia che lo stavano guardando. Lei annuì, cercando di tranquillizzarlo.
“Rob” mi fece sapere Sofia.
“Sono felice di conoscerti, Rob. Mi hanno detto che hai otto anni, è vero?”
Lui annuì, osservandomi, incuriosito.
Mi sollevai di nuovo in piedi, guardando ancora una volta Sofia.
“Ricordi zia Teddy, Sofia?” aspettai che annuisse. “Che ne dite di venire con me nel suo ufficio per chiederle un favore?”
Li portai dentro l'ufficio di Teddy, interrompendola di nuovo mentre stava compilando delle vecchie cartelle.
“Puoi parlare con Webber?” chiesi, senza darle il tempo di riprendersi dallo shock di trovarsi davanti Sofia. “Spiegargli che sono andata via e che mi prendo una settimana di ferie? E digli che se non gli sta bene può licenziarmi.”
Lei annuì.
“Ciao Sofia. Sei davvero cresciuta, è bello vederti.”
“Anche per me, zia Teddy.”
Spostò lo sguardo verso il bambino che si nascondeva dietro le sue gambe.
“Andiamo. Sono sicura che dovrete fare colazione, visto che avete viaggiato di notte.”
Quando arrivammo a casa mia la prima cosa che feci fu dire a Sofia di togliersi il giacchetto, mentre io aiutavo suo fratello a fare lo stesso.
Li feci sedere davanti al bancone della cucina, mentre iniziavo a preparare loro qualcosa da mangiare.
“Mi siete mancate, Sofia” sussurrai mentre ero voltata di spalle.
“Ma non ci hai cercato.”
“Solo perché non sapevo dove guardare” replicai pacatamente. “Mangi ancora i pancake con lo zucchero a velo?” mi gettai un'occhiata alle spalle.
La vidi annuire in silenzio.
“E tu, Rob, come vuoi i tuoi?” domandai voltandomi.
“Con il miele sopra” rispose per lui Sofia.
Io gli sorrisi, appoggiando le mani sul bancone.
“Sai, anche tua madre li mangiava sempre con il miele.”
“E tu li hai sempre preferiti con lo zucchero a velo” osservò Sofia.
Annuii. “Mi sorprende che te ne ricordi ancora.”
“Abbiamo fatto colazione insieme tutte le mattine per sei anni. Non sono cose che si riescono a dimenticare in fretta.”
Mi schiarii la voce, appoggiando il piatto con i primi due pancake davanti a loro, insieme allo zucchero per Sofia e il miele per Rob.
Iniziarono a mangiare e scese il silenzio. Quando finirono Sofia mi chiese se c'era una stanza in cui suo fratello poteva aspettare mentre io e lei parlavamo.
“Conosci la casa” feci un gesto con la mano verso sinistra. “C'è la tua vecchia camera da letto, altrimenti quella di tua madre.”
“La mia andrà bene” lo portò dentro. “Aspetta qui, ok? Promettimi di non origliare come fai sempre.”
Aspettò, probabilmente per vederlo annuire.
“Promessa del mignolo?” chiese.
Qualche momento dopo uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
“Sai, forse non te lo ricordi, ma la promessa del mignolo...”
“...me l'hai insegnata tu. Lo so.”
Sospirai.
“Senti, Sofia, so che non mi credi quando te lo dico, ma ti giuro che non è passato un giorno senza che io...”
“Non sono arrabbiata con te.”
Corrugai la fronte.
“Davvero? Perché stai facendo un ottimo lavoro nel farmi credere il contrario.”
“Ok, sì. Sono arrabbiata con te, ma questo riguarda me. Ed io non posso più pensare solo a me stessa, ormai. E sono arrabbiata con te perché sarebbe stato più semplice vedere le cose in bianco e nero e decidere di odiarti. Sono arrabbiata con te e non penso che una persona che non vuole figli dovrebbe essere obbligata ad averne due da un giorno all'altro, quindi sono arrabbiata anche con mia madre per averti nominata nostra custode legale.”
Annuii. “La rabbia va bene. Ogni tipo di sentimento che provi va bene.”
“Mamma ha fatto delle scelte discutibili. Ma ogni cosa che ha fatto l'ha fatta per noi due, ed io non posso che essere grata per quello che abbiamo avuto. Lei ci ha amato più di quanto sia mai riuscita ad amare se stessa, più di quanto abbia mai amato qualcun altro al mondo. Eccetto te” aggiunse come se fosse ovvio. “Non è riuscita proprio ad andare avanti senza di te. A dimenticarti. E non le abbiamo mai chiesto niente del genere. A me non serviva un padre, a me servivi tu. Sono cresciuta pensando che tu fossi mia madre.”
“Lo ero” risposi con forza. “Lo sono. Non permetterò mai a nessuno di dirti che non sono tua madre, Sofia.”
“Sono cresciuta incolpando mamma. Perché mi diceva che era colpa sua. Che era stata lei ad andare via. Ed era anche il modo in cui io mi ricordavo essere andate le cose. Quindi ho dato la colpa a lei per la maggior parte del tempo, finché ho capito che non era colpa di nessuno. Che tu non volevi figli e lei ne aveva due e le cose, tristemente, non sono mai così semplici e non sono mai in bianco e nero.”
“Non ho mai voluto perderti, Sofia. Non ero pronta ad avere altri figli, ma questo non vuol dire che non volessi te.”
Lei annuì. “Già.”
Per qualche momento rimase persa nei suoi pensieri.
“Riesco a vedere quanto ti manca” sussurrai tristemente.
“Stranamente, io riesco a vedere quanto manca a te. Si direbbe che dopo otto anni...”
“Mai, Sofia. Mai io mi dimenticherei di tua madre o di te.”
Mi osservò per qualche istante.
“Se” iniziò, interrompendosi e cercando le parole giuste. “Se non si risvegliasse mai più, credo che...”
“Risvegliasse?” chiesi, confusa.
“Nella lettera probabilmente non era specificato. È in coma da dopo l'incidente di due settimane fa, i medici dicono che è improbabile che si risvegli.”
Non risposi, ma la mia mente stava correndo a diecimila chilometri al secondo.
“Non avete portato valige, vedo.”
Scosse la testa.
“Dobbiamo tornare a Los Angeles, quindi. Non potete rimanere qui senza nemmeno i vostri vestiti, no?”
“Giusto. E mancano ancora tre settimane alla fine della scuola.”
Annuii.
“Chiamo in aeroporto per prenotare tre posti sul primo volo per Los Angeles. Tu prepara tuo fratello, d'accordo?”
Lei si limitò ad annuire.
Dopo aver chiamato mi chiusi in bagno e piansi in silenzio finché non riuscii a smettere e gettai qualche vestito dentro una valigia.
Andai in soggiorno. Sofia fissò i miei occhi rossi per diversi momenti, ma non disse niente.
“Andiamo” li incoraggiai con un sorriso, aprendo la porta per loro.

“Non avresti dovuto farlo” sussurrai mentre le tenevo al mano. “Non saresti dovuta morire, non saresti mai dovuta andare via. Io e te dovevamo avere il nostro lieto fine, la nostra vita stereotipata del cavolo. Doveva essere facile.”
Ascoltai il bip ritmico del monitor cardiaco.
“Ti avrei amata per tutta la mia vita.”
Strinsi la presa, ma lei non reagì.
“Mi prenderò cura di loro, ok? Ma tu devi tornare indietro in modo che possa prendermi cura anche di te.”
Sospirai, cercando di non piangere.
“Mi manchi, Calliope.”

Quando aprii la porta di casa loro Sofia stava preparando Rob per andare a dormire.
“Ragazzi, sono passata da entrambe le vostre scuole e ho parlato con i due Presidi. Potete saltare le ultime due settimane di scuola, ma Sofia, tu dovrai fare i test di fine corso questa settimana, se ti senti pronta. Altrimenti ti riaccompagnerò a farli l'ultima settimana.”
“No, non c'è problema. Ho iniziato a prepararmi già da tempo.”
“Perfetto. Allora per la fine della settimana vi aiuterò a preparare una piccola valigia, giusto per rimanere a Seattle un paio di mesi. Per l'inizio del prossimo anno scolastico spero di aver trovato un lavoro in città.”
“Lo farai davvero?” chiese, perplessa. “La cosa del crescerci.”
Io la guardai con espressione seria.
“Vieni un attimo in corridoio” le chiesi, mentre Rob si sistemava sotto le coperte. “Buonanotte piccoletto” gli augurai con un sorriso, scompigliando i suoi capelli color biondo cenere prima di baciarlo sulla fronte.
Lui mi prese una manica, impedendomi di allontanarmi.
“Alcune volte fa dei brutti sogni” intervenne Sofia. “Di solito mamma lo calma, ma da quando mamma non c'è viene sempre da me.”
Io guardai i suoi occhi azzurri e annuii cercando di essere rassicurante.
“Ascolta Rob, io per qualche sera dormirò in camera di mamma, ok? Per qualsiasi cosa, qualsiasi, voglio che tu venga immediatamente da me. In modo che io possa scacciare via tutte le cose brutte, ok?”
Lui annuì, allentando la presa.
Seguii Sofia in corridoio, accostando la porta.
“Di che volevi parlarmi?”
“Non voglio più sentirti insinuare che non sono qui per rimanere. Soprattutto non davanti a tuo fratello.”
“Perché?”
“Ha perso sua madre. Non ha bisogno di credere che perderà anche me da un momento all'altro. E tu sei mia figlia. Ti ho ritrovato e puoi scordarti che ti lasci andare di nuovo, quindi mettiti l'anima in pace, perché io rimarrò.”
Lei mi guardò senza dire niente.
Io andai nell'ingresso, frugando dentro la mia borsa e prendendone una foto che le portai. Era una foto di lei e sua madre.
“Sai perché ha i margini rovinati?” domandai retoricamente. “Perché per otto anni ho dormito tenendola in mano e l'ho portata sempre con me.”
Lei tenne lo sguardo sulla foto.
“Credi che io non sia arrabbiata, Sofia? Mi sono persa metà della tua vita. Mi sarei potuta perdere tutto quanto. Ma sono qui, fortunatamente. E dovrai perdonarmi, prima o poi.”
Mi guardò finalmente negli occhi, porgendomi la fotografia indietro.
“Buonanotte” mormorò, andando verso la sua camera da letto.
“Aspetta, Sofia” la fermai. “Come mai tuo fratello non parla?”
Scrollò le spalle.
“È stato così fin dall'incidente. È il suo modo di essere in lutto perché mamma non è più qui a casa.”
Fin dal secondo giorno cademmo in una routine quasi studiata. Io mi alzavo prima, preparavo la colazione, aiutavo Rob a vestirsi mentre Sofia si preparava, poi mangiavano prima che li accompagnassi a scuola.
Ero stata spesso in ospedale, fotocopiando tutta la documentazione possibile su Calliope e spedendola per fax a Seattle.
Composi il numero che avevo recentemente salvato in memoria.
“Pronto?”
“Derek, sono Arizona.”
“Ho avuto tutto quello che hai spedito.”
“Pensi di poter fare qualcosa?”
“È presto per dirlo, ma vorrei venire a Los Angeles per fare qualche test.”
“Sei il benvenuto in qualsiasi momento. Sai che farei di tutto per salvarla.”
“Ed io ti prometto che farò del mio meglio.”
“Lo so. Ci sentiamo.”
“D'accordo.”
Andai a prendere Rob a scuola, parlando del più e del meno mentre tornavamo a casa e riuscendo addirittura a strappargli un paio di risate. Gli preparai il pranzo e poi lo portai con me mentre andavo a prendere anche Sofia a scuola.
“Allora, come è andata la tua giornata?”
“Normale.”
“Stavo pensando che se ti va io e Rob potremmo aiutarti a studiare per il test che hai domani, che ne dici, Rob?” chiesi, osservandolo annuire entusiasta dallo specchietto.
Lei ci pensò per un po'.
“Ho qualche problema con gli esercizi di matematica. Magari ti ricordi qualcosa.”
“Puoi scommetterci, ero un asso in matematica.”
Per il resto della settimana le cose andarono più o meno allo stesso modo. Li portavo a scuola, andavo a trovare Calliope, poi a prendere Rob, facevamo pranzo, guardavamo un po' di televisione insieme, andavamo a prendere Sofia e ci offrivamo di aiutarla per qualsiasi fosse il test del giorno successivo.
La terza notte stavo guardando la foto che avevo in mano nel chiarore soffuso della luna, quando sentii la porta aprirsi lentamente.
Rimase lì, in piedi, in silenzio.
“Rob. Hai fatto un brutto sogno?”
Annuì.
“Vieni qui” lo incoraggiai, scostando le lenzuola per farlo entrare nel letto al mio fianco.
Solo quando mi fu vicino mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi.
“Sai, qualche volta i sogni fanno paura. Succede anche ai grandi, non c'è niente di male nell'avere paura.”
Lo abbracciai, accarezzandogli i capelli.
“Ma tu non dovresti avere paura, perché c'è sempre qualcuno accanto a te, pronto a proteggerti da qualsiasi cosa.”
Lui alzò gli occhi verso di me.
“Sai chi?” scosse la testa negativamente. “La mamma” annuii ripetutamente. “Anche se adesso non puoi vederla, lei è ancora al tuo fianco. Fino a quando la porterai dentro il tuo cuore” toccai il suo piccolo torace “lei sarà sempre con te.”
Lui chiuse gli occhi, appoggiando la testa alla mia spalla.
“Mamma diceva la stessa cosa a Sofia quando le parlava di te.”
Rimasi spiazzata dal sentire la sua voce, ma ancora di più mi confusero le parole che aveva appena detto. Calliope parlava di me a Sofia?
Nel giro di pochi minuti si addormentò. Lasciai che dormisse con me, quella notte, ricordando di tutte le volte in cui, anni prima, lo avevo permesso anche a Sofia.
Continuammo a tirare avanti per il resto della settimana. Rob continuava a non parlare, ma io e lui ci stavamo avvicinando.
L'ultimo giorno di scuola era il turno del test di biologia.
“Per le ossa non ci sono problemi, ma non riesco a memorizzare i nomi di tutti i muscoli.”
Io sorrisi, portando ad entrambi un bicchiere di latte e appoggiando un piattino con qualche biscotto sul tavolino mentre Sofia iniziava ad aprire i libri.
“Le ossa sono nel tuo sangue” le dissi. “Per i muscoli possiamo inventarci qualcosa. Come...una canzoncina.”
“Non sono mica alle elementari” roteò gli occhi, ma potevo vederla sorridere.
“Beh, non importa che ne pensi perché siamo due contro una, vero Rob?”
Lui annuì, prontissimo per una canzoncina nuova.
Due ore dopo, ero disperata.
“Ricomincia da capo.”
“Ok” sospirò. “Frontale, temporale, zigomatici” indicò i muscoli che stava elencando. “Trapezio, pettorale, deltoide, bicipite, tricipite...”
“Continua” la incoraggiai.
“...quadricipite?”
“Andiamo Sofia, hai saltato tutto il busto.”
“Perché non ho idea di cosa ci sia nel busto” si giustificò.
“Sei figlia di due chirurghi, come è possibile che tu non riesca a ricordarti i nomi di tre muscoli? Scommetto che perfino Rob a questo punto li ha imparati.”
“Dorsale, obliquo dell'addome, retto addominale” rispose indicandosi rispettivamente la schiena e due punti della pancia.
“Sentito?” poi riflettei su quello che era appena successo. “Aspetta, cosa?” mi voltai verso il bambino.
Lui scrollò le spalle, alzandosi in piedi.
“Muscolo frontale, due temporali e due zigomatici” iniziò a canticchiare indicando le varie posizioni dei muscoli “trapezio e pettorali, deltoide, bicipite e tricipite, dorsale, obliquo dell'addome e retto addominale. Quadricipite, adduttore e c'è il vasto laterale. Il vasto mediale, il gemello mediale e il tibiale anteriore. E i piedi e le mani hanno un muscolo estensore” concluse aprendo e chiudendo le dita di mani e piedi.
Per diversi momenti rimanemmo in silenzio.
Poi sorrisi come un'idiota.
“Visto? Ti ho detto che la canzone avrebbe funzionato.”

Sentii Derek per telefono. Ci saremmo visti il giorno dopo a Seattle e mi avrebbe dato un resoconto più dettagliato di come era andata la visita con Calliope. Io ero lì, ma era stata una cosa lunga e lui era dovuto ripartire immediatamente dopo.
Quando arrivammo mi resi conto che sembravano Sofia a disagio e Rob spaventato all'idea di dormire in una casa che non era la loro. O che, nel caso di Sofia, non era stata la loro da molto tempo.
“Sofia, potresti aiutarmi?” le chiesi, appoggiando una mano sulla spalla di Rob e portandolo nella camera con il letto matrimoniale, seguita da Sofia. “Vieni, cambiamo le lenzuola. Così possiamo dormire tutti e tre qui, almeno per stanotte.”
Lei annuì, sapendo che suo fratello non sarebbe stato a suo agio a dormire da solo.
Il giorno successivo mi alzai, senza svegliarli. Scrissi un biglietto in cui spiegavo che ero in ospedale e baciai entrambi sulla fronte prima di andare a lavoro.
Per prima cosa parlai con Webber e Derek.
“Se sei d'accordo vorrei farla portare qui a Seattle e provare ad operarla.”
Io lo abbracciai, annuendo.
“Arizona, non ci sono molte possibilità...”
“Lo so. Ma ti ringrazio per il tentativo che stai facendo.”
Tornai a casa velocemente all'ora di pranzo per assicurarmi che avessero trovato qualcosa da mangiare. Dissi loro che sarei tornata per cena, chiedendo quale fosse il loro cibo da take away preferito.
Entrambi risposero che avrebbero voluto mangiare della pizza.
Così mi presentai a casa con della pizza calda dal posto che preferiva Sofia quando era ancora piccola.
“Pensavo che, se per te va bene, potresti lasciare a Rob la tua vecchia stanza e dormire nella matrimoniale.”
“E tu dove dormiresti?” chiese, confusa.
“Sul divano-letto. Ci sono solo due camere” le feci notare. “E non ho la minima intenzione di rischiare un danno a una delle vostre piccole schiene.”
“E alla tua sì?” chiese, scuotendo la testa. “Potremmo comprare un letto e metterlo in camera mia, così io e Rob potremmo dormire insieme. E lui non avrebbe più problemi quando fa un brutto sogno.”
Io ci pensai qualche minuto, infine annuii.
“D'accordo. Ma, nel frattempo, facciamo come ho detto io.”
Mi sentii tirare una manica, così mi voltai per incrociare il suo sguardo.
“Dormo io nel lettone insieme a te. Così nessuno si fa male alla schiena.”

Stavo lavando i piatti quando Sofia tornò in cucina.
“Si è addormentato.”
“Perfetto. Sembrava davvero stanchissimo.”
Continuai in silenzio, ma potevo percepire il suo sguardo fisso sulla mia schiena.
Quando finii mi asciugai le mani, voltandomi verso di lei ed aspettando che mi dicesse qualsiasi cosa stesse raccogliendo il coraggio per dirmi.
“Non ti ha mai tradito” sussurrò. “Se è quello che stai pensando.”
“Non importa, Sofia. Non c'è bisogno che giustifichi tua madre per quello che ha fatto o non ha fatto.”
“Credo comunque che dovresti sapere la verità” mi disse.
Si alzò e sparì per qualche istante dentro camera sua, riemergendo qualche momento più tardi con qualcosa in mano.
“All'inizio non avevo capito” ammise in un sussurro, sedendosi di nuovo e guardando l'oggetto che aveva tra le mani. “Ma poi, crescendo, ho iniziato a fare due più due. Rob è nato sette mesi dopo che ci eravamo trasferite a Los Angeles e tu non volevi figli. Non è stato difficile capire come mai mamma avesse deciso di andarsene da qui. Ma ho iniziato ad avere davvero i miei sospetti soltanto quando ho trovato questo.”
Si sporse e mi passò attraverso il bancone un biglietto bianco con i ricami in oro. Lo avevo già visto.
“Ci crederesti che lo ha tenuto per tutto questo tempo?” chiese con una risata che aveva qualcosa di ironico. “Non mi ricordavo il tuo cognome, avevo sempre dato per scontato che non avesse importanza, io ti chiamavo comunque sempre Arizona. O, più che altro, fin dai miei primi ricordi, mamma. Ma mai mi ero presa la briga di imparare il tuo cognome. Mi è tornato in mente guardando questo.”
Lo aprii.
“Il prototipo dei nostri inviti di nozze?”
“Che non sono mai stati stampati” aggiunse. “Sì” annuì. “Sai di cosa è il diminutivo Rob?”
“Robert?” mormorai distrattamente.
“Robbin.”
Il mio sguardo scattò dall'invito che avevo tra le mani verso il suo viso.
“Nome strano, eh? Robbin Torres.”
Deglutii, iniziando a capire che mi stava sfuggendo qualcosa.
“Biologicamente, sapevo che non era possibile. Ridicolo, perfino. Eppure ogni volta che guardo mio fratello mi rendo conto che non assomiglia per niente a mia madre. Somiglia a qualcuno che conosco, però. A te non sembra?”
Chiusi gli occhi.
“In che mese hai detto che è nato?”
“I capelli biondi, gli occhi azzurri. Tu non lo hai visto ridere spesso, ma con mamma attorno rideva praticamente tutto il tempo. Gli spuntano due fossette ogni volta che sorride, che hanno sempre avuto un'aria stranamente familiare.”
“Sette mesi dopo che vi siete trasferite, significa che è stato concepito due mesi prima” continuai a pensare a voce alta.
“Nessuno si è mai fatto domande solo perché è stata lei a partorirlo. Mai. Dottori, infermiere, perfino i pediatri, nessuno ha mai sospettato niente. C'era una persona che lo sapeva, però. La persona da cui mia madre è corsa appena ha scoperto di essere incinta, giusto?”
“Due mesi prima che andaste via abbiamo avuto l'ultimo appuntamento con Addison per l'inseminazione artificiale.”
“E la clinica di zia Addie è a L.A.” concluse.
“Se ne è andata perché era già incinta quando le ho detto di non volere bambini” chiusi gli occhi, passandomi una mano sul viso. “Ecco perché all'inizio mi ha detto che non importava e poi, invece, è scappata.”
“Non è scappata. Non da te.”
“Sono un'idiota. Ho detto alla mia fidanzata incinta di non volere bambini.”
“Quindi lui è tuo figlio, giusto? Era il tuo ovulo?”
Io deglutii, annuendo.
“Penso di sì. Tu da quanto lo sai?”
Scrollò le spalle.
“Mesi. Forse anni. Credo di averlo sempre saputo, in qualche modo.”
Io rimasi a guardare le scritte in oro sopra l'invito bianco, che stavo ancora tenendo in mano, per diversi secondi.
Lei si alzò, dirigendosi verso la sua camera.
“Sofia?” alzai lo sguardo.
Lei si fermò, voltandosi verso di me.
“Sì?”
“Prometti di chiamare, ok? Se Calliope si sveglia e decide che non vuole stare con me e vi porta via di nuovo, prometti di chiamarmi finché non riesco a tornare da voi.”
“Credevo non volessi figli.”
“Lo credevo anche io. Ma tu sei mia figlia” le spiegai con ovvietà. “E lui è mio figlio.”
Sospirò pesantemente.
“Non esiste che mamma decida di non voler stare con te se le dici questo. Ha aspettato te per tutta la sua vita.”

Mi stavo mangiando le unghie. L'ultima volta che lo avevo fatto ero ancora al penultimo anno di liceo.
“Sto salendo, ok?”
Annuii.
Si voltò.
“Derek?”
Si voltò di nuovo verso di me.
“Sì?”
“So che non puoi fare miracoli. Ma sarebbe davvero carino se potessi fare in modo che si risvegli, ok? Perché io non posso vivere senza di lei, quindi sarebbe utile. Niente pressioni, però.”
“Ci proverò” cercò di tranquillizzarmi con un sorriso.
“Ti ringrazio.”
Tornai in sala d'aspetto.
“Non dovevate venire qui per forza, sapete? Se anche l'operazione funzionasse, non lo sapremmo prima di qualche giorno.”
“Lo sappiamo. Volevamo essere qui in caso fosse il momento di dirle addio” spiegò Sofia con un braccio protettivo attorno alle spalle di suo fratello.
“Potrebbe volerci parecchio tempo.”
“Tanto non abbiamo nient'altro da fare, tu staresti comunque qui” rispose. “Almeno così siamo insieme.”
Annuii.
“Volete qualcosa da bere?”
“Un tè freddo, giusto Rob?” chiese Sofia.
Lui annuì.
“E per me va bene una coca cola.”
“D'accordo. Torno subito.”
Andai al bar e quando arrivai a pagare mi resi conto che mi tremavano le mani.
Così feci un respiro profondo e mi domandai perché non riuscivo più a pensare razionalmente. E capii che i motivi erano principalmente due. Ed erano seduti in sala d'aspetto.
Tornai, sedendomi accanto a Sofia e passandole la coca cola. Poi aprii il tè in bottiglietta di Rob e glielo passai.
“Grazie.”
“Prego, tesoro” risposi con un sorriso, sorseggiando il mio caffè.
Inspirai, cercando di pensare a qualcosa con cui distrarli da brutti pensieri.
“Dottoressa Robbins.”
Alzai lo sguardo.
“Signora Flanagan, salve. È qui per Lucas?”
“No, sono venuta a trovare una vecchia amica ricoverata per un trapianto. Lucas sta molto meglio, a dire la verità. Tutto grazie a lei.”
“Mi fa piacere sentirlo.”
“E questi ragazzi chi sono?” chiese con un sorriso.
Io mi voltai verso sinistra.
“Lei è Sofia” la presentai appoggiando una mano sulla sua schiena “e il piccoletto è Rob. Sono i miei figli.”
Vidi un sorriso formarsi sul viso di Sofia contro la sua volontà. Rob mi guardò, ma senza dire niente.
“Non sapevo avesse figli.”
Fui tentata di risponderle 'non si preoccupi, neanche io', ma decisi di limitarmi a sorridere in silenzio.
Lei ricambiò il sorriso, allontanandosi.
Solo allora Rob si alzò e venne davanti a me, facendomi capire che voleva che lo prendessi in braccio. Io lasciai che si sedesse sulle mie gambe mentre con una mano gli accarezzavo i capelli e lui alzò il viso, guardandomi dritta negli occhi.
“Non te ne vai, non è vero?”
“No, non me ne vado.”
“Nemmeno se mamma si sveglia, giusto?”
“No, nemmeno se si sveglia.”
Lui guardò verso Sofia, che le sorrise, incoraggiandolo a dire qualsiasi cosa volesse dire, ora che finalmente stava parlando di più.
Guardò di nuovo dentro i miei occhi.
“Quando facevo dei brutti sogni, mamma mi raccontava la storia di un angelo che aveva salvato la sua vita. E mi diceva sempre che quando mi guardava vedeva tanto di lei in me. Credo che quell'angelo fossi tu.”
“Anche io ho un angelo, sai? Che mi protegge dai brutti sogni e che mi ha salvato un sacco di volte la vita, in un sacco di modi diversi.”
“Mamma?”
Annuii. “Calliope è il mio angelo.”

“Arizona” mi sentii chiamare ed alzai immediatamente lo sguardo dal bambino addormentato tra le mie braccia.
“Derek, come è andata?” sussurrai cercando di non svegliare Rob, che aveva la testa appoggiata sulla mia spalla.
“Non si è ancora svegliata, ma è sopravvissuta all'operazione. La riporteremo in camera tra una ventina di minuti.”
“Pensi che ci siano stati risultati?”
“Ho riparato la lesione alla spina dorsale, le gambe rispondono agli stimoli. Se si risvegliasse non...”
“Non sarebbe più paralizzata. È una notizia fantastica” gli sorrisi debolmente. “Ti ringrazio per aver provato.”
Lui rispose debolmente al sorriso, poi esitò.
“C'è stato un picco nell'attività cerebrale” mi informò. “Non voglio darvi false speranze, ma anche la parte dell'operazione in cui sono entrato in craniotomia è andata molto bene. C'era una piccola emorragia, che sono riuscito a riparare completamente. Il tessuto cicatriziale che si è formato nel frattempo, però, potrebbe impedire che la situazione migliori ulteriormente.”
“Quindi potrebbe non svegliarsi mai più.”
“Ho fatto tutto il possibile, credimi.”
“So che lo hai fatto” sorrisi educatamente. “Li porto a casa, ok? Sono sicura che domani mattina vorranno tornare per salutarla.”
“Certo.”
Svegliai prima Sofia, cercando di portare a casa Rob senza svegliarlo. Sarebbe stata una lunga giornata quella che ci aspettava.

“Frena, frena, frena!”
Ci fermammo ad un millimetro dal lampione. Avevo appena perso dieci anni di vita. Inspirai profondamente, cercando di mantenere un tono calmo e rassicurante, visto che innervosirla non avrebbe fatto che altri danni in quel momento.
“Ok, metti la retromarcia.”
“Credo che dovresti venire tu di qua.”
“No, stai andando bene.”
“Ho fatto dieci metri e quasi un incidente.”
“Ma è la prima volta che provi a guidare, è normale.”
“Non lo so, mamma. Secondo me sono negata e basta.”
“Metti la retromarcia, Sofia” ripetei sorridendole. “Sono sicura che andrai benissimo.”
Lei fece come le avevo detto, tornando indietro e poi girando lo sterzo per rimettersi in carreggiata, iniziando a guidare normalmente.
“Oh mio Dio, sto guidando!” esultò, sorridendomi.
“Occhi sulla strada, Sofia” la ripresi.
“Io mi sto annoiando” ci informò Rob dal sedile posteriore.
“Solo altri dieci minuti, ok?” lo rassicurai.
“Ok. Mamma, possiamo mangiare della pizza, stasera?”
Il cuore mi martellò nel petto.
Sofia lo faceva di frequente, ormai. Ero stata sua madre già per un sacco di tempo e molto brevemente si era riabituata ad avermi attorno. Ma lui non mi aveva mai chiamata in quel modo prima di allora.
Mi voltai e lo fissai per qualche secondo.
“Che c'è? So la regola, al massimo una volta a settimana. Ma l'ultima volta è stato sabato scorso, no? Quindi era la settimana prima di questa, in teoria.”
“L'hai chiamata mamma, Rob” chiarì per lui Sofia con una piccola risata.
“Non lo è?” chiese lui, tornando per un istante a guardare il videogioco che aveva in mano e poi di nuovo verso di me. “Non lo sei?” domandò innocentemente, rivolgendosi poi a Sofia. “Io e te siamo fratelli, e tu la chiami mamma.”
“No, certo che lo sono, Robby. Sono solo contenta di sentirtelo dire. Vieni qui.”
Lui, un po' confuso, si tirò in avanti senza slacciarsi la cintura, permettendomi di baciarlo sulla testa.
“Ok” scrollò le spalle, tornando a sedersi e giocare.

“Pensi che tornerà mai?”
Io mi voltai per vedere l'espressione neutra di Sofia mentre guardava il film, gettando poi un'occhiata dall'altro mio lato per vedere se Rob l'aveva sentita. Lui si era subito girato per captare la mia risposta.
Non era un mistero a chi si stesse riferendo.
“Non lo so. Tu che pensi?”
Si strinse nelle spalle.
“Io penso che lei vorrebbe tornare. Sono sicuro che le manchiamo” rispose al suo posto il fratello più piccolo.
“Lo penso anche io” annuii.
“Ma sono passati tre mesi e mezzo dall'incidente. Se si fosse dovuta risvegliare, ormai sarebbe successo.”
“Non esserne così sicura, Sofia. Questo tipo di cose sono imprevedibili. Potrebbero volerci mesi. O anni.”
“Anni?” finalmente distolse lo sguardo dalla televisione, per voltarsi verso di noi. “Vuoi dire che potrebbe perdersi anni della nostra vita? Come...come te?” chiese, evidentemente infastidita dall'idea di ripetere quell'esperienza. “Potrebbe perdersi il mio diploma, il college, il primo giorno di liceo di Rob. Potrebbe perdersi tutto quanto” stava guardando in basso, ma a quel punto alzò gli occhi verso di me. “Come posso farcela senza di lei?”
Le presi una mano delicatamente.
“Se potessi darei la mia stessa vita per riportarla da voi.”
“So che lo faresti, ma quella non sarebbe nemmeno una vera soluzione.”
“Non se n'è andata” mormorò Rob.
Io lo sollevai, facendolo sedere sulle mie gambe.
“No. Ma potrebbe non tornare, Robby” spiegò Sofia.
“No, intendo che anche se non la vedi” alzò per un istante lo sguardo verso di me, poi tornò a guardare la sorella. “Finché porti il suo ricordo qui dentro” allungò un braccio per toccarle piano il torace “lei sarà sempre accanto a te.”
Gli occhi di Sofia divennero lucidi, ma sorrise.
“Tu parli troppo per i miei gusti” gli disse, la voce le tremava.
Lui scrollò le spalle, sdraiandosi con la schiena contro il mio petto e tornando a guardare la televisione.

Le accarezzai la mano.
“Forse Sofia ha ragione, uh? Se dovevi tornare da me saresti già stata qui, a quest'ora. Ho un milione di domande, su quello che ci è successo e perché ci è successo. Ma se potessi riaverti indietro adesso, non ne farei mai neanche una. Sarebbe una perdita di tempo occuparsi del passato se potessi avere un qualsiasi tipo di futuro.”
La guardai e sembrava davvero che stesse dormendo.
“Stai respirando, il tuo cuore batte, il tuo cervello funziona. Eppure non ti stai svegliando. E noi non sappiamo perché.”
Avevo pensato a cosa sarebbe successo se si fosse svegliata parecchio tempo prima o se non avesse mai avuto l'incidente.
Io non avrei mai potuto passare quei tre mesi con i miei figli, ma lei sarebbe stata al sicuro. Ogni volta che ci pensavo mi trovavo a concludere che avrei volentieri dato indietro la vita a Calliope anche a costo della mia o di rendere la mia del tutto infelice, come era stata senza loro due.
Ma anche allora, non ero felice.
Non ero più distrutta e avevo ritrovato un motivo più che valido per vivere, ma non ero felice. Non senza di lei.
“Non puoi farmi questo, ok? Io ho bisogno di te. Sofia e Robby hanno bisogno di te.”
Mi avvicinai, parlando più vicina al suo orecchio, sperando che mi sentisse anche se ne dubitavo fortemente.
Continuai a tenerle una mano con una delle mie, mentre con l'altra le accarezzavo i capelli.
“Sono sempre stata innamorata di te. Sarò sempre innamorata di te. Perdonami per quello che ti ho detto e torna da me.”
La baciai sulla guancia, sentendo un paio delle mie lacrime cadere sulla sua pelle.

Il mio cerca persone doveva essersi rotto.
Altrimenti perché qualcuno doveva chiamare me, un chirurgo pediatrico, nel reparto di terapia intensiva di neurochirurgia?
Doveva per forza essersi rotto. Perché l'alternativa era che Calliope fosse andata in arresto, o morta, e quelle non erano opzioni accettabili.
Quando arrivai, vidi Derek seduto sul letto.
Mi paralizzai sulla soglia, non riuscendo nemmeno ad abbassare il braccio in cui avevo il cerca persone.
“Ciao.”
Sbattei gli occhi più volte. No, ancora non era sparita.
“Ciao. Sei sveglia” osservai stupidamente.
“Sì. Avrò bisogno di fisioterapia, visto che non mi muovo da, quanto hai detto?” chiese a Derek.
“Quattro mesi” le ricordò.
“Sei sveglia” ripetei, incapace di pensare ad altro che a quello. “E parli normalmente. Da quanto sei sveglia?” guardai Derek.
“Circa mezz'ora. Ho finito i test che dovevo fare, così posso lasciarvi sole e non vederti guardarmi come se stessi contemplando di uccidermi mentre tento di fare il mio lavoro.”
“Io non ti guardo come se...” feci una smorfia.
“Sì, lo fai, quando hai paura che possa fare qualcosa a lei. Conosci le regole, Arizona. Rimani al massimo mezz'ora, poi la lasci dormire un po'. Puoi tornare domani mattina, ok?”
Uscì dalla stanza afferrandomi una spalla e sorridendomi radiosamente.
“Sei sveglia.”
Lei sorrise, leggermente divertita.
“È la terza volta che lo dici.”
“Già. Pe- perché quello che viene dopo è: sei sparita nel nulla portando via mia figlia e il mio figlio biologico senza lasciare traccia e senza mai guardarti indietro. Quindi credo che continuerò con il 'sei sveglia' per la prossima settimana, o cose così.”
Mi guardò, con espressione seria, annuendo.
“Come stanno?”
“Stanno bene” mi avvicinai, sedendomi sulla sedia accanto al letto. “Sofia ha imparato a guidare e Robby cresce ogni giorno che passa.”
“E tu come stai?”
“Io sto” esitai. Mi strinsi nelle spalle, pensando al milione di cose che avrei voluto e potuto rispondere a quella domanda. “Sto che mi manchi, Calliope” sussurrai, distogliendo lo sguardo. “E tu, come ti senti?”
“Indolenzita. Stanca. Felice.”
“Felice?”
“Sono davanti a te per la prima volta da otto anni. Mi sento un'idiota, ma felice.”
“Perché non hai detto niente? Davvero pensavi che se mi avessi detto di aspettare un bambino io non avrei voluto crescerlo insieme a te?”
“Arizona, io ero più che sicura che se avessi detto qualcosa tu saresti stata al mio fianco al cento percento. Sapevo che avresti cambiato idea, per me. Ma non era quello che volevo, farti cambiare idea. Volevo che avessi una vera possibilità di essere felice con il sogno che avevi per te stessa, senza che io lo cambiassi o cambiassi te.”
“Non ho mai avuto una possibilità di essere felice senza di te.”
Scosse la testa.
“Ma io questo non lo sapevo.”
“Io sì. Se me lo avessi chiesto, uno, due, cinque, dieci anni fa, avrei risposto sempre allo stesso modo. Non posso essere felice se non con te.”
“Non volevi figli. Io non volevo obbligarti. Mi dispiace, guardando indietro adesso è facile capire di aver sbagliato, ma allora ero convinta di fare la cosa giusta e se tornassi indietro probabilmente lo farei di nuovo.”
“Lo so” le presi la mano, consapevole del fatto che un milione di volte avrebbe sacrificato la sua felicità per la mia. “Ma adesso lo sai. Quindi non fare niente del genere, mai più.”
Annuì, gli occhi lucidi.
Mi avvicinai, baciandola a fior di labbra.
Stavo per allontanarmi, ma le sue mani presero il mio viso e mi tennero vicina.
La guardai negli occhi, e per la prima volta da anni il dolore lancinante che provavo ogni minuto che passavo sveglia, si era attenuato.
Mi baciò di nuovo.
Dopo pochi secondi le sue dita raccolsero le lacrime sulle mie guance ed io mi allontanai per riprendere a respirare, vedendo quelle che rigavano le sue.
“Dormi, adesso. Ci vediamo domani mattina, ok? Non voglio che ti preoccupi di niente. Ho tutto sotto controllo” sussurrai. “Non preoccuparti di niente in assoluto, perché qualsiasi cosa tu voglia, io te la farò avere.”
La sentii ridere in maniera assonnata, mentre chiudeva gli occhi lentamente.

Quando aprii la porta di casa avevo il cuore che mi scoppiava ed un sorriso enorme sulle labbra. “Ragazzi” chiamai chiudendo la porta. “Venite in soggiorno, ho una sorpresa per voi.”
“Oh, c'è della pizza?” chiese Rob, correndo tra le mie braccia.
Lo sollevai, facendolo poi sedere sul divano.
“No, meglio della pizza.”
“Una macchina?” chiese speranzosa Sofia, entrando in soggiorno e lasciandosi cadere seduta accanto al fratello.
“Meglio di una macchina.”
“Cosa c'è meglio di una macchina?” domandò scetticamente. “Aspetta, hai comprato un televisore nuovo?”
“No, ragazzi, andiamo. State pensando troppo in piccolo” li spronai, continuando a sorridere a trentadue denti. “Pensate a qualcosa di più grande.”
Rob sgranò gli occhi, iniziando a saltellare da seduto sul divano.
“Un dinosauro! È un dinosauro? Oh, mio Dio, ci hai comprato un dinosauro?!”
“No, piccoletto, non un dinosauro. Qualcosa di migliore di addirittura mille dinosauri.”
Lui smise di saltare, guardandomi come se fossi impazzita.
“C'è solo una cosa migliore di mille dinosauri.”
“Cosa? E non dire un milione di pizze, Robby, perché se lo fai ti picchio” minacciò Sofia.
“Mi arrendo” mi fece sapere, incrociando le braccia mentre sbuffava.
“Io credo di aver capito invece, ma non ho intenzione di dirlo a voce alta, perché se mi sbaglio farò la figura dell'idiota” Sofia mi guardò speranzosa.
“Credo che sia proprio quello che stai pensando, Sofia” le sorrisi.
“Davvero?” chiese, gli occhi sgranati. “Stiamo tornando a Los Angeles, non è così? Oh, sei la mamma migliore del mondo. Potrò rivedere tutte le mie amiche e...”
“No. No, no, no. State ancora pensando troppo in piccolo, ragazzi.”
Sorrisi quando si scambiarono un'occhiata perplessa e poi presi le loro mani tra le mie.
“Mamma si è svegliata” dissi loro entusiasta. “Yay!”
Loro mi guardarono ammutoliti per diversi momenti. Poi si guardarono di nuovo tra di loro, prima che Sofia si chiarisse la voce.
Il viso di Robby si era istantaneamente illuminato, così come il suo, ma adesso sembravano aver realizzato qualcosa che aveva fatto fare loro un passo indietro.
“Dovrebbe essere tipo uno scherzo, o qualcosa del genere? Perché non è per niente divertente.”
“Perché dovrei scherzare su qualcosa del genere?”
“Credevo che non si sarebbe più svegliata.”
“Anche io, Sofia, ma è successo. Perché quelle facce, è una notizia fantastica. Yay!” ripetei.
“Ma questo non significa che torneremo a casa?” chiese Robby.
“Certo, appena mamma avrà fatto abbastanza fisioterapia da poter riprendere a camminare normalmente.”
“Non possiamo avere tutte e due?”
“Tutte e due?”
“Sia te che lei” spiegò, guardando in basso.
“Beh, ma io vengo con voi, mi pare scontato. Ve lo avevo promesso, no? Entro l'inizio della scuola saremmo a L.A.” li rassicurai.
“Anche se adesso c'è anche mamma?” chiese Robby.
“Certo.”
“Sei ancora innamorata di lei?” chiese invece Sofia.
Io esitai, decidendo però di rispondere onestamente.
“Lo sono.”
“Dopo tutto questo tempo?”
“Sempre.”

“Mamma!” saltò sopra il letto prima che io riuscissi a fermarlo.
“Robbin” lo accolse immediatamente tra le sue braccia. “Guarda i tuoi capelli, sono lunghissimi” gli sorrise. “Mija, vieni, abbracciami” disse a Sofia, sventolando una mano nella sua direzione.
Lei si avvicinò immediatamente alla parte opposta del letto, sedendosi e lasciando che Callie le passasse il braccio con cui non stava tenendo Rob attorno alle spalle.
“Sono così felice che sei sveglia” le disse il piccoletto, sorridendo e abbracciandola con tutte le sue forze.
“Anche io” intervenne Sofia.
“Ed io sono felice di vedervi” rispose, guardando poi verso di me con un mezzo sorriso sulle labbra, che si trasformò in un'espressione estasiata quando il suo sguardo raggiunse quello che avevo tra le mani. “Dimmi che quello è caffè.”
“Sì. Tecnicamente, il mio caffè” i suoi occhi grandi non fecero che ampliare il mio sorriso. “Ma puoi averne un sorso.”
Le passai la tazza. Lei ne prese un sorso, restituendomela subito dopo.
“Mi sembra di non averne bevuto uno in mesi.”
“Infatti” le ricordai. “Ma prometto di portarne uno tutto per te domani mattina.”
“Affare fatto.”
Sofia e Robby si scambiarono uno sguardo, la ragazza stava a malapena trattenendo il suo sorriso, mentre il piccoletto mostrava fieramente il suo.
“Allora, come sono andati questi mesi? Voglio un resoconto dettagliato di quello che è successo.”
“Ho imparato a guidare” le fece sapere Sofia con entusiasmo.
“E io ho imparato i nomi di tutti i muscoli. Me li ha insegnati mamma con una canzoncina. Vuoi sentirla?”
Vidi una luce passare velocemente negli occhi di Calliope. Per un istante il suo volto si era illuminato.
Spostò lo sguardo verso di me. Io accennai un sorriso, sperando che per lei non fosse un problema, anche se, a giudicare dalla piccola scintilla che si era accesa nei suoi occhi, non c'era rischio che lo fosse.
“Sentiamo” lo incoraggio, tornando a prestare attenzione su di lui.
“Muscolo frontale, due temporali...” iniziò a canticchiare indicando i vari muscoli su se stesso.
Era la cosa più carina mai esistita sulla faccia della terra.

“Piano, fai piano.”
“Ok, dovremmo esserci.”
“Attenta, è un po' fuori dalla rete.”
Spostò il materasso verso destra.
“Perfetto” la incoraggiai con un sorriso, prendendo le lenzuola che avevo appoggiato sopra la scrivania.
“Rob può dormire qui già da stasera” offrì.
Scrollai le spalle.
“Se per una notte vuole dormire con sua madre può tranquillamente farlo. C'è abbastanza spazio per entrambi nel lettone. Sta a lui la scelta.”
“Chissà cosa sceglierà” replicò sarcasticamente, ridendo. “D'altra parte, se avessi ancora un'età accettabile per una cosa del genere, probabilmente lo farei anche io.”
“Chi dice che non hai un'età accettabile? Tu sarai sempre una bambina, Sofia, agli occhi miei e di Calliope. Quando ti guardo mi sembra ancora di vedere la bambina che aveva due anni e sgambettava con il pannolone addosso, cercando di non inciampare prima di aver raggiunto me o mamma.”
Rise, mentre mi aiutava a sistemare il letto.
“Prometti di non raccontare questa storia alla prima persona che porterò a casa, ok?”
“Se tu prometti di non raccontare a tua madre della prima volta che siamo andate a guidare e del fatto che siamo quasi morte. Tre volte.”
“Andata.”
“Ho un'idea per stasera” le dissi, procedendo ad illustrarle quello che avevo in mente.
Finimmo di preparare il letto per Rob e poi sistemammo tutto il resto per quella notte. Una volta finito mi accompagnò in cucina, mentre iniziavo a preparare la cena.
“La perdonerai? Per averci portato via?”
“L'ho già perdonata” risposi tranquillamente, senza esitazione. “Ma non so se lei perdonerà me per quello che ho detto.”
“Lei ti ha perdonato da un sacco di tempo” mi informò con un sorriso rassicurante.
“Spero che tu abbia ragione” sospirai, dando un'occhiata dentro il frigorifero, tristemente più che vuoto. “Ok, stasera pizza. In fondo dobbiamo festeggiare, no?”
“Tornerete insieme?” chiese a bruciapelo.
“Quello dipende da Callie. Perché non lo chiedi a lei?” proposi. “E sarebbe carino da parte tua se poi magari facessi sapere la risposta anche a me.”
Lei mi sorrise, prendendo il giacchetto.
“Credo sia ora.”
“Decisamente” confermai. “Abbiamo aspettato anche troppo.”
Quando arrivammo Callie e Rob ci stavano aspettando seduti sul letto, lei stava firmando dei fogli che aveva in mano, mentre lui aveva detto qualcosa che aveva fatto ridere entrambi.
“Sei già vestita” osservai, sorridendo. “Perfetto, allora. Possiamo uscire e tornare a casa. Che c'è di così divertente?”
“Niente. Robbin mi stava solo raccontando che gli devo un milione di pizze. O mille dinosauri, a mia scelta.”
“Non ho detto così!” si difese lui. “Dicevo solo che all'inizio pensavo che mamma ci avesse comprato un dinosauro.”
“Beh, un milione di pizze sembrano un sacco di pizze, vero, Calliope? Sarà meglio che iniziamo subito a pagare questo debito, che dici?”
“Oh, sì. Assolutamente.”
“Due con il salamino piccante e due quattro formaggi?” chiesi.
“Se tu la prendi sempre con i quattro formaggi” confermò.
“Se tu la prendi sempre con il salamino piccante” ritorsi con un sorriso. “Robby la mangia solo in quel modo, vero piccoletto?”
Lui annuì con decisione.
“E io la prendo sempre come te, invece” aggiunse Sofia rivolgendosi a me, mentre tendeva una mano verso il fratello. “Su, alzati mini-me. Andiamo a casa.”
“Io non sono un mini-te” rispose lui, alzandosi.
“Ah, sì che lo sei. Cammini come me, parli come me e hai le stesse espressioni. Sei praticamente un clone.”
“Ho i capelli biondi.”
“Questo perché io tingo i miei.”
“No, non è vero. Stai solo cercando di confondermi.”
“Sì, invece. E ho anche le lenti a contatto.”
“Davvero?”
“Certo.”
Io risi, prendendo le poche cose che Calliope aveva lì, porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi e ci dirigemmo verso l'ascensore.
“Sofia, perché io e te non ci assomigliamo?” domandò, guardando in alto verso il viso della persona che stava tenendo per mano.
Le porte si chiusero proprio mentre io e Callie ci scambiavamo uno sguardo di leggerissimo allarme.
“Beh, tutti abbiamo due genitori, no?”
“Sì.”
“E prendiamo un po' di tratti da entrambi” spiegò. “Io ho preso i capelli neri e gli occhi scuri, mentre tu sei biondo e hai gli occhi chiari. Questo significa solo che fisicamente io assomiglio un po' di più a Callie, mentre tu assomigli un po' di più ad Arizona.”
Lui annuì, tentando di seguire il ragionamento.
“Ma questo non significa che non abbiamo preso qualcosa da entrambe.”
“Che vuoi dire?” chiese, mentre Sofia lo trascinava fuori dall'ascensore e in direzione dell'ingresso dell'ospedale.
“Ecco, per esempio, io metto lo zucchero a velo sui pancake, come Arizona. Ma a te piacciono con il miele, come a Callie. Io preferisco la pizza ai quattro formaggi, mentre tu la mangi solo se ha della roba piccante sopra. Quindi vedi, i nostri caratteri e il nostro aspetto fisico sono misti.”
Lui ci rifletté per qualche istante, annuendo, poi, finalmente convinto.
“Quindi io non sono un mini-te” le disse, sorridendo.
Lei rise della sua furbizia.
“Mi hai fregato, Rob. No, hai ragione. Non sei un mini-me.”
Uscimmo dall'ospedale guardandoli discutere tra loro.
“Gesù, quel bambino avrà le idee così confuse sulla biologia” sussurrò Calliope. “Crederà che il modo in cui qualcuno mangia la pizza è un carattere ereditario.”
“Beh, crede già di avere due mamme biologiche e che entrambe siano angeli. Non può andare molto peggio di così, no?” domandai ridendo.
Lei rispose solo con un sorriso.
“Dovremmo parlargli, vero?”
“Assolutamente sì” annuii. “Ma non stasera.”
Arrivammo finalmente all'appartamento. La stavo ancora tenendo per mano.
Passammo tutta la sera a parlare dei mesi in cui lei era stata in coma. Sofia partì dall'inizio e raccontò tutto nei minimi particolari. E Robby interveniva a riempire le parti che lei non ricordava del tutto.
Quando mi accorsi che stava sbadigliando ogni minuto o meno, decisi che era ora di andare a letto.
“Sei sicuro che non vuoi una mano?” mi assicurai.
Lui annuì, sparendo dentro la camera da letto.
“Da quanto tempo si mette il pigiama da solo?”
“A dire la verità è la prima volta. Ieri sera lo ha fatto con me presente, ma non ha voluto aiuto.”
“Vado a cambiarmi anche io” ci informò Sofia. “Io e mamma abbiamo preparato una sorpresa per te” disse a Callie con un sorriso radioso, alzandosi.
“Andiamo” la incoraggiai. “Non addormentarti sul divano, non ti lascerò passare qui la tua prima notte a casa.”
Mi alzai e le porsi una mano che prese senza esitazione. Una volta in piedi rafforzò la presa, impedendomi di allontanarmi, mentre mi guardava negli occhi seriamente.
“Grazie. Per tutto quello che hai fatto per me. E per loro.”
“Grazie a te, per avermi ascoltato ed essere tornata da noi.”
“Non so se potrai mai riuscire a perdonarmi per quello che ho fatto, ma...”
“Calliope” la fermai. “Certo che ti perdono.”
La tirai leggermente, finché si mosse per seguirmi dentro la camera da letto. Le presi uno dei miei pigiami e andai in bagno mentre lei si cambiava, con la scusa di lavarmi i denti.
Quando tornai, già indossando il mio pigiama, lei aveva addosso il suo.
Sofia e Rob entrarono in quel momento, bussando alla porta della camera da letto. Lei stava coprendo con una mano i suoi occhi e con l'altra quelli di suo fratello.
“Siete presentabili?”
La risata cristallina di Calliope le fece rimuovere le mani dai loro occhi e fece voltare me per guardare il piccoletto.
“Sofia ha riso del pigiama con i Pokémon, ma sono cose da maschi, lei non ne capisce” ci comunicò il piccoletto.
Mi morsi un labbro. Sofia, probabilmente, aveva riso più che altro perché la maglietta del pigiama era al contrario. Ma chi avrebbe mai avuto il cuore di comunicare una cosa del genere a Robby, la prima sera che si metteva il pigiama completamente da solo? Di certo non una di noi due, e poco ma sicuro neanche Sofia.
“Sei stato bravissimo, piccoletto” lo incoraggiai.
“E il pigiama è fantastico, Robbin” Callie sorrise, con aria stanca.
Mi avvicinai, scostando le coperte.
“Saltate dentro.”
“Tutti quanti?” chiese Calliope, perplessa dallo sguardo complice che mi scambiai con Sofia.
“Che ti aspettavi? È la tua prima notte a casa. O così oppure dovevamo giocare a sasso-carta-forbici per decidere chi avrebbe avuto il privilegio di dormire nel lettone, stasera.”
Sofia si sistemò dall'altro lato, vicino a Calliope, permettendo così a Rob di mettersi tra me e lei.
“Ci sei mancata.”
“Ci sei mancata davvero.”
Io sorrisi. Robby era davvero un mini-Sofia, la maggior parte delle volte. Guardava lei e la imitava con le migliori intenzioni. Lei era un po' il suo eroe.
Sofia appoggiò la testa sulla spalla di Callie, mentre Rob si girava verso di me per sdraiarsi quasi per metà contro il mio fianco come faceva lei da piccola. Feci passare un braccio attorno alle sue spalle e gli accarezzai la schiena finché fui sicura che stesse dormendo.
Poi, con la mano, cercai quella di Calliope attraverso le coperte e la trovai. La sua presa fu immediata.
“Siamo state davvero fortunate, non è vero?” domandai in un sussurro, sentendo il leggero russare di Sofia dall'altra parte del letto.
Un'altra cosa che aveva preso da Callie.
“Credo proprio di sì.”
Sospirai, avvicinandomi di più a lei senza svegliare il bambino tra le mie braccia mentre lei faceva la stessa cosa.
“Sai che ci sono solo due scelte a questo punto.”
“Darci una chance o non darci una chance?” chiese, incerta.
“Non essere ridicola” voltai il viso nella direzione generica del suo. “Mi trasferisco io a Los Angeles o rimanete voi qui a Seattle?”
“Che significa che non devo essere ridicola?”
“Credo sia meglio tornare a L.A. visto che loro sono cresciuti lì.”
“Arizona, che vuoi dire quando dici 'non essere ridicola'?”
“Significa che non è una domanda seria. Tu prova a non darmi un'occasione e dovrai denunciarmi per stalking, adesso che so dove abiti.”
Rise, contro la sua volontà.
“Dico sul serio, Calliope. Non ti lascio andare di nuovo.”
“Spero che tu dica sul serio” sussurrò con tono serio. Poi continuò in modo più scherzoso. “Perché altrimenti sarò costretta a fare come quei due ragazzini del nostro primissimo caso al pronto soccorso.”
Feci del mio meglio per ridere sottovoce.
“Attaccherai le nostre mani e le nostre braccia con la super colla?”
“Puoi scommetterci.”

Litigammo molto. E urlammo molto. E non è che nessuna delle due non perse mai la pazienza, al contrario.
Ma arrivammo ad un punto in cui i nodi iniziarono a sciogliersi e i problemi a risolversi e alla fine eravamo riuscite a perdonarci davvero. Eravamo riuscite a fare in modo che non fossero più solo parole.
Con il tempo, quando ci eravamo lasciate alle spalle il passato, le cose erano tornate ad essere come erano state. E come sarebbero dovute essere sempre.
Era come vivere una favola.
“Ferma la macchina.”
“Andiamo, non dirai mica sul serio.”
“Sono molto seria, invece. Ferma la macchina.”
“Ok, ok. Va bene.”
Quando aprii la porta di casa, stavamo ancora litigando.
“Non capisco cosa ho sbagliato.”
“Non mi stavi nemmeno ascoltando, come pretendi di sapere cosa hai sbagliato?”
“Ok, basta urlare” ci fermammo entrambi di colpo. “Non voglio sentire nemmeno un'altra parola da uno di voi due.”
“Ma...”
“Robbin.”
“Calliope, sii ragionevole, se non gli spiego perché ha sbagliato...”
“Spiegaglielo mantenendo la voce ad un livello tale da non disturbare le gemelle, allora. Stanno studiando.”
“Stanno studiando?” chiese Rob, corrugando appena la fronte. “Cosa, come colorare? Hanno solo sei anni” osservò.
“A differenza di qualcun altro, che tra tre giorni ha un test di biologia” gli ricordò, alzando un sopracciglio.
“Non preoccuparti, mamma. Andrò alla grande. Ho le ossa nel sangue e la canzoncina dei muscoli farà il resto.”
Io risi, scompigliandogli i capelli.
“Sei incredibile, Robby. Non posso essere arrabbiata con te per più di mezzo minuto.”
“Non puoi essere arrabbiata per più di mezzo minuto neanche con mamma. O con Sofia. O con Kate e Jessie.”
“Allora, le lezioni di guida non sono andate molto bene?” chiese Calliope, avvicinandosi ulteriormente.
“Oh, ecco che arriva il momento dei saluti, non è vero? Beh, io andrò a studiare per quel test di cui stavamo parlando.”
Mentre Rob praticamente fuggiva via dalla stanza lei mi passò le braccia attorno alla vita, mentre io le stringevo le mie attorno al collo.
“Ciao.”
“Ciao” risposi sorridendo come un'idiota. “Come è andata la tua giornata?” chiesi, baciandola.
“Bene. La tua, invece, sembra non molto bene” rispose, mentre continuava a baciarmi.
“Sai, credo che dovresti provare tu. Sofia mi ascoltava. E Robby ha un debole per te.”
“Chissà da chi avrà preso” osservò ironicamente.
“Sofia quando torna a casa? Ci hai parlato?”
“Entro la fine della settimana. Inizierà la specializzazione qui a L.A. tra un paio di mesi, lo sai. C'è un sacco di tempo.”
“Lo so. Voglio solo vederla di nuovo, mi è mancata mentre era al college.”
“Stanno crescendo davvero in fretta.”
“Eh, sì. La nostra bambina si è laureata in medicina e il nostro ometto sta imparando a guidare. E le gemelle hanno già iniziato la scuola elementare.”
“Credo voglia fare il medico anche lui. Sai, è un miracolo che Robbin sia così portato per la medicina, nonostante il casino che aveva in testa, da piccolo, sulla biologia” scherzò.
“Sono tutti quei libri che ha letto quando aveva nove anni. E le domande inquietanti che ha iniziato a fare a dieci.”
“Ma ora sta bene. Stanno tutti bene.”
“Stiamo tutti bene” confermai.




Questa è una delle mie preferite, quindi ci terrei a sentire le vostre opinioni...
Alla prossima!





Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** Il nostro primo gioco da tavola ***


Il fandom sta avendo un crollo emotivo, lo so. E anche io. Questa shot è una delle mie preferite e, nonostante questo, oggi mentre mettevo l'html ho rischiato più di una volta di tirare un pugno a qualcosa, mettermi a piangere o vomitare. Quello che voglio dire è un grande ed immenso NO a tutto questo. No, non ci credo, no, non lo accetto, no, non voglio parlarne. Per il rispetto di tutte voi vi prego di non inserire nelle recensioni spoiler per quelle (penso poche) persone che ancora non sanno niente delle recenti puntate del telefilm. Grazie ancora e scusate il piccolo sfogo.

Avvertimenti: AU, Crossover






Il nostro primo gioco da tavola


Ce ne stavamo tutti e cinque lì, in piedi, a fissare la terra che cadeva dentro altra terra. Non avevo mai vissuto niente di così insensato in tutta la mia vita.
Eravamo in cinque ed uno di noi mancava. Eravamo in cinque perché uno di noi era stato adagiato sulla terra. E su di lui scendeva altra terra.
Dicono che a tutto c'è un motivo, ma, a quello che era successo a lui, un motivo non lo avevamo mai trovato.
Avevamo tutti i nostri piani, allora.
Piani di lasciare quel piccolo paese in cerca di qualcosa di più grande. Che potesse contenere quello che pensavamo di essere. Ma in realtà, ciò che eravamo davvero, era così piccolo da essere contenuto nella scatola di un gioco da tavola. Letteralmente.
Quello che stava succedendo non aveva senso. Non per me.
Terra gettata su altra terra ed in mezzo solo una bara vuota.
E noi cinque, in piedi, tutti e cinque con il cuore a pezzi.
“Non diremo mai a nessuno neanche una parola riguardo quello che è successo” sussurrò il ragazzo, alzando lo sguardo.
“Promettetelo tutti quanti” ci esortò la ragazza al suo fianco.
Due deboli assenzi e poi io, che non risposi. Continuai a guardare avanti, verso la terra che cadeva e sotterrava le nostre bugie.
Avevamo grandi piani, allora. Tutti noi.
Ma io quel giorno capii che la vita non aveva il minimo senso. Che non è vero che tutto accade per una ragione. E così lasciai andare tutti i piani che avevo fatto. Piani di un posto più grande, di una vita migliore.
Lasciai andare.
E non riuscii a guardarmi indietro mai.


“Sono dieci anni la prossima settimana.”
Rimasi in silenzio.
Non mi piaceva quando ne parlavamo. In fondo era stato lui per primo a chiederci di non parlarne mai.
“Voglio che andiamo tutti insieme a trovarlo.”
Io non volevo, invece.
Non volevo andarci insieme ad altra gente, a trovarlo, perché ci andavo abbastanza spesso da sola e non avevo bisogno che quattro ragazzi con cui avevo fatto il liceo mi vedessero piangere.
E poi non volevo rivedere nessuno di loro.
Non erano che il costante ricordo dei miei fallimenti. Non erano altro che il mio passato.
Eppure, in qualche modo, mi sentivo come se glielo avessi dovuto, almeno quello. Almeno andare a trovarlo insieme agli altri, almeno un giorno ogni dieci anni.
Lui diceva sempre che saremmo rimasti in contatto anche se ci fossimo allontanati nel corso delle nostre vite. Ma la verità era che non avevo più visto nessuno di loro da quasi nove anni. Ci eravamo persi.
Lui non avrebbe voluto che succedesse.
“Se riesci a organizzare qualcosa io ci sarò” risposi, ascoltando il suo silenzio ancora per qualche secondo, prima di riattaccare.
Mi guardai attorno, esaminando quella casa quasi vuota, senza significato, inutile. Pensando a quanto poco senso tutta la mia esistenza avesse avuto.
A come ero riuscita ad arrivare a ventotto anni senza aver mai vissuto un solo giorno in tutta la mia vita.
A come avevo buttato via l'unica occasione di essere felice che avessi mai avuto davvero.
Ma anche allora, ne era valsa la pena. Anche le cose terribili che mi erano successe e gli sbagli che avevo commesso, anche quello del passato che avrei cambiato, se avessi potuto farlo, alla fine ne era valsa la pena.
Perché la mia infelicità era l'unica buona azione che avevo fatto in tutta la mia vita.

Avremmo alloggiato a casa sua, visto che era lui che aveva voluto organizzare tutto. E visto che era lì dove tutto era iniziato.
Io avevo insistito per rimanere a casa mia, visto che ogni tanto, quando ero in città, dormivo nella casa lasciata vuota dai miei genitori anni prima, in fondo all'isolato, ma non erano state prese in considerazione obbiezioni di nessun tipo.
Quando avevo bussato alla porta ci erano voluti diversi secondi perché chiunque si trovasse al di là dello spioncino mi riconoscesse. Quando la porta si aprì mi trovai davanti ad una donna alta, sulla trentina, i capelli rossi.
“Addison.”
Forse erano i miei occhiali da sole troppo grandi. Forse i miei capelli tagliati troppo corti, ormai ne erano rimasti solo pochi centimetri. Forse era che non ci vedevamo da nove anni. Probabilmente era che non ci vedevamo da nove anni.
“Callie.”
Sorseggiai il caffè che avevo in mano, voltando la testa di lato ed ignorando il nodo che avevo allo stomaco.
“Vivi con Derek, adesso?”
“No. Sono appena arrivata. Io e Derek ci siamo lasciati anni fa.”
Annuii, distrattamente.
“Entra. Siamo già tutti arrivati” mi fece sapere.
Entrai e loro erano tutti lì, seduti sui due divani sistemati di rimpetto, un tavolino basso che li divideva.
Su quello alto, qualche metro dopo di loro, Derek aveva sistemato della roba da mangiare. Come se fosse un buffet per un bentornato a casa.
“Gente” salutai senza togliermi gli occhiali da sole.
Non potevo incrociare i loro sguardi. E soprattutto non il suo.
Finii il mio caffè e Derek mi indicò un cestino che aveva messo vicino al tavolo. Mi avvicinai, gettando dentro il bicchiere vuoto e osservando la roba da mangiare, preferendo quella attenta ponderazione ad una qualsiasi forma di comunicazione.
C'erano abituati. L'ultimo anno di liceo mi ero allontanata da tutti i loro discorsi. Ero lì, ma era come se fossi sempre voltata di spalle, come in quel momento ero davvero. Ascoltavo, ma preferivo non rispondere.
“Allora, Teddy” riprese il filo del discorso Addison. “Arizona ci stava giusto raccontando che sta per sposarsi.”
La mia mano si fermò a metà strada verso una tartina al formaggio. Come se avessi appena preso la scossa.
Teddy rise, congratulandosi e chiedendo ulteriori informazioni sul futuro sposo.
“John Graham” rispose educatamente. “È un agente di borsa.”
Ci fu un'altra risata da parte di Teddy, palesemente contenta.
“Congratulazioni” sussurrai in modo freddo, senza preoccuparmi di voltarmi mentre parlavo con loro.
Li sentii fare immediatamente silenzio.
“E tu, Callie? Qualcuno di importante?” domandò Addison, genuinamente interessata.
Ponderai la mia risposta a lungo, mentre sceglievo ciò che volevo mangiare.
“No. Al momento nessuno di importante.”
Afferrai la tartina che avevo puntato prima, dando un morso ed apprezzando il sapore del formaggio stagionato italiano.
Mi voltai verso di loro mentre prendevo il secondo morso.
“Facciamo questa cosa in modo che ognuno di noi possa tornare alla sua vita” proposi, nonostante la principale occupazione dei miei giorni era tentare di sfuggire alla mia.
“Ci stiamo rimettendo in pari” mi fece notare Addison. “Siediti e rispondi alle domande oppure fai educatamente finta di ascoltare mentre pensi ad altro.”
Io mi versai da bere in un bicchiere dalla bottiglia con la gradazione più alta che trovai, poi mi sfilai il giacchetto, appoggiandolo sul bracciolo del divano vicino al quale mi misi a sedere, proprio accanto ad Arizona.
Avevo il bicchiere in una mano a la bottiglia nell'altra.
“Allora, ho saputo che ti sei laureata in legge, Addie” continuò Teddy.
“Ho messo su un piccolo studio, ma non è andato molto bene. Nel giro di qualche mese ho dovuto vendere ad uno studio più grande, ma adesso lavoro per loro.”
“E tu Derek, almeno tu sei riuscito a realizzare il nostro sogno?” continuò Teddy, rifiutandosi di arrendersi.
“A dire la verità sono entrato nel campo della pubblicità. Io e Callie ogni tanto ci sentiamo per lavoro, infatti.”
“Davvero?” domandò, voltandosi verso di me.
Io non ricambiai lo sguardo.
Ero occupata a fissare la donna al mio fianco attraverso i miei occhiali da sole. E bere il contenuto del mio bicchiere, riempiendolo di nuovo subito dopo.
“Dirigo un albergo” risposi, senza approfondire troppo i dettagli.
“Arizona è diventata famosa” fece presente Addison.
“Faccio la giornalista” chiarì la bionda, senza incrociare il mio sguardo.
“Interessante. Quindi dici la verità alle persone?” chiesi, provocando una reazione immediata in tutti loro.
Arizona alzò finalmente la testa nella mia direzione, Derek posò il bicchiere che aveva in mano rumorosamente sul tavolino, Teddy si schiarì la voce e Addison distolse lo sguardo.
“E tu, Teddy? Cosa fai adesso?” domandò Addison, velocemente.
“Sono appena tornata dall'Iraq. Mi sono arruolata nell'esercito, adesso sono Tenente.”
“Ti sei arruolata?” chiese Arizona, corrugando la fronte.
“Sorpresa delle sorprese, nessuno di noi ce l'ha fatta” sussurrai, continuando a sorseggiare quello che avevo in mano. “Dovevamo essere sei chirurgi. Invece abbiamo, vediamo un po', un avvocato, un pubblicitario, un soldato, una giornalista, una direttrice d'albergo e un morto.”
“Calliope.”
“Arizona” ripetei con lo stesso tono. “Possiamo dirlo, sapete? Mark è morto. Proprio davanti ai nostri occhi.”
“Non è morto. Eravamo tutti lì. Abbiamo visto quello che è successo.”
“Teddy, credo che Callie abbia ragione” intervenne Derek. “Temo che Mark sia morto.”
“È solo scomparso.”
“Il punto è che non è qui” sussurrai, riempiendomi il bicchiere per l'ennesima volta. “E sarebbe dovuto essere qui.”
Ci fu un lungo silenzio.
“Vado a prendere l'elenco telefonico per ordinare della pizza” ci disse Derek.
“Faccio del caffè” si offrì Teddy.
“Ti accompagno” le disse Addison. “Ci metteresti secoli per trovare alcune cose in questa casa. Sai quanto è disordinato Derek.”
Quando tutti se ne furono andati io mi avvicinai di più alla donna al mio fianco.
Stavo per dire qualcosa, quando Derek tornò con l'elenco del telefono.
Facemmo cena insieme, poi Teddy si allontanò per fare una chiamata al suo plotone, mentre Addison e Derek andarono al piano superiore, cercando una sistemazione adatta delle camere da letto.
Lei mi lanciava sguardi di sottecchi, ma non diceva niente. Non aveva detto niente direttamente rivolto a me, oltre il mio nome, fino a quel momento.
“Ti prego, non farlo” sussurrò, senza nemmeno guardarmi in faccia.. “Non dire niente, ok? Lascia perdere.”
Sapevo che non potevo dire quello che avrei voluto neanche se ci avessi provato, così come lo sapeva lei.
Era cambiata molto. Così come ero cambiata io. Non eravamo più le persone che eravamo l'ultima volta che ci eravamo viste.
E capii allora che era in quel momento o tra altri dieci anni.
“Raccontami di John” proposi a bruciapelo.
Appoggiai il gomito sullo schienale del divano e sistemai una guancia contro il pugno chiuso della mia mano.
“Raccontami di quanto lo ami, di quanto adori il modo in cui ti guarda. Di quanto ti batte forte il cuore quando ti bacia.”
Chiuse gli occhi quando afferrai una ciocca dei suoi capelli con una mano, sistemandola dietro il suo orecchio e avvicinandomi ancora di più, per parlare in poco più che un sussurro ma assicurarmi comunque che mi sentisse.
“Non c'è alcun John, non è vero, Arizona?”
Passai una mano tra i suoi capelli, facendole voltare la testa nella mia direzione.
“No, non c'è alcun John” confessò in un sussurro.
“No, non c'è alcun John” ripetei amareggiata. “E non è vero che ti stai sposando, è così?”
“Devo mantenere un'apparenza. Ho un telegiornale sulla TV nazionale. Credi che me lo farebbero ancora condurre se tutti sapessero chi sono davvero?”
Annuii, continuando ad accarezzarle i capelli.
“Guardo il tuo TG tutte le sere” sussurrai con le labbra vicine al suo orecchio più di quanto fosse socialmente accettabile in una conversazione tra vecchi compagni di liceo.
“Mi sei mancata” sussurrò con voce tremante, gli occhi fermamente chiusi.
Poi si allontanò e li aprì, fissando i miei occhiali da sole.
“Per anni ho pensato a come sarebbe stato vederti di nuovo, tornare qui, tornare a casa. Ma adesso ti guardo e” si bloccò all'improvviso. Passò una mano tra i miei capelli troppo corti, sfiorò i miei occhiali troppo grandi. “E non sei nemmeno più tu” sussurrò, distogliendo lo sguardo e allontanandomi con una mano premuta contro il mio petto.
Gli altri tornarono, uno alla volta. Ci sedemmo ed aspettammo tutti quanti che qualcuno iniziasse a parlare. Ma nessuno sapeva cosa dire.
Così rimanemmo lì seduti, ognuno immerso nei propri pensieri.

I primi raggi di sole mi sorpresero con le gambe intrecciate alle sue.
Avevo addosso solo una maglietta e della biancheria, ero sdraiata sulla schiena, mentre lei era sulla pancia, con una mano gettata sopra la mia vita.
Avevo perso il conto delle volte in cui mi ero svegliata con lei addosso, ma non mi serviva sapere il numero per arrivare a capire che quella era l'ultima volta che succedeva.
Fissai il soffitto per non so quanto tempo, con una mano avevo tirato leggermente su la sua maglietta e adesso era ferma contro la pelle della parte bassa della sua schiena. Ero probabilmente l'unica persona al mondo ad essere coscientemente consapevole del fatto che aveva le fossette di Venere.
La ascoltai mentre respirava. Ed il semplice fatto che mi fosse accanto bastò a calmare le mie paure, solo per un brevissimo istante. Tornava tutto in piena forza mentre inspirava, mi sentivo meglio quando espirava. Era uno strano alternarsi tra momenti di panico e attimi di pacata rassegnazione.
Magari, magari in un'altra vita saremmo diventati tutti dei chirurghi come avevamo pianificato quando eravamo qualche anno più piccoli.
Forse in un altro universo saremmo potuti essere felici. Saremmo potuti rimanere insieme.
Ma non in quel mondo, non in quel momento.
Perché, in quel momento, io avevo perso ogni certezza della mia vita. Avevo buttato via ogni possibilità.
Lei si sarebbe laureata in giornalismo. Io mi ero iscritta ad economia.
Sapevo che io sarei rimasta lì in quel piccolo paese, mentre Arizona sarebbe andata in un sacco di posti diversi. E forse un giorno sarei stata la direttrice di uno degli hotel di mio padre, ma che tipo di vita sarebbe stata quella per Arizona?
Era l'ultimo anno di liceo.
Non avevo il tempo di cambiare più niente di niente, ormai.


Come dieci anni prima, rimanemmo tutti e cinque fermi immobili ad osservare la bara.
Ma eravamo diversi.
Non avevamo gli occhi rossi di pianto, non avevamo il cuore spezzato come una volta.
Ce ne stavamo lì a guardare un pezzo di marmo che era l'unica cosa rimasta a ricordarci ancora che uno dei nostri migliori amici era esistito davvero e non era solo una nostra fantasia. Che quell'intera notte, non era stata solo un tremendo, improbabile incubo dettato dall'ora tarda e dall'alcol.
Teddy non era caduta in ginocchio.
Addison non stava piangendo sulla spalla di Derek e lui non perdeva le proprie lacrime tra i capelli di lei.
Arizona non era stretta al mio petto.
Ed io respiravo meglio di quanto dieci anni prima mi ero sentita in grado di fare.
Era passato così tanto tempo, così tanto. Ma sembrava che non ne fosse passato neanche lontanamente abbastanza.
“Ti avrebbe sposato.”
Si voltarono a guardarmi.
Non presi nemmeno in considerazione l'idea di togliermi gli occhiali da sole.
“Voleva chiederti di sposarlo l'ultimo giorno dell'ultimo anno di liceo. Un giorno siamo perfino andati insieme a cercare l'anello perfetto” raccontai. “Ma avevamo opinioni molto diverse su come dovesse essere l'anello perfetto. Così lui comprò il suo ed io comprai il mio.”
Continuai a guardare la lapide davanti a me.
“Ti avrebbe sposato, Teddy. So che non è molto detto da me, adesso, dopo dieci anni. Ma, per quello che vale, Mark ti avrebbe sposato.”
Si asciugò un paio di lacrime ed annuì, tornando a guardare verso la tomba.
Nessuno di noi trovò nient'altro che valesse la pena di essere aggiunto, così ci trovammo di nuovo immersi nella quiete.
Alla fine, fu Addison a decidere di rompere il silenzio teso che si era creato.
“Non era così che pensavo sarebbe finita. Non era in questo modo che mi aspettavo di vivere la mia vita.”
“E come ti aspettavi che sarebbe stata?” domandò Teddy.
Lei scrollò le spalle.
“Pensavo che a quest'età sarei stata sposata, che avrei avuto almeno un bambino. Non di cenare in un appartamento vuoto tutte le sere mangiando qualcosa di appena uscito dal surgelatore e di essere un avvocato fallito.”
“Anche io pensavo che a quest'ora sarei stato sposato” intervenne Derek. “Con te” si voltò verso Addison. “E pensavo che avrei avuto un lavoro che mi sarebbe piaciuto, che mi avrebbe fatto battere il cuore ogni giorno. Pensavo che avremmo avuto una casa grande e dei bambini, magari un cane.”
Rise amaramente, accennando un sorriso. Aveva gli occhi rossi.
“Invece sono infelice.”
“Io pensavo che saremmo stati tutti dei chirurghi” intervenne Teddy. “Pensavo che io e Mark ci saremmo presi e lasciati e alla fine sistemati insieme dopo il college. Ma non che mi sarei arruolata nell'esercito, di sicuro. Non che sarei finita da sola. Senza nessuno di voi al mio fianco quando vorrei qualcuno per poter parlare di lui.”
“Avrei voluto fare il chirurgo. Avrei dovuto, anzi. Avrei dovuto essere me stessa” continuò Arizona, abbassando lo sguardo.
“Quindi io sono l'unica che sta vivendo la vita che si era aspettata” terminai.
“Non lo dici come se fosse una bella cosa” mi fece notare Addison.
Scrollai le spalle, voltai la testa.
“Questa era la vita che mi aspettavo. Tornare a casa e trovare un appartamento vuoto. Allontanarmi dai miei migliori amici. Avere un lavoro orribile e instabile. Mi aspettavo perfino che la maggior parte della mia famiglia smettesse di parlarmi” spiegai con tranquillità. “Mi piace pensare che fosse tutto già scritto. Che non abbiamo mai avuto una possibilità fin dal primo momento. Nessuno di noi.”
Sospirai, mentre loro riflettevano sulle mie parole.
“Quello che avevamo, essere chirurghi, rimanere amici per sempre, insieme per sempre” continuai con la voce che mi tremava. “Quello era un bel sogno. Ma alla fine era solo quello, niente di più. Un bellissimo e irrealizzabile sogno.”
“Quindi è tutto qui? Ci mettiamo le mani in tasca mentre guardiamo l'infelicità distruggere lentamente la nostra vita e aspettiamo che tutto finisca? Che il mondo intero ci crolli addosso e ci distrugga?” chiese Addison, scuotendo la testa come se non volesse nemmeno prenderlo in considerazione.
“Non ho detto che dovete farlo” protestai. “Ho solo detto che è quello che sto facendo io. Da dieci anni.”
Rimanemmo di nuovo in silenzio, finché sentii Teddy rilasciare una risata che aveva palesemente trattenuto a fatica fino a quel preciso istante.
“Mi dispiace. Scusatemi” spostò lo sguardo su di me. “Avete comprato degli anelli di fidanzamento il penultimo anno di liceo?”
“Già, tu ridi. I miei genitori ancora non hanno idea di chi abbia fatto sparire tutti quei soldi dal fondo fiduciario mio e di Aria. Mentre il padre di Mark l'ha beccato praticamente meno di una settimana dopo. E lui non mi credeva quando gli dicevo di essere io quella intelligente” aggiunsi in tono di scherno.
“Sì, ma” rise di nuovo, portandosi una mano davanti alla bocca per cercare di mantenere almeno un po' della sacralità del luogo in cui ci trovavamo intatta. “Tu hai comprato un anello di fidanzamento, Callie. Tu.”
“Sì, l'ho fatto. Perché sono lesbica.”
Teddy rise più forte, mentre Addison alzava un sopracciglio vero di me, Arizona mi guardava incredula e Derek cercava di non unirsi a Teddy nelle risate.
“Perché mi guardate così?”
“Quindi questa è la tua scusa per aver comprato un anello di fidanzamento il penultimo anno di liceo?” domandò Derek cercando di non scoppiare a ridere. “Quando avevi soltanto diciassette anni? Questa non è una spiegazione” mi fece notare.
“Sei lesbica?” ripeté Addison, il sopracciglio ancora in posizione mentre faceva del suo meglio per non sorridere.
Teddy aveva una risata molto contagiosa, e in quel momento era praticamente piegata in due dal ridere.
“Sì. E so che siete cresciuti in questo paese, come me, dove la cosa più scandalosa che poteva succedere era che qualcuno facesse tardi a messa di domenica, ma dovreste aver scoperto cosa vuol dire la parola impronunciabile che comincia per 'l' un sacco di tempo fa. Significa che mi piacciono le donne. Niente di che.”
“No, non quello” mi interrompette Teddy, ancora ridendo. “Noi questo lo sapevamo già da un sacco di tempo. Ma tu” altre risate “tu hai” ancora risate “hai comprato un anello” non riusciva a calmarsi abbastanza per finire quella frase “hai comprato un anello ad Arizona durante il nostro penultimo anno di liceo.”
Derek a quel punto stava ridendo quanto Teddy, mentre Addison faceva del suo meglio per nascondere il fatto che anche lei si era unita a loro.
“Voi lo sapevate?” chiese incredula la donna al mio fianco.
“Che voi due stavate insieme?” domandò Addison, che nel frattempo aveva rinunciato a fingere di non stare ridendo. “Oh mio Dio, sì” confermò.
“Una persona cieca l'avrebbe visto, un sordo lo avrebbe sentito e un muto avrebbe potuto parlarne ad alta voce” Derek chiarì le proporzioni della nostra ovvietà. “Questo è quanto bene si riusciva a capire di voi due.”
“Tu le hai comprato un anello” Teddy non aveva più voce. Le risate la stavano consumando. Era buffo.
Talmente buffo che anche io sentii una piccola vena di ironia. Piccola.
“L'ho fatto. Un enorme, fottutissimo anello di oro bianco con un diamante gigante al centro e i nostri nomi incisi all'interno. E avevamo programmato di metterci in ginocchio e tutto il resto, anche.”
“Oh-Oh Dio, ti prego basta” continuò a ridere a crepapelle, tenendosi la pancia con le mani.
“E sai come è finita?” domandai, guardandola ridere attraverso i miei occhiali da sole. “Che non gliel'ho mai dato. Che non sapeva nemmeno che esistesse fino a questo esatto momento. È finita che io sapevo che la mia vita sarebbe stata un fallimento e che lei sarebbe diventata famosa. E avevo ragione. Adesso è nel telegiornale nazionale e tutti gli Stati Uniti vedono la sua faccia tutte le sere. Ed io? I miei genitori non mi rivolgono più la parola, da quando ho detto loro di essere stata innamorata di una donna. Dirigo uno degli hotel della catena di mio padre solo perché così non devono vedermi costantemente per darmi dei soldi e possono fare finta che io non esista più. Che sia sparita dalla faccia della terra.”
Nessuno di loro stava più ridendo, notai.
“Ed è vero, sarebbe stato più semplice, se fossimo stati tutti dei chirurghi. Ma non è così che è andata” ricordai loro.
Scrollai le spalle. Mi ero rassegnata a come erano andate le cose moltissimo tempo prima.
“Era l'ultimo anno di liceo. Non avevo tempo di cambiare più niente di niente, ormai.”
Aspettai un paio di secondi e poi mi voltai, pronta ad andarmene, quando sentii una mano afferrare la mia.
“Ci sono i tuoi fiori preferiti sulla sua tomba.”
“Lo so.”
“Quando sei venuta qui?”
“Domenica scorsa” le risposi, continuando a guardare in avanti. “E tutte le domeniche prima di quella.”
“Calliope.”
“Tutto apposto” sussurrai, districandomi gentilmente dalla sua presa. “Non sono nemmeno più la persona che conoscevi. Giusto?”
“Sai che non intendevo...”
Non aspettai di sentire il resto. Mi allontanai, senza guardare indietro, verso un passato che cercavo costantemente di dimenticare.
“Ci hai aspettato” mi disse Derek, varcando i cancelli e vedendomi seduta sul cofano della sua macchina.
“Siamo a dieci chilometri da casa nostra. Non potevo mica andarci a piedi.”
“Sai come sapevamo di voi, al liceo?” chiese con un sospiro pesante, sedendosi accanto a me e intrecciando le dita delle proprie mani sulle gambe, guardando in avanti come stavo facendo anche io.
“Illuminami.”
“Perché lei ti guardava in quel modo. Quel suo modo con cui non aveva mai guardato nessuno prima e con cui dubito fortemente abbia mai guardato nessuno dopo. Ti guardava come se tu non avessi paura di niente a questo mondo. Come se fossi la persona più coraggiosa dell'intero universo.”
“Sì, beh, non lo sono. Ho paura di un sacco di cose, io. Sempre avuta. E due delle mie cinque più grandi paure sono diventate realtà.”
“Soltanto cinque?”
“Ho detto le più grandi” precisai. “Che erano perdere te, Addie, Teddy o Mark. La quinta era perdere lei. Non poter essere abbastanza e di conseguenza non poter stare insieme a lei. Ed è successo, no? Ho perso Mark. E poi ho perso lei.”
“E noi abbiamo perso te.”
Mi voltai sentendo la voce di Addison, vedendole lì in piedi ed alzandomi a mia volta, mentre distoglievo lo sguardo.
“Siete qui. Perfetto. Andiamocene via.”
Quando scendemmo dalla macchina, sul vialetto di Derek, la prima cosa che feci fu dirigermi verso casa mia, in fondo all'isolato.
“Dovresti rimanere. Soltanto per stanotte.”
Mi fermai. Mi mancava Addison. Riusciva sempre a curare le mie ferite quando eravamo più piccole. Chissà, magari ci sarebbe potuta riuscire ancora.
“Certo. Se voi rimanete” mi voltai, guardandoli velocemente prima di seguire Derek all'interno di casa sua.
Ci sedemmo a tavola ritrovandoci nel più totale imbarazzo. Come sempre, fu Addison a rompere il silenzio.
“Pensavamo tutti che sareste state voi” spiegò, annuendo. “Che, se qualcuno di noi fosse riuscito a realizzare quei sogni che avevamo, sareste state voi due. A rimanere insieme, a sistemarvi insieme, ad essere felici. Se voi non siete state in grado di avere il vostro lieto fine, beh, Callie, avevi ragione, tristemente. Nessuno di noi ha mai avuto una possibilità di riuscirci fin dal primo momento.”
“Un altro discorso sdolcinato sul modo in cui ci guardavamo?” chiesi cercando di mantenere un tono di voce neutro.
“No” ci informò con estrema tranquillità Teddy. “Ma avevamo sempre saputo che vi amavate a tal punto che non vi importava cosa la gente avrebbe potuto pensare di voi se si fosse venuto a sapere in paese. Può sembrare un piccolo dettaglio, ma secondo noi è sempre stato ben più che straordinario.”
“Ma poi, all'ultimo anno di liceo, qualcosa era cambiato” osservò Derek, evitando entrambi i nostri sguardi.
“Pensavi davvero di non essere abbastanza per me?” domandò Arizona, voltandosi nella mia direzione.
“Pensavo davvero che la vita che avresti avuto insieme a me non sarebbe stata abbastanza per te” le risposi senza voltare la testa di lato.
“Perché porti questi maledetti occhiali da sole tutto il tempo? Non posso neanche guardarti negli occhi mentre parli con me” osservò con tono più duro di quello che aveva usato giusto un attimo prima.
Sospirai, voltandomi verso di lei.
“Perché ho passato gli ultimi dieci anni della mia vita a piangere” confessai, togliendomi gli occhiali da sole, sicura che le occhiaie e il rosso dei miei occhi fosse perfettamente visibile anche sotto il trucco e il correttore. “Perché se guardi nei miei occhi, proprio lì, esattamente dove stai guardando adesso, puoi vedere quanto sono profondamente infelice e spezzata. Riesci a vederlo, giusto? Sono sicura di sì. Sei sempre stata così brava a leggermi, Arizona. Sei contenta adesso che hai visto i miei occhi?”
Lei non rispose, si limitò a guardarmi con espressione di muto dispiacere.
“Come pensavo” risposi, con tono duro e alzando la voce, forse più di quanto fosse stato necessario fare in quel momento. “E hai presente quello sguardo, proprio quello che hai addosso adesso, è quello mi sta dicendo che ho fatto bene a tenermi gli occhiali da sole addosso fino a questo preciso istante. Perché il modo in cui mi stai guardando, come se ti fosse difficile anche solo arrivare a comprendere come sia possibile che io sia ancora innamorata di te, mi distrugge. Mi spezza il cuore.”
Mi fermai, voltandomi di scatto in avanti quando mi resi conto di quanto avevo appena involontariamente rivelato.
Ci fu qualche istante di silenzio. Potevo ancora sentire i suoi occhi su di me.
“Dopo tutto questo tempo?” domandò Addison in un sussurro.
Mi risistemai gli occhiali da sole sul viso.
“Sempre.”
Rimanemmo ancora una volta ad ascoltare il silenzio. Avevamo smesso di mangiare e non avevamo neanche più il coraggio di guardarci in faccia.
Ero sicura che adesso avrebbero concordato con me che il passato doveva rimanere nel posto in cui apparteneva. Nel passato.

La casa era silenziosa.
Come la maggior parte delle notti, non riuscivo a dormire.
Pensieri di tutti i tipi mi stavano affollando la mente nel tentativo di confondere la mia già poco definita lucidità.
Così mi alzai, scesi le scale e andai in cucina per prendermi un bicchiere d'acqua. Lo feci al buio, perché anche dopo anni mi ricordavo alla perfezione dove trovare qualsiasi cosa nella casa in cui avevo passato la maggior parte della mia infanzia.
Posai il bicchiere sul lavandino, le mani afferrarono saldamente il marmo e rimasi lì, sperando che l'oscurità coprisse tutti i ricordi che il silenzio era riuscito a far riaffiorare.
La luce si accese all'improvviso.
Mi voltai di scatto, portandomi una mano sul cuore quando riuscii a riconoscere la persona che mi stava davanti.
“Scusa. Pensavo che la cucina fosse vuota. La luce era spenta.”
“Non fa niente. Volevo solo un bicchiere d'acqua e ho finito in ogni caso.”
Mi allontanai dal lavandino, facendo un passo in direzione del soggiorno. Quando le fui accanto mi voltai verso di lei.
“Possiamo stare nella stessa stanza, sai? Senza che io dia di matto o qualcosa del genere” la informai.
“Lo so. Ma è più facile se non ti sto troppo vicina. Potrei farmi male.”
Corrugai la fronte.
“Io non ti farei mai del male.”
Lei rise.
“Non fisicamente. E non intenzionalmente. Ma mi hai già fatto male quando ci siamo lasciate quasi nove anni fa.”
“Tu eri d'accordo con quella decisione.”
“Io ero d'accordo che non saresti dovuta rimanere con me se non era quello che volevi. Ma non ho mai voluto vivere senza di te.”
“Se solo avessi usato queste parole, dieci anni fa” sussurrai, apprezzando la bellezza dei suoi occhi chiari, in quel momento più che mai. “Arizona, voglio solo che tu sappia che...” feci un passo verso di lei, prendendo una delle sue mani con la mia. “Se avessi un'altra occasione” continuai, spostando lo sguardo dalle nostre mani intrecciate ai suoi occhi “in un'altra vita, farei le cose in modo diverso.”
“Non è quello che diciamo tutti?” domandò, spostando gli occhi sulle nostre mani.
“Non dormi più con una maglietta e basta.”
“Neanche tu.”
“Mi sveglio ancora in piena notte con le mani tese verso il punto in cui dovresti essere tu.”
Alzò gli occhi con un mezzo sorriso. Erano velati dalle lacrime.
“Anche io” sussurrò.
Ci guardammo negli occhi a lungo.
“Mi manca. Mark, mi manca” confessò. “Mi mancate tutti voi.”
Tirai gentilmente la sua mano, portandola verso le scale.
“Che stai facendo?”
“Vieni con me” le dissi soltanto.
Percorsi la rampa di scale verso il primo piano e la seconda fino alla mansarda. Quella stanza era un totale casino. Proprio come l'avevamo lasciata l'ultima volta.
“Perché siamo venute quassù?” mi chiese, entrando nella stanza con riluttanza. “Sembra che nessuno ci venga da anni.”
“Scommetto che nessuno ci viene da anni. Non dopo che un ragazzo è scomparso e l'ultimo posto in cui è stato visto era questa casa.”
Continuò a guardarsi attorno nervosamente, mentre io continuavo a cercare.
“Questo posto mi mette i brividi.”
“Solo un secondo.”
“Possiamo andarcene? Per favore?”
“L'ho trovato” le dissi, sollevando la scatola dal pavimento e soffiandoci sopra nel tentativo di rimuovere un po' di polvere.
Lei indietreggiò di diversi passi, scuotendo la testa.
“Calliope, non aprirlo.”
“Perché no? È solo un gioco da tavola” scrollai le spalle, appoggiandolo sul tavolino ed aprendo le due piccole ante.
“Che stai cercando di fare, esattamente? Cosa vuoi dimostrare?”
“Senti qua. Ti ricorda niente?” Iniziai a leggere ad alta voce. “Un gioco che sa trasportar chi questo mondo vuol lasciar. Tira i dadi per muovere la pedina, i numeri doppi tirano due volte, e il primo che arriva alla fine vince.”
Presi i dadi tra le mani.
“Mettili giù.”
“Ci sono ancora le loro tre pedine. Addison tirò per prima, poi Derek. E questa è quella di Mark, proprio qui.”
“Calliope, mettili giù.”
“Aspetta un secondo” corrugai la fronte. “Vieni qui. Leggi che c'è scritto. Avevamo saltato questa parte, o sbaglio?”
Lei, anche se esitante, si avvicinò in ogni caso e lesse ad alta voce il punto che le stavo indicando sulle istruzioni.
“Avventurosi attenzione. Non cominciate se non intendete finire. Ogni sconvolgente conseguenza del gioco scomparirà solo quando un giocatore raggiunto Jumanji gridato forte il nome avrà.”
Ci guardammo negli occhi.
“Dovevamo finire il gioco” sussurrai.
Corrugò la fronte. Guardai in basso, verso i dadi che avevo in mano.
“Calliope, no.”
“È tutto ok, Arizona” alzai di nuovo gli occhi e le rivolsi un piccolo sorriso. “Se mi succede qualcosa come quello che è successo a Mark, tu non tirare i dadi, capito?”
“Ti imploro, non farlo” scosse la testa forte, chiudendo gli occhi.
“Fai continuare a giocare Derek ed Addison, ok?”
“Non posso vederlo succedere un'altra volta” mi afferrò il polso con le lacrime agli occhi. “Non posso vederlo succedere a te.”
“Non capisci, Arizona?” le chiesi, accarezzandole il viso con la mia mano libera. “Potrei riportarlo indietro.”
“O potresti andartene anche tu” sussurrò, guardando verso il pugno in cui stavo stringendo i due dadi. “Derek e Teddy hanno avuto questa discussione un milione di volte, ti ricordi? E nessuno dei due convinceva mai del tutto l'altro. Possiamo ancora aggiustare tutto, Calliope. Possiamo ancora trovare un modo per essere di nuovo felici.”
La guardai negli occhi a lungo.
“Non dici sul serio” decretai alla fine. “Non ci credi davvero.”
“Sì che ci credo. Possiamo essere felici, io e te. Insieme” circondò il mio pugno con entrambe le mani, prendendo la punta delle mie dita e facendomele aprire. “Devi solo darmi i dadi che hai in mano” sussurrò, facendo più forza. “Andrà tutto bene. Lasciami solo prenderli e posarli sul tavolo, ok? E poi ce ne andiamo da qui per sempre, senza guardarci mai più indietro.”
Prese delicatamente i dadi dalla mia mano, avvicinandosi e posando l'altra sulla mia guancia prima si sollevarsi in punta di piedi e baciarmi.
I miei sensi implosero. Il cuore mi saltò in gola. La testa mi girava.
Era meglio di come me lo ricordavo. Leggermente meglio.
Riaprii gli occhi e lei mi stava guardando con un sorriso triste.
“Ti amo ancora anch'io. Mai smesso, Calliope. Mai smetterò. Proprio come avevo promesso che sarebbe successo.”
Sentii un rumore che mi spinse immediatamente ad abbassare lo sguardo verso il tavolo accanto a noi. Corrugai la fronte, riportando gli occhi dentro i suoi immediatamente. Aveva appena lanciato i dadi.
“Perché lo hai fatto?”
“Mark era anche uno dei miei migliori amici, Calliope” spiegò, scrollando le spalle. “Lo rivoglio indietro anch'io” la voce le tremava. Aveva paura. Ed io non potevo fare niente per rassicurarla, per farla sentire meglio. “Ma non a costo della tua vita. Non della tua.”
Guardai in basso.
“Ti ricordi com'era?” le domandai. “La frase scritta sul gioco quando ha tirato i dadi Mark, come era?”
“Nella giungla dovrai stare finché un cinque o un otto non compare.”
Guardai nuovamente i dadi, poi ancora una volta dentro i suoi occhi.
“Sei” sussurrai.
Una delle pedine fu attirata verso il punto di inizio e si mosse di sei caselle in avanti. Una scritta apparve sulla sfera di vetro verde posizionata al centro del gioco.
“Volano di notte. Meglio scappare. Con queste creature non c'è da scherzare” lesse ad alta voce.
Ci guardammo negli occhi, confuse.
“Cosa credi che significhi?” chiese.
“Non- Attenta!” la gettai a terra mentre dei pipistrelli si avvicinavano alle nostre teste quasi in picchiata.
Li schivammo per un pelo, finendo sul pavimento. I pipistrelli oltrepassarono la porta della mansarda.
Sentimmo ancora i loro versi, capendo che, probabilmente, erano in fondo alle scale, in cucina o in salotto.
“Quanti credi che fossero?” domandò in un sussurro.
“Almeno cinque.”
Guardai in basso, realizzando di essere sdraiata sopra di lei. Schizzai in piedi, porgendole una mano per aiutarla a fare lo stesso.
“Stai bene?” domandai.
“Sì. Credo di sì.”
Annuii, guardando verso il gioco. Afferrai i dadi e li lanciai senza pensarci troppo.
“No!” tentò di afferrarmi il polso.
“Pensavi che ti avrei lasciato rischiare la vita da sola?”
Abbassò lo sguardo verso il gioco.
“Cinque” sussurrò.
“Un cinque o un otto è stato tirato, il vostro amico è ritornato” lessi ad alta voce.
“Calliope, è uscito un cinque. Significa...”
Sentimmo dei rumori provenire dal piano terra.
Io mi avvicinai alla porta, usando una mano per tenerla dietro di me, assicurandosi che fosse protetta dal mio corpo.
Afferrò la mia mano con una delle sue, appoggiando l'altra contro il mio fianco e seguendomi mentre mi avvicinavo alle scale.
Percorremmo il tragitto in silenzio, fino all'ultimo scalino, superato il quale mi fermai, guardandomi attorno nel tentativo di scorgere qualcosa anche se eravamo completamente immerse nella più totale oscurità.
“Mark?” sussurrai nel buio.
Non ottenni alcuna risposta.
“Sloan, sei qui?” chiamai di nuovo. Niente si mosse.
“Ho pensato sul serio...Per un attimo soltanto, ho pensato che saremmo riuscite a farlo ritornare indietro” sussurrò Arizona.
“L'ho pensato anche io.”
Continuai a guardarmi attorno, ma lì non c'era niente.
“Avevi ragione tu, fin dal primo momento. È morto. Avevamo bevuto ed era parecchio tardi, quindi probabilmente ci siamo immaginati tutto quanto. Insomma, un gioco da tavola non può davvero risucchiare qualcuno, giusto?”
“Giusto. Ma come ti spieghi i pipistrelli che hanno appena tentato di passare attraverso le nostre teste?”
Ci voltammo di scatto sentendo un rumore in cucina. Ci avvicinammo lentamente, vedendo un bagliore di luce diffondersi attraverso la fessura inferiore della porta.
La sua stretta sulla mia mano si intensificò.
“Non avere paura. Probabilmente è solo Derek che fa uno dei suoi spuntini notturni” cercai di tranquillizzarla.
Aprii la porta lentamente, senza fare neanche un passo all'interno.
Si voltò nella nostra direzione, tenendo ancora tra le mani il pezzo di pizza avanzato dalla cena che si stava divorando.
“Ehi, ragazze. Stavo giusto per venire a cercarvi. Dopo aver mangiato qualcosa che prima sia stato messo in un forno.”
Prima ancora che finisse la frase, entrambe noi gli fummo addosso, abbracciandolo fino quasi a stritolarlo. Con un ultimo morso finì il pezzo di pizza che aveva in mano, ricambiando poi la stretta con altrettanta forza.
“Che vi prende? Perché state piangendo?”
“Perché sei qui, Mark. Sei vivo” risposi, allontanandomi solo per guardarlo negli occhi. Gli presi il viso tra le mani.
“Che ti è successo ai capelli?”
“Li ho tagliati” risposi sempre sorridendo come un'idiota e cercando di smettere di piangere.
Guardò entrambe per qualche istante.
“Quanto tempo è passato?” chiese, corrugando la fronte.
“Dieci anni, Mark. Dieci anni in cui non sapevamo se eri vivo o morto” rispose Arizona, che ancora non aveva mollato la presa su di lui.
“Dieci anni?” domandò, incredulo. “Dieci anni. Ci avete messo dieci fottuti anni per tirare due maledettissimi dadi e fare un cinque o un otto?”
“Che è tutto questo rumore?” dal soggiorno stava provenendo la voce stanca e assonnata di Addison.
“State di nuovo litigando?” c'era anche Teddy.
“Ragazze, di qua” risposi ad alta voce, il fremito di gioia che sentivo era inconfondibile nella mia voce.
Aprirono la porta e per qualche secondo nessuno si mosse.
“Che ci fa un uomo vestito come un indigeno nella cucina di Derek?” domandò Addison, inclinando la testa di lato.
“Teddy, sei tu?”
“È lei” confermò Arizona, sorridendo, mentre lo spingeva nella sua direzione.
I primi passi furono incerti, ma poi, in qualche modo, riconobbe in quella donna la ragazza che aveva conosciuto molti anni prima. Annullò la distanza in fretta, prendendola tra le braccia e sollevandola dal terreno per farle fare una giravolta in aria, prima di rimetterla a terra, ma senza lasciarla andare.
“Mi sei mancata così tanto.”
Lei guardò verso me e Arizona con aria confusa.
“Chi sto abbracciando, esattamente?”
“Mark” risposi come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Stai abbracciando Mark.”
Era come se stessi sognando. Non riuscivo a farmi un'idea precisa di cosa stesse succedendo, eravamo soltanto tutti lì, che piangevamo e ridevamo allo stesso tempo, che non sapevamo cosa dire.
“Che sta succedendo?”
All'improvviso ci voltammo verso la porta della cucina, vedendo lì in piedi Derek, che ci guardava come se fossimo tutti quanti impazziti.
“Tu.”
La voce di Mark era roca, piena di rabbia e di un rancore che aveva avuto dieci anni di tempo per maturare.
Prima che qualcuna di noi si potesse rendere conto di quello che stava per succedere Mark aveva placcato Derek, sistemandosi sopra di lui e tirando indietro il braccio, pronto a colpirlo dritto in faccia.
Io ed Addison lo afferrammo per le spalle, cercando di calmarlo e allontanarlo da Derek allo stesso tempo. Arizona aveva afferrato il suo braccio, cercando di fare in modo che nessuno ricevesse un pugno.
“Mark, calmati. Sta fermo” Addison cercò di farlo fermare.
“Tu ci hai convinto a giocare a quello stupido gioco che mi ha mandato per dieci anni nel bel mezzo del niente!”
“Mark, colpirlo non ti farà sentire meglio” cercò di farlo ragionare Arizona.
“Io dico di sì” protestò lui. “Facciamo così, ora ci provo e poi ti faccio sapere chi dei due aveva ragione.”
“Ok, forse ti farebbe sentire meglio, ma non ti ridarebbe comunque indietro quei dieci anni che hai perso” continuò la bionda, sempre con una presa ben salda sul polso della sua mano destra, per impedirgli di colpire Derek.
Lentamente, smise di lottare contro la nostra presa e si fece trascinare all'indietro, allontanandosi dall'uomo a cui aveva dato la colpa dei suoi dieci anni di prigionia.
Teddy gli si mise davanti.
“Stai bene?” chiese, osservando a lungo i suoi lineamenti.
Ed era ovvio che non stava bene. Ma era vivo e non sembrava ferito e tanto bastava, in quel momento, perché potesse annuire.
“Sto bene” confermò.
Teddy gli sorrise, voltandosi poi verso Derek, che nel frattempo si era alzato nuovamente in piedi e dandogli a malapena il tempo di alzare la testa prima di colpirlo con un dritto in pieno viso.
“Ti ho implorato di tirare quei maledettissimi dadi, ti ho implorato” iniziò ad urlare, mentre Arizona la afferrava e la trascinava indietro. “Per giorni, mesi, ti ho implorato di tirare i dadi per fare un cinque o un otto.”
“Ragazzi” cercai di attirare la loro attenzione.
“Era stato risucchiato in un gioco da tavola” ritorse, massaggiandosi uno zigomo. “Perdonami davvero se pensavo che fosse meglio non far mai più avvicinare nessuno a quella scatola.
Soprattutto non Addison, visto che sarebbe stato il suo turno di tirare. Era stata lei ad iniziare, dieci anni fa.”
“Ragazzi” di nuovo tentai di farli stare zitti e voltarsi verso di me.
“Abbiamo spedito Mark nella giungla, per dieci anni. Avremmo dovuto tirare i dadi finché non fosse tornato indietro” protestò Teddy.
“Ragazzi, davvero” adesso la mia voce stava sfiorando il panico.
“Pensavo che saremmo potuti morire, Teddy!” ritorse Derek, urlando.
“Ragazzi” urlai a mia volta.
Finalmente fecero silenzio, voltandosi verso di me.
“Che c'è?” domandò Derek, sempre a voce alta.
“Correte” sussurrai, continuando a guardare verso il soffitto.
Spostarono gli sguardi seguendo il mio, accorgendosi solo in quel momento di quello che stavo osservando.
“Ma quelli sono...” iniziò Addison a bassa voce.
“Correte” ripetei gridando, proprio mentre uno dei pipistrelli sopra le nostre teste decideva di alzarsi in volo.
Ci precipitammo fuori dalla cucina, chiudendoci la porta alle spalle e rinchiudendo i sei animali dentro la stanza.
“Che diavolo ci fanno dei pipistrelli nella mia cucina?” urlò Derek.
“Beh, volevamo riportare indietro Mark” spiegai, deglutendo. “Però, il primo numero è stato un sei.”
“I pipistrelli sono usciti dal gioco?” domandò Addison, indietreggiando ulteriormente all'interno del soggiorno.
“E anche Mark” chiarii.
“Chi ha fatto un cinque o un otto?” chiese lui, guardando Addison.
“Calliope” rispose invece Arizona. “Ha tirato ed è uscito un cinque.”
“Stavate giocando?” domandò incredulo il moro. “Che c'è, vi siete alzate nel mezzo della notte, non sapevate come passare il tempo visto che non riuscivate a dormire e avete pensato, perché non farsi una partitella al gioco da tavola che ha risucchiato il nostro amico dieci anni fa? In fondo, che potrebbe mai succedere di male?”
“Avevamo letto solo metà delle istruzioni” continuai, ignorando la rabbia di Derek. “Se finiamo il gioco, faremo sparire le conseguenze.”
“Non se ne parla. Chiamerò qualcuno per liberare la casa dai pipistrelli.”
“Non se ne andranno mai” sussurrò Mark. “Potresti uccidere questi sei, ma allora il gioco te ne rimanderebbe altri dieci. E potresti mandar via quei dieci e ne uscirebbero altri venti. So meglio di chiunque altro al mondo che Jumanji non ti lascia in pace. Io sono dalla parte di Callie, dobbiamo finirlo.”
“Le vostre tre pedine sono ancora sul gioco” feci notare. “Ma Teddy non ha mai tirato i dadi, quindi può rimanerne fuori.”
Lei mi guardò come se fossi impazzita.
“Sentite, io continuo a dire che è una pessima idea” protestò Derek.
“No, Mark ha ragione, non saremo mai davvero sicuri che sia tutto finito a meno che non finiamo il gioco” lo contraddisse Addison, incrociando le braccia al petto e guardando verso di me in cerca di appoggio.
“A che scopo? Abbiamo riavuto indietro Mark” intervenne invece Arizona. “Io dico di prenderlo, passarci sopra con la macchina, spararci un paio di colpi con una pistola, dargli fuoco e alla fine chiuderlo dentro ad un baule. E poi seppellire il baule sotto la montagna più alta del punto più profondo dell'oceano Pacifico.”
Tutti ci fermammo per qualche secondo a guardarla.
“Che c'è? Nessuno dovrebbe mai vivere per dieci anni nella giungla. Diglielo Mark” lo esortò a darle ragione.
“Touché, bionda. Diamo pure fuoco a tutto quello che vuoi” concesse. “Dopo che lo abbiamo finito noi.”
“Ok, Mark” lo riprese Derek. “Come mi pare ovvio, dieci anni nella giungla ti hanno dato alla testa.”
“Già. E indovina di chi è il merito per avermi fatto rimanere lì?” chiese con tono di sfida.
“Sentite, possiamo stare qui tutto il giorno a incolparci a vicenda e chiederci chi ha fatto cosa e per quello qualcuno ha passato dieci anni da qualche parte” iniziò Arizona un discorso con ben poco senso. “Oppure possiamo andare a distruggere la causa di tutte le nostre disgrazie e andare avanti con le nostre vite.”
“E vivremo una vita vivendo ogni giorno con le conseguenze delle nostre azioni.”
“Ci viviamo già se non te ne fossi accorto, Mark” urlò Arizona.
“Arizona” appoggiai una mano sulla sua spalla. “Proprio per questo. Se ci disfacciamo adesso di tutte le conseguenze, poi saremo liberi. Liberi dal gioco, dai sensi di colpa, da quel senso di avere qualcosa in sospeso. Potremmo ricominciare a vivere dal punto esatto in cui avevamo smesso di farlo.”
“No, tu” sottolineò “tu hai smesso di vivere, Calliope. Io sono dovuta venire a fondo con te perché non potevo guardarti morire senza morire anch'io.”
“Avevamo già visto morire lui” le feci notare, indicando Mark.
“Ma lui non è l'amore della mia vita, Calliope” urlò più forte per sovrastare la mia voce. Poi ripeté in un sussurro “Lui non è l'amore della mia vita.”
“Io sono dalla parte di Arizona. Distruggiamolo prima che qualcun altro possa ripetere i nostri stessi errori” aggiunse Derek con tono definitivo.
“State tutti un momento zitti” ci disse Addison, finalmente rientrando nella discussione. Si guardò attorno, prima di guardarci con espressione confusa. “Dove diavolo è Teddy?”
Senza nemmeno pensarci iniziai a correre su per la scala, Arizona subito dietro di me. In pochi secondi arrivammo in mansarda, spalancando la porta e vedendola lanciare i dadi.
“Sette” lesse ad alta voce, vedendoci sulla porta. “Basterà un pizzico per farti grattare, con mille starnuti ti farà dimenare.”
“Non so che significa” dissi loro “ma non mi piace.”
Poi lo sentimmo. Veniva dall'alto. Dalla piccola finestra vicina al soffitto sulla parete alle spalle di Teddy.
Arizona urlò, cercando qualcosa con cui colpire gli insetti enormi che iniziarono a venirci addosso, mentre io afferravo il sopra della scatola di un gioco da tavola al mio fianco, iniziando a colpirne il più possibile.
“Uccidetele, potrebbero essere velenose” urlai perché mi sentissero sopra il ronzio.
Qualche secondo dopo eravamo praticamente sommerse. Erano ovunque, attorno a noi, ci dimenavamo in preda al panico, incapaci di pensare ad una soluzione a lungo termine, continuando a tentare di scacciarle.
“Vi consiglio di trattenere il respiro” sentimmo la voce di Derek dalla porta.
Feci come aveva detto e chiusi gli occhi, sentendo il rumore di qualcosa che veniva spruzzato all'interno della stanza.
Qualche istante dopo, il ronzio era cessato.
Riaprii gli occhi, accorgendomi del perché. Tutto attorno a noi giacevano i cadaveri di enormi insetti uccisi dallo spray che il moro aveva ancora in mano.
“Andiamocene da qui” ci disse “e in fretta anche. Ho l'impressione che siano stordite soltanto.”
Teddy e Arizona si precipitarono fuori.
“Fottute zanzare mutanti” borbottai, afferrando la scatola del gioco prima di uscire da lì dentro e lasciare che Derek chiudesse a chiave.
“Fantastico” osservò Arizona con voce carica di ironia. “Quindi adesso ci siamo tutti dentro. Prima che qualcuno finisca questo maledetto gioco si abbatteranno su di noi sei milioni di calamità naturali.”
“Arizona ha ragione. Meno eravamo, più spesso potevamo tirare, più in fretta avremmo finito il gioco e meno scritte inquietanti in rima avremmo dovuto affrontare” osservò Mark, che nel frattempo si era cambiato in qualcosa di più appropriato al nostro secolo. “Ma è inutile stare qui a lamentarsi. Diamoci una mossa, piuttosto.”
Tentò di afferrare il gioco da sotto il mio braccio, ma io non lo lasciai andare. Mi guardai attorno con indecisione.
“Siamo sicuri che sia davvero una buona idea?” chiesi con tono di voce innaturalmente alto. “Sto iniziando a capire il punto di vista di Arizona e Derek. Diamo fuoco alla casa e al gioco e andiamocene a vivere in Antartide. Lì le zanzare mutanti non possono venire. Troppo freddo. Morirebbero.”
“Sì” rispose Mark asciuttamente, chiaramente non convinto, afferrando il gioco con entrambe le mani e tirando. “Sono giusto tornato da un viaggetto di dieci anni nella giungla per poter venire a vivere in Antartide.”
“Smettetela coi ripensamenti” ci riprese Teddy, afferrando a sua volta il gioco. “Ci siamo dentro tutti quanti, quindi lo finiremo tutti insieme.”
“Io sono dalla parte di Calliope” intervenne Arizona, anche lei afferrando il gioco e iniziando a tirare dalla nostra parte.
“Oh, tu sei sempre dalla parte di Calliope” la prese in giro Teddy. “Questo è perché voi due siete...intime.”
“Intime? Quanti anni hai, cinque?” ritorse la bionda.
“Smettetela” Addison afferrò il gioco, schiaffeggiando via le mani di Mark, fulminando Arizona con lo sguardo, spingendo via Teddy e lasciando il gioco di nuovo in mano a me. “Faremo questa cosa democraticamente. Votiamo e seguiamo la maggioranza.”
“Io dico che dobbiamo finire di giocare” intervenne Mark immediatamente, alzando la mano destra, seguito da Addison e Teddy.
“Callie” la rossa fece un passo nella mia direzione. “Tu l'hai detto nel modo più accurato. Se ci disfacciamo del gioco adesso, poi saremo liberi. Saremo liberi” sussurrò, annuendo nel tentativo di convincermi.
Avevo passato ogni giorno degli ultimi dieci anni a cercare di sfuggire alla mia vita. Quella era la mia occasione.
“Sta a te” le dissi, consegnandole la scatola.
Derek sbuffò, incredulo. Arizona scossa la testa, guardando in basso. Sfiorai la sua mano destra con la mia sinistra.
“Non preoccuparti, non lascerò che ti succeda niente di male” sussurrai in modo che solo lei potesse sentirmi. “Io ti proteggerò.”
“Non lo metto in dubbio” sussurrò di rimando. “Ma la mia paura è” continuò, incrociando il mio sguardo “chi proteggerà te?”

Sentivo la musica attutita dalla porta chiusa del bagno.
E non so, forse era che avevo bevuto, o forse il profumo che aveva lei addosso a farmi girare la testa.
“Ci sentiranno.”
“Nessuno ci sentirà” protestai continuando a baciarle il collo.
Tuttavia mi allontanai per poterla guardare negli occhi e rassicurarla ulteriormente. Invece fui io che mi paralizzai.
Quando era diventata così bella? Quando era cresciuta così tanto da non essere più una bambina o una ragazza? Quando era che le farfalle allo stomaco erano diventate scariche elettriche lungo la spina dorsale?
“Sono innamorata di te” borbottai, dandomi dell'idiota.
Perché eravamo nel bagno di casa di Derek e forse anche un po' ubriache. Senza contare che io e lei non saremmo dovute nemmeno stare insieme. Io e lei, noi non eravamo una coppia. Noi eravamo un segreto.
Forse però possono esistere delle coppie che sono anche segreti.
Più probabilmente no. Proprio come non esistono strade che sono anche canzoni, o case che sono anche colori.
Lei rise, corrugando la fronte.
“Lo so. Anche io sono innamorata di te.”
E fu allora che lo capii.
Che io e lei eravamo un segreto. E una coppia. E una strada e una canzone e una casa e un colore e tutto quello a cui la mente umana potrebbe mai riuscire a pensare e oltre ancora, più in là, di più, più su.
Ecco cosa eravamo noi, eravamo tutto. Tutto quello che riuscivamo a toccare e tutto ciò che è intoccabile.
Al centro del mondo e fino ai limiti dell'Universo e ancora di più.
“No, intendo...”
“Arizona, Callie, vi decidete ad uscire da lì dentro? Io e Teddy dobbiamo usare il bagno.”
“Un secondo solo, Addison” urlai, tornando a guardarla.
E forse aveva capito, forse no. Probabilmente sì. Potevo solo sperare che lo sentisse anche lei.
Aprimmo la porta del bagno.
“Finalmente.”
Feci una smorfia alla mia migliore amica mentre le passavamo accanto.
“Allora, eravate dell'umore per una sveltina?” ci sussurrò Mark, ridendo.
Io lo colpii con un pugno sul petto.
“Sta zitto. Avevi promesso.”
Ci aveva beccato una volta e non la piantava più di rompere. Arizona alzò gli occhi al cielo, entrando in soggiorno.
“Le hai detto dell'anello?” mi chiese subito.
“No. Ultimo giorno dell'ultimo anno, ricordi? Lo faremo insieme. Non darmi buca.”
“Io non lo farò. Ma tu non resisterai ancora un anno e mezzo, Callie. Da qui a qualche settimana al massimo crollerai e la implorerai di passare il resto della sua vita con te. Lo vedo da come la guardi che non sarai in grado di aspettare nemmeno due mesi. Figuriamoci fino all'ultimo giorno dell'ultimo anno.”
“Penso” iniziai, sguardo incollato su Arizona. “Penso che potresti avere ragione.”
“Ragazzi, venite di qua” chiamò Derek, abbassando la musica. “Oggi ero al cantiere giù al negozio di mio padre e ho trovato questo.”
Posò qualcosa sul tavolo, prima che tutti ci radunassimo lì attorno.
“Jumanji” lesse ad alta voce Addison. “Che razza di nome stupido è Jumanji?” chiese, scoppiando a ridere.


“Ok, è il turno di Addison” Mark le passò i dadi.
“Sto già rimpiangendo questa decisione” sussurrò, mentre però procedeva a lanciare. “Si mette male la missione, scimmie rallentano la spedizione.”
“Non intende scimmie in senso letterale, vero?” chiese Teddy mentre sentivamo dei rumori strani provenire dal piano superiore.
“Se c'è una cosa che ho imparato è che il gioco va preso sempre molto alla lettera” rispose Mark, gli occhi sulle scale.
“Vado a controllare” mi offrii.
“Non da sola” protestò Derek.
“Non senza di me” concluse invece Arizona, alzandosi e seguendomi.
Aprimmo la porta della sua camera da letto, vedendo dentro di essa due scimmie che saltellavano sul letto. Ci richiudemmo in fretta la porta alle spalle, scambiandoci uno sguardo allarmato. Poi controllammo anche le altre camere. Tutte sembravano essere state improvvisamente popolate da quegli animaletti pelosi.
“Chiudiamo tutto a chiave. Se non possono scappare non sarà questo enorme problema, no?” suggerii.
Lei annuì, iniziando a fare come le avevo detto con tutte le camere da letto.
Scendemmo di nuovo in soggiorno.
“Al gioco non piacciono le metafore” Arizona informò gli altri, sedendosi di nuovo.
“Sta a me” Derek afferrò i dadi. “Facciamo questa cosa” sospirò. “Tre.”
“Ok, i dadi sono truccati. Nessuno fa mai più di otto!” protestò Addison.
“Non caderci, al tono è uguale” lesse Derek la scritta che stava lentamente formandosi. “Restare fermo è micidiale.”
“Ok, adesso si mette a piovere?” domandò Teddy, scetticamente.
“Penso che sia qualcosa di peggiore della pioggia” sussurrò Derek.
“Zitti. Avete sentito?” Mark si alzò in piedi, avvicinandosi al camino.
Osservò una delle cornici lì sopra, che stava tremando leggermente. Si avvicinò ulteriormente alla parete, finché riuscì a riconoscere il suono.
“Via” urlò, allontanandosi di corsa. “Scappate da qui, salite le scale” ci disse, facendo strada.
Tempo dieci secondi, una mandria impazzita sfondò la parete, attraversando il soggiorno di Derek e sfondando la facciata della casa.
Avevo contato dieci zebre, sette giraffe, quattro elefanti, cinque rinoceronti e nove lemuri prima di perdere il conto.
Appena gli ultimi se ne furono andati Mark ridiscese le scale, tirando i dadi più in fretta che gli riuscì.
“Tre, di nuovo. Teddy ha ragione, i dadi sono truccati. Vediamo un po' quale strano animale della savana esce dal gioco, stavolta” poi si schiarì la voce, iniziando a leggere ad alta voce. “Un cacciatore dalla giungla è venuto, ti fa sentire un bambino sperduto.”
Alzò lo sguardo, deglutendo.
“Oh, no.”
Corrugai la fronte.
“Che c'è?”
“Van Belt.”
Scossi la testa, aggrottando le sopracciglia.
“Chi?”
Il rumore di un fucile che si caricava attirò la nostra attenzione.
Mark iniziò a correre, passando attraverso l'enorme cavità nella facciata della casa causata dalla mandria impazzita, proprio mentre il rumore di uno sparo riecheggiava attraverso la casa nella sua direzione e lo mancava per pochissimo.
“Tu, miserabile codardo” tuonò l'uomo apparso dalla porta della cucina, che si gettò al suo inseguimento.
Io chiusi il gioco, consegnandolo ad Arizona ed iniziando a correre dietro di loro.
“Se tra dieci minuti non siamo di ritorno, tu lancia i dadi” urlai mentre anche io uscivo da quello che rimaneva della parete.
“Neanche per sogno” la sentii urlare.
Quando fui per strada, vidi Mark in trappola, le spalle contro una staccionata e le mani alzate, un fucile puntato contro il suo cuore.
“Finalmente sei dove ti voglio. All'altra estremità del mio fucile.”
Raccolsi una pala dal giardino di Derek, avvicinandomi senza fare il minimo rumore.
“Ultime parole?”
Lui gli sorrise in modo beffardo.
“Stai per andare giù.”
L'uomo esitò.
“Io non la vedo allo stesso modo, visto che ho una mano sul grilletto. Che è che ti fa pensare che non sarai tu ad andare a fondo?”
Lui abbassò le mani, ormai praticamente tranquillo riguardo le sorti di quel faccia a faccia.
“La mia migliore amica ha una pala da giardino in mano.”
Il cacciatore si voltò nella mia direzione.
“Ehilà” lo salutai, colpendolo subito dopo in pieno viso e mandandolo al tappeto.
“Ti ho detto che stavi per andare giù” rimarcò Mark, alzando una mano per darmi il cinque.
Gettai la pala a terra. Arizona fu al mio fianco meno di mezzo secondo dopo, il gioco ancora in mano.
“Calliope, stai bene?”
“Non era lei ad avere un fucile puntato addosso” le fece notare il mio cosiddetto migliore amico.
“Tutto ok” risposi con un mezzo sorriso. “Andiamo via da qui. Quando si sveglierà sarà di pessimo umore.”
“E dove vorresti andare?” chiese Derek, alle nostre spalle.
“Casa mia è in fondo alla strada, no? Lì saremo più al sicuro” lanciai un'ultima occhiata al bracconiere steso a terra, prima di appoggiare una mano sulla schiena di Arizona e condurla verso la fine dell'isolato.
“Muovetevi” incoraggiò gli altri Mark. “Callie è forte, ma questo tizio ha la testa dura” scherzò, percorrendo tuttavia il resto della strada con passo molto veloce.
Chiusi la porta a chiave. Con due mandate. Poi tirai la catenella e spostai il tavolino dell'ingresso davanti alla porta.
Quando mi voltai, loro mi stavano fissando.
“Cosa? Il tizio ha un fucile. Ed è anche piuttosto grosso, se non ci aveste fatto caso. Io l'ho visto bene, quando era a meno di un metro dalla mia faccia.”
Feci strada in soggiorno, senza aggiungere altro.
Ci sedemmo al tavolo, aprendo di nuovo il gioco.
Arizona prese i dadi tra le mani, guardandomi negli occhi. Io annuii leggermente, incoraggiandola a tirare.
“Quattro” sospirò. “Ha zanne aguzze, vi vuole assaggiare. Non vi conviene temporeggiare” lesse ad alta voce. “Non mi piace.”
“Ragazzi” sussurrò Addison, gli occhi sgranati. “Non voltatevi.”
Ovviamente, fu la primissima cosa che facemmo, tutti quanti.
“Vi avevo detto di non voltarvi” sussurrò con voce terrorizzata.
“Addie” cercai di suonare calma. “Sei la più vicina alla cucina e la più lontana dal leone che ci sta fissando. Alzati, molto lentamente, e vai in cucina a prendere qualsiasi tipo di carne cruda che riesci a trovare e portamela.”
Si alzò lentamente, indietreggiando con gli occhi fissi sul felino enorme davanti a noi.
“Più in fretta, Addison.”
Mi alzai anche io, ma i suoi occhi erano fissi, invece, sulla donna al mio fianco.
“Sono io che l'ho fatto apparire. Quindi probabilmente pensa che io sia la sua cena.”
“Dovrà passare sul mio freddo, morto corpo” sussurrai, facendo un passo in avanti ed attirando l'attenzione del leone su di me.
Arizona si alzò a sua volta, spostandosi verso sinistra ed allontanandosi dal gruppo.
“Ok, seguimi, bravissimo.”
“Stai parlando con il leone che ti guarda sbavando?” domandai, sconcertata.
Indietreggiò ancora, senza distogliere gli occhi da quelli famelici dell'enorme felino.
Poi successe all'improvviso, in una frazione di secondo. L'animale si lanciò verso di lei, che si buttò di lato, schivandolo per un pelo e poi scattò in piedi, iniziando a correre verso le scale. Addison tornò con in mano la carne cruda che le avevo chiesto.
Io afferrai la cosa più vicina, che in quel momento era un vaso in ceramica, tirandola contro il leone.
“Ehi, ma quello non era il preziosissimo vaso con i rilievi in oro che tua nonna ha regalato a tuo padre?” chiese Derek, sgranando gli occhi.
Capivo la sua sorpresa. Mia madre era solita sgridarci quando anche solo guardavamo quel vaso nel modo sbagliato.
“Sì, beh, la mia priorità, in questo momento è impedire alla bestia di sbranare Arizona, sono sicura che mia nonna capirà.”
Alzai lo sguardo, vedendo il leone che mi fissava, avanzando nella mia direzione.
“Oh-oh. Credo di averlo fatto arrabbiare.”
Addison gli gettò della carne. Lui la annusò, divorandola subito dopo. Gliela strappai di mano, lanciandone un altro pezzo in direzione delle scale.
“Apri la porta della mia camera da letto” ordinai ad Arizona.
Lei fece come le avevo chiesto. Gli occhi del leone erano concentrati su quello che avevo in mano, adesso.
“Ne vuoi ancora?” domandai retoricamente. “Vai a prenderla.”
Si arrampicò sulle scale seguendo la scia di carne che stavo lanciando. Lo avrei portato dritto in trappola.
Se non fosse stato che, a circa metà della rampa, la carne era finita. E lui, poco ma sicuro, se ne era reso conto.
“Ok, niente più cibo. Ma, hai mangiato abbastanza, vero?”
Ruggì, preparandosi a balzare nella mia direzione.
“Non sei in vena di chiacchiere, uh?” deglutii, indietreggiando.
Beh, almeno, non stava più cercando di mangiarsi Arizona.
Proprio mentre questo pensiero mi attraversava, vidi una scarpa colpire la testa del feroce animale davanti a me. Sgranai gli occhi.
“Di qua, amico. Non era un vaso, ma ne ho un'altra, se non ti è bastata.”
“Sei impazzita?”
“No, Calliope, questa è la prima cosa non da pazza che faccio da quando avevo diciotto anni.”
“Disse lei, tirando una scarpa in testa ad un leone” le feci notare.
“Non sono ancora pronta a perderti di nuovo” mi informò, mentre il leone percorreva a balzi il resto della scalinata, gettandosi all'inseguimento della bionda, che era davanti alla mia camera da letto e si gettò attraverso il corridoio, diretta verso la camera matrimoniale in cui un tempo dormivano i miei genitori.
Io percorsi le scale tre alla volta, raccogliendo la scarpa che aveva lanciato e tirandola ancora una volta al leone, che stavolta non si lasciò distrarre dalla sua imminente preda. Proprio davanti alla camera dei miei genitori Arizona si lancio in scivolata mentre il leone saltava ed entrava dentro la stanza passando sopra di lei. Io in un secondo fui davanti alla porta, sbattendola contro il muso dell'animale a poi chiudendola a chiave.
Mi allontanai di scatto, ma lui fu più veloce di me, piantando gli artigli nella porta e riuscendo a lasciare tre non troppo profondi ma evidenti graffi sul lato sinistro del mio viso. Scattai all'indietro, parandomi davanti ad Arizona, facendole scudo con il mio corpo. Anche l'altra zampa affondò nella porta, ma non riuscendo ad aprirla con i primi due o tre colpi, il leone di arrese, guardandoci per un'ultima volta attraverso i solchi che aveva lasciato nel legno, prima di ritrarsi all'interno della camera da letto.
Non sarei mai riuscita a dimenticare il modo in cui i suoi occhi ci avevano guardato attraverso le fessure causate dai suoi stessi artigli.
Arizona mi tirò per una manica finché non mi allontanai. Mentre passavamo raccolsi la sua scarpa dalla rampa di scale, seguendola dentro il soggiorno. Mi si sedette accanto, controllando i graffi sul mio viso, sforando con una mano la pelle circostante.
“Non è niente” risposi, cercando di riprendere fiato.
Appoggiai una mano dietro il suo ginocchio, facendole sollevare il piede scalzo, rimettendo a posto la sua scarpa, lanciandole un'occhiata di sottecchi.
Lei si avvicinò di più, gli occhi ancora fissi sui tre graffi sanguinanti.
“Vado a prendere del ghiaccio” si offrì Addison, che era già a metà strada verso la cucina mentre lo diceva.
“Stai bene?”
“Non sono io quella che sta sanguinando.”
“Ma sei stata inseguita e quasi presa da un leone.”
“Anche tu.”
“Ti avevo detto che ti avrei protetta. Non commetterò due volte lo stesso errore.”
“Nemmeno io” mi informò in modo enigmatico.
“Allora” intervenne Mark, nel tentativo di smorzare la tensione. “Come lo hai fatto?” mi chiese, sorridendo. “Come avevamo programmato, con un milione di candele? Inginocchiandoti in mezzo ad un prato? Aspetta, ci sono. Davanti a tutti, eravate tutti quando le hai chiesto di sposarti, in modo che non potesse dirti di no. Ho indovinato?”
Io risi piano, pensando che, se avessi avuto l'occasione di farlo, probabilmente sarei rimasta fedele al piano originale delle candele e dei petali di rosa.
“No, Mark. Non l'ho mai fatto” risposi, accettando il ghiaccio che Addison mi stava porgendo e premendolo sulla parte sinistra del mio viso, evitando di alzare lo sguardo perché qualcuno vedesse il rimpianto scritto nei miei occhi.
Mi maledissi per essermi alzata, poche ore prima, e aver lasciato gli occhiali da sole sul mio comodino.
Teddy venne in mio aiuto, cambiando argomento, mentre il sorriso di Mark spariva e lasciava il posto ad un'espressione di confusione.
“Sta a te.”
Afferrai i dadi, tirando senza pensarci troppo. Nove.
“Crescono più in fretta del bambù, sta' attento non ti mollano più.”
“Ragazzi” alzammo lo sguardo vedendo l'espressione terrorizzata di Teddy che stava guardando verso il soffitto.
“Che diavolo è quella roba?” domandò Derek.
“Piante carnivore” rispose prontamente Mark. “Non vi avvicinate ad una di quelle piante per nessun motivo, siamo intesi?”
“Puoi contarci” replicò ancora il moro.
Guardammo quelli che inizialmente non era altro che piccoli germogli crescere fino a diventare enormi piante.
Sentii una sensazione strana alla caviglia sinistra. Quando abbassai lo sguardo, era troppo tardi. Mi stava tirando indietro, verso le sue radici, e l'enorme bocca si era spalancata, pronta a masticarmi e non farmi vedere la luce mai più.
Sentii per prime le sue mani, perché era la persona più vicina a me e quindi la prima che mi raggiunse. Poi sentii le braccia di Mark circondarmi il busto e tirarmi all'indietro. Tirai e scalciai, ma non riuscii a liberarmi.
“Scordatelo, Torres. Non ti lascio andare” urlò il mio migliore amico, leggendo i pensieri che avevo avuto vedendo che la pianta stava tirando tutti noi verso se stessa.
“Mark, starò bene. Continuate a giocare, ok? Ora lasciatemi andare o masticherà tutti e tre.”
La pianta stava per richiudersi sul mio piede, Arizona tirò più forte che mai. Poi, entrambi, vennero a loro volta catturati da altre due radici e allontanati di scatto dal mio corpo.
Un colpo secco. La pressione diminuì, la mia gamba era libera.
“Ho sempre sognato di tirarle giù” mi informò Derek con un sorriso, tenendo in mano una delle due spade da collezione di mio padre che se ne stavano incrociate sopra il camino del soggiorno in cui ci trovavamo.
Mi lanciò l'altra, prima di correre a liberare Mark, mentre io mi occupavo di Arizona ed Addison, lui liberò anche Teddy.
“Lancia i dadi” implorai Teddy.
Lei li afferrò, mentre un rumore alle mie spalle attirò la mia attenzione.
Anche Derek, ultimo ma non meno importante, era stato catturato da uno degli infiniti bracci della pianta carnivora che sembrava aver messo casa nel mio salotto.
Corsi verso di lui, tagliando il ramo in modo secco, prima di voltarmi verso la pianta e decidere che quello era un buon momento per infilzarla, visto che era finalmente vulnerabile, in quanto si era aperta per accogliere Derek.
“Ok, Callie uno, piante carnivore zero” mi disse il moro, cercando di riprendere fiato.
“Più tipo, tutti noi uno, Jumanji sei” lo corressi.
Rise, accettando la mia mano e rialzandosi da terra.
“Vuoi una mano? Sei mal ridotto? Sei fortunato, ne abbiamo otto” la voce di Teddy mi spinse a voltarmi.
Bloccai il braccio di Derek mentre stava per gettare la spada, vecchia di almeno cinque secoli, a terra.
“Io la terrei, se fossi in te. Ho come l'impressione che non sia finita.”
“Otto zampe? Oh, no. No, non può essere.”
Teddy aveva un terrore quasi paralizzante di qualsiasi tipo di ragno. Ma il gioco quello non poteva saperlo. Giusto?
“Oh, cavolo” sussurrai quando i primi iniziarono ad avvicinarsi.
Ci stringemmo in cerchio, dandoci le spalle. Derek usò la lama che aveva in mano per infilzarne uno. Il ragno gigante morì, ma la spada gli rimase piantata in gola.
“Fantastico. Adesso arrivano anche creature da Harry Potter” borbottai. “Cosa viene dopo, un drago?”
Tagliai la testa ad uno dei ragni, trapassandone un altro dall'alto.
“Mark, Derek, trovate qualcosa e aiutatemi. Addison” la vidi muoversi con la coda dell'occhio. “Ci sto già lavorando” mi rassicurò, afferrando i dadi e preparandosi a tirare. La vidi contare le caselle. Poi la sentii imprecare. “Tre.”
“Non fa niente, Addie.”
“Ogni mese al quarto di luna, soffierà il monsone nella tua laguna” lesse ad alta voce. “Beh, almeno siamo al coperto.”
“Sì, certo” rimarcai sarcasticamente, tirandomi la maglietta sopra la testa mentre continuavo a scacciare i ragni.
In pochi secondi, la pioggia iniziò a scrosciare e i tuoni risuonarono all'interno della casa.
“Arizona, prendi il gioco. La pioggia ucciderà i ragni. Ma ucciderà anche noi se non ce ne andiamo dal piano terra, subito” ordinò Mark, facendo strada verso le scale scacciando gli enormi animali con l'attizzatoio del camino.
“In camera mia” suggerii. “Sbrigatevi.”
Feci entrare tutti loro, impedendo il passaggio ai ragni. L'ultima era Arizona, il gioco era nelle sue mani. Ci scambiammo uno sguardo silenzioso.
Mi richiusi la porta alle spalle.
“Dobbiamo sbrigarci” incalzò la bionda, passando il gioco a Derek.
Lui si affrettò a riaprilo e tirare.
“Devi vedere che cosa è importante. Se non ci riesci, non vedi più niente.”
“Che diavolo significa? Sta arrivando un black out?” domandò Teddy, scuotendo la testa.
“Secondo me non sorgerà più il sole finché non finiremo questo stramaledetto gioco” esagerò Addison.
“Potrebbe voler dire anche troppa luce, no?” propose Arizona, speranzosa. “Magari saremo abbagliati e per quello non riusciremo a vedere più niente.”
“Non è comunque niente di positivo” le fece notare Mark.
“Ragazzi” Derek attirò la nostra attenzione. “Niente black out.”
“In che senso?”
“Niente black out” ripeté alzando la voce. “Il gioco parlava solo di me.”
Lo vidi guardare in avanti, mentre cercava e raccoglieva i dadi a tentoni, tendendo il palmo aperto in avanti.
“Non vedo più niente. Solo nero. Quindi, Mark, ti sarei grato se tirassi. Adesso.”
Lui prese i dadi con esitazione.
Addison si avvicinò a Derek, toccandogli il viso e accarezzandogli un braccio.
“Andrà tutto bene” sussurrò. “Vedrai che andrà tutto bene” ripeté con voce appena udibile ma sicura in modo disarmante.
“Del suolo immobile non ti fidare. Il pavimento ti fa sprofondare” lesse Mark ad alta voce.
Ci allontanammo tutti di scatto, sentendolo urlare. Il pavimento di solido cemento si stava come squagliando sotto i suoi piedi.
“Fate qualcosa” urlò.
Afferrai il primo oggetto lungo che mi capitò sotto mano, in quel caso una sedia, facendocelo aggrappare e iniziando a tirare indietro. Ero quasi riuscita a tirarlo fuori, quando la sedia di legno si spezzò.
Fu allora che lo sentimmo.
Il tonfo di una porta che cadeva nel mezzo della notte.
Un ruggito feroce dall'altra parte del corridoio. Il leone era uscito dalla sua trappola e stava venendo a cercarci.
Ci guardammo tutti con puro terrore dipinto in faccia.
L'unica apparentemente calma era Teddy. Chiuse il gioco e lo consegnò ad Arizona.
“Dovete andare” ci disse, tornando poi a guardare Mark che sprofondava nel terreno. “Continuate a giocare.”
“Teddy” Arizona fece un passo verso di lei.
“Io rimango con Mark.”
“Non se ne parla, nessuno rimane indietro” mi opposi. “Sopravviveremo tutti, o stavolta non sopravviverà nessuno” conclusi, guardando verso il mio migliore amico, che scosse la testa mentre si osservava sprofondare.
“Andate. Teddy ha ragione. Finite il gioco.”
“Non se ne parla” protestò anche Addison.
Un colpo secco alla porta ci fece sobbalzare. Vedemmo degli artigli piantarsi nella porta e scorrere verso il basso.
“Non preoccupatevi. Neanche prima è riuscito a sfondare la porta solo con le zampe, no?” cercai di tranquillizzare gli altri.
Fu allora che vedemmo una radice minuta della pianta carnivora intrufolarsi all'interno della porta e passare dal buco del primo artiglio per rientrare in quello causato dal secondo. Tirò forte, portandosi via qualche centimetro di porta.
“Ed ecco come è riuscito a scappare” osservò Arizona.
“State calmi” intimai.
Quando la pianta entrò di nuovo nella stanza la recisi di netto con la spada che ancora avevo in mano.
“Visto? È troppo piccola. Un leone non può passare da lì” feci notare.
Teddy afferrò Mark per le braccia, cercando di tirarlo verso l'alto.
Arizona spalancò il gioco e tirò.
“C'è una lezione da imparare, a volte indietro devi tornare.”
Il pavimento, finalmente, tornò ad essere fatto di materiale solido. Mark era immerso fino allo stomaco, mentre Teddy aveva dentro le braccia fino al gomito.
“Il buco non era per il leone” la voce di Addison mi fece voltare verso la porta.
I ragni avevano iniziato ad entrare attraverso la fessura. Ne uccisi un paio, mentre almeno una decina delle radici della pianta rientrarono, continuando a creare un varco per la bestia più grossa che c'era dietro.
Arizona iniziò a tagliare le radici con l'attizzatoio lasciato cadere da Mark, mentre io mi occupavo dei ragni. Ma la crepa si allargava di secondo in secondo e non eravamo più al sicuro.
Mi voltai di scatto, le lacrime agli occhi, afferrando una vecchia fotografia, l'unica che tenevo sul comodino. C'eravamo io e Arizona al secondo anno di liceo. Era la mia preferita, di prima che io e lei iniziassimo a stare insieme ma di quando già ci amavamo. Era di prima che le cose si complicassero.
La afferrai, guardandola per un'ultima volta, prima di scagliarla contro la finestra.
“Andate” urlai ad Addison. “Correte. Portalo fuori di qui.”
Lei annuì, conducendo Derek verso la finestra. Lui cercò a tentoni di orientarsi.
“Dobbiamo saltare” gli disse la rossa.
“Ma siamo al primo piano.”
“Lo so” gli sussurrò. “Ma dobbiamo saltare lo stesso.”
Afferrai il gioco e lo misi forzatamente in mano ad Arizona.
La guardai negli occhi, costringendola a smettere di colpire la pianta.
Le accarezzai una guancia. Continuai a guardarla in silenzio per quella che sembrò un'eternità, come se il tempo si fosse fermato. Ma in realtà non era passato che poco più di un secondo. Era sufficiente, tuttavia. I suoi occhi non sarebbero potuti essere più impressi nella mia memoria, in ogni caso.
“Vattene” sussurrai. “Vattene via da qui.”
“Scordatelo. Non senza di te.”
“Sono subito dietro di te” la rassicurai. “Te lo prometto. Ma prima devi saltare tu.”
Sapeva che non era vero. Ma lo fece. Saltò a terra.
Mark e Teddy si stavano guardando negli occhi. Niente ormai era più importante per loro, se non loro due stessi e quello che faceva loro battere il cuore, ancora, dopo tutto quel tempo, dopo tutti quegli anni.
Teddy urlò quando il primo ragno riuscì a raggiungerla e la punse. Mark non urlò. Continuavo a cercare di tenerli lontani, la spada in una mano, l'attizzatoio nell'altra, ma le piante avevano ormai ricoperto perfino le pareti ed i ragni erano ovunque. Non potevo più proteggerli.
“Vai via, Callie” mi esortò Teddy, l'ennesimo morso la raggiunse, ma ormai anche il dolore non era diventato per loro altro che una sensazione annebbiata e poco definita.
Mi voltai, mentre il leone riusciva finalmente a entrare nella stanza.
Si prese un momento per scrutarmi negli occhi. Io gli sorrisi.
“Fatti avanti, amico. Siamo solo io e te. Siamo gli unici due ancora in piedi.”
Fu un attimo. Poi, con un ruggito feroce mi mostrò gli artigli macchiati del mio sangue mentre si gettava in avanti.

Quando ripresi coscienza sentii l'aria fredda. Provai ad aprire gli occhi, ma vedevo una realtà ancora sfuocata. Però era scuro, tutto attorno a me. Quindi doveva essere notte.
Ce l'avevano fatta, pensai.
Avevano finito il gioco.
Doveva essere così, perché non sentivo dolore e nessuno stava urlando.
Le conseguenze erano sparite e Arizona si sarebbe licenziata da conduttrice del telegiornale nazionale, io e lei avremmo potuto avere una vita insieme che non fosse costantemente macchiata dal passato.
Sì, doveva essere così.
Era così per forza.
“Calliope.”
Aprii gli occhi.
Senza neanche rendermene conto allungai una mano verso di lei, toccando i suoi capelli di solito soffici, ma allora sporchi di fango.
Il suo viso, ma anche il resto di lei, notai quando la mia visione divenne più chiara, era ricoperto di sangue.
Corrugai la fronte, tentando di rimettermi in piedi, ma lei mi fermò.
Avvicinò una guancia alla mia, sussurrando contro il mio orecchio.
“Credevo di averti persa di nuovo.”
Si allontanò, guardandomi di nuovo negli occhi.
Fu allora che lo capii.
Quello di cui era macchiata, il sangue che la ricopriva, proveniva da me.
Il dolore tornò indietro all'improvviso, tutto insieme, come una scarica elettrica.
“Il braccio sinistro” mi lamentai.
“Credo sia rotto” sussurrò.
Mi accorsi che stava piangendo.
Strinsi il braccio sinistro al corpo, alzandomi a sedere mentre mi massaggiavo la testa con la mano destra.
“Mark e Teddy” comunicai loro. “Sono morti. Erano già morti quando sono saltata.”
“Lo immaginavamo” mi rassicurò Addison, sorreggendomi per le spalle.
“Il leone mi è saltato addosso. Non volevo che raggiungesse voi, così l'ho affrontato. Gli ho piantato l'attizzatoio nel cuore, poi sono saltata” raccontai.
“Ti ha rotto un braccio” mi rimproverò Arizona, colpendomi su quello buono. “Avrebbe potuto ucciderti!”
“Come fai a sapere che non me lo sono rotto cadendo?” protestai. “E poi, sono viva.”
“Non importa, Calliope. Non puoi affrontare dei leoni, o piante carnivore, o ragni, pipistrelli, zanzare giganti. Non puoi farlo.”
“Perché? Tu eri lì con me per ognuna di queste cose, se non sbaglio.”
“E hai mantenuto la tua promessa, mi hai protetto. Ma nessuno ha protetto te. Perdi sangue, hai un braccio rotto, il viso tagliato.”
“Il sangue non è mio. Non tutto. La maggior parte viene dal leone” le spiegai, tentando di rialzarmi in piedi come meglio potevo.
Lei ed Addison mi aiutarono.
“Cosa credi che ne sarebbe di me, se tu morissi?” chiese con voce dura.
“La stessa cosa che ne è stata per tutti questi anni. Alla fine tu ricominceresti a vivere. Tu riesci sempre a ricominciare a vivere.”
“E questo che significa?” chiese con tono esasperato. “Sono sopravvissuta, Calliope, come tutti noi, ma questo non significa che abbia mai vissuto davvero, senza di te. E sono sopravvissuta perché sapevo che tu eri viva e che stavi bene. Ma se tu morissi, se mi dovessi trovare in un mondo in cui tu non esisti, perfino sopravvivere diventerebbe inutile.”
Io la guardai negli occhi, vedendo qualcosa che non riuscii ad identificare del tutto.
Le porsi il palmo della mia mano.
Lei scosse la testa, incredula, rilasciando una risata amara.
Ma alla fine mi porse i dadi, tenendo la scatola aperta per me.
“Due e due, quattro” informai gli altri. “Ti manca poco per arrivare, ma ora la terra si mette a tremare.”
Non era stata una buona idea tirare accanto ad una casa infestata da una pianta carnivora, che era quindi diventata già di per sé molto instabile. Ci cadde tutto addosso prima che ce ne rendessimo conto.
Cercai di buttarmi su Arizona per farle scudo, ma un pezzo di cemento mi cadde su un piede, immobilizzandomi a terra.
In un attimo, era sopra di me, proteggendo entrambe le nostre teste con la sua schiena e le sue braccia.
Quando il terreno si fermò, sentivo il suo respiro affannato sul mio orecchio. Una sensazione che mi era mancata, ma in un ambito diverso da quello.
Rimanemmo lì, immobili, per diversi minuti, cercando di far rallentare il battito accelerato dei nostri cuori.
Alla fine, togliendoci di dosso i pezzi di cemento che ci erano crollati addosso, ci tirammo in piedi, ripulendoci dalla polvere. Spostai lo sguardo alla ricerca di Derek e Addison, ma quando li raggiunsi quello che vidi non mi piacque.
“Respira. Lo sto spostando, ok? Respira.”
Derek, ancora cieco, stava cercando di spostare un enorme pezzo di calcinaccio da sopra la metà inferiore di Addison. Mi unii a lui, così come Arizona, ma il cemento non si mosse neanche di un millimetro.
“Derek, Derek vieni quassù” lo pregò. “Lascia stare, ok?” afferrò le sue mani, costringendolo a demordere e avvicinarsi di nuovo a lei. “Tu non puoi vedermi, adesso, ma sto perdendo sangue dalla bocca e non respiro più molto bene.”
“No” pregò lui in un sussurrò, stringendo le sue mani.
Mi sentivo impotente, guardando la scena.
“Sto morendo” sussurrò. “Quindi vieni qui e dammi un ultimo bacio come si deve, d'accordo? E tienimi la mano, più forte che puoi, perché ho paura. Restami accanto mentre me ne vado, perché ho paura.”
Io mi alzai, non riuscendo a guardarli neanche per un altro secondo.
Iniziai a buttare di lato le macerie fino a riportare alla luce la scatola da gioco e riaprirla.
“Calliope.”
“Ho fatto un numero doppio. Sta di nuovo a me” spiegai, prendendo in mano i dadi e stringendoli con forza.
“Calliope, la tua migliore amica sta morendo. Vai a tenere la sua mano.”
“Non posso” guardai in alto, verso di lei, scuotendo la testa. “Io ho tirato i dadi, è stata colpa mia. Sta morendo per colpa mia. Ed io non posso guardarla morire, non posso più guardare morire nessuno. Ho perso troppo persone, ho perso troppe cose” le spiegai con le lacrime agli occhi. “Non posso più perdere altro. Non posso più combattere per niente, per nessuno e non posso più proteggere nessuno.”
Lei si inginocchiò al mio fianco.
“L'unica cosa per cui posso combattere e l'unica cosa che sono in grado di proteggere, sei tu. Sei sempre stata tu. Non riesco più a sopportare altro dolore, neanche una quantità piccolissima, e non riesco a sopportare altra perdita. Ho avuto abbastanza di entrambi per due vite intere. Quindi, solo per un momento, solo per adesso, voglio fingere che niente di tutto questo stia succedendo o sia mai successo. E di non aver mai conosciuto altro che non fosse il tuo amore. È così che ho vissuto ed è così che oggi voglio morire.”
Mi guardò a lungo, passando una mano tra i miei capelli troppo corti, nel tentativo di calmarmi e rassicurarmi, nel modo in cui solo lei era sempre stata in grado di fare.
“Su una cosa siamo d'accordo” ci voltammo entrambe in avanti, verso la fonte di provenienza della voce. “Morirai, oggi.”
Caricò il fucile che aveva in mano.
Ci alzammo in piedi, lentamente.
“L'uomo che ho rincorso per dieci anni al momento manca all'appello, ma la donna che mi ha steso con una pala da giardino sembra la seconda miglior soluzione per il nuovo trofeo da aggiungere alla mia parete.”
“Van Belt.”
“Sai come mi chiamo” osservò. “Bene. Non perderemo tempo con le presentazioni.”
Deglutii, mettendomi di riflesso davanti ad Arizona. Sempre proteggere lei, per prima cosa.
“Alza le mani.”
Feci come mi era stato ordinato.
“Che hai lì? Qualsiasi cosa sia, lascia andare. Apri le mani.”
Feci come mi aveva detto, lasciando cadere i dadi, che rimbalzarono sui pezzi di cemento ai nostri piedi e poi rotolarono sull'erba.
“Ultime parole?”
Scrollai le spalle.
“La mia non è stata una vita molto significativa. Temo non ci sia niente che potrei dire adesso per cambiare le cose. Ho sprecato le occasioni che ho avuto e l'unica cosa della mia vita che avesse mai avuto un senso, me la sono lasciata sfuggire.”
“Sono grato di mettere fine al tuo dolore” osservò con freddezza.
Gli sorrisi.
“Ne sono grata anche io.”
“No!”
Scivolai all'indietro. Lei mi prese tra le braccia, facendomi stendere a terra lentamente.
Mi aveva sparato dritto al cuore.
“No, no, no” continuò a ripetere a bassa voce.
Io mi limitai a guardare i suoi occhi. La cosa più bella che avessi mai visto. L'unica cosa che avesse mai avuto senso davvero, ricordai a me stessa, confermando le parole che avevo pronunciato poco prima.
“Non puoi morire. Dovevamo trovare un modo per essere felici. Andarcene da qui, insieme. Noi due, noi dovevamo farcela” mi cullò tra le sue braccia, piangendo silenziosamente mentre baciava la mia tempia sinistra. “Non puoi lasciarmi dopo tutta la fatica che ho fatto per ritrovarti. Non adesso.”
Si allontanò, guardandomi negli occhi.
“Dovevamo avere una casa grande, ti ricordi? Con un sacco di figli e tutto il resto, come avevamo progettato quando eravamo piccole e ancora non sapevamo che avremmo iniziato a desiderare di avere quelle cose insieme.”
Io mi stavo aggrappando con le mani alla sua maglietta.
Aprii e richiusi la bocca più volte, nel tentativo di dire qualcosa che non si decideva ad uscire dalle mie labbra.
“Ssshh” mi sussurrò, accarezzandomi il viso delicatamente. “Lo so, Calliope. Lo so. Ti amo anch'io.”
Scossi la testa negativamente, riuscendo poi a far uscire quello che cercavo di dire.
“Jumanji.”
Mi guardò confusa.
“Cosa?”
Io lo ripetei a voce più alta.
“Jumanji.”
Poi chiusi gli occhi, sentendo il battito del mio cuore rallentare fino a fermarsi.

Mi girava la testa.
Sensazione strana da provare quando sei morto.
Avevo ancora la mano sinistra stretta al petto, ma il braccio sembrava essere guarito. Non sentivo più dolore al viso, né in tutto il resto del corpo.
Inspirai e, come la prima volta, aspettai che tutto tornasse indietro.
Ma non successe niente.
Poi lo sentii. Arrivò il dolore. Il mondo tornò a produrre dei suoni. Aprendo appena gli occhi, delle immagini stentate e sfuocate mi apparirono davanti.
Ma mi accorsi che erano dolore, suoni ed immagini diversi da quelli che mi ero aspettata fino a un attimo prima.
“No, lasciatemi andare. Lasciatemi, ho detto” tentò di liberarsi.
Quando mi portai una mano sugli occhi, per stropicciargli, contemporaneamente tirandomi a sedere, tutti si impietrirono.
La lasciarono andare come aveva ordinato loro di fare. Io mi alzai in piedi, giusto in tempo perché potesse ricominciare a colpirmi.
“Arizona” cercai di calmarla, ma lei non stava ascoltando.
“Tu, come hai osato morire? Ti ho implorato di non farlo, di non rischiare la vita, eppure ci sei andata vicina tanto così” fece un gesto con la mano sinistra mentre continuava a colpirmi con la destra, quasi appiccicando tra loro indice e pollice. “Due volte” aggiunse, mentre ricominciava l'attacco.
Io le afferrai entrambe le mani, senza nemmeno preoccuparmi delle quattro persone che ci stavano fissando.
“Arizona” ripetei.
Lei non mi guardò negli occhi, continuò, invece, a cercare di colpirmi sul petto e sulle spalle con i pugni.
Allora io la afferrai con più decisione e me la strinsi al petto, abbracciandola il più stretta possibile per impedirle di muoversi.
“Lasciami andare. Lasciami. Voglio ucciderti, in modo da assicurarmi che non mi farai mai più spaventare così tanto” mi disse con rabbia.
Sorrisi della sua logica, stringendo ancora di più.
“Lasciami andare” ripeté a voce più alta.
“No” risposi pacatamente. “No, non ti lascio andare. Non ti lascerò andare mai più, quindi è meglio che ti abitui.”
Continuò a cercare di liberarsi dalla mia presa, perfino quando misi una mano tra i suoi capelli e la baciai. Proprio lì, nel mezzo del soggiorno di Derek, davanti a tutti i nostri amici.
E alla fine, quando capì che cercare di divincolarsi era inutile e improduttivo, rispose al bacio con rabbia, insicurezza, odio e una manciata di altri sentimenti che lo resero tutto quello che avrebbe dovuto essere.
Anche quando si allontanò per appoggiare la fronte sulla mia spalla continuai ad abbracciarla e a fissare il profilo del suo viso a pochi centimetri dal mio, continuando a baciarla piano sullo zigomo e a sussurrare parole di conforto al suo orecchio.
E anche allora, mentre piangeva, potevo percepirla sorridere.
Perché non era importante quanto tutti fossimo malridotti, quanti graffi, tagli, e squarci avevamo addosso – solo metaforicamente, perché il gioco si era ripreso indietro gli altri, quelli veri, inferti alla nostra pelle – e, sì, il nostro cuore era a pezzi, perché avevamo visto tutti noi morire persone che amavamo. Ma comunque la percepivo sorridere, perché le nostre ferite sarebbero guarite, con il tempo.
Eravamo vivi. Quella era l'unica cosa che importava davvero.

Sembrava felice. Sorrideva mentre parlava con lui. Ed io non potevo che guardarla da lontano e sperare che il mio cuore si calmasse.
“Callie.”
Distolsi lo sguardo velocemente, prendendo un sorso da quello che stavo bevendo e voltandomi di lato.
“Addison. Sei arrivata da molto?”
“Solo da qualche minuto. Devo ammettere che ho preso in considerazione di non venire. Una stanza piena di chirurghi non era il posto in cui sarei voluta essere stasera.”
“Che ti ha spinto a cambiare idea?” domandai ridendo.
“Sapevo che il primario si sarebbe infuriato.”
Finii quello che stavo bevendo, appoggiando il bicchiere sul tavolo alle mie spalle.
“Hai visto Derek?” domandò.
“Ah, sta parlando con Arizona” feci un cenno della testa nella loro direzione.
“Ho sentito che si sta sposando” mi informò. “E nemmeno da lui, me lo sono dovuto sentir dire da Teddy.”
“Si sposa anche Mark” la informai. “Notizia fresca di giornata. Sarà super divertente quando dovrò dirlo anche a Teddy.”
“La piccola Grey?” domandò.
Io annuii.
“Beh, Derek sposa Meredith e Mark sposa Lexie. E a noi non resta che andare avanti, presumo” mi disse con un sospiro.
Io mi voltai verso il tavolo su cui avevo appoggiato il bicchiere, cercando di scegliere qualcosa da mangiare.
“Ma tu non eri innamorata di uno specializzando, l'ultima volta che ho controllato?” le chiesi con un sorriso, prendendo in mano un paio di noccioline e assaggiandole.
“Non come amavo lui” mi corresse. “Mai come ho amato lui.”
Io sorrisi amaramente, pescando di nuovo qualche nocciolina.
“Secondo te perché è successo quello che è successo?” mi chiese piano, lo sguardo fisso sulle due persone che le avevo indicato poco prima. “Neanche con una seconda occasione, le cose sono andate come volevamo che andassero. Perché non ha funzionato? Cosa è andato storto?”
Scrollai le spalle, lo sguardo basso.
“Le seconde occasioni, nemmeno importano” le risposi pacatamente. “Le persone non cambiano mai.”
Spostò lo sguardo per osservare il mio profilo, mentre io mi dedicavo ad un'attenta analisi del cibo su quel tavolo.
“Forse” sospirò dopo diversi momenti. “O forse abbiamo mandato tutto all'aria due volte perché non ci abbiamo provato abbastanza tutte e due le volte. Non ci abbiamo provato con abbastanza forza, abbastanza convinzione. Forse la prima volta abbiamo fallito e invece di imparare dai nostri errori, la seconda volta, ci siamo messi seduti comodi ed abbiamo aspettato che le cose funzionassero, pretendendo un lieto fine solo perché se non fosse andato tutto come volevamo noi saremmo stati distrutti.”
Morsi una delle tartine al formaggio, apprezzando la scelta del primario di chirurgia nell'organizzazione del buffet.
“Forse” concessi. “E pensa che io e lei non abbiamo nemmeno avuto errori da cui imparare, perché la prima occasione l'ho buttata via prima ancora che avesse avuto la possibilità di fallire per conto suo.”
Mi voltai, vedendola che mi guardava con aria confusa, la fronte corrugata in un cipiglio di preoccupazione.
“Eppure siamo cambiati, non è così?” domandò con un sorriso. “Possiamo almeno dire che non è stato tutto inutile.”
“Fin tanto che riusciamo a convincere noi stessi che il cambiamento ci ha reso migliori di come eravamo” aggiunsi, ricambiando il sorriso.
“Addison, sei arrivata da molto?”
“No, sono qui con Callie solo da qualche minuto” rispose con un sorriso gentile.
Lei e Derek si erano avvicinati senza attirare la nostra attenzione finché non ce li ritrovammo davanti.
“Non farti ingannare, Addison. Solo perché non porto più gli occhiali da sole e ho i capelli più lunghi, non significa che sia una persona diversa” conclusi, voltandomi verso i nostri amici.
“Ah, eravate in vena di discorsi seri, allora” Derek mi sorrise, portandosi alle labbra il drink che aveva in mano.
Annuii.
“Stavo giusto raccontando ad Addison che io e Arizona abbiamo deciso di divorziare.”
Quello che stava bevendo, qualsiasi cosa fosse, gli andò di traverso.
“Perdonami?” mi invitò a ripetermi, mentre tossiva e cercava di riprendere a respirare normalmente.
“Non ascoltarla” gli disse la bionda, colpendomi su un braccio. “Sta solo scherzando.”
Io guardai il moro con aria divertita, tirando mia moglie nella mia direzione, circondandole la vita con un braccio.
“Potrei anche decidere di farlo, se non mi dai un bacio immediatamente.”
Lei mi guardò, un sopracciglio alzato a sfidare le parole che avevo appena detto.
“Ok, ho mentito. Non lo farei mai, e tu lo sai benissimo” concessi. “Adesso, però, voglio quel bacio.”
Lei rise, avvicinandosi ed accontentando quella mia richiesta con un bacio veloce.
Mi prese per mano, portandomi verso l'atrio deserto del ristorante in cui il nostro primario aveva deciso di celebrare quella sera.
Mi condusse fuori, fermandosi ad osservare la luna, mentre io la abbracciavo, la sua schiena contro di me.
“Sei felice?” domandai.
E, indipendentemente dal fatto che sarei voluta sembrarle forte, la voce mi tremò.
“Più che felice.”
“Più della prima volta?”
Si voltò tra le mie braccia, guardandomi con incredulità.
“Non sono mai stata felice, la prima volta. Non potrei mai esserlo, non senza di te” mi guardò con quella tranquillità e quell'innocenza che potrebbe avere solo chi sta per certo dicendo la verità.
“Arizona, ti ho raccontato quanto sono stata infelice. Sai che non avevo più una ragione per alzarmi dal letto ogni mattina, da quando ti avevo lasciato andare. E sai che non potrei mai più farlo.”
“Mi stai chiedendo di sposarti?” scherzò. “Perché non credo che tu possa farlo più di una sola volta.”
Io risi.
“Voglio solo che tu sappia, sempre, in ogni momento, quanto ti amo e che tu significhi il mondo, per me.”
“Lo so. E tu sai che è la stessa cosa, per me.”
Il passato, quella famosa prima occasione, ormai non era altro che un brutto ricordo.
La baciai. Poi tornammo a guardare la luna, mentre giocavo con l'anello sulla sua mano sinistra. Quell'anello di oro bianco, con un diamante al centro. E i nostri nomi incisi all'interno.




Perdonate: la, ormai ricorrente, citazione da Severus; il ritardo; il crossover con uno dei miei film preferiti, Jumanji. Grazie a tutte, alla prossima.





Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** La nostra prima idea ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU!




Uploaded with ImageShack.us



La nostra prima idea


~ “Se tu sei un uomo, Winston, tu sei l'ultimo uomo. La tua specie è estinta; noi ne siamo gli eredi. Ti rendi conto che sei solo? Tu sei fuori della storia, tu non esisti. ” (George Orwell, 1984) ~

Che cos'è l'umanità?
Io credo sia quella cosa che ci rende speciali. Che rende ogni essere umano diverso da chiunque altro, che rende ogni individuo unico.
L'umanità è qualcosa di cui nessuno dovrebbe mai essere privato.
Un mondo senza umanità non è altro che un insieme di automi, tutti uguali, tutti inutili.
Ma cosa ci rende umani?
Forse la capacità di provare emozioni. Oppure il fatto che siamo in grado di percepire una serie di dati attraverso i nostri sensi. Riuscire a sognare. O forse semplicemente l'essere capaci di elaborare un pensiero. Forse tanto basta. Avere un'idea ci rende umani.
Non secondo me.
Secondo me, ciò che davvero è l'umanità di una persona, è la sua libertà. La libertà di esprimere le proprie emozioni, esternare le sensazioni, combattere per realizzare i propri sogni, parlare dei propri pensieri.
Tolta ad un uomo la sua libertà, ecco che quasi niente rimane del suo essere umano.

“Odio il grigio.”
“Pensieri profondi, stasera.”
“Dico sul serio. Per un po' può andare anche bene, ma lentamente ho iniziato ad odiarlo. È una delle prime cose che vorrei cambiare.”
“Sì?” chiese, ridendo.
“Sì. Vorrei andare a vivere in un posto con la facciata completamente dipinta di un colore pastello, che non sia grigio e nemmeno bianco. Voglio una casa che sia fuori dal presente almeno quanto dal passato, che sia fuori dal tempo e dallo spazio.”
“Un posto sicuro.”
“Un posto sicuro. Con la facciata completamente dipinta di rosa” conclusi con tono soddisfatto, mentre mi voltavo verso di lei. “Visto? Finalmente anche io ho avuto un'idea.”
“Ed è una bellissima idea.”

Avevo quattro anni quando era iniziato.
Di prima ho pochi ricordi, per la maggior parte sono cose che adesso non sembrano neanche verosimili. Come se il passato fosse un posto troppo distante per essere mai esistito. Mi ero chiesta se altri la pensavano come me, ma la verità è che, alla fine, non importava neanche.
Era ognuno per se stesso.
Ed il passato, neanche esisteva più. Tutto quello che esisteva era il presente e quello che loro dicevano essere reale.
Ricordo che da piccola avevo paura del buio.
Era normale, perché nell'oscurità non riuscivo a guardarmi attorno, a vedere cosa o chi c'era nella stanza insieme a me. Crescendo, avevo imparato che era proprio nelle tenebre che giaceva la luce, perché proprio come io non potevo scorgere i miei nemici, loro non potevano trovare me.
Avevo quattro anni quando era iniziato. Ne avevo ventinove quando quattro militari entrarono dentro il mio nascondiglio. Ero riuscita a sopravvivere a lungo, ma avevo sempre saputo come sarebbe andata a finire. Quelli come me avevano un unico scopo ed un unico possibile futuro. Loro lo chiamavano 'il trattamento'.
Eravamo in tre dentro il retro del furgoncino su cui mi fecero salire. Non avevo idea di quanto fosse grande.
Tutti e tre eravamo seduti e c'era un uomo che ci guardava con un fucile in mano. Non ci era permesso alzarci. Avevo imparato che non era il caso di mettere in discussione gli ordini che ci erano stati dati quando l'uomo che era dentro quella prigione mobile insieme a me, l'unico che era ammanettato, un giorno decise di alzarsi in piedi.
Da quel momento, eravamo in due dentro il retro del furgoncino su cui mi fecero salire. L'uomo con un colpo in mezzo alla fronte rimase lì dentro per tutto il viaggio. Ma andava bene, dato che non potevo vedere la sua faccia. Era stato incappucciato per tutto il tempo.
La donna seduta accanto a me aveva più o meno la mia stessa età. I militari che ci sorvegliavano erano più grandi. Si davano il cambio spesso. C'erano due uomini ed una donna, più qualcuno che guidava il furgone e un comandante della squadra che non si era degnato di farsi vedere.
“Come ti chiami?” sussurrò piano un giorno, il terzo, credo, che avevamo passato lì dentro.
“Non ci è permesso parlare. Non voglio un proiettile in fronte.”
“Possiamo parlare fin tanto che non disturbiamo il soldato di guardia o non ci mettiamo a parlare di come fuggire da qui. Come ti chiami?”
“Mi chiamo Arizona.”
“Io sono Meredith. Perché ti hanno arrestato?”
Io non risposi. Non rispondevo mai. Oppure inventavo qualcosa.
“Credi che sappiano perché ci stanno portando via?”
“Non lo so. Glielo chiedo” sussurrò. “Ehi, rosso” alzò la voce. “Sapete perché il governo vuole mettermi su una sedia e far friggere con duemila volt il mio cervello?”
“Seguiamo solo gli ordini” fu la risposta calma.
“Perché il tipo insieme a noi era incappucciato?” chiesi a mia volta.
“Era un traditore” di nuovo una risposta, quando non sarebbe dovuta essercene una. I soldati del governo non erano famosi per la loro voglia di chiacchierare.
“Mi chiamo Meredith” si presentò la donna al mio fianco.
Lui accennò un debole sorriso, sospirando mentre spostava lo sguardo prima su di lei e poi su me, per tornare infine a guardare lei.
“Owen Hunt” si presentò.
Il nome mi suonava vagamente familiare. Probabilmente un Maggiore dell'esercito che avevo sentito nominare in una delle liste che mi erano state date.
Il terzo giorno di viaggio fu il più duro. Avevo un forte mal di testa e il camioncino continuava a sobbalzare. Meredith non sembrava sentirsi molto meglio di me ed iniziò una conversazione nel tentativo di tenere le nostre menti occupate.
“Mia madre è morta parecchio tempo fa. È stata una delle prime, sai? Una delle prime ad essere trattate.”
“Sai perché hanno scelto proprio lei?”
“Era uno dei medici che lavoravano allo studio” rispose con tranquillità. “Credo che uno dei suoi colleghi abbia scoperto la sua condizione per sbaglio e l'abbia denunciata al Governo. Quindi la colpa di quello che sta succedendo, proprio quello che sta succedendo anche a noi due, è in buona parte di mia madre. Ora puoi colpirmi, se vuoi.”
La guardai per qualche istante.
“Il suo problema è anche il tuo problema, giusto? Non saresti qui se non fosse stato ereditario.”
“Alzheimer. Tu?”
Distolsi lo sguardo. Mentire era inutile, a quel punto. Molto presto, sarei stata morta.
“Omosessualità.”
Guardai il soldato di guardia, assicurandomi che non ci avesse sentite parlare. Non era il rosso, ma l'altro uomo.
“Oh, sì” sussurrò Meredith in risposta, quasi ridendo. “Ci ammazzeranno di sicuro” per un attimo mi sembrò quasi soddisfatta.
Non sapevo dove stavamo andando, ma ci stavamo mettendo parecchio. Ci muovevamo per almeno sei ore al giorno. Avevo calcolato sette giorni di marcia, se ci avessero portato nell'edificio principale, mentre molti di meno per una a caso delle sedi. Non ce n'erano vicino a dove avevo deciso di nascondermi, visto che avevo scelto il posto con cura, ma in meno di quattro giorni avremmo potuto raggiungerne una, di quel passo.
I giorni continuavano a passare, eravamo giunte al sesto e il passo di marcia non sembrava essere destinato a rallentare.
“Ci portano alla sede centrale” le dissi. “Ci resta un altro, forse due giorni di vita.”
“Non importa. Prima finisce questo viaggio meglio è. Se devono ucciderci, ci uccideranno in ogni caso. Quindi vediamo di darci una mossa.”
“Non hai un grande attaccamento alla vita, vedo.”
Scrollò le spalle, senza preoccuparsi di guardarmi negli occhi.
“Non è questo un mondo in cui vale la pena vivere.”
Concordavo con lei, ma non lo dissi. Non pensai ce ne fosse bisogno.
“Come si chiamava lei?”
“Chi?”
“La donna che amavi.”
“Ah” sussurrai, subito dopo le sorrisi. “Cosa ti fa pensare che ci fosse qualcuno?”
“C'è sempre qualcuno. Dov'è, adesso? Dove sono le persone che ami?”
Scrollai le spalle. Non risposi. Non ne avevo neanche più la forza.
Continuavo a contare, ma non ero sicura di aver fatto bene i calcoli. Se avessero avuto due autisti, avrei sbagliato tutto. Contavo le volte in cui ci fermavamo e ripartivamo come un giorno, ma niente mi assicurava che avessi dormito per ore quando sentivo il motore riaccendersi e non soltanto per qualche minuto. Se avevo ragione, erano passati sette giorni. Dovevamo essere vicini, pericolosamente vicini.
“A cosa penserai subito prima di morire?”
Mi voltai lentamente nella sua direzione.
“Ma tu mai una domanda normale, eh?”
Scrollò le spalle, sorridendomi in quel suo modo rassegnato.
“Io vorrei morire pensando a qualcosa di decente. Qualcosa di lontano da qui. Un posto migliore, magari.”
“Come il Paradiso?” domandai.
“Credi in Dio, Arizona?”
“Ci credevo, quando ero piccola. Guardandomi attorno, ho imparato che esiste l'Inferno. Esiste e ci siamo dentro, quindi magari esiste anche il Paradiso.”
“E ci credi ancora, adesso che sei cresciuta?”
Esitai, pensando che mentirle l'avrebbe probabilmente fatta sentire meglio. Ma non potevo mentire ad una delle poche persone che era stata onesta con me.
“No” scossi la testa. “Stiamo morendo, Meredith. E non c'è niente dopo. Solo le tenebre. Ma, almeno, là dove non c'è niente, non troveremo altro dolore.”
L'ottavo giorno mi accorsi che dovevo aver sbagliato i conti. Potevamo essere ovunque, quindi in qualsiasi momento potevamo arrivare dove ci stavano portando.
Così sarebbe arrivata la nostra morte. Come se l'avessimo aspettata per tutto quel tempo e fosse riuscita comunque a coglierci di sorpresa.
Lei stava dormendo, ma io non ci riuscivo. Incrociai gli occhi della nostra guardia.
“Non ci uccideranno subito” le dissi. “Non è vero? Se hanno voluto che arrivassimo vive, ovunque ci stiate portando, non ci uccideranno subito. E questo lascia due opzioni. Numero uno, vogliono interrogarci. Ci tortureranno finché non ammettiamo di sapere quello che vogliono o finché non capiranno che non lo sappiamo. Ci sono già passata. Numero due, vogliono altre cavie. Quindi ci studieranno, che è una tortura più sottile, ma forse anche peggiore.”
Lei non si mosse di un millimetro.
“Allora, quale delle due?”
“Mi sono stati dati ordini chiari di non parlare con nessuno dei passeggeri.”
“Mi dica almeno il suo nome. Così se mi chiederanno di chi è il merito per la mia cattura, posso farle avere una promozione.”
Si limitò ad ignorarmi, ma non distolse lo sguardo.
“Dicono che quelli come me siano i più ricercati. Non perché siamo più rari, in realtà, che è quello che si penserebbe. Ma perché non siamo identificabili con assoluta certezza. La maggior parte di noi si nasconde. Con le persone con malattie come l'Alzheimer, il Parkinson, la sordità, è più semplice, perché vengono individuate con sicurezza con una semplice analisi del loro patrimonio genetico. Con l'omosessualità è più difficile, perché non hanno idea di quale sia il gene che la caratterizza, se in effetti ci fosse un gene, visto che non è una malattia. Ma forse è vero che è ereditaria” concessi dopo un breve ripensamento.
La sua espressione indecifrabile rimase immutata. Non fui in grado di capire se concordava con me oppure no.
“Perché mi stai dicendo tutto questo?”
“Perché quando sarò morta lei sappia che il suo Governo sta uccidendo persone come me, non per cose che hanno fatto, ma per quello che sono. Approva davvero questa loro idea di razza perfetta, Maggiore?” chiesi, dopo aver gettato un'occhiata ai suoi gradi. “Uccidere chi ha una malattia ereditaria, sterilizzare chi ha un carattere propenso all'indipendenza o i sovversivi. Questo non porterà ad una razza perfetta, ma alla fine dell'umanità. Quando ogni uomo sarà perfetto, sarà come loro lo vogliono, nessuno più sarà davvero un uomo. Il mondo non sarà altro che una terra popolata da automi con lo stesso aspetto e lo stesso carattere. Non ci sarà più umanità.”
“Non c'è bisogno che mi spieghi niente” mi disse. “Sono un medico. So già come funzionano le ricerche che stanno facendo.”
“Lei è un medico? Credevo che qui foste tutti militari.”
“Teddy Altman” si presentò. “Mi è stato detto di non parlare con i passeggeri” ripeté.
Capii che quello era il suo modo di porre fine alla conversazione, ma non potevo permetterlo.
“Se siete medici perché siete vestiti da militari, ci avete arrestato e ci sorvegliate con un fucile?”
“Non vi sto sorvegliando. Sono qui per proteggervi.”
“Che significa proteggerci? Dove stiamo andando?”
La porta di comunicazione con il davanti del furgone si aprì.
“Sono venuto a darti il cambio.”
Lei annuì, uscendo e lasciando un altro dei soldati nella stanza insieme a noi. Anche lui aveva un fucile. Non riuscii ad evitare di chiedermi se anche lui non facesse davvero parte dell'esercito.
“Hanno detto che l'uomo insieme a noi era un traditore” sussurrai a Meredith dopo che mi ebbe ascoltato riferire la conversazione che avevo avuto la sera prima. “Ma, se non fosse il Governo la cosa che ha tradito?”
“Quindi dove siamo? Chi sono queste persone, dove ci portano?”
La donna con cui avevo parlato la sera prima entrò, scambiando qualche parola sussurrata con l'uomo che ci stava sorvegliando, ricevendo un paio di assensi prima di avvicinarsi a noi. Mi guardò, facendo un cenno con la mano.
“Alzati in piedi e voltati con la faccia verso il muro.”
Deglutii, ma feci quello che mi era stato chiesto. Afferrò prontamente i miei polsi e mi ammanettò.
“Mettiti in ginocchio” ordinò, poi si rivolse alla donna al mio fianco. “Alzati.”
Anche lei lo fece, voltandosi verso il muro e lasciandosi ammanettare. Poi si inginocchiò nella mia stessa posizione, proprio affianco a me.
“Stiamo per attraversare il confine. Una sola parola quando ispezionano il retro e siamo tutti morti, quindi vi conviene fare silenzio.”
Ci incappucciarono, impedendoci di vedere altro che non fosse buio e polvere.
“Fate tutto quello che vi dico. Avranno un fucile puntato alle vostre teste, pronti a fare fuoco al primo segno di incertezza.”
Si allontanò di qualche passo.
“Il confine?” sussurrò Meredith immediatamente. “Credi che intendano il confine armato statale? Credi davvero che ci stiano portando fuori? Come ci sono riusciti?”
“Restiamo in silenzio, Meredith” sussurrai in risposta. “Ovunque ci stiano portando, è meglio cercare di non morire, per adesso.”
Quando il retro del furgone si aprì – un rumore che non avevo sentito da quando ci avevano fatto salire – cercai addirittura di trattenere il fiato. Che diavolo stava succedendo?
“Perché le portate via?”
“Non ci sono capi d'accusa validi, ma il Governo vuole liberarsi di loro” era la voce del rosso. “Le portiamo oltre il confine per non avere problemi quando la loro morte verrà fuori.”
“Genitori potenti?”
“Il padre di una di loro è tra i comandanti dei ranghi militari.”
Ci fu una lunga pausa.
“C'è qualche problema?” chiese l'altro uomo, quello di cui ancora non sapevamo il nome.
“No, no. Fosse la prima volta che succede, Maggiore Sloan.”
“Fosse la prima volta che lo fanno fare a me” si lamentò lui, ma c'era una nota di divertimento nella sua voce che non mi sfuggì.
“Potete andare. Ma scaricate quel cadavere. C'è una puzza, qua dietro, che mi viene già da vomitare.”
“Si figuri per me che devo stare qui otto ore al giorno. Ma anche per quanto riguarda lui, dobbiamo gettarlo fuori dal confine.”
Ci furono altre chiacchiere, poi la porta si richiuse ed il furgone ripartì. Mi venne tolto il cappuccio e aperte le manette.
“Sorpresa delle sorprese. Ci vogliono ammazzare” osservò Meredith.
L'uomo che ci stava liberando, Sloan, non rispose in maniera diretta.
“Da qui in avanti non ci sono più soldati, non ci sono civili, non c'è nessuno. Non potete scappare e non c'è qualcuno che possa farvi del male, quindi non verrà più qualcuno a sorvegliarvi.”
Il rumore della porta comunicante con la parte anteriore del furgoncino che si chiudeva lasciò un rumore metallico dentro le mie orecchie per giorni.

Per anni avevo fatto finta di niente.
Ero andata al liceo e poi al college, cercando di diventare un dottore, per capire come avrei potuto risolvere quel mio problema.
Invece, mentre ci provavo, l'unica conclusione a cui ero riuscita a giungere era stata che non era un problema.
Aveva la mia stessa età, la conobbi al primo anno di college. Anche lei voleva diventare un medico, anche lei voleva trovare soluzioni a problemi che non erano davvero problemi.
Fu lei a fare la prima mossa. Io ero troppo spaventata da quello che sarebbe successo se le mie attenzioni non fossero state ricambiate.
Da allora le cose si complicarono, non poco.
Riuscimmo a finire il college senza farci beccare perché eravamo state molto prudenti, ogni passo del cammino. Ma arrivò anche per noi un momento in cui l'unica cosa che volevamo era buttare via la paura e la prudenza e riuscire, anche solo per un attimo, in realtà, a vivere.
Il Governo sceglieva per noi la persona che dovevamo sposare. Doveva essere fatta una richiesta e un computer associava, ad ogni individuo, quello di sesso opposto le cui caratteristiche genetiche erano più compatibili ai fini di una riproduzione che avrebbe generato soggetti con caratteristiche fisiche nella media o leggermente superiori ed in perfetto stato di salute.
C'erano due pecche in questo sistema.
Uno, venivano associati solo individui il cui DNA era presente nelle banche dati ufficiali, quindi di individui che a diciotto anni si erano sottoposti ad un controllo in uno degli ospedali pubblici del Governo. I controlli erano obbligatori, ma l'omosessualità – il cui gene era sconosciuto – non era rilevabile.
Due, il matrimonio non era obbligatorio, ma veniva effettuato su richiesta. Certo, chi non si sposava aveva un lavoro di più basso rango e retribuito meno, ma a noi due andava più che bene vivere con meno soldi, fintanto che potevamo vivere insieme.
Eravamo ancora prudenti, per certe cose. Lasciavamo sempre il letto sfatto nella camera che non usavamo e io tenevo tutti i miei vestiti ed i miei effetti personali lì, nella stanza in cui dormivamo, mentre i suoi erano nell'altra, quella con il letto perennemente sfatto. A lavoro parlavamo poco o niente, pranzavamo insieme, ma sempre con altre persone e non ci presentavamo mai in nessun posto pubblico insieme. Per esempio, io andavo a incassare l'assegno dello stipendio sempre due giorni dopo di lei.
Quando sentimmo dei rumori provenire dall'atrio al piano terra, era notte fonda.
Io non ci avrei fatto nemmeno caso, se lei non mi avesse svegliato all'improvviso, ordinandomi di mettermi qualcosa addosso mentre raccoglieva i pochi vestiti che aveva in camera mia ed entrava nella sua. Rimasi ad ascoltare il silenzio per parecchi minuti, fino a convincermi che si era sbagliata e che non c'era niente di cui aveva paura.
Fu allora che vennero fatti saltare i cardini della porta di ingresso e cinque militari armati entrarono dentro l'appartamento.
Ci misero in cella con altre tre donne. Ci avrebbero separato, se il problema fosse stato un altro, ma era troppo sconosciuto per rischiare che potesse essere contagioso. Quindi avevano messo cinque persone in una cella costruita per tre. Per la maggior parte del tempo, ignorammo le altre donne, evitammo di parlare con loro. Non potevamo fidarci di nessuno, non sapevamo chi ci aveva tradito e non potevamo più rischiare. Scoprii chi aveva fatto la soffiata solo quando riuscii ad andarmene da lì.
Ci portavano via una alla volta. Ci facevano domande, ci studiavano, ci prelevavano sangue. Non credo riuscirono comunque a trovare una prova di quella che credevano essere una malattia ereditaria, ma non si sarebbero arresi così facilmente. L'avrebbero inventata, una prova, piuttosto che ammettere che non era una malattia.
Eravamo rimaste lì per quattro mesi, almeno. Dei giorni precisi, avevo perso il conto. Vennero due uomini vestiti di bianco. Come se fossero medici, guaritori, come se fossero lì per fare del bene, come se fossero dalla parte del giusto. La portarono via quella mattina ed io aspettai che tornasse e che fosse il mio turno di andare, ma non tornò.
Il giorno dopo vennero a prendere anche me, gli stessi uomini. Mi portarono dentro la solita stanza e la prima cosa che feci fu chiedere ai miei dottori di lei.
Calliope Torres era deceduta il giorno precedente a causa di un infarto cerebrale. Probabilmente, pensai, non ne avrebbe avuto uno a ventotto anni, se non le avessero incollato due elettrodi alle tempie e acceso il generatore.
Cercai di non pensare alla sua morte, a quanto doveva aver sofferto o se invece fosse stata una cosa del tutto indolore. Cercai di non pensare che io ero ancora viva e lei era diventata un problema troppo grande. Cercai di pensare che fosse in un posto migliore, un posto con un po' di giustizia e dignità. Ma sapevo fin troppo bene che un posto del genere non esisteva. Forse, non era nemmeno mai esistito.
Era venuto fuori che Calliope non ce l'aveva fatta per pochissimo.
Infatti, due giorni dopo la sua morte, la parete est dell'ospedale saltò in aria. Fuggimmo tutti così velocemente da creare il panico nei medici che avrebbero dovuto spiegare ai civili perché c'erano delle prigioni e delle guardie armate in un ospedale e ai loro superiori come avevano fatto delle cavie a fuggire da un carcere di massima sicurezza.
Avevo sentito dire che l'esplosione era stata causata da un cavo elettrico che si era bagnato. Da una tubatura del gas. Da un incendio accidentale che aveva corroso dei cavi e venuto a contatto con del gas. Le versioni di quella storia di certo non mancavano, ma io sapevo che nessuna di quelle era neanche lontanamente plausibile.
Non mi importava.
A neanche ventiquattro ore dalla nostra fuga, abbandonai il gruppo di fuggiaschi a cui ero finita in mezzo e decisi di darmi alla macchia, nuova identità e tutto.
La vita che avevo, però, non era paragonabile a quella che avevo avuto.
Erano riusciti nel loro scopo iniziale, perché non c'era più in me alcuna traccia di umanità.


“Si chiamava Calliope.”
Ormai eravamo io e lei da sole, lì dietro, da tre giorni.
Teddy Altman veniva a portarci da mangiare a intervalli di tempo regolari, ma per il resto nessuno di loro parlava con noi.
Avevano fatto un ottimo lavoro nell'illuderci che ci fosse una via di fuga, mentre ci stavano portando a morire.
“È morta più o meno tre mesi fa.”
Percepii i suoi occhi su di me, ma non mi voltai.
“Mi dispiace.”
“Ho vissuto aspettando questo momento. Aspettando che uccidessero anche me. E ora che sta succedendo, mi sento come se avessi dovuto fare di più per gli altri come noi.”
“È un sentimento comune a molti, il tuo” mi informò. “Hai mai sentito parlare del Kingdom?”
Io risi, annuendo brevemente.
“Se credi in quel genere di cose, è una bella idea” continuò. “È un peccato che non sia reale.”
“Quale parte, secondo te, non è reale?”
“Un gruppo di persone che riesce a nascondersi e si organizza per la liberazione di tutti coloro che vengono discriminati e perseguitati, inseguiti, studiati e torturati?” chiese retoricamente. “Sarebbe bello” osservò. “Ma è solo un'idea.”
“Non esistono più le idee” risposi con tranquillità. “Se non te ne fossi accorta, nessuno ne ha più una sua da anni.”
“Tu parli degli ideali.”
“Sì. Ma anche le idee. Ultimamente, la gente pensa solo a quello a cui gli viene detto di pensare, e ci pensa solo nel modo in cui gli si dice di farlo. Non esistono più le idee, Meredith. Tutto quello di cui si parla oggigiorno, è già realtà. Oppure non se ne parlerebbe affatto.”
Si voltò finalmente nella mia direzione, un cipiglio serio in volto.
“Credi che ci stiano portando lì? Nel Kingdom?” domandò.
“Non lo so. No. Non credo. Se anche esistesse, perché avrebbero salvato proprio noi? No, penso che ci faranno saltare in aria la testa.”
“Beh, almeno adesso so quale è l'ultima cosa a cui voglio pensare prima di morire. Il posto migliore di cui parlavamo” osservò.
“Siamo oltre il confine, ormai. Sono passati tre giorni. È questione di poco. E, solo perché tu lo sappia, il Kingdom non esiste” la informai.
Sospirò, allontanandosi dalla parete ed alzandosi in piedi per sgranchirsi le gambe.
“Erano giorni che non camminavo.”
“Dodici, per l'esattezza” la informai, alzandomi a mia volta. “Credo che stia per finire tutto, comunque. Credo che manchi poco.”
Il furgoncino si fermò. Sentii il cuore martellarmi nel petto.
“Signore” l'uomo con i capelli grigi, il Maggiore Sloan lo avevano chiamato, entrò proprio in quel momento, seguito da Hunt, il rosso, e la donna, Teddy Altman. “Assicuratevi che nessuna di loro provi a fuggire.”
Ci mettemmo di nuovo a sedere, nel tentativo di non farci sparare.
Aprì il portellone grande sul retro con una chiave, trascinando il cadavere che avevamo avuto accanto per undici giorni e gettandolo di sotto con pochissima grazia. Era buio, notte fonda, lì fuori.
Richiuse tutto e si assicurò che fosse bloccato. Poi tutti e tre tornarono nella parte anteriore ed il camioncino riprese a muoversi.
“Il Kingdom è solo un'idea” confermai con certezza quello che avevo detto poco prima. “L'ultima idea dell'ultima persona umana che ha vissuto sulla Terra. Ed era una buona idea. Ma non è mai diventata realtà.”
Si voltò. Io chiusi gli occhi.
“Che diavolo sta per succederci?” sussurrò.
Non ottenne alcuna risposta.

“Pensi che andrà mai meglio di così?”
“Non lo so. Probabilmente no.”
“Ti ricordi come era prima?”
Rise, scuotendo la testa.
“Avevamo quattro anni, Arizona. Non ricordo quasi niente.”
“Io sì. Qualcosa me lo ricordo.”
“Cosa, di preciso?” chiese, ancora ridendo, abbracciandomi più forte.
“Mi ricordo che la gente faceva anche altre cose, non cose legate al lavoro, ma cose per divertirsi, cose per cui non veniva pagata.”
“Sport?”
“No, no. Ricordo che la gente leggeva.”
“Leggiamo ancora.”
“Ma non come prima. Leggiamo libri di medicina, quotidiani che hanno dentro solo palesi menzogne, lettere. Ma di libri scritti e letti per passare il tempo, sono anni che non ne vedo in circolazione.”
“Perché i romanzi aiutano la fantasia. E non si vuole più che la gente abbia fantasia. Potrebbe inventarsi cose strane. Potrebbe ricominciare ad avere delle idee. O peggio ancora, degli ideali.”
“Sono sicura che la gente ha ancora delle idee.”
“Raramente” mi corresse. “Non idee che qualcuno non ha messo lì o che qualcuno non ha avuto prima. E le conseguenze sono devastanti. Il progresso è bloccato, la medicina è statica da anni ormai, la tecnologia è diventata quasi solo un bene di lusso.”
“Ecco qualcos'altro che mi ricordo” le dissi. “La televisione, è un'altra cosa che la gente aveva, prima. O anche i computer, ce n'era più di uno in quasi tutte le case. Ogni famiglia aveva almeno una macchina, le navi e gli aerei non venivano usate solo per la guerra.”
“Esatto. Se ne stanno accorgendo, però. Si accorgono che, cercando di potenziare l'evoluzione dell'uomo, stanno finendo per mettere ad essa un freno. Per questo hanno accelerato il processo, perché una volta che tutti coloro che sono diversi saranno morti, una volta che le idee di ciò che eravamo saranno sparite, quando il mondo sarà libero da ogni malattia e difetto, ecco che lasceranno che il cerchio dell'evoluzione possa riprendere.”
“E dopo cinque, dieci, vent'anni” le feci notare “qualcuno sbaglierà qualcosa, creando un'altra serie di individui da rintracciare ed eliminare. Non è così?” domandai retoricamente. “La verità è che non finirà mai.”
“Temo che tu abbia ragione.”
“E allora come si può fermare?”
“Non si può. Lo hai detto tu stessa. Non finirà mai.”
“Non grazie a loro. Ma ci sarà per forza qualcosa che i civili possono fare per bloccare l'estinzione dell'umanità.”
“Un modo ci sarebbe.”
“Quale?”
“Avere un'idea.”


A sette giorni dal confine ci fermammo. Sei soldati, due in più di quelli che avevo contato quando mi avevano catturato, entrarono sul retro. Una di loro era una donna bassa e di colore, doveva essere l'autista. Poi c'era un tizio basso dagli occhi azzurri. Un'altra, i capelli neri e i lineamenti asiatici, era presente alla mia cattura ma non si era mai presa la briga di fare un turno di guardia.
“Potete alzarvi, adesso.”
Io guardai verso Meredith, alzandomi in piedi ed aiutandola a fare lo stesso.
Rimanemmo spalla a spalla davanti al portellone.
“Hai deciso a cosa penserai prima di morire?” domandò, non preoccupandosi nemmeno più di parlarmi a bassa voce.
“Non ho mai avuto un dubbio” la informai. “Voglio almeno morire con un pensiero felice in testa, in modo che avranno perso, perché quel pensiero felice rimarrà lì per sempre.”
Lei rise a bassa voce, soddisfatta da quella risposta.
“Ecco perché penserò a lei.”
Hunt e Sloan aprirono il retro.
Fui abbagliata dalla luce del sole, non la vedevo da due settimane. Feci un debole passo avanti e ricominciai a mettere a fuoco alcune immagini.
Le lacrime mi salirono agli occhi, così guardai in basso, chiudendoli di nuovo.
Almeno, sarei morta con in testa il pensiero più felice che avessi mai avuto.
Sarei morta con in testa lei.
In due secondi mi abituai alla luce, scacciai le lacrime e feci un altro passo in avanti, guardando in alto di nuovo.
Ma, ad un passo dall'uscita, mi paralizzai.

“Oggi mi è successa una cosa strana” mi disse appena varcai la soglia dell'appartamento.
Risi, avvicinandomi per poterla salutare con un bacio.
“Hai commesso un errore? Perché ho cercato di avvertirti del fatto che non sei perfetta” la guardai negli occhi e la mia risata si trasformò in un sorriso dolce. “Beh, o almeno non sei infallibile.”
“Sei divertente” rispose, senza traccia di ilarità nella voce. “No, ma senti questa. Oggi ho avuto un'idea.”
Ripresi a ridere, scuotendo la testa, mentre posavo la borsa ed il giacchetto.
“Te l'ho detto, Calliope. Quelli sono gli ideali.”
“Sì, sì. Come ti pare. Comunque, ne ho avuto uno, oggi.”
“Sentiamo.”
Mi sedetti sul divano e lei si sistemò al mio fianco.
“Ho avuto quest'idea, su questo regno. Un posto lontano da qui, un posto dove nessuno del Governo sarebbe mai in grado di arrivare.”
“Oltre i confini armati?”
“Ben più in là. Un posto in cui la loro legge non valga neanche quanto un foglio di carta macchiato e strappato.”
“E come faresti a organizzare un posto del genere?”
“Beh, prima di tutto, bisognerebbe che riuscissimo a fuggire.”
“Io e te?” risi di nuovo. “No, io e te, Calliope, non arriveremmo neanche fuori dalla porta, se non autorizzate.”
“Ma è un'idea” mi fece notare. “Non importa se è reale, anzi, meglio ancora se non è reale. Una volta fuori dai confini, sarebbe facile. Basterebbe organizzarsi in modo da avere delle case, come in un villaggio, e tutti aiuterebbero per produrre cose da mangiare. Poi, quando saremmo abbastanza numericamente, riusciremmo a trovare un modo per portare altra gente in quel regno oltre il confine, gente come noi. Pensa a quante persone potremmo riuscire a salvare.”
Le sorrisi, vedendo nei suoi occhi quella luce che mi aveva fatto innamorare di lei. Dell'umanità che c'era in lei, nonostante avessero provato, ancora e ancora, a strappargliela via.
“È una bella idea, tesoro. È davvero una bellissima idea.”

Saltai giù dal furgone, ma non feci neanche in tempo a toccare il terreno con i piedi.
Mi prese al volo e strinsi le braccia così forte attorno al suo collo che probabilmente lo stavo soffocando.
“Va tutto bene, Arizona. Sei salva, sei al sicuro adesso. Sei al sicuro.”
Respirai il familiare profumo che aveva e mi lasciai cullare dal calore del suo corpo. Mi era mancato così tanto.
“Tim.”

Mi stavo guardando intorno, camminando come se fossi in una sorta di trans causato dallo shock di trovarmi sul serio lì. Shock che ormai durava quasi da tre giorni.
“Credevo fosse soltanto un'idea.”
“Lo era. Ma era davvero una buona idea” rispose, continuando a seguirmi, rimanendo però due passi dietro di me. “Callie aveva programmato tutto come si deve. Usare una città abbandonata, quassù dove nessuno ormai viene da anni, usare due dottori, infiltrati nella Sede e due militari ai vertici del comando. Quando mi ha chiamato, è stato facile. Aveva tutto pronto. Una lista di nomi di persone in cui riporre fiducia, il posto ideale, tutto quanto. Io ho solo dovuto agire.”
“E come, esattamente?”
“Io ero uno dei due militari” nella sua voce non lessi altro che tranquillità. “Sono sicuro che hai incontrato l'altro. Il Maggiore Sloan. E i due medici, Hunt e...”
“Teddy Altman.”
“Giusto. Gli altri sono venuti dopo. Ci siamo procurati due camion belli grandi, come quello su cui eri tu. Uno di solito gira a vuoto, fa da esca. L'altro ha una copertura parecchio convincente, visto che quattro di loro sono davvero del Governo, come hai potuto constatare.”
“E tu?”
“Io rimango qui. Mi assicuro che tutto vada nel modo giusto. Qualcuno deve sempre sopravvivere, in modo che il Kingdom non possa finire. Callie aveva in mente questo compito per qualcun altro, all'inizio.”
“Per se stessa?”
“Per te.”
Mi voltai, fissando i miei occhi dentro i suoi.
“È morta” dissi, nonostante non ce ne fosse bisogno. “Era l'unica persona che non mi aveva mai voltato le spalle.”
“Arizona, sai che io...”
“No, non ti sto giudicando. E so bene perché lo hai fatto. Ma rimane il fatto che lei è stata l'unica persona a rimanere al mio fianco.”
“Ero giovane. Papà mi aveva offerto un lavoro da sogno su un piatto d'argento, non avevo idea di cosa stessi facendo. Ho scelto la via più semplice, al tempo, ma adesso sto cercando di rimediare.”
“Anche lei avrebbe potuto farlo” sussurrai, voltandomi per riprendere a camminare. “Scegliere la strada più semplice, intendo. Avrebbe potuto trovare un tipo tranquillo e vivere in pace la sua vita, lasciando me indietro” scrollai le spalle come se fosse una conclusione ovvia a cui arrivare. E un po' lo era. “Ma non l'ha fatto. È rimasta, per me. Perché pensava che ne valesse la pena. E capisco perché tu, tutti voi, mi abbiate abbandonato, davvero. Ma rimane che lei non l'ha fatto e adesso è morta ed io non riesco a smettere di pensare a lei neanche il tempo di fare un respiro.”
“Mi dispiace.”
Non risposi. Continuai invece a camminare lungo le strade di quella che sembrava essere una città invisibile agli occhi di chi non ci fosse mai entrato prima.
“Guardati attorno, Tim. Siamo immersi dentro la sua idea.”
“Dentro il suo sogno.”
“No. No, no. Forse questo è quello che veniva chiamato un sogno in passato” i miei occhi continuarono a scrutare ogni dettaglio che riuscivo a scorgere. “Ma per chi vive in questa epoca, in questa civiltà, quella a cui siamo dentro è un'idea. Un ideale, perfino. Qualcosa che nessuno era riuscito più ad avere da un sacco di tempo.”
“Callie lo diceva sempre, non è vero? Nessuno ha più una vera idea da anni, non una che qualcuno non abbia messo lì o che non fosse già venuta a qualcun altro prima. Alla fine aveva convinto perfino me.”
Mi fermai davanti ad una delle case. Mi fermai e mi misi le mani in tasca.
“Mi ha chiesto lei di farne una così” ci tenne a farmi sapere mio fratello.
Io, mentre guardavo la casa con la facciata completamente dipinta di rosa, sorrisi sinceramente per la prima volta da un sacco di tempo.
“Questo sarebbe dovuto essere il nostro posto qui. Era stata una mia idea, sai? Qualche tempo dopo che mi parlò del regno, del Kingdom, io le dissi che volevo una casa così. Una casa rosa. Ha progettato questo, tutto questo, per noi. Per me. Perché potesse portarmi in un posto sicuro, lontano da loro.”
“Lo so. È quello che ha detto a me la prima volta che si è messa in contatto.”
“Non ha mai potuto vederlo, non è così?”
“Doveva portarti via da lì, ma due giorni prima vi hanno preso.”
“Due giorni?” domandai amaramente. “Ci sbagliamo sempre di due giorni. Ci hanno preso due giorni prima che venissimo qui, l'hanno uccisa due giorni prima che esplodesse una delle mura della prigione. Sempre per due maledetti giorni.”
“Non ti aveva detto niente perché non voleva metterti in pericolo. E aveva ragione, visto che hanno deciso di liberarsi di lei. Non dicendoti niente, ti ha salvato la vita.”
“Eppure non desidero mai altro che essere morta anche io, da quando lo è lei.”
“Che farai adesso?”
Ci pensai per parecchi istanti, ma c'era una sola risposta che continuava a venirmi in mente da tre giorni a quella parte.
“Torno indietro.”
Entrai dentro la casa, guardandomi attorno mentre mi dirigevo verso il soggiorno. Mio fratello mi seguì immediatamente.
“Non posso lasciartelo fare. Callie è stata molto chiara riguardo quale sarebbe dovuto essere il tuo posto.”
“Sì, beh, Callie è morta.”
“Questo non vuol dire che io non possa continuare a realizzare questo suo sogno.”
Lo guardai, scrollando le spalle.
“Forse” risposi, camminando per il soggiorno finché fui alle sue spalle. “Ma forse è quello che dovrei fare anche io.”
“Sai, Arizona, lei avrebbe fatto qualsiasi cosa, per te.”
“Lo so.”
“Non è solo un modo di dire. Lei parlava di te come di un tesoro. Qualcosa di così prezioso da essere inestimabile, qualcosa da proteggere. Eri unica, per lei. È una caratteristica che pochi di noi possono vantarsi di avere ancora. La verità è che siamo diventati tutti uguali. Hanno manipolato il nostro pensiero e ci hanno reso delle macchine. In più, stiamo per essere geneticamente pilotati verso una generazione di individui privi da qualsiasi forma di variazione. Se il Governo decidesse domani che tutti i cittadini devono essere biondi, nell'arco di tre generazione non ci sarebbero più persone con i capelli bruni, mori o rossi. Siamo nelle loro mani. Tra venti, cinquanta, cento anni, la parola individuo avrà perso ogni significato perché, di fatto, nessuno di noi potrà essere individuato tra la massa. Saremo tutti uguali, nessuno sarà se stesso mai più. Saremo tutti rimpiazzabili. Tutti, eccetto te. Perché tu hai qualcuno disposto a iniziare una guerra, una civiltà, un intero nuovo mondo, solo per te.”
Si voltò finalmente nella mia direzione.
Ma io ero sparita da un pezzo.
Corsi a perdifiato verso i due enormi camion che avevo visto far rientrare in una specie di garage, salii su uno dei due e partii senza neanche preoccuparmi di prendere uno straccio di arma da fuoco.
Non arrivai lontano.
Due minuti dopo una voce mi fece sobbalzare.
“Che diavolo stai facendo?”
Teddy Altman era appena entrata nello scompartimento del guidatore.
“Devo tornare indietro. Devo far sapere a tutti quelli come me che c'è un posto in cui possono rifugiarsi. Devo fare in modo che il sogno di Calliope si realizzi e che lei non sia morta invano.”
Sentii il rumore di un fucile che veniva caricato alle mie spalle.
“Spegni il motore e allontanati lentamente dal volante.”
“Maggiore Sloan, anche lei è qui. Vivete dentro il furgoncino, per caso?”
“No, stavamo facendo rifornimenti. Dovevamo ripartire domani mattina.”
“Spegni il motore, bionda.”
“No.”
“Ho un fucile carico puntato contro la tua testa. Spegni il motore.”
“No” ripetei con voce ferma.
“Che diavolo significa no?” alzò la voce.
“Significa che non posso” urlai in risposta. “Non posso tornare lì. Ovunque mi volti, lì c'è lei. Mi avete portata lì senza il mio consenso.”
“Perché è un posto sicuro” rispose Teddy pacatamente.
“Voi non capite. Non avete idea di quello che le hanno fatto lì dentro, di quello che hanno fatto a me, di quanto hanno dovuto torturarla e di quanto è stato terribile il giorno in cui non è tornata indietro.”
“Facendoti ammazzare non risolverai un bel niente.”
“Sì, se mentre mi ammazzano riesco a dire a tutti che devono venire qui, che devono scappare, se riesco a dare un'idea, un ideale a tutti loro. Se riesco a risvegliare la loro umanità.”
“Quest'idea è stupida. Ci ammazzeranno prima di arrivare anche solo a metà strada tra il confine e la Sede.”
Avevo notato il fatto che Sloan aveva parlato di un 'noi' e non più di me.
“E se avessi un piano?” insinuai. “Mi dareste una mano?”

Il furgone aveva quattro scompartimenti. Uno, molto piccolo, era quello in fondo, in cui io ero stata rinchiusa a lungo. Subito davanti ce n'era uno con quattro posti letto, ovvero due letti a castello sulle pareti e un piccolo corridoio di spazio in mezzo. Tra quello e lo spazio del guidatore, che aveva due posti a sedere, c'era uno scompartimento con dei posti a sedere che servivano di giorno per le persone che viaggiavano, ed un piccolo tavolo in cui mangiavano.
“Ho la corea di Huntington.”
Alzai lo sguardo verso Owen Hunt, avevo in mano il panino a cui avevo appena dato un morso e un cipiglio preoccupato in viso.
“E tieni in mano un fucile carico?”
“Sono uno dei dottori, di solito non impugno armi. O comunque non armi cariche. E poi, gli spasmi non si sono ancora presentati.”
Annuii, riprendendo a mangiare.
“Miopia” si fece avanti Sloan dopo di lui. “Mi avrebbero sterilizzato. Così ho aiutato tuo fratello a organizzare tutto e quando loro hanno iniziato ad avere dei sospetti me la sono svignata. La copertura regge ancora, però, visto che non mi hanno mai segnalato.”
“E tu, Teddy?”
“Io sono qui per aiutare” mi disse, scrollando le spalle. “Penso soltanto che tutti abbiano diritto alla propria libertà.”
“Nobile, da parte tua. O incredibilmente stupido, dipende dai punti di vista.”
“Io ho la dislessia” mi fece presente Cristina, l'unica che non era seduta con noi a tavolino, ma in uno dei sedili.
“Davvero?” chiesi. “Non si direbbe.”
“No? Perché sono più intelligente della media? Lo prendo come un insulto.”
“Intendevo che di solito le persone affette da dislessia sono più timide.”
“Fanculo la timidezza. Sono fantastica. Non ho motivo di vergognarmi.”
Risi, scuotendo la testa e riprendendo a mangiare.
“E la Bailey?” chiesi a bocca piena. “Anche lei è qui solo perché non voleva perdersi il divertimento?”
Vidi i sorrisi sulle loro facce sparire. Si scambiarono degli sguardi strani, ma nessuno rispose.
“Sono qui per mio figlio” mi informò, entrando in quel momento dallo scomparto anteriore. “Uno di voi deve andare a tenere compagnia a O'Malley mentre io faccio pranzo.”
La Bailey era la conducente ufficiale, ma durante le sue pause pranzo il suo vice prendeva il suo posto. Per il resto, erano sempre loro due lì davanti, ventiquattro ore al giorno.
“Che è successo a tuo figlio?” chiesi, mentre Sloan si alzava per fare quello che lei aveva appena chiesto.
“Mio figlio è nato con una malformazione degli arti inferiori. Gli hanno fatto un'iniezione letale quando aveva meno di sei ore di vita.”
Mi pentii immediatamente di averlo chiesto. Ma adesso potevo capire da dove veniva la freddezza della donna davanti a me.
“Mi dispiace.”
“Davvero?” chiese senza mancare un battito. “Perché stai tornando lì in mezzo, quando avevi la possibilità di scappare. Se avessi avuto io quell'opportunità per Tucker, non mi sarei mai guardata indietro.”
Mi si sedette di fronte, fissandomi con aria dura. Tenni gli occhi sul panino che stavo mangiando.
“Non erano sempre nella schiena.”
Alzò un sopracciglio nella mia direzione, non capendo di che stessi parlando.
“Scusami?”
“Non erano sempre sulla schiena. Erano lì la maggior parte delle volte, però, ed andava bene perché era dove potevo occuparmene meglio, visto che in quel modo non vedevo il suo viso. Facevo finta che non fosse lei la persona a cui stavo versando alcol etilico su ferite appena fatte profonde quasi due centimetri. Usavano un piccolo robottino con pinze di precisione, in modo da non tagliare vene o arterie, per non farla morire dissanguata, perché dovevano interrogarla di nuovo. Era l'unica di noi cinque ad essere torturata. Ora capisco perché.”
Il suo sguardo non era più di disapprovazione, ma di muto dolore.
“Comunque, lei non poteva morire. Così mi davano delle bende e del disinfettante, perché me ne occupassi io, come se loro non avessero avuto tempo da sprecare per tenerla in vita. Quelle sulla schiena erano le più facili, anche se erano fatte con la lama più profonda. Poi c'erano quelle sulle braccia. Potevo guardare in basso, però, far finta che fossero le braccia di un'altra persona. Con il fuoco era più dura. Una volta le hanno marchiato una H sull'addome. Quella fu difficile, perché io adoravo la sua pancia. La H era parecchio diffusa, ne ho una anche io” tirai il collo della maglia verso il basso e verso sinistra, scoprendo una lettera marchiata anche su di me. “Questa qui l'ha disinfettata lei. Aveva le lacrime agli occhi” raccontai. “Ma non è stata la volta peggiore” continuai, sempre con lo stesso tono pacato che avevo dall'inizio. “Una volta tornò e si avvicinò al nostro punto della cella a tentoni. Non poteva aprire gli occhi. Aveva due lunghi tagli che le attraversavano le palpebre, dalla fronte fino agli zigomi. Non riuscì ad aprirli per due settimane. Ma era meglio così, perché almeno non si è potuta accorgere che non avevo smesso mai di piangere finché non aveva ricominciato a vedere. È stato quando le hanno fatto quelle che ha confessato, lo capii all'istante, perfino non sapendo cosa volessero farle dire. Come sempre, aspettarono che le cicatrici guarissero quasi del tutto, prima di portarla di nuovo dentro quella stanza. E non è mai tornata indietro.”
Continuò a guardarmi, a corto di parole.
“Mi dispiace moltissimo per tuo figlio, Miranda. Ma è per questo che voglio tornare lì. Per dire a tutti che c'è un posto sicuro in cui niente del genere accadrà mai ai loro figli o fratelli, alle loro mogli, alle persone che amano.”

Non riuscivo a dormire.
“Non hai davvero un piano, non è vero?”
Alzai gli occhi verso l'ultima persona che mi aspettavo di vedere lì. “No.”
“E quando gli altri se ne accorgeranno tu sarai abbastanza vicina da fuggire a piedi.”
“Già.”
“E ti farai uccidere per niente.”
“Probabile.”
“Ho passato mesi a pensare ad un piano per dirlo alla gente.”
“E ne hai mai trovato uno?”
“Una specie” confermò. “Ci sono buone probabilità che tu non sopravviva.”
“Non importa, Cristina. Sono pronta a correre il rischio, a questo punto.”

Quando entrò nel suo ufficio personale, era furiosa. “Che diavolo ci fai qui dentro, Robbins?”
“Dovevo parlare con te e questo mi è sembrato l'unico modo per riuscirci.”
“Sei una ricercata, sei nell'ufficio della Direttrice della Ricerca Sperimentale del Governo, quindi o sei qui per costituirti o speri di essere uccisa. In entrambi i casi, finirai in prigione e vivrai ancora moltissimi dolorosi, dolorosi giorni.”
“Ho scoperto una cura” buttai lì con noncuranza.
Soppesai la pistola che avevo puntato contro l'uomo seduto alla sua scrivania.
Quello la fece ammutolire per qualche istante.
“Una cura per cosa?”
“Per le persone come me.”
“Questa è una delle battute più divertenti che ti ho mai sentito fare, te lo garantisco.”
“Senti, Hahn, io e te sappiamo molto bene che non è la verità che conta al giorno d'oggi. Basta dire alle persone quello che serve, la maggior parte di loro ci crederà in ogni caso. Immagina se io, che per quanto tutti ne sanno sono ricercata, apparissi in televisione affianco a mio marito e dicessi che la malattia che avevo è stata curata. La maggior parte di loro sarebbe così sollevata da non doversi più nascondere, che verrebbe qui a farsi fare un'iniezione di sua spontanea volontà.”
“Piccolissimo problema. Non c'è alcuna iniezione.”
“Andiamo, Hahn, pensavo fossi più sveglia. Questa cura che hai progettato avrà delle piccole controindicazioni impreviste. La morte nel, diciamo, cento percento dei casi.”
“Stai suggerendo uno sterminio di massa.”
“Non è quello che fate già?”
“Sì, ma tu accelereresti i tempi. E di parecchio.”
“Un bell'affare per te.”
“Che vuoi in cambio?”
“Immunità. Voglio andarmene da quella porta, uscire dai confini di Stato e non guardarmi mai indietro.”
“E che ti fa pensare che io non ti farò uccidere, proprio adesso, per poi rubarti questa brillante idea?”
“Numero uno, l'idea non è mia. Sai, nessuno ha più idee da un sacco di tempo. In realtà questa era una sua idea, io l'ho solo leggermente rinnovata. Lui l'ha già fatto, quasi trent'anni fa, quando Ellis Grey aveva l'Alzheimer” indicai l'uomo contro cui avevo puntato una pistola. “Io non me lo ricordo, ero troppo piccola, ma Merdith Grey ne ha avuto un dettagliato racconto dal padre. Numero due, non mi ucciderai in questo momento principalmente perché ho in mano una pistola carica puntata contro la tempia di tuo marito. Numero tre, fai pure, provaci senza di me, ma non funzionerà. Tutti si fidavano di Ellis perché aveva condotto la ricerca. Nessuno si fiderà di qualcuno scelto da te. Ma io sono il manifesto dell'antagonismo al Governo, una dei soggetti più ricercati. Se io vado in televisione, in radio, su internet, mentre tutti sono a lavoro, se dico di essere Arizona Robbins, allora tutti mi sentiranno proclamare che l'omosessualità è una malattia e che ne sono guarita e mi crederanno.”
Ci penso per parecchi momenti, finché un ghigno si aprì sul suo volto.
“Abbiamo un accordo. Lascia andare Preston e seguimi, Arizona.”
Io guardai verso Burke, seduto alla scrivania della moglie.
“Direttore della Difesa del Governo un cavolo, se sono riuscita a puntarti una pistola alla testa” gli sussurrai con tono spavaldo.
“Non ci saresti riuscita senza l'aiuto di Sloan. Mi fidavo di quel tizio.”
“Già. Callie si fidava di Erica. Guarda quanto è andata a finire bene quella storia.”

“Sei in onda ovunque tra quindici secondi. C'era davvero bisogno di altre sei persone?”
“Non mi fido di voi, Hahn.”
“E io non mi fido di te, eppure ho solo dieci guardie e nessuno fuori da qui.”
“Come da accordo.”
Una luce si accese, era il segnale che ero in onda.
“Buongiorno. Il mio nome è Arizona Robbins e sono sicura che tutti voi siete al corrente del fatto che sono una delle persone più ricercate dal governo. Sono qui oggi perché ho una scoperta sensazionale da rivelarvi.”
Cristina, a quel punto, aveva già fatto svenire tre guardie, Teddy altre tre e la Bailey due. Avevano dei fazzoletti impregnati di un sonnifero liquido che eravamo riusciti a far entrare il giorno prima in cambio di una cospicua mazzetta a uno dei tecnici.
Mark e Hunt stordirono le due guardie personali della Hahn usando due pezzi di metallo staccati da un'impalcatura dello studio. Eravamo stati perquisiti prima di entrare.
I due uomini bloccarono le braccia della Hahn, Teddy le si mise davanti, premendole una mano sulla bocca per impedirle di urlare.
“C'è un posto, situato a nordest del confine Statale, un posto in cui persone la cui vita qui è minacciata possono rifugiarsi. Questo posto si chiama Kingdom.”
George aveva fatto in modo che la trasmissione non potesse essere facilmente interrotta dall'esterno.
“Lì ad ognuno di voi sarà garantita la piena libertà, vi sarà data una casa e nessuno minaccerà mai la vita vostra o dei vostri cari. Chiunque cerchi rifugio dal Governo, lì lo otterrà. I malati non verranno uccisi, ma curati. Chi qui è considerato debole o diverso non verrà sterilizzato, ma aiutato. Esiste una speranza di far crollare questo mondo privo di umanità, ed è una speranza molto semplice. Basta soltanto che tutti voi abbiate un'idea.”
Il collegamento fu bloccato, ma avevamo detto lo stretto necessario.
Mi alzai, tendendo una mano verso Teddy. Lei lasciò andare la Hahn, porgendomi una pistola che aveva rubato ad una delle guardie.
“Callie si fidava di te. E tu ci hai fatto arrestare perché avevi un minuscolo sospetto” caricai la pistola, appoggiando la volata contro la sua fronte. “Perché?”
Mi rivolse un sorriso amaro. “Te la sei giocata bene, Robbins. Complimenti. Sapevo che mi avresti fregato, ma era un'offerta troppo appetibile per essere respinta.”
“Perché?” urlai, ignorando le sue parole.
Scosse la testa, inspirando, come se non lo sapesse neanche lei, o come se fosse ovvio.
“Perché lei aveva scelto te.”
Corrugai la fronte. Il mio braccio si abbassò di sua spontanea volontà, finché fu steso lungo il mio fianco.
“Eri innamorata di lei” sussurrai, riuscendo finalmente a capire la verità.
Mi sorrise beffardamente.
“Comunque vada, diventerò un eroina, oggi” sussurrò con una nota di orgoglio chiaramente presente nella voce. “Se sopravvivo, potrò raccontare la mia terribile esperienza nelle mani dei sovversivi al mondo intero. Se invece mi uccidi, farai di me una martire.”
Afferrai bruscamente la sua camicia, avvicinandomi abbastanza per poterle parlare all'orecchio.
“Puoi scommetterci che ha scelto me” sussurrai con rabbia. “Io ero la sua anima gemella e tu sei una tizia che uccide persone innocenti. E che ha ucciso lei.”
Mi allontanai, guardandola di nuovo negli occhi.
“E martire sia” sussurrò beffardamente poco prima che le sparassi.
Non sapevano che ci fossero altre persone insieme a me. Quando gli agenti del Governo arrivarono, mi portarono fuori di lì in manette. Mi caricarono sul retro del furgone senza un minimo di grazia e partirono alla velocità della luce.
“Riusciremo mai a passare di nuovo il confine?” chiesi a Teddy, quando pochi istanti dopo venne a togliermi le manette.
“Non ho idea di come. Ma, vedrai, in qualche modo torneremo al Kingdom” mi rassicurò.
Ci sedemmo nei sedili della zona giorno, presi posto vicino alla Bailey, che, per una volta, lasciava che fosse Sloan a guidare.
“Che diavolo hai da sorridere?” chiese con aria confusa. Mi voltai per guardarla negli occhi.
Avevo appena ucciso una donna. Eravamo in un mare di guai e non sapevamo come riattraversare il confine. Un mare di gente da lì a poco sarebbe arrivata al Kingdom – o, almeno, ci avrebbero provato – e noi dovevamo avvertire gli altri di iniziare a preparare altri posti letto. Erica Hahn era appena morta perché io le avevo sparato in testa. Suo marito ci aveva probabilmente messo alle costole l'intero esercito del Governo. C'erano un sacco di persone nelle loro prigioni che non sapevamo come salvare.
Non aveva senso che io stessi sorridendo.
“Calliope non è morta invano. Adesso tutti sanno della sua idea.”




Io sto attraversando le 5 fasi del cordoglio post finale della nona stagione. Sono ancora alla prima: negazione. Chiunque volesse unirsi è il benvenuto!


Ritorna all'indice


Capitolo 41
*** La nostra prima vacanza in famiglia ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia...e Trixie che sapendo quanto questa storia è importante per me ha fatto il banner più bello mai visto...grazie di cuore <3

Avvertimenti: -







La nostra prima vacanza in famiglia


Mi ritrovavo davanti a quella porta per la prima volta da anni. L'ultima volta che ero stata lì le cose non erano andate molto bene. Eufemismo del secolo.

Ero in bagno, mi stavo truccando mentre mia madre selezionava i panni per il bucato.
“Che c'è, tesoro? Mi sembri preoccupata.”
“Niente di importante” sminuii, tornando a muovermi.
Per un attimo mi ero fermata a guardare il mio riflesso attraverso lo specchio.
“Stavo pensando a quello che ha detto papà durante la cena.”
Si bloccò per un momento, ma poi riprese a muoversi, praticamente facendo finta di non avermi sentito, selezionando i panni per la lavatrice.
“Non importa, comunque. Ancora meno di un mese e poi me ne andrò da qui e non mi guarderò mai più indietro.”
Si voltò verso di me, incrociando il mio sguardo attraverso lo specchio.
“Come?”
Osservai la sua espressione sorpresa, mentre rimettevo apposto il trucco che avevo usato.
“Che c'è? Credevo avessi capito” fu il mio turno di guardarla con aria perplessa.
“Capito cosa?”
Scossi la testa, voltandomi verso di lei.
“Che non sarei più tornata. Credevo fosse il nostro tacito accordo” le dissi, incredula. “Che non ne avremmo mai parlato, ma che io avrei lentamente tagliato i ponti.”
Appoggiò a terra i panni che aveva sollevato.
“Dici sul serio?” domandò, sedendosi sul bordo della vasca da bagno.
“Mamma” attirai la sua attenzione. “Io te l'ho detto mesi fa. E tu lo hai ignorato. Neanche una parola, per mesi. E hai sentito come la pensa papà stasera a cena. Non tornerò indietro” le dissi, come se fosse ovvio.
Mi guardò negli occhi. I suoi erano vuoti. Non riusciva a capire.
Un paio di mesi dopo partii per il college. All'inizio tornavo una volta ogni due settimane, dopo una volta al mese. Poi una volta all'anno. Poi qualche telefonata. Ma, perlopiù, non ci sentivamo più.
Ero sparita.

“Sembri nervosa.”
“No, non sono nervosa” sminuii. “Non sono nervosa” sussurrai a me stessa.
“Davvero? Perché sei diventata all'improvviso preoccupantemente bianca.”
Deglutii.
“Nessun motivo per essere nervosa” scossi appena la testa, sentendo la bile che mi saliva dallo stomaco alla velocità della luce.
“Esattamente quello che cercavo di spiegarti anche io.”
Fissai la porta davanti a noi.
“Oh mio Dio, non apre nessuno perché hanno percepito la pessima vibrazione che emano fin da dentro la casa, probabilmente a quest'ora già mi odiano” le dissi a denti stretti.
“Sorridi e basta, ok?”
“Mi sono dimenticata come si fa” la informai. “Come sorridere ed apparire affascinante, l'ho del tutto dimenticato. Posso sorridere e apparire inquietante, però. Sì, quella dote c'è ancora.”
“Impossibile, Calliope. Hai un talento naturale per sorridere e apparire affascinante.”
Ed ecco che la nausea si era calmata, proprio nell'istante in cui avevo incontrato il suo sguardo.
Prese la mia mano lentamente nella sua, intrecciando le nostre dita e sorridendomi con quelle sue fossette che non so come riuscirono a farmi sentire calma pur facendo aumentare il mio battito fino all'impossibile.
“Sono solo un paio di giorni, ok?” cercò di consolarmi. “E nessuno di loro morde.”
“Io sono...”
Fui interrotta dalla porta che, finalmente, si apriva.
“Tim” lo salutò con un sorriso.
“Arizona, sei arrivata finalmente. Entrate, dentro c'è già il caos. Tu devi essere Callie. Piacere di conoscerti.”
“Il piacere è tutto mio. Arizona parla molto spesso di te.”
“Sì, beh, non parla di nessuno quanto parla di te. Credimi. Io ne so qualcosa.”
Gli rivolsi un sorriso imbarazzato, la mano di Arizona strinse la mia con più decisione.
“Lasciala in pace, Timothy. Ora, passiamo alle cose importanti. Dove sono i miei nipoti?”
“Di sopra. Venite, sono sicuro che mamma e papà vorranno vedervi, come prima cosa. Poi potete passare agli altri parenti sparsi per la casa.”
Assomigliava molto ad Arizona. Occhi azzurri e le fossette caratteristiche dei Robbins, ma con i capelli più sul castano che sul biondo.
“Sembri spaventata” osservò, sembrando divertito.
“Terrorizzata è più appropriato” lo corressi.
“Non dovresti. Dovevi vedere Jenny quando l'ho portata qui per la prima volta. Sembrava un agnellino in una tana di lupi. È pur sempre vero, però, che per quanto riguarda Arizona non hanno termini di paragone.”
“Tim!” lo riprese la sorella.
“Che vuoi dire?”
“Beh, sei la prima ragazza che Arizona porta a casa. Non lo sapevi?” domandò, sorpreso.
Dallo sguardo preoccupato della mia ragazza ero probabilmente appena scesa di altre due tonalità di bianco.
“Grazie mille, Tim. Adesso non è agitata per niente” lo colpì, piano, su un braccio. “Non preoccuparti, Calliope. Andrà alla grande.”
“Ehi, ti ripeterò quello che ho detto a mia moglie. Non è una sottospecie di test, quindi stai tranquilla, perché nessuno è qui per giudicarti” mi spiegò Tim.
“E lei se l'è bevuta?” domandai, alzando un sopracciglio.
“Neanche per un momento” rispose una donna che stava in quel momento scendendo le scale, diretta verso di noi. “Jenny” si presentò tendendomi la mano.
Io gliela strinsi con un sorriso.
“Callie. È un piacere conoscerti.”
“Anche per me. Sei l'argomento di conversazione principale da parecchi mesi a questa parte” mi fece sapere.
Vidi Tim cercare di farle sottilmente capire di non continuare su quella linea, scuotendo la testa.
Lei ed Arizona si scambiarono un abbraccio veloce.
“Come stai?” chiese educatamente.
“Posso onestamente dire di non essere mai stata meglio. Voi?”
“Tutto bene” rispose con un sorriso.
“Allora” intervenne Tim. “I nostri genitori sono in cucina.”
Sentii una mano di Arizona appoggiarsi sulla mia schiena in modo allo stesso tempo protettivo e rassicurante.
“Prossima fermata: la cucina” mi fece sapere con un sorriso.
“Fai strada” la incoraggiai con un gesto della mano.
“Torniamo dai bambini” propose Tim, trascinando Jenny al piano superiore.
“Ok, amore. Respira. Davvero, non c'è motivo per essere così nervosa” sussurrò quando i due furono spariti.
“Facile dirlo per te. Ma sono io che ho” cercai la parola giusta “corrotto” quella era l'unica che avevo trovato che ci si avvicinava abbastanza “la loro bambina.”
Lei rise, cercando di smettere quando la fulminai con lo sguardo.
“Casomai il contrario, Calliope.”
“Sì, ma questo loro non lo sanno” sussurrai.
Lei cercò di non scoppiare di nuovo a ridere.
“Vieni” mi trascinò verso quella che presumevo essere la cucina, aprendo la porta e trascinandomi all'interno.
Sua madre era ai fornelli, mentre il padre stava sfogliando un giornale, seduto al tavolo dall'altra parte della cucina.
Quando sentirono la porta aprirsi entrambi si voltarono nella nostra direzione.
“Arizona” la madre si allontanò immediatamente dai fornelli, avvicinandosi ad Arizona per abbracciarla. “Sei arrivata, finalmente. Di sopra stanno impazzendo con i bambini” la informò, allontanandosi.
“Mamma, lei è...”
“...Callie” terminò al posto suo.
Le rivolsi un sorriso impacciato e timido, alzando la mano destra verso di lei.
“È un piacere fare la sua conoscenza, signora Robbins.”
“Anche per me, cara. Arizona non fa altro che parlare di te, da un paio d'anni a questa parte” mi disse, sorridendo e abbracciandomi.
Anche se sorpresa, ricambiai il suo abbraccio.
Quando mi allontanai da lei mi ritrovai davanti a colui che era stato per giorni il mio più grande incubo.
“Colonnello Deniel Robbins” si presentò, stringendomi la mano in modo ferreo.
Come suggerito dalla figlia, ricambiai con una stretta decisa ma non arrogante.
“Callie Torres.”
“Allora, come è andato il volo?” chiese, sempre sorridendo, la signora Robbins, tornando verso i fornelli.
Il marito si diresse di nuovo verso il tavolo, sedendosi e riaprendo il giornale.
“Tutto bene. Per quanto un volo possa andare bene per me” rispose Arizona, avvicinandosi per cercare di sbirciare cosa stava preparando sua madre.
“Signora Robbins, vuole una mano?” offrii.
“Chiamami Barbara, cara. E non ce n'è bisogno, è quasi tutto pronto. Dimmi, ti piace cucinare?”
“Oh, mamma, dovresti assaggiare le sue lasagne” Arizona chiuse gli occhi per un momento. “Sono uniche.”
“Mia nonna mi ha insegnato qualche ricetta” minimizzai con un sorriso.
“Anche mia madre ha provato ad insegnarmi” raccontò la bionda al mio fianco. “Ti ricordi, mamma?”
“Sì, sì” confermò. “Ho ancora gli incubi, qualche volta” trattenne a stento un sorriso.
“Il forno non ha mai ripreso a funzionare come prima” intervenne il padre.
“Adesso non esagerate” protestò.
Entrambi si scambiarono uno sguardo, ridendo.
“Sapete, in realtà Arizona sa cucinare” spiegai. “Tuttavia preferisce astenersi dal farlo senza dare una spiegazione plausibile a riguardo.”
“Grazie, Calliope. Finalmente qualcuno che riconosce la mia versione dei fatti” mi prese in giro, sorridendo in modo disarmante. “Non vorrei doverti rinfrescare la memoria sul fatto che, quando ho voluto farlo, sono riuscita a cucinare.”
“Non mi viene in mente niente” arricciai il naso, ma mi tradii ricambiando il sorriso.
“Ho cucinato per te il giorno del tuo compleanno” mi ricordò.
“Giusto. Una cena che aveva un sapore quasi identico a quello del ristorante all'angolo tra l'ospedale e l'appartamento.”
“E per San Valentino.”
“Accendere il forno in cui hai messo il take away non conta come cucinare.”
“E la volta che ti ho preparato la colazione.”
“Oh, sì. Le omelette erano decisamente preparate da te. Uova e zucchero di prima mattina mi avevano fatto svegliare di pessimo umore.”
“Non sapevo dove fosse il sale. Ho visto della roba bianca, non pensavo certo fosse zucchero.”
“Allora sono stata fortunata che non fosse farina?” chiesi, cercando di non ridere.
Lei mi guardò fingendo indignazione.
“È colpa tua. Mi hai viziato.”
“Allora, Callie” intervenne Barbara. “Arizona parla di te come il chirurgo ortopedico migliore che abbia mai incontrato.”
“Beh, potrebbe aver esagerato un tantino.”
“No, invece. Calliope ha creato cartilagine a partire dalla gelatina” raccontò “e ricostruito una gamba ad un uomo. È incredibile nel suo campo, e non lo dico soltanto io.”
“Parla il primario di reparto più giovane del Seattle Grace.”
“Ricostruire una gamba dal niente sembra impegnativo” osservò il Colonnello, gli occhi ancora fissi sul giornale.
“Ho usato un sacco di titanio” confermai. “Sfortunatamente, il paziente è morto mentre stavo sostituendo la struttura metallica con le ossa danneggiate. Aveva un problema agli organi interni e non sono riusciti a tenerlo in vita abbastanza a lungo perché io potessi finire.”
“Titanio?” alzò gli occhi dal giornale. “Interessante. E avrebbe acquisito di nuovo la mobilità originaria?”
“Avrebbe dovuto, almeno. L'avevo progettata in modo che...”
“L'avevi progettata tu?” chiuse il giornale, piegandolo. “Impressionante. Ma ti ho interrotto, continua pure.”
Così spiegai come era costruita, incoraggiata dal sorriso di Arizona e dalla sua mano che teneva la mia.
Parlammo del più e del meno per qualche minuto, finché Arizona disse che voleva farmi conoscere il resto della famiglia, che in quel momento si trovava al piano superiore.
“Sembri meno preoccupata, adesso” disse mentre salivamo le scale.
“Da che lo capisci?”
Mi rivolse un sorriso che non capii subito. Un sorriso che in sé racchiudeva un segreto, una luce nei suoi occhi mi scosse qualcosa dentro lo stomaco.
“Perché io ti conosco.”
Ed io per un attimo rimasi in silenzio a contemplare quella scintilla, la piccola scarica elettrica che mi aveva attraversato il cuore.
“Sai, prima di incontrarti” iniziai, avvicinandomi impercettibilmente “ogni sera chiudevo gli occhi e speravo che il giorno dopo sarebbe stato un giorno decente.”
“E ora?” chiese, salendo uno scalino per potermi guardare leggermente dall'alto in basso.
“Ora chiudo gli occhi ogni sera e so con certezza che il giorno dopo sarà ancora meglio di quello prima.”
Mi baciò velocemente, poi continuò a salire le scale, una mano nella mia ed un sorriso felice sulle labbra.
Arizona aveva un fratello, due cugini e tre cugine. Il fratello di suo padre aveva avuto due maschi ed una femmina, mentre il fratello della madre due femmine. Fortunatamente, ero riuscita ad imparare i nomi prima ancora di arrivare a casa loro, perché, altrimenti, non ce l'avrei mai fatta a ricordare tutto. Tre dei cinque cugini erano sposati, due di loro avevano figli. Anche Jenny e Tim avevano un bambino.
“Se hai qualche dubbio su qualcuno dei nomi, questo è un buon momento per chiedere” sussurrò Tim, avvicinandosi mentre guardavo Arizona giocare con Kyle, il figlio di Tim e Jenny.
“Penso di essere preparata, ma ti ringrazio infinitamente” risposi, anche io sussurrando.
Ridemmo entrambi, mentre guardavamo sua sorella insieme ai quattro bambini.
“Un ripasso veloce” propose. “Arizona mi ucciderebbe se ti lasciassi sbagliare qualcosa.”
“Vediamo, il fratello del Colonnello si chiama Charlie, è sposato con Anne, i figli sono John, Amanda e Trevis. Amanda è sposata con George, ed hanno due bambini, Lily e Jimmy. Poi ci sono Frank e Kate, lui è il fratello di vostra madre. Le figlie, Rebecca e Judie, sono sposate rispettivamente con Hank e Freddy. E Judie e Freddy hanno un bambino, Ted.”
“Impressionante. Hai dimenticato qualcuno, però.”
Gli sorrisi, voltandomi verso di lui e distogliendo lo sguardo dall'oggetto delle mie attenzioni.
“Non mi dimenticherei certo di te, Jenny e Kyle.”
“Io mi riferivo alla sua affascinante fidanzata.”
Risi, fingendo un'espressione stupita.
“Credo che Arizona non mi abbia presentato nessuno con questo titolo.”
“Strano. Sai, non fa che parlare d'altro da anni.”
“Sì, sai Timothy, lo faresti anche tu” ci voltammo in avanti, vedendola sorridere “se avessi lei.”
“Ancora origli le conversazioni dei più grandi, Arizona? Non sei cambiata per niente da quando avevi dieci anni” la rimproverò Tim, ridendo.
“Non stavo affatto origliando. E, tecnicamente, Calliope è più piccola di me. Io e Kyle avevamo qualcosa da chiedere, in realtà.”
Guardammo in basso, verso il bambino che stava tenendo per mano.
“Papà, possiamo guardare un cartone animato?”
“Dopo cena, d'accordo? Adesso andiamo a tavola, altrimenti faremo arrabbiare la nonna” disse, prendendo in braccio il bambino di circa quattro anni.
Ci sedemmo a tavola. Non mi spiegavo dove avessero trovato un mobile così grande, a dirla tutta, ma non mi azzardai a dar voce ai miei pensieri. Solo noi adulti eravamo diciotto, mentre ai bambini era stato dato – per mancanza di spazio – un tavolo a parte, più alla loro altezza.
“Oh mio Dio” sussurrò Arizona “guarda quanto sono carini” mi disse, facendomi voltare in direzione dei suoi nipoti. “Piccoli umani seduti ad un piccolo tavolo.”
Io mi voltai, meravigliata dallo sguardo che aveva lei e dalle sue emozioni, più che dalla scena in sé per sé.
“Che c'è?” chiese, vedendo che la stavo fissando.
Scrollai le spalle, distogliendo lo sguardo.
“Niente” sminuii. “Stavo solo pensando.”
La cena trascorse, tra discorsi di ogni sorta a cui partecipai solo se veniva richiesto direttamente il mio intervento.
“Allora, è stato così terribile?” domandò a bassa voce, mentre ci alzavamo da tavola.
Io risi, alzando gli occhi al cielo in un'espressione di esagerata esasperazione.
“Vuoi sentirmi dire che avevi ragione, vero?”
“Sarebbe carino da parte tua, sì.”
Sorrise, mentre entrambe aiutavamo Barbara a sparecchiare la tavola. Suo fratello la chiamò ed io rimasi in cucina con la signora Robbins.
“Vuole una mano per lavare i piatti, signora Robbins?”
“La lavastoviglie farà tutto il lavoro. Ti ringrazio, cara” mi rivolse un sorriso gentile. “E ti ho già detto di chiamarmi Barbara.”
“Mi scusi. Cercherò di ricordarlo. Allora continuo a sparecchiare” mi offrii.
“Credo sia stato già portato tutto qui. Ma se vuoi puoi sederti con me, mentre aspetto che il primo carico di piatti finisca” propose, indicandomi il tavolino.
Seppur nervosa, accettai con un sorriso imbarazzato.
“Sai, pensavo ci sarebbe voluto più tempo” sospirò, sedendosi.
“Più tempo? Per sparecchiare la tavola?” chiesi stupidamente.
Rise, scuotendo la testa.
“No. Perché Arizona si sistemasse” chiarì, sempre ridendo.
Io le rivolsi un sorriso impacciato, non sapendo se prendere il commento come una critica o come un complimento.
“A meno che tu non sia ancora sicura che questo è quello che vuoi” aggiunse subito, senza lasciar vacillare il proprio sorriso. “So che la nostra famiglia può essere difficile da gestire. Abbiamo fatto scappare parecchie delle fidanzate di Tim e Arizona non ha mai considerato nessuna tanto speciale da decidere di farcela conoscere.”
“In confidenza” replicai “io e Arizona ne abbiamo passate tante, ma io non ho intenzione di andarmene proprio da nessuna parte. E spero neanche lei. Ma so che non la renderebbe felice se la sua famiglia non mi ritenesse all'altezza, al contrario. E potrebbe addirittura spingerla a chiedersi se in fondo lo sono davvero. E, metterò le carte in tavola, non lo sono.”
Mi guardò con sorpresa, entrambe le sopracciglia alzate in un'espressione che ricordava moltissimo quella della figlia, ma il sorriso rimase fermo in posto.
“Nessuno lo è” continuai. “Arizona meriterebbe” scrollai le spalle “meriterebbe qualsiasi cosa fosse mai in grado di desiderare. Ai miei occhi, nessuno è abbastanza per lei. Ma io ci provo e proverei a darle la luna, se la volesse.”
“Ed è proprio da questo che si riesce a vedere” appoggiò una mano sulla mia, sopra il tavolo “che sei più che abbastanza, per lei. Ma che ti fa pensare di non esserlo?”
Distolsi lo sguardo. Lanciai un'occhiata di sfuggita verso la porta, poi di nuovo incontrai i suoi occhi.
“La mia famiglia non è così. Non sono gentili come lo siete voi. Io non parlo spesso di loro ad Arizona e quando lo faccio finiamo sempre entrambe per piangere. Ho una stipendio da specializzanda, però so che a lei non importa proprio niente dei soldi, almeno questo sono riuscita a capirlo. La mia vita prima di lei è stata un disastro. Lei è arrivata quando stavo arrancando nel buio ed è stata come un lampo di luce. Letteralmente.”
Le sorrisi, cercando di spiegarle come meglio potevo cose che neanche io riuscivo a capire fino in fondo.
“All'inizio mi ha quasi accecata, perché non ero abituata alla luce. Quando ero immersa nell'oscurità, pensavo che non riuscire a vedere fosse meglio, perché così i mostri che avevo attorno non potevano spaventarmi. Così ho chiuso gli occhi e per un sacco di tempo ho fatto finta che fosse ancora tutto immerso nelle tenebre. Ma poi, quando finalmente ho aperto gli occhi, non c'erano mostri. Lei li aveva già sconfitti tutti.”
“Tesoro, sono sicura che anche tu hai sconfitto i suoi. Arizona raramente riesce ad aprirsi con altre persone. Ma lo ha fatto con te, perché ha visto qualcosa in te di così speciale da farle abbassare le difese che ha passato una vita a costruirsi. E il rischio ne valeva la pena, perché posso assicurarti di non averla mai vista così felice. Dici che lei ha fatto luce attorno a te. Beh, io credo che tu abbia fatto luce dentro di lei.”
“Calliope, vieni a vedere cosa...” aprì la porta, ma si bloccò vedendoci lì sedute, entrambe con espressione seria e le lacrime agli occhi. “Ho interrotto qualcosa?”
“No” rispose Barbara alzandosi. “Io e Callie avevamo giusto finito. Le ho chiesto di tenermi compagnia mentre il primo carico di piatti finiva di essere lavato.”
Passando accanto alla figlia, posò una mano sul suo braccio e le sussurrò qualcosa che non capii molto bene.
“Perché non mi aspettate in soggiorno? Cambio i piatti che sono dentro e vi raggiungo.”
Io annuii, alzandomi e tenendo aperta la porta per Arizona mentre usciva. Feci altrettanto, bloccandomi immediatamente a causa del fatto che si era fermata a neanche due passi dalla cucina, andando quasi a sbattere contro di lei perché stavo tornando a testa bassa verso il soggiorno.
“Che c'è?” domandai ingenuamente.
Lei si alzò in punta di piedi e mi baciò sulle labbra.
“Non so che hai detto a mia madre per farle avere quel sorriso mentre mi diceva che sei quella giusta, ma ripeterò ancora per una volta che io avevo ragione quando dicevo che ti avrebbero adorato.”
Io annuii distrattamente, abbassandomi per baciarla di nuovo.
“Non mi stai più ascoltando, non è vero?”
“Sai che diventa difficile concentrarmi se mi baci” riuscii a farla ridere. “Aspetta. Che ha detto esattamente tua madre?” domandai, tornando improvvisamente seria.
“Le parole esatte? 'Lei è quella giusta'. Non che non lo sapessi già, ovviamente” mi disse con fare sicuro, quasi compiaciuto.
“Lo spero bene” le rivolsi un finto sguardo minaccioso, tradito però dal sorriso che avevo sulle labbra.
Lei mi baciò un'ultima volta, prendendomi per mano e portandomi verso il soggiorno.
“Allora, cos'era che volevi farmi vedere?” chiesi mentre entravamo.
“Guarda” con un cenno della testa indicò il divano, dove i bambini si erano addormentati guardando un cartone animato, Lily aveva la testa appoggiata sulla spalla del fratello, Jimmy, più grande di un paio d'anni, mentre Ted aveva la testa appoggiata sulle gambe di Lily e Kyle era seduto affianco a Jimmy, con le ginocchia al petto e un'espressione angelica sul viso.
Mentre li stavamo ancora guardando, Tim si affrettò a scattare una foto, sparendo subito dopo per mostrarla alla madre, in cucina.
“Che c'è?” chiesi qualche momento dopo essermi accorta che Arizona mi stava fissando.
“Credo che dovremmo comprare tavolini più bassi della media e videocassette dei Pokémon.”
Io risi, preparandomi a una battuta sulla sua infantilità, ma quando voltai la testa di lato la voglia di ridere mi passò all'improvviso.
“Dici sul serio?” sussurrai.
“Mai stata più seria in vita mia.”
Cercai dentro i suoi occhi per diversi momenti, ma non trovai traccia di dubbio. Presi una sua mano con la mia e ne accarezzai il dorso con il pollice.
“Sai che andrei in capo al mondo, al tuo fianco.”
“Beh, ho detto dieci” mi fece notare “quindi dovremmo iniziare presto.”
Io sorrisi.
“Abbiamo tempo. Tu hai ventinove anni, io ne ho ventisette. C'è un sacco di tempo.”
“Le persone che dicono così non iniziano mai abbastanza presto e si ritrovano a fare le cose all'ultimo minuto. Non sto dicendo che voglio avere un bambino domani. Sto solo dicendo che credo che dovremmo iniziare a parlarne.”
“Va bene” acconsentii. “Sono felice di sentirti dire qualcosa del genere, lo sai? Avevo paura che non avresti mai più toccato l'argomento. Ed io non l'avrei fatto. Voglio dire, io sono felice. Lo sono davvero. Tu mi rendi felice.”
Stava per rispondere quando sua madre e suo fratello ci si affiancarono.
“Non potevo perdermi l'immagine dal vivo” spiegò Barbara.
“Di che stavate parlando?” chiese invece Tim.
“Bambini” rispose brevemente Arizona.
Sia lui che la madre si voltarono verso di lei. Finse di non accorgersene, continuando a guardare i quattro sul divano.
“Si è fatto tardi, uh? Andiamo in albergo, così domani mattina possiamo essere di nuovo qui per aiutare con il pranzo” mi propose dopo qualche minuto.
“Certo. E non accetterò un no sull'aiutarla in cucina, domani, signora Robbins.”
“Barbara” ripeté per la terza volta, sorridendomi e guardandomi come aveva fatto in cucina qualche minuto prima.
“Barbara” concessi, ricambiando il sorriso.
Salutammo tutti, uscendo e salendo in macchina, non facendo neanche caso al freddo del Maryland, abituate come eravamo a Seattle.

Mi sdraiai, avvicinandomi a lei e avvolgendola tra le braccia. Immediatamente, si voltò nella mia direzione, aprendo gli occhi per cercare i miei. Le nostre gambe si intrecciarono senza che neanche lo notassimo, mi passò le braccia attorno al collo, immergendo le mani tra i miei capelli. Io le accarezzai la schiena mentre la baciavo sulle labbra.
“Sono innamorata di te.”
“Sono innamorata di te anche io” rispose con il sorriso chiaro nella voce, ma senza allontanarsi neanche di un centimetro.
“Ti ricordi quando ci siamo conosciute?” chiesi, tra un bacio e l'altro. “Sono passati, quanti, quattro anni?”
“Quasi cinque” rispose, troppo distratta dal fatto che ci stavamo baciando per chiedersi dove quel discorso sarebbe andato a finire. “Tu eri a Seattle per fare domanda per iniziare la specializzazione di lì a poco.”
“Quasi cinque” concessi. “E i primi due anni sono stati, lo sai...”
“Turbolenti?” offrì.
“A intermittenza” proposi io. “Per la storia dei bambini, o prima ancora perché ero inesperta. E poi la borsa di studio e l'Africa.”
“Già” sospirò. “Sai, non te l'ho mai detto, ma sono felice che ci abbiano rispedito a casa dopo tre mesi per evitare un problema a livello internazionale.”
“Se avessero lapidato due donne americane in Malawi gli Stati Uniti probabilmente non avrebbero reagito positivamente” concordai.
“Tutto quanto per un bacio a stampo, poi.”
“Mi dispiace, sai? So che era il tuo sogno.”
“Non devi scusarti. Sono io che ho baciato te. Io che potevo benissimo scegliere se stare con te o rimanere lì.”
“Spero che tu sia ancora convinta di aver fatto la scelta giusta.”
Sentii la sua risata cristallina.
“Ti prego, Calliope. Non era una scelta, era uno scherzo. Non avrei mai scelto l'Africa piuttosto che te.”
“Comunque” ripresi il discorso. “Da più di due anni viviamo insieme. E” ricominciai a parlare, ma fui interrotta.
“Solo perché era stupido riaffittare il mio vecchio appartamento quando siamo tornate.”
“No, sta zitta” la rimproverai, fingendo un broncio. “Ci ho messo una settimana per raccogliere il coraggio di chiedertelo, non rovinarmi quel momento, ok?”
“Ci hai messo una settimana?” domandò, ridendo. “Per chiedermi di trasferirmi in un appartamento in cui praticamente già vivevo prima che andassimo laggiù, quando siamo tornate dopo tre mesi in cui avevamo vissuto insieme, ti è servita una settimana per riuscire a chiedermi di trasferirmi da te?”
“Ok, smetti di ridere. Ti ho chiesto di non rovinarmi quel momento” protestai. “E poi, senti, tu mi avevi reso insicura.”
“Io?” chiese, con stupore, ma rafforzando la presa sui miei capelli per ricominciare a baciarmi.
“Tu” la accusai, baciandola sulla punta del naso. “Con la storia della neonata e il ristorante francese e non parliamo neanche della pound cake.”
Mi fece tacere nell'unico modo efficace. E nel mio modo preferito.
Poi si allontanò, aprendo gli occhi.
“Sei la persona più fantastica che io abbia mai conosciuto. O incontrato. O visto di sfuggita. O neanche mai visto, in realtà. Sono abbastanza sicura che non ci sia nessuno al mondo tanto fantastico quanto te, Calliope. Quindi non dovresti mai essere insicura. Sei l'ultima persona sulla Terra che dovrebbe essere insicura.”
Io risi, baciandola ancora una volta, mentre mi spostavo sopra di lei, guardandola negli occhi dall'alto e sorridendole.
“Ti dimostro subito quanto sono fantastica” risposi. “In modo da toglierti ogni dubbio che potresti avere a riguardo.”
“Non sembri più molto insicura” sussurrò al mio orecchio con voce roca, una sua mano tra i miei capelli, mentre l'altra scivolava sulla mia guancia, lungo il mio collo e si soffermava sulla mia spalla.
“Non lo sono più da un pezzo. Non da almeno due anni e mezzo a questa parte. Non da quando sono sicura dell'unica cosa che conta. Di avere te.”
Inspirando lentamente lasciò che la sorpresa svanisse prima di baciarmi in un modo che mi fece capire indubitabilmente che, almeno per quella sera, la conversazione non sarebbe proseguita ulteriormente.

Ad aprire la porta fu di nuovo Tim.
“Ragazze” salutò entrambe con un bacio sulla guancia. “Mamma e papà in cucina, i bambini sono di sopra, gli adulti sono in soggiorno.”
“Vado di sopra.”
“Io vado in cucina.”
“Ok. Vengo a salvarti tra qualche minuto” mi disse sorridendomi. “Porto il regalo a Kyle.”
“D'accordo, io cerco tua madre. Avevo promesso di aiutarla con il pranzo.”
Le porsi il pacco che avevo in mano. Mi baciò a stampo sulle labbra, dirigendosi verso le scale prima che avessi modo di dirle che la bottiglia di vino che aveva in mano, intanto, potevo almeno portarla in cucina.
“Davvero carina mia sorella a piantarti in asso.”
“Tranquillo. Vai pure a goderti un po' di tempo tra gli adulti, visto che ieri hai fatto l'intrattenitore ufficiale dei bambini e lascia che Arizona gestisca le cose, per un po'. Vado a salutare i tuoi genitori, ok?” lo rassicurai, sparendo poi in direzione della cucina.
Quando entrai, di Barbara non c'era traccia. Suo marito era però seduto al tavolo, il giornale tra le mani. Alzò gli occhi, accennando un sorriso.
“Callie.”
“Signor Robbins, buongiorno. Volevo sentire se sua moglie aveva bisogno di aiuto.”
“È andata in bagno. Puoi sederti con me, mentre la aspetti.”
Io annuii, sentendo le mani che iniziavano a sudarmi. Mi sedetti difronte a lui, deglutendo quando richiuse il giornale, togliendosi gli occhiali da lettura e fissando gli occhi azzurri identici a quelli dei figli su di me.
Deglutii, raccogliendo il coraggio per dire quello che sapevo di dover dire.
“So che non le piaccio. L'ho capito. E lo rispetto.”
Lui non si mosse, nemmeno di un millimetro.
“E, sinceramente, posso capire perché. Sono sicura che anche io odierò chiunque mia figlia porti a casa, indipendentemente dalla persona che potrei avere davanti. E di certo non saprei spiegarle perché Arizona ha scelto me. Lo capisco a malapena io, la maggior parte dei giorni.”
Continuò a guardarmi con aria imperturbabile.
“Io non sono perfetta. Ed io e Arizona eravamo molto diverse. Volevamo cose diverse. I nostri sogni non solo non erano uguali, ma si intralciavano l'un l'altro. Le nostre non erano vite compatibili. Non all'inizio. E quindi abbiamo distrutto tutto. Tutto quanto. Le nostre vite, i nostri sogni, perfino alcune delle nostre più profonde idee, abbiamo raso tutto al suolo. E poi, iniziato a ricostruire tutto. Perfino quelle cose che volevamo tenere fin dal primo momento, le abbiamo rifatte da capo insieme. So che suona complicato. E lo è stato davvero. Ma ci siamo piegate. Perché un compromesso era meglio di niente. Perché ci amiamo così tanto che l'espressione 'non potrei mai vivere o respirare senza di lei' da modo di dire è passata ad essere letterale quasi senza che ce ne accorgessimo. Mi sono piegata per lei, riguardo cose su cui non pensavo di potermi piegare. Ma anche se lei domani decidesse che ne ha avuto abbastanza e decidesse di andare via, io non rimpiangerei mai niente. E continuerei a pensare che ne valeva la pena. Anche nei momenti peggiori, ne è sempre valsa la pena. Perché io la amo con tutto il mio cuore e voglio stare con lei.”
Mi guardò, l'espressione seria, ma non sembrava preoccupato o arrabbiato. Sembrava che a malapena mi avesse sentito.
“È una frase impegnativa, sai?” chiese, rimettendosi gli occhiali e riprendendo in mano il giornale che stava leggendo qualche minuto prima. “Le persone che si amano si lasciano tutto il tempo. E si mentono, si tradiscono, si sfuggono. Se vuoi stare con lei, rimanere insieme a lei, significa che non farai errori del genere. Non sarai incostante. E quindi la amerai ogni giorno esattamente come la ami oggi.”
“Sissignore” risposi stupidamente.
“È una promessa importante” mi fece notare, il giornale aperto tra le mani, ma gli occhi fissi dentro i miei. “La vita insieme a una persona è difficile. Per questo tutti si promettono amore ma non dicono mai quello che tu hai avuto il coraggio di ammettere. Che vuoi stare con lei. Perché ci saranno giorni in cui vorrai fuggire. ”
“Ma rimarrò. E la amerò lo stesso.”
“E ci saranno giorni in cui vorrai arrenderti.”
“Continuerò a lottare, come ho promesso a lei che avrei fatto. Finché lei me lo permetterà io non vorrò mai altro, non combatterò mai per altro che non sia lei.”
“Come ho detto, è una promessa impegnativa. Dove sta andando questo discorso?” domandò, osservandomi con attenzione.
Inspirai affondo.
Il discorso che mi ero preparata era andato, sparito nel nulla. Quindi l'unica possibilità che avevo era improvvisare.
“Ci sono stati giorni in cui sua figlia era insopportabile.”
“Credevo che volessi piacermi” scherzò, l'ombra di un sorriso passò sul suo volto per la prima volta.
“Dico davvero. Ci sono stati giorni in cui era irragionevole, quando era nervosa cercava di litigare con me perché sapeva che io le avrei perdonato qualsiasi cosa e le persone con cui era davvero arrabbiata invece no, quindi si sfogava con me. E giorni in cui si chiudeva in se stessa, ed io ero lì a tenerla per mano cercando disperatamente di non chiederle cosa non andasse, perché sapevo che mi avrebbe allontanato ancora di più. Giorni in cui non riusciva a parlarmi di quelle paure che la attanagliavano e che ho dovuto scoprire una alla volta. Ed ognuno di questi giorni, ognuno, io la guardavo e pensavo che anche se non ci fosse stato mai più neanche un solo giorno in cui riusciva a sorridere, andava bene lo stesso. Finché lei era lì, ed io ero lì, finché eravamo insieme, io non avrei potuto chiedere di meglio. È un pensiero egoista, me ne rendo conto. Ma, sa che le dico? Con il passare del tempo, Arizona ha iniziato a raccontarmi dei suoi problemi invece di cercare di litigare, a parlarmi invece di chiudersi in sé, a dirmi cosa dovevo fare per scacciare via le sue insicurezze. E lei ha fatto questo, e ancora di più, per me. Sua figlia è l'amore della mia vita. E so che lei è molto importante per Arizona.”
Continuò a guardarmi attentamente, cercando di capire dove sarei andata a finire, senza però muoversi neanche di un millimetro, non lasciando trasparire neanche l'ombra di un'emozione dal suo volto.
“Per questo avevo programmato di chiederle” frugai velocemente in entrambe le tasche del giacchetto che avevo ancora addosso. “Di chiederle la mano di Arizona” terminai appoggiando una piccola scatola rivestita in raso sul tavolino.
Abbassò gli occhi, guardando verso il piccolo oggetto quadrato, ma altrimenti non muovendosi minimamente. Poi riportò lo sguardo dentro il mio.
“Non hai mai avuto bisogno della mia approvazione” mi spiegò. “E non avevi di certo bisogno di chiedermela, ma l'avevi comunque già da prima che ti incontrassi di persona” aprì il giornale, riportando gli occhi sulle pagine che poco prima stava leggendo. “E non ho mai detto che non mi piaci.”
Quando la porta si aprì fui velocissima a far sparire l'anello. Arizona e Barbara entrarono ridendo per qualcosa che si erano dette. La bionda aveva ancora in mano il vino.
“Papà, Calliope ha portato una bottiglia del tuo vino preferito. Ne ha trovata una qualche giorno fa su internet, ma ieri ce la siamo dimenticata in albergo. Quindi eccola qui” gliela porse con un sorriso.
Suo padre, la cui espressione per me era indecifrabile, prese la bottiglia incrociando lo sguardo della figlia il minor tempo possibile.
“Grazie tesoro. E grazie mille anche a te” mi sorrise, alzando lo sguardo nella mia direzione. Io annuii, ancora perplessa.
“Papà” Arizona aveva un'espressione confusa. “Hai gli occhi lucidi. È successo qualcosa?”
“No. No, soltanto” si alzò in piedi. “Tua madre avrà di nuovo usato troppo basilico, sai che l'odore mi disturba. E oggi non sembra proprio che riuscirò a finire di leggere il mio giornale” si diresse verso la porta.
Arizona mi guardò con aria interrogativa, io mi strinsi nelle spalle, onestamente confusa da quello che era successo.
“Callie” pronunciò il mio nome per la prima volta, facendo voltare entrambe. Tenne lo sguardo basso per qualche istante, guardandomi poi mentre annuiva per farmi capire l'autenticità delle parole che stava per pronunciare. “Sei un brav'uomo nella tempesta.”
Senza aggiungere altro, uscì dalla stanza.
Arizona mi stava guardando con meraviglia, perfino Barbara si era voltata nella mia direzione. “Qualsiasi cosa tu gli abbia detto, ha funzionato, cara” mi sorrise Barbara.
“Ah, sì?”
“Sì. Era quasi commosso.”
“E poi mio padre non usa quasi mai quel complimento. Lo ha detto a me solo un paio di volte, Tim se ne è beccato qualcuno quando è partito per l'Iraq, ma persone che non sono sangue del suo sangue, non ottengono queste parole.”
“Hai fatto davvero colpo tesoro” concluse Barbara con un occhiolino verso di me e avvicinandosi poi ai fornelli.
Io guardai il sorriso di Arizona.
Certo. Certo che ne era valsa la pena. Anche solo per poterla vedere tutti i giorni avrei dato qualsiasi cosa. E lei voleva stare insieme a me. Quindi sì, ne valeva la pena.

“Ieri hai detto che non avresti più sollevato l'argomento” iniziò dal niente, mentre sistemavamo il letto per andare a dormire.
“Cosa?” domandai distrattamente.
“Quando parlavamo di bambini” chiarì, facendomi alzare lo sguardo. “Hai detto che non ne avresti più parlato.”
Scrollai le spalle.
“Come ho detto, mi rendi felice. Sono felice. Soltanto con te posso esserlo, e non mi serve nient'altro. Sono riuscita a capirlo, adesso.”
“Ma vuoi ancora un bambino.”
Non era una domanda.
Scrollai le spalle per la seconda volta, prendendo la maglietta che usavo per dormire da sotto il cuscino e togliendomi quella che avevo indossato quel giorno.
“Non puoi biasimarmi per quello. Non posso controllarlo.”
“Nemmeno io.”
“Lo so” risposi immediatamente, un po' sulla difensiva. “Lo so. Ed è per questo che non pretendo che tu voglia un bambino o meno.”
“Ti ho detto...”
“So quello che hai detto. Ma io mi ero appena messa tra te e un tizio con una pistola carica in mano, quello che hai detto allora per non perdermi non conta.”
“Certo che conta” protestò, corrugando la fronte mentre si toglieva jeans e maglietta e li rimpiazzava con una felpa della Hopkins.
“No, invece. Ma se lo dici adesso...”
“Lo sto dicendo.”
“...che l'adrenalina è passata, io non posso far finta di non sentire. Quindi meglio per te che tu dica sul serio.”
Fece il giro del letto mentre io indossavo una maglietta ed un paio di pantaloncini che usavo di solito per dormire.
Mi prese delicatamente le mani con le sue e mi guardò negli occhi.
“Voglio un figlio insieme a te. Non perché è quello che vuoi anche tu e così è più semplice. Non perché sono in quel periodo del mese in cui sono emotiva. Ci ho pensato parecchio negli ultimi due anni, e credo davvero che ora siamo pronte. Non domani, ma presto. Molto presto. Potremmo prendere un appuntamento quando torniamo per gli esami preliminari, scegliere la tecnica che vogliamo usare, fare le cose con calma. Niente pressioni se non sei pronta. Ti sto solo facendo sapere che io lo sono.”
“Dici sul serio?”
Annuì.
La abbracciai, piegando le ginocchia per essere all'altezza giusta per baciarla e sollevarla da terra allo stesso tempo, sentendola ridere mentre la abbracciavo ed inspiravo il suo profumo.
“Quanto ti amo” sussurrai.
“Quanto mi ami?”
“No, no, non si può misurare.”
Rise mentre le facevo di nuovo appoggiare i piedi sul tappeto.
“Perché non ci provi?” sussurrò, allontanandosi solo per rivolgermi un'occhiata eloquente mentre si sedeva sul letto.
“Più del numero delle stelle” mi abbassai, baciandola sulle labbra. Mi sfuggì, indietreggiando per mettersi comoda con la testa sul cuscino. “Più della luce del sole” mi affrettai a seguirla. “Più delle gocce d'acqua in tutti gli oceani” sussurrai al suo orecchio, baciandola sul collo. “Più dei granelli di sabbia di tutto il mondo.”
Sentii le sue mani afferrarmi i fianchi sotto la maglietta. Quando mi sollevai per guardarla aveva gli occhi chiusi. Una mano si spostò tra i miei capelli.
“Più dei millimetri di distanza da qui alla luna” terminai.
“La somma di tutte le cifre che mi hai dato?” domandò aprendo gli occhi, con un sorrisetto soddisfatto in viso.
Io scossi la testa, vedendola avere un attimo di confusione.
“La moltiplicazione.”
Lei mi fece rotolare sulla schiena, prendendo il controllo della situazione.
“Ti ho reso così sdolcinata e melensa.”
“Mi hai reso dolce e romantica” protestai.
“Sei sempre stata dolce e romantica.”
“No, non è vero.”
“Lo eri” rimarcò con convinzione. “Solo che nessuno lo sapeva. Neanche tu” spiegò, sorridendo ancora una volta e poi baciandomi di nuovo.
“Me lo hai chiesto tu” le feci notare.
“Un 'davvero, davvero molto' sarebbe bastato.”
“No, invece. Io ti amo parecchio di più che davvero, davvero molto.”
“Anche io ti amo di più che davvero, davvero molto” rispose, mentre il suo sorriso diventava dolce e il discorso che doveva essere spiritoso trovava conferma della sua profonda verità dentro i miei occhi. Sapeva che avevo detto sul serio ogni singola parola. “Calliope, anche io ti amo in tutti quei modi.”
“Sì?” domandai.
“Sì” confermò senza la più piccola esitazione.
“E quali sono tutti questi modi? Mi ami tanto da avere un bambino con me?” con un movimento deciso tornai sopra di lei.
“Sì” mi sorrise.
“E tanto da comprare una casa dal mutuo trentennale insieme a me?”
“Certo” rise, pensando forse più alla parte economica che al fatto che trent'anni di mutuo significavano altri trent'anni insieme.
“Tanto da farmi scegliere la nostra prossima macchina?”
“Tutto quello che vuoi” promise in un secondo, baciandomi sul collo.
La sentii accarezzarmi i capelli con una mano, l'altra appoggiata sul mio fianco.
“Tanto da volerti svegliare al mio fianco tutte le mattine per il resto della tua vita?”
“Lo spero. Ma è improbabile che nessuna delle due abbia mai più un turno di notte” rise, tornando a guardarmi negli occhi.
“Tanto da promettere di amarmi anche quando non mi sopporti?”
“Io ti amo sempre. Ti amavo anche quando odiarti sarebbe stato più facile. Ti amo, Calliope” mi rassicurò, anche se non capiva il perché di tutte quelle domande ed iniziava un po' a preoccuparsi di dove sarei andata a parare.
“Mi ami abbastanza” sussurrai contro il suo orecchio, poi la baciai sullo zigomo, sulla guancia, sul mento e infine sulle labbra “da volermi sposare?” domandai, fissandola negli occhi e cercando di registrare la sua reazione.
Le sue labbra erano dischiuse in un'espressione di stupore. Lentamente si richiusero, mentre i suoi occhi scrutavano i miei in cerca di una conferma.
“Sì” rispose senza mancare un battito. “Lo farei.”
“Non ti sto chiedendo se lo faresti” le spiegai. “Ti sto chiedendo di farlo. Adesso. Cioè, non di farlo adesso, ma te lo sto chiedendo adesso” blaterai nervosamente. “Aspetta. Sto sbagliando tutto. Non era così che avrei voluto farlo” chiusi gli occhi per un istante. “Mi sto rendendo ridicola, non è vero?” aprii un solo occhio, osservando la sua reazione.
Lei mi stava guardando, gli occhi leggermente sgranati.
“Cos'è che mi stai chiedendo adesso?” chiese molto lentamente.
Deglutii. Non stava andando bene.
“Vuoi sposarmi?” ormai non potevo rimangiarmelo. “Ok, non fa niente. Fai finta che non lo abbia mai detto, ok? Torniamo invece al discorso romantico sui millimetri di distanza da qui alla luna e continuiamo da lì.”
“No, non puoi rimangiartelo” mi fece sapere. “Troppo tardi. Avresti dovuto pensarci prima, Calliope. Ormai me lo hai chiesto. E quindi dovrai accettare il fatto che sto per darti una risposta. Sì, voglio sposarti. Sì, ti sposo stasera, domani, tra un mese, un anno. Ti sposo il minuto esatto in cui mettiamo di nuovo piede a Seattle. E non puoi rimangiartelo.”
“Non voglio farlo” risposi, ancora paralizzata dal fatto che la domanda mi era più o meno uscita dalla bocca senza che me ne accorgessi o avessi il tempo di fermarla. Ma, con il senno di poi, andava bene così.
Mi afferrò il viso con entrambe le mani e mi baciò.
“Aspetta” protestai, ma lei non mi lasciò allontanare.
“Qualsiasi cosa sia” la sentii tentare di togliermi la maglietta “può aspettare.”
Non trovai la forza di protestare.

Mi ero sdraiata di nuovo solo da un paio di minuti.
Iniziò a stirarsi mentre la guardavo. Rafforzai la stretta sulla sua mano e la baciai sulla spalla un paio di volte.
“Buongiorno” sussurrai.
Sorrise ancora prima di aprire gli occhi.
“Ho fatto un sogno” disse come se mi stesse confidando un segreto. “E spero più di qualunque cosa che non fosse un sogno.”
“Dipende” sospirai scherzosamente. “Hai di nuovo sognato un mondo dove tutti vanno in giro con le scarpe con le rotelle?”
“No” aprì finalmente gli occhi, senza lasciar vacillare il sorriso. Voltò la testa verso di me, baciandomi immediatamente. “Ho sognato che mi chiedevi di sposarti.”
“Questo significa che vuoi che faccia finta che tu lo abbia sognato davvero e che in realtà non sia mai successo?” chiesi cercando di nascondere un sorriso.
Mi colpì scherzosamente sul braccio.
“Non ti azzardare nemmeno. Non c'è tempo per i ripensamenti” mi informò. “Dobbiamo pensare a un sacco di cose. La cerimonia, i vestiti, gli invitati. E dobbiamo farlo prima che mia madre venga a saperlo, perché altrimenti finiremo per sposarci nella più grande cappella degli Stati Uniti e avremo una torta a dodici piani.”
“Mh. Sebbene la torta mi faccia gola dovrò mettere il veto su una cerimonia con più di cinquanta invitati. Sai come divento se devo parlare con più di un certo numero di persone attorno.”
“Lo so, amore” mi rassicurò con un sorriso. “E non vogliamo quel genere di crisi il giorno del nostro matrimonio” scosse la testa.
Imitai il gesto, sorridendole e baciandola ancora una volta.
“Però penso che la parte del nasconderlo a tua madre sia possibile fin tanto che oggi non indossi il tuo anello.”
“Non ho un anello” mi ricordò.
“No, non ancora. Perché sono lievemente ritardata e ieri sera una proposta di matrimonio mi è decollata dalla faccia rovinando il mio piano perfetto che comprendeva una cena romantica nel tuo ristorante preferito, candele e champagne e petali di rosa, un vestito elegante e mettermi in ginocchio davanti a te. Avevo anche un discorso pronto. Ma” aggiunsi, voltandomi per prendere la scatoletta che avevo appoggiato sul comodino. “Almeno ho avuto la decenza di portarmi dietro l'anello.”
Mi guardò con stupore e fissò l'involucro con curiosità, allungando la mano.
“Aspetta” sussurrai. “Non ho un vestito elegante né petali di rosa, ma fammi almeno mettere in ginocchio.”
La scavalcai, scendendo dal materasso ed appoggiando un ginocchio a terra, mentre lei si metteva seduta sul letto, coprendosi con il piumino, visto che io mi ero avvolta addosso il lenzuolo mentre scendevo.
“Perché ci stiamo coprendo?” sussurrò.
“Sshh, sto cercando di essere seria per un momento, ok?” sussurrai a mia volta. Poi mi schiarii la voce. “Arizona, io ti amo. Così tanto e in così tanti modi diversi che è impossibile da spiegare, perché lo comprendo a malapena io stessa. Ma so benissimo di essere la persona più fortunata del mondo. Anche se dovessi dirmi di no e da domani a malapena ci salutassimo a disagio incontrandoci a lavoro, sono la persona più fortunata del mondo perché ti ho conosciuta. La mia vita e la tua vita si sono toccate in modo così profondo che sembra ridicolo immaginare qualcosa di diverso, adesso. Ti amerò per tutto il resto della mia vita. E voglio che tu abbia questo anello in modo che se mai dovessi dubitarne potresti anche solo guardare in basso per spazzare via ogni dubbio.”
Aprii la scatoletta che avevo in mano. Aveva le lacrime agli occhi. E anche io.
“Vuoi sposarmi?”
“Sì. Certo che lo voglio, Calliope” la voce le tremava.
A me, invece, tremavano le mani mentre prendevo l'anello e lo sistemavo sul suo anulare sinistro. Mi tirò verso di sé per baciarmi, lasciando il piumino cadere di lato.
Poco male, pensai lasciando andare il lenzuolo. Non c'era più bisogno di essere formali.

“Sei sicura di non volerlo togliere?”
“No” si strinse la mano sinistra al petto come se avesse avuto paura che avrei provato a strapparglielo via. “È il nostro ultimo giorno qui e voglio dirlo loro di persona.”
Le valigie erano già in macchina, avremmo fatto pranzo e nel primo pomeriggio saremmo andate in aeroporto, pronte a tornare a Seattle.
“Dico solo, forse è meglio aspettare. Non essere qui mentre ricevono la notizia, ma dall'altra parte degli Stati Uniti aiuterebbe.”
“Io vorrei dirglielo di persona, in realtà.”
“Lo so. Intendevo me” sospirai, guardando la porta aprirsi inesorabilmente.
“Tim.”
“Arizona, Callie. Papà e mamma in cucina, noi siamo in soggiorno, i bambini di sopra. Sapete come funziona, ormai. Che hai da sorridere?” chiese perplesso, quando notò l'espressione che aveva sua sorella.
“Vieni” mi disse. “Andiamo prima in cucina.”
Deglutii, seguendola. Tim scrollò le spalle quando guardai verso di lui. Almeno non aveva notato l'anello. Forse c'era una speranza che nessuno lo notasse, in fondo.
“Arizona, aspetta” sussurrai, tentando di fermarla. “Tuo padre già...”
Troppo tardi. Eravamo entrate in cucina. Mi morsi la lingua, scuotendo la testa quando mi guardò, facendole sapere che non avrei mai terminato quella frase.
“Siete arrivate” Barbara sorrise, avvicinandosi a noi ed abbracciando velocemente entrambe. “Avete già fatto il check out?”
“Sì” rispose Arizona, il sorriso radioso che non era più andato via dalla sera prima ancora saldamente sulle labbra.
Rafforzai la presa sulla sua mano sinistra, impedendole di gesticolare e far notare a sua madre il piccolo accessorio che aveva addosso.
Non ero ancora sicura della reazione del Colonnello e ci tenevo alla vita.
Daniel si alzò, venendoci incontro e abbracciando velocemente Arizona prima di stringere la mia mano destra. Fui costretta a lasciar andare la mano di Arizona.
“Mamma, papà, c'è una cosa che vorrei dirvi.”
Mentre, come avevo previsto, iniziò a gesticolare con le mani appena se le trovò libere dalla mia presa – come faceva ogni volta che era nervosa – Barbara prese al volo la sua mano sinistra, notando immediatamente qualcosa che il giorno prima non c'era.
“Oh, mio Dio, è un anello di fidanzamento questo?” domandò mentre lo osservava da vicino, immobilizzando la mano della figlia in entrambe le sue.
“Lo è” confermò, non sapendo davvero cos'altro dire.
Sua madre abbracciò entrambe contemporaneamente, dicendoci quanto fosse felice e parlando più velocemente di quanto l'avevo mai sentita fare prima.
Il Colonnello non disse niente.
Sua moglie si allontanò, prendendo di nuovo la mano della figlia e avvicinandola al suo viso.
“Guarda qui, Daniel? Non è l'anello più bello che tu abbia mai visto?”
“Decisamente” confermò.
“Papà, non sembri molto sorpreso.”
“Oh, io lo sapevo già” sminuì l'affermazione con un gesto della mano.
Arizona corrugò la fronte.
“Come sarebbe a dire che lo sapevi già?”
“Ma sì, Callie mi ha chiesto il permesso di chiederti di sposarla, ieri.”
Un piccolo sorriso si fece strada sul viso della donna al mio fianco mentre si voltava per guardarmi negli occhi.
“Hai chiesto la mia mano a mio padre?”
Ero completamente rossa, potevo percepirlo, e talmente in imbarazzo che per la prima volta rimpiansi di aver accettato di fare quella vacanza.
“Sì” sussurrai molto, molto piano, distogliendo lo sguardo per qualche momento prima di trovare il coraggio di guardarla di nuovo.
“È stata una cosa che ho apprezzato molto, personalmente” intervenne il Colonnello per alleviare almeno un po' il mio imbarazzo.
“Sono così felice, ragazze” intervenne Barbara, che a quel punto stava a malapena contenendo il suo entusiasmo.
Lanciai uno sguardo di sottecchi ad Arizona, ancora completamente imbarazzata.
“Benvenuta in famiglia, Callie” mi disse il Colonnello, facendo un passo verso di me ed abbracciandomi per la prima volta.
Guardai Arizona. Era sorpresa quasi quanto me.

Era stata distratta per tutto il viaggio in aereo e perfino in automobile. Stavo guidando io, ma lei aveva detto a malapena qualche parola, tenendomi però la mano per tutto il tempo. Ogni tanto la sentivo stringere e le lanciavo un'occhiata vendendole quel sorriso meraviglioso addosso. Mi aveva fissato per tutto il tempo.
Varcammo la soglia della porta dell'appartamento e posò le valigie, sorridendomi. Mi baciò sulle labbra, prima di sparire dentro la nostra camera da letto.
Mi tolsi il giacchetto e sistemai i gradi che volevo sul termostato, lasciandomi cadere seduta sul divano.
“Amore, vieni qua” parlai ad alta voce perché mi sentisse dall'altra stanza. “Voglio almeno un bacio prima di dover disfare le valigie.”
Lei rientrò in soggiorno, sempre sorridendo.
“Sono distrutta. Vieni qui” sussurrai.
Lei continuò a sorridere, ma non si mosse da dove si trovava.
“Che c'è?”
“Tu sei l'unica donna con cui ho mai preso in considerazione di sistemarmi. Lo sai, vero?” chiese, avvicinandosi di un passo. “Sei l'unica donna con cui ho mai progettato un futuro oltre il domani, con cui ho mai voluto un bambino, sei l'unica donna che ho mai voluto sposare. Con nessun'altra avrei mai preso in considerazione di passare il resto della mia vita, se non con te” mi fece sapere, sedendosi accanto a me sul divano.
Aveva tenuto entrambe le mani dietro la schiena.
“Cos'hai lì?” chiesi sospettosamente.
Lei ignorò la domanda.
“Quando ero piccola, intendo parecchio piccola, ogni tanto giocavo al principe che deve salvare la principessa con alcuni miei amici. Io facevo sempre il principe.”
“Ah, questa è nuova” trattenni a stento un sorriso, avvicinandomi di più a lei.
“Ma ogni volta che arrivavo alla principessa, ogni volta che la salvavo, non era mai come mi ero immaginata che dovesse essere. Forse perché erano sempre bambine che conoscevo, mentre io mi aspettavo una principessa come quelle delle favole. Crescendo, mi sono abituata all'idea che non ci fossero principesse. Ho iniziato a pensare più in piccolo, a cercare qualcosa di più realistico che un amore eterno che andasse oltre lo spazio, il tempo e tutte le avversità” storse il naso. “Non è servito, però.”
“Non è servito?” domandai dolcemente, accarezzandole i capelli.
“No. Alla fine, ho trovato la principessa che ho sempre cercato. La donna più bella, più dolce, più gentile e perfetta. L'ho trovata e voglio fare in modo che rimanga al mio fianco per tutto il resto della mia vita.”
“Deve essere molto fortunata” risposi sorridendo.
Alzò scherzosamente gli occhi al cielo.
“Sai che sto parlando di te” mi disse. “Sposami, Calliope.”
Sentii il cuore in gola quando mi mostrò quello che aveva in mano.
La guardai negli occhi e le sorrisi.
“Non lo so. Dovrò pensarci, credo” sospirai.
Mi guardò con aria scandalizzata.
Risi, tirandola per la maglietta finché fu abbastanza vicina perché potessi baciarla.
“Sì. Un milione di volte sì.”
“Bene” rispose. “Sarebbe stato imbarazzante, il nostro matrimonio, se io fossi stata l'unica delle due consenziente.”
Io risi di nuovo, porgendole la mano sinistra perché mi facesse indossare l'anello che, a quanto sembrava, aveva comprato prima che io le chiedessi di sposarmi quando eravamo ancora in Maryland.
Dopo diversi minuti sul divano decise di alzarsi, dicendomi che doveva andare in bagno e che potevamo iniziare a mettere a posto le valigie appena fosse uscita.
Rimasi sola con i miei pensieri e la mia mente toccò l'unico argomento che sembrava capace di raggiungere in quei giorni.
Passare così tanto tempo con la famiglia di Arizona mi aveva fatto riflettere molto. Erano davvero fantastici, i legami che li univano erano sinceri. Era bello vederla interagire con la sua famiglia, forse perché era qualcosa che io non avevo mai avuto.
Avevo passato un sacco di tempo con Kyle, che quando mi aveva salutato, visto che i genitori gli avevano spiegato che io e Arizona ci saremmo sposate, mi chiamava zia. Tim mi trattava come se già fossi parte della famiglia, Barbara aveva insistito perché la chiamassi Barbara ed il Colonnello si era dimostrato stranamente contento del fatto che sua figlia volesse passare il resto della sua vita con me.
Era andata meglio di qualsiasi previsione avessi avuto in mente, ma il fatto che fosse andata così bene mi aveva anche reso un po' triste.
Presi il telefono, componendo il numero a memoria.
Come avevo previsto, di domenica sera nessuno rispose alla chiamata. Sentii il suono della segreteria avvertirmi che potevo lasciare un messaggio.
“Ciao, sono io” iniziai. “Callie” precisai poi. “Mi dispiace essere sparita in questo modo. Mamma vi avrà di sicuro spiegato perché, ormai” inspirai ed espirai lentamente. “Niente, volevo solo sapere se state tutti bene. Io sono davvero felice.”
Rimasi qualche momento in silenzio, sapendo che probabilmente una volta che avevano riconosciuto la mia voce era calato il silenzio sulla cena di famiglia e che tutti stavano ascoltando mentre parlavo.
“Mi mancate” ammisi. “Mi mancano i nonni, mi manca perfino Aria. Chissà se zio Berto si è sistemato o se viene ancora ogni domenica mattina accompagnato da Juan” che era il suo minuscolo chiwawa. “Siete tutti lì?” chiesi, sapendo che non ci sarebbe stata risposta. Mi passai una mano sugli occhi, sospirando pesantemente. “Ma con chi cavolo sto parlando?” sussurrai al cordless, chiudendo la conversazione.
“Calliope.”
Mi voltai verso la porta della camera da letto. Aveva una spalla appoggiata allo stipite della porta. “Mi dispiace, non volevo origliare.”
“Non importa” sussurrai, alzandomi in piedi e sorridendole debolmente.
“Vuoi parlarne?” si avvicinò, appoggiando le mani sulle mie spalle, nel tentativo di confortarmi. “Non c'è niente di cui parlare. Li chiamo dopo un anno e mezzo che non li sentivo più e nessuno di loro risponde. Mia madre avrà spiegato la cosa, presumo. Quindi non vorranno nemmeno sentire la mia versione.”
“Mi dispiace, tesoro” sussurrò, abbracciandomi.
“Non è colpa tua. Possiamo andare a letto? Le valigie saranno ancora qui, domani mattina.”
“D'accordo” si allontanò per baciarmi velocemente.
Il telefono squillò proprio mentre si stava voltando per andare verso camera nostra. Lo presi velocemente dal tavolino, sperando di potermi liberare in pochi secondi di Addison, che probabilmente stava chiamando per chiederci se eravamo ancora vive dopo il volo in aereo.
“Pronto?”
“Tu, ragazzina ingrata, sei sparita per anni senza lasciare neanche un numero di telefono.”
“Nana?” domandai, paralizzandomi.
“E tua madre si rifiuta di parlare, qualsiasi cosa fosse che doveva spiegarci. Quindi prenditi qualche giorno di ferie a lavoro e vieni a trovarci prima che io riesca a trovare te. E lo farò, adesso che ho un numero telefonico.”
“Nana, mi dispiace.”
“Non voglio sentirtelo nemmeno. Se non sei qui tra una settimana assumo uno di quei tizi in impermeabile che seguono i mariti adulteri.”
“Dici un investigatore privato?”
“Quello. Ci vediamo presto. Ora devo andare a controllare Maria. Sai come diventa tua nonna quando ha questo tipo di notizie.”
“Ciao, Nana.”
Riattaccai la conversazione, alzando gli occhi verso Arizona.
“Mia nonna manderà un investigatore privato a cercarmi se non torno a casa il prima possibile” le comunicai, ancora perplessa.
“Beh, sarà meglio chiamare Webber, allora.”

“Ti sto dicendo, Calliope, dammelo immediatamente o giuro che non ti lascerò scendere dalla macchina.”
“Ah! Come se avessi scelta.”
Provai ad aprire lo sportello, ma sentii uno scatto prima di riuscire a farlo.
“Hai messo la sicura per i bambini? Sul serio, Arizona?”
“Sì. Ti stai comportando da bambina, quindi io agisco di conseguenza.”
“Bene” incrociai le braccia al petto. “Allora rimarremo qui, perché non ho intenzione di restituirtelo, né ora né mai.”
“Andiamo, si tratta solo di un'ora. Forse di meno. Metti via l'anello” tese la mano destra nella mia direzione, il palmo verso l'alto, in attesa che vi appoggiassi sopra quello che mi aveva appena richiesto.
“Tu non te lo sei tolto, perché io devo farlo?”
“I miei genitori sapevano che stavo vedendo qualcuno” mi fece notare. “E che quel qualcuno era una donna. E che ci siamo frequentate per anni. Non è stata una gran sorpresa per loro sapere che ci sposavamo. Ma tua nonna potrebbe avere un infarto se ti vede con un anello di fidanzamento al dito.”
“Arizona, ti prego” sussurrai, guardandola finalmente negli occhi con la mia migliore espressione da cane bastonato. “Tu sei l'unica cosa che mi dà la forza di farlo. Voglio una parte di te insieme a me, lì dentro. E, certo, continuerò a pensare a te, ma ho bisogno di guardare in basso e poter respirare perché so che tu sei qui con me. Ci sarà un momento in cui non riuscirò più neanche a pensare, e in quel momento voglio qualcosa che mi faccia sentire al sicuro. Tu mi fai sentire al sicuro.”
Per qualche istante mi guardò negli occhi senza dire niente.
“Ok. Torno a prenderti in macchina tra un'ora, d'accordo? Se qualcosa va storto fammi uno squillo e sono qui in cinque minuti.”
Annuii, grata che avesse capito.
“Chiamami quando arrivi.”
La baciai a stampo sulle labbra prima che potesse protestare e poi scesi, percorrendo il vialetto che mi separava dalla casa in cui vivevano i miei nonni.
La madre di mia madre, Maria, era rimasta vedova quando era ancora giovane. I genitori di mio padre, Nana e Yayo – era così che li chiamavo da piccola e come avevo continuato a chiamarli anche quando ero cresciuta – dopo che i miei si erano sposati avevano deciso di accoglierla nella loro casa in modo da potersi aiutare a vicenda. Io ed Aria eravamo praticamente state cresciute da loro, perché i miei genitori erano sempre a lavoro. Per questo motivo la mia prima fermata non era stata da loro e mia sorella, ma dai miei tre nonni.
Prendendo un respiro profondo, mi decisi a bussare alla porta.
Ad aprire fu Nana, guardandomi per un momento con aria scettica. Poi i suoi lineamenti si rilassarono quando ogni dubbio su chi io fossi sparì.
“Se tomó un mes para volver a casa.”
“Lo siento, Nana. Non sono riuscita a prendere altre ferie prima di adesso.”
“Vieni dentro” mi prese per una manica, forzandomi oltre la porta. “Tuo abuelo è stato agitato tutto il giorno. Mira quién está aquí” urlò per farsi sentire anche dai miei nonni in cucina.
Entrammo, trovando mio nonno seduto al tavolo della cucina in silenzio. Era un uomo di pochissime parole, ma il tempo non lo aveva cambiato quasi per niente. Era esattamente come me lo ricordavo.
Anche mia nonna Maria non era cambiata di una virgola, eccetto qualche ruga in più, mentre Nana aveva forse perso un paio di chili – o preso un paio di chili, era difficile da dire, era troppo tempo che non la vedevo.
Abbracciai Nana, baciandola sulle guance. Poi mi abbassai per abbracciare anche Maria, che era più bassa e molto più minuta di corporatura. Infine mio nonno si alzò, baciandomi su entrambe le guance.
“Bentornata a casa” mi disse, tornando a sedersi.
“Allora?” chiese Maria. “Voglio sapere tutti i dettagli. Non lasciare niente. Come era la scuola di medicina? E com'è ora essere un dottore?”
“Prima le cose importanti” mi incoraggiò Nana, sedendosi a tavola. “C'è già una persona speciale nella tua vita?” domandò con un sorriso che aveva qualcosa di malizioso e consapevole al tempo stesso.
“C'è, in realtà” iniziai, mettendomi a sedere come mia nonna mi stava indicando di fare. “C'è qualcosa che devo dirvi” li informai, inspirando. “Volevo farlo da molto tempo, ma non avevo mai trovato il coraggio.”
Percependo che il discorso stava diventando serio, mia nonna si alzò, iniziando a mettere cose da mangiare sulla tavola.
“Vuoi un dolce? O meglio qualcosa di salato? E da bere cosa prendi?”
“Nonna Maria, mettiti a sedere, per favore. È davvero una cosa seria.”
Lei, con un sospiro, fece come le avevo chiesto.
“C'è una persona molto, molto speciale nella mia vita. La persona migliore che abbia mai incontrato e l'unica persona per cui ho mai anche solo preso in considerazione fare” feci un gesto con la mano destra attorno al tavolo a cui eravamo seduti tutti e quattro “questa cosa.”
“D'accordo” mi incoraggiò a proseguire Nana.
Lei e mio nonno si scambiarono un'occhiata. C'era qualcosa di strano nel modo in cui si stavano comportando tutti e tre.
“Questa persona si chiama Arizona.”
Ci fu qualche istante di silenzio. Nana e Yayo si scambiarono un'altra occhiata. Sospirai pesantemente.
“Arizona è un nome da donna” mi fece notare Nana.
“Lo so” confermai.
Continuarono a guardarmi, mio nonno era immobile, Nana era confusa e Maria sembrava leggermente preoccupata.
“Quello che sto cercando di dirvi è che sono innamorata di una donna.”
Gli attimi di assoluto silenzio che seguirono furono i più interminabili della mia vita. Era come se tutto si fosse congelato.
Niente si muoveva più, neanche il tempo.
Finii per chiedere a me stessa come mi era venuto in mente di andarmi a cacciare in quella situazione. Avrei dovuto lasciare che le cose rimanessero come erano.
“Dite qualcosa” li implorai.
“Onestamente, pensavo che, se non te ne eri ancora resa conto a questo punto, non te ne saresti resa conto mai più” mi informò Nana.
Corrugai la fronte.
“Tu lo sapevi?”
“Tesoro, io ti ho cresciuta. Era difficile non notare che a sedici anni ti sei innamorata della tua compagna di banco. Com'è che si chiamava?”
“Cosa? No, io no” arrossii leggermente mentre negavo.
“Il lato positivo è che almeno non sei talmente stupida da non accorgerti di qualcosa del genere” mi disse, versando un bicchiere d'acqua a mia nonna Maria.
Mio nonno era un uomo molto all'antica. Sapevo bene che probabilmente non mi avrebbe più rivolto la parola. Ma gli volevo talmente bene che mi si spezzava il cuore se pensavo ad un futuro in cui lui non c'era, nonostante tutti gli anni in cui non ci eravamo parlati.
“Non mi sento per niente bene” disse mia nonna in modo secco, interrompendo la mia linea di pensieri e portandosi una mano sul petto. “Devo stendermi, stendermi subito” ci informò, alzandosi e andando in direzione del divano.
“Nonna Maria, che c'è?” chiesi, alzandomi e lasciando che il medico in me prendesse per un attimo il sopravvento.
“Sto morendo” ci informò con semplicità. “Chiamate Padre Patrick.”
Incrociò le mani all'altezza del cuore e chiuse gli occhi.
Nana scosse la testa, alzando gli occhi al cielo mentre sospirava e prendeva in mano il telefono, componendo il numero.
Quando arrivò io e mia nonna eravamo in piedi accanto al divano mentre lui si sedeva accanto a lei, facendosi il segno della croce e recitando una preghiera.
“C'è ancora battito regolare” lo informai. “Ma non apre gli occhi da qualche minuto, anche se il respiro sembra apposto. Non capisco se è svenuta o sta dormendo o cos'altro.”
Annuì, tornando a concentrarsi su mia nonna mentre pregava ancora e si preparava al Sacramento dell'estrema unzione.
Vidi mia nonna aprire appena un occhio per sbirciare.
“Oh, mio Dio, stai facendo finta” esclamai ad alta voce, notevolmente stupita dal suo atteggiamento. “La perdoni, Padre Partick. Ci scusi se l'abbiamo disturbata, ma penso che possa andare.”
“No, invece” protestò mia nonna dal divano, gli occhi chiusi. “Sto morendo. Anzi, sono praticamente già morta. Tu mi hai ucciso.”
“Ah, io ti ho ucciso” sospirai, appoggiandomi le mani sui fianchi nella mia migliore posa di incredulità.
“Sì, proprio tu. Dopo anni ti presenti in questa casa e dici queste cose. È un peccato agli occhi di Dio.”
“Davvero? E fingere la morte e ricevere un Sacramento mentendo invece cosa è agli occhi di Dio, nonna Maria?”
“Non parlare a me di peccati, Callie” mi riprese, aprendo finalmente gli occhi. “Scommetto che tu e lei avete anche convissuto, non è vero? Aggiungiamo alla lista anche il concubinato e il sesso prematrimoniale.”
“Oddio” mi passai una mano sugli occhi. “Ci scusi, Padre. Davvero, non l'avrei fatta venire se avessi immaginato che stava solo fingendo” gli dissi, accompagnandolo alla porta dopo che si fu rialzato in piedi.
Lui annuì, rassicurandomi sul fatto che non gli era pesato e augurandomi una buona giornata prima di andar via.
“Sei contenta adesso, nonna? Hai fatto venire qui un prete che probabilmente aveva altre persone da aiutare” le dissi, tornando in soggiorno.
“Lasciatela stare. Le passerà” fu l'unico consiglio che mio nonno ci lanciò dalla cucina con un pezzo di dolce in mano.
“Non credo proprio che mi passerà. Io e lei stiamo insieme da anni. Non è qualcosa che passerà dall'oggi al domani” li informai.
“Credo che intendesse di lasciar stare tua nonna Maria, tesoro” mi disse Nana appoggiandomi una mano sul braccio.
“Tutta la tua vita è un susseguirsi di peccati, Callie.”
Alzai gli occhi al cielo.
“Per questo hai chiamato un prete?”
“Anche per quello” mi informò, mettendosi a sedere quando capì che la messa in scena non avrebbe funzionato.
“Ok, sai che ti dico? Tra un po' il sesso prematrimoniale non sarà più un problema” le comunicai con esasperazione. “Io e lei ci sposiamo.”
Quello la fece finalmente star zitta. Ero sicura che anche mio nonno dalla cucina mi avesse sentito, ma non disse niente.
“Ma qui in Florida non potete farlo” protestò mia nonna.
“Lo faremo a casa. A Seattle” specificai, quando mi guardò ancora confusa. “Nello Stato di Washington il matrimonio è stato legalizzato.”
Mi guardò, senza parlare, per qualche momento.
“Io ho paura di volare.”
“Me lo ricordo” corrugai la fronte. “E allora?”
“Come ti aspetti che arrivi a Seattle per il tuo matrimonio?” chiese come se fossi ritardata.
“Vuoi venire al mio matrimonio?”
“Tesoro, questa è la domanda più stupida che tu mi abbia mai fatto.”
“Tu accetti questa cosa?” le chiese mia nonna. “Senza nemmeno lottare?”
“Maria, sai che non si può lottare con niente del genere. In queste situazioni, una delle due parti si deve piegare. E nostra nipote non è nella situazione per farlo, perché questa è la persona che è e la persona che ama, quindi o ci pieghiamo noi o qualcuno si spezzerà.”
“Mi dispiace, nonna” mi sedetti accanto a lei sul divano, prendendole una mano. “Mi dispiace davvero non poter essere la persona che tu volevi che fossi, spero che tu lo sappia. Ma, come ha detto Nana, questa è la persona che sono e l'unica cosa che posso essere è me stessa.”
“Non ho mai detto che non sei la persona che volevo” mi disse. “Sei un medico. Io e tua nonna ci vantiamo in continuazione di te, giù in paese. Ma una donna non è la persona con cui avrei voluto vederti passare il resto della tua vita, Callie. Non è la persona che avrei voluto vederti sposare e non è come mi ero immaginata di vederti essere felice. Ma, suppongo che se questo è l'unico modo che hai per essere felice, noi possiamo fare ben poco per farti cambiare. Nana ha ragione. O accettiamo la cosa e cerchiamo di farci i conti, oppure non ti parliamo mai più e torniamo alla triste solitudine di questi anni. O ci pieghiamo o ci spezziamo.”
Posai lo sguardo su entrambe per qualche istante.
“Quale delle due?” chiesi in un sussurro.
Loro si scambiarono un'occhiata.
“Onestamente, non lo so ancora, mija” rispose Nana. “È tanto con cui fare i conti. Dacci almeno un po' di tempo per pensarci, ok?”
Io annuii, un po' rattristata da quella risposta, nonostante mi fossi aspettata molto di peggio quando ero tornata in Florida.
Il cellulare che avevo in tasca suonò brevemente.
“È lei. Devo andare.”
Mi alzai, cercando di evitare di incrociare i loro sguardi, mentre mi allontanavo dal divano.
“Aspetta, Callie” mi disse Nana. “Perché, invece, non la fai almeno venire alla porta?” mi sorrise in modo esitante.
“Ok” sussurrai, richiamandola.
“Vuoi che torni più tardi?”
“No. In realtà, potresti venire alla porta?”
Ci fu qualche istante di silenzio dall'altro capo della linea.
“Certo” rispose infine, chiudendo la conversazione.
“Sta arrivando” informai le due donne.
Mi voltai in direzione della porta, ma mia nonna mi prese il braccio, fermandomi.
“Sei assolutamente sicura che lei sia quello che vuoi? Che questo è il tipo di vita che vuoi? Non sarà mai semplice. Lo sai sicuramente meglio di me.”
La guardai negli occhi.
“Io la amo. Questo non cambierà mai. E farei qualsiasi cosa, per lei.”
Entrai nell'ingresso, aprendo la porta con un sospiro.
Lei sembrava terrorizzata.
“Credi davvero che sia una buona idea?” sussurrò, lanciandosi un'occhiata alle spalle come se fosse pronta per darsela a gambe da un momento all'altro nel caso in cui io avessi mostrato anche solo il minimo dubbio.
“No. Ma è un'idea di mia nonna e a lei non si può dire di no.”
Mi scostai dalla porta, facendole segno di entrare, richiudendola alle sue spalle. Si paralizzò immediatamente. Voltandomi, capii perché.
“Tu sei la donna che mia nipote vuole sposare?”
Le avevo raccontato molte volte di come mio nonno fosse un uomo di pochissime parole. Di come spesso ignorava le persone che non conosceva e del fatto che aveva a malapena rivolto due parole in totale a tutti i fidanzati che Aria aveva portato a casa nel corso degli anni.
“Sì, signore.”
Lui annuì.
“Non l'ho mai vista così felice. Nemmeno quando era una bambina. E i bambini sono quasi sempre felici. Ma non così tanto.”
“La ringrazio, signore. Anche lei mi rende più felice di quanto io sia mai stata.”
Lui fece un passo nella nostra direzione.
“Pensavo che non avrei mai conosciuto la persona che mia nipote avrebbe sposato perché sarebbe stata troppo spaventata dalla nostra reazione per portare mai qualcuno a casa. Ho sempre sperato che cambiasse idea, però.”
“Mi fa piacere, signore.”
“Quando avrai sposato Calliope sarai mia nipote anche tu. Chiamami Yayo.”
La vidi aprire la bocca più volte senza che ne uscisse assolutamente niente di niente.
“D'accordo” fu l'unica cosa che riuscì a far uscire, lanciando un'occhiata molto confusa nella mia direzione.
“Venite a sedervi. Mangiamo qualcosa.”
Per un attimo mi chiesi in che razza di universo parallelo fossi finita. Poi decisi che neanche mi importava.
Ci sedemmo, prendendo entrambe un pezzetto del dolce che ci offrì. Io lo feci prevalentemente con l'intento di avere una buona scusa per starmene zitta ed evitare di parlare.
“Tu devi essere la peccatrice.”
Mi voltai verso la porta che dava sul soggiorno. Roteai gli occhi, sospirando.
“Nonna, ancora con questa storia? Ti sarei grata se potessi evitare di prendertela con lei, questa situazione non è colpa sua. Quindi arrabbiati con me.”
“Non posso far finta di niente, Callie. Non me ne starò in silenzio. Preferirei che ne parlassimo fino a trovare una soluzione, invece di ignorarci a vicenda.”
“Una soluzione?” chiesi, scuotendo appena la testa. “Ne parli come se ci fosse un problema da risolvere.”
“Non sto dicendo questo. Dico solo che c'è molto di cui parlare.”
“Pensi che non ci abbia provato?” chiesi a mia nonna Maria, ma incrociando anche lo sguardo di Nana. “Pensate che non abbia provato a mandarlo via, quando avevo diciotto anni ed ero spaventata a morte e pensavo che nessuno della mia famiglia avrebbe mai capito, pensate che non abbia provato a chiudere gli occhi e far finta che tutto andasse bene e non ci fosse niente di cui preoccuparsi?”
“Calliope” sentii la voce ferma e dolce al tempo stesso di Arizona e la sua mano che si posava sul mio braccio.
“No” la bloccai, continuando. “Credete che per me sia stato facile? Che un giorno me ne sia accorta, l'abbia accettato e fine della storia? Non è facile, invece. È difficile” cercai di spiegare loro. “Perché anche quando capisci che è normale, anche quando capisci che non c'è niente di sbagliato in te, hai la consapevolezza che altre persone al mondo non la penseranno così. Persone della tua famiglia, o amici, colleghi, perfino persone che non conosci ti giudicheranno a causa della persona di cui sei innamorata. E non c'è niente di facile, in questo.”
Mi guardarono senza dire niente, aspettando che continuassi.
“Ma, come vi ho detto anche prima, non posso essere nessun altro se non me stessa.”
Maria annuì, non perché fosse d'accordo ma perché aveva almeno capito il mio punto di vista, mentre Nana si sedette a tavola con un sospiro.
“Ti piace la torta, Arizona?” domandò mio nonno, ignorando tutta la conversazione che aveva appena avuto luogo. “L'ha fatta Nana. Ci sono dentro mandorle e pinoli.”
“È davvero molto buona, la ringrazio.”
Lui le sorrise, finendo il pezzetto che aveva in mano.
“Voglio avere almeno un ballo con mia nipote, al vostro matrimonio.”

Mi ritrovavo davanti a quella porta per la prima volta da anni. L'ultima volta che ero stata lì le cose non erano andate molto bene.
Eufemismo del secolo.
Ero nervosa ancora più del giorno in cui avevo incontrato i genitori di Arizona. Non sapevo cosa aspettarmi, perché avrebbero anche potuto decidere di tagliare ogni contatto.
Fu mia madre ad aprire, vedendomi stare lì come un idiota davanti alla porta di quella che sarebbe dovuta essere anche casa mia.
“Vengo adesso da casa dei nonni” la informai nervosamente. “Ho pensato di passare prima di tornare in albergo.”
Lei mi abbracciò, senza probabilmente aver neanche ascoltato una parola di quello che le avevo appena detto.
“Entra. Tuo padre e tua sorella sono in soggiorno. Ti stavamo aspettando.”
Sospirando annuii, richiudendomi la porta alle spalle e seguendola lungo l'ingresso. Prima di entrare nella stanza, però, le presi un braccio, facendola fermare e obbligandola a voltarsi verso di me per guardarla negli occhi.
“Lo sai perché sono qui, non è vero?” domandai con tutta la freddezza che riuscii a mettere insieme in quel momento. “Quindi facciamo questa cosa, ma non venirmi a dire che non lo sapevi o non sapevi a cosa andavi incontro. Non ne abbiamo mai parlato davvero, ma dubito che te ne sia dimenticata.”
Lei spostò lo sguardo verso il pavimento, con lo scopo di evitare il mio. Si districò gentilmente dalla mia presa, aprendo la porta che dava sul soggiorno.
“Certo che so perché sei qui” sussurrò impercettibilmente, mentre entravamo nella stanza. Mio padre e Aria mi abbracciarono entrambi, come ci si sarebbe aspettati dopo anni che non ci vedevamo più di persona.
Poi ci sedemmo, li guardai, cercando di capire da dove iniziare, cosa dire e cosa tralasciare, come spiegare loro cosa stava succedendo.
“C'è qualcosa che devo dirvi” iniziai prendendo un respiro profondo.
“Oh mio Dio, non posso crederci” esclamò Aria, sgranando gli occhi. “Quello è un anello di fidanzamento?” notai che i suoi occhi puntavano dritti sul mio anello. “Non posso credere che ti sposerai prima di me.”
“Ah, ecco, io...”
Non avevo ancora realizzato di essermi mossa quando mi ritrovai abbracciata a mia sorella, poi a mio padre. Mia madre seguì ma in modo più esitante.
“Parlaci di lui. Com'è? Fa il medico anche lui?” chiese subito mia sorella. “Scommetto che è più grande.”
“A dire la verità sì” confermai con esitazione. “Due anni più grande.”
“Non sembri molto felice” osservò mio padre.
“No, lo sono. Sono molto felice. Ma c'è qualcosa che devo dirvi. Ed è una cosa importante e vorrei che vi concentraste per qualche minuto e che mi lasciaste parlare, ok?”
“Che può esserci di più grande del fatto che ti stai sposando?” chiese Aria, incredula.
“La persona che sto sposando” iniziai, guardandoli negli occhi a turno, cercando di non farmi prendere dal panico “è una donna” terminai con un sospiro pesante.
Era come se mi fossi tolta un peso insopportabile dallo stomaco, ma allo stesso tempo come se fossi stata completamente priva di difese.
Non mi sentivo al sicuro.
Ci furono dei lunghissimi minuti di silenzio.
Guardai in basso, verso il mio anulare sinistro.
Ed ecco che all'improvviso mi sentii nuovamente al sicuro.
“Torni a vivere a casa.”
Guardai mio padre, convinta di non aver sentito bene quello che aveva appena detto.
“Cosa?”
“Mi hai sentito. Torni qui a casa, dove possiamo tenere d'occhio quello che fai e riportarti nella direzione giusta.”
Stavo per rispondere bruscamente, ma presi un respiro profondo e ricordai che urlare contro mio padre non era mai stato di nessuna utilità.
“Ricordo bene quello che ne pensi, papà, e non ti sto chiedendo di capirlo, né tanto meno di accettarlo. Ho pensato solo che fosse giusto farvi sapere che sto per sposarmi e che” scrollai le spalle “sono felice.”
Si alzò in piedi, iniziando a percorrere ritmicamente la stanza mentre si metteva ad urlarmi contro in spagnolo, accuse e richieste assurde al tempo stesso.
Ben presto stavamo urlando entrambi, con mia madre caduta in una specie di shock che le impediva di fare altro che fissare il pavimento con aria contrita.
Quasi un'ora dopo le nostre urla avevano raggiunto un livello pressoché assordante, quando il mio cellulare iniziò a squillare.
“Pronto” risposi bruscamente.
“Calliope, è tutto ok? Sento delle urla in spagnolo, sembrano provenire da dentro la casa in cui ti ho visto entrare prima, ma non potrei giurarci.”
“Tutto bene. Sto uscendo.”
“Oh, no che non stai uscendo, ragazzina” tuonò mio padre, facendo seguire alla frase altre urla in una lingua mista tra spagnolo e inglese.
“Posso aspettare” mi informo in poco più che un sussurro.
“No. Sto uscendo” ripetei con decisione, ponendo fine alla conversazione con Arizona solo per superare mio padre in direzione della porta.
“Esci da quella porta, Calliope, torna da quella donna” minacciò “e non vedrai mai più neanche un centesimo dalla tua famiglia.”
Mi voltai di scatto verso di lui.
“Soldi. Scontato quasi quanto squallido, papà. Non li voglio i tuoi soldi. Bloccami pure il fondo fiduciario, chi se ne frega, tanto non lo uso più da anni.”
Marciai in direzione della porta di ingresso, seguita da mia sorella, che fino a quel momento aveva cercato di far calmare entrambi, da mia madre, che a malapena aveva aperto bocca, e da mio padre che si stava preparando a ricominciare con le urla.
Prima che qualcuno di loro avesse occasione di dire niente decisi di parlare e finire il discorso che avevo iniziato, pensando di dovere a me stessa almeno quello.
“Ho sempre cercato di diventare una brava persona” dissi con decisione, guardando Carlos dritto negli occhi. “Una persona che poteste essere fieri di aver cresciuto. Un bravo medico.”
Inspirai, preparandomi a rivivere un momento che ancora mi feriva.
“Ho vissuto per tre mesi in Africa. In Malawi. Aiutavo bambini che senza chirurghi non sarebbero sopravvissuti alla notte. Dovevo rimanere lì per tre anni, ma dopo tre mesi un uomo del posto, una sorta di infermiere, che sapeva perfettamente quanto stavamo aiutando, mi ha visto dare un bacio alla mia fidanzata. Si è rivolto immediatamente al direttore della clinica, che ci ha spiegato molto brevemente che avevamo due scelte: rimanere lì ed essere lapidate, oppure tornare a casa ed essere rimpiazzate. Adesso due chirurghi meno bravi di noi stanno vivendo il sogno dell'amore della mia vita al posto suo. Non è facile. Non è mai facile. E mamma sa, forse meglio di chiunque altro al mondo” sussurrai, spostando gli occhi su di lei “che se avessi potuto cambiarlo l'avrei fatto. Ma non è una cosa che si può decidere. Quindi abbiamo dovuto rinunciare a quei sogni che non sono compatibili con le persone che siamo. Arizona ha rinunciato all'Africa. Io ho rinunciato alla mia famiglia.”
Sospirai, scrollando le spalle e tornando a guardare mio padre, la cui voglia di urlare in spagnolo le mie colpe sembrava essersi calmata.
“Ho fatto quello che mi avete insegnato e ho seguito le regole che mi avete dato. Non ho rubato, non ho ucciso, non ho tradito. Ma mai, mai, mi avete detto che amare è sbagliato. Che l'amore è sbagliato. Suppongo ci sia una prima volta per tutto, giusto?” domandai a bassa voce, aprendo la porta e uscendo prima che avessero modo di replicare.
Percorsi il vialetto sperando che non stessero sbirciando dalla finestra, perché appena salii in macchina le prime lacrime iniziarono a scendere.
Due mani mi presero gentilmente il viso, mentre premevo la fronte sulla sua familiare spalla. “Non piangere, amore” mi pregò con la voce che le tremava.
Non piangevo spesso. E forse proprio per questo, quando piangevo finiva sempre per farlo anche lei.
“Non mi sentivo così impotente da quella sera” sussurrai tra le lacrime.
Mi fece alzare il viso, cercando di asciugare le mie guance con i pollici e di tanto in tanto baciando via qualche lacrima.
“Andrà tutto bene.”
Le avevo raccontato, una volta, della sera in cui mio padre mi aveva detto che l'omosessualità era una malattia. Un peccato mortale. Uno sbaglio.
Non ne avevamo mai parlato, io e lei, del fatto che per anni avevo ignorato la mia famiglia. Lei sapeva che io avevo le mie ragioni ed io preferivo fingere di aver dimenticato. Ma lo sapevamo entrambe che era per quello. Non per la frase, il gesto in sé, ma per quello che c'era dietro. Era perché non avrebbero mai potuto capire. Era per la paura che succedesse esattamente quello che era appena successo.
Ma anche allora, guardandola negli occhi, sapevo che andava bene così. Che io avevo lei. E non avrei potuto chiedere di meglio.

Come quando eravamo andate a trovare la sua famiglia, anche quando andammo a trovare la mia non prendemmo giorni veri e propri di ferie, ma ci limitammo a scambiare turni con i nostri colleghi e partire il giovedì sera per star via tre giorni, in modo da mancare da Seattle solo per un giorno lavorativo. In fondo io ero ancora in piena specializzazione.
Così, quando venerdì sera tornammo in albergo, dopo la tremenda giornata che avevo avuto, tutto quello che volevo era tornare a casa e rannicchiarmi sul letto fino al momento in cui avessi potuto prendere in mano un bisturi ed aprire qualcuno.
Invece la mia fidanzata mi obbligò ad alzarmi dal letto e mostrarle il paese in cui ero cresciuta. All'inizio lasciai che praticamente mi trascinasse in giro, tenendo il broncio e sospirando continuamente per farle sapere che non volevo in alcun modo dovermi trovare lì. Dopo un po', però, iniziai a ricordarmi di questo e quel posto in cui andavo sempre da piccola o l'altro posto in cui avevo trascorso una buona parte della mia adolescenza.
“Guarda, quella era la mia vecchia scuola” la trascinai con entusiasmo verso l'enorme parcheggio che la precedeva, facendole salire la scalinata che conduceva all'ingresso. Dalle porte a vetri riconobbi l'atrio, nonostante fosse sera e tutto fosse già immerso nell'oscurità. “Non è cambiato niente” sussurrai, un sorriso enorme. “Vieni. Voglio farti vedere la via più grande” le dissi, cambiando direzione per l'ennesima volta, curiosa di vedere quanto e cosa era cambiato mentre io ero via.
Passeggiammo nella via principale, grande più o meno quanto un vicolo di Seattle, fino ad arrivare davanti ad un locale che mi era particolarmente noto.
“Qui è dove venivamo sempre quando avevo sedici anni” le dissi, guardando dentro attraverso la porta aperta. “Entriamo” proposi. “Prendiamo qualcosa da bere.”
“Perché no” mi seguì, nascondendo un sorriso.
Arrivai al bancone del bar praticamente senza dovermi mai neanche guardare attorno. Era tutto come lo avevo lasciato. Lì, in quel piccolo paesino della Florida, il tempo sembrava essersi fermato per anni.
“Ciao. Cosa posso portarvi?” ci chiese il ragazzo dietro il bancone.
“Eddie?” domandai, guardandolo meglio. “Sono Callie. Callie Torres. Eravamo al liceo insieme.”
“Callie, come stai? È da un po' che non ti si vede più da queste parti” mi sorrise. “Sei cresciuta. E cambiata parecchio” osservò poi, squadrandomi velocemente.
“Non è quello che succede a tutti?” chiesi con un sorriso.
“Perché non vi sedete ad uno dei tavoli? Porto lì i vostri drink.”
Gli dicemmo cosa volevamo e poi condussi Arizona verso la zona dove sapevo che avrei trovato i tavolini. Si sedette in una delle due panche e, con sua grande sorpresa, invece di sedermi dall'altra parte mi sistemai al suo fianco.
Mi osservò per qualche istante, incuriosita dal mio comportamento.
“Ma guardati” mi disse, il sorriso sulle labbra. “Questo posto ti ha illuminato. Intendo tutto quanto, il paese, la tua vecchia scuola.”
Scrollai le spalle.
“Sono solo ricordi. Bei ricordi. Pensavo di non averne” sminuii, prendendole la mano ed avvicinandomi.
Voltò la testa di lato, così finii per baciarla sulla guancia. Mi allontanai, guardandola con aria perplessa.
“I tuoi genitori già mi odiano” mi fece notare. “Se iniziano a spargersi anche voci per tutto il paese sulla donna con cui sei tornata a casa...” sussurrò, senza terminare la frase. “Non voglio che mi odino ancora di più. Tutto qui” concluse sommessamente.
“Ok. Vuoi che litighiamo adesso oppure preferisci quando torniamo in albergo?” domandai gentilmente. “Perché sai che litigheremo per quello che hai appena detto, non è vero?” appoggiai un braccio sullo schienale della panca su cui eravamo sedute, voltandomi nella sua direzione e accarezzandole delicatamente il braccio più lontano da me. “Mi ci sono voluti anni, Arizona. Anni, perché ti passasse la paura che sarei scappata all'improvviso senza mai guardarmi indietro. E se non ne sei ancora sicura, onestamente, non so più cosa fare per farti capire che io non ho paura. Non mi importa di quello che pensano o dicono gli altri.”
“Si tratta dei tuoi genitori” protestò debolmente. “Non voglio che pensino che sono una persona orribile, semplicemente perché non voglio che pensino che stai con una persona orribile, che ti rende infelice, che ti convince a sbagliare o qualcosa del genere. Voglio che pensino almeno che, ovunque tu sia, qualunque cosa succeda, sei con qualcuno che ami e sei felice.”
“Io sono con qualcuno che amo” le ricordai. “E sono felice.”
Ricambiò finalmente il sorriso che le stavo offrendo.
Eddie appoggiò proprio in quel momento i nostri drink sul tavolo, offrendomi un sorriso prima di tornare a lavoro.
“Callie? Callie Torres?” una voce mi fece voltare alla mia destra.
Il sorriso che avevo un attimo prima si trasformò in uno appena accennato mentre riconoscevo la donna che mi stava davanti.
“Erica Hahn. È passato un sacco di tempo” osservai.
“Dall'ultimo anno di liceo” mi ricordò con un sorriso di cortesia che aveva ben poco in comune con quello che mi ricordavo.
“Come” scossi la testa, rendendomi conto di quanto era banale quello che stavo per chiederle, ma finendo per chiederglielo comunque. “Come stai?”
“Bene. Tutto bene.”
“Erica, se non hai...Callie?”
“Mark.”
“Non pensavo che ti avremmo più rivisto da queste parti” osservò con un sorriso, tirandomi finché mi alzai in piedi e abbracciandomi prima che me ne rendessi anche solo conto. “Allora, come te la passi?”
“Bene. Molto bene. Tu?”
“Alla grande” mi sorrise di nuovo. “Sto per sposarmi.”
“Davvero?” domandai con aria scettica, tornando a sedermi. “Tu?” feci cenno ad entrambi di sedersi nella panca dalla parte opposta del tavolo a cui eravamo.
“Noi” mi corresse Erica. “Io e lui” specificò ulteriormente. “Io e Mark ci stiamo per sposare.”
Ci fu un secondo in cui rimasi immobile ed il mio cervello si rifiutò di pensare altro se non: “Il tuo migliore amico del liceo si sposa con la tua cotta del liceo. Ah ah. Non è divertente.”
E a giudicare dal fatto che Arizona si stava mordendo il labbro superiore per trattenere un sorriso, si era ricordata i nomi che le avevo accennato un paio di volte di sfuggita e stava pensando più o meno la stessa cosa. Eccetto che, per lei, era divertente eccome.
Prese un sorso del suo drink per non ridere. Presi un sorso del mio per non sembrare un'idiota più di quanto già ero sembrata.
“Fantastico” dissi loro una volta che il mio cervello si riaccese. “Certo, mentirei se dicessi che me lo aspettavo, ma sono davvero felice per voi ragazzi” continuai con onestà. “Mark, ho sempre saputo che in fondo eri un bravo ragazzo. Vi meritate di essere felici.”
Anche loro stavano sorseggiando i propri drink.
“Sono un'idiota” ricordai improvvisamente. “Voi non vi conoscete, lei è Arizona” presentai loro la donna al mio fianco. “Loro sono Mark e Erica” le dissi “sono sicura di averti parlato di loro un paio di volte.”
Dal sorrisetto che aveva addosso, sì, lo avevo fatto. Ripresi la posizione di prima, con un braccio appoggiato allo schienale della panca, praticamente attorno alle sue spalle.
“Allora, tu eri il migliore amico di Calliope al liceo, vero?” chiese, rivolgendo le sue adorabili fossette in direzione di Mark.
“Calliope?” rise ad alta voce. “Sì, ero il migliore amico di Calliope al liceo.”
“Che c'è di divertente? Trovo che sia un nome meraviglioso.”
“Non farci caso, Mark è acculturato più o meno quanto un pacchetto di fazzoletti. Non sa apprezzare la mitologia” scherzai, rivolgendo un ghigno nella sua direzione.
“La musa dalla bella voce” osservò Erica, lo sguardo su di me.
Non dando peso alla cosa, allungai la mano sinistra, togliendo il braccio dalle spalle di Arizona, e presi un sorso dal mio bicchiere.
“Quello è un anello di fidanzamento? Ti sposi anche tu?” domandò Mark, un sorriso enorme sul volto.
Sorrisi, passando di nuovo il braccio sulle spalle della bionda al mio fianco.
“Già. Ancora non abbiamo una data, ma ci stiamo lavorando” incrociai lo sguardo di Arizona. “Un doppio matrimonio?” chiese. “Fantastico. Adoro i doppi matrimoni. Posso venire?”
Io risi, colpendo scherzosamente il suo avambraccio che era più vicino a me sul tavolo.
“Sto sposando lei, idiota” lo informai.
Per qualche istante rimase impietrito.
“Andiamo, non guardarmi con quella faccia” gli dissi, sempre sorridendo, ma in maniera un po' più forzata. “Pensavo che almeno tu avresti capito.”
“Oh, io capisco anche troppo bene” il sorrisetto che aveva la diceva lunga su quello che stava pensando.
“Ehi, smetti di immaginartela nuda, pervertito. È la mia fidanzata” lo rimproverai.
“È tutto ok” mi rassicurò. “Ci sei anche tu lì.”
“Mark!” risposi con voce indignata, circondandole il busto anche con l'altro braccio come se potessi coprirla alla sua vista.
Lei rise, scuotendo la testa.
“Sei esattamente come Calliope ti aveva descritto.”
“Ti ha parlato anche di me?” fu invece la domanda di Erica. “Perché, sai, io e lei non eravamo poi così vicine al liceo. Siamo uscite con la stessa gente, per un po' di tempo, ma non siamo mai state particolarmente amiche.”
“Il tuo nome è venuto fuori in una conversazione sull'adolescenza, mi pare” mentì, le fossette bene in vista.
“Allora” intervenni, nel tentativo di cambiare discorso “come è successo che voi due vi metteste insieme?”
Non volevo che Erica scoprisse che al liceo avevo avuto una cotta per lei. In fondo non eravamo mai state molto intime, come lei stessa aveva detto. Era strano che avessi parlato di lei ad Arizona, ma una volta la mia adorabile metà mi aveva chiesto quale fosse stata la prima ragazza da cui mi ero sentita attratta ed io avevo pensato di non doverle mentire su qualcosa di così stupido. In quel momento, però, per poco non mi pentii di non averlo fatto.
“E voi, come vi siete incontrate?”
“Uh?” mormorai, tornando a seguire la conversazione che avevo provvisoriamente abbandonato in favore di un mio filone di pensieri.
“Ci siamo conosciute quando Calliope è venuta a Seattle per visitare l'ospedale. Doveva scegliere dove fare la specializzazione in chirurgia ed io ho mostrato l'ospedale a lei ed altri cinque ragazzi quel giorno. Il suo era l'unico nome che ero riuscita a memorizzare” mi lanciò un sorriso.
Continuai ad osservare il suo profilo anche quando fu il mio turno di proseguire nel racconto di quella storia.
“Io ero terrorizzata dal far sapere alla gente che mi piacevano le ragazze. Quindi quando Arizona mi invitò a bere qualcosa insieme a lei io ho pensato che fosse un'idea geniale declinare il suo invito e trasferirmi dall'altra parte degli Stati Uniti per vederla tutti i giorni. Finché un giorno ho capito che o mi facevo passare quella paura ridicola o avrei potuto dire addio all'occasione che pensavo di poter continuare a rimandare.”
“E così mi ha chiesto di uscire” terminò al posto mio, voltata verso gli altri ma del tutto consapevole dei miei occhi su di lei.
“E non ho mai avuto occhi per nessun altro da allora” aggiunsi in un sussurro.
“E neanche io” rispose, lanciando un'occhiata di sottecchi nella mia direzione con un sorriso che aveva qualcosa di timido.
Non riuscii a trattenermi dal posare un bacio sulla sua tempia.
“Andiamo. È tardi e domani mattina dovremo svegliarci presto per affrontare di nuovo la mia famiglia.”
Mi alzai, lasciando qualche dollaro sul tavolo e poi tesi una mano verso Arizona, aiutandola a fare lo stesso.
Mark e Erica ci imitarono subito dopo.
“Affrontare i Torres? Non mi suona convincente. I tuoi ti adorano” mi fece notare lui, abbracciandomi per salutarmi.
“Diciamo solo che non hanno preso bene il fatto che sto per sposare una donna” spiegai con una scrollata di spalle. “Me lo aspettavo, in realtà.”
Lui mi guardò, il suo sorriso sparì lentamente, lasciando il posto ad un cipiglio serio.
“Quando hai detto che vi sposate?” cambiai argomento velocemente. “Voglio mandarvi una cartolina, come minimo.”
“Sabato.”
“Co- Questo sabato?” domandai, sgranando gli occhi. “Domani?”
“Sì. Ho anticipato l'addio al celibato in modo da non avere i postumi” mi sorrise come se quella fosse stata l'idea del secolo.
“Beh, allora niente cartolina. Vi faccio le congratulazioni in persona” abbracciai Mark, stritolandolo tra le mie braccia. “Mi sei mancato Mark. Perfino le tue battute a sfondo sessuale. Beh, non tanto uno sfondo quanto un primo piano in realtà” scherzai.
“Mi conosci, Callie. È il modo in cui sono sempre stato.”
Mi allontanai, sorridendogli un'ultima volta.
“Prometti di essere felice” mi ordinò.
“Lo sono già” rimarcai con un sorrisetto compiaciuto. Spostai lo sguardo sulla donna al suo fianco, il sorriso divenne di cortesia. “Congratulazioni, Erica.”
“Ti ringrazio” ricambiò il sorriso. “E saremmo felici se decideste di venire al nostro matrimonio, domani” propose. “Entrambe” aggiunse guardando Arizona con lo spettro di un sorriso. “Alle dieci di mattina.”
“Ricordi dov'è la chiesa, Torres?”
“Ci puoi scommettere, Sloan. Ci hanno obbligato ad andarci ogni domenica, per anni. Insieme.”
“Già, perché i nostri genitori pensavano che ci saremmo sposati” mi ricordò. “Ma allora avevamo meno di dieci anni, come potevano saperlo?”
“Eppure ci hanno sempre sperato” gli feci notare. “Fino al giorno esatto in cui me ne sono andata da qui” sussurrai, ancora una volta distratta dai ricordi. “Ci vediamo domani, allora. Buonanotte, ragazzi” li salutai, incamminandomi fuori dal locale con un braccio sistemato in modo protettivo attorno alle spalle di Arizona.
“Allora, che effetto ti ha fatto rivedere il tizio che avresti dovuto sposare?” domandò dopo qualche minuto di passeggiata.
Io risi, voltando la testa di lato per baciarla sulla tempia.
“Mi ha confermato, per l'ennesima volta, quando sono stata fortunata per essere riuscita a trovare te.”
Si unì alla mia risata, premendo brevemente il naso contro la mia guancia prima di tornare a guardare in avanti.
“E rivedere lei, che effetto ti ha fatto?”
Io sospirai, fingendo di pensarci attentamente per qualche istante, con una falsa espressione pensierosa.
“Mh. Forse sono innamorata di lei. Aspetta, vado ad implorarla di non sposarsi.”
Feci finta di volermi voltare indietro, ma lei, ridendo, mi circondò il busto con entrambe le braccia, facendomi tornare a camminare in avanti.
“Scordatelo. Sei mia.”
Io continuai a ridere, osservando i suoi occhi che mi guardavano.
“Lo sono, non è vero?” chiesi retoricamente. “Sono così tua” sussurrai, abbassandomi per rubarle un bacio. “E innamorata di te” conclusi, allontanandomi il minimo indispensabile per guardarla negli occhi.
“Sono innamorata di te anche io” rispose, nascondendo il viso contro il mio collo, fidandosi ciecamente di dove io l'avrei condotta camminando. “E indiscutibilmente tua.”
“No, ma sul serio. Rivederla è stato come vedere un'estranea dai lineamenti familiari. Non la conoscevo al tempo, anche se fingevo di conoscerla. E di certo non la conosco adesso. Ti dirò, non credo mi abbia fatto nessun effetto.”
“Sono egoista se ti dico di essere felice?”
Io risi, cercando di avvicinarla ancora di più, nonostante sapevo benissimo che fosse impossibile. “No” la rassicurai. “Sono un pochino gelosa. Ma pochissimo.”
Tornammo in albergo abbracciate, dormimmo abbracciate e il giorno dopo andammo in chiesa tenendoci per mano. Aveva capito finalmente che non volevo nascondere niente.
Fuori dalla piccola chiesa incontrammo Mark, leggermente nervoso, che continuava a spostare il proprio peso da un piede all'altro.
“Che ci fai qui fuori? Non dovresti essere all'altare o qualcosa del genere?”
“Sto aspettando Derek. Ha le fedi e senza di lui non ho intenzione di entrare.”
“Capito” mi guardai attorno, cercando di riconoscere qualcuno degli invitati.
“Se cerchi i tuoi non sono ancora arrivati.”
Mi voltai di scatto verso di lui.
“I miei sono qui?”
“Dovrebbero. Le nostre famiglie sono parecchio vicine.”
“Già” borbottai. “Come dimenticare?”
“Eccomi, stavo giusto per...Callie?”
“Derek” gli sorrisi, abbracciandolo.
“Che ci fai qui?” chiese sorridendomi a trentadue denti.
“Sono qui al matrimonio di Mark” risposi con tono ovvio, eludendo la vera domanda.
“Che coincidenza, anche io.”
Stava sorridendo come un'idiota ed anche io. Mark era il mio amico di sbronze, ma Derek era stato il mio confidente.
“Derek, voglio presentarti Arizona. Arizona, lui è Derek.”
“McDreamy” gli disse, stringendogli la mano. “Sapevi che ti chiamavano così, non è vero?” chiese poi, ottenendo un cenno affermativo della testa in risposta ed un sorriso ancora più grande. “Non lo capivo, ma lo capisco adesso” confermò lei con un sorriso completo di fossette. “I capelli e tutto il resto” fece un gesto in direzione dei capelli perfetti dell'uomo davanti a noi. “Sono impegnata” aggiunse vedendo la sua faccia divertita. “Non ci sto provando con te, se è quello che stai pensando.”
Lui rise, voltandosi verso di me.
“Mi piace.”
“Meglio che non ti piaccia troppo” lo avvertì Mark in un sussurro. “Torres non vuole che qualcuno se la immagini nuda.”
Lo colpii su un braccio. Forte.
“Io e Arizona stiamo per sposarci” informai Derek con un sorriso, prendendo la mano della donna al mio fianco.
Per un istante lo vidi spiazzato. La guardò per una seconda volta e poi guardò di nuovo me.
“Se ti rende felice, mi piace ancora di più. Posso venire al matrimonio?”
Sorrisi del suo entusiasmo.
“Assolutamente. Per adesso, tra i miei invitati ci siete tu e mio nonno. Ma sono sicura che, se gioco bene le mie carte, riuscirò a convincere Nana a prendere un aereo.”
“Callie” sussurrò Mark, l'espressione improvvisamente seria. “Io e Derek andiamo in chiesa, adesso. Ci vediamo dentro. Buona fortuna.”
“Buona fortuna?”
“Callie” una voce incerta mi fece voltare.
I due uomini accanto a noi si allontanarono in silenzio. Rafforzai la presa sulla mano di Arizona quando la sentii provare a farla scivolare via.
“Mamma. Se sapevo che foste stati qui anche voi non sarei mai venuta.”
“Tu devi essere Arizona” incrociò lo sguardo della donna al mio fianco, accennando un sorriso ed ignorando le mie parole.
“Sì, signora Torres. È un piacere fare la sua conoscenza.”
“Mi è stato detto che sei un chirurgo anche tu.”
“Chirurgia pediatrica” confermò.
Si creò uno di quei silenzi tesi che non vedi l'ora che finiscano. Né io né mia madre avevamo intenzione di dire niente. Arizona osservò il profilo del mio viso per diversi secondi, prima di decidersi a parlare.
“Senta, mi dispiace.”
Mia madre fu colta di sorpresa, la guardò con aria perplessa, aspettando che continuasse. Io, invece, la guardai come se fosse assolutamente impazzita.
“Mi dispiace di non essere la persona che aveva sperato di vedere al fianco di sua figlia. Mi dispiace davvero, perché non so cosa fare per cambiare quello che ne pensa. Sono stata cresciuta per essere una brava persona nella tempesta. Per amare il mio Paese e la mia famiglia, per proteggere le cose che amo. Quando mio padre, Colonnello Daniel Robbins del corpo dei Marines, ha saputo che ero lesbica, ha detto che aveva una sola domanda da farmi. Mi chiese se ero ancora la persona che aveva cresciuto. Mio padre non è un uomo che si piega, ma si è piegato per me perché sono sua figlia. Io sono una brava persona nella tempesta. Amo sua figlia e proteggo le cose che amo. Non che serva, lei non ne ha bisogno. È forte, generosa, una persona per bene. Ed è la persona che lei ha cresciuto.”
Non avevo parole. Ma anche se le avessi avute, le lacrime nei miei occhi mi avrebbero impedito di dirle ad alta voce. Solo quando vidi mio padre avvicinarsi decisi di allontanarmi da mia madre, conducendo Arizona verso l'entrata della chiesa.

“Sai come hanno fatto i tuoi nonni ad annullare il pranzo della domenica?”
“Onestamente, no. Ma non mi interessa, mi fa solo piacere poter passare un giorno in più insieme a loro prima di ripartire tra qualche ora.”
Lei mi sorrise.
“Mi piace vederti così felice.”
“Di che stai parlando? Sono sempre felice quando ci sei tu.”
“Beh, sì, ma di solito non si vede così bene. È da un po' di tempo che sembri brillare.”
“Tesoro, è da quando mi hai detto che mi sposerai che ho iniziato a brillare. Chiedi a tua madre, o a Addison quando torniamo a Seattle. Sono così felice a causa tua. Se vuoi qualcuno da incolpare, sei tu.”
Bussai alla porta, baciandola sulla guancia mentre le prendevo la mano con la mia.
“Siete arrivate, entrate” ci incoraggiò Nana con un sorriso.
Le seguii, sospettosamente. Perché quella faccenda improvvisamente mi puzzava di trappola?
“Cosa stavate facendo?”
La risposta arrivò con una disarmante innocenza.
“Guardando vecchie fotografie.”
Mi si gelò il sangue nelle vene.
“Oh, no, Nana. Avevi promesso” protestai, fermandomi immediatamente ed impedendo ad Arizona di entrare in soggiorno.
“Non ricordo che sia mai successo niente del genere” replicò sempre con la stessa innocenza, prendendo l'altra mano di Arizona mentre la conduceva verso il soggiorno. “Vieni, cara. Sei arrivata al momento perfetto.”
Lei si gettò un'occhiata alle spalle, rivolgendomi uno sguardo divertito e allo stesso tempo scrollando le spalle, facendomi capire la sua presunta impotenza sulla situazione, mentre mia nonna la trascinava sul divano, accanto a sé. Mio nonno si avvicinò lentamente, sedendosi dall'altro lato di Arizona, mentre mia nonna Maria si sedette al tavolo del soggiorno. Io rimasi testardamente in piedi.
“Vediamo un po', dove sono le foto di quando Callie era piccola?”
“Nonna, ti sto implorando di non fare niente di cui potresti pentirti” la avvertii, incrociando le braccia al petto.
“Ah, eccoci qui” mi coprii gli occhi con una mano, quando riconobbi la pagina su cui mia nonna si era fermata. “Questa è la prima foto in assoluto che le abbiamo scattato.”
“Perché trovi così enormemente soddisfacente mostrare immagini di me completamente nuda a perfetti estranei?” le chiesi, scuotendo la testa.
“Zitta, Calliope, lei non è un'estranea” mi corresse Nana. “È la tua fidanzata.”
Quello mi mise un sorriso in faccia e mi fece zittire.
“Eri davvero carina da piccola” osservò Arizona con una risata, analizzando le varie pose in cui mi ero esibita quando avevo da pochi mesi ad un anno di vita.
Il sorriso sparì e mi coprii di nuovo la faccia con una mano, facendo una smorfia.
“Avevi un costume di Halloween da coniglietto?” sentii la sua risata cristallina e non mi servì nemmeno sbirciare per ricordarmi di quella foto. Faceva ogni volta impazzire tutti quanti e le persone che la vedevano iniziavano a fare strani 'Aw' e 'Ow'. Era inquietante.
Mia nonna Maria, cedendo finalmente alla presenza di Arizona, si andò a sedere accanto a Nana appena quella foto venne menzionata.
“Calliope, devo dirtelo, io lavoro con i bambini tutto il giorno, ma non ne ho mai visto neanche uno lontanamente carino quanto te” mi lanciò un sorriso completo di fossette mentre Nana continuava a sfogliare il libro.
“Questo era il suo terzo compleanno. Qui invece eravamo al mare. Qui era nel bel mezzo del suo bagnetto.”
“Per l'amor del cielo, Nana, smettila con le fotografie in cui sono nuda” esclamai, sull'orlo della disperazione.
“Como si nunca te vio desnuda” sussurrò in risposta.
“Oh mio Dio, Nana” chiusi gli occhi e feci una smorfia.
“Me refería a ella” spiegò.
“So benissimo cosa intendevi, grazie” perseverai nella mia smorfia. “Ma non è il genere di argomenti che qualcuno vorrebbe discutere con sua nonna. E ti sarei grata se non parlassi spagnolo quando c'è anche Arizona, non è carino visto che lei non può capirlo.”
Arizona ci osservava in modo curioso, visto che non sapeva neanche una parola di spagnolo.
“Questa è la mia preferita” intervenne Yayo, indicando una fotografia in cui mi teneva in braccio quando avevo più o meno cinque anni e gli sorridevo senza due dei miei denti.
“I tuoi capelli erano molto più corti” osservò la bionda, guardando la foto da vicino “ma il sorriso era sempre quello affascinante di adesso.”
“Telefonerò a Barbara quando torniamo” la informai. “Le chiederò di portare un album di tue foto di quando eri piccola. Più imbarazzante è, meglio è. E ne terrò delle copie. In modo da ricattarti se mai nominerai di nuovo il costume da coniglietto o la mia nudità.”
“Nessuna foto di quando ero piccola” storse il naso “sono tutte misteriosamente sparite quando avevo diciannove anni.”
“Tua madre, ormai, ha sicuramente scoperto dove le avevi nascoste” le rivolsi un sorriso rassicurante.
Nana aveva continuato a sfogliare le pagine del piccolo libro.
“Eccola qui” ci informò. “La mia preferita è questa. Te la ricordi, Callie? Avevi dodici anni ed era la prima volta che ti facevano tenere in braccio tuo cugino. Ricordo che allora ero quasi riuscita a vedere la donna che saresti diventata.”
Mi avvicinai, osservando la foto in cui avevo un vestitino celeste e tenevo in braccio un neonato avvolto in una coperta bianca. Quella foto, tra tutte, riuscì a farmi sorridere. Ero stata così felice di poterlo tenere in braccio, al tempo.
“Te ne sei andata in giro tutto il giorno dicendo che avresti avuto almeno tre bambini prima dei trent'anni.”
“Già. E poi ho deciso che sarei diventata un chirurgo, invece” le feci notare con tono sarcastico. “Una delle due cose non deve per forza escludere l'altra” intervenne Arizona distrattamente, continuando a guardare quella foto. “La Bailey ha avuto un bambino.”
“La Bailey può anche operare qualcuno in punti diversi, mentre parla di tutt'altro e ascolta della musica. La Bailey può fare qualsiasi cosa” protestai con un sorrisetto.
Lei portò lo sguardo su di me. Tornai improvvisamente seria vedendo la sua espressione.
“Ma avremo sicuramente anche noi il primo bambino mentre io sto ancora finendo la specializzazione” mi affrettai a rassicurarla che non avrebbe dovuto aspettare come minimo un altro anno.
Tre sguardi si spostarono simultaneamente su di me.
“Che c'è?”
“Avrete dei bambini?” domandò Nana.
“Sì” risposi come se fosse abbastanza scontato. “Che vi fa pensare il contrario?”
“Calliope ha sempre voluto avere bambini” intervenne Arizona.
“Sapete, sono la stessa persona che sono sempre stata. Questa cosa, non cambia niente. Almeno, non per me.”
Rimasero in silenzio per diverso tempo, incontrai a turno i loro sguardi.
Sentimmo qualcuno bussare alla porta.
Nana si alzò per andare ad aprire. La sentii parlare con qualcuno in spagnolo, dicendo che era tutto apposto e che non era successo niente di grave, che non c'era un motivo in particolare per cui avevano annullato il tradizionale pranzo della domenica se non esattamente quello che avevano dato. Che erano stanchi.
Poi ci furono dei rumori e alla fine due persone si affacciarono alla porta del soggiorno, mentre Nana chiudeva la porta e ci raggiungeva.
“Sapevo che saresti stata qui” le parole di mio padre, seppure fossero una semplice constatazione, suonarono più come un'accusa. “Come quando eri piccola, se le cose non vanno come vorresti tu vieni a nasconderti dai nonni.”
“No, sono venuta dai nonni perché loro ancora mi parlano senza dovermi urlare in faccia” gli risposi con semplicità, cercando di controllare il tono della mia voce. Sforzo che lui non aveva fatto.
“Calliope, soy decepcionado de ti.”
“No, sono io che sono delusa da te” risposi senza pensarci.
Quello, finalmente, dopo due giorni di urla, provocò silenzio.
“E la tua?” chiese Yayo con tranquillità, quasi come se non ci avesse nemmeno sentito. “Quale è la tua preferita, Arizona?”
“Rimane quella con il costume da coniglietto” rispose con un sorriso spontaneo.
“Piace molto anche a me” confermò lui con un sorriso. “Hai mai visto la cameretta in cui dormiva Calliope quando rimaneva da noi per la notte? Lì c'è un ingrandimento di questa foto.”
“No, non l'ho vista” rispose scuotendo la testa.
“Vieni” le disse, alzandosi in piedi e facendole cenno di seguirlo.
“Che stai facendo, papà?” domandò Carlos con un'espressione incredula in viso.
“Mostro la casa ad Arizona” spiegò lui con un'ovvietà che non ammetteva repliche. “La prossima volta che verranno a trovarci dormiranno qui, non certo in un albergo, visto che tu non hai posto per loro.”
Vidi lo sguardo di mio padre posarsi su Arizona e qualcosa dentro di me scattò. Dovevo andarmene di lì prima che dicesse qualcosa che mi avrebbe fatto venire voglia di colpirlo.
“Ti ringrazio Yayo, ma dobbiamo scappare. Il nostro aereo parte tra poco e dobbiamo davvero andare in aeroporto.”
Lui annuì.
“Aspetto il mio invito” mi fece sapere, mentre si muoveva in direzione dell'ingresso per accompagnarci.
Gli sorrisi, abbracciandolo. Il sorriso divenne parecchio più grande quando, dopo di me, abbracciò anche Arizona.
“Fate buon viaggio” ci augurò Nana.
“Chiama presto” aggiunse Maria, quando eravamo quasi alla fine del vialetto.
Annuii, salutandoli con la mano, mentre con l'altra afferravo quella di Arizona e aprivo lo sportello per lei. Andammo a riconsegnare la macchina che avevamo preso a noleggio e poi in aeroporto.

“Sembri calma.”
“Lo sono, sono molto calma.”
“Non l'avrei mai detto. La prima volta che ti ho conosciuta mi sei sembrata una persona che tende ad innervosirsi.”
Io gli sorrisi, arruffando i capelli di Kyle che stava giocando al mio fianco.
“E perché dovrei essere nervosa? Tra poche ore sarò sposata all'amore della mia vita. Sto alla grande.”
“E i tuoi nonni che dicono?”
“Eh” scrollai le spalle. “Nana dice che la casa è troppo piccola, che ci sono solo quattro camere da letto. Non ho mai visto Yayo sorridere così spesso. Nonna Maria, invece, fa ancora finta di non essere felice. Ma, sotto sotto, si vede che lo è.”
“E i tuoi?”
Scrollai le spalle.
“Hanno avuto l'invito. Ma non penso che verranno.”
“E come ti senti a riguardo?”
Quella frase fece finalmente accendere qualcosa.
“Ah, adesso ho capito. Tua sorella è preoccupata che possa dare di matto e ti ha mandato a psicoanalizzarmi.”
“No” negò lui, distogliendo lo sguardo destandomi ancora più sospetti. “Diciamo più che altro che mi ha mandato in perlustrazione.”
Io risi, alzandomi in piedi e sospirando.
“Com'è lei? Come è vestita?”
“Mi ha fatto promettere di non rivelare neanche il minimo dettaglio” sollevò le mani in segno di impotenza.
Risi, entrando nella stanza in cui avrei dovuto trovarmi anche in quel momento e dove Addison si stava occupando del proprio trucco prima di passare al mio. Presi il telefono, premendo il tasto di chiamata veloce.
“Pronto?”
“Che stai indossando?” chiesi in un sussurro.
Sono sicura che riconobbe la voce, perché rise subito e la sentii muoversi, probabilmente per avere un po' di privacy ed entrare in bagno.
“Lo vedrai stasera.”
“No, lo vedrò tra poco.”
“No, quello che ho indosso adesso, lo vedrai stasera.”
“Oh” fu l'unica cosa che riuscii a rispondere quando capii di cosa stava parlando. “Scherzi vero? Sei lì con tua madre, no?”
“Certo che scherzo” mi rassicurò con una risata cristallina. “Mia madre è entrata quando avevo già indossato l'abito.”
“Bene. Come va con Teddy?”
“Non le piace il colore che abbiamo scelto.”
“Neanche ad Addison. Parlando di anime gemelle.”
“Guarda che ti sento” mi fece presente la rossa. “Ho finito. Ora è il tuo turno.”
“Devo andare, amore. Ci vediamo tra un paio d'ore.”
“Non essere sciocca. Ti chiamo tra una mezz'oretta.”
“Voi due siete nauseanti” urlò Addison dentro il cellulare.
La allontanai con una piccola spinta.
“Ci sentiamo tra poco. Ti amo.”
“Ti amo anche io.”

Il resto del mondo era sparito. Non riuscivo a vedere altro che lei, mentre stavamo ballando. Ma anche quando ci sedemmo, non riuscivo a vedere comunque altro.
“Siamo sposate.”
“Siamo sposate” confermai.
“Tra cinquanta, sessant'anni, ci terremo per mano e ripenseremo a questo momento in cui non sapevamo ancora tutte le cose che ci sarebbero successe. Non eravamo ancora sicure, ma abbiamo fatto un salto nel vuoto.”
“E ti amerò ancora come oggi” sussurrai, immaginando cosa avrebbero fatto alle nostre vite sessant'anni, ma era un tempo troppo lungo da immaginare.
“Ragazze” alzammo la testa. “So che probabilmente state per andare a casa, ma c'è qualcosa che vorrei darvi, prima” ci informò Yayo. “Questo forse non lo userete ancora per un po' di tempo, ma ho il sospetto che potrebbe farvi comodo, un giorno” mi porse una scatola chiusa.
Sollevai il coperchio, vedendo all'interno quello che, molti anni prima, era stato il mio primo pigiamino. Ne sfiorai il tessuto con le dita.
“E per te, Arizona, visto che non penso che tornerete molto presto a trovarci, ho portato questa” si frugò nella tasca interna della giacca, estraendone una fotografia che le porse.
Il sorriso della donna al mio fianco non tardò ad arrivare.
“È Calliope vestita da coniglietto.”
Yayo annuì. “Puoi tenerla. Noi abbiamo la copia più grande.”
“Non hai idea di quanto significhi per me che tu sia qui, Yayo.”
Lui mi tese una mano.
“Mi era stato promesso un ballo con mia nipote, se non ricordo male.”
Presi la sua mano, alzandomi ed abbracciandolo, prima di seguirlo sulla pista da ballo.

Stavo guardando delle magliette. Quelle con le scritte stampate sul davanti. Ce n'erano alcune davvero divertenti.
“Calliope.”
Alzai gli occhi distrattamente ed il sorriso che avevo sparì, trasformandosi in uno appena accennato.
“Mamma, papà. Che ci fate in Maryland?”
“Dovevo sbrigare degli affari” rispose mio padre. “E tu che ci fai qui?”
Scrollai le spalle. “Guardo delle magliette.”
“Intendevo...”
“So cosa intendevi. La famiglia di Arizona vive qui vicino” risposi pacatamente, vedendo una maglietta che mi colpì particolarmente.
“Ah. Siete venute a trovarli?” domandò mia madre, corrugando la fronte.
“Sì” risposi con estrema calma. “Di solito vengono loro, ma stavolta abbiamo deciso di cambiare” finsi un sorriso, guardandoli di nuovo.
Ci fu un lungo silenzio, che nessuno di noi riuscì a riempire.
“È passato molto tempo” osservò mia madre.
“Molto davvero” rimarcai distrattamente.
Presi la maglietta che avevo notato sollevandola per la stampella, pronta a svignarmela via.
“Beh, allora io...”
“Mamma!”
Mi voltai, vedendo un piccolo tornado correre nella mia direzione. La sollevai al volo, prendendola in braccio.
“Che è successo, Sofia?”
“Nonna dice che è pronta per andare nel prossimo negozio.”
“Guarda che ho trovato” le mostrai la maglietta che avevo in mano. “Ti piace?” le chiesi, vedendola leggere la scritta e sorridere. “Possiamo regalarla a mamma, che ne dici?”
Annuì, felice. Poi spostò lo sguardo verso le due persone difronte a noi che guardavano la mia copia in miniatura con espressione attonita. Mi passò le braccia attorno al collo, improvvisamente colta da un'ondata di timidezza.
“Calliope. Non sono riuscita a fermarla prima che...” si bloccò quando vide le due persone in piedi davanti a noi. “Signori Torres.”
“Mamma, abbiamo trovato un regalo per te” la informò Sofia immediatamente.
Io risi. “Mija, i regali dovrebbero essere una sorpresa.”
“Beh, mamma sembra sorpresa” constatò. “Ma non per il regalo” aggiunse. Era troppo intelligente per il suo stesso bene, la maggior parte delle volte.
Lo sguardo di mio padre si spostò sul bambino che Arizona stava tenendo per mano.
“Quanti anni hai, Sofia?” chiese mia madre con esitazione.
“Quasi sei. Tu?”
“Un po' di più” rispose con un sorriso tirato.
“Vi abbiamo ritrovato, finalmente. Andy non smette più di piangere” Barbara si avvicinò, in modo che Arizona potesse prendere in braccio il piccoletto mentre Jamie lasciava andare la sua mano.
“Dov'è Elizabeth?” chiesi, corrugando la fronte.
“Con Daniel. Erano nel reparto delle scarpe. Salve” sorrise ai miei genitori, anche se non aveva la minima idea di chi fossero. “Barbara Robbins” si presentò, tendendo una mano a mio padre.
“Carlos Torres.”
“Lucia Torres.”
Strinse le loro mani ma il suo sorriso vacillò quando capì a chi si trovava davanti.
“Mamma” mi chiamò Jamie “cosa hai in mano?”
“È un regalo per mamma” rispose Sofia al posto mio. “Puoi farglielo insieme a noi, se vuoi.”
Lui si avvicinò, prendendo la maglietta dalle mie mani e leggendo la scritta per poi guardare verso l'alto e sorridermi mostrandomi le fossette perfette che aveva preso in eredità dai Robbins.
“Mi piace. Ma dovresti averne una uguale anche tu.”
“Perché non andiamo a chiamare il nonno, ragazzi?” disse loro Arizona, cercando di lasciarmi di nuovo sola con i miei genitori.
“Non importa. Avevamo finito” rivolsi un sorriso tirato ai miei genitori.
Lasciai scendere Sofia, mentre Jamie mi restituiva la maglietta e ne sceglieva una uguale, ma con il colore di sfondo nero invece che celeste.
“Ecco. Questa è per te” disse mostrando la maglietta con la scritta 'Best Mom'.
“Hai rovinato la sorpresa, Jamie. Ora mamma sa cosa c'è scritto sopra” lo rimproverò Sofia, guardando verso Arizona, che però aveva sorriso loro.
“Non importa ragazzi” li rassicurò mentre si allontanavano in direzione della cassa, dopo aver sorriso ai miei genitori in segno di saluto. “Mi piace moltissimo in ogni caso.”
Barbara li seguì, mentre io lanciai un'ultima occhiata alle due persone davanti a me. Entrambi sembravano confusi di non aver saputo niente di quello che era successo.
“Vi siete persi sette anni della mia vita” dissi loro semplicemente, senza sentire il bisogno di giustificarmi. “Pensavate davvero che non fosse cambiato niente? Credevo che ve lo aspettaste.”
“Callie.”
Mi voltai verso il Colonnello.
“Mamma, abbiamo perso gli altri.”
“Sono alla cassa, tesoro” sorrisi a Elizabeth, prendendo la mano che mi stava porgendo. “Andiamo a cercarli, ok?”
“Ok. Con chi stavi parlando?” chiese mentre ci allontanavamo da loro, il Colonnello accanto a noi.
“Con nessuno” la rassicurai. “Persone che facevano parte della mia vita tanto tempo fa.”




Grazie mille per la pazienza, scusate il ritardo...A presto!




Ritorna all'indice


Capitolo 42
*** La nostra prima bottiglia di champagne ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: OOC (Arizona)






La nostra prima bottiglia di champagne


Sapevo apprezzare la tragedia.
Forse era a causa del fatto che ero profondamente cinica. Fatto sta che avevo sempre saputo apprezzare, fin dai primi anni della mia adolescenza, una buona dose di dramma. La vita non è altro che questo, si dice, una commedia recitata dentro questo palcoscenico che è il mondo, ma bisogna saperci fare, saper recitare bene, per riuscire ad apprezzarne la sottile ironia. Almeno, finché l'ironia non diventa un po' meno sottile.
Avevo dolorosamente affrontato la morte di mio fratello quando avevo diciotto anni. Ma in realtà, non esattamente. Piccola correzione. Avevo vissuto la morte di mio fratello, quando avevo diciotto anni. Ma non l'avevo mai affrontata. Non sul serio. Non nel modo in cui le persone affrontano di solito la perdita, non nelle cinque fasi del dolore. Invece di cinque, a me ne era bastata solo una. E aveva anche funzionato a meraviglia.
Il metodo che avevo usato era semplice.
Il dolore non poteva essere provato, se non poteva essere ricordato.
Negazione, rabbia, trattativa, depressione e accettazione.
Io mi ero fatta bastare l'annebbiamento.
Più di qualche ora manca da ciò che mi ricordo di quel periodo in cui il dolore della perdita era più acuto, di giorni, settimane perfino, ho ricordi confusi, vaghi, storditi. Annebbiati.
Si dice che qualsiasi sia la nostra dipendenza, non può mai andare a finire bene. Più che altro perché, qualsiasi sia la cosa che ci fa sentire meglio, un giorno smetterà di farci bene ed inizierà a farci male.
Eppure, non riesci mai a smettere di essere dipendente dalla cosa neanche quando inizia ad essere come un veleno che ti piace iniettarti dentro la testa, non riesci mai a smettere finché non tocchi il fondo.
Io ho toccato il fondo quando avevo diciotto anni.
Mi piaceva dare la colpa a mio fratello, alla sua morte, ma la verità era che quella storia era iniziata parecchio prima e che non sarebbe finita tanto presto.
Finché un giorno mi svegliai dopo tre giorni di cui non riuscivo a ricordarmi praticamente niente e mi alzai, facendo un passo in avanti. Non letteralmente. Ma comunque, mi alzai e feci un passo in avanti e guardandomi allo specchio confessai a me stessa che avevo un problema. Un grande, enorme, problema.
Dopo la malattia inizia la guarigione.
La mia iniziò con sedute di psicoanalisi, sedute agli Alcolisti Anonimi e lunghe chiacchierate con il mio sponsor.
Avevo vissuto per due anni con una bottiglia in mano.
E quante volte mi era stato detto che sedici anni era un'età giovane per iniziare a bere. E quante volte avevo risposto che sarebbero stati sorpresi dallo scoprire quante persone a sedici anni non consideravano l'alcolismo un problema tanto quanto una conquista. Un passo verso la propria libertà.
Avevo vissuto due anni con una bottiglia in mano e a diciotto anni avevo toccato il fondo e da lì avevo finalmente ricominciato a risalire.
Ogni volta che mi trovavo in una stanza con degli alcolici sentivo il bisogno di bere. Quindi uscivo dalla stanza.
Sorprendentemente, capitava più spesso di quanto uno si sarebbe aspettato. Pranzi di Natale in famiglia, compleanni, cene del Ringraziamento, cene con i compagni di scuola, serate passate a casa di amici.
Negli anni, avevo perfezionato un modo per evitare di avvicinarmi a qualcosa di alcolico quando avevo un momento di debolezza.
Mi sedevo, prendevo un respiro profondo, ed iniziavo con l'alfabeto. Per ogni lettera, pensavo a qualcosa che mi facesse sentire meglio, che mi facesse passare la voglia di scolarmi una bottiglia di champagne. O tequila, o qualcosa di ancora più forte.
Iniziavo sempre nello stesso modo.
A come Arizona.
Perché il primo motivo per cui non dovevo bere era per me stessa. Per il rispetto che avevo di me stessa.

Sapevo apprezzare la tragedia.
Probabilmente, perché ne avevo vissute parecchie.
La morte di mio fratello era l'esempio che tornava più comodo usare, ma non era il solo.
Non mi andava di sedermi e mentire parlando di come avessi iniziato a bere perché i miei genitori erano assenti o che mio padre mi picchiava finché non riuscivo più a respirare e mi portava in ospedale dicendo ai medici che ero caduta dalle scale. Non era colpa dei miei genitori. Loro erano il manifesto della famiglia perfetta. Gentili, comprensivi, ottimisti, con quel loro essere giusto un po' apprensivi che li rendeva perfetti. Ed erano le ultime due persone da incolpare per quello che era successo a me.
E non mi andava di dire che la colpa era del fatto che mio fratello aveva deciso che voleva far contento mio padre e si era infilato degli scarponi, aveva preso un fucile, ed era salito sul primo aereo per l'Iraq. Mio fratello era un eroe. Non era colpa sua quello che mi era successo, non era colpa sua e non c'entrava il fatto che le cose mi fossero sfuggite di mano qualche mese dopo che lui era partito.
E non c'entrava il fatto che tutti mi ritenessero la figlia perfetta, che avessero scritto per me il mio futuro. La mia famiglia – nonni, zii, perfino qualcuno che vedevo due volte l'anno – parlavano del futuro dottore e già mi chiedevano consigli sulla loro salute. Non era colpa loro, né delle pressioni che mi avevano fatto. Era colpa mia. Era colpa del fatto che non ero riuscita a gestire quelle pressioni.
Non era colpa di nessuno. Non era colpa dei miei genitori, di mio fratello, della mia famiglia, del fatto che la maggior parte del tempo avrei volentieri chiuso gli occhi e urlato fino ad ottenere anche solo mezzo metro quadrato di spazio personale.
Non era colpa loro.
Era colpa loro eccome, però.
Così ero salita su un aereo, avevo cambiato Stato, cambiato lavoro, cambiato psicologo.
Durante il colloquio di lavoro informai il primario di chirurgia del Ronald Reagan Medical Center, Los Angeles, California, non volendo mentire per omissione, della piccola parentesi che macchiava il mio passato, tormentava il mio presente e minacciava il mio futuro. Una piccola sciocchezza che avevo fatto da piccola. Niente di cui preoccuparsi. Era stato anni prima.
Era venuto fuori che il Ronald Reagan Medical Center, Los Angeles, California, non avrebbe assunto un'ex alcolista come primario di chirurgia pediatrica.
A come Arizona, B come battito, che sentivo aumentare quando volevo bere, C come cura, che era quella che stavo cercando di non rovinare, D come...
Arrivai alla N – N come nascita – prima che la voglia di bere mi passasse.
Il primario di chirurgia del Seattle Grace Hospital, Seattle, Whasington, non la pensava allo stesso modo dell'idiota al Regan.
Quindi andai a vivere a Seattle e ricominciai una vita nuova. Un nuovo inizio. Potevo finalmente dimenticarmi del passato.
Eccetto il fatto che non potevo.
Le cose che mi erano successe erano ciò che mi aveva reso quello che ero.
Non potevo dimenticare. Ma riuscii, dopo aver tentato ancora e ancora, ad imparare a convivere con il passato che avevo avuto.
Incontrai lei neanche un mese dopo che avevo iniziato a lavorare lì.
Mi piaceva l'idea di qualcuno che non conoscesse le cose che avevo fatto. Della maggior parte non me ne vergognavo, ma mi piaceva comunque che lei non mi conoscesse.
Durò poco, però.
Forse sei mesi.
Poi diventò la persona che mi conosceva meglio al mondo.
Io e lei eravamo innamorate, in quel modo che ti fa girare un po' la testa se ci pensi troppo. Non mi piaceva, all'inizio. Io che ero sempre stata in controllo di tutto, che avevo vissuto la vita agiata che altri avrebbero ucciso per avere, ora non ero che un'altra delle persone che mettevano a rischio il proprio cuore.
Se l'era giocata bene, però. Mi aveva reso difficile non fidarmi di lei, visto il modo in cui reagì quando glielo dissi.
“Che fai?”
Non mi rispose nemmeno.
Ne prese alcune e si chiuse in bagno. Tre quarti d'ora e sette viaggi dopo, aveva svuotato tutte le bottiglie contenenti alcolici presenti nel suo appartamento.
“Ecco. D'ora in poi dirò a Cristina che l'unica cosa da bere che può comprare oltre l'acqua sono i succhi di frutta.”
Una sera rientrò a casa mentre stavo avendo una deliziosa discussione con me stessa. Beh, all'inizio era forse una discussione deliziosa, ma poi si era trasformata in un litigio, uno che apparentemente stavo perdendo.
“D come dipingere, E come esplodere, F come fingere.”
Sapeva del modo che usavo per affrontare le cose.
Non cercò di interrompere. Mi si sedette accanto e mi prese la mano mentre continuavo.
“G come giglio.”
“A te non piacciono i gigli.”
“Sono i tuoi fiori preferiti. Se dico giglio penso al sorriso che hai ogni volta che ne vedi uno e il tuo sorriso mi calma. Quindi funziona.”
Per dieci anni non avevo più neanche sfiorato qualcosa di vagamente alcolico e tutti quelli che erano al corrente di quello che avevo passato – e superato – erano tanto fieri di me.
Non erano stati così fieri di me quando mi ero scavata una fossa dentro quello stesso problema che tutti erano tanto fieri stessi superando, ma non importava.
Se lo facevo per Calliope, lo sapevo, ne valeva la pena.
Quindi i giorni diventarono settimane e le settimane diventarono mesi. Andammo a vivere insieme e iniziammo a fare progetti per la vita che volevamo.
“Dovremmo vendere la televisione.”
“Scusami?”
“Dovremmo venderla.”
“Perché?” chiese con incredulità.
“Non la guardiamo mai. Ci sediamo qui, giriamo qualche canale per tipo dieci secondi, poi tu mi baci e tanti saluti alla televisione. È una spesa superflua. Potremmo venderla e tu potresti guardare le partite di baseball da Mark.”
“Ah! Non se ne parla. Il tizio è un tifoso dei New York Mets.”
“Calliope, quest'anno i Florida Marlins non sono nemmeno nei play-off. Non puoi tifare per la sua squadra per questa volta?”
“Ok, per prima cosa, tu come lo sai? Credevo non ti piacesse il baseball. E poi, certo che non posso tifare per la sua squadra” esclamò, visibilmente contrariata. “Non farei niente del genere ai Marlins.”
“Va bene, va bene. Come non detto. Terremo la televisione” la rassicurai. “Pensavo solo che avremmo potuto spostare il divano e attaccarlo al muro, in modo da guadagnare dello spazio da questa parte del soggiorno e poter ampliare un po' la cucina. Parli sempre di come quella nel tuo vecchio appartamento era più grande e so che ti piace cucinare. Tutto qui.”
Mi guardò in silenzio per qualche istante.
“Posso guardare il baseball sul computer” concluse. “Non hai idea di quanto io sia innamorata di te, Arizona.”
“E tu non hai idea di quanto io sia innamorata di te” mormorai in risposta.
Ricambiai il sorriso che mi stava offrendo, lasciando che mi abbracciasse mentre fingevamo, come sempre, di prestare attenzione alla televisione durante gli intervalli tra un bacio e l'altro. Non eravamo per niente credibili. Si vedeva bene che l'unica cosa a cui ero in grado di prestare attenzione era lei e l'unica cosa che catturava la sua ero io.
Non era come avevo pensato che le cose sarebbero andate, ma era così che erano e non mi dispiaceva neanche un po'.

Sapevo sempre apprezzare la tragedia.
Si partì dal punto in cui le cose non sarebbero potute andare meglio e si arrivò al punto in cui le cose non sarebbero potute andare peggio.
Si arrivò al punto in cui dovevo ripetere tre volte tutto l'alfabeto e ancora pensavo soltanto che avrei voluto bere, ma si partì dal punto in cui non serviva neanche più, perché mi bastava arrivare alla C, mi fermavo, respiravo e stavo meglio.
Bastava l'ABC.
A come Arizona, B come blu, C come Calliope. Calliope. Calliope. Calliope.
Mi bastavano tre lettere e passava.
Da lì si partì e si arrivò al punto in cui si vedeva che avrebbe voluto andarsene così tanto che veniva da chiedersi perché non se ne andasse e basta e ci tirasse tutti fuori dalla tragedia che lei stessa aveva provveduto a costruire.
Calliope. Calliope. Calliope.
Trattenere e lasciare andare.
È così che si respira.
Calliope. Calliope. Calliope.
È così che si cammina.
Un passo dietro l'altro e raggiunsi il posto che volevo, arrivai a casa, entrai e poi mi sedetti sul divano e fissai la bottiglia che avevo appena comprato senza neanche rendermene conto e che avevo posato lì davanti.
Eccetto che non ci sarebbe dovuta essere alcuna bottiglia.
Così mi sedetti, respirai, ed iniziai con l'alfabeto.
A come Arizona.
Sapevo che se lo avessi fatto non c'era modo di tornare indietro. Non da quello. Non da lì.
B come blu.
Chiusi gli occhi e immaginai il cielo di Seattle in un giorno di sole. Quel cielo azzurro, limpido e chiaro che sembra dipinto su una tela, da quanto è bello certi giorni.
Ma a Seattle quel giorno pioveva e il cielo ormai da parecchi giorni era grigio e scuro e non c'era niente di azzurro. E si sa che il grigio non è un colore che calma.
C come Calliope.
Calliope.
Dolce, Elegante, Fantastica.
L'alfabeto non avrebbe funzionato.
C come Calliope.
Guardai davanti a me e mi accorsi che in tre lettere avevo trovato molte più ragioni per bere che per non farlo.
Anzi, non servivano nemmeno tre lettere, me ne bastava una sola.
C come Calliope.
Distratta, Evasiva, Fugace.
C come Champagne.

Dopotutto, conclusi, non c'era da essere stupiti che la C fosse la mia lettera preferita dell'intero alfabeto.
Non dopo il quinto bicchiere.
Quando rientrò io stavo sorridendo per una battuta geniale che avevo appena fatto a me stessa, la bottiglia aperta in una mano e un bicchiere mezzo pieno nell'altra.
No, mezzo vuoto.
Il bicchiere era decisamente mezzo vuoto.
“Che stai facendo?”
Si era paralizzata sull'ingresso.
“Bevo.”
Mi prese la bottiglia di mano, versandola dentro il lavandino senza badare minimamente alle mie proteste.
“Il punto è che non dovresti.”
Scrollai le spalle, come se le sue parole non mi toccassero.
E per dimostrare le mie argomentazioni – non che ne avessi alcuna – buttai giù un altro sorso dal bicchiere che avevo in mano.
“Sai, me ne stavo qui e continuavo a pensare che forse c'è una spiegazione semplice.”
“Una spiegazione semplice?”
“Sì. Continuavo a ripetermi che c'era un motivo per cui ti sei allontanata, per cui hai iniziato a ignorarmi e a passare sempre meno tempo a casa. Ma non ho trovato niente, quindi sono tornata all'ipotesi numero uno.”
“E quale era l'ipotesi numero uno?”
“Che ci hai ripensato. Che vuoi andartene e lasciarmi e continuare la tua vita. E sai una cosa?” le chiesi retoricamente, facendo oscillare il bicchiere che avevo in mano davanti ai miei occhi. “A me sta più che bene” presi un sorso ancora, prima di posarlo sul bancone. Vuoto. Beh, era stato un lungo sorso.
“Arizona.”
“Però avrei preferito che avessi avuto la decenza di dirmelo, invece di continuare a fingere che andasse tutto bene e continuare a stare insieme a me. A vivere una vita che non vuoi. Come ti è venuto in mente di startene qui a fingere di amare una persona che non ami, Calliope? Chi fa una cosa del genere?”
“Non ho detto niente perché avevo paura che succedesse qualcosa come questo” ritorse aspramente prima di rendersene conto, sollevando per il collo la bottiglia che aveva finito di svuotare poco prima e mettendomela davanti agli occhi.
Mi aveva letteralmente sbattuto in faccia i miei errori.
La cosa divertente dell'alcol è questa, suppongo. È che ti fa sentire forte, più di quanto tu sia mai stata. E allo stesso tempo fa in modo che le persone che hai attorno ti vedano per quello che sei e che, tristemente, hai paura rimarrai per sempre. Indifesa, sola. Debole.
“Congratulazioni. Avevi ragione.”

In dieci minuti entrai in camera e buttai qualcosa, neanche controllai bene cosa, dentro una valigia e andai verso la porta dell'appartamento indossando la mia giacca.
“Tornerai?”
“No.”
“Quando torni?”
“No, no. Hai avuto quello che volevi. Volevi una strada per uscire e questa è la tua strada per uscire.”
Aprii la porta e mi guardai indietro.
Lì lasciavo i miei quindici anni senza toccare un goccio d'alcol.
Lì lasciavo la vita che volevo e andavo verso la vita che avevo temuto di avere.
“Addio, Calliope.”

Tutti mi avevano detto che avevo toccato il fondo quando avevo diciotto anni e la maggior parte del tempo non riuscivo a ricordare il mio nome.
Ma non mi ero mai sentita in quel modo prima. Non mi ero sentita mai così in basso come quando mi svegliavo in mattine come quella.
Così bevevo per non sentirmi in quel modo.
E le mattine come quella diventarono tutte le mattine della mia vita.
“Lei non mi amava” mi ripetevo.
Dovevo in qualche modo incoraggiare me stessa a riprendere a bere, ogni volta che per sbaglio tornavo ad essere sobria.
“Lei voleva lasciarmi e non lo faceva perché aveva paura che ricominciassi a bere.”
La vedevo ancora. A lavoro.
Sembrava felice, sembrava che fosse riuscita a fare quello che voleva, ovvero andare avanti con la sua vita.
“Lei non mi amava.”
Una vita splendida, facile e felice. Dove io e i miei problemi del cavolo non sporcavamo la sua perfezione.
“Lei non mi ha mai amato.”

Sapevo apprezzare la tragedia.
Lei ci riusciva un po' di meno, comunque sia.
Forse era solo una mia impressione, però, visto che ero finita lì dopo due bottiglie e mezzo di prosecco.
“Fuori.”
“Sta zitta.”
“Io sto morendo, io faccio le regole.”
“Non stai morendo.”
“E allora vedi di andare fuori dalla mia fottuta camera d'ospedale.”
“No.”
“Non mi serve un chirurgo ortopedico. Chiama la Bailey e sparisci dalla mia vista.”
“Ho già chiamato la Bailey.”
“E allora che ci fai ancora qui?”
“Sono qui perché ci tengo ancora a te.”
“Fuori” ripetei con un gesto della mano in direzione della porta.
“Ti amo ancora, Arizona.”
“Sì, beh, ognuno ha le sue disgrazie. Non me ne frega niente, Callie, non ti voglio attorno perché non mi fido di te e non ti amo.”
“Io sì. E mi dispiace per averti ferita, ma io ti amo ancora. Solo” aggiunse dopo un istante di esitazione “non nel modo in cui era prima.”
“Senti, non capisco che ci fai ancora qui. Noi non siamo amiche. Io non sono affezionata a te. Esci da qui, subito.”
Fissai il soffitto mentre usciva.
Almeno sapevo di non aver toccato il fondo, perché continuavo a cadere sempre più giù, senza riuscire neanche a rallentare la caduta.
La Bailey mi disse che non era niente di grave. Avevo esagerato con i drink la sera prima, era tutto nella norma se evitavo di bere ancora tanto presto. Poi qualcuno, non persi sonno chiedendomi chi, le disse che avevo problemi di alcolismo.
Il giorno dopo fui dimessa con una settimana di ferie forzate, il dépliant di una clinica per la riabilitazione e un appuntamento dallo psicologo.
Lei era sulla soglia della porta, mentre stavo per alzarmi e andare via.
“Mi chiamerai?”
“No.”
“Quando chiami?”
“No, no. Senti, non è che non ti voglio accanto perché sono ancora innamorata di te e mi manchi e penso che mi ferirai ancora. Non c'è niente di più da leggere tra le righe di quello che ti sto dicendo adesso. Io non ti voglio vicino. Non ti voglio accanto perché non sento più niente per te, anzi, non sento più niente e basta. E le poche volte che ti guardo e sento qualcosa è la voglia di ridere per la stupidità di quello che avevamo. È finita. Io l'ho accettato. Fallo anche tu.”
Non mi presentai all'appuntamento dallo psicologo, buttai il dépliant che mi avevano dato e decisi che una settimana di ferie era un sufficiente periodo di tempo per riuscire a finire la scorta di spumante che avevo nel mio appartamento.

Sapevo apprezzare le tragedie.
Quindi sapevo anche apprezzare i malintesi e la teatralità.
“Sembri sobria.”
“Sembri gentile. Ma non lo sei.”
“Perché fai così? Sto solo provando a...”
“Rovinarmi la vita? Ci sei già riuscita.”
“Non sono io il motivo per cui hai ripreso a bere.”
“Non parlavo di quello, a chi importa se bevo. Sei il motivo per cui ci siamo lasciate.”
“Webber ha detto che andavi in Africa.”
“Come, scusa?”
“Webber mi ha per sbaglio fatto capire che saresti andata in Africa. Quindi ho iniziato a prendere le distanze, perché avevo paura che te ne saresti andata senza di me, senza dirmi addio, così ho detto quella cosa sul fatto che pensavo avresti ricominciato a bere perché non volevo ammettere che avevo paura di non essere quello che volevi.”
“Ti avrei portato con me” le dissi. “Ma quando Webber me l'ha detto tu mi avevi lasciato e io non volevo andarmene e gli ho detto che rifiutavo.”
“Mi dispiace.”
Scrollai le spalle.
“Troppo tardi.”
“Arizona, se solo tu...”
“Le cose sono cambiate.”
“...se smettessi di bere...”
“Non lo farò. Non ci proverò nemmeno.”
“Perché?”
Perché non ci riuscirei.
“Perché mi piace come sono le cose adesso. Io sto bene. L'ho superata, Callie. Ho superato quello che c'è stato tra di noi. Dovresti farlo anche tu.”

Presi in mano la bottiglia di champagne che avevo appena comprato, stappandola e brindando con me stessa.
“A un'altra ancora dannatissima tragedia.”
Erano ore, forse giorni, che ero stesa lì. Non riuscivo ad alzarmi ma, anche se ci fossi riuscita, perché avrei dovuto farlo?
Sul mio comodino c'erano tre bottiglie vuote e una mezza piena.
Lei mi amava.
Ed io avevo mandato tutto a puttane.
Lei mi aveva sempre amato.
Ed io ero stata orribile, ero stata una stronza. E poi avevo bevuto così tanta tequila da non sapere neanche più cosa mi stesse succedendo.
Erano ore che non toccavo cibo solido – giorni, forse?
Tutto il mondo attorno a me era annebbiato, così come i miei pensieri. Che mi era successo? Quella persona non ero io. Non più.
Chiusi gli occhi e mi dissi che forse, dopotutto, andava bene così. Ora lei poteva andare avanti ed essere felice. Chiusi gli occhi cercando di scacciare via quella confusione che stava sporcando i miei ultimi minuti. Perché doveva essere così, giusto? Doveva per forza essere la fine. Avevo toccato il fondo, finalmente. E allora perché continuavo a cadere in basso?
Sentii dei passi, qualcuno che entrava nella stanza, una voce lontana e confusa.
“Arizona” una voce familiare, forse. Preoccupata. “Arizona, svegliati. Ti prego, ti prego, dimmi che sono ancora in tempo.”
Sentii due braccia forti sollevarmi dal letto. Mi strinsi contro quel corpo caldo, sollevata da quella mia visione. Quel sogno, in cui le cose sarebbero andate a finire bene. Era davvero un peccato che non fosse reale.
Quando riaprii gli occhi ero in bagno, la schiena appoggiata al muro, il mondo sempre più offuscato.
“Ecco qui, bevi” ordinò.
Qualcosa venne accostato alle mie labbra. Senza pensare, assecondai il mio primo istinto e bevvi il liquido. Immediatamente un sapore disgustoso mi riempì la bocca, ma era troppo tardi, avevo già ingoiato. L'impulso di vomitare arrivò subito dopo.
Mi sporsi di riflesso, cercando a tentoni la ceramica e quando la trovai vi svuotai dentro il contenuto del mio stomaco. Qualcuno mi stava reggendo indietro i capelli.
Stavo ancora dormendo? Sognando? Avevo iniziato ad avere visioni? Quanto avevo bevuto, quanto tempo era passato dall'ultima volta che avevo mangiato?
Aprii gli occhi, una sensazione fresca sulla fronte. Una mano mi stava accarezzando i capelli.
“Bevi.”
Scattai indietro.
“Stavolta è acqua. Devi reidratarti, lo sai. Ti prego, bevi.”
Feci come mi era stato detto, poi chiusi di nuovo gli occhi e mi rilassai.
Forse ero già morta.
Dove era che ci trovavamo in ogni caso?
Aprii gli occhi per controllare, guardandomi intorno.
Eravamo sedute sul pavimento del mio bagno, aveva la schiena appoggiata contro la vasca, mentre io ero sistemata contro di lei, seduta tra le sue gambe.
Spostò i capelli dal mio viso, tirandoli all'indietro e poi baciandomi sulla tempia.
“Come stai?”
“Da schifo.”
“Quando è stata l'ultima volta che hai mangiato?”
“Quando è stato l'ultimo giorno che sono venuta a lavoro? Ho pranzato in mensa.”
“Lunedì” la voce le tremò. “Oggi è venerdì, Arizona.”
“Da quanto sei qui?”
“Ieri sera, più o meno le sei, credo. Nessuno riusciva a contattarti, non rispondevi più al telefono, non potevo più aspettare. Ero così preoccupata.”
“Perché?” chiesi in un filo di voce, onestamente curiosa. “Sono stata orribile, con te. Dovresti odiarmi.”
“Ho fatto un errore imperdonabile, un errore che mi è costato tutto quanto. E non ho intenzione di farne un altro mai più, da adesso in poi. Te lo prometto” sussurrò contro i miei capelli. “Ed io non ti odio, non potrei mai odiarti. Tu lo sai che io ti amo.”
Chiusi forte gli occhi, appoggiando la mano sinistra sul suo braccio destro, voltandomi appena e lasciandomi assorbire ancora di più da quell'abbraccio.
Mi risvegliai dentro il mio letto senza sapere come ci fossi arrivata. Probabilmente mi aveva di nuovo presa tra le braccia e portata fino a lì.
Mi alzai, la testa mi girava, mi veniva ancora un po' da vomitare, ma la mia visione era tornata chiara. Senza preoccuparmi di mettermi dei pantaloni entrai in soggiorno, la stessa maglietta della sera prima addosso.
“Ciao” la salutai dalla soglia della mia camera.
Lei si voltò, colta leggermente di sorpresa. “Ciao. Hai dormito per un'oretta, ti ho preparato il pranzo. Dovresti davvero mangiare qualcosa, hai perso un sacco di peso e dovresti rimetterti in forze.”
“Callie...”
“Io posso andarmene se vuoi.”
Credo che la mia espressione le fece capire tutto il terrore che sentivo nel mio cuore, perché si affrettò subito ad avvicinarsi.
“Non che voglia farlo. Voglio rimanere con te, finché me lo permetterai.”
“Sto male, Calliope.”
Mi guardò con aria profondamente preoccupata.
“Hai ancora la nausea? Ti senti svenire? O...”
“No, intendo...lo sai. Ho un problema. Uno molto grande, un problema in cui tu non c'entri. Non hai mai promesso di essere qui per questo e non devi. Quello che mi sta succedendo è colpa mia, nonostante abbia cercato di negarlo anche a me stessa per tutto questo tempo.”
“Posso aiutarti, se me lo permetti. Non devi affrontare tutto questo da sola.”
Io guardai in basso, scuotendo la testa.
Sentii due mani sulle mie braccia, così tornai a guardarla negli occhi.
“So che non sei ancora pronta per riprendermi indietro, lo so. Ma sarò quello di cui hai bisogno, qualsiasi cosa questo significhi per noi. Per adesso, però, ti prego, mangia quello che ho cucinato e basta.”
“Callie.”
“No, so che hai detto che non vuoi smettere e che le cose ti vanno bene come sono, ma io non posso stare a guardare mentre ti distruggi. Ti sto implorando di provarci.”
“Non so se posso farlo” sussurrai. “La verità è questa. Non so se posso smettere.”
“Provaci e basta, provaci ed io farò del mio meglio per aiutare come posso. Ma devi volerlo tu, perché io non posso fare questa scelta al posto tuo.”
Scossi la testa, distogliendo lo sguardo.
“Stringimi” mormorai. “Stringimi e basta.”
Lei mi avvolse tra le braccia, cercando di fare del suo meglio per proteggermi dai miei demoni interiori.

“Allora, ho sentito che ha riavuto il posto come primario.”
“Già” confermai con un sorriso. “Mi ci è voluto un po', ma ho risolto i problemi per cui mi avevano sospeso e ho ripreso a lavorare.”
“Ne sono molto felice, dottoressa Robbins.”
“Grazie, April. Puoi chiamarmi Arizona, lo sai.”
Lei mi sorrise.
“E Callie dov'è?”
“Dovrebbe essere qui a momenti in realtà, aveva un'operazione quando io sono uscita, quindi potrebbe volerci un po'.”
“Mi scusi, Jackson è appena arrivato. Di nuovo buon Natale, ci vediamo più tardi.”
“Certo.”
Sospirai, guardandola allontanarsi.
Ero distrutta. Il mio ultimo turno era stato di sedici ore. Non vedevo l'ora che Calliope arrivasse, salutasse tutti e poi potessimo tornarcene a casa.
“Arizona, come stai?”
“Owen. Bene e tu?”
Lui annuì, sorridendo. “Ti ho portato dello champagne. Meredith e Derek vogliono proporre un brindisi.”
Io, sorridendogli, presi uno dei due bicchieri che mi stava porgendo.
“Sono sicura che Callie lo apprezzerà.”
“E per te?”
“Oh, no, mi spiace. Io non bevo alcolici.”
“Davvero?” chiese, sorpreso.
“Già. Ormai sono mesi, è un'abitudine che ho perso un sacco di tempo fa.”
Lui mi sorrise, andandosene.
Qualche istante dopo, sentii delle braccia avvolgere la mia vita.
“Stai bevendo champagne?” mormorò una voce vicina al mio orecchio.
Il tono non era accusatorio o sorpreso, solo curioso.
“È per te. Owen me ne ha portati due bicchieri, ma gli ho detto che io non bevo.”
“Sai, un bicchiere di champagne a Natale-”
“No, so di poterlo fare” la rassicurai, voltandomi per guardarla in viso e porgerle il bicchiere. “È solo che non voglio. Non ne ho bisogno. Tutto qui.”
Lei mi sorrise, baciandomi velocemente.
“Andiamo a casa? Ho in mente altri modi migliori per festeggiare il Natale” mi rivolse un sorrisetto furbo.
Io risi, prendendola per mano.
“Non vedevo l'ora che me lo chiedessi.”
Non capitava più, ormai, che volessi bere così tanto da aver bisogno di chiamarla. Ma per un sacco di tempo l'avevo fatto. Io la chiamavo e la sua voce mi calmava, nei momenti peggiori. Poi, quando le cose avevano iniziato ad andare meglio, avevo ricominciato ad usare l'alfabeto.
Ora, nelle rarissime occasioni in cui sentivo l'impulso di bere qualcosa, tutto quello che mi serviva era guardare alla collanina che lei mi aveva regalato e che indossavo in ogni momento.
C'era un solo ciondolo. Una lettera.
C come Calliope.




Scusate l'assenza prolungata, ma la mancanza di ispirazione è stata combinata ad impegni ed imprevisti. Scusate davvero e perdonate anche la storia così deprimente, ma ogni tanto ci vuole, no? All'inizio il finale era uno dei più tristi della raccolta, ma non me la sono sentita di pubblicarla senza l'aggiunta degli ultimi due paragrafi e quindi ecco a voi un bel lieto fine, tanto per cambiare! u.u

Alla prossima! Keep calm :P




Ritorna all'indice


Capitolo 43
*** La nostra prima vita insieme ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU!






La nostra prima vita insieme


~ I didn't mean to meet you then, when we were just kids. And I didn't mean to fall in love, but I did... ~

Mi sedetti ed aspettai, come ero abituata a fare. Mi guardai attorno e sentii la calma di quel luogo pervadere i miei sensi. Mi piaceva d'estate, perché potevo sedermi in giardino e guardare il verde, i fiori che spiccavano tra i fili d'erba e gli alberi. Ma mi piaceva anche d'inverno. Mi piaceva dentro, mi piacevano i colori vivaci e i toni pastello.
Ero seduta su una delle panchine, stavo osservando uno degli alberi. Con il tempo era cresciuto, era diventato più robusto, più forte. Io, al contrario, ero più debole.
Qualcuno mi si sedette accanto ed io alzai lo sguardo con curiosità, rivolgendo un sorriso cordiale alla mia ospite.
“Salve” mi salutò con un cenno della testa.
“Buongiorno.”
“Che sta facendo?” chiese. “Non mi sembra di averla mai vista qui prima d'ora, ed io conosco quasi tutti in questo posto.”
“Aspetto qualcuno” le risposi pacatamente.
“Aspetta da molto?” mi chiese lei, lasciando lo sguardo vagare sul giardino che ci stava attorno.
Portai di nuovo gli occhi sul grande albero davanti a me, non badando alla domanda che mi aveva rivolto.
“E chi aspetta?”
“Una donna.”
“La conosce da parecchio tempo?”
Sorrisi.
“Da sempre.”

“Non potrei mai amare un'altra come amo te. Credo che dovremmo sposarci.”
“Credi?”
Annuì.
“Lo credo anche io.”
Avevamo cinque anni.

“Hai conosciuto qualcuno?” mi chiese mia madre alla fine del mio primo giorno di scuola elementare.
Scrollai le spalle, scuotendo la testa.
“Chi ha il posto accanto al tuo?” chiese con un sorriso che mi lasciava intuire che già aveva una risposta a quella domanda.
Ricambiai il sorriso, illuminandomi al solo pensiero di lei.
“Arizona.”
“Allora è andato bene, il tuo primo giorno.”
Annuii felicemente. “Andiamo a casa, adesso?”
“Sì.”
“Bene.”
Mia madre rise, sapendo che il motivo per cui volevo andare a casa subito era uno soltanto: poter rivedere la bambina che viveva nella casa accanto alla nostra. La mia migliore amica. La mia compagna di banco.
“Siete davvero una sola persona, tu e Arizona.”

Eravamo cresciute. Ma fin da quando eravamo nate le nostre famiglie avevano capito che non esisteva la possibilità di vacanze separate, di scuole diverse, di amicizie nuove. Non si poteva sciogliere quel nodo intrecciato dal destino quando i Robbins si erano trasferiti accanto ai Torres, io e lei non esistevamo se non insieme.
Callie e Arizona.
Così tutti erano abituati a parlare di noi, questo era l'unico modo in cui potevamo essere inserite in una frase. Dove c'è Arizona ci sarà Callie. E dove è Callie, lì si troverà anche Arizona.
Callie e Arizona.
Niente di più semplice. Niente di più dannatamente complicato.

Avevamo dieci anni quando dovemmo passare per la prima volta quattro giorni lontane l'una dall'altra. Non fu una bella esperienza per nessuno.
Arizona, che non era tipo da piangere, non aveva fatto altro che lamentarsi, con le lacrime agli occhi per tutto il tempo.
Io, che non facevo altro che parlare, me ne ero rimasta in silenzio, ostinatamente rivendicando il mio diritto a stare con lei.
I cuori dei nostri genitori erano infranti. Il primo sorriso che tutti loro fecero nell'arco di una settimana, fu quando ci videro riabbracciarci.
“Ti ho tenuto il posto accanto al mio in macchina, quando hanno detto che partivamo pensavo che intendessero insieme.”
“Io ho messo in valigia due di tutto, nel caso in cui tu dimenticassi qualcosa.”
Quando la lasciai andare e vidi il suo sorriso con le fossette sentii il cuore in gola che mi batteva all'impazzata.

“Non capisco perché tutti continuano a chiederci se abbiamo un fidanzato.”
“Non lo so. Forse perché dovremmo averne uno?” offrii con esitazione.
“Non voglio nessun fidanzato.”
“Siamo troppo piccole. Ce lo chiedono solo perché la maggior parte degli adulti non sa cosa chiedere a chi ha dodici anni.”
Continuai a sfogliare il libro di biologia che avevo in mano, dando un'occhiata veloce alle figure. Si lasciò cadere seduta sul bordo del letto, le spalle nella mia direzione, un mezzo sospiro ad avvertirmi che quella conversazione era appena diventata più seria.
“E se io non volessi mai un fidanzato? Neanche da grande?”
“Nessuno ti obbligherà. Mio zio Berto vive da solo, non si è mai sposato e nessuno ha niente da dire a riguardo.”
“Ma se io volessi qualcuno?” chiese ancora, in modo esitante. “Solo non” si strinse le ginocchia al petto, continuando a non guardarmi “non un ragazzo.”
Per qualche istante cercai di capire cosa stava cercando di dirmi. Quando ci arrivai, lasciai il libro cadere sul letto mentre andavo a sedermi al suo fianco.
“Siamo troppo piccole per discutere di cose come l'amore. Cambierai idea. Cambierà con il tempo.”
Alzò gli occhi nella mia direzione, guardandomi di sottecchi con aria fragile. Non l'avevo mai vista così. Lei era quella forte.
“E se non cambiasse mai?”
La guardai negli occhi per qualche istante. Infine, dopo averci riflettuto, scrollai le spalle.
“È la stessa cosa” conclusi. “La stessa identica cosa.”

Da quel giorno, io ci pensai molto.
Quando avevamo quattordici anni entrai nel panico perché finalmente riuscii, almeno a livello inconscio, a capire che non volevo un ragazzo neanche io. E non sarebbe andato via. Non sarebbe andato via mai.
Il guaio era che io volevo stare con una ragazza. La tragedia era che quella ragazza era Arizona. Non avrei mai voluto nessun'altra che lei.
Io e lei, a quattordici anni, ce ne andavamo in giro tenendoci per mano come quando ne avevamo tre.
Festeggiavamo i nostri compleanni insieme, frequentavamo le stesse lezioni, andavamo bene nelle stesse materie.
Callie e Arizona. Così tutti continuavano ad essere abituati a parlare di noi.
Con la differenza che adesso era più strano. Non era più carino o dolce, era normale. Era il modo in cui le cose erano sempre state. In cui sarebbero sempre state.
Quattordici anni erano pochi. Dodici erano anche meno.
Era presto. Troppo presto. Per entrambe.
Avremmo dovuto avere più tempo. Più tempo per vivere nella beata incoscienza di chi ignora che la persona di cui tutti parlano con ironia o disprezzo sei tu. Eri tu da sempre, sei stata tu fin dal primo momento.
Avevo quattordici anni quando un giorno ho preso la sua mano e le ho detto la stessa cosa che le avevo detto un anno e mezzo prima.
“Potrebbe non cambiare mai. Ma va bene lo stesso. È la stessa cosa.”

Ci mise quasi un anno per dirmi che voleva uscire con me. Che, come quando aveva cinque anni, non c'era nessun'altra al mondo che avrebbe mai potuto reggere il paragone.
Ci misi quasi un secondo a dirle che era quello che pensavo anche io.
A quindici anni la baciai per la prima volta.
Lo feci io perché non volevo aspettare un altro anno.
Il cambiamento arrivò in modo sottile, velato, attutito. Era quasi impossibile da notare, perché, nel tentativo di nascondere che eravamo una coppia, avevamo iniziato a comportarci meno da coppia di quanto facevamo prima.
“Pensi che dovremmo dire qualcosa?”
“Non ancora” rispose con un sorriso, continuando a guardare in alto, verso il cielo.
Le nostre mani, intrecciate, erano sull'erba tra di noi.
“Perché no?”
“Credi che mi farebbero ancora dormire a casa tua o te da me, se glielo dicessimo?”
“Probabilmente no.”
Non che di solito succedesse qualcosa, vista la presenza dei nostri genitori in casa. E poi, a sentire tutti, eravamo ancora piccole. Avevamo solo quindici anni. Se riuscivamo ad ottenere qualche bacio quando i nostri erano fuori casa, era come aver ottenuto il mondo per noi.
“Calliope?”
“Sì?” continuai a tenere gli occhi fissi contro il cielo.
“Ti amo.”
Sorrisi come un'idiota, poi voltai la testa nella sua direzione, trovandola a scrutare il profilo del mio viso.
“Davvero?”
“Davvero” confermò, mettendo in mostra le fossette.
“Ti amo anch'io” risposi pacatamente, avvicinandomi giusto un po' di più.

Fu quando, quell'estate, compimmo sedici anni, che le cose iniziarono a cambiare. Come era successo per noi, anche da parte dei nostri genitori, il cambiamento fu sottile.
Ad esempio, le porte delle nostre camere, quando eravamo insieme, dovevano rimanere sempre aperte. Anche in pieno giorno.
Lentamente ci accorgemmo che, almeno le nostre madri, lo sapevano già. Non poteva essere altrimenti, perché qualcuna delle loro frasi bisbigliate in cucina mentre noi eravamo al piano di sopra, conteneva troppo volte i nostri nomi – pronunciati sempre insieme, come era giusto che fosse, come era sempre stato. E alcuni degli sguardi che ci seguivano quando uscivamo insieme e loro rimanevano a casa, erano troppo insistenti. Alcune delle nuove regole troppo strane.
Arizona, che era come sempre quella delle due più coraggiosa, un giorno decise di affrontare la cosa con un approccio diretto ed andò a parlarne a Barbara.
“Mamma” le disse “io sono innamorata di una ragazza.”
Barbara per qualche momento fu spiazzata. Forse più dal modo in cui lo aveva detto e dal momento, che dalla notizia in sé per sé.
Perché poi le sorrise, le appoggiò una mano sulla spalla e scosse la testa.
“No, tesoro” le rispose con un tono di pacata certezza che non lasciava spazio per nessun tipo di protesta. “Tu sei innamorata di Callie.”
La famiglia di Arizona la pensava come me.
Niente era cambiato: era la stessa cosa.
Ma la mia famiglia? La mia famiglia cattolica e tradizionalista? Di loro eravamo un po' più preoccupate, forse. Come io sospettavo che il Colonnello avrebbe deciso di uccidere me, ad Arizona non piaceva molto l'idea di essere sbattuta contro un muro da mio padre.
Per adesso, l'unica che con certezza ne sapeva qualcosa era Barbara. Ma visto che era la migliore amica di Lucia da quando loro due avevano vent'anni, avevo evitato mia madre per parecchi giorni, dopo che Arizona aveva parlato di noi alla sua.
Quella sera me ne stavo seduta sotto il portico aspettando che Arizona finisse di cenare, quando mia madre mi si sedette affianco.
“Io e Barbara siamo come sorelle. Da quando i suoi genitori si sono trasferiti qui accanto, quando avevamo meno di vent'anni, io e lei siamo state come sorelle. Poi lei ha sposato Daniel e hanno iniziato a girare gli Stati Uniti, visto che lui doveva spostarsi sempre a causa della sua carriera, finché è rimasta incinta di Tim e ha deciso di tornare a vivere qui. Avevamo continuato a scriverci, ma non era la stessa cosa. Piansi, il giorno che lei tornò, come se avessi rivisto mia sorella. E lei pianse come se fosse tornata a casa dalla sua. Quando Tim aveva un anno, io ho avuto Aria. Tre anni dopo, quando siamo rimaste incinte nello stesso periodo, eravamo felicissime. Scherzavamo tra di noi su come, un giorno, i bambini che avevamo in grembo si sarebbero sposati. Ma poi siete nate, ed eravate due meravigliose bambine.”
Eravamo nate ad un solo giorno di distanza. Mamma scherzava sempre sul fatto che, una volta che Arizona era uscita dalla pancia, io dovevo per forza entrare nel mondo in cui anche lei stava vivendo. Da allora, non avevamo mai passato neanche un giorno senza vederci almeno per qualche minuto, quando eravamo appena nate, o per qualche ora, quando avevamo iniziato noi a decidere cosa fare.
“Ed io dicevo sempre a Barbara, 'non c'è problema, vuoi che Tim non si innamori di Aria o di Callie?'. Allora lei mi rispondeva 'se ti sbrighi a fare un figlio maschio, potrebbe sposare Arizona'. E stavamo scherzando, certo che stavamo scherzando, ma ci avrebbe fatto piacere poter finalmente dire di essere imparentate.”
Io avevo capito di cosa stava parlando ed iniziai ad avere paura di come sarebbe potuta andare a finire quella conversazione.
“Non ci avevamo capito niente. Ma all'inizio ci eravamo andate vicino, all'inizio proprio, quando ancora non sapevamo niente di cosa il destino avesse in programma. Non era questo che ci aspettavamo quando immaginavamo la possibilità che due dei nostri figli si legassero. Non ci aspettavamo te e Arizona.”
“Mamma...”
Non mi lasciò dire niente.
“È la stessa cosa, tesoro. È la stessa identica cosa.”
Sentirle usare quelle parole che anche io avevo usato, quelle parole che ricordavano a me stessa che andava bene, anche nei momenti in cui non andava bene o nei momenti in cui pensavo che non andasse bene, mi colpì particolarmente.
Mia madre era felice che avessi scelto lei. All'inizio non capii molto bene perché e pensai che fosse perché, se proprio doveva essere una ragazza, meglio una che lei già adorava. Scoprii anche, qualche tempo dopo, che lei e Barbara stavano già organizzando il nostro matrimonio. Mia madre mi confondeva, la maggior parte delle volte. Ma quella volta, fui felice di ammettere di essere completamente fuori strada riguardo cosa pensava.

Qualche mese dopo il Colonnello ci si sedette accanto mentre stavamo guardando una partita di football di Tim. Aria era a bordo campo in veste di cheerleader.
Di solito lui e Barbara si sedevano distanti da noi, ma quel giorno sua moglie non era potuta venire ed Arizona gli aveva offerto di rimanere con noi. In fondo, di solito ci separavamo solo perché parlavamo di argomenti diversi mentre guardavamo la partita, ed il Colonnello, la maggior parte del tempo, voleva concentrarsi sul gioco.
“È una cosa che si vede bene, sapete?”
“In effetti la squadra con cui giocano non riesce a tenere testa. Credo che vinceranno senza problemi.”
“Non mi riferivo alla partita. Parlavo di voi due. È una cosa che si vede bene. Si vedeva dai vostri primi passi” smise di osservare il campo e si voltò verso di noi. “Letteralmente” aggiunse, per essere chiaro. “Vi avevamo messo nel soggiorno dei Torres, ma eravate a qualche metro di distanza. Così, quando vi siete stancate di aspettare che qualcuno vi avvicinasse, vi siete alzate in piedi e incontrate a metà strada. Ero così felice, quel giorno” ricordò.
Io e Arizona avevamo la stessa espressione di puro terrore.
“Non dovete avere paura” ci disse con voce ferma. “Ci sono persone che vi vogliono bene, su cui potrete contare sempre. Noi saremo qui, qualsiasi cosa succeda. Quindi non c'è bisogno di avere paura.”

Avevamo diciotto anni quando litigammo per la prima volta, e fu la cosa più stupida del mondo. E non è solo un modo di dire, era la più stupida per davvero.
“No, non voglio cambiare idea a riguardo!”
“Ti stai solo impuntando, lo capisci, vero?”
“A chi importa, Arizona. Mi sembra che tu stia facendo la stessa cosa.”
Stavamo litigando per il modo in cui volevamo ordinare la pizza. Che è ridicolo, perché avevamo sempre preso la stessa da quando eravamo state in grado di mangiarne fino a quella sera, in cui avevamo avuto improvvisamente entrambe voglia di cambiare.
“No, io non sto proponendo di ordinare una pizza con sopra qualcosa che potrebbe ucciderti” ritorse cercando di farmi capire l'ovvia differenza.
La verità era che eravamo stressate per gli esami finali e per il diploma e non avevamo trovato un modo migliore per sfogare lo stress che avevamo accumulato se non l'una sull'altra. L'idea del secolo.
“Io ho proposto di ordinare due pizze, infatti” le feci notare. “E per l'amor del cielo, non sei allergica ai peperoni, è solo che non ti piacciono.”
“Non riesco a digerirli, ho mal di pancia tutta la notte e rischio di vomitare. Non ho intenzione di mangiare peperoni.”
“Non ti sto chiedendo di farlo” sottolineai, esasperata. “Ordinane una al formaggio ed una con le verdure grigliate.”
“Così faremo avanzare quasi due pizze, perché quando arriveranno staremo ancora urlando, perché nessuna delle due riuscirebbe a vincere la discussione, quindi nessuna delle due avrebbe voglia di mangiare e due scatole quasi piene di pizza finirebbero nel frigo.”
“Sbagliato. Se ne ordini due io vinco la discussione e mi mangerò la pizza mentre tu tieni il broncio.”
“Sì, beh, tu non la finisci mai una pizza, quindi questo ci lascia comunque ad una pizza e mezza di avanzi.”
“Ok, sai cosa? Ripeterò il mio commento precedente. A chi importa! Faremo degli avanzi, dove è il problema?”
“Dove è il problema?” chiese incredula. “Non posso credere che tu non veda dove è il problema.”
“Oh, giusto, perdonami. Il problema è che in quel modo io avrei avuto quello che voglio e tu no.”
“Il problema è che se non siamo in grado di metterci d'accordo per una cosa stupida come una pizza, come pensi che sopravviveremo il prossimo anno, al college, nella stessa casa?”
Quello mi fece stare zitta per un momento. E anche quando ripresi a parlare, avevo comunque smesso di urlare.
“Vivremo nella stessa casa?”
Lei distolse lo sguardo, scrollando le spalle.
“Se è quello che vuoi anche tu.”
Un sorriso si aprì lentamente sul mio volto mentre mi avvicinavo a lei.
“Mi stai chiedendo di vivere insieme” le feci notare.
“E se anche lo stessi facendo?” mormorò, gli occhi rivolti verso il pavimento.
La baciai velocemente, facendole alzare lo sguardo.
“Non vedo l'ora di litigare per la pizza tutte le sere” sussurrai, incapace di nascondere la felicità che le sue parole mi avevano causato.
“Non possiamo magiare pizza tutte le sere” mi fece notare, l'ombra di un sorriso. “Ma sono sicura che riusciremo a trovare altro per cui litigare.”
Presi la sua mano con la mia.
“Mi dispiace. Non avrei dovuto insistere per la pizza con i peperoni, so che ti danno fastidio.”
“No, è colpa mia. Possiamo semplicemente ordinare due pizze. Vuoi i peperoni ed io voglio che tu abbia sempre quello che vuoi, quindi avrai i peperoni.”
Risi, baciandola di nuovo. Lei si alzò in punta di piedi, baciandomi ancora una volta mentre si univa alla mia risata.
Lucia e Barbara entrarono proprio in quel momento, di ritorno da alcune commissioni che avevano dovuto sbrigare quella sera.
“Siete a casa presto” notai, allontanandomi di un passo da Arizona fingendo che fosse per prendere in mano il telefono cordless.
“Abbiamo fatto in fretta. Daniel e Carlos si sono fermati a discutere di macchine nel garage. Voi che stavate facendo?”
“Litigando sulla pizza da ordinare” rispose Arizona casualmente.
“Ah, sì. Abbiamo notato che stavate litigando” scherzò Barbara.
“No, sul serio. Volevo una pizza al formaggio, mentre Calliope avrebbe preferito verdure grigliate, ma io non mangio peperoni e non volevano ordinare due pizze per non farne avanzare troppa.”
“Perché non ne ordinate semplicemente una per metà al formaggio e per metà con le verdure?”
Guardai mia madre, leggermente confusa.
“Possiamo fare una cosa del genere?”
“Certo.”
Io e Arizona ci guardammo con aria incredula per il fatto che nessuna delle due fosse al corrente di niente del genere.
“Siamo leggermente ritardate” concluse Arizona.
Alzai gli occhi al cielo, componendo il numero guardando l'elenco che avevamo già aperto sopra il tavolo.
“Dice la ragazza che il prossimo anno studierà medicina alla Hopkins” dissi, portandomi il ricevitore all'orecchio.
“Risponde la ragazza che farà la stessa cosa.”
“Dove vuoi cenare? All'aperto, in soggiorno, in camera mia?”
“È uguale. Qualsiasi posto in cui possiamo studiare per l'esame finale di biologia avanzata è un buon posto, stasera.”

A ventuno anni Arizona decise che era il momento di chiedere di nuovo qualcosa che non mi aveva più chiesto da quando avevamo cinque anni.
Solo che stavolta c'erano state più parole. Dello champagne. Si era messa perfino in ginocchio. Mi aveva detto che era l'unica proposta di matrimonio che avrebbe mai fatto e che quindi voleva farla bene.
Le dissi che la sposavo. La sposavo, per forza. Era l'amore della mia vita, ed il modo in cui me lo aveva chiesto non mi lasciava molta scelta.
Io e lei eravamo felici.
Come un tempo, ancora tutti accostavano i nostri nomi quando parlavano di noi. Come era sempre stato, io e lei eravamo una sola persona.
Alcune persone non lo capivano. Altri facevano finta che le cose non fossero come, invece, palesemente erano.
Ma io e lei ci amavamo.
Tutto qui. Era semplice, in realtà.

La nostra fu una vita fortunata.
Entrambe, una volta laureate, venimmo accettate per la specializzazione nel secondo miglior ospedale universitario degli States.
“No, Sofia, ti prego, non farlo. Prima di agire rifletti bene su quello che potrebbe comportare, su un piano socio-politico, questa tua scelta e sui problemi a livello pratico che si verrebbero a creare per-”
Lanciò il cucchiaino di cibo omogenizzato che aveva in mano sulla mia maglietta, mentre un sorriso radioso si apriva sul suo viso.
“-mamma” terminai inutilmente.
“Ha due anni, Calliope. Non ti capisce se le parli così.”
“Lo so” sospirai. “Ma quando sta per fare qualcosa del genere mi agito ed inizio ad usare parole strane.”
Mi baciò su una tempia, ridendo.
“Ti amo” sussurrò piano tra i miei capelli.
“Ti amo anch'io” le sorrisi, voltando la testa per guardarla negli occhi.
“Dobbiamo andare a lavoro.”
“Fammi solo cambiare la maglietta, ok?”
Annuì. “Lucia e Barbara vogliono portare Sofia e Jamie al parco.”
“Perfetto” la baciai, alzandomi in piedi.
James, che aveva solo pochi mesi, stava ancora dormendo nella sua culla.
I nostri genitori, una volta che avevano realizzato che non saremmo tornate a vivere a casa, avevano deciso di regalarcene una lì a Seattle abbastanza grande da poterli ospitare ogni volta che decidevano di venirci a trovare. La maggior parte delle volte lo facevano quando meno ce lo aspettavamo, senza avvertire o altro. Noi non ci lamentavamo mai perché ci piaceva averli attorno così tanto.

La casa era tranquilla, quando rientrai quella sera. Non c'era neanche una luce accesa. Tutti stavano dormendo ed io stavo rientrando dopo quindici ore di turno in ospedale. Mi lasciai cadere sul divano, non sapendo se sarei riuscita nemmeno ad arrivare alla camera da letto.
Chiusi gli occhi, inspirando quello che negli anni avevo imparato a riconoscere come il profumo di casa nostra.
“Sei a casa” percepii qualcuno sedersi accanto a me ed una mano sfiorò i miei capelli. “Sembri esausta.”
“Lo sono. Ho operato praticamente tutto il giorno.”
Aprii gli occhi e guardai nella sua direzione. Mi baciò e poi tornò a guardarmi negli occhi.
“Andiamo a letto” propose, alzandosi e tendendo una mano nella mia direzione per aiutarmi a fare la stessa cosa.
Scossi la testa.
“Va bene qui.”
“Calliope.”
“No, no. Non servirà stavolta chiamarmi Calliope. Sto benissimo qui sul divano. Questa giornata finisce ufficialmente adesso, non farò neanche un altro passo. Oggi sono morti due dei miei sette pazienti, Arizona. E non erano i due che stavo operando io, ma il pronto soccorso è stato un casino totale. Quattro di loro sono andati in arresto, gli altri tre hanno avuto complicazioni minori. Mi sento a pezzi, mi sento come se potessi cadere, battere la testa e morire, se mi alzassi in questo momento, perché questo è il modo in cui sta andando questa giornata. Quindi no, ho finito. Per oggi non voglio più neanche muovermi. O respirare. Me ne rimarrò qui, finché non sarà domani mattina e potrò ricominciare tutto da capo.”
Per qualche istante lei continuò a guardarmi dall'alto.
Poi si sedette al mio fianco con un piccolo sospiro, rannicchiandosi contro di me.
“D'accordo. Va bene qui.”

Non capitava più molto spesso di avere una serata tranquilla.
Ma i nostri genitori avevano portato i bambini fuori, quella sera, ed io avevo preparato una cena a lume di candela. Quando era entrata ed aveva visto la luce soffusa che dava la giusta atmosfera alla stanza, mi aveva sorriso in quel modo che mi faceva sempre battere forte il cuore, anche dopo tutto quel tempo.
“Ti ho conosciuta per tutta la mia vita. È un sacco di tempo” osservai distrattamente mentre cenavamo. “E ti ho amata per tutta la mia vita. E non so quale delle due cose sia iniziata prima, non so se anche quando non ti conoscevo ancora bene ti amavo comunque.”
“Mi piace pensare che sarebbe stata la stessa cosa” mormorò, guardandomi di sottecchi. “Che anche se non ti avessi conosciuta già prima di nascere, anche se fossimo cresciute in parti opposte del pianeta, ti avrei trovata comunque, prima o poi.”
“Sì, ma se non fosse successo? Se non ci fossimo mai trovate? Quanto sarebbe cambiato delle nostre vite? O se ci fossimo incontrate da adulte, quanto sarebbe cambiato in quel caso? Mi piace la vita che abbiamo. Anzi no, amo la vita che abbiamo. Non la cambierei per nient'altro al mondo. Ma in realtà, penso che potrei dire benissimo la stessa cosa di un qualsiasi tipo di vita insieme a te.”

“Abbiamo avuto una vita felice, io e lei.”
“Da come ne parla sembra che la ami molto.”
“Moltissimo, davvero. Lei ed io siamo la stessa persona. Lei ed io eravamo destinate a stare insieme da molto prima di nascere.”
“E adesso lei dov'è?”
Scrollai le spalle, sorridendo.
“Mi piace pensare che viva ancora dentro il mio cuore. Mi piace pensare che sia al mio fianco in ogni momento, come lo era un tempo. Come lo è stata per tutta la sua vita, da quando aveva un giorno fino a quando ha compiuto ottant'anni.”
“Le manca molto, vero? Si vede. Da qualcosa nei suoi occhi, credo.”
Le rivolsi un sorriso debole.
“Mi manca la maggior parte del tempo” risposi pacatamente. “Ma qualche volta è ancora qui. Non spesso, ma di tanto in tanto capita che la veda ancora. Continuo a venire qui, sperando di incontrarla per caso.”
“E oggi l'ha trovata?”
“No. Oggi non l'ho trovata purtroppo. Ma ci sono andata vicina” risposi con l'ombra di un sorriso. Aveva un cipiglio confuso e per diversi momenti preferì rimanere in silenzio.
“Non credo di aver capito bene” confessò.
“Si chiama perdita ambigua. L'ho studiata quando facevo medicina” le spiegai. “Quando aveva ottantadue anni, mia moglie ha iniziato lentamente a dimenticarsi alcune cose. Prima cose poco importanti, ma poi anche dei nostri figli, della nostra casa. Di me. Tutti i giorni vengo qui a trovarla e mi siedo su una delle panchine, sperando che lei si ricordi di me abbastanza da riuscire a trovarmi, proprio come aveva promesso che avrebbe fatto. Spero che mi trovi anche se non mi conosce, anche se non sa chi sono, spero che mi trovi tra tutte le altre persone. Capita, ma è raro, che mi riconosca. Ma anche quando non mi riconosce, la maggior parte delle volte si siede accanto a me. Credo che sia perché, in fondo, da qualche parte dentro il suo corpo, c'è ancora lei.”
“Credo che si sbagli. Come potrebbe sua moglie non riconoscerla?”
“Va bene così, in ogni caso. Abbiamo avuto una vita molto lunga, insieme. La vita più felice, completa, meravigliosa, che si potrebbe mai desiderare. L'unica cosa che mi tormenta è la paura che lei potrebbe non essere felice quanto me, se non se ne ricorda.”
“Se ne ricorda” mi rassicurò. “Come dice lei, dentro il suo cuore, è ancora lei. Forse non lo sa, ma se ne ricorda.”
Sospirai, guardando dentro i suoi occhi chiari come il cristallo, sapendo che non riconosceva le lacrime dentro i miei.
“Spero che abbia ragione.”
Lei mi sorrise, poi distolse distrattamente lo sguardo, lasciandolo vagare per il piccolo parco in mezzo al quale eravamo sedute.
Quando mi guardò di nuovo, qualcosa nei suoi occhi era cambiato.
“Che sta facendo? Non mi sembra di averla mai vista qui prima d'ora, ed io conosco quasi tutti in questo posto.”
Sospirai, nel tentativo di scacciare le lacrime.
“Aspetto qualcuno” le risposi pacatamente.
“Aspetta da molto?”
Cercai di non concentrarmi sul nodo che avevo in gola per non permettergli di bloccare le mie parole.
Poi le sorrisi come meglio potevo considerate le lacrime dentro i miei occhi. Le risposi in poco più che un sussurro, non dando importanza a se mi avesse sentito oppure no.
“Da tutta la vita.”

“Mi scusi, signora Torres, purtroppo l'orario delle visite è terminato” mi informò un'infermiera, sorridendomi cordialmente.
Annuii, alzandomi dalla panchina ed aspettando che la donna seduta accanto a me facesse la stessa cosa. La riaccompagnai, passeggiando, verso l'ingresso della struttura.
“La vedrò di nuovo?” mi chiese quando fu quasi davanti all'ingresso.
“Domani alla stessa ora. Come ogni giorno, Arizona.”
Lei mi sorrise, annuendo.
L'infermiera, che era tra l'altro una delle mie preferite, la riaccompagnò all'interno.
Sospirai, pensando a quanto avrei voluto portarla via da quel posto. Ma io da sola non ero in grado di prendermi cura di lei.
Sofia e Jamie avevano la loro vita. E chiamavano tutte le sere, venivano a visitare almeno un paio di giorni ogni tre mesi, ma non potevano ritrasferirsi a Seattle per prendersi cura della loro madre, non potevo chiedergli niente del genere, perché volevo che per prima cosa di prendessero cura delle loro famiglie.
Così mi incamminai verso la solitaria casa piena di lei e di ricordi che avevo di lei.
Andavo avanti, sapendo che in qualche modo, un giorno, l'avrei trovata di nuovo. Un giorno io e lei ci saremmo potute incontrare di nuovo e stare insieme per sempre. In un posto perfino migliore di quello in cui avevamo vissuto, in un posto senza malattie né dolore.
Mi stesi a letto, quella sera, ma rimasi a guardare il soffitto, senza però vedere altro che i suoi occhi che guardavano indietro proprio dentro i miei.
Sperando, come sempre, che fosse la mia ultima notte senza di lei.

“Siamo qui riuniti oggi per celebrare il matrimonio di Callie e Arizona.”
Regnava il silenzio. Tutti rispettavano quel momento più che sacro.
“Vuoi tu, Arizona, prendere...”
“No, devi farlo bene, Tim.”
“Lo sto facendo bene.”
“Coi cognomi. È un matrimonio vero, devi dire i cognomi.”
“Vuoi tu, Arizona Robbins, prendere la qui presente Callie Torres...”
“No, no, Tim. Devi dire tutto il nome, devi dire Calliope.”
“Nessuno la chiama mai Calliope.”
“Da oggi io sì, perché siamo sposate, quindi serve il nome intero.”
“Lasciami finire, ok? Dopo voglio giocare alla guerra.”
“Prima sposaci.”
“Ci sto provando. Se stai zitta lo faccio.”
“Ok.”
“Vuoi tu Arizona Robbins, prendere la qui presente Calliope Torres come tua sposa?”
“Lo voglio.”
“E vuoi tu Callie...”
“Aspetta, non mi chiedi se voglio stare con lei nel bene e nel male?”
“Sto tagliando corto.”
“Io voglio dire la frase giusta.”
“E allora fallo.”
“Non la so, Tim, ho cinque anni. Tu ne hai nove, tu dovresti saperla.”
“Arizona” le dissi. “Voglio sposarti il prima possibile, quindi fallo finire e basta.”
“Ma...E se questa è la nostra unica occasione? Se è il nostro unico matrimonio? Se da grandi decidiamo di non sposarci davvero? Io non voglio aspettare e rischiare di non farlo mai, voglio dirlo adesso, voglio prometterti tutto adesso, in modo che tu lo sappia, qualsiasi cosa succeda.”
La guardai negli occhi e le sorrisi.
“Vale lo stesso. Anche se dici solo 'lo voglio', la promessa vale lo stesso.”
“Allora va bene.”
“Vuoi tu Callie Torres...”
“Calliope” lo corresse la sorella.
“Arizona, fallo finire.”
“Vuoi tu Calliope Torres prendere Arizona Robbins come tua sposa?”
“Lo voglio.”
“Ora siete sposate. Andiamo a giocare alla guerra.”
Ci guardammo negli occhi un momento di più.
“Prometti di non dimenticartelo quando sarai più grande” le dissi.
“Promesso. Ora tu.”
“Promesso.”
“Nessuno se ne dimenticherà” ci voltammo verso mia madre. “Ho ripreso tutto con la videocamera, questa è la cosa più dolce che io abbia mai visto. E non si sa mai, del materiale da ricatto potrebbe tornarci comodo in futuro.”

~ ...And you didn't mean to love me back, but I know you did. ~




La canzone all'inizio e alla fine è “A Lonely September” dei Plain White T's, se non la conoscete ve ne consiglio l'ascolto!
Grazie mille e alla prossima ;)




Ritorna all'indice


Capitolo 44
*** La prima volta che ci siamo odiate ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU!






La prima volta che ci siamo odiate


I miei occhi rimasero fissi dentro i suoi mentre chiudevo a chiave la porta alle mie spalle.
Avevo già capito, come del resto ero sicura che lo avesse capito anche lei, che era arrivato il momento che per mesi mi aveva spaventato a morte. Sospirò, quasi come se si fosse arresa tempo fa al fatto che, prima o poi, sarebbe inevitabilmente successo.
Forse era per il modo in cui ci guardavamo, quel modo pieno di odio, disprezzo, rancore. O più probabilmente era perché le avevo promesso più di una volta che lo avrei fatto.
Non lo so. So solo che lo sguardo impaurito che aveva in quel momento mi piaceva. Mi faceva sentire in controllo per la prima volta da molto, molto tempo. E a me piaceva il controllo.
“Avanti” mi invitò con voce pacata. “Sapevamo entrambe che sarebbe successo” continuò, scrollando le spalle. “Fallo e basta, una cosa veloce e indolore.”
La calma nella sua voce mi stava un po' togliendo il gusto di quella cosa, in realtà. Mi piaceva di più quando aveva paura, perché ne avevo anche io e in quel modo percepivo tutta la gravità di quello che stavo per fare. La sua tranquillità sminuiva le mie colpe.
Mi avvicinai lentamente, mantenendo il contatto visivo.
“Come sapevi che sarei stata io a farlo?”
“Perché io non ho mai avuto il tuo coraggio, né la tua pazzia. Ho sempre saputo che saresti stata tu a mantenere quella promessa.”
La sua pacata rassegnazione mi innervosì al punto che, senza accorgermene, avevo annullato la distanza che ci separava, l'avevo afferrata per le spalle e forzata contro la parete, in modo che non potesse fuggire.
La guardai con un mezzo sorriso che fece finalmente attraversare i suoi occhi da un nuovo lampo di terrore. Mi avvicinai, così da poter sussurrare al suo orecchio.
“Presa.”


“Un giorno ti prenderò.”
Era la promessa che avevo fatto più volte in vita mia e la facevo sempre e soltanto a lei.
“Un giorno ti prenderò e ti picchierò così forte che i giorni in cui potevi respirare normalmente saranno solo un ricordo lontano.”
Avevo imparato a battermi fin da piccola. Colpisci veloce e colpisci forte, in modo da colpire per primo e una volta sola. Me lo aveva insegnato mio padre quando avevo pochi anni ed io lo tenevo sempre a mente.
Mio padre. Ecco, mio padre se ne era andato. Un giorno mia madre aveva chiesto il divorzio e lui, invece di lottare per la sua famiglia, era fuggito insieme alla donna che l'aveva spezzata.
Sempre così tanto il bravo marinaio nella tempesta, mio padre.
Se ne era andato via e noi non eravamo più stati costretti a trasferirci di continuo da un posto all'altro, così ci eravamo sistemati in quel paese della Florida.
L'avevo conosciuta quando avevo nove anni e avevo iniziato a frequentare la sua scuola ed era successo così, a prima vista. Ci eravamo subito odiate.
La prima volta che l'avevo incontrata mi aveva accusato di aver rubato il suo banco, ma io avevo protestato, facendole notare che era solo il primo giorno di scuola. Disse che era il suo banco fin da quando aveva iniziato le elementari. Scrollai le spalle e rimasi seduta. E, probabilmente, se tornassi indietro è quello che farei di nuovo, nonostante tutto quello che accadde da quel momento in poi.
Lei, in cambio, buttò via la mia colazione. Io le svuotai la cartella in uno dei corridoi, lei mi rubò l'astuccio, io spostai la sua sedia mentre si stava sedendo, facendola cadere, così lei mi incollò alla mia. Scrissi il suo soprannome, che odiava, su tutte le copertine dei suoi libri. E lei, un giorno, decise di portare via il suo preziosissimo banco – e cioè il mio – dalla classe, subito prima che iniziassero le lezioni. Tutto questo neanche nel giro di tre mesi.
Ma fu l'ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive in seconda media, quello in cui commettemmo il nostro più grande errore. Ovvero, rimanere ad insultarci davanti all'uscita invece di darcela a gambe verso le nostre rispettive macchine, come avevano fatto tutti gli altri bambini in classe con noi.
“Te lo assicuro, pende da una parte.”
“Non è vero, sta zitta Calliope.”
Sapevo quanto la irritava essere chiamata in quel modo. Non quella volta, però. Mi guardò a lungo con aria profondamente seria e dopo avermi scrutato attentamente scoppiò a ridere, scuotendo la testa.
“Sì, pende proprio da una parte” concluse.
Mi toccai istintivamente il naso con una mano, cercando di convincere me stessa che stava mentendo. Con l'altra mano provai a colpirla su una spalla, ma lei fu più veloce di me nello spostarsi.
“Un giorno di prenderò” le promisi ancora una volta. “E quel giorno, ti assicuro che me la pagherai.”
“No. Io prenderò te e tu me la pagherai per esserti fregata il mio banco.”
“Devi superare quella storia, Calliope. Era la quinta elementare. Sono passati quasi tre anni, da allora.”
“Quel banco mi piaceva” ritorse. “Era un buon banco.”
E fu allora che successe.
“Arizona.”
“Calliope.”
Mia madre e suo padre si avvicinarono a noi da direzioni opposte contemporaneamente. Alzarono lo sguardo esattamente nello stesso istante e successe, anche per loro due, così, a prima vista. Si innamorarono. Ed io e Calliope eravamo decisamente nei guai.
“Non credo di aver capito bene.”
Il nostro primo giorno di scuola superiore si era concluso con una cena insieme a entrambi i nostri genitori, in cui avevamo continuato a mandarci frecciatine non così tanto sottili e che stava finendo in quel modo. Che era, per noi, il peggiore dei modi.
“Sono due semplicissime parole” le rispose suo padre con tranquillità. “Ci sposiamo.”
Calliope continuò a guardarlo come se non avesse ancora afferrato bene il senso di quello che ci stava comunicando.
“Sono sicura che dovrebbero esserci più parole.”
“Io e Barbara siamo stati insieme per un anno e qualche mese e, diciamo la verità, non siamo più due ragazzini. Vogliamo sfruttare ogni momento e abbiamo deciso che questo è il modo migliore per farlo. Quindi, ci sposiamo.”
Ci furono diversi attimi di silenzio. Poi, la mia controllatissima reazione.
“No.”
“Cosa significa 'no'?” mi chiese Barbara, perplessa.
“Sono due lettere” presi in giro la risposta precedentemente data da Carlos. “Significa no.”
“Significa che io non verrò a vivere insieme a lei” continuò Calliope, lanciando un'occhiata eloquente nella mia direzione. “Neanche morta.”
“Morta andrebbe anche bene, perché non sentirei la tua voce e non vedrei la tua faccia” replicai immediatamente. “Ma, da viva, neanche per sogno. Dovrete uccidermi.”
“Anche me. E passare sul mio cadavere.”
Tre mesi dopo, loro erano sposati ed eravamo andati a vivere insieme.

“Un giorno ti prenderò e ti farò pentire di essere nata.”
“Perché? Non ti piace il soprannome 'sorellina', sorellina?”
“No. E a te non piace il soprannome 'Calliope', Calliope?”
“Sei carina” il suo mezzo sorriso era ben oltre la semplice perfezione.
Dio, quanto la odiavo.
“Tu invece sei inguardabile. Perché hai un sacco della spazzatura addosso? Non è mercoledì, non ti porteranno via, tristemente.”
“Si chiama moda. Potresti provarla un giorno o l'altro, se decidessi di non portare i vestiti di tua madre, tanto per cambiare.”
“Mia madre non si veste così” le feci notare.
“No, hai ragione. Perché sono vestiti da uomo.”
“Non è vero.”
“Sì, invece, sorellina.”
“Calliope, un giorno ti ucciderò. Lentamente. E mi piacerà. Ti prenderò e ti ucciderò, te lo prometto.”
Ma non fu l'inizio la parte più difficile.
Si fece più complicato quando frugò tra la cronologia del mio computer portatile e iniziò ad avere sospetti sulla mia sessualità. E quindi, per provare la sua nuova teoria, prese la saggia decisione di iniziare ad andare in giro semi nuda per la casa.
Ora, io odiavo Calliope. Sul serio. Ma la natura e la pubertà l'avevano resa bella come una dea e sexy come Venere in persona. Quindi passai l'estate tra la prima e la seconda liceo facendo tre docce gelate al giorno e quando tutti mi chiedevano perché avessi sempre il raffreddore anche se era piena estate, rispondevo che la nuova camera aveva strani spifferi.
Era come se stesse preparando qualcosa in segreto. Qualcosa di grosso, anche.
“Sai di non essere una ragazza squillo, vero?” domandai un giorno, quando mi passò davanti in biancheria mentre stavo facendo zapping seduta sul divano del soggiorno. “Non devi per forza andare in giro senza vestiti.”
“Lo so” mi disse fermandosi, proprio davanti a dove ero seduta io. “È solo che mi piace vederti sempre così, come se stessi per prendere fuoco da un momento all'altro. È incredibilmente soddisfacente.”
“Ah!” la schernii. “Non illuderti. Non ti sfiorerei neanche con un bastone lungo dieci metri.”
Sorridendomi in quel suo modo malizioso, si chinò appoggiando le mani ai lati delle mie spalle ed offrendomi una visuale perfetta della sua scollatura – o quello che era, visto che non stava indossando una maglietta. Poi si abbassò ulteriormente, finché fu in grado di parlarmi all'orecchio, sussurrando.
“Si vede, infatti” mi rassicurò ironicamente. “Non mi toccheresti mai, vero?”
Per un istante soltanto chiusi gli occhi e inspirai lentamente il suo profumo, facendo attenzione che non se ne accorgesse. Cavolo, se era bella.
“Togliti da sopra di me” spinsi leggermente le sue spalle.
Raddrizzò la schiena, ridendo e guardandomi negli occhi.
“Vatti a mettere qualcosa addosso” le dissi. “Tim sarà a casa a minuti.”
Lanciandomi un ultimo sorriso, uscì dalla stanza.
La guardai andar via e poi rilasciai un respiro che neanche mi ero accorta di aver trattenuto fino a quel momento.

Era un lunedì quando tornai a casa e Barbara e Carlos mi stavano aspettando in soggiorno. Il mio sguardo schizzò verso Calliope, seduta sul divano.
“Che hai fatto?” chiesi subito, vedendo le loro espressioni. “Qualsiasi cosa vi abbia detto...”
“Arizona, siediti” mi fermò mia madre.
Io mi accomodai all'estremità opposta del divano, sospirando.
Sopra il tavolo basso davanti a noi venne gettata una scatoletta apparentemente innocua. Se uno non sapeva cosa ci fosse dentro.
“Che cosa è?” chiese Calliope.
“Test di gravidanza” risposi io, corrugando poi la fronte. “Perché ci state dando un test di gravidanza?” domandai alzando lo sguardo verso i nostri genitori.
“Non ve lo stiamo dando” rispose Carlos. “Vogliamo sapere chi di voi due ne ha fatto uno. La scatola era nel bagno del piano di sotto.”
Non c'era uno specchio, ma se ci fosse stato mi sarei potuta vedere sbiancare.
“Io uso sempre quello di sopra” si difese immediatamente Calliope. “E, in ogni caso, nessuna di noi due avrebbe bisogno di un test di gravidanza.”
“Arizona” mia madre iniziò con tono mortalmente serio. “Sappiamo che quel bagno lo usi principalmente tu, quindi ti sto chiedendo di risparmiarti eventuali bugie e dire subito la verità. Questo è tuo?”
“No” negai immediatamente, con decisione.
“Secondo me dice la verità” intervenne Calliope.
Io la guardai, voltandomi, facendo una smorfia di disgusto e scuotendo la testa con espressione amareggiata.
“Sei stata tu” la accusai. “L'hai messo nel mio bagno perché fossi costretta a dire la verità.”
“La verità su cosa?” chiese Barbara, facendomi voltare nuovamente verso di lei.
“Quello non è mio” negai di nuovo. “Non ho nemmeno un ragazzo, ma se lo avessi prenderei precauzioni per non rimanere incinta” dissi, invece di rispondere alla sua domanda in maniera diretta.
“Al momento non sei molto credibile” mi fece notare mia madre. “Era nel tuo bagno. Avrò bisogno di qualche rassicurazione in più, magari sostenuta da qualche prova, perché un semplice 'non ho un ragazzo' non basterà.”
“Beh, ma è la verità.”
“Sono delusa, Arizona.”
“Barbara” intervenne Calliope “so che suona strano, visto che era in casa nostra, ma quel test non è mio e sono abbastanza sicura che non sia neanche di Arizona. Quindi deve esserci un'altra spiegazione.”
“Non credo ci sia” mormorò lei, lo sguardo basso, l'aria preoccupata. “L'unica cosa che mi impedisce di dare di matto è il fatto che, in ogni caso, il test era negativo.”
“No, ascolta” dissi in modo deciso “dico sul serio, non è mio.”
“Sei in punizione. Una grande. Te lo farò sapere appena decidiamo quale sarà.”
“No, se vuoi punirmi, almeno puniscimi per qualcosa che ho davvero fatto” le dissi, alzandomi in piedi e fronteggiandola. “Quello non è mio e io non sono sessualmente attiva, ma anche quando lo sarò, non avrò bisogno di certo di un test di gravidanza, perché mi piacciono le ragazze.”
Avevo le lacrime agli occhi. Mi voltai verso Calliope, che era ammutolita dallo stupore che lo avessi appena detto sul serio.
“Spero che tu sia fiera di te stessa, adesso. Sei riuscita a farmelo dire ad alta voce.”
Scosse la testa.
“Non sono stata io a metterlo lì.”
La porta dell'ingresso si aprì e si richiuse, Tim si bloccò sulla soglia del soggiorno, osservando le espressioni sconvolte che avevamo tutti.
“Che succede?” domandò.
Poi il suo sguardo cadde sulla piccola scatola sopra il tavolino.
“Oh, cavolo. Posso spiegare. Jenny aveva un ritardo e così quando era qui, l'altro giorno...”
Corsi in camera mia il più velocemente possibile, non volendo sentire neanche un'altra parola, cercando di non ascoltare le voci provenienti dal soggiorno e le loro urla riguardo l'imprudenza di Tim.
La porta di camera mia si aprì lentamente e qualche istante dopo, altrettanto lentamente, si chiuse di nuovo.
“Stai bene?”
“Ti sembra che stia bene?” avevo riempito il cuscino di lacrime.
“Mi dispiace.”
“E perché? Tu mi odi” le feci notare. “Non capisco perché non fai battute a riguardo visto che ovviamente lo sapevi già, in realtà.”
“Perché è una cosa importante, è quello che sei. Non si scherza su certe cose. Tu non mi hai mai preso in giro perché ho origini latinoamericane, no?”
Io la guardai attentamente per diversi istanti.
“Saresti una persona a posto” le dissi, tirando su con il naso. “Se non fossi così permalosa.” “Anche tu. Se non fossi così stronza.”
“Adesso vattene.”
“Appunto” mormorò con l'ombra di un sorriso sulle labbra. “Non me ne vado finché non so che stai bene.”
“Potrebbe volerci un po'” le feci notare.
E sapeva benissimo che intendevo mesi o anni, ma scrollò le spalle e si sedette sul bordo del letto in cui ero sdraiata.
“Tanto fuori piove. Non è che ho niente di meglio da fare.”
Il mio coming out, a metà della seconda superiore, decisamente non andò come mi ero aspettata.
“Sono fiero di te. Per aver detto la verità” specificò Carlos quando continuai a guardarlo con aria confusa. “Sei stata coraggiosa.”
“Ti ringrazio” risposi con esitazione.
“Questo significa che sposerai una donna?” chiese invece Tim. Io annuii, sempre con esitazione, e lui sorrise. “Ballerò così tanto al tuo matrimonio” concluse, con quel suo sorriso furbo e fiero allo stesso tempo.
“Per me è lo stesso, io ti odio ancora” mi informò Calliope mangiando patatine sul divano mentre guardava la tv.
“Avrei voluto che me ne parlassi prima” mi disse mia madre con aria dispiaciuta. “Se hai avuto paura, io sarei dovuta essere lì per darti coraggio. Mi dispiace non averne avuta l'occasione, ma voglio che tu sappia che è tutto ok. E che noi siamo sempre al tuo fianco, non importa cosa succede.”
“Io provo solo pietà per la poveretta che dovrà sopportarti. 'Non fare questo, non fare quell'altro, è da maleducati'” cercò di imitare ironicamente la mia voce. “Bla, bla, bla.”
“Calliope, sei disgustosa. Mastica a bocca chiusa, togli i piedi dal tavolo, smetti di agitarti così tanto, siediti con la schiena dritta, e per l'amor di Dio” esagerai volutamente la mia irritazione, sospirando “i sottobicchieri sono stati inventati per un motivo.”
“Ecco cosa intendevo” replicò soltanto, ignorando del tutto le mie critiche.

“Sai, il fatto che ti aggiri per casa mezza nuda solo quando sai che ci siamo soltanto io e te, mi dà da pensare.”
“Immagino” rispose con un sorrisetto soddisfatto. “Soprattutto il genere di pensieri che fai a riguardo.”
“Non darti arie. Non ti trovo affatto attraente.”
“Risparmiati le bugie. So esattamente quello che pensi di me e so che tu sai benissimo che io me ne sono accorta.”
“Ah, beh. Quindi continui ad andartene in giro per casa con quasi niente addosso, precisamente perché?”
“Perché mi piace vederti combattere contro i tuoi istinti e demoni personali. In più, è estate. È caldo.”
“Sai cosa?” chiesi, sfilandomi anche io la maglietta. “Hai assolutamente ragione, Calliope. È caldo.”
Il sorrisetto soddisfatto che aveva sulle labbra sparì alla velocità della luce.
“Ora sparisci e mettiti qualcosa addosso, perché ti avverto subito che il prossimo indumento che mi toglierò saranno i pantaloni.”
“Sì, come se lo faresti davvero” espresse la sua incredulità a riguardo, però si voltò ed uscì dalla stanza senza aggiungere altro.
Fu allora che iniziai ad avere i miei sospetti anche io. Sorrisi a me stessa, sdraiandomi sul divano. Avevo finalmente vinto una discussione con lei e non avrei potuto esserne più fiera.
Da allora ci fu decisamente meno nudità da parte sua. E leggermente di più da parte mia. Avevo finalmente capito che in due potevamo fare quel gioco.
Eccetto che non era più un gioco.

“Aria viene a vivere qui da noi quando tua madre riparte per l'Europa” Carlos informò Calliope durante una cena. “Intendo, viene a vivere qui in modo definitivo.”
“Aspetta, ma non c'è una camera per lei e sappiamo tutti quanto mia sorella odia condividere qualcosa.”
Improvvisamente, mi interessai alla conversazione.
“Non starete mica pensando di mettere in stanza insieme noi due, vero?” domandai subito preoccupata.
“Beh, ora che lo dici, però, potrebbe non essere una cattiva idea” intervenne mia madre. “Potrebbe essere un modo per appianare le vostre divergenze.”
“No, no no no, non fatelo” implorò Calliope.
“Ci uccideremmo in meno di due ore” concordai.
“Potrebbe essere un'occasione per migliorare le cose, invece” sorrise con aria soddisfatta Carlos, fiero di essere riuscito a trovare una soluzione così in fretta, anche se era una che non si era aspettato.
Ma le cose non migliorarono.
Anzi, peggiorarono drasticamente.
“Come lo hai capito?”
“Che sei un'idiota? È stato semplice” scrollai le spalle. “Allora, per prima cosa una persona che dice di avere un banco il primo giorno di scuola...”
“No” mi bloccò. “Come hai capito che ti piacciono le ragazze?”
“Ah.”
Decisi che non era un buon momento per fare l'idiota e smisi per un secondo di continuare a portare roba mia in camera sua, sedendomi sul mio letto e guardandola mentre fissava il proprio.
“Ecco, diciamo che io me ne sono accorta e basta. Mi sono sempre piaciute le ragazze, ne ho sempre voluta una – e non come migliore amica. E ci sono persone che invece sanno per certo che vogliono un uomo” spiegai. “Ma” esitai quando fu il momento di proseguire “per altre persone, può essere più difficile. Può succedere che ti piacciano i ragazzi per tutta la tua vita finché un giorno incontri una ragazza che ti fa battere il cuore all'impazzata. Ma non c'è niente di strano” non capii che stavo cercando di dire finché non riconobbi, dal tono della mia stessa voce, che stavo cercando di tranquillizzarla.
Il mio istinto era probabilmente due passi avanti a me.
“Non stiamo parlando di me” chiarì immediatamente.
“No, lo so. Lo so. Dicevo e basta.”
“Ma se una ragazza esce con dei ragazzi” continuò, evitando il mio sguardo. “E se sa che gli piacciono i ragazzi” disse senza esitazione. “Ma poi si accorge che per tutta la sua vita l'unica persona che ha mai davvero voluto era una ragazza, allora...”
“Allora quella ragazza è bisessuale” terminai quando lei si bloccò. “Ma quella ragazza dovrebbe anche sapere che non c'è niente di strano, fuori dalla media o assurdo. Dovrebbe sapere che va bene così. Anzi, se chiedi a me, le è andata molto meglio così, perché le ragazze sono mille volte meglio dei maschi.”
Quello le strappò una risata, facendole alzare lo sguardo verso di me mentre fingeva esasperazione.
“Non stavo parlando di me, comunque” ripeté.
“Lo so, tranquilla” sminuii io, ricominciando a spostare scatoloni.

“Giuro che la maggior parte del tempo vorrei strangolarti.”
“Reciproco i tuoi sentimenti e rilancio con un soffocamento.”
“Oddio, Arizona, quanto ti odio. Sei la persona più irritante che conosca, te lo giuro.”
“Ascolta, erano sul tavolo della cucina. Come facevo a sapere che non dovevo mangiarli?”
“Perché non li avevi preparati tu. Erano i miei popcorn, li avevo preparati io e volevo mangiarli guardando un film in televisione e tu li hai fatti sparire in tre minuti!”
“Senti, non ho voglia di litigare, visto che ho chiaramente ragione e tu non ti rendi conto di aver sbagliato a lasciare i popcorn qui sopra. Quindi, per evitare una scenata, te li rifaccio io.”
“Mi perderò l'inizio del film” incrociò le braccia al petto, ma aveva smesso di urlare.
“Ti dico cosa, mi aspetti di là. Io te ne faccio il doppio, il triplo perfino, e guardo il film insieme a te.”
“E non mangerai i miei popcorn?”
“E non mangerò i tuoi popcorn” concessi, sorridendo.
“Va bene.”
“Che film vuoi guardare?”
“Hai presente 'Imagine Me & You'?”

“Non mi piace per niente.”
“Nessuno dei miei amici ti piace.”
“Addison mi piace.”
“Addison è anche amica tua.”
“Beh, comunque lui non mi piace.”
“Lo so, Arizona.”
“Secondo me l'unica cosa che vuole è venire a letto con te” continuai imperterrita. “E poi, perché non si rade quella stupida barbetta ispida che ha sul mento? Sono solo quattro peli, non è affascinante, è ridicolo.”
“Perché ce l'hai tanto con Mark?”
“Te lo ripeto, Calliope. Lui vuole venire a letto con te. E non intendo dire che vuole dormire o andare in campeggio o fare un pigiama party. Lui vuole soltanto mettere le tue sporche mani sulle tue...”
“Arizona!”
“Stavo per dire 'parti personali', Calliope” mi difesi.
“Sai, sembri quasi gelosa.”
“Sembro quasi” ripetei lentamente. “No. No, non sembro quasi. Io gli darei un pugno ogni volta che ti tocca, io non sembro quasi, io sono gelosa, punto.”
Mi guardò con un sopracciglio alzato. Ok, quindi forse dopo aver bevuto mezzo libro di birra dicevo cose di cui avrei potuto pentirmi.
“Perché voglio essere io l'unica a ferirti, che hai capito?” aggiunsi subito. “Voglio che quando pensi al dolore ti venga in mente la mia faccia.”
“Certo.”
“È così. Voglio diventare il tuo più grande incubo. È il mio nuovo proposito.”
“Come no.”
“Dico sul serio. Non è che mi piaci o roba del genere.”
“Infatti.”
Non mi aveva creduto neanche un po'.

Mi stavo specchiando in camera nostra e lei era seduta sul suo letto.
“Che c'è?”
“Niente.”
“Mi hai fissato per venti minuti, qualcosa c'è.”
Scrollò le spalle distrattamente, ma non smise di guardarmi.
“Hai un appuntamento?”
“No, esco solo con Teddy.”
“Ok. Tanto, in ogni caso, non me lo diresti se fosse un appuntamento.”
“Ora parli come mia madre” risi, voltandomi verso di lei. “E poi, perché non dovrei dirtelo? Anzi, probabilmente ti sbatterei subito in faccia di averne avuto uno prima di te” buttai lì come se fosse scontato.
Lei sospirò. “Io ho già avuto il mio primo appuntamento.”
Il mio sorriso sparì. Sorpresi me stessa quando mi ritrovai ad ingoiare a vuoto un paio di volte. Poi finsi un'espressione neutra.
“Con chi?”
“George.”
“E come è andata?”
Si strinse nelle spalle, guardando per un secondo in basso e poi di nuovo me.
“Non bene.”
“Come mai?”
“Non è molto interessato a me.”
“Quale è il suo problema?” domandai del tutto incredula. “È cieco?” scherzai, anche se non stavo davvero scherzando.
“Gli piace Izzie. Ma va bene così. Lui non piace a me, a dire la verità.”
“Perché?”
“Perché lui non è te.”
Pensai a quella frase incessantemente per cinque giorni.

“Per favore, smettetela di litigare almeno per cinque minuti” implorò Carlos, mentre stavamo facendo cena.
“Ha iniziato lei.”
“Non è vero. Ha iniziato lei.”
“Ora basta” intervenne Barbara. “Non avete più dieci anni, non potete più punzecchiarvi e litigare tutto il tempo. Siete in terza liceo, per l'amor di Dio, smettetela di avere un atteggiamento così infantile.”
“Ma...” iniziammo contemporaneamente.
“Niente ma. Andate in camera vostra” ordinò Carlos. “Entrambe.”
Noi ci scambiammo un'occhiata carica di rabbia, ma ci alzammo e salimmo le scale senza aggiungere altro. Ci sdraiammo sui nostri rispettivi letti, senza dire una parola.
“Che gli importerà, poi, se noi litighiamo” borbottò.
“Infatti. Saranno fatti nostri, no?”
“Appunto.”

Ci avevo pensato a lungo. E dire che ero tormentata a riguardo era un eufemismo. E mia madre, ovviamente, se ne rese conto più in fretta di quanto mi avrebbe fatto piacere.
“Allora, lei chi è?”
“Lei chi?”
“La ragazza che ti fa sospirare e distrarre mentre asciughi i piatti che sto lavando” chiarì.
“Oh. Non c'è nessuna ragazza, davvero.”
“Beh, comunque sia, sono sicura che le cose si risolveranno.”
“Non ne sono così sicura” mormorai. “E se” non sapevo come continuare, in realtà. “E se ci fossero delle persone che non vogliono che io stia insieme a lei? Se ci dicessero che è sbagliato? Se provassero a separarci?”
“Tesoro, la cosa importante non è quello che dicono le persone, ma quello che volete tu e lei. Sei una persona razionale, Arizona, ed è una cosa che a me personalmente va a genio, visto che sono tua madre. Ma ho paura che potrebbe anche renderti poco felice a lungo andare. Quindi perché non provi, per una volta, a seguire il tuo cuore?”

Stavo guardando la televisione. In casa non c'era nessuno e sapevo che lei era in camera nostra a far finta di studiare solo per non stare insieme a me. Ed il fatto che mi stesse evitando mi faceva arrabbiare, perché io non sapevo come farlo. Non sapevo come starle lontano, come smettere di pensare al suo profumo. Come dimenticarmi dei suoi occhi. Io non sapevo come fare a meno di lei e lei se ne stava di sopra a fingere di sapere come fare a meno di me.
Quindi spensi tutto e salii le scale.
“Presa.”
Quando mi allontanai per guardarla di nuovo in viso, vidi che aveva la mascella contratta, come se avesse voluto parlare e si stesse mordendo la lingua per non farlo.
“Puoi dire tutto quello che vuoi” la incoraggiai io. “Siamo solo io e te, non c'è nessuno in casa, Calliope. Nessuno può sentire.”
Vidi l'ultima briciola di resistenza che aveva conservato scivolare via. Aprì la bocca per parlare, ma all'ultimo momento ci ripensò, chiudendola nuovamente. Non trovava le parole, la capivo. Non c'ero riuscita neanche io. Così raddrizzò la schiena per guardarmi dall'alto verso il basso e afferrò uno manciata dei miei capelli.
“Finirà male.”
Come se fosse iniziata bene.
“Lo so. Ma ci ho provato e non riesco a fermarlo, ormai. Se tu puoi, probabilmente dovresti farlo adesso.”
Mi guardò negli occhi per un secondo ancora, poi scosse la testa.
E quindi io la baciai.

“Mi stai tra i piedi” mi disse, continuando a spostarsi in avanti.
“Sono solo in fila, proprio come te. Non ti sto tra i piedi, sto aspettando di arrivare alla cassa e pagare quello che ho preso.”
“E allora non starmi così addosso.”
“Non ti sono addosso, sei tu che ti muovi troppo lentamente.”
“Forse allora” si voltò, guardandomi negli occhi “sono io che voglio che tu mi stia addosso.”
“Penso proprio di sì” mormorai, facendo un passo in avanti anche se la fila non si stava muovendo, ritrovandomi così più vicina a lei di quanto sarebbe stato socialmente accettabile in condizioni normali.
Inclinai la testa di lato, rivolgendole un sorrisetto furbo.
“Sei una rottura.”
“E tu sei ovunque. Non ne posso più di vedere la tua faccia” replicai. “A casa, a scuola, sei dappertutto. Non ne posso più.”
Dopo che lei ebbe pagato per entrambe, la seguii verso un tavolo vuoto, dove continuammo a parlare per tutta l'ora di pranzo.
Quella sera, quando tornai a casa, c'era musica assordante e un centinaio di persone. Che era incredibilmente sospetto, visto che i nostri genitori erano via per il fine settimana.
“Cos'è tutto questo casino?”
“Tim e Aria hanno deciso di dare una festa.”
“Scherzi, vero?” domandai, guardandomi attorno. “Siamo morte. I nostri genitori ci uccideranno di sicuro.”
“Rilassati. Va tutto alla grande. Fai un bel respiro e divertiti, invece di preoccuparti delle conseguenze. Daremo la colpa a loro, sarà la loro parola contro la nostra. E dalla storia del test di gravidanza in poi, Tim non è stato molto credibile.”
Sospirai, avvistando Teddy e avvicinandomi per salutarla. Qualche minuto dopo vidi Calliope ridere e scherzare con faccia-da-fesso Sloan. La vidi avvicinarsi al tavolo con le cose da bere e mi scusai con Teddy, andandole a parlare di nuovo.
“Allora, hai già deciso se ti piace Sloan o no?” chiesi casualmente, prendendo un bicchiere per me ed uno per lei.
“Non credo che siano minimamente affari tuoi” rispose immediatamente.
“Giusto. Perché noi non stiamo insieme” afferrai del succo d'arancia, l'unica cosa non alcolica presente su quel tavolo, versandomene un bicchiere. “Ne vuoi?”
Annuì, guardando mentre riempivo anche il suo.
“Infatti” rimarcò. “Non stiamo insieme. Ci siamo solo baciate una volta, fine” il suo tono era deciso ma la sua espressione lentamente divenne incerta. “Stiamo insieme?”
“Non c'è bisogno che ti risponda” le feci notare, sorridendole. “Sembra che tu lo abbia già deciso, no? Divertiti con Sloan” con un ultimo sorriso, mi allontanai.
Tornò a sedersi, guardando verso di me ogni due secondi, mentre io parlavo con Teddy, tenendo gli occhi furtivamente incollati su di lei.
Le si avvicinò e lei si spostò all'estremità del divano, ma lui le si avvicinò ulteriormente. Si schiarì la voce e distolse lo sguardo, percepii il suo disagio anche se ero dall'altra parte della stanza, nascondendo una risata dentro il mio bicchiere. Il massimo fu quando le spostò una ciocca di capelli e lei si alzò in piedi, fingendo disinvoltura mentre metteva quasi un metro di distanza tra loro. Era il momento perfetto. Uscii dalla porta principale, assicurandomi che mi vedesse, ed andai a sedermi sotto il portico.
Poco dopo si sedette alla mia destra, io presi l'ultimo sorso dal mio bicchiere e lo appoggiai a terra, senza prendermi la briga di guardare verso di lei.
“Calliope” sussurrai.
Lei studiò il mio viso, l'aria timida, ne ero sicura anche se non la stavo guardando, come quella di una bambina che non conosceva ancora le parole giuste per dire quello che il suo cuore aveva già iniziato a provare.
“E quindi stiamo insieme” mormorò. “Ora che succede?”
“Non lo so” scrollai le spalle. “Io sto vagando nel buio almeno quanto te.”
“Mentre ero con lui, mi sentivo a disagio, come se qualcosa non andasse. È così che mi sentivo anche quando ero con George. È perché non è con loro che voglio stare. È con te.”
“Sai che è pericoloso, vero? Se ci scoprono...”
“...ci separano” concluse per me.
“Non voglio che ti portino lontano da me” confessai sperando quasi che non mi sentisse.
Nessuna di noi due sapeva cosa ci stava succedendo, ma, qualsiasi cosa fosse, non eravamo minimamente pronte a vederlo finire.

“Io voglio, ancora una volta, rendere chiara la mia posizione riguardo questa vacanza” iniziò, mentre si sedeva in macchina.
“È una pessima idea” tagliai corto io. “Andare tutti insieme al mare per tre giorni, è una pessima idea.”
“Già” intervenne Tim. “Io e Jenny dovevamo andare in campeggio, domani. Questa storia ci ha rovinato i piani.”
“Sì. E io e Mark avevamo fatto programmi per sabato sera” intervenne Aria.
“Tu e Mark?” chiese Carlos, sedendosi nel posto del guidatore. “Credevo che fosse Callie ad uscire con un ragazzo di nome Mark.”
“Ok, no. Papà, per primissima cosa: ew. Dico sul serio, ew. Io e Mark? No, grazie. Eravamo solo amici. Seconda cosa, esce con Aria da tempo, ormai. Saranno almeno due settimane. Ed io e lui non ci frequentiamo più da, tipo, due mesi.”
“E perché?” domandò suo padre, lanciandole un'occhiata dallo specchietto retrovisore.
“Ah, diciamo che l'ho rifiutato e lui non l'ha presa molto bene” rispose rimanendo sul vago.
“La fai suonare come se mi stessi accontentando dei tuoi scarti” intervenne Aria con tono irritato.
“Vedete?” ribadii. “Pessima idea!”
“Sta zitta” mi disse Calliope con una smorfia.
“Tu sta zitta.”
“State tutti zitti” intimò mia madre. “Questa vacanza sarà un'ottima occasione per passare del tempo in famiglia. E in particolare vorremmo che voi due, Callie e Arizona, riusciste a trascorrere più tempo insieme.”
“Più di così?” scherzò Tim, ridendo.
“Che intendi?” chiese Carlos. “Sono sempre a lamentarsi di quanto non si sopportano.”
“Sì, è vero. Tutto il tempo. Ogni singolo istante si urlano in faccia quanto si odiano.”
“Perché è vero” intervenni. “Io la odio.”
“Non quanto io odio te, piccola saputella.”
“Ogni secondo” continuò Tim. “Ogni istante delle loro vite lo passano insieme, prendendosi sempre la briga di comunicare al mondo quanto odino stare nella stessa stanza. Ma nessuna delle due esce mai dalla stanza, però.”
Io e Calliope non ci guardammo, continuammo a fissare il vuoto davanti a noi con aria scettica, incredula perfino.
“La teoria più ridicola che abbia mai sentito” concluse, incrociando le braccia al petto.
“Sì. Davvero ridicola. Passare del tempo con Callie ti ha reso più stupido.”
“Arizona” mi riprese mia madre.
“Ricordati che la stupidità è genetica. E lui ha gli stessi geni che hai tu.”
“Calliope” la fermò Carlos.
“Sappiamo che non andate molto d'accordo, ma vogliamo che le cose cambino” ci informò Barbara con tono definitivo. “Quindi basta con gli insulti, se non volete essere messe in punizione. E questa decisione ha effetto immediato.”
Io e lei ci scambiammo uno sguardo. Scrollò le spalle, io feci una smorfia.
Quando arrivammo in albergo, appena posata la valigia nella mia stanza, andai a bussare alla sua.
“Aria, non farò cambio, neanche se la mia è il doppio della tua.”
“Sono Arizona.”
Sentii qualcuno spostare velocemente qualcosa e subito dopo la porta si aprì.
“Vieni, pensavo fosse mia sorella.”
Mi lasciò entrare, richiudendo la porta mentre mi lasciavo cadere sul materasso.
“Beh, arrivare nel tuo letto è stato più facile del previsto” osservai, sorridendo della mia stessa battuta mentre afferravo il telecomando e accendevo la televisione.
“Sei venuta qui per fare zapping? Potevi farlo anche in camera tua.”
Scrollai le spalle.
“Tim ha ragione. Preferisco una stanza in cui ci sei anche tu” risposi, senza incrociare il suo sguardo.
Sentii una mano prendere delicatamente il telecomando dalla mia. Spense la televisione, appoggiandolo sul comodino e poi si sistemò su di me, guardandomi dall'alto. Rimasi sdraiata, ma le mie mani trovarono immediatamente i suoi fianchi.
“Meglio della tv, no?” chiese in un sussurro, dopo aver appoggiato le mani a lato della mia testa ed essersi abbassata per baciarmi.
Il cuore mi stava martellando nel petto e le farfalle che avrei dovuto avere nello stomaco avevano simpaticamente deciso di trasformarsi in dragoni che sputavano fuoco.
Mi congratulai mentalmente con me stessa per la brillante idea di andarle a parlare mentre le passavo una mano tra i capelli.
Con un movimento deciso ribaltai la nostra posizione, sistemandomi sopra di lei e guardandola negli occhi mentre tracciavo con il pollice della mano che ancora avevo tra i suoi capelli una linea dalla sua guancia alle sue labbra.
Era davvero bella. In quel momento, ferma lì che mi guardava aspettando e basta, senza dire o fare niente di particolare, era bellissima.
“Calliope-” qualcuno bussò alla porta, interrompendo una frase che, in ogni caso, non avrei saputo continuare.
“Callie, papà vuole che andiamo tutti giù in spiaggia. Tempo in famiglia, dice.”
Lei mi guardò negli occhi ancora per qualche istante, incapace di allontanarsi dal momento che stavamo vivendo. Alla fine, distolse lo sguardo, voltandosi verso la porta.
“Arrivo. Due minuti soltanto.”
Quando scendemmo i nostri genitori, insieme a Tim e Aria, ci stavano aspettando.
“Allora, cosa volete fare per prima cosa? Una gita in barca? Una camminata per la città? Oppure potremmo fare una nuotata tutti insieme” propose Carlos con un sorriso enorme.
“Io voto per la barca” rispose immediatamente Aria.
“Ti seguo a ruota” si aggiunse Tim, che a differenza di Aria era consapevole che con 'barca' si intendeva un canotto a motore e sperava di riuscire a convincere Carlos a lasciarlo guidare.
“Grazie ugualmente. Vi aspetto in spiaggia” comunicai loro, iniziando a camminare il più velocemente possibile.
“Delicato da parte vostra scegliere la barca quando sapete che Arizona ha paura dell'acqua profonda. Io vado con lei, ci vediamo dopo.”
Affrettando il passo mi raggiunse, mentre sentivamo suo padre sospirare. Si incamminarono nella direzione opposta.
“Questa vacanza potrebbe anche andare meglio del previsto” sussurrò, un mezzo sorriso che mi fece dubitare delle sue buone intenzioni.
Passammo il pomeriggio in spiaggia, rivedendo i nostri genitori solo quella sera a cena.
“Allora, siete riuscite a passare del tempo insieme senza litigare?” fu la prima cosa che ci chiese Carlos.
Afferrai i suoi capelli con una mano, l'altra che teneva la sua ferma contro la parete alle sue spalle, un sorrisetto in faccia mentre la baciavo per l'ultima volta ed uscivo dalla sua camera.
“Più o meno” risposi, cercando di non sorridere.

“Le cose erano più semplici quando avevamo nove anni, non è così?”
“Già” mormorai. “Quando facevi i dispetti a qualcuno significava che ti piaceva e se invece eri gentile volevi fregarti i suoi biscotti.”
“Come fanno le cose a diventare così complicate?”
“Forse siamo noi che le rendiamo complicate. Magari uscire da qui, un giorno, mano nella mano, risolverebbe tutto.”
“Mio padre e tua madre sono sposati. Credimi, Arizona, questa cosa non si può risolvere.”
Sospirai, continuando a guardare il soffitto senza aggiungere altro, aspettando che fosse lei a parlare. Continuai ad accarezzarle i capelli, mentre la mia mano destra si spostava sul suo fianco. Mi piaceva tenerla tra le braccia.
“Era la tua prima volta.”
Arrossii immediatamente, mormorando un imbarazzatissimo 'Sì' anche se non era una domanda. “Aw. Sei carina quando arrossisci.”
“Ma era anche la tua.”
“E allora? Questo non ti rende meno carina” mi disse, continuando a ridere.
E io continuai a guardarla ridere e, per quanto ne avessi cercato uno fin da quando l'avevo incontrata per la prima volta, fui sicura in quel preciso istante che non c'era neanche il minimo difetto in lei.
“Mi dispiace per aver preso il tuo banco.”
“Scommetto che il tuo piano era questo fin dall'inizio.”
“Sì” confermai. “Sì, vederti nuda era esattamente quello a cui stavo pensando mentre mi mettevo seduta al tuo posto, quel giorno, quando avevo nove anni.”

Il tempo passava e non stavamo più aspettando di vedere dove stavamo andando. Era successo in fretta, ma neanche tanto visto che ci eravamo conosciute per nove anni. Sapevamo entrambe che era troppo tardi. Non si poteva tornare indietro. Ma non sapevamo neanche come andare avanti.
“No. Non se ne parla.”
“Ok, senti, ora ne ho avuto abbastanza di questo tuo atteggiamento.”
“Non ho nessun atteggiamento, è solo che non è il momento giusto” rispose, corrugando la fronte. “Non è mai il momento giusto. Sono tre mesi che provo a parlartene e tu continui a rimandare. Non c'è più tempo, Calliope.”
“C'è un sacco di tempo” rispose bruscamente.
“No, invece” alzai la voce. “Non se vogliamo avere una possibilità di entrare nello stesso College, dobbiamo sceglierne uno e fare domanda.”
“Abbiamo sei mesi di tempo, ancora. Dammi un attimo di tregua, ok?” anche lei alzò la voce.
“Se vogliamo andare nello stesso-”
“Forse non è quello che voglio io” allargò le braccia, sospirando pesantemente.
Poi però vidi la sua espressione riempirsi di rimorso.
“Arizona” iniziò con tono pacato.
“No. Sono contenta che abbia ammesso quale è il vero problema. Finalmente sei riuscita a dirmelo, almeno.”
“Sai che non era quello che-”
“Ok. Come ti pare. Io me ne vado.”
Aprii la porta di camera nostra e mi bloccai appena attraversata la soglia, gettandomi un'occhiata alle spalle e vedendola starsene lì, l'aria dispiaciuta, come se volesse dire qualcosa e neanche lei sapesse cosa.
“Io me ne vado” ripetei piano.
E sapevamo entrambe che non intendevo via dalla stanza, ma via da quella maledetta città. Presi il giacchetto ed uscii, camminando fino a scordarmi perché fossi arrabbiata. Era stato stupido insistere ed era stato stupido urlare.
Aprendo la porta di casa, sentii la voce di mia madre chiamare per la cena. Appesi la giacca e poi la vidi scendere per le scale e fermarsi quando mi vide sulla porta di ingresso.
Entrammo in soggiorno, ma cercando di andare verso i nostri rispettivi posti a tavola quasi ci scontrammo.
“Scusa.”
“No, scusa tu” mi disse lei. “Mi...mi dispiace. Non volevo.”
“Neanche io. Dispiace anche a me.”
“Ma...ma si stanno scusando?” sussurrò Tim in direzione di Aria. “Per un piccolo scontro?”
“Qualcosa non torna” fu l'unica risposta della sorella minore di Calliope.
Fui la prima a salire dopo cena, lei mi raggiunse neanche due minuti dopo, chiudendo la porta mentre teneva lo sguardo fisso sul pavimento e andandosi poi a sedere sul suo letto. Io la guardavo, sdraiata sul mio.
“Non vuoi più stare con me” mormorai.
I suoi occhi si alzarono immediatamente verso i miei.
“Non dire sciocchezze. Certo che voglio stare con te.”
“Ma prima hai detto-”
“Non so se posso.”
“Se puoi stare con me?”
“Se posso entrare in uno dei college in cui vuoi andare tu. Tu sei intelligente e vai bene a scuola, ma io sono nella media. Come faccio a farmi prendere alla Hopkins?” prese degli opuscoli da sopra la mia scrivania. “O a Princeton? Guarda le università che hai scelto. Non sono alla mia portata.”
“Ma ti ho chiesto un sacco di volte in quali volessi andare tu, non mi hai mai risposto.”
“Perché non voglio impedirti di entrare in un posto come Yale” sventolò uno dei fogli che aveva in mano, mostrandomelo. “Voglio il meglio, per te. E io non sono il meglio.”
Corrugai la fronte, alzandomi per mettermi davanti a lei. Continuò a guardare in basso.
“Scherzi, vero? Tu sei” appoggiai le mani sui suoi fianchi “la perfezione” conclusi per mancanza di un termina più adatto.
“No, invece. Non posso darti il futuro che vuoi, non posso darti niente.”
“Non è compito tuo darmi qualcosa” cercai di spiegarle. “Dimmi cosa vuoi fare. E sii sincera, non dirmi che non vuoi parlarne.”
Scrollò le spalle, guardandomi di sottecchi.
“Vorrei fare il medico.”
Annuii, sfiorandole una guancia.
“Allora cerchiamo una buona scuola di medicina. Sai che io voglio fare il chirurgo, quindi è perfetto.”
“Ma le scuole in cui potrei riuscire a entrare io non sarebbero mai abbastanza, per te.”
“Lascia che quello sia io a deciderlo, ok?”
Mi guardò negli occhi ed io le sorrisi nel tentativo di rassicurarla.
“Ok.”

Tim e Aria avevano ficcato il naso. Parecchio. Quindi noi ci eravamo preoccupate di fare di tutto per nasconderci da loro, ma non ci eravamo mai preoccupate che i nostri genitori potessero sospettare qualcosa, neanche lontanamente. Perché la prima cosa che avrebbero fatto, loro che avevano sempre sostenuto l'onestà, sarebbe stata di sicuro chiedere. E allora noi, prima avremmo negato, poi avremmo nascosto meglio, di più, più a fondo. Ci sbagliavamo, però. Non fu chiedere la prima cosa che fecero.
Quando Carlos iniziò a sospettare che Calliope avesse un fidanzato, decise che l'onestà non era più la migliore delle armi. Così iniziò a fare qualche controllo. Io le dissi che suo padre iniziava ad avere qualche dubbio e che di sicuro aveva come minimo chiesto in giro, ma lei sminuì le mie preoccupazioni.
Un giorno, stavamo rientrando da scuola con Aria e Tim, lo trovammo ad aspettarci seduto sul divano con il cellulare di Callie in mano. Ed ecco spiegato perché non lo trovava.
“Lo hai lasciato sul bancone della cucina. Non smetteva di suonare” iniziò con uno strano tono di voce. “C'erano tre nuovi messaggi da Arizona, così ho pensato che fosse nei guai. Che avesse bisogno di un passaggio o qualcosa del genere, non riuscisse a raggiungere Tim e tu non rispondessi perché avevi il cellulare a casa.”
Chiusi gli occhi, dopo aver visto Tim e Aria scambiarsi un'occhiata al nostro fianco.
Carlos si passò una mano sul viso, mentre, sempre con la solita calma, appoggiava il cellulare sul piccolo tavolo davanti a cui era seduto.
Guardai Calliope. Era sbiancata.
“Papà, posso spiegare. Io...”
“Lei non c'entra niente” le parole uscirono dalla mia bocca prima che me ne accorgessi. “Stava solo aiutando me. Sto frequentando questa ragazza” spiegai, deglutendo “e i suoi genitori non sono di vedute molto aperte. Calliope ci presta il suo cellulare. Tutte le mattine, quando arriviamo a scuola, se lo scambiano, in modo che non rimangano messaggi sull'altro. Non sapevo che stamani lo avesse lasciato a casa” se non fossi stata sul punto di avere un infarto, mi sarei complimentata con me stessa per la prontezza di riflessi nell'inventare quella storia.
Mi stavano fissando, tutti tranne Aria, che guardava il padre con cipiglio serio.
“Non era lei che mentiva” continuai. “Ero io. Quindi se c'è qualcuno da punire, sono io.”
Sostenni il suo sguardo ed ignorai gli occhi di Calliope su di me. Dopo qualche momento, fu Carlos il primo a guardare altrove. Non so se mi aveva creduto, ma di sicuro preferiva la mia bugia alla verità che aveva davanti.
“Avete mentito entrambe. Parlerò con Barbara e decideremo cosa fare a riguardo.”
“Se punite loro dovete punire anche noi” intervenne immediatamente Aria. “Anche io e Tim abbiamo aiutato Arizona, sapevamo tutto quanto e non abbiamo detto niente” guardò mio fratello, che si affrettò ad annuire.
“Dovrò parlarne comunque con Barbara. Decideremo insieme. Ora andate in camera vostra.”
Calliope fu veloce nel riprendere il cellulare, prima di seguirmi al piano di sopra. Tim e Aria ci seguirono dentro camera nostra, mio fratello si chiuse la porta a chiave alle spalle.
“Hai lasciato il cellulare sul bancone della cucina?” chiese incredula Aria. “A volte non riesco a credere che tu sia mia sorella.”
“Non importa” intervenni. “Ho spiegato come stanno le cose, quindi tutto risolto.”
“Oh, per favore. Come se noi ci fossimo bevuti la balla pietosa che hai raccontato” mi disse Tim, con un sopracciglio inarcato. “C'è stato qualcosa di strano per mesi. Quindi se dobbiamo dividerci la colpa, iniziate a parlare.”
“Ho detto la verità. Ho una ragazza, Calliope mi copriva.”
“Perché lo avrebbe fatto, scusa?” chiese Aria. “Se le cose stanno come dite, lei ancora ti odia” mi fece notare, sedendosi sul mio letto, accanto a Tim.
“Non proteggeva solo me” aggiunsi in fretta. “La ragazza che sto frequentando” pensai alla svelta, ma giunsi ad una sola possibile conclusione “è Addison” quel giorno ero proprio in vena di menzogne, almeno.
Aria inclinò la testa di lato, osservandomi con gli occhi leggermente strizzati per qualche istante, come se fossi impazzita. Mio fratello, invece, scoppiò a ridere.
“Sai, te la saresti potuta cavare. L'idea era brillante, dico sul serio, visto che è la migliore amica di Callie. Se non fosse che Addison parla di Teddy tutto il tempo, avrei anche potuto crederci.”
Strinsi le labbra, cercando un'altra qualsiasi bugia da poter raccontare. Una credibile, magari.
“Ok, ecco come stanno davvero le cose. Calliope mi sta coprendo perché ho promesso di non dire a Carlos di lei e George, mentre Addison mi stava coprendo perché ho promesso di non dire a Teddy che ha una cotta per lei. Teddy, d'altronde, mi sta coprendo perché ha questo problema con....vediamo...Derek! Sì, Derek. George ha promesso di non dire niente perché ha paura di me, mentre ho convinto Derek a non parlare ricattandolo con delle...ehm...delle foto compromettenti di lui e Meredith. Che non parla perché non vuole che dica a nessuno di lei e Cristina. E Cristina...”
“Sono innamorata di lei.”
Mi bloccai solo per un secondo. Aveva parlato così piano che finsi che nessuno l'avesse sentita.
“E Cristina...”
“Sono innamorata di lei” ripeté a voce più alta, avvicinandosi e prendendo timidamente la mia mano, guardando in basso mentre io guardavo lei. “Sono innamorata di lei da quando avevamo nove anni e si è fregata il mio banco” aggiunse, alzando il viso per incontrare i miei occhi. “E non sono disposta a rinunciarci” terminò in un sussurro.
“Beh, questo potrà essere scioccante per voi, ma noi lo sapevamo già.”
Guardai mio fratello con un cipiglio confuso.
“Lo sapevate?”
“Scherzi? Callie che fa domanda alla Hopkins?” chiese Aria. “Tutto improvvisamente aveva un senso.”
“E siete, non so, arrabbiati?”
“Siamo felici” rispose lei, scrollando le spalle. “Se voi siete felici, noi siamo felici.”
I nostri genitori, invece, non lo sarebbero stati. Lo sapevamo fin troppo bene. Così raccontai di nuovo quella storia e loro tre mi dettero man forte. Non fui messa in punizione. Secondo mamma mi era permesso avere una fidanza, a condizione che non mentissi a riguardo.

Non ne parlammo, ma da come Calliope si comportava quando l'argomento veniva toccato anche solo marginalmente, non glielo avremmo detto mai. Ci presero un appartamento a Baltimora, quando venimmo entrambe accettate alla Hopkins, per risparmiare sull'affitto. Tornavo a casa una volta ogni tanto, Callie lo faceva meno spesso, dicendo di non voler rimanere indietro con i corsi, ma la verità è che se la cavava bene quanto me.
Quando entrambe fummo prese per la specializzazione a Seattle, eravamo economicamente indipendenti. Quindi prese tutta la sua roba da casa dei nostri genitori e non gli disse dove stava andando a vivere. Se ne andò in silenzio, lasciando poche notizie di sé. Quando tornavamo a casa, per Natale o il Ringraziamento, raccontava una bugia su come fosse il tempo a Phoenix e non parlava di amici o lavoro. Tutti avevano dato per scontato che qualcosa l'avesse semplicemente fatta voltare altrove, lontano dalla sua famiglia.
Non dissi mai niente a suo padre, non gli dissi che la vedevo ogni giorno, che vivevamo insieme, che io ero innamorata di lei. Perché, come avrebbe mai potuto capire? Il silenzio era più facile delle parole.
Litigavamo ancora, qualche volta. Ma non mi piaceva più prenderla in giro o vederla triste, quindi facevo di tutto per farla sorridere.
Non raccontavamo del nostro passato a nessuno dei nostri amici. Non ci piaceva parlarne. Loro lo avevano capito e non ci facevano mai domande. Beh, eccetto forse qualche volta.
“Almeno ditemi questo” era quella che ci facevano più spesso. “Come vi siete conosciute?”
Io sorrisi, guardando la donna al mio fianco. Calliope ricambiò il sorriso, stringendomi di più la mano.
“Ha rubato il mio banco quando avevamo nove anni.”
“Tecnicamente non era il suo banco” mi difesi. “Era il primo giorno di scuola.”




A Valeria: “Imagine Me & You” e le Teddison nella stessa shot, spero che ti abbia fatto piacere!
Grazie a tutte voi che dopo 44 storie continuate a seguire e recensire questa raccolta. Scusate se il finale non è del tutto lieto, ma ormai avrete capito che preferisco un pizzico di realismo di tanto in tanto. Ancora, di cuore, grazie.




Ritorna all'indice


Capitolo 45
*** Il nostro primo intreccio di anime ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU; Crossover (con...lo capirete leggendo, sennò non c'è suspance!)






Il nostro primo intreccio di anime


~ I cuori più duri si lasciano intenerire dalla bellezza. ~

Ci sono diversi tipi di storie.
La maggior parte, sono solo storie. Storie normali, di gente normale, che finiscono in modo normale.
E poi ci sono storie migliori di quelle normali. Ci sono storie meravigliose, storie fantastiche, che le racconti e non sembrano reali. Storie che, una volta, molto tempo fa, sono accadute. Ma tutti ne parlano come se fossero soltanto favole.
E poi ci sono altre storie. Storie terribili. Che parlano di qualcosa che preferiremmo dimenticare, che riguardano qualcuno che avevamo sperato di non dover mai sentir nominare. Storie che ci fanno paura. Storie che ci tormentano ogni giorno e bussano alla porta dei nostri incubi tutte le notti. Storie terribili, che finiscono con due cuori spezzati.
La mia storia è una di queste.

Era come se tutto attorno a me si muovesse a un milione di chilometri l'ora, mentre io non riuscivo neanche a respirare normalmente.
Non avevo mai visto qualcuno bello quanto lei. Il modo in cui mi aveva tolto il respiro, il modo in cui i suoi occhi guardarono dentro i miei, mi congelò all'istante.
Doveva per forza essere la cosa più bella mai esistita, non c'era storia.
Nonostante quello che tutti mi avevano detto di me stessa nel corso degli anni, non avevo mai avuto la stessa sensazione guardando allo specchio. Io non ritenevo me stessa perfetta, molto lontano dall'esserlo, anzi. Eppure gli altri sembravano pensare che lo fossi.
Quando la vidi, per la prima volta, capii cosa volesse dire vedere qualcosa di assolutamente perfetto.
Ma quello è stato anni fa.


Sapevo che mi stava guardando. Come avrei potuto non accorgermene? Non era stata esattamente sottile. Ormai era più di mezz'ora che se ne stava lì, solo a guardarmi, senza decidersi a fare nient'altro. Alla fine, prese una decisione e si alzò, quasi improvvisamente, con fermezza, venendomi incontro al bancone del bar.
Probabilmente non pensava che l'avessi notata. Si avvicinò alla mia sinistra, cercando di non far vedere quanto fosse nervosa. Potevo avvertirlo, però. Nel suo respiro irregolare e nel leggero tremore delle sue mani. Cose che nessuno avrebbe notato. Eccetto me.
“Ciao” mi salutò, dopo essersi schiarita la voce.
Io mi voltai lentamente nella sua direzione, le sopracciglia leggermente alzate, senza mai lasciare andare il bicchiere che tenevo nella mano destra.
“Vedo che finalmente hai deciso.”
La mia risposta la spiazzò. “Uhm, deciso?”
“Sì. Era circa mezz'ora che mi stavi guardando. O venivi a parlarmi, o potevi beccarti una denuncia per stalking.”
“Ehm, così mi hai visto, uh?” chiese, arrossendo leggermente mentre si sedeva accanto a me.
“Vedo sempre quello che c'è da vedere” risposi con un sorrisetto e sorseggiando il mio drink.
“Sai, questo ti sembrerà assurdo, ma ho come l'impressione di averti già incontrato prima. È possibile?”
Il mio sorriso vacillò per qualche momento, mentre pensavo alla risposta che avrei dovuto dare a quella domanda.
“Presumo che me ne ricorderei se ti avessi visto prima. Non mi dimenticherei facilmente di qualcuno come te.”
Lei accettò quella risposta senza ulteriori dubbi.
“Allora, sarebbe da brividi se adesso ti chiedessi come ti chiami?”
Io risi tra me e me. “Ci sono poche cose che mi spaventano in questi giorni. Callie Torres” le tesi la mano, aspettando che la stringesse.
“Arizona Robbins” rispose con un sorriso completo di fossette.
Quando le nostre mani si sfiorarono, per la prima volta guardai dentro i suoi occhi. Non potei evitare di sentire di nuovo quella sensazione di assoluto congelamento. Non ero più in grado di muovermi, e non ero più responsabile delle reazioni del mio corpo. Solo molti attimi dopo, lasciai andare la morbida presa.
“Mi dispiace. Per averti fissato, intendo. Ma, cavolo, neanche adesso riesco a scrollarmi di dosso la sensazione di averti già vista da qualche parte.”
Io sospirai, svuotando il mio bicchiere.
“Voglio dirti qualcosa, Arizona Robbins” iniziai, voltandomi verso di lei. “Tutta la tua vita, ogni singola scelta che hai fatto, è stata guidata perché tu potessi essere qui, in questo esatto momento, in questo esatto posto, per incontrare me.”
Osservai attentamente il suo viso, notando una reazione strana. Non sembrava spaventata, non sembrava pensare che fossi pazza. Sembrava, più che altro, che avesse ottenuto la spiegazione che stava cercando.
“Quindi sarò fortunata stanotte?” chiese, con un sorrisetto piantato fermamente sul viso.
Io risi, voltandomi e lasciando qualche banconota sul bancone per saldare il conto di quella sera.
“Dipende. Ciò che oggi consideri fortuna, può diventare sfortuna ad un anno da adesso. Viceversa, quella che consideravi una maledizione un secolo fa, adesso potrebbe diventare la cosa migliore che ti sia mai capitata.”
“Sei un tipo strano, non è vero? Intendo in senso buono” si affrettò a chiarire.
Io risi tra me e me.
“Lo intendono sempre in senso buono. Finché, a un certo punto, non più.”
Per qualche istante, si limitò a guardarmi.
“Ok, metterò le carte in tavola. Non ho capito neanche una sola cosa delle tre frasi che hai appena detto.”
Io le sorrisi.
“Sì, Arizona Robbins” chiarii per lei. “Sarai fortunata, stanotte.”
Mi alzai, sicura che mi avrebbe seguito fuori dal bar.
All'inizio di tutta quella storia, avevo pensato che sarebbe dovuto essere in quel momento, in una strada scura e deserta. Pochi minuti, tutto finito.
Ma molti, molti anni prima, quando avevo visto i suoi occhi, avevo deciso cosa avrei dovuto fare, che era quello che stavo facendo. Portarla verso il mio appartamento.
Ma mai, nemmeno per un momento, avevo pensato che sarebbe potuto accadere ciò che accadde da allora in poi.

Guardai verso l'orologio sul mio comodino. Era tardi. O mattina presto, dipende dai punti di vista, credo. Mi tirai a sedere, iniziando a vestirmi velocemente.
“Dove stai andando?” chiese, mettendosi lentamente seduta e coprendosi il busto con il lenzuolo. “A lavoro” risposi, indossando una maglietta presa a caso dal mio armadio. “Mi dispiace. Avrei dovuto dirtelo prima, suppongo.”
“Lavoro? Alle tre di mattina?” chiese, strofinandosi gli occhi.
“Già. Ti lascio del caffè e pancake pronti, fai colazione prima di uscire, ok?” mi guardai attorno, cercando i jeans della sera prima. Li raccolsi da terra, infilandomeli. “Devo essere lì tra un'ora, quindi te li preparo e vado. Torna a dormire. È spaventosamente presto” una volta vestita mi fermai e guardai verso di lei.
Dal basso mi fissava con quegli occhi del colore del diamante, l'espressione di un bambino che non vuole lasciar andare la mano del suo compagno di banco alla fine delle lezioni. Quell'aria tutta seria era adorabile su di lei. Feci il giro del letto, sedendomi al suo fianco.
Spostai una ciocca dei suoi capelli dietro il suo orecchio.
Lei appoggiò le mani sulle mie spalle, sporgendosi verso di me per baciarmi sulle labbra.
“Sai, questa non è una cosa che faccio, di solito” sussurrò timidamente.
Le sorrisi, tentando di rassicurarla.
“Neanche io. Ma non me ne pento.”
“Ti vedrò di nuovo?” chiese, dicendo finalmente ciò che stava pensando.
Avrei dovuto risponderle di no, per un migliaio di ragioni. Avrei voluto risponderle di no, avrei davvero voluto esserne capace. E, guardiamo in faccia la realtà, avrei potuto dirle di no, avrei potuto andarmene e non guardarmi mai indietro. Ma non lo feci. Non feci ciò che avrei dovuto, voluto e potuto. Feci solo ciò che sentivo il bisogno di fare. Darle qualsiasi cosa volesse.
“Questa scelta spetta a te.”
E anche lei avrebbe potuto altrettanto facilmente rendersi conto che era una pazzia. Ma non fu quella la risposta che sentii uscire dalle sue labbra nel cuore della notte.
“Ti lascio il mio numero sul cuscino.”
Mi baciò, dolcemente, poi si stese di nuovo sotto le coperte, mentre io mi incamminavo verso un altro turno di notte in ospedale.

Dodici ore dopo ero seduta su quel letto, in una mano un biglietto con su scritto 'Chiamami, so dove abiti' con una faccina sorridente accanto e un numero scarabocchiato sotto, e nell'altra il mio telefono.
Quella donna aveva fatto una faccina sorridente su un biglietto per me, Santo Dio.
Composi il numero, portandomi il cellulare all'orecchio. Tre squilli dopo, riattaccai. Che cosa stupida. Probabilmente, mi aveva lasciato il numero sbagliato e aveva scritto il biglietto per essere apposto con la coscienza.
E poi, un'ora più tardi dovevo essere di nuovo in ospedale, in ogni caso.
Arrivai lì a piedi, come ogni volta. Andai dritta a cambiarmi, visto che soltanto un'ora dopo dovevo essere in sala operatoria.
Fu allora che la vidi di nuovo. Stava parlando con qualcuno.
Appoggiai una spalla allo stipite della porta, mentre riconoscevo la donna con cui stava parlando come Teddy Altman, cardiochirurgia.
“Adesso mi pedini anche a lavoro?” chiesi, con un sorrisetto.
Lei voltò di scatto la testa nella mia direzione.
“Sta diventando un'ossessione, non ti fa bene alla salute” aggiunsi, togliendomi il giacchetto e afferrando il camice dal mio armadietto. “Teddy.”
“Callie” mi sorrise. “Voi due vi conoscete?” chiese perplessa, ma ovviamente già a conoscenza della risposta.
“Oh, io e lei ci conosciamo da un sacco di tempo” risposi, cercando di nascondere il mio sorriso.
Lei sembrava ancora perplessa, ma annuì, sorridendo ad entrambe prima di lasciarci sole.
“Non hai chiamato.”
“Ciao, Arizona. Come stai? Non dirmi che anche tu davvero lavori in questo posto.”
“Che stai facendo?”
“Una conversazione normale” risposi a bassa voce.
“Ok, d'accordo. Buonasera, Calliope, sto bene, e tu?”
“Non mi lamento.”
“Chirurgia pediatrica, se te le stessi domandando.”
“Chirurgia ortopedica.”
“Oh, sul serio? Interessante” finse un'espressione stupita. “Non hai chiamato.”
“Per prima cosa, ti ho visto per l'ultima volta stamani. Seconda cosa, ho lavorato dalle quattro di mattina fino a mezzogiorno e adesso sono le cinque e sto iniziando un altro turno, non è che abbia avuto molto tempo libero.”
“Cinque ore sarebbero dovute bastare per chiamarmi, però” mi fece notare.
Feci finta di non averla sentita.
“Terza cosa, un tempo ragionevole per richiamare qualcuno che ti ha lasciato il suo numero sono dai due ai cinque giorni. Se chiami prima sembri disperata, se invece chiami dopo, non sembri abbastanza interessata.”
Sembrò considerare le mie argomentazioni.
“Suppongo che tu abbia ragione. Non so neanche perché ho chiesto. Beh, ci sentiamo tra due-cinque giorni, presumo” si mosse in direzione della porta.
“Arizona?”
“Mh?” si voltò di nuovo verso di me, l'aria pensierosa.
“Comunque ho chiamato. Ma tu non hai il mio numero in memoria, quindi probabilmente hai pensato che fosse qualcuno che aveva sbagliato numero.”
La superai, il sorriso sulle labbra mentre osservavo la sua espressione confusa, e andai verso il mio ufficio. Quando il cellulare squillò, il messaggio che lessi mi strappò un sorriso.
Grazie per aver chiamato prima dei due giorni ragionevoli. Spero che tu abbia una bella giornata, Calliope. E se tra cinque giorni non avrò avuto tue notizie mi metterò l'anima in pace e incasserò il rifiuto. O mi presenterò ubriaca alla porta del tuo appartamento. Non ho ancora deciso quale delle due. Arizona. PS: Spero davvero che questo sia il numero giusto.

Avevo tenuto il piccolo oggetto dorato tra le mani per ore. Non riuscivo a dormire. Per quanto avessi provato.
Rimpiangevo ogni parola della conversazione che avevo avuto al telefono con lei quella sera, e, se avessi potuto, mi sarei rimangiata tutto.
Ma l'ultima cosa che volevo al mondo era spezzarle il cuore.
L'ultima cosa che avrei mai potuto convincere me stessa a fare, era ferire lei.
“Non sono passati ancora due giorni” mi aveva fatto notare ancora prima di dirmi 'ciao'.
“A te non piacciono proprio i saluti, non è vero?”
“Non particolarmente. Vado dritta al punto.”
“Una qualità che mi affascina e che apprezzo.”
“Allora...Hai chiamato per qualcosa in particolare?”
“Solo per sentire la tua voce. Mi dispiace se sembra patetico. Non sono molto brava a mentire” mentii.
“È bello sentire la tua” rispose con voce dolce. “Allora...vuoi...uscire, qualche volta?”
Non dirò che successe all'improvviso, tutto insieme, senza che me ne accorgessi. Perché anche in quel momento, avrei potuto dirle di no. Avrei potuto, in qualsiasi istante, lungo tutto il cammino, voltare le spalle alla direzione in cui stavo andando e prendere quella opposta.
Ma non lo feci.
“Tutto ciò che vuoi, Arizona.”

Rimpiangevo ogni parola. Ogni singola parola.
Mi alzai di scatto dal letto, attraversando l'appartamento fino ad arrivare davanti all'altra camera da letto.
Sentivo il bisogno di farlo, era più forte di me. Sapevo che non avrei dovuto, ogni volta che lo facevo, mi lasciava con un senso di impotenza e di vertigini. E con un milione di brutti pensieri. Ma avevo bisogno di farlo.
Aprii la porta velocemente, richiudendomela alle spalle come se qualcuno fosse potuto entrare da un momento all'altro nell'appartamento.
La stanza era vuota.
Mi guardai attorno, nella ridicola abitudine di controllare che tutto fosse al posto giusto, dove lo avevo sistemato. Mi avvicinai all'oggetto al centro della stanza, sentendomi sempre peggio per ogni passo che mi avvicinava alla pesante coperta di seta. Contro ogni logica, il mio battito accelerò, anche se non c'erano pericoli immediati, il respiro si intensificò, anche se non stavo facendo alcuno sforzo fisico.
Non volevo, non volevo farlo.
Avrei voluto essere in grado di voltarmi e uscire, richiudendo la porta a chiave e seppellendo il mio passato lì dentro.
Ma non potevo.
Avevo bisogno di vedere con i miei occhi.
Afferrai la stoffa tra le dita, e tirai.

“Ehi, tesoro. Come stai?” la sua voce era allegra e spensierata.
“Addison ho- ho bisogno di te” ero seduta sul divano, le ginocchia al petto, la mano libera dal telefono immersa nel miei capelli.
“Sei entrata lì dentro di nuovo, non è vero?” chiese in un sussurro.
“È orribile. È mostruosa, Addison.”
“Non è vero, Callie. Tu ne hai paura, ed è normale, ma...”
“Non capisci. È il modo in cui mi guarda, mi fa venire i brividi. Non potresti...” iniziai, bloccandomi subito dopo. Non mi piaceva chiederle favori, perché sapevo che non avrebbe mai potuto negarmene uno. Ma quella volta, ne avevo davvero bisogno. “Mi dispiace chiedertelo, ma non potresti venire qui?”
Esitò solo per mezzo secondo. “Sto arrivando.”

“Non mi sembra di averti visto prima.”
Mi voltai verso destra, la voce sconosciuta mi aveva riscosso dai miei pensieri.
Fui spiazzata, per qualche secondo, quando, voltandomi, mi trovai davanti a due ragazze perfettamente identiche.
“Infatti, è la prima volta che vengo qui. I miei genitori hanno insistito.”
Una di loro mi sorrise. “La prima volta è sempre strano. Tutta questa gente, tutti vestiti eleganti. Se riesci a passarci sopra, però, dopo un po' di volte non ci fai più caso.”
Ricambiai il sorriso.
“Callie Torres” mi presentai, tendendole la mano.
Lei la prese.
“Jannifer Taylor. Questa è mia sorella, Jane.”


“Ha preso qualcosa da me. Qualcosa che non le apparteneva. Ha preso la mia anima e l'ha modellata senza mai avere il mio permesso. Tu non mi conoscevi ancora, ma ero una brava persona.”
“Lo so” sussurrò, continuando ad accarezzarmi la schiena, abbracciandomi. “Mia non parlava mai d'altro. 'Callie questo, Callie quello'. A volte pensavo che ti preferisse a me.”
Tirai su col naso.
“Mi preferiva a te, infatti.”
Mi colpì piano sul braccio, ma poi rise, sapendo che scherzavo.
“Ero la sua zia preferita. Non pensavo che ti avrebbe mai raccontato quello che mi era successo, però. Quando ti sei presentata alla porta di casa mia, dicendo che sapevi, pensavo che avresti iniziato a ricattarmi o qualcosa del genere. Di certo non pensavo che saresti diventata la mia roccia, Addie.”
“Faccio quello che posso. Vorrei solo poter aiutare a farti sentire meglio.”
La mia mente, del tutto involontariamente, corse verso Arizona.
“Niente potrebbe aiutarmi. Ma ti ringrazio. Significa molto per me, il fatto che saresti disposta a provarci.”
Rimase da me. Le preparai il letto sul divano in soggiorno. Erano soltanto le otto, ma la notte prima nessuna delle due aveva chiuso occhio. Mi aveva lasciato sfogare su di lei il peso della mia coscienza.
Avevo annullato l'appuntamento con Arizona, dicendole che non mi sentivo molto bene, e avevo preso un paio di giorni di malattia a lavoro.
“Mi dispiace averti fatto venire da LA.”
“Non preoccuparti. Ti sei scusata per tutto il giorno, adesso smetti di sentirti in colpa e prova a dormire.”
“Grazie, Addison.”
Entrai in camera da letto, pronta a mettere la parola fine a quella giornata. Indossai il pigiama e scostai le coperte.
Qualcuno bussò alla porta. Sentii Addison urlare 'Vado io' e poi la porta aprirsi prima che riuscissi a fermarla.
Entrai nell'altra stanza, registrando la sorpresa di Arizona nel trovare un'altra donna nel mio appartamento dopo che le avevo detto di sentirmi poco bene.
In fretta la sua espressione diventò di rabbiosa incredulità. Ma fu brava nel nascondere quello che provava.
“Calliope” mi salutò vedendomi, le labbra premute l'una contro l'altra. “Ti avevo portato qualcosa da mangiare” sembrò voler giustificare la sua presenza. Mi mostrò la busta che aveva in mano, poi la sua espressione diventò di confusione, probabilmente verso se stessa. “Non so neanche perché ero preoccupata. Tutto questo è stato stupido.”
“Arizona...” feci un passo verso di lei.
Sentendo il suo nome Addison si voltò di scatto nella mia direzione, guardandomi con estrema perplessità.
Decisi che per il momento l'avrei ignorata.
“Arizona, non mi sento davvero molto bene. Addison è la mia migliore amica. È venuta a tenermi d'occhio” le dissi, sulle difensive. Non avevo fatto niente, ma mi sentivo comunque in colpa. “E apprezzo davvero che saresti stata disposta a fare lo stesso.”
Lei osservò Addison con sospetto.
“Addison Montgomery.”
“Arizona Robbins.”
Si strinsero la mano.
I loro occhi blu quasi identici si incontrarono per qualche istante.
“Beh, buona guarigione” disse infine a me, voltandosi.
Poi ricordò qualcosa e tornò indietro, porgendo la busta che aveva in mano ad Addison.
“È per due persone, non saprei che farmene.”
“Entra” le disse, senza nemmeno prendere in considerazione l'idea di accettare la sua offerta. “So che non pensavi che avresti trovato qualcun altro, ma prometto che non ti morderò.”
Lei superò la soglia timidamente, reticente a contraddire Addison. Gettò un'occhiata in direzione del divano, corrugando la fronte.
“Dormi sul divano?”
Addison alzò un sopracciglio nella sua direzione, che si affrettò a spiegarsi.
“No, intendevo, credevo che ci fosse un'altra camera da letto” indicò la porta alle proprie spalle.
Io mi rabbuiai.
“No. Non c'è un'altra camera da letto.”
“E allora lì dentro cosa c'è?”
“Niente. È vuota. È chiusa a chiave, lo è stata per anni.”
Stava per chiedere di più a riguardo, ma Addison si schiarì la voce, affrettandosi a prendere dei piatti.
“Io e te possiamo fare cena” propose ad Arizona. “Callie non riesce a tenere niente di solido nello stomaco ora come ora.”
La verità era che io avevo già cenato, mentre Addison stava per ordinare della pizza subito prima che Arizona bussasse al mio appartamento.
La mia migliore amica non era una grande fan della cucina spagnola, il piccante la infastidiva, e, gli avanzi che avevo mangiato io, ne erano pieni.
Feci loro compagnia mentre cenavano, intrattenendo una conversazione leggera con Addison sulla sua clinica di Los Angeles mentre osservavo Arizona mangiare.
Non avrebbe potuto essere più bella di quanto già non fosse.
“Allora, Arizona, come vi siete conosciute tu e Callie?”
Lei abbassò lo sguardo, arrossendo appena.
“L'ho incontrata da Joe, qualche sera fa” risposi al posto suo. “E poi il giorno dopo in ospedale.”
“Curioso. Una bella coincidenza.”
“Sono fortunata, a quanto pare” fu la replica di Arizona, che mi guardò, sorridendo.
Quando fu il momento per lei di andare via, salutò Addison con una stretta di mano. Lei le sorrise con calore, dicendole che sperava di vederla di nuovo molto presto. La accompagnai alla porta.
“Mi dispiace avervi interrotto.”
“A me no. Sono felice di averti potuto vedere di nuovo.”
Mi baciò sulle labbra velocemente.
“Rimettiti presto, ok?” sussurrò guardandomi negli occhi di sottecchi, sparendo subito dopo in direzione dell'ascensore.
Chiusi la porta, sospirando. L'espressione seria, il sorriso andato.
“Era lei?” chiese immediatamente. “Non me lo avevi detto.”
“Perché non è importante.”
“Non è importante, che tu l'abbia incontrata?” mi chiese, come se fossi impazzita. “È la tua occasione per riprenderti indietro la tua vita. Che fine ha fatto il piano?”
“No, Addison. Assolutamente no. Il piano è andato a monte nell'istante in cui ho visto i suoi occhi per la prima volta.”
“Lo so. E hai ragione, sai che penso che tu abbia ragione. Io farei la stessa cosa, io lo so, tu lo sai, tutto sistemato. Ma che fine ha fatto il piano B?”
Scossi la testa.
“Andato a monte nell'istante in cui ho visto i suoi occhi per la seconda volta” risposi, lo sguardo basso.
“Finirai con l'avere il cuore spezzato. E con lo spezzare il suo.”
“Lo so.”
“Allora fai quello che devi. Andartene via, non vederla mai più, tutta quella storia.”
“Non posso. Non posso andare via” scossi la testa. Poi, finalmente, la guardai negli occhi. “Quante relazioni falliscono ogni giorno? Quante persone si lasciano, ogni giorno? L'amore non esiste, l'amore non funziona. Quindi lasciami solo avere il tempo che mi darà al suo fianco, d'accordo? Quando ne avrà abbastanza di me, quando deciderà di lasciarmi, allora io non combatterò per lei, la lascerò andare. Ma finché lei vuole me, io posso darle quello che vuole.”
“Spero che tu sappia quello che stai facendo.”
“Onestamente? Non ne ho idea.”

“Callie, devi rimanere ferma. Come pretendi che riesca a dipingere se voi due continuate a muovervi?”
“Scusa Jane.”
“Sì, scusa Jane” la prese in giro Jennifer.
“Sei una bambina” ritorse la sorella più composta.
“E tu sei già vecchia. Non è colpa mia se non mi piace la pittura.”
“Non devi dipingere. Devi soltanto stare ferma mentre lo faccio io.”
“Ok, basta litigare. Jennifer, stai ferma. Continua pure, Jane.”
Era meraviglioso come andavamo d'accordo, come c'eravamo trovate in sintonia. Jane e Jennifer erano la cosa più bella che mi era mai capitata.
I miei genitori erano morti quando avevo appena vent'anni, lasciandomi l'eredità familiare. Non avevo nessuno al mondo, eccetto loro, che avevo conosciuto sei anni prima, qualche mese prima della morte dei miei genitori.
Le amavo. Le amavo davvero. E loro amavano me.


Era stata una pessima idea fin dall'inizio.
Nei tre minuti che passai davanti alla porta chiusa mi maledissi almeno un miliardo di volte. Ma alla fine mi arresi, bussando.
“Finalmente. Pensavo sul serio che ti saresti voltata e saresti andata via.”
“Non lo avrei mai fatto” la rassicurai con un sorriso.
“Sei consapevole del fatto che nessuno ti sta costringendo ad uscire con me, non è vero? Perché stavo assolutamente scherzando quando ho detto che mi sarei presentata davanti alla porta di casa tua ubriaca.”
Io risi, mio malgrado.
“Voglio uscire con te. Ho solo paura” confessai con voce piccola.
“Di me?”
“Di me stessa. Ho paura che finirò con lo spezzarti il cuore. Ed è l'ultima cosa che vorrei al mondo, perché sto cercando di darti ciò che vuoi, anche se non ho ancora capito del tutto cosa vuoi. Quindi, in conclusione, sto provando a renderti felice, ma non penso di poterci riuscire. Ho appena parlato a vanvera e ti ho probabilmente spaventato a morte, perché neanche mi conosci.”
“Ancora” aggiunse. “Non ti conosco ancora. E lascia che sia io a preoccuparmi perché il mio cuore non si spezzi.”
Mi prese la mano, richiudendosi la porta di casa sua alle spalle e lasciandosi condurre fino alla mia macchina.
Quando la riaccompagnai a casa, più tardi quella sera, percepii il suo nervosismo. Aprì la porta, voltandosi poi verso di me, tenendo la maniglia fermamente in mano.
“Vuoi entrare?” chiese.
Ecco da dove veniva il nervosismo, realizzai.
“Non credo a quello che sto per dire” sussurrai a me stessa. “Non credo che sarebbe una buona idea” risposi a voce più alta.
Lei mi guardò, perplessa e divertita allo stesso tempo.
“Che ne dici, invece, se questo sabato ti porto a cena nel mio ristorante preferito?” le proposi con un po' di incertezza.
“Mi sembra corretto, visto che stasera eravamo nel mio.”
Io le sorrisi, appoggiando una mano sulla sua vita, e piagandomi per baciarla sulla guancia. “A domani. Buonanotte, Arizona” sussurrai, il viso vicino al suo.
Lei mi baciò velocemente sulle labbra, prima che potessi protestare in qualsiasi modo. Non che, se me ne avesse data la possibilità, lo avrei fatto.
“A domani, Calliope.”

“Questo film è ridicolo.”
“Non l'hai davvero appena detto.”
“Se vuoi posso ripeterlo per chiarire il concetto.”
“Cosa c'è di ridicolo?” domandò incredula.
“Scherzi, vero? Cosa, di questo film, non è ridicolo?”
Si voltò verso di me, lentamente.
“Rimangiatelo.”
“Hai ragione. Un vampiro di cento anni che si innamora di una ragazzina di nome 'Bella' invece di ucciderla per acquietare la sua sete di sangue è del tutto credibile. Niente di ridicolo.”
“Calliope, rimangiatelo” ripeté, estremamente seria.
“Senti, dico solo che se l'amava così tanto l'avrebbe lasciata andare. E, a proposito, tu hai un sacco di cose in comune con lei” dissi, baciandola sulla punta del naso.
La sua espressione si ammorbidì, ma non era pronta a mollare.
“Per esempio?”
“Tanto per cominciare, l'incredibile tenerezza. E il fatto che faresti di tutto per stare vicino a qualcuno che ami, proprio come lei. Se vuoi saperlo, penso che lui sia il codardo. Ad un certo punto, dovrebbe trovare la forza di...” inciampai sulle mie stesse parole. Lo sguardo mi cadde verso il basso. “Lasciarla andare” sussurrai.
“Lei non vuole andare, Calliope” mi fece notare con tono fermo. “E lui sta cercando di darle ciò che vuole, perché questo è il tipo di persona che lui è.”
“E lo capisco. Davvero, lo capisco. Ma prima o poi avrebbe trovato il modo di farle capire che la vita, qualsiasi tipo di vita, è migliore della morte. È migliore di non avere un'anima. E lei non ha più un'anima da quando...”
“Lei?”
“Uh?”
“Hai detto 'lei'.”
“Ah.”
“Calliope, non so di cosa tu stia parlando, ma...” mi avvolse le braccia attorno al collo, voltandosi verso di me e tirando le gambe sul divano, lasciandole ricadere sulle mie.
Io ero rimasta seduta, immobile, spaventata dal dire qualsiasi cosa che avrebbe potuto lasciarle capire anche il minimo dettaglio.
“Se mi lasci andare ti uccido. Se tu vuoi andare, sei libera di farlo in qualsiasi momento. Ma non lasciare andare me, mai.”
Le circondai la vita con le braccia, facendola sedere su di me.
“Non lo farò. Finché vorrai me, io sarò al tuo fianco.”
La baciai dolcemente, cercando di farle capire che stavo dicendo la verità.
“Mi dispiace. Ma devi ammettere che non è il migliore dei film per qualcuno di trent'anni.”
“Attenta a come parli, Calliope. Ne ho ventotto.”
“Stavo parlando di me” sorrisi, baciandola di nuovo.
“Oh. Trenta? Sei vecchia. Non sono più così sicura di non voler andare, adesso che conosco la tua vera età.”
“Peccato che non abbia alcuna intenzione di lasciarti andare, allora” le rivolsi un sorrisetto, facendola stendere sul divano del mio appartamento. “E, fidati, non sei nemmeno vicina a conoscere la mia vera età” sussurrai un attimo prima di baciarla.
Nei tre mesi in cui l'avevo conosciuta, il rituale che avevamo di guardare un film a casa mia, raramente era finito in altro modo.

Non potevo dormire.
Era di nuovo quel bisogno profondo dentro di me, a tenermi sveglia. Non era più successo. Non da Arizona in poi.
Quando lei dormiva al mio fianco, la mia brama di sapere, mi lasciava in pace.
E quando mi capitava di svegliarmi nel mezzo della notte o di non riuscire a prendere sonno affatto, mi bastava voltarmi dalla sua parte del letto.
Tutto lì.
La guardavo e mi sentivo meglio.
Ma lei aveva il turno di notte ed io ero lì dentro da sola. Sapevo che sarebbero potute passare settimane prima che avessi avuto un altra serata senza di lei nel mio appartamento. Ormai, se poteva, Arizona era solita dormire lì insieme a me.
Ma il mio desiderio di entrare in quella stanza cresceva di più ogni volta che mettevo piede dentro casa mia, ogni volta che ero a meno di cento metri da quella porta.
E sarebbe stato meno rischioso farlo allora, con lei in ospedale.
Aspettare ancora mi avrebbe portato a rischiare di essere scoperta, perché, alla fine, sarebbe arrivata la sera in cui non avrei più potuto resistere. Così mi sarei alzata, con lei dentro il mio letto, e sarei sgattaiolata dall'altra parte dell'appartamento, facendo qualcosa di stupido. E se lei mi avesse seguito senza che la notassi?
Mi tirai via le coperte di dosso.
Non potevo correre alcun rischio.
Avrei dovuto farlo subito, quando lei non era dentro casa.
Frugai nel cassetto del comodino per meno di due secondi, poi sentii il metallo freddo a contatto con la punta delle dita e presi la piccola chiave dorata in mano, alzandomi e andando verso l'altra stanza.
Le mani mi tremavano leggermente.
Girai la chiave, aprendo la serratura.
Mi bloccai.
Se avessi chiamato Addison, forse, lei avrebbe potuto convincermi a non farlo. Oppure sarei potuta andare in ospedale, cercare Arizona e guardarla per qualche minuto, in modo che mi facesse stare meglio. Se avessi chiamato dicendole che stavo male, sarebbe corsa al mio fianco. E allora non ne avrei più avuto bisogno.
Ma la verità era che volevo vederlo.
Aprii la porta, richiudendola subito dopo, come se avessi voluto impedire anche all'aria di uscire al di fuori di quelle quattro mura, per impedire che fosse proprio l'aria stessa a trasportare via il mio segreto.
Controllai velocemente gli oggetti come da abitudine. Non che mi aspettassi di vedere qualcosa fuori posto, comunque tutto era come doveva essere.
Mi avvicinai al centro della stanza, pensando a quanto minore sarebbe stato il mio dolore se me ne fossi semplicemente andata via.
Chiusi gli occhi con tutta la forza che avevo, afferrando la stoffa senza neanche il bisogno di guardare quello che stavo facendo.
Non riuscivo a costringere la mia mente a pensare a nient'altro che non fosse Arizona.
Sentendo le lacrime premere per uscire, promisi a me stessa che Addison non ne avrebbe saputo niente, quella volta.
E Arizona non ne avrebbe saputo niente, mai.
Respirando a fondo, aprii gli occhi.

“Dipingere te da sola è molto più facile.”
Io risi, Jennifer sbuffò.
“Dico sul serio, Jennifer non fa che agitarsi.”
“Spirito di contraddizione. Vuole darti fastidio perché sei sua sorella. Del tutto normale” la rassicurai.
“Questo sarà il mio miglior ritratto, Callie. Sei un soggetto meraviglioso da dipingere.”
“E da guardare” aggiunse Jennifer, sorridendo.
“Neanche sposarti ti ha fatto cambiare” ritorsi, sorridendo a mia volta.
Lei spostò lo sguardo sul quadro che la sorella stava dipingendo.
“L'hai dipinta con un aspetto così puro, Jane, sembra a malapena Callie.”
“Non immischiarti. Vedrai quando sarà finito, sarà bellissimo.”
“Non ne dubito. Dopotutto, stai pur sempre dipingendo Callie. Non sarebbe appropriato se, attraverso il quadro, non si fosse in grado di vedere la sua assoluta perfezione.”
“Jennifer, dico davvero. Non hai un marito che ti aspetta da qualche parte?” chiesi, desiderosa di farla andar via. Avere un quadro di me stessa era abbastanza imbarazzante senza dover sentire i suoi commenti inappropriati tutto il tempo.
Lei sbuffò. “E tu? Io e Jane ci siamo sposate, tu quando hai intenzione di farlo?”
“Non ho bisogno di un uomo.”
“Ma a chi lascerai tutta la fortuna dei tuoi genitori?” domandò Jane. “Non sarebbe saggio se ti sposassi e avessi dei figli?”
Scrollai le spalle.
“Non voglio passare la mia vita a fare scelte in base a cosa ne sarà dei beni della mia famiglia quando io sarò morta. Sto per compiere trent'anni. Sono ancora viva, no? Mi concentrerò sulla vita, invece che su ciò che viene dopo.”
Ed era quello che avevo fatto da allora in poi.


“Devi dirglielo.”
“Non voglio, Addison. Non voglio rovinare quello che abbiamo.”
“Callie, devi farlo. Più aspetti, più le cose andranno male.”
“Lo so. Ma se aspetto ancora un po', forse...”
“Sono passati sei mesi. Se doveva lasciarti entro breve, lo avrebbe già fatto. È il momento in cui la lasci andare, ok? È il momento.”
“Addison...Io la amo.”
Silenzio.
“Ti avevo detto che questa storia sarebbe finita con due cuori spezzati.”
Di nuovo silenzio.
“Credi che anche lei ti ami?”
“No. Come si può amare qualcuno come me? Forse crede di amarmi adesso, ma capirà ben presto che era un'illusione. Alla fine, non importerà. L'amore non importerà.”
“Che vuoi dire?”
“Quando le dirò la verità, finirà per odiarmi. E sarà allora, Addie. Sarà quello il momento in cui dovrò lasciarla andare. Per questo non posso dirglielo. Perché nel momento in cui lo faccio, finisce tutto. Finisce la storia. E, con la storia, finisco io.”
Ci fu una lunga pausa.
“Aspetta un altro po' di tempo. Come hai detto tu, la gente si lascia di continuo, giusto?”
“Giusto” risposi sommessamente.
“Perché hai chiamato oggi?” chiese.
Sospirai.
“Ha compiuto ventinove anni, ieri” ammisi con riluttanza, aspettando pazientemente una risposta che non arrivò mai.
Dopo un lunghissimo silenzio, finalmente prese il coraggio a quattro mani e si decise a chiedermelo.
“Stai pensando di rimanere un altro anno, non è vero?”
“Vedrai che si dimenticherà di me, poi.”
“Non essere ridicola.”
“Si dimenticherà di me” insistetti con fare infantile. “Che potranno mai essere altri dodici mesi della sua vita? Alla fine riuscirà a dimenticarsi di me.”
“Sei un'idiota se lo pensi davvero.”
“Non posso rinunciare a lei. Sono troppo egoista, troppo debole, per farlo.”
“Si odierà per sempre quando lo saprà.”
“Non lo scoprirà mai.”
“Una volta che avrà compiuto trent'anni, glielo dirà lei.”
Aveva ragione. Non ci avevo pensato. Corrugai la fronte.
Sapevo qual'era la cosa giusta da fare, sapevo qual'era la cosa giusta nei suoi confronti e nei miei confronti.
Ma dirle la verità avrebbe voluto dire metterla in condizione di fare una scelta. E io non potevo permetterle di scegliere la cosa sbagliata da fare.
“A quel punto non importerà più.”
“Non importerà più che lei sia stata la causa della tua morte?” replicò con totale schiettezza.
“No. Non potrà più farci niente in ogni caso.”

La vista davanti ai miei occhi era impagabile.
Per tutta la mia vita avevo desiderato qualcosa di così semplice, eppure così perfetto, che averlo trovato in lei mi fece sentire, per la prima volta da anni, tranquilla.
Come se fosse la conferma che volevo che stavo facendo la cosa giusta. Anche se in effetti stavo facendo la cosa più sbagliata che avrei mai potuto fare.
Eppure sentii un nodo in gola. Le lacrime agli occhi. E un sentimento strano che avevo sempre vicino a lei e che fino ad allora avevo stentato a riconoscere. Felicità.
“Buon anniversario.”
“Hai cucinato?” chiesi, incapace di muovermi.
“Sì. Ho usato la copia delle chiavi che mi hai dato, spero non ti dispiaccia.”
“Te l'ho data perché la usassi. Anche se non pensavo che l'avresti usata per...questo.”
Finalmente mi ripresi, posando le chiavi, gettando a terra la borsa, togliendomi il giacchetto.
“Un anno fa, esattamente, ti ho visto per la prima volta” mi sorrise.
Sentii un nodo allo stomaco.
No. Non è vero.
“Ho pensato che dovevamo festeggiare, quindi, ti ho preparato la cena.”
Mi avvicinai al tavolo, illuminato solo da due candele, sopra cui era posato un vassoio ancora coperto.
“Non dovevi, Arizona. Dico sul serio.”
Mi avvicinai, abbracciandola.
“Volevo farlo. E ho immaginato che tu non avessi fatto caso al giorno un anno fa, ma il prossimo anno mi aspetto che te ne ricordi” mi sorrise dal basso dei pochi centimetri che la separavano da me.
Sentii un nodo in gola.
Ci sarà un altro anno? “Arizona, devo dirti qualcosa. Io...” dillo, dillo e basta “...me ne ricordavo. Ti ho preso un regalo, aspetta solo un secondo.”
Mi allontanai, andando verso il punto in cui avevo lasciato la borsa e frugandoci dentro finché non trovai quello che avevo comprato nell'eventualità che avesse tirato fuori il fatto che quella sera avrebbe dovuto essere il nostro primo anniversario. Le andai incontro, porgendole il piccolo pacchetto.
“Sei incredibile” sussurrò, baciandomi sulle labbra.
“Spero che ti piaccia.”
Lo aprì, senza mai smettere di sorridere. Era una piccola collanina d'argento con il pendente a forma di cuore.
“Calliope, è bellissima” era senza parole, potevo vederlo dalla sua espressione.
“Ti aiuto a indossarla” mi offrii, prendendola in mano e aspettando che si voltasse e si tirasse su i capelli, prima di allacciarla.
Stava per voltarsi di nuovo verso di me, ma avvolsi le braccia attorno alla sua vita. Non potevo farlo se mi guardava negli occhi.
“Non era questo che volevo dire, in realtà” confessai, respirando contro il suo collo il profumo che usava, misto a quello del suo shampoo, misto a quello della sua pelle.
Ebbe un piccolo brivido. Rafforzai la mia presa.
“Prometti di non dare di matto, ok? Devo farlo, io devo dirtelo” lasciai una scia di baci sul suo collo.
“Spara” rispose, palesemente distratta.
“Arizona...” se non lo dici adesso, te ne pentirai per il resto della tua vita. “Ti amo. Nel senso di, sono davvero, davvero, innamorata di te. E ho paura. C'è qualcosa che avresti il diritto di sapere...qualcosa del mio passato...” non riuscii a continuare. “Ma non posso perderti.”
Si voltò, prendendomi il viso tra le mani, guardandomi negli occhi ed accarezzandomi una guancia con il pollice.
“Calliope, so che hai un segreto, qualcosa che non mi hai detto” mi rassicurò. “Sarebbe stato difficile non notarlo” scherzò per metà. “Ed io sarò qui, quando sarai pronta a parlarne. Ammetto che alcune volte, avrei voluto che lo avessi già fatto, ma posso aspettare. Aspetterò tutto il tempo che vorrai.”
“Non capisci. È qualcosa di terribile. Qualcosa che ci distruggerà.”
“Niente del tuo passato potrebbe mai impedirmi di essere nel tuo futuro, Calliope.”
Fu allora. Fu quella frase. Fu come un secchio d'acqua gelata di prima mattina.
“Tu pensi davvero che sarò io, non è vero? La persona con cui passerai il resto della tua vita” nella mia voce, semplice perplessità.
“Sì. Lo penso davvero” confermò, accarezzandomi i capelli lentamente.
Scossi la testa, guardando verso il basso.
Come avevo potuto farle una cosa del genere? Dopo aver promesso che avrei fatto di tutto per impedire che fosse mai ferita da qualcosa, come potevo essere io ciò che l'avrebbe fatta soffrire ad un certo punto?
Come era successo?
Come dannazione era successo?
Come era possibile che mi fossi cacciata in quel casino, con le mie stesse mani, per giunta? Come era possibile, dopo tutto quello che avevo passato, dopo tutto quello che era successo, che mi aveva fatto, come potevo amare lei?
Mi baciò sulle labbra, poi mi costrinse a guardarla negli occhi.
“Sono davvero, davvero, innamorata di te anch'io.”
La strinsi dolcemente tra le braccia finché non persi la cognizione del tempo.
Avrei voluto che fosse possibile un finale diverso, per quella storia.
Avrei voluto poterle dare il finale che lei voleva.
Ma le cose erano quello che erano, e non potevamo avere nessun altro finale se non quello che c'era destinato.
L'amore non contava.
Alla fine di quella nostra storia, la verità che stavo per dirle era l'unica che avrebbe avuto qualche valore.
“Non sono io, Arizona. Non sono io la persona con cui passerai il resto della tua vita. Ma sarebbe importante, per me, se tu riuscissi a capire che quella è la cosa che più vorrei al mondo. Se potessi avere qualcosa, qualsiasi cosa, sarebbe rimanere al tuo fianco. Ma questo non è il modo in cui andrà a finire.”
“Di che stai parlando? Com'è che andrà a finire?” chiese, guardandomi con confusione e dolore dipinti sul viso.
“Devo raccontarti tutta la storia, Arizona. Dall'inizio. Ma non stasera. Dammi solo...dammi ancora un po' di tempo. Solo un po' di tempo in più.”

“Questo, tutto questo, è colpa tua.”
“Callie, ti prego.”
“No. Dico sul serio. E non ho intenzione di pagare il prezzo dei tuoi errori, Jane. Sarai tu a farlo, ricorda le mie parole. Sarai tu a pagare il prezzo di ciò che mi hai portato via.”
“Ti prego, non farlo. Ti imploro. Non lei” sussurrò, piangendo, coprendosi il viso con entrambe le mani.
Come potevo dirle di no?
Lei e sua sorella erano state per anni l'unica famiglia che avevo avuto.
Ma poi mi ricordai di ciò che mi aveva fatto.
Davo la colpa a lei. Ho dato sempre la colpa a lei. E, in fondo, era colpa sua.
Il mio viso si indurì nuovamente.
“Bene. Sarai tu a scegliere chi pagherà per un errore che hai fatto tu, Jane. Ma sappi che il prezzo sarà alto.”
“Non puoi costringere qualcuno a pagare. Dimentichi forse il potere che ho su di te?” chiese, ritrovando una briciola di convinzione.
“Stai pur certa che riuscirò a scoprire dove lo tieni. E quando me lo sarò ripreso, finalmente avrò la mia vendetta.”


Tornai a casa, fischiettando. Mi tolsi il giacchetto e posai la borsa, poi andai in camera da letto, sicura che Arizona fosse lì da qualche parte. Vuota. Così come il bagno. Entrai nuovamente in camera, la fronte corrugata in un cipiglio confuso.
Fu allora che lo notai.
Il primo cassetto del mio comodino era di circa due millimetri aperto. Come se fosse stato richiuso in fretta.
Corsi in soggiorno. Dall'altra parte della stanza, la vidi. Stava lì, luccicando, come se fosse fiera di essere nel posto a cui apparteneva. La chiave d'oro era dentro la serratura. Proprio dove l'avevo lasciata la notte precedente.
Aprii la porta, cercando di non fare rumore.
Stava fissando l'oggetto davanti a se stessa. Non si mosse per diversi secondi, si limitò a fissare la stoffa che lo rivestiva.
All'improvviso allungò una mano in direzione di esso.
“Non lo farei se fossi in te.”
La mia voce la fece trasalire. Si voltò di scatto, ritraendo la mano come se fosse stata appena bruciata.
“Calliope, io...Mi dispiace.”
“Esci” la voce mi uscì più dura di quello che avrebbe dovuto.
Lei annuì, fissandosi le scarpe.
“No, non capisci” la mia voce aveva sempre una nota parecchio più dura del solito. “Non voglio che tu sia vicino a...quella cosa.”
Sembrò turbata quando si rese conto che la rabbia che traspariva dalla mia voce non era rivolta a lei ma all'oggetto che un attimo prima stava contemplando di scoprire.
“Cos'è?” domandò con un filo di voce.
Io tesi una mano nella sua direzione. Quando lei la afferrò, io la tirai verso di me, abbracciandola, portandola immediatamente fuori dalla stanza, come se con il mio corpo avessi dovuto proteggere il suo.
Richiusi la porta a chiave, ma non la tolsi. La lasciai dov'era.
Rimasi lì, a fissarla, stringendo la donna che amavo tra le braccia, mentre lei scrutava il mio viso con aria preoccupata.
“Lei” risposi velocemente, aprendo di nuovo la serratura. Poi allontanai la mano. Quel bisogno feroce si fece di nuovo strada dentro di me. Guardai Arizona. E richiusi la serratura. “Adesso credo sia il momento adatto per raccontarti tutto, fin dall'inizio.”

“Il quadro che Jane ha dipinto...Qualcosa non va in quel quadro, Callie.”
“Che vuoi dire?”
“Non lo so. L'immagine è assolutamente perfetta. Ma ogni volta che mi avvicino troppo mi vengono i brividi. Sembra che ci sia una persona dentro quella cornice. Intendo, una persona in carne ed ossa. È perfettamente realistico. Di solito mi spaventava a morte. Adesso Jane ci tiene sopra un telo, come se solo il pensiero di lasciarlo scoperto alla vista del mondo la terrificasse completamente.”
“Jennifer, è solo un quadro.”
“Lo so. Ma averlo in casa, mi dà il tormento.”
Sentii una stretta allo stomaco.
“È in casa vostra?”
Annuì.
“In soffitta. Jane sembra non riuscire a separarsene per più di poche ore. Passa più tempo di quello che dovrebbe lassù, a tenere d'occhio quell'affare di poco valore, come se avesse paura che qualcuno potesse venire per rubarglielo. Insomma, una volta era il ritratto perfetto di qualcuno perfetto, ma non credo che adesso valga più molto. Il tempo ha scolorito la tela. Adesso sembra un comune ritratto.”
“Hai ragione. Il valore che ha, ormai, è poco. Facciamo così, portalo da me. Ci penserò io a sistemarlo, in modo che Jane smetta di esserne ossessionata.”
“Questo è il punto. Non voleva neanche che ti dicessi che era a casa nostra. Callie, temo che mia sorella stia impazzendo. Credo che...Non prenderla nel modo sbagliato, ma credo che sia tu la persona che ha paura riesca a rubare il quadro.”
“Averlo lì le sta dando alla testa” mentii con finta aria sconsolata. “Portamelo di nascosto. Vedrai che una volta che non lo avrà più lì a disturbarla, tornerà ad essere quella di sempre.”
Sospirò. “Lo spero davvero.”


Poteva vedere quanto entrare lì dentro mi aveva turbato.
Mi portò a sedere sul divano, tenendomi le mani mentre mi guardava negli occhi.
“Mi dispiace di essere entrata lì.”
Scossi la testa, non riuscendo a guardarla però negli occhi.
“Non ti ho mai detto esplicitamente che non avresti dovuto.”
“Me lo hai fatto intuire chiaramente, però. Ed entrare in quella stanza senza il tuo permesso è stata una mancanza di rispetto.”
“Non dirti la verità per tutto questo tempo, è stata la vera mancanza di rispetto, Arizona. Sono io a dovermi scusare.”
Alzai finalmente lo sguardo, incrociando il suo.
“Che intendevi dire quando hai detto che lì dentro c'era 'lei'?”
Sospirai.
“È una storia parecchio lunga. Sarebbe meglio partire dal principio, o non credo che riuscirei a spiegarti molto.”
“D'accordo. Ma lasciami solo spiegare perché sono entrata lì dentro anche se sapevo che sarebbe stato stupido farlo senza prima chiederti il permesso.”
“Non ho bisogno di alcuna spiegazione. Tenere un segreto verso di te è stato stupido, me ne rendo conto.”
“Voglio comunque farti capire perché” insistette. “E soprattutto che non farò mai più niente che ci si avvicini.”
Io la guardai negli occhi diversi istanti. Poi annuii.
“Una settimana fa, Calliope, mi hai chiesto di darti ancora un po' di tempo. E da allora io mi sento sull'orlo del precipizio. Sto facendo del mio meglio per riuscire a non cadere, ma non so per quanto ancora riuscirò a rimanere nel dubbio.”
Sospirai. “Questa cosa che ho fatto...”
“Non si tratta di quello.”
La guardai, confusa.
“Non si tratta di quello che hai fatto, del tuo passato. Credo davvero in quello che ti ho detto, Calliope. Non c'è niente del tuo passato che potrebbe farmi desiderare di non essere una parte del tuo futuro.”
Scossi la testa.
“Questa faccenda è grande, Arizona. Enorme. Ho sempre avuto l'impressione che un giorno mi avrebbe distrutto. E non mi sbagliavo. Mi sta già distruggendo. E non so come potrei evitarlo, onestamente. So solo che è qualcosa che va contro la semplice volontà, mia o tua, per quello che importa. È qualcosa che potrebbe spingerti a odiarmi. Anzi, quasi sicuramente, quando avrò finito, mi odierai.”
Scosse la testa, ma io non lasciai che mi interrompesse.
“E voglio che tu sappia che io lo capirò. Non mi andrà a genio, ma lo accetterò.”
“Come fai ad esserne così sicura?” chiese, perplessa.
“Perché questa storia parla anche di te.”

Bussò alla porta di casa mia.
La pioggia aveva ormai bagnato i suoi abiti ed il suo viso, quando aprii.
“Jane. Entra” la invitai. “Sai, stavo giusto aspettando una visita da parte tua, uno di questi giorni.”
“Come ci sei riuscita?”
“Non è il caso di preoccuparsi di quello. Vieni. Mettiti a sedere.”
La feci entrare in soggiorno, ed accomodare sul divano.
“Ti prendo dei vestiti asciutti.”
Aspettai che si cambiasse. Non era saggio, a quarant'anni passati, rimanersene in panni bagnati più dello stretto necessario.
“Cosa vuoi che faccia?”
Osservai la strada davanti casa dalla finestra. Le spalle rivolte nella sua direzione.
Iniziai a picchiettare con un dito sul davanzale della finestra, pensando alle parole appropriate da usare.
“Non credo che tu capisca la gravità della situazione.”
“Sì. Sì, la capisco, invece.”
“Davvero?”
“Sì. E mi pento per quello che ho fatto. Ma che senso ha cercare una vendetta? A cosa ti porterebbe, se non ha causare altro dolore a persone che non hanno mai fatto niente di male, che non hanno alcuna colpa?”
“Ed io che colpa avevo?” tuonai, voltandomi. “Cosa ho fatto di così terribile da meritarmi questo destino?”
Non rispose. Invece, abbassò lo sguardo in direzione nel pavimento.
“Hai strappato la mia anima alla mia volontà, imprigionandola dentro una semplice cornice d'oro.”
Mi guardò di nuovo negli occhi.
“Credevo fossi d'accordo con me, quando ho detto che una cornice d'oro sarebbe stata in grado di prendersi cura di un'anima meglio di quanto una qualsiasi cornice di ossa e carne avrebbe mai potuto fare.”
“Ero d'accordo, infatti” risposi, tornando a guardare fuori dalla finestra. “Ma non pensavo che quell'anima sarebbe dovuta essere la mia.”


“Se non ti riferivi al mio passato, cos'è che ti fa sentire sull'orlo del precipizio?” chiesi, divorata dalla curiosità.
“Hai detto che non sei tu. La persona con cui passerò il resto della mia vita” chiarì. “Ma io non voglio sentirmi dire niente del genere. Credo fermamente che sia tu, Calliope. E volevo dimostrare a me stessa che, qualunque segreto ci fosse stato, seppellito da qualche parte nel tuo passato, non avrebbe fatto alcuna differenza per me. Volevo dimostrarti che puoi fidarti di me. Che io sarò qui, qualsiasi cosa accada.”
Mi prese una mano.
“Beh, ammetto che non è stata la migliore idea convincerti a fidarti di me nel modo in cui ho provato a farlo.”
Io ricambiai il sorriso che aveva sul viso, baciandola poi sulla mano.
“Promettimi solo che potrò scegliere io se lasciarti o no” mi pregò. “Promettimi che non te ne andrai per il mio bene, perché, onestamente, sarebbe la più grande cavolata mai sentita. Tu sei il mio bene. Per la prima volta in vita mia, sono felice. E non sono pronta a rinunciare a quello che abbiamo.”
“Neanche io” confessai. “Per questo ho aspettato così tanto a parlartene. Perché non volevo perderti” sospirai. “Non potevo perderti. Non posso ancora adesso. Ma accetterò qualsiasi sia il modo in cui vorrai gestire questa situazione.”
“Bene.”
“Mi dispiace non avertene parlato prima, è importante che tu capisca questo prima che inizi. Non avevo mai messo in programma di diventare una parte della tua vita. Per questo non ho detto niente, all'inizio. E poi le cose sono diventate sempre più difficili. E da allora non sono mai riuscita a costringere me stessa a rinunciare a te.”
“Sono felice che tu non l'abbia fatto. Neanche io sono pronta perché tu rinunci a me.”
Io la abbracciai, baciandola sulla testa.
“Sono pronta. Dammi solo un bacio” la pregai.
Assecondò quella mia richiesta.
Quando mi allontanai da lei, iniziai a cercare tra i miei ricordi, pensando a quale sarebbe stato il modo migliore di iniziare.
Poi, capii che non c'era un modo appropriato per iniziare a raccontare qualcosa del genere, avrei solo dovuto iniziare.
Sospirai, passandomi una mano sulla fronte.
“D'accordo. La storia è iniziata quando avevo diciannove anni e i miei genitori mi portarono ad un ballo. Era il 1894.”
Capì. Finalmente, capì.
Lasciò andare le mie mani, senza dire niente.
Mi fece raccontare la storia senza interrompere.

“Hai il quadro. Non ho più armi contro di te. Adesso sei immortale” sussurrò. “Cosa mai potresti volere da me?”
“Come ti ho già detto, non credo che tu capisca la gravità della situazione.”
“Allora spiegami.”
“Hai portato via la mia anima senza il mio consenso. Non è qualcosa che si può fare senza aspettarsi delle conseguenze.”
“Quindi?”
“Voglio invecchiare. Voglio un'anima. Voglio essere in grado di morire e andare in un posto che sia migliore di questo” mi guardai attorno. “Un posto che sia giusto, un posto dove poter essere felice.”
“È quello che vogliamo tutti noi, Callie.”
“E tu me lo hai portato via.”
Cadde il silenzio. Mi voltai di nuovo verso di lei, sedendomi nel divano di fronte a quello dove era seduta lei.
“Voglio un'anima” ripetei.
“Prendi la mia.”
“La tua? No. La tua anima ha vissuto, ha commesso errori, ha ferito altri esseri umani. Voglio andare in un posto che sia migliore. Ho bisogno di un'anima che me lo permetta, Jane. Per questo voglio la sua.”
“Ti prego. Non prenderti l'anima di mia figlia, Callie. Ha solo dieci anni. Non lei. Ti prego. Non lei.”
Io annuii.
“Ti ho detto che avresti potuto scegliere. Quindi scegli. Posso prendere l'anima di tua figlia, oppure posso prendere l'anima della figlia di sua figlia.”
“Ha dieci anni. Non ha una figlia.”
“Non ancora. Ma un giorno l'avrà. Questo ti darebbe più tempo. La tua famiglia sarebbe salva ancora per qualche anno. Nessuno verrebbe mai a conoscenza del perché. Si penserebbe ad un tragico incidente.”
“Perché mi stai dando questa possibilità?”
“Perché, nel frattempo, posso vivere una vita senza dovermi preoccupare della mia anima. Posso farne ciò che voglio, non sarò io a doverne pagare le conseguenze.”
“Callie, sii ragionevole. Come posso fare qualcosa del genere?”
“Non c'è scelta più facile al mondo, in realtà. L'anima di tua figlia o quella della nipote di tua figlia. Non mi sembra che ci sia niente di troppo difficile da risolvere. Io saprei immediatamente cosa fare.”
“Se ti concedo l'anima di mia figlia, sarò devastata. Verrà fuori la verità. Tutto mi crollerà addosso. Ma se ti concedo l'anima della mia pronipote, tu avrai vinto. Avrai almeno un secolo in cui poter macchiare la tua anima con ogni tipo di colpa senza mai doverne pagare le conseguenze, né nel tuo aspetto fisico, né nella vita che ci attende oltre la morte. Perché dovrei stare alle tue condizioni?”
“Perché non hai altra scelta. Davvero vuoi darmi l'anima della tua stessa figlia?”
Non rispose.
“Come pensavo” sussurrai.
“Che devo fare?” si arrese alla fine.
“Facciamo un patto” proposi. “La forma di accordo più antica del mondo. Una semplice promessa, legata alle nostre vite.”
Annuì, guardando in basso.
“Mi concedi l'anima della tua pronipote. Entro il giorno del suo trentesimo compleanno, io reclamerò ciò che mi appartiene. Altrimenti, se lei sopravviverà a quel giorno con la sua anima, io morirò, portandomi dietro la mia.”
Tesi la mano nella sua direzione.
Lei la guardò con riluttanza.
Poi alzò gli occhi su di me. E di nuovo, li spostò verso il mio braccio teso. Sapevamo entrambe che non aveva scelta.
Poi strinse delicatamente la mia mano con la sua.
“Andata.”


Continuai a fissare il cielo scuro e nuvoloso della notte di Seattle, dando le spalle al divano del mio soggiorno.
“Questa è la storia. Jane ha raccontato a sua figlia tutto quanto il giorno del suo diciottesimo compleanno. Mary, a sua volta, ha avuto una figlia. L'ha chiamata...”
“...Barbara” intervenne.
Ci fu una breve pausa.
“A cui a sua volta ha raccontato la storia il giorno del suo diciottesimo compleanno. E Barbara ha sposato il Colonnello Daniel Robbins, dando alla luce una bambina.”
“Me” concluse, senza che ce ne fosse bisogno.
Ascoltai la pioggia picchiettare con ritmicità sul vetro della finestra a cui ero affacciata.
L'avevo appena persa.
L'avevo appena lasciata libera.
“Perché non mi hai ancora ucciso, allora?”
La sua voce era più vicina di quello che mi aspettassi. Mi voltai, vedendo che si era alzata e, invece di iniziare a correre a perdifiato il più lontano possibile da me, aveva fatto qualche passo nella mia direzione.
“Non è così che funziona.”
“E come funziona?”
“Lascia stare. Non è questo il motivo per cui ti ho raccontato la storia.”
“Conoscevo già la storia” mi fece notare.
“Perché sei ancora qui?” chiesi allora. “Scappa. Vattene. Vai via, Arizona. Sparisci. E non guardarti indietro.”
“No. C'è qualcos'altro. Qualcosa che non mi stai dicendo. Altrimenti non saremmo qui a discuterne, giusto?”
Ci fu una lunga pausa. I suoi occhi fissi nei miei.
“Perché non mi hai ucciso?” domandò di nuovo.
“Non dovevo ucciderti” risposi, avvicinandomi a lei di un paio di passi.
“E allora cosa avrei dovuto fare, per salvare la tua anima, Calliope?”
Distolsi lo sguardo.
“Se qualcuno distrugge il quadro, io muoio.”
“Lo so. Mia madre me lo ha detto.”
“Ma se tu lo distruggi” continuai “allora la tua anima passerà a me e la mia, corrotta, sporca, indegna, ucciderà te.”
La guardai finalmente di nuovo negli occhi.
“Quindi adesso che succede?”
“Niente. Non succede niente, Arizona. Tra sei mesi compirai trent'anni. Se trovassi nel tuo cuore la forza di perdonarmi per quello che ho tentato di fare, potremmo avere ancora qualche mese insieme.”
“E poi, cosa? Distruggo il quadro, tu ottieni l'anima che vuoi ed io muoio?”
“No, Dio” scattai. “Come puoi dire qualcosa del genere? Come puoi anche solo pensare che ti farei qualcosa del genere? Ho aspettato trent'anni solo per poterti parlare e...”
“Hai aspettato trent'anni?”
Io mi bloccai. Non si supponeva che lei sapesse.
“Questa è la parte che mi manca della storia, non è vero?”
Mi voltai di nuovo verso la finestra.
“Per prima cosa, domani mattina, porterò quell'affare il più lontano possibile da te. Avrei dovuto spostarlo tempo fa. Non ti voglio nelle sue vicinanze.”
“Quindi intendevi questo, quando hai detto 'lei'? La tua anima?”
“Sì.”
“Calliope” chiamò con decisione.
Io mi voltai di nuovo, incrociando il suo sguardo ancora una volta.
“Finisci la storia.”
“Non è importante.”
“Lo è per me.”
Sospirai, sedendomi sul divano. Lei mi si sistemò davanti, aspettando che finissi di raccontarle la storia.
Appoggiai il gomito sul bracciolo alla mia sinistra, sistemando il mento sul palmo della mano. Mi persi velocemente in quel ricordo, lo sguardo distante.
“Ventinove anni e sei mesi fa, il giorno in cui sei nata, andai a casa dei tuoi genitori. Non avevo resistito alla curiosità di vederti. Il piano era chiaro. Ti avrei fatto crescere abbastanza e poi ti avrei portato in una strada buia. Un paio di minuti, avresti distrutto il quadro se te lo avessi chiesto con le giuste parole. E tutto sarebbe finito. Ma poi...”

Era come se tutto attorno a me si muovesse a un milione di chilometri l'ora, mentre io non riuscivo neanche a respirare normalmente.
Non avevo mai visto qualcuno bello quanto lei. Il modo in cui mi aveva tolto il respiro, il modo in cui i suoi occhi guardarono dentro i miei, mi congelò all'istante.
Doveva per forza essere la cosa più bella mai esistita, non c'era storia.
Nonostante quello che tutti mi avevano detto di me stessa nel corso degli anni, non avevo mai avuto la stessa sensazione guardando allo specchio. Io non ritenevo me stessa perfetta, molto lontano dall'esserlo, anzi. Eppure gli altri sembravano pensare che lo fossi.
Quando la vidi, per la prima volta, capii cosa volesse dire vedere qualcosa di assolutamente perfetto.


“Ma poi ho visto i tuoi occhi per la prima volta.”
Sorrisi, non riuscii ad evitarlo. Era una memoria a cui ero particolarmente attaccata.
“Non potevo portare via la tua anima. Eri soltanto una bambina. Tu eri la perfezione. Questa è la verità. Quella perfezione completamente pura che ho cercato tutta la mia vita e che ho trovato solo in te.”
Lei si spostò, venendo a sedersi accanto a me.
“Allora il mio piano è cambiato. Ho aspettato che crescessi. Tutto ciò che volevo era poter avere un assaggio di quella perfezione che perfino qualcuno come me, qualcuno...danneggiato, era stato in grado di vedere. Ho aspettato che crescessi e sapevo che il destino ti avrebbe portato da me perché mantenessi la promessa fatta dalla tua bisnonna.”
“Tutta la tua vita, ogni singola scelta che hai fatto, è stata guidata perché tu potessi essere qui, in questo esatto momento, in questo esatto posto, per incontrare me. È questo che intendevi, quella sera?”
Annuii. “Ti ho detto anche qualcos'altro, quella sera. Ciò che oggi consideri fortuna, può diventare sfortuna ad un anno da adesso. Viceversa, quella che consideravi una maledizione un secolo fa, adesso potrebbe diventare la cosa migliore che ti sia mai capitata. Ho odiato la mia maledizione per quasi un secolo, Arizona. Ma il giorno in cui ho visto i tuoi occhi per la prima volta, ho ringraziato che la mia anima fosse stata fatta a pezzi, perché distruggendo me stessa, ho avuto la possibilità di incontrare te.”
“Quindi non hai mentito, su di noi?”
Scossi la testa con un piccolo sorriso.
“No. Come avrei potuto? Ti ho amato per trent'anni. E dal giorno in cui sei nata, ho passato ogni ora della mia vita a cercare di essere migliore, di essere il tipo di persona che tu avresti potuto amare. Prima, il quadro, era diventato...raccapricciante” confessai in un sussurro. “La persona lì dentro mi guardava, gli occhi duri, un sorriso malvagio sulle labbra, egoismo e vecchiaia sul viso, i sette peccati capitali erano diventati con il tempo chiaramente visibili nella sua figura. Quando ho iniziato a rimettermi in sesto, in qualche modo, è come se ciò che avevo fatto mi fosse stato perdonato. Ho salvato vite, da allora, facendo il chirurgo. Ho trattato me stessa e gli altri con rispetto. E il ritratto non è diventato che quello di una donna di quasi centoquaranta anni, ma dal viso tranquillo.”
Le sfiorai la mano.
Lei afferrò la mia, stringendola forte.
“Hai salvato la mia anima, Arizona. E forse non è abbastanza perché ci sia un posto migliore in attesa per me, ma almeno so di aver tentato. E ti ringrazio.”
Scosse la testa.
“Avresti dovuto vedere Addison. Quando lo ha visto, l'ultima volta che è stata qui, un paio di settimane fa, si è quasi commossa. Mi ha abbracciato e mi ha detto di essere fiera di me” sorrisi appena.
“Addison lo sapeva?”
Annuii.
“L'unica altra persona al mondo che sapeva tutta la storia, era Jennifer. Jane le raccontò la verità, ma solo dopo che lei mi ebbe consegnato il quadro. Jennifer raccontò la storia alla figlia, Mia. È con lei che ho passato la maggior parte della mia vita. Ero come una zia, per lei. Jennifer e Mia avevano capito perché avevo fatto quello che avevo fatto. Ma quando presi una brutta strada, decise che non avrebbe mai raccontato niente a sua figlia, per salvarle il dolore di vedermi autodistruggere. Poi, una ventina di anni fa, sul letto di morte, dopo aver visto quanto duramente mi stavo impegnando per tornare sulla retta via, decise che avevo bisogno di qualcuno che mi stesse affianco ogni passo del cammino. Chiamò la nipotina di diciotto anni, figlia della sua unica figlia femmina, Bizzy Forbes. Quando morì, una ragazza dai capelli rossi si presentò alla mia porta. Ancora prima che potesse parlare, riconobbi i familiari occhi di Jennifer, molto simili a quelli di Jane. Addison Forbes Montgomery è rimasta al mio fianco da allora. Ha otto anni più di te, tecnicamente, Mia è morta quando tu avevi dieci anni, molto tempo dopo Mary. Tua madre ha pensato che sarebbe stato meglio prendere le distanze da quel ramo della famiglia. Per ovvi motivi, certo.”
Non disse nient'altro. Appoggiò la testa sulla mia spalla, lasciandosi abbracciare.
“Mi dispiace di essere stata il più grande incubo della tua vita.”
“Quella era solo l'idea che mi avevano dato di te. Ma tu? Tu sei stata il mio sogno che diventa realtà, Calliope.”
“Allora mi permetterai di rimanere con te?”
“Ad una condizione.”
“Quale?”
“Voglio vederlo.”
Mi spiazzò. E non poco.
“Arizona...”
“Addison l'ha visto, giusto? Non sarà così tremendo.”
“Non credo sia una buona idea.”
“Perché no?”
Non trovai nessuna risposta soddisfacente.
“Ok. Ma devi promettermi che non proverai a distruggerlo.”
Corrugò la fronte.
“Non fare la finta tonta, so che ci stai pensando. Darmi una seconda occasione, la tua anima, la tua vita. Ma non voglio che tu lo faccia, mi hai sentito? Devi promettermelo.”
Mi guardò negli occhi per diversi secondi.
“Te lo prometto.”
Con mia estrema riluttanza, entrammo di nuovo all'interno della stanza in cui lo tenevo.
Non mi piaceva guardarlo. Lo facevo solo quando ne sentivo il bisogno. Mi avvicinai con circospezione, tenendo sempre d'occhio la posizione di Arizona, pronta ad intervenire al minimo movimento.
Presi la stoffa tra le dita e, lentamente, la feci scivolare a terra.
Trasalii. Lei si avvicinò di un passo.
“Credevo avessi detto che assomigliava a una tranquilla vecchietta di centoquaranta anni.”
“Era così due settimane fa” spiegai, osservando la tela con attenzione.
“E cos'è cambiato da due settimane fa?” domandò.
“Non lo so.”
“Qualcosa deve essere successo” tentò di razionalizzare.
L'immagine che stavamo guardando, raffigurava una donna dall'espressione serena. Non c'era più quel sorriso beffardo e in lei non c'era traccia delle colpe che avevo commesso nel corso del secolo precedente. Eppure, qualcosa era cambiato.
La donna che vedevamo, di certo non poteva avere centoquaranta anni. A malapena, ne aveva un centinaio.
“Mi hai detto di essere innamorata di me” realizzò all'improvviso.
“No, quello aveva già migliorato il quadro a suo tempo” le spiegai. “Non è una novità, per la mia anima, essere innamorata di te.”
Poi, all'improvviso, capii.
“No, tu mi hai detto di essere innamorata di me. E non posso credere che tu non abbia ancora cambiato idea.”
“Te lo ripeterò per la terza volta, Calliope, e spero che tu riesca a capirlo, adesso. Non c'è niente del tuo passato che potrebbe farmi desiderare di non essere parte del tuo futuro.”
“Arizona, io non ho alcun futuro. Ma quello che il tuo amore ha fatto alla mia anima è...stupefacente. Non riesco a crederci” continuai ad osservare l'immagine davanti a me, ascoltandola parlare solo vagamente.
“Per tutta la mia vita ho immaginato la donna di cui mi aveva parlato mia madre come qualcuno di mostruoso. Qualcuno in grado di barattare la propria anima, la propria vita. Non avevo mai capito che razza di persona avrebbe potuto farlo. Ma, prima che la tua anima ti fosse portata via, e anche adesso se è per questo...tu sei una brava persona. Avevi ragione. Meriti di avere indietro quello che hai perso, Calliope. Niente potrebbe mai farmi pensare il contrario, perché io riesco a vedere chi sei davvero. È una fortuna, quindi, che io sia proprio l'unica persona al mondo che può darti una seconda occasione.”
Avanzò velocemente in direzione del quadro, ma io fui più veloce. E il fatto che fossi anche più forte e qualche centimetro più alta, mi permise di sollevarla e portarla fuori dalla stanza prima che potesse fare qualcosa di stupido.
“Avevi promesso” sbattei la porta e la chiusi a chiave, togliendo poi il piccolo oggetto dorato dalla toppa e mettendomelo in tasca.
Scosse la testa, guardando verso la tasca dentro cui avevo messo la chiave.
“Arizona” dissi il suo nome con forza, facendole alzare gli occhi verso i miei. “Avevi promesso” ripetei.
“Jane ha preso la tua anima. Sto pagando il suo debito verso di te, con la mia.”
“Tu proprio non capisci, non è vero? La tua anima, per me, vale un miliardo di volte tutto questo, Arizona” feci un gesto per indicare ciò che avevamo intorno. “E un miliardo di volte ancora, qualsiasi cosa potrebbe esserci di meglio di questo.”
Le presi le mani tra le mie.
“Farei qualsiasi cosa per renderti felice.”
Lei mi baciò con rabbia, come se non avesse sentito nemmeno una parola di quello che le avevo appena detto.
Mi arresi. Non c'era niente che avrei potuto dire o fare che le avrebbe fatto capire come mi sentivo riguardo tutta quella situazione.
Una sua mano abbandonò la mia e si posò sul mio fianco.
Usai la mano libera per accarezzarle una guancia. Mi chiesi se quello sarebbe stato il nostro ultimo bacio, e ricacciai indietro le lacrime.
Sentii la mano che aveva sul mio fianco spostarsi verso il basso, finché...
“Quasi.”
Terminai il bacio, afferrandole il polso e facendole alzare la mano, impedendole di arrivare alla chiave che aveva provato a rubarmi.
“Bel tentativo, comunque.”
“Calliope...”
“Vai via, adesso” lasciai andare il suo polso.
“No. No, ti prego” si sorresse alle mie spalle.
“Perché? Perché vuoi così tanto che io abbia una seconda occasione, a tal punto da strapparti via l'unica che è stata data a te?” sussurrai, mentre lei nascondeva il viso contro la mia spalla, alzandosi in punta di piedi a causa della differenza che avevamo in altezza.
“Perché io ti amo” venne la risposta tranquilla. “Io ti amo.”
“Non lo rimpiango, Arizona” sussurrai, accarezzandole i capelli lentamente. “Niente di ciò che è successo. Perfino gli sbagli che ho fatto e che cancellerei se potessi, perché ogni passo, ogni secondo, ha portato a questo. Ogni mio errore, ha portato a te.”
La baciai sulla tempia.
“Avremmo potuto non trovarci mai. Io e te, avremmo potuto non trovarci mai. La mia anima è stata un piccolo prezzo da pagare.”
“Hai detto che vuoi che sia felice, giusto?”
“Sì, ma...” non le avrei permesso di avvicinarsi di nuovo al quadro.
“Sposami.”
Trattenni il fiato. L'aveva appena detto sul serio?
Le afferrai le spalle, allontanandola il minimo indispensabile per poterla guardare negli occhi. “Sposami” ripeté, nessuna traccia di domanda nella sua voce.
I suoi occhi blu di cui mi ero innamorata due volte mi guardavano, velati di lacrime.
“Ad una condizione. Non proverai mai più a toccare quella cosa.”
“Abbi rispetto, Calliope. Non parlare così dell'anima della donna che amo.”
Mi prese il viso tra le mani, baciandomi.

“Pronto?”
“Addison.”
“Callie, ciao. Che succede?”
“Ho bisogno che tu venga a Seattle.”
“Oggi?”
“Il prima possibile” confermai.
“Per fare cosa?”
“Devi farmi da testimone.”
“Testimone?”
“Testimone di nozze.”
Cadde il silenzio.
“È lì con te?”
“Sei in viva voce” confermai.
“Ci sono solo io come testimone?”
“Sì. Va bene così. Io e te, comunque sia, siamo imparentate, giusto?” rispose Arizona, tenendomi la mano con la sua.
“Giusto” capì al volo che le avevo raccontato tutto. “Credo che prima di fare qualsiasi cosa, dovresti parlare con i tuoi genitori.”
“No, va bene così. Non possiamo permetterci di perdere neanche un minuto. I miei genitori ci metterebbero giorni ad arrivare.”
“Non se gli dicessi chi stai sposando.”
“Addison, vieni a Seattle e basta” le disse con fermezza. “Entro domani sera saremo sposate. Con te, o senza di te.”

Addison non era lì.
E Arizona non aveva intenzione di aspettare neanche un secondo di più.
Entrammo nell'ufficio del giudice di pace per firmare il contratto che mi avrebbe reso sua moglie.
“Ho bisogno di un documento di identità” ci disse dopo che gli ebbi consegnato la domanda ufficiale.
Entrambe lo facemmo senza esitare.
“Ok, sembra tutto in ordine. Siamo qui oggi per un'unione civile. Ripetete dopo di me. Io, Calliope Torres, prendo te, Arizona Robbins, come mia sposa.”
“Io, Calliope Torres, prendo te, Arizona Robbins, come mia sposa.”
“Io, Arizona Robbins, prendo te, Calliope Torres, come mia sposa.”
“Io, Arizona Robbins, prendo te, Calliope Torres, come mia sposa.”
“Volete aggiungere qualcosa?”
“Sì, giusto un paio di cose” la guardai negli occhi. “Arizona, tu mi hai mostrato per la prima volta cosa significhi vivere. E non che non abbia vissuto prima, anzi, è stato un viaggio lungo” ci scambiammo un sorriso complice. “Ma niente di ciò che ho vissuto prima mi ha mai dato l'impressione di essere viva davvero, finché tu non sei stata al mio fianco. Tu sei vita. Non saprei come spiegarlo meglio di così.”
Lei annuì, stringendomi le mani più forte.
“Calliope, tu hai il mio cuore. È sempre stato destinato ad essere tuo. Da oggi, hai anche tutto il resto di me. Ti dono il mio cuore, la mia vita, e la mia anima.”
“D'accordo, firmate qui e qui, rispettivamente” ci indicò due fogli diversi.
Firmò senza la minima esitazione. Poi mi passò la penna.
Ti dono il mio cuore, la mia vita, e la mia anima.
Mi piegai. La punta della penna sfiorò la carta.
Ti dono la mia anima.
“Quasi.”
Sorrisi, raddrizzando la schiena e guardandola negli occhi.
“Bel tentativo. Di nuovo.”
Sospirò, quando capì che non avrei firmato.
“Dovevo almeno tentare.”
“Quindi era solo per questo?” chiesi appoggiando la penna sulla scrivania e voltandomi del tutto verso di lei. “Che volevi sposarmi?”
“Certo che no. Ti sposerei in un istante, e in ogni istante.”
“Bell'idea, però. Come ti è venuto in mente?”
“Ho pensato a come avrei potuto donarti la mia anima, se non...” lanciò un'occhiata al giudice, schiarendosi la voce. “Parliamone fuori di qui. Mi sembra evidente che non mi sposerai. Almeno, non oggi.”
Annuii. “Ci dispiace di averle fatto perdere tempo.”
Ci guardò andar via, confuso da quello che aveva appena visto e sentito.
“Allora, ho pensato all'unico modo che avevo per donarti la mia anima. E ho pensato, 'cavolo Arizona, le persone lo fanno ogni giorno. Sposala.' E così, eccoci qua.”
“Quindi in effetti era davvero solo per questo.”
“No. No, Calliope. Non farlo. Non sminuire quello che abbiamo. Ti sposerei. E a rigore di logica, ci sono altre cose che avremmo dovuto fare prima, se fossimo andate in ordine. Come comprare un appartamento. Andare a vivere insieme. Comprare un cucciolo. Eppure ti avrei sposato, anche oggi, anche senza tutta la storia del quadro.”
“Adesso che facciamo?”
“Non lo so. Credo sia il momento di smetterla di tentare di costringerti ad accettare la mia anima e provare a pensare insieme a come riuscire a sopravvivere. Entrambe.”
“Callie!”
Era la voce di Addison?
Mi voltai. Tre persone stavano correndo lungo il corridoio. Noi eravamo ancora in piedi nella sala d'aspetto.
“Grazie a Dio sono ancora in tempo” la voce era affannata a causa della corsa. “Non farlo. Se la sposi lei...”
“Già. Troppo tardi. Ho capito che aveva in mente e mi sono rifiutata di firmare le carte.”
Lei guardò prima l'una poi l'altra per diverse volte. Alla fine, quando capì di avercela fatta in tempo, si lasciò cadere seduta in una delle sedie.
“Beh, tutto è bene quel che finisce bene” sospirò, tentando di riprendere fiato.
“Ehm, Addison, io sto ancora morendo” le feci notare.
“Oh, giusto. Quello. Beh, dammi due minuti e poi cercheremo una soluzione.”
L'uomo arrivato insieme a lei si schiarì la voce.
“Colonnello” gli tesi la mano. “È un piacere vederla di nuovo.”
Lui mi fissò negli occhi senza fare nessun movimento che suggerisse che avrebbe accettato la mano che gli stavo porgendo. Io annuii, ritraendola.
“Avevi promesso che saresti stata lontano da lei” mi fece notare Barbara.
“E l'ho fatto. È lei che ha trovato me, tecnicamente.”
“Perché era destinata a trovarti. Ma tu avevi promesso che l'avresti lasciata a andare.”
“Ed è quello che sto facendo. La sto lasciando andare. Ha provato a distruggere il quadro e non le ho permesso di farlo, ha provato a tendermi una trappola con una proposta di matrimonio improvvisa, e io ho evitato anche quella. Che altro dovrei fare?”
“Andar via. Uscire dalla sua vita.”
“La seguirei in capo al mondo” rispose Arizona, con decisione.
“Tesoro, non capisci. Lei è...”
“Lo so. So tutta la storia. So quello che è successo il giorno del mio compleanno e...” inspirò profondamente. “Ho visto il quadro. L'anima di Callie può ancora essere salvata. Deve esserci un modo perché io riesca a portarla indietro.”
“Arizona, questo è ridicolo” intervenne suo padre.
“Papà” rispose Arizona, senza mancare un battito. “Mi hai cresciuto per essere un brav'uomo nella tempesta. E per tutta la mia vita, non ho capito cosa cavolo significasse di preciso. Ma lo capisco, adesso. Questa è la mia tempesta. Ed io devo essere il brav'uomo.”
L'amore nei suoi occhi, il coraggio nella sua voce. Arizona mi amava. Ed io l'avrei distrutta, cercando di non farle del male.
“No, i tuoi genitori hanno ragione” intervenni, con lo sguardo fisso a terra. “Dovrei solo...Devo andarmene. Tra pochi mesi sarò morta in ogni caso. Dovresti andare avanti con la tua vita ed essere felice.”
“No. Ne abbiamo parlato. Sai che non...”
“Arizona.”
Smise di parlare.
Le presi le mani tra le mie.
“Prenditi cura di te stessa.”
La guardai negli occhi, assicurandomi che capisse.
Feci un cenno della testa ad Addison, che mi seguì verso l'uscita.
“Hai qualcosa in mente, non è vero?”
“Sì. Ma non ti piacerà.”
“Come fai a saperlo?”
“Istinto. Ti piacerebbe se il piano finisse con la mia probabile morte?”
“Hai ragione. Non mi piacerà.”

“Vieni. Devi vederlo.”
Aprii la stanza e, per la prima volta in assoluto, non mi venne da vomitare.
Tirai via la stoffa con uno strattone.
“Cavolo.”
“È anche meglio di ieri. Credo sia perché ho deciso di lasciarla andare. Anche se il mio profondo egoismo mi diceva che avrei dovuto rimanere con lei.”
Si avvicinò alla tela, sfiorandola delicatamente.
“Quanti anni avrà? Ottanta?”
“Credo.”
“Callie è...meraviglioso. Incredibile, perfino.”
“Già.”
“Qual'è il piano?” chiese, uscendo improvvisamente dal trance in cui era caduta.
Io invece continuai a fissare il quadro, consapevole dei suoi occhi su di me.
“Non c'è nessun piano, Addison” le spiegai. “Questo qui è il piano” sussurrai. “Devo solo allontanarmi da lei, devo solo lasciare che sia felice. Ecco il maledetto piano. Se sarò fortunata abbastanza, lei riuscirà a dimenticarsi di quanto è stata in grado di amarmi senza dimenticarsi però di me.”
“Callie...”
“Andiamo, adesso. Quest'affare mi dà ancora i brividi.”
Chiusi la porta a chiave, subito prima di sentire qualcuno bussare insistentemente alla porta dell'appartamento.
Addison tirò fuori il blocco da disegno che si portava dietro ogni volta, sedendosi sul divano.
Aprii la porta.
“Non dovresti essere qui.”
“Non ti è permesso arrenderti” rispose, senza minima traccia di incertezza. “Non ti è permesso rinunciare a noi.”
I suoi occhi rossi mi dicevano che doveva aver pianto.
“Arizona, dico sul serio. Non dovresti essere qui.”
“Stronzate” spalancò la porta, entrando senza nemmeno guardare una seconda volta nella mia direzione. “Devi aiutarmi” disse, mettendosi in piedi davanti ad Addison. “Non posso perderla” le disse con risoluzione. “Forse se la sua anima torna ad essere dell'età giusta entro il mio compleanno...”
“Arizona” mi avvicinai, portandola verso la finestra e prendendole le mani con le mie. Non incrociò il mio sguardo. “Guardami” le domandai. “Amore, guardami” strinsi di più le sue mani, finché alzò gli occhi verso i miei. A quel punto le rivolsi un mezzo sorriso. “Tu non mi stai perdendo. Non mi perderai mai. Sei l'amore della mia vita. Una vita molto, molto lunga e a tratti non esattamente bella. Ma, non di meno, sei l'amore della mia vita. Non si può perdere qualcosa del genere. Non lo perderemo mai, neanche quando un giorno non mi amerai più. È qualcosa che non cambierà, né con il tempo, né quando amerai qualcun'altra. Ho avuto poco tempo, è vero, e ne avrei voluto di più, ma, Arizona, un'intera eternità al tuo fianco ancora non sarebbe stata abbastanza. Non c'è tempo che si avvicinerebbe ad abbastanza.”
Notai Addison muoversi, ma non feci troppo caso a ciò che stava facendo.
“Non ho più paura della morte. E so che la mia anima è salva, perché sarà per sempre con te. E l'unica cosa che mi mancherà di questa vita, sono le persone che amo. E che posso contare sulle dita di una mano. E più di tutto, mi mancherai tu. Ma è così che deve andare a finire. Mi dispiace, e lo cambierei se potessi, ma non posso. Non posso darti quello che vuoi. Mi dispiace.”
“No, non rinunciare. Non ancora. Dammi solo un altro po' di tempo. Solo...”
“Arizona, non c'è altro tempo.”
“Possiamo trovare una soluzione. Possiamo farcela.”
“Non c'è una soluzione. Mi dispiace.”
“Smetti di dire che ti dispiace” aveva le lacrime agli occhi. “Di cosa ti dispiace? Di esserti innamorata di me?”
“No, Arizona, sai che non è quello che intendevo.”
“Allora, cosa? Cosa ti dispiace? Ti dico io per cosa dovresti scusarti. Per avermi mentito, tanto per cominciare. E per aver scambiato la mia anima e la tua come figurine da gioco.”
“Arizona...”
“E la cosa per cui dovresti scusarti più di tutto, è questa” puntò un dito verso il pavimento tra noi due. “Per avermi fatto innamorare di te a tal punto che adesso non riesco a...respirare...se penso che te ne andrai. Quindi se ti dispiace davvero, fai qualcosa per rimediare. Dimmi qualcosa che mi farà smettere di amarti, qualcosa che mi farà iniziare ad odiarti, qualsiasi cosa che possa farmi smettere di volere così disperatamente salvarti. Dimmi qualcosa che mi faccia cambiare idea.”
Io la guardai negli occhi per quella che sembrò un'eternità.
Quando parlai, la mia stessa voce mi risuonò incredibilmente tetra dentro le orecchie, come se non fossi io a parlare.
“L'ho uccisa.”
I suoi occhi si sgranarono leggermente per la sorpresa suscitata dalle mie parole. Spostò le spalle all'indietro, come se volesse allontanarsi da me, mettere più distanza possibile tra di noi.
“Cosa?” chiese in meno di un sussurro.
“Jane. L'ho uccisa” ripetei con voce calma. “La sera in cui era a casa mia. Era seduta sul mio divano e le ho chiesto” continuai a guardare in un punto alle spalle di Arizona “perché io?” scrollai le spalle per farle capire che pensavo fosse una domanda lecita. “Mi rispose che era solo...successo. Stava disegnando il mio viso senza difetti e la mia anima era in qualche modo rimasta intrappolata dentro il suo dipinto” spostai gli occhi dentro i suoi. Mi guardava, semplicemente confusa. “Così mi sono avvicinata. Le ho messo le mani attorno al collo, chiedendole come aveva fatto. Rispose che non ne aveva idea. Così ho stretto con più forza. Ha lottato, per un paio di minuti, ma...ero più forte, e qualche centimetro più alta. Così si è arresa. L'ho sentita smettere di respirare. Poi il suo sangue ha smesso di scorrere. E allora ho lasciato andare.”
Sapevo con certezza che la mia voce priva di espressione, il mio viso privo di emozioni, la stavano turbando.
“Non è stato niente di particolarmente spaventoso. Non è stato come mi ero immaginato che sarebbe stato uccidere qualcuno. Questo è quello che sono. Un'assassina. Pensi ancora di poter salvare la mia anima?” chiesi in tono piatto.
Lei si avvicinò di un passo, entrando nel mio spazio personale e rivolgendomi uno sguardo di ghiaccio.
“Quasi” sussurrò. “Bel tentativo, comunque.”
Ripeté le parole che le avevo detto io, alla fine un piccolo sorriso compiaciuto sfuggì alle sue labbra.
“Jane è morta a settantacinque anni suonati. Mia madre l'ha conosciuta.”
Mi morsi l'interno di una guancia.
“Smetti di mentire, Calliope.”
“Lo farò quando lo farai tu” ritorsi.
“Ragazze...”
“Quando mai io ho mentito?”
“Vuoi davvero andare a parare lì, piccola ladra di chiavi e organizzatrice di matrimoni-trappola?”
“Ragazze...”
“Erano bugie a fin di bene” si giustificò.
“E io ti ho detto solo quello che volevi sentirti dire” risposi.
“Ragazze” Addison riuscì finalmente ad attirare la nostra attenzione.
“Cosa?” domandammo insieme.
“Forse ho trovato una soluzione. Ma, Callie, non ti piacerà.”
La guardammo, entrambe perplesse.
Lei girò il blocco da disegno che aveva in mano, mostrandocelo. Sopra, disegnate a matita, c'eravamo io ed Arizona davanti alla finestra, le sue mani nelle mie.
“L'hai appena fatto? Così, in due minuti?” chiese la bionda, avvicinandosi e prendendo in mano il disegno. “È molto bello.”
“No. Scordatelo, Addison.”
“Se io ritraggo Arizona...”
“No” ripetei con decisione, facendole chiaramente capire che doveva smettere di parlare e non metterle in testa strane idee.
Lei si voltò verso Arizona.
“Se ti ritraggo, se ritraggo la tua anima, tu non compirai mai trent'anni. Tecnicamente, il quadro li compirà al posto tuo.”
“Ma come farai a mettere la mia anima lì dentro?”
Lei scosse la testa.
“Non so se posso. Ma...” si alzò in piedi. “Se vi sposate, se vi scambiate metà della vostra anima come volevi fare tu fin dall'inizio, metà dell'anima immortale di Callie dovrebbe finire in te, e metà della tua anima mortale, in lei. Sarete entrambe immortali, eppure entrambe ancora abbastanza mortali da poter sperare che esista qualcosa di meglio di questo mondo schifoso ad accogliervi, dopo la vita.”
“No. Non se ne parla. Scordatevelo. Fine della storia.”
Arizona mi guardò per diversi momenti. Poi si voltò verso Addison.
“Non può impedirti di dipingere un quadro.”
“Non può e non lo farà” confermò, con risolutezza.
“Ma posso rifiutarmi di sposarti. Non ti sottoporrò al mio stesso destino.”
“Calliope, ne ho avuto abbastanza. Dico sul serio. Se tu muori, io morirò insieme a te. È così tanto semplice. Come puoi non riuscire a capire cosa mi farebbe una cosa del genere? Sarebbe diverso se potessimo tornare indietro, se non ti avessi mai conosciuto, se non ti fossi innamorata di me, se non mi fossi innamorata di te, se avessi ancora la tua anima, se, se, se. Ma la vita non è fatta di 'se'. La vita è adesso. Ed io sto cercando di salvare la persona che più amo al mondo dalla morte. Puoi aiutarmi o puoi remarmi contro, ma in ogni caso ti assicuro, fosse l'ultima cosa che faccio, che io ti salverò. E ti costringerò a passare il resto della tua vita con me, a rendermi la persona più felice al mondo. Che Dio mi sia testimone, ci proverò con il mio ultimo respiro, dovessi legarti all'altare e costringerti a firmare uno stramaledetto pezzo di carta con Addison che tiene una pistola puntata contro la mia testa.”
Pensai fosse meglio non replicare.

“È troppo rischioso. Potrebbe non funzionare. Potresti morire. Niente ci assicura che il quadro avrà avuto alcun effetto.”
Entrambe mi ignorarono.
Continuai a percorrere ritmicamente la stanza in modo agitato.
“Voglio dire, potresti morirmi tra le braccia subito dopo esserci sposate. Come si suppone che mi senta a riguardo? Dovrei stare calma?”
“Zitta. Ecco come dovresti stare. Zitta. Qualcuno qui sta cercando di infrangere le leggi della natura, sarebbe carino un po' di silenzio per aiutare la concentrazione” mi disse Addison guardandomi negli occhi.
Sembrava volermi sfidare a parlare.
“Dico solo...”
“Callie.”
“Sto solo...”
“Callie.”
“Ok. Va bene. Silenzio” sospirai pesantemente, lasciandomi cadere sul divano.
Ero profondamente turbata dalla situazione in cui mi trovavo. Non volevo che Arizona si privasse di metà della sua anima solo per salvare me.
Capivo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per me, davvero, lo capivo. Ma capirlo non rendeva più facile accettarlo.
Ed io non lo accettavo. Affatto.
Mi rigirai la chiave dorata tra le mani per l'ennesima volta.
Dovevo vederlo. Solo un paio di minuti.
Dovevo solo vederlo e poi avrei saputo cosa fare.
Mi alzai all'improvviso.
Quando arrivai davanti alla porta percepii due paia di occhi puntati sulla mia schiena. Appoggiai la mano sinistra alla porta, infilando la chiave nella toppa.
Sentii il cuore martellarmi nel petto.
Non mi piaceva. Non mi piaceva per niente doverlo fare. Il mio stesso respiro irregolare mi risuonava nelle orecchie. Deglutii a vuoto più volte.
Il fatto che sapevo che due persone mi stavano guardando non aveva fatto che peggiorare le sensazioni che provavo di solito.
Mi voltai. Arizona era ancora immobile, le spalle nella mia direzione, Addison era del tutto concentrata sulla tela davanti a lei.
Eppure mi stavano guardando.
Aprii la porta lentamente, con circospezione. Entrai nella stanza, richiudendomela velocemente alle spalle. Poi rimasi immobile, la fronte appoggiata al legno, nell'attesa di sentirle parlare di me con delusione.
“Volta la testa leggermente verso sinistra” sentii Addison. “Perfetto.”
Rilasciai il respiro che avevo inconsciamente trattenuto.
“Credi davvero di poterci riuscire?” stavolta la domanda venne da Arizona.
“Onestamente, non lo so. Ma ho pur sempre il suo sangue che scorre nelle mie vene” fu la sincera risposta.
“Spero davvero che funzioni. Non sono davvero pronta all'alternativa. A perderla.”
Mi allontanai dalla porta, arrivando davanti alla pesante stoffa rossa. Tirai, rivelando la tela che giaceva sotto di essa.
Allungai una mano.
I capelli corvini un tempo dipinti sul quadro stavano iniziando a riemergere dal colore grigio che li aveva ricoperti tempo prima.
Sessant'anni? Cinquanta, forse. No, meno, parecchi di meno, non c'erano più rughe, non c'era traccia di quella vita che avevo indubbiamente vissuto.
Ma era passata meno di una settimana da quando Addison era arrivata a Seattle per il matrimonio, come era possibile che adesso il volto sulla tela avesse quarant'anni?
Che era successo?
Perché continuava a ringiovanire?
C'era qualcosa che mi sfuggiva.
Qualcosa che arrivò alla mia mente come una scarica elettrica improvvisa.
Ricoprii velocemente il quadro e mi precipitai fuori dalla stanza.
“Ok, ho finito. Non penso davvero di poter fare meglio di così.”
Mi avvicinai con circospezione.
“Aiutami, Callie. Portiamolo nell'altra stanza.”
Annuii.
Avevamo preparato un sostegno simile a quello del mio quadro a circa un metro di distanza. Ce lo appoggiammo sopra.
Non avevo bisogno di guardare. Sapevo cosa sarebbe successo. Tristemente, avevo capito con qualche minuto di anticipo rispetto a loro.
Mi spostai, mettendomi davanti al mio ritratto.
“Tienilo sempre al coperto, e in un posto poco umido.”
“Lo terrò insieme al tuo, se per te va bene.”
Annuii.
“Sarebbe bello da parte tua” sussurrai deglutendo. “Ricordarmi come mi vedi adesso” aggiunsi in un sussurro.
“Che vuoi dire?” chiese, tornando ad osservare il ritratto appena fatto da Addison.
Feci lentamente scivolare la mano destra dentro la mia tasca.
“Che diavolo...” Addison fece un passo indietro.
“Arizona ha dato la sua anima a me già molto tempo fa. Questo è il motivo per cui il quadro ha iniziato a ringiovanire. Non ero più io, capite? Come potevo avere meno della mia vera età, altrimenti?”
Osservammo mentre il quadro di Arizona mutava, i suoi lineamenti invecchiarono fino a mostrare una donna giunta al sereno inverno della sua vita.
Aveva un sorriso dolce sulle sue labbra. Lo stesso sorriso che io vedevo sul viso dell'originale ogni giorno.
Le nostre anime non erano più in equilibrio. Si erano toccate, mischiate, confuse. E adesso c'era uno squilibrio di anime.
E, l'anima umana di Arizona, stava entrando dentro me. Come stabilito dal patto che avevo fatto con Jane.
Tirai fuori la mano destra dalla tasca, in mano le chiavi dell'appartamento.
“Continuando di questo passo, prima del suo trentesimo compleanno, la sua anima sarà mia completamente.”
“Non c'è tempo da perdere, allora” dichiarò Addison. “Se vi sposate subito, avrete metà per uno sia dell'anima mortale di Arizona che di quella immortale di Callie.”
“Hai ragione. Non c'è tempo da perdere.”
Abbassai lo sguardo verso il portachiavi che avevo in mano. Un coltellino svizzero.
“Non posso rischiare che sposandomi il suo corpo si separi definitivamente dalla sua anima” sussurrai.
“No, non preoccuparti. Funzionerà.”
Si mise tra me e il quadro.
Fui veloce nel nascondere l'oggetto che avevo in mano dentro la mia tasca senza farla minimamente insospettire.
“Andiamo.”
Mi prese per mano, tirando finché non fummo entrambe fuori dalla stanza chiusa a chiave.
“Arizona...”
“Devi fidarti di me. Funzionerà.”
Inspirai. Guardai dentro i suoi occhi del colore del diamante e pensai che forse, solo forse, aveva ragione.
Forse sarebbe andato tutto per il meglio, forse avremmo avuto il nostro lieto fine.
Annuii.
E avevo già preso la mia decisione.

Non c'era altare, non c'era musica, e niente fiori.
Eppure l'importanza del momento non mi sfuggiva.
Addison avrebbe celebrato la cerimonia. Era simbolico, in fondo. Il vero matrimonio era un contratto, una firma su un foglio.
Ma volevo che per il resto della sua vita, Arizona ricordasse questo.
Me, in piedi, a guardarla venirmi incontro.
E mi tolse il fiato.
Fu come innamorarmi di lei per la terza volta.
Non avrebbe potuto essere più perfetta. Neanche se avesse provato, non avrebbe potuto. Non per me.
Stavolta non eravamo in jeans, come in comune.
Lei aveva un vestito bianco, semplice, che scendeva dolce lungo il suo corpo fino alle caviglie. Io avevo un vestito parecchio simile, solo con le spalline che al suo mancavano.
Ci scambiammo le fedi, guardandoci negli occhi.
La baciai.
Piano, a fior di labbra.
Era un bacio puro, casto, sacro in qualche modo.
Quando arrivammo a casa, le dissi che avremmo dovuto avere il nostro primo ballo. Avevo chiesto ad Addison di mettere nello stereo una canzone che ero sicura avrebbe apprezzato in quella situazione.

Time stand still, beauty in all she is.
I will be brave, I will not let anything take away
What's standing in front of me.
Every breathe, every hour has come to this.

“Questa canzone è spaventosamente azzeccata” mi fece notare.
“Già” sussurrai.
La verità era che stavo ascoltando solo vagamente.
Tenerla tra le braccia era sconvolgente, ogni volta.
E mi distraeva, ogni volta.

I have died, every day, waiting for you.
Darling, don't be afraid.
I have loved you, for a thousand years.
I'll love you for a thousand more.


“Immagina la faccia di Teddy quando le diremo che ci siamo sposate.”
Mi sorrise.
Spostai una ciocca di capelli dal suo viso.
Ero persa dentro i suoi occhi.
“Come?” chiesi, rendendomi conto che mi aveva appena detto qualcosa.
Lei mi guardò con curiosità.
Quando capì che ero stata distratta da lei, il suo sorriso si allargò.
“Niente” sussurrò, baciandomi.

All along, I believed I would find you.
Time has brought your heart to me
I have loved you, for a thousand years.
I'll love you for a thousand more.


Quando infine le ultime note della canzone sfumarono all'interno della stanza, mi guardò negli occhi, prendendomi una mano e portandomi verso quella che, da quel giorno, era la nostra camera da letto.

Ero sicura che dormisse.
Il suo respiro regolare era l'unica conferma che mi serviva.
La guardai a lungo, appoggiata su un gomito, sfiorandole i capelli e il viso. Era così che si era addormentata, tra le mie braccia, guardandomi negli occhi e sorridendo.
I miei movimenti rallentarono progressivamente fino a fermarsi del tutto.
Mi abbassai, baciandola sulla fronte, sul naso e sulle labbra, inspirando il suo profumo.
“Perdonami” sussurrai.
Chiusi gli occhi per impedire alle lacrime di uscire.
Mi alzai, andando in soggiorno e prendendo un foglio, iniziando a scrivere tutto ciò che non ero riuscita a dirle.
Perdonami.
E, se riesci a perdonarmi, ricordati di me. Ricordati di quanto ti ho amato, di quanto hai cambiato la mia vita.
Ricordati di quanto ero debole prima di incontrarti e di quanto mi hai reso forte.
Ancora oggi, non rimpiango niente.
Perché ogni errore che ho fatto da sola, mi ha portato a te. Ed ogni errore che abbiamo fatto insieme, ci ha portato a questo. A oggi.
Quindi non rimpiangere niente.
E se avrai voglia di rimpiangere qualcosa, di pensare a quale sarebbe potuto essere il nostro lieto fine, ricorda che il più piccolo dei dettagli avrebbe potuto portarci via tutto quello che abbiamo comunque avuto.
Avremmo potuto non trovarci mai.
Io e te, avremmo potuto non trovarci mai.
Non riesco a concepire un pensiero più terribile di questo.
Ma io ti ho trovato, Arizona, e tu hai trovato me. Questo è tutto ciò che conta.
Ti amo.
Calliope.
~ I cuori più duri si lasciano intenerire dalla bellezza. ~

Lasciai il foglio sul bancone della cucina. Afferrai il mio portachiavi dal mobiletto dell'ingresso e staccai il coltellino svizzero.
Aprii la porta della stanza e, per la prima volta in assoluto da quando avevo chiuso il quadro lì dentro, la lasciai aperta alle mie spalle.
Aprii la parte del coltellino in cui era posizionata la lama.
Mi tremava la mano.
Avevo paura.
Non per me.
Era un destino che conoscevo e a cui mi ero rassegnata parecchio tempo prima.
Avevo paura che Arizona non mi avrebbe mai perdonato.
Avevo paura che senza di me non sarebbe stata in grado di essere felice.
Avevo paura che non ci sarebbe stato nessuno al suo fianco quando perdeva un paziente e aveva bisogno di qualcuno che la stringesse mentre piangeva. Qualcuno che le accarezzasse i capelli mentre si addormentava.
Qualcuno che l'amasse almeno la metà di quanto io l'avevo amata.
E già la metà, sarebbe stato abbastanza amore da durare per un'intera vita. Ma la verità, era che nessuno avrebbe mai potuto amarla quanto me.
Afferrai la stoffa tra le mani, scoprendo il dipinto che conteneva la mia anima.
Mi paralizzai.
Il sorriso genuino che mi rivolgeva, il viso senza segni di vecchiaia, i capelli del colore nero. Era come se stessi guardando dentro uno specchio.
La donna dentro il quadro, di certo, non poteva avere più di una trentina d'anni.
Scoprii anche il quadro di Arizona.
No. Non è possibile.
“Ti prego, non farlo.”
Alzai lo sguardo.
Stava indossando solo una delle mie vecchie magliette con cui di solito dormiva quando rimaneva da me per la notte.
Fece un passo verso di me, allungando la mano destra.
“Dammi il coltello, Calliope” mi incitò con voce ferma.
“Guarda” le dissi solo, facendo un passo indietro.
Lei, con riluttanza, e dopo diversi momenti di indecisione, spostò lo sguardo da me verso i due quadri.
Prima sul mio, poi sul suo, dove si soffermò.
Un'espressione di profonda confusione apparve sui suoi tratti.
Inclinò leggermente la testa e studiò l'immagine più da vicino.
Era come se all'improvviso il mio intero corpo fosse stato invaso da uno stranissimo senso di informicolamento.
Era una sensazione strana, una che non avevo provato da moltissimo tempo. Qualcosa che pensavo che non sarei stata in grado di provare mai più.
“Avevi...” scoppiai a ridere. “Avevi ragione.”
Libertà.
Ero finalmente libera, dopo tutti quegli anni passati imprigionata da catene invisibili che mi avevano tenuto intrappolata.
Richiusi il coltellino, gettandolo a terra.
Mi voltai verso di lei.
“Tu avevi ragione. Mi hai salvato la vita. Non posso crederci.”
La abbracciai, sollevandola da terra.
La appoggiai di nuovo a terra, baciandola.
Per la prima volta dal giorno in cui quel quadro era esistito, mi sentii assolutamente e completamente libera.
Libera dalla mia condanna, da quella maledizione.
“Ci hai salvato entrambe” sussurrai.
Non riuscii ad evitare di ridere di nuovo.
Mi sentivo meravigliosamente.
Lei si unì alla mia risata, a sua volta sollevata.
Il quadro dipinto da Addison, raffigurava adesso una donna dai capelli biondi, dagli occhi azzurri, un sorriso sulle labbra, fossette sulle guance.
Chiunque avesse guardato il dipinto avrebbe potuto confermare che, la donna raffigurata, non aveva ancora compiuto trent'anni.




Siate sempre al vostro meglio. Ma non perdete mai la speranza, perché è quando siete al vostro peggio che vi succedono le cose più incredibili. E chi vi ama davvero, vi rimarrà accanto anche quando toccherete il fondo.

A presto, ragazze.

Ritorna all'indice


Capitolo 46
*** La nostra prima automobile con autista ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU






La nostra prima automobile con autista


Quello che hai non è mai abbastanza.
Anche quando hai tutto.
Quindi succede che, giorno dopo giorno, le più grandi cose smettono di meravigliarti e diventano un'abitudine. Lo straordinario diventa ordinario. E la sorpresa smette di essere nella tua vita, perché è all'ordine del giorno.
Ecco quindi che, avere tutto, è proprio come non avere mai avuto niente, perché ogni cosa è insignificante. Minuta. Inesistente.
Ogni stella diventa una scintilla e ogni oceano appare come una goccia.
Quando hai tutto, niente è abbastanza da renderti felice. Cercherai sempre qualcosa in più.

Salii in macchina con un sospiro, richiudendomi la porta alle spalle.
“Parti pure, Kate.”
“Non aspettiamo la sua amica, signorina?”
“Non stasera. La mia amica ha trovato compagnia” guardai fuori dal finestrino, vedendola ridere insieme ad un amico di suo fratello che ci era stato presentato quella sera. “Ricordami di cancellare il suo numero dalla rubrica, se domani mattina non si è fatta ancora sentire con delle scuse.”
“D'accordo, miss.”
Mise in moto, partendo e dirigendosi, senza che neanche dicessi una parola, verso casa.

La mattina dopo, mi svegliai giusto in tempo per essere in ritardo a lezione.
“Miss Robbins, che ha deciso per quel numero di telefono?” mi domandò la mia autista, guidandomi verso l'università.
“Hai ragione Amanda” estrassi il cellulare. “Menomale che mi ricordi tu di queste cose.”
Di solito non parlavo molto con lei. L'autista precedente, non avevo idea di quale fosse il suo nome, si era licenziato un paio di mesi prima. Mio padre aveva assunto una ragazza che aveva più o meno la mia età perché pensava che sarebbe stata di miglior compagnia, ma in due mesi non avevo nemmeno imparato il suo nome. Spesso non le dicevo neanche ciao, mi limitavo a non abbassare il vetro scuro che separava la sua parte della macchina dalla mia.
“Grazie Cathleen” le dissi, scendendo diretta verso la facoltà.

“Allora, come è andata ieri sera con Joanne?”
“L'ho lasciata alla festa. Era insieme ad un amico di suo fratello, sembravano presi.”
“Stai scherzando? L'hai piantata lì?”
“L'avrà accompagnata lui, Teddy. Fidati, non ha fatto nemmeno caso al fatto che me ne stessi andando.”
“Quindi che farai?”
“Niente. Non è interessata, mi pare ovvio. Sto pensando di invitare la ragazza del corso di spagnolo a prendere un caffè dopo scuola.”
“Se tuo padre sapesse che usi questa macchina per scarrozzare le tue fidanzate in giro non sarebbe così disposto a pagare per un'autista” mi fece notare.
“Ha anche altri usi. Io e te la stiamo usando per saltare le prime due ore in favore dello shopping, se non sbaglio. E per quanto io ne sappia, tu non sei una delle mie fidanzate.”
“Hai ragione. Ma quella rimane un'alta percentuale dell'uso che ne fai, o sbaglio?”
“Che posso dire? Alle donne piacciono le macchine di lusso.”
Teddy rise, scuotendo la testa e guardando fuori dal finestrino della BMW.
“E poi mio padre farebbe qualsiasi cosa. Dopo il divorzio, i soldi sono diventati il modo dei miei genitori di litigarsi il mio affetto. Mia madre mi compra una macchina appena compio sedici anni, mio padre mi compra un autista.”
“Come si chiamava quel tizio, comunque? Non sono mai riuscita a capirlo.”
“Jeff?” domandai, ridendo. “O forse Carl.”
“Non posso credere che in due anni non sei riuscita ad imparare nemmeno il suo nome” la ragazza al mio fianco rise di nuovo di me.
“Era solo il mio autista, Teddy. Non ho tempo per imparare i nomi di tutti quelli che lavorano per i miei genitori.”
Teddy non era ricca quanto me, ma non aveva nemmeno problemi finanziari. La sua famiglia era benestante. Non come la mia, da villa privata con piscina e autista per la figlia ventenne, ma non se la passavano male.
“Anton.”
La voce dal sedile anteriore della macchina ci distrasse.
“Come?” domandai.
“Il nome dell'autista. Era mio cugino. È così che ho avuto il lavoro.”
“D'accordo” lanciai un'occhiata a Teddy, alzando gli occhi al cielo e poi tornammo a parlare del più e del meno, ignorando totalmente la terza persona all'interno della vettura.

“Allora, sei molto brava con lo spagnolo, vero?” domandai con un sorriso che voleva far trasparire velatamente le mie intenzioni.
“Praticamente è la mia seconda lingua” confermò con un sorriso che di velato aveva ben poco. “Se hai problemi posso darti una mano.”
“In effetti, sono una frana con lo spagnolo. Lo faccio solo come corso supplementare, per staccare un po' da tutti quei maledetti corsi di matematica che devo seguire.”
“Sarei felice di aiutare. Con lo spagnolo e basta, però. Niente matematica.”
Io ero bravissima in matematica. Su quello di certo non avevo bisogno di aiuto.
“Certo, perché no” le dissi, guardando gli occhi scuri che mi stavano provocando, quasi sfidando, ad accettare. “Sentiamo che sai fare.”
Lei si avvicinò un po' di più, sempre sorridendo.
“Sé que usted se está preguntando cómo se sentiría besarme, tocarme, y...” avvicinò le labbra al mio orecchio. “Apuesto a que usted está pensando en jo-”
Un rumore ci distrasse improvvisamente, il vetro tra la parte anteriore e posteriore della macchina si stava alzando.
“Perché stai...”
“Io non ho toccato niente” la guardai, confusa almeno quanto lei.
Il pannello si bloccò a metà.
“Sono stata io” rispose l'autista. “Pensavo voleste un po' di privacy.”
Tirò su anche la seconda metà del vetro, isolandosi.
“Oh, mio Dio, dimmi che la tua autista non sa parlare spagnolo. Ti prego.”
Io risi. “Certo che no. Si chiama tipo Cassy White o qualcosa del genere. Di sicuro non sa una parola di spagnolo. Piuttosto” appoggiai una mano sulla sua gamba, sorridendole. “Cosa stavi dicendo di così scandaloso da non volere che la mia autista lo capisse?” le domandai.
Lei arrossì, evitando il mio sguardo.
“Ah, Lana, credo che tu sia appena stata beccata.”
“Ho solo detto che so che stai pensando a baciarmi.”
Io sorrisi nel modo più provocante che conoscevo.
“Allora non sei l'unica che è stata beccata.”
Poi, senza aspettare che la conversazione continuasse oltre la baciai. Ricambiò quasi subito.
“Signorina, siamo arrivati.”
Il microfono interno mi distrasse.
“Grazie Kristy. Rimarremo in macchina ancora qualche minuto. Se vuoi puoi andarti a fare un giro, o a prenderti un caffè.”
Senza aspettare una risposta lasciai il pulsante dell'altoparlante e ritornai alla mia occupazione corrente.
“Allora, nient'altro che vuoi dirmi in spagnolo, adesso che nessuno può sentire? Dai pure sfogo alla tua fantasia” le dissi, scrollando le spalle. “Tanto io non ne capisco nemmeno mezza parola, quindi puoi stare sicura che non riferirò.”
Lei rise, riprendendo a baciarmi senza aggiungere altro.
La cosa delle ragazze era più che altro per suscitare l'ira di mia madre. Non le andava giù che non riuscissi ad avere una relazione seria, nonostante ormai fossi da due anni al college. Pensava che fosse il momento di crescere, mentre io pensavo che fosse l'età migliore per farla incavolare così tanto da farla impazzire.
Ogni volta che mi urlava contro le usciva una vena pulsante sul lato sinistro del collo, lo trovavo spassoso.
Erano due anni che davo il peggio di me. Letteralmente. Sceglievo ragazze a caso, le portavo nel nostro attico, le facevo sedere sul divano e offrivo loro alcolici, nonostante avessero meno di ventuno anni. Poi aspettavo che mia madre rientrasse, le cacciasse e punisse me per un paio di giorni.
Loro sparivano nel nulla, per mia fortuna. Non dovevo nemmeno lasciarle. Ed io potevo vedere quella simpatica vena pulsare. Adoravo quando si arrabbiava. Mi faceva sentire come se finalmente contassi qualcosa nella sua vita. Mi faceva sentire...sentire qualcosa.
Lana, d'altra parte, non mi faceva sentire niente. Nessuna di loro mi faceva mai sentire niente.
Mi allontanai, voltandomi verso il finestrino. Non riuscivo nemmeno a guardarla negli occhi. Era stato un pessimo bacio. Peccato, perché la ragazza sembrava avere esperienza in fatto di donne, ma invece si era rivelata una delusione, proprio come tutte le altre. Non riuscivo davvero mai a provare altro che noia, solitudine o vuoto, quando ero con una ragazza.
“Scusami, mi è venuto un mal di testa atroce” le dissi, portandomi una mano alla tempia. “Forse mi sono presa l'influenza.”
“Non è un problema, lo capisco” mi sorrise, appoggiando delicatamente una mano sulla mia. “Ti va ancora quel caffè?”
Sospirai. “Non proprio. Che ne dici se ti faccio riaccompagnare a casa?”
“Sto a un paio di minuti da qui, a dire la verità. Posso andare a piedi. Ci vediamo domani in classe, magari?”
“Certo. Se sto meglio” le rivolsi un sorriso debole.
Lei lo ricambiò, uscendo dall'auto e richiudendosi lo sportello alle spalle.
Appena fu uscita abbassai il vetro.
“Jessie” chiamai, senza però ottenere risposta. Stavo sbagliando nome? Come si chiamava quella nuova, in ogni caso? Alzai gli occhi al cielo. “Jessie” ripetei a voce più alta. Quando non rispose mi sporsi e picchiettai sulla sua spalla.
La vidi togliersi velocemente le cuffie e accorgersi che la ragazza che prima era affianco a me era sparita.
“Mi scusi. Non volevo origliare.”
“Portami a casa, Jessie.”
Lei, senza rispondere, fece quello che le avevo chiesto.

“Com'è che puoi permetterti una macchina con autista?”
La domanda mi colse un po' di sorpresa. Di solito le persone che mi conoscevano appena si facevano di me l'idea che volevano, senza porre mai quella domanda ad alta voce.
Dopo qualche minuto, decisi di rispondere onestamente.
“Mio padre è un pezzo grosso dell'esercito.”
“Beh, deve essere molto in alto per potersi permettere una cosa del genere.”
Quella tipa era davvero, davvero irritante. In meno di due minuti di viaggio mi aveva già fatto saltare i nervi.
“Siamo quasi arrivate a casa mia. Ti va di salire? Potremmo prenderci un drink e rilassarci un po', mia madre non dovrebbe essere a casa prima di altre” guardai l'orologio che avevo al polso “due ore, come minimo.”
Che, in realtà, erano cinque minuti.
Lei ci pensò. Le offrii un sorriso complice, la promessa di un po' di tempo da sole dentro un appartamento vuoto e di qualcosa che, poco ma sicuro, non avrebbe ottenuto. Almeno, non quella sera. Non da me.
“Certo. Sembra un'idea fantastica.”
Ricambiò il sorriso.
Ed io mi preparai all'ennesima scenata di rabbia.
Un giorno, continuavo a promettermi, un giorno avrei smesso di fare del male a me stessa, a mia madre e a ragazze che non conoscevo solo perché la rabbia era un sentimento, l'odio era un sentimento, ed erano entrambi migliori di non averne nessuno.
“Siamo arrivate, signorina. Pensa di dover uscire di nuovo?”
“Aspetta Beth, va bene Lindsey? Se vuole un passaggio quando scende portala dove ti chiede” guardai la ragazza al mio fianco. “Non ci vorranno più di un paio d'ore” mormorai distrattamente, sapendo benissimo che sarebbe stata di nuovo giù nell'arco di un quarto d'ora. “Se non viene a chiederti un passaggio, allora torna a casa.”
“D'accordo miss Robbins. Buona serata.”

Venti minuti dopo entrai di nuovo dentro la BMW.
“Guida.”
Lei raddrizzò la schiena, accendendo il motore.
“Verso dove?”
“Dovunque. Il posto più lontano da qui che conosci.”
Notando quella nota della mia voce fuori posto guardò nello specchietto ed incrociò i miei occhi, pieni di lacrime.
Iniziò a guidare senza neanche un'altra parola.
“Sta bene, miss Robbins?”
Non risposi, continuai a guardare Baltimora scorrere fuori dal finestrino.
“Quella ragazza le ha fatto qualcosa?”
“Guida e basta.”
“Vorrei solo aiutarla” mormorò piano, quasi spaventata della mia reazione.
Per qualche istante rimasi in silenzio, contemplando le sue parole.
“Mia madre l'ha cacciata via, come ha fatto tutte le altre volte” risposi dopo aver deciso che non mi importava poi molto sapere se era sincera o no. “Stavolta però non si è nemmeno arrabbiata più di tanto, mi ha solo guardato come se se lo aspettasse. Come se si fosse rassegnata al fatto che sua figlia è una ragazza facile.”
“Oh, mi creda, lei non è facile, miss Robbins. Di tutte le cose che è, in questi tre mesi ho imparato che facile non è tra quelle. No, lei è tutto tranne che facile.”
“Non mi suona molto come un complimento” replicai subito.
Vidi i suoi occhi dallo specchietto e capii che stava sorridendo.
“Oh, stai scherzando” osservai ad alta voce. “Non lo trovo molto divertente” le feci notare, stando al gioco.
Lei tornò a concentrarsi sulla strada, prendendosi un paio di minuti per elaborare una risposta diversa.
“E poi, quelle ragazze” riprese all'improvviso, come se stesse continuando un discorso avvenuto solo dentro la sua testa “non è stata mica con tutte loro, no?”
Io risi, senza rispondere.
“Lei non è una ragazza facile. In nessun senso della parola, ma soprattutto non in quello che intende sua madre. Ho capito il gioco che fa con loro. State su solo qualche minuto prima che arrivi sua madre, non mi sembra che ci sia il tempo materiale.”
“Che ne sai? Magari sono brava fino a quel punto.”
La sentii ridere, fissando lo specchietto retrovisore, mentre lei era concentratissima sulla strada.
“Nessuno è bravo fino a quel punto” alzò gli occhi ed incontrò i miei.
Ed io sorrisi sinceramente, per la prima volta da non riuscii a ricordare quanto tempo. Ma di sicuro era stato prima che avessi lei come autista e perfino quell'auto privata. Forse prima che avessi perfino compiuto sedici anni.
Non lo so. So solo che la scintilla nei suoi occhi mi fece sorridere.
“Forse sei tu che non ne hai conosciuti di così bravi. Forse sei sfortunata.”
“Forse” concesse. “Forse dovrebbe tornare a casa e provare a dormire un po'. Domani mattina deve andare a scuola.”

Era appoggiata sul cofano della macchina. Aprì la portiera per me e per Teddy e salì in macchina dopo aver richiuso, mettendo in moto.
“Ti ricordi come arrivare a casa di Teddy, vero Debby?” le domandai.
“Certo, miss Robbins.”
Accese la macchina e partì senza aggiungere altro. Era abituata al fatto che io e lei non parlavamo, era solo il modo in cui le cose erano.
“Trovo davvero esilarante il fatto che tu non abbia la più pallida idea di quale sia il suo nome ed ogni giorno ti limiti a sceglierne uno nuovo” mi disse Teddy.
“Non sembri divertita. Anzi, sembri molto seria.”
“Perché quando ho detto esilarante intendevo assurdo e presuntuoso.”
“La chiamo con nomi a caso perché non mi ha mai detto come si chiama davvero.”
“Beh, e tu chiediglielo” suggerì come se fosse ovvio.
“Non mi dirà il suo nome” la avvertii come se fosse scontato.
Lei corrugò la fronte, guardandomi come se pensasse che la stessi palesemente prendendo in giro.
“Che significa, scusa? Ci hai almeno provato?”
Io sospirai della sua caratteristica testardaggine.
“Come ti chiami, autista?” chiesi ad alta voce.
“In qualsiasi modo voglia chiamarmi oggi, miss Robbins.”
“Questa è la terza volta che lo chiedo in quattro mesi e la risposta è sempre la stessa. Lei non vuole dirmi il suo nome ed io posso benissimo vivere senza saperlo.”
“Come mai non vuoi dirle il tuo nome?” le chiese Teddy, palesemente incuriosita da quella storia, quasi quanto me. Anche se io non volevo ammetterlo.
“Un giorno se lo dimenticherà, in ogni caso. Avrà altri dieci autisti dopo di me, una quarantina almeno di camerieri, più di cinquanta dipendenti dei suoi genitori che vedrà di tanto in tanto e qualche altra dozzina di persone, che fanno lavori di giardinaggio o idraulica nella villa di suo padre. Non avrebbe senso imparare tutti quei nomi, davvero. Quindi può sceglierne uno e usarlo, così non dovrà fare un giorno la fatica di dimenticarselo.”
“Ha promesso di dirmi se un giorno dovessi indovinare il suo vero nome, però” dissi a Teddy, ridendo appena. “Allora, hai rivisto il tipo della piscina o ancora non si è nemmeno degnato di mandarti un sms?”

“Allora, è felice che sia finalmente arrivato il fine settimana?”
“Molto” risposi distrattamente.
Il viaggio in macchina da Baltimora alla villa di mio padre durava quasi tre ore, che le prime volte avevamo passato nel silenzio più totale. E anche dopo mesi, raramente parlavamo.
“Sono passati sei mesi e ancora non so il tuo nome” realizzai all'improvviso. “Se non l'ho indovinato adesso, temo che non ci riuscirò mai.”
Lei rise, senza darmi altra risposta.
“Che ha intenzione di fare questo weekend?”
“Ti piace più parlare di me, non è vero? Non so quasi niente di te.”
“Sì, miss Robbins.”
“Sai, tuo cugino non parlava mai. Avrà detto a malapena sei parole in due anni. Ero convinta che gli autisti fossero per contratto obbligati al silenzio assoluto.”
“Se preferisce posso evitare di parlare.”
“Ma no, la tua voce mi tiene compagnia.”
Catturai i suoi occhi attraverso lo specchietto.
Il suo sguardo mi faceva qualcosa di strano, non avevo ancora capito se era una cosa positiva o no. “Mi chiamo Calliope, miss Robbins. Ma tutti mi chiamano Callie.”
Mi sporsi in avanti, avvicinandomi a lei il più possibile e tendendo una mano in avanti attraverso lo spazio tra i sedili. Lei, ridendo, la prese e la strinse.
“Piacere di conoscerti, Calliope. Io mi chiamo Arizona.”
“Il piacere è tutto mio, miss Robbins.”

“Sono distrutta.”
“La vedo stanca, in effetti” osservò, vedendomi praticamente sdraiata sui sedili posteriori.
“Gli ultimi tre mesi di università mi stanno distruggendo, Calliope.”
“Ne so qualcosa” rispose ridacchiando.
“Tu frequenti l'università?” domandai incuriosita, sporgendomi immediatamente verso di lei ed appoggiando un gomito sul sedile anteriore destro.
“Frequentavo. Ho fatto due anni e poi ho smesso.”
“Come mai?”
La vidi esitare. Capii di aver probabilmente oltrepassato un limite.
“Non fa niente, se non vuoi rispondere. So che non sono affari miei.”
“Non mi potevo permettere l'iscrizione alla scuola di medicina. Ho terminato la pre-med school e ho dovuto interrompere.”
“Mi prendi in giro? Io sto finendo i due anni proprio ora.”
“Lo so, miss Robbins” mi fece notare con un sorriso.
“Puoi iscriverti il prossimo anno insieme a me.”
“Non li ho ancora, quei soldi.”
“E i tuoi genitori?” domandai di riflesso.
“Andati.”
“Oh, Dio, mi dispiace moltissimo.”
“No, non sono morti” si affrettò a chiarire. “Solo, non mi parlano più. Abbiamo litigato molto seriamente. Così sono due anni che sto facendo dei lavori per mettere insieme i soldi per l'università. Anton e gli zii mi danno una mano, mi stanno ospitando e pagano il vitto, ma non voglio pesargli più di così. Per il resto devo farcela da sola.”
Io studiai il suo profilo per qualche istante.
“Mio padre potrebbe aiutarti. Non sarebbe niente di che, per lui, in termini economici.”
“Il signor Robbins è già molto generoso a pagarmi quello che mi paga, si fidi, signorina.”
“Sono sicura che se glielo chiedi...”
“Non farò l'elemosina a suo padre miss Robbins” mi rispose con decisione. “Allora, la ragazza di ieri sera, quella Gabrielle, che fine ha fatto?”
Capii che la conversazione era finita proprio in quel momento.
Scrollai le spalle.
Tornai a sdraiarmi sui sedili posteriori.
“Mia madre l'ha cacciata, come al solito. E mi ha urlato contro per qualche minuto. Ho dato un'occhiata fuori dalla finestra ma la macchina non c'era, quindi ho pensato che fossi già tornata a casa. Peccato, mi avrebbe fatto comodo un giro in auto.”
“Mi dispiace, miss Robbins. Aveva detto di andare ed avevo un appuntamento.”
Quello attirò la mia attenzione, voltai lo sguardo verso lo specchietto. I suoi occhi sfuggirono ai miei e tornarono sulla strada. Mi stava guardando.
“Un appuntamento in senso romantico?” chiesi, non riuscendo a trattenermi.
Lei non rispose subito. Non era a suo agio a parlare con me della sua vita privata.
“Come si chiama lui?”
La vidi, o più che altro la percepii, cedere alla mia insistenza.
“George.”
“E ti piace molto?”
“Abbastanza. Ma a lui piace un'altra. Ha parlato di lei per tutta la sera.”
“Beh, allora è un idiota. O è cieco. O entrambi.”
Lei rise, scrollando le spalle.
“Ho fatto come fa di solito lei, signorina. Ho cancellato il suo numero appena stamani ho visto che non c'era nessun messaggio di scuse ad attendermi.”
“Vedi? Impari in fretta. Sarai un ottimo medico.”

“Che ti è sembrato della serata, Arizona?”
“Non lo so. Troppa gente vecchia, credo. Dovresti cercare di attirare un pubblico più giovane, mamma.”
“Tu dici? E come dovrei fare, secondo te?”
Scrollai le spalle.
“Dovresti vendere vestiti per ragazze più giovani, non solo per donne adulte.”
“Che hanno di poco giovanile i miei vestiti?” mi domandò voltandosi nella mia direzione.
Continuai a guardare in avanti, scrollando di nuovo le spalle.
“Per prima cosa, sono fatti con troppa stoffa. Le ragazze si vestono con molta di meno. Poi, i motivi floreali non vanno più di moda dagli anni '70. c'è un negozio vintage che li vende ancora, però, se proprio ti piacciono i fiori, e che riesce a farli sembrare abbastanza moderni. Se vuoi possiamo andarci, uno di questi giorni. Calliope, te lo ricordi, quello davanti alla caffetteria che fa anche cioccolata calda?” chiesi, sporgendomi verso di lei.
“Ho capito quale intende, miss Robbins.”
“Quando è l'ultima volta che ci siamo state?”
“Non saprei. Un paio di mesi fa, forse?”
“E come mai non ci torniamo da così tanto?”
“Non le piacciono i motivi floreali vintage, miss Robbins.”
“Hai ragione, come sempre, Calliope. Potremmo andare al negozio ad un paio di isolati dall'università. Quello non vende niente che abbia a che fare con i fiori ed è molto che non ci facciamo un salto.”
“Non aveva litigato con il commesso, miss Robbins? Quello era il negozio dove il ragazzo inquietante le ha toccato il sedere facendo finta di voler indovinare la sua taglia.”
“E come mai non ho fatto licenziare il commesso?”
“Forse perché è troppo gentile, miss Robbins” scherzò, strappandomi una risata.
“Va bene, Calliope. Allora la prossima volta scegli tu.”
“Come preferisce, miss Robbins.”
“Ricordami ancora perché non hai voluto prendere la mia macchina” sussurrò mia madre. “Il mio autista non parla così tanto.”
“Sono stata io a chiedere a Calliope queste cose, mamma. Ed il tuo autista non parla perché ha settantacinque anni suonati e non ci sente più da un orecchio. Non salirei in una macchina guidata da lui per nessun motivo al mondo.”
“Beh, questa ragazzina che ha assunto tuo padre non sembra avere la giusta esperienza.”
“Calliope ha un anno più di me ed ha già terminato la pre-med school, mamma. Ha un sacco di esperienza.”
Mia madre aveva un debole per i medici. Era più forte di lei. Quello era uno dei motivi per cui volevo fare medicina: guadagnarmi la sua stima.
“Da dove vieni, signorina...”
“Torres” rispose velocemente. “Vengo da Miami. Adesso vivo qui a Baltimora dai miei zii.”
“E sta ancora frequentando medicina?”
“No, signora. Lavoro sedici ore al giorno, più straordinari. Non avrei tempo, anche volendo.”
“Mia figlia sa essere molto impegnativa” concordò. “Come mai hai smesso con l'università?”
“I suoi genitori hanno smesso di pagarle la retta. Per questo ha deciso di fare questo lavoro, per potersi pagare l'università” spiegai.
“Ho molta esperienza in fatto di macchine, però, non si preoccupi signora Robbins. Mio padre ne aveva molte ed io sono cresciuta dietro il volante di una Thunderbird.”
Altro punto debole di mia madre? Le macchine d'epoca.
“Mi piace questa autista, tesoro. Ricordami di dire a tuo padre di darle un aumento.”

“Non scendi mai insieme a me, Calliope.”
Lei accostò la macchina, parcheggiando quasi davanti al negozio in cui eravamo dirette.
“No, miss.”
“Le cose devono cambiare, allora. Ti annoierai in macchina da sola, giusto? Quindi perché non vieni con me?”
“Pensa davvero che sia una buona idea, miss Robbins?”
“Certo, perché non dovrebbe? Puoi aiutarmi a scegliere un nuovo completino intimo.”
“Questo è esattamente il motivo per cui non mi sembra una buona idea.”
“Hai ragione” concordai, aprendo lo sportello e scendendo. Poi, senza pensarci, aprii anche il suo, osservandola guardarmi con aria sorpresa e confusa. “Ci conosciamo a malapena. Inizieremo con un vestito da sera, o un paio di jeans, o qualcosa del genere, e lasceremo il completino intimo per la prossima volta.”
Lei, capendo che non avrei mollato, si affrettò a scendere dalla macchina, richiudendo la portiera e poi l'auto con il comando centralizzato.
“Ne è proprio sicura, miss Robbins?”
Io, senza rispondere, sorrisi ed iniziai a camminare.
Quando uscimmo dal negozio lei si affrettò a prendere le buste al posto mio, rivolgendomi un sorriso debole.
“Mi permetta almeno di aiutarla, se proprio vuole portarmi con sé.”
Io la lasciai fare, persa nel suo sguardo gentile e in quel suo timido sorriso.

“Dove andiamo?”
“Dovunque. In un posto bello. Basta che sia lontano da qui.”
Lei, senza dire niente, partì. Sapevo che le domande sarebbero arrivare prima che la macchina svoltasse l'angolo dell'isolato.
“Ha di nuovo litigato con sua madre?”
“Guida e basta, Calliope” la risposta uscì più dura di quella che avevo programmato.
“Mi scusi, miss Robbins. So che non sono affari miei.”
Io sospirai, sentendo il peso del silenzio che presto scese sulla macchina.
“È solo che...non va mai bene, capisci? Non è mai abbastanza, qualsiasi cosa faccia.”
Lei non rispose, cercando di capire che intendessi.
“Non porto più ragazze a casa, non faccio più tardi se il giorno dopo ho scuola, cerco di comportarmi al meglio. Ma lei continua a trovare cose da criticare. A volte penso che ci provi davvero gusto.”
“Cosa le ha detto?”
“Ha detto che dovrei mettere la testa a posto. Che sta arrivando l'estate e il prossimo anno frequenterò medicina, che non posso più tornare a casa la domenica mattina perché sabato sera c'è una festa, che dovrei trovare una persona e frequentarla seriamente, che dovrei smettere di spendere tutti i soldi che spendo per vestiti e altra roba inutile. In questi mesi il conto della carta di credito è stato particolarmente alto.”
“Non voglio farla arrabbiare, miss Robbins, ma ha mai pensato che forse sua madre potrebbe avere ragione su alcune di queste cose?”
“Oh, certo, come no. Ho ventuno anni, dovrei smettere di bere adesso che è legale e sposarmi.”
Lei rise, incontrando i miei occhi nello specchietto retrovisore.
“Magari non su quello. Ma sullo spendere troppo per i vestiti e il diradare un po' gli eventi mondani, senza abbandonarli del tutto.”
“Ma i vestiti che compro sono molto belli. Tu lo sai, negli ultimi due mesi mi hai accompagnato sempre.”
“I suoi vestiti sono bellissimi, ma ha davvero bisogno di tutti? Lo sa, suo padre lavora duramente per guadagnare quei soldi, così come sua madre.”
Pensai al valore che quei soldi avevano, che era così diverso per me e per lei.
Con i vestiti che avevo comprato nell'ultimo anno, lei si sarebbe probabilmente potuta pagare almeno un paio d'anni di college. Il senso di colpa bussò subito insistentemente.
“Hai ragione, Calliope” concessi in un sussurro. “Tu hai sempre ragione.”
Tornai a guardare fuori dal finestrino, rendendomi conto che non riconoscevo le strade che stavamo percorrendo.
“Dove stiamo andando?”
“In un posto dove fanno un caffè ottimo, l'unico che conosco aperto di domenica mattina.”
Io sorrisi a me stessa.
“Ho proprio voglia di un caffè.”
“Perfetto, miss Robbins.”
Quando arrivammo si affrettò a scendere e ad aprire la portiera per me.
“Vuole che la accompagni?”
“Che domande, certo che devi accompagnarmi. Voglio offrirti questo caffè che dici essere così buono, Calliope.”
“Allora andiamo, signorina” mi sorrise, facendomi strada.
Quando ci sedemmo dentro quel piccolo locale, i nostri caffè in mano, per la prima volta ci trovammo faccia a faccia.
“Sai, è strano. Sono abituata a vedere sempre le tue spalle” realizzai.
Lei rise, facendo fare mezzo giro alla sedia.
“Adesso va meglio?” domandò. “Certo, la gente potrebbe prenderci per pazze, però almeno lei non si sentirebbe a disagio.”
“Non sono affatto a disagio, Calliope. E preferisco vedere i tuoi bellissimi occhi e il tuo sorriso disarmante. Non che tu non abbia una bella schiena.”
Lei, pensando che scherzassi, rise, voltandosi poi di nuovo nella mia direzione con la sedia.
“Allora, le piace questo caffè?”
“È eccellente. Ricordami di non dubitare mai dei tuoi gusti.”
“Lo farò, signorina” rispose, ancora ridendo.
“Dove mi porti a pranzo?”
“A pranzo?”
“Sì, a pranzo. Non voglio tornare a casa e non puoi farmi morire di fame.”
“Il suo ristorante preferito?”
“Quello giapponese?”
“Il francese.”
“Ah, ho capito. Certo, se a te piace il francese.”
Lei mi rivolse un mezzo sorriso.
“Non posso permettermi quel ristorante, miss Robbins. Non posso permettermi i posti dove va lei di solito.”
“Non preoccuparti di quello, oggi sei mia ospite. È un ringraziamento per il consiglio che mi hai dato, e da domani, niente più spese folli.”
“Non deve preoccuparsi per me, signorina Robbins. Io posso aspettare in macchina.”
“E farmi pranzare da sola? Non se ne parla, mi annoierei a morte. Consideralo parte del tuo lavoro, Calliope. Non te lo sto nemmeno chiedendo, in realtà. Andiamo, ci vuole un po' per arrivarci ed io sto iniziando ad avere fame.”
“Non ha fatto colazione neanche stamani, miss Robbins?”
“Ero di fretta” minimizzai.
Lei lasciò dieci dollari sul tavolo, alzandosi.
“Calliope...”
“Mi lasci almeno offrirle il caffè. So che non è molto, paragonato al ristorante francese, ma...”
“È perfetto” la bloccai. “Il gesto, il pensiero, è davvero perfetto. Ti ringrazio.”
Lei corrugò la fronte, aprendo la porta per me. Poi, all'improvviso, lo capì.
“Nessuno le aveva mai offerto un caffè?”
“Io sono sempre quella più ricca. Tra i miei amici, o con le ragazze con cui esco, così mi sento sempre in dovere di offrire tutto. No, nessuno mi aveva mai offerto un caffè.”
Lei mi sorrise.
“Sono onorata di essere la prima.”
“Sei davvero affascinante” sorrisi, studiando i suoi lineamenti. “Scommetto che i ragazzi cadono ai tuoi piedi. Come è andata a finire con come-si-chiamava?”
Lei, come sempre pensando che scherzassi, si limitò a ridere.
“Ho cancellato il suo numero, non si ricorda?”
“Ah, hai ragione. Allora dobbiamo trovarti un altro ragazzo.”
“A dire la verità, qualcuno ci sarebbe.”
Io finsi di trasalire. “Ti prego, dimmi che sono io” mi appoggiai una mano sul cuore teatralmente, usando l'altra per prendere la sua.
Lei rise, arrossendo leggermente.
“Una delle assistenti personali di sua madre. È un po' troppo grande per me, però, mi tratta come una ragazzina.”
Corrugai la fronte.
“Ti piacciono anche le ragazze?” domandai, onestamente curiosa.
Lei annuì, incerta.
“Non pensavo sarebbe stato un problema, miss Robbins.”
“Ma no, come ti viene in mente. Sono solo molto curiosa, Calliope. Tu sai tutto di me ed io ho ancora un sacco di cose da imparare su di te.”
Aprì la porta dell'auto per me, sorridendomi in modo disarmante ed aiutandomi a salire grazie alla mano che ancora mi stava tenendo. Io sorrisi a me stessa della gentilezza che risiedeva nel cuore di quella donna e la guardai di sottecchi, le fossette in mostra.
“Non si arrabbi se glielo dico, miss Robbins” sussurrò guardandomi a sua volta di sfuggita. “Ma lei ha il più bel sorriso che io abbia mai visto.”
Richiuse la portiera, salendo poi sul sedile anteriore.
“Non quanto il tuo, Calliope. Non quanto il tuo” mormorai.

“Buongiorno!” salutai allegramente, entrando in auto.
“Buongiorno, miss Robbins.”
La guardai iniziare a guidare e solo dopo qualche istante mi resi conto della busta bianca al mio fianco.
“Calliope, hai messo tu questa busta qui o stiamo per saltare in aria?”
Lei rise, scuotendo la testa.
“Non oggi, miss Robbins. Quella è la sua colazione, so che corre sempre fuori dall'attico prima che sua madre possa trovarla, quindi le ho portato io la qualcosa da mangiare.”
Sfiorai la busta con le mani, aprendola per dare un'occhiata all'interno.
“Non ce n'era bisogno, non dovevi farlo.”
“No, non dovevo. Ma volevo farlo.”
“Ti sei ricordata la mia preferita. Ripiena alla crema con glassa al cioccolato” mormorai, estraendo una ciambella dalla busta.
“E le ho preso un caffè, miss Robbins” ricordò all'improvviso, afferrandolo dal porta bevande al suo fianco e tendendolo nella mia direzione. “Cappuccino con panna.”
“Sei troppo buona con me” mormorai, ancora incredula.
“Non sia ridicola, miss Robbins, nessuno potrebbe mai essere troppo buono con lei. Si merita ben più di una ciambella ed un caffè.”
Sentii una stretta al cuore. Aveva speso i soldi della sua colazione per portarla a me? Solo perché ero troppo testarda per vedere mia madre di mattina il tempo necessario da versarmi una tazza di caffè?
“Ti va di fare colazione insieme, da domani mattina?” buttai lì casualmente, addentando la ciambella. “Potrei scendere qualche minuto prima e così mi faresti compagnia. Potremmo fermarci al bar all'isolato prima dell'università, prendere un caffè.”
“Come preferisce, signorina.”
Io rimasi in silenzio, osservando il caffè tra le mie mani, mangiando la ciambella che mi aveva portato.
“È incredibile come riesci sempre a sorprendermi, Calliope. Anche con il più piccolo dei genti. Non pensavo che niente potesse più riuscirci, ormai.”
“Ne sono felice, miss Robbins.”

La colazione insieme diventò ben presto un rituale mattutino. Lei prendeva sempre solo un caffè, quindi era stato facile convincerla a lasciarmi pagare.
“Indossi sempre la stessa divisa. È stato mio padre a sceglierla?”
“Sì, miss Robbins.”
“Quante te ne ha comprate?”
“Quattro. Ma una l'ho lasciata da parte, se mai una delle altre si rompesse.”
“È troppo cupa. Pantaloni e giacca neri, camicia bianca, troppo classica. Non è per niente nel mio stile.”
Lei rise, aprendo la portiera dell'auto per me.
“Guidare con un vestito da sera non sarebbe il massimo per la sua sicurezza, temo.”
“Ma sarebbe il massimo per i miei occhi” mormorai, salendo.
“Prego?”
“Niente.”
Lei, con un sorrisetto consapevole, richiuse la portiera, accomodandosi nel sedile anteriore.
Non mi piaceva più essere confinata sul retro. Non quando significava che non potevo più vederla, una volta che eravamo salite in macchina.
“Credo di essere dipendente da questo caffè. È spettacolare, il più buono della città” osservò.
“Fidati Calliope, tu non sai cosa significa essere dipendenti da qualcosa” le dissi con leggerezza, ridendo.
“E lei lo sa, miss?” domando ridendo di cuore.
Io sorrisi appena della domanda così casualmente tirata nella mia direzione.
“Chi ha una dipendenza è intelligente, è furbo, tiene sempre d'occhio la situazione. Sa esattamente cosa ha preso, quanto e quando e sa che lo farà di nuovo, quando e quanto. Conta le ore, i minuti, conta e non fa altro. Tutto il resto, mangiare, dormire, diventano solo cose fatte per non morire nel frattempo, per arrivare alla fine del conto alla rovescia che stai tenendo con te stesso. La cosa divertente è che è impossibile da vedere. Diventa così paranoico, chi ha bisogno di qualcosa al punto da sviluppare una dipendenza, che fa di tutto per nasconderlo, perché ha troppa paura di perderlo. E ci riesce, ci riesce così bene che nessuno potrebbe mai accorgersene. Se non sai che c'è un problema, se non sai cosa e dove cercare, scoprire una dipendenza è impossibile. Questo è il bello, il problema non si vede, non esiste finché qualcuno non lo scopre, ma a quel punto è troppo tardi. Sia che ad accorgertene per primo sia tu o qualcun altro, è troppo tardi. È già lì, è già troppo forte, ti sta già trascinando a fondo. La caduta diventa inevitabile. Tanto inevitabile che non ci provi neanche a smettere, continui a cedere, ripetendoti che è l'ultima volta, quando sai benissimo che non è vero. Vai avanti finché la verità non viene alla luce. O finché tu sparisci nelle tenebre.”
Non potevo vedere il suo viso, ma percepivo la sua perplessità.
“Mi scusi, miss Robbins. Non volevo essere invadente.”
“Non lo sei stata. Non avrei risposto se non avessi voluto farlo, Calliope.”
Lei si voltò appena, gli occhi sempre sulla strada, pronta per dire qualcosa. Ma non parlò.
“Qualche volta ho bisogno che qualcuno sia invadente. Nessuno lo è mai, con me. Nessuno sa niente su chi sono davvero, nemmeno le persone che mi stanno più vicine.”
“C'è un problema da cercare, signorina?” si decise a chiedere.
“Non preoccuparti per me, Calliope. Non c'è niente che non sia come deve essere.”
“Ma, miss Robbins, io non faccio altro. Non faccio che preoccuparmi per lei ogni volta che arriva con due minuti di ritardo. È il mio lavoro.”
“Il tuo lavoro è guidare. Non tenerci. Ma tu ci tieni ed è una cosa che mi piace di te. E continuerà a piacermi anche quando smetterà di importarti di me, quando capirai che non ne vale la pena.”
“Lei si sottovaluta, miss Robbins. Dice sempre che sono troppo buona con lei o che non se lo merita, qualsiasi cosa faccia, anche il gesto più piccolo, e anche quando non lo dice so che lo sta pensando. Ma io faccio l'autista di mestiere, lei un giorno sarà un grande medico, laureata alla Hopkins, farà grandi cose.”
“Posso confessarti una cosa?”
“Spari.”
“Tra trent'anni non mi ricorderò il nome di più di metà delle persone nella mia classe, ma mi ricorderò di quella prima mattina in cui mi hai portato la mia ciambella preferita, Calliope.”
Lei mi guardò attraverso lo specchietto e, dopo un attimo di sorpresa, sorrise.
“Grazie, miss Robbins.”

La vidi sorridere appena aprii la porta dell'edificio. Mi stava già aspettando.
“Miss Robbins” mi salutò.
“Da quanto ci conosciamo, Calliope?” le domandai, accettando la mano che mi porgeva e salendo mentre lei teneva aperto lo sportello.
“Più o meno un anno, miss Robbins.”
“Più o meno” concessi. “Sai, le persone che conosco da così tanto mi chiamano Arizona.”
“Non mi permetterei mai” si affrettò a dire, accendendo il motore.
“Stamani andiamo a casa di Teddy” mormorai, sporgendomi verso di lei. “Ha detto che stava preparando la colazione, ha insistito perché ci unissimo a lei.”
“Perfetto, signorina Robbins.”
Le era forse sfuggito il plurale nella mia frase?
Guidò fino all'appartamento di Teddy, parcheggiando alla fine dell'isolato.
“Andiamo” la incoraggiai.
Lei scese dalla macchina, richiudendola e guardandomi con un sorriso impacciato. Il sorriso impacciato più affascinante del mondo.
“Spero che ti piaccia anche il salato, per colazione. Di solito Teddy esagera, con queste cose. E ti avverto che dirle che non hai più fame, non funzionerà” la avvertii mentre ci avvicinavamo all'ingresso dell'edificio.
Solo allora la vidi corrugare la fronte.
“Pensavo di doverla aspettare nell'atrio.”
Scossi la testa. “Sono mesi che non aspetti più Calliope, vieni sempre con me, no? Sei sempre al mio fianco.”
“Ma stavolta ci sarà Teddy. Non ha bisogno della mia compagnia.”
“Non ne ho mai bisogno. È solo che la tua compagnia mi piace così tanto che non vedo perché dovrei privarmene. E poi, Teddy ha invitato entrambe.”
“Non ci credo neanche per un momento, miss Robbins.”
“Aspetta e vedrai.”
Quando bussai all'appartamento, Teddy aprì dopo un paio di minuti.
“Siete arrivate. Entrate, mia madre ci ha preparato la colazione. Callie, finalmente ti vedo anche fuori dalla BMW” ci salutò, abbracciando prima me e poi lei, cogliendola alla sprovvista. “Spero che vi piacciano le uova strapazzate. Sono il piatto del giorno.”

“Allora, ci ho pensato e, per quanto mi sarebbe piaciuto da morire poter frequentare medicina insieme, così è anche meglio” iniziai, sporgendomi come sempre nella sua direzione. “Sì, perché non dovrai comprare i libri, potrai usare i miei. È un passo avanti, Calliope, giusto?”
Lei mi sorrise, voltando appena la testa di lato e tenendo gli occhi sulla strada.
“Sarebbe fantastico, miss Robbins.”
“Certo, avrei preferito essere nella stessa classe. Avremmo potuto preparare tutti gli esami insieme, io, te e Teddy. Ci saremmo divertite un sacco.”
“Non penso che io, lei e Teddy avremmo studiato molto, insieme.”
“Ma è proprio quello il bello del college, Calliope.”
Lei sospirò, fermandosi alla luce rossa di un semaforo e voltandosi verso di me con un mezzo sorriso.
“Il prossimo anno, magari, miss Robbins.”
Ricambiai il sorriso tirato.
“Già. Il prossimo anno” mormorai. “Vedrai, Calliope, userai i miei libri e ti aiuterò a studiare, se lo vorrai. Andrai alla grande, lo so.”
Riprese a guidare, senza rispondere.
Odiavo quando lo faceva, lo odiavo. Non riuscivo a capire quello che pensava, se non mi parlava, perché non potevo vedere i suoi occhi.
“Accosta.”
“Come?”
“Accosta, per favore.”
Lei fece come richiesto, accostando la macchina e mettendo le quattro frecce.
“Si sente bene, miss Robbins? Questo è un posto pericoloso in cui sostare, forse è meglio...” smise di parlare quando mi vide scendere dalla macchina. Si voltò con aria confusa, vedendomi rientrare nel posto del passeggero anteriore. “Che sta facendo?”
“Non voglio più che mi porti in macchina” ammisi. “Voglio solo stare in macchina insieme a te.”
Mi rivolse un sorriso piccolo, ma così tenero.
“Lei è davvero speciale, miss Robbins.”
Sospirai, studiando il suo profilo mentre mi allacciavo la cintura.
“Allora, come posso convincerti a chiamarmi Arizona?”
Rise, ma non rispose.

Aprii lo sportello dal lato del guidatore, porgendole una mano. Lei corrugò la fronte, fissando la mia mano tesa come se ci fosse stato un unicorno sopra.
“Che sta facendo, signorina?” domandò, accettando però la mano ed uscendo dalla macchina.
“C'è una festa, stasera. Ci sarà un sacco di gente, tutti ragazzi della nostra età” le spiegai, mentre, senza lasciare la sua mano, la trascinavo verso l'edificio in cui abitavo, a una decina di metri di distanza. “Ci saranno i figli degli amici dei miei genitori e mia madre vuole che mi faccia almeno vedere.”
“Oh, vuole che l'aiuti a scegliere un vestito?”
La guardai come se fosse pazza, conducendola all'interno e, fermandomi davanti agli ascensori, premetti il pulsante di chiamata.
“Ti prego, Calliope. Io sono nata con addosso un vestito, il trucco e dei tacchi alti sette centimetri, non scordartelo mai.”
“Allora cosa stiamo facendo?” domandò salendo sull'ascensore dopo di me.
La guardai di nuovo, rivolgendole un sorriso enigmatico e premendo il pulsante per l'attico.
“Miss Robbins, i suoi silenzi non mi piacciono. Ha in mente qualcosa di pericoloso, posso praticamente percepire i suoi pensieri fluttuarmi attorno.”
Ridendo, la trascinai dentro l'appartamento e verso camera mia. Quando fummo all'interno la feci fermare al centro, facendo poi un passo avanti ed aprendo l'immenso armadio davanti a noi.
“Scegli un vestito, Calliope. Sarai il mio appuntamento di stasera” le annunciai. Poi mi resi conto della scelta di parole. “In un senso amichevole e totalmente platonico, per niente romantico del termine” le rivolsi un sorriso corredato di fossette.
Lei guardò prima me e poi l'armadio, poi di nuovo me.
“Miss Robbins, sarei tra tutti i suoi amici” la sua voce aveva il tono di una supplica. “Non sarei a mio agio, e lei merita un'accompagnatrice molto più degna di lei.”
Io inclinai la testa leggermente di lato.
“Non ho una scelta, non è vero?” domandò con un sospiro dopo aver notato la mia espressione.
Scossi la testa, sentendo i miei ricci muoversi in sincronia con il mio segno di negazione.
Lei sospirò. “Dove ha detto che è questa festa?”
“Nel locale all'angolo vicino al posto in cui prendiamo sempre il caffè insieme.”
La vidi corrugare la fronte. “Ci saranno parecchie persone che conosco, lì, stasera.”
“E allora? Ti vergogni di me?”
“È lei che dovrebbe vergognarsi di me. Io sono la sua autista, miss Robbins.”
Scossi la testa, prendendole una mano e facendo un passo verso di lei.
“Bassa priorità.”
“Come, scusi?”
“Ha una bassa priorità nella lista, Calliope. Nella lista delle cose che sei. È una lunghissima lista, prima di autista c'è un'infinità di altre cose. Sei bellissima, latina, futuro medico, gentile, premurosa, affascinante, più alta di me – cosa che suscita la mia invidia, sappilo. Sei mia amica. Tu sei Calliope” lo dissi come se fosse l'aggettivo più eloquente del mondo. Come se, con una parola, fossi riuscita a spiegare tutto. “Ma neanche queste cose importano, perché ce n'è una che conta molto, molto di più, in cima a quella lista e fa sì che tutte le altre non siano importanti.”
“Sentiamo allora” mi sfidò, sorridendo. “Che cosa sono?”
Io la guardai, l'aria seria.
“Una persona. Questo significa che conti e che conterai sempre qualcosa, che dovresti essere trattata come tale, rispettata. Amata. Sei un essere umano, pregi e difetti, come tutti noi.”
Ricambiò silenziosamente il mio sguardo, tornando seria a sua volta. Intensificò la stretta sulla mano con cui stavo ancora tenendo la sua.
“Quindi” sospirai “scegli un vestito” feci un gesto in direzione dell'armadio. “O non sceglierlo, non importa. Sei perfetta anche così, con questa giacca addosso” non allontanai gli occhi dai suoi neanche mentre afferravo con la mano libera dalla sua presa un lembo della suddetta giacca.
Lei coprì la mia mano con la sua, stringendosela contro il cuore.
“Facciamo così” propose. “Scelga lei un vestito per me, miss Robbins.”
Io le sorrisi, le fossette in piena vista. “Quindi verrai alla festa con me?”
“Verrò alla festa, sì.”
“Allora devi per forza chiamarmi per nome. Sarebbe strano il contrario.”
Mi allontanai da lei, scegliendo un vestito dall'armadio, uno nero che sapevo le sarebbe stato benissimo. Glielo porsi e le indicai il bagno in cui poteva cambiarsi. Mentre lo faceva, le scelsi delle scarpe ed una borsa abbinate.
“E non preoccuparti, Calliope. Prometto di comportarmi bene e non provarci con te” risi della mia stessa battuta, voltandomi per vederla uscire dal bagno. La risata mi morì in gola. Deglutii. “Beh, me lo rimangio. Posso tentare di trattenermi, ma non faccio promesse” le dissi, cercando di riprendermi porgendole le scarpe e la borsa che avevo scelto per lei.
Notai che era arrossita incredibilmente.
“Mi cambio e poi andiamo. Dieci minuti significa arrivare elegantemente in ritardo, un'ora significa maleducazione.”
Mi sorrise, aspettando che mi cambiassi. Quando uscii dal bagno, già truccata, la trovai a percorrere nervosamente la stanza.
“Ti sei rimessa le scarpe da tennis? Non puoi venire con quelle” le sorrisi.
“No, mi servono solo per guidare. Le cambierò prima di scendere, promesso” si affrettò a chiarire, come se pensasse che potessi prendermela per una cosa del genere.
Io scrollai le spalle. “Stavo scherzando, Calliope. Se i tacchi sono un problema, possiamo cambiare.”
“No, non è quello. È solo che...Miss Robbins-”
“Arizona.”
“-è davvero sicura di volere me come accompagnatrice? Voglio dire...me? Io sono davvero imbranata con queste cose e lei, si guardi, è bellissima.”
“Anche tu” risposi a voce bassa. “Perché non vuoi venire?” chiesi, un po' rattristata.
“Perché cosa potrei mai portarle di buono, io? Lei merita il meglio, miss Robbins. E, se non l'ha ancora capito lasci che glielo dica, il meglio non sono io. Non mi ci avvicino nemmeno. Non vado bene per lei.”
“Sei perfetta per me. Ai miei occhi, tu sei” le parole mi sfuggirono prima che riuscissi a rendermene conto. “Sei perfetta. Vorrei che vedessi quello che vedo io.”
“Come posso essere perfetta? Sono un disastro, sono al verde, vivo nella casa dei miei zii perché i miei genitori non vogliono più parlarmi. La mia vita è un casino.”
“Ok, quindi forse non sei perfetta. Forse sei solo umana, ma indovina un po'? Anche io sono solo umana, lontana dall'essere perfetta. Ma se tu pensi di poterci convivere, io so che posso.”
“Miss Robbins-”
“Arizona.”
“-ne è davvero sicura?” domandò ancora una volta.
Io sollevai la mano destra, mostrandole alcuni trucchi.
“Se vuoi posso pensarci io” proposi, vedendola esitare. Non l'avevo mai vista indossare del trucco, se non forse un po' di eyeliner.
“Credo sia meglio” annuì.
Le rivolsi un sorriso, facendole cenno di sedersi sul letto.
Dieci minuti più tardi ci incamminammo verso la macchina, io con i suoi tacchi in una mano ed entrambe le nostre borse nell'altra, lei con i suoi vestiti. Appoggiai tutto nei sedili posteriori e salii davanti con lei. Ormai non salivo più dietro, la vista da lì mi piaceva di più.
“Allora, chi è tutta questa gente che conosci che sarà lì stasera?”
Lei mi lanciò un'occhiata di sottecchi.
“La mia migliore amica sarà lì. Addison Montgomery.”
“Whoa. Questa non l'avevo vista arrivare. Tu e Addison?”
“So che la conosce.”
“Sì, e molto bene anche. Lei e Teddy sono molto unite, usciamo spesso insieme. Credo di averti anche parlato di lei, qualche volta.”
“Sa che lavoro per lei. Le ho solo chiesto di evitare l'argomento. Non volevo che fosse un problema, per nessuna delle due.”
“Chi altro?”
“Mark dovrebbe essere lì.”
“Mark Sloan? Oh, Calliope, dimmi di no” osservai la sua espressione, mentre guardava verso il finestrino alla sua sinistra per evitare il mio sguardo. Risi, non riuscendo a trattenermi. “Non posso crederci, tu e Sloan avevate una cosa?”
“Una piccola cosa, un'estate di un sacco di tempo fa. Una piccolissima cosa. Talmente piccola che è come se non fosse mai successa.”
“Non dirmelo. È stato il tuo primo.”
Arrossì quasi oltre l'inverosimile. Io ricominciai a ridere.
“Ok, la smetta di prendermi in giro, la prego.”
“Non sto ridendo di te, rido di me” le spiegai, voltando la testa verso di lei. “Mai in un milione di anni, Calliope, giuro che mai avrei pensato di poter invidiare così tanto Mark Sloan. Quel fortunatissimo bastardo.”
Lei arrossì ancora di più, scuotendo la testa. “Non è stato il mio primo ragazzo” puntualizzò. “Ma è stato il mio primo bacio.”
Io le sorrisi. “Venivi spesso a trovare i tuoi zii anche prima, allora?”
“Molto spesso, sì.”
Rimasi a guardarla in silenzio, lasciando che guidasse.
“Calliope?”
“Sì?”
“Cosa c'è nella mia lista?”
“Cosa?”
“Nella mia lista. Nella lista di cose che sono per te, quanto è in alto la voce 'figlia dell'uomo che firma gli assegni del mio stipendio'?”
Lei sospirò, guardandomi per un istante.
“Non c'è sulla lista” mormorò, riportando gli occhi sulla strada. “C'è mozzafiato e bellissima, c'è intelligente, divertente, riservata, testarda, carina con le persone a cui tiene, c'è il sorriso con le fossette e c'è difficile, c'è perfino un punto che dice 'assolutamente proibito contaminare', ma 'figlia del mio capo' non c'è.”
“Che significa 'proibito contaminare'?”
“Significa che non devo mai lasciare che la mia infelicità la renda infelice” rispose dopo un momento di esitazione.
“Non mi hai mai reso altro che felice, Calliope.”
Dopo aver posteggiato ed essersi cambiata le scarpe, mi guardò e chiese ancora una volta se ne fossi sicura. Io le sorrisi, rispondendole solo: “Non muoverti” per poi fare il giro della macchina ed aprire la sua portiera, tendendole la mano per la seconda volta quel giorno.
Era una festa di quelle con champagne e tartine. Non il mio genere preferito di festa, ma, per una serata con Calliope, potevo decisamente accontentarmi.
La prima persona che incontrammo fu Teddy, ci stava aspettando fuori.
“Cavolo, sei bellissima.”
“Neanche tu stai tanto male” la presi in giro.
“Io parlavo con Callie.”
“Ouch” finsi di essere risentita delle sue parole, voltandomi verso la donna al mio fianco. “Eppure, non posso darti torto” risposi distrattamente.
“Vedo che il piano di Arizona ha funzionato.”
“Piano?” chiese la mora.
“Sì, ha rifiutato ragazze per tutta la settimana, continuando a dirmi testardamente che sarebbe venuta a questa festa con te o non ci sarebbe venuta affatto.”
Io, lanciandole un'occhiataccia, mi mossi verso la porta di ingresso. Calliope fu veloce ad aprirla per me. Mi fermai per un istante, guardandola.
“È la prima volta che qualcuno apre una porta per me senza essere pagato per farlo. Continui a sorprendermi.”
“Lei è facile da sorprendere” ritorse con un sorriso.
“Il fatto è che davvero non lo sono” ritorsi, precedendola all'interno. “Sembri un po' nervosa.”
“Mi dispiace. Non sono esattamente nel mio elemento, qui.”
“Non preoccuparti, ok?” le rivolsi un sorriso calmo. “Facciamo solo un giro veloce di saluti e poi possiamo andare.”
“Non si preoccupi, davvero miss Robbins, possiamo rimanere quanto vuole. Di solito torna molto più tardi a casa.”
“Non ho detto che saremmo andate a casa. Ho detto che saremmo andate via.”
Lei mi guardò con un cipiglio confuso.
“Hai fatto cena?”
Scosse la testa negativamente.
“Nemmeno io. Pensavo che magari potrei portarti a cena fuori. Amichevolmente” aggiunsi ancora una volta. “Totalmente non romantico. Solo una serata diversa dal solito.”
Stava per replicare quando una voce ci distrasse.
“Callie?” Addison Montgomery ci si avvicinò, l'aria confusa. “Non sapevo che saresti venuta” la salutò, abbracciandola.
“Nemmeno io” ritorse lei, un po' in imbarazzo.
“Ho insistito” intervenni. “Ho insistito molto. Ora che ci penso, credo di averla obbligata. Non avevo un'accompagnatrice” offrii come spiegazione.
“Ma se hai rifiutato ragazze per tutta- Cosa?” domandò vedendo Teddy scuotere in modo non così sottile la testa.
Io afferrai due bicchieri di champagne da uno dei camerieri, offrendone uno alla donna al mio fianco.
“Non dovrei bere. Per via della macchina.”
Il mio sorriso non si spostò di un millimetro.
“Hai ragione. Me ne farò lasciare una bottiglia da parte, allora. Dovresti assaggiarlo, lo champagne qui è sempre ottimo.”
Lei mi guardò di nuovo con il suo sguardo 'non ce n'è bisogno', ma io la ignorai, porgendo il bicchiere che avevo in mano a Teddy, che lo accettò volentieri.
Rimanemmo per circa mezz'ora, io feci quello che dovevo e salutai i figli degli amici dei miei genitori. Poi, veramente stufa di quella noia, le chiesi se le andava di uscire da lì.
Annuì, cercando di non sembrare troppo grata di sentirmelo dire.
“Allora, dove vuole andare a mangiare?”
Io ci pensai per un momento, guardando fuori dal finestrino. Improvvisamente, l'illuminazione arrivò.
“Qui.”
“Qui?” chiese confusa.
Le indicai l'insegna rossa alla mia destra. “Proprio qui.”
Lei rise, pensando che scherzassi. Poi vide l'espressione di sfida nei miei occhi.
“No, non me lo dica. Non è mai stata al McDonald, miss Robbins?”
Io scossi la testa, negativamente.
“Beh, dobbiamo rimediare. Assolutamente” decise, assecondando il mio desiderio di fermarci.
Eravamo vestite un po' troppo eleganti per quel posto. Ci sedemmo ad uno dei tavoli e mi trovai davanti il più grande panino che avessi mai visto.
“Non sono più così sicura che lasciarti ordinare sia stata una buona idea.”
“Si fidi, miss Robbins, le piacerà.”
“Voglio chiedere quante calorie ci sono qui dentro?” chiesi, indicando la confezione.
“No, assolutamente no. Mangi e basta, non ci pensi.”
Io scrollai le spalle, rassegnata al mio destino. Sollevai il panino e ne presi un morso.
“Cavolo, ma è buonissimo.”
“Questo è proprio il motivo per cui non deve chiedersi quante calorie contiene. Non lo faccia mai con cose che sono troppo buone, perché la risposta non le piacerebbe.”
Addentai alla svelta un altro morso. La vidi sorridere a prendere un fazzoletto.
“È davvero, davvero carina” mi disse, togliendomi della maionese dalla punta nel naso “miss Robbins.”
“Calliope, siamo in un fast food, il vestito che stai indossando costa quasi quanto la BMW che guidi e io non ho fatto altro che pensare a quanto sei bella per tutta la sera. Chiamami Arizona e basta, ok?”
Lei rimase ferma per un momento, pensando alle mie parole.
“D'accordo” acconsentì alla fine. “Il vestito non costa davvero quanto una macchina, però, vero?”
“No, certo che no” le sorrisi in modo rassicurante, pensando che in fondo le stavo mentendo a fin di bene. Mi rivolse uno sguardo scettico. “Facciamo così, io non chiedo le calorie di quello che mangiamo, tu non chiedi il prezzo di quello che ti offro.”
Mi guardò negli occhi per un lungo istante. “Affare fatto, Arizona.”
Io sorrisi come un'idiota quando le sentii pronunciare il mio nome per la prima volta.
Mi riaccompagnò davanti all'edificio.
“Restituirò il vestito appena sarà lavato.”
“Non farlo lavare, non ce n'è bisogno.”
“Ma-”
“Profumerà di te” spiegai con semplicità. “Posso indossarlo e, anche se per una volta soltanto, profumerà di te.”
Lei, a corto di parole, mi prese delicatamente una mano, portandosela alle labbra. I miei occhi si illuminarono.
“Giuro, mi sono appena sentita come una principessa.”
“Anche questa era una prima volta?” domandò.
Io annuii. “Nessuno è mai stato così gentile con me, prima che incontrassi te.”
“Il mondo è un posto molto ingiusto, perché dovresti avere qualcuno che ogni giorno ti faccia sentire come una principessa. Ed è...” si bloccò.
“Cosa?” la guardai negli occhi, divertita dalla sua espressione dolce.
“È la prima voce. In cime alla lista, c'è principessa” confessò, baciando di nuovo la mano che stava ancora tenendo e poi sparendo nel buio della notte.

“Come mai i tuoi genitori non ti parlano più?”
Scrollò le spalle. “Ho detto loro che stavo con una ragazza. Mi hanno completamente tagliato fuori da tutto.”
Io fui presa in contropiede da quella confessione.
“Perché non hai mentito?”
“È il mio turno” mi fece notare con un sorriso. Ma poi vide il mio sguardo serio. “Non volevo farlo. Non volevo mentire. Volevo che fossero pronti, se un giorno avessi fatto conoscere loro l'amore della mia vita, che avessero potuto accettarlo o accettarla indipendentemente. Avrei voluto che riuscissero a capire che ero ancora io.”
“Ma non ci sono riusciti” conclusi per lei.
“No. Ma va bene comunque, presumo. Non sarei qui se loro non mi avessero cacciato via. Quindi forse questo è il posto in cui sono destinata ad essere.
Sorrisi, osservandola guardarmi di sottecchi. “È il tuo turno.”
Rimase in silenzio per qualche istante, giocando con le chiavi che aveva in mano. Eravamo sedute dentro la BMW, fuori da un negozio in cui non avevo nemmeno più voglia di entrare, mi bastava stare lì, con lei.
“Chi era la persona con una dipendenza? C'era qualcuno, vero?”
Il mio sorriso sparì lentamente. Era difficile parlarne, anche dopo anni che era successo. Non era una delle storie che mi piaceva raccontare.
“Era mio fratello.”
Corrugò la fronte. “Non sapevo che avessi un fratello.”
“Ce lo avevo” sospirai. “È morto per un'overdose. Cocaina. Avevo sedici anni.”
Prese immediatamente la mia mano, così sorpresa dalle mie parole che non riuscì neanche a pronunciare la frase scritta sulla sua faccia. Le dispiaceva per me.
“Mia madre ha incolpato mio padre, mio padre ha incolpato mia madre, hanno divorziato. Era il mio migliore amico. Era tutto quello che avevo, l'unica persona che mi conosceva davvero.”
“Mi dispiace così tanto.”
“Non è colpa tua. Così come non è colpa mia, o dia madre, o di mio padre. Ci ho messo un sacco di tempo, ma l'ho comunque capito prima di loro. La colpa era di Tim. Era una persona forte, sai? Ma non è riuscito ad esserlo quando contava davvero. Si è lasciato condizionare, si è fatto trascinare a fondo. Una volta, dopo essere entrato in riabilitazione, mi ha detto che quelle erano le sue ali, che lo facevano volare. Invece era la sua ancora. La ho portato giù e alla fine lo ha fatto annegare.” “Tu hai mai...”
“No. Sarebbe stato stupido fare lo stesso errore solo per capirlo meglio. La verità è che non lo capirò mai. Non capirò mai perché ha deciso di lasciarci così presto. Aveva ancora un sacco di cose che lo aspettavano. Ma ha preferito rinunciarci.”
Accarezzò la mia mano con la sua, lasciando che fossi pronta per rompere il silenzio, aspettando una mia parola che non arrivò mai.

Ero seduta sul cofano della macchina. Lei era in piedi davanti a me, le chiavi nella mano destra ruotavano ritmicamente attorno al suo indice.
“Mi stai guardando in modo strano” buttò lì casualmente.
Mi aveva portato in un posto isolato, uno che solo lei sembrava conoscere.

“Sto cercando di decidere se mi hai portato qui per uccidermi o no.”
Lei rise, avvicinandosi di un paio di passi.
“Perché dovrei ucciderti? Passo con te la maggior parte del mio tempo, mi annoierei a morte se tu non ci fossi.”
Mi spostai in avanti, facendole cenno di avvicinarsi.
“Mi stai ancora guardando strano” osservò, facendo però ciò che le stavo chiedendo.
“Ho aspettato più di un anno, Calliope. E forse ho aspettato troppo. Avrei dovuto dire qualcosa prima, vero?” domandai, sentendo una nota di tristezza far tremare la mia voce. “Avrei dovuto dire qualcosa appena ho iniziato a sentire le farfalle allo stomaco ogni volta che mi stavi vicina, o che il cuore mi batteva all'impazzata quando alzavi gli occhi verso lo specchietto retrovisore e incontravi i miei.”
“Arizona...”
“No. Lo so. Non puoi farlo, perché questo lavoro è tutto quello che hai, quello che ti permetterà di andare al college, la tua più grande speranza di avere quello che vuoi. Questo lavoro-”
“Questo lavoro non vale quanto te.”
La sua risposta mi spiazzò.
Si avvicinò ancora, sedendosi accanto a me e sospirando.
“E neanche io.”
“Non essere ridicola.”
“Non lo sono, sono onesta” rispose, voltando la testa di lato per guardarmi. “Pensa al futuro che vuoi, Arizona. Potrei mai riuscire io a dartelo?”
“Certo che ci riusciresti, perché non dovresti? Sarai un medico, un bravo medico e...”
“Non sarò un medico” mi fermò. Io scossi la testa ostinatamente, ma lei si allontano di nuovo dal cofano e si mise davanti a me, prendendo le mie mani tra le sue e cercando i miei occhi. “Io non sarò un medico, Arizona.”
“No, certo che lo sarai, Calliope, devi soltanto” scossi di nuovo la testa. “Dobbiamo soltanto trovare un modo.”
Lasciò le mie mani per prendere il mio viso. “Dicevo sul serio, questo lavoro non vale quanto te, per me” ripeté, accarezzando le mie guance mentre io alzavo gli occhi su di lei e le permettevo di avvicinarsi a me ancora di più, in senso sia metaforico che letterale.
“Mi sento come se fosse colpa mia” confessai in un sussurro. “Se il tuo destino era venire qui, per incontrare me? Se io ero il tuo destino ed hai dovuto litigare con la tua famiglia solo per poter trovare me? Ci hai mai pensato che allora è colpa mia se il tuo sogno non diventerà realtà?”
“Arizona” pronunciò il mio nome con una risata, facendomi alzare il viso verso i suoi occhi. “Se il mio destino sei tu, tanto meglio per me. Se non sarò mai un medico, non importa. Certo, quello lì era un bel sogno, un ottimo sogno, ma le cose non vanno come vorremmo. Mai. Questo è quello che sono adesso. Un'autista. Forse è quello che sarò per il resto della mia vita. Io sono un'autista e tu sei una principessa. Ma se puoi accontentarti, se posso andarti bene anche così, allora sono disposta a fare un tentativo.”
“Accontentarmi? Calliope, tu sei la cosa migliore che sia mai stata mia. Non solo mia autista, ma mia amica, mia complice, mia persona cara. Sei la cosa migliore che io abbia mai avuto il privilegio di toccare.”
“Se cambi idea-”
“Non lo farò.”
“Se cambi idea in un qualsiasi momento, io lo capirò.”
“Non lo farò” ripetei, alzando il viso verso il suo e chiudendo gli occhi.
Non mi deluse, non mi fece aspettare molto. Un istante dopo sentii le sue labbra morbide posarsi contro le mie nel più delicato dei baci. Mi stava davvero trattando come una principessa.
“Non sarà facile, non ti mentirò, lo sai” sussurrò. “Non ci saranno regali e ristoranti costosi, non ci sarà champagne. Al massimo posso permettermi la pizza.”
“Perfetto. Perché amo la pizza” risposi, cercando nuovamente le sue labbra con le mie.

Si fermò e spense il motore, sospirando. Avevo tenuto la mano appoggiata sulla sua per tutto il tragitto. Ero così felice, mi sentivo come se stessi volando.
“Sembri felice.”
“Per merito tuo” risposi, un sorriso fermo al suo posto. “Tu sembri nervosa, invece. E se la cosa non rende felice anche te, non ha senso.”
“Sono al settimo cielo. Ma ho paura. Potrei perderti così facilmente...”
“Lo so. Potrei perderti anche io. Credo che dovremo imparare a vivere con la paura, però, perché io non ti lascio andare.”
Quello la fece sorridere.
“A domani” sussurrò.
La baciai velocemente sulle labbra. “A domani.”

Il cambiamento avvenne gradualmente nel corso del mese successivo.
Camminavamo per strada mano nella mano. Quando guidava, la mano destra ogni tanto trovava la mia e la stringeva finché non era costretta a spostarla di nuovo. Io appoggiavo la testa sulla sua spalla solo per respirare il suo profumo, quando mi accompagnava a casa rimanevamo per ore in macchina a parlare, ormai quasi non salivo più in camera se potevo evitarlo.
Ci comportavamo sempre più da coppia.
Così una sera presi il coraggio a quattro mani e glielo feci notare.
“È questo che siamo io e te?” domandò, la mano sinistra sul volante. “Una coppia?”
“Penso di sì, se è quello che vuoi.”
“Tu cosa vuoi?” domandò con la sua tipica gentilezza.
“Io voglio te.”
La vidi sorridere e un po' arrossire. “Bene. Allora siamo una coppia.”
Eravamo ferme davanti all'isolato da più di mezz'ora, buona parte del tempo lo avevamo passato a baciarci. Così, mi decisi a scendere. Lei, come sempre, fece lo stesso per accompagnarmi fino al portone.
“Vuoi salire?” domandai, sorprendendo perfino me stessa con la calma nella mia voce.
“La signora Robbins non sarà a casa a momenti?”
Guardai l'orologio che avevo al polso. “Aveva una cena. Non dovrebbe tornare prima di mezzanotte, ma non mi ha dato un vero e proprio orario, quindi non ne sono sicura.”
Lei sembrò persa in un pensiero quasi inafferrabile, per un momento. Poi ci arrivai.
“No, non è quello che sto facendo. Non voglio farla arrabbiare. Ma te l'ho detto, non ho idea di quando potrebbe tornare, non voglio mentirti. Potrebbe addirittura essere già a casa” le dissi onestamente. “Vorrei solo...Vorrei un po' di tempo in più con te, tutto qui.”
Lei annuì. “Lo so. Non è quello che stavo pensando.”
Cercai altri possibili motivi della sua indecisione, ma non me ne vennero in mente molti. Solo uno, in realtà.
“Calliope, senti” sospirai. “So di non essere una santa, ma non sono neanche-”
“Non è quello” mi bloccò. “E non mi importa. So che hai un passato, tutti hanno un passato. E sì, se avessi avuto le cose a modo mio, ti avrei incontrato un sacco di tempo fa. Ma non è successo e va bene. Sei sempre la mia principessa” prese una ciocca dei miei capelli tra le dita.
“E allora cos'è?”
Scrollò le spalle. “Voglio aspettare che tu sia sicura che è quello che vuoi. Non voglio rovinarti, non voglio...'contaminarti' con la mia infelicità. Stai andando così bene, Arizona, non spendi più soldi per dei vestiti che non metteresti mai, niente più ragazze, niente più feste se il giorno dopo hai scuola, hai diradato le uscite durante i fine settimana. Non voglio essere io a rovinare tutto, non voglio causarti problemi. Sei così speciale, ho sempre saputo che lo eri. Ora che finalmente stai iniziando a vederlo anche tu, io non voglio rovinarlo.”
“Hai ragione. Sto iniziando a vederlo anche io, sai come? Grazie a te. Perché tu mi hai ripetuto che ero speciale, ma non bastava, no. Me lo hai dimostrato ogni giorno, con dei gesti così piccoli e così straordinari, che hanno riportato la mia vita nella giusta prospettiva. Nella giusta proporzione. Ora so di nuovo cosa è grande, cosa è piccolo, cosa merita e cosa è stupido. E so che tu sei importante, tu sei la cosa più importante” mi alzai in punta di piedi e la baciai sulle labbra. “E non importa, possiamo aspettare tutto il tempo che vuoi. Promettimi che non te ne andrai e basta, del resto non mi importa.”
“Te lo prometto. Sarò al tuo fianco ogni giorno.”
Mi strinse ed io la lasciai fare, respirando il suo profumo e lasciando che il ritmo del suo cuore cullasse le mie paure fino a farle addormentare e, finalmente, tacere.

La mattina dopo uscii dall'edificio insieme a mia madre. Calliope aprì la porta posteriore, sorridendo gentilmente mentre entrambe salivamo sulla macchina.
“Come stai, Callie?”
“Io bene, signora Robbins. Lei come sta?”
“Benissimo, ti ringrazio.”
Iniziò a guidare per le strade di Baltimora, verso l'ufficio di mia madre.
“Mi ero quasi dimenticata, è arrivato il resoconto della tua carta di credito ieri. Sono colpita.”
“Questa è la prima volta che te lo sento dire senza un'intonazione negativa, credo.”
“Dico sul serio, le spese si sono praticamente ridotte a zero, la minaccia di togliertela ha funzionato.”
Corrugai la fronte. “Non mi hai minacciato di togliermela.”
“Doveva farlo tuo padre.”
“Beh, non l'ha fatto.”
“E allora come mai il conto è così basso?”
Scrollai le spalle. “Non sono tanto per i negozi, ultimamente.”
Lei mi guardò come se stessi per svenire.
“Sono passati mesi dall'ultima volta che hai portato una ragazza all'appartamento, ora che ci penso. Non c'è più odore di fumo da...un sacco di tempo e tuo padre non ha chiamato con una crisi isterica da non ricordo più neanche quanto.”
Io, ancora una volta, mi limitai a scrollare le spalle.
“Che ti è successo?” domandò, la voce velata di preoccupazione.
Chi ha una dipendenza è intelligente. Diventa così paranoico che fa di tutto per nasconderlo. E ci riesce, ci riesce così bene che nessuno potrebbe mai accorgersene. Se non sai che c'è un problema, se non sai cosa e dove cercare, scoprire una dipendenza è impossibile.
Capii immediatamente la sua paura. Aveva perso Tim perché si era distratta per un minuto. Un minuto, ecco tutto quello che gli c'era voluto per fare quella chiamata. Poi era uscito di casa dicendo di voler fare una passeggiata, papà lo aveva accompagnato ed avevano per caso incontrato quel suo vecchio amico per strada. Lui e Tim si erano stretti la mano, incontrandosi e poi quando si erano salutati. Due volte. Una volta i soldi, una volta la busta. Papà non si era accorto di niente.
Nessuno si era accorto di niente. Non finché non ci rendemmo conto che Tim ci stava mettendo troppo tempo, in bagno.
“Io sto bene, mamma” le dissi con voce ferma ma rassicurante. “Anzi, sto meglio che bene, sto alla grande. Sto...sto vedendo qualcuno, in realtà. Qualcuno a cui tengo molto.”
“Tesoro mio, ma è fantastico” mi disse, tirando un sospiro di sollievo e baciandomi sulla testa. “E quando potremmo incontrare questo qualcuno, io e tuo padre?”
“Beh, per prima cosa, non so se questo qualcuno vuole incontrare voi” le dissi, ridendo, cercando di misurare le parole con massima attenzione, consapevole del fatto che Callie stava ascoltando. “E poi, questo qualcuno potrebbe sorprendervi.”
Mia madre ci pensò su per qualche istante. “Non si tratta di un ragazzo, vero?” domandò, quasi come se l'ipotesi la preoccupasse.
“No, mamma.”
“Beh, allora non vedo come potrebbe sorprenderci.”
Io sorrisi a me stessa. “So che io sono sempre sorpresa da quello che fa. Passa la maggior parte delle sue giornate a sorprendermi, in realtà. Quindi volevo solo avvertirvi, potrebbe sorprendere anche voi.”
Mia madre rise. “Ok. Beh, da come ne parli sembra che questo qualcuno sia molto, molto speciale per te. Scommetto che Callie l'ha già incontrata.”
Feci del mio meglio per non andare nel panico.
“In un certo senso, signora Robbins.”
“Allora dovremmo incontrarla al più presto anche noi. Sempre che lei sia disponibile. Che ne pensi, Callie? Secondo te vorrà incontrarci?”
“Non vedo perché non dovrebbe, signora Robbins.”
La macchina rallentò davanti all'edificio in cui era l'ufficio di mia madre.
“Sentito, Arizona? Se questa ragazza ti vuole bene, verrà a cena a casa nostra” sottolineò con un sorriso soddisfatto. “Quindi” si voltò in avanti “questo venerdì può andare bene a questa ragazza o dovrei cercare di liberarmi per sabato, Callie?”
“Venerdì sarà perfetto, signora Robbins.”
Sentii la mia bocca aprirsi contro la mia volontà.
“Mamma, non posso credere che hai appena...” spostai lo sguardo da lei a Callie più volte, semplicemente incredula.
“Oh, tesoro, quanto credi che sia ingenua? L'ho visto arrivare da così lontano che dovranno inventare una nuova scala in ventesimi per misurare la mia vista.”
Baciandomi sulla testa, uscì dalla macchina.
“A venerdì, Callie.”
“A venerdì, signora Robbins.”
Io uscii dopo di lei, sedendomi sul sedile anteriore e guardando la donna al mio fianco con estrema confusione.
“Cosa cavolo è appena successo?”
“Non lo so. Ma non promette bene.”

“Come mai tua madre non è venuta con noi?”
“Non ne ho idea. Forse voleva assicurarsi che papà non avesse un infarto scoprendo chi era la persona che dovevo portare a casa” scherzai.
“Carino” mormorò, lo sguardo serio, gli occhi sulla strada.
Io mi accorsi solo in quel momento di quanto era nervosa per quella cena.
“Calliope, mia madre ti adora. Mio padre ha messo la mia vita nelle tue mani, dandoti questo lavoro. Sai quanti incidenti stradali avvengono ogni giorno? Fidati, non dovrai nemmeno provarci a conquistarli, nemmeno lontanamente, perché ti adorano già.”
Lei mi guardò di sottecchi, un cipiglio preoccupato ancora sul suo viso, ma notevolmente diminuito rispetto a poco prima.
“Sei fantastica, Calliope. Non hai niente di cui preoccuparti.”
Lei sospirò, cercando di scacciare il nervosismo, appoggiando la mano destra sulla mia gamba.
“Grazie.”
“Figurati” risposi sfiorando la sua mano con la mia.
Quando arrivammo alla villa, mi accorsi che il nervosismo era tornato in piena carica. Così mi sporsi verso di lei, le sfiorai una guancia e la baciai.
“Non importa quello che ne pesano loro” sussurrai. “Non cambierà quello che ne penso io, che è l'unica cosa che importa.”
Continuò a guardarmi completamente ammutolita. Per la prima volta, ero io che avevo stupito lei.
I miei genitori ci stavano aspettando nel soggiorno, seduti sul divano, entrambi con un drink in mano.
“Siete arrivate. Giusto in tempo, la cena è pronta” ci salutò mia madre, abbracciando entrambe.
Mio padre mi baciò sulla testa e strinse la mano a Callie con uno sguardo talmente inquietante che mi avrebbe fatto scoppiare in lacrime, se diretto a me, a causa dei miei problemi con le autorità. Ma lei ricambiò la stretta con un sorriso tirato.
La cena passò con me e mia madre che cercavamo di tenere alta la conversazione e mio padre e Callie che intervenivano quando esplicitamente richiesto. Lo sguardo di mio padre era fisso sulla ragazza al mio fianco, che faceva del suo meglio per guardare ovunque tranne che verso di lui.
“L'ultima volta che sono stata qui ho dimenticato degli orecchini. Mi accompagni a prenderli, papà?” gli chiesi con un sorriso corredato di fossette.
“Certo” annuì, alzandosi, nonostante fosse consapevole che era solo una scusa per poter parlare in privato con lui.
Uscii dalla sala da pranzo ed attraversai il soggiorno, marciando fino al suo studio senza neanche prendermi la briga di fingere di salire al secondo piano. Aspettai che entrasse e mi richiusi la porta alle spalle.
“Deve finire.”
“Non credo che i tuoi orecchini siano dentro il mio studio, tesoro” mi fece notare, sedendosi sul divano sulla sinistra.
Io rimasi in piedi, incrociando le braccia al petto.
“Sono seria, papà. Deve finire. Non puoi prendertela con lei, questa situazione è colpa mia.”
“Come può essere colpa tua?”
“Perché sono io che mi sono innamorata di lei.”
Quello, finalmente, gli fece passare l'aria da sbruffone.
“Non so se lei ricambia o no, ma non ti lascerò metterti in mezzo e impedirmi di avere l'occasione di scoprirlo.”
“Arizona, ragiona per un momento...”
“No. Ho ragionato anche troppo, ma non si può ragionare con ciò che vuole il cuore, papà. Non mi importa se fai così perché è una ragazza o perché non è nella situazione economica migliore o non ha un lavoro strapagato. Non mi importa cos'è che non ti piace di lei, perché io amo tutto di lei, ognuna di queste cose che la rendono chi è. Quindi te lo ripeto per la terza e ultima volta. Deve finire.”
Lui si alzò, sospirando. “Hai ventuno anni, tesoro. Questa storia risulterà in un cuore spezzato e potrebbe essere il tuo. Quindi Callie potrebbe essere l'uomo più ricco del mondo con un ottimo lavoro e sarebbe la stessa identica cosa, per me. Io voglio solo proteggerti.”
“Papà, l'unico modo che hai per proteggere me, è proteggere lei. Mi hai insegnato questo, che amare qualcuno significa stare male quando loro stanno male e sorridere dei loro sorrisi. E quando lei sta male, papà, io mi sento morire. Fa di tutto per tenere quella che lei chiama infelicità lontana da me, ma più la allontana, più perdo anche lei, e sono infelice ancora di più. L'unico modo che ho per essere felice è se lo è anche lei.”
Lui sospirò, premendo le labbra l'una contro l'altra.
“Va bene, Arizona. Niente più sguardi intimidatori.”
“Ti ringrazio, papà.”
Aprì la porta dello studio, facendo cenno di precederlo nel soggiorno. Mi bloccai, sentendo mia madre ridere.
“Un McDonald, sul serio?”
“Giuro, avevo la sua stessa faccia, signora Robbins. Pensavo mi stesse prendendo in giro.”
Sorrisi a me stessa, ascoltando mia madre ridere di nuovo. Mio padre appoggiò una mano sulla mia spalla.
“Quindi è così che l'hai conquistata? Con cibo da fast food?”
Il mio sorriso sparì, potevo praticamente percepire Callie che prendeva sul serio la battuta di mia madre. Sentii una risata inconfondibile, quella di Calliope, e rilasciai il respiro che stavo trattenendo, anche se mi ero accorta che era forzata.
“Senta, signora Robbins...”
“Stavo solo scherzando, tesoro” si affrettò a chiarire mia madre.
Feci un passo verso la sala da pranzo, ma mio padre appoggiò una mano sulla mia spalla, bloccandomi. Voleva sentire la fine di quella conversazione.
“No, io so di non essere all'altezza di Arizona. E so anche che nessuno potrebbe mai esserlo. Lei è una principessa ed io...io guido la sua macchina. Ma lei dice che non le importa” sospirò nervosamente. “Dice che le sta bene anche se dovessi fare questo lavoro per il resto della sua vita, ma io so che non posso darle il futuro che si merita. Ma non posso sopportare di vederla infelice e se io la rendo felice, signora Robbins, perché dovrei scegliere al posto suo? Finché posso renderla felice, finché lei mi dirà di rimanere, io lo farò. E quando cambierà idea, io mi aggiusterò.”
“Non cambierà idea tanto presto, Callie. Lo vedo da come ti guarda.”
“Mi ha detto, una volta, che si sente in colpa” io e mio padre ci avvicinammo di qualche passo per poter origliare meglio. “Che crede che sia colpa sua, che io sia qui. Che il mio destino fosse lei e che la vita che ho, il fatto che i miei mi hanno tagliato i fondi, il mio lavoro, sia solo perché così potessi incontrare lei. Le confesso che ho iniziato a crederlo anche io. Non posso che amare i sacrifici che faccio e il lavoro che ho per avermi portato da lei. Se sta con me perché si sente in colpevole, il senso di colpa svanirà con il tempo. Ma se sta con me nonostante il senso di colpa, forse ha ragione lei. Forse questo è il posto in cui sono destinata ad essere.”
Le mie gambe si mossero prima che riuscissi a rendermene conto, portandomi di nuovo in sala da pranzo. Loro due furono veloci a fingere di aver discusso del più e del meno fino a quel momento, stampandosi dei sorrisi in faccia.
“Ehi, hai ritrovato gli orecchini?” domandò Calliope.
Scossi appena la testa. “Devo averli persi” mormorai, sedendomi di nuovo al suo fianco e prendendole una mano con la mia sotto il tavolo.
Lei ricambiò la stretta, leggermente confusa ma sorridendomi.
“Non erano quelli rosa a forma di farfalla, vero? Sono i tuoi preferiti.”
“No, non erano quelli a forma di farfalla” sussurrai, perdendomi per un istante nei suoi occhi.
Rimanemmo in silenzio per qualche momento, finché mia madre si alzò da tavola.
“Beh, si è fatto tardi. Credo che sia ora di tornare a casa.”
Io annuii, alzandomi. “Torni insieme a noi?” chiesi, rendendomi conto che non avevo idea di come fosse arrivata lì.
“Se non è un problema” rispose annuendo. “Ho detto ad Eric di tornare in città. Non guida più molto bene al buio.”
“Per via dei suo ottant'anni, mamma” replicai con una risata, salutando mio padre con un bacio sulla guancia.
Lui strinse la mano a Callie dopo un'occhiata fugace nella mia direzione.
“A presto, Callie” la salutò con una sorta di sorriso.
Lei annuì, cercando di mascherare la sua confusione.
Uscimmo dalla villa, dirigendoci verso la BMW che Calliope aveva aperto con il comando centralizzato. Aprì la porta posteriore, aspettando che mia madre salisse e poi guardando verso di me. Io aprii la portiera anteriore da lato del passeggero.
“Che stai facendo?” domandò.
“Salgo davanti” spiegai come se fosse ovvio, cosa che in realtà era.
“Ma...”
“Sei qui come mia fidanzata, non come mia autista. L'unico motivo per cui stai guidando è che io non ho la patente.”
Lei cercò di trattenere un sorriso mentre chiudeva la portiera posteriore.
“Allora tuo padre dovrà farmi una lunga ramanzina per aver usato l'auto di servizio per scopi personali, credo” ritorse, aspettando che salissi e richiudendo la portiera al posto mio.
Iniziò a guidare, preparandosi alle successive tre ore con mia madre che ci attendevano.
“Allora, raccontatemi di come è successo” propose quasi all'improvviso.
“L'ho costretta ad accompagnarmi ad una festa” buttai lì casualmente. “E poi abbiamo cenato dentro un McDonald.”
Mia madre finse di essere stupita. Io finsi di crederle.

Stava ridendo di una mia battuta stupida, quando la voce di Addison ci trascinò via dalla piccola bolla in cui esistevamo solo io e lei e di nuovo dentro la realtà.
“Ma voi due non fate altro che baciarvi, ultimamente? Ogni volta che vi vedo siete appiccicate” ci disse, passandoci accanto con un sorriso enorme.
“Senti chi parla, dove hai lasciato la tua fidanzata, Montgomery?” replicò Callie, stringendo ancora di più la presa sui miei fianchi.
Io sorrisi, riprendendo a baciarla.
“Voi due mi fate stare male” mormorò la rossa. “Siete così dolci e carine” usò un tono che li fece sembrare due dei peggiori aggettivi al mondo.
Sventolai una mano nella sua direzione, senza nemmeno voltarmi.
Callie era appoggiata al cofano della macchina, le braccia attorno alla mia vita, un sorriso stampato sulle labbra.
“Ehi, ho una sorpresa per te” mormorò, non facendo però ulteriori movimenti per allontanarsi.
“Sai che non mi piacciono le sorprese.”
“Lo so, perché sei una maniaca del controllo. Ma questa qui ti piacerà.”
Decisi di fidarmi di lei, salendo in macchina e lasciando che mi portasse verso questa sorpresa di cui parlava. Arrivate in un posto molto isolato fermò la macchina, spense il motore e scese, io feci lo stesso, facendo il giro dell'auto e mettendomi davanti a lei, in attesa della sorpresa. Fece un gesto ad indicare il sedile del guidatore.
“Benvenuta alla sua prima lezione di guida, miss Robbins.”
I miei occhi si illuminarono all'istante.
“Mi prendi in giro?” lei rise e scosse la testa. “Sei fantastica Calliope, sei la migliore” mi lasciai andare ad un piccolo grido di gioia mentre le gettavo le braccia attorno al collo e la baciavo.
“Ti avevo detto che ti sarebbe piaciuto.”

Stava guidando, la mano destra ferma sulla mia gamba. Io la stavo studiando. Non fissando, non nel senso inquietante della parola. La stavo solo...memorizzando.
E se l'avessi persa? Quale era la cosa peggiore che poteva succederci? Sentii una fitta acuta di panico allo stomaco. Domanda sbagliata. Quale era la cosa peggiore che potevo sopportare? La peggiore a cui potevo sopravvivere?
“Calliope?”
“Mh?”
Stavo per farlo. Stavo per dirlo. Quasi.
Ma poi mi chiesi perché. Potevo ancora aspettare, in fondo. C'era tempo. Un sacco di tempo, prima che tutto iniziasse a precipitare. Ero ancora in controllo, potevo fermarmi quando volevo. Avrei potuto fermarmi perfino in quel preciso istante, se avessi voluto.
Ma non volevo.
“Siamo quasi arrivate” mi informò.
Appoggiai una mano sopra quella che aveva sulla mia gamba, facendole scorrere entrambe lentamente verso l'alto di qualche centimetro.
Lei mi guardò, accostando, poi portò di nuovo gli occhi sulla strada e parcheggiò l'auto.
“Vuoi salire?” domandai.
Lei si voltò, guardandomi per diversi istanti con espressione estremamente seria, contemplando le mie parole. Io avevo la testa appoggiata al sedile, la guardai, mordendomi il labbro inferiore per non dire qualcosa che le avrebbe fatto pressione. I suoi occhi si spostarono, concentrandosi su quel gesto. Una frazione di secondo dopo, la sua mano scivolò via dalla mia. Stavo per scusarmi quando la vidi slacciarsi la cintura di sicurezza e sporgersi per baciarmi come non aveva mai fatto. Misi una mano tra i suoi capelli e ricambiai il bacio con altrettanta passione. Era dolce e lento, ma allo stesso tempo stava accendendo il fuoco dentro me.
Mi spostai, appoggiando le ginocchia a lato dei suoi fianchi e sistemandomi sopra di lei. Portai la mano destra sopra la mia testa per sfiorare il tettino dell'auto e rendermi conto di quanto spazio avevo ancora a disposizione prima di uno spiacevole incontro con il metallo. C'era poco posto, ma sarebbe bastato.
“Calliope” sussurrai contro le sue labbra.
Sentii le sue mani scendere dai miei fianchi sulle mie gambe e poi spostarsi verso l'alto, sotto il vestito che stavo indossando.
I baci erano diventati affannati, respirare stava diventando un problema.
Afferrai il colletto della sua camicia, tirandola verso di me nella speranza di averla più vicina, nonostante sapessi che era fisicamente impossibile. Sentii le sue mani spostarsi più in alto.
E poi, all'improvviso, ci paralizzammo. Qualcuno aveva picchiettato sul finestrino. Entrambe guardammo fuori dall'auto. Lei tolse subito le mani e risistemò il mio vestito sopra le mie gambe, aspettando che mi spostassi di nuovo nel mio sedile e inspirando prima di abbassare il finestrino.
“Buonasera, signora Robbins” fece del suo meglio per far smettere di tremare la propria voce.
“Buonasera Callie. Spero di non aver interrotto qualcosa.”
“Affatto, Arizona stava giusto per salire.”
“Ne sono sicura” rispose con un sorriso furbo. “In tal caso, posso accompagnarla io, così non devi scendere dall'auto.”
“Perfetto, signora Robbins” rispose facendo del suo meglio per sorridere a mia madre. Tirò su il finestrino, voltandosi verso di me. “Devi andare” sospirò, visibilmente scontenta.
“Devo proprio?” domandai, provando e fallendo nello scacciare il nodo che avevo allo stomaco.
Lei annuì. “Devi proprio” si sporse baciandomi velocemente sulle labbra. “Ci siamo messe abbastanza in imbarazzo per una sola sera. Dormi bene, ok?”
“Lo farò. Subito dopo una doccia gelata” la baciai un'ultima volta, poi uscii dalla macchina.

Non lo dissi a nessuno, quel giorno. Lo sapeva solo Calliope. Mi accompagnò lei e fece in modo che avessi tutto quello di cui avevo bisogno.
Mi aspettò all'uscita, come sempre. Mi aspettò e quando uscii lei era lì che camminava nervosamente vicino alla BMW, rigirandosi le chiavi in mano. Era la cosa più carina che avessi mai visto.
Alla fine, si accorse che ero in piedi a qualche metro da lei e si fermò, guardandomi con espressione interrogativa. Io alzai quello che stavo tenendo in mano con un sorriso corredato di fossette.
“Ho la patente.”
In tre lunghi passi fu davanti a me, mi prese tra le braccia, baciandomi teneramente.
“Sapevo che ce l'avresti fatta, lo sapevo. Sono così fiera di te.”
“Calliope, io...” iniziai sommessamente.
“Sì?” chiese, la voce tremante di gioia.
“Io ti amo.”
Quelle parole la paralizzarono.
“Ti amo così tanto che è assurdo, Calliope. Ti amo a tal punto che pensare di vivere senza di te è come pensare di poter sopravvivere ad un incidente aereo. Con un po' di fortuna ci riuscirei, certo, ma le conseguenze sarebbero devastanti.”
“Ti amo anch'io” rispose subito. Mi strinse le braccia attorno alla vita, sollevandomi da terra, io appoggiai i gomiti sulle sue spalle, intrecciando le braccia dietro la sua testa. “Ti amo così tanto e non sono mai stata così felice, Arizona.”

“Credo di avere un problema. Uno di quelli grandi.”
Chi ha una dipendenza diventa così paranoico che fa di tutto per nasconderlo.
“Di che si tratta?”
E ci riesce così bene che, se non sai che c'è un problema, scoprirlo è impossibile.
“Penso che dovresti lasciarmi.”
La caduta diventa inevitabile. Vai avanti finché la verità non viene alla luce.
“Stai scherzando? Non è divertente.”
O finché tu sparisci nelle tenebre.
“Dico sul serio, Calliope. Dovresti andartene finché puoi.”
Lei accostò immediatamente. “È per quello che è successo ieri? Per la patente?”
Scossi la testa, senza dire una parola.
“Allora per l'altra cosa? Perché ti ho detto che ti amo?”
Chiusi gli occhi, la testa voltata verso il finestrino.
“Cosa c'è che non va? Ho fatto qualcosa di sbagliato?” chiese in un sussurro. “Perché se ho fatto qualcosa...”
“E se io sono come lui?”
Rimase in silenzio, colta completamente in contropiede. “Cosa?”
Io mi portai le ginocchia al petto. “Se io sono come lui, Calliope? Se anche io vivo le cose in modo così...amplificato?”
“Stai parlando di Tim?” non capii se era una domanda o un'affermazione.
“Ho così bisogno di te, Calliope” mormorai. “Così tanto, che conto i minuti perché possa vederti di nuovo, conto e non faccio altro. Tutto il resto lo faccio solo nell'attesa di essere di nuovo tra le tue braccia. Tu sei le mie ali, Calliope.”
“Ma non voglio essere anche la tua ancora. Non voglio portarti a fondo e farti annegare.”
Voltai il viso e incontrai il suo sguardo. “So che non lo faresti mai.”
Lei mi fece segno di avvicinarmi, quando lo feci mi abbracciò dolcemente e mi baciò sulla tempia.
“Tu mi hai reso migliore, tanto che sembra impossibile pensare che sono la stessa persona di un anno e mezzo fa. La nostra non è una relazione dannosa, vero? Non ti sto troppo addosso, non ti ho costretto a stare con me, giusto?”
“Arizona, ma cosa stai dicendo? Certo che non è una relazione dannosa, l'hai detto tu stessa. Io e te ci aiutiamo, io e te ci rendiamo migliori, io e te ci amiamo.”
Mi aggrappai a lei con tutte le mie forze, sentendo le prime lacrime iniziare a scendere.
“Pensavo lo sapessi” sussurrò, stringendomi ancora di più. “Pensavo avessi capito che sono innamorata di te a tal punto che farei qualsiasi cosa per te. Io non voglio essere la tua ancora e quando vorrai volare, se sarò un peso, ti lascerò andare.”
“Tu sei le mie ali, Calliope” sussurrai. “Tu sei la mia vita. Non posso sopravvivere se tu mi lasci andare.”
“Allora non lo farò” mi disse immediatamente. “Non lo farò, te lo prometto.”
Continuò a tenermi stretta contro di sé.

“Allora, ho detto a tuo padre che mi dimetto. Smetto di lavorare alla fine di questo mese.” Sentii il cuore precipitare sotto le mie scarpe. “Cosa?”
“Adesso puoi guidare tu. Sarà un risparmio enorme per i tuoi. Ti ho già detto quanto sono fiera di te?” mi rivolse un sorriso enorme. Poi vide la mia espressione. “Che c'è?”
“Ho preso la patente la settimana scorsa, ho parlato con mio padre solo un paio di giorni fa e tu già hai deciso di dare le dimissioni?”
Lei sorrise, guardandomi per un istante, poi riportando gli occhi sulla strada.
“Certo. Sei praticamente nata per guidare, non hai bisogno di me. E poi, questa macchina si guida quasi da sola.”
“Tu hai un'altra auto?”
Corrugò la fronte.
“No. Non qui a Baltimora.”
“I tuoi zii vivono distanti dall'attico?”
“Una ventina di minuti se non c'è traffico, perché?”
“Quando ti vedrò? Se non dovrai lavorare con me, quando ci vedremo esattamente? Io studio un sacco di ore al giorno e tu dovrai trovare un altro lavoro, probabilmente pagato meno di questo. Se vuoi fare medicina alla Hopkins-”
“Non andrò alla Hopkins.”
“-avrai bisogno di questo lavoro, di questi soldi, o ti ci vorrà un'infinità di tempo.”
“Non andrò a medicina.”
“Sì che ci andrai.”
“Arizona, ascolta...”
“No, Calliope. Ascoltami tu, per una volta. Non rimarrò da una parte a guardare mentre sei infelice, ok? Io so che non è l'autista, o la cameriera, o qualsiasi altra cosa il lavoro che vuoi fare per i prossimi cinquant'anni. Non mi importerebbe se guadagnassi cinquecento dollari al mese, se ti rendesse felice, e potrei conviverci. Te lo giuro. Ma io so che non si tratta di soldi, si tratta della tua felicità, del tuo futuro. E non riesco a capire perché non mi permetti di aiutarti e basta. Tu non hai idea di quanto poco significhino i soldi per me e di quanto invece significhi la tua felicità. È solo un prestito, ok? Vai alla Hopkins. Diventa un medico. Ripaga mio padre facendo il lavoro che ti meriti e che sogni di fare. Ti prego, ti prego Calliope. Fallo per me, sii felice per me.”
“Ti sto portando a fondo. E ho promesso che non lo avrei fatto.”
“Cosa? No.”
“Sì, invece. Ti sto portando a fondo con me.”
“Te l'ho detto, i soldi non contano niente per me.”
“Non quello. La mia infelicità ti sta rendendo infelice. Ed io avevo promesso che non lo avrei mai permesso. Quindi sì” sospirò pesantemente. “Ok” inspirò, voltandosi verso di me. “Chiederò un prestito a tuo padre e studierò medicina.”
Sono sicura che riuscì a vedere il mio volto illuminarsi.

Salii sulla macchina, richiudendomi la portiera alle spalle.
“Dove la porto, signora Robbins?”
Io sentii una stretta al cuore, come ogni volta che mi chiamava in quel modo.
“Portami a casa, Calliope” sussurrai piano.
Eravamo cresciute un sacco dai tempi dell'università. Ma, ancora dopo tutti quegli anni, ovunque mi voltassi vedevo qualcosa che mi ricordava di lei, anche nel più piccolo dei modi. Anche solo in quella stessa macchina, avevo decine di ricordi di noi due.
Quando entrai dentro l'appartamento sentii una strana calma. C'era troppo silenzio. Di solito quando la casa era troppo silenziosa, c'era un uragano in arrivo. Una cosa tipo la quiete prima della tempesta.
“Dove sono tutti?” chiesi corrugando la fronte.
“Jessica e Sara sono agli allenamenti di calcio, Sofia ha portato Jamie a giocare al parco, ma forse Bubble...” proprio mentre stava finendo la frase, il nostro labrador salvato qualche anno prima dal canile corse nella nostra direzione.
Mi abbassai, accarezzandolo sulla testa mentre scodinzolava. Bubble era il nome perfetto quando pesava pochi chili appena comprato, quando Sofia aveva dieci anni, ma adesso che lei ne aveva sedici e lui era cresciuto quasi quanto lei, non sembrava più così perfetto.
“Allora, signora Robbins. Sembra che abbiamo la casa tutta per noi.”
Alzai lo sguardo, guardandola togliersi il giacchetto.
“Adoro quando mi chiami così. Ogni volta che lo fai mi viene in mente il giorno del nostro matrimonio, sai?”
Lei mi sorrise. “Perché credi che lo faccia?”
“Bene, dottoressa Torres. Vediamo allora di non sprecare questo raro avvenimento di avere la casa vuota.”
Mi sollevai in piedi, guardandola negli occhi. Il suo sorriso rimase fermo in posto.
“Adoro quando mi chiami così. Ogni volta mi ricorda che ce l'abbiamo fatta.”
Risi, avvicinandomi e passandole le braccia attorno al collo. Lei strinse le sue attorno alla mia vita. “Perché credi che lo faccia?” le accarezzai i capelli guardandola negli occhi. “Sei un chirurgo ortopedico fantastico, Calliope, hai salvato così tante vite che ho perso il conto.”
“E ho fatto del mio meglio per non tenerti a freno.”
Scossi la testa, sorridendo di nuovo.
“Sei stata la mia ancora, Calliope. Per tutto questo tempo.”
Lei mi guardò, tornando seria, presa in contropiede.
“Sei stata le mie ali, ogni volta che ho dovuto volare, sei stata tu a permettermi di farlo. Ma, ancora più importante, sei stata la mia ancora. Quando dovevo rimanere con i piedi per terra, sei tu che mi hai tenuto ben salda. Mi hai impedito di montarmi la testa, di lasciare che i soldi o i vestiti contassero troppo, hai rimesso la mia vita dentro la giusta prospettiva, facendomi capire quello che conta. Tu sei stata la mia ancora, più di ogni altra cosa, Calliope.”
“E tu sei stata le mie ali. E la mia ancora. Sei stata e sei tutto, per me” rispose in un sussurro.
Senza lasciare che dicesse altro, la baciai.




Un grazie di cuore a Lara per il supporto morale e per la pazienza di sopportarmi anche nei miei momenti di follia. Grazie davvero!

Alla prossima!


Ritorna all'indice


Capitolo 47
*** Il nostro primo messaggio ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU






Il nostro primo messaggio


“No, non voglio fare casini. Stavolta voglio prendermi tempo e fare tutto come si deve. Niente più sbagli.”
Lo avrei chiamato mettere la testa a posto, ma la mia testa era sempre stata esattamente dove doveva essere.
“Come dici tu, Callie. È sempre come dici tu.”
Sapevo riconoscere il sorriso accondiscendente di Mark Sloan quando ne vedevo uno, ed era proprio quello che stava facendo in quel momento.
“Non voglio neanche sentirlo. Sono grata che tu abbia messo una buona parola per me, ma sappiamo entrambi che avrei avuto il posto, in un modo o nell'altro. Ho trent'anni, sono il primario più giovane dell'ospedale e non ho intenzione di rovinare questa occasione per nessun motivo, quindi è deciso. Niente più errori.”
“Ok, posso capire perché dici che Bambi sia stato un errore.”
“George. Si chiamava George, avresti potuto prenderti la briga almeno di imparare il nome dell'uomo che ho quasi sposato.”
“Quasi è la parola chiave, qui. E posso capire perché dici che io sia stato un errore, visto che sono stato una specie di kleenex che hai usato per asciugarti le lacrime e buttato via quando hai smesso di piangere.”
“Non è vero” lo corressi, scandalizzata. “Tu eri il mio migliore amico” spiegai lentamente “e mi hai aiutata quando non avevo idea di come andare avanti con la mia vita.”
“E posso anche capire come mai consideri un errore Erica” continuò, imperterrito.
“Ecco, per lei se vuoi puoi trovare un soprannome. Anzi, ne ho un paio anche io” borbottai.
“Visto che eri molto al di sopra delle sue possibilità e sei riuscita comunque a fare in modo che fosse lei a spezzare il cuore a te. Ma la piccola bocca-di-scoiattolo?”
“Sadie.”
“Era sexy.”
“Hai mai fatto caso al fatto che l'unica mia ex per cui non hai un soprannome è Erica? Ho una teoria a riguardo.”
“Illuminami.”
“Non credo proprio. Nossignore. Come ho detto, ho chiuso con il passato e non voglio nemmeno più parlarne. Sono libera.”
Lui rise, guardandomi mentre stavo per entrare nell'ufficio del primario di chirurgia per gli ultimi dettagli sul trasferimento.
“Lasciami il cellulare mentre sei lì dentro. Ti segno un paio di numeri.”
Sospirai, lanciandogli un'occhiataccia e fissandolo con un sopracciglio alzato.
“Non farò niente che non devo, dico sul serio. Solo i numeri di qualche collega, che potrai decidere di usare oppure no.”
Lo fissai ancora per un paio di secondi, poi, con l'ennesimo sospiro, estrassi il cellulare dalla tasca destra dei miei jeans e glielo lanciai.
“Lo voglio indietro quando finisco qui.”
“Ok. Ci incontriamo giù alla mensa.”
Quando andai a cercarlo, circa un'ora più tardi, lo trovai ad un tavolo con la persona che avevo aspettato di rivedere fin da quando avevo ottenuto quel lavoro.
“Ecco la mia ragazza” rise, alzandosi e abbracciandomi dopo aver visto che mi avvicinavo con un sorriso smagliante.
“Addie. Mi sei mancata.”
Quando ci allontanammo mi fece segno di sedermi insieme a lei e Mark. Tesi un braccio nella sua direzione.
“Cosa?”
“Il mio cellulare.”
“Oh. Non ce l'ho più io” rispose come se fosse scontato.
“Che significa” iniziai, cercando di mantenere la calma “che non ce l'hai più tu?”
Scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo.
“Ho messo i numeri che dovevo, poi l'ho passato ad Addison. Sono per nome e cognome, non preoccuparti, e mi sono assicurato che tutti quelli che ci hanno messo mano mettessero nome e cognome.”
“Tutti quelli che...Tu” risi, una risata priva di umorismo. “Stai scherzando.”
“No, è un'idea geniale. Addison, falle vedere.”
“Ah, al momento non ce l'ho con me” il suo sguardo si rifiutò di incontrare il mio. “L'ho passato a Cristina.”
“Cristina” ripetei. “Avrei dovuto immaginare che Cristina fosse coinvolta in questa storia.”
“Quale storia?” chiese sedendosi insieme a Meredith.
Io e loro avevamo frequentato lo stesso college, ma scelto posti diversi per la specializzazione, io ero un paio di anni più grande di loro, che si stavano ancora specializzando.
“Il mio cellulare.”
“Oh, quella storia. Sì, ma non ce l'ho più io. L'ho passato a Meredith.”
“Sì, ma è stato tipo mezz'ora fa. Io l'ho mollato a Derek.”
“Derek? Scherzi? Sai che sta ancora cercando di farmela pagare per quella storia di Halloween” le dissi con una smorfia. “Chiamalo e digli di restituirmi il telefono.”
Sbuffando, compose il numero, parlando per qualche minuto con la persona dall'altra parte della linea.
“Ok. Sì, glielo dico. Derek dice che ha dato il tuo telefono a Lexie, stavano lavorando insieme ad un caso. Ma tranquilla, le ha spiegato la regola del nome e cognome. E precisa che il tuo costume era identico al suo e quindi io non potevo notare la differenza.”
Ero sbalordita. Allargai le braccia, scuotendo la testa e chiedendole di chiamare anche sua sorella.
“Lexie lo ha passato ad April.”
“E chi diavolo è April?” domandai, sentendo un'emicrania avvicinarsi.
“Sarei io” mi voltai, trovandomi davanti ad una donna dai capelli rossi. “Lexie era bloccata in sala operatoria, così mi ha mandato a restituirti il cellulare” me lo porse con un sorriso.
“Ti ringrazio” ricambiai il sorriso. Mi voltai verso Mark. “La pagherai appena questo porta ad una serie di eventi che si conclude con una catastrofe” lo avvertii, prima di andarmi a preparare per il mio primo turno al Seattle Grace.
Quella sera uscimmo per festeggiare la mia assunzione con le persone che conoscevo da una vita e che avevo appena ritrovato.
“Sapeva che ero io.”
“Lei non si è mai espressa a riguardo” ribatté Derek.
“E questo non ti fa capire che sapeva perfettamente che ero io?” chiesi con un sorrisetto.
C'erano Mark e Addison, così come Cristina, Meredith, Derek e Lexie. La piccola Lexie. L'unica che non mi trattava mai male.
“Io ho solo aggiunto il mio nuovo numero e quello di casa di Meredith, così puoi sempre raggiungerci se hai bisogno” mi spiegò quando mi vide cercare di riconoscere almeno un nome della mia rubrica.
“Ti ringrazio, piccola Grey.”
“Sai, non sono più una ragazzina.”
Le sorrisi, guardandola mentre abbassava lo sguardo.
“Lo vedo” sussurrai in risposta. “Non sfuggirebbe neanche ad un idiota.”
Proprio in quel momento Mark mi prese il telefono di mano. Dopo un paio di tentativi di riprendermelo, ci rinunciai, iniziando a parlare con Meredith e Cristina dei tempi andati e delle sbronze del college. E di quella notte di Halloween su cui io e Derek ancora litigavamo.
“Fatto. Ora, questa è quella che io chiamo vendetta.”
Guardai Mark con un sopracciglio inarcato mentre mi restituiva il cellulare.
“Di cosa vorresti vendicarti? E cosa hai fatto esattamente?”
“Mi vendico perché Addison preferisce ancora te.”
Sospettavo che in realtà fosse perché Lexie era stata più gentile con me quella sera di quanto lo fosse stata con lui ultimamente.
“Certo che mi preferisce. Sono la sua migliore amica.”
“E ho cambiato qualche nome.”
Corrugai la fronte.
“Che vuoi dire, hai cambiato...Oh mio Dio.”
Rise sguaiatamente. Era così ubriaco che il giorno dopo non si sarebbe mai ricordato a chi aveva dato quale soprannome. Cercai una lettera a caso. B.
“Bambi? Davvero, Mark? Bocca-di-scoiattolo, anche. Sai almeno quale di questi numeri è il tuo?”
“No. Ma ho un soprannome orribile per tutti i tuoi ex” rise di nuovo.
“Hai fatto un casino, Mark. Guarda qua. C'è Halloween, che almeno so chi è” lanciai un'occhiata a Meredith, poi cambiai lettera, passando alla M. “Ma che mi dici di McDreamy, McSteamy – questo devi essere tu – e McHotty, McPerky. Chi diavolo è McTwisted?”
“Quella dovrei essere io” mi fece sapere Cristina, ridendo.
“Mi esploderà la testa.”
“Probabilmente.”
Colpii Mark su un braccio, prima di decidere che era ora di andare verso casa.
“Prendi” Cristina mi tirò al volo le chiavi. “Ma per ora ne abbiamo solo una copia, quindi devi aprirmi quando torno, più tardi.”
Scrollai le spalle. Volevo aprire un po' degli scatoloni prima di andare a dormire, in ogni caso.

Il mio primo turno come primario era stato di trentasei ore. Ovviamente, dodici sarebbero dovute essere di reperibilità, ma le avevo passate ad aggiustare una frattura multipla al bacino di un ottantenne che aveva deciso di farsi una gita in bicicletta.
Mi lasciai cadere seduta sulla poltroncina di una delle stanze per le pause, tirando fuori il cellulare per mandare un messaggio ad Addison.
Un paio d'ore alla fine del primo turno. Ci vediamo stasera o devi fare del McNasty con McSteamy?
Scorsi la rubrica, cercando il numero di Addison. Ma, ovviamente, non era più segnato con il suo nome grazie a quell'idiota del mio migliore amico.
“McHotty. Decisamente McHotty.”
Mi alzai, il cellulare mi scivolò di mano, ma lo ripresi al volo. Aveva fatto un suono strano, come se avessi premuto qualcosa, ma non ci feci caso e inviai il messaggio, uscendo per andare a prendermi il terzo caffè della giornata, prima di potermi cambiare ed uscire finalmente da lì dentro.
Mentre stavo pagando per il caffè Addison mi si avvicinò.
“Come sta andando il primo turno?”
“Bene, se non conti il fatto che sono sfinita. E che non riesco a trovare neanche più il numero di mia sorella nel casino che ha fatto Mark.”
Rise, mentre salivamo dentro uno degli ascensori. Sentii il cellulare vibrare in una delle mie tasche e lo tirai fuori. Un nuovo messaggio.
Non so chi sei, ma io e McSteamy di sicuro non faremo McNasty. Nemmeno quando l'inferno si sarà congelato e gli asini si saranno fatti spuntare le ali e avranno iniziato a volare.
“Divertente, Addie” risi, scuotendo la testa. “Ma non ci sono dubbi, tu sei McHotty.”
Mi guardò, la fronte aggrottata.
“Penso di sì. Perché?”
Ora ero io ad essere confusa.
“Non ti è arrivato il mio messaggio? Non mi hai appena risposto?”
Controllò il cellulare velocemente, già scuotendo la testa.
“Niente messaggi.”
Controllai il mittente.
“Oh, Dio. Questa giornata è appena diventata più mortificante. Ho mandato a una sconosciuta un messaggio che dovevi ricevere tu” le misi il cellulare davanti agli occhi, facendole leggere la conversazione, che al momento consisteva in due soli messaggi.
“Aspetta, non ho fatto in tempo a leggere il nome” protestò quando tolsi il cellulare da davanti a lei.
“Meglio così. Non voglio sapere con chi dei miei colleghi mi sono appena umiliata, non potrei più guardarla in faccia. E spero solo che non fosse un lui e che chiunque fosse non avesse il mio numero perché altrimenti diventerà imbarazzante.”
“Sembra già piuttosto imbarazzante.”
La ignorai, scrivendo un nuovo messaggio.
Sono davvero mortificata, un amico ha incasinato i nomi della mia rubrica. Nemmeno io so chi sei e sarei grata se potessi dimenticarti di questo messaggio. Ti chiedo nuovamente scusa.
“Se sono fortunata non era il numero del capo e non verrò licenziata.”
“Allora, adesso spiegami perché pensavi che volessi fare del McNasty stasera.”
“Non lo pensavo, ok? Era una stupida battuta. E poi, Derek dice che stai vedendo qualcuno.”
“Ah, già. Ti ho salvato il suo numero nel cellulare. Fammi vedere.”
Scorse la rubrica, leggendo i nomi modificati. Per tipo, due secondi, visto che era alla lettera A.
“Questa è sicuramente lei.”
“Attachment Barbie?”
“Mark non vuole superare questo soprannome. Solo perché quando rischiavo di andarmene a Los Angeles mi ha fatto un discorso, che tra parentesi era bellissimo, in cui diceva che avrebbe voluto essere come G.I. Jane e invece era finita per essere come Attachment Barbie.”
“Oh, G.I. Jane? Mi piace. Qualche motivo in particolare?” chiesi, mentre cambiavo il nome in quello che mi aveva appena dato lei.
“Ha prestato servizio nell'esercito. È un cardiochirurgo qui, adesso, e abbiamo chiarito che nessuna delle due andrà da qualche parte tanto presto.”
Sorrisi, vedendo i suoi occhi brillare.
“Grazie per aver cambiato il nome nella rubrica, comunque.”
Il mio cellulare vibrò di nuovo.
Nessun problema. Ho notato che lavori in ospedale, però, visto che conosci il gergo locale. Mi salverò il tuo numero come Stalker, a proposito. E non ti dico il mio nome finché non sono sicura che non cercherai di uccidermi.
Io risi, scrivendo velocemente una risposta.
Appena arrivata. Stalker, uh? È per la battuta di prima, non è vero? Comunque non voglio sapere il tuo nome, sarei troppo imbarazzata anche solo per guardarti in faccia e sono sicura che prima o poi finiremo a lavorare insieme, perché questa è esattamente la mia fortuna. E non so neanche se sei un uomo o una donna.
“Ci stai prendendo un po' troppo gusto o sono solo io?” chiese Addison con un sorriso ammiccante. “Sto solo cercando di rimediare ad un messaggio imbarazzante. Sto per staccare, quindi, non lo so, ci vediamo stasera?”
“Certo. Da Meredith alle nove. Ci sarà anche G.I. Jane.”
“Perfetto” il cellulare vibrò di nuovo.
“Te lo dico, questa storia può finire in un solo modo” mi urlò dietro mentre mi allontanavo, leggendo il messaggio. “Male.”
Ok, Stalker. Ho come la sensazione che questa storia non finirà molto presto. Sei fortunata, visto che stai per andartene, io stasera sono di turno. Quale è il nome con cui sono segnata sul tuo telefono? Ma chi prendo in giro, so già che non me lo dirai. Comunque, sono una donna.
Risposi velocemente, prima di cambiarmi e andare a casa.
Sono una donna anche io.

Mi presentai a casa di Meredith con una bottiglia di vino rosso.
“Vieni dentro. Meredith e Cristina hanno già iniziato con la tequila.”
“Io e la piccola Grey abbiamo bisogno di un po' di riscaldamento, quindi inizieremo dalla vodka, vero Lexie?”
Ero due passi dentro l'appartamento, quando mi trovai in un abbraccio stile koala.
“Beh, Meredith è già andata” osservai, voltandomi verso Addison.
“Sono così felice che tu sia qui con noi, McFrowny. Mi sei mancata per cinque anni. Anche se venivi a trovarci e noi venivamo a trovarti a turno, non eravamo quasi mai tutti insieme.”
“Oh, adesso ho un soprannome anche io. Aspetta un momento, perché McFrowny?”
“Perché è il modo in cui Bambi ti ha ridotto. Non è colpa tua” mi rassicurò Cristina. “Sei stata cupa da allora, però.”
“Ok” sospirai, entrando in soggiorno con Meredith ancora tra le braccia.
Una donna bionda si alzò in piedi, sorridendomi.
“G.I. Jane, scommetto” tesi una mano nella sua direzione. “Callie Torres.”
“Teddy Altman” continuò a sorridere, stringendola.
“È un piacere conoscerti. E, ti prego, non giudicarmi dal fatto che ho una donna fidanzata addosso, in questo momento.”
“Prometto che non lo farò” rise, scuotendo la testa.
“Sei morbida” osservò la donna tra le mie braccia, stringendo la sua presa attorno al mio collo. “E hai un buon odore.”
“Ok, è il momento per te di fare un sonnellino. Dove è camera tua?”
“Sali le scale, la porta in fondo al corridoio” rispose Cristina.
Annuii, salendo le scale e sentendo il suo respiro regolarizzarsi.
“Ti sei addormentata, McSleepy?” risi della mia stessa battuta. “Ok, cambierò il tuo nome nella mia rubrica, perché questo lato di te mi piace” sussurrai quando la sentii stringere più forte.
“Sei una buona amica. Non tutti mi avrebbero portato su per una rampa di scale, sai?”
“Ok, siamo arrivate” la lasciai andare piano, facendola sdraiare sul letto. “Prova a dormire un po', ok?” chiesi mentre le toglievo le scarpe. Mi alzai, andando verso la porta della camera.
“Sapevo che eri tu.”
Mi bloccai, voltandomi con un sorriso.
“La notte di Halloween del mio secondo anno di college, tu avevi il costume da maschera di ferro e Derek ne aveva uno uguale. Ma sapevo che eri tu. La vostra altezza è simile e il costume nascondeva le tue forme femminili, ma le tua labbra sono inconfondibili.”
Risi, sedendomi di nuovo sul letto.
“Ho sempre saputo che lo sapevi, Meredith.”
“E perché non hai mai detto niente, allora?”
Sospirai, scrollando le spalle.
“Perché tu e lui vi siete fidanzati, lui era più grande e il fidanzato perfetto. Ed io non potevo competere.”
Toccò il mio viso con una mano.
“Personalmente, biasimo George, per questo” improvvisamente era seria. “Prima eri più sicura di te, più fiera. Da dopo di lui, prima con Mark, poi con la Hahn, hai lasciato che gli altri si prendessero qualcosa di te, anche chi non se lo meritava. Hai dato via pezzi di te e non devi più farlo, perché a me piaceva il modo in cui era quando ero al primo anno di college e tu eri al terzo e non conoscevi ancora George, e mi piaceva anche al secondo anno dopo George. Ma a me piace il modo in cui è ancora adesso.”
“Il modo in cui è cosa?”
Si strinse nelle spalle.
“Tu. Il tuo cuore, il tuo carattere, il fatto che ci tieni.”
“Meredith” sospirai. “Quando domani non ti ricorderai niente di tutto questo, prometto di chiedere la tua autorizzazione prima di prendere in giro Derek” la baciai velocemente sulla fronte, sentendola ridere mentre uscivo dalla stanza. “Mi sei mancata anche tu” sussurrai, chiudendo la porta alle mie spalle.
Quando tornai al piano di sotto le sentii ridere. Addison stava raccontando qualcosa.
“No, non si vedeva, perché avevano entrambi la stessa parrucca. E la maschera finiva subito sotto il naso. Però io avrei riconosciuto il mento di Callie, se chiedete a me. Insomma, Derek ha la carnagione più chiara e la barba. Ma era buio, perché era la festa di Halloween.”
“Ancora con questa storia?” chiesi, entrando in soggiorno. “È stato anni fa.”
Lanciai un'occhiata a Cristina, addormentata su una delle poltrone.
“Sembra che sia arrivata in ritardo. Sono già tutti ubriachi, qui. Non importa, tanto sono di nuovo di turno, domani.”
“La prima settimana è dura” osservò Teddy con espressione empatica.
Annuii, prendendo la bottiglia di vino che avevo portato e cercando un cavatappi tra i cassetti.
“Qualcuno vuole del vino rosso?”
“Ti faccio compagnia” si offrì Addison. “E, come dici tu, anche Lexie ha bisogno di fare un po' di riscaldamento.”
“Sei silenziosa, stasera, piccola Grey.”
Scrollò le spalle. “Giornata dura a lavoro. Ho perso due pazienti.”
“Bicchiere di vino grande il doppio, per te” sospirai, stappando la bottiglia e prendendo dei bicchieri puliti dalla credenza. “Allora, Teddy, parlami di te” proposi, porgendole il suo bicchiere già riempito.

“Hai baciato la mia fidanzata, ieri sera?”
Tutti quelli che erano con me al tavolo, senza contare la persone a tutti i tavoli adiacenti, si voltarono per guardare prima Derek e poi me.
“Sì. Mi ha” iniziai dopo un momento iniziale di shock “guardato negli occhi con passione ed io l'ho baciata. Sulla fronte.”
Risi, guardando il sorrisetto che cercava di trattenere.
“Fa delle cose quando è ubriaca” disse, cercando quasi di giustificarla, sedendosi poi al tavolo.
“Oh, sì. Ricordo le cose che fa quando è ubriaca” ridacchiai tra me e me.
“Scherza. Sta scherzando” lo rassicurò Addison, colpendomi su un braccio.
“Senti” gli dissi abbassando la voce ad un sussurro. “Non devi preoccuparti, ok? Non posso competere con te. Tu sei un uomo e a Meredith piacciono gli uomini. Mi ha baciato, una volta, anni fa, fine della storia.”
“Ti ha baciato perché credeva fossi me.”
“No. Mi ha baciato perché io ero affascinante e sicura di me, proprio come te, e sarei stata il suo tipo. Se fossi stata un uomo. Cosa che non sono, ragione per cui tu sei il suo tipo ed io sono sua amica. Meredith sapeva che ero io. Dovreste tutti farvene una ragione, perché è stato anni fa. Non siamo più al college, ora voi state insieme e sai benissimo che non ti tradirebbe mai.”
Mi sorrise, la scintilla negli occhi che era inconfondibilmente quella di Derek proprio lì al posto giusto.
“Mi sei mancato.”
“Anche tu.”
“Sei incredibile” sussurrò Addison, guardandolo andare via. “Anche il fidanzato della ragazza che aveva una cotta per te al college non riesce ad odiarti.”
“Di che stai parlando? Tu eri la ragazza che aveva una cotta per me al college.”
“Vero. Ma anche Meredith...”
“No, Meredith è etero. Si divertiva a stare con me perché ero affascinante e sicura di me, come ho già detto a Derek, e sono qualità che lei sa apprezzare.”
“Tutti le sanno apprezzare. Non avresti tutti questi amici, altrimenti, no?”
Risi insieme a lei, mentre sbloccavo il cellulare che avevo appena sentito vibrare.
McDreamy sembrava geloso. Qualcuno è appena arrivato in città ma sta già facendo colpo...
“Chi è? È di nuovo lei, non è vero?”
Mi guardai attorno, cercando di vedere qualcuno con in mano il proprio cellulare. Due uomini ed una specializzanda.
“Io sarei la stalker, uh?” chiesi a me stessa, scrivendo la risposta.
Apparentemente ho anche io un soprannome. Puoi cambiarlo da Stalker a McFrowny quando vuoi.
Aggiunsi una faccina sorridente per buona misura e poi mi voltai verso Addison.
“Ricordi quando me ne andavo in giro dicendo che non voglio creare problemi con il nuovo lavoro perché è un'opportunità stupefacente?”
“Sì. Me lo ricordo bene. Perché era l'altro ieri.”
Le porsi il mio cellulare.
“Prendilo. Prendilo e gettalo il più lontano che riesci ad arrivare da sopra un Ferry Boat.”
“Ok, non ti sembra di essere un po' esagerata adesso?”
Il cellulare vibrò di nuovo.
McFrowny? Non sembra adatto. Aspetta, questo significa che tu sai il mio?
Risi, rispondendo immediatamente.
Puoi scommetterci, McPerky.
“Sembri, non saprei...” mi osservò attentamente. “Felice?” corrugò la fronte. “Stai sorridendo? È un sorriso quello, per caso?”
“Dico sul serio, dovresti prendermi il cellulare” le dissi, alzandomi.
“Ok, dammelo” tese una mano verso di me.
Io esitai, facendo un passo indietro.
“Magari tra un paio di giorni” conclusi. “Che male potranno mai fare un paio di giorni?” chiesi innocentemente, svignandomela via con il cellulare ancora in mano.

Hai sentito che oggi hanno beccato la Bailey nella stanza del medico di guardia in atteggiamenti poco appropriati? Tu e lei non siete amiche?
Lo lessi camminando per il corridoio di ortopedia.
Sì, infatti sono stata delusa di essermelo sentito dire da una specializzanda. Era l'anestesista?
Risi, scuotendo la testa, mentre entravo in una delle stanze, facendomi un caffè. Sentii il cellulare vibrare.
L'infermiere. Ma, c'è anche un anestesista? Continua così, Bailey!
Per poco non mi soffocai, ridendo mentre bevevo caffè.
L'anestesista era prima dell'infermiere, a quanto pare. Che infermiere sarebbe?
Mi sedetti, aspettando la risposta. Non fui delusa.
Eli, infermiere di corsia in chirurgia generale. Simpatico, gentile. E anche fisicamente non è male, se ti piace il tipo.
Sorrisi, sorseggiando il caffè.
Che c'è, alto, moro e bellissimo non è il tuo tipo di uomo?
Finii quello che stavo bevendo, alzandomi e incamminandomi verso la stazione del piano.
Non proprio. Delusa? Alta, mora e bellissima è il mio tipo di donna, però.
Sorrisi, prendendo le cartelle per le visite di quel giorno.
Perché dovrei essere delusa? Sono alta, mora, bellissima e una donna. Ci rientro perfettamente.
Era iniziato innocentemente. Ma a quel punto dovevo per forza fare una battuta idiota, non riuscivo più a trattenermi.
Non posso contraddirti, su quello. Ma, ci stai provando con me, dottoressa Torres? (Hai già capito chi sono?)
Io risi, completamente immersa in quel mondo, ignorando le occhiate curiose di infermieri e specializzandi.
Non voglio saperlo, te l'ho detto. Ma tu hai fatto in fretta a capire chi sono io.
Aspettai qualche istante. E poi di nuovo, sentii il cellulare vibrare.
È il Seattle Grace, qui tutti sanno i fatti di tutti quanti. Mi hai detto di essere nuova e dal tuo primo messaggio ho capito che eri amica del dottor Sloan, non è stato difficile. E poi, ho i miei mezzi. Che mi dici del tuo tipo, invece?
Sollevai le cartelle con una mano. Solo quattro visite, quella mattina.
Dottoressa McPerky, ci stai provando con me?
Entrai nella prima stanza, facendo un controllo veloce al post operatorio. Non ero preoccupata di quel caso, Lexie controllava quell'uomo una volta ogni due ore, si sarebbe accorta se qualcosa fosse stato fuori dalla norma. Ma tutto era ordinario.
Chi dice che sono una dottoressa? Potrei essere un'infermiera. O una specializzanda. O un tecnico dei computer.
Risposi prima di entrare nella seconda stanza.
Ho un punto debole per i tecnici. Sono sempre stata interessata ai computer.
Ricevetti la risposta quando uscii dal controllo del pre operatorio.
Davvero? Perché sono negata con i computer.
Risi, rispondendo velocemente.
No. Però ho davvero un punto debole per i chirurghi.
Finite le visite, controllai nuovamente il cellulare.
Sto guadagnando punti, allora.
Sospirai, immaginandomela per la prima volta in un mese. Che era quanto quella storia era andata avanti.
Mi stai dando indizi. Non voglio indizi!
Aggiunsi una faccina sorridente per farle sapere che scherzavo ed inviai.
Colpa mia. Ora devo lasciarti, sto entrando in OR. Ci sentiamo presto.
Era quel 'presto' che mi aveva incastrato la prima volta. Perché non mi ero sentita minimamente in colpa a scriverle di nuovo. Ancora e ancora e ancora. Ed ora eravamo lì, al punto in cui dopo un mese in cui ci eravamo sentite tutti i giorni io facevo quei sospiri sognanti che era stata mia precisa intenzione evitare.
Il mio tipo? Non lo so. Capelli biondi e occhi azzurri, forse. Non ci ho mai pensato, in realtà.
Evitai il tabellone chirurgico per tutto il giorno, per non vedere chi era dentro in quel momento.

Sei qui da qualche parte, non è vero?
“Questa storia sta diventando ridicola.”
Qui dove?
Ignorai Addison, rispondendo.
Nella mensa. Percepisco la tua presenza.
“Callie. Callie, mi stai ignorando.”
Ora parli come una medium.
“Sai che odio quando mi ignori.”
Sei qui o no?
“Ok, se non mi rispondi mi prendo il tuo cellulare. Conto fino a tre.”
Non riesco a capire come fai. Ho i miei sospetti che tu abbia capito chi sono anche se continui a dirmi di non averne idea.
Mi guardai attorno, cercando qualcuno con un cellulare in mano. Fu un riflesso involontario.
Non riesco a vederti. “Sono qui davanti a te, perché non mi stai ascoltando?”
Non sai che aspetto ho. Che sia per quello?
“Callie.”
Cerco qualcuno con un cellulare in mano.
“Addie, è importante, ok?” mi guardai di nuovo attorno.
Non mi troverai. Ho i miei metodi, te l'ho detto.
Risi, leggendo il messaggio.
Hai vinto. Mi arrendo. 1-0 per te.
“Ok. Sono due mesi che questa storia va avanti. Ora è il momento che finisca.”
Se vuoi sapere chi sono chiedimelo e basta. Mi sono offerta di dirtelo un sacco di volte.
“Vuoi legarmi la mani?” la provocai, mentre digitavo la risposta.
Non voglio. Ma la curiosità ha il sopravvento sul mio lato razionale, di tanto in tanto.
“Sai, non è un male che lei ti piaccia. Ma vederti mandare messaggi tutto il tempo è irritante.”
Posso almeno sapere perché ci tieni così tanto a non sapere chi sono?
“Soprattutto quando mi ignori. Chiedile un appuntamento come fanno tutti e basta.”
Osservai il messaggio che avevo ricevuto, sospirando.
“Devo andare in sala operatoria, Addie. Ci vediamo più tardi, ok?”
Ci pensai per tutto il resto della giornata ma non riuscii a trovare una risposta decente alla domanda che mi aveva fatto. Quando finii il turno mi cambiai velocemente e andai a casa, dove mi sedetti sul letto e cercai di trovare qualcosa.
Rimasi lì per almeno un'ora, il cellulare in mano e un messaggio vuoto davanti agli occhi, prima di riuscire a capire il motivo io stessa.
Non lo so. Credo che sia perché mi piaci. Tendo a rovinare sempre tutto e non voglio che succeda, stavolta. Forse ho solo paura di ferirmi. È solo che mi è successo un sacco di volte, suppongo.
Mi cambiai e poi mi sdraiai sul letto. Lessi la risposta, poi spesi la luce e cercai di dormire invano.
L'ultima cosa che vorrei è ferirti.

“Buongiorno” mi salutò sedendosi al tavolo insieme a me.
Io, senza rispondere, appoggiai il cellulare sopra il tavolo, avvicinandoglielo.
“È il momento Addie. Distruggilo.”
Lei guardò prima l'apparecchio e poi me, l'espressione pensierosa.
“No” rispose infine con un sospiro.
“No?”
“No. Vedo quanto sei felice ultimamente. Anzi no, spensierata è la parola giusta. Guardati Callie, stai bene. Perché dovrei portarti via una cosa del genere?”
“All'inizio volevi farlo.”
“Perché all'inizio non era questo il modo in cui pensavo sarebbe andata a finire.”
“E come pensavi sarebbe andata a finire?”
Sospirò. “Con un cuore spezzato. Il tuo, probabilmente.”
“Ci stiamo arrivando” la rassicurai. “Sta succedendo quello che succede sempre. Io mi butto di testa e finisce che la sbatto sul fondo della piscina perché non c'è acqua.”
Inclinò la testa di lato nel tentativo di capire la metafora.
“Stai dicendo” cercò di tradurre le mie parole “che provi sentimenti che non sono ricambiati, ragione per cui finisci per essere ferita?”
“Sì. È quello che ho detto.”
Strinse le labbra in una linea sottile, spostando di nuovo lo sguardo sull'oggetto tra di noi. “Rimane comunque un no. Per adesso no.”

Come è stata la tua giornata?
Buona. Ho salvato la vita ad un uomo, oggi. E la gamba ad un altro. È stata una buona giornata.
Mi fa piacere sentirlo.
La tua?

Ci furono diversi momenti di pausa.
Vorrei che fossi qui.
Così male?
Così male.

Sospirai. Risposi immediatamente.
Quando le mie giornate vanno male chiudo gli occhi e faccio finta che i messaggi che mi mandi non siano messaggi e che tu sia qui. Solo per sapere che ho qualcuno accanto.
Come fai a immaginarmi lì? Non sai che aspetto ho. E poi, come leggi i messaggi se hai gli occhi chiusi?
Sto cercando di dire che non sei sola. Io sono lì. Hai accanto me.

Passò di nuovo qualche momento.
Ora va meglio.

Buon anniversario.
Mi sto dimenticando qualcosa, McPerky?
Sono tre mesi dal primo messaggio che mi hai mandato. Buon anniversario!
Oh, adesso ho capito. Buon anniversario!
Non mi incontrerai mai, non è vero?
Non lo so. Non ne ho davvero idea. Non mi capisco bene, in questo momento. Ho paura, sì, ma la cosa peggiore è che lascio che la paura mi freni.
So di cosa stai parlando. Passerà.
Se non passasse mai?

Ci mise diversi minuti per mettere insieme una risposta.
Passerà.
O, più che altro, una parola.

“Addison?”
“Dimmi.”
“Credi che sia possibile innamorarsi di qualcuno che non hai neanche mai incontrato?”
Lasciò cadere la sua forchetta, guardandomi con gli occhi leggermente sgranati.
“Oh, no, ti prego, dimmi che non l'hai fatto.”
Scrollai le spalle.
“Non lo so. Lo sto chiedendo a te, no?”
“Callie, ragiona. Non so nemmeno chi è lei. No, un momento. Tu non sai nemmeno chi è.”
“Allora leggi il nome. Dimmi chi è” le porsi il cellulare, ma lei alzò le mani in segno di resa.
“Non se ne parla. Non voglio entrare in questa storia più di così. Non sarò io a infrangere il tuo cuore, se vuoi sapere chi è, chiedilo a lei.”
“Questo è il punto, non penso di volerlo sapere.”
“Perché no?”
“Perché poi sarebbe reale. Poi sarei innamorata, in una relazione, mi sentirei soffocare e manderei tutto all'aria come ho fatto per tutta la mia vita.”
Mi prese la mano, facendomi alzare lo sguardo.
“Io vedo come questa donna ti fa illuminare, Callie. Le cose si risolveranno alla fine, credimi.”

Ti ho vista mentre entravi a lavoro. Oggi sei addirittura più bella del solito.
Ti stai scoprendo, McPerky. Ma grazie per il complimento.
Non c'è problema. Ogni volta che vuoi.
Una faccina che fa l'occhiolino? Ci stai provando con me?
Dimmi quando mai non ci sto provando con te.

Risi, con una mano mi coprii gli occhi, come se avesse sul serio potuto vedermi arrossire.
Questo è uno dei momenti in cui vorrei che fossi qui.
Dimmi dove sei e arrivo.
Sto entrando in sala operatoria.
Oh, accidenti. Mi va sempre male, non è così? Sarà per la prossima volta che riesco a farti accettare un complimento, allora.


Stavo cercando Addison ovunque, entrai in una delle stanze per i medici del suo piano e riconobbi subito la voce di Teddy.
“No. Non dovrei essere io a rimediare ai tuoi errori. Ma eccomi qui, giusto?”
Si voltarono entrambe verso di me, quando entrai.
“Scusate. Cercavo Addison. Pensavo fosse qui con te” guardai verso Teddy.
Scosse la testa, distogliendo lo sguardo.
“Tutto bene?” le chiesi.
“Sì, tutto ok. Solo” sospirò “problemi lavorativi” lanciò un'occhiata alla donna al suo fianco, prima di farmi segno di seguirla fuori dalla stanza. “Vieni, ti aiuto a cercarla.”
Corrugai la fronte, ma non protestai.

Non posso più farlo.
Che significa?
Significa che non posso più farlo. Non posso più guardare da lontano. Per te è facile, non sai nemmeno chi sono.
Certo che so chi sei.
No. Pensi di saperlo, ma non lo sai. Io so chi sei tu, però. E ti guardo ogni giorno, ogni giorno spero che mi dirai che hai cambiato idea, ma non succede mai. Non succederà mai.

Non risposi. Rimasi lì a fissare lo schermo e poco dopo arrivò un nuovo messaggio.
Mi dispiace.

Stavo pensando ad un modo per rimediare al casino che, per l'ennesima volta, avevo fatto, quando sentii bussare alla porta del mio ufficio.
“Avanti” risposi distrattamente.
Mi aspettavo una persona, invece ne entrarono sette.
Sgranai gli occhi, alzandomi in piedi.
“Che state facendo? È una specie di 'intervention'? Perché qualsiasi cosa Addison abbia detto...”
“Callie, dobbiamo parlarti.”
Oltre Addison c'erano Derek, Mark, Meredith, Cristina, Lexie e la Bailey.
Mi misi di nuovo seduta, guardando le loro facce tristi e colpevoli.
“Questa non mi piacerà, vero?” sussurrai a me stessa.
Mark fece un passo avanti e, con un sospiro pesante, appoggiò un telefono cellulare sopra la mia scrivania.
Lo osservai per qualche istante, non notando niente di strano.
“Cosa è?” chiesi ridendo, mentre il più atroce dei dubbi iniziava a farsi strada nella mia testa.
“Io e la Bailey lo abbiamo scoperto soltanto ieri” iniziò Addison, mentre Mark indietreggiava per tornare in linea con gli altri.
“Doveva essere uno scherzo innocente, una cosa per farsi quattro risate” intervenne Derek.
Chiusi per un momento gli occhi, inspirando.
“È stata una mia idea” continuò Mark. “Ho messo il numero nel tuo cellulare la sera in cui ero ubriaco. Me ne ero quasi dimenticato, avevo perfino perso il cellulare. Ma un paio di giorni dopo si è messo a squillare e ho visto che avevi mandato un messaggio.”
“No. Non può essere” sussurrai, fissando il cellulare davanti a me.
“Volevamo solo farti uno scherzo” ribadì ancora Derek. “Un paio di giorni, quattro risate. Ma Cristina e Meredith l'hanno scoperto e vedevano quanto fossi felice.”
“Non pensavamo che le cose sarebbero arrivate fino a questo punto” chiarì Meredith immediatamente.
“E quando io l'ho saputo” alzai lo sguardo verso Lexie. “Volevo solo che tornassi a sorridere” cercò di giustificarsi.
Mi alzai in piedi.
“Cerca di capire che...”
“No. Non voglio sentirlo, Mark. Piccola Grey, tu non avresti mai fatto una cosa del genere. Avete scelto tutte persone credibili, avete fatto bene a lasciare fuori Addie e la Bailey, perché sono troppo responsabili per fare una cosa del genere. Ma non vi credo comunque.”
“Mi dispiace, Callie” sussurrò Lexie. “Te l'ho detto. Volevo continuare a vederti sorridere.”
“Non vi credo. Non me la bevo neanche per un secondo. Guarda caso l'unica persona che non può mentirmi non ha ancora detto una parola” mi spostai, mettendomi davanti a Cristina, guardandola negli occhi. Tenne lo sguardo basso. “Parlami di come mi hai spezzato il cuore” la sfidai.
Lei esitò per parecchi istanti. Alla fine alzò il viso e mi guardò negli occhi. Poi li abbassò di nuovo, come se non sopportasse di vedermi in quel modo.
“Ero io la volta della pessima giornata.”
La mia sicurezza su l'intera faccenda vacillò.
“No. No, non è vero.”
“Avevo appena visto morire un paziente a cui ero particolarmente affezionata.”
Scossi la testa.
“Non ti credo.”
“Ero in camera mia, tu eri in soggiorno. Appena finito di scriverti sono venuta a dirti che andavo a dormire.”
“Stai tirando a indovinare.”
“No” fissò gli occhi dentro i miei. “Ero io.”
Chiusi gli occhi, sentendo il mondo precipitare mentre io ero ferma immobile.
Mi feci strada fino alla porta.
“Callie” Meredith provò ad afferrarmi ma io fui più veloce.
“Non voglio più avere niente a che fare con nessuno di voi.”
Uscii da lì ed entrai nel primo bagno che riuscii a trovare.
Appoggiai la fronte alla porta fredda e inspirai, cercando di calmarmi. Poi mi resi conto di aver lasciato lì il cellulare che Mark mi aveva mostrato, così decisi di tornare indietro e controllare.
A pochi passi dal mio ufficio sentii la voce di Cristina urlare, così mi fermai e ascoltai.
“No, non mi interessa, Mark.”
“Lo stiamo facendo per lei.”
“E con lei, intendi Callie? Perché io non credo” intervenne Lexie.
“Stiamo facendo la cosa giusta” disse Derek a voce più bassa.
“No, non è vero” Cristina alzò di nuovo la voce.
“Sì, invece” rispose Addison con tono asciutto. “Con il tempo le passerà. Ma se avesse continuato a pensare che lei era vera...”
“Lei era vera” fece notare Meredith.
“Lei ha anche rotto con Callie.”
“Non mi importa! Sto rischiando la mia amicizia con lei, ok? E a me importa di lei, mi importa della sua amicizia” di nuovo, Cristina stava urlando. “Non so come mi avete convinto a farmi mettere in mezzo, ma è stata una pessima idea.”
“Che ne facciamo del cellulare?” chiese Lexie.
“Glielo riporto” si offrì Addison. “E le dico di non mandare più messaggi.”
“Qualcuno mi ripeta perché ci stiamo prendendo la colpa” sospirò Meredith.
“Perché ognuno di noi avrebbe potuto guardare il nome su quel display” rispose Bailey. “Tutti noi, tutti ci siamo trovati qualche volta con lei, ma nessuno di noi si è mai preso la briga di guardare quel nome e impedire che tutto questo succedesse. Sarebbe bastato andare da lei e dirle che Callie ha sofferto molto, dirle di non illuderla e di non avere fretta. Invece adesso hanno tutte e due il cuore spezzato.”
Avevo sentito abbastanza. Me ne andai, cercando Webber per chiedergli il resto della giornata libera, dicendogli che mi sentivo davvero male.
Mi chiusi in camera mia tutto il giorno e parte del giorno dopo, cercando di capire cosa avrei dovuto fare a quel punto.
E poi, all'improvviso, capii che non c'era una soluzione.
Così mi alzai, mi vestii ed andai in ospedale. Ebbi fortuna, perché li trovai tutti insieme che pranzavano. E c'erano anche Teddy e la donna con cui l'avevo vista litigare.
Mi avvicinai, mettendomi davanti ad Addison, lo sguardo piantato a terra e le mani sui fianchi, cercando di trovare le parole.
“Tu eri lì. Sai che è il mio modo di liberarmi del passato, buttare via le cose che me ne ricordano, perché tu eri lì. Quando ho rotto con George, mi hai visto raccogliere tutte le sue cose dal mio appartamento, metterle in una scatola e portargliele indietro. Pensavo fosse triste, perché di mesi di una storia rimaneva solo una scatola. Ed eri lì quando ti ho chiamato e ti ho detto che una donna mi aveva lasciato in mezzo a un parcheggio ed era sparita nel nulla. E anche allora mi hai guardato riempire mezza scatola e lasciarla nel suo ufficio, perché la portassero via con il resto della sua roba. Così ieri, quando ero a casa, mi sono detta: devo fare una scatola. Devo prendere una scatola e metterci dentro tutto quello che mi ricorda di lei e darla ad Addison perché gliela restituisca. O, sai, la bruci.”
“Callie” cercò di interrompermi.
“Comunque” continuai. “Mi sono messa a cercare cose che mi ricordassero di lei, ma ho trovato solo” mi frugai in tasca “solo questo” le mostrai il mio cellulare con una piccola risata amara, alzando lo sguardo per la prima volta. “Mi divertivo a fingere di non sapere chi fosse, ma non era vero. Eppure questo è tutto quello che mi rimane. Solo il mio cellulare. È tutto qui dentro. Quindi ho pensato, ecco” abbassai di nuovo lo sguardo “può averlo lei. È il mio modo di liberarmi dal passato” me lo rigirai tra le mani, poi lo mostrai ad Addison ancora una volta, sollevandolo prima di appoggiarlo sul tavolo, non davanti a lei, ma alla donna che volevo lo tenesse.
Per un istante ci fu silenzio e tutti spostarono lo sguardo su di lei. La guardai negli occhi.
“È tuo” le dissi. “Ci sono i tuoi messaggi e tutto riguarda te, perfino le note sono cose che avrei voluto dirti ma non sapevo come. È tuo da tenere.”
Mi voltai, facendo un passo verso l'uscita e poi voltandomi di nuovo.
“Al resto di voi, complimenti per aver mentito. Che fantastici amici che ho.”

“Ti ho cercata ovunque.”
Fui colta di sorpresa dalla voce alla mia destra. Le lanciai un'occhiata, poi tornai alle patatine che avevo in mano.
“Mi hai mostrato tu questo posto.”
“Per questo non pensavo di trovarti qui. Mi sembrava troppo scontato e quindi l'ho escluso.”
“Il rasoio di Occam, Cristina. La soluzione più semplice è sempre la migliore.”
Saltò sul lettino in cui ero seduta, rubandomi un paio delle patatine dal pacchetto.
“Volevi che ti trovassi io invece degli altri” disse con sicurezza. “Perché io non volevo mentire.”
“Ma hai mentito lo stesso.”
“Avresti perdonato noi” sospirò “più facilmente di quanto perdonerai te stessa adesso.”
Scrollai le spalle, pensandoci per qualche istante. Probabilmente aveva ragione.
“Da quanto sapevi che era lei?” chiese prendendo altre patatine.
“Scherzi?” chiesi ridendo. “Ho avuto un caso con lei il secondo mese che ero qui. Lasciami solo dire che, McPerky? Non ho dovuto vagare troppo con l'immaginazione.”
“Sei ancora innamorata di lei?”
“Cristina, non ho mica un interruttore che posso accendere e spegnere quando voglio, ok?”
“Davvero? Perché qualche volta sembra di sì.”
Io risi, scuotendo la testa.
“Una volta sei stata perfino innamorata di me.”
Risi più forte, voltandomi per guardarla in viso, la mia espressione carica di incredulità.
“È successo” confermò. “Una notte. Avevi bevuto parecchio. E anche io. Ho provato a baciarti, ma ci vedevo doppio e sono finita per prenderti sul mento. Tu mi hai baciato il naso.”
“Ed ero innamorata di te?” domandai, cercando di ricordare una notte del genere.
“Oh, sì. Sì, lo eri.”
Continuai a ridere insieme a lei, che continuò a rubare le mie patatine.
“Non preoccuparti, però. Quella notte? Quella notte ero innamorata di te anche io.”
La nostra ennesima risata riecheggiò nel seminterrato.

“Non puoi essere arrabbiata per sempre” mi si avvicinò mentre stavo tamponando la gamba di un mio paziente.
“Non parlerò con te adesso, Addison.”
“Mi stai ignorando da ore, adesso mi ascolterai.”
“No, invece. Adesso vado in sala operatoria. E a meno che il signor Kingsley non stia aspettando un bambino, cosa di cui dubito fortemente, tu rimani qui.”
Il signor Kingsley aveva, tuttavia, problemi di cuore e agli organi interni.
“Voleva evitare che stessi male” mi informò Teddy.
“Quindi ha deciso di mentire su tutto.”
Abbiamo deciso” mi corresse la Bailey “di non farti soffrire più di quello che stavi già soffrendo.”
“Non mi importa.”
“Sì che ti importa.”
“Ok, Bailey, ti perdono. Contenta?”
“No, tu mi avevi già perdonato. Avresti trovato una scusa per far venire qui il primario, altrimenti, invece di operare con me. Sto parlando di Addison.”
“Beh, Addison non è qui.”
“Sì che ci sono” alzai gli occhi verso la galleria, vedendola parlare dentro il microfono. “Non posso entrare in sala operatoria, ma posso parlare dal microfono. Posso parlare e tu non puoi fermarmi, posso parlare per ore. Quanto dura una ricostruzione come questa? Scommetto parecchio. Un sacco di tempo per ascoltarmi parlare di come io ero, di fatto, lì, come hai detto tu stessa, ogni volta. Ad ogni passo del cammino, io ero lì. E ora perdoni Cristina-”
“Mi ha detto di essere stata innamorata di me” protestai.
“-e la Bailey.”
“Nessuno è mai arrabbiato con la Bailey. Fa troppa paura.”
“Dannatamente giusto” intervenne la donna davanti a me.
“Ok, perdonerai anche Mark e Derek prima di me?”
“Ah” la schernii. “Mark tiene ancora il broncio perché non vado più a letto con lui e Derek perché sua moglie avrebbe preferito me, se fossi stata un uomo. Con loro siamo più o meno pari.”
“Stai scherzando?” chiese, avvicinandosi di più all'interfono. “Io sono la tua migliore amica. Devi perdonarmi.”
“Mi hai mentito” alzai lo sguardo, fulminandola. “Sapevi cosa provavo e mi hai comunque mentito, Addison.”
“Tu sai di essere arrabbiata con me solo perché non puoi essere arrabbiata con lei, giusto? Stai proiettando.”
“Smetti di urlare.”
“Tu smetti di urlare.”
“Smettetela entrambe. Stiamo operando. Potete parlarne più tardi” intervenne Teddy, risoluta.
Quando uscii da lì Addison mi aspettava, pronta a riprendere da dove avevamo lasciato. O almeno, così credevo.
“Ti ho mentito. E mi dispiace. Ma credevo davvero che fosse il modo migliore che avevo per proteggerti. Lei ti aveva spezzato il cuore e ho pensato che era meglio se odiavi noi, invece di tornare ad essere come eri quando sei arrivata qui. Non volevo più vederti triste.”
“Provi sempre a proteggermi, ma non è compito tuo. Sai come sono fatta, io mi butto sempre e finisce che mi faccio male. Non è colpa tua e non è compito tuo rimediare.”
“Ma è compito mio essere lì per rimettere insieme i pezzi.”
“Quello” sospirai, un nodo in gola “puoi farlo adesso, se vuoi. Perché mi sento davvero a pezzi, Addie.”
Annuì, mentre si avvicinava e avvolgeva le braccia attorno a me.
“Lo so, tesoro. Lo so.”

“Siamo a lavoro. Non puoi portare quella roba qui dentro.”
“Ho bussato al tuo appartamento ieri sera. Non mi hai aperto. Te la sei cercata.”
Guardai i due bicchieri da shot e la bottiglia di tequila sulla mia scrivania mentre lei chiudeva a chiave la stanza. Versò i primi due, porgendomene uno.
“Meredith.”
“Non sono brava con le parole. Questo è il mio modo di rimediare.”
“Facendomi ubriacare a lavoro?”
“Sì. E in più, dopo un po' di questi, divento brava anche con le parole.”
Buttò giù il primo e, dopo un paio di altri minuti di esitazione nel silenzio completo, la seguii.
Ci arrendemmo a metà della bottiglia.
Eravamo sedute per terra con la schiena appoggiata al muro.
“Ti voglio bene, Callie.”
“Ti voglio bene anche io. Basta tequila però. Lasciamo il resto per Cristina.”
La sentii ridere piano.

Derek, Mark e Lexie vennero a chiedermi scusa insieme. Li liquidai, dicendo che capivo e che non importava. In realtà non capivo, ma era vero che non importava. Non a quel punto. Non più.
Mi si avvicinò, un giorno, mentre stavo riempiendo una cartella.
“Mi dispiace.”
Guardai verso di lei.
“Oh, sono nel mezzo?” chiesi alzando la cartella e spostandomi, pensando che volesse prendere qualcosa che stava dietro di me. “Ecco fatto.”
“No, Callie. Voglio scusarmi con te per aver coinvolto Addison. Avrei dovuto sbrigarmela da sola quando ho scoperto cosa stava succedendo, invece avevo paura di peggiorare le cose e ho chiesto il suo aiuto. E ora tu stai male, quindi mi sento in colpa.”
“Teddy, non è colpa tua” le rivolsi un breve sorriso, tornando alla mia cartella. “Davvero. Non è colpa di nessuno. E non preoccuparti per me, perché io me la caverò. Avrai sentito abbastanza storie per aver capito che” sospirai “io me la cavo sempre.”
“Mi dispiace davvero, però.”
“Lo apprezzo. Grazie.”

Era sembrata una frase innocente, all'inizio.
“Stasera alle sette. Serata tra donne.”
Avevano votato. Eravamo andate a giocare a baseball.
“Ti mostro come si batte un home run, Meredith.”
“Se ci riesci con la prima palla che colpisci, ti bacio.”
Risi, in approvazione.
“Calliope.”
Mi voltai e il sorriso che avevo sulle labbra sparì alla velocità della luce.
“Arizona” replicai con tono asciutto. “O preferisci dottoressa Robbins?” mi allontanai, diretta verso Addison, pronta a chiedere spiegazioni. Ma fui direttamente accolta dalle risposte.
“È amica di Teddy. Tu non sei uscita spesso con noi, lei sì. Per anni. Mi dispiace, ma io le voglio bene, e anche Teddy e tutte le altre.”
La guardai con freddezza e afferrai una delle mazze, passandogliela con decisione.
“Batti, Addison.”
Sospirò, sistemandosi sulla piazzola di battuta.
“Mi parlerai mai più?”
“Non penso. No” risposi, guardando in avanti.
“Non capisco perché sei così arrabbiata.”
“Mi hai lasc-” sospirai, abbassando la voce. “No, non è nemmeno vero. Non ce n'era bisogno, perché non siamo mai state insieme. Hai lasciato che altri si prendessero la colpa.”
“Perché tutti mi hanno detto che un'altra delusione in amore ti avrebbe distrutto, ed io non volevo farlo. Non volevo farti del male. Ma tu non volevi neanche sapere il mio nome.”
“Lo sapevo benissimo, il tuo nome.”
“Eppure hai tenuto le distanze. Non è solo colpa mia, questa situazione, Calliope. Vedi le cose dal mio punto di vista.”
“Non sono arrabbiata con te, infatti.”
“Sicura? Perché sembri arrabbiata.”
“Sì, ma non con te. Con me stessa. Perché, ancora una volta, ho rovinato tutto.”
Dopo qualche colpo fallito, Addison ci rinunciò, passando la mazza alla Bailey che riuscì a colpire la terza palla, anche se debolmente. Lei, ridendo, passò la mazza a me.
Presi un respiro profondo, preparandomi a colpire.
“Ogni tanto ti mando un messaggio.”
La pallina mi passò accanto ed io non mi mossi.
“Nelle ultime due settimane, dico. Poi mi ricordo che ho ancora io il tuo telefono. E che non risponderai.”
Strinsi la mazza con più forza, inspirando ed espirando ancora una volta.
“Mi piace pensare che un giorno verrai a chiedermelo indietro e leggerai quei messaggi.”
La seconda pallina mi passò accanto, sempre senza che io muovessi la mazza. La abbassai, chiudendo gli occhi per un istante, poi la alzai nuovamente, caricando. Il fatto che tutte la sentissero parlare non mi stava aiutando.
Colpii la terza pallina più forte di quanto avessi avuto intenzione di fare, mandandola fuori dal campo di gioco. Scoppiai a ridere insieme a Meredith e Cristina.
“Avete visto? Home run al primo colpo.”
Risi, indicando la direzione della pallina e voltandomi, lanciando la mazza che avevo in mano verso Cristina che la prese al volo.
“Hai visto? Al primo colpo” ripetei, superandola e sorridendo a Meredith.
“Al primo colpo” confermò, alzando le mani in segno di resa.
Io le presi il viso tra le mani, baciandola sulle labbra, prima di andare verso la porta della recinzione.
“Un fottuto fuoricampo al primo maledetto colpo, quante volte capita nella vita di una persona normale?” chiesi a me stessa, uscendo mentre continuavo a ridere. “Sono fantastica” sospirai, mentre mi incamminavo verso la macchina.

“Te ne sei andata presto, ieri sera.”
“Avevo da fare” risposi distrattamente.
“Avevi da fare? Interessante. Cosa, se posso chiedere?”
“No, non puoi chiedere” le rivolsi un sorriso tirato, alzandomi dalla scrivania del pronto soccorso.
“Callie” sospirò.
“Addison” risposi con lo stesso tono. “Non hai una fidanzata a cui dare noia?”
“Sì. E non ce l'hai anche tu?”
“Non da quando mi ha lasciato.”
“Ah!”
“Volevo dire...Accidenti. Io e lei non siamo mai state insieme.”
“Vero. Se vivi in un mondo in cui le cose sono in bianco e nero. Perché in un mondo a colori, tu e lei vi siete costantemente mandate messaggi, giorno e notte, incessantemente, per più di tre mesi. E tu non volevi incontrarla. Tu fingevi di non sapere chi fosse, perché sei stata ferita così tante volte che non ti fidi più nemmeno di te stessa. E lei ti ha detto che non poteva più andare avanti in quel modo. Ma questo non conta, perché in un mondo in bianco e nero, tu non l'hai incontrata e lei ha chiuso...qualsiasi cosa ci fosse tra voi.”
Scrollai le spalle.
“Su una cosa hai ragione. Lei ha chiuso. E io aspetto ancora le mie scuse.”
“Non le avrai. Tu hai sbagliato per prima. Entrambe vi siete comportate in modo stupido. Trovatevi d'accordo su questo” propose.
Alzai gli occhi dalla cartella che avevo preso in mano poco prima con espressione preoccupata.
“Devo andare. Hanno appena portato in pronto soccorso un paziente e spero che qualcuno abbia scritto male il nome.”
Quando, un paio d'ore dopo, salii a pediatria, vidi Addison parlare con Arizona e Meredith.
“Mi serve il mio cellulare.”
Allungai una mano, lo sguardo piantato a terra. La guardai di sfuggita e vidi un piccolo sorriso iniziare a farsi strada sul suo viso.
“Calliope...” iniziò con tono pacato.
“No, dico sul serio. Il padre di George è stato appena operato. Da me. Mi serve il suo numero per avvertirlo, ma il numero è in quel cellulare, quindi” sospirai “mi serve indietro il cellulare.”
Il sorriso sparì, rimpiazzato da un'aria preoccupata.
“Stai bene?”
“Sì, mi serve solo quel maledetto cellulare” risposi seccamente.
Annuì. “Vieni. È nel mio armadietto.”
La seguii e la guardai aprire l'armadietto e prenderlo a colpo sicuro.
“Grazie.”
“Calliope, tu sai che io...”
Me ne andai senza ascoltare il resto di quello che aveva da dire.
Tornai al piano di ortopedia e avvertii George, che mi disse che sarebbe salito sul primo aereo. Poi chiamai sua madre, che invece avrebbe chiamato un taxi e sarebbe stata lì in meno di un'ora. I due fratelli di George erano lì in ospedale, erano loro che avevano accompagnato il padre.
“Che è successo?” domandò, venendomi incontro appena mi vide.
“Ha avuto un problema al cuore, la dottoressa Altman, la nostra primaria di chirurgia, lo sta visitando in questo momento. Lo abbiamo operato insieme, sono dovuta intervenire sulla spalla, se l'è lussata quando è caduto a causa dell'infarto.”
“Oddio.”
“Ti aspettano tutti dentro.”
“Tu non vieni?”
“Il capo mi ha tolto dal caso quando ha saputo che ci conoscevamo. Fammi chiamare se hai bisogno di qualcosa, ok? Porta loro i miei saluti.”
Raccogliendo la poca forza che mi era rimasta me ne tornai nel reparto di ortopedia, gettandomi su uno dei letti per i medici e cercando di dormire armeno qualche ora.

“Stai bene?”
“Benissimo.”
Si sedette difronte a me.
“Calliope.”
“Arizona” usai il suo stesso tono.
“Senti, so che quel messaggio...”
“Non è colpa tua.”
Quello la fece tacere.
“È colpa mia. Tu hai chiuso, ma io non volevo incontrarti. Mi sono comportata da idiota, ho fatto una stronzata e ora dovrò conviverci. La colpa è mia e mi dispiace. Non è mai stata colpa tua.”
Mi alzai, passandole accanto. Afferrò la mia mano.
“Non andartene di nuovo. Dovrai perdonarmi, prima o poi, è stata una sciocchezza.”
“Non posso rimanere” spiegai in un sussurro, guardando in avanti. “Non oggi, mi dispiace. Non posso rimanere.”
Mi districai gentilmente dalla sua presa, salendo a cardiologia per la visita di controllo del signor O'Malley, visto che avevo preso di nuovo il suo caso, dopo chiarito il motivo per cui già ci conoscevamo.

Quando scesi nell'ingresso c'erano parecchie persone. La maggior parte dei miei colleghi staccava a quell'ora e raggiunse il massimo riempimento proprio quando lo vidi uscire dall'ascensore, guardarsi attorno, accorgersi di me e marciare nella mia direzione.
“È morto.”
“Ho sentito. Mi dispiace.”
“Tu non eri lì” quasi urlò.
“Abbassa la voce George. L'ho operato una settimana fa, visitato ogni mattina e di nuovo nel pomeriggio, tutti i giorni. Non c'era niente che io potessi fare. Non c'era niente che nessuno potesse fare” tenni la voce bassa, ma non servì.
Tutti avevano sentito la storia. Dottori, infermieri, assistenti, perfino pazienti. E ora si stavano tutti radunando lì per sentire cosa stava succedendo. Era pur sempre il Seattle Grace.
“Ma ci deve essere qualcosa, qualcosa che potevamo fare, per...” chiuse gli occhi.
“George” gli sfiorai le spalle, cercando di calmarlo in modo che abbassasse la voce. “Guardami, George. Non c'era niente da fare.”
Annuii cercando di convincerlo. Guardandolo negli occhi capii che aveva pianto.
“Mi dispiace per la tua perdita.”
Mi allontanai da lui di qualche passo, quando lo sentii di nuovo parlare a voce troppo alta.
“Che diavolo ti è successo?”
Mi bloccai. “A me?” domandai in un sussurro, voltando di lato la testa ma non il busto.
“A te. Eri sicura di te, fiera, ma ci tenevi. Ci tenevi da morire. Ora mi rifili condoglianze prestampate e volti le spalle ad un amico. Quindi sì, che cosa diavolo ti è successo?” chiese con rabbia.
Dopo un momento di incredulità mi voltai guardandolo negli occhi e facendo un passo deciso verso di lui. Era la goccia che faceva traboccare il vaso. Per giorni avevo sopportato la sua presenza ed il fatto che, visto che aveva bisogno di me, improvvisamente eravamo diventati amici. Quella storia sarebbe finita in quel momento.
“Vuoi sapere che mi è successo? Tu. Tu mi sei successo” alzai la voce anche io. “Ero sicura di me e ci tenevo, ma poi tu sei entrato nella mia vita, mi hai spezzato il cuore, mi hai tradito mentre te ne uscivi con frasi del tipo: 'lei è troppo bella per me, è una modella'. E quindi io cosa ero? Il brutto anatroccolo che hai baciato e non è diventato un cigno?” domandai amareggiata. “Quindi no, non sono più sicura di me e faccio del mio meglio per mantenere una distanza dalle persone che non conosco. Tu, ecco cosa diavolo mi è successo” ripetei per l'ultima volta, voltandomi e dirigendomi verso le scale.
Mi cambiai ed uscii. E lei era lì, sotto il suo ombrello.
“Che ci fai qui fuori?”
Alzò lo sguardo, accorgendosi solo dopo che avevo parlato della mia presenza e allontanandosi dal muro a cui si era appoggiata e facendo un passo verso di me.
“Ti aspettavo. Sai, ci sono un sacco di modi per entrare, uscire, salire e scendere in ospedale, ma questa è l'unica strada per il tuo appartamento. Quindi ti aspettavo qui.”
“Ragionamento impeccabile.”
“Ti ringrazio.”
Sospirai, rimanendo ferma sotto la pioggia.
“Puoi venire qui sotto” offrì, indicando il proprio ombrello. “C'è un sacco di posto.”
Io non mi mossi. Alzai lo sguardo dall'asfalto per incontrare il suo. Un leggero sorriso aleggiava sulle sue labbra. Il sorriso di qualcuno che voleva confortarmi, in qualche modo.
“Io vedo il mondo in bianco e nero” le spiegai, scuotendo appena la testa. “Niente colori, niente sfumature, solo bianco e nero. Ora, in un mondo a colori, quello che ci è successo è colpa mia, in parte, oppure non è colpa di nessuno, perché io ho un passato che mi ha portato a comportarmi come un'idiota. Ma tu non hai completamente ragione, non in modo assoluto, quindi, in un mondo in bianco e nero, se non hai assolutamente ragione, hai torto.”
Lei sembrò seguire il ragionamento.
“Ho sbagliato ad incolpare te” continuai. “Mi rendo conto, adesso, che le tue azioni erano una conseguenza diretta dell'atteggiamento sbagliato che avevo.”
“Parli come se stessi tenendo una conferenza stampa.”
“Perché ho preparato il discorso parola per parola. Se mantengo un certo distacco riuscirò ad attenermi a quello che ho in mente.”
“Ok, mi dispiace aver interrotto, allora. Vai pure avanti.”
“Ti ringrazio. Dicevo, in un mondo in bianco e nero, io devo scegliere se hai ragione o torto, se crederti o non crederti, se fidarmi o non fidarmi, se amarti o non amarti. E non ci sono vie di mezzo, capisci? Quindi anche se hai quasi del tutto ragione, per come la vedo io hai comunque torto. Se anche una sola volta mi hai mentito, non riesco più a crederti.”
“Se anche una sola volta ti ho deluso, non puoi fidarti di me.”
“Esattamente.”
“Ti stai bagnando. Vieni almeno sotto l'ombrello, mentre mi dici che non vuoi più saperne di me, ok? Non voglio che ti prenda l'influenza, o qualcosa di peggio.”
Non la ascoltai.
“In un mondo in bianco e nero dove le persone che ho amato mi hanno tradito, mentito, lasciato e ferito, la conclusione più logica a cui giungere è che...”
“...che tu non voglia più amare.”
“Sì” confermai, le lacrime dei miei occhi si confondevano tra la pioggia. “Ci ho provato. Non ha funzionato. Non ci riesco.”
“Non riesci ad amare” concluse per me.
“Non riesco a non farlo” la corressi. “Ed è per questo che ci sono rimasta male” fece un passo verso di me, io alzai una mano. “Lasciami finire” sussurrai. “Ci sono rimasta male perché pensavo che non ci tenessi quanto ci tenevo io.”
Ignorò la mia mano alzata, venendomi incontro finché non fui al riparo dalla pioggia.
“Io vedo il mondo in bianco e nero. Significa che ci tengo di meno e mostro di meno il mio orgoglio, ma sono ancora quella persona. Sono ancora la persona che ci tiene più di quanto dovrebbe.”
Sospirando, passò una mano sulla mia guancia e tra i miei capelli bagnati.
“Ci tengo anche io. Ci tengo anche io più di quanto dovrei.”

So here I am, with my thoughts of you.
Dovrei immaginarti cantarmela?
Ho una voce decente. Ti piacerebbe.
Mi piace la tua voce. E di sicuro mi piacerebbe sentirti cantare.
Sono stupita, comunque. Conoscevi la canzone?
L'ho cercata su Google. La sto ascoltando da dieci minuti a ripetizione.
Leave the memories alone, don't change a thing.
Me la stai ancora cantando?
I will hold you here, in my memory.
Me la stai ancora cantando.
Come sta andando la tua giornata?

Passarono diversi minuti.
Vorrei che fossi qui.
Così male?
Peggio.

Non sapevo cosa rispondere. Così non lo feci. Andai nel piano di pediatria e camminai per il corridoio, fino ad arrivare ad una delle stanze per i pazienti. A colpo sicuro, aprii. Era su uno dei letti, il cellulare in mano, fissava il soffitto.
Richiusi la porta e lei si voltò.
“Come mi hai trovato?”
“Se ascolti attentamente si sente la musica dal corridoio” indicai il suo telefono che ancora mandava a ripetizione la canzone dei Fuel. “Sei nella stanza di un paziente” osservai.
“Era la stanza di Wallace.”
Sorrisi. “Mi ricordo di Wallace. Il piccolo genio della matematica, giusto?”
“È morto. Oggi era il suo undicesimo compleanno.”
Il sorriso sparì dalle mie labbra mentre la guardavo rimanere a fissare il soffitto. La canzone sfumò e lei sollevò il cellulare solo il tempo necessario per rimetterla dall'inizio.
“La mia scelta della canzone non ha esattamente aiutato, vero?”
“Non proprio.”
Sospirai, avvicinandomi e facendole segno di spostarsi. Mi sdraiai al suo fianco. Rimasi con lei, in silenzio, aspettando che fosse pronta per parlare.
“Sai di come qualche volta ci sono quei giorni in cui pensi che niente possa andare più storto, ma appena lo pensi le cose finiscono per peggiorare ancora di più?”
“Sì.”
“Ne sto avendo uno, ora.”
“Lo so. Se può farti sentire meglio una paziente ha vomitato addosso a Mark, prima.”
“Questo è” si lasciò sfuggire una risata, ma cercò subito di soffocarla. “Orribile, è orribile, Calliope.”
“Non è finita. Il figlio gli ha dato un calcio sullo stinco e morso un braccio. Dovevi vederlo. Aveva paura di avvicinarsi anche solo alla stanza.”
Scoppiò a ridere e per qualche istante quello fu l'unico rumore a riempire la stanza.
“Ho un'operazione, tra poco. Ma promettimi di uscire da qui, ok?”
“Me la caverò” mi rassicurò.
“Ehi, quella è la mia battuta” scherzai, mentre mi alzavo dal letto. Le sorrisi, indietreggiando in direzione della porta.
“Me lo ricordo. Ma non puoi sempre essere tu la persona forte. Non tutto il tempo, non per tutti quanti. Ogni tanto, devi lasciare che sia qualcun altro a prendersi cura di te.”
Sospettai che quel commento andasse oltre il semplice aver avuto una pessima giornata a lavoro, ma non dissi niente. Le sorrisi di nuovo e poi uscii dalla stanza.

Non riesco a dormire.
E così hai deciso di svegliare me?

Risi della mia stessa battuta, ma subito dopo le mandai un secondo messaggio.
Non riesco a dormire neanche io.
Stanno mandando in onda delle repliche di The L Word.
Ah, televisione di qualità vedo, Arizona.
Tu che stai facendo?
Leggo un libro. Il ladro di sogni.
Sei sola in casa? Ti avverto, passerai tutta la notte con gli occhi spalancati cercando di captare ogni minimo rumore.
Cristina e Owen sono in soggiorno. Metterò i tappi per le orecchie.
Non lo farai. Fidati. Ci proverai, ma rimarrai tutta la notte ad ascoltare il silenzio. Quel libro è terrificante.
Dovrei guardare The L Word? Come ho detto, il soggiorno è occupato.
Puoi sempre venire da me.

Esitai qualche secondo, rileggendo il messaggio un paio di volte. Poi ne arrivò un altro.
Ti lascio scegliere quale DVD di Harry Potter vedere.
Risi, mentre mi decidevo finalmente a rispondere.
Hai anche il quinto?
Calliope, ti prego. Otto film e sette libri, tutti sulla stessa mensola.
Sarò lì in dieci minuti.


Stavo pensando a te.
Alzai interrogativamente un sopracciglio mentre leggevo, quasi come se potesse vedermi.
A qualcosa in particolare?
No. Solo a te. Ci sei stasera?
Se ti riferisci alla serata sole donne, sì. Ci sono stasera.
Non sembri troppo entusiasta.
Dico solo che Addison organizza fin troppe serate sole donne, ultimamente. Ho iniziato a pensare che abbia a che fare con il fatto che così può stare insieme a Teddy ogni sera della settimana e non chiamarla ossessione. O convivenza.
Non è stata Addison a organizzarla. Colpa mia, stavolta.
Sei una pessima influenza.
Su Addison?
Su di me.
Perché organizzo serate tra donne? Sono confusa.
Perché mi distrai dal lavoro. Devo andare, ci sentiamo dopo.
D'accordo. Ciao, Calliope. Continuerò a pensare a te, tanto perché tu lo sappia.
Mi sta bene. Tanto sto pensando a te anche io.


“Stai facendo lo stesso errore di prima.”
“Prego?”
“Con Arizona.”
“Di che stai parlando?”
Sorseggiò il suo drink, sospirò e poi mi guardò nuovamente negli occhi. Eravamo da Joe. Teddy e Cristina stavano andando a prendere altri drink, Lexie e April erano già tornate a casa, Arizona era in bagno e Meredith era troppo ubriaca per ascoltare Addison che mi parlava.
“Stai facendo lo stesso errore di prima. Non aspetterà per sempre. Aspetterà, certo, perché le piaci e quando ti guarda sente le farfalle allo stomaco, ma non per sempre. E finirà che si stuferà di nuovo e tu avrai paura di nuovo e non avrai ancora fatto niente. E dovrai guardarla mentre è felice insieme a qualcuno che non sei tu.”
La fissai senza parlare per diversi minuti.
“Ti mancherà. Quando meno te lo aspetti, anche tra venti, trenta, cinquant'anni, ti mancherà. E ti sentirai un'idiota perché non è mai stata tua. Quindi fai in modo che lo sia, anche per un solo momento. Così non dovrai sentirti in colpa quando ti mancherà.”
“Spostati” ordinò Cristina. “Serve posto per altri alcolici” aggiunse, sedendosi.
Continuai a guardare Addison, ma lei distolse lo sguardo, sorridendo a Teddy, che si stava sedendo.

“Che hai? Sembri distratta.”
Era venuta a casa mia, avevo aperto una bottiglia di vino rosso e ci eravamo sedute sul divano.
Scrollai le spalle, guardandola di sottecchi.
“Calliope” usò quel suo tono da 'non attacca, ti conosco'.
“Non voglio che passino cinquant'anni.”
Mi guardò corrugando appena la fronte.
“E cosa suggerisci per rimediare? Andiamo sull'Isola che non c'è, oppure usiamo una Giratempo?”
“No, Arizona. Non voglio svegliarmi tra cinquant'anni e sentire la tua mancanza. Ma potrebbe succedere. Ed io potrei non essere in grado di farci niente” ammisi con tranquillità, sospirando.
“Quindi, che significa esattamente? Non vuoi più vedermi?”
“Se non ti vedo più non ci sarà bisogno di aspettare, inizierai a mancarmi oggi stesso. Non posso sapere cosa succederà nei prossimi cinquant'anni e forse mi mancherai e non potrò farci niente. Ma posso ancora decidere per domani. E non voglio sentire la tua mancanza, domani.”
“Non devi farlo. Non devo mancarti. Sono proprio qui accanto a te.”
Mi avvicinai a lei e feci quello che avrei dovuto fare un sacco di tempo prima, prendendole il viso tra le mani e baciandola.

Calliope?
Sì?

Quasi riuscii a percepirla esitare per qualche minuto.
Ti amo.
Un sorriso si aprì sul mio viso mentre leggevo e rileggevo quelle due parole.
Ti amo anch'io.




Grazie mille a tutte voi che avete letto anche questo capitolo! Se non dovessi aggiornare di nuovo prima di Natale, tantissimi auguri a tutte quante!


Ritorna all'indice


Capitolo 48
*** La nostra prima partita di poker ***


Mi scuso tantissimo per la prolungata assenza e ringrazio di cuore tutti quelli che stanno ancora seguendo la storia!

Avvertimenti: leggermente OOC



La nostra prima partita di poker


Potevo vedere le sue labbra muoversi, ma non avevo la più pallida idea di cosa mi stesse parlando. La musica della discoteca era ad un livello assordante, riuscivo a malapena a rendermi conto di quello che mi succedeva attorno, i miei sensi erano rallentati.
“Teddy, non ho capito una parola di quello che hai detto” urlai, cercando di sovrastare il rumore.
Lei mi guardò, l'aria confusa.
Così mi indicai le orecchie, facendole capire che non la stavo sentendo. Lei mi fece un segno con la testa, così ci spostammo e la seguii verso il bar.
“Non so come mi hai convinto ad accompagnarti fin qui, giuro” le dissi appena raggiungemmo una zona del locale dove la musica era più bassa.
“Oh, andiamo. È eccitante” mosse le sopracciglia, scrollando appena le spalle. “Guardati, la figlia perfetta di un Colonnello dell'esercito sta per giocare una partita di poker in un locale per sole donne” mi sorrise in modo malizioso, facendomi l'occhiolino. “Sono così fiera di te.”
“Sai, io non ho la minima idea di come si gioca a Texas Hold 'em.”
“Sì, me lo ricordo. Quando ti ho detto che avremmo giocato mi hai chiesto qualcosa tipo 'oh, quel gioco di carte dove ci sono cinque carte in tavola, Mexico Leave 'em o qualcosa del genere', mi ricordo” si esibì in una pessima imitazione della mia voce.
Io scossi la testa, fulminandola con lo sguardo.
“Senti, è gioco d'azzardo. Non sono nemmeno molto sicura che sia legale. È legale?” mi guardai attorno, nervosa.
Il mio sguardo si posò su una ragazza seduta ad uno degli sgabelli del bar. Stava ridendo, era immersa in una conversazione con un'altra donna. Incontrò il mio sguardo, io fui veloce a guardare altrove. Un paio di secondi dopo, quando guardai di nuovo verso di lei, mi accorsi che lei mi stava ancora osservando.
“Non preoccuparti, ok? Ci servono i soldi. Entriamo a cento usciamo con duemilacinquecento.”
“Credevo fosse un torneo per trenta persone.”
“Lo è. Ma cinquecento vanno a chi organizza” mi spiegò. “Vado a farmi un giro. Ci vediamo qui al bar tra venti minuti. Non fare tardi e non dartela a gambe. Se non sono qui tra mezz'ora vai sul retro, hanno il tuo nome sulla lista.”
“Gli hai dato il mio nome per una partita illegale?” domandai incredula.
Lei ammiccò. “Ci vediamo tra venti minuti” ripeté. Poi si avvicinò per parlarmi all'orecchio. “Ti darò un indizio. Sei segnata col nome di uno stato. Solo...Non il solito.”
“Divertente Teddy” mormorai, vedendola allontanarsi.
Mi sedetti al bar ed ordinai da bere. La donna che prima mi aveva notato si sedette accanto a me.
“Ciao.”
“Ciao” risposi con un mezzo sorriso.
“Posso offrirti il drink che stai bevendo?”
“Perché no” accettai, dopo essermi resa conto che quello che stavo bevendo probabilmente andava oltre il mio budget della serata. O meglio, della settimana, visto che mi stavo giocando quei cento dollari al tavolo.
“Posso sapere il tuo nome?”
Io ci pensai per un istante. “Florida, forse.”
Lei sembrò sorpresa per un attimo, poi nascose un sorriso e annuì.
“Stai usando un nome falso. Sei sulla lista di stasera?”
“A quanto pare sì. Una mia amica mi ha segnato, ma non vuole dirmi con quale nome. È uno Stato, però, quindi continuerò a tirare a indovinare finché il buttafuori non mi farà passare.”
“Ah, non funziona così” mi avvertì, sorseggiando il suo drink. “C'è molta sicurezza, non è proprio una cosa pulita ed hai solo una possibilità di dire il nome. Poi potrebbero buttarti fuori dalla partita, dal locale e addio ai tuoi cento dollari pagati in anticipo.”
“Beh, credo che dovrò andare a fortuna, allora. Preferisci Alabama o California?” le chiesi, prendendo a mia volta un sorso del mio.
Lei mi studiò per qualche momento.
“Non sembri il tipo da gioco d'azzardo. Cosa ti porta qui?”
“Ho bisogno di soldi. Io e la mia coinquilina siamo indietro con l'affitto e si trattava o di questo o di prostituzione, a questo punto.”
Lei rise, ma mi prese sul serio. “Sono grata che tu abbia scelto il poker come primo tentativo.”
“Già. Voglio dire, c'è sempre domani sera, se qui non dovesse funzionare.”
“Giusto. Ma, non so, ho una buona sensazione per te, stasera.”
Lasciai che il mio sguardo vagasse sulla sua figura.
“Forse la mia fortuna non riguarda il poker” risposi con un sorriso divertito.
“Forse” rispose, sorridendomi a sua volta. “Posso sapere il tuo vero nome, o...”
“Ehi” una donna ci si avvicinò, rivolgendosi alla donna al mio fianco. “Dobbiamo andare. Iniziamo qualche minuto prima del previsto e devo parlare con Derek prima.”
“D'accordo” rispose, alzandosi. “Che maleducata, ho dimenticato le presentazioni” si voltò verso di me. “Alaska, questa è la mia amica Addison. Addison, lei è Alaska. Giocherà con noi stasera.”
“Oh, tu sei una delle due novelline di Cristina” le sorrise, stringendole la mano. “Dove è Teddy? Non la vedo da un po' qui al locale e devo dire che inizio a sentire la sua mancanza. In realtà, non importa. La vedrò tra poco.”
La donna che mi aveva offerto da bere mi prese una mano, baciandola sul dorso.
“Ci vediamo al tavolo” mi salutò.
Qualche istante dopo, Teddy era di nuovo al mio fianco.
“Sei pronta?”
“Cristina, Teddy? Davvero? È stata Cristina ad organizzarci questa cosa?”
“Sì. E allora?”
“Oh” sospirai. “Se una di noi vince sarò così arrabbiata di doverle essere riconoscente per qualcosa.”
Lei rise, trascinandomi verso la porta che conduceva al retro.
“Alaska e Helena” comunicò all'uomo alla porta i nostri nomi falsi.
Lui ci lasciò entrare, consegnandoci un biglietto ciascuna e richiudendo la porta alle nostre spalle.
“Allora, hai incontrato qualcuna?”
“Forse” rimasi sul vago. “E tu vuoi parlarmi di questa tua conoscenza di nome Addison?”
Il suo sorriso sparì in una frazione di secondo. “Addison è qui?”
“Così sembra. Perché quella faccia?”
“Perché dove c'è Addison c'è anche la sua migliore amica. E se lei è qui, io e te siamo fottute.”
“Cosa? Perché?”
“Oh, cavolo” le due donne che avevo incontrato al bar ci videro e ci vennero incontro. “Abbiamo appena buttato gli ultimi duecento dollari. Perché non mi avevi detto che eravate qui anche voi stasera?” chiese alla donna dai capelli rossi.
“Non era in programma. Ma ci mancavano due giocatori e sai com'è Derek, il piatto doveva essere tremila o niente.”
“Siamo state appena incastrate.”
“Continui a ripeterlo, ma non ho idea del perché.”
La mora si schiarì la voce. “Lascia che mi presenti” mi offrì la sua mano, che istintivamente afferrai. “Callie Torres, vincitrice delle World Series of Poker 2007 e 2009” mi sorrise con quel suo modo affascinante.
Ricambiai il sorriso, lasciando la presa. “E prostituzione sia” mormorai, facendola ridere.
“A che tavolo sei?” domandò Addison a Teddy.
“Tre.”
“Che peccato. Io sono al due” inclinò la testa di lato e le prese una mano. “Ti vedrò a fine serata?”
“Non lo so. Sono arrabbiata con te. Sapevi che quei soldi ci servivano.”
“Vediamoci dopo e mi farò perdonare” sussurrò con dolcezza.
Teddy sospirò. “Va bene” rispose scrollando le spalle.
“Tu a che tavolo sei?” mi chiese la mora.
“Uno. Posto nove.”
“Bene, io ho il posto dieci. Andiamo a sederci.” propose con un sorriso.
Mi condusse al tavolo giusto, scostando la sedia per me.
“Allora, come mai il bisogno di soldi?”
“Una delle tubature si è rotta, il mese scorso” la informai. “Abbiamo dovuto pagare una cifra assurda a cui il proprietario si è rifiutato di contribuire perché dice che la manutenzione non è sul contratto, solo la ristrutturazione iniziale. E visto che siamo entrambe studentesse fuori sede, non abbiamo soldi.”
“Non dovrebbero pagare i tuoi genitori per questo tipo di cose?” domandò, togliendosi la giacca ed appoggiandola alla sedia.
“I miei sono persone molto precise. Mi mandano un assegno ogni mese, di solito basta a coprire tutto, avanza perfino qualcosa, ma con quell'imprevisto...Diciamo che non voglio chiedergli di fare altri sacrifici se posso evitarlo. Questa è una cosa solo per una volta. Non giocherò di nuovo.”
Lei mi guardò mentre si sbottonava i polsini della camicia e arrotolava elegantemente le maniche sopra i gomiti.
“Tesoro, io avevo sedici anni quando ho detto quella frase. A ventuno ho vinto il mio primo campionato mondiale.”
Io risi, accavallando le gambe mentre mi voltavo verso di lei. Stavo indossando un vestito da sera blu, che a causa di quel movimento scivolò in alto di un paio di centimetri. Contavo di riuscire a farla distrarre almeno un po'.
“Beh, a sentire Teddy ho appena buttato gli ultimi cento dollari di questo mese, quindi non credo che sarò di nuovo seduta ad un tavolo come questo tanto presto.”
“Del mese?” domandò, mentre entrambe ci voltavamo verso il mazziere. Stavamo per iniziare. “Ma oggi è soltanto il cinque.”
“Come ho detto, sono tempi duri” sussurrai, guardando le mie due carte. “Oh, yay” sorrisi a me stessa. Alcuni dei giocatori del tavolo fecero una faccia strana e gettarono le loro carte, compresa la donna al mio fianco.
“Lascia che ti dia un consiglio, se vuoi davvero quei soldi. Niente 'yay' quando hai una bella mano, ok? Non si esulta a poker. Questo gioco è basato sull'inganno, sulla menzogna, sul far credere di avere quello che non si ha. Più riesci a sembrare sicuro con una mano debole o insicuro con una mano forte, più soldi ti porterai a casa a fine serata.”
“Quindi non si esulta?”
“Non si esulta” confermò.
Il tempo passava, io e lei stavamo parlando amichevolmente del più e del meno, i giocatori iniziarono ad essere eliminati dal tavolo. Più che altro da lei, o da me. Quella partita stava prendendo una strana piega.
Insomma, caso volle che mi ritrovassi al tavolo finale, insieme a lei.
“Allora, Addison, sembra che sarai la prossima” scherzò Teddy, dando un'occhiata al poco che le era rimasto.
“Non illuderti, Teddy. Non è mai detta l'ultima parola. A questo gioco, anche con poco, tutto può cambiare.”
“Io dovrei saperlo” mormorò la donna affianco a me.
Tre mani dopo, Teddy era fuori ed Addison era ancora dentro.
“Ti ho cercato su internet durante la pausa” le comunicai. “Calliope Torres, campionessa 2007 e 2009 delle World Series of Poker.”
“Te lo avevo già detto se non ricordo male.”
“Non mi avevi detto che ti sei ritirata dopo il torneo del 2010, però.”
“Non mi sono ritirata. Mi sto prendendo una pausa. Il 2010 è stato un pessimo anno, ho perso un sacco di soldi e, il buy-in delle World Series, diciamo solo che non sono cento dollari.”
“Ha avuto sfortuna, ecco la verità” mi disse Addison. “Semplice e pura sfortuna.”
“La sfortuna non esiste, Addison. Non a poker. Non per me.”
“Era l'ultima carta, Callie. L'ultima fottutissima carta.”
“Ho delle regole” le rispose, gli occhi sul tavolo. “Giocando con quelle regole ho vinto due tornei che mi hanno resa multimilionaria. Quando per una volta, una, ho seguito il mio istinto, la mia vita è andata a rotoli. Il 2010 è stato un disastro, tutto lì. Ma la sfortuna non c'entra. Mi sono presa il mio tempo e mi sono schiarita le idee, ho capito che giocando secondo le regole si vince e andando contro di esse si finisce con il cuore spezzato e senza un soldo in tasca. Mi è servito da lezione. Ora sono più forte, più saggia, più sveglia. Perdere quel torneo è stata la cosa migliore che mi sia mai successa.”
“Su questo siamo dannatamente d'accordo. Scala.”
“Full. Mi dispiace, Addie, sei fuori.”
“Dannazione.”
Si alzò dal tavolo, ma rimase a guardare la partita.
“Allora, biondina, siamo rimaste solo io e te, a quanto pare.”
“Biondina?” chiesi alzando un sopracciglio.
“Preferisci Alaska? Florida? California, forse.”
Io risi. “In realtà, non molto.”
Guardai le carte che avevo in mano.
“Allora, vuoi dirmi che cosa è successo al torno del 2010?”
“In realtà, no” rispose francamente. “Non so nemmeno il tuo vero nome.”
Sorrisi, decidendo di puntare. “Mi piace questo gioco.”
“Sei fortunata. Non hai la più pallida idea di quello che stai facendo” mi disse, ridendo. “Non cerchi nemmeno di capire che punto ha il tuo avversario, ti limiti a puntare in base a quello che hai tu.”
“Non dovrebbe essere così che si gioca?”
“No” rispose, abbastanza incredula riguardo la mia affermazione. “Cavolo, no.”
“Quali sono queste regole secondo le quali giochi?” le domandai.
Lei rise, guardandomi. “Non pensi sul serio che ti riveli i miei segreti, vero?”
Corrugai la fronte, scrollando le spalle. “Mi dispiace, non volevo essere scortese.”
“No, non sei stata scortese. Ma mi c'è voluto un sacco per trovare il giusto metodo di gioco.”
“Giusto” mormorai, riportando l'attenzione al gioco. “Scusami, è stata una domanda stupida. Sono abituata all'idea che questo è solo un gioco.”
“Questo non è solo un gioco” replicò. “Io ci vivo con questa roba.”
“No, lo so. Lo so” le assicurai immediatamente. “Non volevo in alcun modo insultarti. Volevo solo dire che, sai, quando penso a questo gioco, io non me lo immagino giocato con soldi veri. Mi immagino mio padre che insegnava a mio fratello come scozzare un mazzo di carte. Alle fiches colorate che da piccola tentavo di rubare. Ma non penso mai a mio zio che si beve l'equivalente in liquore dei soldi che ha vinto. O perso.”
“Tuo zio giocava a poker?”
“Lui e mio padre erano bravi. È sempre stato felice che io non volessi saperne niente, visto quanto male il gioco d'azzardo ha fatto a suo fratello. Uno dei motivi per cui non sa che sono qui.”
Lei mi guardò negli occhi a lungo, poi si voltò verso Addison e fece un cenno leggero con la testa verso la porta.
“Fuori. Tutti quanti, questa partita è appena diventata a porte chiuse” comunicò la rossa alle venti persone rimaste nella stanza. Dopo numerose proteste, riuscì finalmente a far uscire tutti, compreso il mazziere, facendosi passare le carte e prendendo il suo posto.
“Regola numero uno” iniziò Callie con un piccolo sospiro, mentre ci venivano distribuite le carte per la mano successiva. “Mai lasciare che i tuoi affetti influenzino il tuo gioco, mai, per nessun motivo al mondo. La gente che fa questo gioco, è strana. Alcuni di loro potrebbero provare a sedurti, o a diventare tuoi amici, qualcuno potrebbe perfino arrivare a dirti che è innamorato di te per fare in modo che tu ci vada più leggera con loro. Ma ecco la verità: sono tutte cazzate. Chi ti ama, ti amerà anche se lo distruggi sul tavolo, quando vi alzerete in piedi. Quindi lascia il tuo cuore lontano da qui.”
“D'accordo.”
“Numero due, non fidarti dei tuoi avversari. Tutti bluffano, tutti quanti. I giocatori di poker sono persone nate per mentire, fanno soldi ingannando il prossimo. Tutto ciò che vivi è un'illusione, non dimenticarlo mai” sottolineò le sue parole scoprendo le carte che aveva in mano, rivelando un punto più alto del mio.
“Afferrato.”
“Regola numero tre. Tutto può cambiare in un secondo, in questo gioco. Non buttare via una partita quando hai poche fiches rimaste, così come non devi dare mai per scontata la vittoria se sei in netto vantaggio.”
“Colore.”
“Ah, dannazione” gettò le carte senza scoprirle, facendomi segno di poter prendere il piatto.
“Dovresti aver capito che non so come si bluffa ormai, Calliope.”
“Numero quattro. Devi pensare velocemente e nascondere i tuoi pensieri. Devi agire con una sorta di istinto ragionato, capisci che intendo?”
“Una razionale ispirazione.”
“Esattamente. Ora, l'ultima della serata. Regola numero cinque.”
Annuii, mentre andavo a vedere la sua puntata.
“Non giochi mai, mai, mai, se hai in mano il due di picche.”
Quello mi colse alla sprovvista.
“Mai” ripeté.
“Perché?”
“Perché lo dico io. Non giochi mai con il due di picche, per nessun motivo. Se lo hai in mano passi, se esce al flop lasci, se lo vedi al turn o al river te la dai a gambe dalla mano così velocemente che il mazziere dovrà rimanere a chiedersi cosa è appena successo.”
“Ma perché il due di picche?”
“Perché è la carta più bassa delle cinquantadue con cui giochi, la più bassa in assoluto, ok? Se hai colore, picche è il seme che conta di meno, se hai scala hai la più bassa possibile con le carte in tavola, una coppia non ti basta, il tuo tris può essere battuto dal full di qualcun altro, se hai un asso hai il kicker più basso che si possa avere. Il due di picche porta guai. Dammi retta.”
Corrugai la fronte, osservandola rilanciare.
“Il due di picche porta guai” ripetei poco convinta. “D'accordo. Appena lo vedo, lascio.”
“Esatto.”
Sospirai, chiamando il suo rilancio.
“Ora, Alaska, credo che questo piatto sia mio” mi comunicò, mostrandomi una doppia coppia.
“Ah, cavolo” gettai le carte verso Addison, senza scoprirle.
“Sei particolarmente fortunata stasera” osservò, mentre le carte della mano successiva venivano distribuite.
“Vero” risposi con un mezzo sorriso. “Ho vinto un sacco di mani, una doppia campionessa mondiale mi ha dato consigli e ho conosciuto la donna più bella su cui mi è capitato di posare gli occhi in un sacco di tempo. Una serata niente male.”
Mi rivolse uno di quei suoi sorrisi appena accennati. “Quindi hai un debole per me, uh?”
La guardai, fingendo confusione. “Io stavo parlando di Addison, in realtà.”
Lei rise di cuore. “Teddy ci rimarrebbe male. Credevo fosse tua amica.”
“Teddy?” corrugai la fronte. “Aspetta, lei e Addison...” mi voltai verso la rossa. “Non ci credo.”
“Credici, dolcezza. E non la lascerò andare tanto facilmente.”
“Allora, avete proprio bisogno di questi soldi, eh?” domandò la mora, osservando le carte che aveva in mano.
“In qualche modo faremo” risposi, sorridendole. “Non preoccuparti e pensa a non farti battere da una che non ha mai giocato a poker prima” la sfidai.
“Non mi stai battendo” osservò con neutralità.
“Mi sembra di vedere il contrario” accennai alla quantità di fiches che avevo accumulato.
“Non mi stai battendo” ripeté con un sorrisetto.
“Stai dicendo che mi stai lasciando vincere?” le domandai, incuriosita.
“Ti sto dicendo” si protrasse nella mia direzione per poter sussurrare qualcosa. “Full.”
Scoprì un asso ed un jack, lasciandomi a bocca aperta. Gettai via il mio asso-re, stranita dall'aver perso nonostante un tris di assi.
“Non preoccuparti, Florida. Magari la prossima mano” mi sorrise, avvicinando la sua sedia alla mia quasi impercettibilmente.
Io feci lo stesso, continuando a guardarla negli occhi.
“La stai tirando troppo per le lunghe, Callie. Derek ci vuole fuori da qui per l'una, e la mezzanotte è passata da un pezzo.”
“Che ore sono?” domandai.
“Mancano dieci minuti alla fine” mi informò la mora, mentre Addison distribuiva le carte della mano successiva. “Possiamo trovare un accordo. Continuiamo da un'altra parte e se vinci ti raddoppio i duemilacinquecento.”
Scossi la testa. “Non posso giocarmi altri duemilacinquecento dollari. Non li ho, mi dispiace.”
“Esiste più di un modo per pagare un debito” rispose in modo enigmatico, mentre raddoppiava il buio che dovevo mettere.
Guardai nei suoi occhi scuri e vidi qualcosa di allarmante, lì dentro. Non saprei dire cosa.
“Regola numero due” le risposi. “Non fidarti dei tuoi avversari. Non voglio avere nessun tipo di debito con te. Finiamo questa partita, sono sicura che capiranno se sforiamo di qualche minuto.”
“Molto bene, Alaska” mi sorrise. “La prima volta che ho giocato con Addison, lei c'è completamente cascata.”
Io guardai verso la rossa, non riuscendo a trattenere una risata.
“E come è andata a finire?”
“Ha perso e io mi sono presa i soldi della vincita” rispose Calliope al suo posto.
“Ma ho pagato il mio debito” rispose Addison con serietà. “E ho imparato la mia lezione.”
“Come hai pagato il tuo debito?”
Lei e Callie si scambiarono un'occhiata. La mora annuì quasi impercettibilmente.
“Callie mi ha insegnato le regole che ha insegnato a te e mi ha iscritto ad un paio di tornei a cui lei non poteva partecipare. Ho vinto, recuperato il buy-in e saldato quel debito.”
“Quanto le dovevi?”
“Diecimila dollari. Mi ci sono voluti sei mesi. E non ho più lasciato Callie da allora. Io ero lì quando ha vinto il primo torneo, quando ha vinto il secondo, quando ha perso il terzo.”
“È la migliore amica che chiunque possa desiderare. Era lì quando non avevo un soldo ed è sempre rimasta, anche nei momenti peggiori.”
“Ero al verde, quando ho incontrato Callie. Lo eravamo entrambe. Poi lei mi ha insegnato tutto quello che so ed ho vinto abbastanza da comprare metà di questo locale, l'altra metà è di Derek, il tipo che organizza questi tornei. Ma è scontato, non sarò mai al suo livello.”
“Credo che sia il momento di alzare un po' la posta in gioco” mi disse la mora, puntando una somma non indifferente di denaro.
“Nessuno è al suo livello” risposi ad Addison. “Ha avuto pessime carte per tutta la sera, ed è comunque arrivata all'heads-up molto in testa rispetto a me.”
“Sai, penso che tu potresti esserlo” mi confidò la rossa, mentre lasciavo la mano.
“Beh, non stasera. Hai troppe poche fiches per riuscire a vincere. Possiamo fare una cosa, però, lasciamo perdere la partita e mi lasci il tuo numero, così posso mettermi in contatto con te, insegnarti le altre regole, darti dritte su quali tornei giocare. Potresti fare ben più di duemilacinquecento dollari. Pensaci. Guarda in faccia la realtà, ormai hai perso” mi fece notare, indicando verso i pochi soldi che ormai mi erano rimasti.
Io la guardai per un lungo istante, poi feci cenno ad Addison di riprendere a distribuire le carte.
“Regola numero tre. Tutto può cambiare in un secondo.”
Lei accennò un sorriso. “Derek ha mollato più velocemente di quanto si possa dire 'asso' quando l'ho proposto a lui.”
“Derek è venuto prima o dopo Addison?” domandai, distrattamente, osservando le mie due carte.
“Dopo. Addison aveva già pagato il suo debito, io avevo passato le eliminatorie del 2007 e stavo aspettando di partecipare al tavolo finale. L'ho incontrato nel periodo di stop, mentre mi allenavo, e qualcosa mi ha immediatamente fatto pensare: ecco, deve essere lui.”
“Quindi io non sarei l'unica?”
“Non ho ancora deciso se lo farò anche con te. Però no, non saresti l'unica. Saresti la quarta.”
“Quarta? Perché stai svelando queste tue regole a così tanta gente?”
“Sto mettendo su una squadra, Florida.”
“Una squadra?”
“Lascio” sussurrò, gettando le carte verso Addison. “Vuoi sapere di cosa si tratta? Battimi.”
Le sorrisi, osservando le nostre rispettive fiches. “Ci sto provando, Calliope.”
La sua sedia si mosse ancor più vicina alla mia. “Allora, Alabama, ci vieni spesso alle serate per sole donne? Non mi sembra di averti mai visto qui prima d'ora.”
“No, non vengo spesso. Non vengo mai, a dire il vero.”
“Lasciala stare, Callie. La poveretta è evidentemente etero, ti ha rifiutato per tutta la sera.”
“Ehi, una donna può sperare, no?” si difese lei con un sorriso disarmante nella mia direzione.
“Ah! Lei etero, bella questa” tutte e tre ci voltammo verso Teddy, che era proprio in quel momento rientrata nella stanza. “Lei è la persona meno etero che io abbia mai conosciuto, ed io vengo in questo club due volte a settimana.”
Io risi, scuotendo la testa.
“Chi sta vincendo?”
“Nessuna delle due, per il momento” rispose Addison.
“Derek mi ha mandato a cacciarvi. Mi spiace” ci comunicò.
“Digli che ci serve ancora una mezz'oretta. Se protesta ricordagli che abbiamo il cinquantuno percento di quote di proprietà dentro questa stanza” le disse Callie, tornando a concentrarsi su di me, avvicinando la sua sedia, ancora una volta.
“Quando torni puoi portarmi un Long Island Tea?” domandò Addison, guardandola uscire.
“Allora, Calliope, pensi di vedere o di passare?”
“Oh, di sicuro” i suoi occhi si mossero lungo le mie gambe “di sicuro, voglio vedere” rispose, mordendosi il labbro inferiore.
Dieci minuti dopo, Addison ci disse di fare due minuti di pausa. Non aveva smesso di provarci con me neanche per un secondo. Si alzò e mi si avvicinò.
“Sei stata brava, stasera. Sei stata fantastica. Puoi avere i soldi, non mi interessa. Questa partita non conta” sussurrò. “Andiamo a casa mia. Ci sono giochi più interessanti che potremmo fare.”
Spostò una ciocca dei miei capelli dietro il mio orecchio, guardandomi dall'alto verso il basso. Io non mi alzai.
“Magari dopo che abbiamo finito” cercai di far trasparire calma, ma in quel momento non ne avevo.
“Abbiamo già finito” rispose con risoluzione. Una sua mano si posò sulla mia gamba, proprio sul bordo del mio vestito. “Andiamo.”
Chiusi gli occhi, inspirando il suo profumo.
Quella donna era disarmante.
Aprii gli occhi, voltando la testa di lato. Le sue labbra erano a pochi centimetri dalle mie. Appoggiai una mano sulla sua guancia, avvicinandomi ancora di poco.
“Regola numero uno. Mai lasciare che i tuoi affetti influenzino il gioco” sussurrai, allontanandomi da lei subito dopo.
Lei sorrise. “Non indovinerai mai chi sono riuscita a far alzare dal tavolo con questo trucco.”
“Chi?”
“Me.”
Mi voltai, corrugando la fronte.
“Te?”
“Lei” confermò Calliope. “Teddy Altman mi ha baciato, si è alzata dal tavolo e mi ha seguito fuori dalla porta. Unico errore che le abbia mai visto fare al tavolo.”
“Stasera è arrivata sesta” protestai.
“Ma ha giocato bene. Se non hai almeno qualche buona mano, più di tanto non si può fare.”
Addison scozzò il mazzo, poi ricominciò a distribuire di nuovo.
“Regola numero sei. Devi sapere quando correre un rischio” spiegò, gettando un mucchietto di fiches nel piatto.
“Oh, io corro un sacco di rischi” le sorrisi, mentre chiamavo. Sì, stavo flirtando con lei. No, non riuscivo a sentirmi in colpa per quello.
“Oh, sei calda come la Florida, ma distaccata come l'Alaska. Mi stai confondendo” mi sorrise, rilanciando dopo il flop.
“Ci sono due due, Calliope. Credevo che passassi con un due in mano.”
“Solo con quello di picche, tesoro.”
“Quindi avresti quello di fiori?” le domandai, osservando il due di quadri, quello di cuori e l'asso di picche in tavola. “Non ci credo neanche per un momento.”
“Sei libera di non farlo. Ma se vuoi saperlo con certezza, sai quanto devi pagare.”
Così lo feci. Andai a vedere. La quarta carta fu un dieci. Rilanciò di nuovo, io la seguii. L'ultima era un altro asso.
“Check.”
“All in.”
“Call” rispose, senza la minima esitazione.
“Sai come ero sicura che non avessi il due di fiori, Calliope?” voltai una delle mie carte. “Perché lo avevo io.”
Lei mi sorrise. “Lo so, dolcezza. Non ne avevo il minimo dubbio. Ecco perché è stato così facile, convincerti a puntare” scoprì un asso.
Le rivolsi un piccolo sorriso. “Ero altrettanto sicura, però, che non avessi il due di picche” aggiunsi, scoprendo l'altra carta che avevo in mano. “Poker.”
“Lo so, piccola. So che pensavi di aver vinto” mi rivolse un mezzo sorriso. “Anche Addison, Derek e Teddy, tutti credevano di poter vincere violando una regola. E anche tu, hai fatto come loro.”
Corrugai la fronte, portando gli occhi sul tavolo.
“Regola numero cinque. Non giochi mai, mai, mai se hai in mano il due di picche” mi ricordò, mentre scopriva il quarto asso e mi guardava negli occhi con uno sguardo da 'ti avevo avvertito'.
“Oh, dannazione.”
“Potevi andare alla grande, Alaska. Ma hai buttato tutto al vento.”
“Avevi meno soldi di me, sono ancora dentro Calliope. Non è ancora finita.”
Lei mi studiò per qualche momento. “D'accordo, allora. Fammi vedere che hai imparato la lezione.”
Quando, diverse mani dopo, si trovò di nuovo con meno fiches delle mie, sapevo che avrei dovuto giocarmi bene quella mano. Mi sembrava strano però, il modo in cui ogni volta che andava sopra perdeva un sacco di mani e si portava di nuovo sotto. Insomma, era una professionista, una dannatamente brava. Avrebbe dovuto battermi ad occhi chiusi. Allora perché stavo vincendo?
Continuò a vedere le mie puntate fino all'ultima carta, in cui misi nel piatto la cifra esatta del suo all in. Lei, senza scomporsi, si prese qualche secondo per pensarci. Poi spostò le fiches dentro il piatto.
“Ne sei sicura? Potresti perdere” la avvertii.
“Non preoccuparti, so quello che faccio. Voglio vedere cosa hai in mano.”
“Lo stai facendo solo per curiosità.”
“Certo. Ho vinto le migliori mani per curiosità.”
“È un'altra regola?”
“No, è una cosa da evitare, in realtà. Scopri le carte.”
“Scala” avevo un nome e un dieci, scala al re. L'unico modo in cui poteva battermi è se aveva un dieci ed un asso ed aveva una scala più alta della mia.
Mi guardò negli occhi per diversi lunghi secondi. Non capii cosa stava cercando di vedere. Ma, qualsiasi cosa stesse cercando, ad un certo punto sembrò riuscire a trovarla.
“Hai vinto” mi disse, gettando le sue carte verso Addison senza distogliere gli occhi dai miei. “A quanto pare niente prostituzione, per questo mese.”
“Avevi l'asso, vero?” domandai, studiando i suoi occhi.
“Non so di cosa tu stia parlando. Io non perdo mai, perdere non mi piace. Ma tu hai vinto, quindi vai da Derek e fatti consegnare i soldi. Domani venite da me, siamo finalmente cinque. Quindi cominciamo l'allenamento” mi comunicò con un sorriso.
Annuì verso di Teddy, mentre la superava in direzione della porta. Addison afferrò le carte che aveva passato, inserendole in mezzo al mazzo in modo che nessuno potesse riconoscerle.
“Regola numero sette. Sei vuoi vedere le carte, l'unico modo per farlo è finché chi gioca le ha ancora in mano” mi fece sapere Callie.
“Il mio vero nome è Arizona.”
“Piacere di conoscerti, Arizona.”
Un secondo dopo, se n'era andata.

“Sai che non dobbiamo farlo per forza, vero? Abbiamo i soldi per l'affitto, possiamo semplicemente andarcene via.”
“Non sono qui per i soldi, Teddy. Sono qui per lei.”
“Se in qualsiasi momento vuoi tirarti indietro, dillo e basta, ok?”
Annuii, mentre uscivamo dall'auto ed entravamo nella casa fino a cui Teddy aveva guidato. Era gigantesca, una villa con giardino costruita su due piani.
“Questo posto è enorme.”
“E non hai visto la piscina sul retro.”
“C'è una piscina?” domandai, seguendola verso la porta. “Aspetta, tu ci sei stata? Non ti ho mai vista uscire in costume negli ultimi tre mesi. Le conoscevi già prima di entrare nel giro?”
“No, non le conoscevo, ma non mi è servito un costume. Ero molto, molto nuda e molto, molto distratta.”
Io la guardai, incredula. “Sei stata con Callie nella piscina? Teddy, io pensavo che fossi etero, fino a tre mesi fa.”
“Anche io lo pensavo fino a tre mesi fa.”
Eravamo tutti e cinque lì, aspettavo di sapere per cosa.
“Tra due mesi c'è un torneo organizzato all'hotel StrangersWorld di Las Vegas da un paio di tizi che conosco” iniziò, versando da bere in cinque bicchieri. “Un paio di tizi che mi hanno fottuto alla grande e portato via qualcosa che mi apparteneva. E che voglio riprendermi.”
Consegnò un bicchiere ad ognuno di noi. Era acqua tonica con ghiaccio, niente di alcolico.
“Quindi ecco il patto, io vi pago i cinquemila dollari di buy-in e ce ne usciamo da lì con duecentocinquantamila dollari. Non sono tanti quanto quelli che si sono presi da me, ma direi che è un inizio rispettabile. Cinque tavoli, cinquanta persone, la registrazione si fa di persona direttamente all'hotel, gli organizzatori non si prendono neanche un centesimo, dicono di organizzare il torneo solo per sportività.”
“Quindi dovremmo vincere quel torneo per riprenderci i tuoi soldi?” chiese Teddy.
“Non pagherete voi il buy-in infatti, mi sembra” le ricordò Calliope. “Inoltre, non mi terrò i soldi se è questo che pensate. Sono cinquantamila a testa. Se vinciamo, signore e signori, ci pagheremo l'entrata alle World Series of Poker 2013.”
“E se perdiamo? Dobbiamo ridarti i cinquemila dollari partecipando ai tornei che scegli per noi?” le chiesi, sapendo che era così che i debiti con lei venivano saldati.
Scosse la testa. “Se perdiamo, amici come prima. È stato bello, ci siamo divertiti, faremo una cena, offerta da me, in cui ridiamo e scherziamo sui venticinquemila dollari che ho speso e scommettiamo su chi di noi sarà il prossimo a fare una cosa a tre nella mia piscina dopo Teddy.”
Io mi voltai lentamente verso la mia migliore amica, sussurrando la domanda 'con chi?'.
“Chi ci sta?”
“Io sono dentro. Non mi sembra ci sia niente da perdere, per noi” rispose subito Derek.
“Voglio dare una lezione a quella stronza, quindi ci sto” fu il turno di Addison.
“Non ho idea di quello che sta succedendo, ma...certo!” accettò anche Teddy.
“Perché cinque?”
“Sono cinque tavoli. Farò in modo che ognuno di noi sia ad un tavolo diverso, studieremo i giocatori e riferiremo agli altri il modo di giocare di tutti quelli che arriveranno al tavolo finale. E poi, avremo molta più probabilità che uno di noi vinca.”
La guardai negli occhi ancora per un istante, prima di annuire. “Ci sto.”
“Bene. Iniziamo subito con qualche partita di allenamento. Per i prossimi due mesi non vivrete, vedrete, respirerete altro che poker. Vinceremo questo torneo, e lo vinceremo alla grande.”
Ci sedemmo ad un tavolo rotondo, Callie distribuì delle fiches e poi scozzò le carte.
“Per prima cosa, ognuno di voi ha bisogno di un personaggio. Quando saremo lì, nessuno dovrà capire che stiamo lavorando insieme. Per cinque giorni non ci parleremo se non ogni tanto o per caso, non ci incontreremo in albergo e fingeremo di non conoscerci. L'unico nostro mezzo di comunicazione sicuro saranno i cellulari, niente telefoni dell'albergo, visto che i proprietari sono gli organizzatori del torneo.”
“Io ho già il mio. Donna divorziata che vuole giocarsi i soldi del marito ricco ottenuti dalla separazione. È quello che uso di solito” disse Addison.
“Sì, Addie, speravo che volessi usare Christal, in realtà, perché vorrei che Derek e Teddy facessero la scenetta alla Bonnie e Clyde, se sei d'accordo.”
“Christal?” chiesi, ridacchiando.
“Oh, ma di solito io faccio Bonnie e tu sei il mio Clyde” la rossa le lanciò un occhiolino.
“Non stavolta. Loro conoscono sia me che te, quindi non possiamo essere noi la coppia. Teddy e Derek faranno Bonnie e Clyde e io e Arizona faremo la cosa della escort.”
“Oh, scherzi? Sarebbe una figata” rispose la rossa. “Ci abbiamo pensato quella sera da ubriache perse, non pensavo che l'avremmo mai usata davvero.”
“Beh, non c'è miglior tempo del presente” rispose Calliope, voltandosi verso di me. “Arizona, tu sarai una prostituta.”
“Fantastico” finsi di sprizzare gioia. “Quindi i personaggi sono pensati da voi?”
“Sì, non possiamo usare quelli classici o quelli che avevamo pensato quando io e Addie conoscevamo questa gente, quindi andiamo sul nuovo. Derek, che loro non hanno mai incontrato, e Teddy saranno una coppia di novelli sposini che se ne andrà in giro a sperperare soldi. O meglio, a far credere di essere disposti a sperperare soldi agli altri giocatori. Non dite mai i lavori che fate, rimanete sul vago e comportatevi in modo sospetto. Dovete spingerli a pensare che siete ladri e che siete lì per riciclare il denaro. La gente a Las Vegas lo fa di continuo, quindi state buttando un po' di soldi per una causa maggiore, per averne di più puliti, diciamo. Insomma, che non siete interessati a vincere il torneo, così vi sottovaluteranno alla grande.”
“Mi piace” affermò Teddy. “Sarò una grande Bonnie.”
“E perché io sarei la prostituta?” domandai.
“Perché io possa rimorchiarti, dolcezza” ammiccò nella mia direzione. “Io sarò...me stessa. Ricca, annoiata, in cerca di una donna sexy che mi spenga il cervello anche solo per un momento. Le iscrizioni saranno aperte fino al terzo giorno alle sei di pomeriggio, ovvero tre ore prima dell'inizio del torneo, ma dobbiamo tenere d'occhio i numeri, perché se siamo già in cinquanta e non possiamo iscrivere Arizona all'ultimo momento sarà un casino. Quindi dobbiamo farlo in fretta, il primo giorno. Io e Addison arriviamo e aspettiamo che i figli di puttana ci vengano a salutare, Addison li distrae, io mi porto Arizona in camera, chiamo la reception, la iscrivo al torneo. Loro penseranno che è il prezzo per il nostro...chiamiamolo tempo di qualità insieme, Arizona giocherà come se non ci fosse un domani, ridendo, esultando, facendo casino. Nessuno dovrà pensare che è brava, solo che è fortunata e che gioca mani a caso.”
“Ma non sarà così” intervenni io.
“Certo che no. Abbiamo due mesi, ragazzi. Vi trasformerò in maestri del poker.”
“Ma se conoscono Addison, come faremo a far credere loro che è Cheryl, o come si chiamava?”
“Christal” mi rispose Addison. “Semplice. È stato tre anni fa. Se gli dico che mi sono sposata e ho divorziato, non gli sembrerà così strano. Non ho mai giocato a poker con o in presenza di uno di loro, quindi non sanno che so giocare. Possiamo farcela, ragazzi. Credo davvero che possiamo.”

“Grazie per le lezioni in più che mi stai dando.”
“Figurati, non c'è problema” mi sorrise, distribuendo le carte.
“Allora, tu e Teddy siete state insieme, uh?”
Lei mi sorrise, scuotendo la testa. “Lei e Addison si sono ubriacate in modo ridicolo e poi hanno fatto sesso dentro la mia piscina.”
“Quindi la storia della cosa a tre è una balla?”
“Non lo so. Io lì non c'ero, ma se c'era qualcun altro, non ne ho idea.”
“Allora, chi sono questi tipi che ti hanno rubato tutti quei soldi?”
Lei, puntando, distolse lo sguardo. “È una storia molto lunga.”
“Abbiamo tutto il pomeriggio” la incoraggiai.
Lei si passò una mano sulle labbra, schiarendosi la voce. “Era il 2010. Le cose mi giravano bene, avevo una ragazza fissa, un sacco di soldi, avevo passato le eliminatorie delle World Series, ero felice. O meglio, credevo di esserlo. La tipa con cui stavo da, non so, saranno stati tre mesi, mi dice che ha notato un tic in uno dei tizi che sarebbero stati al tavolo finale con me. Le dico di non dirmelo, perché voglio vedere i tic nervosi con i miei occhi, è una sorta di esercizio. Ma lei me lo dice lo stesso, mi dice che questo tizio si tocca l'orecchio” si afferrò l'orecchio sinistro con la mano destra, grattandosi il lobo con il pollice “esattamente così. Io mi siedo al tavolo finale quella sera e lo individuo subito. E il tic c'è, ogni volta che bluffa e perde una mano, fa quel gesto. Preston Burke, era il nome del tizio. Insomma, arriviamo io e lui all'heads-up. Gli scopro un paio di bluff dove non fa il gesto, ma mi dico che forse non bluffava nemmeno, aveva solo avuto un paio di mani sfortunate, ci poteva stare. Finché mi viene la mano che avevi tu l'altra sera. Coppia di due. Avevo in mano il due di picche e il due di cuori. Lui punta ed io vado per passare, quando fa quel gesto, si tocca l'orecchio. Non avrei dovuto giocare con il due di picche, non avrei dovuto. Ma invece giocai.”
“E poi? Che è successo?”
“Poi è uscito un due al flop. Un due e due dieci. Avevo full. Ero in cima al mondo, potevo buttarlo fuori, vincere il terzo torneo, sistemarmi a vita. Era la mia occasione.”
“Ma...”
“Ma avevo il due di picche. Avevo il fottuto due di picche e lui poteva avere in mano il dieci e poteva battermi. Quindi avrei passato. Stavo per passare. Ma poi, lui punta, ok? Punta un sacco di soldi e si afferra l'orecchio sinistro con la mano destra. Ed io vado all in.”
“Quindi se lui bluffava dove è il problema?”
“Il problema è che non bluffava. Affatto. Aveva un dieci e un otto. Io avevo full, ma lui aveva tris, poteva battermi. Semplicemente con un altro dieci, poteva battermi.”
“Ed è uscito un dieci? Ha fatto poker?”
“No. È uscito un cinque. E poi un otto. Ha fatto full di dieci e otto. Quel due di picche, mi è costato quasi venti milioni di dollari.”
Io la guardai, ammutolita. Non riuscivo a crederci.
“Sì, vedi quell'espressione? Quella che hai adesso? Io l'ho avuta per le tre mani successive. Il buio era altissimo, quindi la mia distrazione mi è costata cara. Quando ero tornata in me, non avevo più una speranza. Sono stata costretta ad andare all in e lui ha vinto.”
“Assurdo. Ma allora il tic nervoso?”
Lei rise. “Il tic. Questa ti piacerà. Cinque minuti dopo, il tizio viene intervistato e ringrazia pubblicamente la sua fidanzata e futura sposa, che guarda caso si scopre essere la donna che per mesi mi aveva preso in giro alla grande, dicendo di amarmi e convincendomi che Preston Burke aveva un tic. Mi riterrò soddisfatta quando vedrò gli occhi pieni di rabbia di Erica Hahn guardarmi dritta in faccia e potrò prendermene il merito.”
“Cavolo. Devi davvero odiare questa donna. Insomma, hai complottato un piano diabolico per rovinarla. È un bel po' di odio, quello che percepisco.”
“Tu non la odieresti?”
“Beh, sì. Voglio dire...”
“Senti non è nemmeno per i soldi, in realtà. È perché questa donna è venuta a letto con me per tre mesi, mi ha detto che mi amava, che ero l'unico amore della sua vita, che saremo state insieme per sempre. Mi ha preso in giro e mi ha spezzato il cuore. Riguardando indietro adesso, mi rendo conto che per lei i soldi sono sempre stati la cosa che contavano di più. Per questo voglio vincere quel torneo e batterla alle World Series, per portarle via la cosa che ama: i soldi. Voglio spezzarle il cuore come lei ha spezzato il mio.”
Annuii, riflettendoci per un momento. “Mi sembra una vendetta piuttosto contorta. Ma ok. Full.”
“Dannazione” mormorò, gettando le carte.

“Staremo qui per cinque giorni?” chiese Teddy, guardando attorno all'entrata. “Ci servirà vincere solo per pagarci l'hotel.”
“È tutto a spese loro. Offrono le camere ai partecipanti al torneo. Ora, Arizona, tu non hai una camera. Starai con me, visto che si suppone che io ti paghi il buy-in per quello.”
“D'accordo.”
“Ci registriamo e saliamo subito, è presto, loro non saranno in giro, ma non vogliamo certo farci notare, no? Andiamo” ci incoraggiò Addison.
Qualche ora dopo ero seduta al bar nella sala dei tavoli, un cocktail in mano, in attesa che uno di loro entrasse nella stanza.
Addison e Callie scesero insieme, fermandosi a parlare del più e del meno vicino all'ingresso, Teddy e Derek arrivarono qualche istante dopo, ignorandole completamente e sistemandosi in un altro punto della stanza. Io finsi di non aver notato nessuno di loro, tornando a sorseggiare il mio drink.
“Questo posto è occupato?” domandò un uomo sulla trentina, indicando il posto alla mia destra.
“No, si accomodi pure” finsi l'aria leggermente alticcia, sorridendogli ed arrotolandomi una ciocca di capelli attorno ad un dito. “Sto aspettando qualcuno, ma quando lui arriverà penso che ce ne andremo, quindi non c'è problema” masticai rumorosamente la gomma che avevo in bocca.
Incrociai lo sguardo di Calliope che fece un sottile cenno della testa ad Addison di guardare nella mia direzione. Callie si sistemò il colletto della camicia, stringendosi il nodo della cravatta e poi venendomi incontro con aria sicura e un sorrisetto sulle labbra. Io indossavo un vestito da sera molto corto, molto scollato e che mi lasciava la schiena scoperta. Un vestito perfetto per sembrare una escort.
“Ciao” mi salutò con voce suadente.
“Ciao” risposi, lanciandole un'occhiata. Ma non doveva aspettare i proprietari per provarci con me?
“Sei bellissima” si complimentò, mentre mi voltavo sullo sgabello per poter essere faccia a faccia con lei. “Sei qui con qualcuno?”
“Sto aspettando un tizio” risposi, tenendomi sul vago, appoggiando i gomiti sul bancone del bar alle mie spalle. “Ma ha mezz'ora di ritardo, non penso che verrà. Forse mi ha dato il nome di un altro hotel di proposito” ipotizzai.
“Beh, peggio per lui” il suo sguardo scivolò sulle mie gambe, una mano si posò sulla mia coscia, mentre riportava gli occhi dentro i miei. “Senti, che dici se ce ne andiamo da qui?”
Io finsi di pensarci per qualche secondo, squadrandola. “Ti costerà. Un sacco di soldi.”
“Non preoccuparti per i soldi. Quello che vedo mi piace ed io ho la tendenza ad ottenere sempre quello che mi piace” rispose con voce sensuale, accarezzando la gamba su cui aveva appoggiato una mano.
“Ok, tesoro, ecco come funzionano le cose con me” mi spostai i capelli dietro la spalla, guardandola dal basso. “Prima mi dai i soldi, poi parliamo di affari.”
“Quanto vuoi?”
“Quanto hai?”
“Quanto serve.”
Io raddrizzai la schiena, afferrando il colletto della sua camicia con le mani. “Sai, non ho mai giocato a poker, ma ho sempre voluto provare. So che organizzano un torneo in questi giorni.”
“Vuoi che ti paghi cinquemila dollari?” finse incredulità.
“Cavolo, cinquemila? Non scherzano, eh?”
“Dolcezza, non vinceresti mai con me al tavolo, fidati. Perché non scegli un'altra forma di pagamento?”
“Non vincerei mai con te? Fammi il favore, chi saresti tu?”
Lei rise, avvicinandosi ulteriormente, facendomi allontanare le gambe ed appoggiando i palmi delle mani sul bancone alle mie spalle, per intrappolarmi con le sue braccia.
“D'accordo, dolcezza. Cinquemila siano. Giocali pure al torneo, non sarò io a fermarti. Anzi, andiamo immediatamente a iscriverti.”
Appoggiò le mani sui miei fianchi, facendole poi scivolare fino alle mie gambe e di nuovo sulla mia vita, ancora più in alto, guardandomi negli occhi.
“Magari ti insegno un paio di trucchi per il torneo” mormorò con le labbra ormai ad un soffio dalle mie. “O magari ti insegno un paio di trucchi che non hanno niente a che vedere con il poker, che ne dici?”
Appoggiai una mano sul suo collo, sfiorandole la gola. Poi le accarezzai il sotto del mento con la punta delle dita. Lei, abbassandosi dell'ultimo millimetro necessario, mi baciò. Ed io glielo lasciai fare, rimanendo senza fiato dalla passione che quel bacio fece esplodere. Due mesi di flirtare e girarci attorno, si stavano facendo sentire.
Quando alla fine si allontanò mi prese per mano, aiutandomi ad alzarmi e mettendomi un braccio attorno alle spalle perché la seguissi verso Addison.
“Non sono stata professionale, lo so” mormorò alla rossa. “E mi sono fatta trasportare fuori personaggio. Ma Arizona mi ha guardato coi suoi occhi blu e le fossette e sai” sorrise, parlando in poco più che un sospiro “io non sono di pietra. Ci vediamo di sopra tra un paio di minuti, ok? La vado a registrare.”
Quando ci trovammo in ascensore, per prima cosa si allentò la cravatta.
“Erano lì? Ci hanno visto?”
“C'era Burke. Il tizio seduto alla tua destra. Ho finto di non vederlo, o di non riconoscerlo, non lo so. La Hahn stava andando verso Addison quando io e te siamo uscite. Ma non preoccuparti, Addie sa badare a se stessa.”
Mi prese per mano, conducendomi dentro la sua stanza. Appena la porta si fu chiusa mi sentii venirci premuta contro da un corpo più forte del mio. Ricambiai il bacio e sospirai contro le sue labbra, prese una delle mie gambe e se la portò attorno alla vita, avvicinandosi a me ancora di più.
“Non credo che possano più vederci, Calliope” mormorai.
“Che si fottano. Questo non riguarda loro. Non riguarda niente, non riguarda nient'altro che noi.”
“Non riguarda niente?” domandai, allontanandola con una mano contro il suo petto. “Questa sei tu che ti comporti in personaggio? Che cerchi...Aspetta, com'era? Una bella ragazza che ti spenga il cervello per qualche minuto?”
“Oh, andiamo Arizona. Sai che non è solo sesso. Sai quanto me che tra noi c'è qualcosa.”
“E cosa c'è? Spiegamelo” le dissi, districandomi dalla sua presa ed allontanandomi di un passo da lei. “Spiegami che c'è tra noi, come potrebbe mai esserci qualcosa, visto che tu sei ossessionata dalla tua ex.”
“Cosa? Ma di che diavolo stai parlando?”
“Hai organizzato un piano per poterle vincere dei soldi. Ed io lo capisco, te lo assicuro, altrimenti non sarei qui. Ma penso che il vero motivo per cui vuoi quei soldi sia perché così lei non li avrà e verrà da te ad implorarti di riprenderla indietro. Come tu stessa hai detto, i soldi sono la cosa che più ama al mondo. E sai qual'è la cosa triste? Credo che tu la riprenderesti sul serio.”
“Sei impazzita? Tu nemmeno mi conosci” mi disse, ridendo.
“Sì, che ti conosco. Abbiamo passato gli ultimi due mesi praticamente sempre insieme. E so che ti sembra assurdo perché non avete mai avuto una chiusura, ma tra voi è finita e tu devi superarlo.”
“Arizona, ma io l'ho superato” mi prese le mani tra le sue. “Non vuoi giocare? Non importa. Che vadano al diavolo, davvero. Andiamocene via da qui e torniamo a casa. Vi pagherò il buy-in alle World Series lo stesso, andiamocene via e basta.”
“Dici sul serio?” domandai, esitante. “Non ti importa?”
“Non mi importa” sospirò.
Mi vide ancora esitante. Mi prese il viso tra le mani, facendosi guardare negli occhi. Poi mi accarezzò i capelli, rivolgendomi un sorriso pieno d'affetto.
“Dimmi quello che vuoi e ti darò qualsiasi cosa chiederai.”
“Come faccio a sapere che non stai bluffando?”
“Non lo sai” rispose onestamente. “Non puoi. Ma devi provare a fidarti di me. Hai detto che mi conosci. Bene, quindi saprai dirmi se sto bluffando o se dico sul serio.”
Io la studiai a lungo. E alla fine, giunsi alla conclusione che neanche a me importava. Potevamo anche solo divertirci un po', poi le nostre strade si sarebbero separate e ognuna sarebbe andata avanti con la propria vita. Ma stavamo giocando a poker, la nostra vita era eccitante, eravamo giovani ed io avevo voglia di divertirmi.
Allentai il nodo della sua cravatta e gliela sfilai, iniziando ad aprire i bottoni della sua camicia bianca. Lei sorrise, baciandomi di nuovo. La feci sedere sul letto, sfilandole la giacca che aveva addosso e poi tornando ai bottoni. In quel momento, sentimmo bussare alla porta.
“Callie, Arizona, sono io. Aprite.”
Lei si alzò, sospirando. “Addie, non è un buon momento” rispose, aprendo appena la porta.
“Dovevi vedere la sua faccia, era verde di gelosia, Callie. Abbiamo fatto centro.”
“Bene, dobbiamo farli irritare il più possibile. Vai a riposarti, avremo una lunga giornata domani.”
Si dettero la buonanotte, poi Addison se ne andò. Lei rientrò, chiudendo la porta e sfilandosi la camicia, gettandola da qualche parte sul pavimento.
“Allora, dove eravamo?”

“Sei a disagio?” mi domandò, mentre entravamo nel salone dei tavoli. “Vuoi che ti stia meno vicina?” aveva un braccio attorno alle mie spalle.
“Mi stai pagando cinquemila dollari, no? Dovresti starmi più che vicina.”
“Cosa? Non ti sto pagando, se è quello che pensi” mi guardò, la fronte corrugata. “Ti ho detto che non ha niente a che fare con...Oh, intendi...” si bloccò quando mi vide sorridere. “Intendi il personaggio.”
“Sì, Calliope, intendo il personaggio.”
“A proposito, non chiamarmi così davanti ad altra gente. Te lo lascio fare di solito perché sei...beh, tu. Ma sarebbe strano se mi fossi presentata con il nome che tendo a non dire mai a nessuno appena ti ho conosciuta.”
“Giusto. Ci proverò, ma non faccio promesse. Adoro il tuo nome.”
“E io adoro il modo in cui suona quando lo dici tu” rispose, voltando la testa di lato per baciarmi.
Un tipo le passò accanto, urtando la spalla con la sua.
“Ehi, sta attento” gli disse, voltandosi nella sua direzione.
Lui si voltò, le lanciò un'occhiata, poi scoppiò a ridere. “Mi scusi. Sono al terzo whisky della giornata” i suoi occhi blu si spostarono per un istante su di me, poi passò un braccio attorno alle spalle della donna al suo fianco, andandosene.
“Quello era nel copione?” chiesi in un sussurro riferendomi alla scena che aveva appena fatto Derek.
“Sì. Significa che il burattinaio dietro le marionette sta arrivando.”
“Ah, c'è una mente dietro tutto questo?”
“Ci puoi scommettere. Quei due non avrebbero mai potuto escogitare un piano del genere. Né riuscire a gestire questo albergo da soli” disse riferendosi alla Hahn e Burke.
“Ma allora chi...”
“Calliope.”
Ci voltammo nella direzione da cui erano appena venuti Derek e Teddy, trovandoci davanti un uomo sulla sessantina. La donna al mio fianco sorrise, riportando un braccio attorno alle mie spalle.
“Ciao papà” quella fu l'unica cosa che disse, prima di condurmi verso l'uscita.

“Credi che mi stia comportando da prostituta?” domandai, lanciando un occhiata verso il balcone.
“Da prostituta?” chiese Teddy incredula. “Perché?”
“Lei mi sta pagando cinquemila dollari di buy-in ed io sto andando a letto con lei” le feci notare.
Lei guardò a sua volta verso il balcone, dove Callie stava parlando al cellulare.
“Stai andando a letto con lei? Arizona, è fantastico.”
“No, non lo è. Darà di matto quando verrà a sapere che io non ho relazioni casuali. E prima o poi lo verrà a sapere, perché questa è la mia tipica fortuna. Credo di provare qualcosa per lei, Teddy.”
“Oh-oh.”
“Oh-oh? No, niente oh-oh, non promette mai niente di buono quando fai in quel modo.”
“Senti, Callie è” cercò la parola giusta “complicata. Non si è mai fidata di qualcuno e l'unica volta che l'ha fatto la sua fidanzata le ha rovinato la vita.”
“Ok, andiamo, anche questa cosa è un po' esagerata. Voglio dire, sì, ok, le ha fatto perdere quel torneo, ma tutti dite che le ha rovinato la vita, quando non è vero. Le ha fatto perdere cinquantamila dollari, sì, ma Callie è multimilionaria.”
“Ha fatto più di quello” mi guardò, stupita che non lo sapessi. “Callie aveva un accordo con suo padre, per quel torneo. Se avesse vinto, avrebbe comprato con quei soldi la sua catena di alberghi e si sarebbe sistemata a vita, senza più bisogno di rischiare tutto in tornei di poker. Voglio dire, è bravissima, ma perfino lei non può continuare a vincere per sempre” mormorò, gettando un'occhiata verso il balcone. “Lui non era ancora pronto per la pensione, apparentemente, però. Aveva un sacco di debiti, quindi ha ideato un piano coi fiocchi. Erica entra nella vita di Callie, la seduce, la spinge in un all in che non voleva fare. Burke vince il torneo, si spartiscono i soldi, il signor Torres salda i suoi debiti e concede loro la comproprietà di uno dei suoi alberghi. Uno su circa venti, prendere o lasciare.”
“E Callie dove ha trovato i soldi per rimettersi in piedi?”
“Ci sei seduta sopra” mi informò, rientrando nella stanza. “Questo hotel, non so se hai visto l'insegna, non si chiama Hotel Torres, si chiama StrangersWorld.”
“Aspetta, questo posto era tuo?”
“L'ho venduto a mio padre, gli serviva una proprietà da offrire ai due lupi affamati che reclamavano la loro vincita. Me lo ha pagato bene, non voleva lasciarmi al verde.”
“Ma, se non hai più l'hotel, adesso da dove vengono tutti i tuoi soldi?”
Lei mi sorrise, sedendosi sul letto insieme a noi.
“Mio padre e Erica non sapevano tutto della mia vita, tanto meno del mio conto in banca. Per prima cosa, ho un altro hotel a Miami. Un cinque stelle con un ristorante che da solo mi fa fare più soldi di quanto questo posto fa in totale. E poi, diciamo che si sono fatti condizionare facilmente dal tipo di vita che faccio, pensando che fossi così stupida da bruciare tutti quei soldi in un paio d'anni.”
“Ma non è così. Quindi non sei al verde.”
“No, non sono al verde.”
“Allora perché siamo qui?” chiesi a quel punto, persa. “Non hai bisogno di soldi, non ti stai vendicando, non capisco.”
“Non ho detto che non mi sto vendicando. Non mi sto vendicando di Erica, questo no. Ma quel traditore di mio padre, quella è un'altra storia.”
“Quindi siamo qui per riprenderci l'hotel?”
“No. Siamo qui per dimostrargli che anche io sono in grado di complottare. Scelgo soltanto di non farlo con le persone che amo. E perché a voi quattro servono i cinquantamila. Siete troppo bravi per non partecipare a quel torneo.”

La terza sera che passammo in hotel era la sera di inizio del torneo. I primi ad andare furono Derek e Teddy, presentandosi come una coppia di sposi disposti a buttare i loro soldi nel gioco. Poi fu il turno di Addison, che iniziò a provarci con gli uomini più ricchi che riuscì ad individuare. Alla fine, entrammo noi.
Io avevo lo stesso vestito che avevo indossato la prima sera, stavo masticando una gomma rumorosamente e avevo del trucco pesante. Lei stava spudoratamente fingendo di essere alticcia e mi teneva un braccio attorno alle spalle.
“Ehi, senti” si avvicinò al ragazzo che distribuiva l'assegnazione ai tavoli. “Si può fare in modo che la mia...amica” mi lanciò un sorriso “sia al mio stesso tavolo?”
“Temo che non sia possibile, Calliope” ci voltammo verso destra, l'uomo sulla sessantina di del giorno prima ci stava osservando con espressione distaccata. “I tavoli sono casuali.”
“Che peccato. Non puoi fare un'eccezione? Neanche una piccola?” dovevo riconoscere che sapeva come fingere una sbronza preoccupantemente bene.
“Temo di no.”
Lei si allontanò di un passo dal banco delle iscrizioni, tenendo gli occhi su suo padre.
“Ripassiamo tra una decina di minuti per sapere quali sono i nostri tavoli, allora” parlò senza distogliere lo sguardo dall'uomo, anche se in realtà stava parlando con il ragazzo al banco. “Vieni dolcezza, prendiamoci un drink.”
“Calliope, hai avuto abbastanza da bere. Se devi giocare...”
“Oh, adesso hai paura che perda?” gli rispose, ridendo di incredulità. “L'ultima volta che ho partecipato a un torneo ufficiale non mi sembrava ti importasse, al contrario, se non sbaglio, mi hai remato abbastanza contro.”
“Senti, Callie-”
“No, tu senti. Tu sei mio padre, avresti dovuto sostenermi e amarmi. E invece hai incasinato la mia vita, hai giocato con i miei sentimenti. Sai, avrei saldato i debiti e ti avrei lasciato gli alberghi, senza nemmeno pensarci su. Perché sei mio padre. Beh” scosse la testa “eri mio padre.”
Ci allontanammo e mi offrì quel drink di cui aveva parlato. Poi, tornammo a prendere i numeri dei nostri tavoli. Suo padre si era assicurato che fossi in un tavolo diverso dal suo, non solo, il ragazzo al banco sapeva già perfettamente come sistemarci, visto che Addison l'aveva convinto a farle quel piccolo favore. Il ragazzino aveva acconsentito ignaro delle false promesse fatte dalla rossa.
“Questo vestito ti sta benissimo, tra parentesi.”
“Ti ringrazio, Calliope.”
“Tutti ti stanno guardando, non c'è una sola persona nella stanza che non vorrebbe essere al mio posto, alcuni di loro stanno perfino sbavando. Inizio ad essere gelosa.”
“Stanno guardando te” le feci notare, incredula che non se ne fosse accorta. “Sono tutti giocatori di poker aspiranti professionisti, tu sei il loro idolo, Calliope.”
“Beh, allora come ti spieghi che stanno sbavando?”
Io nascosi il sorriso dentro il mio drink. “Me lo spiego molto facilmente” mormorai. “Sei bella da togliere il fiato, Calliope. Non è per me che sbavano.”
“Ehi, voi due” ci distrasse Addison. “Smettetela di guardarvi come se foste innamorate, non siete Calliope e Arizona, stasera siete Callie e Florida-”
“Alaska.”
“È uguale” mormorò. “Rimanete in personaggio. E andate ai tavoli, stiamo per iniziare.”
Teddy e Derek facevano puntate alte, ma stavano anche attenti a non farsi notare, Addison rideva alle battute dei giocatori con più fiches e Callie fingeva di essere ubriaca, ma era la chip leader del torneo prima dell'inizio della seconda ora. Ed io ogni volta che vincevo esultavo e ridevo, masticando la gomma rumorosamente. Tutti mi avevano sottovalutato a causa del mio aspetto.
Al termine della prima ora, ci vennero dati dieci minuti di pausa.
“Allora, come ce la stiamo cavando?” chiesi, mentre prendevo il bicchiere che mi stava passando.
“Tutto bene, siamo ancora tutti e cinque in gara.”
“Quella stronza” mormorò Addison, sedendosi al nostro tavolo. “L'hai vista, Callie?”
“Datti una calmata. Lei e Burke stanno giocando, e allora? Ci mancavano due giocatori, è un bene che abbiano riempito quei due posti, altrimenti non avremmo tutti i soldi che ci servono. Non preoccuparti, Addie, non sono alla nostra altezza. Non Erica, almeno, e lui sta giocando male, la mia presenza l'ha innervosito. Tranquilla, ok? Ce la faremo.”
“Sembri sicura.”
“Mi fido di voi, ragazzi, siete la mia squadra” le sorrise. “E siete miei amici, comunque vada a finire stasera. Ora andiamo a prenderli a calci nel sedere.”
A fine serata, solo dieci giocatori erano ancora in gara. Ci avevamo messo tre ore e quaranta minuti circa, ma il tavolo finale per la sera successiva era finalmente pronto. E noi cinque eravamo ancora tutti in piedi. Ma, sfortunatamente, non eravamo i soli.
“Callie.”
Lei spostò gli occhi da me solo per un secondo, poi tornò a guardarmi. Quando si rese conto di chi l'aveva chiamata si voltò di nuovo. “Erica.”
“Che stai facendo?” domandò, mentre il suo sguardo si spostava su di me.
“Sto salendo in camera. Ci vediamo al tavolo finale. Sto venendo a riprendermi un po' dei miei soldi. Quindi preparatevi.”
Mi portò verso gli ascensori senza neanche un'altra parola.
La sera successiva, ci presentammo al tavolo di nuovo separatamente, prendendo i posti che ci erano stati assegnati. La Hahn e Burke avevano meno soldi di Derek e Teddy, ma più di me ed Addison, Callie era in testa e gli altri tre giocatori erano praticamente fuori. Alla fine della prima ora, eravamo rimasti solo noi sette al tavolo, ma Erica si era portata nettamente in testa.
Durante la pausa ci sedemmo al bar. Callie sospirò, allentandosi la cravatta.
“Callie, sono troppo bravi. Non possiamo vincere, non stasera. Magari per le World Series, ma l'unica che ha una possibilità stasera sei tu” le dissi, mentre Addison si avvicinava.
“Dobbiamo farlo. L'idea era geniale, Callie, devi ammetterlo, ed ora è il momento perfetto. Derek ha meno soldi di Teddy, che ne ha meno di me, che ne ho meno di Arizona, che è alla tua destra. Se quando tu hai il buio...”
“Addison, è una pessima idea. Se lo facciamo ed io perdo i soldi?”
“No, non importa. Ma almeno avrai avuto una possibilità.”
Scosse la testa, guardando verso di me.
“Dobbiamo provarci” la incoraggiai. “In più, la copertura non ha più senso, ormai. Tutto finirà stasera in ogni caso, in un modo o nell'altro.”
Sospirò. “Aspettiamo almeno che esca Burke.”
“Non possiamo. Potrebbe prima buttare lui fuori uno dei nostri.”
“Ma-”
“Callie, non possiamo aspettare.”
“Ok. Facciamolo, allora. Ma aspettate il mio segnale, dillo anche a Derek e Teddy.”
Quando ci sedemmo di nuovo al tavolo, lei stava di nuovo fingendo di aver avuto qualche drink di troppo. Ed io fingevo ancora di essere stupida. La prima mano che giocammo fu una sorta di strage, la Hahn riuscì quasi a raddoppiare le proprie fiches, nonostante nessuno fosse stato buttato fuori, non potevamo più aspettare. Due mani dopo, il buio toccava a Callie. Gettò un'occhiata verso i nostri due avversari, un piccolo sorriso accarezzò le sue labbra.
“Fold” mormorò la Hahn, gettando le carte. Lo stesso fece l'uomo al suo fianco.
“Ehi, Hahn” attirò la sua attenzione. “Com'era quel tic? Te lo ricordi? O forse, ehi papà” urlò, attirando l'attenzione dell'uomo che stava osservando la partita. “Tu lo ricordi? No? Burke, almeno tu? Nessuno? Non era una cosa del genere?” si toccò l'orecchio sinistro con la mano destra.
“Raise” Derek buttò nel piatto tutte le sue fiches tranne una.
“Re-raise” anche Teddy fece la stessa cosa, lasciandosi una sola fiches.
Poi fu il turno di Addison, infine il mio. Ognuno di noi aveva aumentato la scommessa del giocatore prima, ma senza puntare tutto.
“All in” lo fece Callie, però, che aveva più soldi di tutti noi.
“Fold” Derek gettò automaticamente via le carte, seguito da Teddy, Addison e me.
Callie vinse il piatto, mentre noi gettavamo via l'unica fiches che ci era rimasta e ci alzavamo dal tavolo, sistemandoci alle sue spalle. Io le appoggiai una mano sulla schiena, rimanendo al suo fianco. Le espressioni di Burke, la Hahn e il signor Torres erano impagabili.
“Ti sei fatta una squadra” osservò Burke.
“Si chiamano amici, coglione” gli rispose Addison, che, notai, aveva preso Teddy per mano.
Callie passò un braccio attorno alla mia vita, stringendomi vicina.
“Fagli vedere come si gioca a poker, Calliope” le sussurrai, baciandola sulla tempia.
Tre mani dopo, Burke era fuori e Callie era di nuovo nettamente in testa.
“Allora, papà, raccontami di come ti è venuto in mente di convincere una donna a fingere di essere innamorata di me.”
“Non ho mai suggerito niente del genere. Doveva solo diventare tua amica. Non sapevo della vostra relazione finché non mi hai chiesto urlandomi in faccia se ti aveva mentito ogni volta che aveva detto di amarti.”
“Non mi importa di lei, papà. Lei è una donna, le donne mentono, ho fatto una scelta sbagliata in amore, non c'è niente di sconcertante in quello che mi ha fatto. Ma tu...”
“Calliope” sussurrai. “Mai lasciare che i tuoi affetti influenzino il gioco.”
Lei spostò gli occhi su di me, annuendo impercettibilmente e tornò a concentrarsi sulla mano, tagliando fuori tutto il resto.
Osservai il flop. Due assi. Lei aveva asso-dieci. Un tris niente male. La mia espressione rimase completamente immutata. Poi la vidi. La terza carta era il due di picche.
Non farlo, non farlo, non farlo.
“Fold.”
L'aveva fatto.
“Ah, maledizione” sentii imprecare la Hahn. “Quel maledetto due di picche, segui ancora quella stupida regola?” scoprì una coppia di due. Aveva full.
“Vedi?” rise, voltandosi verso di me. “Questo è il motivo per cui con il due di picche si passa sempre” mi sorrise, mentre abbassavo la testa per baciarla sulle labbra.
“Questa regola non sbaglia mai” mormorai, mentre ricambiavo il sorriso.
“Non dirmi che ti stai davvero portando a letto una prostituta, Callie.”
“Ehi, attenta a come le parli” la guardò duramente, mentre Teddy faceva un passo avanti e Addison la fermava. “Lei non è mai venuta a letto con me per soldi. Quella eri tu.”
“Se pensi che ci sia un motivo oltre i soldi per cui lei è con te, ti stai prendendo in giro.”
“Colore.”
“Cosa?”
“Colore” ripeté la mora, scoprendo le proprie carte. “Le cose si mettono male, che dici?”
Osservò incredula mentre Callie prendeva i soldi del piatto.
La mano successiva, la Hahn era praticamente all in solo con il buio, che ormai era altissimo.
“Finiamo questa cosa, così possiamo prendere i nostri soldi e andarcene da qui” sospirò Callie, puntando esattamente quello che era rimasto ad Erica.
“Sai, il tuo problema è sempre stato che prendevi decisioni in maniera troppo affrettata.”
“Sono solo soldi, Hahn. Non ti renderanno felice, non c'è bisogno di pensarci tanto. Se perdi, ci sarà un altro torneo. Ci sono cose più importanti, su cui non si dovrebbe scommettere.”
“Call” fu la sua unica risposta. “All in.”
Scoprirono le carte. Callie aveva un asso e un jack, la Hahn un asso e un re. Al flop uscirono un sei, un otto e un dieci. La quarta carta fu un altro sei.
“E poi, Hahn, le scelte migliori sono quelle che vengono fatte in un istante, ma che ti rendono felice per tutto il resto della tua vita.”
“Jack” disse il mazziere. “Il torneo è finito, la signorina ha vinto l'all in ed il torneo.”
Callie rise, alzandosi. “Aspetto il mio assegno prima di andarmene domani mattina.”
Ce ne andammo, senza una sola altra parola.

“Però” osservò Teddy. “C'è un sacco di gente qui.”
“Ancora non posso credere che non sapevate che il torneo con il buy-in da cinquantamila dollari comprendeva altre quattro specialità di poker” esclamò Callie, ancora incredula.
“Ah, andiamo Callie, c'è andata di lusso. Siamo entrati alle World Series con tornei satellite da molto, molto meno e ci siamo tenuti quei soldi per i giorni di pioggia” le fece notare Derek. “La vita è meravigliosa. Sorridi.”
Lei lo colpì su un braccio. “Va bene lo stesso” sospirò. “Preferisco il Main Event all'H.O.R.S.E. in ogni caso.”
Io presi la sua mano con la mia. “Possiamo visitare Las Vegas? Abbiamo qualche giorno prima del torneo e io non ci sono mai venuta.”
“Certo” mi sorrise in modo a dir poco tenero. “Possiamo fare tutto quello che vuoi.”
“Domani, però” trattò Addison. “Sono sfinita, voglio dormire per almeno dodici ore.”
“Intanto registriamoci all'albergo” Derek ci precedette all'interno, andando dritto verso la recepionist. “Due doppie e una singola.”
“Avevate prenotato?”
“La singola è a nome Shepherd, le doppie sono Montgomery e Robbins.”
“D'accordo, mi serviranno dei documenti di identità.”
“Quindi avete preso una doppia, mh?” chiese Addison con un sorrisetto.
“Per risparmiare soldi” la informai con un sorriso.
Lei rise di gusto. “Certo, i soldi sono un problema così grande per Callie.”
“In realtà, sto pagando io stavolta, visto che quando siamo andati al torneo per qualificarci ha pagato lei la nostra stanza.”
La rossa spostò lo sguardo sulla sua migliore amica inarcando un sopracciglio.
Callie finse di non notarla, continuando a guardarsi attorno. Alla fine, incontrò i suoi occhi.
“Cosa?”
“La stai lasciando pagare?”
Calliope scrollò le spalle.
“Non lasci mai nessuno pagare.”
“Stavolta è diverso” mormorò, evitando di nuovo il suo sguardo.
“E in che modo sarebbe diverso da quando io mi offrivo di farlo?”
La mora mi guardò negli occhi, ricordando quasi parola per parola quello che le avevo detto per convincerla a lasciarmi pagare. “Stiamo insieme, quindi significa che io pago quanto lei e tutte le spese vengono divise a metà, che non posso comprarle una casa o una macchina con i miei soldi, a meno che non voglia vivere con lei in quella casa. Ma lei dovrebbe comunque prima vederla e pagarne metà.”
Addison trattenne una risata. “Oh, quindi adesso avete delle regole.”
“Moltissime” le fece sapere Callie, mentre ci spostavamo verso gli ascensori. “Ma lo sta facendo per me. Perché non pensi mai che sta con me solo per i miei soldi. Che è inutile, perché io lo so che non sta con me solo per i soldi, ma comunque” sospirò. “Sì, abbiamo delle regole.”
“La trovo una cosa carina” intervenne Teddy. “Anche noi dovremmo avere delle regole” disse ad Addison scherzosamente.
Entrammo negli ascensori, ridendo. Le nostre stanze erano all'undicesimo piano.
“Ci vediamo domani mattina.”
“Buonanotte, ragazzi.”
Entrammo in stanza, posando i due trolley. Calliope si gettò immediatamente sul letto.
“Sono esausta.”
“Davvero?” domandai, cercando nella borsa un mazzo di carte. “Perché io speravo che ti andasse di fare una partita” sorrisi maliziosamente, scozzando le carte.
Lei si sollevò sui gomiti per guardarmi negli occhi, cercando di capire se ero seria.
“Ti spiego le regole. Partiamo con lo stesso numero di fiches...”
“Arizona, credo di sapere come si gioca a poker.”
“...e ogni volta che una perde una mano, si deve togliere un capo d'abbigliamento.”
Si alzò immediatamente a sedere. Non sembrava più molto stanca.
“Quando una delle due perde tutte le fiches il gioco si interrompe.”
“Vuoi giocare a strip poker?”
Scrollai le spalle. “Se ne hai voglia. Ci hai mai giocato prima?”
Scosse la testa negativamente. “Prendo le fiches.”

“Stiamo andando male.”
“Stiamo andando male? No” Callie rise amaramente. “No, Addison. Se di mattina ti alzi e sbatti il piede contro il comodino stai andando male, se vai in un ristorante costoso e ordini un piatto che poi non ti piace stai andando male, se mentre cucini ti bruci una mano stai andando male. Noi non stiamo andando male, non ci stiamo fottendo cinque occasioni in una per vincere questo maledetto torneo, andare male neanche ci si avvicina.”
“Ok, facciamo un bel respiro” propose Derek. “Non è poi così tragico, siamo ancora tutti dentro e siamo rimasti in meno di trenta.”
“E stiamo tutti per essere buttati fuori perché siamo rimasti con circa zero fiches.”
“Oh, sta zitta, Callie. Tu sei al settimo posto nello stack totale.”
“Chi se ne frega, Addie. Dobbiamo farcela tutti quanti.”
“Perché? Basta una persona soltanto per vincere. Ci basti tu.”
“Chi arriva al tavolo finale prende comunque un premio in denaro” la informai. “Se accumuliamo e poi dividiamo...”
“Perché stiamo ancora accumulando e dividendo, vero Callie?” domandò Teddy.
“Siamo una squadra. Abbiamo un accordo. Per chi mi avete preso?”
“Per l'unica che ha una possibilità di vincere.”
“Non è vero e tu lo sai” rispose a Teddy, scuotendo la testa e guardando altrove. “Dobbiamo farcela tutti. E ce la faremo.”
Derek, Addison e Teddy annuirono, tornando verso i rispettivi tavoli.
“Perché sei così nervosa? Quale è il problema?” le domandai a bassa voce, prendendo la sua mano.
“È solo che...” sospirando, scrollò le spalle. “Non voglio vincere questo torneo.”
Quello mi prese in contropiede. “Non vuoi?”
“No. Se vinco io, rimaniamo una squadra. Sono io che ho fatto i patti, ok? Ma se vince uno di voi e ci dividiamo il premio comunque, non è perché avevate promesso, è perché siamo amici. Voi ragazzi siete tutto quello che mi è rimasto, Arizona. Ho perso tutto, tutto quanto. La mia famiglia, gli amici che avevo prima...I soldi mi hanno portato via tutto il resto. E ora mi porteranno via anche voi.”
“Non è vero.”
“Sì, lo è. Forse non oggi, o domani, o tra una settimana. Ma tra un mese...un anno...Qualcosa si mette sempre in mezzo” concluse.
“Calliope, senti” inspirai, decidendomi a chiedere la domanda che aleggiava nella mia mente ormai da mesi. “Questa cosa tra me e te...”
“Signore e signori, riprendete posto. Stiamo ricominciando” la voce rimbombò all'interno della sala in cui ci stavamo prendendo una pausa.
“Ci vediamo dopo, ok? Buona fortuna” mi disse, baciandomi sulla guancia.
“Anche a te” replicai con un sorriso forzato.
Avevo bisogno di parlare con lei quando quella settimana fosse finalmente giunta al termine. Le preliminari sembravano non finire più. Cinque giorni e ancora eravamo divisi in tre tavoli. Dei ventisette che eravamo ne sarebbero dovuti rimanere solo dieci.
“Il tabellone è aggiornato” ci informò il mazziere dopo ormai non sapevo neanche più quanto tempo. “Siete rimasti in undici.”
Eravamo divisi in due tavoli. Insieme a me c'erano Addison e Teddy, nell'altro Callie e Derek.
Maledissi il mazziere per il tempismo, perché, avendo ormai pochissime fiches, io ero andata all in, invece di limitarmi a resistere per un altro paio di mani.
Lo speaker informò i partecipanti al torneo di sospendere la partita all'altro tavolo, in attesa del risultato del nostro all in. Avevamo lo stesso numero di fiches, quindi uno di noi due sarebbe uscito e l'altro sarebbe andato al tavolo finale. Guardai l'altro giocatore, quasi ridendo dell'ironia di quella situazione. Preston Burke mi restituì uno sguardo molto simile.
“Asso di fiori e dieci di cuori” scoprì le carte.
“Donna e jack di quadri” scoprii le carte anche io, l'amara consapevolezza di avere carte peggiori delle sue.
Alzai lo sguardo e vidi Calliope entrare nella stanza insieme a Derek con un sorriso che immediatamente le si congelò sul viso appena vide che io ero uno dei due giocatori dell'all in che aveva garantito loro l'accesso al tavolo finale.
“Donna ci cuori” il mazziere chiamò la prima carta. “Sette di fiori. Jack di picche.”
Imprecai internamente. Doppia coppia, ma se lui faceva scala io ero fottuta. Al turn non doveva assolutamente uscire un...
“Re di cuori.”
“Oh, cavolo” mi passai una mano sulla fronte, sospirando.
“Il karma è uno stronzo, Robbins” sorrise dall'altra parte del tavolo.
Mi passai una mano sulle labbra, cercando di non perdere la pazienza e rispondergli qualcosa di poco carino e decisamente inappropriato per la situazione.
Il mazziere scoprì il river. “Donna di fiori. Full. La signorina vince l'all in.”
“Ma che diavolo-”
Sentii il cuore scoppiarmi nel petto mentre alzavo gli occhi dal tavolo verso di lui.
“Hai ragione, Burke. Il karma sul serio è uno stronzo.”
Non potevo perdermi l'occasione di fare quella battuta.

“Scusami, ma tu sei...Callie Torres?”
La sentii ridere, mentre annuiva.
Stava aspettando i nostri drink al bancone quando avevo deciso di andarle a parlare, così mi ero avvicinata alle sue spalle, ma un'altra donna era stata più veloce di me.
“Ero a vedere il torneo di oggi. Sei stata fantastica.”
“Ah, ti ringrazio” accettò il complimento, leggermente in imbarazzo.
“Posso offrirti da bere?” domandò sorridendo, mentre appoggiava un gomito al bancone del bar.
“A dire la verità sono qui con qualcuno” declinò l'offerta.
“Sono sicura che ai tuoi amici non dispiacerà se rimani il tempo di un drink.”
Lei trasse un respiro. “Sono qui con qualcuno con cui ho una relazione.”
“Sono sicura che posso rubarti per il tempo di un drink. O altro” accennò un sorriso alquanto malizioso. “E sono sicura da come parli della vostra relazione che a lei non darebbe poi molto fastidio.”
Quella era decisamente la mia battuta d'entrata.
“Beh, a lei di sicuro darebbe moltissimo fastidio” con un sorriso completo di fossette mi fermai affianco a Calliope.
“Ehi, sto ancora aspettando i drink” si voltò nella mia direzione sorridendo.
“Lo vedo” risposi, continuando a guardare la ragazza che le si era avvicinata.
“Senti, potresti...” tentò di far capire alla ragazza di lasciarci sole.
“Certo. Torno tra un paio di minuti, quando ti avrà mollato, così posso consolarti” rispose, lanciandomi un'ultima occhiata prima di andarsene.
“Ascolta, Calliope...”
“Guarda che le ho detto che ero con qualcuno.”
“Lo so, l'ho sentito. Ma non devi per forza esserlo. Sei totalmente e completamente libera di fare quello che vuoi.”
“Woah” alzò una mano per fermarmi. “Bel modo di mollarmi e farla sembrare una mia idea, ma non te lo renderò facile. Se vuoi lasciarmi dovrai dirmelo chiaramente.”
“C'è bisogno che ti lasci?”
Lei mi guardò, incredula. Si voltò, prendendo in mano i bicchieri e dirigendosi verso il nostro tavolo.
“Davvero di classe, Arizona” mormorò passandomi affianco.
Roteai gli occhi alla mia stessa stupidaggine. “Volevo dire” spiegai correndole dietro “se devo lasciarti vuol dire che adesso stiamo insieme?”
Lei appoggiò il vassoio sul tavolo e poi si voltò a guardarmi con espressione severa.
“Come potevo saperlo? Cioè, volevo a tutti i costi saperlo, ma...”
“E come potevo saperlo io?” ritorse.
“Potevi chiederlo” la accusai.
“Potevi chiedere tu, visto che volevi a tutti i costi saperlo” usò le mie parole contro di me.
“Oh, quindi non t'importava? A te sarebbe andato bene continuare come era?” alzai la voce.
“Beh, certo. Pensavo avessimo ancora un sacco di tempo per decidere cosa stava succedendo, cosa volevamo, per capire cosa eravamo e cosa volevamo diventare. Non pensavo che mi avresti lasciato all'improvviso.”
“Ragazze” Addison ci si avvicinò. “Magari abbassate la voce. State facendo una scena in mezzo al locale.”
Se avessi dovuto tirare ad indovinare, avrei detto che la gente di solito tende a non litigare in un posto in cui tutti vanno per divertirsi.
“No, faremo questa cosa adesso.”
Callie roteò gli occhi alla mia testardaggine, prendendomi un polso delicatamente e facendosi seguire fino in bagno. Appena la porta si richiuse alle nostre spalle iniziai a parlare.
“Non ero io che dovevo chiedere, perché non sono io quella delle due che non ha relazioni fisse.”
“Quindi adesso è colpa mia?” chiese incredula. “Beh, perfetto. Spiegami cosa ho fatto per farti pensare che la nostra non fosse una relazione fissa, allora.”
“Beh, tu hai...” iniziai con decisione, ma dopo le prime tre parole mi resi conto che non avevo idea di cosa venisse dopo.
“Sono stata a letto con altre persone?”
“Beh, suppongo di no. Siamo bene o male sempre insieme o comunque so cosa stai facendo, di solito.”
“Allora” ci rifletté “forse ci ho provato con qualcun'altra?”
“No, non che io ricordi.”
“Allora ti ho detto che volevo solo sesso? Che non volevo una relazione seria?”
Scossi la testa, iniziando a rendermi conto che non aveva mai fatto neanche lontanamente una delle cose che stava elencando.
“Ma tu hai...” mormorai sommessamente. “Tu-”
“Ho cercato di accontentare ogni tua richiesta? Ogni tuo capriccio, anche quelli che secondo me erano assurdi e immotivati? Ho accettato senza mettermi a litigare le regole che mi hai dato praticamente decidendo da sola che avevamo bisogno di regole perché altrimenti, non che avessi torto, tutto si sarebbe rovinato? Sì, hai ragione, l'ho fatto. Colpa mia.”
Scossi la testa, abbassando lo sguardo. Stava vincendo una discussione che non si supponeva dovesse vincere lei, dannazione.
“Ho detto una settimana fa, ad Addison, quando eravamo alla reception per il check-in, che avevamo una relazione. Ho detto alla tizia di stasera che io e te avevamo una relazione.”
Ero senza parole. Aveva ragione. Lei era stata perfetta.
“Ti ho detto, con queste esatte parole, dimmi quello che vuoi e ti darò qualsiasi cosa chiederai. Pensi che me ne vada in giro a dire cose del genere a tutti?”
“No, certo che no, ma-”
“Ma cosa?” domandò incredula. “Non c'è nessun 'ma', Arizona.”
“Ma magari lo hai detto a lei! Ecco, l'ho detto” mormorai l'ultima parte.
Lei mi rivolse uno sguardo duro. Ferito.
“Oh mio Dio non posso credere di averlo appena detto davvero” mi coprii gli occhi con una mano.
“Che cosa vuoi da me?” domandò duramente.
Feci spallucce, sospirando e allargando appena le braccia.
Lei rise amaramente. “La cosa più profonda che le ho mai detto è stata che quando la vedevo avevo le farfalle allo stomaco.”
“Ma lei ti aveva detto di amarti, no?” corrugai la fronte. Me lo aveva raccontato lei.
“Già” sospirò. “Ed io il giorno dopo mi ero chiusa dentro l'appartamento di Addison e avevo dato di matto perché una donna che conoscevo da meno di tre mesi diceva di amarmi. La settimana dopo ci sono state le World Series. Non è che abbia avuto molto tempo per elaborare.”
“Calliope, a volte vado nel panico quando tengo troppo a qualcuno e-”
“Che vuoi che ti dica, Arizona? Perché dirò qualsiasi cosa serva per farti rimanere, ok?” ammise, scrollando le spalle come se stesse ammettendo la sua più grande debolezza. E forse lo stava facendo davvero. “Vuoi che ti dica che penso che tu sia un miracolo? O che sei la donna più bella che io abbia mai visto? Che quando mi baci mi esplode il cuore? Perché posso dirti un milione di cose tipo queste senza dover mentire. Poi tu te ne andrai e qualcun altro dopo di te mi urlerà contro perché ho detto queste cose alla mia ex.”
“Io non me ne vado” le dissi con decisione. “Mi batterò perché non ci sia niente del genere, niente che si avvicini nemmeno ad un 'qualcun altro dopo di me'” virgolettai con le mani le ultime cinque parole.
“Che cosa vuoi da me?” chiese ancora una volta, soffermandosi su ogni parola.
“Tutto. Tutto quanto. Tutto quello che posso avere. Voglio che tu sia la mia migliore amica, la mia confidente, la mia amante, la mia fidanzata.”
Lei mi guardò senza dire niente, con lo stesso sguardo severo di un attimo prima.
“E so, lo so, che stiamo insieme solo da qualche mese” sei, ma chi stava contando? “e so anche se in passato sei stata ferita. Ma io non lo farò. Puoi fidarti di me.”
“Sì, certo, giusto” mormorò, distogliendo lo sguardo. “Sai, stavo facendo quello. Mi stavo fidando di te, che per me non è facile, ma comunque” mi guardò, scrollando le spalle “ci stavo provando.”
Io mi avvicinai di qualche passo. Lei si appoggiò al lavandino alle sue spalle, mossa che la portò un paio di centimetri più in basso di me. Mi misi davanti a lei, posandole le mani sulle spalle e facendole scorrere per afferrare il colletto della camicia che stava indossando, guardandola con un piccolo broncio sulle labbra. Vidi l'ombra di un sorriso formarsi sul suo viso mentre le sue mani scattavano verso i miei fianchi.
“E non ci stai più provando?”
Mettendo una gamba tra le sue e lasciando che una delle sue finisse tra le mie mi avvicinai ancora di più.
“Devi provarci anche tu” mi avvertì, cercando di non sorridere.
“Io mi fido di te. Questo non riguardava la barbie che ci stava provando con te.”
“Non si tratta di sesso, o di tradimento. Devi fidarti di quello che dico e di quello che provo.”
Avvicinai le labbra alle sue. “Ok. Ci proverò.”
“Ci proverai?” sussurrò, mentre la baciavo a stampo sulle labbra.
“Ci proveremo insieme” le assicurai, baciandola di nuovo.
Lei ricambiò il bacio, stringendo la presa sui miei fianchi.
“Vieni” mi disse. “Andiamo via da qui.”
Senza bisogno che dicesse altro, la seguii.

“Nessuno mi aveva parlato di questa cosa” mormorò Teddy, guardandosi attorno. “Come è successo che non lo sapessi? Perché nessuno di voi mi ha avvertito?”
“Teddy, abbiamo visto il tavolo finale in televisione insieme, l'anno scorso” le risposte Addison, sospirando. “Avevamo tutti dato per scontato che sapessi che ci sarebbero state telecamere e una diretta televisiva” le fece notare.
“A livello inconscio forse, ma non avevo mai davvero pensato di arrivare al tavolo finale, figurarsi se mi ero preoccupata di questo” fece un gesto verso i due cameramen.
“Rilassati” le disse Callie. “Non ci farai nemmeno caso.”
“I miei genitori potrebbero non sapere che sono qui” ci informò la bionda. Tutti ci voltammo immediatamente verso di lei. “O che sto con una donna, in realtà.”
Callie, trattenendo una risata, scosse la testa. “Tutto ok?” mi domandò, ignorando lo sguardo gelido di Addison verso Teddy.
“Sono un po' nervosa. E con un po', chiaramente, intendo che il mio stomaco ha saggiamente deciso di mangiare se stesso.”
“Vuoi che ci pensi io a calmarti i nervi?” mi rivolse un sorriso malizioso, alzando un sopracciglio.
“Sei sempre così romantica, Calliope” alzai gli occhi al cielo.
“Intendevo che potrei abbracciarti, che hai capito” rispose, fingendo di essere scandalizzata.
“Sì, certo. È esattamente quello che intendevi, infatti” la guardai scetticamente.
Lei, ridendo, mi prese tra le braccia. Le sue mani si fermarono sulla parte bassa della mia schiena, mi baciò sulla guancia, poi mi guardò negli occhi.
“Dimmi che anche tu non ci pensi tutto il tempo” mi sfidò.
Senza rispondere, la baciai sulle labbra. “Forse.”
Lei sollevò le sopracciglia, un piccolo sorriso a mostrare che non mi credeva.
“Beh, comunque non quanto te.”
Lei rise, baciandomi di nuovo e poi appoggiando la guancia contro la mia e rimanendo ferma, con me praticamente appoggiata contro di lei.
“Sei pronta?”
“Come non mai” risposi subito.
“Sarai grande.”
“Mai quanto te.”
“Forse perfino più di me, invece.”
“Impossibile. Nessuno sarà mai vicino alla perfezione quanto lo sei tu” le parole mi uscirono dalle labbra prima che potessi fermarle.
Una sua mano si spostò per accarezzarmi i capelli.
“Sapevi che le percezioni sensoriali sono soggettive?”
“Cosa?” chiesi ridendo.
“L'elaborazione dei dati che percepiamo con i sensi è personale. Credevo studiassi medicina.”
“Sì, ma che c'entra?”
“Se percepissi le cose come me sapresti che la perfezione è molto semplice. Ed è possibile, altroché, per esempio, se ti voltassi adesso, potresti perfino vederla.”
Io mi allontanai il minimo necessario per guardarla con aria scettica, voltandomi poi per vedere quello che anche lei stava guardando. Una delle telecamere era puntata su di noi, lo schermo alle nostre spalle ci ritraeva abbracciate, lei dietro di me, le braccia attorno alla mia vita, una mano ferma sulla mia pancia. Nascose un sorriso immergendo il viso tra i miei capelli.
“Sei un miracolo” mormorò.
Ed io, davvero, non sapevo cosa rispondere.

Tre serate doveva essere una specie di record. Era possibile che il tavolo finale durasse così tanto?
“Siamo ancora otto persone, secondo te ce la faremo a finire stasera?” chiese Derek entrando nella nostra camera, dove già c'erano anche Teddy ed Addison.
“Non penso. Ma, ascoltate ragazzi, abbiamo fatto del nostro meglio e, comunque vada, siamo tutti e cinque tra i primi otto. Vi ho scelto per essere i migliori e vi ho scelto bene. Sono davvero fiera di voi. Addison, parecchi mesi fa, ha detto che non siamo una squadra, ma che siamo amici. Mi piace pensare che sia vero. Che non sono i soldi che ci hanno tenuto insieme fino a questo punto, mi piace pensare che ci sia di più. Nell'ultimo anno, da quando abbiamo iniziato a giocare insieme, voi ragazzi siete stati la mia famiglia. E spero che questo continui qualsiasi cosa succeda alla fine di questo torneo.”
“Certo che continuerà” rispose prontamente Teddy. “Ormai siamo inseparabili, no?”
Addison sorrise. “Sei sempre stata l'unica vera famiglia che ho avuto, Callie. Lo sai.”
“Tutti per uno, Torres” Derek le sorrise.
Uscirono, lasciandoci sole.
“Dobbiamo parlare” sospirai. Il suo sorriso sparì alla velocità della luce. “No, non è niente di brutto, te lo prometto” mi affrettai a dirle.
“Ok” rispose scetticamente.
“Senti, Calliope” presi le sue mani, guardandola negli occhi. “So che siamo state insieme per meno di un anno e so che sembra assurdo che ti stia dicendo una cosa del genere, perché io so chi sei e so quello che hai passato. E ho provato, ci ho davvero provato a non innamorarmi di te, ma è” scossi la testa, guardandola di nuovo negli occhi dopo aver abbassato lo sguardo per qualche secondo. “È solo successo” mi strinsi nelle spalle. “E adesso...”
“Non dirlo” mi bloccò con poco più che un sussurro. “Non aggiungere niente. Non stasera.”
Quello mi colse alla sprovvista.
“Domani potresti aver cambiato idea. Sai quando ti ho detto che i tuoi affetti non devono influenzare il tuo gioco? Questo è quello che intendevo. Dimmelo quando sei sicura e ci crederò, ma se me lo dici stasera...”
“Non mi credi?” conclusi al posto suo. “Pensi che ti stia mentendo perché voglio essere io a vincere? Credevo avessimo deciso di dividerci i premi.”
“Sì, ma...i soldi non c'entrano. Chi vince questo torneo diventa famoso, entra tra le leggende.
Alcune persone darebbero ben altro che una storia d'amore per poterlo fare.”
Mi allontanai da lei di un passo. “Una storia d'amore. Ecco quello che siamo in quattro parole secondo te, vero? Solo una storia che si perde tra un altro miliardo di storie uguali. Molto accurato, davvero” sospirai di incredulità.
“Arizona, tu sai quello che penso di noi. Non essere ingenua solo perché dare la colpa a me ti farebbe sentire meglio.”
“Sì? Beh, allora dimmelo. Che pensi di noi?”
“Te lo dirò domani, quello che penso di noi.”
Io alzai lo sguardo verso il soffitto e scossi la testa.
“Tipico.”
Le passai accanto, diretta verso la porta.
“Tipico?” domandò, afferrandomi un braccio per bloccarmi.
“Già. Tipico di te.”
“Cosa è tipico di me?”
“Che se una sola volta qualcosa va nel modo sbagliato, tutte le cose uguali o simili sono destinate a fare la stessa fine.”
“Questo è completamente ridicolo.”
“Davvero?” mi districai dalla sua presa. “Maggio 2004, torneo del Miami West High School, heads-up” quello la colse alla sprovvista, chiunque se ne sarebbe accorto. Aveva capito dove stavo andando a parare, ma non come facevo ad esserne al corrente. “Uno dei due giocatori ha un due di picche in mano e l'altro ha un asso e un tre. Il giocatore con il due fa poker, l'altro fa una stramaledetta scala reale. Quella scala reale ha rovinato la tua vita, Calliope, perché non hai mai più avuto il coraggio di giocare una mano con il due di picche per sei anni.”
“Vero. E la prima volta che lo faccio da allora perdo le World Series of Poker. Questo non ti dice niente sul fatto che forse non sono una visionaria ma ho i miei motivi?”
“Erica Hahn rovina la tua vita” continuai imperterrita, sovrastando la sua voce “e tu non hai più il coraggio di avere una relazione seria con qualcuno che sappia giocare a poker. Sei ossessionata da lei.”
“No, sai cosa? Lo dici tutto il tempo, ma non è vero. Tu sei quella ossessionata da lei, tu!” urlò a sua volta. “Nello scorso anno tu l'hai menzionata nel corso di una discussione qualcosa come nove volte, mentre io l'ho menzionata circa, fammi pensare...zero. Non sono io quella ossessionata, non sono io quella che non riesce a togliersela dalla testa e non sono io che non riesce a superarla, non sono io, Arizona. Io l'ho superata un sacco di tempo fa. Dovresti farlo anche tu.”
Senza un'altra parola, se ne andò.
Quando scesi al tavolo finale, lei era già seduta. Eravamo in otto, ma quella sera eravamo tutti determinati più che mai a finire quel torneo. La prima ad uscire fu Teddy. Il settimo era un tizio proveniente dal sud del Giappone. Addison arrivò sesta, Derek quinto.
Nel giro di tre ore, i quattro stack più bassi erano usciti, soprattutto a causa del buio così elevato.
Quando il timer suonò, annunciando l'ultima mano della serata, Calliope ed uno degli altri due tizi rimasti erano all in, entrambi con poche fiches per poter pensare di sopravvivere ad un altro giro di buio.
“Asso di cuori e jack di picche” annunciò il tizio con un inconfondibile accento Messicano.
“Otto e nove di quadri.”
Mi passai una mano sugli occhi. Se avesse perso, avrei personalmente dato di matto. Non poteva lasciarmi sola. Non poteva farlo e basta.
“Dieci di quadri, asso di fiori, jack di quadri” elencò il mazziere.
Serviva una quadri perché facesse colore, una donna o un sette perché facesse scala. E c'erano ancora due carte da scoprire. Tutto sommato poteva riuscire a vincere, giusto?
“Jack di cuori.”
Sentii il cuore sprofondarmi nello stomaco. Il messicano aveva fatto full. Callie si passò una mano sul viso, coprendosi gli occhi. Full batteva sia la scala che il colore. Aveva perso.
“Sette di quadri.”
Guardai l'ultima carta con confusione.
“Scala reale vince l'all in.”
Callie guardò ammutolita mentre le fiches del piatto venivano spostate verso di lei.
“Questo non può essere appena successo” mormorò impercettibilmente.
Ci alzammo dal tavolo, tutti e quattro dirigendoci in direzioni diverse. Io salii in camera dopo averla vista andare a parlare con Addison. Avrebbe passato la notte in camera sua, quasi sicuramente.
Mi cambiai, per niente dell'umore per festeggiare il podio, sistemandomi sotto le coperte. E, pensando a come aggiustare le cose – e noi – chiusi gli occhi e cercai di prendere sonno.

Fui risvegliata, non saprei dire quanto tempo dopo, da qualcuno che si muoveva dentro la camera.
“Teddy?” domandai disorientata, dando per scontato che Callie mi stesse evitando.
“Di solito Teddy entra dentro il tuo letto in piena notte?”
“Calliope” mi rilassai di nuovo. “Pensavo che mi avresti evitato, almeno per stasera.”
“Non ho dodici anni. E nemmeno tu. Non me ne andrò a tenere il muso e non scapperò alla prima difficoltà. A differenza di quello che sembri pensare tu, io sono convinta che abbiamo una relazione seria. Le persone che fanno sul serio non se ne vanno da casa dopo una lite. Ne parlano, ci lavorano, la risolvono.”
“Quindi non sei più arrabbiata?”
“Oh, sono molto, molto arrabbiata. E voglio urlare ancora, se te lo stessi chiedendo, ma non stanotte. È tardi e ti ho svegliata, quindi torna a dormire e quando tutta questa follia sarà finita potremo urlare con più calma.”
Appoggiai una mano sul suo braccio, ma lei mi scansò scherzosamente. Così mi avvicinai, cercando di abbracciarla e sentendola spostarsi.
“Lasciati abbracciare” ordinai.
“Sono ancora arrabbiata” mi disse, ma potevo sentirla sorridere.
“Lo sono anch'io. Non mi sta bene quello che hai detto sull'aspettare dopo il torneo e ne parleremo, fidati, prima che finisca. Ma è tardi e mi hai svegliata” usai le sue stesse parole contro di lei “quindi lasciati abbracciare.”
Lei, ridendo, mi avvolse tra le braccia e intrecciò le gambe alle mie.
“Sei stata grande, stasera” mi disse, baciandomi sul collo. “Non lasciarmi solo perché voglio sentirtelo dire anche dopo il torneo” aggiunse con tono più fragile.
“Ho imparato dalla migliore. E se servirà a convincerti che io e te abbiamo una relazione seria te lo ripeterò ogni giorno della tua vita, ma lasciarti non è tra le possibilità.”
“Ti amo” mi disse, baciandomi sulle labbra.
“Ti amo anch'io” risposi al volo. “E sto lasciando perdere fino a dopo il torneo, ma tu pensaci perché appena questa storia finisce io ti chiederò di nuovo di venire a vivere con me, quindi preparati una risposta.”
“No, va bene” rispose piano. “Va bene così. È il momento di crescere, come stavo dicendo, quindi facciamolo adesso. Parliamone adesso.”
“Adesso?” domandai con una risata.
“Sai che intendo” rispose baciandomi di nuovo. “Ma facciamo che vieni tu da me, perché non sono pronta a rinunciare alla piscina.”
“Che ne dici se facciamo così” proposi. “Vendi casa tua e ne compriamo una a metà con una piscina dove Teddy ed Addison non hanno fatto sesso.”
“Andata.”

“Stai pensando di lasciarla vincere?”
“Cosa?” mi voltai verso Teddy, ridendo della sua domanda. “Perché dovrei lasciarla vincere?”
“Beh, tre volte vincitrice delle World Series è un record. Nessuno c'è mai riuscito. È lecito pensare che nessuno potrebbe riuscirci mai più.”
La osservai parlare con Derek al bancone del bar.
“Credi che voglia che la lasci vincere?”
“Come faccio a saperlo? Sei tu che ci vai a letto, è a te che dovrebbe parlare dei suoi sentimenti.”
“Sì, certo, questo suona proprio da noi” replicai con forte ironia.
“Se sa che l'hai fatta vincere di proposito si infurierà. Quindi se la fai vincere, attenta a non farle capire che lo hai fatto apposta.”
“Non la lascerò vincere, Teddy. Dovrà guadagnarsi quel titolo, se lo vuole. Non andrò al tappeto tanto facilmente.”
“Beh, meglio così. Conoscendo Callie, te l'avrebbe fatta pagare” mi disse Addison, sedendomisi affianco. “Duramente” aggiunse poi.
Quando venne il momento di prendere posto al tavolo, non le dissi niente. E lei non disse niente a me. Sapevamo quello che c'era da sapere. Non serviva molto altro.
La partita stava procedendo in modo piuttosto statico finché, un'ora più tardi, mi venne una coppia di assi.
Puntai, vedendo gli altri due giocatori chiamare. Al flop uscirono il tre ed il quattro di picche e l'asso di fiori. Ebbi quasi un infarto. Puntai di nuovo, entrambi chiamarono.
Cinque di picche.
Vidi l'uomo alla mia sinistra sbiancare. Non aveva scala reale, ed era improbabile anche che avesse colore. Poi guardai Calliope. Colore, forse. Ma di certo non aveva il due di picche. Puntai, l'uomo chiamò, pensando che bluffassi, ma lei rilanciò di quasi il triplo quello che avevo messo.
Aveva colore. Aveva colore per forza.
Ero così curiosa di vedere quello che aveva, ma era troppo rischioso. Dopo almeno un minuto di lotta interna, decisi di lasciare. Il tizio andò all in e un secondo dopo, Callie aveva chiamato e scoperto le carte.
“Asso e re di picche. Colore.”
Il tizio, con una scala in mano, l'asso di quadri e il due di fiori, imprecò ad alta voce, alzandosi dal tavolo mentre, per scrupolo solamente, il mazziere scopriva le altre carte.
In quel momento suonò il campanello della prima pausa. Sospirando, mi alzai dal tavolo. C'era una stanzetta lì affianco in cui i giocatori potevano entrare. C'era qualcosa da mangiare e dell'acqua. Me ne versai un bicchiere mentre lei entrava dopo di me.
“Bella mano” mormorai.
“Bel sedere.”
Mi voltai, guardandola con un sopracciglio alzato.
“Oh, tu parlavi del poker, non di parti del corpo. Colpa mia” finse ingenuità.
“Calliope” mi decisi a chiedere “tu vuoi che io ti lasci vincere?”
“Cosa? No. Io non lo farei, perché tu dovresti?”
“Perché tre volte...”
“Ah, a chi importa” rispose, scrollando le spalle. “Vista una, viste tutte. Piuttosto, tu potresti avere il tuo nome nella lista dei vincitori delle World Series. Quanto è spettacolare?”
Risi, vedendola prendere una patatina e mangiarla.
“Non lasciarmi vincere” mi disse seriamente. “È la cosa peggiore che potresti fare.”
“Davvero?”
“Sì, davvero. Non mentirmi. Non farlo e basta.”
“D'accordo.”
“E qualsiasi cosa succeda, è una vittoria, cavolo. Siamo prima e seconda alle World Series of Poker 2013, dobbiamo festeggiare per le prossime sei settimane” concluse con entusiasmo.
Sorridendomi, uscì dalla stanza, diretta di nuovo verso il tavolo.
Io, nervosa come non mai, la seguii.
“Bet.”
“Raise.”
“Call.”
Eravamo in equilibrio quasi perfetto.
“Re-raise.”
“Call.”
“All in.”
“Fold.”
E ci rimanemmo per un'ora e mezza abbondante.
“Bet.”
“Call.”
Avevo un jack ed un re. Dovevo vincere quella stupida mano.
“Bet.”
“Raise.”
Io ci pensai a lungo. C'erano un asso ed una donna, in tavola, insieme ad un re. Io avevo coppia, ma poteva entrarmi scala.
“Call.”
Uscì un dieci.
“Bet.”
“All in” risposi immediatamente.
“Call” decisa, senza paura.
Aveva dieci e jack in mano. Con la stessa, identica scala, ci dividemmo il piatto concludendo la mano con un nulla di fatto.
Ci scambiammo uno sguardo molto chiaro. Dopo quattro sere sedute a quel tavolo, la partita doveva finire. E sarebbe finita quella sera stessa.
“Tre e cinque di picche, asso di fiori.”
Corrugai la fronte. “Due volte in una sera, è strano” mormorai, riferendomi alla scala bassa di picche. Forse il destino stava tentando di dirmi qualcosa. Ma io, con il mio asso e cinque di cuori in mano, lo ignorai.
“Bet.”
“Call” chiamai senza esitazione.
“Asso di quadri.”
Full. Dovevo puntare la vittoria su quella mano. Se mi lasciavo scappare quell'occasione, avrei potuto non averne un'altra uguale.
“Bet.”
“Raise, raddoppio.”
Lei mi guardò negli occhi attentamente per diversi secondi.
“Call.”
Sapeva quello che avevo. Ed io sapevo che lei non aveva il due. Io avevo l'asso ed il cinque di cuori, un full in mano e battevo il suo ipotetico colore. Non poteva avere il due di picche, quindi non aveva possibilità di fare scala reale.
“Quattro di picche.”
La sua espressione non cambiò nemmeno di una virgola. Forse non stava aspettando il quattro di picche, dopotutto. Ma allora, cos'è che stava aspettando? Forse aveva un asso anche lei, aveva tris, quindi. Forse aveva anche un tre, un quattro o un cinque e quindi un full come me, ma poteva essere solo più basso o uguale al mio.
“All in.”
Lei sospirò, stringendosi nelle spalle. “Call.”
Spostai tutte le mie fiches sul piatto, lei fece lo stesso con quasi tutte le sue, visto che ne aveva di più rispetto a me.
“Full” scoprii le carte con tranqullità.
“Lo so” annuì, l'espressione seria, le carte coperte ancora davanti a lei sul tavolo. Mi stava quasi chiedendo scusa con lo sguardo. Ma perché mai doveva sentirsi dispiaciuta? “Lo so” ripeté, scoprendo l'asso di picche, seguito dal due di picche.
Per un secondo pensai che probabilmente se non fossi stata così sicura che non avesse il due di picche, avrei pensato alla scala reale e lasciato e sarei stata ancora in gioco. Poi realizzai che, francamente, non poteva importarmene meno di così.
Risi, iniziando l'applauso che un secondo dopo avvolse tutta la sala. Aveva appena vinto il suo terzo titolo come campionessa delle World Series of Poker. Ero così fiera di lei che era ridicolo.
Dopo aver stretto mani e fatto circa un milione di foto, le dissero di prepararsi per una breve intervista da lì a qualche minuto.
Mi assicurai che mi vedesse entrare nella stanzetta dei giocatori. Immediatamente, mi seguì.
“Mi dispiace, sono così profonda-mpfh.”
Fu fermata da un mio bacio sulle labbra.
“Calliope, hai vinto le World Series per la terza volta. Yay!”
Lei rise, passandomi le braccia intorno alla vita.
“Non sei arrabbiata?”
“Perché dovrei?”
“Non avrei dovuto avere in mano il due.”
“Ma avevi quattro quinti di scala reale, amore. Quale pazzo non avrebbe chiamato?”
“Lo so, ma...”
“Nessun 'ma'. Sei stata fantastica.”
Sospirando, mi sorrise, allontanandosi per versarsi da bere dell'acqua. “Sai perché l'ho fatto? Perché ho chiamato anche se avevo il due di picche?”
“Ha importanza?” chiesi, sorridendo.
“Tu sei il mio due di picche.”
Si voltò verso di me, l'aria mortalmente seria.
“Per tutta la vita, ogni volta che ho avuto un due di picche in mano o in tavola e ho giocato, ho perso tutto quello che avevo da perdere, ogni volta il due di picche mi ha distrutto. Tutte le volte che nella mia vita ho corso un rischio, ne sono uscita con un'altra ferita. Ogni singola volta che ho pensato di amare, è stata una cicatrice.”
Il mio sorriso si volatilizzò.
“E poi, un giorno, incontro te” i suoi occhi stavano brillando. “E gioco” fece un cenno della mano verso la porta, rilasciando una risata euforica e sorridendo debolmente “gioco una mano con il due di picche ed è la mano migliore della mia vita, che mi dà tutto quello che ho sempre voluto e che per tutto questo tempo ho cercato. Incontro te e corro un rischio assurdo nella speranza che la cicatrice che mi lascerai non sarà troppo grande e mi ritrovo con la cosa più bella e preziosa che ho mai anche solo potuto immaginare. Incontro te e mi innamoro e all'improvviso l'idea di giocare con il due di picche in mano non sembra più così assurda e insensata. Incontro te e tutte le altre cicatrici guariscono e svaniscono. Incontro te e ritrovo...” si strinse nelle spalle “...me.”
“Calliope...”
“No, Arizona, dico sul serio. Per tutta la mia vita, nonostante abbia vinto dei tornei mondiali di poker-”
“Tre, per essere precisi” le ricordai con un sorriso entusiasta.
“-non ho mai davvero corso un rischio” distolse lo sguardo, scuotendo la testa. “Non con le cose che contano, almeno. Sai, ci sono solo due motivi per cui siamo disposti a rischiare tutto ciò che siamo in grado di mettere in gioco. Se non abbiamo niente da perdere, niente che valga la pena continuare a tenere, perché rischiare qualcosa senza valore non è un rischio, non fa paura. Oppure, siamo disposti a rischiare tutto, se l'unica cosa al mondo di cui ci importa davvero è l'unica che non potremo mai perdere. Siamo disposti a rischiare quando siamo assolutamente certi che, qualsiasi cosa accada, avremo sempre al nostro fianco quella persona che ci spinge a continuare a rischiare. E allora scommettiamo. Nonostante le probabilità non siano a nostro favore, nonostante tutto, scommettiamo.”
Riprese fiato per un secondo, tornando a guardarmi negli occhi.
“Tu mi fai sentire come se potessi correre qualsiasi rischio, perché l'unica cosa al mondo che non voglio perdere sei tu” confessò.
Io sorrisi dolcemente del suo nervosismo.
“Beh, finalmente stai parlando. Puoi riprendere fiato però, non c'è bisogno che dici tutto in una sola volta” scherzai, sorridendo. “Per qualcuno che ieri non voleva saperne di parlare, all'improvviso sei molto loquace.”
“Sai cosa? Compriamoci quella casa.”
Annuii, avvicinandomi a lei. “Perché no.” “Ma sì. Compriamoci una casa e poi sposiamoci e facciamo dei figli.”
“Woah. Forse adesso stai bruciando un po' troppe tappe” scherzai di nuovo, appoggiando le mani sulle sue spalle.
“Davvero, Arizona. Qualsiasi cosa vuoi, è tua” giurò. “Dimmi cosa vuoi e ti darò qualsiasi cosa chiederai” promise per la terza volta.
“Te lo dirò di nuovo. Io voglio te, Calliope” la baciai, passandole le braccia attorno al collo e rimanendo ad un soffio dalle sue labbra. “Non una casa” altro bacio “non una piscina” bacio “anche se la piscina sarebbe un bonus piuttosto soddisfacente.”
La guardai negli occhi a lungo e notai qualcosa di nuovo, oltre l'affetto e l'amore che ogni volta vi leggevo.
Era sicurezza.
Era sicura, finalmente.
E lo ero anche io. Ero assolutamente certa riguardo noi.
“Quindi corriamo il rischio?” domandai.
“Corriamo il rischio” confermò. “Possiamo correre qualsiasi tipo di rischio, finché che lo facciamo insieme.”
“E ogni volta, comunque vada, sarà già come aver vinto” continuai al posto suo. “Perché saprò per certo che tu sarai sempre lì con me.”
La baciai per l'ennesima volta quella sera, pensando a quello strano anno che avevamo passato insieme e al futuro che avevamo davanti a noi.
C'era un'intera vita ad aspettarci.
E, nonostante le probabilità di certo non sarebbero potute essere sempre a nostro favore, nonostante tutto, avremmo continuato a scommettere. A correre il rischio. E ad andare all in.
“Arizona?”
“Sì?”
“Ti ricordi la prima volta che abbiamo giocato insieme?”
“Certo.”
“Avevi ragione. Avevo in mano l'asso.”




Piccola nota: prendete questa shot con simpatia, non sono un'esperta di poker né tanto meno di tornei o delle World Series, quindi è tutto molto romanzato. Perdonate tutte le imprecisioni!
Detto questo, spero che la storia in sé vi sia piaciuta e se volete potete farmi sapere cosa ne pensate scrivendomi una recensione. Grazie a tutte, a presto!



Ritorna all'indice


Capitolo 49
*** Il nostro primo epilogo (parte I) ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU



Il nostro primo epilogo (parte I)


Quando mi svegliai avevo un forte senso di nausea. Come se qualcuno mi avesse dato una botta in testa per farmi svenire e trascinarmi lì.
Poi aprii gli occhi e la stanza completamente bianca mi suggerì che forse quello era proprio ciò che era accaduto.
Alla nausea si sostituì in fretta il panico.
“Dove sono?” domandai ad alta voce, quasi come se pensassi che qualcuno avesse potuto sentirmi parlare.
Ma non c'erano finestre, lì dentro, ed una sola porta. L'unico oggetto presente era uno specchio.
Mi alzai lentamente, guardando in basso. Quelli che avevo addosso non sembravano essere i miei vestiti. O forse lo erano? La taglia era quella giusta, ma c'era qualcosa di strano. Come se non fosse stato il genere che avrei normalmente scelto. O forse sì?
Realizzai che non ricordavo. Niente. Dal genere di vestiti che indossavo, al mio passato, fino al mio nome. Tutta la mia memoria era come una tabula rasa, come una stanza completamente vuota dalle pareti bianche. Come il luogo in cui mi trovavo.
Camminai fino alla porta, rendendomi conto che non sembravo stordita e i miei riflessi erano abbastanza reattivi.
Se qualcuno mi aveva colpita non aveva causato un trauma cranico, almeno.
La stanza in cui mi trovavo era quadrata, due metri per due metri, forse qualcosa di più. La porta aveva una maniglia vecchio stampo, non elettronica. Mi bloccai per un istante, pensando che forse non volevo sapere cosa c'era dall'altro lato. Perché, forse, quel qualcosa avrebbe potuto farmi del male.
Provai ad aprirla, ma era chiusa a chiave. E non c'era una chiave. Non c'era nemmeno una toppa in cui inserire la chiave, in realtà. Pensai che fosse solo un po' arrugginita e spinsi con tutte le mie forze, facendo leva anche sui muscoli del torace e sulla spalla. Dovevo a tutti i costi riuscire ad aprire quella porta.
Dopo aver scricchiolato, la porta si aprì. Scorreva con una facilità incredibile sul pavimento liscio e per un attimo mi domandai se non fosse stato nella mia testa. La porta non aveva nessun problema, non era chiusa a chiave e non era bloccata da un oggetto all'esterno. All'inizio non volevo sapere cosa ci fosse dall'altro lato e si era bloccata, per poi schiudersi con facilità una volta che avevo convinto me stessa che dovevo aprirla.
Cercai di non pensarci e spinsi la porta ad aprirsi ulteriormente, decidendomi poi ad oltrepassarne la soglia. La stanza in cui mi trovai era molto diversa dalla prima. Era rotonda, non aveva finestre e misurava all'incirca dieci metri di diametro.
Mi voltai di scatto quando sentii un rumore strano e mi accorsi che la porta si era richiusa alle mie spalle. Mi avvicinai, confusa dal fatto che non ci fosse una maniglia con cui aprire la porta anche dalla parte in cui mi trovavo in quel momento. Cercai di riaprire la porta facendo forza nella fessura che era rimasta tra questa e la parete, ma non si spostò neanche di un millimetro.
La stanza quadrata da cui venivo era costruita in modo che fosse possibile uscire per chi vi era intrappolato e volesse una via di fuga, ma non era possibile entrare per chi era all'esterno. Era un piccolo rifugio che chiudeva fuori il mondo esterno ed era in completo controllo di chi era invece già dentro.
Mi veniva in mente solo un tipo di stanza che poteva essere strutturata in maniera simile.
Una stanza antipanico.
Deglutii, rinunciando a cercare di riaprire la porta e chiedendomi invece perché mi trovassi lì dentro, in un luogo apparentemente lontano da casa mia, o da una qualsiasi forma di vita umana, non ricordassi niente di me, della mia vita e del mio passato e come avrei fatto per andarmene da lì il prima possibile.
Mi guardai attorno. Al centro della stanza c'era un supporto metallico, anche quello completamente bianco. Sopra di esso era posizionato uno schermo piatto, completamente trasparente, talmente avanzato, in termini tecnologici, da non sembrare neanche lontanamente reale. Alla faccia delle maniglie di ferro.
Ma forse non era neanche uno schermo, forse era solo un pezzo di vetro posto in mezzo ad una stanza con accanto quello che sembrava un telecomando.
Il telecomando.
Mi mossi in direzione del supporto quando sentii un rumore provenire dalla mia destra. La parte diametralmente opposta rispetto al punto da cui ero entrata. Non la vidi subito, ma solo dopo aver osservato la parete per qualche istante. Lì c'era un'altra porta, identica alla mia. Senza maniglia, senza tastierino numerico o magnetico. Era una porta chiusa, senza niente che facesse entrare. O uscire.
Un altro rumore.
Quella porta era la mia unica possibile via di fuga. Mi avvicinai, ascoltando attentamente i rumori provenienti dall'altro lato.
Qualcuno si stava muovendo. Quella persona poteva essere la mia salvezza, tanto quanto la mia condanna.
Un rumore più secco degli altri mi fece allontanare di qualche centimetro. Ce ne furono diversi, prima che mi rendessi conto di quello che stava succedendo. Chiunque ci fosse di là, stava prendendo a spallate la porta per farla aprire.
Ma io iniziavo a credere che in quel posto le azioni fisiche non avessero grande importanza.
Appoggiai le mani sulla porta, pensando attentamente a cosa fare.
Se fosse stato un orso, un lupo, un leone? Ma no, i colpi erano troppo leggeri. Probabilmente non era nemmeno un uomo. Un pensiero terrificante mi colpì all'improvviso. Che ci fosse un bambino, là dentro? Se era una stanza come la mia, due metri quadrati o meno, quanto sarebbe durato l'ossigeno che aveva? Se era stato svenuto lì dentro a lungo e ne aveva già consumato la maggior parte, lo sforzo fisico avrebbe procurato affannamento e di conseguenza l'uso di più ossigeno, che quindi ben presto sarebbe potuto venire a mancare.
Dovevo correre il rischio che fosse un orso e sentendo la mia voce si infuriasse di più, perché di certo non avrei lasciato morire una persona dentro una stanza stando ferma dall'altra parte della porta.
“C'è qualcuno? Sei qui dentro?”
“Chi diavolo sei?” arrivò l'urlo di una donna. “Cosa vuoi da me?”
“Non lo so” risposi, percependo la sua agitazione. “Mi sono trovata chiusa in una stanza anche io, non so come sono arrivata qui.”
Ascoltai il silenzio per qualche istante.
“Senti, so che sembra assurdo, ma per uscire dalla stanza” mi sentii stupida anche solo per aver concepito una cosa del genere “devi volerlo fare. Volerlo davvero.”
“Sono leggermente claustrofobica e chiusa in una stanza di due metri, credi che non voglia uscire da qui?”
“No, lo so. So che vuoi uscire, ma una parte di te ha paura. E hai ragione.”
“Apri tu la porta, se ci riesci. Aprila dall'altro lato.”
“Non c'è una maniglia da questo lato” ammisi con un leggero sospiro.
Quella storia, tutta quanta quella storia, non prometteva per niente bene.
“Qualcuno, probabilmente qualcuno con dei seri problemi, ci ha chiuso qui dentro. Ma in questa stanza non c'è nessuno, soltanto io, e prometto che non ti farò del male.”
Ci fu altro silenzio mentre lei esitava.
“Non sei tu che mi hai portato qui?”
Io ci pensai qualche momento. Forse lo ero, perché non c'era via d'entrata né d'uscita, io non ricordavo niente e forse ero una psicopatica multimiliardaria che si divertiva a chiudere esseri umani dentro stanze senza uscita e vederli impazzire.
“No, non sono stata io.”
Almeno, non pensavo di essere io la persona senza anima di cui stavamo parlando.
“Prova ad aprire di nuovo la porta, d'accordo?”
Mi allontanai di un passo. Aspettai qualche momento, poi sentii un leggerissimo, quasi impercettibile 'click' e la porta si aprì senza il minimo problema.
Mi ritrovai davanti ad una donna dai capelli biondi, ricci, gli occhi azzurri, il fisico asciutto, i lineamenti del viso dolci.
“La porta non si può riaprire dall'esterno, quindi forse dovremmo impedire che si chiuda. Per poterci nascondere di nuovo lì dentro se sentiamo arrivare qualcuno.”
Scosse la testa.
“Sarebbe inutile. In qualche modo ci hanno messo lì dentro. Potrebbero aprirle allo stesso modo, deve esserci un controllo a distanza o qualcosa del genere.”
Io annuii, dandomi mentalmente dell'idiota.
“Giusta osservazione.”
Entrò quindi nella stanza più grande, lasciando che la porta si richiudesse alle sue spalle.
“Io ero lì dentro” indicai la parte della stanza da cui ero uscita io. “Qui c'è quello che sembra un monitor e una specie di telecomando. Non ho ancora toccato niente, ma...” la guardai meglio, più attentamente, cercando di capire cosa era quel sentimento che provavo quando posavo lo sguardo su di lei. “Ma io e te ci conosciamo?” chiesi, improvvisamente confusa.
“Non lo so.”
“Ti sembro familiare?” domandai.
“Non lo so” rispose nuovamente. “Non ho ricordi di niente che non fosse prima di quella stanza, non so nemmeno il mio nome.”
“Neanche io” scossi la testa. “Ma mi sembra quasi di conoscerti già.”
Lei mi osservò attentamente. Un'espressione di profonda concentrazione le apparve in volto mentre scrutava i miei lineamenti.
“Credo di sì. Non ne sono sicura.”
Sospirai.
“Non so il mio nome, ma...” tesi la mano verso di lei.
Con un sorriso appena accennato allungò la mano. La presi gentilmente con la mia senza interrompere il contatto visivo quando successe la cosa più strana. Sentii come una piccola scossa elettrica alla mano e un milione di immagini mi attraversarono contemporaneamente il cervello, senza che riuscissi a bloccarne o trattenerne nessuna.
Dal modo in cui chiuse gli occhi, indietreggiando, le era appena successa la stessa cosa.
“Che era quella roba?”
“Non ne ho idea” mi portai una mano alla tempia, cercando di riprendere a vedere chiaramente, sbattendo le palpebre per mandare via la sfocatura dall'immagine prodotta dai miei occhi. Mi sentivo come un computer che era stato sovraccaricato.
“Si chiama flashback, o illuminazione. Rivivere momenti passati che sembravano dimenticati.”
Ci voltammo di scatto verso la persona che aveva parlato, dall'altro lato della stanza. Intravidi la sua figura attraverso il monitor completamente trasparente e mi misi immediatamente tra lei e la donna al mio fianco.
“Chi sei? Perché ci ha portato qui?” domandai, provocandole un sorriso.
“Ah, ancora una volta ti metti tra lei e la pistola” la sua voce non sembrava arrabbiata o disgustata, ma semplicemente fiera di quello che stavo facendo, come se non si fosse aspettata niente di meno.
“Hai una pistola?” chiesi, corrugando la fronte mentre osservavo le sue mani vuote.
“Era una metafora. Ti frapponi tra lei ed il pericolo. È così che sei stata creata.”
“Creata?” chiesi, confusa.
Lei si mosse, facendo il giro dello schermo, avvicinandosi. Io mi voltai verso di lei, ma mantenendo la mia posizione a proteggere la donna dagli occhi azzurri.
Indossava un completo bianco. Pantaloni, maglietta e giacca, intonandosi perfettamente ai colori della stanza. Era una donna di colore sulla quarantina, i capelli neri e gli occhi scuri.
“Dove siamo?” domandai ancora, cercando più che altro di temporeggiare.
Lei sorrise appena, inclinando leggermente la testa di lato e alzando appena le sopracciglia, incoraggiando la donna accanto a me a parlare.
“Credo che almeno tu lo abbia già capito.”
Lei deglutì, incontrando il mio sguardo quando voltai la testa verso di lei.
“Siamo dentro la nostra mente” mormorò sommessamente. “L'ho capito quando mi hai spiegato come aprire la porta.”
Guardai di nuovo la donna davanti a noi.
“Non è possibile. Non si fanno sogni così vividi.”
“Chi dice che questo è un sogno?”
“Questa è una buona notizia. Se tutto questo non è reale, vuol dire che non può farci del male” mi rassicurò la bionda.
“Chi dice che non è reale?”
“Smettila” le intimai. “O è nella nostra testa, o non lo è. Una delle due, scegli quale ma non può essere entrambe.”
“È nella vostra testa. Ma, fidatevi, questa cosa è senza ombra di dubbio reale.”
“Cos'erano quelle stanze in cui eravamo rinchiuse?” le chiesi. “Come mai non si possono aprire dall'esterno ma solo se la persona che è dentro lo vuole davvero?”
“Perché quello è il punto in cui le vostre menti si toccano. Non posso portarvi qui, in un terreno comune, senza che voi usciate dalla vostra stessa coscienza volontariamente. Ma non avete saputo resistere alla tentazione di incontrarvi.”
Un sorriso soddisfatto le attraversò il viso, mentre mormorava la sua conclusione.
“Riuscite sempre a trovarvi.”
La guardai, confusa.
“Aspetta, se è nella mia testa, non può essere dentro la tua” mi fece notare la bionda. “Quindi o tu o io non siamo reali. Una di noi è solo il prodotto dell'immaginazione dell'altra.”
“Io credo di essere reale.”
“Anche io.”
“Lo siete entrambe. O meglio, nessuna di voi due lo è.”
Io scossi la testa, cercando di pensare. Di ricordare. Qualsiasi cosa.
“Chi sei tu?”
“Non ti poni le domande giuste” fu la sua inutile risposta.
“Chi siamo noi?” domandò allora la donna al mio fianco.
“Ecco” puntò un dito nella sua direzione, sorridendo in maniera soddisfatta. “Questa è la domanda giusta.”
“E qual'è la risposta?”
“Ce n'è una molto, molto breve. Ed una molto, molto lunga.”
“Breve.”
“Lunga.”
Guardai verso di lei.
“Ti sembra il caso di dilungarsi?” domandai, corrugando la fronte.
“Hai altri impegni per caso?” scrollò le spalle. “Io no. E mi piacerebbe sentire tutta la storia.”
“Sempre idee diverse, voi due. Sempre in contraddizione.”
Noi ci scambiammo un'occhiata.
Io e lei, quindi, ci conoscevamo?
Ma sì, potevo vedere qualcosa di familiare in lei, nei suoi occhi, nel suo viso, nella sua bocca. E potevo quasi sentire le sue emozioni e le sue paure come se fossero le mie, come se fossero create per essere condivise.
“Iniziamo dalla risposta breve” mi distrasse la donna in bianco. “Voi due siete...” si fermò un istante, in cerca del giusto termine per descriverci appieno “...una storia” concluse, soddisfatta del termine che aveva scelto.
Guardò prima me e poi lei.
“Siete Callie e Arizona.”
Ancora una volta, io e lei ci guardammo, un po' confuse, un po' invece del tutto certe che quella fosse una cosa che aveva il suo senso.
“Che vuol dire che siamo una storia?” chiese, voltandosi di nuovo verso la donna davanti a noi.
“Ed ecco la risposta più lunga” iniziò con un sospiro. “Voi due, voi siete i personaggi di una serie televisiva.”
Alla sua scioccante rivelazione seguirono diversi attimi di silenzio.
Poi scoppiai a ridere, seguita dalla donna al mio fianco.
“Sì, certo.”
“Bella questa. Ma, se noi siamo solo dei personaggi, cosa sta succedendo ora come ora? Ci stiamo ribellando o qualcosa del genere?” domandai con finto tono cospiratorio.
“Bel tentativo, ma non ti credo.”
“Nemmeno io.”
“Ed ecco perché la spiegazione lunga è così tanto lunga” rispose con un sospiro, avvicinandosi al supporto al centro della stanza e prendendo il telecomando che avevo giù visto qualche minuto prima.
Schiacciò uno dei pulsanti ed il televisore si accese.
“Cosa è Grey's Anatomy?” domandai, leggendo la scritta al centro dello schermo.
“Creato da Shonda Rhimes” terminò di leggere Arizona.
Alcune immagini apparvero successivamente a quello che sembrava un titolo. Dei dottori in camice blu si stavano occupando di salvare la vita a delle persone coinvolte in quello che sembrava il disastro del secolo.
Tra quelle persone, c'eravamo anche noi.
Per qualche istante osservammo lo spettacolo svolgersi senza dire niente o intervenire, limitandoci ad osservare le nostre interazioni.
“Perché lei ha...questo sorriso super magico.”
Continuarono a scorrere scene di noi, sempre in ospedale, oppure in un appartamento. Ci venne riassunta quella che apparentemente era stata la nostra storia insieme.
“Ora mi credete?”
“No. Certo che no.”
“Probabilmente siamo attrici” intervenne la bionda. “Noi due siamo le attrici che interpretano quei personaggi e tu sei” cercò un termine appropriato per spiegarsi “una psicopatica” concluse, ritenendosi soddisfatta. “Una fan sfegata che ci ha rapito e portato in questo posto per...non so cosa.”
“Nonostante la tua chiarissima spiegazione, no. Non è questo il caso” rispose pacatamente la donna, sempre con il suo sorriso tranquillo.
“Io esisto” dissi con decisione. “Penso, parlo, provo paura, sollievo, ho ricordi. Non sono un personaggio inventato.”
“Certo che esisti. Guardati, come potresti non essere reale? Sei perfettamente creata, nei minimi dettagli. Ogni aspetto della tua personalità. Sei quanto più di reale il mondo ha da offrire. Ma, allo stesso tempo, la tua creazione, il delineamento della tua personalità, non nasce da esperienze che hai vissuto sulla tua pelle. Nasce dalla fantasia di un'altra persona. Ma questo non significa che sei meno reale.”
Riflettei qualche momento sulle sue parole.
“Non capisco.”
“Beh” iniziò, cercando le parole giuste per farmi capire. “Pensa ad una macchina. La macchina più bella che riesci ad immaginare. Poi pensala senza vernice. Togli i pneumatici e i cerchioni, il telaio, i sedili. Finché non rimane niente. Solo una pagina bianca. Quello che divide quella pagina bianca dall'auto dei tuoi sogni, è la fantasia di un ingegnere, di un meccanico, un progettatore, un pilota. Viene creata passo dopo passo dalla mente di chi la pensa per la prima volta, fino ai più piccoli dettagli. Ma questo non la rende meno reale, giusto? Non la rende meno bella, meno perfetta.”
“No, certo che no.”
Lei annuì, stringendosi nelle spalle.
“Tu sei come quella macchina.”
Corrugai la fronte, ammettendo che il ragionamento non era di per sé sbagliato, anzi, aveva una sua logica, eppure la conclusione a cui portava suonava molto strana alle mie orecchie. Come potevo essere stata semplicemente... inventata?
“Allora questo non è reale. Non è di nostra creazione, né della mia mente” mi voltai verso la donna affianco a me “né della sua.”
“Mai detto che lo fosse” spiegò la mora. “Questo, ciò che vi circonda, è una mia creazione.”
“Hai detto che era dentro le nostre menti” le fece notare la bionda.
“Perché è così. Questo è il modo in cui l'ho immaginato, creandolo.”
“Chi sei tu?” ripetei la domanda che le avevo fatto prima, sperando di poter avere una risposta, stavolta.
Lei mi sorrise, allargando le braccia, come se a quel punto sarebbe dovuto essere ovvio.
“Io sono la donna che vi ha creato.”
I miei sospetti vennero confermati. Sospirai. Non ci credevo ancora, ma, proprio come non avevo la certezza che dicesse la verità, non ero sicura che stesse mentendo.
“Che cosa vuoi da noi?”
Fece un passo in direzione dello schermo, guardando il fermo immagine di noi due che ci tenevamo per mano, con il sorriso sulle labbra.
“Voi due avete fatto molto, nel corso di questi anni. Ne avete passate tante. E avete vissuto un milione e più di vite.”
Si allontanò dallo schermo, voltandosi verso un punto della stanza circolare alle sue spalle.
“Guardate” ci incoraggiò, facendo un cenno della testa verso la parete.
Ci voltammo, vedendo alcune immagini apparire nella parete bianca. Come se fossero fotografie che qualcuno si era dimenticato di togliere. O appendere. E quindi erano rimaste lì, ad aspettare che qualcuno le notasse.
In pochi secondi tutta la stanza fu riempita da immagini simili, ogni centimetro libero dell'immensa parete recava un'immagine.
Ne osservai alcune. Ce n'era una in cui mangiavamo del gelato. Poi ne vidi una in cui stavamo combattendo spada a spada sopra una nave. Ne scorsi un'altra in cui avevo in mano una pistola, una in cui eravamo in piscina insieme, e poi ce n'era una in cui aveva dei dadi in mano e si preparava a tirare.
“Torno all'idea in cui siamo attrici” mormorò Arizona, se quello era il suo nome, ormai a qualche metro di distanza da me, che osservava un'altra parte della parete, esaminando altre fotografie che ci ritraevano nelle situazioni più disparate.
“Se lo siamo, non abbiamo mai recitato l'una senza l'altra. E abbiamo fatto decine e decine di film insieme. Non mi sembra molto plausibile.”
“Quindi scegli di credere alla storia sull'essere un personaggio?” si voltò nella mia direzione con un sopracciglio alzato.
Scrollai le spalle, senza risponderle.
“Credevo fossimo medici” dissi invece. “Ma qui ci sono” sfiorai alcune immagini “pirati, storie ambientate secoli fa, adolescenti, magia. Sembra che non sia solo un telefilm che abbiamo fatto insieme.”
“Queste sono le vite che avete vissuto. I modi in cui vi siete trovate quando io non sono riuscita a portarvi l'una dall'altra. Queste immagini, ognuna di esse, rappresentano una vostra scelta, un passo che avete fatto e che vi ha allontanato da me.”
“Stai dicendo che abbiamo iniziato a pensare?” domandò Arizona. “Ad agire anche contro la tua volontà?”
“Adesso chi è che crede alla storia dei personaggi?” mormorai tra me e me, con un sorriso divertito in faccia.
“Sostanzialmente, sì. Voi avete iniziato a sviluppare una dipendenza l'una nei confronti dell'altra, un legame così forte che in ogni situazione immaginavo una di voi, anche per un istante, l'altra era in grado di trovarla.”
“Siamo inseparabili, per così dire” tagliai corto.
“Non dare così per scontato che sia una cosa consona. È molto strano, invece, sai? Voi due siete uniche, straordinarie perfino. Siete in grado di esistere, di vivere, perfino quando non sono io a deciderlo. L'unica condizione necessaria e sufficiente perché questo avvenga, è la presenza dell'altra nelle vostre vite.”
“Per questo hai detto che abbiamo vissuto un milione di vite” intervenne Arizona.
“Esatto. E allo stesso tempo, non proprio. Quello che sto cercando di dire, è che avete vissuto un milione di vite insieme.”
Io passeggiai lungo la parete della stanza, osservando alcune delle foto ed il mio sguardo venne catturato da una in particolare.
Era un'immagine di noi due che ci stavamo sposando.
“È quasi come se io e lei fossimo destinate a stare insieme.”
“No, non è quasi come se tu e lei foste destinate a stare insieme. Tu e lei siete destinate a stare insieme.”
“Tu ci credi?” le domandai.
“Fermamente.”
“Ma che te lo chiedo a fare” sospirai. “Se ci hai creato tu, se ci hai pensato per stare insieme, è ovvio che pensi che siamo fatte l'una per l'altra.”
“Questo è il punto, Callie. Io non vi ho affatto create per stare insieme” ci spiegò come se quella fosse la cosa più ovvia da dire.
“Ma nel telefilm...” iniziò Arizona con tono confuso.
“Lasciami ripetere. Non vi ho create per stare insieme. Vi ho create per... per trovare la vostra anima gemella. Ma non si supponeva che foste voi.”
Si voltò di nuovo verso lo schermo, premendo un bottone sul telecomando che aveva usato anche poco prima e facendo partire un filmato, stavolta più breve.
Eravamo dentro un bagno, io stavo piangendo.
“Arizona era...” iniziò a raccontare, ma si bloccò subito dopo. “Io ti ho creato per salvarla” spiegò rivolgendosi a lei direttamente. “Ti ho creata per questo, per restituirle il sorriso che la vita le aveva portato via. E ha funzionato.”
Guardammo la scena in silenzio. Nonostante all'inizio stessi piangendo, quando Arizona lasciò il bagno io avevo un sorriso enorme sul viso.
“Non doveva durare. Non all'inizio. Lei non doveva essere la tua anima gemella. E tu non saresti dovuta rimanere” terminò la donna, voltandosi poi verso Arizona.
“E allora come spieghi tutto quello che è successo dopo?”
Lei rise, stringendosi nelle spalle.
“È quello che stavo dicendo. Voi vi siete trovate. Quando non si supponeva neanche avreste potuto averne la possibilità o la capacità. Voi vi siete trovate ed io, anche se avessi voluto, non avrei potuto evitarlo.”
“Ammutinamento” scherzai.
“Una cosa del genere. Insubordinazione è più corretto, forse. Non avete seguito gli ordini, non avete mantenuto la distanza. Ma alla fine si è rivelata la cosa migliore.”
“Quindi siamo una sorta di eccezione.”
“Esattamente. Basta che pensiate a quello che siete riuscite a fare qui, proprio oggi. Io ho messo le vostre menti in comunicazione attraverso una sola stanza, quella in cui siamo adesso. E voi siete riuscite a spingervi nell'angolo più remoto delle vostre menti, la piccola stanza in cui vi siete svegliate. E siete state spinte ad entrare in una mente estranea, diversa dalla vostra, semplicemente perché sentivate questo inesplicabile bisogno di incontrarvi, di conoscervi. Di trovarvi.”
Per qualche istante la stanza fu immersa nel silenzio.
Fu Arizona a parlare per prima.
“Non hai risposto alla domanda. Perché siamo qui? Cosa vuoi da noi?”
Lei annuì, guardando entrambe per diversi istanti.
“Sono qui perché ho un'offerta da farvi.”
“Che genere di offerta?” domandò la bionda.
“Voglio darvi la possibilità di essere libere. Libere di scegliere e di agire secondo ciò che volete e non ciò che voglio io.”
“Stai dicendo quello che penso?” chiesi in un sussurro.
“Vi sto offrendo la possibilità di diventare persone reali.”

“A cosa stai pensando?”
Trasalii al suono della sua voce. Ero così assorta nei miei pensieri che non l'avevo percepita avvicinarsi.
“Penso a quello a cui pensi tu. Alla sua offerta.”
“Già.”
“Questa è la mia preferita” le indicai una delle fotografie.
Era una foto in cui io ero seduta accanto a lei su un divano, con un braccio attorno alle sue spalle mentre lei cercava di non farsi fotografare, nascondendo il viso contro il mio collo. Nel frattempo io ridevo e guardavo in basso, verso l'unica parte del suo viso che riuscivo a scorgere. Non si vedeva chi era la persona che stava scattando la foto, ovviamente, ma dietro il divano c'era un ragazzo che sorrideva all'obbiettivo, avrà avuto circa sedici anni, e sul divano accanto a noi c'erano due bambine della stessa età, intorno ai dieci anni, che ridevano a crepapelle.
“Credo sia perché tutti sembrano così felici. Così sereni.”
“Perché sembra reale” concluse lei per me.
“Già.”
La donna alle nostre spalle si schiarì la voce.
“Vi ho dato qualche minuto per assorbire il motivo di quello che vi sta succedendo, ma adesso vorrei parlare con voi di quello che questa scelta potrebbe o no comportare per voi due e per la vostra storia.”
Annuii, voltandomi nella sua direzione e lanciando un'occhiata fugace alla donna affianco a me per essere sicura che anche lei fosse d'accordo.
“Come è ovvio, ci sono pro e contro.”
“Iniziamo dai pro” proposi immediatamente. “Libero arbitrio.”
Lei accennò un sorriso annuendo.
“Sapevo che la libertà sarebbe stata la cosa che ti avrebbe attratta di più, Callie. Non sei mai riuscita a desiderare altro tanto quanto l'indipendenza. Beh, niente eccetto Arizona. Lei è l'unica cosa per cui rinunceresti a tutto il resto.”
Io la guardai con fermezza, senza lasciar trasparire alcuna emozione.
“Diciamo che i pro, in questo caso, sono abbastanza scontati. Io sono più curiosa per quello che riguarda i contro” intervenne Arizona.
Lei sospirò, voltandoci le spalle mentre lentamente anche lei, come avevamo fatto noi, osservava alcune delle foto passeggiando per la stanza, fermandosi davanti ad una che la colpì in particolar modo.
“Potreste non trovarvi mai” sussurrò piano, come se fosse la sua più grande paura e allo stesso tempo il suo più tremendo segreto.
“Che significa?” domandai corrugando la fronte. “Non hai detto che siamo destinate a stare insieme?”
“È così qui, infatti. Ma non posso prevedere quello che succederà se vi lascio andare nel mondo reale. Siete destinate a stare insieme nel milione di vite che avete, ma quando sarete nella realtà, potreste non avere lo stesso carattere. O potreste crescere in luoghi e tempi diversi. Per esempio, Callie potrebbe vivere nella Parigi del milleottocento e Arizona nel Giappone del quinto secolo avanti Cristo. Oppure potrebbe succedervi qualcosa, un evento traumatico, che potrebbe cambiare ciò che siete irrimediabilmente. Qualcosa causato dalle persone che avreste intorno, dalla vostra infanzia. E anche il vostro aspetto, temo, non sarebbe quello di adesso. Ora assomigliate alle attrici che vi interpretano, ma nel mondo reale il vostro aspetto fisico sarebbe determinato da una combinazione casuale dei geni dei vostri genitori. Niente di tutto questo è davvero prevedibile.”
Si voltò verso di noi e incrociò le mani dietro la schiena.
“Quindi sì, sareste reali. E libere. Ma potreste non trovarvi mai e non sapere cosa si prova ad amare una persona tanto quanto voi vi siete amate. E forse non sapreste mai il vero significato dell'anima gemella e cosa si prova quando si incontra la persona a cui si è destinati. Sto solo cercando di farvi sapere che non è una decisione da prendere alla leggera, tutto qui. Non è una scelta semplice, dipende tutto da quanto siete disposte a perdere, da quello a cui sareste disposte a rinunciare. Non voglio dissuadervi dal farlo, è ovvio, se questo è quello che volete. Ma non voglio nemmeno illudervi. Questa scelta potrebbe voler dire decidere tra la libertà e la felicità. Quindi prendete una decisione saggiamente.”
“Siamo come prigionieri della tua mente” le fece notare Arizona con aria perplessa. “Dovremmo rimanere qui? Dovremmo semplicemente continuare ad esistere senza mai essere in grado davvero di vivere?”
“Ma qui vivete. Più di qualunque altra persona abbia mai vissuto” ci disse come se le sue parole l'avessero in qualche modo ferita. “Provate emozioni vere, l'amore, il dolore. La morte” la sua voce fu incrinata da una nota di tristezza. “E in un modo o nell'altro, qui riuscite sempre ad avere il vostro lieto fine.”
“Ma se non volessimo un lieto fine?” chiese ancora Arizona. “Se non volessimo una favola, ma soltanto una vita nel mondo reale?”
“Rinuncereste all'immortalità, alle emozioni più grandi della vostra vita” il suo tono di voce era incredulo “senza neanche la promessa di un lieto fine?”
“Io non voglio un lieto fine” le risposi con semplicità, stringendomi nelle spalle. “Tutto quello che voglio è un buon epilogo.”
Mi guardò per diversi momenti con aria perplessa, come se non riuscisse a capire bene quello che stavo cercando di dire.
“Un epilogo?”
“Sì. Una storia che non finisca sul più bello, quando siamo felici. Una storia che abbia un epilogo alla fine, che parli di come il nostro è stato un viaggio unico. A tratti difficile, tanto che pensavamo di non farcela. E di come ce l'abbiamo fatta ugualmente. Di come siamo invecchiate insieme, tenendoci per mano.”
“Ma voi siete invecchiate insieme” mi rispose con voce pacata, come se fosse la cosa più scontata del mondo. “Un miliardo di volte” concluse con voce più decisa, facendo un gesto con la mano sinistra ad indicare le foto che ci circondavano.
Mi guardai attorno. Le immagini stavano cambiando, trasformandosi in immagini molto simili, ma che ci ritraevano di molti anni più vecchie.
“Ma non lo ricordiamo. Non abbiamo mai un solo ricordo che possa confermarci di aver avuto una vita insieme, o sbaglio?” rispose con calma Arizona. “Forse, vivere una vita, arrivare all'ultimo giorno con i ricordi di quello che abbiamo passato insieme nel cuore, forse quello lascerebbe una firma più profonda. Più indelebile.”
“Ma è quello che succede anche qui, i ricordi se ne vanno soltanto dopo, quando ricominciate da capo una vita nuova. Davvero non capite? Nel mondo reale non esiste alcun lieto fine” tentò di spiegarci. “Vivrete le vostre vite, probabilmente senza mai incontrarvi e neanche sapreste cosa vi siete perse. Non lo sapreste mai” ripeté con sguardo triste.
“L'ho trovata ogni volta. Infinite volte. La troverò ancora” risposi con decisione.
“Se ci riuscite, se riuscite a trovarvi e ad avere il vostro lieto fine, il vostro epilogo, perfino nel mondo reale...”
“Non sembri più così convinta che siamo destinate a stare insieme” le fece notare Arizona con tono neutro.
“Lo sono, invece. Ma non sarà facile. Di certo non vi chiamerete con nomi così unici. Calliope e Arizona, una musa e una nave da guerra. Ma se questo è ciò che volete, non sono io che proverò a fermarvi.”
Arizona si voltò, incontrando il mio sguardo.
“Sembra che tu abbia già deciso” osservò.
“Hai paura?”
“Sì. Lei ha ragione, siamo immortali, qui. Abbiamo infinite possibilità e anche in questo modo non va sempre a finire bene. Potremmo non trovarci mai. Essere infelici. Qualsiasi cosa potrebbe andare storta.”
“Ma...” la incoraggiai a terminare.
“Ma, anche tu hai ragione. Non saremo mai davvero libere, finché non sappiamo cosa si prova ad essere là, nella realtà.”
“Non sembri convinta.”
Scrollò le spalle.
“Potrebbe non essere poi così diverso da quello che abbiamo qui, ma a quel punto avremmo comunque rinunciato per sempre a tutto questo” fece un gesto vago verso la parete alla nostra sinistra.
Io sostenni il suo sguardo ancora per qualche istante e poi lo abbassai, guardando in direzione del pavimento.
“Arizona” sospirai il suo nome.
“Calliope?” mi invitò a continuare, prendendomi una mano gentilmente con la sua.
Alzai gli occhi di nuovo verso i suoi.
“Non voglio essere una macchina” mormorai impercettibilmente, la voce che mi tremava. “Anche se sono una creazione perfetta, non voglio essere il risultato di un momento d'ispirazione. Voglio che siano le mie scelte a determinare chi sono. Anche se fosse soltanto per una volta, soltanto per una vita.”
Lei mi guardò per diversi momenti, senza dire niente.
Poi sospirò leggermente, chiudendo gli occhi per un istante e poi guardandomi di nuovo con determinazione.
“Tienimi la mano, d'accordo?”
Annuii con decisione, mentre ci voltavamo verso la donna vestita di bianco.
“Bene. Vedo che avete fatto la vostra scelta.”
Strinsi la sua mano con più forza.
“È quello che desiderate davvero?”
Mi voltai verso Arizona, lasciando che fosse lei a rispondere.
“Sì” confermò.
Io annuii, dandole manforte.
“Beh” sospirò, facendo qualche passo verso di noi. “Sapevo che non sarei riuscita a proteggervi per sempre.”
Si fermò davanti a noi, un piccolo sorriso sulle labbra.
“Non mi dimenticherò di voi, Callie e Arizona.”
Appoggiò la mano destra sulla mia spalla e la sinistra sulla sua.
“Ma voi vi dimenticherete di me e l'una dell'altra. Sarà probabilmente la più terribile esperienza delle vostre vite ed io non sarò lì per aiutarvi, almeno all'inizio. Sarete da sole contro il resto del mondo. Il mio consiglio è cercare di ricordare. Solo in quel modo avrete una possibilità di riuscire a trovarvi di nuovo.”
Improvvisamente sentii le palpebre pesanti, come se avessi sonno.
“Non avere paura” mormorai, rafforzando la stretta sulla mano di Arizona.
“Ti troverò” rispose sommessamente ma con feroce determinazione.
La mia visione divenne sfuocata e percepivo i suoni in modo più attutito.
La voce della donna in bianco fu l'ultima cosa che ricordai prima del buio.
“Buona fortuna.”
E poi, più niente.


To be continued...




Ritorna all'indice


Capitolo 50
*** Il nostro primo epilogo (parte II) ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU



Il nostro primo epilogo (parte II)


Mi sentivo come se fossi stata appena investita da un camion. Oppure come se fossi appena uscita da un incidente aereo. Ogni muscolo del mio corpo era indolenzito e stanco, segno che era stato sottoposto ad uno sforzo maggiore di quello a cui era abituato.
Cercai di aprire gli occhi, ma non era così semplice come pensavo.
Quindi presi un respiro abbastanza profondo, che causò altro dolore, e poi provai di nuovo.
All'inizio era tutto sfuocato e confuso ed i suoni mi arrivavano attutiti, come se fossi stata sott'acqua. Poi riuscii a mettere a fuoco l'immagine più vicina che avevo.
Una piccola luce bianca si muoveva da una parte all'altra dei miei occhi.
“Signorina? Signorina, mi sente?”
La voce dell'uomo che mi stava parlando divenne gradualmente più chiara, definita, finché riuscii a capire che stava di fatto parlando con me.
Cercai di parlare, di dirgli qualsiasi cosa che avesse un senso, ma quando aprii la bocca non ne uscì neanche una parola.
“Si trova in ospedale, è stata portata qui in seguito ad un incidente molto grave in cui è stata coinvolta.”
“Un-un incidente?” le parole uscirono dalla mia bocca come se fosse stato qualcun altro a pronunciarle. Non riconobbi la mia voce.
“Sì, stava camminando per strada quando una frana ha causato un cratere.”
Io chiusi gli occhi e li riaprii di nuovo. Non avevo memoria dell'incidente, dell'uomo davanti a me, o della mia vita in generale. Non avevo memoria, affatto.
“Non si preoccupi se si sente disorientata, d'accordo? Io sono un neurochirurgo, quindi adesso la porto a fare degli esami. Così lei avrà modo di riprendersi un po' dallo shock e poi potremo parlare di quello che le è successo.”
Lui ed un altro medico mi portarono verso uno degli ascensori.
“Come” mi schiarii la voce, ancora debole e roca a causa del fatto che era stata svenuta fino a pochi momenti prima. “Mi scusi, come ha detto di chiamarsi?” domandai al medico.
“Sono il dottor Jack Kensington” rispose, sorridendomi gentilmente.

Un paio di ore dopo lo vidi entrare nella stanza che mi era stata assegnata con delle radiografie in mano.
“Allora, non sembrano esserci segni di emorragia cerebrale, ma per sicurezza vorrei tenerla in osservazione per stanotte, nel caso in cui avesse un leggero trauma cranico. In più, vorrei che parlasse con un psicologo di quello che le è successo oggi.”
“Io non lo so cosa mi è successo oggi” risposi pacatamente.
“È sprofondata in una voragine che si è creata in centro” mi ricordò brevemente. “Lo psicologo l'aiuterà a recuperare i ricordi della giornata e poi insieme discuterete del trauma che ha subito.”
“Non è solo quello che riguarda oggi. Non ricordo niente, in generale. Niente di niente.”
Corrugò la fronte.
“Nemmeno il suo nome? Sa dirmi almeno come si chiama?”
Scossi la testa negativamente.
“Mando immediatamente qualcuno da psichiatria.”

Così mi ritrovai, un paio di giorni dopo, seduta sul divano di uno psichiatra al decimo piano dell'ospedale.
“Signorina Cooper, vogliamo iniziare dal giorno dell'incidente?”
“Gliel'ho detto, il mio nome non è quello.”
“Ma è quello sui suoi documenti. Dakota Cooper. E lei dice di non ricordare niente, quindi come fa ad essere così sicura che questo non è il suo nome?”
“Non” corrugai la fronte “non lo è. Io lo so e basta.”
Annuì, premendo le labbra l'una contro l'altra ed abbassando la testa per scrivere qualcosa sul blocco che aveva tra le mani.
“Sa, è molto comune perdere la conoscenza e l'idea di sé stessi che si aveva prima, dopo un trauma simile a quello che ha vissuto lei.”
“Ma io non lo ricordo nemmeno, questo trauma di cui tutti mi parlano.”
“Siamo qui proprio per questo, signorina Cooper.”
“Per favore, potrebbe smettere di chiamarmi così?”
“Come preferirebbe che la chiamassi?” domandò senza scomporsi.
Scrollai le spalle, pensando a qualcosa di adatto. Ma poi ricordai che io non conoscevo affatto me stessa. Chi ero? Chi ero stata? Sarei mai tornata la persona di prima?
“Non mi chiami e basta” mormorai, guardando verso il basso.
Sospirò, posando il blocco e sporgendosi verso di me.
“Signorina Cooper, siamo qui per recuperare la sua identità. Se io contribuisco a lasciare che sia proprio lei ad annullarla, non concluderemo mai niente. Provi ad abituarsi a questo nome, ok?”
Io sospirai a mia volta, guardandolo mentre mi osservava reagire alle sue parole.
“Ci proverò” concessi.

“Ho fatto di nuovo quel sogno.”
“Sempre lo stesso?”
“Sempre uguale. Sono dentro una stanza. Una stanza piccola e quadrata. Completamente bianca e vuota. Eccetto per uno specchio. C'è uno specchio appeso alla parete, ma non ci sono finestre. C'è una porta. La vedo e mi avvicino, ma non riesco ad aprirla. Ci provo, con tutte le mie forze, ma la porta sembra chiusa a chiave. Però non c'è una chiave, non c'è nemmeno una serratura, non c'è modo di uscire da lì.”
“È chiusa all'interno della stanza.”
“Sì. E quando capisco che non c'è via d'uscita mi avvicino allo specchio.”
“Signorina Cooper...”
“Le ho detto” iniziai bruscamente, ma abbassai subito la voce “le ho chiesto più di una volta di non chiamarmi così. Per favore.”
“Ed io le ho spiegato perché non posso farlo. Questo è il suo nome. È sui suoi documenti, i suoi familiari l'hanno riconosciuta. Quella che ha davanti ogni giorno è la sua vita. Questa che ha intorno è la realtà.”
“Ma quel sogno, il sogno che faccio” iniziai, interrompendomi però a metà della frase che stavo pronunciando.
“Sì?”
“Quello sembra più reale di qualsiasi cosa che riesco a provare quando sono sveglia.”
“Capisco che pensare che esista un posto in cui essere al sicuro, in cui il male non esista, pensare che esista un posto in cui non le servono i suoi ricordi per andare avanti con la sua vita, può essere una dolce illusione. Ma questo è tutto ciò che è” mi disse, togliendosi lentamente gli occhiali che stava indossando. “Quel sogno, quel posto, è un'illusione. Finché non riesce a recuperare i suoi ricordi, non si renderà conto che è quella in cui è adesso, la realtà. E non il vivido sogno in cui le sembra di vivere davvero.”
“Ma, mi ascolti. Io posso sentire il cuore che mi batte in gola.”
“Si senta il polso. Il cuore non le batte forse anche adesso?”
“Sì, ma non è questo che voglio dire. Quando mi sveglio in quella stanza, tutte le volte, ho una scarica di adrenalina potentissima. Sento il battito del mio cuore martellarmi nelle orecchie, da quanto è forte. Qui, di giorno, non mi capita mai.”
“Sta perdendo il contatto con la realtà, signorina Cooper. Sta iniziando a credere alla sua stessa illusione.”
Io lo guardai in silenzio, mentre si rimetteva apposto gli occhiali.
“Ci sono scritte anche altre cose” sussurrai dopo qualche momento. “Sui documenti” chiarii vedendo la sua aria smarrita. “Ci sono scritte un sacco di cose, c'è scritto che sono sposata, c'è scritto che mio padre è deceduto. C'è scritto che ho i capelli castani e gli occhi di colore marrone chiaro.”
“C'è scritto così” confermò.
“Ma non sono io.”
“Vuole che le porti uno specchio?”
“Ce l'ho già uno specchio. A casa, ne ho a dozzine. Mi dicono tutti la stessa cosa, mi mostrano tutti una donna castana con gli occhi marroni che si chiama Dakota Cooper. E tra i tanti specchi che ho, ne ho uno anche in una piccola stanza quadrata dalle pareti bianche e con una sola porta. Lì c'è uno specchio. E se è lì ci deve essere un motivo.”
“Probabilmente lo specchio le mostra l'immagine che ha di se stessa, signorina Cooper. Come si vede?”
Io ripensai per un istante a quel sogno. O meglio, quella visione. Ripensai a quando, ogni volta, mi allontanavo dalla porta e mi avvicinavo allo specchio.
“Non ricordo” mentii.

“Me ne parli di nuovo.”
“È frammentario. Non ricordo la maggior parte delle cose che mi succedono mentre sono lì. Come se stessi sognando.”
“Non confonda sogni e ricordi, signorina Cooper. È sicura che ciò che ha ricordato sia davvero successo?”
“E come potrei saperlo?” chiesi.
“C'era qualcuno che conosce, in questo ricordo? Sua madre? Sua moglie? Potrebbe chiedere conferma a loro.”
“Nessuno che è nella mia vita adesso” replicai. “Ma qualcuno c'è. Una donna. Ha il camice blu da chirurgo.”
“Non può essere un ricordo dell'operazione che ha subito qui. I chirurghi indossano solo camici verdi, in questo ospedale. Ma forse, da giovane, ha subito altri interventi.”
“Se fosse così, non ce n'è traccia. Ho controllato, ero sana come un pesce finché non sono caduta in quella voragine.”
“Quindi chi è la donna di cui ha ricordi? E che genere di ricordi sono?”
“Gliel'ho detto. È frammentario. Sono piccoli flash. Ma tra i tanti, ce n'è uno molto vivido. Uno solo. Un secondo e basta.”
“E cosa state facendo in questo flash?” chiese, sporgendosi fino al bordo della poltrona a cui era seduto.
Un mezzo sorriso, appena accennato, ma la mia aria beffarda, di sicuro non era sfuggita agli occhi attenti dello psicologo.
“Ci stiamo baciando.”

“Hai fatto qualcosa ai capelli?”
Mi avevano lasciato uscire dall'ospedale solo dopo dieci giorni dal mio ricovero. Era il momento di tornare a casa. Una casa di cui non avevo ricordi, né sentivo la mancanza, ma comunque, tutti mi dicevano, era casa mia.
“Sembrano più chiari.”
Mia madre aveva insistito per accompagnarmi.
“Li ho tinti. Mi piacciono di più adesso, biondi. A te no?”
“Sono carini” sorrise con reticenza “ma non sembra proprio il tuo stile.”
“Avevo voglia di cambiare.”
“Lo capisco. Dopo quello che ti è successo, capisco che tu abbia voglia di cambiamenti.”
“Ti riferisci all'incidente o alla perdita di memoria?”
“Entrambe” si affrettò a rispondere, aprendo la porta della macchina per me. “Quando sei andata dal parrucchiere?”
“Sei giorni fa, dopo che mi hai accompagnato a casa dall'ultima terapia.”
Annuì, facendo il giro dell'auto.
“Sai, ricordo come si guida. Non c'è bisogno che mi accompagni dallo psicologo. Posso andare da sola.”
“So che puoi, ma a me fa piacere. Mi preoccupo per te.”
“Da domani vado da sola” risposi con tranquillità, ponendo fine alla discussione.

“Continuo a fare quel sogno. Tutte le notti. Sono dentro una stanza bianca e non riesco ad aprire la porta.”
“Sembra ossessionata da questo sogno.”
“Se non fosse un sogno?” chiesi a bruciapelo. “Se quello che vedo fosse successo realmente? Se fosse un ricordo? Forse di quando ero più piccola.”
“Qualcuno l'avrebbe rinchiusa in una stanza senza uscita, quando era più piccola? È un po' improbabile, signorina Cooper.”
“Improbabile non mi basterà per dissuadermi dal pensare che questo sogno significhi qualcosa, dottor Handson.”
“Ci ho pensato molto. Sembra non essere in grado di convincersi che non è niente più che un sogno, quindi forse c'è qualcosa che posso fare per provarle il contrario. Una seduta di ipnosi. L'aiuterò ad andare oltre la porta così si renderà conto che non c'è niente di più nel suo sogno, ma che è solo un sogno come tutti gli altri.”
Così provammo con l'ipnosi, nonostante secondo me fosse una cosa da ciarlatani. Non riuscì nemmeno a farmi arrivare allo specchio, mi riscossi immediatamente, come se sentissi che la sua presenza lì era un'intrusione non solo nei miei confronti ma anche verso qualcun altro, anche se non sapevo chi.
Quella sera tornai a casa ancora più nervosa del solito. Ero sicura, più che mai, che non fosse solo un sogno.
“Come è andata la terapia?”
“Non molto bene.”
“Ah, ben tre parole. Sei di ottimo umore” disse con tono scherzoso.
Ma io sapevo che non stava scherzando, non c'era nient'altro che la realtà nelle parole che mi stava dicendo.
“Mi manchi, Dakota. Tutto qui” sussurrò quando vide come la stavo guardando.
“Non è il mio nome.”
“Sì che lo è” mi contraddisse. “Possibile che non ricordi ancora niente? È passato un mese e sei ancora convinta che perfino il tuo nome sia quello di un'estranea?” sospirò pesantemente, scuotendo la testa con fare scoraggiato. “Ma io lo ricordo il tuo nome, Dakota. È il nome della donna che ho sposato.”
“Jill, io non sono la donna che hai sposato. Mi dispiace, davvero, ma io non so chi sia la persona che ti manca. E non posso riportarla indietro.”
Mi alzai da tavola e me ne andai a letto, cercando di rifugiarmi in quel sogno che sembrava più familiare e reale della stessa realtà in cui ogni giorno vivevo.
Mi avvicinai allo specchio lentamente, come facevo ogni volta. Mi avvicinai, sapendo che quello che avrei visto sarebbe stato diverso da quello che vedevo alla luce del giorno. Fissai il mio riflesso. Capelli biondi, occhi azzurri, i lineamenti del viso diversi. Io non assomigliavo a quella fototessera incollata su quel documento. Io non ero affatto Dakota Cooper.
Mi precipitai alla maniglia, tirando e spingendo con tutte le mie forze, incapace di aprire quella porta, ma sapendo che dovevo farlo, che dovevo uscire, perché solo in quel modo mi sarei potuta riprendere la mia vita.
Quando capii che non ci sarei riuscita, feci tre passi indietro, prendendo la giusta rincorsa. Poi andai a collidere contro la porta con tutto il peso del mio corpo. Scricchiolò, ma non si aprì.
Ero terrorizzata da cosa avrei trovato, ma allo stesso tempo sapevo che era l'unica via d'uscita, così provai di nuovo. E poi ancora, ancora, fin quando lo sentii.
“C'è qualcuno? Sei qui dentro?” arrivò tremante e sommesso il sussurro di una donna dall'altra parte di quella parete.
Era lei che mi teneva prigioniera?
“Chi diavolo sei?” urlai contro la porta, raccogliendo tutta la forza che mi era rimasta. “Cosa vuoi da me?”
“Non lo so” rispose pacatamente. “Mi sono trovata chiusa in una stanza anche io, non so come sono arrivata qui.”
Io non mi mossi. Rimasi in attesa, i sensi all'erta.
“Senti, so che sembra assurdo, ma per uscire dalla stanza... devi volerlo fare. Volerlo davvero.”
Mi guardai attorno, sperando che cambiasse qualcosa. Se era davvero un sogno, la mia mente avrebbe creato una via d'uscita.
“Qualcuno, qualcuno con dei seri problemi, ci ha chiuso qui dentro” continuò. “Ma in questa stanza non c'è nessuno, soltanto io, e prometto che non ti farò del male.”
“Non sei tu che mi hai portato qui?” chiesi di nuovo, nonostante avesse già negato.
Lei rimase a lungo in silenzio, riflettendo seriamente sulla domanda. Cosa che, stranamente, un po' mi spaventò ed un po' mi rassicurò.
“No, non sono stata io. Prova ad aprire di nuovo la porta, d'accordo?”
Deglutii, prendendo di nuovo la maniglia tra le mani, chiudendo gli occhi ed inspirando. Tutto quello che volevo e dovevo sapere, era dall'altra parte. Ed io ero l'unico ostacolo che ancora mi tratteneva.
Spinsi un'ultima volta, sentendo un piccolissimo, quasi impercettibile, 'click'.

Mi svegliai all'improvviso, la fronte ed il collo madidi di sudore freddo. Deglutii più volte, ma il rumore di quella porta che si apriva non riusciva ad uscirmi dalla testa.

“Cosa c'è dietro la porta?”
“Una donna. Capelli neri, occhi castani. Stiamo parlando, quando viene a cercarci un'altra donna, vestita completamente di bianco e ci dice un sacco di cose che non suonano per niente reali. No, anzi. Dice che siamo io e lei a non essere reali.”
“Ho cercato di avvertirla. È solo un sogno, signorina Cooper.”
“Non credo. Credo che quella sia la realtà. Devo solo capire cosa dice di preciso la donna vestita di bianco, devo ricordare il nome della donna che è con me.”
“Signorina Cooper, la prego. Tutto questo è assurdo.”
“No, sono io che prego lei. La prego di capire che è come se vivessi in un sogno, come se ci fosse costantemente della nebbia che mi circonda. Capisce? Non riesco a vedere più in là del mio naso, non riesco a muovermi. Tutto quello che so è che devo riuscire a svegliarmi, ad andarmene da dove sono adesso. E ci riesco solo...”
“...quando sogna” terminò al posto mio.
Inspirai ed annuii.
Sapevo che suonava assurdo, ma quella era la verità.
Scrisse velocemente qualcosa sul suo blocco e poi cambiò radicalmente argomento.
“Ha messo delle lenti a contatto.”
“Avevo voglia di cambiare.”
“Signorina Cooper, prima i capelli, il modo di vestire, adesso delle lenti a contatto. Sembra a malapena ancora la donna sulla sua carta d'identità” mi fece notare.
“Ma mi sento molto più me stessa” risposi pacatamente, voltando la testa per non permettergli di vedere i miei occhi azzurri.
“Questa non è per caso l'immagine che vede quando arriva davanti allo specchio, in quel suo sogno?”
Registrai il tono preoccupato della sua voce, ma non lo guardai. Sapeva fin troppo bene la risposta, ma aveva ugualmente voluto pormi una domanda superflua.
“Più o meno. Non ho i suoi lineamenti. Ma almeno ho alcuni tratti di lei.”

“Voi due siete...una storia. Siete i personaggi di una serie televisiva.”
“Non voglio essere una macchina.”
“Tienimi la mano, d'accordo?”

“Penso di essere impazzita.”
Per la maggior parte di quella seduta me ne ero rimasta in silenzio, ignorando le sue domande.
“Sono passati solo tre mesi, signorina Cooper, non può pretendere da se stessa uno sforzo come quello di ricordare tutto immediatamente. Vedrà che con il tempo riacquisterà la maggior parte dei suoi ricordi.”
“Non mi riferisco ai ricordi. Mi riferisco ai sogni.”
“Ai sogni?”
“Uno solo, in realtà.”
“Ah, quello che fa tutte le notti.”
“Ho iniziato a credere al sogno più che alla realtà, ho iniziato a fidarmi più di ciò che mi dicono le persone che sogno che del mio stesso buonsenso. Sono impazzita.”
“Lasci che sia io a deciderlo, va bene?” domandò il più gentilmente possibile.
“Va bene. Sono convinta di essere un personaggio televisivo catapultato per sbaglio nel mondo reale, ma mentre questo accadeva qualcosa è andato storto e ora eccomi qua. Ho rubato un corpo ed una vita che non sono i miei e non so come fare a riprendermi la mia vecchia storia e quello stupido lieto fine che avevo tanto disprezzato. E, più di tutto, non so come fare a riprendermi indietro anche lei.”
“Lei?”
“La donna del mio sogno. Devo ritrovarla, capisce? Io devo trovarla sempre. Oppure lei deve sempre trovare me.”
Rimase in silenzio per parecchi istanti, cercando di capire se ero seria o stavo scherzando.
“Sembra che oggi sia più stanca del solito. Perché non va a casa e si riposa un po'?”
“Ci vediamo tra una settimana” mi alzai velocemente, non vedevo l'ora di andarmene da lì.
“Forse è meglio fare una seduta in più. Due a settimana, forse tre se le cose non migliorano. Non voglio rischiare, con lei, signorina Cooper.”
Io mi sentii morire. Credeva fossi pazza. Lo avrebbero creduto tutti.
“Quello non è il mio nome.”

Erano le undici di sera, due giorni dopo, quando qualcuno bussò a lungo alla mia porta. Scesi le scale con una mazza da baseball in mano, in caso le cose si mettessero male.
“Dottor Handson, che diavolo ci fa qui? Mi ha fatto prendere un colpo. Forse dovrebbe rimettere in discussione chi di noi due è quello pazzo.”
“Lo sto già facendo” sussurrò, entrando in casa mia. “Non riuscivo a smettere di pensare a quello che mi hai detto. Sapevo di aver già sentito la storia che mi hai raccontato. Avevo ragione” disse, sventolandomi una rivista di psicologia davanti agli occhi. “Un mese fa, un dottore dell'Oklahoma ha pubblicato un articolo su una sua paziente che sosteneva di essere un personaggio televisivo, che questo mondo era un'illusione ed i suoi sogni la realtà.”
“Ho un dejà-vu.”
“Anche io l'ho avuto. È così che ho trovato l'articolo. Mi sembra una coincidenza troppo strana, credo che dovremmo andare a controllare.”
“Quindi non crede più che io sia pazza?”
“Oh, no, certo che lo credo ancora. Ma credo anche che sapere come questa donna ha superato le sue convinzioni illusorie potrebbe aiutarti a superare le tue, quindi, di conseguenza, a sbloccare i tuoi ricordi.”
Scrollai le spalle, sospirando.
“Per me va bene. L'importante è che mi porti da questa donna il prima possibile.”

Prendemmo un aereo dal North Carolina fino alla piccola città dell'Oklahoma in cui lavorava il dottore che aveva pubblicato l'articolo.
“Ah, sì che me la ricordo. Cassandra Rain. Una cosa del genere non si dimentica. Ho ancora la sua cartella, qui da qualche parte. Io l'ho avuta in cura per un mese e mezzo, forse di meno. Circa quattro mesi fa, ha avuto un incidente. Ha battuto forte la testa, sarebbe dovuta morire, ma invece si è risvegliata. Da quel momento, non ha avuto più neanche un ricordo di ciò che aveva vissuto fino ad allora. Diceva di” sospirò “chiamarsi in modo diverso, di essere nel corpo sbagliato, che questa non era la sua vita né la sua realtà.”
Mi suonava decisamente familiare.
“Dov'è adesso?” chiesi, sperando che non avesse già lasciato la città o lo Stato.
“Terzo piano, chiedete alle infermiere per il numero della stanza.”
Notò gli sguardi perplessi sia di me che del dottor Handson. Ci guardò con aria confusa.
“Psichiatria. È tra i pazienti più gravi che abbiamo. Non lascia l'ospedale da due mesi.”

Era seduta ad un tavolo, con una matita in mano e dei fogli davanti.
“Vuoi parlare con lei?”
Annuii, andando nella sua direzione e mettendomi seduta al tavolo, insieme a lei. Il dottor Handson rimase in piedi, mezzo metro indietro.
“Ciao” attirai pacatamente la sua attenzione.
Alzò lo sguardo, sorridendo per un istante, prima di tornare a guardare i fogli davanti a sé.
“Ciao. Hanno mandato un altro dottore? Un altro consulto? Cambieranno di nuovo le mie medicine?”
“No. Io non sono un dottore” la rassicurai.
“Perché non funzionerà. Cambiarmi le medicine, intendo.”
Guardai il suo profilo. Aveva i capelli castano chiaro, gli occhi verdi, guardava in basso, verso il foglio su cui stava scrivendo. Non assomigliava alla donna del mio sogno.
“Il dottor Benson mi ha detto che quando tu e lui stavate facendo terapia, gli raccontavi spesso di un sogno.”
“Era un ricordo” rispose distrattamente.
“Ti va di parlarmene?” domandai, guardandola poi scrollare le spalle.
“Mi svegliavo in una stanza piccola, quadrata, completamente bianca. E quando riuscivo ad uscire, incontravo una donna, vestita di bianco. Non voglio essere una macchina” sussurrò l'ultima frase più a se stessa che a me.
“Sai dove ti trovi?”
“Sono nel mondo reale. No, non è vero. Non è vero” si corresse con una piccola risata. “Sono in un mondo reale. Ma non il mio. Questo non è il mio” sussurrò. “Non è la mia realtà. Era un'altra la mia realtà, ma da là sono voluta fuggire perché pensavo che questa realtà fosse più reale di quella, capisci?”
“Ma non lo era?”
“No” rispose con dolorosa ovvietà. “Quella di prima era la mia realtà. Questo posto mi confonde, mi rende triste. Non è il mio destino stare qui. Non è il mio destino. Io non sono stata creata per un epilogo, capisci? Solo per un lieto fine.”
“La donna che ti ha mandato qui...”
“Sì, lei. Lei voleva fare una cosa buona. Ma il buono è andato storto e ora non si può aggiustare, non si può. Doveva darci la nostra vita, ma ci ha dato solo una vita a caso e io e lei siamo in due posti che non sono i nostri. Io non riesco a trovarla, e se non riesce a trovarmi neanche lei?”
“Stai dicendo che ha commesso un errore, quella donna, quando ti ha dato questa occasione?”
“Lei, lei non lo sapeva. Lei pensava di liberarci. Ma invece siamo finite nei corpi di due donne che sarebbero dovute morire. Ci siamo rubate i loro corpi, io e lei.”
“Tu e lei?”
“Lei” mi mostrò il disegno che stava facendo.
Era uguale ad una donna che avevo già visto, mille volte, dentro uno specchio. Uno specchio che potevo raggiungere solo in sogno, dentro una stanza bianca.
“Non sono pazza” bisbigliò. “Le medicine per la schizofrenia mi hanno resa schizofrenica. Devi dire loro che non sono pazza. Ma se lo fai diranno che sei pazza anche tu.”
Presi la sua mano nella mia, facendole alzare gli occhi per guardare dentro i miei.
“Calliope.”
Un minuscolo e tremolante sorriso si fece strada sulle sue labbra.
“Sai il mio nome. Finalmente qualcuno che sa il mio nome.”
“Ti avevo promesso che ti avrei trovata, no? Andiamo. Ti porto via da qui.”

“La lista degli psicofarmaci era infinita, sedativi, antidolorifici. Mi stupisce che la pazzia non sia progredita ancora di più. I familiari hanno acconsentito al trasferimento, dicono che non è più la stessa persona che conoscevano, ma solo un'estranea.”
Il dottor Handson la prese in cura e le tolse gradualmente tutti i farmaci che stava prendendo. Dopo un paio di settimane diventò leggermente più lucida, mentre io continuavo ad avere sempre più ricordi di cose apparentemente mai davvero successe.
Era ricoverata in ospedale, nella città dove vivevo. Andavo a trovarla tutti i giorni.
“Sto cercando un appartamento per quando ti faranno uscire da qui. Un posto carino, ma con un affitto basso, visto che nessuna di noi due ha un lavoro. Ho controllato, però. Ho un conto in banca e ci sono un po' di risparmi dentro. So che tecnicamente quei soldi non sono i miei, ma alla donna che aveva aperto il conto dubito dispiacerà.”
Non parlava molto. Ma io facevo del mio meglio per tenerle compagnia.
“Potremmo trovarci un lavoro, però. Glieli restituirei, sarebbe più che altro un prestito senza interessi.”
“Era una trappola.”
“Come?” chiesi, spiazzata. Di rado sentivo la sua voce.
“Era una trappola” rise brevemente. “Non abbiamo mai avuto un'occasione. Lei non lo sapeva, qualcosa però è andato storto. Era una trappola.”
Io la guardai senza dire niente.
“Non sei tu?” chiese, quando non risposi. “Sapevi il mio nome. Credevo che fossi tu, la donna del mio sogno. Qualcosa è andato male, ma possiamo rimediare. Possiamo tornare indietro e rifare tutto dall'inizio.”
Le presi la mano, cercando di rassicurarla.
“Non voglio essere una macchina. Ma non voglio nemmeno essere nel corpo sbagliato, con l'aspetto sbagliato e la vita sbagliata. Voglio essere di nuovo me. E voglio di nuovo accanto te. Possiamo tornare indietro, adesso? Questo posto non mi piace. Qui mi fa paura, e le persone che conosco le conosco per la prima volta” sussurrò l'ultima parte. “Come se non avessimo vissuto altre mille vite insieme” rise piano alla fine. “Non dovrei conoscere persone che non sono destinata a conoscere, non dovremmo. Non mi piace questo mondo.”
“Torneremo indietro. Te lo prometto. Riuscirò a riportarti indietro” risposi con voce ferma.

Riusciva sempre a farmi uscire dalla stanza.
Mi rannicchiai contro le sue braccia e la sentii stringere forte, rassicurarmi e proteggermi.
“Mi rattrista sapere che questo è l'unico posto in cui posso incontrarti” sospirò.
“Sono ancora io. Sono io quando è giorno e siamo sveglie, anche se ho un aspetto diverso.”
Si allontanò, accarezzandomi i capelli.
“Lo so. Sono io che non sono me stessa, in quel mondo. La mia mente è ancora annebbiata da tutti quei farmaci. Ma magari con il tempo andrà meglio.”
“Neanche io voglio più stare là. Mi sembra di non essere vera, di essere solo un'ombra di quello che ero. Come se non potessi più provare emozioni.”
“Stessa cosa” confermò. “È come se il mondo in cui stiamo vivendo non fosse reale.”
“Credevo fosse quello che volevate.”
Ci voltammo di scatto.
La donna in bianco non si faceva più vedere nei nostri sogni, da quando avevamo iniziato a prenderne il controllo e vivere esperienze diverse da quella iniziale.
Si mise immediatamente tra me e lei, proteggendomi con il suo corpo pur sapendo che non ce n'era bisogno.
“Siete reali, adesso” terminò.
“Hai sbagliato qualcosa. Siamo meno reali di come eravamo prima, è come se...” si strinse nelle spalle, cercando le parole giuste.
“Come se stessimo sbiadendo” terminai al posto suo.
“Ho cercato di avvertirvi. Siete personaggi, quello non è il vostro posto. Vi ha cambiato, vi ha reso diverse. Le esperienze che avete vissuto crescendo...”
“Non siamo mai cresciute. Ci siamo risvegliate già adulte, per questo non siamo noi” le risposi con voce amareggiata.
“Di che stai parlando?”
“Quattro mesi e mezzo fa, quando ci hai chiamate qui e mandate sulla terra, ci siamo svegliate già adulte.”
Lei corrugò la fronte, avvicinandosi a noi lentamente.
“Ma quello, per voi, è stato più di trent'anni fa, Dakota.”
“Come mi hai chiamato?” sussurrai.
“Questo è il tuo nome, adesso. Dakota e Cassandra. Siete state loro per oltre trent'anni. Avete avuto tutto il tempo. Io non c'entro, ho fatto quello che mi avete chiesto.”
Mi portai una mano alla fronte, un ricordo arrivò come un fiume in piena.
“Jill, ti prego, spegni la telecamera. Jill!”
“Vuoi dire che abbiamo vissuto sulla terra per tutto questo tempo? Senza mai ricordare niente, senza sospettare mai niente?” chiese in un sussurro la donna al mio fianco.
“Vi avevo detto che sarebbe successo. Vi avevo avvertito che non sareste state in grado di ricordare” spiegò, guardando a turno entrambe.
“Ma...un'intera vita” sussurrai. “Abbiamo dimenticato tutto?”
Lei scrollò le spalle, dirigendosi verso lo schermo al centro della stanza ed afferrando il telecomando.
“Siete state felici, sapete? Ci sono stati anche bei momenti.”
“Jill, andiamo, spegni la telecamera.”
“Solo altri cinque minuti. Aspetta” qualcosa si mosse, e poi anche lei era dentro l'immagine al mio fianco. “Siamo Jill e Dakota, abbiamo appena comprato casa.”
“Non capisco perché riprendi sempre tutto” risi, passandole un braccio sulle spalle.
Lei scrollò le spalle e sorrise alla telecamera, avvicinandosi per spegnerla.

“No, intendo” continuai, sempre a bassa voce. “L'una dell'altra. Ci siamo dimenticate di noi?”
Lei sorrise appena, spegnendo il televisore e voltandosi di nuovo verso di noi.
“Circa cinque mesi fa, ho capito che dovevo fare qualcosa, aiutarvi. Fare in modo che vi concentraste sui ricordi. Così...”
“Ci hai fatto perdere la memoria” concluse Calliope.
“Doveva essere solo temporaneo. Ma qualcosa non ha funzionato. Una volta che vi siete conosciute vi siete aggrappate a quei falsi ricordi in modo così forte da dimenticarvi di quelli reali. Quelli che avete passato una vita a costruire. Li avete bloccati e tenuti a distanza, rifiutandovi di affrontare quella che è la realtà.”
Accese di nuovo il televisore. Stavolta non ero io.
“Cassie” c'era un uomo dietro la telecamera. “Cassie, amore, guarda qua.”
Lei lo ignorò, continuando a giocare con i due bambini che erano seduti al tavolo con lei.
“Non vedi che stiamo facendo un puzzle, Tom? Lasciaci lavorare.”
Erano due gemelli. Due bellissimi bambini dagli occhi chiari e i capelli biondi.
“Dov'è Leslie?”
“Sta facendo merenda. Ha detto che viene subito ad aiutarvi.”
“Bene, metti via la telecamera e vieni anche tu allora” sorrise, alzando gli occhi verso la telecamera, l'immagine rimase in pausa proprio sul suo sorriso.

“Perché non era davvero la realtà” mormorò sommessamente Calliope. “Non per noi.”
“Era la vita di prima la parte reale. Era quando sentivamo, sentivamo davvero. Quando amavamo in quel modo disperato e non ci sembrava di sparire un po' ogni giorno” continuai. “Stiamo sbiadendo. Non è questa la nostra realtà.”
La donna vestita di bianco scosse la testa.
“Non lo è. Vi ho avvertite. Niente è reale e allo stesso tempo, tutto quanto lo è. La realtà è relativa.”
“E quella non è la nostra” concluse Callie fissando quel suo sorriso che non le apparteneva.
“Cosa desiderate, adesso che avete visto il mondo? Avete capito quale è la vera libertà? Quale è il vero amore?”
“Sì” risposi piano. “Adesso lo sappiamo.”
“E perché siete qui?” domandò, ma conosceva già la risposta.
“Sono la tua macchina. E adesso sono rotta” le disse Calliope, allargando le braccia e rivolgendole un sorriso che aveva una nota amara. “Aggiustami.”
Un sorriso aleggiò sulle labbra della donna davanti a noi, come se lo avesse saputo fin dal principio, come se ci conoscesse troppo bene per poter pensare ad un'alternativa a quella fine.
“Come desiderate.”

“Allora, ti piace qui?”
“È carino” confermai.
“Possiamo venire ogni volta che vogliamo e stare insieme. Dare un'occhiata al passato” proseguì.
Io sorrisi, appoggiando una mano sulla sua spalla e alzandomi in punta di piedi per baciarla.
“Ricordare i momenti belli. E quelli meno belli. I nostri finali felici e i nostri finali e basta” feci notare casualmente, camminando per la stanza e guardando alcune delle foto. “Amore, ricordi quando hai fatto la cantante?”
“Come potrei dimenticare?” sussurrò in risposta, avvicinandosi alle mie spalle e avvolgendo le sue braccia attorno a me. “Eravamo felici.”
“Quando mai non lo siamo state?”
“Nel mondo reale” mi fece notare con tono scherzoso. Rise, baciandomi sulla tempia sinistra.
“Non mi piace parlare di quello, lo sai. È stata una pessima esperienza. Non siamo riuscite a trovarci senza che lei intervenisse. Ma se ti avessi incontrata, anche prima del sogno, penso che ti avrei riconosciuta, che avrei capito al volo, sai?”
Rimanemmo in silenzio ad osservare le fotografie, ognuna portava con sé una storia, una nostra storia. Era incredibile.
“Pensi che dopo la nostra prossima vita, qui è dove torneremo? O pensi che tra dieci minuti ci saremo completamente dimenticate di questa stanza?” domandai.
“Che importa?” mormorò. “Ovunque saremo la prossima volta, io ti troverò. Io ti trovo sempre.”

Ero sovrappensiero quando andai a sbattere contro qualcosa. O meglio, qualcuno.
“Mi scusi, non guardavo dove stavo andando.”
“No, la colpa è mia. Ero immersa nella lettura. Non dovrei farlo mentre cammino.”
“Quel libro lo conosco” notai. “È uno dei miei preferiti.”
“Davvero? Per adesso mi piace” mi sorrise. “Ma non mi racconti il finale, eh” si affrettò ad aggiungere, con un sorriso ed il tono scherzoso.
“Stia tranquilla. Non lo farò. Dakota Cooper.”
“Cassandra Rain” mi strinse la mano. “Mi scusi, ma ho appena visto il mio fidanzato dall'altra parte della strada, dovrei proprio andare adesso. È stato un piacere.”
“Anche per me” risposi. “E finisca il libro, mi raccomando” le dissi mentre la superavo, voltandomi per guardarla un'ultima volta, mentre lei faceva lo stesso.
Proseguimmo in direzioni opposte. E non la rividi fino a molti, troppi anni dopo.
L'avevo incontrata, vista, notata e poi dimenticata. Ma non l'avevo trovata. Non avevo mantenuto la mia promessa.
Avevamo avuto vite lontane e amato altre persone, persone che non avremmo dovuto amare, prima di poter mantenere quella promessa. Era stata, forse, l'unica volta in cui non c'eravamo davvero riuscite.





Soul Mates, by Lang Leav

“I don’t know how you are so familiar to me – or why it feels less like I am getting to know you and more as though I am remembering who you are. How every smile, every whisper brings me closer to the impossible conclusion that I have known you before, I have loved you before – in another time, a different place, some other existence.”




Grazie a tutti per il meraviglioso viaggio.

Ma questa non sarà l'ultima storia della raccolta.





Ritorna all'indice


Capitolo 51
*** La nostra prima bomba ad orologeria ***


Ed eccoci qui con una nuova storia, oltre la cinquanta. Bel traguardo, non vi pare?

Avvertimenti: AU



La nostra prima bomba ad orologeria


“Qui è Danielle Rosemberg, inviata speciale del Telegiornale Nazionale che vi parla, dal luogo dell'esplosione di una bomba, avvenuta oggi al terzo piano di un edificio adibito a sede di un'organizzazione Governativa. Il fatto che l'edificio fosse isolato ha limitato i danni, ma il conto delle vittime per adesso è di tre morti ed un ferito, identificato come un ex militare americano congedato con disonore circa un anno fa, George O'Malley. Una delle vittime è un civile, le altre due sono state identificate come dipendenti dell'organizzazione che aveva sede in questo edificio. Il Governatore dello Stato di Washington ha mandato personalmente le proprie condoglianze alle famiglie degli agenti Robbins e Torres. Altri aggiornamenti sulla vicenda dovrebbero essere disponibili domani mattina, per adesso è tutto. Passo la linea allo studio.”

Il problema non era che lui non fosse bellissimo, perché lo era.
Uno degli uomini più affascinanti che avessi mai visto, in realtà. Josh era bello da togliere il fiato, con i capelli castani tenuti su dal gel e la camicia bianca attillata che metteva in risalto i pettorali scolpiti e la cravatta grigia che contrastava con il blu dei suoi occhi.
Avevo il cuore in gola e sapevo quello che stava per succedere, eppure speravo che le cose sarebbero andate diversamente da come andavano di solito.
Sentii una sua mano sulla mia gamba, un milione di terminazioni nervose furono immediatamente travolte dall'intensità di quella sensazione. Le sue labbra si posarono sulle mie. Un'ondata di calore si irradiò dal suo corpo verso di me. Il suo tocco era troppo aggressivo, totalmente privo di delicatezza. Concentrarmi sul tatto non stava funzionando. Provai a concentrarmi sull'udito, ma il suono delle sue labbra sul mio collo divenne quasi assordante. A quel punto cercai di mettere a fuoco il gusto, ma fu la cosa peggiore che potessi fare, perché riuscii praticamente ad assaggiare quello che avevamo mangiato a cena. Respirai a fondo e cercai di concentrarmi sull'olfatto. Fu allora che ebbi l'impulso di vomitare.
Lo allontanai con una mano contro il suo petto.
“Mi dispiace” mormorai. “Non posso farlo” mi alzai, afferrando in fretta e furia la giacca e la borsa, dirigendomi subito dopo verso l'uscita.
Uscii fuori, ringraziando per l'aria fresca che mi rilassò immediatamente. Inspirai profondamente, cercando di schiarirmi le idee.
Non riuscivo a credere che a venticinque anni ogni volta che provavo a baciare qualcuno le cose andassero a finire in quel modo. Come avrei potuto avere una vita normale, se ogni volta che provavo a fare qualcosa del genere il risultato era sempre lo stesso?
La risposta era semplice ed io la sapevo perfettamente a memoria.
Non avrei mai potuto. Una vita normale non era quello che capitava a gente come me.

“La maggior parte dei giorni mi chiedo cosa ci faccio ancora qui” mormorai, guardandomi attorno.
“Siamo qui per le ciambelle gratis, come mi pare ovvio” rispose la rossa al mio fianco.
“Sai tu” la guardai, scuotendo la testa. “Tu sei una delle poche persone che potrebbe avere una vita normale. Scappa via, Addison. Vattene finché sei in tempo e vivi. Trova qualcuno e sposati, sii felice.”
Lei sospirò, voltando la testa verso una persona dall'altra parte della stanza.
“Ho già trovato qualcuno. Il problema è che quel qualcuno non sa neanche che io esisto.”
“Ne dubito, lavorate insieme” le feci notare.
“Non vuol dire niente, sai che intendo. Bailey ha fatto le coppie proprio in modo che nessuno si innamorasse del proprio partner.”
“E vedo che tu hai rispettato la regola alla perfezione.”
“Sta venendo verso di noi, non dire niente” mormorò frettolosamente.
“Ehi, Addison.”
“Teddy, come stai?”
“Tutto ok. Senti, io e un altro paio dei ragazzi stavamo pensando di uscire stasera, bere qualcosa, sai” lasciò la frase in sospeso. “Comunque, se vuoi venire...”
“A dire la verità, io e Callie abbiamo un impegno.”
“No, Addie, non preoccuparti, vai pure” la incoraggiai con un gesto della mano. “Figurati, noi possiamo rimandare.”
Lei esitò per un momento, guardando verso di me.
“Callie, perché non vieni anche tu?”
Stavo per rifiutare, quando Addison si mise in mezzo.
“Stasera non posso, Teddy. Mi dispiace.”
Lei sembrò delusa dalla risposta, così intervenni.
“Io odio i posti rumorosi” spiegai. “Per via dell'udito. Mi sento male al solo pensiero.”
Lei sembrò ricordarsi improvvisamente di quello di cui stavo parlando.
“Giusto. Magari invece di andare fuori possiamo stare da me” propose allora. “Lo dirò anche agli altri.”
“Certo” risposi prima che Addison potesse intervenire. “Perché no.”
Lei, sorridendomi con aria grata, si allontanò.
“Senti, le piaci Addison. Datevi una svegliata, mettetevi insieme e scappate da questo show dei mostri finché siete ancora in tempo” sussurrai, alzandomi in piedi e dirigendomi dall'altro lato della stanza.
“Ehi, sei pronta?”
La donna si voltò verso di me. “Certo. Prima andiamo prima ci liberiamo.”
“Perfetto” le sorrisi.
“Ci vediamo dopo, Cristina” salutò la donna al suo fianco.
“Allora” iniziai mentre camminavamo verso gli ascensori “c'è qualcosa tra te e Derek, non è vero?”
Lei mi sorrise enigmaticamente. “Forse.”
“Oh, andiamo, chi vuoi prendere in giro?” risi, colpendola scherzosamente su una spalla.
“Piuttosto, ieri sera come è andata con Josh?”
Il mio sorriso si affievolì. “Come sempre. L'ho baciato e poi sono fuggita via in un tentativo disperato di non vomitargli addosso o farmi esplodere la testa.”
“Così bene, uh?”
“Senti, secondo te sbaglio qualcosa? Voglio dire, forse sono io, giusto? Non è possibile che tutti gli uomini con cui esco abbiano un odore nauseante, un sapore tremendo, siano rumorosi e completamente sgraziati.”
“Quindi vuoi qualcuno che sia delicato, profumi, sia silenzioso e abbia un buon sapore?”
“Sì. È chiedere troppo?” sospirai, allargando le braccia.
“Oh, no. In realtà è molto semplice. Ed è pieno di gente così” l'ascensore si aprì mentre entravamo nel piano sotterraneo. “Si chiamano comunemente 'donne'. Pensaci su.”
La guardai con espressione incredula. “Cosa?”
Entrammo nella stanza con il numero tre stampato sopra.
Lei rispose con un'occhiata eloquente.
“Senti, se non riesci a fare sesso con un uomo, o rimani nubile per tutta la vita o...”
“Non” la fermai, con voce più alta del necessario “non continuiamo questa conversazione.”
“Davvero, Callie. Tutti quanti si sono accorti che hai una cotta per una certa persona” disse, facendomi arrossire. “Una persona che casualmente è una donna.”
La porta si aprì, lasciando entrare un uomo.
“Buongiorno ragazze. Tra due minuti iniziamo la vostra esercitazione quotidiana. Siete pronte? Problemi particolari di cui volete parlarmi?”
“Niente, eccetto il fatto che Callie non riesce a fare sesso.”
Io la colpii con una gomitata. “Niente, dottor Hunt.”
“Ottimo” nascose un sorriso, sedendosi davanti a noi. “Allora, Meredith. Sto pensando una frase ben precisa adesso, riesci a percepirla?”
“Quella su Cristina che profuma di lavanda oppure 'abbandonare la missione'?”
“Sono tutti ordini militari, lo sai Grey” le fece notare, mentre scriveva sulla cartella che aveva davanti, arrossendo leggermente. “Proviamo di nuovo.”
“Colpa sua. Stia più attento al suo subconscio.”
“Sai che non posso farlo, Meredith. Il tuo allenamento consiste proprio nel riuscire a carpire informazioni dai nemici sfruttando sia il pensiero conscio che quello inconscio.”
Lei annuì.
“Che diavolo sta-” quando mi resi conto di cos'era il rumore che stavo sentendo venire verso di noi, era troppo tardi.
Un'automobile di circa due tonnellate sfondò la parete alla mia sinistra. Io e Meredith ci gettammo all'indietro giusto in tempo, Hunt rimase immobile mentre l'auto gli passava a meno di mezzo metro, spazzando via il tavolo e tutti i fogli che ci aveva appoggiato sopra. Dalla stanza numero due si affacciò la dottoressa Bailey, uno sguardo incredulo sulla faccia.
“Quella doveva essere una parete resistente a qualsiasi tipo di urto.”
Subito dopo, dalla voragine, apparve anche il viso soddisfatto di Teddy e quello ammirato di Addison.
“Ops” mormorò la bionda. “Scusate, credo di essermi fatta prendere la mano. Ma quando hai detto 'lanciala', Bailey, pensavo che intendessi il più forte possibile.”
“Che è stato quel rumore?” Mark Sloan, il dottore della stanza numero quattro, entrò accompagnato da Lexie e Cristina.
“Avete bisogno del mio aiuto?” domandò Lexie immediatamente.
“No, stiamo tutti bene” la rassicurai. “Dottor Hunt?” chiesi conferma.
“Sto bene. Ma Webber non sarà contento di vedere quello che è successo ad una delle sue pareti.”
“Vado ad avvertirlo” mi offrii, sapendo che lo avrei trovato nella stanza numero uno.
Bussai, entrando senza aspettare una risposta.
“Dottor Webber-” mi paralizzai, trovandomi davanti ad un piccolo uragano che se ne andava girando per la stanza. Meravigliata da quella visione, feci un paio di passi all'interno. L'uragano mi si avvicinò, facendomi un paio di giri attorno prima di allontanarsi di nuovo e rimpicciolirsi fino a sparire.
“Calliope” mi salutò l'origine del mio stupore. “A cosa dobbiamo la tua presenza?”
Io le sorrisi, voltandomi poi verso Webber. “Teddy ha...”
“Lo so. Derek lo ha visto” annuì. “Bravissima Arizona. Sei quasi al massimo delle tue capacità e stai ancora migliorando. Continueremo domani, adesso dobbiamo sistemare questa storia dell'incidente.”
Fece cenno a Derek e Arizona di seguirci fuori dalla stanza.
“Uomo a raggi X” salutai Derek, che mi sorrise, passandomi accanto. Feci cenno ad Arizona di precedermi fuori dalla stanza. “Donna degli elementi.”
“Oh, Calliope” mormorò “quando ti incontro, come vorrei avere l'abilità di Derek” il suo sguardo percorse la mia figura prima di incontrare di nuovo i miei occhi “così da non dover immaginare e basta.”
Scuotendo la testa della sua battuta, la seguii verso la parete che era appena stata distrutta.

“Derek. Assolutamente Derek” fu il voto categorico di Mark.
“Tu non ti smentisci mai” Addison alzò gli occhi al cielo, sospirando, intuendo il motivo del suo voto così deciso.
“Scherzi, Sloan?” chiese Teddy, in mano un bicchiere di vino. “Addison, senza ombra di dubbio.”
“Dici così solo perché hai una cotta per lei” le fece notare Cristina. “Io voto Arizona.”
“Anche io voto Arizona” concordai. “Chi altro può dar vita ad una tempesta?” le sorrisi, guardando verso di lei.
Lei si toccò il cuore con una mano, sospirando teatralmente.
“Oh, tu, mia dolce Calliope, ogni volta che mi guardi nel mio cuore nasce una tempesta di emozioni così alte e pure da sconvolgere il mio quieto animo.”
La colpii su una spalla, ridendo. “Che scema.”
“Io voto per Callie” obbiettò Meredith, distraendomi dal nostro sguardo.
Ci piaceva votare il potere di chi ci sarebbe piaciuto avere se avessi potuto scegliere, di tanto in tanto. Giusto per farci due risate.
La prima ad andarsene fu la Bailey, seguita da Meredith e Derek, Cristina e Hunt e Sloan e Lexie, lasciando solo noi quattro a casa di Teddy.
“Beh, alla faccia del 'niente coppie sul lavoro'” mormorò Teddy.
“Ma per favore, io e te parliamo solo perché non abbiamo mezza speranza” le disse Arizona, ridendo. “A proposito, Calliope, posso riaccompagnarti a casa?” chiese casualmente.
“Certo” scrollai le spalle, alzandomi in piedi.
Lei andò verso Teddy per salutarla, mentre Addison mi veniva incontro.
“Per quanto ancora continuerai a farle credere di avere una chance?”
“Cosa?” chiesi, scoppiando a ridere. Poi notai la sua espressione seria.
“Callie, tu sai di piacerle, vero?”
“Stai scherzando?” le chiesi, tornando seria. “Addison, no. Lei scherza” precisai. “Ma l'hai vista? Non esiste che una come lei sia attratta da qualcuno come me.”
“Una come lei?”
“Non dirmi che non l'hai notato. Lei è un miracolo, Addison.”
Lei mi guardò per qualche istante senza dire niente. “Tu hai bisogno di riflettere con serietà sui tuoi sentimenti per lei, Callie” fu l'ultima cosa che disse prima di andare via.
“Sei pronta?” domandò la bionda, porgendomi il mio cappotto.
Io, con un mezzo sorriso, la seguii.
“Allora” iniziò mentre passeggiavamo per strada “come è andato l'appuntamento con Josh?”
Annuii, inspirando. “Bene, bene, molto bene. Ti ringrazio. È andato bene. Davvero....”
“...bene?” offrì. Ridemmo entrambe, continuando a camminare. “Sono contenta, Calliope. Davvero, sono felicissima che sia andato bene.”
Annuii di nuovo, continuando a camminare in silenzio per qualche minuto.
“È stato un completo disastro” confessai.
“Oh, ma dai” fece una smorfia empatica.
“Faceva dei rumori strani, quando l'ho baciato sapeva di mela mista a bistecca, una cosa atroce e aveva un odore nauseante, ancora non ho capito cosa fosse. Per non parlare del modo in cui mi toccava, era completamente-”
“Oook” mi fermò. “No, grazie” mi sorrise leggermente in imbarazzo. “Non voglio sentire di lui che ti toccava, o la prossima volta che lo vedo potrei distruggergli la macchina con un uragano.”
Risi, fermandomi davanti alla porta del mio palazzo.
“Aspetto che tu sia dentro il taxi per salire” la informai.
“D'accordo” mi sorrise, cercando di fermarne uno e fallendo miseramente.
“Arizona, senti” presi il coraggio a quattro mani. “Tu sai che io ti voglio bene, sul serio, ma sai che lo intendo in senso platonico” dissi, cercando di farle capire che non volevo farle pressioni. Ma lei interpretò le mie parole in modo totalmente diverso.
“Lo so” mi rassicurò con un mezzo sorriso. “Assolutamente, fidati. Non avresti potuto rendermelo più chiaro neanche dicendomelo in faccia, come tra l'altro hai appena fatto, perché il tuo essere completamente inconsapevole delle mie avance mi ha fatto recepire il messaggio forte e chiaro.”
Corrugai la fronte, inconsciamente chiedendo a me stessa come avessi fatto a non notare suddette avance.
“Ed il messaggio è che tu non sei interessata. Ho imparato ad accettarlo un sacco di tempo fa e mi sono messa l'anima in pace, non preoccuparti” finalmente riuscì a fermare un taxi, aprendo la portiera e guardandomi per un'ultima volta. “Ma una donna può sognare, giusto?” con l'ultimo, affascinante, sorriso con le fossette, se ne andò.

Dopo tre mesi di dolce far nulla, finalmente avevamo un nuovo caso.
“La sua abilità è il controllo della mente altrui. Non guardatela mai negli occhi, o vi ritroverete dentro una nave da crociera diretta in Cile senza sapere come” ci avvertì la Bailey. “Quattro di voi andranno a cercare informazioni nell'ospedale da cui è fuggita, gli altri quattro andranno a cercare a casa sua, l'ultimo luogo in cui è stata vista prima della cattura. Non abbiamo trovato niente di interessante, ma se c'era qualcosa che c'è sfuggito, state sicuri che tornerà a prenderselo.” Sfogliammo velocemente il file, immagazzinando quante più informazioni possibili. “Yang, piccola Grey, Altman e Montgomery, voi andate a casa della ragazza. Shepherd, Robbins, Grey e Torres, voi andate al centro specializzato.”
Centro specializzato o ospedale, non erano i nomi con cui avrei chiamato quel posto. Qualcosa sulla linea di prigione sembrava molto più appropriato.
“Questo è quello che fanno alle persone come noi” mormorò Arizona in direzione di Derek, sollevando una camicia di forza a tenuta stagna.
“E questo è esattamente il motivo per cui non vedo l'ora di finire il periodo di libertà vigilata e andarmene il più lontano possibile” rispose il moro, sospirando pesantemente.
“Libertà vigilata?” domandai, mentre continuavamo a percorrere il corridoio in direzione della stanza da cui la ricercata era riuscita a fuggire.
“Già. Mi hanno incastrato per furto. O andavo in prigione o partecipavo al programma. Non ci vuole un genio per scegliere.”
“Io sono qui per evasione fiscale. Ci credereste?” chiese Meredith alzando gli occhi al cielo. “E nemmeno la mia, quella di mia madre. Ma un anno qui dentro era meglio di un anno in prigione.”
“Violazione di proprietà privata” rispose Arizona. “Dormivo in un capanno abbandonato che casualmente loro hanno comprato, in modo da potermi denunciare.”
“Quindi voi siete stati ricattati per partecipare al programma?” domandai, confusa più che mai.
“Già. Non dirmi che tu sei qui di tua spontanea volontà” mormorò Meredith. “Sono sei mesi che lavoriamo insieme, ormai avrai capito cosa fanno a quelli come noi. Ci studiano, come fossimo cavie da laboratorio. Errori dell'evoluzione. Esperimenti riusciti male.”
“Perché sei qui se non sei stata costretta?” mi chiede Derek.
Scrollai le spalle. “Un anno fa, se sentivo un uccellino cantare, rischiavo che mi esplodesse la testa in un secondo. Webber mi ha aiutato a controllare la mia abilità, a scegliere quali dei miei sensi ampliare. Sto cercando di imparare a lasciare andare gli stimoli che non servono, ma non sempre mi è possibile. Quando sei mesi fa mi ha detto che stava mettendo insieme una squadra, il minimo che potessi fare era accettare la sua offerta. E la stessa cosa ha fatto Addison.”
“Il minimo che potessi fare? Noi rischiamo la vita mettendoci contro quelli come noi, quando dovremmo stare dalla loro parte. Questo non è il minimo di niente” mi fece notare Meredith.
“Non ce l'avrei nemmeno una vita, se loro non mi avessero salvato.”
Staccai una fotografia dalla parete della sua stanza. C'erano lei ed un ragazzo, abbracciati, che sorridevano all'obbiettivo. Sembravano molto uniti. Se aveva lasciato quella fotografia, doveva essere fuggita in fretta e furia.
“Meredith, andiamo a chiedere alle guardie se ha ricevuto una telefonata prima di andarsene.”
“Non puoi farlo da sola?” chiese, osservando Derek mentre esaminava gli averi della ragazza, con uno sguardo che non aveva niente a che fare con il lavoro.
Alzai gli occhi al cielo. “Non sono io che leggo nel pensiero della gente. Andiamo” le afferrai un braccio, facendomi delicatamente seguire.
Due ore dopo, appoggiai la fotografia sulla scrivania della Bailey.
“Stamani ha ricevuto una chiamata. Ha lasciato tutto indietro, fotografie, vestiti, tutto quanto. Quasi come se si aspettasse di tornare. Non ha mai infranto regole da quando è dentro, una condotta perfetta, ma all'improvviso decide di scappare via a meno di tre mesi dal suo rilascio. Qualcosa deve averla spinta ad andarsene ed io penso che sia lui” indicai la foto. “Se questo è l'unico ricordo che ha di lui e l'ha lasciato indietro...”
“...è perché pensava di rivederlo a breve” concluse Miranda al posto mio. “Ottimo lavoro. Adesso scoprite dove è lui ed andate a cercarla.”

“Allora, Calliope” iniziò dopo qualche secondo di silenzio. “Come hai conosciuto Addison?”
“Andavamo insieme al liceo. Non ci siamo più perse da allora” risposi telegraficamente.
Passarono parecchi minuti di imbarazzante silenzio.
La sentii iniziare a picchiettare sul cruscotto dell'auto. “Beh, questa situazione è imbarazzante, vero?”
“Un po'” ammisi con un mezzo sorriso nella sua direzione.
“Senti, per quello che ho detto l'altra sera...”
“No, sai cosa? La colpa non è tua. La colpa è di Meredith Grey, che mi ha abbandonato per-” feci un gesto della mano verso la macchina dall'altro lato della strada. “Derek. 'Perché è così sexy'” mi esibii in un'imitazione della sua voce. “'E perfetto e i suoi capelli sono da sogno.' Beh, sai una cosa? I suoi capelli non sono così perfetti quando finisce il gel e ti chiama implorandoti di andare a comprargliene un po' perché si vergogna ad uscire di casa senza e tu sei l'unica persona che conosce la marca che usa.”
La sentii ridere e mi accorsi che avevo blaterato fino all'inverosimile.
“Tu e lui siete amici, quindi?”
“Già. Tendiamo a tenere questa cosa tra di noi, perché Addison ci prendeva sempre in giro, dicendo che sembravamo una coppia. E adesso che lui sta uscendo con qualcuno, l'ultima cosa che voglio è che lei diventi gelosa.”
“Meredith non sarebbe mai gelosa, non ce ne sarebbe motivo” rispose per tranquillizzarmi.
Io distolsi lo sguardo, tornando a concentrarmi sulla strada.
“Oh, mio Dio. Ce ne sarebbe assolutamente motivo!” mi guardò con espressione di puro sconcerto, scoppiando di nuovo a ridere.
Arrossii, scrollando le spalle e desiderando di sparire. “È stato un sacco di tempo fa. Prima del programma di Webber. Mi ha baciata, solo una volta” chiarii immediatamente, guardandola con aria molto seria. “E ti sarei grata se evitassi di parlarne con Meredith.”
“Non preoccuparti, consideralo il nostro piccolo segreto” mi rivolse un sorriso malizioso. “Allora, come mai siete diventati così amici?”
Scrollai le spalle, inspirando. “Derek è stato l'unico uomo, l'unico, che io abbia mai baciato senza provare un senso immediato di disgusto. Al tempo avevo appena iniziato a vedere il dottor Webber e per un po' di tempo entrambi ci eravamo convinti, credo, che se fossi riuscita a stare meglio, se fossi riuscita a stare accanto a qualcuno in senso fisico, sarebbe stato lui.”
“E invece?” domandò, l'aria di nuovo seria.
“Invece non sto meglio e non riesco a stare accanto a nessuno. E adesso tutti sembrano convinti che se non riesco a fare sesso con un uomo dovrei lanciarmi sulla prima donna da cui mi sento attratta e capire le cose per tentativi.”
“Woah. Sei attratta da una donna?” io ignorai la domanda.
“Cioè, di solito la gente prima si innamora e poi fa di tutto per far funzionare le cose, giusto? Ma io dovrei fare il contrario, secondo Meredith e Addison, dovrei trovarmi una persona che riesco a baciare e innamorarmene. Ma non è così che funziona. Voglio dire, se anche stare con una donna fosse diverso...”
“Oh, è molto diverso.”
“...e se anche mi piacesse, come faccio ad essere sicura di poter stare insieme a lei perché me ne sono innamorata, invece di essermi innamorata di lei perché è l'unica con cui posso stare?”
“Ma è lo stesso” mi fece notare con calma. “È la stessa cosa. Se anche domani incontri un uomo e riesci a starci e te ne innamori, ti rimarrà sempre il dubbio di esserti accontentata. L'unico modo in cui sarai sicura di amare qualcuno per quello che è, sarà quando riuscirai a stare con altre persone e sceglierai comunque di non farlo.”
“Sarei potuta stare con Derek” mormorai, guardando fuori dal finestrino verso l'altro lato della strada. “Ma io e lui siamo amici. Non mi sentivo male al pensiero di baciarlo, ma non sentivo nemmeno le farfalle allo stomaco quando pensavo a lui.”
“Troverai qualcuno” mi rassicurò, appoggiando la mano sulla mia con la più delicata delle strette, accarezzando la mia pelle.
La pelle sul dorso della mano mi prese praticamente fuoco, ma non nel modo in cui succedeva di solito. Mi voltai, guardando il suo pollice tracciare una piccola scia sulla mia mano. Me la stava solo tenendo, ormai mi ero abituata a controllare il mio senso del tatto quando toccavo altre persone con le mani. E allora perché, anche senza volerlo, percepivo il suo tocco in modo così amplificato?
La suoneria del mio cellulare mi distrasse da quel filone di pensieri. “Pronto?”
“Callie, Derek dice che stanno scendendo adesso. Può vederli percorrere le scale, li senti?”
Chiusi gli occhi, concentrando il mio udito sul palazzo davanti a noi.
“Li sento. Andiamo” confermai.
Ci avvicinammo in silenzio alle loro spalle, soltanto io e Arizona. Le feci cenno di occuparsi del ragazzo. Lei annuì, preparandosi ad atterrarlo. Con un movimento deciso avvolsi una sciarpa attorno agli occhi della ragazza, afferrando subito dopo i suoi polsi quando tentò di liberarsene ed ammanettandola. Meredith fu subito al mio fianco. La prese in custodia, mentre Derek aiutava Arizona a mettere fuori gioco il ragazzo.
“No, vi prego non riportatemi lì dentro, vi prego” ci implorò la donna.
“Lasciatela, lasciatela andare” urlò invece il ragazzo, cercando di andare in suo soccorso.
“Allora, ragazzo del mistero” iniziò Derek, cercando di tenerlo fermo. “Quanto ti ha raccontato la tua amica su chi siamo?”
“Non doveva dirmi niente.”
“Jackson, no!”
“Io sono uno di voi.”
I suoi occhi puntarono dritti verso il braccio destro di Derek, che un secondo dopo lanciò un urlo lancinante. Poi fu il turno della gamba sinistra di Arizona, che venne amputata fino a circa metà coscia. Anche lei emise un urlo disarmante. Fui veloce a colpirlo al ginocchio e gettarlo con la faccia a terra sull'asfalto. Bloccandogli entrambe le mani dietro la schiena e tenendole ferme con il peso di un mio ginocchio, mi tolsi la giacca della mia uniforme e gliela avvolsi attorno al viso, usando poi le manette che mi aveva lanciato Meredith per ammanettarlo.
“Ho chiamato i rinforzi, stanno arrivando” mi comunicò Meredith.
“Come state?” chiesi stupidamente ai due a terra.
Derek aveva l'aria pallida e terrorizzata. Arizona era caduta a causa dell'impatto del raggio con la gamba e aveva sbattuto la testa sull'asfalto. Era svenuta. Il sangue continuava ad uscire dalla sua gamba, come dalla spalla di Derek.
“Vi diciamo sempre di mettervi quelle maledettissime uniformi” urlai contro Derek, indicando la giacca della mia, al momento avvolta attorno alla testa dell'uomo che si dimenava sotto di me. “C'è un motivo se le hanno costruite a prova di...beh, praticamente tutto l'immaginabile.”
Pochi istanti dopo la persona che in quel momento volevo vedere di più al mondo uscì da un'automobile nera, dirigendosi a spasso spedito verso di noi.
“Piccola Grey” le dissi in fretta “Arizona ha perso la gamba sinistra.”
Lei annuì verso di me e poi si inginocchiò al suo fianco. Osservò la lacerazione, appoggiando le mani a lato della ferita. Si concentrò a lungo, finché il sangue smise di scorrere. Avvicinò la parte di gamba che giaceva inerte al suolo e appoggiò una mano su di essa, l'altra sempre sulla ferita. Noi rimanemmo ad osservare mentre la parte di gamba che era stata distrutta veniva a riformarsi, la ferita spariva, le due estremità venivano riunite. Curò poi la ferita alla sua testa, passando successivamente ad occuparsi di Derek.
“Stavolta ve la siete cavata per poco. Qualche minuto più tardi e potevo non essere in grado di aggiustare le vostre ferite” disse loro, dopo che i due ragazzi che avevamo arrestato furono stati portati via.
“Un lavoro eccellente” si congratulò la Bailey. “Quando i due idioti riprendono coscienza dite loro che se li vedo di nuovo a lavoro senza uniformi, li uccido.”
Senza aggiungere altro, andò a portare April Kepner e Jackson Avery a quel luogo che ancora ci ostinavamo a chiamare ospedale, quando sapevamo benissimo che era un carcere di massima sicurezza.

“Non aprire gli occhi. Ci siamo quasi.”
“Non sarebbe di grande utilità se anche aprissi gli occhi, visto che ci sono le tue mani davanti.”
Lei rise, ignorando le mie proteste.
“La strada è parecchio in salita. Mi stai portando su una rupe per buttarmi di sotto, uccidermi ed avere così il super potere più bello?”
“Certo, come no” rispose, ridendo di nuovo. “Sembra proprio qualcosa che io potrei decidere di fare.”
“Arizona, stiamo camminando da almeno venti minuti. O siamo in mezzo ad un bosco o in un cimitero e, francamente, non so in quale delle due sperare a questo punto.”
“Ok, siamo arrivate. Sei pronta?”
“Certo.”
Il tocco delle sue mani sulla pelle del mio viso stava facendo accartocciare il mio stomaco su sé stesso. Ero più che pronta per qualsiasi distrazione potesse aiutarmi a superare quel momento. Ma di certo non mi aspettavo di vedere quello che vidi quando le sue dita scivolarono via.
“Woah.”
Rimasi senza parole, senza fiato. Rimasi a guardare il paesaggio di Seattle che si vedeva da quella collina, il verde così raro in città e gli edifici più grandi che da lassù sembravano minuscoli in confronto all'immensità di quella vista.
“Arizona, è bellissimo.”
“Lo so” mi sorrise. “O non ti avrei portato fin qui con le mani sugli occhi. Lo sai, solo le cose più belle per te, Calliope.”
Senza darmi modo di rispondere si avvicinò ad una delle panchine sistemate lassù e ci appoggiò lo zaino che aveva in spalla. Lo aprì, estraendo una tovaglia da picnic e iniziando a sistemare quello che aveva preparato per noi.
“Non dovevi fare tutto questo, davvero.”
“Ehi, questa vista piace anche a me” rispose, scrollando le spalle. “Volevo qualcuno con cui condividerla e tu sei di decente compagnia. Quindi eccoci qua” mi fece cenno di sedermi accanto a lei. “Ho preparato del riso freddo. Una delle poche cose che riesco a cucinare senza rischiare di dover essere portata all'ospedale.”
Pranzammo nella quiete di quel piccolo angolo verde, ridendo della città ai nostri piedi.
“Sono felice che tu abbia accettato di venire” ammise, distogliendo lo sguardo. “Ho vissuto una vita molto solitaria prima di trovare voi.”
La fragilità che le sue parole lasciarono trasparire mi spezzò il cuore.
“Ti prometto che non dovrai vivere una vita solitaria mai più.”
Le presi la mano e per parecchie ore non riuscii a lasciare andare.

“Diventerò completamente sorda entro la fine di questa serata.”
“Vuoi che andiamo via?” chiese con un sorriso empatico.
“Ma no, tranquilla, siamo tutti qui” risposi, grata che si fosse preoccupata di chiedere. Una nota particolarmente forte mi costrinse a chiudere gli occhi per un momento. “Magari tra una decina di minuti” le dissi.
Lei rise, annuendo.
Mentre parlavamo del fatto che Addison e Teddy ci stavano ancora girando intorno ad un mese dalla sera a casa di Teddy, una donna si avvicinò al nostro tavolo.
“Ciao” sorrise verso Arizona.
“Ciao” rispose lei educatamente.
“Posso offrirti qualcosa da bere?”
“Ti ringrazio, ma sono a posto così” le rivolse un mezzo sorriso di scuse.
“Allora magari ti va di ballare?”
Arizona inspirò, cercando le parole giuste. Capendo che non le avrebbe trovate, appoggiai una mano sulla sua sopra il tavolo.
“Non prendertela” risposi al posto suo “ma sono abbastanza gelosa e sono proprio qui davanti a te mentre ci provi con la mia ragazza, quindi credo sia meglio che lei rifiuti il tuo invito.”
La donna annuì, saltando subito alla conclusione sbagliata.
“Mi dispiace, non avevo capito...”
“Non c'è problema” le sorrisi. “Grazie per non aver insistito.”
Lei, annuendo ancora una volta, se ne andò senza un'altra parola.
Arizona scoppiò a ridere neanche due secondi dopo. “E se avessi voluto accettare?”
“Non sembrava che ne avessi molto voglia” le feci notare con un sorriso. “Ma se vuoi puoi andarle a parlare. Sono sicura che sarebbe felicissima di sapere che hai cambiato idea.”
“Nah” scrollò le spalle. “Sto bene dove sono” voltò il palmo della mano verso l'alto, intrecciando le nostre dita.
“Mi stai tenendo la mano” le feci notare con tono perfettamente neutro.
“Troppo da coppia?” chiese, cercando di allontanarla.
Rafforzai la presa, impedendoglielo. “A chi importa?”
Lei mi guardò con un sorriso triste. “A me importa, Calliope. Mi importa quello che pensi di me, di noi, di quello che siamo o potremmo essere. E se quello che possiamo essere è solo amiche, io lo capisco e lo rispetto, e rispetto te abbastanza da non volerti forzare dentro una relazione che palesemente non vuoi.”
“Non è che non voglio, è che non ci riesco” le spiegai. “Perfino la sensazione della tua mano sulla mia mi sta facendo martellare il cuore nel petto. Se mi baciassi, potrebbe esplodermi il cervello.”
Lei scosse la testa passandosi una mano sugli occhi ed abbassando lo sguardo.
“Lo so. Mi dispiace” mormorò. “Non riesco a pensare quando mi guardi come se anche tu potessi provare qualcosa per me, prima o poi.”
“Arizona” attirai la sua attenzione. Lei mi guardò di nuovo negli occhi. “Io non ti sto guardando come se potessi provare qualcosa per te prima o poi.”
“No, lo so. So che è solo nella mia testa, ma-”
“Io ti sto guardando come se provassi qualcosa per te ora” conclusi. “Ma ho bisogno che tu mi dia modo di prendere tutto con estrema lentezza, perché non so cosa potrebbe farmi scattare. Anche il più piccolo dei gesti, a volte, è semplicemente...troppo, quando i tuoi sensi si amplificano.”
Lei continuò a guardarmi negli occhi, troppo sorpresa per dire qualcosa.
“Ho così tanta paura di provare baciarti e non riuscirci, Arizona” confessai sommessamente, distogliendo lo sguardo.
“Calliope, io pensavo che tu...”
“Non voglio rovinare tutto. Per questo non ho mai detto niente. Perché i picnic e le serate a casa mia e il tenerci per mano, io lo sto amando. Tutto quanto, tutto questo, io lo sto amando. Non voglio che finisca quando non riuscirò a baciarti come vorrei.”
“E non finirà” mi disse in modo risoluto. “Perché io ti rimarrò accanto anche se dovessi passare il resto della mia vita a mezzo metro di distanza” rise, scuotendo la testa. “Il sesso non è tutto.”
“Dici così adesso, ma ho già provato a fare questa cosa. Un mese e tre soli baci dopo, lui è sparito nel nulla.”
“Beh, io non lo farò” si affrettò a promettere.
Rafforzai la stretta sulla sua mano, guardandola negli occhi senza dire niente, sperando che stesse dicendo la verità.

“Abbiamo un nuovo caso” ci informò la Bailey entrando dentro la saletta in cui di solito aspettavamo. “Un mutaforma. Non sappiamo chi sia, come si chiami, dove viva. Non sappiamo nemmeno il sesso, in realtà. Ma sappiamo che è in città e che sta cercando di farsi trovare, perché ha messo scompiglio in tutta la zona est di Seattle.”
“Beh, se vuole farsi trovare, trovarlo non dovrebbe essere troppo difficile” osservò Lexie.
“Sai che significa la parole mutaforma, piccola Grey?” domandai, con un mezzo sorriso. “Te lo traduco velocemente, in breve significa 'siamo fottuti'.”
“Beh, se anche cambia forma a piacimento, possiamo comunque individuarlo dal linguaggio del corpo, da come si comporta, dalle persone con cui è, no?”
“Lavora da solo, sembra” osservò Derek, leggendo i file.
“Nessuno lavora da solo” lo contraddisse Cristina. “Qualcuno dietro c'è sempre.”
“Allora diamoci una mossa. Parte est della città sia” propose a quel punto Meredith.
“Sì, ma state molto, molto attenti” ci avvertì la Bailey. “Sospettiamo che sappia chi siate e che voglia tentare di farvi del male, quindi rimanete uniti.”
Cercare qualcuno non conoscendone l'aspetto si rivelò più difficile del previsto, però.

Decisi che la cosa migliore da fare era concentrarmi sul tatto, anche se era rischioso. Volevo ricordarmi il nostro primo bacio nel modo migliore possibile, però. Non riuscii a resistere alla tentazione. Appoggiando la mano sinistra sulla sua vita azzerai la distanza rimasta tra di noi e la baciai piano.
Aspettò qualche istante. Quando non mi tirai indietro ricambiò il bacio, avvicinandosi ancora di più, afferrandomi delicatamente i fianchi. Spostai la mano che avevo sulla sua vita tra i suoi capelli, impedendole di allontanarsi.
La sensazione di una delle sue mani che si posava sul mio ginocchio e saliva in una carezza delicata fino a posarsi nuovamente sul mio fianco mi fece capire che concentrarmi sul tatto non stava funzionando, così passai a concentrarmi sull'udito. Il suo respiro era lento e regolare, l'unico rumore nella stanza era quello dei nostri cuori dal battito frenetico. Sentii chiaro e cristallino il più piccolo dei sospiri uscire dalle sue labbra mentre si allontanava per mezzo secondo e poi mi baciava di nuovo. Neanche l'udito andava bene, ma con l'olfatto andavo sul sicuro, quindi mi concentrai su quello. Sentii immediatamente il suo profumo tutto intorno a me. Mi aveva accerchiata, era arrivato perfino dentro di me. Passai al gusto, sicuramente sarebbe andata diversamente, e avevo paura che sarebbe finita nel modo a cui ero abituata che andassero le cose a quel punto. Mi spinse a dischiudere leggermente le labbra con le sue e fece scivolare lentamente la lingua contro la mia.
“Aspetta” appoggiai una mano sul suo petto, allontanandola di qualche centimetro. “Mi dispiace, sono mortificata Arizona.”
“Oh” un'espressione dispiaciuta si dipinse sul suo volto. “È stato così orribile?”
Cercai di tornare a respirare normalmente, passandomi una mano sugli occhi.
“È la prima volta che mi succede una cosa del genere” mormorai a me stessa.
Corrugò la fronte. “Credevo ti succedesse sempre così.”
“No, non hai capito” alzai gli occhi, incontrando il suo sguardo. “Il tatto non ha funzionato, le tue labbra sono la cosa più morbida che...” inspirai, arrossendo e lasciando la frase in sospeso. “Poi ho sentito il battito frenetico del tuo cuore e del mio, scanditi all'unisono” cercai di spiegarle come mi ero sentita. “Sembrava un miracolo” mormorai, guardando in basso. “E il tuo profumo mi ha accerchiata, sei ovunque quando mi stai così vicina, sei tutto intorno a me” la guardai di nuovo, sembrava presa in contropiede. “E quando ho cercato di concentrarmi sul sapore, tu hai...” sentii una stretta allo stomaco e capii che non sarei mai riuscita a spiegarglielo.
Passai una mano tra i suoi capelli e la baciai di nuovo, appoggiando l'altra sulla sua spalla. Aprii le labbra ed aspettai di sentire quella sensazione di nuovo. Lei accolse l'invito immediatamente. Pochi istanti dopo rilasciai un suono mozzato e mi allontanai di nuovo.
“Sono mortificata” mi scusai nuovamente.
“Non esserlo. Io non lo sono” rispose cercando di mantenere un certo autocontrollo. “È stato il bacio migliore della mia vita.”
Risi, scuotendo la testa. “Sarà durato, quanto, dieci secondi? Non riesco nemmeno a baciarti come si deve.”
“Prenderemo le cose con calma. Con molta calma” mi rassicurò.
“Non posso credere che stia succedendo. Voglio dire, questa cosa deve essere uno scherzo, giusto?” domandai retoricamente. “Prima non posso baciare gente che non mi piace perché sono disgustata, e adesso non posso baciare te, che mi piaci troppo, perché rischio di prendere fuoco da un momento all'altro.”
Arrossii furiosamente appena mi resi conto di averlo detto.
“Beh, tu pensa quello che vuoi a riguardo, Calliope, ma io sono incredibilmente sollevata da questa cosa” mi sorrise, prendendomi una mano.
Sospirai, deglutendo. Raccogliendo il coraggio che avevo mi decisi a terminare quella discussione, ormai che l'avevamo iniziata.
“Tu sai che io non ho mai...”
“Già” rispose, annuendo lentamente.
“Che succede se non posso...hai capito. Se non ci riesco.”
Lei scosse la testa. “Non importa, l'offerta è sempre valida. Posso rimanerti affianco e staremo insieme da un metro di distanza, va bene lo stesso per me. Non importa.”
“Ma importa, invece. Certo che importa.”
“Ci lavoreremo insieme, ok? Non c'è bisogno di preoccuparsene adesso. Prenderemo le cose una alla volta e capiremo tutto quando arriverà il momento.”
Annuii, ancora non del tutto convinta, ma pronta a lasciar cadere quella discussione.

Passarono cinque giorni, ma rintracciare il mutaforma fu impossibile. Non solo perché non sapevamo chi cercare, ma perché iniziò a tenere un profilo più basso. Almeno, pensavamo fosse così, finché non aveva messo scompiglio in un ristorante trasformandosi davanti ad una piccola folla di persone. I proprietari avevano subito allertato la polizia, che sapeva cosa fare in casi del genere. Quando arrivammo ci dissero che l'uomo sulla sessantina era fuggito, indicandoci la direzione in cui era andato.
Speravamo di riuscire a catturarlo prima che riuscisse di nuovo a trasformarsi, così Cristina fece il giro dell'isolato.
“Non c'è” ci informò, di ritorno dopo due secondi. “Cerco in quelli vicini” ci informò, sparendo poi alla velocità della luce.
“Noi andiamo ad ovest, voi ad est” dissi a Meredith, Addison e Teddy. “Andiamo” incoraggiai Derek ed Arizona a muoversi nella direzione opposta. Lexie era rimasta con i testimoni.
Acuii la vista, individuando, tre isolati più avanti, un uomo che corrispondeva alla descrizione.
“Eccolo. Correte.”
Cristina gli si parò davanti, rallentandolo. Si finse una turista e gli chiese informazioni riguardo la direzione da seguire per lo Space Needle, sentii concentrandomi sull'udito.
L'uomo gli dette risposte secche, cercando di liberarsi in fretta di lei. Quando gli arrivammo alle spalle Arizona si avvicinò per prima, afferrandogli un braccio e cercando di ammanettarlo. Non ci aspettavamo che i suoi riflessi fossero così buoni, però. Si liberò di lei con la forza, afferrandole le mani e spingendole via, entrando in un edificio alla sua sinistra ed iniziando a correre.
Arizona lo inseguì immediatamente, poi anche Cristina andò dietro di loro. Io e Derek ci guardammo, annuii.
“Io prendo il retro, tu entra da qui” gli dissi, correndo in cerca di un'entrata secondaria.
Ci rincontrammo al terzo piano, l'ultimo.
“Visto qualcosa?” domandò.
“Niente di sospetto, ci sono solo uffici.”
“Stessa cosa. Dove pensi che...”
“Ragazzi, li ho persi” ci informò Cristina appena ci raggiunse.
“Aspetta, dov'è Arizona?”
“Te l'ho appena spiegato, li ho persi.”
Sospirai. “Probabilmente ci raggiungerà alle macchine. Usciamo da qui.”
Quando fummo fuori la trovammo davanti all'entrata, che tornava indietro verso il ristorante.
“Ehi, non ci hai aspettato” le fece notare Derek, affiancandosi a lei, passandole un braccio attorno alle spalle. “Che fine ha fatto la collaborazione tra partner?” domandò, scherzando.
Lei scosse la testa, sospirando. “Scusate, è solo che...mi è scappato da sotto il naso.”
“Non preoccuparti, l'importante è che stai bene. Torniamo a casa” proposi con un sorriso.
Quando un'ora più tardi Derek si fermò davanti casa mia e di Cristina io guardai verso di lei.
“Ti fermi da me?”
Lei sembrò presa in contropiede. “Certo. Perché no” accennò un sorriso, uscendo dalla macchina ed aspettando che facessi lo stesso prima di chiudersi la porta alle spalle.
Quando entrammo Cristina si diresse immediatamente verso la propria camera, dicendo che doveva andare in bagno.
“Stai bene? Hai un'espressione strana” le sorrisi, sedendomi sul divano e facendole cenno di fare lo stesso. “Ci sei rimasta male perché ci è sfuggito?”
“Già. Mi passerà, suppongo. È solo una piccola botta al mio ego.”
Io risi, sapendo che stava scherzando.
“Allora” cominciai, avvicinandomi a lei ed appoggiando una mano sul suo ginocchio. “Siamo ancora d'accordo per stasera?”
“Stasera? Sì, certo” annuì in modo poco convinto.
“Oh, andiamo, ti sei dimenticata?” chiesi ridendo. “Il nostro appuntamento.”
Sembrò essere colta di sorpresa per un secondo, ma lo nascose velocemente.
“Ah, quello! Certo, perdonami. Non so a cosa stavo pensando” mi sorrise.
C'era qualcosa che non andava. Era distratta. Sembrava molto preoccupata. Le sfiorai il viso con una mano, spostando una ciocca dei suoi capelli dietro il suo orecchio e sorridendole.
“Non pensarci, Arizona. Lascia stare il lavoro per un momento, ok?” mi avvicinai a lei, sentendo il suo cuore battere in modo strano. Chiuse gli occhi e lo feci anche io. Poi sentii il suo odore.
Mi allontanai da lei senza baciarla, schiarendomi la voce. Lei riaprì gli occhi, guardandosi attorno con aria imbarazzata.
“Cristina, puoi venire un momento?” urlai.
“Arrivo” rispose, sempre urlando.
“Come mi chiamo?” chiesi alla donna davanti a me.
“Cosa?” chiese, guardandomi come se fossi impazzita.
“Quale è il mio nome, Arizona?”
Lei scosse la testa, guardandomi con aria confusa. “Callie Torres.”
“Eccomi” Cristina si fermò davanti al divano.
“Dillo di nuovo” intimai, continuando a guardare la donna davanti a me.
“Callie. Callie, ti chiami Callie. Ma che ti prende?”
Guardai verso Cristina, che mi rivolse un'occhiata strana dall'alto verso il basso. Feci un gesto quasi impercettibile con la testa. La donna accanto a me sul divano lo notò. Si gettò verso la porta, ma Cristina la afferrò saldamente per le spalle, gettandola a terra.
“Bel tentativo, stronza. Ma io sono più veloce.”
Le lanciai un paio di manette, che si affrettò a mettere alla donna nel nostro appartamento.
Menomale che non ci eravamo ancora cambiate e quindi avevo ancora addosso le manette.
“Andiamo, tesoro. Ti portiamo a conoscere i nostri amici.”
Quando arrivammo nella sede del programma per prima cosa la portammo dentro una stanza isolata quasi completamente dall'esterno, a prova di fuoco, proiettili, fulmini, più o meno qualsiasi cosa.
Mi fermai davanti alla sedia su cui l'avevamo legata e la afferrai per la maglietta.
“Dimmi immediatamente dov'è, se non vuoi che ti faccia molto, molto male.”
“Non so di cosa stai parlando, Callie.”
“Te la sei voluta. Rimarrai qui, finché l'effetto della mutazione scomparirà e potremmo vedere il tuo vero aspetto.”
“No, non lasciami qui dentro” mi urlò dietro, mentre chiudevo la porta della piccola cella quadrata dalle pareti trasparenti, posta al centro di una stanza da cui si poteva controllare tutto quello che succedeva all'interno.
“Non è Arizona. È il mutaforma” dissi alla Bailey con assoluta certezza.
“Ma allora lei dov'è, Torres?” domandò, sospirando. “Senti, possiamo tenerla lì dentro solo qualche ora, poi dovremmo liberarla, perché se è Arizona e noi la confiniamo-”
“Non è Arizona” ripetei.
“Sentite, slegatemi e fatemi uscire da qui e vi proverò che sono io” urlò da dentro la cella. “Posso farvi apparire un uragano davanti agli occhi, così smetterete di dubitare di chi sono.”
“Non è lei, Bailey” mormorai ancora una volta, prima di voltarmi per guardare la donna così uguale a lei in tutto e per tutto. “Dobbiamo farci dire dov'è. Se le ha fatto del male, non potrei mai perdonarmi di non essermene accorta prima.”
La porta della stanza si aprì, lasciando entrare Derek, seguito da Cristina.
“Sei l'unica che può saperlo con certezza, Callie” mormorò il moro.
Subito dopo, nella stanza entrò una donna dai capelli biondi, ricci, gli occhi azzurri ed un sorriso con le fossette stampato in faccia.
“Poco carino da parte vostra lasciarmi indietro, ma ok, vi perdono” scherzò. “Allora, che mi sono persa?”
Io afferrai le sue spalle e la guardai dritta negli occhi.
“Come mi chiamo?”
“Cosa?” rise della domanda.
“Arizona. Come mi chiamo?” domandai mortalmente seria.
Tornò seria anche lei e mi guardò con aria perplessa. “Calliope, ma che ti prende?”
Chiusi gli occhi, inspirando forte il suo profumo. Eccolo. Era di nuovo lì.
Ma la strinsi contro, sospirando ed ascoltando il rilassante battito del suo cuore.
Lei voltò la testa verso la cella di vetro al centro della stanza.
“Woah” si allontanò da me, avvicinandosi alla donna. “Sono lì dentro” osservò, perplessa. “Un momento. Quello è il mutaforma. Lo abbiamo preso” esclamò, contenta. “Ma come avete fatto a riconoscerlo?”
“Non aveva il tuo odore” quattro paia di occhi si voltarono verso di me. Arrossii leggermente, scrollando le spalle. “Cosa? Potrei riconoscervi tutti” sminuii, distogliendo lo sguardo. “E poi continuava a chiamarmi Callie. Probabilmente le hanno detto che se doveva fingere di conoscermi avrebbe dovuto usare quel nome, ma non sapevano che tu sei l'unica persona al mondo che non mi chiama così.”
“Dobbiamo comunque fare un controllo. Per precauzione” la informò la Bailey. “Cristina, puoi prendere due bicchieri d'acqua, per favore?”
Lei annuì. Nemmeno quattro secondi dopo, era di nuovo davanti a noi, due bicchieri riempiti a metà in mano. Ne porse uno alla Bailey, l'altro ad Arizona.
La bionda lo guardò, con un mezzo sorriso. Si limitò a guardarlo, le molecole d'acqua iniziarono a sollevarsi, rimanendo sospese a mezz'aria. Le gocce si ricompattarono in piccolo vortice, poi una scia d'acqua girò velocemente attorno ad Arizona, strappandole una risata. Le piaceva così tanto usare il suo potere, ogni volta mi stupiva. La scia d'acqua si spostò verso di me, alzai una mano, lasciando che mi passasse attraverso le dita. La scia mi bagnò la mano, ma non si infranse, Arizona la guidò di nuovo dentro il bicchiere.
Ogni volta che vedevo quanto amava quel suo potere avevo una stretta al cuore. La sua abilità, gli elementi, erano tutto per lei. Niente avrebbe mai retto il paragone con quello per Arizona, niente al mondo.
“Se riesce a farlo meglio di me, posso rilanciare con una tempesta dentro la sua cella” Arizona avvertì la Bailey con un sorriso.
Lei aprì la cella, entrando e mostrando alla donna il bicchiere che aveva in mano.
“Forza. Fammi vedere come controlli gli elementi” la spronò.
La donna la guardò, fissando poi gli occhi sul bicchiere. Trascorsero diversi secondi, ma non successe niente. Così richiuse gli occhi, scuotendo la testa.
“Rimarrai qui finché la tua energia si sarà esaurita e potremo vedere il tuo vero aspetto” la informò Miranda, uscendo e richiudendosi la porta alle spalle.
“Possiamo trovare un accordo, se mi lasciate andare” parlò la donna dentro la cabina. “Posso dirvi con chi lavoro, chi mi manda, cosa hanno in mente, tutto quanto, se mi lasciate andare senza schedarmi.”
“Ce lo dirai comunque” le rispose la Bailey, attivando l'interfono. “Quando tra ventiquattro ore, senza cibo, senza energia, avrai ripreso il tuo aspetto normale, scommetto che ti si scioglierà la lingua se non vuoi finire in una cella molto meno comoda di questa.”
Si strinse nelle spalle, scuotendo di nuovo la testa.
“Dovevo provarci” sospirò. “D'accordo. Vi mostro chi sono, rispondo alle vostre domande e voi mi fate uscire da qui. Questo è il patto.”
“Iniziamo da aspetto e nome” proposi, a mia volta schiacciando il pulsante dell'interfono.
Lei, sospirando, alzò gli occhi verso di noi. Il blu cristallino diventò più scuro, il biondo si trasformò in un biondo cenere, le fossette sparirono, la sua figura mutò lentamente.
“Il mio nome è Erica Hahn.”

“Oggi sono quasi impazzita” disse a Derek, mentre stavano versando dei bicchieri di vino per tutti gli altri. “Giuro, appena finisce il periodo di contratto sparisco così in fretta che non si renderanno nemmeno conto di cosa è successo. Sparirò nel nulla.”
“Ed io ti seguo a ruota” rispose, ridendo. “Il più lontano possibile.”
“Ci portiamo anche Teddy, ha detto che lei non ci rimane qui, nemmeno morta.”
“Ed Addison che ne pensa?” domandò, scettico.
“Perché, Meredith che ne pensa?” ritorse lei.
“Beh, forse se convinco Cristina a venire con noi...”
“Se andiamo tutti nello stesso posto ci troveranno” gli fece notare.
“Non voglio rinunciare a Meredith, né ai miei amici. Un modo lo troveremo, nuove identità, nuova vita, senza usare le abilità. In qualche modo ce la faremo.”
“Forse” concesse Arizona. “Forse no. Ma vale sicuramente la pena provare.”
Sentii la mano di Addison sul braccio, mi voltai verso di lei.
“Cosa?”
“Ti ho fatto tre volte la stessa domanda” mi fece notare.
“Scusami, ero distratta.”
“Stavi origliando quello che succede in cucina, vero?” chiese con un sorriso furbo.
“No, certo che no” sminuii la sua affermazione, scrollando le spalle.
“Beh, di cosa stanno parlando?”
“Ed io come faccio a saperlo” le chiesi, un sorriso tirato. “Se non mi avessi interrotto, forse avrei saputo rispondere.”
Lei scoppiò a ridere, scuotendo la testa. “Sei incredibile. Nel senso buono del termine, intendo.”
“Se Teddy se ne va, tu pensi di andare con lei?” mormorai.
“Intendi se scappa in un posto dove non hanno giurisdizione?” chiese, sospirando. “Non lo so, ma non è una decisione che devo prendere urgentemente, visto che lei non si è ancora nemmeno presa la briga di chiedermi se volessi andare con lei.”
“Stessa cosa” sussurrai. “Stessa identica cosa.”

“Preston Burke e la sua spalla destra, George O'Malley.”
Appoggiò i fascicoli sul tavolo davanti a noi.
“I loro poteri non li conosciamo, ma sappiamo che stanno cercando di sabotare questo programma dal giorno esatto in cui è iniziato. Tutti i suoi seguaci, che per fortuna sono ancora un numero contenuto, pendono dalle sue labbra. Se eliminiamo lui, eliminiamo il problema.”
Ci furono mostrati dei video, degli articoli, dei saggi scritti da lui, perfino. La morale era sempre la stessa. Chi aveva abilità era speciale, avremmo dovuto salvare gli altri come noi, non catturarli, quindi il programma Federale che ci coinvolgeva era sbagliato e doveva essere eliminato.
“Questo tizio non ha tutti i torti” mormorò Meredith, seduta al mio fianco. “Quello che ci fanno fare spesso è ingiusto.”
“Meredith, noi mandiamo in quel posto solo le persone che fanno del male agli altri o che tentano di creare scompiglio tra i civili, se non te ne fossi resa conto” le feci notare.
Lei non rispose, ma potevo vedere che non era convinta.
Anche la maggior parte degli altri nella stanza sembravano più affascinati dalle sue idee che dalla prospettiva di catturarlo.

“Pensavo che volessi stare con me” buttai lì, quasi casualmente, quella sera. Eravamo da sole per la prima volta in una settimana.
“Ma io voglio stare con te. Lo sai, Calliope. È solo che ultimamente non abbiamo mai avuto un attimo libero, per via di questa storia di Burke.”
“Non parlo di questa settimana” replicai pacatamente. “Dico dopo, quando ve ne andrete via il più lontano possibile.”
Quello la colse alla sprovvista. “Calliope...”
“No, lo capisco. Davvero. Credevo solo che mi avresti chiesto di venire con te, o che avremmo avuto più tempo.”
“Mi avevi fatto capire di voler rimanere qui. Dici che loro ti aiutano, che ti stanno dando la possibilità di una vita normale.”
“Forse ho cambiato idea, non voglio più una vita normale” risposi, asciugando l'ultimo piatto e poi voltandomi verso di lei. “Forse voglio una vita felice, invece.”
“Ed io ti rendo felice?”
“Sì. Tu mi rendi felice” confermai, senza esitazione, voltandomi di nuovo e mettendo gli avanzi dentro il frigorifero.
“Non volevo sentirti dire che preferivi Seattle a me” mormorò quasi impercettibilmente. Ma io la sentii forte e chiaro.
“Hai mai letto Harry Potter, Arizona?” le chiesi, aprendo una bottiglia di vino.
“Certo” mi sorrise. “Anche tu?” sembrava stupita che quello fosse il mio genere.
“È una storia quasi perfetta.”
“Quasi?”
“Già” confermai. “Non mi piace il finale.”
Versai il vino in due bicchieri e mi spostai accanto a lei sul divano.
“Credo questo sia il grande errore della letteratura moderna. Il finale troppo lieto. Pensa invece a Superman, Batman, Spiderman. Perfino Sherlock Holmes. Gli eroi non sono fatti per vivere felici e contenti. Sono a malapena fatti per vivere. Staranno sempre da soli, non perché non riescano ad amare o perché nessuno ami loro, ma perché anche se incontrassero la loro anima gemella, non sarebbe mai all'altezza. Il loro grande amore rimarrà sempre quel brivido che solo il rischio può dare, solo avere quel potere.”
“Forse non voglio essere un eroe, allora” mi fece notare. “Sai che amo il mio potere, ma non è un'abilità che ti fa compagnia quando sei solo, che ti consola quando hai avuto una brutta giornata, che ti tiene al caldo la notte. Non è un potere da cui torni a casa. E sai che io amo te più di quanto amo gli elementi.”
Annuii lentamente, prendendo un sorso di vino e guardando in basso, prima di incontrare nuovamente i suoi occhi.
“Stavo parlando di me” le dissi pacatamente. “Potrei semplicemente provare a smettere di sentire, a spegnere i sensi e basta. Ma non voglio farlo, non voglio smettere di essere me stessa solo perché sarebbe più semplice, non voglio neanche provarci. So che sarebbe molto più facile, perché potrei darti quello che vuoi, potrei stare con te e farti innamorare di me.”
Continuai a guardarla negli occhi, mentre il suo sguardo si intristiva.
“Non posso rinunciarci” scossi la testa, stringendomi nelle spalle. “Questa è la persona che sono e che sono sempre stata. E la cosa più triste, è che io amo tutto di te, perfino il modo in cui ami il tuo potere, amo anche la parte di te che mette e metterà per sempre me al secondo posto.”
“Calliope, io sono innamorata di te” mi guardò, incredula. “Non di un super potere, anche se è vero che averne uno è pazzesco. Ma io ci rinuncerei in un secondo, se la scelta fosse tra quello e te.”
“Ci siamo frequentate solo per un paio di mesi. Non puoi dire sul serio” risposi, cercando forse di convincere più me stessa che lei.
“Ma io non ho voluto altro che te dal primo giorno in cui ti ho vista, otto mesi fa” rispose lei, scrollando le spalle, con una nota disarmante di inconfondibile onestà.
Osservai i suoi occhi a lungo, cercando di leggere dentro di lei e desiderando più che mai di avere il potere di Meredith in quel momento.
“Dici sul serio?” chiesi, visto che non potevo scoprirlo da sola.
“Certo” confermò con decisione.
Io la guardai ancora, senza muovermi o fare nient'altro, aspettando che ci ripensasse. Ma non lo fece. Continuò a guardarmi con la sua aria sicura, con i suoi occhi sinceri.
“E allora facciamolo” le dissi solo. “Rinunciamo ai poteri. Andiamo a vivere in un'isola sperduta e viviamo nell'ombra, senza farci notare. Andiamo via.”
“Calliope, non posso costringerti...”
“Non mi stai costringendo a fare niente, mi sembra” le feci notare.
“Tu hai bisogno di rimanere qui. Puoi guardarmi negli occhi e dirmi onestamente che non avresti problemi ad entrare in un locale con la musica a tutto volume per più di dieci minuti? Che non crolleresti a terra se ci fosse un suono acuto nelle vicinanze? Che stare troppo vicina al fuoco non ti farebbe impazzire? Che se uno sconosciuto ti afferrasse un braccio non urleresti dal dolore?”
Senza rispondere, ricambiai il suo sguardo serio e triste.
“Tu devi rimanere. Hai iniziato questo programma per poter imparare a controllare la tua abilità, per poter avere una vita il più normale possibile. Non puoi venire via, da qualche parte, su un'isola deserta, e limitarti ad ignorare il problema nei giorni in cui non hai incidenti. Chi costringerebbe qualcuno che ama ad una vita con una spada di Damocle che pende sulla tua testa?” domandò, stringendosi nelle spalle.
“No. Non farlo” mormorai, la voce rotta. “Avevi promesso che non mi avresti lasciato, Arizona. Me lo hai promesso. Sto migliorando, ok? Ci sto provando, ma se...”
“Calliope.”
“Se te ne vai io sarò distrutta” confessai, scuotendo la testa ed evitando i suoi occhi. “Sarà un disastro. Preferisco la mia spada di Damocle a questo punto. La preferisco, se l'alternativa è vivere senza di te.”
“Calliope” ripeté il mio nome, afferrando le mie mani e facendosi guardare negli occhi. “Io rimango con te. Proprio qui al tuo fianco. Non esiste che ti lascio da sola a fare i conti con tutto questo casino. Io voglio stare con te.”
“Ma non ci sei mai neanche stata con me” protestai, con una risata carica di ironia, in qualche modo spezzata dal nodo che avevo in gola. “Io sono incapace di una relazione normale.”
“Che è che noi abbiamo di anormale?” domandò pacatamente.
“Non abbiamo ancora...lo sai” lasciai la frase in sospeso. “In due mesi, ci siamo baciate, quante, cinque volte?”
“Sette. Sto contando.”
“Vorrei solo che potessi spegnerlo.”
“Ecco, allora questa è la verità” incalzò subito la mia ammissione sull'aver mentito. “Non che non vuoi farlo per me, ma che non puoi farlo per te stessa. Perché a me non importa” mi guardo, quasi ridendo. “Te l'ho detto e te lo ripeto ancora. Vivrò i prossimi cinquant'anni ad un metro di distanza da te. Tanto quella è la distanza a cui più o meno dovrò stare per sposarti.”
I miei occhi scattarono dentro i suoi.
Stavamo andando troppo in fretta forse. E sapevamo entrambe perché. La gente come noi, non solo quasi mai aveva una vita normale. Ma raramente aveva una vita e basta. Quelli come noi morivano, presto o tardi, per le loro sciocchezze o quelle di qualcun altro molto, troppo vicino a loro. Così facevamo progetti e ci muovevamo in fretta per illuderci di avere ancora tempo. Il tempo di fuggire via da una città, un mondo che non ci voleva.
Forse, già allora, sapevamo entrambe come tutto sarebbe finito, sapevamo che al culmine ci sarebbe stata un'esplosione. Eravamo una bomba ad orologeria.
Così, senza dire niente, presi il suo viso tra le mani e la baciai, illudendomi che avrei potuto far durare quel momento per sempre.

“Addison, tu sai che posso sentirti camminare, non è vero?” domandai ad alta voce, versandomi del caffè. “E sento il tuo cuore battere.”
“Odio il tuo potere, a volte.”
“Solo perché il mio potere non si fa fregare dal tuo” guardai nella sua direzione, vedendola tornare visibile. “Non che l'invisibilità non sia utile, ma usarla per andartene da casa di Teddy e Arizona di mattina solo perché non vuoi che io mi accorga che state andando a letto insieme non mi sembra un grande uso.”
“Quindi lo hai saputo fin dalla prima volta?”
“Oh, sì” risi, scuotendo la testa. “Mi ferisce un po' che tu non abbia voluto parlarmene, ma va bene lo stesso. Sono felice per te” sorrisi, sollevando le due tazze che avevo preparato ed entrando in camera di Arizona.
Ormai ero solita passare la notte con lei, anche se di solito era casa mia. Non che succedesse niente più che qualche bacio, ma abbracciarla per tutta la notte era più che abbastanza, per me.
La svegliai con un bacio, lasciando il suo caffè sul comodino, mentre bevevo il mio e mi preparavo per andare a lavoro.

Era in ritardo. Stavo bevendo un caffè mentre la aspettavo, ma ormai stavo iniziando a pensare che avesse avuto un contrattempo. Forse le avevano chiesto di andare a lavoro prima e si era dimenticata di chiamare, anche se non era una cosa da Arizona.
Lanciai l'ennesima occhiata al mio orologio e decisi che era ora di andare a lavoro. L'avrei probabilmente incontrata lì. Stavo per alzarmi quando un uomo si avvicinò al mio tavolo.
“Mi perdoni, è libero?”
“Sì, me ne stavo giusto andando” risposi distrattamente.
“In realtà, speravo di potermi sedere con lei.”
I miei occhi scattarono verso l'uomo davanti a me. Corrugai la fronte e mi preparai ad un rifiuto gentile.
Lascia che si sieda.
“Se vuole può sedersi” gli dissi, immediatamente sorpresa dalla mia stessa risposta. Scossi la testa, cercando di schiarirmi le idee. “Mi dispiace, ma io devo andare a lavoro” lo avvertii, sollevando la borsa e guardandolo nuovamente negli occhi.
Puoi rimanere per qualche minuto.
“Però posso rimanere per qualche minuto” appoggiai nuovamente la borsa e mi risistemai a sedere.
Lui, sorridendomi, si accomodò davanti a me.
“Lasci che mi presenti. Mi chiamo George O'Malley.”
Chiusi lentamente gli occhi alla familiarità di quel nome, scuotendo la testa.
“Controllo della mente” mormorai, sempre ad occhi chiusi. Il mio udito poteva aiutarmi nel percepire tutto quello che stava facendo anche senza guardarlo, fortunatamente.
“Sfortunatamente, no. Quello non ero io” continuò a sorridere. “Ma si ricorderà di April Kepner, l'avete catturata qualche mese fa. Un paio di giorni dopo ha ricevuto un'altra chiamata come la prima ed è evasa una seconda volta. Sparita nel nulla.”
Aprii gli occhi, guardandomi attorno. Individuai la ragazza ad un tavolo nell'angolo alle mie spalle, seduta con il ragazzo con cui l'avevamo catturata la prima volta ed un uomo di colore sulla quarantina che riconobbi immediatamente come Preston Burke.
Ero circondata, per così dire.
“L'abbiamo aiutata a sviluppare il suo potere. Adesso non ha più bisogno del contatto visivo per esercitare il controllo sulla mente.”
Serrai la mascella, cercando un'idea su come tirarmi fuori da quella situazione. Sia la rossa che il ragazzo avevano espressioni spaventate. Quella faccenda era molto, molto più grande di loro.
“Il mio potere ti piacerà molto di più” mi sorrise nuovamente. “Ho scelto te perché mi è stato detto che hai l'abilità di sentire molto più di chiunque altro. Beh, indovina? Il mio potere è proprio quello di far sentire” mormorò, avvicinando ancora di più la sedia al tavolo a cui eravamo seduti.
“Scusa il ritardo, un idiota mi ha quasi tamponato mentre...Calliope, tutto ok?”
Alzai gli occhi verso di lei lentamente.
“Scappa” sussurrai. “Corri. E non guardarti indietro.”
Lei si voltò verso l'uomo seduto insieme a me.
“Dolore” mormorò l'uomo davanti a me.
Una scossa elettrica familiare, quella della percezione di uno stimolo fin troppo amplificato, mi attraversò. Mi ritrovai stesa a terra, le mani strette contro le tempie. Arizona capì immediatamente cosa stava succedendo. Il mio caffè bollente si rovesciò sul viso dell'uomo dall'altra parte del tavolo, che a sua volta lanciò un piccolo urlo. Fortunatamente, il caffè era per la maggior parte acqua.
Mi sentii afferrare per mano e tirare. Appena l'acqua lo aveva colpito, la distrazione aveva fatto cessare lo stimolo di dolore. Mi alzai velocemente, ancora disorientata, e lasciai che Arizona mi trascinasse fuori dal locale di corsa.
“Che diavolo è successo?” urlò mentre salivamo dentro la sua macchina, che per fortuna era appena fuori da lì.
“George O'Malley” risposi chiudendo gli occhi e cercando di far passare la sensazione di sovra stimolazione dei miei sensi. “Ecco cosa è successo. C'era anche Burke e April Kepner, insieme al ragazzo con la vista laser.”
“Calliope, mi dispiace così tanto...”
“Non è colpa tua. Eri solo qualche minuto in ritardo.”
“Siamo state fortunate che lui non fosse abituato al dolore come te. Se ci avessi messo due secondi di più a riprenderti, adesso saremmo morte.”
“Se il braccio destro è capace di questo” le dissi “non voglio neanche immaginare che cose riesca a fare lui.”

“Eccolo. Sta scendendo le scale” ci avvertì Derek dal sedile posteriore.
“È da solo?” domandai.
“Sì. Gli altri sono rimasti nell'appartamento.”
“Ma perché sono venuti qui? Sanno sicuramente che conosciamo il posto, visto che è dove abbiamo beccato la Kepner. Quindi perché qui?” chiese Arizona, seduta accanto a Derek.
“Meredith” mi voltai verso di lei.
“Lo sto già facendo” mi rassicurò. “Sanno che siamo qui” ci informò. “Sta venendo a parlarci e continua a pensare di volere solo un dialogo civile. Sa che posso leggergli i pensieri, sta cercando di mettersi in contatto con noi.”
“Rimanete qui” dissi, sganciandomi la cintura. “Se le cose buttano male” sospirai “Derek, tu sei l'unico ufficialmente autorizzato a guidare la Thunderbird.”
“Io vengo con te” Arizona aprì lo sportello.
“No. Non se ne parla. Io sono l'unica abituata a percepire emozioni così tanto sproporzionate. Se lo facesse ad uno di voi, sarebbe tremendo. Non posso permetterlo. Rimanete dentro finché la sua versione di 'dialogo civile' non diventa violenta.”
Lasciai che fosse lui ad attraversare la strada ed avvicinarsi a me.
“Che cosa volete da noi?” chiesi con tono duro.
“Vogliamo voi” rispose con semplicità.
“Che significa?” corrugai la fronte.
“Voi otto, siete troppo preziosi. E sono sicuro che sapete che quello che Preston sta cercando di fare è il bene di tutti noi. Quindi quello che vogliamo è che vi uniate a noi e ci aiutiate a sconfiggere la vostra organizzazione.”
“Mai” risposi immediatamente.
“Pensateci” mi disse, senza essere scoraggiato dalla mia risposta secca.
“Non dobbiamo pensarci. La risposta è no.”
Lui mi sorrise nuovamente in quel suo modo calmo e controllato.
“E allora tra una settimana a quest'ora sarete morti. Tutti quanti.”

Raccontammo tutto alla Bailey, per filo e per segno, le riferii ogni singola parola esattamente come lui me le aveva dette. Quando uscii, le uniche rimaste ad aspettarmi erano Addison e Arizona, Derek e Meredith non avevano apprezzato la mia risposta categorica a nome di tutti.
“Andiamo a casa mia?” le chiesi, entrando nella T-Bird.
“Teddy ci sta aspettando a casa sua e di Arizona” mi informò Addison dal sedile posteriore, allacciandosi la cintura.
“E casa tua sia” conclusi con un mezzo sorriso.
Per il resto del viaggio, evitammo di parlare. Continuavo a chiedermi che ne pensava lei a riguardo, ma il coraggio di chiederlo ad alta voce mi mancava.
Quando Arizona aprì la porta del suo appartamento, tutte e tre rimanemmo paralizzate.
“Questa ha l'aria di un'imboscata” mormorai, voltandomi verso Addison.
“Non ho idea di quello che sta succedendo” si difese lei, stupita almeno quanto me, guardandosi attorno.
“Vogliamo discutere di questa cosa” Derek era in piedi, le braccia incrociate al petto.
“No” lo corressi “volete impormi una decisione che avete già preso. Altrimenti non mi avreste teso un'imboscata.”
“Teddy, si può sapere che ti è venuto in mente?” domandò Arizona, guardando la sua coinquilina con aria severa.
“Come dice Derek, vogliamo solo discuterne con calma.”
“E non tutti siamo d'accordo” precisò Lexie.
“Oh, tu sei contraria solo perché non vuoi abbandonare Sloan al suo destino” le disse la sorella.
“Dannatamente giusto” intervenne Cristina. “Non lascio indietro Owen solo perché non ha un potere.”
“Io sto dalla loro parte” intervenne Addison. “Questa gente ci ha aiutato e adesso siamo pronti ad un voltafaccia epico alla prima possibilità?”
“Questa gente cattura e uccide quelli come noi” ci tenne a chiarire Teddy.
“No, vedi, Preston Burke uccide quelli come noi” le risposi. “Quelli come noi che non sono dalla sua parte vengono massacrati perché se non sei con lui sei contro di lui. L'organizzazione cattura solo chi ha delle abilità pericolose che usa attivamente per danneggiare gli altri. Altrimenti si viene catturati, schedati e rilasciati.”
“Ah, beh, così suona molto meglio” mi fece notare Derek ironicamente.
“È solo un maledetto database” gli ricordai. “Anche l'FBI ne ha uno dei civili, non mi sembra che stiamo cercando di far saltare in aria il Bureau, però.”
“Ok, facciamo tutti un respiro profondo” propose Arizona, lanciando un'occhiata verso Lexie, che di solito cercava di tenerci tutti calmi.
“Siamo spezzati in due, quattro contro quattro” le fece notare la piccola Grey. “C'è poco da stare calmi, qui l'unica soluzione è 'ognuno per sé'.”
“Quindi quattro di noi si uniscono a Burke e gli altri quattro si lasciano uccidere?” domandò incredula Addison. “Neanche per sogno. Dobbiamo annientare Burke. Dopodiché il vostro anno sotto costrizione è quasi finito e ve ne potete andare a dormire sonni tranquilli.”
“Qui il punto è che noi pensiamo che non sia Burke da distruggere e non sia l'organizzazione che va aiutata” mormorò Derek.
“Lui vuole far conoscere l'esistenza dei super eroi a tutto il mondo. Vuole che non ci siano più differenze tra umani e super umani.”
“No, sai cos'è che vuole davvero Burke?” domandai con una risata amara. “Vuole che il mondo ci veda come la razza superiore, come esseri speciali, come l'evoluzione della razza. Saremo la prossima generazione, secondo lui. Un serbatoio genetico. Sai questo a cosa porterà? Sterilizzazione di chi non ha poteri, riproduzione forzata, omicidi di massa. Non si fermerà con noi.”
“Questo non puoi saperlo.”
“Possiamo, invece” mormorò Addison, sostenendomi. “Io lo conoscevo molto bene, George O'Malley.”
Quello attirò l'attenzione di tutti su di lei.
“Aveva già provato a portare altri dalla sua parte, gente con cui abbiamo collaborato nei primi mesi che eravamo dentro l'organizzazione” continuò. “Callie aveva uno strano presentimento, così una sera seguii uno dei nostri dopo aver usato l'invisibilità. George gli fece un discorso del genere sui piani di Burke, gli disse che avevano appoggi in alto, tutto quello che dovevano fare era liberarsi di coloro che avevano messo quelli di noi più pericolosi dietro le sbarre. Una volta sparita la nostra organizzazione e reclutati abbastanza seguaci, informare i civili della nostra esistenza per loro sarà estremamente facile.”
“In realtà, lo stavano già facendo” conclusi io.
“Erica Hahn” sussurrò Arizona.
“Già” confermai. “Non è un caso che l'abbiano vista mutare più di una volta. Si stanno preparando a farlo sapere a tutti, ma con le intenzioni sbagliate. Non è una convivenza quello che cercano. Il loro obbiettivo è l'eliminazione di chi non è come noi. Coloro che cercano la convivenza, quella è l'organizzazione, ragazzi. Arrestano chi è pericoloso, così come la polizia arresta chi è pericoloso tra i civili.”
“Allora diciamolo noi al mondo” concluse Cristina dopo qualche secondo di silenzio. “Liberiamoci di Burke e soltanto dopo diciamo al mondo della nostra esistenza.”
Il silenzio si protrasse a lungo. Alla fine, fu Derek a parlare per primo.
“Siamo sempre quattro contro quattro. Mi dispiace, Addison, ma se non avete prove...”
“Non siamo mai stati quattro contro quattro” intervenne Arizona prontamente. “Io sono dalla loro parte. Siamo cinque contro tre, quindi faremo come ha detto Cristina. Via Burke, via il problema. Poi possiamo sederci e fare una lunga e civile chiacchierata su quello che vogliamo fare dopo.”

Non li avevamo mollati un momento. Ogni minuto di ogni giorno, per una settimana, avevamo costantemente pedinato Burke, O'Malley, Kepner e Avery nell'attesa che facessero la loro mossa, ma non stava succedendo niente e il tempo stava per scadere.
Lui se ne stava lì tranquillo a pranzare e noi non dormivamo da giorni.
“Questa storia è diventata ridicola.”
Scesi dall'auto, andando incontro all'uomo sulla quarantina, marciando nella sua direzione con aria decisa. Immediatamente, due uomini si misero davanti a me, sbarrandomi la strada. Oh, giusto, le guardie del corpo. Ne aveva almeno cinque. Il suo esercito si stava ampliando.
“Callie Torres, cosa posso fare per te?” domandò, neanche alzando gli occhi dal suo pranzo.
“Mi domandavo se potessi ricordarmi quando avete intenzione di ucciderci, Burke, perché una settimana è passata e non è ancora successo niente” risposi con tono sprezzante.
“Non morirai, oggi, Callie” mi disse, voltandosi nella mia direzione ed alzandosi da tavola. “Non tu, non Meredith. Non morirete per mano nostra, noi non uccidiamo quelli come noi.”
“Risparmiati le bugie per i tuoi tirapiedi, ho visto il modo in cui hai massacrato Reed, Percy, Sadie, solo perché non volevano unirsi a te.”
Lui accennò un sorrisetto beffardo.
“Non siete voi il nostro obbiettivo. Te l'ho detto. Ma, se fossi in voi, non tornerei alla sede per almeno altre tre o quattro ore.”
Guardai l'orologio. Era l'una di pomeriggio, sapeva benissimo che tra le quattro e le cinque, proprio nell'ora che mi aveva indicato, tutti noi facevamo ritorno alla sede per i resoconti della giornata, almeno una cinquantina di agenti, più noi otto.
“Che cosa hai fatto?” sussurrai più a me stessa che a lui.
Tornò a sedersi e ricominciò a mangiare.
“Diciamo solo che l'organizzazione se ne andrà con un bel botto finale.”
Lasciai che la sua frase facesse presa. Quando mi resi conto di cosa intendesse, iniziai a correre verso l'auto.
Se dovevo morire quel giorno, in quell'esplosione, una cosa era certa. Poco ma sicuro, avrei portato Preston Burke a fondo con me.
Iniziai a guidare, spiegando a Meredith cosa stava succedendo mentre guidavamo in macchina verso la sede. Appena arrivammo, spiegai alla Bailey e a Webber che dovevano assolutamente far uscire tutti dall'edificio. In un paio d'ore tutto quel posto sarebbe saltato in aria. Ed io avevo un piano perché, come detto da Burke, quel posto sparisse con il botto finale.

“Signor Burke, c'è una chiamata per lei” sentii il tizio che mi aveva risposto al telefono comunicare con il suo capo.
“Chi è?”
“Dice di essere una certa Callie Torres. Dice che la signorina Hahn è con lei, pensava che le interessasse saperlo.”
Un istante dopo, Burke stava rispondendo.
“Pensavo volessi sapere che Erica è qui con me, alla sede. Vieni a disinnescare la bomba, o lei rimane qui nella sua confortevole cella mentre noi ce la diamo a gambe. Hai sbagliato ad avvertirci di quello che stavi per fare.”
Lo sentii esitare qualche momento. Poi rise.
“Vedi, Callie, il mio potere è un dono. È ciò che ci ha permesso di renderci conto che ci avreste raggiunto fuori dall'appartamento di April, ciò che ci ha fatto capire che ci stavate seguendo durante questa settimana ed è la stessa cosa che mi assicura, proprio adesso, che stai mentendo.”
“E cioè?”
“Visioni. Riguardo un futuro roseo, in cui le persone con dei poteri portano avanti il mondo indisturbate, in cui non veniamo più discriminati o incarcerati. Ed in quel mondo, c'è anche Erica, proprio al mio fianco.”
“Il futuro non è scritto nella pietra. In un attimo, tutto può cambiare. Vuoi davvero rischiare la vita della donna che ami?”
“Lei non è con te. Mi basterà chiamarla per averne la conferma.”
La chiamata fu disconnessa.
Sorrisi a me stessa quando sentii squillare il telefono che avevo nell'altra mano.
“Avete raggiunto la segreteria telefonica di Erica Hahn. Se sei Preston Burke, Callie ti consiglia di andare a disinnescare quella bomba, di andare da solo e di farlo in fretta.”
Dall'altra parte arrivò solo silenzio. Poi due parole.
“Stai mentendo.”
“Stai a vedere.”
Premetti il pulsante per l'attivazione della chiamata con video, riprendendo la scena davanti a me, di Erica Hahn con le mani legate, chiusa dentro la cella di vetro.
“Allora, Burke” domandai, senza smettere di riprendere la donna “sei ancora sicuro di voler rischiare?” chiusi la chiamata, appoggiando entrambi i cellulari e stoppando il video della sorveglianza girato qualche mese prima, quando avevamo catturato Erica, che stavo proiettando su una televisione a colori. Il cellulare non glielo avevamo mai restituito, mi sorprendeva che Burke non lo sapesse. Sapevo che Erica si era data alla macchia dopo averli traditi e non era più tornata indietro, ma sapevo anche che lui non poteva avere smesso di amarla così in fretta.
Attirarlo nella sua stessa trappola era stato facile. Ora dovevo soltanto assicurarmi che nessuno rientrasse nell'edificio prima che la bomba fosse disinnescata.
Quando uscii in strada, tutti gli agenti erano stati mandati a casa in anticipo. C'erano solo Webber, la Bailey, Hunt, Sloan e noi della squadra. Gli unici che mancavano erano Derek e Arizona, che erano ancora in perlustrazione. Ma, se fossero arrivati, li avremmo visti entrare.
“Allora, sono tutti fuori?” chiesi.
“Tutti quanti” confermò Webber. “Sei sicura che funzionerà?”
“Beh, lo sapremo presto. Burke sta venendo qui per disinnescare la bomba.”
“Ma che diavolo-” Addison mi fece cenno di voltarmi verso l'uscita.
Derek e Arizona stavano camminando nella nostra direzione.
“Eravamo al terzo piano, tutto l'edificio era deserto, ci siamo affacciati e vi abbiamo visto per strada” raccontò brevemente il moro. “Che sta succedendo?”
“C'è una bomba. Ho provato a chiamarvi almeno dieci volte e vi ho mandato dei messaggi” gli rispose Meredith, che era sbiancata appena lo aveva visto uscire dall'edificio.
“Ah, non indovinerete mai. O'Malley, Avery e la Kepner hanno deciso che era il momento di farci incazzare. Ci hanno aggredito, rubato i cellulari e li hanno distrutti. Poi hanno provato a picchiarci, quindi li abbiamo arrestati e portati nelle celle del terzo piano.”
Corrugai la fronte.
“Oh, no.”
Iniziai a correre verso l'entrata, ma Addison mi afferrò praticamente al volo.
“Che stai facendo, sei impazzita? C'è una bomba lì dentro” mi ricordò.
“Sono loro. Sono loro la bomba” le spiegai in fretta. “Burke prevede il futuro. Sapeva che Arizona e Derek li avrebbero arrestati, sapeva che io avrei mandato via tutti e sapeva che li avremmo avvertiti per messaggi, quindi ha fatto distruggere i loro telefoni.”
“Aspetta, ma se sapeva che avremmo fatto andare via tutti, come mai sta facendo esplodere l'edificio?” mi chiese la rossa, in totale confusione.
“L'archivio. George è lì dentro da solo, scommetto che Jackson ha usato la vista per liberarlo. Lui e April non c'entrano in questa storia. Sono sotto minaccia, ci scommetterei qualsiasi cosa. Avevano uno sguardo così impaurito, quel giorno, è impossibile che lo stiano facendo di loro spontanea volontà. George porterà a Burke le schede che stava cercando e tutto il resto verrà distrutto. Noi perderemo tutti i dati e loro potranno divertirsi a reclutare decine di persone.”
“Come pensi che riesca a portare centinaia, forse migliaia di cartelle fuori da lì passando inosservato?” domandò Derek.
Sospirai, guardando verso la Bailey. Fu lei a rispondere al posto mio.
“Con una chiavetta USB. Sia dannata la tecnologia.”
“Ma gli servirebbero le password di accesso” fece notare Meredith.
“No. Gli basterà trovare un computer che ha già effettuato il login, abbiamo fatto uscire tutti così in fretta che sicuramente qualcuno di sarà dimenticato di disconnettere il terminale. E Burke di sicuro lo aveva predetto” spiegai.
Mi districai dalla presa di Addison.
“Devo andare a salvare April e Jackson, e impedire a George di rubare quei nomi. È l'inizio del loro piano per reclutare un esercito. Ogni singola persona che abbiamo schedato e liberato sarà nelle loro mani. Non possiamo permetterlo.” Feci un paio di passi all'indietro. “Voi non muovetevi da qui.”
Corsi il più velocemente possibile verso l'entrata. Mi accorsi subito che qualcuno era dietro di me e ne riconobbi il battito del cuore.
“Arizona, ti prego. Torna indietro.”
“Non ti lascio sola. Faremo in fretta. Sopravviveremo entrambe, Calliope. O non sopravviverà nessuna di noi.”
Arrivate al terzo piano, ovviamente, George se l'era già data a gambe, lasciando lì i due ragazzi, che avevano l'aria spaventata a morte.
“Come vi liberiamo?” chiesi, sperando che loro avessero una qualche idea.
La ragazza mi guardò, sorpresa che fossimo tornate indietro per aiutarli.
“Non potete. Serve un codice, cinque lettere. La bomba non può essere disattivata, ma il codice permette di aprire la sicura. Potremmo togliercela e lasciarla qui, ma, ovviamente, non sappiamo il codice.”
“George vi ha messo quella cosa addosso dopo che lo avevate liberato” tirò ad indovinare Arizona, avvicinandosi ai due, una cintura legava insieme le loro gambe, un timer ed un display in bella vista. “Ed ora non potete muovervi se non volete saltare in aria.”
“Che succede se sbaglio il codice?” chiesi sommessamente.
“Hai tre tentativi” ci voltammo di scatto verso l'uomo alle nostre spalle. “Se al terzo sbagli, la bomba salta in aria in anticipo.”
Arizona scattò verso di lui.
“Dolore.”
Cadde in ginocchio, un urlo lacerante.
“Ho trovato quello che cercavo. Ci vediamo fuori da qui, se sopravvivete. Altrimenti, è stato un piacere manipolarvi. Voglio darvi un indizio, però. La password è il grande amore di Burke.”
Uscì dalla stanza, con il suo fastidioso sorriso strafottente sulle labbra. Estrassi il cellulare.
“Meredith? Sta uscendo. Fermatelo a qualsiasi costo.”
Non sapevo che George O'Malley non sarebbe mai riuscito ad andarsene da quell'edificio.
Mi avvicinai alla bomba, pensando all'unica cosa per cui era stato disposto a guardarsi indietro. Era fin troppo facile.
“L'amore lo ha tradito” sussurrai, digitando le cinque lettere. “È stato troppo prevedibile, l'amore è stato il suo punto debole.”
Sullo schermo apparvero le cinque lettere che avevo immesso: ERICA.
Una piccola luce rossa si accese, segnalando l'immissione di un codice errato.
Corrugai la fronte, il sorriso sparì dalle mie labbra.
“Niente è mai troppo scontato, nelle nostre stupide vite” mi ricordò Arizona. “E ora salteremo in aria, grazie a questo.”
“Non mi stai aiutando. Pensa a cosa ama Burke.”
“Il potere? Insomma, sta facendo tutto questo casino solo per poter avere un esercito da usare contro la razza umana per poterla sterminare. Sembra uno a cui il potere piace abbastanza.”
“Decisamente un patito del potere” confermò Jackson.
“D'accordo, ma io non mi prendo responsabilità per il secondo tentativo” li avvertii.
Inserii il secondo codice. POWER. Di nuovo, la spia rossa si accese.
Io guardai i due ragazzi davanti a noi. Erano spaventati, ma allo stesso tempo quasi rassegnati al loro destino.
“Grazie per aver provato” mi disse sommessamente la ragazza. “Avete fatto più del necessario, decidendo di tornare indietro a salvarci.”
Guardai il timer. Quindici minuti. Tanto valeva provare un'ultima volta.
Mi alzai in piedi, voltandomi verso Arizona. Mi rispose prima che potessi parlare.
“No. Non se ne parla. Non ti lascio indietro.”
“Arizona, se riesci a trovare un'isola sperduta e a cambiare identità, fammi solo un favore, ok?” le chiesi, prendendole le mani. “Dai uno scappellotto a Derek tutti i giorni da parte mia e ripetigli che io avevo ragione e lui aveva torto, che Burke era cattivo e che le cose sarebbero potute essere più semplici.”
“Calliope, no. Nessun soldato viene abbandonato. È sempre stato così, per noi. La volta che Teddy è rimasta incastrata dentro l'inceneritore della discarica cinque minuti prima del timer quotidiano, tu non l'hai abbandonata. Non esiste che io adesso abbandoni te.”
“Arizona, te l'ho detto già una volta. Gli eroi nascono soli, muoiono soli e senza ombra di dubbio vivono soli. Noi non siamo destinati ad amare, non siamo destinati ad una persona. Il nostro grande amore sarà sempre...”
“...il nostro potere” concluse per me.
Corrugai la fronte, guardandola come se mi avesse appena mostrato la luce.
“Tu sei un genio” le sorrisi, afferrandole il viso tra le mani e baciandola sulle labbra.
Mi inginocchiai nuovamente davanti a loro due, guardando il display.
“Il grande amore di Burke non è Erica, è la sua abilità. Il fatto che può vedere il futuro, il suo occhio interiore. È la sua vista.”
SIGHT.
Una piccola luce verde si accese, la sicura venne sganciata. Sollevai delicatamente la cintura, permettendo ai due ragazzi di alzarsi.
“Correte. C'è un'uscita d'emergenza sulla destra, appena entrate in corridoio. Prendete le scale antincendio e raggiungete gli altri ai piedi dell'edificio. Loro vi aiuteranno.”
Mi alzai in piedi, la bomba in mano.
“Abbiamo sette minuti per pensare a cosa dobbiamo fare” la informai.
La porta si aprì di scatto.
“O'Malley mi ha detto che eravate qui. Mi sta aspettando nell'atrio, ditemi dov'è Erica.”
“Sei in ritardo. Abbiamo tolto la bomba e stiamo per andarcene. Non c'è più niente che puoi fare per noi” gli dissi, sorridendogli nel modo pacato in cui lui era solito sorridere a me.
“Ho la chiavetta USB. Ditemi dov'è lei ed io vi restituisco i vostri dati. Voi non perdete neanche un file, noi non abbiamo accesso a nessun documento. Voi vincete, noi perdiamo.”
Lo guardai attentamente per qualche secondo.
“Erica non è qui” ammisi infine. “Era un filmato registrato mesi fa. È scappata via da noi, da questa città e da te. Tu la tenevi prigioniera. Se l'avessi amata davvero, non l'avresti costretta a lavorare per te.”
Dopo aver registrato le mie parole estrasse una pistola, caricandola.
“Non doveva andare così. Non dovevi morire, Callie. Dovevi essere al mio fianco, dovevamo dare vita ad un nuovo mondo.”
“Le cose non vanno come vorresti” gli dissi, scrollando le spalle. Un tonfo sordo risuonò nella stanza quando il suo corpo cadde a terra svenuto. “Mai.”
Jackson gettò a terra la trave che aveva usato per tramortirlo.
“Scommetto che questo non lo avevi previsto, idiota.” Alzò gli occhi su di noi. “Lo abbiamo visto venire verso la stanza e volevamo ricambiare il favore.”
Prima che potessimo rispondere, corse via. Abbassai gli occhi verso il timer. Quattro minuti e mezzo.
Burke riprese conoscenza quasi subito dopo che abbi fissato la bomba attorno al suo busto, immobilizzando con la cintura anche le sue braccia lungo i suoi fianchi. Il display era sulla sua schiena. Non solo non poteva vedere le lettere, ma neanche arrivava a digitarle.
Se ne accorse quasi immediatamente, guardando verso l'alto ed incontrando i nostri sguardi.
“Quanto manca?”
“Tre minuti” risposi, sganciandomi il cartellino di riconoscimento e gettandolo a terra, facendo poi lo stesso con quello di Arizona. “Ci dispiace Burke. Non doveva andare a finire così. Nessuno sarebbe dovuto morire, oggi. Ma sei diventato troppo potente per poterti lasciare vivere. Niente ti fermerebbe mai.”
I suoi occhi divennero vacui per un istante. Capii subito che aveva avuto una visione.
“Il futuro che avete creato oggi” sussurrò, corrugando la fronte e guardando di nuovo verso Arizona, poi incrociò il mio sguardo. “È...perfetto.”
Io non capii subito cosa intendesse.
“C'è giustizia e armonia. Tutti sapranno, ma noi non verremo semplicemente tollerati. No, noi verremo amati. È perfetto” ripeté. “La mia morte, è solo un piccolo sacrificio.”
Mi tolsi la giacca e le scarpe, dicendo ad Arizona di fare lo stesso.
“Jeans e magliette non sopravviverebbero ad un'esplosione. Le giacche sì” le spiegai.
“Calliope, ma che cosa...”
“Siamo morte” le spiegai, con estrema semplicità. “Qui, oggi, io e te siamo morte.”
Corrugò la fronte, pronta a protestare.
“Puoi scommetterci, Torres. Se io me ne vado, voi verrete via con me” mi voltai di scatto verso Burke. Aveva in mano un piccolo oggetto di metallo che aveva raccolto da terra. Lo alzò, pronto a colpire la bomba. Non ci avrebbe lasciato quegli ultimi due minuti per fuggire. Ci avrebbe ucciso, portandoci a fondo con lui.
Arizona afferrò la mia mano, correndo verso la finestra della stanza in cui ci trovavamo. Ci lanciamo attraverso il vetro e subito dopo sentimmo un suono tremendo alle nostre spalle, lo spostamento d'aria ci fece percorrere diversi metri in avanti.
Vidi il fuoco essere respinto e non toccarci, le mani di Arizona tese una verso la finestra e l'altra verso il terreno sotto di noi. Aveva creato un vortice d'aria che ci stava tenendo sospese. Lentamente il vortice si rimpicciolì sempre di più, fino a posarci a terra delicatamente.
“Sei è stata fantastica” le dissi, stupita fino all'inverosimile. “Sei un miracolo.”
Lei si voltò verso di me, sorridendomi.
“È solo un'abilità, Calliope. Tu sei il mio miracolo.”

Trovare un taxi senza scarpe e giacche in pieno inverno senza sembrare pazze si rivelò arduo, ma non impossibile. Non potevamo tornare indietro, nemmeno a prendere dei vestiti, nemmeno a salutare. I nostri appartamenti, probabilmente, erano già pieni di agenti federali. Affittammo una camera d'albergo e guardammo il notiziario. La bomba non era la notizia più shockante della giornata, apparentemente.
Il contenuto dell'archivio dell'organizzazione fu diffuso pubblicamente nel giro di poche ore. In breve, tutti avrebbero saputo della nostra esistenza.
“Com'è possibile?” mi chiese, sedendosi accanto a me. “Burke aveva quella chiavetta. Dovrebbe essere esplosa.”
“No” scossi la testa, voltandomi verso di lei. “Io avevo quella chiavetta” la estrassi dalla tasca dei miei jeans e gliela mostrai. “Hai presente quando mi sono voluta fermare in quel ristorante per usare il bagno? Hanno una connessione wi-fi libera e niente telecamere di sicurezza. Non riusciranno mai a capire chi abbia mandato quei file.”
Lei mi guardò, incredula, scuotendo la testa.
“Stavolta il genio sei tu.”
“No. Sono soltanto brava con i computer.”

Eravamo sdraiate su due sdraio di legno in spiaggia, stavamo sorseggiando dei drink ghiacciati per sopportare meglio il caldo tropicale di quell'isola.
Eravamo abituate all'assoluta quiete e pace di quel luogo, così in contrasto con il caos assoluto di Seattle.
Un rumore improvviso ci distrasse. Qualcuno aveva gettato a terra qualcosa che era atterrato proprio ai nostri piedi. Aprii gli occhi e vidi che era una valigia.
“Trovarvi è stato traumatizzante. Potevate anche renderci le cose un tantino più facili, sapete?” ci chiese Derek, arrotolandosi le maniche della camicia che stava indossando.
“Perché siete vestiti così?”
“Perché ufficialmente stavamo andando a lavoro, non in aeroporto” rispose Teddy.
“Sarebbe stato sospetto vederci partire in pantaloncini corti” concluse Addison, sdraiandosi sulla sabbia nonostante i vestiti firmati.
“Questo posto non è niente male” commentò Cristina, guardandosi attorno.
“Dov'è Hunt?” domandai, vedendo che sia lui che Sloan mancavano all'appello.
“Storia divertente. È venuto fuori che non siamo noi ad essere innamorate del nostro potere. Sono loro ad essere innamorati del loro lavoro.”
“Torneremo a prenderli. Prima o poi” ci fece sapere Lexie, ignorando le parole di Cristina.
“Siete felici?” ci domandò Meredith con un sorriso enorme. “La vostra famiglia è finalmente qui.”
Ci scambiammo uno sguardo.
La pace in cui avevamo vissuto per sei mesi era tristemente finita.
Ma alla fine, non potevamo che essere felici di rinunciare alla quiete, se in cambio avevamo i nostri amici.
“Non avevi detto che gli eroi vivono soli?” mormorò Arizona, rafforzando la presa che aveva sulla mia mano.
“Non posso che essere felice di essermi sbagliata” le sorrisi, continuando a sorseggiare il drink che avevo in mano.
Era la verità. Mi ero sbagliata. Io e lei non eravamo una bomba ad orologeria, non eravamo destinate a culminare in un'esplosione. Avevamo finalmente davanti a noi il futuro che non ci eravamo mai nemmeno azzardate a sognare.
Chiusi gli occhi, ma la risata cristallina di Meredith catturò la mia attenzione.
“Non crederete mai a cosa stanno pensando Callie e Arizona” annunciò a tutti i nostri amici.
Io spalancai immediatamente gli occhi, arrossendo furiosamente.
“Sembra che Callie ci sia finalmente riuscita, dopotutto.”
Tutti scoppiarono in una fragorosa risata, tranne Lexie, che sembrava non avere idea di cosa stesse succedendo.
“Riuscita a fare cosa?”
“Comincia a correre, Meredith. Perché se ti prendo, ti affogo.”
“Riuscita a fare cosa?” domandò a voce più alta la piccola Grey, mentre io mi lanciavo all'inseguimento di sua sorella.
“Oh, sì” sussurrò Arizona, ma io la sentii perfettamente grazie al mio udito. “Adesso abbiamo decisamente qui la nostra famiglia.”




Spero che anche questa cinquantunesima storia vi sia piaciuta e che non stiate pensando che il livello è calato incredibilmente. Che ne pensate?
Alla prossima, un abbraccio a tutte voi che siete ancora qui.


Ritorna all'indice


Capitolo 52
*** La nostra prima nemesi ***


A chi ancora segue questa raccolta: vi ringrazio per la pazienza e spero di non deludervi. Un abbraccio.

Avvertimenti: AU; leggermente OOC



La nostra prima nemesi


Entrai a scuola, anche quella mattina accompagnata dalle mie due migliori amiche, Addison Montgomery e Teddy Altman.
Eravamo le ragazze più popolari del liceo, tutti ci rispettavano e le cose andavano alla grande per tutte noi. Teddy era fidanzata con Mark Sloan, il capitano della squadra di football, mentre Addison era fidanzata con Alex Karev, il capitano della squadra di basket. Ed io, beh, per me solo il meglio.
“Buongiorno, come stai?”
“Bene” risposi distrattamente, aprendo l'armadietto. “Ti spiace reggere un attimo la mia borsa?” gli domandai.
“Amore, sai che farei qualsiasi cosa per te” rispose con un sorriso affascinante.
Due sospiri sognanti arrivarono dalle due ragazze alle nostre spalle. Io mi sporsi, baciandolo sulle labbra.
“Sei quasi troppo perfetto per essere vero, Derek.”
“Tu sei troppo perfetta per essere vera, infatti ho sempre paura di svegliarmi da un momento all'altro.”
Mi sorrise, io ricambiai chiudendo l'armadietto dopo aver preso i libri che mi servivano e cercando di riprendere la mia borsa.
“Ti accompagno in classe” si offrì, insistendo per portare sia la borsa che i libri al posto mio.
Derek Shepherd, un anno più grande di noi e capitano della squadra di baseball della scuola, presidente del club di dibattito e eletto per tre anni consecutivi mister capelli perfetti e sorriso smagliante alle assemblee scolastiche.
Il ragazzo d'oro della scuola, nonché del paese in cui abitavamo, a diciotto anni era già il partito perfetto che tutte le madri avrebbero voluto far sposare alle loro figlie.
Derek Shepherd era la perfezione.
Entrammo in aula, vedendo Alex e Mark tirarsi un libro da una parte all'altra dell'aula, mentre una delle ragazze tentava di riprenderselo. Era una nullità, la prendevano sempre in giro. Io, personalmente, non la sopportavo. Quei suoi modi di fare da saputella mi davano sui nervi. Il suo nome era Mandy Bailey o qualcosa del genere. Era insopportabile. Ma neanche lontanamente quanto lo era la sua migliore amica. Entrò in classe subito dopo di noi, passandoci vicino.
“Perdente” Addison fece finta di tossire, mormorando la parola quando lei ci passò accanto e facendo scoppiare tutti in una fragorosa risata.
La campanella suonò in quel momento.
“Devo andare in classe” mi disse Derek. “Ci vediamo dopo le lezioni.”
“Certo” gli sorrisi, lasciando che mi baciasse sulla guancia.
“Ciao, Arizona.”
Lo guardai andar via e poi mi voltai di nuovo verso i due ragazzi che si stavano lanciando il libro da una parte all'altra.
“Ehi, è suonata la campanella” li avvertii. “Andate in classe, o vi beccherete un altro richiamo” gli ricordai, vedendoli uscire dalla classe dopo aver gettato quel libro dentro un secchio della spazzatura. Anche loro erano un anno più grandi di noi, ma per niente maturi, a differenza di Derek.
Guardai in direzione della ragazza che Addison aveva preso in giro.
Callie Torres era un anno più piccola di noi e frequentava già le nostre classi, era nel club degli scacchi della scuola, campionessa dello Stato della Florida per due anni consecutivi, faceva parte del glee club della scuola, dove di solito rimaneva nell'ombra, ed organizzava lo spettacolo teatrale per cui aiutava a cucire i costumi e basta. Inoltre, aveva dei seri problemi di autostima.
Calliope Torres era l'antipodo di Derek Shepherd.
“Perdente non ci si avvicina nemmeno.”

Era appena finito l'intervallo quando entrai in bagno. Uscì da una delle cabine proprio mentre io entravo dalla porta principale. Ci fermammo e ci scambiammo uno sguardo.
“Togliti di mezzo.”
Lei scrollò le spalle con una risata amara.
“Non mi pare che ti stia bloccando la strada. Ma se proprio devi fumare, almeno fallo nel bagno vicino alla finestra.”
Si avvicinò ad uno dei lavandini.
“Adesso hai anche il coraggio di rispondermi?” chiesi, tirando fuori una sigaretta ed accendendomela proprio lì davanti ai suoi occhi.
“Tu non sei nessuno” mi disse, voltandosi nella mia direzione.
“Oh, per favore. Sei tu la nullità. La tua vita è inutile. Sai, ci sono dei giorni che penso che essere come te sarebbe più facile. Almeno non dovrei impegnarmi per mantenere una vita sociale.”
“Non hai idea di quanto sia difficile essere me” rispose con tono duro. “Magari la mia vita fosse come la tua. La cosa più difficile che hai mai dovuto fare è stata probabilmente riempire una domanda di ammissione ad un corso estivo di preparazione ad un college che comunque tuo padre pagherà per ammetterti.”
“Qual'è stata la cosa più difficile che hai fatto tu? Risolvere un esercizio di matematica particolarmente complicato? Tu non hai idea di quanto sia difficile la vita reale.”
“La cosa più difficile che ho dovuto fare” ripeté con tono duro. “Vaffanculo, Arizona.”
“Callie...”
“No, tu puoi vivere la tua bella vita da principessina con le tue amiche e i loro ragazzi senza cervello. Ma non dirmi che la mia vita è più facile della tua, perché tutto quello che avevo me lo hai portato via.”
“Beh, è arrivata la Santa della situazione, non è vero?” domandai, sentendo a quel punto la rabbia iniziare a salire. Perché? Beh, perché la rabbia era più semplice del dolore. “Sono io che ho dovuto tenere il tuo segreto per tutto questo tempo, spera solo che un giorno non mi venga voglia di cantare, o potrei iniziare a dire cose interessanti.”
“Beh” ritorse con una risata amara. “Anche io.”
Uscì dal bagno, sbattendosi la porta alle spalle.

Quando quella sera arrivai a casa lanciai un'occhiata verso destra. Era in giardino, le cuffie alle orecchie. La vedevo spesso mettersi lì con le cuffie, forse perché non sentire era più facile. Sapevo che sua madre e suo padre erano soliti urlare parecchio, quindi uscire e staccare da tutto doveva essere più facile.
Certo, io non lo avrei fatto, ma lei non aveva mai avuto la forza di fare un bel niente.
Era una persona debole e forse la cosa più difficile che avesse mai dovuto affrontare non era stata un esercizio di matematica, ma non aveva una vita difficile. Era solo una persona debole.
Entrai in casa, salendo in camera mia. Dopo cena, mi soffermai ad osservare la luce proveniente dalla finestra opposta alla mia. Camera sua.
“Se avesse la mia vita anche solo per un secondo, capirebbe” mormorai, alzando gli occhi al cielo della stupidità di quella tizia. “Come può pensare che la sua vita sia peggiore della mia? Infondo non è mica lei che ha avuto l'incidente. Capisco che i suoi genitori che urlano possano darle fastidio, ma se avesse la mia vita per un giorno, si renderebbe conto che è assurdo dire che la sua è più difficile. Che idiota” mormorai a me stessa ancora una volta, mentre spegnevo la luce e mi infilavo sotto le coperte.
Quello che non sapevo era che in quella stanza di rimpetto alla mia, lei stava pensando la stessa identica cosa nello stesso identico momento.

Sentii l'allarme suonare alla mia sinistra. Perché diamine era a sinistra? Di solito lo tenevo sul comodino a destra del letto. Un momento. Io non avevo un comodino a sinistra.
Aprii gli occhi, guardandomi intorno.
Ok, quindi la sera prima ero ubriaca, ovviamente, perché ovunque avessi dormito, non era camera mia.
Eppure, quel posto aveva una strana familiarità.
Casa di Derek? Addison? Teddy?
Mi guardai attorno per diversi istanti, con aria spaesata. Poi riconobbi il luogo in cui mi trovavo e scattai in piedi.
“Ew” guardai quello che stavo indossando. Biancheria ed una maglietta sbracciata. “Non può davvero essere successo.”
Guardai il letto sfatto e non vidi i miei vestiti da nessuna parte.
“Quanto dovevo essere ubriaca per essere andata a letto con Callie Torres?” mi chiesi, tornando a guardare ciò che stavo indossando.
Fu allora che me ne resi conto.
“Un momento, ma...” dagli slip bianchi che stavo indossando partivano due lunghe gambe slanciate ed ambrate, abbronzate al punto giusto per essere del colore perfetto.
C'era solo un problema, quindi. Io non mi abbronzavo. Mai.
Guardai i miei fianchi femminili, le curve di un corpo che decisamente non era il mio. A meno che, ovviamente, il mio seno non fosse cresciuto di una taglia in una sola notte.
Corsi davanti allo specchio di quella camera e quello che vidi mi costrinse a lanciare un grido che superava la barriera del suono.
Lunghi capelli neri scendevano sulle mie spalle, due occhi marroni fissavano dentro i miei dal riflesso dello specchio, da un corpo che decisamente non era il mio.
“Non è possibile” mormorai. “Forse sono ancora ubriaca. Che diamine ho fatto ieri sera?”
Ci pensai. Ero tornata a casa da scuola, avevo cenato e poi ero andata a letto, tutto qui. Non avevo bevuto, né fumato erba, né assunto qualcosa che potesse spingermi e guardare dentro uno specchio e vedermi fissare da Calliope Torres.
Afferrai dei vestiti a caso dall'armadio, gli unici decenti che possedeva, indossando l'unico paio di scarpe a portata di mano e percorsi le scale in fretta e furia.
Sentii la signora Torres urlarmi dietro di fare colazione prima di andare via, ma non le detti ascolto, marciando verso la casa accanto a quella. A metà strada, la vidi venirmi incontro.
Cioè, mi vidi venirmi incontro.
“Non è assolutamente possibile che questo stia succedendo a me” mormorai, squadrandola. “Non è possibile” ripetei a voce più alta.
“Restituiscimi immediatamente indietro il mio corpo” mi urlò contro. “Non so che hai fatto e non mi interessa, rimetti subito a posto le cose!”
“Pensi che sia colpa mia?” le chiesi, sgranando gli occhi. “Certo, perché è ovvio che io vorrei trovarmi dentro questo...” guardai in basso, squadrandomi. “Sai una cosa? Potrebbe non essermi andata eccessivamente male” alzai lo sguardo, sorridendo.
Lei mi stava fulminando con lo sguardo.
“Cosa?” scrollai le spalle. “Hai delle belle tette.”
Lei mi colpì su una spalla.
“Questo è proprio il motivo per cui le rivoglio indietro, tu che dici?” domandò come se fossi stupida, alzando gli occhi al cielo.
“Ok, beh, se sapessi come fare a far tornare le cose alla normalità, lo farei. Tu che dici?” presi in giro il suo tono di voce.
“Senti, dobbiamo mantenere la calma. Non dare di matto.”
“Oh, certo, giusto. In fondo, perché dovremmo dare di matto? Sei solo dentro il mio corpo” le feci notare.
“Se diciamo a qualcuno quello che è successo ci sbattono dentro un manicomio e gettano via la chiave, quindi sì. Io direi che dobbiamo elaborare un piano temporaneo finché non riusciamo a far tornare le cose alla normalità” ritorse. “A meno che tu non preferisca andartene in prigione, ma io non ci vengo, quindi scordati che sostenga la tua versione, se decidi di parlarne a qualcuno.”
Io sospirai, allargando le braccia e lasciandole ricadere lungo i miei fianchi.
“E va bene. Parliamo di questa tua brillante idea mentre andiamo a scuola. Possiamo prendere la mia macchina, per una volta ti darò un passaggio.”
Lei mi rivolse un sorrisetto. “Vuoi dire che io posso prendere la mia macchina e dare un passaggio a te, principessina.”
Mi fece l'occhiolino, prima di tornare dentro casa mia.
“Non posso picchiarla” ricordai a me stessa. “Potrei farmi venire un livido, poi sarei costretta a metterci chili di fondotinta sopra.”

Vederla al volante della mia automobile mi stava facendo saltare i nervi. Nessuno poteva guidare quella macchina tranne me.
“Regola numero uno, dobbiamo fingere al meglio che tutto sia normale” mi fece sapere. “Questo significa che se ti metti ad urlare davanti a tutti quanto sono secchiona, io metto in giro la voce che sei stata a letto con tutta la squadra di football.”
“Come se qualcuno potrebbe credere a te” la sfidai.
“Lo faranno, se quando lo dico ho il tuo aspetto.”
Mi morsi un labbro per non replicare. Scacco matto.
“Va bene. Niente passi falsi. Ma neanche tu fare passi falsi, d'accordo?”
Lei scrollò le spalle. “Farò del mio meglio.”
“Regola numero due, io scelgo i tuoi vestiti a partire da domani” ordinai. “Quella maglietta abbinata a quelle scarpe” le informai “rovineranno la mia reputazione.”
Lei rise di me, scuotendo la testa.
“Perché no. Scegli i miei vestiti, sai quanto mi importa.”
“Regola numero tre, non dire o fare niente che io non farei o direi.”
“Vale anche per te” mi informò, posteggiando davanti scuola. “E, ti prego, mentre sei nel mio corpo, non andare a letto con nessuno.”
“Vale anche per te. Cioè, se vuoi dare una toccatina fai pure” le dissi, indicando il suo corpo. “Ma non andare a letto con nessuno.”
Lei aprì la bocca guardandomi come se fossi impazzita.
“Ok, primo” alzò una mano nella mia direzione, facendo la sua migliore faccia a metà tra il confuso, il disgustato e il perplesso, senza dire una parola. “Secondo, io Derek Shepherd non lo bacio. Che schifo.”
“Non devi baciarlo, infatti. Si chiama tradimento” la informai. “E comunque, è il ragazzo più bello della scuola, che c'è che non va in te?” scherzai.
Lei abbassò lo sguardo, scrollando le spalle.
“Penso che tu sappia cosa c'è che non va in me. Non avresti smesso di parlarmi altrimenti.”
“Callie...”
“Meglio che tu vada. Io vengo tra qualche secondo, meglio che non ci vedano entrare insieme o potrebbe spargersi qualche voce strana, a scuola.”

Stava piangendo contro la mia spalla. Aveva quattordici anni quando era successo.
Come si poteva superare qualcosa del genere?
Come ci si poteva, soprattutto, riuscire alla nostra età?
Non era pronta.
Nessuno lo sarebbe mai stato.
Era entrata in camera mia e mi aveva detto soltanto:
“Mia sorella ha avuto un incidente d'auto.”
Ed io l'avevo tenuta mentre piangeva.
Ero la sua migliore amica, che altro avrei dovuto fare, se non quello?
Eppure, c'era altro.
Avevo paura che se ne stesse accorgendo, perché a volte mi guardava in modo strano, come se sapesse che avevo un segreto.
Non potevo più starle accanto senza dire niente, ma non potevo neanche raccontarle di quel mio tremendo segreto.
Non si poteva.
Una cosa come quella, in un paese piccolo come il nostro, non si poteva dire e basta.
Era una di quelle cose che andavano seppellite dentro il proprio cuore e soffocate, una di quelle cose da sotterrare.
Come una mina inesplosa.
La verità sarebbe rimasta dentro di me, sepolta, nascosta, taciuta.
Ma c'è un problema con le mine.
Prima o poi, anche quelle sepolte bene, tendono a saltare in aria.


“Callie.”
Aprii l'armadietto, per fortuna sapevo quale era il suo, e presi i libri per le classi della giornata. Per fortuna erano le stesse che avevo io.
“Callie, ci sei?”
Mi resi conto solo in quel momento che stava dicendo a me.
Giusto, pensai. Oggi tu sei lei.
“Aria” sorrisi, abbassando lo sguardo per incontrare il suo. “Come stai?”
“Tutto ok” scrollò le spalle. “Come mai non sei venuta con me e papà?”
“Oh, mi dispiace. Mi ha accompagnato una mia amica” inventai su due piedi. “Mi sono dimenticata di avvertirti, scusami.”
“Non fa niente. Mamma mi ha detto che eri già andata via, dopo che sono scesa al piano terra” mi sorrise. “Ci vediamo stasera a casa.”
“D'accordo. E scusami ancora.”
“Dai, non c'è problema” mi sorrise. “L'importante è che tu sia a scuola” scherzò. “Non vorrei che ti perdessi per sbaglio una lezione di storia medioevale.”
Risi della sua battuta, guardandola andare via, spingendo la sedia a rotelle su cui era seduta.
La vita era ingiusta.
Un incidente, in un secondo, cambia tutto il resto della tua vita.
No, la vita di Calliope non era affatto una vita semplice. Forse avevo giudicato troppo in fretta.
“Ehi, senti” mormorò avvicinandomisi. “Devi dire al tuo fidanzato di mollarmi un secondo, ok? Mi segue ovunque” si guardò attorno come se si aspettasse di vederlo sbucare da un momento all'altro dietro di sé.
Ridendo, chiusi l'armadietto e mi voltai verso di lei.
“Che ti aspettavi? Siamo la coppia più popolare del liceo. Se non stessimo sempre insieme, la gente inizierebbe a farsi seriamente due domande a riguardo entro i primi due minuti.”
“Beh, sì, ma io non lo sopporto. Cioè, bello quanto ti pare, ma deve sempre starti appiccicato? Con il braccio attorno alle spalle e l'aria spavalda? Io mi sentirei soffocata.”
“Andiamo, non farla più tragica di quello che è” risi di nuovo, mentre ci avvicinavamo alla nostra prima classe.
“Ok, ma se prova a baciarmi che faccio?”
Alzai gli occhi al cielo, vedendolo avvicinarsi a noi.
“Non ci proverà” mormorai.
“Ma se ci prova?” sussurrò di rimando.
“Non lo farà” ripetei, sospirando. “Ok, sistemo io questa cosa prima che tu faccia capire a tutti che dentro quel corpo favoloso non ci sono io. Andiamo” le dissi, indicandole un'aula che di solito rimaneva vuota. “Fagli cenno di seguirci lì dentro.”
Lei fece come le avevo chiesto, in modo molto meno sottile di come avrei fatto io, ma d'altra parte non è che potevo pretendere più di tanto.
Era pur sempre Callie Torres con cui avevo a che fare.
Quando entrò, un paio di secondi dopo di noi, io mi ero seduta sulla cattedra e lei sulla sedia di un banco della prima fila.
Derek guardò con aria confusa prima me e poi lei.
“Che sta succedendo?” le chiese.
“Arizona mi ha detto la verità” gli dissi, spiazzandolo non poco.
Gli occhi di Callie – cioè i miei – si ingrandirono quasi fino all'inverosimile.
Lui si voltò di nuovo verso di lei, che fu veloce a fingere un'espressione neutra. Si schiarì la voce, fingendo sicurezza.
“Già. L'ho fatto. Le ho detto tutto quanto.”
Lui si voltò di nuovo verso di me.
Vidi Callie, dietro le sue spalle, guardarmi con la fronte corrugata, scuotendo la testa, quasi nel panico.
“Quindi le cose stanno così” continuai, guardando Derek. “Non potete più fare finta di baciarvi davanti a tutti” gli comunicai. “Vi potete tenere per mano e continuare a fare finta di stare insieme, ma niente baci.”
La mascella di Callie – cioè, la mia...quello che era – toccò quasi terra.
Lui mi guardò con aria divertita, poi si voltò.
“Callie Torres?” chiese, ridendo. “Davvero? Ecco perché per due anni non mi hai voluto dire la ragazza per cui avevi una cotta. Avrei dovuto capirlo, però. Le fissavi sempre il sedere quando ci passava accanto in corridoio.”
“Non lo facevo” protestai, incredula che se ne fosse accorto.
Lui si voltò verso di me, la fronte corrugata.
“Voglio dire, lei non lo faceva” mi corressi, distogliendo lo sguardo.
Si voltò ancora una volta verso Callie – cioè me...lasciamo stare – e rise di nuovo.
“Beh, ok. Allora vi lascio, immagino che vorrete un po' di tempo da sole prima delle lezioni” con un'ultima risata, se ne andò, scuotendo la testa.
Appena la porta di fu chiusa, lei scoppiò a ridere.
“Lui era la tua barba?” chiese incredula. “Derek? Derek Shepherd è la tua barba?”
“Che c'è di strano?”
“Che di solito i ragazzi che vengono usati per copertura dalle ragazze popolari e belle come te, glielo lasciando fare perché sono bruttini o poco popolari, oppure, hanno bisogno di una copertura anche loro.”
Si accorse del mio sorrisetto, immagino, perché lo capì all'istante.
“No” mi guardò, incredula. “Sul serio?”
“Jackson Avery. Gli ho sempre detto che, secondo me, sono una coppia molto carina.”
Lei tornò seria, riflettendo su quello che era appena successo.
“Quindi a te piacciono le ragazze” osservò in tono neutro.
Io sospirai, alzandomi dalla cattedra.
“Forse.”
Lei nascose un sorrisetto.
“E mi guardi il sedere quando cammino” osservò. “Quindi mi trovi attraente?”
“Diciamo solo” anche io feci del mio meglio per nascondere un sorriso, indietreggiando verso la porta dell'aula. “Tu potrai non dare una toccatina” feci un gesto in direzione del mio corpo, dentro cui al momento c'era lei. “Ma io quasi sicuramente ci farò un pensierino” conclusi, indicando il suo, dentro cui c'ero io.

Quando entrai in classe, pochi istanti dopo, Teddy mi buttò i libri a terra.
Io la guardai negli occhi, l'aria di sfida, mentre lei mi osservava con aria beffarda.
“Hai tre secondi di tempo per raccogliere i miei libri da terra, prima che racconti all'intera scuola come è andata davvero la tua prima volta, invece della versione in cui Mark Sloan è il ragazzo migliore della storia dell'Universo. Ma, ehi, scommetto che la versione in cui Addison accende candele alla vaniglia in tutta la stanza piacerebbe a molte più persone.”
La vidi fissarmi con un'espressione a metà tra lo stupito e lo spaventato.
“Uno. Due.”
Si abbassò, raccogliendo i miei libri e porgendomeli indietro.
“Ti ringrazio” le dissi, prendendoli ed avvicinandomi al mio posto.
Quando pochi istanti dopo Callie entrò in classe, vidi Teddy avvicinarsi a lei a passo di marcia, chiedendo probabilmente spiegazioni sul perché quella cosa, che sapevo solo io, era arrivata fino alle orecchie di Callie Torres.
“Cosa?” quasi urlò, facendo voltare metà della classe verso di lei.
Risi della sua bassissima discrezione, vedendola guardare nella mia direzione. Si scusò con la bionda, marciando verso di me.
“In piedi” mi disse a denti stretti.
“Sissignora” sorrisi, alzandomi e fronteggiandola.
Senza aggiungere una parola, si voltò, facendosi seguire in corridoio.
“Che fine ha fatto 'comportiamoci come farebbe l'altra'?” chiese, visibilmente poco contenta del mio comportamento.
Scrollai le spalle, sorridendole.
“Devi imparare a farti valere, ti sto dando una mano.”
“Raccontando storie che io non dovrei conoscere?” chiese, incredula. “La tua migliore amica pensa che tu abbia raccontato a mezza scuola del fatto che la sua prima volta è stata con una ragazza, spiegami come quello è successo!”
“Calmati, ok?” mormorai, cercando di farle abbassare la voce. “Nessuno mi ha sentito. Spiegale che ho origliato una conversazione mentre eri al telefono con lei.”
“Vuoi dire che io ho origliato, mentre tu eri al telefono con lei.”
“Quello che è.”
Lei sospirò, rimanendo in silenzio per qualche secondo, fissandomi con aria seria.
“Addison e Teddy?” si decise a chiedere. “Sul serio?”
“Già. Io le chiamo Teddison.”
“Non dirmi che Mark e Alex...”
“No, loro sono solo molto felici di beccarsi la popolarità che viene dal frequentare gente come Teddy ed Addison.”
Sospirò, passandosi una mano sul viso.
“Non so quanti altri segreti posso sopportare, prima che mi esploda il cervello.”
“Preparati” la avvertii. “Perché se devi stare nel mio corpo ancora a lungo” la informai “ce ne saranno molti altri nel prossimo futuro.”
“Forse dovremmo aggiornarci. Ne sono successe di cose in due anni. Se diciamo qualcosa di sbagliato o se non sappiamo qualcosa che dovremmo, sarebbe sospetto.”
“E allora? Nessuno potrebbe mai arrivare ad indovinare quello che ci sta succedendo” le dissi, scrollando le spalle. “Ci vediamo dopo le lezioni. Devi riportarmi a casa.”
“Ok. Ehi, aspetta, la gente ti vedrà con me. Questo sarebbe male per la tua reputazione” mi fece notare.
“Non mi interessa. A casa in autobus non ci torno, poco ma sicuro.”

“Sei stata strana oggi.”
“Cosa?” risposi distrattamente, voltandomi verso la ragazza alla mia destra.
“Sei distratta, non hai preso appunti, non mi stai ascoltando. Che c'è che non va in te?”
Cercai di pensare a come avrebbe risposto Callie ad una domanda del genere. Poi mi venne in mente un modo per eludere la domanda. Infondo, si supponeva che Miranda Bailey fosse la mia migliore – nonché unica – amica, giusto?
“Penso che tu sappia cosa c'è che non va in me” ripetei le parole che Callie aveva detto a me quella mattina.
“Callie” sospirò, scuotendo la testa e prendendomi una mano con la sua. “Per la milionesima volta, non c'è niente di sbagliato, in te” sussurrò. “Devi smettere di pensare che ci sia qualcosa che non va in quello che sei.”
Un attimo, stava sul serio dicendo quello che pensavo stesse dicendo?
“Certo, magari ho pensato che fossi un pochino matta quando mi hai detto chi era la persona che ti piaceva. E con 'un pochino matta' intendo che ho pensato che fossi una pazza furiosa. Ma il fatto che tu sia attratta dalle ragazze...”
“Che cosa?” alzai la voce, facendo voltare tutta la classe nella mia direzione. Per fortuna il professore dell'ora successiva non era ancora arrivato.
“Si può sapere che ti prende oggi, Callie? Sapevi che io ho pensato che fossi pazza fin dalla prima volta che mi hai detto di esserti presa una cotta per Arizona Robbins.”
“Che cosa?” parlai ancora più forte della prima volta, vedendo Addison alzarsi e venire nella mia direzione.
Vano fu il debole tentativo di Teddy di fermarla.
“Che hai oggi, Torres? Sei più fastidiosa del solito” mi disse.
Io la ignorai, continuando a fissare la Bailey con aria perplessa.
“Da quanto tempo va avanti questa cosa?” domandai.
“Non lo so. Un anno, forse?” mi chiese, guardandomi come se mi stesse crescendo un'altra testa sulla spalla sinistra.
“Pronto? Mi hai sentito, perdente?”
“Un anno? Cavolo. Come ho fatto a non rendermene conto per un intero anno?” domandai, scuotendo la testa. Poi mi resi conto della sua espressione. “Voglio dire lei. Come ha fatto lei a non rendersene conto?”
“Forse perché è così presa da se stessa e da Derek capelli-perfetti Shepherd che non sa nemmeno più la capitale dello Stato in cui viviamo?”
“Ehi, sono proprio qui davanti a voi” Addison cercò di attirare la nostra attenzione.
“Ok, per tua informazione, so benissimo che la capitale è Tallahassee. Sono più intelligente di quello che voi secchioni sembrate pensare.”
“Io stavo parlando della Robbins.”
Osservai il suo sguardo sbigottito.
“Giusto” mormorai. “Comunque, un anno è un sacco di tempo.”
Ah! Parlavo io, che da quando avevo quattordici anni, per tre interi anni, non avevo mai avuto un solo pensiero che non ruotasse intorno a lei.
“Puoi smetterla di ignorarmi? Sono proprio davanti a te, perdente.”
Sospirando feci cenno a Miranda di aspettare un secondo, voltandomi verso Addison.
“Senti, mettiamo subito le cose in chiaro, regina della Passivo-Aggressività. Il fatto che tu abbia smesso di parlarmi solo perché lo ha fatto Arizona, non ti rende migliore di lei e non ti dà il diritto di prendermi in giro. Perché quindi tu e la tua fidanzata non provate a crescere e lasciate in pace me e Miranda, che stavamo cercando di avere una conversazione adulta? Ti ringrazio.”
Mi voltai verso una Bailey sempre più stupefatta dal mio comportamento.
“Allora” le dissi. “Dove eravamo?”

Mi sentii afferrare per un braccio e trascinare dentro uno dei bagni.
“Che stai facendo?”
“No, tu che stai facendo” mi disse, sbattendosi la porta alle spalle.
“Non so di cosa stai parlando.”
“Senti, a me non importa se distruggi tutte le tue amicizie, ma sappi che non è me che Addison e Teddy odieranno, ma te. Perché, fosse l'ultima cosa che faccio, Arizona, mi riprenderò il mio corpo e la mia vita.”
“Credi che io non lo voglia?”
“E allora perché stai approfittando di questa situazione per distruggere la tua vita?” urlò contro di me.
“Perché così sarò libera” risposi, alzando la voce a mia volta. “Libera dal dover essere popolare, dal dover tenere per mano Derek, dal dover fingere di non essere chi sono. Sarò libera da questa vita che non voglio vivere” conclusi, rendendomi conto troppo tardi di quanto le avevo appena lasciato capire su di me.
Dopo che le parole fecero presa, strinse le mie mani tra le sue.
“Non ti serve distruggere la tua popolarità per essere te stessa. Puoi essere chiunque tu voglia, Arizona.”
“Beh, io non so chi voglio essere. Ma, chiunque sia, non sono ancora quella persona.”
“E allora fai tutto ciò che puoi per diventarla” mi disse pacatamente.
Sospirando, mi allontanai da lei.
“Andiamo, non vedo l'ora che questa giornata finisca. In teoria, domani dovremmo risvegliarci nei nostri corpi, se le cose vanno come in 'Freaky Friday' e tutto questo sarà solo un brutto, orribile ricordo.”
“Già. Un ricordo che ci costerà un sacco di soldi spesi in anni ed anni di psicoterapia” concordò, aprendo la porta per me.

Me ne stavo in camera di Callie, cercando di non badare alle urla.
Avevo finalmente capito perché se ne andava via e si metteva le cuffie.
Non era così facile come sembrava, riuscire ad ignorare le liti.
Sentii bussare alla porta di camera mia. Cioè sua. Quello che era.
“Avanti.”
“Ehi” Aria entrò, richiudendosi la porta alle spalle e poi avvicinando la sedia a rotelle al letto su cui ero sdraiata. “Stasera non sembra che smetteranno di urlare” osservò, con la voce triste, distogliendo lo sguardo.
“Cerca di non ascoltarli” le dissi, tirandomi a sedere.
“Un po' difficile, visto il tono di voce che stanno usando.”
“Ma tu non badare a quello che dicono, fai finta che stiano litigando su come ordinare la pizza o qualcosa del genere” le consigliai.
“Callie, litigano sempre per le stesse cose. I soldi per le mie spese mediche, i soldi per i lavori che hanno dovuto fare a casa perché io potessi muovermi, i soldi del divorzio” elencò, sospirando alla fine.
“Divorzio?” domandai, corrugando la fronte.
“Già. Te lo sei dimenticata? Sei stata tu a dirmelo, dopo aver origliato quella conversazione qualcosa come tre mesi fa. A questo punto non so quando succederà, visto che non si sono ancora decisi a parlarcene, ma lo faranno a giorni, presumo, a meno che non ci abbiano ripensato. Credo che papà se ne andrà di casa, ma potrebbe anche essere mamma, invece. Non riesce neanche più a guardarmi negli occhi da quando è successo.”
“Aria...sai che non è vero. I nostri genitori ti vogliono molto bene, farebbero qualsiasi cosa per te.”
“Forse. Ma tu sei l'unica persona che mi tratta ancora come prima.”
Io fui colta in contropiede. Di solito Callie era una persona particolarmente delicata e comprensiva per quel tipo di cose, ma nessuno sarebbe stato in grado di trattarla esattamente come faceva prima, eccetto forse, appunto, soltanto Callie.
“Sei mia sorella. Questo non cambierà mai.”
“Lo so” mi sorrise. “Me lo ripeti tutto il tempo. Sono felice che l'incidente non ci abbia divise, anche se, sai...ho sempre pensato che fosse colpa mia.”
“L'incidente?” chiesi, confusa. “Ma se non stavi nemmeno guidando tu.”
“No, non quello” rise appena. “Intendevo Arizona. Ne abbiamo parlato e so che non mi incolpi, ma devi ammettere che il tempismo è parecchio strano. Il giorno prima è la tua migliore amica e quando io smetto di camminare, lei, improvvisamente, smette di parlarti. La coincidenza del secolo, no?”
“Aria, non dirlo neanche per scherzo” la guardai con aria seria. “Arizona non ha smesso di parlarmi per colpa del tuo incidente, non farebbe mai una cosa del genere. Quello che c'era tra noi” tentai di spiegare “è complicato. Arizona voleva che io fossi qualcuno che non potevo essere, e questo alla fine ci ha allontanate.”
“Chi voleva che fossi?”
Scrollai le spalle, alzando gli occhi al cielo, immaginandomi Callie a rispondere a quella stessa domanda.
“Qualcuno popolare. Con vestiti di marca e borse firmate e scarpe col tacco. Senti, Arizona non conta più niente per me, ormai.”
“Sì, certo” rise di quello che avevo appena detto. “Per questo finiamo a parlare di lei tutte le sere. Lascia stare, Callie. Sai che a me non devi mentire. Io so quanto ti manca, tutti lo sanno. Si vede anche da chilometri di distanza.”
Rimasi spiazzata da quella frase, ma cercai di nasconderlo come meglio potevo.
Calliope apparentemente non era l'unica che stava riportando alla luce segreti che dovevano essere seppelliti.

“Mamma” attirai l'attenzione della signora Torres.
“Dimmi, tesoro” rispose distrattamente.
“Posso andare a dormire a casa di Arizona, stasera?”
Le avevo ripetuto al telefono un miliardo di volte che era una pessima idea, ma lei aveva insistito che era meglio stare nella stessa stanza, per sicurezza. Non voleva che la sua anima finisse per sbaglio nel corpo di qualcun altro mentre cercava di tornare dentro il suo.
“Arizona Robbins?” domandò lei, alzando gli occhi e fissandoli nei miei.
“Quante persone che si chiamano Arizona conosciamo?” scherzai, vedendo però i suoi occhi seri continuare a fissarmi. “Sì, mamma. Arizona Robbins.”
“Sono almeno due anni che non vai più da lei, pensavo aveste smesso di frequentarvi.”
“Già. Ma dobbiamo parlare di...di questo progetto per la scuola, quindi pensavamo che così è più comodo. Allora, posso andare?”
Scrollò le spalle. “Certo. Ti serve che ti aiuti a portare la tua roba da lei?”
“No, ho solo uno zaino, e a dire la verità è già pronto” sorrisi, sporgendomi in corridoio per prendere lo zaino ed uscendo di casa subito dopo averla salutata frettolosamente.
Quando entrai in casa mia, la prima impressione fu strana. Come se quel posto non mi fosse del tutto familiare.
“Callie” mia madre mi sorrise. “Siamo felici di averti con noi, stasera. Arizona ci ha detto che rimarrai a dormire. Era un bel po' di tempo che non venivi più qui da noi.”
Accennai un sorriso un po' forzato. “Era un bel po' che Arizona non mi invitava più. Ma adesso che lo ha fatto, non ho trovato un motivo per dire di no.”
Dopo averla salutata, salii verso la camera da letto in cui quella mattina avrei dovuto svegliarmi.
“Ciao” la salutai, chiudendomi la porta alle spalle. “Che stai facendo?”
“Cerco su internet informazioni su situazioni simili alla nostra.”
“Ah, adesso stai anche usando il mio computer, vedo.”
“Tranquilla, non ho toccato la tua preziosissima cartella con il materiale porno. È ancora tutto salvato sul tuo desktop.”
Io risi, lasciandomi cadere sul letto. “Puoi guardarlo se vuoi, basta che dopo non lo cancelli” le comunicai, togliendomi le scarpe.
“Qui non c'è niente di utile. Sono tutti o pazzi o ciarlatani.”
“Mi fa piacere. Noi in quale categoria rientriamo?” domandai, sedendomi di nuovo.
“Pazze, presumo, visto che non stiamo cercando di vendere niente a nessuno con questa storia, ma siamo seriamente convinte che stia succedendo.”
Risi, alzandomi in piedi. “Beh, è stata una giornata piena di emozioni ed io sono esausta, quindi me ne andrò a letto.”
Mi sfilai la maglietta, sentendola alzarsi di scatto dalla sedia.
“Che stai facendo?”
“Mi metto il pigiama” risposi, corrugando la fronte.
“Beh, vai in bagno a metterti il pigiama.”
“Calliope” risi della sua affermazione “è il tuo corpo” le feci notare. “Sarebbe inutile andarmi a cambiare in bagno, non è niente che non hai visto un migliaio di volte.”
Inspirò ed espirò lentamente. “Suppongo che tu abbia ragione. Andiamo a letto, allora.”
Fece il giro, mettendosi dall'altra parte del letto e prendendo il mio pigiama, cambiandosi a sua volta.
Quando ci sdraiammo dentro lo stesso letto, al buio, improvvisamente quell'idea del pigiama party non sembrava più così brillante.
“Vorrei davvero poter riavere indietro il mio corpo in questo momento” mormorai, forse sperando che non riuscisse a sentirmi.
“Perché proprio in questo momento?”
“Perché sei sdraiata accanto a me, dentro il mio letto e potrebbe essere l'unica volta che mi succede, ed io non posso vederti, posso solo vedere me stessa. Questa storia inizia ad essere davvero irritante.”
Lei rise, senza rispondere.
“Riavremo i nostri corpi indietro presto” mi disse, cercando di tranquillizzarmi.
Ma, se riavere indietro il mio corpo significava tornare a vivere la mia vita lontano da lei, quell'idea faceva tutto tranne che tranquillizzarmi, in quel momento.

“Ok, quindi la giornata di ieri poteva andare meglio” le dissi, guardando fuori dal finestrino.
“Decisamente. Ma non ci hanno scoperte, che è già qualcosa.”
“Sì, ma Teddy ed Addison hanno dei grossi sospetti sul fatto che qualcosa stia succedendo” le feci notare.
“Vero” concesse. “Ma, guarda il lato positivo, la buona notizia è che non indovineranno mai e poi mai di cosa si tratta.”
Stavamo andando a scuola. Svegliarci e scoprire di non essere ritornate normali non ci era piaciuto, ma ce ne eravamo dovute fare una ragione.
Estrassi un pacchetto di sigarette dal mio zaino, sigarette che ero stata costretta a rubare del mio stesso armadietto, e me ne misi una tra le lebbra, cercando l'accendino.
Lei la afferrò prontamente, aprendo il finestrino e gettandola fuori dall'auto.
“Ehi, stavo per fumarla quella” le feci notare.
“Già. Con le mie labbra e i miei polmoni. Ti ringrazio, ma non voglio un tumore alla bocca prima dei trent'anni, quindi niente sigarette finché non sei di nuovo nel tuo corpo.”
“Questo è assurdo” alzai la mano in cui stavo ancora tenendo il pacchetto quasi intatto.
Lei lo afferrò, gettando anche quello fuori dalla macchina, proprio come aveva fatto con la prima sigaretta.
“No. Fumare è assurdo. Quindi te lo ripeto, niente sigarette.”
Sospirai, lasciandomi cadere indietro sul sedile.
“Qualcuno mi uccida, non voglio vivere dentro questo corpo neanche un istante di più” mormorai, fingendo tono disperato.
“Signore e signori, Arizona Robbins. La Regina del Dramma” sussurrò, sorridendo.
“Ti ho sentita” le feci notare, incrociando le braccia al petto. “Calliope?”
“Sì?”
Continuai a guardare altrove.
“Eri la mia migliore amica.”
“Lo so” il tono era dolce, sicuro.
“Lo sei stata per anni ed anni, da quando ci hanno messo nella stessa classe alle elementari.”
“Lo so” rispose, il tono era diventato nostalgico e forse un po' sognante.
“E poi ho smesso di parlarti di punto in bianco senza motivo.”
“Lo so” adesso il tono aveva una nota triste, quasi arresa.
“Ma non ho smesso di parlarti perché tua sorella non può più camminare.”
“Lo so” ed ora, invece, il tono era tranquillizzante.
“Ho smesso di parlarti perché qualsiasi cosa tu stessi facendo, o dicendo, o pensando, ovunque fossimo, in qualunque momento del giorno, tutto quello a cui riuscivo a pensare ogni volta che ti vedevo, era baciarti.”
Quello la fece tacere a lungo.
“Questo non lo sapevo.”
“Ora lo sai.”
“Arizona, tu lo sai che per me era lo stesso, vero?”
“No” sospirai “non lo sapevo. Ma l'ho capito, adesso.”
“Pensi che riusciremo a sistemare le cose?”
Non capii se si stava riferendo allo scambio di corpi o al fatto che io e lei fingevamo di odiarci per non ammettere che ci piacevamo, ma in entrambi i casi, c'era una sola risposta che potevo darle in quel momento per riuscire a tranquillizzarla.
“Certo. In qualche modo faremo.”

Quando arrivammo a scuola, la prima cosa che mi venne in mente appena vidi lo striscione appeso all'entrata fu un'imprecazione.
“Devo andarci con Derek, non è vero?” domandò con triste rassegnazione, quando vide il mio sguardo posarsi sullo striscione del ballo d'inverno.
“Non devi fare niente, Calliope. La gente può pensare quello che vuole” scrollai le spalle, cercando di tenere a mente che volevo che quello che pensavano di me cambiasse.
Tuttavia, non ero preparata per quello che successe a quel punto.
“Ciao” mi si avvicinò mentre stavo prendendo alcuni libri dal mio armadietto. “Come stai?”
“Tutto ok, tu?” chiesi, cercando disperatamente di ricordarmi il nome del piccolo nerd che mi aveva appena rivolto la parola.
“Tutto a posto” mi sorrise. “Senti, volevo chiederti una cosa, in realtà. Pensavo che magari potremmo andare al ballo insieme.”
Io, dopo essermi chiesta per ben tre volte se per caso stesse scherzando o mi stesse prendendo in giro, scoppiai a ridere.
“Tu vuoi venire al ballo con me? Tu?” continuai a ridere.
Volevo scuotere il piccoletto per le spalle e chiedergli se per caso era cieco. Callie Torres era sexy in maniera allucinate e lui, lui sembrava un folletto.
“Callie sta scherzando” intervenne la ragazza con il mio corpo, avvicinandosi a noi. “Intende che sei suo amico, non riesce a immaginarvi come una coppia. Vero, Callie?”
“Questo è esattamente quello che intendevo” cercai di non scoppiare di nuovo a ridere, mantenendo un'espressione quasi seria. “Siamo amici. Credevo che tu pensassi la stessa cosa.”
Mi afferrò per un braccio, tirandomi in direzione dei bagni.
“Allora, vuoi spiegarmi che ti è preso?”
Scoppiai a ridere appena fummo sole.
“Ma lo hai visto? Quel tipo pensava di poter venire al ballo insieme a te. Insomma, sono sicura che è un tipo fantastico, ma tu sei così fuori dalla sua portata che è ridicolo.”
“Arizona.”
“No, sul serio. Tu sei bella, chiunque potrebbe dirtelo. E il folletto di cui non riesco a ricordare il nome, non lo è.”
Lei inspirò, sospirando subito dopo.
“George. E ti sarei grata se trattassi meglio i miei amici. A differenza tua, vorrei ancora averne qualcuno quando questa storia finisce.”
Cercò di mantenere un'espressione seria, ma potevo vedere che era divertita.
“Andiamo, so che le mie battute ti fanno impazzire” le sorrisi, muovendo le sopracciglia in modo suggestivo. “Ti dico io che possiamo fare” proposi. “Andiamo al ballo insieme. È semplice in realtà.”
Corrugò la fronte.
“Questo come può aiutarci a non farci scoprire?”
“Non ne ho idea. In nessun modo, credo. Il ballo è tra due giorni, spero di aver riavuto il mio corpo, per allora.”
“Quindi perché dovremmo andarci insieme?” domandò, ancora confusa.
Scrollai le spalle. “Perché, come ho detto, tu sei bellissima. Ed io non voglio andarci con Derek o chiunque altro, io voglio andarci con te.”
Continuò a guardami, perplessa.
La campanella la distrasse dalla nostra discussione.
“Ci vediamo dopo le lezioni, ok?” domandò, indietreggiando verso la porta.
“Calliope, no, aspetta.”
Lei si voltò, senza darmi modo di spiegare.
“Accidenti” mormorai una volta rimasta sola.
Avevo di nuovo rovinato tutto e non sapevo neanche cosa avevo fatto di male, quella volta.

Riuscii a trovarla durante la pausa pranzo, entrai in fila dietro di lei.
“Mi dispiace per quello che ho fatto” le comunicai. “Mi dispiace per quello che ho detto sul fatto che la tua vita è più semplice della mia, perché non era vero. E mi dispiace per come mi sono comportata dopo l'incidente di Aria.”
Lei non si voltò.
“Arizona...”
“No, ho capito. Sono stata un'idiota, ma se non mi dai mai una seconda occasione, non posso rimediare e non posso farti sapere quanto mi dispiace.”
Lei rise della logica assurda delle mie argomentazioni.
“Una seconda occasione” le dissi. “Solo una. Se brucio anche questa, non dovrai vedermi mai più, te lo prometto.”
“D'accordo” concesse con un sospiro. “Andiamo al ballo insieme.”

Quando sentii la porta aprirsi cercai di rimanere immobile e fare meno rumore possibile. Non potevo assolutamente farmi beccare in un bagno a fumare nel corpo di Callie. Soprattutto, non da Callie.
“Allora, stasera andiamo a quella festa in piscina?”
“Certo, perché no. Arizona?”
“Ehm, suppongo di sì.”
Ci fu un attimo di silenzio. “Che ti prende, di solito sei a favore delle feste.”
“Domani abbiamo scuola” fece notare lei, facendomi venire voglia di colpirmi la fronte con una mano. “Quindi anche meglio” aggiunse, probabilmente rendendosi conto che quello che aveva appena detto non suonava come qualcosa che avrei detto io.
“Ora ti riconosco” sentii la voce di Addison accompagnata dalla risata di Teddy.
“Dove avete detto che è questo posto?” domandò Callie.
“Casa di Derek? Non ti ricordi improvvisamente più dove è la casa del tuo ragazzo?”
Io, senza aspettare che rispondesse, uscii dalla cabina. Lei mi rivolse uno sguardo truce.
“Stavi fumando?” chiese dopo aver sentito l'odore che avevo addosso.
Mi avvicinai ad uno dei lavandini e, dopo essermi lavata le mani, le rivolsi un sorrisetto beffardo.
“Giuro che ti ucciderò.”
“Perché? Sei gelosa che abbia rubato la tua cabina?” le sorrisi di nuovo beffardamente.
“Giuro che appena riavrò indietro il mio corpo, ti farò passare la voglia di sorridere prendendoti a schiaffi.”
Io risposi semplicemente sorridendo, indietreggiando fino alla porta, dopo aver lanciato un'occhiata in direzione delle altre due ragazze, entrambe avevano un'espressione perplessa.
Percorsi il corridoio dopo aver visto la Bailey e la raggiunsi davanti al suo armadietto.
“Ehi, spero che tu sia in vena di festeggiamenti. Stasera andiamo ad una festa.”

“Questa è una pessima idea. Te l'ho detto fin dal primo momento e te lo ripeto adesso. È una pessima, pessima idea.”
Mi limitai a sorriderle e ad aprire la portiera dell'automobile, scendendo e richiudendola alle mie spalle. Feci il giro dell'auto e mi fermai davanti a lei, aprendo la portiera posteriore e guardandola con sopracciglio alzato.
“Non mi metterò in costume, se è quello che stai aspettando che faccia. E scommetto che neanche tu avrai il coraggio di andare fino in fondo con il tuo piano.”
Ok, quindi forse imbucarsi ad una festa in piscina con il corpo di qualcun altro non era stata la migliore idea. Ma il fatto che quello fosse il corpo di Calliope, rendeva il tutto molto più divertente. Sorrisi alla Bailey, richiudendo la portiera ed incamminandomi verso il retro della casa. Ero avvantaggiata dal fatto che ero stata lì un milione di volte, quindi sapevo perfettamente come fare per arrivare alla piscina senza essere notata.
Quando entrammo, ad attenderci trovammo musica a tutto volume ed una trentina di invitati, tutti del nostro liceo.
La individuai immediatamente tra la folla e mi avvicinai a lei con passo sicuro. La Bailey si affrettò a seguirmi, cercando inutilmente di fermarmi. Non aveva ben chiaro il significato di tutta quella storia, evidentemente. Eravamo lì proprio perché potessimo farci notare, mantenere un profilo basso non avrebbe aiutato la nostra causa.
“Dobbiamo parlare“ le dissi, raggiungendola. Lanciai un'occhiata al ragazzo al suo fianco. “Da sole.”
Lei, vedendomi, sgranò gli occhi. Il ragazzo al suo fianco mi lanciò un'occhiata, ma si allontanò di qualche metro senza opporre resistenza. Sapeva che ero in grado di badare a me stessa.
Lei era chiaramente sorpresa dalla mia presenza. Eppure sapeva che sarei stata lì, visto che mi ero presentata a casa sua - cioè mia - per aiutarla a scegliere cosa mettersi. Doveva per forza aver intuito che avevo intenzione di presentarmi lì anche io, ed ormai si era sicuramente abituata all'idea che stessi cercando di sabotare la mia stessa vita sociale. Perché? Beh, quello non lo sapevo nemmeno io. O meglio, stavo ancora cercando di negarlo a me stessa.
“Che diavolo ci fai qui? Sei per caso impazzita? Io non mi sono mai presentata ad una di queste feste in tre anni, non pensi che farlo adesso potrebbe dare qualche indizio ad Addison e Teddy che sta succedendo qualcosa? Te lo ripeto, per me sarà tutto finito quando ci scambieremo di nuovo i corpi, ma tu dovrai convivere con quello che stai facendo alle tue migliori amiche per il resto della tua vita. È la tua vita, la tua popolarità, quindi attenta. Quello che hai costruito in anni, potrebbe essere distrutto nel giro di pochi secondi.”
“Non hai ancora capito? È proprio quello che sto cercando di fare.”
“Ma perché?” domandò incredula.
Scrollai le spalle. “Ho capito recentemente che la popolarità non ha senso. Non mi ha permesso di fare ciò che volevo, mi ha solo impedito di fare qualcosa che la gente non avrebbe approvato. Quando sarò di nuovo nell'ombra potrò finalmente essere me stessa. Sarò libera” sussurrai.
Lei scosse la testa. “Beh, non sarò io a darti questa libertà. Non sarà con me dentro il tuo corpo che riuscirai a distruggere te stessa. Non ti lascerò la possibilità di incolparmi per quello che ti stai facendo, se vuoi riprenderti la tua vita fallo dopo che io mi sarò ripresa il mio corpo.”
Risi delle sue parole, una risata leggermente amara, non potevo credere che non avesse ancora capito. Avrei facilmente potuto ricattarla e farle fare quello che volevo, come avevo fatto con Teddy, Addison, Alex, Mark e Derek, ma sapevo che lei non se lo meritava. Non volevo farlo. Non con lei. “Non sono riuscita a trovare un vestito decente. Hai solo felpe e jeans larghi, nell'armadio.”
Lei aggrottò le sopracciglia e scosse la testa, confusa dal cambio repentino di argomento.
“E allora?”
“In più, non hai un costume da bagno.”
“Ho un sacco di costumi, viviamo a Miami, se te lo fossi scordato” mi fece notare. “Ed io faccio surf, quindi certo che ho un costume.”
“Lasciami riformulare. Non hai un bikini adatto ad una festa in piscina. Ho dovuto rubare uno dei miei stessi costumi quando sono venuta a casa tua – cioè, mia – oggi pomeriggio.”
La vidi sbiancare, una cosa che mi capitava di tanto in tanto quando non mi sentivo molto bene.
“Non puoi farlo” mormorò.
“Stai a vedere” le sorrisi, voltandomi verso la Bailey. “Miranda, puoi farmi un favore?”
Lei si avvicinò, annuendo, guardandosi intorno. Eravamo intruse, molti sguardi erano concentrati su di noi.
“Certo, dimmi.”
“Puoi reggermi questa?” dopo aver domandato, mi sfilai la felpa che stavo indossano, passandogliela. Lei la prese, cercando di non apparire troppo sbigottita riguardo quello che stavo facendo. Mi sganciai i jeans.
“Arizona, smettila” si avvicinò di un passo, entrando nel mio spazio personale.
“Perché? Vuoi farlo tu?” domandai, sussurrando a mia volta.
Credo che fu in quel momento che lo capì. Mentre facevo scorrere i pantaloni lungo le sue – mie...quello che era – meravigliose gambe e mi toglievo le scarpe che stavo indossando.
Capì che non stavo facendo tutto quello per sabotare la mia vita, e che in realtà stavo cercando di salvare quello della mia popolarità che potevo salvare. Quello che stavo cercando di fare, era darne una parte a lei.
Andare in giro con i ragazzi giusti al liceo, ti rende popolare.
Lo avevo imparato presto e ora stavo cercando di aiutare la ragazza che un tempo era stata la mia migliore amica ad avere una parte del mio potere per farmi perdonare tutte le stronzate che avevo fatto.
Passai i jeans alla Bailey, sorridendole.
“Vuoi provare a prendermi?” domandai, indietreggiando verso la piscina ed entrando in acqua.
Lei, dopo essesi tolta il pareo che le avevo fatto indossare, mi seguì immediatamente.
“Smettila” mi ordinò, avvicinandosi.
Io le sorrisi, i gomiti appoggiati a bordo piscina.
“Obbligami.”
“Non costringermi a farlo.”
“Non ci riusciresti.”
Lei si avvicinò di un passo ancora, ripetendo quello che le avevo detto io poco prima.
“Stai a vedere.”
Fece di nuovo un passo indietro e si assicurò di parlare a voce abbastanza alta.
“Vattene dalla mia festa, in questo preciso istante, o giuro che ti porto fuori io.”
“Non mi risulta essere la tua festa, in realtà. Questa non è casa tua o sbaglio?”
“Casa di Derek è come se fosse casa mia. Non se se lo hai sentito, visto che vivi in una caverna sulla cime di una montagna e scendi tra la gente solo per andare a scuola e fare provviste, ma io e lui siamo una coppia.”
“Vuoi che me ne vada? Costringimi” ripetei ancora una volta, sorridendole.
Lei mi afferrò per un braccio, tirandomi verso la scaletta. Mi divincolai dalla sua presa, guardandola con aria di sfida. Alzò il tono di voce, assicurandosi che ci sentissero.
“Ascoltami bene, piccolo scherzo della natura” mi disse, squadrandomi “forse non ti rendi conto in cosa ti stai immischiando, ma lascia che te lo spieghi. Se pensi di avere anche solo una possibilità di rovinare la mia vita, ti sbagli di grosso.”
“Sto solo cercando di pareggiare i conti.”
“E questo che significa?”
“Lo sai che significa. Non riesco più a guardarti in faccia, da quando hai rovinato la mia. Tutti i nostri amici sapevano quello che avevi fatto, quindi li hai obbligati a smettere di parlarmi, non è vero? Sei la persona più egoista ed egocentrica che io abbia mai conosciuto, sei cattiva con le persone che ti vogliono bene e non ti meriti niente. Tu rovini tutto quello che ti sta accanto, anche le cose più belle. E hai rovinato me.”
“Non cercare di dare la colpa a me, per quello” rispose, alzando la voce. “Ti sei rovinata da sola, e lo sai benissimo. Sei uno scherzo, sei una debole. Potevi avere tutto ed invece hai scelto di perdere tutti i tuoi amici solo perché così potevi essere te stessa. Beh, indovina un po'? A nessuno piace la persona che sei. E a nessuno potrà piacere mai.”
Buffo come entrambe eravamo molto più brave ad insultare noi stesse che l'altra. Per un sacco di tempo ci eravamo evitate perché non sopportavamo di urlarci contro, ma all'improvviso, quando eravamo sia sul lato del mittente che del ricevente, avevamo un sacco di cose da rimproverare a noi stesse.
I nostri più grandi nemici, eravamo noi.
Noi stesse eravamo la nostra rispettiva nemesi.
“Senti chi parla. Io sono intelligente e ho del talento, cosa che non si può dire per te. Cos'è che hai tu, esattamente?” risi, guardandomi attorno, verso la piccola folla che ci fissava. “Un fidanzato che non ti ama, degli amici che ti detestano e che fingono di sopportarti solo per non farsi dare il tormento e due migliori amiche che riescono a malapena a tollerare la tua presenza, ultimamente, perché le hai obbligate entrambe ad avere relazioni che non volevano solo perché così tu non saresti stata l'unica a non poter avere quello che voleva davvero.”
“Sempre meglio di te, che non hai amici affatto.”
Io ero la nemesi di me stessa. E lei era la sua.
“Sei stata un bravo burattinaio. Hai tenuto in mano i fili per anni e comandato tutti a bacchetta, ma neanche Mangiafuoco può rimanere sulla cresta dell'onda in eterno. È il momento di farti da parte e crescere, smetterla con le finzioni ed essere chi sei. Una nullità.”
“Ha parlato il niente fatto persona. Scommetto che la maggior parte delle persone a questa festa non conoscono il tuo nome. Tu non sei nessuno, non sei niente.”
Io mi sollevai sulle braccia, sedendomi sul bordo della piscina e poi alzandomi in piedi. Lei mi seguì velocemente, afferrandomi un braccio per impedirmi di andarmene.
“Ecco, brava. Fai quello per cui sei portata. Scappa. Come hai sempre fatto. Non sei mai stata capace di lottare neanche per le cose più importanti della tua vita. Tu lasci che la vita ti accada, senza mai fare niente perché possa succedere qualcosa che desideri davvero.”
“Per cose dovrei lottare? Per te? Per un'amicizia che neanche esiste più? Ti prego. Sei patetica, adesso.”
“Sai qual'è la verità? Tu non ti meriti di avermi al tuo fianco. Tu non ti meriti niente. E tutti sanno che hai avuto una cotta per me per tipo un secolo. Se preferisci raccontare la versione secondo cui mi sono allontanata da te perché sono snob, fai pure. Ma questa è la verità. Tu sei uno scherzo della natura.”
Ok, la ragazza davanti a me – che in quel momento aveva la mia faccia – stava insultando una delle pochissime persone al mondo di cui mi era mai fregato qualcosa. Non potevo permetterlo.
Mi districai con un gesto secco dalla sua presa sul mio braccio.
“Hai vinto, me ne sto andando. Così puoi andare a tradire il tuo ragazzo scopandoti la metà della squadra di baseball che non ti sei ancora fatta. So che sei a buon punto, quella di football e quella di basket sono al completo, giusto? Perfino i fidanzati delle tue due migliori amiche.”
Quanto doveva essere arrabbiata una persona per arrivare letteralmente a schiaffeggiare se stessa?
La risposta credo sia 'dannatamente arrabbiata' o qualcosa del genere.
Tutti rimasero in silenzio. La mia faccia voltata di lato ed il suono di quello schiaffo che ancora sembrava riecheggiare nell'aria.
Feci un passo avanti, sempre con la testa voltata di lato.
Potevo sentire gli occhi di tutti su di me, che aspettavano di vedere la mia reazione.
Appoggiai delicatamente le mani sulle sue spalle, spingendola dentro la piscina senza neanche guardarla – o meglio, guardarmi – in faccia. Poi, afferrando le mie scarpette da terra ed i miei vestiti dalla Bailey, me ne andai.

Uscii dal bagno, tentando di asciugarmi i capelli bagnati con un asciugamano. Mi paralizzai quando la vidi seduta sul mio...suo letto.
“Mia madre mi ha fatto entrare.”
Annuii, scrollando le spalle e sedendomi vicino a lei.
“Stai bene?”
“No. Mi si è spezzato il cuore.”
“Mi dispiace” mormorò, chiudendo gli occhi.
“Non per quello che hai detto tu. Era come” mi strinsi nelle spalle. “Era come se, una volta iniziato, non riuscissi a smettere di parlare. È venuto tutto fuori in un secondo, non sono neanche riuscita a rendermi conto di metà delle cose che stavo dicendo, nemmeno sapevo di pensarle metà di quelle cose, ma è così.”
“No, Arizona, non essere ridicola.”
“Non lo sono, è la verità. Ho giocato con la vita di persone che non se lo meritavano, non ho mai detto ad Addison e Teddy che, se non avessi avuto loro, non sarei sopravvissuta questi due anni. E non ho mai detto a te che il motivo per cui ho fatto questo enorme, gigantesco casino, è che avevo così paura di trovarmi a vivere improvvisamente senza di te, che allontanarmi è stato più facile.”
Sentii una sua mano sulla mia guancia farmi alzare il viso verso di lei.
“Se me lo avessi detto, se lo avessi saputo, sai che avrei provato a cancellare le tue paure. Ho sempre pensato che tu fossi l'unica persona al mondo che avrebbe potuto cancellare le mie.”
“Mi manchi tutto il tempo” mormorai. “Tu non hai idea di quanto vali, Calliope, non hai idea di quanto significhi per me e non hai idea di quello che farei per poterti riavere indietro adesso che ho capito che non riesco a stare bene così. Camminerei attraverso il fuoco, se servisse a farti tornare da me.”
“Ma io sono qui” mi fece notare. “Sono qui, insicurezze e tutto il resto. Quello che ho detto stasera, tu sai che l'ho sempre pensato. Di non meritarti, di non essere abbastanza, di non essere...niente. Ma sono comunque qui.”
“Tu non potresti mai essere niente. Tu vali il mondo, per me.”
Lei mi guardò negli occhi per un istante e poi, sospirando, chiuse i suoi. Si avvicinò di qualche centimetro e lo feci anche io. Ma poi si fermò e scoppiò a ridere.
“Non ci riesco. Non posso baciare me stessa.”
Arricciai il naso. “Hai ragione. È troppo strano.”
Così ci sdraiammo sul suo letto e parlammo per tutta la notte delle frasi che avevamo urlato l'una contro l'altra, scacciando via, una ad una, le nostre rispettive paure.

Mi svegliai, la mattina dopo, accorgendomi che ci eravamo addormentate tenendoci per mano. La guardai per un secondo e poi guardai me allo specchio.
Se fossi stata nel corpo giusto, in quel momento, l'avrei svegliata e l'avrei baciata fino a farla smettere di respirare.
Invece, la svegliai toccandole le spalla ed avvicinandomi per parlare piano.
“Calliope, dobbiamo andare a scuola.”
Aprì gli occhi lentamente, cercando i miei. Sentii una morsa allo stomaco.
“Guardare dentro i tuoi occhi è la cosa che mi sta mancando di più” sussurrai, cercando di non suonare troppo spezzata.
Quando arrivammo a scuola, entrambe con la mia macchina e lei al volante, io scesi per prima e mi avviai verso l'armadietto. Lei mi seguì due secondi dopo, entrando e dirigendosi verso il suo.
Feci appena in tempo ad estrarre uno dei libri quando qualcuno chiuse l'anta dell'armadietto al posto mio, facendola sbattere.
“Ho sentito che hai avuto un piccolo scontro con la mia ragazza, ieri sera.”
“Stanne fuori” gli risposi, aprendo di nuovo l'armadietto e prendendo un altro libro. Lui lo richiuse, di nuovo, con forza.
“Ti stai mettendo nei guai, Callie” mi disse piano, guardandosi attorno. “Arizona non perdona facilmente. Non ha mai perdonato Addison e Teddy perché possono stare con la persona che vogliono, almeno dietro una porta chiusa a chiave. E, per lo stesso motivo, non hai mai perdonato me.”
Sospirando, scossi la testa.
“Sei un amico troppo buono, Derek. E lei lo sa. Ti ha perdonato, non che ce ne fosse bisogno o che avesse il diritto di essere arrabbiata. Ma ha sempre pensato che il senso di colpa fosse l'unico motivo per cui tu, Addison e Teddy le state accanto. È il momento di voltarle le spalle e fare ciò che vuoi. Se ti vuole bene davvero, capirà. Altrimenti, la sua opinione non conta. Cercate solo di non abbandonarla del tutto.”
Lui scosse la testa, confuso. “Non potremmo mai. Arizona è amata. Nessuno è al suo fianco perché ha pietà di lei, soprattutto non io. E se non lo sa, allora stiamo sbagliando qualcosa.”
“Non lo sa” confermai, guardandolo con serietà. “Non lo ha mai saputo. Se pensava di potervi avere come amici anche senza ricattarvi, sarebbe venuta allo scoperto un sacco di tempo fa. Non è la popolarità quello che vuole e non è la perderla la cosa che teme. Ha paura che perdendola perderà anche voi. Ha paura di rimanere da sola.”
“Lei non è mai stata sola” mormorò. “Credi che non lo sapessimo? Noi tre lo abbiamo sempre saputo, Callie. Vediamo come la guardi. Quando qualcuno ama una persona come tu ami lei, ti lascia un segno. Qualcosa di profondo, di indelebile. Tu l'hai amata e questo in lei è qualcosa che non se ne andrà mai.”
Scossi la testa. “Ho paura di averla persa. Ho paura di aver perso tutti voi” la voce mi tremò, non riuscii ad evitarlo.
Per un secondo, un secondo solo, mi scordai di essere nel corpo di Callie.
Chiusi gli occhi, ritrovandomi avvolta nelle braccia di Derek il secondo successivo.
“Siamo stati orribili con te, questi due anni. Ma le cose cambieranno, da adesso in poi. Devi sapere che tu non sei da sola. E mi assicurerò che anche Arizona riceva lo stesso messaggio.”
Io ricambiai l'abbraccio, non sapendo cosa dire o fare, limitandomi a seppellire le mie paure, spacciandole per quelle di qualcun altro.

Il viaggio in macchina fu silenzioso, finché si fermò nel vialetto ed aspettò che dicessi qualcosa. “Credo di aver finalmente perdonato me stessa” mi voltai verso di lei. “Beh, non del tutto. Diciamo che è un inizio” continuai. “Ci sto provando, ecco.”
“Ci sto provando anche io.”
“Ma possiamo” esitai, cercando le parole giuste “provarci insieme?”
“Intendi, se possiamo provare, nel frattempo, a stare insieme?”
“Beh, io” scrollai le spalle. “Sì. Voglio...Vorrei stare con te. Credo di averlo reso abbastanza chiaro in questi tre giorni” rilasciai una piccola risata.
Guardai in basso, sperando di non aver peggiorato le cose. Sentii una mano appoggiarsi sulla mia e mi voltai, vedendola sorridere.
“Mi avrai al tuo fianco fin quando mi vorrai” mormorò.
Inspirai, cercando di calmare il battito impazzito del mio cuore.
“Non ho mai voluto baciarti come adesso. Ed io voglio baciarti tutto il tempo.”
La sua risata cristallina, finalmente, riuscì a calmarmi.
“Possiamo vederci dopo cena? Voglio portarti in un posto.”
“Certo” acconsentii immediatamente.

Rimanemmo a lungo in silenzio, senza dire una parola.
Non c'era bisogno di dire niente.
Avevamo capito che ciò che stavamo combattendo era dentro di noi. Affrontarlo insieme sarebbe stato più facile.
Le nostre mani erano intrecciate, sull'erba tra di noi.
“È bellissimo.”
“È uno dei pochi posti di Miami da cui si vede il cielo stellato.”
Sospirai, rafforzando la presa sulla sua mano. “Esprimeresti un desiderio se adesso vedessi una stella cadente?”
“Sì, credo che lo farei” rispose con una risata.
“E cosa chiederesti?”
“Non posso dirtelo. Non si avvererebbe.”
“Ma se non me lo dici, come posso fare in modo che tutti i tuoi desideri diventino realtà?”

Quando aprii gli occhi di nuovo, era quasi l'alba.
“Oh, cavolo. Calliope mi ucciderà se le faccio fare tardi a scuola” mormorai tra me e me, appoggiando una mano sulla spalla della ragazza al mio fianco, scuotendola delicatamente. “Ehi, Calliope, è mattina. Dobbiamo andare, siamo in ritardo sul coprifuoco di circa otto ore” le feci notare.
Lei aprì gli occhi per un istante, poi li richiuse ed infine sorrise.
“Possiamo saltare la scuola, per un giorno.”
Corrugai la fronte, sicura di aver sentito male.
“Stai scherzando? Cosa ti fa dire una cosa del genere?”
Lei, senza rispondere, aprì di nuovo gli occhi. Sorrise di nuovo. Poi, senza aggiungere neanche una parola, si avvicinò, baciandomi sulle labbra delicatamente.
Era il nostro primo bacio.
Fui paralizzata da quella sensazione. Perfino quando si allontanò, mi rimase un senso di totale leggerezza.
Riaprii gli occhi, perdendomi nel marrone dei suoi. Solo allora me ne resi conto.
“Non sei più dentro il mio corpo.”
“Infatti” rispose, con l'ennesima risata. Poi mi baciò di nuovo, velocemente. “Ed il desiderio che ho espresso si è avverato. Due volte” aggiunse. Mi baciò ancora, sempre in modo casto e veloce. “Ora tre” continuò a contare, baciandomi a stampo ancora una volta. “Quattro.”
Risi, alzandomi in piedi e porgendole la mia mano.
“Stiamo comunque andando a scuola, perché mi rifiuto di iniziare ad essere una cattiva influenza su di te già da adesso.”

Mi avvicinai a lei, che stava guardando qualcosa sul suo cellulare.
“Sono venuta a chiamarti, ma tua madre mi ha detto che eri già venuta a scuola” le dissi, guardando altrove.
“Ah, sì. Di solito vengo con Aria.”
“Già” risi brevemente, pensando che era buffo a quanto velocemente le cose stavano tornando come erano state fino a tre giorni prima.
Chiuse lentamente l'armadietto e rimanemmo in silenzio per diversi istanti.
“Allora, siamo ancora d'accordo per stasera?” mi decisi a chiedere.
“Se non hai cambiato idea.”
“Se tu non hai cambiato idea” ritorsi con un sorriso un po' forzato.
“Ehi, Arizona” mi sentii chiamare dall'altra parte del corridoio.
Lei scosse la testa. “Vai” mi sorrise. “Non preoccuparti. Ci vediamo stasera.”
“Otto e mezza, davanti casa tua” le sorrisi ancora una volta, poi mi allontanai, in direzione di Addison e Teddy.
“Hai visto?” chiese la rossa, un sorriso a trentadue denti.
Dei palloncini erano incastrati nell'anta del mio armadietto, un biglietto sporgeva tra le fessure. Mi avvicinai a passo spedito, staccando i palloncini e chiudendoceli dentro, aprendo il biglietto e leggendolo velocemente, fino alla firma di Derek. Poi alzai gli occhi.
“Non voglio più farlo. Non posso più fingere di non essere qualcuno che sono, mi dispiace. Questa storia è durata anche troppo a lungo, vi ho forzato a nascondervi ed è stato un gesto imperdonabile, quindi voglio scusarmi con voi. Ma non abbiamo bisogno della popolarità.”
Loro mi guardarono, confuse. Poi si scambiarono un'occhiata strana.
“Verrò al ballo con una ragazza, stasera. E forse dovreste farlo anche voi. Pensateci, ok? Quando sarete pronte, io sarò lì per voi. E spero che voi sarete lì per me, stasera.”
Senza aggiungere altro strappai il biglietto di Derek, incamminandomi verso la classe lo gettai nel primo cestino che vidi.

Scesi le scale con le scarpe in mano, per non fare rumore.
“Mamma, c'è il ballo della scuola, stasera.”
Lei era in cucina, con le spalle verso la porta.
“Lo so, tesoro. Hai sentito papà, ok? Massimo all'una e Derek deve scendere quando ti viene a prendere.”
“Mamma, non ci sto andando con Derek.”
Lei si voltò, vedendomi sulla soglia della cucina, un vestito celeste chiaro addosso ed i sandali con tacco tra le mani. Feci qualche passo dentro la stanza.
“Cosa? Come mai?”
“Tu lo sapevi, vero? Che io e lui non eravamo...” cercai di spiegarmi “...una vera coppia?”
Lei sospirò, avvicinandosi.
“Diciamo che avevo i miei sospetti, non vi ho mai visto comportarvi come una coppia, neanche una volta. Ma sono tua madre. Chi si comporta da coppia davanti a sua madre?”
“Qualcuno che è innamorato?” domandai, fissando il pavimento.
Lei sospirò di nuovo, prendendomi le mani tra le sue.
“È passato molto tempo. Tuo padre ti ha visto essere infelice per due anni ed ogni giorno ha desiderato potersi rimangiare quello che ti aveva detto.”
“So quello che ne pensa, ma io non posso cambiare quello che sono. Ci ho provato, davvero, per due anni non ho fatto altro che provare ad essere qualcuno che non sono. Ma non ci sono riuscita.”
“Sei ancora la stessa persona.”
Mi voltai di scatto verso la voce sulla soglia.
“La stessa persona che eri due anni fa. E cinque anni fa. E dieci, quindici. Diciassette. Sei la stessa persona che eri il giorno in cui sei nata, Arizona. Mi dispiace non averlo capito quando hai provato a spiegarmelo due anni fa.”
Scossi la testa, deglutendo. “Mi dispiace.”
“Non deve” si mosse nella mia direzione. “Da quel giorno, non è passato un solo istante in cui non mi sia pentito di quello che ho detto. Avrei voluto fare la cosa giusta, venire da te e avere il coraggio di rimangiarmi quelle parole.”
Non sei mia figlia. Questo non è il modo in cui ho cresciuto mia figlia.
“Ma due settimane dopo avevi smesso di parlare con Callie e ti eri trovata un ragazzo. Pensavo che avessi cambiato idea. Ma ora ho capito, so che non è qualcosa su cui si può cambiare idea.”
“Papà...”
“Avremo tempo per parlare” mi disse. “Ma non puoi fare tardi stasera. Mi è sembrato di capire che una ragazza ti sta aspettando.”
Mi baciò sulla testa, rivolgendomi un sorriso sincero che mi scaldò il cuore.
“Il coprifuoco rimane all'una, Arizona. E quando vai a prenderla usa le buone maniere che io e tua madre ti abbiamo insegnato e non azzardarti a suonare il clacson, ma scendi dall'auto e bussa alla porta.”
Annuii, le lacrime agli occhi. Lui, senza aggiungere altro, mi abbracciò.

Bussai alla porta, sentendomi il cuore in gola e lo stomaco sotto ai piedi.
“Arizona, entra” ad aprire la porta fu la signora Torres, un sorriso sulle labbra.
“Buonasera, signora Torres” la salutai, accettando l'invito.
“Quando Callie mi ha trascinato per negozi a cercare un vestito, oggi pomeriggio, non potevo credere che si fosse decisa ad andare al ballo. Non che non sia convinta che mia figlia potrebbe trovarsi un appuntamento ad occhi chiusi, ma alla vostra età non è facile. Ricordo che anche io avevo avuto difficoltà a trovare un accompagnatore.”
Sentii un tuffo al cuore. Che avrei dovuto dire? Quale era il mio ruolo, quella sera? Ero la sua autista? Sua amica? Deglutii.
“Per fortuna lei ha te. Qualcuno che conosciamo e di cui ci fidiamo. Il ragazzo nuovo di Aria ha fatto venire un infarto a Carlos, almeno tu non hai tatuaggi ovunque.”
“Signora Torres, non so cosa le ha detto Callie di preciso...”
“Sai, quando due anni fa avete smesso di parlarvi, così, di punto in bianco...” mi sorrise, scrollando appena le spalle. “Sembrava una rottura. Sembrava che vi steste lasciando. Così, dopo un po' di tempo, quando avevo capito che non avreste fatto pace tanto presto, mi sono decisa a chiederlo, senza giri di parole. Lei mi ha guardato come un piccolo cerbiatto abbagliato dai fari di un'auto. Pensava che mi sarei arrabbiata, si era preparata alle urla, mie e di suo padre, perché ci era così abituata a quel punto.”
Mi limitai a guardarla, senza dire niente.
“Io e suo padre le abbiamo detto che, quando litighiamo, non è mai su di loro. Litighiamo per i soldi e per il lavoro, a volte. Ma l'amore non è mai stato un problema. Io e Carlos amiamo Callie e Aria in un modo che niente potrebbe mai cambiare.”
“Signora Torres...”
“A casa per l'una. E niente alcolici” mi fece un occhiolino, prima di incamminarsi verso il piano superiore per dire a sua figlia di scendere.
I membri della famiglia Torres avevano la capacità di confondermi come nessun altro.
“Arizona” il signor Torres entrò nell'ingresso, sorridendo. “Callie ha detto che saresti stata qui alle otto e mezza. Sei qualche minuto in anticipo.”
“Lo so, ma non volevo farla aspettare.”
Lui mi sorrise, mettendosi le mani in tasca.
Quando la vidi scendere le scale, rimasi paralizzata. Senza parole e senza fiato.
Era bella, ma lei era bella sempre.
Però mi colpì così, all'improvviso, che lei aveva accettato di stare con me. Si era messa un vestito, decisamente un cambiamento drastico, ed aveva deciso di darmi una seconda occasione.
Ed io la amavo per quello.
Io la amavo e basta.
La amavo.
Lo capii in quell'istante, all'improvviso. Eppure, in qualche modo, lo avevo sempre saputo.

“Sono felice di poter finalmente vedere di nuovo il tuo corpo da questa prospettiva” scherzai, sorridendole. “Sei bellissima.”
“Anche tu. Stai risplendendo, stasera” rispose, facendomi arrossire leggermente.
Aprii la portiera per lei, quando arrivammo, chiedendole, per l'ultima volta, se ne fosse assolutamente sicura e dicendole che potevo aspettare per la nostra uscita in pubblico, se non era pronta.
Ma lei mi sorrise, dicendomi che era pronta da tempo.
Aprii la porta, entrando dopo di lei nella palestra decorata principalmente in bianco e argento. Qualche sguardo si voltò nella nostra direzione, in particolare quelli di un piccolo gruppo di persone tra cui Derek, Addison, Teddy e i rispettivi fidanzati.
Alzai una mano, il palmo rivolto verso l'alto.
Avevo parlato con Derek a lungo quel pomeriggio, le cose tra me e lui erano sistemate. E avevo detto quello che dovevo ad Addison e Teddy quella mattina a scuola.
Voltai la testa di lato, incontrando i suoi occhi e sorridendole, cercando di rassicurarla.
Sentii la sua mano posarsi sulla mia, intrecciò le nostre dita e ricambiò il sorriso.
“Ti va di ballare?” mormorai.
“Certo” rispose immediatamente.
Ci spostammo verso la pista, rimanendo abbastanza in disparte. Ignorammo gli sguardi che si posarono su di noi.
“Grazie per avermi dato un'altra occasione” le dissi, appoggiando la mano destra sulla sua spalla e la sinistra sul suo fianco.
Lei fece la stessa cosa, avvicinandomi e sorridendo ancora di più.
“Grazie a te, per aver combattuto perché te ne dessi una.”
Rimanemmo abbracciate, muovendoci a tempo di musica, seguendo le note della canzone d'amore che stava riecheggiando nella sala.
Chiusi gli occhi e mi resi conto che per la prima volta non mi importava affatto quello che avrebbero pensato gli altri o cosa sarebbe successo il giorno dopo a scuola. Per la prima volta, volevo solo essere me stessa.
Eravamo disposte finalmente a rischiare, per poter essere felici.
Avevamo superato le nostre paure e sconfitto le uniche persone che si erano messe tra noi e quella felicità che pensavamo di non poter mai riuscire a raggiungere.
Avevamo sconfitto le nostre nemesi. Avevamo sconfitto noi stesse.




Qualsiasi sia il vostro sogno, non permettetegli mai di tenervi ancorate a terra. Lasciate invece che vi aiuti a volare.
Un abbraccio,
Francesca.



Ritorna all'indice


Capitolo 53
*** La prima volta che ci siamo viste ***


Mi scuso per l'imperdonabile ritardo. Buona lettura!

Avvertimenti: -



La prima volta che ci siamo viste


Quando mi sedetti, guardandomi attorno, pensai che forse avrei potuto abituarmi a vivere a Los Angeles. C'era sempre il sole, a differenza di Seattle.
Le persone avevano sempre il sorriso sulle labbra, c'era più allegria. Un bel cambiamento rispetto all'atmosfera grigia che avevo lasciato a casa.
Avevo bisogno di cambiare aria per un po', e quello sembrava essere un ottimo cambiamento.
Avevo accettato un lavoro in una clinica privata. Il fatto che fossero avanzatissimi nella ricerca e nella sperimentazione mi aveva decisamente conquistato, come aveva fatto con Addison qualche anno prima.
C'eravamo date appuntamento in un bar a pochi passi dalla clinica, per prendere un caffè insieme prima del lavoro, ma lei era in ritardo.
Così avevo preso un cappuccino e mi ero seduta ad uno dei tavoli, aspettando tranquillamente il suo arrivo. Mi sentivo rilassata per la prima volta da mesi. Alla fine, il fatto che la mia sfuriata a Webber fosse culminata in un licenziamento si era rivelata una cosa positiva.
Fu proprio mentre pensavo a quello che la vidi, seduta da sola. Una donna dagli occhi chiari ed i capelli biondi era seduta ad un tavolo sistemato nell'angolo del locale, anche lei con in mano il suo caffè.
Per un secondo mi chiesi se fosse davvero una buona idea iniziare a fare figuracce nelle vicinanze della clinica in cui dovevo lavorare, ma giunsi alla conclusione che quella donna era semplicemente troppo bella perché non provassi a parlarle.
Così mi alzai, andando nella sua direzione.
“Mi scusi, questo posto è libero o sta aspettando qualcuno?”
Lei rimase immersa nei suoi pensieri, la testa voltata di lato. Poi sembrò accorgersi che stavo parlando con lei.
“Oh, dice a me?” sorrise, voltando la testa nella mia direzione.
“Già” le rivolsi un sorriso, forse un po' impacciato, ma che non falliva mai.
“No, non sto aspettando nessuno, si sieda pure” fece cenno verso la sedia davanti a sé, ricambiando il sorriso. “Non mi ero resa conto che fosse così affollato, questa mattina.”
Mi guardai attorno, il locale era quasi vuoto, eccetto cinque o sei clienti, oltre noi. Per un bar come quello, sei persone erano pochissime.
“Infatti non lo è” risposi, sempre con un mezzo sorriso. “Ma io ero seduta da sola e lei era da sola, così ho pensato che magari potevo farle compagnia.”
Corrugò appena la fronte. La mia osservazione sembrava averla colta di sorpresa.
“Non sono una stalker, se è di quello che ha paura. Sono nuova in città e qualche amicizia mi farebbe comodo.”
“Davvero?” sorrise, mettendo in mostra due fossette che erano probabilmente la cosa più adorabile che avessi mai visto. “Quando è arrivata?”
“Meno di una settimana fa. Ho iniziato da due giorni un nuovo lavoro.”
“Che lavoro, se posso chiedere?”
“Sono un medico, chirurgo ortopedico per la precisione. Ho accettato un lavoro nella clinica privata qui vicino, non so se la conosce” buttai lì casualmente.
“La conosco molto bene” intervenne immediatamente. “Sia come medico che come paziente.”
“È un medico anche lei?” domandai, perplessa. Poi mi resi conto che forse la domanda giusta era un'altra. Era una paziente anche lei?
“Arizona Robbins” tese una mano nella mia direzione. “Chirurgia pediatrica. Non lavoro più da circa un anno, però.”
Afferrai la mano delicatamente. “Callie Torres. Come mai?”
La vidi di nuovo corrugare leggermente la fronte.
“Non te ne sei accorta sul serio, non è così?”
“Accorta di cosa?”
Lei scosse la testa, ridendo appena e cambiando velocemente argomento.
“Allora, cosa ti ha spinta a trasferirti qui?”
“Avevo bisogno di cambiare, diciamo. Volevo rimanere ad ovest, e qui a Los Angeles lavora la mia migliore amica, quindi ho pensato che era un buon posto per un nuovo inizio. In realtà, lavora alla clinica da un paio d'anni, forse la conosci. Addison Montgomery.”
“Aspetta, Addison mi ha parlato di te. La donna che ha creato cartilagine a partire dalla gelatina, giusto?”
“Quella sarei io” confermai con una piccola risata.
Lei annuì, sorridendo. Mi accorsi che stava continuando a tenere la testa voltata di lato, lo sguardo perso verso qualcosa alla sua destra. Mi chiesi se stessi sbagliando qualcosa, visto che non mi aveva ancora praticamente guardato in faccia. Eppure l'avevo fatta ridere, mi ero presentata, anzi, si era presentata lei. Quindi la spiegazione più semplice era che non fosse attratta da me.
Forse, se me ne andavo in fretta, potevo far finta di non averci mai voluto provare con lei.
“Beh, direi che per me è ora di andare a lavoro. Non vorrei fare tardi almeno per la prima settimana, quindi credo che andrò. È stato un piacere conoscerti e mi scuso per il disturbo.”
“No, non mi hai affatto disturbato, al contrario, mi hai tenuto compagnia” sorrise, prendendo la borsa dalla sedia accanto a quella in cui era seduta. “Se vuoi possiamo andare alla clinica insieme, ma dovrai avere un po' di pazienza e rischio di farti fare tardi.”
Si alzò lentamente, appoggiando le mani sul tavolo e cercando il giusto equilibrio. Poi prese il suo caffè. Afferrò la tazza al terzo tentativo, dopo averla mancata per due volte.
Corrugai la fronte.
“Non puoi vedere.”
Lei strinse leggermente gli occhi, facendo una piccola smorfia con le labbra.
“Oh, cavolo, mi dispiace. Non avevo assolutamente intenzione di dirlo ad alta voce.”
Lei rise del mio essere così impacciata, sistemandosi la borsa su una spalla e facendomi cenno di precederla verso la cassa. Mi chiesi se avessi dovuto porgerle la mano o qualcosa del genere, ma mi detti subito della stupida, dicendomi che se avesse avuto bisogno di qualcosa avrebbe chiesto e che, in ogni caso, era lì da sola prima che arrivassi io.
Arrivata alla casa porsi una banconota alla cameriera, indicando entrambi i nostri caffè. Lei mi porse lo scontrino, facendomi il resto. Arizona fece un passo verso la cassa.
“Ho pagato per entrambe” le dissi, cercando di non far trasparire il mio essere completamente imbranata dal mio tono di voce.
“Perché non posso vedere?” chiese, colta in contropiede, ma con un sorriso.
“No. Perché mi hai fatto compagnia, quindi mi sembrava il minimo. Vogliamo avviarci verso l'uscita?” domandai, pensando che fosse meglio quello piuttosto che toccarla e condurla verso la porta.
Non volevo che si sentisse come se stessi cercando di forzarla. Lei annuì, precedendomi. Da come si muoveva era chiaro che conosceva quel posto a memoria.
“In più, sto contando sul fatto che il mio essere gentile mi faccia riguadagnare i punti che ho perso con la frase idiota di poco fa e che quando mi offrirò di lasciarti il mio numero accetterai e deciderai di chiamarmi.”
Lei continuò a camminare, conoscendo quella strada molto meglio di me. Aveva un'espressione perplessa, quasi incuriosita dalle mie parole.
“Non sono più molto brava a capire queste cose, da quanto non posso più vedere il viso della persona che mi parla, ma si direbbe che tu ci stia provando con me.”
“Ammetto che questa impressione potrebbe non essere del tutto scorretta.”
“Ah, in tal caso, non saprei. Suppongo che prima dovrei farmi dire da qualche mia amica se sei alla mia altezza” scherzò, ridendo.
“Posso rispondere io a questo” la informai. “No. Non sono alla tua altezza. Sei una donna molto bella e fai il chirurgo pediatrico. Pochissime persone sarebbero alla tua altezza. Però non sono tanto male neanche io, quindi chissà, un giorno potresti darmi una possibilità. Intanto io il mio numero te lo scrivo” la informai, tirando fuori dalla borsa una penna ed un pezzo di carta. “Magari puoi fartelo leggere dalla tua amica, se dovesse dirti che sono anche solo vagamente alla tua altezza” proposi, mentre scrivevo velocemente il mio numero su un pezzo di carta. “Ecco” le dissi, porgendoglielo. Lei allungò una mano, fino ad incontrare la mia ed afferrare il foglio.
“Sì, hai ragione. Credo che lo prenderò, in caso le cose dovessero andare in quella direzione.”
Eravamo all'entrata della clinica.
“Posso accompagnarti a pediatria, se vuoi. Sono qualche minuto in anticipo.”
“Te l'ho detto, non lavoro più da un anno, ormai. Da quando ho perso la vista. Non si possono operare bambini se non vedi dove stai tagliando. In realtà sono qui per l'ennesima visita. Il mio oculista si è convinto che riuscirò a recuperare la vista, nonostante sappia benissimo che è impossibile.”
Esitai, ma poi decisi di farmi avanti.
“Se posso chiedere, cosa è successo?”
“Un intervento andato storto. Soffrivo di miopia e non riuscivo più ad operare con la stessa velocità e la stessa efficienza di prima, quindi ho accettato di sottopormi ad un intervento di lasik.”
“Chirurgia con raggio laser?” domandai. “Un po' drastica come scelta.”
“Come ho detto, volevo essere in grado di risolvere il problema una volta per tutte e tornare ad operare come prima. Qualcosa è andato storto, però.”
“Cosa è successo?”
“La tizia che mi ha operato ha bruciato i fotorecettori. Quindi adesso non sono più in grado di vedere.”
Non risposi, mi limitai ad un'espressione di confuso rammarico. Era un intervento rischioso, come poteva un chirurgo sbagliare su scala così amplia?
“Spero che tu l'abbia denunciata.”
“L'ho fatto. Lei ha avuto un richiamo per negligenza ed io ho speso milleduecento dollari di avvocato.”
“Non deve essere stato facile.”
“Decisamente no. Soprattutto all'inizio. È stato un duro colpo, è stato tremendo. Se Teddy non mi avesse aiutato non so se ce l'avrei fatta a riabituarmi così in fretta a vivere autonomamente.”
Mi precedette all'interno della clinica, dirigendosi immediatamente verso gli ascensori.
“A che piano?” domandai, premendo il pulsante del mio e, dopo che me lo ebbe comunicato, del suo. Scesi e mi voltai verso di lei, sorridendo. Nonostante lei non potesse vedermi, la sua presenza bastava comunque a farmi venire voglia di sorridere. “Spero di rincontrarti presto, Arizona.”
“Anche io, Callie” mi sorrise a sua volta.
Mi spostai dalla porta automatica, guardandola richiudersi.

Erano passati tre giorni, quando entrai di nuovo in quella caffetteria e la vidi seduta al tavolo con un'altra donna.
Visto che non mi aveva chiamato, mi sembrò stupido andare a salutarla. In più, non poteva neanche vedermi filarmela via, giusto?
Quel pensiero era stupido. Non mi ero tirata indietro quando avevo scoperto che non poteva vedere, perché per me era la stessa cosa. Non cambiava niente.
E allora sarei andata a salutarla come avrei fatto se mi avesse visto entrare, ecco tutto. Mi avvicinai alla cassa, ordinando il mio caffè e pagandolo, prima di avvicinarmi al tavolo a cui era seduta.
“Ciao, Arizona” la salutai quando fui a circa un metro da loro. “Non so se ti ricordi di me, ci siamo incontrate qui qualche giorno fa. Callie, della clinica.”
Notai la donna insieme a lei rivolgermi uno sguardo curioso. Mi sentii un'idiota per essermi umiliata in quel modo, infondo me ne sarei potuta andare e lei non se ne sarebbe mai accorta.
“Callie, certo che mi ricordo. Vuoi sederti?”
“In realtà, sto andando a lavoro. Ti ho vista e non volevo andarmene senza salutare” spiegai, sentendomi addosso gli occhi della donna insieme a lei. “Comunque” sospirai “ti auguro una buona giornata.”
Lei sorrise. “Anche a te, Callie. E saluta Addison per me.”
“Addison” mormorai. “Certo” quello era una sorta di indizio, giusto? Voleva farmi capire che tutto quello che avevamo in comune era l'amicizia di Addison, rifiutandomi gentilmente. Rivolsi un sorriso educato alla donna davanti a lei, prima di uscire da quel posto velocemente ed andarmene dalla mia migliore amica a lamentarmi di quanto facevo schifo con le donne.
“Sono sicura che non è stato così male come dici.”
“Fidati, è stato peggio. Che c'è che non va in me?”
“Niente, Callie” mi disse, corrugando la fronte. “Ma di che diamine stai parlando?”
“Parlo del fatto che non mi stia minimamente considerando” le dissi, sospirando. “Dimmi la verità, Addison. Pensi che l'unica cosa di me che piaccia alle persone sia il mio aspetto a dir poco spettacolare?”
“Già. E la tua modestia” mormorò, ridendo.
“Scherzi a parte, che cosa vede la gente in me?” chiesi in poco più che un sussurro. “Voglio dire, sono imbranata con le persone che mi piacciono e che ho appena conosciuto, dico tutto quello che penso e questo la maggior parte delle volte non è socialmente accettabile.”
“Sei un chirurgo, cavolo” mi ricordò, perplessa dalla mia insicurezza.
“Oh, quindi di buono in me c'è il mio aspetto ed il mio lavoro.”
“Beh, anche il fatto che sei ricca.”
“Non stai aiutando” le feci presente.
“Senti, tu lo sai” mi disse, ridendo. “Forse è vero, le persone all'inizio sono attratte dal tuo aspetto fisico, ma sai che non è per quello che rimangono” mi prese una mano con la sua da sopra il tavolo a cui eravamo sedute in una delle salette per i medici. “Rimangono per la tua gentilezza, per il cuore enorme che ti batte nel petto. Perché riesci a tirarti fuori da ogni situazione, anche quelle impossibili, e non è una cosa da tutti, fidati. Tu ti rialzi. Ogni volta. Le persone rimangono al tuo fianco perché si prendono la briga di guardarti. Non di vederti soltanto con gli occhi, ma di guardarti con il cuore. E chi lo fa, non può che amare la persona straordinaria che vede.”
Sospirai, stringendo la mano con cui aveva preso la mia.
“Grazie, Addison.”
“Non puntare sul tuo aspetto, lei non può vederti. Punta sul tuo cuore. Fai in modo che veda quello.”

Era una scelta difficile. Non ero abituata a dover pensare a qualcosa di così originale per convincere una donna ad uscire con me.
Di solito bastava una rosa. Ma, ammettiamolo, non è solo per il profumo che le rose vanno tanto di moda. È che una rosa è anche bella da vedere, almeno finché non appassisce.
Ma che altro potevo comprarle? Cioccolatini, certo, ma se ne compravo un tipo che non le piacevano? O a cui era allergica? Visto che non poteva vedere la scatola, li avrebbe mangiati senza controllare. Con la fortuna che avevo in quel periodo, rischiavo seriamente di ucciderla.
Potevo comprarle un peluche? Una qualche sorta di pupazzetto, magari. Geniale, davvero, visto che non avrebbe potuto vederlo. No, quell'idea era stupida, alla gente non piacciono i peluche perché sono morbidi, ma più che altro perché sono carini.
Un cd sarebbe stato perfetto. Non c'era niente da vedere, solo da ascoltare. Ma se poi lei avesse detestato i miei gusti musicali?
“Odio la mia vita” mormorai, entrando nel fioraio di cui stavo contemplando la vetrina ormai da più di dieci minuti.
“Buongiorno” la donna dietro il bancone mi sorrise. “Posso esserle utile?”
“Sì, la ringrazio” voltai gli occhi in direzione delle rose esposta sulle sinistra del negozio, cercando con lo sguardo un colore che mi colpisse. “Vorrei...” mi voltai di nuovo verso la donna, ma immediatamente mi resi conto che conoscevo la persona che stava parlando con un commesso dall'altra parte del negozio. “Arizona?”
“Mi scusi?” domandò la donna davanti a me.
“Mi perdoni, torno subito” le dissi, camminando con aria perplessa verso la donna che avevo visto poco prima. “Arizona, ciao. Come stai?”
Lei alzò il viso nella mia direzione, lasciandosi distrarre dalla conversazione con il commesso che stava avendo luogo.
“Callie?” domandò, corrugando la fronte.
“Sì, sono io” mi detti dell'idiota per non aver detto il mio nome. “Questa deve essere la coincidenza del secolo.”
“Oppure mi stai pedinando, visto lavoriamo nello stesso posto e continuo ad incontrarti in posti a caso” mi disse, sorridendomi.
Io risi, scuotendo la testa. “Metterò le carte in tavola” la informai. “Ti stavo comprando dei fiori per chiederti di uscire senza rendermi completamente ridicola, ma a pensarci bene credo che sia tardi per quello, vista la pessima impressione che devo averti fatto fino ad adesso.”
Lei rise, voltandosi verso il ragazzo affianco a lei.
“Che ne pensi di questi?” domandò.
Osservai il mazzo di gigli che il ragazzo aveva in mano.
“Sono bellissimi. Ottima scelta” mi complimentai. “Ma i gigli sono i miei fiori preferiti, quindi io potrei essere leggermente di parte.”
“Prendo questi” gli disse, sorridendo.
Lui, annuendo, si incamminò verso il retro del negozio.
“Beh, non credo che delle rose possano farmi superare la persona per cui stai comprando quel meraviglioso mazzo di fiori, quindi prometto di smetterla di inseguirti, adesso” infilai le mani nelle tasche del giacchetto che stavo indossando, con un piccolo sospiro.
Peccato, però. Quella donna mi intrigava e mi piaceva da morire.
“Mi accompagni verso la clinica?” domandò, le fossette in mostra.
“Certo. Perché no” ricambiai il sorriso, anche se sapevo che non poteva vedermi.
Si avvicinò alla cassa, porgendo una carta di credito alla donna con cui avevo parlato io poco prima, pagando il mazzo di rose e prendendolo con la sinistra, mentre con la destra teneva la borsa.
“Metto il bigliettino che avevamo scritto per il primo?”
“Sì, sarebbe perfetto, la ringrazio.”
“Il primo?” chiesi, incuriosita.
“Stavo per prendere delle rose anche io, ma il ragazzo che mi ha aiutato, mentre scrivevamo il biglietto, mi ha fatto notare che forse era troppo banale comprare delle rose visto il modo in cui parlo di lei.”
“Ah, perfetto” mormorai con ironia e velata gelosia.
Lei rise di nuovo, mentre ci incamminavamo verso l'uscita.
“Ti spiace portare il mazzo al posto mio?” domandò. Io lo afferrai immediatamente. Lei sistemò la mano sinistra attorno al mio braccio destro. “Sono molto più abituata a fare la strada dal bar in cui ci siamo incontrate la prima volta. Qui non vengo tutti i giorni, ti assicuro che riuscire a trovare il negozio giusto è stata una vera sfida. La prima volta sono entrata nella porta accanto, in un'agenzia immobiliare. È stato molto divertente sentirmi ridere in faccia quando ho chiesto dei fiori.”
Cercai di trattenere le risate mordendomi un labbro.
“Che persone orribili.”
“Come se tu non stessi ridendo” mi colpì scherzosamente sul braccio destro, usando la mano con cui non mi stava toccando.
“Non è affatto vero” cercai di difendermi, inutilmente.
“Come no. Piuttosto, come mai avevi deciso di comprarmi delle rose?”
Sospirai.
“Avevo paura che dei cioccolatini non ti sarebbero piaciuti, ma le rose sembravano troppo banali. Ho pensato ad un peluche, ma...” mi bloccai.
“Ma non ha molto senso se non posso vederlo” concluse, accennando un sorriso.
“Mi dispiace.”
“Non deve. Puoi dirlo, non mi offendo. Mi sono abituata a quello che mi è successo, Calliope.”
Fui presa in contropiede nel sentirle usare il mio nome per intero.
“Chi ti ha detto che mi chiamo così?” domandai, stupita.
“Preferisci che non lo usi?” sviò la domanda.
“No, non è quello” risposi immediatamente, decidendo che poteva chiamarmi in qualsiasi modo volesse. “Ma solo poche persone al mondo sanno il mio nome.”
“Me lo ha detto Addison” confessò. “Sono andata a chiederle un paio di cose, e mi è venuto in mente di chiedere anche se Callie fosse un diminutivo.”
“Siamo arrivate” la informai. “Hai un'altra visita?”
“A dire la verità, sto tornando a casa” mi fece sapere, con un sorriso. “Ho pensato che accompagnandoti potevo passare un po' di tempo con te, e poi da qui sono molto più sicura della strada da prendere per arrivare al mio appartamento.”
Rimasi spiazzata, la guardai allontanarsi da me di un passo.
“A presto, Calliope.”
“Ciao, Arizona.”
La guardai fare qualche passo verso sinistra, quando mi resi conto di avere ancora i suoi fiori tra le mani.
“Oh, ehi Arizona” la chiamai, avvicinandomi a lei. “Stai dimenticando il mazzo di gigli.”
Lei rise di nuovo, allungando una mano ed appoggiandola sul mio braccio.
“I fiori sono per te, Calliope. Cosa pensi che fossi andata a chiedere ad Addison?”
Senza aggiungere altro, se ne andò, lasciandomi perplessa più che mai a chiedermi se quello fosse appena successo davvero.
Guardai i fiori che avevo in mano, leggendo il biglietto scritto dal commesso.
So di non essere la scelta più semplice, so di essere una sfida, ma questo non sembra averti fatto esitare neanche per un secondo. A Calliope, con affetto. Arizona.
Sembrava che anche lei sapesse il significato dei gigli nel linguaggio dei fiori.

“Che hai da sorridere come un'idiota?” domandò Addison, avvicinandosi mentre stavo facendo pranzo.
“Stamani ho visto Arizona.”
“Ah, come non detto. Adesso sì che capisco cosa ti ha fatto sorridere. Sai, in realtà ieri è venuta a parlarmi.”
“Già, a proposito, grazie per averle detto il mio nome” alzai gli occhi al cielo. “Comunque, mi ha preso dei gigli. A quanto pare la mia totale incapacità di dire qualcosa di anche solo vagamente sensato in sua presenza ha fatto colpo.”
Addison rise, scuotendo la testa.
“Il problema è che non ho il suo numero, non so come fare a ringraziarla.”
“Che problema c'è? Vai al bar in cui fa colazione, domani mattina. Puoi ringraziarla, offrirle il caffè e chiederle di uscire.”
“Questa è...” ci riflettei per un istante. “Sai, in realtà è un'ottima idea. Sapevo che c'era un motivo per cui sei la mia migliore amica.”

Mi sedetti dopo aver pagato il caffè ed aspettai, sperando di vederla entrare.
Quando lo fece, però, mi sentii imbranata. Era con la stessa amica di un paio di giorni prima. Era per forza solo una sua amica, giusto?
In ogni caso, lei non poteva vedermi ed io mi sarei umiliata per la seconda volta in tre giorni, sarebbe stato davvero fantastico.
Però volevo ringraziarla. Era stato un pensiero stupendo.
Stavo per alzarmi quando vidi la donna che era con lei fare un cenno della mano nella mia direzione, salutandomi. Io, un po' perplessa, ricambiai, rimettendomi seduta e vedendola dire qualcosa ad Arizona. Poi vennero entrambe nella mia direzione.
“Ciao, Calliope.”
“Arizona, come stai?”
“Bene. Tu?”
Sorrisi come un'idiota. “Benissimo. Volete sedervi?”
“Prendo i caffè e arrivo” la informò la donna insieme a lei.
Arizona annuì, sedendosi.
“Che scema, non vi ho presentate, l'altro giorno. Callie, lei è Teddy Altman, lavora alla clinica. È la mia migliore amica. Teddy, lei è Callie Torres.”
Tese una mano verso di me, sorridendomi. La afferrai prontamente, rivolgendole un sorriso grato per quello che aveva appena fatto.
“È un piacere.”
“Anche per me” rispose, sorridendomi ancora una volta, prima di avvicinarsi alla cassa.
“Volevo ringraziarti per i fiori. Erano stupendi.”
“Lo so, mi hai aiutato a sceglierli” mi rivolse un sorriso completo di fossette.
“Sai che intendo” risposi, nonostante stessi ridendo della sua battuta. “Quindi se adesso ti chiedessi di uscire con me...” lasciai la frase in sospeso.
“Dipende. Mi hai comprato delle rose?”
“No, ammetto la mancanza di fiori al momento. Tuttavia, ti ho preso qualcos'altro. Spero davvero di non essermi umiliata per l'ennesima volta.”
Cercai nella mia borsa per qualche istante, estraendo l'oggetto che stavo cercando e appoggiandolo sul tavolo, davanti a lei.
“Ti ho preso un cd, è della mia cantante preferita. Spero davvero che piaccia anche a te” le dissi. Lei tese una mano verso di me, io glielo porsi.
“È l'ultimo di Adele.”
“Stai scherzando?” mi chiese.
“No. Non è il tuo genere?”
“Scherzi? La adoro. Ho i suoi primi due cd, ma il terzo mi mancava” sorrise a trentadue denti.
Tirai un sospiro di sollievo.
“Sono felice di essere finalmente riuscita a fare qualcosa nel modo giusto” scherzai.
“Non hai ancora detto una sola frase sbagliata, Calliope. Ti assicuro che hai fatto tutto in modo perfetto.”
Corrugai la fronte, ma mi accorsi che non mi stava prendendo in giro.
“Ok, ecco qui il tuo caffè” Teddy le porse la tazza. “Allora, Callie, Arizona mi ha detto che ti sei appena trasferita.”
“Già. Sono un chirurgo ortopedico. La mia migliore amica lavora qui a Los Angeles, ho pensato che non c'era città migliore per ripartire da zero.”
“Lavora alla clinica anche lei?”
“Sì, forse la conosci.”
Sentii Arizona scoppiare a ridere.
“Intimamente, direi” intervenne.
Corrugai la fronte.
Teddy arrossì. “Ah, tu sei la migliore amica di Addison, quindi? La donna della cartilagine artificiale.”
“Quella sarei io. Lasciami indovinare, tu sei la fidanzata che Addison stava cercando di tenermi nascosta per paura che potessi spaventarti a morte e metterti in fuga.”
“Così sembra.”
Ci scambiammo uno sguardo divertito.
Sentimmo un cellulare squillare. Teddy rispose velocemente, scusandosi e dicendoci che doveva scappare in ospedale.
Noi rimanemmo qualche altro minuto, prima di deciderci ad incamminarci nella stessa direzione.
“Sei sicura che non devi tornare a casa anche oggi? Scommetto che potresti arrivarci senza problemi, da qui” le chiesi mentre uscivamo.
“Devo venire a parlare con il primario di chirurgia” mi informò, ridendo. “Non preoccuparti, fare due passi non può farmi che bene, in ogni caso.”
Stavamo camminando per strada, parlando, scherzando, quando mi accorsi che lei sapeva la strada con più sicurezza di me. Non aveva mai un'incertezza.
“Posso domandare una cosa? Ti avverto che probabilmente suonerà scortese.”
Lei, ridendo, annuì.
“Come fai a conoscere la strada così bene?”
“Questo non ti fa sembrare scortese. Solo un po' curiosa” mi informò. “All'inizio è stato difficile, senza Teddy non ce l'avrei fatta. Mi accompagnava ovunque, ed io ho iniziato a contare i passi. Poi, lentamente, ho iniziato ad andare in giro da sola, con il bastone, verificando i passi che mi ricordavo, tutti i giorni, finché non ho imparato a memoria tutti i numeri. Scendo di casa, faccio centosettantaquattro passi, poi giro a destra. Dopo altri duecentotrentasei, devo attraversare la strada. C'è un semaforo acustico lì, non so se ci sei mai passata. In più, in questa zona passano pochissime automobili. Ho contato i passi per i luoghi dove vado più spesso. All'inizio ho dovuto farlo anche dentro casa. Adesso tengo il bastone in borsa, muovermi a casa mi viene naturale e diciamo che mi sono adattata. Ma, te l'ho già detto, non è stato affatto facile, i primi tempi. E non lo è neanche ora, la maggior parte delle volte.”
Sospirai, annuendo.
“Lo capisco. Posso solo immaginare cosa si prova ad affrontare un cambiamento del genere. Sei stata molto coraggiosa.”
“No, non lo sono stata, fidati” fece una smorfia, scuotendo la testa. “Ma ho dovuto farlo per forza, non c'era una scelta alternativa.”
“C'è sempre un'alternativa. Guarda me. Quando la mia vita è andata in pezzi, io sono fuggita via senza pensarci due volte” risposi, leggermente amareggiata da me stessa, se pensavo ancora a quello che avevo fatto.
“Beh, questo non era qualcosa da cui potevo fuggire, non ti pare?”
“Touché” concessi, ridendo.
“Che cosa ti è successo?” domandò poi, tornando seria. “Sempre se vuoi parlarne” si affrettò ad aggiungere.
Scrollai le spalle, inspirando.
“Stavo con un uomo che mi ha tradito. È stato tremendo. So che non è paragonabile a quello che hai dovuto passare tu, ma credimi, è stata una cosa terribile. Parlava di lei in un modo in cui non ha mai parlato di me, la descriveva come una modella, diceva di non essere alla sua altezza. Diciamo che ha provveduto a distruggere per bene la mia autostima, prima di tradirmi” rilasciai una risata un po' forzata.
Lei aveva la fronte corrugata.
“Capisco perché hai sentito il bisogno di cambiare città” mormorò, scuotendo la testa.
“Non è tutto” continuai. “Non so bene come dirtelo, o se è troppo presto per dire una cosa del genere, ma se aspetto a parlartene, visto che stiamo affrontando l'argomento, sembrerà che ti ho mentito, quindi te lo sto dicendo” la avvertii. “Io e lui eravamo sposati.”
“Woah.”
“Il giorno che ho avuto in mano i documenti del divorzio firmati anche da lui, mi sono trasferita qui a Los Angeles.”
“Ok, quindi non sei più sposata, giusto?”
“No, certo che no” risi della sua domanda.
“Bene. Menomale. Mi hai quasi fatto prendere un infarto, lanciando la bomba dopo il discorso di avvertimento.”
Risi di nuovo, scuotendo la testa.
“Non ti chiederei di uscire, se fossi ancora sposata.”
“Tecnicamente, non l'hai ancora fatto.”
“Bene, questo mi porta al prossimo punto del discorso, allora. Vuoi uscire con me?”
“Forse. Prima devo ascoltare il cd che mi hai regalato e decidere se mi piacciono i tuoi gusti musicali” scherzò. “Domani sera?”
“Perfetto. Prenoto io” le dissi, tenendo aperta la porta della clinica mentre aspettavo che entrasse.
Ci incamminammo verso gli ascensori.
“Dove andiamo?”
“Credo che ti farò una sorpresa.”
“Non mi darai neanche un indizio?” chiese, sorridendomi con aria divertita.
“Che razza di sorpresa sarebbe se lo facessi?” domandai, baciandola sulla guancia ed uscendo dall'ascensore. “Ti passo a prendere alle sette e mezza, d'accordo?”
“Ti mando un messaggio con l'indirizzo del mio appartamento.”
“Perfetto.”
Guardai le porte richiudersi e la donna più bella del mondo salutarmi con il sorriso sulle labbra.

La cosa inconcepibile era che non riuscivo a smettere di pensare a quanto belli fossero i suoi occhi azzurri.
Erano meravigliosi, soprattutto illuminati solo da una candela. Sembrava che brillassero.
Era bellissima, certo, adoravo tutto di lei. Dai suoi capelli, alle sue labbra, alle fossette e al fisico mozzafiato. Ma gli occhi erano probabilmente la cosa più bella.
Però poi, soffermandomi a pensarci, realizzai che, probabilmente, per lei, erano la cosa più brutta di se stessa. La più brutta che le fosse mai successa. Forse erano addirittura un difetto, secondo lei.
Ma secondo me, erano perfetti.
E lei era perfetta.
“Il francese è il mio preferito.”
“Non sei l'unica che ha usato l'arma della migliore amica. Teddy è stata molto d'aiuto quando mi sono presentata sul piano di cardiologia chiedendole un consiglio.”
“Saggia scelta” sorrise.
“Ti confesso che non sono mai stata in un ristorante francese, quindi dovrai farmi da interprete per alcune delle cose sul menù.”
“Puoi chiamare il cameriere?”
Fui presa in contropiede, ma annuii, facendo come mi aveva chiesto. Quando arrivò lei ordinò per entrambe, scegliendo un vino rosso da abbinare alla cena.
Quando il cameriere se ne fu andato mi sorrise.
“Adesso lascia che sia io a sorprenderti.”
Ricambiai il sorriso.
“Se quello che hai ordinato non mi piace, rivoglio indietro il cd di Adele.”
Ridendo, si sporse, avvicinandomisi.
“Se quello che ho ordinato non ti piace, riavrai il cd ed una dozzina di mazzi di gigli. Ma ti assicuro che ti piacerà.”
Ed aveva ragione. Qualsiasi cosa fosse, aveva scelto egregiamente.
“Posso chiederti un favore?” domandò, quando a fine serata, per la seconda volta, pagai per entrambe senza avvertirla.
“Tutto quello che vuoi” risposi senza esitazione. “Sei arrabbiata? Perché è il nostro primo appuntamento, ed ho scelto io il posto. Non ti avrei mai e poi mai lasciato pagare.”
“No, certo che non sono arrabbiata. Ma vorrei che facessimo un patto.”
“Spara.”
“Mi serve che, da ora in poi, qualsiasi cosa tu decida di fare, mi avverti ad alta voce, prima. Non ho mai avuto appuntamenti da quando non posso più vedere ed è strano per me, perché ero abituata ad essere sempre in controllo di tutto, mentre ora non riesco nemmeno più a lottare per offrire la cena ad un primo appuntamento. Quindi se potessi avvertirmi, anche per le cose che ti sembrano banali, significherebbe molto per me.”
“Lo prometto. Lo farò, ti avvertirò da adesso in poi. Mi dispiace.”
“Non deve. Ho scelto una cena spettacolare, in fondo. Era il minimo che fossi tu ad offrirmela.”
Scoppiai a ridere, alzandomi in piedi.
“Posso tenerti per mano?” chiesi, porgendole la mano per aiutarla ad alzarsi.
Sorrise e la vidi arrossire leggermente.
“Questa è una delle cose che puoi fare senza chiedere, se vuoi” rispose, prendendo la mia ed intrecciando le nostre dita.
La riaccompagnai a casa, ricordandomi mentre stavo per salutarla di quello che mi aveva chiesto di fare.
“Credo che quello di stasera sia stato il miglior primo appuntamento della mia vita, Calliope. Ti ringrazio. Per aver scelto di provare anche se ogni cosa con me è una sfida” mormorò, abbassando il viso come se stesse cercando di nascondersi dai miei occhi.
Come se volesse distogliere lo sguardo, un gesto rimasto nella memoria anche dopo che aveva perso senso nella sua quotidianità.
Appoggiai una mano sul suo mento, facendole alzare di nuovo il viso e guardandola negli occhi ancora una volta, quella sera.
Amavo i suoi occhi.
“Arizona, sto per baciarti adesso. Va bene?”
Lei annuì impercettibilmente, chiudendo gli occhi di riflesso.
Sfiorandole la guancia con il pollice della mano che avevo sotto il suo mento, posai le labbra sulle sue in un bacio lento e tenero.
“Buonanotte, Arizona” mormorai, allontanandomi.
Mi sorrise timidamente, mentre entrava nel palazzo in cui era il suo appartamento.

Le cose continuarono ad andare alla grande per il mese successivo. Al nostro quinto appuntamento mi chiese se volevo accompagnarla nel suo appartamento per un bicchiere di vino.
La osservai muoversi all'interno di quel posto con una naturalezza disarmante. Se non lo avessi saputo per certo, non avrei mai indovinato che non riusciva a vedere.
“Preferisci il rosso, vero?”
“Sì” confermai.
Spostò una ciocca dei suoi capelli oltre una spalla, versando poi il vino.
“Sei bella da togliere il fiato” il complimento mi uscì prima che me ne rendessi conto. “Sei un miracolo.”
La vidi cercare di trattenere un sorriso e arrossire leggermente.
“Ti ringrazio.”
Mi si avvicinò, porgendomi uno dei due bicchieri. Poi, improvvisamente, tornò seria.
“Cosa c'è?” chiesi, sfiorandole i capelli.
Lei sospirò, andando a sedersi sul divano.
“Non posso dirti la stessa cosa. Cioè, sono sicura che se potessi vedere lo penserei anche io, ma non posso dirlo con convinzione. Non posso dire alla mia ragazza che la trovo bellissima perché sono cieca.”
Mi sedetti accanto a lei, appoggiando il bicchiere sul tavolo davanti al divano.
“Non ho bisogno che tu mi dica che sono bella” la rassicurai, prendendole il viso tra le mani delicatamente. “So di essere bella.”
Quello riuscì nel mio intento di strapparle una risata sincera.
“Sul serio, Arizona. Non mi importa. Non voglio piacerti per il mio aspetto, voglio che ti piaccia quello che c'è sotto.”
“A me importa, però” mormorò.
“Non dovrebbe” risposi piano, scostando una mano per poterla baciare sulla guancia. “Per quanto tu mi piaccia fisicamente, quando dico che sei un miracolo non intendo solo quello. Intendo te, il tuo cuore, il modo in cui pensi.”
Appoggiò le mani sul mio viso, facendole scorrere lentamente sulla mia fronte, sulle mie palpebre, sul mio naso. Si soffermò per qualche istante lì, poi si avvicinò, premendo il suo naso contro il mio dolcemente. Mi sfiorò le guance, il mento, i capelli. Poi ricominciò da capo ed esaminò di nuovo ogni mio lineamento, arrivando fino alle spalle.
Appoggiò lì le mani, avvicinandosi e baciandomi brevemente.
“Tu sei bellissima” osservò, quasi sorpresa.
Risi della sua constatazione, avvicinandomi per poterla baciare di nuovo.
Appoggiai una mano sulla sua vita, perdendomi nel suo profumo e nel suo sapore.
“Dobbiamo prendere le cose con calma” mi ricordò, allontanandosi, dopo qualche secondo.
“Sì, hai ragione. Mi dispiace” mi schiarii la voce, cercando di ricordare a me stessa che avevamo concordato di andare molto, molto lentamente.
“Intendevo stasera” chiarì. “Se andiamo fino in fondo, dovrai avere pazienza.”
Deglutii, lucidamente consapevole, per l'ennesima volta, di essere la donna più fortunata sulla faccia del pianeta.
“Ti ricordi il nostro patto, vero?” domandai. “Ti dirò ogni singola cosa che sto per fare, anche quelle che mi sembrano banali.”
Annuì, rivolgendomi un sorriso.
“Sei al sicuro con me, lo sai.”
“Lo so” confermò, baciandomi di nuovo ed appoggiando le mani sulle mie guance, continuando ad esplorare i miei lineamenti.

Quando uno dei passanti lesse da un dépliant che il parco in cui eravamo era il più bello di tutta Los Angeles, la vidi intristirsi immediatamente.
Sospirando, presi le sue mani tra le mie.
“È davvero così bello?” domandò. “Sai, prima...lavoravo tutto il tempo, ogni secondo libero lo passavo a leggere articoli su riviste mediche o ad esaminare cartelle che conoscevo quasi a memoria. E ora vorrei solo...” sospirò. “Vorrei essermi presa il tempo di alzare lo sguardo, di tanto in tanto. Ho vissuto a Los Angeles per anni e non conosco questa città quasi per niente. Forse non la conoscerò mai.”
Mi guardai attorno.
“Da qui si vede tutta la parte ovest della città, che sembra così piccola da quassù, non sembra neanche di guardare L.A., in realtà. C'è un prato che si perde a vista d'occhio e ogni due o tre metri c'è un albero. La cosa bella degli alberi è che sono fioriti in questo periodo dell'anno, è uno spettacolo, i colori si fondono tra loro in perfetta armonia. Ci sono diverse panchine, alcune con dei tavoli, come quella a cui abbiamo fatto pranzo noi. Ci sono dei bambini che giocano, delle coppie che si tengono per mano, dei ragazzi che vanno in bicicletta. Ma la cosa più bella è il sole che tramonta proprio sulla città. Si vedono dei colori quasi inventati, un pezzo di cielo è ancora blu, mentre un altro è giallo, uno arancione, uno rosso, e ce n'è uno perfino rosa. È una vista che toglie il fiato, ma non è la cosa più bella che abbia mai visto in vita mia.”
“Davvero? E cosa può esserci di più bello di questo?” chiese.
Guardai dentro i suoi occhi, accorgendomi che alcune lacrime vi si erano fermate.
Il blu cristallino che adoravo, in quel momento stava risplendendo.
“La cosa più bella che io abbia mai visto” le risposi “sono i tuoi occhi.”
La vidi trasalire leggermente.
“Niente può reggere il paragone. Niente ci si avvicina nemmeno. Mi tolgono il fiato ogni volta che li guardo.”
“Dici sul serio?”
“Sì, dico sul serio” confermai, annuendo.
Strinsi di più le sue mani tra le mie.
“So che sono la cosa che odi di più di te stessa, ma io li adoro. Il colore che hanno, il modo in cui brillano, il fatto che posso capire a cosa stai pensando semplicemente incrociando il tuo sguardo, a volte. Amo i tuoi occhi.”
Strinse di più le mie mani tra le sue, poi le lasciò andare.
Mi toccò il viso, cercando le mie palpebre, poi spostò i pollici ed alzò gli occhi verso le sue mani, guardando dritto dentro i miei.
“Ti amo” mi disse, la voce che tremava.
Continuai a guardarla, le lacrime agli occhi, un nodo in gola.
“Ti amo anche io.”

“Sono a casa” mi richiusi la porta alle spalle, appoggiando le chiavi sul mobiletto all'ingresso e togliendomi il giacchetto.
Ufficialmente, mi ero trasferita lì da un mese e mezzo, ma la mia roba aveva iniziato gradualmente a spostarsi nel suo appartamento da circa quattro o cinque mesi dopo che avevamo iniziato a frequentarci.
“Amore, ci sei?” chiesi di nuovo, soffermandomi a leggere la posta che aveva appoggiato accanto al contenitore con tutti i nostri mazzi di chiavi.
Sembrava impossibile che fosse passato più di un anno da quando avevamo iniziato ad uscire insieme, il tempo era volato. Avevamo festeggiato il nostro primo anniversario un paio di settimane prima.
“Calliope” mi venne incontro, l'aria preoccupata. Notai che stava parlando a voce bassa.
Corrugai la fronte, prendendole una mano con la mia.
“Che è successo?”
“I miei genitori hanno pensato che fosse una buona idea venirmi a fare visita senza neanche una chiamata per avvertirmi. Sono in soggiorno.”
Cercai di non farmi prendere dal panico.
Feci un passo indietro, verso la porta di ingresso, lanciando un'occhiata alle chiavi che avevo appena posato.
“Non pensarci nemmeno, Calliope. Non puoi dartela a gambe e lasciarmi ad affrontare il colonnello da sola.”
“Giuro che a volte sembra che tu riesca a leggermi nel pensiero.”
Mi sorrise, baciandomi velocemente sulle labbra.
“Hai mai pensato che forse è perché sei troppo prevedibile?”
Risi, scuotendo la testa e seguendola in soggiorno.
“Mamma, papà” li vidi alzarsi appena entrammo. “Lei è Callie” ci presentò.
“Arizona ci ha parlato moltissimo di te” sua madre mi sorrise.
“Parla molto anche di voi, signori Robbins. È un piacere conoscervi.”
Scambiai con entrambi una stretta di mano.
Dopo i convenevoli ci sedemmo. I suoi genitori si scambiarono uno sguardo. Vidi la signora Robbins annuire, ed il colonnello iniziò a parlare subito dopo. L'atmosfera era molto seria, stava succedendo sicuramente qualcosa.
“Arizona, il primario della clinica ci ha chiamato.”
“Cosa?” domandò incredula la donna al mio fianco.
“Ha detto che hanno pensato ad un modo per...”
“No, non ne parleremo. Non c'è motivo per cui avrebbe dovuto chiamarvi e non ho alcuna intenzione di discutere di questa cosa con voi.”
“Discutere di quale cosa?” chiesi, corrugando la fronte.
“Il tuo capo è stato molto chiaro” intervenne la madre. “Non avrai più uno stipendio, neanche uno minimo, nel giro di pochi mesi.”
“Cosa?” mi voltai verso la donna al mio fianco. “Questo quando è successo?”
Lei sospirò, raccogliendo il coraggio.
“Circa una settimana fa, Jensen mi ha detto che la clinica sta sperimentando una nuova procedura per il recupero della vista attraverso un trapianto di fotorecettori.”
“Ci ha detto che la sperimentazione iniziale ha dato risultati ottimi” intervenne il colonnello.
“Sì, sui topi” li informò la figlia. “Sentite, è un'operazione rischiosa, ok? Non voglio fare due volte lo stesso errore.”
“Beh, ma a questo punto non hai più molto da perdere” le ricordò il padre.
“Eccetto la mia vita” rispose lei duramente.
“Jensen sembrava convinto che il problema fosse un altro” intervenne la madre. “Sembravi molto preoccupata riguardo il costo della procedura.”
“Certo, anche quello. Dove pensate che riesca a trovare tutti quei soldi?”
“Arizona, sai che potremmo...”
“No, mamma, non vi chiederò di fare un sacrificio dopo l'altro per pagare un intervento che potrebbe rivelarsi del tutto inutile. Questa discussione finisce qui, non ho intenzione di parlarne oltre.”
“Arizona...”
“Riuscirete sicuramente a trovare la porta senza il mio aiuto.”
Quello era il suo modo, molto chiaro, di mettere fine alla conversazione.
Mi alzai al posto suo, facendo strada ai signori Robbins verso l'ingresso.
“Cercherò di parlarle” assicurai loro.
“Grazie” mormorò la donna, abbracciandomi velocemente e cogliendomi alla sprovvista. “Grazie per tutto quello che hai fatto per Arizona nell'ultimo anno.”
“Non deve ringraziarmi. Se le rimango a fianco è semplicemente perché non potrei mai vivere senza di lei.”
Quando tornai in soggiorno, lei si era preparata alle urla.
Non avevamo quasi mai litigato per cose importanti, ma sapeva perfettamente che tenermi all'oscuro di una cosa del genere mi avrebbe mandato su tutte le furie.
“Sei impazzita per caso?”
Così urlai.
“Ho detto che non ho intenzione di farlo, punto.”
Ed urlò anche lei.
“Arizona, dammi un solo, valido motivo, per cui non dovresti...”
Per ore intere, finché quella discussione sembrava non poter mai avere una fine.
“Dammi un solo valido motivo per cui dovrei!”
E così dicemmo cose di cui poi ci saremmo pentite. Sapevamo che a quel punto, l'esplosione era inevitabile.
“Perché sei cieca. Questo intervento potrebbe ridarti la vista, Arizona. È un miracolo, non lo capisci?”
“No, non lo è. È chirurgia” rispose, urlando a sua volta. “Cavolo, pensavo che non ti importasse se non riesco a vedere.”
“Non mi importa, infatti. Non a me. Ma tu ne sei così ossessionata.”
“Che? Ma di cosa diamine stai parlando?”
“Andiamo, Arizona. Credi che non me ne accorga? Che non riesca a rendermi conto di quando ti allontani, di quando mi chiudi fuori? Io ti conosco, so chi sei, ormai.”
“Proprio per questo non riesco a credere che tu sia seria, in questo momento.”
“Continui a tenermi a distanza, a spingermi via, ed io non so perché” protestai.
“Perché come puoi amare me?” domandò, scuotendo la testa. “Non posso neanche guardarti negli occhi, non posso neanche vederti quando mi dici che mi ami.”
Fui paralizzata, quasi letteralmente, dalle sue parole.
“Tu non ti fidi di me?” mormorai.
“Certo che mi fido di te. È di me, che non posso fidarmi.”
“Vuoi dire” la realizzazione arrivò all'improvviso. Quasi come se mi stesse aspettando all'arrivo ed io ci avessi impiegato troppo tempo a raggiungerla. “Vuoi dire che non sai se mi ami davvero perché non puoi vedermi?” domandai, sentendo le lacrime salirmi agli occhi.
“Io so di amarti, Calliope, in questo istante. Ma se faccio quell'operazione e torno a vedere, se quello che provo cambia? Se guardandoti non vedessi altro che un'estranea?”
Non si sarebbe operata per me.
Perché mi amava.
Non si sarebbe operata perché aveva paura di perdermi, se lo avesse fatto.
Di perdere la persona che le era rimasta accanto e l'aveva amata anche quando neanche lei riusciva ad amare se stessa.
Lo sapevo. E lo sapeva anche lei.
Ma non potevo essere io la causa per cui rifiutava l'intervento che avrebbe potuto ridarle indietro la sua vita.
“Se guardandomi vedessi un'estranea, non mi avresti mai amato davvero. Quello che riusciresti a vedere con i tuoi occhi, non dovrebbe essere importante. E, se lo fosse, allora sarei io a non essere importante abbastanza.”

“Ho portato via l'ultima scatola.”
“D'accordo” era seduta all'isola della cucina.
Mi guardai intorno per l'ultima volta, cercando di ricordare quella che per settimane era stata casa mia, ma ricordando poi che, per memorizzare casa mia, l'unica cosa che dovevo fare era guardare dentro i suoi occhi.
Mi avvinai a lei, schiarendomi la voce e cercando di scacciare via il nodo che attanagliava la mia gola.
“Sto per baciarti, se sei d'accordo.”
Tese una mano verso di me. La presi, avvicinandomi a lei e baciandola per l'ultima volta. All'inizio lentamente, poi con tutto l'amore e la passione che per sempre avrei portato insieme a me, nel mio cuore.
“Ti amerò sempre come nessun'altra al mondo potrà mai fare” mormorai vicino al suo orecchio, guardando nei suoi occhi ancora una volta, prima di andare via.
Via da lei, dalla nostra casa, dalla nostra vita.
Via da noi.
Ma sapevo che andando via, le stavo permettendo di volare.
E, proprio per quello, trovai la forza di non guardarmi indietro.

“Ho sentito che Arizona farà l'operazione.”
Addison stava fissando i miei occhi rossi, quindi cercai di distrarla.
Da due settimane, non facevo che piangere senza sosta.
“La ricoverano oggi” rispose, distrattamente.
“Cosa le ha fatto cambiare idea?”
“Un donatore anonimo ha pagato per la procedura sperimentale, probabilmente qualcuno con un familiare che ne beneficerà se tutto va come dovrebbe.”
“Che fine ha fatto il non voler rischiare?”
Scrollò le spalle.
“Dice che suo padre aveva ragione. Non ha più niente da perdere, ormai. Non da quando ha perso te.”
Annuii, con la morte nel cuore.
“Scusami, Addison. Ho un appuntamento con il primario, ci vediamo dopo, d'accordo?”
Me ne andai dalla mensa, lasciando lì il mio pranzo quasi intoccato. Quando arrivai nell'ufficio del primario, lui mi stava aspettando.
“Non che non mi fidassi, ma ammetterla senza essere sicuri di avere i soldi necessari all'intervento sarebbe stato un grande rischio” mi sorrise.
“Certo” risposi, porgendogli l'assegno senza ricambiare il sorriso. “Questa cosa deve rimanere tra noi, va bene? La dottoressa Robbins non dovrà mai sapere che sono stata io a pagare per questa operazione.”
“Come promesso” mi rassicurò.

Non sarei dovuta essere lì, ma il fatto che in quella clinica mi conoscevano tutti gli infermieri, mi permise di entrare indisturbata nella sua stanza e sedermi al suo fianco.
Le stavo tenendo la mano, aspettando che si svegliasse.
Sapevo che me ne sarei dovuta andare prima che succedesse, per non farle capire che ero io ad esserle rimasta affianco dopo l'operazione.
“Ti amo, Arizona” mormorai. “A me non è mai importato che non potessi vedermi, volevo solo che fossi felice. Spero che riuscirai ad esserlo, spero che riuscirai a perdonarmi e ad avere un bel ricordo di me. So che non mi credi, ma ti amerò sempre, per sempre.”
Ricacciando indietro le lacrime mi alzai, baciandola delicatamente sulla fronte ed incamminandomi verso la porta.
Fu allora che lo sentii.
“Calliope.”
Era debole, un sussurro stanco.
Non mi fermai. Uscii dalla stanza e chiesi ad una delle infermiere di controllare se si fosse svegliata.

La stavo guardando dormire dalla soglia della porta, una spalla appoggiata allo stipite.
Le avevano tolto le bende, il giorno prima, dopo una settimana dall'intervento. Ero rimasta a guardare dal corridoio mentre i suoi occhi si riabituavano alla luce, mentre abbracciava il chirurgo che l'aveva operata e piangeva, mentre abbracciava Teddy ed Addison.
Mi mancava. Ma dovevo abituarmi, perché mi sarebbe mancata per tutto il resto della mia vita.
L'avevo lasciata, era colpa mia, ero stata io.
Come potevo adesso riconquistarla?
Le sarebbe sempre rimasto il dubbio che fossi tornata da lei solo perché poteva di nuovo vedere. Già non si fidava di se stessa prima, come poteva fidarsi di me a quel punto?
Vidi le sue palpebre vibrare, poi aprì gli occhi.
Mi sentii come se mi avessero dato un pugno in pieno stomaco.
Amavo i suoi occhi.
Erano rimasti esattamente uguali, anche se lei era una persona completamente diversa.
Stavo per andarmene, quando vidi i suoi occhi posarsi su di me.
“Salve. Lei è uno dei miei dottori? Mi scusi, ma non riesco ancora a vedere molto bene, dovrebbero volerci circa sei settimane perché possa riacquistare completamente la vista.”
Mi schiarii la gola, annuendo. Avrebbe riconosciuto la mia voce.
Mi aveva detto più di una volta che amava la mia voce, esattamente nel modo in cui io amavo i suoi occhi.
“Stava andando via, quindi suppongo che abbia solo dato un'occhiata ai dati sui monitor.”
Annuii, forzando un sorriso e voltandomi di spalle.
“Aspetti” mi paralizzai. “Mi scusi, posso chiederle un favore?” si tirò a sedere, raddrizzando la schiena.
Mi voltai di nuovo verso di lei, annuendo.
Tese le mani nella mia direzione. Sapevo che voleva che mi avvicinassi, così lo feci. Lei mi prese per le spalle, tirandomi delicatamente verso il letto.
Chiuse gli occhi, appoggiando le mani sulle mie guance. La sentii sfiorarmi il naso, la linea della mascella, il mento, gli zigomi, le labbra. Ogni millimetro del mio viso.
Poi, si fermò ed appoggiò di nuovo le mani sulle mie spalle.
“Calliope” sussurrò.
Presi le sue mani tra le mie, portandomele alle labbra e baciandole. Lei si avvicinò ancora di più, stringendosi contro di me.
Avvolsi le braccia attorno a lei, cercando di non piangere.
“Mi sei mancata” sussurrai.
Mi maledissi per la mia debolezza.
Dovevo lasciarla andare.
Provai ad allontanarmi ma le sue mani afferrarono prontamente il mio camice.
“Arizona.”
“Io ti credo, Calliope. E anch'io ti amerò sempre. Per sempre.”
“Arizona” ripetei il suo nome, la voce mi tremò.
Aprì gli occhi, guardandomi.
Era un miracolo.
Il mio miracolo, mi stava guardando negli occhi.
“Quello che ho detto era stupido, adesso me ne rendo conto. Ti ho amato quando non potevo vedere, e ti amo adesso esattamente come prima. Non ti amo con i miei occhi, Calliope, ti amo con il mio cuore. Con tutto quello che ho nel cuore, io ti amo.”
“Io avrei vissuto al tuo fianco tutto il resto della mia vita, senza cambiare niente, esattamente come era prima. A me non è mai importato niente, Arizona. Mai, neanche per un secondo, il fatto che non potessi vedere ha fatto la differenza.”
“L'ho capito, adesso. Forse è vero quello che dicono, che per apprezzare davvero la luce si deve vivere per un po' di tempo al buio. Non mi interessa cosa succederà ai miei occhi, non mi interessa se riuscirò a vedere di nuovo, ad operare di nuovo, oppure no. Ma mi interessa cosa succederà al mio cuore. Quello è nelle tue mani. Lo è sempre stato, anche quando ancora non me ne rendevo conto. E sarà nelle tue mani per sempre, non è qualcosa che potrei mai riuscire a cambiare, neanche se lo volessi.”
Appoggiai una mano sulla sua guancia, abbassandomi e baciandola.
“Sono a malapena sopravvissuta a due settimane, Arizona. Non posso vivere il resto della mia vita senza di te.”

Non riusciva a smettere di guardarmi negli occhi.
Letteralmente.
Mi aveva guardato negli occhi per giorni, ogni secondo che passavamo insieme.
La cosa buffa era che io non riuscivo a smettere di guardare nei suoi.
Quando il suo chirurgo decise che poteva essere dimessa, la accompagnai a casa nostra. No, a casa sua.
Si sedette sul divano, io mi misi al suo fianco. I suoi occhi rimasero dentro i miei, le sue mani si persero tra i miei capelli.
“Non posso credere che tu sia qui.”
“Sono sempre stata qui” risposi sommessamente. “C'ero anche quando non potevi vedermi. E anche quando non c'ero, rimanevo comunque al tuo fianco.”
Appoggiai una mano sulla sua vita.
“Quello che sto per dirti non ti piacerà, ma se mai mi darai una seconda occasione, non voglio che questa cosa mi si ritorca contro, a un certo punto.”
Corrugò la fronte, l'aria perplessa.
“Ero io. Il donatore anonimo che ha pagato l'operazione. Ho usato i soldi del fondo fiduciario, perché volevo che fossi felice. Sapevo che l'operazione avrebbe potuto significare perderti per sempre, se non fossi riuscita più a provare quello che provavi prima, ma non volevo, non potevo, essere io la persona che ti impediva di tornare a vedere. Hai voluto questo per molto più tempo di quanto hai voluto me, Arizona. Quindi rinuncerò alla mia felicità, se in cambio posso tentare di rendere felice te.”
Mi guardò, le lacrime agli occhi. Si portò una mano sulle labbra.
“Eri tu?”
Annuii, incapace di dire altro.
“Mi dispiace.”
Scosse la testa, incredula.
“Ti prego, non piangere.”
Appoggiò nuovamente le mani sulle mie spalle, in un gesto abitudinario.
“Tu mi hai ridato indietro la mia vita, Calliope. Tu mi hai salvato. Posso operare di nuovo, lavorare di nuovo, vedere di nuovo. Posso vedere te.”
Mi prese il viso tra le mani, baciandomi.
“Potrò vedere il parco in cui mi hai detto che mi amavi per la prima volta, potrò vedere la casa che compreremo insieme, potrò vederti vestita di bianco ed il viso dei nostri bambini, il loro primo giorno di scuola.”
La abbracciai, cercando di farla smettere di piangere.
“Potrò vederti ogni giorno, per il resto della mia vita.”
Inspirai il suo profumo, chiudendo gli occhi.
Sorrisi, quando le sue parole fecero presa, perché mi aveva appena dato la certezza che tutto, in qualche modo, si sarebbe sistemato.
“Potrai vedermi ogni giorno” confermai. “Ogni singolo giorno, te lo prometto.”
Passò il resto della notte a cercare di memorizzare con gli occhi ogni millimetro del mio corpo che le sue mani già conoscevano.

C'era una frase che Arizona mi ripeteva sempre, anche dopo anni ed anni che aveva ricominciato a vedere.
“Ogni volta che ti guardo, è come se ti vedessi per la prima volta. Sento il cuore che mi martella nel petto.”
E allora io le rispondevo sempre allo stesso modo.
“Perché il tuo cuore mi conosce da molto più tempo dei tuoi occhi.”




Fatemi sapere che ne pensate, alla prossima! Un abbraccio.


Ritorna all'indice


Capitolo 54
*** La nostra prima scatola di cereali ***


Ricorderò sempre la tua faccia quando abbiamo scoperto che ci piacevano gli stessi cereali e quando hai letto questa storia che avevo scritto molto prima. Una straordinaria coincidenza. Che poi io e te, alle coincidenze, non ci abbiamo mai creduto.
Questa è per te: alle coincidenze, ai colpi di fulmine e alle storie da raccontare ai nipoti.










Avvertimenti: AU



La nostra prima scatola di cereali


Tutte le parti di una storia sono importanti, ma ci sono solo due momenti che la definiscono. Di qualsiasi tipo di storia si tratti, una favola, un libro, un film o una storia d'amore.
Solo due momenti, sono assolutamente fondamentali.
Fanno di quella storia ciò che è, determinano come verrà ricordata.
Come inizia e come finisce.

Certe volte la odiavo.
Cioè, l'amavo davvero, mi era rimasta sempre accanto.
Ma qualche volta la odiavo con tutto il cuore.
Quello era uno dei momenti in cui, se l'avessi avuta davanti, probabilmente l'avrei soffocata.
Già, in quel momento, odiavo la mia migliore amica. La odiavo perché mi aveva mandato, in quanto mia coinquilina, a fare spesa da sola. Di solito andavamo insieme, anche se facevamo conti separati. Ma almeno mi faceva compagnia.
Detestavo fare la spesa da sola.
Insomma, esiste una cosa più noiosa al mondo?
Stavo camminando per il reparto dei cibi per la colazione con un gomito appoggiato sul carrello e la guancia sul palmo della mano. Non era la posizione più comoda per la mia schiena, ma ero troppo annoiata perché me ne importasse qualcosa.
Forse potevo vendicarmi comprando una cosa che la disgustava particolarmente. Come, per esempio, chili e chili di cipolle. Poi le avrei sbucciate tutte insieme e gliele avrei nascoste sotto il cuscino. Oddio, quella era una cosa disgustosa anche solo da pensare.
Feci una smorfia, scartando l'idea.
Forse potevo chiedere aiuto ad uno degli specializzandi, avevano sempre idee particolarmente schifose, magari quello era il loro talento.
O ancora meglio, avrei potuto chiedere aiuto a Cristina. No, lei decisamente non mi avrebbe aiutato a vendicarmi della sua mentore.
Una cosa era certa, Teddy l'avrebbe pagata per avermi mandato a fare spesa, quel giorno.
Mi fermai davanti allo scaffale dei cereali. Il mio tipo preferito era quasi finito, ne era rimasta solo una scatola.
Strano, di solito ne avevano sempre una scorta infinita.
Allungai distrattamente una mano, scontrandomi con quella di qualcun altro che stava puntando alla stessa scatola di cereali.
Mi preparai a combattere con le unghie e con i denti per quell'ultima scatola, quando alzai lo sguardo e la vidi.
Io mi ero sempre ripetuta una cosa, per tutta la mia vita. Me l'ero ripetuta fino a crederci, ma all'improvviso tutte le mie certezze vacillarono.
Mi ero sempre detta che l'amore a prima vista non sarebbe mai potuto esistere.
Succede nei film, certo, però alla fine è soltanto un cliché. Ma nella vita reale...No, l'amore a prima vista decisamente non esiste.
Bisogna lavorare duramente, costruire ciò che si vuole ottenere, perché sarebbe troppo facile altrimenti.
L'amore a prima vista non è realistico. Neanche un po'.
Chiedete a chiunque con un po' di cervello e vi risponderà che non esiste niente che vi venga servito su un piatto d'argento, nella vita reale.
Nessuno crede nell'amore a prima vista.
Almeno, finché non succede anche a loro. E all'improvviso si rendono conto di cosa significhi, di quanto sia reale.
Nell'amore a prima vista, puoi credere veramente, con certezza assoluta, solo quando è già successo anche a te.
“Mi scusi.”
“No, mi scusi lei” balbettai come una scema.
Lei mi rivolse un mezzo sorriso.
“Prenda pure lei i cereali, posso farne a meno per una settimana.”
“No, insisto” le dissi subito. “Li prenda lei, mi sentirei in colpa.”
“Si figuri, non è un problema” mi sorrise, facendo un paio di passi avanti, verso lo scaffale successivo.
Sentii il suono di un cerca persone rimbombare nel corridoio.
Sia io che lei scattammo per controllare le nostre cinture. Lessi il numero di Teddy sul display ed estrassi il cellulare, lanciando un mezzo sorriso alla donna a pochi passi da me.
“È un medico anche lei?” domandai, mentre accostavo il dispositivo all'orecchio.
“Sì, lavoro al Mercy West.”
“Seattle Grace” le dissi, ascoltando il cellulare squillare. “Salve, traditrice. Hai chiamato?”
Sentii Teddy ridere e me la immaginai scuotere la testa.
“Volevo sapere se stasera avevi intenzione di uscire.”
“Senti, devo andare, ne riparliamo dopo a casa. Ciao” attaccai in fretta, sorridendo alla donna davanti a me.
“Traditrice?” domandò con un mezzo sorriso, continuando a guardare i cereali vicino a quelli per cui ci eravamo scontrate.
“La mia coinquilina e presunta migliore amica mi ha costretto a fare la spesa da sola oggi pomeriggio. Diciamo solo che non mi sto per niente divertendo, tra le scatole di cibi precotti, surgelati e quelli in scatola.”
Lei rise, incrociando di nuovo il mio sguardo.
“Non le piace molto cucinare, quindi?”
“Non sono molto portata, più che altro. E questo è un eufemismo.”
Rise di nuovo, voltandosi nella mia direzione con il busto.
“Arizona Robbins, chirurgia pediatrica.”
“Callie Torres” si presentò, ricambiando la stretta. “Ortopedia. È un chirurgo anche lei, allora?”
“Può darmi del tu. E sì, la chirurgia è tutta la mia vita. Dopo i cereali, si intende” le risposi, indicando la scatola che era ancora sullo scaffale.
“Oh, certo. I cereali vengono sempre per primi, non si discute.”
“Lei sembra una persona molto ragionevole, dottoressa Torres.”
Mi sorrise. “Anche tu. E puoi chiamarmi Callie.”
Ricambiai il sorriso.
“Beh, allora io...” indicò il resto del corridoio.
“Oh, sì, scusami. Non volevo trattenerti.”
“Non c'è problema. A dire la verità, è stato un piacere conoscerti.”
“Anche per me” mormorai, vedendola voltarsi. “Oh, Callie” la richiamai subito dopo.
“Sì?” si voltò di nuovo, prestandomi attenzione.
Con un mezzo sorriso tesi nella sua direzione la scatola di cereali che ci aveva fatto scontrare le mani.
“Mi sembra il minimo lasciarti avere questa scatola di cereali, sul serio. Ho avuto abbastanza fortuna per un giorno, direi” le rivolsi il migliore dei miei sorrisi con le fossette.
Lei sorrise timidamente, arrossendo appena.
“No, non posso accettare. Insisto perché li tenga tu.”
Con un ultimo sorriso, la vidi allontanarsi e sparire dalla mia vista.
Sospirai, sapendo che avrei passato quella serata abbracciata ad una scatola di cereali nel tentativo disperato di togliermi i suoi occhi dalla testa.

Era la seconda settimana di fila che Teddy mi dava buca.
Quella cosa stava iniziando ad infastidirmi.
Stavo uscendo dal supermercato, quando scorsi una figura familiare attraversare la porta nella direzione inversa.
“Callie?”
La donna si voltò, guardandosi intorno con confusione, prima di vedermi. Ci mise qualche istante, ma alla fine mi riconobbe.
“Arizona.”
Era più o meno la stessa ora della settimana precedente, annotai mentalmente.
“Stai andando a fare spesa?” domandai, stupidamente.
“Già” mi sorrise. “Vedo che tu, al contrario, stai andando via” fece un cenno della testa verso le buste che avevo in mano.
Avrei potuto mentire spudoratamente, ma sarebbe stato alquanto vano.
“Se dicessi che le sto portando nell'auto di una simpatica vecchietta particolarmente in difficoltà e poi ti seguissi dentro, lasciando la roba a scongelarsi nel bagagliaio della mia automobile e ricomprando tutto quello che ho appena pagato, quando sarebbe inquietante in una scala da amichevole a borderline psicotico?”
Lei scoppiò a ridere.
“Diciamo più o meno vicino a stalker” rispose con un sorriso.
“Beh, allora credo che ti lascerò andare a fare la spesa in pace, prima che il pesce si scongeli inondando i miei preziosissimi cereali.”
“Oh, non si può vivere senza quei cereali, cavolo. L'ultima settimana è stata un inferno, quindi vai, corri. Ti perdono per avermi abbandonato a fare la spesa da sola in questo posto pieno di...Aspetta, com'era? Cibi precotti, surgelati e quelli in scatola, giusto?”
“Esattamente” confermai. “Almeno ti ricordi di me, è già qualcosa. Sul resto posso sempre continuare a lavorarci.”
Sorridendole un'ultima volta la guardai entrare dentro il supermercato. Quando non riuscii più a vederla attraverso le porte a vetri mi diressi verso la mia automobile.

Il giovedì successivo, esattamente alla stessa ora dei due precedenti, ero praticamente appostata allo scaffale dei cereali.
“Sono un'idiota. Non c'è alcuna possibilità che anche lei abbia avuto la stessa idea, come non c'è alcuna possibilità che faccia sempre la spesa alla stessa identica ora, lo stesso giorno di ogni settimana.”
Sì, stavo borbottando davanti a dei cereali.
Ero decisamente impazzita.
Quella donna mi aveva fatto impazzire.
Per tutta la settimana non avevo fatto altro che pensare al suo sorriso, ai suoi occhi, al modo in cui si muoveva.
Ma avrei avuto oggettivamente più probabilità di incontrarla se mi fossi appostata fuori dal Mercy West e rotta un braccio dopo essermi assicurata che ci fosse lei di turno.
“Un momento, come mai non ci ho pensato prima? Posso rompermi un braccio! O una gamba, forse...”
Ok, stavo decisamente iniziando a dare di matto.
Decisamente.
Sentii una risata alle mie spalle. Immediatamente mi voltai, trovandomi davanti l'oggetto delle mie ossessioni.
“Callie” la salutai con tono di voce innaturalmente alto. “Che ci fai qui?” cercai di sembrare disinvolta.
Lei mi guardò, palesemente divertita.
“Volevo una scatola di quei cereali” indicò un punto alle mie spalle. “Sono stata in astinenza per una settimana, quando una bionda mi ha rubato l'ultima scatola rimasta praticamente da sotto il naso. Sto cercando di non ripetere quell'esperienza, quindi.”
Ne presi una scatola, porgendogliela.
“Che pessima persona, questa bionda” finsi un'espressione seria ed empatica. “Ehi, aspetta un momento” mi afferrai una ciocca di capelli, portandomela davanti agli occhi e fingendo di controllarne il colore.
Lei scoppiò a ridere, prendendo la scatola che le stavo porgendo.
“Allora, anche tu fai spesa tutte le settimane alla stessa ora?” chiesi, cercando di apparire meno imbranata di come mi sentivo in quel preciso istante.
“In realtà, speravo di rincontrare te” ammise, l'accenno di un sorriso sulle labbra, mentre distoglieva lo sguardo.
Sorrisi come un'idiota, sospirando.
“Davvero?” domandai, schiarendomi la voce. “No, non è affatto quello il motivo per cui io sono qui” le comunicai. “Infatti, io avevo deciso che mi sarei rotta un braccio davanti al Mercy West nella speranza che ci fossi tu di turno.”
“Sembra una mossa un tantino drastica” mi fece notare, alzando un sopracciglio perfettamente scolpito.
“Però sembra che non ce ne sarà bisogno” le rivolsi un sorriso completo di fossette.
“Beh, sono felice di essere venuta. Ti ho risparmiato un sacco di dolore ed una lunga convalescenza.”
“Esatto. Hai fatto una buona azione” le feci notare con tono serio.
Scoppiammo a ridere insieme, rimanendo poi in silenzio per qualche istante.
“Ok, credo sia il momento di andare” sospirai, vedendo l'ora. “Ho il turno di notte, quindi devo prepararmi per il lavoro.”
“Non preoccuparti” mi sorrise.
Annuendo, mi incamminai verso il reparto successivo.
Non voltarti, non voltarti, non voltarti.
“Arizona?”
“Sì?” mi voltai immediatamente, incrociando il suo sguardo con aria speranzosa.
“Giovedì prossimo alle cinque in punto?”
Le rivolsi un mezzo sorriso.
“Davanti allo scaffale dei cereali” confermai.

Presi in mano una scatola di mais, controllando la data di scadenza.
“Non saprei. Presumo che Seattle abbia i suoi vantaggi. Ma anche prima non era male.”
“Ma non avevi un posto fisso in cui poter essere sicura di tornare. Per esempio, io so che se succedesse qualcosa, Miami sarebbe sempre lì, la casa in cui sono cresciuta sarebbe lì, e potrei tornarci se per qualche motivo dovessi averne bisogno.”
“Sei cresciuta a Miami?”
“Già. Tra il surf e i teppisti, lì c'è tutta la mia vita. Credo che anche la città in cui sono cresciuta abbia contribuito a fare di me quello che sono, in qualche modo.”
“Ma è stato così anche per me” confermai subito, mentre ci muovevamo in avanti spingendo i rispettivi carrelli. “Solo che io ho avuto più di un posto che mi ha influenzato ed ho assorbito più di una sola cultura.”
“Erano tutte grandi città?”
Scossi la testa. “La maggior parte erano posti isolati. I militari non stazionano esattamente in mezzo ai civili” scherzai.
“Quindi non avevi vissuto in una grande città, prima di Seattle?”
“Non vissuto, no. Ne ho visitate moltissime, tutte quelle vicino alle basi in cui lavorava mio padre, ma alla fine ci costringevano sempre a vivere in qualche paesino isolato dal mondo” alzai gli occhi al cielo, sospirando. “Ecco, credo che questo sia stato un po' il lato negativo della mia infanzia. La mentalità del paesino tendeva a limitarci, sia me che Tim. Questa è l'unica cosa che si potrebbe rimproverare ai nostri genitori.”
Rimanemmo entrambe immerse nei nostri pensieri, finché lei parlò di nuovo.
“E come è stato il passaggio alla città?”
Scrollai le spalle.
“Caotico. Rumoroso. Soprattutto di notte, ero abituata a dormire nel silenzio, mentre ora sento sirene di ogni tipo a tutte le ore della notte. Ma, per il resto, mi sono abituata in fretta. Come ti dicevo, il paese mi limitava.”
Annuì, continuando a camminare mentre prendeva una confezione di yogurt.
“Deve essere stato spettacolare, poter vedere tutti quei posti” rifletté a voce alta. “Ma rimango della mia idea che serva un posto da chiamare casa, alla fine della giornata.”
“Casa mia è Seattle” le feci notare. “Tutti i miei amici sono qui, le persone che amo sono qui. E i miei genitori vengono a trovarmi, ogni tanto. La maggior parte delle volte, sono io che vado a trovare loro.”
“Sai, pensandoci meglio, credo che Seattle sia anche casa mia. Non lo so, credo che in realtà il Seattle Grace fosse casa mia, prima che Webber...”
Io la bloccai immediatamente, presa in contropiede.
“Aspetta, lavoravi al Seattle Grace?”
“Sì. Mi sono licenziata perché il primario non voleva darmi un lavoro come strutturata” roteò gli occhi, palesemente ancora irritata dalla situazione.
“Quando è successo tutto questo?”
“Non saprei, credo tre o quattro mesi fa.”
Deglutii appena lo realizzai.
“Ho iniziato a lavorare lì quasi tre mesi fa. Ti ho mancata per pochissimo.”
Sospirò, gettando dentro il carrello del latte.
“Ringraziamo allora la nostra ossessione per i cereali, altrimenti avremmo rischiato di non incontrarci mai.”
Risi, pensando però a quanto le sue parole fossero vere, per me. E spaventose.
Era il quarto giovedì di fila che ci incontravamo da quando ci eravamo viste per la prima volta, quel giorno avevamo fatto spesa insieme e non mi era importato che Teddy non fosse venuta. Ci eravamo scambiate storie sulla nostra infanzia, sul lavoro, sulle nostre passate relazioni. E alla fine, quando arrivammo alla cassa, il tempo era volato.
“Allora, abbi una buona settimana” le sorrisi, mentre uscivamo dal supermercato.
“Anche tu. Giovedì prossimo, se vuoi...”
“Ci sarò” confermai ancora prima che avesse modo di terminare la frase.
Lei sorrise in modo radioso, annuendo. Ci incamminammo in direzioni diverse nel grande parcheggio e ben presto la persi di vista.
Quella volta, però, avevo la certezza che ci saremmo incontrate di nuovo molto presto.

“E allora io gli dico che non voglio più saperne niente e che non lo perdono. Non posso credere di aver quasi sposato quel tizio.”
Io risi, passandole la sua marca preferita di pasta mentre lei sceglieva il sugo.
“Voglio provare questo. Pesto al pistacchio, che ne dici?”
Corrugai la fronte, leggendo l'etichetta.
“Ne voglio uno anche io. Sembra una di quelle cose da cui potrei diventare dipendente” osservai, rubandole di mano il barattolino.
Alzò gli occhi al cielo scherzosamente, prendendone un altro e mettendolo dentro il suo carrello.
“Comunque, neanche io posso credere che tu abbia quasi sposato il tizio di chirurgia d'urgenza. Lo incontro tutti i giorni a lavoro e, se ho capito chi è, lasciamelo dire, non lo trovo assolutamente alla tua altezza.”
“Pensa che lui era convinto che io non fossi alla sua” rise amaramente, leggendo il retro di una confezione di piselli in scatola.
“Io non tratterei mai una donna così” risposi casualmente. “Soprattutto, non una come te. D'altra parte, per una principessa non può andare bene lo stalliere o il buffone del villaggio, quindi ripeto, non era alla tua altezza.”
Le vidi lanciare uno sguardo strano nella mia direzione e sorrisi immediatamente della sua perplessità.
“Che c'è?” domandai con una piccola risata, scrollando le spalle. “Metafora troppo medioevale, vero?”
“Tu frequenti anche donne?”
“Ah. No, in realtà no. Frequento solo donne” risposi, cercando di strapparle una risata, ma fallendo miseramente. “Questo sarà un problema per la nostra amicizia?”
Lei mi rivolse un mezzo sorriso.
“No. Perché dovrebbe?”
“Non lo so, sembravi presa abbastanza in contropiede” le feci notare.
“Solo perché non avevo mai seriamente preso in considerazione l'idea.”
“Oh, allora sei più ingenua di quello che credevo” le feci notare con una risata, guadagnando una sua occhiata di confusione. “Beh, diciamo che le prime due o tre volte che ci siamo incontrate, ci ho un pochino provato con te. Giusto un po'.”
Cercò di non ridere, ma ci riuscì a malapena.
“Le prime tre volte, ci stavo provando anch'io. Poi ho pensato di aver iniziato ad immaginarmi delle cose perché sono sola e disperata, quindi ho lasciato perdere.”
“Ah! Tu sola e disperata? Ti prego, Calliope, è un insulto alla mia intelligenza.”
“Sono assolutamente seria” mi informò, un'aria di finta indignazione.
“Ok, guardati attorno. Ore due, il tipo al banco del pesce, ti sta fissando da quando siamo entrate, e non sto esagerando. Il ragazzo alla tua sinistra continua a sorriderti ogni volta che guardi nella sua direzione, il commesso del reparto dei surgelati ogni giovedì prova ad attaccare bottone. Ho solo iniziato, potrei elencarti almeno un'altra decina di persone. E siamo dentro un supermercato” le ricordai. “Pensa cosa potresti fare con un vestito da sera. Scommetto che ogni volta che entri in un locale qualcuno ha un infarto.”
Scoppiò a ridere. “E in questo caso chi di loro ha avuto un infarto?”
Sorrisi a me stessa, gettando dentro il carrello il bagno schiuma che avevo in mano, scrollando le spalle e procedendo verso il prossimo reparto.
“Quella sarei io.”
Sentii il suo carrello bloccarsi per qualche istante. Poi, dopo aver assorbito le mie parole, si affrettò a seguirmi.

Avevo letto quasi ogni etichetta di tutte le creme per le mani che tenevano all'ingresso.
“Chi capisce cosa contengono queste creme deve essere un genio o uno schizzato. Voglio dire, io sono un medico e nemmeno io so cosa è metà della roba che sta qui dentro” osservai, rimettendo a posto l'ennesima confezione.
“Quante volte ancora ti troverò a parlare da sola dentro un supermercato?”
“Calliope” mi voltai, sorridendole. “Ciao.”
“Scusa il ritardo, ero in sala operatoria.”
“Non preoccuparti, non sono qui da molto” mentii.
“Questo spiega perché parlavi con la crema per le mani” annuì, un sopracciglio alzato e l'aria scettica.
“Beccata” mi arresi, scuotendo la testa ed iniziando a camminare con lei al mio fianco.
“Posso farti una domanda?”
“Spara.”
“Chi ti ha detto il mio nome per intero?”
“Ah. È stata la Bailey. Involontariamente, però. Ho avuto uno dei tuoi vecchi casi, qualche settimana fa, ed ho letto la firma sulla cartella.”
“Che caso era?”
“Andrew Thomas.”
“Aspetta, il bambino che si faceva male di continuo? Avevamo chiamato i servizi sociali.”
“Già, ma a quanto pare non sussistevano elementi necessari per portare via il bambino ai suoi genitori, quindi gli episodi sono ricominciati.”
Sospirò, passandosi una mano sul viso.
“Qualche volta odio questo lavoro.”
“Qualche volta, lo odio anche io” mormorai.

Stavo tenendo il broncio.
Io, una donna matura, un chirurgo, stavo seduta nel sedile del passeggero e tenevo il broncio.
“Non capisco perché non mi hai lasciato andare da sola.”
“Qual'è il tuo problema? Ti sto accompagnando a fare spesa, fino a due mesi fa ci andavamo sempre insieme.”
“Beh, le cose sono cambiate adesso. Tu mi hai abbandonato ed io sono andata avanti con la mia vita, Teddy. Adesso faccio spesa con qualcun'altra.”
Inchiodò in mezzo al parcheggio, voltandosi nella mia direzione.
“Cosa?”
“Cosa?” distolsi lo sguardo, cercando di apparire innocente.
“Con chi è che faresti spesa?”
“Eh, io...Sai, no...Ecco...”
“Oh, non dirmelo. Questa storia sta andando ancora avanti. Adesso ho capito perché non volevi che venissi insieme a te a fare spesa, da un po' di tempo a questa parte. Quanti giovedì sono che la incontri?”
“Questo è il nono.”
“Ti sei fatta dare il suo numero?”
“Non ancora.”
“E cosa stai aspettando?”
“Non lo so, Teddy” sospirai, sprofondando nel sedile. “Che lei dica qualcosa che mi faccia capire che è interessata?” domandai, scoraggiata.
“Ok, voglio assolutamente vederla, adesso.”
“Potresti conoscerla” mormorai, mentre scendevamo dalla macchina.
“Come, scusa?”
“Potresti conoscerla. Forse. Perché, ecco” mi schiarii la voce. “Lavorava al Seattle Grace, prima, quindi...”
Prima di poter aggiungere altro, me la ritrovai davanti.
“Callie?”
“Teddy” le sorrise, incredula. “Come stai?”
“Bene, direi. Tu come stai? Cavolo, era un secolo che non ci vedevamo” si sporse, abbracciandola velocemente.
“Tutto ok. Sai, le cose sono state dure all'inizio, ma adesso va meglio. Diciamo che me la cavo, tutto sommato.”
“E Addison come sta?”
“Bene. Sta bene. Sai, tanto bene quanto può stare qualcuno che è fuggito via e non ha mai avuto il coraggio di ammettere perché.”
Teddy rilasciò una risata amara.
“Qualche volta mi illudo ancora, sai, che potrebbe ripensarci e tornare indietro. Dirmi di aver sbagliato. Chiedermi di darle una possibilità.”
“Credo che questa sia la conferma che le persone non cambiano mai.”
Ci fu una lunga pausa. Qualcosa di pesante si era soffermato nell'atmosfera tra loro due. Qualcosa di irrisolto. Di non perdonato.
“Callie, sai che Cristina...”
“No, lascia stare Teddy. Io e Owen non saremmo mai durati, insieme. Cristina lo amava, ed io questo lo capisco. Quello che non riesco a capire è perché non ha mai avuto il coraggio di venirne a parlarne con me.”
“Voi due dovevate sposarvi.”
“È successo tutto troppo in fretta, lo sai” sminuì con una smorfia. “Probabilmente non saremmo mai arrivati fino in fondo con quella storia, in ogni caso. Ma lei avrebbe dovuto dire qualcosa, magari prima di esserci stata a letto insieme.”
Di nuovo, ci fu un silenzio pesante.
“Mi manca averti attorno, lo sai? Mi facevi sorridere sempre. Tu, Addison e Arizona siete le uniche persone a riuscirci sempre, anche con le cose più banali” scosse la testa, perdendosi nei ricordi che le avevano affollato la mente.
“Anche tu mi manchi” mormorò la donna dai capelli corvini. “Mi mancate tutti e mi manca casa mia” lanciò uno sguardo nella mia direzione. “Ma sono andata avanti, ormai. È stato molto tempo fa. Cristina dovrebbe fare la stessa cosa.”
Fu allora che capii che, lasciandosi alle spalle il Seattle Grace, aveva lasciato indietro molto più che un ospedale. Aveva lasciato la sua casa, sì, ma anche la sua famiglia, i suoi amici. Le persone che amava e che aveva amato per anni.
Guardandomi un'ultima volta si voltò, dirigendosi verso l'ingresso del supermercato.
“Calliope” chiamai, facendo un passo avanti.
Non volevo, non potevo lasciarla andare.
Lei si voltò, sorridendomi, cercando di nascondere come meglio poteva le lacrime agli occhi causate dal ricordo di un passato che ormai aveva perso e da un futuro ormai irrealizzabile che le era scivolato tra le dita.
“Giovedì prossimo, giusto?”
“Alle cinque in punto, parcheggio tre, sezione B” confermai.
Lei annuì, voltandosi di nuovo e proseguendo per la sua strada.
Ed io, ingenua, che pensavo che il chirurgo d'urgenza di cui mi aveva parlato fosse George O'Malley. Non avevo mai considerato che il problema potesse non essere il tradimento in sé, ma la donna con cui era stata tradita.

Presi due tipi diversi di pasta, appoggiai la mia nel carrello a destra e quella che invece piaceva a lei in quello a sinistra.
“Quindi alla fine avevo ragione e siamo riusciti a salvarlo. La tua giornata come è stata?”
Mi passò il latte che di solito compravo, scegliendo solo successivamente il suo.
“Monotona. Il giovedì lo è sempre” rispose, rivolgendomi un mezzo sorriso.
Ci fermammo davanti al reparto dei cibi da colazione.
“Come mai?”
“Lo passo ad aspettare di poterti vedere.”
Quello mi paralizzò per un istante.
“Sai, non ho mai pensato che Owen fosse la persona giusta per me, ma ho aspettato così tanto per qualcuno, che a quel punto mi sarei accontentata. Poi è andata come è andata e ho smesso di crederci, nella storia che avrei trovato qualcuno. Finché, un giorno, incontro te.”
Fece qualche passo avanti, prendendo in mano una scatola di quei cereali che mi avevano portato fino a lei.
“Ti ho aspettato per tutta la mia vita. Tutta quanta. E non dico di non essere felice che tu sia finalmente arrivata, sia chiaro. Dico solo che, beh, il tuo tempismo fa schifo.”
Non capii se stava scherzando o diceva sul serio.
Probabilmente era seria, perché sapevo che quello che era successo solo qualche mese prima con il suo ex fidanzato le aveva lasciato una cicatrice molto profonda.
Quando io l'avevo incontrata per la prima volta, lei era infelice. Queste erano parole sue.
Le ero rimasta accanto mentre guariva dalle sue ferite, le ero rimasta accanto e avevo aspettato per tre mesi. Ed avrei continuato ad aspettare, per me non era un problema.
Mi porse la scatola che aveva in mano, un sorriso sognante sulle labbra, mentre alzava gli occhi verso i miei.
Presi la scatola con una mano e rimanemmo così, entrambe con una mano che teneva i cereali, in mezzo al corridoio di un supermercato.
“Lo so. Il mio tempismo con te ha sempre lasciato a desiderare.”
Forse era stato il modo in cui era successo. Il fatto che non me lo aspettavo.
O forse il fatto che nella mia vita tutto era sempre stato troppo poco e, per essere arrivata all'improvviso, lei era troppo.
Ecco. Forse era stato questo. Che lei era arrivata all'improvviso ed io non ero abituata all'amore, non ero neanche abituata al pensiero di poter amare.
Avevo passato la mia vita a cercarla e quando finalmente l'avevo trovata mi ero resa conto che non avevo mai preso in considerazione l'idea di riuscirci davvero.
Credo sia stato questo. Ero molto più abituata al pensiero di dover stare senza di lei che insieme a lei, di dover sentire la sua mancanza ogni giorno che di doverla amare ogni secondo.
Ero impreparata all'amore.
Ero impreparata a lei.

“Quindi adesso che pensi di fare?”
“Non lo so” sospirò pesantemente. “Parlerò con Webber, credo, ma se mi ha licenziata prima della fusione, non vedo perché adesso dovrebbe riassumermi, visto che stanno anche facendo dei tagli al personale.”
“E se non ti riassume?”
“Beh, dovrò cercarmi un altro lavoro, che sarà probabilmente in un'altra città, se non addirittura in un altro Stato.”
Rimasi in silenzio a contemplare le sue parole.
E mi resi conto, per la prima volta, che forse era soltanto per quello che la stavo perdendo senza combattere.
La stavo lasciando andare semplicemente perché non sapevo come fare a farla rimanere.
“Mi stai ancora ascoltando?” chiese con una risata.
Tenni gli occhi fissi sulla scatola tra le mie mani.
“Ogni volta ci fermiamo qui davanti per almeno dieci minuti.”
Spostò gli occhi dal mio viso ai cereali.
“Pensi mai a dove saremmo adesso se quel giorno non ci fosse stata soltanto una confezione? Al fatto che probabilmente non ti avrei mai conosciuta? Insomma, il fatto che ci fosse rimasta solo una scatola è stato un po' il destino. Mi è stata data una possibilità quel giorno. La possibilità di incontrarti e di parlarti, di conoscerti, scoprirti poco alla volta, vederti sorridere ed imparare ad amarti.”
Sospirai, ridendo amaramente.
“Ma quella possibilità l'ho un po' buttata via, se ci pensi bene. Perché ho avuto quattro mesi di tempo ed ancora noi non stiamo insieme, non siamo niente. Quindi adesso che posso fare? Non posso chiederti di rimanere per me, perché non ne ho nessun diritto. Forse, chissà, se mi fossi giocata meglio quell'occasione che mi è stata data, adesso ci sarebbe stato qualcosa da dire che ti avrebbe convinto a combattere per rimanere. Ma non posso chiedere a te di farlo quando io per prima non ho combattuto.”
“Arizona...”
“Sai, quel giorno, quella scatola, ti ricordi? Alla fine l'hai lasciata a me. Ed io l'ho comprata, ma non l'ho mai aperta. La conservo ancora intatta sopra il mobile della mia camera da letto. Ogni giorno ci passo davanti e vedendola mi ripeto che quella sarà la settimana in cui avrò il coraggio di dirti qualcosa. O di buttare la scatola.”
Alzai gli occhi, incontrando i suoi.
“Ma a buttarla non riesco” ammisi, parlando piano. “Eppure non riesco mai neanche a dire qualcosa. Almeno, non qualcosa di significativo, di importante, che potrebbe cambiare il naturale corso degli eventi.”
“Non importa, se non riesci a dire niente. E non importa se non vuoi combattere. Non importa, perché se è quello che vuoi, non c'è bisogno che tu combatta o mi faccia un discorso con belle parole che poi non significano niente. Se questo è davvero quello che vuoi, mi basta una tua parola per farmi rimanere.”
Scossi la testa, porgendole la scatola.
“Non hai niente per cui rimanere” le dissi onestamente. “Non hai un lavoro, Addison è a Los Angeles. Tutto quello che ha qui è...”
“...te” concluse al posto mio.
“Già.”
Fece un passo nella mia direzione. Ci fermammo ancora davanti a quello scaffale, ancora una volta al punto di partenza.
Le porsi il mio cellulare.
“Se mi lasci il tuo numero, possiamo sentirci ogni tanto.”
Lei lo scrisse velocemente senza la minima esitazione, poi mi passò il suo. Feci la stessa cosa, ma era inutile.
Sapevamo entrambe che non ci saremmo mai sentite.
Il nostro mondo, la nostra bolla rosa, era lì dentro, in quel supermercato. Davanti ad uno scaffale, vicino ad una scatola di cereali.
Appoggiai una mano sulla sua guancia e la baciai sulle labbra velocemente, in un soffio. Lo feci in modo da non farmi divorare dal rimpianto, ma non mi soffermai in modo da non farmi, in futuro, bruciare viva dal ricordo.
Proseguimmo in silenzio verso la cassa, salutandoci con la promessa di avere ancora un altro giovedì.

“Non posso crederci” sentii un misto di tristezza e irritazione.
“Nemmeno io.”
“Scriverò una lettera a questi incompetenti.”
“Lo farò anche io. Non credo che sia neanche possibile fare una cosa del genere.”
“Beh, se vogliamo guardare in faccia la realtà, probabilmente possono farlo eccome.”
“Vero. Alla fine è il loro supermercato.”
“Quando andrai via?”
“Credo martedì prossimo.”
“Quindi questo è il tuo ultimo giovedì in città? Almeno a te non mancheranno, allora. Magari a Chicago li vendono ancora.”
Rimanemmo a guardare mentre gli ultimi cartoni con i nostri cereali venivano portati via, rimpiazzati dalla nuova marca messa sullo scaffale al loro posto.
“Mi mancherà questo posto.”
“Eh, sì. Seattle è molto bella.”
“Intendevo il supermercato. Questo scaffale” la guardai con aria scettica. “E va bene, d'accordo. Lo sai. Intendevo te.”
Rimanemmo a guardare ancora quei nuovi cereali dalla scatola blu. I nostri erano gialli. Molto più belli. E avevano mandorle e noci dentro, quelli erano ad una cosa triste tipo la vaniglia o qualcosa del genere.
“Vuoi che venga ad accompagnarti in aeroporto?” le chiesi.
“No, va bene così” mormorò. “È qui che tutto è iniziato. È poetico che sia qui che tutto sta finendo.”
“Come sopravviverò? Tu te ne stai andando e adesso non ho neanche i miei amati cereali con cui consolarmi” scherzai. “Tutte le mie certezze mi si stanno sgretolando tra le mani.”
Lei rise piano, timidamente e quasi con paura.
“Anche le mie” sussurrò.
Uno dei commessi ci si mise davanti, iniziando a passare la pisola elettronica sui nuovi codici a barre.
“Anche le mie” ripeté.
Quando entrambe finimmo di caricare le buste sulle rispettiva automobili, ci voltammo l'una verso l'altra.
Si mise la mani nelle tasche del giacchetto, mentre io giocavo con le mie chiavi.
Ci guardammo di nuovo negli occhi ed io mi strinsi nelle spalle.
“Penso che sia tutto. Ho il tuo numero, tu hai il mio numero. Ma io sono a Seattle e tu stai andando a Chicago, quindi forse è meglio che lasciamo andare adesso.”
“Forse è meglio” annuì. “Chissà. Potrei trovare un aereo che mi porti qui di giovedì pomeriggio giusto in tempo per poter fare la spesa.”
Risi, annuendo. “Non sarebbe male. Ma decisamente non sarebbe molto economico.”
“Senza contare che sarebbe una cosa negativa per l'ambiente.”
Non mi era rimasto altro da dire. Almeno, non cose importanti. Così decisi di non dire niente.
“Vieni qui” mormorò, allargando le braccia.
Rimanemmo immobili per non saprei dire quanto tempo, vicine fisicamente quanto ormai lo eravamo da tempo emotivamente. Rimanemmo legate in quell'abbraccio che significava tutto e ancora non riusciva ad essere abbastanza.
“Tu ci credi ai colpi di fulmine?” domandai.
“Non lo so. Tu?”
“Ho provato a non crederci. E ci stavo riuscendo a meraviglia, prima di incontrare te. Quindi, tanto perché tu lo sappia, do la colpa a te, per questo.”
Mi allontanai, fingendo un sorriso e trattenendo le lacrime.
I suoi occhi brillavano almeno quanto i miei.
“Mi sta bene. Perché io sto incolpando te, quindi così siamo pari.”
Mi baciò sulla guancia, poi sulle labbra per tre volte.
Senza dire altro, aprì lo sportello della sua automobile.
“Calliope?”
“Sì?”
“Sarebbe stata una gran bella storia d'amore da raccontare ai nostri nipoti, però.”
“Di come ci siamo incontrate davanti ad una scatola di cereali?”
“E di come lì ti ho baciata per la prima volta, di come per cinque mesi ci siamo viste due ore ogni giovedì e ci siamo fermate davanti a quello scaffale.”
“Sì, sarebbe stata una gran bella storia” confermò. “Ma anche raccontata così com'è non è poi tanto male.”
“Il finale potrebbe essere migliore, però.”
“Forse” concesse. “Ma sono rari gli autori bravi a scrivere i finali.”
“Probabilmente un finale migliore ce lo saremmo dovuto scrivere da sole, senza dare troppo credito al destino, allora.”
“Già. Ma rimane una storia d'amore decente anche così.”
“La migliore.”
Sorrise per l'ultima volta, salendo in macchina e richiudendosi la portiera alle spalle.
La guardai andare via salutandola per l'ultima volta con la mano, mentre lei faceva lo stesso passandomi accanto.
“La migliore” mormorai, chiudendo gli occhi.

Tutte le parti di una storia sono importanti, ma ci sono solo due momenti che la definiscono.
Solo due momenti, sono assolutamente fondamentali.
Come inizia.
E come finisce.

Ero rimasta a fissare quello scaffale non so più neanche per quanto tempo. Sapevo che almeno la prima volta mi sarebbe successo.
“Arizona, mi stai ascoltando?”
I nostri cereali ormai non c'erano più. E nemmeno lei.
“Mi manca da morire, Teddy. Ed è passata solo una settimana.”
La sentii sospirare.
Presi una confezione di quei nuovi cereali dalla scatola blu, stringendomela contro il petto.
“Non riesco a pensare ad altro che a lei, non posso dimenticarla.”
“Andrà meglio, con il tempo.”
“Come?” domandai, sentendo le lacrime farsi strada dentro i miei occhi. “Lei non c'è, l'ho persa per sempre, adesso vive a Chicago ed io sono qui, in un supermercato che neanche vende più i miei cereali preferiti, e sto avendo un crollo nervoso nel reparto dei cibi per la colazione” le feci notare, sospirando pesantemente. “Mi sento come se io e lei ci fossimo lasciate, ci credi? Come è possibile?”
Sospirando mi appoggiò una mano sulla spalla.
“Perché tu e lei, in un certo senso, vi siete lasciate. Sei passata dal vederla spesso, da non aspettare altro che incontrarla, a non parlarne per niente. È stato un trauma. Ma, come tutti i traumi, anche questo guarirà.”
“Non voglio guarire” mormorai, stringendo di più quei cereali inutili. “Voglio solo riaverla indietro.”
Ma lei, indietro, non tornò.

“Sì, Teddy. Va bene, ok” sospirai. “Non ti ho aspettato perché prima o poi dovevo in ogni caso ricominciare a venire qui da sola. So che questo posto mi ricorda di lei, ma non posso evitare il supermercato per il resto dei miei giorni solo perché lei non c'è. Sono passate tre settimane, non posso continuare a rifiutarmi di uscire dalla mia camera da letto, devo farmene una ragione, perché lei non tornerà” riattaccai il telefono.
Ero nella fase in cui fingevo una forza che non avevo.
Spinsi il carrello, sovrappensiero, ripensando per tutto il tempo a quando lei percorreva quei corridoi al mio fianco.
Mi fermai, come sempre, davanti allo scaffale vicino al quale l'avevo vista per la prima volta.
Risi con forte ironia, quando notai che era rimasta solo una scatola dei cereali blu che avevano rimpiazzato i nostri.
“L'universo sta cospirando affinché lei sia sempre il mio unico pensiero. Non c'è altra spiegazione ad ogni secondo della mia vita.”
Allungai una mano, scontrandomi con qualcuno che stava cercando di prendere la stessa scatola di cereali.
“Come mai ti trovo sempre ad avere lunghe discussioni con oggetti inanimati, qui dentro?”
Raddrizzai la schiena, guardandola negli occhi.
Avevo mille domande, ma decisi che non era quello il momento giusto per farle. Quello era il momento giusto per agire.
Così la abbracciai di slancio, baciandola. Un bacio vero, di quelli che non riusciresti a dimenticare neanche se lo volessi.
Rimasi con la fronte appoggiata contro la sua, le braccia attorno al suo collo.
“Che ci fai qui?”
“Ho convinto Webber a riassumermi. Non era felice che un suo vecchio amico di Chicago si stesse vantando di avergli soffiato via il miglior chirurgo ortopedico della nuova generazione da sotto il naso.”
Mi allontanai leggermente, vedendo il suo sorrisetto e colpendola su un braccio.
“Tu lo avevi programmato” la accusai, indignata, ma non riuscendo ad evitare di sorridere.
“Certo. Pensavi che me ne sarei andata davvero senza lottare? Che non ti avrei chiamato in lacrime il giorno dopo, implorandoti di continuare a sentirci? Però devo dire che c'è voluto più tempo di quanto avevo previsto. Se lo avessi saputo, avrei detto qualcosa prima di andare via.”
“Ma” corrugai la fronte. “Qui non hai un appartamento. E tutta la tua roba...”
“La mia roba è sempre rimasta qui. Beh, almeno la maggior parte. Mi hanno offerto un posto a Tacoma, se non fossi riuscita a farmi riassumere a Seattle, avrei fatto la pendolare.”
Le presi il viso tra le mani, sorridendole.
“Sei incredibile. Ma mi hai spaventato a morte, ero fermamente convinta che non saresti più tornata.”
“Non volevo spaventarti, Arizona. Come ho detto, credevo che ci sarebbe voluto meno tempo. Speravo di essere qui il giovedì successivo, ma non ce l'ho fatta. Mi dispiace aver mancato due dei nostri appuntamenti.”
Risi, scuotendo la testa.
“Sei perdonata. Tutto quello che conta è che tu sia qui.”
La baciai di nuovo, incurante del fatto che eravamo dentro un supermercato.
“Vieni” le dissi, allontanandomi e porgendole una mano. “Andiamo da qualche altra parte che non sia questo posto.”
“D'accordo” rispose, prendendo i cereali dallo scaffale. “Ma questa volta l'ultima scatola di cereali tocca a me.”

“Che ne pensi di questo?”
“Può andare” scrollai le spalle.
“Può andare?” inarcò un sopracciglio.
“Beh, è un tappetino per il bagno. Vuoi un discorso poetico su quanto te ne serva uno esattamente uguale a questo?”
Lei scoppiò a ridere.
“Perché no” rispose. “Con i discorsi poetici sui cereali vai alla grande” mi fece notare.
Ridendo la abbracciai, baciandola sulla spalla.
Lei prese uno dei tappetini, gettandolo nel carrello.
“Siamo finalmente arrivate alla tua parte preferita del tour” mi informò, fermandosi davanti al nostro scaffale.
Prese due scatole, mettendole nei nostri rispettivi carrelli.
“Sai, visto che mangiamo gli stessi cereali, potremmo risparmiare comprandone soltanto una scatola.”
“Ci durerebbe la metà del tempo, non sarebbe un vero risparmio” mi fece notare, ridendo e passando oltre.
Alzai gli occhi al cielo, seguendola velocemente.
“Allora diciamo che, anche comprandone due scatole, potremmo evitare di farli seccare se ne aprissimo una alla volta.”
“Oh, sì” rispose ironicamente. “Sarebbe senza dubbio molto comodo portarla ogni mattina avanti e indietro dal mio appartamento al tuo.”
“Beh, in quel caso, forse dovremmo vivere nello stesso appartamento.”
Si bloccò all'istante, voltandosi nella mia direzione.
Le rivolsi un sorriso completo di fossette.
“Mi stai chiedendo di andare a vivere insieme?”
“So che non è molto romantico, farlo davanti ad uno scaffale di cereali. Ma è qui che tutto è iniziato.”
Mi sorrise, scuotendo la testa.
“No, qui è perfetto” mormorò, baciandomi velocemente. “Assolutamente perfetto.”

È buffo come anche una piccola cosa riesca a coglierti completamente alla sprovvista, certe volte. Come anche il più piccolo dei dettagli riesca a cambiare la tua giornata, stampandoti un sorriso sulle labbra.
Anche la cosa più insignificante, se ti coglie di sorpresa, può riuscire a lasciarti completamente senza fiato.
“Che stai facendo?” chiese, appoggiando il mento sulla mia spalla, abbracciandomi da dietro.
“Guarda” le mostrai la scatola che avevo in mano. “Hai idea da quanto tempo non erano più in commercio?”
Lei rise, prendendo la scatola gialla dalle mie mani.
“Oh, mio Dio” mormorò.
“Che non vedevo una scatola del genere saranno...”
“...due ore?” chiese ridendo. “Ce n'è una uguale in camera nostra, vicino a quella blu.”
“Beh, cosa pretendi? Sono stati due momenti importanti, la prima volta che ci siamo viste e quando sei tornata da me. Ci servivano dei promemoria.”
Rise, mettendo la scatola nel carrello accanto a noi.
“Sarà una storia favolosa da raccontare a nostro figlio.”
“O figlia” mi contraddisse immediatamente, toccandosi la pancia con la mano sinistra, come faceva sempre quando una di noi lo nominava.
“Sono sicura che sarà un bambino.”
“Cosa te lo fa pensare?”
“Lo so e basta. Ci sono cose che io semplicemente so.”
“Ah, questa è bella. Fammi un esempio.”
“Beh, avevo detto che Sofia sarebbe stata una femmina, sbaglio?”
“Fortuna. Soltanto fortuna.”
“E poi avevo detto che sarebbero state due gemelle, quando eri incinta di Sara e Jessica.”
“Hai sbirciato l'ecografia, Addison può confermare la mia versione.”
“Calliope, fidati. Jamie è un maschietto” mormorai, appoggiando una mano sulla sua sopra la sua pancia e sorridendole.
Lei rise, scuotendo la testa, prima di baciarmi a fior di labbra.
“È un sacco di tempo che non mangio questi cereali. Non vedo l'ora di essere a casa per assaggiarli di nuovo” mi informò.
Intrecciai le dita con le sue.
“Sarà una gran bella storia d'amore da raccontare ai nostri nipoti.”
“Già. Ed ha un finale perfetto, stavolta.”

Tutte le parti di una storia sono importanti, ma ci sono solo due cose che la definiscono.
Come inizia.
E se finisce.
E la nostra non sarebbe finita mai.




Fate quello che vi rende felici. Tenetevi strette le persone che vi fanno sorridere. Vivete ed amate, anche quando fa male, perché ne vale la pena.



Ritorna all'indice


Capitolo 55
*** La nostra prima accettazione ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: -



La nostra prima accettazione


Nessuno parla mai di come è dopo.
Tutti i film, tutti i libri, tutte le favole, finiscono con il lieto fine. Sul più bello. Ma dopo il lieto fine? Dopo il matrimonio con il principe? Dopo aver sconfitto la strega cattiva? Dopo cosa succede a tutti quei sogni, quelle speranze, quelle promesse?
Io non mi ero mai chiesta cosa sarebbe venuto dopo la felicità. Avevo dato per scontato che l'obbiettivo fosse raggiungerla, non tenersela.
Ma se tutti quei film, quei libri, continuassero, probabilmente finirebbero come sono iniziati. Con un protagonista estremamente infelice. Perfino le favole.
E se Biancaneve si rendesse conto di aver sposato un perfetto estraneo? Forse Cenerentola capirebbe di essere sempre stata innamorata del ragazzo che tagliava la legna per la sua matrigna.
In fondo nelle favole il principe arriva alla fine, bacia la principessa, la sposa e risolve tutti i suoi problemi. Come se fosse così facile. I problemi non spariscono per magia solo perché decidi di sposarti.
Un tempo anch'io avevo creduto nel lieto fine. Nel principe azzurro. Ma avevo imparato, sulla mia pelle, che le storie non finiscono sempre con lacrime di gioia. Però finiscono.
Ed è allora che inizia il difficile.

La (mia) negazione
“Tornerà.”
Ricordo ancora adesso che l'unica cosa che ero stata in grado di pensare per un'intera settimana era che non poteva essere vero.
Sembrava tutto così surreale, così diverso dalla vita di sempre. Sembrava che stessi vivendo la vita di qualcun altro.
Era come se mi mancasse un pezzo. Un pezzo molto grande.
“Non è reale” mi ripetevo. “Tornerà.”
Ma non potevo sapere quanto mi sbagliassi.
“Tornerà tutto come prima.”
Ma non era vero. E forse in fondo l'avevo sempre saputo. Ma la verità faceva troppo male, la ferita era troppo fresca. Preferivo mentire palesemente a me stessa.
Come tutti i miei amici avevano prima di me, come mi era stato insegnato, come ero sempre stata abituata a fare, cercai le risposte sul fondo di un bicchiere. E, nonostante sapessi che non ce n'erano, continuai a cercare bene e insistentemente.
“Come è successo anni fa a Derek” annuii con enfasi. “Tornerà.”
Derek ed Addison si scambiarono uno sguardo.
“Forse” concesse Addison.
Derek, apparentemente convinto del contrario, mi afferrò una mano, invitandomi ad alzare lo sguardo.
“Forse no” sussurrò, lo sguardo triste. “Ricordi che è successo ad Addison?”

La negazione (di Addison)
“Tornerà.”
Io e Derek annuimmo, distogliendo lo sguardo e cercando di non dire niente che la facesse scattare, cosa che in quel periodo succedeva più spesso di quando ci sarebbe piaciuto.
Far arrabbiare Addison era l'ultima cosa che volevamo succedesse quella sera.
“Sì, perché no?” concessi. “Forse sì.”
“Ne sono sicura. Tornerà.”
“Beh, c'è questa possibilità, sì. Ma, Addison, ormai è un mese che se n'è andato. Non pensi che se avesse dovuto cambiare idea, probabilmente l'avrebbe già fatto?”
“Beh, chi può dirlo? Forse pensa che io non lo perdonerei. Pensa che io sia andata avanti.”
“Siete stati insieme due anni. Dubito che Mark pensi che lo hai dimenticato completamente in un mese” le fece notare Derek forse un po' troppo duramente.
“Quello che Derek sta cercando di dire” presi la parola, dando un piccolo calcio al mio amico da sotto il tavolo “è che se Mark volesse riprendere la vostra storia, probabilmente tornerebbe indietro e combatterebbe.”
Lei si versò dell'altro vino, ignorando le nostre parole e continuando a percorrere il suo soggiorno a grandi passi.
“Credete che stia ancora vedendo quella ragazzina?”
“Addison, forse dovresti...”
“Dimmelo, Derek. Dimmelo in faccia. Sta con la tua mini cognata ora, o cosa?”
Lui mi guardò di sottecchi, mentre la rossa si fermava davanti al tavolo, fissandoci dall'alto in basso.
“Forse dovresti andare avanti” terminai la frase iniziata da Derek poco prima.
“Tornerà” insistette lei per l'ennesima volta. “Vi siete dimenticati cosa è successo a Derek l'anno scorso?”

La negazione (di Derek)
“Tornerà.”
Eravamo state lì sedute per due ore. Fuori da quella stupida roulotte, nel freddo gelido di dicembre, ad aspettare.
E la prima parola che uscì dalla sua bocca fu una palese negazione della verità.
“No, Derek. Non tornerà. Non tornano mai” gli rispose Addison, finendo di scolarsi la sua birra.
“Sì, invece. Lei tornerà. Ha solo bisogno di tempo.”
“Lo sai anche tu che è solo un modo di dire. Non tornerà mai.”
“Cosa te lo fa dire con così tanta sicurezza?” le chiese, incrociando le braccia e guardandola in modo truce.
Addison distolse lo sguardo, stringendosi nelle spalle. Afferrò un'altra bottiglia, aprendola ed inspirando forte.
“Tu” rispose semplicemente.
Lui apparve confuso. Mi guardò, ma io ero confusa quanto lui.
“Pensi che la roulotte la fermerà? Pensi che non tornerà perché ora vivo in mezzo al nulla e ho la barba incolta, perché penserà che sono cambiato?”
“No, no. Tu hai detto a me la stessa cosa che ha detto lei a te. Che volevi tempo per te stesso.”
Rimanemmo in silenzio a lungo.
Io iniziai ad essere preoccupata. Non parlavamo mai del loro passato. Era stato tanto tempo prima e a nessuno di noi piaceva rivangare qualcosa che ormai era stato lasciato indietro. O almeno, così io e Derek avevamo pensato.
“Le persone non tornano. Non per davvero. Non in tempo.”
“Io sono tornato per te.”
Era quello che ci aveva reso così perplessi. Il fatto che Addison aveva detto una cosa completamente falsa nonostante sapeva benissimo che noi conoscevamo già la loro storia almeno quanto lei.
“Sei tu che non mi hai ripreso indietro.”
“Appunto” disse lei, come se quello spiegasse tutto.
Quando si rese conto che noi non avevamo capito, continuò.
“La vita continua, Derek. Tu adesso pensi che la tua vita senza lei non esista. Che sia impossibile da dimenticare, da superare. Ma la vita va avanti anche se tu vuoi aspettarla, anche se l'ami ancora, la vita non si ferma, la vita insiste e continua per la sua strada. E, alla fine, anche tu continuerai per la tua. Ti rialzerai e ricomincerai a camminare e non vorrai più guardare al passato. Forse tornerà, sì, ma tu non la vorrai indietro, perché tu sarai andato avanti.”
Continuò a guardare il suo profilo illuminato dalla luna mentre stava bevendo direttamente dalla bottiglia e per un secondo, solo un secondo, mi ritrovai a chiedermi come le cose tra loro fossero potute andare così storte.
“Non so se posso.”
“Certo che puoi.”
“No. Non da lei. Non da noi. Non così.”
“Derek” si voltò per la prima volta verso di lui da quando aveva parlato, prendendogli una mano. E lui si accorse, in quel momento, dei suoi chiari occhi lucidi. “Ce l'ho fatta io, dopo di te. Tu puoi farlo ad occhi chiusi.”
Derek continuò a guardarla finché lei tornò a bere, voltandosi.
“Non sarà necessario” decretò dopo qualche istante. “Perché lei tornerà.”

La rabbia (di Derek)
“Se ne pentirà.”
“Ed eccoci qui di nuovo” mormorò Addison, accendendo la televisione.
“Mi state ascoltando?” sbottò, percorrendo l'appartamento della rossa da una parte all'altra. “Non sto scherzando. Se ne pentirà amaramente. Quell'idiota del suo nuovo fidanzatino quanto pensate che durerà?” rise ironicamente. “Al massimo due settimane, poi si stuferà di lui.”
“Come si è stufata di te” gli feci notare, pentendomene appena lui si fermò improvvisamente davanti a noi.
“Scusami?” chiese, gli occhi pieni di feroce rabbia.
“Non intendevo...” inspirai, alzandomi. “Derek” sospirai “ammetti che è andata così, ok? Lei ti ha chiesto tempo per se stessa e adesso sta con un altro. Si era stancata di voi. Mi dispiace.”
“Tu non sai di cosa stai parlando” urlò, ricominciando a camminare per la stanza, gesticolando come un pazzo. “Mi pare evidente che non conosci minimamente Meredith se questo è quello che pensi di lei.”
“Come hai detto che si chiama questo tizio?” domandò Addison addentando una patatina e cercando di vedere la televisione nonostante Derek le stesse bloccando la visuale.
“Non lo so, so soltanto che è un veterinario” mise in quella parola ogni briciola di disgusto che un essere umano sarebbe mai in grado di provare.
“Beh, comunque mi pare evidente che lei è andata avanti. Dovresti fare la stessa cosa” gli dissi, buttandomi di nuovo seduta sul divano con un grande sospiro.
“Non se ne parla, io non mi arrendo” decretò. “Se ne pentirà amaramente! E quando capirà di aver commesso un errore di proporzioni epiche tornerà da me” era così sicuro che le cose sarebbero andate in quel modo che né io, né ancora meno Addison, trovammo il coraggio di provare a contraddirlo. “Ah, ma io mica me la riprenderò indietro! Nossignore. Poteva pensarci prima, giusto?”
“Sì, sì, giusto” mormorò Addison, continuando a guardare la sua soap preferita, cercando di ignorare l'uomo che stava urlando dentro casa sua.
Lui, accorgendosi di essere ignorato, afferrò il telecomando, spegnendo la televisione.
“Ehi, io lo stavo guardando” gli fece notare Addison. “Rimettilo.”
“Sto avendo una crisi esistenziale. Sarebbe un problema così grande per te darmi un po' della tua attenzione?”
“Tesoro, sono tre mesi che ti diamo costantemente la nostra attenzione. Tu continui a parlare di un fantasma, ok? Lei non ha la minima intenzione di tornare e non mi sembra che si stia pentendo di averti lasciato. Anzi, sembra piuttosto felice con il veterinario. È davvero ora che tu te ne faccia una ragione e vada avanti, Derek.”
Io mi alzai, capendo che era ora di cambiare argomento.
“Ehi, stavo pensando che potremmo andare a mangiare cinese stasera. Oppure possiamo ordinarlo se non vi va di uscire” proposi, cercando di distrarli.
“Beh, scusa tanto se sto soffrendo.”
“Ok, quindi niente cinese. Spagnolo? Messicano? Italiano?”
“Nessuno ti dice di non soffrire. Ma devi ricominciare a vivere. Non puoi aspettare per tutta la vita qualcuno che non tornerà mai.”
“Thailandese? Greco? Giapponese?”
Lui fece un gesto nella mia direzione, fermandomi dal parlare a vanvera. Poi incrociò gli occhi di Addison con aria di sfida.
“Vorrei proprio vedere come reagiresti tu al posto mio.”

La rabbia (di Addison)
“Se ne pentirà.”
Fui presa dal panico, non avevo idea di cosa fare.
“Addison, ti prego. Siamo in mezzo ad un corridoio. Possono sentirci tutti quanti, non mi pare il caso di fare una scenata.”
“Beh, una scenata è il minimo che si può aspettare” urlò al massimo delle sue capacità, pronta per lanciarsi in una sfuriata epica.
Io la afferrai per un braccio, trascinandola in una delle stanzette di quel piano, chiudendo la porta alle nostre spalle e mandando un messaggio a Derek per chiedergli di raggiungerci. Di solito io ero più brava a calmare le sue lacrime, mentre lui affrontava meglio la sua rabbia.
“Addison, cerca di stare calma.”
Quella era probabilmente la frase peggiore che qualsiasi persona sulla faccia della Terra avrebbe mai potuto dire in un momento come quello.
“Calma? Dovrei stare calma?”
Capii dai suoi occhi che erano in arrivo altre urla. Ancora più potenti.
“Ops.”
Ricordo che pensai che, nei momenti in cui serviva davvero, Derek non c'era mai.
“L'ultima cosa che ho intenzione di essere è calma! Li hai visti? Allora, li hai visti?” urlò.
“Sì, certo che li ho visti. Ero proprio affianco a te.”
“Si tenevano per mano. Per mano! Prima che si decidesse a rendere pubblica la nostra relazione sono passati mesi! E da quanto starà frequentando quella piccola, infantile, sgualdrina? Due mesi, forse? Non posso crederci!”
Io ero, onestamente, sul punto di andare nel panico.
Ero sicura che la gente in corridoio potesse sentirci e non avevo idea di come farla calmare.
“Addison, senti” cercai disperatamente le parole giuste, solo per poi realizzare che, probabilmente, in quella situazione parole giuste non ce n'erano. “Lui...”
“Se ne pentirà! Lui si pentirà di avermi fatto questo.”
“Addison, tutto questo sei tu che lo stai facendo a te stessa” le dissi con una decisione che non avevo esattamente programmato. “Lui è andato avanti, questo mi pare ovvio. Si è rifatto una vita, adesso sta con un'altra persona. Non puoi continuare a ripeterti che tornerà o che se ne pentirà solo perché ti fa sentire meglio.”
Lei stava ribollendo di rabbia, ma non trovò le parole per contraddirmi.
Inspirai, cercando di calmarmi. Presi le sue mani tra le mie, guardandola negli occhi e cercando di far calmare anche lei.
“Lui sta andando avanti.”
Per un secondo vidi la consapevolezza attraversare i suoi occhi. Ma un attimo dopo era di nuovo sparita. Anche se già conosceva la verità, avrebbe fatto di tutto per non affrontarla.
“No. No, lui...” era così risoluta che mi fu chiaro che la persona che stava cercando di convincere era dentro quella stanza con me e lei, ma non ero io. “Tornerà. Se ne pentirà e tornerà indietro. Ti ricordi quello che è successo a Derek? Ti ricordi...”
“Era diverso, Addie.”
“No, no. Era così. Era la stessa cosa.”
“Era diverso” le dissi piano, consapevole che lei già lo sapeva.
“Ma che ne sai tu” disse, sfilando di colpo le mani dalle mie. “Tu non ci sei mai passata. Non ne sai niente.”
“So quello che devo sapere, ne so abbastanza. So che lui non tornerà. So che tu devi fartene una ragione e andare avanti.”
Lei scosse la testa, voltandosi di spalle e ridendo amaramente dei miei consigli.
“Vorrei proprio vedere come reagiresti tu al posto mio.”

La (mia) rabbia
“Se ne pentirà.”
Loro continuarono a parlare del più e del meno, ignorandomi.
“Se ne pentirà” ripetei a voce più alta.
Ancora una volta, Derek e Addison continuarono i loro discorsi, non prestando attenzione ai miei vaneggiamenti indotti dalla tequila.
“Non so se riusciremo a comprare tutto in tempo per il...”
“Se ne pentirà” ripetei per una terza volta, quasi urlando.
Sentii le loro voci fermarsi e i loro occhi guardarmi.
Ma fu solo un istante.
“...per il Natale, quest'anno” proseguì Addison.
“Mi state ignorando o cosa?” domandai, sventolando una mano davanti ai loro occhi. “Ho appena detto...”
“...che se ne pentirà” concluse Derek al posto mio. “Lo avevamo già sentito la prima volta che lo hai detto. Sono due mesi che non fai altro che ripeterlo.”
“Beh, perché è così. È quello che succederà.”
Scosse la testa.
“No, Callie. Mi dispiace. Non è quello che succederà.”
“Perché no? A te è successo, Meredith si è pentita” gli feci notare, appoggiando il bicchiere sul tavolo mancando di delicatezza.
“Io e Meredith eravamo l'eccezione.”
“Perché non posso essere anch'io un'eccezione? Solo per una volta, solo per questa volta” chiesi rabbiosamente.
“Io non lo ero” mi fece notare Addison pacatamente. “Ti ricordi? Quando Mark mi ha lasciato? Noi non eravamo l'eccezione. Di solito le cose vanno così, Callie. Di solito quando le persone si lasciano e c'è un buon motivo, come c'era per me e Mark, come c'è per te adesso, non si torna indietro. Derek e Meredith, loro non avevano un buon motivo per lasciarsi e ne avevano infiniti per stare insieme. Per noi non è stato così. Per te non è così. Ma non è la fine del mondo.”
Appoggiò le mani sulle mie.
“So che adesso sembra che lo sia, so che stai male. Che stai così male che ti sembra di non riuscire a vedere la fine del dolore che stai provando, neanche ad immaginartela, ma passerà. Il dolore passerà, la rabbia passerà, il senso di fallimento passerà. E l'amore, beh, alla fine, passerà anche quello. Non era vero amore. Passerà.”
“Non passerà” sfilai le mani dalle sue con forza, scuotendo la testa. “Perché lei se ne pentirà e tornerà da me.”
“E tu davvero la riprenderesti indietro?” mi sfidò Derek. “Dopo tutto quello che ti ha fatto, dopo tutto questo” fece un gesto, indicando me e poi l'aria attorno a noi, come se stesse indicando il mio presente. “Dopo aver attraversato l'inferno a causa sua, la riprenderesti comunque indietro?” chiese in un sussurro.
Alzai lo sguardo, oltre i miei amici, alle loro spalle.
Per un secondo soltanto, il mondo intero si fermò.
Non c'erano più suoni, non c'erano movimenti, né luce, né aria. Tutto era immobile e tutto per un istante svanì nella cornice del mondo, lasciando al centro del quadro la vera opera d'arte. Un istante di pura nitidezza mi portò a vedere solo lei, come centro del mondo, i suoi occhi come unica fonte di luce e la sua risata come unico suono percepibile alla mia anima.
Sembrava felice, in quel momento, in quel bar. Non sembrava che da un momento all'altro si sarebbe pentita di nessuna delle sue scelte. Soprattutto, non di aver lasciato me.
Un secondo dopo, tutto il mondo aveva ricominciato a muoversi e il tempo a scorrere. Quel magico istante era finito e la solitudine della mia vita senza di lei era ripiombata sulle mie spalle.
“Se ne pentirà” ripetei per la milionesima, faticosissima, volta.
Non ci credevo più neanche io, ma quello era ormai l'unico mantra che mi permetteva di non precipitare nel vuoto della mia stessa disperazione.
“Non significa che la riprenderei indietro, ma lei tornerà e mi pregherà di farlo. So che lo farà. Lei lo fa sempre, quando si tratta di me.”

La (mia) contrattazione
“Alla fine è stato meglio così.”
Nessuno di loro trovò il coraggio di esprimere assenso o dissenso. Rimasero in silenzio a contemplare tutto quello che era rimasto di una vita trascorsa insieme ad un'altra persona, presa e chiusa dentro una scatola. Sigillata con del nastro adesivo e pronta per essere nascosta in fondo ad un armadio, in un angolino buio e dimenticabile.
“Probabilmente non avrebbe funzionato neanche se lei non mi avesse tradito, giusto?” domandai, in cerca di una conferma che non tardò ad arrivare.
“Ho letto che due coppie su cinque finiscono per divorziare. Quasi la metà” mi fece sapere Derek, come se quello avesse potuto tirarmi su di morale.
“E anche se le cose fossero andate bene, ti immagini sposata tra qualche anno? Lo sai cos'è la morte sessuale delle lesbiche, vero?”
“Sapete, sto cercando davvero di decidere chi di voi due è più inutile, ma non riesco proprio a trovare nessuna traccia di utilità in nessuno di voi, in questo preciso momento” ci tenni a fargli sapere.
“In pratica succede quando due donne che stanno insieme da un sacco di tempo passano dall'essere amanti all'essere migliori amiche. È una cosa sentimentalmente molto dolce, ma se ci penso è anche davvero deprimente.”
“Addison, soltanto perché adesso stai con Teddy non significa che devi informarti su ogni piccola sfumatura della cultura saffica, ne sei consapevole, vero?”
“Cercavo solo di esserti d'aiuto” mi informò, rassegnandosi al mio disinteresse per l'argomento che aveva tirato in ballo.
“Comunque” ripresi “secondo me, è stato davvero meglio così. Le cose si risolveranno bene per lei e la sua nuova ragazzina. E io la sto superando.”
Quell'ultima frase mi fece guadagnare due occhiate molto scettiche da parte delle due persone sedute sul mio divano.
“Dico sul serio. È una nuova era. Ho ridecorato casa, comprato una nuova auto, tinto i capelli. Sto andando avanti.”
“Ti servirà qualcosa in più di una ciocca di capelli rossi per superare un divorzio, Callie. Lo sai, non è vero?”
Scrollai le spalle.
“Sto facendo le cose un passo alla volta. Passi estremamente piccoli” concessi “ma pur sempre passi in avanti.”
Derek rise, scuotendo la testa.
“Beh, l'importante è iniziare da qualche parte e rimettere in piedi la propria vita. Se lo stai facendo, non importa da dove inizi. Sei già ad un buon punto.”
“Già. Ma devi continuare a muoverti in avanti. Non puoi bloccarti” concluse Addison.
“Senti chi parla” le dissi. “Ti ricordi quando la stessa cosa è successa a te?”

La contrattazione (di Addison)
“Alla fine è stato meglio così.”
Io e Derek ci scambiammo un'occhiata. Era un cambiamento poco sperato ma decisamente ben accolto rispetto alle urla che fino ad una settimana prima avevano accompagnato un nostro qualsiasi discorso su Mark.
“Chi ha bisogno di lui, in fondo?” rise ironicamente e scrollò le spalle. “Di certo, non io. Forse quella petulante ragazzina che si porta dietro adesso, lei sì. Ma di sicuro io no.”
“Ehi, quella petulante ragazzina è mia cognata. Ti prego di non parlare così di Lexie, perlomeno non davanti a Meredith.”
Addison sbuffò, scrollando le spalle e alzando gli occhi al cielo.
“Devi sempre difenderla? Lei se lo è portato via” puntualizzò.
“Si sono innamorati, Addison” le feci notare. “Almeno è stato onesto e ti ha lasciato prima che succedesse qualcosa invece di tradirti.”
“Beh, mi pare davvero il minimo” rispose lei, guardandomi come se avessi insinuato qualcosa di assurdo. “Significa soltanto che non ha completamente perso il buon senso ed il rispetto, ma il suo cervello è comunque andato.”
Derek rise, mentre prendeva l'ennesimo sorso dalla propria birra.
“Comunque non importa. Ormai io e lui siamo storia vecchia. Io la sto superando e mi pare ovvio che lui ha già fatto lo stesso.”
Anche se involontariamente, sia io che Derek guardammo in direzione di Addison con un'espressione a metà tra stupore e scetticismo.
“Dico sul serio. È inutile rimanere attaccati al passato. Specialmente se quel passato è così palesemente poco interessato a far parte del tuo presente. Il messaggio è stato molto chiaro, almeno questo devo riconoscerlo. Non ci sono stati messaggi contrastanti, ripensamenti o dubbi. Lui è andato avanti. Ora devo fare la stessa cosa anche io.”
“E come pensi di fare?” le domandai.
“Non lo so ancora. Si dice che il tempo faccia la maggior parte del lavoro, giusto? Io devo solo tener duro.”
Per la prima volta da quando Mark l'aveva lasciata, vedevo negli occhi di Addison una forza ed una risoluzione che mi lasciarono sperare che la mia migliore amica fosse tornata, ancora più forte di prima, con la ferrea intenzione di non permettere più a nessuno di farle dimenticare chi era realmente.
“Beh, le intenzioni sono un buon inizio, ma la cosa fondamentale è passare dalle parole ai fatti, Addison” le fece notare Derek. “Devi andare avanti sul serio. Volerlo fare soltanto questa volta non basterà.”
“Senti chi parla” gli disse. “Ti ricordi quando la stessa cosa è successa a te?”

La contrattazione (di Derek)
“Alla fine è stato meglio così.”
Sono sicura che non lo fece apposta. Fu una reazione spontanea, incontrollabile. Di certo, Addison non aveva volontariamente deciso di scoppiare a ridere appena aveva sentito Derek pronunciare quella frase.
“Che c'è?” domandò lui, leggermente irritato e molto curioso.
“Lo pensi davvero?” chiese lei, incredula, rendendosi conto che il moro era serio.
“Sì. Lo penso davvero.”
L'espressione di Addison divenne ancora più incredula, mentre cercava di interpretare la frase che le era appena stata detta.
“Tu pensi che sia stato meglio così?” chiese lentamente, assicurandosi di aver capito bene. “Che sia stato meglio affrontare uno dei dolori più grandi che hai mai provato in vita tua, sentirti come se ti avessero trapassato il cuore con una lama gelida e affilata, perdere la persona che hai amato di più in vita tua senza apparentemente nessuna buona ragione? Pensi che questo sia stato meglio di cosa, esattamente?”
Lui ci pensò, cercando una risposta accettabile.
“Beh, è stato meglio per lei. Ora Meredith è felice. O almeno, sembra felice. Sembra che abbia trovato il tempo per se stessa e anche per prendersi cura di qualcun altro. Sembra che abbia risolto i problemi che con me l'avevano sempre frenata. Sembra che sia cresciuta, che stia meglio, che sia salva. Questo è il meglio che posso chiedere.”
“Sacrificheresti la tua felicità per la sua?” gli chiese, incredula.
“Lo farei” rispose lui immediatamente. “In un secondo. Lo farei così” schioccò le dita per rendere l'idea di quanto poco tempo gli sarebbe servito per prendere quella decisione.
“Quindi se lei tornasse da te, domani, dicendoti che tu sei l'unica persona che può renderla davvero felice, tu la riprenderesti indietro?”
“Beh, io...”
“Dopo tutto questo?” domandò incredula Addison prima che Derek avesse modo anche solo di iniziare a rispondere. “Dopo la prova di forza e coraggio più grande di tutta la tua vita, dopo esserti ripreso da quella che credevi essere la tua anima gemella e il tuo grande amore, dopo tutto questo dolore, ancora adesso la riprenderesti con te? Ancora adesso che le ferite iniziano a guarire, che inizi ad andare avanti, che inizia ad essere una parte del tuo passato invece che del tuo presente e futuro, ancora oggi sacrificheresti la tua felicità per la sua?”
Per un lunghissimo istante, nessuno fiatò. C'era un silenzio assoluto. Personalmente stavo quasi trattenendo il fiato nel tentativo di non far rumore, in modo da lasciare che Derek potesse elaborare una risposta.
Alla fine, la trovò. Ma non era quella che Addison si aspettava.
“Beh” ci disse solo “...sì.”
E fu allora che lo capimmo. Fu allora che sia io che Addison realizzammo con certezza assoluta qualcosa che Derek sapeva già da un sacco di tempo.
Lui e Meredith erano fatti per stare insieme.

La depressione (di Derek)
“È finita.”
Mi voltai a guardarlo, rendendomi conto che stava fissando Meredith, ferma alla parte opposta del corridoio.
“Ho lottato e ho perso” mi disse.
“Non dipendeva da te” gli feci notare. “Anche se avessi lottato allo stremo delle tue forze, e lo hai fatto, non c'era la garanzia che funzionasse.”
“Lo so” annuì, incrociando il mio sguardo. “Ma non perdi mai la speranza finché non ti rendi conto che è finita davvero. Adesso lo so. So che è finita davvero. So che non c'è più niente che posso fare per salvarci. Ma so anche che la mia vita senza di lei sarà per sempre una vita a metà. Mi mancherà, ad ogni passo. Non so se sopravviverò alla perdita. Ma devo provarci. Devo provare a convivere con il dolore.”
“Già. Ma hai mai conosciuto qualcuno in grado di superare il dolore davvero? Un dolore forte quanto questo, senza essere annientato?”
“Tu e Addison mi aiuterete” mi rispose, con risoluzione.

L'accettazione (di Derek)
“Sto bene.”
Quella risposta ci sembrò stranamente troppo sincera.
“Davvero?” domandai quasi subito, perplessa.
“Sì. Sorprendentemente, davvero. Sto bene. È una bella giornata ed è davvero giunto il momento di ricominciare. Ed io sto bene. So che posso vivere senza di lei, anche se avrei preferito non doverlo fare.”
“Quindi vuoi dire che...” iniziai, confusa.
“...sei andato avanti” concluse Addison al posto mio, perplessa ancora più di me.
“Sono andato avanti.”
Era successo. Il miracolo della guarigione.
Alcune piccole ferite si rimarginano in un minuto. Altre ci mettono ore, altre ancora giorni. Poi ci sono le più dure che possono continuare a sanguinare per mesi o anni. Ma alla fine il sangue coagula, la carne si ripara, la cicatrice sbiadisce, la pelle si abbronza di nuovo e non c'è più niente di visibile se uno guarda da lontano.
Le persone guariscono.
Era un miracolo a cui, in quanto medici, assistevamo tutti i giorni, ma che non ci stancava mai, neanche dopo tutti quegli anni.
Certo, in quel momento noi ancora non sapevamo come si sarebbero risolte le cose a lungo termine. Non sapevamo che da lì a pochi giorni Meredith si sarebbe presentata sulla soglia della roulotte, completamente persa, dicendo a Derek di aver commesso l'errore più grande della sua vita. Non sapevamo che lui avrebbe trovato, alla fine, in cuor suo la più grande volontà d'animo possibile ad ogni essere umano, quella del perdono. Non sapevamo che saremmo state lì per il loro matrimonio, per la nascita della loro prima figlia, del loro secondo figlio. Non lo sapevamo ma, in quel momento, non importava.
Tutto ciò che importava era che Derek ce l'aveva fatta.
Guardare al futuro e dimenticare il passato, era possibile.
Andare avanti era possibile.
“Sono guarito.”

La depressione (di Addison)
“È finita.”
Non l'avevo mai sentita piangere così forte.
“Stavolta è davvero finita. Come ha potuto farmi questo?”
Io cercai davvero a lungo e con concentrazione le parole. Ma come sarei mai potuta riuscire a spiegarle che lui non le stava facendo niente? Che lei era soltanto una sua ex?
“Sono stati insieme cinque mesi. Cinque! E adesso si sposano” continuò a piangere e singhiozzare e Derek fece del suo meglio, cullandola tra le braccia mentre io le accarezzavo i capelli. “Noi siamo stati insieme per due anni. E in tutto quel tempo lui non ha mai neanche accennato al matrimonio, neanche una volta. Che c'è di sbagliato in me? Perché non potevo essere io?”
Per tutta la notte continuammo a ripeterle che sarebbe andato tutto bene. Che non era colpa sua, che erano cose che succedevano.
Ma vedendola così indifesa, così rotta, così lontana dalla determinazione che solo una settimana prima sembrava aver riacquistato, sapevo che non era giusto.
Cose come quella non sarebbero dovute succedere. Non a persone come Addison.
Non era giusto.
Ma il mondo, si sa, quasi mai lo è.
“Ho perso. Ho perso contro una ragazzina.”
“Addison, non era un gioco. Non hai perso contro di lei, hai solo...perso Mark.”
“Esatto. Ho perso Mark e lei lo ha vinto. Ho perso contro di lei.”
Io aprii la bocca per contraddirla di nuovo, ma Derek mi fermò.
“Il dolore passerà, Addison. Per quanto adesso sembri impossibile, ogni ferita si rimargina. Le cicatrici sbiadiscono dalla pelle. Le persone hanno questa incredibile capacità di guarigione, di andare avanti nonostante tutto.”
“Ma se io non ce l'avessi? Se fossi troppo fragile?”
“Non lo sei. Sei una delle persone più forti che abbia mai conosciuto. Tu puoi guarire da qualsiasi cosa, da qualsiasi perdita, Addison. Devi solo volerlo fare.”
“Ascolta il tuo ex marito” le dissi scherzando. “Se ti sei rialzata dopo di lui, niente può mandarti al tappeto per sempre.”
Sembrava stupido, ma era vero. Aveva passato con Derek metà della sua vita, ma si era alzata comunque. Ce l'avrebbe fatta. Era solo questione di tempo.
“Fa solo così” scosse la testa, cercando di scacciare le lacrime “male” mormorò poi.
“Ma sai che ce la farai. Sai che il dolore passerà. Non è vero?” domandò lui.
Annuì, stringendo con una mano la mia e con l'altra quella di Derek.
“Tu e Callie mi aiuterete.”

La (mia) depressione
“È finita.”
Quelle due parole, per me, decretavano la fine della discussione. Peccato che Derek e Addison avevano parlato per mezz'ora e quelle erano le prime due parole che dicevo.
“Callie, non ti alzi dal letto da tre giorni. Non puoi continuare così.”
“Ed è un pezzo che è finita, se non te ne fossi resa conto” mi fece notare la mia cosiddetta migliore amica.
“Non intendo con lei” risposi in modo apatico. “Intendo tutto. La mia vita. È finita.”
“Non essere melodrammatica.”
“Non lo sono. Sono seria.”
“Sì, beh, sei seriamente melodrammatica allora.”
“Addison, smettila. Dico davvero.”
Alzai lo sguardo, incrociando il suo, ma senza alzare la testa dal cuscino su cui ero stata appoggiata per quelle che ormai erano settantadue ore consecutive.
“Come posso andare avanti? Come posso dimenticarla? Dimenticare tutto? Qualsiasi cosa io veda fuori da qui mi ricorda lei.”
Li vidi scambiarsi un'occhiata a metà tra il preoccupato e il perplesso.
“Hai tolto le fotografie. Le sue cose, quello che aveva comprato lei. Cosa può esserci rimasto qui dentro che ti ricorda di lei?”
“Non è solo qui dentro” gli spiegai. “Non è solo la casa, o questa camera. È tutto. Tutto il mondo mi ricorda di lei. Non potrò mai più vedere niente che abbia il colore rosa o sentirmi dire quanto sono carine le farfalle. Non potrò mai più guardare un tramonto senza ricordarmi della nostra panchina, di quanti ne abbiamo visti insieme sedute lì. Mi ricorderò di lei ogni volta che mangerò la pizza, ogni volta che vedrò un film di Jennifer Aniston, ogni volta che qualcuno mi dirà che sono fantastica come faceva sempre lei. Non potrò più sentire le sue canzoni preferite e neanche alcune delle mie perché farà troppo male. La ricorderò in ogni raggio di sole, in ogni arcobaleno, in ogni bella giornata. Nella sala operatoria numero 3. Nella rampa di scale che va dal quinto al sesto piano. Ogni volta che sentirò la chiave girare nella serratura di casa. Non potrò più guardare una ciambella, un caffè con la panna sopra, un pacco di marshmallow, un libro per ragazzi, senza che la sua assenza mi sia violentemente riportata alla mente. Ogni volta che sentirò il nome Calliope, che qualcuno mi sistemerà i capelli, o che vedrò qualcuno strofinarsi il naso come faceva lei. Gli occhi chiari. La sangria. La Spagna. Le scarpe con le rotelle. Phoenix e tutto quel maledetto stato. Ogni cosa sarà sempre lì a ricordarmi di Arizona, in tutta la sua bellezza e in tutto il suo dolore, tutto quanto. Quindi” inspirai “è finita.”
Addison, in silenzio, si sedette sul letto, appoggiando una mano sulla mia spalla.
“Questo ti suonerà strano, lo so, ma” scosse la testa, sospirando. “Il dolore passa. Che tu lo voglia o no, lui passa, come tutto in questa vita. Adesso può sembrarti impossibile, può perfino non essere quello che vuoi. Tu puoi aggrapparti al dolore e volerlo tenere con te come se fosse il tuo unico e migliore amico, ma si indebolirà e svanirà. Il tempo farà tornare ogni canzone ad essere solo una canzone. Ogni film ad essere solo un film. E le cose che ancora ti ricorderanno di lei tra tanto tempo, non faranno comunque più male. Almeno, non così.”
“Il dolore passa se glielo permetti” le spiegai. “Io non lo farò. Non permetterò alle ferite di rimarginarsi e alle cicatrici di sbiadire sulla mia pelle. Voglio che il dolore sia sempre con me perché è l'unica cosa che posso provare pensando a lei. E la provo sempre, in ogni cosa che vedo o faccio o tocco, il dolore ed il ricordo di lei sono lì, viaggiano di pari passo.”
“Ma non durerà. Non può durare. Un giorno ti sveglierai e capirai che la vita è più forte del dolore e che tu lo voglia o no, la vita andrà avanti, lasciando il dolore indietro.”
Io non risposi. Continuai nella mia contemplazione del vuoto.
“È il momento, Callie. È il momento di andare avanti.”
“Posso sconfiggere la vita. Posso convivere con il dolore se è l'unica prova tangibile del fatto che un tempo lei è stata mia.”
La mia determinazione lasciò sia lei che Derek senza parole. Ci fu un lungo silenzio in cui entrambi si soffermarono a contemplare la decisione nelle mie parole, nella mia scelta, ed il loro vero significato.
La mia volontà di non voler lasciar andare, di vivere nel passato, di spegnermi dentro dei ricordi, li lasciò senza fiato.
“Questo ti distruggerà” mi fece notare Addison, in un sussurro.
Scossi la testa. Non mi importava.
“Tu e Derek mi aiuterete.”

L'accettazione (di Addison)
“Sto bene.”
“Dici davvero?” le domandò la donna seduta davanti a lei.
Io e Derek non eravamo fieri di quello che stavamo facendo. Origliare una conversazione privata ad un primo appuntamento non era esattamente una cosa educata, ma eravamo preoccupati. Addison sembrava stare meglio, sì, ma qualcosa non ci aveva convinto nel suo comportamento. Quindi, da bravi amici, l'avevamo ovviamente seguita.
E lei ci aveva portato in un ristorante romantico al centro di Seattle. L'avevamo beccata lì con un'altra donna, un chirurgo dell'ospedale che entrambi conoscevamo.
Non poteva che essere un primo appuntamento.
“Voglio dire, tutti sanno quello che è successo con Mark in ospedale. Delle infermiere mi hanno raccontato tutto per filo e per segno, nonostante continuassi a dire loro che non volevo che mi raccontassero i fatti tuoi. Ma non potevo fuggire dalla sala operatoria e lasciarle lì insieme al tizio che stavo operando, purtroppo” le disse, ridendo.
“Non fa niente. Mi hanno risparmiato una noiosa storia del mio passato.”
“Beh, è successo solo circa un anno fa, no?”
“Vero. Ma adesso lui è sposato ed io sono andata avanti. Sto bene, sul serio. Non sto male se penso a lui e a stento riesco a ricordare le cose di lui che un tempo ho amato. Se mi chiedessero adesso perché ho speso così tanto tempo e così tanta energia dietro a lui, neanche saprei cosa rispondere a mia discolpa. Forse mi ero solo, non so” scosse la testa “autoconvinta che fosse l'uomo della mia vita. Ma guardando indietro adesso, non credo che tra noi avrebbe mai potuto funzionare in ogni caso.”
La donna davanti a lei annuì.
“Quindi è acqua passata?”
“Decisamente.”
“Posso contare sul fatto che non avrai una ricaduta e non ti presenterai piangendo a casa sua implorandolo di lasciare sua moglie per tornare insieme a te?”
Addison scoppiò in una fragorosa risata.
“Direi che questa decisamente non è una possibilità, no.”
“Quindi anche i tuoi amici possono smettere di preoccuparsi della tua vita sentimentale?”
“Scusami?”
“Beh, suppongo che il dottor Shepherd e la dottoressa Torres, seduti al tavolo alle tue spalle, che quasi sicuramente hanno origliato tutta la conversazione, o hanno deciso di iniziare una relazione o sono nel ristorante più romantico di Seattle perché hanno seguito te.”
Addison si voltò di scatto, vedendoci coprire le facce con i menù.
“Oh, mio Dio. Mi dispiace infinitamente per questo” mormorò verso la dottoressa Altman.
Lei rise, scuotendo la testa.
“Non preoccuparti, Addison. Possiamo continuare un'altra sera, se vuoi.”
“No, non c'è problema. Loro se ne stanno andando in questo preciso istante.”
Si alzò, afferrando Derek per un braccio e trascinandolo verso l'uscita. Io li seguii.
“Ragazzi, andate a casa. Io sto bene” ci rassicurò.
“Davvero?” chiese Derek.
“Davvero.”
“Sicura?” le domandai, mentre ci costringeva ad uscire.
“Sicura” confermò.
Ci sorrise, scuotendo la testa.
“Sono guarita.

La (mia) accettazione
“Sto bene.”
“Beh, cavolo, non dirlo come se fosse una cosa così brutta.”
“No, dico sul serio, Addison. Sto bene.”
Lei rise, non capendo cosa ci fosse di così tragico nello stare bene.
“Non ha funzionato. Avevate ragione, il tempo ha guarito le mie ferite. Il dolore è passato e svanito ed è svanita anche lei. È una parte del mio passato, ma non è più il mio presente, né il mio futuro, è solo...un ricordo.”
“Beh, è quello che lei ha scelto di essere.”
“Lo so” confermai. “Ed il colore rosa e le farfalle mi ricordano ancora di lei, ma non fa più male. Le canzoni sono solo canzoni e i film sono solo film. Come avevi detto tu.”
Scossi la testa, rendendomi conto di quanto la mia stessa guarigione mi aveva colto di sorpresa.
“Non era per sempre. Neanche quella che credevo essere la mia favola era per sempre. È finita e mi ha lasciato un dolore che sembrava non dovesse mai finire. Ma poi è successo anche a me. Il tempo ha fatto il suo corso. La vita è andata avanti per me. Anche le cose tremende che pensavo non sarei mai riuscita a superare, sono passate. Il tempo non aspetta. Non si ferma solo perché vogliamo conservare l'amore, né il dolore.”
Mi riempii di nuovo il bicchiere con lo champagne che era appoggiato sul tavolo.
“È passata. E basta.”
Mi voltai, guardandola ridere dall'altra parte della stanza.
“Come una giornata di sole, un incubo o il Natale. È passata e non tornerà. All'inizio non avevo capito che era così semplice. Mi sentivo come se dovessi fare qualcosa per impedirlo, per fermare il tempo, per salvarci. Ma la verità è che non era compito mio. Non potevamo salvarci.”
“Nessuno può salvare qualcosa che è già andato in pezzi.”
Io risi, consapevole dell'accuratezza delle sue parole.
“Mi sentivo come un bambino che era in giardino e aveva fatto un disegno. Il più bello che fosse mai riuscito a finire. E poi, all'improvviso, ha iniziato a piovere. Ed io ero lì, che fissavo quel disegno bellissimo mentre la pioggia lo rovinava, mentre lo distruggeva. Ma non potevo fare niente. Non potevo prenderlo e portarlo al coperto, non potevo prendere un ombrello e aprircelo sopra. Non potevo salvarci. Non da sola.”
Seguì la direzione del mio sguardo.
“Sembrano felici. Ho sentito che adesso convivono.”
Scrollai le spalle.
“Non voglio sapere con chi mi dimentica. Mi ha tradito e adesso ha un'altra che porta perfino alle cene di lavoro. Penso sia felice, sì. Ma non voglio saperlo. Le auguro il meglio, questo sì. Ma alla fine va bene così.”
“Quindi tu e Arizona...”
“...l'ho superata, sì” confermai.
Così. All'improvviso. Proprio come aveva detto Addison, mi ero svegliata un giorno e mi ero resa conto che la vita è più forte del dolore. Della perdita.
La vita è più forte della negazione, della rabbia, della contrattazione, della depressione. La vita è accettazione. Un giorno, quando non te l'aspetti più, vince su tutto il resto. Quando avevi già dichiarato sconfitta, sventolato bandiera bianca, quando avevi già smesso di crederci, allora ti rendi conto che è vero. Che le ferite guariscono. Che il dolore passa. Che il tempo scorre. Che le persone vanno avanti. Che la vita, bene o male, è più forte di tutto il resto.
“Sono guarita.”






Continuo la mia logorante scalata verso l'accettazione, senza guardare in basso. E cercando disperatamente di non guardarmi indietro.


Ritorna all'indice


Capitolo 56
*** Il nostro primo viaggio in treno ***


Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU, What if?



Il nostro primo viaggio in treno


Sapevo che il viaggio su quel treno sarebbe durato molte ore. Era un viaggio lunghissimo, ma il mio vecchio datore di lavoro si era rifiutato di pagarmi un costoso biglietto su un aereo per spedirmi verso il mio nuovo lavoro.
Sarebbe stato un lungo tragitto, da costa a costa. Così mi sedetti, mettendomi comoda e preparandomi a dormire almeno per un po'.
Ma, per quanto ci stessi provando, sapevo che il sonno non sarebbe arrivato.

Bussai e rimasi con il fiato sospeso, aspettando che qualcuno venisse ad aprire la porta.
Quando lo fece, non la riconobbi immediatamente.
Ma dopo qualche secondo la realizzazione si fece strada dentro di me.
I capelli neri, gli occhi scuri, la carnagione ambrata, le labbra piene. Non c'erano dubbi che si trattasse di lei. E sì, forse erano passati molti anni, ma l'avrei riconosciuta tra un milione. Era proprio la donna che stavo cercando.


“Ha l'aria pensierosa.”
Mi riscossi immediatamente da quel sogno ad occhi aperti, tornando alla realtà.
A parlare era stata la donna sul sedile davanti al mio.
“No, ero sovrappensiero” accennai un sorriso completamente falso.
“Mi perdoni, non volevo sembrare scortese. Ma la frase è uscita da sé prima che riuscissi a trattenerla” si scusò.
“Non si preoccupi” la rassicurai con un sorriso, stavolta, un po' più sincero del primo. “Che le fa credere che sia pensierosa?”
“Qualcosa nel suo sguardo, forse. Sembra quello di qualcuno che pensa al passato. A qualcuno che ha perso, forse? A qualcuno che amava.”
Accennai una risata, annuendo una sola volta e tornando a guardare fuori dal finestrino i paesaggi che veloci mi scorrevano affianco.
Fu così che mi persi di nuovo in quella mia fantasia.

“Arizona? Cosa ci fai qui?”
“Ciao. Volevo dirti che ho sbagliato a lasciarti andare tutti quegli anni fa e che se tornassi indietro farei le cose in modo diverso. Se tu potessi darmi una seconda chance...”
“Oh, Arizona. Certo, possiamo riprovare se è quello che vuoi” avrebbe detto a quel punto lei, senza esitazione.
Poi ci saremmo gettate in un abbraccio che avrebbe avuto il calore di una casa, ci saremmo scambiate un bacio che avrebbe avuto il sapore di un ricordo ormai sfumato e ci saremmo amate perdutamente. Almeno per qualche ora. E poi io sarei fuggita via di nuovo, come avevo fatto per tutta la mia vita. E come avevo fatto anche, molti anni prima, con lei.


“Forse è una mia impressione” si corresse dopo qualche istante. “Forse non ha l'aria pensierosa ma è solo molto stanca.”
“No, non penso che sia quello. Sono pensierosa, in effetti.”
Annuì, un sorriso complice sulle labbra.
“C'entra il suo fidanzato? O un suo ex magari?”
“No, non si tratta di un uomo, ma di una donna” spiegai, sperando che lo shock della mia affermazione le facesse passare la voglia di parlarmi.
“Non ha risposto alla domanda” insisté invece. “È la sua fidanzata o una sua ex?”
Sospirando, abbassai lo sguardo.
Di lei non parlavo spesso. Mi aveva lasciato una cicatrice, a suo modo. All'inizio non aveva sanguinato molto, ma col tempo, periodicamente, continuava a riaprirsi e a farmi male. Non era una ferita troppo grave, di quelle che ti fanno piangere per intere notti abbracciata ad un cuscino, che ti strappano il cuore dal petto e devi riuscire a rimetterlo al suo posto nei mesi a venire, ma era una ferita da cui mi era impossibile guarire. Continuava a sanguinare poco a poco, lenta ma inesorabile mi portava via la vita.
Volevo mettere fine a tutto quello. Non potevo andare avanti pensando a lei ogni giorno.
“È stata il mio primo amore” risposi piano. “Forse l'unico della mia vita. E senza dubbio è stata il più grande.”

“Arizona? Cosa ci fai qui?”
“Passavo per caso nei dintorni. Ho saputo che adesso vivi in questo appartamento e ho pensato che magari ora che abitiamo nella stessa città potremmo andare a prenderci una caffè, una volta o l'altra.”
Lei mi avrebbe guardato per qualche secondo, con perplessità.
Ci avrebbe pensato per qualche minuto, guardandomi e basta.
Poi io avrei fatto quel mio sorriso con le fossette, quello che lei aveva sempre amato.
A quel punto avrei visto le sue spalle abbassarsi leggermente e la sua decisione cadere poco a poco.
“Perché no. Una volta o l'altra” avrebbe acconsentito.
Mi sarei fatta lasciare il numero e il giorno dopo l'avrei chiamata per non sprecare neanche un secondo.
Avevamo perso già fin troppo tempo per causa mia. Avevamo perso interi anni.


“Il suo primo amore? Primissimo?”
“Già.”
“E quanti anni aveva?”
“Io ventuno, lei diciannove.”
“Quanto tempo fa è stato?”
Inspirai a fondo, dandomi della stupida.
“Otto anni. È stato otto anni fa.”
Lei rimase qualche secondo in silenzio, a riflettere sulla risposta che le avevo dato.
“E da quanto tempo non la rivede?”
I miei occhi si intristirono. Continuai a guardare fuori dal finestrino.
Da troppo. Ecco da quanto, da troppo tempo non la rivedevo. Perché ero stata stupida e codarda e adesso mi portavo dentro quel rimpianto giorno e notte.
“Da otto anni” risposi con un filo di voce soltanto.
Mi tolsi la sciarpa ed il cappotto, ormai riscaldata dal freddo che faceva fuori.
“Aspetti, ma questo significa che siete state insieme meno di un anno.”
Non risposi. Mi alzai in piedi, sistemando gli indumenti che mi ero tolta sul ripiano delle valige sopra le nostre teste.
“Ed è stata comunque così importante?”
“Neanche io riuscivo a crederci, lo sa?” risi amaramente, sedendomi di nuovo. “Ma non riesco a togliermela dalla testa. Non penso mai ad altro che non sia lei. Ci ho provato in tutti i modi, ma non riesco a farla uscire dai miei pensieri.”
La sconosciuta con cui stavo parlando mi guardò dritta negli occhi, con aria mortalmente seria, considerando le mie parole.
“Se non riesce a farla uscire dalla sua testa, forse è perché è lì che dovrebbe rimanere.”

“Arizona?”
“Allora, immagina questo, io sono a New York e tutto va alla grande. Ma piango. Tipo, tutto il tempo. E quando un il mio superiore mi chiede perché, io rispondo che mi manca il mio primo amore. Così mi chiede se avessi voluto chiedere il trasferimento di nuovo, visto che in ogni caso me ne stavo andando dal suo ospedale, ma io gli rispondo che lei vive proprio a Seattle, dove mi sto trasferendo. Così sono venuta da te.”
Le avrei parlato con gli occhi pieni di lacrime per aver ammesso cose che mi vergognavo anche solo di pensare.
Perché era patetico.
Era patetico che non riuscissi a smettere di volerla al mio fianco neanche dopo che erano passati tutti quegli anni.
E in quel momento lei mi avrebbe guardata dritta negli occhi.
Avrebbe sospirato e inclinato la testa di lato come faceva quando doveva dare una risposta a suo parere ovvia.
Non avrebbe detto neanche una parola.
Sarebbe stata bellissima, lì, ferma, con la sua aria triste e gli occhi lucidi.
Ed in quel modo l'avrei ricordata per sempre.
Bella da togliere il fiato, come del resto era sempre stata.
Lentamente avrebbe lasciato che la porta si chiudesse, mettendosi tra di noi.
Ed io avrei capito, ancora prima di sentire lo scatto, che quella era l'ultima volta che io e lei ci vedevamo.

“Ci siamo conosciute durante le mie vacanze al mare. Quell'estate eravamo entrambe a Miami e quando ci siamo incontrate per la prima volta, a una festa organizzata da amici in comune, diciamo che è stata una sorta di colpo di fulmine, almeno per me.”
“Si è innamorata?”
“Oh, no. Assolutamente. In quel tipo di colpo di fulmine non ci credo.”
Lei rise, non capendo la mia affermazione.
“L'amore richiede tempo e lavoro. Si deve conoscere tutto di una persona, per amarla. Ma a me piaceva. Io la vidi e da subito mi resi conto che volevo lei. Solo lei. Almeno in quel momento, in quell'istante, in quel posto, io non volevo altro al mondo.”
“Lei era di Miami, quindi?”
“Originariamente. Ma era al suo primo anno di università a Seattle. Era tornata a trovare la famiglia per le vacanze.”
“E tu di dove sei, invece?”
“Io vengo da New York. Beh, diciamo che ho studiato lì e il mio primo lavoro è stato lì. In realtà sono cresciuta un po' in tutti gli Stati Uniti. Mio padre era nell'esercito.”
Annuì, facendomi cenno di proseguire.
“Insomma, quando la incontrai, capii che doveva ad ogni costo essere mia.”
“E quindi cosa fece?”
“Beh” mi strinsi nelle spalle, rendendomi conto della semplicità e della complessità che aveva, contemporaneamente, l'affermazione che stavo per fare. Ma era così che erano andate le cose e nel mio racconto volevo essere il più fedele possibile alla storia. “Volevo che fosse mia. E quindi me la sono presa.”

“Arizona.”
“Ehi, come stai? So che è passato un sacco di tempo. E so che sono stata un'idiota quell'estate. So di averti spezzato il cuore, so che sono stata una stupida, ma la verità è che avevo paura. Ero una ragazzina, non sapevo cosa fosse l'amore. Mi sono comportata malissimo con te e mi dispiace per quello che ho fatto. Ma se potessi tornare indietro, lo cambierei. E se avessi un'altra occasione adesso, farei le cose in modo diverso. Sono una persona nuova, una persona migliore, ed è anche grazie a te.”
Lei avrebbe solo scosso la testa e spostato lo sguardo in basso, verso il pavimento, prima di guardarmi di nuovo negli occhi.
“Tu mi hai spezzato il cuore.”
“Lo so, lo so e mi dispiace. Ma voglio rimediare, sono qui per riparare ai miei errori. Perché sono davvero convinta che io e te ci meritiamo un'occasione, sono convinta che, se mi perdoni, le cose tra noi potrebbero davvero funzionare.”
“Ma non ci conosciamo nemmeno. Non ci siamo mai conosciute davvero.”
“E allora conosciamoci adesso. Dammi una sola occasione per mostrarti la persona che sono davvero.”
Ci avrebbe pensato a lungo.
Io le avrei dato in quel momento il mazzo di fiori che le avevo comprato. I suoi preferiti, chiaramente.
Un mazzo di gigli.
Lei avrebbe sorriso, perché me ne ricordavo ancora dopo tutti quegli anni. Quel suo sorriso tenero e segreto che non ti faceva mai intuire cosa lo provocasse a meno che tu già non lo avessi capito da sola.
E poi avrebbe annuito distrattamente.
“Un'occasione. Ma non sprecarla come hai fatto la prima volta.”


“La sera che ci siamo conosciute non la dimenticherò mai, lei era davvero bellissima. E dopo neanche una settimana da quel giorno, ci siamo baciate. Mi disse che aveva baciato solo ragazzi prima, ma che io baciavo decisamente meglio” sorrisi come un'idiota ricordando quel momento e il modo in cui l'aveva detto. Mi aveva fatto così tanta tenerezza che per un secondo mi aveva riempito il cuore.
Rimanemmo qualche istante in silenzio, mentre esaminava le informazioni che aveva a disposizione fino a quel momento.
“E poi cosa è successo?”
“I suoi la marcavano stretta” continuai il racconto. “Ci sentivamo per messaggi e ogni tanto ci vedevamo. Più parlavo con lei, più sentivo che qualcosa mi stava trascinando nella sua direzione, qualcosa di prepotente. Sapevo che era solo una cotta estiva, doveva esserlo per forza, abitavamo ai lati opposti degli Stati Uniti. Eppure qualcosa mi spingeva verso di lei, come una forza di gravità o una calamita.”
“Lei ti piaceva.”
“Lei mi piaceva” confermai. “Ma non avrebbe dovuto piacermi.”
“Ma ti piaceva comunque.”
“Stavo uscendo da un periodo buio della mia vita. Lei stava rimettendo il sorriso sulle mie labbra, mi stava ridando vita. Mi rendeva felice.”
“La trovo una cosa dolcissima” mi sorrise a trentadue denti.
“Lo pensavo anche io. Il problema è che lo era troppo. Ed io avevo paura.”
“Di cosa?”
“Un sacco di cose. Di affezionarmi troppo, di rimanerci male, che lei non provasse quello che provavo io. Non so quale di queste paure mi fermò, ma qualcosa alla fine ci riuscì.”
“Quindi cosa fece?”
Scrollai le spalle. “Feci quello che sapevo fare meglio. Quello che faccio sempre. Me ne andai. Sparii nel nulla senza guardarmi mai indietro.”

“Arizona?”
“Ciao. Come stai? So che è passato molto tempo ma...”
“Arizona.”
“No, ascolta. Ho sbagliato. Parecchio. Ho fatto un errore davvero enorme, ma spero non imperdonabile perché sto cercando di farmi perdonare.”
“Arizona, è stato molto tempo fa.”
“Lo so.”
“Ti ho perdonato un sacco di tempo fa.”
Quello avrebbe riacceso le mie speranze. Avrei accennato un sorriso.
Ma poi avrei sentito dei rumori provenire dall'interno della casa.
“Sono cambiate tante cose, Arizona.”
Avrei corrugato la fronte, guardando i suoi occhi tristi.
“Mamma, chi è alla porta?”
Avrei visto quella bambina. Tre, forse quattro anni, gli occhi scuri e i capelli neri, uguale a lei nei lineamenti e nel colore della pelle.
Una piccola lei.
“Chi sei?” avrebbe chiesto a me.
“Nessuno tesoro. Questa signora ha sbagliato indirizzo” le avrebbe risposto allora la donna davanti a me, prendendola in braccio. “L'inquilino che stava cercando ha lasciato questo appartamento, mi dispiace” mi avrebbe detto sospirando. “È arrivata in ritardo. Di circa otto anni.”
Ed io avrei chiuso gli occhi e sentito di nuovo quel vuoto, quel dolore a cui avevo sottoposto me stessa per anni.
E poi me ne sarei andata dopo aver fissato ancora una volta la porta chiusa davanti a me.

“Forse è solo una sensazione, ma credo che ci sia qualcosa che non mi sta dicendo.”
Io fui riscossa dai miei pensieri.
“Ci sono un sacco di cose” confermai con una piccola risata.
Alcune erano troppo difficili da spiegare. Altre troppo difficili da ricordare o da ammettere. Come il modo in cui mi sorrideva o in cui io la guardavo.
Nessuno aveva mai guardato me come io avevo guardato allora lei.
Come un bambino che scopre il primo fiore sbocciato a primavera e lo raccoglie per portarlo a sua madre. Come la più grande scoperta che si potesse fare.
Non era cosa per me, l'amore. Io non ero fatta per guardare la gente in quel modo. Avevo guardato in quel modo solo lei.
Ero troppo cinica per amare spesso.
“Ma non hanno più importanza, ormai.”
“Certo che hanno importanza” la sentii ridere della mia affermazione. “Tu sei innamorata di questa donna, giusto?”
Annuii, colta alla sprovvista dalla sua decisione nel fare quella affermazione.
“E allora ogni dettaglio conta. Tutto quanto, anche le cose più piccole. Ogni parola che le hai mai detto, ogni gesto, ogni sguardo. Tutto si somma e alla fine è quello che fa la differenza tra una bella storia d'amore e un disastro. E non voglio che questa storia si trasformi in un disastro. Spero che abbia un lieto fine.”
Risi, scuotendo la testa e voltandomi di nuovo per guardare fuori dal finestrino.
“Il lieto fine esiste solo nelle favole. Io non ci credo, sai? Nell'amore a prima vista, nel colpo di fulmine. Io credo nel duro lavoro e nel far funzionare le cose giorno dopo giorno. Non ci credo nella fortuna. Io credo nell'impegno.”
“Si vede.”
Entrambe ci voltammo verso la donna seduta accanto alla persona con cui avevo parlato per tutto il viaggio.
La notai solo in quel momento.
“Mi scusi?”
“No, mi scusi lei. Non voglio intromettermi.”
Stava leggendo un libro, non ci aveva mai rivolto parola. O almeno, sembrava che stesse leggendo, ma apparentemente aveva origliato tutta la nostra conversazione.
“Beh, io penso che voglia intromettersi eccome. Altrimenti non avrebbe detto niente. Quindi forza, le sto dando il permesso. Mi dica quello che vuole dirmi, penso di essere abbastanza forte da sopportare le critiche di una sconosciuta.”
Lei chiuse il libro tenendo il segno con una mano e guardandomi negli occhi.
Sospirò, scuotendo la testa.
“Non la conosco nemmeno. Non credo che sia corretto da parte mia intromettermi nella sua vita privata.”
“Andiamo, non si faccia pregare. Ormai sono curiosa di sapere cosa ha realizzato su di me di così terribile da non volermi nemmeno dire di cosa si tratta. Forza, mi dica. Tiri fuori il peggio, o il meglio, che ha.”
Lei esitò ancora un momento, poi sospirò, scrollando le spalle.
“Penso che lei sia una maniaca del controllo che ha paura di lasciarsi andare, che non crede nell'amore ma ha bisogno disperatamente di una prova che esiste qualcosa che possa almeno avvicinarcisi. Si è creata un mito, una favola, su questa donna che non vede da anni e che si racconta la sera prima di andare a dormire per riuscire ad alzarsi dal letto la mattina dopo, ma che in realtà nella sua memoria è completamente diversa. Oppure, anche se non è diversa adesso, lo era un tempo. L'immagine che aveva di lei è sbiadita, si è trasformata. Adesso ha questo ricordo perfetto alterato dal suo subconscio perché non ha mai trovato qualcuno ingenuo tanto quanto questa ragazza che pensava di poter trasformare il suo innato cinismo in amore incondizionato. La verità è che le persone come lei non cambiano mai, per nessuno. Non per qualcun altro e soprattutto non per se stesse.”
Il sorriso beffardo che avevo sul viso prima che lei iniziasse il discorso stava lentamente svanendo, per lasciare il posto ad un'espressione più neutra, che voleva nascondere la tempesta che le sue parole mi avevano causato dentro.
“Lei è una di quelle persone che anche quando hanno qualcosa di bello riesce a rovinarlo, volontariamente o no, perché vuole qualcosa di più. Ma questo più, cosa diavolo sia, in realtà non lo sa nemmeno lei. Non vuole accontentarsi di quello che ha e cerca sempre qualcosa di meglio, di più intenso, di più speciale. E si lascia sfuggire occasione dopo occasione tutte le grandi opportunità che le offre la vita. Lei è una di quelle persone che riesce a convivere con se stessa solo quando è infelice, perché è più facile, perché a stare da soli non ci vuole impegno, perché ha paura che prima o poi tutti la lascino, insomma, il perché non è importante. Lei può essere felice solo quando è infelice.”
L'esattezza delle sue parole, di quella descrizione, il modo in cui aveva colpito nel segno così precisamente, mi fece pensare che probabilmente anche lei era stata ferita da qualcuno molto simile a me, proprio come io avevo fatto con la ragazza di cui stavamo parlando fino a qualche momento prima.
“Quindi insegue questo sogno, questa utopia di una donna che non vede da quando eravate due ragazzine. Ma davvero pensa che sia la stessa che era anni fa? O di avere ancora una possibilità con lei? Le persone non aspettano che una sconosciuta gli si presenti davanti alla porta di casa per otto anni, la vita continua, la gente va avanti e questa donna sicuramente l'ha fatto. Dovrebbe farlo anche lei.”

“Arizona?”
L'avrei guardata e basta. Avrei sorriso, nonostante le lacrime agli occhi.
“Tu sei l'unica vera cicatrice che ho.”
Lei non avrebbe capito. Non subito, almeno. E mi avrebbe guardato con quel suo cipiglio perplesso.
“Ho tante ferite, un sacco. La gente mi ha lasciato segni di continuo. Ma poi, con il tempo, le ferite si rimarginano e i segni spariscono. Tutto torna come se non fosse mai successo niente, come se non avessi mai sbagliato. Ma se non ho un promemoria degli errori che ho fatto, come ci si può aspettare che io impari da essi? Tu no, tu non sei una ferita. Tu sei una cicatrice. Di quelle grandi e con i margini frastagliati, di quelle che sanguinano per anni e che ogni volta che stanno per rimarginarsi si riaprono improvvisamente e che fanno male sempre, in ogni momento, certo qualche volta più del solito, ma il dolore è sempre lì, la cicatrice è sempre lì come promemoria di un errore che hai fatto. Così si può imparare. Così so che io, con te, non ripeterò i miei errori. Ho capito, adesso. Davvero. Hai sanguinato per anni, ti ho lasciata sanguinare per anni, ma adesso voglio che la tua cicatrice si rimargini e che il promemoria sparisca perché la lezione che mi hai insegnato tu è stata comunque indelebile.”
“E cosa ti ho insegnato di così importante?”
“Che niente conta più della felicità. Sii felice e tutto il resto non avrà importanza. Anche se certe volte per essere felici si devono fare scelte rischiose, meglio rischiare, meglio vivere, meglio tentare. Tu mi hai insegnato a non fermarmi mai, neanche quando penso di aver perso, ad inseguire i miei sogni fino a realizzarli.”
“E hai realizzato i tuoi sogni?”
Avrei scosso la testa, un sorriso amaro a rigarmi il viso.
“Ho capito troppo tardi che il mio sogno eri tu.”


“Lei non ha capito niente di tutta questa situazione, mi pare ovvio” rispose la donna che aveva ascoltato tutte le mie confessioni, all'altra che le sedeva accanto.
“No, forse è lei che non ha capito niente. Io credo, dalla faccia della sua nuova amica, di aver capito tutto anche troppo in fretta.”
“Senta, lei dovrebbe farsi gli affari suoi.”
“Lo stavo facendo, ma le vostre voci mi hanno distratto dalla lettura” rispose mostrandole il libro che aveva in mano, una delle dita ancora in mezzo a tenere il segno. “E poi, è stata lei a spronarmi a dire cosa ne pensavo. Io me ne sarei stata volentieri in silenzio ed avrei ripreso i miei tentativi di lettura.”
“Che maleducata.”
“Mi scusi?”
“Proprio così, ha capito bene. La reputo una persona molto maleducata. Si è intromessa in una conversazione privata, origliando, ed ha insultato la mia amica” fece un gesto della mano nella mia direzione.
“Amica? Ma se vi siete conosciute giusto qualche ora fa” puntualizzò la donna del libro. “Non saprebbe neanche dirmi il suo nome, scommetto.”
“Se so il suo nome? Certo che so il suo nome!” bluffò la donna difronte a me, a cui solo in quel momento realizzai di non essermi nemmeno presentata.
“E poi, lei ha fatto la stessa cosa che ho fatto io, ovvero intromettersi nella vita di una completa estranea, solo che lo ha fatto direttamente costringendo la diretta interessata ad aprirsi, non dica di no.”
“Beh, la curiosità è molto diversa dalla maleducazione.”
“Arizona Robbins” fermai il battibecco, interrompendo la loro conversazione e allungando una mano tra le due, cercando di attirare la loro attenzione.
Dopo aver trattenuto per qualche ulteriore secondo lo sguardo della donna al suo fianco, si voltò nella mia direzione, facendo un sorriso cordiale ed accettando la mano che le stavo porgendo in una stretta gentile ma salda.
“Teddy Altman, piacere di conoscerla.”
Mi voltai verso l'altra donna, accennando un sorriso nel tentativo di superare lo stupore per la sua lettura impeccabile di me.
Anche lei, dopo qualche istante di esitazione, afferrò la mano che le stavo porgendo.
“Addison Forbes Montgomery.”
“Perfino il nome è autoritario” mormorò la donna al suo fianco, incrociando le braccia al petto e schiarendosi la voce.
“Mi perdoni?”
“Teddy” ripeté, porgendole a sua volta la mano e fingendo un sorriso innocente.
Addison strinse gli occhi a due fessure. Poi fine un sorriso, accettando la mano che l'altra le aveva teso.
“Sapete, sareste una coppia molto carina. Davvero, davvero, carinissima” dissi loro, cercando di trattenere un sorriso.
Addison rise, scuotendo la testa, mentre Teddy arrossì leggermente, guardandomi con aria incredula. Guardò nuovamente la rossa al suo fianco e poi si voltò nella mia direzione, schiarendosi la voce.
“Sì, saremmo una coppia carina. È un peccato che io non esca con persone maleducate.”
“Io non esco con persone che ficcano il naso in affari che non le riguardano e fanno domande a sconosciuti a caso” rispose a tono Addison.
“Beh, io non esco con persone...” Teddy stava iniziando ad alzare la voce.
“Una coppia perfetta” mormorai a me stessa, con un mezzo sorriso, mentre mi distraevo di nuovo da quella conversazione.

“Arizona?”
“Non è passato un singolo giorno senza che io ti pensassi. Mai, neanche uno, neanche quando credevo di essere felice. Senza di te, non lo ero. E se anche tu, in questi anni, hai pensato a me, almeno qualche volta, se anche tu...”
“Arizona” mi avrebbe fermato con tono secco. “Sono passati tantissimi anni. E tu sei stata” me la immaginai deglutire. “Tu sei stata il mio primo amore. E avrei voluto davvero che fossi anche l'ultimo, l'unico, il grande amore della mia vita. Ma sei stata tu ad insegnarmi che le cose non vanno mai come vorresti e che tutto prima o poi finisce.”
“Che significa? Io non ho mai voluto insegnarti questo. Non ho mai voluto che la pensassi come la pensavo io.”
“Ma l'ho fatto. Ho iniziato a pensarla proprio come te, dopo quella volta, l'ultima volta che ci siamo viste.”
“No, vedi, ho detto cose stupide. Ho fatto cose stupide. Ho detto che non eri importante, ma ho mentito. Se potessi tornare indietro, se potessi rifare tutto...”
Avrei fatto un passo in avanti e le avrei preso le mani tra le mie, ma lei si sarebbe tirata di scatto indietro.
“Mi dispiace così tanto” avrei mormorato allora, vedendo brillare nei suoi occhi la lezione che da me aveva involontariamente imparato.
“Lo so. Ma io non voglio essere ferita di nuovo. E purtroppo, in fondo al mio cuore, io so che lo faresti ancora.”
“No, io non...”
“Dici così adesso, come il giorno che mi hai conosciuta. Ma il tempo passa, le cose cambiano, le persone crescono.”
“Mi dispiace” avrei mormorato per l'ultima volta guardando i suoi occhi feriti riflettere le lacrime dei miei. “Avrei voluto che tu, almeno tu, non crescessi mai. Che restassi innocente come il giorno in cui ti ho conosciuta, che non avessi mai delusioni e che non fossi mai costretta a crescere. Avrei dovuto essere io, anzi, a cercare di non deluderti mai. Mi dispiace sul serio.”
Avrebbe annuito, sospirando. Arresa.
“Dispiace anche a me.”

“Dopo un paio di mesi che ci sentivamo, l'estate stava finendo. Io sarei dovuta tornare a New York e lei a Seattle ed io non credevo né nelle relazioni a distanza, né nell'amore, né che qualcosa potesse durare nel tempo.”
“Quindi?”
“Quindi le dissi che era stata una bella estate. Che lei mi piaceva davvero ma che era solo quello, un'estate. Che dovevamo tornare alla vita reale.”
Osservai i paesaggi scorrere fuori dal finestrino. Ormai iniziavo a riconoscere alcune delle strutture, non potevamo essere molto lontani.
“Le dissi che niente dura e che anche tra noi non sarebbe mai potuta durare.”
“E ci credevi davvero?”
“No” risposi con una risata amara. “Ma l'importante era che ci credesse lei. Che io la ferissi abbastanza da permetterle di andare avanti senza rimanere attaccata all'inutile ricordo di una ragazza che non avrebbe mai potuto darle niente che si avvicinasse anche solo lontanamente alla vita che meritava.”
Per diversi minuti l'unico rumore a distrarci fu quello del treno che percorreva veloce le rotaie, portandoci verso l'ultima fermata della corsa.
“Tu sei un'idiota.”
Mi voltai, sorprendendomi non per l'affermazione in sé, ma perché era arrivata dalla bionda invece che dalla rossa.
“Avresti dovuto permettere ad entrambe di avere la vostra occasione. E invece hai dovuto rovinare tutto.”
“E adesso chissà se ne avrai mai un'altra” infierì la donna al suo fianco.
“Probabilmente no” mormorai, mentre il treno rallentava, entrando in stazione. “Probabilmente lei se ne sarà andata dalla città o avrà cambiato indirizzo o non vorrà comunque parlarmi. Ed io inizierò a lavorare e incontrerò qualcun'altra. Magari qualcuno di ortopedia. Mi ha sempre affascinato il lavoro degli ortopedici.”

“Sì?”
L'avrei guardata, solo guardata, osservando il modo in cui i lineamenti del viso erano maturati facendo della ragazza che conoscevo una donna.
“Posso fare qualcosa per aiutarla?”
Era ancora più bella di come la ricordavo.
“Sono Arizona. Ti ricordi di me?”
Lei mi avrebbe guardato, corrugando la fronte, cercando di ricordare.
“Ci siamo conosciute a Miami, tu avevi diciannove anni, io ne avevo ventuno, era l'estate dopo il tuo primo anno di medicina. I tuoi ti avevano convinto a tornare a casa per le vacanze ed io ero lì in vacanza con la mia famiglia.”
Lei avrebbe continuato a scrutare i miei lineamenti in cerca di qualcosa che le facesse ricordare chi era la persona che aveva davanti.
“Quanto tempo ha detto che è passato?”
“Otto anni.”
“Otto anni? E lei si aspetta che io, dopo otto anni, la riconosca?”
“No, per quello ti ho detto il nome e spiegato chi sono.”
Lei continuò a guardarmi, cercando di sforzarsi di ricordare qualcosa.
“Sono la prima ragazza che hai baciato.”
“Mi dispiace. Non mi viene proprio in mente niente che riguardi lei.”
“Davvero? Niente di niente?”
“No. Mi scusi.”
“Ok. La ringrazio per il suo tempo e scusi se l'ho disturbata.”
“Sì figuri, non c'è problema.”
Mi sarei voltata e avrei fatto qualche passo.
“Ehi.”
Poi la sua voce mi avrebbe fermato. Mi sarei voltata piena di speranze, credendo che si fosse ricordata di me.
“Se posso darle un consiglio, la prossima volta non aspetti otto anni per farsi sentire da una donna che le piace.”
Io avrei accennato un sorriso, annuito, stretto gli occhi e incassato quella botta, sapendo che quello era ciò che mi meritavo per l'atteggiamento da completa stronza che avevo avuto io otto anni prima.


“Quindi adesso che farai?”
“Andrai da lei?”
“Beh, ormai è in città, mi sembra ovvio che andrà da lei” le fece notare Teddy.
“Sì, ma cosa dovrebbe dirle? Sono pur sempre passati otto anni.”
“Ma sicuramente avrà già pensato a qualcosa di intelligente e romantico e dolce da dire. Vero, Arizona?”
“Beh...”
“Non riuscirebbe a fare un discorso romantico neanche se qualcuno lo scrivesse per lei” le disse Addison, che sembrava aver sviluppato un particolare talento nel prendermi in giro, cosa che la gratificava visibilmente.
“Oh, non essere così dura. Se la caverà alla grande, secondo me.”
“Vuoi scommetterci venti dollari?”
“Andata” accettò immediatamente Teddy, porgendole la mano per sigillare la scommessa, con un sorriso sicuro e beffardo.
“Bene. Allora lasciami il tuo numero, così posso chiamarti quando ci avrà parlato per riscuotere la mia vincita.”
La rossa estrasse il proprio cellulare con un mezzo sorriso. Perfino io fui stupita dalla genialità di quella tattica, ero costretta ad ammetterlo.
Teddy, dopo un minuto di contemplazione dell'apparecchio elettronico che l'altra stava tendendo verso di lei, si decise a prenderlo e digitare il proprio numero.
“Bene. Ci sentiamo, allora” concluse Addison.
“Appena io avrò vinto.”
“Appena io avrò vinto.”
Scossi la testa, ridendo tra me e me.
Mi voltai, incamminandomi verso l'uscita pensando che non avrebbero mai saputo chi delle due aveva vinto quella loro scommessa. Né Addison e nemmeno Teddy avevano un mio recapito telefonico o un indirizzo. Se la carissima Addison aveva intenzione di usare quel numero per chiamare la donna per cui aveva palesemente una cotta, avrebbe dovuto darsi una mossa e farlo senza la scusa di aver vinto o perso una scommessa su di me.
Però su una cosa, in tutto quello, ero rimasta ancora fermamente convinta di aver avuto ragione fin dal primo istante.
Addison e Teddy sarebbero stata una coppia davvero troppo carina.

Bussai e rimasi con il fiato sospeso, aspettando che qualcuno venisse ad aprire la porta.
Quando lo fece, non la riconobbi immediatamente.
Ma dopo qualche secondo la realizzazione si fece strada dentro di me.
I capelli neri, gli occhi scuri, la carnagione ambrata, le labbra piene. Non c'erano dubbi che si trattasse di lei. E sì, forse erano passati molti anni, ma l'avrei riconosciuta tra un milione. Era proprio la donna che stavo cercando.
“Arizona?”
Avevo immaginato a lungo cosa avrei detto a quel punto, la sua reazione, cosa sarebbe successo in quel momento e dopo, fino quasi a delineare, per ogni mia stupida fantasia, tutto il resto delle nostre vite.
L'avevo immaginato così tante volte ed ogni volta bastava un piccolissimo dettaglio in quello che dicevo o facevo o che diceva e faceva lei, per cambiare totalmente l'esito di quei miei sogni ad occhi aperti.
Ci avevo pensato così a lungo, forse perfino troppo, tanto da consumarmi su quei pensieri, da vivere in essi così tanto da sparire dalla mia quotidianità.
Non ero che il fantasma della persona che ero stata.
Avevo bisogno di un motivo per ricominciare a vivere e in qualche modo mi ero convinta che lei potesse essere quel motivo.
Ero sicura che tra noi avrebbe funzionato? Cavolo, no.
Ero sicura che lei fosse la persona che ricordavo? Assolutamente no.
Ero sicura che tra noi potesse esserci qualcosa di davvero, davvero speciale? Sì. Sì, lo ero.
Ero pronta a correre il mio rischio, finalmente. Ero pronta ad avere il cuore spezzato per poter almeno dire di aver tentato.
La cosa più assurda fu che dopo tutti quei discorsi immaginari, dopo averle detto tutte quelle parole dentro la mia testa, dopo aver voluto così tanto trovarmi lì, davanti a lei e guardarla mentre dalla soglia di quella porta a sua volta mi guardava, era tutto sparito come se non fosse mai nemmeno esistito.
Ogni discorso, ogni parola, ogni lettera che avevo preparato e ordinato nella mia mente, era tutto svanito nell'istante in cui l'avevo vista.
Mi aveva tolto il fiato.
Per quello sapevo che, comunque sarebbe andata, ne valeva la pena.
Nell'annebbiamento totale che quel momento magico in cui l'avevo rivista mi aveva lasciato, riuscii a balbettare le uniche due parole che mi erano rimaste.
“Ciao, Calliope.”




Il nostro destino ha il brutto vizio di farci arrivare dove dobbiamo essere, non importa quanto lontano cerchiamo di fuggire.




Ritorna all'indice


Capitolo 57
*** Il nostro primo sogno ad occhi aperti ***


Grazie a tutti coloro che hanno commentato la storia e che continuano a seguire la raccolta nonostante i miei improponibili ritardi. Grazie di cuore ai pochissimi superstiti che ancora mi seguono.

Buona lettura!




Il nostro primo sogno ad occhi aperti



“Conoscevo un tizio.”
Mi piaceva raccontare quella storia.
“Si era innamorato di questa ragazza quando aveva, tipo, quindici anni.”
Sì, è vero, le avevo dato un po' più di colore di quanto ne avesse all'inizio, ma non significava che non fosse realmente successa.
“Lei ne aveva almeno una decina di più.”
Insomma, a qualcuno sicuramente era successo qualcosa del genere.
“Solo che lui viveva a Seattle e lei stava a New York. Ma decidono comunque di mettersi insieme e di aspettare di poter vivere nella stessa città. Lui decide di diventare medico, inizia a studiare e spendono un sacco di energia mentale e fisica per portare avanti questa cosa, ok?”
Lei annuì, prestandomi la sua massima attenzione.
“Lei mette da parte soldi, inizia a fare due lavori, lui fa turni da trentadue ore alla volta, cercando di specializzarsi il prima possibile. Alla fine, dopo dieci anni che stanno insieme, lei riesce a trovare i soldi per trasferirsi a New York, un amico di lui le trova un lavoro lì, quindi fa il biglietto e parte, dopo anni che lo programmavano. Dopo anni ed anni che parlavano di come sarebbe stata la loro vita insieme, dopo tutta quella fatica, tutti quegli sforzi, le liti, la distanza, il dolore, le lotte, dopo aver attraversato l'inferno, eccoli lì, che se ne erano tornati tranquillamente a camminare tra gli uomini.”
Presi un sorso dal mio drink, scuotendo la testa, per fermarla dal parlare.
“La storia non è ancora finita” la avvertii.
“Ok, vai avanti allora.”
“Quindi lei arriva a Seattle, giusto? E lui le dice: tesoro, ti farò della camomilla, so che la prendi tutte le sere a casa e voglio che tu ti senta a casa tua, qui con me. Solo che il tizio non aveva mai, in vita sua, bevuto niente che assomigliasse anche solo vagamente ad una camomilla, ok? Quindi le dice di non preoccuparsi, che andrà a comprarla. Lei tenta di dissuaderlo perché è tardi e fuori sta piovendo ma lui le dice: tesoro, dormi bene solo con la camomilla e la tua prima notte qui avrai la tua stramaledetta camomilla. Quindi se ne frega che sia una sera d'inferno, che fuori piova, prende il cappotto, le chiavi dell'auto e le dice che torna tra cinque minuti. Arriva al negozio alla fine dell'isolato, parcheggia, scende ed entra nel negozio.”
“E la storia finisce così?”
“No, è una pausa a effetto” le dissi come se fosse scontato. “Ora, quei due ne avevano davvero passate di tutti i colori, sai? Davvero di tutti i colori, ma erano comunque riusciti ad uscirne sempre insieme. Erano riusciti a stare insieme dopo dieci anni, dieci fottutissimi anni che ci provavano, capito? Quello era il primo giorno del resto della sua vita e lui voleva fare una cavolo di camomilla alla sua donna. Quindi entra nel negozio. E dentro c'è un ragazzino, avrà avuto quindici anni, tipo quanto lui quando ha incontrato lei la prima volta, ok? Lo vede entrare, si agita, gli punta contro la pistola con cui stava rapinando il negozio e gli spara. Così. Senza pensarci, lo fa d'istinto, non perché volesse farlo davvero, ma perché è un quindicenne spaventato a morte. E lui se ne sta lì, con un proiettile in mezzo alla fronte. Morto sul colpo, il primo giorno del resto della sua vita.”
“Non ci credo.”
“E lei si è trovata in una città che non conosceva, completamente sola, completamente persa e completamente devastata. E indovina che ha fatto?”
“È tornata a casa?”
“No.”
“È diventata una pazza schizzata.”
“Nemmeno.”
“È passata alle donne?”
Io risi, scuotendo la testa.
“E allora che ha fatto?”
“Hai presente l'amico di lui che ti ho detto, quello che le aveva trovato un lavoro a Seattle?”
“Certo.”
“Se lo è sposato.”
“Non esiste!”
“Giuro. Hanno pure fatto dei figli e ora vivono in Perfezionelandia, in una casa con lo steccato bianco e la cassetta per le lettere con la bandierina rossa che si alza” mimai il movimento con l'indice della mano destra.
“Non può essere” ribatté ridendo. “Ma chi era questa tizia, in realtà? C'è almeno qualcosa di vero in tutta questa storia?”
“Ma certo che c'è” le dissi, quasi risentita.
“A malapena” una voce che avrei riconosciuto tra un milione mi fece voltare alla mia sinistra. “È così che la racconti adesso?” domandò, avvicinandosi e alzando un sopracciglio.
Io sospirai, appoggiandomi tra le labbra la cannuccia che era nel bicchiere ormai vuoto che avevo in mano.
“La versione della storia in cui lei si scioglieva come la malvagia strega dell'Est non era poi così credibile se chi la ascoltava non era sbronzo almeno quanto me.”
Mi alzai in piedi, cercando di tenere il barcollamento ad un minimo e fronteggiandola.
“Ovest.”
“Cosa?”
“Era la malvagia strega dell'Ovest quella che si scioglieva.”

Scrollai le spalle. Come se mi dovesse interessare.
“Vieni. Usciamo da qui, ti porto a casa.”
Sospirai, prendendo il mio giacchetto.
“Mi dispiace tesoro” dissi alla ragazza che era seduta insieme a me. “Mammina è qui ed è piuttosto arrabbiata. A quanto pare non ho rispettato il coprifuoco.”
“Andiamo” mi disse, mettendomi una mano sulla schiena e sollecitandomi verso l'uscita, alzando gli occhi al cielo della mia interazione con la ragazza.
“Sai, so prendermi cura di me stessa. Sono adulta e vaccinata e se tu non puoi fare i conti con la mia indipendenza...”
“No, Callie. Non posso fare i conti con la tua dipendenza piuttosto. Dovresti smetterla di bere così tanto.”
“Ah, lasciami in pace. Ora sembri davvero mia madre.”
Mi scrollai la sua mano dalla schiena.
“Ascoltami” disse, sospirando, preparandosi a spiegarmi qualcosa che secondo lei non riuscivo a capire.
“No, tu ascoltami” le dissi scuotendo la testa. “Perché sei qui? Se ti sei presa il disturbo solo per farmi sapere che era la fottutissima strega dell'Ovest quella che si scioglieva, beh, non poteva importarmene di meno.”
“Lo sai perché sono qui.”
“No, non lo so. Onestamente non ne ho idea” le dissi, alzando le braccia e poi lasciandole ricadere lungo i miei fianchi. “Illuminami.”

“Quanto durerà questa storia? Per quanto dovremo vederti così? A barcollare da un bar all'altro fino a distruggerti?”
Scrollai le spalle.
“Chi lo sa. Forse per sempre. Me la sto godendo. Mi sto divertendo. Facendo tutte le cose che non ho fatto in cinque anni. Niente più rimpianti. Niente più rimorsi.”
“Ti stai costruendo una vita fatta di rimpianti e rimorsi” mi fece notare, alzando la voce. “Fai qualcosa che conti, se non vuoi rimpianti.”
“Niente conta” le risposi, alzando a mia volta la voce. “Non c'è niente di niente che conti in questo mondo, d'accordo? Non c'è niente, niente, che sia anche solo lontanamente importante abbastanza per me da dare un senso alla mia vita. Quindi lasciami andare. Solo, lasciami andare, ok? Lasciami distruggere tutto ciò che non è importante.”
Alle mie parole seguì un lungo silenzio.
“Ok. Ti lascerò fare ciò che vuoi, da ora in avanti. Ti lascerò andare.”
Annuii, cercando di far calmare la rabbia che in un attimo mi aveva avvolto.
Mi voltai, pronta ad incamminarmi a piedi, quando sentii di nuovo la sua voce.
“Callie?”
Mi fermai, per poi guardarla di nuovo, aspettando la sua domanda.
“Perché lui nella storia fa il medico?”
Mi tolsi lentamente la cannuccia che avevo in bocca dalle labbra.
“Volevo fare medicina. Avrei dovuto” gettai l'oggetto tra le mie dita a terra con forza. “Niente di tutto questo sarebbe mai successo se fossi stata un semplice fottuto chirurgo.”
Senza dire un'altra parola me ne andai, cercando di non pensarci. Di non pensare più al passato. Di non pensare più a lei.


“Morto sul colpo, il primo giorno del resto della sua vita.”
Quella storia mi aveva fatto rimorchiare più del mio sorriso, difficile da credere ma vero.
“E tu eri lui?”
Il sorriso che avevo sparì immediatamente. Alzai gli occhi verso la ragazza alla mia sinistra, quando fino a quel momento avevo parlato con quella alla mia destra.
“Scusami?”
“Il tizio morto sul colpo. È una metafora, giusto? Tu eri lui?”
Io fui confusa per un secondo. Nessuno aveva mai risposto niente del genere.
Con aria estremamente perplessa guardai quella donna negli occhi.
E mi persi. Così. Sul colpo.
Due occhi blu. E profondi. E vivi come non ne vedevo più da anni.
Tesi la mia mano nella sua direzione.
“Callie Torres.”
Lei mi sorrise, prendendo la mia mano. Ma niente più.
E per un attimo, un secondo, il viso di un'altra donna bruciò vivido nella mia mente.
Potrebbe essere te.
Ecco la prima cosa che pensai di quella ragazza, in quel bar.
“Come hai detto che ti chiami?”
“Non l'ho detto” mi sorrise enigmaticamente. “Facciamo due passi?” propose alzandosi dallo sgabello.
Gettai un'occhiata alla ragazza alla mia destra, intenta a scrivere al cellulare.
“Sicuro” le dissi, alzandomi, prendendo la mia giacca e seguendola fuori dal locale.
Appena uscimmo sentii l'aria umida di settembre farsi strada nei miei polmoni.
“Allora” propose “adesso mi vuoi raccontare com'era quella storia prima che tu aggiungessi tutte quelle metafore?”
Fui colta alla sprovvista dalla sua sfacciataggine.
Mi piaceva.
“Che ne dici se per stasera la smettiamo di parlare e te la racconto un'altra sera?” domandai, sorridendole.
Lei rise, scuotendo la testa.
“Che vorresti fare invece di parlare?” domandò con aria sicura di se stessa.
“Ho un paio di idee in mente” le dissi, sorridendo maliziosamente e facendole un occhiolino subito dopo.
Quando, venti minuti dopo, eravamo sedute dentro un cinema, non la trovava più una battuta così divertente.
“Lo fai spesso?” mi domandò. “Venire al cinema a quest'ora di notte.”
“A volte” le dissi, scrollando le spalle. “Mi piace. È tutto vuoto. Se vuoi il silenzio, c'è silenzio, se vuoi urlare, puoi farlo, nessuno si lamenterà. Puoi fare ciò che vuoi. Non ci sono leggi dopo l'una di notte.”
Lei rise, guardandomi di sottecchi e poi scuotendo di nuovo la testa.
“Sei strana.”
“Puoi scommetterci, ragazzina. A proposito, quanti anni hai? Non sei minorenne, vero?”
“Stavo bevendo una birra quando mi hai conosciuto” mi fece notare.
“Ah, ma Joe vende alcolici anche ai bimbi di otto anni. Quell'uomo o è la persona più ingenua del mondo o un genio del male, fattelo dire.”
“Diciannove.”
“Cosa?”
“Ho diciannove anni.”
“Oh. Certo. Visto? Non potresti bere.”

“E tu?”
“Ventisei.”
Presi una manciata di popcorn, lanciandone uno in aria e riafferrandolo con la bocca.
“Sono troppo vecchia per te, ragazzina” le feci notare, lanciando il secondo popcorn. “Fai finta che io sia la tua baby sitter per stasera.”
Ne lanciai un altro, prendendolo al volo di nuovo.
“L'età alla fine è solo un numero.”
“Certo” confermai, ironicamente. “Sai, anche la prigione alla fine è solo una stanza con un letto e il posto in cui devi fare pipì dentro le stesse quattro mura. Ma le persone tendono a volerla evitare comunque.”
“Ho diciannove anni, non andrai in prigione per stare con me” mi fece notare come se lo stesse spiegando ad un bambino.
“Vero.”
“E poi, che ne sai tu della prigione?”
Risi, lanciando in aria l'ennesimo popcorn.
“Fidati, tesoro. Ne so molto più di quanto potresti pensare.”
Continuò a guardare nella mia direzione anche dopo che le luci si furono spente e la proiezione del film iniziò.
“Quindi eri tu? Il ragazzo di quindici anni che ha sparato ad un tizio durante il primo giorno della sua vita? È questa la tua parte in quella storia? Questo è il motivo per cui conosci la prigione?”
“Cosa? No. Dio Santo, no. Ragazzina, da quando chi racconta storie è il cattivo della propria?” la guardai come se fosse pazza.
“Giusto.”
“Ti pare?” chiesi, ancora perplessa.
“Ok, ok” alzò le mani in segno di resa. “Ho capito. Non hai ammazzato nessuno.”
Le rivolsi un mezzo sorriso.
“Non ho mai detto questo.”
Lei rimase completamente ammutolita dalla mia frase.
“Ora stai in silenzio. Sta iniziando il film.”


Svegliati. Devi svegliarti. Apri gli occhi.”
Mi svegliai con un mal di testa impressionante.
Lanciai un'occhiata di traverso per vedere che ora era. La sveglia non era ancora suonata.
Mi stesi sulla schiena. Fu allora che arrivò il primo pensiero della giornata.
No.
Poi arrivo il secondo, leggermente più articolato ma con un concetto più o meno simile.
Che ho fatto di male per essermi svegliata viva anche oggi?
E poi eccolo. Il terzo. Ogni mattina, ogni maledetto giorno della mia vita, tra i miei primi tre pensieri, c'era quello.
Lei.
Ah, sembrava facile. Sarebbe dovuto esserlo, almeno. Così credevo. E invece erano mesi che non sapevo nemmeno più come stava. Che faceva. Con chi era.
Tirai via le coperte, tagliandola fuori. Come ogni mattina. Pronta ad iniziare l'ennesimo giorno senza di lei.
Mentre camminavo verso la cucina premetti il pulsante rosso che lampeggiava sul telefono. Partì la segreteria.
Siamo ancora d'accordo per questa sera? Beh, sono le otto di mattina in un giorno qualunque della settimana quindi starai probabilmente dormendo. Fammi sapere quando ti svegli, ok? E sorridi. È più bello tutto il mondo quando ci sei tu che sorridi.”
Sospirai, fissando il frigorifero aperto.
“Oh, ragazzina dal cuore d'oro. In che casino ti sei cacciata?” mi domandai, prendendo in mano della pizza che era probabilmente lì da due settimane.
Avevo visto quella ragazza per tre sere negli ultimi dieci giorni. Io non vedevo le persone. Io incontravo persone a caso, ci parlavo, le piantavo e non le vedevo mai più. Che mi stava succedendo con lei? Perché lei era diversa? Perché volevo vederla e rivederla e poi rivederla di nuovo?
“Qualcosa non va in me” sussurrai addentando un pezzo di pizza fredda. Storsi il naso. “Questo è troppo anche per me” mormorai, mettendola nel microonde.
Andai in bagno, specchiandomi e sospirando.
“Una cosa sola ti ha chiesto. Falla. Fallo per lei, cavolo. Provaci almeno.”
Provai a sorridere genuinamente, ma quello che venne fuori fu solo una strana smorfia. Non riuscivo a farlo se non avevo un motivo valido, era inutile. E non ne avevo uno da un sacco di tempo, ormai.
Guardai il mio riflesso, scoraggiata.
“Sei inutile. Lasciala stare prima di rovinarla per sempre.”
Non serviva un genio per capire che quella ragazza era speciale. Era unica. Era perfetta.
Eppure, mi ricordai, quella mattina mi ero svegliata e tra le prime tre cose che avevo pensato c'era stata un'altra.
“Lascia stare lei e la sua perfezione” dissi allo specchio con decisione, quasi minacciando la mia immagine riflessa. “Non te la meriti. Ed è quello che le dirai stasera.”
Il mio riflesso non ci stava credendo neanche un po'.


Avevo messo insieme tutta la risoluzione che avevo trovato dentro me.
La stavo per scaricare. Appena sarebbe arrivata lo avrei fatto. Subito. Via il pensiero.
Ma poi lei arrivò. E mi guardò con le lacrime agli occhi e un sorriso debole.
E così, all'improvviso, non c'era più alcuna risoluzione che poteva essere trovata dentro me.
Quindi la abbracciai e le chiesi cosa non andava. Mi disse che era tutto apposto, ma ovviamente non ci credetti. Le presi la mano e la condussi gentilmente a qualche passo di distanza, dove c'era un muretto sul quale ci sedemmo.
“Come stai, sul serio?”
“Bene. Dico davvero, Callie.”
Io annuii, aspettando.
“È solo che...”
Eccolo qui.
“...ho litigato con una mia amica.”
“Come mai?”
“Non me lo ricordo nemmeno. È tutto iniziato per una cavolata e un secondo dopo ci siamo dette cose davvero pesanti.”
“Che ha detto?”
“Senti, possiamo” le uscì in modo più brusco di quanto aveva probabilmente in mente. Inspirò, cercando di calmarsi. “Possiamo parlare di te, per una volta?”
In effetti parlavamo sempre di lei. Non mi piaceva parlare di me.
“Raccontami solo” scrollò le spalle. “Qualcosa di te. Io non so niente di te. Non davvero.”
Io distolsi lo sguardo.
Già. La faceva facile lei.
Io avevo paura che di me stessa non sapessi proprio un bel niente neanche io. Non più, almeno.
Per quello preferivo non parlarne.
“Il tizio aveva la tua età.”
“Cosa? Chi? Ma di che stai parlando?”
“Il tizio della storia. Non aveva quindici anni, ne aveva diciannove.”
“Ah.”
“Ed il tizio era una tizia.”
“Oh.”
“E la tizia ero io.”
Mi schiarii la voce.
Lei non sapeva cosa dire. Io non sapevo se fosse il caso di continuare.
“Lei aveva solo tre anni più di me, non è vero che c'erano dieci anni di differenza. Ironico, però, che tra me e te ce ne siano così tanti.”
“E il resto della storia?”
“Quattro anni e mezzo di distanza, poi lei è venuta a Seattle. Io stavo già lavorando qui, avevo un posto fisso, non potevo lasciare tutto. La sera che è arrivata dovevo lavorare. Dovevo per forza. Nessuno poteva cambiare il turno con il mio.”
“Che lavoro facevi?”
“Ero un poliziotto. Cioè, sono. Sono un poliziotto. Quando sono entrata lì dentro ero in uniforme, ecco perché il quindicenne spaventato ha sparato” raccontai, mantenendo lo sguardo voltato lontano da lei.
“Cosa è successo poi?”
“Sono stata in coma un anno esatto. Come un orologio. Un anno dopo mi sono svegliata. Solo che tutto era cambiato.”
“Che vuol dire che tutto era cambiato?”
“Beh, un anno era comunque passato. Solo che io non l'avevo visto trascorrere. Ma gli altri sì. I dottori mi avevano dato per spacciata. Amici e famiglia, tutti quanti si erano arresi. Era come se fossi morta. Un po' lo ero davvero in realtà perché è stato proprio come tornare in vita dal mondo dei morti. Ero diventata il passato di tutte le persone che per me erano il presente. Ero un fantasma che camminava tra gli uomini.”

“E lei? La donna della storia?”
Io risi, scuotendo la testa.
“Ah, piccola, ingenua, bellissima ragazzina dagli occhi blu. Un anno è molto lungo. A Seattle fa molto freddo. Lei si sentiva molto sola. La mia migliore amica, da brava migliore amica, ha preso il mio posto quando non potevo e le ha fatto compagnia, scaldandole il cuore.”
“Oddio. Scherzi?”
“Seria come la morte. Poi io sono tornata e capisci che ero di troppo.”
“Andiamo” rispose, incredula. “Voi due eravate state insieme per quattro anni e mezzo. Loro per quanto, un anno?”
“Nove mesi” risposi a bassa voce. “Ma ha vissuto con lei per nove mesi e con me per meno di due ore. Quando si arriva alla scelta, direi che quella è la parte facile.”
“Il difficile è capire come si siano messe insieme dal primo momento” capì al volo quello che intendevo dire.
“Già. Erano inconsolabili, così mi hanno detto. Hanno cercato conforto l'una nell'altra. Il resto è storia. Ora loro sono state insieme un anno e mezzo e sono innamorate e felici e andate avanti e io sono inchiodata a prima del coma. Sto vivendo due anni nel passato. E non riesco a tornare al presente.”
Rimase in silenzio a lungo.
“Ora sai qualcosa di me.”
“Già.”
“Quindi...”
“Andiamo a casa tua?”
“Certo.”
“Posso rimanere a dormire?”
“Perché no. C'è un divano-letto molto comodo. Puoi dormire lì.”
Lei mi guardò, alzando le sopracciglia.
“Dai, lo sai che sto scherzando. Il divano lo prendo io.”
“Callie” mormorò.
Smisi di ridere, guardandola negli occhi.
“Cosa?”
E poi era successo.
Un bacio leggero e pesante, che significava tutto e non significava niente. Una certezza così precaria da poter crollare da un secondo all'altro.
La sua mano sulla mia guancia mi riportò alla realtà.
Chiusi gli occhi.
Era un bacio così dolce. Così casto. Proprio come farebbe una ragazzina di diciannove anni.
Quando si allontanò mi guardò dal basso, con la testa piegata e gli occhi che guardavano in alto, così timida, così insicura, così senza bisogno di aver incredibilmente paura dei suoi difetti, perché non ne aveva.
“Ok” le dissi e basta.
“Ok” ripeté, sorridendo nel modo più felice del mondo.
E all'improvviso, in quell'istante, anche io ricordai come si faceva. E sorrisi anch'io. In modo così spontaneo e naturale, un sorriso che era così vero e mio, che per un attimo mi chiesi come avevo fatto a dimenticarmi come si faceva. Ma lei me ne aveva ricordato.
I suoi occhi blu così belli e innocenti. I suoi capelli biondi e mossi, le sue fossette, le sue labbra perfette.
Potrebbe essere te.
Chiusi gli occhi, scacciando via il pensiero.
Ma non lo è. Lei non è te.
“Andiamo” le dissi, alzandomi.


Ti prego. Devi aprire gli occhi. Svegliati.”
Ma come poteva essere già mattina? Mi ero addormentata tipo dieci minuti prima.
Guardai la sveglia.
No, era mattina.
Il mio primo pensiero arrivò. Così. Come sempre.
No.
E poi, il secondo. Mi gelò il sangue per un istante.
Lei.
Eccola di nuovo tra i miei primi pensieri. Eccola di nuovo dove non sarebbe dovuta essere.
Mi alzai di scatto, scacciandola via.
“Alzati e vai avanti” mi dissi. “Alzati e arriva alla fine di questa giornata.”
“Parli spesso da sola?”
Mi voltai di scatto, vedendola in piedi con una spalla appoggiata allo stipite della porta, che mi guardava sorridendo. Era già vestita, aveva perfino la giacca. Stava uscendo.
Sembrava felice.
“Pensavo che fossi già andata via. È tardi. Ti ho spaventato?”
Scosse la testa, sorridendo di più.
“A volte lo faccio” le dissi. “Parlo con me stessa ad alta voce. Mi aiuta a focalizzare un obbiettivo o a prendere una decisione definitiva.”
Scrollò le spalle. “Continua pure. Fai come se io non ci fossi.”
Risi, alzandomi e andandole incontro. Mi misi davanti a lei, abbassandomi e baciandola sulle labbra.
“Vai a scuola. Io andrò a lavoro. E ci vedremo stasera, ok? E invece di parlare con me stessa prometto che parlerò con te.”
“D'accordo” mi disse, alzandosi in punta di piedi e baciandomi di nuovo. “A stasera.”
Con un sorriso corredato dalle fossette mi voltò le spalle, dirigendosi verso la porta. La guardai uscire. Non si voltò indietro.
Quella ragazza sapeva indubbiamente come tenermi sulle spine.


“We're going to the Chapel and we're” iniziai a canticchiare mentre guidavo “gonna get married” ero davvero dell'umore giusto per un matrimonio. Quel giorno non sarebbe potuto arrivare in un momento migliore. “Going to the Chapel of Love.”
Quando arrivai, tutti gli invitati erano già lì.
Beh, ovviamente. Perché mi ero presentata a metà serata.
Ed ero entrata con una copia delle chiavi.
Appena fui dentro, sbattei la porta con forza, facendo voltare tutti i presenti nella mia direzione. Sedute ad un lungo tavolo sistemato appositamente nel salotto per quell'occasione c'erano una ventina di persone. Le vidi sobbalzare tutte e poi guardarmi.
“Tesoro” dissi, la voce ironicamente dolce, quasi smielata. “Sono a casa.”
“Callie, ma che stai facendo?”
Addison si alzò, ma la donna al suo fianco le appoggiò una mano sull'avambraccio, fermandola dall'avvicinarmisi ulteriormente e alzandosi in piedi a sua volta.
“Come facevi a sapere che la cena era stasera?” chiese di nuovo la rossa.
“Ho una spia” mormorai in tono cospiratorio. “Tranquilla. Non sono qui per fare una scenata” la rassicurai.
“Ah, sì? Perché è proprio quello che sembra tu stia facendo” mi fece notare con durezza.
No, volevo solo restituirvi questa” sfilai la chiave che avevo usato dal mio mazzo e la appoggiai sul mobile dell'ingresso. “Quando avete comprato la mia casa sei mesi fa, mi sono dimenticata di restituirvela e stasera ero nei paraggi, quindi” scrollai le spalle. “Allora. Come ci si sente a rubare la casa della propria migliore amica, Addison? La sua intera casa, i suoi mobili, la sua televisione, il suo letto, la sua donna...”
“Quindi il motivo per cui sei qui è proprio fare una scenata?”
Risi, scuotendo la testa.
“Ma no, dai. Tra un mese vi sposate” cambiai argomento.
Nessuno dei presenti disse neanche una parola.
“Il motivo per cui sono qui è farvi le mie più sentite congratulazioni. Vi siete davvero trovate.”

Aprii la porta dell'appartamento.
“We're going to the Chapel and we're...”


Svegliati. Ti prego, svegliati e basta. Apri gli occhi.”
Mi svegliai cercando di far riprendere sensibilità al braccio su cui avevo dormito.
Rotolai fino a trovarmi sdraiata sulla schiena.
E allora, come sempre, ricominciai a pensare.
No.
Mi stirai, sapendo di non potermi rimettere a dormire.
Che ho fatto di male per essermi svegliata viva anche oggi?
Poi successe qualcosa di incredibile.
Ho fame.
Mi alzai, andai in bagno, feci colazione.
E fu solo allora che mi resi conto che non c'era stata. Lei non era tra i primi tre pensieri di quella giornata. Per la prima volta da che ne avevo memoria, lei non c'era.
Lei non c'era più.


Quando uscimmo dal cinema stavamo ridendo a crepapelle.
“Il protagonista era l'emblema dell'inettitudine” disse.
“Infatti” confermai, ridendo più forte. “Voglio dire, nessuno può davvero essere stupido fino al punto di...”
Mi paralizzai improvvisamente.
E lei se ne accorse. Si fermò insieme a me, guardandomi.
“Che c'è?” chiese ancora ridendo.
Ma io ero tornata seria. L'espressione di pietra, fissavo la persona che ci stava davanti, a qualche metro di distanza.
“Come facevi a sapere che ero qui?”
“Non eri da Joe. Addison dice che a parte quel bar e questo cinema non frequenti molti posti ultimamente.”
“Che ci fai qui?”
“Dovevo parlarti.”
“Peccato, non ho tempo. Me ne stavo giusto andando.”
“Ci vorrà solo un minuto.”
Scossi la testa, sospirando. Possibile che non capisse?
Mi voltai verso destra, pronta a dirigermi verso la macchina.
“Calliope.”
Mi paralizzai per la seconda volta.
Quel nome continuò a riecheggiarmi nella testa all'infinito.
Calliope. Calliope, calliope, calliope. Calliope.
“Senti, non verrò più a casa vostra, se è di questo che hai paura. Sono fuori dalle vostre vite. Per sempre.”
“Calliope” ripeté.
“Arizona” dissi con lo stesso tono, voltandomi di scatto e fronteggiandola di nuovo.
E in quella piccola via illuminata da un solo lampione rimanemmo a fissarci. Senza una parola, senza un pensiero coerente, senza renderci conto del trascorrere del tempo.
Finché sentii una mano contro la mia. Un tocco timido e delicato.
E mi riportò al presente. Come solo lei era stata capace di fare fin dall'inizio. Mi ancorò al presente e lì mi tenne stretta, lontano dai miei fantasmi.
“Andiamo, Amy” sussurrai. “Andiamo via.”
“Calliope” sentii chiamare di nuovo alle mie spalle, disperatamente, a voce alta in mezzo al silenzio della notte. “Calliope” di nuovo. “Calliope” ancora una volta.
Ma io non mi voltai.


Aveva addosso una mia maglietta.
A volte si assomigliavano così tanto.
Potrebbe essere te.
“A cosa stai pensando?” domandai, strappandola dai suoi pensieri.
Distolse lo sguardo dalla finestra e guardò me, scendendo dal piccolo davanzale interno e sorridendomi, una camomilla tra le mani.
“Credevo avessi detto che non bevevi mai camomilla” osservò, indicando la propria tazza. “Ma ne ho trovata sullo scaffale di sinistra.”
Scossi la testa. “Davvero? Non mi ricordo di averla comprata. Comunque hai fatto bene ad usarla, io non la bevo mai.”
“Io invece ne prendo una tazza ogni sera, altrimenti non riesco ad addormentarmi.”
Mi avvicinai a lei. Sapevo che c'era qualcosa che non mi stava dicendo, quindi mi limitai ad aspettare.
“Che hai pensato la prima volta che mi hai visto?”
Inclinai la testa di lato, perplessa.
“Che eri bellissima” le dissi. Bugiarda.
“La primissima cosa che hai pensato. La verità.”
Serrai la mandibola, guardando dentro i suoi occhi.
“Che potevi essere lei.”
Lei sospirò, annuendo, come se se lo fosse già aspettato.
“Bionda, occhi azzurri, le fossette. Insomma, devo somigliare un sacco a com'era lei qualche anno fa.”
“Moltissimo, sì.”
“Già” mormorò con aria triste. “Ma non sarò mai lei.”
“Questo lo so. Non sei come lei. Non hai il suo carattere.”
“Eppure ce l'ho. Intendevo che quello che provi per me non sarà mai come quello che provavi per lei, ma i nostri caratteri si assomigliano un sacco. Non è vero?”
Quello mi colse alla sprovvista.
“Beh, hai il carattere che pensavo che lei avesse. Quello che aveva prima che io passassi un anno in coma.”
“Sono il suo fantasma.”
“Non sei un fantasma. Non sono pazza. Tu sei tanto reale quanto me.”
“Non lo intendevo in senso letterale” rise. “Intendo dire che sono il suo fantasma visto attraverso i tuoi occhi. Sono il suo riflesso. Un'eco.”
Scossi la testa, abbassando lo sguardo.
“Sei molto più di questo. Tu non sei lei.”
Mi abbracciò, senza motivo. Invece di andarsene via, mi abbracciò.
“Lo so.”


“Non è stato difficile solo per te, sai?”
Mi voltai si scatto verso sinistra.
“Come sapevi che ero qui?”
“Beh, te l'ho detto. Se non sei al cinema, sei qui da Joe.”
“Lasciami stare, Arizona.”
“No.”
Risposta semplice, concisa, decisa. Tipica di lei.
“Non è stato difficile solo per te. Io ho aspettato per due settimane senza uscire dalla tua stanza d'ospedale. Ho aspettato che succedesse qualcosa, che qualcosa cambiasse. Ma erano tutti così sicuri che non ti saresti più svegliata che alla fine...”
“Tre mesi, Arizona” le ricordai. “Hai aspettato tre mesi prima di iniziare a convivere con la mia migliore amica.”
“Non è come pensi. All'inizio non lo era almeno. Abbiamo iniziato a vivere nella stessa casa, ma solo come coinquiline. Io ero così disperata. Così persa” sussurrò.
“Non voglio sentirlo.”
“Che avrei dovuto fare, Calliope?” domandò con tono scoraggiato. “Aspettare in eterno?”
“Se ami davvero qualcuno lo aspetti. Se riesci ad andare avanti così facilmente significa che non era poi così importante.”
Facilmente?” il tonò che usò non era soltanto ferito. Era quasi sconcertato. “Non azzardarti a dire mai più che è stato facile. Niente di quello che è successo mentre tu non c'eri è stato facile, Calliope. Niente. Tu non hai idea di quanto ho sofferto, di quanto sono stata male, di quanto è stato difficile per me guardarti sdraiata su quel letto, sapere che eri viva e sentire tutti che parlavano di te come se fossi morta.”
“Non ero morta” le feci notare.
“Ma non eri viva” ritorse lei. “Io non avevo idea di come fare a vivere senza di te, dopo quattro anni e mezzo insieme. Ma ho dovuto farlo comunque.”
“Lo capisco” le dissi, con onestà. “La vita va avanti e tu sei andata avanti. Non sarebbe stato giusto chiederti di aspettare.”
“L'avrei fatto. Se avessi pensato che c'era anche solo una possibilità di riaverti indietro avrei aspettato tutta la vita. Ma adesso siamo sedute vicine e tu sei più lontana da me di quando vivevamo a duemila chilometri di distanza.”

“Che ti aspettavi?” le domandai, chiudendo gli occhi. “Che avrei fatto la damigella d'onore al vostro matrimonio?”
“Non è tardi” mi disse. “Le cose possono ancora aggiustarsi. Se solo tu ti decidessi ad aprire gli occhi e svegliarti.”
Appoggiò una mano sulla mia. Immediatamente una scarica elettrica mi fece tirare via la mano dalla sua.
“Mi dispiace Arizona. Le cose non possono più aggiustarsi per me e te.”
Lo sguardo triste che aveva in quel preciso momento non l'avrei mai dimenticato.
L'avevo già visto.
Lo conoscevo.
Potresti essere lei.
“Mi dispiace, Calliope.”
E lei potrebbe essere te.
Certe volte erano così simili.
Si alzò, incamminandosi verso l'uscita.
La mano a cui mi aveva dato la scossa mi stava ancora formicolando.
Come poteva avere ancora tutto quel potere su di me?


Fissai il soffitto, in cerca di risposte che, tristemente, non erano state incise lì.
“Non riesci a prendere sonno?” la voce assonnata della donna sdraiata al mio fianco mi riscosse da quei pensieri.
“Non ci riesco mai. Torna a dormire, Amy” le dissi, baciandola sulla testa.
“Stai pensando a lei?”
Quella domanda mi paralizzò.
“No, certo che no” mentii.
“Ti manca ancora tanto?”
Rafforzai la mia presa su di lei, chiudendo gli occhi.
“Non ho mai conosciuto qualcuno come te, sai?”
“Sì, invece.”
Risi della sua risposta, scuotendo la testa.
“Meriti di essere felice” sussurrò. “Lo sai, vero? Meriti il meglio, Calliope.”
Sentii un peso sul cuore. Il suo respiro si fece più pesante e poco dopo capii che stava dormendo di nuovo.
“Penso di avercelo già” sussurrai piano.


Quando la incontrai di nuovo mi stava aspettando fuori dall'ingresso del bar di Joe.
“Ciao, Calliope.”
“Arizona” la salutai, pronta a superarla ed entrare senza ulteriore conversazione.
Mi prese un braccio, fermandomi.
“Vuoi davvero che finisca così?”
“Sei tu che hai voluto farla finire così” le ricordai.
“Ho sbagliato. Lo so. Ma le cose possono ancora cambiare. Può tornare tutto com'era, tra di noi.”
“No, invece.”
“Dici così soltanto per quella ragazzina, non è vero?”
Scossi la testa.
“Non sono affari tuoi Arizona.”
“Sì che lo sono. Tu sei affar mio.”
“No, invece. Non più. Non da quando sei andata avanti e sai una cosa? Ora sono andata avanti anch'io.”
Vidi dai suoi occhi quanto quell'affermazione l'aveva ferita.
“Senti” sospirai. “Tu sei il mio grande, vero amore. Lo sarai sempre. Sei la mia Arizona” la dissi, accarezzandole una guancia. “Ma come possiamo aggiustare le cose adesso? Dopo tutto quello che abbiamo passato? Come possiamo pretendere di sistemare così tanti errori senza rancore, senza vendette? Quello che avevamo era...epico.”
Sorrise, gli occhi lucidi.
“Ma il vero amore non ha quasi mai il lieto fine” inspirai. “Io non credo che qualcuno potrebbe mai amare qualcun altro quanto io amo te.”
“Allora riproviamoci. Non arrenderti. Ti prego.”
“Non possiamo. C'è troppo passato. Troppo rancore. Come potremmo mai farcela?”
“Non lo so. Ma possiamo almeno provare” aveva le lacrime agli occhi.
Scossi la testa. “C'è troppo bagaglio” ripetei. “Troppo passato, per ricominciare da zero.”
“Sono solo questo, quindi? Il tuo passato? E lei sarebbe il tuo futuro?”
“Io ti ho amata quanto nessuno ti amerà mai, quanto non amerò mai più nessun altro, ok? Tu sei il mio vero amore. Ma il vero amore non funziona mai. Il vero amore è fatto delle nostre liti in piena notte, delle volte che non ci sopportavamo, di tutto il male che ci siamo fatte.”
“E dei momenti più belli delle nostre vite. Delle parole più dolci mai pronunciate da anima viva, di farfalle allo stomaco, di sguardi e silenzi che dicevano tutto. Il Capodanno a Time Square, te lo ricordi? Ci sono stati anche momenti belli.”
“I più belli della mia vita” confermai. “Nessuno potrà mai rendermi felice quanto te. E nessuno potrà mai distruggermi come facevi tu.”
“Più in alto sali più forte cadi” mormorò, comprendendo.
Annuii. “Il vero amore funziona a vent'anni, per un po'. Ma ad un certo punto capisci che tutto quello che vuoi è stare tranquilla. Vuoi qualcuno che, senza quegli incredibili alti e bassi, riesca a farti provare quel senso di serenità. Di calma. Di pace.”
“Io ci riuscivo.”
“Ma è stato tanto tempo fa.”
“Quando avevamo vent'anni.”
Annuii di nuovo, districandomi gentilmente dalla sua presa.
“Addio, Arizona.”


Le accarezzai lentamente i capelli, aspettando che si addormentasse.
“Io lo so. Ma non fa niente.”
“Cosa sai?”
“Che non mi amerai mai quanto lei.”
La mia mano sui suoi capelli si fermò.
“Perché dici così?”
“Lei è un ricordo. Un ideale. Non potrei mai competere con lei, non sarei mai all'altezza. Lei è il tuo vero amore.”
“Con te mi sento così...in pace.”
“Ma io, con te, mi sento molto più che semplicemente felice. Sono due cose diverse.”
“Mi dispiace, Amy.”
“Non è colpa tua. Con il tempo capirai.”
“Cosa?”

“Che ne è sempre valsa la pena. Sempre, fin dal primo istante. Tutto quello che devi fare, è aprire gli occhi.”


Ero seduta sul mio letto, le spalle contro la testata e le gambe distese.
Stavamo sfogliando un album di vecchie foto.
“Te lo ricordi? Il Capodanno a New York?”
“Come potrei dimenticare?” chiese, sorridendo.
“Il più bello della mia vita.”
“Anche della mia.”
Time Square illuminata il 31 Dicembre era davvero indimenticabile.
Continuai a guardare la foto di noi che ridevamo.
Poi mi resi conto che qualcosa non andava.
“Arizona?”
“Sì, amore?”
“Che ci fai tu qui?”
“In che senso, che ci faccio qui?”
“Non dovresti essere con Addison? Che ci fai a casa mia? Che ci fai con me?”
Lei mi guardò, corrugando la fronte. Era seduta accanto a me, una camomilla calda tra le mani.
“Amore, di che stai parlando?”
Tornai a guardare la foto. Non l'avevo mai stampata. L'unica che ne aveva una copia era Arizona, ma non era così. Era in una cornice particolare, spezzata in due al centro e le due metà, tenute insieme da un magnete, potevano essere separate. In una metà io, nell'altra lei e Time Square alle nostre spalle. Ma io non ce l'avevo, avevo continuato a rimandare finché era stato troppo tardi. Come potevo avere un album con quella foto dentro?
“Sto sognando. Non è vero?”
“Certo che stai sognando” mi disse, come se fosse scontato. “Credi davvero che sarei venuta a cercarti da Joe? O fuori da un cinema? O che tu avresti avuto il coraggio di venire a fare una scenata a casa nostra?”
Chiusi l'album di scatto, alzandomi dal letto e guardandola.
Aveva l'aria così tranquilla, mentre sorseggiava il contenuto della sua tazza.
“E Addison che è venuta a prendermi al bar? Anche quello era un sogno? E Amy?”
“Come posso saperlo, tesoro? Io non sono Addison.”
“Devo svegliarmi. Svegliarmi e ricordare.”
“Dovresti proprio” mi disse, annuendo. “Qualcuno ti sta aspettando. Ed inizia ad essere piuttosto impaziente. Dovresti proprio svegliarti.”


Mi sollevai dal letto di scatto, aprendo gli occhi.
“Finalmente. Sono dieci minuti che provo a svegliarti.”
Amy mi sorrise, porgendomi del caffè.
Si accorse della mia espressione sconvolta e corrugò la fronte.
“Ma è tutto ok?”
“Sì. No. Non lo so. Ho fatto il sogno più strano che mi sia mai capitato. O meglio, una serie di sogni” mi corressi. “Solo che non mi ero mai accorta che fossero sogni.”
Lei mi prese una mano, accarezzandomi una spalla con l'altra, nel tentativo di calmarmi.
“Adesso il sogno è finito, giusto? Sei sveglia. Va tutto bene.”
Annuii, sospirando. Poi mi venne improvvisamente in mente.
“Amy, come facevi a sapere l'aspetto della mia ex?”
“La foto in soggiorno.”
Non l'aveva mai vista di persona. Non l'avevamo incontrata all'uscita di quel cinema. Non era mai successo.
Chiusi gli occhi, scuotendo la testa nel tentativo di schiarirmi i pensieri.
“Calliope, respira. Era solo un sogno.”
“Sì. Hai ragione.”
Feci dei respiri profondi, alzandomi dal letto.
Arizona era sparita dalla mia vita. Non l'avevo più vista. Non mi cercava e io non cercavo lei.
Dovevo tenerlo a mente.


Aprii gli occhi lentamente, passandomi una mano sul viso e stiracchiandomi.
“Sei tornata, finalmente.”
Mi sollevai di scatto a sedere. Arizona era seduta accanto a me.
“Sei solo un sogno. Non sei reale.”
“Sono reale quanto te, amore” rispose con aria calma, continuando a leggere la rivista che aveva in mano.
“Perché adesso posso rendermi conto che sono soltanto dei sogni?” chiesi. “Prima sembrava tutto così reale, mentre ora i sogni sembrano così...sbiaditi.”
“Perché ti stai avvicinando.”
“Avvicinando a cosa?”
“Al momento in cui ti sveglierai.”


Avevo il viso premuto contro il pavimento.
Amy stava ridendo a crepapelle.
“Sei caduta dal letto” osservò, continuando a ridere.
“Che mi sta succedendo?” domandai. “Faccio dei sogni così reali” mormorai. “Se non sapessi che sono sogni, non potrei mai indovinarlo.”
La faccia di Amy si fece seria.
“Tutto bene?”
“Sì” risposi. “Sì, tutto apposto. Ho solo fatto un sogno molto strano.”
“Che hai sognato?”
“Arizona.”
“Da quanto non la vedi?”
“Beh da...”
Continuai a pensarci non so per quanto.
“Beh...”
Niente. Non riuscivo a ricordarmi quando era stata l'ultima volta che l'avevo vista davvero.
“Cosa ricordi da dopo il coma? Di questo anno, cosa ti ricordi?”
“Mi ricordo” iniziai, per poi rendermi conto che non avevo idea di come dovevo continuare quella frase. “Mi ricordo te.”
“E a parte me? Che mi dici del lavoro?”
Provai a pensarci. Andavo a lavoro tutti i giorni.
E allora perché non avevo ricordi che riguardassero le mie giornate in caserma?
“Non lo so. Non mi viene in mente niente ora.”
“Non ricordi niente da dopo il coma ad adesso?”
“No.”
Quella risposta sorprese molto più me stessa che lei.
“Aspetta” ed ecco che, di nuovo, all'improvviso lo realizzai. “Quale foto hai visto in soggiorno? Non ci sono foto in soggiorno.”
Uscii dalla camera, entrando nell'altra stanza e cercando foto su ogni scaffale, su ogni mobile, da ogni parte.
“Che stai cercando, Calliope?”
“Aspetta un secondo, Amy.”
Poi le vidi.
C'erano solo due foto.
Sul mobiletto vicino all'ingresso, una mia e una di Arizona. Una cornice magnetica che si divideva a metà, separando le nostre figure, ma che se avvicinate ci mostrava sorridenti insieme.
“Come mi hai chiamato?” all'improvviso mi resi conto che non era la prima volta che lo faceva, ma, se non aveva mai incontrato Arizona, come poteva sapere il mio nome?
Alzai lo sguardo, indietreggiando di colpo di parecchi passi.
“Arizona.”
“No, Calliope. Sono Amy, ricordi?”
Era Arizona. Non era più Amy, la ragazza di diciannove anni. Era la mia Arizona.
Potrebbe essere te.
“Tu sei Arizona.”
“Ma certo che sono Arizona.”
Ero spaventata a morte.
Fissai le foto che avevo in mano.
“Girale” ordinò.
Separai i magneti, voltando quella che ritraeva me. Con un pennarello nero, sul retro della foto, c'era scritto OURS.
“Nostro?” chiesi. “Cosa è nostro?”
“Dimmelo tu. L'hai scritto tu, ricordi? Gira l'altra.”
Voltai anche quella di Arizona. Lo stesso pennarello nero aveva tracciato tre lettere. AMY.
AM YOURS.
“Amy. Amy?” alzai lo sguardo.
C'era di nuovo lei davanti a me.
“Oddio. Che mi sta succedendo?”
“Davvero non lo sai?”
Scossi la testa.
“Tutto si sta facendo improvvisamente così confuso, non è vero Calliope?”
Annuii, voltando di nuovo le foto per vederci sorridere.
Alzai gli occhi, vedendo di nuovo Arizona.
“Ormai ci sei quasi. È tutto così confuso e plateale perché stai per svegliarti.”
“Sono già sveglia. Mi sono svegliata poco fa, in camera da letto.”
“No” mi contraddisse la voce di Amy. “Stavi sognando esattamente come stai sognando adesso.”

Scossi la testa.
“Che significa?”
“Che devi aprire gli occhi. Svegliati. Torna da me” la mano di Arizona era tesa nella mia direzione, pronta a prendere la mia.
“Svegliarmi da cosa?”
“Dal coma.”
“Mi sono già svegliata dal coma” alzai la voce. “E tu non eri lì” le rinfacciai. “Nessuno era lì.”
“Davvero lo pensi, amore? Pensi che io non avrei aspettato un anno? O due? O dieci? O tutta la vita?”
“Non l'hai fatto” la accusai.
“Ero io, amore. Ero io la ragazzina che quando tu avevi diciannove anni ti ha salvato. Te lo ricordi? Io ero già più grande, ma tu guarda caso avevi l'età di Amy. Sono io la ragazzina che ti ha salvato e rubato il cuore e sono io l'amore della tua vita che aspetterebbe un'eternità seduta accanto a te in una stanza d'ospedale. Sono entrambe.”
Scossi la testa chiudendo gli occhi.
Sentii la sua risata riecheggiare nella mia testa, vidi i suoi occhi e la luce dentro di essi che mi aveva fatto innamorare di lei.
“Ma tutto quel dolore, sembrava tutto così reale” sussurrai.
“E non lo è stato? L'affetto che provavi per Amy non era forse tanto reale quanto il dolore che hai provato per avermi perso?”
“Non ti ho perso, però. Non ancora.”
“Questo non lo sai. E non lo so neanche io. Sono solo un tuo ricordo. Se vuoi rivedere la vera me, devi svegliarti.”
All'improvviso mi stava di fronte. Con una mano sfiorò la mia ed immediatamente sentii una piccola scossa.
“Apri gli occhi.”
Guardai di nuovo le foto che avevo tra le mani.
“E se lei se ne fosse già andata via quando mi sveglierò?”
Non ci fu risposta.
Alzai gli occhi mi resi conto che all'interno di quella stanza ero sola.
Quel sogno era stato dettato dalla mia paura più grande. Che lei non ci fosse. Che non fosse più al mio fianco una volta riaperti gli occhi. O che non ci fosse mai stata.
Quanto ero stata in coma davvero? Un giorno, un mese, un anno?
E perché nel sogno Arizona era andata avanti?
Perché Addison?
“Addison” sussurrai, ricordando improvvisamente.
Quella era la mia paura.
Non semplicemente perdere Arizona ma rimanere completamente sola. Abbandonata da tutti i miei amici. Persa.
“Non voglio andare.”
Mi sedetti sul divano, continuando a guardare quelle foto.
“Se non vai adesso, forse non potrai svegliarti mai più” mi fece notare la donna improvvisamente seduta al mio fianco.
“Non so se posso.”
“Certo che puoi. Pensa a me. Pensa a lei.”
Appoggiò di nuovo una mano sulla mia. Un'altra piccola scossa, ma stavolta non si spostò ed io non mi allontanai. L'altra mano si fermò sulla mia guancia mentre si avvicinava e mi baciava piano sulle labbra.
Chiusi gli occhi, concentrandomi solo su di lei.
“Apri gli occhi” sussurrò.
La sua voce era soltanto un'eco lontano che arrivava da tutte le parti e da nessuna. Era dentro di me eppure così lontano. Mi sembrò di inseguirla finché mi portò dall'altra parte del mondo e dopo quella faticosa corsa mi paralizzai completamente.
Poi la sentii di nuovo. Più vicina. Come se fosse al mio fianco.
“Calliope, apri gli occhi.”
Ed era lì al mio fianco per davvero, come lo era sempre stata.
Così lo feci. Aprii gli occhi. E guardai nei suoi.




Fatemi sapere cosa ne pensate, grazie mille e alla prossima!




Ritorna all'indice


Capitolo 58
*** Il nostro primo orologio da taschino ***





Salve a tutti! L'ultimo capitolo ha ricevuto una buona risposta da parte vostra, ne sono grata e vi ringrazio di cuore! Spero che anche questa storia sia di vostro gradimento e di non deludervi.
Buona lettura!






Il nostro primo orologio da taschino


Make every second count
~ C.

Sì, ma perché non hai mai detto niente?”
Mi presi la testa tra le mani, chiudendo gli occhi per un secondo.
Maledizione” imprecai a bassa voce.
Perché non hai detto niente?” chiese a voce più alta.
Pensavo che lo sapessi” le urlai contro, alzandomi di scatto, voltandomi. “Pensavo che l'avessi capito, va bene? Era facile. Bastava fare due più due. Non ho mai detto niente perché pensavo che lo sapessi già.”
Di cosa stai parlando? Se lo avessi saputo, tu sai che io...”
Che cosa?” risi amaramente. “Cosa avresti fatto? Non ti saresti sposata?”
Non rispose. E quello mi disse tutto ciò che dovevo sapere.
Senti, ci siamo scelte questa vita. Era più semplice così, lo sai. Abbiamo scelto di chiudere gli occhi e far finta di niente. È il tipo di persone che siamo, non ci si può fare niente.”
Invece potevamo fare qualcosa. Dovevi solo dirmelo allora.”
Scossi la testa, guardando in basso e rifiutandomi di voltarmi verso di lei.
È stato così tanto tempo fa. Non ha senso parlarne adesso.”
Sì che ha senso, se tu...”
No.”
...se lasci il negozio, ed io...”
No, davvero. No.”
Ma, Arizona-”
Era tantissimo tempo fa” risposi piano. “È troppo tardi per rimettere le cose al proprio posto. Lo sai. Lo sai anche meglio di me. Non abbiamo mai avuto una possibilità nemmeno allora, figuriamoci adesso.”
Ma io e te, noi due...”
Non c'è nessun noi. Non c'è mai stato. Era solo nella mia testa, era un'illusione. Questo non è il nostro destino.”
E cos'è allora?”
Un amore non corrisposto. Un rimpianto che mi consuma da dentro corrodendo la mia anima. Lo sai bene, forse meglio di me, che non sono più quella persona.”
Ma potresti tornare ad esserlo.”
Scossi la testa. “Nessuno torna indietro.”
Rimase in silenzio a lungo, contemplando le mie parole.
Guardami.”
Scossi la testa, rifiutandomi di voltarmi.
Arizona, guardami.”
Continuai a tenere lo sguardo basso e a darle le spalle.
Così lei, esattamente come avevo anch'io fatto molto tempo prima, rinunciò.
Questo era il nostro destino, lo è sempre stato. Ma su una cosa hai ragione. Tu non sei più la persona di cui mi sono innamorata. È questo che ha cambiato il nostro destino. Non io.”
Sentii qualche passo e poi la piccola campanella del negozio mi avvertì che la porta era stata aperta e che lei se ne stava andando.
Calliope?”
La percepii esitare.
Sì?”
Da cosa lo hai capito?” domandai. “Da cosa hai capito che io...”
Che eri innamorata di me?”
Già” mormorai, fermando me stessa da correggere il tempo verbale al passato con uno al presente.
Tu non mi tocchi mai. Per nessun motivo. Cerchi di nascondere qualcosa che hai paura riesca a trasparire dai gesti e che è più facile trattenere e negare con le parole. Le azioni non mentono. Le persone, invece, lo fanno molto spesso.”
Sospirai, voltandomi verso di lei e guardandola finalmente negli occhi.
Sei felice adesso che lo hai detto ad alta voce?”
Scosse la testa, sospirando del mio tono di accusa.
Non hai mai capito che non era me che dovevi combattere. È chi ti dice che non puoi stare con me, avresti dovuto passare la tua vita a combattere loro.”
Ma hanno ragione. Io non dovrei stare insieme a te” le comunicai senza mezzi termini, non mollando il suo sguardo neanche per un istante.
Lei lasciò che la porta si richiudesse e mi si avvicinò. Stavo per dire qualcosa per fermarla, ma lei mi raggiunse prima, appoggiandomi una mano sulla spalla ed alzandosi in punta di piedi per baciarmi dolcemente sulla fronte.
E va bene, Arizona. Hai vinto. Me ne sto andando.”
Si allontanò di un passo. E capii che, una volta uscita da quella porta, non sarebbe mai tornata indietro.
Ti lascio ai tuoi...” fece un gesto verso la mia scrivania da lavoro, indicando i numerosi orologi che vi erano appoggiati sopra in attesa di essere riparati. “Ti lascio ai tuoi rimpianti.”

Aprii la porta del negozio e sentii immediatamente due risate cristalline venire dall'ufficio. Quando la campana che segnalava l'aprirsi della porta risuonò, le risate si fermarono all'istante. I due ragazzi tornarono seri appena la mia presenza divenne chiara.
Entrai nello studio e li vidi chinati entrambi sullo stesso orologio, che cercavano di trovare la soluzione ad un problema che il proprietario aveva probabilmente riscontrato, la causa per cui quell'orologio, in quel momento, si trovava lì.
“Che fate in due a lavorare sullo stesso orologio?” li sgridai subito. “Tutti questi anni e ancora non avete imparato niente?”
Loro due si scambiarono un'occhiata veloce e poi guardarono verso di me, annuendo immediatamente e separandosi.
“Lascia a me quello, James, se non riesci a capire che problema abbia, e tu scegline un altro più facile da riparare.”
“Posso farcela” rispose ostinatamente. “Posso capire che c'è che non va.”
“Questo carattere ostinato devi averlo preso da tua nonna, ragazzo. Tuo nonno non era così” gli dissi. “Ci vuole esperienza per capire certi orologi. Scegline un altro, ho detto.”
Presi quello che pochi istanti prima stavano osservando e lo portai sulla mia scrivania, notando che non aveva più il cartellino.
“Chi lo ha portato?” domandai ai due apprendisti.
“Non lo sappiamo. Era già qui stamani quando siamo arrivati.”
Guardai verso Gary.
“Non c'è il cartellino con il nome. Uno di voi due incompetenti deve averlo perduto.”
Loro si guardarono, scrollando le spalle.
“Era così quando siamo arrivati” ripeté James.
“Sei troppo insolente per la tua età, ragazzo” lo rimproverai. “Dovresti avere più rispetto per chi è più vecchio di te.”
Mi sedetti al mio posto, appoggiando l'orologio che avevo portato lì da una parte e concentrandomi sui cinque che dovevo riparare quella mattina per riconsegnarli il giorno dopo.
Aprii il primo, ascoltandone attentamente il rumore per diversi istanti, prima di capire cosa non andava.
“James” urlai. “James, vieni qui.”
Lui fece come gli avevo chiesto, chinandosi sulla mia scrivania, standomi davanti.
“Lo senti?”
“Cosa dovrei sentire?”
“Ascolta” lo incoraggiai.
Lui fece come avevo chiesto, ma dopo qualche minuto scosse la testa negativamente, facendomi intuire che non aveva capito.
“Perde tre secondi ogni minuto. Per questo il signor Kenrad dice che va indietro nonostante noi continuiamo a rimetterlo ogni settimana allo spaccare del secondo. Te ne saresti dovuto accorgere mesi fa.”
“Mi dispiace, zia Arizona.”
“Non dispiacerti. Limitati a non sbagliare più.”
Lui rise, scuotendo appena la testa.
“Certo, non farò mai più un solo errore. Molto realistico da parte tua, zia Arizona.”
“Non parlarmi così, ragazzo. Ho quattro volte i tuoi anni e riesco a fare questo lavoro dieci volte meglio di te. Quindi abbi rispetto.”
“Certo. Scusami zia” mi sorrise debolmente, la sua risata smorzata immediatamente dal mio tono mortalmente serio.
“Saresti in grado di riparare questo orologio, ragazzo?” gli domandai.
“Forse. Non lo so. Tre secondi al minuto è impercettibile, si rischia di peggiorare il danno invece che ripararlo.”
“Non se stringi la vite giusta nella misura giusta. Tre decimi di millimetro nella quarta vite a destra dovrebbero essere perfetti.”
Fissò per qualche istante la minuscola vite che gli stavo indicando.
“Stai scherzando?”
“Guardami. Guardami, ragazzo” alzò gli occhi verso i miei. “Ti sembra che stia scherzando?” gli chiesi. “Rispondimi. Ti sembra che stia scherzando?”
“No. Non mi sembra.”
“Infatti. Io non scherzo mai.”
Presi un piccolo cacciavite, appoggiandolo delicatamente contro il metallo dell'orologio e stringendo appena la piccola vite leggermente lenta.
Richiusi l'orologio da taschino e glielo porsi.
“Prendi il nostro orologio di controllo e per le prossime quattro ore ascolta ogni singolo secondo di questo orologio e dimmi se non è perfetto.”
“Quattro ore?”
“Sono appena diventate cinque. Vuoi aggiungere altro?”
“No. Vado subito a prendere l'orologio di controllo.”
Sparì dalla mia vista prima che potessi rimproverarlo di nuovo. Sapevo quanto il mio bisnipote mi odiava, ma era così che le cose dovevano essere.
“Sei troppo dura con lui, zia Arizona.”
Mi voltai verso la soglia dello studio.
“Ah, Christopher. Vieni, entra. Sai chi ha portato qui questo curioso orologio?” domandai, indicando l'oggetto senza un cartellino.
“No, mi dispiace. Sono giorni che non vengo al negozio.”
Estrassi il mio orologio personale dalla tasca, controllando l'ora.
“Sai, non ti ho mai perdonato di non aver voluto continuare l'attività di famiglia. Speriamo che tuo figlio metta la testa a posto prima di te.”
“Ancora con questa storia, zia? Gestisco il ristorante di mamma e papà, lo sai.”
“Già. Non ho ancora perdonato nemmeno tuo padre, per non aver continuato l'attività di famiglia al posto mio” risposi, sospirando.
“Di cosa parli, zia? Nessuno è bravo come te con gli orologi. Ogni secondo scorre nel tuo sangue, sei nata per questo.”
“Lo so. Me lo sono sempre sentito dire da tuo nonno, sai? Daniel era convinto che io avessi un dono.”
“Non era così?”
Sfiorai le linee del motivo inciso all'esterno dell'orologio che tenevo in mano e portavo sempre con me, che mi era stato regalato sessant'anni prima.
“No. Questa è stata la mia maledizione, Christopher. Mi ha portato via tutto quello che ho mai amato” mormorai.
Rimasi immersa nei miei pensieri di un mondo perduto, confuso nel tempo, scandito solo da orologi che perdevano ormai troppi secondi nella mia mente.
“E poi ti chiedi perché né io né papà abbiamo voluto gestire questo posto. Non sono nemmeno sicuro di volere James qui dentro.”
“Lascialo in pace, Christopher” gli dissi subito. “Lascia scegliere a lui quello che vuole fare e non immischiarti. Ci ho messo cinque anni per insegnargli quello che sa, non me lo porterai via adesso che è quasi pronto per gestire questo posto.”
“Vuoi che lo gestisca lui? Ma se ha poco più di vent'anni.”
“Non ho alternative” gli risposi. “Tuo padre e tua madre sono morti, quindi Tim non può certo prendere il mio posto e tu non lo vuoi. Non ho figli ed ho ottant'anni.”
“Non dirmi che vuoi andare in pensione.”
“Nemmeno per sogno, puoi scordartelo. Ma non vivrò per sempre. E deve esserci qualcuno a continuare l'attività di famiglia dei Robbins quando io me ne sarò andata.”
“Ma Gary...”
“Lui non è un Robbins.”
“Ma ha lavorato qui per molto più tempo.”
“Non ha l'orecchio adatto. Non ha il talento di James.”
Riposi il mio orologio al suo posto e mi concentrai su quelli posati sulla mia scrivania, pronti per essere esaminati.
“Ora vattene, scansafatiche. Devo rimettermi a lavoro e tu avrai sicuramente qualcosa di bizzarro da cucinare al tuo ristorante.”

Fuori si era fatto buio.
Con il pollice continuai a percorrere le linee di quell'orologio ormai vecchio e sporco ma da cui non riuscivo a separarmi.
“Gary è andato via. Pensavo che potremmo andare anche noi, se sei pronta.”
Mi schiarii la voce, mettendo via l'orologio.
“Tu vai, James. Voglio dare un'occhiata a questo affare, prima di venire via.”
Lo vidi esitare. Rimase fermo sulla soglia.
“Sai, assomigli moltissimo a tuo nonno Tim, fisicamente. Il carattere, invece, è identico a quello di sua moglie. Tuo nonno te lo ricordi, James?”
“Sì, me lo ricordo. Ma solo vagamente.”
“Era un uomo molto coraggioso.”
“Lo so. Me lo dice sempre, mio padre.”
“Doveva essere lui a ereditare questo negozio, lo sai? Era il primogenito ed il figlio maschio. Io non dovevo entrarci niente in questa cosa.”
“E allora perché il negozio è finito a te?”
Risi amaramente. “Io avevo questo...” sospirai. “...dono, come lo chiamava sempre il tuo bisnonno Daniel quando me ne parlava. Io la vedo come una maledizione, invece. Per tutta la mia vita, tutta quanta, non ho fatto altro che lavorare in questo negozio. Ogni istante del mio tempo, l'ho passato qui dentro. Il tempo non passa mai quando hai attorno centinaia di orologi che scandiscono ogni secondo.”
“Pensavo che ti piacesse lavorare qui.”
“Certo, certo che mi piace. Gli orologi sono tutto ciò che ho mai conosciuto, tutto quello che sono mai riuscita a capire davvero. Questo negozio è stata la mia casa, per sessant'anni.”
Fece un passo dentro la stanza.
“Ma ogni secondo di questi sessant'anni, ogni secondo che ho passato qui...Questo negozio mi è costato tutto. Mi ha portato via l'unica persona che io abbia mai amato. È per questo che nessuno dopo di me, né tuo nonno, né tuo padre, né i tuoi fratelli, hanno mai voluto neanche provare a lavorare qui. Perché sanno che questo posto porta grande solitudine. E la solitudine spesso coincide con l'infelicità.”
“Tu sei stata innamorata? E lui chi era?” chiese con il suo entusiasmo giovanile che a volte gli invidiavo.
“Questa storia è per un'altra sera, James. Voglio sul serio vedere cosa non va in questo orologio e poi andarmene a casa e riposare un po'.”
“Posso aiutarti?” chiese.
Fui sorpresa dalla domanda, visto quello che gli avevo appena confidato, ma gli feci cenno di sedersi davanti a me.
“Vedi, questo è uno strumento molto strano” iniziai. “L'ho osservato a lungo ma non ho ancora capito come funziona. E non c'è un'etichetta attraverso la quale rintracciare il proprietario, quindi dobbiamo venirne a capo da soli” gli spiegai.
“Bene. E da dove iniziamo?”
“Beh, per prima cosa ne controlliamo il funzionamento. Di solito se ci portano un orologio per ripararlo, c'è qualcosa di rotto.”
“Giusto” rise della propria ingenuità, scuotendo la testa.
“Ascolta” lo incoraggiai.
Lui fece come gli avevo detto e si soffermò a contare, cercando concentrazione. Solo dopo anni si poteva individuare senza una misurazione, non mi aspettavo che ci riuscisse sul serio.
“Mi sembra un po' accelerato.”
Gli sorrisi immediatamente.
“Di sette secondi ogni dieci minuti” confermai, fiera della sua conclusione. “Ecco, prova a ripararlo tu.”
Gli porsi un cacciavite, incoraggiandolo a ripararlo.
Osservai attentamente la sua scelta della vite, che individuò subito. Guardai da vicino e mi assicurai che non la allentasse troppo.
“Ok, così è perfetto. Sei stato bravo, ragazzino” gli dissi, dopo aver ricontato i secondi per qualche minuto.
“Quindi tutto qui? Pensavo fosse una cosa più strana. Io e Gary non siamo riusciti a capire nemmeno come si apriva.”
“Beh, te l'ho detto. Il meccanismo è molto complesso e mi piacerebbe studiarlo meglio. Visto che non c'è un nome né una data di riconsegna, magari possiamo dargli un'occhiata domani sera dopo il lavoro della giornata, se ne hai voglia.”
“Certo. Mi farebbe molto piacere” mi sorrise.
Un sorriso stranamente familiare.
“Allora andiamo a casa, ragazzo. Ho bisogno di riposarmi per un po', sono incredibilmente stanca. Sono troppo vecchia per dormire poco, ormai sono finite le mie notti passate dentro questo negozio.”
Mi alzai con un po' di fatica, lui fu veloce ad aiutarmi. Chiuse la serranda dell'orologeria, consegnandomi subito dopo la mia copia della chiave.
“Ci vediamo domani mattina ragazzo.”
“D'accordo. A domani.”

Per parecchie sere di fila avevamo studiato il meccanismo di funzionamento dell'orologio e ne avevamo aggiustato tutto quello che poteva funzionare scorrettamente.
Tuttavia, dopo due settimane, ancora non avevamo capito a cosa servivano i congegni apparentemente molto più avanzati del normale che erano stati impiantati in quell'orologio da taschino.
Quella sera, dopo il lavoro, quando James entrò nel mio studio mi trovò a fissare il mio orologio, ne stavo tracciando il motivo esterno con la punta del pollice, completamente persa nei miei pensieri, quando la sua voce mi riscosse.
“Pensi al passato?”
Rilasciai un respiro tremolante.
“Sono molto stanca James.”
“Lo immaginavo. Infatti è ora di chiudere, possiamo andare a casa.”
“Non solo stasera. È da un po' che sono stanca ormai. Non so quanto a lungo riuscirò ancora a mandare avanti questo posto e spero che dopo la mia morte...”
“Zia, non dire così.”
“...spero che sia tu ad occupartene, ragazzo.”
Quello lo colse di sorpresa e lo fece tacere.
“Nessun altro in famiglia ha il tuo stesso talento da generazioni, ormai. Questa è una delle cose che io e te condividiamo.”
Lui continuò a guardarmi, sorpreso dalle mie parole.
“Siediti, ragazzo.”
Lui si accomodò dall'altra parte della mia scrivania di legno, ormai vecchia e segnata da tutti i colpi di martello, scalfita dalle punte dei miei cacciaviti.
“Ho avuto una vita molto lunga.”
“Lo dici come se fosse una cosa negativa.”
“L'ho passata tutta con i miei orologi, figliolo. Senza mai una persona accanto che mi capisse e mi amasse per quello che sono stata. Io la mia vita l'ho passata con questi oggetti. Quando ti occupi di orologi, ormai lo avrai capito, ogni secondo è fondamentale. Ogni istante conta qualcosa e può fare la differenza, fosse anche un secondo ogni dieci minuti. Ma quando arrivi alla mia età e ti accorgi che tutti quei secondi che hai sentito rintoccare ti sono scivolati addosso senza che tu ne vivessi mai neanche uno, capisci che il tempo non è importante.”
“Come può non essere importante?” domandò con perplessità. “Il tempo è tutto. Ci viviamo dentro.”
Gli mostrai l'orologio che avevo in mano e che portavo sempre con me.
“Questo orologio me l'ha regalato una persona, sessant'anni fa. Tu non l'hai mai conosciuta, la moglie di mio fratello.”
Aprii l'orologio, mostrandogli la foto che c'era dentro.
“La mamma di papà?”
Ritraeva me e una donna dai capelli neri, entrambe negli ultimi anni dell'adolescenza. Sorridevamo all'obbiettivo ed avevamo una complicità che solo pochi mesi dopo avevamo improvvisamente perduto.
“Si chiamava Calliope” gli ricordai. “Ha sposato Tim quando avevamo ventidue anni, la tua età. Lui ne aveva ventotto. Sono passati esattamente cinquantanove anni e nove mesi. Sai quanti secondi sono? Quanti rintocchi sono?”
Scosse la testa.
“Un miliardo e novecento milioni, circa. Dopo un po' ho perso il conto, ma se la matematica non mi inganna dovremmo essere più o meno lì. Quasi due miliardi di secondi.”
“Ma questo che c'entra?”
Gli sorrisi, scuotendo la testa.
“Per tutti questi anni io non ho mai smesso di pensare a lei, ogni secondo della mia vita da allora, io ho pensato a lei. Due miliardi di pensieri, di ricordi e di desideri. Due miliardi di istanti che invece di vivere ho immaginato.”
Vidi lo stupore e poi la comprensione dipingersi sul suo viso.
“Quasi sessant'anni, quasi due miliardi di secondi, sono stati del tutto inutili per me. Perché io ho smesso di vivere nell'esatto istante in cui Calliope ha sposato tuo nonno. Per la paura di perdere questo lavoro, di non poterle dare la vita che secondo me meritava, di renderla infelice a lungo termine, l'ho lasciata andare. Per la paura di darle un futuro che non l'avrebbe resa felice, ho scelto un presente che ha reso infelice me. Lei ha avuto il suo futuro, mentre io...” sospirai. “Ho vissuto nel rimpianto da allora.”
“Non ne avevo idea, zia. Papà non ha mai...”
“Nessuno ne aveva idea. Nessuno lo ha mai saputo. Sei la prima persona a cui lo dico e sarai, spero, l'ultima che lo saprà. Ma non ti ho detto questo segreto che mi porto dentro e che mi ha distrutto perché questo peso gravi sulla tua coscienza. Voglio che tu capisca bene quello che sto cercando di dirti.”
“E cosa sarebbe?”
“Il tempo non è importante, James. L'importante è come decidi di usare quel tempo.”
Scandii ogni parola, sperando che non solo mi ascoltasse, ma comprendesse sul serio il significato delle mie parole.
“Fai in modo che ogni secondo conti.”
Sfiorò il vetro dell'oggetto che aveva in mano.
“Questo è stato aggiunto dopo, vero? Non sembra tipico di quegli anni.”
“L'ho messo lì io” confermai. “Volevo tenere con me una sua foto e così l'ho messa dentro l'oggetto più caro che avevo al mondo.”
“L'orologio che ti aveva regalato lei” non c'era traccia di domanda nella sua voce.
“Già.”
“Posso?”
Domandò. Io annuii.
Aprì lo sportellino di vetro, sollevando la foto e lesse l'incisione sulla parete del piccolo strumento ad alta voce.
“Fai in modo che ogni secondo conti” erano le stesse parole che gli avevo detto io solo pochi istanti prima. “È firmato 'C.'” osservò. “Sta per Calliope, giusto?”
“Sì.”
Ripensai immediatamente al momento in cui me lo aveva regalato.
“La 'C.' sta per Calliope.”

Congratulazioni.”
Alzai lo sguardo di scatto, appoggiando il cacciavite che avevo in mano sulla scrivania appena la vidi.
Ti ringrazio.”
Tese una mano nella mia direzione ma io alzai le mie e le sorrisi debolmente.
Perdonami, ho le mani sporche.”
Lei abbassò la mano e gli occhi quasi contemporaneamente.
Sembra che tu le abbia sporche da mesi, ormai” mormorò, forse più a se stessa.
Non capisco.”
Sospirò, scuotendo la testa.
Sono mesi che non mi tocchi più. Prima ovunque andassimo ero accompagnata dalla tua mano sulla mia schiena, ma da un po' di tempo hai smesso di farlo.”
Io decisi di non rispondere. Mi alzai invece in piedi e cercai un panno dove pulire il grasso che mi aveva ricoperto le mani.
Che ti porta qui al negozio?” chiesi.
Afferrai un pezzo di stoffa rimasto sulla vecchia scrivania di mio padre e lo usai per pulirmi le mani.
Ah, giusto. Volevo farti vedere questo” ricordò improvvisamente. Estrasse un orologio da taschino e me lo porse. “Che ne dici?”
Lo presi con cautela, aprendolo e studiandone per qualche istante il funzionamento.
È nuovo, si direbbe. Il motivo scolpito in oro all'esterno è molto elegante, probabilmente appartiene a qualcuno molto ricco. Il vetro non è affatto impolverato, non vi sono graffi, quindi dubito che tu lo abbia portato qui per questo. Anche i secondi sembrano battere impeccabilmente, direi che non c'è niente da riparare. Si potrebbe aggiungere un piccolo sportello in vetro sul lato di sinistra se vi si volesse tenere una foto, ma vedo che c'è già un'incisione. Non trovo niente di imperfetto nel funzionamento di questo orologio, non capisco perché tu me lo abbia portato. A chi appartiene?”
A te.”
Alzai gli occhi dall'oggetto nelle mie mani fino ad incontrare i suoi.
Scusami?”
A te, Arizona. È il mio regalo per te. Il mio modo di farti le congratulazioni per aver ereditato il negozio.”
Io annuii distrattamente.
Stai regalando un orologio a chi vive tra gli orologi. È una scelta interessante.”
Ma cos'altro avrei potuto regalarti?” chiese, un velo di tristezza le macchiava la voce. “Gli orologi sono il tuo unico e grande amore.”
Si potrebbe dire così” mormorai, accennando un sorriso per nascondere il vero significato delle mie parole. “Ti ringrazio per il regalo e per il disturbo di essere passata.”
Non è stato alcun disturbo. Vederti non è mai un disturbo. Credo tu sia la prima donna in città ad avere un suo negozio, sai?”
Solo perché mio padre non aveva altra scelta. Timothy ha reso chiaro il suo desiderio di aprire un ristorante insieme a te. Quindi o lo lasciava gestire a me o l'attività di famiglia dei Robbins avrebbe chiuso. Sette generazioni di orologiai non potevano finire a causa del sessismo di altri, secondo mio padre.”
Tu hai un dono, Arizona. Un dono che Tim non ha.”
La mia non è altro che una maledizione, Calliope. Mentre Tim ha avuto tutto ciò che io-” chiusi gli occhi e scossi la testa. “Fai in modo che ogni secondo conti” lessi l'incisione sull'orologio ad alta voce.
Il tempo sembra essere il tuo problema. Dici sempre di non averne abbastanza per la quantità di lavoro che hai qui.”
Non credo di poter accettare questo regalo.”
Sciocchezze. Permettimi almeno di darti questo orologio, Arizona. Non mi tocchi più, non mi guardi più negli occhi e a malapena mi parli ancora. Questo negozio ti ha portata via da me. Permettimi almeno di darti qualcosa che ti ricordi di me anche se adesso io non sono più al tuo fianco.”
Tu sei sempre al mio fianco, Calliope. Continui ad essere con me anche quando non ci sei” le dissi piano, quasi sperando che non mi sentisse.
Cosa significa?”
Non è questo lavoro che mi ha allontanata da te” risposi onestamente, passandomi ancora una volta lo straccio sulle mani. “Il vostro fidanzamento mi ha allontanata da te” tesi una mano nella sua direzione.
Quando la prese, ancora perplessa, io la strinsi appena.
Ti ringrazio per il meraviglioso regalo, Calliope.”
Non c'è di che.”
Mi portai la sua mano alle labbra, baciandola con delicatezza e poi lasciandola andare.
Con un ultimo sorriso si voltò in direzione della porta, aprendola.
Non è mai stato a causa del tempo” le dissi. Lei rimase voltata di spalle, colta di sorpresa dalla mia voce per un istante. “È il tempismo, Calliope. È sempre stato quello il mio problema.”
La guardai andare via in silenzio. Poi tornai ad occuparmi dei miei orologi.

“Credi che lei lo sapesse?” mi chiese mio nipote una sera.
“Ho sempre pensato di sì, James. L'amore è uno di quei sentimenti troppo forti per passare inosservati. Soprattutto il tipo di amore che io provavo per lei.”
“Sembra esserci un 'ma'.”
“Lei ha detto di averlo capito solo due anni dopo essersi già sposata. Non so ancora se crederci o meno.”
“E come lo ha capito?”
Portai istintivamente la mano destra sul mio cuore, in corrispondenza del taschino interno dentro cui conservavo quell'orologio.
“Io non la toccavo mai. Per nessun motivo. Neanche per sbaglio. Ci stavo sempre molto attenta, tanto che lei alla fine si è accorta che evitavo di proposito.”
“Ma perché? Non dovrebbe essere il contrario? Di solito non facciamo altro che cercare la persona che amiamo.”
“Di solito” confermai. “Ma non quando vogliamo nasconderlo. Quando nessuno deve sapere cosa proviamo, stiamo attenti a non sfiorare mai qualcuno che amiamo. Perché abbiamo paura che qualcuno riesca a sentire perfino il battito impazzito nel nostro cuore.”
Lui non disse niente. Continuò a guardarmi, aspettando la fine di un racconto che non aveva fine.
“Se potessi tornare indietro” mi disse, abbassando lo sguardo “se potessi tornare a prima che sposasse nonno, glielo diresti? La fermeresti?”
“Non ho mai avuto così tanto coraggio, James. Ci sono cose che cambierei. Sono stati sessant'anni lastricati di rimpianti, i miei. Ma, vedi, se tuo nonno non avesse sposato tua nonna, oggi tu ed io non saremmo qui a parlare.”
“Ma nessuno lo saprebbe mai.”
“Lo saprei io.”
Lui inspirò, palesemente insoddisfatto da quella risposta.
“Però ci sono cose che cambierei, questo sì. La terrei più spesso per mano. La guarderei più spesso negli occhi. Vorrei che sapesse che l'ho sempre tenuta dentro il mio cuore, che non confondesse la mia paura di affrontare quei sentimenti con l'indifferenza nei suoi confronti.”
“Ma alla fine, avresti comunque gli stessi rimpianti.”
“Forse. Ma chi non ne ha? Chi può dire di aver vissuto quanto me senza avere mai commesso un errore o senza aver fatto qualcosa che se potesse cambierebbe? Tu sei giovane, non puoi capire. Hai tutta una vita davanti a te.”
Mi alzai a fatica, facendogli cenno di aiutarmi. Lui mi scortò fino alla porta.
“Ci vediamo domani, figliolo. Tieni la bocca chiusa su quello che ti ho detto, d'accordo?”
“Sissignora” rispose con tono serio, ma un angolo della sua bocca si incurvò verso l'alto nell'accenno di un sorriso.
“Chiudi il negozio” gli dissi, incamminandomi verso casa con andatura lenta e incerta.
Ero così stanca.
I miei secondi erano quasi giunti al termine.

Fissai quell'orologio, finalmente aggiustato.
“Siamo stati bravi, James. È stato un lavoro difficile, è vero, ma adesso è come nuovo.”
Lui mi sorrise, visibilmente contento.
“A cosa pensi che serva quel bottoncino rosso sulla sinistra? È molto inusuale per un orologio d'argento, no?”
“Mai visto niente di simile prima d'ora” confermai.
Lasciai che il silenzio interrompesse la nostra conversazione, osservando l'oggetto che stavo tenendo in mano.
“Sai, penso che basti così” mormorai, aprendo e richiudendo quell'orologio, rigirandomelo tra le mani distrattamente.
“In che senso?” chiese perplesso.
“Andrebbe bene così. Andrebbe bene se questo fosse l'ultimo orologio che mi è concesso riuscire a riparare.”
La sua confusione aumentò.
“Ma, zia...”
“Ho avuto una vita lunga, James. Forse non è stata la vita che, con il senno di poi, avrei scelto per me stessa. Però è stato un bel viaggio. Davvero un bel viaggio. Ma, sai, ogni viaggio si deve concludere. Tutti tornano a casa, alla fine” gli dissi, con un piccolo sorriso. “Ed io non vedo l'ora di essere di nuovo a casa mia.”
“Ma non vorresti fare altro? Ci sono così tante cose che potresti ancora fare. Soprattutto qui in negozio. E poi, chi si occuperà di questo posto se tu vai via?”
Scrollai le spalle.
“Farai un ottimo lavoro.”
“Io?” domando, stupito.
“E poi, l'unica cosa che vorrei è l'unica cosa al mondo che non posso ottenere.”
Lo vidi sospirare quando capì cosa intendevo.
“Se potessi, James, se solo potessi farlo, ti giuro che cancellerei sessant'anni in un secondo. Senza pensarci due volte. Così.”
Fu allora che, quasi per sbaglio in realtà, premetti quel piccolo bottoncino rosso sul lato sinistro dell'orologio.
E qualcosa di incredibile accadde.
Qualcosa che ho difficoltà a descrivere, per quanto improbabile e sconvolgente.
Il tempo rallentò come se si stesse dilatando e poi iniziò ad andare a ritroso, riavvolgendosi su se stesso e tutto intorno a me iniziò a muoversi nel senso sbagliato, tornando indietro invece di andare avanti.
Fui spiazzata e stupita. Sconvolta e disarmata. Eppure, non lasciai andare. Continuai a tenere quel bottone premuto e tutto iniziò a muoversi sempre più in fretta, fino a costringermi a chiudere gli occhi.
Le ore, i giorni, gli anni, tutto stava cambiando, svanendo davanti ai miei occhi.
Quando riaprii gli occhi e finalmente lasciai andare quel piccolo bottone il luogo in cui mi trovavo era diverso da pochi istanti prima. Era più luminoso, più fresco.
Mi alzai di scatto e subito capii che qualcosa non andava. Non ero più in grado di alzarmi con quella velocità da anni ormai.
Mi toccai il viso e non percepii le rughe che lo rigavano, sfiorai i capelli ed erano così tanti e voluminosi come ormai non erano da anni.
Mi guardai attorno spiazzata. Gli attrezzi erano vecchi, di almeno cinquant'anni prima, il banco era il primo che avevo mai posseduto.
Dove mi trovavo?
Era forse un macabro scherzo?
Ma come poteva essere, eppure? Avevo visto il tempo riavvolgersi con i miei stessi occhi, avevo visto immagini scorrere a ritroso negli anni, avevo visto...cosa, esattamente?
Mi diressi nel retro ed afferrai l'unico specchio che possedevo tra le mani, osservando due paia di occhi azzurri guardarmi. Ma non erano i miei, stanchi e spenti. Erano quelli di una donna giovane, piena di vita, che deve ancora scrivere la propria storia. I miei capelli erano biondi, non avevo una sola ruga.
Ero tornata ai miei vent'anni.
Ma come era possibile?
Iniziai a respirare affannosamente, cercando di ricordare quello che era il mio presente. O, avrei dovuto dire, il mio futuro. Cercai di non lasciare le immagini svanire, mi sforzai per trattenere ogni singola informazione che riuscivo a ricordare.
Era una sensazione così spiazzante.
Come potevo essere di nuovo giovane? Come potevo essere tornata indietro nel tempo?
Perfino pensarlo mi faceva sentire pazza.
Guardai ancora una volta dentro lo specchio che avevo in mano, vedendo di nuovo quegli occhi azzurri così familiari, eppure così estranei.
Con un tonfo sordo l'oggetto che avevo in mano cadde, infrangendosi in una moltitudine di piccoli pezzi.
Indietreggiai con passo incerto, cercando di inspirare a fondo e di calmare il battito impazzito del mio cuore. Che cosa mi stava succedendo?
Cosa avevo fatto?
E soprattutto, come potevo tornare indietro e disfarlo?
James.
Fu lui uno dei miei primi pensieri.
Chissà se stava bene. Chissà se sarebbe comunque venuto al mondo o se avevo cambiato per sempre il suo destino. Forse sarebbe stato diverso, avrebbe avuto un aspetto e un carattere a me irriconoscibili. Forse non sarebbe mai esistito.
Quei pensieri, quei ragionamenti, volevano forse dire che credevo che quel delirio della mia mente fosse reale? Non lo sapevo con certezza.
Una parte di me, la maggior parte di me, forse lo sperava. Sperava in una seconda occasione.
Ma la parte razionale della mia anima si rendeva conto che tutto quello era impossibile. Non stava accadendo davvero.
Sentii la campanella del negozio annunciare l'ingresso di qualcuno. Cercai di mantenere la calma, ma dentro stavo esplodendo. Era solo un incubo. Doveva essere così per forza.
Inspirando forte entrai nella stanza affianco.
Fu allora che desiderai con tutto il mio cuore poter rimanere per sempre intrappolata dentro quel meraviglioso sogno.
“Calliope.”
“Buongiorno, Arizona.”
Io feci due passi svelti, avvicinandomi a lei, solo per poi ricordarmi che, qualunque anno fosse, qualunque età io avessi, lei era la donna di cui mio fratello era innamorato.
Mi paralizzai. Il mio sorriso si congelò.
“Come posso aiutarti?” chiesi, cercando di ricompormi.
“Ho pensato a quello che hai detto ieri” cominciò, facendosi coraggio.
Ricordavo quelle parole.
Come avrei mai potuto dimenticare.
L'ultima volta che ne avevamo mai parlato.
Lei avrebbe detto che valeva la pena tentare, secondo lei. Che potevamo ancora fare progetti per una vita insieme. Che potevamo fuggire.
Ed io l'avrei trattata male, avrei alzato la voce, le avrei detto che se era davvero disposta a voltare le spalle a mio fratello senza pensarci due volte di certo lo avrebbe prima o poi fatto anche con me, le avrei detto che tra noi non avrebbe mai potuto esserci niente, nemmeno amicizia.
Così, spezzando eternamente il mio cuore, avrei salvato la sua vita.
E alla fine, quella era la verità.
Avevo cancellato in un secondo sessant'anni di dolore e infelicità, ma li avrei rivissuti tutti quanti, secondo per secondo, solo per rendere lei felice.
“Io credo che valga la pena tentare, lo credo davvero. Possiamo ancora fare progetti, cercare di costruire una vita insieme. Possiamo fuggire da qui, da questa città e ricominciare da capo, soltanto io e te.”
La speranza nei suoi occhi mi lacerò il cuore.
No.
Era una semplice parola.
Il mio discorso iniziava così.
Con un secco, deciso, chiarissimo 'no'.
Dovevo solo riuscire a dirlo. Dovevo solo dirle di no proprio come avevo già fatto una volta prima di allora.
Era semplice.
Una parola. Due lettere. Sessant'anni senza di lei.
Niente di più facile.
“Sì.”
Tutto rimase perfettamente immobile e silenzioso per un tempo che mi sembrò quasi infinito.
“Sì?”
Annuii. “Sì. Ok, andiamo via. Solo io e te.”
“Dici sul serio?”
“Mai stata più dannatamente seria di così.”
Guardai in basso, verso l'orologio che tenevo in mano.
Io non sapevo come era entrato in mio possesso, non sapevo perché era arrivato fino a me, ma dovevo credere che ci fosse un motivo.
Avevo scelto, proprio in quel preciso istante, di credere che mi fosse stata data una seconda opportunità.
Potevo cambiare tutto.
Potevo essere felice.
Magari brevemente, magari solo per un istante.
Sì. Forse potevo. Ma a quale prezzo?
“Ma Tim...”
“Lui se la caverà” disse lei con decisione. “Gli ho parlato.”
“Che cosa?” domandai, sconvolta.
“Ieri sera, dopo che ho parlato con te, dopo che ho detto che ti avrei lasciata ai tuoi rimpianti, ho deciso che non avrei lasciato me stessa ai miei. Quindi gli ho chiesto se lui avesse mai avuto sospetti sui tuoi sentimenti nei miei confronti.”
“E lui cosa ti ha detto?”
“Che lo sapeva. Che l'ha sempre saputo. Che tutti lo hanno sempre visto, Arizona, tutti tranne me e te. Tu hai cercato di stare lontana da me per non infrangere il suo cuore, ma lui non si è mai fatto alcuno scrupolo ad infrangere il tuo ed il mio.”
Quindi era stato lui a rubarla a me, non il contrario.
E lei lo sapeva. Anche la prima volta, lei lo sapeva. Aveva continuato a vivere con lui, dopo il mio rifiuto, nonostante sapesse che aveva agito alle nostre spalle. Era rimasta comunque. E di certo non per lui.
“Sistemeremo tutto. Da adesso in poi ci sono io, accanto a te” le dissi con risolutezza, prendendole la mano.
Fu allora che la sentii e guardai subito in basso. La sua fede.
Seguì il mio sguardo.
I suoi occhi si riempirono di lacrime.
“Come faremo?” mormorò.
Scossi la testa.
La mia vita senza di lei era stata così insignificante e monotona, come se avessi vissuto nella vita di qualcun altro, senza mai poter essere me stessa.
Non volevo che succedesse di nuovo.
Avevo provato la vita senza di lei ed ero giunta all'unica possibile conclusione che la mia vita senza di lei non aveva senso.
Non aveva vita.
Non ne potevo più della sopravvivenza. Io volevo vivere.
E per farlo avevo bisogno di lei.
“Forse” mormorai, interrompendomi subito dopo.
Guardai in basso, verso il piccolo oggetto che tenevo in mano e pensai che, in fondo, tentar non nuoce.
“Forse ci potrebbe essere data una seconda occasione.”
Lei corrugò la fronte.
“Che intendi?”
Deglutendo mi avvicinai a lei, cingendole la vita con un braccio.
Quel gesto la sorprese e non poco.
Appoggiò le mani sulle mie spalle, guardandomi negli occhi.
“Se riuscissimo solo a tornare a prima del tuo matrimonio con Tim, se riuscissimo a far andare le cose per il verso giusto questa volta, potremmo ancora riuscire a salvarci.”
Lei ovviamente non aveva idea di cosa stavo parlando, ma non disse niente. Mi guardò e basta con i suoi bellissimi occhi scuri.
Sollevai la mano destra, aprendo l'orologio.
“Calliope?”
“Sì?”
“Promettimi che qualsiasi cosa succeda faremo in modo che d'ora in poi ogni secondo conti.”
“Te lo prometto” mi assicurò senza esitazione.
Sorrisi, avvicinandomi ancora di più a lei.
“Non avere paura adesso” le dissi, schiacciando il pulsante rosso.
Le immagini cominciarono di nuovo a dilatarsi nel tempo e poi a riavvolgersi. Ma non lei.
Lei fece quel viaggio insieme a me.
Così tornammo indietro, sempre di più, fino al giorno in cui lei e Tim si erano conosciuti, proprio in quello stesso negozio.
Era entrata per farsi riparare un orologio e mio fratello era entrato proprio mentre glielo stavo restituendo aggiustato, presentandosi e portandola poi per sempre via da me.
“Ma abbiamo appena...” si guardò attorno.
“Viaggiato nel tempo?” completai la sua frase. “Credo di sì.”
“Ma tu” spostò lo sguardo di nuovo su di me. “Quanti anni hai, tu?” chiese con un piccolo sorriso sulle labbra.
“Non mi crederesti se te lo dicessi.”
“Provaci” mi sfidò.
“Più di ottanta.”
Inspirò, sorpresa. Poi qualcosa le venne in mente ed il suo sguardo improvvisamente fissò un punto lontano.
“Non avevi detto di sì la prima volta, non è vero?”
Deglutii, poi scossi la testa negativamente.
“Com'è stato? Hai avuto una bella vita, senza di me?”
“No. È stata una vita molto solitaria” risposi senza esitazione.
Mi accarezzò sulla guancia e per un istante pensai che forse era quasi in grado di leggere nei miei occhi quei sessant'anni che erano passati senza di lei.
“Per fortuna esistono le seconde occasioni, allora.”
Risi della sua battuta quando la porta si aprì improvvisamente ed entrò mio fratello.
“Ciao Timothy” lo salutai, sorridendo.
Avevo ancora il braccio sinistro attorno alla sua vita ed eravamo vicinissime, in una posizione inequivocabile.
“Lei è Calliope. È la donna di cui sono innamorata.”
Con la mano libera presi la sua mano, portandomela alle labbra.
“Ho intenzione di passare la mia vita con lei” lo informai.
Lui fu spiazzato e ci mise diversi minuti per elaborare una risposta sensata.
“Beh, d'accordo. Ma spero che tu non abbia intenzione di dirlo a papà con queste esatte parole, Arizona.”

Il ristorante di Calliope fu un successo anche senza Tim.
Il negozio di orologi era diventato quello che sarebbe dovuto sempre essere. Solo un negozio, un lavoro, che occupava parte delle mie giornate ma che la sera alle sei mi chiudevo alle spalle, tornando a casa.
Casa.
La fine di quel mio meraviglioso viaggio.
Per sessant'anni l'avevo cercata e avevo dovuto cancellare tutto e tornare indietro nel tempo solo per rendermi conto che era lì. Era sempre stata lì.
La guardai, seduta su quella sedia a dondolo mentre fissava il cielo notturno e mi chiesi come tanta perfezione era riuscita ad essere concentrata in una sola persona.
Certo, non è che non ci fossero stati giorni difficili.
Eravamo pur sempre due donne nubili che vivevano insieme sopra un ristorante e la gente si faceva un sacco di domande.
Ma noi ci limitavamo a far finta di non sentire.
Era un paese piccolo, tutti ci volevano bene, quindi fingevano di non sapere anche cose che forse sapevano fin troppo bene.
Mi sedetti accanto a lei e le presi delicatamente una mano.
“Ti amo” sussurrò piano.
“Ti amo anch'io” mormorai, avvicinandomi e baciandola.
Il silenzio cullò il nostro sguardo.
Ero così felice.
Io, che avevo vissuto una vita senza sapere neanche cosa quella parola significasse, avevo poi vissuto una seconda vita, dove invece significava tutto.
Il mio amore per lei, il suo amore per me, una vita insieme. Ecco la felicità. Ecco l'infinità di ogni istante. L'eternità del tempo.
“Abbiamo passato insieme sessant'anni” constatai all'improvviso.
“Già. Ed è stata una bella vita, questa volta?” chiese, sorridendomi con complicità.
Risi, annuendo.
“Non mi sono mai sentita sola, neanche una volta, in sessant'anni.”
Il suo sorriso divenne dolce, pieno dell'amore che aveva per me.
“Sono passati gli anni, le settimane, i giorni. Abbiamo passato quasi due miliardi di secondi insieme, Calliope.”
Continuò a guardarmi, accarezzandomi lentamente una guancia.
“Ed ognuno di quei secondi, ha fatto la differenza. È stato importantissimo, fondamentale addirittura.”
“Hai ragione. Ogni secondo insieme a te è stato un dono, Arizona.”
“Ho fatto come mi hai detto. Ho raccolto tutto il coraggio che avevo e ho seguito quel tuo preziosissimo consiglio.”
“Sono davvero orgogliosa di te.”
“Davvero?” chiesi stupita.
“Davvero” confermò senza esitazione. “Potevi avere una vita semplice. Invece hai scelto una vita felice. Ci vuole davvero moltissimo coraggio.”
Continuai a guardare nei suoi occhi. Mi avevano fatto compagnia per tutta la vita e avrebbero continuato a farmene fino alla fine, ne ero certa.
“Ho solo fatto quello che mi hai detto” risposi piano.
Tirai fuori dal mio taschino quell'orologio che mi aveva regalato moltissimi anni prima e lo aprii, mostrandole la scritta incisa all'interno.
“Ho fatto in modo che ogni secondo fosse importante.”
“Hai fatto di più” rispose, baciandomi lentamente sulle labbra. “Hai fatto in modo che ogni secondo fosse pieno di felicità.”
Mi ci erano volute due vite intere, passate entrambe tra il ticchettio degli orologi che avevano scandito ogni secondo della mia vita, ma avevo finalmente imparato la mia lezione.
Il tempo non è l'importante. L'importante è come decidi di usare quel tempo.








Fatemi sapere cosa pensate di questa storia, i commenti sono apprezzatissimi, come sempre.
Un abbraccio enorme a tutte voi.



Ritorna all'indice


Capitolo 59
*** La nostra prima crisi di mezza età ***


Non so come scusarmi per l'imperdonabile assenza. Spero che questa storia vi piaccia, anche se non penso che basterà a farmi perdonare. Ben presto inizierò a postare una nuova storia a capitoli, ma non riguardo Callie Arizona purtroppo, quindi l'assenza è dovuta anche al fatto che ho dedicato del tempo a questa storia, soprattutto ultimamente, anche se so che non è una giustificazione.
Questa vuole essere soltanto una shot leggera e carina per alleggerire questa coppia che ormai nel telefilm è spezzata in mille modi...
Buona lettura!





La nostra prima crisi di mezza età



Arriva un momento, nella vita di tutti, in cui per la prima volta di colpo ci sconvolge la consapevolezza di qualcosa che fino a quel preciso istante non era stata altro che una piccola, minuscola ombra, nascosta nell'angolo più lontano della nostra mente.
Una donna trova un capello biondo sulla giacca del marito, scopre una chiamata o un messaggio sul cellulare, si imbatte per sbaglio nel compagno quando lui aveva detto di essere fuori città. Ed ecco che improvvisamente vengono scoperte amanti ventenni, tresche amorose, relazioni torbide.
Lei ride troppo ad una battuta, lui la guarda un secondo più del dovuto, i loro baci sono dati con qualcosa che va oltre l'affetto e all'improvviso capiscono di essersi innamorati.
Due genitori che trovano preservativi in camera del figlio o un test di gravidanza in camera della figlia e si rendono conto che non sono più bambini. Oppure vedono che lo sfondo del cellulare del loro figlio è una foto di lui che bacia un altro ragazzo. E lo capiscono.
Così.
Di colpo.
Un fulmine a ciel sereno.
Ma è davvero così? Qualche nuvola doveva pur esserci all'orizzonte.
Il fatto è che gli indizi sono tutti lì, sono sempre stati lì fin dal primo momento. Sono proprio quello che vediamo tutti i giorni con la coda dell'occhio e a cui non facciamo mai caso.
Finché un giorno, senza preavviso, la realtà che fino a quel momento si era celata alla nostra consapevolezza nascondendosi nel nostro subconscio ci si rivela più chiara che mai.
“Non è una cosa così assurda, ormai lo fanno tutti.”
“Oh, quindi se tutti saltassero giù da un...”
“Ti prego mamma, non finire quella frase. È così cliché!”
Continuai a sistemare i piatti sulla tavola mentre lei si occupava delle posate.
“Beh, lo è anche farsi un tatuaggio perché lo fanno tutti e ritrovarsi un paio d'anni dopo con una cicatrice ripiena di inchiostro su una chiappa con su scritto Pedro.”
“Santo Cielo, mica mi voglio tatuare il nome di un tizio. È solo una piccola, minuscola rosa sulla caviglia!”
“Beh, lo farai quando non vivrai più sotto il mio tetto, Sofia.”
Lei sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
“Prima era finché non diventi maggiorenne, adesso che sto per compiere diciotto anni è diventato finché sei sotto il mio tetto, poi sarà finché ti mantengo io” mi rinfacciò. “La verità è che io sono un'adulta ormai e tu dovresti accettarlo, mamma. Ormai queste cose non puoi più capirle. Sei vecchia.”
E fu in quel preciso istante che il mondo si fermò.
Che ogni immagine che fino a quel momento avevo visto solo con la coda dell'occhio approdò finalmente sulla riva della mia coscienza, portandomi a quella sconvolgente epifania.
Tutto aveva improvvisamente senso.
I primi capelli bianchi, i dolori muscolari dopo operazioni che duravano una mezza giornata ma che fino a qualche anno prima non mi avevano mai dato problemi, i figli che stavano ormai crescendo. Era tutto lì. Avevo solamente scelto di non vederlo fino a quel momento.
Rimasi immobile, con gli ultimi due piatti in mano, a guardare mia figlia ridere della sua stessa battuta, ma sapere che stava solo scherzando non mi consolò. In fondo, in ogni battuta c'è sempre un fondo di verità.
Forse non ero vecchia. Ma, di sicuro, stavo invecchiando.
Fu così che per la prima volta, alla tenera età, per così dire, di quarantasei anni, mi sentii come se avessi già un piede nella fossa.

Più tardi, quella stessa sera, stesa a letto e con gli occhi completamente spalancati a fissare il buio, riflettei su ciò che mi aspettava il giorno successivo.
Avevo la sveglia alla stessa ora a cui era stata impostata negli ultimi quindici o forse anche vent'anni, poi mi sarei alzata, avrei svegliato i miei figli, avrei fatto colazione con la mia famiglia. Noi sei, seduti a tavola, negli stessi posti di sempre. Io a capotavola, mia moglie alla mia sinistra, Sofia alla mia destra, accanto a loro rispettivamente Sara e Jessica, le gemelle, e a capotavola, proprio davanti a me, il piccolo Jamie.
Dopo la colazione avremmo accompagnato i ragazzi a piedi alla fermata del bus e poi saremmo andate a lavoro, dove personalmente avrei passato tutto il giorno a fare sempre gli stessi interventi. Bacini fratturati, ossa rotte, costole frantumate. Poi mi sarei fatta due ore in pronto soccorso dove per lo più stavo seduta a rimettere in sede spalle slogate. Poi sarei tornata a casa ed avrei preparato la cena mentre mia moglie metteva a posto il casino che i nostri figli seminavano per tutta la casa. Avremmo visto un film tutti insieme oppure se uno di loro doveva prepararsi per un test li avremmo ascoltati ripetere.
Alle undici a letto.
Alle sette sveglia e di nuovo in piedi.
Alle undici a letto.
Io alle undici di sera andavo a letto. Io. Callie Torres. Io che ero una superstar con un bisturi. Che non avevo mai preso in considerazione di andare a letto prima dell'una di notte o di andare a letto sobria di sabato sera, andavo a dormire alle undici.
Capivo che i miei figli dovessero farlo perché il giorno dopo avevano scuola e dovevano dormire otto ore e tutte quelle cavolate. Ma perché lo facevo anch'io? Avevo preso l'abitudine ad andare a dormire alla stessa ora dei miei ragazzi adolescenti, nonostante non dormissi mai otto ore a notte ma spesso e volentieri ci mettessi una vita per prendere sonno o, al contrario, fossi in piedi con largo anticipo rispetto alla sveglia.
Quindi il giorno successivo sarebbe stato esattamente come tutti i giorni prima di quello, nella media.
E il giorno dopo ancora?
Stessa cosa.
E quello dopo?
Uguale.
E così all'infinito, la mia vita poteva essere considerata ormai una rimanenza di giorni fatti tutti allo stesso modo.
Certo, Sofia l'anno successivo sarebbe partita per il college, i ragazzi sarebbero cresciuti, magari avremmo comprato un nuovo frullatore. Ma si sa, più le cose cambiano, più rimangono esattamente le stesse.
Quindi rimasi lì, gli occhi aperti, le braccia tese lungo i fianchi sopra le lenzuola. Immobile. Come se stessi già svanendo.

Aspettai che la sveglia suonasse già seduta e con le pantofole addosso. La spensi immediatamente e mi diressi verso il bagno. Entrai nella doccia, svegliai i ragazzi e preparai la colazione, riuscendo a dire in totale una manciata scarsa di parole.
“Stai bene? Sei stata silenziosa tutto il giorno” chiese mia moglie quando ci sedemmo nell'auditorium dell'ospedale per quello che doveva essere un convegno sulla fiducia in se stessi e nei propri colleghi e cavolate simili. Qualche strano discorso motivazionale di sicuro. Ma almeno non dovevo concludere la giornata con due ore di pronto soccorso.
“Ma sì, sto bene” risposi, accennando un sorriso debole.
Il discorso iniziò, ma io avevo la testa da un'altra parte.
Quando lei se ne accorse mi sfiorò la mano, replicando la domanda. Io mi limitai ad annuire, cercando di concentrarmi su quello di cui il tizio stava parlando ormai da quaranta minuti.
“In definitiva, non lasciate mai che le redini della vostra vita vi sfuggano di mano e non dimenticate che l'unica persona in controllo di voi, siete voi stessi. C'è qualcosa che non vi piace nella vostra vita?”
“Sì” mormorai con una risatina ironica.
Cambiatela.”
Quello mi colse di sorpresa. Le persone non cambiavano radicalmente la propria vita dall'oggi al domani.
Però la mia era cambiata, anche se era stato un processo graduale. Quindi forse bastava solo che invertissi il processo per poter riportare la scintilla che ormai mancava nelle mie giornate.
“Vi sentite inutili, insicuri o trascurati?”
Tutto il tempo. Di continuo.
“Fate la differenza. Fate qualcosa che vi faccia sentire utili. Passate più tempo con le persone che vi fanno sentire amati.”
Io passavo tutto il tempo con le persone che amavo. Il problema forse era che quel tempo era speso in modi come guardare la televisione o parlare del tempo. Non era speso nel modo giusto.
“Quando vi trovate a dover scegliere tra due cose da fare, ovviamente tenendo sempre presenti leggi e moralità, ma se siete davanti a due scelte equivalenti nella vostra vita quotidiana, la discriminante da usare è semplice.”
Mi protesi in avanti, rapita dalle sue parole. Pendevo dalle sue labbra.
“Fate ciò che vi rende felici.”
Ed eccola lì. L'epifania numero due.
La cosa che avevo sempre saputo, la regola che avevo sempre seguito ma che in chissà come con il tempo avevo dimenticato.
In qualche modo, per qualche motivo, inspiegabilmente, lungo il cammino mi ero distratta e avevo smesso di fare ciò che mi rendeva felice.
Come era potuto succedere? Ma soprattutto, come potevo rimediare?
Uscimmo dalla sala, mia moglie stava parlando con Cristina Yang e Meredith Grey di quello che avevamo appena ascoltato.
“Tutto quel discorso era una cavolata epocale” fu il commento di Cristina.
“Due ore buttate al vento. Vite potevano essere salvate in queste due ore” disse invece Meredith.
Loro rimasero sulla soglia mentre io prosegui, come in trans.
“Che diavolo è preso oggi a Callie?” domandò Cristina.
“Non ne ho idea, è stata strana tutta la mattina.”
Alzai di colpo lo sguardo in avanti, non curandomi delle donne alle mie spalle che stavano parlando di me.
“So cosa devo fare.”
Iniziai a camminare di nuovo, sentendo ancora per qualche istante la voce di mia moglie che diceva che il mio, probabilmente, era soltanto stress.
Entrai nel mio ufficio, sedendomi e appoggiando le mani sulla scrivania.
Era il tempo di cambiare qualcosa. Ma cosa? E da dove iniziare?
La risposta riecheggiò nella mia mente.
Me stessa. Ecco la prima cosa da cambiare.
“Sei pronta?” mia moglie entrò nel mio ufficio, con la giacca addosso e un meraviglioso sorriso in volto.
“Sono pronta. Più che mai” risposi, alzandomi e togliendomi il camice.
Mi misi in fretta la giacca, facendole segno di precedermi all'esterno.
“Pensavo” le dissi “di tagliarmi i capelli.”
Oh, era una frase apparentemente così casuale e innocente. Così random da parte mia.
Come poteva lei sospettare che quelle cinque parole stavano in realtà dando inizio a quella che, a tutti gli effetti, fu la mia crisi di mezz'età?
“Mi sembra un'idea carina.”
L'inizio della fine.

“Questa macchina mi ha stancato.”
Due occhi curiosi si voltarono immediatamente nella mia direzione.
“Che cosa c'è che non va nella nostra macchina?” domandò la donna al mio fianco.
Era sabato e stavamo accompagnando Sofia da una sua amica.
“Per cominciare, è vecchia. È molto sicura, questo è vero, ma ci sono macchine nuove più sicure e molto più belle. Propongo di cambiare macchina.”
“Quindi, fammi capire bene, vuoi vendere la monovolume per comprare...quale macchina esattamente?” chiese Sofia.
“Non lo so ancora. Un BMW?”
“Che cosa, un...sei impazzita?” domandò la mia dolce metà.
“Non dobbiamo venderlo. Sofia ha bisogno di una macchina. Il prossimo anno sarà al College dall'altra parte del paese, giusto? Come si sposterà?”
“Sai, mamma, a New York esistono gli autobus.”
“Ok, allora vendiamola. È vecchia, consuma un sacco. Se vi fa sentire meglio con la coscienza la prendiamo ibrida e facciamo un favore all'ambiente.”
“Una BMW ibrida? Ma almeno esistono?”
“Non ne ho idea. Ma forse è ora di scoprirlo.”
Fu così che, quella stessa mattina, dopo aver lasciato Sofia a casa della sua amica, guidai fino al concessionario.
“Bel modo di passare l'unico giorno libero da due settimane, Calliope.”
“Non è che tu avessi in mente chissà quale folle divertimento. Volevi fare la spesa.”
“Ehi! La spesa può essere divertente.”
“Sì, e lo sarà ancora di più se andremo a farla con una nuova macchina.”
E fu scendendo dalla macchina, proprio in quel concessionario, che mi innamorai. No, non del tizio sudaticcio e tarchiato che voleva venderci una stupida macchina che amava definire “per signore”, ma di una Mercedes Coupé Classe-S.
“Voglio fare un giro di prova su quella.”
Due ore e mezza dopo, uscii da quel concessionario con in mano le chiavi di quella meraviglia.
“Ora, amore mio, possiamo andare a fare spesa.”
“Se ci sono rimasti dei soldi con cui fare spesa, visto quanto hai appena speso per una macchina che, tra le altre cose, non è neanche un'ibrida!”
Mi voltai verso di lei, guardando la sua aria imbronciata. Con calma, le sorrisi.
Accostai la macchina.
“Provala.”
“Cosa?”
“Prova a guidarla e poi dimmi che è stata una scelta sbagliata.”
“Posso tranquillamente dirtelo senza neanche...”
“Scendi, fai il giro, siediti e guida. Ne varrà la pena. Promesso.”
“Ok, se ti fa sentire meglio lo farò. Ma non cambierò mai e poi mai idea, neanche tra un milione di anni. È stata una spesa eccessiva e inutile.”
“Amore. Siamo due primari, possiamo permetterci una macchina sportiva. Cavolo, possiamo permetterci una villa con piscina. O un castello in Europa, usando i soldi di mio padre. Ora vieni qui e guida.”
Quando, qualche ora dopo, mi ritrovai ad aprire la porta di casa con tre buste in mano mentre mia moglie ne portava una soltanto perché lei era troppo impegnata a parlare di quanto fosse fantastica la nostra nuova macchina, ebbi la conferma di aver fatto la scelta giusta.
Sistemata la spesa, lei mi annunciò che voleva farsi un bel bagno caldo. Io le dissi che nel frattempo sarei andata a farmi quel taglio di capelli di cui avevamo discusso il giorno prima.
Lei annuì, sorridendo, mentre andava nell'altra stanza.
Allargai le braccia, lasciandole ricadere pesantemente contro i fianchi con un pesante sospiro.
“Neanche io vedo l'ora di vederti di nuovo, amore della mia vita” mormorai a me stessa nell'ingresso ormai vuoto.
Presi le chiavi, uscendo di nuovo.
Quando tornai, due ore dopo, non solo avevo tagliato i capelli, comprato un nuovo paio di occhiali da sole e delle scarpe, ma avevo anche trovato la soluzione al problema che mi ero posta su come cambiare me stessa.
Sport.
Dicono che avere una forma fisica giovane ti aiuta a rimanere giovane. Ed io mi svegliavo sempre prima della sveglia in ogni caso. A quel punto potevo alzarmi ed andare a correre.
Quella sera, a cena, appena tutti furono seduti e Sofia si fu, come al solito, impossessata del telecomando, io staccai la spina del televisore e mi sedetti. Tutti mi guardarono, ancora una volta, del tutto sconvolti dal mio comportamento.
“Ora faremo conversazione.”
Iniziai a mangiare, mentre tutti ancora mi fissavano.
“Allora, Sofia, com'è andata la tua giornata?”
Sara sghignazzò, mentre sua sorella deglutiva.
“Non ridere, ragazzina. Tu sei la prossima.”
Improvvisamente anche lei si fece seria. Calò di nuovo il silenzio.
“Niente da dire? Non c'è niente che volete condividere con le vostre madri? Nessuno di voi oggi ha fatto qualcosa degno di nota?”
Silenzio, ancora una volta, interrotto solo dal rumore della mia forchetta contro il piatto, mentre tutti gli altri erano immobili.
“Io ho dipinto uno scoiattolo.”
Jamie aveva otto anni, ma era molto in gamba per la sua età ed aveva un talento particolare nel disegnare.
“Perché proprio uno scoiattolo?”
Lui scrollò le spalle, iniziando a mangiare a sua volta.
“Gli scoiattoli vivono sugli alberi e sono liberi e non hanno preoccupazioni. Anch'io voglio vivere su un albero, dentro una casetta di legno. In più, mi piacciono le noci.”
“Mi sembra giusto, Jamie. Ti va di farmi vedere il disegno dopo cena?”
Lui annuì, entusiasta.
“Che altro hai fatto a scuola?”
“Ho mangiato del pollo.”
“Bene, è buono il pollo, no?”
“Molto, però quello che fai tu mi piace di più.”
“Beh, nessuno batte il pollo alla Torres.”
Lui rise.
“Allora, Sofia” continuai. “Sicura che non vuoi raccontarci niente?”
Lei rimase interdetta un istante ancora, poi iniziò a mangiare, seguita dalle sue sorelle.
“Beh, in realtà delle cose sono successe” iniziò a raccontare, andando avanti poi per più di mezz'ora e rendendoci finalmente partecipi di quello che le passava per la testa.
Chi avrebbe mai detto che bastava chiedere?
Jamie, appena finito di cenare, mi portò il disegno.
“Ma è bellissimo, mijo. Uno dei tuoi migliori.”
“Piace anche a me” disse, mentre si sedeva accanto a me sul divano.
“Sai che ti dico? Voglio appenderlo. Domani comprerò una cornice. Che ne dici?”
“Come un quadro?”
“Come un quadro.”
“Fantastico.”
Sorrisi, scompigliandogli i capelli.
“Vai a lavarti i denti adesso” gli dissi, alzandomi ed andando in cucina per aiutare mia moglie a lavare i piatti.
O almeno, quello era il mio intento. Ma appena arrivai sulla soglia mi paralizzai.
Ecco, un'altra cosa che mi ero dimenticata di guardare.
Una cosa che era sempre stata nella coda del mio occhio e forse l'avevo data per scontata.
Era come se avessi ricominciato a vedere.
E quella cosa in particolare, mi appariva chiara più che mai.
“Arizona?”
Lei si voltò nella mia direzione, appoggiando il piatto che aveva in mano dentro il lavandino.
“Sì?”
Avrei voluto dire un milione di cose.
Che mi dispiaceva, per esempio.
Che non ero mai riuscita a capire a che punto le cose avevano iniziato ad essere così banali proprio tra noi, che eravamo sempre state straordinarie.
Avrei voluto dirle che era colpa mia, anche se non avevo idea di chi fosse, solo per non incolpare lei.
Ma ogni parola mi morì in gola, incapace di raggiungere le labbra.
“Sei bellissima. Tutto qui.”
La sua espressione spiazzata mi mortificò.
Era davvero così raro che le ricordassi quanto era bella? O speciale? Come avevo reso tutto ciò che un tempo era un'abitudine un evento così raro, mentre ciò che prima era inconcepibile era diventata un'abitudine?
Senza aggiungere altro, andai verso la camera da letto.

Dalla mattina seguente iniziai ad andare a correre. Ammetto che la prima volta fu dura e riuscii a malapena a fare un paio di chilometri prima di tornare indietro esausta.
“Dove sei stata?”
Mi guardò perplessa, notando il mio fiatone. La sveglia non era ancora suonata.
“Ah, sai stavo” inspirai ed espirai, cercando di riprendere fiato. “Stavo correndo.”
“Correndo? Che vuol dire che stavi correndo?”
Si tirò a sedere, guardandomi.
“Beh, sai, è tipo camminare solo che lo fai più velocemente.”
“So cosa significa, quello che non capisco è perché lo stavi facendo alle sei di mattina.”
Scrollai le spalle.
“Non riuscivo a dormire e non avevo nient'altro da fare. Mi faccio una doccia, ok? Torna a dormire.”
Circa un'ora più tardi mi ritrovai a percorrere il tragitto dalla cucina alla mia camera da letto tenendo una vassoio con così tante cose in bilico sopra che fu un miracolo che non rovesciai tutto a terra dopo due passi.
Quando la sveglia di Arizona suonò e lei si alzò, mi vide davanti a lei. Sorrisi del suo sguardo stupito.
“Ti ho portato la colazione a letto.”
“Lo vedo. Come mai? Mi sono dimenticata qualcosa?”
“No. È solo un giorno qualunque in una settimana qualunque e questa è la tua colazione. C'è il caffellatte, ho già messo la marmellata di ciliegie dentro la tua brioche come piace a te, ho messo sia una pera che un'arancia perché sei sempre indecisa su quale mangiare e non sapevo quale avresti voluto” appoggiai il vassoio sulle sue gambe con il suo aiuto. “Il cioccolatino è extra rispetto alla colazione standard” scherzai.
Guardò stupita verso il basso e poi di nuovo me.
“Ti ringrazio. Non ho parole, davvero.”
“Non è niente di che. Sveglio i ragazzi e gli faccio fare colazione, ho già preparato anche per loro. Tu per una mattina rilassati e goditi la colazione in tranquillità.”
Mi voltai, andando verso il corridoio, quando la sua voce mi fermò.
“Calliope?”
Mi voltai. “Sì?”
“Che ne dici di...” si schiarì la voce, spostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. “Potresti tornare dopo che hai svegliato i ragazzi e fare colazione insieme a me” propose. “Dividerò la brioche a metà. Ma il cioccolatino è mio.”
Annuii ridendo.
“Ne sarei molto felice. Torno tra poco.”
Il suo sorriso fu abbastanza da ripagarmi abbondantemente per averle portato quella colazione a letto.

Stavo uscendo dalla sala operatoria quando sentii qualcuno entrare. Continuai a lavarmi le mani, alzando lo sguardo.
“Ho trovato un mazzo di fiori sulla mia scrivania. Gigli rosa.”
“I tuoi preferiti” notai.
“Già. C'era un biglietto. A quanto pare sono da parte della mia ammiratrice segreta.”
“Oh, hai un'ammiratrice segreta? Devo iniziare ad essere gelosa?”
“Calliope, siamo state sposate per ventidue anni. Penso di saper riconoscere la tua calligrafia quando la vedo.”
Alzò la mano in cui teneva il bigliettino.
Io feci una piccola smorfia.
“Ops. Mi hai beccato.”
“Qualche giorno fa la colazione a letto, ora questo. Per cosa sono i fiori?”
Scollai le spalle.
“Perché sei la donna più bella del mondo e visto che ti piacciono i gigli rosa ho pensato che fosse un pensiero carino.”
Lei esitò un momento, riflettendo sulla mia risposta.
“No, sul serio. Per cosa sono i fiori?”
Accennai una risata, avvicinandomi a lei e appoggiandole le mani sui fianchi.
Prima che potesse chiedere di nuovo la baciai sulle labbra, stringendola contro di me.
“Ti amo” le dissi dopo essermi allontanata. “I fiori sono lì per ricordartelo.”
Il sorriso che si formò sulle sue labbra in quel momento, valeva milioni e milioni di gigli rosa e altri fiori di ogni tipo.
“I gigli sono un bel promemoria. Ti amo anch'io.”

Stavamo seduti sul divano. Non guardavamo più la televisione, di sera si parlava. Volevo sapere cosa provavano i miei figli, se le loro vite andavano bene e tutto ciò che li riguardava. Beh, almeno la parte che loro volevano raccontarmi, diciamo.
“Questo divano è diventato incredibilmente scomodo. Non trovate?”
“Ci risiamo” mormorò Sofia alzando lo sguardo al cielo.
“Dovremmo cambiarlo.”
“Appunto.”
“Cosa c'è Sofia?” le domandai, irritata dal suo mormorare a bassa voce.
“Prima hai voluto cambiare la macchina” mi fece notare. “Poi i capelli. Poi improvvisamente non potevamo più vedere la televisione a cena o dopo cena perché dovevamo parlare, ma hai comprato un televisore piatto a dir poco enorme.”
“Potete vederla di pomeriggio o nel weekend. Hai visto quanto è bella la nuova televisione? Ce ne serviva una così. Quella di prima non aveva senso.”
“Questa frase non aveva senso” mi fece notare Sara.
“Poi hai cambiato il tuo materasso” continuò Sofia.
“Ragazzina, quel materasso era in questa casa da più di te. La sua vita era chiaramente giunta al termine.”
“Poi hai cambiato il tappeto in soggiorno, ti sei fatta fare dei preventivi per mettere il parquet in salotto.”
“Cosa che non faremo mai e poi mai” precisò Arizona.
“Adesso vuoi cambiare il divano. Stai attraversando questa strana crisi di mezza età in cui compri cose inutili solo perché puoi.”
Crisi di mezza età.
Mi alzai dal divano lentamente, guardandola negli occhi.
Pensai a lungo a cosa dire. Ma non è facile riuscire a spiegare ad un'adolescente quanto le parole riescano a ferire.
Invecchiare, certo, non è altro che un processo biologico. Ma per la psiche è molto più complicato di così. Ed io non riuscivo ancora ad accettarlo del tutto, nonostante ci stessi provando.
Il punto non era che stavo invecchiando.
Ma che volevo invecchiare felicemente. Senza rimpianti o desideri mai realizzati.
“Benissimo” decretai in tono neutro. “In tal caso non cambieremo il divano.”
Senza aggiungere neanche un'altra parola, andai in camera mia dove mi stesi a letto, riflettendo sulle parole di mia figlia.
Forse aveva ragione. Forse quella fase poteva essere solo come una crisi di mezza età che poi sarebbe passata. Forse sarei presto tornata a vivere in modo apatico la mediocrità della routine quotidiana.
Forse.
O forse, volevo semplicemente un divano nuovo.
Arizona mi raggiunge a letto solo qualche minuto più tardi.
Si sdraiò al mio fianco, sotto le coperte e spense la luce.
Ormai da tantissimo tempo non facevamo più l'amore. Già era raro che ci scambiassimo dei baci più significativi di un piccolo bacio a stampo. Eravamo sdraiate nello stesso letto, così vicine. Eppure eravamo così dannatamente lontane.
Da quanto tempo eravamo così fredde? Che cosa era successo? Forse niente di particolarmente degno di nota. Semplicemente l'intimità si era diradata sempre di più fino a diventare un evento di estrema rarità.
“Se ti va domenica possiamo andare a scegliere un nuovo divano” la sua voce spezzò i miei pensieri.
Esitai per qualche istante.
“Non abbiamo bisogno di un nuovo divano” ammisi.
“Ma un divano più comodo sarebbe carino, che dici? Magari di un colore caldo.”
Voltai la testa nella sua direzione.
“Tu hai scelto la macchina” aggiunse poi. “Il divano lo scelgo io.”

Continuai con le corse mattutine per tutto il mese successivo. I dolori alla schiena dopo le operazioni lunghe sparirono, non avevo il fiatone dopo aver fatto di corsa le scale, avevo perfino perso diversi chili.
Mi sentivo bene. Anzi, mi sentivo alla grande.
Quando tornai a casa, quel pomeriggio, sapevo che ci sarebbe stata solo lei visto che i ragazzi erano ancora a scuola.
“Amore, dove sei?” urlai, appoggiando le chiavi e la borsa e togliendomi il giacchetto.
“Arrivo” mi informò dall'altra stanza.
Io sorrisi a me stessa, prendendo tra le mani una scatolina e andandole incontro.
“Ti ho preso una cosa” le dissi baciandola sulle labbra e poi porgendole la scatola.
“Mi hai fatto un regalo?”
“Sì. Aprilo.”
“Per cos'è?”
“Nessuna occasione in particolare.”
Lei aprì la scatola, vedendo una collana con un pendente argentato a forma di farfalla.
“L'ho vista e mi ha fatto subito pensare a te, così l'ho presa. Spero che ti piaccia.”
“Oh mio Dio” mormorò, incredula, con un filo di voce. Per qualche istante continuò a guardarla senza parlare. “Oh. Mio. Dio” ripeté a voce più alta, richiudendo la scatoletta e andando a sedersi sul divano mentre si passava una mano sulla fronte. “Hai un amante” esclamò alzando lo sguardo su di me.
Quella non era la reazione che mi aspettavo.
“Io ho” inclinai la testa di lato, cercando di capire cosa l'aveva portata a quella conclusione, ma senza risultati. “Cosa?”
“Hai un amante. Non è così? Come si chiama lui?”
“Lui?” chiesi, spiazzata. “Per prima cosa, chi dice che sia un lui?”
Io scossi la testa, vedendola agitarsi.
Alcune lacrime iniziarono a formarsi nei suoi occhi.
“Ok, non intendevo dire...”
Si alzò in piedi, iniziando a percorrere la stanza a grandi passi.
“La stessa cosa è successa a Jenny.”
“Chi?”
“Jenny” ripeté con enfasi. “Gestisce il bar in fondo all'isolato. Il marito ha iniziato a farle regali, darle attenzioni. Proprio come te! La colazione a letto, i fiori, i gioielli.”
Trattenni a stento una risata.
“Arizona, andiamo. Sai che non lo farei mai.”
“Lo diceva anche Nathan” mi rinfacciò.
“Chi?” ripetei io.
“L'ex marito di Jenny” puntualizzò. “Chi è lei?” il pronome uscì come veleno dalle sue labbra.
Un paio di lacrime sfuggirono alla sua ferrea presa, rigandole le guance.
“Oh, no. Ti prego non piangere. Sai che non sono brava a gestire le lacrime.”
“Dovevi pensarci prima di tradirmi” mi accusò.
“Ma io non ti ho affatto tradito” la guardai come se fosse pazza.
“Provamelo!”
“Come sarebbe a dire” mormorai. “Che fine ha fatto 'innocente fino a prova contraria'?”
“E allora perché?”
“Ma perché cosa?” chiesi incredula.
“I gioielli!” sventolò in aria la scatoletta che teneva in mano, come a voler sottolineare le proprie parole. “I fiori, la colazione a letto, i complimenti, i sorrisi, il fatto che ti alzi alle sei di mattina ed esci di casa, per iniziare” continuò imperterrita.
“Vado solo a correre.”
“Già, sei in forma smagliante, Calliope. Per chi lo stai facendo?” mi guardò, pretendendo di avere un'aria minacciosa nonostante le lacrime.
Scoppiai in una risata ironica, alzando le braccia e poi rifacendole cadere pesantemente lungo i fianchi.
“Per te. Chi altro altrimenti? Beh, e per me stessa” aggiunsi in un secondo momento.
Quello la colse totalmente di sorpresa.
“Per me?”
“Sì. Ovviamente, per te. È sempre stato tutto per te.”
“Ma” protestò debolmente. “Ma io sono sempre stata qui.”
Distolsi lo sguardo, appoggiandomi le mani sui fianchi e sospirando.
“Solo perché sei qui non significa che vorresti essere qui. Non voglio che tu sia qui. Voglio che tu sia mia.”
Le lacrime si asciugarono mentre pensava alle parole che avevo appena pronunciato.
“Che ci è successo?”
“Non lo so” scossi la testa, guardando in basso.
“Tu” iniziò, ma la voce la tradì. “Non mi guardavi più come prima.”
“Certo che ti guardavo come prima. Solo che ho iniziato a farlo solamente quando non potevi accorgertene.”
“Perché mai?”
“Perché non sembrava che tu volessi più che ti guardassi come prima” spiegai come se fosse la cosa più scontata del mondo.
Il silenzio che seguì le mie parole fu come un pugno allo stomaco. Come la silenziosa conferma di tutte le mie paure.
“Senti, io non so in quale maledetto istante le cose hanno iniziato ad andare storte” le dissi, sospirando. “Ma mi dispiace. Dico davvero.”
Non sapevo che altro dire.
Avevo un nodo che mi attanagliava la gola e sentii le lacrime salire anche nei miei occhi.
“Vuoi che vada via?”
Non sapevo neanche io cosa significasse quella domanda.
Via da dove, poi? Da quella stanza, da quella casa, dalla sua vita?
E per andare dove? Non avevo mai avuto altra casa oltre lei.
Lei riaprì la scatolina che aveva in mano, fissando un'ultima volta il ciondolo, prima di richiuderla ed appoggiarla sul tavolo alla mia destra, tenendo lo sguardo basso mi si avvicinò senza guardarmi neanche per un istante.
“Arizona, vuoi che vada via?” ripetei in un sussurro.
Lei, continuando la sua intensa contemplazione del pavimento, mi si avvicinò e appoggiò le mani sulle mie spalle con timidezza. Come se fosse la prima volta che lo faceva o che mi stava così vicina.
Chiuse gli occhi e si alzò in punta di piedi, avvicinando il suo viso al mio.
Non riuscii a staccare gli occhi dal suo viso neanche per una frazione di secondo. Rimasi perfettamente immobile, trattenendo addirittura il fiato, nell'attesa di scoprire che cosa avrebbe fatto.
Alzò il mento verso l'alto, arrivò ad un centimetro dalle mie labbra e poi abbassò di nuovo la testa, come se ci avesse ripensato.
Ma fu solo un istante di esitazione.
Alzò di nuovo la testa, fino al punto in cui le sue labbra toccarono le mie.
Fu un bacio morbido, ma veloce.
Fu a quel punto che mi guardò negli occhi.
E lì, proprio lì, la vidi. La mia Arizona. Mia.
La baciai una seconda volta, mettendo in quel bacio tutta la passione che in qualche modo avevo chiuso a chiave dentro me stessa.
Lei rispose con altrettanta veemenza, immergendo una mano tra i miei capelli e stringendo la presa sulla mia maglia con la mano che aveva sulla mia spalla destra.
Un secondo dopo era premuta contro la parete alle sue spalle ed io avevo una mano sul suo fianco sinistro, sotto la maglia.
Fui attraversata da quella familiare sensazione di euforia e vertigini.
Ma, un istante dopo, si allontanò, premendo le mani sulle mie spalle e spingendomi indietro.
Mi bloccai immediatamente, guardandola.
Si staccò dal muro, facendo ruotare entrambe di centottanta gradi ed iniziando a camminare all'indietro verso il corridoio che conduceva alla nostra camera da letto, riprendendo subito a baciarmi.

Bussai ed entrai nell'ufficio senza attendere risposta.
Alzò gli occhi ma non si mosse. Stava seduta alla scrivania con una piccolissima bustina trasparente in mano.
“Che stai facendo?” domandai.
“Entra e chiudi la porta” ordinò un po' nervosamente.
Feci ciò che mi aveva chiesto, aspettandomi spiegazioni subito dopo.
“Ho trovato questa ad un paziente” sollevò la busta che aveva in mano in modo da farmene vedere il contenuto.
“Erba?” chiesi, sbalordita. Lei mi fece cenno di abbassare la voce. “Ok. Erba?” chiesi di nuovo, sussurrando.
Lei annuì.
“Quel ragazzino ha sedici anni. Se lo denuncio potrei rovinargli la vita, quindi per adesso l'ho solo sequestrata, se così si può dire. Sto cercando di decidere se distruggerla o consegnarla.”
“Beh...”
“Cosa?”
“C'è una terza opzione.”
“Che vuoi dire?”
“Puoi dire al ragazzino che l'hai distrutta senza farlo davvero.”
Corrugò la fronte.
“Perché mai dovrei fare una cosa del g-” poi lo capì. “Calliope. Stai per caso suggerendo di commettere un reato?”
Alzai le mani, mostrandole i palmi in segno di resa.
“Ehi, non sto suggerendo niente. Fai pure finta che io non abbia mai parlato.”
Lei mi osservò per diversi istanti.
“L'hai mai provata?” chiese, sventolando di nuovo la bustina con fare inquisitorio.
“No” risposi forse troppo velocemente.
Il suo sguardo scettico mi spinse a distogliere il mio.
“Beh, non quella dentro la bustina che hai in mano.”
Lei rilasciò una risata incredula.
“Hai fumato erba? Come è possibile che io non sapessi questa cosa?”
“Senti non è una tragedia. È successo giusto un paio di volte. Aspetta” realizzai poi. “Mi stai dicendo che tu non l'hai mai fatto? Mai? Come è possibile? Il college in cui sei andata era per caso gestito da suore?”
Lei alzò gli occhi al cielo.
“No, Calliope, la John Hopkins non è gestita da suore, per tua informazione.”
Inclinai la testa di lato.
“Sì ma...mai? Neanche una volta?”
“Neanche una volta. Sono stata cresciuta da un militare, non ho commesso reati e non ho intenzione di iniziare adesso.”
“Andiamo, l'erba non è mica omicidio.”
“È una droga, Calliope.”
“Una droga leggera” la corressi. “Si può a malapena classificare come tale. È quasi più corretto rapportarla al cioccolato o al caffè piuttosto che alle droghe pesanti.”
“Ok, sai benissimo che questo non è corretto.”
“Ci sono studi contrastanti a riguardo.”
Lei rise, scuotendo la testa.
“Sai, dovresti provarla prima o poi. Vuoi davvero morire senza aver mai provato a fumare erba? Al diavolo, vuoi davvero morire senza aver mai commesso neanche il più piccolo reato?” chiesi incredula.
“Beh, sì!” rispose ridendo, come se fosse ovvio.
“In tal caso non conoscerai mai l'ebrezza che si prova ad infrangere la legge per la miglior causa possibile” decretai. “Ed è un peccato. Un vero peccato. Ma è una tua scelta, quindi ti lascio sola con quella roba in modo che tu possa distruggerla per sempre.”
“Ok. Perfetto.”
“Ma se in caso cambiassi idea, comprerò delle cartine mentre torno a casa.”
“Calliope, ti ho detto...”
“Lo so, lo so. Distruggere, bruciare, eliminare, bla bla bla. Ma io le comprerò comunque. Solo per sicurezza.”
Le rivolsi il migliore dei miei sorrisi maliziosi, uscendo dal suo ufficio con aria soddisfatta, sapendo di aver scatenato la sua curiosità.
Quella sera, quando la vidi entrare in casa con l'aria colpevole e furtiva di chi aveva appena sepolto un cadavere in mezzo ad un bosco e teneva l'arma del delitto dentro la propria tasca, capii che mi aveva dato ascolto.
Quando i ragazzi furono a letto ci dirigemmo in camera nostra. Io indossai il pigiama con calma, sicura che avrebbe tirato in ballo la questione prima che quella giornata giungesse al termine.
La conoscevo meglio di chiunque altro al mondo.
Quell'aria così tesa, il modo distratto in cui si muoveva o faceva le cose, sempre sovrappensiero, era indice sicuro che un argomento molto serio stava per essere sollevato.
“Sofia dice che adora il divano che hai scelto” le dissi, sedendomi sul letto ed appoggiando la schiena alla spalliera del letto.
Un suono d'assenso arrivò tramite la porta aperta del nostro bagno.
“Meredith vuole che discutiamo di nuovo la procedura da usare per il caso Jones.”
Altro suono di vaga accondiscendenza.
“Stai indossando quella collanina con la farfalla che ti ho regalato l'altro giorno?”
L'ennesimo assenso arrivò puntuale ma distratto.
“Pensavo di rasarmi i capelli a zero e tingere di verde ciò che ne rimane. Pensi che sia una buona idea?”
Di nuovo, tutto ciò che arrivò un risposta fu un monosillabo incomprensibile.
Sospirai, ridendo.
Uscì dal bagno, chiudendo a chiave la porta della camera da letto e rovistando per qualche istante nella sua borsa. Lanciò sul letto la bustina che avevo visto quel pomeriggio con aria nervosa, mettendosi le mani sui fianchi quasi come se stesse per rimproverarmi di averla convinta a quel folle gesto.
“Fallo in fretta, prima che ci ripensi.”
Venti minuti dopo ero sdraiata sul letto a fissare il soffitto, con mia moglie stesa accanto nella mia stessa identica posizione.
“Hai mai notato quanto sia noioso questo soffitto?”
“No, non fino a questo momento” ammisi.
“Dovremmo metterci della carta da parati o farci dipingere qualcosa. Tipo la Cappella Sistina.”
Inclinai la testa di lato, immaginando quello stesso soffitto con un affresco.
“Vuoi che Michelangelo dipinga il nostro soffitto?”
Per qualche motivo quella frase suscitò la sua ilarità.
“No, Calliope! Michelangelo è morto. Voglio che lo dipinga qualcuno ancora vivo.
“Tipo?”
“Non lo so.”
“Ma poi perché? Tutti i soffitti sono noiosi, è tipo una caratteristica imprescindibile di tutti i soffitti del mondo. Tranne per la Cappella Sistina, ovviamente.”
“Non voglio che l'ultima cosa che vedo a questo mondo sia qualcosa di così assolutamente banale come il nostro soffitto, però.”
Scoppiai a ridere.
“Sono seria. La morte più comune è quella nel sonno. Ed io dormo qui. Questo soffitto potrebbe essere l'ultima cosa che vedo prima di morire.”
Messa sotto quella luce tutta la faccenda, in effetti, assumeva toni molto più seri e quasi macabri ai miei occhi.
“Bene. Facciamolo dipingere da qualcuno allora. E cosa vuoi che ci sia?”
“Non lo so.”
“Come sarebbe a dire? Cosa vuoi che sia l'ultima cosa che vedi prima di morire?”
Lei ci pensò per un istante, poi si voltò nella mia direzione.
“Te. Voglio farci dipingere una tua gigantografia. Non esiste al mondo un'immagine migliore da imprimersi negli occhi per sempre.”
“Beh, però mettiamone anche una tua. Io voglio vedere te.”
“D'accordo. Ci faremo fare due ritratti e poi li appenderemo al soffitto.”
“Mi piaceva di più l'idea dell'affresco però.”
“Ma nessuno fa affreschi come quelli di Michelangelo e lui è morto.”
“Nessuno fa ritratti come quelli di Leonardo” ribattei. “Ma anche lui è morto.”
Rimase in silenzio, riflettendo sulle mie parole.
“Possiamo incollarci una fotografia formato gigante. Così il soffitto non sarà più noioso.”
“Niente più cose noiose nelle nostre vite. Mai più.”
Iniziammo di nuovo a ridere senza motivo.
“Non sarà la stessa cosa però” mormorai piano.
“Cosa?”
“Una fotografia. Vorrei che l'ultima cosa che vedo al mondo fossi tu. La vera tu, vorrei che fossero i tuoi occhi. Vorrei che nella mia mente rimanesse impresso per sempre quell'azzurro meraviglioso che amo così tanto.”
Voltai la testa verso di lei.
Mi guardò per un istante, poi si avvicinò e mi baciò.
“Allora guardami per sempre negli occhi e non allontanarti mai” mi sfidò.
Mi spostai su di lei, baciandola di nuovo.
“Sarebbe perfetto.”

“Sai, stavo pensando...”
“Oh-oh.”
Corrugai la fronte alla sua reazione e voltai la testa verso di lei.
“Cosa stavi pensando?” incalzò, rendendosi conto del proprio errore.
“Cosa vorrebbe dire quel suono che hai fatto?” chiesi a mia volta, stringendo gli occhi, con tono inquisitorio.
“Niente” rispose, senza alzare gli occhi dal libro che aveva in mano.
“Beh, deve pur voler dire qualcosa.”
“È solo che ultimamente ogni volta che inizi una frase nel modo in cui hai appena fatto o con il tono che hai appena usato, ci ritroviamo a spendere un sacco di soldi per cose superflue o a fare cose illegali.”
Sbuffai di incredulità, alzando gli occhi al cielo.
“Questo è ridicolo.”
“No, non lo è.”
Ci riflettei per qualche istante e quando iniziai a rendermi conto che aveva probabilmente ragione sbuffai di nuovo.
“Vuoi parlarne?”
“Di cosa?”
“Della tua crisi di mezza età.”
“Crisi di...Io non sto affatto avendo una crisi di mezza età” dissi come se il solo pensiero fosse ridicolo ed offensivo.
Lei rise, scuotendo la testa.
“Ok, Calliope.”
“Non assecondarmi come si fa con i bambini.”
“Allora tu non mentire davanti all'evidenza come fanno i bambini” ritorse, aggiungendo un'ulteriore risatina.
Ci pensai di nuovo per parecchi istanti, mentre lei continuava a leggere il libro che aveva tra le mani.
“Ok, solo perché ho comprato una macchina nuova non significa che io abbia avuto una crisi di mezza età.”
“E il divano” aggiunse. “E hai iniziato a correre, hai perso peso, ti sei tagliata i capelli, mi hai comprato fiori e gioielli e portato la colazione a letto, hai voluto fare un secondo viaggio di nozze, hai regalato ai tuoi genitori una televisione al plasma uguale a quello che hai comprato per noi e volevi regalare un idromassaggio come il nostro ai miei.”
“Che c'entra. Abbiamo dei soldi, i soldi sono fatti per essere spesi.”
“E per mandare i nostri figli al college, magari” mi corresse, chiudendo il libro ed appoggiandolo sul comodino al suo fianco, voltandosi finalmente nella mia direzione. “Calliope, abbiamo fumato dell'erba dentro casa nostra, ci siamo ubriacate tre sabati di fila, abbiamo fatto sesso nella macchina nuova, a lavoro, in cucina, dentro la doccia. Sai quanti anni erano che non facevamo sesso dentro la doccia?” chiese retoricamente.
“Se vuoi fare meno sesso basta che lo dici, sai Arizona?”
“Non è questo. Sto solo dicendo che il coraggio di recuperare il nostro rapporto te lo ha dato questa sorta di crisi che stai avendo.”
Scossi la testa, distogliendo lo sguardo, in cerca di un'argomentazione convincente con cui contraddirla, ma non ne trovai.
“E anche se fosse?” chiesi quindi, sospirando. “Forse sto avendo una crisi di mezza età, sì, e allora?”
Lei sollevò entrambe le sopracciglia, guardandomi con curiosità.
Nostra figlia pensa che io sia vecchia” le dissi allora, sottolineando ogni parola di quella frase, come se quelle sette parole bastassero a giustificare il comportamento che avevo avuto negli ultimi mesi.
“No, non è vero.”
“Sì invece” ritorsi. “Lo ha detto lei.”
“Probabilmente stava scherzando” rispose ridendo.
“Penso di essere in grado di riconoscere il tono scherzoso di mia figlia da quello serio.”
“No, invece. Non è la prima volta che non vi capite.”
“Arizona” avevo l'impressione che facesse finta di non capire di proposito quello che intendevo dire.
“Calliope” rispose a tono.
“Sto invecchiando.”
“Adesso sì” mormorò con tono soddisfatto.
“Cosa c'è?”
“Questo è il problema.”
“Quale?”
“Non che tua figlia pensa che tu sia vecchia, ma che tu pensi di stare invecchiando.”
Esitai, insicura sulla risposta che dovevo darle.
“Beh, forse sì.”
“Perché lo pensi?”
“Non lo so” ammisi. “Perché non facciamo più le cose di prima, non abbiamo più la vita che avevamo i primi tempi che stavamo insieme. La nostra vita era diventata una routine. I nostri figli stanno crescendo. Saremo di nuovo sole quando loro saranno tutti al college e non voglio che pensi di avere accanto un'estranea.”
“Non lo penso, amore.”
“Beh, lo stavamo diventando però.”
“Ma tu ci hai salvato.”
Quella frase mi colse alla sprovvista.
“Non faremo di nuovo lo stesso errore” mi disse, prendendomi la mano.
Sospirai, scuotendo la testa.
“Stiamo invecchiando davvero, Arizona.”
Lei annuì, sorridendo.
Guardai la sua espressione tranquilla e rilassata e mi chiesi come mai io ero stata così sconvolta da quella realizzazione mentre lei appariva così tranquilla.
“Perché stai sorridendo?”
Si strinse nelle spalle, guardandosi attorno.
“Perché è questo, Calliope.”
“Che vuoi dire?”
“È questo quello che volevo. È quello che ho sempre voluto.”
Corrugai la fronte, cercando di seguirla in quel ragionamento.
“Perché sembri così sconvolta da questa cosa?” domandò, ancora sorridendo.
Sospirai ancora una volta, scuotendo la testa.
“Non lo so. Credo di non essere ancora pronta, tutto qui.”
Guardai nei suoi occhi e mi resi conto che il suo sorriso aveva raggiunto anche loro.
“Io invece credo di esserlo. È questo che volevamo, Calliope” ripeté di nuovo. “Avere l'opportunità di invecchiare insieme.”
Un sorriso causato dalla tenerezza di quelle sue parole si fece lentamente strada sul mio viso.
“Suppongo di sì.”
“Abbiamo avuto un bel viaggio” continuò. “Anzi, uno straordinario viaggio. Ed è stato il nostro, mio e tuo, che lo rende ancora più bello. Non mi pento di niente, non cambierei niente. È tutto perfetto. Stiamo invecchiando insieme. Questo è quello che abbiamo sempre voluto, ed io non potrei essere più felice” prese la mia mano, sfiorandola lentamente mentre continuava a guardarmi negli occhi.
“Lo so. E anch'io ne sono felice. Vorrei solo che non finisse mai” cercai di spiegarle. “Adesso che ho trovato qualcosa per cui vale la pena vivere non voglio iniziare a pensare a come sarà la vecchiaia.”
Il suono cristallino della sua risata riempì la stanza.
“Abbiamo ancora un sacco ti tempo” mi fece notare. “Tutto il tempo che ci serve” mi si avvicinò, baciandomi sulle labbra con dolcezza.
Ricambiai il bacio, realizzando che Arizona aveva ragione.
Stavamo invecchiando insieme.
Ci eravamo costruite la nostra famiglia, la nostra vita, proprio come avevamo sempre voluto. Ed eravamo riuscite a farlo insieme, io e lei, ad avere tutto quello che avevamo sempre voluto sia come coppia che come persone.
Stavamo vivendo il nostro sogno.
Ed era tutto esattamente come lo avevo immaginato.
Non c'era niente di cui aver paura nell'invecchiare.
Non avevo rimpianti, non avevo rimorsi, era andato tutto alla perfezione.
Come aveva detto Arizona, era solo un'altra tappa di quel meraviglioso viaggio che stavamo facendo insieme.
Le sorrisi, sdraiandomi e trascinandola con me, per poi stringerla tra le mie braccia. Lei si lasciò stringere.
“Detto questo” si schiarì la voce. “Non azzardarti mai più a dirmi che sono vecchia” finse un tono serio, quasi offeso.
Scoppiai a ridere.
“Te lo prometto.”
Tutto era come avevamo sempre sperato. Sapevo di non poter chiedere di meglio dalla vita che essere lì, in quel momento, con lei.
Era davvero tutto perfetto.
Ed invecchiare, dopotutto, non era poi così male.




Fatemi sapere che ne pensate, se volete...vi aspetto domani con il sequel di Redemption!
A presto ragazzi, un abbraccio!





Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1161433